La verità su Ingeborg Barrow di Old Fashioned (/viewuser.php?uid=934147)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
LA
VERITÀ
SU INGEBORG BARROW
Capitolo 1
Il telefono emise uno squillo.
Senza abbandonare la contemplazione delle immagini che stavano
scorrendo sul monitor, meccanicamente James Donovan, della Donovan
Enterprises, allungò la mano, premette il pulsante del viva voce e
scandì il proprio cognome.
“Buona sera,” giunse
dall’altra parte del filo. Era una voce maschile profonda e ruvida,
che faceva pensare a un uomo corpulento, probabilmente con una folta
barba e la salopette di jeans. “Sono Nielsen.”
“Ah, Nielsen,” lo interruppe
l’altro, “volevo proprio chiamarla. Come stanno andando i
lavori?”
Alla domanda seguirono alcuni
secondi di silenzio, poi l’uomo, in tono vagamente esitante,
rispose: “È proprio di questo che volevo parlarle, signor
Donovan.”
L’imprenditore aggrottò le
sopracciglia. “C’è qualche problema? Eppure mi aveva detto che
il materiale andava bene.”
“Certo, signor Donovan,”
giunse l’imbarazzata risposta, “il materiale è di prima qualità,
non si potrebbe dire male di quella roba neppure volendo, ma...”
“Ma?”
“Ma vede… uno dei ragazzi è
in malattia, un altro deve sposarsi...” L’uomo tacque, quasi
aspettandosi che Donovan traesse le conclusioni al posto suo.
L’imprenditore rimase in
silenzio.
Dopo qualche secondo, l’altro
riprese: “E quindi, lei capisce che con così pochi uomini non
posso certo proseguire il lavoro.”
“Mi pare che avessimo un
accordo,” fu la risposta, pronunciata in tono tagliente.
“Sì, ma vede… le malattie
sono imprevedibili, no?”
“Assuma qualcun altro. Con i
soldi che le sto dando, non dovrebbe avere problemi.”
“Glieli restituirò,” gli
assicurò subito l’uomo. “Del resto, col poco che siamo riusciti
a fare finora, non mi sentirei a posto con me stesso se le chiedessi
qualcosa.” Fece una pausa, poi in tono accorato aggiunse: “Davvero,
signor Donovan, lei mi dica solo dove devo farle arrivare il bonifico
e siamo a posto.”
L’altro aggrottò le
sopracciglia e replicò: “Senta, Nielsen, io non ho tempo, capisce?
Ho soldi, ma non ho tempo e ho scelto lei proprio perché in tutta
St. John i suoi ragazzi sono famosi per come si danno da fare. Ho
bisogno che quei lavori vengano portati a termine entro una certa
data, altrimenti avrò un sacco di problemi.”
Ci fu un lungo silenzio, poi
l’uomo rispose: “Ecco, signor Donovan, credo che proprio non sia
possibile.”
L’imprenditore abbatté il
pugno sulla scrivania come se l’altro fosse stato seduto di fronte
a lui, quindi in tono sempre più duro replicò: “Come sarebbe a
dire che non è possibile? Io l’ho pagata in anticipo, ho comprato
tutto il materiale. Mi sta piantando in asso perché ha trovato
qualcuno che la paga di più, per caso?”
Ci fu di nuovo una sofferta
pausa, infine Nielsen si limitò a rispondere: “Mi dispiace davvero
tanto, signore, ma temo di non poter finire quel lavoro. Mi faccia
sapere dove devo mandarle i soldi.” Aveva uno strano tono cauto,
come se ci fosse qualcosa che in qualche modo lo impensieriva.
“Ehi, aspetti un momento...”
cominciò Donovan, ma gli rispose solo il segnale di linea libera.
Imprecando, chiuse la
comunicazione. “Tenuta del cazzo,” ringhiò fra i denti, “solo
problemi. E la fottuta banca non ci metterà un attimo a riprendersi
indietro tutto, se non sarà pronta in tempo.”
Tornò al monitor, sul quale
stavano ancora scorrendo le immagini di una monumentale villa antica,
immersa in una vegetazione lussureggiante in cui si distinguevano
palme, buganvillee ed enormi frangipani coperti di fiori bianchi e
gialli. Il cielo era di un azzurro perfetto, punteggiato qua e là di
esili nubi candide. All’orizzonte, dietro le alture coperte di
vegetazione, correva la striscia verde e turchese del mare.
Emise un sospiro a metà tra lo
sconsolato e l’infastidito. Una tenuta magnifica, in un posto da
sogno, comprata praticamente per quattro soldi. Acri e acri di
terreno, su cui il progetto prevedeva la realizzazione di due
piscine, campi da tennis e anche un bel campo da golf. Una villa
immensa, a due piani, tutta in pietra, risalente all’epoca della
colonizzazione danese. Varie costruzioni satelliti, nelle quali
avrebbero trovato la loro collocazione bungalow, sale da cerimonia,
palestre e addirittura una spa.
Tutto questo, naturalmente, a
patto che un’impresa edile portasse a termine i primi fondamentali
lavori.
Lanciò un’occhiata velenosa al
telefono, come se dall’altra parte del filo il signor Nielsen
avesse potuto vederla e sentirsi in colpa: arredatori d’interni,
garden designer, camerieri, animatori, istruttori, un maître di
sala, due chef e persino un sommelier parigino erano in attesa di
mettersi in moto, come ruote di un grande ingranaggio, ma se non
partiva la prima delle rotelle, ovvero i lavori in muratura, tutte le
altre erano destinate a rimanere desolatamente ferme.
Si alzò dalla scrivania con un
gesto brusco, spingendo indietro la sedia con tale forza che essa
sbatté contro lo schedario, producendo il rimbombo cavernoso di un
contenitore desolatamente vuoto. Le fottute rotelle dovevano
cominciare a girare, e in fretta anche, perché se no la banca si
sarebbe ripresa tutto il finanziamento che gli aveva mollato, con
tanto di interessi.
Dalla terrazza panoramica del
ristorante, James Donovan lanciò uno sguardo all’oceano, che a
quell’ora cominciava a farsi di un blu-grigio scuro sotto un cielo
color cobalto, quindi tolse l’orchidea ornamentale dal suo Mai Tai
e la lasciò cadere nel portacenere, dove si trovavano già tre
mozziconi di Lucky Strike senza filtro. Fatto questo, imboccò la
cannuccia e sorbì una buona metà del drink.
Lo riappoggiò sul tavolo con una
smorfia di disgusto. “Troppa mandorla,” sentenziò, “sembra di
bere l’orzata di mia nonna.”
L’uomo che sedeva di fronte a
lui bevve un sorso del proprio drink, un Blue Angel che sembrava
uscito dal laboratorio di uno scienziato pazzo, quindi rispose:
“Avresti dovuto fare il barman, invece dell’imprenditore.”
Donovan aggrottò le sopracciglia
e rivolse all’amico uno sguardo torvo. “Che cosa vorresti dire?”
L’altro alzò le spalle. “Non
è che ultimamente ti sia andata molto bene, no?”
Il primo fece un sorrisetto di
superiorità. “Le cose stanno cambiando.”
“Davvero?”
“E se ti dicessi che ho messo
le mani su una tenuta ai Caraibi?”
“Coi prezzi che hanno? È un
investimento che non consiglierei nemmeno a un petroliere arabo.”
Donovan alzò le spalle come se
avesse già sentito quelle obiezioni decine di volte e le
considerasse dalla prima all’ultima prive di valore. Tirò fuori il
telefonino e aprì la galleria delle foto, quindi girò l’apparecchio
con lo schermo verso l’amico. “Guarda qui.”
L’altro emise un fischio di
meraviglia.
“Pagata meno della villetta di
mia zia a Fort Lauderdale.”
“Stai scherzando?”
Donovan scosse la testa e
rispose: “Praticamente regalata. Potevo lasciarmela scappare?
Adesso la sistemo, ci faccio un resort da ricchi e sto ad aspettare
che i soldi mi piovano in mano.” Fece una pausa, poi precisò:
“Bevendo Mai Tai decenti, finalmente.” Rivolse uno sguardo di
disapprovazione al proprio drink e lo finì quasi con l’aria di
fargli un favore, poi spinse lontano il bicchiere vuoto e si accese
una sigaretta.
Si voltò di nuovo verso
l’oceano, che a quel punto era diventato una nera distesa
d’ossidiana, rischiarata qua e là dai riflessi delle luci dei
ristoranti, ed emise un sospiro di soddisfazione. “Basta con le
casette da ristrutturare e gli all you can eat finti giapponesi,”
disse con aria sognante, “questa volta faccio il colpo grosso,
questa volta mi sistemo.”
“Beh, amico, sono contento per
te,” rispose l’altro. Finì a sua volta il drink e alzò il
braccio per chiamare la cameriera. “Spero che mi inviterai a fare
le vacanze là, qualche volta.”
“Puoi scommetterci.”
“Gratis?”
“Certo.” Fece una risatina.
“Dovrai pagarti solo le donne. Quelle non te le passo io,
altrimenti vado in bancarotta.”
A quel punto, squillò il
telefono di Donovan. Ancora immerso in immagini di sogno, questi
accettò la chiamata senza nemmeno preoccuparsi di sapere da chi
provenisse.
“Pronto?” disse in tono
professionale.
Dall’altra parte una profonda
voce maschile, sicuramente di un nero, con l’accento delle isole
chiese: “Il signor James Donovan?”
“Sono io.”
“Ecco… sono Franklin, della
Franklin and Brown. Telefonavo per quella proposta che mi ha fatto
l’altro giorno.”
Donovan annuì. “Certo. Quando
potete cominciare? Non ho molto tempo.”
Ci fu un lungo silenzio, quindi
la voce disse: “Ecco, signor Donovan, veramente chiamavo per dirle
che non possiamo accettare.”
L’imprenditore aggrottò le
sopracciglia. “Cosa? Ma siete l’impresa edile più grande di St.
John o no?”
“Sì, beh… è che ultimamente
abbiamo qualche problema con un lavoro per cui siamo in ritardo.
Pagato in anticipo, capisce? Dobbiamo assolutamente finirlo in tempo
e tutti gli uomini mi servono lì.”
Donovan si guardò intorno
furente, come per sorprendere il responsabile di tutto quanto seduto
a un tavolo del ristorante intento a godersi lo spettacolo. Alla fine
rivolse un’occhiata truce anche sull’amico, che si limitò a
stringersi nelle spalle.
Egli rivolse allora nuovamente
l’attenzione al telefono e in tono inquisitorio minacciò: “Devo
far venire una squadra dal Continente, è questo che vuole?”
Lapidaria, giunse la risposta:
“Le consiglio di farlo, se ha intenzione di fare dei lavori a
Christineberg.”
“Cosa? Ma perché? Io la pago
una volta e mezzo il pattuito, se necessario, la pago il doppio!”
Ci fu una pausa che accese nel
cuore di Donovan una fiammella di speranza, ma subito dopo arrivò
una doccia fredda a estinguerla brutalmente: “No, mi dispiace. Temo
di non poter proprio accettare.”
“Mi può dire il perché,
almeno?”
“Gliel’ho già detto:
dobbiamo portare a termine un lavoro e tutti gli uomini mi servono in
quel cantiere.”
“Ma il lavoro sapeva di doverlo
portare a termine anche quando l’ho chiamata due giorni fa, o se
n’è accorto ieri?”
Seguì un silenzio imbarazzato.
“Allora?”
“Mi dispiace, signor Donovan,
proprio non possiamo.”
La comunicazione si interruppe.
“Ma vaffanculo!” imprecò
l’imprenditore con sentimento, facendo girare qualcuno degli
avventori. “Vaffanculo, mi capita il colpo grosso, le banche mi
mollano i soldi e rischio di perdere tutto perché non trovo degli
stronzi che vogliano andare a fare i lavori là dentro. Li pago il
doppio, gli scarrozzo là tutto il materiale, a momenti gli faccio
anche i pompini, e loro niente! E non si capisce per quale cazzo di
motivo.”
“Qualche tuo concorrente può
averli pagati per metterti i bastoni fra le ruote?” propose
l’amico.
“E che ne so. La tenuta era in
vendita, se qualcuno la voleva poteva anche farsi avanti prima di
me.”
“Magari aspetta che tu te lo
prenda in quel posto per comprarla da te a un prezzo ancora più
basso.”
Donovan strinse i denti e incupì
ulteriormente lo sguardo, quindi ringhiò: “Lo stronzo che mi sta
addosso non potrà mica essersi pagato tutte le imprese edili della
Florida, dico bene?”
La prima cosa che Donovan fece il
mattino dopo fu farsi dare la lista di tutte le ditte di costruzioni
di Miami e scorrerla attentamente. Ne trovò una che apparteneva a un
certo Borowicz e subito visualizzò un tizio grande, grosso e
corpulento, con il casco giallo da cantiere e il doppiometro che gli
spuntava dalla tasca posteriore dei pantaloni.
Compose il numero di telefono
associato al nome.
“Borowicz Costruzioni,”
annunciò semplicemente una voce dall’altra parte del filo.
“Senta, qui è Donovan, della
Donovan Enterprises. Lavorate anche in trasferta?”
“Anche al Polo Nord, basta che
ci mettiamo d’accordo sulla tariffa.”
“Proprio quello che volevo
sentire. Possiamo incontrarci?”
“Venga in cantiere.” Seguì
l’indirizzo.
“Va bene fra un’ora, signor
Borowicz?”
“Mi chiami Len. E ora scusi, ma
ho da fare.”
Donovan chiuse la comunicazione
ed emise un sospiro di sollievo: finalmente un tipo come piaceva a
lui, pragmatico, spiccio e di poche parole. Era stato perfettamente
esplicito: il problema della trasferta era solo il prezzo, niente
giri di parole, niente allusioni, niente silenzi lasciati a penzolare
come calzini stesi per far sì che fosse l’interlocutore a dire le
cose come stavano.
Niente stronzate, per riassumere.
Controllò la posta sul computer
e vide che c’era una mail della banca. Con modalità decisamente
opposte a quelle del signore con cui aveva appena conferito, il
direttore gli chiedeva come stessero procedendo i lavori.
Giusto alla fine, quasi tra un
convenevole e l’altro, saltava fuori la storia del tempo che stava
per scadere. Qualcosa del tipo: nel
malaugurato caso che… ci vedremo costretti a…
Il tutto naturalmente spacciato
come l’Ineluttabile, al quale la banca si sarebbe giocoforza dovuta
piegare.
A mezza voce, Donovan ghignò:
“Stavolta i miei soldi non te li becchi, stronzo.”
Che poi erano i suoi, di soldi, o
per meglio dire della banca, ma in ogni caso adesso servivano a lui e
non aveva la minima intenzione di restituirli.
Si allungò sullo schienale della
sedia malandata, incrociò le braccia dietro la testa e meditò se
nel lasso di tempo che mancava al colloquio con Borowicz avrebbe
fatto in tempo a mandare a prendere caffè e ciambelle dal negozio
all’angolo.
“Prima il dovere,” si impose,
e compose il numero dell’architetto, per portarlo con sé al
cantiere.
Borowicz era un po’ meno peloso
di un orso, ma probabilmente aveva le braccia più grosse e quando
strinse la mano a Donovan gli fece scrocchiare tutte le ossa.
“Di che lavoro si tratta?”
chiese senza preamboli. Si tolse il casco giallo, rivelando capelli
brizzolati rasati quasi a zero.
