La Maledizione del Gatto

di Cioppys
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Disclaimer
Tutti i personaggi di Slam Dunk appartengono al grande, mitico e immenso Inoue-sensei.

Sproloqui di un’autrice
E’ da un po’ che non pubblico qualcosa – troppo – ma tra impegni vari, altri hobby e la riscrittura di questa fan fiction, che si è rivelata più ostica di quel che pensassi, siamo già arrivati al nuovo anno. Incredibile come il tempo voli e, senza accorgertene, ti ritrovi ad aver fatto un decimo di ciò che avresti voluto… ma che altro si può fare se non prenderla con filosofia? Comunque, complice il fatto di averci lavorato a lungo, stavolta ho deciso di godermi al meglio il frutto del mio sudato lavoro, facendo una cosa che, fino ad oggi, non avrei mai fatto, ovvero spezzare quella che originariamente era una one-shot in una short di tre capitoli… ma è giunta anche l’ora di smetterla di sbrodolare venti pagine di testo a botta, come se non ci fosse un domani!
Buona Lettura!

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La Maledizione del Gatto
di Cioppys

 

Capitolo 1

Fu l’improvviso rombo di un tuono alle spalle a suggerirgli di allungare il passo. Ma anche se si fosse messo a correre, la pioggia lo avrebbe raggiunto lo stesso nell’arco di un centinaio di metri: camminando, infatti, non ne percorse dieci quando le prime gocce, grosse come biglie, colpirono l’asfalto scuro.
Mitsui fece appena in tempo a ripararsi sotto la pensilina della fermata dell’autobus che si scatenò il finimondo: una cascata d’acqua continua, come se qualcuno avesse aperto infiniti rubinetti poco sopra le nuvole. Osservò il cielo farsi più scuro man mano che i minuti passavano e, deluso dall’apparente mancanza di schiarite all’orizzonte, si sedette mesto sulla stretta panchina di metallo.
«Merda…».
Non aveva la benché minima voglia di attendere che il temporale finisse o, quantomeno, diminuisse abbastanza di intensità da consentirgli di correre a casa e non arrivarci fradicio dalla testa ai piedi. Tuttavia, senza un ombrello, non aveva alternativa. L’idea di ammalarsi non lo allettava per nulla, soprattutto ora che mancavano pochi giorni alla partenza per Hiroshima.
Appoggiò rassegnato i gomiti sulle ginocchia e chinò il capo. L’attesa si prospettava lunga e altrettanto noiosa.
«Serve un passaggio?».
Mitsui sollevò lo sguardo di colpo e fissò Kogure, fermo sotto l’ombrello trasparente, come se fosse il messia.
«Sono realmente qui, non stai sognando!» rise il compagno di squadra vedendo la sua espressione stralunata. «Allora, lo vuoi o no questo passaggio?».
Era un invito allettante che però Mitsui tentennava ad accettare.
«Tu non abiti dalle mie parti…» gli fece notare.
Lui sorrise tranquillo. «Non vedo quale sia il problema».
«Il problema è che allungherai la strada, e di parecchio».
«Beh, quello non è affatto un problema» Kogure fece spazio sotto l’ombrello e lo invitò a raggiungerlo. «Pensi che potrei abbandonare un amico nel momento del bisogno? E poi, stiamo parlando di uno o due chilometri in più…».
E tu ne parli come se fossero metri, pensò Mitsui alzandosi comunque. Sospettava che, pur di non lasciarlo solo, in caso di rifiuto, il compagno di squadra si sarebbe seduto con lui ad aspettare insieme che spiovesse. Tanto valeva quindi accettare l’offerta e farsi riaccompagnare a casa.
Durante il tragitto, si ritrovarono ovviamente a parlare di basket e di quanto gli allenamenti si fossero intensificati negli ultimi giorni, in vista dell’ormai imminente partenza per i campionati nazionali.
«Due settimane e saremo ad Hiroshima» commentò Kogure con un fiero sorriso sulle labbra.
Mitsui lo ricambiò, orgoglioso anche lui dell’importante traguardo che avevano raggiunto. Un traguardo che, tuttavia, era solo l’ennesimo punto di partenza per un'altra grande avventura: ad attenderli ad Hiroshima, c’era infatti la lunga scalata verso la vetta del campionato, sei scontri ad eliminazione diretta che si sarebbero consumati in altrettanti giorni. Un impresa non semplice, sia a livello fisico che mentale, eppure Mitsui era certo che fosse alla loro portata. La sconfitta risicata contro il Kainan – una delle migliori squadre a livello nazionale – era la dimostrazione che potevano farcela se si fossero impegnati.
Sistemò elettrizzato la tracolla del borsone sulla spalla sinistra e si stupì di trovarla perfettamente asciutta.
Strano: stava sotto la parte esterna dell’ombrello, ed essendo in due, era certo che si sarebbe bagnata. Fu però sufficiente un’occhiata a quella destra di Kogure, situata dalla parte opposta, per risolvere l’enigma.
«Ehi, non coprire solo me!» sbuffò raddrizzando l’ombrello in mano all’altro.
«Ma così ti bagnerai-».
«E quindi?» lo interruppe. «Perché dovresti bagnarti tu? Stringiamoci, allora!».
Mitsui afferrò deciso la spalla ormai fradicia di Kogure e lo attirò a sé. Non capì affatto il motivo per cui si ritrovò un attimo dopo sotto la pioggia scrosciante, spinto fuori dall’ombrello che ora giaceva rovesciato a terra. Completamente zuppo nel giro di pochi secondi, fissò esterrefatto Kogure che, a tre passi da lui, nascondeva il volto dietro una mano. Appena però questi si accorse di cosa aveva fatto, iniziò a prodigarsi in mille scuse. Mitsui dovette impedirgli con la forza di inginocchiarsi a terra e ripetergli, fino alla nausea, che non si sarebbe ammalato per così poco, non se fossero corsi a casa, seduta stante, ad asciugarsi.
«M-mi dispiace...» biascicò Kogure per l’ennesima volta prima di seguirlo.
Raggiunsero la loro destinazione in poco meno di dieci minuti. Affannati dalla leggera salita nell’ultimo tratto di strada, si fermarono a riprendere fiato, al riparo della tettoia del cancello pedonale che fungeva da ingresso all’abitazione, una moderna villa di un singolo piano, dal raro stile occidentale.
Era la prima volta che Kogure vedeva la casa del compagno di squadra. Osservò incuriosito la struttura mentre strizzava le maniche corte della propria maglietta, finché la sua attenzione non venne catturata dall’ampia targa, in acciaio lucido, appesa sul muro a lato del cancello.
«Non sapevo che fossi figlio di un architetto» commentò «ma ora capisco tante cose…».
Mitsui, che di quella parentela ne avrebbe fatto volentieri a meno, gli chiese cosa intendesse dire.
«Beh, ad esempio… come la tua famiglia possa permettersi di abitare in un quartiere considerato esclusivo, e non solo per la splendida vista che si gode dalla costa» Kogure volse lo sguardo verso il mare che si stagliava impetuoso sopra i tetti delle case, al di là della strada, ad appena un chilometro in linea d’aria. Nonostante il maltempo, il caratteristico profilo dell’isola di Enoshima era perfettamente visibile sulla destra. «O come potessi permetterti gli abiti di marca che indossi sempre agli allenamenti…». 
Quella considerazione infastidì un poco Mitsui, nonostante fosse vera. Non aveva mai lesinato sul vestiario per giocare a basket. Di recente, poi, aveva dovuto acquistarne parecchio: in due anni era cresciuto abbastanza da fargli andare stretto molto di quello che utilizzava prima dell’infortunio, e giocare col cavallo dei pantaloni che strizzava le parti basse, era tutto fuorché comodo.
Kogure parve leggergli nel pensiero. «Non penso che tu sia un ragazzo viziato, solo molto benestante».
Era l’ennesima considerazione che, agli occhi degli altri, avrebbe reso ancora più paradossale il fatto che, una promessa del basket come Mitsui, si fosse iscritto ad una scuola pubblica semi sconosciuta come lo Shohoku, poco importava se dietro quella scelta ci fosse esclusivamente il desiderio di giocare nella squadra allenata da Anzai. Un desiderio che Mitsui aveva dovuto difendere coi denti quando, in terza media, aveva reso partecipi i suoi genitori del percorso scolastico deciso in autonomia e solo pensando al basket.
«E’ un progetto di tuo padre?» Kogure non ebbe bisogno di specificare di cosa parlasse, l’occhiata lanciata alla casa rendeva chiaro il soggetto della domanda.
«No, è di mio nonno: fu il suo regalo di nozze ai miei».
«Quindi è una specie di tradizione di famiglia essere architetti…».
Prima di rendersene conto, a Mitsui sfuggì un: «Purtroppo sì…».
Si morse il labbro furente. Non voleva parlare di quell’argomento, poco importava se Kogure avrebbe o meno capito e appoggiato la sua posizione. Mitsui non dette il tempo al compagno di squadra di approfondire e gli propose di entrare a cambiarsi.
«Ti presto qualcosa» disse prendendo il mazzo di chiavi e aprendo il cancello.
La sorpresa negli occhi di Kogure venne presto rimpiazzata da uno strano imbarazzo, che gli colorò le guance di un rosso acceso. «T-ti ringrazio, ma n-non c’è bisogno di scomodarsi t-tanto…».
«Ma quale scomodarmi-» Mitsui vide Kogure lanciarsi sotto la pioggia senza neanche aprire l’ombrello. «Ehi! Ti prenderai un malanno a tornare a casa zuppo come sei!».
«Non ti preoccupare, non succederà!» gli urlò lui in risposta, mentre si allontanava di corsa.
«Ohi- Kogure!» ma chiamarlo era inutile, visto la distanza a cui ormai si trovava.
Mitsui sospirò e, sperando che l’indomani l’amico non fosse a casa con l’influenza, varcò la porta di casa.
Nonostante lo stile moderno e occidentale, l’ingresso ricalcava quello tipico giapponese, un ampia zona dal pavimento in pietra dove lasciare le scarpe prima di accedere alla casa. Mitsui però, oltre alle scarpe al borsone del club, avrebbe dovuto lasciarsi gran parte del vestiario che aveva addosso per evitare la lunga scia d’acqua che lo seguì fin nel bagno, dove si precipitò subito dopo essere entrato.
Si stava frizionando i capelli fradici quando una voce femminile fece tremare le pareti di casa.
«Hisashi!».
Conoscendo il soggetto, non ci pensò due volte a precipitarsi fuori dal bagno così com’era, con l’asciugamano in testa e le sole mutande addosso. Ad attenderlo all’ingresso, c’era l’epicentro di quel piccolo terremoto – sua madre – che fissava il parquet sporco con le mani ben piantate sui fianchi e uno sguardo di fuoco che non prometteva nulla di buono.
«Non devo dirti io cosa devi fare, vero?».
Ovviamente no, pensò Mitsui prendendo, senza fiatare, spazzolone e straccio dallo sgabuzzino.
Iniziò a pulire mentre il freddo pungente della pioggia gli penetrava fin nelle ossa, alimentando la voglia spasmodica che aveva di immergersi, quanto prima, nell’acqua calda della vasca. La fretta però è spesso “cattiva consigliera” e quando, con lo spazzolone, urtò la gamba dello stretto tavolo situato in corridoio, il vaso carico di lilium bianchi, posto sopra, si salvò solo grazie al provvidenziale intervento di suo fratello maggiore.
«Mamma deve volersi male per chiedere a un imbranato come te di pulire!» lo schernì con un sorriso storto mentre rimetteva a posto l’oggetto.
A Mitsui prudettero le mani al solo vederlo.
Hitonari – così si chiamava – era il cocco di casa, il figlio ideale nonché prediletto. Era quello educato, intelligente e rispettoso delle tradizioni che non faceva mai sfigurare i loro genitori, non cogli amici, non coi vicini di casa, non coi parenti alle frequenti riunioni di famiglia. Era quello che frequentava, con ottimi risultati, la stessa università in cui si erano laureati il padre e il nonno. Era quello che aveva sempre ragione, anche nel torto più marcio.
Eppure non era sempre stato così.
Un tempo, anche Mitsui riceveva elogi e complimenti, e l’affetto che ogni figlio meriterebbe solo per essere nato. Poi era arrivato l’infortunio che gli aveva portato via tutto: stima, sicurezza e fiducia in sé stesso; ma anche amici e l’unica vera passione che avesse mai avuto, il basket. Dopo quell’evento, tutto aveva perso di significato, dalle apparenze sociali ai risultati scolastici. A distanza di due anni, Mitsui si biasimava per essersi lasciato andare, per aver dato molte ragioni ai suoi genitori di non poter più credere in lui.
Ora però era diverso, era una persona nuova.. ma di ringraziare il fratello per averlo salvato dall’ennesima sfuriata della madre, non gli passò neanche per l’anticamera del cervello.
«Beh, a differenza tua,  io so farmi un piatto di ramen senza mandare a fuoco la casa…».
Il viso di Hitonari si incupì. Odiava che qualcuno gli rinfacciasse uno dei due grandi difetti che aveva: la completa incapacità di cucinare, anche la pietanza più semplice, e l’avere un senso dell’orientamento pari a zero, tanto da essersi perso persino nel quartiere in cui viveva da quando, ventun anni prima, era nato.
«Cerchi rogne fratellino?».
«Non è forse la mia specialità?» ribatté beffardo, prima di colpire volontariamente i piedi dell’altro con lo straccio. «E ora levati dai coglioni… mi stai intralciando!».
Quando però Hitonari si accorse che le calze appena indossate non erano più così bianche, spinse irritato il fratello che, colto di sorpresa, scivolò sul pavimento bagnato e perse l’equilibrio. Il rumore secco dei cocci infranti, di un vaso che forse era destino andasse in mille pezzi, si udì in ogni angolo della casa. L’attimo di silenzio successivo venne spezzato dalle accuse reciproche urlate dai due fratelli e l’arrivo della madre, in cerca di spiegazioni, non fece che accendere maggiormente la discussione.
