Southern accent di Flaminia_Kennedy (/viewuser.php?uid=64023)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** First sight ***
Capitolo 2: *** Open Book ***
Capitolo 3: *** Phenomenal ***
Capitolo 4: *** Invites ***
Capitolo 5: *** Blood group ***
Capitolo 6: *** Horror Tales ***
Capitolo 7: *** Green forest ***
Capitolo 8: *** Port Angeles ***
Capitolo 9: *** Nightmare ***
Capitolo 10: *** Baseball ***
Capitolo 11: *** Abduction ***
Capitolo 12: *** Whitlock ***
Capitolo 13: *** Technology ***
Capitolo 14: *** Singer ***
Capitolo 15: *** Angel ***
Capitolo 16: *** Flamenco ***
Capitolo 1 *** First sight ***
Questi
personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di
Stephanie Meyer -tranne Sarah Field i suoi parenti e Raven Cullen, che sono di mia
inventiva-; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo
di lucro.
Non avevo mai pensato
seriamente alla mia morte, nonostante nei mesi precedenti ne
avessi avuta più di un'occasione, ma di sicuro non l'avrei
immaginata così.
Con il fiato sospeso,
fissavo gli occhi scuri del ragazzo di cui mi ero follemente
innamorata, a qualche metro lontano da me, e lui mi ringhiava contro,
ansando come un animale.
Era senz'altro una bella
maniera di morire, sacrificarmi alla persona più importante,
qualcuno che amavo. Una maniera a suo modo romantica, anche.
Conterà pur qualcosa poi quando dovrò arrivare
lassù.
Sapevo che se non fossi
mai andata a Forks non mi sarei trovata di fronte alla morte.
Per quanto fossi terrorizzata, però, non riuscivo a pentirmi
di quella scelta. Se la vita ti offre un sogno che supera
qualsiasi tua aspettativa, non è giusto lamentarsi
perché alla fine si conclude.
Sapevo che lui non
avrebbe mai voluto se fosse stato in sé. Era troppo buono
per volerlo fare di sua spontanea volontà.
Ma i suoi occhi scuri
brillavano, lucidi per la sete e per la pazzia che li aveva nascosti.
Chiusi gli occhi,
aspettando e abbandonandomi al mio destino.
1.
First sight
Per la sesta volta in un giorno mi chiesi perché mi ero
voluta trasferire a Forks, la zona più piovosa di tutto il
continente americano.
Certo, non adoravo il sole di casa mia in Texas, ma nemmeno il perenne
strato di nubi che nascondeva il cielo.
Forse perché lì ci abitava mio nonno Arthur,
l’unico membro della mia famiglia che io non odiassi con
tutta me stessa.
Forse era l’unico luogo sulla terra dove i miei genitori non
mi avrebbero mai cercato –se mai avessero iniziato le
ricerche–.
Avevano la piccola spudorata Mary a cui badare, non si sarebbero
preoccupati troppo della mia assenza.
Dopotutto avevo diciotto anni, era mio diritto prendere e andare a
vivere da mio nonno –santo subito– come affittare
un appartamento o dormire sotto un ponte da sola.
Appena scesi dall’autobus di linea che mi aveva condotto in
quella città umida, osservai il luogo attraverso i ciuffi
sbarazzini dei miei capelli corti.
Forks era una cittadina immersa nel verde, con l’aria che
sapeva di resina e di freschi ruscelli di montagna; tutta
un’altra cosa rispetto all’odore di polvere e di
cuoio che avevo imparato a conoscere a casa.
Tenendo in entrambe le mani i borsoni che mi ero portata appresso, mi
incamminai lungo la strada che portava lontano dalla piazzetta centrale.
Da quello spiazzo si diramavano tre strade, due che si inoltravano
sempre di più nella cittadina e una che conduceva un
po’ alla periferia, dove il nonno Arthur Field abitava con la
sorella di mia madre, Lindsey.
La zia era sempre stata una di quelle donne a cui non si poteva dir di
no in qualsiasi situazione: se insisteva per andare al mare, tempo due
giorni si era in spiaggia a sentire il rumore delle onde.
Con quel tipo di carattere la zia poi aveva fatto strage di cuori,
arrivando a sposarsi per ben tre volte.
Fortunatamente senza darmi nessun cuginetto rompiscatole.
Mentre camminavo mi chiesi perché mi ero portata tanti
vestiti e tanti oggetti che poi si sarebbero rivelati inutili:
dopotutto mi sarei trovata presto un lavoro e avrei comprato altri
vestiti –decisamente più pesanti, con i miei
vestitini leggeri lì sarei morta di ipocondria–.
Sentii un clacson suonare all’impazzata dietro di me e quando
mi girai vidi un grosso pick-up nero venire verso di me.
Si accostò al marciapiede e il conducente tirò
giù il finestrino riflettente: si trattava del mio migliore
amico Jacob Black, un nativo che abitava nella riserva vicino alla
spiaggia.
Lo avevo conosciuto qualche anno prima su Myspace e quando mi aveva
detto che abitava dalle parti di mio nonno ero rimasta con un palmo di
naso.
Era il miglior amico che avessi mai avuto: era di compagnia e non
sopportava vedermi triste «Sarah! Non ci posso credere sei
già qui! » disse, ridendo di gusto.
Io risposi con un’alzata di spalle «hanno
cancellato il volo prima del mio e sono arrivata in anticipo»
gli dissi.
Poi guardai la grande macchina, sorpresa di non trovarvi a bordo anche
il padre del ragazzo, Billy «il vecchio? »
domandai, sorridendo: mi stava passando la malinconia di casa, con Jake
«a casa del tuo matusalemme, doveva essere una festa a
sorpresa, ma a quanto pare la sorpresa ce l’hai fatta tu! Dai
sali, ti accompagno» disse, indicandomi il cassone quando gli
feci vedere i borsoni.
Con non-chalance buttai i miei bagagli nel retro del pick-up e feci il
giro, salendo sul veicolo.
Jacob rimise in moto e partì lungo la strada che stavo
facendo a piedi «allora, che mi racconti? » mi
disse lui.
Io esitai, sapendo che l’avrei fatto schiantare da qualche
parte se gli avessi detto che mi trasferivo lì. Feci la
finta tonta, almeno finché non scendevamo dalla macchina
«bah nulla di che, c’era troppo caldo a
casa» rispose guardando fuori dal finestrino.
Sapevo di essere arrossita –mi succedeva spesso quando
mentivo o ero sotto pressione– ma sperai che lui non notasse
nulla «e invece tu, naso a patata? Che mi dici di bello?
» svicolai da possibili domande che avrebbero potuto farmi
vacillare.
Non ero mai stata molto brava a mentire «mio padre ha deciso
di mandarmi a scuola qui a Forks, non più nella riserva.
Dice che laggiù ammazzano la mia
obbiettività» ridacchiò mentre imitava
il tono severo di suo padre.
Jacob aveva qualche anno meno di me, ma mi superava in altezza di
almeno una decina di centimetri.
Si che non ci volesse molto a superare i miei miseri 165 centimetri, ma
ne andavo fiera.
Sospirai, così l’avrei avuto come compagno di
scuola eh? Sapevo già che non avrei passato un giorno di
pace con lui nei dintorni «eccoci arrivati» disse
mentre inchiodava davanti alla casa di mio nonno.
Era uguale a tutte le comuni case prefabbricate che sostavano sulla
costa orientale dell’America, a due piani, bianca con il
tetto color ardesia.
Un piccolo portico, il giardino e un garage.
Classica casa americana per un classico americano come mio nonno.
C’era persino la bandiera della nostra nazione fuori dalla
porta.
Jacob scese e prese i miei borsoni, mentre io scendevo per i cavoli
miei e facevo il giro del pick-up «non ti impressionare
troppo ok? » mi disse, facendomi segno poi di seguirlo nel
giardino sul retro della casa.
C’era un enorme festone appeso tra due rami del grande albero
più vicino alla staccionata che separava la mia futura
residenza dall’inizio della foresta, e vacillava un
po’ nel vento che iniziava a tirare.
WELCOME BACK SARAH!
La bocca si era spalancata da sola e la voce non voleva uscire.
Io adoravo le feste già per conto mio, ma se qualcuno mi
faceva una sorpresa allora tutti si dovevano tenere a qualcosa,
perché io sarei scoppiata e avrei travolto la prima persona
che mi sarebbe capitata.
Per sua sfortuna, il più vicino a me era Jacob e io, senza
esitazione alcuna, mi avventai su di lui «siete tutti dei
tesori! » urlai, probabilmente trapanando
l’orecchio a Jake, poverino.
Lui rise, cercando però di staccarsi da me e cercando
appoggio dalle persone presenti: mio nonno, la zia Lindsay, lo sceriffo
Swan con la moglie e la figlia Isabella –mia grande amica a
distanza nei momenti di crisi–, il padre e la sorella di
Jacob.
C’erano tutti e io stavo quasi per strozzare
l’indiano accanto a me.
Mio nonno si avvicinò e mi abbracciò dolce,
accarezzandomi poi la testa: gli occhi chiari e i capelli bianchi erano
sempre gli stessi, nonostante le rughe avanzassero ogni giorno di
più «bentornata piccola! » mi disse
«indovina cosa ti ha preparato la zia Lind? ».
Io spalancai gli occhi e presi un respiro «la torta di
ciliegie! » e fui sicura che almeno metà della
popolazione sentì il mio urlo.
Mi gettai su mia zia, abbracciandola come avevo fatto con Jacob
–dandogli anche il tempo al ragazzo di recuperare
aria– «vi adoro! » dissi ancora.
Ecco, mi stavano di nuovo venendo le lacrime, per la seconda volta in
due giorni.
Isabella –lei odia esser chiamata con il nome intero,
così si fa chiamare Bella…per me che avevo avuto
una mamma italiana ogni volta mi veniva da ridere e la chiamavo Bella
modesta– ridacchiò e mi venne incontro,
così come i suoi genitori.
Tutto si svolse in modo normale, mentre gli invitati mangiavano un
po’ della mitica torta di ciliegie io guardavo i nuvoloni
grigi addensarsi verso est.
E giurai per un attimo di aver sentito un forte tuono, nonostante non
avessi visto bagliori all’orizzonte che predicessero un
fulmine.
Quando annunciai a tutti che sarei rimasta a tempo indeterminato a
Forks quasi tutti rimasero impietriti.
Il primo a risvegliarsi fu Jacob, che come io avevo previsto, si
illuminò come un sole «allora verrai a scuola qui!
» si esaltò. Io annuii e Bella saltellò
«che bello non dovrò usare quel misero IM per
comunicare con te! Yay! » mi abbracciò,
scuotendomi da una parte e dall’altra.
Passai tutto il pomeriggio a ridere e scherzare con i miei due migliori
amici, e quando venne il momento dei saluti Jacob mi
sbalordì immensamente.
Infatti mi mise le chiavi del pick-up in mano e mi fece
l’occhiolino «facciamo che è un regalo
di benvenuto» mi disse e mi diede due pacche sulle spalle.
Billy lo chiamò e lui sparì, salutandomi e
correndo verso la macchina del padre.
Rimanemmo solo io, il nonno e la zia Lind, in piedi nel giardino a
sistemare tutto.
In realtà eravamo solo io e la zia a sistemare, dato che il
nonno Arthur aveva problemi di artrite e cercavamo di farlo sforzare il
meno possibile.
Quando andai a buttare l’immenso sacchetto riempito con
avanzi di torta, piatti e bicchieri di carta, stelle filanti, incarti
vuoti di patatine e bottiglie di plastica era già arrivata
quasi la sera.
Il bidone dell’immondizia per fortuna non era a chilometri di
distanza come a casa mia e ci misi poco per raggiungerlo e gettarvi
dentro il sacco con la spazzatura della festa.
Il più fu tornare indietro.
Già, perché mentre mi stavo girando per rientrare
in casa –con in mente di disfare le valigie nella camera
degli ospiti– dalla strada sterrata che portava nella foresta
uscì una jeep scura, con tutti i finestrini abbassati e un
ragazzone che sbucava dal tettuccio aperto.
Mentre il veicolo si avvicinò, notai che il grosso ragazzo
era vestito come appena tornato da un match di baseball, con il
cappello però girato di traverso come un rapper.
Ridacchiai, perché il volto di quel ragazzo dai capelli
bruni e corti mi ispirava simpatia, un po’ come gli
orsacchiotti che avevo nella mia vecchia camera a Dallas.
Quando l’auto, guidata da un ragazzo dai capelli ramati e
sparati in aria, arrivò a pochi metri da me il ragazzone si
infilò dentro la vettura, parlando concitatamente con il
ragazzo vicino a lui.
Era un tipo dai capelli color miele e in quel momento il volto
meraviglioso e pallido era contratto da una smorfia addolorata.
Sembrava che non dormisse da mesi, a vedere dalle grosse borse sotto
gli occhi.
All’interno della macchina c’era anche una ragazza,
la più bella che avessi mai visto: era bionda e gli occhi
gelidi erano ambrati e mi fissavano con tale insistenza che sembrava
volesse uccidermi.
Anche lei aveva la pelle pallidissima e delle ombre scure sotto gli
occhi.
Nel sedile davanti al ragazzo biondo c’era una ragazza dai
capelli lunghi e corvini che mi osservava un po’ con
divertita curiosità, un po’ con diffidenza.
Mentre l’auto mi superava io mi voltai, camminando
all’indietro per guardare ancora per un attimo il quintetto
che svoltava a destra, per entrare di più a Forks.
Quando feci per voltarmi e tornare in casa inciampai nella staccionata
bianca e caddi in giardino a gambe all’aria «bene,
perfetto» dissi a me stessa «sei da un giorno in
una città nuova e ti fai conoscere subito…che
grama figura» e mi alzai, scuotendo dai jeans i pochi fili
d’erba che erano rimasti attaccati come velcro.
Non avevo capito una parola di quello che i ragazzi stessero dicendo
quando l’auto mi sorpassò, eppure ero sicura che
stessero parlando.
Forse ero troppo distratta nel delineare i profili di ognuno di loro.
Quello alla guida sembrava incuriosito e mi aveva guardato con
un’espressione da “ma dai?”, mentre il
ragazzo con la faccia da orsacchiotto aveva battuto una mano sulla
spalla del biondo.
«Sarah! Vieni dentro che sta per piovere! »
urlò zia Lind dalla porta di casa e io di riflesso guardai
il cielo così nero che sembrava preannunciare
l’apocalisse.
Rientrai con una piccola corsa, con ancora in mente il gruppo di
ragazzi pallidi che mi aveva completamente stregata.
Il giorno dopo pioveva ancora e zia Lind stava pulendo i pavimenti
mentre mio nonno era andato a trovare Billy giù alla
riserva, probabilmente per andare alla bocciofila.
Nonostante ci fossero una decina d’anni che separavano le
età dei due amici, mio nonno e il padre di Jacob sono sempre
stati dei grandi mattacchioni e fedeli l’uno verso
l’altro come lo erano stati ognuno con la propria moglie.
Mi alzai con quel sonno appiccicoso che non se ne va via, tipico delle
giornate di pioggia, e mi vestii un po’ a casaccio, prendendo
gli abiti dalla valigia ancora da disfare.
Indossai una maglietta a maniche corte, una giacca di jeans e dei
pantaloni di fustagno non troppo spessi.
Pensai che magari, essendo l’inizio dell’estate,
non doveva essere poi così freddo.
Preparai il mio zaino scuro con i libri delle lezioni di quel giorno
con un po’ di timore –avrei avuto due ore di
storia, una materia a me sempre stata indigesta– e scesi le
scale che portavano al secondo piano, quindi al salotto e alla cucina
«buongiorno zia! » esclamai, allegra.
Mi ero pettinata, facendo in modo che le corte ciocche dei miei capelli
scuri fossero rivolte verso l’alto, e mi ero messa un filo di
trucco –solo perché era il primo giorno di scuola
e volevo essere perlomeno presentabile– «ohhh
buongiorno! Così oggi primo giorno di scuola eh? Cerca di
non combinare guai» mi disse zia Lind, posandomi davanti un
piatto di uova e bacon.
Io sorrisi, nel vedere la pietanza.
La vecchia cara zia sapeva esattamente cosa mi piaceva e cosa non mi
piaceva.
Beh, cose che non mi piacevano non ne esistevano molte e per mia
fortuna avevo un tipo di metabolismo particolare, che mi impediva di
assimilare tutto quello che mangiavo.
Che era una vagonata di cibo.
Divorai il piatto in fretta e mi misi in spalla lo zaino
«vado, ci vediamo oggi! » salutai, di buon umore, e
presi le chiavi del pick-up posteggiato nel viottolo davanti al garage.
Il mio sorriso si congelò letteralmente sul mio viso, quando
aprii la porta: l’acqua che veniva giù dai
nuvoloni scuri era ghiacciata e ogni goccia mi faceva mugolare di
dolore.
Nonno Arthur, vecchio cuore cowboy, doveva aver installato un impianto
di riscaldamento che doveva raggiungere la temperatura di una fucina, a
sentire dallo sbalzo termico.
Raggiunsi con una corsa la vettura, una Toyota, e mi ci fiondai dentro
completamente fradicia.
In quel momento mi chiesi per la settima volta da quando ero partita
perché proprio Forks; inserii la chiave e la prima cosa che
accesi fu il riscaldamento, per potermi coccolare nel calduccio ancora
un po’ prima di entrare a scuola.
La mia giacchetta di jeans non si asciugò durante il
tragitto fino alla scuola e prese ancora più acqua quando
uscii e corsi verso l’entrata.
Mentre mi appuntavo nel mio memo mentale “la prossima volta
portati asciugamano e phon”, mi diressi verso la porta
d’ingresso.
Una mano a dir poco bollente mi cascò sulla spalla
–forse ero io a essere gelata– e una risata
conosciuta mi obbligarono a girarmi.
Era Jake, ammantato in un keeway scuro con il cappuccio tirato su
«hey nanetta! Hai fatto un tuffo in piscina? » mi
domandò, guardando lo stato pietoso in cui ero.
Il trucco, poi, era completamente andato al creatore «ah-ah
molto spiritoso patatone! Ho solo dimenticato che qui non piove in modo
normale…ma avete dei rubinetti al posto delle nuvole qua?!
» e ridacchiai.
Il mio tono di voce si era un po’ alzato, perché
proprio contenta non lo ero, ma alla fine permisi al ragazzo di darmi
la sua giacca «ma sei una stufa! » gli dissi
ridendo, mentre indossavo l’impermeabile.
In effetti la temperatura del corpo di Jacob non era mai stata come la
mia: sembrava sempre che avesse la febbre e un giorno che gli chiesi se
stava bene lui mi disse che mai era stato meglio.
Feci spallucce alla sua risata, poi guardai il foglietto che mi era
stato lasciato dal preside della scuola e guardai dove si trovasse
l’aula di storia «oddio sono in ritardo!
» esclamai.
In effetti ero veramente in ritardo e di parecchi minuti!
Il mio primo giorno di scuola!
Salutai Jake, ridandogli l’incerata scura e riprendendomi
quello straccio che era diventata la mia giacca di jeans, poi corsi su
per le scale e andare al secondo piano.
Dove sicuramente il professore mi stava aspettando.
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Capitolo 2 *** Open Book ***
2.
Open
Book
Bussai
un paio di volte prima di
entrare su ordine del professore; aprii la porta «buongiorno,
mi scusi per il ritardo»
mugugnai, imbarazzata.
Tutti
mi stavano guardando.
Soprattutto
un paio di ragazzi in
prima fila, che parevano già scommettere su chi avesse avuto
per primo il mio
numero di cellulare.
Il
professore scosse la testa e
mi indicò l’unico banco vuoto «non
si
preoccupi, si sieda e tiri fuori il libro. Ragazzi questa è
Sarah, si è appena
trasferita qui dal Texas, fate in modo di essere gentili con lei»
parlò il professore a tutta la
classe.
Ecco
tutti i miei buoni propositi
che venivano sotterrati venti metri sotto i miei piedi.
E
io speravo di finire con loro.
Rossa
come un peperone salutai
tutti con la mano, senza fiatare minimamente, e andai a sedermi; quando
presi
il libro il mio sguardo cadde sull’intera classe e in meno di
un secondo vidi
il ragazzo dalla faccia in agonia che avevo visto in macchina il giorno
prima,
quello con i capelli biondo miele.
Era
seduto due banchi lontano da
me e dietro di lui era seduta la ragazza con i lunghi capelli neri.
Lei
sghignazzava silenziosa e nel
momento esatto in cui allontanai lo sguardo sentii che
sussurrò qualcosa al
ragazzo.
La
mattinata mi passò abbastanza
in fretta, nonostante ogni mia cellula fosse protesa verso destra, per
curiosare con il mio sesto senso femminile cosa stesse facendo il
ragazzo
biondo.
Per
la seconda volta in due
giorni lo aveva visto solo di sfuggita, ma sapevo con tutta me stessa
che se l’avessi
guardato, sapevo che lo avrei trovato simile a una
statua greca per
bellezza e candore della pelle.
Finalmente,
dopo due ore di
intensa tortura, la campanella si decise a trillare e io mi fiondai
letteralmente fuori dalla porta.
Avevo
bisogno di riprendere
fiato, dopo tutto il tempo che mi ero dimenticata di respirare.
Un
po’ per la vergogna e un po’
–molto– per la strana presenza del ragazzo biondo,
non avevo sentito quasi
nulla riguardo alla lezione di quel giorno.
Fui
la prima ad arrivare in mensa
e fui la prima a sedermi, a un tavolo accanto a una delle lunghe
finestre.
Aveva
smesso di piovere, per mia
fortuna, e il cielo coperto donava un po’ di calore alla
terra infreddolita
dopo la doccia ghiacciata «ohhhh!
Terra
chiama Sarah, nanetta sei connessa? »
disse Jake sventolandomi la mano davanti alla faccia.
Non
mi ero nemmeno accorta che si
era seduto vicino a me e si era bellamente servito di una delle mie
fettine di
pollo impanato «è
da almeno
dieci minuti che ti sto chiamando! Brutta giornata? »
chiese ancora, inclinando la
testa da un lato e azzannando la fettina che teneva tra le mani.
Io
scossi la testa poi lo guardai
«ma
fai schifo! Non si mangia con
le mani! »
dissi, ma
lui alzò un sopracciglio saputello «tutto
quello che inizia con la P si può mangiare con
le mani! Il pane, la pizza, le patatine, il pollo…»
ma avevo smesso di nuovo di
ascoltarlo.
La
porta della mensa si era
aperta mentre Jacob stava elencando una serie infinita di cibi ed
entrarono i
cinque ragazzi che avevo visto su quella jeep.
Jacob,
vedendo il mio sguardo
piantato su di loro, storse un po’ il naso –come se
avesse annusato qualcosa di
orribile– e poi sbuffò, ritornando al suo pollo e
alla lista di cose con la P «le
pesche, le prugne, la pasta se
è scondita…Sarah, tanto non ci farai mai
amicizia, fidati»
mi disse scrollandomi per una
spalla.
Il
mio sguardo aveva finalmente
passato ai raggi X il ragazzo biondo e mi diedi ragione, era proprio la
raffigurazione di un dio greco.
Io
guardai Jake con faccia
confusa, o almeno mi sembrava di averla: in quel momento non mi
riusciva
proprio di intendere e di volere. Era come se mi avessero legato a dei
palloncini pieni di elio e stessi fluttuando nell’aria.
La
voce mi uscì da sola, a un
certo punto «ma
chi sono
quelli? »
domandai a
Jacob.
Il
ragazzo esitò un attimo, prima
di girarsi a guardare i ragazzi un’altra volta «i
Cullen. Si sono trasferiti qui all’inizio dell’anno
e sono riservati al massimo. Il loro padre lavora in ospedale e credo
che
guadagni un sacco di soldi. Quello grosso che sembra un armadio
è Emmett»
iniziò a dire Jake, indicandomi
il ragazzone con la faccia da orsacchiotto «quella
vicino è Rosalie, la classica barbie senza
cervello dallo sguardo glaciale. Ti consiglio di non rivolgerle nemmeno
la
parola»
e indicò
l’alta bionda che addentava una mela con scarso interesse «quello
con i capelli ramati poi
invece è Edward, una vera spina nel fianco se vuoi vivere
tranquillo»«perché?
»
lo interruppi «no,
niente».
Jacob
continuò, indicando la
corvina «quella
è Raven,
una vera bellezza ultraterrena. Ma non credere che sia più
simpatica della
bionda»
e gli occhi
del ragazzo si posarono un attimo sul corpo perfetto della ragazza
corvina.
Io
lo osservai indispettita:
prima mi infastidiva perché ero un po’ fuori dal
mondo poi lui si metteva a
fantasticare su quella ragazza?
«e
quello con i capelli biondi?
Quella povera anima in pena chi è? »
scherzai per farlo andare avanti.
Jake
ridacchiò «quello
si chiama Jasper ed è il
classico emo. Non parla con nessuno e se lo fa è per dire
due parole insensate.
Lascialo perdere»
la
rassicurò.
Io
li guardai ancora un pochino,
passando da un viso all’altro, poi ritornai a guardare il mio
amico.
Sembrava
sempre infastidito da
qualcosa «ma
si può
sapere che ti prende? Dici tanto a me di lasciar perdere Jasper, ma poi
tu sei
il primo a farti fantasie strane su quella Raven»
lo ammonii bonaria, piantando la forchetta in quello
che rimaneva del mio piatto di broccoli bolliti e carote.
Lui
mi sbuffò addosso «anche
se le facessi, di più non
potrei fare, sta insieme a quello scorbutico di Edward».
Lo
guardai prima con un sorriso,
credendo che fosse uno scherzo, poi vidi la sua faccia seria e capii
che non
stava affatto scherzando «in
che senso
stanno insieme? »
chiesi «insieme
come fidanzati? »
e lui mi fece cenno con una
faccia arresa «ma
sono
fratello e sorella! »
esclamai un
po’ scandalizzata.
Jacob
allora mi spiegò che non
erano veramente fratelli consanguinei, ma che la madre Esme
–non potendo avere
figli propri– li aveva adottati tutti, uno dopo
l’altro «così
Raven sta con Edward e
Rosalie con Emmett»
riassunse
Jake «e
io posso
fare tutte le fantasie che voglio! Gneee»
concluse inoltre con una linguaccia.
Io
risposi con una pernacchia e
ridemmo di cuore.
Però
nella mia mente si era
indissolubilmente e fermamente fissata l’immagine di Jasper,
il biondo Cullen
rimasto solo tra tutti i componenti della sua famiglia.
Quando
finalmente finirono le
lezioni tirai un sospiro di sollievo.
Parecchi
miei compagni di classe
mi seguirono, facendomi domande assurde sul mio luogo d'origine e
chiedendomi
se volevo andare con ognuno di loro al ballo di fine anno della scuola.
Ad
ogni ragazzo che me lo chiese,
in forma diretta o indiretta, risposi con un "vedremo" e mi barricai
nel mio Toyota per avere un po' di pace.
Non
mi ero mai accorta che in
quella scuola ci fosse carenza di ragazze –o che qualcuno mi
reputasse carina
abbastanza per un invito simile– ma a quanto pareva essere la
nuova arrivata era
non proprio orribile.
Jacob
parecchie volte aveva
scherzato sulla mia "poca femminilità" riguardo al mio modo
di
vestire e di comportarmi.
Non
avevo mai messo una gonna
dall'età di cinque anni e mai lo avrei fatto: fedele per
sempre ai miei cari e
pratici jeans.
Le
maglie o le felpe che
indossavo non osavano nemmeno sfiorare i colori pastello, guai al mondo
poi
vestirsi di rosa!
Vietati
i tacchi, le ballerine e
scarpe complicate; il mio amore sarebbe sempre stato per le scarpe da
maltrattare e per gli stivali lunghi fino al ginocchio.
Gli
accessori forse erano l'unica
nota femminile del mio corpo non proprio da modella con i miei capelli
corti e
sempre ribelli: collane e braccialetti erano
il mio punto debole.
Avevo
sempre qualcosa al collo o
legato ai polsi, certe volte persino una o più cavigliere.
Misi
in moto la macchina, stando
attenta a non mettere sotto nessuno o a scontrare altri veicoli, e mi
diressi
verso l'uscita del parcheggio della scuola.
Mi
misi sulla strada per tornare
a casa e pensai ancora a quello che mi aveva detto Jacob.
Non
doveva esserci molta privacy
di coppia, quando la tua ragazza è sorella di tuo fratello o
viceversa.
Erano
tutti così dannatamente
belli, troppo belli che non potevo nemmeno compararli a degli attori
famosi.
Erano
freddi e distaccati, ma tra
di loro si poteva notare un legame profondissimo, come se si
conoscessero da
molto tempo.
Era
qualcosa che andava oltre il
semplice rapporto familiare.
Sapevano
di antico, di qualcosa
che si era fermato nel tempo.
Mi
venne in mente uno scoglio in
mezzo a un fiume che non si muoveva come le piccole e fragili foglie
secche che
galleggiavano sull'acqua.
Tante
piccole pietre radunate
assieme.
Sbuffai
a quella mia ridicola
scenetta e mi preparai a svoltare a destra, per dirigermi verso casa.
Improvvisamente
dalla statale
alla mia sinistra sentii un clacson che mi rimbombò persino
nella cassa
toracica.
Era
un camion che, lanciato a
tutta velocità, stava superando un furgoncino scuro.
E
in quel sorpasso azzardato,
vidi il muso del tir venire direttamente addosso al mio improvvisamente
piccolo
pick–up.
Avvertii
lo stridore delle grosse
ruote del camion e il rumore del carico di tubolari che iniziava a
disperdersi
sull'asfalto.
Aveva
tranciato il guardreil come
se fosse fatto di carta e avrebbe fatto lo stesso con me, me lo sentivo.
Improvvisamente
il mio pick–up
inchiodò, nonostante non avessi toccato minimamente il
pedale del freno, e vidi
il muso piatto e gigantesco del tir colpire solo l'angolo del mio
povero
Toyota.
Il
mondo iniziò a girare e la
forza centrifuga che il camion aveva dato al mio veicolo scontrandolo
fu tale
da farmi appiattire contro la portiera.
Colpii
il vetro con la testa e il
dolore sordo ma pulsante della botta si diramò dalla tempia
come una ragnatela
rossa.
Il
pick–up fece un giro su se
stesso e si fermò dondolando.
Ebbi
appena il tempo di
accorgermi che mi ero tagliata alla testa con il vetro del finestrino
–ora
andato in frantumi–, che qualcosa o meglio qualcuno aveva
aperto la portiera di
scatto e mi aveva letteralmente strappata via dal sedile del guidatore.
Mi
sembrava che il mio cervello
si stesse ribellando: non capii più nulla a causa del forte
dolore alla tempia
e del sangue che mi stava colando sulla faccia, ma vidi chiaramente
alcuni
tubolari in alluminio scivolare dal retro del tir e infilzare il
tettuccio del
mio pick–up come se fosse burro.
Uno
cadde esattamente dove ero
seduta pochi secondi prima; sentivo qualcuno che mi trasportava, con un
braccio
dietro la schiena e uno sotto le ginocchia “cos'è
successo??” “Oh mio Dio sta
bene?” “chiamate un'ambulanza!”.
Le
voci si sovrapposero nelle mie
orecchie e il respiro rotto di chi mi trasportava faceva da sottofondo.
Che
anche il mio
salvatore fosse rimasto ferito?
Aprii
l'occhio destro –il sinistro
proprio non voleva saperne di aprirsi– e vidi lo stesso volto
contratto che
avevo visto nella macchina dei Cullen il giorno prima.
Mi
aveva salvato la vita, a
quanto pareva “Sarah! Sarah!” sentii la voce di
Jake chiamarmi dall'altra parte
della strada.
Il
mio pick–up era ormai ridotto
a una groviera e stavo iniziando a sentire sonno.
