Southern accent

di Flaminia_Kennedy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** First sight ***
Capitolo 2: *** Open Book ***
Capitolo 3: *** Phenomenal ***
Capitolo 4: *** Invites ***
Capitolo 5: *** Blood group ***
Capitolo 6: *** Horror Tales ***
Capitolo 7: *** Green forest ***
Capitolo 8: *** Port Angeles ***
Capitolo 9: *** Nightmare ***
Capitolo 10: *** Baseball ***
Capitolo 11: *** Abduction ***
Capitolo 12: *** Whitlock ***
Capitolo 13: *** Technology ***
Capitolo 14: *** Singer ***
Capitolo 15: *** Angel ***
Capitolo 16: *** Flamenco ***



Capitolo 1
*** First sight ***


Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Stephanie Meyer -tranne Sarah Field i suoi parenti e Raven Cullen, che sono di mia inventiva-; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

Non avevo mai pensato seriamente alla mia morte, nono­stante nei mesi precedenti ne avessi avuta più di un'occasione, ma di sicuro non l'avrei immaginata così.
Con il fiato sospeso, fissavo gli occhi scuri del ragazzo di cui mi ero follemente innamorata, a qualche metro lontano da me, e lui mi ringhiava contro, ansando come un animale.
Era senz'altro una bella maniera di morire, sacrificarmi alla persona più importante, qualcuno che amavo. Una maniera a suo modo romantica, anche. Conterà pur qualcosa poi quando dovrò arrivare lassù.
Sapevo che se non fossi mai andata a Forks non mi sarei tro­vata di fronte alla morte. Per quanto fossi terrorizzata, però, non riuscivo a pentirmi di quella scelta. Se la vita ti offre un so­gno che supera qualsiasi tua aspettativa, non è giusto lamentar­si perché alla fine si conclude.
Sapevo che lui non avrebbe mai voluto se fosse stato in sé. Era troppo buono per volerlo fare di sua spontanea volontà.
Ma i suoi occhi scuri brillavano, lucidi per la sete e per la pazzia che li aveva nascosti.
Chiusi gli occhi, aspettando e abbandonandomi al mio destino.

1.
First sight

Per la sesta volta in un giorno mi chiesi perché mi ero voluta trasferire a Forks, la zona più piovosa di tutto il continente americano.
Certo, non adoravo il sole di casa mia in Texas, ma nemmeno il perenne strato di nubi che nascondeva il cielo.
Forse perché lì ci abitava mio nonno Arthur, l’unico membro della mia famiglia che io non odiassi con tutta me stessa.
Forse era l’unico luogo sulla terra dove i miei genitori non mi avrebbero mai cercato –se mai avessero iniziato le ricerche–.
Avevano la piccola spudorata Mary a cui badare, non si sarebbero preoccupati troppo della mia assenza.
Dopotutto avevo diciotto anni, era mio diritto prendere e andare a vivere da mio nonno –santo subito– come affittare un appartamento o dormire sotto un ponte da sola.
Appena scesi dall’autobus di linea che mi aveva condotto in quella città umida, osservai il luogo attraverso i ciuffi sbarazzini dei miei capelli corti.
Forks era una cittadina immersa nel verde, con l’aria che sapeva di resina e di freschi ruscelli di montagna; tutta un’altra cosa rispetto all’odore di polvere e di cuoio che avevo imparato a conoscere a casa.
Tenendo in entrambe le mani i borsoni che mi ero portata appresso, mi incamminai lungo la strada che portava lontano dalla piazzetta centrale.
Da quello spiazzo si diramavano tre strade, due che si inoltravano sempre di più nella cittadina e una che conduceva un po’ alla periferia, dove il nonno Arthur Field abitava con la sorella di mia madre, Lindsey.
La zia era sempre stata una di quelle donne a cui non si poteva dir di no in qualsiasi situazione: se insisteva per andare al mare, tempo due giorni si era in spiaggia a sentire il rumore delle onde.
Con quel tipo di carattere la zia poi aveva fatto strage di cuori, arrivando a sposarsi per ben tre volte.
Fortunatamente senza darmi nessun cuginetto rompiscatole.
Mentre camminavo mi chiesi perché mi ero portata tanti vestiti e tanti oggetti che poi si sarebbero rivelati inutili: dopotutto mi sarei trovata presto un lavoro e avrei comprato altri vestiti –decisamente più pesanti, con i miei vestitini leggeri lì sarei morta di ipocondria–.
Sentii un clacson suonare all’impazzata dietro di me e quando mi girai vidi un grosso pick-up nero venire verso di me.
Si accostò al marciapiede e il conducente tirò giù il finestrino riflettente: si trattava del mio migliore amico Jacob Black, un nativo che abitava nella riserva vicino alla spiaggia.
Lo avevo conosciuto qualche anno prima su Myspace e quando mi aveva detto che abitava dalle parti di mio nonno ero rimasta con un palmo di naso.
Era il miglior amico che avessi mai avuto: era di compagnia e non sopportava vedermi triste «Sarah! Non ci posso credere sei già qui! » disse, ridendo di gusto.
Io risposi con un’alzata di spalle «hanno cancellato il volo prima del mio e sono arrivata in anticipo» gli dissi.
Poi guardai la grande macchina, sorpresa di non trovarvi a bordo anche il padre del ragazzo, Billy «il vecchio? » domandai, sorridendo: mi stava passando la malinconia di casa, con Jake «a casa del tuo matusalemme, doveva essere una festa a sorpresa, ma a quanto pare la sorpresa ce l’hai fatta tu! Dai sali, ti accompagno» disse, indicandomi il cassone quando gli feci vedere i borsoni.
Con non-chalance buttai i miei bagagli nel retro del pick-up e feci il giro, salendo sul veicolo.
Jacob rimise in moto e partì lungo la strada che stavo facendo a piedi «allora, che mi racconti? » mi disse lui.
Io esitai, sapendo che l’avrei fatto schiantare da qualche parte se gli avessi detto che mi trasferivo lì. Feci la finta tonta, almeno finché non scendevamo dalla macchina «bah nulla di che, c’era troppo caldo a casa» rispose guardando fuori dal finestrino.
Sapevo di essere arrossita –mi succedeva spesso quando mentivo o ero sotto pressione– ma sperai che lui non notasse nulla «e invece tu, naso a patata? Che mi dici di bello? » svicolai da possibili domande che avrebbero potuto farmi vacillare.
Non ero mai stata molto brava a mentire «mio padre ha deciso di mandarmi a scuola qui a Forks, non più nella riserva. Dice che laggiù ammazzano la mia obbiettività» ridacchiò mentre imitava il tono severo di suo padre.
Jacob aveva qualche anno meno di me, ma mi superava in altezza di almeno una decina di centimetri.
Si che non ci volesse molto a superare i miei miseri 165 centimetri, ma ne andavo fiera.
Sospirai, così l’avrei avuto come compagno di scuola eh? Sapevo già che non avrei passato un giorno di pace con lui nei dintorni «eccoci arrivati» disse mentre inchiodava davanti alla casa di mio nonno.
Era uguale a tutte le comuni case prefabbricate che sostavano sulla costa orientale dell’America, a due piani, bianca con il tetto color ardesia.
Un piccolo portico, il giardino e un garage.
Classica casa americana per un classico americano come mio nonno.
C’era persino la bandiera della nostra nazione fuori dalla porta.
Jacob scese e prese i miei borsoni, mentre io scendevo per i cavoli miei e facevo il giro del pick-up «non ti impressionare troppo ok? » mi disse, facendomi segno poi di seguirlo nel giardino sul retro della casa.
C’era un enorme festone appeso tra due rami del grande albero più vicino alla staccionata che separava la mia futura residenza dall’inizio della foresta, e vacillava un po’ nel vento che iniziava a tirare.

WELCOME BACK SARAH!

La bocca si era spalancata da sola e la voce non voleva uscire.
Io adoravo le feste già per conto mio, ma se qualcuno mi faceva una sorpresa allora tutti si dovevano tenere a qualcosa, perché io sarei scoppiata e avrei travolto la prima persona che mi sarebbe capitata.
Per sua sfortuna, il più vicino a me era Jacob e io, senza esitazione alcuna, mi avventai su di lui «siete tutti dei tesori! » urlai, probabilmente trapanando l’orecchio a Jake, poverino.
Lui rise, cercando però di staccarsi da me e cercando appoggio dalle persone presenti: mio nonno, la zia Lindsay, lo sceriffo Swan con la moglie e la figlia Isabella –mia grande amica a distanza nei momenti di crisi–, il padre e la sorella di Jacob.
C’erano tutti e io stavo quasi per strozzare l’indiano accanto a me.
Mio nonno si avvicinò e mi abbracciò dolce, accarezzandomi poi la testa: gli occhi chiari e i capelli bianchi erano sempre gli stessi, nonostante le rughe avanzassero ogni giorno di più «bentornata piccola! » mi disse «indovina cosa ti ha preparato la zia Lind? ».
Io spalancai gli occhi e presi un respiro «la torta di ciliegie! » e fui sicura che almeno metà della popolazione sentì il mio urlo.
Mi gettai su mia zia, abbracciandola come avevo fatto con Jacob –dandogli anche il tempo al ragazzo di recuperare aria– «vi adoro! » dissi ancora.
Ecco, mi stavano di nuovo venendo le lacrime, per la seconda volta in due giorni.
Isabella –lei odia esser chiamata con il nome intero, così si fa chiamare Bella…per me che avevo avuto una mamma italiana ogni volta mi veniva da ridere e la chiamavo Bella modesta– ridacchiò e mi venne incontro, così come i suoi genitori.
Tutto si svolse in modo normale, mentre gli invitati mangiavano un po’ della mitica torta di ciliegie io guardavo i nuvoloni grigi addensarsi verso est.
E giurai per un attimo di aver sentito un forte tuono, nonostante non avessi visto bagliori all’orizzonte che predicessero un fulmine.

Quando annunciai a tutti che sarei rimasta a tempo indeterminato a Forks quasi tutti rimasero impietriti.
Il primo a risvegliarsi fu Jacob, che come io avevo previsto, si illuminò come un sole «allora verrai a scuola qui! » si esaltò. Io annuii e Bella saltellò «che bello non dovrò usare quel misero IM per comunicare con te! Yay! » mi abbracciò, scuotendomi da una parte e dall’altra.
Passai tutto il pomeriggio a ridere e scherzare con i miei due migliori amici, e quando venne il momento dei saluti Jacob mi sbalordì immensamente.
Infatti mi mise le chiavi del pick-up in mano e mi fece l’occhiolino «facciamo che è un regalo di benvenuto» mi disse e mi diede due pacche sulle spalle.
Billy lo chiamò e lui sparì, salutandomi e correndo verso la macchina del padre.
Rimanemmo solo io, il nonno e la zia Lind, in piedi nel giardino a sistemare tutto.
In realtà eravamo solo io e la zia a sistemare, dato che il nonno Arthur aveva problemi di artrite e cercavamo di farlo sforzare il meno possibile.
Quando andai a buttare l’immenso sacchetto riempito con avanzi di torta, piatti e bicchieri di carta, stelle filanti, incarti vuoti di patatine e bottiglie di plastica era già arrivata quasi la sera.
Il bidone dell’immondizia per fortuna non era a chilometri di distanza come a casa mia e ci misi poco per raggiungerlo e gettarvi dentro il sacco con la spazzatura della festa.
Il più fu tornare indietro.
Già, perché mentre mi stavo girando per rientrare in casa –con in mente di disfare le valigie nella camera degli ospiti– dalla strada sterrata che portava nella foresta uscì una jeep scura, con tutti i finestrini abbassati e un ragazzone che sbucava dal tettuccio aperto.
Mentre il veicolo si avvicinò, notai che il grosso ragazzo era vestito come appena tornato da un match di baseball, con il cappello però girato di traverso come un rapper.
Ridacchiai, perché il volto di quel ragazzo dai capelli bruni e corti mi ispirava simpatia, un po’ come gli orsacchiotti che avevo nella mia vecchia camera a Dallas.
Quando l’auto, guidata da un ragazzo dai capelli ramati e sparati in aria, arrivò a pochi metri da me il ragazzone si infilò dentro la vettura, parlando concitatamente con il ragazzo vicino a lui.
Era un tipo dai capelli color miele e in quel momento il volto meraviglioso e pallido era contratto da una smorfia addolorata.
Sembrava che non dormisse da mesi, a vedere dalle grosse borse sotto gli occhi.
All’interno della macchina c’era anche una ragazza, la più bella che avessi mai visto: era bionda e gli occhi gelidi erano ambrati e mi fissavano con tale insistenza che sembrava volesse uccidermi.
Anche lei aveva la pelle pallidissima e delle ombre scure sotto gli occhi.
Nel sedile davanti al ragazzo biondo c’era una ragazza dai capelli lunghi e corvini che mi osservava un po’ con divertita curiosità, un po’ con diffidenza.
Mentre l’auto mi superava io mi voltai, camminando all’indietro per guardare ancora per un attimo il quintetto che svoltava a destra, per entrare di più a Forks.
Quando feci per voltarmi e tornare in casa inciampai nella staccionata bianca e caddi in giardino a gambe all’aria «bene, perfetto» dissi a me stessa «sei da un giorno in una città nuova e ti fai conoscere subito…che grama figura» e mi alzai, scuotendo dai jeans i pochi fili d’erba che erano rimasti attaccati come velcro.
Non avevo capito una parola di quello che i ragazzi stessero dicendo quando l’auto mi sorpassò, eppure ero sicura che stessero parlando.
Forse ero troppo distratta nel delineare i profili di ognuno di loro.
Quello alla guida sembrava incuriosito e mi aveva guardato con un’espressione da “ma dai?”, mentre il ragazzo con la faccia da orsacchiotto aveva battuto una mano sulla spalla del biondo.
«Sarah! Vieni dentro che sta per piovere! » urlò zia Lind dalla porta di casa e io di riflesso guardai il cielo così nero che sembrava preannunciare l’apocalisse.
Rientrai con una piccola corsa, con ancora in mente il gruppo di ragazzi pallidi che mi aveva completamente stregata.

Il giorno dopo pioveva ancora e zia Lind stava pulendo i pavimenti mentre mio nonno era andato a trovare Billy giù alla riserva, probabilmente per andare alla bocciofila.
Nonostante ci fossero una decina d’anni che separavano le età dei due amici, mio nonno e il padre di Jacob sono sempre stati dei grandi mattacchioni e fedeli l’uno verso l’altro come lo erano stati ognuno con la propria moglie.
Mi alzai con quel sonno appiccicoso che non se ne va via, tipico delle giornate di pioggia, e mi vestii un po’ a casaccio, prendendo gli abiti dalla valigia ancora da disfare.
Indossai una maglietta a maniche corte, una giacca di jeans e dei pantaloni di fustagno non troppo spessi.
Pensai che magari, essendo l’inizio dell’estate, non doveva essere poi così freddo.
Preparai il mio zaino scuro con i libri delle lezioni di quel giorno con un po’ di timore –avrei avuto due ore di storia, una materia a me sempre stata indigesta– e scesi le scale che portavano al secondo piano, quindi al salotto e alla cucina «buongiorno zia! » esclamai, allegra.
Mi ero pettinata, facendo in modo che le corte ciocche dei miei capelli scuri fossero rivolte verso l’alto, e mi ero messa un filo di trucco –solo perché era il primo giorno di scuola e volevo essere perlomeno presentabile– «ohhh buongiorno! Così oggi primo giorno di scuola eh? Cerca di non combinare guai» mi disse zia Lind, posandomi davanti un piatto di uova e bacon.
Io sorrisi, nel vedere la pietanza.
La vecchia cara zia sapeva esattamente cosa mi piaceva e cosa non mi piaceva.
Beh, cose che non mi piacevano non ne esistevano molte e per mia fortuna avevo un tipo di metabolismo particolare, che mi impediva di assimilare tutto quello che mangiavo.
Che era una vagonata di cibo.
Divorai il piatto in fretta e mi misi in spalla lo zaino «vado, ci vediamo oggi! » salutai, di buon umore, e presi le chiavi del pick-up posteggiato nel viottolo davanti al garage.
Il mio sorriso si congelò letteralmente sul mio viso, quando aprii la porta: l’acqua che veniva giù dai nuvoloni scuri era ghiacciata e ogni goccia mi faceva mugolare di dolore.
Nonno Arthur, vecchio cuore cowboy, doveva aver installato un impianto di riscaldamento che doveva raggiungere la temperatura di una fucina, a sentire dallo sbalzo termico.
Raggiunsi con una corsa la vettura, una Toyota, e mi ci fiondai dentro completamente fradicia.
In quel momento mi chiesi per la settima volta da quando ero partita perché proprio Forks; inserii la chiave e la prima cosa che accesi fu il riscaldamento, per potermi coccolare nel calduccio ancora un po’ prima di entrare a scuola.
La mia giacchetta di jeans non si asciugò durante il tragitto fino alla scuola e prese ancora più acqua quando uscii e corsi verso l’entrata.
Mentre mi appuntavo nel mio memo mentale “la prossima volta portati asciugamano e phon”, mi diressi verso la porta d’ingresso.
Una mano a dir poco bollente mi cascò sulla spalla –forse ero io a essere gelata– e una risata conosciuta mi obbligarono a girarmi.
Era Jake, ammantato in un keeway scuro con il cappuccio tirato su «hey nanetta! Hai fatto un tuffo in piscina? » mi domandò, guardando lo stato pietoso in cui ero.
Il trucco, poi, era completamente andato al creatore «ah-ah molto spiritoso patatone! Ho solo dimenticato che qui non piove in modo normale…ma avete dei rubinetti al posto delle nuvole qua?! » e ridacchiai.
Il mio tono di voce si era un po’ alzato, perché proprio contenta non lo ero, ma alla fine permisi al ragazzo di darmi la sua giacca «ma sei una stufa! » gli dissi ridendo, mentre indossavo l’impermeabile.
In effetti la temperatura del corpo di Jacob non era mai stata come la mia: sembrava sempre che avesse la febbre e un giorno che gli chiesi se stava bene lui mi disse che mai era stato meglio.
Feci spallucce alla sua risata, poi guardai il foglietto che mi era stato lasciato dal preside della scuola e guardai dove si trovasse l’aula di storia «oddio sono in ritardo! » esclamai.
In effetti ero veramente in ritardo e di parecchi minuti!
Il mio primo giorno di scuola!
Salutai Jake, ridandogli l’incerata scura e riprendendomi quello straccio che era diventata la mia giacca di jeans, poi corsi su per le scale e andare al secondo piano.
Dove sicuramente il professore mi stava aspettando.

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Capitolo 2
*** Open Book ***


2.

Open Book

Bussai un paio di volte prima di entrare su ordine del professore; aprii la porta «buongiorno, mi scusi per il ritardo» mugugnai, imbarazzata.

Tutti mi stavano guardando.

Soprattutto un paio di ragazzi in prima fila, che parevano già scommettere su chi avesse avuto per primo il mio numero di cellulare.

Il professore scosse la testa e mi indicò l’unico banco vuoto «non si preoccupi, si sieda e tiri fuori il libro. Ragazzi questa è Sarah, si è appena trasferita qui dal Texas, fate in modo di essere gentili con lei» parlò il professore a tutta la classe.

Ecco tutti i miei buoni propositi che venivano sotterrati venti metri sotto i miei piedi.

E io speravo di finire con loro.

Rossa come un peperone salutai tutti con la mano, senza fiatare minimamente, e andai a sedermi; quando presi il libro il mio sguardo cadde sull’intera classe e in meno di un secondo vidi il ragazzo dalla faccia in agonia che avevo visto in macchina il giorno prima, quello con i capelli biondo miele.

Era seduto due banchi lontano da me e dietro di lui era seduta la ragazza con i lunghi capelli neri.

Lei sghignazzava silenziosa e nel momento esatto in cui allontanai lo sguardo sentii che sussurrò qualcosa al ragazzo.

La mattinata mi passò abbastanza in fretta, nonostante ogni mia cellula fosse protesa verso destra, per curiosare con il mio sesto senso femminile cosa stesse facendo il ragazzo biondo.

Per la seconda volta in due giorni lo aveva visto solo di sfuggita, ma sapevo con tutta me stessa che se l’avessi guardato, sapevo che lo avrei trovato simile a una statua greca per bellezza e candore della pelle.

Finalmente, dopo due ore di intensa tortura, la campanella si decise a trillare e io mi fiondai letteralmente fuori dalla porta.

Avevo bisogno di riprendere fiato, dopo tutto il tempo che mi ero dimenticata di respirare.

Un po’ per la vergogna e un po’ –molto– per la strana presenza del ragazzo biondo, non avevo sentito quasi nulla riguardo alla lezione di quel giorno.

Fui la prima ad arrivare in mensa e fui la prima a sedermi, a un tavolo accanto a una delle lunghe finestre.

Aveva smesso di piovere, per mia fortuna, e il cielo coperto donava un po’ di calore alla terra infreddolita dopo la doccia ghiacciata «ohhhh! Terra chiama Sarah, nanetta sei connessa? » disse Jake sventolandomi la mano davanti alla faccia.

Non mi ero nemmeno accorta che si era seduto vicino a me e si era bellamente servito di una delle mie fettine di pollo impanato «è da almeno dieci minuti che ti sto chiamando! Brutta giornata? » chiese ancora, inclinando la testa da un lato e azzannando la fettina che teneva tra le mani.

Io scossi la testa poi lo guardai «ma fai schifo! Non si mangia con le mani! » dissi, ma lui alzò un sopracciglio saputello «tutto quello che inizia con la P si può mangiare con le mani! Il pane, la pizza, le patatine, il pollo…» ma avevo smesso di nuovo di ascoltarlo.

La porta della mensa si era aperta mentre Jacob stava elencando una serie infinita di cibi ed entrarono i cinque ragazzi che avevo visto su quella jeep.

Jacob, vedendo il mio sguardo piantato su di loro, storse un po’ il naso –come se avesse annusato qualcosa di orribile– e poi sbuffò, ritornando al suo pollo e alla lista di cose con la P «le pesche, le prugne, la pasta se è scondita…Sarah, tanto non ci farai mai amicizia, fidati» mi disse scrollandomi per una spalla.

Il mio sguardo aveva finalmente passato ai raggi X il ragazzo biondo e mi diedi ragione, era proprio la raffigurazione di un dio greco.

Io guardai Jake con faccia confusa, o almeno mi sembrava di averla: in quel momento non mi riusciva proprio di intendere e di volere. Era come se mi avessero legato a dei palloncini pieni di elio e stessi fluttuando nell’aria.

La voce mi uscì da sola, a un certo punto «ma chi sono quelli? » domandai a Jacob.

Il ragazzo esitò un attimo, prima di girarsi a guardare i ragazzi un’altra volta «i Cullen. Si sono trasferiti qui all’inizio dell’anno e sono riservati al massimo. Il loro padre lavora in ospedale e credo che guadagni un sacco di soldi. Quello grosso che sembra un armadio è Emmett» iniziò a dire Jake, indicandomi il ragazzone con la faccia da orsacchiotto «quella vicino è Rosalie, la classica barbie senza cervello dallo sguardo glaciale. Ti consiglio di non rivolgerle nemmeno la parola» e indicò l’alta bionda che addentava una mela con scarso interesse «quello con i capelli ramati poi invece è Edward, una vera spina nel fianco se vuoi vivere tranquillo»«perché? » lo interruppi «no, niente».

Jacob continuò, indicando la corvina «quella è Raven, una vera bellezza ultraterrena. Ma non credere che sia più simpatica della bionda» e gli occhi del ragazzo si posarono un attimo sul corpo perfetto della ragazza corvina.

Io lo osservai indispettita: prima mi infastidiva perché ero un po’ fuori dal mondo poi lui si metteva a fantasticare su quella ragazza?

«e quello con i capelli biondi? Quella povera anima in pena chi è? » scherzai per farlo andare avanti.

Jake ridacchiò «quello si chiama Jasper ed è il classico emo. Non parla con nessuno e se lo fa è per dire due parole insensate. Lascialo perdere» la rassicurò.

Io li guardai ancora un pochino, passando da un viso all’altro, poi ritornai a guardare il mio amico.

Sembrava sempre infastidito da qualcosa «ma si può sapere che ti prende? Dici tanto a me di lasciar perdere Jasper, ma poi tu sei il primo a farti fantasie strane su quella Raven» lo ammonii bonaria, piantando la forchetta in quello che rimaneva del mio piatto di broccoli bolliti e carote.

Lui mi sbuffò addosso «anche se le facessi, di più non potrei fare, sta insieme a quello scorbutico di Edward».

Lo guardai prima con un sorriso, credendo che fosse uno scherzo, poi vidi la sua faccia seria e capii che non stava affatto scherzando «in che senso stanno insieme? » chiesi «insieme come fidanzati? » e lui mi fece cenno con una faccia arresa «ma sono fratello e sorella! » esclamai un po’ scandalizzata.

Jacob allora mi spiegò che non erano veramente fratelli consanguinei, ma che la madre Esme –non potendo avere figli propri– li aveva adottati tutti, uno dopo l’altro «così Raven sta con Edward e Rosalie con Emmett» riassunse Jake «e io posso fare tutte le fantasie che voglio! Gneee» concluse inoltre con una linguaccia.

Io risposi con una pernacchia e ridemmo di cuore.

Però nella mia mente si era indissolubilmente e fermamente fissata l’immagine di Jasper, il biondo Cullen rimasto solo tra tutti i componenti della sua famiglia.

 

Quando finalmente finirono le lezioni tirai un sospiro di sollievo.

Parecchi miei compagni di classe mi seguirono, facendomi domande assurde sul mio luogo d'origine e chiedendomi se volevo andare con ognuno di loro al ballo di fine anno della scuola.

Ad ogni ragazzo che me lo chiese, in forma diretta o indiretta, risposi con un "vedremo" e mi barricai nel mio Toyota per avere un po' di pace.

Non mi ero mai accorta che in quella scuola ci fosse carenza di ragazze –o che qualcuno mi reputasse carina abbastanza per un invito simile– ma a quanto pareva essere la nuova arrivata era non proprio orribile.

Jacob parecchie volte aveva scherzato sulla mia "poca femminilità" riguardo al mio modo di vestire e di comportarmi.

Non avevo mai messo una gonna dall'età di cinque anni e mai lo avrei fatto: fedele per sempre ai miei cari e pratici jeans.

Le maglie o le felpe che indossavo non osavano nemmeno sfiorare i colori pastello, guai al mondo poi vestirsi di rosa!

Vietati i tacchi, le ballerine e scarpe complicate; il mio amore sarebbe sempre stato per le scarpe da maltrattare e per gli stivali lunghi fino al ginocchio.

Gli accessori forse erano l'unica nota femminile del mio corpo non proprio da modella con i miei capelli corti e sempre ribelli: collane e braccialetti erano  il mio punto debole.

Avevo sempre qualcosa al collo o legato ai polsi, certe volte persino una o più cavigliere.

Misi in moto la macchina, stando attenta a non mettere sotto nessuno o a scontrare altri veicoli, e mi diressi verso l'uscita del parcheggio della scuola.

Mi misi sulla strada per tornare a casa e pensai ancora a quello che mi aveva detto Jacob.

Non doveva esserci molta privacy di coppia, quando la tua ragazza è sorella di tuo fratello o viceversa.

Erano tutti così dannatamente belli, troppo belli che non potevo nemmeno compararli a degli attori famosi.

Erano freddi e distaccati, ma tra di loro si poteva notare un legame profondissimo, come se si conoscessero da molto tempo.

Era qualcosa che andava oltre il semplice rapporto familiare.

Sapevano di antico, di qualcosa che si era fermato nel tempo.

Mi venne in mente uno scoglio in mezzo a un fiume che non si muoveva come le piccole e fragili foglie secche che galleggiavano sull'acqua.

Tante piccole pietre radunate assieme.

Sbuffai a quella mia ridicola scenetta e mi preparai a svoltare a destra, per dirigermi verso casa.

Improvvisamente dalla statale alla mia sinistra sentii un clacson che mi rimbombò persino nella cassa toracica.

Era un camion che, lanciato a tutta velocità, stava superando un furgoncino scuro.

E in quel sorpasso azzardato, vidi il muso del tir venire direttamente addosso al mio improvvisamente piccolo pick–up.

Avvertii lo stridore delle grosse ruote del camion e il rumore del carico di tubolari che iniziava a disperdersi sull'asfalto.

Aveva tranciato il guardreil come se fosse fatto di carta e avrebbe fatto lo stesso con me, me lo sentivo.

Improvvisamente il mio pick–up inchiodò, nonostante non avessi toccato minimamente il pedale del freno, e vidi il muso piatto e gigantesco del tir colpire solo l'angolo del mio povero Toyota.

Il mondo iniziò a girare e la forza centrifuga che il camion aveva dato al mio veicolo scontrandolo fu tale da farmi appiattire contro la portiera.

Colpii il vetro con la testa e il dolore sordo ma pulsante della botta si diramò dalla tempia come una ragnatela rossa.

Il pick–up fece un giro su se stesso e si fermò dondolando.

Ebbi appena il tempo di accorgermi che mi ero tagliata alla testa con il vetro del finestrino –ora andato in frantumi–, che qualcosa o meglio qualcuno aveva aperto la portiera di scatto e mi aveva letteralmente strappata via dal sedile del guidatore.

Mi sembrava che il mio cervello si stesse ribellando: non capii più nulla a causa del forte dolore alla tempia e del sangue che mi stava colando sulla faccia, ma vidi chiaramente alcuni tubolari in alluminio scivolare dal retro del tir e infilzare il tettuccio del mio pick–up come se fosse burro.

Uno cadde esattamente dove ero seduta pochi secondi prima; sentivo qualcuno che mi trasportava, con un braccio dietro la schiena e uno sotto le ginocchia “cos'è successo??” “Oh mio Dio sta bene?” “chiamate un'ambulanza!”.

Le voci si sovrapposero nelle mie orecchie e il respiro rotto di chi mi trasportava faceva da sottofondo.

Che anche il  mio salvatore fosse rimasto ferito?

