Il Lupo e la Stella

di Elef
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Echi di violenza ***
Capitolo 2: *** Aria di casa ***
Capitolo 3: *** Frammenti di vita ***
Capitolo 4: *** Tempo di pace ***
Capitolo 5: *** Momenti di gioia ***



Capitolo 1
*** Echi di violenza ***



Questa breve fanfiction è nata dai miei filmini mentali dopo aver appreso che, ufficialmente, Connor si sposò con una donna indigena di un altro villaggio e con lei ebbe almeno tre figli, un maschio e due femmine. Io:nhióte, la più giovane, la vediamo comparire assieme al paparino nel numero a lui dedicato della serie di fumetti Assassin's Creed: Reflections. Quindi, anche se tanto di ciò che andrete a leggere non è materiale ufficiale, sappiate che la base invece lo è.
In fondo ai capitoli troverete delle brevi spiegazioni e delle curiosità legate alle ricerche che ho fatto. Perché per me è molto importante che le mie idee abbiano un solido supporto, anche se si tratta di semplici fanfiction.

Enjoy!

 

 

 


 

CAPITOLO 1

ECHI DI VIOLENZA

 

 

All’inizio fu buio, un buio pesto. Poi, dei barlumi di luce cominciarono a farsi strada in quell’oscurità, esili ed effimeri frammenti di forme e colore in cui riusciva a distinguere dei volti umani. Si sentì come risucchiato in un vortice e poi fu in mezzo alla neve.

Doveva combattere, lo sapeva, ma contro chi?

Si girò e la risposta si presentò davanti ai suoi occhi: un mercenario dai lunghi mustacchi, grosso persino più di lui, si lanciò all’attacco, puntando al suo viso con l’affilata baionetta del suo moschetto. Connor lo schivò appena in tempo e fece roteare il suo tomahawk, sbilanciandolo e disarmandolo. Il colosso cadde a terra e il voluminoso colbacco nero gli scivolò dalla testa rivelando il punto in mezzo alla fronte in cui l’assassino andò a piantargli l’ascia, uccidendolo.

Dalle gabbie sormontate sui carri del convoglio mercenario, proveniva il vociare implorante di almeno una ventina di prigionieri indigeni. Doveva liberarli, per questo si trovava lì.

«Muori, selvaggio!» ruggì alle sue spalle uno dei compagni del bruto. Un altro urlo si sovrappose, un ululato che Connor riconobbe come il grido di un guerriero Kanien'kehá:ka. Non fece quasi in tempo a voltarsi che l’altro mercenario cadde prono sulla terra innevata, una grande freccia con la coda di piume d’aquila conficcata nella schiena. Il giovane cacciatore a cui apparteneva quella freccia era in piedi dietro di lui, lo sguardo fiammeggiante e la postura fiera di un ragazzo alla soglia del mondo adulto, ma che aveva ancora molto da imparare; in un attimo, Connor si ritrovò a gettarsi su di lui per evitare che i proiettili dei moschetti lo colpissero. Colpirono lui, invece, e lo avvertì con chiaro dolore ma non poteva mollare. Il guerriero più esperto, fratello di quello più giovane, stava combattendo da solo contro altri due mercenari e i tre rimanenti stavano accorrendo per prendere parte allo scontro. Doveva aiutarlo o non ce l’avrebbe fatta.

Sentì di possedere il potere dell’aquila e non ci pensò due volte ad usarlo. Come un fulmine, planò alle spalle di un mercenario e gli spinse la lama celata nel collo. L’uomo ebbe la forza di voltarsi e, con suo grande stupore, Connor si ritrovò puntato addosso gli occhi plumbei di suo padre.

«Non credere che abbia intenzione di darti un buffetto, né di chiedere perdono. Non voglio perdermi in rimpianti.» disse Haytham Kenway a denti stretti, mentre cercava con una mano di fermare il fiume di sangue che sgorgava dalla ferita. «Avrei potuto ucciderti, sai.» aggiunse a fatica, rivoli cremisi che gli colavano dalla bocca. «Ma il mio orgoglio nei tuoi confronti me lo ha impedito.»

Il giovane lo afferrò per evitare che cadesse rovinosamente a terra e non fece in tempo a pensare a nulla che alle sue spalle avvertì il ritmo calzante di zoccoli al galoppo sull’arida terra.

Si girò e non si trovava più in mezzo alla foresta innevata ma nello spiazzo di un villaggio bruciato; il corpo esanime che aveva tra le braccia non era più quello di suo padre ma quello del suo migliore amico, Kanen’tó:kon. A poca distanza da lui, sul suo possente destriero, troneggiava George Washington, lo scettro con il Frutto dell’Eden in una mano e lacrime di pentimento a rigargli il viso.

«Sono stato costretto, Connor!» lamentò. «Era un’altra epoca! Non avrei mai bruciato il tuo villaggio!»

L’assassino sentì un moto di rabbia crescergli in corpo come una tempesta improvvisa. «Tuttavia nessuno vi costringe a tenere con voi quell’artefatto maledetto!» replicò furibondo, lasciando a terra la salma di Kanen’tó:kon per andargli incontro.

L’espressione di Washington cambiò repentinamente passando dal rimorso alla sete di potere.

«E nessuno - nemmeno tu - può portarmelo via, uomo-lupo

Come se fosse stato evocato dal comandante stesso, il giovane sentì il potere dello spirito animale dentro di sé e ne approfittò per nascondersi alla vista. In pochi istanti raggiunse Washington e riuscì a disarcionarlo ma l’uomo lo respinse con lo scettro. Un’ondata di dolore offuscò per un attimo ogni percezione visiva di Connor e dal profondo nero in cui si ritrovò a brancolare, giurò di sentire una voce in lontananza tentare di calmarlo.

Quando le immagini riemersero dall’oscurità, era circondato da decine e decine di copie di Washington, sul tetto in vetro della piramide che il comandante dell’altra realtà, preso dalla megalomania, si era fatto costruire nel cuore di New York.

Il potere dell’orso venne in suo aiuto; l’impatto delle sue mani con la superficie causò l’esplosione del vetro.

Connor cadde tra pezzi di lastra smaltata e continuò a precipitare nel buio per quelle che sembrarono leghe.

Qualora la sua caduta si arrestò fu solo perché qualcuno lo aveva afferrato per il bavero e sollevato da terra, sbattendolo contro il tronco di un albero, in un giorno assolato di primavera. E quel qualcuno non era altri che Charles Lee.

Nonostante il suo aspetto non desse l’idea di un uomo particolarmente rispettabile, i suoi occhi cerulei conservavano una freddezza tale che si sentì come trapassato dal suo sguardo.

«Ricordatelo, ragazzo: tu non sei niente, se non un granello di polvere.»

L’assassino cercò di divincolarsi dalla presa ferrea ma riuscì ad avere la meglio solamente nel momento in cui qualcuno piantò una lama dentro la schiena del suo più acerrimo nemico.

«È troppo tardi.» rantolò Lee facendo qualche passo indietro. Con un dito insanguinato, indicò delle colonne di fumo che si innalzavano al di sopra della foresta di conifere e si contorcevano in un cielo tinto di rosso. «Hai solamente perso tempo.» rincarò, prima di cadere a terra senza vita.

Da dietro, si delineò la sagoma di un uomo di colore appoggiato ad un bastone, con un cappello ad ampie falde in testa.

«Achille!» esclamò Connor, riconoscendo il suo mentore.

«Va’, ragazzo, corri a casa.» lo incoraggiò semplicemente il vecchio e lui si allontanò.

Lo spirito dell’aquila gli prestò ancora una volta le sue ali. Connor si librò al di sopra della foresta prima che il fuoco di un incendio improvviso potesse chiuderlo nella sua morsa e atterrò alla soglia della palizzata che circondava il suo villaggio. Una ragazza dalla pelle d’ebano, capelli crespi cortissimi e vestiti da uomo logori addosso uscì correndo, impugnando una pistola a pietra focaia che gli puntò contro.

«Fatti da parte o ti faccio male!» urlò, fronteggiandolo tenacemente.

Lui sapeva chi era: il suo nome era Patience Gibbs, giovanissima schiava proveniente da Rhode Island che aveva tentato – senza successo – di convincere ad entrare a far parte della Confraternita.

Tuttavia in quel preciso momento era l’ultima cosa di cui gli importava. «Sto solo cercando mia madre.» si ritrovò a rispondere con la voce incrinata dalla disperazione. Lei abbassò l’arma.

«Allora sbrigati, perché sta morendo.» gli disse prima di scappare, sparendo tra le lingue di fuoco nella foresta.

L’assassino si addentrò nel villaggio in fiamme e si diresse in fretta e furia verso la casa lunga dove sapeva che avrebbe trovato sua madre.

«Istá! (*)» gridò più che poteva mentre entrava. Cercò di spostare una trave di legno che sbarrava la strada ma era come se tutta la sua forza fosse svanita all’improvviso. Nemmeno gli spiriti animali erano con lui.

«Istá!» urlò di nuovo guardandosi attorno e vedendo solo fuoco e legno bruciato.

«Ratonhnhaké:ton!» lo chiamò una voce da un cumulo di macerie in fondo all’enorme stanza.

«Ti salverò, istá! Stavolta ci riuscirò!» Connor tentò disperatamente di raggiungerla ma gli ostacoli da superare sembravano non finire mai.
«Ratonhnhaké:ton, vattene da qui! Scappa!» gridò sua madre, di cui ora riusciva a distinguere la forma, segnata da ferite e bruciature e schiacciata sotto grosse travi crollate.

«No! Non ti lascio!» protestò il giovane inginocchiandosi davanti a lei e cercando, invano, di spostare i pesi che le gravavano addosso. Si sentì afferrare debolmente un braccio.

«Devi farlo. Devi andare o morirai.»

Connor conosceva bene quello sguardo triste, quell’espressione di profondo dolore sul volto insanguinato; ce l’aveva marchiata a fuoco nella mente da tempo immemore.

«Ti ho già persa due volte, madre!»

«Tu non mi hai mai persa, figlio mio. Io vivo dentro di te. Io sarò sempre con te.»

Kaniehtí:io allungò una mano per carezzargli la guancia. Nel farlo, una piacevole sensazione di fresco si irradiò per tutto il suo corpo, partendo dalla fronte.

«Ti voglio bene.»

Fu l’ultima eco che udì prima di essere nuovamente avvolto dal buio totale.
 

***
 

Si risvegliò di soprassalto, il respiro affannoso, la gola secca e la vista appannata.

«Madre...» biascicò nel suo stordimento.

Percepì un panno bagnato appoggiato sulla sua fronte e poi una forma non definita – ma indubbiamente umana – entrò nel suo campo visivo.

«Madre, sono qui…!» ripeté, allungando un braccio verso di essa. La figura prese l’arto e lo poggiò delicatamente sulla superficie su cui era coricato.

«Tranquillo, va tutto bene.» gli rispose una voce morbida. «Dormi.»

Connor lasciò che quelle parole lo guidassero in un sonno stavolta privo di incubi.


 


 


 


 


 


 

ANGOLO DELL’AUTRICE

Un caloroso saluto a tutti coloro che sono arrivati fin qui a leggere. Anche se non avete voglia di lasciarmi recensioni, sono contenta che vi siate incuriositi!
Giusto per far comprendere a tutti le varie citazioni contenute in questo capitolo: tralasciando la parte iniziale, abbiamo un Haytham nei suoi ultimi istanti di vita e con lui un po' di feels; comparsata di Kanen’tó:kon con altri feels, perché sì; un George Washington psicopatico proveniente dall’espansione La Tirannia di Re Washington, insieme al fatto che Connor sia un mutaforma; Charles Lee e non aggiungo altro; comparsata di Achille, non poteva mancare il “secondo padre” del nostro eroe; Patience Gibbs, che appare nel contenuto scaricabile Aveline di Black Flag, anche se l’accenno dell’episodio del tentativo fallito di Connor di reclutarla l’ho immaginato io; infine, ancora feels con l’ultima straziante scena, una ripresa del ricordo più doloroso del nostro ragazzo.

 

(*) Parole in Mohawk

Istá = mamma

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Capitolo 2
*** Aria di casa ***


CAPITOLO 2

ARIA DI CASA

 

 

Da quel primo risveglio ci vollero diversi tentativi, ma alla fine giunse quello definitivo. Si accorse di poter aprire gli occhi senza doverli richiudere qualche istante dopo per la spossatezza. Sbatté le palpebre più volte e notò con piacere che le forme, dapprima sfocate, stavano piano piano ricomponendosi. La prima cosa che vide fu il tetto di legno ricoperto di pelli della casa lunga vuota in cui si trovava. In un paio di punti filtrava la luce del sole, il che voleva dire che mancava poco al mezzodì. Chissà per quanto tempo era rimasto incosciente.

Le sue orecchie captarono lo scoppiettio di un fuoco e voltando lievemente la testa Connor vide il falò a poca distanza, così come notò che il suo corpo era steso su un paio di pellicce talmente spesse da non sentire nemmeno la durezza del legno sotto di esse. Un’altra, probabilmente di alce, ce l’aveva addosso, a coprire il torace nudo; sull’addome aveva un’ampia fasciatura. Un vago ricordo tornò improvvisamente a galla, quello di una presenza umana che aveva scambiato per sua madre. Di lei, in un altro momento di veglia temporanea, aveva avvertito il piacevole tocco nel momento in cui gli aveva spalmato un impacco sulle ferite.

E quelle ferite? Come aveva fatto a procurarsele?

Era la prima volta che gli capitava un intontimento simile, nonostante di esperienze di violenza fisica e successiva convalescenza ne avesse vissute parecchie. L’ultima, peraltro, solamente qualche settimana prima, quando quella ragazza maroon di nome Patience Gibbs si era rifiutata categoricamente di unirsi alla Confraternita e per buona misura gli aveva pure sparato.

Mettendosi lentamente a sedere, scorse con la coda dell’occhio lo spostamento della pelle che copriva l’entrata della casa lunga, in fondo alla stanza. Dalla soglia fece il suo ingresso un volto familiare: era un giovane uomo, ad occhio e croce di qualche anno in meno di lui, dal viso ovale, gli occhi scuri e allungati, due lunghe trecce nere che gli scendevano fino alla cintura e un naso aquilino piuttosto pronunciato, non molto diverso da altri guerrieri Mohawk. Come aspetto gli ricordava un po’ il suo caro vecchio amico, Kanen’tó:kon.