Jacob
si avvicinò a me, guardando
Jasper con un velo di disgusto, poi si concentrò sul mio
stato.
Dalla
presa ferrea e salda di
Jasper passai a quella un po' traballante di Jacob.
Con
l'unico occhio che mi
rimaneva guardai il biondo ragazzo allontanarsi, senza staccare gli
occhi dal
mio viso.
Prima
di venir circondata da un
capannello di gente, vidi il retro del mio Toyota completamente
deformato, come
se qualcosa o qualcuno lo avesse afferrato e trattenuto.
Finii
all'ospedale, dove vidi –con
un occhio bendato e dolorante– la zia Lind e nonno Arthur.
Entrarono
nella stanza come se
fossi sul letto di morte, in silenzio “la mia
piccola!” esclamò mia zia quando
mi vide sveglia e seduta nel letto bianco.
Mio
nonno non disse nulla, solo
uno sguardo rassicurante “eravamo così
preoccupati! Jacob è venuto fino a casa
per dirci che avevi avuto un incidente e che eri finita qui!”.
Già,
Jake mi aveva portata con la
macchina di suo padre fino all'ospedale e poi doveva esser corso per
forza a
casa mia per avvisare “e noi siamo subito corsi
qui!”.
Sorrisi,
nonostante la faccia mi
facesse abbastanza male per il colpo alla tempia, ma pensai che forse
era
meglio sentire dolore che essere morta impalata da un tubo in alluminio.
Entrò
dopo qualche minuto un
dottore alto, sulla trentina, biondo e divinamente bellissimo.
Sulla
targhetta appuntata al
petto c'era scritto Carlisle Cullen; così era lui il padre
del mio salvatore
eh?
Mentre
si avvicinò al mio lettino
le due infermiere che stavano passando si erano fermate per guardarlo
meglio
mentre camminava “allora, come sta la nostra
paziente?” mi chiese, con voce
soave.
Io
rimasi un po' imbambolata, poi
riuscii a dire che potevo stare meglio ma che ero ok “se non
ci fosse stato suo
figlio sarei finita giù all'obitorio” gli dissi.
Lui
mi guardò un po' confuso, o
forse preoccupato “mio figlio?” “si, suo
figlio Jasper...Era lì e mi ha tirato
fuori dalla macchina prima che potessi...ehm” guardai i miei
tutori, pensando
che era meglio evitare particolari troppo violenti.
Non
erano mai stati troppo
avventurosi ed era meglio così; il dottor Carlisle, dopo un
attimo di rapida
riflessione mi sorrise “direi che sei stata una ragazza
fortunata allora. Non
hai subito gravi danni, a parte un occhio nero e un taglietto. Non ne
morirai”
scherzò per tirarmi su il morale.
Mi
disse che mi avrebbe dimesso e
che mi avrebbe fatto prendere solo una pomata per l'occhio e alleviare
il
dolore; poi sorrise a mio nonno e uscì dalla stanza a grandi
falcate, cavando
dalla tasca del camice bianco un cellulare “appena torniamo a
casa ti preparo
una bella crostata!” disse la zia Lind, sorridendo.
Sorrisi
anche io di rimando,
anche se non avevo poi molta fame.
Stavo
pensando ancora al volto
disgustato di Jacob e a quella in agonia di Jasper.
Perchè
sentivo di sapere che tra
il mio amico e i Cullen non scorresse buon sangue?
Mi
alzai dal letto, arrossendo
quando la zia Lind tentò di mettermi le scarpe
“zia sto bene, non sono così
malridotta...” dissi ridacchiando.
In
effetti, anche se il mio mondo
stava iniziando a diventare in due dimensioni a causa dell'occhio un
po'
coperto dalle bende, non ero totalmente moribonda.
Indossai
le scarpe e stirai le
spalle, sentendole un pochino redene: dovevo essermi irrigidita quando
la
macchina aveva girato su se stessa.
Sorrisi
ai miei tutori, poi
aspettai che uscissero per primi dalla camera per poterli seguire e in
quell'esatto momento sentii la voce del dottor Carlisle parlare un po'
preoccupato al telefono “sei sicuro di stare bene? Non
hai...? C'era molto
sangue anche se era una ferita superficiale...Ah no? Bene, sono molto
orgoglioso di te. Dì a tua madre che tra poco finisco il
turno”.
Fissai
per un attimo lo sguardo sulla
schiena del dottor Cullen mentre parlava, cercando di ascoltare la
conversazione.
Non
che mi interessasse, ma la
curiosità era l'unico grande difetto che mi riconoscevo.
Registrai
tutto quello che potei
nel mio cervello ancora un po' assonnato e giunsi fino a casa sana e
salva,
anche se un po' sbattuta.
Quella
notte non riuscii a
dormire quasi per niente.
Stavo
stesa nel mio letto con le
coperte fino al petto a guardare il soffitto e a sbuffare ogni tanto.
La
parte sinistra della faccia mi
faceva un male dell'accidenti e quando mi ero vista allo specchio avevo
storto
il naso –anche se con un po' di fatica–.
Intorno
all'occhio sinistro e
dalla tempia era nata una nuvola violastra con delle sfumature verdi
che non mi
piacevano per niente.
Avevo
maledetto quel camionista
sia davanti allo specchio sia durante quella notte insonne.
La
zia Lind aveva mantenuto la
sua promessa e mi aveva preparato una crostata appena eravamo arrivati
a casa,
ma non ero riuscita a mangiarne nemmeno una briciola.
Mi
sentivo come se uno
schiacciasassi mi fosse passato addosso.
Durante
quella tempesta neuronale
che stavo avendo –stavo pensando per la terza volta a Bella
sconvolta che era
corsa a precipizio a casa mia– mi grattai inconsciamente il
braccio destro e
sentii un dolore sordo.
Alzai
la manica della maglia che
indossavo come pigiama e guardai il secondo livido che aveva osato
macchiare la
mia pelle.
E
quello da dove spuntava fuori?
I
segni erano meno evidenti della
grande chiazza che avevo attorno all'occhio sinistro e avevano una
forma meno
definita.
Venni
catapultata nella mia
Toyota da un eccesso di fantasia e vidi il volante scivolarmi via da
davanti.
Il
tempo rallentò in
quell'istante, quando una mano pallida e maschile strappò
via dalla sede la
cintura di sicurezza e la stessa mano mi afferrava dove avevo il livido
sul
braccio.
Scossi
la testa, cercando di
eliminare quella specie di visione: spesso mi accadeva di perdermi nei
meandri
della mia testa, in quelle specie di film alla moviola di fatti
già successi o
che poi sarebbero successi.
Non
lo avevo mai detto a nessuno
credendo che fosse solo suggestione, così nessuno aveva
chiesto il perchè ogni
tanto mi fissavo con gli occhi vuoti.
Sbuffai
ancora, girando la testa
per posare la parte destra del mio viso sul cuscino e chiusi gli occhi.
Per
qualcuno fuori della finestra
in quel momento fui un libro aperto, molto più di quando lo
fossi per me stessa
in quel momento.
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Capitolo 3 *** Phenomenal ***
3.
Phenomenal
Dormii un sonno senza sogni e il mattino dopo mi sentii peggio del
giorno prima.
Ero uno straccio, i miei capelli erano più indomabili che
mai, non riuscivo ad aprire l'occhio sinistro e le mie spalle
chiedevano pietà.
Quando scesi le scale per andare in cucina saltai l'ultimo gradino e
per poco non mi spalmai contro il muro del salotto
«buongiorno Sarah» disse nonno Arthur, sollevando
la tazzina di caffè a mo' di saluto.
Io mi posai una mano sulla metà dolorante del mio viso e mi
sedetti senza salutare nessuno «oggi tua zia è
dovuta andare fino a casa di tuo zio giù a Port
Angeles» mi disse iniziando a sfogliare il giornale.
Stavo fiutando guai, ma non dissi nulla lo stesso e mi riempii
–con qualche problema di coordinazione– una
scodella con latte e cereali al cioccolato «e visto che il
tuo pick–up è ancora dal meccanico, ho pensato di
accompagnarti io fino a scuola».
Mi andò di traverso il latte e ebbi paura che un fiocco
d'avena mi passasse per una narice «dici sul serio?
» domandai.
Il nonno non aveva altri mezzi di locomozione se non una vecchia Ford
piena di ruggine e tenuta insieme dal nastro adesivo.
Non che fosse pericoloso guidarla, dato che non andava più
di 50 km/h, ma era per il fatto che sarei diventata lo zimbello della
scuola.
Sorrisi un po' in imbarazzo, alzandomi lentamente e prendendo lo zaino
«non ti preoccupare nonno, posso andare a piedi! »
esclamai caricandomi lo zaino improvvisamente pesantissimo.
Vidi il nonno ridacchiare e bere una sorsata di caffè dalla
sua tazzina «meglio che mi incammini allora sennò
faccio tardi un'altra volta» aggiunsi dandomela praticamente
a gambe.
Chiusa la porta di casa dietro di me mi misi a camminare lungo il
marciapiede e sentii la mancanza della praticità di un
veicolo.
«Sei qui da un paio di giorni e prendi già la
residenza all'ospedale» mi dissi, arrabbiata con me stessa.
Per quella mattinata mi ero preparata un bel paio di scuri occhiali da
sole, per coprire l'orrendo livido che durante la notte si era
allargato, e mi sentii una stupida.
Come se mi fossi messa un maglione per andare al mare d'estate: una
cosa dannatamente assurda.
Non incontrai nessuno per mia fortuna durante il mio vagabondare verso
la scuola, a parte lo sceriffo Swan che mi offrì un inutile
passaggio fino all'istituto «no grazie» negai
cortesemente «posso camminare».
L'uomo mi scrutò da capo a piedi, poi mi guardò
serio attraverso gli occhiali scuri «abbiamo arrestato quel
camionista, è risultato positivo al test
anti–droga» mi disse soltanto, come se mi facesse
piacere ricordare che avevo quasi messo le alucce da angioletto.
Sorrisi garbata, sistemandomi i capelli corti e ribelli «ora
devo proprio andare, arriverò in ritardo» dissi
allo sceriffo, dopodiché corsi via lungo la strada.
Arrivai a scuola mentre stava suonando la campana di inizio delle
lezioni.
Mi precipitai immediatamente in segreteria per consegnare la
giustificazione firmata da mio nonno la sera prima e presi un lungo
respiro mentre uscivo.
Mi sentivo soffocare e non sapevo perché: era come se la
scuola si fosse chiusa attorno a me ermeticamente.
Sapevo che avrei dovuto affrontare mille domande e il volto preoccupato
del mio amico Jacob, ma ancora di più mi disturbava il fatto
di rivedere il volto di Jasper Hale.
Il suo viso perfetto, nella mia mente, mi guardava con quell'aria
sofferente.
Ripensai un attimo all'immagine che non voleva allontanarsi dal retro
delle mie palpebre: in quel frangente il ragazzo mi stava guardando
come se stesse osservando del cibo a cui lui era proibito.
Magari era stata la confusione del momento a farmelo vedere
così, ma non smisi di dirmi che mi aveva guardata come io
guardavo dei cannoli siciliani in un periodo di dieta ferrea.
Arrivai giusto in tempo per la lezione di ginnastica –da cui
io ero esonerata grazie a un foglio firmato dal dottor
Carlisle– e vidi con somma tristezza che Jake era assente.
Sarebbe stata una giornata molto noiosa senza il mio amico di
scorribande; a sostituire Jacob arrivò la ragazza dai
capelli neri Raven, che attirò gli sguardi di tutti i
ragazzi della palestra.
Anche se era vestita con la divisa bianca della scuola, sembrava sempre
una modella per le riviste di moda e io mi sentii una sciacquetta
quando lei mi si sedette a fianco.
Mi guardò e inclinò la testa curiosa
«ti senti una vip che vai in giro con gli occhiali da sole?
»mi domandò, apparentemente seria.
Anche la sua voce era di una nota particolare, un po’
asiatica, e mi imbambolò per un secondo, poi mi riscossi
quando riuscii a capire la frase.
Un po’ cinica, abbassai con due dita gli occhiali da sole
fino alla punta del naso, mostrando il grosso livido scuro
«ahia, quello deve aver fatto male» mi disse la
ragazza ridendo.
Stava scherzando fin dall’inizio, ma in quel momento non ero
in grado di decodificare i mezzi toni delle persone «io sono
Raven, ma credo che tu sappia già chi sono. Il tuo amico
della riserva ti avrà sicuramente parlato di noi»
aggiunse, senza tendere però la mano come avrebbe fatto una
persona normale.
Io fissai il mio sguardo sul muro aldilà del campo da
pallavolo, facendo finta di seguire il match di allenamento; stavo
pensando se socializzare con quella ragazza come mi suggeriva
l’istinto oppure se seguire il consiglio di Jacob e tenermi
praticamente alla larga da loro.
Guardando bene la ragazza, non mi sembrava così inaffidabile
«si in effetti mi ha spiegato su per giù
qualcosina…» incominciai, parlando a voce bassa.
Sembrava però che Raven non facesse fatica a sentirmi
«senti, tuo fratello…vorrei ringraziarlo per
ieri» e mi guardai le scarpe da ginnastica.
Con la punta del piede destro iniziai a giocherellare con un pezzo di
plastica della suola che stava per rompersi «lo ringrazierai
un’altra volta» mi disse la ragazza «oggi
ha saltato scuola perché papà aveva bisogno di
lui per una specie di consegna. Sai materiali medici, troppo delicati
per uno spedizioniere» ridacchiò.
Mi sentii amareggiata, quasi delusa: perché avrei dovuto
esserlo comunque? Non lo conoscevo nemmeno, a malapena lo avevo visto
il giorno prima.
Se non avessi origliato la conversazione del dottor Carlisle, avrei mai
scoperto che si fosse trattato veramente di Jasper.
Risposi con un “oh” non molto convincente e rimasi
in silenzio per tutta la durata della partita.
Quando la campanella suonò all’ora di pranzo mi
alzai e mi diressi da sola verso il refettorio; presi il mio solito
piatto –pollo impanato e verdure miste– e presi
posto a un tavolo vuoto.
Senza Jake e senza poter esternare la mia gratitudine al mio salvatore,
mi sentivo esonerata da tutti.
Persino Bella era troppo impegnata con le sue amiche del posto, per
poter pensare a me.
Caddi in un silenzio fitto, quasi impenetrabile e ci misi quasi tutto
il tempo disponibile per il pranzo per spezzettare e mangiare
controvoglia il pollo.
Gettai il resto, sospirando: avevo tenuto sott’occhio il
tavolo dei Cullen, forse sperando che Jasper arrivasse da un momento
all’altro scusandosi per il ritardo.
E invece vidi solo Edward e Raven fare i due piccioncini e la bionda
Rosalie sgridare bonaria un Emmett un po’ pazzerello.
Cambiai tre aule prima di capire che avevo lezione di storia dopo il
pranzo.
E quella lezione fu la più sconvolgente della mia vita.
Entrai che quasi tutti avevo preso posto in una posizione diversa, come
solito; quasi mi mancarono le gambe quando vidi che Jasper, assieme a
Raven si erano seduto uno alla mia destra e l’altra alla mia
sinistra.
Come se avessero deciso di attaccarmi con una formazione a tenaglia.
Nel mio cervello esplosero migliaia di soluzioni differenti, dal
semplice ignorare l’accaduto fino ad afferrare una penna dal
banco più vicino e piantarmela in un occhio –per
avere una scusa valida e saltare la lezione, a mio dire–.
Con un respiro profondo e lento, mossi un piede pesante come cemento
dopo l’altro e presi posto.
Mi sentivo come se fossi stata rinchiusa in una cella frigorifera: se
fosse stato abbastanza caldo da sudare, le goccioline mi si sarebbero
congelate addosso.
Presi con disinvoltura il libro, gli appunti di storia e mi misi in
testa di seguire per bene l’argomento di quel giorno, ovvero
la guerra civile americana.
Dopo appena due minuti l’entrata del professore e
l’inizio del professore, mi cadde accanto alla penna che
stavo usando per scrivere un foglietto appallottolato.
Io non mi ero nemmeno accorta che qualcuno si fosse mosso per
consegnarmelo.
Lo aprii senza farmi notare e lessi cosa c’era scritto:
Mi sono sbagliata in palestra,
a quanto pare ha fatto
in tempo per l’ultima lezione.
Puoi ringraziarlo adesso
;)
R.
Mi girai subito verso Raven, che sembrava annoiata a morte dalla
lezione; appena notò che il mio sguardo era caduto su di
lei, mi fece un occhiolino complice e mi indicò con un cenno
del capo il fratello, seduto rigido accanto a me.
Era la prima volta che lo vedevo con uno sguardo diverso dalla solita
facciata in agonia.
Era più rilassato, un po’ annoiato dal tono di
voce del professore e i suoi occhi erano color oro; mi preoccupai un
attimo, credendo che avrei dovuto fare un salto dall’oculista.
La prima volta che avevo visto i suoi occhi erano scuri come il carbone
e non si erano mai staccati da me un solo istante.
In quel momento invece stava distrattamente prendendo appunti seduto in
modo quasi militare al banco.
La schiena era dritta e i capelli scarmigliati color miele gli
ricadevano a volte sul viso, anche se lui non pareva dargli peso.
Con un enorme sforzo –la mia mano sembrava fatta di
piombo– strappai un angolo del foglio su cui stavo scrivendo
e mi misi a tracciare con la mia biro alcune frasi:
Ciao…
Volevo ringraziarti per
ieri…
…
Grazie.
S.
Sentii il sangue salirmi fino alla faccia mentre ripiegavo il foglietto
il più lentamente possibile, come se quello potesse salvarmi
dal patibolo che mi stavo costruendo da sola.
Ero nel giusto, ringraziarlo era simbolo di
educazione…allora perché era come se avessi
tracciato un cuore su quel foglietto?
Il professore sembrava sempre girarsi quando stavo per passare il
foglietto a Jasper e finalmente dopo tanti tentativi, riuscii a
lanciarlo furtivamente sul suo foglio.
Lo sentii aprire il foglietto e leggerlo con la mente, poi avvertii
–mentre stavo guardando lo schema che era comparso sulla
lavagna e che io non avevo ancora copiato– che lui stesse
scrivendo qualcosa.
Qualche secondo dopo mi arrivò indietro il mio stesso
biglietto, con una risposta:
Figurati.
Rilassati o esploderai.
All’uscita
fermati dalle scale.
Ti riaccompagno a casa.
J.
Dopo aver scorso con gli occhi quella scrittura un po’
frettolosa ma elegante rimasi un attimo con il foglietto a
mezz’aria e gli occhi persi.
Riflettere in fretta per me non era mai stato un’abitudine:
spesso mi venivano in mente almeno tre possibili scelte e scegliere era
sempre più difficile se si trattava di gente che non
conoscevo.
Respirai a fondo, inchiodando lo sguardo sullo schema mezzo copiato sul
mio quaderno, poi mi feci forza e girai la testa verso destra.
Vidi le stelle a causa del livido e del taglio appena richiuso, ma
rimasi immobile nel guardare i suoi occhi.
Era sempre ritto con la schiena e le gambe erano leggermente incrociate
all’altezza delle caviglie, ma la sua testa era quasi del
tutto voltata verso di me e le sue iridi dorate e luminose mi stavano
fissando con una intensità mai vista.
Era come se potesse vedermi dentro, se fossi completamente nuda di
fronte ai suoi occhi.
Ruppi quella catena che ci aveva unito per un istante voltandomi
nuovamente verso la lavagna, completamente rossa in volto.
Era stata una scarica di adrenalina quella che avevo sentito correre
lungo la schiena? Sentii Jasper prendere un profondo respiro, come
quando d’inverno ti infilano la neve nella schiena e tu non
vuoi urlare.
Un respiro che era esattamente la copia di quello che avevo preso io in
quello stesso istante.
Che anche lui avesse avvertito quel millisecondo di passione che anche
io avevo provato sulla pelle? Sentii la peluria sulle braccia rizzarsi
e sentii contrarsi gli addominali.
Che mi stava succedendo? Era come se avessi fame, anche se avevo appena
mangiato.
Lo sguardo di Jasper non mi abbandonò un solo istante, fino
alla fine della lezione dove ci separammo.
Aspettai seduta sull’ultimo gradino, guardando tutti i miei
compagni camminare verso le proprie macchine.
Alcuni si fermarono a guardarmi, chiedendo poi se volessi un passaggio
fino a casa.
Ogni volta negai con un sorriso, astenendo che avevo già un
mezzo di trasporto; molti mi sorrisero e se andarono, altri sbuffarono
–magari perché avevano perso l’occasione
per farmi il filo–.
Il parcheggio era praticamente vuoto quando arrivò Jasper
insieme ai suoi fratelli e alle sue sorelle; mi alzai e presi la
cartella nera appoggiata a terra.
Raven ridacchiò e abbracciò meglio Edward, per
poi girarsi verso Emmett e Rosalie «credo che nostro fratello
oggi tornerà a casa da solo» disse, facendo
l’occhiolino sia a me che a un irritato Jasper.
Rosalie ridacchiò mentre Edward mi lanciò uno
sguardo divertito.
Emmett diede una pacca sulle spalle al fratello, dicendogli di andarci
piano.
Non capii esattamente di cosa parlassero, ma non ci diedi peso.
Il ragazzo biondo scrollò la testa, poi salutò
con un cenno del capo i familiari e si avvicinò a me;
rimanemmo immobili a guardarci per qualche secondo –io mi
sentivo andare a fuoco– poi lui alzò una mano e mi
prese garbatamente lo zaino dalla mano «vieni» mi
disse soltanto.
La sua voce era dolce e gentile, bassa ma non gutturale, una nota soave
uscita da un ottone.
Mi venne in mente per un solo istante l’inno americano e
paragonai la mia monotona voce a quella musicale di Jasper.
Ci dirigemmo con calma –con tutta la calma che potevo avere
in quel momento– verso la jeep scura in cui l’avevo
notato per la prima volta.
Mi accompagnò fino alla portiera del passeggero, me
l’aprì e aspettò che io mi sedessi, poi
fece il giro davanti al muso della vettura e salì al posto
del guidatore, sistemando la sua borsa a tracolla e il mio zaino sul
sedile posteriore.
Inserì le chiavi e le girò per accendere il
motore, che rombò in un istante.
Mentre afferrava il volante per fare manovra, accanto a noi
sfrecciò una Spider rosso fuoco: dai sedili posteriori
sentimmo entrambi la vociona di Emmett gridare un saluto stile rapper a
me e a suo fratello, fendendo l’aria con la grossa mano per
fare uno sbracciato “ciao ciao”.
Io ridacchiai, voltandomi verso il finestrino di sinistra per guardare
l’automobile correre lungo la strada, ma il mio sorriso venne
sommerso dal rossore quando incontrai il viso del guidatore accanto a
me.
Sulle labbra sempre un po’ imbronciate si era dipinto un
sorriso degno di un modello, assolutamente raggiante e che mi sciolse
in un solo istante.
Stava probabilmente sorridendo per il suo pazzo fratello, ma non si
spense quando mi guardò con quei fenomenali occhi color
pirite.
Ritornando a guardare la strada con un piccolo rimasuglio del sorriso,
fece fare manovra alla jeep e partì, forse un po’
troppo veloce per i miei gusti.
Risposte alle recensioni:
Norine:
Grazie per la recensione! Riguardo al molto sanguinamento, beh mi
è sembrato giusto abbondare dato che la ferita era alla
testa e di solito le ferite alla testa anche se superficiali sanguinano
molto.
Hihi Poro Jasperetti, ne vedrà di tutti i colori X3
|
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Capitolo 4 *** Invites ***
4.
Invites
Jasper
ci mise poco per arrivare
a casa mia, ma il viaggio mi sembrò lungo il doppio.
Dopo
qualche momento di silenzio
imbarazzato da parte mia, fu lui il primo a parlare «deve
fare veramente male»
disse, senza staccare gli occhi
dalla strada.
Io
non capii all’inizio, alzando
il volto per guardare il suo profilo, poi compresi che si stava
riferendo al
livido sul mio viso.
Annuii
«in
effetti non sto proprio una
favola»
risposi, torcendomi le mani sulle cosce e guardando
fuori dal finestrino.
Sentii
appena che era preoccupato
e mi sembrò strano: cos’avevo per attrarlo
così? «mio
padre mi ha detto che hai perso molto sangue»
disse, trattenendo per un
istante in più la parola sangue tra i denti «spero
che la tua vista non abbia avuto complicazioni a
causa del colpo».
Il
suo accento leggermente dell'America meridionale mi fece ricordare
casa, ma non in modo spiacevole come capitava ogni volta che mio nonno
mi raccontava della sua gioventù a Dallas.
Rimasi
un attimo ad assorbire quella melodia e solo quando capii il senso
delle sue parole cadenzate mi risvegliai completamente.
L’imbarazzo
mi affogò nel
silenzio e sentii che stavo arrossendo di nuovo. Mi sembrava di morire,
chiusa
lì dentro.
La
confusione regnava nella mia
mente e mi sentivo tremare; dopotutto non ero mai stata molto vicina a
dei
ragazzi –lasciando fuori Jacob, ovviamente– e non
sapevo cosa dire.
Oltretutto
Jasper non era un
ragazzo normale, lo potevo avvertire quasi come qualcosa di fisico, e
quello mi
mandava ancora di più nel pallone.
Come
se il mio attore preferito
mi stesse accompagnando a casa con la stessa disinvoltura del ragazzo
biondo.
Con
la coda dell’occhio lo vidi
voltare il viso verso di me, giusto per darmi un’occhiata,
poi sentii il
tumulto che avevo sia nella testa che nel petto sciogliersi e
distendersi.
Non
mi ero mai sentita così calma
in vita mia «eccoci,
siamo arrivati»
mi disse Jasper.
Aprii
gli occhi e mi accorsi che
mi ero profondamente addormentata, anche se per pochi minuti; mi rimisi
dritta
sul sedile e mi stropicciai gli occhi confusa.
Mi
fermai dopo alcuni secondi,
sentendo il taglio alla tempia sinistra iniziare a pulsare
dolorosamente:
strizzai gli occhi quando una fitta lancinante mi passò da
parte a parte dietro
gli occhi e mi lasciai scappare un lamento «tutto
bene? »
mi chiese il biondo, alzando le mani come per
afferrarmi le spalle.
Io
mi ritrassi d’istinto,
portando una mano al livido «si…si
tutto bene, mi ero dimenticata che sono ancora
tutto un catorcio»
gli dissi cercando di sorridere.
Di
nuovo quella sensazione di
pace mi invase e Jasper lasciò che un sorriso si formasse
sulle sue labbra.
Scese
dalla jeep, fece il giro e
mi aprì la portiera con galanteria «hai
bisogno di un aiuto? »
mi chiese ancora, guardandomi lo
scuro livido poi i suoi occhi parvero impaurirsi quando vide qualcosa
sul mio
viso: il taglio si era leggermente riaperto e una piccola goccia di
sangue mi
era colata fino allo zigomo.
Non
me ne ero accorta, forse per
quello che doveva aver fatto dannatamente male; Jasper non
staccò gli occhi dal
mio volto, ma la sua mano andò a nascondersi per un attimo
nella profonda tasca
della giacca che indossava.
Ne
tirò fuori un fazzoletto
candido e lo aprì in due per poi posarmelo delicatamente
sulla ferita e
tamponare via il sangue «dovrebbe
smettere di sanguinare presto»
mi disse con la sua voce
rassicurante e calda.
La
sua mano era ferma e sentii
attraverso il tessuto che era fresca e piacevole contro il taglio
pulsante «grazie»
dissi abbassando gli occhi e
diventando rossa.
Lui
dopo un attimo fece un passo
indietro e lasciò che uscissi dalla macchina; io mi tenevo
il suo fazzoletto
sul lato sinistro del viso, in modo che la ferita si rimarginasse per
bene.
Aspettai
che Jasper prendesse la
mia cartella dai sedili posteriori, poi la afferrai con mano tremante
quando
lui me la porse delicatamente «sei
sicura di stare bene? »
mi chiese ancora.
Il
senso di pace nella mia mente
era leggermente vacillato e l’imbarazzo si fece di nuovo
strada assieme a una
innaturale percezione della realtà.
Lo
osservai per bene, dalla punta
dei capelli scarmigliati alla punta delle scarpe texane: indossava una
camicia
bianca con due taschini sul davanti, con il colletto alzato a
sfiorargli appena
il contorno della mandibola.
Aveva
un paio di jeans grigio
fumo che gli fasciavano le gambe in modo assolutamente perfetto,
nonostante
avessi visto molti ragazzi sfigurare con quel tipo di pantaloni, poi
gli
stivali texani erano frusti e anche quelli di un colorito grigiastro.
Se
mio nonno l’avesse visti,
sicuramente avrebbe detto che non erano autentici «sto
benone»
dissi dipingendomi un sorriso
sulle labbra e guardandolo.
Lui
fece una smorfia poco
convinta, ma chiuse la portiera rimasta aperta dalla parte del
passeggero e
risalì a bordo.
Mi
fissò intensamente dal posto
di guida e di nuovo quella sensazione adrenalinica mi
fulminò: il tremolio alle
mani si intensificò e mi vidi costretta a chiuderle a pugno «allora
ci vediamo domani»
mi disse lui dalla macchina,
senza smettere un solo secondo di guardarmi.
Io
sorrisi annuendo e appena lo
vidi pigiare sull’acceleratore e allontanarsi, mi afferrai
gli addominali
chiudendo gli occhi: mi si erano contratti di nuovo in una maniera
repentina e
la scarica elettrica ancora mi percorreva.
Mi
girai per rientrare in casa e
mi accorsi in quel momento che avevo in mano il fazzoletto di Jasper e
che ero
senza occhiali da sole.
Mi
stesi sul letto dopo cena e
continuai a tenere quel fazzoletto bianco macchiato di rosso tra le
dita.
Ci
giocherellavo, lo guardavo un
po’ da tutte le parti, poi tornavo a giocarci mentre studiavo
per il giorno
successivo.
Non
ero più imbarazzata come
prima e la scossa di energia di poco prima era scomparsa prima che mi
mettessi
a tavola.
Per
tutto il pomeriggio, però,
avevo tremato nella mia camera e avevo anche tentato di mettermi a
dormire
sperando che si fermasse.
Il
taglio non mi faceva più male
e avevo ripiegato accuratamente il piccolo quadrato di stoffa bianca di
Jasper
sul mio comodino.
Lo
avevo ripreso solo per il
gusto di sentire ancora tra le dita la sua morbidezza: sembrava fatto
di
cotone, anche se la consistenza era della seta.
C’era
un piccolo ricamo in un
angolo che non seppi decifrare del tutto, J.W, e i bordi erano
ripiegati in un
cordoncino sottile.
Mi
piaceva osservare la fattura
del fazzoletto invece che mettermi a studiare matematica
–altra materia molto
ostica– e aveva un profumo particolare, nonostante
l’odore ferroso del mio
sangue lo intaccasse un po’.
Assomigliava
all’odore dei
girasoli e dei grandi campi di grano che da bambina avevo sempre visto
attorno
a casa mia.
Solo
lo squillo del mio cellulare
mi distrasse dal mio particolare studio: era un messaggio di Bella.
Novità!
Mike
Newton mi ha invitato alla
festa di fine anno!
Ho
detto di si!
Tu
con chi ci vai? Con Jake?
Mi
sbattei una mano sulla fronte,
attenta però a non colpire la parte scurita dal livido.
Jacob,
me lo ero completamente
dimenticato.
Non
era stato presente quella
mattina e probabilmente in quel momento era preoccupato per le mie
condizioni
fisiche.
Risposi
al messaggio di Bella,
dicendo che forse non ci sarei andata. Troppa gente che non conoscevo
che mi
guardava.
