Figli di Atlantide

di Vitani
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Guardare al futuro ***
Capitolo 3: *** In viaggio verso l'Europa ***
Capitolo 4: *** La vita normale ***
Capitolo 5: *** Etienne ***
Capitolo 6: *** Infanzia ***
Capitolo 7: *** Vissero felici e contenti ***
Capitolo 8: *** La vita comincia ***
Capitolo 9: *** Philippe ***
Capitolo 10: *** Quando sei figlio di tua madre ***
Capitolo 11: *** L'Esposizione Universale ***
Capitolo 12: *** Marie ***
Capitolo 13: *** Preparativi ***
Capitolo 14: *** Tia ***
Capitolo 15: *** L'avventura di Tia ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


FIGLI DI ATLANTIDE
PROLOGO
 
 




 

 
Royal Greenwich Observatory, 4 giugno 1890
 
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United States Naval Observatory, 4 giugno 1890
 
Il telegramma era arrivato all’osservatorio navale degli Stati Uniti alle ore 6:49 p.m. ora locale. A mandarlo era il Royal Greenwich Observatory e, data l’urgenza, doveva trattarsi di qualcosa di interessante. I membri dell’osservatorio di Greenwich non si scomodavano per nulla. Stimson J. Brown alzò gli occhi dalle planimetrie della Clock House, che stava studiando intensamente da mesi più di quanto facesse con il cielo. Dopo la scoperta delle Lune di Marte non si era registrato più niente di particolarmente interessante, così aveva deciso di approfittarne per dotare l’Osservatorio di nuove strumentazioni e soprattutto per ampliarlo così che potesse rivaleggiare coi grandi osservatori europei di Greenwich, Parigi e Berlino, spalleggiati e riforniti dai rispettivi governi. E ora proprio da Greenwich, dov’erano le 11:49 p.m., giungeva comunicazione di puntare i telescopi al cielo.
Brown si grattò pensoso i baffi scuri. Aveva trascorso la notte precedente puntando gli strumenti verso i cieli europei e aveva notato qualche meteora più del solito, ma niente di particolare. Ora venivano a parlargli di uno sciame meteorico ancora non identificato e quindi, con ogni probabilità, di una cometa o un asteroide che correvano nei pressi dell’orbita terrestre. Era una scemenza. Doveva esserlo. Gli sciami meteorici non comparivano all’improvviso ma seguivano leggi ben precise. Alcuni di essi erano noti sin dall’antichità. Soprattutto era impossibile che fosse visibile contemporaneamente da ogni punto del globo. Ed era impossibile che, nel caso, lui non se ne fosse accorto.
Decise comunque di attendere qualche ora, senza riporre troppe speranze in quello che avrebbe trovato. Fece un pisolino, mangiò una cena leggera, si preparò a mettersi all’opera.
S’affacciò. Il Sole era ormai calato, la Via Lattea emergeva dal buio in tutto il suo splendore. Le stelle erano incalcolabili. Ne cadde una.
Stimson J. Brown sorrise, prese un panno per pulire la lente di uno dei telescopi.
Sarebbe stata una notte tranquilla.
Questo pensava.
La luce giunse all’improvviso, intermittente, un lampo verdognolo che illuminò la stanza a giorno.
Brown corse fuori, incurante del telescopio, incurante dei telegrammi e delle planimetrie.
Stava cadendo il cielo.
Le stelle venivano giù, impossibili da contare, impossibili da descrivere.
Sapeva che non erano stelle.
Erano bolidi dalla scia verde, meteore che bruciavano e si spegnevano prima di toccare terra.
Ma erano innumerevoli e così brillanti che per un attimo Brown si sentì ancora bambino, come quando aveva alzato gli occhi al cielo notturno la prima volta. “Pioggia di stelle” era un titolo inadatto a uno scienziato ma, dopotutto, si addiceva a uno spettacolo del genere.
Ricordò il telegramma. Se quello che riportava era vero, lo spettacolo si ripeteva di ora in ora da almeno un giorno e mezzo. Non con la stessa intensità, magari, ma si ripeteva.
Tornò dentro e corse a inviare un telegramma.
 
 

 
Osservatorio di Madras, 6 giugno 1890
 
Portarono dentro il frammento, con cautela.
Era passato meno di un giorno da quando il fenomeno inaspettato dello sciame meteorico si era spento, ed era giunto il tempo delle ipotesi.
Lo sciame, infatti, si era lasciato dietro dei regali.
Uno di essi era piovuto su un villaggio rurale dell’India del nord e aveva incendiato diverse baracche.
Era stato così che si erano accorti che, be’, non era un normale meteorite. Tanto per iniziare era più simile all’acciaio che a una roccia, e poi era pigmentato di rosso vivo. Se non l’avessero trovato ancora fumante dentro un cratere e non avesse presentato chiari segni di ablazione atmosferica, Norman Pogson avrebbe dubitato di avere di fronte qualcosa di caduto dal cielo.
Gli astronomi di tutto il mondo erano in fermento, inoltre, e tanto bastava.
Aveva dato ordine di far spedire immediatamente il frammento all’osservatorio.
Se ne fossero caduti altri non ne aveva idea, ma non se la sentiva di escluderlo.
Non si trattava di acciaio, lo capì a una prima occhiata, e capì pure che era un materiale infinitamente più resistente. L’atmosfera l’aveva corroso, incendiato e levigato, ma non era riuscita nemmeno a far sparire del tutto il pigmento.
Provò a toccarlo con un dito. Era freddo. Era metallo lavorato.
In altre circostanze avrebbe detto che si trattava di un falso, una fregatura, un colossale fraintendimento. Ma non c’erano artigiani in grado di produrre qualcosa di così sofisticato in un villaggio rurale dell’India del Nord. Non esisteva neanche un materiale del genere, in India del Nord. Forse non esisteva niente del genere in tutto il pianeta. E se non avesse visto coi suoi occhi, solo pochi giorni prima, l’immagine di un gigantesco essere umano vestito come un antico egizio che si stagliava di netto contro il cielo, l’avrebbe definita roba adatta per un romanzo di fantascienza.
Chiunque fosse stato l’autore dello scherzo che aveva semi-distrutto Parigi, quel frammento c’entrava qualcosa. Norman era pronto a scommetterci. Ah, avrebbe avuto tempo per approfondire. Il mondo non era finito, l’apparente minaccia era scomparsa e il frammento sarebbe stato lì anche l’indomani.
Anche quando il resto del mondo l’avesse dimenticato.
Il che, era pronto a scommettere anche su questo, sarebbe accaduto molto presto.
 
 
 
 
Baia di Suruga, prefettura di Shizuoka, 3 giugno 1890
 
«Una stella cadente!»
Marie indicò il cielo. Icolina le sorrise.
«Che desiderio hai espresso?»
«Ho chiesto che Sanson e tutti gli altri tornino presto! E tu?»
L’infermiera guardò in alto, verso la volta stellata. I suoi compagni e suo nonno erano lassù, da qualche parte, e sapeva Dio quanto avrebbe desiderato essere con loro. Poteva solo sperare che andasse tutto bene, di vederli rientrare sani e salvi da un momento all’altro. Quell’attesa era più logorante di qualsiasi battaglia avesse mai vissuto.
«La stessa cosa. E ho chiesto anche che nessuno di noi debba più vivere un’esperienza del genere.»
Anche quello lo sperava con tutto il cuore. Che Gargoyle fosse sconfitto e non ci fossero più vite e famiglie spezzate a causa della sua malvagità. Desiderò una volta di più che il mondo fosse davvero salvo. Sorrise ancora. Era una ragazza forte e nutriva una fiducia profonda nell’equipaggio del Nuovo Nautilus. Sarebbero tornati.
«Lo spero anch’io.»
Marie, accanto a lei, era tranquilla.
Icolina la invidiò. Era una bambina che aveva conosciuto la morte ma non l’aveva ancora del tutto compresa. Pregò che rimanesse a lungo tale, che perdesse quell’innocenza il più tardi possibile.
Le luci della città di Shizuoka, giù sulla costa oltre il promontorio in cui si trovavano, sembravano dare ragione ai loro pensieri. L’aria era tiepida e quieta, sembrava impossibile che altrove si stesse combattendo una guerra.
Pregarono ancora la lunga notte stellata.
Riportali indietro.
Cadde una stella.
 
 
- continua -
 
 
 
N.d.A. Buonasera! Bentrovati a tutti i lettori, soprattutto quelli che hanno sopportato le mie oneshot nel corso degli ultimi due anni. Questa volta, come avrete notato, si tratta di un lavoro molto diverso. Avete appena letto il prologo della longfic che sarà il mio personale seguito a “Il mistero della Pietra Azzurra”. La storia riprende, come avrete capito dall’ultima scena, direttamente dalla fine dell’anime, prima dell’epilogo. Per quanto riguarda invece le due brevi scene precedenti, le ho inserite per dare un tocco più “verniano” alla narrazione in termini di incipit. Gli osservatori menzionati esistevano o sono esistiti davvero, idem gli astronomi menzionati. Non entro nel merito delle nozioni astronomiche che ho inserito perché sicuramente avrò scritto e scriverò una marea di castronerie. Ho scelto di lasciare la menzione riguardante il proclama dell’imperatore Neo perché in effetti in uno dei radio-drama di Nadia, quello ambientato nel futuro, si racconta che la pronipote di Nadia e la sua amica Ritsuko sono a conoscenza dei fatti avvenuti nel 1890 e della quasi distruzione di Parigi a opera di “navi spaziali”. Segue che la memoria dell’avvenimento deve essere rimasta, anche se magari viene ormai accettato come evento storico visto che, comunque, non ha apparentemente avuto conseguenze (ammesso e non concesso che Evangelion non sia a tutti gli effetti un sequel di Nadia, teoria che comunque non svilupperò in questa sede perché sarebbe seriamente troppo complicato e questa storia sarà già lunga abbastanza).
Dicevo, la storia sarà parecchio lunga e sarà divisa in dieci parti, a loro volta suddivise in capitoli. Il protagonista sarà un personaggio originale, Etienne, il figlio di Nemo ed Electra. Questo perché non ho mai digerito il fatto che nel film che fa da sequel a Nadia (lasciamolo perdere che è meglio), il bimbetto non si veda neanche di sfuggita. Ho deciso quindi di crearlo da me e dargli una storia e una sua propria vicenda legata alle Pietre Azzurre. Spero che sia un personaggio che apprezzerete e di riuscire a caratterizzarlo come si deve. Non mancheranno i personaggi principali della saga ufficiale, su tutti Electra e Nadia. Ci saranno un po’ anche tutti gli altri, alcuni come Marie in ruoli minori poiché hanno esaurito il loro compito nella serie madre.
Non so darvi dei tempi di aggiornamento precisi ma cercherò di assestarmi su un capitolo alla settimana, al massimo uno ogni due. Il rating per ora è giallo, ma in futuro dovrò quasi certamente alzarlo sia per via di battaglie in arrivo che per via di intrallazzi amorosi (sì, ci saranno anche quelli, ecco perché ho inserito l'avvertimento "lime" anche se saranno piuttosto in là nella vicenda). La storia, in verità, parlerà molto di amore ma non necessariamente nella sua declinazione romantica.
A presto e grazie, spero di non deludervi.
 
 
Vitani

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Capitolo 2
*** Guardare al futuro ***


PARTE PRIMA
GUARDARE AL FUTURO
 



 
«Echo. Appena ci avvicineremo alla superficie comunicate all’accampamento la nostra posizione e avvisateli di preparare le scialuppe.»
«Agli ordini.»
«Raoul, voi coordinerete le operazioni di sbarco.»
«Sì.»
Furono gli ultimi ordini che diede. Raoul, l’anziano capo-macchinista del Nautilus, sedeva alla sua postazione senza il coraggio di voltarsi a guardarla. Ebbe solo il cuore di farle una domanda.
«E voi, vicecomandante?»
«Io resterò a bordo per avviare le manovre di affondamento della nave. Vi raggiungerò appena ho finito.»
Si era rifiutata di sedere al posto di comando. Si rifiutava di girare la testa, di vedere quel vuoto che aveva alle spalle. Parlava con voce ferma, però, risoluta, al punto che ebbero timore di non vederla ritornare. Temettero che decidesse di restare lì, di farsi affondare con la nave, perché dopo la morte di lui ogni cosa aveva perso di senso.
Era così per tutti, figurarsi per lei.
L’aveva amato, lo sapevano tutti. Quello che ignoravano era che portava suo figlio in grembo.
Lei dovette percepire la loro esitazione, perché finalmente li osservò, uno per uno. Osservò le loro schiene, ascoltò il loro silenzio, comprese la loro sofferenza.
«Tornerò», disse, «State tranquilli.»
Glielo doveva.
L’Eritrium si appoggiò sull’acqua dolcemente, in un punto nascosto e profondo al largo della baia di Suruga. Chi aveva scelto di restare a bordo durante la battaglia contro il Red Noah venne sbarcato sulle scialuppe inviate dalla costa. La navicella restò a pelo dell’acqua alcune ore, il tempo necessario a completare il trasbordo di tutto l’equipaggio e a portare le scialuppe a distanza di sicurezza.
Rimasero tutti a guardare, Raoul, Echo, gli altri ufficiali, i feriti scesi dal Nuovo Nautilus, Jean, Nadia, Grandis, Hanson e Sanson. Osservarono con malinconia crescente la navicella che si inabissava, dolcemente com’era atterrata. Lei aveva deciso di non far esplodere il motore, per evitare uno tsunami, aveva detto. Così aveva disattivato il dispositivo a para-annichilazione ed espulso l’aria dalle casse zavorra, che avevano immediatamente iniziato a riempirsi d’acqua. Mentre l’Eritrium scendeva, si era assicurata che il motore restasse spento e aveva ancorato lo scafo in modo che si incagliasse fra gli scogli del fondale. Se anche qualcuno l’avesse fortunosamente trovato, e ne dubitava a quella profondità, nessuna tecnologia umana sarebbe stata in grado di farlo ripartire. Avrebbe dovuto distruggerlo, forse, ma non se la sentiva.
Non si trattava del suo Nautilus, ma era comunque la nave che li aveva riportati a casa.
Tutti tranne lui.
Guardò la plancia un’ultima volta, guardò il sedile vuoto del comandante, spinse oltre lo sguardo fino alla postazione dei sonar. Non ce la faceva. Era una codarda. Tremava, ma finse di non vedere. Tremava al punto da non riuscire quasi a respirare. Non sapeva cosa ne sarebbe stato di lei, ma doveva essere forte. Per suo figlio, se non per se stessa.
Ingoiò a vuoto, inspirando profondamente, e si portò le mani al ventre.
«Vado, comandante», sussurrò.
 

Temevano che non sarebbe ritornata, nonostante tutto, che avesse avuto un ultimo ripensamento e deciso che non ne valeva la pena. Perfino Grandis era in ansia, guardava la navicella che si inabissava con occhi spalancati e ancora lucidi. Non l’avrebbe mai perdonata se non fosse riemersa, mai.
Raoul taceva, osservando l’Eritrium con aria stanca.
Erano tutti sfiniti, provati emotivamente più che nel fisico, e perdere anche lei sarebbe stato intollerabile.
Trattennero il fiato quando videro uno dei gusci di salvataggio dell’Eritrium affiorare dal pelo dell’acqua. Raoul diede immediatamente ordine di avvicinare le barche e, all’apertura del guscio, la aiutò a salire a bordo.
«Come stai?» le chiese.
Non rispose, Electra. Abbozzò solo un sorriso, lieve, lontano, e chiuse gli occhi.
Il rumore delle onde le era familiare, così come l’odore salmastro. Se stava a occhi chiusi poteva ancora immaginare di essere sul Nautilus, di averlo accanto. Come quelle volte in cui erano in emersione e stavano sul ponte esterno a osservare il tramonto, lei poggiata alle balaustre e lui poco più indietro. Non parlavano granché, all’epoca. Era già iniziato il momento dei silenzi, più o meno da quando lei era cresciuta e aveva saputo.
Capì che si avvicinavano alla costa, udiva le voci di quelli rimasti all’accampamento, li salutavano, festeggiavano. Si chiese come avrebbero reagito nel capire che Nemo non era con loro. Lei stessa si chiese come fare a sopportare il vuoto che sentiva nel petto. Sembrava volerla divorare. Non ci pensò, si rifiutò ancora. Occhi chiusi, il più possibile. Dai la colpa al sole.
Pensò che avrebbe dovuto piangere.
Non ci riusciva.
Forse, semplicemente, non capiva.
Attraccarono. Qualcuno, non capì chi, la aiutò a scendere.
Va tutto bene, si ripeté. Va tutto bene, va tutto bene. Il sole splendeva sulla sua testa come se avesse voluto farsi beffe del dolore di tutti. Il sole abbagliante di un giorno che lui non aveva potuto vedere.
Aprì gli occhi, Electra, guardò lontano un punto di fronte a sé, oltre le sagome degli uomini dell’equipaggio. Sorrise. Era felice, no? Doveva esserlo. Avevano sconfitto Gargoyle, finalmente. Lo era, lo era davvero. Felice di averlo sconfitto. Il desiderio di tutta una vita. Ma a che prezzo?
Fece un passo, un altro.
«Electra!»
Cadde.
 Incurante delle mani che cercavano di sostenerla, crollò svenuta sulla sabbia.
 

 
“Medina.”
Mani calde che le cingono il viso.
“Ascolta, Medina. Qualsiasi cosa accada devi promettermi di essere forte, va bene? Forte come sei sempre stata.”
Ha degli occhi bellissimi, sembrano neri ma sono verdi, di un verde scurissimo e profondo.
Te ne accorgi solo se li guardi davvero da vicino.
È felice di aver potuto notare quel dettaglio, perché significa che gli è accanto, finalmente gli è accanto.
Labbra sulle labbra, un bacio leggero, dolce.
Gliene dà tanti, sempre.
Lui la lascia fare, le lascia fare tutto quello che vuole.
Medina sorride.
“Te lo prometto.”
 
Aprì gli occhi già sapendo cos’era accaduto. Si trovava in una delle tende allestite dall’equipaggio rimasto a terra. Era da sola, per fortuna. Non avrebbe sopportato sguardi di commiserazione, di pietà. Aveva promesso di essere forte e lo sarebbe stata. Quelle versate sulla plancia del Nautilus, il giorno dell’affondamento nella fossa di Tonga, sarebbero state le sue ultime lacrime.
Entrò Icolina.
«Oh, vi siete svegliata, vicecomandante. Mi fa piacere. Avete avuto un brutto calo di pressione.»
«La battaglia», rispose semplicemente Electra.
Meglio così, meglio dare la colpa alla stanchezza piuttosto che al vuoto. Lui non avrebbe più visto il mare né l’alba. Non avrebbe visto i mille e mille giorni di felicità che lo aspettavano. Non si sarebbe più svegliato con lei accanto. Non le avrebbe mai più sorriso. Non avrebbe mai guardato il volto di suo figlio. Era impensabile che si fosse privato di una tale gioia dopo tutta la sofferenza della sua vita.
Una fitta al petto le tolse il fiato.
Faceva male.
Espirò lentamente. C’erano cose che andavano fatte.
«Icolina, non c’è più bisogno che mi chiami vicecomandante. Non sono più il comandante di nessuno.»
L’infermiera sembrò sorpresa. Era ovvio. Ormai erano così abituati alla vita all’interno di un sottomarino da non riuscire a ragionare come persone comuni. Erano stati sempre come una famiglia, questo sì, ma era comunque un ambiente in cui vigeva una gerarchia che lei si era sempre data da fare per mantenere. Icolina e suo nonno non facevano parte del nucleo originario dell’equipaggio del Nautilus, ma erano stati fra i primi a salire a bordo. Il loro villaggio natale in Medio Oriente era stato distrutto da Gargoyle durante uno dei primi esperimenti riguardanti la Luce di Babele e Icolina, ancora bambina, era rimasta orfana. Suo nonno, l’unico parente che le fosse rimasto, aveva prestato soccorso ai sopravvissuti e li aveva guidati fino a un villaggio nei pressi del disastro. Aveva preso con sé anche Icolina e le aveva insegnato a essere una brava infermiera. Qualche anno dopo, mentre indagava i movimenti di Gargoyle, Nemo li aveva trovati e aveva deciso di reclutarli. Il Nautilus non era ancora stato varato.
Raoul, in particolare, era stato felice di avere una ragazza a bordo. Pensava che avrebbe potuto essere una buona amica per Electra, cresciuta tra uomini. Erano quasi coetanee, dopotutto. Eppure, Electra non era mai riuscita ad aprirsi. Non aveva idea di come fosse avere un’amica e, dopo aver indossato una divisa da soldato, non le era più interessato. Aveva altro a cui dedicarsi. Non che fosse una persona asociale o scontrosa, ma c’era qualcosa in lei che metteva gli altri membri dell’equipaggio in soggezione. Eccettuati, ovviamente, quelli che la conoscevano da più tempo. Quelli che l’avevano vista crescere.
Sospirò. Poteva provare almeno un po’ di indulgenza verso se stessa.
«Icolina,» disse «ci conosciamo da tanti anni eppure credo di non averti mai detto il mio vero nome. Mi chiamo –»
«Signorina Electra!»
Non ebbe il tempo di finire la frase.
Jean sbucò dentro la tenda come una furia, con sul volto un enorme sorriso e la gioia negli occhi.
«Ho sentito parlare, finalmente si è svegliata!»
Electra sorrise a sua volta. L’entusiasmo di quel ragazzo era contagioso e, una volta di più, fu certa che avessero fatto la scelta giusta salvandogli la vita. Proprio lui, fra tutti, non meritava di morire per mano di quel mostro. Era forse il solo, fra loro, davvero innocente. L’unico che non c’entrasse proprio nulla.
«Sì, Jean. Sto bene.»
Entrò anche Nadia, subito dietro di lui. Sembrava intimidita, come se non avesse idea di come rivolgersi a lei. Stava a occhi bassi, si tormentava le mani.
«Electra…», sussurrò infine, «Grazie.»
Electra sorrise. C’era una cosa che Nadia doveva assolutamente sapere.
«Ascolta, Nadia» disse «Dove andrete tu e Jean adesso?»
Furono sorpresi da quella domanda, perché in verità non ci avevano ancora pensato.
«Be’,» rispose Jean «suppongo che torneremo in Francia, a Le Havre.»
Electra esitò per un istante. Era… difficile ammetterlo così, dopo averlo confidato solo a poche persone. Entrarono anche Grandis e Marie, venute a vedere come stava. Lo sguardo che Grandis le lanciò, in particolare, fu eloquente. Sapeva.
«Io credo che tornerò in Marocco», disse, «Vivevamo là quand’ero ancora piccola. Ho bisogno di stare un po’ in pace. E vorrei che mio figlio nascesse in Africa. È il luogo in cui io e suo padre siamo stati più felici.»
Grandis chinò il capo. Non c’era bisogno che venisse aggiunto altro. Electra trovò, chissà dove, la forza per abbozzare un sorriso incerto.
«Vi scriverò quando vi sarete sistemati. Nadia, mi farebbe piacere se fra qualche mese veniste a conoscere il tuo fratellino.»
Non osservò la reazione di Nadia. Le bastava che sapesse, che capisse. Guardò, invece, la fedina d’oro bianco che portava al dito e il sorriso sulle sue labbra s’incrinò.
«Era mio marito», sussurrò.
Nell’udire quelle parole Nadia le si avvicinò. Aveva il passo leggero di una danzatrice, l’animo scosso. Il dolore di aver perso un padre appena ritrovato, la consapevolezza che avrebbe avuto, presto, un fratello. E poi c’era Electra. L’aveva odiata a lungo, per motivi che ormai le sembravano così futili da non ricordarli neppure più. Non le disse niente. Si chinò sulla sua branda e la abbracciò. La abbracciò come avrebbe fatto una sorella. Electra sobbalzò.
«Nadia…»
Non si aspettava quel contatto. Lo capiva, però. Capiva quanto profondamente fossero unite da un dolore comune. Ricambiò l’abbraccio. Nadia era figlia dell’uomo che aveva amato sopra ogni cosa e questo era ciò che, un tempo, aveva innescato la crisi. Adesso era ciò che le faceva provare affetto. Inaspettatamente, pianse. Non capì se di commozione o di dolore. Tra le braccia di quella ragazzina versò lacrime. Fu come svuotarsi di tutto, almeno per un attimo.
Fu una consolazione.
Trascorsero qualche minuto così, a farsi coraggio l’un l’altra, unite come non erano mai state.
«Grazie, Nadia.»
C’erano anche altre cose che andavano fatte. Electra scostò Nadia, poi si alzò in piedi. Aveva ancora dei doveri verso i suoi uomini.
«Ora andiamo. Devo andare a parlare con l’equipaggio. Si preoccuperanno se non mi vedono.»
Icolina si allarmò.
«Aspetta, non alzarti. Riposati ancora un po’.»
Electra scosse la testa.
«Non serve. Sto bene.»
Era chiaro che nessuno le credeva, ma ebbero almeno il cuore di non farlo notare apertamente.
 

Chiamò a raccolta l’equipaggio, ben sapendo che sarebbero stati gli ultimi ordini che avrebbe dato.
Li fece radunare tutti nella piccola insenatura che anche Nemo aveva usato per il suo discorso di commiato. Non aveva idea di che parole avrebbe usato, ma li guardò a lungo. Prima di parlare osservò i loro volti uno per uno, volti di uomini e ragazzi che erano diventati una famiglia e che nel corso degli anni si erano uniti alla loro causa mettendo in gioco le loro vite.
«Devo ringraziarvi», esordì, «Ringraziarvi per il vostro contributo in questi anni di lotta e di battaglie. Molti dei vostri compagni sono morti perché potessimo giungere fin qui. Il capitano è morto perché potessimo ritornare.»
Tacque per un attimo. I marinai si tolsero il cappello, chinarono il capo. Alcuni pregarono.
«Io vi ringrazio per quello che avete fatto fino a oggi. La minaccia di Gargoyle è finalmente sventata, dopo tredici lunghi anni. Da questo momento siete liberi. Fate delle vostre vite ciò che volete, ma vivetele fino in fondo. È l’unico comandamento che lui ci ha lasciato, quello che ritengo più importante. Da parte mia io pregherò con tutto il cuore perché nessuno di noi debba più rivivere un’esperienza come questa. Grazie ancora, sempre.»
Alcuni di loro avevano le lacrime agli occhi.
«Grazie a lei, vicecomandante.»
«Grazie!»
«Grazie mille.»
Salutarono Electra con un coro di grazie e quasi scese ancora una lacrima anche a lei. Era la fine di un lungo incubo ma anche la fine di un sogno, quello che aveva visto scomparire una dopo l’altra le sue ragioni di vita. Tutte a parte una.
Le restava la vita che portava in grembo.
Nemo le aveva donato il suo regalo più grande, l’amore, e quel bambino ne era il frutto.
 

«Dal porto di Shimizu ci imbarcheremo per Yokohama. Da lì salperemo per Calcutta e proseguiremo per Suez, con scalo a Bombay. Una volta nel Mediterraneo proseguiremo per Tangeri, da cui tu e Nadia potrete agevolmente proseguire fino in Francia.»
Raoul stava illustrando a Jean le tappe del loro prossimo viaggio. Avrebbero impiegato mesi ad arrivare dal Giappone fino al Mediterraneo con mezzi normali, ma d’altra parte non c’era bisogno di avere fretta. Le minacce che avevano alle spalle si erano dissolte, il clima era mite e la traversata per mare si prospettava sotto i migliori auspici.
«E voi?» gli chiese Jean «Il resto dell’equipaggio… che farete?»
«Io andrò a Tangeri con Electra. Te l’ha detto anche lei, vivevamo tutti lì prima di imbarcarci sul Nautilus e sarò ben felice di trascorrere in pace i miei ultimi anni sotto al caldo sole dell’Africa. Per quanto riguarda il resto dell’equipaggio, sono liberi ormai. Possono andare dove preferiscono.»
Il vecchio macchinista sorrideva, ma si notava che era parecchio stanco.
Dover ritrovare una routine, dover ricominciare a vivere dopo l’esperienza che si erano trovati ad affrontare, era qualcosa di tutt’altro che semplice.
«Comunque faremo insieme quasi tutto il viaggio di ritorno, sei contento?»
Jean annuì. Certo che era contento. Fosse stato per lui, non li avrebbe mai lasciati.
 

Quel pomeriggio Electra era scesa fino a Shizuoka con Icolina, Marie e King.
Avevano comprato dei vestiti e tutto quello che sarebbe stato necessario per il viaggio. Marie si era divertita tantissimo a girare per negozi e ne aveva rimediato dei nastri per capelli e delle collanine, oltre ai sorrisi dei commessi. Non capiva una parola di quello che dicevano ma era una bambina, e i bambini si fanno comprendere piuttosto bene a tutte le latitudini.
Per Electra era stato strano girare per negozi, non lo faceva quasi mai neppure quando il Nautilus sbarcava per i rifornimenti dalle parti di qualche città. Preferiva restare a bordo a badare alla nave, in mezzo ai suoi libri e agli strumenti della sala di comando. Le sentiva, naturalmente, le voci che correvano fra i marinai a bordo. Dicevano che era un peccato che una ragazza così bella si trascurasse a tal punto. Oh, ma lei non si era mai trascurata, tutt’altro! Solo che non le interessava essere particolarmente appariscente, perché il solo uomo che avesse mai desiderato la considerava una figlia.
Tutto il resto era ridicolo.
L’ipotesi di amare qualcun altro le era sempre sembrata inconcepibile.
Si era divertita quel pomeriggio, anche a badare a Marie che era una bambina vivace ma spiritosa e simpatica. Non l’avrebbe mai detto quando le faceva fare i compiti sul Nautilus, ma perfino la sua compagnia la faceva rilassare.
Era stato solo per un paio d’ore, ma era stato piacevole comportarsi, per una volta, come una donna normale. Pensare che avrebbe dovuto farlo ogni giorno della sua vita era un’altra storia. Non le sembrava ancora possibile.
Electra, in quel momento, era davanti a uno specchio.
Si era tolta l’uniforme e l’aveva sostituita con una sottoveste, a cui era seguita una lunga gonna di un bel punto di azzurro che si intonava coi suoi occhi. Non indossava il corsetto, non l’aveva mai fatto e non ci era abituata, figurarsi ora che era incinta. Sopra si era messa una semplice camicia bianca estiva e un giacchino leggero. Guardò il suo riflesso. Con quell’abbigliamento sembrava più giovane. Non fosse stato per i capelli corti e per l’aria più matura che aveva acquisito nell’ultimo periodo, sarebbe quasi potuta passare per una ragazzina. Non era più abituata nemmeno a quello, a vedersi con abiti civili addosso.
Be’ avrebbe dovuto abituarsi, d’ora in avanti, e cercare di ignorare il cuore che sussurrava.
Avrebbe voluto che lui la vedesse con quei vestiti addosso, che le dicesse che le stavano bene.
Avrebbe voluto che fosse lì, con loro.
A vivere una vita perfettamente normale, magari insignificante ma felice.
Avrebbe voluto.
Ormai lo sapeva, abituarsi al vuoto sarebbe stata la cosa più difficile.
Le si spezzava il cuore.
 
 
 
- continua -




 
N.d.A. Prima di tutto: non vi preoccupate per Electra. Al momento è (un bel po’) in crisi, ma considerate che è passato praticamente meno di un giorno da quando sono tornati. Ha appena iniziato a realizzare ma non ha intenzione di seguire Nemo nella tomba, non farà gesti sconsiderati e avrà presto un bambino di cui occuparsi. D’altra parte, io resto convinta di una cosa: Nemo non avrebbe mai accettato di ricambiare il suo amore se non fosse stato più che certo che lei potesse farcela da sola anche se lui fosse morto.
Insomma, la ragazza ha forza da vendere e lo dimostrerà andando avanti.
Certo avrà anche i suoi momenti di crisi, perché sì, perché dopo una perdita del genere è umano averli, tant’è che spenderò qualche altra parola al riguardo anche nel prossimo capitolo. Non solo dal suo punto di vista ma anche da quello di altri personaggi che comunque a Nemo erano legati.
Congedato l’equipaggio, i nostri si metteranno quindi in viaggio verso il Mediterraneo. L’itinerario che ho esplicitato in questo capitolo ricalca in parte (al contrario) quello percorso dai protagonisti de “Il giro del mondo in ottanta giorni”.
Alcune scene, infine, sono riprese dal penultimo capitolo della mia fanfic “I giorni dell’amore”.
Spero che questo primo capitolo, per quanto abbastanza introduttivo, vi sia piaciuto.
A presto!
 
Vitani

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Capitolo 3
*** In viaggio verso l'Europa ***


IN VIAGGIO VERSO L’EUROPA
 
 



 
Mar Arabico, fine luglio 1890
 
 
«Ancora poco ed entreremo nel Mar Rosso!» disse Jean «Non sei contenta?»
«Mh.»
Nadia era sovrappensiero e condivideva l’entusiasmo di Jean solo in parte.
Era mattina, una calda, splendida mattina estiva di fine luglio, e lei benediceva i suoi vestiti leggeri e ariosi. Il vaporetto filava da giorni attraverso il Mar Arabico e si teneva ormai sotto costa, pronto per attraversare lo stretto di Bab el Mandeb. Electra aveva spiegato loro che il nome, in arabo, significava Porta delle Lacrime e derivava dalla pericolosità di quel tratto di navigazione nei tempi antichi. Le navi moderne, come il vaporetto su cui viaggiavano, non avevano più problemi.
«Nadia?»
«Sì?»
Jean era perplesso. Nadia aveva sempre amato viaggiare, era abituata a farlo fin da piccolissima, eppure non sembrava che si stesse godendo più di tanto la traversata.
«Soffri il mal di mare?»
Nadia quasi lo picchiò. Ovvio che non lo soffriva!
«Come ti viene in mente?» gli chiese.
«Non saprei, sei pensierosa, assente…»
La ragazza sospirò. Era difficile spiegare come si sentiva. Avrebbe dovuto essere felice, era quasi certa di esserlo. Aveva ottenuto ciò che desiderava, in fondo. Aveva scoperto le sue origini, anche se non erano proprio quelle che immaginava. Aveva combattuto contro Gargoyle, che alla fine avevano sconfitto. Aveva risolto il mistero delle pietre azzurre, compreso quale fosse la loro natura. Era riuscita, esaurendone i poteri, a scongiurarne la minaccia. Nessuno avrebbe potuto più pensare di usarle come armi.
Eppure, al tempo stesso, non riusciva a sentirsi soddisfatta ora che stavano davvero arrivando alla fine. Non c’entrava suo padre, almeno non soltanto. Era qualcosa che la riguardava in maniera più intima. Aveva tanto desiderato una vita normale ma, ora che ce l’aveva a portata di mano, non riusciva a immaginarsela.
«Di che state parlando voi due?»
Si voltarono e si trovarono davanti Grandis.
Sorrideva, vestita in giacca e pantaloni come quando era tornata dalla battaglia.
«Nadia è strana», disse Jean «e non vuole dirmi che succede.»
«È che non so cosa pensare di tutto quello che è successo», rispose lei «Credo che ci metterò un bel po’ a capire.»
Grandis fece spallucce.
«E perché dovresti voler capire per forza? Ci sono cose che non sono fatte per essere capite. Pensa solo che ne sei uscita più forte di prima, Nadia. Tuo padre aveva ragione, devi pensare solo a vivere da ora in avanti.»
Suo padre.
Nadia provò una fitta al cuore.
Se pensava a quanto l’aveva maltrattato durante la sua permanenza sul Nautilus! Assassino, gli aveva urlato. Assassino. L’aveva davvero odiato con tutta se stessa e sapeva il cielo quanto se n’era pentita.
L’aveva rifiutato perfino quell’ultima volta, quando aveva tentato di farle una carezza.
Quasi piangeva di nuovo, a ricordarlo.
«Nadia?»
Grandis non era soddisfatta di quell’aria funerea. Nemo le aveva affidato i ragazzi e non avrebbe permesso che trascorressero quei primi, preziosi momenti di pace nella tristezza. Sorrise.
«Avanti, venite con me. Nella cabina ristorante stanno preparando il gelato. Marie è già andata all’assalto e non ne resterà più se non ci sbrighiamo.»
Era una giornata di sole, la brezza marina rendeva sopportabile il caldo.
Sì, era proprio un peccato sprecarla.
 
 
 
“Stai pensando a Nadia?”
Non dimenticherà mai l’espressione di Nemo.
Sono nella biblioteca dell’Exelion, lui le sta spiegando delle cose relative al funzionamento dell’archivio, all’improvviso si distrae e sembra volare lontano con la mente.
A lei sembra ovvio che stia pensando alla figlia, per questo glielo chiede.
Lui alza gli occhi, la osserva con lo sguardo di chi ha visto un fantasma.
Tutto si aspettava, evidentemente, tranne che sentire lei che pronuncia il nome di Nadia.
Medina ride, lo abbraccia.
“Tornerà, non ti preoccupare”, gli dice “Ha la pietra azzurra.”
Cioè ha l’anima di sua madre a proteggerla.
“La guiderà fin qui sana e salva.”
Nemo sta in silenzio, poi ricambia l’abbraccio e adagia la fronte sulle sue spalle.
“Grazie. Non sai quanto.”
Medina gli accarezza la schiena, piano. Ha scoperto da poco di essere incinta e già ama il bambino che verrà più di se stessa.
Per cui lo capisce. Lo capisce bene.
La voce di Nemo, un sussurro.
“Ti amo.”
Medina lo stringe un po’ più forte.
“Anch’io.”
 
 
 
Era da qualche mattina che pensava che avrebbe quasi potuto abituarsi a quella vita.
La verità era che quella traversata non le dispiaceva. Il mare la rilassava e avevano ormai abbandonato l’oceano aperto, la navigazione si era fatta più tranquilla.
Electra, seduta su una panchina del ponte principale, si godeva la brezza. La costa dell’Egitto le scorreva davanti agli occhi. Erano entrati nel Mar Rosso.
Soprattutto, era felice di aver definitivamente superato le nausee. Non ne aveva sofferto in modo particolare nei primi due mesi, ma il terzo l’aveva messa a dura prova e l’aveva passato quasi tutto nella sua cabina, sottocoperta. Non le sembrava vero di poter finalmente respirare liberamente l’aria salmastra e di poter prendere un po’ di sole.
Non soffriva il mal di mare – come avrebbe potuto, dopo essere stata imbarcata per anni su un sottomarino? – ma aveva addotto quella scusa con chiunque le avesse fatto domande circa il suo stato di salute. Continuava a non volere pettegolezzi, perlomeno non da parte degli altri passeggeri, e complici le nausee non aveva preso molto peso. Avrebbe fatto in tempo ad arrivare a Tangeri prima che la pancia iniziasse a vedersi. Icolina, nell’ultimo mese, le era stata accanto come un’ombra. C’era ben poco che potesse fare, però, ed era l’unica consolazione. Anche se ci fosse stato Nemo, col suo corpo se la sarebbe dovuta sbrigare da sola in ogni caso.
Toccò la fede che aveva al dito.
Lui le avrebbe tenuto la mano mentre stava male.
Ebbene, lei la mano se la sarebbe tenuta da sé, col suo benestare.
Nemo le mancava come l’aria, era inutile fingere il contrario, ma proprio per questo doveva sforzarsi e andare avanti da sola, fino in fondo. Voleva vedere il bambino che portava in grembo, voleva stringerlo al petto e coprirlo di baci. L’aveva amato dal primo istante.
Ora che era entrata nel quarto mese e la nausea era passata, poteva godersi quel che restava del viaggio. A Tangeri avrebbe finalmente tolto gli abiti occidentali, che iniziavano ad andarle un po’ stretti, e indossato una più comoda djellaba. Icolina e suo nonno le avevano già detto che sarebbero rimasti con lei fino al termine della gravidanza, in modo da aiutarla con il parto, e lo stesso aveva fatto Raoul. Non le aveva spiegato il motivo della sua decisione, ma probabilmente voleva soltanto un po’ di compagnia.
«Signorina?»
Electra alzò lo sguardo. In piedi, accanto alla panchina su cui sedeva, stava un ragazzo sorridente e ben vestito.
«Sì?»
Il ragazzo si tolse il cappello.
«Bella giornata oggi, vero?»
«Sì.»
«Posso sedermi?»
Electra guardò il cielo per un istante, toccò involontariamente, di nuovo, la fede che aveva all’anulare.
«Mio marito mi aspetta», disse ad alta voce, come sovrappensiero «Quindi no, mi spiace.»
«Ah, capisco. Mi scusi.»
«Di nulla.»
 
 
“Raoul?”
“Sì, capitano?”
Sono sul ponte di comando dell’Exelion, Raoul è chino ad allacciare alcuni cavi.
Lo ascolta, però, è pronto a eseguire qualsiasi ordine Nemo stia per dargli.
“Se dovesse succedermi qualcosa…”
Se.
“… aiutala. Aiutala come hai sempre fatto.”
Raoul si alza, lo osserva.
Nemo guarda i finestroni oscurati dell’Exelion, con occhi lontani.
Occhi che si fanno commossi, all’improvviso.
“Aiuta mio figlio.”
 
 
 
Raoul osservò Electra che respingeva il ragazzo, non senza un moto di apprensione. Si era preoccupato per lei costantemente nel corso degli ultimi tredici anni e, dopo la battaglia, aveva cercato di starle vicino come meglio aveva potuto. Non sempre lei lo permetteva. Raoul capiva bene che era passato poco tempo dalla morte di Nemo, era ovvio che lei non pensasse a rifarsi una vita.
Temeva, però, che tornasse a chiudersi in se stessa.
«Electra?» la chiamò.
Lei finalmente s’accorse della sua presenza, si voltò, gli sorrise.
Un sorriso che scaldò il cuore del vecchio per quanto era sincero, quasi infantile.
«Buongiorno, Raoul.»
«Non avresti dovuto mandar via quel povero ragazzo così. Voleva solo fare due chiacchiere.»
Electra sbuffò.
«Non volevo che mi disturbasse oltre. Che vada da Grandis, se vuole attaccare bottone.»
Raoul rise. L’abitudine e l’astio erano duri a morire.
Si sedette accanto a lei.
«Io posso, almeno?»
Electra annuì.
«Verrò con te a Tangeri», disse Raoul.
«Lo immaginavo.»
Raoul guardò l’orizzonte, la vicina costa sabbiosa dell’Egitto. Erano ormai all’altezza del Tropico del Cancro. Lui ed Electra non avevano mai parlato della situazione, in effetti.
«Non vedo l’ora di guardare il viso di suo figlio.»
Lo disse con voce pacata, tranquilla. Electra non parve sorpresa.
«Te l’ha detto, quindi. Immaginavo anche questo.»
Esitò per un attimo, poi gli strinse la mano.
«Ne sono felice, dico davvero. Avevamo deciso di non dirlo non perché non ci fidassimo, ma per evitare distrazioni e chiacchiere. E per evitare che mi costringeste in qualche modo a rinunciare alla missione.»
«Non l’avremmo mai fatto, lo sai.»
Electra sorrise.
«Elusys ci ha provato fino alla fine.»
Raoul la osservò, sorpreso. Era la prima volta che le sentiva usare il vero nome del capitano, da anni.
«“Non riuscirò mai a convincerti a rimanere a terra, vero?”, mi disse. “No”, risposi io. Questo proprio l’ultimo giorno prima della partenza per lo spazio. Ma litigammo per settimane al riguardo, specie dopo che scoprii di essere incinta. Lui era… protettivo, voleva proteggerci a tutti i costi. Io però sono testarda.»
Quasi pianse, Electra. Tentò di ignorare le lacrime agli occhi, poi prese un fazzoletto e le asciugò.
«Scusami», disse, «Non vorrei piangere, so che ti faccio preoccupare.»
Raoul scosse la testa.
«Avevi più diritto tu di essere là sopra che tutti noi messi insieme. Lui lo sapeva.»
Electra non ribatté e Raoul continuò.
«Sono convinto che sapesse da sempre come sarebbe andata a finire. Lo chiamavano, i suoi demoni.»
Ancora una volta, lei restò in silenzio. Raoul aveva ragione. Sapevano perfettamente entrambi come sarebbe andata a finire. Il giorno in cui Elusys aveva tolto la pietra azzurra dalla Torre di Babele e aveva causato la distruzione di Tartesso, aveva compiuto un gesto apparentemente sensato. Qualcosa che la ragione riusciva a comprendere bene. Aveva probabilmente donato qualche anno in più di pace al mondo. Il gesto, però, s’era tramutato nel corso degli anni in una colpa che l’aveva logorato. Finché, sulla plancia del Nautilus, non aveva ammesso che era stato un errore.
Aveva capito, nel tempo, che ogni vita è preziosa in quanto tale.
Aveva capito che i morti di Tartesso non erano questione di numeri, o di male minore.
Aveva capito e aveva deciso di vivere col senso di colpa fino a che l’esistenza non gli avesse chiesto il conto. Era vissuto a braccetto con la morte, l’aveva corteggiata come un’idea fissa. La sua e quella di Gargoyle. Sapeva che la sua sarebbe stata una lotta che avrebbe richiesto, prima o poi, di mettere in gioco la vita. Era un uomo saldo, però, di grande intelligenza. Non si sarebbe mai ucciso. Anche se il dolore era immenso. Quello era il peso delle sue colpe.
«Non è mai riuscito a perdonarsi», disse Electra, «Ma d’altra parte al posto suo non ce l’avrei fatta nemmeno io. E forse non l’avrei mai amato così tanto se, dopo aver fatto quello che aveva fatto, avesse continuato a vivere come se niente fosse.»
C’era stato un momento in cui l’aveva odiato, era vero. Ma era stato un momento, perché lo conosceva e sapeva quanto avesse sofferto. Quanto ancora soffrisse. Aveva ascoltato il suono dell’organo con le orecchie di chi ascolta un pianto.
Raoul rifletté.
«Se non è impazzito dal dolore nel corso degli ultimi tredici anni, è stato anche perché ha avuto te accanto. Ti ha sempre voluto bene, più di quanto lui stesso osasse ammettere. E nell’ultimo periodo era cambiato. Era sereno.»
«Lo so. Siamo stati felici, Raoul. Immensamente felici. E lui non è morto per espiare le sue colpe. Aveva capito da tempo che i suoi morti, invece, l’avevano perdonato.»
Era morto per donarla, la vita.
L’aveva tolta, a Tartesso, a migliaia di innocenti.
L’aveva restituita a Jean, l’unico che nella lotta contro Gargoyle era un vero innocente.
E a Nadia, a lei, a suo figlio, all’equipaggio. Alla Terra intera.
Aveva espiato più che abbastanza.
«Non avevamo fatto progetti per il futuro», aggiunse «proprio perché eravamo consapevoli di quanto precaria fosse la nostra situazione. Io stessa ero pronta a morire, se fosse stato necessario. E mi dispiace dirlo, ma se non fossi stata incinta o se non lo avessi saputo forse avrei scelto di disobbedirgli ancora, di restare con lui sul Red Noah. Ma poi penso che sarebbe morto odiandomi e mi si spezza il cuore.»
Si portò le mani al ventre.
«A essere sincera non so cosa farò d’ora in avanti. Non so neanche come faccio ad addormentarmi la sera sapendo che mi sveglierò e lui non ci sarà. Però gli ho promesso che l’avrei fatto.»
Cercava di pensare il meno possibile, a essere sincera.
Cercava di non ricordare, di non immaginare, di non pensare a un bambino che sarebbe cresciuto senza padre. Erano tutte stupidaggini ma, almeno per un istante, aiutavano a dimenticare il vuoto. Per un istante, appunto. Ma il presente era fatto di istanti inanellati uno dopo l’altro.
Raoul le cinse le spalle con un braccio.
«Se ti ha affidato il futuro, Medina», disse «è perché sapeva che ce l’avresti fatta.»
 