Aprii l'occhio destro –il sinistro proprio non voleva saperne di aprirsi– e vidi lo stesso volto contratto che avevo visto nella macchina dei Cullen il giorno prima.

Mi aveva salvato la vita, a quanto pareva “Sarah! Sarah!” sentii la voce di Jake chiamarmi dall'altra parte della strada.

Il mio pick–up era ormai ridotto a una groviera e stavo iniziando a sentire sonno.

Jacob si avvicinò a me, guardando Jasper con un velo di disgusto, poi si concentrò sul mio stato.

Dalla presa ferrea e salda di Jasper passai a quella un po' traballante di Jacob.

Con l'unico occhio che mi rimaneva guardai il biondo ragazzo allontanarsi, senza staccare gli occhi dal mio viso.

Prima di venir circondata da un capannello di gente, vidi il retro del mio Toyota completamente deformato, come se qualcosa o qualcuno lo avesse afferrato e trattenuto.

 

Finii all'ospedale, dove vidi –con un occhio bendato e dolorante– la zia Lind e nonno Arthur.

Entrarono nella stanza come se fossi sul letto di morte, in silenzio “la mia piccola!” esclamò mia zia quando mi vide sveglia e seduta nel letto bianco.

Mio nonno non disse nulla, solo uno sguardo rassicurante “eravamo così preoccupati! Jacob è venuto fino a casa per dirci che avevi avuto un incidente e che eri finita qui!”.

Già, Jake mi aveva portata con la macchina di suo padre fino all'ospedale e poi doveva esser corso per forza a casa mia per avvisare “e noi siamo subito corsi qui!”.

Sorrisi, nonostante la faccia mi facesse abbastanza male per il colpo alla tempia, ma pensai che forse era meglio sentire dolore che essere morta impalata da un tubo in alluminio.

Entrò dopo qualche minuto un dottore alto, sulla trentina, biondo e divinamente bellissimo.

Sulla targhetta appuntata al petto c'era scritto Carlisle Cullen; così era lui il padre del mio salvatore eh?

Mentre si avvicinò al mio lettino le due infermiere che stavano passando si erano fermate per guardarlo meglio mentre camminava “allora, come sta la nostra paziente?” mi chiese, con voce soave.

Io rimasi un po' imbambolata, poi riuscii a dire che potevo stare meglio ma che ero ok “se non ci fosse stato suo figlio sarei finita giù all'obitorio” gli dissi.

Lui mi guardò un po' confuso, o forse preoccupato “mio figlio?” “si, suo figlio Jasper...Era lì e mi ha tirato fuori dalla macchina prima che potessi...ehm” guardai i miei tutori, pensando che era meglio evitare particolari troppo violenti.

Non erano mai stati troppo avventurosi ed era meglio così; il dottor Carlisle, dopo un attimo di rapida riflessione mi sorrise “direi che sei stata una ragazza fortunata allora. Non hai subito gravi danni, a parte un occhio nero e un taglietto. Non ne morirai” scherzò per tirarmi su il morale.

Mi disse che mi avrebbe dimesso e che mi avrebbe fatto prendere solo una pomata per l'occhio e alleviare il dolore; poi sorrise a mio nonno e uscì dalla stanza a grandi falcate, cavando dalla tasca del camice bianco un cellulare “appena torniamo a casa ti preparo una bella crostata!” disse la zia Lind, sorridendo.

Sorrisi anche io di rimando, anche se non avevo poi molta fame.

Stavo pensando ancora al volto disgustato di Jacob e a quella in agonia di Jasper.

Perchè sentivo di sapere che tra il mio amico e i Cullen non scorresse buon sangue?

Mi alzai dal letto, arrossendo quando la zia Lind tentò di mettermi le scarpe “zia sto bene, non sono così malridotta...” dissi ridacchiando.

In effetti, anche se il mio mondo stava iniziando a diventare in due dimensioni a causa dell'occhio un po' coperto dalle bende, non ero totalmente moribonda.

Indossai le scarpe e stirai le spalle, sentendole un pochino redene: dovevo essermi irrigidita quando la macchina aveva girato su se stessa.

Sorrisi ai miei tutori, poi aspettai che uscissero per primi dalla camera per poterli seguire e in quell'esatto momento sentii la voce del dottor Carlisle parlare un po' preoccupato al telefono “sei sicuro di stare bene? Non hai...? C'era molto sangue anche se era una ferita superficiale...Ah no? Bene, sono molto orgoglioso di te. Dì a tua madre che tra poco finisco il turno”.

Fissai per un attimo lo sguardo sulla schiena del dottor Cullen mentre parlava, cercando di ascoltare la conversazione.

Non che mi interessasse, ma la curiosità era l'unico grande difetto che mi riconoscevo.

Registrai tutto quello che potei nel mio cervello ancora un po' assonnato e giunsi fino a casa sana e salva, anche se un po' sbattuta.

 

Quella notte non riuscii a dormire quasi per niente.

Stavo stesa nel mio letto con le coperte fino al petto a guardare il soffitto e a sbuffare ogni tanto.

La parte sinistra della faccia mi faceva un male dell'accidenti e quando mi ero vista allo specchio avevo storto il naso –anche se con un po' di fatica–.

Intorno all'occhio sinistro e dalla tempia era nata una nuvola violastra con delle sfumature verdi che non mi piacevano per niente.

Avevo maledetto quel camionista sia davanti allo specchio sia durante quella notte insonne.

La zia Lind aveva mantenuto la sua promessa e mi aveva preparato una crostata appena eravamo arrivati a casa, ma non ero riuscita a mangiarne nemmeno una briciola.

Mi sentivo come se uno schiacciasassi mi fosse passato addosso.

Durante quella tempesta neuronale che stavo avendo –stavo pensando per la terza volta a Bella sconvolta che era corsa a precipizio a casa mia– mi grattai inconsciamente il braccio destro e sentii un dolore sordo.

Alzai la manica della maglia che indossavo come pigiama e guardai il secondo livido che aveva osato macchiare la mia pelle.

E quello da dove spuntava fuori?

I segni erano meno evidenti della grande chiazza che avevo attorno all'occhio sinistro e avevano una forma meno definita.

Venni catapultata nella mia Toyota da un eccesso di fantasia e vidi il volante scivolarmi via da davanti.

Il tempo rallentò in quell'istante, quando una mano pallida e maschile strappò via dalla sede la cintura di sicurezza e la stessa mano mi afferrava dove avevo il livido sul braccio.

Scossi la testa, cercando di eliminare quella specie di visione: spesso mi accadeva di perdermi nei meandri della mia testa, in quelle specie di film alla moviola di fatti già successi o che poi sarebbero successi.

Non lo avevo mai detto a nessuno credendo che fosse solo suggestione, così nessuno aveva chiesto il perchè ogni tanto mi fissavo con gli occhi vuoti.

Sbuffai ancora, girando la testa per posare la parte destra del mio viso sul cuscino e chiusi gli occhi.

Per qualcuno fuori della finestra in quel momento fui un libro aperto, molto più di quando lo fossi per  me stessa in quel momento.

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Capitolo 3
*** Phenomenal ***


3.
Phenomenal

Dormii un sonno senza sogni e il mattino dopo mi sentii peggio del giorno prima.
Ero uno straccio, i miei capelli erano più indomabili che mai, non riuscivo ad aprire l'occhio sinistro e le mie spalle chiedevano pietà.
Quando scesi le scale per andare in cucina saltai l'ultimo gradino e per poco non mi spalmai contro il muro del salotto «buongiorno Sarah» disse nonno Arthur, sollevando la tazzina di caffè a mo' di saluto.
Io mi posai una mano sulla metà dolorante del mio viso e mi sedetti senza salutare nessuno «oggi tua zia è dovuta andare fino a casa di tuo zio giù a Port Angeles» mi disse iniziando a sfogliare il giornale.
Stavo fiutando guai, ma non dissi nulla lo stesso e mi riempii –con qualche problema di coordinazione– una scodella con latte e cereali al cioccolato «e visto che il tuo pick–up è ancora dal meccanico, ho pensato di accompagnarti io fino a scuola».
Mi andò di traverso il latte e ebbi paura che un fiocco d'avena mi passasse per una narice «dici sul serio? » domandai.
Il nonno non aveva altri mezzi di locomozione se non una vecchia Ford piena di ruggine e tenuta insieme dal nastro adesivo.
Non che fosse pericoloso guidarla, dato che non andava più di 50 km/h, ma era per il fatto che sarei diventata lo zimbello della scuola.
Sorrisi un po' in imbarazzo, alzandomi lentamente e prendendo lo zaino «non ti preoccupare nonno, posso andare a piedi! » esclamai caricandomi lo zaino improvvisamente pesantissimo.
Vidi il nonno ridacchiare e bere una sorsata di caffè dalla sua tazzina «meglio che mi incammini allora sennò faccio tardi un'altra volta» aggiunsi dandomela praticamente a gambe.
Chiusa la porta di casa dietro di me mi misi a camminare lungo il marciapiede e sentii la mancanza della praticità di un veicolo.
«Sei qui da un paio di giorni e prendi già la residenza all'ospedale» mi dissi, arrabbiata con me stessa.
Per quella mattinata mi ero preparata un bel paio di scuri occhiali da sole, per coprire l'orrendo livido che durante la notte si era allargato, e mi sentii una stupida.
Come se mi fossi messa un maglione per andare al mare d'estate: una cosa dannatamente assurda.
Non incontrai nessuno per mia fortuna durante il mio vagabondare verso la scuola, a parte lo sceriffo Swan che mi offrì un inutile passaggio fino all'istituto «no grazie» negai cortesemente «posso camminare».
L'uomo mi scrutò da capo a piedi, poi mi guardò serio attraverso gli occhiali scuri «abbiamo arrestato quel camionista, è risultato positivo al test anti–droga» mi disse soltanto, come se mi facesse piacere ricordare che avevo quasi messo le alucce da angioletto.
Sorrisi garbata, sistemandomi i capelli corti e ribelli «ora devo proprio andare, arriverò in ritardo» dissi allo sceriffo, dopodiché corsi via lungo la strada.

Arrivai a scuola mentre stava suonando la campana di inizio delle lezioni.
Mi precipitai immediatamente in segreteria per consegnare la giustificazione firmata da mio nonno la sera prima e presi un lungo respiro mentre uscivo.
Mi sentivo soffocare e non sapevo perché: era come se la scuola si fosse chiusa attorno a me ermeticamente.
Sapevo che avrei dovuto affrontare mille domande e il volto preoccupato del mio amico Jacob, ma ancora di più mi disturbava il fatto di rivedere il volto di Jasper Hale.
Il suo viso perfetto, nella mia mente, mi guardava con quell'aria sofferente.
Ripensai un attimo all'immagine che non voleva allontanarsi dal retro delle mie palpebre: in quel frangente il ragazzo mi stava guardando come se stesse osservando del cibo a cui lui era proibito.
Magari era stata la confusione del momento a farmelo vedere così, ma non smisi di dirmi che mi aveva guardata come io guardavo dei cannoli siciliani in un periodo di dieta ferrea.
Arrivai giusto in tempo per la lezione di ginnastica –da cui io ero esonerata grazie a un foglio firmato dal dottor Carlisle– e vidi con somma tristezza che Jake era assente.
Sarebbe stata una giornata molto noiosa senza il mio amico di scorribande; a sostituire Jacob arrivò la ragazza dai capelli neri Raven, che attirò gli sguardi di tutti i ragazzi della palestra.
Anche se era vestita con la divisa bianca della scuola, sembrava sempre una modella per le riviste di moda e io mi sentii una sciacquetta quando lei mi si sedette a fianco.
Mi guardò e inclinò la testa curiosa «ti senti una vip che vai in giro con gli occhiali da sole? »mi domandò, apparentemente seria.
Anche la sua voce era di una nota particolare, un po’ asiatica, e mi imbambolò per un secondo, poi mi riscossi quando riuscii a capire la frase.
Un po’ cinica, abbassai con due dita gli occhiali da sole fino alla punta del naso, mostrando il grosso livido scuro «ahia, quello deve aver fatto male» mi disse la ragazza ridendo.
Stava scherzando fin dall’inizio, ma in quel momento non ero in grado di decodificare i mezzi toni delle persone «io sono Raven, ma credo che tu sappia già chi sono. Il tuo amico della riserva ti avrà sicuramente parlato di noi» aggiunse, senza tendere però la mano come avrebbe fatto una persona normale.
Io fissai il mio sguardo sul muro aldilà del campo da pallavolo, facendo finta di seguire il match di allenamento; stavo pensando se socializzare con quella ragazza come mi suggeriva l’istinto oppure se seguire il consiglio di Jacob e tenermi praticamente alla larga da loro.
Guardando bene la ragazza, non mi sembrava così inaffidabile «si in effetti mi ha spiegato su per giù qualcosina…» incominciai, parlando a voce bassa.
Sembrava però che Raven non facesse fatica a sentirmi «senti, tuo fratello…vorrei ringraziarlo per ieri» e mi guardai le scarpe da ginnastica.
Con la punta del piede destro iniziai a giocherellare con un pezzo di plastica della suola che stava per rompersi «lo ringrazierai un’altra volta» mi disse la ragazza «oggi ha saltato scuola perché papà aveva bisogno di lui per una specie di consegna. Sai materiali medici, troppo delicati per uno spedizioniere» ridacchiò.
Mi sentii amareggiata, quasi delusa: perché avrei dovuto esserlo comunque? Non lo conoscevo nemmeno, a malapena lo avevo visto il giorno prima.
Se non avessi origliato la conversazione del dottor Carlisle, avrei mai scoperto che si fosse trattato veramente di Jasper.
Risposi con un “oh” non molto convincente e rimasi in silenzio per tutta la durata della partita.
Quando la campanella suonò all’ora di pranzo mi alzai e mi diressi da sola verso il refettorio; presi il mio solito piatto –pollo impanato e verdure miste– e presi posto a un tavolo vuoto.
Senza Jake e senza poter esternare la mia gratitudine al mio salvatore, mi sentivo esonerata da tutti.
Persino Bella era troppo impegnata con le sue amiche del posto, per poter pensare a me.
Caddi in un silenzio fitto, quasi impenetrabile e ci misi quasi tutto il tempo disponibile per il pranzo per spezzettare e mangiare controvoglia il pollo.
Gettai il resto, sospirando: avevo tenuto sott’occhio il tavolo dei Cullen, forse sperando che Jasper arrivasse da un momento all’altro scusandosi per il ritardo.
E invece vidi solo Edward e Raven fare i due piccioncini e la bionda Rosalie sgridare bonaria un Emmett un po’ pazzerello.
Cambiai tre aule prima di capire che avevo lezione di storia dopo il pranzo.
E quella lezione fu la più sconvolgente della mia vita.
Entrai che quasi tutti avevo preso posto in una posizione diversa, come solito; quasi mi mancarono le gambe quando vidi che Jasper, assieme a Raven si erano seduto uno alla mia destra e l’altra alla mia sinistra.
Come se avessero deciso di attaccarmi con una formazione a tenaglia.
Nel mio cervello esplosero migliaia di soluzioni differenti, dal semplice ignorare l’accaduto fino ad afferrare una penna dal banco più vicino e piantarmela in un occhio –per avere una scusa valida e saltare la lezione, a mio dire–.
Con un respiro profondo e lento, mossi un piede pesante come cemento dopo l’altro e presi posto.
Mi sentivo come se fossi stata rinchiusa in una cella frigorifera: se fosse stato abbastanza caldo da sudare, le goccioline mi si sarebbero congelate addosso.
Presi con disinvoltura il libro, gli appunti di storia e mi misi in testa di seguire per bene l’argomento di quel giorno, ovvero la guerra civile americana.
Dopo appena due minuti l’entrata del professore e l’inizio del professore, mi cadde accanto alla penna che stavo usando per scrivere un foglietto appallottolato.
Io non mi ero nemmeno accorta che qualcuno si fosse mosso per consegnarmelo.
Lo aprii senza farmi notare e lessi cosa c’era scritto:
Mi sono sbagliata in palestra,
a quanto pare ha fatto in tempo per l’ultima lezione.
Puoi ringraziarlo adesso ;)
R.

Mi girai subito verso Raven, che sembrava annoiata a morte dalla lezione; appena notò che il mio sguardo era caduto su di lei, mi fece un occhiolino complice e mi indicò con un cenno del capo il fratello, seduto rigido accanto a me.
Era la prima volta che lo vedevo con uno sguardo diverso dalla solita facciata in agonia.
Era più rilassato, un po’ annoiato dal tono di voce del professore e i suoi occhi erano color oro; mi preoccupai un attimo, credendo che avrei dovuto fare un salto dall’oculista.
La prima volta che avevo visto i suoi occhi erano scuri come il carbone e non si erano mai staccati da me un solo istante.
In quel momento invece stava distrattamente prendendo appunti seduto in modo quasi militare al banco.
La schiena era dritta e i capelli scarmigliati color miele gli ricadevano a volte sul viso, anche se lui non pareva dargli peso.
Con un enorme sforzo –la mia mano sembrava fatta di piombo– strappai un angolo del foglio su cui stavo scrivendo e mi misi a tracciare con la mia biro alcune frasi:
Ciao…
Volevo ringraziarti per ieri…

Grazie.
S.

Sentii il sangue salirmi fino alla faccia mentre ripiegavo il foglietto il più lentamente possibile, come se quello potesse salvarmi dal patibolo che mi stavo costruendo da sola.
Ero nel giusto, ringraziarlo era simbolo di educazione…allora perché era come se avessi tracciato un cuore su quel foglietto?
Il professore sembrava sempre girarsi quando stavo per passare il foglietto a Jasper e finalmente dopo tanti tentativi, riuscii a lanciarlo furtivamente sul suo foglio.
Lo sentii aprire il foglietto e leggerlo con la mente, poi avvertii –mentre stavo guardando lo schema che era comparso sulla lavagna e che io non avevo ancora copiato– che lui stesse scrivendo qualcosa.
Qualche secondo dopo mi arrivò indietro il mio stesso biglietto, con una risposta:
Figurati.
Rilassati o esploderai.
All’uscita fermati dalle scale.
Ti riaccompagno a casa.
J.

Dopo aver scorso con gli occhi quella scrittura un po’ frettolosa ma elegante rimasi un attimo con il foglietto a mezz’aria e gli occhi persi.
Riflettere in fretta per me non era mai stato un’abitudine: spesso mi venivano in mente almeno tre possibili scelte e scegliere era sempre più difficile se si trattava di gente che non conoscevo.
Respirai a fondo, inchiodando lo sguardo sullo schema mezzo copiato sul mio quaderno, poi mi feci forza e girai la testa verso destra.
Vidi le stelle a causa del livido e del taglio appena richiuso, ma rimasi immobile nel guardare i suoi occhi.
Era sempre ritto con la schiena e le gambe erano leggermente incrociate all’altezza delle caviglie, ma la sua testa era quasi del tutto voltata verso di me e le sue iridi dorate e luminose mi stavano fissando con una intensità mai vista.
Era come se potesse vedermi dentro, se fossi completamente nuda di fronte ai suoi occhi.
Ruppi quella catena che ci aveva unito per un istante voltandomi nuovamente verso la lavagna, completamente rossa in volto.
Era stata una scarica di adrenalina quella che avevo sentito correre lungo la schiena? Sentii Jasper prendere un profondo respiro, come quando d’inverno ti infilano la neve nella schiena e tu non vuoi urlare.
Un respiro che era esattamente la copia di quello che avevo preso io in quello stesso istante.
Che anche lui avesse avvertito quel millisecondo di passione che anche io avevo provato sulla pelle? Sentii la peluria sulle braccia rizzarsi e sentii contrarsi gli addominali.
Che mi stava succedendo? Era come se avessi fame, anche se avevo appena mangiato.
Lo sguardo di Jasper non mi abbandonò un solo istante, fino alla fine della lezione dove ci separammo.

Aspettai seduta sull’ultimo gradino, guardando tutti i miei compagni camminare verso le proprie macchine.
Alcuni si fermarono a guardarmi, chiedendo poi se volessi un passaggio fino a casa.
Ogni volta negai con un sorriso, astenendo che avevo già un mezzo di trasporto; molti mi sorrisero e se andarono, altri sbuffarono –magari perché avevano perso l’occasione per farmi il filo–.
Il parcheggio era praticamente vuoto quando arrivò Jasper insieme ai suoi fratelli e alle sue sorelle; mi alzai e presi la cartella nera appoggiata a terra.
Raven ridacchiò e abbracciò meglio Edward, per poi girarsi verso Emmett e Rosalie «credo che nostro fratello oggi tornerà a casa da solo» disse, facendo l’occhiolino sia a me che a un irritato Jasper.
Rosalie ridacchiò mentre Edward mi lanciò uno sguardo divertito.
Emmett diede una pacca sulle spalle al fratello, dicendogli di andarci piano.
Non capii esattamente di cosa parlassero, ma non ci diedi peso.
Il ragazzo biondo scrollò la testa, poi salutò con un cenno del capo i familiari e si avvicinò a me; rimanemmo immobili a guardarci per qualche secondo –io mi sentivo andare a fuoco– poi lui alzò una mano e mi prese garbatamente lo zaino dalla mano «vieni» mi disse soltanto.
La sua voce era dolce e gentile, bassa ma non gutturale, una nota soave uscita da un ottone.
Mi venne in mente per un solo istante l’inno americano e paragonai la mia monotona voce a quella musicale di Jasper.
Ci dirigemmo con calma –con tutta la calma che potevo avere in quel momento– verso la jeep scura in cui l’avevo notato per la prima volta.
Mi accompagnò fino alla portiera del passeggero, me l’aprì e aspettò che io mi sedessi, poi fece il giro davanti al muso della vettura e salì al posto del guidatore, sistemando la sua borsa a tracolla e il mio zaino sul sedile posteriore.
Inserì le chiavi e le girò per accendere il motore, che rombò in un istante.
Mentre afferrava il volante per fare manovra, accanto a noi sfrecciò una Spider rosso fuoco: dai sedili posteriori sentimmo entrambi la vociona di Emmett gridare un saluto stile rapper a me e a suo fratello, fendendo l’aria con la grossa mano per fare uno sbracciato “ciao ciao”.
Io ridacchiai, voltandomi verso il finestrino di sinistra per guardare l’automobile correre lungo la strada, ma il mio sorriso venne sommerso dal rossore quando incontrai il viso del guidatore accanto a me.
Sulle labbra sempre un po’ imbronciate si era dipinto un sorriso degno di un modello, assolutamente raggiante e che mi sciolse in un solo istante.
Stava probabilmente sorridendo per il suo pazzo fratello, ma non si spense quando mi guardò con quei fenomenali occhi color pirite.
Ritornando a guardare la strada con un piccolo rimasuglio del sorriso, fece fare manovra alla jeep e partì, forse un po’ troppo veloce per i miei gusti.





Risposte alle recensioni:

Norine: Grazie per la recensione! Riguardo al molto sanguinamento, beh mi è sembrato giusto abbondare dato che la ferita era alla testa e di solito le ferite alla testa anche se superficiali sanguinano molto.
Hihi Poro Jasperetti, ne vedrà di tutti i colori X3

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Capitolo 4
*** Invites ***


4.

Invites

 

Jasper ci mise poco per arrivare a casa mia, ma il viaggio mi sembrò lungo il doppio.

Dopo qualche momento di silenzio imbarazzato da parte mia, fu lui il primo a parlare «deve fare veramente male» disse, senza staccare gli occhi dalla strada.

Io non capii all’inizio, alzando il volto per guardare il suo profilo, poi compresi che si stava riferendo al livido sul mio viso.

Annuii «in effetti non sto proprio una favola» risposi, torcendomi le mani sulle cosce e guardando fuori dal finestrino.

Sentii appena che era preoccupato e mi sembrò strano: cos’avevo per attrarlo così? «mio padre mi ha detto che hai perso molto sangue» disse, trattenendo per un istante in più la parola sangue tra i denti «spero che la tua vista non abbia avuto complicazioni a causa del colpo».

Il suo accento leggermente dell'America meridionale mi fece ricordare casa, ma non in modo spiacevole come capitava ogni volta che mio nonno mi raccontava della sua gioventù a Dallas.

Rimasi un attimo ad assorbire quella melodia e solo quando capii il senso delle sue parole cadenzate mi risvegliai completamente.

L’imbarazzo mi affogò nel silenzio e sentii che stavo arrossendo di nuovo. Mi sembrava di morire, chiusa lì dentro.

La confusione regnava nella mia mente e mi sentivo tremare; dopotutto non ero mai stata molto vicina a dei ragazzi –lasciando fuori Jacob, ovviamente– e non sapevo cosa dire.

Oltretutto Jasper non era un ragazzo normale, lo potevo avvertire quasi come qualcosa di fisico, e quello mi mandava ancora di più nel pallone.

Come se il mio attore preferito mi stesse accompagnando a casa con la stessa disinvoltura del ragazzo biondo.

Con la coda dell’occhio lo vidi voltare il viso verso di me, giusto per darmi un’occhiata, poi sentii il tumulto che avevo sia nella testa che nel petto sciogliersi e distendersi.

Non mi ero mai sentita così calma in vita mia «eccoci, siamo arrivati» mi disse Jasper.

Aprii gli occhi e mi accorsi che mi ero profondamente addormentata, anche se per pochi minuti; mi rimisi dritta sul sedile e mi stropicciai gli occhi confusa.

Mi fermai dopo alcuni secondi, sentendo il taglio alla tempia sinistra iniziare a pulsare dolorosamente: strizzai gli occhi quando una fitta lancinante mi passò da parte a parte dietro gli occhi e mi lasciai scappare un lamento «tutto bene? » mi chiese il biondo, alzando le mani come per afferrarmi le spalle.

Io mi ritrassi d’istinto, portando una mano al livido «si…si tutto bene, mi ero dimenticata che sono ancora tutto un catorcio» gli dissi cercando di sorridere.

Di nuovo quella sensazione di pace mi invase e Jasper lasciò che un sorriso si formasse sulle sue labbra.

Scese dalla jeep, fece il giro e mi aprì la portiera con galanteria «hai bisogno di un aiuto? » mi chiese ancora, guardandomi lo scuro livido poi i suoi occhi parvero impaurirsi quando vide qualcosa sul mio viso: il taglio si era leggermente riaperto e una piccola goccia di sangue mi era colata fino allo zigomo.

Non me ne ero accorta, forse per quello che doveva aver fatto dannatamente male; Jasper non staccò gli occhi dal mio volto, ma la sua mano andò a nascondersi per un attimo nella profonda tasca della giacca che indossava.

Ne tirò fuori un fazzoletto candido e lo aprì in due per poi posarmelo delicatamente sulla ferita e tamponare via il sangue «dovrebbe smettere di sanguinare presto» mi disse con la sua voce rassicurante e calda.

La sua mano era ferma e sentii attraverso il tessuto che era fresca e piacevole contro il taglio pulsante «grazie» dissi abbassando gli occhi e diventando rossa.

Lui dopo un attimo fece un passo indietro e lasciò che uscissi dalla macchina; io mi tenevo il suo fazzoletto sul lato sinistro del viso, in modo che la ferita si rimarginasse per bene.

Aspettai che Jasper prendesse la mia cartella dai sedili posteriori, poi la afferrai con mano tremante quando lui me la porse delicatamente «sei sicura di stare bene? » mi chiese ancora.

Il senso di pace nella mia mente era leggermente vacillato e l’imbarazzo si fece di nuovo strada assieme a una innaturale percezione della realtà.

Lo osservai per bene, dalla punta dei capelli scarmigliati alla punta delle scarpe texane: indossava una camicia bianca con due taschini sul davanti, con il colletto alzato a sfiorargli appena il contorno della mandibola.

Aveva un paio di jeans grigio fumo che gli fasciavano le gambe in modo assolutamente perfetto, nonostante avessi visto molti ragazzi sfigurare con quel tipo di pantaloni, poi gli stivali texani erano frusti e anche quelli di un colorito grigiastro.

Se mio nonno l’avesse visti, sicuramente avrebbe detto che non erano autentici «sto benone» dissi dipingendomi un sorriso sulle labbra e guardandolo.

Lui fece una smorfia poco convinta, ma chiuse la portiera rimasta aperta dalla parte del passeggero e risalì a bordo.

Mi fissò intensamente dal posto di guida e di nuovo quella sensazione adrenalinica mi fulminò: il tremolio alle mani si intensificò e mi vidi costretta a chiuderle a pugno «allora ci vediamo domani» mi disse lui dalla macchina, senza smettere un solo secondo di guardarmi.

Io sorrisi annuendo e appena lo vidi pigiare sull’acceleratore e allontanarsi, mi afferrai gli addominali chiudendo gli occhi: mi si erano contratti di nuovo in una maniera repentina e la scarica elettrica ancora mi percorreva.

Mi girai per rientrare in casa e mi accorsi in quel momento che avevo in mano il fazzoletto di Jasper e che ero senza occhiali da sole.

 

Mi stesi sul letto dopo cena e continuai a tenere quel fazzoletto bianco macchiato di rosso tra le dita.

Ci giocherellavo, lo guardavo un po’ da tutte le parti, poi tornavo a giocarci mentre studiavo per il giorno successivo.

Non ero più imbarazzata come prima e la scossa di energia di poco prima era scomparsa prima che mi mettessi a tavola.

Per tutto il pomeriggio, però, avevo tremato nella mia camera e avevo anche tentato di mettermi a dormire sperando che si fermasse.

Il taglio non mi faceva più male e avevo ripiegato accuratamente il piccolo quadrato di stoffa bianca di Jasper sul mio comodino.

Lo avevo ripreso solo per il gusto di sentire ancora tra le dita la sua morbidezza: sembrava fatto di cotone, anche se la consistenza era della seta.

C’era un piccolo ricamo in un angolo che non seppi decifrare del tutto, J.W, e i bordi erano ripiegati in un cordoncino sottile.

Mi piaceva osservare la fattura del fazzoletto invece che mettermi a studiare matematica –altra materia molto ostica– e aveva un profumo particolare, nonostante l’odore ferroso del mio sangue lo intaccasse un po’.