«Finitela!» al capofamiglia, uscito furente dal proprio studio, bastò una parola per mettere a tacere quel baccano assordante. «Cosa avete? Cinque anni? Hitonari, mi meraviglio di te! E Hisashi: sistema questo macello prima di venire da me!».
Mitsui sentì un brivido corrergli lungo la schiena nuda. Una convocazione del padre non era mai qualcosa di positivo, figurarsi se nata da una situazione di tensione come quella.
«Posso almeno fare il bagno?» si azzardò a chiedere «Ho freddo e non voglio ammalarmi…».
L’uomo sospirò. «Hai venti minuti».
E venti minuti furono.
Mitsui entrò nello studio del padre dopo aver bussato tre volte. Lo trovò in piedi, dietro la scrivania, a parlare animatamente al telefono di questioni lavorative. Per non disturbarlo più di quanto non avesse già fatto, si spostò nell’angolo opposto della stanza, davanti alla porta finestra che dava sul giardino retrostante la casa. Non c’erano piante e nemmeno fiori, solo un’ampia distesa d’erba verde, delimitata da una siepe alta un metro e mezzo che circondava l’intero giardino. Contro ogni previsione, aveva già smesso di piovere.
Se solo avessi aspettato dieci minuti, avrei evitato un sacco di problemi, pensò con una certa amarezza.
Quando abbaiò, Mitsui si accorse della presenza di Yuki al di là del vetro. Seduto sulle zampe posteriori, lo shiba di suo fratello lo osservava con la lingua a penzoloni, in trepidante attesa di coccole. Sapendo bene di non poterlo far entrare nello studio – zona off-limits per l’intera famiglia anche se, quando erano piccoli, il padre permetteva a lui e Hitonari di giocare lì e fargli compagnia, a patto che non lo infastidissero – Mitsui si accovacciò e accarezzò il vetro, sorridendo divertito quanto il cane prese a leccarlo con foga dall’altra parte.
«Tua madre sarà felice di dover ripulire il casino che gli stai facendo fare…».
Mitsui tolse immediatamente la mano. Non si era accorto che avesse finito la telefonata.
«Non ti preoccupare, lo pulisco io».
«Così magari rompiamo anche questo?».
«Non è stata colpa mia! Hito-» al sopracciglio alzato dell’uomo, Mitsui si morse il labbro. Che senso aveva cercare di giustificarsi? Tanto quello nel torto sarebbe stato lui, a prescinderei dai fatti. «Lascia perdere».
Suo padre scosse il capo e lo invitò a prendere posto alla propria scrivania. Nel sentire Yuki guaire mentre si allontanava, Mitsui provò un tremendo senso di disagio, giudicando il lamento del cane un avvertimento più che la tristezza dell’animale per le mancate coccole.
«Ho saputo dalla mamma che, quando ero a Kobe, hai dovuto ripetere alcuni esami…».
Più che accomodarsi, Mitsui si lasciò cadere sulla sedia. Aveva tanto pregato che la donna tacesse su quel “piccolo” particolare…
«L’altro giorno sono quindi andato a scuola a parlare coi professori» continuò il padre. «Ammetto di essere rimasto sorpreso nel sapere che il tuo comportamento è migliorato parecchio. Lo stesso, però, non si può dire dei tuoi voti…».
Ed eccole qui le noti dolenti, pensò Mitsui deglutendo.
L’uomo non fece troppi giri di parole e andò dritto al punto: «Hisashi, la tua media è bassissima, la più bassa che si sia mai registrata da generazioni nell’intera famiglia. Le capacità le hai, per cui il problema è uno solo: non studi! Come pensi di passare gli esami di ammissione all’università? Giocando a basket?».
Fu il tono dispregiativo con cui lo disse che lo innervosì.
«Ne parli come se fosse un’eresia…» ringhiò.
«Perché è un’eresia!». Mitsui sobbalzò quando il padre picchiò il pugno sul tavolo. «Ti abbiamo permesso di iscriverti a una sconosciutissima scuola pubblica, chiudendo mille occhi, per assecondare il desiderio che avevi di giocare nella loro squadra, squadra che hai mollato dopo un mese-».
«Mi ero infortunato!» lo interruppe, indignato per come gli stesse rinfacciato ancora quella scelta.
«Non cambia il fatto che hai smesso di giocare per due anni!» lo rimbeccò il padre. «Hai praticamente gettato al vento la tua carriera scolastica per uno stupido hobby!».
Mitsui si alzò in piedi furioso. «Il basket non è uno stupido hobby!».
«Beh, lo diventerà» l’uomo prese dalla scrivania un foglio e glielo mostrò. «Hai impegni più importanti dei campionati nazionali…».
Quello che il padre stracciò davanti ai suoi occhi spalancati, altro non era che l’autorizzazione firmata dal genitore che Mitsui avrebbe dovuto consegnare l’indomani a scuola. Senza, non sarebbe potuto partire per Hiroshima col resto della squadra.
Con le lacrime agli occhi, Mitsui raccolse i brandelli di carta sparsi un po’ ovunque.
«Papà… no, ti prego… qualsiasi cosa, ma non i campionati…».
Non gli importava di apparire ridicolo mentre ricomponeva il foglio sul pavimento con mani tremanti, o di calpestare senza tregua il proprio orgoglio supplicando come un cane randagio farebbe per un tozzo di pane. Era del suo agognato sogno che stavano parlando, un sogno che si era appena trasformato in un incubo, a cui il padre non sembrava voler porre fine.
«In ottobre si terranno le prime simulazioni degli esami di ammissione alla Nanto» disse guardando fiero la propria laurea lì conseguita, appesa sul muro a fianco in una elegante cornice nera. «Mi aspetto che partecipi, Hisashi, e che tu ottenga il risultato che mi aspetto».
Mitsui guardò il padre con un groppo in gola. «P-papà, aspetta-».
«Ho del lavoro da sbrigare, ora» fu la secca replica, che pose fine alla discussione.
Quando uscì dallo studio, Mitsui era come intrappolato in una bolla, in un mondo a lui completamente estraneo. Non sentiva nulla, non provava nulla, finché d’un tratto non iniziò a mancargli l’aria.
Udendo dei rumori all’ingresso, sua madre si affacciò dalla porta della cucina.
«Hisashi, dove stai andando?» chiese quando vide il figlio indossare in fretta e furia le scarpe. «Guarda che è quasi pronta la cena…».
Mitsui non rispose. Peggio, non la degnò nemmeno di uno sguardo. Aprì la porta e corse fuori sotto la pioggia che aveva ripreso a cadere, incurante delle urla con cui la madre gli intimava di tornare subito indietro.
Raggiunse il parco giochi situato qualche isolato a nord. Lo conosceva bene: durante le elementari, si fermava spesso a giocare coi propri compagni di ritorno da scuola e, negli anni, non era cambiato di una virgola. Si rifugiò nella costruzione in cemento verde posta in un angolo, un tubo cavo abbastanza grande da poterlo ospitare seduto all’interno. Fu lì che, ginocchia al petto, lasciò libero sfogo a tutta la propria rabbia ed amarezza, lontano da occhi indiscreti e nascosto dal fitto rumore della pioggia.
Si chiese come avrebbe spiegato quel macello ai compagni di squadra, all’allenatore Anzai, domandandosi anche se un intervento, suo o della scuola, potesse sbloccare l’amara situazione.
«Si, come no…» mormorò ironico tra le lacrime. Suo padre non era il tipo da fare marcia indietro, non quando aveva preso una decisione che reputava definitiva.
Il pensiero dei compagni lo riportò indietro di un’ora, a quella chiacchierata sotto l’ombrello con Kogure. Il ricordo della gioia, con cui l’amico gli aveva parlato della qualificazione, fu un pugno in pieno stomaco: con che coraggio l’avrebbe guardato ancora in faccia se avesse tradito, una seconda volta, la promessa fatta in prima superiore?
Mitsui stava tremando quando qualcosa strusciò contro le sue gambe. Terrorizzato, si gettò all’esterno con un’irruenza tale da non guardare dove e finì per centrare una pozzanghera situata lì davanti.
«Merda!» esclamò irritato, togliendosi il fango che gli aveva imbrattato parte della faccia.
A farlo fuggire dal suo rifugio era stato un soriano rosso.
Quando lo vide sedersi all’imboccatura del tubo, Mitsui afferrò un sasso e, in preda alla rabbia, glielo tirò. L’animale schivò il colpo con l’agilità propria di un felino, per poi miagolare tutto il proprio disappunto per il gesto poco gentile. Sentendosi preso in giro, Mitsui si scagliò contro di lui e, complice il fattore sorpresa, riuscì ad afferrarlo per la coda prima che si allontanasse.
La reazione del gatto, tuttavia, non tardò ad arrivare.
«Maledetto bastardo!» urlò Mitsui stringendosi il dorso della mano, dove le unghie erano affondate in profondità nella pelle provocandogli un bruciore tremendo.  
Osservò le piccole gocce di sangue colargli tra le dita insieme alla pioggia e sebbene sapesse che tornare a casa a disinfettare la ferita, ad asciugarsi, fosse la soluzione migliore, la sola idea di incontrare il padre gli provocava ansia e un forte senso di nausea.
Mitsui riprese posto all’interno del tubo sotto l’occhio vigile dal gatto, fermo all’entrata opposta. Non sembrava voler abbandonare il fortino, ma finché si manteneva a distanza, non aveva obiezioni a condividere il riparo. Mentre lo guardava, la sua attenzione venne catturata dalla lunga coda che ondeggiava da destra a sinistra, un movimento ritmico che divenne presto ipnotico. Mitsui cercò di sbattere le palpebre, senza però riuscirci, e quando, qualche secondo dopo, la vista gli si annebbiò, perse completamente i sensi.
Riaprì gli occhi che il sole stava sorgendo sul mare, ad est, sbattendogli con prepotenza in faccia il fatto di non essere rientrato a casa per la notte. Si alzò in piedi trafelato e corse fuori dal tubo, accorgendosi che qualcosa non andava dopo pochissimi passi. Si sentiva fisicamente strano e quando guardò quelle che avrebbero dovuto essere le sue mani, non seppe cosa pensare, tanto fu lo shock.
Zampe.
Si, al posto delle mani aveva due piccole zampe, una bianca e una nera, coi morbidi cuscinetti sottostanti di un grigio pallido. E no, il problema non si fermava alle sole mani.
Mitsui fissò allibito dapprima la pancia coperta da una lucida pelliccia nera, poi la coda che si erigeva dritta sopra la sua schiena. Arricciò naso e quando lunghi baffi grigi ondeggiarono davanti ai suoi occhi, fu colto dal panico: cercò di urlare, ma tutto ciò che emise fu una serie di miagolii striduli.
– Sei ridicolo zampetta bianca, ma molto molto divertente! –.
Non fu una voce quella che Mitsui udì, perché non ci fu alcun suono, solo la traccia di un pensiero non suo che però proveniva direttamente dalla sua testa. Convinto di essere impazzito dopo la sconvolgente scoperta di essere diventato chissà come un gatto, si stava già disperando quando il suo reale interlocutore ebbe compassione di lui e gli rivelò dove cercarlo.
– Tu? – esclamò dopo aver incrociato lo sguardo del soriano, sdraiato sopra l’entrata del tubo.
– Oh, ti ricordi davvero di me? – ribatté lui sarcastico, continuando a leccarsi il pelo con noncuranza. – Quindi ti ricordi anche di quanto sei stato scortese nei miei confronti… –.
Mitsui grugnì. – Sei tu che mi hai graffiato! –.
– Vero, ma solo dopo che tu mi avevi tirato la coda – gli rammentò indispettito il gatto. – Pensavi forse che non facesse male? –.
Non era qualcosa che Mitsui si era chiesto, non prima almeno. Adesso, invece, che sentiva la presenza fisica della propria coda attaccata al sedere, dubitò che fosse piacevole se qualcuno gliel’avesse tirata.
– Mi hai spaventato, e fatto arrabbiare… – cercò di giustificarsi.
Il soriano sbadigliò annoiato da quelle patetiche scuse.
– Beh, ormai la tua punizione l’hai avuta – aggiunse allungando le zampe e stiracchiandosi la schiena.
– Punizione…? – sul momento, Mitsui non capì a cosa si stesse riferendo. – Aspetta, vuoi dire che… sei stato tu a farmi questo?! –.
Il muso di un gatto non poteva esprimere divertimento, ma Mitsui percepì chiaramente la maligna soddisfazione che il suo aguzzino provava nel vederlo conciato in quel modo e in palese difficoltà.
– Ti piace la mia “piccola” maledizione? – domandò sogghignando. – E’ il modo migliore per far capire a voi, stupidi umani, quanto sia dura la vita di un animale randagio… –.
– Cosa- – l’incredulità di Mitsui venne presto soppiantata dalla rabbia. – Maledetto! Fammi subito tornare normale! –.
– E perché dovrei? –.
– Mi prendi per il culo?! –.
– E comunque non posso – il soriano si alzò in piedi, mentre sotto le zampe di Mitsui si apriva un baratro. – Su, imparerai presto a cavartela- –.
– Finiscila coglione! – lo interruppe. Sarebbe davvero rimasto un gatto per il resto dei suoi giorni? Un brivido gli percorse la schiena. – Non è affatto divertente! –.
– Non ho mai detto che debba esserlo… –.
Con un elegante balzo, il soriano lo raggiunse sul terreno e iniziò a girargli intorno, esaminandolo con quell’aria soddisfatta che Mitsui avrebbe voluto cancellargli a suon di pugni… o di graffi, vista la situazione.
Fu allora che gli si accese una lampadina.
– Hai detto che è una maledizione… –.
Il soriano lo guardò circospetto. – E quindi? –.
– Per definizione, una maledizione può essere spezzata –.
– Chissà… – fece vago, ma a Mitsui non sfuggì il giallo dei suoi occhi farsi più scuro. – Ora però devo proprio andare – e, senza aggiungere altro, si allontanò a grandi passi, in direzione della strada.
– No! Aspetta! –.
Mitsui lo seguì, peccato che mancava completamente di coordinazione per correre con efficacia con quel corpo nuovo e sconosciuto. Il soriano lo seminò in breve tempo e a lui non restò che continuare a cercare, e cercare, e cercare, spinto dalla pura disperazione.
No, quella di rimanere un gatto non era un’opzione accettabile.