«Ratonhnhaké:ton, ti sei svegliato!» lo accolse allegramente, fin troppo per un semplice estraneo. Mentre Connor si domandava come facesse a sapere il suo vero nome, il giovane indigeno fu da lui, le piume di falco che volteggiavano leggermente tra i suoi capelli corvini. «Come ti senti?»

«Bene.» fu la risposta evasiva e lievemente confusa dell’assassino, mentre cercava di capire dov’era che l’avesse già visto.

«Ti credo, Otsísto non si smentisce mai. Ha delle mani incredibili, quella donna.» sospirò l’altro sedendosi a gambe incrociate di fianco a lui, in un gran tintinnio di pendagli. Poi, si portò una mano al petto.

«Ti ricordi di me, vero? Il mio nome è Arahkwenhá:wi. Io e mio fratello Atenà:ti ti abbiamo incontrato nella foresta e abbiamo chiesto il tuo aiuto per tendere un’imboscata.»

Quel convoglio mercenario sulla strada per Boston… Dunque non era un sogno.

«Sì, rammento lo scontro.» confermò il giovane. «Però fatico a ricordare com’è finita.»

Arahkwenhá:wi allargò le braccia, con espressione vagamente trionfale. «Ce l’abbiamo fatta, abbiamo ucciso tutti quei barbari pallidi e liberato i nostri alleati Ononta’kehá:ka (*); lasciamo loro qualche settimana e ci ringrazieranno a dovere. La Madre del Clan ha detto che è fiera di noi e che ti vuole ringraziare personalmente. Naturalmente, anch’io ti sono estremamente riconoscente.»

Connor annuì e gli diede una leggera pacca sulla spalla. «È stato un onore combattere al vostro fianco.»

«Dovrei essere io a dirlo e soprattutto mio fratello.» Arahkwenhá:wi indicò la fasciatura sul suo addome. «Hai rischiato la tua vita per salvare quella di Atenà:ti. Stai pur certo che non lo dimenticheremo.»

Poi si alzò e gli tese una mano, che l’altro accettò. Sfortunatamente, uno dei proiettili dei moschetti era andato a colpire una zona molto vicina al punto in cui Patience Gibbs gli aveva sparato. Fu per questo che quando si ritrovò in piedi dovette stringere i denti per contrastare l’intensa fitta di dolore che avvertì.

«Riesci a camminare?» gli chiese preoccupato il guerriero, le sue mani pronte a sorreggerlo ma Connor gli fece cenno di star fermo.

«Sono stato peggio, ce la faccio.» lo rassicurò.

Dunque Arahkwenhá:wi lo aiutò a vestirsi, dopodiché lo guidò nello spiazzo fuori dalla tenda. Il giovane dovette socchiudere di colpo gli occhi al contatto visivo con la neve che, seppur fosse rada, era bianchissima sotto i raggi del sole di quella che era una giornata tersa di fine inverno. Ad attenderli a poca distanza c’era il giovanissimo cacciatore cui l’assassino aveva salvato la vita sia nel suo incubo che nella realtà. Aveva i lineamenti più affilati del fratello maggiore e i capelli parecchio più corti ma a parte queste differenze la somiglianza tra i due non poteva essere contestata. Tuttavia, di primo acchito era Atená:ti a sembrare il maggiore, poiché era alto come lui e pareva avere un atteggiamento più serio e posato. Quando Connor si avvicinò, il ragazzo chinò il capo in segno di profondo rispetto – e probabilmente anche per nascondere l’agitazione che aveva per un attimo tradito il suo sguardo fermo.

«Niawenhkó:wa (*), Ratonhnhaké:ton.» lo ringraziò, con una solennità sorprendente per la sua età. «Sono molto dispiaciuto che la mia distrazione durante il combattimento abbia causato gravi danni alla tua salute. Nessuno può biasimarti se hai dei rimproveri in serbo per me. Spero solo che tu possa perdonarmi.»

«Skén:nen (*), Atená:ti.» gli disse Connor con un cenno, le labbra leggermente incurvate in un’espressione di comprensione. «Sono abituato a scontrarmi con i coloni e ho più esperienza di voi con le armi da fuoco. Non devi chiedermi perdono, se ho la possibilità di salvare una vita la sfrutto ed è un gesto che compio ben volentieri.»

Il ragazzo annuì e gli porse un avambraccio che l’assassino strinse, in segno di concordia.

«Eccoli dunque, i nostri valorosi giovani.» li raggiunse inavvertitamente una voce. I tre si voltarono verso il cuore del villaggio per vedere che una donna stava arrivando da loro reggendo un bastone nodoso più alto di lei. Doveva essere la Madre del Clan. Era decisamente più giovane di quella di Connor ma alcune ciocche delle sue due lunghe trecce nere avevano già cominciato a tingersi d’argento. Era piuttosto bassa di statura ma il suo portamento, oltre che tenerezza, suggeriva una salda autorità.

«Skén:nen, Oiá:ner (*).» la salutarono i fratelli, e con quel vezzeggiativo confermarono i dubbi di Connor riguardo al suo ruolo.

«Pace a voi, figli miei.» rispose la donna mettendo una mano sul braccio di Arahkwenhá:wi; poi si rivolse all’ospite con un lieve sorriso.

«Tu sei Ratonhnhaké:ton, vero?»

«Sì, Oiá:ner.» rispose Connor, e i due si strinsero reciprocamente gli avambracci.

«Arahkwenhá:wi e Atená:ti mi hanno raccontato del vostro scontro. Grazie a voi, la nostra alleanza con la nazione Ononta’kehá:ka si rinforzerà. E grazie a te, Atená:ti ha salva la sua giovane vita. Io e tutti i membri del Clan dell’Orso ti siamo riconoscenti, Ratonhnhaké:ton.»

Lui annuì con fare umile. «L’onore è mio.»

«Come ti senti ora?» si informò lei mentre faceva loro cenno di seguirla verso il centro del villaggio.

«Molto meglio rispetto ad altre volte. Le cure che mi sono state prestate stanno già dando ottimi risultati.» affermò il giovane sinceramente colpito dal fatto che non sentisse poi tanto dolore.

«Sono contenta di sentirtelo dire. Sai, quando i nostri due promettenti guerrieri qui presenti ti hanno portato qui, le tue condizioni erano davvero disperate. Ma, fortunatamente, abbiamo un’ottima guaritrice che ha saputo dominarle con maestria.»

«Otsísto, colei di cui ti ho accennato prima.» intervenne prontamente Arahkwenhá:wi.

«E l’irraggiungibile amore della tua vita.» lo prese in giro Atená:ti, contrapponendo l’atteggiamento canzonatorio tipicamente adolescenziale alla maturità dimostrata poco prima. Quelle parole – notò Connor – parvero rallegrare particolarmente la donna, la quale si mise addirittura a ridacchiare.

«Zitto un po’, tu.» lo redarguì l’altro, decisamente a disagio. «Oiá:ner, per quanto voglia apparire adulto, mio fratello è ancora un ragazzino e a volte è decisamente inopportuno. Ti chiedo di scusarlo.»

«Mio caro, so che non chiederesti mai la mano di mia figlia. Le burle di tuo fratello non mi offendono in alcun modo.» lo tranquillizzò la Madre del Clan. «Quanto a lei, ha uno spirito tanto amabile quanto indomabile: non saresti il primo e nemmeno l’ultimo pretendente ad essere stato rifiutato.» aggiunse sospirando.

Nel fulcro del piccolo centro abitato erano presenti frammenti di una vita molto simile a quella che ricordava Connor quando viveva a Kanatahséton. Bambini che si rincorrevano, le loro madri che andavano e tornavano dalle coltivazioni di pannocchie, donne che acconciavano pelli e le ricamavano e uomini che intonavano canti intorno al focolare. Forse era addirittura più piccolo del suo villaggio originario ma non per questo meno accogliente. Mentre guardava Arahkwenhá:wi sparire in una delle tre grandi capanne e Atená:ti raggiungere i suoi coetanei, il giovane avvertì una fitta di nostalgia e, prima che le memorie malinconiche della sua giovinezza lo sopraffacessero, si rivolse nuovamente ad Oiá:ner.

«Quindi Otsísto – la guaritrice – è tua figlia?»

La donna annuì. «La mia secondogenita. La più grande e mia erede diretta è Wahí:io, ma lei sta già costruendo la sua vita con suo marito e i loro due figli e spesso mi assiste nelle vicende che richiedono la mia attenzione. Invece Otsísto trova più soddisfazione ad andarsene a zonzo fuori dal villaggio. Non fraintendermi, la cosa non mi dispiace, non posso negare che alla sua età ero così anch’io. Tuttavia, se è tua intenzione ringraziarla e presentarti ufficialmente temo che dovrai aspettare che cali il buio, giacché è il momento del suo rientro.»

«Non è un problema.» disse l’assassino. «Prima di ripartire vorrei comunque avere il suo consiglio riguardo la mia convalescenza.»

«Saggia decisione.» convenne la Madre del Clan. «Sappi che per me puoi restare qui quanto vuoi, Ratonhnhaké:ton. Il fatto che tu abbia salvato e protetto uno dei nostri membri più giovani conta davvero tanto per noi. Ora ti prego di scusarmi, ho dei compiti importanti da svolgere. Ti lascio in compagnia di Arahkwenhá:wi.»

La donna si congedò proprio mentre il giovane indigeno stava tornando da loro, dopo essere uscito dalla tenda con un arco in mano, una faretra sulla schiena e un tomahawk alla cintura.

«Dopo pranzo io e mio fratello andiamo a caccia.» lo informò. «Te la senti di venire con noi e magari dare qualche dritta ad Atená:ti? Se parli tu, forse ascolta…!»

Connor distese le labbra in un lieve sorriso divertito. «Vi accompagno volentieri.»
 

***
 

I tre fecero ritorno quando il cielo e i pochi cirri che lo striavano si erano già tinti dei morbidi toni rosati del tramonto. Nel corso di quella splendida giornata di marzo inoltrato, la neve si era completamente sciolta e i primi fiori selvatici avevano cominciato a fare capolino tra l’erba rigogliosa. Mentre erano per strada, Connor respirò a pieni polmoni l’aria fresca che sapeva di pino e terra umida. Nonostante in quegli anni avesse dovuto privilegiare la vita sofisticata delle Colonie per motivi di comodità legati alla sua occupazione, il suo legame con la natura selvaggia in cui era cresciuto non era mai venuto meno. Anzi, ogni tanto sentiva la necessità di vivificarlo se non voleva rischiare di impazzire. Se toglieva la tenuta di Davenport, che lui stesso si era preoccupato di popolare e in cui aveva trovato un buon sostituto di Kanatahséton, non c’era altro luogo in cui si sentisse davvero a casa come le rigogliose e sconfinate foreste del Nord America.

Arrivati al villaggio, Atená:ti recapitò con fierezza le sue cinque lepri in una casa lunga perché fossero scuoiate mentre Arahkwenhá:wi portava con sé pelli e carni di cervo e caribù che furono subito messe ad arrostire assieme ad altre prede cacciate da altri uomini durante la giornata.

Pur non essendo molto in forma, Connor era riuscito a gestire molto bene il dolore derivato dalle sue lesioni, tanto da essere addirittura in grado di dare un paio di dimostrazioni ai due fratelli. Oltre che essere curioso di conoscerla, il giovane non vedeva l’ora di ringraziare Otsísto e complimentarsi con lei per le sue abilità in ambito medico.

Il momento in cui la intravide per la prima volta fu dopo che lui e Arahkwenhá:wi ebbero cenato, all’interno della casa lunga più grande. Il suo nuovo amico gli diede una leggera gomitata, indicando con la testa l’ingresso della capanna, da cui entrò una giovane indigena sorridente circondata da cinque o sei bimbi che la pregavano di raccontare loro una storia. Alla tenue e tremolante luce del falò non riuscì a distinguerne bene i tratti ma notò che, a differenza della maggior parte delle donne del villaggio, aveva i capelli sciolti e la chioma scura e liscia le ricadeva fino ad arrivare poco sotto al fondo schiena.

«Lei è Otsísto, la nostra stella più brillante.» asserì Arahkwenhá:wi con un lieve sospiro. Connor non poté fare a meno di pensare a quando il suo amico Norris gli aveva confessato il suo interesse nei confronti della loro giovane amica Myriam. Si ricordò anche del proprio travisamento a causa della sua ingenuità e della sua mancanza di esperienza in campo sentimentale, cosa che lo aveva messo in imbarazzo anche davanti a Prudence quando le aveva chiesto un parere riguardo ai gusti femminili in generale. Comunque, erano passati anni da allora e in quel momento si rendeva perfettamente conto dello stato d’animo dell’amico.

«Stamattina Oiá:ner ha detto che sa che non chiederesti mai la sua mano… Come mai?»

«Per una ragione molto semplice.» gli rispose l’altro vagamente amareggiato. «Faccio parte del Clan dell’Orso quanto lei. Lo sai, no? I membri dello stesso clan...»

«...non possono sposarsi.» finì per lui il giovane. «Mi dispiace.» aggiunse sincero, dopo una breve pausa. (*)

Arahkwenhá:wi fece spallucce. «Poco male, come ha detto Oiá:ner, probabilmente sarei stato rifiutato come l’altra mezza dozzina di ammiratori che si è fatta avanti. Siamo buoni amici e tanto mi basta.»

Connor annuì osservando la giovane, la quale stava narrando qualcosa ai piccoli del villaggio seduta su una delle panche di legno dal lato opposto rispetto a loro.

«Sai, abbiamo la stessa età, siamo entrambi nati nell’anno dei bianchi 1761.» riprese il guerriero. «Quando eravamo bambini, noi maschi volevamo sempre che giocasse con noi perché era molto brava ad inventarsi storie d’avventura e tutti noi adoravamo quando le raccontava. Oiá:ner non era propriamente contenta ma le diede comunque il permesso di stare insieme a noi fino a quando non fu celebrata la nostra entrata nel mondo adulto. Allora noi maschi cominciammo a cacciare e lei si dedicò all’assistenza dei malati e dei feriti.»