Assomigliava all’odore dei girasoli e dei grandi campi di grano che da bambina avevo sempre visto attorno a casa mia.

Solo lo squillo del mio cellulare mi distrasse dal mio particolare studio: era un messaggio di Bella.

Novità!

Mike Newton mi ha invitato alla festa di fine anno!

Ho detto di si!

Tu con chi ci vai? Con Jake?

Mi sbattei una mano sulla fronte, attenta però a non colpire la parte scurita dal livido.

Jacob, me lo ero completamente dimenticato.

Non era stato presente quella mattina e probabilmente in quel momento era preoccupato per le mie condizioni fisiche.

Risposi al messaggio di Bella, dicendo che forse non ci sarei andata. Troppa gente che non conoscevo che mi guardava.

Sapevo che avrei sorpreso la mia amica, dato che quasi tutto il mio mondo sapeva che io vivevo per feste del genere.

Ma non ero dell’umore adatto in quel momento e sapevo che non lo sarei stata nemmeno alla serata della festa.

Posai il cellulare accanto al libro di matematica e guardai le pagine piene di numeri con odio.

Sbuffando chiusi il libro e mi arrotolai su me stessa, tenendo il fazzoletto stretto nel pugno.

Chiusi gli occhi per un attimo, giusto il tempo per prendere un lungo respiro, poi mi sentii osservata.

Così, tutto ad un tratto.

Mi alzai, appoggiandomi al materasso coi palmi delle mani, e guardai fuori dalla finestra.

Il ramo del grande albero vicino casa si muovevano nel vento e per poco non sfioravano il vetro freddo.

Strizzando gli occhi per un attimo, mi sembrò di scorgere un’ombra in piedi sul ramo, ma quando sbattei le palpebre assonnate, l’ombra era sparita.

E con lei anche ogni mia emozione: mi sentii talmente rilassata che mi addormentai così, con il top e i bermuda azzurri che di solito mettevo d’estate come pigiama.

 

Passò una settimana da quel giorno e non rividi ne i Cullen, ne Jacob.

Provai a chiamare molte volte al cellulare del mio amico, ma ogni volta risultava occupato.

Cominciai a sentirmi dannatamente depressa e la scuola non era più un luogo normale dove andare.

Era diventata un vero e proprio inferno, con parecchi ragazzi che continuavano a chiedermi del ballo; io non cedetti mai, dicendo a tutti che non ci sarei andata perché non mi andava di andare.

Mi mancava osservare da lontano l’allegria privata dei Cullen, il loro legame fraterno e sentimentale, mi mancava il temperamento di Raven.

Ma più di tutti mi mancava Jasper.

Il suo banco vuoto all’ora di storia era una pugnalata in pieno petto, un vero e proprio tormento.

Mi ero chiesta parecchie volte dove fosse finita tutta la famiglia e parecchie volte avevo cercato di convincermi che non era nulla di grave.

Anche se spesso mi venivano in mente scatoloni imballati e un camion con scritto TRASLOCHI sul lato.

Vidi Mike Newton con la mia amica Bella almeno un giorno si e un giorno no, all’ora di pranzo, che parlavano tra di loro in modo troppo zuccheroso per la mia condizione non troppo allegra.

Speravo vivamente che se ne andassero da qualche altra parte a fare i piccioncini.

La mia povera Toyota ritornò dal meccanico quattro giorni dopo, rifatta a nuovo, ma la felicità per aver riavuto indietro la mia macchina in un tempo abbastanza breve fu effimera come una farfalla.

La mattina sedevo sul pick-up e semplicemente non facevo nulla.

Mi sembrava troppo scomodo, troppo piccolo a volte e troppo grande altre, era troppo alto e soprattutto era troppo vuoto.

Non c’era nessuno vicino a me, nessun angelo biondo con il sorriso che sembrava un’aurora e gli occhi dorati che mi scavavano dentro.

Nessun Jasper accanto a me, a chiedermi se stavo bene.

Se qualcuno me lo avesse chiesto in quel momento gli avrei risposto che non stavo bene, affatto; il mio cuore batteva un battito in meno e il livido non faceva male abbastanza da farmi allontanare un attimo dalla realtà divenuta improvvisamente grigia –anche se non ne rimaneva molto, solo un alone giallastro che mi sapeva orribilmente di sporco–.

Nonno Arthur passava sempre il suo tempo alla bocciofila di La Push assieme a Billy, Jacob non si faceva vedere ne sentire, Bella era troppo impegnata col suo nuovo ragazzo, zia Lind aveva trovato un altro uomo che l’avrebbe mantenuta per almeno un paio di mesi –se reggeva abbastanza–.

Io ero rimasta solo con il mio portatile, il fazzoletto di quell’angelo biondo e la mia passione, ovvero la cucina.

E quel giorno, a una settimana esatta da quando tutti si erano improvvisamente disinteressati a me, ero in quel piccolo supermercato per comprare gli ingredienti per un altro dei miei esperimenti culinari.

Avevo preso il sacchetto che di solito usava la zia per fare la spesa e ci avevo messo dentro latte, una confezione di uova, del cacao e un pacchetto di burro.

Volevo modificare la ricetta dei muffins che la zia aveva nel suo libro, trasformandoli in qualcosa di diverso e magari più elaborato.

Mi stavo tendendo per prendere una scatola di gocce di cioccolato quando una mano dalla pelle scura li prese prima di me e me li tese.

Mi voltai alla risata che avevo subito riconosciuto e vidi Jacob, nella solita incerata scura.

Solo che in quel momento sembrava che la giacca stesse esplodendo: si era come ingigantito, il mio amico, e io non riuscivo a tenere la bocca chiusa «hey nanetta! » mi salutò, con uno dei suoi sorrisi tutto denti.

Io non riuscivo a dire nulla di coerente.

I bicipiti, i pettorali, le spalle…tutto era almeno il doppio! E doveva essersi alzato di qualche centimetro «che c’è, ho qualcosa in faccia? » disse ancora e io ripresi fiato «si, il tuo naso a patata» gli dissi, cercando di essere ironica e divertente, come se nulla mi avesse colpito del suo aspetto.

Anche se non credo di esser riuscita a recitare molto bene.

Cos’era capitato al mio amico?? «vuoi cercare di avvelenare i tuoi così potrai stare qui per sempre? » mi chiese ancora ridacchiando.

Io misi la scatola nella borsa di tela e inspirai, notando che il profumo di Jake era nettamente diverso da quello di Jasper.

Il mio angelo biondo –e mai avrei confessato a nessuno quel soprannome– aveva un profumo delicato ma che sapeva avvolgermi come un abbraccio, mentre Jacob sapeva di pino silvestre e di muschio, un profumo che colpiva letteralmente.

Mi tirai su, cambiando totalmente faccia, indossando la maschera da “non è successo nulla” «no, stavo pensando a un dolce per uccidere il mio migliore amico, sai non si è fatto sentire da una settimana e gliela devo far pagare» dissi, con faccia un po’ accusatoria.

Lui mi fece lo sguardo da cucciolo a cui io non ero mai resistita «scusami, davvero…ho avuto alcuni problemi» disse.

Si che ci cascavo, lui aveva avuto così tanti problemi che a portarli si era pompato il fisico.

La mia faccia era tutta un programma «eddai, non fare così! » mi implorò «per farmi perdonare vengo a casa con te e ti aiuto con questo dolcetto…e sai quanto odio farlo» aggiunse.

In effetti non si poteva parlare di cucina a Jacob se non per mangiare, così mi sembrò abbastanza convincente.

Eliminai l’espressione irata e gli sorrisi, annuendo «va bene» dissi soltanto.

Anche lui si illuminò, vedendomi felice.

Proseguii il mio giro di compere acquistando farina e zucchero raffinato, con Jake che mi seguiva come un cagnolino, osservando a volte con faccia desiderosa le buste di patatine e mostrandomi con faccia maligna il banco farmaceutico, dove dei preservativi facevano bella mostra nelle loro scatole colorate.

Io lo guardai con sguardo ammonitore, ma seppi che la mia faccia era diventata color peperone.

Succedeva da quando avevo incontrato Jasper, di vedere il lato più malizioso di qualsiasi cosa, persino in frasi che una volta mi parevano assolutamente innocue.

Cosa mi aveva fatto quel ragazzo?

 

Il mio umore migliorò nettamente da quando lasciammo il supermercato e ci dirigemmo a piedi verso casa mia.

Appena arrivati ci dirigemmo subito in cucina e ci rimboccammo le maniche; io indossai il grembiule azzurro che spesso avevo visto addosso alla zia Lind e sistemai gli ingredienti sul lungo tavolo.

Jacob si era offerto volontario per aprire il pacchetto della farina e dopo qualche vano tentativo, con uno strappo troppo forte il ragazzo riuscì ad aprire il sacchetto e a immergere entrambi in una nuvola di farina volata per la forza che Jake aveva messo nel movimento.

Così entrambi ci ritrovammo completamente bianchi fino alla vita e ridacchianti, nonostante io cercassi di sembrare irata –dopotutto avevo pagato io e spreco di farina valeva a dire spreco di soldi–.

Seguii la ricetta com’era scritta sul foglio un po’ ingiallito dal tempo e apportando le opportune modifiche dove servivano: al posto della frutta a pezzi gettai nell’impasto denso e ben amalgamato il cacao in polvere e le gocce di cioccolato.

Jacob aveva tentato più volte di rubarmi delle ditate d’impasto per “assicurarsi che io non facessi nulla di pericoloso per la sua salute” e ogni volta gli era arrivato il cucchiaio di legno sulle dita.

Finalmente, dopo almeno mezz’ora di preparazione e scherzi, ci fermammo piegati in due a guardare attraverso il vetro del forno.

Mentre i dolcetti prendevano la loro tipica forma a fungo nei loro stampini di alluminio, io mi tolsi il grembiule e lo appesi al gancetto accanto al frigorifero «spero di non aver mescolato troppo» dissi a Jacob, seduto su una sedia accanto al tavolo –ora più che mai rassomigliante a un campo di guerra– «sennò mi vengono come tanti piccoli sassi».

Lui ridacchiò, ma non sembrava molto interessato alla buona riuscita del mio esperimento culinario «ho sentito che a scuola fanno una festa a fine anno, si balla e c’è un sacco di musica» iniziò a dire.

Io gli stavo dando le spalle in quel momento, ma lo avessi guardato avrebbe visto i miei occhi rivolti verso il cielo «non so se qualcuno te lo ha già chiesto, ma ti andrebbe di andarci con me? » mi chiese.

Ecco, lo sapevo.

Maledii quella stupida festa per le frasi che mi stavano venendo in mente, ma serrando i denti in un sorriso un po’ forzato mi voltai per guardare Jake.

Aveva il suo solito sguardo supplichevole, quello da cagnolino bastonato a cui non ero mai riuscita a dire di no.

Anche se quella volta avrei dovuto resistere «scusa Jakey, ma proprio non ho voglia di andarci…non conosco nessuno» gli dissi, utilizzando il soprannome che più di tutti lui odiava.

Lo vidi alzarsi e avvicinarsi «ma conosci me no? Non basta per passare una bella serata? » «Jacob Black, se ti ho detto che non ho voglia di andarci avrò i miei buoni motivi…non cercare di convincermi» risposi perentoria, ma nella mia testa parecchi finali di quel pomeriggio si susseguivano uno dietro l’altro.

Una furiosa litigata, Jacob che mi aggrediva, io e lui che cadevamo in atteggiamenti troppo intimi…l’ultimo era completamente fuori discussione.

Potevo ancora gestire un Jacob arrabbiato o addirittura manesco, ma un Jacob che mi metteva le mani addosso per altri motivi assolutamente no.

Come se avesse letto nei miei pensieri, Jake fece un sorrisino malizioso e mi chiuse tra il frigorifero e il suo nuovo e massiccio corpo.

Potevo sentire attraverso i suoi e i miei vestiti che era bollente, come se avesse passato una giornata intera sotto il sole.

Sembrava il radiatore di una macchina appena spenta «ma tu adori le feste» mi disse, guardandomi ora serio.

Io aggrottai le sopracciglia e mi allungai in tutta la mia –scarsa– altezza, per sembrare più spaventevole possibile, come un gatto che inarca la schiena per sembrare più grosso «non queste» dissi arrabbiata.

Le sue mani si allungarono per appoggiarsi al frigo e ingabbiarmi completamente.

Non mi mossi, anche se sentivo dentro che stavo iniziando a cedere.

Mi stava mettendo quasi paura, nonostante entrambi fossimo buffamente ricoperti di farina; cos’era successo al mio amico? Sembrava un animale che cercava di conquistare l’unica femmina dei paraggi, mostrando prima il proprio fisico, poi facendole vedere quant’era minaccioso e potente.

Io non lo potevo sopportare, proprio non mi riusciva.

Lasciai cadere la maschera arrabbiata e gli feci vedere quanto ero intimidita, anche se sapevo che era quello che il nuovo Jacob voleva «io voglio sapere cosa ti è successo. Non faresti mai una cosa simile Jake! Non con me» gli dissi, posando le mani sul suo petto e cercando di spingerlo via.

Tutte le lezioni di vita che avevo preso in passato –come il classico e sempre funzionante calcio nei gioielli– non erano utili in quel momento, perché non volevo far del male a Jacob, l’amico che sempre mi aveva risollevato dalla tristezza.

Anche se sapevo che il mio istinto di conservazione sarebbe scattato entro breve e lo avrei visto raggomitolato sul pavimento con le mani al cavallo dei pantaloni che indossava.

Sapevo che era la dura realtà.

Lui aveva avvicinato il viso al mio e io iniziai a contare da dieci, sperando che si fermasse prima che arrivassi allo zero.

Nove.

Una mano di Jacob si allontanò dal frigo per posarsi sul mio fianco destro e non accennava a smettere.

Otto.

Sette.

Io avevo preso un respiro, guardando il mondo che iniziava a muoversi al rallentatore.

Sei.

Cinque.

Quattro.

Le labbra di Jake erano a pochi centimetri dalle mie e ormai io stavo tendendo i muscoli della gamba destra, pronta a piegarsi e a piantare il ginocchio nei gioielli del mio non più tanto amico.

Tre.

Due.

Un’improvvisa inchiodata mi arrivò all’orecchio, nonostante entrambe le mani di Jacob avessero afferrato la mia vita.

Uno.

Il mio piede si staccò dal pavimento della cucina e alzai appena il ginocchio, sperando che Jake si svegliasse da quella specie di rincitrullimento.

Prima che finisse a guaire come un cane per il colpo che gli avrei inferto.

Beeeeeep Beeeeeep!

Un clacson fuori dalla finestra bloccò entrambi.

Il ragazzo che aveva preso il posto del mio amico si tirò su e guardando fuori assunse una smorfia disgustata.

Io ripresi a respirare e il mio cuore cominciò a battere il doppio.

Stavo tremando e la gamba destra tornò a sostenere assieme alla gemella tutto il mio peso.

Di nuovo il clacson suonò, questa volta meno prepotentemente.

Senza quasi che me ne accorgessi scivolai via dalla presa di Jacob –ritornato quasi del tutto in sé– e guardai fuori dalla finestra.

Quasi esplosi, nel vedere la jeep scura che si era delineata nella mia mente come simbolo di salvezza.

Guardai Jacob, che a testa bassa aveva spento il forno, e di nuovo la paura che avevo provato prima si intensificò.

Paura per me, ma soprattutto paura di aver perso un grande amico.

Sapeva che io non gradivo certe cose, spesso avevo parlato con lui dei ragazzi che mi avevano fatto la corte a casa mia e che avevano miseramente fatto un buco nell’acqua.

Anche lui era così, era uno di quei ragazzi che pensavano alle ragazze come oggetti da vincere, da conquistare.

Mi allontanai senza mai dargli le spalle, come si faceva con i malintenzionati, e mi diressi verso la porta d’entrata.

Mi reggevo a qualunque cosa potesse abbastanza solida per potermi reggere: il tavolo, il lavandino, i vari mobiletti sparsi per casa, il mezzo tavolino nell’entrata.

Metà di me era completamente protesa verso l’esterno, verso la jeep scura che mi aspettava, l’altra metà era propensa a dare la più forte ginocchiata della mia vita al mio ex migliore amico.

Ero furiosa, spaventata, spavalda e tremolante di paura.

Un cocktail che non ne voleva sapere di mescolarsi, come il latte e il burro fuso.

Jacob mi seguì, qualche passo distante da me «Sarah, ti prego scusami» mi disse con voce bassa e realmente rotta.

Mi stava guardando con l’aria di chi ha capito i propri errori e con gli occhi giura di non farlo più.

Protese le mani verso di me per fermarmi, per impedirmi di scappare via da lui, in modo da poter spiegare.

Io scossi la testa strizzando gli occhi e aprii la porta alle mie spalle, lanciandomi in corsa verso la jeep e verso il mio salvatore.

Per la seconda volta.

Risposte alle recensioni:

Norine: Ahah grazie cara troppo gentile! X3 Se fosse andato Jazz a spiegare la lezione di sicuro avrei imparato tutto il libro solo stando ad ascoltarlo!

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Capitolo 5
*** Blood group ***


5.

Blood group

 

Mi gettai fuori dalla porta e camminai speditamente verso la jeep, da dove Jasper mi osservava con un sopracciglio alzato.

Stava indossando i miei occhiali da sole e la mia mente sbattuta come un uovo riuscì a trovare il tempo di pensare che, probabilmente, mi dovevano esser caduti quando mi ero addormentata nella sua macchina.

Appena fui abbastanza vicina lui mi regalò un altro dei suoi magnetici sorrisi; con due dita afferrò la stanghetta degli occhiali e li alzò, per mostrare i suoi occhi altrettanto caldi e attraenti «ti eri dimenticata questi» mi disse, anche se la sua espressione era tutt’altro che allegra.

Doveva aver notato la mia espressione sconvolta –nonostante stessi facendo di tutto per nascondere quello che sentivo dentro almeno alla vista– e lanciò una furtiva occhiata alla porta d’ingresso di casa mia.

Io non mi voltai, ma sapevo che c’era Jacob a guardarmi con i suoi occhioni scuri da cucciolo abbandonato «Sali, facciamo un giro» mi disse lui ancora, guardandomi da capo a piedi.

Dentro di me esultai e se fossi stata leggermente meno scossa, gli sarei saltata addosso e lo avrei baciato.

Lui ridacchiò tra sé, come se avesse sentito i miei pensieri, poi diede un affondo di acceleratore senza lasciare il freno.

Il motore rombò, ma la macchina rimase ferma e salda sulle ruote.

Io aprii la portiera con uno scatto e mi cacciai dentro la jeep, chiudendo poi la portiera così forte che ebbi paura di romperla.

Le mani mi tremavano tanto che non riuscii a prendere la cintura e ad assicurarla davanti al mio petto come mi era sempre stato insegnato.

Fu Jasper a piegarsi verso di me, allungare un braccio e prendere la cintura dalla propria sede, passarmela davanti e agganciandola.

Nel tragitto, potei quasi pulirmi i polmoni dal fin troppo forte profumo muschiato di Jacob con la delicata fragranza fresca e rassicurante di Jasper.

Ne avevo abbastanza del calore, non lo potevo sopportare.

Jake mi aveva quasi soffocata con la sua temperatura e se non ci fosse stato il frigorifero a sorreggermi, sicuramente sarei caduta a terra svenuta.

Mi aveva aspirato via l’aria dai polmoni, sostituendola con la sua.

E non era nemmeno riuscito a baciarmi! Se invece avesse toccato le sue labbra con le mie, sarebbe scoppiato il finimondo.

Lo sapevo ed ero sicura di me stessa.

Jasper tolse il piede dal pedale del freno e accelerò, allontanandosi da casa mia.

Lo vidi guardare nello specchietto retrovisore, con la faccia seria con cui l’avevo conosciuto, poi riportò gli occhi sulla strada.

Mentre svoltavamo a destra verso la foresta, potei vedere Jacob guardarci andare via, irato e deluso al tempo stesso.

Sapevo che ci sarebbe rimasto molto male, ma non me ne importò più di tanto in quel momento.

Ero al sicuro, nella confortevole jeep di Jasper, lontano dal calore inumano di Jacob e dalle sue voglie represse.

 

Arrivammo su una strada sterrata che conduceva nella foresta che circondava Forks e solo lì Jasper fermò la macchina.

Si tolse la cintura e si voltò verso di me «che è successo? » mi chiese, con il suo accento lievemente più marcato.

Perché ogni volta che lo sentivo parlare il suo tono cadenzato mi sembrava sempre più affascinante?

Abbassai gli occhi, senza smettere di tremare.

Era come esser appena scesi dal primo giro di montagne russe, quando senti ancora tutte le emozioni che ti vorticano dentro a tempo con la giostra.

Avvertii la solita ed esterna calma che cercava di avvolgermi, da tranquillizzarmi, ma la respinsi.

Non seppi perché, non seppi come riuscii in quel momento a capire che quella tranquillità non era normale, ma la allontanai lo stesso.

La spinsi via dolcemente, ma senza rimpianti.

Lui mi guardò, cercando i miei occhi, poi rifece la sua domanda; non sapeva quanto mi faceva male ripensare e spiegare quello che era successo.

Esser traditi dal proprio migliore amico, che ti aveva giurato sulla tomba della madre scomparsa che non si sarebbe mai comportato come gli altri, che sarebbe stato diverso e un vero amico.

Nulla di più.

Io sospirai, stringendo un qualche tessuto tra le mani «sei carina così» sentii all’improvviso.

Il tono di voce del biondo ragazzo era un pochino divertito e come mi tirai su a guardarlo vidi che stava ridacchiando, guardandomi.

Allora anche io abbassai gli occhi per guardarmi e notai che ero ancora completamente sporca di farina e con il grembiule assicurato in vita.

Spalancai gli occhi e arrossii immediatamente.

Lo guardai, molto imbarazzata «oddio ti sto infarinando completamente la macchina! » esclamai, guardando le manate bianche che dalla mia parte erano un po’ ovunque.

Lui rise, una risata dolce e allegra «non ti preoccupare» mi rassicurò «questa è la macchina di mio fratello Emmett» e diede un paio di colpetti sul cruscotto «se ti sembra pulita è perché io mi rifiuto categoricamente di guidarla nello stato originale in cui si trova di solito».

Rise e io con lui.

Tutto lo spavento che avevo provato e la frustrazione stavano svanendo poco a poco.

Jasper era un po’ come un bicchiere di acqua fresca, limpida e sempre utile a calmare il panico «non hai una macchina tua? » chiesi e lui scosse la testa, senza cancellare dalle sue labbra il dolce sorriso che aveva in quell’istante «non mi importa più di tanto avere un mezzo di trasporto. La mattina di solito vengo a scuola assieme a Emmett ed Edward» iniziò a spiegarmi «ho preso la patente solo per piccoli spostamenti come questi. Per quando mia madre ha bisogno di qualcosa ad esempio e nessuno ha voglia di combinare qualcosa».

Rimasi ammaliata dalla sua voce che scorreva nell’aria come un ruscello tranquillo.

Sperai che la farina coprisse il mio rossore o che almeno lo stemperasse un po’, perché in realtà io mi sentivo andare a fuoco.

Mi grattai distrattamente il collo, guardando fuori dal finestrino lasciato aperto le fronde degli alberi muoversi appena nel vento e una sbuffata d’aria mi prese in pieno viso.

La farina rimase dov’era, ma vidi nello specchietto laterale che Jasper si era voltato, come se l’aria avesse portato un odore proibito al suo naso perfetto.

Lo guardai, inclinando la testa, e lo osservai meglio.

La pelle era pallida ma senza un’imperfezione, liscia e morbida; il contorno della mascella era squadrato ma non esagerato.

Su di essa vidi appena, come un miraggio, una piccola striscia biancastra e curva; una specie di cicatrice «che ti sei fatto qui? » dissi e indicai su me stessa il luogo dove sostava la piccola cicatrice.

Jasper prima mi guardò un po’ distratto, poi sembrò allarmato.

Tutto nel giro di pochi secondi, prima che ritornasse a suo agio «dove? » e piegò lo specchietto retrovisore per osservarsi.

Piegò il collo di lato per guardare dove io avevo indicato «non ho niente, perché? ».

In effetti avevo perso di vista la cicatrice.

Magari era stato tutto un gioco di luci «nulla, davvero…senti, non è che posso tornare a casa? Non credo che…» ma la voce mi si bloccò in gola.

Avrei voluto dire che probabilmente Jacob doveva esser andato via e non c’era più niente di cui preoccuparsi, ma io continuavo a preoccuparmi.

Jasper annuì «va bene, ma un giorno dovrai raccontarmelo» e ridacchiando sommessamente mise in moto la jeep.

La strana calma esterna non si era fatta più sentire.

 

Non riuscii a dormire fino alle quattro di mattina.

Mi giravo e rigiravo nel letto, cercando di respirare in maniera rilassata, ma non mi riusciva.

Continuavo a mandare maledizioni a Jake per aver tradito a quel modo la mia fiducia.

Non volevo che arrivasse il giorno per alzarmi, andare a scuola e magari affrontarlo; non ne sarei stata capace.

Alle tre e mezza mi tirai su, scompigliandomi i capelli in maniera isterica e osservando la pallida luce che la luna velata di nuvole faceva entrare nella mia stanza.

Il mio portatile era posato sulla mia scrivania e il fazzoletto di Jasper –del quale mi ero completamente dimenticata il giorno prima– era sempre sul mio comodino, macchiato di sangue.

Colta da un’improvvisa voglia di fare qualsiasi cosa, mi alzai e mi diressi a piedi scalzi fino al bagno, con il quadrato di tessuto piegato in mano.

Il segno che aveva lasciato il sangue coagulato mi sapeva di sporco quasi quanto il mio livido ormai completamente sparito e non potevo sopportare di ridarglielo conciato così.

Non dopo che mi aveva salvato due volte di seguito.

Mi chiusi in bagno e mi guardai per un attimo nello specchio sopra il lavabo.

Ero un disastro completo: i capelli corti e scalati andavano in tutte le direzioni per l’attacco di nervosismo di poco prima, i miei occhi erano cerchiati di un alone scuro ed erano stretti e rossi per il sonno mancato.

Sembravo veramente un mostro.

Mi chinai e girai la manopola per l’acqua calda, prendendo intanto la saponetta nell’incavo del muro accanto al lavandino.

Iniziai a sfregarla contro la macchia ormai diventata marrone del mio sangue coagulato e a lavoro terminato sciacquai il fazzoletto e lo alzai per esaminarlo alla luce della luna.

Era ritornato candido come in origine e non presentava nessun segno di utilizzo; i miei occhi, però, mentre abbassavo il fazzoletto, si focalizzarono sullo specchio.

Dietro alla mia immagine scombinata avevo visto una testata di capelli inconfondibilmente bionda.

Jasper si trovava nel mio bagno alle tre e mezza del mattino?

Mi voltai di scatto, sicura di ritrovarmelo alle spalle, ma vidi solo il mobiletto bianco dove di solito sistemavamo i vestiti da lavare e la finestra aperta da cui veniva una leggera brezza.

Feci qualche passo verso la finestra, sicura che avrei visto il ragazzo biondo comparire sul prato vicino casa mia, mentre si dileguava.

Invece non c’era nessuno, solo i rami fruscianti degli alberi vicino casa e le nuvole che pian piano oscuravano la luce della luna.

Anche se ero completamente sicura che nell’aria ci fosse il profumo di girasoli.

 

Il mattino dopo svegliarsi fu un dramma.

Le poche ore che ebbi a disposizione per dormire furono così poche che mi sembrò di non aver nemmeno chiuso gli occhi.

Ero ritornata dal bagno e avevo messo il fazzoletto sul termosifone ad asciugare, poi mi ero messa a letto.

E subito dopo dovetti alzarmi per andare a scuola.

Il nonno stava ancora dormendo e la casa, senza la zia Lind, sembrava quasi vuota.

Presi un misero pacchetto di cracker e mi diressi fuori per salire sul pick-up; mangiai in fretta, senza però avere molta fame, poi accesi il motore e mi preparai a fare retromarcia.

Mi misi in marcia verso la scuola e sospirai.

La voglia di rivedere Jacob era veramente, ma veramente poca.

Chissà, che fosse arrabbiato con me perché non avevo ceduto alle sue spinte avances? Oppure sarebbe venuto a pianger miseria, chiedendo perdono in ginocchio?

Io speravo soltanto che qualcuno cancellasse dalla mia e dalla sua memoria quello che era successo.

Ritornare indietro, solo di qualche ora, giusto il tempo per aggiustare tutto.

Parcheggiai il più lontano possibile dall’entrata della scuola, in modo che tutti gli studenti entrassero prima di me e con loro Jake.

Scesi e presi il mio zaino dal cassone, mettendomelo in spalla; mi incamminai verso l’edificio sperando con tutto il cuore che nessuno notasse il mio viso incupito e che passasse oltre.

Sentii un brivido lungo la schiena quando sentii la voce del mio amico chiamarmi da lontano: sembrava desideroso di dirmi qualcosa di molto importante.

Magari voleva scusarsi per quello che era successo, magari mi avrebbe salutato come suo solito, come se nulla fosse accaduto.

Mi voltai e lo vidi correre nella mia direzione, sbracciandosi per salutarmi.

Sorrideva.

Di riflesso sorrisi come lui, anche se il tumulto dentro di me era veramente troppo; un braccio mi si posò sulle spalle, fresco dentro una giacca di feltro nera e lunga «buongiorno» sentii la voce di Jasper arrivarmi alle orecchie come una pomata salvifica.

Lo guardai e notai che era veramente troppo alto.

In confronto a me e Jacob, oltretutto! Doveva essere alto un metro e ottanta come minimo.

I suoi occhi erano sempre dorati e incredibilmente limpidi.

Come se qualcuno ne avesse aumentato il contrasto con la parte bianca dell’occhio «dormito bene? » mi chiese, osservandomi.

Io gli sorrisi imbarazzata, allontanandomi appena dal suo abbraccio; se mai avesse saputo che lo avevo creduto in casa mia a quell’ora assurda della notte si sarebbe messo a ridere.

