Brain damage

di Hypocrites
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Giorno 1 ***
Capitolo 2: *** 59.5 kg. ***



Capitolo 1
*** Giorno 1 ***


Brain damage
 
Antefatto
 
Papà,
non aggiungo la data e il luogo a questa lettera, poiché il tempo e lo spazio mi sembrano relativi da quando sei venuto a mancare. Se tu ora fossi qui mi diresti: “Richard, non va bene, esci e vai a scoprire il mondo!”. Il problema, papà, è che tu sapevi tutto del mondo: scorgevo tra i tuoi capelli argentei ogni piccolo evento osservato dai tuoi occhietti solcati prematuramente da qualche ruga e in quelle rughe io vedevo litigi, persone arrivate e andate via, incubi, sogni realizzati ed altri infranti. Tra le tue labbra vedevo saggi consigli, ora per sempre celati a me. Tu hai visto il mondo e so benissimo che avresti voluto sorreggere anche me sulle tue spalle per farmi vedere ciò che ci circonda da diverse prospettive, senza aver timore dell’altezza e dell’immensità della natura. Ma ancora, credimi, io non riesco a capire perché ti hanno portato via da me. Oggi sono esattamente otto anni da quando sei venuto a mancare. Otto anni di silenzio, per me: mamma crede che io sia muto forse. Sono stanco di tutto questo silenzio che hai lasciato. Ho bisogno di sentirti parlare, di rimproverarmi se è necessario. Dai un abbraccio a Lucas*.
John
 
Gli occhi pizzicavano, ma strinse le labbra e le palpebre come disperato tentativo di anestetizzare l’angoscia. Non riusciva a capire come mai provasse tutto quel dolore, odiava doversi sentire sempre così vulnerabile. In un mondo che gli diceva sempre: “Esci! Non avere quella faccia da funerale! Sei ancora così giovane!”, il ragazzo si sentiva soffocare a morte. Più che altro celava dietro un sorriso scherzoso un urlo, un’imprecazione: loro non sapevano quanto avrebbe voluto uscire fuori a vivere la vita degli altri ragazzi. Ma quella parola, sibilata laconicamente dal suo psichiatra, rappresentava un muro tra sé stesso e il mondo: “depressione”. Una parola che gli rimbombava in testa spesso nelle notti insonni, nelle mattine contornate da stanchezza e voglia assente di alzarsi dal letto. La parte più orribile di tutto ciò è che fino a qualche anno prima percepiva le emozioni in modo distinto e vivo, ma sentiva ora che esse si ovattavano, persino il dolore e l’angoscia, lasciando spazio ad un vuoto immenso in cui risalire risultava difficile anche per il suo psichiatra. Per John, esserci o non esserci non risultava per niente un dubbio amletico, bensì un’equazione, in cui entrambi i membri si eguagliano.
 
Nei momenti più bui, trovava piacevole il fatto di non percepire più niente finalmente, crogiolandosi in questo mare di apatia che lo travolgeva senza che lui potesse fare niente. Eppure era bello sentirne le onde. Ma da qualche giorno il ragazzo fu preso da una frenesia incontrollabile appena si rese conto che si stava inesorabilmente inaridendo. Non voleva che la sua vita andasse a finire così: un automa di merda che mangia, beve e va a dormire. Eppure non sapeva minimamente come uscirne fuori senza disturbare troppo chi gli voleva bene.
Il silenzio e l’apatia hanno una cosa in comune: cullano entrambe l’uomo che soffre, con la differenza che il silenzio può essere interrotto quando si vuole con il solo suono della voce, l’apatia, invece, non risponde ad alcun comando meccanico ma alla sola volontà.
John aveva bisogno di consigli e non da parte di un inespressivo psichiatra che lo guardava come si guarda una cavia su cui fare esperimenti crudeli, e né dai suoi cari che lo fissavano come l’ultimo esemplare di mammut sulla Terra e verso cui non voleva sentirsi un peso, ma da suo padre, quel pozzo di saggezza andato via troppo presto. Il ragazzo fissava la lametta affilata scintillare tra le sue dita, illuminata dalla pallida luce del Sole che filtrava dai nembi sparsi nel cielo terso d’Inghilterra. Il suo respiro era corto, gli occhi spiritati, il corpo mollemente disteso su una sedia in camera sua.
“Aiutami tu, papà”, soffiò, mentre il sangue fluiva via lentamente dal suo corpo. Ad ogni impercettibile suono di una gocciolina che cadeva per terra, a John gli sembrava di sentire la voce di suo padre farsi sempre più vivida e distinta.
Chiuse gli occhi e quando li riaprì si ritrovò nel prato fresco di potatura del giardino di casa sua, sotto l’ombra di una quercia profumata. Aveva sei anni nel ricordo che gli venne in mente**, e vide la figura robusta di suo padre venirgli incontro con una chitarra in mano e un po’ di bende per ferite. Quel giorno il piccolo John aveva giocato a calcio con gli altri bambini del quartiere e si era sbucciato un ginocchio. Succedeva spesso, poiché era estremamente scoordinato e, appena aumentava di poco la velocità finiva per cadere a terra rovinosamente. John fissava ora la garza sul suo ginocchio, contento, mentre suo padre era steso accanto a lui e gli suonava un po’ di canzoni che aveva scritto durante il periodo della guerra. “Tranquillo per il tuo ginocchio, Richard”, disse tra una nota e l’altra, “il dolore è temporaneo. Se oggi stai male, domani starai meglio”.
Erano forse anni che John aveva difficoltà a ricordare e quando fu riportato alla realtà sentì le lacrime rigargli il viso. Buttò uno sguardo su sua madre, che ancora singhiozzava davanti a lui mentre, con delle garze, ricopriva i tagli sui polsi, che ormai non sanguinavano più. “Non andare via anche tu”, riuscì a dire la donna tra i singulti. John si rese conto che il mondo lo voleva ancora con sé quando vide quelle bende strette forte attorno ai suoi polsi per impedire che di nuovo la sua anima fluisse via dal corpo.
Il ragazzo rimase per un altro po’ in bagno insieme alla madre, contemplando un po’ il silenzio che si era andato a creare.
“John hai bisogno di aiuto”, disse la donna davanti a lui con la voce scomposta, “un aiuto che, mi rendo conto, io non riuscirò mai a darti del tutto, perché ho un’altra creatura da crescere”. Gli occhi della donna si riempirono nuovamente di lacrime. “Non sai quanto io mi senta in colpa per non averti protetto da tutto questo”, disse singhiozzando. John fissava le mattonelle del pavimento con insistenza, senza mai alzare lo sguardo verso sua madre. Non ne aveva minimamente il coraggio e si sentiva una carogna: era soltanto un’errante montagna di problemi per persone che ne avevano fin troppi. “M-Mi dispiace, non volevo causare tutti questi problemi”, biascicò John, “volevo solo, essere libero”. La madre strinse le mani di John tra le sue. “Ti prometto, sulla tomba di tuo padre e di tuo fratello, che un giorno sarai libero”, disse la donna, “ma prima devi liberarti di questi muri che ti bloccano, tesoro”. John alzò gli occhi sulla madre per la prima volta in quella giornata d’estate: i capelli arruffati, il volto scarno e spento che conservava tracce di una gioventù sfiorita, i suoi vestiti color blu notte, le perle che mai mancava di indossare al collo e ai lobi delle orecchie e il grembiule su cui si puliva distrattamente le mani dopo una giornata passata ad impastare biscotti per lui e sua sorella. Quando guardava quella donna si sentiva stranamente al sicuro. Avrebbe tanto voluto alleggerire il carico che portava sulle spalle e spartirlo un po’ lei, ma non era il momento, non era giusto nemmeno. E lui non si era mai curato di ciò che provava la donna fino a quel momento, ma lo intuì tra quelle parole dettegli con materna preoccupazione. “E io ti prometto che cercherò di rimettermi in forze”, sibilò il ragazzo stringendo ancora di più la presa con le mani della madre.
John ha sempre detestato il rumore che fa il treno quando frena lentamente sulle rotaie. Se dovesse associare il fastidio ad un suono, sarebbe sicuramente quello. Imbracciata la valigia piena di quel poco che aveva vissuto in 19 anni, si voltò verso la madre e la sorella più piccola e, con un mezzo sorriso e una carezza, salutò entrambe senza troppe cerimonie. Il ragazzo era scomparso da un po’ nei vagoni del treno, quando Lilian si ritrovò tra le tasche del vestitino a fiori un biglietto, su cui era scritto: “Mi raccomando Lily, abbi cura di nostra madre e sii felice. - John”. La ragazzina di undici anni sorrise e salutò il fratello che la guardava dal finestrino del suo vagone. Lentamente, il treno ripartì e la signora Deacon non se ne andò finché non vide il mezzo scomparire dietro l’orizzonte.