Continua

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


 

La Maledizione del Gatto
di Cioppys

 

Capitolo 2

Era una strana costante la pioggia di quei giorni, tanto quanto il ritrovarsi bloccato sotto la stessa pensilina del pomeriggio precedente. La grossa differenza stava nella sua forma fisica: ieri quella di un normale essere umano, oggi quella di uno stupido gatto.
Mitsui si acciambellò sotto la stretta panchina in metallo, al riparo da vento e pioggia. Aveva il pelo fradicio e i muscoli delle zampe molli e doloranti per aver girato, in lungo e in largo, tutti i quartieri limitrofi sotto un tremendo acquazzone iniziato quella mattina. Ore e ore di cammino, che però non avevano dato alcun frutto: l’artefice dei suoi guai sembrava essersi volatilizzato. 
Spinto dalla fame, era passato anche da casa, con la flebile speranza di poter racimolare qualcosa da mangiare. Purtroppo, la presenza di Yuki, libero nel giardino, gli aveva persino negato l’accesso dal cancello sulla strada: appena il cane l’aveva visto infilare la testa tra le sbarre verticali, gli si era precipitato contro, abbaiando come un pazzo. Spaventato, Mitsui era corso via a gambe levate.
Rannicchiato sul cemento, cercò di ignorare sia il freddo che lo faceva tremare come una foglia, sia i morsi della fame che invece gli contorcevano lo stomaco. Non era semplice, e infatti lo sconforto prese lentamente il sopravvento. Mitsui si ritrovò così a piagnucolare, col musetto rosa infilato sotto la lunga coda che lo circondava da un lato.
Un triste lamento che – per sua fortuna – non restò a lungo inascoltato.
«Ehi, piccolino…».
Nel ritrovarsi però delle dita sconosciute davanti agli occhi, Mitsui reagì d’istinto e le graffiò. Solo successivamente scoprì che non appartenevano affatto ad un estraneo: vedere Kogure massaggiarsi la mano ferita, lo fece sentire tremendamente in colpa per non averlo riconosciuto subito. Eppure il destino gli aveva appena offerto l’opportunità della vita: anche se non poteva parlare o farsi capire in modo chiaro, Mitsui si precipitò fuori dal proprio nascondiglio in cerca d’aiuto.
Kogure sorrise nel vedere come il gatto, adesso, si avvicinasse a lui senza alcun timore.
«Scusami… ti ho spaventato, vero?» lo accarezzò sulla testa e si accorse di quanto il suo pelo fosse bagnato. «Ma tu sei completamente zuppo!».
Non ci pensò due volte ad aprire la borsa del club e recuperare una salvietta, in cui avvolse con cura il gatto per asciugarlo. Vedendolo molto collaborativo, si azzardò a prenderlo in braccio.
Che bel calduccio, pensò Mitsui raggomitolandosi contro il petto dell’amico.
«Cos’è? Ora fai le fusa?» rise Kogure. 
Considerando che non sapeva nemmeno come lo stesse facendo, Mitsui non si era accorto di essere lui a produrre quel suono basso e costante. Eppure era qualcosa che gli usciva in modo naturale, forse sotto il suggerimento della sua attuale indole felina. Che fosse una specie di ringraziamento per come l’amico lo stesse trattando? Mitsui dovette ammettere che si sentiva bene, coccolato con tanto affetto che persino la fame pareva un lontano ricordo. Tuttavia non ebbe il tempo di ambientarsi completamente che Kogure lo posò a terra.
«Adesso devo proprio andare, piccolino».
Quelle poche parole gettarono Mitsui nel panico. Lasciarlo andare significa perdere ogni possibilità di mettere qualcosa sotto i denti, di dormire in un posto caldo e asciutto. Non era l’idea in sé di passare la notte fuori a terrorizzarlo, ma di doverla passare nei panni di un stramaledetto gatto.
«Ehi, non seguirmi!» gli ordinò Kogure appena si accorse che lo stava pedinando.
Parole gettate al vento per come Mitsui continuò imperterrito a stargli alle calcagna: non sapendo dove il compagno di squadra abitasse con precisione, non poteva permettersi di perderlo di vista. E quando infine Kogure si fermò di fronte ad una piccola villetta – una delle tante presenti sulla via – Mitsui approfittò dell’attimo che impiegò ad aprire il cancello per strusciarsi miagolando contro le sue gambe.
«Sei proprio testardo…» sospirò lui, accovacciandosi ad accarezzarlo. «Però non posso farti entrare: mia madre non vuole animali in casa… lo capisci?».
Mitsui capiva solo che il suo stomaco stava brontolando dalla fame. Non si arrese, certo che Kogure avesse un cuore troppo tenero per abbandonare al proprio destino un animale bisognoso come un micio affamato.
«E va bene! Hai vinto!» fece infine esasperato dal suo continuo lamento. Lo prese sottopancia e lo infilò nella borsa aperta del club, tra l’asciugamano e gli indumenti usati durante l’allenamento. «Ora però fai silenzio!».
Mitsui obbedì e si acquattò in ascolto. Udì Kogure annunciarsi appena varcata la soglia di casa e un paio di voci femminili rispondere all’unisono… che una fosse la sorella? Ad ogni modo, la sua eterna convinzione che fosse figlio unico, venne definitivamente cancellata quando ben due ragazzi lo salutarono con l’appellativo di “fratellone”.
Ma quanti cazzo sono?, si domandò esterrefatto mentre Kogure saliva di corsa le scale, sballottandolo da una parte all’altra nella borsa.
«Adesso resta qui» gli intimò infine quando, giunti nella sua camera, lo appoggiò sul futon piegato dentro l’armadio, che socchiuse prima di allontanarsi.
Mitsui osservò curioso l’ambiente al di là dello spiraglio da cui filtrava l’ultima luce del giorno: era una stanza in tatami, lunga e stretta, arredata in modo minimale, con un basso tavolino e una piccola libreria. Riconobbe il dorso di alcuni libri di scuola lì riposti e, con stupore, anche quello di alcuni manga. Cercò di allargare la fessura con le zampe e col muso, ma l’anta si rivelò essere più pesante del previsto. Non riuscendo a smuoverla di un millimetro, desistette e, rassegnato a dover attendere, si sdraiò sul futon.
Era stata una giornata irreale e non sapere come uscire da quell’assurda situazione, non lo aiutò a rilassarsi. Eppure, complice il pesante stato generale di stanchezza, sia fisica che mentale, Mitsui si addormentò nel giro di pochi secondi. Fu tuttavia un sonno agitato, per nulla riposante, e, quando qualche ora più tardi aprì gli occhi, la speranza che fosse stato solo un incubo si infranse contro la luce artificiale che arrivava da oltre l’anta dell’armadio, ora mezza aperta.
Seduto a gambe incrociate contro il muro opposto, Kogure stava leggendo un manga. Appena si accorse che era sveglio, si avvicinò con un sorriso. 
«Ti sei fatto una bella dormita, eh?» lo accarezzò sulla testa. «Hai fame?».
La domanda drizzò le orecchie di Mitsui. Ovvio che aveva fame! Fosse stato per lui, si sarebbe mangiato un bovino intero. Purtroppo dovette accontentarsi di due fette di prosciutto che Kogure tolse dal proprio panino.
«Non ti piace?» gli chiese quando allontanò schifato il muso dal bicchiere che gli mise sotto il naso.
Se c’era una cosa che Mitsui odiava era il latte. Fin da quando aveva ricordi, sua madre lo aveva costretto a berne litri nonostante non ne sopportasse il sapore, col risultato che, ora, il solo odore gli provocava nausea.
Perché poi dare del latte a un gatto quando ha sete? Voglio della stramaledetta acqua!, borbottò tra sé, rifiutando una seconda volta il bicchiere.
«Beh, forse non ti fa nemmeno bene…» fece Kogure dubbioso.
Trangugiò lui il latte, in pochi sorsi, prima di sparire oltre la porta della sua camera. Quando rientrò, oltre all’acqua, aveva con sé un altro paio di fette di prosciutto prese di nascosto dal frigorifero. Mitsui vi si avventò sopra, facendo ridere il compagno di squadra per la voracità con cui le fece sparire, felice poi di potersi finalmente dissetare da qualcosa che non fosse una pozzanghera.
«Non sembri un randagio» ipotizzò Kogure, prendendolo in braccio quando ebbe finito. «Chissà, forse ti sei solo perso…».
Magari fosse così, pensò Mitsui che, già alle prime carezze, capì perché ai gatti piacesse tanto farsi grattare dietro le orecchie – e non solo. Iniziò a fare le fusa mentre un senso di piacere e pace gli rilassò ogni muscolo del corpo. Un bellissimo momento di relax che purtroppo non durò a lungo.
«Kiminobu? Sei ancora sveglio?».
L’apertura improvvisa della porta non permise a Kogure di nascondere ciò che stava stringendo tra le braccia. Mitsui sgusciò comunque dalle sue mani e si rifugiò nell’armadio, sotto lo sguardo stupito della ragazza che, di lì a poco, avrebbe scoperto essere la sorella maggiore di Kogure
«Lo sai che mamma non vuole animali in casa…».
«Lo so benissimo, Kazumi…» fece mogio, sapendo di essere nel torto.
La sorella alzò un sopracciglio. «E allora perché è ancora qui?».
Lui parve cadere dalle nuvole. «Mi stai dicendo che dovrei buttarlo fuori con questa pioggia...?».
Stando alle ultime previsioni, quella notte ci sarebbe stato il passaggio del tifone che stava causando maltempo da ormai due giorni. Nulla di particolarmente violento, ma l’idea di mettere alla porta, proprio oggi, quel gattino, lo faceva star male.
Kazumi sospirò. «Se vuoi tenerlo, anche solo per una notte, ti consiglio di dirlo alla mamma prima che lo scopra lei…».
Kogure annuì, anche se temeva che sarebbe stato inutile.
Fu una lunga discussione quella che si sviluppò dapprima in cucina, poi nella stessa camera di Kogure, dove l’intera famiglia venne in pellegrinaggio per visionare l’oggetto del contendere. Per Mitsui fu un supplizio essere guardato con sospetto ed esaminato da cima a fondo, ma la madre del compagno di squadra voleva assicurarsi che non avesse pulci, qualche infezione o strana malattia. Alla fine, dopo invocazioni e preghiere di ogni tipo, Kogure riuscì a strappare il permesso di tenere il gatto finché non avesse trovato il padrone – perché dal comportamento e l’ottimo stato, era palese che non fosse un randagio – o qualcuno che se ne occupasse, entro un tempo limite di una settimana.
«Ancora stento a credere che tu ci sia riuscito…» commentò Kazumi sulla porta del bagno, mentre osservava il fratello lavare in un catino l’ultimo, seppur temporaneo, acquisto della famiglia.
Kogure sorrise. «Anch’io… ehi! Dove vai?».
Mitsui miagolò contrariato quando il suo tentativo di fuga venne stroncato e immerso di nuovo nell’acqua. Era troppo calda per i suoi gusti e l’energia con cui Kogure gli sfregava il pelo, per pulirlo a fondo, non lo aiutava a stare meglio. Tirò un enorme sospiro di sollievo quando giunse il momento del risciacquo – con l’acqua finalmente ad una temperatura accettabile – e quello successivo dell’asciugatura. Adorava come Kogure lo coccolasse mentre lo tamponava con l’asciugamano. Fare le fusa gli venne naturale.
«Kiminobu, non ti ci affezionare…».
L’avvertimento sincero della sorella ebbe l’effetto di smorzare la gioia che animava Kogure mentre cullava tra le braccia quel gomitolo di pelo nero. Era consapevole che non sarebbe rimasto a lungo con loro, motivo per cui dargli un nome non aveva senso, eppure Kogure non poté farne a meno.
«Non posso mica continuare a chiamarti “ehi” o “gatto”…» si giustificò osservando Mitsui sonnecchiare nella cesta, imbottita da un cuscino, sistemata a fianco del futon su cui era sdraiato. «Che ne dici di Mitchi?».
A quel nomignolo, Mitsui sollevò il muso e aprì gli occhi sconvolto.
«Ti piace?» interpretò erroneamente l’amico. «E’ il soprannome che un kohai ha dato a un altro compagno di squadra…».
Kogure allungò un braccio verso la libreria e prese un quaderno. Lo aprì sul cuscino, al centro, e sparpagliò sulle pagine bianche alcune foto che erano conservate all’interno. Nel vedere l’espressione assorta con cui le studiava una ad una, Mitsui uscì dalla cesta con un balzo e si avvicinò curioso al compagno di squadra. Le riconobbe all’istante: erano quelle scattate il giorno in cui si erano guadagnati l’accesso ai campionati nazionali, sconfiggendo il Ryonan. Dopo aver comunicato la lieta notizia all’allenatore Anzai, ancora ricoverato in ospedale, di ritorno a casa si erano fermati a festeggiare in un ristorante di ramen. Kogure prese quella che Ayako aveva fatto a loro due mentre, seduti uno di fianco all’altro, brindavano felici e sorridenti alla vittoria con della semplicissima acqua.
«Sono proprio una causa persa…» sbuffò appoggiando la foto sugli occhi chiusi.
Mitsui non capì di che stesse parlando e non ebbe modo di avere una riposta: Kogure radunò in silenzio le foto e le rispose al sicuro nel quaderno.
«Buonanotte Mitchi» disse accarezzandolo un ultima volta prima di spegnere la luce, tramite il lungo filo che pendeva dalla lampada a soffitto: lo tirò una volta e la camera piombò nell’oscurità della notte.
 