L’imprenditore si guardò
intorno: erano nel mezzo di un cantiere in piena attività, con
escavatori che rombavano a poca distanza, betoniere che impastavano
cemento, martelli pneumatici che sgretolavano muri e uomini che si
urlavano l’uno con l’altro ordini e indicazioni. “Non c’è un
posto più tranquillo?” chiese.
L’altro lo fissò come se messo
di fronte a un mucchio di neve gli avesse chiesto se per caso non
c’era qualcosa di più bianco, tuttavia disse: “Andiamo nel mio
ufficio.” Senza attendere risposta si incamminò verso una baracca
di prefabbricato collocata un po’ in disparte, accanto a una fila
di cessi chimici di plastica blu e gialla.
Una volta che furono dentro,
Borowicz ripeté: “Allora, di che si tratta?”
Donovan scambiò un’occhiata
con l’architetto, poi rispose: “Ristrutturazioni. Consolidamento
di una costruzione antica, alcune modifiche della planimetria.” Gli
porse il tablet che l’architetto si era portato dietro. “Le
immagini sono tutte qui.”
L’uomo ignorò lo strumento e
chiese: “Antica, quanto?”
“Seconda metà del settecento.”
Borowicz emise una specie di
grugnito di disappunto, poi prese a brontolare: “Muri in sasso,
malta che non tiene più, travi tarlate. Un casino.” Si passò la
mano sulla testa con fare pensoso, quindi chiese: “Dove sarebbe,
questo posto?”
“St. John.”
“Mai sentito. Sarebbe una
specie di convento?”
“No, veramente parlavo
dell’isola di St. John.”
L’uomo aggrottò le
sopracciglia e per qualche secondo sogguardò sia lui che
l’architetto, come temendo uno scherzo di cattivo gusto. Infine in
tono asciutto rispose: “Mai sentita.”
“Isole vergini americane.
Caraibi.”
Borowicz si rimise in testa il
casco e raddrizzò le spalle, quindi incrociò le braccia poderose
sul petto. Si vedeva che era assorto in calcoli. “Le verrà a
costare qualcosa,” sentenziò infine.
Donovan annuì. “Lo so, ma ho
bisogno che il lavoro sia finito prima possibile.”
“E perché non ha contattato
una ditta locale?” Il tono aveva una vaga nota di diffidenza.
L’imprenditore, già ben
disposto dopo la telefonata e ancora più positivamente colpito dai
modi determinati e rudi dell’uomo, aveva pensato sulle prime di
dirgli tutta la verità, ovvero che la sua era la terza impresa che
interpellavano e che le altre due si erano praticamente volatilizzate
senza dare spiegazioni, ma un’occhiata dell’architetto lo
convinse a rispondere: “Vogliamo che il lavoro sia fatto come si
deve, signor Borowicz, lei mi capisce.”
“Le ho già detto che può
chiamarmi Len.”
“Solo che lei mi promette di
chiamarmi James. Allora, accetta?”
“Fammi fare due conti, James.”
Donovan appoggiò premurosamente
il tablet sul piano di una scrivania ingombra di carte e cominciò a
far scorrere le immagini. “Questa è la villa principale, vede?”
disse mostrandogli un enorme edificio nello stile del tardo
settecento, circondato da vegetazione. Seguirono poi foto di edifici
più modesti, alcuni lunghi e stretti, altri a pianta quadrata,
infine uno grande, a più piani. “Questa era la distilleria del
rum,” intervenne l’architetto.
Borowicz lo fissò aggrottando le
sopracciglia.
“Il distillatore a piatti c’è
ancora,” proseguì l’altro, “vorremmo valorizzarlo,
capisce?”
Per tutta risposta, Len si
rivolse all’imprenditore e disse: “James, io sono all’antica.
Fammi avere i progetti su carta e poi torna qui domani, così
possiamo discutere i particolari della faccenda.”
“Pensi di accettare?”
“Se ti andrà bene il prezzo
che ti proporrò, non vedo perché non dovrei. Uomini ne ho a
sufficienza.”
Senza riuscire a trattenere un
sorriso, Donovan rispose: “Senza esagerazione, Len, mi salvi la
vita. Saremo sempre in contatto via videochiamata, se avrai bisogno,
e in ogni caso io verrò a vedere come stanno andando le cose una
volta alla settimana.”
“Ne parliamo domani, James.”
Donovan si allontanò dal
cantiere praticamente fluttuando a mezz’aria. Si accese subito una
sigaretta e per un po’ si limitò a passeggiare con l’aria di chi
ha appena saputo che la risonanza con cui gli avevano diagnosticato
una grave malattia apparteneva in realtà a qualcun altro.
“Stasera andiamo a cena,”
disse all’architetto, in un impeto di amore universale.
Questi lo fissò serio. “Non
preferisci andarci con la tua donna?”
Donovan finì la sigaretta e fece
un gesto sprezzante, che utilizzò per buttare anche il mozzicone,
quindi rispose: “No, macché donna. Abbiamo un sacco di faccende da
discutere, tu ed io.”
“Del tipo?”
L’altro si accese la seconda
sigaretta, aspirò una lunga boccata ed esalando il fumo rispose:
“Faccende di lavoro. La ristrutturazione partirà a breve, dobbiamo
andare sul posto, avviare tutto quanto. Accertarci che il tuo
distillatore non finisca in una discarica come ferro vecchio.”
“Veramente sarebbe di rame.”
“Allora che non finisca
rivenduto a peso.”
Nel frattempo erano arrivati alla
macchina. Donovan fece scattare la sicura, quindi si sedette al posto
di guida e chiese: “Dove ti va di andare? Non giapponese, però,
ormai mi dà la nausea.”
L’architetto alzò le spalle.
“Il pesce crudo va bene per le foche. Devo chiamare anche Austin?”
Al pensiero del gelido
collaboratore, Donovan si rabbuiò. Scosse appena la testa e rispose:
“No, lascia stare. Non penso che darebbe chissà che contributo
alla serata. Lasciamolo a occuparsi dei casini che abbiamo scoperto
nella contabilità della Steakhouse di Rodriguez.” Aspirò di nuovo
dalla sigaretta e mise in moto, quindi, quasi in tono di
giustificazione, soggiunse: “È come il signor Wolf di Pulp
Fiction: risolve problemi, ma con quella sua fottuta mania della
precisione, mi sembrerebbe di essere a cena con un professore che
alla fine mi deve dare il voto.”
“Ok, lasciamolo perdere,
allora.”
§
Il caldo umido dei Caraibi faceva
appiccicare i vestiti alla pelle, il sole scottava. Il cancello di
Christineberg si aprì cigolando sui cardini e rivelò un giardino
ormai incolto, ma ricco di piante cariche di fiori. Vi era uno
spiazzo lastricato un po’ sconnesso, con fili d’erba che
spuntavano tra le pietre, al centro del quale si trovava una fontana
secca, che un rampicante stava pian piano inglobando. Alberi solenni
crescevano tutt’intorno.
Oltre la pavimentazione si ergeva
la monumentale dimora padronale. La facciata bianca, che l’umidità
aveva spruzzato nelle zone più ombrose di muffa grigiastra, era
chiazzata qua e là del porpora acceso delle buganvillee. Gli infissi
conservavano ancora qualcosa della vecchia vernice azzurra.
Vialetti parzialmente invasi
dalle erbacce scomparivano nella vegetazione.
Vi era un silenzio assorto, rotto
soltanto da un vago cinguettare d’uccelli lontano.
“Che te ne pare?” esclamò
Donovan. “È o non è una bellezza?”
Come sua abitudine, Borowicz
incrociò le braccia sul petto e dedicò alla costruzione una lunga
occhiata dal basso verso l’alto. “Sembra solida,” proferì alla
fine.
“Fino a qualche anno fa era un
museo.”
“Un museo? Qui?” L’uomo si
guardò intorno lasciando significativamente scorrere lo sguardo
sulla natura apparentemente incontaminata che li circondava.
“Sì, roba sulle antiche
piantagioni. Sembra di essere in culo al mondo, ma hai visto anche tu
quant’è vicina Cruz Bay: i turisti delle navi da crociera ci
venivano a frotte, qualcuno addirittura anche a piedi, facendo
trekking.”
“Perché adesso non ci vengono
più?”
Donovan alzò le spalle con
noncuranza, quindi rispose: “Il museo ha chiuso.”
Borowicz di nuovo si guardò
intorno, poi si terse con un fazzoletto il sudore che gli stava già
rigando la faccia e domandò: “Perché ha chiuso?”
“E che ne so? Si vede che
nonostante tutto non rendeva.”
“Perché l’hanno svenduta per
due soldi, invece di farci il resort che vuoi fare tu?”
Donovan, che cominciava a
spazientirsi di fronte a tutte quelle domande, in tono sbrigativo
rispose: “Che ti frega, Len? Adesso è mia, e tra sei mesi si
trasformerà in un’autentica miniera d’oro.”
“Non che siano fatti miei,”
proseguì comunque l’uomo, “perlomeno finché mi paghi quanto
abbiamo concordato, ma non è che su questo posto c’è un’ipoteca?”
L’imprenditore fece un
sorrisetto di superiorità e rispose: “Di muratura potrò anche non
sapere niente, ma sono anni che mi occupo di affari. Ho un avvocato,
qui, che ha curato tutta la faccenda per me. La proprietà è a
posto.”
“Hai fatto fare dei rilevamenti
geologici? Magari scopri che te l’hanno praticamente regalata
perché è su un terreno instabile.”
“È tutto a posto, Len. Ho
avuto una botta di culo, tutto qui. Potrò avere una botta di culo
anch’io nella vita, o no?”
Senza attendere risposta, Donovan
si incamminò verso il portone d’ingresso della villa, quindi
trasse di tasca un mazzo di chiavi, ne scelse una e la infilò nella
toppa. La serratura scattò docilmente e l’anta si schiuse. Nello
stesso momento, Borowicz si girò di scatto e disse: “Chi c’è?”
“Dove?” chiese Donovan
guardandosi intorno. “Di chi stai parlando?” Lanciò un’occhiata
ai due furgoni che aspettavano al cancello, ma nessuno degli uomini
di Len sembrava intenzionato ad abbandonare l’aria condizionata in
favore dei cento e passa gradi[1] dell’esterno.
Nel frattempo, l’altro
continuava a gettare tutt’intorno sguardi diffidenti. Dopo un po’,
una specie di pappagallo colorato si levò in volo con uno strido,
facendo sobbalzare i due. “Ah, è quello,” brontolò l’uomo,
seguendo con lo sguardo l’uccello che si allontanava. “Per un
momento mi era quasi sembrato di sentire un canto. Sai, tipo
casalinga che rassetta: hmmm-hmm-hmmm...”
Donovan fece un gesto noncurante
e rispose: “Quei pappagalli del cazzo imitano tutto. Una volta in
un ristorante ce n’era uno che riusciva a fare l’imitazione del
motorino d’avviamento così bene che regolarmente i clienti si
fiondavano fuori convinti che qualcuno gli stesse rubando la
macchina.”
Entrarono nella villa.
Li accolse un atrio ombroso,
fresco rispetto alla calura esterna, illuminato da alti finestroni
velati da lunghe tende chiare. Tutti i mobili erano coperti da teli
bianchi, nell’aria stagnava un odore di chiuso dietro il quale si
coglieva un vago sentore di muffa. Sul pavimento impolverato si
vedevano chiaramente file di impronte che percorrevano in tutti i
sensi il salone.
“Sono le mie, di quando sono
stato qui con l’architetto,” chiarì Donovan, notando lo sguardo
diffidente di Len.
L’uomo si avvicinò a una
parete, la percosse con le nocche, traendone un suono sordo. Si
spostò di qualche passo e ripeté l’operazione: di nuovo un suono
smorzato, che sembrava uscire quasi con fatica.
“Tutti muri pieni,” constatò
Borowicz, “di pietra, spessi almeno due piedi[2]. Non c’è una
crepa.”
“Che vuol dire?”
“Beh, James, che questo posto è
più solido di Fort Knox. Com’è il piano di sopra?”
“Stessa cosa.”
“La bella notizia è che i
lavori di consolidamento si potranno ridurre al minimo, quella brutta
è che con muri del genere, per fare le modifiche alla planimetria
che mi chiedi dovremo cagare lamette da barba di traverso.”
§
Donovan si sedette soddisfatto
davanti al computer e attivò la videochiamata. Sul monitor comparve
la faccia di Borowicz, rigata di sudore e dall’espressione
stranamente cupa.
“Tutto bene, Len?” s’informò
cauto.
L’altro rispose con un grugnito
inintelligibile.
“Qualche problema?” chiese
allora Donovan, augurandosi che la risposta fosse ‘no’, ma certo
in cuor suo che sarebbe stata un desolato ‘sì’.
“Diciamo che i lavori non sono
cominciati nel migliore dei modi,” brontolò Borowicz. “Il
martello pneumatico è andato in corto e ha preso fuoco.”
L’imprenditore rifletté
velocemente: che cosa significava quella frase? Stava cercando di
farsene pagare uno nuovo? Era un modo per alzare la cifra che avevano
concordato? Qualcosa del tipo: guarda in che condizioni ci fai
lavorare, queste cose non erano previste, ci devi dare di più.
“Significa che i lavori sono
fermi?” s’informò cauto.
“Significa che era un martello
pneumatico nuovo, che mi era costato più di duemila dollari, e
adesso è da buttare.”
“Non si può aggiustare?”
“No.”
I due rimasero a guardarsi
attraverso il monitor.
Alla fine, Donovan si risolse a
chiedere: “E quindi?”
Borowicz alzò le spalle. “E
quindi niente, volevo solo farti sapere che ci è capitato questo
incidente, per cui i lavori andranno un po’ a rilento, perlomeno
finché non mi faccio arrivare un altro martello pneumatico.”
L’imprenditore fece un gesto
come per dire che non importava, quindi rispose: “Ok, dai, non
preoccuparti. L’importante è che i lavori sono partiti, poi se hai
bisogno di un paio di giorni in più non mi metterò certo a starti
col fiato sul collo.”
“Ho visto che il frigo
funziona, James, ti scoccia se aggiungiamo al totale qualche birra?”
“Assolutamente no.”
§
La suoneria del cellulare fece
quasi sussultare Donovan e suscitò una smorfia di disappunto sul
volto della sua accompagnatrice.
L’imprenditore, che finalmente
era riuscito nell’impresa di accaparrarsi un tavolo per due in uno
dei ristoranti più esclusivi della costa e portarci la sua amante,
fu tentato di prendere il telefonino e buttarlo a mare, poi si
accorse che quella in arrivo era una videochiamata di Borowicz.
“Scusa cara,” disse
sbrigativo, quindi sgattaiolò via dalla terrazza panoramica.
Quando fu a distanza di
sicurezza, accettò la chiamata. Len aveva la faccia di chi si è
appena visto arrivare in ditta un’ispezione del fisco. Alle sue
spalle c’era una parete di mattonelle bianche, dall’alto
proveniva il chiarore freddo di luci al neon. Passò un tizio vestito
di verde, con una mascherina che gli copriva la metà inferiore della
faccia.
“Ma dove cazzo sei?” chiese
Donovan.
“All’ospedale. Bobby si è
fatto un brutto taglio. Per fortuna che è successo al di fuori
dell’orario di lavoro, altrimenti sarebbe stato un casino.”
“Come ha fatto?”
L’altro scosse la testa. “Hai
presente le birre? Ecco, una lattina è praticamente esplosa e l’ha
tagliato fino all’osso.”