 
Giorno 1
 
Il pullman lo lasciò davanti ad un cancello immenso, che si aprì non appena pronunciò il suo nome attraverso il citofono. Un delizioso viale alberato lo separava dalla struttura davanti a lui, deliziosa frescura per quella giornata stranamente afosa. Più si avvicinava più il ragazzo si torturava le unghie mangiucchiandole. Eppure quel posto così strano e lontano da occhi indiscreti gli dava al tempo stesso una certa sicurezza. C’erano dei pazienti che passeggiavano tranquillamente per il viale, chi giocava a pallavolo, chi stava placidamente seduto sotto i larici dormendo o leggendo un libro. C’era anche una coppia di pazienti che, mano nella mano, distesi su di un prato lussureggiante poco lontano dal viale, osservavano le nuvole rincorrersi trasportate dal vento, dando loro una forma. John si sentiva sorprendentemente rincuorato alla vista di tutte quelle amenità e, soprattutto, meno solo.
All’ingresso della struttura vi era una ragazza molto giovane, avrà avuto la sua stessa età, che l’accolse con un sorriso. John si sentì parecchio a disagio e rispose all’accoglienza indiretta stringendo semplicemente le labbra. “Umh, sono John, John Richard Deacon e sono stato inviato dal mio psichiatra in questa struttura”, disse sussurrando. La signorina annuì sempre sorridente: “Benvenuto signor Deacon, io sono Veronica Tetzlaff, faccio l’infermiera in questo istituto, se mi vuole seguire le faccio fare una piccola visita della struttura”, disse, raggiante. “Mhh, v-va bene”, disse il ragazzo, un tantino a disagio, mentre stringeva saldamente il bagaglio a mano, talmente tanto da far diventare le nocche bianche.
John ascoltava distrattamente le spiegazioni della ragazza accanto a lui e, da quel che vide, era una grande struttura specializzata ed efficiente: c’era una sala da pranzo immensa, le sale in cui i pazienti a turni si riunivano per fare delle sedute di terapia di gruppo, zone di attività all’aperto che non si limitavano al mero sport, ma anche ad agricoltura e simili, un team di psichiatri scelti che erano pronti a seguire individualmente i pazienti ed ogni loro necessità. Una piccola oasi protetta dal mondo esterno, insomma, immersa nella campagna inglese. Vi erano poi i dormitori: le camere erano dignitose, forse un po’ spoglie, ma a John andava benissimo anche così. Passando per il corridoio dalle infinite porte color cremisi, ognuna con la propria storia dietro, John ne adocchiò una che era aperta e lasciava intendere ai passanti un meraviglioso e delicato canto di una voce maschile. Era un’esecuzione soave di Touch me dei Doors e John seppe riconoscerla subito. John sbirciò curioso dalla porta aperta e vide una figura d’uomo snella, vestito in maniera parecchio appariscente e bohèmiene: capelli arruffati alla Bob Dylan, sciarpetta di seta color lilla intorno al collo, camicia di kashmir viola, pantaloni a zampa di elefante in velluto a costine color ocra e zatteroni, anch’essi di velluto, di color marrone. Indossava sulle spalle una pelliccia sintetica marrone e alle unghie portava dello smalto nero. John rimase piacevolmente stupito dall’eccentricità del giovane uomo che cantava mentre si arruffava un po’ i capelli davanti allo specchio, pavoneggiandosi un po’. L’infermiera smise di parlare, rendendosi conto che il ragazzo al suo fianco si era fermato e si avvicinò anche lei davanti alla parte. “Oh, lui è uno dei nostri pazienti più ‘particolari’”, disse ridacchiando, “nei momenti buoni canta da Dio”. E aveva ragione, quel ragazzo dagli zigomi spigolosi cantava divinamente: aveva una voce un po’ acerba, ma, se allenata, poteva arrivare lontano. Era come il canto di una sirena nella sua semplicità, ammaliava e seduceva.
Come on, come on, come on, come on, now touch me babe, can’t you see that I am not afraid?”, continuava a cantare. Ad un tratto il giovane cantante si voltò verso i due che si erano fermati ad ascoltarlo. “What was that promise that you made?”, cantò, guardando negli occhi proprio John. Quest’ultimo si sentì tremendamente in imbarazzo e avvampò, distogliendo lo sguardo e rimettendosi a camminare. Il misterioso ragazzo accennò un sorriso divertito, mettendo in mostra i suoi denti sporgenti e continuando a specchiarsi. “Dì al ragazzino che è da maleducati spiare le persone!”, pigolò il ragazzo, mentre immergeva il pettine nell’acqua, continuando ad ammorbidire le ciocche di capelli. “Fred, per favore, è appena arrivato”, si lamentò la ragazza con aria scocciata, afferrando il pomello della porta e chiudendola. Il ragazzo ripose il pettine sul lavandino di fronte lui. “Touch me, babe”, sussurrò il cantante, con espressione corrucciata, mentre sfiorava delicatamente gli anelli che aveva sulla mano destra con l’altra mano.
John camminava frettolosamente per i corridoi ora. Di solito detestava spiare le persone a lui care, figuriamoci gli sconosciuti. Eppure quel ragazzo sembrava essere fatto per essere osservato di sottecchi, senza disturbarlo in ciò che stava facendo. “Non ci pensare, John, a Freddie piace un sacco stuzzicare le persone”, disse l’infermiera raggiungendolo e poggiandogli una mano sulla spalla per confortarlo. “Sì, ma non sono un ragazzino, chi si crede di essere lui?”, commentò acidamente. “Era per scherzare, suvvia!”. “Non c’è niente su cui scherzare! Non sono qui per farmi prendere in giro!”, sbottò irritato John, guardando negli occhi l’infermiera. Quest’ultima si fermò, interdetta, guardando di rimando il ragazzo, e disse: “Okay, non pensare che qui ti cureremo con la forza del sorriso e altre stronzate moralistiche del tipo ‘sorridi, la vita è bella’, non siamo un’impresa pubblicitaria. Tu, semplicemente, fidati di noi e di me, qua non sei solo”, disse la ragazza. Quelle parole John le sentiva profondamente venire dal cuore della ragazza dai capelli rossicci accanto a lui. “Non sei solo, non sei solo, non sei solo”, era un pensiero che si faceva strada in quel rovo intricato dei suoi pensieri. “G-grazie”, si limitò a sussurrare John, mettendosi le mani nelle tasche e ricominciando a camminare. Veronica sorrise nuovamente, e accompagnò John nella sua stanza da letto.
Era uno spazio abbastanza ampio e illuminato dalla luce del Sole grazie alla presenza di un ampio finestrone. La moquette sapeva di deodorante per ambienti alla lavanda, i letti erano amorevolmente ordinati, sotto la finestra vi era una scrivania con diversi libri di Astrofisica e filosofia naturale sopra, più accanto c’era un modesto telescopio. Un letto si trovava accanto alla scrivania mentre l’altro era sul muro opposto. “Questa è la tua camera John, fammi sapere se ti serve qualche altra cosa, si cena alle sei e nell’armadio se ne hai bisogno ci sono delle tovaglie pulite”, disse la ragazza, “sarai con un compagno di stanza, tra un po’ credo che tornerà dalla seduta con la sua psicologa, intanto, dormicchia un po’ se ti va!”. John annuì distrattamente e si sedette sul letto attaccato direttamente alla finestra. L’infermiera chiuse la porta dietro di sé, salutando John con un cenno della mano e si ritrovò di nuovo solo, accompagnato dal cinguettare insistente degli uccelli al di fuori della sua camera. Il ragazzo si piegò per prendere dalla valigia dei fogli di carta e una penna, per poi buttarla in malo modo su una sedia. Tutto quello che fece dopo fu scrivere.
 