 
Apre gli occhi.
Non ha ben presente dove si trova.
Lui è sdraiato accanto a lei, la osserva.
Ha un’espressione appena un po’ sorpresa e l’aria di chi si è svegliato da un po’.
Il pensiero che possa essere stato sveglio a guardarla dormire la attraversa.
Non ci crede.
Eppure sembra così.
Lui allunga una mano, le accarezza piano i capelli.
Lei arrossisce, ancora incredula, nuda sotto lenzuola non sue.
Ricorda ogni cosa.
Allora si fa coraggio, gli si avvicina, gli posa un bacio sulle labbra.
“Buongiorno”, dice.
Ogni mattina per i successivi, ultimi quattro mesi.
Lui le sorride.
Un sorriso di occhi e labbra che lei non gli ha mai visto addosso da quando lo conosce.
Il sorriso di una persona felice.
 
 
Medina pianse, quella mattina.
Pianse dopo aver visto quel sorriso, consapevole del fatto che era stata lei a restituirglielo.
Sarebbero stati sempre i suoi tesori più preziosi, quella consapevolezza e quel sorriso.
 
 
 
Tangeri, Sultanato del Marocco, agosto 1890
 
 
Giunsero a Tangeri nel pieno del mese di agosto, con la temperatura che toccava e superava i trenta gradi. Dell’equipaggio del Nuovo Nautilus, a raggiungere il Mediterraneo erano stati Electra, Raoul, Icolina e suo nonno, Echo, Jean, Marie, King e Nadia, Grandis, Hanson e Sanson. Echo, in particolare, non aveva grandi idee riguardo al suo futuro. Avrebbe ripreso il mare, probabilmente, ma non prima di aver sposato Icolina. In verità era arrivato fino in Marocco per seguire lei. Poi forse sarebbe tornato in Francia coi ragazzi, per rivedere la sua famiglia.
«Casa nostra è nella Medina, non distante dal Grand Socco», disse Electra «È chiusa ormai da parecchio tempo, ma dovrebbe essere rimasto tutto com’era. Certo ci sarà da rimetterla un po’ in sesto.»
Il quartiere non era distante dal porto, per cui si inoltrarono a piedi per le stradine della città bianca. La Medina era un labirinto di vicoli, di casette bianche e negozi di spezie, tappeti e artigianato. Saliva dolcemente verso l’alto, costruita com’era su una collina, e la kasbah dominava il porto.
«Più tardi, quando farà un po’ più fresco, potremmo fare un giro», propose Raoul.       
«Perché no», rispose Sanson.
Non erano mai stati in Marocco e visitare una nuova città era sempre un’esperienza. Marie, in particolare, saltellava da una parte all’altra della via inseguendo King, che scappava attirato dai profumi. L’aria calda aveva un odore particolare, come di frutta e spezie.
Il palazzo che cercavano dava proprio sulla piazza del mercato del Grand Socco, e non aveva niente a che spartire con le piccole case più povere che si arrampicavano una sopra l’altra nella Medina. Era un palazzo a più piani, in stile coloniale francese.
«Quando Nemo lo comprò», spiegò Raoul «era ancora da restaurare. Dentro c’è anche un bel cortile, vedrete che vi troverete bene. Ah, potete fermarvi quanto volete, naturalmente. Non credo che Electra abbia nulla in contrario.»
Electra scosse la testa, sorridendo.
«Nessun problema.»
Era meglio così, avere persone intorno.
Sentire di meno la solitudine.
 
 
Il palazzo era in stile coloniale francese ma gli interni erano in stile marocchino e ricordavano un riad.
Si entrava su un cortile con una vasca a forma di stella nel mezzo, c’era poi un colonnato su cui affacciavano diverse stanze, tra cui un salotto che era stato ricolmo di cuscini e tappeti.
Le scale salivano, i gradini ornati da maioliche colorate.
I tappeti erano stati tolti, i mobili coperti da teli bianchi.
Filtrava il sole, in alto oltre il cortile.
Era stato più o meno così anche la prima volta che ci era entrata.
 
 
La bambina compie il suo primo passo oltre il cortile.
Resta incantata nel vedere le maioliche che ricoprono il muro.
È tutto polveroso, in parte da ricostruire.
Ma è una reggia.
Lei non ha mai visto un tale lusso.
La prima cosa che fa una volta sistemate le sue poche cose è un bagno.
Si toglie di dosso una crosta di polvere, si pettina i bei capelli biondi.
È già tutta un’altra cosa guardare il mondo da puliti.
Ha i lividi addosso, ancora.
Dell’esplosione di Tartesso.
Ci metteranno un po’ a sparire.
Tuttavia è tranquilla.
Sente le voci degli adulti oltre la porta, hanno iniziato a sistemare la casa.
È serena.
 
 
Era strano essere di nuovo in quella casa, dopo essere stati lontani per anni.
Era come ritrovare una vecchia amica.
Tutto era rimasto come l’avevano lasciato, sarebbe bastata una bella pulita e il palazzo sarebbe tornato la reggia di sempre. Solo, non ci sarebbe stato il padrone di casa.
Electra entrò nello studio che era stato di Elusys. Era certa che ci fossero ancora molte cose sue, tutto quello che non aveva portato sul Nautilus. Sotto ai teli bianchi c’erano la sua scrivania, la sua poltrona. C’era una pipa appoggiata sul portapipe, sembrava in attesa di essere accesa.
Electra tolse uno dei teli dalla poltrona e si sedette.
Odorava di cuoio.
Chiuse gli occhi, trattenne una lacrima.
Era strano pensare che tutto quello le appartenesse.
 
I ragazzi rimasero a Tangeri per due settimane. Si erano offerti di dare una mano a sistemare la casa, nonostante sia Electra che Raoul avessero fatto presente che non ce n’era bisogno, ma la forza di Sanson si era rivelata molto utile.
Echo aveva approfittato della pausa per parlare a Icolina della sua intenzione di andare in Francia.
«Ti andrebbe di venire con me?» le aveva chiesto.
Non era proprio una proposta, no, però… era un impegno.
L’infermiera gli aveva sorriso, dolce come sempre.
«Non posso», aveva risposto, ed Echo si era sentito morire.
Icolina, però, gli aveva preso una mano.
«Non è che non voglia venire con te, è solo che devo stare con Electra, per adesso.»
Era arrossita leggermente mentre parlava, e già questa era una risposta sufficiente.
 
Il vaporetto che avrebbe riportato Nadia, Jean, Marie, King, Echo, Grandis, Hanson e Sanson verso la Francia partiva nel pomeriggio. Andarono verso il porto, in attesa di imbarcarsi.
«Marie andrà a stare da una zia», diceva Sanson «ma cercheremo di stare tutti in contatto.»
Icolina si accomiatò da Echo regalandogli un suo fazzoletto ricamato. Echo, che non aveva nulla da offrire, le baciò galantemente la mano e promise di tornare a trovarla presto.
Jean diede a Electra un biglietto su cui aveva appuntato l’indirizzo di casa dei suoi zii.
«Scriva, mi raccomando. Vogliamo sapere come sta. Anche Nadia sarà contenta.»
Electra annuì.
«Senz’altro.»
Guardò Nadia. Sembrava un po’ pensierosa, ed era incredibile quanto la sua espressione somigliasse a quella del padre.
«Nadia?» la chiamò.
Lei alzò gli occhi, i begli occhi verdi come quelli della madre.
«Sì?»
«Allora ci sentiamo», le disse.
Non avevano più parlato di Nemo né del bambino che sarebbe nato. Non avevano quasi più parlato di nulla dal giorno in cui s’erano abbracciate piangendo in una tenda della baia di Suruga. Non aveva idea di cosa pensasse Nadia, se fosse felice di avere un fratello, di avere lei come matrigna. Non sempre era corso buon sangue tra loro, ma Electra non l’aveva mai davvero odiata. L’aveva temuta, sì, aveva avuto paura di quello che rappresentava per Nemo, ma non c’era mai stato odio nelle sue parole o nelle sue azioni. Nadia era una vittima tanto quanto loro e aveva sofferto altrettanto, in modo diverso.
Sperava davvero che, col tempo, sarebbero riuscite a costruire davvero un rapporto.
Anche per il piccolo, che aveva diritto ad avere una sorella.
Electra sperava che Nadia avrebbe sentito un po’ meno la solitudine. Riusciva a capirla, in parte, comprendeva lo smarrimento di essere rimasta l’unica atlantidea sulla Terra. Era qualcosa di insensato razionalmente, ma Electra era conscia del fatto che la consapevolezza delle sue origini non l’avrebbe mai abbandonata.
Non aveva mai abbandonato neanche Nemo, che aveva deciso di vivere in pace con gli umani ma non si era mai davvero mescolato a loro. Tartesso era stata una città isolata, considerata quasi una leggenda dalle popolazioni che ne erano a conoscenza. Il popolo di Atlantide, fin da tempi remoti, era stato venerato.
Infine, prima ancora, Nadia era una ragazzina ed era cresciuta da sola tra mille difficoltà.
Quando finalmente aveva trovato suo padre, l’aveva perso.
Dovevano esserci momenti in cui la solitudine le sembrava intollerabile.
Electra sperava che almeno l’amore non l’avrebbe mai lasciata.
Nadia le sorrise.
«Certamente», rispose.
Restava una sola cosa da fare.
Electra si voltò a guardare Grandis, Hanson e Sanson.
«Grazie», disse loro, di tutto cuore.
Avevano fatto tantissimo e si meritavano tutta la sua gratitudine.
Hanson la guardava con le lacrime agli occhi, Grandis con uno sguardo che non riusciva a decifrare. Stava per voltarsi e andarsene quando fu proprio la voce di Grandis a fermarla.
«Ehi.»
Rozza come al solito.
«Vedi di non sentirti troppo superiore solo perché mi hai battuta.»
Electra socchiuse gli occhi. In quei mesi di viaggio e nelle ultime due settimane si erano cordialmente evitate, una da una parte una dall’altra, e si erano parlate il meno possibile. Electra capiva perfettamente a cosa Grandis si riferisse, per cui non rispose. C’era qualcos’altro a trattenerla. Vedeva che Grandis soffriva e non riusciva a detestarla quanto avrebbe voluto. Non avrebbero potuto essere più diverse eppure avevano al contempo molto in comune. Erano entrambe delle comandanti, sia pure in modo diverso, ed Electra sapeva che Grandis aveva amato sul serio Nemo, nella sua maniera sincera e schietta. Un tempo era quasi impazzita di gelosia, ora avrebbe quasi voluto ringraziarla per questo.
«Dimmi solo una cosa», le chiese Grandis.
Non sfuggì a Electra il lampo di dolore negli occhi azzurri di Grandis.
«È stato felice?»
Si osservarono per un lungo attimo. C’erano cose che non sarebbero mai cambiate. Probabilmente avrebbero continuato a farsi la guerra per tutta la vita, proprio perché erano due comandanti. Però si rispettarono. Si rispettarono e, non ebbero dubbi, sarebbe stato vero anche quello per sempre.
«Sì», rispose «È stato felice.»
Non ci fu altro da aggiungere.
 
 
 
- continua -


 
 
N.d.A. Mi scuso per il lieve ritardo nell’aggiornamento ma ho avuto un fine settimana un po’ movimentato. Spero che vi sia piaciuto il capitolo, siamo sempre nella parte più strettamente introduttiva. L’unica cosa che ho da dire è che per ragioni di storia spesso e volentieri ci saranno dei balzi temporali anche di mesi o anni fra capitolo e capitolo, comunque saranno adeguatamente indicati e introdotti. In questo caso abbiamo Electra che è al quinto mese di gravidanza, il bambino difatti se tutto va bene dovrebbe arrivare nel prossimo capitolo (nascerà a dicembre).
Nel prossimo capitolo si dovrebbe anche parlare un po’ più di Nadia.
A presto!
 
Vitani

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Capitolo 4
*** La vita normale ***


LA VITA NORMALE
 
 


 
Ci pensò mentre il vaporetto attraccava a Marsiglia.
Ci pensò mentre sbarcavano e mentre salivano su un treno diretto a Parigi. Non aveva mai preso un treno in vita sua, ma aveva viaggiato su mezzi ben più avveniristici.
Nadia sedette con Jean sul sedile dello scompartimento e King si accucciò al suo fianco.
Marie corse verso il finestrino e si sedette, entusiasta all’idea di quel viaggio. Non aveva mai visto una grande città ed era ansiosa di arrivare a Parigi. Non aveva ancora capito che avrebbe significato separarsi da Jean, Nadia e King. O forse non voleva pensarci.
Nadia, invece, pensava fin troppo.
Avrebbe dovuto sentirsi spensierata, felice. Finalmente l’incubo era terminato. Avevano sconfitto Gargoyle, nessuno le dava più la caccia. Non aveva la pietra azzurra al collo, si sentiva nuda senza il gioiello ma capiva che era probabilmente solo questione di abitudine. Quella pietra le aveva condizionato la vita in modo indelebile.
Aveva scoperto le sue origini di principessa di Atlantide. Ancora non riusciva a crederci. Era un mondo che sentiva così diverso da quello in cui era cresciuta! Non avrebbe dovuto pensarci.
C’era, da qualche parte nella nebulosa M78, un pianeta in cui i suoi antenati avevano visto la luce. Senza di loro non sarebbe nata l’umanità come la conosceva. Lei stessa non aveva la piena consapevolezza di tutto. Era qualcosa di immenso se si iniziava a riflettere, talmente grande da sembrare incredibile.
L’avevano chiamata principessa ma no, non lo era. Non aveva neanche mai visto Tartesso se non quand’era in fasce. Non ne aveva alcun ricordo. Ci avrebbe messo un bel po’ a metabolizzare tutto quello che era accaduto.
Oh, era davvero meglio che non ci pensasse.
Jean, che le era sempre stato vicino, le aveva dato la risposta.
Era nata sulla Terra, quindi era una terrestre come lui e come tutti gli altri abitanti del pianeta. Poco importava quali fossero i suoi geni. Non aveva più la pietra e con essa era sparito anche il legame con la civiltà di Atlantide. Avrebbe dovuto pensare solo a vivere al meglio, a essere felice, accanto a Jean.
Accanto al ragazzo che sentiva ormai di amare.
Di motivi per essere felice, d’altra parte, ne aveva già: era con Jean e i suoi amici erano tutti salvi, la Terra era salva e la minaccia scongiurata. Si sarebbe aperto un lungo periodo di pace. Non le sembrava vero di poter vedere ancora il Sole, non dopo che aveva creduto di non farcela, imbarcata sul Red Noah e diretta verosimilmente verso un pianeta ormai morto distante milioni di anni luce dal sistema solare. Infine c’era la notizia di un fratellino in arrivo. Ecco, quello era qualcosa che non si sarebbe mai aspettata.
Non aveva mai avuto una famiglia, lei.
Aveva avuto solo tanta solitudine e un po’ di sollievo quando King era entrato nella sua vita.
Scoprire che Electra aspettava un bambino, suo fratello, l’aveva lasciata sorpresa.
Non sapeva bene cosa pensare, né che tipo di sorella avrebbe potuto essere.
Era strana, l’idea di avere un parente.
Se ne era felice?
Sì, certamente. O almeno lo credeva.
Non era certa di sapere cosa significasse davvero essere felice per qualcosa.
O forse sì.
Quando Jean aveva riaperto gli occhi.
In quel momento era stata davvero immensamente felice.
 
 
«Stiamo arrivando a Parigi! Sei contenta, Marie?»
Marie non aveva praticamente mai visto l’Europa, avendola lasciata subito dopo la nascita. Marie era figlia di commercianti originari proprio di Marsiglia, che si erano stabiliti a vivere nell’isola di Mahal, arcipelago di Capo Verde, poi tristemente occupata e distrutta da Gargoyle. Marie aveva visto i suoi genitori morire in quell’inferno. Anche se non lo ricordava così bene.
«Sì!» rispose «Contentissima!»
Era meglio così, che avesse dimenticato.
Anche Jean era felice di essere in Francia. Era stato un viaggio lungo, meraviglioso. Aveva visto cose che gli altri esseri umani avrebbero conosciuto forse dopo secoli. Era stato nello spazio! Avrebbe avuto una marea di cose da raccontare a suo zio. Forse non gli avrebbe creduto, ma cosa importava? Voleva che sapesse che era partito ed era ritornato, stava bene. Doveva essersi preoccupato tanto. Era una persona buona, suo zio. Jean non aveva dubbi che avrebbe accolto Nadia con gioia. Moriva dalla voglia di raccontargli tutto. Gli avrebbe spiegato com’era fatto il Nautilus, quali meraviglie tecnologiche nascondesse. O forse no. Il capitano Nemo s’era tanto raccomandato di tenere nascosta quella tecnologia proibita, lo stesso aveva fatto la signorina Electra. Jean non aveva forse imparato a proprie spese che la tecnologia cambia volto a seconda di chi la usa?
Ancora non aveva ben capito neanche come avesse fatto a uscire vivo dal Red Noah. Aveva provato a chiederlo a Nadia, ma lei s’era chiusa nel mutismo. Era caduto ed era sopravvissuto, questo gli aveva detto. Aveva preso una bella botta in testa ed era svenuto, ma era finita lì. Jean non sapeva se crederle. C’era stato un momento in cui era stato come se l’avessero spento all’improvviso. Non aveva sentito più nulla. Nadia però gli aveva sorriso e aveva detto che la sola cosa che contava era che fosse vivo. Il come, o il perché, non avevano importanza.
Echo l’avevano salutato a Marsiglia, era originario della Francia del Sud e probabilmente si sarebbe imbarcato su qualche altra nave dopo aver salutato la sua famiglia.
Grandis, Hanson e Sanson avevano ugualmente preferito rimanere al sud. Non avevano più il Gratan ed erano a corto di denaro, quindi non sarebbe stato male tornare ad accettare qualche incarico dei loro, taglie e gioielli soprattutto. In una città portuale girava gente di tutte le specie. Avevano promesso, però, di mettersi in contatto con loro e tornare a trovarli quanto prima. Sanson aveva pianto quando aveva dovuto salutare Marie, che l’aveva abbracciato e gli aveva promesso che lo avrebbe aspettato facendo la brava.
Ora che erano a Parigi si avvicinava il momento più difficile: separarsi da Marie.
Grazie alle conoscenze di Ayrton erano riusciti a trovare e contattare una sua zia, sorella della madre, che viveva a Parigi e aveva accettato di buon grado di accudire la bambina. Non le avevano parlato nei dettagli della morte dei genitori di Marie, le avevano soltanto detto che si era trattato di un’aggressione da parte di malviventi e che erano riusciti a salvare solo la bambina.
Il treno, sbuffando fumo e cenere, entrò alla gare de Lyon. Scesero, senza portare bagagli perché non ne avevano. Solo Marie aveva una piccola valigia che conteneva i vestiti e le piccole cose che Icolina ed Electra le avevano comprato in Giappone. Avevano preferito fare così per facilitare le cose alla nuova famiglia della bambina. Sapevano, infatti, che si trattava di una famiglia della piccola borghesia. Persone benestanti ma a cui capitava di dover fare qualche piccola economia. Avere già qualche vestito suo avrebbe aiutato Marie a farsi accettare.
Marie guardò estasiata il fiume di gente che usciva dalla stazione. Non ne aveva mai vista tanta tutta insieme. Corse verso l’ingresso, incurante dei richiami di Nadia che la esortava ad aspettare.
Parigi era immensa.
Una processione di carrozze, qualche rara automobile, persone di tutte le specie.
«Non riesco a credere che è già passato un anno dall’ultima volta che sono venuto qui!» disse Jean.
Era vero, era trascorso un anno dall’Esposizione Universale del 1889.
Era anche un anno che conosceva Nadia, anche se gli sembrava una vita intera.
Ne avevano vissute talmente tante!
«Facciamo un giro?» chiese.
«Perché no?» rispose Nadia «Non mi dispiacerebbe rivedere la Torre Eiffel.»
O quel che ne rimaneva.
Le conseguenze della battaglia contro il Red Noah, infatti, erano ancora ben visibili.
La Torre era completamente piegata su se stessa e Nadia constatò che c’erano operai al lavoro per rimuovere la parte danneggiata. Era passato ancora così poco tempo…
I giardini del Campo di Marte erano pieni di curiosi che commentavano tra loro lo svolgimento dei lavori. C’era chi non riusciva a credere a quel che era accaduto, ma la maggior parte non aveva davvero capito. Avevano intuito di essere di fronte a qualcosa di straordinario, d’altra parte sarebbe stato strano il contrario, ma avevano pensato alla propria sopravvivenza prima di tutto. L’idea di un’invasione aliena li aveva sfiorati ma, visto che non era più accaduto nulla di rilevante, la maggioranza della gente era tornata alla sua vita di sempre. Restava quella Torre Eiffel smembrata, ma anche lei sarebbe stata ricostruita. Restavano un gruppo di case distrutte, fortunatamente vuote nell’attimo in cui il Red Noah le aveva bombardate, e anche quelle le avrebbero ricostruite.
Tutto sarebbe stato come prima, come se il Red Noah e il Nuovo Nautilus non avessero mai combattuto sopra i tetti di Parigi. La Torre, però, non sarebbe mai stata davvero la stessa nel cuore di Nadia. Non era quella da cui si era buttata giù per sfuggire a Grandis e non era quella su cui aveva tenuto il muso a Jean, considerandolo solo un gran rompiscatole.
Marie guardava la Torre con occhi larghi. Non l’aveva mai vista da vicino, neanche sui libri.
Non arrivavano molti libri nell’isoletta in cui era cresciuta.
«Facciamo merenda?»
Nadia glielo propose per farla contenta, sapeva che adorava i dolci.
Lei, invece, non aveva granché appetito.
Aveva molti motivi per essere felice, però ne aveva anche uno, enorme, per cui sentirsi triste.
Salutare Marie significava che il viaggio era giunto alla fine.
 
 
Bussarono alla porta diverse volte.
Avevano accennato a Marie che sarebbe andata a stare da una sua zia che viveva a Parigi, già durante il viaggio in nave verso l’Europa. Lei s’era opposta con tutta l’indignazione e la testardaggine di una bambina di cinque anni. Era per il suo bene, quante volte gliel’avevano ripetuto! Ma lei non capiva.
Era davvero così, tra l’altro.
Nadia aveva perfino pensato di portarla con loro dagli zii di Jean. Aveva capito subito, però, che si trattava di un’idea inattuabile. Ne aveva parlato con Grandis, che aveva convenuto che, essendo stati trovati i parenti della piccola, era più giusto che stesse con loro. Tanto più che, contattati per lettera, sembravano brave persone e non avevano posto obiezioni. Avevano un bambino poco più grande di Marie e non avevano avuto altri figli propri, sarebbe stato un piacere per loro dargli una sorellina. Tra l’altro erano davvero parenti.
Inoltre, Nadia sapeva di non potersi approfittare della bontà d’animo di Jean. Se tenere Marie con loro fosse stata un’opzione da tenere in considerazione, Jean sarebbe stato il primo a proporla. Non l’aveva fatto. Nadia capiva che era già tanto se i suoi zii avessero acconsentito ad accollarsi lei e King, un’altra bambina era fuori discussione.
Aprì la porta una donna piuttosto giovane che aveva gli stessi capelli rossi di Marie.
«Buonasera», disse. Sorrideva.
«Buonasera a lei», salutò Jean.
Nadia non disse nulla. Non poteva impedirsi di stringere la mano di Marie più forte del dovuto.
«Il mio nome è Julie Moreau, sono la sorella della madre di Marie. Entrate, prego.»
La donna lasciò che si accomodassero, poi guardò Marie e si chinò verso di lei con un sorriso.
«Tu devi essere la piccola Marie. Come sei cresciuta! Ti ho vista una sola volta, poco prima che i tuoi genitori si imbarcassero per Capo Verde. Piacere di conoscerti.»
Marie non sapeva che pensare. Osservava la sconosciuta con un pizzico di timidezza, ma era incline a fidarsi. Non sapeva perché, ma le ricordava davvero sua madre. Forse erano i capelli rossi.
«Piacere», rispose.
Julie offrì loro del tè e qualcosa da mangiare, e propose loro di fermarsi a dormire per la notte.
«No, grazie», rispose Jean «troveremo una locanda.»
Sarebbero partiti per Le Havre l’indomani.
Fu straziante, quando giunse il momento di salutarsi. Nadia, che non aveva quasi parlato durante quel poco tempo che avevano trascorso in casa di Julie, abbracciò Marie e pianse.
«Le Havre non è lontana da Parigi», disse «Torneremo a trovarti anche tutte le settimane.»
Lo ripeté più volte, come a convincersene.                                                                                              
«Fai la brava. Non fare arrabbiare gli zii.»
Marie annuì, con le lacrime agli occhi.
«Sarò buona», rispose.
Jean, intanto, parlava con Julie.
«Grazie per aver accettato di prenderla con voi.»
La donna gli sorrise.
«Era il minimo. È pur sempre mia nipote, e per una bambina così piccola non dev’essere stato facile. Grazie a voi per esservene presi cura finora. Vi prometto che la tratterò come una figlia. Naturalmente sarete i benvenuti ogni volta che vorrete venire a trovarla.»
Jean era soddisfatto, sentiva di aver lasciato Marie in buone mani. Julie sembrava davvero una brava persona e lui, a giudicare le persone, non sbagliava mai.
 
 
Electra era sul tetto del palazzo di Tangeri, sdraiata a leggere un libro all’ombra dei teli di un gazebo.
Il sole stava calando, faceva meno caldo, ed era il momento ideale per godersi un po’ di brezza.
Sotto di lei, le voci del mercato del Grand Socco riempivano l’aria.
C’era profumo di datteri, frutta fresca e spezie.
Improvvisamente sussultò.
Icolina, accanto a lei, le stava preparando da bere. Si voltò verso di lei.
«Che c’è?» le chiese.
Electra si portò una mano al ventre, stupefatta e un po’ commossa, poi sorrise.
«Scalcia…» disse.
Era un sorriso che Icolina non le vedeva sul volto da tempo.
Il sorriso di una persona davvero felice.
 
 
Fu strano, per Jean e Nadia, ripercorrere la lunga strada sterrata che portava fino a casa degli zii di Jean, poco fuori Le Havre. Era stato il loro incontro a cambiare tutto, a mettere in moto la serie di eventi che li avrebbero portati fino allo spazio.
Se non avesse incontrato Jean, Nadia avrebbe forse continuato a esibirsi col circo, una vita non agiata ma piuttosto tranquilla, ignara delle proprie origini. Avrebbe continuato a desiderare una terra che non conosceva, l’Africa, credendola sua patria. Era vero, in un certo senso, perché era nata su quel continente anche se veniva dalle stelle. Oppure sarebbe finita in mano a Grandis e gli altri, che non sarebbero mai diventati suoi amici e le avrebbero rubato la pietra azzurra. Ma no, quella non era un’ipotesi da considerare. Toglierle la pietra azzurra era sempre stato impossibile.
«È strano essere qui», disse a Jean «Non pensavo che ci sarei mai tornata.»
«Sai», rispose Jean «a essere sincero nemmeno io.»
Lui aveva rischiato di non tornare per davvero.
«Credi che i tuoi zii mi lasceranno rimanere?»
Nadia era dubbiosa. Quello era un cruccio che aveva sempre avuto e, senza Jean, non avrebbe davvero saputo dove andare. Temeva la reazione della zia, più che altro, perché già in passato non era stata molto cortese nei suoi confronti.
La casa apparve davanti ai loro occhi esattamente come l’avevano lasciata, con resti di velivoli sparsi per tutto il giardino. Jean, a dire il vero, iniziava a sudare per il nervosismo. Non sapeva con che faccia si sarebbe presentato davanti ai suoi parenti dopo un anno intero di assenza.
Non ebbe bisogno di pensare a grandi discorsi.
Lo vide suo zio, che era in giardino.
Lo vide, gli corse incontro e lo abbracciò forte, come mai aveva fatto nella sua vita.
«Jean!»
Jean, dopo un attimo di sorpresa, ricambiò l’abbraccio.
«Ciao, zio. Siamo tornati.»
Era una frase stupida, banale, ma altre più appropriate non gliene vennero.
Era vero, erano tornati. Lui e Nadia.
Lo zio si accorse in quel momento della presenza di Nadia.
«Oh, ma tu sei la ragazza di quella volta, quella che mio nipote conobbe a Parigi!»
Nadia annuì.
«Piacere di rivederla.»
Lo zio quasi saltava di gioia.
«Avanti, venite in casa. Avrete un sacco di cose da raccontare.»
Non chiese loro dov’erano stati, non ancora. L’importante era che fossero tornati.
Non fu lo stesso per la zia. Li vide, sgranò gli occhi. Si sarebbe aspettata di tutto nella vita tranne che di vederseli ricomparire in casa dopo un anno, suo nipote e quella piccola zingara. Non che non fosse felice di rivedere Jean, non era così priva di sentimenti. Solo, non approvava il suo comportamento. Era cresciuto troppo ribelle, senza genitori, e aveva gli stessi grilli per la testa di suo padre e suo zio. Uno era diventato capitano di marina ed era morto in mare, l’altro era un anziano che inventava cose assurde e si rendeva ridicolo. E ora il ragazzino di quattordici anni tornava, dopo un anno, in compagnia di una ragazzina di colore dallo sguardo truce e di poche parole. Come faceva lei, signora rispettabile, a sapere che non fosse una ladra? Bisognava stare attenti a chi ci si metteva in casa.
Jean, nel raccontare dov’erano stati, fu fin troppo vago. Disse solo che si erano imbarcati perché desiderava aiutare la sua amica Nadia a tornare a casa. Non rivelò che erano stati imbarcati, sì, ma in un sottomarino.
«Siamo arrivati fino in Africa, Nadia è nata lì.»
«Se sei partito per aiutarla a tornare a casa, perché non ci è rimasta?»
A Jean non sfuggì l’astio nel tono della zia. La sua voce si fece grave, non volendo.
«Non ce l’ha più una casa.»
Nadia abbassò il capo e si morse le labbra. Jean continuò, osservando la zia con sguardo fermo.
«Quindi lei rimarrà qui con noi.»
La donna non ebbe il coraggio di obiettare.
«Se non vuoi che stiamo in casa, zia, ci sistemeremo nel magazzino.»
Il magazzino, che più che un magazzino era un laboratorio, era il luogo in cui Jean e suo zio lavoravano. Spesso ci passavano le notti ed era perfettamente attrezzato, Nadia ci aveva già dormito.
La zia lanciò loro un’occhiata poco convinta.
«Assolutamente no», rispose «Non sta bene che due ragazzi della vostra età dormano nella stessa stanza. Avrete due camere separate. Almeno la casa è grande.»
Avevano vinto.
 

Nadia si sistemò nella stanza degli ospiti. Non aveva nulla con sé né cose da sistemare. La camera era piccola ma pulita e in ordine, e aveva una bella finestra che dava sui campi.
“Sarà per poco”, le aveva detto Jean “poi ci sistemeremo nel magazzino, a costo di costruirci due stanze in più”.
Ne avevano passate tante insieme, dormire nella stessa stanza sarebbe stato l’ultimo dei problemi.
Eppure anche sul Nautilus avevano fatto gli stessi problemi. Ricordava che Electra aveva preteso che le ragazze dormissero insieme in una cabina separata, adducendo lo stesso identico motivo: non stava bene che un ragazzo e una ragazza dormissero nella stessa stanza.
Nadia sospirò. Non voleva pensare al Nautilus, non ancora. Pensare al Nautilus significava pensare a suo padre. Chissà dov’era finito l’ologramma che avevano portato via dalla cabina del capitano, non riusciva a ricordarlo e non le sembrava che Jean l’avesse portato con sé. Era un peccato. Le sarebbe piaciuto avere almeno una fotografia della sua famiglia. Almeno avrebbe potuto vedere il viso sorridente di sua madre come l’aveva visto poco prima di resuscitare Jean. Avrebbe potuto vedere suo padre.
Si dava della stupida per non avere capito chi lui davvero fosse, per non essersi fidata.
Gliel’aveva detto Jean, che il capitano Nemo era una gran brava persona.
E lei non si era fidata.
Lei l’aveva detestato, insultato. Fino all’ultimo. Fino a che lui non li aveva chiusi nella sua cabina mentre il Nautilus affondava. Sarebbero dovuti esistere i cosiddetti “presentimenti”. Invece lei non aveva mai capito niente. Tranne in quel momento. Quando lui aveva tentato di accarezzarle il viso e lei s’era ritratta, perché non si sarebbe mai fatta mettere le mani addosso da un assassino.
Dopo ci aveva ripensato.
Aveva capito che qualcosa non andava, d’istinto.
E poi era successo quel che era successo.
Lui, per ben due volte, le aveva raccomandato di vivere.
Qualsiasi cosa fosse accaduta, con ogni mezzo. Si era sacrificato per permettere loro di tornare a casa.
Lei non sarebbe venuta meno a quelle parole. Avrebbe vissuto una vita piena, felice. Lo giurava.
Glielo doveva almeno questo, a suo padre.
Era tutto ciò che poteva fare per sperare di essere in grado, un giorno, di perdonare se stessa.
 
 
Febbraio 1891, Parigi
 
Marie apre il portone d’ingresso, non senza una certa fatica.
Hanno bussato.
Sorride quando si trova davanti Grandis, Hanson e Sanson.
«Come stai, piccolina? Tutto bene? Siamo passati a trovarti.»
Marie salta di gioia.
«Sì, sto bene! La zia è molto buona con me.»
È vero, gli zii sono buoni e il fratellone acquisito pure, più o meno.
Marie sa farsi rispettare, è una signorina che ha visto il mondo.
Le mancano però, Jean, Nadia e King. Le manca viaggiare con loro. Le manca Sanson.
Gli salta in braccio, senza neanche chiedere se può.
Lui sorride.
«Fammi sapere se tuo fratello dovesse farti dei dispetti, ci penso io a rimetterlo al suo posto.»
Marie ride.
Il solito spaccone.
 
 
Un mese prima, Le Havre

La lettera era arrivata all’improvviso, una mattina come tante altre. Portava il timbro del Marocco.
Jean l’aveva aperta, aveva riconosciuto la calligrafia di Electra di cui tante volte aveva studiato gli appunti, era corso a chiamare Nadia. Una lettera da Tangeri poteva significare solo una cosa.
 

 
Cara Nadia, caro Jean,
vi scrivo, come vi avevo promesso, per informarvi che lo scorso ventisei dicembre è nato il piccolo Etienne.
Sia io che lui stiamo bene.
Allego alla presente due biglietti per il vaporetto Marsiglia-Tangeri. Sarei davvero molto felice se veniste a conoscere Etienne.
Aspetto vostre notizie.
 
Con affetto
Electra
 

Non c’era stato neanche da chiederlo.
Pochi giorni dopo erano entrambi sul vaporetto e il viaggio era ricominciato.
 
 
Parigi, febbraio 1891, di nuovo
 
«Ah!» aveva detto Marie, ancora in braccio a Sanson «Nadia mi ha detto che è nato il bambino di Electra!»
Se l’era lasciato sfuggire così, convinta di dare una grande notizia.
Era una grande notizia, certamente.
Grandis avrebbe dovuto essere più che felice, tanto più che era probabilmente una delle poche a sapere chi fosse il padre del piccolo. Il figlio del capitano Nemo. Le si stringeva il cuore al solo pensiero.
Era andata avanti con la sua vita, sì, non era tipa da piangersi addosso lei.
Non era tipa che versava lacrime sugli amori perduti.
Rispettava Electra, non avrebbe mai capito del tutto cosa ci avesse trovato Nemo, ma la rispettava.
Quel giorno, dopo aver saputo la notizia, si concesse un po’ di malinconia nel ripensare a quell’amore perduto. Il suo era stato, malgrado certe iperboli e altrettanti voli pindarici, un sentimento sincero e forte.
Confidava che questo Nemo l’avesse compreso.
Anche se lei, col senno di poi, capiva di non aver mai avuto speranze.
Chissà, magari avrebbe dovuto scrivere a Electra una lettera.
Così, per congratularsi.
Era pur sempre una donna dell’alta società, anche se in rovina, non aveva dimenticato la buona educazione. Alla luce di una lampada, nella stanzetta di un albergo di Parigi, aveva perfino preso la penna in mano.
Quando l’aveva poggiata sul foglio, però, non aveva saputo cosa scrivere.
E un foglio macchiato di lacrime, poco ma sicuro, non gliel’avrebbe mai spedito.
 
 
26 dicembre 1890
 
Medina urla.
Urla perché il dolore la taglia in due.
Non sembrano esserci complicazioni, la rassicura Icolina, è solo che il bambino è grosso.
Si tratta solo di spingere forte.
Medina spinge.
Il travaglio è durato qualche ora.
Tra una contrazione e l’altra riusciva perfino a dormire.
Una spinta, poi un’altra.
Urla.
Non vede l’ora che finisca tutto.
Non vede l’ora di averlo tra le braccia, anche.
Etienne viene al mondo sul finire del giorno.
Icolina, assistita da suo nonno, aiuta la testa a uscire.
Il resto è una sensazione scivolosa, veloce, di qualcosa che esce e del suo ventre che si svuota.
Poi il pianto.
Il bambino piange, si leva quel pianto di neonato su Tangeri e Medina non sente nient’altro.
È nato, è vivo.
È nato col tramonto, incoronato dal sole.
Icolina lo lava, glielo appoggia sul seno.
È un bambino con la pelle scura, un ciuffo di capelli neri, gli occhi ancora socchiusi.
È la sensazione più strana della sua vita.
Lo attacca al seno, col respiro ancora un po’ affannato.
Sa che lo proteggerà con la sua stessa vita, se sarà necessario.
Il bambino le si addormenta addosso, con la bocca ancora sul capezzolo.
Medina lo culla, lo stringe.
Quasi piange.
Sta provando la gioia più intensa di tutta la sua vita.
L’unica cosa che le manca è lui.
Vorrebbe che fosse accanto a loro, a godere di quella gioia.
Si stringe ancora addosso Etienne.
Lo porta sul cuore.
 


 
- continua -
 


N.d.A. Poche note dell’autore a questo giro. Spero intanto che vi sia piaciuto il capitolo. Ho solo due cose da puntualizzare e riguardano entrambe l’ultimo paragrafo. La prima è il fatto che Etienne nasce “incoronato dal sole del tramonto”. Questo è un piccolo omaggio all’etimologia del nome che ho scelto, Etienne, che è una delle due versioni francesi del nome Stefano e significa letteralmente “corona” (quindi “incoronato”). Il secondo si riferisce alla conclusione, “lo porta sul cuore”. Ci tengo a precisare, se non si fosse capito, che porta fisicamente il bambino sul cuore e la frase si riferisce a lui ma soprattutto a Nemo, nel cuore sempre. Alla prossima!
 
Vitani

 
 

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Capitolo 5
*** Etienne ***


ETIENNE
 
 
 
 
Tangeri li accolse col rumore del mare, con la schiuma delle onde che si infrangeva sulle banchine del porto. Nonostante fosse pieno inverno, la temperatura era mite.
Nadia e Jean trovarono Raoul ad aspettarli al porto.
«Ragazzi, che piacere vedervi! Come state?»
«Bene!» rispose Jean «E lei?»
Il vecchio rise.
«Dammi pure del tu, Jean. Ci conosciamo da una vita. Com’è andato il viaggio?»
«Diciamo bene. Qualche tratto di mare grosso, ma niente di insuperabile.»
«Immagino, in pieno inverno è normale anche nel Mediterraneo.»
Come la prima volta che erano sbarcati a Tangeri si incamminarono a piedi verso la Medina. Il labirinto di stradine in leggera salita li accolse con lo stesso fascino di mesi prima, e i bambini corsero davanti a loro per farsi dare caramelle e spiccioli.
«Come sta Electra?» domandò Nadia.
«Sta bene, anche se è un po’ stanca. Il bambino le dà parecchio da fare.»
«Ah sì?»
«Diciamo che ci vorrà ancora un po’ perché Etienne capisca che di notte bisogna dormire.»
Nadia sorrise. Era piuttosto allegra quel giorno. Durante il viaggio in nave non aveva pensato più di tanto a quel nuovo fratellino, ma ammetteva che adesso era curiosa di conoscerlo.
E poi era felice di avere l’opportunità di rivedere Icolina e Raoul.
Anche Electra. Sì, se qualcuno avesse detto alla se stessa del passato che sarebbe stata contenta di rivedere Electra, probabilmente non ci avrebbe creduto.
Lungo la strada si fermarono a comprare verdure e spezie per la cena. Avrebbero mangiato a casa, una cena di benvenuto. Icolina era ai fornelli dal mattino, ma col trambusto che c’era stato in casa nell’ultimo mese finiva sempre per mancare qualcosina e naturalmente se ne accorgevano all’ultimo momento. Era una vita molto diversa da quella militare su un sottomarino, una vita oziosa che il periodo della lotta contro Gargoyle aveva fatto loro dimenticare.
Quando infine aprirono il portone e si affacciarono nel cortile del palazzo, vennero accolti da un silenzio irreale.
Jean si fece avanti.
«Signorina Electra? Icolina?»
Sbucarono entrambe dai balconi del piano di sopra, una con un mestolo fra le mani, l’altra con l’indice davanti alle labbra.

«Shhhhhh!»
Raoul ridacchiò e alzò le spalle.
«Il bimbo dorme», disse.
 
 
Electra li fece accomodare in uno splendido salotto in stile marocchino, adorno di cuscini e tappeti, e servì loro un tè alla menta.
«Resto io a controllare Etienne», aveva detto Icolina «Se si sveglia ti chiamo.»
«Se si sveglia lo sentirò», era stato il commento di Electra.
Era impossibile non sentire un neonato che piangeva, decisamente.
«Più tardi ve lo farò conoscere. Ora è meglio approfittare del fatto che dorma. Si sveglia per un niente.»
Nadia la osservava, stupefatta. Non era abituata a vederla in vesti casalinghe. Indossava una semplice djellaba azzurra con ornamenti dorati e aveva uno sguardo un po’ stanco ma sereno.
«Icolina ha voluto cucinare per tutti, il menù è a sorpresa.»
S’accorse che Nadia la osservava.
«Che c’è?» le chiese.
Nadia sobbalzò.
«No, niente, è che… ti trovo bene.»
Electra sorrise.
«Grazie. In realtà ho più l’impressione di essere un disastro, non dormo decentemente da quando è nato Etí.»
Bevve un sorso di tè.
«Anzi, non vi sorprendete se di notte mi troverete a vagare per casa con Etienne in braccio. Tutto normale.»
Raoul rise.
«È fortunata ad avere Icolina che è brava con i bambini.»
Electra annuì.
«Già. A dire il vero non so cos’avrei fatto senza di lei. Senza voi tutti accanto.»
I suoi occhi limpidi s’incupirono per un istante. Fu solo un attimo, però, poi tornò a sorridere.
 
 
Raoul parla a Nadia mentre stanno salendo per le stradine della Medina.
«È sempre indaffarata», dice «ma è meglio così. La vedrai, la troverai tranquilla.»
Perfino raggiante, talvolta, quando il bambino ride.
«Meglio che sia così. Meglio che abbia da fare, che si svegli ogni notte, che tenga Etienne in braccio. È stanca, è vero. Ma così non pensa a lui
O non riuscirebbe a respirare.
Etienne è stato il più prezioso dei doni.
 
 
Icolina aveva preparato una serie di piatti vegetariani apposta per Nadia. Frittelle di melanzane, cuscus di verdure e taktouka accompagnavano il tajine e i dolci, e l’aria profumava di tè alla menta e spezie. Icolina non aveva voluto rivelare la mistura di spezie che aveva usato nel tajine di montone, ma Jean assicurò che era strepitosa e che la carne, più che di pecora, profumava di fiori.
Cenarono al piano di sopra, seduti attorno a un bel tavolo di legno.
Parlarono di come andavano le cose in Francia, ora che le loro vite erano tornate più o meno alla normalità. Jean aveva ricominciato a inventare velivoli, Nadia osservava e gli dava una mano per quel che poteva. Aiutava anche la zia a tenere in ordine la casa, visto che almeno quello glielo lasciava fare.
Parlarono di Marie, che si trovava bene a casa dei suoi parenti anche se sentiva la mancanza di King e degli altri.
Fu più o meno al momento del dolce che sentirono Etienne piangere.
Electra si alzò.
«Lo vado a prendere.»
Tornò poco dopo, cullando il bambino fra le braccia.
Il piccolo piagnucolava ancora, ma il peggio sembrava passato.
«Si spaventa quando si sveglia ed è da solo», disse Electra «però gli passa presto.»
Era vestito con un caftano da neonato color avorio, adornato da decorazioni dorate. Aveva delle babbucce ai piedi e dalle larghe maniche della vestina spuntava un braccio dalla pelle scura.
«Su, Etienne. Saluta Nadia e Jean.»
Il bambino, straordinariamente, mosse la testa. Si girò, li guardò, come se avesse davvero capito quello che gli aveva detto la madre. Era ancora presto per dire a chi somigliasse, aveva gli occhi del grigio indefinito dei primi mesi e la testa tonda da neonato, ma i sottili capelli che aveva erano scuri come quelli del padre. Era un bimbo grazioso, apparentemente sano e robusto, e guardava quegli estranei come se stesse davvero cercando di capire chi fossero.
Nadia, inaspettatamente, fu la prima a fare un passo avanti.
Sentiva un nodo alla gola che non riusciva a spiegarsi.
Capì, come in una folgorazione, che provava affetto.
Gli voleva bene. Gli voleva bene e non capiva perché, se l’aveva appena incontrato.
Si era sempre chiesta se fosse ovvio voler bene ai propri parenti. Non avendoli mai conosciuti non sapeva quale fosse la risposta.
Allungò una mano, lo prese in braccio.
Non aveva idea di come si tenesse un neonato, ma Electra le mostrò come reggere la testa in modo corretto.
Lo guardò.
Aveva gli occhi un po’ gonfi per le lacrime, ma curiosi.
Così si osservarono, a lungo.
Si riconobbero.
Nadia quasi pianse per la gioia, senza sapere perché. Un’emozione improvvisa, quale non aveva mai provato prima. Etienne allungò una delle piccole braccia come se volesse salutarla, Nadia gli diede un dito da stringere.
«Ciao…» gli disse.
Sorrideva, visibilmente commossa.
Lo cullò un poco ed Etienne sorrise, a sua volta.
 