Sapevo
che avrei sorpreso la mia
amica, dato che quasi tutto il mio mondo sapeva che io vivevo per feste
del
genere.
Ma
non ero dell’umore adatto in
quel momento e sapevo che non lo sarei stata nemmeno alla serata della
festa.
Posai
il cellulare accanto al
libro di matematica e guardai le pagine piene di numeri con odio.
Sbuffando
chiusi il libro e mi
arrotolai su me stessa, tenendo il fazzoletto stretto nel pugno.
Chiusi
gli occhi per un attimo,
giusto il tempo per prendere un lungo respiro, poi mi sentii osservata.
Così,
tutto ad un tratto.
Mi
alzai, appoggiandomi al
materasso coi palmi delle mani, e guardai fuori dalla finestra.
Il
ramo del grande albero vicino
casa si muovevano nel vento e per poco non sfioravano il vetro freddo.
Strizzando
gli occhi per un
attimo, mi sembrò di scorgere un’ombra in piedi
sul ramo, ma quando sbattei le
palpebre assonnate, l’ombra era sparita.
E
con lei anche ogni mia
emozione: mi sentii talmente rilassata che mi addormentai
così, con il top e i
bermuda azzurri che di solito mettevo d’estate come pigiama.
Passò
una settimana da quel
giorno e non rividi ne i Cullen, ne Jacob.
Provai
a chiamare molte volte al
cellulare del mio amico, ma ogni volta risultava occupato.
Cominciai
a sentirmi dannatamente
depressa e la scuola non era più un luogo normale dove
andare.
Era
diventata un vero e proprio
inferno, con parecchi ragazzi che continuavano a chiedermi del ballo;
io non
cedetti mai, dicendo a tutti che non ci sarei andata perché
non mi andava di
andare.
Mi
mancava osservare da lontano
l’allegria privata dei Cullen, il loro legame fraterno e
sentimentale, mi
mancava il temperamento di Raven.
Ma
più di tutti mi mancava
Jasper.
Il
suo banco vuoto all’ora di
storia era una pugnalata in pieno petto, un vero e proprio tormento.
Mi
ero chiesta parecchie volte
dove fosse finita tutta la famiglia e parecchie volte avevo cercato di
convincermi che non era nulla di grave.
Anche
se spesso mi venivano in
mente scatoloni imballati e un camion con scritto TRASLOCHI sul lato.
Vidi
Mike Newton con la mia amica
Bella almeno un giorno si e un giorno no, all’ora di pranzo,
che parlavano tra
di loro in modo troppo zuccheroso per la mia condizione non troppo
allegra.
Speravo
vivamente che se ne
andassero da qualche altra parte a fare i piccioncini.
La
mia povera Toyota ritornò dal
meccanico quattro giorni dopo, rifatta a nuovo, ma la
felicità per aver riavuto
indietro la mia macchina in un tempo abbastanza breve fu effimera come
una
farfalla.
La
mattina sedevo sul pick-up e
semplicemente non facevo nulla.
Mi
sembrava troppo scomodo,
troppo piccolo a volte e troppo grande altre, era troppo alto e
soprattutto era
troppo vuoto.
Non
c’era nessuno vicino a me,
nessun angelo biondo con il sorriso che sembrava un’aurora e
gli occhi dorati
che mi scavavano dentro.
Nessun
Jasper accanto a me, a
chiedermi se stavo bene.
Se
qualcuno me lo avesse chiesto
in quel momento gli avrei risposto che non stavo bene, affatto; il mio
cuore
batteva un battito in meno e il livido non faceva male abbastanza da
farmi
allontanare un attimo dalla realtà divenuta improvvisamente
grigia –anche se
non ne rimaneva molto, solo un alone giallastro che mi sapeva
orribilmente di
sporco–.
Nonno
Arthur passava sempre il
suo tempo alla bocciofila di La Push assieme a Billy, Jacob non si
faceva
vedere ne sentire, Bella era troppo impegnata col suo nuovo ragazzo,
zia Lind
aveva trovato un altro uomo che l’avrebbe mantenuta per
almeno un paio di mesi
–se reggeva abbastanza–.
Io
ero rimasta solo con il mio
portatile, il fazzoletto di quell’angelo biondo e la mia
passione, ovvero la
cucina.
E
quel giorno, a una settimana
esatta da quando tutti si erano improvvisamente disinteressati a me,
ero in
quel piccolo supermercato per comprare gli ingredienti per un altro dei
miei
esperimenti culinari.
Avevo
preso il sacchetto che di
solito usava la zia per fare la spesa e ci avevo messo dentro latte,
una
confezione di uova, del cacao e un pacchetto di burro.
Volevo
modificare la ricetta dei
muffins che la zia aveva nel suo libro, trasformandoli in qualcosa di
diverso e
magari più elaborato.
Mi
stavo tendendo per prendere
una scatola di gocce di cioccolato quando una mano dalla pelle scura li
prese
prima di me e me li tese.
Mi
voltai alla risata che avevo
subito riconosciuto e vidi Jacob, nella solita incerata scura.
Solo
che in quel momento sembrava
che la giacca stesse esplodendo: si era come ingigantito, il mio amico,
e io
non riuscivo a tenere la bocca chiusa «hey
nanetta! »
mi salutò, con uno dei suoi sorrisi tutto denti.
Io
non riuscivo a dire nulla di
coerente.
I
bicipiti, i pettorali, le
spalle…tutto era almeno il doppio! E doveva essersi alzato
di qualche
centimetro «che
c’è, ho qualcosa in faccia? »
disse ancora e io ripresi fiato «si,
il tuo naso a patata»
gli dissi, cercando di essere
ironica e divertente, come se nulla mi avesse colpito del suo aspetto.
Anche
se non credo di esser
riuscita a recitare molto bene.
Cos’era
capitato al mio amico?? «vuoi
cercare di avvelenare i tuoi
così potrai stare qui per sempre? »
mi chiese ancora ridacchiando.
Io
misi la scatola nella borsa di
tela e inspirai, notando che il profumo di Jake era nettamente diverso
da
quello di Jasper.
Il
mio angelo biondo –e mai avrei
confessato a nessuno quel soprannome– aveva un profumo
delicato ma che sapeva
avvolgermi come un abbraccio, mentre Jacob sapeva di pino silvestre e
di
muschio, un profumo che colpiva letteralmente.
Mi
tirai su, cambiando totalmente
faccia, indossando la maschera da “non è successo
nulla” «no,
stavo pensando a un dolce per
uccidere il mio migliore amico, sai non si è fatto sentire
da una settimana e
gliela devo far pagare»
dissi, con faccia un po’ accusatoria.
Lui
mi fece lo sguardo da
cucciolo a cui io non ero mai resistita «scusami,
davvero…ho avuto alcuni problemi»
disse.
Si
che ci cascavo, lui aveva
avuto così tanti problemi che a portarli si era pompato il
fisico.
La
mia faccia era tutta un
programma «eddai,
non fare così! »
mi implorò «per
farmi perdonare vengo a casa con te e ti aiuto con
questo dolcetto…e sai quanto odio farlo»
aggiunse.
In
effetti non si poteva parlare
di cucina a Jacob se non per mangiare, così mi
sembrò abbastanza convincente.
Eliminai
l’espressione irata e
gli sorrisi, annuendo «va
bene»
dissi soltanto.
Anche
lui si illuminò, vedendomi
felice.
Proseguii
il mio giro di compere
acquistando farina e zucchero raffinato, con Jake che mi seguiva come
un
cagnolino, osservando a volte con faccia desiderosa le buste di
patatine e
mostrandomi con faccia maligna il banco farmaceutico, dove dei
preservativi
facevano bella mostra nelle loro scatole colorate.
Io
lo guardai con sguardo
ammonitore, ma seppi che la mia faccia era diventata color peperone.
Succedeva
da quando avevo
incontrato Jasper, di vedere il lato più malizioso di
qualsiasi cosa, persino
in frasi che una volta mi parevano assolutamente innocue.
Cosa
mi aveva fatto quel ragazzo?
Il
mio umore migliorò nettamente
da quando lasciammo il supermercato e ci dirigemmo a piedi verso casa
mia.
Appena
arrivati ci dirigemmo
subito in cucina e ci rimboccammo le maniche; io indossai il grembiule
azzurro
che spesso avevo visto addosso alla zia Lind e sistemai gli ingredienti
sul
lungo tavolo.
Jacob
si era offerto volontario
per aprire il pacchetto della farina e dopo qualche vano tentativo, con
uno
strappo troppo forte il ragazzo riuscì ad aprire il
sacchetto e a immergere
entrambi in una nuvola di farina volata per la forza che Jake aveva
messo nel
movimento.
Così
entrambi ci ritrovammo
completamente bianchi fino alla vita e ridacchianti, nonostante io
cercassi di
sembrare irata –dopotutto avevo pagato io e spreco di farina
valeva a dire
spreco di soldi–.
Seguii
la ricetta com’era scritta
sul foglio un po’ ingiallito dal tempo e apportando le
opportune modifiche dove
servivano: al posto della frutta a pezzi gettai nell’impasto
denso e ben
amalgamato il cacao in polvere e le gocce di cioccolato.
Jacob
aveva tentato più volte di
rubarmi delle ditate d’impasto per “assicurarsi che
io non facessi nulla di pericoloso
per la sua salute” e ogni volta gli era arrivato il cucchiaio
di legno sulle
dita.
Finalmente,
dopo almeno mezz’ora
di preparazione e scherzi, ci fermammo piegati in due a guardare
attraverso il
vetro del forno.
Mentre
i dolcetti prendevano la loro
tipica forma a fungo nei loro stampini di alluminio, io mi tolsi il
grembiule e
lo appesi al gancetto accanto al frigorifero «spero
di non aver mescolato troppo»
dissi a Jacob, seduto su una
sedia accanto al tavolo –ora più che mai
rassomigliante a un campo di guerra– «sennò
mi vengono come tanti
piccoli sassi».
Lui
ridacchiò, ma non sembrava
molto interessato alla buona riuscita del mio esperimento culinario «ho
sentito che a scuola fanno una
festa a fine anno, si balla e c’è un sacco di
musica»
iniziò a dire.
Io
gli stavo dando le spalle in
quel momento, ma lo avessi guardato avrebbe visto i miei occhi rivolti
verso il
cielo «non
so se qualcuno te lo ha già chiesto, ma ti
andrebbe di andarci con me? »
mi chiese.
Ecco,
lo sapevo.
Maledii
quella stupida festa per
le frasi che mi stavano venendo in mente, ma serrando i denti in un
sorriso un
po’ forzato mi voltai per guardare Jake.
Aveva
il suo solito sguardo
supplichevole, quello da cagnolino bastonato a cui non ero mai riuscita
a dire
di no.
Anche
se quella volta avrei
dovuto resistere «scusa
Jakey, ma proprio non ho voglia di andarci…non
conosco nessuno»
gli dissi, utilizzando il soprannome che più di tutti
lui odiava.
Lo
vidi alzarsi e avvicinarsi «ma
conosci me no? Non basta per
passare una bella serata? »
«Jacob
Black, se ti ho detto che non ho voglia di
andarci avrò i miei buoni motivi…non cercare di
convincermi»
risposi perentoria, ma nella mia
testa parecchi finali di quel pomeriggio si susseguivano uno dietro
l’altro.
Una
furiosa litigata, Jacob che
mi aggrediva, io e lui che cadevamo in atteggiamenti troppo
intimi…l’ultimo era
completamente fuori discussione.
Potevo
ancora gestire un Jacob
arrabbiato o addirittura manesco, ma un Jacob che mi metteva le mani
addosso
per altri motivi assolutamente no.
Come
se avesse letto nei miei
pensieri, Jake fece un sorrisino malizioso e mi chiuse tra il
frigorifero e il
suo nuovo e massiccio corpo.
Potevo
sentire attraverso i suoi
e i miei vestiti che era bollente, come se avesse passato una giornata
intera
sotto il sole.
Sembrava
il radiatore di una
macchina appena spenta «ma
tu adori le feste»
mi disse, guardandomi ora serio.
Io
aggrottai le sopracciglia e mi
allungai in tutta la mia –scarsa– altezza, per
sembrare più spaventevole possibile,
come un gatto che inarca la schiena per sembrare più grosso «non
queste»
dissi arrabbiata.
Le
sue mani si allungarono per
appoggiarsi al frigo e ingabbiarmi completamente.
Non
mi mossi, anche se sentivo
dentro che stavo iniziando a cedere.
Mi
stava mettendo quasi paura,
nonostante entrambi fossimo buffamente ricoperti di farina;
cos’era successo al
mio amico? Sembrava un animale che cercava di conquistare
l’unica femmina dei
paraggi, mostrando prima il proprio fisico, poi facendole vedere
quant’era
minaccioso e potente.
Io
non lo potevo sopportare,
proprio non mi riusciva.
Lasciai
cadere la maschera
arrabbiata e gli feci vedere quanto ero intimidita, anche se sapevo che
era
quello che il nuovo Jacob voleva «io
voglio sapere cosa ti è successo. Non faresti mai
una cosa simile Jake! Non con me»
gli dissi, posando le mani sul suo petto e cercando
di spingerlo via.
Tutte
le lezioni di vita che
avevo preso in passato –come il classico e sempre funzionante
calcio nei
gioielli– non erano utili in quel momento, perché
non volevo far del male a
Jacob, l’amico che sempre mi aveva risollevato dalla
tristezza.
Anche
se sapevo che il mio
istinto di conservazione sarebbe scattato entro breve e lo avrei visto
raggomitolato sul pavimento con le mani al cavallo dei pantaloni che
indossava.
Sapevo
che era la dura realtà.
Lui
aveva avvicinato il viso al
mio e io iniziai a contare da dieci, sperando che si fermasse prima che
arrivassi allo zero.
Nove.
Una
mano di Jacob si allontanò
dal frigo per posarsi sul mio fianco destro e non accennava a smettere.
Otto.
Sette.
Io
avevo preso un respiro,
guardando il mondo che iniziava a muoversi al rallentatore.
Sei.
Cinque.
Quattro.
Le
labbra di Jake erano a pochi
centimetri dalle mie e ormai io stavo tendendo i muscoli della gamba
destra,
pronta a piegarsi e a piantare il ginocchio nei gioielli del mio non
più tanto
amico.
Tre.
Due.
Un’improvvisa
inchiodata mi
arrivò all’orecchio, nonostante entrambe le mani
di Jacob avessero afferrato la
mia vita.
Uno.
Il
mio piede si staccò dal
pavimento della cucina e alzai appena il ginocchio, sperando che Jake
si
svegliasse da quella specie di rincitrullimento.
Prima
che finisse a guaire come
un cane per il colpo che gli avrei inferto.
Beeeeeep
Beeeeeep!
Un
clacson fuori dalla finestra
bloccò entrambi.
Il
ragazzo che aveva preso il
posto del mio amico si tirò su e guardando fuori assunse una
smorfia
disgustata.
Io
ripresi a respirare e il mio
cuore cominciò a battere il doppio.
Stavo
tremando e la gamba destra
tornò a sostenere assieme alla gemella tutto il mio peso.
Di
nuovo il clacson suonò, questa
volta meno prepotentemente.
Senza
quasi che me ne accorgessi
scivolai via dalla presa di Jacob –ritornato quasi del tutto
in sé– e guardai
fuori dalla finestra.
Quasi
esplosi, nel vedere la jeep
scura che si era delineata nella mia mente come simbolo di salvezza.
Guardai
Jacob, che a testa bassa
aveva spento il forno, e di nuovo la paura che avevo provato prima si
intensificò.
Paura
per me, ma soprattutto
paura di aver perso un grande amico.
Sapeva
che io non gradivo certe
cose, spesso avevo parlato con lui dei ragazzi che mi avevano fatto la
corte a
casa mia e che avevano miseramente fatto un buco nell’acqua.
Anche
lui era così, era uno di
quei ragazzi che pensavano alle ragazze come oggetti da vincere, da
conquistare.
Mi
allontanai senza mai dargli le
spalle, come si faceva con i malintenzionati, e mi diressi verso la
porta
d’entrata.
Mi
reggevo a qualunque cosa
potesse abbastanza solida per potermi reggere: il tavolo, il lavandino,
i vari
mobiletti sparsi per casa, il mezzo tavolino nell’entrata.
Metà
di me era completamente
protesa verso l’esterno, verso la jeep scura che mi
aspettava, l’altra metà era
propensa a dare la più forte ginocchiata della mia vita al
mio ex migliore
amico.
Ero
furiosa, spaventata, spavalda
e tremolante di paura.
Un
cocktail che non ne voleva
sapere di mescolarsi, come il latte e il burro fuso.
Jacob
mi seguì, qualche passo
distante da me «Sarah,
ti prego scusami»
mi disse con voce bassa e realmente rotta.
Mi
stava guardando con l’aria di
chi ha capito i propri errori e con gli occhi giura di non farlo
più.
Protese
le mani verso di me per
fermarmi, per impedirmi di scappare via da lui, in modo da poter
spiegare.
Io
scossi la testa strizzando gli
occhi e aprii la porta alle mie spalle, lanciandomi in corsa verso la
jeep e
verso il mio salvatore.
Per
la seconda volta.
Risposte
alle recensioni:
Norine: Ahah
grazie cara troppo gentile! X3 Se fosse andato Jazz a spiegare la
lezione di sicuro avrei imparato tutto il libro solo stando ad
ascoltarlo!
|
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Capitolo 5 *** Blood group ***
5.
Blood
group
Mi
gettai fuori dalla porta e
camminai speditamente verso la jeep, da dove Jasper mi osservava con un
sopracciglio alzato.
Stava
indossando i miei occhiali
da sole e la mia mente sbattuta come un uovo riuscì a
trovare il tempo di
pensare che, probabilmente, mi dovevano esser caduti quando mi ero
addormentata
nella sua macchina.
Appena
fui abbastanza vicina lui
mi regalò un altro dei suoi magnetici sorrisi; con due dita
afferrò la
stanghetta degli occhiali e li alzò, per mostrare i suoi
occhi altrettanto
caldi e attraenti «ti
eri dimenticata questi»
mi disse, anche se la sua
espressione era tutt’altro che allegra.
Doveva
aver notato la mia
espressione sconvolta –nonostante stessi facendo di tutto per
nascondere quello
che sentivo dentro almeno alla vista– e lanciò una
furtiva occhiata alla porta
d’ingresso di casa mia.
Io
non mi voltai, ma sapevo che c’era
Jacob a guardarmi con i suoi occhioni scuri da cucciolo abbandonato «Sali,
facciamo un giro»
mi disse lui ancora, guardandomi
da capo a piedi.
Dentro
di me esultai e se fossi
stata leggermente meno scossa, gli sarei saltata addosso e lo avrei
baciato.
Lui
ridacchiò tra sé, come se
avesse sentito i miei pensieri, poi diede un affondo di acceleratore
senza
lasciare il freno.
Il
motore rombò, ma la macchina
rimase ferma e salda sulle ruote.
Io
aprii la portiera con uno
scatto e mi cacciai dentro la jeep, chiudendo poi la portiera
così forte che
ebbi paura di romperla.
Le
mani mi tremavano tanto che
non riuscii a prendere la cintura e ad assicurarla davanti al mio petto
come mi
era sempre stato insegnato.
Fu
Jasper a piegarsi verso di me,
allungare un braccio e prendere la cintura dalla propria sede,
passarmela
davanti e agganciandola.
Nel
tragitto, potei quasi pulirmi
i polmoni dal fin troppo forte profumo muschiato di Jacob con la
delicata
fragranza fresca e rassicurante di Jasper.
Ne
avevo abbastanza del calore,
non lo potevo sopportare.
Jake
mi aveva quasi soffocata con
la sua temperatura e se non ci fosse stato il frigorifero a
sorreggermi,
sicuramente sarei caduta a terra svenuta.
Mi
aveva aspirato via l’aria dai
polmoni, sostituendola con la sua.
E
non era nemmeno riuscito a
baciarmi! Se invece avesse toccato le sue labbra con le mie, sarebbe
scoppiato
il finimondo.
Lo
sapevo ed ero sicura di me
stessa.
Jasper
tolse il piede dal pedale
del freno e accelerò, allontanandosi da casa mia.
Lo
vidi guardare nello
specchietto retrovisore, con la faccia seria con cui l’avevo
conosciuto, poi
riportò gli occhi sulla strada.
Mentre
svoltavamo a destra verso
la foresta, potei vedere Jacob guardarci andare via, irato e deluso al
tempo
stesso.
Sapevo
che ci sarebbe rimasto
molto male, ma non me ne importò più di tanto in
quel momento.
Ero
al sicuro, nella confortevole
jeep di Jasper, lontano dal calore inumano di Jacob e dalle sue voglie
represse.
Arrivammo
su una strada sterrata
che conduceva nella foresta che circondava Forks e solo lì
Jasper fermò la
macchina.
Si
tolse la cintura e si voltò
verso di me «che
è successo? »
mi chiese, con il suo accento lievemente più marcato.
Perché
ogni volta che lo sentivo
parlare il suo tono cadenzato mi sembrava sempre più
affascinante?
Abbassai
gli occhi, senza
smettere di tremare.
Era
come esser appena scesi dal
primo giro di montagne russe, quando senti ancora tutte le emozioni che
ti
vorticano dentro a tempo con la giostra.
Avvertii
la solita ed esterna
calma che cercava di avvolgermi, da tranquillizzarmi, ma la respinsi.
Non
seppi perché, non seppi come
riuscii in quel momento a capire che quella tranquillità non
era normale, ma la
allontanai lo stesso.
La
spinsi via dolcemente, ma
senza rimpianti.
Lui
mi guardò, cercando i miei
occhi, poi rifece la sua domanda; non sapeva quanto mi faceva male
ripensare e
spiegare quello che era successo.
Esser
traditi dal proprio
migliore amico, che ti aveva giurato sulla tomba della madre scomparsa
che non
si sarebbe mai comportato come gli altri, che sarebbe stato diverso e
un vero
amico.
Nulla
di più.
Io
sospirai, stringendo un
qualche tessuto tra le mani «sei
carina così»
sentii all’improvviso.
Il
tono di voce del biondo
ragazzo era un pochino divertito e come mi tirai su a guardarlo vidi
che stava
ridacchiando, guardandomi.
Allora
anche io abbassai gli
occhi per guardarmi e notai che ero ancora completamente sporca di
farina e con
il grembiule assicurato in vita.
Spalancai
gli occhi e arrossii
immediatamente.
Lo
guardai, molto imbarazzata «oddio
ti sto infarinando
completamente la macchina! »
esclamai, guardando le manate bianche che dalla mia
parte erano un po’ ovunque.
Lui
rise, una risata dolce e
allegra «non
ti preoccupare»
mi rassicurò «questa
è la macchina di mio fratello Emmett»
e diede un paio di colpetti sul
cruscotto «se
ti sembra pulita è perché io mi rifiuto
categoricamente di guidarla nello stato originale in cui si trova di
solito».
Rise
e io con lui.
Tutto
lo spavento che avevo
provato e la frustrazione stavano svanendo poco a poco.
Jasper
era un po’ come un
bicchiere di acqua fresca, limpida e sempre utile a calmare il panico «non
hai una macchina tua? »
chiesi e lui scosse la testa,
senza cancellare dalle sue labbra il dolce sorriso che aveva in
quell’istante «non
mi importa più di tanto avere
un mezzo di trasporto. La mattina di solito vengo a scuola assieme a
Emmett ed
Edward»
iniziò a spiegarmi «ho
preso la patente solo per piccoli spostamenti come
questi. Per quando mia madre ha bisogno di qualcosa ad esempio e
nessuno ha
voglia di combinare qualcosa».
Rimasi
ammaliata dalla sua voce
che scorreva nell’aria come un ruscello tranquillo.
Sperai
che la farina coprisse il
mio rossore o che almeno lo stemperasse un po’,
perché in realtà io mi sentivo
andare a fuoco.
Mi
grattai distrattamente il
collo, guardando fuori dal finestrino lasciato aperto le fronde degli
alberi
muoversi appena nel vento e una sbuffata d’aria mi prese in
pieno viso.
La
farina rimase dov’era, ma vidi
nello specchietto laterale che Jasper si era voltato, come se
l’aria avesse
portato un odore proibito al suo naso perfetto.
Lo
guardai, inclinando la testa,
e lo osservai meglio.
La
pelle era pallida ma senza un’imperfezione,
liscia e morbida; il contorno della mascella era squadrato ma non
esagerato.
Su
di essa vidi appena, come un
miraggio, una piccola striscia biancastra e curva; una specie di
cicatrice «che
ti sei fatto qui? »
dissi e indicai su me stessa il
luogo dove sostava la piccola cicatrice.
Jasper
prima mi guardò un po’
distratto, poi sembrò allarmato.
Tutto
nel giro di pochi secondi,
prima che ritornasse a suo agio «dove?
»
e piegò lo specchietto retrovisore per osservarsi.
Piegò
il collo di lato per
guardare dove io avevo indicato «non
ho niente, perché? ».
In
effetti avevo perso di vista
la cicatrice.
Magari
era stato tutto un gioco
di luci «nulla,
davvero…senti, non è che posso tornare a casa?
Non credo che…»
ma la voce mi si bloccò in gola.
Avrei
voluto dire che
probabilmente Jacob doveva esser andato via e non c’era
più niente di cui
preoccuparsi, ma io continuavo a preoccuparmi.
Jasper
annuì «va
bene, ma un giorno dovrai
raccontarmelo»
e ridacchiando sommessamente mise in moto la jeep.
La
strana calma esterna non si
era fatta più sentire.
Non
riuscii a dormire fino alle
quattro di mattina.
Mi
giravo e rigiravo nel letto,
cercando di respirare in maniera rilassata, ma non mi riusciva.
Continuavo
a mandare maledizioni
a Jake per aver tradito a quel modo la mia fiducia.
Non
volevo che arrivasse il
giorno per alzarmi, andare a scuola e magari affrontarlo; non ne sarei
stata
capace.
Alle
tre e mezza mi tirai su,
scompigliandomi i capelli in maniera isterica e osservando la pallida
luce che
la luna velata di nuvole faceva entrare nella mia stanza.
Il
mio portatile era posato sulla
mia scrivania e il fazzoletto di Jasper –del quale mi ero
completamente
dimenticata il giorno prima– era sempre sul mio comodino,
macchiato di sangue.
Colta
da un’improvvisa voglia di
fare qualsiasi cosa, mi alzai e mi diressi a piedi scalzi fino al
bagno, con il
quadrato di tessuto piegato in mano.
Il
segno che aveva lasciato il
sangue coagulato mi sapeva di sporco quasi quanto il mio livido ormai
completamente sparito e non potevo sopportare di ridarglielo conciato
così.
Non
dopo che mi aveva salvato due
volte di seguito.
Mi
chiusi in bagno e mi guardai
per un attimo nello specchio sopra il lavabo.
Ero
un disastro completo: i
capelli corti e scalati andavano in tutte le direzioni per
l’attacco di
nervosismo di poco prima, i miei occhi erano cerchiati di un alone
scuro ed
erano stretti e rossi per il sonno mancato.
Sembravo
veramente un mostro.
Mi
chinai e girai la manopola per
l’acqua calda, prendendo intanto la saponetta
nell’incavo del muro accanto al
lavandino.
Iniziai
a sfregarla contro la
macchia ormai diventata marrone del mio sangue coagulato e a lavoro
terminato
sciacquai il fazzoletto e lo alzai per esaminarlo alla luce della luna.
Era
ritornato candido come in
origine e non presentava nessun segno di utilizzo; i miei occhi,
però, mentre
abbassavo il fazzoletto, si focalizzarono sullo specchio.
Dietro
alla mia immagine
scombinata avevo visto una testata di capelli inconfondibilmente bionda.
Jasper
si trovava nel mio bagno
alle tre e mezza del mattino?
Mi
voltai di scatto, sicura di
ritrovarmelo alle spalle, ma vidi solo il mobiletto bianco dove di
solito
sistemavamo i vestiti da lavare e la finestra aperta da cui veniva una
leggera
brezza.
Feci
qualche passo verso la
finestra, sicura che avrei visto il ragazzo biondo comparire sul prato
vicino
casa mia, mentre si dileguava.
Invece
non c’era nessuno, solo i
rami fruscianti degli alberi vicino casa e le nuvole che pian piano
oscuravano
la luce della luna.
Anche
se ero completamente sicura
che nell’aria ci fosse il profumo di girasoli.
Il
mattino dopo svegliarsi fu un
dramma.
Le
poche ore che ebbi a
disposizione per dormire furono così poche che mi
sembrò di non aver nemmeno
chiuso gli occhi.
Ero
ritornata dal bagno e avevo
messo il fazzoletto sul termosifone ad asciugare, poi mi ero messa a
letto.
E
subito dopo dovetti alzarmi per
andare a scuola.
Il
nonno stava ancora dormendo e
la casa, senza la zia Lind, sembrava quasi vuota.
Presi
un misero pacchetto di
cracker e mi diressi fuori per salire sul pick-up; mangiai in fretta,
senza
però avere molta fame, poi accesi il motore e mi preparai a
fare retromarcia.
Mi
misi in marcia verso la scuola
e sospirai.
La
voglia di rivedere Jacob era
veramente, ma veramente poca.
Chissà,
che fosse arrabbiato con
me perché non avevo ceduto alle sue spinte avances? Oppure
sarebbe venuto a
pianger miseria, chiedendo perdono in ginocchio?
Io
speravo soltanto che qualcuno
cancellasse dalla mia e dalla sua memoria quello che era successo.
Ritornare
indietro, solo di
qualche ora, giusto il tempo per aggiustare tutto.
Parcheggiai
il più lontano
possibile dall’entrata della scuola, in modo che tutti gli
studenti entrassero
prima di me e con loro Jake.
Scesi
e presi il mio zaino dal
cassone, mettendomelo in spalla; mi incamminai verso
l’edificio sperando con
tutto il cuore che nessuno notasse il mio viso incupito e che passasse
oltre.
Sentii
un brivido lungo la
schiena quando sentii la voce del mio amico chiamarmi da lontano:
sembrava
desideroso di dirmi qualcosa di molto importante.
Magari
voleva scusarsi per quello
che era successo, magari mi avrebbe salutato come suo solito, come se
nulla
fosse accaduto.
Mi
voltai e lo vidi correre nella
mia direzione, sbracciandosi per salutarmi.
Sorrideva.
Di
riflesso sorrisi come lui,
anche se il tumulto dentro di me era veramente troppo; un braccio mi si
posò
sulle spalle, fresco dentro una giacca di feltro nera e lunga «buongiorno»
sentii la voce di Jasper
arrivarmi alle orecchie come una pomata salvifica.
Lo
guardai e notai che era
veramente troppo alto.
In
confronto a me e Jacob,
oltretutto! Doveva essere alto un metro e ottanta come minimo.
I
suoi occhi erano sempre dorati
e incredibilmente limpidi.
Come
se qualcuno ne avesse
aumentato il contrasto con la parte bianca dell’occhio «dormito
bene? »
mi chiese, osservandomi.
Io
gli sorrisi imbarazzata,
allontanandomi appena dal suo abbraccio; se mai avesse saputo che lo
avevo
creduto in casa mia a quell’ora assurda della notte si
sarebbe messo a ridere.
Anche
se adoravo la sua risata «si,
abbastanza…»
risposi vaga, ritornando ogni
tanto a guardare Jacob, ora scuro in volto.
Non
sembrava digerire la
vicinanza di Jasper a me «ti
ho riportato il fazzoletto»
aggiunsi, tirandolo fuori dalla
tasca e porgendoglielo.
Lui
lo guardò, poi lo prese e se
lo ficcò nella tasca del cardigan «oggi
credo che sarò a lezione di biologia con te, la
mia insegnante si è ammalata e uniranno le due classi, per
il momento»
mi avvertì.
Non
mi parve vero nemmeno per un
istante.