Papà,
sono sempre io ma qualche giorno dopo. Alla fine mamma mi ha scoperto, ma grazie per avermi fatto sentire la tua voce. Sono arrivato nella clinica che mi hai mostrato tu. Sono convinto che tu mi abbia guidato qui. La gente è un po’ svitata come me, ma è confortante, almeno credo, vedere che c’è gente nella mia stessa situazione. Oggi ho fatto l’imbranato nuovamente, non ne combino nemmeno una giusta: ho fissato un tipo strano e lui si è innervosito. Avevi ragione tu, come al solito: sono decisamente una persona goffa. L’ambiente è abbastanza calmo, e c’è tanto verde. Scommetto che a te e a Lucas piacerebbe un sacco. Oggi ho visto due ragazzi innamorati che guardavano le nuvole e deve essere davvero bello qualcuno che stia con te anche nella malattia, come nelle promesse matrimoniali. Sono fiducioso, credo, o almeno mi convinco di tutto ciò. Vorrei che
 
John interruppe la lettera quando sentì la porta aprirsi lentamente per rivelare un ragazzo alto, magro da far paura, che indossava una magliettina aderente e dei pantaloni a campana neri e portava dei capelli riccioluti davanti agli occhi. Aveva il volto malaticcio e delle occhiaie pronunciate, ma degli occhietti vispi che lo fissavano dapprima con sorpresa e successivamente con curiosità. John si schiarì la gola e, con voce quasi impercettibile, disse: “Ciao, io sono…”. “John Richard Deacon, piacere di conoscerti. Mi avevano detto che avrei avuto un nuovo coinquilino”, disse il ragazzo avvicinandosi e porgendogli la mano ossuta, “io sono Brian Harold May”. Quel ragazzo aveva un sorriso innocente e ricolmo di gentilezza che John si sentì quasi a disagio. “Piacere mio”, soffiò, “che cosa è successo all’altro coinquilino?”. Brian si stese sul suo letto. “Oh, è morto”, disse corrugando la fronte. John deglutì: la facilità con cui il ragazzo riccio aveva pronunciato quelle tre parole lo destabilizzò. “Una mattina ero venuto a svegliarlo perché dovevamo giocare calcio e non mi ha più risposto”, disse Brian guardandosi le dita, “non so che cosa gli fosse successo e non me lo dissero mai”. John rimase a bocca asciutta. “E questo non ti turba?”, chiese il più piccolo. Il riccioluto rimase un attimo sovrappensiero, per poi scuotere la testa come a voler scacciare un brutto ricordo. “E’ successo un po’ di tempo fa”, disse facendo spallucce, “mi dispiace solo non averlo potuto aiutare fino alla fine. Soffriva di epilessia violenta, era figlio di contadini e non sapeva leggere per cui a volte gli leggevo quei libri di filosofia naturale che vedi sulla scrivania e lui era entusiasta perché comprendeva molte cose nella sua semplicità rispetto a me che ho una laurea. Poi certe volte mi dava metà della sua cena, non tutta perché mangiava un sacco”, ridacchiò, “adesso non ho nessuno a cui leggere quei libri”, concluse con un sorriso amaro. John sentì il cuore stretto in una morsa di empatia. “S-se vuoi puoi leggerli a me”, disse, stupendosi un attimo dopo. Da dove gli era uscita tutta quell’intraprendenza? Brian si illuminò e annuì. John si stropicciò gli occhi e si stese sul letto per dormicchiare un po’, mettendo la lettera incompleta sul comodino accanto al letto, ripromettendosi di concluderla quella sera stessa. “Per caso russi la notte?”, chiese Brian, d’un tratto. John riaprì le palpebre, scocciato. “Non mi risulta”. “Bene, perché io detesto le persone che russano, ci intenderemo a meraviglia”. “Di solito sei così chiacchierone?”, chiese John, sbuffando. Brian accennò un sorriso. “Non mi risulta”, rispose ridacchiando. “Allora sì che ci intenderemo a meraviglia”, disse John rannicchiandosi sul letto, sentendosi incredibilmente stanco. I suoi piani, purtroppo, vennero mandati in fumo dall’arrivo nella camera di quello che sembrava un uragano. La porta si aprì violentemente e, a grandi falcate, un ragazzo biondo e con gli occhi azzurri iniettati di sangue si posizionò davanti al letto di Brian.
“Porca troia, Brian, ammazzo qualcuno!”, sbottò il ragazzo facendo sussultare John che lo osservava spaventato.
“Che ti è successo ora?”, chiese il ragazzo riccio, preoccupato.
“Mi hanno fottuto le sigarette Brian, cazzo. Non si fa così, se vogliono vedermi pulito devono farmi fumare una porca troia di sigaretta, sono scorretti e io…”, singhiozzò il biondo.
“Senti, se vuoi ho io una sigaretta”, biascicò John porgendogliene una dalla tasca della giacca di velluto che indossava. Il ragazzo in piedi si precipitò da lui e afferrò la sigaretta, portandosela avidamente alle labbra e accendendola velocemente. “Non c’è di che”, commentò John a bassa voce, rannicchiandosi di nuovo sul letto. Il biondo aspirò avidamente una boccata, per poi buttare fuori il fumo con un verso soddisfatto, lasciando che le sue narici venissero inebriate dal dolce profumo del tabacco. “Chi è questo tipetto?”, chiese a Brian. “E’ il mio nuovo coinquilino, si chiama John”, disse Brian stendendosi sul letto. “Ed Earl che fine ha fatto?”, chiese il ragazzo davanti a lui. “Per l’amor di Dio, è morto!”, sbottò Brian, stufo di quella domanda. “Ah già, credo che me l’avessi detto”, biascicò il biondo guardandosi le unghie e tenendo la sigaretta accesa da un lato della bocca. John cominciava a mal sopportare tutte quelle parole nella stanza, ma non voleva mettersi contro un folle drogato. “Tu hai mangiato?”, chiese Roger.
“Sì”, rispose Brian, secco.
“Non ti credo nemmeno se mi vomiti lo stomaco come prova per aver mangiato”.
“Che schifo, Roger, Cristo santo!”, sbuffò Brian.
“Devi mangiare e basta”, disse Roger grattandosi una porzione di pelle scoperta dalla camicia sbottonata.
John non poté fare a meno di notare che il corpo del ragazzo era martoriato da segni rossi e graffi e questa cosa lo turbò molto. Osservava il volto del ragazzo più grande ricolmo di tristezza nel vederlo grattarsi in maniera insistente.
“E tu devi smetterla di grattarti e di pensare a quelle sostanze”, disse Brian alzandosi e bloccando le mani di Roger tra le sue.
“Sì, sì lo faccio, però lasciami”, mugolò Roger, mentre la sigaretta si consumava inesorabilmente.
John si sentì pervaso da una pena immane per quei due ragazzi così strani. Sembravano in perenne apprensione l’uno dell’altro ma così scarsamente interessati a sé stessi. Senza rendersene conto, si addormentò di colpo e Brian non se la sentì di svegliarlo per mandarlo a cenare.
 
Quando John riaprì gli occhi era ormai notte fonda e il cielo stellato di metà luglio brillava della costellazione dello Scorpione e quella del Sagittario, le cui stelle contornavano una Luna piena mozzafiato. Ancora si sentivano grilli per la campagna e John si sentiva stranamente in pace. Notò che Brian, il suo coinquilino, non era nel suo letto, ma non ci fece caso più di tanto, pensando che poteva essere andato a prendere un bicchiere d’acqua. Sentiva, però, fuori dalla camera da letto, per i corridoi dei dormitori, un gran trambusto. Si mise il cuscino sulle orecchie, per ritornare a dormire serenamente, quando, poco prima di chiudere gli occhi di nuovo, vide la porta aprirsi velocemente ed una figura nera entrare altrettanto celermente, per poi richiuderla un attimo dopo. Si avvicinò velocemente al finestrone grande, mentre John lo fissava con gli occhi spalancati dal terrore, finché la luce lunare non rivelò l’identità dello sconosciuto intrufolatosi nella stanza sua e di Brian: si trattava del giovane cantante di poche ore prima, il cui volto non era più sereno, ma contratto dal livore. Aprì di scatto la finestra, con movimenti quasi felpati, e si sedette per un attimo sul davanzale, le gambe penzoloni nei pochi metri di vuoto che lo separavano dal suolo. Lanciò uno sguardo a John, che si alzò col busto con espressione esterrefatta e, dopo aver ammiccato al giovane con un sorriso sornione, saltò giù senza troppe cerimonie. John si alzò dal letto e corse verso la finestra, tenendosi dal davanzale per non cadere e guardando giù: il ragazzo era scomparso in un batter d’occhio. Alzando lo sguardo verso l’orizzonte, scorse la figura snella del giovane correre disperatamente verso il cancello della clinica, per poi scavalcarlo e perdersi nel buio della notte.
 
* John aveva un fratello più grande di quattro anni, morto nel 1953. Non si sa quale fosse il suo nome, quindi abbiamo optato per Lucas.
** Chi, come John in questa storia, soffre di depressione tende a dimenticare spesso ciò che è successo nel passato, non ha buona capacità di memoria e fa fatica a ricordare determinati eventi.
 