 
"Te lo ricordi quel giorno?"
"Sì."
"Ero tra le tue braccia."
"Sì."
"Che cos’hai provato quando mi hai visto?"
"Ti ho amato."
 
«Sta ridendo.»
Electra annuì.
«Sì, ride spesso. Beato lui che sa ancora così poco del mondo.»
Il bambino, ipnotizzato dagli orecchini dorati di Nadia, allungò un braccio per cercare di toccarli. Nadia se ne tolse uno e glielo sventolò davanti alla faccia.
«Ti piace?»
Etienne manifestò la sua soddisfazione sbavando un po’.
«Sai», disse Electra «credo che tu gli stia simpatica. Solitamente dopo un po’ si stanca di stare in braccio a qualcuno che non sia io. Invece guardalo, sembra contento.»
Lei stessa sembrava soddisfatta, per qualche motivo. Guardò lei e Jean, lasciò che Nadia tenesse Etienne.
«Andiamo», disse «C’è una cosa che devo dare a Nadia.»
Li accompagnò lungo un corridoio, poi aprì una porta chiusa a chiave.
Jean capì subito dove si trovavano. Quel posto ricordava la cabina del capitano Nemo sul Nautilus. Non ci erano entrati quando erano stati a Tangeri la prima volta. Era pieno di libri, con un’enorme scrivania in legno scuro, numerosi strumenti e una teca piena di quelle che sembravano conchiglie. La stanza era stata pulita di recente, non c’era traccia di polvere o di segni di chiuso.
«Queste sono tutte cose di tuo padre», disse Electra rivolgendosi a Nadia «Ce n’è una che mi farebbe piacere avessi tu.»
Si chinò verso la scrivania, aprì uno dei cassetti e mise sulla scrivania quello che sembrava un foglietto di carta. Nadia le porse Etienne ed Electra se lo poggiò addosso, sussurrandogli qualcosa che Nadia non capì. Il bambino, dopo aver mugugnato per un istante, chiuse gli occhi e si addormentò.
Nadia prese il foglietto e capì che si trattava di una foto.
Una di quelle vecchia maniera, non un ologramma.
Riconobbe immediatamente i soggetti. C’era suo fratello Vinusis, un bambino di quattro o cinque anni coi capelli corti e sorridente, e poi c’era una donna china su di lui, che rideva altrettanto. Era Sana’a, sua madre.
«Non so perché Nemo non la portò con sé sul Nautilus», disse Electra «L’ho trovata in un cassetto. Tienila pure.»
«Sei sicura?»
«Certo. Sono tua madre e tuo fratello. È giusto che l’abbia tu.»
Nadia strinse la foto, se la mise sul cuore. Non aveva più l’ologramma ed era felicissima di poter avere almeno quel piccolo ricordo.
«Figurati. Ci sono tante cose sue qui. Se dovessi trovare altre fotografie te le darò volentieri.»
Era una stanza in cui trovavano posto tutto quello che non era indispensabile e tutto quello che aveva voluto conservare e proteggere. Il Nautilus era stato il luogo più sicuro del mondo, ma la vita negli abissi marini era quantomai fragile. Nemo, eccettuate poche cose, aveva lasciato quella stanza completamente arredata, come se avesse dovuto fare ritorno da un momento all’altro. Forse era il simbolo più evidente del fatto che lui non aveva mai abbandonato la speranza.
Al contempo, aveva dato a lei – a loro tutti – un luogo a cui fare ritorno.
Era strano per lei pensare che tutto quello le appartenesse.
Essendo stata formalmente adottata da Nemo come figlia, era anche l’erede di tutto quanto lui possedesse. Non aveva idea del quantitativo preciso del lascito, perché non aveva ancora avuto occasione di approfondire la questione. Era stata troppo presa da Etienne, che in quel momento sbatteva le palpebre con la testa reclinata sulla sua spalla.
Avrebbe aiutato Nadia e Jean, comunque. Almeno quello poteva farlo.
Etienne si risvegliò da un sonno di pochi minuti.
«È ora che gli dia la pappa» disse Electra «Jean, potrei chiederti di scendere di sotto a controllare dove sono gli altri?»
Jean annuì.
«Nadia, tu se vuoi puoi rimanere.»
Electra sedette sulla poltrona dietro la scrivania, allentò il colletto della djellaba e si attaccò Etienne al seno. Electra stette in silenzio per un po’, guardando Etienne che succhiava, senza fare caso a Nadia.
«Sai», disse poi «io non pensavo che sarei mai diventata madre. Non pensavo proprio che sarei sopravvissuta, a dire il vero.»
Non aggiunsero altro, né lei né Nadia, consapevoli entrambe del fatto che ogni parola sarebbe stata banale. Electra aveva una cicatrice poco sopra il seno, spiccava bianca contro la pelle scura. Se l’era fatta durante una delle battaglie del Nautilus, quando un Garfish aveva bombardato la plancia e il quadro comandi le era esploso davanti. Uno dei tanti momenti in cui aveva creduto di non farcela.
E invece se l’era cavata solo con una cicatrice.
Come per tante altre cose.
«Electra, ascolta… tu conoscevi mia madre?»
Quella domanda di Nadia, pur se posta all’improvviso, non la sorprese.
Era chiaro che vedendo lei ed Etienne le fosse venuta in mente Sana’a.
«Certo che la conoscevo. Tutti a Tartesso conoscevano la regina, e io ero grande abbastanza all’epoca da ricordarmela. Mi ricordo anche di te, quando ti mostrarono ai sudditi poco dopo la nascita. Stavi in braccio a lei. Portava un abito verde scuro, con decorazioni dorate e rosse. Era bellissima. E buona, anche. Me la ricordo come una donna sempre sorridente, molto gentile anche con noi persone del popolo, sempre disposta ad accogliere una richiesta e a mettere pace in caso di litigi.»
Nadia chiuse gli occhi.
«Decisamente non ho preso da lei, allora.»
Electra si lasciò sfuggire un sorriso.
«D’aspetto sei identica a lei, come tuo fratello Vinusis. Contrariamente a lui, però, tu hai preso il carattere di tuo padre.»
Cocciuta fino allo sfinimento, dotata di pochissima pazienza, pressoché incapace di esprimere i propri veri sentimenti ma al tempo stesso capace di amare come nessun’altra.
Era straordinario che avesse tanto in comune con lui pur non avendolo mai conosciuto.
L’espressione quand’erano pensierosi poi era la stessa.
Etienne, intanto, s’era riaddormentato.
Electra se lo posò in grembo, sistemò la djellaba e lo prese in braccio, alzandosi e cullandolo mentre camminava. Andò su e giù per la stanza, poi guardò con malinconia uno dei finestroni.
«Non sei obbligata a vedermi come una seconda madre, Nadia. Non lo sarò mai. Non so nemmeno se sarò una buona madre per Etienne. La verità è che sono piena di dubbi e paure e non ho un carattere facile, sarà fortunato se riuscirà a diventare adulto. Però farò del mio meglio. Non gli farò mancare l’amore di una famiglia, anche se non c’è suo padre.»
Osservò Etienne che dormiva e sorrise, sistemandogli l’orlo del caftano.
«Sai, penso spesso a quanto è strana la vita. Se non fosse accaduta la tragedia di Tartesso, io sarei vissuta come una normale popolana, a quel punto sì probabilmente avrei avuto una famiglia e dei figli, perché era il destino di una donna di basso ceto sociale. Non sarei mai uscita da Tartesso, non avrei avuto un’istruzione. Tu avresti avuto una famiglia, una madre, un padre, un fratello. Saresti cresciuta felicemente, amata, non saresti mai arrivata in Francia. Io non avrei mai conosciuto tuo padre. O meglio, avrei conosciuto il re e basta. Non avrei mai avuto l’occasione di amare l’uomo dietro al sovrano né la fortuna di essere ricambiata da lui come invece è successo. Ma ho questa convinzione, che se anche avessi vissuto una vita normale, anche se avessi sposato qualcun altro, non l’avrei mai amato con altrettanta intensità. Noi, alla fine, ci siamo amati in un modo che non saprei neanche descriverti. Sono stata fortunata, nonostante tutta la sofferenza.»
Già, perché lei dopo la tragedia di Tartesso era stata sola soltanto in quei primi interminabili nove giorni. Prima c’erano stati i suoi genitori, che le avevano fatto da scudo durante l’esplosione e l’avevano aiutata a sopravvivere. Dopo, c’era sempre stato lui. Per tredici anni erano stati insieme. Per tredici anni si erano voluti bene senza mai dirselo davvero. Anche dopo, quando erano venuti allo scoperto, e c’era voluta ancora la morte, avevano fatto in modo di non avere rimpianti. Non avevano pensato al tempo perso, non avevano avuto paura del futuro. Avevano scelto di godere di ogni briciola di quello che avevano in mano.
Ed era nato Etienne.
Etienne che era stato l’ancora a cui aggrapparsi, ciò che più di tutto le aveva impedito di restare sul Red Noah con Nemo. Se non fosse stata incinta, o se non l’avesse saputo, forse le cose per lei sarebbero andate diversamente. Forse non sarebbe riuscita a trovare un senso alla sua vita senza l’uomo che amava, e Nemo sarebbe morto maledicendo la sua debolezza.
Ma il destino, per fortuna, aveva deciso diversamente.
 
 
Sono sdraiati sul letto, ad ascoltare i propri respiri.
Lei ha la testa poggiata sul suo petto, gli occhi chiusi.
Lui le accarezza piano le spalle, con gentilezza.
Decolleranno verso lo spazio di lì a poche ore.
«Non c’è modo di convincerti a rimanere a terra, vero?»
Medina sorride.
«No.»
Vuole ricordare il calore di quel corpo, il battito del cuore.
Vuole conservarli in modo indelebile.
«Ascolta, Medina. Qualsiasi cosa succeda lassù, qualsiasi cosa accada quando ci troveremo quel bastardo davanti, tu pensa a vivere.»
Lei alza la testa e lo guarda negli occhi, a lungo.
Gli accarezza la fronte, i baffi, gli zigomi.
Lo bacia.
Vuole ricordare la bellezza di quel volto dai lineamenti fieri.
Non sa come farà senza di lui.
Elusys, a sua volta, le accarezza una guancia.
Deve aver letto qualcosa nel suo sguardo, forse l’incertezza o la preoccupazione.
«Tu non sei mai stata debole, Medina. Anzi. Sei sempre stata la più forte di tutti. Ricordalo. E ricorda che vi amo, te e nostro figlio. Vi ho amati entrambi dal primo istante, sempre.»
Da quel giorno lontano tredici anni, in cui una bambina gli aveva dato la mano.
Dal giorno in cui si era portata la mano al ventre e gli aveva sussurrato “sono incinta”.
Avanti, sempre.
 
 
«Elusys decise di sposarmi, anche se non si trattò di un matrimonio che aveva valore legale. Fu un momento che non dimenticherò mai. Mi portò nel vecchio tempio di Tartesso e mi chiese di sposarlo. Poi mi mise la fede al dito.»
Si commosse, ma cercò di ignorare le lacrime che le erano spuntate negli occhi.
«Non so perché te lo sto raccontando, Nadia. Forse perché sei sua figlia. Voglio che almeno tu sappia che è stato amato fino all’ultimo istante della sua vita.»
Nadia non disse nulla. Semplicemente fece quello che già aveva fatto in una tenda nella baia di Suruga. Si avvicinò, la abbracciò, con Etienne che mugolava nel sonno per quella vicinanza improvvisa.
Nemmeno lei sapeva perché all’improvviso si prendesse così tanta confidenza nei confronti di una persona che in passato era arrivata anche a detestare.
Forse perché provavano un dolore molto simile.
«Sai, Nadia, io non sarò mai tua madre, però… Etienne sarà la tua famiglia, se lo vorrai.»
Lei, cresciuta senza i genitori, non sarebbe più stata sola.
Etienne avrebbe avuto tutto l’amore di questo mondo.
«Promettimi che gli starai vicino.»
«Guh!»
Il bambino, come a voler dire la sua, aveva riaperto gli occhi e sorrideva.
Erano gli orecchini di Nadia, di sicuro.
Lei ricambiò il sorriso di quella boccuccia senza denti.
«Certo che ti starò vicino, Etienne.»
 
 
 
- continua -


 
 
N.d.A. Buonasera! Come potete vedere non sono morta. Mi scuso per il madornale ritardo ma ho deciso, per non perdere per così dire “il ritmo”, di far slittare la pubblicazione del capitolo in modo che torni a coincidere col lunedì/martedì.
Si tratta di un capitoletto di transizione, l’ultimo fra quelli riguardanti la nascita di Etienne, e spero vi sia piaciuto. Vengono ribaditi un po’ di concetti, ma ci tornerò fino allo sfinimento tanto ci sarà tempo e modo.
I due fratelli si conoscono e questo è l’importante.
E niente, Etienne già da neonato rideva un sacco (è un ragazzo allegro).
Ora si passa alla seconda parte, quella che riguarda l’infanzia di Etienne.
Qui ci saranno un bel po’ di salti temporali, perché la storia entrerà davvero nel vivo durante l’adolescenza del ragazzino.
L’infanzia, però, mi è necessaria per parlare un po’ del suo carattere e di alcune altre faccende di set-up tra cui la nascita di Philippe, il primogenito di Nadia e Jean.
Ci rivediamo col nuovo capitolo la prossima settimana.
(Questo a dire la verità non l’ho neanche riletto quindi ho paura del risultato.)
A presto!
 
Vitani

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Capitolo 6
*** Infanzia ***


PARTE SECONDA

INFANZIA

 
 
 
Le Havre, dicembre 1892
 

Erano trascorsi quasi due anni dalla nascita di Etienne.
Per Nadia si era trattato di un periodo intenso, in cui l’ombra di Gargoyle era tornata a farsi prepotentemente strada nella sua vita.
Si era trasferita a Londra, tanto per cominciare, ed era ancora lì che viveva.
Proprio a Londra aveva dovuto fare i conti coi Neo-Atlantidi, che ancora non avevano rinunciato ai loro propositi di conquista del mondo. Erano semplici esseri umani, naturalmente, che avevano collaborato con Gargoyle ed erano venuti a conoscenza della tecnologia di Atlantide.
Il loro scopo era condurre il mondo sull’orlo di una guerra mondiale, sostituendo i leader mondiali con cloni artificiali. C’erano quasi riusciti, ma la tecnologia necessaria per riprodurre la vita era fortunatamente ancora imperfetta. Lei e Jean erano riusciti, non senza fatica, a porre un freno alla minaccia.

 
 
“Il desiderio di evoluzione dell’uomo è alla base.”
 

L’intento era il medesimo che aveva avuto Gargoyle, soggiogare l’umanità.
Per ridurla in schiavitù oppure per condurla allo stadio successivo.


 
“L’umanità fu creata dagli abitanti di Atlantide tramite esperimenti genetici condotti sulle scimmie, che già abitavano il pianeta. Li crearono a loro immagine. Diedero loro la mente.
Prometeo che dona il fuoco, chi era?
Uno dei creatori.
L’evoluzione li spinge a diventare sempre più simili a chi li ha messi al mondo.
È il destino, Nadia.
Ma tu che sei perfetta forse non capirai mai.”
“Io sono tutto meno che perfetta.”
 
 
Dagli esperimenti sulle cellule era nata Fuzzy, la cui triste e breve vicenda terrena s’era intrecciata alla vita sua e di Jean in modo indelebile. Era stato grazie a lei se Nadia aveva deciso di scrivere il suo primo libro, che raccontava la storia delle pietre azzurre, di suo padre e di tutto quello che era accaduto, Fuzzy compresa.
Desiderava che le vicende a cui aveva assistito non andassero perdute, come un monito che invitava l’umanità a non ripetere gli stessi errori. Ci stava ancora lavorando. Forse non li avrebbe neppure letti nessuno, eppure doveva scriverli.
A parte quella disavventura, s’era trattato di un periodo di grandi rivoluzioni per lei.
Sul piano personale, almeno.
Era andata a Londra, appunto. A dire il vero, era rimasta a casa di Jean meno di un anno. Non si trattava di ingratitudine nei suoi confronti. Semplicemente, non riusciva più a rimanere in quella casa. Non era neanche colpa della zia, che più o meno ormai la tollerava. A muoverla era il desiderio di fare i conti con se stessa.
Era grata a Jean, che le aveva letteralmente offerto la possibilità di una nuova vita, lontano dal circo e dall’arte di strada. L’aveva aiutata a conoscere le sue origini e le era stato accanto sempre, fino alla fine. Non l’avrebbe mai ringraziato abbastanza. Proprio per questo motivo non desiderava dipendere da lui o dalla sua famiglia. Viveva in casa d’altri, mangiava il loro cibo, contribuiva solo in minima parte alla pulizia della casa. Voleva bene a Jean, tuttavia gli aveva parlato dei suoi dubbi, di quanto fosse insicura sotto sotto e di come si sentisse in qualche modo “costretta”. Non sarebbe mai cresciuta, con Jean che si ostinava a volerla proteggere.
Proprio il desiderio di diventare una persona migliore, di rendersi indipendente e di vivere una vita davvero sua l’aveva spinta a fare il passo, a trasferirsi. Le sue vicende personali le avevano dato una storia da raccontare. Così aveva deciso di diventare giornalista.
Londra era una città vitale, abbastanza caotica da permetterle di confondersi tra la folla. Dopo tutto quello che aveva passato, inseguita da mostri che non conosceva, aveva bisogno di un po’ di tranquillità. Voleva vivere senza essere cacciata, senza dare nell’occhio per la sua pelle o per le sue origini. L’avevano trovata comunque, i Neo Atlantidi, ma sperava che si fosse trattato di un ultimo rigurgito e che ciò che Gargoyle aveva seminato fosse definitivamente morto.
La vita, per il resto, scorreva tranquilla. Lavorava e si arrabbiava un sacco perché era circondata da colleghi che non la prendevano sul serio perché donna e perché giovane. Però aveva trovato una storia da scrivere e, comunque, sentiva che se la sarebbe cavata.
Aveva una piccola stanza in affitto e un salario modesto ma che, più o meno, le bastava.
Stava diventando più forte.
In quei giorni era a Le Havre, di nuovo ospite di un felicissimo Jean, ma si trattava di una permanenza breve. Jean aveva, infatti, ricevuto una lettera di Electra che li avvertiva del fatto che sarebbe venuta in Francia per festeggiare il secondo compleanno di Etienne.
Nadia, che non vedeva il bambino da quasi due anni, aveva accettato subito di ritornare per un po’.
Si sarebbero incontrati a Parigi, in capo a un paio di giorni.
Sarebbe stata una buona occasione anche per rivedere Marie.
Erano sempre state in contatto, ma iniziava a sentirne la mancanza.

 
 
L’atmosfera natalizia riempiva già la grande città. I mercati natalizi affollavano gli Champs Elysées e i bambini facevano la fila davanti alle vetrine dei negozi, sperando di convincere i loro genitori a comprar loro qualche giocattolo.
Etienne arrivò camminando sulle sue gambe, con la madre che lo teneva per mano. Electra aveva proposto a Nadia di incontrarsi proprio sotto l’arco di trionfo degli Champs Elysées. Era un inverno piuttosto clemente ed era bello anche passeggiare, quel giorno poi splendeva un sole quasi tiepido che non faceva rimpiangere la primavera. Nadia e Jean avevano preso il treno da Le Havre al mattino presto, arrivando a Parigi per l’ora di pranzo. King, ormai diventato un leone adulto, era rimasto a scorrazzare per i campi di Le Havre. Portarlo in città avrebbe scatenato il panico.
Nadia, in gonna e cappotto rosso, accolse Etienne ed Electra con un sorriso.
Il bambino la osservò per un istante, poi ricambiò il sorriso.
«Ciao!» disse, in francese.
Era vestito all’occidentale, con pantaloni e un maglioncino alla marinara parzialmente coperto da un cappotto. Aveva le labbra e gli occhi di Electra, ma i capelli scuri e un piccolo volto fiero.
«Vivendo a Tangeri sta imparando sia il francese che l’arabo», disse Electra «Al momento dice qualche parola in tutte e due le lingue.»
Nadia si abbassò per guardarlo bene in viso.
«Ciao, Etienne. Come stai?»
Lui la osservò in silenzio, forse perché non sapeva come rispondere. Forse non ricordava neppure chi fosse lei. Come se le avesse detto nel pensiero, lui rispose: «Nadia!» e sorrise ancora.
Electra lo prese in braccio.
«Gli parlo spesso di sua sorella», disse «Sapeva che prendevamo la nave per andare a trovarla.»
S’incamminarono lungo il viale, Etienne distratto dal viavai delle carrozze. A tratti indicava delle cose, le chiamava con curiose storpiature.
«Allo!»
«Sì, è un cavallo.»
«Ca…»
«… vallo.»
«Hisan.»
Electra sorrise. La parola araba per “cavallo” gli risultava più facile.
Contento per il risultato raggiunto, Etienne batté le mani.
«Bello hisan
Era tempo di andare a prendere Marie, che li aspettava al Bois de Boulogne. Nadia prese Etienne per mano e si avviarono lungo l’Avenue Foch. Durante il tragitto, Nadia ebbe modo di scoprire che il fratello, per la sua età, parlava un sacco. Amava i cavalli, che vedeva sempre anche a Tangeri e che ogni tanto confondeva coi dromedari, e lo incuriosivano le piume sui cappellini delle signore di Parigi. Infine, aveva detto Electra, era curioso e adorava smontare le cose. Nadia concluse che sarebbe andato senz’altro d’accordo con Jean.
Proprio Jean stava parlando con Electra, come se si fossero visti il giorno prima e non fossero passati ben due anni. Jean era così, per lui il tempo aveva un valore relativo se rapportato agli affetti. Era stato così anche con lei, quando s’erano rincontrati a Londra per la faccenda di Fuzzy.
«E poi ho provato a inserire un motore a vapore, ma non ho ottenuto il risultato che speravo!»
«Perché il motore a vapore non dà abbastanza giri per far alzare un velivolo di quella stazza. Se non trovi di meglio punta tutto sull’alleggerimento del telaio.»
«Come ha fatto a non venirmi in mente?»
Jean sbuffava come una delle locomotive della stazione Saint-Lazare.
«Spesso le soluzioni più semplici sono le migliori, fidati.»
Nadia si prese qualche istante per osservare Electra.
I capelli le si erano allungati di nuovo, li portava legati come la prima volta che l’avevano incontrata. Indossava una gonna lunga, un soprabito, il cappello. Non aveva niente di diverso dalle donne che superavano lungo il viale, eccettuata la carnagione un po’ più scura, anzi era più bella di molte di loro. L’unica vera differenza era che si intendeva di scienza e che aveva visto cose che gli altri esseri umani non sarebbero forse vissuti abbastanza per vedere. Nadia, per qualche motivo, faticava a vederla in versione casalinga. Lei, però, sembrava tranquilla, per dirla con le parole di Raoul. Era ovvio che crescere Etienne le desse il suo da fare. Era chiaramente un bambino sveglio. Gli si rivolse.
«Tra poco conoscerai Marie. Anche lei è una bambina come te.»
Aveva gli stessi, identici occhi blu di Electra e uno sguardo insolito, consapevole.
«Dopo merenda?» chiese.
Nadia ridacchiò.
«Sì. Merenda tutti insieme.»
Alla fine era davvero soltanto un bambino.
 
«Ciao, Nadia! Ciao, Jean!»
Marie corse loro incontro e abbracciò forte Nadia, che non vedeva da un po’. Nadia si commosse.
«Ciao, piccolina. Come stai?»
«Bene! Sto andando a scuola!»
Julie l’aveva accompagnata e li salutò con gentilezza. Fece una carezza a Etienne, che non si ritrasse, e lasciò Marie con loro. L’avrebbero riaccompagnata a casa nel tardo pomeriggio.
Passeggiarono per un po’ lungo il parco, con Marie che correva dietro agli scoiattoli ed Etienne che la seguiva. Sembrava particolarmente affascinato dagli scoiattoli, perché in Marocco non ce n’erano ed era la prima volta che ne vedeva uno. Quasi riuscì ad agguantarne uno per la coda, ma Electra lo rimproverò.
«Etí, smettila. Lascia stare lo scoiattolo.»
«Perché?»
«Gli fai la bua.»
Etienne ci pensò per un attimo, poi le diede retta. Si inginocchiò, osservò il roditore.
«Come si chiama?» domandò a Marie.
«Scoiattolo.»
«Sco…?»
«Sco-iat-to-lo.»
«Sco… tolo?»
«Lasciamo perdere, mi sa che per te è troppo difficile.»
Marie era cresciuta, si era fatta più alta e aveva i capelli più lunghi legati in trecce. L’espressione era la stessa di sempre, furbetta ma dolce, e sembrava stare bene.
«Se proseguiamo lungo questo sentiero arriviamo al lago. Facciamo un giro in barca?» chiese.
«Certo che sì!» rispose Jean.
«Guarda che devi remare tu», lo punzecchiò Nadia.
Jean le fece una linguaccia.
Le barche erano grandi abbastanza per ospitare due persone. Normalmente, d’inverno, non sarebbe stato possibile noleggiarle. Le ultime settimane, però, erano state così miti da convincere la società che si occupava dei battelli a un’apertura straordinaria in vista del Natale, con la raccomandazione di stare attenti e non cadere in acqua. Le barche potevano ospitare solo due persone, così Nadia salì con Electra ed Etienne, e Jean con Marie. Nadia ne approfittò per raccontare nei dettagli a Electra di quanto era accaduto a Londra, con Fuzzy e il professor Whola, e di come esistessero ancora dei Neo-Atlantidi pronti a reclamare il potere. Aveva già raccontato a Electra qualcosa via lettera, ma lei stessa le aveva raccomandato di non scendere in particolari e di parlargliene solo a voce. Non credeva ci fosse un reale pericolo, ma preferiva essere prudente: le lettere potevano finire in mani strane. La vicenda di Fuzzy aveva dimostrato che qualche megalomane isolato, lacché di Gargoyle e suo rigurgito, poteva essere ancora in giro. Non era il caso di abbassare la guardia, almeno per un po’. Spesso e volentieri le catastrofi erano causate da sciocchezze.
Etienne, in braccio a Nadia, guardava i pesci sotto l’acqua.
«Smak?»
Electra sorrise.
«Sì, Etienne, sono pesci.»
Nadia sorrise a sua volta e tirò fuori una fotografia dal taschino del suo cappotto.
«A proposito, ho qui una foto di King. Guarda com’è diventato grosso!»
Etienne buttò l’occhio sulla foto e fece per prenderla in mano.
Nadia glielo permise, tenendolo in modo che non cadesse, e il bambino guardò la foto a lungo con l’aria curiosa di chi sta pensando al nome di qualcosa. Poi si illuminò in viso, come se avesse fatto una grande scoperta, e indicò la sagoma del leone bianco.
«Billee!»
Sembrava felice, e Nadia rise.
«Haan, Etienne, yah ek billee hai.»
Non si rese conto di ciò che era accaduto finché non ripensò coscientemente a quel che aveva detto. La allarmò lo sguardo di Electra, che percepì con la coda dell’occhio. Capì di aver risposto a Etienne, che aveva detto “gatto”, confermandogli che King era un gatto. Era stato così naturale che neppure si era resa conto di aver parlato qualcosa di diverso dal francese.
Poi capì.
Electra abbassò lo sguardo.
«È la lingua di Tartesso. Che poi è anche la lingua di Atlantide. Tu, Nadia, la parli e la leggi correntemente senza aver avuto bisogno di apprenderla e anche se hai lasciato il paese che eri ancora in fasce. È, come dire, scritta nel tuo codice genetico. Io, al contrario, ho dovuto impararla. Etienne ogni tanto ne dice qualche parola. Non gliel’ho insegnata io, suppongo la conosca perché è figlio di Elusys.»
Nadia non sapeva cosa fosse un codice genetico, ma non fece domande.
Era qualcosa che si portava dentro, le bastò capire questo.
«A proposito…»
Electra aprì la borsa che aveva portato con sé ed estrasse un piccolo marchingegno che Nadia non riconobbe.
«È una macchina fotografica portatile, molto più maneggevole di quelle ora in commercio. Viene da Tartesso. In origine non era fatta per impressionare la pellicola, ma Elusys l’aveva fatta riadattare. Gli piaceva fare foto, di tanto in tanto. Che ne dici di scattartene una con Etí? Per ricordo.»
Nadia acconsentì.
«Va bene. Vieni qui, Etienne.»
Si sistemò meglio il bimbo sulle ginocchia. Etienne guardò in su, vide gli orecchini di Nadia e, come la prima volta, allungò una mano per afferrarli.
Electra scattò in quel momento.
A Nadia sarebbe rimasta, per sempre, la foto di lei con un bambino di due anni che alzava le braccia e rideva.
 
 
Raoul vive ancora a Tangeri.
La casa è quieta senza Etienne che zampetta in giro.
Lui ed Electra resteranno a Parigi fino al nuovo anno, probabilmente, dopodiché torneranno in Marocco.
A vivere nel palazzo sono rimasti loro tre, Icolina è andata a Marsiglia per fare praticantato come infermiera in un vero ospedale. Ha scelto Marsiglia perché Echo, di nuovo imbarcato, fa spesso tappa in città.
Sono volati in un soffio, i primi due anni di Etienne.  
È cresciuto bene, per quel che ne può dire Raoul.
Sveglio, curioso, attivo. Anche troppo.
Giusto il tempo di imparare a coordinare braccia e gambe e già gattonava per casa col serio rischio di rompersi la testa cadendo dalle scale.
Gli piaceva così tanto gironzolare che aveva imparato pure a uscire dalla culla, ed era ancora piccolissimo, in piena notte.
È un bambino che sembra non temere niente.
Proprio questo spaventa un po’ Raoul.
Non può che augurargli una vita normale, felice.
Solo che non sa se sia davvero destinato a una vita normale, un bambino così.
Ha preso molto dell’aspetto di Electra, gli occhi, le labbra. Ha lo sguardo dolce, il sorriso allegro.
Però somiglia a Nemo.
Somiglia a Nemo più di quanto gli somigliasse Vinusis.
Non sa dire bene il perché, Raoul.
Ma è così.
 
 
 
 
- continua –



 
N.d.A. Eccomi di ritorno con un nuovo capitolo. Come già vi anticipavo, in questa seconda parte ci saranno un po’ di salti temporali perché parlerò dell’infanzia di Etienne e getterò le basi di ciò che succederà in seguito.
Nel prossimo capitolo comunque niente salti temporali, Etienne avrà ancora due anni.
Al momento è ancora troppo piccolo per avere una caratterizzazione ben precisa, di base è un bambino piuttosto normale.
Un’unica piccola precisazione riguardo le lingue usate nel capitolo: Etienne, essendo nato (e cresciuto) in Marocco, parlerà correntemente francese e arabo. Forse anche il berbero, la terza lingua ufficiale parlata in Marocco (è un ragazzo curioso, quindi sì, potrebbe volerla imparare). Pare che parli anche la lingua di Tartesso.
A questo proposito, nel capitolo snocciola qualche parolina di arabo.
Nel dialogo con Nadia, per capirci quello in cui si riferiscono a King chiamandolo gatto, parla la lingua di Tartesso. Ho usato come riferimento la lingua hindi. Ero indecisa se mantenere l’arabo, ma avendolo già usato ho preferito cambiare.
Ci vediamo nel prossimo capitolo, che sarà piuttosto rilassato (ci sarà un matrimonio, no, non quello di Nadia e Jean).
A presto!
 
Vitani

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Capitolo 7
*** Vissero felici e contenti ***


VISSERO FELICI E CONTENTI
 
 


 
C’era anche un altro motivo dietro alla decisione di Electra di andare in Francia e di rimanere fino al nuovo anno. Aveva ricevuto a Tangeri, qualche mese prima, una partecipazione di matrimonio. Immaginava che sarebbe arrivato quel giorno, sin da quando Icolina le aveva comunicato la sua decisione di trasferirsi a Marsiglia.
«Studierò in un vero ospedale», aveva detto «e prenderò il diploma.»
E sarò vicino a Echo.
Questo Icolina non l’aveva detto, ma Electra sapeva bene che il giovane addetto ai sonar era imbarcato su una nave che batteva bandiera francese e faceva avanti e indietro da e per Marsiglia. Aveva dato alla ragazza la sua benedizione, se la meritava d’altra parte. Era rimasta con lei molto oltre la nascita di Etienne, e questo senza obblighi di sorta. Suo nonno, invece, aveva scelto di restare a lavorare come medico in un ospedale del Marocco.
«C’è più bisogno di gente come me qui che in Europa, e Icolina è grande abbastanza da cavarsela da sola.»
Electra non si era sorpresa quando aveva ricevuto una busta proveniente dall’Europa, né quando aveva letto il contenuto. Era stata semplicemente felice e aveva iniziato subito i preparativi per il viaggio verso la Francia, per sé ed Etienne.
Aveva deciso di approfittare dell’occasione e di restare qualche settimana, in modo da vedere anche Nadia, Jean e Marie.
Aveva quindi trascorso il Natale a Parigi e poi, insieme a Jean, Nadia e Marie si era diretta a Marsiglia. Il nonno di Icolina e Raoul li avrebbero raggiunti direttamente là, in tempo per il matrimonio.
 

Il tempo si manteneva eccezionalmente mite, un buon auspicio per quel matrimonio.
Icolina ed Echo si sposarono i primi di gennaio, con la benedizione del nonno di Icolina e dei loro parenti. Il nonno di Icolina, in particolare, era commosso. Non avrebbe mai pensato di avere occasione di assistere al matrimonio dell’unica nipote che gli era rimasta. Non dopo tutto quello che avevano passato. Anche lui, come gli altri, aveva temuto di non sopravvivere. C’erano stati momenti in cui era stato certo di morire. E invece… forse sarebbe vissuto abbastanza da vedere addirittura un pronipote.
A proposito di bambini, Icolina aveva voluto Marie come damigella d’onore ed Etienne come paggetto per le fedi. La mattina della cerimonia, tutte loro ragazze erano in camera di Icolina per aiutarla a prepararsi. La sera precedente, Electra era andata con Etienne a salutare Echo. Lui l’aveva salutata con calore, si aspettava di vederla ma non s’aspettava il bambino, di cui non sapeva niente.
Etienne aveva fatto con lui quel che aveva fatto con Nadia.
Si era avvicinato, gli aveva sorriso, l’aveva chiamato per nome.
«Echo!»
Electra l’aveva preso in braccio.
«Gli racconto del Nautilus, ogni tanto. Conosce tutti voi per nome. Per lui sono ancora solo favole, ma capirà un giorno.»
Era anche un modo per iniziare a parlargli di suo padre, per prepararlo quando sarebbe venuto il momento doloroso. Non disse a Echo che quel bambino era figlio di Nemo. Il giovane lo capì da solo, perché Etienne aveva gli stessi capelli, la stessa carnagione, talvolta la medesima espressione. Echo trattenne le lacrime. Era sempre stato un bravo ragazzo.
Quella mattina, avevano vestito Marie con un abitino color crema decorato da nastrini verdi.
A lei era piaciuto, le sembrava di essere una principessa.
Dopo era toccato a Etienne, un piccolo completo da bambino sempre color crema, decorato di blu in modo che si intonasse ai suoi occhi. Electra gli aveva spiegato ancora una volta cosa fare e gli aveva raccomandato di stare attento a non cadere.
La cerimonia si sarebbe svolta nella basilica di Notre-Dame-de-la-Garde, che svettava sul porto vecchio della città con la sua architettura bizantina. Videro scintillare la madonnina quando uscirono, dorata ed enorme sulla cima del campanile.
Icolina era raggiante, coi lunghi capelli bruni sciolti, un fiore bianco tra i capelli e gli orecchini di perle.
Aveva al collo un monile dorato lasciatole da sua madre e aveva scelto un abito particolare, candido e che ricordava nella foggia quelli delle donne irachene.
Si avviarono verso la chiesa in carrozza, mentre gli uomini li avevano ovviamente preceduti.
Il nonno aspettava Icolina sul sagrato, pronto ad accompagnarla all’altare.
Electra scese per prima, con Etienne in braccio, e si accomodò all’interno della chiesa.
Nadia aiutò Marie e Icolina a scendere e la seguì, prendendo posto vicino a Jean.
Non l’avrebbe mai ammesso, ma era emozionatissima.
In quel momento Icolina, al braccio del nonno, si avviò lungo la navata.
Echo, davanti all’altare, faticava a nascondere l’emozione.
Nadia strinse piano la mano di Jean.
Electra sorrise.
Era felice che tutto stesse pian piano tornando alla normalità e che i ragazzi si stessero facendo una vita. Per lei, chi più chi meno, erano stati una famiglia. Dietro al suo carattere rigido e scontroso, aveva voluto bene a tutti quanti loro.
Quella mattina aveva chiesto a Icolina dove sarebbero andati in viaggio di nozze.
Lei aveva risposto che sarebbero rimasti a Marsiglia, al massimo avrebbero fatto una gita di qualche giorno in campagna.
“Perché?”
“Abbiamo viaggiato tanto col Nautilus, abbiamo visto luoghi inimmaginabili. Anche adesso Echo è sempre imbarcato. Preferiamo approfittarne per stare tranquilli.”
Quella era stata l’unica nota stonata.
L’aver vissuto così tanto, così giovani, da desiderare soltanto la tranquillità di una vita normale.
L’aver rischiato la morte così tante volte da avere il solo desiderio di stare insieme, per sempre.
Lei non aveva mai avuto quell’occasione e non l’avrebbe avuta mai.
Sentì la guancia morbida di Etienne premere leggermente contro la propria.
Non avrebbe cambiato le sue scelte per tutto l’oro del mondo.
 

 
Attraversano la soglia dell’antico palazzo in silenzio, a braccetto.
C’è sempre una luce lieve sulle rovine di Tartesso, anche se si trovano molti metri sottoterra.
Se sia merito dell’energia che ancora vi alberga o della pietra azzurra di Elusys, Medina non sa dirlo.
Non ha avuto cuore di chiedergli come mai siano andati proprio lì.
Si tratta di quello che una volta era il palazzo reale di Tartesso.
Quello in cui Elusys e la sua famiglia vivevano.
Quello che stava in cima a una collina, che lei, ragazza del popolo, aveva sempre osservato da lontano.
Mai avrebbe pensato di varcarne la soglia, men che meno in circostanze come quelle.
Se la regina Sana’a fosse stata ancora viva, se il colpo di stato di Tartesso non fosse mai avvenuto, lui non avrebbe avuto bisogno di lei. Non l’avrebbe mai neppure conosciuta. Al massimo avrebbe incrociato il suo sguardo dall’alto della balconata, senza realmente vederla, una faccia confusa tra la folla.
Non avrebbe mai avuto bisogno di lei, né come figlia, né come vicecomandante, né come amante.
Elusys percepisce la sua esitazione perché si volta, la guarda.
Sorride.
È per quel sorriso che ormai lei vive.
Quel sorriso dolce, così insolito sul viso di lui da essere indimenticabile.
Un sorriso che le mozza il fiato come la prima volta, sempre.
Un sorriso che è solo di lei, per lei.
Medina socchiude le labbra, sta per parlare.
Lui la anticipa.
La prende per mano.
La conduce su per una scalinata, fino ai piani superiori.
Solo quando varcano una soglia, la soglia della camera della regina, Medina ha il coraggio di parlare.
È sinceramente stupita.
“Perché siamo qui?” chiede.
Ancora ricorda l’ingenuità nelle sue parole.
Davvero non capisce, non ancora.
Poi si guarda intorno, vede che quella stanza è vissuta.
Il letto ha lenzuola pulite, ci sono in giro libri, carte, appunti.
Capisce che è qui che lui viene nei giorni in cui si assenta dal Nautilus, quando vuole stare solo.
Torna da lei la notte, a cercare conforto fra le sue cosce.
È un pensiero che fa un po’ male.
Medina sa di non poter competere con Sana’a. Sa che la regina era un’atlantide purosangue, una donna bella, gentile, buona come lei non sarà mai. Sa che il suo ricordo resterà sempre indelebile e non vuole nemmeno cancellarlo.
Le basta, sì, riuscire a consolarlo almeno un poco.
Si dà della stupida, interiormente.
Talvolta ha ancora quelle insicurezze.
Talvolta le parole di Grandis, “lui non ti amerà mai”, tornano a colpirla con la ferocia della prima volta.
Sono amanti, è vero, ed è già molto più di quanto avesse mai osato sognare.
Non deve essere avida. Non può pretendere altro, lo sa, non da un uomo così ferito.
Non da un uomo che vive ogni giorno in un inferno.
Se il suo corpo può, anche solo per lo spazio di un amplesso, aiutarlo a respirare, allora così sia.
Altro non cerca, non c’è per lei gioia più grande.
A parte, forse, quel sorriso per cui ormai vive.
Elusys la osserva, non dice niente, si siede sul letto e le fa cenno di avvicinarsi.
Le prende le mani, accarezza le nocche col pollice, bacia le dita una a una.
“Amore mio…” sussurra, una volta, due, così piano che Medina a malapena lo sente.
Un sentimento tanto intimo che può solo mormorarlo come a se stesso, perché Elusys mai avrebbe creduto possibile amare di nuovo.
Però ama quella sua cara ragazza al punto da sentire il cuore in gola.
L’ha amata per anni, senza neanche saperlo.
Senza avere il coraggio di vedere.
Ha capito tutto nell’attimo in cui lei s’è schiusa tra le sue braccia.
La guarda, a lungo, bella come l’alba sul lago che circondava Tartesso.
“Vuoi sposarmi?” le dice.
 

Quel giorno, Medina crollò. Letteralmente, come se non avesse più forze, crollò su di lui e lo abbracciò, sedendogli in grembo. Si rese conto a malapena del fatto che lui la ricambiava, la abbracciava tanto forte da far male. Sì, aveva sussurrato, sì, mille volte sì. Lui l’aveva stretta come se avesse avuto il terrore di perderla, che gli scivolasse via dalle mani. Dopo l’aveva accarezzata piano, e baciata. Le aveva mordicchiato le labbra, fatto il solletico coi baffi sul collo, aveva riso.
«Ti amo.»
E lei pianse, di gioia e di sollievo. Pianse perché era stata una stupida, perché l’aveva sottovalutato e invece avrebbe dovuto soltanto fidarsi, di sé e di lui.
S’erano amati a lungo, quel giorno. S’erano dati tutto, gustando ogni attimo.
Dopo, Elusys le aveva messo la fede al dito ed erano rimasti vicini, sdraiati su quel letto e stretti l’uno all’altra. Avevano ascoltato i propri respiri, senza guardarsi, con le dita fra i capelli e le palpebre socchiuse, un morso leggero di tanto in tanto sulle spalle, sul collo, sopra il seno, come a volersi mangiare. Medina aveva dormito, rannicchiata contro di lui come un cucciolo, avvolta nel calore della pelle e sicura di trovarlo ancora lì al risveglio.
Era stato così. L’avevano accolta un bacio sulla fronte, una carezza fra i capelli e il viso di un uomo felice come non l’aveva visto mai. Un viso bello, acceso di gioia, e la certezza di quell’amore fu tanto intensa da far quasi male. Era rimasto accanto a lei fino a sera. Che avrebbero detto i membri dell’equipaggio, non vedendoli ritornare? Non importa, era stata la risposta, voglio stare con mia moglie.
Medina non aveva più avuto incertezze, non dopo quel giorno. Aveva vissuto appieno come donna, non come moglie di un re ma come compagna di un capitano. Quello era stato il suo matrimonio. Aveva amato Elusys fino all’ultimo istante, lo amava ancora, amava suo figlio come nient’altro al mondo.
Per lei non ci sarebbe mai stato un altro uomo.
Di questo ne aveva la certezza da sempre, dall’esatto istante in cui aveva capito di amare Nemo.
Era ancora solo una ragazzina eppure già le albergava nel cuore quella certezza, assoluta, incontrovertibile. Non si sarebbe mai fatta una vita al fianco di qualcun altro. Non dopo aver amato lui. Era un fuoco, quell’amore. Bruciava. Una passione tanto intensa da oscurare qualsiasi altra.
Era indimenticabile, Nemo.
Stava dentro di lei come la prima volta, come nell’istante in cui da adolescente aveva ammesso di esserne innamorata.
Ragion per cui si sarebbe accontentata di crescere serenamente suo figlio. Avrebbe trascorso una vita tranquilla e anonima, lontano finalmente dai campi di battaglia, testimone della felicità altrui e custodendo nell’animo il ricordo della propria.
Era sinceramente contenta per Echo e Icolina che si scambiavano le promesse sull’altare.
Avevano tutta la vita davanti.
Certo qualcuno avrebbe potuto dire lo stesso di lei, che aveva ancora solo ventott’anni.
Ma lei, il suo cuore, l’aveva perso sul Red Noah durante quell’interminabile notte.
«Prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita.»
Toccava a Etienne.
Accompagnò il bambino fino a metà della navata, poi gli diede il cuscinetto con le fedi e lasciò che andasse da solo. Non sarebbe caduto, lo sapeva. Era sicuro di sé e di quello che faceva, poco importava che avesse solo due anni.
Il bambino, infatti, andò fino all’altare con quel suo gran sorriso e porse il cuscino con le fedi.
Dopo che si furono scambiati gli anelli, il sacerdote li benedisse.
«Per Echo e Icolina, ora uniti in matrimonio: il Signore li sostenga nella donazione reciproca e renda la loro unione gioiosa e feconda. Preghiamo.»
Rimasero tutti per qualche istante in silenzio mentre Electra recuperava Etienne.
«Etí bravo?» esultò il bambino.
«Molto», sorrise Electra, e gli baciò una guancia.
Non s’accorse che, in fondo alla chiesa, qualcuno li guardava.
 