«“Mitchi”? Ma che cavolo di nome è?» esclamò Kotaro, fissando perplesso il fratello.
Kogure sorrise senza rispondere e appoggiò a terra una ciotolina. Appena Mitsui vide il contenuto – della carne in scatola – non esitò a varcare la porta della cucina in cui aveva indugiato ad entrare un attimo prima, al seguito di Kogure, intimorito dalla presenza dell’intera famiglia, seduta al tavolo a fare colazione… e a ragione visto come, a pochi centimetri dalla meta, qualcuno gli tirò a tradimento la coda.
Il miagolio stridulo che emise fece sobbalzare tutti i presenti.
«Keita!» il padre rimproverò il piccolo di casa – dieci anni appena compiuti – che lasciò andare la propria preda controvoglia.
«Ma io voglio giocare!» sbuffò seccato da come il gatto si rifugiò tra le braccia del fratello maggiore.
La madre gli diede un buffetto sulla testa e indicò la scodella di cereali ancora piena.
«Altro che giocare! Se non ti muovi, arriverai di nuovo tardi a scuola!» lo riprese. «Anche tu, Kiminobu! Smettila di stare appresso a quell’animale e vieni a mangiare!».
Kogure posò Mitsui davanti alla scodella e obbedì senza fiatare: sapendo che la madre poteva cambiare idea sul gatto in qualsiasi momento, preferì evitare di tirare troppo la corda.
A Mitsui non restò che spazzolare la carne… non che gli dispiacesse: riempire quel buco nello stomaco, che faceva invidia alla fossa delle Marianne per profondità, era la sua prima necessità. La seconda fu decidere come impegnare la giornata una volta che tutti uscirono, chi per andare al lavoro, chi a scuola.
Tutti, ad eccezione della madre di Kogure.
«Beh, che hai da guardare?» disse la donna appena ebbe finito di sistemare la cucina. «Su, fila in giardino! Non ti voglio tra i piedi mentre pulisco casa!».
Mitsui non se lo fece ripetere una seconda volta, non quando venne calorosamente invitato ad uscire con una scopa. Vista l’indole bonaria del compagno di squadra, l’immagine che si era fatto della madre – quella di una persona molto dolce e comprensiva – era completamente opposta alla realtà. In confronto, la sua, di madre, pareva una santa.
Pensando a lei, la domanda se fosse o meno preoccupata del suo mancato rientro fu inevitabile. Decise che quello era il momento migliore per passare da casa e constatare lo stato coi proprio occhi, con la speranza che, nel frattempo, avesse un’idea su come uscire da quella situazione.
Giunto nei pressi del cancello, Mitsui controllò che Yuki non fosse libero per il giardino. Quando ne ebbe la – quasi – certezza, passò attraverso le sbarre e si avvicinò guardingo alla casa, affacciandosi alla portafinestra del salotto. All’interno, seduta sul divano, sua madre si torceva nervosa le mani, bofonchiando parole a lui incomprensibili nonostante l’anta socchiusa.
«Si, ho capito. La ringrazio molto. Arrivederci».
La voce di suo padre ne preannunciò l’ingresso nella stanza. Mitsui lo vide fermarsi sulla porta e, col telefono ancora appoggiato all’orecchio, fare un cenno negativo alla moglie. Quando questa si coprì la bocca e le lacrime presero a scorrere sulle sue guance, provò un misto tra sgomento e dolore.
Il padre si precipitò al suo fianco. «Kaname-».
«Ho paura Masaki» la donna cercò conforto tra le braccia del marito, ma nulla potevano contro la totale incertezza del momento. «E se gli fosse successo qualcosa? E se-».
«Hisashi non è uno stupido» la interruppe «e il fatto che nessun ospedale, nel raggio di chilometri, abbia ricoverato un ragazzo corrispondente alla sua descrizione, è comunque una buona notizia…».
«E allora dov’è il mio bambino?!» urlò lei disperata, sull’orlo di una crisi di nervi.
L’uomo la strinse a sé, cercando di placare i suoi singhiozzi ormai incontrollabili.
«E’ colpa mia» ammise. «Sapevo quanto tenesse ai campionati nazionali, quanto si stesse impegnando per renderci di nuovo fieri di lui… non avrei dovuto-».
Convinta che il marito si stesse assumendo più responsabilità del dovuto, la donna lo zittì appoggiandogli le dita della mano sulle labbra.
«Non è colpa tua» mormorò con voce tremante. «Non è colpa di nessuno…».
Incapace di continuare a guardare la sofferenza di cui era la causa, Mitsui si allontanò stretto nel proprio dolore, oltre che colmo di rabbia per non poterli rassicurare: avrebbe voluto dir loro che stava bene… imprigionato nel corpo di un maledetto gatto, ma pur sempre vivo e vegeto.
Costeggiò sovrappensiero il muro della casa, fino a raggiungere la portafinestra della propria camera. Fu qui che ebbe la grande sorpresa: suo fratello che, dal suo letto, osservava la stanza con volto scuro. Non era arrabbiato – conosceva quell’Hitonari e il particolare modo che aveva di piegare il labbro da un lato quando era furioso. Sembrava più… triste, il che era un paradosso per Mitsui, convinto com’era da sempre che Hitonari lo odiasse dal profondo del cuore e che, se fosse sparito dalla sua vita, sarebbe stato l’uomo più felice della terra. E invece suo fratello era lì, assorto nei propri pensieri, con gli occhi lucidi, a rigirarsi tra le mani la sua palla da basket preferita che teneva, come un tesoro, ai piedi del letto.
Concentrato com’era su Hitonari, Mitsui non si accorse dell’entrata di Yuki dalla porta. Appena il cane lo vide, al di là del vetro, si precipitò contro la finestra abbaiando come una furia. Spaventato, Mitsui girò i tacchi e corse via, fermandosi solo una volta raggiunta la strada, oltre il cancello che avrebbe impedito al suo inseguitore di uscire dal giardino.
Fui qui che l’angoscia gli attanagliò la gola.
E adesso? Cosa posso fare? Cosa devo fare?!
Tante domande, troppe, a cui Mitsui non ebbe modo di dare una risposta.
 
«Che c’è, Mitchi? Non hai fame?».
Kogure fissò preoccupato il gatto acciambellato nella cesta che era stata il suo letto la notte precedente. Per come ogni volta si fiondava sul cibo, appena questo era alla sua portata, era sospetto come avesse ignorato il piattino con la cena di quella sera.
«Non starai male, vero?».
Ora che ci pensava, era mogio fin da quando era rientrato a casa. Se all’inizio aveva creduto che stesse semplicemente poltrendo, adesso quella strana apatia appariva tutto meno che pigrizia.
Qualcuno bussò alla porta.
«Posso giocare col gatto?» chiese impaziente Keita, non appena aprì.
Conoscendo il fratellino, Kogure immaginò che avesse passato l’intera giornata in attesa di quel momento. Non avrebbe voluto deluderlo ma, visto le sue attuali condizioni, non se la sentì di sottoporre quel povero animale ad ulteriore stress.
«Non penso che oggi ne abbia molta voglia…».
«Che novità è questa del gatto?».
All’interno della stanza, Mitsui drizzò le orecchie. Conosceva quella voce…
«Akagi?» Kogure fissò perplesso l’amico, fermo all’imbocco delle scale. «Quando sei arrivato?».
Fu Keita a rispondere per lui. «Ah… mamma mi aveva detto di avvisarti che avevi un ospite…».
«E non avresti dovuto dirmelo subito?».
Kogure sorrise divertito al fratellino, che gli mostrò la lingua e rientrò un po’ deluso nella sua stanza, poi fece accomodare Akagi nella propria. Questi si sedette vicino all’entrata, degnando appena di uno sguardo il felino acciambellato nella cesta, quando invece avrebbe dovuto suscitare parecchie domande. Ma, dalla sua espressione cupa, persino Mitsui si era accorto che quella non era una semplice visita di cortesia.
«Che succede? Hai una faccia…».
«Siediti» quasi gli ordinò Akagi e Kogure prese posto di fronte a lui. «Mezz’ora fa mi ha chiamato l’allenatore Anzai. Mi ha chiesto se avessi notizie di Mitsui. Gli ho risposto di no. Vista l’assenza da scuola e il tuo racconto di come ieri siete tornati a casa entrambi fradici, credevo che fosse semplicemente malato… purtroppo non è così…».
Negli occhi di Kogure serpeggiò la preoccupazione. «Che vorresti dire…?».
«I genitori di Mitsui hanno contattato la scuola perché manca da casa da ieri sera…».
Il silenzio calò improvviso nella stanza, pesante, opprimente, quasi soffocante. Mitsui non si aspettava una simile mossa da parte dei suoi, ancora meno che il suo compagno di squadra iniziasse a piangere.
«Kogure, calmati» Akagi gli posò le mani sulle spalle. «Magari è solo scappato di casa dopo aver litigato coi suoi ed ora è ospite da qualche amico… non mi sorprenderebbe se fosse sparito senza dire nulla a nessuno-».
«Ti sbagli!» lo interruppe Kogure strofinandosi gli occhi. «Lui è cambiato! Non farebbe mai una cosa simile! Non adesso! Non coi campionati nazionali alle porte!».
D’un tratto sentì un peso sulle gambe e piccole zampine spingere contro il petto, il tutto accompagnato da un insistente miagolio che aveva come unico scopo quello di attirare la sua attenzione.
«Oh, Mitchi…» Kogure strinse a sé il gatto nero che prese a leccargli con insistenza il viso, quasi volesse asciugargli le lacrime. «Non vuoi che pianga?».
No, Mitsui non voleva che piangesse, non anche lui, non a casa sua. Se vedere i suoi genitori così preoccupati per la sua scomparsa era stato devastante, vedere Kogure piangere per lo stesso motivo era una vera e propria pugnalata al cuore.
«Aspetta… come l’hai chiamato?!».
Appena le guance dell’amico si colorarono di un vivace porpora, Akagi si passò rassegnato una mano sulla faccia. Non riusciva a crederci, eppure cercò di comprenderlo: era evidente, persino a uno inesperto in materia come lui, quanto la cosa fosse di per sé incontrollabile.
«Era meglio se quel teppista fosse rimasto dov’era…» commentò acido, convinto che Kogure si sarebbe rassegnato una volta per tutte se non fosse rientrato improvvisamente nelle loro vite.
«Non fargliene una colpa… Mitsui, in fondo, non ne ha» rispose lui accarezzando il gatto che, tutto d’un tratto, appariva calmo e attento alle parole che si stavano scambiando.
«Davvero?» fece scettico Akagi.
«Davvero».
Mitsui non aveva mai incrociato occhi tanto tristi, non in Kogure, che era sempre stato capace di vedere il bicchiere mezzo pieno, anche nelle situazioni più spiacevoli. Fissò rapito quello sguardo malinconico che racchiudeva una sconosciuta consapevolezza la quale, quel bicchiere di ottimismo, l’aveva svuotato in un unico rapido sorso. Il desiderio di confortarlo, anche solo con una carezza, si scontrò con la dura realtà di non poterlo fare… e quando fu la mano di qualcun altro a scompigliare la folta chioma castana di Kogure, lui reagì spinto da un insolito istinto.
«Ah!».
L’esclamazione di dolore colse tutti di sorpresa, persino Mitsui, che ne era stato la causa.
«Col nome che si ritrova, non dovrei stupirmi del caratteraccio…!».
Akagi gli lanciò un’occhiata omicida e strinse l’avambraccio nel punto in cui, tre linee rosse, gli incidevano la pelle per un terzo della circonferenza. Kogure dapprima lo sgridò, poi lo mise da parte per prendersi cura dell’amico, con cui continuò a scusarsi per l’accaduto anche mentre abbandonarono la stanza, per medicare la ferita in bagno.
Rimasto solo, Mitsui si avvicinò confuso alla cesta, chiedendosi cosa fosse appena successo.
Cos’era quello strano discorso di cui era stato il soggetto involontario? Ma soprattutto, perché aveva reagito in quel modo quando Akagi aveva accarezzato i capelli di Kogure? Insomma, erano migliori amici fin dalle medie, era normale che fossero in confidenza… eppure, quel semplice gesto d’affetto, lo aveva infastidito.
Gelosia, gli suggerì una vocina, gelosia e invidia, per un rapporto che lui, con Kogure, non aveva.
Non so niente di lui, pensò nascondendo irritato il muso tra le pieghe del cuscino all’interno della cesta.
Non sapeva niente, della sua famiglia, di altri suoi hobby oltre al basket, della persona che era al di fuori del club. Niente di niente. E, invece, avrebbe voluto sapere ogni cosa, ogni singolo dettaglio della sua vita… come un innamorato brama ogni singola conoscenza della persona amata.
Mitsui sollevò la testa, sconvolto da un simile pensiero – quello di provare qualcosa per Kogure, qualcosa di più profondo di una semplice amicizia. Un pensiero che, per quanto assurdo, quella notte non gli permise di chiudere occhio.
 