“Esplosa? Che cazzo significa
che è esplosa?”
Borowicz aggrottò le
sopracciglia e in tono duro replicò: “Senti, è scoppiata, ok? Si
è aperta in due come una fottuta anguria e visto che Bobby ce
l’aveva in mano, gli si è praticamente piantata nel braccio.”
“Non è che l’aveva messa in
freezer, per caso?”
“Macché freezer! I miei
ragazzi non sono mica dei cretini. Io dico che...”
In quel momento, alle spalle di
Len una voce chiese: “Il signore del cantiere?”
L’uomo si girò. “Qui!”
Poi, rivolto al telefonino: “Scusa, James, devo lasciarti. Ti terrò
informato.”
Lo schermo si fece nero.
Donovan rimase a guardare il
telefonino inerte per qualche secondo, poi se lo rimise in tasca e
tornò al tavolo. “Scusami, cara,” disse, assorto in pensieri
tutt’altro che piacevoli.
“Oh, non fa niente,” rispose
lei, con il tipico tono che significava esattamente l’opposto.
§
La terza telefonata arrivò nel
cuore della notte. “James, qui è un casino!” esordì Borowicz.
Donovan notò che aveva una voce concitata, tesa, decisamente diversa
da quella profonda e sicura che ricordava. Il suo atteggiamento, che
normalmente gli conferiva la pacatezza di chi è consapevole di avere
ogni situazione saldamente in mano, era stranamente guardingo.
L’uomo si trovava davanti alla
casa padronale, nel cerchio di luce di un lampione. In sottofondo si
udivano il rumore dei furgoni in moto e il tramestio di attrezzature
buttate alla rinfusa nei cassoni. L’alogeno sotto il quale sostava
Borowicz ebbe un’oscillazione ed egli alzò gli occhi in quella
direzione, fissando il faro come se da un momento all’altro avesse
potuto staccarsi e cadergli in testa.
“È un casino,” ripeté,
tergendosi la fronte madida “Qui c’è qualcosa, James.”
Donovan aggrottò le
sopracciglia. “In che senso, qualcosa?”
“Non lo so,” rispose rapido
Borowicz. “Qualcosa, qualcuno. Qui succedono cose che non hanno
spiegazione.” Si voltò da una parte e a voce più alta disse:
“Forza con quella roba, voialtri!”
L’imprenditore si sentì come
un condannato all’impiccagione che vede il boia afferrare la leva
della botola. “Aspetta!” boccheggiò. “Aspetta un attimo,
almeno. Noi avevamo un accordo, se te ne vai adesso mi rovini!”
Len scosse la testa. “Niente di
personale, amico, ma qui dentro non ci rimango un minuto in più del
necessario. Per quello che siamo riusciti a fare puoi farmi avere il
bonifico direttamente sul mio conto, io di questa roba non voglio più
sapere niente.”
Da fuori campo provenne una voce:
“Capo, siamo pronti!”
Donovan strinse il telefonino
così forte che la mano gli rimandò una fitta di dolore, quindi,
parlando più in fretta che poteva, disse: “Aspetta un attimo,
cazzo. Un fottuto attimo me lo potrai concedere, no?” Fissò negli
occhi Len, poi più lentamente, aggiunse: “Mi stai rovinando, per
colpa tua la banca mi ritirerà il finanziamento. Direi che quel
cazzo di attimo me lo devi, no?”
“Sputa il rospo,” brontolò
Borowicz.
“Beh, almeno dimmi cosa sono
queste cose che non si spiegano, no? Fammi capire che cazzo sta
succedendo.”
L’altro gli rivolse un ghigno
che avrebbe voluto essere sarcastico, ma sembrava piuttosto un rictus
tetanico. Per tutta risposta disse: “Io te l’avevo detto che in
questo posto c’era qualcosa che non andava. Te l’avevo detto, ma
tu niente: è l’affare della vita, mi sistemo. Ti sistemi al
cimitero, se non lasci perdere questa baracca maledetta prima di
subito.”
Sullo stesso tono, Donovan
replicò: “Puoi essere più chiaro? Così saprò cosa dire ai miei
avvocati, quando li manderò a strapparti la pelle del culo.”
L’altro scosse la testa. “Non
provarci, amico. Tu non mi hai detto che già due imprese avevano
rifiutato il lavoro, quindi al massimo saranno i miei avvocati che ti
si inculeranno con dei cactus.”
L’imprenditore abbassò
immediatamente la cresta che aveva con tanto vigore alzato: data la
situazione, una rogna legale era l’ultima cosa che gli serviva. In
tono decisamente più conciliante ripeté: “Dimmi cos’è
successo.”
“Una voce di donna che canta,
porte che si aprono da sole, oggetti spostati all’interno di stanze
chiuse a chiave. In certi punti viene così freddo che i vetri si
ghiacciano e agli uomini vengono i brividi come se avessero la
febbre, luci che si accendono e si spengono da sole, incidenti
inspiegabili, pareti che il giorno prima sono intatte e il giorno
dopo sono coperte di graffiti dal pavimento al soffitto. Ti faccio
notare che parliamo di muri alti dodici piedi, senza nemmeno una
sedia a disposizione.”
“Che genere di graffiti?”
“Che ne so? Sembrano dei
graffi.” Borowicz si voltò verso il portone della villa, come se
esso fosse sul punto di spalancarsi e lasciar uscire qualcosa di
terribile, quindi frettolosamente disse: “Io e i ragazzi non
restiamo qui un minuto di più, James, e se sei intelligente non ci
metti mai più piede neanche tu.”
“Aspetta! Saranno dei balordi,
della gente in vena di scherzi! Ti fai spaventare da un branco di
idioti che vogliono divertirsi alle tue spalle?”
Len scosse la testa. “Questi
non sono scherzi,” asserì categorico. “Queste sono cose che non
hanno spiegazione logica. In vent’anni di lavoro io non ho mai
visto niente del genere, e non voglio mai più rivederlo.”
“Len, aspetta! Aspetta, ti pago
il doppio, ti...”
La comunicazione si interruppe.
“Merda!” imprecò Donovan con
sentimento. Si trattenne dal buttare il telefonino contro un muro
solo perché l’aveva appena comprato e gli era costato una fortuna.
“Merda,” ripeté a voce più bassa.
Dalla stanza attigua provenne una
voce femminile: “Hai detto qualcosa, caro?”
Meccanicamente, l’uomo rispose:
“No, tesoro, torna pure a dormire.” Si alzò e si infilò la
vestaglia di seta col drago sulla schiena, poi aprì la porta
finestra della camera e si spostò sul terrazzo. Spirava una brezza
leggera, che faceva ondeggiare appena il bucato che sua moglie aveva
steso in un angolo. Se aguzzava la vista, riusciva a scorgere in
fondo alla strada l’ultimo ristorante finto giapponese che aveva
avviato. L’insegna gialla e rossa, con ideogrammi scelti a caso,
era inconfondibile.
Emise un sospiro. Gli all you can
eat pseudo-giapponesi erano facili, praticamente bastava assumere due
o tre tizi con gli occhi a mandorla, decorare una sala con dei bambù
e della roba vagamente minimal chic, tagliare a fette del pesce crudo
e il gioco era fatto. Chiaramente rendevano in proporzione alla
fatica fatta per avviarli, ovvero quasi niente, e la concorrenza dei
cinesi era spietata.
Poi gli era capitata sottomano
quella tenuta alle Isole Vergini. Praticamente si era sentito come se
Dio avesse voluto ripagarlo di tutti gli anni che aveva passato a
contendersi ventagli fiorati e filetti di salmone con frotte di musi
gialli inveleniti.
Quello era il colpo grosso, era
il jackpot nel più grande casinò di Las Vegas. Era il miracolo: una
tenuta da divo di Hollywood costata poco più di una villetta a
schiera, potenzialmente in grado di decuplicare, anzi centuplicare il
suo valore nell’arco di cinque anni.
E poi, miracolo sul miracolo, la
banca gli aveva concesso un finanziamento per avviare l’attività.
A tempo, certo, ma non era il caso di andare troppo per il sottile.
Il mucchio di soldi comunque era arrivato.
Peccato che ormai il tempo stesse
per scadere, e il mucchio di soldi rischiasse di volatilizzarsi con
la stessa facilità con cui era arrivato.
Si appoggiò al parapetto, di
nuovo cercò con lo sguardo l’all you can eat con l’insegna
gialla e rossa. Dopo che l’ebbe individuata restò per un po’ a
contemplarla, poi tornò sui suoi passi e raggiunse nuovamente il
letto.
Con una sorta di perfido sesto
senso, il mattino dopo lo chiamò la banca, nella persona di una
stretta collaboratrice del direttore.
Fu un formale scambio di
convenevoli, più che altro, ma quando la comunicazione si chiuse,
l’uomo fu certo di una cosa: il suo tempo stava per scadere.
Fece un rapido calcolo: i suoi
soldi li aveva spesi tutti per comprare la tenuta. Di quelli che gli
aveva dato la banca, una parte se n’era già andata per pagare il
materiale, gli arredi e il lavoro di Borowicz. Il che significava che
per restituire il prestito alla banca avrebbe dovuto chiedere un
altro prestito a una seconda banca, ammesso che qualcuna glielo
concedesse, oppure vendersi la casa.
O magari anche rivendersi la
tenuta, se trovava qualcuno più allocco di lui a cui rifilarla.
Gli venne in mente un vecchio
film in cui un tizio comprava un demonio chiuso in una bottiglia e
poteva disfarsene solo rivendendolo a un prezzo minore di quello a
cui l’aveva comprato, solo che ormai la bottiglia era già stata
comprata e venduta così tante volte che la moneta più piccola in
corso nel suo paese era già troppo…
Emise un sospiro, quindi scorse
la rubrica del suo telefono e si fermò su un nominativo che
recitava: ‘Austin – Problemi.’
Fece partire la chiamata.
[1] Gradi Fahrenheit, visto che
stiamo parlando di americani. Corrispondono a circa 37,5 gradi Celsius.
[2] Un piede corrisponde a circa
30 cm.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Salve gente, secondo capitolo
della storia di fantasmi. Grazie a tutti coloro che mi seguono, un
ringraziamento particolare a chi mi ha lasciato il suo parere^^
Capitolo
2
Il
telefono interno squillò, Donovan premette il viva voce e disse:
“Sì?”
La
segretaria annunciò: “Signor Donovan, è arrivato il signor
Austin.”
L’imprenditore
guardò l’orologio: le cifre sul display passarono da nove e
cinquantanove a dieci in punto. “Faccia passare, prego.”
Meccanicamente
si aggiustò il nodo della cravatta e si raddrizzò sulla sedia.
Avrebbe voluto anche allineare le carte e le penne sulla scrivania,
ma la porta che si apriva lo bloccò prima che potesse decorosamente
riordinarle.
Sulla
soglia comparve un uomo che poteva avere trent’anni portati male o
quaranta portati ottimamente: lineamenti regolari, volto liscio,
fisico asciutto, capelli castani senza alcuna venatura di grigio.
L’espressione era neutra al pari del resto.
Portava
un impeccabile completo blu, con cravatta in tinta.
“Buon
giorno, signor Donovan,” salutò, senza mutare l’espressione. Lo
sguardo percorse la scrivania come uno scanner e l’imprenditore si
sentì pervadere da una vaga sensazione di disagio. “Venga avanti,
signor Austin,” disse comunque, “si sieda.”
Il
nuovo arrivato raggiunse con passo misurato le poltroncine che si
trovavano di fronte alla scrivania, si accomodò su una di esse e
rimase a fissarlo in silenzio.
“Immagino
si chiederà perché l’ho fatta chiamare,” cominciò Donovan.
Non
ci fu risposta. Austin si limitò a fissarlo serio, senza nemmeno
un'alzata di sopracciglio per dimostrare interesse.
L'imprenditore
si schiarì la gola, quindi chiese: “Come sta andando con la
Steakhouse di Rodriguez?”
L’altro rimase impassibile,
tuttavia a Donovan parve di cogliere nel suo tono una vaga ombra di
critica quando rispose: “Ho finito l’altro ieri, signore. Le ho
già mandato il rapporto via mail.”
“Ha
fatto presto,” rispose l’imprenditore, che aveva visto la
comunicazione ma colpevolmente non l’aveva nemmeno aperta.
L’uomo
spiegò: “Ho lavorato anche di notte.”
“Capisco.”
Dopo qualche secondo di silenzio, Donovan si sentì in dovere di
chiarire: “Non sarebbe obbligato a farlo, signor Austin, anche
perché non credo che la ditta al momento sia in grado di pagarle gli
straordinari.”
“Non
mi interessano gli straordinari, signore. Mi interessa che il lavoro
sia portato a termine in modo corretto e nel più breve tempo
possibile.”
L’imprenditore
non replicò. Si era chiesto spesso se quel misterioso individuo,
assunto come contabile ma in pratica usato poi per qualsiasi compito
richiedesse un bulldog in grado di azzannare un osso e non mollarlo
più, fosse un autistico, un serial killer o semplicemente un
workaholic[1] che pian piano si era fottuto la vita e la famiglia in
favore del lavoro.
“Lei
è molto zelante,” si limitò a dirgli.
La
constatazione lasciò l’altro impassibile. “Faccio solo il mio
dovere, signor Donovan.”
Sotto
lo sguardo immobile del suo collaboratore, l’imprenditore si trovò
a sistemarsi per la seconda volta il nodo della cravatta. Infine gli
chiese: “Lei è al corrente dei nostri investimenti sull’isola di
St. John, signor Austin?”
“Sì,
signor Donovan.”
“Sa
anche che attualmente ci sta causando non pochi problemi?”
“Sì.”
“E
come fa a saperlo?”
Laconica
e vagamente sibillina, giunse la risposta: “Preferisco tenermi
informato su ogni investimento della ditta.”
L’imprenditore
rievocò fugacemente l’insegna gialla e rossa dell’ultimo all you
can eat che aveva avviato e si chiese se Austin sapesse anche che
aveva scelto gli ideogrammi per decorarla a caso, copiandoli da una
confezione di biscotti della fortuna. “Beh, allora si sarà reso
conto che niente sta andando per il suo verso, con quella maledetta
tenuta,” brontolò.
“L’ho
notato, signor Donovan.” All’imprenditore parve di cogliere di
nuovo una vaga eco del velato tono di critica di poco prima, come a
dire: se lei mi avesse interpellato prima, non saremmo arrivati a
questo punto.
“Perfetto,”
rispose l’altro, “ora le dirò qualcosa che forse non sa ancora,
signor Austin: il rifiuto da parte di tre diverse imprese di
occuparsi dei lavori di consolidamento della tenuta non ha avuto in
nessuno dei casi motivazioni razionali. L’ultimo, Borowicz, si è
addirittura sbilanciato a tirare in ballo fenomeni soprannaturali,
come fantasmi o cose del genere. Lei che ne pensa?”
“Che
tali manifestazioni vengono invariabilmente spiegate con facilità da
un buon illusionista. A tutt’oggi, non esistono cosiddetti fenomeni
paranormali di cui vi sia evidenza scientifica.” Fece una breve
pausa, quindi soggiunse: “Ammettendo che non le abbia
consapevolmente mentito, ritengo che il signor Borowicz abbia
interpretato come manifestazioni soprannaturali atti in realtà
compiuti da sabotatori.”
