Il Gioiello del Vaticano

di Amy W Gildeary
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Papa ***
Capitolo 2: *** La Temperanza ***
Capitolo 3: *** L'Imperatrice ***
Capitolo 4: *** La Luna ***
Capitolo 5: *** Le Stelle ***
Capitolo 6: *** La Torre ***
Capitolo 7: *** Il Matto ***
Capitolo 8: *** L'Appeso ***
Capitolo 9: *** La Papessa ***
Capitolo 10: *** Il Mago ***
Capitolo 11: *** Il Carro ***
Capitolo 12: *** La Forza ***
Capitolo 13: *** Gli Amanti ***
Capitolo 14: *** L'Eremita ***
Capitolo 15: *** La Giustizia ***
Capitolo 16: *** Il Sole ***
Capitolo 17: *** Il Diavolo ***
Capitolo 18: *** La Ruota della Fortuna ***
Capitolo 19: *** L'Angelo ***



Capitolo 1
*** Il Papa ***


Il Gioiello del Vaticano

Capitolo 1 - Il Papa

 

 

 

Nei tarocchi, la carta del Papa rappresenta fecondità di pensiero che genera il sapere, la conoscenza. È saggezza, sacralità, divinazione, gnosi. Indica fede e religione, meditazione e modestia.
Al negativo, però, riflette rancori nascosti, fanatismo. Può generare intolleranza e ribellione.

 

 

 

«I nostri uomini hanno avuto successo!», esclamò Lupo Mercuri, spalancando le porte che conducevano ai bagni del Vaticano. «Sforza è morto».

Dietro di lui, Francesco Pazzi alzò gli occhi al cielo per tutto quel baccano, poco aiutato dalle proteste delle guardie alle sue spalle che intimavano i due ospiti di lasciare Sua Santità in pace.

Papa Sisto, al contrario, non sembrò troppo infastidito dalla visita. Abbandonò con non curanza il ragazzino con cui si stava intrattenendo nella vasca ed uscì a grandi passi per raggiungere i due uomini. Alzò appena una mano in alto, per congedare le guardie all’ingresso della stanza, ed aspettò di vederle uscire prima di proseguire la conversazione. A quel punto, riportò la sua attenzione su Francesco Pazzi.

            «Firenze è pronta ad accogliere, Vostra Eminenza», rispose immediatamente il fiorentino, capendo che quello sguardo era una tacita domanda. «Credetemi», aggiunse, inchinandosi per poter baciare l’anello papale.

Nel mentre, il cardinale Mercuri afferrò la veste del papa, e lo aiutò ad indossarla.

            «Come lo sapete?», domandò Sisto, con diffidenza.

            «Abbiamo un informatore alla corte di Lorenzo», rispose prontamente Lupo, sistemando con cura il pesante abito riccamente decorato.

            «E cos’altro sapete?», chiese ancora il papa, per nulla convinto.

            «I Medici stanno organizzando un Carnevale, nel patetico intento di ingraziarsi il popolo», proseguì il fiorentino, portando le mani dietro alla schiena in una posa rigida e solenne. «Sono deboli, ma cercano di distogliere l’attenzione della gente con frivolezze del genere», aggiunse, con un’espressione seccata.

            «Santità…», si intromise Lupo Mercuri, con un sorriso tutto elettrizzato che non fece altro che infastidire ancora di più Sisto. «È la vostra occasione per colpire», aggiunse sottovoce, come un bambino che non aspetta altro che il permesso per giocare.

In tutta risposta, il papa sbuffò infastidito: più che una discussione su mosse e tattiche politiche, gli sembrava di avere a che fare con dei ragazzini. Non si fidava nemmeno un po’ di quei due piccoli scagnozzi, e sapeva che una missione di quel calibro necessitava di tutt’altra guida.

Come se qualcuno gli avesse letto nel pensiero, le guardie fuori dalla porta bussarono cinque colpi, il segnale prestabilito che annunciava l’ospite ancor prima di aprire l’ingresso.

            «Prego», rispose lui subito, sapendo che la soluzione a cui stava pensando era proprio lì fuori.

Il portone di legno massiccio si aprì con un lieve cigolio, e fu subito seguito dal suono di passi lenti e misurati sul marmo della sala.

I due ospiti si voltarono confusi ed incuriositi, mentre Sisto si lasciò sfuggire un sorrisetto soddisfatto.

            «Signori…», esordì il papa, con una nota di fierezza. «Vi presento uno dei più preziosi gioielli del Vaticano».

L’ospite appena entrata si concesse un leggero sorrisetto compiaciuto, mentre raggiungeva il piccolo gruppetto. Una volta di fronte a Sisto, accennò un inchino, ma nemmeno un gesto tanto umile scalfì minimamente il suo atteggiamento fiero ed altezzoso.

Né le vesti completamente nere, tratto distintivo della divisa del Vaticano e spezzate solo dal candido simbolo della Chiesa cucito sul petto, né i capelli raccolti in un’elaborata ed austera acconciatura, né tanto meno la spada o lo stiletto nella cintura… Niente di tutto ciò intaccava minimamente la sua bellezza o la sua femminilità. Lo sguardo, vispo e fiero, manifestava tutta la sua sicurezza, e sarebbe stato capace di soggiogare chiunque in un battito di ciglia.

            «Santo Padre», disse la giovane donna, con decisione.

In risposta, l’uomo sollevò una mano e la indicò ai due uomini suoi ospiti.

            «Mia nipote, nonché contessa, Gemma Riario», affermò l’uomo, con un ghigno soddisfatto.

Un po’ sorpreso, Francesco Pazzi chinò di poco la testa in un cenno di saluto. Al contrario, il cardinale Mercuri si improvvisò un gentiluomo e si inchinò per un galante baciamano. Con ogni probabilità, un modo come un altro per ingraziarsi Sua Santità, vista la fierezza mostrata nei confronti della giovane donna.

            «Ho sentito parlare meravigliosamente di voi», proseguì il cardinale, con un sorriso d’adulazione, ma la contessa non si scomodò a rispondere se non con un cenno d’assenso del capo.

            «Una donna, Vostra Santità?», domandò invece Francesco Pazzi, senza fare nulla per celare il suo scetticismo.

            «Vi consiglio di non sottovalutarla», ribatté prontamente Sisto, indurendo il tono della voce. «È una delle armi migliori a disposizione della Santa Romana Chiesa».

            «Non è mai saggio lasciarsi ingannare dalle apparenze», aggiunse la contessa Riario, con un sorriso di finta gentilezza che sicuramente non celava una nota di ammonimento.

Intuendo che la situazione si stava evolvendo a suo sfavore, il fiorentino finse la migliore delle espressioni di accondiscendenza, e si sforzò di compiacere papa Sisto.

            «Sicuramente possedete l’elemento sorpresa», rispose l’uomo, annuendo. «Una tattica inusuale, ma molto interessante».

Gemma Riario era ben abituata a reazioni e commenti di quel tipo, e nel corso degli anni aveva imparato a farsi scivolare addosso ogni diffidenza da parte di altri: presto o tardi, tutti si rendevano conto di quale enorme sbaglio fosse crederla innocua, e la soddisfazione di vedere le loro espressioni farsi intimorite, nel realizzare quanto in realtà fosse pericolosa, era un’ottima ricompensa.

            «Avrete presto prova del mio valore, non dovete temere», rispose la contessa, con un sorriso di finta cortesia.

A quell’affermazione, sia Francesco Pazzi che Lupo Mercuri si voltarono verso papa Sisto, l’espressione del volto vagamente confusa in una tacita richiesta di spiegazioni.

            «Sono certo che mia nipote sarà un aiuto più che valido nel nostro piano contro i Medici», spiegò il papa, sistemandosi meglio la veste addosso. «Qualcosa in contrario, per caso?», aggiunse poi, in una domanda assolutamente retorica.

            «No, certo che no», risposero prontamente i due, suscitando in Gemma un sorrisetto soddisfatto: tali a quali a due cagnolini spaventati.

            «Dunque datevi da fare», sentenziò Sua Santità, tornando severo.

            «Assolutamente», gli assicurò Francesco Pazzi.

            «C’è un’altra ragione per affrettarsi», aggiunse Lupo Mercuri, facendosi più cupo. «Il Turco in questo momento si trova a Firenze. Cerca il Libro delle Lamine».

A quelle parole anche Gemma tornò seria e si voltò verso il cardinale. Sisto invece, evidentemente infastidito dall’aver nominato quel manufatto come se la sua importanza superasse quella di mettere fine alla dinastia de’ Medici, borbottò qualcosa di incomprensibile e se ne andò a grandi passi.

Prima di giungere alla porta, però, si voltò un’ultima volta, e scoccò uno sguardo freddo e severo proprio verso la nipote. Il cardinale Mercuri e Francesco Pazzi si guardarono confusi, ma Gemma aveva capito perfettamente quello che le era appena stato ordinato, senza neanche bisogno di una parola. Annuì, e Sisto uscì definitivamente dalla sala.

La contessa, invece, si voltò verso la vasca e piegò le labbra in un sorriso impregnato di falsità e sarcasmo, mentre lentamente si avvicinava agli scalini lambiti dall’acqua calda, lo sguardo puntato sul giovane ragazzino che per tutto il tempo della conversazione era rimasto seduto in silenzio.

            «Sono… molto dispiaciuta», mormorò, piegando leggermente la testa di lato, mentre si immergeva nell’acqua.

            «Perché?», balbettò il ragazzino, con un filo di voce.

La mano di Gemma scivolò silenziosamente alla cintura e si strinse intorno all’impugnatura dello stiletto, ma il suo sguardo rimase fisso negli occhi del giovane.

            «Non avresti dovuto sentire», rispose semplicemente.

In un istante, la sua espressione si fece fredda ed apatica, come se di colpo avesse perso qualsiasi capacità di provare emozioni, e rimase tale, mentre estraeva l’arma dalla cintura e con un gesto netto tagliava la gola del ragazzo. La vittima non riuscì ad emettere altro che un gemito strozzato, mentre ricadeva nell’acqua, tingendola lentamente di rosso scarlatto.

Gemma immerse lo stiletto nella vasca, ripulendolo dal sangue, per poi riporlo nella cintura con un movimento fluido ed elegante. Si voltò verso i due ospiti, che nel frattempo erano rimasti pietrificati di fronte a quella scena, le loro espressioni assolutamente gelate.

La contessa riemerse dalla vasca, e li raggiunse sulla passerella di marmo, come se nulla fosse accaduto. Quanto meno, aveva già dimostrato loro quanto qualsiasi pregiudizio fosse infondato.

            «Bene, signori…», esordì Gemma, congiungendo le mani davanti a sé. «Vogliamo proseguire?»

 

 

 

Angolo dell’autrice

Che dire, un buonsalve e un benvenut* a tutt*!

Sono nuova in questa sezione, quindi mi presento: piacere, sono Amy e sono felicissima di potervi introdurre alla storia della contessa Gemma Riario.

Un ringraziamento speciale va all’episodio Liberum Arbitrium, che mi mise la pulce nell’orecchio di “Cosa sarebbe successo se…?”. Episodio che, tra l’altro, andò in onda alla fine del 2015, il che dà una vaga idea del tempo che ci ho messo nel realizzare questa storia. Ma dopo tanto lavoro e una lunga revisione, sono finalmente giunta alla sua conclusione e posso pubblicarla. Non vedevo l’ora, giuro!

Dal momento che questa prima stagione è già pronta, aggiornerò ogni due mercoledì con un nuovo capitolo, e facendo un rapido calcolo ci terremo compagnia per un discreto periodo di tempo.

Spero tanto che il primo capitolo vi sia piaciuto, e mi farebbe davvero tanto piacere sapere che cosa ne pensate.

Un bacione grandissimo!

Amy W. Gildeary

 

P.S.: da quando mi è stato fatto notare che gli episodi della prima stagione hanno come titolo alcune carte dei Tarocchi, ho voluto seguire lo stesso filo conduttore. Ragion per cui, all’inizio di ogni capitolo, ci sarà un piccolo scorcio sul significato della carta che ha dato il nome ad ogni parte.

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Capitolo 2
*** La Temperanza ***


Il Gioiello del Vaticano
Capitolo 2 - La Temperanza

 

 

 

Nei Tarocchi, la carta della Temperanza è medicina naturale, energia che fluisce per trasfondere forza, per guarire, per trasformare. Temperanza che porta a guardare con senso d’indifferenza a tutto ciò che la vita presenta sotto forma di grettezza, insegnando la rassegnazione. Può indicare sensibilità profonda, ricettività a tutto ciò che ci circonda, e ancora: senso di pace, di dolcezza, di riposo.
Al negativo, però, può indicare una natura apatica e instabile. Si può giungere a un’apatia totale, una passività negativa, o eccedere in certi settori di vita.

 

 

 

Gemma estrasse per l’ennesima volta lo stiletto dalla cintura e ricominciò a giocherellarci, cercando di ingannare l’attesa, sempre più snervante. Ancor più che dal ritardo dei suoi collaboratori, era seccata al pensiero di quello che stava per accadere.

Non era la prima volta che aveva a che fare con Al-Rahim, ma in ogni occasione sperava e pregava che fosse l’ultima. La sua riapparizione voleva dire lunghi viaggi in tutta Italia, per tentare di stare al passo con i suoi spostamenti, oltre che interminabili interrogatori tutt’altro che piacevoli con chiunque avesse avuto la sfortuna di incontrare quell’uomo che tanto insisteva nel farsi chiamare il Turco.

E soprattutto, quell’incarico comportava frequenti visite in Vaticano, presso Sua Santità. Al solo pensarci, strinse lo stiletto con tutta la forza di cui era capace, pur di opporsi alla tentazione di lanciarlo e conficcarlo nella prima superficie disponibile; una forza tale da far emergere il segno di un anello sotto la pelle nera dei guanti.

Prese un profondo respiro e concentrò i suoi pensieri su tutt’altro, o ci avrebbe guadagnato solo una grande e dolorosa rabbia. Pur di distrarsi, rivolse la sua attenzione allo stiletto, al movimento fluido ed elegante con cui lo rigirava tra le mani, qualsiasi mossa volesse compiere. Quasi le scappò una risata nel rifletterci: aveva imparato ad impugnare e ad usare quell’arma ancor prima di studiare le basi della religione cattolica.

A quale scopo investire tempo e denaro in una preparazione culturale, se si fosse rivelata incapace di combattere? Con ogni probabilità Sisto aveva seguito quello stesso ragionamento, facendo iniziare il suo addestramento quanto prima possibile.

Ed eccola lì, in grado di impugnare un’arma da quando aveva appena otto anni, ma a volte incapace di recitare a comando gli insegnamenti della Bibbia. D’altro canto, si ritrovava a ventiquattro anni con due terzi della sua vita trascorsi al servizio della Santa Madre Chiesa, più o meno ufficialmente, impegnata in allenamenti ed addestramenti serrati e senza tregua, per mantenerla degna di essere definita il gioiello più prezioso del Vaticano.

E in contesti più nascosti, l’arma più potente del Vaticano.

Titoli che suonavano entrambi prestigiosi, di cui andare fieri, ma per Gemma altro non erano che macigni, onnipresenti sempre e comunque. A volte sopportabili, a volte così pesanti da impedirle di respirare.

Il suono, ormai familiare, della serratura della porta la destò dai suoi pensieri. In tanti anni aveva attraversato quel passaggio segreto molto più spesso dell’entrata principale. I soliti discorsi sulla segretezza e sul bisogno di discrezione.

Con il suo caratteristico passo pesante e grezzo, il capitano Grunwald comparve nella sala, dopo aver superato un’imponente libreria colma di libri e manufatti, e cercò Gemma con lo sguardo.

La trovò seduta su uno dei maestosi tavoli degli Archivi, anch’essi tutt’altro che utili ad esplorare ed esaminare i tesori lì custoditi, ma volti solo ed esclusivamente ad esibire e ad ostentare tutta la ricchezza posseduta dalla Chiesa. Probabilmente era stato usato più oro per decorare quello scrittoio che non per una corona.

Non a caso, era il preferito di Gemma. Ogni volta che aveva la possibilità di stare da sola negli Archivi, senza papa Sisto nei paraggi, saltava sul quel tavolo e si sedeva sul bordo, rigorosamente con la più regale e raffinata delle posture: schiena dritta, una gamba accavallata sopra all’altra, e le mani elegantemente congiunge davanti a sé. Oppure, come in quel caso, impegnate a giocherellare con il suo amato stiletto.

Quando la giovane donna rialzò gli occhi su di lui, però, lo sguardo che gli rivolse era molto più tagliente della sua arma preferita.

            «Mi auguro che questo ritardo sia seguito da un’ottima spiegazione», tuonò severamente, rallentando il movimento del pugnale nelle sue mani. «Ad esempio, che il Turco ha rinunciato alla sua missione suicida e che il mio lavoro qui è già finito», aggiunse, con un sorriso sarcastico e di pura cortesia.

            «Purtroppo no, contessa Riario», rispose il capitano, con insolita umiltà.

In una qualsiasi altra situazione, sarebbe stato bravissimo ad intimidire il suo avversario, aiutato anche dal suo aspetto minaccioso ed aggressivo. Ma ogni regola ha la sua eccezione, e per Grunwald quell’eccezione era Gemma.

            «Certo che no», mormorò la giovane donna, la voce impregnata di ironia. «Avanti, che altro dovete dirmi? Ho già perso abbastanza tempo», continuò poi, seccata.

            «È ancora a Firenze, e molti altri indizi indicano che anche il Libro si trovi-…», ma Gemma sollevò una mano e schioccò le dita: un tacito modo di zittirlo. E di umiliarlo, allo stesso tempo.

            «Sono certa di non aver aspettato tanto a lungo solo per avere la metà delle informazioni che ho chiesto», disse la contessa, volgendo lo sguardo verso il punto dal quale era comparso il capitano.

Pochi secondi dopo, infatti, negli Archivi echeggiò il suono di altri passi, molto più lenti ed insicuri di quelli di Grunwald, e poco dopo girò l’angolo un secondo personaggio, completamente celato sotto ad un pesante mantello di velluto scuro.

            «Quanta teatralità», commentò la contessa, alzando gli occhi al cielo. «Siete una spia della Chiesa, non il personaggio di un qualche spettacolo teatrale», aggiunse poi, con tono di rimprovero.

Dovette attendere qualche altro istante prima che il secondo ospite rinunciasse a quell’ultima barriera protettiva, costituita dal cappuccio del mantello. Attesa che non fece altro che infastidirla più di quanto già non lo fosse.

Con un’espressione che tentava, invano, di celare l’irrequietezza, Madonna Donati fece la sua comparsa, lo sguardo dritto a terra e il labbro inferiore torturato con i denti per scaricare il nervosismo.

            «Altro silenzio?», chiese Gemma, in quella che non suonava affatto come una domanda, ma come una minaccia. «Perché, in tal caso, temo di non avere abbastanza pazienza per tollerarlo», precisò poi, l’espressione severa e le mani fasciate dai guanti di pelle nera che già armeggiavano con lo stiletto.

            «Il Turco ha avuto successo», rispose Lucrezia, e un secondo dopo la sua espressione si fece ancora più tesa, rendendosi conto che non avrebbe potuto scegliere parole peggiori, soprattutto visto l’umore già molto alterato della contessa. «Ha… ha trovato qualcuno interessato al libro», balbettò poi, con umiltà.

            «Di bene in meglio», mormorò Gemma, poggiandosi una mano sulla fronte e chiudendo gli occhi, nel tentativo di ritrovare un po’ di autocontrollo. «Chi è lo stolto di turno?», domandò poi, desiderosa di porre fine a quell’incontro il prima possibile.

            «Un artista…», rispose Lucrezia. «…il cui nome è Leonardo da Vinci».

            «I Medici lo hanno assunto per progettare armi da assedio», aggiunse Grunwald, capendo che la giovane fiorentina non sarebbe stata di alcun aiuto per accorciare la durata di quel colloquio.

            «Un artista?», ripeté Gemma, dapprima perplessa. «Sarebbe questa la terribile notizia che tanto temevate di comunicarmi? Che dovrò occuparmi di un surrogato di giullare armato di pennelli?», continuò retorica e sempre più divertita.

            «Questo artista è diverso dagli altri», tentò nuovamente Madonna Donati, e la sua sarebbe anche suonata come un’obiezioni audace, se solo non fosse stata minata dalla sua espressione intimidita e a disagio. «Le sue idee sono… insolite, rivoluzionarie».

            «Avete catturato la sua attenzione: questo pone già un limite alla sua intelligenza», ribatté Gemma, con un sorriso impegnato di falsità.

La giovane fiorentina apparve visibilmente offesa, ma il timore ebbe la meglio e la costrinse a tornare docile e accondiscendente.

            «Bene», mormorò Gemma con sarcasmo, scendendo dal tavolo con una grazia a dir poco surreale. «Continuate a tenerlo d’occhio, così come il Magnifico. Voglio tutte le informazioni che il vostro presunto bel visino riesce ad estorcere», ordinò, schioccando le dita in direzione della fiorentina.

            «Certamente», rispose Lucrezia, con un filo di voce e il desiderio di allontanarsi il prima possibile.

Con un gesto annoiato, Gemma la congedò, per poi lasciarsi sfuggire un sospiro pregno di seccatura.

            «Sellate i cavalli, capitano Grunwald», aggiunse poi, rivolta al suo collaboratore. «Firenze ci sta aspettando».

            «Qual è il vostro piano, contessa?», indagò l’uomo, con tutta l’accortezza che il suo istinto di sopravvivenza gli stava gridando di usare.

            «Avere questo artista», rispose Gemma, armata della risolutezza che da sempre caratterizzava il suo nome. «Con le buone o con le cattive».

 

 

 

Angolo dell’autrice

Un altro buonsalve a tutt* voi!

Ho visto un bel numero di visite in queste prime due settimane e ne sono davvero felicissima. Quindi, con un gran sorriso in viso, vi lascio il secondo capitolo. Come il primo, ha un ritmo più lento e di presentazione, ma dal prossimo l’azione si sposta tutta a Firenze e cominceranno le scintille.

Vi ringrazio di nuovo per aver letto e se vorrete lasciare un commento vi ringrazierò doppiamente.

Appuntamento tra due settimane!

Un bacione grandissimo

Amy W. Gildeary

 

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Capitolo 3
*** L'Imperatrice ***


Il Gioiello del Vaticano  
Capitolo 3 - L’Imperatrice

 

 

 

Nei Tarocchi, la carta dell’Imperatrice rappresenta la luminosità dell’intelligenza che genera pensiero e comprensione. Indica forme e idee, rivela studio e riflessione, sapere. Dominio esercitato con la bontà e l’affabilità, che vuole esprimersi in un’educazione materna. È, ancora, indice di fecondità, di ricchezza interiore, di generosità.
Al negativo, però, riflette superficialità, prodigalità eccessiva, intento di seduzione, vanità e desiderio di lusso.

 

 

 

            «Devo scambiare due parole con te. Abbiamo trovato delle impronte l’altra notte nel cimitero: quelle di un asino, di un uomo… e quelle di un ragazzo, che indossava scarpe dalla punta allungata. Esattamente come quelle che indossi tu».

Il piccolo scagnozzo reclutato dalle guardie svizzere, il signor Morgante, non disse altro, prima che il suo compare colpisse Nico alla nuca e lo tramortisse.

I due uomini attraversarono velocemente le viuzze di Firenze, ben attenti a non essere visti da nessuno, e caricarono il giovane su una carrozza, avendo cura di coprirgli la testa con un cappuccio di stoffa scura.

Arrivati all’accampamento dei soldati di Roma, il signor Morgante scese per primo, e cercò con lo sguardo il braccio destro del mandante del rapimento: il capitano Grunwald. L’uomo, senza scomporsi eccessivamente, fece cenno di portare il collaboratore di da Vinci su un piccolo sgabello di legno, davanti ad un elegante tavolino dipinto di nero.

Alcuni lamenti provenienti dalla carrozza avvertirono i presenti che il giovane fiorentino aveva ripreso conoscenza, ma legato ed incappucciato non poteva sapere dove fosse diretto.

E, soprattutto, chi stesse per incontrare.

Le guardie lo strattonarono fino al salottino improvvisato nel giardino e lo fecero inginocchiare a terra, con le braccia ben ferme dietro la schiena. Da sotto il cappuccio, non si udivano che singhiozzi sommessi e respiri tremolanti.

Dall’altra parte del tavolino, il suono di passi lenti e calcolati venne attutito dal soffice manto erboso, e l’ospite si prese tutto il tempo di cui aveva voglia per sedersi su un’elegante poltroncina rivestita di tessuti preziosi.

Sollevò lo sguardo verso una delle sue guardie e le bastò un semplice cenno del capo per dare ordine di togliere il cappuccio al ragazzo. L’uomo annuì con rispetto e liberò il fiorentino dalla maschera.

Nico sussultò per la sorpresa ed iniziò a guardarsi intorno, con il terrore negli occhi e il respiro bloccato in gola, le guance rigate dalle lacrime e i capelli arruffati. Un attimo dopo, il suo sguardo si soffermò sulla donna seduta di fronte a lui, l’espressione assolutamente imperturbabile, calma, tutt’altro che propensa a lascia trapelare un indizio sulle sue intenzioni.

            «Sapete chi sono?», domandò la giovane donna, chinando di poco la testa di lato, la voce morbida e vellutata, senza alcuna traccia di turbamento. «Sono Gemma Riario. Contessa di Imola, guida della Santa Romana Chiesa e nipote di Sua Santità, papa Sisto IV».

Nico a malapena riuscì a sentire le sue parole, tanto attanagliato dalla paura, e nessun suono lasciò le sue labbra, mentre lo sguardo vagava di nuovo da un soldato all’altro.

            «Sì, lo so», commentò la contessa, con un sospiro annoiato. «Rimangono tutti sempre molto sorpresi di vedere una donna», continuò, con una naturalezza e una tranquillità a dir poco disarmanti, ben poco appropriati al contesto. «Volevano un figlio maschio. Lo avrebbero chiamato Girolamo. Ma poi sono arrivata io».

Il povero Nico non fece nulla per celare tutta la sua confusione, troppo sopraffatto dalla situazione e dalla valanga di informazioni, e guardò la giovane donna con lo sguardo impaurito e spaesato.

            «Ma il titolo di Gioiello più prezioso del Vaticano non sarebbe suonato altrettanto bene», aggiunse poi, con una punta di orgoglio. «Ci si adegua al meglio delle proprie capacità».

Non vedendo alcuna reazione da parte del giovane fiorentino, diversa da singhiozzi e sussulti, Gemma sospirò e riportò la sua attenzione sugli affari più urgenti.

            «Il signor Morgante ci ha informati delle vostre gesta da sciacallo», disse, indicando l’uomo in questione con un elegante e leggiadro gesto della mano.

            «Non so di cosa stiate parlando…», mormorò Nico, con quel poco di coraggio che era riuscito a raccogliere, ma tradito dalla voce incerta e malferma.

            «Non sprecate così le vostre forze, Nico», lo interruppe Gemma, con una vena di gentilezza che forse, in altre circostanze, sarebbe potuta sembrare quasi sincera. «Sappiamo così tanto, su di voi e sul vostro artista, che ogni tentativo di negare sarebbe solo una perdita di tempo», continuò, accavallando una gamba sopra l’altra.

            «Emm… Vostra Eccellenza…», si intromise il signor Morgante, muovendo qualche passo incerto verso la contessa. «C’era… la questione del mio compenso».

A quelle parole, Gemma sollevò lo sguardo verso la guardia con un che di sorpreso, mentre le dita delle mani giocherellavano con i guanti di pelle.  

            «Oh, sì, certamente», rispose poi, accennando un altro dei suoi sorrisi, all’apparenza quasi sincero. «Capitano Grunwald?», chiamò poi, sollevando appena la mano destra verso il suo collaboratore.

Confuso, Nico seguì tutta la scena con lo sguardo, nella vana speranza che quel piccolo imprevisto potesse distrarre l’attenzione della contessa dalla questione riguardante da Vinci. Il tempo di vedere il luccichio della spada di Grunwald sguainata, e un istante dopo quella stessa spada decapitare il signor Morgante con un solo unico colpo, e la sua illusione svanì immediatamente.

Degli schizzi di sangue gli sporcarono il viso, e il ragazzo cercò di voltare il capo altrove, ma la guardia alle sue spalle lo fece tornare subito al suo posto.

            «Oh mio Dio…», fu tutto ciò che riuscì a dire Nico, mentre il suo sguardo tornava sul volto di Gemma, sulla sua totale mancanza di turbamento o di rimorso per quanto appena fatto.

            «Questa convinzione di potermi credere innocua solo in quanto donna…», mormorò Gemma, con un che di fastidio nella voce. «Per quanto io ci sia abituata, è sempre una seccatura», aggiunse, prima di prendere un respiro profondo e tornare concentrata sul giovane fiorentino. «Sappiamo del cadavere dell’ebreo trafugato, quindi evitiamoci tante cerimonie inutili: a cosa è dovuto l’interesse dell’artista in tutto ciò?»

Nonostante le notevoli difficoltà nel respirare, Nico mantenne il suo silenzio, cercando di concentrare le forze nel tenere il suo corpo sotto controllo, percorso dai brividi per la paura. Il suo sguardo tornò sulla contessa, come si aspettasse un briciolo di pietà da un momento all’altro, ma l’espressione della giovane donna rimase imperscrutabile.

L’unica emozione che fece capolino, dopo qualche altro secondo privo di parole, fu la noia, di fronte a quell’ennesima perdita di tempo.

            «Ho capito», mormorò Gemma, rivolgendo al suo fedele braccio destro un altro cenno della mano.

Al suo segnale, due uomini si avvicinarono ad un tavolino poco distante, ed afferrarono uno strano oggetto: ad un primo sguardo, non sembrava altro che uno scrigno nero con una piccola maniglia bianca sul lato superiore. Uno dei lati, tuttavia, era decorato con una candida scultura raffigurante una giovane donna, dagli occhi vuoti e vacui.

            «Arriverà il giorno in cui non dovrò arrivare a tanto per essere ascoltata», mormorò Gemma, con un sospiro di rassegnazione. «Ma quel giorno non è oggi», e un istante dopo, Nico si sentì strattonare una mano e forzato ad inserirla nella scatola; con un piccolo giro della leva, gli venne negata ogni possibilità di liberarsi.