«Anche tu non riesci a dormire?».
Kogure allungò il braccio e gli accarezzò la testa. Aveva delle tremende occhiaie, due ampi e profondi segni scuri sotto gli occhi che raccontavano di ben quattro notti insonni, quelle che erano trascorse dalla notizia della sua scomparsa. Nemmeno Mitsui era riuscito a dormire granché in quei giorni, demoralizzato dal non avere una soluzione al problema e colpevole di star facendo preoccupare una marea di persone.
Ripensò con amarezza alla notte precedente, a quando aveva udito Kogure invocare il suo nome tra i singhiozzi  mentre, rannicchiato sotto le coperte, era convinto che nessuno in casa potesse sentirlo. Peccato che Mitsui fosse proprio lì, alle sue spalle, raggomitolato in quella piccola cesta a soffrire insieme a lui.
Non avrebbe mai creduto che la percezione del dolore altrui potesse essere così logorante, e più i giorni passavano, più la situazione diventava insopportabile. Per lo stesso motivo per cui si odiava nel vedere Kogure angosciato a causa sua, Mitsui non era più tornato a casa dopo la prima volta. Il solo pensiero della madre disperata bastava a gettarlo nello sconforto: vederla piangere di nuovo, sarebbe stato troppo.
Nel frattempo, non aveva smetto di cercare il soriano rosso. Ore e ore di cammino a setacciare strade e vicoli di diversi quartieri, si erano però risolte con un nulla di fatto. Tuttavia non poteva rinunciare, convinto che quel malefico gattaccio fosse la sua unica speranza.
«Ti ho trascurato un po’ in questi giorni…».
Kogure si sollevò sui gomiti e raccolse Mitsui dalla cesta, prima di sdraiarsi di nuovo. Quando lo appoggiò sul petto, rimase piacevolmente sorpreso nello scoprire che stesse già facendo le fusa. Istintivamente, chiuse gli occhi e si crogiolò per qualche minuto nel rumore rilassante di quella costante vibrazione.
«Ti mancavano le coccole, eh?».
Mitsui girò la testa di lato per permettere all’amico di grattarlo meglio dietro le orecchie. Di tutta quella situazione assurda, le coccole erano l’unico risvolto positivo. Adorava quando Kogure lo prendeva in braccio e gli arruffava il pelo, quando lo teneva stretto tra le braccia e gli sorrideva felice, come stava facendo proprio adesso. Erano giorni che non vedeva quel raggio di sole aprirsi sul suo viso e ne rimase estasiato. Peccato che una nuvola scura, carica di pioggia, lo oscurò pochi secondi dopo.
«Vorrei tanto tenerti con me» sospirò Kogure «e il mio fratellino ne sarebbe molto felice…».
Mitsui non ne dubitava. Il problema era se lui sarebbe sopravvissuto ad un'altra sessione di gioco. Quella sera, per sfuggire alle grinfie di Keita e preservare la propria coda da nuovi e doloranti strattoni, si era nascosto per due ore nell’armadio, tra le pieghe del futon di Kogure, poco importava se gli mancasse l’aria.
«Mamma però è stata chiara» continuò «e visto che i tuoi padroni non riesco a trovarli, ho iniziato a chiedere in giro e… beh, un mio compagno di classe sarebbe disponibile a prenderti…».
A Mitsui non sfuggì la nota amara sul finire della frase: nonostante il severo ammonimento della sorella, Kogure si era affezionato a quel gatto nero con la zampetta bianca e ora, l’idea di separarsene, era difficile da mandare giù, come una grossa e amara pillola.
Prima o poi sarebbe comunque successo, pensò Mitsui che non aveva la minima intenzione di rimanere in quella forma, anche se provò una sincera stretta al cuore quando un velo scuro rattristò gli occhi del compagno di squadra.
Ancora una volta sono la causa della sua sofferenza.
Mitsui si allungò sul torace dell’amico e gli passò la lingua ruvida sul profilo del mento – una, due, tre volte – e tanto bastò a riaccendere la luce in quegli occhi castani. Anche stavolta, però, quello sprazzo di felicità durò poco, soffocato dalla preoccupazione che Kogure non riusciva a smettere di provare per il suo alter ego umano.
«Ho paura, Mitchi» confessò incapace di trattenere una lacrima. «Ho paura che sia successo qualcosa alla persona che amo…».
Mitsui, all’inizio, pensò di aver di capito male. Non era avvezzo a ricevere dichiarazioni d’amore, e non perché non fosse un tipo piacente. A tenere alla larga le ragazze era quell’aura da teppista che si portava appresso da un paio d’anni… non che gli importasse granché farsi una fidanzata: trovava le donne fastidiose e con un mucchio di pretese. Quelle poche esperienze che aveva avuto col gentil sesso erano state brevi e senza promesse.
Ma non mi era mai capitato che fosse un uomo a dichiararsi…
In verità, Kogure non sapeva di star rivelando i propri sentimenti al diretto interessato, per cui Mitsui non poté nemmeno parlare di “dichiarazione”. D’altra parte, non si sentì né a disagio né disgustato nell’apprendere di suscitare quel tipo di interesse in un maschio perché, in passato, lui stesso aveva provato attrazione verso qualcuno del suo stesso sesso… attrazione che adesso capì di provare nei confronti di Kogure, con l’unica differenza che, stavolta, non era puramente fisica.
Teneva molto a Kogure, l’aveva sempre considerato una persona speciale, una di quelle da tenersi ben strette per l’intera vita. Se tornare a giocare a basket era stato come rinascere, ritrovare Kogure sulla propria strada era stato come ravvivare le braci di un fuoco in una gelida notte d’inverno. Il tepore che lo avvolgeva, ogni volta che stava accanto a lui, era una delle ragioni per cui lo cercava senza esserne consapevole…
Almeno fino ad oggi.
Mitsui desiderò che Kogure lo stringesse ancora una volta tra le braccia, stavolta però come umano. Desiderò anche potergli asciugare con le dita le lacrime che gli stavano di nuovo rigando il viso. Desiderò altresì posare le proprie labbra sulle sue e sussurrargli di non piangere, non per lui, perché stava bene ed era sempre rimasto al suo fianco. Desiderò infine di approfondire quel bacio, ancora immaginario, e donargli tutto l’amore che meritava di ricevere.
Colto da un improvviso senso di urgenza, Mitsui scese dal torace di Kogure e si sedette miagolando di fronte alla porta della camera, in attesa che venisse aperta.
«Devi andare in bagno?» disse Kogure, riferendosi alla piccola cassetta con la sabbia che avevano messo a sua disposizione nella veranda della cucina.
Fu proprio lì che si diresse appena ebbe via libera, ma il suo obiettivo finale, in realtà, era la finestra che la signora Kogure lasciava socchiusa per cambiare l’aria. Con un primo balzo raggiunse il davanzale e, con un secondo, il soffice prato all’esterno. Poi, senza voltarsi indietro, Mitsui affrontò l’oscurità della notte che lo inghiottì senza esitazione.
 
Era stata una lunga notte quella che lo aveva accompagnato fino al mattino seguente. Eppure, ora che il giorno era finalmente giunto, pareva essere questo a non conoscere fine. In realtà, il sole aveva percorso il suo quotidiano arco nel cielo e, un timido passo alla volta, si stava avvicinando all’orizzonte, sfumando l’azzurro brillante con i colori caldi del tramonto.
Seduto all’imboccatura del tubo di cemento verde, Mitsui soffocò l’ennesimo sbadiglio e ignorò il successivo brontolio dello stomaco. Non poteva darsi per vinto, per sé stesso, per Kogure. Scosse la testa e riprese a scrutare con attenzione ogni angolo del piccolo parco giochi, l’ultimo luogo in cui aveva avuto il dispiacere di incontrare la fonte di tutti i suoi attuali guai.
Aveva cercato quel soriano dal manto rosso ovunque, per giorni interi, ma il maledetto sembrava essere sparito dalla circolazione. Alla fine, per quanto remota fosse, si era chiesto se restando fisso in un posto, dove il suo obiettivo era già stato, non avesse più probabilità di incrociarlo che girando a caso per le strade del quartiere.
Una domanda che, qualche ora più tardi, ebbe la sua risposta positiva.
– Hai intenzione di rimanere lì ancora per molto? –.
Mitsui aprì gli occhi stanchi e provati da quasi ventiquattr’ore di veglia. Si era appisolato per pochi minuti, ma la vista del soriano, seduto di fronte a lui, lo svegliò di colpo.
– Tu- dannato! – esclamò in preda alla rabbia. Si alzò in piedi e, con un balzo, gli si piazzò davanti a una manciata di centimetri. – Liberami immediatamente da questa maledizione! Altrimenti- –.
– Altrimenti, cosa? – lo interruppe, per nulla spaventato dalla minaccia. – Ti ho già detto che io non posso fare quello che chiedi… –.
Mitsui non si arrese. – Ma qualcosa sai, per cui vuota immediatamente il sacco! –.
Il soriano fece un passo indietro, infastidito, e lo guardò di traverso, con sdegno.
– E’ così importante per te? –.
– Si – confermò Mitsui – ma non lo è solo per me. Io- – fece un profondo respiro e chinò la testa. Ripensò a Kogure, al suo pianto sommesso stretto tra le coperte del futon. – Io non voglio più vedere le persone a cui tengo piangere a causa mia… –.
L’altro lo studio con attenzione per qualche secondo, poi si sedette sulle zampe posteriori.
– Vorrei raccontarti una storia… – disse in un soffio.
In tutta sincerità, a Mitsui, della sua storia, importava meno di zero, eppure si ritrovò lo stesso ad annuire. Non se l’era sentita di dire “no”, non di fronte a un simile sguardo implorante da cui era svanito, in un battito di ciglia, l’astio che aveva caratterizzato finora ogni loro botta e risposta.
Il soriano inspirò a fondo e iniziò il proprio racconto.
Era quello di un giovane uomo, vissuto tanti anni prima. Figlio di un ricco e importante signore, non aveva avuto solo la fortuna di essere abbiente: madre natura era stata altresì generosa nei suoi confronti, donandogli una bellezza eterea, capace di ammaliare le persone che lo circondavano. Il suo animo, tuttavia, contrastava col suo bel aspetto: arroganza e presunzione, queste erano le sue migliori “qualità”, e con queste trattava le persone con insolenza e sgarbo, prendendosi spesso gioco di loro e dei loro sentimenti. Un comportamento giudicato inappropriato dalla sua famiglia, che non lo vedeva affatto di buon occhio.
– Il padre fu sul punto di diseredarlo dopo che gettò fango su un’altra famiglia, rifiutando un importante matrimonio combinato anni prima, ma non ne ebbe il tempo… –.
– Che intendi dire? –.
– Avrai sentito parlare degli yokai… –
Mitsui annuì. Come quella di ogni giapponese, la sua infanzia era costellata da leggende che narravano di spiriti e demoni capaci, coi loro poteri soprannaturali, di influenzare il mondo degli uomini. Se, da piccolo, alcuni racconti lo avevano terrorizzato a tal punto da fargli passare qualche notte in bianco, crescendo aveva pensato, come tutti, che, quei racconti, fossero il frutto della fantasia degli stessi uomini, ignorando completamente quel detto secondo cui, alla base di ogni leggenda, ci fosse un fondo di verità.
– Lo stesso giorno in cui venne rifiutata, la sua futura sposa si impiccò al ramo di un ciliegio centenario – il soriano distolse lo sguardo da quello sconvolto di Mitsui. – L’atto in sé del suicidio, mischiato al dolore e all’onta di essere stata rifiutata, impedirono al suo spirito di trovare pace. Come yokai, si presentò quindi di fronte al giovane uomo e- –.
Quando al soriano mancarono di colpo le parole per continuare, Mitsui poté scorgere nei suoi occhi un profondo rammarico, a conferma dell’iniziale sospetto che, la storia che stava raccontando, lo riguardasse da molto, molto vicino.
– Ehi… – lo chiamò – questa non è una storia qualunque, vero? Non quella di qualcuno che semplicemente conosci… – disse, alludendo al fatto che fosse proprio la sua.
Lui annuì e fugò ogni dubbio: – Quella donna mi condannò a vivere come vedi, con le sembianze di un gatto – sul suo muso sembrò comparire qualcosa che somigliava a un sorriso amaro. – Ho trascorso gli ultimi settant’anni a cercare qualcuno in grado di spezzare la maledizione, ovviamente senza successo: la maggior parte delle persone, nel ritrovarsi tramutata in un gatto da un giorno all’altro, è impazzita e morta… tu sei la terza con cui parlo, ma solo la prima che ascolta la mia storia… –.
Di tutto quel discorso, a colpire Mitsui furono gli anni che l’uomo aveva trascorso in quella forma: settanta. Lui, che di anni ne aveva appena compiuti diciotto – poco più di un quarto di settanta – e in quella forma ci aveva trascorso neanche una settimana, gli era difficile anche solo concepire un periodo temporale così lungo, che, per alcuni, rappresentava l’arco di una vita intera.
– Hai detto di essere alla ricerca di qualcuno in grado di spezzare la maledizione… se succedesse, potrei tornare un essere umano? –.
– Si – confermò il soriano – ma non è così semplice… –.
– Che vuoi dire? –.
– Che devi capire da solo come fare, io non posso aiutarti… –.
– Cosa?! – Mitsui non riusciva a credere alle proprie orecchie. – Ma perché?! –.
– Se fossi io a dirti come, non funzionerebbe, perché non sarebbe la stessa cosa… – precisò lui chinando la testa. – Ad ogni modo, avrei altro da raccontarti… –.
Mitsui ascoltò le successive parole del soriano. Di come, da gatto, ebbe la possibilità di vedere, con occhi completamente diversi, le persone con cui aveva sempre vissuto. Di come, la sua scomparsa, destò in alcune gioia, in altre sollievo, in altre ancora dolore. Di come, in quest’ultima categoria, rientrarono persone insospettabili, dal padre che lo voleva ripudiare al fratello con cui non era mai andato d’accordo. Aveva trovato in un mare di lacrime persino la sua cameriera, colei che, più di tutti, nel corso degli anni, aveva subito le sue ripetute angherie.
– Mi a-amava… la persona che più avevo maltrattato… mi amava! –.
La voce rotta dall’emozione, con cui il soriano gli confessò quel retroscena, colpì a fondo Mitsui che, inevitabilmente, si ritrovò a fare un paragone con la propria situazione. Anche lui si era ritrovato davanti a scene inaspettate: dalla – seppur composta – ansia del padre al grido di dolore della madre, dal volto preoccupato del fratello a quello in lacrime di Kogure, tutte persone che, in passato, non aveva trattato coi guanti.
– Fu lei a prendersi cura di me negli anni a venire – continuò il soriano – ad offrirmi un pasto caldo al giorno e un tetto sicuro per la notte. Vissi al suo fianco, come un semplice gatto domestico, finché non morì in seguito a una malattia. Fu terribile vederla spegnersi senza poterla ringraziare, senza poterle rivelare la mia vera identità… –.
– L’amavi…? –.
La domanda fluì dalle labbra di Mitsui in modo spontaneo, certa di ricevere una risposta affermativa, come difatti avvenne.
– E’ buffo – fece ironico – io, che da umano non l’avevo mai considerata, da gatto scoprì quanto fosse una persona speciale… meritava molto di più dalla vita, soprattutto qualcuno che l’amasse anche solo un decimo di quanto lei aveva amato me… –.
I ricordi del soriano fluirono in Mitsui attraverso le sue parole, i suoi pensieri, le sue stesse emozioni. Ricordi del loro primo incontro, di quando, al sedicenne signore, venne assegnata una nuova cameriera, di appena un anno più grande, anche se, minuta com’era, di anni ne dimostrava molti meno. Ricordi di come lei ascoltasse le sue frequenti lamentele, con pazienza, senza interromperlo o contraddirlo, lasciandogli un modo per sfogare la frustrazione accumulata nei confronti di quella famiglia che lo opprimeva con continue richieste e aspettative, sia lavorative che sociali. Ricordi di come cercasse di alleviare le sue pene, con piccoli gesti, quali arredare sovente la sua stanza con profumati fiori freschi o servirgli, a sorpresa, nei momenti più opportuni, il the accompagnato da un buon dolce. Ricordi di come quella ragazza, dai capelli castani e profondi occhi nocciola, coccolasse quell’esile gatto raccolto per strada, accarezzandogli il folto pelo rosso mentre gli raccontava, con rimpianto, di un amore ormai perduto.
Sopraffatto da tanto rammarico, di cui era pregno come una spugna l’ultimo ricordo, Mitsui sentì il proprio stomaco contorcersi. Istintivamente pensò a Kogure: anche lui avrebbe vissuto qualcosa di simile se non fosse riuscito a spezzare la maledizione? La sola idea lo terrorizzava.
Afflitto dalla terribile esperienza di vita del soriano, una lacrima solcò il suo musino rosa. Nella lenta corsa verso il basso, incontrò l’asfalto davanti alla zampa bianca, macchiando il punto d’impatto con un alone scuro che scomparve pochi secondi dopo.
– Grazie –.
Mitsui non capì perché lo stesse ringraziando. Fissò confuso il soriano che, alla sua domanda, rispose con una frase enigmatica prima di sparire dentro un cespuglio. Lo lasciò lì, da solo, come un emerito cretino.
– Ehi! – gridò – Che cazzo vuol dire “domani mattina capirai”?! –.
Anche sapendo che sarebbe stato inutile, si gettò al suo inseguimento. Ignorando i graffi, si fece largo a forza tra i fitti rami e, quando uscì dalla parte opposta, su una stretta striscia di terra resa fangosa dalle recenti piogge, come predetto, del soriano non c’era più traccia. 