Anche se adoravo la sua risata «si, abbastanza…» risposi vaga, ritornando ogni tanto a guardare Jacob, ora scuro in volto.

Non sembrava digerire la vicinanza di Jasper a me «ti ho riportato il fazzoletto» aggiunsi, tirandolo fuori dalla tasca e porgendoglielo.

Lui lo guardò, poi lo prese e se lo ficcò nella tasca del cardigan «oggi credo che sarò a lezione di biologia con te, la mia insegnante si è ammalata e uniranno le due classi, per il momento» mi avvertì.

Non mi parve vero nemmeno per un istante.

La mia felicità schizzò alle stelle e ringraziai il cielo di esser capace di nascondere le mie emozioni.

Entrai a scuola a fianco a lui, quella mattina, e per tutto il giorno dimenticai Jacob.

 

Dopo due ore di matematica, una di lingua straniera e il pranzo –passato con Bella e il nuovo fidanzato Mike Newton– finalmente giunse l’ora di biologia.

Come promesso Jasper fu in classe, seduto accanto al banco dove di solito sedevo «come hai fatto a indovinare? » chiesi e lui scherzando disse che “avrebbe riconosciuto il mio odore ovunque”.

Mi annusai un attimo una ciocca di capelli, poi gli diedi una manata sulla spalla, giocosa «guarda che io mi faccio la doccia tutte le sere» gli dissi, ridendo e prendendo posto.

Mi sembrò strana la classe così farcita di studenti, ma mi rallegrava la presenza del biondo accanto a me.

Il professore si mise a scrivere alla lavagna, tracciando alcune lettere «oggi ragazzi parleremo di gruppo sanguigno e faremo un esperimento. Preleverò alcune gocce di sangue da qualcuno di voi e vi dirò qual è il vostro gruppo sanguigno».

Presi il libro e il quaderno degli appunti, guardando Jasper fare lo stesso.

Biologia era sempre stata la mia materia preferita, nonostante il momento della vivisezione fosse un pochino duro per il mio stomaco.

Nonostante avessi già fatto quell’esperimento e sapessi che il mio gruppo era AB+, non mi tirai indietro e mi offrii volontaria quando il professore chiamò per l’esperimento.

Lui prese l’indice e con la punta di un ago me lo bucò; il dolore fu minimo anche se un po’ inaspettato e mi lasciai scappare un piccolo gemito.

Poi il professore lasciò cadere alcune gocce del mio sangue sul vetrino e dopo poco mi diede la conferma che il mio gruppo era AB+.

Ritornai al banco, scrivendo sugli appunti ancora qualche frase, poi mi guardai l’indice sinistro.

La ferita si stava già rimarginando e rimasi un po’ delusa, allora schiacciai il polpastrello e lasciai uscire una grossa goccia rossa «che stai facendo? » mi chiese Jasper, dal suo banco.

Sembrava preoccupato.

Io gli sorrisi, guardando ammaliata il colore del mio sangue «mi è sempre piaciuto assaggiare il mio sangue.

Ha un gusto ferroso che non mi dispiace poi molto» gli dissi sottovoce per non farmi sentire dal professore «lo faccio sempre quando ho qualche taglietto. Non perdo mai l’occasione» e con un gesto veloce leccai via la goccia, che stava iniziando a colarmi giù dal polpastrello.

Jasper scrollò la testa, ma sembrò turbato «ragazzi, la prossima settimana andremo in gita nelle foreste qui intorno a Forks» e ci fu un mormorio generale.

Io stetti a sentire cosa l’insegnante volesse aggiungere «so che non è molto ma il preside non ci concede altro.

Scopriremo la dinamica della biochimica nelle piante, quindi premunitevi e portatevi dei guanti, toccheremo molte ortiche! » e qui ci fu una risata generale.

Solo Jasper rimase serio, pensoso.

E così anche io, per capire se lo avevo urtato con il mio comportamento strano oppure se era solo colpa della gita.

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Capitolo 6
*** Horror Tales ***


Avviso: il capitolo è un po' corto perchè non riuscivo molto a figurarmi altro, ma spero che piaccia lo stesso :3 Il prossimo sarà meglio, giurooo!

*bearhug* Raxas

6.

Horror tales

 

Durante la settimana che ci separava dalla gita, Jasper sembrava letteralmente cambiato.

Non mi guardava più, non mi rivolgeva la parola e mi evitava in ogni modo possibile.

Cercai una spiegazione negli occhi dei suoi fratelli, specialmente in quelli di Raven; una volta sembrò sul punto di rivelarmi qualcosa, ma Edward al suo fianco l’aveva bloccata.

Così io passai un’altra settimana completamente ignorata dal mondo: Jacob aveva rinunciato a cercarmi e da una parte ne fui felice, perché dovevo ancora metabolizzare l’accaduto tra me e lui; Jasper e i Cullen mi evitavano come la peste e io non mi ero ancora spiegata il perché; Bella e Mike avevano praticamente chiuso i ponti e la ragazza non voleva vedere nessuno.

Così passai altri giorni a casa da sola, senza la consolazione dell’unico ricordo del ragazzo biondo.

Un pomeriggio mi ritrovai a pensare un po’ alla mia vita: avevo lasciato la mia casa natia perché non ne potevo più di sopportare i miei genitori e l’usurpatrice.

Ero arrivata in una cittadina circondata da immense foreste, dove gli animali pullulavano e dove la pioggia cadeva quasi tutto l’anno.

Avevo incrinato l’amicizia con Jacob e avevo avuto il mio primo vero innamoramento con un ragazzo complicato e bello come un dio.

Ripensai al sorriso dolce di Jasper e subito il mio cuore saltò un battito, come mi succedeva da quando lo avevo incontrato.

Ammisi che lui era diventato lo scopo della mia vita e che nessun’altro sarebbe stato capace di farmi sentire così dannatamente amata e protetta.

Così al centro del mondo.

Un debole dliin dal mio portatile mi fece stare su dalla posizione supina che avevo assunto sul letto ancora fatto e mi fece avvicinare al computer.

Sulla barra blu di Windows brillava arancione la finestra ridotta ad icona di una conversazione MSN.

Era Jacob.

Mi misi seduta a gambe incrociate e poggiai il computer sulle cosce, aprendo la conversazione.

Aprii la finestra e lessi quello che il mio ex migliore amico mi aveva scritto.

Sarah ti prego scusami :<

Ti giuro che vorrei spiegarti ma non posso.

Sono preoccupato per te.

Io emisi un rumore di sufficienza, poi appoggiai le mani e iniziai a scrivere «cosa intendi dire che non puoi spiegarmi? Sei andato fuori di capoccia perché qualcuno ti ha ipnotizzato? » brontolai quello che scrissi, con le sopracciglia aggrottate.

Un altro dliin arrivò dopo pochi minuti.

Un giorno forse potrò raccontarti tutto.

Ti prego, davvero, stai lontana dai Cullen.

Fallo per me.

«Ah! Assurdo! » esclamai tra me e me, fissando irata la finestra del programma.

Come si permetteva?

Jasper non mi aveva fatto nulla, non aveva fatto come una certa persona –che aveva tentato di rubarmi un bacio nella cucina di casa mia–.

Senza perdere troppo la testa, scrissi un secco perché. Senza punto interrogativo, senza lettera maiuscola all’inizio.

Jake sapeva che voleva dire quando non badavo all’ortografia: che ero semplicemente troppo arrabbiata per farlo.

Sono pericolosi.

Due parole che non mi avevano spiegato poi molto.

Ma Jacob stava continuando a scrivere.

Senti, domani vieni in spiaggia qui a La Push.

Ti racconterò tutto quello che so su di loro.

Pace nanetta? :<

Già me lo immaginavo, con gli occhioni sbrilluccicanti che aspettava speranzoso una mia risposta positiva.

Io sorrisi, addolcita da quella visione.

Prendendo un lungo respiro gli scrissi che doveva togliersi dalla testa qualsiasi pensiero su di me e su di lui, che doveva promettere che non lo avrebbe fatto mai più e che si sarebbe guadagnato venti frustate.

Certo Sarah, parola di lupetto, capo scout! ^w^

Ma riguardo ai pensieri, credo che non potrò assicurare nulla.

Sono stufo di fingere.

Rimasi di stucco a quella frase.

Piacevo a Jacob? Gli ero sempre piaciuta? Oppure erano solo gli ormoni del ragazzo in crescita che stavano parlando?

Sospirai, chiusi MSN senza rispondere al mio amico e mi misi a dormire.

Appena serrai gli occhi iniziò uno di quelli che chiamavo dejà-vue: solitamente erano dei sogni che spesso si avveravano.

Mai ci avevo dato troppo peso, come le immaginazioni ad occhi aperti, ma quella notte fu abbastanza vivida.

Eravamo io e Jasper, nella foresta di Forks, ed eravamo soli.

Non c’era nessun ragazzo della gita –la prima cosa a cui pensai– o insegnante.

Solo noi due.

Lui pareva combattuto, irato con me e con se stesso e vedevo che stava realmente male.

Io ridacchiavo, per una cosa che lui mi aveva detto, ma non sembrava che fosse una battuta; all’improvviso lui sollevò un masso gigantesco e lo lanciò oltre la mia testa, abbattendo un albero come se fosse stato un birillo.

Il rumore del crollo fu tanto forte nei miei pensieri che mi svegliai di colpo.

Ridacchiai, pensando che la mia fantasia a volte non aveva limiti.

 

Il giorno dopo pioveva e faceva più freddo del solito.

Mi vestii in modo molto pesante: un maglione color panna, i jeans più spessi che riuscii a trovare nel mio armadio e i miei stivali da motociclista.

Presi inoltre in prestito una giacca imbottita dall’armadio di mia zia e un ombrello dal portaombrelli accanto all’uscita.

Non seppi spiegarmi del tutto perché Jacob aveva voluto che andassi fino alla spiaggia di La Push, forse per spiegarmi le cose che non poteva spiegare virtualmente, forse per riprovarci con me.

Lo avevo perdonato, ma da quel momento rimasi diffidente verso di lui; dopotutto mi aveva detto che non poteva fingere, che era stufo.

Fingere di essere mio amico. Davvero aveva finto fino a quel momento?

Salii sul mio Toyota e accesi il motore, preparandomi per quel pomeriggio intenso.

Ringraziai che fosse domenica e che ebbi il tempo di dormire la mattina.

Il nonno si era di nuovo dato alla macchia –o meglio, alla bocciofila– e così mi toccò per l’ennesima volta preparare il pranzo sia per me che per lui.

Non che mi dispiacesse, solo che mi mancavano le mani fatate di mia zia Lindsay.

Imboccai la strada per La Push e mi ci diressi appena sotto il limite di velocità.

Volevo che tutto finisse il prima possibile.

Giunsi alla spiaggia alle dieci e mezza, e la giornata mi sembrava più cupa che mai «hey, Sarah! » mi chiamò Billy, quando ebbi parcheggiato di fronte a casa Black «se cerchi Jacob è giù in spiaggia» aggiunse.

Io sorrisi, annuendo e salutandolo con la mano «quando vedi tuo nonno salutamelo! ».

Rimasi un attimo immobile, guardando Billy rientrare in casa.

Non lo aveva visto andare alla bocciofila?

Mi preoccupai, ma in quel momento per la testa avevo solo Jacob e quello che aveva da dirmi.

Arrivai alla spiaggia che le onde salate e fredde si infrangevano sulla sabbia color ocra in grandi cavalloni; lo spettacolo era a dir poco apocalittico: il mare era agitato come non mai, le onde si infrangevano contro la scogliera, alzandosi alte e lasciando in balia del vento le piccole goccioline di schiuma.

Jacob era appoggiato a un tronco spiaggiato e mezzo sbiancato dal sale «sei arrivata presto» mi disse con un sorriso, a mo’ di saluto.

Io mi avvicinai e gli tirai forte una ciocca dei lunghi capelli «non osare mai più fare una cosa simile» gli dissi, irata «o veramente ti arrivano venti frustate».

Lui ridacchiò, massaggiandosi la cute offesa «ok ok, va bene! Niente più avances» mi disse «anche se sarà dura» aggiunse e la mia faccia divenne una maschera di pietra.

Mi sedetti vicino a lui, a guardare le onde che si gettavano come impazzite contro la scogliera.

Il vento poi tirava da nord ed era molto freddo «allora, sputa il rospo naso a patata» dissi, senza staccare lo sguardo dal mare.

Mi metteva dentro rabbia e tristezza al tempo stesso, quel mare agitato.

Jacob si infilò le mani nelle tasche e incassò per un attimo la testa nel colletto dell’incerata scura «una leggenda della nostra gente parla dei Freddi, persone non proprio umane che vivono bevendo sangue. Tu li conoscerai come vampiri» disse «Beh, i Cullen non sono proprio differenti dai Freddi».

Silenzio, interrotto dal mare iroso.

Poi non riuscii a trattenermi e scoppiai in una risata fragorosa, così alta che per un attimo non sentii più il mare «tu sei solamente geloso! » esclamai guardandolo «ora ho capito. Non sopporti che io passi del tempo con Jasper e speri che questa tua grande rivelazione mi faccia allontanare da lui» dissi guardandolo un po’ con astio «beh mio caro, non ci sei riuscito. Dovevi avere più fantasia. Sai cosa ti dico? Io amo Jasper, con tutta l’anima.

È come uno di quegli scogli, per me. C’è solo lui a difendermi dall’ira del mare e anche se fosse veramente un vampiro, come in quei racconti dell’orrore, io non cambierei idea.

Parliamoci chiaro Jake, io ti piaccio. Ti piaccio da impazzire e non sopporti che a me tu non piaccia in quel senso.

Per me resterai sempre il mio migliore amico. Se non ti sta bene puoi anche cancellarmi dalla tua vita».

Non gli lasciai il tempo di aprire bocca. Semplicemente mi alzai e me ne andai, lasciandolo lì nel vento a mugugnare frasi sbocconcellate riguardo ai suoi sentimenti verso di me.

Raggiunsi il pick-up e piansi, tirando un debole pugno alla carrozzeria.

Non seppi perché, in quel momento, ma sentivo che era meglio farlo in quel momento.

 

 

 

 

Risposta alle recensioni:

Sa chan: cercherò di aggiornare ogni volta che finisco un capitolo, tranquilla :3 anche io adoro Jazz, è il migliore e il suo passato è meraviglioso.

Norine: Ehe già, Jacob è bleah quando è in calore XD Sarah non ha le visioni, diciamo che sogna il futuro in delle specie di dejà-vue.

Nanerottola: ohoh si scoprirà abbastanza presto, tranquilla! :D

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Capitolo 7
*** Green forest ***


7.

Green forest

 

Ritornai a casa con gli occhi gonfi e rossi.

La tristezza che mi appesantiva il petto faceva male e non ero completamente sicura che fosse colpa di Jacob; dopotutto lui aveva cercato di conquistarmi con gli unici mezzi che il suo stupido cervello mal funzionante gli avesse suggerito.

Quando mi chiusi la porta d’ingresso lanciai un urlo di rabbia, consona che non ci fosse nessuno in casa a quell’ora.

Mi diressi verso camera mia e sbattei la porta mentre la chiudevo dietro di me.

L’ira dentro di me era cieca e immotivata, ma mi sembrava palpabile come una cortina di fumo; guardai furiosa il cellulare lasciato sul materasso e vidi che c’erano tre messaggi e un paio di chiamate perse.

Tutte di Bella.

Dovevo chiamarla per aiutarla, per sapere come stava e per assicurarmi che la rottura con Mike stesse guarendo?

Perché io?

Aveva più amiche di me in quella stupida cittadina piovosa, poteva benissimo andare da loro a piangere ogni sua lacrima.

Io avevo già le mie e non avevo nessuno a cui confidare quel dolore in mezzo al petto.

Non avevo più Jacob, il vecchio e solare Jacob, né avevo Jasper, il dolce Jasper sempre preoccupato per me.

Il cellulare squillò per l’ennesima volta, quella giornata, ma questa volta riconobbi il numero alla prima occhiata; ed era un numero che non volevo vedere.

Mia madre stava cercando di contattarmi?

Dopo quasi un mese che me ne ero andata di casa senza dire una parola? Strano, avevo pensato che avrebbero resistito di più senza la loro piccola cenerentola.

Non risposi, ovviamente, ma stetti a guardare lo schermo lampeggiare e mostrare la sfilza di numeri che io avevo imparato subito a riconoscere a memoria.

Mia madre rinunciò a chiamarmi dopo qualche squillo a vuoto.

Sospirai, cercando di ricacciare indietro le lacrime inutili e di riuscire a fare qualcosa per il giorno successivo, il giorno della gita.

Avevo già preparato una piccola borsa con il blocco degli appunti e dei guanti in lattice usa e getta, ma per noia la ricontrollai una seconda volta.

Poi mi alzai per scegliere i vestiti più adatti per una scampagnata simile: jeans spessi, maglione a collo alto color oro e giacca scamosciata, oltre che scarpe da ginnastica con suola antiscivolo.

Era tutto pronto, non avevo nulla da fare.

Non trovai altra soluzione che stendermi sul letto e osservare il soffitto mentre la giornata cambiava colore, da grigio pallido del pomeriggio coperto al nero della notte che avanzava.

Esaminai meglio la reazione di poco prima: cosa mi aveva fatta arrabbiare così tanto?

Che Jake stesse cercando di allontanarmi da Jasper in ogni modo possibile?

Che Billy mi avesse messo addosso una paura del diavolo con quella frase?

Oppure era semplicemente una malattia che stavo covando?

Con il tempo di Forks, poi, la terza era la più probabile delle teorie.

Altre lacrime scesero senza che io sapessi perché.

Ero arrabbiata con mia madre, con mio padre, con tutti quelli che mi avevano obbligato ad andarmene da casa mia, che mi avevano costretta a lasciare tutto quello che conoscevo per affrontare una vita che non mi sembrava appartenere.

Stavo sempre in casa, non uscivo mai.

Forse era quello il problema; la mia psiche si stava ribellando a quella vita monotona che stavo seguendo senza accorgermene.

Mi promisi che il giorno dopo, appena tornata dalla gita scolastica, sarei andata a Port Angeles e avrei fatto un giro di vetrine.

Tanto per tornare un attimo all’adolescenza che mi stavo facendo sfuggire dalle mani.

 

La mattina dopo svegliarsi fu abbastanza facile, dato che non avevo dormito molto e quindi rialzarsi dal letto praticamente già fatto non fu un’impresa.

Mi vestii come avevo programmato, senza voglia e con il morale sotto i piedi; presi la borsa e mi diressi al piano inferiore, per prepararmi qualcosa prima di partire.

Nonno Arthur era nella sua camera a dormire, potevo sentirlo russare, e questo mi tranquillizzò un pochino.

Preparai un paio di panini con prosciutto e pomodori, li avvolsi prima nella pellicola trasparente poi nella stagnola e infine li cacciai nella sacca a tracolla che avevo.

Non mangiai niente però, per paura di arrivare in ritardo: saremmo partiti con un piccolo autobus dal parcheggio della scuola almeno mezz’ora prima del solito orario scolastico e se qualcuno fosse arrivato in ritardo sarebbe rimasto nell’edificio a seguire le lezioni con le classi rimanenti.

E quello per me non era auspicabile.

Come solito pioveva, ma non a dirotto come solito; era una pioggerellina leggera, tanto per umidificare l’aria già satura.

Salii sul pick-up e di nuovo la strana rabbia del giorno prima mi prese alla gola, come se qualcuno tentasse di strozzarmi.

Stavo ripensando a mia madre e a mio padre, al motivo per cui ero scappata di casa. Non sarei mai più tornata, potevano scordarselo.

Non dopo quello che mi avevano fatto.

Accesi il motore e mi immisi nella strada per raggiungere la scuola; mentre stavo guidando riconobbi dietro di me la spider rossa fiammante e la jeep scura dei Cullen.

Mi superarono entrambe molto velocemente, senza segni di saluto o di avermi riconosciuta a bordo del mio Toyota.

La mia rabbia passò dai genitori a Jasper.

Si era allontanato da me dopo avermi offerto una panoramica del paradiso –e sapevo che il paradiso odorava di grano e girasoli– e mi evitava.

Non mi sorrideva più in quel modo dolce e rassicurante.

Non mi guardava più con quegli occhi liquidi e dorati che avevo imparato a riconoscere in mezzo a miliardi di altri occhi.

Con un pensiero assurdo, sperai in quel momento che lui potesse avvertire la pugnalata fredda dei miei pensieri nella schiena, o che almeno gli stessero fischiando le orecchie.

Arrivai nel parcheggio che le auto dei Cullen erano già nei loro soliti posti.

Io parcheggiai il mio grosso veicolo nel primo posto libero che trovai, scesi sbattendo forse più del dovuto la portiera e mi guardai attorno con astio.

Nessuno quel giorno doveva rivolgermi la parola, era uno di quei giorni in cui anche il più affettuoso dei saluti ti sembra un insulto.

Raggiunsi il piccolo autobus giallo, salutando con finto garbo il professore, e mi sedetti negli ultimi posti, vicino al finestrino.

Sarebbe stata una lunga giornata.

 

In effetti nessuno mi salutò quella mattina –tranne Raven, ma il suo fu piuttosto un accenno di capo condito di una risatina– e mi andò bene così.

Mi andò meno bene quando scesi e Mike Newton si attaccò a me, come se mi conoscesse da una vita; non gli parlai per tutto il tempo della lezione. Rimasi muta e munita di guanti a sbriciolare nervosamente foglie di ortiche e di cicuta.

Non stavo prendendo appunti e sinceramente non me ne importava più di tanto in quel momento.

Quando sentii Newton parlare riguardo alla festa di fine anno, io sbattei foglie e coltello sul piccolo tavolino da campo che stavamo dividendo e lo fulminai con lo sguardo «io non intendo andare a quell’accidenti di festa, tanto meno con te! » esclamai, forse a voce un po’ troppo alta.

Tutti si voltarono a guardarmi, straniti.

Anche Mike mi osservò come se fossi matta «come hai fatto a…»«Field, c’è qualcosa che non va? » lo interruppe il professore, avvicinandosi al nostro tavolino.

Io presi un profondo respiro e disegnai a forza un sorriso cortese sulle mie labbra «no, nessuno. Vado a prendere altre foglie» dissi e portandomi appresso il coltello –solo per il puro gusto di tenere qualcosa in mano– diedi le spalle alla classe e mi inoltrai nella foresta.

Camminai a lungo, senza cercare nulla.

Mettevo un piede davanti all’altro per cancellare la rabbia che mi rodeva da dentro: in quel momento tutti sembravano essersi messi d’accordo per farmi perdere le staffe.

Bella con il suo piccolo problema di cuore, Mike Newton con quella sua mania di voler uscire con me, Jacob e il suo cambiamento radicale.

Jasper e la sua indifferenza.

Era quella che mi faceva più male e capii che era quello il motivo della mia rabbia: era sfociata per non lasciar uscire la tristezza.

Calciai con poca forza un ciottolo e mi sedetti sulla grande radice ricoperta di muschio di un albero.

Era tutto così verde e fresco in quella foresta che mi metteva la voglia addosso di stendermi in mezzo al sottobosco a dormire.

Il fruscio lieve delle foglie mosse dal vento, i canti degli uccelli e i versi degli altri animali; per un momento fui in pace con me stessa e con il mondo che mi circondava.

Un po’ come una pomata fresca su una ferita che bruciava.

Un po’ come il fazzoletto di Jasper sulla ferita sanguinante.

Ecco, mi diedi della stupida, stavo pensando di nuovo a quel ragazzo freddo e maligno; freddo per la sua indifferenza, maligno perché mi aveva portato a un passo dalla felicità senza concedermela.

Sentii una mano fredda sulla spalla, così dannatamente fredda, e mi alzai di scatto girando su me stessa.

Come se lo avessi chiamato, il biondo ragazzo era in piedi dove prima io stavo seduta «mi stavo preoccupando» disse soltanto, con la sua voce cadenzata.

Io lo fissai, stringendo il coltello nella destra, con un’espressione diffidente «per prendere un paio di ortiche ci stavi mettendo troppo» aggiunse, sfoggiando ancora una volta il suo sorriso.

Ero troppo arrabbiata, però, per poter cedere come tempo prima a quella sfolgorante espressione «e a te che importa se faccio una brutta fine oppure no? » gli chiesi, sputando quanto più veleno possibile.

Il suo viso s’incupì «a me importa molto» disse scendendo con un balzo agile dalla radice sollevata «per questo sono stato lontano da te. È per questo che sei arrabbiata».

Non spiegai come sapesse tutto quello che io non avevo detto a nessuno, quasi nemmeno a me stessa, ma non cedetti. Rimasi a guardarlo con faccia seria «fammi indovinare, perché mi trovi strana e non vuoi avere nulla a che fare con una a cui piace il proprio sangue. Ho notato la tua faccia a biologia, la volta scorsa» dissi, dandogli le spalle per poter tornare indietro, per scappare da lui e dal suo viso irresistibile.

Sentivo dentro il mio cuore un tumulto di emozioni che non sapevo spiegare: avevo paura, sudavo freddo, sentivo caldo, volevo colpirlo ma non volevo fargli del male.

Era lo stesso nodo che mi si era annodato in petto quando Jacob aveva tentato il suo “delicato” approccio nella cucina di casa mia, solo amplificato e ingigantito al massimo.

Mi sembrava di morire.

Lui fece qualche passo verso di me «io sono pericoloso. Ogni minuto che passi con me rischi la vita e il tuo istinto te lo sta urlando anche adesso» mi disse, rimanendo impassibile e con il corpo teso.

La mia mano stringeva sempre di più il manico del coltello, così tanto che avevo paura ne prendesse la forma come con la plastilina «tu sei in pericolo in questo momento» aggiunse «e io sto cercando in tutti i modi per tenerti in salvo da me stesso. Ma non ci riesco. Non posso starti lontano».

Jasper si avvicinò a me di un altro passo «so che hai capito che sono diverso, che la mia famiglia è diversa…» e lo sentii fermarsi appena dietro la mia schiena.

Non mi stava toccando né sentivo che le sue mani si stessero avvicinando.

In effetti mi erano sempre sembrati strani, ma belli, i Cullen.

Mi venne di nuovo in mente il ruscello con le pietre e le piccole foglie galleggianti, e improvvisamente ricollegai tutto quanto.

La pelle pallida, le occhiaie scure, Jacob e le sue scempiaggini sui vampiri.

Il tocco fresco e delicato e i sudori freddi che provavo in quel momento.

Dejà-vue.

Mi voltai ridacchiando e il suo volto era esattamente come lo avevo sognato, indeciso e sofferente «siii certo, tu sei un vampiro. Esci di giorno e frequenti una normale scuola superiore dove una volta hai anche assaggiato quella schifosa tartina di carne e aglio. Qualcuno mi salvi, Jasper Cullen è un vampiro» e risi.

Risi per isteria e per il tono che la mia voce aveva assunto; allora erano tutti in combutta contro di me per impedirmi di essere felice! Ora si era spiegato tutto.

Il ragazzo non fu rise, non accennò nemmeno a un sorriso.

Mi guardò mordendosi il labbro e guardando attorno a sé; sembrava cercasse qualcosa.

Poi vidi i suoi occhi dorati fissarsi sul grande masso alla nostra sinistra, probabilmente franato dalla montagna sopra di noi. Quasi si materializzò vicino ad esso –e io non lo avevo visto muovere un passo– e si chinò sulle ginocchia per tirarlo su «ma sei pazzo ti spaccherai la schiena! » esclamai, spegnendo la risata quasi istantaneamente.

Ricordavo bene il sogno che avevo fatto, come ogni sogno vivido che facevo, ma pensavo che quello che avevo visto fosse stato un eccesso della mia fantasia.

Invece Jasper si caricò sulle spalle quei quintali di roccia come se stesse tirando su appena qualche chilo e mi guardò con una faccia strana, a metà tra il divertito e il distrutto.

Come se avesse lanciato un pallone da calcio, poi, scaraventò il masso sopra la mia testa e abbatté un piccolo albero dietro di me.

Io ero rimasta senza parole, completamente; non riuscivo a ingranare nella mia mente perché, tutto quel che stava accadendo, non mi mettevo a correre gridando aiuto.

Jasper mi guardò ancora, questa volta angosciato «per questo capisci che potrei ucciderti anche solo con un dito? Non posso sopportare l’idea di farti del male…per non parlare della sete…»«sete? ».

Il biondo vampiro annuì «il tuo sangue mi attira più di qualsiasi altra cosa. Posso dissetarmi di animali per giornate intere, ma appena sento l’odore del tuo sangue perdo il controllo».

Mi spiegò che tutta la sua famiglia era composta di vampiri e che loro erano diversi dai vampiri normali –che di solito si cibavano di sangue umano–.

Loro erano come vegetariani, bevevano solo il sangue degli animali che cacciavano in quelle foreste «sei troppo preziosa per me per lasciarmi andare a questo egoismo istintivo di noi vampiri. Non penso altro che a te, giorno e notte, non riesco a togliermi dai polmoni il tuo profumo e quello del tuo sangue. Quando poi hai fatto quella cosa a biologia, mi sono sentito morire».

In quel momento, però, non sentivo paura. Jasper stava sparando così tanti complimenti a raffica che io non riuscivo nemmeno a respirare.

Arrossivo e basta.

Magari avrei ripreso a respirare quando sarei svenuta per mancanza d’aria «sei una droga, capisci? Sei una droga alla quale io non posso né voglio resistere» si avvicinò ancora un po’ e io potei vedere di nuovo quella piccola cicatrice bianca sulla sua mascella.

Non era sola, però.

Sembrava che assieme ad essa ce ne fossero altre, soprattutto dal collo e una piccola, quasi invisibile linea argentea sopra il sopracciglio sinistro.

Alzò una mano e delicatamente strofinò il dorso di essa sulla mia guancia «quando arrossisci, poi, oltre a essere più carina diventi anche più appetitosa».