La
mia felicità schizzò alle
stelle e ringraziai il cielo di esser capace di nascondere le mie
emozioni.
Entrai
a scuola a fianco a lui,
quella mattina, e per tutto il giorno dimenticai Jacob.
Dopo
due ore di matematica, una
di lingua straniera e il pranzo –passato con Bella e il nuovo
fidanzato Mike
Newton– finalmente giunse l’ora di biologia.
Come
promesso Jasper fu in
classe, seduto accanto al banco dove di solito sedevo «come
hai fatto a indovinare? »
chiesi e lui scherzando disse
che “avrebbe riconosciuto il mio odore ovunque”.
Mi
annusai un attimo una ciocca
di capelli, poi gli diedi una manata sulla spalla, giocosa «guarda
che io mi faccio la doccia
tutte le sere»
gli dissi, ridendo e prendendo posto.
Mi
sembrò strana la classe così
farcita di studenti, ma mi rallegrava la presenza del biondo accanto a
me.
Il
professore si mise a scrivere
alla lavagna, tracciando alcune lettere «oggi
ragazzi parleremo di gruppo sanguigno e faremo un
esperimento. Preleverò alcune gocce di sangue da qualcuno di
voi e vi dirò qual
è il vostro gruppo sanguigno».
Presi
il libro e il quaderno
degli appunti, guardando Jasper fare lo stesso.
Biologia
era sempre stata la mia
materia preferita, nonostante il momento della vivisezione fosse un
pochino
duro per il mio stomaco.
Nonostante
avessi già fatto quell’esperimento
e sapessi che il mio gruppo era AB+, non mi tirai indietro e mi offrii
volontaria quando il professore chiamò per
l’esperimento.
Lui
prese l’indice e con la punta
di un ago me lo bucò; il dolore fu minimo anche se un
po’ inaspettato e mi
lasciai scappare un piccolo gemito.
Poi
il professore lasciò cadere
alcune gocce del mio sangue sul vetrino e dopo poco mi diede la
conferma che il
mio gruppo era AB+.
Ritornai
al banco, scrivendo
sugli appunti ancora qualche frase, poi mi guardai l’indice
sinistro.
La
ferita si stava già rimarginando
e rimasi un po’ delusa, allora schiacciai il polpastrello e
lasciai uscire una
grossa goccia rossa «che
stai facendo? »
mi chiese Jasper, dal suo banco.
Sembrava
preoccupato.
Io
gli sorrisi, guardando
ammaliata il colore del mio sangue «mi
è sempre piaciuto assaggiare il mio sangue.
Ha
un gusto ferroso che non mi
dispiace poi molto»
gli dissi sottovoce per non farmi sentire dal
professore «lo
faccio sempre quando ho qualche taglietto. Non
perdo mai l’occasione»
e con un gesto veloce leccai via la goccia, che stava
iniziando a colarmi giù dal polpastrello.
Jasper
scrollò la testa, ma
sembrò turbato «ragazzi,
la prossima settimana andremo in gita nelle
foreste qui intorno a Forks»
e ci fu un mormorio generale.
Io
stetti a sentire cosa l’insegnante
volesse aggiungere «so
che non è molto ma il preside non ci concede altro.
Scopriremo
la dinamica della
biochimica nelle piante, quindi premunitevi e portatevi dei guanti,
toccheremo
molte ortiche! »
e qui ci fu una risata generale.
Solo
Jasper rimase serio,
pensoso.
E
così anche io, per capire
se lo avevo urtato con il mio comportamento strano oppure se era solo
colpa
della gita.
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Capitolo 6 *** Horror Tales ***
Avviso:
il capitolo è un po' corto perchè non riuscivo
molto a figurarmi altro, ma spero che piaccia lo stesso :3 Il prossimo
sarà meglio, giurooo!
*bearhug*
Raxas
6.
Horror
tales
Durante
la settimana che ci
separava dalla gita, Jasper sembrava letteralmente cambiato.
Non
mi guardava più, non mi
rivolgeva la parola e mi evitava in ogni modo possibile.
Cercai
una spiegazione negli
occhi dei suoi fratelli, specialmente in quelli di Raven; una volta
sembrò sul
punto di rivelarmi qualcosa, ma Edward al suo fianco l’aveva
bloccata.
Così
io passai un’altra settimana
completamente ignorata dal mondo: Jacob aveva rinunciato a cercarmi e
da una
parte ne fui felice, perché dovevo ancora metabolizzare
l’accaduto tra me e
lui; Jasper e i Cullen mi evitavano come la peste e io non mi ero
ancora
spiegata il perché; Bella e Mike avevano praticamente chiuso
i ponti e la
ragazza non voleva vedere nessuno.
Così
passai altri giorni a casa
da sola, senza la consolazione dell’unico ricordo del ragazzo
biondo.
Un
pomeriggio mi ritrovai a
pensare un po’ alla mia vita: avevo lasciato la mia casa
natia perché non ne
potevo più di sopportare i miei genitori e
l’usurpatrice.
Ero
arrivata in una cittadina
circondata da immense foreste, dove gli animali pullulavano e dove la
pioggia
cadeva quasi tutto l’anno.
Avevo
incrinato l’amicizia con
Jacob e avevo avuto il mio primo vero innamoramento con un ragazzo
complicato e
bello come un dio.
Ripensai
al sorriso dolce di
Jasper e subito il mio cuore saltò un battito, come mi
succedeva da quando lo
avevo incontrato.
Ammisi
che lui era diventato lo
scopo della mia vita e che nessun’altro sarebbe stato capace
di farmi sentire
così dannatamente amata e protetta.
Così
al centro del mondo.
Un
debole dliin dal mio portatile
mi fece stare su dalla posizione supina che avevo assunto sul letto
ancora
fatto e mi fece avvicinare al computer.
Sulla
barra blu di Windows
brillava arancione la finestra ridotta ad icona di una conversazione
MSN.
Era
Jacob.
Mi
misi seduta a gambe incrociate
e poggiai il computer sulle cosce, aprendo la conversazione.
Aprii
la finestra e lessi quello
che il mio ex migliore amico mi aveva scritto.
Sarah
ti prego scusami :<
Ti
giuro che vorrei spiegarti ma
non posso.
Sono
preoccupato per te.
Io
emisi un rumore di
sufficienza, poi appoggiai le mani e iniziai a scrivere «cosa
intendi dire che non puoi
spiegarmi? Sei andato fuori di capoccia perché qualcuno ti
ha ipnotizzato? »
brontolai quello che scrissi,
con le sopracciglia aggrottate.
Un
altro dliin arrivò dopo pochi
minuti.
Un
giorno forse potrò raccontarti
tutto.
Ti
prego, davvero, stai lontana
dai Cullen.
Fallo
per me.
«Ah!
Assurdo! »
esclamai tra me e me, fissando
irata la finestra del programma.
Come
si permetteva?
Jasper
non mi aveva fatto nulla,
non aveva fatto come una certa persona –che aveva tentato di
rubarmi un bacio
nella cucina di casa mia–.
Senza
perdere troppo la testa,
scrissi un secco perché. Senza punto interrogativo, senza
lettera maiuscola all’inizio.
Jake
sapeva che voleva dire
quando non badavo all’ortografia: che ero semplicemente
troppo arrabbiata per
farlo.
Sono
pericolosi.
Due
parole che non mi avevano
spiegato poi molto.
Ma
Jacob stava continuando a
scrivere.
Senti,
domani vieni in spiaggia
qui a La Push.
Ti
racconterò tutto quello che so
su di loro.
Pace
nanetta? :<
Già
me lo immaginavo, con gli
occhioni sbrilluccicanti che aspettava speranzoso una mia risposta
positiva.
Io
sorrisi, addolcita da quella
visione.
Prendendo
un lungo respiro gli
scrissi che doveva togliersi dalla testa qualsiasi pensiero su di me e
su di
lui, che doveva promettere che non lo avrebbe fatto mai più
e che si sarebbe
guadagnato venti frustate.
Certo
Sarah, parola di lupetto,
capo scout! ^w^
Ma
riguardo ai pensieri, credo
che non potrò assicurare nulla.
Sono
stufo di fingere.
Rimasi
di stucco a quella frase.
Piacevo
a Jacob? Gli ero sempre
piaciuta? Oppure erano solo gli ormoni del ragazzo in crescita che
stavano
parlando?
Sospirai,
chiusi MSN senza
rispondere al mio amico e mi misi a dormire.
Appena
serrai gli occhi iniziò
uno di quelli che chiamavo dejà-vue: solitamente erano dei
sogni che spesso si
avveravano.
Mai
ci avevo dato troppo peso,
come le immaginazioni ad occhi aperti, ma quella notte fu abbastanza
vivida.
Eravamo
io e Jasper, nella foresta
di Forks, ed eravamo soli.
Non
c’era nessun ragazzo della
gita –la prima cosa a cui pensai– o insegnante.
Solo
noi due.
Lui
pareva combattuto, irato con
me e con se stesso e vedevo che stava realmente male.
Io
ridacchiavo, per una cosa che
lui mi aveva detto, ma non sembrava che fosse una battuta;
all’improvviso lui
sollevò un masso gigantesco e lo lanciò oltre la
mia testa, abbattendo un
albero come se fosse stato un birillo.
Il
rumore del crollo fu tanto
forte nei miei pensieri che mi svegliai di colpo.
Ridacchiai,
pensando che la mia
fantasia a volte non aveva limiti.
Il
giorno dopo pioveva e faceva
più freddo del solito.
Mi
vestii in modo molto pesante:
un maglione color panna, i jeans più spessi che riuscii a
trovare nel mio
armadio e i miei stivali da motociclista.
Presi
inoltre in prestito una
giacca imbottita dall’armadio di mia zia e un ombrello dal
portaombrelli
accanto all’uscita.
Non
seppi spiegarmi del tutto perché
Jacob aveva voluto che andassi fino alla spiaggia di La Push, forse per
spiegarmi
le cose che non poteva spiegare virtualmente, forse per riprovarci con
me.
Lo
avevo perdonato, ma da quel
momento rimasi diffidente verso di lui; dopotutto mi aveva detto che
non poteva
fingere, che era stufo.
Fingere
di essere mio amico.
Davvero aveva finto fino a quel momento?
Salii
sul mio Toyota e accesi il
motore, preparandomi per quel pomeriggio intenso.
Ringraziai
che fosse domenica e
che ebbi il tempo di dormire la mattina.
Il
nonno si era di nuovo dato
alla macchia –o meglio, alla bocciofila– e
così mi toccò per l’ennesima volta
preparare il pranzo sia per me che per lui.
Non
che mi dispiacesse, solo che
mi mancavano le mani fatate di mia zia Lindsay.
Imboccai
la strada per La Push e
mi ci diressi appena sotto il limite di velocità.
Volevo
che tutto finisse il prima
possibile.
Giunsi
alla spiaggia alle dieci e
mezza, e la giornata mi sembrava più cupa che mai «hey,
Sarah! »
mi chiamò Billy, quando ebbi
parcheggiato di fronte a casa Black «se
cerchi Jacob è giù in spiaggia»
aggiunse.
Io
sorrisi, annuendo e
salutandolo con la mano «quando
vedi tuo nonno salutamelo! ».
Rimasi
un attimo immobile,
guardando Billy rientrare in casa.
Non
lo aveva visto andare alla
bocciofila?
Mi
preoccupai, ma in quel momento
per la testa avevo solo Jacob e quello che aveva da dirmi.
Arrivai
alla spiaggia che le onde
salate e fredde si infrangevano sulla sabbia color ocra in grandi
cavalloni; lo
spettacolo era a dir poco apocalittico: il mare era agitato come non
mai, le
onde si infrangevano contro la scogliera, alzandosi alte e lasciando in
balia
del vento le piccole goccioline di schiuma.
Jacob
era appoggiato a un tronco spiaggiato
e mezzo sbiancato dal sale «sei
arrivata presto»
mi disse con un sorriso, a mo’ di saluto.
Io
mi avvicinai e gli tirai forte
una ciocca dei lunghi capelli «non
osare mai più fare una cosa simile»
gli dissi, irata «o
veramente ti arrivano venti
frustate».
Lui
ridacchiò, massaggiandosi la
cute offesa «ok
ok, va bene! Niente più avances»
mi disse «anche
se sarà dura»
aggiunse e la mia faccia divenne
una maschera di pietra.
Mi
sedetti vicino a lui, a
guardare le onde che si gettavano come impazzite contro la scogliera.
Il
vento poi tirava da nord ed
era molto freddo «allora,
sputa il rospo naso a patata»
dissi, senza staccare lo sguardo
dal mare.
Mi
metteva dentro rabbia e
tristezza al tempo stesso, quel mare agitato.
Jacob
si infilò le mani nelle
tasche e incassò per un attimo la testa nel colletto
dell’incerata scura «una
leggenda della nostra gente
parla dei Freddi, persone non proprio umane che vivono bevendo sangue.
Tu li
conoscerai come vampiri»
disse «Beh,
i Cullen non sono proprio differenti dai Freddi».
Silenzio,
interrotto dal mare
iroso.
Poi
non riuscii a trattenermi e
scoppiai in una risata fragorosa, così alta che per un
attimo non sentii più il
mare «tu
sei solamente geloso! »
esclamai guardandolo «ora
ho capito. Non sopporti che
io passi del tempo con Jasper e speri che questa tua grande rivelazione
mi
faccia allontanare da lui»
dissi guardandolo un po’ con astio «beh
mio caro, non ci sei
riuscito. Dovevi avere più fantasia. Sai cosa ti dico? Io
amo Jasper, con tutta
l’anima.
È
come uno di quegli scogli, per
me. C’è solo lui a difendermi dall’ira
del mare e anche se fosse veramente un vampiro,
come in quei racconti dell’orrore,
io non cambierei idea.
Parliamoci
chiaro Jake, io ti
piaccio. Ti piaccio da impazzire e non sopporti che a me tu non piaccia
in quel
senso.
Per
me resterai sempre il mio
migliore amico. Se non ti sta bene puoi anche cancellarmi dalla tua vita».
Non
gli lasciai il tempo di
aprire bocca. Semplicemente mi alzai e me ne andai, lasciandolo
lì nel vento a
mugugnare frasi sbocconcellate riguardo ai suoi sentimenti verso di me.
Raggiunsi
il pick-up e piansi,
tirando un debole pugno alla carrozzeria.
Non
seppi perché, in quel momento,
ma sentivo che era meglio farlo in quel momento.
Risposta
alle recensioni:
Sa chan:
cercherò di aggiornare
ogni volta che finisco un capitolo, tranquilla :3 anche io adoro Jazz,
è il
migliore e il suo passato è meraviglioso.
Norine: Ehe
già, Jacob è bleah
quando è in calore XD Sarah non ha le visioni, diciamo che
sogna il futuro in
delle specie di dejà-vue.
Nanerottola:
ohoh si scoprirà
abbastanza presto, tranquilla! :D
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Capitolo 7 *** Green forest ***
7.
Green
forest
Ritornai
a casa con gli occhi
gonfi e rossi.
La
tristezza che mi appesantiva
il petto faceva male e non ero completamente sicura che fosse colpa di
Jacob;
dopotutto lui aveva cercato di conquistarmi con gli unici mezzi che il
suo
stupido cervello mal funzionante gli avesse suggerito.
Quando
mi chiusi la porta
d’ingresso lanciai un urlo di rabbia, consona che non ci
fosse nessuno in casa
a quell’ora.
Mi
diressi verso camera mia e
sbattei la porta mentre la chiudevo dietro di me.
L’ira
dentro di me era cieca e
immotivata, ma mi sembrava palpabile come una cortina di fumo; guardai
furiosa
il cellulare lasciato sul materasso e vidi che c’erano tre
messaggi e un paio
di chiamate perse.
Tutte
di Bella.
Dovevo
chiamarla per aiutarla,
per sapere come stava e per assicurarmi che la rottura con Mike stesse
guarendo?
Perché
io?
Aveva
più amiche di me in quella
stupida cittadina piovosa, poteva benissimo andare da loro a piangere
ogni sua
lacrima.
Io
avevo già le mie e non avevo
nessuno a cui confidare quel dolore in mezzo al petto.
Non
avevo più Jacob, il vecchio e
solare Jacob, né avevo Jasper, il dolce Jasper sempre
preoccupato per me.
Il
cellulare squillò per
l’ennesima volta, quella giornata, ma questa volta riconobbi
il numero alla
prima occhiata; ed era un numero che non volevo vedere.
Mia
madre stava cercando di
contattarmi?
Dopo
quasi un mese
che me ne ero
andata di casa senza dire una parola? Strano, avevo pensato che
avrebbero
resistito di più senza la loro piccola cenerentola.
Non
risposi, ovviamente, ma
stetti a guardare lo schermo lampeggiare e mostrare la sfilza di numeri
che io
avevo imparato subito a riconoscere a memoria.
Mia
madre rinunciò a chiamarmi
dopo qualche squillo a vuoto.
Sospirai,
cercando di ricacciare
indietro le lacrime inutili e di riuscire a fare qualcosa per il giorno
successivo, il giorno della gita.
Avevo
già preparato una piccola
borsa con il blocco degli appunti e dei guanti in lattice usa e getta,
ma per
noia la ricontrollai una seconda volta.
Poi
mi alzai per scegliere i
vestiti più adatti per una scampagnata simile: jeans spessi,
maglione a collo alto color oro e giacca scamosciata, oltre che scarpe
da ginnastica con suola
antiscivolo.
Era
tutto pronto, non avevo nulla
da fare.
Non
trovai altra soluzione che
stendermi sul letto e osservare il soffitto mentre la giornata cambiava
colore,
da grigio pallido del pomeriggio coperto al nero della notte che
avanzava.
Esaminai
meglio la reazione di
poco prima: cosa mi aveva fatta arrabbiare così tanto?
Che
Jake stesse cercando di
allontanarmi da Jasper in ogni modo possibile?
Che
Billy mi avesse messo addosso
una paura del diavolo con quella frase?
Oppure
era semplicemente una
malattia che stavo covando?
Con
il tempo di Forks, poi, la
terza era la più probabile delle teorie.
Altre
lacrime scesero senza che
io sapessi perché.
Ero
arrabbiata con mia madre, con
mio padre, con tutti quelli che mi avevano obbligato ad andarmene da
casa mia,
che mi avevano costretta a lasciare tutto quello che conoscevo per
affrontare
una vita che non mi sembrava appartenere.
Stavo
sempre in casa, non uscivo
mai.
Forse
era quello il problema; la
mia psiche si stava ribellando a quella vita monotona che stavo
seguendo senza
accorgermene.
Mi
promisi che il giorno dopo,
appena tornata dalla gita scolastica, sarei andata a Port Angeles e
avrei fatto
un giro di vetrine.
Tanto
per tornare un attimo
all’adolescenza che mi stavo facendo sfuggire dalle mani.
La
mattina dopo svegliarsi fu
abbastanza facile, dato che non avevo dormito molto e quindi rialzarsi
dal
letto praticamente già fatto non fu un’impresa.
Mi
vestii come avevo programmato,
senza voglia e con il morale sotto i piedi; presi la borsa e mi diressi
al
piano inferiore, per prepararmi qualcosa prima di partire.
Nonno
Arthur era nella sua camera
a dormire, potevo sentirlo russare, e questo mi
tranquillizzò un pochino.
Preparai
un paio di panini con
prosciutto e pomodori, li avvolsi prima nella pellicola trasparente poi
nella
stagnola e infine li cacciai nella sacca a tracolla che avevo.
Non
mangiai niente però, per
paura di arrivare in ritardo: saremmo partiti con un piccolo autobus
dal
parcheggio della scuola almeno mezz’ora prima del solito
orario scolastico e se
qualcuno fosse arrivato in ritardo sarebbe rimasto
nell’edificio a seguire le
lezioni con le classi rimanenti.
E
quello per me non era
auspicabile.
Come
solito pioveva, ma non a
dirotto come solito; era una pioggerellina leggera, tanto per
umidificare l’aria
già satura.
Salii
sul pick-up e di nuovo la
strana rabbia del giorno prima mi prese alla gola, come se qualcuno
tentasse di
strozzarmi.
Stavo
ripensando a mia madre e a
mio padre, al motivo per cui ero scappata di casa. Non sarei mai
più tornata,
potevano scordarselo.
Non
dopo quello che mi avevano
fatto.
Accesi
il motore e mi immisi
nella strada per raggiungere la scuola; mentre stavo guidando riconobbi
dietro
di me la spider rossa fiammante e la jeep scura dei Cullen.
Mi
superarono entrambe molto
velocemente, senza segni di saluto o di avermi riconosciuta a bordo del
mio
Toyota.
La
mia rabbia passò dai genitori
a Jasper.
Si
era allontanato da me dopo
avermi offerto una panoramica del paradiso –e sapevo che il
paradiso odorava di
grano e girasoli– e mi evitava.
Non
mi sorrideva più in quel modo
dolce e rassicurante.
Non
mi guardava più con quegli
occhi liquidi e dorati che avevo imparato a riconoscere in mezzo a
miliardi di
altri occhi.
Con
un pensiero assurdo, sperai
in quel momento che lui potesse avvertire la pugnalata fredda dei miei
pensieri
nella schiena, o che almeno gli stessero fischiando le orecchie.
Arrivai
nel parcheggio che le
auto dei Cullen erano già nei loro soliti posti.
Io
parcheggiai il mio grosso
veicolo nel primo posto libero che trovai, scesi sbattendo forse
più del dovuto
la portiera e mi guardai attorno con astio.
Nessuno
quel giorno doveva
rivolgermi la parola, era uno di quei giorni in cui anche il
più affettuoso dei
saluti ti sembra un insulto.
Raggiunsi
il piccolo autobus
giallo, salutando con finto garbo il professore, e mi sedetti negli
ultimi
posti, vicino al finestrino.
Sarebbe
stata una lunga giornata.
In
effetti nessuno mi salutò
quella mattina –tranne Raven, ma il suo fu piuttosto un
accenno di capo condito
di una risatina– e mi andò bene così.
Mi
andò meno bene quando scesi e
Mike Newton si attaccò a me, come se mi conoscesse da una
vita; non gli parlai
per tutto il tempo della lezione. Rimasi muta e munita di guanti a
sbriciolare
nervosamente foglie di ortiche e di cicuta.
Non
stavo prendendo appunti e
sinceramente non me ne importava più di tanto in quel
momento.
Quando
sentii Newton parlare
riguardo alla festa di fine anno, io sbattei foglie e coltello sul
piccolo
tavolino da campo che stavamo dividendo e lo fulminai con lo sguardo «io
non intendo andare a quell’accidenti
di festa, tanto meno con te! »
esclamai, forse a voce un po’ troppo alta.
Tutti
si voltarono a guardarmi,
straniti.
Anche
Mike mi osservò come se
fossi matta «come
hai fatto a…»«Field,
c’è qualcosa che non va? »
lo interruppe il professore, avvicinandosi
al nostro tavolino.
Io
presi un profondo respiro e
disegnai a forza un sorriso cortese sulle mie labbra «no,
nessuno. Vado a prendere
altre foglie»
dissi e portandomi appresso il coltello –solo per il
puro gusto di tenere qualcosa in mano– diedi le spalle alla
classe e mi
inoltrai nella foresta.
Camminai
a lungo, senza cercare
nulla.
Mettevo
un piede davanti all’altro
per cancellare la rabbia che mi rodeva da dentro: in quel momento tutti
sembravano essersi messi d’accordo per farmi perdere le
staffe.
Bella
con il suo piccolo problema
di cuore, Mike Newton con quella sua mania di voler uscire con me,
Jacob e il
suo cambiamento radicale.
Jasper
e la sua indifferenza.
Era
quella che mi faceva più male
e capii che era quello il motivo della mia rabbia: era sfociata per non
lasciar uscire la tristezza.
Calciai
con poca forza un
ciottolo e mi sedetti sulla grande radice ricoperta di muschio di un
albero.
Era
tutto così verde e fresco in
quella foresta che mi metteva la voglia addosso di stendermi in mezzo
al
sottobosco a dormire.
Il
fruscio lieve delle foglie
mosse dal vento, i canti degli uccelli e i versi degli altri animali;
per un
momento fui in pace con me stessa e con il mondo che mi circondava.
Un
po’ come una pomata fresca su
una ferita che bruciava.
Un
po’ come il fazzoletto di
Jasper sulla ferita sanguinante.
Ecco,
mi diedi della stupida, stavo
pensando di nuovo a quel ragazzo freddo e maligno; freddo per la sua
indifferenza, maligno perché mi aveva portato a un passo
dalla felicità senza
concedermela.
Sentii
una mano fredda sulla
spalla, così dannatamente fredda, e mi alzai di scatto
girando su me stessa.
Come
se lo avessi chiamato, il
biondo ragazzo era in piedi dove prima io stavo seduta «mi
stavo preoccupando»
disse soltanto, con la sua voce
cadenzata.
Io
lo fissai, stringendo il
coltello nella destra, con un’espressione diffidente «per
prendere un paio di ortiche
ci stavi mettendo troppo»
aggiunse, sfoggiando ancora una volta il suo sorriso.
Ero
troppo arrabbiata, però, per
poter cedere come tempo prima a quella sfolgorante espressione «e
a te che importa se faccio una
brutta fine oppure no? »
gli chiesi, sputando quanto più veleno possibile.
Il
suo viso s’incupì «a
me importa molto»
disse scendendo con un balzo
agile dalla radice sollevata «per
questo sono stato lontano da te. È per questo che
sei arrabbiata».
Non
spiegai come sapesse tutto
quello che io non avevo detto a nessuno, quasi nemmeno a me stessa, ma
non
cedetti. Rimasi a guardarlo con faccia seria «fammi
indovinare, perché mi trovi strana e non vuoi
avere nulla a che fare con una a cui piace il proprio sangue. Ho notato
la tua
faccia a biologia, la volta scorsa»
dissi, dandogli le spalle per poter tornare indietro,
per scappare da lui e dal suo viso irresistibile.
Sentivo
dentro il mio cuore un
tumulto di emozioni che non sapevo spiegare: avevo paura, sudavo
freddo,
sentivo caldo, volevo colpirlo ma non volevo fargli del male.
Era
lo stesso nodo che mi si era
annodato in petto quando Jacob aveva tentato il suo
“delicato” approccio nella
cucina di casa mia, solo amplificato e ingigantito al massimo.
Mi
sembrava di morire.
Lui
fece qualche passo verso di
me «io
sono pericoloso. Ogni minuto che passi con me
rischi la vita e il tuo istinto te lo sta urlando anche adesso»
mi disse, rimanendo impassibile
e con il corpo teso.
La
mia mano stringeva sempre di
più il manico del coltello, così tanto che avevo
paura ne prendesse la forma
come con la plastilina «tu
sei in pericolo in questo momento»
aggiunse «e
io sto cercando in tutti i modi
per tenerti in salvo da me stesso. Ma non ci riesco. Non posso starti
lontano».
Jasper
si avvicinò a me di un
altro passo «so
che hai capito che sono diverso, che la mia
famiglia è diversa…»
e lo sentii fermarsi appena dietro la mia schiena.
Non
mi stava toccando né sentivo
che le sue mani si stessero avvicinando.
In
effetti mi erano sempre
sembrati strani, ma belli, i Cullen.
Mi
venne di nuovo in mente il
ruscello con le pietre e le piccole foglie galleggianti, e
improvvisamente
ricollegai tutto quanto.
La
pelle pallida, le occhiaie
scure, Jacob e le sue scempiaggini sui vampiri.
Il
tocco fresco e delicato e i
sudori freddi che provavo in quel momento.
Dejà-vue.
Mi
voltai ridacchiando e il suo
volto era esattamente come lo avevo sognato, indeciso e sofferente «siii
certo, tu sei un vampiro.
Esci di giorno e frequenti una normale scuola superiore dove una volta
hai
anche assaggiato quella schifosa tartina di carne e aglio. Qualcuno mi
salvi,
Jasper Cullen è un vampiro»
e risi.
Risi
per isteria e per il tono
che la mia voce aveva assunto; allora erano tutti in combutta contro di
me per
impedirmi di essere felice! Ora si era spiegato tutto.
Il
ragazzo non fu rise, non
accennò nemmeno a un sorriso.
Mi
guardò mordendosi il labbro e
guardando attorno a sé; sembrava cercasse qualcosa.
Poi
vidi i suoi occhi dorati
fissarsi sul grande masso alla nostra sinistra, probabilmente franato
dalla
montagna sopra di noi. Quasi si materializzò vicino ad esso
–e io non lo avevo
visto muovere un passo– e si chinò sulle ginocchia
per tirarlo su «ma
sei pazzo ti spaccherai la
schiena! »
esclamai, spegnendo la risata quasi istantaneamente.
Ricordavo
bene il sogno che avevo
fatto, come ogni sogno vivido che facevo, ma pensavo che quello che
avevo visto
fosse stato un eccesso della mia fantasia.
Invece
Jasper si caricò sulle
spalle quei quintali di roccia come se stesse tirando su appena qualche
chilo e
mi guardò con una faccia strana, a metà tra il
divertito e il distrutto.
Come
se avesse lanciato un
pallone da calcio, poi, scaraventò il masso sopra la mia
testa e abbatté un
piccolo albero dietro di me.
Io
ero rimasta senza parole,
completamente; non riuscivo a ingranare nella mia mente
perché, tutto quel che
stava accadendo, non mi mettevo a correre gridando aiuto.
Jasper
mi guardò ancora, questa
volta angosciato «per
questo capisci che potrei ucciderti anche solo con
un dito? Non posso sopportare l’idea di farti del
male…per non parlare della
sete…»«sete?
».
Il
biondo vampiro annuì «il
tuo sangue mi attira più di
qualsiasi altra cosa. Posso dissetarmi di animali per giornate intere,
ma
appena sento l’odore del tuo sangue perdo il controllo».
Mi
spiegò che tutta la sua
famiglia era composta di vampiri e che loro erano diversi dai vampiri
normali –che
di solito si cibavano di sangue umano–.
Loro
erano come vegetariani,
bevevano solo il sangue degli animali che cacciavano in quelle foreste «sei
troppo preziosa per me per
lasciarmi andare a questo egoismo istintivo di noi vampiri. Non penso
altro che
a te, giorno e notte, non riesco a togliermi dai polmoni il tuo profumo
e
quello del tuo sangue. Quando poi hai fatto quella
cosa a biologia, mi sono sentito morire».
In
quel momento, però, non
sentivo paura. Jasper stava sparando così tanti complimenti
a raffica che io non
riuscivo nemmeno a respirare.
Arrossivo
e basta.
Magari
avrei ripreso a respirare
quando sarei svenuta per mancanza d’aria «sei
una droga, capisci? Sei una droga alla quale io
non posso né voglio resistere»
si avvicinò ancora un po’ e io potei vedere di
nuovo
quella piccola cicatrice bianca sulla sua mascella.
Non
era sola, però.
Sembrava
che assieme ad essa ce
ne fossero altre, soprattutto dal collo e una piccola, quasi invisibile
linea
argentea sopra il sopracciglio sinistro.
Alzò
una mano e delicatamente
strofinò il dorso di essa sulla mia guancia «quando
arrossisci, poi, oltre a essere più carina
diventi anche più appetitosa».
Io
mi allontanai, guardandolo con
sospetto, anche se dentro stavo bruciando in una maniera assurda «chi
mi dice che quel masso non l’hai
messo tu? Poteva esser fatto di polistirolo. Io non mi faccio ingannare
da
certi trucchetti»
dissi, anche se non ne ero convinta del tutto.
Perché
avrebbe dovuto prendermi
in giro a quel modo?
Improvvisamente
lui sorrise,
allargando le braccia «vuoi
provare con quel coltello? Quello è vero»
ridacchiò.
Io
lo guardai con un paio di
occhi che sembravano uova fritte «ma
sei pazzo? »
urlai, nascondendo il coltello dietro la schiena.