Continua

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


 

La Maledizione del Gatto
di Cioppys

 

Capitolo 3

«Mitchi!».
Dall’urgenza con cui aprì la finestra della cucina e lo prese in braccio, incurante della sporcizia che lo ricopriva dalla testa alla coda, Mitsui realizzò quando Kogure si fosse preoccupato per la sua improvvisa scomparsa. Si sentì un immenso stronzo per essersi allontanato così, d’impulso, senza considerare le conseguenze delle proprie azioni.
«Kiminobu, non crederai di poter tenere in casa quella palla di fango…?».
Kogure non diede il tempo alla madre di finire la frase che Mitsui si ritrovò immerso in una soffice nuvola di schiuma. A differenza della volta precedente, si lasciò lavare senza sollevare proteste, né per l’acqua troppo calda, né per l’energia necessaria con cui l’amico dovette strofinare il suo manto nero, per togliere lo sporco di due giorni e riportarlo alla lucentezza originaria.
«Ho avuto paura… tanta paura che ti fosse successo qualcosa…» gli confidò mentre lo asciugava, poche parole che gravarono sul cuore di Mitsui come enormi macigni.
Fu però quando la bocca di Kogure si posò sulla sua testolina, tra un orecchio e l’altro, che Mitsui maledì il proprio corpo con tutto sé stesso. Sollevò il muso e miagolò con insistenza finché non ottenne la vicinanza necessaria a strofinare il proprio muso umido contro le sue labbra, nel goffo tentativo di ricambiare il bacio di poco prima con qualcosa di più intimo. La risata genuina di Kogure per il gesto di un semplice gatto, ai suoi occhi buffo e innocuo, non riuscì ad alleggerire il senso di soffocamento che gli opprimeva i polmoni.
Avrebbe voluto gridargli che era Mitsui, la persona di cui era innamorato e da cui era totalmente ricambiato. Avrebbe voluto rivelargli i propri sentimenti e non riusciva ad accettare di non poterlo fare se fosse rimasto in quello stato. Era, sotto ogni punto di vista, inconcepibile.
Quando, quella sera, Kogure si coricò per la notte, Mitsui si infilò nel suo futon appena spense la luce.
«Ehi!» esclamò, percependo un movimento sospetto. «Ti schiaccerò se rimani qui!».
Anche nel buio soffuso della stanza, Mitsui riconobbe il caratteristico sorriso, dolce e cordiale, che Kogure gli rivolse mentre lo rimetteva nella cesta. Tuttavia non demorse e, un secondo dopo, era di nuovo acciambellato sotto la coperta accanto a lui.
«Sei cocciuto come la persona di cui porti il nome, lo sai?».
Mitsui lo guardò e miagolò compiaciuto: si, la trovava una definizione adatta e Kogure stesso non poté che confermarlo quando, dopo il terzo tentativo di rimetterlo nella cesta, dovette rassegnarsi a dormire in compagnia di quella tenera palla di pelo.
La notte trascorse lenta, ma tutt’altro che tranquilla: se il sonno di Kogure venne guastato dal costante pensiero di poter schiacciare il gatto, mentre si rigirava nel letto, quello di Mitsui fu agitato da strane sensazioni fisiche. Non provò dolore, bensì frequenti formicolii agli arti e un forte calore che lo fece sudare copiosamente tutta notte. Quando la mattina successiva aprì gli occhi, desiderò che Kogure lo gettasse in una bacinella d’acqua, poco importava che fosse bollente. Avrebbe sopportato qualsiasi cosa pur di togliersi di dosso quella patina fastidiosa che gli appiccicava ovunque la pelle.
Ancora mezzo addormentato, appoggiò la fronte contro il petto del compagno di squadra. Nonostante gli fosse addosso, dovette inspirare a fondo per percepire il suo odore. Strano: fino al giorno prima, riusciva a distinguerlo a metri di distanza, respirando normalmente col naso.
«Mmm…» mugugnò, non dandoci peso. Era presto e lui aveva ancora sonno.
«Ma cosa-».
La voce impastata di Kogure precedette di poco la spinta improvvisa che lo allontanò in malo modo. Mitsui evitò una brutta caduta, oltre il bordo immaginario del letto, solo perché dormivano sul futon. In compenso, nel finire schiena a terra, picchiò il gomito sul bordo rigido del tatami, centrandolo in pieno con l’olecrano, la prominenza ossea posta proprio sulla punta.
«Cazzo! Ma che ti è saltato in mente?!» esclamò, in preda a un dolore lancinante, accorgendosi a malapena di come Kogure, schiacciato contro il muro opposto, lo stesse fissando con occhi spiritati.
«M-mitsui…?» balbettò lui dopo esserseli stropicciati più volte, convinto di stare ancora sognando.
A quella chiamata diretta, il numero quattordici si rese finalmente conto di essere tornato un normale ragazzo. Aveva di nuovo gambe e braccia, la pelle bianca e i capelli neri. Si passò entrambe le mani sul viso e ne delineò i lineamenti con le lunghe dita. La gioia che provò nel tastarsi naso, bocca e orecchie, pareva quella di un bambino che trova, sotto l’albero di Natale, proprio il regalo agognato un anno intero.
«Si» sorrise «sono proprio io».
Travolto dall’euforia, Mitsui gettò le braccia intorno al collo di Kogure che, turbato dall’assurda situazione, farfugliava parole sconnesse, chiedendosi come tutto ciò fosse possibile. Eppure Mitsui era proprio lì, davanti a lui, addosso a lui, in carne ed ossa. Si azzardò a sfiorargli le spalle scoperte con la punta delle dita e percepì il naturale calore emesso dalla pelle, così dannatamente reale da non poter essere un illusione. Quando però appoggiò le mani sulle scapole nude, realizzò che Mitsui non indossava un singolo indumento, nemmeno le mutande. Arrossì come un peperone e, per la seconda volta, lo allontanò da sé.
«I… i t-tuoi… i t-tuoi v-ve… v-vestiti…».
Mitsui si guardò spaesato ed emise un semplice “oh”. Per l’amico, innamorato di lui da chissà quanto tempo, doveva essere non poco imbarazzante. Chiese quindi a Kogure di prestargli qualcosa da indossare.
«Ora vuoi spiegarmi che sta succedendo?!».
La voce alterata con cui Kogure lo rimproverò, lasciò Mitsui di sasso, con la testa che sbucava per metà dal collo rotondo della maglietta blu che stava ancora indossando. Per come aveva pianto per lui negli ultimi giorni, aveva creduto che, vederlo vivo e vegeto, lo avrebbe reso immensamente felice. E invece, la serietà che sprigionavano i suoi occhi nocciola, gli fece rizzare la leggera peluria delle braccia.
Ma cosa mai avrebbe dovuto dirgli?
Se raccontargli la verità sarebbe stata la scelta più giusta – per la loro amicizia, per i loro reciproci sentimenti – la paura che Kogure potesse non credere ad una singola parola, lo feriva e spaventava. D’altro canto, che balla colossale avrebbe dovuto raccontare per essere abbastanza verosimile da giustificare la sua improvvisa comparsa in quella casa?
Il silenzio prolungato spazientì Kogure. «Hai la minima idea di quante persone erano preoccupate per te? Sei sparito per giorni! Senza dire niente a nessuno! E ora… e ora…» cercò di nascondere le lacrime con pessimi risultati, e tanto bastò affinché Mitsui crollasse.
«Ero… Mitchi, il gatto».
Com’era ovvio, Kogure non gli credette. «Non prendermi in giro!».
«Non sono mai stato più serio in vita mia» Mitsui gli incorniciò il viso con le mani e appoggiò la propria fronte a quella dell’altro. «Pensi davvero che sia capace di una simile cattiveria? Soprattutto dopo aver visto quanto hai sofferto? Quanto stai soffrendo ancora?».
Kogure lo scrutò a fondo negli occhi. Era assurdo, eppure non sembrava che Mitsui stesse mentendo. Trovò altresì strano che fosse a conoscenza del fatto che avesse un gatto in casa… persino come si chiamasse! Non gliene aveva parlato, almeno non lui direttamente, e, comunque, ricordò di averlo trovato il giorno dopo la sua scomparsa.
Mitsui fece un sorriso tirato. «E’ normale che tu non mi creda. A parti invertite, nemmeno io lo farei… però posso dimostrarti che è vero, raccontandoti fatti che, oltre al gatto, solo tu puoi sapere… come del giorno in cui mi portasti a casa e mi infilasti nell’armadio, dove mi addormentai sul tuo futon ripiegato».
Kogure spalancò gli occhi. Come faceva a saperlo? Era solo nella stanza e nessuno era ancora a conoscenza di Mitchi. Poi si ricordò di aver parlato spesso in quei giorni, di Mitsui, dei sentimenti che provava nei suoi confronti. Se, come diceva, era davvero il gatto
Mitsui si accorse subito che qualcosa stesse turbando Kogure e non impiegò molto a capire di cosa si trattasse. Sapeva di non essere molto bravo a parole e che un gesto ne valeva mille di più. Tuttavia baciarlo non fu proprio l’idea geniale che aveva creduto, visto il mal rovescio che gli girò la faccia dall’altra parte. Si tastò esterrefatto la guancia calda: quando voleva, Kogure possedeva più forza del gorilla.
«Come ti permetti?» fece Kogure furibondo. Era il suo primo bacio e nonostante fosse felice di averlo dato alla persona che amava, si sentiva profondamente umiliato. «Solo perché sai che provo dei sentimenti per te, pensi di avere il diritto di baciarmi senza chiedere? Senza nemmeno dirmi se tu…» se tu li ricambi? fu la domanda che non ebbe il coraggio di pronunciare, temendo in una risposta negativa, temendo che, quel bacio, non avesse significati più profondi della semplice consolazione.
Mitsui cercò di correre ai ripari. «Kogure-».
Due secchi rintocchi sulla porta, li interruppero.
«Kiminobu? Hai la minima idea di che ore sono? Insomma, è domenica!».
La voce alterata di Kazumi, che dormiva nella stanza accanto, lasciava intendere di essere stata svegliata dal loro continuo parlottare, via via aumentato di tono. Quando però la ragazza aprì la porta, la presenza inaspettata di uno sconosciuto l’ammutolì.
«E lui chi è?» chiese sconcertata.
Kogure si schiarì la voce. «Un mio compagno di squadra…».
«Si… ma che ci fa qui?».
«E’… complicato» rispose, non sapendo proprio come giustificare la sua presenza.
«Sono scappato di casa» intervenne Mitsui, cercando di dare un senso all’intera situazione, senza però rivelare la verità. Se già Kogure gli credeva a stento, la sua famiglia lo avrebbe dato per pazzo. «L’autorizzazione per partecipare ai campionati nazionali… beh, mio padre l’ha stracciata, e io… e io mi sono comportato da stupido, facendo preoccupare una marea di persone che non lo meritavano».
Potendo solo immaginare cosa avesse provato nel veder svanire un traguardo agognato da anni, Kogure cercò di incrociare gli occhi di Mitsui. Voleva sapere di più di quella storia, capire cosa fosse successo e come fosse diventato momentaneamente il gatto di quella casa. Ancora faticava a realizzare che Mitchi era Mitsui, eppure non dubitava più della sua parola, anche se, l’irritazione per il bacio di poco prima permaneva.
«Uomini» sbuffò Kazumi. «Peggio: uomini fissati col basket! A quando un amico normale, fratellino?».
Il riferimento ad Akagi lo colse anche Mitsui, che provò parecchio fastidio nell’essere considerato un amico al pari del capitano. Lui voleva essere di più. Lui era di più. Ora, però, aveva un’altra questione da risolvere, una questione urgente tanto quanto chiarire il rapporto tra lui e Kogure, ma i suoi genitori aveva sofferto abbastanza e meritavano di ricevere sue notizie quanto prima.
«Io… io devo tornare a casa…».
La decisione di accompagnarlo in macchina fu di Kazumi, che non volle sentire ragioni a riguardo. Mitsui venne quindi caricato, quasi di peso, sul sedile posteriore della loro utilitaria, da dove rispose in modo alquanto vago alle domande della madre di Kogure che, messa al corrente della situazione, si era aggregata al piccolo gruppo, composto da lui, Kogure e la sorella. Irrequieto e pieno di dubbi, su cosa raccontare ai propri genitori, su come affrontarli, Mitsui ebbe un attimo di esitazione quando la macchina si fermò davanti a casa. A dargli la forza di scendere fu Kogure, che lo spronò ad andare con il suo consueto sorriso.
Sguardo fisso sulla porta d’ingresso, Mitsui si avvicinò al cancello sentendo appena, ai margini della propria coscienza, l’abbaiare di un cane. Capì che fosse Yuki, di ritorno dalla sua passeggiata mattutina, quando ormai l’animale, desideroso di ricevere gli arretrati di una settimana di coccole, gli fu addosso. A pochi passi di distanza, Hitonari lo fissava attonito, la mano da cui gli era sfuggito il guinzaglio ancora tesa, in avanti, verso di lui.
«Hisa…?».
Il rumore secco della porta di casa, che si spalancò all’improvviso, colse tutti di sorpresa. Spaventato, Yuki si allontanò guaendo da Mitsui, lasciando così campo libero alla madre che non perse tempo ad abbracciare il figlio. Nel vederla schiacciata contro il proprio petto mentre piangeva, Mitsui si chiese se fosse sempre stata così esile. Divorato dai sensi di colpa, dal pensiero che fosse l’angoscia di quei giorni ad averla consumata tanto, ricambiò l’abbraccio.
«Mi dispiace…» sussurrò trattenendo a stento le lacrime. «Mi dispiace tanto, mamma…».
L’ultimo a unirsi al quadretto famigliare, fu suo padre. L’espressione seria e indecifrabile non permise a Mitsui di capire se, ad attenderlo, ci fosse una carezza o uno schiaffo. Conscio comunque di meritarselo, lo affrontò a testa alta, quasi porgendogli la guancia.
«Papà-».
«Stupido!».
A quel rimprovero, Mitsui serrò gli occhi e si preparò a ricevere una sberla, che però non arrivò mai. Ad arrivare furono invece le braccia del padre, che lo strinsero a lui come non avevano fatto da troppo tempo.
«Non farlo mai più…» gli disse, accarezzandogli piano la testa. «Non importa quanto tu sia arrabbiato, a torto o a ragione… non sparire più in questo modo, non senza dirci dove sei, non senza dirci che stai bene…».
Mitsui non si rese conto di star piangendo, non finché non pronunciò l’ennesimo sconsolato “mi dispiace”: il suono gemente della propria voce, lo spinse a nascondere, per la vergogna, la faccia contro il petto del padre. Solo quando entrò in casa, ebbe modo di sciacquarsi il viso, disertando così le presentazioni che si svolsero in salotto, tra i componenti della sua famiglia e quella di Kogure.
Stava controllando allo specchio se il rossore intorno agli occhi si fosse attenuato, quando Yuki, che lo aveva seguito in bagno, abbaiò. Incuriosito da come guardasse fuori dalla finestra scodinzolando, Mitsui si avvicinò curioso al vetro.
Sulla sinistra, a ridosso della siepe, stava un ragazzo. Indossava un completo grigio, vecchio stile, la cui giacca era chiusa da un unico bottone, poco sotto lo sterno. Sembrava tranquillo da come teneva le mani nelle tasche anteriori dei pantaloni e gli sorrideva, con occhi e bocca. Fin troppo tranquillo, considerata la palese violazione di domicilio. Non aveva la minima idea di chi fosse, eppure aveva un che di famigliare.
Mitsui afferrò il collare di Yuki per impedire che si lanciasse contro lo sconosciuto, pronto tuttavia a lasciarlo andare in caso di bisogno. Yuki non era un cane da guardia – con ogni probabilità, gli avrebbe fatto un sacco di feste piuttosto che attaccarlo! – ma la sua sola presenza poteva incutere timore.
Aprì la portafinestra. «Ehi, tu! Questo è un giardino privato!».
«Lo so» rispose il tizio, senza mai smettere di sorridere. «E tu lo sai che hai proprio una bella casa, zampetta bianca?».
Solo una “persona” lo avrebbe chiamato in quel modo. Sembrava incredibile, eppure glielo aveva spiegato che, spezzando la maledizione principale, anche quella di cui era vittima sarebbe svanita.
«Se non chiudi la bocca, ci entrerà uno sciame di mosche!» rise di fronte alla sua espressione esterrefatta quello che, fino al giorno prima, era il soriano rosso. «Sono contento di vedere che stai bene e che sei tornato normale… ora posso andarmene soddisfatto».
«Andare dove?» chiese Mitsui.
Inconsciamente già sapeva la risposta, e il sorrisetto allusivo del ragazzo non fece che confermargliela.