Grandis fu tentata di andarsene. Della cerimonia gliel’avevano detto Nadia e Marie, esortandola a esserci perché avrebbe fatto piacere a tutti. Grandis si era lasciata convincere, era contenta di rivedere almeno Jean, Nadia e Marie, ma in quel momento decise che li avrebbe salutati più tardi.
Guardò Electra, i suoi capelli biondi che spiccavano in mezzo alla folla. Teneva il bambino di nuovo in braccio, per evitare che si perdesse chissà dove in mezzo ai piedi degli altri invitati. Era la prima volta che Grandis vedeva Etienne. Il bambino era come l’aveva sempre immaginato, bellissimo. Assomigliava alla madre, ma Grandis non dubitava che un giorno sarebbe cresciuto a immagine del padre, determinato e fiero.
Electra doveva volergli molto bene ed era sicuramente una buona madre.
Anche in quel momento lo teneva stretto a sé in un modo che faceva capire quanto profondamente tenesse a proteggerlo. Grandis era sicura che l’avrebbe protetto coi denti, col sangue se necessario. Davvero, una parte di lei avrebbe voluto lasciarsi tutto alle spalle. Avrebbe voluto andare, salutarla, fare una carezza al bambino e presentarsi come una zietta spensierata. La intristì scoprire che ancora non ci riusciva. Forse, sotto sotto, la invidiava ancora un poco. Le invidiava il fatto che lui l’avesse amata, le invidiava quel figlio che le aveva dato una ragione di vita. Non si perdonava per averla sottovalutata, per aver sottovalutato il legame che li univa, ma aveva capito quanto grande fosse il loro amore in quell’ultimo momento, quando l’aveva vista toccarsi il ventre col dolore negli occhi. Aveva potuto soltanto tacere.
Era una donna forte, Electra. Forse la più forte che avesse mai conosciuto.
In modo diverso da Grandis, certo, ma per l’uomo che amava era stata capace di dare tutto.
Non aveva esitato a sacrificare la sua felicità.
Non aveva esitato quando s’era trattato di fronteggiare la morte.
Infine, li aveva salvati da Gargoyle.
Se non ci fosse stata lei, dal Red Noah non sarebbero usciti vivi.
Le riconosceva ogni merito.
Anche lei, però, aveva un po’ di orgoglio.
A fine cerimonia andò da Marie, la piccola, graziosa Marie col suo vestito a balze.
«Ciao, Marie, come sei cresciuta!»
E Marie, dimenticando le buone maniere, le saltò al collo.
«Grandis!»
Jean e Nadia, ugualmente, la salutarono con calore e la invitarono a parlare con gli sposi.
 

«Electra?»
Si voltò. Dietro di lei c’erano Raoul e buona parte dell’ex equipaggio del Nautilus.
Non si aspettava di vederli, ma era prevedibile che Icolina ed Echo li chiamassero. Quello che si era creato fra loro era un legame che andava ormai al di là del semplice cameratismo. Avevano vissuto insieme, avevano rischiato la morte insieme, cercavano di tornare a vivere come meglio potevano.
«Buongiorno, ragazzi. Mi fa piacere vedervi.»
Parlò tranquillamente, ma una strana emozione la pervase mentre li guardava. Era mai possibile che le mancasse quella vita? Non c’entrava Nemo, con quel sentimento. Non c’entrava il fatto che lui fosse ancora vivo quand’erano imbarcati. Era un sentimento di nostalgia che difficilmente sarebbe riuscita a spiegarsi. La vita in un sottomarino, in mezzo a uomini, senza vedere quasi mai la terraferma… qualunque altra donna sarebbe rabbrividita al solo pensiero. Lei no. Lei stava bene sul Nautilus. Certo c’erano stati momenti di difficoltà, ma oltre alle battaglie e alle privazioni ricordava anche momenti felici. Ricordava le feste, gli spettacoli teatrali allestiti dai macchinisti, i compleanni, i bigliettini e le battutine indirizzati a lei e Icolina, uniche donne dell’equipaggio. In realtà qualsiasi pretesto era buono per svagarsi un attimo. Erano per la maggior parte ragazzi giovani, ne avevano bisogno. Questo Nemo lo sapeva benissimo.
Più di tutto, inoltre, avevano viaggiato.
Avevano svelato gli abissi sottomarini, scoperto cose che l’umanità non avrebbe forse mai trovato. Per lei, che da sempre era donna che amava lo studio ed era curiosa di apprendere, era stata l’esperienza più bella della sua vita.
Era per quello che Nemo l’aveva cresciuta e le aveva insegnato tutto quello che sapeva.
Già, lei non aveva ragione di competere con Sana’a.
Lei non era e non sarebbe mai stata una regina.
Lei era un comandante.
Tale sarebbe rimasta fino all’ultimo giorno della sua vita, anche se non avesse mai più messo piede su un ponte di comando.
Electra li osservò mentre uno dopo l’altro abbassavano lo sguardo. Avevano visto Etienne, attaccato alla sua gonna. Provò una fitta al cuore nel notare la consapevolezza crescente sui loro volti. Neppure loro avevano mai saputo niente, ma capirono immediatamente. Qualcuno sorrise, qualcuno addirittura si commosse.
È figlio di Nemo, avrebbe voluto dire, ma le parole non le uscirono.
La loro relazione era sempre stata qualcosa di intimo al punto che lei non era abituata a parlarne.
Bastava l’aspetto del bambino. Quello parlava da sé.
Etienne guardava quegli sconosciuti con occhio un po’ stranito, poi riconobbe Raoul.
«Nonno Raoul!» disse, e andò ad abbracciarlo.
Raoul ricambiò e lo presentò al resto dell’equipaggio.
«Questo è Etienne», disse «il figlio del capitano Nemo.»
Electra sorrise. I ragazzi fecero a gara per salutare e prendere in braccio il bambino.
Poco lontano, Jean li guardava.
Nadia, vicino a lui, sembrava un po’ distratta. Osservava la volta della chiesa, poi le panche che si svuotavano, infine Icolina che parlava con Grandis.
«Sai, Jean?» disse all’improvviso con un sorriso timido «Mi chiedo quand’è che ci sposeremo noi.»
Mancò poco che Jean svenisse.
«Eh?!» esclamò, arrossendo.
Nadia sbuffò.
«Stupido.»
Lei sarebbe tornata a Londra, ancora per un po’, ma al suo ritorno in Francia sperava proprio di trovare ad attenderla un bell’abito bianco. Tempo al tempo, concluse.
Tempo al tempo…
 
 
Il bambino sogna.
La chiesa.
Le gambe delle persone in piedi vicino alla sua mamma.
Il bambino vede il bambino che porta gli anelli, sua mamma che sorride.
Vede la sposa davanti all’altare, lo aspetta raggiante.
Cerca Nadia.
Eccola lì, sta parlando con qualcuno che non conosce, una donna dai capelli rossi.
Il bambino capisce che è un sogno di quel pomeriggio.
Vede se stesso dormire, esausto, in braccio alla madre.
Nadia si volta, come se avesse sentito qualcosa.
Il bambino è sveglio.
 

 
- continua -



 
N.d.A. Buongiorno! Abbiamo ancora un capitolo piuttosto tranquillo, in cui però vengono tracciati dei primi passetti importanti verso il futuro. Prima di tutto, però, parliamo del flashback: ho inserito una nuova scena riguardante Electra e Nemo perché sì, continuano a essere la mia coppia preferita. Il matrimonio è stato inoltre una buona occasione per parlare di Electra come donna e del fatto che lei non sia, in un certo senso, fatta per vivere una normale vita casalinga. Tra le altre cose, il fatto che resterà fedele a Nemo l’ho ricavato dall’epilogo dell’anime, in cui viene detto che sta crescendo da sola il suo bambino. Dopo dodici anni. Tra l’altro non l’ho mai immaginata come una madre particolarmente tenera. Insomma, Etienne è la sua vita, ma ci terrà sempre alla disciplina e a crescerlo in una certa maniera. È un comandante, Electra. L’unica persona con cui si lasciava andare, almeno qui nella fanfic, era Nemo nei loro momenti di privacy. E per lui valeva lo stesso. A proposito. Io ho sempre il terrore che Nemo mi esca troppo, tra virgolette, sdolcinato. In realtà io l’ho sempre immaginato come una persona in origine molto appassionata e dolce ma profondamente ferita e chiusa in se stessa. Sono convinta anche del fatto che abbia amato profondamente Electra/Medina per una lunga serie di motivi che verranno esplicitati nel corso dei capitoli (riprendendo quello che ho già scritto in altre fanfic e aggiungendo probabilmente pezzi nuovi).
Spero inoltre che sia chiara, in minima parte, la sensazione di “spaesamento” che provano i membri dell’equipaggio del Nautilus nel tentare di rifarsi una vita dopo tanti anni trascorsi imbarcati e impegnati in un’impresa che non sapevano quando avrebbe avuto fine.
Da ultimo: Etienne. Ho detto che in questo capitolo si fanno passetti importanti verso il futuro. Si fanno, per quanto riguarda Etienne, per quanto riguarda Electra e per quanto riguarda Nadia. Nel prossimo saranno già passati tre anni, Etienne ne avrà cinque e diventerà un po’ più chiara la natura delle sue capacità. Inoltre, probabilmente, farà il suo ingresso nel team un nuovo personaggio.
Mi auguro quindi che il capitolo vi sia piaciuto. Alla prossima settimana!
 
Vitani

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Capitolo 8
*** La vita comincia ***


LA VITA COMINCIA


 
Le Havre, giugno 1895
 
 
Nadia li aveva scritti, quei libri sulla sua vita.
Aveva annotato tutto, ogni minimo particolare dell’avventura che erano stati i suoi primi diciassette anni. Ne erano usciti due tomi di molte pagine che aveva portato sulla tomba di Fuzzy. Glielo doveva.
Aveva avuto un’infanzia e un’adolescenza intense, nulla da dire al riguardo.
Aveva vissuto avventure per molte vite.
Sperava davvero di finirla così, di poter finalmente vivere un’esistenza da persona normale anche se, in fin dei conti, persona normale lei proprio non era.
Aveva lasciato Londra da poco, per ritornare finalmente a Le Havre.
Aveva promesso a Jean di ritornare, dopotutto, e avrebbe lavorato anche in Francia, collaborando coi giornali locali per piccoli pezzi. La verità era che, a diciannove anni, sentiva che era giunto il momento di provare a essere davvero felice.
Jean, andava detto, gliene aveva dato l’occasione.
Lei l’aveva informato via lettera che sarebbe tornata a breve, perché aveva completato il suo tirocinio e desiderava tornare nella tranquilla Francia. Aveva finito di scrivere i suoi libri e sentiva di essere maturata, almeno un po’, come persona.
Jean si era fatto trovare al porto di Le Havre, aveva atteso la sua nave con un mazzo di fiori in mano, l’aveva salutata e abbracciata. Lei era felice di vederlo, era riuscita a trattenere la commozione a stento.
Lui continuava a lavorare ai suoi velivoli e aveva un altro progetto in mente, di cui non parlava.
Frequentava anche l’università, c’era riuscito ottenendo una borsa di studio grazie a uno dei suoi prototipi di macchina volante. Era ancora un ragazzino ingenuo, ma un professore aveva visto il suo talento e l’aveva trovato promettente. Jean, certo, peccava ancora di esuberanza. Era brillante, però, e sarebbe senz’altro diventato un grande ingegnere o qualcosa del genere.
Sembravano, comunque, avere un futuro assicurato.
Era stato quello il momento che Jean aveva scelto per farle la proposta.
L’aveva chiamata in giardino, una sera, e l’aveva portata a fare un giro su uno dei suoi velivoli. Nadia si vergognava un po’ ad ammetterlo, ma aveva avuto un po’ paura. Non di volare, ma del fatto che il mezzo costruito da Jean potesse cadere. Era la prima volta che volava dopo anni, però, e si dovette ricredere. Jean ne aveva fatta di strada e l’idrovolante volò benissimo.
Avevano oltrepassato il porto di Le Havre, si erano fermati nel mezzo del mare a guardare una strabiliante luna piena. Nadia sospettava che ci fosse dietro qualcosa, perché era esattamente il periodo in cui, tanti anni prima, s’erano incontrati a Parigi.
«Bella, vero?» aveva chiesto Jean.
Nadia aveva annuito, incantata.
Era stato allora che Jean s’era fatto avanti, non senza tentennare. Aveva estratto dalla tasca una piccola scatola di velluto, l’aveva aperta.
«Nadia…»
Un istante di silenzio, lui che si asciugava il sudore, ignaro del fatto che Nadia già ridesse, che avesse capito.
«Vuoi sposarmi?»
Lei aveva continuato a ridere per un po’, con le lacrime agli occhi per la commozione.
«Sì.»
Aveva pensato che non gliel’avrebbe mai chiesto, davvero.
 
Quelli che erano seguiti erano stati mesi intensi.
O meglio… lo erano stati per Nadia. Jean si era ributtato ben presto dentro il suo laboratorio, a lavorare a un qualche progetto che voleva tenere segreto perfino a lei. Sulle prime, Nadia ne era stata un po’ delusa. Aveva sperato che lui fosse più partecipe, che la aiutasse in certe decisioni fondamentali tipo chi invitare e che tipo di festa fare. Erano frivolezze, a ben guardare. Lei, però, era pur sempre una ragazza di diciannove anni. Aveva ancora dei sogni. Nello specifico, ora che era a un passo dallo sposare il ragazzo che amava da una vita, desiderava un matrimonio felice.
 
E poi?
 
Se lo chiedeva, ogni tanto.
Non trovava mai risposte. Si vedeva moglie di Jean, madre dei suoi bambini. Avrebbe dovuto imparare a cucinare seriamente, si sarebbe fatta dare lezioni da Grandis, e avrebbe dovuto pensare a tutte quelle piccole e grandi cose di cui una moglie e madre si occupa.
In quel momento, nella sua stanza, guardava fuori dalla finestra. Era una bella giornata, col cielo terso e il vento fresco. Era stata fortunata, si ripeteva. Aveva sofferto nell’infanzia ma era stata ripagata. Aveva scoperto le sue origini, trovato quel che restava della sua famiglia, era riuscita a crearsene una sua. Tutto ciò che voleva era una vita felice, tranquilla, lontano da battaglie e fughe e…
Bussarono alla porta.
«È permesso?»
Era la zia di Jean.
«Sì, prego.»
Che poteva volere da lei? Non era mai corso buon sangue tra loro, e Nadia aveva l’impressione che la donna non l’avesse mai del tutto accettata come fidanzata del nipote. Una ragazza di colore, dalle dubbie origini, non era certo la sposa ideale per un ragazzo francese di famiglia rispettabile!
La donna entrò. Portava tra le mani un grosso involto, che posò sul letto.
«Come stai, Nadia?»
Nadia non si aspettava quella domanda.
«Bene», rispose.
«Ti vedo un po’ pensierosa in questi giorni.»
Nadia trasalì. Si notava così tanto? Che avrebbe pensato Jean?
«No, non sono pensierosa, è solo che… sono un po’ in ansia. Ma grazie per aver chiesto.»
La donna si lasciò sfuggire un sorriso.
«È normale. Anch’io ero in ansia prima di sposare quel fannullone di mio marito.»
Nadia tacque. Non si aspettava una tale comprensione e la verità era che non sapeva bene come reagire. In realtà era la solita brusca e maldestra ragazzina incapace di esprimere i suoi veri sentimenti. La zia prese l’involto che aveva poggiato sul letto e lo aprì. Era un abito bianco, con le maniche lunghe e inserti di pizzo sulla scollatura.
«È il vestito che portavo io quando mi sono sposata. So che è un modello vecchio, ma l’ho riadattato e penso che ti andrà bene.»
Nadia rimase a bocca aperta.
«Ma… perché?»
«Sei pure sempre la futura moglie di mio nipote. Sei parte della famiglia, ormai.»
Nadia avrebbe voluto abbracciarla, l’avrebbe davvero voluto.
Invece si limitò a trattenere le lacrime, che comunque le spuntarono nei begli occhi verdi. Era sinceramente grata e commossa.
«Grazie», disse.
Capiva che la donna, forse, l’aveva vista triste e aveva deciso di farle quel grande regalo in segno di pace. Già, forse non avevano senso i suoi dubbi, le sue domande. Avrebbe dovuto semplicemente vivere, come tutti, qualsiasi cosa fosse accaduta.
Come aveva promesso a suo padre.
 
Se non altro, Nadia scoprì ben presto cosa stesse architettando Jean.
Lo scoprì la mattina in cui si sposò, quando vide, davanti alla chiesa, una motocicletta adornata da un grosso fiocco bianco, la scritta “Wanderer” ben lucida sulla carrozzeria. Era stata accompagnata in chiesa dagli zii, Jean li aveva preceduti a Le Havre già la notte prima e aveva festeggiato in compagnia di alcuni amici. Come tradizione voleva, due sposini novelli non dovevano trascorrere la notte prima delle nozze sotto lo stesso tetto.
Non vide Jean, che evidentemente la aspettava all’interno e non sul sagrato.
Vide, però, Grandis e Marie. Grandis, con le lacrime agli occhi, la abbracciò.
«Quanto sei cresciuta.»
Si vedevano appena ne avevano l’occasione, in verità, ma Grandis non avrebbe mai pensato che l’avrebbe vista sposarsi. Si sentiva orgogliosa di lei quasi fosse stata la sua vera madre. Marie, col suo più grande sorriso e i capelli rossi acconciati in una treccia, le prese lo strascico. Sarebbe stata damigella d’onore anche questa volta.
La cattedrale di Le Havre era imponente, e nell’oltrepassare il portone Nadia deglutì.
Il cuore le batteva forte da scoppiare.
Lo zio la accompagnò all’altare, mentre partivano le note della marcia nuziale. Qualcuno aveva cosparso la navata di petali di rosa.
Nadia non si guardò intorno. Sapeva che i suoi amici erano tutti presenti all’appello. Riusciva a vedere solo Jean davanti all’altare, e il sacerdote che la osservava sorridendo. Le tremavano le gambe, ma per la gioia. Dimenticò i dubbi che l’avevano assalita, fu davvero felice nel vedere il sorriso di Jean. La cerimonia andò avanti, festosa e solenne. Nadia si commosse nell’ascoltare la prima lettura, e temette di risultare inopportuna. Non avrebbe mai pensato di piangere così tanto al proprio matrimonio ma, ora che c’era, sentiva sciogliersi le tensioni, sparire i dubbi che l’avevano attanagliata.
“Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l'amore, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi l'amore, non sarei nulla.” 
Qualsiasi cosa fosse accaduta, l’avrebbero affrontata lei e Jean insieme com’era sempre stato.
Si scambiarono le fedi e un bacio leggero.
Fu felice di notare che Jean era più emozionato di lei.
Quando uscirono finalmente sul sagrato a braccetto vennero inondati da applausi, fiori e riso.
Nadia vide Grandis che piangeva, abbracciando Hanson e Sanson. C’erano i membri della redazione del suo giornale di Londra e i colleghi di Jean all’università. Poi c’era tutto l’equipaggio del Nautilus, c’erano anche Icolina ed Echo e perfino Raoul che era venuto dal Marocco insieme a Electra e a Etienne. Etienne era vicino a King, molto più grosso di lui, e gli accarezzava la criniera argentea ridendo. Nadia non vedeva l’ora di salutarlo. S’erano scritte spesso, lei ed Electra, ma non aveva più visto il bambino dal periodo del matrimonio di Icolina.
«Nadia?»
Jean la chiamò.
«È ora che ti presenti il progetto a cui ho lavorato in questi mesi.»
Nadia lo osservò. Si era acconciato i capelli rossi ed era vestito di bianco, ma l’espressione dolce e un po’ furbetta era rimasta la stessa di quando era bambino. Armeggiò con la motocicletta parcheggiata davanti alla chiesa e la accese.
«Si chiama Wanderer», disse. «L’ho costruita per il nostro viaggio di nozze.»
Era un bel mezzo, di un bel colore rosso e con side-car. Per il viaggio di nozze avevano optato per qualcosa di semplice, un on the road in giro per la Francia che li avrebbe portati in Normandia e poi giù fino alla Loira e alla Provenza. Non avevano voluto fare cose in grande perché di viaggi, almeno per adesso, ne avevano già fatti abbastanza e non sempre in circostanze piacevoli. Volevano provare a godersi un po’ di tranquillità domestica, qualsiasi cosa ciò significasse.
«Sali», disse Jean.
«Adesso? Ma ci entro col vestito?»
«Certo che sì!»
Nadia, non senza fatica, entrò nel side-car cercando come meglio poteva di sistemare la voluminosa gonna dell’abito. Poi si girò e diede a Jean un bacio sulla guancia. Il ragazzo arrossì.
«Ci vediamo a casa!» disse, e partì.
 
Avevano organizzato un bel rinfresco nel giardino di quella che a tutti gli effetti era ormai la loro casa. Arrivarono in moto che era già tutto pronto. La zia aveva assoldato alcune fra le migliori cuoche di Le Havre, che avevano preparato piatti degni di un re.
Nadia non avrebbe potuto essere più felice. Non vedeva l’ora di partire per quel viaggio in giro per la Francia, per una volta tranquillo e non dettato dalla necessità. Sarebbe stato un viaggio, il loro, non per la sopravvivenza ma per la gioia.
Gli altri arrivarono tutti insieme, con un mezzo motorizzato messo a disposizione da Hanson che incantò i colleghi di Jean.
«Che meraviglioso apparecchio!»
«A che velocità va?»
«Sarebbe interessato alla sua commercializzazione?»
Hanson, che stava sulle sue, sbuffò.
«Ancora no, è solo un prototipo.»
Parcheggiarono nel prato antistante l’abitazione, Sanson aiutò Grandis a scendere e Hanson porse la mano a Electra, che gli sorrise.
«Mi fa piacere rivederti, Hanson.»
Lui, a sua volta, le sorrise. C’era una punta di imbarazzo, che non riusciva a togliersi di dosso. Electra, coi capelli di nuovo lunghi raccolti in una coda come allora, era sempre bella, sempre gentile. Sembrava più distaccata, però, una sensazione difficile da definire. Teneva in braccio quel bambino che Hanson non aveva mai visto, di cui aveva solo avuto notizia della nascita. Non sospettava nemmeno che lei fosse incinta e avrebbe mentito se avesse detto di non esserci rimasto male. Guardandolo adesso, cinque anni ancora da compiere e mezzo addormentato, gli era tutto chiaro. Etienne era indiscutibilmente, senza ombra di dubbio, figlio suo. Del capitano Nemo.
Il bambino aprì gli occhi appena sentì che scendevano.
«Siamo arrivati?» chiese.
Electra gli diede un bacio sulla fronte.
«Sì», rispose.
Hanson la guardò. Vide in che modo il suo sguardo si illuminava. Capì tutto.
Electra lasciò che Etienne scendesse e il bambino andò di corsa verso il buffet, seguito da Marie e King. Electra lo osservò per un po’.
«È un bambino vivace», disse ad Hanson, «mi dà piuttosto da fare.»
Hanson annuì.
«E lei… lei come sta?»
«Un po’ stanca a furia di corrergli dietro, ma bene.»
Hanson avrebbe voluto domandarle di più, ma temeva di risultare indelicato. Dal capannone del laboratorio di Jean, intanto, uscirono tre leoncini bianchi evidentemente figli di King. Etienne e Marie urlarono di gioia. Hanson azzardò un timido sorriso.
«Beati loro che si divertono.»
«Già. Sono contenta che Etienne abbia qualcuno con cui giocare. In Marocco non ha tanti amichetti. Mi rendo conto che forse la colpa è mia e che lo isolo un po’ troppo, ma è ancora tanto piccolo.»
Tacque per un istante, il suo sguardo si fece lontano.
«A volte ho la sensazione che gli manchi il padre. Anche se è un controsenso visto che non l’ha mai conosciuto. Allora gliene parlo, gliene parlo sempre.»
Hanson, a quelle parole, non poté che togliersi il cappello.
«Era un grande uomo», disse.
Electra gli sorrise, serenamente, e annuì.
«Grazie, Hanson.»
 
Nadia parlò con tutti, salutò tutti, abbracciò tutti.
Nel tardo pomeriggio, ormai in piedi da ore, iniziava a essere stanca. Icolina, che aveva notato il suo affaticamento, le aveva portato acqua fresca e l’aveva invitata a sedersi. Ce l’aveva fatta, malgrado l’impaccio del vestito.
Ne approfittò per chiacchierare con Icolina, che non vedeva da tempo.
«Come stai?»
Sotto a un bell’abito azzurro chiaro s’indovinava un accenno di pancia, l’infermiera era ancora distante dal parto ma aspettava il suo primo bambino. Si accarezzò il ventre.
«Bene. Emozionata per il bambino in arrivo, ma io ed Echo ce la caveremo.»
«Certo che te la caverai, hai fatto da balia a Etienne!»
Era stata Electra a parlare. Si era avvicinata e sedette accanto a loro.
«A proposito, dove sta il piccolino? Sono riuscita a vederlo a malapena, oggi.»
Electra si guardò intorno.
«È da qualche parte con Marie e King, parlavano di non so che tana di lucertole.»
Nadia ridacchiò.
«Meglio non saperlo.»
Lì intorno c’era soltanto la loro abitazione, il resto erano campi e boschi, i bambini non correvano pericoli.
 
Etienne batteva il terreno con un piccolo bastone. Era tranquillo e sorridente. Soprattutto, era con amici. Aveva rivisto Icolina dopo tanto tempo. Aveva rivisto sua sorella. Era bellissima in quell’abito tutto bianco. Poi c’era Marie, con le trecce rosse. Non la conosceva, ma era una bambina come lui e parlava un sacco, avevano fatto amicizia presto.
King, enorme, li seguiva e non li perdeva di vista.
Marie aveva in braccio uno dei cuccioli, gli altri li seguivano a poca distanza.
S’erano inoltrati nel boschetto a caccia di lucertole, Marie sosteneva di conoscere un nascondiglio segreto.
Etienne le stava davanti, curioso di esplorare quel boschetto.
«C’è un corvo!» disse.
Eccolo posarsi e gracchiare, una delle sue belle penne nere cadde a terra mentre sbatteva le ali.
Etí la raccolse e la mostrò a Marie.
«Ho trovato un tesoro!»
Marie, per tutta risposta, si buttò sotto un cespuglio e ne riemerse tutta sporca e con il guscio vuoto di una chiocciola.
«Anche io!»
Poco lontano udirono lo scorrere di un fiumiciattolo. Etienne corse in avanti.
«Vado a vedere se c’è qualche bel sasso!»
Marie lo inseguì. Aveva ormai nove anni, era una signorina e non avrebbe dovuto giocare in quel modo rozzo. Se l’avesse vista sua zia si sarebbe arrabbiata. Sua zia, però, per fortuna non c’era. Marie era ospite di Nadia e Jean per tutto il mese.
Raggiunse Etienne, che s’era tolto le scarpe e stava chino nell’acqua bassa.
«È pericoloso!» gli disse.
«No», rispose lui «l’acqua è bassa!»
Marie si sedette sulla riva e lo guardò. Sembrava più grande della sua età.
«Tuo papà è il capitano Nemo, vero?»
Etienne si girò a guardarla e le mostrò il più grande dei sorrisi.
«Lo conosci?»
Sembrava meravigliato.
Marie annuì.
«Sì. Ero piccolina ma me lo ricordo bene. Un po’ mi faceva paura, ma gli volevo bene.»
«Mamma quando si arrabbia fa più paura.»
Marie pensò a Electra, ai giorni sul Nautilus, a quanto l’aveva tormentata per farle fare i compiti e convenne che Etienne aveva ragione.
«Tu gli somigli un sacco. A tuo padre.»
«Lo dice anche mamma.»
 
Il sole sta iniziando a calare.
«I bambini non sono ancora tornati.»
Electra si alza.
«Li vado a cercare.»
È sicura che sia tutto a posto, perché lì intorno non ci sono pericoli ed Etienne bada a se stesso piuttosto bene per essere ancora piccolo.
Certe volte sospetta di non essere una buona madre.
Di una cosa è sicura, però.
Vive per suo figlio.
 
Mentre si incamminava verso il boschetto, stando attenta che la gonna che indossava non le si impigliasse nei rametti, si trovò davanti Grandis. Non se l’aspettava.
«Ciao», le disse.
«Vengo con te, voglio trovare Marie.»
Electra non disse niente, si limitò ad annuire e fare strada.
«Non saranno andati molto lontano.»
Si incamminarono, sempre in silenzio. Non s’erano mai parlate più di tanto dopo la morte di Nemo e la nascita di Etienne. Si rispettavano, certo, ed erano entrambe consapevoli dei rispettivi meriti. Tuttavia avevano un carattere orgoglioso per cui non sarebbero mai andate davvero d’accordo. Troppi eventi le avevano segnate ed Electra non era mai stata una persona facile al perdono.
Grandis, dal canto suo, non l’avrebbe mai ammesso ma più che per Marie era in ansia per Etienne.
Aveva amato davvero suo padre, ed era così stupida da preoccuparsi del figlio che aveva avuto da un’altra donna. Non capiva perché Electra l’avesse lasciato andare in giro da solo anche se era ancora così piccolo, né si spiegava come facesse a essere tanto tranquilla. Era vero, c’era King con loro e nessuno avrebbe osato affrontare un leone adulto, ma erano bambini, potevano inciampare o cadere o chissà che!
In quel momento intravidero proprio King che veniva verso di loro, ringhiando e puntando dritto verso una radura poco distante. Le aveva sentite arrivare ed era andato loro incontro.
Raggiunsero la radura, poco lontano dal fiume, e li videro: uno a piedi scalzi, l’altra col vestito tutto sporco e le trecce disfatte, circondate dai leoncini.
Dormivano, stesi nell’erba. Accanto a loro, una montagna di gusci, piccoli sassi e ramoscelli.
Electra lo osservò, con dolcezza.
Già, forse non era una buona madre. Non era particolarmente tenera o affettuosa, era cordiale ma solitaria e testarda e orgogliosa e dimenticava difficilmente i torti. Aveva sofferto. Come avesse fatto Elusys ad amarla restava un mistero, e restava un mistero come avesse fatto lei ad amare lui.
Eppure s’erano trovati, alla fine, e amati con sincerità assoluta.
S’erano aperti il loro cuore fatto a pezzi.
Avevano ricucito gli strappi un punto alla volta.
Etienne stava esattamente lì, nel mezzo di quell’amore.
Ed era forte e sincero come il sentimento che l’aveva messo al mondo.
Grandis si chinò a svegliare Marie, Electra prese Etienne in braccio.
Nell’erba cominciavano a brillare le lucciole.
Etí, sentendosi sollevare, aprì gli occhi.
«Le stelle!» esclamò guardando le lucciole.
«Sono lucciole», rispose Electra.
«Lucciole?»
Lei annuì.
Etienne s’accorse di Grandis, che stava sistemando il vestitino di Marie.
«Lei è Grandis», disse Electra, «un’amica di Nadia.»
Etienne sbatté le palpebre sui grandi occhi blu, un paio di volte. Aveva sonno.
«Molto lieto!» rispose, poi si appoggiò con la testa sulle spalle della madre.
Grandis non poté impedirsi di sorridere.
«Penso che sia la prima volta che sento un bambino presentarsi con un “molto lieto”.»
Si incamminarono, lei, Electra, Marie, King e i leoncini, verso casa di Jean e Nadia.
«Ci tengo all’educazione», rispose Electra.
Alzò la testa verso il cielo che volgeva al crepuscolo.
«Etienne è… intelligente. Non lo dico perché è figlio mio, lo dico perché è figlio suo. Se ho lasciato che si allontanasse un po’ con Marie è stato perché qui intorno non ci sono pericoli e perché lui sapeva come ritornare. Tangeri è molto più caotica e pericolosa per un bambino, non lo perdo un attimo di vista neppure quando è a casa. Così, visto che qui posso permettermelo, ho pensato di lasciarlo un po’ più libero.»
Già, forse non era una buona madre. Forse non c’era tagliata.
Ma essere genitore non era qualcosa che si potesse imparare. Ogni tanto ripensava a sua madre, una bella donna bionda come lei. Ricordava il modo in cui l’aveva stretta quando il palazzo reale di Tartesso era esploso, in seguito all’attentato in cui la regina era rimasta uccisa. Quella stretta era stata un tentativo di proteggerla da ciò che sarebbe venuto dopo. Ora capiva molto bene quel sentimento.
 
Medina non sa perché si sia salvata, quel giorno a Tartesso, ma sa di aver sentito un abbraccio nell’istante in cui tutto era diventato tenebra e sangue.
I suoi genitori l’hanno abbracciata nell’attimo in cui è caduto il cielo.
 
«C’ero anch’io», intervenne Marie «se fosse successo qualcosa l’avrei aiutato io.»
Non aveva neppure dieci anni e parlava con l’aria vissuta di chi ne aveva viste tante. E ne aveva passate davvero tante, la piccola Marie, a partire dal giorno in cui aveva visto morire i suoi genitori.
Electra le accarezzò i capelli mentre camminavano. Era una bambina coraggiosa.
«Lo so.»
Etienne si mosse contro la sua spalla.
«Quando torniamo voglio dire a Nadia delle lucciole.»
Poi si addormentò profondamente, sfinito da un pomeriggio di giochi, mentre il sole calava sotto l’orizzonte.
 
Apre gli occhi e l’erba ha il colore del giorno.
In cielo, le stelle.
È in giardino.
Ci sono sua madre, Icolina e Nadia.
Più lontano, la donna coi capelli rossi chiamata Grandis, nonno Raoul che parla con Echo e tutti gli altri invitati.
Prova a correre da Raoul.
«Nonno Raoul!»
Non si gira.
«Echo?»
Nessuno gli risponde, nessuno lo vede.
Come al solito.
È così da quando ha memoria.
«Etienne?»
Il suo piccolo cuore batte più forte.
Torna indietro, calpestando a piedi nudi l’erba color del giorno.
Sorride.
«Nadia!»
Voleva proprio parlarle, da tanto tempo.
Le corre incontro, le salta in grembo, lei è ancora seduta con l’abito bianco da sposa.
Struscia una guancia contro quella della sorella.
Lei lo stringe forte.
«Come stai, piccolino? Temevo di non riuscire a salutarti!»
«Bene! Sono andato al fiume con Marie, c’erano le lucciole.»
In quel momento, le stelle sulle loro teste iniziano a cadere.
Una dopo l’altra, verso terra, come pioggia dorata.
Diventano lucciole.
 
Nadia vide Etienne solo la mattina dopo, a colazione.
Anche lui, Electra e Raoul erano loro ospiti.
Il bambino sembrava raggiante.
«Ciao!»
Si sedette accanto a Nadia e prese una tazza di latte.
«Hai visto che te le ho fatte vedere le lucciole?»
Bevve un sorso e Nadia gli pulì col tovagliolo un baffo di latte che gli era rimasto sulle labbra.
Poi capì davvero cos’è che Etienne aveva detto.
«Ieri non ci siamo parlati, Etí.»
Il bambino annuì, afferrando una fetta di torta.
«Il sogno», disse semplicemente.
Nadia alzò lo sguardo verso Electra, esitando. Perché quel sogno l’aveva fatto anche lei.
Electra accennò di sì col capo.
Ne avrebbero parlato dopo colazione.
 
Si sedettero nella veranda sul retro della casa, dove ancora spirava un po’ della fresca brezza del primo mattino.
«Allora?» chiese Electra.
Ma intuiva di cosa Nadia volesse parlarle.
Lei esitava, come se non sapesse bene in che modo intavolare il discorso.
«Hai mai… notato qualcosa di strano in Etienne?»
«Oltre al fatto che conosce la lingua di Tartesso senza che io gliel’abbia insegnata?»
«Stanotte l’ho sognato. Eravamo qui in giardino ma il cielo era notturno. Mi ha detto di aver visto delle lucciole e di aver giocato con Marie.»
«E anche lui ha fatto lo stesso sogno, vi siete parlati e ve ne ricordate entrambi?»
«Sì.»
Electra tacque, pensierosa.
«Non so che capacità sia. Non so perché tu l’abbia visto o perché siate riusciti a parlarvi. Ma a volte sogna… cose. Lo so perché mi racconta i suoi sogni. Una volta mi ha parlato anche di Tartesso, dei suoi vicoli e dei palazzi. Ha detto cose vere. Cose che non può conoscere perché io non gliele ho mai dette. Solo che lui non sa che si tratta di Tartesso. La chiama solo “la città”. Ed è la prima volta che qualcuno in un sogno gli risponde.»
«E questo cosa sta a significare?»
«Non saprei. Tuo padre non mi ha mai parlato di cose del genere. Personalmente, credo che la chiave sia nel fatto che siete fratelli. Non condividete la stessa madre, ma avete comunque in voi sangue di Atlantide. E gli atlantidi sono un popolo misterioso. Neanche Elusys sapeva tutto
«Mi prometti che mi terrai aggiornata su quello che fa?»
«Certo. Comunque non credo che sia niente di preoccupante. Stai tranquilla.»
 
Anche di quel giorno rimane una foto.
I due sposi seduti insieme agli invitati alle nozze, Etienne in braccio alla madre, stessi occhi e stesse labbra, Marie ai piedi di Nadia.
Grandis, Hanson e Sanson a destra.
Raoul vicino a Electra, con gli altri compagni del Nautilus.
Echo e Icolina.
I colleghi di Jean, i colleghi di Nadia da Londra.

Gli zii di Jean.
Electra, sulla nave che riporterà lei, suo figlio e Raoul a Tangeri, guarda la sua copia della foto.
Guarda Nadia, gli occhi verdi, la pelle scura, i capelli neri.
Identica alla madre ma col carattere del padre, introversa, cocciuta e arrabbiata ma in fondo molto dolce.
Poi osserva Etienne, che di Nemo ha i capelli e il naso e tutto ciò che non siano quegli occhi e quelle labbra.
Tutti dicono che è uguale a lei.
Ma lei, Medina, riconosce quel modo di inclinare la testa che ha Etienne quando pensa a qualcosa intensamente.
Riconosce il lampo nel suo sguardo ogni volta che scopre qualcosa di nuovo.
Riconosce perfino l’espressione accigliata quando qualcosa non va come spera.
Sono figli di Elusys, entrambi, ed è una realtà incontrovertibile.
Non ha insistito con Nadia, perché sa quanto lei tema la sua natura aliena.
Sa, però, che lei e suo figlio hanno quel sangue in comune.
Sono figli di Atlantide.
E questo Nadia, un giorno, lo dovrà accettare.
 
 
- continua -


 
N.d.A. Cucù! Non sono morta! Ho avuto un periodo particolarmente intenso e quindi sono riuscita a liberarmi solo adesso. Mi scuso infatti se questo capitolo non è granché ma prometto che la pubblicazione riprenderà con cadenza regolare. Confermo che nel prossimo capitolo comparirà un altro dei nuovi personaggi e ci sarà un altro piccolo salto temporale. Mi rendo conto che può essere un po’ confusionario (e infatti cerco di essere precisa con date ed età dei personaggi), ma queste prime parti sono essenzialmente di set-up. Le cose più avanti si movimenteranno e si salterà decisamente di meno.
Qui però avete avuto un assaggio delle capacità di Etienne, che riguardano i sogni ma non soltanto.
Nel prossimo capitolo, come ho detto, nuovo personaggio in arrivo e un bel po’ di Tartesso.
A presto!
 
Vitani

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Capitolo 9
*** Philippe ***


PHILIPPE
 
 
Le Havre, agosto 1897




Jean camminava ininterrottamente avanti e indietro.
La porta della stanza gli sembrava improvvisamente una prigione.
«E se qualcosa va male?»
King gnaulò.
«Parlo sul serio, King!»
Anche King, probabilmente, parlava sul serio.
Nadia stava per dare alla luce un bambino, il suo primogenito, e Jean era disperatamente in ansia. La levatrice entrava e usciva portando panni e ciotole d’acqua calda, senza però dare notizie. Jean era terrorizzato all’idea che accadesse qualcosa. La gravidanza però era andata bene, dunque cosa sarebbe mai potuto andare storto?
«Cosa, King? Dimmelo!»
Il leone inclinò di lato il testone peloso, come a dire che non capiva.
Suo zio sbucò dalla porta della cucina con in mano una tazza di camomilla.
«Tieni, cerca di calmarti. Sei un uomo, no?»
Sì, era un uomo, ma lo stesso gli tremava talmente la mano da riuscire a malapena a reggere la tazza.
D’improvviso, udirono un vagito oltre la porta chiusa.
Jean lasciò cadere la tazza e la spalancò, senza curarsi delle proteste della levatrice.
Nadia, sudata e stanca, ansimava sul letto.
Accanto a lei, la levatrice teneva in braccio un bambino ancora sporco e col cordone ombelicale attaccato. Con fare esperto tagliò il cordone, lo lavò con acqua calda e lo avvolse nei panni che aveva portato per asciugarlo.
«È un bel maschietto», disse.
Jean annuì, pieno di gioia.
«Si chiamerà Philippe», rispose, «Philippe Lartigue.»
La levatrice lo mise in braccio a sua madre. Nadia, pur se ancora provata, sorrise.
«È bellissimo», disse.
E lo era davvero.
Un bel bambino di più di tre chili, con la pelle color nocciola, leggermente più chiara di quella di Nadia. Piangeva in braccio a sua madre, che se lo portò al seno e lo allattò incurante dello sguardo di Jean.
«Saremo felici», disse Nadia ancora sorridendo «vivrà in un mondo di pace e saremo davvero felici.»
Jean si sedette accanto a loro, sul bordo del letto, e le strinse una mano.
«Certamente», disse.
Suonava come una promessa.

 
Le Havre, dicembre 1897
 
Era diventata quasi un’abitudine quella di ritrovarsi a dicembre per passare le feste di Natale tutti insieme. Erano ormai tre anni che Electra, tutti gli inverni, si imbarcava da Tangeri per andare a trovare Nadia. Lo faceva per Etienne, più che altro, per dargli modo di vedere la sorella almeno una volta l’anno e di trascorrere con lei il suo compleanno. Nadia era ciò che restava della sua famiglia, dopotutto, gli doveva almeno quello. Raoul, invece, di solito rimaneva a Tangeri, perché cominciava a risentire degli acciacchi dell’età e, anche se il viaggio non era lungo, capitava che in quel periodo il mare fosse in burrasca.
Quell’anno, inoltre, avevano il motivo in più di conoscere Philippe.
Electra aveva detto a Etienne della nascita di Philippe, e il bambino era più che curioso di incontrare il nipote. Certo, essere diventato zio a neanche sette anni gli sembrava un po’ strano, parole sue, ma si sarebbe abituato.
Si presentò alla porta da solo, suonando il campanello con un pacco in mano.
Electra lo osservava poco distante, ridacchiando fra sé.
Fu Jean ad aprire la porta.
«Etienne!»
«Ciao, Jean!»
Il bambino era vestito di tutto punto per affrontare il rigido inverno normanno, con tanto di mantellina di pelliccia e cappellino.
«Tieni questo, è per Philippe.»
Sollevò il pacchetto, piuttosto voluminoso, e lo porse a Jean.
«Regalo di Natale?»
«Già. Mamma?»
Electra venne avanti, anche lei vestita secondo la moda occidentale, con un sontuoso soprabito di pelliccia bianca. I capelli biondi erano raccolti sotto il cappello e sembrò a Jean perfino più bella di come la ricordasse.
Jean lasciò che si accomodassero, posò su un tavolo il pacco che gli aveva dato Etienne e ravvivò il fuoco nel camino. Quell’inverno era davvero gelido.
«Fa freddissimo qui», si lamentò il bambino.
«Lo credo bene», rispose Jean «Tu sei nato e cresciuto in Marocco!»
«Anche in Marocco le notti sono fredde», intervenne Electra.
In quel momento Nadia, che li aveva sentiti parlare, si affacciò dalle scale che portavano al piano superiore: «Electra, Etí, siete arrivati! Che piacere! Ora scendo!»
Non fece in tempo, perché Etienne salì su per le scale e le si attaccò alla gonna.
«Mi fai vedere Philippe?»
Electra, dal basso, lo gelò.
«Etienne? Si saluta.»
Etí sgranò gli occhi e lasciò andare Nadia, poi si mise sull’attenti e batté i tacchi degli stivaletti neri che indossava.
«Buonasera, sorella!»
Ma aveva sul volto un sorriso così beffardo che Nadia non poté impedirsi di ridere.
Si chinò e lo strinse forte.
«Ciao.»
«Ora andiamo da Philippe?»
«Sì, ma fai piano che dorme.»
Nadia prese Etienne per mano e lo condusse nella sua camera da letto, dove avevano sistemato la culla del piccolo. Philippe dormiva tranquillo, con un pollice in bocca.
Etienne si alzò in punta di piedi e si affacciò sulla culla. Nadia, accanto a lui, guardò Philippe sorridendo.
«Non ci posso ancora credere», disse «non mi ci vedevo proprio a essere mamma.»
Etienne alzò le sopracciglia. Non capiva certi discorsi, ancora. Mise giù una mano, per accarezzare le guance del bimbo. Aveva la pelle più chiara di quella di Nadia, più o meno come la sua, ma era comunque più scuro di Jean. Per il resto somigliava tutto a lui, ciuffo di capelli rossi compreso.
Ops, sbagliato.
Etienne se ne accorse appena Philippe aprì gli occhi.
Aveva gli occhi verdi, come quelli di Nadia.
E di Sana’a, la regina. La prima moglie di suo padre. La mamma di Nadia.
Etienne l’aveva incontrata una volta, o meglio l’aveva vista da lontano durante un corteo a Tartesso e non aveva osato avvicinarsi per paura che succedesse qualcosa di orribile. Di solito non accadeva mai che Etienne incontrasse persone che per così dire conosceva, ma quel giorno sua madre gli aveva raccontato proprio di Sana’a e forse gli era rimasto impresso ed era successo che si era ritrovato in mezzo alla folla di gente di un corteo. Aveva visto lei, così uguale a Nadia da riconoscerla al volo, una donna giovane col sorriso dolce. Poco dietro di lei, su un cavallo, c’era suo padre Nemo. Anzi, Elusys. Ancora poco più che un ragazzo, sorridente, felice. Diversissimo dall’uomo ombroso di cui sua madre gli parlava.
“Non mi vedete”, aveva pregato, “non mi vedete, non mi vedete, non mi vedete”.
Con tutte le forze s’era ritratto in se stesso e aveva pregato che passassero oltre senza notarlo, senza capire, senza accorgersi che non era a quel luogo che lui apparteneva.
S’era svegliato di botto, in lacrime.
In quel momento, Philippe vagì. Etienne lo osservò a lungo, si specchiò in quegli ingenui occhi verdi e si sentì un po’ più felice.
«Piacere di conoscerti», disse, e gli prese una manina.
 
Lo sguardo di Philippe è fermo su di lei, saldo come mai prima.
“Io non lascio Etienne”, dice.
Nadia scuote la testa.
“Philippe, cerca di capire.”
Non c’è niente da capire.
“Nessuno di noi lascerà mai Etienne, e sai perché? Perché lui non ci ha mai abbandonati.”

 
«Ti ho portato un regalo dal Marocco. Sono dei giocattoli per quando sarai cresciuto. Sono bellissimi.»
Guardò Nadia, con l’espressione profonda che a volte lo faceva sembrare più grande dei suoi anni.
«Quando sei nata c’è stata una settimana di festeggiamenti.»
«Cosa?»
Etienne annuì.
«Cortei, banchetti, feste. C’erano fiori ovunque. Tartesso era una terra molto ricca. Alla fine della settimana sei stata presentata sul balcone del palazzo, con tutta la gente raccolta sulla piazza. Mamma dice che eri carinissima. Lei c’era.»
«Te l’ha raccontato Electra tutto questo?»
Etienne spalancò gli occhi e la osservò in silenzio, per un lungo attimo.
«Anche», rispose infine.
Nadia rabbrividì.
«Andiamo di sotto?» chiese «Porto Philippe giù con noi, così lo può conoscere anche Electra.»
«Sì!»
 