Con
un fruscio lui mi fu
improvvisamente dietro «avanti,
non mi farai nulla».
Non
ne ero convinta e stavo
ancora cercando di capire come facesse a muoversi così in
fretta: che trucchi
stava usando? Aveva un fratello gemello?
Io
guardai la lama appuntita del
coltello, poi osservai Jasper aprirsi un poco la camicia, rivelando il
fisico
bianco e perfetto.
Una
statua di marmo «al
massimo sfogherai la tua
rabbia uccidendomi»
ridacchiò ancora.
Io
sbuffai, senza però muovere la
punta dell’improvvisata arma verso il suo petto. Stavo
arrossendo per la
visione che avevo davanti e se non fosse stato abbastanza freddo sarei
svenuta
per le elevate temperature che stava raggiungendo il mio sangue.
Improvvisamente
una rabbia a me
estranea mi colse e io quasi non ci vidi più: alzai il
coltello e fui convinta
di piantarlo nel suo petto, con miriade di gocce di sangue caldo che
sprizzavano a destra e a sinistra.
Invece
la punta della lama slittò
sulla sua pelle, come se avessi colpito una roccia, e si
piegò a ricciolo; la
pelle di Jasper non presentò un solo graffio «questa
è la corazza di un omicida»
disse, intristito e guardandosi
il petto.
Fece
una smorfia disgustata a
qualcosa che io non riuscivo –o non ne ero capace, in quel
momento– a vedere.
Io
guardai la lama piegata e poi
guardai il suo viso. Era angosciato come mai, sembrava un quadro antico
che il
pittore avrebbe intitolato “lotta interiore” «sai
una cosa? »
gli dissi, buttando via il coltello nel sottobosco «a
me non da fastidio»«ora
sei tu ad essere pazza»
e scosse la testa.
Io
gli sorrisi e un fiotto caldo
nel cuore mi riempì completamente, dalla testa ai piedi.
Mi
sembrava di volare almeno
quindici centimetri sopra il suolo «non
hai paura di me? »
mi chiese il biondo vampiro «non
hai paura che entri una notte
in camera tua e ti morda, succhiandoti via ogni alito di vita? ».
Cercai
di immaginarmi la scena,
ma non mi sembrò poi così spaventosa; soprattutto
perché io, mentre lui
affondava i denti nel mio collo, lo stavo spogliando.
Jasper
avvertì il calore e l’emozione
che stavo provando «ripeto,
tu sei una pazza suicida»
mi disse, regalandomi però uno
dei suoi ammalianti e caldi sorrisi.
Richiuse
i due bottoni della
camicia mentre io parlavo «sarò
pure una pazza suicida, ma anche tu sei una
droga, quasi quanto io lo sono per te».
Con
questa frase lasciammo la
foresta, per ritornare alla nostra lezione, più leggeri
entrambi: io dalle mie
preoccupazioni e Jasper dal loro riflesso.
«Ah,
comunque
sono Jasper Hale» puntualizzò lui, dopo qualche
secondo.
Io risi felice, ma non mi lanciai ad abbracciarlo come avrei voluto.
Sentivo
che era ancora troppo presto.
Risposta
alle recensioni:
Norine: Tutto
spiegato da lui
stesso, quel drogato XD In effetti Sarah è (sono) un pochino
strana, ma è fatta
così! Poi si sfrutterà la cosa per alcuni
capitoli rossi che metterò un po’
più avanti hihi
Nanerottola:
Eccolo qui, vivo e
vegeto *coff* beh più o meno XD Team Jasper? HALE, yes!
|
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Capitolo 8 *** Port Angeles ***
8.
Port
Angeles
Il
resto
della lezione lo dovetti passare accanto a Mike Newton.
Mi
scusai con
lui per la mia reazione e lui si sciolse in un mare di giuggiole,
assicurandomi
che forse mi aveva stressato troppo.
Nonostante
non mi avesse mai chiesto di andare al ballo con lui.
Io
rimasi un
tantino scioccata, ma non lo diedi a vedere; solo Jasper lo aveva
notato e con
il potere di cui mi aveva parlato durante il ritorno verso la classe
tentò di
tranquillizzarmi.
Io
feci come
quella volta in macchina, lo respinsi dolcemente e con uno sguardo gli
feci
capire che non ce n’era bisogno.
Raven,
vicina
al fratello, ridacchiò e guardò entrambi
–prima me, poi il fratello– con una
faccia tra l’intenerita e la maliziosa.
Non
ero più sola, finalmente, lo
potevo avvertire dal sorriso ora sempre presente, seppur invisibile,
sulle
labbra del biondo vampiro.
Notai
con la coda dell’occhio che
Jasper non stesse sbriciolando le foglie che il professore aveva
consegnato
assieme a una particolare soluzione salina, ma le stava letteralmente
triturando.
Non
stava guardando il suo
lavoro, ma stava guardando me; i suoi occhi dorati erano incollati sul
mio
volto, o forse sul mio collo.
Ora
che sapevo che lo attraevo
sia fisicamente che sentimentalmente, molte cose che aveva fatto mi si
erano
spiegate.
Mi
vergognai come una ladra,
ripensando a quando era arrivato a salvarmi da Jacob, per
così dire: doveva
aver sentito ogni mio ago di dolore, doveva aver scandagliato
minuziosamente
quel nodo che sentivo in petto.
E
doveva aver provato sulla
propria pelle l’adrenalina che avevo avvertito io parecchie
volte in sua
presenza.
Finalmente
la giornata finì e
mentre mi andavo a sedere negli ultimi sedili dell’autobus,
una mano fredda che
avevo imparato a riconoscere subito mi si posò sulla spalla
e mi spinse verso
un gruppo di sedili sulla destra.
Mi
sedetti vicino al finestrino,
come sempre avevo adorato fare, e Jasper vicino a me.
Davanti
avevamo Rosalie con
Emmett e di fianco c’erano Edward e Raven.
Da
quando avevo saputo che anche
loro erano vampiri, mi sembrava di avere attorno quattro muri
invisibili,
pronti a proteggermi sia da pericoli esterni, sia da Jasper «non
far caso a loro»
mi sussurrò il vampiro all’orecchio,
chinandosi leggermente verso di me «soprattutto
a Edward. Quando sei con lui, non pensare a cose private»
aggiunse e il fratello si voltò.
Forse
si era sentito in chiamato
in causa, forse anche lui aveva un potere simile a quello di Jasper. Il
biondo
ridacchiò e subito dopo Edward sbuffò contrariato
«un
giorno ti spiegherò un po’ più
di cose. Per oggi non volevi andare a Port Angeles? »
mi chiese e io mi voltai a
guardarlo.
Dovevo
abituarmi in fretta al suo
viso perfetto e a quell’espressione solare che lo illuminava
completamente «tu
leggevi solo le emozioni o
sbaglio? »
«ma
tu parli nel sonno, cara».
Lo
guardai con le sopracciglia aggrottate,
cercando di combattere i due sentimenti che mi stavano nascendo dentro:
l’enorme
imbarazzo positivo in quanto lui mi avesse chiamata cara, e il
gigantesco
imbarazzo negativo riguardo alla prima parte della sua frase «tu
sei stato a guardarmi…la
notte? »
chiesi e lui annuì, senza eliminare quel sorriso
ammaliatore «ma
sei uno stalker! »
esclamai.
Tutti
i Cullen risero e io avrei
voluto seppellirmi, ma la sua risata, argentina e rassicurante, mi
tranquillizzò senza bisogno del suo potere.
Mi
sarei abituata presto alla sua
presenza.
Arrivati
nel parcheggio salutai
tutti e montai sul mio pick-up, convinta che lo avrei rivisto
l’indomani
mattina a scuola; o almeno fu così finché non lo
vidi aprirmi la portiera del
passeggero della mia macchina e indicarmi il sedile «e
questo cosa vorrebbe dire? »
domandai, nascondendo la mia
sorpresa dietro una facciata arrabbiata «secondo
te ti ho rivelato il più grande segreto della
mia vita solo per lasciarti andare via con un semplice ciao? Ti
accompagno a
Port Angeles»
disse, con mezzo sorriso e con il sopracciglio alzato
a cui non avrei mai resistito nemmeno se ci avessi provato.
Salii
dalla parte del passeggero
e infilai le chiavi nel quadro, poi aspettai –non che ci
volle molto– che
Jasper salisse sulla Toyota «mmm,
comoda»
disse, una volta seduto.
Io
soffocai una risata e guardai
fuori dal finestrino la jeep scura e la spider rossa allontanarsi e
sparire
nella direzione opposta alla nostra.
Lui
accese il motore e con
non-chalance fece inversione per uscire dal parcheggio.
Per
arrivare fino a Port Angeles
non ci mettemmo molto e una volta arrivati feci posteggiare Jasper nel
parcheggio del centro commerciale.
Lui
mi guardò con un’espressione
indecifrabile, forse perché si era reso conto che
sicuramente sarei stata molto
tempo a osservare le vetrine –e se mi riusciva avrei anche
comprato qualcosa–.
Io
risi e scesi dalla macchina «sei
un vampiro indistruttibile
no? Resisterai a qualche minuto di shopping insieme alla tua ragazza»
dissi felice e Jasper scrollò la
testa «io
ho per caso detto che sei la mia ragazza? ».
Sperai
che stesse scherzando, perché
mi voltai con una faccia che era tutta un programma; ma sapevo che mi
stava
prendendo in giro e lui l’aveva letto nelle mie emozioni «sei
la mia droga, te l’ho già
detto. Di una ragazza posso farne anche a meno, della mia polverina
bianca no»
e si avvicinò abbracciandomi la
vita per un braccio.
Doveva
avere veramente un
contegno eccezionale, se arrivava a starmi così vicino senza
soccombere all’odore
del mio sangue.
Rabbrividii
per il contatto
diretto con il suo corpo freddo, ma non mi staccai; iniziai a camminare
verso
il centro commerciale «almeno
mi permetterai di pagarti una cena, dopo»
mi disse lui «è
un secolo che non ne ho
bisogno, ma mi ricordo ancora che voi piccoli e fragili umani avete
bisogno di
mangiare»
e detto questo mi scompigliò i capelli corti e scuri.
Io
alzai le spalle «se
proprio ci tieni possiamo fare
un salto da McDonald e prendere qualcosa di veloce»
«no,
no. Io intendo una cena vera in un ristorante».
Rimasi
colpita, ma lui non diede
segni di cedimento. Volle a tutti i costi portarmi nel più
lussuoso ristorante
di Port Angeles.
Passammo
–o meglio, passai– tutta
la sera a scegliere un vestito che avrei poi indossato a quella specie
di primo
appuntamento e Jasper non fu molto d’aiuto: ad ogni abito che
provavo –che fossero
jeans e camicetta o un vestito di Christian Dior– lui mi
assicurava che ero la
bellezza fatta persona.
Alla
fine non comprai nulla.
Se
per lui andavo bene con
maglione e pantaloni, mi avrebbe avuta così per il resto
della serata.
Una
arrivati nel ristorante il
biondo vampiro pagò anticipatamente e mi guidò
fino a un tavolo per due, in
fondo alla sala e vicino alle finestre.
Quella
specie di tavola calda per
ricchi era a pochi passi dal molo della città e attraverso
il vetro pulito
potei vedere il mare illuminato da una luna sempre velata dalle nuvole «spero
sia di tuo gradimento»
mi disse Jasper con un’espressione
soddisfatta.
Il
mio sguardo vagò sulle tende
di ottima fattura, dai tavoli di legno lucidato a specchio fino alle
sedie
dello stesso identico colore, con il tessuto copricuscino in
abbinamento al colore
predominante del locale.
Ovvero
un delicato giallo ocra.
Io
lo guardai stupita che fosse
così tranquillo in posto di lusso come quello, ma poi mi
ricordai che aveva ben
più degli anni che dimostrava e che, probabilmente, posti
così ne aveva visti a
bizzeffe «è
meraviglioso…grazie»
borbottai, prendendo fuoco.
Lui
si chinò in avanti e mi fece
segno di avvicinarmi con un paio di dita.
Io
gli obbedii, come se avesse
collegato il mio viso alla sua mano con un filo invisibile, e mi portai
in
avanti sul tavolo «se
non la smetti di arrossire rischio veramente di
saltarti addosso, se non per morderti almeno per lasciarti un bacetto
sul collo»
mi sussurrò con il suo ormai
famoso sopracciglio alzato.
Io
mi tirai indietro di scatto,
guardandolo offesa, ma lui mi ridacchiò contro e si
appoggiò alla sedia con
galanteria.
Tutto
di lui mi aveva suggerito
che non era proprio contemporaneo e ora che sapevo la
verità, provai a
immaginarmelo in un luogo diverso, sia del tempo che dello spazio.
Sicuramente
nel sud degli Stati Uniti, a sentire dal suo accento meridionale.
La
serata passò piacevolmente,
con Jasper che un po’ rispondeva alle mie domande e un
po’ me ne faceva. Fu una
serata divertente da una parte, soprattutto quando lui mi chiese se mai
avessi
avuto paura di qualcosa «certo!
»
gli dissi «ho
paura delle altezze».
Lui
si era messo a ridere,
cincischiando su quanto fossi strana «non
hai paura di me, ma hai paura di fare un paio di
metri lontana dal terreno».
Gli
spiegai che non c’era niente
di spaventoso in lui e che avevo sofferto le pene
dell’inferno per giungere a
Forks in aereo.
Fu
una serata interessante dall’altra,
quando chiesi a Jasper perché mangiava se non ne aveva
bisogno «beh,
devo pur fingere di essere
vivo o no? »
mi rispose, afferrando una forchettata di spaghetti
all’amatriciana e divorandola in un secondo «visto?
»
mi disse, dopo aver ingoiato senza alcuna fatica «il
tuo corpo per funzionare ha
bisogno di vitamine e sali minerali, giusto? Non
c’è nessuna differenza se li
assumi attraverso un piatto di pasta o delle pasticche. Per noi le
pasticche
sono i tuoi piatti di pasta»
e detto ciò aveva divorato un’altra forchettata di
spaghetti.
Il
discorso sangue volò alto
sulla nostra conversazione, ma rimase sempre nelle nostre teste.
Alla
fine, quando ebbi la pancia
e la testa stracolmi, decisi che era meglio ritornare a casa, prima che
qualcuno
notasse la mia assenza «è
meglio che guidi io anche questa volta»
mi disse Jasper «mi
sembri troppo assonnata per
guidare».
In
effetti, con lo stomaco pieno
di lasagne, pasta, vini pregiati e torta paradiso avevo iniziato a
sentire una
leggera sonnolenza.
Jasper
salutò garbato il capo
cameriere, lasciandogli una bella mancia, e mi accompagnò
alla macchina.
L’aria
in strada era frizzante e
dall’odore premoniva pioggia; salii in auto con uno sbuffo
stanco «è
stata proprio una bella serata»
dissi tra me e me, mentre Jasper
sedeva al posto di guida.
Il
mio cuore aveva trovato
finalmente un po’ di pace da tutta la confusione che aveva
provato fino a quel
momento e inconsciamente ringraziai il vampiro accanto a me.
Se
non fosse mai esistito, io non
avrei potuto vivere.
Risposte
ai commenti:
Norine: Sarah
durante la
discussione lo chiama Jasper Cullen, così lui la riprende,
dicendole che si chiama
Jasper Hale, non Cullen.
Sa chan:
visto? Non ti ho delusa
anche stavolta XD Tempo record e capitolo lunghino e romantico. Il
primo di una
lunga serie si spera :3
|
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Capitolo 9 *** Nightmare ***
9.
Nightmare
Mi
svegliai nel mio letto, con
Jasper accanto a me.
Dovevo
essermi addormentata in
macchina, ma feci fatica a capire che lui mi aveva portato in braccio
fino in
camera mia «buongiorno
principina…o dovrei dire buonasera? »
mi disse lui, alzando una mano e
accarezzandomi il volto con un paio di dita ghiacciate.
Non
mi diedero fastidio, ma lo
stesso allontanai il viso per potermi stropicciare gli occhi.
Come
d’abitudine i miei occhi
corsero verso la sveglia sul comodino e scattai a sedere quando vidi
che erano
le due del mattino «eh
si, hai dormito per un po’»
aggiunse il vampiro biondo,
ridacchiando.
Feci
un paio di calcoli e lo
guardai «sei
stato qui tutta la sera? »
chiesi e lui annuì, facendo
dondolare per un attimo le sue ciocche scarmigliate «tranne
quando è ritornato tuo
nonno. È venuto a controllare se eri qui e mi sono fatto un
attimo un giro
nella foresta qui vicino».
Io
ridacchiai e automaticamente
tesi l’orecchio per sentire se nonno Arthur stesse dormendo «è
andato a letto un paio di ore
fa e adesso è completamente nella fase rem»
mi rassicurò, posandomi le mani delicatamente sulle
spalle e spingendomi verso il materasso «cosa
che dovresti fare anche tu»
«no
ti prego solo cinque minuti! Hai fatto qualcosa
d’interessante
mentre mio nonno faceva l’impiccione? »
ridacchiai stendendomi ma tenendogli i polsi.
Sapevo
che era inutile –si
sarebbe liberato anche un ragazzo qualsiasi dalla mia presa di
burro– ma avere
almeno un contatto fisico con lui mi faceva stare meglio «beh,
ho cacciato un paio di cervi,
ma credo che tra qualche giorno dovrò andare di nuovo con
Emmett ed Edward per
prendere almeno qualche orso»
disse, guardando fuori dalla finestra.
C’era
qualcosa che mi nascondeva,
lo sentivo e lo vedevo nei suoi occhi limpidi e dorati, ma ero troppo
stanca e
assonnata –o almeno, mi sentivo assonnata e per un momento
sospettai di Jasper–
per indagare.
Mi
promisi che l’avrei fatto il
prima possibile.
Chiusi
gli occhi, abbandonandomi
contro il materasso; avvertii il peso di Jasper spostarsi e sentii una
sua mano
accarezzarmi la guancia.
Poi
sentii il suo respiro freddo
sulla fronte.
Un
attimo dopo fui già immersa
nei miei soliti e strani sogni.
Ero
nella foresta che circondava
Forks, ma potevo sentire il rumore del mare, scrosciante come quando si
sta
avvicinando una tempesta.
Sapevo
che si trattava di un
sogno vivido, ma lasciai comunque che i fatti si svolgessero come
avrebbe
voluto fare la mia mente.
Mi
mossi, camminando in mezzo
alle felci e agli alberi, scavalcando quelli caduti ed evitando buche.
Improvvisamente
il rumore del
mare sembrò investirmi come un’onda e un ringhio
animalesco mi sorprese alle
spalle: dietro di me c’era un lupo, un enorme lupo dalla
pelliccia rossastra.
Sembrava
grande come un orso e i
denti scoperti ammiccavano nell’improvviso buio che era sceso.
L’animale
mi superò con un solo
balzo e atterrò vicino a quello che mi parve un cadavere in
posizione prona «quando
vedi tuo nonno salutamelo!»
sentii una voce espandersi per
tutta la foresta, prendendo diverse sfumature.
All’inizio
aveva il timbro vocale
di Billy, rauco e serio, poi la voce mutò per diventare
quella di Mike Newton,
quella di Jasper, quella di Jacob e infine assunse un tono che io non
avevo mai
sentito.
Era
una voce maschile, fredda e
pericolosa.
Un
urlo esplose nel silenzio che
la voce minacciosa aveva creato e sentii le mie mani umide e calde.
Scoprii
che l’urlo era proprio il
mio quando abbassai lo sguardo sul fiume di sangue che mi scorreva sui
palmi.
Il
lupo era seduto accanto al
cadavere dall’incerata blu e stava ululando, sovrastando per
un attimo il mio
pianto e l’angoscia che provavo.
Dal
buio della foresta emerse una
figura grande, minacciosa e da cui potevo veder dipanarsi tentacoli di
violenza, pulsanti.
I
suoi occhi rossi come il sangue
mi stavano scrutando.
Passò
un mese da quel sogno e
quasi me ne dimenticai.
Avevo
altro a cui pensare: il
ballo di fine anno che si avvicinava –e ringraziai il cielo
che Jasper non mi
avesse chiesto di andarci con lui, perché sarei diventata
pericolosa–, la media
scolastica che stava iniziando a calare e soprattutto
l’avvicinarsi di una data
per me importante.
Il
compleanno di Jacob.
Io
e lui ci eravamo rivisti
saltuariamente dopo quella specie di litigata che avevamo fatto e tutto
sembrava ritornato come prima, solo un po’ più
distaccato.
Parlavamo
sempre, non che ci
fossimo completamente dimenticati dei bei vecchi tempi, ma
c’era qualcosa in me
e in lui che non s’incastrava come doveva.
Forse
perché sentivo che Jacob
era cambiato; che Jake fosse un altro.
Avevo
pensato quindi, per una
perfetta e totale riappacificazione, di organizzargli una festa con i
fiocchi.
Quindi
mi ero messa d’accordo con
i suoi amici Quil ed Embry e avevo fatto di tutto per avere il sostegno
del
piccolo Seth e di sua sorella Leah.
Tutto
era a posto, mi sentivo
piena di energie e allegra come non mai, forse per il fatto che il mio
ragazzo
fosse un vampiro e che fosse dannatamente romantico.
Nonno
Arthur sembrava che avesse
ripreso un po’ di mobilità delle mani a furia di
giocare a bocce e la zia Lind
era ritornata a casa dopo aver spennato l’ennesimo marito.
Stavo
bene, tutto era
assolutamente perfetto.
Mancava
solo quel piccolo
particolare tra me e Jacob.
Stavo
scendendo per la centesima
volta dalla scaletta per prendere altri festoni quando Quil
entrò di corsa nel
garage dove di solito Jacob passava tutto il suo tempo libero.
Avevamo
pulito il pavimento,
sistemato il banco con tutti gli attrezzi e appoggiato la moto mezza
costruita
contro il muro in fondo.
Al
centro avevo messo, con molta
fatica, un mega Twister che avevo comprato anni addietro e che quella
sera
avremmo usato come specie di tappeto; alle pareti avevamo messo strisce
di
carta tagliuzzata in modo da sembrare dei festoni e in quel momento mi
stavo
apprestando a collegarli tutti con un immenso nodo alla palla
stroboscopica che
avevo costruito il giorno prima con carta pesta e pezzetti di vetro
recuperati
da Seth ed Embry «sta
arrivando! »
esclamò Quil, sbracciandosi.
Io
mi affrettai a stringere il
nodo e delicatamente spinsi la palla in modo che girasse su se stessa.
In
lontananza potevo sentire Leah
borbottare riguardo a una stupida parte della macchina di suo padre che
non
andava –che andava ovviamente sostituita
immediatamente–.
In
quei pochi secondi che mi
rimasero mi accertai che tutto fosse pronto, poi feci segno a Seth di
spegnere
le luci.
Rimanemmo
così nel completo buio «credi
che gli piacerà? »
mi sussurrò Seth, rimasto di
fianco a me.
Io
borbottai un basso “si” poi
stetti a vedere come la porta del garage si alzava sotto la spinta
della mano
di Jacob.
La
fessura si allargò, lasciando
entrare la luce del lampione davanti alla bassa casa; velocemente e in
silenzio
mi diressi verso l’interruttore dei piccoli faretti che avevo
collegato e
puntato verso la palla stroboscopica.
Io
e Seth, su segno di Embry, accendemmo
tutte le luce, al grido di «BUON
COMPLEANNO!».
La
faccia di Jake ritornò come
quella di un tempo: un po’ scemotta e tanto allegra «siete
proprio dei furbacchioni! »
urlò lui di rimando.
Guardò
tutti, i suoi amici e
Leah, ma i suoi occhi scuri si puntarono principalmente su di me «sei
tu la mente criminale vero? »
domandò, nonostante sapesse già
la risposta, e mi abbracciò.
Un
abbraccio sincero e caldo –troppo
caldo per il mio corpo ormai abituato alla temperatura di
Jasper– ma che mi
seppe di amico.
Come
una volta.
Passammo
la sera a ridere,
scherzare e servirci di alcuni alcolici che Leah era riuscita a trovare
“da
qualche parte”; mi divertii soprattutto quando Quil decise di
sfruttare il
tappetino del Twister assieme a Jacob ed Embry.
Vederli
intrecciati come dei
serpenti mentre cercavano di buttarsi giù a vicenda fu
veramente uno spasso:
Jacob sparava accidenti a destra e a manca, mentre Embry non riusciva
bene a
coordinare i movimenti –forse perché era
già un po’ alticcio– e Quil cercava a
tutti i costi di barare.
Non
ridevo così di cuore da una
vita, mi dissi e sperai che tutto tornasse a posto, in quel quadro
idilliaco
che si stava dipingendo da solo.
Mancava
solo quello per rendermi
veramente felice.
La
festa finì verso mezzanotte e,
dopo aver dato a Jacob il nostro regalo in comune –in
mancanza di soldi avevamo
fatto colletta e gli avevamo comprato un casco nuovo di zecca, lucido e
arzigogolato come piacevano a lui–, mi diressi verso il mio
pick-up.
Billy
mi salutò e, venendomi
incontro mi squadrò da capo a piedi «saluta
tuo nonno da parte mia quando lo vedi a casa,
va bene? »
mi chiese «oggi
non si è visto alla bocciofila».
Quella
frase mi parve stranamente
familiare, ma non ci feci molto caso «certo,
signor Black ci può contare»
dissi sorridente.
Non
vedevo l’ora di tornare a
casa, certa che Jasper sarebbe stato in camera mia ad accogliermi a
braccia
aperte.
Non
lo vedevo da una settimana
intera –mi aveva detto che lui e la sua famiglia sarebbero
andati in “campeggio”
per rifornirsi un po’ ma che sarebbe tornato
presto– e speravo con tutto il
cuore di poterlo rivedere quella sera.
Salii
sul pick-up e accesi il
motore, ma un rumore proveniente dal cofano mi fece tirare su la testa:
l’enorme
lupo che avevo sognato era sulla mia macchina e stava saltando
giù per correre
verso la foresta.
Rimasi
scioccata, con le chiavi a
qualche centimetro dal quadro nel cruscotto.
Doveva
essere un’allucinazione
dovuta alla stanchezza, sicuramente.
Non
dovevo darci peso, presto
sarei tornata a casa e mi sarei messa a dormire e tutto sarebbe andato
bene…o
almeno il mio cervello cercava di convincermi utilizzando la sua logica
ineluttabile.
E
invece scesi dalla macchina,
spinta dall’istinto e da qualcos’altro; mi sembrava
di aver già vissuto quel
momento, come i soliti dejà-vue che avevo da un
po’ di tempo a quella parte.
Dalla
frase di Billy, all’animale
enorme che aveva scavalcato la mia auto.
Mi
immersi nella foresta,
sentendo il mare alla mia destra che infuriava contro la spiaggia di La
Push, e
corsi.
Non
seppi principalmente perché fossi
così agitata, ma corsi con tutto il fiato che avevo verso
una meta che mi era
sconosciuta.
Muovevo
i piedi e basta,
guardandomi in giro per trovare qualche traccia di
quell’enorme lupo.
All’improvviso
sentii un ululato
lungo e cacofonico provenire dalla mia sinistra; mi bloccai a prendere
respiro
mentre mi appoggiavo a un albero e osservavo dei cespugli senza
veramente
vederli.
All’improvviso
sentii quella
sensazione di umidiccio alla mano posata sulla corteccia del pino: mi
si bloccò
il fiato in gola quando vidi la mia pelle macchiata del liquido rosso
tanto
bramato dal mio ragazzo ma tanto temuto al tempo stesso.
Sangue.
In
quel punto l’albero era
ricoperto di sangue in una maniera assurda, come se ce
l’avessero spruzzato
sopra con un nebulizzatore.
Abbassai
gli occhi, guardando nei
piccoli spiragli di luce che il soffitto di foglie lasciava entrare:
foglie,
terriccio, tronchi d’albero e rocce erano ricoperte di sangue.
E
non ci misi poco tempo a
ritrovare il cadavere del mio sogno: aveva la stessa incerata blu, i
pantaloni
di flanella e le scarpe texane che avevo sempre visto vicino alla porta
di
casa.
Non
riuscii ad avvicinarmi.
Rimasi
in piedi lì a guardare il
corpo di mio nonno giacere in mezzo alle felci spruzzate di liquido
scuro e
denso.
Lo
stomaco mi si era chiuso
totalmente e le gambe avevano iniziato a tremare.
I
momenti dopo furono confusi,
come ovattati.
Avevo
visto il volto di Jacob,
avevo sentito la sua voce dirmi di stare sveglia, avevo sentito le mie
gambe
cedere e i miei piedi staccarsi dal terreno.
Vidi
alcune stelle attraverso gli
squarci delle nuvole sopra la foresta, vidi le chiome diradarsi e
chiudersi a
ritmo col vento che veniva dal mare.
Sentii
sirene della polizia, dell’ambulanza,
il vociare delle persone.
Io
rimanevo inebetita, come una
bambola rotta, in braccio a Jake; mi stava riportando dal mio pick-up e
sapevo
che mi avrebbe riportata a casa.
Ma
in quel momento io stavo
rivivendo il mio incubo ancora e ancora, nella mia testa.
Io
volevo svegliarmi, ma l’incubo
era la realtà ed ero già sveglia.
Risposte
alle recensioni:
Sa chan:
Alice l’ho mandata un
attimo in pensione a fare shopping sfrenato hihi! No Bella non
è mai stata con
Edward, dato che lui già sta con Raven. Lo so è
un po’ intricata la faccenda!
Norine: Forse
è meglio se non le
elenchiamo mai, sennò poi Jazz diventa sordo a forza di
fischi nelle orecchie
XD Inoltre sarebbe impossibile finire la lista!
|
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Capitolo 10 *** Baseball ***
10.
Baseball
Sentii
il pick-up fermarsi in
salita e capii che Jacob aveva fermato la macchina nel cortile di casa,
davanti
al garage.
I
miei occhi erano aperti, li
sentivo aperti, ma era come se fossi cieca.
Mi
sentii trasportare prima fuori
dal veicolo, poi percepii il cigolio appena accennato della porta di
casa e lo
sbattere di essa.
Fu
come se qualcuno mi avesse
urlato nell’orecchio.
Mi
irrigidii e cercai di
scendere, di allontanarmi da Jacob, di riprendere a respirare.
Ero
completamente stordita e
nonostante riuscissi a distinguere i mobili a me familiari non mi
riuscii di
metterli a fuoco.
Sentii
qualche lieve passo al
piano superiore e mentre Jacob si avvicinava a me e cercava in ogni
modo di
farmi reagire, sentii la familiare calma esterna raggiungermi.
Jasper
stava scendendo le scale
di casa mia –come avevo immaginato era tornato proprio quella
sera– e io capii
che era preoccupato.
Doveva
aver sentito le mie
emozioni e in quel momento vedermi barcollare per stare in piedi non
doveva
essere un bello spettacolo.
Era
come se qualcuno mi stesse
comprimendo la testa: non era doloroso, sono molto fastidioso e
opprimente.
L’ossigeno
non ne voleva sapere
di entrare nei polmoni e più cercavo di respirare
più mi sembrava di soffocare.
Sentii
l’abbraccio freddo e
sicuro di Jasper, avvertii la sua voce chiedere prima a Jacob cosa
fosse
successo –dato che non poteva leggere nel pensiero come suo
fratello– poi lo
sentii rivolgersi a me.
Mi
stava pregando di guardarlo,
di parlargli.
Io
aprii la bocca e cercai di
parlargli, ma ero come drogata, la bocca non rispondeva e la lingua era
come
addormentata.
Portai
una mano alla tempia
sinistra, afferrandomi i capelli. Stavo cercando quella cosa che mi
stava
comprimendo la testa, ma non esisteva.