“Non
avrebbe avuto motivi per mentirmi, inoltre non mi è sembrato un tipo
particolarmente credulone,” obiettò Donovan. “Mi ha parlato di
incidenti inspiegabili.” Tirò fuori di tasca il telefonino, quindi
lo girò col display verso Austin e aggiunse: “Mi ha mandato
questo.”
Si
trattava di una fotografia che mostrava un muro coperto di segni dal
pavimento all’alto soffitto. Le linee sembravano essere state
tracciate con uno strumento acuminato e pesante, e in alcuni punti
erano giunte così in profondità da arrivare ai mattoni e incidere
anche quelli. Il color ruggine vivo della terracotta scheggiata
spiccava come sangue nel fondo di quei solchi.
Austin
si piegò appena in avanti per osservare meglio l’immagine, poi
chiese: “Questo sarebbe il risultato dell’attività
soprannaturale?”
“Borowicz
mi ha detto che la sera prima avevano appena finito di intonacarlo e
il mattino dopo hanno trovato questo. Nessuno è entrato nella
stanza.”
“Potremmo
più correttamente dire che non hanno visto nessuno entrare, signor
Donovan.”
L’altro
si raddrizzò sulla sedia e fece nuovamente scivolare in tasca il
telefonino. Fissò il suo collaboratore, che al solito gli rimandò
uno sguardo perfettamente neutro. “Nemmeno io credo ai fantasmi,”
affermò poi irrigidendo la schiena, “o perlomeno credo che una
banca in vena di riscuotere i crediti sia molto più pericolosa.
Voglio che lei vada laggiù e scopra chi è che ci sta mettendo i
bastoni fra le ruote.”
Austin
accolse la notizia con la compostezza di un monaco zen. “Va bene,
signor Donovan. Quando devo partire?”
“Prima
possibile. Prenda con sé chi vuole e vada laggiù a vedere cosa sta
succedendo. La Donovan Enterprises sta rischiando il fallimento per
colpa di quella maledetta tenuta.”
§
Austin
scese dall’aliscafo e si guardò intorno: il molo al quale il
natante aveva attraccato conduceva a un piccolo spiazzo circondato da
file di bancarelle. Dal fatto che fossero vuote e coperte perlopiù
da teli di plastica trasparente, egli dedusse che per quel giorno non
era in programma l’arrivo di navi da crociera. Qualche indigeno
sostava al limite della spianata con cartelli su cui erano scritti
nomi in varie lingue, altri esibivano dépliant di alberghi o
proponevano escursioni di ogni genere.
Un
venditore di souvenir si aggirava tra i turisti proponendo collane di
fiori come alle Hawaii, cappelli di paglia dalla tesa sfrangiata o
fenicotteri rosa gonfiabili.
L’uomo
oltrepassò la piccola folla e rifiutò con un cenno l’offerta di
un taxi, quindi trasse di tasca una mappa della cittadina e la studiò
per qualche secondo, incurante del sole a picco. Successivamente
prese il voucher di un autonoleggio, individuò sulla cartina la sua
posizione, rialzò la testa e fece scorrere lo sguardo sui palazzi
che lo circondavano fino a che non ne ebbe localizzato l’insegna. A
quel punto, rimise via le carte, si sistemò meglio il Panama bianco,
si accertò che i revers della giacca di lino chiaro fossero a posto
e si mosse in quella direzione.
L’ufficio
era grande a sufficienza per ospitare una scrivania, uno schedario e
un paio di sedie. Alle pareti vi era qualche pubblicità che mostrava
le auto della compagnia nei luoghi più suggestivi della terra. Un
condizionatore cigolante cercava di contrastare la calura esterna.
L’apertura
della porta azionò un campanello. A quel suono, una tenda che si
trovava dietro la scrivania si scostò e una ragazza vestita con una
divisa gialla e nera gli si fece incontro. Prima che la tenda si
richiudesse, Austin fece in tempo a vedere un tavolino con sopra una
macchina del caffè.
“Buon
giorno,” lo salutò l’impiegata, “sono Liza, cosa posso fare
per lei?”
Austin
salutò a sua volta, quindi le porse il voucher.
La
ragazza digitò qualcosa sul computer, quindi disse: “Vedo che ha
noleggiato un’auto per due settimane. Intende visitare l’isola?”
“Mi
piace essere autonomo negli spostamenti.”
“Andrà
in spiaggia?”
“Non
penso ne avrò il tempo. Sono qui per svolgere alcune ricerche.”
Liza
sollevò le sopracciglia e disse: “Oh, capisco.”
Austin
non rispose. Era evidente che la sua interlocutrice avrebbe voluto
sapere di più, ma il suo contegno riservato la intimidiva. “Posso
avere l’auto?” le chiese.
“Oh,
ma certo! Certamente, mi scusi.” Ella aprì un cassetto e ne trasse
un mazzo di chiavi, poi gli fece cenno di seguirla. Gli mostrò la
macchina, gli aprì il bagagliaio in modo che lui potesse sistemarci
dentro il suo trolley poi, mentre Austin stava per sedersi al posto
di guida, raccolse il coraggio a due mani e gli chiese: “Si occupa
di natura?”
Egli
si voltò a fissarla. “Prego?”
“Ecco…
di solito qui arrivano solo turisti, non capita spesso che venga un
ricercatore, quindi pensavo che volesse studiare il nostro parco
nazionale.”
Allacciandosi
la cintura di sicurezza, Austin rispose: “No, svolgerò delle
ricerche a Christineberg.”
Il
volto di Liza sembrò di colpo illuminarsi. “Allora lei è un
esperto di soprannaturale?” gli chiese. “È venuto per studiare
il fantasma?”
L’uomo
mise in moto. “I fantasmi non esistono, signorina. E ora, se vuole
scusarmi...” Innestò la retromarcia.
“Stia
attento!” gli gridò dietro Liza, guardandolo allontanarsi quasi
con nostalgia.
Austin
oltrepassò il cartello che indicava l’inizio del parco nazionale.
Aveva impostato il tragitto sul navigatore satellitare e
l’apparecchio gli dava un quattordici minuti e ventisette secondi
all’obiettivo.
Osservò
il paesaggio: abbandonata la costa, la macchina correva lungo una
strada che serpeggiava in salita, costeggiata da muri compatti di
banani, manghi, frangipani e piante di ibisco coperte di fiori
scarlatti. Di tanto in tanto la vegetazione si interrompeva e si
intravedevano sontuose ville, perlopiù in posizione panoramica e
corredate di piscine.
Incrociò
un cartello storto, piuttosto danneggiato dalle intemperie, che
diceva: Museo della Schiavitù Christineberg, dieci miglia.
Controllò
di non avere nessuno dietro, si fermò, innestò la retromarcia e si
portò di nuovo accanto al cartello: aveva letto bene, c’era
proprio scritto Museo della Schiavitù. In alto, al centro, c’era
una specie di stemma nel quale si vedeva un braccio con una catena
spezzata al polso, e sotto l’immagine la dicitura: Associazione
Culturale Radici di St. John.
Col
cellulare scattò una foto al consunto avviso, quindi si rimise in
marcia.
Poco
dopo notò che l’asfalto sembrava essersi fatto meno liscio, mentre
sul manto stradale comparivano qua e là sassolini e foglie. Di nuovo
si guardò intorno e notò che anche gli scorci sulle ville si erano
fatti più rari. Ne vide una in lontananza, ma gli parve che avesse
tutte le finestre chiuse e la piscina coperta da un telo di plastica.
Vide
un altro cartello, stavolta così rovinato che ne riconobbe il tema
solo grazie ai colori sbiaditi e allo stemma. Una scritta quasi
cancellata dalla salsedine diceva: Museo della Schiavitù, mezzo
miglio.
Raggiunse
finalmente il cancello di Christineberg. Scese dalla macchina, lo
spalancò e ai suoi occhi si offrì la stessa immagine che il signor
Donovan gli aveva mostrato: uno spiazzo lastricato con una fontana al
centro, la villa padronale, gli edifici ai lati, la vegetazione
lussureggiante.
Considerò
fra sé e sé che quando un cane randagio ha la fortuna di trovare
nei rifiuti un osso con attaccate due libbre di carne, deve per prima
cosa guardarsi dagli altri cani che glielo vogliono portare via.
Fuori
di metafora, gli parve logico che Donovan, una volta acquisita una
tenuta del genere, dovesse per prima cosa difendersi da chi avrebbe
cercato di soffiargliela.
Parcheggiò
la macchina, richiuse il cancello ed entrò nella villa. Si guardò
intorno: penombra, non un rumore, odore di chiuso e fiori appassiti.
La temperatura era fresca, addirittura fredda rispetto all’esterno.
Attraversò
l’atrio, raggiunse l’uscita posteriore e con qualche fatica a
causa dei catenacci arrugginiti la aprì. Si trovò su un secondo
spiazzo lastricato circondato da costruzioni. Sulla base della
planimetria che aveva consultato, riconobbe le stalle, il forno e la
distilleria. Notò da una parte un mucchio di detriti: esso era
composto principalmente da calcinacci, ma vi si notavano anche
rifiuti di altro genere, fra i quali estrasse cartelli sbiaditi che
avevano gli stessi colori di quelli che aveva trovato lungo la strada
per la tenuta.
La
prima tavola recitava: ‘Laboratorio’. Un testo esplicativo
menzionava esperimenti condotti su cavie umane scelte tra gli
schiavi. Vi erano alcune immagini, delle quali però ormai non si
vedeva più nulla.
Austin
lo lasciò cadere e ne raccolse un altro: ‘Fruste e Catene’.
Secondo la didascalia, gli schiavi disobbedienti – si specificava
che anche non salutare nel modo corretto la padrona della tenuta era
considerata una disobbedienza – venivano in quel luogo sottoposti a
terribili sevizie. Anche lì c’erano fotografie sgranate ormai
ridotte a vaghe macchie di grigio e nero.
Il
terzo cartello diceva: ‘Prigione’. Un quarto era un pannello
esplicativo sull’attività della piantagione, nel quale veniva
principalmente descritta la vita degli schiavi. Austin lesse con
attenzione, aggrottando appena le sopracciglia quando incontrava
parole che le intemperie avevano reso incomprensibili.
Alla
fine abbandonò anche quel cartello e si diresse verso la
distilleria. Nella porta erano stati praticati due fori e tra essi
era stata passata una catena chiusa da un lucchetto. Nel mazzo di
chiavi che il signor Donovan gli aveva consegnato, Austin trovò
quella che lo apriva.
Spinse
poi l’anta, che cedette cigolando, e diede un’occhiata
all’ambiente: apparecchi per la spremitura della canna da zucchero,
vasche per far fermentare il succo. Contro la parete, in una
rientranza costruita apposta, torreggiava un alto distillatore a
colonna annerito dagli anni. Non c’erano arredi, a parte le
vestigia di quelli che Austin identificò come allestimenti del
museo. In un angolo notò un manichino impolverato che rappresentava un
nero vestito di stracci e con le catene ai piedi.
Attaccato
al muro c’era un pannello che descriveva le fasi della produzione
del rum. La procedura in sé era ridotta all’osso, mentre vi erano
particolareggiate descrizioni del lavoro che veniva imposto agli
schiavi, con specifica attenzione alle punizioni che attendevano chi
tentava di ribellarsi.
Tutti
gli edifici erano strutturati allo stesso modo: vi erano resti di
arredi museali che riproducevano aspetti della vita quotidiana della
tenuta, ma soprattutto gli allestimenti vertevano su come venivano
trattati gli schiavi.
Austin
tornò in cortile. Trasse di tasca un portasigari in cuoio chiaro,
prese un Virginia Superior, tirò via il filo di sparto che lo
attraversava e poi se lo accese. Per un po’ rimase seduto all’ombra
esalando lente boccate di fumo e facendo frattanto vagare lo sguardo
su quel mirabile esempio di architettura coloniale di fine
settecento.
Attirò
la sua attenzione una specie di gazebo un po’ discosto dalle altre
costruzioni della proprietà, sicuramente posteriore rispetto al
resto degli edifici, situato al limite della vegetazione ad alto
fusto e ormai quasi completamente coperto di rampicanti.
La
struttura – qualcosa a metà fra un luogo di svago e un edificio
sacro – lo incuriosì a tal punto che abbandonò il suo sedile e vi
si diresse.
Raggiunse
così una piccola struttura ottagonale, al centro della quale si
trovava una tomba. Sulla parete opposta alla porta vi era un altare,
gli altri muri erano alti poco più di un metro, tanto che il tetto
si reggeva solo su esili colonne.
Si
chinò sulla lapide: Ingeborg Barrow nata Olafsson, 1752 – 1847.
Per
terra c’erano i resti di un allestimento fotografico. Austin si
chinò a osservarli incuriosito, perché a parte gli effetti delle
intemperie, sembrava che qualcuno avesse tentato di appiccarvi il
fuoco, o di distruggere i pannelli graffiandoli con qualcosa di
acuminato. Su una delle poche tavole non del tutto rovinate si poteva
ancora leggere: ‘Ingeborg Barrow, la crudele padrona di
Christineberg’.
Cercò
un altro po’ fra le tavole, ma a parte il logo dell’associazione
storica non riuscì a distinguere altro.
In
quel momento, si udì uno squillo. Austin estrasse dalla tasca il
cellulare e controllò il display: Donovan.
“Pronto?”
disse.
“A
che punto siamo?”
“Sto
ultimando il sopralluogo, signor Donovan.”
“Ha
trovato qualcosa?”
“Niente
di rilevante, per ora.”
Ci
fu una pausa, poi Donovan in tono cupo disse: “È inutile che le
faccia presente che non abbiamo molto tempo, vero?”
La
voce di Austin non variò minimamente di tono. “Ne sono
consapevole.”
“So
che lei è un tipo meticoloso, ma non stia a controllare anche le
virgole. Basta che scopra chi è che ci sta mettendo i bastoni fra le
ruote, al resto penserò io.”
“Potrebbe
non essere così semplice, signor Donovan,” lo avvertì Austin. “In
ogni caso, domani andrò a parlare con l'avvocato Keynes.”
“Secondo
lei c'è qualcuno nascosto nella proprietà? Io mi gioco le palle che
c'è della gente imbucata da qualche parte, che salta fuori di notte
per fare danni e gli imbecilli li scambiano per fantasmi.”
Austin
annuì. “È anche la mia teoria, signor Donovan, tanto più che
stando a quel che ho sentito pare ci siano veramente credenze del
genere su questa villa.”
“Beh,
ma di certo non possono fregare lei, con dei trucchi così stupidi,
non è vero?” La voce aveva un tono vagamente speranzoso.
“Farò
delle indagini,” rispose Austin laconico, quindi aggiunse: “E
ora, se vuole scusarmi...”
Si
scambiarono qualche formale saluto, quindi l'uomo chiuse la
comunicazione e ripose il cellulare. Tornò al sigaro e ne aspirò
una lenta boccata, quindi alzò gli occhi al cielo, constatando che
il sole era ormai vicino all'orizzonte.
Si
voltò di nuovo verso la villa, la cui ombra lunga dilagava sul
cortile, e gli parve di notare un movimento in una delle finestre del
piano superiore.
Puntò
lo sguardo in quella direzione, ma notò solo una tenda che
ondeggiava nella brezza serale.
Alzò
le spalle ed entrò nell'edificio ormai immerso nella penombra. Fece
scorrere la mano lungo la parete finché non trovò un interruttore e
lo fece scattare, accendendo un'applique di vetro opalino. Chiuse poi
con cura la porta dietro di sé e tirò tutti i catenacci.