            «No…», mormorò con un fil di voce, in un’ultima supplica.

            «Si chiama Lacrima della vedova», spiegò Gemma, con la stessa calma che aveva caratterizzato l’intera conversazione dall’inizio fino a quel punto. «La fonte del vostro fastidio è un’affilata creazione: una lima a punta diamantata», continuò, raddrizzandosi sulla sedia solo per potersi sporgere maggiormente verso il suo interlocutore. «Una gemma. Che coincidenza», aggiunse, con un sorriso sarcastico.

Poco dopo, però, il sorriso scomparve, proprio nel momento in cui la mano della contessa si strinse attorno all’impugnatura, iniziando a farla girare.

            «Un semplice giro, ed ecco che il diamante incide, molto lentamente, il dorso della mano. Uno strato di epidermide alla volta», mormorò, e a riprova delle sue parole giunsero i lamenti sommessi di Nico, mentre la lama gli feriva la mano, lentamente ma dolorosamente.

Completato il giro, Gemma tornò seduta composta sulla sedia, con le braccia distese sui braccioli della poltrona, e un sospiro venato di sofferenza lasciò le sue labbra prima che lei potesse fermarlo.

            «Proviamo un’altra volta: perché l’artista voleva il corpo dell’ebreo?», domandò la contessa, e non ebbe alcun controllo nemmeno sulla flebile speranza che si accese in lei che il giovane Nico capisse che il tempo di mostrarsi forte era finito.

Non ricevendo altro che silenzio, però, le sue possibilità di scelta si azzerarono, e suo malgrado dovette tornare dritta sulla sedia.

            «Un altro giro, allora», mormorò, allungando di nuovo la mano verso la maniglia e stringendola con più forza del dovuto.

Stava per girarla di nuovo, quando il giovane fiorentino singhiozzò.

            «No, vi prego», la implorò, con un filo di voce, prima che un altro singhiozzo gli bloccasse il respiro in gola.

Gemma fece quanto in suo potere che mascherare quel accenno di sorriso come un’espressione soddisfatta e compiaciuta, e tornò ad osservare il ragazzo.

            «Sto ascoltando», mormorò, accavallando di nuovo una gamba sopra l’altra e congiungendo le mani sopra al ginocchio.

            «Cercava… qualcosa», rispose Nico, sollevando debolmente lo sguardo.

Con il suo ormai caratteristico cenno della mano, radunò i suoi soldati, ordinando così loro di essere pronti a partire.

            «Che cosa?», lo incoraggiò, con tono calmo e pacato.

            «Una chiave».

 

 

 

 

Per quanto Gemma fosse addestrata a cavarsela in qualsiasi tipo di situazione, dalle più diplomatiche alle più scomode, in cui doveva sporcarsi le mani in prima persona, per una volta decise di delegare alle sue guardie il compito di perquisire da cima a fondo la bottega di Leonardo, in cerca della chiave che, a detta di Nico, si trovava da qualche parte tra quelle mura.

Con ogni probabilità, la contessa era stata baciata dalla fortuna quel giorno e, grazie alla decisione di non seguire le guardie svizzere a Firenze, era scampata all’esplosione innescata dal piccolo apprendista di Leonardo.

Quanto meno, i suoi scagnozzi erano stati addestrati altrettanto bene, o almeno avevano imparato quando fosse il caso di fermarsi ed affrontare il nemico e quando invece scappare via. Ragion per cui, sentita la voce di Andrea che correva nella bottega, erano spariti nelle ombre della città, lasciando Nico e la sua mano sanguinante nel mezzo della bottega, sotto lo sguardo preoccupato di Andrea.

            «Ma… per tutti i diavoli!», esclamò Verrocchio, guardandosi intorno e stando ben attento a non avvicinarsi troppo alle fiamme ancora vive dell’incendio. «Cos’è accaduto qui?», domandò, avvicinandosi preoccupato a Nico.

Dietro di lui, anche Leonardo e Zoroastro entrarono nello studio, entrambi allibiti di fronte ai danni provocati dallo scrigno esplosivo.

            «Quegli uomini sono spie del papa», mormorò l’artista, con ben poche tracce di dubbio nella sua voce.

            «Non ti bastava scontrarti con i Medici? Ora anche…», esclamò Andrea, la rabbia volta solo a mascherare la preoccupazione e la paura che lo attanagliavano. «Leonardo… stai parlando del papa», aggiunse, con un filo di voce, e non volle nemmeno provare ad immaginare cosa poteva comportare quell’affermazione.

            «Che potrebbe fare? Strapparci le viscere con una forchetta arrugginita?», si intromise Zoroastro, cono tono annoiato.

Leonardo però non lo sentì nemmeno: il suo sguardo era caduto sul suo apprendista, sulla sua mano ferita e sanguinante, sulle sue guance rigate dalle lacrime e sulla sua espressione sconvolta.

            «Nico… chi ti ha fatto questo?», domandò, prendendogli delicatamente il polso ed esaminando la lesione.

            «La contessa Riario», rispose il giovane, con voce incerta.

In quella che era sicuramente la reazione meno appropriata, Zoroastro scoppiò a ridere, sotto lo sguardo di rimprovero di Andrea.

            «Una donna?», ripeté, divertito. «L’istinto materno nei confronti di un bambino indifeso non ha prevalso?»

            «Non c’era nulla di umano o di compassionevole in lei», borbottò il giovane, abbassando lo sguardo al solo ricordare quell’incontro.

            «Nessuno può resistere a questo bel faccino», commentò ancora l’amico, avvicinandosi al biondino e pizzicandogli le guance.

            «Zoroastro», lo ammonì Leonardo, con un’occhiataccia tutt’altro che amichevole. «Abbiamo un problema serio», aggiunse, cercando di riportare la conversazione su ciò che era davvero importante.

            «Andiamo, non è umanamente possibile resistere allo sguardo da cucciolotto del nostro Nico», proseguì Zo imperterrito, con lo stesso tono che avrebbe usato per rivolgersi ad un bambino, e con le dita che gli scompigliavano i capelli.  

            «Te l’ho detto: era spietata e priva di rimorsi», ribatté Nico, alzando la mano sana per fermare l’amico da quei giochetti.

            «Immune a qualsivoglia emozione?», chiese il moro, con lo sguardo improvvisamente attento.

            «Fredda come il ghiaccio», mormorò l’apprendista, impaurito anche dal solo ricordo.

            «Abbastanza da resistere al fascino…», iniziò Zoroastro, usando tutto il sarcasmo di cui era capace per l’ultima parola. «…di un certo artista presuntuoso di nostra conoscenza?»

            «Non penso sappia nemmeno cos’è un’emozione», bofonchiò l’amico, andando a cercare uno straccio bagnato con cui ripulirsi la mano insanguinata.

            «Interessante», commentò il moretto, con un sorrisetto che non prometteva nulla di buono. «Davvero molto interessante», ripeté, spostando lo sguardo su Leonardo.

            «Non c’è niente di interessante», ribatté subito l’artista, mentre aiutava Nico a medicare la ferita.

            «Io penso di sì, invece. Sono certo che uno scontro…», iniziò, calcando l’ultima parola di malizia. «…tra voi due sarebbe molto intrigante».   

            «Con il piccolo braccio destro del papa? No, grazie», rispose l’artista, fingendo di rabbrividire alla sola idea.

Aveva già abbastanza guai di cui occuparsi, senza che la Santa Romana Chiesa gli inviasse la sua piccola pietra preziosa a procurargliene altri. E visto quello che era stata in grado di fare a Nico, senza alcun rimorso come da lui narrato, non voleva nemmeno immaginare quali altri trucchetti avesse in serbo.

            «Una donna con le palle, non capita tutti i giorni», commentò tranquillamente Zoroastro, con un che di intrigato al solo pensiero. «Sono certo che non riusciresti a tenerle testa», affermò poi, puntandogli il dito contro.

Leonardo scelse di ignorarlo, trovando l’idea, al contrario dell’amico, tutt’altor che allettante. E sicuramente nemmeno il suo orgoglio da egocentrico artista pieno di sé avrebbe gradito una sottomissione del genere.

            «Un bocconcino estremamente prelibato», continuò Zoroastro, rincarando la dose, mentre si avvicinava a lui. «Allettante... vero, artista?», gli sussurrò, a bassa voce.

            «Come no», borbottò il maestro, con non poco sarcasmo. «Te lo farò sapere quando uno di noi due finirà con un pugnale in gola».

Ovviamente, però, l’amico scelse di concentrarsi solo sull’unico dettaglio che poteva tornargli utile, e proseguì nella sua tanto decantata teoria con un sorrisetto malizioso, mentre incrociava le braccia al petto ed assumeva un’aria sognante.

            «Voi due…» ripeté, fingendosi estremamente concentrato. «Suona bene», sentenziò poi, annuendo più e più volte con la testa. «È un buon inizio».

Per sua sfortuna non ricevette alcuna risposta e, quando ebbe riportato lo sguardo sulla vittima delle sue ipotesi, trovò Leonardo intento ad ignorarlo e a prendersi cura della ferita alla mano del povero Nico. Di fronte alla scena, Zoroastro capì di non potere altro, e si abbandonò ad un sospiro di sconforto.

            «Staremo a vedere».

 

 

 

Angolo dell’autrice

Ormai ci ho preso gusto quindi ripropongo il buonsalve a tutt*!

Passate le dovute presentazioni e inquadrato il personaggio di Gemma (be’, più o meno, altrimenti sarebbe troppo facile), possiamo iniziare a muovere le pedine sulla scacchiera.

Il velato accenno al vero Girolamo Riario era una tentazione a cui non saputo resistere. E ogni tanto nella mia mente prende forma un adorabile quadretto in cui esistono entrambi, ma questa è un’altra storia.

In ogni caso, sono due personaggi diversi e con storie diverse, e così sarà nel resto dello sviluppo della storia.

A spezzare la tensione ci pensano comunque Zoroastro e la sua lingua lunga, una combo che non guasta mai.

Nella speranza di avervi intrigato e divertito, a seconda delle scene, ci rileggiamo tra due settimane.

Un bacione grandissimo

Amy W. Gildeary

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Capitolo 4
*** La Luna ***


Il Gioiello del Vaticano
Capitolo 4 - La Luna

 

 

 

Nei Tarocchi, la carta della Luna raggruppa le apparenze, la forma visibile delle cose, le illusioni della fisicità e della materialità. È fantasia, capricciosità, originalità, ma anche errori e pregiudizi, spirito credulone. Incorpora le superstizioni e la passività mentale. È impressionabilità ed emotività.
Al negativo, però, indica i legami materiali che immobilizzano, situazioni equivoche, inganno. Può indicare la minaccia, l’adulazione.

 

 

 

La piacevole brezza della sera era un sollievo dopo la soffocante calura che aveva predominato durante tutta la giornata, in seguito al temporale. Le torce accese in tutta la radura resistevano a fatica contro il vento che soffiava sulla collina, ma un paio di schiavi al servizio della contessa avevano premura di continuare a ravvivare le fiamme.

Gemma sedeva comodamente su una morbida poltrona, al centro del prato, e teneva gli occhi chiusi e il mento alto, inspirando profondamente l’aria fresca delle ore buie della giornata. Le gambe accavallate, un braccio rilassato e poggiato su un bracciolo, mentre con l’altra mano giocherellava con l’anello che teneva all’anulare destro.

Sentì il tipico suono di un cavallo al galoppo avvicinarsi sempre di più alla radura, ma invece di recuperare immediatamente le formalità che si devono agli affari, rimase ancora qualche secondo a godersi gli ultimi istanti di tranquillità prima di rimettere i guanti. Metaforicamente e letteralmente.

Ad occhi chiusi, sentì il capitano Grunwald lasciare il suo posto, alla sua destra, per avvicinarsi al perimetro del prato, andando così incontro all’ospite che cavalcava il suo destriero. Gemma invece non aveva bisogno di disturbarsi, già conosceva l’identità del visitatore.

Quando poi sentì il cavallo nitrire e fermarsi a pochi passi da lei, sbuffò infastidita, ormai consapevole che il suo breve momento di tranquillità era finito.

            «L’ospite che stavamo aspettando con impazienza», mormorò, ogni parola intrisa di sarcasmo, mentre si alzava dalla poltrona ed indossava di nuovo i suoi guanti di pelle nera.

Madonna Donati abbassò il cappuccio del mantello e si avvicinò alla contessa, il passo molto meno impertinente e sicuro di quello che Gemma si aspettava, e già quel minimo dettaglio fece scattare il primo campanello d’allarme.

            «È pericoloso per me essere vista mentre mi incontro con voi», esordì Lucrezia, in quello che molto probabilmente voleva essere un affronto, ma privo di un tratto fondamentale: l’impertinenza. «Ci sono occhi indiscreti ovunque a Firenze».

Gemma tentò di essere seria ed interessata, ci provò davvero, ma già dopo le prime parole non riuscì a trattenersi dall’alzare gli occhi al cielo con aria annoiata.

            «Se venissi fermata lungo la strada, desterei i sospetti di Lorenzo e delle Guardie della Notte», proseguì comunque la nobildonna, e la contessa rincarò la dose, portando una mano davanti alla bocca e mimando uno sbadiglio.

            «Avete finito?», chiese poi, non poco seccata. «Non ho alcun bisogno di una predica sulla discrezione, benché meno da voi», continuò poi, più severamente.

A quelle parole Lucrezia si zittì, deludendo le aspettative della contessa: era più che sicura che la giovane donna avrebbe proseguito, costringendola a lasciare da parte le buone maniere per ribadire la sua totale assenza di interesse per le lamentele della spia del Vaticano. Il che, innescò un secondo campanello di allarme.

            «Dal momento che sembrate così ansiosa di concludere questo incontro quanto prima, ditemi: quali informazioni mi avete portato?», chiese Gemma, tornando a sedersi sulla sua poltrona.

Dati i primi indizi, non fu affatto sorpresa di vedere la paura negli occhi di Madonna Donati mentre le porgeva la più prevedibile delle domande, considerato il suo ruolo di infiltrata. Né la stupì il silenzio seguente, così come lo sguardo di Lucrezia puntato verso il prato.

            «Vi prego, più lentamente e scandendo meglio le parole, oppure mi sarà impossibile capirvi», disse Gemma, portando una mano avanti e mimandole di rallentare il flusso, inesistente, di parole.

Di nuovo, il suo sarcasmo non ricevette alcuna reazione, quando normalmente Lucrezia non perdeva occasione per scontrarsi con la contessa Riario.

            «Madonna Donati…», l’ammonì Gemma, abbandonando il sarcasmo solo per ricorrere ad un tono più duro e minaccioso.

            «Non ho nulla», mormorò la fiorentina, senza mai sollevare lo sguardo in quello della donna di fronte a lei.

In un primo momento, la contessa finse un’espressione di confusione e perplessità, mentre si rialzava e si avvicinava a Lucrezia con passi lenti e brevi.

            «Come, prego?», chiese, nuovamente sarcastica.

            «Non ho nulla», ripeté Madonna Donati, rialzando il capo, ma la sua maschera di sicurezza era incapace di celare la paura che in realtà la stava divorando.

Con sua somma sorpresa, invece, Gemma rise divertita, prima di proseguire la conversazione con un’insolita naturalezza, distante dalle minacce e dall’intimidazione.

            «Come sarebbe a dire?», domandò, incrociando le braccia al petto. «Avete avuto una settimana di tempo per intrattenere il tanto celebrato da Vinci. Avete entrambi dimenticato come si conduce una conversazione?»

A quelle parole, Gemma vide Lucrezia irrigidirsi ulteriormente e farsi sempre più nervosa, e non le ci volle molto per capire quale spiegazione si celasse dietro al suo strano comportamento.

            «Non lo avete più incontrato», mormorò, un’affermazione più che una domanda vera e propria, ma la fiorentina non era affatto sorpresa dalla perspicacia della contessa.

            «Ho tentato, più e più volte», rispose l’altra, anteponendo prima di tutto delle precisazioni. «Ma non ha dimostrato alcun interesse in risposta, dalla notte del Carnevale».

Gemma tentò con tutte le sue forze di mantenere quell’aria leggera e rallegrata, ma il suo finto sorriso divertito si spense immediatamente, sostituito da un sonoro sospiro infastidito.

            «Avevate un compito. Uno solo», sibilò tagliente. «Trovare da Vinci, sedurlo, farlo parlare e poi riferire tutto a me. Quale parte non era chiara?»

            «Ho tentato», ripeté Lucrezia, ma Gemma la zittì alzando una mano in aria.

            «Ma ciò nonostante, io non ho le informazioni che ho chiesto», rispose la contessa, non poco infastidita.

            «Non è interessato, e non si è fatto alcuno scrupolo nel respingermi», si giustificò Lucrezia, e l’orgoglio ferito non tardò a mostrarsi nel suo tono di voce e nella sua espressione.

            «Oh, ma poverina», piagnucolò Gemma, con tutto il suo tipico e tagliente sarcasmo. «Dev’essere spiacevole fallire nell’unica cosa che si è capaci di fare», aggiunse in un bisbiglio, con una pietà palesemente falsa.

Lucrezia serrò con forza i denti, e cercò di esprimere tutto l’odio che provava solamente attraverso il suo sguardo, ma era la prima a sapere che sarebbe stato assolutamente inutile contro qualcuno come la contessa Riario.

            «Quindi non dovrei nemmeno sprecare il mio fiato chiedendovi se ha mai menzionato una chiave o un ebreo», proseguì, seccata.

La spavalderia e l’insolenza di Madonna Donati evaporarono immediatamente, perché sapeva benissimo che quel tono di voce non precedeva nulla di buono, e dovette dare fondo a tutto il suo coraggio anche solo per scuotere la testa in un cenno di dissenso. Nemmeno il suo sguardo fu immune alla paura, e tornò a fissare il prato sotto ai suoi piedi.

            «Non ci posso credere», sibilò Gemma, alzando gli occhi al cielo.

Sbuffò pesantemente, prima di voltarsi verso i suoi uomini e schioccare le dita, e i soldati obbedirono immediatamente, correndo a recuperare la cassa di legno che si trovava nella tenda della contessa.

            «Strano, tuttavia. Ero fermamente convinta che voi foste il suo tipo», mormorò Gemma, rivolgendosi di nuovo a Lucrezia e riuscendo a risollevare il suo sguardo con aria perplessa, in una tacita domanda. «Respirate», precisò lei, facendo spallucce con finta innocenza.

            «Lo sottovalutate», mormorò la fiorentina a denti stretti, vistosamente indignata.

            «Chi? Io? Non oserei mai», rispose Gemma, ironica, voltandosi verso i suoi soldati ed afferrando un paio di oggetti dalla cassa di legno appena portata.

Il primo oggetto fu una piccola ampolla di vetro, dal contenuto misterioso.

            «A che serve?», domandò Lucrezia, prendendola tra le mani.

            «Le istruzioni arriveranno presto», fu la brusca risposta della contessa, ancora irritata dal cambio di programma nel suo piano.

Dalla cassa poi estrasse un timbro per imprimere il sigillo papale e un foglio di carta arrotolato.

            «Nel caso riusciste miracolosamente a rivelarvi più interessante di quanto io non creda…», iniziò Gemma, molto scettica. «…comunicatemi le vostre scoperte utilizzando uno di questi punti sicuri sparsi in tutta Firenze. Già conoscete simboli e significati», proseguì, porgendole il tutto con fare sbrigativo.

            «Non credo che da Vinci cambierà idea», mormorò Lucrezia, di nuovo intimorita.

            «Dovrò pensarci io, allora», rispose Gemma, e congedò l’ospite con un cenno di sufficienza.

La guardò risalire a cavallo e sparire dalla sua vista con una certa urgenza, nemmeno lei immune alle minacce più o meno velate della contessa Riario, né alla sua caratteristica risolutezza. Solo quando la spia fu lontana dalla radura, Gemma si voltò e si avviò verso la sua tenda nell’accampamento.

            «Capitano Grunwald», lo richiamò, schioccando le dita.

            «Contessa Riario», rispose lui, raggiungendola a passo svelto.

            «Contro ordine. Ci tratteniamo per un paio di giorni ancora». 

 

 

 

 

Era ormai notte fonda quando Grunwald percorse di nuovo il perimetro del campo, per controllare che fosse tutto tranquillo.

Il silenzio era spezzato solamente dal verso di alcuni grilli, ben nascosti e al riparo tra i fili d’erba del prato. Al contrario, le guardie incaricate di sorvegliare l’accampamento non emettevano alcun suono, nemmeno un respiro più marcato degli altri. Restavano immobili, la lancia in una mano e lo scudo nell’altra, e attraverso la feritoia dell’elmo vigilavano tutt’intorno, pronte ad attaccare alla minima minaccia.

Il compito di difendere l’esercito e la contessa spettava a loro, eppure il capitano stava sottraendo ore preziose al suo riposo solo per assicurarsi che l’accampamento fosse al sicuro.

O forse, più precisamente, che una persona in particolare fosse al sicuro.

Concluso il giro di perlustrazione, fece per tornare nella sua tenda e tentare di dormire almeno qualche ora. Avrebbe giurato di aver camminato fino al suo giaciglio e di averlo raggiunto, eppure le sue gambe si erano mosse da sole e, senza che lui avesse modo di rendersene conto, aveva raggiunto l’angolo più isolato del campo: la tenda della contessa Riario.

Nonostante fosse il momento di riposare, era molto probabile trovarla ancora sveglia.

Cercando di essere discreto e di non produrre alcun rumore sospetto, si avvicinò a una delle fessure tra i lembi di stoffa della tenda. Non si sarebbe esposto troppo, pensò tra sé e sé. Giusto il tempo di controllare che andasse tutto bene, e se ne sarebbe andato immediatamente.

Eppure, tutti i suoi buoni propositi andarono in fumo nel momento in cui il suo sguardo si posò su di lei, sulla sua figura assopita in un sonno ristoratore, dopo il lungo viaggio verso Firenze. E quella che doveva essere una fugace sosta, una breve variazione rispetto ai suoi piani, si trasformò in tutt’altro.

Gemma sembrava così tranquilla, serena, in pace, ma le sarebbe bastato riaprire gli occhi, riprendere il contatto con la realtà, perché quella serenità le scivolasse via dalle mani. Perché il suo ruolo e la sua genealogia non le avrebbero mai permesso di vivere una vita normale.

Vedendola in quello stato, i ricordi riaffiorarono davanti ai suoi occhi senza che potesse controllarli, e Grunwald si ritrovò a pensare alla prima volta che l’aveva vista, quando aveva solamente dieci anni.

Era così piccola, ancora così lontana dalla violenza e dal male di quel mondo. Eppure, quando l’aveva guardata negli occhi, aveva notato che un pezzetto della sua innocenza era già stato portato via. Solo dopo qualche anno aveva scoperto che i suoi sospetti erano fondati, e che il suo addestramento per diventare una spia era già iniziato da un paio d’anni.

            «Occupatevi di lei, capitano Grunwald», gli aveva detto Sisto, a quel tempo ancora Francesco della Rovere, un semplice cardinale del Vaticano. «Fatelo, e saprò ricompensarvi profumatamente, un giorno», gli aveva promesso con una sicurezza invidiabile, come se avesse già visto la sua nomina a papa nel futuro.

E lui aveva ubbidito.

Una volta conquistato quel titolo, Grunwald era tornato da lui, facendo leva sul potere che aveva acquisito e che, da quel momento in poi, sarebbe solo aumentato.

            «Occupatevi di lei, capitano Grunwald», gli aveva ripetuto. «Continuate a farlo, e la vostra ricompensa sarà immensa».

E lui aveva ubbidito.

Di nuovo.

Non aveva fatto altro, per ben quattordici anni. E avrebbe continuato a farlo, aggrappato a quella promessa.

Il suo sguardo si focalizzò di nuovo su Gemma, sulle sue palpebre appena appena truccate di nero, sulle sue labbra leggermente schiuse, sulle sue gote arrossate per il freddo della notte.

L’aveva vista muovere i primi passi nell’arte del combattimento, anche se ancora troppo piccola per riuscire a reggere una spada da sola.

L’aveva vista crescere, perdere la sua innocenza, una briciola alla volta, e imparare l’arte della manipolazione, dell’intimidazione, dell’uccisione, una vittima alla volta.

L’aveva vista abbandonare la sua infanzia, e diventare una ragazza, poi una giovane donna. L’aveva vista impugnare il potere, diventando contessa di Imola e controllando nel palmo della mano tutto l’esercito della Chiesa.

L’aveva vista risplendere nei suoi successi.

E l’aveva vista crollare nelle tenebre del dolore, nel suo momento più buio.

E suo malgrado, una piccola fitta lo colpì al petto, ripensando a quella tragedia.

Quando aveva scoperto che il suo incarico sarebbe stato quello di badare ad una bambina, avrebbe voluto sfogare la sua indignazione in una grassa e sana risata. E quello sdegno era cresciuto, costantemente, vedendola acquistare sempre più potere, mentre lui restava al suo posto.

Un fedele e diligente servitore che veniva superato da una ragazzina così piccola da avere bisogno di un piedistallo per essere vista.

Ma nonostante tutta quell’ingiustizia, qualcos’altro era nato in lui, ed era cresciuto di pari passo con il risentimento e l’astio. Qualcosa che non riusciva a definire, o che forse non voleva definire, per il timore di dargli un nome.

Forse, in altre circostanze, l’avrebbe chiamata ammirazione. Forse devozione. Forse affetto.

O forse, era solo fedeltà per il suo papa; l’attesa di avere, un giorno, quanto promesso. Prima o poi, sarebbe arrivato il suo momento. E con quel pensiero ben ripetuto nella sua testa, si allontanò.

 

 

 

Angolo dell’autrice

Un carissimo saluto e un buonsalve a tutt*!

Non so se sono l’unica, ma nell’universo di Da Vinci’s Demons tendo sempre a dimenticare che Girolamo e Lucrezia sono cugini; nel ricostruire la storia con Gemma, però, ho dovuto ricordarlo. Nonostante tutto, questo rapporto tra cugine continua a non essere dei migliori. C’è di diverso che la cara Madonna Donati non ha ottenuto grandi risultati con il geniale artista fiorentino di cui tutti parlano. Urge un piano alternativo, no?

Per questo capitolo ho un sorriso in più, e a dipingermelo in volto è il piccolo spazio ritagliato per il capitano Grunwald, personaggio a malapena accennato nella serie ma che ha destato la mia curiosità, e che ho voluto inserire dandogli più spazio. L’ambiguità del suo ruolo e, soprattutto, dei suoi pensieri, è assolutamente voluta, ma sarei molto curiosa di sapere che impressioni vi ha suscitato.

Non dovrei fare spoiler, ma non posso resistere alla tentazione di dirvi che il prossimo capitolo è tutto ambientato a palazzo Medici. Per la precisione, ad un certo banchetto organizzato per accogliere la nipote del papa a Firenze. E il geniale Leonardo da Vinci potrebbe forse mancare?

Ci rileggiamo tra due settimane!

Nel mentre, un bacione grandissimo

Amy W. Gildeary

 

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Capitolo 5
*** Le Stelle ***


Il Gioiello del Vaticano
Capitolo 5 - Le Stelle

 

 

 

Nei Tarocchi, la carta delle Stelle indica la dea, la prima donna, Eva, che impersonifica la Natura e si rivela attivatrice di vita per gli esseri gravati dal peso della vita terrena, è la Natura in azione. Simboleggia la notte illuminata dalle stelle della speranza. È anche significativa di bellezza, di dolcezza, sentimenti che devono far parte della vita dell’anima.
Risveglia le speranze, gli ideali, ridona poesia e filosofia alla vita, ma è anche sensualità, arte, sensibilità. È la giovinezza ingenuamente seduttrice, è il fatalismo.
Al negativo, però, indica presentimenti non sempre positivi, curiosità morbose che possono portare danni.

 

 

 

Leonardo afferrò un altro bicchiere di vino dal piccolo tavolo alle sue spalle, e si voltò nuovamente verso gli invitati presenti al banchetto. Intravide solo per un istante Lucrezia, ma distolse subito lo sguardo, cercando qualcos’altro che potesse ricevere la sua attenzione.

            «Ti vedo pensieroso», commentò Zoroastro, affiancandolo con un calice in mano.

            «Non amo particolarmente questo tipo di eventi», borbottò lui, mentre con la coda dell’occhio si assicurava che Madonna Donati si fosse allontanata.

La loro piccola avventura di Carnevale era stata un interessante svago, ma il giorno dopo non era stata il suo primo pensiero appena sveglio, né il suo chiodo fisso durante la giornata. Se qualcosa non era in grado di mantenere il suo interesse più a lungo di un paio d’ore, non valeva altro tempo.

Lucrezia non era riuscita a conquistarlo la prima volta, né c’era riuscita la seconda, durante un fugace incontro al mercato, o la terza, nella sua stessa bottega. Il suo interesse nei confronti dell’artista era senz’altro lusinghiero, tuttavia Leonardo non era capace di mentirle e preferiva, per una volta tanto, tenersi lontano dai guai.

            «Solo tu sei capace di rifiutare le attenzioni di un fiore come quello», bofonchiò l’amico, probabilmente aiutato dal vino.

            «Dovresti gioire», commentò da Vinci, alzando le spalle. «Puoi tentare tu di avvicinarla».

            «La favorita del Magnifico? Ti ringrazio ma, al contrario di te, io ci tengo alla mia pellaccia».

Leonardo alzò gli occhi al cielo e lanciò un rapido sguardo alle sue spalle, di nuovo alla ricerca di qualcosa che destasse la sua curiosità.

            «Per l’amor del cielo e della terra…»

La voce di Zoroastro lo distrasse di nuovo e l’artista si voltò, ancora più infastidito di prima.

            «Che c’è?», borbottò annoiato, ma la sua espressione mutò in perplessità vedendo l’amico imbambolato come una statua.

            «Dimentica Lucrezia, ecco qualcuno che vorrei davvero avvicinare», rispose con malizia e indicò con discrezione un punto dall’altra parte della sala.

Leonardo, suo malgrado, seguì lo sguardo dell’amico, ma quando scoprì la causa di tanto interesse la sua mente parve svuotarsi da ogni pensiero.

Nella sala del banchetto era appena giunta una giovane donna, un volto sconosciuto a Firenze e soprattutto all’artista. Si guardava intorno con attenzione e sincero interesse, al contrario di tante damigelle dall’aria impaurita oppure annoiata.