«Il mio tempo è passato, al contrario del tuo che è ancora tutto da scrivere» socchiuse gli occhi, stanco, ma felice. «E mi raccomando: scrivilo bene, perché non ne avrai altro a disposizione».
Mitsui annuì. Ora che era consapevole dell’affetto – dell’amore – che lo circondava, lo avrebbe ripagato in ogni modo possibile… o quasi. Dubitava, infatti, che il rapporto con alcune persone, quali ad esempio suo fratello, sarebbe cambiato nel breve periodo. Avrebbe però cercato di andare un po’ più d’accordo con lui, evitando lo scontro quando non necessario. 
«Ehi, aspetta!» lo fermò Mitsui quando gli voltò le spalle. «La maledizione… come si è spezzata?».
«Davvero non l’hai capito?» fece stupito il ragazzo, al quale sembrava così evidente il gesto con cui aveva condiviso la sua sofferenza. «Hisashi, tu hai pianto, per me, dopo aver ascoltato la mia storia e senza che ti dicessi che, per spezzare la maledizione, sarebbe bastata una lacrima sincera…».
Sentirsi chiamare per nome fu una sorpresa. Mitsui non glielo aveva mai detto. Come faceva a saperlo?
«Non mi hai mai detto il tuo, di nome…» gli fece notare, incontrando tuttavia la reticenza dell’altro a rivelarlo.
«Non ha importanza-».
«Certo che ce l’ha!» insistette, e non per mera curiosità: a dispetto di quanto l’avesse odiato nei giorni precedenti, per esser stato la causa di tanti problemi e di lunghe ed estenuanti ricerche, ora desiderava ricordarlo associando un nome al volto che aveva di fronte.
Il ragazzo provò a rifiutarsi una seconda volta, ma fu la testardaggine di Mitsui ad avere la meglio.
«Seiji…» disse, infine, in un soffio «Mitsui Seiji».
Convinto di aver capito male, Mitsui corrugò la fronte e gli chiese di ripetere quando, alle sue spalle, udì sua madre chiamarlo.
«Hisashi?» la donna si affacciò dalla portafinestra del bagno da cui era uscito. «Che stai facendo in giardino?».
«Io-» si voltò di nuovo verso Seiji, ma il punto davanti alla siepe, dove il ragazzo stava un attimo prima, era vuoto. «N-nulla» balbettò smarrito «Yuki aveva visto un gatto e…».
«Quel cane non li può proprio vedere, eh?» commentò sua madre, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Sotto gli occhi, ancora rossi di pianto, si aprì un sorriso. «Su, vieni. Ti stanno aspettando tutti».
Mitsui si osservò intorno un’ultima volta e venne colpito da uno strano riflesso. Abbandonata nell’erba, trovò una catenina d’oro a maglie strette, con un ciondolo a goccia. Di un delicato azzurro, la pietra era incastonata in un filo di metallo pregiato che ne avvolgeva i bordi, definendoli.
«Hisashi?».
«Si, arrivo!» rispose. Senza pensarci, infilò la catenina in tasca e raggiunse la madre in casa.
Quando entrò in salotto, suo padre interruppe la conversazione che stava avendo con la signora Kogure e lo invitò a sedersi sulla poltrona a fianco.
«Oh, eccoti qui» le parole di Hitonari furono invece rivolte a Yuki, che chiamò a sé con una pacca della mano sulla coscia. «Si può sapere perché il mio cane sembra essere più affezionato a te?!» grugnì quando l’animale lo ignorò e si sedette davanti a Mitsui. Beh, non era colpa di quest’ultimo se, quando Yuki era ancora un cucciolo, aveva abdicato, in favore del fratello minore, il ruolo di suo principale compagno di giochi.
La domanda piccata strappò un sorriso alla sorella di Kogure: avendone tre di fratelli, conosceva bene le “complicate” dinamiche tra i giovani maschi di casa. Hitonari se ne accorse e abbassò imbarazzato lo sguardo. Chinare il capo era un comportamento inusuale e sospetto per un prepotente di natura come lui. Di solito, non guardava in faccia a nessuno. Solo una volta Mitsui era stato testimone della perdita della sua proverbiale verve, quando, due anni prima, frequentava una ragazza di cui era palesemente perso.
Non ditemi che gli piace Kazumi, pensò lasciandosi sfuggire un risolino.
«Che diavolo hai da ridere?!» le guance di Hitonari divennero più rosse del normale.
«Oh, nulla» come promesso, Mitsui evitò lo scontro, chiudendo lì il discorso. «Papà, io-».
L’uomo lo tolse dall’imbarazzo e gli allungò un foglio. «E’ l’autorizzazione firmata per i campionati nazionali. Se non dovessero accettarla, perché l’hai presentata in ritardo, ti porterò io stesso ad Hiroshima…».
Mitsui guardò il fondo della pagina, dove spiccava l’inchiostro rosso dell’hanko del padre. Bisbigliò un sentito “grazie”, non riuscendo ad aggiungere altro per l’emozione causatagli da quella promessa. Per un attimo, sperò che la scuola non accettasse il documento, cosicché potesse passare un po’ di tempo in compagnia del padre, loro due da soli. Da quanto non accadeva?
«L’allenatore non lo permetterà» disse Kogure, convinto che Anzai non avrebbe mai consentito che Mitsui mancasse a quell’appuntamento, non per una stupida ragione burocratica. «Sarebbe un dramma per la squadra perdere uno dei titolari, nonché il miglior realizzatore».
«Esagerato» Mitsui era lusingato da tanta ammirazione, dietro cui ora sapeva esserci molto di più. Il pensiero di quanto lo amasse, lo fece arrossire. «Rukawa fa molti più punti di me».
«Forse» Kogure sollevò le spalle «ma non così tanti quanto credi».
«Aspetta… sei un titolare dopo due anni di fermo?!» a Hitonari pareva impossibile, a meno che… «In che razza di squadra di merda sei?!».
Stavolta Mitsui non poté tapparsi le orecchie, non quando le offese erano rivolte a quei compagni che l’avevano accolto nonostante la rissa provocata in palestra. «Ehi! Ritira subito quello che hai detto!».
«E perché?».
«Perché non si sarebbero qualificati per i campionati nazionali, se fossero scarsi come dici».
A lasciare i due fratelli senza parole fu l’inaspettata presa di posizione del padre con quella frase: erano anni che l’uomo, in una discussione tra i due, non si schierava a difesa del figlio minore.
«Se ce l’abbiamo fatta è perché abbiamo cinque ottimi titolari» precisò Kogure, conscio che, nonostante l’impegno di tutti, il merito di quel traguardo fosse loro.
A non concordare con quell’affermazione era Mitsui. «Ma che stai dicendo?! Non ricordi chi ha segnato un punto decisivo contro il Ryonan? In quella partita, a fare la figura dell’inutile imbecille, sono stato io…».
Kogure alzò un sopracciglio. «Solo perché sei svenuto?».
«Svenuto?!» ripeté la madre di Mitsui, non nascondendo la propria preoccupazione. «Come? Quando?!».
Kogure si coprì la bocca lasciando a Mitsui l’onere di rassicurarla. Si, era svenuto mentre giocava per una carenza di sangue al cervello. No, non era grave e non si era fatto nulla, se non un leggero taglio sul labbro.
«Non mi chiedi niente?» disse poi quando suo padre si alzò dal divano. «Dove sono stato? Con chi?».
Lui scosse il capo. «Ci ha accennato qualcosa Kiminobu, il resto non importa. Quello che conta è che tu ora sia a casa…».
La curiosità di sapere cosa avesse raccontato ai suoi, spinse Mitsui a portare Kogure nella propria stanza alla prima occasione. Quando quindi, come preludio ad una lunga chiacchierata tra donne, sua madre si presentò a quella dell’amico con del tè verde, accompagnato da dei manjou, non ci pensò due volte ad afferrargli il polso e dileguarsi, con la scusa di voler mostrare, al compagno di squadra, alcuni articoli sportivi di cui avevano parlato qualche giorno prima. Tuttavia, quando Mitsui si chiuse la porta alle spalle, ricordò di avere un altro importante discorso da affrontare. Prima che l’altro parlasse, lo abbracciò da dietro la schiena.
«Mi piaci» sussurrò tenendo la fronte appoggiata sulla spalla dell’altro, in modo da nascondere l’imbarazzo che gli colorò le guance.
Una flebile fiammella di speranza si accese nel petto di Kogure, ma il “piacere” espresso da Mitsui era qualcosa di ancora troppo vago per soddisfare appieno i suoi sentimenti, che erano su di un altro livello.
«Io-» deglutì. Non sapeva come rispondere ma, per sua fortuna, Mitsui comprese al volo il problema.
«Merda… non farmi dire robe stucchevoli!» Mitsui sollevò la testa. Aveva la faccia completamente rossa. «Non sono il tipo, ed è la prima volta che mi dichiaro a qualcuno… quindi non fare tanto lo schizzinoso!».
Come aveva capito che la storia del gatto fosse vera, Kogure ebbe la certezza dei reali sentimenti di Mitsui solo guardando il suo sguardo fermo. Era strano riuscire a comprenderlo con una semplice occhiata, eppure sembrava così naturale… che Mitsui, senza rendersene conto, abbassasse le proprie difese quando stavano insieme?
«Sentirlo, però, mi renderebbe davvero felice, sai?».
Il timido sorriso che gli incurvò le labbra, a Mitsui parve un ghigno.
«A-adesso?!» esclamò, per nulla pronto a parlare col cuore in mano, nonostante i mille propositi fatti.
Kogure scosse il capo. «Quando te la sentirai, ma non farmi aspettare troppo…» disse, quindi prese l’iniziativa e lo baciò, succhiandogli appena le labbra.
Mitsui ricambiò il gesto con uno simile ma più vorace, che portò le loro lingue ad incontrarsi per la prima volta. Un brivido scosse il corpo di Kogure e Mitsui lo sorresse, fasciandogli i fianchi con le mani calde. Poi, con una giravolta di 180 gradi, lo spinse contro la porta chiusa della propria stanza… la stessa porta da dietro cui giunse, poco dopo, un lieve e incalzante guaito.
«Qualcuno desidera le tue attenzioni…» sospirò Kogure, sentendosi stupidamente geloso di un cane.
Mitsui grugnì indispettito dall’interruzione. «Che vada a rompere i coglioni a mio fratello, è lui il padrone!».
Fu invece il padrone a rompere i coglioni a lui, bussando con insistenza alla porta quando vi trovò Yuki accucciato davanti.
«Cosa vuoi?!» sbraitò, spalancando l’entrata. Yuki approfittò dell’occasione per avvicinarsi e annusarlo ovunque, quasi volesse sincerarsi che il suo membro preferito della famiglia non fosse scomparso di nuovo.
«Ci voleva tanto? E’ mezz’ora che si lamenta!» Hitonari stava già tornando in salotto quando notò lo sguardo trafelato di Kogure. Aggrottò le sopracciglia e si sporse verso di lui. «Ehi, tutto bene?».
Mitsui si irrigidì. «S-si, sta bene-ehi!» il cane infilò il muso nella tasca della felpa e lo spinse in avanti. «Che cazzo stai facendo?!» afferrò il collare e lo allontanò con uno strattone.
Un rumore metallico attirò la loro attenzione.
«E questo cos’è?».
Hitonari si chinò a raccogliere la catenina col pendente a goccia che era caduta dalla tasca del fratello. Questi colse l’occasione per cambiare discorso e gli confidò di averla trovata in giardino.
«In giardino?» ripeté rigirandosi perplesso l’oggetto tra le dita. Gli era stranamente famigliare, eppure non ricordava dove l’avesse già vista. Poi ebbe un’illuminazione. «Somiglia tanto a quella che indossa la nonna nel ritratto di famiglia…».
«Ritratto di famiglia?» Mitsui credette che lo stesse prendendo per il culo. Non sarebbe stata la prima volta, e nemmeno l’ultima. «Qualche ritratto di famiglia?!».
Hitonari sbuffò. Come faceva a non saperlo? «Quello nello studio di papà, dietro la scrivania… dai, l’avrai visto un milione di-ehi!».
Mitsui gli strappò la catenina di mano e si precipitò nello studio, ignorando sia il rimprovero della madre di non correre per casa, sia la richiesta di spiegazioni del padre quando entrò senza bussare.
«Hisashi…?» lo chiamò di nuovo, mentre si avvicinava con gli occhi fissi sul muro dietro di lui.
«E’ vero» bofonchiò osservando sorpreso la catenina che ornava il collo della donna a sinistra, il cui pendente era però rosso. «Colore a parte, sono identici…».
L’uomo seguì accigliato lo sguardo del figlio. «Si può sapere di che stai parlando?» ma non appena finì di pronunciare quella domanda, si accorse della catenina che teneva tra le mani. In pochi passi, gli fu di fronte. «Dove l’hai presa?».
Mitsui non si aspettava una simile reazione e la presa del padre sul polso doleva da quanto era stretta. La mezza verità secondo cui l’aveva trovata in giardino, lo irritò invece di calmarlo.
«Non mentire! Quella catenina apparteneva a mio zio, che è scomparso decenni prima che questa casa venisse costruita!».
A quelle parole, nella sua memoria riemerse la vecchia storia di un parente svanito nel nulla, da un giorno all’altro, di cui aveva sentito parlare da piccolo. Non ne sapeva molto delle vicenda, né il nome dell’uomo, né le circostanze in cui era avvenuto il fatto, e per questo motivo non l’aveva collegato a Seiji.
«Cosa…?» mormorò l’uomo quando lo udì sussurrare sovrappensiero quel nome.
«Lo zio di cui parli… si chiamava Seiji?».
Era difficile lasciare a bocca aperta Masaki Mitsui, eppure quella domanda ci riuscì.
Nel silenzio generale, al porta dello studio stridette quando Kogure l’aprì dopo aver bussato due volte. Forse seguire Mitsui non era stata l’idea migliore, e irrompere nel bel mezzo di una discussione tra padre figlio lo era ancora meno, ma lui era fatto così: non poteva non preoccuparsi per le persone a cui teneva, figurarsi per la persona che amava.
«Perdonatemi, non volevo disturbare, solo…».
«Nessun disturbo» si affrettò a dire Mitsui che, alla luce di quel nuovo scenario, stava seriamente meditando di rivelare al padre cosa gli fosse davvero successo in quei giorni. Si rendeva conto che raccontare di essere stato trasformato in un gatto da uno spirito – e non uno spirito qualsiasi, ma da quello del suo prozio – poteva aprirgli le porte di un ospedale psichiatrico, ma non avrebbe avuto modo di giustificare la presenza di quella catenina senza svelare la verità. E lui non voleva mentire, non più, non a quel padre che si era dimostrato comprensivo nei suoi confronti, che non aveva pretesto nemmeno una spiegazione per un assenza prolungata di giorni di cui, invece, avrebbe avuto tutto il diritto.
Invitò Kogure a raggiungerlo, per averlo al suo fianco, perché la sua sola presenza gli infondeva il coraggio necessario per fare quel passo. Un passo che, per il momento, Mitsui dovette rimandare, in quanto fu suo padre a prendere per primo la parola.
«Era un regalo di mia nonna per le loro future mogli» l’uomo osservò il quadro che ritraeva i propri genitori: erano giovani, poco più che ventenni, ma avevano già la fede al dito, segno che il dipinto fosse stato commissionato dopo il matrimonio. «Due ciondoli identici, ma rosso per mio padre e blu per suo fratello maggiore» da un cassetto estrasse un portagioie, al cui interno era custodito il primo pendente, ereditato dalla madre quando era morta un decennio prima. «Quello di mio zio Seiji scomparve con lui, molti anni prima che io nascessi, ma sapevo della sua esistenza perché, anche se in famiglia non se ne parlava spesso, conoscevo la sua storia».
Mitsui si avvicinò alla scrivania. «Papà-».
«Sai» lo interruppe «i tuoi bisnonni non hanno mia smesso, nemmeno per un giorno, di sperare che Seiji varcasse di nuovo la soglia di casa. Mio nonno passava ore seduto su una sedia accanto ad una finestra, da cui poteva vedere il vialetto d’ingresso. Mia nonna, invece, curava personalmente la pulizia della sua camera, nella speranza che lui potesse usarla quando sarebbe ritornato…» fece un sospiro. «Quando quella sera non sei rientrato, e non l’hai fatto nemmeno la sera dopo, mi sono chiesto se anche io avrei passato il resto della vita a chiedermi che fine avessi fatto… se fossi da qualche parte, ancora vivo-».
Mitsui allungò la propria mano e la posò su quella tremante del padre. Dopo aver ascoltato le sue parole – le sue paure – era ancora più convinto delle proprie intenzioni. Lanciò un’occhiata a Kogure che rispose con un cenno della testa, a conferma che sarebbe rimasto al suo fianco, per supportarlo.
«Papà, vorrei che ascoltassi ciò che ho da dirti» gli disse infine, con uno sguardo deciso. «So che non sarà facile da credere, ma sarà la verità…».
E la verità fu.
 