«È un bambino davvero grazioso», disse Electra.
Aveva preso Philippe in braccio e lo cullava, e il bambino restava tranquillo.
«Scommetto che non ti dà nemmeno tanto da fare.»
Nadia fece il solletico al bambino, che rise.
«Non ho tanti metri di paragone ma sì, è buono. Anche di notte dorme quasi sempre. Sono fortunata.»
«Mica come Etienne che invece è sempre stato sveglio fin troppo!»
Etienne sbuffò.
«Devo ammettere, però», continuò Electra «che il periodo in cui era così piccolo un po’ mi manca. Era molto tenero. Adesso corre da una parte all’altra e vuole fare tutto per conto suo. L’anno scorso ha iniziato ad andare a scuola e fargli fare i compiti è un’impresa. Non perché non sia capace.»
Etienne, seduto sul divano, ciondolava.
«Sono troppo facili, io mi annoio.»
Electra alzò le sopracciglia e guardò Nadia con espressione divertita.
«Ecco cosa intendevo.»
Nadia rise.
«Be’, non è necessariamente un male.»
«No, se riesci a tenerlo seduto.»
In quel momento Jean si alzò in piedi.
«Facciamo merenda? Vado a preparare della cioccolata calda.»
Etienne scattò in piedi.
«Evviva, la cioccolata!»
«Vieni in cucina a darmi una mano, Etí?»
«Certo!»
Rimasta sola con Nadia e Philippe, Electra si appoggiò allo schienale del divano.
«Per un periodo ho pensato di ritirarlo da scuola e seguirlo io. Ho iniziato a lavorare come istitutrice presso alcune famiglie, te l’avevo accennato per lettera. Non ne avrei bisogno, abbiamo i soldi e le proprietà che ci ha lasciato Nemo, ma non voglio attingere da quelle più di tanto ed è un bene che anche io mi dia un po’ da fare ora che Etienne è cresciuto. Ti dicevo, ho pensato di ritirarlo da scuola. Ha un’intelligenza notevole e i programmi scolastici standard non lo stimolano abbastanza. Però ha bisogno di stare con ragazzi della sua età, almeno in un ambiente protetto come quello della scuola. Ha bisogno di amici, non voglio che cresca solo.»
«Fa ancora sogni?»
Electra annuì.
«Non tutte le notti, ma sì. E sembrano diventare sempre più dettagliati man mano che cresce. A volte sono sogni veri e propri, a cui si mescolano cose avvenute nel passato recente. Altre volte sembrano ricordi. Sogna spesso Tartesso, per esempio. Mi ha raccontato dei festeggiamenti avvenuti nei giorni della tua nascita. Tutte cose vere che ricordo bene e che non può avere sentito da me. Mi ha detto di avere visto anche me una volta. Mi ha descritto i vestiti e la strada che facevo per andare da casa mia ai campi dove lavoravano i miei genitori. Tutto per filo e per segno. E poi…»
Tornarono, Etienne e Jean, con in mano tazze di cioccolata calda e biscotti allo zenzero.
«Ecco qua.»
«I biscotti li ha fatti la zia di Jean, sono buonissimi!» disse Etienne, che già ne aveva afferrati un paio e li inzuppava nella cioccolata senza troppa classe.
Nadia si alzò.
«Philippe si è addormentato di nuovo, lo porto di sopra così può dormire tranquillo. Poi torno, quindi Etienne vedi di non mangiarmi tutti i biscotti.»
Etienne, bocca piena, fece cenno di sì con la testa.
Nadia prese in braccio l’addormentato Philippe e lo cullò un poco mentre saliva le scale.
Era vero, non si era mai vista molto bene come madre.
Dovette ammettere, però, che non se la cavava poi così male.
Posò Philippe nella culla con delicatezza e gli rabboccò le coperte.
Era un bambino davvero dolce, sì, sempre sorridente già a pochi mesi di vita.
Assomigliava tanto a Jean.
«Dormi bene, piccolino.»
Sentiva delle voci dal piano di sotto. Uno era Etienne che insisteva per provare il pianoforte che avevano in salotto.
«Lo so suonare! La sera di Natale facciamo un concerto!»
Ed Electra confermava che sì, Etienne aveva voluto imparare a suonare il pianoforte.
Sempre perché era curioso, e perché sapeva che anche suo padre lo suonava, quello e l’organo.
«Una volta ho sognato una musica.»
 
Sogna musica odori sapori.
Ricordi.
 
«Ero nella città e passavo vicino al palazzo. Ho sentito questa.»
E suonò.
Un po’ incerto dapprima, ma poi prese la mano con la tastiera e, tranquillamente, buttò giù a orecchio una melodia tenera e un po’ malinconica.
Nadia ebbe il tempo di guardare Electra, di vederla spalancare gli occhi e osservare il figlio con espressione incredula.
Poi sentì qualcosa, dentro di sé, come un ricordo lontano che si risvegliava. Era una musica che aveva già sentito, anche lei. Seppe prima di capire che era una delle composizioni di suo padre. Si sforzò di ignorare la dolcezza, la violenza della nostalgia che la pervase. Elusys era un padre che non aveva praticamente mai conosciuto, eppure le mancava immensamente.
Respirò profondamente, una volta, due.
Poi si inginocchiò e pianse.
 
Quando riaprì gli occhi era in camera sua, senza sapere come ci fosse arrivata.
C’erano Electra e Jean seduti vicino al letto, Etienne era seduto sul cuscino accanto al suo e si teneva un po’ goffamente Philippe in grembo. La guardava incuriosito, senza parlare.
Electra, per contro, le sorrideva.
«Che ne diresti se invitassimo anche Marie, Hanson, Sanson e Grandis a trascorrere il Natale qui? Penso che farebbe piacere a tutti.»
Nadia respirò profondamente, poi annuì. Ci aveva già pensato.
Jean le passò un bicchiere d’acqua e la aiutò a mettersi seduta.
«Stai bene?»
Le accarezzò i capelli.
«Sì», rispose lei, «solo un po’ di stanchezza.»
Sarebbe stato un bel Natale, anche quell’anno.
Philippe, quasi a voler concordare, mosse le braccia.
«E poi tra qualche anno», disse Etienne «io, mamma e nonno Raoul ci trasferiremo in Francia. Così giocheremo insieme, eh, Philippe?»
Sembrava più un desiderio che una possibilità reale.
«Perché no?» rispose tuttavia Electra «Non sarebbe male che Etienne avesse vicino la sua famiglia. Anche Nemo ne sarebbe stato felice.»
Etienne guardò a lungo Nadia, poi sua madre, poi Jean e Philippe.
Osservò il bambino con particolare affetto.
Gli sarebbe piaciuto avere un fratellino minore, ed eccolo lì.
Philippe, coi capelli rossi e gli occhi verdi e la pelle scura, rideva gioioso.
 
«Sai una cosa, Philippe?»
Etienne, vent’anni, guarda Philippe, tredici.
«Non so proprio come farei senza di te.»
Philippe ride.
«Faresti come hai sempre fatto. Troveresti un modo.»
Adora Etienne.
Sono seduti sull’ala di un Wind da collaudare, osservano il cielo e le stelle.
«No, seriamente. Io ho le idee e tu le metti in atto, è fantastico.»
«Perché sono belle idee.»
Etienne ride forte, poi si alza con uno scatto.
«Avanti, collaudiamo questo bambino.»
Porge la mano a Philippe per aiutarlo ad alzarsi.
«Sei sicuro? A tua madre non piacerà.»
«Il primo volo ti spetta di diritto.»
È notte fonda e il cielo, nell’anno del Signore millenovecentodieci, è ancora libero.
 
 
 
- continua -
 
 
N.d.A. Non ho molto da dire riguardo a questo capitolo, se non che spero vi sia piaciuto. Il nuovo personaggio di cui vi parlavo era il piccolo Philippe, di cui sentirete ancora parlare in futuro. A proposito, nel giro di pochi capitoli, tre o quattro al massimo, ci ricongiungeremo all’epilogo della serie animata. Da lì in avanti continuerà a esserci qualche saltello temporale, perché la vicenda di Etienne partirà davvero quando sarà adolescente. Comunque non manca molto e devo dire sono emozionatissima. Continuate a seguirmi e a presto!
 
Vitani

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Capitolo 10
*** Quando sei figlio di tua madre ***


QUANDO SEI FIGLIO DI TUA MADRE

 

 
 
Tangeri, primavera 1900
 
 
«Andiamo a vederla l’Esposizione Universale?»
Etienne non parlava d’altro da settimane. Doveva assolutamente riuscire ad andarci. La prospettiva di tutte le innovazioni e la conoscenza di un secolo raccolte in un unico luogo lo elettrizzava oltre ogni dire.
«Durerà fino a novembre, Etí, certo che ci andremo.»
«Ma presto, vero?»
Praticamente viveva saltellando per casa e si era fatto mandare da Jean, che lo assecondava volentieri, cartoline, libri e opuscoli sull’argomento. Philippe stava bene, diceva nelle lettere, e a tre anni già preferiva giocare con le chiavi inglesi piuttosto che con i trenini. Jean, per far contenta Nadia che temeva continuamente per l’incolumità di Philippe, gli aveva costruito un trenino che si muoveva davvero… con la supervisione del bambino, che aveva riempito di piccole rotaie tutta la casa.
C’era quindi, tra Etienne e Jean, uno scambio di pacchi e lettere assiduo. Jean mandava a Etienne gli schizzi dei progetti a cui stava lavorando e materiale sull’Esposizione, Etienne mandava regalini a Philippe e pupazzetti per riempire il famoso trenino. Electra, dal canto suo, intratteneva la sua corrispondenza con Nadia e si faceva aggiornare sulla salute di Marie e di tutti gli altri. Icolina viveva ancora a Marsiglia e aveva dato alla luce una bella bambina di ormai cinque anni.
A dieci anni, Etienne passava molto del suo tempo nella biblioteca del padre.
Ogni tanto andava da Electra e le chiedeva di leggergli qualche libro scritto nell’antica lingua di Atlantide, che poi era la lingua scritta rimasta in uso a Tartesso. Lui non era come Nadia, la parlava ma non riusciva a leggerla, mentre la sorella era in grado di interpretarne i segni intuitivamente, senza averla mai davvero studiata.
Electra lo capiva. Per chiunque avesse un minimo di curiosità circa le scienze e il funzionamento del mondo, la biblioteca di Nemo era un tesoro. Conteneva, oltre ai testi di biologia e medicina su cui lui aveva studiato, un buon numero di volumi scientifici e tutto ciò che Nemo era riuscito a salvare da Tartesso. Aveva continuato a commissionare l’acquisto di nuovi libri fino a poco prima della sua morte, ed era un miracolo che ci fosse riuscito visto il tipo di vita che aveva condotto.  
Lei stava continuando l’opera, ordinandone di nuovi ogni volta che usciva qualcosa di interessante.
Comprava anche romanzi francesi per Etienne, che amava la fantascienza e i libri d’avventura.
«Non vedo l’ora di andare al cinematografo!»
«Ora pensa a fare i compiti, non al cinematografo.»
Etienne sbuffò, seduto a uno dei tavoli della biblioteca, mentre Electra alzava lo sguardo e si toglieva gli occhiali, chiudendo il libro che stava leggendo.
«Ti resta ancora matematica, no?»
Etienne se la stava prendendo comoda, perché impiegava sempre poco tempo a fare matematica e la maggior parte delle volte si trattava di esercizi per lui così stupidi che non ne capiva il senso.
«Voglio vedere il Palazzo dell’Elettricità all’Esposizione.»
«E lo vedrai, ma ora finisci quei compiti.»
Etienne emise un gemito, ma si chinò sui suoi quaderni e non fece commenti.
Si trattava di operazioni in colonna e piccole equazioni che riusciva a risolvere a mente senza problemi, e in capo a un quarto d’ora aveva già terminato. Electra non avrebbe dovuto stupirsi, era stata lei a insegnargli come risolvere certi esercizi in breve tempo e il bambino s’era sempre dimostrato straordinariamente attento e portato.
«Posso stare a casa domani?» le chiese Etienne.
«Perché dovresti stare a casa?»
Un’alzatina di spalle fu la sola risposta che ottenne.
 
 
Etienne frequentava una scuola francese, insieme coi rampolli degli alti dignitari di Tangeri.
L’aveva iniziata piuttosto tardi, recuperando comunque con facilità gli anni persi, soprattutto per volere della madre che desiderava per lui la compagnia di ragazzi della sua età.
L’idea non era andata a genio a Etienne, che a dirla tutta studiava già piuttosto bene a casa, ma Electra era stata irremovibile ed era meglio non farla arrabbiare.
S’era confidato con Raoul, però, un pomeriggio che erano andati al mercato.
«Io non ci voglio andare a scuola.»
«Perché?»
«Non mi serve.»
Era facile capire il perché.
«Mi odiano tutti.»
«Che dici, Etienne?»
Etienne, gli occhi blu incupiti dal fastidio, era rimasto in silenzio.
Anche in quel momento, seduto al suo banco, guardava torvo la lavagna.
Omar, un ragazzino poco più grande di lui, stava cercando di risolvere una delle equazioni che avevano per compito e stava fallendo miseramente. Etienne iniziava a non poterne più di quella scena pietosa.
«Non lì», disse a un certo punto «Quella cifra la devi sottrarre, non aggiungere.»
Il resto della classe rise, Omar abbassò la testa, umiliato.
«Arwol.»
La voce del maestro, ferma.
«Non vi è stato chiesto di intervenire.»
«Main ise aur nahin le sakata», borbottò Etienne.
Non ce la faceva più, e quando non ce la faceva più gli scappava la lingua di Tartesso, senza volere.
«Come punizione vi assegnerò degli ulteriori esercizi che svolgerete qui in classe al termine delle normali lezioni. Esercizi dal mio libro di testo, per il prossimo ciclo di studi.»
Che gli desse pure quanti esercizi voleva, li avrebbe svolti al massimo in un’ora.
Scrivendone tre versioni, risolte con tre metodi diversi.
Così imparava.
Così avrebbero imparato tutti quanti.
 
 
«Orfano!»
Se li trovò davanti quando uscì da scuola, nel primo pomeriggio.
Tese le labbra in una smorfia e tirò dritto. Si trattava di Omar, probabilmente tornato a vendicarsi dell’onta subita, e della sua banda di amici.
«Tanto lo sappiamo che non hai il padre!»
Etienne inghiottì a vuoto.
«Torna a casa da mamma, orfanello!»
Si fermò.
Lentamente si voltò, li squadrò da capo a piedi.
«Primo, non provate a offendere mia madre. Secondo, non è colpa mia se in matematica sei un somaro. Terzo, io ce l’ho un padre.»
Omar rise, imitato dai suoi amici.
«E dov’è ora?»
Etienne, di nuovo, inghiottì e strinse i pugni. Gli costava doverlo dire.
«È morto in battaglia.»
Lo sapeva il cielo, quanto gli costava.
«In quale guerra? L’ultima qui è finita nel 1844, lo dovresti sapere.»
«Dieci anni fa. Le astronavi su Parigi.»
Risero. Semplicemente risero.
Etienne chiuse gli occhi.
«Era un re, mio padre. Era più grande di quanto i vostri saranno mai. Ed era il capitano di un sottomarino.»
«Sì, e poi? Che altro era, sentiamo? Lo scopritore dell’America?»
Se ne sarebbe potuto andare, come aveva già fatto altre volte. Semplicemente passare in mezzo a quel gruppetto di stupidi, a testa alta, e fare finta che non avessero parlato. A fermarlo, a inchiodarlo sul posto furono le lacrime agli occhi, che lo trattenevano più dei sassi che quei ragazzini tenevano in mano. Che lo colpissero, se volevano. Non aveva importanza. Le lacrime, però, quello erano macigni. Provava rabbia, ma verso chi fosse diretta non riusciva a capirlo. Era questo a lasciarlo immobile, a sfinirlo.
«Vi porto le prove», disse infine «Domani ve le porto. Se non vi andranno bene pestatemi o quello che vi pare. Non me ne importa.»
Corse via, finalmente.
Se li lasciò alle spalle, si infilò nel dedalo confuso di stradine di Tangeri e si perse fra la folla.
 
 
Dovrebbe aver paura, Nadia.
Dovrebbe tremare per suo fratello.
Invece è tranquilla.
«Non c’è pericolo», dice «Vedrai. Corre come una lepre.»
Etienne, dabbasso, fra la polvere, sembra sentirla.
Non si gira ma sorride, alza appena gli angoli delle labbra.
Scatta in avanti.
 
 
Rientrò a casa un’ora dopo e la trovò deserta.
Sua madre gli aveva lasciato il pranzo e un appunto in cui scriveva che era uscita con Raoul per delle commissioni. Meglio così. Almeno Etienne non avrebbe più avuto gli occhi rossi al suo ritorno.
Mangiò, poi si disse che era il caso di cercare delle prove.
Prove, sì, ma di che tipo?
Ci ragionò su.
«Ci sono!»
Le foto del Nautilus e dell’equipaggio. Electra le aveva conservate, bastava cercarle.
«Devono essere nello studio di papà.»
Salì al piano di sopra, sperando che sua madre non tornasse all’improvviso e lo cogliesse in flagrante. Non avrebbe saputo cosa raccontarle ed Electra sapeva riconoscere una bugia.
Aprì la porta dello studio del padre trattenendo il respiro. Era un posto silenzioso, c’erano quell’imponente scrivania e la sedia su cui un tempo s’era seduto Nemo, i suoi libri, le sue cose che nessuno aveva più toccato da quando era stato varato il Nautilus. A Etienne metteva soggezione, anche se aveva libero accesso.
Inspirò profondamente, si avvicinò alla scrivania, aprì i cassetti uno dopo l’altro.
Si sentiva in colpa nel farlo, era come violare qualcosa di sacro, ma non aveva scelta: doveva trovare quelle foto. Niente, nei cassetti non c’erano.
Osservò i libri. Magari erano infilate lì in mezzo o c’era qualche album nascosto fra i volumi.
Era pieno di testi di oceanografia, di medicina e di biologia marina. Etienne li scorse uno dopo l’altro, rapidamente. Si trattava di una biblioteca pregiata, che pochi avrebbero potuto permettersi di avere in casa, ma non erano quei testi a interessargli. Passò le mani sulle costole, si soffermò su un paio di tomi il cui titolo era scritto in strani ideogrammi. Sua madre gli aveva spiegato che quella era l’antica lingua di Tartesso. Lei sapeva leggerla, lui non aveva mai imparato. Prima o poi l’avrebbe fatto. Ne prese uno in mano. Non somigliava a nessun alfabeto, ideografico o meno, che avesse mai visto. Il titolo sembrava emanare una lieve luminescenza azzurra, appena percettibile. Strano, era certo che sua madre l’avesse tenuto in mano e non gli sembrava di ricordare di averlo visto brillare.
Lo ripose nello scaffale e spinse a fondo.
Click.
Il rumore di un meccanismo che si attivava.
Etienne, stupefatto, fece qualche passo indietro e restò a guardare.
Parte degli scaffali della biblioteca scorsero in avanti e poi di lato, rivelando quella che sembrava essere una scala. Scendeva, notò Etienne, ed era buia. Era il caso di andare a prendere una lampada?
Provò ad affacciarsi nel cunicolo, incerto sul da farsi.
Trasalì.
Uno dopo l’altro s’accesero dei piccoli fari sul soffitto del cunicolo, illuminandolo a giorno.
Ormai non aveva scelta, ed era curioso di sapere dove conducesse la scala.
Scese, non senza un briciolo di paura all’idea di essere scoperto.
La scala, a chiocciola, sembrava non avere fine. Etienne capì di essere sceso ben oltre il piano terra quando le pareti attorno a lui iniziarono a farsi fredde e umide. Aveva il cuore in gola e contava i respiri, sempre più terrorizzato. Sua madre non gli aveva mai detto niente riguardo a una cantina segreta, e non riusciva a immaginare cosa vi avrebbe trovato. Magari niente, ma in quel caso perché tenergliene nascosta l’esistenza?
La scala ebbe fine all’improvviso, chiusa da una porta di metallo.
Etienne provò a spingere e constatò che non era chiusa a chiave. Si fece coraggio ed entrò.
L’ambiente, una stanza rettangolare non troppo grande e priva di aperture, non era illuminato. Etienne capì che era completamente rivestito dello stesso metallo della porta solo quando, pestandolo, ne sentì il clangore sotto i piedi.
Fece un passo, poi un altro, a tentoni.
Urtò contro lo spigolo di un mobile.
«Ahia!»
Non ebbe neppure il tempo di chiedersi che cos’avesse colpito. Udì un sonoro “bip” e si accesero tre monitor, proprio accanto a lui. Erano simili a quelli che erano all’interno del Nautilus, stando a ciò che Electra gli aveva spiegato della struttura del sottomarino. Provò a leggerne i dati, se non altro per capire a cosa servissero, ma non riuscì. Uno solo dava segni di vita, mostrava una specie di sbarretta che schizzava verso l’alto a intermittenza, ma interpretarne il significato era troppo per Etienne.
Era meglio che tornasse di sopra, sua madre poteva rientrare da un momento all’altro e in più non aveva ancora trovato le foto.
Proprio mentre si girava per andarsene, però, venne attratto da un armadio.
Stava addossato sul fondo più buio e lontano della cantina, visibile soltanto per via delle ante illuminate dagli schermi.
Oh, be’, già che c’era poteva dare uno sguardo anche lì. Magari avrebbe trovato qualcosa di interessante.
Quando aprì una delle ante, però, non si trovò davanti quello che si aspettava. Niente cianfrusaglie o vecchie carte, nessuna fotografia. C’erano pistole. Pistole e fucili. Una decina almeno, di vario calibro, e a vedersi erano così lucidi da dover essere stati puliti da poco.
Non osò chiedersi che cosa ci facessero degli oggetti simili in casa sua.
Non osò chiedersi se fossero di sua madre.
Magari no, magari erano stati di suo padre. O di Raoul, addirittura. E allora perché nasconderli?
Doveva tornare su, immediatamente. Far scorrere di nuovo la porta della libreria, tornare nella sua stanza e mettersi a fare i compiti.
Doveva.
Senza neppure pensarci prese una pistola in mano.
Era pesante.
Corse via, portandosela dietro, su per le scale come un forsennato. Non aveva neppure guardato se fosse carica.
Ansimando, chiuse dietro di sé il passaggio appena scoperto e osservò la pistola.
Sapeva cosa doveva fare.
 
 
«Omar!»
Era andato dritto verso casa del suo compagno di classe, nascondendo la pistola in un sacchetto, e ora stava aspettando una risposta.
«Omar!» lo chiamò di nuovo «Devo farti vedere una cosa, scendi!»
Il ragazzino s’affacciò poco dopo, scostando i tendaggi bianchi che sventolavano oltre una bifora ornata da colonne.
«Ma chi si vede, l’orfanello. Che vuoi? Fare a botte?»
«Scendi.»
Omar rise.
«Va bene, come vuoi.»
Era chiaro dal suo tono che stava prendendo Etienne in giro. Era più grande di lui, più alto, più forte. Contro un bimbo di neanche dieci anni non ci sarebbe stata storia. Per questo scese in cortile e poi oltre il cancello di casa sua, che affacciava su una piazzetta circondata da grandi case bianche e azzurre. Era un quartiere tranquillo, residenziale, non distante dalla loro scuola.
Non notò lo sguardo di Etienne, non notò la rabbia nei begli occhi blu.
Si trovò solo una pistola puntata contro.
Ammutolito, non riuscì a urlare né a muoversi.
«È vera», disse Etienne «e tu devi lasciarmi in pace o ti colpisco.»
Il vento smosse ancora le tende, nel perfetto silenzio che era calato.
Sul tetto di una bella casa in stile coloniale francese, un galletto segnavento cigolava.
 
 
Electra non riuscì mai di preciso a capire per merito di quale intuito andò dritta nello studio di Nemo prima ancora di passare dalla sua stanza.
Forse era stato per via di Raoul, che aveva chiamato Etienne e aveva ricevuto per sola risposta il silenzio. Electra doveva aver pensato in cuor suo che fosse andato là per nascondersi o per chissà che motivo e non avesse sentito. La stanza era la più lontana dall’ingresso.
Appena entrata, perfino nella penombra che filtrava dalle tende, capì che qualcosa non andava.
Si guardò intorno. Uno dei tappeti era stato smosso, qualche carta sulla scrivania di Nemo spostata. Etienne era di sicuro stato lì.
«Etí?»
Era chiaro che lì dentro non ci fosse anima viva, ma provò comunque a chiamarlo.
Che cosa poteva essere venuto a fare lì dentro?
Fu allora che notò la libreria, quella particolare zona della libreria, e s’accorse che era stata richiusa alla bell’e meglio.
«No…»
Corse di sotto, giù per la scala a chiocciola. Non era possibile, era ancora troppo piccolo. Non poteva essersi accorto di quella stanza. Chissà, magari era stato qualcun altro. Un ladro o simili. L’avrebbe preferito.
La prima cosa che vide furono i monitor ancora accesi. Uno solo di loro mostrava una reazione. S’avvicinò per leggere i dati. C’era stata una forte oscillazione nel livello di quella cosa. Lo strumento di rilevazione, ora calmo, aveva registrato anche la data e l’ora della variazione.
Non c’era possibilità d’errore. Etienne era stato là sotto.
Oh, si disse, se anche fosse, cosa potrebbe avere fatto? Non aveva idea di come funzionassero quegli strumenti, né di quale fosse il loro scopo.
Alzò gli occhi verso l’armadio. Le pistole!
Non ebbe neppure bisogno di contarle, s’accorse immediatamente che ne mancava una.
«Maledizione», mormorò.
Avrebbe dovuto stare più attenta.
Corse di nuovo nello studio, richiuse la libreria avendo cura di cambiare il codice d’accesso. Era uno scrupolo inutile, lo sapeva. Etienne, codice o non codice, sarebbe riuscito in ogni caso a forzare l’apertura e gliel’aveva dimostrato proprio quel pomeriggio.
Ora la cosa importante era andare a cercarlo.
Disse a Raoul di restare in casa, nel caso Etienne avesse desistito dai suoi intenti e fosse rientrato.
Una volta in strada si fermò, trasse un ciondolo dalla tasca della djellaba che indossava e ne aprì il coperchio. Dentro c’erano un ritratto di Nemo e una ciocca dei suoi capelli. Le venne da piangere, per la prima volta dopo molto tempo.
«Tuo figlio ha già dieci anni», sussurrò stringendo il ciondolo «Che cosa vuoi che io faccia?»
Doveva trovarlo, intanto.
 
 
Etienne puntava ancora la pistola.
Omar, terrorizzato, tremava. Una foglia nel vento caldo di quel giorno.
Su, in alto, il galletto segnavento cigolò e girò su se stesso.
«E ora lasciami in pace.»
Etienne sparò.
 
Electra udì lo sparo, sperò che non fosse troppo tardi.
Corse.
 
La canna della pistola fumava ancora.
Etienne inspirò a fondo e abbassò il braccio. Omar si era istintivamente gettato a terra e ancora tremava, ma era illeso. Poco distante, il galletto segnavento giaceva distrutto, centrato di netto dal colpo e poi caduto poco distante da loro.
«Ti lascio in pace», balbettò Omar «Puoi giurarci che ti lascio in pace.»
La gente, intanto, s’affacciava alle finestre.
Cos’è stato, chiedevano, sembrava uno sparo.
Etienne non pensò nemmeno a nascondere la pistola, non pensò ad andarsene, era troppo stordito per badare a quel che gli accadeva intorno. Omar trovò la forza di alzarsi, di correre in casa urlando. Avrebbe avvertito i suoi genitori, di sicuro. Avrebbero parlato.
«Etienne!»
La voce di sua madre.
Era salvo.
Forse…
Electra lo schiaffeggiò, tanto forte da fargli sbalzare la pistola di mano. Lo prese per un polso, raccolse la pistola, lo trascinò via.
«Andiamocene.»
 «Mamma…»
Lei non disse una parola. Corse solo verso casa, tenendolo per quel polso con una forza che Etienne non avrebbe mai creduto possibile.
Una volta al sicuro lo condusse in camera sua, incurante dello sguardo rammaricato di Raoul che era rimasto ad aspettarli.
«Sei un incosciente.»
Non urlò. Non urlava mai, Electra. S’arrabbiava in un modo silenzioso, furente, e quanto più era intenso il silenzio tanto più scavava in Etienne il peso della colpa.
Aveva già due lacrime agli angoli degli occhi e l’espressione spaurita, sconvolta.
«Non gli ho fatto del male», provò a giustificarsi «ho colpito il galletto segnavento, ho…»
«Lo so cos’hai colpito. Ma il tuo proiettile avrebbe comunque potuto far del male a qualcuno.»
«Te lo giuro non lo volevo uccidere.»
«Lo so. Ma questo non ti autorizza a rubare una pistola e a curiosare dove non dovresti.»
Etienne si mordeva il labbro inferiore, trattenendo le lacrime a stento.
«Scusami.»
«Resterai in camera tua fino a domani, per schiarirti le idee su quello che hai fatto. Poi vedremo quale sarà il tuo destino.»
Il bambino, con le spalle che tremavano, ebbe la forza di annuire.
Lo sguardo di Electra, mentre lo osservava, era gelido. Non mostrava segni di pietà.
 
 
«Fu dopo quell’avvenimento che mamma decise di ritirarmi da scuola. Col senno di poi ho capito che lei, in realtà, era quella più in pena di tutti. Tende sempre a nascondere quando soffre.»
 
 
La porta si chiuse alle spalle di lei, Etienne si trovò solo, spaesato perfino dentro quelle quattro mura che conosceva così bene. Solo allora pianse, dopo che si fu steso sul letto e raggomitolato dentro una coperta.
«Papà…» sussurrò.
Chiuse gli occhi, morse il cuscino per strozzare i singhiozzi in gola.
Era spaventato, nemmeno lui sapeva quale istinto l’avesse spinto a prendere quella pistola, cosa gli avesse guidato la mano, perché avesse deciso di sparare al galletto segnavento. Non voleva uccidere nessuno, era più che vero. Serrò le palpebre. Non voleva ripensare a quei momenti, né riviverli.
«Papà, dove sei?»
A lungo chiamò suo padre, fra le lacrime.
Sapeva che non gli avrebbe mai risposto, ma desiderava soltanto che fosse lì, che lo abbracciasse, che gli dicesse che andava tutto bene.
 
 
«Mamma ha dovuto farmi anche da padre, per ventisei anni. Non è stato facile.»
 
 
Mezz’ora dopo, sfinito dalle lacrime, Etienne crollò addormentato.
 
 
Il bambino, nemmeno dieci anni, si sveglia nel mezzo di un sogno e capisce di non essere solo.
Non ricorda di essersi addormentato, ma sa che stava piangendo.
Il vuoto di suo padre gli mangia il petto.
Riconosce le colonne, Tartesso, il palazzo.
Poco male, si dice, perché non è la prima volta che si sveglia lì.
«Chi sei?»
Sobbalza.
C’è una presenza, sì, ma è talmente simile a quella di Nadia che Etienne se ne accorge davvero solo quando è troppo tardi.
Capisce di aver commesso un errore madornale.
Poco prima di addormentarsi stava pensando a suo padre, Elusys, al desiderio di averlo accanto.
Ecco perché è a palazzo.
Per arrivargli il più vicino possibile.
Ma è la voce di un bambino quella che ha sentito.
«Chi sei?» chiede di nuovo.
Si gira.
Un bambino apparentemente di cinque o sei anni.
Capelli di un nero bluastro, come quelli di Nadia.
Occhi verdissimi, come quelli di Nadia.
E i lineamenti del viso, il tono di scuro della pelle.
Sa perfettamente chi sia quel bambino, che non sembra spaventato ma solo incuriosito dalla sua presenza.
«Come ti chiami? E che cosa fai qui?»
Etienne inghiotte a vuoto.
Il bambino è Vinusis, suo fratello.
Etienne si sforza di mantenere la calma.
«Mi chiamo…»
Ha un’esitazione. Vorrebbe in parte rivelargli il suo vero nome. Ma no. Non può.
«… Etienne», esala infine.
Vinusis sorride, non gli chiede cosa ci faccia lì. Non sembra nemmeno sorpreso, ma non è possibile che l’abbia riconosciuto. Etienne è certo di non essersi mai rivelato a Vinusis prima, anche se l’ha visto più volte da lontano.
Forse Vinusis non è sorpreso perché capisce che non si tratta di una reale minaccia.
Etienne sa bene come deve apparirgli: una figura azzurrognola, traslucida, poco più che un ologramma.
Se Vinusis tentasse di toccarlo, gli passerebbe attraverso.
È già tanto che riesca a vederlo.
Sua madre bambina, che Etienne ha incontrato diverse volte in quei sogni, non è mai riuscita a scorgerlo.
Neanche una volta.
Vinusis continua a sorridergli. Sembra un bambino dolce, benevolo. Somiglia molto alla madre, la regina Sana’a, così come la descrive Electra. Un sorriso gentile, lo sguardo pacato e limpido.
Somiglia a Nadia solo nell’aspetto, in effetti, e a quel pensiero Etienne quasi ride.
Poi Vinusis si volta, sentendo delle voci lungo il corridoio.
«Andiamo», dice «Sono mio padre e il primo ministro, Nemesis. È meglio che non ti vedano.»
Etienne trattiene il respiro. È la prima volta che sente la voce di suo padre.
Segue Vinusis, però. Ha ragione. È meglio che non lo vedano.
Il bambino lo conduce in camera sua, una bella stanza ampia dal soffitto a cassettoni con una balconata che affaccia sul cortile interno e un letto a baldacchino. Vinusis si siede, gli fa segno di accomodarsi accanto a lui.
«Da dove vieni? Non è qui il tuo corpo.»
Etienne non sa bene cosa rispondergli. Annuisce.
«Ogni tanto, quando mi addormento, sogno di trovarmi in posti diversi. Credo sia la prima volta che qualcuno riesce a vedermi. Non so perché mi succede. Però vengo dal Marocco.»
Questo può dirglielo.
«Forte!»
«È anche la prima volta che qualcuno riesce a vedermi.»
Ed era la prima volta che incontrava suo fratello.
Che parlava con suo fratello.
Tirò su col naso, poi sorrise.
«Riesci a fermarti? Già che sei qui, ti va di giocare?»
«Non riesco a toccare le cose.»
Vinusis sembrò sorpreso.
«Sicuro?»
Etienne annuisce.
«Pazienza, inventeremo qualcos’altro.»
Etienne non sa per quanto tempo riuscirà a rimanere. Non è qualcosa che controlla. Dipende da quand’è che si sveglierà nel mondo di là. Spera il più tardi possibile.
Giocano davvero.
Quasi tutto il pomeriggio, o almeno così sembra in quel palazzo di Tartesso.
A un certo punto sentono il pianto di un neonato, giù in cortile.
Etienne non riesce a trattenersi, si affaccia quel tanto che basta da vedere quel che sta succedendo.
C’è la piccola Nadia in braccio a sua madre. È bellissima, Sana’a.
A guardarla Etienne pensa che forse, se fosse stata ancora viva e lui fosse nato comunque, lei gli avrebbe voluto bene lo stesso. Sembra quel tipo di persona che riesce ad amare incondizionatamente.
Ma no.
Quella è sua madre, Medina.
Electra.
Lei ha amato sempre, e ama ancora, a dispetto di tutto.
A dispetto anche della morte.
C’è suo padre che si avvicina alle due, accarezza piano la bambina che piange.
Etienne, col cuore in gola, trattiene le lacrime.
Non gli manca Elusys in senso stretto, perché non l’ha mai conosciuto.
Eppure, da che ha memoria, l’ha sempre cercato.
Il vuoto della sua assenza è incolmabile.
Invidia un po’ Nadia, in quel momento, perché lei, almeno, l’ha incontrato.
Guarda la sorella e sorride. Le vuole bene, le ha sempre voluto bene.
Percepisce che si sta svegliando, appena prima che le lacrime scendano.
Sorride a Vinusis.
«Devo andare.»
Il fratello lo osserva, sembra che stia per dire qualcosa, poi si blocca.
«Torni?» chiede.
«Non so.»
C’è un’ultima cosa che Etienne deve domandare.
«Per favore, non dire che mi hai visto. A tuo padre soprattutto.»
 
 
Le cose iniziarono a cambiare dopo quella settimana. La gente parlò a lungo dell’incidente. Etienne tornò a scuola solo per essere guardato in modo strano, additato da lontano come quello la cui madre, che non aveva un marito, nascondeva in casa chissà quante armi.
Etienne non si scusò per quanto aveva fatto, cosa che rafforzò la sua fama di ragazzino intelligente ma difficile, cresciuto senza un padre che lo mettesse in riga.
A Electra non importava ciò che dicevano di lei, ma temeva che la situazione diventasse troppo pesante per Etienne. Del resto, non doveva farne una colpa a suo figlio. Era lei, se mai, a doversi prendere delle responsabilità. Etienne si era comportato molto male, ma era Electra ad aver tentato di farlo vivere come un bambino normale quando, be’, non era un bambino normale.
Lei avrebbe dovuto saperlo.
Era stata un’ingenua, invece. Aveva sperato che lui si facesse degli amici, che vivesse una vita come tutti gli altri. Si stava rivelando impossibile. Etienne aveva ereditato il sangue di Atlantide dal padre. Aveva la capacità di sognare il passato, e già questo era spaventoso abbastanza. Etienne non conosceva quei suoi poteri e ne era spaventato, questo Electra lo capiva bene e sapeva il cielo se avrebbe avuto bisogno di Elusys accanto. Lui avrebbe saputo cosa fare. Avrebbe saputo guidare il figlio attraverso se stesso. Lei, invece, da umana non poteva fare tanto. Però, si disse, Elusys era morto con la certezza di aver lasciato il suo bambino nelle mani più sicure possibili.
Elusys aveva guidato lei. Le aveva insegnato ogni cosa.
Lei era un essere umano, ma era la persona che conosceva Atlantide meglio di tutti.
In quel momento, seduta nel cortile interno della loro palazzina, decise.
«Raoul», disse «vai a chiamarmi Etienne.»
Raoul, con cui aveva parlato a lungo dei suoi dubbi, concordava che fosse l’unica cosa da fare.
 
Era una giornata limpidissima, soleggiata, il vento spazzava la costa come se avesse voluto tirarla a lucido. Electra aveva portato Etienne in una spiaggetta nascosta poco fuori Tangeri.
Non aveva detto nulla a Etienne riguardo alle sue intenzioni, c’era una cosa di cui doveva prima accertarsi.
«Tieni», gli disse, e gli mise in mano la stessa pistola con cui aveva sparato quel giorno.
Etienne sgranò gli occhi.
«Cosa…»
Osservò Electra, che prese una bottiglia da una borsa che aveva con sé e la sistemò a qualche metro di distanza.
«Dovrai provare a colpire queste. Te le metterò a diverse distanze.»
«Perché?»
«Hai rischiato di fare del male a un ragazzo, se proprio vuoi sparare sarà meglio che impari a farlo.»
«Ma io non…»
«Silenzio.»
Etienne sospirò. Se sua madre aveva deciso così, c’era poco da fare. Era meglio che si desse da fare. Impugnò la pistola ed Electra gli corresse la presa.
«Non stringere il calcio così forte. Devi essere saldo ma rilassato.»
Etienne cercò il bersaglio con gli occhi, mirò, premette il grilletto.
Il colpo andò a vuoto, anche se per poco.
«Dai a me», disse Electra «e guarda bene come faccio, soprattutto la postura del corpo.»
Fece tre centri, uno dopo l’altro.
Etienne, di nuovo, restò senza parole. Che cosa…
«Ho dovuto imparare», disse Electra «per sopravvivere.»
«Sopravvivere?»
«Tuo padre, Etienne, era il re di Tartesso e un biologo marino. Questo lo sai. Ciò che non sai è che il Nautilus non era un sottomarino nato per studiare i fondali oceanici. Non soltanto, almeno.»
Etienne ricordò le esplosioni. Qualcosa che, di tanto in tanto, gli attraversava i sogni.
«Il Nautilus era un mezzo nato per dare la caccia ai Garfish, le unità sottomarine nemiche. Ti racconterò tutto tra poco, te lo prometto. Ora però spara a quelle bottiglie.»
Etienne annuì.
Bang!
Era la prima volta nella sua vita che si sentiva così.
Bang!
Elettrizzato, felice. Forse, finalmente, i quesiti che si portava dentro da quando era nato avrebbero trovato risposta. I suoi sogni, quegli sprazzi di urla e dolore che udiva nel sonno così distintamente, Nadia che piangeva e gettava una pietra azzurra giù dal ponte del Nautilus durante una tempesta…
Immagini, frazioni di secondo.
Bang!
Centrò quasi tutte le bottiglie.
Electra pareva soddisfatta. Era bella, vestita di bianco e coi capelli biondi e lunghi che sferzavano il vento.
«Bene. Pare che tu abbia ereditato la mia mira.»
Etienne la guardò, con gli occhi blu spalancati.
«Per questo ci sono tutte quelle armi in cantina?»
Electra, per la prima volta dopo tanti giorni, rise. Sedette su una roccia che affiorava dalla sabbia e invitò Etienne a sederle in grembo. Lo strinse forte.
«Così mi soffochi.»
Continuò a ridere, Electra, e gli baciò i capelli scuri. Il suo bambino. Il suo adorato bambino. Lo abbracciava e, per la prima volta da tempo, si sentiva felice. Forse non sarebbe stato semplice ma ormai era certa che, qualsiasi cosa fosse accaduta, lei ed Etienne insieme ce l’avrebbero fatta.
Avrebbe protetto sempre il suo piccolino, che amava più di se stessa.
«Sai, Etienne», cominciò «tu sei un figlio di Atlantide. E io sono qui per rispondere alle tue domande. Tutte quelle che vorrai.»
 
 
«Mi raccontò tutto. Cos’era Atlantide, da dove venivano gli uomini, la guerra contro Gargoyle. Mi raccontò cose che avevo visto nei sogni, di Nadia, di te. Poi mi insegnò la storia, la scienza, integrò tutto quello che già conoscevo. Io assorbii tutto, senza limiti, divorai il sapere come si divora un pasto succulento. Era ciò che avevo sempre conosciuto in cuor mio e che non riuscivo a spiegarmi, era la mia stessa natura. Poiché ero un principe di Tartesso, trascorse i mesi e gli anni successivi a educarmi come tale. Prima che le mie domande, quesiti di cui intuivo la risposta ma non conoscevo la ragione, divorassero me. Lei, che aveva tentato con tutte le sue forze di garantirmi una vita normale, da ragazzo umano, fece tutto questo dopo aver capito che io non ero né sarei mai stato un normale ragazzo umano. Sarei stato condannato alla follia, altrimenti, tormentato dalle domande e dalla rabbia di non avere risposte certe e dall’impossibilità di ottenerle né di sapere chi ero.»
Etienne, in piedi contro la balaustra in rovina, li osserva entrambi.
Luccicano d’affetto, i begli occhi blu, e di determinazione.
«Così, invece, mi trovo esattamente nel luogo in cui devo essere e sono pronto a fare quel che va fatto.»
Lei è in lacrime, gli si avvicina, lo stringe.
«Perché?»
Lui non vacilla, sorride.
«Vi amo.»
 
 
 
 
- continua -

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Capitolo 11
*** L'Esposizione Universale ***


L’ESPOSIZIONE UNIVERSALE
 
 
 
Le Havre, estate 1900
 
 
«Mamma!»
Etienne era esaltato.
«Sono troppo felice di essere qui.»
Electra sorrise.
«Mi fa piacere.»
Erano seduti nel piccolo salotto di casa Lartigue ed Etienne sorseggiava un succo di frutta gentilmente offerto dalla padrona di casa. Nadia, come suo solito, andava e veniva. C’era sempre qualcosa da fare, sosteneva, piatti da sistemare, panni da lavare. In verità sembrava solo nervosa perché Jean, in quel periodo, si vedeva in casa meno che mai e aveva preso l’abitudine di portare il piccolo Philippe, che aveva solo tre anni, con sé nelle sue scorribande.
È un talento, diceva, diventerà un grande inventore!
Nadia sbuffò.
«Come se uno in casa non fosse già abbastanza!»
Raoul, seduto accanto a Etienne, ridacchiò.
«Problemi con Jean, Nadia?»
Nadia si lasciò sfuggire il suo miglior sorrisetto sarcastico.
«Come ti viene in mente?»
Servì agli ospiti una crostata di ciliegie e si sedette vicino a Electra, sistemando le gonne del lungo abito rosa da casa che indossava.
«C’è l’Esposizione Universale e non sta più nella pelle, è da un anno che lavora all’ennesima aeromobile e qualcosa mi dice che sarà un fiasco come le precedenti.»
«Jean è un grande meccanico», puntualizzò Raoul, «ma quando si tratta di costruire qualcosa da zero perde di vista la funzionalità.»
Anche lui, dovette ammetterlo, era emozionato all’idea di vedere un’Esposizione Universale. Non ne aveva mai avuto l’occasione e questa sarebbe forse stata l’ultima opportunità. Cominciava a non avere più l’età per certe cose e per questo aveva deciso di attraversare il Mediterraneo ancora una volta, fino in Francia.
Era anche molto felice di vedere Nadia. La trovò in forma, quei battibecchi erano sempre stati la normalità fra lei e il marito, il vecchio capo-macchinista non dubitava che i due andassero ancora d’amore e d’accordo. Era normale, dopo tutto quello che avevano rischiato quand’erano solo dei ragazzini…
La porta d’ingresso s’aprì all’improvviso e ne emerse Jean, bagnato di sudore e con Philippe in braccio.
«Nadia, hai qualcosa di fresco da bere? Si muore di caldo nel laboratorio… oh, ragazzi! Siete già arrivati?»
Rise e poggiò Philippe a terra.
«Non ricordavo che arrivaste oggi, scusate, coi preparativi per l’Esposizione ho perso il senso del tempo.»
Risero tutti, eccettuata Nadia che gli mise in mano un bicchiere d’acqua senza tanti complimenti.
«Bevi e fila a renderti presentabile.»
Jean obbedì senza discutere e corse verso la stanza da bagno, portandosi dietro Philippe che era sporco di olio da motore quanto lui.
Nadia sospirò, con fare melodrammatico.
«Lo so che dovrei impedirgli di coinvolgere Philippe nelle sue ossessioni, ma hanno lo stesso identico carattere e davvero non so più come fermarli.»
Le veniva da piangere ma, sotto sotto, era piuttosto divertita. Amava davvero Jean.
«Vado un attimo su a vestire Philippe e torno. Se conosco Jean, sarebbe capace di mettergli la camicia al contrario.»
Tornarono tutti e tre una mezz’oretta dopo, Philippe mano nella mano con la mamma. Era un bel bambino, identico a Jean se si eccettuavano gli occhi verdi e la carnagione un po’ scura. Vide Etienne e il suo sguardo si illuminò.
«Ciaooo!»
Si divincolò dalla stretta della madre e corse sul divano ad abbracciare Etienne, che rise.
«Ciao, Phil! Come stai?»
Il bimbo rise.
«Bene! Con papà costruiamo un aereo!»
«Grande! Poi me lo fai vedere?»
«Sì sì!»
Etienne si mise Philippe sulle ginocchia.
«Ora facciamo merenda», disse, e gli passò un pezzetto di crostata.
Jean e Nadia si accomodarono a loro volta e Jean bevve un sorso di succo di frutta.
«Tu come stai, Etí?»
Il bambino sorrise.
«Bene. Non vado più a scuola.»
Perché avesse deciso di esordire proprio con quella notizia, Electra non lo capì mai. Fatto sta che ritenne giusto intervenire, per spiegare almeno un po’ la situazione ai suoi compagni.
«Aveva problemi con gli altri bambini. Ora lo seguo io a casa.»
Etienne non sembrava uno che avesse difficoltà a relazionarsi con la gente. Anche in quel momento sorrideva come se non avesse avuto un problema al mondo. Nadia lo osservò a lungo ma non ebbe cuore di chiedere che tipo di guai avesse avuto.
Raoul, a sua volta, osservava il bambino che s’era messo a giocare con Philippe, gli faceva fare cavalluccio sulle gambe. Lui aveva parlato a lungo con Electra, avevano ragionato su quale fosse la cosa migliore da fare a lungo termine. Raoul, in particolare, aveva pensato a Nemo. Etienne certo non era un ragazzino come gli altri, per quello aveva problemi a inserirsi.
Raoul non avrebbe saputo dire da dove originasse una tale difficoltà. Etienne gli era sempre sembrato un bambino simpatico, gioviale. Non riusciva a capire come avesse potuto non fare amicizie e perché preferisse trascorrere il suo tempo con gli adulti. Ne aveva parlato a Electra, che gli aveva sorriso.
“È il motivo per cui faccio fatica anch’io”, aveva detto. “Io ho fatto e visto troppe cose ormai, vivo una vita tranquilla ma non sarò mai davvero a mio agio nella società cosiddetta normale. Etienne, be’… avrei voluto che vivesse in pace, con la spensieratezza che io non ho mai conosciuto. Lui però è intelligente. Anche volendo tenerlo all’oscuro di tutto, avrà sempre più domande da porre. Sulle sue origini, su suo padre. È figlio di Elusys, Raoul. Piuttosto che vederlo divorarsi nell’incertezza, preferisco spiegargli tutto.”
Raoul aveva sospirato.
“Che faremo se dovesse venire intrappolato anche lui nella spirale dell’odio?”
Electra aveva chiuso gli occhi, Raoul le aveva letto la preoccupazione in volto.
“Speriamo che non succeda”, era stato tutto ciò che lei era stata in grado di rispondere.
Non era successo, ora Raoul poteva dirlo.
Etienne aveva ascoltato, aveva compreso, era andato da lui per farsi raccontare del padre e di tutto il resto. Aveva fatto molte domande, a cui erano seguite altrettante risposte.
Sembrava essere andato tutto bene.
Etienne era un bel bambino di dieci anni, coi capelli scuri del padre, la pelle bronzea e gli occhi blu, sorridente e tranquillo. Esaurite le sue domande, aveva iniziato a studiare con foga tutto quello che la madre gli suggeriva e aveva ottenuto risultati brillanti. Era incredibile una tale sveltezza in un bambino così piccolo. Raoul non avrebbe saputo dire se gli derivava dal sangue di Atlantide o dall’essere figlio di Electra o, be’, da entrambe le cose.
 