Mentre l’assassino ascoltava le ultime parole, vide Otsísto terminare anch’ella il suo monologo. Salutando i bambini e accarezzando la testa di quello più piccolo, che avrà avuto sì e no tre anni, la giovane si alzò e si lisciò i vestiti bordati di pelliccia. Infine, spostò lo sguardo su di loro e li raggiunse, sorridendo appena.

«Shé:kon (*), impavidi combattenti.» li salutò con un brio non comune per una Mohawk ormai adulta.

«Skén:nen, amica mia.» le rispose Arahkwenhá:wi alzandosi e stringendole l’avambraccio.

Connor, alzatosi anche lui, chinò il capo. «Niawenhkó:wa, Otsísto. Il mio nome è Ratonhnhaké:ton. Mi complimento per le tue doti, raramente mi è capitato di ricevere delle cure così efficaci. Troverò un modo per sdebitarmi.»

La giovane gli strinse la mano con un sorriso luminoso in volto. «Skén:nen, Ratonhnhaké:ton. Il tuo nobile gesto ripaga di gran lunga sia i miei sforzi che la tua permanenza qui. A proposito, con il tuo permesso vorrei andare insieme a te nella capanna in cui ti abbiamo sistemato e dare un’occhiata alle ferite. Stamattina avevano già un bell’aspetto rispetto a ieri ma cionondimeno, non vanno trascurate.»

Connor concordò e, dopo aver fatto un cenno di saluto ad Arahkwenhá:wi, la seguì fuori.

«Non so se il nostro amico te lo ha fatto presente ma sul luogo del combattimento Atená:ti ha ritrovato un libro.» lo informò Otsísto quando furono arrivati, indicando una scaffalatura. «L’ha consegnato a me e io l’ho appoggiato là, su quel ripiano che vedi vicino al tuo giaciglio. Ho dato uno sguardo veloce alle pagine e ho visto che erano scritte in inglese, quindi non so se sia tuo. In ogni caso pare che non si sia rovinato nulla.»

Il giovane capì dalla consunta rilegatura in pelle scura che si trattava del diario di suo padre. «Sì, è mio, grazie per la premura.» disse sollevato e colpito dal suo acume.

«Quindi sai l’inglese? E soprattutto leggerlo?» le chiese mentre si spogliava della parte superiore della sua uniforme di assassino.

«Non posso dire di conoscerlo perfettamente ma me la cavo.» rispose lei con modestia, rimboccandosi le maniche e cominciando ad armeggiare con la fasciatura. «Quando avremo più tempo a disposizione ti racconterò un po’ meglio. Adesso vado di fretta, uno dei nostri anziani ha bisogno della mia assistenza.»

«Certamente.»

Connor si stese e lasciò che Otsísto si concentrasse; dopo aver valutato velocemente le sue lesioni, la giovane prese mortaio e pestello e in silenzio cominciò a triturare alcune erbe per fare un impacco.

Adesso che ce l’aveva più vicina riusciva a scorgere i dettagli del suo viso: aveva lineamenti piuttosto aggraziati, come il piccolo naso leggermente a patata, le labbra lievemente carnose e gli occhi vispi vagamente arrotondati che, alla luce ondeggiante del piccolo falò vicino a loro, scintillavano nel loro castano scuro. L’assassino non faceva fatica a credere che fossero stati in tanti a proporle il matrimonio; non solo era di bell’aspetto ma tramite il suo garbato modo di fare e il suo sguardo penetrante emanava un fascino particolare.

Fino a quel momento, come gli era capitato di spiegare tante volte ai suoi conoscenti, non aveva preso in considerazione l’idea di avere una famiglia sua. Era stato – ed era ancora – troppo impegnato in incombenze che avevano reclamato il massimo della sua attenzione. E poi nessuna donna tra tutte quelle che aveva incontrato aveva mai destato in lui un interesse che andasse oltre la semplice amicizia. Forse solo la sua consorella Aveline ma, aiutandola nella sua missione, aveva capito che con lei una relazione stabile non avrebbe potuto funzionare.

Ad ogni modo quel turbinio di pensieri fu frenato dalla consapevolezza che aveva ancora dei compiti da svolgere che richiedevano la sua presenza altrove.

Quando Otsísto ebbe finito e se ne fu andata, Connor si alzò e si affacciò per un po’ dalla tenda, ascoltando l’aria frizzante che a tratti ululava, passando le sue dita tra il giovane fogliame degli alberi. Sollevando lo sguardo, vide che il cielo si era annuvolato, coprendo quasi completamente il sottile spicchio di luna presente. Un’unica stella spiccava in uno spazio ristretto di firmamento e splendeva in tutta la sua palpitante luminosità azzurrina (*). Il giovane le sorrise appena; poi guardò con una strana sensazione di piacevole nostalgia le case lunghe al centro del villaggio, ove i fuochi erano accesi e le ombre al loro interno suggerivano la presenza di una vita tranquilla e serena, sopravvissuta alla corruzione portata dalla guerra d’indipendenza in quegli ultimi anni.

Non sapeva definire quanto gli fosse mancato stare in mezzo alla sua gente.


 


 


 


 

ANGOLO DELL’AUTRICE

Un po’ più lunghetto del primo ma quando si introducono nuovi personaggi e al contempo si vuole descrivere un minimo l’ambiente e i pensieri dei personaggi diventa difficile essere sintetici…!

Prima di passare alle note e le traduzioni delle parole Mohawk, mi vorrei soffermare sui nomi dei nuovi personaggi, da me scelti dopo una meticolosa ricerca in modo che fossero verosimili dal punto di vista culturale.

Arahkwenhá:wi (pr. A-rah-qua-nhá-ui), ossia "colui che porta il sole". Ho pensato che rispecchiasse perfettamente il carattere amichevole e, come ho fatto presente tramite i pensieri di Connor, volevo che gli ricordasse un po' il suo migliore amico. Quindi i vecchi tempi. Quindi i feels. Perché penso di non essere stata l'unica che aveva le lacrimuccia pronta a sgorgare quando Connor ha dovuto uccidere Kanen'tó:kon. Maledetto Charles Lee che glielo ha rivoltato contro.

Atená:ti (pr. A-de-nà-di), oltre che essere un nome proprio è il termine Mohawk per definire l'alce o il caribù, i quali sono simboli di resistenza.

Otsísto (pr. O-zì-sto), significa "stella". Da qui il titolo e anche i molteplici riferimenti poetici all'interno della storia. Intanto che parliamo del titolo, ci tengo a precisare che il nome Mohawk del nostro caro Connor non ha nulla a che fare con il lupo (Ratonhnhaké:ton infatti significa "egli ha una vita piena di graffi") ma questo è l'animale a cui lui viene associato più di frequente, nonostante l’aquila rimanga l’icona principale degli Assassini. E comunque il nome Connor, significa "amante dei cani".

Wahí:io (pr. Wa-ì-o), se ho capito bene significa "buon frutto". Sinceramente, l’unica cosa che mi interessava era dare un nome alla sorella maggiore di Otsísto.

 

(*) Note

- “Ononta’kehá:ka” (pr. O-nun-da-khe-há-ga) è il termine Mohawk per indicare la tribù Onondaga, una delle sei nazioni della Lega irochese assieme a quelle Mohawk, Cayuga, Oneida, Seneca e Tuscarora.

- I clan si possono definire a grandi linee come grandi famiglie all’interno di una tribù. Essendo le Sei Nazioni basate su un sistema matriarcale, ciò che stabilisce a quale clan un individuo appartiene è l’ascendenza materna (es. se la madre è del Clan del Cervo, anche il figlio o la figlia saranno del Clan del Cervo e così via). I clan dei Mohawk erano originariamente tre: quello del Lupo, quello dell’Orso e quello della Tartaruga. Due membri dello stesso clan, anche se non sono consanguinei, non possono unirsi in matrimonio poiché è considerato incesto (questo vale anche tra clan di diverse nazioni, quindi ad esempio un Mohawk del Clan dell’Orso non si può sposare con un Oneida del Clan dell’Orso). Ergo, nemmeno l’ombra di una speranza per il nostro povero Arahkwenhá:wi, come immagino si sarà capito. Non sono sicura se sia peggio questo o la friendzone!

Nel background di Connor non viene specificato a che clan appartiene ma mi sono permessa di supporre che potesse far parte del Clan del Lupo. Quindi lui una speranza ce l’avrebbe…

- Quello della stella non è un riferimento puramente casuale: ho pensato a Sirio, l’astro più luminoso del cielo, nonché una delle stelle della costellazione del Cane Maggiore. Vi dirò di più, molti dei popoli Nativi Americani associavano Sirio, oltre che ad un cane, anche ad un lupo o ad un coyote. Tutto torna…!

 

(*) Parole in Mohawk

Niawenhkó:wa (pr. Nia-uan-kó-ua) = grazie infinite (“grazie” = Niá:wen, pr. Niá-uan)

Skén:nen (pr. Skén-nan) = pace

Shé:kon (pr. Shé-gon) = salve, ciao

Oiá:ner = Madre del Clan (termine informale). Non è un nome proprio, solamente un titolo.

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Capitolo 3
*** Frammenti di vita ***


CAPITOLO 3

FRAMMENTI DI VITA

 


 

Il mattino seguente, Connor si svegliò dopo una buona dormita, di gran lunga migliore rispetto ai giorni precedenti. Il sole era sorto da poco e, anche se il calore del falò era ancora ben accetto, l’aria era più mite. Dopo quell’inverno lungo e rigido, stava finalmente arrivando la primavera.

Stando attento a non piegarsi troppo su sé stesso per non riaprire le ferite, il giovane si infilò i suoi lunghi stivali di pelle morbida e indossò la sua casacca di cotone. Sopra di essa, mise quel bel gilè di pelle scamosciata che gli era stato messo a disposizione di fianco al giaciglio, poi si legò i capelli nel suo solito mezzo codino ed uscì dalla casa lunga, respirando a fondo. L’erba e le foglie delle piante di mais erano ricoperte da un sottile strato di fresca rugiada. Anche quel giorno si preannunciava splendido, con un bel cielo azzurro punteggiato solamente da un paio di cumuli.

Con passo tranquillo e lievemente zoppicante, si diresse verso il centro del villaggio, dove vi era la capanna in cui la sera prima aveva cenato. Pensava che vi avrebbe trovato Arahkwenhá:wi o Atená:ti, invece non vide nessuno dei due. In realtà non aveva visto tanti uomini in giro, probabilmente perché la maggior parte di loro erano già fuori dal villaggio a cacciare oppure a perlustrare la zona e tenere lontani eventuali pericoli.

Mentre consumava la sua colazione, udì un vociare sommesso provenire dal fondo della stanza; guardando di sottecchi, notò che le interlocutrici erano la Madre del Clan e Otsísto. Dalla concitazione dei loro toni pareva che stessero discutendo animatamente, ma lui rispettò la loro riservatezza e si fece gli affari suoi. Fu solo quando Oiá:ner si avvicinò per uscire dall’edificio che si alzò in piedi e chinò il capo.

«Shé:kon, Ratonhnhaké:ton.» lo salutò lei, i suoi piccoli occhi scuri che quasi sparivano tra le pieghe del suo sorriso. «Ti senti meglio di ieri?»

«Hen (*), molto meglio.» confermò Connor.

La donna annuì. «Spero che io e mia figlia non ti abbiamo arrecato troppo disturbo parlando tra noi. Quando lei si intestardisce su qualcosa è difficile dialogare civilmente, spesso va a finire che...»

«Sicuramente il nostro ospite non è qui per sentire dei nostri noiosi discorsi personali, madre. Forse è meglio non tediarlo, non credi?» la interruppe Otsísto da dietro, chiaramente infastidita.

La donna fece un cenno brusco con la mano alla sua direzione ma quando parlò si rivolse a Connor con tono più cordiale: «Ó:nen ki' wáhi (*), mio caro. Se avessi bisogno di qualunque cosa, non esitare a farti accompagnare da me.»

«Niawenhkó:wa, Oiá:ner. Buona giornata.» rispose lui con un breve movimento del capo e, dopo avergli dato una lieve pacca sul braccio, la Madre del Clan uscì, lasciando lui e Otsísto soli.

«Confesso che ho un po’ paura di sapere cosa pensi di me dopo lo sfogo di mia madre e il fatto che le abbia risposto in quel modo.» disse lei, scuotendo leggermente la testa.

«Beh, senza alcun dubbio non hai problemi ad esprimere ciò che pensi. Ma questo non è necessariamente un difetto.» rispose lui, incurvando le labbra.

Dopo che lei gli ebbe sorriso di rimando, gli domandò: «Avresti voglia di accompagnarmi nella foresta? Uno degli oggetti più frequenti delle discussioni con mia madre è che a lei non fa tanto piacere sapermi da sola fuori dal villaggio. Almeno oggi non può obiettare se sa che sono con qualcuno.»

«Certamente. Dovrei scrivere una lettera, ma niente che non possa rimandare a quando rientriamo. Fammi strada.» le disse, indicando con un cenno della mano l’uscita della capanna.

«Niá:wen. Prima, però, è meglio controllare le tue ferite.» concluse lei, guidandolo fuori.


 

***


 

Quando i due uscirono dal centro abitato, il cielo aveva cominciato ad annuvolarsi, a dispetto del tempo splendido che sembrava dovesse esserci. Comunque, su alcuni bassi rami, i merli sembravano ignorare l’improvviso cambiamento del clima e cinguettavano le loro piacevoli melodie, rendendo l’atmosfera più allegra.

«Sono curiosa, Ratonhnhaké:ton...» cominciò Otsísto mentre si chinava per raccogliere le prime erbe medicinali che aveva adocchiato. «I tuoi abiti per certi versi ricordano quelli dei coloni ma il tuo aspetto e parte dei tuoi effetti personali appartengono alla nostra gente. Da dove provieni esattamente?»

Nonostante la sua indole riservata, Connor si accorse con sua stessa meraviglia di essere voglioso di conoscere e farsi conoscere, quindi lasciò che fosse l’istinto a guidare le parole fuori dalle sue labbra.

«In realtà da entrambe le parti, anche se sono cresciuto in un villaggio non troppo lontano di qui, Kanatahséton.»

«Conosco quel nome.» annuì lei. «Clan del Lupo, vero?»

«Esatto. Sono nato lì, quasi ventotto anni or sono. Mia madre era Kanien'kehá:ka, mio padre inglese.»

«Davvero?» Otsísto inarcò le sopracciglia, stupita. «Ed erano sposati?»