Io mi allontanai, guardandolo con sospetto, anche se dentro stavo bruciando in una maniera assurda «chi mi dice che quel masso non l’hai messo tu? Poteva esser fatto di polistirolo. Io non mi faccio ingannare da certi trucchetti» dissi, anche se non ne ero convinta del tutto.

Perché avrebbe dovuto prendermi in giro a quel modo?

Improvvisamente lui sorrise, allargando le braccia «vuoi provare con quel coltello? Quello è vero» ridacchiò.

Io lo guardai con un paio di occhi che sembravano uova fritte «ma sei pazzo? » urlai, nascondendo il coltello dietro la schiena.

Con un fruscio lui mi fu improvvisamente dietro «avanti, non mi farai nulla».

Non ne ero convinta e stavo ancora cercando di capire come facesse a muoversi così in fretta: che trucchi stava usando? Aveva un fratello gemello?

Io guardai la lama appuntita del coltello, poi osservai Jasper aprirsi un poco la camicia, rivelando il fisico bianco e perfetto.

Una statua di marmo «al massimo sfogherai la tua rabbia uccidendomi» ridacchiò ancora.

Io sbuffai, senza però muovere la punta dell’improvvisata arma verso il suo petto. Stavo arrossendo per la visione che avevo davanti e se non fosse stato abbastanza freddo sarei svenuta per le elevate temperature che stava raggiungendo il mio sangue.

Improvvisamente una rabbia a me estranea mi colse e io quasi non ci vidi più: alzai il coltello e fui convinta di piantarlo nel suo petto, con miriade di gocce di sangue caldo che sprizzavano a destra e a sinistra.

Invece la punta della lama slittò sulla sua pelle, come se avessi colpito una roccia, e si piegò a ricciolo; la pelle di Jasper non presentò un solo graffio «questa è la corazza di un omicida» disse, intristito e guardandosi il petto.

Fece una smorfia disgustata a qualcosa che io non riuscivo –o non ne ero capace, in quel momento– a vedere.

Io guardai la lama piegata e poi guardai il suo viso. Era angosciato come mai, sembrava un quadro antico che il pittore avrebbe intitolato “lotta interiore” «sai una cosa? » gli dissi, buttando via il coltello nel sottobosco «a me non da fastidio»«ora sei tu ad essere pazza» e scosse la testa.

Io gli sorrisi e un fiotto caldo nel cuore mi riempì completamente, dalla testa ai piedi.

Mi sembrava di volare almeno quindici centimetri sopra il suolo «non hai paura di me? » mi chiese il biondo vampiro «non hai paura che entri una notte in camera tua e ti morda, succhiandoti via ogni alito di vita? ».

Cercai di immaginarmi la scena, ma non mi sembrò poi così spaventosa; soprattutto perché io, mentre lui affondava i denti nel mio collo, lo stavo spogliando.

Jasper avvertì il calore e l’emozione che stavo provando «ripeto, tu sei una pazza suicida» mi disse, regalandomi però uno dei suoi ammalianti e caldi sorrisi.

Richiuse i due bottoni della camicia mentre io parlavo «sarò pure una pazza suicida, ma anche tu sei una droga, quasi quanto io lo sono per te».

Con questa frase lasciammo la foresta, per ritornare alla nostra lezione, più leggeri entrambi: io dalle mie preoccupazioni e Jasper dal loro riflesso.

«Ah, comunque sono Jasper Hale» puntualizzò lui, dopo qualche secondo.
Io risi felice, ma non mi lanciai ad abbracciarlo come avrei voluto. Sentivo che era ancora troppo presto.

 

 

 

Risposta alle recensioni:

Norine: Tutto spiegato da lui stesso, quel drogato XD In effetti Sarah è (sono) un pochino strana, ma è fatta così! Poi si sfrutterà la cosa per alcuni capitoli rossi che metterò un po’ più avanti hihi

Nanerottola: Eccolo qui, vivo e vegeto *coff* beh più o meno XD Team Jasper? HALE, yes!

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Capitolo 8
*** Port Angeles ***


8.

Port Angeles

 

Il resto della lezione lo dovetti passare accanto a Mike Newton.

Mi scusai con lui per la mia reazione e lui si sciolse in un mare di giuggiole, assicurandomi che forse mi aveva stressato troppo.

Nonostante non mi avesse mai chiesto di andare al ballo con lui.

Io rimasi un tantino scioccata, ma non lo diedi a vedere; solo Jasper lo aveva notato e con il potere di cui mi aveva parlato durante il ritorno verso la classe tentò di tranquillizzarmi.

Io feci come quella volta in macchina, lo respinsi dolcemente e con uno sguardo gli feci capire che non ce n’era bisogno.

Raven, vicina al fratello, ridacchiò e guardò entrambi –prima me, poi il fratello– con una faccia tra l’intenerita e la maliziosa.

Non ero più sola, finalmente, lo potevo avvertire dal sorriso ora sempre presente, seppur invisibile, sulle labbra del biondo vampiro.

Notai con la coda dell’occhio che Jasper non stesse sbriciolando le foglie che il professore aveva consegnato assieme a una particolare soluzione salina, ma le stava letteralmente triturando.

Non stava guardando il suo lavoro, ma stava guardando me; i suoi occhi dorati erano incollati sul mio volto, o forse sul mio collo.

Ora che sapevo che lo attraevo sia fisicamente che sentimentalmente, molte cose che aveva fatto mi si erano spiegate.

Mi vergognai come una ladra, ripensando a quando era arrivato a salvarmi da Jacob, per così dire: doveva aver sentito ogni mio ago di dolore, doveva aver scandagliato minuziosamente quel nodo che sentivo in petto.

E doveva aver provato sulla propria pelle l’adrenalina che avevo avvertito io parecchie volte in sua presenza.

Finalmente la giornata finì e mentre mi andavo a sedere negli ultimi sedili dell’autobus, una mano fredda che avevo imparato a riconoscere subito mi si posò sulla spalla e mi spinse verso un gruppo di sedili sulla destra.

Mi sedetti vicino al finestrino, come sempre avevo adorato fare, e Jasper vicino a me.

Davanti avevamo Rosalie con Emmett e di fianco c’erano Edward e Raven.

Da quando avevo saputo che anche loro erano vampiri, mi sembrava di avere attorno quattro muri invisibili, pronti a proteggermi sia da pericoli esterni, sia da Jasper «non far caso a loro» mi sussurrò il vampiro all’orecchio, chinandosi leggermente verso di me «soprattutto a Edward. Quando sei con lui, non pensare a cose private» aggiunse e il fratello si voltò.

Forse si era sentito in chiamato in causa, forse anche lui aveva un potere simile a quello di Jasper. Il biondo ridacchiò e subito dopo Edward sbuffò contrariato «un giorno ti spiegherò un po’ più di cose. Per oggi non volevi andare a Port Angeles? » mi chiese e io mi voltai a guardarlo.

Dovevo abituarmi in fretta al suo viso perfetto e a quell’espressione solare che lo illuminava completamente «tu leggevi solo le emozioni o sbaglio? »

«ma tu parli nel sonno, cara».

Lo guardai con le sopracciglia aggrottate, cercando di combattere i due sentimenti che mi stavano nascendo dentro: l’enorme imbarazzo positivo in quanto lui mi avesse chiamata cara, e il gigantesco imbarazzo negativo riguardo alla prima parte della sua frase «tu sei stato a guardarmi…la notte? » chiesi e lui annuì, senza eliminare quel sorriso ammaliatore «ma sei uno stalker! » esclamai.

Tutti i Cullen risero e io avrei voluto seppellirmi, ma la sua risata, argentina e rassicurante, mi tranquillizzò senza bisogno del suo potere.

Mi sarei abituata presto alla sua presenza.

 

Arrivati nel parcheggio salutai tutti e montai sul mio pick-up, convinta che lo avrei rivisto l’indomani mattina a scuola; o almeno fu così finché non lo vidi aprirmi la portiera del passeggero della mia macchina e indicarmi il sedile «e questo cosa vorrebbe dire? » domandai, nascondendo la mia sorpresa dietro una facciata arrabbiata «secondo te ti ho rivelato il più grande segreto della mia vita solo per lasciarti andare via con un semplice ciao? Ti accompagno a Port Angeles» disse, con mezzo sorriso e con il sopracciglio alzato a cui non avrei mai resistito nemmeno se ci avessi provato.

Salii dalla parte del passeggero e infilai le chiavi nel quadro, poi aspettai –non che ci volle molto– che Jasper salisse sulla Toyota «mmm, comoda» disse, una volta seduto.

Io soffocai una risata e guardai fuori dal finestrino la jeep scura e la spider rossa allontanarsi e sparire nella direzione opposta alla nostra.

Lui accese il motore e con non-chalance fece inversione per uscire dal parcheggio.

Per arrivare fino a Port Angeles non ci mettemmo molto e una volta arrivati feci posteggiare Jasper nel parcheggio del centro commerciale.

Lui mi guardò con un’espressione indecifrabile, forse perché si era reso conto che sicuramente sarei stata molto tempo a osservare le vetrine –e se mi riusciva avrei anche comprato qualcosa–.

Io risi e scesi dalla macchina «sei un vampiro indistruttibile no? Resisterai a qualche minuto di shopping insieme alla tua ragazza» dissi felice e Jasper scrollò la testa «io ho per caso detto che sei la mia ragazza? ».

Sperai che stesse scherzando, perché mi voltai con una faccia che era tutta un programma; ma sapevo che mi stava prendendo in giro e lui l’aveva letto nelle mie emozioni «sei la mia droga, te l’ho già detto. Di una ragazza posso farne anche a meno, della mia polverina bianca no» e si avvicinò abbracciandomi la vita per un braccio.

Doveva avere veramente un contegno eccezionale, se arrivava a starmi così vicino senza soccombere all’odore del mio sangue.

Rabbrividii per il contatto diretto con il suo corpo freddo, ma non mi staccai; iniziai a camminare verso il centro commerciale «almeno mi permetterai di pagarti una cena, dopo» mi disse lui «è un secolo che non ne ho bisogno, ma mi ricordo ancora che voi piccoli e fragili umani avete bisogno di mangiare» e detto questo mi scompigliò i capelli corti e scuri.

Io alzai le spalle «se proprio ci tieni possiamo fare un salto da McDonald e prendere qualcosa di veloce» «no, no. Io intendo una cena vera in un ristorante».

Rimasi colpita, ma lui non diede segni di cedimento. Volle a tutti i costi portarmi nel più lussuoso ristorante di Port Angeles.

Passammo –o meglio, passai– tutta la sera a scegliere un vestito che avrei poi indossato a quella specie di primo appuntamento e Jasper non fu molto d’aiuto: ad ogni abito che provavo –che fossero jeans e camicetta o un vestito di Christian Dior– lui mi assicurava che ero la bellezza fatta persona.

Alla fine non comprai nulla.

Se per lui andavo bene con maglione e pantaloni, mi avrebbe avuta così per il resto della serata.

Una arrivati nel ristorante il biondo vampiro pagò anticipatamente e mi guidò fino a un tavolo per due, in fondo alla sala e vicino alle finestre.

Quella specie di tavola calda per ricchi era a pochi passi dal molo della città e attraverso il vetro pulito potei vedere il mare illuminato da una luna sempre velata dalle nuvole «spero sia di tuo gradimento» mi disse Jasper con un’espressione soddisfatta.

Il mio sguardo vagò sulle tende di ottima fattura, dai tavoli di legno lucidato a specchio fino alle sedie dello stesso identico colore, con il tessuto copricuscino in abbinamento al colore predominante del locale.

Ovvero un delicato giallo ocra.

Io lo guardai stupita che fosse così tranquillo in posto di lusso come quello, ma poi mi ricordai che aveva ben più degli anni che dimostrava e che, probabilmente, posti così ne aveva visti a bizzeffe «è meraviglioso…grazie» borbottai, prendendo fuoco.

Lui si chinò in avanti e mi fece segno di avvicinarmi con un paio di dita.

Io gli obbedii, come se avesse collegato il mio viso alla sua mano con un filo invisibile, e mi portai in avanti sul tavolo «se non la smetti di arrossire rischio veramente di saltarti addosso, se non per morderti almeno per lasciarti un bacetto sul collo» mi sussurrò con il suo ormai famoso sopracciglio alzato.

Io mi tirai indietro di scatto, guardandolo offesa, ma lui mi ridacchiò contro e si appoggiò alla sedia con galanteria.

Tutto di lui mi aveva suggerito che non era proprio contemporaneo e ora che sapevo la verità, provai a immaginarmelo in un luogo diverso, sia del tempo che dello spazio. Sicuramente nel sud degli Stati Uniti, a sentire dal suo accento meridionale.

La serata passò piacevolmente, con Jasper che un po’ rispondeva alle mie domande e un po’ me ne faceva. Fu una serata divertente da una parte, soprattutto quando lui mi chiese se mai avessi avuto paura di qualcosa «certo! » gli dissi «ho paura delle altezze».

Lui si era messo a ridere, cincischiando su quanto fossi strana «non hai paura di me, ma hai paura di fare un paio di metri lontana dal terreno».

Gli spiegai che non c’era niente di spaventoso in lui e che avevo sofferto le pene dell’inferno per giungere a Forks in aereo.

Fu una serata interessante dall’altra, quando chiesi a Jasper perché mangiava se non ne aveva bisogno «beh, devo pur fingere di essere vivo o no? » mi rispose, afferrando una forchettata di spaghetti all’amatriciana e divorandola in un secondo «visto? » mi disse, dopo aver ingoiato senza alcuna fatica «il tuo corpo per funzionare ha bisogno di vitamine e sali minerali, giusto? Non c’è nessuna differenza se li assumi attraverso un piatto di pasta o delle pasticche. Per noi le pasticche sono i tuoi piatti di pasta» e detto ciò aveva divorato un’altra forchettata di spaghetti.

Il discorso sangue volò alto sulla nostra conversazione, ma rimase sempre nelle nostre teste.

Alla fine, quando ebbi la pancia e la testa stracolmi, decisi che era meglio ritornare a casa, prima che qualcuno notasse la mia assenza «è meglio che guidi io anche questa volta» mi disse Jasper «mi sembri troppo assonnata per guidare».

In effetti, con lo stomaco pieno di lasagne, pasta, vini pregiati e torta paradiso avevo iniziato a sentire una leggera sonnolenza.

Jasper salutò garbato il capo cameriere, lasciandogli una bella mancia, e mi accompagnò alla macchina.

L’aria in strada era frizzante e dall’odore premoniva pioggia; salii in auto con uno sbuffo stanco «è stata proprio una bella serata» dissi tra me e me, mentre Jasper sedeva al posto di guida.

Il mio cuore aveva trovato finalmente un po’ di pace da tutta la confusione che aveva provato fino a quel momento e inconsciamente ringraziai il vampiro accanto a me.

Se non fosse mai esistito, io non avrei potuto vivere.

 

 

Risposte ai commenti:

Norine: Sarah durante la discussione lo chiama Jasper Cullen, così lui la riprende, dicendole che si chiama Jasper Hale, non Cullen.

Sa chan: visto? Non ti ho delusa anche stavolta XD Tempo record e capitolo lunghino e romantico. Il primo di una lunga serie si spera :3

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Capitolo 9
*** Nightmare ***


9.

Nightmare

Mi svegliai nel mio letto, con Jasper accanto a me.

Dovevo essermi addormentata in macchina, ma feci fatica a capire che lui mi aveva portato in braccio fino in camera mia «buongiorno principina…o dovrei dire buonasera? » mi disse lui, alzando una mano e accarezzandomi il volto con un paio di dita ghiacciate.

Non mi diedero fastidio, ma lo stesso allontanai il viso per potermi stropicciare gli occhi.

Come d’abitudine i miei occhi corsero verso la sveglia sul comodino e scattai a sedere quando vidi che erano le due del mattino «eh si, hai dormito per un po’» aggiunse il vampiro biondo, ridacchiando.

Feci un paio di calcoli e lo guardai «sei stato qui tutta la sera? » chiesi e lui annuì, facendo dondolare per un attimo le sue ciocche scarmigliate «tranne quando è ritornato tuo nonno. È venuto a controllare se eri qui e mi sono fatto un attimo un giro nella foresta qui vicino».

Io ridacchiai e automaticamente tesi l’orecchio per sentire se nonno Arthur stesse dormendo «è andato a letto un paio di ore fa e adesso è completamente nella fase rem» mi rassicurò, posandomi le mani delicatamente sulle spalle e spingendomi verso il materasso «cosa che dovresti fare anche tu» «no ti prego solo cinque minuti! Hai fatto qualcosa d’interessante mentre mio nonno faceva l’impiccione? » ridacchiai stendendomi ma tenendogli i polsi.

Sapevo che era inutile –si sarebbe liberato anche un ragazzo qualsiasi dalla mia presa di burro– ma avere almeno un contatto fisico con lui mi faceva stare meglio «beh, ho cacciato un paio di cervi, ma credo che tra qualche giorno dovrò andare di nuovo con Emmett ed Edward per prendere almeno qualche orso» disse, guardando fuori dalla finestra.

C’era qualcosa che mi nascondeva, lo sentivo e lo vedevo nei suoi occhi limpidi e dorati, ma ero troppo stanca e assonnata –o almeno, mi sentivo assonnata e per un momento sospettai di Jasper– per indagare.

Mi promisi che l’avrei fatto il prima possibile.

Chiusi gli occhi, abbandonandomi contro il materasso; avvertii il peso di Jasper spostarsi e sentii una sua mano accarezzarmi la guancia.

Poi sentii il suo respiro freddo sulla fronte.

Un attimo dopo fui già immersa nei miei soliti e strani sogni.

 

Ero nella foresta che circondava Forks, ma potevo sentire il rumore del mare, scrosciante come quando si sta avvicinando una tempesta.

Sapevo che si trattava di un sogno vivido, ma lasciai comunque che i fatti si svolgessero come avrebbe voluto fare la mia mente.

Mi mossi, camminando in mezzo alle felci e agli alberi, scavalcando quelli caduti ed evitando buche.

Improvvisamente il rumore del mare sembrò investirmi come un’onda e un ringhio animalesco mi sorprese alle spalle: dietro di me c’era un lupo, un enorme lupo dalla pelliccia rossastra.

Sembrava grande come un orso e i denti scoperti ammiccavano nell’improvviso buio che era sceso.

L’animale mi superò con un solo balzo e atterrò vicino a quello che mi parve un cadavere in posizione prona «quando vedi tuo nonno salutamelo!» sentii una voce espandersi per tutta la foresta, prendendo diverse sfumature.

All’inizio aveva il timbro vocale di Billy, rauco e serio, poi la voce mutò per diventare quella di Mike Newton, quella di Jasper, quella di Jacob e infine assunse un tono che io non avevo mai sentito.

Era una voce maschile, fredda e pericolosa.

Un urlo esplose nel silenzio che la voce minacciosa aveva creato e sentii le mie mani umide e calde.

Scoprii che l’urlo era proprio il mio quando abbassai lo sguardo sul fiume di sangue che mi scorreva sui palmi.

Il lupo era seduto accanto al cadavere dall’incerata blu e stava ululando, sovrastando per un attimo il mio pianto e l’angoscia che provavo.

Dal buio della foresta emerse una figura grande, minacciosa e da cui potevo veder dipanarsi tentacoli di violenza, pulsanti.

I suoi occhi rossi come il sangue mi stavano scrutando.

 

Passò un mese da quel sogno e quasi me ne dimenticai.

Avevo altro a cui pensare: il ballo di fine anno che si avvicinava –e ringraziai il cielo che Jasper non mi avesse chiesto di andarci con lui, perché sarei diventata pericolosa–, la media scolastica che stava iniziando a calare e soprattutto l’avvicinarsi di una data per me importante.

Il compleanno di Jacob.

Io e lui ci eravamo rivisti saltuariamente dopo quella specie di litigata che avevamo fatto e tutto sembrava ritornato come prima, solo un po’ più distaccato.

Parlavamo sempre, non che ci fossimo completamente dimenticati dei bei vecchi tempi, ma c’era qualcosa in me e in lui che non s’incastrava come doveva.

Forse perché sentivo che Jacob era cambiato; che Jake fosse un altro.

Avevo pensato quindi, per una perfetta e totale riappacificazione, di organizzargli una festa con i fiocchi.

Quindi mi ero messa d’accordo con i suoi amici Quil ed Embry e avevo fatto di tutto per avere il sostegno del piccolo Seth e di sua sorella Leah.

Tutto era a posto, mi sentivo piena di energie e allegra come non mai, forse per il fatto che il mio ragazzo fosse un vampiro e che fosse dannatamente romantico.

Nonno Arthur sembrava che avesse ripreso un po’ di mobilità delle mani a furia di giocare a bocce e la zia Lind era ritornata a casa dopo aver spennato l’ennesimo marito.

Stavo bene, tutto era assolutamente perfetto.

Mancava solo quel piccolo particolare tra me e Jacob.

Stavo scendendo per la centesima volta dalla scaletta per prendere altri festoni quando Quil entrò di corsa nel garage dove di solito Jacob passava tutto il suo tempo libero.

Avevamo pulito il pavimento, sistemato il banco con tutti gli attrezzi e appoggiato la moto mezza costruita contro il muro in fondo.

Al centro avevo messo, con molta fatica, un mega Twister che avevo comprato anni addietro e che quella sera avremmo usato come specie di tappeto; alle pareti avevamo messo strisce di carta tagliuzzata in modo da sembrare dei festoni e in quel momento mi stavo apprestando a collegarli tutti con un immenso nodo alla palla stroboscopica che avevo costruito il giorno prima con carta pesta e pezzetti di vetro recuperati da Seth ed Embry «sta arrivando! » esclamò Quil, sbracciandosi.

Io mi affrettai a stringere il nodo e delicatamente spinsi la palla in modo che girasse su se stessa.

In lontananza potevo sentire Leah borbottare riguardo a una stupida parte della macchina di suo padre che non andava –che andava ovviamente sostituita immediatamente–.

In quei pochi secondi che mi rimasero mi accertai che tutto fosse pronto, poi feci segno a Seth di spegnere le luci.

Rimanemmo così nel completo buio «credi che gli piacerà? » mi sussurrò Seth, rimasto di fianco a me.

Io borbottai un basso “si” poi stetti a vedere come la porta del garage si alzava sotto la spinta della mano di Jacob.

La fessura si allargò, lasciando entrare la luce del lampione davanti alla bassa casa; velocemente e in silenzio mi diressi verso l’interruttore dei piccoli faretti che avevo collegato e puntato verso la palla stroboscopica.

Io e Seth, su segno di Embry, accendemmo tutte le luce, al grido di «BUON COMPLEANNO!».

La faccia di Jake ritornò come quella di un tempo: un po’ scemotta e tanto allegra «siete proprio dei furbacchioni! » urlò lui di rimando.

Guardò tutti, i suoi amici e Leah, ma i suoi occhi scuri si puntarono principalmente su di me «sei tu la mente criminale vero? » domandò, nonostante sapesse già la risposta, e mi abbracciò.

Un abbraccio sincero e caldo –troppo caldo per il mio corpo ormai abituato alla temperatura di Jasper– ma che mi seppe di amico.

Come una volta.

Passammo la sera a ridere, scherzare e servirci di alcuni alcolici che Leah era riuscita a trovare “da qualche parte”; mi divertii soprattutto quando Quil decise di sfruttare il tappetino del Twister assieme a Jacob ed Embry.

Vederli intrecciati come dei serpenti mentre cercavano di buttarsi giù a vicenda fu veramente uno spasso: Jacob sparava accidenti a destra e a manca, mentre Embry non riusciva bene a coordinare i movimenti –forse perché era già un po’ alticcio– e Quil cercava a tutti i costi di barare.

Non ridevo così di cuore da una vita, mi dissi e sperai che tutto tornasse a posto, in quel quadro idilliaco che si stava dipingendo da solo.

Mancava solo quello per rendermi veramente felice.

La festa finì verso mezzanotte e, dopo aver dato a Jacob il nostro regalo in comune –in mancanza di soldi avevamo fatto colletta e gli avevamo comprato un casco nuovo di zecca, lucido e arzigogolato come piacevano a lui–, mi diressi verso il mio pick-up.

Billy mi salutò e, venendomi incontro mi squadrò da capo a piedi «saluta tuo nonno da parte mia quando lo vedi a casa, va bene? » mi chiese «oggi non si è visto alla bocciofila».

Quella frase mi parve stranamente familiare, ma non ci feci molto caso «certo, signor Black ci può contare» dissi sorridente.

Non vedevo l’ora di tornare a casa, certa che Jasper sarebbe stato in camera mia ad accogliermi a braccia aperte.

Non lo vedevo da una settimana intera –mi aveva detto che lui e la sua famiglia sarebbero andati in “campeggio” per rifornirsi un po’ ma che sarebbe tornato presto– e speravo con tutto il cuore di poterlo rivedere quella sera.

Salii sul pick-up e accesi il motore, ma un rumore proveniente dal cofano mi fece tirare su la testa: l’enorme lupo che avevo sognato era sulla mia macchina e stava saltando giù per correre verso la foresta.

Rimasi scioccata, con le chiavi a qualche centimetro dal quadro nel cruscotto.

Doveva essere un’allucinazione dovuta alla stanchezza, sicuramente.

Non dovevo darci peso, presto sarei tornata a casa e mi sarei messa a dormire e tutto sarebbe andato bene…o almeno il mio cervello cercava di convincermi utilizzando la sua logica ineluttabile.

E invece scesi dalla macchina, spinta dall’istinto e da qualcos’altro; mi sembrava di aver già vissuto quel momento, come i soliti dejà-vue che avevo da un po’ di tempo a quella parte.

Dalla frase di Billy, all’animale enorme che aveva scavalcato la mia auto.

Mi immersi nella foresta, sentendo il mare alla mia destra che infuriava contro la spiaggia di La Push, e corsi.

Non seppi principalmente perché fossi così agitata, ma corsi con tutto il fiato che avevo verso una meta che mi era sconosciuta.

Muovevo i piedi e basta, guardandomi in giro per trovare qualche traccia di quell’enorme lupo.

All’improvviso sentii un ululato lungo e cacofonico provenire dalla mia sinistra; mi bloccai a prendere respiro mentre mi appoggiavo a un albero e osservavo dei cespugli senza veramente vederli.

All’improvviso sentii quella sensazione di umidiccio alla mano posata sulla corteccia del pino: mi si bloccò il fiato in gola quando vidi la mia pelle macchiata del liquido rosso tanto bramato dal mio ragazzo ma tanto temuto al tempo stesso.

Sangue.

In quel punto l’albero era ricoperto di sangue in una maniera assurda, come se ce l’avessero spruzzato sopra con un nebulizzatore.

Abbassai gli occhi, guardando nei piccoli spiragli di luce che il soffitto di foglie lasciava entrare: foglie, terriccio, tronchi d’albero e rocce erano ricoperte di sangue.

E non ci misi poco tempo a ritrovare il cadavere del mio sogno: aveva la stessa incerata blu, i pantaloni di flanella e le scarpe texane che avevo sempre visto vicino alla porta di casa.

Non riuscii ad avvicinarmi.

Rimasi in piedi lì a guardare il corpo di mio nonno giacere in mezzo alle felci spruzzate di liquido scuro e denso.

Lo stomaco mi si era chiuso totalmente e le gambe avevano iniziato a tremare.

I momenti dopo furono confusi, come ovattati.

Avevo visto il volto di Jacob, avevo sentito la sua voce dirmi di stare sveglia, avevo sentito le mie gambe cedere e i miei piedi staccarsi dal terreno.

Vidi alcune stelle attraverso gli squarci delle nuvole sopra la foresta, vidi le chiome diradarsi e chiudersi a ritmo col vento che veniva dal mare.

Sentii sirene della polizia, dell’ambulanza, il vociare delle persone.

Io rimanevo inebetita, come una bambola rotta, in braccio a Jake; mi stava riportando dal mio pick-up e sapevo che mi avrebbe riportata a casa.

Ma in quel momento io stavo rivivendo il mio incubo ancora e ancora, nella mia testa.

Io volevo svegliarmi, ma l’incubo era la realtà ed ero già sveglia.

 

 

 

 

Risposte alle recensioni:

Sa chan: Alice l’ho mandata un attimo in pensione a fare shopping sfrenato hihi! No Bella non è mai stata con Edward, dato che lui già sta con Raven. Lo so è un po’ intricata la faccenda!

Norine: Forse è meglio se non le elenchiamo mai, sennò poi Jazz diventa sordo a forza di fischi nelle orecchie XD Inoltre sarebbe impossibile finire la lista!

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Capitolo 10
*** Baseball ***


10.

Baseball

 

Sentii il pick-up fermarsi in salita e capii che Jacob aveva fermato la macchina nel cortile di casa, davanti al garage.

I miei occhi erano aperti, li sentivo aperti, ma era come se fossi cieca.

Mi sentii trasportare prima fuori dal veicolo, poi percepii il cigolio appena accennato della porta di casa e lo sbattere di essa.

Fu come se qualcuno mi avesse urlato nell’orecchio.

Mi irrigidii e cercai di scendere, di allontanarmi da Jacob, di riprendere a respirare.

Ero completamente stordita e nonostante riuscissi a distinguere i mobili a me familiari non mi riuscii di metterli a fuoco.

Sentii qualche lieve passo al piano superiore e mentre Jacob si avvicinava a me e cercava in ogni modo di farmi reagire, sentii la familiare calma esterna raggiungermi.

Jasper stava scendendo le scale di casa mia –come avevo immaginato era tornato proprio quella sera– e io capii che era preoccupato.

Doveva aver sentito le mie emozioni e in quel momento vedermi barcollare per stare in piedi non doveva essere un bello spettacolo.

Era come se qualcuno mi stesse comprimendo la testa: non era doloroso, sono molto fastidioso e opprimente.

L’ossigeno non ne voleva sapere di entrare nei polmoni e più cercavo di respirare più mi sembrava di soffocare.

Sentii l’abbraccio freddo e sicuro di Jasper, avvertii la sua voce chiedere prima a Jacob cosa fosse successo –dato che non poteva leggere nel pensiero come suo fratello– poi lo sentii rivolgersi a me.