Il
mondo si spense qualche
secondo dopo, con Jasper che chiamava il mio nome e il volto lontano
del mio
angelo biondo contornato da un alone scuro di formiche brulicanti.
Riaprii
gli occhi quello che mi
sembrò un’eternità dopo.
Ero
in un letto d’ospedale e
seduto accanto a me c’era Jasper, con la sua espressione
preoccupata.
Il
suo potere stava accarezzando
dolcemente il mio cuore, in modo da non farmi cadere nel panico quando
avessi
ripreso totalmente coscienza «buonasera
principina»
mi disse nel suo adorabile accento meridionale «come
ti senti? »
aggiunse, avvicinandosi e
alzando una mano per scostarmi dal viso una ciocca di capelli.
I
suoi occhi dorati mi stavano
scrutando a fondo, per capire come stavo «una
drogata»
risposi, guardandomi la mano destra: mi sembrava di
vederla sempre ricoperta di sangue.
Lui
ridacchiò, afferrandomi la
mano e portandosela alle labbra; lasciò sulla mia pelle un
piccolo bacio e lo
sentii inspirare a fondo l’odore del mio sangue «sto
iniziando ad abituarmici»
disse con tono scherzoso e
guardandomi di nuovo con le sue iridi preziose.
Io
sorrisi, un sorriso debole e
delicato, ma riuscii comunque a farlo calmare «Jacob
mi ha detto tutto. Mio padre è ancora in quella
zona e…beh»
mi disse, lasciando cadere un attimo i suoi occhi sul
mio collo «devo
dirti che noi non siamo gli unici vampiri qui a
Forks»
e i suoi occhi tornarono di nuovo a fissarmi.
Sperava
che io non mi
arrabbiassi?
Come
mai avrei potuto? Come se
fosse stata colpa sua «mi
dispiace, avrei dovuto essere li con te. Se quei
nomadi fossero stati nei dintorni e ti avessero uccisa…»
«n-nomadi?
»
riuscii a dire.
Le
forze mi stavano ritornando
poco a poco, ma ricordare il sogno, la realtà, era dura da
morire «i
vampiri che hanno ucciso tuo
nonno. Non vivono in un posto fisso più o meno come noi, ma
vagano in
continuazione di luogo in luogo. E si cibano di sangue umano».
Non
dissi nulla, completamente
rassegnata. Ero entrata in un mondo più grande di me e se
non ci fosse stato
Jasper con me a guidarmi, sicuramente ne sarei rimasta schiacciata.
Sollevai
la mano libera e me la
posai sulla faccia, come per impedire alle lacrime di uscire dai miei
occhi o
almeno per non lasciare che Jasper le vedesse.
Sentivo
la stretta della sua mano
farsi più salda e sapevo che se avesse potuto mi avrebbe
abbracciata, come
aveva fatto quelle rare volte in passato.
Poco
dopo arrivò la zia Lind, con
gli occhi rossi e gonfi un po’ per quello che mi era successo
e un po’ per
quello che era successo «Sarah!
Oh Sarah stai bene! »
esclamò, avvicinandosi e
prendendomi la testa per posarvi un bacio sopra «sono
venuta prima che potevo! Grazie per esserle stato
vicino caro»
disse poi rivolta a Jasper, che si era alzato in
segno di rispetto nei confronti di mia zia.
Io
dentro di me ridacchiai,
pensando che era proprio di un’altra epoca «zia
sto bene…»«sua
nipote ha solo avuto un piccolo shock, ed è stato
un piacevole dovere starle accanto, signora».
La
mia ilarità interiore aumentò,
sentendolo parlare così ossequiosamente a mia zia, una donna
di campagna molto
alla buona «se
volete vi lascio sole»
e senza aspettare risposta si girò per andarsene;
arrivato dalla porta voltò il viso verso di me e mi fece
l’occhiolino,
sorridendomi in quella maniera assolutamente divina.
La
zia si sedette esattamente
dove prima era Jasper e in quel momento ogni mia singola cellula le
stava
sbraitando che quello era il suo posto e che doveva togliersi da
lì «Mi
ha contattato la polizia e
sono subito corsa qui».
Dov’era
la zia quando tutto era
successo? Forse a casa di qualche altro uomo «mi
hanno detto che tuo nonno è…»
si fermò, cercando le parole più
giuste.
Per
dirmi quello che Jasper mi
aveva già detto nel suo modo tutto speciale «non
è più tra noi. La polizia mi ha detto che si
è
trattato di un animale, ma devono ancora indagare e per ora non potremo
riavere
la salma».
Quello
non fu per me una novità;
sapevo che nessun animale sarebbe riuscito a fare quello che un vampiro
sapeva
fare e mi era sembrato strano che la polizia si fosse fermata a
un’ipotesi così
banale.
Consolai
la zia meglio che potei,
nonostante il mio cervello non fosse ancora del tutto sveglio.
Dovevo
esser svenuta e in quel momento
mi diedi della stupida: svenire per del sangue non era mai stato da me
e mai
avrei pensato di cadere in quello stato così deprimente e
vergognoso.
Tornai
a casa con la zia dopo una
mezz’ora e non vidi Jasper per tutta la sera; tra i vicini e
gli amici che ci
venivano a trovare, anche se ci fosse stato non avrei trovato tempo
nemmeno di
chiedermi se fosse già in camera mia.
Il
primo a presentarsi a casa mia
fu Jacob, sollevato nel vedere che stavo bene «mi
hai veramente spaventato sai? Per poco non ci
rimanevo secco! »
mi disse, scherzoso.
Io
feci spallucce e lo guardai da
capo a piedi: doveva essersi alzato ancora e non dovevo essermene
accorta.
Sembrava
un ventenne «che
hai da guardare? »
domandò allargando le braccia e
guardandosi anche lui «sei
diverso...più grande»«non
te l’ha mai detto nessuno che noi maschi cresciamo
tutti d’un botto? »
mi rispose facendomi la linguaccia.
Magari
era così, ma io non ci
credevo molto.
C’era
qualcosa che mi nascondeva,
un segreto che sentivo essere simile a quello di Jasper.
Finalmente,
quando giunsi in
camera mia era praticamente l’alba e io non mi reggevo in
piedi.
Mi
chiusi la porta alle spalle e
mi ci appoggiai, tirando un sospiro di sollievo: lo sceriffo Swan ci
aveva
assicurato che avremmo avuto indietro la salma in appena qualche giorno
e alla
zia bastò.
Per
me era indifferente: ormai era
solo un cadavere, mio nonno non esisteva più «stai
bene? »
mi chiese la voce dolce di Jasper, dal mio letto.
Era
seduto sul materasso, tenendo
in mano uno dei miei libri preferiti «potrei
stare meglio»
risposi piatta e andai a sedermi vicino a lui.
Il
biondo vampiro posò i miei
racconti gotici sul comodino e alzò un braccio per cingermi
le spalle «mi
dispiace, davvero»
mi borbottò vicino all’orecchio
e sfregando la sua fronte contro la mia tempia.
Mi
allontanai da lui, guardandolo
seria e arrabbiata «non
va a genio neanche a me»
sbottai.
Jasper
mi guardò confuso,
sentendo le emozioni che in quel momento mi stavano facendo salire il
sangue
alla testa «smettila
di dispiacerti, non è stata colpa tua. Doveva
succedere. Basta»
continuai a dire, con il tono più tagliente che
avessi.
Lui
mi guardò con quei suoi occhi
dorati e liquidi, caldi «ma
se ti fosse successo qualcosa? Se fossero stati
ancora là e avessero ceduto al profumo del tuo sangue? »
«non
mi è successo niente! »
gridai, alzandomi di scatto dal
letto e fronteggiandolo in piedi.
Presi
il libro dal comodino –ricordo
che era della stazza di Guerra e Pace– e glielo lanciai
contro; ovviamente lui
lo aveva deviato se glielo avessi lanciato da un chilometro di distanza
e il
volume andò a schiantarsi con il muro alle sue spalle con
uno schiocco secco «basta
sangue! Basta vampiri e
morte! Basta uccisioni! Basta! »
gli urlai ancora, mentre calde e grosse lacrime mi
rotolavano giù dagli occhi «non
voglio più pensarci. Non voglio più avere niente
a
che fare col passato»
sussurrai, stando in piedi davanti a lui e stringendo
i pugni «ho
solo bisogno di te ora»
gemetti, lasciando che le
lacrime uscissero tutte, senza ritegno.
Jasper
si alzò e mi abbracciò,
per poi prendermi in braccio e appoggiarmi sul letto dove mi
cullò e stette
vicino a me finché non mi addormentai.
Non
ebbi alcun sogno quella
notte, il mio corpo era immobile e avvolto dalle coperte e rinfrescato
dalla
vicinanza del mio vampiro.
Il
mattino aprii gli occhi mentre
sentivo delle carezze sulla mia testa.
Jasper
era sdraiato dietro di me
e un suo braccio mi cingeva la vita, mentre l’altro mi aveva
fatto da cuscino «buongiorno»
mi disse dolce, lisciandomi i
capelli.
Dovevo
aver un covone di paglia
al posto della testa e me ne vergognai altamente «sei
bellissima anche il primo pomeriggio»
continuò, scherzando, e i miei
occhi si fissarono sulle sue labbra.
Non
mi aveva mai baciato e in
quel momento avvertii la solita adrenalina arrivare di soppiatto a
farmele
desiderare.
Lui
mi scrutò attentamente,
ridacchiando «già
appena sveglia sei così attiva? »
mi domandò.
Ma
notai che anche lui stava
subendo il riflesso del mio desiderio e i suoi occhi si erano incupiti
un po’ «beh
non è colpa mia se appena mi
sveglio vedo il tuo meraviglioso viso»
lo ammonii di rimando, alzandomi e tendendo la
schiena fino a sentire un debole crock «sei
stato tutta la notte con me? »
domandai e lui negò scrollando
la testa «se
fosse stato così saresti morta congelata»
mi disse «sono
tornato a casa per una
riunione di famiglia e abbiamo deciso di fare una partita a baseball
oggi
pomeriggio»
continuò, alzandosi e abbracciandomi delicatamente la
vita «il
meteo ha messo pioggia come solito».
Io
lo guardai confusa, pensando
di aver sentito male perché ero ancora mezza addormentata,
ma lui mi fece l’occhiolino
e si alzò «non
c’è nemmeno da dire che tu sei invitata»
mi disse ancora, porgendomi la
mano per aiutarmi galantemente ad alzarmi dal letto.
Io
a una partita di baseball? Io
che non ero capace nemmeno a prendere una palla ferma con la mazza di
gommapiuma?
Una
partita di baseball vampiresco poi
era il massimo «ma
voi vampiri non andate solo a
caccia? »
domandai ridacchiando e dirigendomi verso l’armadio.
Cos’avrei
potuto mettere per un’occasione
simile.
Poi
un’idea mi fulminò da parte a
parte «non
è che mi vuoi portare con te per presentarmi ai
tuoi, vero? »
domandai, voltandomi appena.
Lo
avevo colto sul fatto «ringrazia
che i vampiri non
possono arrossire»
borbottò, guardando dall’altra parte della stanza
mentre mi cambiavo «e
anche se fosse? »
«mi
avevi detto che non ero la tua ragazza».
Ridacchiai;
per una volta lo
stavo mettendo in difficoltà e la cosa mi stava piacendo da
impazzire «diciamo
che ho cambiato idea»
rispose lui, alzandosi e andando
verso la finestra.
Stava
guardando verso la foresta,
ma sapevo anche che mi controllava usando il riflesso nel vetro.
Io
mi vestii con tutta calma,
indossando un maglioncino smanicato e un paio di pantaloni pesanti che
non mi
avrebbero impacciato nei movimenti «te
l’ho già detto una volta, ma te lo ridico: sei uno
stalker»
gli dissi.
Lui
lasciò uscire la sua risata
allegra e calda, ma non si girò.
Scendemmo
entrambi –Jasper aveva
detto che mia zia era partita, così eravamo solo io e lui in
casa– e ci
dirigemmo in cucina.
Lui
si appoggiò con la schiena al
muro e, incrociando le braccia sul petto, mi guardò mentre
mi preparavo una
tazza di caffè e la univo ai miei cereali col latte «sei
l’umana più strana che abbia
mai visto»
ridacchiò Jasper mentre divoravo velocemente la mia
colazione.
Anche
se erano le due del
pomeriggio.
Lavai
la mia tazza, sistemai un
po’ la cucina e finalmente potei uscire da casa con il mio
vampiro; salimmo sul
mio pick-up, come solito lui al posto di guida, e aspettai di partire
magari
verso il centro di Forks, dove si trovava il campo sportivo.
Invece
lui fece inversione e si
diresse verso la foresta «ma…dove
stai andando? »
domandai e lui sorrise, pigiando sull’acceleratore «noi
abbiamo in nostro luogo
privato dove giocare»
mi disse.
Come
si poteva giocare a baseball
in mezzo alla foresta? Mah, roba da vampiri, pensai.
Ci
mettemmo poco più di un quarto
d’ora per arrivare nel grande spiazzo che Jasper aveva
chiamato “diamante
privato”; in effetti era grande abbastanza da contenere due
dei normali campi
da baseball che in passato avevo visto.
Tutti
i Cullen erano già lì, chi
a scaldarsi i muscoli e chi a chiacchierare in attesa del giocatore
mancante.
Lo
guardai un po’ nervosa: improvvisamente
mi chiesi che cosa sarebbe successo se non fossi piaciuta a sua madre o
a qualcun
altro della famiglia.
Mi
avrebbe lasciata oppure
avrebbe sostenuto una possibile faida famigliare? «stai
tranquilla»
disse a un certo punto, fermando
il pick-up e scendendo.
Fece
il giro del veicolo e mi
aprì la portiera «andrai
benissimo»
e mi prese la mano.
Camminammo
verso il campo e io
vidi tutti i Cullen avvicinarsi.
Riconobbi
quasi subito la madre
adottiva di Jasper: ovviamente bellissima, aveva i capelli lunghi e
mossi,
color cioccolato con alcuni riflessi rossi, il viso delicato e un
grande,
enorme sorriso.
Camminava
attaccata al dottor
Carlisle e fu la prima ad avvicinarsi a me «così
tu sei Sarah! Oh che piacere conoscerti, Jasper
non fa altro che parlare di te»
disse, abbracciandomi come faceva spesso mia zia.
Si,
dovevo esserle piaciuta «e
non fa altro che pensare a te»
mugugnò divertito Edward «la
cosa stava iniziando a
diventare seccante».
Jasper
guardò in tralice il
fratello ridacchiante, mentre io mi sentii letteralmente sollevare da
terra:
Emmett mi aveva presa per la vita e mi aveva posata sulla sua spalla
come un
sacco di patate «ci
siamo tutto no? È ora di giocare! »
esclamò e questa volta non mi
intrattenni dal ridere.
Anche
se vidi la bionda Rosalie
fulminarmi con lo sguardo.
Risposta
alle recensioni:
Norine:
Grassie, veramente :3 La
tua fiducia nella mia fantasia veramente mi commuove! Non posso mica
dirtelo sai?
Sennò ti spoilerizzo tuttoooo XD
Sa chan: la
curiosità è sintomo
di intelligenza XD Edward riesce a leggere nella mente di tutti in
questa fict –putroppo
per noi! ND. Sarah– e Bella è semplicemente una
ragazza come un’altra che vive
a Forks col padre. Spero di aver soddisfatto il tuo sintomo di
intelligenza
hihihi.
Sono contenta che ti piaccia, sta coinvolgendo molto anche me, il che è tutto dire XD
|
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Capitolo 11 *** Abduction ***
11.
Abduction
Fu
il pomeriggio più bello della
mia vita.
Esme
e Carlisle erano dei
genitori e dei coniugi modello e quasi mi veniva da piangere
completamente
commossa.
Non
erano certo come i miei, di
genitori «Sarah
vieni qui in attimo! »
mi chiamò Jasper.
Non
lo avevo visto così a suo
agio nemmeno quand’eravamo da soli; forse per la presenza dei
suoi familiari, a
dargli supporto nel caso non fosse riuscito a resistere al mio sangue.
Avevo
subito capito perché i
Cullen giocavano solo quando si stava avvicinando a un temporale: ogni
volta
che Raven lanciava e uno dei suoi familiari batteva, il rumore era
così potente
e assordante da sembrare un tuono.
Mi
domandai se non avessi sentito
loro, durante la mia festa di benvenuto.
Erano
soltanto passati un paio di
mesi, ma mi sembrava fosse passata una vita; un’intensa e
rocambolesca vita.
E
io credevo che Forks fosse un
posto noioso!
Mi
diressi verso il vampiro
biondo che mi faceva segno di avvicinarmi «ti
va di lanciare? »
mi chiese, guardando la montagnetta di terra in mezzo
al campo. Io strabuzzai gli occhi e lo guardai incredula «ma
dico sei pazzo? Come minimo la
tirerei in testa a qualcuno! »
esclamai, guardando come Rosalie lanciava in maniera
perfetta e micidialmente veloce verso Raven: la ragazza corvina mosse
la mazza
così velocemente che non me ne accorsi nemmeno e il rombo
dell’impatto mi
arrivò alle orecchie solo quando vidi la ragazza sfrecciare
verso la prima
base.
E
mentre Emmett cercava di
eliminare la sorella, Carlisle si tuffava verso casa
base…tutto in una manciata
di secondi.
Jasper
mi scompigliò i capelli
corti e scuri «vuoi
fare male a qualcuno come noi? »
ridacchiò «non
credo proprio. Dai, batto io
così al massimo mi buchi il cranio»
e andò a prendere la mazza rimasta a terra vicino
casa base.
Io
inghiotii a vuoto, ma arrivò
Esme a darmi conforto «non
ti preoccupare cara»
mi disse, sorridente «andrà
tutto bene, Jasper è abituato ai miei lanci
storti»
e rise.
Quel
suono argentino simile al
trillo di una campanella mi mise di buon umore così mi
avvicinai a Rosalie e
tesi la mano «potrei
provare? »
chiesi e lei, per la seconda volta, mi fulminò.
Sembrava
odiarmi più di qualsiasi
altra cosa «certo»
disse con sufficienza, mettendomi pesantemente la
palla in mano e dandomi le spalle.
Andò
a sedersi sul tronco d’albero
che Emmett aveva sradicato qualche minuto prima, in modo che facesse da
panchina.
Esme
non aveva preso parte ai
giochi e accolse la figlia a braccia aperte.
Mi
sembrò che si dicessero
qualcosa, ma era troppo basso e troppo veloce perché le mie
orecchie sentissero
qualcosa.
Appena
salii sul monte di lancio
mi guardai intorno, notando che solo due basi erano occupate «su
dai non abbiamo tutto il tempo»
mi gridò Emmett, con un sorriso
sulle labbra.
Io
ridacchiai, poi guardai Jasper
far roteare la mazza da baseball in un modo eccezionale.
Mi
annotai mentalmente che avrei
dovuto chiedergli d’insegnarmi assolutamente, solo per il
gusto di saperlo
fare.
Afferrai
la pallina come sapevo
si dovesse fare, poi portai indietro le spalle, alzai il ginocchio
sinistro e
lanciai con tutta la forza che avevo la palla verso il vampiro, sapendo
che era
sulla destra perché lui la prendesse.
Invece
Jasper la colpì e con un
altro botto, un po’ più debole degli altri,
spedì la pallina così in alto che
sparì dalla mia vista.
Emmett
ululò «Woo!
Homerun Jazz! »
disse e mentre Jasper prendeva a
correre verso la prima base, vidi Edward e Raven recuperare punti
correndo
verso la casa base.
Io
stavo ancora pensando alla
pallina: doveva averla spedita così lontano che se non si
perdeva nello spazio
poteva almeno colpire e abbattere un aereo di linea.
Qualche
secondo dopo sentii
Edward ridere e lo vidi arrivare a fare punto piegato quasi piegato in
due
dalle risate. Jasper lo spinse da dietro, borbottandogli contro di
essere una
lumaca «sei
uno spasso»
mi disse il vampiro dai capelli color bronzo «ma
non ci avevo mai pensato, in
effetti hai ragione»
e se ne andò così com’era venuto,
ridacchiante e
lasciandosi dietro il mio volto confuso.
Giunse
la sera e la squadra di
Carlisle aveva vinto solo per un punto contro quella di Edward.
Io
avevo la testa leggera per il
tanto ridere che mi ero fatta e ogni piccola, minuscola sensazione
dolorosa del
giorno prima era completamente scomparsa.
Jasper
era rilassato, alla guida
del mio pick-up, e non pareva avere fretta di riportarmi a casa.
E
anche io non avevo fretta di
ritornare alla realtà: volevo vivere quel sogno ancora per
un po’ «eccoci
qua»
mi disse, fermando la Toyota nel
vialetto di casa e spegnendo il motore.
Non
se ne andò come faceva le
altre volte.
Quella
sera rimase seduto al
posto del guidatore, con le mani sul volante e gli occhi fissi sul
cruscotto «c’è
qualcosa che non va? »
chiesi, preoccupata.
Spesso
mi veniva da pensare che
avrei dovuto avere anche io il suo potere, per capirlo totalmente; lui
alzò il
viso e mi guardò con un sorriso «stavo
soltanto a una cosa…che vorrei provare»
disse e lasciò andare il
volante.
Tolse
la cintura di sicurezza e
si voltò verso di me, facendomi segno di avvicinarmi; io
obbedii, accostandomi
leggermente al suo viso.
Jasper
poggiò delicatamente una
mano contro la mia guancia –l’altra si era
dolcemente allacciata alla mia– e
unì le sue labbra alle mie, con un unico e veloce movimento.
Io
mi irrigidii un attimo per la
sorpresa, sentendo quella bocca fredda accarezzare teneramente la mia,
poi
rilassai le spalle e risposi al bacio il più delicatamente
che potevo.
Sapevo
che il mio sangue era
dannatamente irresistibile per lui –notai infatti che stava
trattenendo il
respiro– e quel pensiero mi fece completamente sciogliere.
Avrebbe
potuto uccidermi in un
istante, ma era troppo innamorato di me per cadere in quella morbosa
tentazione.
Il
bacio si protrasse a lungo e
io ne approfittai per godere il più possibile del suo
profumo.
Ci
separammo qualche
interminabile secondo dopo e mi accorsi di essere arrossita: le mie
guance
erano in fiamme e sapevo che i miei occhi erano lucidi «è
meglio che ritorni a casa»
mi disse.
Le
sue iridi si erano scurite
talmente che quasi non potevo distinguere la pupilla «e
forse è meglio se sto via una
settimana a caccia»
aggiunse, aprendo la portiera.
Io
non capii del tutto le sue
parole; ero in paradiso, il suo sapore così indescrivibile
era ancora sulle mie
labbra e io chiusi gli occhi per un istante, il tempo necessario per
marchiare
nella mia memoria quel sapore e quella consistenza soffice ma sicura
delle sue
labbra.
Scesi
anche io dalla macchina,
guardandolo andare via a piedi lungo il marciapiede.
Improvvisamente
mi venne in mente
una cosa e mi ritrovai a gridare il suo nome senza nemmeno sapere
perché «potresti
darmi il tuo numero di
cellulare? »
gli chiesi, una volta che lo raggiunsi dopo una
piccola corsetta.
Lui
mi guardò interrogativo «certo,
perchè? »«sento
che ne avrò bisogno…non lo
so»
dissi confusa.
Jasper
non mi fece altre domande
e sorridente mi dettò il suo numero, dopodiché
asserì che era veramente meglio
se andava a casa «ti
amo»
mi disse, prima di scomparire nel buio della notte
che era calata.
Rimisi
il cellulare nella tasca
anteriore dei pantaloni quando aprii la porta.
E
quasi mi misi a urlare quando
vidi davanti a me le persone che più odiavo al mondo: i miei
genitori.
Entrambi
erano ai piedi delle
scale che la zia Lind stava scendendo, tenendo in mano il borsone con
cui ero
arrivata «e
questo cosa…? »
sussurrai, passando gli occhi da una faccia all’altra
dei miei parenti.
La
zia Lindsay era rassegnata,
sconfitta.
Mia
madre e mio padre invece
sembravano avere il coltello dalla parte del manico «ti
abbiamo ritrovata finalmente»
disse mia madre, guardandomi con
astio «io
e tuo padre abbiamo girato quasi tutti gli Stati
Uniti per trovarti, per fortuna tua zia ci ha avvertito che eri qui».
Guardai
la zia, urlandogli
mentalmente che era una traditrice «ora
tornerai a casa, volente o nolente. Sei ancora
sotto la nostra custodia, dopo i guai che hai combinato»
asserì mio padre, prendendomi di
mano le chiavi del pick-up e posandole sul tavolino.
Feci
per girarmi e fuggire dalla
porta, ma mio padre mi prese per un polso e mi tirò
indietro; la sua stretta
era ferrea.
Non
volevo tornare, non volevo
che tutto ricominciasse.
Non
volevo lasciare Jasper;
potevo già vedere il suo volto preoccupato e angosciato
mentre guardava
attraverso la finestra di camera mia e non mi vedeva stesa nel letto la
notte
seguente.
Gridai,
sperando che il mio
vampiro fosse abbastanza vicino da sentirmi, ma fu inutile.
I
miei genitori mi trascinarono
fuori da casa, probabilmente diretti verso la loro macchina.
Fu
quando arrivammo in una zona d’ombra
che mio padre mi caricò sulla sua spalla con una forza
incredibile «stupida
idiota»
disse mia madre, con una voce
che non le apparteneva.
Le
loro figure tremolarono come
fumo e potei vedere altri personaggi dietro quella che capii fosse
un’illusione.
L’energumeno
che mi stava
trattenendo sulla spalla era pallido come i Cullen e i suoi occhi erano
rossi
come il sangue, mentre l’altra era una donna un po’
in carne ma con un fisico
perfetto.
Aveva
la pelle olivastra, ma
doveva essere anche lei sicuramente una vampira.
I
capelli neri erano mossi e
lunghi fino alle spalle. Sembrava messicana.
Il
vampiro ringhiò contro i miei
tentativi –vani– di fuga, mentre la donna rideva «sei
proprio una stupida e debole umana»
disse «anche
se avverto qualcosa di
speciale in te, trasformarti sarebbe una perdita di tempo. Mi servi
solo come
esca, cara»
e mi diede un pizzicotto alla guancia colorita dalla
rabbia e dallo spavento «andiamo
Landon»
«si
Maria».
Il
suo nome mi parve familiare,
anche se ero sicura che nessuno mi avesse parlato di una Maria in
particolare.
Risposte
ai commenti:
Sa chan: Ma
figurati! ^^ Come mai
sei senza parole? O.o
Norine: in
effetti Rose è sempre
un po’ ostica, ma più che altro credo che comunque
uno scriva la storia Rosalie
sarebbe comunque gelosa dello status umano di qualsiasi fidanzata dei
suoi
fratelli xD
Garakame: La
mia idea era di fare
Twilight ma versione Jasper con una umana –che alla fine
sarei io hihi–. L’idea
di fondo sarebbe la stessa ma i vari accadimenti cambiano essendo Jazz
differente caratterialmente da Eddie. Mi ha fatto piacere il tuo
commento,
grassie grassie :3
|
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Capitolo 12 *** Whitlock ***
12.
Whitlock
I
vampiri stavano correndo
attraverso la foresta così velocemente che non riuscivo a
distinguere gli
alberi dal terreno.
Era
un insieme di colori scuri e
vorticanti; mi sembrava di volare –o almeno quella era la
sensazione, perché di
sicuro i vampiri non sapevano volare– e la spalla muscolosa e
tutta nervi dell’uomo
che mi teneva sollevata mi stava scavando nello stomaco e
nell’addome.
La
donna correva al suo fianco
senza apparente fatica, i capelli scuri e lunghi che danzavano nel
vento come
seta.
Parecchie
volte provai a colpire
il vampiro, di liberarmi e tornare a casa –anche se sapevo
che era impossibile–,
ma tutto fu completamente inutile.
A
forza di vani tentativi di
evasione le mie forze erano andate scemando; avevo mangiato solo una
scodella
di cereali e dopo l’intensa giornata passata a correre e
saltare da una base
all’altra nel campo da gioco dei Cullen intuii che il mio
livello di zuccheri
stava decisamente calando.
Avrei
voluto gridare, sperare che
Jasper fosse nei dintorni a caccia e che mi sentisse, che mi portasse a
casa e
che mi rassicurasse con il suo strano e familiare potere.
Il
mondo sfocato attorno a me da
marrone e color muschio divenne sempre più arido e quasi
inconsciamente mi
accorsi che stavo tornando veramente a casa.
Solo
che non era per fare i conti
col mio passato «fermiamoci
qui, tra poco dovrebbe arrivare Johnson»
disse Maria e immediatamente i
due vampiri si fermarono.
Il
mio stomaco non ne fu
contento: il rinculo quasi me lo strappò via e il senso di
nausea aumentò a
dismisura «potrei
sapere a cosa ci serve quest’umana? Io ho sete!
Non possiamo bercela e basta? »
domandò il vampiro posandomi a terra.
Non
ebbi il tempo di scappare; il
mio senso dell’equilibrio, dopo quella giostra fatta di
colori e forme sfocate,
era decisamente provato.
Caddi
a terra, cercando di
fermare il mondo che mi girava attorno tenendomi la testa tra le mani «non
ci pensare nemmeno, stupido
rimbecillito! Lei ci serve da esca e solo quando ne avremo bisogno!
Adesso fai
in modo che nemmeno una goccia di sangue esca da questa stupida
ragazzina:
conosco il mio pollo e so che appena capirà
cos’è successo seguirà la sua scia.
Per questo stiamo facendo il giro
dell’oca…imbecille»
parlò la donna, con tono gelido
e tagliente.
Aprii
un occhio e notai con
piacere che il mondo aveva smesso di dondolare, anche se la sensazione
rimaneva
la stessa.
Il
vampiro era alto quasi più di
Jasper, aveva dei corti capelli neri e il volto squadrato era ricoperto
da un
velo di barba.
I
suoi occhi scuri mi stavano
guardando con desiderio ossessivo «d’accordo…ma
sei sicura che verrà? Dopotutto è solo
un’umana»
«stupido,
non è un’umana qualsiasi. Oltre ad essere
follemente innamorato di lei»
e qui Maria si lasciò scappare una smorfia schifata «è
anche follemente innamorato del
suo sangue. Lei è la sua Cantante e quello stupido Whitlock
farebbe di tutto
per averla indietro».
Whitlock?
Chi era?
Il
perché mi avevano rapita me lo
stavano praticamente spiegando, non avevo bisogno di un disegnino; ma
mi
domandai se stessero parlando a vanvera come gli stupidi antagonisti
dei film
oppure se Maria stesse dicendo tutto per il semplice motivo che non mi
riteneva
una minaccia al suo piano.
All’improvviso
avvertii un lieve
tremore lungo la coscia: il mio cellulare stava vibrando; con tutta
probabilità
doveva essere la zia,che si informava del viaggio.
Ma
che ore erano? Il cielo era
ancora scuro ma all’orizzonte potevo vedere il sole nascere
in un leggero
bagliore verdastro.
Ci
avevano messo solo una notte
per arrivare al confine tra Nevada e Arizona, e ancora dovevano fare
parecchia
strada, a sentire dai loro discorsi.
Improvvisamente
davanti alla
donna si materializzò un altro vampiro, più basso
e mingherlino di Landon:
aveva dei capelli castani e lisci che gli ricadevano fino alle spalle e
gli occhi
rossi come rubini mi indicarono che almeno lui si era appena dissetato
col
sangue di qualcuno «ah,
Johnson! Finalmente sei arrivato! »
esclamò Maria con disappunto.
Io
guardai il ragazzo fare saluto
militare, tendendosi come una corda di violino «mi
scusi signora, ma non ho saputo resistere. Mi sono
fermato un attimo a Las Vegas».