«Iah (*), non lo sono mai stati. Mia madre mi ha cresciuto da sola per sua scelta, ed è morta quando ero ancora un bambino. Mio padre non ha mai saputo della mia esistenza fino a pochi anni fa, ma poco importa, ora non c’è più nemmeno lui.»

Connor si appoggiò ad un tronco, mentre aspettava che la giovane finisse di raccogliere altre erbe, e guardò davanti a sé senza realmente vedere il bosco di aghifoglie, gli occhi stretti per proteggersi dal riflesso della luce diurna. Nella sua mente emerse il ricordo dei sensi di colpa che aveva provato quando aveva finito di leggere il diario di Haytham Kenway, l’uomo che aveva contribuito a dargli la vita e che lui infine aveva ucciso, inizialmente senza nemmeno pentirsene più di tanto. Probabilmente Achille aveva sempre avuto ragione, non ci sarebbe mai stato modo di fargli cambiare idea riguardo al suo obiettivo, ma una cosa era certa: suo padre non aveva mai davvero voluto ucciderlo. A suo modo, l’aveva reso piuttosto chiaro, e anche più di una volta. L’ultima nel loro scontro finale, quando avrebbe potuto affondargli una lama celata nel collo e invece ci aveva semplicemente stretto attorno le mani, in modo da farlo svenire. Insomma, tra i due aveva preferito essere lui a morire. Da quando se ne era reso conto, soprattutto leggendo le sue memorie, l’assassino non riusciva a pensare a suo padre se non con profondo rimorso.

«Sai...» intervenne timidamente Otsísto, risvegliandolo dal suo rimuginìo. «Quando eri incosciente capitava che farfugliassi; le frasi più ricorrenti riguardavano i tuoi genitori. Solitamente non do molto ascolto ai vaneggiamenti dei miei pazienti, ma avevo capito che i tuoi non erano semplici sogni, erano ricordi.»

Si alzò e, ignorando quella buona spanna di altezza in meno di lui, lo fronteggiò, con uno sguardo velato di tristezza. «Come il tuo stesso nome suggerisce, la tua deve essere stata una vita tutt’altro che facile e io… Non posso dire molto se non che mi dispiace tanto.» (*)

Lui le sorrise debolmente, per rassicurarla. «Ti ringrazio per la sensibilità, ma non ce n’è bisogno. Ognuno ha le proprie preoccupazioni e la mia situazione è molto più complicata di quello che credi.»

«Se intendi la causa a cui hai deciso di votarti non mi è nuova.» rispose lei, indicando la lama ricurva del suo fedele tomahawk. «Conosco quel simbolo. Da ciò che mi hai detto sulla tua provenienza, deduco che tu sia stato allievo di Achille Davenport.»

«È così, infatti. Lo hai conosciuto?» le chiese lui, sinceramente sorpreso.

«Iah, non l’ho mai incontrato, ma mi è stato raccontato che mio padre fu suo alleato e che imparò molto da lui – anche se ufficialmente non entrò a far parte dell’Ordine degli Assassini.»

Otsísto si chinò nuovamente. I lunghissimi capelli neri, anche quel giorno completamente sciolti se non per un’unica treccia sottile, ondeggiarono con grazia quando lei li spostò da un lato perché non fossero d’impiccio. Per un attimo, Connor fu tentato di passarvi in mezzo le dita, ma ricacciò quel pensiero con una leggera quanto imbarazzata scrollata del capo.

«Lui non ha mai potuto raccontarmelo di persona, è morto quando io avevo da poco imparato a camminare.» aggiunse la giovane.

«Mi dispiace. È stato durante la Guerra dei Sette Anni?»

Lei annuì, rialzandosi e lisciandosi gli abiti di pelle di cervo.

«Come tanti altri, il mio villaggio è stato bruciato, e pochi di noi si sono salvati. I nostri guerrieri più valorosi – tra cui mio padre – hanno aiutato quanta più gente a scappare verso nord-ovest. Ovviamente li abbiamo pianti a lungo, ma siamo loro grati perché senza il loro sacrificio non avremmo avuto modo di ricostruire la vita tranquilla che avevamo prima.»

«Capisco bene, anch’io ho vissuto quell’esperienza. Mia madre è venuta a mancare proprio in quel periodo, durante un incendio al mio villaggio.»

Il giovane si lasciò andare in un sospiro mentre riprendevano a camminare. Un vento minaccioso aveva cominciato a far breccia tra i fitti rami dei pini e degli abeti. Tuttavia, sembrava che Otsísto avesse ancora da fare, quindi per il momento decise di seguirla, senza proporre di tornare indietro. Non poteva assolutamente negare che gli stesse facendo piacere passare del tempo con lei; per la prima volta dopo tanto tempo si sentiva completamente a suo agio parlando con qualcuno – una donna, peraltro. Fu lì che sentì di cominciare a comprendere il sentimento di profonda ammirazione di Arahkwenhá:wi nei confronti dell’amica.

«Da quel giorno, ho giurato di dare la caccia alle persone che ne erano responsabili. Sostanzialmente, è per questo che quando sono cresciuto sono andato da Achille. Era l’unico che potesse aiutarmi.» concluse, dopo una breve pausa. La storia sarebbe stata più lunga e complessa, ma non se la sentiva di raccontargliela tutta per filo e per segno, perlomeno non ancora.

«Capisco. E quindi ora vivi nella sua casa?» domandò lei, interessata.

«Hen, da ormai quindici anni. Ogni tanto ritornavo a Kanatahséton, ma qualche anno fa, per una questione di sicurezza, la Madre del Clan decise che si sarebbero spostati verso ovest. Da allora non li ho più rivisti.»

Connor ripensò a quando era ritornato al suo villaggio, qualche mese dopo la travagliata impresa dell’uccisione di Charles Lee. L’unica presenza umana che vi aveva trovato, seduta su un ceppo davanti al focolare nello spiazzo centrale, era stata quella di un vecchio cacciatore bianco bardato di pellicce. Fu una sensazione strana quella che provò quando l’uomo gli confermò che la sua gente se ne era andata. In principio, si era sentito come svuotato di ogni scopo; poi era stato investito da un’ondata di amara nostalgia. Ma il tutto venne presto sostituito dalla sorpresa; infatti, in una casa lunga, scoprì che era stato lasciato una piccola scatola di legno contenente il messaggio di quel misterioso spirito femminile chiamato Giunone. Una volta alla tenuta di Davenport, aveva riflettuto molto sulle parole che gli erano state rivolte, e aveva infine deciso di trovare un altro modo per nutrire la causa che sosteneva. Le ribellioni degli schiavi gli erano sembrate un ottimo punto di inizio, anche se si era presto accorto che la persona più adatta al compito di placare gli animi rabbiosi e diffidenti degli oppressi era la sua consorella Aveline.

Cionondimeno, sapeva quanto la sua partecipazione fosse fondamentale per la Confraternita americana. Dopotutto, era stato lui ad occuparsi della sua rinascita, ed era in gran parte merito suo se il dominio templare nelle Colonie era stato soppresso. Mollare tutto all’improvviso significava vanificare gli sforzi compiuti fino a quel momento.

«Se ti fa piacere, d’ora in avanti puoi venire a trovare noi. La tua compagnia non sarebbe mai inopportuna e… Beh, a me piacerebbe molto sentire le avventure che hai da raccontare.» gli sorrise Otsísto. Nonostante l’aria disinvolta che ostentava, a Connor non sfuggì il gesto nervoso di sistemarsi i capelli dietro l’orecchio sinistro, reso ancora più maldestro dal fatto che per un attimo le sue dita affusolate si scontrarono con il grande orecchino pendente rotondo che indossava. L’idea che ricambiasse la sua voglia di conoscersi meglio lo rese ancora più contento di essere lì con lei.

«Sarei onorato, Otsísto. Non sono mai stato in un posto così accogliente come il tuo villaggio.» le sorrise in risposta. «Dimmi di te, ora. Ieri hai affermato che sai l’inglese. Te lo ha insegnato tua madre?»

«In parte sì, per il resto l’ho imparato durante dei viaggi commerciali e diplomatici affrontati con dei miei cugini.» rispose lei, assicurando i sacchetti di cuoio con dentro le erbe alla cintura.

«Ho visto di tutto, dai piccoli agglomerati di case in mezzo ai boschi fino al grande villaggio chiamato Boston; inoltre ho passato abbastanza tempo in mezzo al popolo bianco per apprendere meglio la lingua inglese e sapere come vivono. Però, se devo essere sincera, le mie esperienze non mi hanno lasciata molto entusiasta: ciò che ricordo meglio sono strade piene di miseria e scontri violenti tra abitanti, giubbe rosse e patrioti.» Storse il naso.

«Non credo che vorrei mai prendere parte ad una vita del genere. Devo dire, tuttavia, che i villaggi di case di legno e pietra in cui ci siamo imbattuti nei territori della Frontiera mi sono sembrati delle ottime vie di mezzo tra la vita che conduciamo noi e quella dei coloni. Suppongo che anche la terra di Davenport sia un bel luogo dove abitare.»

Connor confermò con un cenno del capo. «Per me lo è. Anche se si tratta di un altro stile di vita, ci si adatta piuttosto bene. E poi, là ci vivono delle persone di cui sono sicuro di potermi fidare. Sono felice quando faccio ritorno.»

«Sai, mi incuriosisci molto. Non mi dispiacerebbe visitarla.» azzardò lei, lanciandogli un’occhiata di sbieco che gli fece incurvare lievemente le labbra.

«Potrebbe capitare, chissà...» replicò vago. «Possiedo anche una nave, ne hai mai vista una?»

«Solo da lontano, purtroppo. Posso solo immaginare quanto sia bello avere una grande casa galleggiante! Non so che cosa darei per salirci sopra.» rispose lei con tono sognante.

«Se è davvero un tuo grande desiderio ti potrei mostrare la mia Aquila

Lei si voltò con gli occhi sbarrati e gli mise una mano sul braccio perché si fermasse. «Sul serio?»

Il giovane sorrise apertamente di fronte a quell’espressione bambinesca di incredulità mista ad eccitazione. Sembrava quasi che le avesse promesso di insegnarle a volare. «Ma certo, mi farebbe piacere. Sempre che Oiá:ner non abbia nulla da ridire.»

«Niawenhko:wa!» esclamò lei, trattenendo a stento la voglia di saltellare, cosa che lo fece ridacchiare. «Non ti preoccupare per mia madre, riuscirò a convincerla.» aggiunse decisa.

«Dici?»

«Hen, al contrario di quello che può sembrare, non è così difficile.»

Ripresero a camminare e mano mano che avanzavano, gli alberi attorno a loro si fecero più radi. Connor notò che si stavano dirigendo verso una radura al cui centro vi era un ceppo del diametro di almeno cinque piedi, incastrato tra due rocce. Dalla sicurezza con cui si muoveva Otsísto, capì che era un luogo da lei spesso frequentato.

«Il fatto è che ultimamente discutiamo spesso; lei e mia sorella sono coalizzate contro di me. Non fanno altro che parlarmi di capitribù e figli di capitribù... Una vera noia.» riprese lei, mentre andava verso il ceppo. Ci si sedette sopra a gambe incrociate e gli fece segno di mettersi accanto a lei. «Questa radura mi aiuta a sfuggire per qualche ora alle loro pressioni – quando posso permettermi di lasciare soli i miei pazienti, ovviamente.»

Effettivamente, era un bel posto per stare soli. Il giovane la capiva, anche lui spesso e volentieri cercava degli spazi isolati quando aveva bisogno di concentrarsi. Quelli che preferiva erano rami e sporgenze, su cui si arrampicava al fine di osservare i panorami che da lì si intravedevano. Non era raro che durante quei momenti facesse uso di quel dono che Achille aveva definito “occhio dell’aquila”. Gli tornava molto utile quando doveva scovare le sue vittime, fossero gli animali che cacciava o gli uomini che doveva assassinare.

«Non ti interessa il matrimonio?» osò chiederle dopo una pausa.

Lei chinò il capo, gesto che suggerì un leggero imbarazzo.

«Beh, non ho detto questo…» rispose un po’ titubante. «Ma sposare un perfetto sconosciuto non è esattamente la mia più grande ambizione, ecco tutto. So che fa parte della nostra tradizione, e in quanto figlia della Madre del Clan è opportuno che io trovi al più presto qualcuno con cui avere una famiglia, ma vorrei pensare anche alla mia felicità. Di sicuro non mi sentirei particolarmente a mio agio con un marito con cui condivido solamente il talamo, se capisci cosa intendo.»

«Credo di sì e... mi trovo d’accordo.» rispose lui, senza sapere bene cosa dire. Erano discorsi su cui anche lui si trovava sempre un po’ impacciato. Otsísto parve accorgersene e non perse l’occasione per rimpallare la questione.

«E tu, invece?»

«Io?» fece lui, schiarendosi la voce. Improvvisamente, si accorse di quanto fossero seduti vicini e per un momento l’istinto lo portò a voltarsi dall’altra parte.

«Sì, proprio tu, Ratonhnhaké:ton.» ridacchiò lei di fronte alla sua esitazione. «Non ce l’hai una compagna che aspetta il tuo ritorno alla terra di Davenport? O sulla tua – come si chiama – Aquila

Il giovane decise infine di non lasciarsi intimorire da quel tono furbesco e le rispose come aveva fatto altre volte, con franchezza: «Iah, sia alla tenuta che sulla nave ci sono solo amici. Avere una compagna significherebbe condividere ogni dettaglio delle nostre vite ed includerebbe la responsabilità di costruire una famiglia insieme; io fin qui ho avuto – e sto avendo – molto da fare per l’Ordine, e non so se sono pronto a dedicarmi a questo tipo di scelta.»

«Quindi non sei interessato al matrimonio…?»

Connor sollevò un angolo della bocca, aspettandosi quell’ironica ripresa della sua domanda; stavolta fu lui a non perdere l’occasione.

«Non ho detto questo.»

I loro sguardi si incrociarono e, anche se fu solo per pochi attimi, fu uno scambio intenso, indubbiamente portatore dell’intesa che si era creata tra di loro da quando avevano cominciato a parlare. Ormai era piuttosto chiaro: non avevano semplicemente conversato, si erano anche stuzzicati a vicenda. Connor non si poteva affatto definire un esperto di metodi di corteggiamento, ma si rese conto che erano arrivati a quel punto con naturalezza, semplicemente seguendo la strada tracciata dalla loro sintonia. Paradossalmente, sembrava che quella strada lo stesse conducendo proprio alla scelta che aveva appena dichiarato di non essere pronto a fare.