“Nonno Raoul?”
“Sì?”

“Papà mi voleva bene?”
Il vecchio annuisce.
“Tantissimo. Ti ha voluto bene dal primo momento.”
“Allora perché ha deciso di salvare Nadia quella volta?”
Raoul trasalisce. Non sa chi gliel’abbia detto. Non sa se sia stata Electra. Sa perfettamente a che cosa il bambino si stia riferendo. Pensa bene a come gli può rispondere.
“Etienne”, dice infine, “se tu fossi stato al posto suo, avresti lasciato morire tua sorella?”
Etienne spalanca gli occhi, sbatte le palpebre più volte, come se mai avesse pensato a quell’eventualità.
“No”, risponde, ed è sincero.
Raoul sospira di sollievo.
Non ha più dubbi, Etienne è un bambino dolce, che non coltiva alcuna traccia di malizia.
Di entrambi i suoi genitori ha preso il meglio.
 
 
«Vi va di andare a vedere l’aereo che ho costruito?» propone Jean. «Siamo pronti per il volo di collaudo.»
«Volentieri!»
 
Il “Nadia X” era un velivolo monoposto progettato per essere veloce e facilmente manovrabile.
Non era un biplano, come al solito di Jean che sosteneva che il futuro sarebbe appartenuto ai monoplani, e aveva un motore alimentato a combustibile – quale, Jean non aveva voluto rivelarlo – che lo rendeva più stabile dei prototipi di velivolo attualmente in circolazione.
Jean controllò la fusoliera, la saldatura delle placche metalliche che rivestivano lo scafo.
Il serbatoio era pieno.
«A posto», disse. «Possiamo provare a farlo partire.»
Etienne, con Philippe attaccato alla gamba, osservava affascinato.
«Posso salirci?» chiese.
Jean annuì.
«Certo.»
«Mamma?»
Electra guardò il figlio, poi annuì a sua volta. Era inutile provare a fermarlo.
Etienne sorrise, poi si arrampicò fino al sedile.
Jean saltò su una delle ali, per mettere a punto le ultime cose.
«È facile da pilotare», disse, «c’è un’unica leva con cui direzionare il timone e prendere o diminuire di quota, questo pulsante serve per attivare gli stabilizzatori che facilitano l’atterraggio, servono soprattutto in caso di vento o brutto tempo. C’è anche un paracadute in caso di manovre… burrascose. Pensi di aver capito?»
«Sì.»
Nadia, che osservava la scena, sussurrò a un orecchio di Electra: «Se Jean riesce a pilotare, ce la può fare anche Etienne.»
Electra sorrise.
«Non ho dubbi.»
Jean, intanto, era sceso.
«Comincio a dare i giri all’elica», disse.
Etienne annuì.
 
 
«Avevo dieci anni la prima volta che sono salito su un velivolo. Era uno di quelli costruiti da Jean, si chiamava Nadia-qualcosa. Ricordo di aver pregato che non avesse il caratteraccio di mia sorella, o mi sarei schiantato dopo il primo metro. Ricordo che Jean diede i giri all’elica, poi mi urlò di tirare verso di me la leva di comando in modo da prendere quota.
Io obbedii e, be’, il Nadia-qualcosa funzionò.
Non dimenticherò mai la sensazione di quando mi staccai da terra, il velivolo che mi tremava intorno per l’attrito.
Guardai sotto di me e c’erano tutti, mi salutavano.
Feci una curva ampia sopra la casa di Jean, poi decisi di azzardare e presi quota, col terrore che mia madre mi sgridasse una volta sceso.
Ricordo la sensazione, però.
Ero libero.
Mi sentivo come mai m’ero sentito in vita mia.
Leggero, felice.
Ho alzato gli occhi e sopra di me c’era un cielo blu immenso, sconfinato, punteggiato da qualche nuvola bianca come zucchero filato.
L’ho adorato.
All’epoca non avrei mai immaginato che il volo per me sarebbe diventato quasi una professione.
Non avrei immaginato neppure che non poter più volare sarebbe stato il mio più grande rimpianto.
A un certo punto, proprio mentre iniziavo a godermi il vento, il motore iniziò a fare uno strano rumore.
Aumentò la pressione interna, capii d’intuito che la struttura rischiava di spezzarsi.
Scesi, atterrai non so come tutto intero.
Mi vennero tutti incontro e io ridevo.
Ridevo come non ho mai più riso in vita mia.
“Sono atterrato in orizzontale!” urlavo.»
 
 
«Devi trovare il modo di far reggere il velivolo alla pressione, Jean. Hai visto cos’è successo a Etienne, no? Appena ha preso quota le rivettature hanno rischiato di saltare.»
Erano sul treno che li avrebbe portati a Parigi, all’Esposizione Universale. Raoul stava discutendo con Jean sul modo migliore di sistemare il “Nadia X” in vista della gara che si sarebbe tenuta nel pomeriggio.
«Ma è costruito per essere veloce, non per salire a quote alte!»
«Veloce lo è», si intromise Electra, «o forse è solo colpa di mio figlio che è uno spericolato.»
Etienne, accanto a lei, stava aiutando Philippe a mangiare la pappa tenendolo sulle ginocchia.
«Non sono spericolato», rispose. «E poi sono atterrato tutto intero o no?»
«Fammi vedere i progetti, Jean», disse Raoul. «Vediamo che possiamo fare tenendo conto del poco tempo.»
Dieci anni prima erano riusciti a far volare una nave spaziale, non c’era motivo per cui non potessero farcela adesso con un piccolo velivolo monoposto.
Trascorsero un’ora buona a passarsi i progetti di mano in mano.
«La fusoliera va alleggerita», disse Raoul, «in questo modo guadagniamo in velocità.»
«Inoltre la struttura delle ali va modificata», aggiunse Electra. «Ve lo ricordate l’Exelion? Le placche delle ali gli conferivano manovrabilità. Qui sono ancora troppo rigide, per questo rischiano di spezzarsi.»
«Non stiamo parlando di una nave spaziale.»
«Lo so, ma diventerà più stabile.»
«Infine», puntualizzò Jean, «ci serve un pilota. Avevo intenzione di salire io, ma credo che sarò più utile con una chiave inglese in mano.»
«Vado io», si offrì Etienne. «Se mi dici qual è il percorso posso memorizzarlo.»
«Il giro è semplice, si parte dal ponte Alexandre III, si percorre il lungosenna e si fa un giro intorno alla Tour Eiffel, il tutto nel minor tempo possibile.»
«E che si vince?»
«Una coppa e soprattutto soldi.»
«Affare fatto. Mi dai la metà?»
«Etienne.»
Electra li interruppe. Che suo figlio volesse pilotare quel trabiccolo andava ancora bene, ma che si mettesse a estorcere denaro era inconcepibile.
«Ops.»
Il bambino sfoderò il suo miglior sorriso.
«Posso, mamma? Per favore?»
«Vedremo.»
«E dai!»
«Silenzio.»
«Scherzi a parte te la senti, Etienne?» chiese Jean.
Lui annuì.
«Certo.»
S’era talmente divertito che non vedeva l’ora di riprovare.
 
Raggiunsero Parigi che era già ora di pranzo. Avevano mangiato dei panini in treno, quindi andarono direttamente alla sede della gara davanti al Grand Palais.
«L’aeroplano l’ho fatto spedire, dovrebbe essere già arrivato.»
Mentre Jean andava a parlare col gestore dell’evento, Nadia si guardava intorno.
«Questa atmosfera mi riporta in mente un sacco di cose. È stato a una fiera come questa che ho incontrato Jean ed è iniziato il nostro viaggio.»
Si voltò verso Electra, Raoul ed Etienne, che teneva Philippe per mano.
Il bambino, ipnotizzato dai colori vivaci dei velivoli, sorrideva e cercava di togliersi i piccoli occhiali che indossava.
Jean tornò, sventolando un foglietto: «Mi hanno dato il numero del box e l’ordine di gara, siamo quarantaseiesimi!»
Raoul guardò l’orologio: «Cioè finiremo a pomeriggio inoltrato.»
«Quand’è così», sorrise Nadia «vi va di fare un giro?»
«Perché no», rispose Electra. «Jean e Raoul però è meglio che restino qui e inizino la messa a punto.»
«Ma…»
«Niente ma, Jean.»
Il tono che usò fu così assertivo che nessuno osò opporsi. Raoul, accanto a lei, sorrise.
«Agli ordini, vicecomandante.»
 
Percorrevano il lungosenna, Nadia per mano con Philippe ed Electra con Etienne poco più indietro. Dovevano stare attenti a non perdersi di vista, perché la folla era incalcolabile. L’Esposizione, che segnava la fine di un secolo e l’avvento di un altro, aveva attirato gente da ogni parte del mondo. Chiunque potesse permettersi il viaggio era là, a Parigi, quell’estate.
Etienne insistette per provare il trottoir roulant, un marciapiede mobile che percorreva il tracciato dell’Esposizione per millecinquecento metri, ma risolse ben presto che era troppo lento per i suoi gusti. Volle prendere un gelato, che divise con Philippe, poi iniziò a scalpitare per arrivare al Champ de Mars.
«Voglio vedere il Palazzo dell’Elettricità!»
«C’è ancora il sole, vedrai ben poco», rispose Nadia. «Ci andiamo dopo cena, tanto ne avremo per tutto il giorno.»
«Viene anche Marie?»
Quella domanda posta all’improvviso sorprese Nadia. Etienne l’aveva chiesto sottovoce, in modo quasi timido, ed evitava di guardarla in faccia.
«Sì, andiamo tutti insieme a mangiare da Maxim’s.»
Etienne alzò le spalle.
«Se viene anche Marie allora va bene.»
Nadia sorrise. Poteva sbagliare, ma le sembrava di aver visto il fratellino arrossire. Eh sì, il piccolo Etí stava proprio crescendo.
 
Tornarono da Jean e Raoul dopo aver fatto il giro sulla riva destra della Senna, dove era stata ricostruita una bizzarra Parigi medievale di legno. Proprio sotto la Torre Eiffel, invece, una struttura in ferro e vetro allestita per l’occasione esponeva ogni nuovo ritrovato riguardante l’agricoltura. Al di là del ponte di Iéna, invece, vicino al Trocadéro, l’Esposizione riguardava Cina e Giappone. S’erano fermati a prendere un tè in un perfetto giardino giapponese ricostruito.
Jean, dal canto suo, ultimata la messa a punto osservava il suo Nadia X con grande soddisfazione.
Electra inarcò le sopracciglia e guardò il figlio.
«Sei sicuro di quello che fai, Etienne?»
Forse l’avrebbe davvero dovuto fermare. Etienne, vicino a lei, non sembrava minimamente preoccupato.
«Se proprio precipito vedrò di farlo in acqua», fu tutto quello che ebbe da dire.
Era una frase che Electra l’avrebbe sentito pronunciare spesso.
«Sei sicuro di avere capito come si pilota?»
«È facile.»
Electra si arrese.
 
Guarda suo figlio, un ragazzo di ormai vent’anni.
Ha i capelli un po’ troppo lunghi, bisogna proprio che glieli tagli.
«Il gruppo dei piloti lo comando io», dice.
Lei finge di non sentire.
«Dopo non ti chiederò mai più niente.»
 
Guardò Etienne che saliva sul velivolo e Jean che lo aiutava a memorizzare gli ultimi tratti del percorso. Era breve, in verità. Tre giri intorno alla Torre Eiffel, chi avesse impiegato meno tempo, o fosse tornato intero, avrebbe vinto.
«Non lo fermi?» le chiese Nadia.
«No», rispose lei.
Probabilmente era da stupidi, ma la verità era che lei una tale luce negli occhi di suo figlio non l’aveva mai vista. Fargli cambiare idea sarebbe stato impossibile e lui non gliel’avrebbe mai perdonato.
«Numero 46!»
Toccava a loro.
Etienne era già posizionato sulla rampa di lancio.
«Tre…»
Jean diede i giri all’elica.
«Due…»
Il motore si avviò.
«Uno…»
Partito. Etienne salì immediatamente di quota e virò a sinistra. Primo scoglio, i tetti delle case, superato. Secondo scoglio, il vento. Erano distanti dal mare e nonostante questo una corrente d’aria s’incuneava sul fiume, costringendo il motore – qualunque motore – a uno sforzo supplementare. Inoltre, il velivolo era leggero. Guadagnava in velocità ma perdeva in stabilità.
Etienne avrebbe potuto perderne il controllo come niente.
Electra lo guardò finché fu visibile, prima che il fiume curvasse leggermente.
Era lassù, da solo, col vento a fischiargli nelle orecchie.
Non aveva bisogno di un cronometro per capire che Etienne era veloce.
Abbassò lo sguardo solo quando il Nadia X fu al di là dei tetti.
Chiuse gli occhi, respirò a fondo.
Attese di sentirlo ritornare, nel silenzio dentro di lei.
Udì il rombo del motore, un po’ lontano ma costante.
Aveva superato il primo giro.
L’ombra del velivolo passò su di loro, li superò, ed Etienne virò con una naturalezza impossibile.
Ecco perché lei non l’aveva fermato anche se, a conti fatti, tutta quella situazione era spericolata e inutile. Sembrava che suo figlio fosse nato per stare là sopra. Nessuno avrebbe detto che pilotava solo da poche ore. Electra non avrebbe dovuto stupirsene: quel bambino aveva sempre avuto facoltà che superavano la normale percezione. Magari si trattava soltanto di talento, magari no, magari non l’avrebbero mai scoperto.
Electra sperò soltanto che il vento non giocasse brutti scherzi.
 
Etienne aveva appena iniziato l’ultimo giro quando il motore iniziò a perdere colpi.
“No…” sussurrò.
Venne sbalzato in avanti dalle vibrazioni e istintivamente cercò di alzarsi di quota.
Il motore sembrò riprendersi.
Jean trattenne il respiro. Riusciva a vedere il Nadia X che tornava indietro sul tracciato del fiume, notò l’andatura strana e capì che c’era un problema al motore. Eppure, era sicuro di aver sistemato tutto! Osservò Electra, con la coda dell’occhio, e non riuscì a capire se lei se ne fosse accorta. Pregò che fosse solo un falso allarme, che non succedesse niente. Se fosse accaduto qualcosa a Etienne, la sua vita avrebbe potuto dirsi conclusa.
Etienne, in alto, si sforzò di pensare.
Il motore stava rallentando e temeva di non sbagliare immaginando che a breve si sarebbe spento del tutto. Era ancora abbastanza in quota, col vento a spingerlo, e aveva tutte le intenzioni di finire la gara e di uscirne intero.
Il velivolo sobbalzò e si abbassò di qualche metro.
Etienne riuscì a non mollare la cloche, malgrado lo sbalzo e il senso di vertigine.
Mancava poco, davvero.
Non mollare, pensò, non mollare, non mollare.
Pregò che il vento gli desse una mano, vedeva la linea del traguardo davanti a sé.
Chiuse gli occhi, strinse la cloche, provò a dare gas.
Trattenne il fiato.
 
Il pubblico osserva il velivolo abbassarsi, miracolosamente in orizzontale, perché il vento lo asseconda.
Plana giù verso la Senna, rapido, atterra con uno schiaffo sull’acqua.
Etienne è incolume.
Bagnato fradicio, ma incolume.
Ride.
 
Lo portarono a riva su una chiatta, ancora rideva.
«Visto che sono atterrato in orizzontale anche stavolta?»
Electra, dal canto suo, era molto meno divertita.
«Hai rischiato la vita. Ma stupida sono stata io a lasciartelo fare.»
Avrebbe voluto abbracciarlo, ma non lo fece. Rimase a braccia conserte, a guardarlo grondare acqua con gli occhi brillanti e l’aria ribelle.
Non era arrivato al traguardo per pochi metri, ma se l’avesse fatto avrebbe vinto.
E lo sapeva.
Electra sospirò.
«Bene, ma ora come facciamo? Tra un paio d’ore dobbiamo andare a cena da Maxim’s, non puoi presentarti conciato in questo modo.»
Etienne abbassò lo sguardo, notò la pozza d’acqua maleodorante che s’era formata ai suoi piedi.
Mortificato, arrossì.
Raoul, dietro di lui, ridacchiò.
«Torniamo in albergo.»
 
Etienne era nella vasca da bagno, Electra lo sentiva borbottare fra sé.
«Non ho davvero idea di cosa sia andato storto.»
Non riusciva a darsi pace per la mancata vittoria. Anzi, non per la vittoria, per il traguardo.
«Sei atterrato tutto intero, a me basta e avanza questo», rispose.
«Non capisci. Avevo il traguardo davanti.»
Suo figlio sbucò dalla stanza da bagno avvolto in un asciugamano.
«Avanti», disse Electra, «ti aiuto ad asciugarti i capelli.»
Etienne sbuffò.
«Faccio da solo. Ormai sono grande.»
Sì, era grande ma ancora aveva problemi ad allacciarsi le camicie. E si era ostinato a volerne indossare una color avorio, quella sera. Con un fiocco blu di seta intorno al collo, intonato ai suoi occhi, e pantaloni, gilet e giacca da sera blu scuro.
Electra lo aiutò ad abbottonarsi e ad annodarsi il fiocco, poi gli pettinò i capelli.
Li portava corti, con la riga laterale, un ciuffo scuro gli ricadeva sugli occhi blu.
Più passava il tempo più sembrava assomigliare al padre.
Non si trattava soltanto di una somiglianza fisica. Etienne, talvolta, aveva lo sguardo di un adulto.
Aveva lo sguardo di Nemo quando, sul ponte del Nautilus, si perdeva a guardare le stelle.
Electra fingeva di non notarlo. Avrebbe voluto chiedere a suo figlio che cosa pensasse in quei momenti, ma aveva paura di conoscere le risposte.
Così si accontentava di vederlo ridere, come quel giorno.
«Avrai caldo», gli disse.
«In caso mi tolgo la giacca.»
Era preso a guardarsi allo specchio, con le labbra carnose atteggiate in una smorfia, come se qualcosa nella sua immagine non gli andasse a genio. Poi ci rinunciò.
Electra sorrise. In dieci anni sarebbe diventato un bellissimo ragazzo.
«Andiamo», disse.
 
Maxim’s era uno dei ristoranti più famosi di Parigi, un’istituzione in Rue Royale nonostante avesse aperto da pochi anni.
Si incontrarono tutti davanti all’ingresso, una facciata in legno decorato che non passava inosservata fra i palazzi della via. Marie arrivò con Nadia, che era andata a prenderla, e corse a salutare Electra. Etienne, invece, sembrava intenzionato a rimanere sulle sue e osservava Marie con la coda dell’occhio. Fu Electra a fargli cenno di farsi avanti, perché era curiosa di godersi la scena.
Marie portava un bell’abito giallo che, pur accollato, metteva in risalto un abbozzo di forme.
Aveva ormai quattordici anni e stava diventando una bella ragazzina
Salutò Etienne col più gentile dei sorrisi.
«Ciao, Etienne!»
Lui, con gran divertimento di Electra, non seppe che rispondere. La osservava guardingo, con le labbra atteggiate in una smorfia, come se avesse avuto di fronte un qualche animaletto sconosciuto.
«C… ciao», mormorò infine.
«Come stai?»
«Bene, tu?»
Oh, be’, almeno non aveva dimenticato come si parlava. Spinto probabilmente da un moto di amor proprio, il bambino drizzò il mento e offrì a Marie il braccio mentre entravano. La ragazza, non senza una risata divertita, lo accettò.
«Sei davvero carino, Etienne.»
Etienne nascose l’imbarazzo dietro una smorfia di disgusto.
«Gra… grazie», si costrinse a rispondere.
Sedettero allo stesso tavolo, insieme a Philippe che aveva insistito per stare con loro, mentre gli adulti ne occupavano un altro qualche metro più in là. Marie, la più grande, sentiva la responsabilità di quella prima cena “da adulti”. Non era certo la prima volta che usciva a cena, le era capitato spesso anche con sua zia Julie, ma era la prima volta che sedeva a un tavolo tutto suo. Lisciò la tovaglia candida, in un moto di nervosismo, e si guardò intorno. La sala era gremita, gli specchi tondi alle pareti amplificavano lo spazio e restituivano l’illusione di un ambiente molto ampio.
Un cameriere servì loro da bere e poco dopo arrivarono gli antipasti freddi.
Marie tagliò le verdure per Philippe, consentendogli di mangiare con le mani un pezzetto di carota, poi chiese a Etienne come si fosse sentito alla gara.
«Bene!» rispose lui, «È stato incredibile! Senti addosso il vento come se fosse una cosa viva. Peccato il finale, ma la prossima volta farò meglio.»
«Ti è piaciuto davvero volare, eh?»
«Già. E tu? Come stai?»
Marie alzò le spalle.
«Come al solito. Gli zii hanno deciso di mandarmi a studiare in una buona scuola per signorine. Sono fortunata.»
«Io ho smesso di andare a scuola.»
«Davvero? Come mai?»
«Mi prendevano in giro perché non ho il papà.»
«Che cosa orrenda.»
Neanche Marie aveva i genitori, ma non era mai stata presa in giro per questo. Neanche li ricordava più, ormai. Solo qualche sprazzo talvolta, simile a un sogno.
«Però mamma è brava, mi insegna lei.»
«Sì, ricordo che quand’ero piccola ed eravamo sul Nautilus dava lezioni anche a me. Era un po’ severa, però.»
Etienne rise.
«Non sai quanto.»
La cena proseguì tranquillamente, coi secondi di carne – il celeberrimo agnello Belle Otero andava assaggiato – e coi dolci. Philippe, tornato dalla madre a metà cena, cercava di resistere al sonno e fu ben felice di essere svegliato da una spumosa crêpe Veuve joyeuse servita con frutta fresca.
«Ti piace, Philippe?»
«Tanto!»
Nadia, mentre aiutava Philippe a mangiare, lanciò un’occhiata a Etienne e Marie. La conversazione sembrava procedere spedita, ma il chiacchiericcio dei commensali e il viavai dei camerieri non aiutavano a capire di che stessero parlando.
«Però sono carini insieme», commentò Nadia.
Electra, seduta di fronte a lei, ridacchiò.
«Mi dispiace per Etienne, ma non credo che Marie sia interessata.»
Nadia alzò le spalle.
«Non si può mai dire. Nemmeno io ero interessata a Jean, all’inizio.»
Ignorò l’occhiata offesa che le lanciò Jean.
«Marie andrà a studiare in collegio il prossimo anno», continuò. «Si è fatta grande. Sembra ieri che l’abbiamo salvata.»
«Che farà dopo gli studi?» chiese Electra.
Nadia sospirò.
«Non ne ho idea. Troverà un marito, suppongo. Come tutte.»
Finse di non notare il silenzio di Electra, il fatto che avesse abbassato lo sguardo. “Come tutte”, aveva detto. No, non come tutte. Non come la donna che aveva di fronte.
«E tu?» chiese. Che farai tu?
C’erano sottintesi in quella domanda, sottintesi che Electra ben comprese ma a cui non aveva ancora intenzione di dare risposta. Non sapeva, semplicemente. Quelli erano pensieri che non le appartenevano.
 
 
Tangeri, estate 1900
 
 
Omar chiuse il libro a metà, infilando un segnalibro rosso tra le pagine.
Aveva chiesto a suo padre di procurargli quei libri con la scusa di una ricerca da fare. Erano scritti da una giornalista che viveva a Le Havre e aveva studiato a Londra e, prima ancora, si guadagnava da vivere come artista circense. Nadia Ra Arwol, si chiamava. Lo stesso cognome di Etienne.
I libri, due volumi, raccontavano la storia della giornalista nei dettagli. Raccontavano di lei, principessa del perduto regno di Atlantide senza memoria delle sue vere origini, della Pietra Azzurra che aveva sempre con sé, di come tutto fosse iniziato quando un trio di sgangherati delinquenti aveva iniziato a darle la caccia. Era stata aiutata dall’equipaggio di un sottomarino chiamato Nautilus, responsabile dell’affondamento di numerose navi e sulle prime scambiato per un qualche gigantesco mostro marino.
Omar ricordava vagamente quella questione. Era piccolo all’epoca, aveva solo tre anni, ma i mostri marini esercitano un certo fascino sulla mente di un bambino. Suo padre, un funzionario governativo, certamente ne aveva parlato a casa.
Nel libro si raccontava anche della battaglia infuriata su Parigi, in cui la prima Torre Eiffel era andata distrutta. Corrispondeva con quel che Etienne aveva raccontato. Certo, era possibile che anche lui avesse letto i libri e ne avesse tratto spunto per le sue menzogne, ma compariva pure un personaggio che somigliava molto alla madre, Medina.
Insomma, per quel che aveva potuto ricostruire, i dati storici coincidevano e, per quanto riguardava i protagonisti, c’erano degli innegabili punti in comune fra i racconti di Etienne e le parole scritte nei libri. I due volumi non avevano avuto un gran successo, erano piuttosto difficili da reperire, ma per suo padre non era stato un problema procurarglieli.
Inoltre c’era la questione del cognome. Ra Arwol, senz’altro non un cognome comune.
Che la giornalista fosse parente di Etienne?
Omar non avrebbe saputo dire cosa lo interessasse tanto di quella faccenda.
Forse era solo la voglia di farla pagare a Etienne.
Il piccoletto era in Francia e comunque non andava più a scuola ma, Omar lo giurò, si sarebbe vendicato in ogni caso. L’avrebbe rincorso fino a Parigi, se necessario. Tanto era comunque lì che sarebbe andato l’anno successivo, per completare gli studi e poi iscriversi all’Ecole militaire.
Si alzò in piedi, scosse la sabbia dalla tunica.
Era andato sulla spiaggia, in cerca di un po’ di quiete per leggere, ma era ormai tempo di tornare a casa poiché il sole iniziava a calare.
Avrebbe parlato con suo padre e l’avrebbe messo a parte dei suoi piani futuri.
Chissà, magari un giorno sarebbe stato proprio lui, Omar El Yamiq, a sconfiggere gli alieni cattivi.
Chissà.

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Capitolo 12
*** Marie ***


MARIE

 
 
Parigi, 1902
 
 
Cara Grandis,
mi fa piacere che tu mi abbia scritto. Qui va tutto bene, ormai mi sono abituata alla vita in collegio.
Le giornate scorrono tranquille, sempre piuttosto uguali a dire il vero, abbiamo le lezioni al mattino e il pomeriggio lo dedichiamo a fare i compiti e, qualche volta, a uscire fra amiche.
Ti avevo parlato di due di loro, Rebecca ed Elise. Sono piuttosto simpatiche, una è figlia di un industriale, l’altra di un politico. Sembra impossibile che io, nata nella lontana Capo Verde, sia finita a studiare in mezzo a persone di così buona famiglia. È proprio vero che la vita cambia!
Tu come stai? Spero bene. Sei ancora in Italia, vero? Come ti trovi e quanto ti fermerai?
A proposito, ho ricevuto un telegramma di Sanson ieri.
Mi dice di dover passare per lavoro a Parigi, e che gli farebbe piacere vedermi.
Anche io sono molto contenta di rincontrarlo, dopo tutto questo tempo. Ci vediamo raramente, è vero, ma è sempre un gran gentiluomo con me.
Gli manderò i tuoi saluti, anche se penso che tu lo senta più spesso di me.
Dammi tue notizie.
 
A presto,
Marie
 
Marie rilesse la lettera, chiuse i fogli in una busta e appose francobollo e indirizzo.
Scriveva regolarmente a Grandis per aggiornarla sulla sua vita e su come trascorreva le giornate. Non che avesse molto da dire. Pur essendo a Parigi, nel pieno fervore della cosiddetta Belle Époque, aveva ben pochi svaghi e conduceva una vita molto riservata. Le regole del collegio erano piuttosto severe in tal senso, la sera aveva il coprifuoco e doveva comunicare con chi usciva e dove andava.
Aveva informato la direttrice che l’indomani sarebbe uscita con un suo conoscente di vecchia data e che sarebbe rientrata in tempo per la cena. La direttrice, fortunatamente, non aveva mosso obiezioni.
Marie iniziò a pensare a che vestito avrebbe indossato. Non aveva chissà che ampia scelta, tutti vestiti molto sobri tra l’altro, ma ci teneva a essere carina. Dopotutto, si disse, era la prima volta che usciva da sola con un uomo.
 

Sanson le aveva dato appuntamento al Bois de Boulogne. Erano belle giornate di primavera, l’ideale per fare due passi e ammirare la fioritura delle rose. Non la vedeva da anni, doveva essere diventata una bellissima ragazza. Le aveva dato appuntamento nel roseto dentro al Parc de Bagatelle, e si sentiva stranamente agitato. Passeggiò per un po’, era in anticipo. Sentiva caldo, fin troppo per una giornata tutto sommato mite.
«Ciao, Sanson!»
La voce di lei lo fece sobbalzare.
«C-ciao, Marie!»
Non se l’aspettava. Marie gli era apparsa alle spalle come una visione, ed era… carina, perfino più di quanto Sanson immaginasse. Indossava un abito color pastello, stretto in vita da un corsetto, e portava i capelli lunghi e arricciati alle punte. Non erano più del rosso acceso dell’infanzia, ma si erano scuriti in un bel mogano. Le lentiggini c’erano sempre, però, così come la luce furbetta nello sguardo. Ebbe timore di come sarebbe apparso ai suoi occhi, ormai invecchiato e già oltre la soglia dei quarant’anni. Lei ne aveva solo diciassette, ancora una ragazzina!
«Come stai? Sono felicissima di vederti!»
«Anch’io. Sto bene, solo un po’ invecchiato come puoi vedere.»
Lei rise.
«Ma non è vero, sei uguale a una volta!»
Sanson tossì per l’imbarazzo, ma Marie s’era già avvicinata alle rose.
«Ma che meraviglia!»
Le ammirava e accarezzava i petali, annusandone il profumo.
«Sono bellissime!»
A pensarci bene fu il sorriso di lei in quel momento, smagliante, luminoso, spontaneo, pioggia fresca in un giorno d’estate.
Fu il sorriso di lei.
Trascorsero un pomeriggio piacevole, passeggiando a braccetto. Marie parlava e parlava, ricordava come si erano conosciuti e le mille altre avventure. Cercava conferme ai suoi ricordi di bambina, talvolta vaghi, talvolta incredibilmente vividi. Certo aveva perso i suoi genitori, ma si era divertita. Era stata la grande avventura della sua vita.
«Per certi versi è un peccato averla vissuta a quattro anni. Certe volte penso che ora me la sarei goduta di più!»
«Abbiamo rischiato la vita, però.»
«Ma credo che ne sia valsa la pena.»
Ne era valsa la pena? Sì, Sanson poteva dirlo. Era stata un’esperienza di quelle che capitano una sola volta nella vita. Una di quelle che cambiano la vita.
Quel pomeriggio l’avevano ripercorsa tutta, passo dopo passo e davanti a una tazza di tè, finché non era stata l’ora di riaccompagnare Marie al dormitorio.
Camminavano piano, ancora a braccetto, come se non avessero voglia di separarsi.
Non ne avevano alcuna, in realtà.
Quando si fermarono davanti ai cancelli il sole stava ormai tramontando e incendiava i capelli di Marie.
«Sono stata bene oggi.»
Lei sorrideva ancora, ma era un sorriso più tirato, quasi triste.
«Quanto ti fermi ancora a Parigi?» gli chiese.
«Parto fra un paio di giorni. Per le prossime due notti mi fermo al Ritz.»
Una luce negli occhi azzurri di Marie, speranza forse?
«Allora ci potremmo vedere domani! O… hai da fare? Che dici?»
Sanson sorrise.
«Perché no? Ti permettono di uscire la sera? Potremmo vederci agli Champs-Elysées e poi cenare insieme.»
«Volentieri! Trovo il modo!»
A Sanson piacque vedere Marie che si illuminava e quasi saltava dalla gioia, gli piacque pensare che fosse a causa sua. Sorrise di rimando.
«Allora, a domani.»
Fu in quel momento che accadde. Marie gli si avvicinò, lo abbracciò come per salutarlo, poi lo guardò con quei grandi occhi azzurri quasi con esitazione.
«Scusa, è che… vorrei che questo pomeriggio fosse durato un po’ di più.»
Sanson non seppe mai cosa gli prese, cosa lo spinse.
Si abbassò, la strinse appena, badando a non farle troppo male.
La baciò.
Se ne pentì subito.
 

Era stato un bacio rapido, appena uno sfiorare di labbra, qualcosa che il donnaiolo Sanson non avrebbe nemmeno dovuto prendere in considerazione.
Dopo si era scusato, agitatissimo, ma Marie non aveva battuto ciglio e anzi, nell’aprire il cancello, gli aveva urlato un “ci vediamo domani”. Lui era corso via, camminando alla massima velocità che le sue gambe lunghe gli consentissero, col cuore che gli batteva all’impazzata neanche fosse stato un ragazzino.
Che cosa ho fatto, si disse. Cosa ho fatto.
Cosa aveva fatto?
Aveva rubato il primo bacio a Marie, alla bambina che aveva tenuto in braccio!
Non sarebbe più riuscito a guardarsi allo specchio.
Perché l’aveva fatto, poi? Sì, certo, Marie era diventata una bellissima ragazza, ma Sanson non doveva dimenticare che era tanto più piccola di lui e…
Era stato quel sorriso.
Gli balenò in mente, un istante, un ricordo luminoso.
Avrebbe voluto sempre vederla sorridere, aveva sempre voluto vederla sorridere fin da quando l’aveva conosciuta. Una bambina allegra, spensierata pur nelle difficoltà che aveva dovuto affrontare, diventata una ragazza sicura di sé che sicuramente meritava di meglio nella vita rispetto a uno come lui, scapolo senza particolari prospettive e per di più ormai avviato lungo il viale del tramonto.
Aveva quarant’anni, quasi. Lei a malapena diciassette.
Più di vent’anni di differenza.
Era un disgraziato anche solo a pensare che fra loro avrebbe mai potuto esserci qualcosa.
Certo, a pensarci bene al Capitano Nemo era successo lo stesso.
Alla fine s’era innamorato di una ragazza che aveva vent’anni meno di lui e che aveva cresciuto come una figlia, in una situazione talmente precaria che perfino vivere sembrava impossibile. Per un istante si chiese come dovesse essersi sentito, quell’uomo così orgoglioso e onorevole, se si fosse mai sentito fragile com’era Sanson in quel momento. Se si fosse mai chiesto se stesse facendo o meno la cosa giusta. C’erano poi cose giuste quando si parlava di sentimenti? Le rare volte che aveva visto Electra non le aveva mai menzionato Nemo, per rispetto nei loro confronti. Era un argomento delicato, qualcosa che, Sanson ne era certo, bruciava ancora dopo dodici anni. Nemo era stato l’uomo più grande che Sanson avesse mai conosciuto e certamente non poteva essere dimenticato così in fretta.
Lui, ecco, lui non era Nemo.
Non ne aveva lo spessore, non ne aveva il carattere. Era un uomo leale, era stato bello in gioventù, s’era divertito e non aveva mai davvero messo la testa a posto. Ormai sospettava che fosse tardi.
E poi non era detto che quel bacio significasse niente.
Certo, Marie gli piaceva, ma lei forse l’avrebbe vissuto come uno scherzo da parte di un vecchio amico d’infanzia e nulla più.
Già, forse era meglio chiuderla lì, quella cosa che era nata, in qualsiasi modo avessero voluto chiamarla.
Ammesso, poi, che qualcosa fosse nato per davvero.
 

Il pomeriggio del giorno dopo il tempo volgeva al brutto. La mattina aveva piovuto, uno scroscio d’acqua ventosa che aveva fatto temere a Marie che l’appuntamento del giorno saltasse.
Invece, fortunatamente, aveva smesso di piovere. Certo era parecchio nuvoloso ma, se il destino fosse stato dalla sua parte – e doveva esserlo! – sarebbe andato tutto bene.
Marie era ancora emozionata, se ripensava a quel che era accaduto la sera precedente non poteva fare a meno di sorridere e arrossire. Sanson l’aveva baciata! Certo non era stato come quei baci di cui leggeva, di nascosto, nei romanzi che si passavano sottobanco fra ragazze al collegio. Era stato uno sfiorare di labbra garbato, ma che aveva acceso in lei sentimenti mai provati prima.
Era felice, non vedeva l’ora di rivederlo.
Certo Sanson le era sempre piaciuto, era quello che le piaceva più di tutti delle persone che stavano sul Nautilus.
Non credeva, però, che fosse possibile emozionarsi tanto al solo pensare a lui.
S’era fatta carina, per l’occasione aveva chiesto a una sua amica di prestarle il rossetto, e s’era avviata per tempo in modo da arrivare puntuale.
Invece eccola lì, vicino all’ Arco di Trionfo, addirittura in anticipo!
«Ah, Sanson!» si disse «In anticipo non arriverei per nessun altro, sentiti onorato!»
Osservò l’ora sul suo orologio da polso e attese.
 
Marie attende, per minuti e minuti.
Passano dieci minuti dall’ora stabilita, si consola pensando che lui debba aver avuto un contrattempo.
Passano venti minuti, c’è traffico per strada.
Passa mezz’ora, un’ora.
Marie piange.

 
«Ti odio, Sanson!»
Ancora con le lacrime agli occhi, ma stavolta dal nervosismo, Marie resisteva alla tentazione di prendere a calci fioriere, marciapiede e qualsiasi altra cosa le capitasse a tiro. Le ragazze perbene non si comportavano in quel modo.
Come si permetteva Sanson di non presentarsi senza nemmeno avvisare?
Che comportamento era? Non da uomo, di sicuro. E lei come aveva potuto credere di… di… di provare qualcosa per un tale vigliacco?
Ah, avrebbe volentieri sbattuto la testa contro il muro se fosse servito a qualcosa.
Rallentò l’andatura, fermandosi a guardare una vetrina.
Era una scusa per guardare il suo riflesso, in realtà.
Vide gli occhi pesti, il rossetto sbavato, i capelli spettinati sotto al cappellino che indossava. Con che diritto Sanson la riduceva in quel modo? Si diede della stupida.
In quel momento, nel guardare il riflesso di una ragazza arrabbiata e delusa, si sentì male come mai le era capitato prima. No, doveva reagire. Doveva reagire o non sarebbe stata più Marie. Non era da lei arrendersi. Aveva superato di peggio quand’era ancora una bambina.
Dov’è che alloggiava Sanson? Al Ritz? Ebbene sarebbe andata là, se non altro a chiedere notizie.
 

Sanson osservava il cielo fuori dalla finestra della sua stanza d’albergo, sopra piazza Vendôme. Era nuvoloso e si stava alzando il vento, avrebbe piovuto a breve.
Sospirò.
Si sentiva un vero bastardo. Perché, poi, non presentarsi? Non era mica successo niente di male. Si sarebbe trattato soltanto di un’uscita tra vecchi amici, niente più.
Sperò che anche Marie non si fosse presentata, avendo visto il tempo incerto.
Almeno si sarebbe sentito meno in colpa.
Almeno non avrebbe avuto la sensazione di aver perso qualcosa di bello, forse l’unica cosa bella che la vita avesse ancora da offrirgli. Era invecchiato, Sanson. Erano finiti i tempi baldanzosi della gioventù, i tempi in cui inseguiva Grandis come un’ombra fedele. Ormai era un semplice impiegato d’ufficio in un’azienda, scapolo alla soglia dei quarant’anni, senza più prospettive né avventure.
L’aver lasciato andare Marie gli bruciava un po’, perché era la prima volta da tanto che aveva sentito animarsi qualcosa nel cuore. C’era un po’ di rimpianto, già, per qualcosa che forse non sarebbe mai neppure davvero nato.
Si sentì ancora di più uno stupido, un sentimentale, un vergognoso…
«Idiota!»
Quell’alta voce femminile per un attimo gli sembrò quella di Grandis, quasi fu colto dal riflesso di sobbalzare sull’attenti come avrebbe fatto ai vecchi tempi.
Ma no, non era Grandis, non poteva essere Grandis che in quel momento si trovava in Inghilterra.
Guardò giù.
Proprio sotto la sua finestra, di fronte all’ingresso dell’hotel, stava una ragazzina dai capelli rossi e gli occhi azzurri accesi di rabbia. La ragazzina, lentiggini e il vestito più bello che aveva, gli stava urlando insulti degni di un portuale. Marie.
Sentì di meritarseli tutti, quegli insulti.
«Scendi giù!»
Gli altri ospiti dell’hotel, attratti dalle urla, si stavano affacciando alle finestre. Perfino qualche passante si stava già fermando a guardare. Oh, che non si dicesse che Sanson era un codardo! Non era mai stato un codardo. In più, in cuor suo, provava un sollievo indescrivibile. Aveva capito, ormai, e non poteva fare a meno di esserne felice.
Scese.
La prima cosa che sentì fu la mano di lei che gli piombava in faccia e gli dava uno schiaffo.
Incassò, perché si meritava anche quello. 
«Non hai niente da dire?»
Lei non era arrabbiata, era furibonda. E lui no, non aveva niente da dire. Avrebbe voluto. Davvero, avrebbe voluto dirle che lei gli piaceva davvero e che le era grato anche solo di esistere, ma le parole gli morivano in gola.
«Marie…»
Cominciò a piovere. Prima una, poi un’altra, grosse gocce lasciavano la loro impronta sulla piazza.
«Sei un vigliacco! Dov’è il Sanson coraggioso che ricordo?»
Le gocce di pioggia si confondevano su quel viso di fanciulla con lacrime che s’erano formate gli angoli degli occhi e indugiavano lì, fermate dalla rabbia e da un moto di orgoglio.
«Mi sei sempre piaciuto», lei disse. «Mi piaci ancora tanto. Però non ti permetto di trattarmi così!»
Furono le sue ultime parole. Poi si girò, si allontanò di corsa, il ticchettio delle scarpette che battevano la strada si confuse con quello della pioggia che cadeva.
Sanson rimase impietrito, a guardare il punto dov’era stata lei.
C’era solo un’assenza, adesso, un buco.
Un vuoto.
No, Sanson si disse. Io non sono mai stato un codardo.
Le corse dietro, sotto la pioggia, pregando che la folla di Parigi non fosse così numerosa da averla ingoiata.
«Marie!» chiamò. «Marie!»
Percorse i viali, i vicoli. Oltrepassò chiese, bancarelle, negozi. Domandò ai passanti.
L’avete vista? Una ragazza di diciassette anni, coi capelli rossi. Sì, è da sola. No, non sono suo parente. Lo so che è sconveniente. Vi prego…
Lo presero per pazzo, probabilmente.
Si sentiva pazzo anche lui.
 
La trova, infine.
Accucciata in una stradina secondaria, che ancora piange.
Ha riconosciuto il colore del suo vestito.
E dei capelli, quegli inconfondibili bei capelli rossi come il fuoco.
 
«Marie?»
Forse lei neppure gli avrebbe parlato. Stava seduta, piangeva con le braccia sulle ginocchia e la testa affondata nella gonna.
Sanson sorrise.
«Ti sporcherai il vestito.»
Lei tirò su col naso ed emise un verso, una sorta di sbuffo mal trattenuto. Era ancora arrabbiata.
«Che me ne importa del vestito.»
«Avanti», disse Sanson. «Ti aiuto ad alzarti.»
«Non ho bisogno del tuo aiuto.»
Marie si alzò e fece per sistemarsi la gonna, ma infangata e zuppa d’acqua com’era riuscì solo a sporcarsi ancora di più. Guardò Sanson con un po’ di imbarazzo, ma lui continuò a sorridere.
«Mi dispiace, non ho portato l’ombrello.»
Le offrì il braccio, che lei accettò.
«Andiamo, ti accompagno al collegio.»
«No.»
«Che?»
«Non mi va di andare al collegio. Non subito. Alla fine siamo usciti insieme, no?»
A sua volta, Marie gli sorrise.
«Sono ancora arrabbiata con te, ma forse riesco a farmela passare.»
«In ogni caso dobbiamo ripararci, non puoi stare in giro così bagnata.»
Sanson si tolse la giacca e gliela mise sulle spalle.
«Passiamo un attimo in albergo da me, così ti asciughi e ti riscaldi un po’. Ti prenderai una polmonite altrimenti.»
L’aveva proposto senza alcun tipo di secondo fine, anche col senno di poi avrebbe potuto giurarlo.
 