Mi stava pregando di guardarlo, di parlargli.

Io aprii la bocca e cercai di parlargli, ma ero come drogata, la bocca non rispondeva e la lingua era come addormentata.

Portai una mano alla tempia sinistra, afferrandomi i capelli. Stavo cercando quella cosa che mi stava comprimendo la testa, ma non esisteva.

Il mondo si spense qualche secondo dopo, con Jasper che chiamava il mio nome e il volto lontano del mio angelo biondo contornato da un alone scuro di formiche brulicanti.

 

Riaprii gli occhi quello che mi sembrò un’eternità dopo.

Ero in un letto d’ospedale e seduto accanto a me c’era Jasper, con la sua espressione preoccupata.

Il suo potere stava accarezzando dolcemente il mio cuore, in modo da non farmi cadere nel panico quando avessi ripreso totalmente coscienza «buonasera principina» mi disse nel suo adorabile accento meridionale «come ti senti? » aggiunse, avvicinandosi e alzando una mano per scostarmi dal viso una ciocca di capelli.

I suoi occhi dorati mi stavano scrutando a fondo, per capire come stavo «una drogata» risposi, guardandomi la mano destra: mi sembrava di vederla sempre ricoperta di sangue.

Lui ridacchiò, afferrandomi la mano e portandosela alle labbra; lasciò sulla mia pelle un piccolo bacio e lo sentii inspirare a fondo l’odore del mio sangue «sto iniziando ad abituarmici» disse con tono scherzoso e guardandomi di nuovo con le sue iridi preziose.

Io sorrisi, un sorriso debole e delicato, ma riuscii comunque a farlo calmare «Jacob mi ha detto tutto. Mio padre è ancora in quella zona e…beh» mi disse, lasciando cadere un attimo i suoi occhi sul mio collo «devo dirti che noi non siamo gli unici vampiri qui a Forks» e i suoi occhi tornarono di nuovo a fissarmi.

Sperava che io non mi arrabbiassi?

Come mai avrei potuto? Come se fosse stata colpa sua «mi dispiace, avrei dovuto essere li con te. Se quei nomadi fossero stati nei dintorni e ti avessero uccisa…» «n-nomadi? » riuscii a dire.

Le forze mi stavano ritornando poco a poco, ma ricordare il sogno, la realtà, era dura da morire «i vampiri che hanno ucciso tuo nonno. Non vivono in un posto fisso più o meno come noi, ma vagano in continuazione di luogo in luogo. E si cibano di sangue umano».

Non dissi nulla, completamente rassegnata. Ero entrata in un mondo più grande di me e se non ci fosse stato Jasper con me a guidarmi, sicuramente ne sarei rimasta schiacciata.

Sollevai la mano libera e me la posai sulla faccia, come per impedire alle lacrime di uscire dai miei occhi o almeno per non lasciare che Jasper le vedesse.

Sentivo la stretta della sua mano farsi più salda e sapevo che se avesse potuto mi avrebbe abbracciata, come aveva fatto quelle rare volte in passato.

Poco dopo arrivò la zia Lind, con gli occhi rossi e gonfi un po’ per quello che mi era successo e un po’ per quello che era successo «Sarah! Oh Sarah stai bene! » esclamò, avvicinandosi e prendendomi la testa per posarvi un bacio sopra «sono venuta prima che potevo! Grazie per esserle stato vicino caro» disse poi rivolta a Jasper, che si era alzato in segno di rispetto nei confronti di mia zia.

Io dentro di me ridacchiai, pensando che era proprio di un’altra epoca «zia sto bene…»«sua nipote ha solo avuto un piccolo shock, ed è stato un piacevole dovere starle accanto, signora».

La mia ilarità interiore aumentò, sentendolo parlare così ossequiosamente a mia zia, una donna di campagna molto alla buona «se volete vi lascio sole» e senza aspettare risposta si girò per andarsene; arrivato dalla porta voltò il viso verso di me e mi fece l’occhiolino, sorridendomi in quella maniera assolutamente divina.

La zia si sedette esattamente dove prima era Jasper e in quel momento ogni mia singola cellula le stava sbraitando che quello era il suo posto e che doveva togliersi da lì «Mi ha contattato la polizia e sono subito corsa qui».

Dov’era la zia quando tutto era successo? Forse a casa di qualche altro uomo «mi hanno detto che tuo nonno è…» si fermò, cercando le parole più giuste.

Per dirmi quello che Jasper mi aveva già detto nel suo modo tutto speciale «non è più tra noi. La polizia mi ha detto che si è trattato di un animale, ma devono ancora indagare e per ora non potremo riavere la salma».

Quello non fu per me una novità; sapevo che nessun animale sarebbe riuscito a fare quello che un vampiro sapeva fare e mi era sembrato strano che la polizia si fosse fermata a un’ipotesi così banale.

Consolai la zia meglio che potei, nonostante il mio cervello non fosse ancora del tutto sveglio.

Dovevo esser svenuta e in quel momento mi diedi della stupida: svenire per del sangue non era mai stato da me e mai avrei pensato di cadere in quello stato così deprimente e vergognoso.

Tornai a casa con la zia dopo una mezz’ora e non vidi Jasper per tutta la sera; tra i vicini e gli amici che ci venivano a trovare, anche se ci fosse stato non avrei trovato tempo nemmeno di chiedermi se fosse già in camera mia.

Il primo a presentarsi a casa mia fu Jacob, sollevato nel vedere che stavo bene «mi hai veramente spaventato sai? Per poco non ci rimanevo secco! » mi disse, scherzoso.

Io feci spallucce e lo guardai da capo a piedi: doveva essersi alzato ancora e non dovevo essermene accorta.

Sembrava un ventenne «che hai da guardare? » domandò allargando le braccia e guardandosi anche lui «sei diverso...più grande»«non te l’ha mai detto nessuno che noi maschi cresciamo tutti d’un botto? » mi rispose facendomi la linguaccia.

Magari era così, ma io non ci credevo molto.

C’era qualcosa che mi nascondeva, un segreto che sentivo essere simile a quello di Jasper.

 

Finalmente, quando giunsi in camera mia era praticamente l’alba e io non mi reggevo in piedi.

Mi chiusi la porta alle spalle e mi ci appoggiai, tirando un sospiro di sollievo: lo sceriffo Swan ci aveva assicurato che avremmo avuto indietro la salma in appena qualche giorno e alla zia bastò.

Per me era indifferente: ormai era solo un cadavere, mio nonno non esisteva più «stai bene? » mi chiese la voce dolce di Jasper, dal mio letto.

Era seduto sul materasso, tenendo in mano uno dei miei libri preferiti «potrei stare meglio» risposi piatta e andai a sedermi vicino a lui.

Il biondo vampiro posò i miei racconti gotici sul comodino e alzò un braccio per cingermi le spalle «mi dispiace, davvero» mi borbottò vicino all’orecchio e sfregando la sua fronte contro la mia tempia.

Mi allontanai da lui, guardandolo seria e arrabbiata «non va a genio neanche a me» sbottai.

Jasper mi guardò confuso, sentendo le emozioni che in quel momento mi stavano facendo salire il sangue alla testa «smettila di dispiacerti, non è stata colpa tua. Doveva succedere. Basta» continuai a dire, con il tono più tagliente che avessi.

Lui mi guardò con quei suoi occhi dorati e liquidi, caldi «ma se ti fosse successo qualcosa? Se fossero stati ancora là e avessero ceduto al profumo del tuo sangue? » «non mi è successo niente! » gridai, alzandomi di scatto dal letto e fronteggiandolo in piedi.

Presi il libro dal comodino –ricordo che era della stazza di Guerra e Pace– e glielo lanciai contro; ovviamente lui lo aveva deviato se glielo avessi lanciato da un chilometro di distanza e il volume andò a schiantarsi con il muro alle sue spalle con uno schiocco secco «basta sangue! Basta vampiri e morte! Basta uccisioni! Basta! » gli urlai ancora, mentre calde e grosse lacrime mi rotolavano giù dagli occhi «non voglio più pensarci. Non voglio più avere niente a che fare col passato» sussurrai, stando in piedi davanti a lui e stringendo i pugni «ho solo bisogno di te ora» gemetti, lasciando che le lacrime uscissero tutte, senza ritegno.

Jasper si alzò e mi abbracciò, per poi prendermi in braccio e appoggiarmi sul letto dove mi cullò e stette vicino a me finché non mi addormentai.

Non ebbi alcun sogno quella notte, il mio corpo era immobile e avvolto dalle coperte e rinfrescato dalla vicinanza del mio vampiro.

 

Il mattino aprii gli occhi mentre sentivo delle carezze sulla mia testa.

Jasper era sdraiato dietro di me e un suo braccio mi cingeva la vita, mentre l’altro mi aveva fatto da cuscino «buongiorno» mi disse dolce, lisciandomi i capelli.

Dovevo aver un covone di paglia al posto della testa e me ne vergognai altamente «sei bellissima anche il primo pomeriggio» continuò, scherzando, e i miei occhi si fissarono sulle sue labbra.

Non mi aveva mai baciato e in quel momento avvertii la solita adrenalina arrivare di soppiatto a farmele desiderare.

Lui mi scrutò attentamente, ridacchiando «già appena sveglia sei così attiva? » mi domandò.

Ma notai che anche lui stava subendo il riflesso del mio desiderio e i suoi occhi si erano incupiti un po’ «beh non è colpa mia se appena mi sveglio vedo il tuo meraviglioso viso» lo ammonii di rimando, alzandomi e tendendo la schiena fino a sentire un debole crock «sei stato tutta la notte con me? » domandai e lui negò scrollando la testa «se fosse stato così saresti morta congelata» mi disse «sono tornato a casa per una riunione di famiglia e abbiamo deciso di fare una partita a baseball oggi pomeriggio» continuò, alzandosi e abbracciandomi delicatamente la vita «il meteo ha messo pioggia come solito».

Io lo guardai confusa, pensando di aver sentito male perché ero ancora mezza addormentata, ma lui mi fece l’occhiolino e si alzò «non c’è nemmeno da dire che tu sei invitata» mi disse ancora, porgendomi la mano per aiutarmi galantemente ad alzarmi dal letto.

Io a una partita di baseball? Io che non ero capace nemmeno a prendere una palla ferma con la mazza di gommapiuma?

Una partita di baseball vampiresco poi era il massimo «ma voi vampiri non andate solo a caccia? » domandai ridacchiando e dirigendomi verso l’armadio.

Cos’avrei potuto mettere per un’occasione simile.

Poi un’idea mi fulminò da parte a parte «non è che mi vuoi portare con te per presentarmi ai tuoi, vero? » domandai, voltandomi appena.

Lo avevo colto sul fatto «ringrazia che i vampiri non possono arrossire» borbottò, guardando dall’altra parte della stanza mentre mi cambiavo «e anche se fosse? » «mi avevi detto che non ero la tua ragazza».

Ridacchiai; per una volta lo stavo mettendo in difficoltà e la cosa mi stava piacendo da impazzire «diciamo che ho cambiato idea» rispose lui, alzandosi e andando verso la finestra.

Stava guardando verso la foresta, ma sapevo anche che mi controllava usando il riflesso nel vetro.

Io mi vestii con tutta calma, indossando un maglioncino smanicato e un paio di pantaloni pesanti che non mi avrebbero impacciato nei movimenti «te l’ho già detto una volta, ma te lo ridico: sei uno stalker» gli dissi.

Lui lasciò uscire la sua risata allegra e calda, ma non si girò.

 

Scendemmo entrambi –Jasper aveva detto che mia zia era partita, così eravamo solo io e lui in casa– e ci dirigemmo in cucina.

Lui si appoggiò con la schiena al muro e, incrociando le braccia sul petto, mi guardò mentre mi preparavo una tazza di caffè e la univo ai miei cereali col latte «sei l’umana più strana che abbia mai visto» ridacchiò Jasper mentre divoravo velocemente la mia colazione.

Anche se erano le due del pomeriggio.

Lavai la mia tazza, sistemai un po’ la cucina e finalmente potei uscire da casa con il mio vampiro; salimmo sul mio pick-up, come solito lui al posto di guida, e aspettai di partire magari verso il centro di Forks, dove si trovava il campo sportivo.

Invece lui fece inversione e si diresse verso la foresta «ma…dove stai andando? » domandai e lui sorrise, pigiando sull’acceleratore «noi abbiamo in nostro luogo privato dove giocare» mi disse.

Come si poteva giocare a baseball in mezzo alla foresta? Mah, roba da vampiri, pensai.

Ci mettemmo poco più di un quarto d’ora per arrivare nel grande spiazzo che Jasper aveva chiamato “diamante privato”; in effetti era grande abbastanza da contenere due dei normali campi da baseball che in passato avevo visto.

Tutti i Cullen erano già lì, chi a scaldarsi i muscoli e chi a chiacchierare in attesa del giocatore mancante.

Lo guardai un po’ nervosa: improvvisamente mi chiesi che cosa sarebbe successo se non fossi piaciuta a sua madre o a qualcun altro della famiglia.

Mi avrebbe lasciata oppure avrebbe sostenuto una possibile faida famigliare? «stai tranquilla» disse a un certo punto, fermando il pick-up e scendendo.

Fece il giro del veicolo e mi aprì la portiera «andrai benissimo» e mi prese la mano.

Camminammo verso il campo e io vidi tutti i Cullen avvicinarsi.

Riconobbi quasi subito la madre adottiva di Jasper: ovviamente bellissima, aveva i capelli lunghi e mossi, color cioccolato con alcuni riflessi rossi, il viso delicato e un grande, enorme sorriso.

Camminava attaccata al dottor Carlisle e fu la prima ad avvicinarsi a me «così tu sei Sarah! Oh che piacere conoscerti, Jasper non fa altro che parlare di te» disse, abbracciandomi come faceva spesso mia zia.

Si, dovevo esserle piaciuta «e non fa altro che pensare a te» mugugnò divertito Edward «la cosa stava iniziando a diventare seccante».

Jasper guardò in tralice il fratello ridacchiante, mentre io mi sentii letteralmente sollevare da terra: Emmett mi aveva presa per la vita e mi aveva posata sulla sua spalla come un sacco di patate «ci siamo tutto no? È ora di giocare! » esclamò e questa volta non mi intrattenni dal ridere.

Anche se vidi la bionda Rosalie fulminarmi con lo sguardo.

 

 

Risposta alle recensioni:

 

Norine: Grassie, veramente :3 La tua fiducia nella mia fantasia veramente mi commuove! Non posso mica dirtelo sai? Sennò ti spoilerizzo tuttoooo XD

Sa chan: la curiosità è sintomo di intelligenza XD Edward riesce a leggere nella mente di tutti in questa fict –putroppo per noi! ND. Sarah– e Bella è semplicemente una ragazza come un’altra che vive a Forks col padre. Spero di aver soddisfatto il tuo sintomo di intelligenza hihihi. Sono contenta che ti piaccia, sta coinvolgendo molto anche me, il che è tutto dire XD

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Capitolo 11
*** Abduction ***


11.

Abduction

 

Fu il pomeriggio più bello della mia vita.

Esme e Carlisle erano dei genitori e dei coniugi modello e quasi mi veniva da piangere completamente commossa.

Non erano certo come i miei, di genitori «Sarah vieni qui in attimo! » mi chiamò Jasper.

Non lo avevo visto così a suo agio nemmeno quand’eravamo da soli; forse per la presenza dei suoi familiari, a dargli supporto nel caso non fosse riuscito a resistere al mio sangue.

Avevo subito capito perché i Cullen giocavano solo quando si stava avvicinando a un temporale: ogni volta che Raven lanciava e uno dei suoi familiari batteva, il rumore era così potente e assordante da sembrare un tuono.

Mi domandai se non avessi sentito loro, durante la mia festa di benvenuto.

Erano soltanto passati un paio di mesi, ma mi sembrava fosse passata una vita; un’intensa e rocambolesca vita.

E io credevo che Forks fosse un posto noioso!

Mi diressi verso il vampiro biondo che mi faceva segno di avvicinarmi «ti va di lanciare? » mi chiese, guardando la montagnetta di terra in mezzo al campo. Io strabuzzai gli occhi e lo guardai incredula «ma dico sei pazzo? Come minimo la tirerei in testa a qualcuno! » esclamai, guardando come Rosalie lanciava in maniera perfetta e micidialmente veloce verso Raven: la ragazza corvina mosse la mazza così velocemente che non me ne accorsi nemmeno e il rombo dell’impatto mi arrivò alle orecchie solo quando vidi la ragazza sfrecciare verso la prima base.

E mentre Emmett cercava di eliminare la sorella, Carlisle si tuffava verso casa base…tutto in una manciata di secondi.

Jasper mi scompigliò i capelli corti e scuri «vuoi fare male a qualcuno come noi? » ridacchiò «non credo proprio. Dai, batto io così al massimo mi buchi il cranio» e andò a prendere la mazza rimasta a terra vicino casa base.

Io inghiotii a vuoto, ma arrivò Esme a darmi conforto «non ti preoccupare cara» mi disse, sorridente «andrà tutto bene, Jasper è abituato ai miei lanci storti» e rise.

Quel suono argentino simile al trillo di una campanella mi mise di buon umore così mi avvicinai a Rosalie e tesi la mano «potrei provare? » chiesi e lei, per la seconda volta, mi fulminò.

Sembrava odiarmi più di qualsiasi altra cosa «certo» disse con sufficienza, mettendomi pesantemente la palla in mano e dandomi le spalle.

Andò a sedersi sul tronco d’albero che Emmett aveva sradicato qualche minuto prima, in modo che facesse da panchina.

Esme non aveva preso parte ai giochi e accolse la figlia a braccia aperte.

Mi sembrò che si dicessero qualcosa, ma era troppo basso e troppo veloce perché le mie orecchie sentissero qualcosa.

Appena salii sul monte di lancio mi guardai intorno, notando che solo due basi erano occupate «su dai non abbiamo tutto il tempo» mi gridò Emmett, con un sorriso sulle labbra.

Io ridacchiai, poi guardai Jasper far roteare la mazza da baseball in un modo eccezionale.

Mi annotai mentalmente che avrei dovuto chiedergli d’insegnarmi assolutamente, solo per il gusto di saperlo fare.

Afferrai la pallina come sapevo si dovesse fare, poi portai indietro le spalle, alzai il ginocchio sinistro e lanciai con tutta la forza che avevo la palla verso il vampiro, sapendo che era sulla destra perché lui la prendesse.

Invece Jasper la colpì e con un altro botto, un po’ più debole degli altri, spedì la pallina così in alto che sparì dalla mia vista.

Emmett ululò «Woo! Homerun Jazz! » disse e mentre Jasper prendeva a correre verso la prima base, vidi Edward e Raven recuperare punti correndo verso la casa base.

Io stavo ancora pensando alla pallina: doveva averla spedita così lontano che se non si perdeva nello spazio poteva almeno colpire e abbattere un aereo di linea.

Qualche secondo dopo sentii Edward ridere e lo vidi arrivare a fare punto piegato quasi piegato in due dalle risate. Jasper lo spinse da dietro, borbottandogli contro di essere una lumaca «sei uno spasso» mi disse il vampiro dai capelli color bronzo «ma non ci avevo mai pensato, in effetti hai ragione» e se ne andò così com’era venuto, ridacchiante e lasciandosi dietro il mio volto confuso.

 

Giunse la sera e la squadra di Carlisle aveva vinto solo per un punto contro quella di Edward.

Io avevo la testa leggera per il tanto ridere che mi ero fatta e ogni piccola, minuscola sensazione dolorosa del giorno prima era completamente scomparsa.

Jasper era rilassato, alla guida del mio pick-up, e non pareva avere fretta di riportarmi a casa.

E anche io non avevo fretta di ritornare alla realtà: volevo vivere quel sogno ancora per un po’ «eccoci qua» mi disse, fermando la Toyota nel vialetto di casa e spegnendo il motore.

Non se ne andò come faceva le altre volte.

Quella sera rimase seduto al posto del guidatore, con le mani sul volante e gli occhi fissi sul cruscotto «c’è qualcosa che non va? » chiesi, preoccupata.

Spesso mi veniva da pensare che avrei dovuto avere anche io il suo potere, per capirlo totalmente; lui alzò il viso e mi guardò con un sorriso «stavo soltanto a una cosa…che vorrei provare» disse e lasciò andare il volante.

Tolse la cintura di sicurezza e si voltò verso di me, facendomi segno di avvicinarmi; io obbedii, accostandomi leggermente al suo viso.

Jasper poggiò delicatamente una mano contro la mia guancia –l’altra si era dolcemente allacciata alla mia– e unì le sue labbra alle mie, con un unico e veloce movimento.

Io mi irrigidii un attimo per la sorpresa, sentendo quella bocca fredda accarezzare teneramente la mia, poi rilassai le spalle e risposi al bacio il più delicatamente che potevo.

Sapevo che il mio sangue era dannatamente irresistibile per lui –notai infatti che stava trattenendo il respiro– e quel pensiero mi fece completamente sciogliere.

Avrebbe potuto uccidermi in un istante, ma era troppo innamorato di me per cadere in quella morbosa tentazione.

Il bacio si protrasse a lungo e io ne approfittai per godere il più possibile del suo profumo.

Ci separammo qualche interminabile secondo dopo e mi accorsi di essere arrossita: le mie guance erano in fiamme e sapevo che i miei occhi erano lucidi «è meglio che ritorni a casa» mi disse.

Le sue iridi si erano scurite talmente che quasi non potevo distinguere la pupilla «e forse è meglio se sto via una settimana a caccia» aggiunse, aprendo la portiera.

Io non capii del tutto le sue parole; ero in paradiso, il suo sapore così indescrivibile era ancora sulle mie labbra e io chiusi gli occhi per un istante, il tempo necessario per marchiare nella mia memoria quel sapore e quella consistenza soffice ma sicura delle sue labbra.

Scesi anche io dalla macchina, guardandolo andare via a piedi lungo il marciapiede.

Improvvisamente mi venne in mente una cosa e mi ritrovai a gridare il suo nome senza nemmeno sapere perché «potresti darmi il tuo numero di cellulare? » gli chiesi, una volta che lo raggiunsi dopo una piccola corsetta.

Lui mi guardò interrogativo «certo, perchè? »«sento che ne avrò bisogno…non lo so» dissi confusa.

Jasper non mi fece altre domande e sorridente mi dettò il suo numero, dopodiché asserì che era veramente meglio se andava a casa «ti amo» mi disse, prima di scomparire nel buio della notte che era calata.

 

Rimisi il cellulare nella tasca anteriore dei pantaloni quando aprii la porta.

E quasi mi misi a urlare quando vidi davanti a me le persone che più odiavo al mondo: i miei genitori.

Entrambi erano ai piedi delle scale che la zia Lind stava scendendo, tenendo in mano il borsone con cui ero arrivata «e questo cosa…? » sussurrai, passando gli occhi da una faccia all’altra dei miei parenti.

La zia Lindsay era rassegnata, sconfitta.

Mia madre e mio padre invece sembravano avere il coltello dalla parte del manico «ti abbiamo ritrovata finalmente» disse mia madre, guardandomi con astio «io e tuo padre abbiamo girato quasi tutti gli Stati Uniti per trovarti, per fortuna tua zia ci ha avvertito che eri qui».

Guardai la zia, urlandogli mentalmente che era una traditrice «ora tornerai a casa, volente o nolente. Sei ancora sotto la nostra custodia, dopo i guai che hai combinato» asserì mio padre, prendendomi di mano le chiavi del pick-up e posandole sul tavolino.

Feci per girarmi e fuggire dalla porta, ma mio padre mi prese per un polso e mi tirò indietro; la sua stretta era ferrea.

Non volevo tornare, non volevo che tutto ricominciasse.

Non volevo lasciare Jasper; potevo già vedere il suo volto preoccupato e angosciato mentre guardava attraverso la finestra di camera mia e non mi vedeva stesa nel letto la notte seguente.

Gridai, sperando che il mio vampiro fosse abbastanza vicino da sentirmi, ma fu inutile.

I miei genitori mi trascinarono fuori da casa, probabilmente diretti verso la loro macchina.

Fu quando arrivammo in una zona d’ombra che mio padre mi caricò sulla sua spalla con una forza incredibile «stupida idiota» disse mia madre, con una voce che non le apparteneva.

Le loro figure tremolarono come fumo e potei vedere altri personaggi dietro quella che capii fosse un’illusione.

L’energumeno che mi stava trattenendo sulla spalla era pallido come i Cullen e i suoi occhi erano rossi come il sangue, mentre l’altra era una donna un po’ in carne ma con un fisico perfetto.

Aveva la pelle olivastra, ma doveva essere anche lei sicuramente una vampira.

I capelli neri erano mossi e lunghi fino alle spalle. Sembrava messicana.

Il vampiro ringhiò contro i miei tentativi –vani– di fuga, mentre la donna rideva «sei proprio una stupida e debole umana» disse «anche se avverto qualcosa di speciale in te, trasformarti sarebbe una perdita di tempo. Mi servi solo come esca, cara» e mi diede un pizzicotto alla guancia colorita dalla rabbia e dallo spavento «andiamo Landon» «si Maria».

Il suo nome mi parve familiare, anche se ero sicura che nessuno mi avesse parlato di una Maria in particolare.

 

 

Risposte ai commenti:

 

Sa chan: Ma figurati! ^^ Come mai sei senza parole? O.o

Norine: in effetti Rose è sempre un po’ ostica, ma più che altro credo che comunque uno scriva la storia Rosalie sarebbe comunque gelosa dello status umano di qualsiasi fidanzata dei suoi fratelli xD

Garakame: La mia idea era di fare Twilight ma versione Jasper con una umana –che alla fine sarei io hihi–. L’idea di fondo sarebbe la stessa ma i vari accadimenti cambiano essendo Jazz differente caratterialmente da Eddie. Mi ha fatto piacere il tuo commento, grassie grassie :3

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Capitolo 12
*** Whitlock ***


12.

Whitlock

 

I vampiri stavano correndo attraverso la foresta così velocemente che non riuscivo a distinguere gli alberi dal terreno.

Era un insieme di colori scuri e vorticanti; mi sembrava di volare –o almeno quella era la sensazione, perché di sicuro i vampiri non sapevano volare– e la spalla muscolosa e tutta nervi dell’uomo che mi teneva sollevata mi stava scavando nello stomaco e nell’addome.

La donna correva al suo fianco senza apparente fatica, i capelli scuri e lunghi che danzavano nel vento come seta.

Parecchie volte provai a colpire il vampiro, di liberarmi e tornare a casa –anche se sapevo che era impossibile–, ma tutto fu completamente inutile.

A forza di vani tentativi di evasione le mie forze erano andate scemando; avevo mangiato solo una scodella di cereali e dopo l’intensa giornata passata a correre e saltare da una base all’altra nel campo da gioco dei Cullen intuii che il mio livello di zuccheri stava decisamente calando.

Avrei voluto gridare, sperare che Jasper fosse nei dintorni a caccia e che mi sentisse, che mi portasse a casa e che mi rassicurasse con il suo strano e familiare potere.

Il mondo sfocato attorno a me da marrone e color muschio divenne sempre più arido e quasi inconsciamente mi accorsi che stavo tornando veramente a casa.

Solo che non era per fare i conti col mio passato «fermiamoci qui, tra poco dovrebbe arrivare Johnson» disse Maria e immediatamente i due vampiri si fermarono.

Il mio stomaco non ne fu contento: il rinculo quasi me lo strappò via e il senso di nausea aumentò a dismisura «potrei sapere a cosa ci serve quest’umana? Io ho sete! Non possiamo bercela e basta? » domandò il vampiro posandomi a terra.

Non ebbi il tempo di scappare; il mio senso dell’equilibrio, dopo quella giostra fatta di colori e forme sfocate, era decisamente provato.

Caddi a terra, cercando di fermare il mondo che mi girava attorno tenendomi la testa tra le mani «non ci pensare nemmeno, stupido rimbecillito! Lei ci serve da esca e solo quando ne avremo bisogno! Adesso fai in modo che nemmeno una goccia di sangue esca da questa stupida ragazzina: conosco il mio pollo e so che appena capirà cos’è successo seguirà la sua scia. Per questo stiamo facendo il giro dell’oca…imbecille» parlò la donna, con tono gelido e tagliente.

Aprii un occhio e notai con piacere che il mondo aveva smesso di dondolare, anche se la sensazione rimaneva la stessa.

Il vampiro era alto quasi più di Jasper, aveva dei corti capelli neri e il volto squadrato era ricoperto da un velo di barba.

I suoi occhi scuri mi stavano guardando con desiderio ossessivo «d’accordo…ma sei sicura che verrà? Dopotutto è solo un’umana» «stupido, non è un’umana qualsiasi. Oltre ad essere follemente innamorato di lei» e qui Maria si lasciò scappare una smorfia schifata «è anche follemente innamorato del suo sangue. Lei è la sua Cantante e quello stupido Whitlock farebbe di tutto per averla indietro».

Whitlock? Chi era?

Il perché mi avevano rapita me lo stavano praticamente spiegando, non avevo bisogno di un disegnino; ma mi domandai se stessero parlando a vanvera come gli stupidi antagonisti dei film oppure se Maria stesse dicendo tutto per il semplice motivo che non mi riteneva una minaccia al suo piano.

All’improvviso avvertii un lieve tremore lungo la coscia: il mio cellulare stava vibrando; con tutta probabilità doveva essere la zia,che si informava del viaggio.

Ma che ore erano? Il cielo era ancora scuro ma all’orizzonte potevo vedere il sole nascere in un leggero bagliore verdastro.

Ci avevano messo solo una notte per arrivare al confine tra Nevada e Arizona, e ancora dovevano fare parecchia strada, a sentire dai loro discorsi.

Improvvisamente davanti alla donna si materializzò un altro vampiro, più basso e mingherlino di Landon: aveva dei capelli castani e lisci che gli ricadevano fino alle spalle e gli occhi rossi come rubini mi indicarono che almeno lui si era appena dissetato col sangue di qualcuno «ah, Johnson! Finalmente sei arrivato! » esclamò Maria con disappunto.