Fu un lieve rumore dietro di loro a rompere quell’atmosfera sospesa. L’assassino lo percepì e si voltò di scatto, facendo sobbalzare leggermente Otsísto.

«Che succede?» sussurrò lei, allarmata.

Lui strinse gli occhi e si alzò dal ceppo. «Ho sentito qualcosa.»

«Cioè?»

«Una sorta di lamento. Sembrava di un animale.»

«Okwáho. (*)» asserì lei sicura, alzandosi a sua volta. «L’altro giorno ho avvistato una femmina con i suoi cuccioli in questa zona. Deve aver trovato riparo in un antro qui dietro. Vieni con me.»

Fece il giro del ceppo e lo guidò nel fitto della foresta, in direzione di una grande roccia spaccata in due da una fenditura larga abbastanza per farci passare tre uomini in fila. Questa si allargava all’interno, diventando lo spiazzo di una piccola grotta. Sul terriccio umido, Connor rilevò subito delle orme vecchie di qualche giorno, accompagnate da scie di sangue rappreso.

«Oh, no...» mormorò Otsísto, davanti a lui.

Il giovane la raggiunse solo per assistere anch’egli al triste scenario di una lupa stesa su un fianco, agonizzante. Due dei suoi cinque cuccioli erano disperatamente aggrappati alle mammelle e stavano lottando per sopravvivere tanto quanto la madre. I tre rimanenti si erano arresi.

«È difficile che una lupa abbandoni il suo nascondiglio quando i suoi cuccioli sono ancora così piccoli.» Connor indicò le ferite sanguinanti e infettate sparse sul corpo dell’animale. «Un cacciatore – se così può essere definito – deve averla stanata e braccata, costringendola ad andarsene dalla sua tana precedente. Un bianco, a giudicare dalle ferite, quelle sono armi da fuoco.»

«Mi dispiace, piccola.» gemette la giovane chinandosi accanto alla bestia, la quale mosse debolmente la testa e ringhiò per avvertirla. Prima che Connor potesse fermarla, allungò una mano sulla pancia e la carezzò teneramente. Inaspettatamente, la lupa si calmò.

Otsísto si girò verso l’assassino, una domanda ben chiara negli occhi scuri, a cui lui rispose scuotendo la testa. Lei annuì rattristata e si fece da parte. Quindi, prese con sé gli unici due cuccioli vivi e lasciò che lui finisse con la sua lama celata il lavoro cominciato dal bracconiere.

«Iah tetsakoronhiá:ken. (*)» affermò la giovane quando tutto fu finito. Connor annuì, rialzandosi.

«Se avesse potuto parlare, ci avrebbe chiesto di salvare i suoi figli.» proseguì lei, affidandogli un cucciolo. «Dobbiamo portarli al villaggio.»

Lui esitò, guardando quella piccola palla di pelo ispido e brunastro che aveva tra le mani. Non poteva avere più di un paio di settimane. «Probabilmente sarebbe più pietoso uccidere anche loro, ora che sono senza madre.»

«Iah, non lo fare.» lo supplicò Otsísto. «Finché c’è speranza, la vita non deve essere tolta. È il più bel dono che ci è stato fatto e tutti meritiamo di usufruirne finché ne rimane anche un singolo frammento. Vieni, torniamo al villaggio.»

Mentre si incamminavano con i lupetti in braccio, Connor si ritrovò a riflettere a fondo sulle ultime parole della giovane.

Da una guaritrice si doveva aspettare la tendenza a preservare e seminare la vita, eppure era rimasto colpito dal suo rispetto per essa e per la natura, particolarmente evidente nel gesto di toccare la lupa e riuscire a calmarla. Lui non gioiva – e mai lo avrebbe fatto – nel togliere delle vite, ma si rese conto che il suo impiego negli anni lo aveva portato a pensare in modo forse troppo cinico. La tentazione di prendersi una pausa da tutto ciò che fin lì aveva visto e fatto fu molto forte, e non lo abbandonò nemmeno quando, quello stesso pomeriggio, scrisse la lettera indirizzata ad Aveline riguardo a Patience Gibbs. Con un sospiro, si ripeté per l’ennesima volta che non poteva ancora concedersene una vera e propria. Decise, comunque, che avrebbe passato ancora qualche settimana al villaggio, in modo da poter approfondire la sua relazione con Otsísto e capire se poteva davvero essere la persona giusta da cui fare ritorno una volta che fosse stato pronto.


 


 


 


 

ANGOLO DELL’AUTRICE

Un capitolo travagliato, frutto di parecchi ripensamenti – e comunque non ne sono ancora totalmente soddisfatta, ma spero che sia solamente un effetto collaterale derivato dall’averlo letto e riletto fino alla nausea. Confesso che non sono una persona particolarmente sentimentale, quindi ho cercato di evitare pensieri troppo melensi, però una cosa è certa, alle emozioni non sfugge nessuno, nemmeno il nostro imperturbabile Connor (che comunque, alla faccia dell’imperturbabilità, quando si arrabbia è meglio essere dall’altra parte del pianeta…!).

Spero di non deludervi annunciandovi che mancano solo un paio di capitoli per concludere la mia idea. In tutta sincerità, non me la sento di scendere troppo nei dettagli, perché descrivere per bene una cultura molto lontana e diversa dalla nostra non è per niente facile, anzi, a volte è parecchio stancante per chi, come me, è un inguaribile perfezionista. Allo stesso tempo, comunque, sono molto contenta di avere la possibilità di immergermi in un altro mondo tramite ricerche su Internet e per questo dovrei baciare i piedi a chi lo ha inventato.

Ora mi butto sul quarto capitolo, alla prossima!


 

(*) Note

- L’avevo già scritto nelle note del capitolo precedente ma repetita iuvant: il nome Ratonhnhaké:ton significa “egli ha una vita piena di graffi”, ecco perché Otsísto lo associa al fatto che non abbia avuto una vita facile


 

(*) Parole in Mohawk

Hen (pr. Han) = sì

Ó:nen ki' wáhi (pr. Ó-nan, ghí, wá-hi) = arrivederci

Iah (pr. come si legge) = no

Okwáho (pr. Og-wá-ho) = lupo

Iah tetsakoronhiá:ken (pr. Iah, te-za-ko-run-hiá-kan) = letteralmente: “(lei) non sta più soffrendo”. Più correttamente: “(lei) ha smesso di soffrire”.

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Capitolo 4
*** Tempo di pace ***


CAPITOLO 4

TEMPO DI PACE

 


 

Un vento mite soffiava gentilmente quel giorno di giugno, scompigliando le chiome del bosco di sempreverdi. Dopo quei due violenti acquazzoni che c'erano stati quella settimana, il tempo stava tornando ad essere clemente. Sul sentiero fangoso che si inerpicava sulle colline verdeggianti di un bosco, affondavano a rimo alterno gli zoccoli di un cavallo pezzato. Connor, sul suo dorso, gettò un'occhiata ai dintorni per capire se era sulla strada giusta: riconobbe il punto in cui, più di due anni prima, aveva salvato la vita ad Atená:ti.

Più di due anni prima.

Gli sembrava incredibile ma era proprio così, erano passati due anni e qualche mese da allora. Aveva avuto così tanto da fare che a malapena se ne era reso conto.

Mentre il suo destriero procedeva lungo il cammino, gli venne da ripensare al villaggio dove era stato accolto e assistito con premura per circa un mese. Era stato un arco di tempo non molto lungo, ma gli era bastato per stringere una buona amicizia con Arahkwenhá:wi e capire che si era innamorato di Otsísto. La giovane indigena dai lunghissimi capelli corvini si era rivelata essere un'inaspettata quanto piacevole svolta della sua vita. Non solo aveva curato con maestria le sue ferite fisiche, ma era riuscita anche a lenire, per quanto possibile, quelle derivate dai numerosi e tristi ricordi che costellavano la sua giovinezza. Con la delicatezza dei suoi modi e la totale assenza di giudizi rispetto ad alcune sue scelte, come ad esempio quella di uccidere il suo stesso padre, era stata un balsamo per il suo animo tormentato. Connor aveva sentito fin da subito la mancanza della sua presenza quando era partito alla volta della Tenuta di Davenport.

Sul suo volto in ombra, fiorì un lieve sorriso al pensiero del momento più importante che lui e la sua amica avevano vissuto.

Fu in una sera come altre, qualche giorno prima che se ne andasse. La cena era già stata consumata, lui era steso sul suo giaciglio e lei, come fin lì aveva sempre fatto, stava spalmando l'impacco di erbe sulle ferite ormai quasi completamente rimarginate. Le sue dita esperte, per un attimo, si soffermarono su un'evidente cicatrice rossastra di forma vagamente ovale sul lato destro del suo costato. Non era la prima volta che lo faceva e ogni volta l’espressione le si faceva accigliata. Ma fin lì non gli aveva mai chiesto nulla, forse per non risultare troppo invadente. Quella sera, decise che avevano abbastanza confidenza per parlarne.

«Questa deve essere stata dura da superare.» cominciò indicando lo sfregio.

«È successo due anni or sono, mentre inseguivo Charles Lee.» spiegò lui. «Eravamo su una nave in via di costruzione e ad un certo punto il pavimento ha ceduto e siamo precipitati al piano inferiore. Un piccolo palo di legno mi si è conficcato proprio lì. Nonostante ciò, ho deciso di portare a termine la mia missione. Il Dottor Lyle era preoccupato oltre ogni limite quando mi sono presentato a casa sua più morto che vivo.»

«Penso che nessuno lo capisca meglio di me.» rispose lei, facendo cenno alle cicatrici più recenti su cui stava spalmando l’impacco. Poi, inaspettatamente ma con educata delicatezza, appoggiò una sua mano fresca su quella più grande e calda di lui e gliela strinse.

«Gli spiriti siano ringraziati per la bravura del dottore, ma anche per la tua enorme forza, Ratonhnhaké:ton. Da non credere, pare che tu ne abbia più di quella di due dei nostri guerrieri messi assieme. Sono contenta che tu non l’abbia mai abbandonata e che lei non abbia abbandonato te, specialmente nei momenti più difficili. Tua madre sarebbe sicuramente fiera dell'uomo che sei.»

Quelle parole… Erano tra le più belle che avesse mai sentito in vita sua.

Connor si mise a sedere, immergendosi in quegli occhi scuri che al debole chiarore del falò brillavano come stelle. La sua mente e il suo cuore per un attimo litigarono ma le emozioni che in quel momento stava provando erano troppo forti per essere represse dalla ragione. Fu così che si ritrovò ad allungare una mano per sistemarle una ciocca ribelle dietro l'orecchio; un gesto semplice, reso significativo dall'intesa presente nei loro sguardi.

Era la prima volta che si comportava in quel modo con una donna. Tuttavia, per lui Otsísto non era una donna qualunque. Evidentemente nemmeno lui era un uomo qualunque per lei, o non avrebbe pronunciato quelle frasi né si sarebbe sporta in avanti per posare le labbra sulla sua guancia qualche istante dopo. Un contatto che durò solo pochi istanti, ma che fu indubbiamente di grande valore per entrambi. In quel preciso momento, il giovane seppe che, non appena gli fosse stato possibile, sarebbe tornato da lei.

Mentre avanzava sul sentiero, notò il primo gruppetto di cacciatori aggirarsi per la foresta, sul lato sinistro. Uno di loro udì il sonoro sbuffo del suo cavallo e si voltò allarmato. Connor lo tranquillizzò sollevando una mano per farsi riconoscere e l'altro ricambiò, entusiasta di rivederlo.

Gli abitanti del villaggio si erano dimostrati perlopiù accoglienti nei suoi confronti e questo non aveva fatto altro che incrementare la sua voglia di tornare. Si ricordò di quanto gli fosse dispiaciuto quando aveva dovuto dire temporaneamente addio alle persone che aveva conosciuto meglio. I fischi amichevoli e gli auguri da parte dei presenti lo accompagnarono fino alla soglia della palizzata. Lì, vi trovò Arakhwenhá:wi e Atená:ti, i quali lo salutarono con una fraterna stretta del braccio e gli porsero ancora una volta i loro ringraziamenti più sinceri. Di fianco ai due fratelli, la Madre del Clan si aprì in uno di quei suoi sorrisi in cui i piccoli occhi neri sembravano per un attimo sparire dal suo viso tondo.

«Il nostro villaggio sarà pronto ad accoglierti, in qualsiasi momento tu volessi ripresentarti. Ó:nen ki' wáhi, Ratonhnhaké:ton.» gli disse mentre anch’ella gli stringeva il braccio, per poi dargli un’amichevole pacca sulla spalla. Non un addio, un arrivederci. Lui le sorrise in risposta.

Infine ci fu lei, Otsísto. Quando i loro occhi si incrociarono, il giovane sentì la forte tentazione di rimanere esattamente lì dov’era. Ma, per l'ennesima volta, si impose di pensare per prima cosa ai suoi doveri.

«Mi prometti che ritornerai?» gli mormorò lei, in modo più discreto possibile, un'implorazione malcelata negli occhi scuri.

«Te lo prometto.» confermò lui, sicuro. «Però non so con certezza quando.»

«Non importa, ti aspetterò quanto sarà necessario. Quando lo farai, dirigiti al grande ceppo.»

Connor annuì, cercando di ignorare gli sguardi curiosi e confusi fissi su di loro.

«Buon viaggio, ontiatén:ro. (*) Che gli spiriti veglino su di te.»

«E su voi tutti.» rispose lui con un sorriso, stringendole il braccio.

Quel ricordo lo guidò ad addentrarsi nella foresta con il suo destriero. Sulla sinistra, vide l'albero tagliato per metà da un fulmine, su cui lui e Otsísto si erano seduti durante una delle loro numerose escursioni fuori dal villaggio. Quel giorno, aveva deciso che poteva fidarsi completamente di lei e, su quel tronco piegato dalle intemperie, le aveva raccontato la storia della sua vita, partendo dalle sue memorie più remote. Le disse dei suoi genitori, del suo addestramento con Achille, degli anni che aveva passato a braccare i Templari in giro per le Colonie inglesi e della comunità a cui aveva dato vita alla Tenuta di Davenport. Le raccontò anche alcune delle avventure che aveva vissuto per mare e questo non fece che incrementare in lei la curiosità di vedere la sua nave. Alla fine della narrazione, costellata qua e là da pause contemplative e timidi commenti da parte di Otsísto, quello che disse lei fu semplicemente: «Io comprendo e ti rispetto.»