 
 
Parigi, qualche mese dopo
 
Cara Grandis,
non so come dirtelo. Aspetto un bambino.
Il padre è Sanson. Non so bene cosa fare.
Tua, Marie
 
Il primo desiderio di Grandis era stato quello di accoltellare Sanson.
Di prenderlo, appenderlo al soffitto e utilizzarlo come sacco per la boxe.
Che cosa gli passava per la testa?
Ammesso che avesse una testa, cosa di cui Grandis aveva sempre dubitato.
Invece respirò profondamente e lo chiamò al telefono.
«Ma sei scemo?!» gli urlò.
«Eh?» rispose lui.
«Sei un cretino, un pazzo, un disgraziato. Io ti ammazzo se ti prendo, mi hai capito?! Avresti dovuto stare attento, se proprio dovevi farlo, imbecille. Hai quarant’anni, non dodici!»
«Ma che ho fatto?»
«Devo anche dirtelo? Hai la memoria così corta? Ho sempre saputo che eri tutto muscoli e niente cervello, ma adesso stai esagerando!»
Ma niente, lui non capiva.
«Hai messo incinta Marie, razza di capra.»
Il silenzio che fece seguito a quell'affermazione fu tombale. Grandis poté quasi percepire lo sconcerto e l'incredulità che s'impadronirono di Sanson, poté immaginare la pelle d'oca, la confusione che d'improvviso si faceva strada nella vuota scatola cranica del suo ex sottoposto. Poi un botto, neanche attutito, proprio uno schianto di quelli da precipizio, come un vaso buttato giù dal terzo piano. Chissà, magari era svenuto. O magari era morto, e meglio di no perché visto che la frittata era stata fatta ora era necessario che ognuno si prendesse le proprie responsabilità.
Sanson, come minimo inciampato, ci mise un po’ a rimettersi in piedi.
Passarono lunghi minuti, dopodiché: «Che… che… che…».
Grandis attese.
«Che faccio?»
Grandis inalò a fondo ed esalò lentamente un respiro.
«Come che fai, razza di somaro! Ti prendi le tue responsabilità! La sposi!»
 

Marie stava china sulla scrivania, con le lacrime agli occhi.
Non incolpava Sanson per quello che era successo, anzi. A lei Sanson piaceva e sarebbe stata felice di crescere il suo bambino. Non gli voleva imporre la presenza sua e di un figlio, però. Lui era un uomo adulto, non poteva certo sobbarcarsi una ragazzina. Quel che era successo era stato, be’… non un errore, non l’avrebbe mai definito tale, quanto più una conseguenza del fatto che si volevano bene. Quello era poco ma sicuro. Ci pensò su. Non voleva sbarazzarsi del bambino ed era l’unica certezza che avesse. Certo era giovane, ma avrebbe potuto trovarsi un lavoro. Dubitava che gli zii avrebbero accettato di mantenerla ancora, vista la situazione.
Chissà come stava Nadia, a proposito. Ed Electra, era tanto che non aveva sue notizie.
Già, si disse. Era circondata da donne forti. Avrebbe dovuto essere forte anche lei come loro.
Farò come Electra, pensò. Crescerò il bambino da sola.
Se ce l’aveva fatta lei, potevano farcela entrambe.
Aveva scritto una lettera anche a Nadia, per avvertirla, e l’amica s’era subito precipitata a Parigi per rassicurarla e farle coraggio. Non l’avrebbero mai lasciata sola e se le fosse servito aiuto per affrontare i suoi zii non aveva che da chiederlo. Anche Jean era rimasto molto sorpreso, aveva detto Nadia, ma questo non intaccava di una virgola la stima che nutriva verso Sanson o verso Marie stessa. Erano tutti buoni amici, si volevano bene. Aveva accennato a Nadia di voler crescere il bambino o la bambina per conto proprio, e Nadia aveva cercato di dissuaderla. Sanson era un brav’uomo, non l’avrebbe abbandonata. Marie, però, non avrebbe proprio voluto parlargliene. Sosteneva che non ce ne fosse bisogno, che non poteva accollargli un peso simile. Nadia aveva ribattuto che Sanson non l’avrebbe mai considerata un peso e che sbagliava a fidarsi di lui così poco. Marie, però, si sentiva davvero confusa.
Qualsiasi decisione avesse preso, temeva di sbagliare.


Electra aveva pensato a lungo a quale fosse la cosa migliore da fare.
Nadia le aveva detto di Marie nella sua ultima lettera e lei era rimasta piuttosto sorpresa. Ricordava bene che Marie e Sanson erano sempre andati d’accordo, fin da quando lei era solo una bambina, ma mai avrebbe pensato che… oh, d’altra parte lei era proprio l’ultima persona a poter giudicare Marie, dal momento che s’era innamorata di Nemo quand’era appena adolescente.
Anche per questo Nadia s’era rivolta a lei, per lettera, chiedendole di parlare con Marie.
A quanto pareva, aveva intenzione di crescere da sola il bambino.
“Farò come la signorina Electra”, aveva detto.
“Ti prego”, aveva scritto Nadia nella lettera, “convincila tu a parlare con Sanson. Lei non è te. non ce la farebbe da sola. È ancora una bambina.”
Nadia aveva ragione, certo. Lei, Electra, era sempre stata un caso a parte. Nemo, ne era certa, in quelle ultime drammatiche ore aveva preso le sue decisioni anche sapendo che lei, in qualunque modo fosse finita, ce l’avrebbe fatta. Marie invece, pur avendo vissuto molte avventure, era davvero ancora poco più che una bambina. Cos’avrebbe mai potuto fare da sola? In primis, una volta che la cosa si fosse saputa, l’avrebbero cacciata dal collegio. Electra non conosceva i suoi parenti ma c’era da immaginare che non l’avrebbero presa bene. E Parigi… chi a Parigi avrebbe mai dato da lavorare a una ragazza madre? Forse le fabbriche, giusto quelle. Una ben triste fine per una ragazza come Marie.
No, si disse, Nadia aveva ragione. Bisognava che le parlasse.
Andò al telefono, compose il numero e attese che passassero la chiamata.
«Marie?» disse.
«Signorina Electra!» esclamò Marie.
Sembrava sorpresa ma felice di sentirla. Electra sorrise.
«Come stai?»
La sentì esitare.
«Bene, grazie. Tutto bene.»
Electra pensò a come entrare in argomento senza risultare troppo invadente. Erano cose delicate, le sarebbe dispiaciuto ferirla o farle capire che Nadia le aveva parlato alle spalle. Fu, inaspettatamente, proprio Marie a trarla d’impaccio.
«Nadia te ne ha già parlato, vero? Altrimenti non mi avresti chiamato direttamente.»
«Se ti riferisci a Sanson, sì, mi ha detto tutto. Scusala, è molto preoccupata per te.»
Marie tirò su col naso, come se stesse cercando di trattenere le lacrime.
«Nessun problema.»
Electra sorrise fra sé.
«Sono molto felice per te, lo sai? Un bambino è una bella cosa.»
«Lo so.»
«Etienne è stato la mia salvezza. Non mi vergogno a dire che non so cosa ne sarebbe stato di me se non avessi avuto lui.»
«Io però non voglio che Sanson…»
«Marie.»
Electra la interruppe. Sapeva perfettamente cos’aveva intenzione di dire, che aveva intenzione di crescere il figlio da sola eccetera. Marie, all’altro capo del Mediterraneo, tratteneva il fiato. Electra aveva usato, senza volere, il tono assertivo del comandante. S’addolcì, capendo che Marie temeva un rimprovero.
«Te l’ho detto, sono sinceramente felice per te. Per voi. Anche per Sanson. È una brava persona e merita di veder crescere suo figlio. E il bambino merita di avere il suo papà vicino. Etienne non ha mai conosciuto suo padre e comunque ne sente terribilmente la mancanza. Perciò ascoltami, Marie: tu sei fortunata ad avere l’uomo che ami accanto. Io questa fortuna non l’ho avuta. Non fare la sciocca e parla con Sanson.»
S’accorse di avere le lacrime agli occhi, le asciugò mentre parlava.
Marie stette in silenzio per un po’, poi sospirò.
«Grazie.»
 

S’erano sposati qualche mese dopo, con la pancia di Marie che già s’intravedeva sotto al vestito. Electra aveva ricevuto la partecipazione ma non era riuscita ad andare di persona. Nadia, comunque, le aveva fatto un bel resoconto. Marie era raggiante, Sanson, emozionato, aveva perfino pianto.
Gli zii di lei, dopo averlo conosciuto, l’avevano accettato. Certo la differenza d’età era molta, ma lui aveva fatto una buona impressione e Marie ne era davvero innamorata. Inoltre c’era quella donna inquietante, quella Grandis, che si era detta pronta a ucciderlo se avesse anche solo torto un capello a moglie o figlio in arrivo. A quanto pareva, Marie era in buone mani.
Il bambino, alla fine, s’era rivelato una bambina a cui era stato dato il nome di Anita.
Insomma s’era risolto tutto per il meglio.
Bene così, e avanti tutta.
 

 
 
Da qualche parte, in un altro emisfero, è in corso una festa di Natale.
Poco importa che faccia caldo e che siano in mezzo al nulla, Natale è Natale, e a qualcuno è venuta l’idea di organizzare una festa con tanto di ballo, alcool, Etienne al pianoforte e qualche altro musicista sparso fra i membri dell’equipaggio.
Ci sono ben poche ragazze a bordo e fra quelle poche alcune sono già occupate e altre sono troppo piccole per destare reale interesse.
Il Grande Capo non fa testo. Etienne, seduto al piano a suonare una polka, sghignazza non poco nel guardarla rifiutare con garbo gli inviti di qualche giovincello troppo ubriaco. È sempre la solita scontrosa.
Mamma, mamma, dice fra sé.
L’avrebbe invitata lui a ballare, fra poco, un altro brano o due e poi si sarebbe riposato le mani e l’avrebbe fatta ridere, finalmente, e rilassare.
“Etienne?”
La bambina, dietro di lui, lo chiama con voce petulante.
“Anita?”

Fa cenno ai musicisti di continuare senza di lui.
“Te la posso chiedere una cosa?”
“Dimmi.”
Sa già cosa lei voglia chiedere, ciononostante la ascolta.
“Voglio volare anche io.”
Etienne le sorride, le dà la risposta che le ha sempre dato.
“Sei piccola, fra dieci anni ne riparliamo.”
“Uffa!”
“Ehi!”
L’altra bambina arriva come una furia, si attacca a Etienne abbracciandolo forte e salendogli in grembo con l’agilità di una scimmietta. Seduta sulle sue ginocchia, attaccata alla sua camicia, scruta Anita coi verdi occhi penetranti.
“Vai via”, le dice.
Anita, per tutta risposta, le fa una linguaccia e si allontana. Non c’è storia con lei, quando fa così.
Etienne sbuffa, poi le accarezza piano i morbidi capelli neri.
“Non si fa così. Avete quasi la stessa età, dovreste essere amiche, non litigare.”
La bambina lo osserva, col bel visino corrucciato.
“Io non litigo.”
Etienne, di nuovo, sorride.
“Siamo troppo superiori, eh? Che devo fare con te?”
Lei non ha un attimo di esitazione.
“Sposarmi.”
Etienne stavolta ride, di cuore. Poco importa quanto lei faccia la sostenuta, quanto ci sia di inumano negli occhi verdi profondi e in quel bel viso da bambolina, per fortuna è ancora innocente, è ancora una bambina.
Lei non ride, però.
Non prova nemmeno a sorridere.
Etienne la osserva per un attimo, legge qualcosa nel suo sguardo, allora si scuote.
“Andiamo, Tia. Andiamo a invitare mamma a ballare.”
 
 
 
 

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Capitolo 13
*** Preparativi ***


PREPARATIVI
 
 
 

C’era un’altra cosa che Nadia aveva rivelato a Electra per lettera, ma Electra ancora non l’aveva rivelata a Etienne. Nadia aspettava il suo secondo figlio. Era una splendida notizia. Nadia sperava che sarebbe stata una bambina, ma era ancora presto per parlarne. Lo sapevano Jean e Grandis, con cui Nadia era in grande confidenza, ma per il resto preferiva mantenere il segreto finché non fosse stata più in là con la gravidanza. C’erano tante di quelle cose che avrebbero potuto andare storte, un po’ di scaramanzia non guastava. Electra era autorizzata a dirlo a Etienne, che sarebbe stato felicissimo, ma solo a patto che il ragazzino non ne facesse parola con nessuno.
Quello non sarebbe stato un problema, rifletté Electra, perché Etienne praticamente non aveva amici.
Dei compagni con cui era andato a scuola non aveva più visto nessuno. Raccontava di incrociare Omar in giro, ogni tanto, ma non gli dava confidenza. Nessuno dei due aveva dimenticato la brutta disavventura con la pistola. Electra aveva saputo, per vie traverse, che il ragazzo si sarebbe iscritto all’Accademia Militare di Parigi e sarebbe partito già l’autunno successivo. Buon per lui.
Bussarono alla porta.
«Avanti», disse.
Era Raoul, poteva trattarsi solo di lui d’altronde, Etienne era fuori già da un paio d’ore.
«Dimmi.»
Il vecchio venne avanti, poggiato a un bastone e visibilmente ingobbito, ed Electra notò che portava sottobraccio una bisaccia di cuoio che le parve di riconoscere.
Posò la borsa sulla scrivania che era stata di Nemo, erano nel suo studio, e si schiarì la gola.
«Ci sono dentro i miei attrezzi da lavoro», disse, «quelli che uso da quando ero giovane. Non mi hanno mai abbandonato.»
Electra sorrise, con una dolcezza che riservava a lui e a pochi altri.
«Lo so, mi ricordo bene di questa borsa.»
Raoul sembrò esitare, come se non avesse ben chiaro in che modo proseguire.
«Sono diventato vecchio, Medina. Ci vedo poco e cammino malamente. Ho ancora le mani salde, ma credo che questi sarebbero più utili se li usassero Jean o Philippe. Diventerà bravo quanto il padre.»
«D’accordo, ma…»
«Glieli poteresti, la prossima volta che vai in Francia?»
A Electra non piaceva quel discorso. Non le piaceva l’esordio, non le sarebbe piaciuta la conclusione. Stette in silenzio per qualche istante, poi replicò: «Abbiamo ancora bisogno di te».
Fu forse più lapidaria di quanto avrebbe voluto, ma quella conversazione la metteva a disagio. L’avevano già affrontata in passato, s’era sempre chiusa in un nulla di fatto. Il fatto che Raoul avesse intenzione di separarsi dai suoi amati strumenti di lavoro suonava definitivo in maniera intollerabile.
Lui ridacchiò, la barba candida che tremolava.
«E per cosa? Non siamo più su un sottomarino, Medina.»
Già, per cosa? Era una domanda lecita. Da dodici anni vivevano in pace, in fondo, e si erano adattati piuttosto bene a quella vita. Perfino lei credeva di averlo fatto eppure, in quel momento, qualcosa dentro di lei si ribellava. Raoul che lasciava andare i suoi strumenti era Raoul che lasciava andare il passato, il Nautilus, tutto quello che erano stati. Sì, era qualcosa che avrebbe dovuto fare anche lei. Ma quella casa, la stanza nel seminterrato, Etienne… no, Atlantide era qualcosa da cui lei non si sarebbe mai smarcata del tutto. Era triste, da un lato, perché era ormai una donna di trentotto anni, adulta, che avrebbe dovuto essere in grado di guardare al futuro con più leggerezza.
Non erano più in guerra, era vero.
Non erano più su un sottomarino, era vero.
Ma per lei era come se niente di tutto quello fosse mai finito.
Nemo le aveva affidato ciò che sarebbe venuto, lei se n’era fatta carico e avrebbe continuato a farsene carico fino alla morte. Era qualcosa da cui non si sfuggiva.
«Andrò a vivere per conto mio», continuò Raoul. «Non è giusto che un vecchio come me continui a gravare su di te e sul piccolo Etienne.»
Electra sospirò.
«Etienne crescerà, un giorno. Se ne andrà, farà la sua vita. Vorresti forse lasciarmi qui a invecchiare da sola?»
Raoul rise.
«Temo che sarò morto ben prima di quel momento.»
Electra non ci trovò niente di divertente.
«Perché dici questo? Ti senti male forse?»
«Al contrario, per la mia età sono in ottima forma.»
Electra accarezzò la borsa di cuoio che Raoul le aveva dato. Aveva un odore forte, vecchio quanto il proprietario.
«Allora resta, la casa è grande. E soprattutto…»
Alzò lo sguardo, gli occhi blu erano lucidi ma determinati.
«Siamo una famiglia, no?»
Raoul si lasciò sfuggire una lacrima e un sorriso, poi si avvicinò, la abbracciò. Voleva bene a quella ragazza, la nipotina che le rovine di Tartesso gli avevano restituito al posto dei suoi morti. E lei ne voleva a lui, un bene profondo che nasceva da tutto quello che avevano vissuto. Sì che erano una famiglia, anche se legami di sangue non ne avevano mai avuti.
 

Bang!
Lancio.
Bang!
Presa anche quella. I frammenti di vetro volarono dappertutto.
Etienne ricaricò, ormai lo faceva a occhi chiusi.
Le onde del mare, che in quel punto si rifrangevano sugli scogli con aumentato fragore, coprivano il rumore degli spari.
Prese un’altra bottiglia, la lanciò in aria, roteò su se stesso e sparò.
Bang!
Altri vetri, una pioggia color verde scuro che cadde dritta in acqua. Ogni volta cercava di lanciare più in alto, più lontano. Sparò due colpi consecutivi, uno a una bottiglia, l’altro a un pezzo di legno che aveva poggiato su uno scoglio distante. Ormai gli riusciva tutto così facile che, non fosse stato per testardaggine, avrebbe lasciato perdere per noia. Ma no, non poteva lasciare perdere. Sentiva di dover diventare più bravo, sempre più bravo. Aveva ereditato la mira da sua madre, ma non era quello soltanto. Era un’urgenza che aveva dentro, che non c’entrava niente col fare del male. Non gli sarebbe mai venuto in mente di usare una pistola per fare del male. Voleva solo sparare più in alto, più lontano, più veloce.
Percepì il movimento ben prima di vederlo con gli occhi.
L’aria alle sue spalle si mosse, s’aprì, fenduta da qualcosa di pesante, lanciato contro di lui in velocità.
Etienne socchiuse gli occhi, piroettò, puntò e colpì.
Una gragnola di sassolini s’abbatté sulla sabbia.
Lanciati dall’alto, rifletté Etienne.
Un applauso, da sopra gli scogli bianchi alla sua sinistra.
«Hai sparato senza nemmeno guardare, bravissimo.»
Etienne sospirò.
«Omar.»
Il ragazzo, più alto e robusto di lui, saltò giù dagli scogli.
«Qual buon vento?» chiese Etienne.
Non erano mai stati propriamente in buoni rapporti, dopo il famoso incidente non s’erano praticamente più parlati. Che poteva volere Omar da lui?
Un’alzata di spalle, l’aria bonaria.
«Sono solo venuto a salutarti. Fra qualche mese parto per la Francia e prima avrò delle pratiche da sbrigare con mio padre, non credo che ci rivedremo.»
Etienne alzò le sopracciglia. Che strana premura, da parte di qualcuno che l’aveva sempre detestato!
«Buon viaggio», rispose.
Mise la sicura alla pistola, non aveva intenzione di finire come l’altra volta.
«Mi iscriverò all’accademia militare.»
Omar, effettivamente, a quasi quindici anni aveva l’aria da soldato. Era un ragazzo vigoroso, pelle scura, capelli corti e neri e un naso pronunciato che tagliava un viso regolare, fin troppo severo malgrado l’età. Sembrava aver preso molto sul serio il suo nuovo ruolo, erano passati i tempi in cui bighellonava a scuola facendo dispetti. Certo, all’accademia avrebbe dovuto studiare, ed Etienne si trattenne dal chiedergli come avrebbe fatto un somaro come lui. Era meglio non provocarlo, lo sapeva, lo sentiva. Omar era ben più grosso di lui ed Etienne non sarebbe mai riuscito a scappare abbastanza in fretta, non su quel terreno sfavorevole, e usare la pistola era ovviamente fuori discussione. Quindi si strinse nelle spalle, guardingo, osservandolo da sotto in su con occhi blu d’improvviso taglienti come il vetro. Era strano quell’interesse.
«Ti auguro di fare carriera», gli disse. «Davvero. Possa tu trovare ciò che desideri.»
Omar sorrideva, un’ombra di baffi scuri sulle labbra. Anche così sembrava che lo stesse deridendo e a Etienne la cosa non piaceva.
«In verità volevo chiederti una cosa prima di partire. Ti ho seguito fin qui, scusami.»
«Dimmi», rispose Etienne, nella speranza di toglierselo di torno.
«Ma tu sei umano?»


 
Lo sguardo di Etienne si svuota, guarda il nulla.
Sente il rumore delle onde.
Sente il cielo.
Lo sente nelle vene come se gli stesse scorrendo nel corpo insieme al sangue.
Ha paura.


 
 
«Certo.»
La risposta, pacata, liscia, senza esitazione.
Qualcosa dentro di lui urlava.
Omar ridacchiò, sembrò soddisfatto, allegro.
«Sai, dovresti iscriverti in accademia pure tu. Sei bravo, un talento naturale oserei dire. Faresti strada.»

 
Le viscere strette, il bisogno di vomitare.
Etienne è sbiancato, ha gli occhi lucidi.
Sente all’altezza delle spalle un tremore d’ansia e il sudore freddo fra le scapole.
Fa caldo, in Marocco.

 
 
«Be’, io devo andare. Forse ci rivedremo, forse no. Però è stato un piacere. Magari se passi da Parigi fammi un fischio, so che tua sorella vive da quelle parti.»
Aveva calcato le parole “tua” e “sorella”, volutamente.
Etienne si costrinse a respirare, profondamente, una volta, due, tre. Lo guardò a lungo, occhi blu, taglienti come il vetro. Strinse i denti e sorrise.
«Senz’altro», rispose.
Agire come se non fosse accaduto nulla, agire come se andasse tutto bene, anche con la paura, anche col tremore che prendeva le mani, e Omar se n’era accorto, non c’era possibilità che non se ne fosse accorto.
«Ciao», la risposta di lui, alto e grosso, mentre s’allontanava con quel passo già da militare.
Solo ciao, non addio, non arrivederci, come se avessero dovuto incontrarsi a scuola il giorno dopo.
A Etienne sembrò di tornare a respirare, sentì l’ingombro che aveva nel petto sciogliersi, i polmoni finalmente allargarsi. La testa gli girava a velocità impressionante. S’accucciò svelto contro uno scoglio, vomitò, scarsi residui di colazione e succhi gastrici, poi si pulì col dorso della mano.
“Sei umano?”
La domanda, la risposta.
Guardò il mare e pianse.
 
Le strade che portano alla città vecchia sono piene di gente, brulicano di gente.
Potrebbe essere il giorno buono.
Pensa solo a quello, la mendicante.
Potrebbe essere il giorno buono dopo una settimana.
Si inginocchia sui gradini bianchi di un palazzo, ha i vestiti stracciati, puzzano, lei c’è abituata e non ci fa più caso. La gente ci fa caso, però, sente la puzza dei suoi abiti anche se l’aria odora forte di spezie.
Si inginocchia e sta lì, fronte a terra, le gambe magre escoriate dal troppo stare immobile.
La mendicante è un corpo secco, martoriato dalle pulci, fronte a terra e non osa alzare la testa, lamenta qualcosa fra i denti guasti.
Ha fame.
Non mangia da…
Ha fame, talmente fame da non avere pensieri.
Ore immobili, minuti immobili, la terra dura calda di sole e i gradini bianchi.
La gente passa, vede le scarpe, sente risate e voci e passi.
Passano tutti, alzano polvere e terra.
Ha caldo, ha fame.
Apre la bocca per chiedere aiuto.
Allora s’accorge di qualcuno che si è fermato, un piede da bambino stretto in sandali costosi.
La mendicante non osa alzare lo sguardo.
Si inginocchia lui, la guarda a lungo.
Stanno in silenzio, uno di fronte all’altra.
Lui ha capelli scuri polverosi di sabbia, gli occhi arrossati di chi ha pianto.
È bello, nota lei, anche con la vista annebbiata dalla fame, anche se sta per svenire per il caldo, è un bel ragazzino ricco con occhi blu di cielo notturno e viso fiero.
Poi lui si alza, si allontana come tutti.

 
La donna, doveva essere una donna, era un gomitolo di stoffa consunta e odorava di stalla e rancido.
Etienne l’aveva guardata per un po’, non s’era mai mossa, non aveva emesso fiato, circondata da mosche e pulci e da qualche altro insetto sgradevole. Era difficile perfino capire che fosse una donna, sembrava qualcosa di abbandonato lì, come uno straccio, un cumulo di oggetti vecchi.
Nessuno le badava.
Sembrava che lei non avesse il coraggio di muoversi, neppure di chiedere.
Biascicava qualcosa, di tanto in tanto, in un dialetto che Etienne faticava a comprendere.
Forse era solo debole di mente, non riusciva a mettere insieme le parole, il fiato si intrecciava coi pensieri. O forse aveva fame, solo fame. Doveva averne molta, a giudicare dalla magrezza delle mani e di quel po’ di gambe che si intravedevano.
Etienne allora s’era avvicinato, s’era inginocchiato, poi s’era alzato di nuovo e s’era allontanato.
Solo per tornare poco dopo, fra le braccia un cesto coperto da un telo che poggiò accanto alla mendicante. Sedette accanto a lei sui gradini bianchi.
«È cibo», disse. «Ti ho comprato pane e qualche altra cosa che si conserverà per qualche giorno. C’è anche qualche dolce di miele e frutta secca, è nutriente.»
La mendicante non rispose, restò immobile in quella scomoda posizione in ginocchio quasi come se non fosse stata in grado di spostarsi.
«Non te lo far rubare», le raccomandò Etienne. «Ci sono tanti poveri in questa città.»
Scorse il bagliore di un occhio incredulo, la testa di lei che si muoveva appena.
Le sorrise.
«Mangia quando vuoi, sto io qui a controllare. Non tutto insieme però o ti fa male.»
Allora lei si mosse, rigida, una pietra che prendeva vita. Prese dal cesto una pagnotta di morbido pane arabo, la spezzò, ne mangiò con timore un angolo. Etienne sorrise ancora, alzò lo sguardo al cielo azzurro fra i tetti. Lei non voleva che la vedesse piangere, ne era sicuro.
Qualche passante li osservò, incuriosito.
Un ragazzino chiaramente benestante e una mendicante che sembrava appena umana, dovevano formare una ben strana coppia. Etienne sorrise a tutti, rilassato, le mani poggiate ai gradini bianchi. Sto bene, sembrava dire. Attese che la donna avesse finito la pagnotta.
«C’è un po’ di frutta», disse indicando il cesto, «ti rinfresca.»
S’alzò dopo un po’, senza aspettarsi ringraziamenti.
«Torna qui domani. Ti porto altro.»

 
Electra lo trovò in cortile una mezz’oretta più tardi. Guardava l’acqua della fontana, seduto sul bordo.
«Che succede?» gli chiese, dalla balaustra. Era pensieroso, lo capiva anche solo dalle spalle curve.
Aveva addosso un mezzo sorriso, gli occhi un po’ gonfi, una mano che sciabordava nell’acqua fresca.
«Ho aiutato una mendicante», disse solo.
Electra annuì, poi scese le scale fino al cortile.
Che fosse turbato da qualcosa era intuibile, capire da cosa sarebbe stato un altro paio di maniche.
Riusciva a essere impenetrabile come lo era stato il padre, quando voleva, trincerato dietro un silenzio di pietra. Parlavano gli occhi, però, parlava il corpo. Parlava perfino quello stesso silenzio. Ed Electra li sapeva interpretare molto bene. Scelse di non farlo, per rispetto di qualunque sentimento suo figlio si portasse dentro. Gli accarezzò la schiena, però, lentamente.
«Sai», disse Etienne, «era lì, a bordo strada, vestita di stracci, nessuno la guardava, nessuno le parlava, era un oggetto buttato lì, via, un animale o meno.»
«E ti ha fatto pena?» chiese Electra.
Etienne negò, scuotendo la testa, i capelli seccati dal sale del mare.
«No. Non ho provato pena. È solo che stava lì, aveva fame, da chissà quanti giorni, sempre. E ho pensato che se non hai da mangiare dimentichi tante cose. Pensi solo alla fame, come un cane affamato. Lei stava lì e aveva fame. Allora le ho dato da mangiare. Forse così, una volta soddisfatto quel bisogno, una volta che avrà finalmente lo stomaco pieno e sentirà un po’ di calore addosso, ricorderà le cose importanti. Ricorderà che al mondo c’è qualcuno che la ama.»

 
È il modo in cui parla dell’amore.
Il modo in cui ha sempre parlato dell’amore.
“Nadia, noi non siamo obbligati a dare o a ricevere amore. Noi siamo amore.”
Nadia sente quelle parole, lo abbraccia, lo stringe forte.
Vorrebbe prenderlo in sé, quel cuore generoso, proteggerlo dal dolore e da ogni male.
Stringe quel bambino diventato uomo mentre intorno a loro il mondo si sforma, si sente madre e figlia e sorella e tutto, mentre il mondo creato perde i contorni.
Ti amo, gli dice, non mi lasciare, fratello, ti amo.
La verità è che non s’è mai sentita al sicuro come fra quelle braccia.
Insieme, rimanere insieme, ciò che conta, ciò che urla il sangue, vuole prendere in sé quel cuore generoso e proteggerlo da ogni male, dal mondo azzurro che si sfalda.
Salvare quel figlio di Atlantide più umano dell’umano.
I muscoli della schiena, la stoffa spessa della divisa imbrattata di qualcosa che sembra sangue.
Trema appena di dolore.
È vivo.
Ti amo, lei sussurra, ti amo, non te ne andare.

 
 
Electra capì che era giunto il momento di dargli la notizia.
Ne sarebbe stato felice, senz’altro.
«Mi ha scritto tua sorella», disse.
«Ah sì?»
Non era una novità.
«Ho una bella notizia.»
Etienne, per la prima volta, si mostrò incuriosito.

«Cioè?»
«Aspetta un altro figlio.»
Il viso di Etienne si illuminò, il sorriso s’aprì come un raggio di sole.
«Davvero?»
Electra annuì.
«Sì, ma sono ancora solo pochi mesi quindi mi raccomando, non farne parola.»
«Evviva, diventerò di nuovo zio! Quando nasce? Andiamo a trovarla prima del parto, vero?»
«Certamente.»
«Bene, così possiamo pure approfittarne per cercare casa.»
Quelle parole spiazzarono Electra.
«Cercare casa?»
Etienne annuì: «In Francia.»
Il suo sguardo era quieto, determinato, era uno sguardo che Electra aveva imparato a conoscere bene. Anche quel discorso l’aveva già sentito, tornava di tanto in tanto.
«Perché vuoi così tanto andare a vivere in Francia?» chiese. «Non stai bene qui?»
«Sì, sto molto bene.»
«E quindi?»
C’era una sola risposta possibile, un’ovvia constatazione che Etienne proferì con occhi limpidi, sereni, e col sorriso.
«Devo stare con mia sorella.»
Fu in quel momento che Electra, per la prima volta, si chiese se quello di suo figlio non fosse un destino ineluttabile. Si chiese che cosa avrebbe potuto fare lei, se quello davvero si fosse rivelato destino. Gli occhi di Etienne, così simili ai suoi, celavano abissi.
«D’accordo», disse soltanto. «Faremo come vuoi.»

 
Viene la notte, i sogni con essa.
Grumi di sogni di Tartesso, sfasati, muri che crollano e urla e sangue e tenebre.
Suo fratello Vinusis col corpo maciullato dall’esplosione e dai detriti, che trasferisce a Nadia neonata la Pietra Azzurra di Sana’a.
C’è qualcosa che crolla, sopra il corpicino di Nadia, Etienne d’istinto vorrebbe sporgersi e proteggerla e non può farlo perché lui un corpo non ce l’ha.
La Pietra la protegge, Sana’a la protegge, sbriciola ogni sasso.
Ormai Sana’a non c’è più, pensa Etienne.
Non è più in nessun luogo.
Non ha percorso la Strada degli Dèi.
Ha rispettato il volere della figlia, la regina.
Ha usato il potere per riportare Jean in vita.
E ora chi proteggerà la regina?
Io.
Gli sembra di vederla, la bella e dolce Sana’a.
Se fosse ancora da qualche parte lui glielo direbbe, di non preoccuparsi.
S’avvicina, osserva la neonata e lei sorride, gorgoglia con un po’ di saliva sulle labbra.
La Pietra è illuminata di luce tenue, la polverina dei sassi frantumati e dei crolli fluttua intorno a loro, c’è una cupola azzurrina di luce a salvarla da quella e dalle case.
Etienne la supera, attraversa la cupola, ne sente l’energia nel momento in cui la attraversa.
Gli entra dentro, quell’energia, anzi lui è l’energia, diventa la cupola e la cupola è lui.
Un istante, il tempo di attraversarla.
Poi il suo corpo, il corpo residuo che non ha sostanza, riprende forma.
La proteggo io, dice.
Sana’a gli è davanti, il sorriso è dolce, cristallizzato, quello dell’ologramma e del ricordo.
Sa chi è lui e non lo giudica.
Si riconoscono animati dallo stesso desiderio.
La amano entrambi, la madre, il fratello.
La ama anche il fratello dal corpo martoriato, che pur già plagiato da Gargoyle non è riuscito a lasciarla morire.
Etienne fa per toccare la Pietra, luminosa.
Sa che se la tocca non tornerà indietro.
Ha il sentore dolce del riposo.
Nadia piange.
Il pianto acuto di neonata si mescola al pianto di lei ragazza.
Voglio stare con te, le parole.
Lei le ripete, voglio stare con te.
Al padre, da qualche parte in futuro.
Al fratello, in un altrove non ancora accaduto.
Voglio
Stare
Con
Te
E il pavimento è di metallo, l’aria sa di fumo, le luci saltano, sono rosse e poi è tenebra e di nuovo rosso.
C’è una figura seduta, lunghi capelli scuri e un corpo fasciato.
Lo guarda, non lo vede, è indebolito dalla perdita di sangue e ha rinunciato al regno e al potere molto tempo fa.
C’è la voce di Nadia nell’aria, un altoparlante, ripete di non volerlo lasciare.
Etienne guarda l’uomo, in quel buio ne scorge appena il viso.
L’uomo sa che va bene così.
È rassegnato a morire, ma non triste.
Sa di aver fatto bene.
Etienne piange.
A Etienne trema perfino il cuore.
C’è stato un istante in cui ti sei pentito? Vorrebbe chiedergli.
Papà.
Click.
Preme il pulsante e l’aria si tende, si scalda, il corpo strappa e brucia, Etienne non ha ossa non ha pelle ha solo il pensiero ma lo stesso lo sente, il dolore che non è più dolore, è luce, è un fischio acutissimo nel mezzo della testa e non sente altro se non la sofferenza e il calore e le tenebre e il sangue e l’aria che esplode e si fa luce.
Urla.
Ha male in ogni cellula del corpo e lo urla, continua a urlare finché non riemerge su un soffitto che conosce, bianco, il telo di un baldacchino, e ha il suo corpo e le gambe che sono le sue e si muovono.
Urla e piange in un bagno di sudore, il corpo scosso da convulsioni e brividi, il sapore acre della bile in bocca.
Inspira, la boccata di chi riemerge dopo aver rischiato di annegare.
Lo calma l’aria fresca della notte.
Resta a occhi sbarrati, pupille piccole come capocchie di spillo che lentamente si dilatano.
Si costringe a respirare.
Inspira, espira.
Inspira, espira.
Riesce a controllare gli arti, infine, ma non ad alzarsi in piedi.
Allora striscia fino a un angolo asciutto del letto, si raggomitola abbracciato a un cuscino.
Trema incontrollabilmente.
 


«Etienne!»
Lo trovò così, Raoul, entrato in camera attirato dalle urla.
Un ragazzino in un bagno di sudore e lacrime, che lo guardava spaurito come a decidere se la sua presenza fosse realtà oppure sogno.
A Raoul venne quasi da piangere a sua volta. Sapeva dei sogni del ragazzo, ma non l’aveva mai visto ridotto in quello stato. In silenzio lo aiutò a sedersi, Etienne gli si aggrappò e pianse ancora. Raoul lo lasciò fare. Quando si fu calmato gli prese un bicchiere d’acqua dalla brocca che teneva in stanza, si accertò che bevesse.
«Ora cerca di rilassarti», disse. «Siamo nel 1902. A Tangeri.»
«Lo so.»
«Riesci ad alzarti? Ti prendo una camicia da notte pulita.»
Etienne lo osservò mentre armeggiava col suo armadio, pian piano riuscì a poggiare a terra i piedi nudi e ad alzarsi. Prendi coscienza del corpo, si disse. Prendi coscienza del corpo, del pavimento, della sostanza delle cose. I muscoli risposero.
Raoul lo osservò mentre si cambiava. Era un bel ragazzino, forse ancora un po’ magrolino ma agile e svelto, non aveva niente che non andasse. Eppure perché doveva star male in quel modo? Avrebbe dovuto parlarne a Medina. Sembrava che la situazione stesse peggiorando.
Etienne s’allacciò la camicia da notte, in silenzio. Era il silenzio di chi aveva qualcosa da domandare.
«Nonno Raoul?» chiese, infatti.

«Dimmi.»
«Papà mi voleva bene?»
Di nuovo quella domanda.
Raoul sospirò.
«Andiamo sul terrazzo», disse, «così prendi un po’ d’aria.»   

 
Salirono su, entrambi malfermi sulle gambe. Raoul ridacchiò.
«Siamo una bella accoppiata.»
Etienne sorrise.
Li accolse la notte, fresca e odorosa di mare. Il cielo era scuro, trapuntato di stelle.
Etienne sedette su una chaise longue, poi si stese, chiuse gli occhi.
Raoul non lo disturbò.
Aveva solo dodici anni e già riusciva a vedere l’uomo che sarebbe diventato. Aveva il viso tagliente di Nemo, ingentilito dalle labbra e dagli occhi della madre. Lo vedeva più grande, sdraiato su quella stessa chaise longue, intento a leggere un libro come in passato faceva spesso suo padre.
«Quanto somigli a Elusys», disse.
Etienne aprì gli occhi, lo scrutò per un attimo, poi li chiuse di nuovo.
«Lo so. Me lo dite sempre.»
«Ti pesa? Somigliargli, dico.»
Etienne scosse la testa.
«No. Anzi, sono contento.»
«Quello dove sei seduto tu era il suo angolo preferito», continuò Raoul. «Veniva spesso qui a leggere o anche solo a fumare la pipa.»
«Sembra che io non gli somigli solo nell’aspetto, dunque.»
Raoul sorrise.
«No, infatti. Era un uomo d’animo dolce e gentile, esattamente come te. E fidati, lo dico perché l’ho conosciuto bene. Non sono due aggettivi che gli avresti dato sulle prime, specialmente non dopo il disastro di Tartesso. Ma era ancora così, è stato sempre così.»
A Raoul non sfuggì la smorfia di Etienne nel sentir nominare Tartesso. Ecco, dunque, il soggetto dei suoi incubi. Decise di non indagare oltre, era una strada accidentata quella ed Etienne aveva bisogno di tranquillità e riposo. Inoltre non parlavano mai di quello che vedeva in sogno. Era una specie di legge non scritta.
«I bambini gli sono sempre piaciuti. Si affezionò molto alla piccola Marie, per esempio, che aveva quattro anni quando salì sul Nautilus.»
A Etienne piaceva sentir parlare del Nautilus. Era qualcosa che apparentemente non conosceva. Raoul s’arrischiò a chiederglielo, con tenerezza: «Hai mai visto il Nautilus?»
Etienne capì subito a che tipo di visione il vecchio capo macchinista si riferisse.
«No», rispose. «Non vedo mai così avanti nel tempo. Solo che…» strinse le mani a pugno «stanotte ho sognato il Red Noah, non so perché. Mi era successo solo una volta, tanti anni fa, ero piccolo. Poi avevo giurato a me stesso che non avrei mai più visto in sogno una cosa così orribile. Finora mi era andata bene. Non avevo più sognato né il Red Noah né gli eventi recenti collegati a esso. Neanche il Nautilus, quindi. Ma stanotte non so cos’è successo. Non credo sia qualcosa che controllo.»
Ignorò le nuove lacrime che gli annebbiavano la vista.
«Se io fossi stato lì…» sussurrò. «Se solo fossi stato davvero lì…»
«Che avresti fatto, Etienne? Hai solo dodici anni.»
Sembrò crollargli addosso, l’impotenza dei suoi dodici anni.
«Non lo so. Non lo so, ma avrei cercato di salvare tutti. Ce l’avrei fatta in qualche modo.»
«Ci ha già provato tua madre, a salvare tutti. E ce l’ha fatta, in un certo senso. Se non fosse stato per lei non saremmo qui. E tuo padre portava addosso una responsabilità troppo grande. Un peso che lo schiacciava, una colpa che necessitava di essere espiata. La sua vita, inoltre, era già segnata. È stata segnata nel momento in cui ha rinunciato al potere guaritore della Pietra Azzurra per riportare in vita Jean.»
«È stato stupido», disse Etienne.
Raoul rise.
«Probabilmente sì.»
«Ha rinunciato a essere felice perché non pensava di meritarselo? Che scemenza.»
«Etienne. Di questo abbiamo già parlato. Ti rifaccio adesso una domanda che ti avevo già fatto anni fa. Ricordo bene qual era stata la tua risposta. Adesso pensaci e dimmi sinceramente se la pensi come allora. Se tu fossi stato al posto di Nemo, avresti lasciato morire tua sorella? E Jean, se è per questo.»
«No. Certo che no.»
«E cos’è che ti tormenta, dunque?»
«Lo sai, è una stupidaggine.»
Raoul si carezzò la barba, pensieroso.
«Sai, avevamo appena rischiato seriamente di morire. Eravamo affondati, il Nautilus fatto a pezzi. Ogni tanto ripenso al rumore del metallo che rischia di non reggere alla pressione, alle rivettature che saltano una dopo l’altra, ho gli incubi anch’io! C’eravamo salvati solo grazie ai tunnel sottomarini costruiti dagli antichi atlantidei, ed eravamo approdati ai livelli sotterranei di quel che restava dell’antica Tartesso. Non so se tua madre ti abbia mai raccontato di come andarono le cose tra loro dopo che… insomma…»
«Dopo che gli infilò un proiettile nel braccio?»
«Sbagliò di proposito. Da quella distanza avrebbe potuto tranquillamente ucciderlo se avesse voluto. Nemo non gliene fece mai una colpa, comunque. La mise alle strette, questo sì, ma fu per farle capire quanto fosse importante vivere, fino all’ultimo respiro. Lei, in particolare. L’ultima sopravvissuta fra gli abitanti di Tartesso. Un miracolo. Io, sai, li conoscevo da lunghi anni. Lei da quand’era una bambina, Elusys fin dai tempi in cui lavoravo a palazzo. Avevo capito che si volevano bene e ho sempre fatto il tifo per loro. Erano due testoni, però, e fino alla fine mi sono chiesto come sarebbe andata a finire. Ecco, quel giorno tua madre gli infilò un proiettile nel braccio e fu la sua fortuna. Capì che, pur con tutto l’odio, lo amava al punto da non poterlo uccidere. E capì che lui, be’, le voleva bene perché era Electra e non perché la considerasse una sostituta della figlia. Solo che non sapeva come gestire il suo stesso affetto. Il fatto che fossero finalmente riusciti a mettere a nudo i propri sentimenti, sia pur in modo così maldestro, cambiò tutto. Come ti dicevo, sopravvivemmo e arrivammo a Tartesso. Nei giorni appena successivi tua madre fece di tutto per evitare il Capitano. Si sentiva talmente in colpa da non riuscire nemmeno a guardarlo in faccia. Io la trovavo tenerissima, lo ammetto.»
«Come hanno fatto poi a chiarirsi?»
«Nemo venne da me e mi chiese una mano. Mi chiese cos’era meglio che facesse, perché voleva chiarire quella situazione e gli dispiaceva che un suo sottufficiale – usò proprio questa parola – fosse così a disagio. Io risi e mi chiese cosa ci trovassi di divertente. Be’, sai, Etienne? Io lavoravo a palazzo già dai tempi del precedente re, tuo nonno, e ho praticamente visto crescere Elusys. L’ho sempre considerato un po’ anche figlio mio. So che può sembrare un’affermazione strana, ma di tutto l’equipaggio ero quello che lo conosceva meglio e il solo con cui si confidasse. Gli dissi semplicemente di parlare a Electra, in tranquillità. E di fare chiarezza in quello che provava, prima. “Lo so quello che provo”, mi rispose. Non avevo dubbi che sarebbe andata bene. Lui s’era negato l’amore perché pensava di non meritarlo, però l’amore era lì, era sempre stato lì sotto il suo naso. Ebbe il coraggio di afferrarlo, alla fine. Nessuno dei due mi disse nulla, ma me ne accorsi. Era cambiato il modo in cui si guardavano, in cui stavano uno accanto all’altro mentre lavoravamo all’Exelion. C’era una nuova vicinanza che un occhio esterno non avrebbe notato, ma io sì. Tua madre era meravigliosa in quel periodo, raggiante. E Nemo… aveva ricominciato a sorridere. A sorridere davvero, intendo. Era rilassato, sereno come l’avevo visto solo prima della tragedia. E una mattina venne da me quasi con le lacrime agli occhi per la gioia. Raoul, mi disse, proteggi mio figlio. Aiutalo come hai fatto con me. Certo che ti voleva bene, Etienne. Ti ha amato dal primo momento. Esattamente come ha amato tua madre. Su questo non devi avere dubbi.»
Etienne, finalmente, sorrise.
«È solo che mi manca, sai. Mi manca tanto. L’avrei voluto conoscere.»
«Lo so. E lui avrebbe voluto conoscere te. Se fosse qui sarebbe fiero del ragazzo che sei diventato, questo te lo posso garantire.»
«Grazie.»
«Ora coraggio, prova ad andare a riposare o domani non riuscirai a tenere gli occhi aperti. Credo che per stavolta gli incubi siano finiti.»
 