I suoi occhi vagavano da un dettaglio all’altro, accentuati da alcune piccole decorazioni dorate applicate agli angoli delle palpebre e sulle tempie, che accarezzate dalla luce brillavano quasi quanto il suo sguardo sveglio, vispo, intrigante.

Alcuni ospiti si fecero da parte per permetterle di passare, rivelando così un abito altrettanto affascinante. Al contrario di molti vestiti, colorati con tinte vivaci, il suo era il più cupo; tuttavia, a modo suo, brillava su tutti gli altri.

Un aderente corpetto di broccato nero, impreziosito da alcune decorazioni dorate, era incorniciato da delle maniche morbide e abbondanti, lunghe fino ai polsi, di un lucido velluto nero decorato da sottili catenelle d’oro. L’abito dava poi spazio ad una gonna lunga fino a terra, anch’essa di velluto nero, aperta con uno spacco al centro a rivelare il prezioso broccato dorato sottostante.

I morbidi capelli castani, acconciati in soffici boccoli, ricadevano dolcemente sulle spalle fino alla vita, poco più corti rispetto alle altre damigelle. Nulla in lei si conformava agli altri invitati, benché meno la sua rara ed intrigante bellezza.

            «Wow», mormorò Zoroastro, non riuscendo a formulare niente di più elaborato.

Leonardo, d’altro canto, nemmeno riuscì ad aprire bocca, incapace di distogliere lo sguardo da quella misteriosa ma affascinante damigella. Solo vedendola allontanarsi verso un’altra sala il suo cervello parve risvegliarsi, e l’ultima cosa che voleva fare era perderla di vista.

Poggiò frettolosamente il suo bicchiere sul tavolo e salutò il moro con una pacca sulla spalla, prima di lasciarlo solo.

            «Oh, sì, certo. Grazie, amico», borbottò Zoroastro, parlando ormai a sé stesso. «Non c’è di che, sono qui apposta per cederti le mie prede».

 

Leonardo si fece largo tra gli ospiti, senza mai distogliere lo sguardo dalla misteriosa invitata, e tirò un sospiro di sollievo quando la vide fermarsi in un angolo più tranquillo e meno affollato. L’artista poté finalmente rallentare il passo e avere il tempo di aggiustare velocemente il suo aspetto e, soprattutto, recuperare il suo atteggiamento sfrontato e sicuro di sé.

            «Un volto nuovo nella città di Firenze», esordì, attirando l’attenzione della ragazza su di sé.

Un solo suo sguardo, così vivace e stuzzicante, bastò a fermargli il cuore per qualche secondo. Non avrebbe dimenticato facilmente degli occhi tanto belli.

            «Se posso presentarmi…», continuò, inchinandosi con garbo; le tese la mano e la giovane gli porse la propria. «Mi chiamo Leonardo da Vinci. Artista, anatomista, ingegnere, inventore, pittore visionario… e anche di una certa fama, aggiungerei».

Posò le labbra sulla mano della nobildonna, senza mai distogliere lo sguardo dai suoi occhi, ed indugiò ben oltre il necessario, ma nessuno dei due parve trovarlo un problema.

            «Aggiungerei la modestia al vostro già ricco elenco di qualità», rispose prontamente lei, con una nota di sarcasmo.

            «Semplici dati di fatto, Madonna. Ma possiamo sempre spostare la conversazione su di voi».

            «Non credo che il vostro ego lo permetterebbe», rispose lei, fingendo un’aria diffidente e vagamente dispiaciuta, ma la sostituì subito con un sorriso divertito.

            «Potrebbe, se vinto dalla curiosità», ribatté immediatamente Leonardo, improvvisamente impaziente di conoscere a quale nome rispondesse la prima damigella in grado di tenergli testa con tanta maestria.

            «Una dama ha ben pochi segreti, maestro da Vinci. Perché non mi parlate ancora un po’ di voi?», disse però la giovane.

Eppure, Leonardo si sentì ancora più curioso ed intrigato dalla sconosciuta, e le avrebbe raccontato qualsiasi cosa, anche la storiella più banale che conosceva, pur di non porre fine a quella conversazione.

            «Acconsentirò volentieri alla vostra richiesta se voi sarete così gentile da concedermi un ballo», azzardò, inclinando leggermente la testa di lato con un sorrisetto.

La ragazza lo osservò per qualche istante in silenzio, socchiudendo leggermente gli occhi come se lo stesse studiando, e l’aspettativa dell’artista crebbe. Poi, senza dire nulla, si spostò verso gli altri ballerini e, dopo alcuni passi, si voltò alla ricerca dello sguardo di da Vinci, sollevando le sopracciglia in un chiaro invito. Leonardo impiegò meno di un secondo per raggiungerla.

 

Gemma non avrebbe mai pensato di poter avere tanta fortuna, ma per una volta il destino era a suo favore e le aveva permesso di avvicinare il famoso Leonardo da Vinci senza alcuno sforzo. E, a giudicare dal modo in cui la guardava, senza mai perderla di vista, la situazione era a suo favore, ben oltre ogni sua speranza.

La contessa si voltò verso l’artista e si avvicinò a lui, prima di iniziare a danzare seguendo la musica.

L’artista dovette ricordare a sé stesso di recuperare un minimo di dignità, possibilmente cominciando con il chiudere la bocca e smetterla di fissarla come un cucciolo di cane. Eppure qualcosa in lei lo stregava: l’aveva letteralmente soggiogato nell’istante in cui i suoi occhi si erano posati su di lei, e Leonardo non ricordava di aver mai provato qualcosa del genere.

Ormai ben oltre i limiti del consono, lasciò che la sua voce agisse di vita propria, senza inibizioni.

            «Mi farebbe molto piacere ritrarvi, un giorno o l’altro», mormorò, per poi rendersi improvvisamente conto di ciò che aveva detto.

Si aspettò di vederla indignata, offesa, sconvolta, come una qualsiasi altra dama avrebbe fatto; invece lei lo sorprese di nuovo, guardandolo incuriosita ma con una vena di malizia che Leonardo avrebbe facilmente potuto scambiare per interessamento per quella proposta.

            «Sempre che a voi faccia piacere, Madonna», si sbrigò a specificare, la sua solita sicurezza improvvisamente sparita.

Ma Gemma si limitò a sorridere, divertita di fronte a quella piccola dimostrazione di impaccio.

            «Vi proponete come ritrattista a tutte le dame che conoscete appena?», chiese lei con uno sguardo curioso, inclinando di poco la testa.

Da Vinci sorrise sollevato e recuperò la sua spavalderia, tornando ad osservare con molta attenzione il suo viso e i suoi occhi.

            «Solo con chi riesce a catturare la mia attenzione. E vi posso assicurare che è davvero difficile destare il mio interesse», rispose lui, abbassando notevolmente il tono della voce e avvicinandosi maggiormente a lei.

Spostò per un istante lo sguardo dai suoi occhi alle sue labbra, e Gemma fece lo stesso, stringendo leggermente la presa attorno alla mano di lui.

Per alcuni istanti restarono in silenzio, l’uno perso nello sguardo dell’altra, i movimenti di danza ormai automatici, ben lontani dal seguire la musica.

            «E quando potremmo cominciare?»

La voce di Gemma lo risvegliò improvvisamente e, così sorpreso dalla sua risposta, perse di colpo tutta la sua sicurezza. E non era la prima volta, quella sera.

            «Dunque accettate?», domandò sorpreso, e dovette rassegnarsi all’idea di non avere più alcun controllo sulle sue parole.

            «Potrei prendere la vostra idea in considerazione», rispose la giovane donna, con semplicità. «Non c'è una vostra opera esposta a palazzo? Per poter confermare le vostre tanto decantate abilità», domandò poi, guardandosi in giro.

            «Sfortunatamente no. Ma posso improvvisare uno schizzo anche subito», propose da Vinci, rallentando i passi di danza fino a fermarsi completamente.

            «D’accordo», acconsentì Gemma, sciogliendo la posizione da ballo. «Mi avete incuriosita, artista», e si allontanò dalla sala senza aggiungere altro, permettendo a Leonardo di ricomporsi, in particolare dopo quel nomignolo che gli aveva bloccato il fiato in gola.

La vide raggiungere uno dei corridoi del palazzo e le si avvicinò a grandi passi, superandola e indicandole la strada. Si spostò in uno studio poco distante, sapendo che nessuno sarebbe giunto a disturbarli, e le indicò una poltrona su cui accomodarsi.

Con un’eleganza che raramente da Vinci aveva ammirato in una donna, la giovane si sedette, sistemò il suo abito e sollevò il mento, mettendosi in posa, senza mai perdere quel suo sguardo e quel suo sorriso, così accattivanti e seducenti.

Leonardo rialzò gli occhi dal suo fedele quaderno e, vedendola, per poco la matita non gli cadde dalle mani, ma ebbe la prontezza di afferrarla all’ultimo secondo e di stringerla più saldamente tra le dita. Proprio lui, che tanto aveva deriso le Guardie della Notte per la loro presa poco salda.

Iniziò a disegnare alcuni rapidi tratti sulla carta, abbozzando la base del suo disegno, per poi lavorare con più precisione ai dettagli. Iniziò dai lineamenti del viso, incorniciato dai suoi lunghi capelli, per poi giungere al collo, alle spalle e al décolleté, fino alla parte superiore dell’abito e delle maniche. Concentrò poi maggiore attenzione per il naso, le labbra, e infine gli occhi.

Ebbe bisogno di alcuni istanti per trovare il modo migliore di catturare il suo sguardo, ed inconsapevolmente iniziò ad avvicinarsi a lei, per studiare meglio i dettagli più piccoli ed elaborati. Solo dopo alcuni secondi si accorse di essere ormai a pochi passi da lei, leggermente chinato in avanti, ma niente nella ragazza gli fece pensare di averla infastidita.

Piano piano, la presa attorno alla matita si indebolì e ormai la sua mano stava solo fingendo di disegnare. La vide chiudere e riaprire gli occhi con voluta lentezza, e il suo sguardo si caricò di determinazione ed aspettativa, intrecciandosi a quello di lui come per magia.

Dagli occhi, Leonardo osservò con insistenza le sue labbra, ormai completamente soggiogato, e vedendola schiuderle non riuscì più a ragionare con lucidità. Si avvicinò di un altro passo e chiuse gli occhi, ormai determinato a colmare quella distanza.

Non si aspettò di essere fermato dall’indice della giovane sulle sue labbra.

            «Forse dovreste prima conoscere il mio nome», gli sussurrò lei, ad un soffio dal suo viso.

L’artista sollevò lo sguardo nei suoi occhi, aspettandosi di scorgervi una traccia di paura, qualcosa che giustificasse il suo rifiuto, ma trovò la stessa malizia che lo aveva stregato fin da subito.

            «Ah, davvero?», chiese con sarcasmo, aspettandosi ormai un gioco di seduzione e di provocazioni.

Gemma sollevò le sopracciglia e si morse il labbro inferiore, mettendo a dura prova l’autocontrollo dell’artista. Con somma sorpresa da parte di Leonardo, la ragazza accorciò maggiormente la distanza tra di loro, il suo indice ancora contro le labbra di da Vinci.

            «Piacere di fare la vostra conoscenza, artista. Sono la contessa Gemma Riario».

Il sorriso di Leonardo crollò di colpo.

La sua mente fu incapace di formulare un qualsiasi pensiero, troppo occupata a ripetersi quelle ultime tre parole e a collegarle velocemente al racconto di Nico.

Gemma non pretese nient’altro né perse il suo sorrisetto soddisfatto, semplicemente si alzò dalla poltrona e guidò i movimenti dell’artista, facendolo indietreggiare con ancora il suo indice contro la sua bocca.

            «Mi sento in dovere di ringraziarvi. È stato un incontro davvero interessante», mormorò la contessa, seguendo con le dita e con lo sguardo il cordoncino che da Vinci aveva al collo, fino alla chiave.

La lasciò ricadere e lanciò un ultimo sguardo all’artista, prima di allontanarsi, lasciandolo in totale balia dei suoi pensieri.

 

 

 

 

            «Dov’è il maestro?», domandò Nico, raggiungendo Zoroastro con il fiatone. Così poco avvezzo a certi eventi, non aveva idea di come muoversi o di dove trovare i suoi amici.

            «A provarci con la dama che avevo puntato io», brontolò il moro, con le braccia incrociate al petto.

Il biondino lo guardò perplesso, ma in tutta risposta ricevette solo un cenno del capo in direzione di uno dei corridoi del palazzo che si affacciavano sulla sala. Dall’ingresso comparve una giovane dama, le decorazioni dorate che risplendevano sulla stoffa nera e sulla sua pelle di pesca, lo sguardo vispo e furbo.

Zoroastro vide solo quello, ma Nico fu di tutt’altra opinione: non avrebbe mai dimenticato quegli occhi e la freddezza che li avevano accompagnati.

E il sangue gli si gelò nelle vene.

            «Q-q-quella?», balbettò, sentendosi improvvisamente malfermo sulle sue stesse gambe.

            «Sì, lo so, è bellissima», rispose il moro, come un bambino offeso. «E ovviamente lui mi ha fregato».

            «N-n-no, Zo…», lo fermò il giovane, gesticolando con una mano. «Quella… quella…», tentò di nuovo, attirando su di sé lo sguardo dell’amico.

            «Vedo che nemmeno tu sei immune alla sua bellezza», commentò, con un che di sorpresa: non l’aveva mai visto così imbarazzato per una donna, e Nico non era di certo un tipo sicuro di sé.

            «Zo…», mormorò di nuovo il biondo, cercando quanto meno di essere più fermo e serio.

            «Che c’è?»

            «Quella… quella è la contessa Riario», disse, con un filo di voce.

E in risposta ottenne solo silenzio.

Nient’altro che silenzio. Per molti, molti secondi.

            «…davvero?», domandò Zoroastro, una volta ritrovata la voce.

            «Sì».

E fu ancora silenzio, per un altro po’.

            «Splendido!», esclamò il moro dal nulla, alzando gli occhi al cielo. «Non potevano inviare uno spocchioso ed antipatico conte? No, hanno ben pensato di usare la più bella ed irresistibile delle loro armi», continuò, indignato.

Nico al contrario era ben poco interessato alle lamentele di Zoroastro, e molto di più al trovare il maestro e a salvarlo dalla sua nemica, nemica di cui non sospettava nemmeno minimamente l’identità.

            «Zoroastro, dobbiamo salvarlo!», esclamò il biondino, cercando di richiamare la sua attenzione.

Il moro, a quelle parole, parve calmarsi e, soprattutto, porre fine al suo sproloquio di lamentele e complimenti, non poi così velati, nei confronti del prezioso gioiello del Vaticano. Fissò Nico con un che di sorpreso, come se avesse realizzato solo in quel momento la gravità della situazione.

            «Nah, lasciamolo dov’è», rispose invece, a sorpresa. «È una sorta di giustizia poetica», sentenziò, con decisione.

            «M-ma…», balbettò l’apprendista, incredulo.

Per sua fortuna, non passò molto tempo che Leonardo rientrò in sala, e proprio dallo stesso corridoio da cui era comparsa la contessa, poco prima. L’unica differenza era l’espressione sul volto dei due ospiti: se la prima era il ritratto della tranquillità, per il secondo l’aggettivo turbato era un eufemismo.

Già fu un miracolo, per l’artista, scovare i due volti amici tra la folla; il fatto che fosse riuscito addirittura a raggiungerli aveva dell’incredibile.

            «Ancora vivo?», domandò Zoroastro, fingendosi sorpreso. «Credevo che la contessa Riario ti avrebbe lasciato un suo marchio: rosso e di forma circolare», commentò, con un sorrisetto malizioso. «E no, non sto parlando di un marchio simile a quello di Nico», precisò poi, tornando serio.

            «Zoroastro…», lo ammonì Leonardo, il tono della voce affaticato come se avesse appena attraversato la città di corsa.

            «Che faccia sconvolta», commentò invece il moro, ignorando allegramente l’avvertimento. «Hai scoperto il suo nome solo dopo esservi accoppiati come conigli?»

Nico nemmeno cercò di nasconderlo o di distrarre l’attenzione degli amici: semplicemente il suo disperato tentativo di trovare qualcosa a cui reggersi non gli diede modo di preoccuparsi dei commenti che lo avrebbero seguito. Per sua fortuna, da Vinci era ancora troppo sconvolto perfino per parlare, mentre l’attenzione di Zoroastro era tutta concentrata sulle sue ipotesi.

            «No. Direi che con quella faccia sei stato mandato in bianco, amico», affermò il moro, con un dispiacere tutt’altro che sincero. «Meglio così, ho sentito dire che le mantidi religiose si mangiano i propri amanti, dopo», proseguì, sempre fingendo di essere genuinamente preoccupato per l’amico. «Ti lasciano soddisfatto e poi, sul più bello, te lo mettono in quel posto… la metafora di ogni donna».

            «Oh mio Dio», singhiozzò Nico, perdendo di nuovo tutto il colorito tanto faticosamente ricercato. Di nuovo, fu allegramente ignorato dai due compari.

            «Penso che l’essere stato mandato in bianco ti abbia salvato la vita», commentò Zo sottovoce, con tanto di occhiolino.

Nonostante l’espressione a dir poco stravolta, Leonardo riuscì comunque a fulminare il suo caro compare con lo sguardo, prima di incamminarsi verso l’uscita del palazzo.

            «Ho… bisogno d’aria».

 

 

 

Angolo dell’autrice

Il buonsalve stavolta ve lo do saltellando perché questo è uno dei miei capitoli preferiti e non vedevo l’ora di pubblicarlo.

Finalmente si sono accese le prime scintille della sfida, e sicuramente la piccola dimenticanza durante le presentazioni ha contribuito ad attizzare il fuoco. Di certo anche io avrei nascosto il mio nome, se il risultato era essere ritratta dal talentuoso Leonardo da Vinci. Sono la sola?

In ogni caso, ci pensa Zoroastro a salvare la situazione. O ad aggravarla, a seconda dei punti di vista.

Nei capitoli precedenti come nei successivi, bene o male i significati dei Tarocchi vanno a braccetto con le vicende raccontate, ma qui trovo che la descrizione delle Stelle calzi particolarmente bene.

Vi mando un forte abbraccio e l’appuntamento è, come sempre, tra due settimane.

Un bacione

Amy W. Gildeary

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Capitolo 6
*** La Torre ***


Il Gioiello del Vaticano
Capitolo 6 - La Torre

 

 

 

Nei Tarocchi, la carta della Torre che crolla è simbolo del materiale e delle debolezze umane, libera lo spirito. Rappresenta la presunzione, l’idealismo eccessivo, la megalomania. Lo spirito eccessivo di cupidigia che viene punito. I pregiudizi offuscano la ragione, ma anche colui che oltrepassa i propri limiti e vive al di là delle proprie forze può rovinare al suolo.
Al negativo, però, presuppone minacce dall’esterno, catastrofi non preventivate né previste.

 

 

 

            «Forse, prima di presumere che sia opera del Diavolo, dovremmo escludere cause più profane, non credete?», domandò Leonardo a Giuliano de’ Medici, con il suo tipico tono saccente ed arrogante.

Non ricevendo risposte diverse da uno sguardo confuso e smarrito, da Vinci proseguì con le sue ipotesi.

            «Consideriamo l’amanita panterina, un fungo, noto per causare allucinazioni e morte. Oppure, i ragni licosidi. Il morso velenoso della licosa causa uno stato di movimento isterico chiamato tarantismo», spiegò l’artista.

Per sua sfortuna, uno dopo l’altro, tutti i funghi trovati dalle Guardie della Notte attorno al convento non corrispondevano a quanto cercato, così come i ragni nascosti negli angoli delle stanze.

            «E ora, scribacchino?», borbottò il capitano Dragonetti, con un’occhiataccia scettica.

Escluse quelle ipotesi, le possibili spiegazioni rimaste erano quasi inesistenti, e senza prove che la causa dell’epidemia fosse profana, e non demoniaca, le conseguenze sulla reputazione dei Medici sarebbero state devastanti.

            «Andiamo ad ammirare le opere d’arte», rispose invece da Vinci, salendo a grandi passi le scale che conducevano agli studi delle suore.

            «Quale contaminazione potrebbe mai esservi qui?», chiese Giuliano de’ Medici, evidentemente seccato.

            «Viste le fiorite immagini di cui si circondano le sorelle e la tecnica amatoriale di questi supposti dipinti… non mi meraviglia che le suore colpite si credano possedute», rispose Leonardo, gironzolando tra le scrivanie ed osservando attentamente i quadri.

            «Non avete altre ipotesi, da Vinci?», insistette Giuliano, guardandosi intorno.

            «Il cibo e le bevande, ad esempio», borbottò l’artista, piuttosto infastidito da tutte quelle proteste ed obiezioni. «Nico, ti dispiacerebbe aiutare con quello?», domandò poi, in una domanda chiaramente retorica: un altro minuto con il fratello minore di Lorenzo e non avrebbe più risposto delle sue azioni.

            «Certamente, maestro», rispose diligentemente il giovane apprendista, incamminandosi verso un’altra sala con Giuliano al seguito.

Finalmente solo, Leonardo tornò a concentrarsi completamente sui quadri delle suore, tutti caratterizzati da tinte scure e violente e da immagini dell’Inferno e del Diavolo. Si sporse più vicino ad uno in particolare e rimase qualche secondo immobile ad esaminarlo, prima di chinare il capo e leccarlo per tutta la lunghezza.

Fece una smorfia disgustata e sputacchiò qua e là, ma la sua attenzione tornò subito sul quadro, con un’espressione delusa e contrariata.

            «Poteva esserci troppo mercurio nei pigmenti, ma non è così…», mormorò sottovoce, ragionando tra sé e sé.

            «E voi sareste l'unico in grado di trovare il Libro?»

Da Vinci sobbalzò a quella voce, a maggior ragione rendendosi conto di essere stato in grado di riconoscerla all’istante. Si voltò subito verso la porta, e per poco il fiato non gli si fermò in gola vedendo la contessa Riario appoggiata allo stipite, con le braccia conserte al petto.

Fatta eccezione per l’espressione scettica e vagamente disgustata, con ogni probabilità causata dall’averlo visto leccare un dipinto, l’artista ricordava ogni singolo dettaglio del suo aspetto, anche il più piccolo. Non poté negare una nota di disappunto per la divisa del Vaticano, decisamente meno stuzzicante dell’abito che aveva indossato al banchetto, ma perfino in quelle vesti era terribilmente affascinante.

Anche se, per i suoi gusti, c’erano decisamente troppi strati di stoffa a fasciarle il corpo: la camicia dal collo alto, la sciarpa di seta elegantemente annodata, la giacca con il simbolo della Chiesa cucito sul petto, i guanti di pelle, i pantaloni e gli stivali… Tutto rigorosamente nero come la notte.

Avrebbe voluto dirsi che quelle vesti così maschili, combinate con i capelli raccolti, minavano alla sua bellezza, ma dovette ricredersi anche su quello: niente di tutto ciò avrebbe mai potuto compromettere il suo fascino, né avrebbe spento la sua scintilla, che riconobbe immediatamente nei suoi occhi.

            «Contessa», mormorò, recuperando una postura quanto meno composta.

            «Artista», rispose Gemma, abbandonando la sua espressione perplessa solo per tornare al suo caratteristico sguardo, vispo e furbo.

            «Posso chiedervi, contessa, come mai vi trovate da queste parti?», domandò Leonardo, sperando che la perplessità nel tono della sua voce mascherasse l’apprezzamento rivolto alla sua presenza.

            «Potrei farvi la medesima domanda, artista», ribatté la giovane donna, muovendo qualche passo nello studio, le mani elegantemente congiunte davanti a sé. «Non sapevo foste un seguace del Signore».

            «Non lo sono, infatti», obiettò lui prontamente, con espressione diffidente.

            «Cercavate qualcosa da assaggiare?», domandò allora Gemma, indicando con un cenno del capo il dipinto che l’artista aveva leccato poco prima.

Da Vinci invece si chiese se non stesse avendo anche lui delle allucinazioni, perché avrebbe giurato che quell’assaggiare fosse stato deliziosamente impregnato di malizia, quasi un… invito.

Dovette sbattere più volte le palpebre per riacquistare abbastanza lucidità da proseguire nella conversazione.

            «Sto cercando di capire la causa di questa epidemia», spiegò, con quanta più professionalità possibile.

            «Leccando i quadri?», chiese ancora la contessa, con il medesimo scetticismo.

            «Controllavo se contenessero o meno mercurio. I sintomi dell’intossicazione da mercurio sono molto simili a quelli che presentano le suore colpite».

            «Allora avete omesso di essere anche un medico, nella vostra ricca presentazione al banchetto», commentò Gemma, riacquistando tutta la sua malizia, nel tono della voce come nello sguardo. «Ricordate?», domandò poi, con una perplessità palesemente finta, tutta volta a stuzzicarlo. E la gola improvvisamente secca di Leonardo ne fu una conferma.

            «Mi diletto nella medicina alle volte, ma non mi considero un medico», mormorò l’artista, con la voce all'improvviso flebile.

Non doveva pensarci. Non doveva pensare a quell’abito, a quei capelli lasciati sciolti, a quanto fosse arrivato vicino al suo viso… Non doveva e basta.

            «Avreste potuto parlarmi anche di questo», rispose Gemma, rincarando così il colpo. «Qualcosa vi ha distratto, per caso?»

E da Vinci dovette mordersi la lingua per non rispondere all’istante.

La sua unica via di salvezza era spostare la conversazione su di lei, per quanto gli sarebbe piaciuto continuare quel gioco di provocazioni. Razionalmente, la priorità più impellente era capire il motivo del suo arrivo nel convento.

            «Anche voi ora apparite distratta. Avete dimenticato di rispondere alla mia domanda», osservò l’artista. «O forse non volete farlo?», aggiunse, incrociando le braccia al petto e studiandola attentamente. «State forse tentando di sviarmi di proposito?»

            «Chi? Io? Non oserei mai», rispose con naturalezza la contessa, per nulla turbata.

            «Eppure esitate a rispondere alla mia domanda», ribatté Leonardo.

            «La badessa del convento ha inviato una richiesta di aiuto al Vaticano», disse Gemma con calma e semplicità, iniziando a gironzolare per lo studio. «E io, in quanto nipote del papa e umile servitrice di Dio, non potevo certo negarle la mia assistenza», aggiunse con la più ingenua delle espressioni, mentre lentamente iniziava a sfilare uno dei suoi guanti di pelle dalla mano.

Se non l’avesse conosciuta a quel banchetto, se non avesse visto quanto un suo sguardo fosse capace di destabilizzarlo completamente, avrebbe anche potuto crederle, ma gli fu sufficiente ricordare il velo di malizia che lo aveva colpito fin dal primo secondo per capire che, in quel preciso istante, la sua aria pura ed innocua era solo una finta.

            «Certo, certo», commentò, con non poco sarcasmo. «Prima qualcuno avvelena queste povere suore, poi voi arrivate qui con la scusa di porgere i vostri servigi alla badessa», ragionò a voce alta. «Se il mio prima era solo un sospetto, con la vostra presenza qui è diventato una certezza».

A Gemma quasi scappò un sorriso a quelle parole. Se davvero l’artista pensava che per spaventarla fosse sufficiente un’accusa impregnata di veleno, aveva ancora molto da imparare.

  «Sono un'anima candida ed innocente, azioni del genere non sono da me», rispose la giovane donna, portando la mano libera dal guanto all’altezza del cuore, come se quelle parole l’avessero appena ferita.

            «Strano, mi avete dato esattamente l’idea opposta», mormorò l’artista, con un mezzo sorriso per quella scenetta.

Anche la contessa si sentì vagamente divertita e, per dissimulare, iniziò a guardarsi intorno per la stanza. Lo sguardo le cadde su una piccola ciotola di legno colma di quella che, a un rapido sguardo, sembrava una crema di frutta.

            «Il nostro precedente incontro mi ha portato a farmi un’idea-...», disse l’artista, ma non arrivò mai a concludere la frase, perché Gemma aveva sfiorato con un dito quanto contenuto nella ciotolina e poi lo aveva portato alle labbra.

Leonardo si dimenticò di qualsiasi altra cosa presente in quella stanza, la sua attenzione catturata solo ed esclusivamente dal gesto compiuto da Gemma, lo sguardo fisso sulle sue labbra, il crescente desiderio di raggiungerla e di avere lui il piacere di compiere quell’assaggio.

Per la contessa fu davvero difficile trattenere un sorriso divertito, ma mantenne imperterrita una maschera di indifferenza e finta perplessità.

            «Prego, continuate pure. Vi sto ascoltando», mormorò, con aria innocente.

Ma in risposta non ottenne nulla di più di qualche monosillabo balbettato, né riebbe lo sguardo del fiorentino sui suoi occhi, invece che sulle sue labbra.

            «Ehm…», mormorò Leonardo dopo un certo lasso di tempo, sbattendo velocemente le palpebre per recuperare il contatto con la realtà.

            «Qualcuno vi ha morso la lingua, artista?», chiese Gemma, con uno sguardo malizioso.

            «Potete rifarlo?», disse l’artista di getto, senza avere il tempo di chiedersi quanto fosse consona una richiesta del genere.

            «Mordervi?», domandò lei con aria perplessa, e Leonardo colse l’occasione al volo pur di uscire da quello stato di ipnosi.

            «Temo che finirei avvelenato dal vostro sarcasmo», rispose prontamente.

Eppure, Gemma lo sorprese di nuovo, assumendo un’espressione vagamente dispiaciuta.

            «Peccato. Avrebbe potuto rivelarsi…», ma il suo sorriso malizioso non tardò a ricomparire. «…piacevole», aggiunse, con voce bassa e vellutata.

            «State cercando di distrarmi, contessa?», chiese Leonardo, ma il suo sguardo non si era ancora mosso dalle sue labbra. «Sappiate che la vostra tattica non ha effetto su di me», continuò, ma più che un’affermazione suonava come un tentativo di autoconvincimento.

            «Oh, no, non mi permetterei mai», rispose Gemma, un istante prima di sfiorare nuovamente il contenuto della ciotola con il dito e di portarselo alle labbra, facendo rischiare all’artista un attacco di cuore. «Specialmente… quando non riscontro alcun interesse dall’altra parte».