Note delle autrici:

Buonasera a tutti!
Vorremmo dare dei chiarimenti, che spero serviranno per comprendere meglio la storia nella sua interezza. La storia è ambientata in una clinica psichiatrica agli inizi degli anni ’70. D’ora in poi tutto si baserà sulla fiducia e i rapporti interpersonali tra i membri della band. Ognuno di loro ha un disturbo preciso: John soffre di depressione, Brian di anoressia, Roger è un tossicodipendente e Freddie ha un disturbo della personalità multipla. Ci dissociamo completamente dal voler romanticizzare queste malattie mentali: troppo è stato scritto e si è visto e non vogliamo minimamente urtare la sensibilità di chi, purtroppo, ha avuto o ha ancora a che fare con queste malattie. Abbiamo passato molto tempo a studiare queste malattie in giro per il web e l’ultima cosa che vogliamo fare è mancare di rispetto ai Queen o alle persone che soffrono di questi disturbi. Cercheremo di trattare il tutto con la massima sensibilità possibile. Sarà difficile, ma ci proveremo e qualsiasi consiglio è ben accolto. Siamo consapevoli che il tema che abbiamo deciso di trattare è molto delicato, ma, ripeto, non vogliamo minimamente fare del male a nessuno psicologicamente. Parlare di malattie mentali è complicato di per sé, ma è importante sensibilizzare. La storia si rifà a Brain damage dei Pink Floyd contenuta nell’album The dark side of the moon del 1973. L’idea è stata prevalentemente di _Lisbeth_, ma comunque ci smezziamo i capitoli: quelli a tema Deacury vengono affidati ad M, mentre quelli a tema Maylor a B. Speriamo che questo capitolo sia stato di vostro gradimento e vi aspettiamo al prossimo!

B&M.

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Capitolo 2
*** 59.5 kg. ***


59.5
 
Bellatrix.
Bellatrix è classificata come Gigante Blu, dista ben 240 Anni Luce dal Sole. È una delle stelle presenti nella costellazione di Orione e di esse è la terza più luminosa.
Il suo nome é di origine latina e Bellatrix, appunto, significa "La Guerriera".
In astrologia si crede che Bellatrix possa dare una natura forte e nobile, fiducia in sé, arroganza, violenza, irriverenza, prosperità nel commercio specialmente se condotto in paesi stranieri, ma anche pericolo di essere traditi e avvelenati.
 