Mitsui aprì spossato la porta della propria camera, che richiuse con un calcio appena ebbe fatto accomodare Kogure. Lo abbracciò da dietro la schiena, attirato dal suo collo candido, e maledettamente scoperto, contro cui nascose il viso.
Non avrebbe mai creduto che, raccontare nel dettaglio ciò che era accaduto in quei giorni, potesse essere tanto sfiancante. Come premesso, non era stato facile convincere il padre della veridicità delle proprie parole: Kogure era intervenuto in suo soccorso in più occasioni, ma la svolta era arrivata al racconto del soriano rosso, accolto in caso dalla domestica di Seiji quando questi era appena scomparso. Un particolare insignificante, che in pochi conoscevano o ricordavano. Persino suo padre, che aveva vissuto per alcuni anni nella casa dei nonni con la propria famiglia, rammentava a malapena quel gatto curioso che gironzolava per casa, di tanto in tanto, e che svanì pochi giorni dopo la morte della donna che lo stava accudendo.
«Dio, ho voglia di baciarti…» disse Mitsui, avvertendo la necessità impellente di un contatto fisico.
Non dette particolare peso al contrarsi dei muscoli di Kogure, credendo che, il suo irrigidimento, fosse dovuto alla sorpresa di sentire le sue labbra umide accarezzargli la pelle delicata del collo. Un peccato che non fossero soli in casa, perché Mitsui si sarebbe spinto volentieri oltre i semplici baci… ma andava bene anche così: ora che stavano insieme, avrebbero avuto tutto il tempo per approfondire le carezze e…
Fu l’abbaiare di Yuki a strapparlo da pensieri man mano più impuri. Il fatto che suo fratello lo avesse mollato lì, nella sua camera, lo stava già facendo incazzare quando realizzò la verità: dal suo letto, dove era seduto, Hitonari li fissava attonito, con gli occhi totalmente spalancati, manco avesse incontrato un fantasma. Inutile pensare di giustificare l’ovvio, nascondendolo dietro scuse becere e senza senso.
«L’avete già fatto…?» chiese con un filo di voce, dopo interminabili minuti di silenzio.
L’imbarazzo in cui sprofondò la neo coppietta gli fornì la risposta negativa che cercava.
«Oh, cazzo! Meno male» si passò una mano sulla faccia con chiaro sollievo. «Forse sono ancora in tempo per riportarsi sulla retta via del paradiso femminile…».
«Non ho bisogno della tua “guida” per decidere con chi stare!» Mitsui si frappose tra lui e Kogure, il qualche intanto stava meditando di non rimettere più piede in quella casa, o sarebbe morto dalla vergogna.
«No, aspetta… sei serio?». Hitonari si alzò in piedi e lo fissò dritto negli occhi. «Oh» esclamò quando capì che lo era. La sua risata isterica riempì la stanza «Merda! Per nulla al mondo voglio perdermi la scena di quando presenterai il tuo fidanzato a papà!»
Come se potessi, pensò Mitsui, immaginando che, per i suoi, sarebbe probabilmente rimasto single a vita. Tuttavia, capì anche che le informazioni potevano giungere alle loro orecchie in svariati modi e…
«Spara» grugnì, piegando la bocca in una smorfia. L’idea di sottostare alle condizioni del fratello gli rivoltava lo stomaco… ma che cosa poteva fare?
Hitonari incrociò le braccia sul petto e lanciò un’occhiata fugace a Kogure.
«Ehi… tua sorella è libera?» chiese, grattandosi poi una guancia imbarazzato.
Colto alla sprovvista dalla domanda, Kogure sbatté gli occhi. «C-che io sappia, si… perché?».
A Mitsui il “perché” pareva ovvio. In cuor suo, sperò solo di non dover organizzare una “uscita a quattro”, ma fu proprio quello che suo fratello chiese.

FINE

 

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