            «No, infatti, non ho il benché minimo interesse nei vostri confronti», mormorò Leonardo, con la voce roca. «Questi trucchi su di me non hanno effetto», eppure la sua attenzione non dava segno di voler allentare la presa su di lei o su quel gesto provocatorio.

            «È un vero dispiacere», rispose la giovane donna, facendo spallucce. «Perché sono terribilmente brava. In questo e in molto, molto altro».

            «Così, per semplice curiosità…», iniziò l’artista, attingendo a tutte le sue doti recitative per fingersi disinteressato. «Come sarebbe continuata questa vostra tattica persuasiva?»

            «Semplice curiosità?»

            «Semplice curiosità».

            «Non mi sarei mai permessa di infrangere i limiti del consono», disse Gemma, il suo sguardo fisso negli occhi dell’artista mentre le mani armeggiavano per togliersi anche l’altro guanto. «Vi avrei semplicemente esposto i vantaggi e gli svantaggi della mia offerta…», proseguì, avvicinandosi di qualche passo. «…Le spiacevoli conseguenze di un rifiuto…», e le sue lunghe ed affusolate dita allentarono delicatamente il nodo della sciarpa. «...e le ricompense di un’alleanza», concluse, arrivando ad un soffio dal suo viso.

            «Solo... questo?», fu quanto Leonardo riuscì a dire, con un fil di voce.

            «Per quanto riguarda la comunicazione verbale», precisò Gemma, rincarando la dose.

            «Comunicazione… verbale...», ripeté l’artista, senza preoccuparsi di celare con quanta insistenza le stesse osservando le labbra. «Mi sembra un’ottima idea».

            «Lo credo anche io», concordò la contessa. «Nonostante io abbia un vero debole per tutto ciò che non prevede le parole», aggiunse, la voce ridotta ad un roco sussurro.

            «Un vero debole…», ripeté Leonardo nel suo ultimo barlume di lucidità, prima di dire addio a tutto il suo autocontrollo e sporgersi verso le sue labbra, nessun intento diverso dal baciarla.

Ma all’ultimo istante, Gemma si allontanò da lui lasciandolo, metaforicamente e letteralmente, a bocca asciutta.

            «Ma avete detto che niente del genere ha effetto su di voi, dunque…», ragionò ad alta voce, con finta perplessità.

            «Proprio così…», mormorò Leonardo, approfittando di quell’allontanamento per ridarsi un contegno. Per quanto si fosse promesso di restare concentrato, aveva ceduto, proprio come un ragazzino alla sua prima cotta.

Spostando lo sguardo, però, la sua attenzione fu catturata dal braccio della contessa, ormai quasi completamente allontanata da lui e diretta altrove. Forse per curiosità, forse per l’orgoglio ferito, forse semplicemente ancora lontano dalla lucidità di cui aveva bisogno per evitare stupidaggini, ma non riuscì a resistere.

Le afferrò un polso, attento a non farle male ma abbastanza deciso da fermarla dov’era, e l’attirò verso di sé, spingendola poi con la schiena contro la parete più vicina e bloccandole ogni via di fuga premendo il proprio corpo contro il suo.

A malapena scorse una scia di sorpresa nella sua espressione, e vide solo uno sguardo soddisfatto che lo stava tacitamente sfidando. Sapeva che quella mossa era in tutto e per tutto un errore, perché le stava dando esattamente ciò che lei voleva: la conferma di avere un potere su di lui, un potere per niente controbilanciato.

            «E su di voi ha effetto, invece?», le sussurrò, ad un soffio dalle sue labbra.

            «Voi che ne pensate?», ribatté Gemma, senza alcuna traccia di turbamento, e Leonardo riconobbe immediatamente l’amaro sapore della delusione in bocca.

            «Che siamo più simili di quanto potrebbe sembrare a prima vista», mormorò l’artista, muovendo alcuni passi indietro e lasciando definitivamente la presa su di lei.

            «Peccato. Si dice che siano gli opposti ad attrarsi», commentò la contessa, studiando attentamente la sua reazione.

            «Anche gli animi affini, però, hanno una certa complicità», rispose da Vinci, sforzandosi di cacciare indietro la delusione e tornando su un terreno più familiare: le provocazioni.

            «Mi credete un’anima a voi affine?»

            «Certamente. Perseguiamo gli stessi obiettivi, ed entrambi non abbiamo intenzione di fermarci davanti a niente pur di raggiungerli», spiegò Leonardo, il suo sguardo fisso in quello della contessa.

            «Su questo vi do ragione», convenne Gemma, annuendo, e la mente dell’artista fu libera di tornare a concentrarsi sul vero motivo che lo aveva portato in quel convento.

            «Invece, riguardo al vostro coinvolgimento in questa presunta possessione demoniaca? Negherete di essere a parte di questo piano?», domandò lui, anche se già conosceva la risposta.

             «Assolutamente no».

E per l’ennesima volta, Leonardo rimase a dir poco sorpreso.

            «Dunque ammettete di sapere quale sia la vera causa dell’epidemia?», tentò nuovamente, scegliendo con cura le parole con la convinzione che sarebbero state troppo estreme per ricevere una risposta affermativa.

            «Lo confermo», rispose tranquillamente Gemma, e l’artista era ad un passo dallo spalancare la bocca per la sorpresa.

Vedendolo così sorpreso, la contessa proseguì da sola la conversazione.

            «Sembrate avere molto a cuore la sorte di queste povere vittime. Il minimo che io possa fare è offrirvi una possibilità di salvarle», aggiunse con estremo zelo, mentre si spostava dalla parete e si appoggiava di schiena ad uno degli scrittoi.

Nonostante fosse dannatamente tentato di crederle, grazie anche a quell’espressione all’apparenza così sincera, da Vinci si costrinse a pensare con oggettività, e a ricordarsi che stava parlando con la nipote di papa Sisto.

            «E in cambio cosa volete?», domandò lui, incrociando le braccia al petto.

            «La chiave», fu la sua risposta, priva di esitazioni, e a Leonardo scappò una risata divertita.

            «Prevedibile», commentò, riconoscendo finalmente le vere intenzioni che si celavano dietro a quell’offerta.

            «Determinata», lo corresse subito lei, con un sorriso fiero. «Non perdo di vista l’obiettivo così facilmente».

            «E quale sarebbe il vostro obiettivo finale?», domandò da Vinci, le braccia ancora conserte mentre muoveva qualche passo verso di lei. «Me o la chiave?», proseguì, con un sorrisetto compiaciuto.

            «Il Libro delle Lamine», ribatté immediatamente Gemma. «E trovarlo, sfortunatamente, richiede sia la chiave che le vostre conoscenze», proseguì, con finto dispiacere.

            «Quindi ammettete che io vi servo», tentò nuovamente Leonardo.

            «Mi servono le vostre conoscenze. Devo ripeterlo una terza volta?», chiese la giovane donna, con un atteggiamento così saccente da avvalorare la tesi dell’artista che le loro fossero anime molto affini. «Credetemi, se trovassi il modo di esorcizzarle da voi, farei volentieri a meno della vostra fastidiosa presenza».

            «Ma fino a quando non troverete questo modo, sarete costretta ad usufruire anche del mio corpo», rispose lui prontamente, sollevando le sopracciglia con malizia.

In tutta risposta, Gemma prese a torturarsi il labbro inferiore con i denti, minando quel briciolo di autocontrollo che Leonardo aveva appena ritrovato.

            «Vi ho mai accennato agli innumerevoli modi in cui si può zittire un essere umano?», domandò lei, abbassando il tono della voce.

            «Io ne avrei in mente uno in particolare», mormorò da Vinci, la voce ridotta ad un bisbiglio mentre accorciava nuovamente le distanze.

            «Non funzionerebbe», rispose prontamente la contessa, e non c’era modo che quella frase fosse qualcosa di diverso da una provocazione, ben lontana dai limiti del consono.

            «E come fate ad esserne così certa?», indagò lui, la mente già lontana e persa in scenari tutt’altro che casti ed innocenti, le mani guidate da una forza tutta loro mentre lentamente stringevano Gemma a sé, cingendola all’altezza della vita.

            «Avete un debole per le minacce, artista?», chiese la contessa, con finta sorpresa.

            «Dipende dal tipo di minacce, contessa», ribatté lui, studiando con molta attenzione ogni dettaglio del suo viso.

            «Non avete ancora risposto alla mia offerta», gli fece notare la giovane donna, chinando di poco la testa di lato, mentre le sue dita giocavano lentamente con il cordoncino che Leonardo aveva al collo.

            «Non la trovo del tutto equa, forse dovreste provare ad essere più convincente», mormorò l’artista, scivolando con lo sguardo fino alle rosee labbra di lei.

Nessuna parola giunse alle sue orecchie, in risposta, ma in compenso sentì fin troppo chiaramente la mano di Gemma scendere fino alla chiave e proseguire. Lentamente. Fin troppo lentamente, in una tortura straziante.

Nemmeno lui, la mente più geniale d’Europa, riuscì a spiegarsi cosa lo stesse trattenendo dall’annullare definitivamente quella distanza e riprendere da dove si erano interrotti al banchetto. Il motivo più plausibile era la crescente aspettativa, mentre sentiva molto bene quale percorso stessero seguendo le dita della contessa, ben lontane dall’intenzione di fermarsi al limite del consono. E non si fermarono, non fino al loro obiettivo.

E a quel punto all’artista si blocco il respiro in gola.

Lo sapeva Leonardo e lo sapeva Gemma. Lo aveva in pugno. In tutti i sensi.

E poi, senza alcun preavviso, lei strinse la presa. Non tanto da fargli male, ma abbastanza da farlo sussultare per la sorpresa, lasciando così la stretta attorno al suo corpo.

            «Detto io le condizioni, da Vinci», mormorò Gemma, ad un soffio dalle sue labbra, prima di allontanarsi ed uscire dalla stanza.

 

 

 

Angolo dell’autrice

Flirtare come spudorati in un convento di suore… al limite del sacrilegio, no? Ma intanto la stanza stava per andare a fuoco, to say the least.

Buonsalve a tutt*!

Gettate le maschere e messi sul tavolo i veri nomi e, soprattutto, le vere intenzioni, i giochi possono avere inizio. Comprendano minacce o meno, non ha importanza.

Che Gemma fosse una provocatrice si era già intuito in passato, ma qui è stato esilarante dar sfogo a tutta la sua perfidia. Un po’ mi spiace che ci sia andato di mezzo Leonardo (e il suo appetito, per dirlo nel modo più velato possibile), ma anche i più arroganti hanno bisogno di un degno avversario ogni tanto, no?

Come sempre, spero di averti piacevolmente intrattenuto.

Ci rivediamo tra due settimane.

Un bacione

Amy W. Gildeary

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Capitolo 7
*** Il Matto ***


Il Gioiello del Vaticano
Capitolo 7 - Il Matto

 

 

 

Nei Tarocchi, la carta del Matto indica tutto ciò che supera la nostra comprensione, è l’infinito, l’abisso. È il vuoto, il nulla in assoluto che rifuggiamo perché non comprendiamo. Può essere tanto Nirvana quanto annientamento spirituale. È la passività fatta persona, l’irresponsabilità che perde l’uomo e lo assoggetta alla schiavitù, soprattutto materiale.
Al negativo, però, indica squilibri che portano alla pazzia e all’errore. È l’essere in balia degli altri e degli elementi. Può essere insensibilità, incapacità di risollevarsi e rendersi conto dei propri errori.

 

 

 

Quel grido di terrore gli mozzò il fiato in gola. D’istinto, Leonardo scattò verso la povera suora che piangeva e implorava pietà da ore, ma quando la raggiunse fu troppo tardi: nei suoi occhi non vide nulla, solo una lacrima rigarle la guancia e cadere sulle lenzuola, una volta candide, ora screziate di sangue e di dolore.

Un’altra vittima di quel contagio.

Ormai aveva perso il conto, insieme a qualsiasi intenzione di ricordare con esattezza quante anime stavano pagando per quell’assurda mossa di manipolazione da parte della Chiesa.

Sentendo la gola chiudersi per il dolore, da Vinci capì di aver bisogno di aria fresca. Traballante e incerto sulle sue stesse gambe, l’artista si rialzò in piedi e barcollò fino alla porta della stanza, per poi gettarcisi addosso con tutte le sue forze. Il portone di legno cedette sotto al suo peso, e gli permise di raggiungere la loggia che si affacciava sul cortile interno del convento.

La testa continuava a non collaborare, vittima di tremendi capogiri, e le dita delle mani erano sempre più intorpidite, formicolanti. Leonardo dovette stringere il balconcino con tutte le sue forze per riuscire a reggersi in piedi, mentre scuoteva energicamente il capo per cercare di ritrovare un minimo di lucidità.

D’istinto si morse le labbra, ma nel farlo ricordò improvvisamente la sensazione di quelle di Vanessa, fredde e screpolate per la malattia, contro le sue, ancora calde e morbide. Il solo ripensare a quel bacio gli strinse lo stomaco.

Ogni secondo che sprecava senza avere nuove idee sulla possibile causa di quel contagio, era un altro secondo in cui la malattia progrediva, strappando sempre più anime alla vita nella verde terra di Dio.

Già, Dio…

Il suo sguardo vagò da solo, senza che potesse essere esercitato alcun controllo su di esso, e si posò di nuovo su di lei, su quella figura tanto delicata quanto fatale. Gemma era ancora al convento, impegnata a disquisire insieme alla badessa, mentre altre suore ancora miracolosamente in salute la ascoltavano con tutta l’ammirazione e la devozione che si dovesse alla nipote del papa.

Leonardo non sarebbe mai riuscito a contestare il suo potere sugli altri, la sua straordinaria capacità di soggiogare chiunque avesse il piacere di poter ascoltare la sua voce e le sue parole. Lì, illuminata solo dalla delicata e fredda luce della luna, le labbra piegate in un sorriso bel lontano dalla falsità e dalle manipolazioni… nemmeno lui sarebbe riuscito a resisterle.

Ma poi vedeva lo sguardo delle altre suore, la loro paura, il loro dolore nell’assistere impotenti di fronte a quella tragedia, nel guardare le altre consorelle dilaniate dalla sofferenza, e sentiva in bocca l’amaro sapore della delusione.

Nemmeno si accorse di aver abbandonato la loggia, o di aver sceso le scale che conducevano al cortile. Si destò solo quando la sua mano entrò in contatto con la morbida stoffa della giacca nera della contessa, le dita strette con fermezza attorno al suo polso mentre la sottraeva a quel colloquio con la badessa e la trascinava lontano da lei.

            «Ve la rubo solo un momento», spiegò alla suora, con il suo caratteristico sorrisetto di arroganza.

Non fece caso allo sguardo confuso delle altre consorelle, né si curò di non trovare alcun turbamento negli occhi della contessa, così in quel momento come in tanti altri colloqui passati.

Adocchiò il primo angolo del cortile abbastanza appartato da permettere loro di parlare senza il fastidio o l’intromissione di sguardi indiscreti, ma non vide alcuna ragione per lasciare la presa intorno al polso di Gemma.

            «Avete cambiato idea nei confronti della mia proposta?», domandò la giovane donna, senza alcuna traccia di turbamento, un atteggiamento tanto calmo quanto snervante vista la gravità della situazione che stavano vivendo.

Non era nei piani di Leonardo scoppiare a ridere, eppure non ebbe alcun controllo su quel gesto, né sulla notevole dose di amarezza con cui lo fece. Semplicemente rise, guardandosi intorno con il disgusto negli occhi.

            «Proposta?», ripeté lui, le labbra ancora piegate in quel sorriso di falsità. «Il vostro è un ricatto bello e buono», disse poi, tornando serio e guardandola con durezza.

            «Si tratta di uno scambio: qualcosa in cambio di qualcos’altro», rispose Gemma semplicemente, senza alcuna traccia di preoccupazione.

            «Un scambio tutt’altro che equo», la corresse da Vinci immediatamente.

            «Siete libero di pensarla come volete», lo liquidò lei, con aria quasi annoiata per quella disputa. «Ma ciò non intaccherà l’accordo».

Leonardo non era mai stato famoso per la sua pazienza, perché sicuramente ne aveva ben poca, ma di certo la fama di essere totalmente incapace di tenere le proprie opinioni per sé era nota a molti.

In ogni caso, era un uomo adulto e, per quanto istintivo, sapeva quando era il momento di parlare e quando invece di cucirsi la bocca. Senza ombra di dubbio, quel particolare colloquio con Gemma non era la sede ideale per dar voce ad ogni suo pensiero, senza alcun filtro.

            «Voi non avete una coscienza, contessa».

Ma evidentemente qualcosa era andato storto.

            «Non vi importa minimamente che delle persone, che credono ciecamente in voi e nella vostra Santa Madre Chiesa, muoiano?», le domandò, con non poco veleno nella voce. «Stanno dedicando la loro vita al Dio di cui la vostra cara Chiesa dovrebbe essere il punto di raccordo qui sulla terra, e in cambio cosa ricevono? Solo morte per qualche vostra assurda manipolazione politica».

            «Avete davvero la spudoratezza di fare a me una predica sulla responsabilità per queste morti?», ribatté Gemma, e la calma che tanto contraddistingueva i suoi colloqui non era più così onnipresente. «Vi ho offerto una soluzione, e l’ho fatto appena arrivata nel convento. Ma voi avete rifiutato, facendo affidamento solamente sulla vostra tanto decantata genialità», proseguì, la tentazione di incrociare le braccia al petto fermata solo dalla presa di Leonardo. «Se delle persone sono morte perché voi avete preferito sfruttare quel tempo per provare qualcosa a loro e a voi stessi, non azzardatevi ad incanalare la vostra frustrazione su di me».

Che fosse semplicemente l’abitudine di sentirsi accusare di peccare d’arroganza, o quella strana mancanza di inibizioni, ma nemmeno una delle sue parole ebbe effetto su da Vinci.

            «Quelle persone sono morte perché voi…», e dicendolo sollevò la mano libera e le puntò l’indice contro. «…le avete avvelenate. E per sviare i sospetti, siete venuta qui a portare il vostro umile aiuto».

Al solo ripensare a come aveva trovato Vanessa, appena giunto al convento, e come lei tante altre vittime innocenti, si sentì soffocare dalla sofferenza.

E un attimo dopo, come se niente fosse, Gemma era arrivata al monastero, con la sua divisa immacolata, la sua maschera imperscrutabile e il suo sguardo soggiogante. E lui ci era cascato in pieno.

            «Se pensate che io mi lasci manipolare da voi, allora non avete capito proprio nulla di me», mormorò a denti stretti, iniziando finalmente a capire che non c’era alcuna traccia di umanità in lei.

            «Se pensate che si riduca tutto a qualcosa di così semplice, allora non avete capito proprio niente», sibilò Gemma, avvertendo una sensazione che non provava da molto tempo, e tutt’altro che piacevole: lo sforzo di tenere le proprie emozioni sotto controllo. Emozioni che, in quel momento, erano tutt’altro che tacite.

Ma se c’era qualcosa in grado di pungerla sul vivo, era proprio toccare l’argomento riguardante la sua vita. Solo parlare del suo passato era peggio di quelle accuse.

            «Come riuscite anche solo a guardarvi allo specchio?», mormorò Leonardo, lasciando la presa attorno al suo polso, e non fece nulla per celare l’espressione di ribrezzo e disgusto con cui la stava osservando. «Non provate nemmeno un minimo di rimorso per ciò che state facendo a queste donne?», chiese ancora, faticando ad immaginare come fosse possibile compiere crudeltà di quel genere senza alcun rammarico. «Sono suore, innocue suore che hanno solamente avuto la sfortuna di mettersi sul vostro cammino».

Le parole di Leonardo erano intrise di ribrezzo nei confronti della persona che aveva di fronte, ma celavano ben altro: la delusione.

Ancor prima di conoscerla di persona, da Vinci sapeva che la contessa Riario sarebbe stata l’incarnazione della sua sfortuna, l’arma inviata dal Vaticano per ostacolare la sua ricerca, mossi dalla paura che l’umanità potesse evolversi e tramutarsi in qualcosa che la Chiesa non sarebbe più stata in grado di controllare.

Eppure, una piccola parte di lui, la più speranzosa, confidava che ci fosse sempre del buono in tutti, anche nei cuori più corrotti dalle malvagità, anche nel cuore di colei che era stata cresciuta ed addestrata per essere una macchina da guerra incarnata nel corpo di una persona.

La giovane donna che stava guardando con tanto disprezzo fu per lui la prova di non essere infallibile, e dovette arrendersi alla realtà: non tutti possono essere salvati. Per quanto ci avesse sperato.

            «Sono convinto che voi non riusciate a provare sentimenti come il rimorso o la pietà. Quante altre persone avete fatto soffrire o sono morte per colpa di qualche vostra manipolazione? Donne? Vecchi? Bambini?», continuò Leonardo, senza il benché minimo scrupolo nello sputarle addosso tanto veleno. «Scommetto che non vi siete mai fermata un attimo a farvi un esame di coscienza mentre qualche innocente moriva a causa vostra».

Fece appena in tempo a scorgere un luccichio nel buio, prima di ritrovarsi la fredda spada di Gemma premuta contro il collo, a tanto così dal tagliargli la gola.

E finalmente si zittì.

La contessa nemmeno perse tempo a rimproverarsi per una tale perdita di controllo su sé stessa e sulle sue emozioni. Semplicemente, non sarebbe riuscita ad ascoltare altro, non senza l’atroce sofferenza che le stava già divorando il cuore.

            «Credete di aver capito ogni cosa di me sulla base di un paio di conversazioni?», sibilò la giovane donna, applicando un altro po’ di pressione sulla lama. «Voi. Non sapete. Niente», gli disse, scandendo attentamente ogni parola, ma la sua voce non era più tanto salda.

Il tempo di accorgersi di avere la vista leggermente offuscata, e sbatté subito le palpebre per cacciar via le lacrime dai suoi occhi. Già si era messa sulla difensiva minacciandolo con un’arma: non poteva permettersi di lasciar intravedere altro, nemmeno la più piccola crepa.

Fu un segnale tutt’altro che rincuorante vederlo sogghignare soddisfatto, con il suo tipico sorrisetto impregnato di arroganza.

            «Ho toccato i punti giusti, a quanto pare», commentò lui, compiaciuto.

Per Gemma non furono solo parole, ma l’ennesimo schiaffo.

            «Un’altra parola diversa da Accetto o Rifiuto, e sono pronta a perforarvi il collo», lo avvertì la contessa, nascondendo dietro al suo tono minaccioso tutto il timore che l’artista indagasse ulteriormente in quel piccolo cedimento.

            «Avete una coscienza, allora», affermò da Vinci con un che di soddisfatto e, sotto sotto, di sollievo. «Non avreste reagito in questo modo, altrimenti», continuò, osservandola dalla testa ai piedi.

Sotto il peso di quello sguardo, di quel compiacimento per aver portato a galla un lato di lei che nessuno avrebbe mai dovuto sfiorare, Gemma cedette e scattò indietro di un passo.

            «Cercate di nasconderla e di rinnegarla in tutti i modi, eppure sono riuscito a farla riemergere», proseguì lui imperterrito, vedendo in quella piccola fuga un’altra conferma della sua teoria.

E ne vide un’altra, quando una scia di terrore saettò nello sguardo della giovane donna, sguardo che subito dopo si spostò altrove, ovunque intorno a loro, pur di non tornare negli occhi dell’artista.

            «Basta così, da Vinci», sibilò la contessa con un filo di voce, stringendo così tanto la presa intorno all’elsa della spada che la pelle nera dei guanti fu privata di qualsiasi piega.

Più osservava quella scena, più il sorrisetto di Leonardo si spegneva. Perso il gusto della vittoria, l’artista si sentì quasi smarrito, come se non fosse più tanto sicuro di aver ottenuto quello che davvero desiderava. Voleva destabilizzarla, voleva mettere alla prova il suo autocontrollo, in un tentativo estremo di sondare i limiti della sua coscienza; eppure non avrebbe mai immaginato di raggiungere un simile risultato.

Avvertendo solo il silenzio, Gemma attinse a tutte le sue forze per indossare di nuovo la maschera della fredda ed imperscrutabile contessa Riario, e solo quando fu certa di esserci riuscita rialzò il capo.

            «Siete ancora in tempo per accettare lo scambio», mormorò lei, e anche se la sua espressione era tornata quella di sempre, non poteva dirsi lo stesso della voce.

L’artista non prestò più attenzione ad altro che non fossero i suoi occhi, sforzandosi di leggervi qualcosa di diverso da quel distacco su cui tanto Gemma faceva affidamento per tenere gli altri a distanza.

Avrebbe voluto muovere un passo avanti, avvicinarsi, tentare di nuovo di colpirla. Che fosse per vincere su di lei come su di un’avversaria, o per un altro motivo, non ne era sicuro nemmeno lui.

All’ultimo istante, però, il suo sguardo fu catturato da una delle consorelle del convento, le guance rigate dalle lacrime e il respiro rotto dal pianto, mentre si dirigeva verso la statua di Sant’Antonio. E quando la vide chinarsi a terra e lasciare un bacio sui piedi della scultura, improvvisamente vide riaccendersi la fiamma della speranza.

            «Forse non ci sarà bisogno di accettare il vostro scambio», mormorò, prima di accorrere al cospetto del santo patrono.

 

 

 

Angolo dell’autrice

Be’, non può essere sempre tutto rose e fiori.

Buonsalve a tutt*!

Sono già passati quattro mesi dal primo capitolo, e spero di avervi fatto compagnia fino a questo punto.

Dopo il mistero, gli intrighi e qualche risata, i toni si sono irrigiditi. Ma si dice che a volte le azioni valgano più delle parole, e forse questo è proprio il caso.

Per Gemma è sempre facile gestire una facciata che lei stessa costruisce a seconda delle situazioni, ma perdere il controllo è qualcosa di molto diverso.

Leonardo, seppur avvelenato, ha fatto bene? O ha esagerato? A prescindere da ciò, la carta di questo capitolo è a dir poco azzeccata.

Io vi mando un forte abbraccio e ci rileggiamo tra due settimane.

Un bacione

Amy W. Gildeary

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Capitolo 8
*** L'Appeso ***


Il Gioiello del Vaticano
Capitolo 8 - L’Appeso

 

 

 

Nei Tarocchi, la carta dell’Appeso rappresenta l’esaltazione della spiritualità che sovrasta la fisicità. Può indicare misticismo, devozione a Dio. Può significare l’abbraccio con filosofie superiori che trascendono l’umano, dimenticando il materiale. Indica una persona disinteressata che sa sacrificarsi per un credo, un ideale. Può anche indicare una persona di fede, un sacerdote, come anche un sognatore, un utopista.
Al negativo, però, indica chi si nutre di illusioni, chi progetta senza saper realizzare, chi è amato senza sapere ricambiare.

 

 

 

            «Affrettatevi. Possiamo ancora salvare le persone colpite», mormorò Leonardo, porgendo alla suora le istruzioni per guarire le consorelle dall’avvelenamento.

            «Complimenti, da Vinci», si intromise Giuliano, ma la risposta dell’artista non fu più di un debole cenno del capo.

            «Grazie, maestro», aggiunse la badessa, con un sorriso colmo di riconoscenza.

Al contrario, Lupo Mercuri e i suoi scagnozzi rivolsero al prodigioso fiorentino un ultimo sguardo contrariato, prima di uscire a grandi passi dal dormitorio del convento. Vedendoli andarsene a passo di carica, Leonardo non riuscì a trattenere una risata soddisfatta e, in fondo, di sollievo.

Dovette però ammettere che, senza la loro oscura presenza in quella stanza, l’aria era decisamente più leggera e respirabile, così tanto che sentì i suoi polmoni implorarlo per averne di più, e l’artista assecondò quel bisogno. Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, alzò il capo al soffitto e respirò profondamente.

Chiuse gli occhi e sentì la freschezza del mattino liberarlo dalle paure e dalle angosce di quegli ultimi giorni al convento, e le sue labbra si piegarono in un sorriso.

Quando riaprì gli occhi, però, qualcosa era cambiato.

 

La stanza del convento era vuota. Completamente.

Niente più letti di legno, niente più lenzuola insanguinate, e nessuna persona sdraiata su quei giacigli.

Il silenzio, e nient’altro, a saturare l’aria.

Leonardo provò a muoversi, ma i suoi muscoli erano improvvisamente indolenziti, pesanti come massi, e anche solo compiere un passo richiese uno sforzo disumano.

Sollevò lo sguardo in direzione di una delle finestre, per scorgere qualcosa al di là di esse, ma vide solo il vuoto. La campagna fiorentina era sparita, ingoiata da una nebbia densa e bianca come la neve, e non c’era possibilità di vedere altro che quel candore.

Quando provò di nuovo a muoversi, le gambe cedettero per lo sforzo, le energie lo abbandonarono, e perse i sensi.

 

Non sapeva dire quando tempo fosse passato. Forse giorni. Forse un battito di ciglia.

Quando però riuscì a risvegliarsi, non era più nel convento, ma in un luogo a lui sconosciuto.

Da Vinci giaceva a terra, la guancia premuta contro un pavimento liscio e freddo come il ghiaccio. Le forze però sembravano essere tornate, e l’artista riuscì a sistemarsi seduto e a trascinarsi verso una delle pareti di quella stanza misteriosa, per poter avere il muro come supporto alle sue spalle mentre aspettava che i capogiri cessassero.

Nemmeno da quella prospettiva, però, riuscì a riconoscere quel luogo, o almeno a capire di che cosa si trattasse.

Le pareti erano nere come la pece, lucidate alla perfezione ma così oscure da soffocare anche il più tenue raggio di luce. Alte, imponenti, si innalzavano come a voler raggiungere il cielo, ma tutto ciò a cui riuscivano ad arrivare era il soffitto di quella stanza, anch’esso cupo e buio.

Un debole tintinnio metallico catturò l’attenzione dell’artista, che si voltò subito in direzione di quel suono. Scattò in piedi, cosa che si rivelò un grave errore per il suo già precario equilibrio, ma per fortuna la parete fu di nuovo il suo sostegno.

Recuperate le forze, mosse qualche passo barcollando, ma deciso a seguire quel suono.

Sentì gli occhi bruciare e li serrò con forza per placare le fiamme.

Quando li riaprì, era altrove.

 

Quella nuova stanza, al contrario della precedente, era completamente bianca.