Brian guardò il ragazzo che, seduto a gambe incrociate sul letto, era così simile ad un bambino mentre lasciava ciondolare la testa a destra e a sinistra osservandolo con gli occhioni azzurri affascinati. Il maggiore sorrise, quando finì di parlargli della stella di quel giorno. Sapeva che Roger fosse tanto curioso e tanto attratto dalle stelle, dai pianeti, dall'infinito, dal cosmo e dallo spazio. Un giorno gli aveva detto che, nelle stelle e nell’Universo, ci vedeva la libertà che avrebbe tanto voluto avere.
Brian si sentì leggermente in colpa per aver lasciato da solo John, era solo il suo primo giorno nella clinica, dopotutto, anche se si era addormentato come un sasso senza neppure aspettare la cena. Gli avrebbe volentieri tenuto compagnia, ma aveva bisogno di prendersi cura di Roger. Quella mattina aveva avuto una crisi d'astinenza e di solito, quando capitava, il ragazzo restava giù di morale per tutta la giornata.
Non doveva essere piacevole venire imbottito di sedativi.
Il riccio sospirò, guardando il suo migliore amico e inclinando la testa da un lato. – Come ti senti?
- Uno schifo.
- Ti va di fare qualcosa?
- Non so, Brian. Credo di non aver voglia di far nulla.
- Se giocassimo a Scarabeo?
- Sì, certo. Così vinci tu.
- No, non sono sleale. Nel frattempo che decidi, ti ho portato delle caramelle. - Brian sapeva che Roger non avesse spesso appetito. La droga che lo tormentava gli toglieva sempre la fame e la voglia di ingerire qualsiasi cosa, ma era da giorni, settimane ormai, che non assumeva nulla di nocivo, tralasciando i sedativi e le medicine che, secondo Brian, al ragazzo facevano soltanto male. Ma riconosceva che a volte, quelle crisi, fossero troppo difficili da sopportare anche solo a vederle e quello fosse l’unico modo per farle smettere. Roger gridava, si contorceva, ansimava, piangeva. Il pensiero di quelle situazioni così dolorose per il più piccolo lo fece deglutire. Il biondino alzò le spalle. – Sono buone, le caramelle.
Il riccio sorrise. - Ne vuoi un po'?
- Dove le hai prese?
- Me le ha date Green Lady.
- E allora no, non le voglio. - rifiutò Roger, muovendo la mano come a voler cacciare via quella proposta.
- Perché no?
- Perché se te le ha date Green Lady significa che devi mangiarle tu.
Danielle Rose era chiamata "Green Lady" perché vestiva sempre di verde. Anche il suo trucco era verde. Il suo studio era verde, le pareti anche, così come il pavimento, i mobili e le più strane cianfrusaglie. Era una donnina bassa, con lunghi riccioli d’oro e due occhi vispi e nocciolati, un sorriso sincero e accogliente che la faceva sembrare una bambina. Era la psicologa che si prendeva cura di Brian da quei due anni in cui lui era lì.
- Ma sono caramelle. E poi te ne sto offrendo una. - gli rispose il riccio, aprendo il pacchetto di plastica e avvicinandolo al più piccolo. Roger ne prese una, quella alla ciliegia. - Qual è la tua preferita?
Il maggiore sospirò, tirandosi le ginocchia al petto e alzando le spalle. Prima gli piacevano, le caramelle. Quando era bambino Harold gliele portava sempre, dopo il lavoro, e lui le mangiava e le finiva in mezza giornata. Però, ora, anche solo pensare allo zucchero e al sapore eccessivamente dolce delle caramelle gli faceva venire da vomitare. Rispose comunque a Roger. - Quella al limone.
Vide il biondino muovere velocemente e frettolosamente il braccio nella scatola delle caramelle, guardandone all'interno e pescando proprio quella di cui Brian aveva parlato. La strinse tra l'indice e il pollice, guardandola bene e porgendogliela. – Su, è tutta tua.
Il ragazzo guardò la caramella per un po’, giusto il tempo per osservare lo zucchero che scintillava brillante sulla caramella colorata di giallo, per poi chiudere appena gli occhi e scuotere la testa. – Non mi va, Rog. Ho finito di mangiare da poco.
Il più piccolo sbuffò pesantemente. – Che palle. Non hai mangiato niente, a cena. Non prendermi in giro, perché non sono un idiota, sai?
- Ti ho detto che non la voglio.
- E dai, è una caramella. Non può farti nulla. – Roger continuò a tenere il dolcetto tra le dita, avvicinandolo all’amico. – Fallo per Roger, coraggio.
- No.
Il minore sospirò. - Non sarei voluto arrivare a questo, ma mi ci vedo costretto.
Brian vide il biondo alzarsi in piedi, continuando a tenere in mano la caramella. Lo guardò avvicinarsi, sempre più, fino a che non lo vide sorridergli sornione e allungare la mano libera, posizionandola sopra al suo naso e chiudendogli entrambe le narici con le dita. Il riccio spalancò gli occhi per la sorpresa, mentre schiudeva al contempo le labbra, per respirare. Si ritrovò sulla lingua un sapore di limone e zucchero talmente forte e rivoltante che ebbe per un attimo la voglia di sputarla sulla faccia di quel cretino del migliore amico, che in quel momento aveva lasciato andare il suo naso e gli stava stringendo le labbra insieme per impedire che ciò accadesse. Brian strinse gli occhi. Ingoiò con fatica la caramella, per poi tirare un sonoro schiaffo sulla mano di Roger, che lasciò andare le sue labbra. Lo fissò a occhi spalancati. – Ma che razza di…
- Roger uno, Brian zero. E’ buona?
- Roger, tu sei completamente impazzito!