Electra pose la lettera di dimissioni sulla scrivania dell’uomo.
«Lascio l’incarico», disse soltanto.
«Ma come mai? Non si trova bene?»
«Non è questo, è che io e mio figlio ci trasferiremo in Francia.»
«Da quando?»
«Dall’inizio del prossimo anno, probabilmente. Ma prima faremo qualche viaggio per aver modo di sistemare la nuova casa e ultimare i preparativi. Non avrei più modo di continuare col lavoro. La ringrazio, però, mi sono trovata bene.»
L’uomo era un vedovo padre di due figlie, Electra aveva lavorato presso di lui per anni come istitutrice delle due ragazze. Come aveva detto a Nadia, anni prima, non voleva intaccare più di tanto il patrimonio che Nemo aveva lasciato, almeno per quanto riguardava lei direttamente.
S’era trovata bene, davvero.
Lui teneva la lettera in mano, come se non sapesse decidersi a decifrarne il contenuto e il significato.
«Mi dispiace proporglielo così all’improvviso», disse infine, «ma da tempo pensavo di risposarmi. Le ragazze meritano di avere una figura materna accanto e io ho bisogno di una moglie. Non le andrebbe di essere lei?»
Electra sorrise, un sorriso distante, di ghiaccio.
«Mi dispiace ma devo rifiutare. L’unico uomo che io abbia mai amato e voluto accanto è il mio defunto marito. Non desidero risposarmi.»
Guardò la fede che ancora portava al dito.
«Il figlio che abbiamo avuto insieme è la sola cosa che conti, per me.»
L’uomo, Maximilien si chiamava, era una brava persona. Quasi le dispiacque avergli dato una delusione.
Quasi.
 

 
Lei ha quindici anni, i capelli lunghi, biondi, legati in due codine che la fanno sembrare persino più piccola della sua età.
Lui di anni ne ha trentasette e ha il peso di una tragedia sulle spalle.
Tangeri è illuminata da luci tenui e fuochi persino a quell’ora di notte.
Medina non riesce a dormire, così decide di fare due passi su e giù per i corridoi dell’enorme palazzo. S’avvolge uno scialle intorno alle spalle, sopra la camicia da notte, perché le notti marocchine sono fresche.
Va fino allo studio di Elusys, torna indietro, s’affaccia sul cortile, torna indietro.
La luce in camera di Elusys è ancora accesa, la porta è socchiusa, incuriosita sbircia e lui non è dentro.
Il letto è ancora in ordine, segno che non è proprio andato a dormire.
Medina sa bene dove trovarlo.
Sale le scale fino alla terrazza, si fa strada fra le piante in vaso e i teli che riparano la veranda.
Lui è lì, sdraiato sulla sua chaise longue preferita, cullato dalla brezza.
Ha un libro abbandonato in grembo, sembra dormire.
Medina arrossisce, le sembra di violare qualcosa di intimo.
Lo osserva a lungo, però.
È raro vederlo così rilassato, sembra ancora giovane, indifeso.
Lei sa perfettamente chi è lui, cos’è lui.
Sa che non è umano, sa che era il re di Tartesso.
Sa che lo ama.
Stringe lo scialle perché le si è stretto il cuore, ha il petto pieno di quell’amore.
S’avvicina, in punta di piedi.
Vorrebbe toccarlo, ne ha un bisogno improvviso, istintivo.
Allunga una mano, verso le guance, verso i baffi e gli zigomi.
Non ci arriva, però, non fa in tempo.
Lui apre gli occhi, la guarda, lei sussulta perché quello sguardo non lo sa interpretare.
Vorrebbe scappare, lui se ne accorge.
Allora prende quella mano rimasta protesa, stringe piano le dita con le dita, restano così.
A lungo, in silenzio.

 
 
Nadia, a Le Havre, si accarezzava la pancia e osservava le stelle.
Nebulosa M78, chissà in qualche parte del cielo si trovava. Orione, le sembrava di ricordare.
Da quando non aveva più la Pietra Azzurra, certe cose che prima le sembrava di sapere per istinto diventavano sempre più sfocate nella sua memoria.
Forse era meglio così. Non avrebbe più sentito parlare di Atlantide, Gargoyle era stato sconfitto, lo stesso valeva per il creatore di Fuzzy. L’umanità si avviava verso un’era di pace.
Lo sperava, per Philippe, per Etienne, per Anita, per il bambino che sarebbe nato.
Si meritavano di diventare adulti in un mondo prospero, felice, accogliente.
Non avrebbe sopportato che anche loro dovessero soffrire e combattere com’era stato per lei.
Certo la sofferenza faceva parte della vita, era inevitabile.
Prima o poi né lei né Jean sarebbero stati più al mondo, Philippe certo ne avrebbe sofferto, la sua sorellina o fratellino anche, e così i loro figli. Avrebbero pianto la perdita dei loro genitori e nonni.
Lei non ricordava sua madre, ma per Nemo aveva pianto.
Era strano, tra l’altro, perché l’aveva conosciuto solo a tredici anni e l’aveva detestato.
Era come se una parte di lei sapesse che lui era responsabile di quanto era accaduto alla sua patria, del fatto che lei fosse rimasta sola, che non avesse radici né memoria.
Poi però aveva scoperto che lui era suo padre.
L’aveva capito mentre il Nautilus affondava, prima ancora di ascoltare il racconto di Electra o di trovare l’ologramma.
L’aveva capito dagli occhi di lui quando aveva chiuso lei e Jean nella sua cabina per salvarli, dal gesto che aveva fatto, aveva allungato una mano come per farle una carezza, che lei aveva rifiutato perché non voleva essere toccata da un assassino. Quant’era stata sciocca.
Ancora sentiva una stretta al cuore se pensava al lampo di dolore nello sguardo di Nemo.
Era un uomo che già aveva dovuto sopportare tanto, che aveva avuto la gioia di ritrovare una figlia e il dolore di sapere che lei lo detestava senza possibilità di redenzione.
Lei era stata terribile, implacabile nella sua cattiveria.
«Sono stata una stupida, papà», sussurra. «Ovunque tu sia, se puoi, perdonami.»
Nadia guardava le stelle dalla finestra, quasi sperando che lui fosse ancora lassù, dove l’aveva visto l’ultima volta.
«Ti voglio bene. Avrei voluto davvero stare con te. Avrei voluto che tu fossi qui a crescere i tuoi nipoti, a crescere tuo figlio. A crescere me. Sono ancora una ragazzina, in fondo. Avrei ancora bisogno della tua guida.»
Nadia s’asciugò una lacrima, si accarezzò la pancia ancora una volta.
«Stavolta sento che sarà femmina, sai? Vorremmo chiamarla Anne Marie, come la defunta madre di Jean. Verrà su una brava bambina, la cresceremo bene. Philippe è un po’ scapestrato, ha preso tutto da Jean. È geniale quanto lui con le invenzioni. Spero che sarà un bravo fratello maggiore e non coinvolga la sua sorellina in cose strane. Comunque siamo tutti una famiglia, allargata ma una famiglia. Anche con Grandis, Sanson e gli altri. Lei si è presa cura di noi come le avevi detto di fare. Mi ha insegnato a cucinare. Mi ha insegnato a essere una brava donna di casa, anche se non avresti mai detto che lei lo fosse. Mi ha insegnato come vivere, dopo che nella mia vita mai niente era stato normale. Ogni tanto sogno ancora il circo. Poi c’è Electra, sento spesso anche lei. All’inizio non mi era troppo simpatica, penso che te ne fossi accorto anche tu. Però col tempo ho capito perché te ne sei innamorato. È una persona incredibile. Io non avrei mai avuto la forza di crescere un figlio da sola, di rifarmi una vita come ha fatto lei. Mi ha scritto pochi giorni fa, per dirmi che lei ed Etienne verranno a trovarmi prima della nascita della bambina. O del bambino. Dice che si trasferiranno in Francia, perché Etienne ci tiene. È un bravo ragazzo, tuo figlio. Da piccolo era il bambino più dolce che si potesse immaginare. Lo è ancora, ed è tanto affezionato a tutti noi.»
Una folata di vento, Nadia rabbrividì. Iniziava a fare freddo. Guardò un’ultima volta il cielo, prima di chiudere la finestra.
«Veglia su di noi, papà.»
Cadde una stella.

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Capitolo 14
*** Tia ***


TIA
 
 
 
 
 
Nadia si passò una mano sulla schiena dolorante, come se il gesto avesse potuto alleviarle il fastidio, e sospirò. Era all’ultimo mese di gravidanza e iniziava a sentirlo tutto. La pancia era un tondo perfetto, le sembrava di scoppiare, e negli ultimi giorni l’acidità allo stomaco si era fatta insopportabile. Sperò significasse che mancava davvero poco.

«Mamma!»
Philippe entrò di corsa, sporco tanto per cambiare di olio da motore.
«Dove sono le mappe?»
Nadia prese un fazzoletto e cercò di pulirgli almeno il viso.
«Quali mappe?»
«Le mappe del Nautilus!»
Ah, già. Le planimetrie che Raoul ed Electra avevano regalato a Philippe per il suo quinto compleanno. Il bambino aveva espressamente chiesto a suo padre un Nautilus in regalo e, dato che quello vero non era più disponibile, una riproduzione dettagliata in scala era sembrata la soluzione ideale.
Così Jean e Philippe, acquisiti i progetti, si erano messi all’opera.
Jean aveva già avuto modo di studiare il Nautilus quand’era stato imbarcato, con l’aiuto di Raoul e degli altri tecnici di bordo, ma non gli sembrava vero di avere sottomano i progetti originali.
Aveva passato ore a decifrarli, specie le glosse che Raoul aveva aggiunto a margine.
C’era perfino qualche appunto di Nemo, per quanto riguardava soprattutto il funzionamento dei motori.
Quel sottomarino era stato un capolavoro di tecnologia che sarebbe rimasto ineguagliato per secoli, forse per sempre.
Nadia aveva dato un’occhiata a quei fogli solo di sfuggita. Non ne capiva nulla e, d’altra parte, non si era mai interessata di meccanica. Le bastavano i commenti entusiasti di Jean.
«Le “mappe” sono in salotto, Philippe. Le aveva prese Jean ieri sera e credo di averle viste sopra al tavolo.»
Fece qualche passo verso la porta, per accompagnare il figlio in salotto.
Sentì la prima contrazione, forte, e quasi si piegò in due dal dolore.
Eccoci, pensò.
«Philippe», riuscì a sussurrare tra i denti, «vai a chiamare tuo padre, sbrigati.»
 
Jean mandò subito a chiamare la levatrice e, aiutato dalla zia, accompagnò Nadia in camera da letto e la aiutò a stendersi.
«Ora vai», disse l’anziana, «resto io qui con lei.»
Jean sudava freddo ma annuì, non prima di aver stretto la mano di Nadia e di averle sorriso.
«Andrà tutto bene», disse alla moglie, accarezzandole i capelli.
Nadia si sforzò di sorridergli, ma fece una smorfia di dolore.
C’era qualcosa che non andava, non sapeva perché ma lo sentiva.
Sperò che la levatrice facesse in tempo.
«Come ti senti?» le chiese la zia di Jean.
«Potrei stare meglio», fu la sua risposta.
Si tirò su, appoggiandosi ai cuscini.
«Ho bisogno di camminare un po’», disse.
La zia la aiutò ad alzarsi, sostenendola mentre faceva qualche passo.
«Fa molto male?»
«Abbastanza, ma credo che ci vorrà ancora un po’. Spero che la levatrice si sbrighi.»
Se conosceva Jean, doveva essere volato con la moto-sidecar fino a casa della donna e sarebbe stato di ritorno a brevissimo. E Philippe? Chissà se l’aveva portato con lui?
«Ouch!»
Una contrazione la spinse a stendersi di nuovo.
C’era qualcosa di strano, una sensazione.
«Zia…» sussurrò «Quanto ci mette la levatrice?»
Non sentiva ancora il bisogno di spingere, ma aveva la nausea e si sentiva debole.
Un malessere che non aveva origine dal parto, o almeno non solo da quello.
Sentì il rombo della moto di Jean fuori dalla finestra e tirò un sospiro di sollievo.
«Mamma!»
Philippe, fuori dalla porta.
«Mamma, cosa c’è?»
La porta si spalancò ed entrarono Jean, con Philippe in braccio, e la levatrice.
«Siamo in tempo?»
La zia annuì.
«Manca ancora un po’.»
A Nadia non sfuggì l’espressione della levatrice mentre le esaminava la pancia.
La tastò più volte, spingendo a fondo.
«Allora?» domandò la zia.
La levatrice sospirò. Era un guaio, sarebbe stato un parto complicato.
«Il bambino è podalico», disse.
Sia Nadia che la zia sbiancarono.
«Cercherò di provare a farlo girare, ma non garantisco di farcela. Potrebbe essere tardi.»
 
Tardi per chi?
Nadia se lo chiede ancora, talvolta.
Di quei momenti ricorda il dolore, che ancora andava e veniva, le contrazioni sempre più ravvicinate, le mani della donna sulla pancia che spingevano e manovravano con fare sapiente.
Sembrava sapere perfettamente cosa fare.
 
«Niente da fare, non si gira.»
 
Nadia ricorda distintamente la paura.
Quella paura atavica di morire che si faceva strada.
Lei e il bambino.
Per chi sarebbe stato troppo tardi?
 
«Spinga», disse la donna. «A questo punto l’unica fortuna è che non è un bambino grosso, possiamo provare a farlo uscire così. Cercherò di tirarlo giù.»
In fretta, perché con la testa ancora dentro avrebbe rischiato di soffocare o di non riuscire a uscire.
In fretta, perché la madre non sarebbe forse riuscita a sostenere uno sforzo prolungato e inutile.
Nadia ci provò, spinse, urlò. Spinse ancora.
«Coraggio», disse la levatrice.
La zia le teneva la mano, Jean era da qualche parte fuori dalla stanza, con Philippe.
 
La sensazione di essere aperta in due, anche quella ricorda.
La sensazione di qualcosa che si incastra, che non è come dovrebbe.
Può passarci, la levatrice che parla. È abbastanza piccolo, ci passa.
La paura di morire.
La consapevolezza di doversi sbrigare anche per lei, per la bambina, che rischiava di morire appena nata.
La sensazione di qualcosa che non va.
Anne Marie Lartigue.
Una bambina piccola, abbastanza da poter nascere podalica.
Minuta, Anne lo è rimasta.
Un fuscello, aggraziata come una gazzella, il viso di una bellezza antica e gli occhi verdi e profondi del nonno.
È venuta al mondo dopo un travaglio lungo, complicato.
Un miracolo che siano sopravvissute tutte e due.
 
Alla fine, Nadia s’era accasciata senza forze, senza neppure un pensiero.
Anne era nata cianotica per la mancanza di ossigeno, la levatrice l’aveva stimolata a respirare, allora aveva spalancato la bocca e aveva pianto.
Un pianto lungo, acuto.
Gliel’avevano porta dopo averla lavata, perché la abbracciasse e provasse ad attaccarla al seno.
Lei non si attaccò. Non all’inizio, almeno. Ci provò più volte, morse, gemette arrabbiata e affamata. Alla fine, con pazienza, Nadia la guidò fino al capezzolo. Anne Marie morse ancora, più volte.
 
Anche arrabbiata sarebbe stata sempre.
 
 
La notizia della nascita di Anne raggiunse Electra ed Etienne appena rientrarono in albergo, a Rouen. Erano nel mezzo delle trattative per l’acquisto di un bell’appartamento vicino a Rue de la République e avevano avuto una giornata indaffarata fra banche e notai.
Era stato Jean a chiamare l’albergo, per poi lasciare un messaggio che li attendeva sul tavolino della loro stanza.
«Meno male che è andato tutto bene», disse Electra. «È una bambina, hai letto?»
Etienne annuì, con gli occhi fissi sul biglietto.
«Andiamo da loro domani?»
«Certamente.»
Etienne annuì di nuovo, lentamente, poi guardò il cielo fuori dalla finestra.
«Sembra che stanotte verrà a piovere.»
 
Il portellone si apre con un ronzio metallico.
Etienne, istintivamente, si mette sull’attenti.
Lei sta in silenzio, gli occhiali sul viso e i capelli biondi sciolti sulle spalle.
Sembra assorta, rilassata però.
Capendo che non si tratta di una convocazione ufficiale, Etienne si rilassa a sua volta.
«A cosa devo l’onore, Grande Capo? È raro che mi chiami dopo cena.»
Electra si lascia sfuggire un ghigno nel sentire quell’epiteto scherzoso che mal sopporta, e gli indica una sedia.
«Ho forse bisogno di scuse per vedere mio figlio?»
Etienne vede la scacchiera sul tavolo, capisce immediatamente.
«Partitella?»
Electra annuisce.
«Non giochiamo più da tanto.»
Non riuscirà a batterlo, lo sa bene, non ci riesce più da anni.
Lo sfida lo stesso, però, perché quei momenti di intimità le sono preziosi come l’aria.
Lui si siede, dispone i suoi pezzi, sembra sereno.
Meno male.
«Dunque», le chiede dopo un po’. «Di cosa mi devi parlare?»
Non gli si può nascondere nulla.
«Di Anne.»
Etienne sorride piano, annuisce, si passa fra le mani la regina nera degli scacchi.
Electra sa che non c’è niente da aggiungere.
Lui sembra pensare, sta ancora per un po’ in silenzio, poi alza lo sguardo su di lei e gli occhi blu riflettono occhi blu identici.
«Ricordo quel sogno come se l’avessi fatto adesso.»
Electra apre spostando uno dei pedoni.
«Eri inquieto anche prima. Prima di andare a dormire, intendo. Guardavi fuori dalla finestra.»
Pedone in d4.
«Lo so. Era l’aria. Col senno di poi l’ho capito. Era il modo in cui si è alzato il vento, in cui tutto si è mosso. Niente era più come doveva essere. Ero intimorito, soggiogato. Ero…»
Pedone in c4.
Sarà una lunga partita.
 
Il ragazzo è in un sogno.
Lo sa, lo sente.
È un sogno diverso, però.
La visione di qualcosa che lo insegue.
Contorni indistinti, tutto intorno a lui è buio.
Ha imparato a conoscere tutti i luoghi dei sogni e quello non assomiglia a niente.
 
L’alfiere segue il pedone.
Lo mette alle strette.
«Ero spaventato. Ma curioso, anche. Avevo paura ma volevo capire.»
 
Dal fondo del buio si fa strada una forma.
Un rumore, dapprima.
Un clangore come di metallo arrugginito.
Poi la forma, laggiù.
Un ragno di metallo.
Etienne ha paura.
I battiti accelerano, la forma scompare.
Etienne è sveglio.
 
«E hai capito?»
«Sì. Tutto quanto. Anche in che modo fare scacco al re fra cinque mosse.»
Electra sorride.
«Non mi sottovalutare.»
 
«Sai, mamma, stanotte ho fatto un sogno strano.»
Electra alzò gli occhi dal vassoio della colazione.
«Uno dei tuoi?» domandò.
Etienne inghiottì un pezzetto di croissant alla marmellata e bevve un sorso di caffellatte.
«Sì. Cioè no. Non saprei. Era strano.»
«Racconta.»
«Non c’è tanto da dire. Era tutto buio e in lontananza si sentiva rumore di metallo, come di qualcosa che si muoveva. E poi è comparso una specie di enorme ragno.»
«Un ragno?»
«Sì, un ragno finto. Nel senso, la forma era come di un ragno ma era una macchina. Non so che macchina. Era enorme, abbastanza da contenere più di una persona. Bianco, mi pare. O grigio chiaro.»
Nel vedere che Electra non rispondeva, Etienne continuò.
«Mi ha lasciato una brutta sensazione. Come se mi stesse inseguendo. Poi però mi sono svegliato, quindi non saprei. Era qualcosa che non avevo mai visto, questo è sicuro.»
Buttò giù un altro sorso di latte. Electra non rispondeva. Sembrava, d’improvviso, assorta nei suoi pensieri. Etienne la osservò per un po’, la vide sollevare con fare meccanico la brocca con la spremuta d’arancia che aveva chiesto per sé.
«Perché ti trema la mano?» le chiese.
Electra, allora, si riscosse.
«Non è niente», e si versò da bere. «Appena fatta colazione preparati, andiamo a trovare tua sorella.»
«Sì!»
 
Platone parla di un metallo chiamato orihalcon che veniva estratto ad Atlantide e di cui si perdette notizia dopo l’affondamento dell’isola.
Il metallo e le sue miracolose proprietà rimasero, nel mondo degli uomini, come leggenda.
Nel nome del mito attraversarono i secoli.
Intanto, in Africa Centrale, protetta dalle alte mura di Tartesso, la civiltà dei discendenti di Atlantide ancora prosperava.
Con essa l’orihalcon, la Pietra Azzurra.
 
Era da poco passata l’ora di pranzo quando il telefono squillò.
Raoul, che stava rassettando, sobbalzò. Poteva essere solo una persona a chiamarlo.
«Electra?» chiese nel portarsi all’orecchio la cornetta.
Lei non lo salutò neppure.
«Vai subito di sotto e controlla le fluttuazioni nei livelli di orihalcon. Fai una rilevazione se necessario e appena hai i dati richiamami.»
E buttò giù.
Raoul si grattò la testa, pensieroso.
La bambina era agitata. E quando era agitata non era mai buon segno.
«Che sarà successo adesso?» si chiese.
Le obbedì, in ogni caso. Non farlo era fuori discussione. Andò fino allo studio che era stato di Elusys e tirò giù dalla libreria il volume che già una volta Etienne aveva manomesso. Sulla copertina c’era un quadrante con simboli dell’alfabeto di Atlantide. Raoul inserì manualmente il codice, lottando con la memoria. Per sicurezza cambiavano la cifratura una volta alla settimana, il che non avrebbe comunque impedito a Etienne di entrare. Gli era bastato toccare il libro, quella volta. Era una precauzione che Electra aveva voluto continuare a prendere, però, chissà perché. Raoul non aveva mai messo in discussione le sue decisioni, ma c’erano volte in cui non riusciva a capirla. La guerra era finita eppure lei si comportava come se fosse necessario continuare a lottare. Lei non aveva mai smesso di lottare, contro che fantasmi Raoul non l’aveva mai saputo.
La porta che conduceva al sotterraneo si aprì e Raoul scese, non senza fatica, le scale.
Raggiunse i macchinari, sempre accesi, e controllò i dati delle ultime ore.
Quasi non credette ai suoi occhi.
Electra aveva ragione. Era stata questione di pochi secondi ma, quella notte, poco prima del sorgere del sole, i parametri di attività dell’orihalcon erano schizzati verso l’alto come non era più accaduto da quando erano sparite le Pietre Azzurre.
Fece una stampa dei dati e corse di nuovo al telefono.
«Allora?» chiese Electra.
«Allora hai ragione, c’è stata una significativa oscillazione dei parametri stamattina molto presto. Non riesco a spiegarmela.»
«Io sì. Etienne ha sognato un modulo Makad.»
Raoul rimase in silenzio e si sforzò di pensare.
«Sei sicura?»
«Da come lo ha descritto, sì.»
«Potrebbe non significare niente, Electra.»
«Lo so.»
«Il ragazzo sogna tante cose.»
«Ma questi non può averli visti a Tartesso. Non c’erano.»
Raoul non rispose.
«E ora è nata la bambina», continuò Electra.
«Oh, mi fa piacere. Fai le mie congratulazioni a Nadia e Jean quando li vedi.»
Ma Raoul, al di là della gioia sincera, capiva bene le implicazioni delle parole di Electra.
«Pensi che le due cose siano collegate?»
Lei sospirò, un sospiro stanco, preoccupato.
«Non lo so, Raoul. Non lo so. Con Philippe non era successo niente.»
«Probabilmente è stato solo un caso, Electra. Stai tranquilla.»
Poté quasi vederla mentre scuoteva la testa in segno di diniego.
«Il caso non esiste. Non con Atlantide. In ogni caso, ti prego… anche se stai pensando che io sia pazza, tieni sempre d’occhio i livelli di orihalcon e se noti qualcosa di strano avvertimi subito.»
«Certamente.»
«Io ed Etienne rimarremo in Francia. Almeno per adesso.»
«Insiste a voler stare con Nadia?»
«Sì. E come ti ho detto, con Atlantide il caso non esiste. Anche se lui ancora non lo sa.»
Raoul aveva chiesto più volte a Electra contro cosa stesse combattendo. La risposta, ogni volta, era stata quella. Non lo so. Non lo so, non lo so. Forse erano solo suoi fantasmi, i ricordi di una donna che aveva visto e vissuto troppe cose. Raoul pregò che fosse così, per Etienne e per tutti i giovani che erano venuti in quel mondo e che in quel mondo avrebbero vissuto.
 
«Così vuoi parlare di Tia.»
Alfiere mangia pedone.
«Di Anne, sì.»
«Di Tia.»
Occhi blu pacati ma assertivi, la postura rilassata, inattaccabile, il principe muove la torre.
«Il suo nome è Tia.»
La torre protegge il re.
 
La bambina piangeva, non c’era verso di calmarla.
Un pianto rabbioso, inconsolabile, che non calmava il cibo, che non calmavano le carezze o la voce della madre.
Era un pianto senza ragione apparente.
Fu da quelle urla che vennero accolti Etienne ed Electra appena scesero dall’autovettura che li aveva portati fino a Le Havre. La voce di Nadia cercava invano di calmare la neonata.
Etienne non salutò neppure Jean, che aveva aperto loro la porta d’ingresso.
Corse al piano superiore, s’affacciò nella camera.
 
Etienne ride.
«Una neonata arrabbiata viola in faccia e col moccio al naso. Era buffissima.»
 
Nadia si voltò, in vestaglia, con Anne Marie in braccio e due occhiaie spaventose.
«Etienne!»
Lui non rispose. Pietrificato, le pupille dilatate dallo stupore, tratteneva il fiato e guardava la bambina. Lei, in quel momento, s’acquietò. Si osservarono, lui, la madre e la bambina, come se non si fossero mai visti. Due lacrime scesero dagli occhi di Nadia, nel guardare Etienne.
«Scusami. Non so che mi succede.»
Lui scosse la testa, le sorrise, gli occhi lucidi di commozione e gioia.
«Non fa niente.»
Tese le braccia.
 
«Ho posato gli occhi su di loro e ho capito perché ero venuto al mondo.»
 
 
La bambina, nata da poche ore, riposava quieta fra le sue braccia.
Nadia ne aveva approfittato per dormire qualche minuto a sua volta. Stavano in tre sul letto matrimoniale, Nadia in camicia da notte stesa lungo il fianco, Etienne poggiato alla testiera del letto che cullava Anne Marie, cantandole una ninna nanna sottovoce.
Lei si svegliò, ma non pianse.
Semplicemente stava lì, come in attesa, gli occhi ancora offuscati persi a cercare qualcosa nell’aria. Era impaurita, era arrabbiata, ma sentiva la presenza di Etienne e ad essa reagiva. Lui la guardò a lungo.
«Sei piccolissima», disse, e le asciugò un rivolo di bava col tovagliolo.
Poi la osservò ancora, e lei gorgogliò.
Etienne allora sorrise, s’avvicinò alle sue guance. Se non vedeva ancora bene con quegli occhi appena nati, poteva udire benissimo.
«Aapaka naam hai Tia», le sussurrò all'orecchio.
 
«Tia, va bene», dice la madre.
Si scrutano, lei e il figlio, da pari a pari.
Poi Electra sospira, si indurisce sulla sedia, gli occhi della madre diventano gli occhi del comandante.
«Che cosa c’entra lei con tutto questo?»
Etienne è imperscrutabile.
 
«Il tuo nome è Tia.»
 
Scacco al re.



 

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Capitolo 15
*** L'avventura di Tia ***


L’AVVENTURA DI TIA

 

 

 

 

Val-d’Isère, Francia, 1904

 

 

 

«Che meraviglia!» esclamò Nadia.

«Hai proprio ragione, abbiamo fatto benissimo a scegliere questo posto!» rispose Jean, aprendo le finestre della loro camera d’albergo.

«Non mi sembra vero che ci siamo finalmente potuti permettere una vacanza sulle Alpi», sospirò Nadia. «Di solito siamo sempre a corto di soldi.»

Jean ridacchiò.

«Chiedo scusa.»

Per dire il vero, quella vacanza se l’erano potuta permettere grazie all’aiuto di Hanson, che aveva deciso di concedersi una settimana di ferie dal lavoro e li aveva raggiunti in Francia col solo scopo di fare una rimpatriata coi suoi vecchi amici.

Così erano partiti per ritrovarsi a Val-d’Isère, nota zona sciistica nel cuore delle Alpi francesi, un paesino a quasi duemila metri sul livello del mare. C’erano Jean, Nadia, Anne Marie e Philippe, oltre naturalmente a Sanson, Marie, Anita, Grandis e lo stesso Hanson. Quest’ultimo aveva voluto invitare anche Electra, che aveva però declinato l’invito e mandato Etienne al suo posto.

L’albergo era grazioso, un’accogliente baita in legno e pietra che sembrava antica, ed era circondato da un prato verdissimo di erba da pascolo. Distava dal paese solo poche centinaia di metri, percorribili a piedi grazie a uno sterrato che scendeva giù dalla collina in direzione del fiume.

Etienne aveva finito di disfare i suoi bagagli e stava aiutando Jean e Nadia a sistemare i loro.

Anne Marie, dal canto suo, era alla ricerca dei giocattoli che aveva portato con sé.

«Bambola dove?» domandò a Etienne.

«Ora la troviamo, abbi pazienza.»

Dall’alto dei suoi due anni, la bambina comandava come una piccola despota.

Seduta sul letto dei suoi genitori, guardava Etienne con aria assorta.

«Sicuro?»

«Sì.»

Philippe, intanto, si era affacciato a sua volta alla finestra.

«Papà, che nuvole sono quelle?» chiese.

«Sono altocumuli.»

«Perché si chiamano altocumuli?»

«Perché hanno un’altitudine che varia da 2500 a 6000 metri», si intromise Etienne, «e formano ghiaccio sui velivoli.»

«Molto bene, Etienne», si complimentò Jean. «Vedo che stai studiando!»

«Per un pilota conoscere le nuvole è fondamentale.»

Ficcò la mano in un borsone, ne tirò fuori una bambola di porcellana con un vestito verde a balze.

«Ecco, Tia», e gliela lanciò sul letto.

In una delle altre stanze, Anita stava piagnucolando.

«Chissà che succede», si chiese Nadia. «Era raffreddata, speriamo non le sia salita la febbre.»

Tic toc tic toc tic toc.

Riconobbero il rumore degli stivali col tacco di Grandis, in corridoio.

La porta della camera si spalancò.

«Ragazzi?»

La donna s’affacciò, già in tenuta da sci, sorridente e roboante come suo solito.

«Che ne dite di questo per andare sulla neve?»

Nadia rise.

«Direi che va benissimo, Grandis.»

Anita, intanto, piangeva più forte.

«Che casino», borbottò Jean, ridacchiando a sua volta.

C’era da aspettarselo, era sempre così ogni volta che decidevano di organizzare qualcosa tutti insieme.

 

Un paio d’ore e qualche valigia più tardi, dopo essersi cambiati e fatti un bagno, scesero nella sala ristorante. Anita, fortunatamente, non aveva la febbre e se ne stava tranquilla in braccio a Sanson, che di tanto in tanto le soffiava il nasino.

«Quindi qual è il programma per domani?» chiese Marie.

«Saliamo in vetta in mattinata», rispose Sanson, «ci fermiamo a mangiare in uno dei rifugi lungo il percorso e torniamo giù nel primo pomeriggio.»

«Oh, ma Anita e Anne sono ancora troppo piccole! Le porti tu in braccio fino in cima?»

Sanson rise e mostrò i muscoli: «Perché no?»

Marie si trattenne dal dargli una sberla.

«Non c’è problema», si intromise Nadia. «A me non interessa salire sulla montagna, rimango io con le bambine. Tu vai pure, Marie, non preoccuparti.»

«Stessa cosa», aggiunse Etienne. «E ho promesso di insegnare a Philippe a sciare, quindi rimarremo qui in zona.»

«Va bene, va bene», disse Sanson. «Vorrà dire che saliremo io, Jean, Marie e Hanson, non è vero, Hanson?»

Hanson, che stava scendendo le scale, sobbalzò: «V-va bene!»

Non era particolarmente sicuro riguardo alle sue doti atletiche…

«Vengo anche io con voi», sospirò Grandis, «o voi tre rammolliti chissà dove potreste finire!»

Nadia rise.

«Coraggio, Grandis.»

La sala ristorante si aprì sotto di loro, un ambiente rustico e accogliente come il resto dell’albergo, con pareti rivestite di legno e travi a vista. L’aria era piena del chiacchiericcio dei villeggianti, alcuni appena tornati dalle piste sorseggiavano bicchieri di liquore e vino caldo. Sedettero a un tavolo di legno che era stato loro riservato.

«Che mangiamo?» chiese Etienne. «Io voglio provare la raclette!»

«Anche la carne arrosto sembra ottima!»

Nadia fece una smorfia.

«Io assaggerò i formaggi.»

Addossato a una parete della stanza stava un pianoforte verticale, evidentemente a disposizione di chi avesse avuto voglia di suonare.

Etienne, dopo mangiato, non si fece pregare.

«Cosa vi va di ascoltare?», chiese. «Musica popolare, Debussy o un allegretto di Beethoven?»

Anne-Marie, dal suo seggiolone, si agitò: «Anche io!»

Etienne rise e la prese in braccio.

«Va bene, va bene. Facciamo ascoltare loro come suoniamo la tua filastrocca.»

Sedette al pianoforte e si sistemò la bambina sulle ginocchia.

«Mani così», le disse, e le mise l’indice sul “LA”.

La bambina rise e premette le dita a caso sui tasti del piano.

Etienne riprese le note, improvvisò una piccola melodia.

«Belle, o ma si belle...», canticchiò.

Anne Marie rideva. Per tutta la sera la sala fu allietata dalla sua voce squillante e serena e dal pianoforte di Etienne. Nadia li osservò da lontano, tutto il tempo. Era una visione che, in qualche modo, la rasserenava. Più tardi, quando portò un'esausta Anne e profondamente addormentata Anne in camera, restò a vegliarla a lungo. Qualsiasi fosse stato il futuro che la attendeva, era grata che avesse Etienne accanto. Era grata che fossero tutti quanti una grande famiglia, che si volessero bene. Almeno non sarebbe stata sola com'era toccato a lei da bambina. Non avrebbe mai sperimentato una tale, disumana sofferenza.

Diede alla piccola un bacio sulla fronte e andò a sua volta a letto.

L'indomani sarebbe stata una lunga giornata.

 

«Avete preso tutto?», chiese Jean.

Gli altri annuirono.

«Sì!»

«Le borracce e il pranzo?»

«Sì!»

«Cappello e vestiti di scorta?»

«Sì!»

Nadia gli si avvicinò.

«Mi raccomando, Jean, siate prudenti.»

Jean le sorrise, gli occhi azzurri accesi di buonumore.

«Stai tranquilla, ce la caveremo. Tu piuttosto, mi raccomando i bambini.»

«Nessun problema.»

Era ancora mattino presto e l'hotel era silenzioso, ma come loro anche altri turisti avevano deciso di tentare la scalata quando ancora il grosso dei villeggianti riposava. Sarebbe stato un tragitto piuttosto lungo fino in cima e la buona occasione per Jean di provare un po' della nuova attrezzatura che aveva portato. Modificata da lui, naturalmente, per migliorare le prestazioni sulla neve.

Anche Etienne era sveglio e stava preparando l'attrezzatura per Philippe. La giornata era fredda ma limpida, l'ideale per divertirsi sulla neve. Certo, i bambini potevano dormire quanto preferivano. Sarebbero rimasti nei pressi dell'albergo, dopotutto. Etienne, però, ci teneva a salutare gli altri prima che partissero. Si avvicinò al gruppo e augurò loro di divertirsi. Grandis, che non vedeva l'ora di andare, lo abbracciò stretto.

«Grazie, Etienne. Vieni anche tu la prossima volta, eh!»

Etienne, un pelo a disagio, annuì.

«Senz'altro.»

Nadia ridacchiò.

Proprio in quel momento sentirono Anne Marie che dalla sua stanza chiamava la madre.

«La principessa si è svegliata», disse Nadia. «Vado a darle la colazione.»

Tornò poco dopo, con in braccio un'assonnata Anne che a sua volta stringeva un biberon di latte tiepido e biscotti. Etienne lanciò un'occhiata a entrambe, poi tornò a dedicarsi agli sci e ai bastoncini. Si prospettava una mattina tranquilla, per fortuna.

 

Ogni tanto le capita di ripensare a quel giorno.

Non che lo ricordi davvero, naturalmente, era troppo piccola.

Però affiorano delle sensazioni che riconduce infallibilmente a quella mattina, ancora dopo anni.

Ricorda benissimo le risate di suo fratello Philippe, per esempio, e di averlo visto rotolare con gli sci e tutto, poco lontano dal prato.

Ricorda anche che Nadia si era distratta per un attimo, non sa perché. Forse per via di Anita che piagnucolava, tanto per cambiare.

Poi era successo che aveva visto qualcosa ed era andata verso il bosco.

 

Anne era seduta ai piedi delle scale che portavano all'ingresso dell'hotel. Giocava con la sua bambola, le aveva messo in testa il suo cappellino e stava cercando di farla stare in piedi con scarsi risultati. Voleva farla sciare insieme a Philippe. Sua madre era seduta con Anita su una panca lì vicino, era ormai pomeriggio e stava provando a far dormire la bambina un paio d'ore. Poi sarebbe stata la volta di Anne, che di dormire proprio non aveva voglia e infatti stava cercando di approfittare di ogni minuto ancora libero. Le piaceva, quel posto. C'erano molti alberi poco lontano che la incuriosivano. Voleva chiedere a Etienne come si chiamassero, e anche come faceva l'acqua della vasca da bagno a riscaldarsi. Etienne però era sempre stato con Philippe, tutto il giorno. Una cosa che a lei invece non piaceva per niente. Chissà, magari se gliel'avesse chiesto, Etienne l'avrebbe accompagnata a vedere gli alberi. Avrebbe provato, decise. Si alzò in piedi.

«Anne?» Nadia la chiamò. «Che fai? Non ti allontanare da sola.»

Anne osservò la madre come se non avesse capito. Quelle non erano parole che per lei avessero senso. Non andava da nessuna parte da sola.

«Etí», rispose, con occhi interrogativi.

Nadia sorrise e si alzò.

«Vuoi proprio bene a Etienne, vero? Va bene, ti accompagno.»

Non ebbe il tempo di muovere un passo che Anita iniziò a piangere. Tormentata dal raffreddore e dalla mancanza dei suoi genitori, la bambina era stata nervosa e inconsolabile per tutto il giorno. Nadia si voltò, la prese in braccio.

«Oh, Anita! Non piangere. Andiamo a sciacquare il nasino, forza.»

Anita, per tutta risposta, urlò più forte.

Anne sbuffò. Quella bambina piagnucolosa era sempre fra i piedi.

 

Poco male, avrebbe fatto da sola.

Era quello che avrebbe pensato se fosse stata un po' più grande.

Invece, a due anni e qualcosa, Tia voleva solo andare da Etienne per scoprire che nomi avessero gli alberi del bosco.

Così si era alzata in piedi ed era corsa via, mentre sua madre ancora badava ad Anita, che era un po' più grande di Tia eppure tanto più insicura e bisognosa di attenzioni.

Tanto più umana, avrebbe detto qualche anno dopo qualcuno, e Tia non si sentiva di obiettare.

Comunque non ci era mai arrivata da Etienne.

Era stata colpa di una farfalla.

Una grossa farfalla nera con le ali che sembravano di velluto, strana ma non impossibile da trovare a quelle altitudini (l'avrebbe spiegato Philippe, appassionato di insetti, quella sera stessa).

Era volata dritta in faccia a Tia, che aveva sentito perfino il rumore del battito delle ali sulle guance, poi s'era posata poco distante, lungo il sentiero che conduceva al bosco.

Chissà che voleva da lei, quella farfalla.

Magari salutarla o mostrarle un tesoro segreto.

Tia non lo sapeva.

L'aveva seguita, però, e aveva preso la via del bosco.

 

«Sei stato bravissimo, Philippe. Secondo me tempo un paio di giorni e riuscirai a seguire gli altri sulle piste facili.»

«Davvero?»

«Sì.»

Etienne e Philippe, con gli sci sottobraccio, stavano tornando verso l'albergo. Philippe era raggiante, con le guance arrossate e lo sguardo orgoglioso.

«Non vedo l'ora di dirlo a papà. Quando torna?»

Etienne guardò il cielo, valutando la posizione del sole.

«Secondo me ne avranno ancora per almeno un'ora. Erano saliti piuttosto in alto.»

Sentì, poco lontano, il piagnucolio di Anita.

«Direi di andare a dirlo a tua madre, intanto. Dev'essere con Anita.»

Era un pianto nervoso, quello della bambina, Etienne lo capì subito. Certo, potevano esserci mille spiegazioni. Non era coi suoi genitori e stava poco bene. Magari era stanca, o aveva fame. Non seppe perché ma si affrettò.

«Andiamo», disse a Philippe, prendendogli una mano.

Vide Nadia da lontano, in piedi con Anita in braccio. Era strana, sembrava pietrificata.

Corse da lei, col cuore in gola.

«Nadia?»

Lei sobbalzò sentendosi chiamare, si voltò verso Etienne con gli occhi sbarrati, impauriti.

«Che succede?»

Etienne glielo chiese ma non ottenne risposta, lei era come muta, impotente, tremava con in braccio una bambina che non era sua figlia. Etienne si guardò intorno, vide la bambola di Anne per terra, abbandonata vicino alle scale. Deglutì.

«Dov'è Tia?»

Nadia non rispose, si guardò intorno spaesata, poi guardò Etienne e riuscì a fare segno di no con la testa.

«Non lo so, non...»

 

Etienne stette un attimo in silenzio, poi annuì piano e le si avvicinò.

Alto quanto lei, a quattordici anni, le prese il viso fra le mani e la guardò a lungo negli occhi.

Non piangeva, Nadia.

Aveva paura.

Etienne, pur col cuore in gola, le sorrise.

«Stai tranquilla. La trovo io.»

Le accarezzò una guancia.

«Tu aspetta qui. Appena torna Jean avvertilo. Non può essersi allontanata tanto. Philippe, stai con tua madre.»

Il bambino annuì, prendendo la madre per la stoffa del cappotto.

Etienne, a quel punto, si allontanò di qualche passo e si guardò attorno. Era il momento di riflettere.

«Voleva venire da te.»

La voce di Nadia, stentorea. Etienne annuì. Dunque Tia si era allontanata nella loro direzione ma, invece di proseguire verso il campo aperto doveva avere cambiato idea. Se non era rientrata in albergo, ed era evidente di no, doveva avere preso per qualche motivo il sentiero che andava al bosco, l'unico percorribile nelle immediate vicinanze.

Etienne corse in quella direzione. Eccole lì, infatti, sulla superficie di quel po' di neve caduta il giorno prima, le piccole impronte delle scarpette da bambina.

 

Tia non si rende conto del tempo che passa.

Insegue la farfalla, gioca con la farfalla.

Pensa di riuscire a tornare indietro.

Poi si guarda intorno, vede il bosco, fronde verdi tutte uguali.

Non c'è nessun tesoro, non sa qual è la strada da prendere.

Rimane immobile, si accuccia ai piedi di un albero, fra le radici.

Non pensa a niente e non si agita, non è che abbia paura.

Si sente sola, però.

Una solitudine che aumenta man mano che la luce del giorno si fa più tenue.

Aspetta, Tia.

Ci sono notti in cui fa brutti sogni, sogna la porta di casa spalancata, notte fonda, notte buia, e lei non riesce a entrare, come se una forza la tenesse fuori.

È sola.

Sola come in quell'incubo.

Sta per piangere, piccole lacrime agli angoli degli occhi.

Singhiozza sottovoce, inghiotte le lacrime.

È sola, si fa buio.

 

«Tia!»

 

Lo sente prima di vederlo.

Non sente il richiamo, no.

Sente una presenza farsi strada in mezzo agli alberi, ed è una presenza benevola, come una luce, una luce azzurra che rischiara il buio.

Lui s'affaccia fra i cespugli, coi capelli scuri arruffati, gli occhi preoccupati e il respiro affannato per la corsa.

Le sorride.

«Non facevi che piangere, da piccolina», sono le prime parole che le dice.

Le si avvicina, la abbraccia con delicatezza.

«La prossima volta urla, almeno ti sento.»

Tia stringe con le manine il giubbotto, affonda più che può fra quelle braccia tanto dolci.

Chiude gli occhi e dall'oscurità oltre le palpebre ode il battito regolare del cuore di lui e sente, sempre, quell'energia gentile, quella luce che nutre e che porta pace.

 

Etienne sedette per un po' con Tia ai piedi dell'albero, tranquillizzandola.

«Dai», le disse poi. «Dobbiamo tornare. Sono tutti preoccupati. A quest'ora sarà rientrato anche tuo padre.»

Tia non si mosse, era come addormentata fra le sue braccia. Etienne ridacchiò.

«Ho capito, principessina. Sei stanca. Ti porto in braccio io, così arriviamo prima che si faccia buio. Ho segnato la strada, comunque.»

 

Col senno di poi Tia può dirlo, non era stanchezza.

Ricorda bene quel momento. Era così piccola eppure ha stampato nella memoria l'istante in cui ha visto Etienne comparire fra gli alberi.

E prima ancora, l'istante in cui ha percepito la luce di lui aprire la strada in un mondo che diventava sempre più ostile.

Era stata una sensazione fisica, di tepore, di braccia rassicuranti, di cuore che batte.

Lui l'aveva presa in braccio, lei gli si era affidata.

S'era affidata a quell'energia gentile, che le sussurrava che non era sola, che non sarebbe mai più stata sola.

L'unico altro come lei.

Quand'erano tornati in albergo Tia aveva cercato gli occhi di sua madre.

Li aveva trovati, aveva capito.

Etienne l'aveva data in braccio a Jean e lei s'era sentita come mozzata di un arto, aveva sentito il freddo, la confusione, la paura.

Dalle braccia di Jean, che le parlava all'orecchio di cose che non ricorda, aveva cercato Etienne e aveva trovato il suo sguardo. Sembrava smarrito, come lei.

S'erano guardati a lungo, la bambina e il ragazzo, e lei avrebbe voluto dirgli tante cose ma non riusciva, perché la bocca e il pensiero cosciente erano quelli di una bambina anche se la mente vedeva già oltre.

Allora lui aveva sorriso, cristallino, limpido, e con una mano le aveva accarezzato la testa.

Lei s'era appoggiata a quella mano con tutte le forze.

L'unico altro come lei.

Non l'avrebbe lasciato mai più.






 

N.d.A. Ok, so che molti di voi mi staranno odiando ma come potete vedere continuo, lenta ma inesorabile continuo a pubblicare capitoli! XD (E continuerò.) Dopo quest'ultimo capitolo la storia è pronta a entrare nel vivo, perché i personaggi sono finalmente apparsi tutti. Ah, la canzone che Etienne canta a Tia è "Belle", dalla colonna sonora dei film di Belle & Sebastien (ovviamente lui non poteva conoscerla ma va be', la adoro e ci stava troppo). Se ancora c'è qualcuno che mi legge io vi ringrazio in anticipo e vi auguro buon agosto, con la speranza di risentirci di nuovo prima della fine del mese! 

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