Io guardai il ragazzo fare saluto militare, tendendosi come una corda di violino «mi scusi signora, ma non ho saputo resistere. Mi sono fermato un attimo a Las Vegas».

La fuga era stata completamente cancellata dalla mia mente, per il momento: se con due vampiri era impossibile scappare, figurarsi con tre.

E sarebbe stato più utile stare a sentire cosa stava architettando quella pazza «è qui vicino? Così Landon va a fare il pieno e non mi stressa più…» esclamò lei, guardando in tralice il collega nerboruto.

Johnson annuì, indicando un punto un po’ impreciso dell’orizzonte alla mia sinistra «un paio di minuti e sei la» disse.

Il vampiro forzuto era già scomparso «allora, hai portato quello che ti ho chiesto? » chiese la donna al vampiro magrolino.

Lui annuì, tirando fuori dalla tasca un sacchetto di plastica: dentro c’era qualcosa che assomigliava alla carne, ma era quasi totalmente bianca come gesso «non ci ho messo poso a prenderlo» l’ammonì lui, mentre lei prendeva l’oggetto in mano, soppesandolo «basterà? » aggiunse e mi guardò da capo a piedi con un’espressione disgustata.

Maria si avvicinò a me e mi afferrò per il maglione smanicato, alzandomi di peso da terra «non ci vorrà molto tesoro» mi disse, con quel tono zuccheroso che mi sapeva tanto di psicopatica.

Poi iniziò a sfregarmi addosso quell’oggetto, come se mi lavasse.

L’odore era nauseante e mi sembrava cartavetro contro la pelle; me lo strofinò sulle braccia, sulle mani, sulle gambe e sul collo.

Non risparmiò nemmeno il mio viso: strappò un pezzo più piccolo dalla manciata di carne bianca come se fosse pane e me lo passò accuratamente attorno agli occhi, sulla fronte e sulle guance.

La nausea era quasi al limite e pensai, con un po’ di malvagità, che non sarebbe stato male farle vedere cos’avevo mangiato per colazione «finalmente…non finivi più» mi disse, gettando via i pezzi che rimanevano di quello strano muscolo e guardando verso l’orizzonte «e finalmente è ritornato quell’imbecille» disse, riferita sicuramente al suo compagno Landon «prendila, partiamo subito» disse poi a Johnson.

Lui mi sollevò come fossi stata un cuscino di piume e mi posò sulla spalla come aveva fatto l’altro vampiro «andiamo, Marina ci aspetta in New Messico entro un paio d’ore, non vorrete arrivare in ritardo spero» disse.

Sentii i vampiri mugugnare un cenno di assenso, per poi ripartire.

La giostra di colori riprese a girare vorticosamente e io chiusi gli occhi, solo per evitare di perdere più energie del dovuto.

 

I vampiri si fermarono davanti a un capannone malandato e abbandonato.

Appoggiata alla porta li aspettava una ragazza di quindici anni, con il fisico slanciato e i capelli biondo cenere che le raggiungevano le ginocchia.

Era vestita completamente di nero, forse per mettere in risalto la sua carnagione bianchissima e le labbra rosse «Marina, tesoro mio» esclamò Maria, appena arrivò «allora piccola, è tutto pronto? » aggiunse, guardando la ragazzina.

Lei si piegò di lato per guardarmi oltre la schiena della donna «quella sarebbe la Cantante di Whitlock? » chiese, con faccia disgustata «ma è brutta! ».

Nonostante fossi ubriaca per il viaggio appena concluso a velocità vampiro, la guardai con astio e con espressione vagamente offesa.

Non che potessi fare di meglio: stavo tentando in tutti i modi di non rimettere il pranzo «lo so, quel ragazzo ha dei gusti particolari, ma non ci fare caso. È tutto pronto oppure la mamma ti deve picchiare? » continuò Maria, guardando la ragazzina con le mani sui fianchi.

Marina sbuffò e aprì la porta del capannone: all’interno era completamente vuoto a parte un paio di sedie, delle balle di fieno legate con delle spesse corde e tanti piccoli cadaveri di topo, completamente dissanguati «spero che dopo potrò bermi il suo sangue, ne ho abbastanza di animali e di questo posto desolato» aggiunse la bionda bambina con la sua vocina lamentosa.

Le occhiaie sotto i suoi occhi ambrati dal sangue animale erano accentuate ancora di più dal trucco nero che si era messa.

Johnson, su ordine della donna corvina, mi portò all’interno e mi lasciò cadere a terra «legatela» disse «così starà brava per un po’» e i due vampiri si avventarono su di me: chi mi teneva pressata sotto il suo enorme e anomalo peso, chi strappava una delle grosse corde dai covoni e mi ci avvolgeva stretta.

Così stretta che respirare mi fu quasi impossibile.

Mentre i due eseguivano gli ordini, notai Maria parlare con la figlia adottiva a bassa voce: lo sguardo della bambina era imbronciato, mentre quello di Maria nascondeva tante cose di cui io avevo iniziato ad aver paura.

L’odore che saliva dalla mia pelle ormai non lo sentivo più, il mio naso era totalmente addormentato e solo quando respiravo più a fondo quell’odore mi faceva lacrimare «bene, ora ognuno di voi prenda un vestito da questa sacca e depisti Whitlock il tempo necessario perché la sua sete aumenti. Poi lasciatevi pure seguire fin qui. Al resto penso io» disse, lanciando il mio borsone ai due vampiri.

Marina teneva già in mano un paio dei miei jeans; la mia mente stava lavorando velocemente, nonostante l’ossigeno si facesse desiderare.

Nonostante avessi qualche sospetto, prima di pensare a qualsiasi altra cosa dovevo aspettare una conferma qualsiasi.

Così rimanemmo sole, io e quella donna senza scrupoli

Maria si avvicinò a me, piegandosi sulle ginocchia e guardandomi con finto affetto, e io potei guardare per bene come fosse in realtà.

La pelle era leggermente più scura di quella dei Cullen, le labbra erano piene e rosse, mentre un neo scuro sostava sullo zigomo sinistro.

I capelli mossi le ricadevano su una spalla e il fisico abbondante ma slanciato troneggiava su di me, stesa a terra «spero tu sia contenta, tempo qualche settimana e vedrai il tuo adorato Jasper. E poi morirai» mi disse mielosa.

La rabbia di me crebbe così tanto che pensai di poter spezzare le corde come avevano fatto i vampiri «se vuoi uccidermi fallo subito» dissi, senza pensare.

Mi vennero in mente le iniziali sul fazzoletto di Jasper. Così il suo vero cognome era Whitlock…avrei preferito scoprirlo in un altro modo.

Maria ridacchiò «ma nooooo tesoruccio! Non ci serve il tuo sangue adesso» disse, prendendo il mio viso tra le sue mani fredde e dure e avvicinandolo al suo fin quasi a far toccare le punte dei nostri nasi «vedi cara, di te non me ne importerebbe più di tanto e fosse per me ti farei fuori adesso…ma il piano è un altro. Jasper Whitlock è di mia proprietà e in un modo o nell’altro lui tornerà da me. Tu sei solo uno dei tanti modi che mi è venuto in mente» disse.

I miei occhi si spalancarono di stupore, poi mi accigliai e sputai in faccia a Maria «tienitelo il tuo Jasper! Non me ne importa nulla! » esclamai.

Sapevo che non era la verità –e fece molto male quella frase, molto più di una coltellata– ma se potevo rendermi inutile almeno non avrei messo in pericolo lui.

Maria si pulì con un paio di dita, osservando con noncuranza la mia salva che le colava dai polpastrelli «certo, certo. Non te ne importa. Anche se vi siete già baciati» disse e io maledii lei e me stessa «il suo odore era addosso a te in una maniera quasi ossessiva, quando ti abbiamo prelevata, cara.

Non cercare di prendermi in giro, accorceresti solo la tua vita. Ora scusami ma la sete ora è davvero insopportabile e per ora non posso cedere al richiamo del tuo sangue. Torno subito tesorino» disse con un sorriso soddisfatto, si alzò e uscì dal capannone, chiudendomi dentro.

Se non fosse stato per alcune travi rotte del soffitto, sarei caduta nel buio.

E io, disperata e senza idee, lasciai che le lacrime uscissero da sole dai miei occhi.

 

 

Risposte alle recensioni:

Sa chan: Ohhh non dire così che mi commuovo! ^w^

Norine: Sorpresa eh? Hihi invece di James –porello, lassiamogli un po’ di riposo!– ho pensato che sarebbe stato intrigante metterci qualcuno di più velenoso. In effetti Landon ha il potere di far credere agli altri di essere qualcun altro.

Quando Sarah ha capito che non erano i suoi genitori l’illusione per lei è svanita come fumo.

Maria non credo che le farò qualche potere, è già abbastanza cattiva così di suo! XD

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Capitolo 13
*** Technology ***


13.

Technology

 

Non seppi con precisione quanto tempo passò.

Rimasi nel buio finché il mio cervello non si riprese del tutto dal cocktail di emozioni che lo stava sconvolgendo, oltre alle vertigini.

Con un po’ di fatica mi misi seduta, completamente legata; le mani erano immobilizzare dietro la mia schiena e le mie caviglie erano assicurate insieme.

Guardai i nodi e con amarezza vidi che non avrei potuto farci nulla, se non osservarli e basta.

La corda era troppo resistente per poterla spezzare e non vedevo nulla che avrebbe potuto aiutarmi a tagliarla.

Il cellulare mi vibrò nuovamente in tasca e un’idea mi fulminò sul momento: mi buttai a terra, inarcando la schiena e ringraziando i corsi di yoga che avevo fatto qualche anno prima.

Il telefonino, poco a poco, cominciò a scivolare fuori dalla tasca poco profonda e quando sentii il debole ciocco della cover contro il pavimento di legno mi rilassai a terra, supina.

Mi sentivo un salame e ormai non mi sentivo più le mani, ma lo stesso riuscii a tirarmi di nuovo su e presi il cellulare.

Avevo un paio di messaggi di mia zia e uno di Bella.

Con le dita fredde e deboli aprii la conchiglia del cellulare e premetti il tasto del menu; per fortuna il numero di Jasper lo avevo memorizzato in modo che fosse il primo della lista.

La mano sinistra aveva preso un brutto colorito cianotico, ma andai avanti e premetti il pulsante della chiamata.

Pregai con tutta me stessa che rispondesse: dovevo dirgli di non dare retta a quello che il suo cervello avrebbe intuito, di stare a Forks, di non salvarmi.

Perché sarebbe tutto finito se lo avesse fatto.

Mi sentii sollevata quando qualcuno rispose alla chiamata «pronto? » sentii la voce di Edward oltre il ricevitore lontano dal mio orecchio «Edward! Edward dov’è Jasper?? » chiesi, tenendo d’occhio l’entrata del capannone.

Dalla fessura tra la porta e il terreno la luce dell’alba che si avvicinava sempre di più mi diceva che non avevo più tempo «Ora non c’è, è fuori. Se vuoi posso andarlo a cercare» disse il vampiro «c’è qualcosa che non va? » «Edward ascoltami! » vidi un’ombra avvicinarsi alla porta e cominciai a sentirmi male.

Mi avvicinai di più al cellulare aperto sul pavimento «trattenete Jasper a Forks! Qualsiasi cosa succeda non fatelo andare via! » urlai con tutta me stessa.

Sapevo che Maria mi aveva già sentita, ma non mi importava.

Vidi la vampira aprire la porta e richiudersela alle spalle «Sarah dove sei? Jasper è tornato adesso, dice che non sei a casa, cosa sta succedendo? ».

Maria raccolse il cellulare da terra, mentre io cercavo impedirle di chiudere la conversazione in ogni modo.

Anche a costo di perdere la vita «NON FATELO ANDARE VIA DA FORKS! » gridai e mentre le ultime note di quel grido disperato si disperdevano, Maria chiudeva la mano e riduceva l’apparecchio a una pallina di metallo, plastica e microchip.

La vampira mi guardò e schioccò la lingua «oh no tesorino, questo non me lo dovevi fare» disse e afferrando una delle corde che mi legavano mi tirò su e mi sbatté con violenza contro un muro del capanno.

L’impatto fu tale che sentii ogni mio osso scricchiolare e la mia testa cozzò contro il cemento della parete; un chiodo che spuntava dalla parete, probabilmente una volta doveva sorreggere una mensola ora distrutta, mi graffiò la cute della testa e subito il sangue cominciò a defluire.

Avvertii il liquido caldo colarmi sul viso, salato «ci ho messo anni per trovare uno spiraglio in quella dannata famiglia, anni! E tu vuoi rovinare tutto con una semplice chiamata? » ringhiò, con gli occhi rossi puntati su di me.

Poi parve rinsavire da quell’attacco d’ira, guardando la pallina che una volta era il mio cellulare «sai una cosa? Mi hai fatto venire un’idea niente male…» sussurrò, guardando prima il soffitto del capanno, poi sorridendomi maligna.

Il suo sorriso da squalo si allargò ancora di più quando, dopo un po’ di ricerche, riuscì a trovare un gancio arrugginito «ora io e te faremo un po’ di ginnastica, tesorino» disse lei, poi mi afferrò di nuovo e mi alzò fino a una carrucola.

Con un gesto secco della mano infilzò la punta del gancio nella mia schiena, non abbastanza in profondità per uccidermi ma il dolore fu comunque lancinante.

Urlai, sentendo la gola riarsa bruciarmi come fuoco e il sapore del mio sangue venire su assieme allo spasimo.

Come carne da macello Maria mi appese alla carrucola e mi guardò, come un’artista che guardava con sguardo critico il suo capolavoro «sei perfetta tesorino» mi disse, ridacchiando «ora non ti muovere, zia Maria torna subito ok? » aggiunse e uscì di nuovo dall’edificio, lasciandomi da sola.

Sospirai, ma il gesto mi costò una fitta che mi percorse tutto il corpo; guardai giù le gocce del mio sangue allargarsi sul pavimento polveroso.

 

La donna ritornò qualche ora più tardi, quando il sole era già alto e filtrava attraverso le travi rotte del tetto.

In mano teneva un cellulare nuovo di zecca, completo di fotocamera, e accanto aveva la bambina, Marina.

La ragazzina stava giocando con quello che una volta era il mio telefonino e dopo un attimo ne tirò fuori la sim, miracolosamente intatta «bene, ora vediamo di mandare qualche foto ricordo al nostro amato Whitlock» disse la vampira dai capelli neri, inserendo la sim nel cellulare e accendendolo; qualche minuto dopo il flash del cellulare mi accecava e la risata tranquilla della ragazzina mi entrava nella testa come un trapano «allora, vediamo…dove hai messo il suo numero? » mi chiese, curiosando nella rubrica «oh, eccolo! Spera solo che lo veda presto, perché ho iniziato a prenderci, mia cara» mi disse, avvicinandosi con passo dondolante «non credevo che questa tecnologia fosse così divertente».

La bambina seguì la madre, guardandomi «posso giocarci io? Per favore! » esclamò con voce lamentosa, mentre la donna mi tirava giù dalla carrucola.

Il gancio rimase fisso nella mia schiena e senza troppe carinerie Marina me lo strappò via dalla carne con un gesto improvviso.

Urlai ancora, con le lacrime agli occhi.

Iniziai a ripetere il mantra che avevo appena scoperto “fallo per Jasper, fallo per Jasper” e serrai i denti per non lasciarmi scappare altro che piccoli e sussurrati lamenti «mamma passami il cellulare, voglio fare altre foto! » aggiunse Marina, tendendo la mano verso la donna.

Maria le diede l’apparecchio con un sorriso zuccheroso, guardandomi curiosa «oh, andiamo, hai finito di lamentarti? Mi stavo divertendo! » esclamò ancora la bambina, tirandomi un calcio nell’addome.

Sentii una costola rompersi di netto, con un sonoro crock, ma dalla mia bocca non uscì altro che silenzio.

Certo, mi irrigidii completamente e strizzai gli occhi, ma le mie labbra rimasero mute sebbene aperte in cerca d’aria.

Non mi sentivo più le mani e con molta probabilità se non fossi morta avrei almeno perso l’uso di esse; Maria stette a guardare la figlia adottiva divertirsi con il suo nuovo giocattolo: Marina mi spogliò della mia maglia strappandomela via dal corpo e cominciò a disegnarmi sulla pelle con un cutter.

Quando calcava troppo la mano le piccole goccioline rosse che imperlavano il tracciato che eseguiva si ingigantivano e scendevano lungo la mia pelle sempre più pallida e cianotica. Poi, dopo aver finito il suo disegno spettrale si alzò e scattò qualche foto.

Cominciai a sentire freddo, nonostante il sole scaldasse la capanna come un forno «mamma non mi diverto più, mi danno fastidio le corde! Non si intonano al resto » disse la bambina, pizzicando i legacci che mi bloccavano come se fossero le corde di una chitarra.

Maria scosse la testa «non possiamo permetterci che vada via adesso, piccola. Fai una cosa: spezzale una gamba e allora potrai togliere le corde» disse con leggerezza, come se parlasse di un metodo nuovo per coltivare tulipani.

Marina sorrise, poi si alzò e con un unico colpo spezzò tutte le funi che mi legavano. Sentii il sangue ritornare a circolare negli arti e ripresi a respirare; la mia mente si schiarì appena e dalla mia bocca uscì spontaneo un sospiro di sollievo.

Guardai la ragazzina avvicinarsi al mio ginocchio e osservarmi con malizia.

Dopo alzò il piede e di scatto lo calò sulla mia tibia, che sentii andare in frantumi; e io gridai, urlai come mai avevo fatto in vita mia.

Urlai il mio mantra, afferrandomi a una tavola sollevata del pavimento e inarcando la schiena «che umana coraggiosa» disse Maria «mi fai venir voglia di trasformarti. Se il tuo adorato vampiro accetterà di ritornare alla sua vecchia vita senza opporsi, forse ti concederò l’onore di far parte anche te del mio esercito» disse.

Le sue parole mi colpirono e passarono oltre la mia coscienza: stavo svenendo di nuovo.

Questa volta, però, ero scusata: avevo fame e sete, il mio corpo era stato tagliuzzato in mille punti e il sangue che stavo perdendo dalla schiena e dalla testa di certo non mi aiutava a stare sveglia.

Marina diede un altro piccolo calcetto alla mia gamba –con mio orrore vidi l’osso uscire dalla carne completamente frantumato– e si diresse verso la madre «vado a caccia, tienimela in caldo» disse.

Maria diede un piccolo bacio sulla fronte della ragazzina, poi la salutò e ritornò a fissare il suo sguardo rosso rubino su di me «è ora di altre fotografie» canticchiò, avvicinandosi e iniziando un’altra sessione di immagini macabre che avrebbero condotto Jasper se non alla follia almeno dalla folle vampira.

 

Maria doveva aver fatto almeno un’altra ventina di foto prima che la ragazzina ritornasse, con gli occhi di nuovo rossi come sangue.

Io non avevo più forze ormai e mi lasciavo fare tutto quello che la vampira voleva: la mia mente era troppo spaccata e devastata dal dolore perché potessi recuperare un po’ del mio vecchio orgoglio.

Ogni ferita pulsava come se fosse fatta di fuoco e ormai la gamba rotta nemmeno la sentivo più.

Giacevo stesa a terra come una marionetta senza fili, con la schiena appoggiata al muro a cui prima ero stata sbattuta con i polsi mollemente abbandonati ai miei fianchi.

La mia vista era nettamente peggiorata e il mondo era stato avvolto da una nebbia sottile e turbinante «è appena tornato Johnson!» disse la bambina, guardando fuori dalla finestra entusiasta «e il vento sta portando l’odore di Landon. Stanno tornando qui tutt’e due! » esclamò felice, saltellando sul posto.

Maria era seduta comodamente su un covone di paglia secca e soffice e stava giocherellando con una ciocca dei miei capelli, come se fossi un animale domestico da coccolare «bene! Vuol dire che il nostro servizio fotografico ha funzionato» mi disse, come se fossi contenta di quegli scatti dolorosi.

Marina aprì la porta e uscì, luccicando nel sole; pensai lì per lì che fosse un’allucinazione provocata dalla stanchezza.

Sbattei le palpebre un paio di volte, ma il luccichio non scomparì dalla pelle della bambina.

Ci misero poco ad entrare nel capanno i due vampiri seguaci di Maria «bene, è ora di fare una telefonata» disse lei, sogghignando.

 

Risposta alle recensioni:

 

Norine: Ma tu sei Alice sotto mentite spoglie! XD Si, Maria è perfida da morire…ma dopotutto se non lo fosse sarebbe disoccupata!

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Capitolo 14
*** Singer ***


14.

Singer

 

Stetti a guardare impotente Maria che componeva quasi in maniera dolce il numero di Jasper «sai, sei veramente una ragazzina fortunata» mi disse mentre avviava la chiamata «deve voler tanto il tuo sangue che per cercarti non si è dissetato nemmeno con i suoi stupidi animali».

Riuscii a malapena a capire quello che mi disse.

La mia mente era completamente devastata sia dal dolore sia dall’inedia «Maria, che hai intenzione di fare? » chiese Landon e la donna si poggiò l’indice sulle labbra, per farlo stare in silenzio.

Io incominciai a sentire il cuore pompare più in fretta il sangue attraverso le mie vene e fuori dalle mie piccole e numerose ferite brucianti.

Doveva essere l’iniezione che la piccola vampira bionda mi aveva fatto qualche momento prima; alle mie orecchie arrivò lo squillo della linea libera e pensai che Maria doveva aver messo il vivavoce alla conversazione.

Sperai che non rispondesse, anche se sentire la sua voce sarebbe stato il paradiso, in quel momento; sperai che fosse a casa sua, magari a giocare a baseball con quel suo sorriso caldo e rassicurante che non avrei più rivisto.

Invece qualcuno rispose, senza dire niente: stava aspettando di sentire la mia voce?

Non riuscii a trattenermi e –utilizzando le poche forze che avevo– appoggiai la testa pesante contro il muro e aprii le labbra «Jas…per» sussurrai, con le lacrime agli occhi.

Maria sorrise, sapendo di aver praticamente vinto «non ti preoccupare piccola sto venendo a prenderti» mi disse e per la prima volta sentii la sua voce lasciar trasparire angoscia pura. Cercai di urlargli qualcosa, di tornare indietro, ma non avevo più fiato «cosa ti hanno fatto? »«abbiamo solo giocato un po’ con lei, cucciolo» disse la vampira, guardando lo schermo del cellulare come se potesse vedere Jasper cambiare espressione del volto.

Io mi abbandonai di nuovo a terra, cercando di riuscire a respirare «non hai visto le foto che ti ho mandato? Speravo ti piacessero» aggiunse Maria, alzandosi dal covone di paglia e iniziando a camminare avanti e indietro.

Cominciavo a vedere la sua figura sfocata e scura, quasi sdoppiata «stai bene attenta a non esserci quando arriverò lì, perché ti farò a pezzi» disse Jasper.

Sembrava volesse sbranare il cellulare, da quanto la sua voce fosse irata; alcuni ringhi avevano frammentato le sue parole, tanta era la rabbia.

Maria si accigliò un attimo, per poi tornare sorridente come prima «ma io e te dobbiamo parlare di affari! Fai presto ad arrivare, cucciolo…altrimenti potrei non riuscire a trattenere qualche mio amichetto qui e la tua Cantante potrebbe finire un po’ più disidratata del dovuto.

E mi raccomando, non portare nessuno dei tuoi cari parenti; io voglio solo te».

Non mi diede nemmeno di sentire per l’ultima volta la sua voce: semplicemente Maria distrusse il cellulare.

 

Rimasi ad aspettare.

Ad ogni alito di vento che entrava dalla porta lasciata aperta speravo che portasse il suo profumo.

Invece quel vento caldo e quasi appiccicoso mi incollava addosso la polvere e agitazione.

Maria era appoggiata allo stipite della porta, lasciando che la sua ombra si allungasse su di me, come per ribadire il pieno possesso che lei aveva sul mio corpo.

I due vampiri e la ragazzina bionda erano all’interno del capannone, chi seduto sulla paglia e chi intento a giocherellare con i resti dei topi dissanguati.

La gamba rotta aveva iniziato a farmi più male del solito e sospettai un’infezione «eccolo, finalmente» sussurrò Landon, lanciando il piccolo topolino morto alle sue spalle.

Marina sogghignò, sedendosi sulle gambe del mingherlino Johnson e guardando verso la porta.

I miei occhi stanchi finalmente riuscirono a posarsi sul vampiro che tanto improvvisamente mi ero ritrovata ad amare e altre lacrime scesero: era finita.

Non c’era Emmett o Edward con lui.

Nemmeno Raven o la glaciale Rosalie.

Era solo.

Solo per salvare me, la sua Cantante «quanto tempo Jasper, è una vita che non ci vediamo! » esclamò Maria, avvicinandosi a lui con le braccia aperte.

In un secondo la mia mente pensò che se lo avesse anche solo toccato le avrei staccato la testa a morsi; sulle mie labbra cianotiche comparve un sorriso amaro.

Se avessi potuto staccarle la testa a suon di morsi non sarei finita lì. Mi maledii per non essere anche io una vampira «dov’è» sentii la voce dura e fredda di Jasper sbattermi addosso come un carico di cemento: era così diversa rispetto qualche ora prima.

Maria lo fece avvicinare di un paio di passi alla porta, poi lo abbracciò da dietro e sembrò sussurrargli qualcosa all’orecchio «ritorna alla tua vecchia vita Jasper…annusa l’aria, ti ho fatto un meraviglioso regalo» e detto questo lo condusse a pochi metri da me.

Gli occhi color carbone del vampiro subito guizzarono ad ogni mia ferita: aveva iniziato a respirare come un animale, cercando di trattenersi dall’aggredirmi.

Maria si avvicinò a me e rudemente mi tirò su «guarda, non è appetitosa? » gli domandò, osservandomi.

Non avevo la forza di reagire, a malapena riuscivo a tenere su la testa, e lo guardai con disperazione; sapevo che per lui era quanto mai difficile.

Lo vedevo lottare dentro di sé, lo vedevo nei suoi occhi neri che mi voleva, che voleva il mio sangue.

E che in contemporanea voleva gettarsi su Maria per farla fuori.

La vampira mi cacciò di nuovo a terra, camminando voluttuosa attorno al vampiro biondo «se proprio non riesci, povero cucciolo, posso sempre farlo io per te. Ha un odore veramente squisito ed è stata dura trattenersi fino ad adesso…ritorna alla tua vecchia vita e la trasformerò. Ho notato che avrebbe un potere veramente interessante».

Maria ritornò ad appendersi al suo collo, guardandomi malevola, e posando sulle labbra di Jasper le sue dita sporche del mio sangue.

La reazione fu pressoché immediata: il vampiro la scansò con una potente manata e fece qualche passo verso di me.

I miei occhi ormai erano quasi completamente ciechi per il dolore e per la stanchezza.

Sorrisi, sapendo quello che avrebbe fatto; non mi dispiacque l’idea di morire per mano sua e l’accettai senza oppormi.

Mi stava ringhiando contro, con i suoi occhi scuri lucidi di pazzia e io, nei miei ultimi istanti, riuscii a pensare che era maledettamente bello anche così.

Chiusi gli occhi, aspettando di sentire i suoi denti affondare nel mio collo e succhiarmi via la vita, di farla sua completamente.

Aspettai di diventare parte di Jasper, del suo essere.

Ma invece del dolore del suo morso e della stanchezza che mi uccideva, sentii un grido irato.

Quello di Maria.

 

«Maledetto Whitlock! » «Prendeteli! Non devono scappare! » «Sarah! »

Il grido di Jasper mi fece riaprire gli occhi.

Ero sempre a terra, nella polvere e sul duro cemento, ma qualcosa era cambiato.

Sentivo rumori di lotta, i gridi rabbiosi di Maria, le mani fresche del mio vampiro tenermi il viso.

Lo vedevo circondato da un alone sfocato, le mie lacrime rimaste attaccate alle ciglia, e per un’altra volta ancora pensai che era veramente un angelo.

Nei suoi occhi non c’era più la foga che avevo visto prima «Jazz…» riuscii a dire, muovendo appena le labbra.

In quel momento il suo soprannome era meno complicato da sussurrare nei miei ultimi respiri «Sarah ascoltami, resta sveglia! » mi disse ancora, sollevandomi come un fuscello.

La costola rotta e la gamba mandarono parecchie fitte, ma non avevo la forza di gridare.

Rimasi ad annaspare in cerca di aria, mentre lui correva fuori dal capannone; i miei occhi spalancati cominciarono febbrilmente a osservare attorno a noi due.

Edward e Carlisle stavano occupandosi della bambina e di Johnson, in fondo al capanno.

Emmett, con un ringhio basso, stava finendo di fare a pezzi Landon, poco lontano dalla porta.

Maria era impegnata a combattere contro Raven, concentrata nel tenere la malvagia vampira alla larga da me e Jasper.

Il mio cuore batteva così velocemente che mi sembrava stesse esplodendo.

Quegli eccitanti nella siringa dovevano esser entrati completamente in circolo «Sarah guardami» disse il mio biondo vampiro, tenendomi la testa lievemente sollevata.

Mi sentivo senza peso e i miei continuavano a girarsi e a chiudersi; mi sembrava di essere una malata mentale, in quel momento.

Mi ricordai della volta che ero svenuta, dopo aver visto il cadavere di mio nonno.

La sensazione era la stessa, ma amplificata migliaia di volte; le orecchie mi fischiavano e mi sentivo le vene nel collo pulsare a ritmo frenetico.

Anche Jasper doveva essersene accorto.

Rapida vidi una mano bianca e piccola sbattere contro il suo petto facendolo volare all’indietro.

Io rimasi li dov’ero, trattenuta lontano dal suolo dalle piccole dita di Marina.

Veloce la bambina mi prese per il collo e piantò i suoi piccoli ma affilati denti nel mio collo.

Il dolore fu tale che le bollenti ferite pulsanti mi parvero diventare fredde come ghiaccio e il ringhio spaventato e irato di Jasper non riuscii a sovrastare il grido che lanciai in quel momento.