Le pareti, il pavimento, il soffitto, i mobili… ogni cosa era di marmo, di un marmo così candido da riuscire quasi ad accecarlo.

Ma non era la sola differenza rispetto alla sala precedente.

Non era più solo.

Al centro del salone, una figura misteriosa sedeva su un esile sgabello, chinata su di un tavolo. Qualunque azione stesse svolgendo, era celata sotto ad un drappo di velluto nero, insieme all’identità di quella persona sconosciuta.

Quel tintinnio metallico risuonò di nuovo in tutta la stanza, più forte e nitido di prima, e Leonardo capì, osservando i movimenti sotto al mantello, che proveniva proprio dall’individuo misterioso.

L’artista mosse qualche passo in quella direzione, ma poco dopo un altro attore entrò in scena.

Non si trattava, però, di una figura distinta e definita come la prima. Al contrario, il suo profilo era evanescente, fumo nero che si diradava lungo i suoi contorni, e lasciava dietro di sé una scia di cenere e polvere.

Aveva però le fattezze di una persona, di un uomo alto e robusto, che si muoveva in modo deciso e sicuro verso il lato del tavolo opposto alla persona seduta.

Da quella coltre densa e cupa, però, Leonardo riconobbe chiaramente la forma di una mano: ossuta, scheletrica, e dalle unghie lunghe e sporche di carbone. E stretto tra quelle dita prive di pelle, stringeva un cuore. Un cuore ancora pulsante.

Una risata riecheggiò tra le candide pareti, ma impregnata di malvagità, sadica, crudele, perversa.

D’istinto, da Vinci mosse un passo indietro, e il suo sguardo vagò subito fino a quella misteriosa figura chinata sul tavolo. Per qualche ragione, pregò che anch’essa scappasse, chiunque egli o ella fosse, ma niente del genere accadde.

Tutto ciò che quella persona fece fu alzarsi in piedi, senza però allontanarsi dallo scrittoio. Al contrario, iniziò a camminare intorno ad esso con passi lenti e stanchi, e ad ogni suo movimento il tintinnio risuonò.

Solo allora, Leonardo vide.

Massicce catene di ferro seguivano ogni mossa, ogni gesto, ormai non più celate dal velluto nero, e osservandole da Vinci si chiese come fosse possibile trascinarle, tanto apparivano pesanti.

Nonostante tutto, la figura raggiunse l’altro lato del tavolo, dove una bilancia d’oro era magicamente comparsa, e il lucido marmo bianco la rifletteva come uno specchio. L’altra presenza, la nube di fumo nero, allungò la mano verso uno dei piatti e lasciò cadere il cuore.

Il meccanismo della bilancia si azionò, il primo piatto si abbassò e la sua controparte rispose.

E su di essa, la seconda chiave.

Sotto il velluto nero, un’altra mano si avvicinò alla bilancia. Candida, aggraziata, ma incerta e tremolante.

Prima di poter sfiorare la chiave, una lacrima cadde sul piatto.

In quei pochi secondi, da Vinci prese coraggio e si avvicinò a quelle misteriose presenze, lo sguardo che vagava dalla bilancia al mantello nero.

Quando poi la mano raggiunse la chiave, posata sul piatto, il velluto scivolò via dal capo, rivelando l’identità della povera anima incatenata.

Gli occhi vuoti e vacui, lo sguardo perso, le forze prosciugate… ma era lei.

Era Gemma.

 

Leonardo riaprì gli occhi di scatto, inspirando tutta l’aria che poté.

Provò a rialzarsi dal letto, ma si sentì strattonare da qualcosa, una stretta attorno ai polsi che gli impedì qualsiasi movimento.

            «Mi sbagliavo…», mormorò, con un filo di voce. «Mi sbagliavo… mi sbagliavo…», ripeté più e più volte.

Era sveglio, ma l’immagine di quel volto, così vuoto e perso, privato di qualsiasi emozione o vitalità, lo aveva colpito più di quanto non volesse ammettere.

Se poi ripensava a quella discussione, a quelle parole intrise di veleno e ribrezzo dettate solo dal contagio, si sentiva ancora peggio. Perché lo aveva visto nel suo sguardo: non era quella la verità. Non ci era neanche lontanamente vicino.

Sentiva le voci di Nico e di Giuliano de’ Medici chiamarlo, parlargli, porgli delle domande, ma non riusciva a rispondere, la sua mente non pensava ad altro che ad una persona.

Una giovane donna che, a sua insaputa, era proprio lì fuori, in piedi, appena accanto alla porta del dormitorio.

Gemma aveva sentito tutto e, per quanto provasse a negarlo, un sospiro di sollievo era sfuggito dalle sue labbra appena certa che Leonardo fosse sopravvissuto al contagio.

Prima di darsi tempo di pensarlo, però, scosse la testa e si allontanò. Si era trattenuta anche troppo a lungo, e il viaggio verso Roma sarebbe stato lungo. Dover tornare in Vaticano e riferire al papa che il piano era fallito… non sarebbe stato facile. Scese le scale verso il cortile con un passo via via più lento, al pensiero di quello che l’avrebbe aspettata una volta attraversato il portone e lasciato il convento.

Raggiunto il chiostro, però, il suo sguardo venne catturato dalla statua di Sant’Antonio, la stessa scultura che aveva fatto da tramite per il veleno e che era stata strumento del contagio.

Sapeva che era una pessima idea, che se qualcuno dei suoi collaboratori l’avesse vista sarebbero sorte strane domande, e che lei per prima non doveva pensarci, ma fu più forte di qualsiasi buon senso.

Lentamente, raggiunse il piccolo podio di pietra, incorniciato da un modesto arco di mattoni grezzi e da alcune piante rampicanti.

Congiunse le mani in grembo, sollevò lo sguardo verso il volto del santo patrono, e lentamente si inginocchiò davanti alla sua statua. Il suo volto perse qualsiasi traccia di arroganza o di superbia, e al loro posto calò un velo di malinconia.

La sua mente si allontanò da tutto: Roma, Firenze, il papa, la sua missione, perfino Leonardo.

Da tutto tranne che da un pensiero. Da una persona.

E a quella persona rivolse la sua preghiera.

 

 

 

Angolo dell’autrice

Buonsalve a tutt*!

Trovata la cura per salvare le suore, ore servirà una medicina per curare Leonardo dai sensi di colpa per quello che ha detto a Gemma. Essere stato contagiato è un’attenuante? Oppure ha davvero esagerato, a prescindere?

Inoltre, so che non dovrei dirlo, ma è stato buttato lì qualche dettaglio che piano piano ricomporrà quel puzzle che è la vita di Gemma, la sua storia e il suo passato. Sono sempre curiosa di sapere che teorie possono scaturire anche solo da poche frasi, sia in questo capitolo che in quelli precedenti. Idee?

Che dire, questo è l’ultimo capitolo del 2018, ma dal momento che il prossimo sarà mercoledì 2 gennaio, rimando gli auguri di buon anno ad allora. Qui, mi limito a farvi tantissimi auguri di buon Natale e a ringraziarvi per avermi letto e per continuare a leggermi. Se aveste voglia di farmi un piccolo regalo per queste feste, sarei felicissima di leggervi nelle recensioni e di sapere che cosa ne pensate.

Intanto, un bacione grandissimo!

Amy W. Gildeary

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Capitolo 9
*** La Papessa ***


Il Gioiello del Vaticano

Capitolo 9 - La Papessa

 

 

 

Nei Tarocchi, la carta della Papessa indica il sapere. La Papessa è insegnante spirituale, benevolenza, generosità. La figura contiene suggerimenti morali ed esercita un’influenza suggestiva sul pensiero. Rivela funzioni che conferiscono prestigio, parla di sacerdozio, di metafisica.
Al negativo, però, indica che le negatività diverranno immoralità.

 

 

 

            «La contessa Riario avanzerà da Sud, attraversando il Val d’Arno», spiegò il comandante Quattrone, accompagnando il Magnifico oltre le mura. «Posizioneremo l’artiglieria su tutti i lati, ma la maggioranza degli uomini arriverà qui».

            «Siamo in numero inferiore», obiettò Lorenzo, osservando con disappunto le difese predisposte.

            «Ma meglio attrezzati», si intromise Leonardo, scendendo velocemente nel cortile.

            «Con solo dieci spingarde? Ne siete certo?», fu la scettica risposta del primo cittadino di Firenze.

            «Ne stiamo predisponendo altre», tentò di rassicurarlo l’artista, con un che di umiltà nel suo atteggiamento solitamente spavaldo.

Sapeva molto bene, così come tutti gli altri soldati presenti intorno a lui, che Roma stava lentamente preparando il suo attacco attraverso tanti piccoli ma scaltri sotterfugi, ed incontrarsi sul campo di battaglia non era di certo una scusa per scambiare due chiacchiere. Tutte le azioni della Città Santa gridavano guerra, era solo questione di tempo.

            «Ve lo assicuro: non ci sarà bisogno di usarle», tentò da Vinci, con cautela.

Che fosse ciò che effettivamente aveva in mente di dire, lui per primo ebbe qualche dubbio. Forse, più che una rassicurazione per Lorenzo, voleva essere una rassicurazione per sé stesso, una speranza.

Se chiudeva gli occhi, poteva ancora rivedere tanti piccoli frammenti di quanto successo al convento di Sant’Antonio, alcuni giorni prima. Nonostante cercasse di ripetersi che la colpa di quanto successo fosse tutta da imputare al veleno e al contagio, la sua coscienza non voleva dargli pace.

Le aveva detto cose orribili, l’aveva accusata delle azioni più malvagie e spietate, e quel che era peggio, di aver sempre agito senza sensi di colpa.

Forse in quel preciso frangente, con la fredda spada del Vaticano puntata alla gola e il veleno in circolo nel suo corpo, non lo aveva notato o non gli aveva prestato sufficiente attenzione. Ma da quando era guarito continuava a rivederla: il volto privato della sua maschera di apatia e indifferenze, gli occhi lucidi e le lacrime che premevano per uscire.

Si riteneva la mente più geniale d’Europa, eppure non era riuscito a vedere qualcosa di così ovvio: c’era molto, molto altro che non sapeva, ben oltre quella reputazione di soldatessa fredda e spietata.

Ciò nonostante, il Magnifico gli avrebbe tagliato la lingua al solo sentirlo tentare di difenderla, ragion per cui l’artista scelse saggiamente di zittirsi e fingersi accondiscendente.

            «E poi a volte, se tutto ciò che il tuo nemico sa fare è uccidere…», iniziò, zittendo quel Come se fosse vero che tanto premeva per lasciare le sue labbra. «…un mero inganno può essere sufficiente», tentò. La maniera più velata possibile per suggerirgli un altro modo di trattare.

Il ghigno di superiorità che Lorenzo gli lanciò, però, distrusse ogni sua speranza.

            «La contessa è molto più scaltra di quello che credete, da Vinci», sibilò lui, come se stesse parlando ad un bambino ingenuo.

Lo so bene, avrebbe voluto rispondere Leonardo, ma di nuovo scelse di mordersi la lingua.

            «Il vostro acume non ci difenderà stavolta. Confido sulla vostra artiglieria, e vi assicuro che la useremo», lo zittì definitivamente, prima di superarlo e dirigersi verso il suo cavallo.

L’artista avrebbe dovuto essere d’accordo con lui: difendere Firenze era la priorità, a qualsiasi costo, e a maggior ragione nei confronti di un nemico come il Vaticano.

Ma allora perché, al solo pensiero di attaccare e ferire Gemma, sentiva qualcosa in lui spezzarsi?   

 

Con un’andatura a cavallo così elegante da poter essere definita divina, la contessa Riario stava percorrendo i verdi campi della campagna toscana, avvicinandosi a Firenze con tutta la calma che la guida dell’esercito del Vaticano poteva permettersi.

Il suo esercito, proprio alle sue spalle, la seguiva con la stessa lentezza, silenzioso e ligio al dovere. Buona parte dei soldati aveva stampato in volto un ghigno di soddisfazione, all’idea della facile vittoria che avrebbero conquistato da lì a poco.

Per quanto quella sera al banchetto si fosse divertita a stuzzicare Leonardo senza rendere noto il suo nome, la contessa non aveva perso di vista l’obiettivo. Lasciata la festa a palazzo, aveva incaricato alcuni dei suoi collaboratori di seguire l’artista l’indomani, il giorno successivo e quello dopo ancora. Nessuno doveva perderlo di vista e, tanto meno, tornare da lei senza informazioni utili.

Per fortuna, Grunwald aveva trovato traccia di un accordo tra l’ingegnere e il Magnifico per incontrarsi all’alba in una piccola valle lontano da Firenze. Non volendo lasciare nulla al caso, Gemma si era armata della sua scorta e si era recata sul luogo dell’incontro, in un punto riparato e nascosto ma che le permetteva comunque di tenere d’occhio la situazione.

Come se fosse stata baciata dalla fortuna, aveva assistito a niente meno che la prova delle armi di Leonardo, e non si era lasciata sfuggire il benché minimo dettaglio. Tenendo poi conto delle informazioni sfuggite a Giuliano, al convento, il suo vantaggio era notevole.

            «Ci stiamo avvicinando», le comunicò una delle guardie, poco dietro di lei.

Più che darle informazioni, l’aveva risvegliata dai suoi stessi pensieri, prima che sfuggissero al suo controllo.

            «Tenetevi pronti», rispose la contessa, sollevando la mano destra per comunicare l’ordine anche al resto dei suoi collaboratori.

Come riuscisse ad essere sempre così elegante ed aggraziata, anche in un movimento tanto semplice, restava un mistero per tutti. E in particolare per il suo collaboratore più fidato, che aveva avuto modo di assistere a tanta raffinatezza molto più spesso rispetto a chiunque altro nell’esercito.

Non che le altre guardie avessero mai azzardato un tale avvicinamento, visto che l’ultimo agente che aveva tentato di oltrepassare i limiti del consono era finito tra le voci bianche del coro del Vaticano.

Da allora, chiunque lì dentro con un minimo di istinto di sopravvivenza si limitava, saggiamente, a pensieri privati e molto silenziosi. In onore del suo nome, Gemma non era altro che un tesoro irraggiungibile. Uno splendido, prezioso e brillante tesoro, ma irraggiungibile.

Per chiunque.

            «Contessa?», la chiamò Grunwald, accelerando leggermente l’andatura del cavallo per poterla raggiungere.

            «Sì, capitano?», gli rispose lei, ma senza voltarsi, e il suo sguardo rimase fisso sull’orizzonte.

            «Qual è il vostro piano?», domandò lui, con tono freddo e distaccato.

Il fatto che nemmeno in quell’occasione la contessa si fosse disturbata a voltare il capo era per lui motivo di irritazione, ma allo stesso tempo gli concedeva qualche altro secondo per lasciare che il suo sguardo si soffermasse sui tratti del suo viso, senza correre il rischio che lei lo notasse.

            «Averlo», rispose Gemma, bruscamente, e nemmeno si accorse di aver stretto le briglie del suo cavallo con più forza.

            «Voi non avete una coscienza, contessa».

Non voleva ripensarci. Avrebbe fatto o dato qualsiasi cosa per avere un po’ di tregua da quelle parole che, per lei, erano come stilettate nello stomaco.

            «Quelle persone sono morte perché voi… le avete avvelenate».

Era una buona cosa che lui le attribuisse una reputazione del genere. Andava tutto a vantaggio della sua causa. Sisto le aveva sempre insegnato che un combattente ha già vinto metà della battaglia se la sua fama lo precede. Ma anche sapendolo, quell’amaro in bocca non voleva proprio saperne di sparire.

            «Non provate nemmeno un minimo di rimorso?»

Dio, quanto si sbagliava. Non poteva nemmeno cominciare ad immaginarlo. Ma non lo avrebbe mai scoperto.

            «Mi sbagliavo».

Che stesse parlando di lei? Che fosse sincero? Che fosse solo l’effetto del veleno ancora in circolo, nonostante le cure?

Quelle domande la assillavano da giorni, e l’ultima cosa che poteva permettersi era proprio lasciarsi distrarre così dal nemico.

            «Abbiamo tutti i nostri demoni», mormorò Gemma sovrappensiero, con lo sguardo fisso nel vuoto.

Seguirono alcuni istanti di silenzio, in cui le sue parole sopravvissero nell’aria un altro po’.  

            «…prego, contessa?», chiese Grunwald, dopo qualche secondo di esitazione per la sorpresa.

In tutta risposta, la giovane donna strattonò con un po’ più di forza le briglie, per indirizzare il suo cavallo.

            «Nessuno è invincibile, capitano Grunwald», precisò Gemma, voltandosi finalmente nella sua direzione. «Chiunque ha almeno un punto debole, e la prima cosa da fare è sfruttarlo».

E suo malgrado, l’uomo fu solo capace di pensare che era tornata quella di sempre.

 

Un respiro profondo, le mani chiuse a pugno, e Gemma riprese il controllo di sé stessa. Riuscì addirittura ad indossare di nuovo la sua maschera di sicurezza ed arroganza, venata di quella malizia che riusciva sempre a conquistare chiunque incrociasse il suo sguardo.

Quando raggiunse il punto d’incontro, Lorenzo de’ Medici e tutti i suoi collaboratori erano già presenti. E tra di loro, anche Leonardo.

            «Magnifico», mormorò la giovane donna, con un sorriso di pura cortesia. «Comandante», aggiunse, il tono della voce invariato.

Ma raggiunto da Vinci, abbassò ulteriormente la voce, e gli riservò uno sguardo ben più penetrante.

            «Artista», disse, in poco più di un sussurro.

E nonostante tutto, il fiorentino avvertì di nuovo quella fitta allo stomaco che solo lei riusciva a provocargli. Una sensazione agrodolce, una tentazione a dir poco irresistibile ma verso cui, purtroppo, non poteva fare altro che resistere.

            «Ingegnere bellico, in verità», si intromise Lorenzo, tentando di indirizzare uno sguardo di quel genere su di lui. E tentando di distrarre tutti dall’espressione sul volto dell’artista, ormai prossimo ad uno svenimento.

Sperava che richiamarlo con un titolo tanto prestigioso fosse sufficiente a risvegliarlo. Per quanto capisse che resistere ad una donna come lei fosse un’ardua impresa, contava sul fatto che la sicurezza di Firenze fosse più importante.

Non ottenendo risposte diverse dal silenzio, però, tentò un approccio meno discreto, come quello di tossicchiare con fare vago per destarlo.

Al terzo tentativo, tuttavia, la pazienza di Lorenzo si esaurì.

            «Da Vinci!», esclamò, e chiunque avrebbe percepito la tacita minaccia. Leonardo compreso che, per l’inaspettato richiamo, sobbalzò; perfino il suo cavallo sbuffò, come se riuscisse a provare quella scocciatura.

            «C’è forse qualche problema, artista?», si intromise la contessa, fingendosi perplessa.

In tutta onestà, però, stava assaporando ogni secondo di quel momento, di quella dimostrazione di quanto potere riuscisse ad avere su di lui.

E, in fondo, era una rassicurazione: quanto successo durante la presunta possessione demoniaca non aveva intaccato quello che Leonardo provava per lei. Non irreparabilmente, almeno.

            «Assolutamente nessuno», borbottò da Vinci, raddrizzandosi in groppa al suo cavallo. Se fosse stato sincero, forse avrebbe ammesso che il problema era la presenza di tutte quelle persone, oltre a loro due, ma rimase solo una sua fantasia. «E per voi, contessa?», chiese poi, per sviare l’attenzione su di lei.

            «Invero, sì», rispose Gemma, senza alcuna traccia di turbamento nella voce.

Di certo Leonardo si sarebbe aspettato tutt’altra risposta, ma ormai stava imparando a non lasciarsi sorprendere così facilmente. La contessa Riario, per lui, era una sorpresa continua: prima imparava a conviverci, meglio sarebbe stato per la sua sanità mentale.

Prima di dargli il tempo di indagare, Gemma accelerò i tempi e proseguì da sola la conversazione.

            «Sono stata incaricata dal Santo Padre in persona di recarmi presso la vostra città per una negoziazione, ma a quanto pare…», e lasciò volutamente qualche secondo di silenzio, colmato solo dalla sua migliore espressione di perplessità. «…gli interlocutori con cui sto intrattenendo questa conversazione non sono particolarmente propensi a discutere un accordo».

Si concesse qualche altro secondo di tempo, un momento per squadrare da capo a piedi i destinatari della sua ultima frase.

            «O per meglio dire… non sono particolarmente attenti», precisò, sollevando le sopracciglia con aria di rimprovero.

E suo malgrado, anche il Magnifico si trovò a condividere quella stessa espressione. Il che fu a dir poco una sorpresa: ritrovarsi d’accordo con uno dei peggiori nemici della città che tanto amava non era di certo cosa da tutti i giorni.

Ma gli bastò scoccare un altro sguardo a Leonardo, e alla sua faccia da cucciolo di cane, per capire che sarebbe stato impossibile biasimare Gemma Riario.  

            «Vi ascoltiamo molto attentamente, contessa», tentò di nuovo Lorenzo, l’orgoglio bruciante che si poteva facilmente percepire in ogni sua parola.

Tuttavia, alla contessa non parvero rassicurazioni sufficienti per proseguire la conversazione.

            «Artista?», lo chiamò di nuovo, con il medesimo tono di molti altri incontri precedenti, e ottenendo in risposta pressoché la medesima reazione.

Se Leonardo avesse potuto scegliere di ignorare il suo buon senso e di rispondere seguendo solo l’istinto, non avrebbe esitato a dirle che stava pendendo dalle sue labbra, ma per fortuna la sua parte razionale ebbe la meglio.

            «Vi ascolto», rispose, sistemandosi meglio a cavallo.

Di certo il leggero sorriso di vittoria che si dipinse sulle labbra di Gemma, all’udire quella risposta, non fu d’aiuto a tenere a bada la sua impulsività.

            «Molto bene», mormoro la giovane donna.

Che quell’ultimo sguardo rivolto a Leonardo, ad un soffio dall’oltrepassare i limiti del consono, fosse volto a sottolineare la sua autorità o volto a concedersi qualche altro secondo di contatto visivo, non avrebbe saputo dirlo nemmeno lei.

            «Onde evitare ulteriori spargimenti di sangue, Sua Eminenza ha stilato una lista di richieste. Primo: Firenze deve formalmente accogliere nel suo grembo Francesco Salviati come arcivescovo di Pisa. Secondo: il banco de’ Medici condonerà i debiti alla Santa Sede. E terzo, solleverete alcuni artigiani dai loro obblighi contrattuali, in modo che possano impiegare i loro doni al servizio di una più grande e gloriosa… nuova cappella».

Avrebbe potuto continuare a parlare per delle ore, e con ogni probabilità nessuno sarebbe stato in grado di distogliere l’attenzione dalle sue parole, dalla sua voce, dal suo volto. Nemmeno le guardie svizzere del suo stesso esercito.

            «E a quali artisti è interessato Sua Santità?», domandò il Magnifico, più per proseguire la trattativa che per vero interesse: conosceva già la risposta.

Tuttavia, la contessa Riario mantenne quella farsa in piedi, e cercò in una tasca del suo cappotto un piccolo foglio di carta accuratamente ripiegato. Lo accarezzò lentamente con le dita fasciate dalla pelle nera, lisciandolo tra le sue mani, e finse di leggere quei nomi per la prima volta.

            «Un certo… Pietro Perugino», cominciò, con noncuranza. «Sandro Botticelli» e il Figurarsi borbottato da Leonardo, come avrebbe fatto un bambino di cinque anni, non fu più di tanto una sorpresa. «Oh!», esclamò poi la giovane donna, fingendosi sorpresa. «E Leonardo da Vinci».

Un estraneo avrebbe anche potuto giudicare innocente il sorriso che la contessa rivolse ai suoi avversari, ma perfino il Magnifico riconobbe facilmente l’inganno.

            «Come trovate l’offerta, artista?», domandò infine Gemma, sollevando le sopracciglia e calcando in particolar modo sul nomignolo.

            «Irrealizzabile, contessa».  

            «Oh», mormorò la giovane donna, tornando seria. «Non è la risposta che volevo», aggiunse, e forse per la prima volta in tutta quella conversazione si poté percepire un velo di minaccia nella sua voce.

            «Tuttavia, temo che sarà l’unica che avrete», proseguì Leonardo.

Se Zoroastro fosse stato presente, avrebbe sicuramente avuto da ridire al riguardo.

            «È un vero peccato», rispose lei, con un leggero sospiro. «Si tratta di un’offerta molto…», ed esitò qualche secondo, come se stesse cercando la parola più adatta. «…allettante».

Attratto dalla scintilla di malizia che stava venando la conversazione, Leonardo abbandonò per un momento il buon senso e lasciò che le successive parole uscissero dalla sua bocca senza filtri.

            «Temo che sarebbe un piacere non condiviso», mormorò, facendo spallucce.

            «Chi può dirlo, artista», rispose la contessa, in un sospiro quasi di dispiacere.

In un quello scambio di provocazioni e ambiguità, nessuno parve notare l’espressione dipinta sul volto del Magnifico, ad un passo dal disgusto. Fu egli stesso a riportare l’attenzione su argomenti più importanti, con un tossicchiare non poi così discreto.

            «E se non dovessimo capitolare?», domandò Lorenzo, ritornando alle minacce mosse poco prima dalla contessa.

Con quale velocità Gemma fosse capace di passare dallo scherzo alla serietà, era parte del suo fascino.

            «Ah… le mie unità occuperebbero Firenze», sentenziò lei, con risolutezza.

            «La mia artiglieria… ridurrebbe i vostri uomini in brandelli», si intromise Leonardo, che parve aver ritrovato la sua tipica arroganza.

            «Le vostre mitiche spingarde ad organo», lo seguì la contessa. «Certo, quelle abbatteranno alcuni dei miei soldati. Ma non tutti», e dal tono con cui aveva pronunciato quelle ultime tre parole, i presenti capirono che stava per arrivare il peggio. «Grazie alla sventatezza di Giuliano so che avete dieci macchine da guerra, e osservandone una ho semplicemente dedotto la ciclicità del rateo di fuoco».

Al solo sentire il nome del Giuliano comparire in quella conversazione, Lorenzo sentì il sangue ribollirgli nelle vene per la rabbia.

            «Diamine, Giuliano…», si lasciò sfuggire, a denti stretti.

            «Oh, non perdete troppo tempo ad odiare vostro fratello», gli rispose la contessa, con una certa noncuranza. «Sarei stata perfettamente in grado di ricavare le medesime informazioni dall’ingegnere», aggiunse, scoccando uno sguardo al diretto interessato.

            «Comincio a pensare che la vostra arroganza riesca addirittura a superare la mia», commentò Leonardo, in un guizzo di spavalderia.

            «Ho avuto prova di quanto siano veritiere le mie affermazioni».

E tanto in fretta quella sfrontatezza era apparsa, altrettanto in fretta scomparve, spazzata via dall’ultima affermazione di Gemma. Quel minuscolo accenno di sorriso sulle labbra dell’artista scomparve, e perfino Lorenzo notò il silenzio che seguì.

            «Da Vinci a corto di parole. Sono sbalordito», borbottò lui, a bassa voce.

            «Mi auguro sia prova delle mie abilità, Magnifico», rispose la giovane donna, abbozzando un piccolo cenno di riverenza con il capo, anche se non c’era traccia dell’umiltà che avrebbe dovuto accompagnare quel gesto.

E Leonardo poteva affermare con grande certezza che quella dimostrata dalla contessa era tutta finzione. Perché lui non era come gli altri, non si fermava alle prime impressioni, alle maschere che lei voleva che gli altri vedessero.

Sulla scia di quella consapevolezza, portò avanti la sua difesa.

            «Permettetemi di obiettare, contessa. Mentre voi studiavate me, io studiavo voi», affermò, con un mezzo sorriso spavaldo. «E ho dedotto molto dalle nostre conversazioni», aggiunse, abbassando appena la voce.

Non fu affatto spiacevole il sapore della soddisfazione che poté assaporare, vedendo finalmente una piccola crepa nella maschera di Gemma.

            «E che cosa avete dedotto, artista?», domandò lei, con un interesse e una curiosità finalmente sinceri.

            «Se ve lo rivelassi, perderei il vantaggio che ho su di voi. E non mi sembra proprio il caso, non ora che vi apprestate a dichiarare guerra a Firenze».

            «Seguitemi a Roma, dunque», propose la contessa, con risolutezza. «Eviteremmo l’attacco alla città e potremmo continuare la nostra… conversazione».

Bastò il modo in cui Gemma sbatté le sue lunghe e folte ciglia per fargli capire che il suo vero intento era colpirlo allo stomaco. E non solo.

            «Seguirvi a Roma? Dove verrei considerato un eretico e messo al rogo? La vostra offerta è sempre meno allettante», ribatté il fiorentino.

Il pensiero di essere bruciato vivo gli sembrò un’ottima distrazione per tornare con i piedi per terra.

            «Il papa avrà pietà di un povero artista confuso», lo rassicurò Gemma, con una nota quasi dolce nel tono della voce. Tuttavia, l’espressione sul suo volto mutò presto in perplessità. «Oh, aspettate…», li fermò, sollevando delicatamente un indice in aria per garantirsi il silenzio dei presenti. «Il vostro è uno dei nomi sulla lista di artisti richiesti da Sua Santità».  

Da Vinci iniziò a capire dove quel discorso sarebbe andato a finire, e fece di tutto per non scoppiare a ridere. Poteva provare a difendersi quanto voleva, eppure Gemma riusciva sempre a rigirare il coltello per puntarlo contro di lui.

            «Non avete alcun motivo di temere l’ira del Santo Padre», concluse la contessa, con semplicità. «Non avete ascoltato le condizioni con cui ho aperto le trattative?», chiese poi, fingendosi dubbiosa. «Qualcosa vi ha distratto?»

            «In effetti…», borbottò Leonardo, tentando di prendere tempo. «…stavo facendo dei calcoli. Per capire con quanti uomini ve ne tornerete a Roma con la coda tra le gambe».

Ma l’unica reazione che ottenne fu una discreta risata.

Gemma sollevò delicatamente la mano destra in aria e schioccò le dita. Alle sue spalle una delle guardie fischiò e, nel giro di pochi secondi, un numero tremendamente alto di soldati uscì dal bosco ed iniziò ad avvicinarsi.