- Sì, certo. Altrimenti non sarei mica qui. – il ragazzo si stese sul proprio letto, sollevando le braccia alte davanti al viso, guardandosi le mani mentre lasciava che le gambe oscillassero a destra e sinistra. Brian, quelle braccia, le vide terribilmente tumefatte e ferite dai piccoli buchi e fori sparsi come formiche sulla pelle giallastra e violacea dell’interno dei suoi stretti e sottili gomiti. Deglutì, mentre tossiva leggermente. La vista delle braccia di Roger non gli aveva mai fatto un buon effetto, sia psicologicamente che fisicamente. Si sentiva girare la testa e spezzare il cuore ogni volta. Pensò a tutte le volte in cui lo aveva visto urlare e tenersi lo stomaco tormentato dai crampi. Sospirò, distogliendo lo sguardo. – Scusami. Non volevo dire quello.
Roger girò la testa bionda verso di lui. – Non mi hai mica offeso. – continuò a osservarsi le dita chiare e sottili, sbattendo gli occhi blu velocemente. – Ora sono così soddisfatto.
Brian alzò gli occhi, al cielo, mentre ancora il sapore dello zucchero gli sfiorava la gola facendogliela bruciare. – Non farlo mai più. Era contro la mia volontà, Rog.
- Tu mi togli sempre le sigarette.
- Ti fanno male.
- Anche non mangiare ti fa male. – il ragazzo si sedette sul letto, giocando con uno dei propri calzini. – Per questo, come tu puoi togliermi le sigarette, io posso farti mangiare.
Brian alzò gli occhi al cielo, sedendosi sulla scrivania della camera di Roger e incrociando le gambe.
- Attento a non cadere.
Il riccio sorrise, appoggiando il viso sui palmi delle mani. – Non posso cadere da qui. Sono troppo alto.
Brian vide Roger alzare gli occhi al cielo, mentre si tastava le tasche dei pantaloni e della giacca con le mani, sbuffando sonoramente. – Che cazzo.
- Se le stai cercando, voglio informarti che le tue Marlboro sono nel cassonetto qua di fronte.
Gli occhi del biondo smisero di muoversi repentinamente, per fermarsi e attaccarsi sulla parete davanti a sé. Girò la testa verso l’amico, con lo sguardo di chi potrebbe strangolare qualcuno da un momento all’altro. Brian sorrise.
- Che cazzo ridi, idiota? Le avevo pagate e avevo anche corrotto uno specializzando per farmele procurare!
Brian balzò giù dalla scrivania, grattandosi una tempia. – Com’è, che avevi detto? Roger uno e Brian zero?
- Sei un bastardo. Io ne ho bisogno.
- No, non credo proprio. – gli rispose il ragazzo più grande, con un sorrisetto soddisfatto sul volto. – Non mi piace quando fumi.
Roger si fece sfuggire un sospiro frustrato, facendosi cadere a peso morto sul letto mentre si premeva i palmi sul viso. – Almeno ridammi i miei soldi.
- Non voglio darti dei soldi per lasciarti corrompere la povera anima di uno specializzando per comprarti le sigarette. Se vuoi te li do per prenderti una batteria nuova.
- Sì, e dove li trovi, per la strada?
- Intanto se tu non avessi speso così tanto per comprarti pacchetti di quelle stronzate adesso ne avresti tre, di batterie.
Roger chiuse gli occhi, sospirando dal naso mentre Brian si appoggiava con i palmi delle mani alla scrivania. Il riccio lo guardò, vedendolo con un braccio a coprire gli occhi e con sul petto l’altro, le cui dita della mano tamburellavano frettolosamente sullo sterno. Il suo migliore amico era così magro, consumato come una vecchia sigaretta dall’eroina che lo tormentava da anni. Le braccia parevano dei ramoscelli, le gambe erano ridotte all’osso. Gli sarebbe piaciuto essere così magro.
Non avrebbe voluto che Roger fosse ridotto in tali condizioni. Gli avrebbe dato tutto il suo cibo, anche se il biondo non glielo avrebbe mai permesso. Però il suo amico ne aveva bisogno, lui invece doveva necessariamente perdere peso. Era contento di essere sceso, di aver perso quei due chili, quella mattina. L’infermiera lo aveva guardato aveva scosso la testa e gli aveva detto: “Brian, non puoi dimagrire ancora. Se la prossima settimana non avrai preso almeno mezzo chilo, saremo costretti a tenerti d’occhio in continuazione e tenerti qui per tanto tempo ancora.”
Ma lui non voleva riprendere quel mezzo chilo. Aveva faticato tanto per perderlo. Sospirò, continuando a guardare il suo migliore amico. Deglutì. – Stai meglio, Rog?
- Mh?
- Rispetto a sta mattina, stai meglio?
Vide il braccio del ragazzo ricadere di nuovo sul letto, mentre il biondo apriva e chiudeva la mano arricciando le labbra. – Credo di sì. – sollevò le spalle. – Ero addormentato, sta mattina. Contro la mia volontà. Quindi non so bene come stavo. – iniziò a gesticolare velocemente e a muovere ritmicamente i piedi. – La crisi nemmeno me la ricordo. Tanto sarà sicuramente stata uguale alle altre.
- Da quanto non…
- Mah, credo una settimana e mezza. Scarsa. – Brian vide quei giganteschi occhi azzurri fissarlo, tremanti. – Sono così patetico, quando ho una crisi?
Prima di quel giorno, il più grande non aveva mai visto Roger durante una crisi d’astinenza. Quella mattina era stata la prima volta in due anni che lo conosceva. Si ricordava di quando, mesi prima, Roger stava riuscendo a riprendersi. Non aveva toccato nulla per settimane, forse mesi. Stava meglio, era più sereno e i suoi occhi erano meno scavati e più luminosi. E poi era successo che, una notte, era scappato. Aveva pagato qualcuno di cui Brian non conosceva l’identità, era ricaduto in quel tunnel buio e oscuro da cui lui stesso aveva sempre cercato di tirarlo fuori. E quel giorno, dopo tanto tempo che lo conosceva, lo aveva visto iniziare a urlare, così, all’improvviso, stringendosi il ventre, ansimante e pallido in viso. Le pupille erano diventate enormi, talmente grandi da coprire quasi le iridi azzurre. Brian lo aveva preso per mano, accarezzandogli la fronte spaventato, e lui gli aveva gridato di lasciarlo stare. Aveva alzato la manica del proprio pigiama, iniziando a mordersi il braccio e a graffiarlo. Brian ne era rimasto talmente sconvolto da non riuscire più a parlare, forse nemmeno a respirare.