Girò
un po' per l'edificio, accertandosi che tutte le porte e le finestre
fossero debitamente sbarrate.
Osservò
quello che c'era nelle varie stanze. Sotto i teli bianchi che
coprivano ogni cosa, l'arredamento aveva un aspetto addirittura
opulento, ma a ben guardare era più vistoso che pregiato. Alcuni
mobili gli parvero posteriori al periodo della villa, ed egli pensò
che fossero stati portati lì in seguito, sempre per necessità di
allestimento museale: dappertutto infatti c'erano pannelli
esplicativi che descrivevano la vita dissoluta e spendacciona dei
padroni di Christineberg.
Al
piano di sopra, una passatoia di cocco suggeriva il percorso di
un'ipotetica visita. Austin si affacciò su varie camere, trovandole
tutte vuote, con le finestre sbarrate e i mobili coperti da teli
bianchi. La polvere sul pavimento faceva capire che nessuno ci
entrava da anni.
Individuò
la stanza dalla finestra aperta solo perché nel buio dell'ambiente
essa risaltava come un rettangolo leggermente più chiaro.
Accese
la luce per andare a chiuderla e le sopracciglia gli si sollevarono
per lo stupore: una delle pareti era completamente deturpata. I segni
erano simili a quelli della foto che il signor Donovan gli aveva
mostrato e sembravano sgraffi rabbiosi, come di qualcuno in preda
all'ira e bisognoso di sfogarsi. Istintivamente si guardò intorno
alla ricerca di qualche indizio di presenza umana, ma a una seconda
occhiata si accorse che il velo di polvere che copriva il pavimento
era perfettamente intatto: quei segni dovevano essere lì da chissà
quanto.
Li
fotografò comunque col cellulare, quindi andò a chiudere la
finestra.
§
Austin
passò il resto della sera a togliere le cicche e le lattine che gli
uomini del signor Borowicz avevano lasciato nella stanza da letto.
Successivamente consumò la cena che si era portato dietro, stese il
sacco a pelo e andò a dormire.
Riaprì
gli occhi alle prime luci dell'alba e si guardò intorno. A parte
l'impressione che qualcuno avesse ogni tanto cantato da qualche parte
– impressione che invariabilmente non aveva mai trovato conferma a
un ascolto più accurato – la notte era trascorsa sostanzialmente
tranquilla.
L'uomo
si alzò e per prima cosa andò in bagno, dove si lavò e si rase
accuratamente. Quando uscì, la sua attenzione venne attirata da una
strana corrente d'aria.
Egli
subito aggrottò le sopracciglia e si guardò intorno per
individuarne la provenienza. Fu a quel punto che udì una finestra
sbattere al piano superiore.
Vi
si diresse rapidamente e quando fu in cima alle scale si accorse che
la finestra era la stessa che aveva chiuso la sera prima. In quel
momento era aperta e la brezza faceva volare le tendine e sbattere le
ante contro la parete.
Austin
rimase per qualche istante fermo sulla soglia a osservarla. Di due
cose era sicuro: che la sera prima l'aveva chiusa accuratamente e che
il meccanismo di chiusura non aveva difetti, dal momento che l'aveva
controllato.
D'istinto
si voltò verso la parete coperta di segni e gli parve che essi
fossero aumentati. Tornò a fissare la finestra, calcolò mentalmente
la distanza fra la suddetta e il muro deturpato. Possibile che
qualcuno l'avesse aperta da fuori, vi avesse appoggiato contro una
scala e da lì, magari con qualche strumento montato su una prolunga,
avesse scrostato l'intonaco?
Si
avvicinò, guardò giù. Sotto c'era il lastricato, quindi una scala
non avrebbe lasciato tracce, e che una finestra potesse essere aperta
anche dall'esterno non era certo una novità: chiunque avesse subito
un furto nel proprio appartamento era in grado di confermarlo.
La
richiuse e tornò giù, solo per rendersi conto che a quel punto
anche la porta d'ingresso era spalancata.
Istintivamente
si guardò intorno. Quando era salito al piano di sopra, la porta era
chiusa, il che significava che era stata aperta mentre lui era su.
L'azione poteva essere stata compiuta solo da qualcuno che si trovava
già nella villa, dal momento che i catenacci non si potevano
azionare da fuori, o perlomeno non così rapidamente e senza alcun
rumore.
Ad
ogni buon conto si affacciò all'esterno, ma vide solo lo spiazzo
lastricato circondato dal verde e ancora immerso nella vaga caligine
dell'alba. Pensando a un ladro corse verso il luogo dove aveva
dormito, solo per trovare i suoi effetti personali esattamente come
li aveva lasciati.
Fece
qualche passo meditabondo. Nella villa c'era qualcuno oltre a lui,
questo ormai era chiaro, ma chi? Dove? Di nuovo si guardò intorno,
ma la vecchia magione silenziosa e buia sembrava più disabitata che
mai.
Lo
studio dell'avvocato Keynes si trovava all'ultimo piano di una
massiccia costruzione che originariamente doveva essere stata un
magazzino di merci esotiche. A piano terra c'erano i soliti negozi di
souvenir che vendevano rum, spezie e cianfrusaglie
pseudo-artigianali, ma dal primo piano in poi cominciavano gli
uffici.
Dopo
alcune rampe di scale, Austin entrò in uno studio arredato con
mobili in stile coloniale, probabilmente provenienti proprio dal
magazzino dei piani sottostanti. Su uno degli schedari, di legno
scuro e con maniglie d'ottone lucidato, c'erano ancora i nomi di
antiche mercanzie. La scrivania era in stile nautico e aveva su tre
lati un bordo leggermente rialzato per evitare che in caso di
burrasca gli oggetti che vi erano posati sopra rotolassero a terra.
Al
quarto lato sedeva un uomo che Austin giudicò suo coetaneo, biondo e
abbronzato. Portava una leggera sahariana con i primi due bottoni
slacciati e nel triangolo di pelle che l’indumento lasciava
scoperto si intravedeva un tatuaggio polinesiano. Gli parve un tipo
più portato alla vita di spiaggia che alle cause.
“Lei
dev’essere l’uomo di Donovan,” lo accolse questi.
“L’avvocato
Keynes?” chiese Austin per tutta risposta.
“In
persona. Cosa la porta da queste parti?” Indicò una delle sedie
che si trovavano davanti alla scrivania e aggiunse: “Si accomodi.”
L’altro
si sedette, trasse dalla valigetta che aveva con sé alcuni documenti
e li postò sul piano del mobile, poi disse: “Sembra ci siano
problemi con la proprietà di cui lei ha curato la vendita.”
Keynes
aggrottò le sopracciglia con l’aria di essere sorpreso dalla
notizia, ma Austin ebbe l’impressione che la cosa non lo cogliesse
del tutto alla sprovvista.
“Che
genere di problemi?” chiese comunque l’avvocato. “Tasse
impreviste? Acquirenti con diritto di prelazione che non erano stati
interpellati?”
Austin
lo fissò gelido e replicò: “Questo dovrebbe dirmelo lei, visto
che il signor Donovan si è affidato a lei per le questioni
burocratiche relative alla compravendita.” Tacque per qualche
secondo, quindi soggiunse: “Ma non è questo che mi interessa al
momento. Ho bisogno di sapere se c’erano altre parti interessate
all’immobile.”
Keynes
scosse la testa. “No, nessuno. Quel posto è...” Si interruppe.
“È una proprietà impegnativa, non facile da piazzare,” concluse
poi. Tossicchiò e distolse lo sguardo da quello di Austin.
“A
quel prezzo?”
“È
una proprietà impegnativa,” ripeté Keynes.
“Perché
sarebbe impegnativa?”
“Beh…
molti edifici, terreno, una villa antica…”
“E
che altro?” lo interruppe Austin.
Keynes
parve quasi sussultare. “Altro?” replicò in tono tagliente. “Che
altro ci dovrebbe essere?”
“Qualcosa
c’è, avvocato. Ci sono segni inequivocabili della presenza di
estranei all'interno della proprietà”
“Che
intende dire?”
“Che
c’è qualcuno che ci si nasconde dentro o ci entra di notte. Io
stesso ho visto tracce del passaggio di qualcuno non più tardi di
questa mattina.”
“Sarebbe a dire?”
“Ho
trovato aperte porte e finestre che avevo sbarrato,
tanto per fare un esempio.”
L’avvocato
prese a giocherellare nervosamente con una penna. “Non saprei,”
disse poi, sempre evitando il suo sguardo. “Forse è il caso che si
rivolga alla polizia, se ha sospetti di questo genere.”
“Lei
lo ritiene plausibile?”
Keynes
alzò le spalle. “Non lo so. In fin dei conti è rimasta vuota per
tanto tempo, può darsi benissimo che qualche spiantato ci sia andato
ad abitare dentro, no?”
“Qualche
concorrente del signor Donovan che voglia convincerlo a disfarsi
della proprietà a un prezzo ancora minore?”
“Lo
escludo,” rispose subito l’avvocato.
Austin
annuì grave, di nuovo con l’impressione che il suo interlocutore
gli avesse detto solo la metà di quello che sapeva. Raddrizzò il
pacco di documenti che aveva posato sulla scrivania in modo che fosse
perfettamente parallelo al bordo, quindi chiese: “A chi apparteneva
la proprietà?”
“Ha
avuto varie vicissitudini,” fu la risposta. “Fu costruita dai
danesi nella seconda metà del settecento, poi fu acquistata da
Robert Barrow, un inglese, e sua moglie Ingeborg, che invece era una
danese. Alla morte dell’uomo rimase di proprietà della vedova.”
“E
poi?”
L’avvocato
si strinse nelle spalle e rispose: “Passò agli schiavi, ma queste
cose le sanno molto meglio i curatori dell’associazione storica,
che alla fine sono stati gli ultimi proprietari prima del signor
Donovan. Dovrebbe chiedere a loro.”
“Quelli
del Museo della Schiavitù?”
“Esattamente.”
“Può
dirmi qualcosa di questo museo?”
L’avvocato
lo fissò perplesso. “perché lo chiede a me? Sono stati loro a
organizzarlo, chi le può dare informazioni meglio di loro?”
Austin
fece un lieve sorriso e rispose: “Conosce il detto, no? Non
chiedere a un oste se il suo vino è buono.”
I
due rimasero a fissarsi in silenzio per qualche secondo, infine
l’avvocato disse: “Pare che questa signora Barrow non fosse
esattamente uno stinco di santo, ecco. Pare che ne abbia fatte
passare così tante a quei poveretti dei suoi schiavi che alla fine
ci fu una rivolta e la cacciarono via.”
Di
nuovo seguì qualche secondo di silenzio.
“Questo
è tutto,” disse Keynes e fissò Austin con l’aria di aspettarsi
che questi si alzasse e prendesse commiato.
“A
prescindere dalle faccende degli schiavi,” disse invece l’altro
imperterrito, “le pare logico che una tenuta del valore di milioni
sia stata smerciata per poche centinaia di migliaia di dollari?”
“Beh,
non è certo una cifra piccola,” borbottò l'avvocato.
“Ma
è un decimo del suo reale valore.”
“Sì,
lo sarebbe, ma...” Keynes si interruppe.
“Ma,
cosa?”
“Sono
più di cinque anni che è invenduta. Capirà che il prezzo è andato
man mano calando.”
“Qualcuno
a parte il signor Donovan la voleva?”
L'altro
scosse la testa.
Di
nuovo, Austin annuì come per prendere atto della cosa, poi chiese:
“Quindi lei come spiega che tre imprese edili, una delle quali
fatta venire appositamente da Miami, hanno rifiutato di proseguire i
lavori nella villa?”
L'avvocato
alzò le spalle con fare noncurante. “Non lo so. Forse non erano
pagati abbastanza?”
“Erano
pagati il doppio della tariffa normale, perché il signor Donovan
aveva bisogno che il lavoro fosse portato a termine nel più breve
tempo possibile. Nielsen e Franklin, immagino li conoscerà, si sono
ritirati, il primo dopo tre giorni e il secondo senza nemmeno
effettuare un sopralluogo. Un tale Borowicz, titolare di un'impresa
di Miami, è rimasto sul posto meno di una settimana e poi se n'è
andato, dopo aver riferito incidenti e vandalismi di ogni genere.”
Fece una pausa, poi in tono duro concluse: “Qui c'è qualcuno che
sta consapevolmente sabotando l'attività del signor Donovan.”
L'espressione
di Keynes si fece dura. Con voce tagliente rispose: “Allora le
ripeto che forse farebbe meglio a rivolgersi alla polizia.”
Sullo
stesso tono, Austin ribatté: “Lo farò senz'altro, avvocato.
Speravo che lei avrebbe potuto darmi qualche indizio, ma
evidentemente mi sbagliavo.”
La
sede dell’Associazione Culturale Radici di St. John era situata un
po’ fuori dal centro abitato. Si trattava di un edificio a un solo
piano, in stile moderno, composto da blocchi quadrangolari disposti
all’interno di un ampio giardino e collegati fra loro da corridoi
con le pareti di vetro.
Austin
si fermò appena fuori dalla recinzione e per un po’ rimase a
guardare la struttura. Davanti all’ingresso c’era un bassorilievo
che rappresentava degli schiavi africani incatenati, eretti e colmi
di dignità nonostante i ceppi. Dietro di loro procedeva un individuo
dall’aria spregevole, obeso e curvo, in abiti europei e armato di
frusta.
Attraverso
la porta a vetri si vedeva un atrio con un banco tipo reception,
dietro il quale una ragazza di colore stava parlando al telefono. Al
centro della stanza c’era un monumento che rappresentava una donna
con le braccia levate in alto in segno di trionfo e catene spezzate
che le pendevano dai polsi.
Austin
entrò. Senza smettere si telefonare, la ragazza gli rivolse uno
sguardo di scarsa simpatia, poi gli girò le spalle e continuò a
parlare con il suo interlocutore.
Solo
quando ebbe chiuso la comunicazione, ovvero qualche minuto dopo, si
girò di nuovo verso di lui e squadrandolo con diffidenza gli chiese:
“Desidera?”
“Buon
giorno, signorina,” le rispose lui, ostentando le maniere di un
gentiluomo d’altri tempi, “sto cercando informazioni sulla tenuta
di Christineberg.”
Lo
sguardo della ragazza, già in partenza diffidente, si fece
addirittura ostile. “Perché viene a cercarle proprio qui?” lo
apostrofò con malagrazia.
Austin
sollevò le sopracciglia. “Non siete un’associazione storica?”
replicò.
“La
faccio parlare con la nostra direttrice, la signora Boyer,” tagliò
corto la ragazza, sollevando di nuovo la cornetta e componendo un
numero interno.
“Grazie,
signorina. Molto gentile.”
La
signora Boyer arrivò poco dopo. Si trattava di una donna sulla
cinquantina con una complicata acconciatura di treccine. Era talmente
magra che ad Austin ricordò vagamente la mummia di Tutankhamen e
portava un largo abito africano dai colori sgargianti.
“Buon
giorno,” lo salutò squadrandolo sospettosa, “sono Imani Boyer.
Cosa posso fare per lei?”
“Mi
chiamo Roderick Austin, lavoro per la Donovan Enterprises. Come ho
detto alla sua collaboratrice, mi servono informazioni su
Christineberg.”
La
donna strinse gli occhi e due rughe verticali le comparvero alla
radice del naso. “Non si può certo definire una bella pagina della
nostra storia,” proferì, quasi in tono di vago rimprovero.