            «Riprendiamo per un momento le informazioni sulle vostre mitiche spingarde ad organo», disse Gemma, congiungendo le mani davanti a sé. «Trentatré canne ciascuna con un’emissione di trecentotrenta scoppietti in totale. Quindi, signori, supponiamo che… i due terzi colpiscano l’obiettivo. Ma cosa succederà mentre i vostri impavidi miliziani stanno ricaricando?», e lasciò volutamente qualche secondo di silenzio, mentre le sue parole alleggiavano nell’aria. «I miei restanti quattrocento usciranno allo scoperto. E sì, useranno i vostri preziosi fiorentini… per il tiro al bersaglio»

            «Affrontate una città cinta da mura. Vi terremo a distanza almeno per sei mesi», si difese il Magnifico.

Ma la sua voce non era così ferma e sicura come egli avrebbe voluto.

Quanto meno lui era riuscito ad aprire bocca e a dire qualcosa, al contrario di Leonardo. Quel ragionamento aveva posto in chiara evidenza i difetti della sua armeria, e la prospettiva di una vittoria su Roma era sempre meno nitida, a mano a mano che immaginava lo scenario appena descritto da Gemma.

Il fallimento stava diventano un’ipotesi sempre più reale, e per Leonardo fu un fendente dritto nello stomaco.

            «È sufficiente una sola persona per aprire le porte dall’interno e voi… voi siete davvero convinto che in tutti questi mesi il richiamo del Santo Padre non verrà ascoltato da una singola anima a Firenze?»

Nel gesto di afferrare le briglie del suo cavallo, la contessa Riario pose fine a quella conversazione.

            «Avete ventiquattr’ore per ponderare l’offerta di Sua Santità. Felice giornata».

 

 

 

Angolo dell’autrice

Buonsalve a tutt* e tanti auguri di buon anno!

Come sono state queste feste? Quante trasgressioni alla dieta contare? Risposta: nessuna, perché tutto è concesso sotto Natale.

Nonostante io trovi la politica terribilmente noiosa, spero di aver aggiunto abbastanza pepe da rendere questo capitolo di trattive (e minacce) più stuzzicante, e condito con gli sforzi di Leonardo per non sbavare spudoratamente proprio di fronte a Gemma, esercito e braccio destro compreso.

E a proposito. Nello scorso capitolo avevo parlato di “piccoli indizi sul passato di Gemma”. Tuttavia, neanche il capitano Grunwald è salvo dalle storyline secondarie. Di nuovo, sbizzarritevi nelle teorie perché sono sempre curiosa.

Che dire, vi saluto e ci rileggiamo tra due settimane!

Un bacione

Amy W. Gildeary

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Capitolo 10
*** Il Mago ***


Il Gioiello del Vaticano
Capitolo 10 - Il Mago 

 

 

 

Nei Tarocchi, la carta del Mago rappresenta lo spirito, il soggetto pensate che si riflette nell’Io. Indica intelligenza, azione, padronanza, libertà nei confronti del pregiudizio. E ancora, esprime abilità, diplomazia, furberia, capacità di persuasione.
Al negativo, però, significa intrigante, senza scrupoli e sfruttatore.

 

 

 

            «Bisogna dargliene atto: Riario sa esattamente come intimidire le sue prede».

 

            «Forse Dio è dalla parte della contessa in questa faccenda».

            «Non ho fede in alcun Dio che si schiera con quella… subdola manipolatrice».

 

            «Volete spuntare la vostra lama su di me, quando invece dovreste tenerla affilata per Riario?»

 

Leonardo ormai non riusciva più a sentire nemmeno i suoi pensieri, tanto la sua mente era affollata di parole dall’ultima conversazione, avuta nell’osteria. Uscì barcollando dalla porta sul retro, sperando così di allontanarsi da quelle voci, da quelle accuse, ma purtroppo non trovò alcuna pace.

Si passò le mani sugli occhi, cercando di recuperare lucidità, ma quando sollevò lo sguardo vide qualcuno attraversare il vicolo a passo svelto. Non ebbe bisogno di più di un secondo per riconoscere la persona davanti a lui: l’arma più potente del Vaticano.

Ancora incerto sulle sue stesse gambe, cercò di nascondersi velocemente dietro ad una colonna, aspettando il momento giusto per lanciarsi per le strade di Firenze, all’inseguimento del suo nemico. Non appena la vide voltarsi dall’altra parte e dargli le spalle, uscì allo scoperto.

Purtroppo, però, non riuscì a muovere più di qualche passo, e il suo sguardo fu nuovamente catturato.

Alla sua sinistra, la strada era un lago di sangue, coperta da decine e decine di cadaveri brutalmente martoriati. Iniziò a tremare violentemente, mentre si avvicinava per controllare cosa fosse accaduto.

Tra tanti cittadini a lui sconosciuti, però, vide chiaramente il volto di Nico, la pelle pallida, gli occhi sbarrati e il sangue che gli colava lungo la fronte. Accanto a lui, il corpo di Zoroastro giaceva senza vita, accasciato scompostamente su sé stesso.

Avanzò di qualche altro passo, sempre più incerto e scosso, ma presto desiderò di non averlo mai fatto.

Con la schiena poggiata ad una colonna, Andrea aveva lo sguardo perso nel vuoto e la camicia impregnata di sangue. Poco distante giaceva tutta la famiglia de’ Medici, comprese le tre piccole bambine di Clarice e Lorenzo, il candore delle loro vesti devastato dalle ferite. Giuliano aveva lo sguardo rivolto altrove, e seguendolo Leonardo riconobbe Vanessa, sdraiata su un fianco.

Sentiva che il cuore stava per uscirgli dal petto, il suo viso era imperlato di sudore e i suoi occhi si stavano bagnando di lacrime. Rialzò lo sguardo ma la situazione non fece che peggiorare: tutte le altre vie della città si stavano riempiendo di cadaveri, vittime innocenti morte per la sua incapacità di salvare la città.

L’aria stava diventato irrespirabile, improvvisamente densa di fumo, mentre nelle orecchie dell’artista risuonava il boato dei suoi cannoni. Questa volta, però, non erano rivolti verso il nemico, ma nella sua direzione.

Tentò invano di recuperare fiato, di deglutire, di muovere anche un solo muscolo del suo corpo, ma il terrore lo aveva paralizzato e nemmeno la sua mente era in grado di ragionare.

Per cui, quando sentì qualcosa di freddo e metallico premuto contro la sua gola non accennò alla benché minima reazione, né oppose resistenza sentendosi strattonato altrove. Tutte le sue energie erano concentrate sul tentare di respirare, prima che il suo corpo cedesse alla mancanza di aria.

Quando finalmente la strada fu fuori dal suo campo visivo, così come il sangue e i cadaveri, Leonardo riuscì finalmente ad inspirare, i polmoni che bruciavano per la prolungata assenza di ossigeno. Sbatté più volte le palpebre e i corpi senza vita dei suoi amici sparirono.

Sentì la schiena sbattere violentemente contro una parete, e solo allora si rese conto di essere stato trascinato via, in un piccolo angolo nascosto tra una casa e l’altra. E finalmente anche il viso della contessa Gemma Riario fu chiaro e nitido.

Ancora scosso, da Vinci rimase in silenzio per qualche istante, cercando di non cedere ai tremendi capogiri che lo stavano tormentando.

            «Siete un’allucinazione anche voi?», mormorò lui con un filo di voce, mentre ansimava alla ricerca di aria.

Per un istante, per un brevissimo istante, gli parve di scorgere una traccia di preoccupazione negli occhi della giovane contessa, ma venne ben presto spazzato via dalla sua espressione fredda e determinata.

            «Temo di no, artista», rispose Gemma, con una certa dose di confusione nel tono della voce.

Leonardo ripensò a quello che aveva visto poco prima: Gemma stava chiaramente scappando via dalla città, con la spada salda tra le mani, e poi erano apparsi tutti quei cadaveri, tutto quel sangue… Eppure in quel momento lei era lì, ad un soffio dal suo viso, con lo stiletto alla gola di lui e l’aria tutt’altro che intimidita.

Solo allora da Vinci capì che anche la sua figura in fuga per le strade di Firenze era stata frutto della sua immaginazione; ma in quel momento, al contrario, ogni cosa era reale. Tutto l’alcol in circolo gli stava giocando brutti scherzi, e un brutto presentimento gli mormorò all’orecchio che il peggio doveva ancora arrivare.

Cercò di recuperare un minimo di lucidità e il suo sguardo tornò sulla figura di fronte a lui, e soprattutto sull’arma con cui lo stava minacciando.

            «Sapete che se qualche guardia vi vedesse ora potreste dire addio alla vostra guerra, contessa?», tentò di intimidirla, mentre si sforzava di capire come uscire da quella brutta situazione.

Non si sorprese di non vederla minimamente turbata. Anzi, il suo sorrisetto malizioso divenne un piccolo ghigno di soddisfazione.

            «Credete che i manifesti fossero coriandoli?», gli chiese.

 

«Popolo di Firenze, i Medici vi condurranno alla morte».

 

            «Niente svuota le strade come il terrore», mormorò Gemma, chinando leggermente la testa di lato.

Da Vinci sollevò lo sguardo verso la città e, infatti, non scorse nemmeno l’ombra di un’altra persona fuori dalle abitazioni. A celare ulteriormente la loro singolare presenza lungo le vie di Firenze, ci pensava il piccolo angolino tra le costruzioni in cui si trovavano.

            «Mossa davvero astuta, contessa», si complimentò l’artista, riportando la sua attenzione sulla giovane donna.

Prima che lei potesse anche solo accorgersene, Leonardo aveva colpito il suo braccio, facendole perdere la presa attorno allo stiletto, e altrettanto velocemente le aveva afferrato i polsi, capovolgendo le loro posizioni e tenendole ferme le braccia lungo i fianchi.

            «Ma non potrei dire la stessa cosa di ora», aggiunse, con finto dispiacere.

L’artista vide chiaramente un briciolo di confusione nei suoi occhi, e per un attimo anche lui si sorprese di averla disarmata tanto facilmente, ma si impose di recuperare immediatamente la concentrazione, prima di perdere il suo vantaggio.

            «Accettate la sconfitta, per una volta», sussurrò Gemma, la voce libera da qualsiasi traccia di paura o turbamento. «Nemmeno voi siete in grado di sconfiggere un esercito in una notte».

Leonardo lo sapeva. Sapeva benissimo in quale tremenda situazione si era cacciato, ma darle la soddisfazione di vederlo sconfitto sarebbe stato ancora peggio.

            «Non siete nella posizione adatta per lanciare le vostre solite minacce, contessa», rispose lui, stringendo la presa attorno ai suoi polsi per sottolineare il concetto.

In quale modo Gemma riuscisse ancora a dimostrarsi calma e imperturbata, nonostante la situazione fosse totalmente a suo sfavore, per da Vinci era un mistero. Non si rese nemmeno conto che, tanto assorto nei suoi dubbi sul suo autocontrollo, si era sporto ulteriormente verso di lei, costringendola ad appiattirsi contro il muro alle sue spalle.

Il giovane fiorentino rimase ancora in silenzio, cercando di scorgere qualcosa nel viso della contessa, qualcosa di diverso dalla maschera fredda e controllata che portava sempre e comunque.

            «Dunque, artista?», lo provocò lei. «È la vostra occasione».

Chiunque, al suo posto, avrebbe mostrato un segno di cedimento, un alone di paura, eppure anche lì, bloccata e privata di ogni via di fuga, riusciva a sfidarlo con sguardo fiero e impassibile, aspettando quasi impaziente la sua prossima mossa.

Da Vinci sapeva benissimo qual era la cosa giusta da fare, quale azione avrebbe risolto ogni problema, suo e di Firenze. Eppure, anche solo pensare di portare a compimento quel piano gli serrava la gola come solo l’allucinazione di poco prima era riuscita a fare.

Rimase in silenzio, mentre il suo sguardo vagava dagli occhi della ragazza al suo viso, alle sue labbra. Era inspiegabile, eppure ogni volta che la distanza tra di loro si riduceva drasticamente, e ben oltre i limiti dell’appropriato, Leonardo non riusciva a fermare il suo desiderio di ammirarla, e il ricordo del loro primo incontro lo tormentava senza pietà.

            «Sarei molto tentato di farlo, e senz’altro questo porrebbe fine a tutti i problemi di Firenze…», mormorò, avvicinandosi ulteriormente a lei e restando in silenzio per qualche altro secondo. «…ma sarebbe davvero un peccato uccidervi, non trovate anche voi?», aggiunse, allontanandosi solamente il tanto da poter osservare i suoi occhi.

Niente. Assolutamente niente. Nessuna traccia di turbamento, di paura, di disagio. Gemma non aveva perso nemmeno un briciolo della sua calma e della sua sicurezza; al contrario sembrava sfidarlo tacitamente, servendosi di nient’altro se non il suo sguardo.

            «E che cosa vi trattiene?», mormorò lei, genuinamente curiosa.

Leonardo sentì l’alcol nel suo corpo ribollire, come se una scintilla lo avesse appena incendiato. E sapeva che, purtroppo, non avrebbe portato a nulla di buono.

Ma non arrivò a realizzare altro che la sua mente agì da sola, libera da inibizioni.

            «Il fatto che io trovi queste nostre conversazioni tremendamente stimolanti», sussurrò, tornando di nuovo ad un soffio dalle sue labbra. «Non riuscirei ad interromperle in questo modo».

Per la prima volta, la curiosità di esaminare la sua reazione non ebbe la meglio, e da Vinci rimase lì, ad indugiare con lo sguardo sulle sue labbra, ogni energia impiegata nel tentativo di non avvicinarsi ulteriormente con il resto del corpo.

            «Seguitemi a Roma, dunque», sussurrò Gemma, e la sensazione del suo respiro a una tale vicinanza costrinse Leonardo a chiudere gli occhi, mentre la sua immaginazione viaggiava senza inibizioni. «Avremmo sicuramente tutto il tempo che desiderate…», continuò lei, e la presa di lui attorno ai suoi polsi stava per cedere. «…per parlare».

La contessa lo vide chiaramente bloccarsi di colpo, per effetto delle sue ultime parole, e non riuscì a celare un sorrisetto divertito vedendolo allontanarsi di poco da lei. Sapeva anche che non sarebbe mai riuscita a trattenersi dall’infierire ulteriormente: era una sfida persa in partenza.

            «Ho forse deluso le vostre aspettative, da Vinci?», domandò lei, fingendosi dispiaciuta.

Leonardo riaprì finalmente gli occhi e non riuscì a celare nessuna delle emozioni che lo stavano tormentando: confusione, brama, turbamento…

            «Ho avuto un repentino calo di desiderio non appena avete nominato Roma», mormorò lui, fingendo una smorfia di disgusto.

Gemma lo osservò per qualche secondo prima di inclinare la testa di lato, come un piccolo cucciolo dall’aria dispiaciuta.

            «Niente che possa compensarlo?», chiese, l’innocenza del suo sguardo che lentamente spariva, sostituita dalla sua inconfondibile vena di malizia.

Leonardo non poté non scuotere la testa incredulo. Ogni volta che credeva di aver scoperto tutte le sue carte, di aver sondato ogni sua reazione, di aver visto ogni sua sfaccettatura, lei riusciva comunque a sorprenderlo, a destare di nuovo il suo interesse, ad accendere per l’ennesima volta il desiderio nei suoi confronti.

Quella ragazza aveva un effetto incredibile su di lui, e l’alcol in circolo fu tutt’altro che d’aiuto. Soprattutto per la terribile curiosità di sapere se anche lui fosse in grado di provocare in lei quello stesso devastante effetto, anche solo in minima parte.

            «In effetti, qualcosa ci sarebbe», mormorò da Vinci, concedendosi qualche secondo di silenzio per studiarla, ogni volta come se fosse la prima.

Lentamente, prendendosi tutto il tempo di cui aveva voglia, strinse la presa attorno ai suoi polsi e li allontanò dal muro, per poi tenerli entrambi in una mano, in modo da avere libera l’altra. Una piccola parte di lui era sicura di aver commesso un errore e che in un secondo Gemma avrebbe sfruttato la cosa a suo favore per liberarsi; eppure niente di tutto ciò accadde, e la contessa non azzardò alcuna mossa.

Leonardo sollevò di nuovo lo sguardo sul suo viso, e probabilmente da sobrio si sarebbe fermato ben prima di quel punto, ma nessuna traccia di buon senso si era ancora risvegliata dall’intorpidimento causato dall’alcol. Sollevò la mano libera e, con il dorso dell’indice, le sfiorò la tempia, poi lo zigomo e la guancia.

Ricordò il loro primo incontro, le piccole decorazioni dorate attorno ai suoi occhi, e per un attimo, nel buio della notte, gli parve di scorgere lo stesso luccichio. Solo dopo qualche istante si rese conto che era il suo sguardo a brillare, senza alcuna magia.

            «Come ci riuscite?», mormorò l’artista, l’espressione genuinamente confusa.

A quelle parole, anche Gemma non si preoccupò di celare la sua perplessità per quella domanda così inaspettata.

            «A fare cosa?», chiese, sollevando lo sguardo.

Dopo qualche istante, l’incertezza di Leonardo sparì, spazzata via da uno sguardo ben lontano dall’essere dubbioso e cauto. La sua mano si era fermata ed indugiava sulla sua guancia, pericolosamente vicina alle sue labbra.

            «Ad essere la mia più grande minaccia e la mia più grande tentazione».

Da Vinci ne era certo: avrebbe finalmente ottenuto una reazione, qualcosa che gli confermasse che nemmeno la fredda e subdola contessa Riario era immune al turbamento. Niente di paragonabile al turbinio di emozioni che lo assalivano giorno e notte, ma si sarebbe accontentato anche della più piccola reazione.

Eppure, per l’ennesima volta, niente di tutto quello che aveva detto o fatto ebbe una risposta. Gemma era ancora lì, davanti a lui, con un tenue accenno di sorriso sulle labbra, impregnato della sua inattaccabile sicurezza.

            «Questo dovreste dirmelo voi, artista», rispose lei, con una vena di sincera curiosità.

Da Vinci scosse la testa, incapace di capire che cosa fosse in grado di penetrare la sua corazza, di destabilizzarla almeno un briciolo di quanto lei riusciva a fare con un solo sguardo. I suoi occhi iniziarono a vagare senza sosta, fino a quando non vennero catturati dalla sciarpa al collo della contessa.

Ben lontano dall’essere lucido e guidato da un minimo di buon senso, spostò la mano lungo il profilo del suo viso, fino ad entrare in contatto con il soffice lembo di seta nera, così severamente annodato attorno al suo collo. Non sollevò nemmeno lo sguardo nei suoi occhi, ma lo mantenne concentrato sul lavoro che stava compiendo, mentre con le sue abili dita da artista scioglievano il nodo.

Quasi non si sorprese di sentirla ancora tranquilla e rilassata tra le sue braccia, nessun sussulto sfuggito dalle sue labbra, nessun tentativo di protesta.

            «Non vi state opponendo», mormorò lui, il tono a metà tra la sorpresa e il compiacimento.

            «Perché dovrei, artista?», rispose Gemma, abbassando lo sguardo sul lembo di stoffa. «Questa non è altro che l’ennesima conferma del potere che ho su di voi», e come guidati da una misteriosa forza sovrannaturale, entrambi rialzarono lo sguardo l’uno negli occhi dell’altra, nello stesso momento.

La sicurezza della contessa stava iniziando ad infastidirlo, soprattutto quando sottolineava così bene quanto Leonardo fosse incapace di combattere il suo dilemma, mentre lei ne era praticamente immune e anzi, lo sfruttava a suo vantaggio.

Il nodo della sciarpa non fu più un problema e destò l’attenzione di entrambi. Gemma continuò a sostenere con fierezza lo sguardo dell’artista, mentre da Vinci abbassò il suo sul lembo di seta, che ben presto si allontanò dal collo della giovane e scivolò per terra. 

Leonardo iniziò ad avvicinarsi, l’alcol che lo stava stordendo, allontanandolo definitivamente dal limite del buon senso.

            «Sono piuttosto sicuro che non sia necessario assecondarmi», mormorò lui, prima di chinarsi sulla pelle appena lasciata scoperta e poggiare le labbra sul suo collo, appena sotto l’orecchio.

Finalmente, sentì il corpo della ragazza reagire, irrigidirsi tra le sue braccia, e le sue labbra si incurvarono in un sorriso compiaciuto. Incapace di distinguere il bene dal male, ciò che era giusto da ciò che era sbagliato, avvicinò ulteriormente il suo corpo a quello della contessa, ormai bloccata contro la parete alle sue spalle.

Nonostante tutto, nonostante le barriere di stoffa, sentì chiaramente i suoi muscoli contratti, non più così rilassati, mentre iniziava a lasciare una serie di baci sulla sua pelle, dovunque gli fosse possibile al di là del collo alto della camicia.

Gemma recuperò ben presto il controllo della situazione, ricordando anni e anni di addestramento e di insegnamenti e, nel momento in cui riuscì di nuovo a rilassare i muscoli del suo corpo, avvertì chiaramente Leonardo rallentare i movimenti, conscio di aver perso il suo piccolo vantaggio.

            «È un gioco pericoloso, artista», mormorò, sentendolo indugiare con le labbra contro la sua pelle. «Fin dove siete disposto a spingervi?»

A malincuore, da Vinci si allontanò da lei e ripristinò un minimo di distanza, nonostante il bruciante desiderio di mandare tutto al diavolo e baciarla una volta per tutte.

            «E voi, contessa?», ribatté, con lo stesso tono. «Fin dove siete disposta a spingervi per ottenere la chiave?»

Purtroppo per Leonardo, lo sguardo di Gemma non vacillò nemmeno per un attimo, e l’artista iniziò ad allentare la presa attorno ai suoi polsi.

Senza mai spezzare i loro sguardi intrecciati, la ragazza si chinò a terra, recuperando il suo stiletto e riponendolo nella cintura. Si rialzò alla sua altezza, e rimase volutamente in silenzio per qualche altro istante, il suo sguardo ad amplificare l’importanza di quella pausa, prima delle sue prossime parole.

            «Lo vedrete. E allora rimpiangerete di non aver ceduto fin da subito», e un istante dopo era già sparita per le strade di Firenze.

 

 

 

Angolo dell’autrice

Buonsalve a tutt*!

Capitolo centrale della storia, uno dei primi capitoli che io abbia scritto e, assolutamente, uno dei miei capitoli preferiti in tutta la prima stagione della fanfiction. Mi è sempre piaciuta, nel quarto episodio, la scena in cui Leonardo esce barcollando dalla locanda e ha tutte quelle allucinazioni, ed è stato molto interessante inserire anche Gemma nella situazione.

E poi si sa, in vino veritas… con tutto l’alcol che si è scolato il caro artista, ne è uscito qualcosa di stuzzicante. Sicuramente le vie di Firenze deserte hanno contribuito.

Con ciò, vi saluto e si torna tra due settimane!

Un bacione

Amy W. Gildeary

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Capitolo 11
*** Il Carro ***


Il Gioiello del Vaticano
Capitolo 11 - Il Carro

 

 

 

Nei Tarocchi, la carta del Carro rappresenta i trionfi, il progresso, l’evoluzione. La vittoria proviene dalla fermezza dei propositi, dalla coerenza, dall’equilibrio. La capacità di governare sé stesso e gli eventi richiede discernimento e armonia. La riuscita nelle cose dipende da potenzialità personali, dalla capacità di rovesciare il negativo in positivo, da talento.
Al negativo, però, esiste incapacità di vincere le situazioni, mancano la diplomazia e la capacità di ricercare un ambito equilibrio.

 

 

 

            «La mia unica opzione è di offrirmi personalmente in ostaggio a Riario. Dovrò pregare, rimettendomi solo alla sua misericordia, che lei rinunci a depredare Firenze. Dovrò pregare, affinché garantisca a Clarice e alle nostre figlie una scorta per l’esilio. E dovrò pregare affinché ogni traccia del mio nome e della mia eredità… non venga cancellato per sempre».

            «E se Riario vuole voi… che vi abbia pure».

Erano state quelle le ultime parole pronunciate dal Magnifico, prima di uscire dalla bottega dell’artista.

Per un istante, per un solo breve istante, Leonardo aveva assecondato quel pensiero, e nella sua mente aveva immaginato il futuro descritto da Lorenzo.

Si vide sul campo di battaglia, mentre ascoltava gli accordi presi tra il potente de’ Medici e la fredda contessa Riario.

Si vide circondato dalle guardie svizzere, dagli scagnozzi agli ordini del gioiello più prezioso del Vaticano.

Si vide portato dall’altro lato della guerra, al servizio del papa, e rinchiuso a Castel Sant’Angelo.

E per un istante, ancora più breve, vide che non era il solo prigioniero in quella gabbia dorata.

Un attimo dopo, era tornato con i piedi per terra.

 

Gemma arrivò con un discreto anticipo. Da sola, in prima linea e con il suo esercito alle sue spalle, si concesse un breve momento di pace per pregustare l’imminente vittoria di Roma su Firenze.

Sul prato verde e rigoglioso stava cadendo una debole pioggia, e il cielo era del tutto celato dietro a candide nubi. Con le affusolate dita coperte dalla pelle corvina dei guanti, strinse il tessuto del cappuccio del mantello tra pollice e indice, e si coprì il capo.

Il freddo era pungente e in poco tempo le si sarebbe insinuato nelle ossa, ma la giovane scacciò via qualsiasi pensiero che non fosse tornare a Roma con il più succulente dei bottini.

Eppure, nel suo cuore, aleggiava una strana sensazione, un brutto presentimento che le agitava l’animo. Si sforzò di ignorarlo, ma più ci provava e più quel sapore amaro tornava, sempre più forte. Tentò quindi di pensare ad altro e, per ingannare il tempo, estrasse dalla giacca un elegante orologio d’oro, e iniziò a giocherellarci in attesa dell’arrivo del Magnifico e di Leonardo.

Tutto sommato, sarebbe stato divertente guardarlo di nuovo negli occhi dopo quello che era accaduto la notte scorsa nel vicolo. Tuttavia, ripensandoci, sentì ancora i brividi sulla pelle del collo, sotto la sciarpa di seta.

Il galoppo dei cavalli la risvegliò; riposto l’orologio, sollevò lo sguardo davanti a sé e indossò, per l’ennesima volta negli ultimi giorni, la sua impenetrabile maschera. Sorrise, quando vide i suoi interlocutori fermarsi di fronte a lei.

            «Nico», esclamò Gemma, vedendo il giovane apprendista di Leonardo nella piccola folla di accompagnatori. «È una gioia vedervi di nuovo. Spero che la vostra mano sia guarita», aggiunse, e forse solo una persona tra tutte loro poteva concedersi il lusso di credere che la sua preoccupazione fosse sincera.

E proprio su quella persona si posò lo sguardo della contessa.

            «Artista», mormorò Gemma, con voce vellutata. «Puntuale e pronto per seguirmi a Roma», aggiunse, congiungendo le mani davanti a sé e sorridendo soddisfatta.

Leonardo da Vinci, giovane artista, anatomista e ingegnere di una certa fama, sapeva benissimo che qualsiasi persona, dotata di un minimo di senno, si sarebbe coperta il capo con il cappuccio del proprio mantello per proteggersi dalla pioggia; e la contessa non era sicuramente un’eccezione.

Ma era come se quel velo la allontanasse per un secondo dal suo ruolo, lasciando al suo posto solo una giovane donna dalla pelle candida e dagli occhi che brillavano come due pietre preziose.

            «Salve, contessa», riuscì a dire Leonardo, per quanto fosse forte la tentazione di chiamarla per nome.

            «Spero abbiate riposato. E che abbiate le energie per stare al mio passo», proseguì Gemma e, per sottolineare velatamente il concetto, si sistemò meglio in sella al suo cavallo.

            «Siete certa di essere voi quella in grado di stare al mio passo?», ribatté il fiorentino, accompagnando la provocazione da uno dei suoi sorrisetti colmi di arroganza e presunzione.

            «Non sarei io, dei due, a restare senza fiato», ribatté lei, abbassando sempre di più il tono della voce.

E come piccolo assaggio, lo aveva lasciato davvero senza fiato.

            «Andiamo senza indugi ai termini della resa», si intromise il Magnifico, desideroso di concludere quanto prima quel teatro di umiliazione che lo vedeva protagonista.

            «Certamente», rispose Riario, con la più falsa delle accondiscendenze. Vedere la soddisfazione dipinta sul suo volto, forse, sarebbe stato meno fastidioso di quella finta gentilezza che voleva solo celare la vittoria.  

Eppure, in quel frangente che avrebbe ben presto determinato le sorti di Firenze, Leonardo fu capace solo di afferrare una melagrana dal suo piccolo fagotto e di iniziare a mangiarla, come se nulla fosse. In qualche modo, era anche riuscito ad allontanare dalla sua mente le immagini descritte da Gemma, poco prima.

            «Vorrei delle…», iniziò Lorenzo, con umiltà, ma si fermò frenato dal suo bruciante orgoglio. «Esigo…», si corresse. «…da voi alcune rassicurazioni».  

La contessa rispose con un cenno della mano che lo incitava a continuare, con la medesima falsa gentilezza di poco prima. Voleva fingere di non capire per quale motivo Lorenzo fosse tanto riluttante ad offrirsi in ostaggio; e nel mentre, assaporava con piacere il dolce sapore della vittoria.

            «Firenze e tutti i cittadini sono la mia priorità…», iniziò il Magnifico, ma fu interrotto senza troppi complimenti da Leonardo.

            «Un momento!», esclamò l’ingegnere, con la bocca ancora mezza piena di melagrana. «Scusate, scusate», continuò, fermando sia Lorenzo che Gemma.

Tutto ciò, sotto gli sguardi perplessi di Riario e del suo esercito, e fulminanti del Magnifico.

            «Vi è chiaro, contessa… di chi è la resa di cui si discute?», domandò da Vinci, calcando notevolmente sul suo titolo, con un tono di voce basso e roco simile a quello usato da lei per stordirlo.

            «Illuminatemi, artista», disse la giovane in tutta risposta, facendo spallucce.

Ma prima di proseguire, Leonardo immaginò la reazione della temibile e spietata contessa Riario di fronte ad un’innegabile sconfitta. Sapeva che da lì a poco la sua mossa l’avrebbe completamente spiazzata e, senza che potesse controllarlo, le sue labbra si piegarono in un sorriso di puro compiacimento.