I medici avevano faticato per tenerlo fermo, prima di spingere il tubo della siringa mentre, a poco a poco, gli occhi azzurri di Roger si facevano vuoti e si chiudevano piano, gradualmente.
Brian aveva vomitato sul pavimento.
- Non… Non sei patetico, e non lo sei mai stato. – gli rispose, alla fine. Roger sbuffò, muovendo un piede a destra e a sinistra. - Questo posto di merda è inutile.
- Per me, sì. Per te no.
Il biondo puntò gli occhi azzurri nei suoi. – Mh, sì. Certo.
- A te serve. Ti tiene lontano da quei posti di merda che frequentavi.
Roger si fece sfuggire una lieve risata amara. – Intanto mi drogo ancora.
- Questo è perché sei tu a volerlo. Un giorno capirai che quelle puttanate ti uccidono.
- L’ho già capito, Brian. – il più piccolo lo guardò, serio. – Solo che il mio corpo ne ha bisogno per non impazzire.
- Prima o poi il senso di astinenza passa, se non tocchi più quella merda. Se continui così non…
- Senti, dottore. – il ragazzo incrociò le braccia, rizzando la schiena. – Dimmi che cazzo di differenza c’è, se rimango qui o se me ne vado a casa. Tanto, come avete visto tutti, la droga in un modo o nell’altro me la procuro. E non servono quelle cazzo di terapie per ripulirmi, perché se così fosse, non sarei più assuefatto da ben due anni.
- Ci stavi riuscendo.
- E quando mai? – Roger incurvò le spalle. – Quanto ci sarò stato, senza? Nemmeno un mese. Non ho mai passato un vero periodo libero da quelle catene.
Catene. Roger utilizzava quasi sempre quel termine, per parlare delle sue dipendenze e dell’eroina. Brian in quella parola sentiva tutta la voglia del suo migliore amico di scappare, di vivere, di tornare indietro, ricominciare da capo. Catene. Quelle catene che erano gli ahi delle siringhe, i buchi sulle braccia, le pasticche, i cucchiaini, le sigarette, i dolori allo stomaco e ai muscoli, l’incapacità di dire “basta”. Uno dei momenti più vividi e peggiori che Brian aveva vissuto con Roger, e che si ricordava anche troppo chiaramente, era successo un anno prima.
Il biondo era nel bagno dell’ospedale, chiuso in una delle tante cabine, completamente da solo. E quando Brian aveva aperto la porta e se l’era ritrovato davanti, non aveva saputo come reagire.
Il suo migliore amico era accovacciato per terra, una maglietta vecchia e strappata era annodata sulla parte alta del suo braccio sinistro, mentre con il destro, con le mani tremanti e il respiro veloce, stringeva una siringa che sembrava essere troppo rovinata e sporca per essere nuova. Quando lo aveva visto, Roger era scattato in piedi, con gli occhi spalancati, l’espressione in volto di chi sembrava sentirsi in trappola. Era corso via dalla cabina, schiacciandosi contro il muro del bagno mentre Brian gli si avvicinava, cercando di prendergli dalle mani una di quelle tante catene. Lo aveva visto premere velocemente il pistone verso il basso prima che potesse impedirglielo. Aveva guardato il liquido nella siringa scendere, aveva visto l’ago macchiarsi di rosso. E aveva visto Roger roteare le iridi azzurre e le pupille strette sotto alle palpebre, scivolare contro il muro mentre il maggiore cercava di sostenerlo prima che potesse crollare. Brian non ebbe il tempo nemmeno di avere paura che fu pervaso dal terrore. Il respiro del migliore amico era debole come il battito d’ali di una farfalla, il suo volto cianotico.
Roger Taylor, prima di quel giorno, non aveva mai sperimentato cosa realmente significasse la parola “Overdose”. Glielo avevano spiegato e aveva letto qualcosa nei libri. Ma non aveva mai saputo cosa fosse davvero. E se non ci fosse stato Brian, in quel bagno con lui, sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe provato.
Il riccio strinse gli occhi deglutendo, scuotendo la testa come a voler scacciare quel pensiero. Il pensiero del giorno in cui aveva quasi visto la morte negli occhi di una persona, il pensiero di quella siringa e di quell’ago macchiato di sangue. Guardò il suo migliore amico. – Ti prego. Ti prego Rog. Provaci.
- E’ la cosa che dico anch’io tutte le sere, prima di andare a dormire.
- Hai bisogno di provarci.
- Ho bisogno di provarci come tu hai bisogno di mangiare, Brian.
Il più grande fece un respiro profondo. Strinse i pugni, si morse un labbro. No. Non era vero. Lui non aveva il problema di Roger, lui stava bene. Era Roger a dover smettere. Erano tutti stupidi, anche Earl lo era, a dirgli di mangiare, a dargli i suoi piatti. Lui stava bene così, e se avesse ricominciato a mangiare avrebbe deluso tutti quanti. Soprattutto se stesso. Per Brian, se una cosa era come la considerava lui nella sua testa, doveva esser tale anche per gli altri. Per Brian non era facile cambiare idea, per Brian non era facile avere fame, per Brian non era necessario, era inutile mangiare anche solo un boccone di qualsiasi cibo. E a che gli sarebbe servito, dopotutto? Le persone lo avrebbero deriso, anche per quello. Come i bambini che lo avevano sempre preso in giro, alle elementari, per la sua debolezza. Ma lui era forte. E abbandonarsi al cibo, non era da persone forti. Un giorno sua madre gli si era avvicinata, mentre lui studiava le Costellazioni, appoggiandogli una mano sul viso, sospirando con un’espressione che a Brian era sembrata tanto triste negli occhi. “Sei così magro, Brian”.
Si era sentito bene. Si era sentito forte.