Austin
si limitò a fissarla con sguardo neutro. “Che intende dire?” le
chiese.
La
donna assunse un'espressione decisamente scontenta. “Intendo dire
che Christineberg era una specie di Terzo Reich in miniatura, se
capisce cosa intendo.”
Lo
sguardo di Austin rimase neutro. “Veramente no,” fu la risposta.
“Venga
nel mio studio,” disse allora la signora Boyle. Attraversarono nel
tragitto una sala ricreativa disseminata di divani e pouf sui quali
uomini e donne, tutti di colore, leggevano o conversavano fra loro a
bassa voce. Al loro passaggio, una ragazza alzò la testa, squadrò
Austin con aria schifata, poi si rivolse all'amica e in tono
sufficientemente alto da essere udita anche da lui disse: “Apri la
finestra, c'è puzza di gallina bagnata.”
L'uomo
fece finta di niente.
Raggiunsero
un ufficio arredato con mobili provenienti da artigianato equo e
solidale, quindi la signora Boyle disse: “Poiché sembra non capire
il concetto di Terzo Reich in miniatura, vedrò di essere più
chiara: parliamo di eugenetica, tanto per cominciare.”
Austin
trasse di tasca un taccuino e una penna, segnò la parola, quindi
chiese: “Ovvero?”
“Non
sa cos'è l'eugenetica?”
“No,
non so in che modo venisse praticata nella piantagione.”
La
donna aggrottò di nuovo le sopracciglia, quindi in tono tagliente
rispose: “I coniugi Barrow, e successivamente la vedova, quando il
signor Barrow morì, obbligavano schiavi con determinate
caratteristiche fisiche ad accoppiarsi fra di loro.” Sogguardò
Austin scrutandone le reazioni, ma l'uomo rimase impassibile.
“Inoltre
facevano esperimenti sugli esseri umani,” proseguì allora la
donna, “abbiamo trovato il laboratorio con dentro tutti gli
strumenti medici.” Fece una pausa, quindi in tono sinistro
proclamò: “Quei ferri orribili grondano del sangue delle mie
sorelle e dei miei fratelli.”
Nel
silenzio che seguì si udì solo la punta della penna di Austin che
scorreva sul foglio. “Altro?” chiese poi l'uomo, con l'aria del
droghiere che interpella la massaia.
“I
turni di lavoro massacranti potrebbero interessarle?” replicò la
donna in tono sarcastico. “Le frustate, le privazioni, i polsi e le
caviglie costantemente piagati dalle catene, le orge organizzate per
gli altri proprietari terrieri della zona con le ragazze più belle?”
La
penna continuava a scorrere sul foglio.
“Quando
gli schiavi non potevano più lavorare, venivano uccisi e dati in
pasto ai maiali. I tentativi di fuga erano puniti con mutilazioni
spaventose, le donne erano obbligate a sfinirsi di gravidanze, con
l’atroce consapevolezza che i loro figli avrebbero avuto davanti
quella vita terribile.” La signora Boyle fece una pausa, quindi in
tono velenoso sibilò: “Ecco quello che la sua razza ha fatto alla
mia.”
Austin
smise di scrivere, alzò lo sguardo dal taccuino e senza modificare
la sua espressione disse: “Signora, le più recenti teorie
scientifiche negano l'esistenza delle razze.”
La
donna strinse le labbra, quindi gli girò le spalle e da una pila di
libri tutti uguali ne sfilò uno. “Preda questo,” gli disse
porgendoglielo, “si faccia un'idea.”
Austin
lo osservò. Il titolo era: 'Gli orrori di Christineberg'. Lo sfogliò
brevemente e chiese: “Che fine ha fatto la signora Barrow?”
“Ci
fu una rivolta. Gli schiavi finalmente riuscirono a cacciarla via e
ad appropriarsi di ciò che spettava loro di diritto.”
“La
donna fu uccisa?”
La
signora Boyle gli rivolse un’occhiata di sdegno. “No di certo. A
differenza di quella specie di deviata, gli schiavi avevano un cuore.
Le permisero di andarsene.”
“E
allora perché a Christineberg c’è la sua tomba?”
Alla
domanda seguirono non meno di cinque secondi di silenzio. Infine, la
donna rispose: “Non lo so perché ci sia la tomba. Forse il governo
dei bianchi ha voluto lasciare un monumento funebre in suo onore, per
rinsaldare il proprio potere sui neri.”
“In
quanto proprietari della tenuta, non avete mai pensato di farla
rimuovere?”
“Come
le ho detto, noi abbiamo un cuore. Non profaniamo tombe.”
“Non
aveva detto che era solo un monumento?”
La
donna strinse le labbra, diventando più che mai simile alla mummia
di Tutankhamon, quindi in tono asciutto rispose: “Si legga il
libro, ci troverà molte informazioni interessanti. Sono venticinque
dollari.”
Austin
trasse dalla tasca interna della giacca il portafogli, lo aprì
rivelando banconote perfettamente allineate e ordinate per valore,
tirò fuori due pezzi da dieci e uno da cinque, glieli porse e disse:
“Vorrei la ricevuta, per favore.”
La
signora Boyle scribacchiò qualcosa su un pezzo di carta e glielo
porse. Austin rimase immobile. “Qualcosa che abbia valore legale,
per favore.”
Mentre
la donna compilava una regolare fattura, egli le chiese: “Perché
il museo è stato chiuso e la proprietà venduta?”
Ella
lo fissò torva e ribatté: “Come mai tutte queste domande? È un
poliziotto, per caso?” Strappò il foglio con malagrazia, glielo
porse e aggiunse: “E comunque, non sono cose che la riguardano.”
“Mi
riguardano eccome, visto che la proprietà è stata acquistata dalla
società per cui lavoro e ci sono problemi.”
Per
qualche secondo rimasero a fissarsi negli occhi, poi la signora Boyle
disse: “Noi siamo un’associazione storica. Se vuole sapere
qualcosa della storia di St. John, chieda quello che vuole.
Diversamente, si presenti con un avvocato.”
Quando
fu in macchina, Austin attivò il viva voce e fece partire una
chiamata.
Il
telefono squillò una volta sola, quindi dall’altra parte si udì:
“A che punto siamo?”
“Sto
indagando, signor Donovan.”
“Veda
di sbrigarsi, io l’ho mandata laggiù per risolvere il problema. Le
banche mi stanno addosso, non c’è più tempo.”
“Me
ne rendo conto, ma la situazione non è per niente chiara.”
La
voce dell’imprenditore vibrò di apprensione. “Come sarebbe a
dire che non è chiara? È saltata fuori un’ipoteca? Tasse non
pagate?”
“Niente
del genere. Ma vede, abbiamo un duplice problema: c’è qualcosa che
sia l’avvocato che i precedenti proprietari sanno ma non mi stanno
dicendo, inoltre ci sono dei vandali che di notte girano per la
proprietà. Devo capire se le due cose sono collegate.”
“Lo
sono sicuramente, Austin. Chiami la polizia e faccia arrestare i
delinquenti che si permettono di entrare nella mia
proprietà.”
“Prima
dovrei vederli, immagino.”
“Come
sarebbe a dire che dovrebbe vederli?”
“Ieri
notte li ho solo sentiti e ho trovato i risultati questa mattina. Si
nascondono nella villa.”
La
voce di Donovan si alzò di tono. “Nella villa? Li scovi
immediatamente, voglio sapere chi sono e chi li manda!”
“Va
bene.”
Austin
allungò la mano per chiudere la chiamata, ma Donovan disse: “Senta,
e quella storia strana?” Il tono sembrava quasi imbarazzato.
“Che
storia, signore?”
“Quella
dei fenomeni paranormali. Lei cosa ne pensa?”
“I
fenomeni paranormali non esistono, signor Donovan.”
[1]
Comportamento patologico di una persona troppo dedita al lavoro e che
per esso pone in secondo piano la sua vita sociale e familiare.
|
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Gente, abbiamo finito anche questo
mappazzone. Grazie per avermi seguito fin qui, un grande
grazie a chi mi ha lasciato un parere.
Alla
prossima!^^
Capitolo
3
Austin
rientrò alla villa dopo essersi fermato a comprare da mangiare. Andò
in cucina, passò una spugna sul tavolo e lo asciugò, vi stese sopra
una tovaglietta di carta in modo che fosse esattamente a filo del
bordo, al centro di essa posò una confezione con un’insalata
pronta ai cui lati allineò con cura le posate, la forchetta a
sinistra e il coltello a destra e con la lama rivolta verso
l’interno.
Fatto
questo prese un bicchiere di plastica e lo collocò esattamente in
corrispondenza della piega mediana della tovaglietta, poi trasse dal
sacchetto del supermercato una bottiglia d’acqua e per qualche
secondo rimase indeciso su dove appoggiarla per non rovinare la
simmetria. Alla fine si riempì il bicchiere e poi la ripose
nuovamente nel sacchetto.
Si
stese un tovagliolo sulle ginocchia.
Consumò
il pasto con la compitezza che avrebbe potuto ostentare a Buckingham
Palace, quindi raccolse tutti i rifiuti, suddividendo carta, plastica
e organico in diversi contenitori. Pulì il tavolo.
Quando
ebbe finito, prese il libro che la signora Boyer gli aveva venduto e
cominciò a sfogliarlo.
Ci
trovò ben poco di interessante, in relazione al suo problema. Il
testo aveva l’obiettività dei pamphlet anti-giapponesi della
seconda guerra mondiale e le fotografie, perlopiù sgranate e poco
nitide, avrebbero potuto provenire da Christineberg come da qualsiasi
altra tenuta dei Caraibi. L’unica immagine che Austin trovò
vagamente interessante fu quella dei coniugi Barrow, in piedi davanti
alla fontana del cortile principale. La foto ricordava vagamente
‘American Gothic’, anche se i due avevano l’aria decisamente
meno arcigna della coppia di Grant Wood. La donna anzi sorrideva e
sembrava sul punto di salutare qualcuno con la mano. Era una bella
signora dai boccoli biondi, snella, dall’aria elegante.
A
un tratto sentì le note modulate di un canto. Tese l’orecchio
cercando di localizzare la provenienza del suono e si trovò a
rabbrividire, perché di colpo l’aria si era fatta decisamente più
fredda. Si alzò e si guardò intorno passandosi le mani sulle
braccia come per riscaldarsi, poi si diresse silenziosamente verso il
punto da cui gli pareva che provenisse la voce.
La
sua idea era quella di cogliere sul fatto l'autrice dei vocalizzi, o
perlomeno di individuare la zona della villa in cui lei e i suoi
complici si nascondevano, ma invariabilmente trovava vuota ogni
stanza su cui si affacciava, mentre il canto sembrava sempre
provenire da quella successiva. Alla fine raggiunse una porta
socchiusa, oltre la quale c'era un vano senza porte né finestre. Il
canto si interruppe. Egli accese la luce e si trovò di fronte il
muro deturpato di cui Borowicz aveva mandato la fotografia.
Lì
il freddo era particolarmente intenso.
Austin
osservò l'ambiente: soffitti altissimi, una lampadina fioca che
pendeva da un filo. Picchiettò con le nocche le gelide pareti, che
però gli rimandarono ovunque lo stesso suono. Fece scorrere lo
sguardo sul muro vandalizzato, ma al solito non riuscì ad attribuire
ai segni che lo deturpavano nessun significato a parte quello di
rovinare un lavoro appena fatto.
Uscì
dalla stanza e si richiuse la porta alle spalle. Prese il mazzo di
chiavi che il signor Donovan gli aveva lasciato e con quello che
doveva essere una specie di passepartout fece scattare la serratura.
La
guardò poco soddisfatto: era evidente che lo stesso mazzo di chiavi,
magari con un passepartout identico, doveva averlo anche chi stava
girando per la villa insieme a lui, perché da nessuna parte c'erano
segni di scasso, eppure le porte che lui era certo di aver chiuso a
chiave – e lui era uno che in queste cose non si sbagliava –
erano tutte aperte.
Si
chiese quale fosse il razionale alla base di quel comportamento:
forse i vandali volevano fargli credere che ci fosse il famoso
fantasma? Alzò le spalle: avevano decisamente sbagliato persona.
Andò
a Cruz Bay, entrò nella prima ferramenta e comprò una serie di
attrezzi, lucchetti e catenacci, quindi rientrò alla proprietà.
Il
resto del pomeriggio lo passò ispezionando ogni singolo edificio di
Christineberg. Si portava dietro una planimetria, una tavoletta di
supporto per scrivere, una gomma e una matita, oltre naturalmente
alle attrezzature acquistate: in ogni costruzione sbarrava tutte le
finestre dall'interno, ispezionava il luogo in ogni sua parte,
prendeva qualche fotografia, annotava eventuali appunti sulla mappa,
quindi usciva e applicava sulla porta un catenaccio nuovo, chiuso con
uno dei lucchetti acquistati. Da ultimo, fotografava anche la porta
dall'esterno.
Quando
terminò il lavoro, ormai era l'imbrunire.
Rientrò
nella villa e anche lì fece il giro delle finestre, bloccando il
meccanismo di ognuna di esse con diversi giri di filo di ferro, in
modo che fosse impossibile scassinarle dall'esterno. Lo fece con
particolare cura nella camera da letto della signora Barrow, ovvero
quella dove l'aveva trovata per ben due volte aperta.
Passò
poi alle porte, bloccando serrature e catenacci in modo che fosse
impossibile azionarli dall'esterno. A quel punto, eseguì un nuovo
giro d'ispezione in tutta la dimora, come sempre non trovando anima
viva.
Si
guardò intorno pensoso: se n'erano andati? Li aveva chiusi fuori?
Erano nascosti in qualche stanza segreta che non aveva ancora
individuato? Ricontrollò la planimetria: le tavole risalivano agli
anni '60 del secolo precedente, epoca in cui probabilmente erano
stati eseguiti i rilievi catastali di tutte le proprietà dell'isola.
Porte nascoste o passaggi segreti precedenti a quell'epoca ovviamente
non apparivano sulle mappe.
Tornò
in cucina. Il libro sugli orrori di Christineberg, che aveva lasciato
chiuso sul tavolo, era aperto e a pagine in giù sul pavimento. Alzò
stupito le sopracciglia e istintivamente si guardò intorno, ma tutto
sembrava a posto. Si chinò a raccoglierlo e notò che era aperto
esattamente sul ritratto di Ingeborg Barrow.
Lo
ripose e di nuovo si guardò intorno. Un libro non cade da solo, si
disse. Un libro cade se a esso viene applicata una forza sufficiente
a spingerlo giù dal tavolo su cui è posato.
Era
quindi evidente, tornando alle sue ipotesi di prima, che i personaggi
che giravano nella villa non
se n'erano andati e non
li aveva chiusi fuori, chiunque essi fossero.
Forse
lo stavano addirittura tenendo d'occhio, con sistemi che non era
ancora riuscito a scoprire.
Si
forzò ad apparecchiare ostentando indifferenza e consumò il pasto
tendendo l'orecchio a ogni minimo rumore.
Nulla
turbò la quiete. Il silenzio era tale, anzi, che se si concentrava
riusciva a udire il battito del proprio cuore. All'esterno non tirava
un filo d'aria e sembrava che anche i mille rumori della notte
tropicale si fossero sopiti. Era come se tutto fosse immobile in
attesa di qualcosa.
Austin
guardò l'orologio, quindi si alzò con l'intento di fare un nuovo
giro di ispezione. Tolse la suoneria al cellulare e se lo infilò in
tasca, poi si avventurò nei corridoi ormai immersi nelle tenebre
portandosi dietro solo una torcia elettrica, per non annunciare il
suo arrivo tramite l'accendersi e spegnersi delle luci nelle varie
stanze.