La
fuga era stata completamente
cancellata dalla mia mente, per il momento: se con due vampiri era
impossibile
scappare, figurarsi con tre.
E
sarebbe stato più utile stare a
sentire cosa stava architettando quella pazza «è
qui vicino? Così Landon va a fare il pieno e non mi
stressa più…»
esclamò lei, guardando in tralice il collega
nerboruto.
Johnson
annuì, indicando un punto
un po’ impreciso dell’orizzonte alla mia sinistra «un
paio di minuti e sei la»
disse.
Il
vampiro forzuto era già
scomparso «allora,
hai portato quello che ti ho chiesto? »
chiese la donna al vampiro
magrolino.
Lui
annuì, tirando fuori dalla
tasca un sacchetto di plastica: dentro c’era qualcosa che
assomigliava alla
carne, ma era quasi totalmente bianca come gesso «non
ci ho messo poso a prenderlo»
l’ammonì lui, mentre lei
prendeva l’oggetto in mano, soppesandolo «basterà?
»
aggiunse e mi guardò da capo a piedi con
un’espressione
disgustata.
Maria
si avvicinò a me e mi afferrò
per il maglione smanicato, alzandomi di peso da terra «non
ci vorrà molto tesoro»
mi disse, con quel tono
zuccheroso che mi sapeva tanto di psicopatica.
Poi
iniziò a sfregarmi addosso
quell’oggetto, come se mi lavasse.
L’odore
era nauseante e mi
sembrava cartavetro contro la pelle; me lo strofinò sulle
braccia, sulle mani,
sulle gambe e sul collo.
Non
risparmiò nemmeno il mio
viso: strappò un pezzo più piccolo dalla manciata
di carne bianca come se fosse
pane e me lo passò accuratamente attorno agli occhi, sulla
fronte e sulle
guance.
La
nausea era quasi al limite e
pensai, con un po’ di malvagità, che non sarebbe
stato male farle vedere cos’avevo
mangiato per colazione «finalmente…non
finivi più»
mi disse, gettando via i pezzi
che rimanevano di quello strano muscolo e guardando verso
l’orizzonte «e
finalmente è ritornato quell’imbecille»
disse, riferita sicuramente al
suo compagno Landon «prendila,
partiamo subito»
disse poi a Johnson.
Lui
mi sollevò come fossi stata
un cuscino di piume e mi posò sulla spalla come aveva fatto
l’altro vampiro «andiamo,
Marina ci aspetta in New
Messico entro un paio d’ore, non vorrete arrivare in ritardo
spero»
disse.
Sentii
i vampiri mugugnare un
cenno di assenso, per poi ripartire.
La
giostra di colori riprese a
girare vorticosamente e io chiusi gli occhi, solo per evitare di
perdere più
energie del dovuto.
I
vampiri si fermarono davanti a
un capannone malandato e abbandonato.
Appoggiata
alla porta li
aspettava una ragazza di quindici anni, con il fisico slanciato e i
capelli
biondo cenere che le raggiungevano le ginocchia.
Era
vestita completamente di
nero, forse per mettere in risalto la sua carnagione bianchissima e le
labbra
rosse «Marina,
tesoro mio»
esclamò Maria, appena arrivò «allora
piccola, è tutto pronto? »
aggiunse, guardando la
ragazzina.
Lei
si piegò di lato per
guardarmi oltre la schiena della donna «quella
sarebbe la Cantante di Whitlock? »
chiese, con faccia disgustata «ma
è brutta! ».
Nonostante
fossi ubriaca per il
viaggio appena concluso a velocità vampiro, la guardai con
astio e con
espressione vagamente offesa.
Non
che potessi fare di meglio:
stavo tentando in tutti i modi di non rimettere il pranzo «lo
so, quel ragazzo ha dei gusti
particolari, ma non ci fare caso. È tutto pronto oppure la
mamma ti deve
picchiare? »
continuò Maria, guardando la ragazzina con le mani
sui fianchi.
Marina
sbuffò e aprì la porta del
capannone: all’interno era completamente vuoto a parte un
paio di sedie, delle
balle di fieno legate con delle spesse corde e tanti piccoli cadaveri
di topo,
completamente dissanguati «spero
che dopo potrò bermi il suo sangue, ne ho
abbastanza di animali e di questo posto desolato»
aggiunse la bionda bambina con la sua vocina
lamentosa.
Le
occhiaie sotto i suoi occhi
ambrati dal sangue animale erano accentuate ancora di più
dal trucco nero che
si era messa.
Johnson,
su ordine della donna
corvina, mi portò all’interno e mi
lasciò cadere a terra «legatela»
disse «così
starà brava per un po’»
e i due vampiri si avventarono
su di me: chi mi teneva pressata sotto il suo enorme e anomalo peso,
chi
strappava una delle grosse corde dai covoni e mi ci avvolgeva stretta.
Così
stretta che respirare mi fu
quasi impossibile.
Mentre
i due eseguivano gli
ordini, notai Maria parlare con la figlia adottiva a bassa voce: lo
sguardo
della bambina era imbronciato, mentre quello di Maria nascondeva tante
cose di
cui io avevo iniziato ad aver paura.
L’odore
che saliva dalla mia
pelle ormai non lo sentivo più, il mio naso era totalmente
addormentato e solo
quando respiravo più a fondo quell’odore mi faceva
lacrimare «bene,
ora ognuno di voi prenda un
vestito da questa sacca e depisti Whitlock il tempo necessario
perché la sua
sete aumenti. Poi lasciatevi pure seguire fin qui. Al resto penso io»
disse, lanciando il mio borsone
ai due vampiri.
Marina
teneva già in mano un paio
dei miei jeans; la mia mente stava lavorando velocemente, nonostante
l’ossigeno
si facesse desiderare.
Nonostante
avessi qualche
sospetto, prima di pensare a qualsiasi altra cosa dovevo aspettare una
conferma
qualsiasi.
Così
rimanemmo sole, io e quella
donna senza scrupoli
Maria
si avvicinò a me,
piegandosi sulle ginocchia e guardandomi con finto affetto, e io potei
guardare
per bene come fosse in realtà.
La
pelle era leggermente più
scura di quella dei Cullen, le labbra erano piene e rosse, mentre un
neo scuro
sostava sullo zigomo sinistro.
I
capelli mossi le ricadevano su
una spalla e il fisico abbondante ma slanciato troneggiava su di me,
stesa a
terra «spero
tu sia contenta, tempo qualche settimana e
vedrai il tuo adorato Jasper. E poi morirai»
mi disse mielosa.
La
rabbia di me crebbe così tanto
che pensai di poter spezzare le corde come avevano fatto i vampiri «se
vuoi uccidermi fallo subito»
dissi, senza pensare.
Mi
vennero in mente le iniziali
sul fazzoletto di Jasper. Così il suo vero cognome era
Whitlock…avrei preferito
scoprirlo in un altro modo.
Maria
ridacchiò «ma
nooooo tesoruccio! Non ci
serve il tuo sangue adesso»
disse, prendendo il mio viso tra le sue mani fredde e
dure e avvicinandolo al suo fin quasi a far toccare le punte dei nostri
nasi «vedi
cara, di te non me ne
importerebbe più di tanto e fosse per me ti farei fuori
adesso…ma il piano è un
altro. Jasper Whitlock è di mia proprietà e in un
modo o nell’altro lui tornerà
da me. Tu sei solo uno dei tanti modi che mi è venuto in
mente»
disse.
I
miei occhi si spalancarono di
stupore, poi mi accigliai e sputai in faccia a Maria «tienitelo
il tuo Jasper! Non me
ne importa nulla! »
esclamai.
Sapevo
che non era la verità –e fece
molto male quella frase, molto più di una
coltellata– ma se potevo rendermi
inutile almeno non avrei messo in pericolo lui.
Maria
si pulì con un paio di
dita, osservando con noncuranza la mia salva che le colava dai
polpastrelli «certo,
certo. Non te ne importa.
Anche se vi siete già baciati»
disse e io maledii lei e me stessa «il
suo odore era addosso a te in
una maniera quasi ossessiva, quando ti abbiamo prelevata, cara.
Non
cercare di prendermi in giro,
accorceresti solo la tua vita. Ora scusami ma la sete ora è
davvero
insopportabile e per ora non posso cedere al richiamo del tuo sangue.
Torno
subito tesorino»
disse con un sorriso soddisfatto, si alzò e uscì
dal
capannone, chiudendomi dentro.
Se
non fosse stato per alcune
travi rotte del soffitto, sarei caduta nel buio.
E
io, disperata e senza idee,
lasciai che le lacrime uscissero da sole dai miei occhi.
Risposte
alle recensioni:
Sa chan: Ohhh
non dire così che
mi commuovo! ^w^
Norine:
Sorpresa eh? Hihi invece
di James –porello, lassiamogli un po’ di
riposo!– ho pensato che sarebbe stato
intrigante metterci qualcuno di più velenoso. In effetti
Landon ha il potere di
far credere agli altri di essere qualcun altro.
Quando
Sarah ha capito che non
erano i suoi genitori l’illusione per lei è
svanita come fumo.
Maria
non credo che le farò
qualche potere, è già abbastanza cattiva
così di suo! XD
|
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Capitolo 13 *** Technology ***
13.
Technology
Non
seppi con precisione quanto
tempo passò.
Rimasi
nel buio finché il mio
cervello non si riprese del tutto dal cocktail di emozioni che lo stava
sconvolgendo, oltre alle vertigini.
Con
un po’ di fatica mi misi
seduta, completamente legata; le mani erano immobilizzare dietro la mia
schiena
e le mie caviglie erano assicurate insieme.
Guardai
i nodi e con amarezza
vidi che non avrei potuto farci nulla, se non osservarli e basta.
La
corda era troppo resistente
per poterla spezzare e non vedevo nulla che avrebbe potuto aiutarmi a
tagliarla.
Il
cellulare mi vibrò nuovamente
in tasca e un’idea mi fulminò sul momento: mi
buttai a terra, inarcando la
schiena e ringraziando i corsi di yoga che avevo fatto qualche anno
prima.
Il
telefonino, poco a poco,
cominciò a scivolare fuori dalla tasca poco profonda e
quando sentii il debole
ciocco della cover contro il pavimento di legno mi rilassai a terra,
supina.
Mi
sentivo un salame e ormai non
mi sentivo più le mani, ma lo stesso riuscii a tirarmi di
nuovo su e presi il
cellulare.
Avevo
un paio di messaggi di mia
zia e uno di Bella.
Con
le dita fredde e deboli aprii
la conchiglia del cellulare e premetti il tasto del menu; per fortuna
il numero
di Jasper lo avevo memorizzato in modo che fosse il primo della lista.
La
mano sinistra aveva preso un
brutto colorito cianotico, ma andai avanti e premetti il pulsante della
chiamata.
Pregai
con tutta me stessa che
rispondesse: dovevo dirgli di non dare retta a quello che il suo
cervello
avrebbe intuito, di stare a Forks, di non salvarmi.
Perché
sarebbe tutto finito se lo
avesse fatto.
Mi
sentii sollevata quando
qualcuno rispose alla chiamata «pronto?
»
sentii la voce di Edward oltre il ricevitore lontano
dal mio orecchio «Edward!
Edward dov’è Jasper?? »
chiesi, tenendo d’occhio
l’entrata del capannone.
Dalla
fessura tra la porta e il
terreno la luce dell’alba che si avvicinava sempre di
più mi diceva che non avevo
più tempo «Ora
non c’è, è fuori. Se vuoi posso andarlo
a cercare»
disse il vampiro «c’è
qualcosa che non va? »
«Edward
ascoltami! »
vidi un’ombra avvicinarsi alla porta e cominciai a
sentirmi male.
Mi
avvicinai di più al cellulare
aperto sul pavimento «trattenete
Jasper a Forks! Qualsiasi cosa succeda non
fatelo andare via! »
urlai con tutta me stessa.
Sapevo
che Maria mi aveva già
sentita, ma non mi importava.
Vidi
la vampira aprire la porta e
richiudersela alle spalle «Sarah
dove sei? Jasper è tornato adesso, dice che non
sei a casa, cosa sta succedendo? ».
Maria
raccolse il cellulare da
terra, mentre io cercavo impedirle di chiudere la conversazione in ogni
modo.
Anche
a costo di perdere la vita «NON
FATELO ANDARE VIA DA FORKS! »
gridai e mentre le ultime note
di quel grido disperato si disperdevano, Maria chiudeva la mano e
riduceva
l’apparecchio a una pallina di metallo, plastica e microchip.
La
vampira mi guardò e schioccò
la lingua «oh
no tesorino, questo non me lo dovevi fare»
disse e afferrando una delle
corde che mi legavano mi tirò su e mi sbatté con
violenza contro un muro del
capanno.
L’impatto
fu tale che sentii ogni
mio osso scricchiolare e la mia testa cozzò contro il
cemento della parete; un
chiodo che spuntava dalla parete, probabilmente una volta doveva
sorreggere una
mensola ora distrutta, mi graffiò la cute della testa e
subito il sangue
cominciò a defluire.
Avvertii
il liquido caldo colarmi
sul viso, salato «ci
ho messo anni per trovare uno spiraglio in quella
dannata famiglia, anni! E tu vuoi rovinare tutto con una semplice
chiamata? »
ringhiò, con gli occhi rossi
puntati su di me.
Poi
parve rinsavire da
quell’attacco d’ira, guardando la pallina che una
volta era il mio cellulare «sai
una cosa? Mi hai fatto venire
un’idea niente male…»
sussurrò, guardando prima il soffitto del capanno,
poi sorridendomi maligna.
Il
suo sorriso da squalo si
allargò ancora di più quando, dopo un
po’ di ricerche, riuscì a trovare un
gancio arrugginito «ora
io e te faremo un po’ di ginnastica, tesorino»
disse lei, poi mi afferrò di
nuovo e mi alzò fino a una carrucola.
Con
un gesto secco della mano
infilzò la punta del gancio nella mia schiena, non
abbastanza in profondità per
uccidermi ma il dolore fu comunque lancinante.
Urlai,
sentendo la gola riarsa
bruciarmi come fuoco e il sapore del mio sangue venire su assieme allo
spasimo.
Come
carne da macello Maria mi
appese alla carrucola e mi guardò, come un’artista
che guardava con sguardo
critico il suo capolavoro «sei
perfetta tesorino»
mi disse, ridacchiando «ora
non ti muovere, zia Maria torna subito ok? »
aggiunse e uscì di nuovo dall’edificio,
lasciandomi da sola.
Sospirai,
ma il gesto mi costò
una fitta che mi percorse tutto il corpo; guardai giù le
gocce del mio sangue
allargarsi sul pavimento polveroso.
La
donna ritornò qualche ora più
tardi, quando il sole era già alto e filtrava attraverso le
travi rotte del
tetto.
In
mano teneva un cellulare nuovo
di zecca, completo di fotocamera, e accanto aveva la bambina, Marina.
La
ragazzina stava giocando con
quello che una volta era il mio telefonino e dopo un attimo ne
tirò fuori la
sim, miracolosamente intatta «bene,
ora vediamo di mandare qualche foto ricordo al
nostro amato Whitlock»
disse la vampira dai capelli neri, inserendo la sim
nel cellulare e accendendolo; qualche minuto dopo il flash del
cellulare mi
accecava e la risata tranquilla della ragazzina mi entrava nella testa
come un
trapano «allora,
vediamo…dove hai messo il suo numero? »
mi chiese, curiosando nella
rubrica «oh,
eccolo! Spera solo che lo veda presto, perché ho iniziato
a prenderci, mia cara»
mi disse, avvicinandosi con passo dondolante «non
credevo che questa tecnologia
fosse così divertente».
La
bambina seguì la madre,
guardandomi «posso
giocarci io? Per favore! »
esclamò con voce lamentosa,
mentre la donna mi tirava giù dalla carrucola.
Il
gancio rimase fisso nella mia
schiena e senza troppe carinerie Marina me lo strappò via
dalla carne con un gesto
improvviso.
Urlai
ancora, con le lacrime agli
occhi.
Iniziai
a ripetere il mantra che
avevo appena scoperto “fallo per
Jasper,
fallo per Jasper” e serrai i denti per non
lasciarmi scappare altro che
piccoli e sussurrati lamenti «mamma
passami il cellulare, voglio fare altre foto! »
aggiunse Marina, tendendo la
mano verso la donna.
Maria
le diede l’apparecchio con
un sorriso zuccheroso, guardandomi curiosa «oh,
andiamo, hai finito di lamentarti? Mi stavo
divertendo! »
esclamò ancora la bambina, tirandomi un calcio
nell’addome.
Sentii
una costola rompersi di
netto, con un sonoro crock, ma dalla mia bocca non uscì
altro che silenzio.
Certo,
mi irrigidii completamente
e strizzai gli occhi, ma le mie labbra rimasero mute sebbene aperte in
cerca
d’aria.
Non
mi sentivo più le mani e con
molta probabilità se non fossi morta avrei almeno perso
l’uso di esse; Maria
stette a guardare la figlia adottiva divertirsi con il suo nuovo
giocattolo:
Marina mi spogliò della mia maglia strappandomela via dal
corpo e cominciò a
disegnarmi sulla pelle con un cutter.
Quando
calcava troppo la mano le
piccole goccioline rosse che imperlavano il tracciato che eseguiva si
ingigantivano
e scendevano lungo la mia pelle sempre più pallida e
cianotica. Poi, dopo aver
finito il suo disegno spettrale si alzò e scattò
qualche foto.
Cominciai
a sentire freddo,
nonostante il sole scaldasse la capanna come un forno «mamma
non mi diverto più, mi
danno fastidio le corde! Non si intonano al resto »
disse la bambina, pizzicando i
legacci che mi bloccavano come se fossero le corde di una chitarra.
Maria
scosse la testa «non
possiamo permetterci che vada
via adesso, piccola. Fai una cosa: spezzale una gamba e allora potrai
togliere
le corde»
disse con leggerezza, come se parlasse di un metodo
nuovo per coltivare tulipani.
Marina
sorrise, poi si alzò e con
un unico colpo spezzò tutte le funi che mi legavano. Sentii
il sangue ritornare
a circolare negli arti e ripresi a respirare; la mia mente si
schiarì appena e
dalla mia bocca uscì spontaneo un sospiro di sollievo.
Guardai
la ragazzina avvicinarsi
al mio ginocchio e osservarmi con malizia.
Dopo
alzò il piede e di scatto lo
calò sulla mia tibia, che sentii andare in frantumi; e io
gridai, urlai come
mai avevo fatto in vita mia.
Urlai
il mio mantra, afferrandomi
a una tavola sollevata del pavimento e inarcando la schiena «che
umana coraggiosa»
disse Maria «mi
fai venir voglia di
trasformarti. Se il tuo adorato vampiro accetterà di
ritornare alla sua vecchia
vita senza opporsi, forse ti concederò l’onore di
far parte anche te del mio
esercito»
disse.
Le
sue parole mi colpirono e
passarono oltre la mia coscienza: stavo svenendo di nuovo.
Questa
volta, però, ero scusata:
avevo fame e sete, il mio corpo era stato tagliuzzato in mille punti e
il
sangue che stavo perdendo dalla schiena e dalla testa di certo non mi
aiutava a
stare sveglia.
Marina
diede un altro piccolo
calcetto alla mia gamba –con mio orrore vidi l’osso
uscire dalla carne
completamente frantumato– e si diresse verso la madre «vado
a caccia, tienimela in caldo»
disse.
Maria
diede un piccolo bacio
sulla fronte della ragazzina, poi la salutò e
ritornò a fissare il suo sguardo
rosso rubino su di me «è
ora di altre fotografie»
canticchiò, avvicinandosi e
iniziando un’altra sessione di immagini macabre che avrebbero
condotto Jasper
se non alla follia almeno dalla folle vampira.
Maria
doveva aver fatto almeno un’altra
ventina di foto prima che la ragazzina ritornasse, con gli occhi di
nuovo rossi
come sangue.
Io
non avevo più forze ormai e mi
lasciavo fare tutto quello che la vampira voleva: la mia mente era
troppo
spaccata e devastata dal dolore perché potessi recuperare un
po’ del mio
vecchio orgoglio.
Ogni
ferita pulsava come se fosse
fatta di fuoco e ormai la gamba rotta nemmeno la sentivo più.
Giacevo
stesa a terra come una
marionetta senza fili, con la schiena appoggiata al muro a cui prima
ero stata
sbattuta con i polsi mollemente abbandonati ai miei fianchi.
La
mia vista era nettamente
peggiorata e il mondo era stato avvolto da una nebbia sottile e
turbinante «è
appena tornato Johnson!»
disse la bambina, guardando fuori
dalla finestra entusiasta «e
il vento sta portando l’odore di Landon. Stanno
tornando qui tutt’e due! »
esclamò felice, saltellando sul posto.
Maria
era seduta comodamente su
un covone di paglia secca e soffice e stava giocherellando con una
ciocca dei
miei capelli, come se fossi un animale domestico da coccolare «bene!
Vuol dire che il nostro
servizio fotografico ha funzionato»
mi disse, come se fossi contenta di quegli scatti
dolorosi.
Marina
aprì la porta e uscì,
luccicando nel sole; pensai lì per lì che fosse
un’allucinazione provocata
dalla stanchezza.
Sbattei
le palpebre un paio di
volte, ma il luccichio non scomparì dalla pelle della
bambina.
Ci
misero poco ad entrare nel
capanno i due vampiri seguaci di Maria «bene,
è ora di fare una telefonata»
disse lei, sogghignando.
Risposta
alle recensioni:
Norine: Ma tu
sei Alice sotto
mentite spoglie! XD Si, Maria è perfida da
morire…ma dopotutto se non lo fosse
sarebbe disoccupata!
|
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Capitolo 14 *** Singer ***
14.
Singer
Stetti
a guardare impotente Maria
che componeva quasi in maniera dolce il numero di Jasper «sai,
sei veramente una ragazzina
fortunata»
mi disse mentre avviava la chiamata «deve
voler tanto il tuo sangue
che per cercarti non si è dissetato nemmeno con i suoi
stupidi animali».
Riuscii
a malapena a capire
quello che mi disse.
La
mia mente era completamente
devastata sia dal dolore sia dall’inedia «Maria,
che hai intenzione di fare? »
chiese Landon e la donna si
poggiò l’indice sulle labbra, per farlo stare in
silenzio.
Io
incominciai a sentire il cuore
pompare più in fretta il sangue attraverso le mie vene e
fuori dalle mie piccole
e numerose ferite brucianti.
Doveva
essere l’iniezione che la
piccola vampira bionda mi aveva fatto qualche momento prima; alle mie
orecchie
arrivò lo squillo della linea libera e pensai che Maria
doveva aver messo il
vivavoce alla conversazione.
Sperai
che non rispondesse, anche
se sentire la sua voce sarebbe stato il paradiso, in quel momento;
sperai che
fosse a casa sua, magari a giocare a baseball con quel suo sorriso
caldo e
rassicurante che non avrei più rivisto.
Invece
qualcuno rispose, senza
dire niente: stava aspettando di sentire la mia voce?
Non
riuscii a trattenermi e –utilizzando
le poche forze che avevo– appoggiai la testa pesante contro
il muro e aprii le
labbra «Jas…per»
sussurrai, con le lacrime agli occhi.
Maria
sorrise, sapendo di aver
praticamente vinto «non
ti preoccupare piccola sto venendo a prenderti»
mi disse e per la prima volta
sentii la sua voce lasciar trasparire angoscia pura. Cercai di urlargli
qualcosa, di tornare indietro, ma non avevo più fiato «cosa
ti hanno fatto? »«abbiamo
solo giocato un po’ con
lei, cucciolo»
disse la vampira, guardando lo schermo del cellulare
come se potesse vedere Jasper cambiare espressione del volto.
Io
mi abbandonai di nuovo a
terra, cercando di riuscire a respirare «non
hai visto le foto che ti ho mandato? Speravo ti
piacessero»
aggiunse Maria, alzandosi dal covone di paglia e
iniziando a camminare avanti e indietro.
Cominciavo
a vedere la sua figura
sfocata e scura, quasi sdoppiata «stai
bene attenta a non esserci quando arriverò lì,
perché
ti farò a pezzi»
disse Jasper.
Sembrava
volesse sbranare il
cellulare, da quanto la sua voce fosse irata; alcuni ringhi avevano
frammentato
le sue parole, tanta era la rabbia.
Maria
si accigliò un attimo, per
poi tornare sorridente come prima «ma
io e te dobbiamo parlare di affari! Fai presto ad
arrivare, cucciolo…altrimenti potrei non riuscire a
trattenere qualche mio
amichetto qui e la tua Cantante potrebbe finire un po’
più disidratata del
dovuto.
E
mi raccomando, non portare
nessuno dei tuoi cari parenti; io voglio solo te».
Non
mi diede nemmeno di sentire
per l’ultima volta la sua voce: semplicemente Maria distrusse
il cellulare.
Rimasi
ad aspettare.
Ad
ogni alito di vento che entrava
dalla porta lasciata aperta speravo che portasse il suo profumo.
Invece
quel vento caldo e quasi
appiccicoso mi incollava addosso la polvere e agitazione.
Maria
era appoggiata allo stipite
della porta, lasciando che la sua ombra si allungasse su di me, come
per
ribadire il pieno possesso che lei aveva sul mio corpo.
I
due vampiri e la ragazzina
bionda erano all’interno del capannone, chi seduto sulla
paglia e chi intento a
giocherellare con i resti dei topi dissanguati.
La
gamba rotta aveva iniziato a
farmi più male del solito e sospettai un’infezione
«eccolo,
finalmente»
sussurrò Landon, lanciando il
piccolo topolino morto alle sue spalle.
Marina
sogghignò, sedendosi sulle
gambe del mingherlino Johnson e guardando verso la porta.
I
miei occhi stanchi finalmente
riuscirono a posarsi sul vampiro che tanto improvvisamente mi ero
ritrovata ad
amare e altre lacrime scesero: era finita.
Non
c’era Emmett o Edward con
lui.
Nemmeno
Raven o la glaciale
Rosalie.
Era
solo.
Solo
per salvare me, la sua
Cantante «quanto
tempo Jasper, è una vita che non ci vediamo! »
esclamò Maria, avvicinandosi a
lui con le braccia aperte.
In
un secondo la mia mente pensò
che se lo avesse anche solo toccato le avrei staccato la testa a morsi;
sulle
mie labbra cianotiche comparve un sorriso amaro.
Se
avessi potuto staccarle la
testa a suon di morsi non sarei finita lì. Mi maledii per
non essere anche io
una vampira «dov’è»
sentii la voce dura e fredda di Jasper sbattermi
addosso come un carico di cemento: era così diversa rispetto
qualche ora prima.
Maria
lo fece avvicinare di un
paio di passi alla porta, poi lo abbracciò da dietro e
sembrò sussurrargli
qualcosa all’orecchio «ritorna
alla tua vecchia vita Jasper…annusa l’aria, ti
ho fatto un meraviglioso regalo»
e detto questo lo condusse a pochi metri da me.
Gli
occhi color carbone del
vampiro subito guizzarono ad ogni mia ferita: aveva iniziato a
respirare come
un animale, cercando di trattenersi dall’aggredirmi.
Maria
si avvicinò a me e
rudemente mi tirò su «guarda,
non è appetitosa? »
gli domandò, osservandomi.
Non
avevo la forza di reagire, a
malapena riuscivo a tenere su la testa, e lo guardai con disperazione;
sapevo
che per lui era quanto mai difficile.
Lo
vedevo lottare dentro di sé,
lo vedevo nei suoi occhi neri che mi voleva, che voleva il mio sangue.
E
che in contemporanea voleva
gettarsi su Maria per farla fuori.
La
vampira mi cacciò di nuovo a
terra, camminando voluttuosa attorno al vampiro biondo «se
proprio non riesci, povero
cucciolo, posso sempre farlo io per te. Ha un odore veramente squisito
ed è
stata dura trattenersi fino ad adesso…ritorna alla tua
vecchia vita e la
trasformerò. Ho notato che avrebbe un potere veramente
interessante».
Maria
ritornò ad appendersi al
suo collo, guardandomi malevola, e posando sulle labbra di Jasper le
sue dita
sporche del mio sangue.
La
reazione fu pressoché
immediata: il vampiro la scansò con una potente manata e
fece qualche passo
verso di me.
I
miei occhi ormai erano quasi
completamente ciechi per il dolore e per la stanchezza.
Sorrisi,
sapendo quello che
avrebbe fatto; non mi dispiacque l’idea di morire per mano
sua e l’accettai
senza oppormi.
Mi
stava ringhiando contro, con i
suoi occhi scuri lucidi di pazzia e io, nei miei ultimi istanti,
riuscii a
pensare che era maledettamente bello anche così.
Chiusi
gli occhi, aspettando di
sentire i suoi denti affondare nel mio collo e succhiarmi via la vita,
di farla
sua completamente.
Aspettai
di diventare parte di
Jasper, del suo essere.
Ma
invece del dolore del suo
morso e della stanchezza che mi uccideva, sentii un grido irato.
Quello
di Maria.
«Maledetto
Whitlock! »
«Prendeteli!
Non devono scappare! »
«Sarah!
»
Il
grido di Jasper mi fece
riaprire gli occhi.
Ero
sempre a terra, nella polvere
e sul duro cemento, ma qualcosa era cambiato.
Sentivo
rumori di lotta, i gridi
rabbiosi di Maria, le mani fresche del mio vampiro tenermi il viso.
Lo
vedevo circondato da un alone
sfocato, le mie lacrime rimaste attaccate alle ciglia, e per
un’altra volta
ancora pensai che era veramente un angelo.
Nei
suoi occhi non c’era più la
foga che avevo visto prima «Jazz…»
riuscii a dire, muovendo appena le labbra.
In
quel momento il suo soprannome
era meno complicato da sussurrare nei miei ultimi respiri «Sarah
ascoltami, resta sveglia! »
mi disse ancora, sollevandomi
come un fuscello.
La
costola rotta e la gamba
mandarono parecchie fitte, ma non avevo la forza di gridare.
Rimasi
ad annaspare in cerca di
aria, mentre lui correva fuori dal capannone; i miei occhi spalancati
cominciarono
febbrilmente a osservare attorno a noi due.
Edward
e Carlisle stavano
occupandosi della bambina e di Johnson, in fondo al capanno.
Emmett,
con un ringhio basso,
stava finendo di fare a pezzi Landon, poco lontano dalla porta.
Maria
era impegnata a combattere
contro Raven, concentrata nel tenere la malvagia vampira alla larga da
me e
Jasper.
Il
mio cuore batteva così
velocemente che mi sembrava stesse esplodendo.
Quegli
eccitanti nella siringa
dovevano esser entrati completamente in circolo «Sarah
guardami»
disse il mio biondo vampiro, tenendomi la testa
lievemente sollevata.
Mi
sentivo senza peso e i miei
continuavano a girarsi e a chiudersi; mi sembrava di essere una malata
mentale,
in quel momento.
Mi
ricordai della volta che ero
svenuta, dopo aver visto il cadavere di mio nonno.
La
sensazione era la stessa, ma
amplificata migliaia di volte; le orecchie mi fischiavano e mi sentivo
le vene
nel collo pulsare a ritmo frenetico.
Anche
Jasper doveva essersene
accorto.
Rapida
vidi una mano bianca e
piccola sbattere contro il suo petto facendolo volare
all’indietro.
Io
rimasi li dov’ero, trattenuta lontano
dal suolo dalle piccole dita di Marina.
Veloce
la bambina mi prese per il
collo e piantò i suoi piccoli ma affilati denti nel mio
collo.
Il
dolore fu tale che le bollenti
ferite pulsanti mi parvero diventare fredde come ghiaccio e il ringhio
spaventato e irato di Jasper non riuscii a sovrastare il grido che
lanciai in
quel momento.