            «È la vostra», rispose lui.

La reazione di Gemma, sfortunatamente, non fu né di rabbia, né di smarrimento, né di paura; fu però un’incantevole sorpresa per Leonardo.

Rise.

Rise come non l’aveva mai sentita ridere prima di allora. L’aveva vista sorridere, l’aveva vista fingere interesse o divertimento, o tuttalpiù l’aveva vista forzare una piccola risatina sarcastica. Ma quella era una risata vera, allegra, e così bella da scaldargli il cuore.

            «Prego?», chiese la giovane romana, senza abbandonare il suo sorriso.

E di fronte a quella gioia, Leonardo ebbe bisogno di un paio di secondi di tempo per ricomporsi. Un’esitazione che Gemma sfruttò subito.

            «Forse qualcosa vi ha… distratto…», iniziò lei, e sul suo viso ritornò quel sorriso malizioso e quello sguardo magnetico che erano la sua firma. «…ma la vostra città è in netto svantaggio».

            «Da Vinci…», lo rimproverò il Magnifico, con il più minaccioso dei suoi sguardi: come se quella situazione non fosse già abbastanza umiliante.

Ma Leonardo lo ignorò, e si rivolse al suo giovane apprendista.

            «Nico?», lo chiamò, voltandosi verso di lui e indicando il carro che avevano portato sul campo di battaglia. «Mostra alla contessa, nonché guida della Santa Romana Chiesa, il nostro dono», proseguì, e ai suoi ordini il biondino tolse il telo che copriva il carico.

Enormi oggetti sferici, dall’aspetto assolutamente sconosciuto a tutti i presenti, fecero capolino e chiunque, eccezion fatta per Leonardo e Nico, li osservò con diffidenza.

            «Da quando avete calcolato i potenziali delle mie armi, mi sono sforzato per aumentare il vantaggio di Firenze», iniziò da Vinci, prendendosi una piccola pausa per dare un altro morso alla sua melagrana. «È questione di matematica, in realtà. Cioè, come ammassare un gruppo di sfere economizzando spazio. E visto che la natura impiega sempre i mezzi più efficaci per raggiungere i suoi fini… ho colto ispirazione da un frutto», e detto ciò, sollevò quel che restava del suo spuntino con la mano, prima di gettarlo alle sue spalle.

Eccolo di nuovo, quell’amaro presentimento che Gemma aveva sentito nel petto.

            «E così ho inventato… la bomba a grappolo», sentenziò l’artista, estraendo dalla tasca della giacca l’oggetto in questione, per poi lanciarlo alla contessa.

Senza esitazioni, la giovane Riario sollevò immediatamente la mano e prese al volo la piccola sfera, rigirandola tra le dita per esaminarla meglio.

            «L’involucro raccoglie esplosivi più piccoli, compattati, come le facce di un solido archimedeo separate da distanziatori in ferro. Così, quando la bomba viene lanciata… si frammenta, creando una fontana di schegge a grappolo».

Più la spiegazione di Leonardo continuava, più la presa della mano di Gemma intorno alla bomba si rafforzava, così tanto che iniziò ad emergere il segno del suo anello sotto la liscia pelle nera del guanto.

            «Ho stimato che ognuna di esse elimina una dozzina di uomini, compresi i cavalli. Tuttavia, una bomba colpisce il bersaglio solo se chi la lancia è abile. Per questo…», e con le parole, Leonardo si fermò. Scelse il silenzio, mentre si voltava per cercare Zoroastro e annuirgli.

Il suo fedele amico, in fondo al prato, gli rispose con un cenno della mano, prima di dare ordine agli altri uomini di scoprire la loro arma segreta. Ed essa, per quanto fosse distante dalla contessa e dal suo esercito, aveva tutto l’aspetto di una balestra ma molto, molto più grande e minacciosa.

Lorenzo era ancora assorto nel suo silenzio, mentre cercava di capire a quale gioco Leonardo stesse giocando. Al contrario di lui, però, Gemma aveva già compreso che la situazione stava volgendo a suo sfavore, e che la sua posizione di potere si stava sgretolando.

Non fece però in tempo ad aprire bocca, che qualcun altro lo fece per lei.

            «Imponente», commentò il capitano Grunwald avanzando leggermente, in sella al suo cavallo. «Ma quel congegno funziona davvero?»

Già per la controparte fiorentina fu una sorpresa vedere un sottoposto della terribile contessa Riario intromettersi con tanta sfrontatezza e rubarle la parola; ma per le guardie provenienti da Roma, fu quasi più sconvolgente della balestra appena scoperta.

Seguirono alcuni secondi di silenzio, durante i quali buona parte dei presenti già ipotizzava quali strazianti torture sarebbero state inflitte ad un soldato tanto insolente. In quella pausa, Nico afferrò la balestra del suo maestro, quella di dimensioni normali, e gliela porse.

            «Ve lo mostro su scala molto ridotta», disse Leonardo.

Giusto il tempo di accendere la miccia e di scoccare la bomba in aria, ed essa esplose in una moltitudine di scintille colorate e scoppiettanti.

            «Va da sé che la vera bomba più grande… non contiene fuochi d’artificio, ovviamente», precisò da Vinci, onde evitare equivoci dopo quello che era appena stato visto.

Il Magnifico cominciò a sogghignare sotto i baffi, improvvisamente fiero del suo ingegnere bellico e ben lontano dagli insulti che gli aveva sputato addosso solo poche ore prima, nella sua bottega. Da Vinci invece lasciò perdere la vittoria, e si concentrò solo sulla rivale che aveva di fronte; ma non per sfidarla o per marcare con lo sguardo l’umiliazione che le stava infliggendo.

Voleva capire che cosa stesse pensando davvero. L’intervento di Grunwald, agli occhi dell’artista, era molto più di un gesto impulsivo da parte del suo braccio destro. Era segno che il silenzio della contessa era apparso così grave e inusuale da spingerlo ad intervenire, contro qualsiasi ordine o insegnamento.

Ragion per cui era del tutto plausibile aspettarsi rabbia, frustrazione, smarrimento, paura.

Che fosse uno scherzo del destino o una maledizione, una condanna a ricordargli quello che le aveva detto, quello che le aveva fatto, ma quelli erano gli stessi sentimenti che Leonardo aveva visto sul volto di Gemma al convento.

            «Siete ancora cerca di non voler trattare una resa, contessa?», le chiese da Vinci, ma con un tono molto più asciutto e pacato rispetto ai suoi soliti.

Ma Gemma aveva sfruttato saggiamente quel lasso di tempo, quel silenzio che Grunwald aveva colmato, ben sapendo il rischio che correva. Nella sua testa si erano susseguiti anni e anni di insegnamenti, addestramenti, lezioni e punizioni, e prime su tutto le parole di Papa Sisto, di quell’uomo che nemmeno lei riusciva a chiamare Padre.

Mai mostrare le proprie debolezze.

Mai provare al nemico che quello era un punto debole.

Mai dargli la soddisfazione della vittoria.

Mai mostrarsi impreparati.

Mai.

Mai.

            «D’accordo», rispose la nipote del Papa, con una calma e una compostezza a dir poco sorprendenti. Soprattutto data la situazione. «E quali sarebbero i termini?»

Il Magnifico aveva ormai iniziato a prevedere il comportamento di Leonardo e, per quanto non approvasse alcuni suoi silenzi in risposta a determinate mosse della contessa Riario, specie se provocatorie, non poteva comunque dargli torto. Dimenticando per un momento il ruolo della giovane donna, quel che rimaneva era un gioiello degno del suo nome.

Lasciò l’ingegnere impegnato a fissare la sua nemica con un’espressione parecchio perplessa, e si intromise.

            «Roma ha ancora dei debiti verso il banco dei Medici. Debiti ingenti», rispose Lorenzo, con un ghigno gongolante stampato sulle labbra.

In silenzio, Gemma rispose con un cenno della mano a continuare. Un cenno privo della superbia con cui la trattativa era iniziata, e il primo cittadino di Firenze sorrise ancora di più nel notarlo.

            «Inoltre, Pisa rientra sotto la giurisdizione di Firenze, quindi la nomina di Francesco Salviati come nuovo arcivescovo non è valida», aggiunse.

            «Dunque cosa proponete, Magnifico?», proseguì la contessa, e fu particolarmente frustrante ritrovarsi dalla parte del perdente, specie per una combattente come lei, abituata a vincere.

            «Sarà la Repubblica di Firenze a nominare il nuovo arcivescovo», sentenziò Lorenzo.

            «Altro?»

Anche solo una singola parola era uno sforzo, per lei.

Quello che molti dei presenti ignoravano, però, era ciò che la stava tenendo ancora in piedi, ciò che le stava dando la forza di mantenere egregiamente intatta la sua maschera di indifferenza e tranquillità, anche in quella posizione di svantaggio. Non era il talento, non erano gli addestramenti, non era il suo bel caratterino.

Era la paura.

La paura delle conseguenze che, ben presto, si sarebbero abbattute su di lei. Perché solo la fuga sarebbe stata una sconfitta peggiore di quel fallimento contro i fiorentini.

            «Rivogliamo le cave di allume che ci avete sottratto», sentenziò il Magnifico.

E finalmente, Gemma colse una piccola occasione di riscattarsi.

            «Cave che sono state svuotate…», mormorò la giovane donna, con un’innocenza ben recitata. Innocenza che, però, centrò il bersaglio quando il de’ Medici si lasciò sfuggire una piccola smorfia di seccatura sul volto. «Ma prego, sono vostre», aggiunse, e quella gentilezza era finta tanto quanto l’ingenuità di poco prima.

            «Le spese di guerra devono essere risarcite», ribatté immediatamente il Magnifico, notevolmente infastidito per aver perso di mano il potere, per un momento. «Solitamente questo spetta al perdente».

            «Per questo particolare dato, dovremmo chiedere all’ingegnere bellico», rispose Gemma, e con l’occasione scoccò un lungo sguardo a Leonardo. Quasi non si sorprese di trovare i suoi occhi già posati su di lei, quando si voltò nella sua direzione.

            «Vi metterò tutto per iscritto, contessa. Non preoccupatevi di questo», mormorò l’artista, ma la questione del denaro era proprio l’ultimo dei suoi pensieri.

Gemma se ne accorse. Si accorse di tutto, ma scelse di andare oltre.

            «E quando potremmo discutere di questi particolari dettagli?», domandò la giovane romana al Magnifico, sperando che fosse l’ultima questione da affrontare prima di potersi voltare e andare via.

            «Terrò un banchetto a palazzo, tra due giorni. Potremmo disquisirne in quell’occasione», propose Lorenzo.  

Che la malizia nella sua voce, nel suo sguardo e nella sua proposta fosse dovuta alla vittoria o ai suoi ben noti appetiti, era difficile a dirsi. Lorenzo era prima di tutto il signore di Firenze, ed era fedele alla sua città; ma non lo era altrettanto nei confronti di sua moglie, e il numero delle sue amanti non era affatto lusinghiero.

Tuttavia, trovarsi sul campo di battaglia dopo una vittoria che doveva tutto a Leonardo e niente a lui, e ciò nonostante lasciarsi andare a pensieri ben poco consoni e casti nei confronti di una delle nemiche più pericolose per la città che tanto decantava di amare… era quanto ti può lontano dal concetto di comportamento lodevole.

E Gemma lo notò. Lo notò eccome.

            «Invitereste il nemico nella vostra stessa città?», chiese lei, sollevando le sopracciglia con scetticismo.

            «Nemico al quale sto offrendo un ramoscello d’ulivo», si giustificò lui, ma senza perdere quel ghigno di soddisfazione che ormai aveva ben stampato sulle labbra.

Non a caso, lo sguardo della contessa Riario continuò ad essere scettico e distaccato, ma dovette comunque accettare.

            «Così sia, dunque», e nel dirlo, Gemma sentì un po’ della paura sfumare. Il banchetto avrebbe sicuramente ritardato il suo ritorno a Roma, e forse le avrebbe offerto un’altra occasione per rimediare.

Non aveva alcuna possibilità di riportare a Sisto una vittoria che ormai era svanita, ma forse poteva ancora trovare il modo di lenire la sua rabbia e calmare la sua impazienza.

Strinse tra le mani le briglie del cavallo, e accennò un inchino per congedarsi. Il tutto, firmato con la sua ineguagliabile eleganza.

            «A presto, contessa Riario», mormorò il primo cittadino.

            «A presto», rispose lei. «Magnifico…», aggiunse, per pura formalità. «…Artista», e a lui dedicò un ultimo sguardo, prima di voltarsi ed andarsene, seguita dal suo esercito.

Lorenzo fece altrettanto, e si allontanò con le sue guardie a fargli da scorta.

L’unico a tardare il ritorno in città, perso in una fitta nebbia di pensieri, domande e perplessità su quello che era appena accaduto, era Leonardo.

Tra tutti i suoi dubbi, di una sola cosa era certo: più aveva modo di conoscere Gemma, e più il mistero che la circondava si infittiva.

 

 

 

Angolo dell’autrice

Buonsalve a tutt* e buonasera!

Torniamo sul campo di battaglia e nell’ambito di trattative e politica, per cui rinnovo l’augurio che mi ero fatta per il capitolo 9 di non avervi annoiata e di aver reso le minacce di qua e le intimidazioni di là abbastanza piccanti e d’intrattenimento.

Intanto quattro schiaffi al Magnifico che ci prova con qualsiasi donna abbia davanti non glieli vogliamo tirare? Così, per insegnargli il valore della fedeltà.

Però l’invito alla festa ormai è sul tavolo, sarebbe un vero peccato lasciarlo lì.

Per questo misterioso banchetto di fine guerra, ci rileggiamo tra due settimane!

Un bacione

Amy W. Gildeary

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Capitolo 12
*** La Forza ***


Il Gioiello del Vaticano
Capitolo 12 - La Forza

 

 

 

Nei Tarocchi, la carta della Forza emana energia interiore, psichica. Ciò che si scatena nel corpo fisico può essere domato. Si uniscono sentimenti e ragione per imbrigliare l’istinto. È intelligenza che sottomette la brutalità. Indica il coraggio tranquillo, la forza spirituale e morale, il controllo. La forza d’animo viene espressa con attività ragionevole.
Al negativo, però, può indicare un eccesso di temerarietà, collera incontrollata. Può significare crudeltà e insensibilità.

 

 

 

La risata soddisfatta di Leonardo risuonò per tutto il corridoio, sotto lo sguardo confuso e perplesso di Nico. Il povero apprendista riuscì a malapena ad annuire, mentre il suo maestro gli spiegava tutti i simboli contenuti nel ritratto di Cosimo de’ Medici, fino ad arrivare alla sua teoria: il Mago altro non era che un Figlio di Mitra, ed ogni dettaglio di quel quadro riprendeva l’invocazione tipica dell’ordine.

            «Sono figlio della terra e del cielo stellato. Di sete son arso. Vi prego, fate che io mi disseti alla fontana della memoria».

Leonardo rise di nuovo soddisfatto, mentre si passava le mani tra i capelli e fissava il dipinto come se avesse appena trovato le risposte a tutte le sue domande.

            «Sembra che tutte le mie ricerche convergano. È… è quasi… una ragnatela immensa, un merletto filato con perizia, talmente vasta e antica che sto cominciando solo ora ad afferrarne il fine», ragionò l’artista ad alta voce, mentre spostava lo sguardo sul ritratto del Magnifico. «Ho… ho dato prova di chi io sia, a Lorenzo, guadagnando la sua fiducia. È ora che lui mi ripaghi il favore», proseguì, più serio.

            «Facendo cosa?», chiese Nico, che intanto doveva ancora elaborare tutte quelle informazioni.

            «Finanziando una spedizione, nella terra indicata sulla mappa dell’ebreo. Con una nave e provviste per il viaggio», rispose da Vinci, con risolutezza. «La Volta Celeste è di certo là fuori, Nico, con il Libro delle Lamine e la conoscenza in esso contenuta. Sento già che mi sta chiamando. E sarà proprio il Mago a condurmici», e mentre lo diceva, corse ad abbracciare il suo apprendista, tanto era preso dall’entusiasmo.

            «Dovremmo parlare con il Magnifico, allora», gli consigliò Nico, ricordandosi solo in quel momento della festa organizzata in onore di Leonardo.

            «Certo, certo», rispose l’artista poco attento, osservando il quadro. «Tu… tu vai pure, io arrivo tra poco», aggiunse, dandogli una pacca sulla spalla.

Il biondino sorrise e si allontanò verso la sala dei ricevimenti, in cui già molti ospiti erano arrivati e aspettavano solamente l’ospite d’onore. Leonardo però preferì rimandare ancora un po’ il suo ingresso alla festa, la sua mente già lontana ad immaginare il viaggio che avrebbe potuto intraprendere.

Era totalmente concentrato ad ammirare il ritratto, quando sentì dei passi lenti e calcolati alle sue spalle, e pensò che qualcuno fosse stato inviato da Lorenzo per trovarlo e portarlo di peso alla celebrazione.

            «Solo un momento, per favore», disse, senza nemmeno voltarsi o distogliere l’attenzione dal quadro.

            «Stavo per chiedervi lo stesso, artista», e Leonardo sbarrò gli occhi all’istante, riconoscendo la voce alle sue spalle.

Lentamente, lasciò cadere l’attenzione per il dipinto e si voltò, trovando la contessa di fronte a sé.

            «Sicuramente omettendo il Per favore, ma la richiesta sarebbe stata la stessa», precisò Gemma, con un sorriso soddisfatto dei suoi.

Leonardo però a malapena la sentì, mentre il suo sguardo la percorreva dalla testa ai piedi. Era a dir poco frustrante come la sua attenzione evaporasse all’istante ogni volta che si incontravano, ma quanto più lui si riprometteva di sviluppare una sorta di immunità nei confronti del suo fascino, tanto più lei si impegnava a distruggere anche la sua più piccola sicurezza.

E se l’aspetto e le provocazioni non bastavano, sicuramente Gemma sapeva come valorizzare al meglio anche il suo corpo.

L’abito che indossava, di un lucido e brillante velluto viola, fasciava ogni centimetro del suo corpo, sottolineando ancora una volta le sue indiscusse doti come guerriera e come i suoi costanti allenamenti la mantenessero in splendida forma.

Il corpetto era succinto ed aderente, fin troppo succinto ed aderente per l’autocontrollo di Leonardo, per nulla aiutato dalla luccicante scollatura, squadrata e tempestata di piccole e luccicanti pietre preziose. La silhouette del vestito le sottolineava il punto vita, avvolto da una fascia anch’essa tempestata di gemme, e seguiva da una gonna morbida e sinuosa.

Allo stesso modo, le maniche erano aderenti dalle spalle ai gomiti, per poi scendere dolci e drappeggiate fino ai polsi. Altrettanto soffici e liberi da costrizioni erano i capelli, acconciati in morbidi e delicati boccoli, appena appena raccolti all’altezza delle tempie, mettendole in risalto il viso e, soprattutto, il trucco degli occhi, leggermente più scuro e marcato del solito. Come se i suoi sguardi non fossero già sufficientemente magnetici.

Leonardo nemmeno si sforzò di interrompere quel silenzio, poco lusinghiero per la sua arroganza, ma sapeva già in partenza che i suoi tentativi di articolare qualche parola sarebbero andati a vuoto.

            «Vedo che nemmeno tentate di opporvi a questo colloquio», commentò Gemma, congiungendo le mani davanti a sé, all’altezza della vita. «Né prestate troppa importanza ad un eventuale ritardo alla festa organizzata in vostro onore».

Prima di ribattere, Leonardo dovette ricorrere ad uno sforzo notevole per recuperare saliva e deglutire, altrimenti quelle che avrebbero voluto essere parole si sarebbero trasformate in mugolii indefiniti.

            «Lorenzo può aspettare», mormorò, sorprendendo addirittura sé stesso per essere riuscito a risponderle.

La vide sorridere soddisfatta e chinare di poco la testa di lato, prima di mordersi il labbro inferiore. E così facendo, distrusse un altro po’ del suo già scarso autocontrollo.

            «Ottimo», mormorò Gemma. «Volete seguirmi?», lo invitò, indicando con un cenno del capo il proseguire del corridoio dei ritratti di famiglia.

Da Vinci nemmeno si sforzò di assecondarla a parole, semplicemente la raggiunse in pochi passi, e la contessa si incamminò lentamente lungo ­­la balaustra.

            «Ho notato che il Magnifico ha particolarmente a cuore questa manifestazione della sua gratitudine nei vostri confronti», esordì Gemma, sciogliendo le sue mani intrecciate solo per congiungerle dietro la schiena, assumendo così una postura estremamente elegante e regale.

L’artista a malapena la sentì: il suo sguardo scivolò lentamente sulla scollatura del vestito e, soprattutto, lungo la linea del collo. Non poté nulla contro i ricordi dell’altra notte, del loro piccolo scontro lungo le vie fiorentine e della sensazione di avere i loro corpi l’uno a contratto con l’altro, senza alcuna distanza.

Aveva dovuto faticare parecchio per scoprire anche un solo lembo di pelle, nascosta sotto la sciarpa e il colletto della camicia, mentre in quel momento ogni barriera era sparita, e Leonardo iniziava a chiedersi se fosse in grado di resistere ad una simile tentazione.

            «Come noto che, al momento, non mi state nemmeno ascoltando», proseguì la giovane donna, scoccandogli un’occhiataccia di rimprovero.

Era più che temprata ad affrontare qualsiasi impedimento, ma la mancanza di attenzione da parte del suo interlocutore era ancora qualcosa che riusciva ad irritarla parecchio.

            «Colpevole», ammise lui, alzando le braccia in segno di resa.

            «Non credete che io meriti la vostra attenzione, Messere?», domandò Gemma, ma più che una domanda suonava proprio come una minaccia.

            «Oh, vi posso giurare che al momento avete la mia completa attenzione», mormorò Leonardo, la voce bassa e roca mentre il suo sguardo la percorreva da capo a piedi per l’ennesima volta.

            «Mi fa piacere saperlo», rispose la giovane Riario, continuando lentamente a camminare. «In tal modo, il nostro incontro procederà senza difficoltà».

            «E quale sarebbe lo scopo di questo incontro, contessa?», domandò Leonardo, avvicinandosi notevolmente al viso di Gemma, in modo da poterle sussurrare quella domanda all’orecchio.

Con una punta di sorpresa, ma senza intaccare il suo atteggiamento sicuro e controllato, la nobildonna interruppe il proprio cammino e si voltò verso l’artista, in modo da poterlo guardare dritto negli occhi.

            «Avervi», rispose semplicemente, con una risolutezza a dir poco disarmante. E a Leonardo si bloccò il respiro in gola.

In un’altra situazione, liberi dai loro ruoli e della loro avversità, probabilmente da Vinci non avrebbe esitato a mandare tutto al diavolo e a cedere, soprattutto di fronte a colei che, ultimamente, rappresentava una delle sue più grandi ossessioni.

Eppure, per qualche misterioso motivo, si ricordò che la contessa Riario era dannatamente brava a manipolare le persone, e altrettanto brava a mantenere l’attenzione sui suoi obiettivi. E, sfortunatamente per lui, ciò a cui lei ambiva era sottometterlo per raggiungere la Volta Celeste e il Libro delle Lamine.

Nonostante tutto, pensarlo non riuscì completamente ad inibirlo, e il suo corpo agì di vita propria, avvicinandosi di qualche passo a Gemma e facendola così indietreggiare verso il parapetto del corridoio.

            «E come pensate di avermi, contessa?», mormorò lui, con una punta di malizia e il suo caratteristico sorrisetto da schiaffi.

Leonardo non si sorprese di vederla comunque calma e rilassata, come ormai in tanti altri loro incontri, ma ancora non aveva rinunciato a tentare di destabilizzarla come lei faceva con lui ogni singola volta.

            «Sono certa di essere in grado di persuadervi», rispose Gemma, anch’ella con la voce ridotta ad un sussurro, e un brivido di soddisfazione le percorse la schiena vedendo l’artista tremare appena, combattuto tra la tentazione di cedere e il buon senso.

            «In questo caso, vi conviene cominciare subito», la incoraggiò da Vinci, con un ulteriore passo avanti, facendo arrivare la contessa con la schiena appoggiata alla balaustra.

Per quanto tentata di prolungare ulteriormente quel loro, ormai tipico, gioco di provocazioni e velate allusioni, Gemma ricordò il vero motivo che l’aveva spinta a presentarsi lì, e decise di accantonare momentaneamente quell’aspetto giocoso per ritornare a questioni più serie.

            «Mentireste dicendomi di aver sempre avuto l'appoggio che i Medici vi stanno dimostrando stasera, e solo per celebrare una vittoria a loro favorevole invece della vostra genialità», iniziò lei, e il leggero indurirsi nei lineamenti di Leonardo le bastò come conferma di aver colpito nel punto giusto. «Ma posso assicurarvi che, seguendomi, riceverete tutto il supporto e le attenzioni che meritate». ­­­­­

Una punta di delusione intaccò il classico sorrisetto arrogante e presuntuoso dell’artista, capendo che dietro ad ogni loro incontro c’era sempre e comunque lo zampino del Vaticano e della missione affidatale da papa Sisto, ma innegabilmente una seconda motivazione stava amplificando quell’amarezza: la consapevolezza che Gemma aveva ragione, che i Medici non si erano dimostrati mai totalmente entusiasti del suo lavoro come ingegnere militare, e che quel fervore era nato solo dopo la vittoria di Firenze su Roma.

La contessa notò immediatamente quell’ombra nello sguardo dell’artista, e ne approfittò per calcare la mano e proseguire.

            «Risorse, fondi, manodopera… Concedeteci la vostra collaborazione, e potrete avere qualsiasi cosa desideriate», mormorò lei, concludendo la frase con un sorriso malizioso.

            «Qualsiasi?», ripeté Leonardo, mentre il suo sguardo le percorreva il viso, soffermandosi inevitabilmente sulle labbra.

            «Qualsiasi», confermò Gemma, le parole ridotte a un sussurro caldo e vellutato.

Lo vide chiaramente combattuto tra la tentazione di rifiutare la sua offerta a prescindere, per la sua fedeltà verso Firenze, e quella di pensare solo a sé stesso e seguire la via più facile. Perché era vero, e lo sapevano entrambi: accettare l’offerta del Vaticano avrebbe ridotto drasticamente i tempi necessari a preparare il viaggio, ma significava anche tradire la fiducia di Lorenzo, dopo tutti i suoi sforzi per conquistarla.

            «Vi basta condividere con noi le informazioni in vostro possesso, e da quel momento non dovrete fare altro che chiedere per avere», proseguì la contessa, inclinando di poco la testa di lato, e a Leonardo bastò uno dei suoi sguardi per sentirsi completamente stordito.

Suo malgrado, l’espressione dell’artista si fece improvvisamente interessata, ma che lo fosse nei confronti di quell’offerta o della persona che la stava proponendo, ancora non lo sapeva.

Gemma intrepretò quella mossa come una reazione positiva, e il suo sorrisetto si fece soddisfatto.

            «Dunque siete disposto ad accettare e a seguirmi senza alcuna esitazione? Ad assecondare ogni mia richiesta?», chiese lei, alla ricerca di una conferma definitiva per sigillare l’accordo.

Nonostante Leonardo sapesse benissimo che quella domanda era riferita alla sua collaborazione con il Vaticano, si ritrovò incapace di ragionare lucidamente, e le parole successive lasciarono le sue labbra troppo in fretta per essere fermate.

            «Per voi farei questo e altro», le rispose, la voce ridotta ad un sussurro e lo sguardo che scivolava lentamente lungo tutto il suo corpo.

            «Esattamente quello che desideravo», mormorò la giovane Riario, in un sospiro che mise a dura prova la concentrazione dell’artista.

Talmente tanto che Leonardo non riuscì a fare nulla per tenere a freno la sua mano, che lentamente scivolò lungo il fianco della contessa, fino a cingerle la vita, e la guidò lontana dal parapetto, verso la colonna alle sue spalle.

            «Sto assecondando bene i vostri desideri, Gemma?», mormorò da Vinci, sporgendosi con il suo corpo tanto da imprigionarla con la schiena contro il freddo marmo del pilastro.

Fu chiaro ad entrambi che l’argomento che aveva aperto la conversazione era ormai un lontano ricordo, ma nessuno dei due mostrò l’intenzione di farlo notare.

            «Avete ampio margine di miglioramento, artista», rispose la contessa, con uno sguardo di finto dispiacere.

            «Permettetemi di dimostrarvi il contrario», ribatté prontamente Leonardo, giungendo ad un soffio dal suo viso.

            «Che cosa avete in mente?», domandò lei, trattenendo a fatica l’istinto di mordicchiarsi il labbro tra i denti.

            «E voi, Gemma?», sussurrò l’artista, lo sguardo concentrato lungo la linea del suo collo, una volta tanto libero dalle costrizioni della divisa vaticana.

            «Io, voi… Stanotte…», mormorò la giovane donna, la voce ridotta ad un bisbiglio.

            «Stanotte, dite?», ripeté Leonardo, con un improvviso nodo alla gola per lo sforzo che stava compiendo nel tenere sotto controllo il suo corpo.

Lo sguardo di Gemma lo studiò con attenzione, prima di essere macchiato da una vena di finta perplessità.

            «La considero l’idea migliore, ma possiamo sempre rimandare, se a voi fa piacere».

            «Io lo farei anche subito», si lasciò sfuggire Leonardo, prima che la gola si facesse troppo secca per dire qualcos’altro.

Invece in Gemma il dubbio si mutò in stupore, a quella risposta, ma tanto quanto prima era evidente la finzione di quelle espressioni.

            «Perdendovi la cerimonia organizzata proprio in vostro onore?», gli chiese.

            «Per avere il privilegio di passare un po’ di tempo in vostra compagnia?», ribatté da Vinci, come se quello fosse un dettaglio tutt’altro che indifferente. «Certamente», confermò con voce roca.

            «Nessuna limitazione, artista. Avremo più tempo di così», lo rassicurò Gemma, riassumendo la sua caratteristica espressione vispa e maliziosa. «Tutta… la notte…», precisò, scandendo molto bene le parole, e a Leonardo sfuggì un pesante sospiro.