Questa
volta li avrebbe sorpresi e poi avrebbe chiamato la polizia, così
avrebbe sistemato definitivamente la questione.
Raggiunse
il salone delle feste e vi si affacciò. La stanza era praticamente
vuota. Il pavimento sgombro permetteva di apprezzare il sontuoso
disegno di una palladiana bianca e rossa, in alto si coglieva il vago
baluginio di gocce di cristallo.
I
pochi mobili erano stati spinti contro le pareti, e coperti com'erano
di lenzuoli bianchi evocavano sinistre presenze.
Austin
fece qualche passo all'interno e subito fu investito da un'ondata di
freddo così intenso che si trovò a rabbrividire. Nello stesso
momento, il fascio di luce della torcia si affievolì fin quasi a
scomparire, trasformandosi in un vago lucore giallastro.
Sì
udì l'eco flebile di un canto femminile.
In
quella luce fioca, ad Austin parve che uno dei lenzuoli stesse
ondeggiando. Puntò la torcia in quella direzione, ma non riuscì a
capire se quello che stava vedendo era un reale movimento o solo un
gioco di ombre.
Si
trovò a deglutire: forse aveva scoperto in che modo la gente si
nascondeva nella villa.
Forse
sotto quel telo – sotto quanti teli, a questo punto? – c'era
qualcuno che chissà da quanto tempo lo stava tenendo d'occhio.
Un
passo dopo l'altro, si avvicinò. Il freddo era intenso, la
sensazione di essere osservato anche. Più la luce investiva il
lenzuolo ormai ingrigito, più esso appariva immobile.
Si
avvicinò ancora, rimase immobile con l'orecchio teso, pronto a
cogliere il minimo rumore. La stoffa si era mossa o era semplicemente
passato un refolo d'aria?
Allungò
una mano, afferrò un lembo del lenzuolo. Tirò.
Il
telo cadde a terra in uno sbuffo di polvere. Austin si trovò a fare
un salto indietro col cuore che gli balzava nel petto, ma poi emise
in un sospiro sollevato il fiato che aveva involontariamente
trattenuto: quella che gli era apparsa davanti era solo una vecchia
pendola.
Sospirò
e si passò una mano sulla fronte, umida di sudore nonostante il
freddo, e a quel punto percepì un lieve odore di fumo.
Si
girò brusco e corse nella direzione da cui era venuto, guardandosi
intorno alla ricerca di possibili focolai d'incendi. Quando raggiunse
la zona delle stanze di servizio, si accorse che il fumo stava
uscendo dalla cucina. Vi entrò e si trovò davanti il libro su
Christineberg, in mezzo al pavimento, che bruciava a fiamma chiara.
Lesto
corse al lavello, spillò una ciotola d’acqua e gliela buttò
sopra, e le fiamme si spensero sfrigolando. Rimase per qualche
secondo immobile a osservare il mucchio di cenere fumigante, poi dal
piano superiore giunse di nuovo il canto, questa volta associato allo
sbattere di una finestra.
Corse
su e a colpo sicuro si diresse verso la camera di Ingeborg Barrow: le
ante erano spalancate, i vetri coperti di brina. Sul muro, sempre
incisa con qualcosa di acuminato, era comparsa una parola:
Verità
Dapprima
si immobilizzò, poi fece girare intorno lo sguardo alla ricerca di
qualcosa che potesse fungere da arma. Perché a quel punto era
chiaro: non solo c’era qualcuno, ma quel qualcuno era vicinissimo a
lui, forse anche in quel preciso momento, ed era abilissimo a
rendersi invisibile.
Si
chiese che cosa significasse quella scritta. Perché proprio ‘verità’
e non, ad esempio, ‘andatevene’?
Non
c’era risposta, ovviamente.
Non
trovando nulla che potesse essere usato a scopo difensivo, infilò la
mano in tasca e strinse in pugno il mazzo di chiavi, facendo sì che
esse sporgessero come aculei fra un dito e l’altro, poi avanzò
adagio.
Nella
villa frattanto si era ristabilito il silenzio, la patina di ghiaccio
che aveva ricoperto i vetri si andava sciogliendo e gocciolava adagio
sul pavimento. Assieme alla brezza tiepida, entravano dalla finestra
aperta il profumo del frangipani e il canto degli uccelli notturni.
Con
il cuore che ancora gli pulsava nelle orecchie, Austin si avvicinò
adagio e osservò il meccanismo di chiusura: il filo di ferro non
c’era più. Qualche spezzone era sparso in giro, ma del resto non
c’era traccia.
Serrò
comunque le ante, vi trascinò contro un mobile per maggiore
sicurezza, quindi tornò in cucina. Lì le cose erano come le aveva
lasciate: al centro del pavimento c’era ancora la pozzanghera
annerita con dentro quel che rimaneva del libro, la luce era accesa e
la temperatura normale. Per scrupolo andò a controllare anche i suoi
effetti personali, ma di nuovo li trovò intatti.
Certo
che non avrebbe più dormito, tanto per fare qualcosa si mise a
pulire il pavimento.
§
Seduto
nel patio di un caffè del centro, una tazza fumante davanti, Austin
rifletteva sugli avvenimenti della notte precedente.
Per
la prima volta nella sua vita professionale, non sapeva che pesci
pigliare. Non capiva in che modo i misteriosi sabotatori riuscissero
a fare quello che aveva visto, né quanti fossero o dove si
nascondessero. Possibile che sotto alcuni dei lenzuoli che coprivano
i mobili ci fossero in realtà delle persone? Come entravano in
stanze chiuse a chiave? Come graffiavano un muro fino ai mattoni
senza lasciare un'impronta sul pavimento?
Nessuna
di quelle domande aveva una risposta. Non ne aveva una plausibile,
perlomeno.
Bevve
un sorso, quindi riappoggiò la tazza esattamente nel cerchio marrone
che essa aveva lasciato sul tovagliolo, poi la girò in modo che il
manico fosse parallelo al bordo del tavolino. Raddrizzò il
cucchiaino, che nel movimento si era inclinato di qualche grado.
Trucchi
cinematografici? Avrebbero richiesto attrezzature che non aveva
trovato da nessuna parte. Fenomeni naturali o perlomeno fisici? Aveva
sentito dire che le famose pareti che trasudavano sangue di certe
case infestate
erano in realtà eventi perfettamente spiegabili, legati a umidità,
muffe o altri normalissimi problemi. Peccato che i muri di
Christineberg fossero da quel punto di vista del tutto sani.
Allucinazioni,
allora? Suggestione? Sonnambulismo? Magari era lui stesso che prima
sigillava le finestre e poi andava a riaprirle in stato di trance?
Ormai
era disposto ad aspettarsi qualsiasi cosa.
Bevve
un altro sorso di caffè e per un po' rimase a guardare la gente che
passava. Doveva essere arrivata una nave da crociera e gruppetti di
turisti in abiti leggeri, con spalle e nasi arrossati dal sole
tropicale, si guardavano intorno alla ricerca di divertimenti.
Operatori locali offrivano souvenir ed escursioni.
Aggrottò
le sopracciglia all'ennesimo strillo di bambino e si girò in modo da
dare le spalle alla chiassosa masnada: aveva bisogno di concentrarsi
e quel disordine non faceva altro che renderlo nervoso.
Nella
sua nuova posizione, si trovò a contemplare una di quelle cassette
di vecchi libri che andava di moda tenere nei locali. Generalmente
erano piene di manuali di cucito del secolo precedente o di
enciclopedie per ragazzini, quindi niente di interessante, ma in quel
caso una copertina attirò la sua attenzione. Si trattava di un
disegno a colori che riproduceva il ritratto dei coniugi Barrow, con
tanto di fontana zampillante alle loro spalle. Il titolo recitava:
'Mama Inga: il jumbie[1] buono'.
Austin
raccolse il libro e lo osservò: sembrava una pubblicazione di
qualche ufficio turistico locale e faceva parte di una collana che
trattava delle curiosità di St. John. A giudicare dallo stato di
conservazione e dalla grafica, doveva avere come minimo trent'anni ed
era il classico esempio di libercolo che durante le grandi pulizie
veniva indirizzato alle vendite di beneficenza o alle biblioteche
condivise.
Aprì
la valigetta che aveva con sé, tirò fuori 'Scienza della Logica',
di Hegel, e lo depose nella cassetta, quindi cominciò a sfogliare il
libro che aveva trovato.
Praticamente
fu come prendere il libro dell'associazione storica e rivoltarlo come
un calzino. Forse quello esagerava dalla parte opposta, ma descriveva
tutt'altro che una crudele negriera dedita a sevizie ed esperimenti
su cavie umane.
Ingeborg
Barrow – Mama Inga, come affettuosamente veniva chiamata – veniva
rappresentata come una specie di filantropa, impegnata in diuturne
opere di carità. Laureata in medicina, aveva allestito un
ambulatorio per curare gli schiavi, ma in pratica tutti gli abitanti
dell'isola si recavano da lei in caso di bisogno. La sua tenuta era
un impianto modello, con tanto di orari di lavoro e pensione per gli
anziani. I bambini andavano a scuola, i nuclei familiari che si
formavano ricevevano abitazioni separate. Vi erano orti e animali da
cortile per provvedere alle necessità degli schiavi.
Gli
schiavi, peraltro, lo erano solo di nome, perché ricevevano un
regolare salario. Morendo senza eredi, la donna aveva dato
disposizioni affinché gli essi fossero liberati e Christineberg
diventasse di loro proprietà.
Alla
morte di Mama Inga, diceva a quel punto il libro, era nata anche una
curiosa leggenda: si diceva che il suo fantasma continuasse ad
aleggiare nella tenuta, ma solo per aiutare chi vi si recava. Qualche
escursionista che si era perso nei dintorni di Christineberg aveva
raccontato di essersi imbattuto in una vecchia signora in abiti
antiquati che lo aveva accompagnato fino a che non aveva ritrovato la
strada e poi era misteriosamente scomparsa senza lasciare tracce.
Altri
dicevano che, colpiti da malattie, si erano recati alla tenuta e vi
avevano dormito. Mama Inga era apparsa loro in sogno e aveva dato
suggerimenti per cure che si erano poi rivelate efficaci.
In
generale, spiegava il libro, non era difficile incontrare quel
gentile jumbie. Più spesso lo si sentiva cantare, ma a volte si
faceva vedere come anziana signora dai capelli bianchi oppure
lasciava altri segni del suo passaggio.
Una
fotografia mostrava una parete sulla quale era inciso un grazioso
disegno a motivi floreali.
A
quel punto, Austin abbassò il libro. Per quanto sciocco e
inattendibile, quel testo gli dava importanti informazioni: primo,
esisteva davvero una leggenda sul fantasma. Secondo, chi stava
tentando di sabotare gli affari del signor Donovan doveva come minimo
conoscerla, perché imitava in tutto e per tutto quelle che il libro
descriveva come sue tipiche manifestazioni.
Infilò
l'opuscolo nella valigetta, quindi pagò il conto e se ne andò.
Quando
fu sulla strada tirò fuori la mappa di Cruz Bay, individuò un
negozio di audio e video e vi si diresse.
§
“Austin.”
“Senta,
il tempo stringe, la banca deve aver fiutato qualcosa e mi sta col
fiato sul collo. Come stanno andando le cose?”
“Ci
sto lavorando, signor Donovan.”
“Beh,
veda di sbrigarsi. Questi mi stanno alle costole.”
“Il
problema è che non abbiamo a che fare con degli sprovveduti.”
Dall'altra
parte ci fu qualche secondo di meditativo silenzio, quindi Donovan
chiese: “Lei pensa che quelli là potrebbero essere stati inviati
dalla banca? Mi mandano a puttane tutto l'investimento, io non riesco
a restituire il prestito e loro si beccano la tenuta?”
“Devo
ancora capire chi sono.”
“Ma
la sua impressione qual è?”
“Al
momento non sono in grado di elaborare un parere attendibile,”
rispose Austin in tono neutro.
Donovan
imprecò e chiuse la comunicazione.
§
Seduto
al tavolo della cucina, Austin controllò lo schermo del computer
portatile. Quel pomeriggio aveva nascosto una videocamera a
infrarossi nella stanza della signora Barrow. Di tanto in tanto
controllava se c'erano movimenti sospetti, ma fino a quel momento non
aveva visto nulla.
Improvvisamente
le luci sfarfallarono, si affievolirono e poi ripresero l’intensità
solita. Da qualche punto imprecisato della casa giunse l’eco di un
canto.
Con
una strana sensazione di aspettativa, l’uomo fissò lo sguardo
sullo schermo del computer.
Sul
muro sembrò delinearsi una figura umana. Dapprima appena un’ombra,
che pian piano andò definendosi e arricchendosi di particolari, fino
a diventare una donna con una pettinatura ottocentesca e un abito
lungo.
Austin
trattenne il respiro.
Ella
si mosse, dapprima lentamente, poi in modo sempre più percettibile.
Di pari passo, la sua sagoma diafana andava in qualche modo facendosi
tridimensionale, pur mantenendo l’aspetto incorporeo. Dietro di lei
si intravedevano i segni del muro come attraverso un vetro semiopaco.
“Mama
Inga,” mormorò Austin.
Come
se l’avesse sentito, l’apparizione si girò verso la videocamera.
Sebbene l’uomo fosse certo di averla nascosta bene, ella la
individuò immediatamente e vi si avvicinò fissandola con intensità.
Austin
deglutì e si fece indietro sulla sedia mentre lo schermo del
computer veniva completamente invaso dal volto della misteriosa
signora e gli occhi di lei, neri come pozzi nel lucore innaturale
dell’infrarosso, scrutavano attenti, come alla ricerca di qualcosa.
Infine
guizzarono sicuri e si avvinsero al suo sguardo.
Egli
avrebbe voluto sottrarsi, allontanarsi l’apparecchio, uscire dalla
stanza, ma si accorse di non riuscire a muovere un muscolo. Quegli
occhi non lo abbandonavano.
Il
computer si spense facendolo sussultare, poi arrivò il freddo. Un
gelo siderale, che istantaneamente coprì di brina lo schermo ormai
nero dell’apparecchio e tutta la superficie del tavolo. Di nuovo le
luci sfarfallarono e si affievolirono, negli armadietti le stoviglie
sbatacchiarono come per effetto di una scossa tellurica.
A
quel punto, Austin ebbe la consapevolezza di non essere più solo.
Fioco
e dolce, echeggiò il canto. Era vicinissimo.
Egli
rimase immobile, con la precisa percezione dei capelli che lentamente
gli si rizzavano sulla nuca. “Chi sei?” mormorò. Il fiato gli si
condensò in una nuvola di vapore.
Non
giunse risposta. Eppure Austin aveva la netta sensazione di occhi
attenti che lo scrutavano.
Strinse
i pugni così forte che quasi si piantò le unghie nei palmi, poi si
girò di scatto. Colse la fugace visione di una figura in piedi
dietro la sua sedia, ma così diafana che quasi si confondeva con la
parete, poi la luce e la temperatura tornarono normali e fu come se
essa non fosse mai esistita.
Per
un tempo imprecisato, egli rimase immobile, ansante, con lo sguardo
fisso sul computer spento e le braccia penzoloni. Si sentiva spossato
come dopo una corsa di chilometri, il sudore freddo gli aveva
appiccicato la camicia alla schiena.