 

Risposta alle recensioni:

 

Norine: Ehehehe, insegna molto guardare L’Enigmista xD

Sa chan: non ti preoccupare, so che sei una delle mie fans più sfegatate :3

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Capitolo 15
*** Angel ***


15.

Angel

 

Il mondo aveva preso immediatamente colore, come se qualcuno ne avesse aumentato il contrasto a dismisura.

I denti di Marina affondavano più e più volte nella mia carne, come se volesse mangiarmi viva.

Davanti ai miei occhi vidi Jasper alzarsi e correre verso di me, il volto contratto dall’ira: non lo avevo mai visto così.

Sembrava un enorme leone intento a saltare addosso a una piccola iena che aveva oltrepassato il suo territorio; tutto il mondo aveva iniziato a muoversi alla moviola, con i bordi brillanti e netti, come tagliati nella carta colorata.

La pelle di Jasper, attraversata da alcuni raggi di un sole che volgeva al tramonto, brillava come se fosse stata composta di tanti piccoli diamanti luminescenti.

I suoi occhi neri erano ritornati lucidi e i denti bianchissimi e perfetti erano scoperti in un ringhio che io al momento non potevo sentire.

Ogni suono era coperto dal pulsante e rocambolesco battito del mio cuore.

Tu-tum.

Tu-tum-tu-tum.

Sembrava l’assolo di un batterista con quattro braccia.

Marina aveva staccato i denti dal mio collo e mi aveva gettata al suolo, poco lontano da un cespuglio secco e spinoso.

Guardai Jasper lanciarsi sulla bambina e rompergli il collo di netto, fracassargli il petto e lanciarla lontano; tutto sembrava aver iniziato a tremare, le figure si sdoppiavano e si riunivano come in un colorato e conosciuto caleidoscopio.

Sembrava che nelle mie vene stesse scorrendo fuoco liquido, che mi bruciava da dentro e faceva impazzire.

Vidi il dottor Carlisle avvicinarsi preoccupato a me, alzando le mani e pressare sulla ferita che avevo il collo «Edward! Jasper presto! » chiamò e la sua voce mi parve assumere tre toni differenti.

Come se fossero state tre persone diverse in coro a dire quella frase.

Vidi avvicinarsi Edward, accigliato e intento a confabulare con il padre.

Vidi Jasper corrermi vicino, mettermi una mano dietro la nuca e alzarmi la testa «il veleno sta entrando in circolo» sentii di nuovo Carlisle parlare.

Il mio corpo ormai completamente in fiamme cominciò a tremare e sussultare, come se fosse stata epilessia.

Pressai entrambi i piedi a terra e inarcai la schiena, urlando.

Quell’acido che mi stava corrodendo sembrava bruciarmi persino l’anima; tutto a partire da quel morso che sentivo bruciare più di ogni altra cosa.

Ero immersa in un mare di fiamme e per un attimo compresi come si dovevano esser sentite le streghe, all’epoca dell’inquisizione.

Altri borbottii, frasi che non riuscivo a capire e parole che si intrecciavano con altre.

Poi d’improvviso le dolci, morbide e fresche labbra di Jasper sulla mia ferita; il sollievo fu quasi istantaneo.

Il mondo stava ritornando a quello di sempre e il fuoco si stava ritirando dal mio corpo come succhiato via da qualcosa.

Avvertii le braccia forti e sicure del mio biondo vampiro abbracciarmi, tenermi lontana dal terreno sconnesso e pieno di infimi sassolini.

Vidi con la coda dell’occhio la sua nuca e dietro di lui Raven, che si avvicinava arrabbiata.

Guardai il volto di Carlisle, concentrato a osservare Jasper, e quello di Edward rivolto verso la propria ragazza.

Lo vidi farle segno di avvicinarsi, come se fosse potuta d’esser d’aiuto.

Sapevo che stavo per morire, ma non mi importava: l’importante era che il mio angelo biondo fosse vivo e con me, per il momento.

Dopo tanto tempo un piccolo sorriso nacque timido sulle mie labbra; non che Jasper fosse propriamente vivo, ma il concetto era quello.

Edward sbuffò, leggermente più sollevato «se fa certi pensieri, direi che sta bene» riuscii a sentire le sue parole e avvertii una nota divertita nella sua voce.

Alzai stancamente una mano e la poggiai sulla nuca di Jasper, aggrappandomi ai suoi capelli.

Il fuoco era scomparso del tutto e io mi sentivo dannatamente stanca, dannatamente umana.

Lo guardai staccarsi da me, con gli occhi illuminati di rosso come quelli dei vampiri che mi avevano rapita e una lieve riga di sangue che partiva dall’angolo delle sue labbra.

Sorrisi ancora, perché i suoi occhi rossi non erano comparabili a quando avevano quella sfumatura dorata e calda «stai sveglia piccola, non ti addormentare» mi sussurrò, preoccupato.

Ma ero così assonnata e la sua visione così rassicurante, così come la sua voce.

Chiusi gli occhi solo per un attimo solo, il tempo di pulirli dalla polvere e dalle lacrime che per il dolore dovevano esser sgorgate senza che io me ne fossi accorta.

E il mondo scomparve dalla mia coscienza, come se qualcuno avesse annullato ogni mio senso.

 

Aprii gli occhi solo sotto esortazione di una voce a me familiare.

La zia Lindsay era seduta sul materasso di una brandina riconobbi come un lettino ospedaliero.

Avvertii sulla mia pelle le costrizioni di parecchie bende e la gamba rotta era stata ingessata e appoggiata su un cuscino.

Anche la mia testa era fasciata e sentii la garza coprire delicatamente ma con efficacia la ferita alla cute «ben svegliata» mi disse la zia, sorridendomi.

Notai che aveva pianto, perché i suoi occhi erano gonfi e rossi «mi hai fatto venire un colpo lo sai? » aggiunse, prendendomi la mano e sfregandoci sopra il pollice.

Sorrisi «ciao zia…scusami» dissi, con voce roca.

La gola mi faceva ancora male, ma stavo bene…meglio di prima.

I miei occhi girovagarono per la stanza, fissandosi prima su una flebo collegata al mio polso sinistro, poi su Jasper.

Era seduto su una sedia non poco lontano da me e sembrava che dormisse. O almeno, stava fingendo di dormire, forse per dare un po’ di libertà a me e a mia zia «è qui da almeno tutta la notte» mi disse zia Lind, guardando Jasper «non ho mai visto un ragazzo più bravo di lui. Mi ha raccontato tutto quel che è successo» «cos’è successo? » chiesi.

Recitai la parte della povera smemorata, sperando di scoprire quale fandonia si fosse inventato il ragazzo «dei delinquenti ti hanno rapito mentre tu e i tuoi genitori stavate tornando a casa, cara. Purtroppo tua madre e tuo padre non sono stati così fortunati».

Immaginai che Maria e i suoi scagnozzi avessero fatto fuori i miei genitori, mentre tentavano di scoprire dove fossi andata.

Non mi dispiacque più di molto, a dire il vero.

La mia vera famiglia non era mai stata quella; la zia sospirò «forse è meglio che ti lasci riposare ancora un po’ tesorino» mi disse –e il termine con cui mi chiamò mi fece rabbrividire– «ritornerò domani e quando i dottori riterranno opportuno rimandarti a casa ti riempirò di schifezze» ridacchiò infine, facendomi l’occhiolino.

Per un attimo mi venne l’acquolina in bocca, nel pensare alla cucina della zia Lind.

La salutai con un piccolo cenno delle dita e la guardai chiudersi dietro la schiena la porta, traghettata col numero 25 «te l’ha mai detto nessuno che sei uno stalker? » sussurrai a Jasper, qualche minuto dopo.

Lui subito alzò la testa e mi sorrise, anche se in fondo a quella gioia potei vedere preoccupazione «si credo che me l’abbia già detto una ragazza, non molto tempo fa».

Si alzò e si sedette vicino a me, avvicinando una mano per accarezzarmi una guancia «come ti senti? » disse, il tono di voce ritornato dolce e premuroso, come lo avevo sempre amato «una drogata malmenata» risposi, ridacchiando.

Mi guardò un po’ accigliato, poi sospirò, lasciando che un altro dei suoi sorrisi meravigliosi mi irradiasse «se fai dello spirito vuol dire che stai bene» mi disse, guardandomi come se fosse fatta di cristallo «non sai…quanto ci sono andato vicino…per ben due volte…stavo per ucciderti e non me ne sarebbe importato nulla. Sono un mostro» mi sussurrò, senza guardarmi con i suoi magnetici occhi dorati.

Alcune ciocche dei suoi capelli biondi erano cadute sui suoi zigomi «smettila non sei un mostro» gli dissi, prendendogli la mano e stringendola quanto più potei «un mostro avrebbe continuato a succhiarmi tutto il sangue…invece tu ti sei fermato e mi hai salvato la vita…se non ci fossi stato tu sarei diventata un angioletto come te».

Lui sbuffò «ho detto qualcosa di sbagliato? Tu sei bello come un angelo» aggiunsi, arrossendo appena; lui mi sorrise, avvicinandosi «se non avessi tirato via il veleno dal tuo corpo, adesso saresti ancora agonizzando mentre ti staresti trasformando in vampira» mi disse, guardandomi serio «cosa che io assolutamente non voglio…sei bellissima così come sei, umana».

Non dissi nulla.

Lo guardai solo avvicinarsi e darmi un casto bacio all’angolo della bocca «ti amo così come sei» aggiunse, sussurrandomi le parole direttamente nell’orecchio.

Rabbrividii, abbracciandolo senza forze.

Lui fece la stessa cosa, cullandomi teneramente finché non mi addormentai, con una piccola lacrima che mi scendeva limpida sulla guancia.


Per questo capitolo ringrazio Roberto Cacciapaglia e le sue meravigliose canzoni :3

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Capitolo 16
*** Flamenco ***


16.

Flamenco

 

Passai una decina di giorni chiusa in quell’ospedale che scoprii essere nella mia città natale.

Saltai i funerali sia di mio nonno sia dei miei genitori, rividi la zia Lind almeno ogni due giorni e Jasper stette con me per tutto il mio periodo di convalescenza.

Mentre sentivo i tagli chiudersi e le ossa rinsaldarsi, lui mi aveva raccontato un po’ del suo passato; parlò di Maria, la vampira che lo aveva trasformato, e di come aveva ucciso parecchie persone e vampiri assieme a lei nel tentativo di conquistare l’intero sud.

Almeno ogni tre ore dovevo ricordargli che non era un mostro e che se lo avesse ridetto avrebbe rischiato di ricevere una scarpa in faccia.

Ma ogni volta rideva e andava avanti nel racconto, senza mai ricevere nessun oggetto su quel volto d’angelo.

Dopo che ebbi saputo tutto o quasi di lui e della storia che aveva alle spalle, era il momento di dare aria alla bocca e raccontargli un po’ di me.

Lui che mi aveva vista ridere e piangere, soffrire e diventare rossa come un peperone –come piaceva tanto a lui–; lui che mi aveva fatto scoprire una vita pericolosa e meravigliosa, che mi aveva salvato da morte certa per ben due volte…non sapeva nulla di me.

Gli raccontai, mentre lui mi faceva appoggiare al suo petto come un cuscino, che un paio di anni prima il primo ragazzo di cui mi ero innamorata aveva tentato di violentarmi; quando i miei genitori lo scoprirono diedero la colpa a me, per come mi comportavo «così ho preso e mi sono rifugiata a Forks, un posto così anonimo che mi sembrava perfetto per scappare…ma a quanto pare i posti anonimi hanno sempre dei segreti strani» ridacchiai.

Jasper rise con me, abbracciandomi e lasciando un piccolo bacio in cima alla testa.

Dopo quel periodo passato lontano dalla umida cittadina nello stato di Washington, ritornare era stato come un tuffo in piscina.

Mi ritrovai ricoperta di umidità da capo a piedi in un istante, con il gesso che mi rendeva gli spostamenti quasi impossibili.

Ritornai con gioia alla mia camera, svuotata dei miei vestiti ma comunque nello stato in cui l’avevo lasciata «hai bisogno di una mano per cambiarti? » mi chiese la zia, mentre stavo salendo un po’ a fatica le scale.

Io dissentii con un cenno del capo e riuscii a raggiungere la mia stanza in poco più di cinque minuti fatti di sbuffate, tonfi, piccole fitte e tante maledizioni.

Quando aprii la porta, il mio biondo vampiro era già lì ad attendermi, seduto sul letto. Come mi vide aprire la porta scattò in piedi, venendomi vicino e sollevandomi per la vita senza alcun problema «guarda che non sto per morire…di nuovo» dissi ridendo.

Lui non volle sentir ragioni: mi trasportò fino al letto, dove mi fece stendere con la schiena appoggiata alla testiera e il cuscino sotto il ginocchio «credo che non potrò andare comunque al ballo» dissi sospirando «figurati, cercare di ballare con questo masso al posto della gamba sarebbe veramente ridicolo» aggiunsi ridendo.

Jasper si avvicinò a me, tenendomi due dita sotto il mento «chiunque crederà che tu sei ridicola può definirsi già un cadavere» mi sussurrò sulle labbra, baciandomi poi dolcemente.

Di nuovo il suo profumo mi riempì totalmente e la mia anima per un attimo si ritrovò già in paradiso; la sua mano passò dietro il mio collo, accarezzandomi lieve la pelle con la punta delle dita, la mia salì fino alla sua spalla e mi aggrappai a lui, la mia ancora di salvezza.

Rimanemmo immobili in quel modo per almeno un minuto o due, poi lui si staccò piano per potermi parlare ancora con quel suo accento di cui non potevo fare a meno «davvero non ci vuoi andare? » mi domandò.

Io scossi la testa «non so come la pensate voi vampiri ultracentenari, ma le povere ragazze come me devono tenersi alla larga da certi luoghi quando sono ridotte a questo modo» gli dissi, scherzosa.

Lui sembrò capirmi e mi accarezzò la testa «come vuoi…anche se mi dispiace che tu non possa divertirti, dopo quello che hai passato» mi disse, la sua voce dolce quasi direttamente nell’orecchio.

Lo squillo del telefono al secondo piano mi distrasse un attimo dai suoi occhi dorati e magnetici «Sarah! È Jacob, ti porto su il telefono? » gridò mia zia dal piano sottostante.

Guardai Jasper «fai pure piccola» mi disse con un sorriso.

Arrossii per il nomignolo che mi aveva dato e urlai alla zia una risposta affermativa.

Quando lei aprì la porta di camera mia, il mio biondo vampiro si era già dileguato dalla finestra «pronto Jake? » risposi, appena mi accostai all’apparecchio «hey! Sei viva! Scommetto che i tuoi rapitori si sono consegnati perché non ne potevano più di te! » esclamò il ragazzo dall’altra parte della linea «certo, li ho talmente stressati che sono corsi via urlando» risposi a tono, lasciandomi scappare una risata qualche secondo dopo «veramente so cos’è successo…te l’avevo detto di stare lontana dai Cullen»«come…? »«mio padre. Ha parlato col padre della tua sanguisuga e io sono stato a spiare».

Aggrottai la voce, offesa «Jacob Black non ti permettere mai più!» esclamai fredda, utilizzando quanta più rabbia possibile.

Jasper non era una sanguisuga! «ok ok, niente nomignoli per il tuo cadavere ambulante…beh, allora non andrai a quello stupido ballo, credo» la sua voce era un po’ delusa, ma sollevata nel sentirmi ancora intera.

Più o meno.

Io sorrisi, un po’ intenerita: sapevo che stava facendo gli occhi da cucciolo bastonato «no non credo proprio…sai –ehm– quei maledetti mi hanno cacciato giù dalla macchina e mi sono rotta una gamba»«nah, spero che almeno i tuoi amici vampiri abbiamo fatto a pezzi quei bastardi».

Scrollai di nuovo la testa «uno è riuscito a fuggire, ma non credo che ritornerà» dissi, guardando la zia che stava ad ascoltare.

Io sorrisi «senti Jake, ora devo andare, ho una fame che non ci vedo…Ci sentiamo domani? » «ok vengo a trovarti io non ti preoccupare» mi disse e capii dalla sua voce che mi stava sorridendo.

Menomale, pensai, non volevo litigare di nuovo con lui.

Chiusa la conversazione diedi la cornetta alla zia «che c’è per cena? » chiesi con la faccia più supplichevole che riuscii a fare.

Zia Lind rise e scese al primo piano, per prepararmi qualcosa di gustoso ma poco impegnativo.

 

Passarono un paio di giorni senza che io vedessi Jasper.

Mi intristii un poco, ma pensai che forse era andato a caccia; Jacob mi venne a trovare quasi ogni giorno e io non mi stupii che si fosse alzato ancora «la smetti di crescere? » gli domandai un giorno, mentre stava facendo il buffone per raccontarmi di come Leah gli aveva fatto spudoratamente le avances davanti al suo ex Sam «e che ci posso fare» mi rispose, alzando le spalle «tu hai qualcosa e non me lo vuoi dire…stai per morire di una malattia rara, lo sento! » esclamai io dopo qualche minuto, fingendomi la più grande attrice drammatica di tutti i tempi.

Con il solo risultato di farlo accasciare a terra in un attacco di risate acute.

Non mi spiegò nulla e io sentivo veramente che c’era qualcosa in lui che era cambiato, come una levetta che era scattata da qualche parte dentro il suo corpo.

Passati quasi cinque giorni, io finalmente mi decisi ad abbandonare il sicuro rifugio di camera mia per prendere un po’ d’aria.

Il gesso non era poi più così pesante –segno che mi stavo completamente ristabilendo– e riuscii ad arrivare fino in giardino senza arrecare danni.

Fu mentre mi stavo sedendo sulla piccola panca di legno che sentii un clacson conosciuto: alzai lo sguardo fino alla strada e non mi stupii di vedere la jeep scura con a bordo Jasper.

Lo guardai scendere con grazia dalla macchina e dirigersi verso di me; le pesanti nubi che coprivano il cielo non toglievano nulla alla sua bellezza «finalmente sei uscita dalla fortezza in cima alla torre, principina» mi disse, chinandosi e baciandomi dolcemente la mano.

Arrossii, come mio solito «ho una sorpresa per te» aggiunse, prendendomi in braccio «hey! »«ti piacerà, vedrai» continuò, trasportandomi fino alla vettura.

Sbuffai giocosa e tirai appena una di quelle ciocche bionde e un po’ ricciute «dimmi che cos’è, mi è già bastato esser stata rapita una volta» scherzai, anche se sul suo volto si dipinse per un attimo la tristezza. Aprì la portiera dalla parte del passeggero, tenendomi con un braccio solo «ti ho già detto che è una sorpresa, testona. Altrimenti te l’avrei già detto» ridacchiò, posandomi dolcemente sul sedile e guardandomi con i suoi occhi caldi e rassicuranti «stai buona piccola, non ci metterai molto a scoprirlo» mi sussurrò, accarezzandomi la guancia e facendomi l’occhiolino.

Stetti brava per tutto il viaggio, guardando fuori dal finestrino il paesaggio che cambiava: percorremmo la strada che portava fuori da Forks e Jasper imboccò un sentiero sterrato che portava fino in mezzo alla foresta rigogliosa.

Come se conoscesse a memoria la strada, fermò la macchina vicino a un albero dalla forma contorta e scese «ci siamo quasi, chiudi gli occhi ok? Andremo un po’ veloci» mi disse, dopo aver aggirato la jeep con la sua velocità vampiresca e avermi presa di nuovo tra le braccia.

Io mi aggrappai al suo collo, facendo come mi aveva detto; provai di nuovo sulla pelle quella sensazione che già una volta mi aveva fatta credere di star volando.

Quella volta, però, seppi che ero al sicuro e mi sembrò quasi la cosa più naturale del mondo.

Poi c’era il rumore dei polmoni di Jasper che si riempivano e si svuotavano rilassati, come se la corsa non gli pesasse per niente.

Con un po’ di tristezza pensai che doveva mancargli il battito del proprio cuore nel petto «siamo arrivati» mi sussurrò all’orecchio.

Tirai su la testa e quello che vidi fu quasi incantevole: davanti ai miei occhi c’era un piccolo praticello rotondo con l’erba bassa e punteggiata di fiorellini bianchi.

Accanto ad esso, separato da un piccolo cespuglio basso e odoroso, c’era un laghetto d’acqua limpidissima e bassa, alimentato da un ruscelletto che tintinnava argentino e ci si tuffava dentro con tante piccole cascatelle da una roccia ricoperta di edera e muschio.

I rumori dell’acqua e dei pochi animali che si azzardavano a uscire di giorno «è meraviglioso…» «è il luogo più intonato a te».

Lo guardai senza capire bene la sua frase «quando sono qui tutto mi ricorda te ancora di più. Sei fresca e limpida come quel laghetto, mi entri dentro come l’odore di quell’arbusto…» prese da terra un piccolo fiore bianco, che mi sistemò in cima all’orecchio «e sei delicata come queste campanelle».

Se non avessi avuto la gamba rotta a cui pensare sarei caduta a terra; la mia faccia aveva preso fuoco e mi ero completamente dimenticata come si faceva a parlare.

Jasper mi fece alzare il volto come solito era fare, con un paio di dita sotto il mio mento, e per la terza volta mi baciò.

Chiusi gli occhi, lasciandomi andare; nella mia mente risuonava un’orchestra sinfonica di mille violini e pianoforti, mille arpe e mille cimbali.

Quello era il mio posto, la mia casa.

Jasper era la casa a cui avrei voluto sempre ritornare e da cui non sarei mai riuscita a scappare.

Mi ci ero incatenata da sola e non volevo ritrovare le chiavi; ero completamente in suo possesso, in possesso del vampiro di cui mi ero follemente, insanamente innamorata.

Jasper si staccò da me dopo una manciata di secondi durati una vita e mi guardò negli occhi, trapassandomi come se fossi stata di vetro «aspettami qui, arrivo subito» mi disse col suo sorriso dolce, lasciandomi sedere su un cuscino d’erba e muschio.

Io annuii, allungando il braccio il più possibile per ritardare la nostra piccola temporanea separazione.

Quando sparì dalla mia vista ripresi un lungo respiro.

Se mai ci fossimo lasciati e se mai io sarei sopravvissuta a una tragedia simile, non sarei riuscita a trovare qualcuno che lo eguagliasse in qualsiasi maniera.

Era perfetto, come se fossimo stati i due pezzi di un enorme puzzle e ci fossimo rincontrati per volere del fato.

Mi chiesi come avevo vissuto fino a quel momento senza sapere che nel mondo esisteva –e molto prima che io nascessi, per giunta– un ragazzo così dolce da farmi sciogliere con un solo gesto della sua mano.

Jasper ritornò quasi subito, il tempo di finire la mia rapida chiacchierata mentale con me stessa, con uno stereo portatile sotto braccio «e quello? » domandai, senza ottenere risposta.

Lui lo posò su una roccia poco lontano da noi, alzò il volume quanto bastava e premette play; qualche secondo e dalle casse partì il suono di una chitarra, suonata con maestria per comporre una melodia che mi sapeva di Spagna «spero ti piaccia, ho dovuto lottare un po’ con la cassetta del mangianastri prima che mi registrasse per bene».

Io lo guardai strabiliata «sai anche suonare la chitarra? »«beh…si. Ti disturba la cosa? » rispose un po’ intimorito dalla mia domanda.

Io sbuffai, abbracciandolo di slancio «sei proprio un uomo del sud» esclamai, ridacchiante.

Lui mi prese dolcemente la vita «magari sarebbe stato meglio se avessi chiesto a mio fratello di suonarmi qualcosa al piano…» aggiunse, parlandomi nell’orecchio mentre mi teneva sollevata da terra.

Io lo lasciai fare, mentre mi sorrise contro la pelle del collo «mi offre questo ballo signorina? » mi chiese, ridacchiando al mio imbarazzo.

Stupido potere, pensai, non potevo nascondergli niente «e va bene…anche se non sono esattamente una bravissima ballerina di flamenco» dissi.

Ci mettemmo a ballare come due professionisti, in quel piccolo prato che io sentivo solo nostro, con lui che stava ben attento a non farmi sfiorare il terreno con la gamba ingessata.

Risi parecchio, sentendomi come una bambina che ballava in braccio al padre, e appena la canzone finì io rimasi a guardarlo con un po’ di fiatone «olè? » feci, guardandolo alzare il sopracciglio «no, Emmett che non ne poteva più di sentirmi suonare» rispose e risi ancora.

Quanto mi era mancata quella tranquillità, quella serenità.

Erano stati giorni di fuoco, gli ultimi che avevo vissuto: cadaveri, vampiri assetati di sangue umano, passati oscuri e un amico che continuava a voler che io lasciassi l’angelo che mi aveva salvato.

Mentre ci osservavamo –o meglio, mentre io lo guardavo innamorata e lui sondava le mie emozioni– partì un’altra canzone, qualitativamente superiore a quella di prima.

Era più tranquilla e rilassante.

Jasper mi rimise a terra, guardandomi «perché prima eri triste? » mi chiese, accarezzandomi la testa.

Capii subito che si riferiva a pochi minuti prima, ma non sapevo se dirglielo; presi un respiro e parlai «ero solo un po’ dispiaciuta…non ti mancano i battiti del tuo cuore? Non ti manca essere umano? » chiesi, posandogli una mano in mezzo al petto «no» rispose semplicemente, senza rimpianti «ho già te che vivi al posto mio. Io preferisco rimanere vampiro per poterti stare accanto sempre».

Mi abbandonai completamente su di lui, appoggiandomi un po’ «voglio sapere quand’è il tuo compleanno» dissi «voglio regalarti qualcosa di speciale».

Lui ridacchio «e chi se lo ricorda più? Lascia stare…il mio regalo più grande sei tu» «no! Insisto…Jasper quand’è il tuo compleanno…è impossibile che tu non lo sappia».

Mi guardò un po’ colpevole «dopo anni che uno non ci pensa, non è che sia proprio automatico…» sospirò, sapendo che non mi sarei fermata davanti a un’insulsaggine simile.

Lo poteva sentire che ero determinata.

Jasper mi afferrò per la vita e si lasciò cadere sull’erba, portandosi dietro anche me; con un grido di sorpresa mi lasciai cadere sul suo petto e per un momento mi domandai se gli avessi fatto male.

Poi mi sbattei una mano sulla fronte: quello poteva fermare i proiettili come Superman, figurarsi una piccola umana.

Rimanemmo stesi sull’erba, a guardare i piccoli sprazzi di cielo che gli alberi ci concedevano. Stava scendendo la sera, ma non me ne importava granchè «stavo pensando…» cominciai e lui mi baciò sulla fronte «allora c’è da preoccuparsi»«stupido vampiro…dicevo, perché non vuoi che io diventi vampira? » chiesi.

Jasper si tirò su sui gomiti, guardandomi «che domande sono queste? »«ti prego è solo curiosità…».

Lo vidi sospirare, sconfitto «perché non è vita, questa. Certo siamo praticamente invulnerabili, ma l’aspettativa di vivere per sempre e di non poter essere liberi di essere se stessi…non è bello. Io sono diventato vampiro non per mia scelta» disse guardandomi con i suoi occhi magnetici «Non mi piace essere umana…»«Sarah, smettila»«tu mi hai rotto per dieci lunghi giorni di essere un mostro, ora ti rompo un po’ io di essere una cosetta fragile e flaccida! » e detto questo misi il muso.

Lui mi guardò e dopo un po’ rise di gusto «tu non sei arrabbiata…lo sai che non mi puoi fregare» mi disse, stendendosi di nuovo e abbracciandomi.

Io smisi la mia commedia, posando la testa sul suo braccio e rannicchiandomi contro di lui quanto potevo, inspirando il suo profumo «resterò un’inutile e fragile cosina…ma solo per te» dissi «finché qualcuno non tenterà di nuovo di trasformarmi» aggiunsi, ridendo.

Jasper mi guardò un po’ offeso, poi capii che probabilmente stavo scherzando e mi strinse più forte a sé «ti amo più di qualsiasi altra cosa» mi sussurrò, baciandomi la tempia un’altra volta.

Io sorrisi, stringendo tra le mani il tessuto della sua maglia «anche io…non sai quanto».

Rimasi ferma ad assorbire con ogni cellula il dolce calore che mi partiva dal cuore per scaldarmi, per contrastare il piccolo inconveniente della sua pelle fredda.

Seppi in quel momento che il mio cuore stava battendo per lui, per rimpiazzare quell’organo fermo che Jasper aveva nel petto.

Dopotutto non mi parve così male, essere umana.

Certo potevo morire per un semplice incidente, ma sapevo che il mio bell’angelo biondo non mi avrebbe permesso di lasciarlo, quasi com’era successo quasi due settimane prima.

E anche io avrei venduta cara la pelle, prima di abbandonarlo di nuovo.

 

 

 

 

 

 

Continua…

 

 

 

 

E così, dopo tante vicende più o meno belle siamo arrivati alla fine di questa ff, che penso sarà la prima di una bella serie.

Ringrazio di tutto cuore chiunque abbia seguito e recensito questo mio racconto, soprattutto Norine e Sa chan, mie fans sfegatate (hihi).

Ringrazio il compositore Roberto Cacciapaglia, che con le sue opere mi ha ispirato –consiglio a tutti di fare un salto su youtube eheh–.

Rispondo a Taty: quella robaccia puzzolente era carne di vampiro xD Maria aveva mandato Johnson a uccidere un vampiro a caso per prendere un po’ di carne e depistare Jasper dall’odore di Sarah, fin quando avrebbe voluto.

Rispondo a Norine: beh, è una sorta di liberazione. Dopo tutta quella tragedia Sarah è ancora sconvolta dentro e una lacrima scappa al suo contegno nonstante tutto.

 

Qui le musiche di Jazz.

La prima, flamenco style: http://www.youtube.com/watch?v=lEyFxK-d2Qs&feature=related

 

La seconda, più romantica (anche se purtroppo è corta): http://www.youtube.com/watch?v=udYDkE5nYHM&feature=related

 

 

Grassie veramente a tutti quanti.

Bearhug to everybody :D

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