Risposta
alle recensioni:
Norine:
Ehehehe, insegna molto
guardare L’Enigmista xD
Sa chan: non
ti preoccupare, so
che sei una delle mie fans più sfegatate :3
|
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Capitolo 15 *** Angel ***
15.
Angel
Il
mondo aveva preso
immediatamente colore, come se qualcuno ne avesse aumentato il
contrasto a
dismisura.
I
denti di Marina affondavano più
e più volte nella mia carne, come se volesse mangiarmi viva.
Davanti
ai miei occhi vidi Jasper
alzarsi e correre verso di me, il volto contratto dall’ira:
non lo avevo mai
visto così.
Sembrava
un enorme leone intento
a saltare addosso a una piccola iena che aveva oltrepassato il suo
territorio;
tutto il mondo aveva iniziato a muoversi alla moviola, con i bordi
brillanti e
netti, come tagliati nella carta colorata.
La
pelle di Jasper, attraversata
da alcuni raggi di un sole che volgeva al tramonto, brillava come se
fosse
stata composta di tanti piccoli diamanti luminescenti.
I
suoi occhi neri erano ritornati
lucidi e i denti bianchissimi e perfetti erano scoperti in un ringhio
che io al
momento non potevo sentire.
Ogni
suono era coperto dal pulsante
e rocambolesco battito del mio cuore.
Tu-tum.
Tu-tum-tu-tum.
Sembrava
l’assolo di un
batterista con quattro braccia.
Marina
aveva staccato i denti dal
mio collo e mi aveva gettata al suolo, poco lontano da un cespuglio
secco e
spinoso.
Guardai
Jasper lanciarsi sulla
bambina e rompergli il collo di netto, fracassargli il petto e
lanciarla lontano;
tutto sembrava aver iniziato a tremare, le figure si sdoppiavano e si
riunivano
come in un colorato e conosciuto caleidoscopio.
Sembrava
che nelle mie vene
stesse scorrendo fuoco liquido, che mi bruciava da dentro e faceva
impazzire.
Vidi
il dottor Carlisle
avvicinarsi preoccupato a me, alzando le mani e pressare sulla ferita
che avevo
il collo «Edward!
Jasper presto! »
chiamò e la sua voce mi parve assumere tre toni
differenti.
Come
se fossero state tre persone
diverse in coro a dire quella frase.
Vidi
avvicinarsi Edward,
accigliato e intento a confabulare con il padre.
Vidi
Jasper corrermi vicino,
mettermi una mano dietro la nuca e alzarmi la testa «il
veleno sta entrando in circolo»
sentii di nuovo Carlisle parlare.
Il
mio corpo ormai completamente
in fiamme cominciò a tremare e sussultare, come se fosse
stata epilessia.
Pressai
entrambi i piedi a terra
e inarcai la schiena, urlando.
Quell’acido
che mi stava
corrodendo sembrava bruciarmi persino l’anima; tutto a
partire da quel morso
che sentivo bruciare più di ogni altra cosa.
Ero
immersa in un mare di fiamme
e per un attimo compresi come si dovevano esser sentite le streghe,
all’epoca
dell’inquisizione.
Altri
borbottii, frasi che non
riuscivo a capire e parole che si intrecciavano con altre.
Poi
d’improvviso le dolci,
morbide e fresche labbra di Jasper sulla mia ferita; il sollievo fu
quasi
istantaneo.
Il
mondo stava ritornando a
quello di sempre e il fuoco si stava ritirando dal mio corpo come
succhiato via
da qualcosa.
Avvertii
le braccia forti e
sicure del mio biondo vampiro abbracciarmi, tenermi lontana dal terreno
sconnesso e pieno di infimi sassolini.
Vidi
con la coda dell’occhio la
sua nuca e dietro di lui Raven, che si avvicinava arrabbiata.
Guardai
il volto di Carlisle,
concentrato a osservare Jasper, e quello di Edward rivolto verso la
propria
ragazza.
Lo
vidi farle segno di
avvicinarsi, come se fosse potuta d’esser d’aiuto.
Sapevo
che stavo per morire, ma
non mi importava: l’importante era che il mio angelo biondo
fosse vivo e con me,
per il momento.
Dopo
tanto tempo un piccolo
sorriso nacque timido sulle mie labbra; non che Jasper fosse
propriamente vivo,
ma il concetto era quello.
Edward
sbuffò, leggermente più
sollevato «se
fa certi pensieri, direi che sta bene»
riuscii a sentire le sue parole
e avvertii una nota divertita nella sua voce.
Alzai
stancamente una mano e la
poggiai sulla nuca di Jasper, aggrappandomi ai suoi capelli.
Il
fuoco era scomparso del tutto
e io mi sentivo dannatamente stanca, dannatamente umana.
Lo
guardai staccarsi da me, con
gli occhi illuminati di rosso come quelli dei vampiri che mi avevano
rapita e
una lieve riga di sangue che partiva dall’angolo delle sue
labbra.
Sorrisi
ancora, perché i suoi
occhi rossi non erano comparabili a quando avevano quella sfumatura
dorata e
calda «stai
sveglia piccola, non ti addormentare»
mi sussurrò, preoccupato.
Ma
ero così assonnata e la sua
visione così rassicurante, così come la sua voce.
Chiusi
gli occhi solo per un
attimo solo, il tempo di pulirli dalla polvere e dalle lacrime che per
il
dolore dovevano esser sgorgate senza che io me ne fossi accorta.
E
il mondo scomparve dalla mia
coscienza, come se qualcuno avesse annullato ogni mio senso.
Aprii
gli occhi solo sotto
esortazione di una voce a me familiare.
La
zia Lindsay era seduta sul
materasso di una brandina riconobbi come un lettino ospedaliero.
Avvertii
sulla mia pelle le
costrizioni di parecchie bende e la gamba rotta era stata ingessata e
appoggiata su un cuscino.
Anche
la mia testa era fasciata e
sentii la garza coprire delicatamente ma con efficacia la ferita alla
cute «ben
svegliata»
mi disse la zia, sorridendomi.
Notai
che aveva pianto, perché i
suoi occhi erano gonfi e rossi «mi
hai fatto venire un colpo lo sai? »
aggiunse, prendendomi la mano e
sfregandoci sopra il pollice.
Sorrisi
«ciao
zia…scusami»
dissi, con voce roca.
La
gola mi faceva ancora male, ma
stavo bene…meglio di prima.
I
miei occhi girovagarono per la
stanza, fissandosi prima su una flebo collegata al mio polso sinistro,
poi su
Jasper.
Era
seduto su una sedia non poco
lontano da me e sembrava che dormisse. O almeno, stava fingendo di
dormire,
forse per dare un po’ di libertà a me e a mia zia «è
qui da almeno tutta la notte»
mi disse zia Lind, guardando
Jasper «non
ho mai visto un ragazzo più bravo di lui. Mi ha
raccontato tutto quel che è successo»
«cos’è
successo? »
chiesi.
Recitai
la parte della povera
smemorata, sperando di scoprire quale fandonia si fosse inventato il
ragazzo «dei
delinquenti ti hanno rapito
mentre tu e i tuoi genitori stavate tornando a casa, cara. Purtroppo
tua madre
e tuo padre non sono stati così fortunati».
Immaginai
che Maria e i suoi scagnozzi
avessero fatto fuori i miei genitori, mentre tentavano di scoprire dove
fossi
andata.
Non
mi dispiacque più di molto, a
dire il vero.
La
mia vera famiglia non era mai
stata quella; la zia sospirò «forse
è meglio che ti lasci riposare ancora un po’
tesorino»
mi disse –e il termine con cui mi chiamò mi fece
rabbrividire– «ritornerò
domani e quando i dottori riterranno
opportuno rimandarti a casa ti riempirò di schifezze»
ridacchiò infine, facendomi l’occhiolino.
Per
un attimo mi venne l’acquolina
in bocca, nel pensare alla cucina della zia Lind.
La
salutai con un piccolo cenno
delle dita e la guardai chiudersi dietro la schiena la porta,
traghettata col
numero 25 «te
l’ha mai detto nessuno che sei uno stalker? »
sussurrai a Jasper, qualche
minuto dopo.
Lui
subito alzò la testa e mi
sorrise, anche se in fondo a quella gioia potei vedere preoccupazione «si
credo che me l’abbia già detto
una ragazza, non molto tempo fa».
Si
alzò e si sedette vicino a me,
avvicinando una mano per accarezzarmi una guancia «come
ti senti? »
disse, il tono di voce ritornato
dolce e premuroso, come lo avevo sempre amato «una
drogata malmenata»
risposi, ridacchiando.
Mi
guardò un po’ accigliato, poi
sospirò, lasciando che un altro dei suoi sorrisi
meravigliosi mi irradiasse «se
fai dello spirito vuol dire
che stai bene»
mi disse, guardandomi come se fosse fatta di
cristallo «non
sai…quanto ci sono andato vicino…per ben due
volte…stavo
per ucciderti e non me ne sarebbe importato nulla. Sono un mostro»
mi sussurrò, senza guardarmi con
i suoi magnetici occhi dorati.
Alcune
ciocche dei suoi capelli
biondi erano cadute sui suoi zigomi «smettila
non sei un mostro»
gli dissi, prendendogli la mano
e stringendola quanto più potei «un
mostro avrebbe continuato a succhiarmi tutto il
sangue…invece tu ti sei fermato e mi hai salvato la
vita…se non ci fossi stato
tu sarei diventata un angioletto come te».
Lui
sbuffò «ho
detto qualcosa di sbagliato?
Tu sei bello come un angelo»
aggiunsi, arrossendo appena; lui mi sorrise,
avvicinandosi «se
non avessi tirato via il veleno dal tuo corpo,
adesso saresti ancora agonizzando mentre ti staresti trasformando in
vampira»
mi disse, guardandomi serio «cosa
che io assolutamente non
voglio…sei bellissima così come sei, umana».
Non
dissi nulla.
Lo
guardai solo avvicinarsi e
darmi un casto bacio all’angolo della bocca «ti
amo così come sei»
aggiunse, sussurrandomi le parole direttamente nell’orecchio.
Rabbrividii,
abbracciandolo senza
forze.
Lui
fece la stessa cosa,
cullandomi teneramente finché non mi addormentai, con una
piccola lacrima che
mi scendeva limpida sulla guancia.
Per
questo capitolo ringrazio Roberto Cacciapaglia e le sue meravigliose
canzoni :3
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Capitolo 16 *** Flamenco ***
16.
Flamenco
Passai
una decina di giorni
chiusa in quell’ospedale che scoprii essere nella mia
città natale.
Saltai
i funerali sia di mio
nonno sia dei miei genitori, rividi la zia Lind almeno ogni due giorni
e Jasper
stette con me per tutto il mio periodo di convalescenza.
Mentre
sentivo i tagli chiudersi
e le ossa rinsaldarsi, lui mi aveva raccontato un po’ del suo
passato; parlò di
Maria, la vampira che lo aveva trasformato, e di come aveva ucciso
parecchie
persone e vampiri assieme a lei nel tentativo di conquistare
l’intero sud.
Almeno
ogni tre ore dovevo
ricordargli che non era un mostro e che se lo avesse ridetto avrebbe
rischiato
di ricevere una scarpa in faccia.
Ma
ogni volta rideva e andava
avanti nel racconto, senza mai ricevere nessun oggetto su quel volto
d’angelo.
Dopo
che ebbi saputo tutto o
quasi di lui e della storia che aveva alle spalle, era il momento di
dare aria
alla bocca e raccontargli un po’ di me.
Lui
che mi aveva vista ridere e
piangere, soffrire e diventare rossa come un peperone –come
piaceva tanto a
lui–; lui che mi aveva fatto scoprire una vita pericolosa e
meravigliosa, che
mi aveva salvato da morte certa per ben due volte…non sapeva
nulla di me.
Gli
raccontai, mentre lui mi
faceva appoggiare al suo petto come un cuscino, che un paio di anni
prima il
primo ragazzo di cui mi ero innamorata aveva tentato di violentarmi;
quando i
miei genitori lo scoprirono diedero la colpa a me, per come mi
comportavo «così
ho preso e mi sono rifugiata
a Forks, un posto così anonimo che mi sembrava perfetto per
scappare…ma a
quanto pare i posti anonimi hanno sempre dei segreti strani»
ridacchiai.
Jasper
rise con me,
abbracciandomi e lasciando un piccolo bacio in cima alla testa.
Dopo
quel periodo passato lontano
dalla umida cittadina nello stato di Washington, ritornare era stato
come un
tuffo in piscina.
Mi
ritrovai ricoperta di umidità
da capo a piedi in un istante, con il gesso che mi rendeva gli
spostamenti
quasi impossibili.
Ritornai
con gioia alla mia
camera, svuotata dei miei vestiti ma comunque nello stato in cui
l’avevo
lasciata «hai
bisogno di una mano per cambiarti? »
mi chiese la zia, mentre stavo
salendo un po’ a fatica le scale.
Io
dissentii con un cenno del
capo e riuscii a raggiungere la mia stanza in poco più di
cinque minuti fatti
di sbuffate, tonfi, piccole fitte e tante maledizioni.
Quando
aprii la porta, il mio
biondo vampiro era già lì ad attendermi, seduto
sul letto. Come mi vide aprire
la porta scattò in piedi, venendomi vicino e sollevandomi
per la vita senza
alcun problema «guarda
che non sto per morire…di nuovo»
dissi ridendo.
Lui
non volle sentir ragioni: mi
trasportò fino al letto, dove mi fece stendere con la
schiena appoggiata alla
testiera e il cuscino sotto il ginocchio «credo
che non potrò andare comunque al ballo»
dissi sospirando «figurati,
cercare di ballare con
questo masso al posto della gamba sarebbe veramente ridicolo»
aggiunsi ridendo.
Jasper
si avvicinò a me,
tenendomi due dita sotto il mento «chiunque
crederà che tu sei ridicola può definirsi
già
un cadavere»
mi sussurrò sulle labbra, baciandomi poi dolcemente.
Di
nuovo il suo profumo mi riempì
totalmente e la mia anima per un attimo si ritrovò
già in paradiso; la sua mano
passò dietro il mio collo, accarezzandomi lieve la pelle con
la punta delle
dita, la mia salì fino alla sua spalla e mi aggrappai a lui,
la mia ancora di
salvezza.
Rimanemmo
immobili in quel modo
per almeno un minuto o due, poi lui si staccò piano per
potermi parlare ancora
con quel suo accento di cui non potevo fare a meno «davvero
non ci vuoi andare? »
mi domandò.
Io
scossi la testa «non
so come la pensate voi
vampiri ultracentenari, ma le povere ragazze come me devono tenersi
alla larga
da certi luoghi quando sono ridotte a questo modo»
gli dissi, scherzosa.
Lui
sembrò capirmi e mi accarezzò
la testa «come
vuoi…anche se mi dispiace che tu non possa
divertirti, dopo quello che hai passato»
mi disse, la sua voce dolce quasi direttamente
nell’orecchio.
Lo
squillo del telefono al
secondo piano mi distrasse un attimo dai suoi occhi dorati e magnetici «Sarah!
È Jacob, ti porto su il
telefono? »
gridò mia zia dal piano sottostante.
Guardai
Jasper «fai
pure piccola»
mi disse con un sorriso.
Arrossii
per il nomignolo che mi
aveva dato e urlai alla zia una risposta affermativa.
Quando
lei aprì la porta di
camera mia, il mio biondo vampiro si era già dileguato dalla
finestra «pronto
Jake? »
risposi, appena mi accostai
all’apparecchio «hey!
Sei viva! Scommetto che i tuoi rapitori si sono
consegnati perché non ne potevano più di te! »
esclamò il ragazzo dall’altra parte della linea «certo,
li ho talmente stressati
che sono corsi via urlando»
risposi a tono, lasciandomi scappare una risata qualche
secondo dopo «veramente
so cos’è successo…te l’avevo
detto di stare
lontana dai Cullen»«come…?
»«mio
padre. Ha parlato col padre della tua sanguisuga e
io sono stato a spiare».
Aggrottai
la voce, offesa «Jacob
Black non ti permettere mai
più!»
esclamai fredda, utilizzando quanta più rabbia
possibile.
Jasper
non era una sanguisuga! «ok
ok, niente nomignoli per il
tuo cadavere ambulante…beh, allora non andrai a quello
stupido ballo, credo»
la sua voce era un po’ delusa,
ma sollevata nel sentirmi ancora intera.
Più
o meno.
Io
sorrisi, un po’ intenerita:
sapevo che stava facendo gli occhi da cucciolo bastonato «no
non credo proprio…sai –ehm–
quei maledetti mi hanno cacciato giù dalla macchina e mi
sono rotta una gamba»«nah,
spero che almeno i tuoi
amici vampiri abbiamo fatto a pezzi quei bastardi».
Scrollai
di nuovo la testa «uno
è riuscito a fuggire, ma non
credo che ritornerà»
dissi, guardando la zia che stava ad ascoltare.
Io
sorrisi «senti
Jake, ora devo andare, ho
una fame che non ci vedo…Ci sentiamo domani? »
«ok
vengo a trovarti io non ti preoccupare»
mi disse e capii dalla sua voce
che mi stava sorridendo.
Menomale,
pensai, non volevo
litigare di nuovo con lui.
Chiusa
la conversazione diedi la
cornetta alla zia «che
c’è per cena? »
chiesi con la faccia più supplichevole che riuscii a
fare.
Zia
Lind rise e scese al primo
piano, per prepararmi qualcosa di gustoso ma poco impegnativo.
Passarono
un paio di giorni senza
che io vedessi Jasper.
Mi
intristii un poco, ma pensai
che forse era andato a caccia; Jacob mi venne a trovare quasi ogni
giorno e io
non mi stupii che si fosse alzato ancora «la
smetti di crescere? »
gli domandai un giorno, mentre stava facendo il
buffone per raccontarmi di come Leah gli aveva fatto spudoratamente le
avances
davanti al suo ex Sam «e
che ci posso fare»
mi rispose, alzando le spalle «tu
hai qualcosa e non me lo vuoi
dire…stai per morire di una malattia rara, lo sento! »
esclamai io dopo qualche minuto,
fingendomi la più grande attrice drammatica di tutti i tempi.
Con
il solo risultato di farlo
accasciare a terra in un attacco di risate acute.
Non
mi spiegò nulla e io sentivo
veramente che c’era qualcosa in lui che era cambiato, come
una levetta che era
scattata da qualche parte dentro il suo corpo.
Passati
quasi cinque giorni, io
finalmente mi decisi ad abbandonare il sicuro rifugio di camera mia per
prendere un po’ d’aria.
Il
gesso non era poi più così
pesante –segno che mi stavo completamente
ristabilendo– e riuscii ad arrivare
fino in giardino senza arrecare danni.
Fu
mentre mi stavo sedendo sulla piccola
panca di legno che sentii un clacson conosciuto: alzai lo sguardo fino
alla
strada e non mi stupii di vedere la jeep scura con a bordo Jasper.
Lo
guardai scendere con grazia
dalla macchina e dirigersi verso di me; le pesanti nubi che coprivano
il cielo
non toglievano nulla alla sua bellezza «finalmente
sei uscita dalla fortezza in cima alla
torre, principina»
mi disse, chinandosi e baciandomi dolcemente la mano.
Arrossii,
come mio solito «ho
una sorpresa per te»
aggiunse, prendendomi in braccio
«hey!
»«ti
piacerà, vedrai»
continuò, trasportandomi fino
alla vettura.
Sbuffai
giocosa e tirai appena
una di quelle ciocche bionde e un po’ ricciute «dimmi
che cos’è, mi è già bastato
esser stata rapita
una volta»
scherzai, anche se sul suo volto si dipinse per un
attimo la tristezza. Aprì la portiera dalla parte del
passeggero, tenendomi con
un braccio solo «ti
ho già detto che è una sorpresa, testona.
Altrimenti te l’avrei già detto»
ridacchiò, posandomi dolcemente sul sedile e
guardandomi con i suoi occhi caldi e rassicuranti «stai
buona piccola, non ci
metterai molto a scoprirlo»
mi sussurrò, accarezzandomi la guancia e facendomi
l’occhiolino.
Stetti
brava per tutto il
viaggio, guardando fuori dal finestrino il paesaggio che cambiava:
percorremmo
la strada che portava fuori da Forks e Jasper imboccò un
sentiero sterrato che
portava fino in mezzo alla foresta rigogliosa.
Come
se conoscesse a memoria la
strada, fermò la macchina vicino a un albero dalla forma
contorta e scese «ci
siamo quasi, chiudi gli occhi ok?
Andremo un po’ veloci»
mi disse, dopo aver aggirato la jeep con la sua
velocità vampiresca e avermi presa di nuovo tra le braccia.
Io
mi aggrappai al suo collo,
facendo come mi aveva detto; provai di nuovo sulla pelle quella
sensazione che
già una volta mi aveva fatta credere di star volando.
Quella
volta, però, seppi che ero
al sicuro e mi sembrò quasi la cosa più naturale
del mondo.
Poi
c’era il rumore dei polmoni
di Jasper che si riempivano e si svuotavano rilassati, come se la corsa
non gli
pesasse per niente.
Con
un po’ di tristezza pensai
che doveva mancargli il battito del proprio cuore nel petto «siamo
arrivati»
mi sussurrò all’orecchio.
Tirai
su la testa e quello che
vidi fu quasi incantevole: davanti ai miei occhi c’era un
piccolo praticello
rotondo con l’erba bassa e punteggiata di fiorellini bianchi.
Accanto
ad esso, separato da un
piccolo cespuglio basso e odoroso, c’era un laghetto
d’acqua limpidissima e
bassa, alimentato da un ruscelletto che tintinnava argentino e ci si
tuffava
dentro con tante piccole cascatelle da una roccia ricoperta di edera e
muschio.
I
rumori dell’acqua e dei pochi
animali che si azzardavano a uscire di giorno «è
meraviglioso…»
«è
il luogo più intonato a te».
Lo
guardai senza capire bene la
sua frase «quando
sono qui tutto mi ricorda te ancora di più. Sei
fresca e limpida come quel laghetto, mi entri dentro come
l’odore di quell’arbusto…»
prese da terra un piccolo fiore
bianco, che mi sistemò in cima all’orecchio «e
sei delicata come queste campanelle».
Se
non avessi avuto la gamba
rotta a cui pensare sarei caduta a terra; la mia faccia aveva preso
fuoco e mi
ero completamente dimenticata come si faceva a parlare.
Jasper
mi fece alzare il volto
come solito era fare, con un paio di dita sotto il mio mento, e per la
terza
volta mi baciò.
Chiusi
gli occhi, lasciandomi
andare; nella mia mente risuonava un’orchestra sinfonica di
mille violini e
pianoforti, mille arpe e mille cimbali.
Quello
era il mio posto, la mia
casa.
Jasper
era la casa a cui avrei
voluto sempre ritornare e da cui non sarei mai riuscita a scappare.
Mi
ci ero incatenata da sola e
non volevo ritrovare le chiavi; ero completamente in suo possesso, in
possesso
del vampiro di cui mi ero follemente, insanamente innamorata.
Jasper
si staccò da me dopo una
manciata di secondi durati una vita e mi guardò negli occhi,
trapassandomi come
se fossi stata di vetro «aspettami
qui, arrivo subito»
mi disse col suo sorriso dolce,
lasciandomi sedere su un cuscino d’erba e muschio.
Io
annuii, allungando il braccio
il più possibile per ritardare la nostra piccola temporanea
separazione.
Quando
sparì dalla mia vista
ripresi un lungo respiro.
Se
mai ci fossimo lasciati e se
mai io sarei sopravvissuta a una tragedia simile, non sarei riuscita a
trovare
qualcuno che lo eguagliasse in qualsiasi maniera.
Era
perfetto, come se fossimo
stati i due pezzi di un enorme puzzle e ci fossimo rincontrati per
volere del
fato.
Mi
chiesi come avevo vissuto fino
a quel momento senza sapere che nel mondo esisteva –e molto
prima che io nascessi,
per giunta– un ragazzo così dolce da farmi
sciogliere con un solo gesto della
sua mano.
Jasper
ritornò quasi subito, il
tempo di finire la mia rapida chiacchierata mentale con me stessa, con
uno stereo
portatile sotto braccio «e
quello? »
domandai, senza ottenere risposta.
Lui
lo posò su una roccia poco
lontano da noi, alzò il volume quanto bastava e premette
play; qualche secondo
e dalle casse partì il suono di una chitarra, suonata con
maestria per comporre
una melodia che mi sapeva di Spagna «spero
ti piaccia, ho dovuto lottare un po’ con la
cassetta del mangianastri prima che mi registrasse per bene».
Io
lo guardai strabiliata «sai
anche suonare la chitarra? »«beh…si.
Ti disturba la cosa? »
rispose un po’ intimorito dalla
mia domanda.
Io
sbuffai, abbracciandolo di
slancio «sei
proprio un uomo del sud»
esclamai, ridacchiante.
Lui
mi prese dolcemente la vita «magari
sarebbe stato meglio se
avessi chiesto a mio fratello di suonarmi qualcosa al piano…»
aggiunse, parlandomi nell’orecchio
mentre mi teneva sollevata da terra.
Io
lo lasciai fare, mentre mi
sorrise contro la pelle del collo «mi
offre questo ballo signorina? »
mi chiese, ridacchiando al mio
imbarazzo.
Stupido
potere, pensai, non
potevo nascondergli niente «e
va bene…anche se non sono esattamente una bravissima
ballerina di flamenco»
dissi.
Ci
mettemmo a ballare come due
professionisti, in quel piccolo prato che io sentivo solo nostro, con
lui che
stava ben attento a non farmi sfiorare il terreno con la gamba
ingessata.
Risi
parecchio, sentendomi come
una bambina che ballava in braccio al padre, e appena la canzone
finì io rimasi
a guardarlo con un po’ di fiatone «olè?
»
feci, guardandolo alzare il sopracciglio «no,
Emmett che non ne poteva più
di sentirmi suonare»
rispose e risi ancora.
Quanto
mi era mancata quella
tranquillità, quella serenità.
Erano
stati giorni di fuoco, gli
ultimi che avevo vissuto: cadaveri, vampiri assetati di sangue umano,
passati oscuri
e un amico che continuava a voler che io lasciassi l’angelo
che mi aveva
salvato.
Mentre
ci osservavamo –o meglio,
mentre io lo guardavo innamorata e lui sondava le mie
emozioni– partì un’altra
canzone, qualitativamente superiore a quella di prima.
Era
più tranquilla e rilassante.
Jasper
mi rimise a terra,
guardandomi «perché
prima eri triste? »
mi chiese, accarezzandomi la
testa.
Capii
subito che si riferiva a
pochi minuti prima, ma non sapevo se dirglielo; presi un respiro e
parlai «ero
solo un po’ dispiaciuta…non
ti mancano i battiti del tuo cuore? Non ti manca essere umano? »
chiesi, posandogli una mano in
mezzo al petto «no»
rispose semplicemente, senza rimpianti «ho
già te che vivi al posto mio.
Io preferisco rimanere vampiro per poterti stare accanto sempre».
Mi
abbandonai completamente su di
lui, appoggiandomi un po’ «voglio
sapere quand’è il tuo compleanno»
dissi «voglio
regalarti qualcosa di
speciale».
Lui
ridacchio «e
chi se lo ricorda più? Lascia
stare…il mio regalo più grande sei tu»
«no!
Insisto…Jasper quand’è il tuo
compleanno…è
impossibile che tu non lo sappia».
Mi
guardò un po’ colpevole «dopo
anni che uno non ci pensa,
non è che sia proprio automatico…»
sospirò, sapendo che non mi sarei fermata davanti a
un’insulsaggine simile.
Lo
poteva sentire che ero
determinata.
Jasper
mi afferrò per la vita e
si lasciò cadere sull’erba, portandosi dietro
anche me; con un grido di
sorpresa mi lasciai cadere sul suo petto e per un momento mi domandai
se gli
avessi fatto male.
Poi
mi sbattei una mano sulla
fronte: quello poteva fermare i proiettili come Superman, figurarsi una
piccola
umana.
Rimanemmo
stesi sull’erba, a
guardare i piccoli sprazzi di cielo che gli alberi ci concedevano.
Stava
scendendo la sera, ma non me ne importava granchè «stavo
pensando…»
cominciai e lui mi baciò sulla
fronte «allora
c’è da preoccuparsi»«stupido
vampiro…dicevo, perché non
vuoi che io diventi vampira? »
chiesi.
Jasper
si tirò su sui gomiti,
guardandomi «che
domande sono queste? »«ti
prego è solo curiosità…».
Lo
vidi sospirare, sconfitto «perché
non è vita, questa. Certo
siamo praticamente invulnerabili, ma l’aspettativa di vivere
per sempre e di
non poter essere liberi di essere se stessi…non è
bello. Io sono diventato
vampiro non per mia scelta»
disse guardandomi con i suoi occhi magnetici «Non
mi piace essere umana…»«Sarah,
smettila»«tu
mi hai rotto per dieci lunghi
giorni di essere un mostro, ora ti rompo un po’ io di essere
una cosetta
fragile e flaccida! »
e detto questo misi il muso.
Lui
mi guardò e dopo un po’ rise
di gusto «tu
non sei arrabbiata…lo sai che non mi puoi fregare»
mi disse, stendendosi di nuovo e
abbracciandomi.
Io
smisi la mia commedia, posando
la testa sul suo braccio e rannicchiandomi contro di lui quanto potevo,
inspirando il suo profumo «resterò
un’inutile e fragile cosina…ma solo per te»
dissi «finché
qualcuno non tenterà di
nuovo di trasformarmi»
aggiunsi, ridendo.
Jasper
mi guardò un po’ offeso,
poi capii che probabilmente stavo scherzando e mi strinse
più forte a sé «ti
amo più di qualsiasi altra
cosa»
mi sussurrò, baciandomi la tempia un’altra volta.
Io
sorrisi, stringendo tra le
mani il tessuto della sua maglia «anche
io…non sai quanto».
Rimasi
ferma ad assorbire con
ogni cellula il dolce calore che mi partiva dal cuore per scaldarmi,
per
contrastare il piccolo inconveniente della sua pelle fredda.
Seppi
in quel momento che il mio
cuore stava battendo per lui, per rimpiazzare quell’organo
fermo che Jasper
aveva nel petto.
Dopotutto
non mi parve così male,
essere umana.
Certo
potevo morire per un
semplice incidente, ma sapevo che il mio bell’angelo biondo
non mi avrebbe
permesso di lasciarlo, quasi com’era successo quasi due
settimane prima.
E
anche io avrei venduta cara la
pelle, prima di abbandonarlo di nuovo.
Continua…
E
così, dopo tante vicende più o
meno belle siamo arrivati alla fine di questa ff, che penso
sarà la prima di
una bella serie.
Ringrazio
di tutto cuore chiunque
abbia seguito e recensito questo mio racconto, soprattutto Norine e Sa
chan,
mie fans sfegatate (hihi).
Ringrazio
il compositore Roberto
Cacciapaglia, che con le sue opere mi ha ispirato –consiglio
a tutti di fare un
salto su youtube eheh–.
Rispondo
a Taty: quella robaccia
puzzolente era carne di vampiro xD Maria aveva mandato Johnson a
uccidere un
vampiro a caso per prendere un po’ di carne e depistare
Jasper dall’odore di
Sarah, fin quando avrebbe voluto.
Rispondo
a Norine: beh, è una sorta di liberazione. Dopo tutta quella
tragedia Sarah è ancora sconvolta dentro e una lacrima
scappa al suo contegno nonstante tutto.
Qui
le musiche di Jazz.
La
prima, flamenco style: http://www.youtube.com/watch?v=lEyFxK-d2Qs&feature=related
La
seconda, più romantica (anche
se purtroppo è corta): http://www.youtube.com/watch?v=udYDkE5nYHM&feature=related
Grassie
veramente a tutti quanti.
Bearhug
to everybody :D
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