Si
passò una mano sulla fronte e lasciò vagare intorno lo sguardo di
chi si è appena svegliato da un coma. Inutile girarci intorno: era
sconcertato. Se pensava alle teorie con cui aveva affrontato la
faccenda della villa, si sentiva come uno che ha costruito un
castello con dodici mazzi di carte e se lo vede franare a terra per
un colpo di vento.
Non
c’era nessuno, a Christineberg, e non c’era per un semplice
motivo: che la tenuta era infestata da un fantasma.
Niente
sabotatori, niente concorrenti astuti del signor Donovan. Ora capiva
la reticenza dell’avvocato Keynes e il rancore della signora Boyle,
ora capiva perché quel posto era stato letteralmente regalato.
Passò
un dito sullo schermo del computer, che dopo essere stato coperto di
brina era rimasto imperlato di condensa. Nessun fenomeno fisico a lui
noto sarebbe stato in grado di produrre un effetto del genere. Non
certo in meno di tre secondi e con una temperatura esterna intorno ai
cento gradi.
Si
mosse sulla sedia, facendo scricchiolare il vecchio legno. Recuperò
un fazzoletto di carta e asciugò meticolosamente il portatile,
quindi lo ripose.
Di
nuovo si guardò intorno, ma ormai non c’era più nessuno a parte
lui.
Si
alzò con fatica, appoggiandosi al bordo del tavolo, poi guardò
fuori dalla finestra: stava albeggiando, il cielo si era fatto color
pervinca, vagamente sfumato di rosa verso il basso. Gli edifici
emergevano pian piano dalla foschia del mattino, i primi uccelli
diurni cominciavano a far sentire i loro richiami.
Si
portò all’aperto ed emise un sospiro di sollievo nel sentire
l’aria tiepida sulla pelle. Dopo il silenzio gelido della villa,
gli parve di cogliere nella natura innumerevoli, rassicuranti rumori.
Attraversò
il cortile sul quale si affacciavano gli edifici di servizio,
raggiunse il limitare della vegetazione. Coperto di rampicanti, il
piccolo mausoleo appariva indistinto nelle brume dell’alba.
Lo
raggiunse. Tutto era come l’aveva lasciato, ma al tempo stesso era
come se non lo fosse, perché in ultima analisi era cambiato il
significato di quello che stava vedendo: ciò che aveva fino a quel
momento interpretato come vandalismi o sabotaggi era in realtà la
protesta di un fantasma adirato.
Si
appoggiò a una delle colonnine dell’edificio mentre una sorta di
vertigine minacciava di sopraffarlo: un fantasma. I fantasmi non
esistono, avrebbe detto a chiunque prima di quella notte.
I
fantasmi sono proiezioni psichiche, sono leggende per spaventare gli
allocchi. Sono il retaggio irrazionale di una cultura popolare basata
su credenze e non su dati scientifici.
“Sì,
col cazzo,” si trovò a dire a voce alta.
Abbassò
gli occhi sulla tomba e per un po’ rimase a contemplarla in
silenzio. Cosa avrebbe dovuto fare? Non lo sapeva.
Riusciva
a riconoscere una contabilità fraudolenta con una semplice occhiata
ai libri mastri, gli bastava un colloquio di dieci minuti per
individuare il marcio in un’offerta commerciale, sapeva stare
dietro a un debitore con la perseveranza impersonale di un branco di
iene che insegue il bufalo ferito, ma fino a quel momento aveva
relegato con disprezzo il soprannaturale tra le chiacchiere da comari
e non se n’era mai occupato.
Quindi
che fare?
Di
nuovo fissò la tomba. La prima cosa che gli venne in mente fu quella
di vedere cosa c’era dentro. Non che si aspettasse di trovare la
sposa di Dracula o cose del genere, tuttavia la sua impostazione era
e rimaneva scientifica, anche di fronte a una faccenda di quel
genere, e risolvere un problema implicava necessariamente conoscerne
tutti i termini.
Peraltro,
non gli pareva esattamente una cosa normale che ci fosse una tomba in
un giardino. Il posto delle tombe era notoriamente il cimitero.
Si
chiese se fosse quello il problema: magari la signora Barrow era nel
posto sbagliato. Magari – va a sapere – in un cimitero si
creavano le condizioni ottimali per far finire gli spiriti nel posto
giusto, qualunque esso fosse, mentre al di fuori delle mura
consacrate questo non succedeva.
Il
ragionamento era debole, lo riconosceva da solo, non teneva conto di
innumerevoli variabili, come l’inumazione di atei o tombe al di
fuori dei camposanti da cui però non scaturivano fantasmi, ma in
effetti non aveva altri elementi da cui partire.
Andò
all’edificio nel quale erano conservati gli attrezzi e si procurò
un palanchino, poi tornò al mausoleo.
Per
l’ennesima volta fissò la tomba: era una lapide bianca, semplice e
linda, probabilmente come doveva essere stata la signora Barrow in
vita. Faceva venire voglia di sedersi lì di fianco, di parlarle,
quasi, come si sarebbe fatto con una vecchia zia buona e saggia.
L’idea
di serenità che comunicava sembrava non avere nulla a che fare con
tutto il bailamme che succedeva di notte.
Piantò
il palanchino in una fessura e fece forza. Con un rumore raschiante
che sembrava uscito da un film horror, il blocco di marmo si spostò
di mezzo pollice[2].
Non
successe assolutamente niente. Non scaturirono dalla fossa entità
soprannaturali e non si udirono lamenti o grida. Il cielo rimase
azzurro, la temperatura non si abbassò, gli uccelli continuarono a
cantare imperterriti.
Altra
spinta, altro movimento della lapide.
Pian
piano, la pietra fu spostata quel tanto che avrebbe consentito di
dare un’occhiata a quello che c’era sotto.
Austin
appoggiò da una parte il palanchino, quindi si terse il sudore dalla
fronte. Scrutò dapprima con vaga esitazione il buco nero che gli si
apriva davanti ai piedi, quindi trasse di tasca il cellulare, attivò
la torcia e la puntò nella fossa.
Non
c’era niente.
L’uomo
aggrottò le sopracciglia e si inginocchiò per guardare meglio, ma
dovette arrendersi all’evidenza: quella che stava illuminando era
una cavità completamente vuota.
Si
rialzò perplesso e di nuovo si pose la fatidica domanda: che fare?
§
Austin
si sedette al tavolo della cucina. Gettò un’occhiata al
contenitore con l’insalata pronta, ma la forchetta rimase al suo
posto, a sinistra e perfettamente allineata al bordo della
tovaglietta.
La
giornata era trascorsa infruttuosa. L’avvocato Keynes non si era
fatto trovare, la signora Boyle aveva rifiutato di vederlo. Il signor
Donovan gli aveva fatto un’altra telefonata: la banca aveva
sicuramente capito qualcosa, non c’era più tempo.
E
lui, per la prima volta nella sua vita professionale, non sapeva che
pesci pigliare. Dedicò un’altra occhiata alla cena, ma poi la
spinse addirittura via.
Le
luci ebbero un’oscillazione: eccola che tornava, e lui non sapeva
che fare.
“Cosa
vuoi?” chiese a voce alta.
Le
luci sfarfallarono di nuovo.
“Dimmi
cosa vuoi, no? Così la facciamo finita.”
Le
luci si spensero e si riaccesero.
“Bah,”
brontolò Austin poco convinto. Diede un’altra occhiata alla cena,
poi girò le spalle e si ritirò in camera.
Quella
notte fece un sogno: nella stanza senza finestre, quella dove
Borowicz aveva fotografato la prima parete deturpata, c’era una
porta e da essa si dipartiva una scala che scendeva.
Nonostante
la sua consolidata abitudine di lavarsi e sbarbarsi prima di
qualsiasi altra cosa, non appena si svegliò, Austin si vestì
sommariamente e corse nel piccolo vano.
Sul
muro opposto alla porta c’era un crepa verticale, che partiva dal
pavimento e si fermava a metà altezza.
A
quella vista, egli corse a prendere la mazza da muratore e con tutte
le sue forze l’abbatté contro la parete. Un mattone cadde
rivelando un vano buio, dal quale uscì una zaffata di muffa e limo.
Austin prese il cellulare, attivò la torcia e scrutò al di là:
c’era una scala, e andava verso il basso.
I
successivi quaranta minuti li trascorse a demolire la parete. Quando
ebbe creato un vano sufficiente a consentire il passaggio, si procurò
una torcia più potente e scese.
I
gradini erano scavati direttamente nella pietra e le pareti, man mano
che procedeva verso il basso, diventavano sempre più grezze e
irregolari.
Alla
fine c’era una grotta. Il vano era probabilmente di origine
naturale, ma era stato scavato e ampliato da mani umane, che
l’avevano anche reso approssimativamente quadrangolare.
Al
centro, su due cavalletti, c’era una bara coperta da uno strato di
polvere e muffa. Contro una parete c’era una cassa di metallo
chiusa da un catenaccio.
La
temperatura, già fredda in quel luogo sotterraneo e chiuso, calò
d’improvviso. “Sei qui, vero?” chiese Austin.
“Ah,
memoria, nemica mortale del mio riposo,” sussurrò una voce
femminile, così lieve che l’uomo non avrebbe saputo dire se
l’aveva sentita veramente o solo immaginata.
Egli
non gettò nemmeno un’occhiata al feretro, era abbastanza chiaro
chi contenesse. Rivolse invece la sua attenzione alla cassa: vi si
chinò dinnanzi e l’aprì, rivelando una serie di volumi. Ne prese
uno a caso: era un libro mastro vergato a mano. Con qualche
difficoltà per la grafia antiquata, scorse le varie voci, trovando
fra le altre quaderni da scuola, una lavagna, medicinali, cuoio per
fare scarpe, stoffa per corredi e simili.
Il
documento era in un ordine scrupoloso.
Trovò
poi dei libri paga e una cartella nella quale erano conservate
numerose ricevute, anch’esse in un ordine che stupì persino lui.
Infine
c’era un diario.
Portò
tutto in cucina, si procurò carta e penna per prendere appunti, poi
si immerse nella lettura. Di tanto in tanto aveva la sensazione che
qualcuno stesse leggendo da sopra la sua spalla, ma per il resto
nulla turbò la sua concentrazione.
Quando
ebbe terminato, aveva praticamente riempito il blocco. Scorse le
pagine coperte della sua scrittura fine e ordinata, quindi si procurò
un ulteriore foglio, sul quale cominciò a elencare una serie di
punti:
-
I fantasmi esistono.
-
A Christineberg c’è un fantasma, cosa vuole? Risp.: Verità, cfr.
scritta su muro.
-
Verità, perché? Risp.: Associazione storica dice calunnie su
tenuta. Perché? Disonestà intellettuale? Forse figura sig.ra Barrow
inaccettabile per mentalità attuale?
-
Opuscolo vecchio vero – Libro associazione falso (cfr. libri mastri
etc. + diario).
-
Museo chiuso causa intervento soprannaturale?Ira sig.ra Barrow?
-
Frase memoria/riposo: forse situazione attuale non permette eterno
riposo a sig.ra Barrow? Sig.ra vuole andare a… (dove vanno gli
spiriti)?
-
Bara nella grotta: sig.ra Barrow desidera sue spoglie rimanere
Christineberg (cfr. diario per descriz. evento). Possibile murare
nuovamente accesso? Controllare problemi sanitari.
-
Cosa dire sig. Donovan?
Picchiettando
sul tavolo con la penna, Austin rilesse attentamente ciò che aveva
scritto. Fatto questo posò il foglio collocandolo con il margine
inferiore esattamente parallelo al bordo del tavolo, si alzò e
accese la macchina per il caffè, quindi, nell’attesa che la
bevanda fosse pronta, andò finalmente in bagno a lavarsi e a farsi
la barba.
Al
ritorno si versò una tazza di caffè, la sorbì con calma, lavò il
recipiente e lo depose capovolto nell’acquaio.
Fu
solo a quel punto che prese il cellulare e compose il numero del
signor Donovan.
“Come
sta andando?” berciò nel microfono l’imprenditore.
“Bene.”
Seguirono
alcuni secondi di silenzio, poi giunse la stupefatta replica: “Bene?
Come sarebbe a dire? Il problema è risolto?”
“Diciamo
che lo sarà se lei farà alcune cose.”
Altri
secondi di pausa, poi: “Chi è che vuole mazzette?”
“Nessuna
mazzetta, signor Donovan. Ho trovato alcuni documenti storici nella
villa, sarà necessario farli pubblicare.”
“Cosa?
Cosa cazzo hanno a che fare dei documenti storici con gli stronzi che
mi sabotavano il lavoro?”
“Ho
stipulato un accordo: se ci sarà la garanzia che i documenti
verranno pubblicati, gli atti di sabotaggio cesseranno.”
La
voce dell’imprenditore assunse un tono di incredulità: “Con chi
l’avrebbe stipulato, questo cazzo di accordo? La pubblicazione,
poi, quanto mi verrà a costare?”
“Sicuramente
meno di quello che al momento sta rischiando di pagare alla banca.”
§
La
festa di inaugurazione era nel pieno dello svolgimento. Abbronzatura
perfetta, smoking di sartoria, un raggiante signor Donovan riceveva
gli ospiti sulla porta.
La
villa era aperta e completamente illuminata, uomini e donne in abito
da sera, chi con un bicchiere e chi con un piatto del buffet in mano,
chiacchieravano distrattamente, ammirando gli arredi d’epoca e i
pavimenti a palladiana, per l’occasione lucidati praticamente a
specchio.
Un
po’ discosto dalla folla, Austin osservava serio lo svolgersi
dell’evento. Teneva d’occhio soprattutto un tavolino sul quale,
disposte a piramide, c’erano un certo numero di copie omaggio di un
libro dal titolo: ‘La verità su Ingeborg Barrow’. La gente
passava, le sfogliava, qualcuno se ne portava anche via una.
Il
fantasma non aveva più dato segno di sé, il che forse significava
che se n’era andato, o magari stava rispettando la sua parte
dell’accordo.
Uscì
in giardino: il garden designer aveva superato se stesso e la distesa
di piante mezze inselvatichite che circondava la tenuta si era
trasformata in un magnifico parco. Il mausoleo era rimasto, ma il
signor Donovan aveva voluto che la lapide fosse rimossa.
La
cosa in fondo aveva poca importanza.
Austin
si sedette su un gradino, si appoggiò all’indietro e chiuse gli
occhi. Dalla villa giungevano musica forte e voci, percepì la risata
stridula di qualcuno che doveva già essere parecchio ubriaco.
Poi
udì il fruscio di passi in avvicinamento e una voce chiese: “Signor
Austin, è qui?”
L’uomo
si riscosse bruscamente. Scattò in piedi e si sistemò le falde
della giacca. Individuò lo spencer bianco di un cameriere. “Eccomi,”
rispose.
“Meno
male, l’ho cercata dappertutto. Il signor Donovan vuole fare un
discorso, ci tiene che ci sia anche lei.”
“D’accordo,”
rispose lui con poco entusiasmo, “vengo subito.”
Mentre
stava per allontanarsi in direzione della villa, un refolo freddo gli
scompigliò i capelli. Percepì qualcosa come un bacio sulla guancia
mentre nell’aria echeggiava, di certo per l’ultima volta, il
canto che ormai aveva imparato a conoscere.
[1]
Nel folklore locale, lo spirito di un trapassato.
[2]
Un pollice corrisponde a 2,54 cm.
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