A lui bastarono quelle poche parole per capire che aveva trovato in quella giovane donna una confidente senza pari. Non come Myriam o Ellen le quali, per quanto fosse loro affezionato, non avevano mai condiviso con lui quell'intesa particolare. Nemmeno con la sua recluta e consorella Dobby era mai successo di ritrovarsi in quella situazione sebbene – col tempo lo aveva capito – lei per lui provava un profondo interesse. Con Aveline ci era andato vicino, ma i loro caratteri e le loro strade si erano dimostrati essere troppo differenti per essere compatibili. Di altre donne che aveva conosciuto in vita sua, non ne aveva mai presa in considerazione nemmeno una, semplicemente perché nessuna lo aveva attratto a tal punto da sconvolgere l’ordine delle sue priorità.

Sapeva, tuttavia, perché si era innamorato di Otsísto. Oltre che essere amabile già di suo, era uno specchio perfetto dei principi che lui stesso aveva sempre sostenuto, anzi, era anche più di un semplice specchio. Il suo rispetto per la vita e l’amore per il mondo che li circondava, erano stati di grande aiuto per uscire da quel pantano di amarezza in cui era lentamente scivolato negli ultimi anni. In quei ventisei mesi di separazione da lei, aveva avuto il tempo per ponderare su ciò che gli aveva trasmesso. Il preciso momento in cui capì che il suo sostegno era stato rilevante fu in un’afosa sera di fine estate.

Era nella cabina del capitano dell’Aquila durante un lungo viaggio in mare. Mentre sentiva la ciurma intonare la malinconica melodia di Stormalong John (*), l’occhio gli cadde sul diario di suo padre. Lo aveva letto almeno cinque volte da quando ce l’aveva. L’ultima insieme ad Otsísto, dopo che lei si fu dimostrata interessata.

«Tuo padre non era l’uomo che tu credevi che fosse, certo.» gli aveva detto dopo aver confrontato entrambi i punti di vista.

«Forse avresti dovuto ascoltarlo e forse lui avrebbe dovuto parlartene prima che fosse troppo tardi. Fatto sta che è inutile pensare ora a quello che avrebbe dovuto essere. Lasciarti sopraffare dai tuoi rimpianti non ti aiuterà a vivere in pace. Trovare il modo di conviverci sì. Tuo padre ha vissuto appieno la sua vita, con i suoi tormenti e i suoi successi, e in fondo ciò che voleva davvero era che lo facessi anche tu. Pensa a questo quando ti ricorderai di lui.»

Erano frasi su cui aveva già riflettuto parecchio anche Connor, tuttavia sentirle essere pronunciate da un’altra bocca senza che lui ne avesse mai fatto cenno lo rassicurarono e gli diedero la forza di superare il rimorso, oltre che il dubbio per la causa che sosteneva. Quella sera, mentre solcava le onde smeraldine del Mare dei Caraibi, decise che avrebbe scritto il suo punto di vista sul diario di Haytham Kenway, Gran Maestro dei Templari, suo padre e sua vittima più compianta. Era giunto il momento di liberarsi di quel sentimento malsano e di ripudiare una volta per tutte quel pensiero mesto che gli ronzava nella testa come un insetto molesto.

La libertà non è pace.”

Non era vero, non per lui. Da quando aveva letto per la prima volta quelle memorie non ne era stato più tanto certo ma ora lo era, forse addirittura più di un tempo.

Con un sospiro, si sedette allo scrittoio e intinse la piuma d’aquila nel calamaio. Rilesse ancora una volta le ultime parole lasciate da Haytham nella sua calligrafia elegante.

Ti offro la verità, Connor, e tu fanne ciò che vuoi.”

Poi voltò pagina e cominciò a stilare le sue. Non si era mai sentito particolarmente portato per la scrittura ma descrivere quei ricordi lo rilassò immediatamente: ben presto, sulle ultime pagine gialle e macchiate di quel diario, si depositarono i racconti dettagliati dello scontro con suo padre, dell’inseguimento di Charles Lee e del suo ritorno al villaggio, corredati attentamente con le date scolpite nella sua memoria come su pietra. L’ultima narrazione, comprendeva le frasi che aveva rivolto ai suoi genitori sulla tomba di Connor Davenport, quando aveva seppellito l’amuleto come Giunone gli aveva detto di fare. In realtà, non aveva pronunciato quelle parole, ci aveva solamente rimuginato sopra mentre scavava. Ma quando venne il momento di scriverle, pensò che fosse doveroso inserirle sotto forma di un discorso che avrebbe voluto fare.

Ora, nella foresta, mentre il cuore gli saliva in gola scorgendo la figura familiare di Otsísto seduta a gambe incrociate sul suo caro ceppo, gli sovvennero quei pensieri che aveva ormai imparato a memoria a forza di rileggerli e correggerli.

Madre. Padre. Mi dispiace. Vi ho delusi entrambi.”

Mancavano ancora una cinquantina di metri alla sua meta. Decise di scendere dal suo cavallo pezzato e, dopo avergli tolto redini e briglie, gli diede qualche amichevole pacca sul collo possente, lasciandolo libero di brucare. Poi procedette silenziosamente tra le frasche del sottobosco.

Avevo promesso di proteggere la nostra gente, madre. Avevo pensato che se avessi fermato i Templari, se avessi potuto evitare che influenzassero la Rivoluzione, allora coloro che appoggiavo avrebbero fatto ciò che era giusto. L’hanno fatto, immagino. Hanno fatto ciò che era giusto, ciò che era giusto per loro.”

Dalla radura, avvertì la calda risata che conosceva bene e un cane fare dei versi compiaciuti. No, non un cane, aveva un latrato diverso. Era un lupo.

Per quanto riguarda voi, padre: avevo pensato che sarei riuscito a unirci, che avremmo dimenticato il passato e, insieme, avremmo creato un futuro migliore. Avevo creduto che, col tempo, sarei riuscito a farvi vedere il mondo come lo vedo io, che avreste compreso… Ma è stato solamente un sogno. Anche questo, avrei dovuto saperlo.”

Connor si fermò un attimo e spostò lo sguardo sul suo braccio sinistro, osservando il lungo bracciale di cuoio che il suo mentore gli aveva dato quella che gli sembrava una vita prima. Con un lieve movimento della mano, fece scattare la lama celata. L’acciaio affilato scintillò minacciosamente al contatto con i raggi del sole che filtravano tra le chiome degli alberi.

Non è dunque il nostro scopo quello di vivere in pace? È così? Siamo nati per litigare? Per combattere tra di noi? Così tante voci, e ognuna pretende una cosa diversa… A volte è stata dura, ma mai come oggi. Vedere tutto ciò per cui mi ero impegnato corrotto, scartato, dimenticato.

Quasi non si accorse di aver stretto forte il pugno. Lo rilasciò, concentrando piuttosto la sua attenzione sulle parole arabe incise sul piatto della lama.

Voi direste che ho appena descritto l’intera storia umana, padre. Dunque state sorridendo, ora? Sperando che io pronunci le parole che volevi sentire da tempo? Per confermarvi? Per dire che avevate sempre avuto ragione?”

Quando era ancora un ragazzino assetato di vendetta, Achille gli aveva detto che cosa volevano dire quelle parole a lui totalmente sconosciute. “Nulla è reale, tutto è lecito.” Non aveva compreso davvero il senso di quel motto fino a quando non si era trovato a dover conficcare la lama nel collo della sua prima vittima, William Johnson. Libertà significava pace, ma pace significava trovare il modo di convivere ogni giorno con le conseguenze delle proprie azioni, proprio come gli aveva detto anche Otsísto.

Non lo farò.”

Con un sospiro, rinfoderò l’arma.

Persino ora, di fronte alla verità delle vostre fredde parole, mi rifiuto di farlo, perché credo ancora che le cose possano essere cambiate. Forse non ci riuscirò mai. Gli Assassini potrebbero combattere per altri mille anni invano. Ma non ci fermeremo!”

Sentendo il fruscio dei suoi passi su alcune foglie secche, il lupo gli andò incontro cautamente e gli mostrò le zanne bianche come avvertimento.

Giungere a compromessi. È su questo che tutti hanno insistito. E così ho imparato la lezione, ma in modo differente rispetto alla maggioranza, credo.”

La belva abbaiò un paio di volte mentre Connor si avvicinava e si preparò ad attaccarlo.

«Satoríshen tsi sahní:hen! (*)» lo rimproverò una voce morbida. Il lupo smise di ringhiare ma rimase in allerta, gli occhi gialli puntati sulla figura incappucciata.

Mi rendo conto, ora, che servirà tempo, che la strada davanti a me è lunga e avvolta nelle tenebre. È una strada che non mi porterà sempre dove vorrò andare e dubito che vivrò per vederne la fine. Ma la seguirò comunque.”

Dietro l’animale, comparve la figura sottile della sua amica. Non era per niente cambiata. Aveva solamente i capelli raccolti in due lunghissime trecce. Gli ricordava un po’ sua madre, come l’aveva vista l’ultima volta che l’aveva incontrata, in quella realtà sprigionata dal contatto di Washington con la Mela dell’Eden. Guardandola, si sentì a casa.

Poiché al mio fianco cammina la speranza.”

«Te lo giuro, anche se brontola tanto, questo sciocchino è molto affettuoso.»

Mentre gli rivolgeva quelle prime scherzose parole dopo due anni, il giovane notò che Otsísto faticava a trattenere l’emozione, accarezzando la testa del lupo. Un ampio sorriso le si era aperto sul volto nel momento in cui l’aveva visto e lui le aveva immediatamente risposto distendendo le labbra come non faceva da tempo. Si chiese se anche lei aveva le gambe molli quanto lui.

«Vai, piccolo, annusalo. Non lo riconosci? Ha salvato la vita tua e di tua sorella quando ne avevate più bisogno.»

Come se il lupo capisse tutto ciò che lei diceva – e forse era davvero così – separò quei pochi metri di distanza dall’assassino e strusciò il naso sui suoi mocassini per poi voltarsi e tornare al ceppo soddisfatto.

«E ora è ritornato.»

La giovane si avvicinò a lui e con la sua solita, educata delicatezza, allungò le mani per togliergli il cappuccio ancora calato sul viso.

«Te l’avevo detto che l’avrei fatto.» mormorò lui.

«Hen. E io ti avevo detto che ti avrei aspettato.» sorrise lei. Quanto gli era mancato quel barlume nei suoi occhi scuri.

Connor si lasciò avvolgere in un abbraccio caloroso, o meglio, fu lui che avvolse lei. Sentì odore di pelle di cervo, di muschio, di erbe aromatiche e di incenso. Odori di casa. Odori di pace.

Nel momento in cui chinò la testa per posare le labbra sulle sue, lei sussultò appena per la sorpresa e lui sperò con tutto il cuore che non avesse sbagliato qualcosa. In fondo, era il suo primo vero bacio. Ma lei dissolse ogni dubbio quando schiuse le sue per assecondarlo. Si allontanarono dopo qualche istante, tuttavia rimasero aggomitolati in quell’abbraccio per un po’. Nessuno dei due sembrava volersi separare. La prima a farlo, alla fine, fu lei.

«Vieni, andiamo al villaggio. Ti staranno tutti aspettando.» gli disse, conducendolo sul sentiero.

«Sei sicura che Oiá:ner sarà contenta di vederci tornare assieme?» chiese il giovane, vagamente divertito.

«Vorrai scherzare! Ha un’adorazione per te. Non vedeva l’ora che tornassi proprio per rivederci l’uno accanto all’altra. In questi due anni non ha praticamente fatto altro che alternare pareri sui preparativi del matrimonio a domande su di te.»

Connor alzò un sopracciglio. «Come sapeva che…?»

«Temo di averle accennato per sbaglio che sei stato il primo uomo davvero interessante che ho incontrato.» Otsísto scosse la testa ma stava sorridendo.

«È così, dunque?» la stuzzicò lui.

«Certo che è così. Però se le avessi detto tutto il resto – ossia che ti ammiro, che ti rispetto e che non sarebbe male passare il resto della mia vita con te – credo che sarebbe andata a cercarti di persona per portarti qui e celebrare direttamente il matrimonio.»

Entrambi ridacchiarono a quelle ultime parole spiritose. Quando tornarono seri, il giovane prese la parola, tormentato da un unico pensiero.

«Otsísto...» cominciò, fermandosi e prendendole entrambe le mani. «Io sarei più che onorato se tu e tua madre mi concedeste di essere tuo marito. (*) Però voglio dirtelo subito: io ricopro un ruolo fondamentale per la Confraternita degli Assassini e anche per la mia nave, essendo io il suo capitano. Non posso permettermi, ora come ora, di mettere da parte quei ruoli. In questi anni, le mie assenze potrebbero essere frequenti e in alcuni casi anche lunghe.»

«Ratonhnhaké:ton, so a cosa vado incontro. Non ho atteso due anni per nulla.» replicò lei, con un sorriso di comprensione. «Non sarò io a chiederti di lasciare quei compiti, sarai tu a farlo quando ti sentirai pronto. A me non importa se ti dovrai allontanare spesso, voglio solo che tu ti senta a tuo agio quando sei con me e che sia sincero nei miei confronti. È così che dovrebbe essere tra due persone che si vogliono bene, no?.»

«Hen, mai stato più d’accordo.» annuì lui. Ormai non avrebbe dovuto essere meravigliato più di tanto dalla sensibilità di quella donna, eppure ogni volta lei riusciva a farlo rimanere di sasso in qualche modo. Era giunto il momento di dichiararle l’effetto che aveva su di lui quella sensibilità.

«Konnorónhkhwa.» (*)

Non l’aveva mai detto a nessun altro al di fuori di lei e dubitava che avrebbe potuto trovare un’altra donna a cui dirlo.

«Keninorónhkhwa, Ratonhnhaké:ton.» (*) sorrise lei, posandogli una mano sulla guancia. Come a dare una chiusura ufficiale di quella conversazione, si alzò in punta di piedi e gli diede un bacio a stampo.