“Grazie, mamma”, aveva detto. Ruth non gli aveva sorriso come faceva di solito.
- Ma che è, questo casino? – fece Roger, distogliendolo dai suoi pensieri. Brian aveva notato che, effettivamente, fuori dalla stanza ci fosse un gran trambusto e un forte brusio. C’erano infermieri e medici ovunque, che correvano e, di tanto in tanto, imprecavano. Il maggiore sospirò, alzando le spalle. – Forse qualcuno sta male.
- Non ci sarebbe tutto questo baccano.
- E chi te l’ha detto?
Roger si chiuse nelle spalle, facendosi sfuggire un sospiro e giocando con il braccialetto con il suo nome che portava al polso. – Si sentono male tante persone e noi non ne sappiamo nulla, Bri. Non credo sia uno di quei casi. Non credo qualcuno oltre a te e quelli di ‘sto reparto abbia saputo qualcosa di sta mattina.
A Brian venne voglia di abbracciarlo. Roger aveva abbassato lo sguardo, puntandolo su quelle povere braccia martoriate dall’ago della siringa.
- Quel ragazzo, John. Lo hai lasciato da solo? – cambiò poi discorso il biondino.
- Dormiva.
- Beato lui. – Roger allungò le braccia verso l’alto, come a volerle stendere o stiracchiare. – Da quanto non dormi, tu?
- Sta notte ho dormito. Poco, ma ho dormito.
- Io non mi addormento di mia volontà da, più o meno, - il biondo si grattò la testa. – una settimana.
Brian abbassò lo sguardo. – Non puoi dirlo con così tanta leggerezza. Non davanti a me, che ci tengo a te.
- Ma sì, che t’importa? – si grattò una porzione di pelle scoperta sul collo. – Ho tante energie e poco tempo da sprecare dormendo. E lasciami le braccia, Cristo, sai che odio quando me le toccano.
- Finiscila di grattarti. Ti fai del male.
- Lasciami andare queste cazzo di braccia! – sbottò il ragazzo, dimenandosi e strattonando gli arti per liberarli dalla presa. Iniziò a tremare leggermente. – Va’ da John. Non ho bisogno di te e me la cavo da solo.
- Vieni anche tu?
- Sono controllato dall’inizio del primo mattino fino a quello del giorno dopo. Se mi vedono uscire dalla stanza me la mettono in culo.
- Se è per questo anche io dovrei essere nel mondo dei sogni da un bel po’, adesso.
- E’ diverso. E, fidati, me la mettono in culo comunque.
- Non è vero. Posso spiegare che sei da noi.
- Non mi faranno restare. Non voglio nemmeno. E poi, disturberei il tuo compagno di stanza.
Brian strinse le labbra. – Non ci avevo pensato.
I due ragazzi videro il giocane in questione in piedi davanti alla porta, a occhi strabuzzati. Al riccio fece un certo effetto, nella fioca luce dell’ospedale, nonostante fosse abituato a vedere gli occhi rossi e spiritati di Roger che lo fissavano a qualsiasi ora della giornata, anche di nascosto, anche in orari improponibili in cui, come il biondino stesso aveva detto, sarebbe dovuto essere nella sua camera. Era solito a contraddirsi.
- Brian, finalmente. Ti ho cercato dappertutto e… - balbettò John. Brian gli sorrise, andandogli vicino. – Ogni volta che mi cerchi e non mi trovi, o sono qui, o sono a mensa, o sono in uno dei dormitori al piano di sotto. Oppure, quando ho caldo, sono fuori a studiare. O a giocare con qualcuno a calcio, o giochi da tavolo.
John rimase a guardarlo per un attimo. Poi annuì. – Sì, sì, okay. Solo, io…
- C’è qualcosa che non ti piace? So che i letti fanno schifo, ma…
- Un tizio è appena saltato giù dalla nostra finestra!
Brian si irrigidì per un attimo. In quel posto ne aveva viste tante, davvero tante. Ma non aveva certo mai visto qualcuno uscire in piena notte scavalcando una finestra. Tantomeno la sua. Appoggiò le mani sulle spalle di John. – Non è che, forse, stavi sognando?
- Macché sognando, non sono mica scemo! L’ho visto. Era alto, credo avesse i capelli neri e… Oggi pomeriggio l’ho sentito e visto cantare in una stanza al piano di sotto.
- Scusa, ma teoricamente era ieri, perché è l’una del mattino. – lo aveva interrotto Roger, mentre Brian aveva spalancato gli occhi. – Cazzo, non di nuovo. Oh, cazzo.
- Cosa? Che cosa? – domandò il biondo dietro di lui. Il più grande scosse la testa. – Freddie è scappato di nuovo.
- Oh, cazzo! – esclamò allora il più piccolo.
Brian alzò gli occhi al cielo, passandosi una mano tra i ricci e sbuffando, guardando l’ultimo arrivato. – Sai dove sia andato?
- No, non ne ho la più pallida idea.
Il riccio scostò la mano dalla spalla di John, lanciando un’occhiata a Roger. – Lo dobbiamo trovare.
Il biondo sospirò, alzando le spalle. – Sì, e come? Non possiamo uscire da qui. O almeno, io non posso uscire da qui. Mi fissano tutti.
Il maggiore respirò profondamente. Guardò John, che intanto osservava i due ragazzi muovendo velocemente gli occhi dall’uno all’altro, come palline da pingpong.
Brian puntò gli occhi nei suoi. – Ti va di farci un giretto qua fuori?
 
 
Note delle autrici:
 
Ciao a tutti!
Innanzitutto, ci teniamo a ringraziarvi per il supporto e l’entusiasmo che ci avete mostrato dopo il capitolo precedente, ci ha fatto molto piacere e ne siamo rimaste molto soddisfatte!
Ci scusiamo anche per il lungo tempo di assenza, ma volevamo che il capitolo fosse più adatto e più rispettoso possibile per il tema, come abbiamo già detto vogliamo trattare questa storia con assoluta sensibilità, con delicatezza e rispetto, non con superficialità o banalità.
Noi vi ringraziamo tanto ancora per i consigli e il supporto che ci avete dato, speriamo che questo capitolo vi sia piaciuto e che continuerete ad interessarvi alla nostra storia!
 
B&M.

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