Poi, si incamminarono sul sentiero, mano nella mano. Il lupo, dietro di loro, li seguì furtivamente mentre andavano incontro al loro futuro.

A dispetto di chi insiste a che io torni sui miei passi, io proseguo. Questo è il mio compromesso.”


 


 


 


 

ANGOLO DELL’AUTRICE

**Si alza dalle ceneri stile Mushu di Mulan** Sooooono viiiiva!

Chiedo umilmente perdono, è stato un periodo un po’ intenso. In più, come sempre, non ero mai soddisfatta di quello che stavo scrivendo, il che non ha fatto altro che peggiorare la situazione. Ma ritornando a noi…

Come credo si sia capito, ho preso in prestito qualche pezzo dal libro “Assassin’s Creed Forsaken” (scritto da Oliver Bowden, ndr) che – me ne vergogno – non ho ancora avuto il tempo di leggere, seppure so già di cosa parla. Spero solo che sia venuta bene la fusione tra citazioni canoniche e scene inventate.

Detto questo, scusate il sentimentalismo ma dato che dal gioco sembra che il finale di Connor non sia particolarmente felice, dopo tutto ciò che ha passato gliene volevo dare uno. A proposito, abbiate fede, prima o poi arriverà l’ultimo capitolo.

Un saluto a tutti!


 

(*) Note

- Stormalong John è uno dei brani cantati dalla ciurma della Jackdaw in Black Flag, nonché uno dei miei preferiti.

- Da quello che ho capito, una coppia Mohawk per sposarsi deve avere il consenso delle madri. Sorvoliamo su Connor perché non so che cosa succeda nel caso uno dei due sposi sia orfano


 

(*) Parole in Mohawk

Ontiatén:ro (pr. Un-tia-tán-ro) = amico

Satoríshen tsi sahní:hen (pr. Sa-to-rí-shan, zi, sah-ní-han) = smettila di abbaiare (lo ammetto, prima ho trovato questa frase e solo dopo ci ho ricamato sopra la scena, ndr)

Konnorónhkhwa (pr. Kon-no-rún-qua) = ti amo

Keninorónhkhwa (pr. Ke-ni-no-rún-qua) = ti amo anch’io

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Capitolo 5
*** Momenti di gioia ***


CAPITOLO 5

MOMENTI DI GIOIA

 

 

Una mano grande e coperta da un guanto di cuoio sfiorò con le dita snudate la lapide arrotondata.

«Vecchio mio.» pronunciò Connor in un mormorio, carezzando con il pollice la fredda pietra levigata.

Nel momento in cui sollevò gli occhi gli parve di vederlo: Achille Davenport, come se lo ricordava. Seduto di spalle che lo aspettava presso la roccia dove era solito sedersi durante le sue passeggiate, sullo spiazzo erboso della scogliera sul retro della tenuta che si affacciava sulla baia. Appoggiato al suo bastone, in testa il suo fedele cappello ad ampie falde da cui scendeva una cascata di treccine crespe e ingrigite raccolte in una coda.

In un debole fruscio di vestiti, l’imponente nativo americano gli fu vicino e si sedette a gambe incrociate a terra, appoggiando la schiena al masso. Il sole stava cominciando a tramontare, il cielo e il mare si stavano pigramente tingendo di toni caldi.

Connor.”

All’assassino sembrò di udire per davvero la voce pacata del suo mentore che gli parlava dietro di lui. Che fosse semplicemente il sussurro di quel venticello leggero? O era forse la sua immaginazione? Oppure c’entravano qualcosa gli spiriti di cui parlava spesso Oiá:ner? In fondo gli era capitato di incontrarne uno parecchi anni prima, ed era proprio grazie ad esso che aveva scelto come vivere la sua vita. L’ipotesi non era poi tanto assurda.

Ne è passato di tempo.”

«Tredici anni...» sospirò. Non aveva voglia di andare alla ricerca di risposte razionali in quel momento e in quel luogo. «Mi spiace di non essere più venuto a trovarti dopo il funerale.»

Immagino tu abbia avuto un po’ da fare.”

«Parecchio. Soprattutto qui alla tua tenuta, non ci si ferma mai.» Connor si slacciò la lama celata di dosso e si massaggiò distrattamente l’avambraccio. Mentre lo faceva, gli sembrò di avvertire la presenza di Achille che si accomodava meglio sulla roccia.

Dunque, che mi racconti? Hai fatto progressi?”

«Ne ho fatti tanti. Ne abbiamo fatti tanti. Credo che saresti contento di vedere i cambiamenti che ci sono stati in generale. Per quanto riguarda la tenuta, ho Patience al mio fianco.»

Patience? Non sarà mica quella maroon che ti ha quasi ucciso...?”

«Sì, proprio lei.» Connor abbozzò un sorriso. Gli venne in mente quel giorno di fine inverno di dieci anni prima, quando la ragazza per liberarsi della sua presenza non aveva esitato a sparargli addosso. Sembrava essere passata un’intera vita da allora.

«Ho deciso di lasciare a lei il comando: ormai è da parecchio tempo che la conosco e mi fido ciecamente di lei. Certo, è stato piuttosto difficile e doloroso conquistare la sua fiducia, ma si è dimostrata essere una delle migliori reclute che il nostro ramo della Confraternita potesse mai desiderare.»

Mmh… Sembri molto convinto. Immagino che tu abbia riflettuto a lungo su questa scelta, dopotutto.”

«Sì, e sono sicuro che sia quella migliore.» L’uomo prese un bastoncino e cominciò a disegnare in modo stilizzato sul terriccio sabbioso, come faceva spesso la sua gente.

«Avresti dovuto vedere l’espressione del dottor Lyle quando mi ha visto tornare alla tenuta praticamente svenuto sul mio cavallo.» continuò, l’ombra di un sorriso sul volto. «Penso di non essere mai stato rimproverato tanto nella mia vita. Conoscendoti, probabilmente anche tu non ti saresti risparmiato una bella ramanzina.»

O magari una bella bastonata, di quelle che ti davo quando eri un pivello maledettamente testardo con pochi lustri di esperienza sulle spalle. In fondo, mi sembra che anche se sono passati un paio di decenni tu sia rimasto uguale ad allora.”

«Però ne è valsa la pena, questo te lo giuro. È principalmente grazie a Patience se sono riuscito a trasformare la nostra tenuta nel covo che è oggi. È un posto sicuro e anche il villaggio non rischia: i nostri confratelli sono bravi a tenere lontani qualsiasi genere di ostilità. Saresti fiero di loro, come lo sono io. Sai, fra di loro c’è anche Hunter.»

Il figlio di Warren e Prudence...”

Connor annuì, pensando a quel ragazzo dalla pelle scura che aveva visto nascere, anzi, che lui stesso aveva aiutato a far nascere. Lo aveva visto diventare un bimbo magrolino e sorridente, contento di dare una mano ai suoi genitori nella loro fattoria. E poi, con il passare fin troppo rapido degli anni, continuando a mettere a disposizione le sue giovani e forti braccia nei campi e nelle stalle, era diventato un robusto giovane uomo con una forte determinazione negli occhi color pece. Per qualche strano motivo, anche se le loro storie erano completamente diverse, al nativo americano aveva sempre ricordato un po’ sé stesso nel periodo in cui si era recato dal vecchio burbero proprietario della tenuta.

«L’ho visto crescere ed è ancora giovane, ma ormai è diventato un uomo. Ha sempre detto che avrebbe voluto essere come me e ha sempre dato il massimo per ottenere i migliori risultati in tutto ciò che fa. Sono molto orgoglioso di lui e lo sono anche i suoi genitori.»

Certo, lo sono anch’io.”

Ci fu un attimo in cui Connor stette in silenzio e si godette il panorama del cielo rosato riflesso su un mare dolcemente scosso dal vento. Nella baia, attraccata al piccolo porto, stava la sua amata Aquila. La maestosa nave da guerra ondeggiava placidamente sulla distesa d’acqua salata lievemente increspata. I ricordi delle avventure passate su di essa si fecero largo nella sua mente, pregni di gloria e di una punta di nostalgia.

E quella? Sei ancora il suo capitano, vero?”

Di nuovo gli parve di udire la voce di Achille dietro di lui. Ancora non riusciva a stabilire se fosse davvero lì con lui, se potesse davvero sentirlo, ma la cosa certa era che anche solamente dialogare con una parte di sé stesso lo stava rilassando. Era da settimane che non si concedeva una pausa. La sua principale fonte di sollievo era ben lontana dalla tenuta, ben lontana dalla sua vita di Assassino...

«Ufficialmente sì.» rispose, forse a sé stesso. «In pratica, il più delle volte la lascio nelle mani di Faulkner, soprattutto negli ultimi tempi. Per quanto ami solcare i mari, le mie priorità sono cambiate da qualche anno a questa parte. Faulkner non è decisamente nel fiore degli anni, ma è il mio primo ufficiale e l’uomo che mi ha affiancato fin dalla prima volta che ho imbracciato il timone: credo che nessuno sia più meritevole di lui di fare le mie veci.»

Come darti torto… Ma che vuol dire che le tue priorità sono cambiate? Non significherà mica che...”

«Ho conosciuto una persona. È stato un incontro inaspettato. Come dicevo, ha cambiato tutte le mie priorità.»

Capisco… Quindi alla fine anche tu hai trovato un po’ di stabilità in questa nostra disperata ricerca della libertà.”

«Già. Non credevo che sarebbe accaduto così presto… Ma sono felice, lo sono davvero. Otsísto è stata la mia guida in un momento di quasi totale smarrimento ed è tutto ciò che posso desiderare anche in una vita impegnativa come la mia.»

Lo stesso era Abigail per me. Credo che tu abbia infine visto l’immagine del quadro che ti ho chiesto di riportare alla tenuta da New York. Siamo io, mia moglie e mio figlio.”

«Sì… L’ho appeso nella sala da pranzo poco dopo la tua dipartita.»

Immagino tu abbia anche capito che non è stato un caso che ti abbia suggerito di adottare il nome Connor. È l’amore l’unica vera fonte di sollievo, ragazzo mio. In tutte le sue forme. Se c’è amore, ci sono gioia e pace. Senza l’amore, il fardello sarebbe troppo pesante da sopportare, persino per noi.”

«Sì, l’ho provato sulla mia pelle. Stavo per arrendermi, poi ho incontrato lei: mi ha aiutato a guarire e sono tornato alla tenuta. Gli amici che ho qui alla tenuta hanno organizzato una festa in mio onore e mi hanno reso partecipe del loro affetto per me. Al covo, le mie reclute mi hanno dimostrato il loro impegno e mi hanno dato speranza. Sull’Aquila, i membri dell’equipaggio hanno composto delle canzoni in onore delle nostre avventure. Tutte queste persone mi sono state e mi sono ancora accanto. Ma se non ci fosse stata Otsísto a farmelo capire, non so quanto sarei andato avanti. E poi, sono arrivati loro...»

Loro?”

«I nostri tre figli.»

Oh… Accidenti a te, ragazzo, non ci vediamo per tredici anni e mi riempi di sorprese in questo modo!”

Connor sorrise. «Già... Scusa. Sai, sono già passati sette anni, ma ricordo bene quando ho preso in braccio la mia primogenita per la prima volta: penso di non aver mai visto nulla di così piccolo e fragile. Mi stava quasi interamente sul palmo di una mano… Temevo di farla cadere dal fremito che scuoteva il mio corpo. Quel giorno non lo dimenticherò mai.»

Conosco bene quella sensazione. Sette anni, hai detto... Saranno passati in fretta con tutto quello che hai avuto da fare.”

«Fin troppo, effettivamente. Però nei primi tempi ho cercato di essere molto più presente per la mia famiglia piuttosto che per la Confraternita. Alle missioni più urgenti e impegnative ci ha pensato il ramo di New Orleans: Aveline e i suoi uomini sono molto più adatti di me a gestire le ribellioni degli schiavi, come ha dimostrato l’episodio del reclutamento di Patience. Così, io ho potuto concedermi di rallentare un po’. Però non mi sono mai fermato.»

Forse potresti farlo ora. Hai detto che ne hai tre di figli, no? Dovresti essere presente per tutti loro e per tua moglie.”

«Sì, dovrei esserlo di più. Infatti sono qui perché ho voluto salutare tutti un’ultima volta.» affermò, sentendo il cuore stringersi un po’ per la nostalgia. «Come dicevo prima, stamane ho parlato con Patience e ho lasciato a lei il comando di questo ramo della Confraternita. Con ciò, la mia dedizione alla nostra causa non verrà mai meno, e non dico che non tornerò mai più alla tenuta ma sicuramente non lo farò per molto tempo.»

Capisco. E per quanto riguarda l’addestramento delle reclute?”

«Anche a quello può pensare Patience, insieme ai confratelli che ho reclutato personalmente durante la Guerra d’Indipendenza. È tempo di lasciare agli altri il ruolo di mentore: io lo assumerò nuovamente soltanto per i miei figli e solo se la loro madre me lo permetterà.»

Se anche solo uno di loro dovesse aver ereditato il dono che hai tu, ti consiglierei vivamente di cercare di convincere tua moglie nel caso non sia d’accordo. L’”occhio dell’aquila” è un’abilità che non va trascurata. Chiunque ne sia dotato, potrebbe ricoprire un ruolo molto importante per la nostra causa.”

«Sì, lo so. Forse è un po’ troppo presto per dirlo ma ho il sospetto che mia figlia più giovane ne sia dotata. Ha solamente tre anni ma sta già dimostrando una certa qual propensione per la caccia. Mia figlia più grande e mio figlio sono anch’essi agili e perspicaci ma Io:nhiòte ha una luce particolare negli occhi che conosco molto bene.»

Se così fosse, mi auguro che un giorno seguirà le tue orme.”

«È anche la mia speranza, ma come dicevo mi importa anche di ciò che pensa Otsísto a riguardo. Per me e la mia gente la figura della madre è quella a cui spettano le decisioni più importanti. Non verrò meno alle mie tradizioni e nemmeno al rispetto che io e mia moglie ci portiamo sempre in egual modo. Inoltre, non voglio essere il padre che mio padre è stato per me.»

Haytham è mai stato un padre? Quando vi siete incontrati per la prima volta oramai eri un uomo. Non credo che tu potresti mai raggiungere un tale livello di assenza nella vita dei tuoi figli.”

«Non è solo l’assenza il problema. Mio padre non fu informato in alcun modo della mia esistenza se non molti anni più tardi, questo glielo devo concedere. E se le cose fossero andate diversamente, se mia madre non avesse perso la vita in quell’incendio e io avessi incontrato lui prima di fraintendere le intenzioni dei templari nei confronti della mia gente, forse e solo forse, avremmo anche potuto avere un buon rapporto.»

Connor volse gli occhi al cielo e si mordicchiò appena il labbro inferiore. Era da tanto che non gli capitava di ripensare a Haytham Kenway, a quello che sarebbe potuto accadere se lo avesse conosciuto in altre circostanze. Si era messo d’impegno in quei lunghi anni al fine di accantonare i rimpianti per una situazione che non avrebbe mai potuto alterare nemmeno se avesse voluto farlo. Tuttavia il dolore che quel rapporto travagliato aveva inferto negli animi di entrambi aleggiava ancora, gettando mestizia sul solo fra i due ancora in vita e in grado di essere tormentato da esso. A conti fatti, il dolore era sempre con l’assassino, per quanto cercasse di ricacciarlo indietro. Ma sapeva anche che la sua condizione di tormento non era unica: la sofferenza faceva parte della vita di tutti gli esseri umani, più o meno presente che fosse. Tutto dipendeva dalla capacità individuale di dare ad essa il giusto valore e in questo modo riuscire ad affrontarla.

«Comunque i fatti passati non possono essere cambiati...» proseguì. «...e il vero problema è che dal primo momento in cui ci incontrammo, non fece altro che cercare di inculcarmi una causa che non sentivo mia. La vita che conducevamo e i nostri pensieri erano diametralmente opposti e insistere sui rispettivi punti di vista non ha fatto altro che dividerci finché uno non ha per forza dovuto uccidere l’altro. Il nostro fu un rapporto alquanto singolare ed è quasi inutile specificare che quello che ho io con i miei figli è quanto di più diverso possa esserci. Ad ogni modo, non ho di certo intenzione di creare rancori: se crescendo avranno idee e propensioni diverse da quelle che io vorrei per loro, lascerò che decidano per loro stessi e non li forzerò in alcun modo ad andare incontro alla mia volontà.»

Sì, capisco cosa intendi. Ma fa’ attenzione, Connor. Più andiamo avanti e più servirà gente per sostenere la nostra causa. Hai svolto un ottimo lavoro in questi anni, eliminando la minaccia templare e riportando in auge la Confraternita lungo tutto il continente americano, ma sappiamo bene entrambi che un ideale non può essere ucciso come può essere ucciso un uomo. Non devi mai abbassare la guardia e soprattutto non devi sperare che le persone che hai reclutato fin qui bastino per contrastare un’ideologia.”

«Ne sono consapevole.» sospirò. Era stanco ma deciso. Sempre deciso. «Per quanto mi riguarda, al momento sento di aver fatto tutto ciò che è in mio potere per portare gli Assassini in vantaggio. Se poi in futuro ci sarà ancora bisogno di me non esiterò ad intervenire. Ora tutto ciò che desidero è dedicarmi completamente al ruolo di padre, lasciando da parte quello di Assassino. Non credo sia opportuno rivestirli entrambi nello stesso momento, non fin quando scorgerò candore ed inesperienza negli occhi dei miei figli. Più avanti, quando cominceranno ad avvicinarsi alla soglia del mondo adulto, se ne riparlerà.»

Comprensibile. Dunque non posso far altro che augurarti il meglio. L’esperienza di padre è molto diversa da quella di Assassino ma non per questo meno intensa. Ne so qualcosa.”

Il nativo americano stette per un attimo in silenzio ed accennò ad un sorriso. Poi disse: «Ammetto che è stata piuttosto dura convincerti ad accogliermi in casa tua. Spero che tu non ti sia mai pentito di averlo fatto.»

Pentito? No… Di sicuro la tua cocciutaggine mi ha fatto infuriare e anche più di una volta. Ma non potrei mai pentirmi di una scelta che mi ha portato a vivere gli ultimi anni della mia vita con serenità e mi hanno reso orgoglioso dell’uomo che sei diventato.”

Connor non sapeva se quelle parole arrivassero direttamente da Achille o se fossero semplicemente il frutto dei suoi pensieri. Magari entrambe le cose. Magari nessuna. Sapeva solo che quell’uomo era stato più che un semplice mentore per lui. E allo stesso modo sapeva anche di essere sempre stato più di un semplice pupillo, o Achille non lo avrebbe mai chiamato con il nome che era stato di suo figlio.

«Ti ringrazio, vecchio. Per tutto.»

Stette ancora lì immobile per qualche istante, ad ascoltare e sentire sulla sua pelle la brezza leggera che si intrufolava giocosamente tra i suoi lunghi capelli raccolti nel consueto mezzo codino. Poi si rialzò, scosse via il terriccio dalle mani e dalla sua fedele uniforme bianca e blu. Passò nuovamente vicino alla lapide e la sfiorò delicatamente con le dita.

Mentre tornava dentro il grande edificio in cui aveva vissuto per anni, udì un lupo lanciare il suo ululato di libertà verso la prima stella comparsa in quel crepuscolo di fine primavera. D’istinto, distese lievemente le labbra.


 

***


 

Tra le frasche degli alberi del bosco cominciò ad intravedersi la palizzata del villaggio. Il destriero bruno sbuffò appena, come se fosse stato contento quanto lui di essere finalmente giunto a destinazione dopo quei giorni di viaggio che erano sembrati interminabili.

Erano passati almeno tre mesi dall’ultima volta che Connor era stato per un po’ insieme alla sua famiglia. Ora, dopo quegli ultimi anni costellati di missioni per potenziare la Confraternita e rendere completamente inoffensiva la minaccia templare nelle Americhe, poteva finalmente concedersi solo al ruolo di padre, esattamente come aveva detto ad Achille – o a sé stesso – qualche giorno prima.

Mentre si avvicinava sempre di più, notò un gruppo di bambini che si rincorrevano in prossimità dell’ingresso del villaggio. Assisteva spesso a scene del genere quando faceva ritorno e ogni volta gli scaldavano il cuore. Gli ricordavano del periodo più felice che avesse vissuto, l’infanzia. La vita era stata dura con lui ma era riuscito comunque a tirare avanti, nutrendosi di speranza e di quei momenti di benessere che non erano poi tanto rari, soprattutto da quando si era sposato ed era diventato padre.

«Kà:ts kenh nonkwá!» (*) esclamò una voce cristallina. Connor sorrise in modo spontaneo al solo sentirla. Dalla soglia del villaggio comparve una donna dai lunghi e sciolti capelli neri, con una bimba di tre anni in braccio impegnata a tenere tra le manine l’elaborato girocollo che indossava. Quando Otsìsto si voltò verso il sentiero e vide chi stava arrivando, gli occhi le brillarono come stelle in un cielo limpido e il sorriso che gli rivolse fu più luminoso del sole estivo.

Dal gruppetto di bambini che stavano rientrando se ne separarono due, una femmina di sette anni dalle lunghe trecce scure e un maschio di quasi sei anni dai lunghi e ribelli capelli corvini. Anche a loro gli occhi brillavano, pieni di felicità oltre ogni limite.

«Ráke’ni(*) urlarono in coro rivolti a Connor, il quale aveva fermato il cavallo e stava smontando dalla sella.

I suoi figli gli andarono incontro mentre l’uomo si accovacciava e apriva le braccia, il cuore che per un attimo parve fermarsi per l’indescrivibile gioia che provava nel vedere i loro volti.

I bambini gli si gettarono addosso, facendolo sbilanciare. Caddero tutti e tre all’indietro, si strinsero forte e risero di gusto.

«Ti dobbiamo raccontare tante cose!» esclamò entusiasta la figlia maggiore.

L’uomo le carezzò la testa. «Non vedo l’ora di sentirle tutte.»

«Atená:ti mi ha portato con lui a caccia!» aggiunse il figlio senza riuscire a trattenersi.

«Io invece sto imparando a ricamare bene come la mamma!»

«Buoni, piccoli lupi!» ridacchiò Otsísto che nel frattempo li aveva raggiunti, con la figlia più piccola in braccio. «Lasciate a vostro padre almeno il tempo di respirare dopo il lungo viaggio che ha compiuto. Da bravi, rientrate nel villaggio insieme agli altri, fra poco arriviamo anche noi.»

I due fratelli obbedirono e trotterellarono allegramente verso il varco laterale nella palizzata.

A quel punto, anche la figlia più piccola cominciò a scalpitare dall’entusiasmo in braccio alla madre e allungò le piccole braccia verso Connor. Lui si rialzò e la prese tra le sue, dandole un affettuoso bacio sui setosi capelli neri. Il suo sguardo si riflesse nei grandi occhi curiosi della sua piccola Io:nhiòte.

«Ratonhnhaké:ton.» disse semplicemente Otsísto per salutarlo, allungando una mano per carezzargli il volto. Era sempre bello sentirsi chiamare con il nome con cui era nato, quello che nonostante il greve significato che portava con sé sapeva di infanzia, di felicità, di libertà. Allungò il collo verso sua moglie e posò brevemente le labbra sulle sue.

«Sono a casa.» affermò, sicuro che lei avrebbe capito la profonda implicazione di quella semplicissima frase. E difatti, lei capì e sorrise di nuovo come poco prima, come quando lo aveva visto arrivare. Come il giorno in cui avevano deciso di vivere insieme per sempre, come in quello in cui si erano sposati e come in quello ancora in cui avevano condiviso la travolgente emozione di essere diventati per la prima volta genitori. Sorrise e da quel semplice gesto scaturirono le miriadi di momenti di gioia che lui aveva vissuto e conservato gelosamente dentro di sé per poter far fronte a ogni difficoltà che la vita aveva in serbo per lui. In quel sorriso riecheggiarono quelli di tutte le altre persone che aveva incontrato e che in qualche modo gli erano rimaste nel cuore. E pensando a quelle persone gli sovvenne il suo vivace villaggio natale, la silenziosa foresta in cui aveva imparato a cacciare, la tranquilla tenuta di Davenport, la maestosa nave su cui aveva vissuto delle gloriose avventure, e persino le caotiche città di Boston e New York. Infine gli venne in mente dell’accogliente villaggio della sua gente in cui aveva deciso di stabilirsi per il resto dei suoi giorni. E ricordandosi di tutto questo rispose a quel sorriso con il suo aperto, mite e sincero.

Sì, finalmente era a casa.


 


 


 


 


 


 

ANGOLO DELL’AUTRICE

Comincio subito con lo scusarmi con chi ha seguito fin qui questa breve storia, mi dispiace che quest’ultimo capitolo sia giunto con così tanti mesi di distacco. Ho cominciato a scriverlo subito dopo il penultimo ma un po’ perché sono stata risucchiata da altre questioni e un po’ perché ho perso per strada la voglia di scrivere, i tempi si sono allungati un tantino…!

Poi è arrivata questa situazione surreale di quarantena in cui ci troviamo tutti (già, per chi leggerà in futuro, qui siamo nel pieno del periodaccio “Coronavirus”) e tra le altre cose sono rientrata nel mood... Ma questo non credo possa interessare quindi passo direttamente al contenuto del capitolo che è meglio!

Anche qui è stata un po’ dura, ho avuto vari ripensamenti (quando mai non ne ho…!) e comunque questa versione definitiva non è che mi soddisfi troppo... L’idea originale è rimasta, infatti fin da subito volevo scrivere un capitolo ambientato molti anni dopo il penultimo in cui fosse Connor a spiegare cos’era successo in quel lasso di tempo. All’inizio doveva essere un monologo ed ero partita con lui che parlava da solo sulla tomba di Achille, poi mi stuzzicava anche l’idea del dialogo e così ho scritto un’altra versione in cui andava a trovare Norris e Miriam per parlarne con loro. Alla fine ho optato per una metà via tra le due cose e non sono convinta se in questo modo sia effettivamente bello da leggere ma è stato sicuramente interessante scriverlo.

Non so se sia utile specificarlo ma come ho già detto all’inizio del primo capitolo, gran parte delle cose descritte non sono ufficiali: di Connor, dopo la storia del gioco si sa ben poco, quindi non resta che dare spazio più che altro ad interpretazioni personali.

Sicuramente avrei potuto approfondire. Magari alcuni di voi staranno storcendo il naso per questo finale forse un po’ banale e melenso. Magari avreste voluto leggere qualche cosa in più e vedere i miei personaggi inventati (specialmente Otsísto ma anche i fratelli cacciatori) essere maggiormente studiati e caratterizzati e per questo mi scuso. In realtà fin da quando ho avuto quest’idea non ho mai avuto intenzione di tirarla troppo per le lunghe... Non è una vicenda piena di azione e dalla trama complessa che vale la pena esplorare e districare. Quindi naturalmente quello che spero è che anche se si tratta di qualcosa di corto, istintivo e poco approfondito, vi sia piaciuto darci un’occhiata! E mi complimento sinceramente con quelli che sono arrivati fin qui, io mi sarei già stufata :P

Prima di passare alle traduzioni, per chi fosse curioso, volevo approfittarne per specificare che le mie ricerche riguardo alla cultura Mohawk sono state fatte sulla base di siti e gruppi di cui fanno parte persone che appartengono proprio a quella cultura. In particolare, c’è un gruppo su Facebook che mi è tornato particolarmente utile: si chiama Kanien'kéha Dictionary e tra l’altro ne fa parte anche uno dei consulenti linguistici Mohawk di Assassin’s Creed III, oltre che doppiatore di Kanen’tó:kon. È stato principalmente lì che ho trovato parole e frasi e il loro corrispettivo in inglese.

Per concludere, vorrei ringraziare tutte le persone che hanno anche solo dato un’occhiata e a quelle che hanno messo questa fanfiction nelle seguite e nelle preferite! Ringrazio pubblicamente Hoel, che mi ha dato ispirazione con le sue recensioni! Infine, ringrazio in anticipo chi leggerà in futuro e chi deciderà di lasciarmi il suo parere!

Un caloroso saluto a tutte e tutti!

xxx

Elef


 

(*) Parole in Mohawk

Kà:ts kenh nonkwá (pr. Kàz, kan, nùn-qua) = venite qui

Rake’ni (pr. Ra-ghé-ni) = papà

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