Ad ogni respiro di Gemma, l’abito le si stringeva attorno al petto e, per quanto da Vinci si fosse sforzato di mantenere il controllo, a quel punto nemmeno tentò di frenare il suo sguardo dallo scivolare lungo la scollatura del vestito, catturato dal luccicare delle gemme che tempestavano il tessuto.

            «E molto, molto di più», proseguì la contessa, notando immediatamente che cosa avesse catturato l’attenzione dell’artista, e colse al volo l’occasione. «Qualcosa che non implichi l’impedimento causato da quest’abito».

            «Il vestito che avete addosso è magnifico, ma trovo anche io che sia un impedimento», rispose con prontezza Leonardo, la mente improvvisamente affollata da immagini tutt’altro che innocenti.

            «Siamo finalmente d’accordo su qualcosa, dunque», replicò Gemma, con una vena di sorpresa.

            «Sì, lo siamo», affermò da Vinci, avvicinandosi pericolosamente alle sue labbra.

Ma all’ultimo istante chinò leggermente il capo e si spostò, posando un lungo bacio sul collo. Si concesse qualche secondo per inspirare profondamente il profumo della sua pelle, per imprimerlo nella memoria, assieme all’inebriante sensazione di quel contatto con il suo corpo, prima di iniziare a deporre una fitta scia di baci.

Gemma non lo avrebbe mai ammesso, neppure sotto tortura, ma quei tocchi erano deliziosamente piacevoli, delicati ma allo stesso tempo caldi e stuzzicanti. Avrebbe dovuto fermarlo, sapeva che era la scelta migliore, ma appartati in quel piccolo angolino e protetti da occhi indiscreti, si disse che non c’era niente di male nell’aspettare qualche altro momento prima di proseguire la conversazione su un piano più professionale.  

Soprattutto se aiutata dal tepore del respiro di lui sulla sua pelle, dal contrasto tra le sue labbra così calde e la sua pelle così fredda, da quei baci che delicatamente stavano risalendo tutta la linea del collo, verso l’orecchio. ­­­­

            «Sarà mia premura levarlo e relegarlo altrove, non dovete temere», proseguì la contessa, senza accorgersi di aver chiuso gli occhi, soggiogata da quelle attenzioni, né che le sue mani erano corse a percorrere con le dita il cordoncino che Leonardo aveva attorno al collo, legato alla chiave.

Dal canto suo, da Vinci si rese conto di aver firmato la sua condanna a morte nell’istante in cui aveva iniziato a baciarla, perché assaggiarla era solo il principio: non sarebbe mai stato abbastanza, non avrebbe mai avuto la forza di arrivare tanto vicino ad averla per poi desistere.

Ogni pensiero stava sfumando. Svanì tutto quello che non contemplava varcare quella linea e porre fine alle sue strazianti sofferenze, dimenticarsi di tutto e tutti e ridursi a loro due soltanto.

Con ogni probabilità, fu proprio il progressivo sparire di ogni idea anche solo minimamente razionale a sentenziare le parole successive di Leonardo, tra un bacio e l’altro.

            «C’è…», mormorò, prima di posare di nuovo le labbra sulla sua pelle. «…una stanza…», e la baciò ancora. «…inutilizzata…», di nuovo un altro bacio. «…poco lontano», e proseguì, raggiungendo l’incavo del collo.

            «Una stanza, artista?», mormorò Gemma, vagamente confusa. Che lo fosse di proposito, da Vinci non avrebbe mai potuto saperlo, né tanto meno vederlo o notarlo.

            «Una stanza…», precisò, posando un bacio sulla clavicola, vicino alla scollatura del vestito. «…con una scrivania», aggiunse, a bassa voce.

Ignorando il retrogusto amaro che la sorprese, la contessa Riario capì che il punto di non ritorno era ormai troppo vicino; si costrinse quindi a riaprire gli occhi e ad indossare di nuovo il suo ruolo.

            «Temo, purtroppo, che voi abbiate mal compreso la mia proposta».

E a quelle parole, Leonardo sentì il sangue ghiacciarsi nelle vene, ma rimase ancora qualche istante immobile.

            «Avremo certo bisogno di tutta la notte…», proseguì Gemma, a voce bassa. «…per iniziare il nostro viaggio verso Roma».

Il pungente sapore della delusione colpì da Vinci fino in gola e gli diede la forza di allontanarsi, abbastanza da poterla guardare in volto.

            «Ecco da dove arrivava tutta questa vostra accondiscendenza», commentò Leonardo, con un bel po’ di veleno nel tono della voce. «I miei complimenti, contessa, per essere riuscita ad ingannarmi un’altra volta», aggiunse, con una dose non indifferente di sarcasmo.

            «Avete detto voi stesso di essere pronto ad assecondarmi in ogni mio desiderio», ribatté Gemma, in una precisazione che quasi suonava come una giustificazione, e da Vinci risposte con una risata impregnata di amarezza.

            «Ci vediamo ai festeggiamenti, contessa», si congedò lui, allontanandosi definitivamente dalla giovane donna.

Sicuramente non si aspettò di sentire una presa forte e decisa stringersi attorno al suo braccio e trattenerlo lì dov’era.

            «Non così in fretta», lo fermò Gemma, improvvisamente più seria.

            «Che altro c’è?», borbottò Leonardo seccato.

Fu una sorpresa ritrovarsi improvvisamente nel ruolo opposto, quando Gemma lo spinse con la schiena contro la colonna alle sue spalle, e un accenno di stupore trapelò dal suo sguardo.

            «Preferite la schiettezza, artista? Non dovete fare altro che chiedere», iniziò la contessa Riario, con tutta la franchezza caratteristica della sua reputazione. «Roma avrà anche lasciato andare la presa su Firenze, oggi, ma posso darvi la mia parola che non lascerà quella su di voi».

Riconoscendo nient’altro che minacce, Leonardo non fece nulla per celare uno sguardo ben poco amichevole, in risposta, sperando così di incentivarla a concludere il prima possibile quella conversazione.

            «Sono qui per offrirvi una via di salvezza, da Vinci», proseguì Gemma, rivelando definitivamente il vero motivo della sua visita.

            «Preferirei la morte che concedermi a Roma», ribatté immediatamente l’artista, nella speranza di convincerla ad andarsene.

            «Sapete anche voi che esistono destini ben peggiori della morte. E per vostra sfortuna, Roma ne ha già uno in serbo per voi», proseguì imperterrita, sempre più seria. «È la vostra ultima possibilità», sentenziò infine, abbassando il braccio con cui l’aveva bloccato e liberandolo.

In tutta risposta, Leonardo scoppiò in una sonora risata, ma che fosse sincera o un tentativo di fuggire dall’amarezza, non poteva saperlo.

            «Sono certo di avervelo già detto, ma ve lo ripeterò: per nessun motivo, nemmeno per voi o per la vostra cara città, rinuncerei mai alla mia libertà».

L’espressione della contessa si fece piuttosto seccata, enfatizzando quel sospiro annoiato provocato dalle sue parole.

            «Siete stato avvisato», gli rispose, in un tono che suonava come un avvertimento, tanto che Leonardo iniziò a chiedersi se non ci fosse davvero qualcosa sotto, ma scelse di ignorare quel presagio.

            «Dovreste cercare di rilassarvi e di godervi la festa, come farò io», le suggerì, riassumendo il suo tipico atteggiamento sfrontato e presuntuoso. «E mettetevi l'anima in pace: io non mi piegherò mai a voi», precisò, con aria di sfida.

Non si aspettò certo di vederla accennare un sorriso dei suoi, mentre si torturava il labbro inferiore con i denti.

            «Sapete, sono d’accordo con voi», rispose Gemma, inclinando la testa di lato. «Dovreste godervi gli ultimi momenti di libertà che vi restano», precisò poi, tornando più seria.

Leonardo invece scelse di nuovo di ignorare le minacce della giovane donna, e capì che era il momento di porre fine all’incontro.

            «Buona serata, contessa», mormorò, accennando un inchino di cortesia. «Mi aspetto le vostre congratulazioni, a fine serata», aggiunse poi, con un sorrisetto provocatorio.

            «Sono certa che avrete un’interessante sorpresa, prima della fine della serata», rispose invece Gemma, per nulla toccata dalle sue parole o dal suo tono, ma anzi assolutamente calma e tranquilla. «Buona serata a voi, artista», aggiunse, prima di vederlo incamminarsi verso la sala del ricevimento.

Una volta sicura che se ne fosse andato, si incamminò nella direzione opposta, pronta ad incontrare i Pazzi e le Guardie della Notte: la denuncia e l’arresto sarebbero scattati.

 

 

 

Angolo dell’autrice

Buonsalve a tutt*!

Quanti capitoli preferiti mi è lecito avere in tutta la storia? Perché questo non posso non inserirlo nella lista, mi dispiace. Cose dette e non dette, sottintesi più o meno velati, provocazioni verbali e fisiche… Ho un vero debole per tutto ciò.

Ma presto o tardi si deve tornare con i piedi per terra. Nel caso di Gemma verso il suo artista preferito, con delle catene attorno a polsi e/o caviglie, chiuso in una cella del Vaticano. E a tale scopo casca la famosa denuncia, che tra l’altro c’è stata veramente nella storia. Povero Leonardo…

Ci rileggeremo alla fine del mese!

Un bacione

Amy W. Gildeary

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Capitolo 13
*** Gli Amanti ***


Il Gioiello del Vaticano
Capitolo 13 - Gli Amanti

 

 

 

Nei Tarocchi, la carta degli Amanti esprime amore come bellezza spirituale, come legame universale attraverso l’espressione di un sentimento. Simboleggia l’amore puro, gli ideali. Indica i desideri migliori, il potere di scelta, il libero arbitrio.
Al negativo, però, esprime dubbio e indecisione, cose che sono in sospeso e non si realizzano, esitazione, prova attraverso una tentazione.

 

 

 

Leonardo passò per l’ultima volta l’affilata lama lungo il profilo del mento, prima di sciacquarla nell’acqua e gettarla senza cura in un angolo qualsiasi della stanza. Si appoggiò con la schiena alla vasca e rimase in silenzio a fissare al soffitto.

Aveva così tanti pensieri per la testa che non riusciva a decretare quale catturare e seguire, per cui decise che la scelta migliore era ignorare ogni cosa e cercare di distrarsi. Lentamente si lasciò scivolare lungo la liscia superficie alle sue spalle e si immerse completamente nell’acqua, trattenendo il fiato e serrando con forza gli occhi.

Rivide lo sguardo di Lucrezia nell’aula di tribunale, dopo l’emissione della sentenza, e non riusciva a togliersi dalla testa quella fastidiosa sensazione che gli aveva annodato lo stomaco: nel suo sguardo non c’era solo tristezza e pietà, c’era un dolore che la stava mangiando viva, un senso di colpa straziante. E più l’artista cercava di trovare una spiegazione a tutto ciò, più si rafforzava in lui un terribile presentimento.

Quando i polmoni iniziarono a bruciare per lo sforzo, Leonardo riemerse dall’acqua, respirando profondamente per riprendere fiato. Non solo non riusciva a spiegarsi la sua presenza al processo, ma avrebbe proprio fatto volentieri a meno di vederla.

Eppure, in un minuscolo angolo della sua mente, troppo piccolo per essere raggiunto, da Vinci sapeva perfettamente qual era il suo vero desiderio, la persona che effettivamente avrebbe voluto vedere, nonostante gli eventi degli ultimi giorni.

Voleva vederla. Voleva toccarla. Voleva baciarla.

Magari proprio in quella vasca.

Ma scosse energicamente la testa, bloccando la sua fantasia sul nascere. Aveva capito fin da subito l’effettivo piano dietro a quell’accusa, e quei suoi assurdi pensieri erano nettamente in contrasto con lo stato d’animo che avrebbe dovuto avere.

Sbuffò sonoramente e si stropicciò gli occhi con aria stanca. La sua mente stava lavorando troppo e, se non si fosse fermato in tempo, avrebbe ottenuto solo un fastidioso mal di testa.

Per sua fortuna, il cigolio della porta d’ingresso della sua bottega gli fornì un’ottima via di fuga da tutta quella confusione: Zoroastro e Nico avevano già fatto la loro comparsa per assicurarsi che stesse bene, per cui l’unica persona rimanente era Vanessa. Il tempo di un saluto e di qualche rassicurazione, e sarebbe potuto tornare a mollo nell’acqua calda.  

            «Sto bene, Vanessa», esclamò Leonardo, alzandosi in piedi ed uscendo dalla vasca, circondato da deboli filamenti di vapore tutt’intorno al suo corpo.

Riacquistò la sua tipica espressione da artista presuntuoso ed arrogante e si diresse verso le scale, senza preoccuparsi di mettersi qualcosa addosso.

Non appena mise piede sui gradini più in alto, scorse una figura di spalle, coperta dalla testa ai piedi da un semplice mantello nero.

            «C’è una meravigliosa vasca piena d’acqua profumata, al piano di sopra», iniziò Leonardo, più seccato di quanto non volesse sembrare. «E vorrei trovarla ancora calda quando-…», ma le parole gli morirono in gola quando la donna di fronte a lui si voltò.

Gemma impiegò giusto un secondo per perdere la sua aria distaccata ed indifferente, e ancora meno tempo per voltarsi di nuovo di spalle.

            «Artista, è così che accogliete una donna nella vostra bottega?», domandò, il tono della voce fermo ma ben diverso dall’espressione, decisamente più turbata, che aveva in volto. Per sua fortuna, però non poteva essere vista.

            «Dipende dalla donna in questione, contessa», rispose tranquillamente da Vinci, per poi rendersi conto dell’assurdità di quella situazione: avrebbe dovuto sentirsi infuriato, infastidito, o come minimo in imbarazzo, eppure nessuna di quelle emozioni sembrò scalfirlo.

            «Temo di appartenere ad un livello decisamente superiore rispetto alle vostre solite compagnie», commentò la giovane Riario, riacquistando il suo tipico tono tagliente.

Leonardo approfittò di quei pochissimi secondi per acciuffare un paio di pantaloni dal mobile al suo fianco, cercando di essere allo stesso tempo il più veloce e il più silenzioso possibile.

            «La vostra stima nei miei confronti crolla tragicamente, quando non parliamo della mia genialità», continuò a tono l’ingegnere, approfittando delle sue parole per coprire il rumore della stoffa, mentre indossava i pantaloni.

Gemma era perfettamente consapevole di quanto tempo stesse perdendo, ma era più forte di lei: non appena lei e Leonardo iniziavano una conversazione, tutto diventava una gara a chi dei due sarebbe riuscito a prevalere sull’altro. E, purtroppo per lei, azzuffarsi verbalmente con quell’artista era una tentazione irresistibile.

            «Credo che definirla stima sia esagerato», continuò la nobildonna romana, senza riuscire a celare un sorrisetto malizioso sulle sue labbra.

Alle sue spalle non aveva udito altro che silenzio, ma ad un tratto avvertì perfettamente dei passi avvicinarsi a lei, lenti e calcolati.

            «Non la pensavate così quando mi avete supplicato di sottomettermi a Roma», mormorò da Vinci, ormai sempre più vicino alla ragazza.

            «Confondete le suppliche con le minacce, artista», rispose la contessa, combattendo l’irresistibile tentazione di voltarsi.

Non si accorse che l’uomo era ormai alle sue spalle fino a quando non sentì le sue parole ad un soffio da lei, e fu difficile trattenere un sussulto.

            «Nel vostro caso, sembrano coincidere», bisbigliò Leonardo, abbassandole lentamente il cappuccio del mantello.

Era così abituato a vederla costretta in complesse ed austere pettinature quando indossava la divisa del Vaticano, che rimase molto sorpreso nel vedere i suoi capelli completamente sciolti, acconciati in morbidi ricci che sembravano implorare le sue mani di accarezzarli.

La vide mantenere lo sguardo dritto davanti a sé, e capì di essere riuscito a rivestirsi senza farglielo sapere.

            «Ero convinto che nulla riuscisse a turbarvi», la provocò di nuovo, avvicinandosi volutamente al suo orecchio e mantenendo il tono della voce basso e roco.

            «Credete davvero che un pittore sia in grado di turbarmi?», si difese lei immediatamente, ma sapeva benissimo che, finché rimaneva di spalle, dimostrava il contrario.

Decise di correre il rischio, facendo affidamento sulla sua incredibile capacità di celare le sue emozioni, e si voltò lentamente verso l’artista, sostenendo il suo sguardo. Con la coda dell’occhio notò i pantaloni e, suo malgrado, si sentì sollevata.

            «Sapevo che eravate vestito», mormorò la contessa, ritrovata tutta la sua sicurezza.

            «Avete un udito strabiliante o avete sbirciato?», la provocò lui, alzando le sopracciglia con eloquenza.

            «Non sopravvalutatevi, ho visto di meglio», rispose lei prontamente, con uno sguardo di sufficienza.

Suo malgrado, il sorrisetto impertinente ed arrogante di Leonardo crollò di colpo a quelle parole, mentre quello della contessa si fece ancora più soddisfatto.

Gemma lo superò, iniziando a camminare per la bottega e concedendogli qualche secondo per raccogliere i cocci del suo orgoglio infranto. Anche se non l’avrebbe mai ammesso, nemmeno sotto tortura, in cuor suo sapeva che si era spostata solo per non cedere alla tentazione di osservare quanto del corpo dell’artista non era coperto dai vestiti. Inoltre quelle sue prime parole, riguardo ad una vasca di acqua calda che non doveva essere sprecata, suonavano fin troppo stuzzicanti alle sue orecchie.

            «Allora perché siete qui, quando avete evidentemente di meglio da fare?», domandò da Vinci, maledicendosi subito dopo per il tono da cucciolo offeso che non era riuscito a nascondere.

Gemma si destò dai suoi pensieri, decisamente poco consoni alla situazione, ed indossò di nuovo la maschera della fredda ed imperturbabile contessa Riario.

Si voltò di nuovo verso di lui, con un sorrisetto appena accennato, e congiunse le mani davanti a sé.

            «Volevo mettervi in guardia, artista», iniziò lei, con tono freddo e deciso.

            «Avverto una nota di preoccupazione, contessa», rispose Leonardo, ritrovando un po’ della sua tipica arroganza e marcando notevolmente il suo titolo.

Nel mentre, si era concesso alcuni istanti per osservarla. I suoi abiti erano quelli di sempre, la cupa ed austera divisa papale, ma notò come il mantello e i lunghi capelli sciolti coprissero perfettamente il simbolo del Vaticano. Senza quell’emblema cucito all’altezza del cuore, sembrava una fanciulla come tante altre, libera da obblighi e missioni.

E Leonardo si chiese come sarebbe stato conoscerla in altre circostanze. Un giovane uomo che conosce una giovane donna, niente di più.

            «Continuate a sopravvalutarvi», rispose lei con una finta aria dispiaciuta, abbattendo per la seconda volta il sorriso dell’artista. «Permettetemi di essere chiaria», aggiunse, avvicinandosi di qualche passo. «Voi non siete niente di più di un mero strumento, un investimento. Semplicemente, detesto gli imprevisti durante un affare».

Da Vinci avrebbe voluto dirsi turbato, o quanto meno intimidito da quelle parole, ma invece fu distratto da tutt’altro. Il suo sguardo sfuggì al suo controllo ed indugiò ovunque: sul suo viso, sui suoi occhi, sulle sue labbra, sui suoi capelli, sulla sua camicia così accollata. Troppo accollata.

            «Quanto accaduto questa settimana non è altro che la dimostrazione del potere di Roma. Dunque, siete ancora convinto che la vostra fedeltà a Firenze vi manterrà in vita?»

La voce di Gemma lo riportò con i piedi per terra, e lo costrinse a recuperare la sua tipica arroganza, nonostante il duro colpo assestato da un commento in particolare. Un piccolo dettaglio nel discorso della contessa, però, gli fornì una perfetta distrazione.

            «Detestate gli imprevisti?», ripeté l’artista, e la contessa capì immediatamente, dal suo tono e del suo ghigno, che stava per esserle restituito il favore. «Deduco quindi che quell’accusa di stregoneria non rientrasse nei vostri piani», aggiunse lui, avvicinandosi di qualche passo, tanto da costringerla ad indietreggiare per sostenere il suo sguardo.

Gemma avrebbe voluto prendersi a schiaffi da sola: talmente presa dal desiderio di zittirlo a dovere, si era tradita senza nemmeno accorgersene. Doveva trovare al più presto una soluzione o la sua visita di intimidazione le si sarebbe ritorta contro.

            «Ogni cosa è stata attentamente calcolata», rispose la giovane Riario, con il suo tipico atteggiamento freddo e distaccato. «Non avete mai corso il rischio di finire sul rogo».

            «Non riesco a spiegarmi il perché, ma ho la netta sensazione che stiate mentendo», ribatté l’artista, con non poco sarcasmo.

            «Mi assumo io il compito di spiegarvi più accuratamente la situazione: le esplosioni fuori dalla prigione sono state l’imprevisto», iniziò la contessa, incrociando le braccia al petto. «È stato subito chiaro chi ne fosse l’artefice».

Leonardo annuì distrattamente, fingendo di credere alla spiegazione appena fornitagli, ma notò chiaramente i tratti del viso di Gemma: non più rilassati e sicuri, ma tesi e nervosi.

Nonostante tutto, ancora non riusciva a spiegarsi il motivo dietro la sua visita. Evidentemente i Pazzi avevano assunto il comando della situazione, alterando il piano inizialmente elaborato dalla contessa, ma grazie al suo ingegno era riuscito a scappare dalla pena di morte. Ma allora perché la nipote del Papa aveva fatto tanta strada per incontrarlo di persona?

            «Supponiamo, per un istante, che io creda al vostro maldestro tentativo di salvarvi», iniziò lui, con tutta l’arroganza di cui era capace. «Ancora non mi è chiaro il perché della vostra presenza qui, a Firenze, nella mia bottega», continuò Leonardo, e ad ogni parola il suo tono di voce era sempre più basso e la distanza tra lui e la contessa sempre più insignificante.

Gemma tentò di indietreggiare ancora ma si ritrovò con le spalle al muro, letteralmente. Nonostante la fastidiosa sensazione di sentirsi in trappola, recuperò tutto il suo autocontrollo e la sua maschera non si incrinò.

            «Non mi avete ascoltata, artista», mormorò lei, il tono di voce che si era adeguato a quello di da Vinci. «Vi sto mettendo in guardia: questo processo è solo una minuscola dimostrazione di quello che Roma è capace di fare, pur di ottenere ciò che vuole».

            «Ovvero me?», l’anticipò Leonardo, raggiungendola contro la parete. Poggiò una mano a lato del suo viso e l’altra sul tavolino al suo fianco, imprigionandola.

            «Ovvero voi», confermò Gemma, con un sorriso freddo e tagliente.

Dietro al turbamento nel vedere tutte le sue vie di fuga bloccate, la contessa percepì perfettamente qualcos’altro, una sensazione che non avrebbe mai dovuto provare in una situazione del genere, e ancora meno con colui che era suo nemico e bersaglio.

            «Non dovreste avere più cura del vostro strumento?», la provocò da Vinci, sottolineando il modo in cui lei stessa lo aveva definito, poco prima.

Gemma stava per rispondere con una delle sue frasi provocatorie, ma Leonardo avanzò improvvisamente verso di lei, fermandosi solo all’ultimo secondo, ad un soffio dal suo viso, bloccandole così qualsiasi risposta sul nascere. Lo vide indugiare con lo sguardo sulle sue labbra, e il ricordo del loro primo incontro le ritornò in mente con prepotenza.

Leonardo sembrava decisamente intenzionato a raggiungere il suo scopo, ovvero annullare del tutto quella distanza a dir poco logorante; tuttavia, non azzardò alcuna mossa, caricando l’atmosfera di aspettativa.

La contessa Riario rimase in silenzio qualche altro istante, prima che la sua impazienza avesse la meglio.

            «Che intenzioni avete?», mormorò in un soffio, e d’istinto l’artista serrò gli occhi con forza.

I tratti del viso di lui rivelavano chiaramente tutta la sua frustrazione e il suo conflitto interiore, la lotta tra il desiderio di baciarla e il ricordo del suo ruolo in quella battaglia. La contessa lo notò e, per quanto fosse sbagliato, lo provocò ulteriormente.

            «Potrei anche decidere di assecondarvi», aggiunse lei, facendo scivolare lo sguardo sulle sue labbra.

            «Ah sì?», domandò Leonardo con un filo di voce, senza concedersi il tempo di capire se fosse giusto o meno indagare oltre.

            «Chi può dirlo, artista», mormorò Gemma, chinando la testa di lato e mordendosi il labbro inferiore.

            «Non siete tentata dall’idea di scoprilo?», chiese da Vinci, genuinamente curioso, mentre le sue labbra si incurvavano in un sorrisetto dei suoi.

            «Scoprire che cosa?», ribatté la contessa, la voce ridotta ad un sussurro e la mente ormai lontana dal vero motivo della sua visita.

            «Cosa potrebbe succedere…», iniziò Leonardo, avvicinandosi nuovamente al suo viso, fino ad arrivare ad un soffio da lei. «…se sceglieste di lasciarvi andare…», proseguì, mentre le sue mani le cingevano la vita, avvicinandola a sé. «…di pensare a voi stessa, per una volta, ignorando il vostro ruolo e i vostri ordini…», e lentamente iniziò ad accarezzarle i fianchi, risalendo lungo tutto il suo corpo. «…se provaste a dimenticare che sono il vostro bersaglio», concluse in un sussurro, giungendo con le mani al nodo che legava il suo mantello.

            «Ho quest’impressione che voi invece scordiate facilmente che sono vostra nemica», replicò Gemma, fingendosi perplessa.

Eppure, se quella piccola dimenticanza comportava tutto il resto, tutte le attenzioni e tutti i gesti dell’artista per lei, rinfrescargli la memoria sarebbe stato un vero peccato.

            «Perché sono un artista», rispose lui semplicemente, lasciando cadere il pesante mantello a terra.

Da quel punto, le sue mani non si mossero di un centimetro, e si dedicarono al primo bottone della giacca del Vaticano, facendolo scorrere con una lentezza a dir poco straziante fuori dall’asola.

            «Dunque?», domandò la contessa, poco soddisfatta della risposta.

            «Riesco a vedere il mondo con occhi diversi», spiegò lui, continuando il suo percorso, un bottone alla volta. «Lotto contro i limiti, e mi rifiuto di vedere solo bianco o nero, ma cerco anche tutti gli altri colori», continuò, finché la giacca non fu aperta per metà.

            «Continua a non essere una risposta», obiettò Gemma, mentendo spudoratamente: aveva capito perfettamente quale fosse il punto di vista di Leonardo, ma proprio per quel motivo voleva sentirlo proseguire, ascoltare finalmente qualcuno che riuscisse a pensare fuori dagli schemi, che riuscisse…

Quasi trasalì, rendendosene conto.

Che riuscisse a vederla come nessun altro faceva.

            «Potrebbe essere un invito», mormorò da Vinci, mentre le sue abili dita d’artista raggiungevano la seta della sciarpa e si dedicavano al nodo che la affliggeva. «Ad andare oltre i ruoli che gli artefici di questa recita hanno scelto per noi», e anche la morbida stoffa scura che le avvolgeva il collo cadde a terra.

            «Un invito ancora poco allettante, non trovate anche voi?», domandò la contessa, nel tentativo di prendere tempo.

E nel tentativo di calmare quella sensazione di tepore che le stava stringendo il petto. Non sapeva che cosa stesse succedendo, o più probabilmente aveva paura di conoscere la risposta, ma sentirlo parlare in quel modo, di fuggire dalle maschere, dalle menzogne, dalla solitudine… la stava colpendo più di quanto non credesse possibile.

Leonardo si concesse qualche altro secondo di tempo, abbastanza da dedicarsi ai primi bottoni della camicia, prima di rispondere, con le labbra piegate in un piccolo sorriso.

            «Posso renderlo più attraente», mormorò, mentre le dita indugiavano sul prossimo bottone lungo il suo percorso, senza dare segno di volerlo lasciare. «O persuadere la diretta interessata», aggiunse, chinandosi abbastanza da pronunciare le ultime parole al suo orecchio.

            «In che modo, artista?», domandò la contessa, sottovoce, cercando di combattere la tentazione di chiudere gli occhi e abbandonarsi a quello che stava per giungere.

            «Perché rovinare così la sorpresa, Gemma?», ribatté Leonardo, cedendo per l’ennesima volta alla tentazione di baciarla lungo tutta la linea del collo, dall’orecchio a scendere fino all’incavo con la spalla. «È sufficiente un », aggiunse, concentrando le sue attenzioni in un punto ben preciso.

Era pronto a qualsiasi risposta, frecciatina, battutina, offesa… Non si aspettò minimamente di sentirla sospirare e, per quanto si fosse sforzata di soffocarlo, quel piccolo segno di cedimento non passò affatto inosservato all’artista.

Incentivato, le lasciò qualche altro bacio nell’incavo del collo, prima di mordicchiare appena appena la morbida e candida pelle di quel punto tanto sensibile.

            «Solo una volta, Gemma», mormorò, facendola rabbrividire per il suo caldo respiro così vicino al suo corpo. «Un’occasione per fuggire dalle bugie, dagli inganni, dalle manipolazioni…», proseguì, mentre le sue dita ricominciavano a dedicarsi ai bottoni successivi, sfiorandole di volta in volta la pelle.

Nessuna risposta giunse alle sue orecchie, di nuovo, eppure per Leonardo fu un segnale tutt’altro che scoraggiante. Ad un soffio dal suo viso, sentì il suo respiro farsi più rapido e conciso, e questo gli diede man forte per risalire la linea del suo collo, bacio dopo bacio, fino alla guancia.

            «Un’occasione di libertà», mormorò lui, con un filo di voce, prima di lasciarle un lungo bacio sulla fronte.

Gemma stava per cedere. Ormai non poteva più negarlo, lo sentiva fin troppo chiaramente. In gola. Nel petto. Nel cuore.

Quando sentì le labbra piegarsi in un , capì di non avere più alcun controllo su quello che stava succedendo. E la possibilità che le sue difese e i suoi limiti crollassero era un rischio che non poteva permettersi.

            «Attendo il vostro, di », mormorò la contessa, poggiando le mani sui polsi di Leonardo e allontanandoli da sé stessa.

La gola le si serrò dolorosamente, vedendo la delusione tutt’altro che celata sul volto dell’artista, ma si rifiutò di cedere: se fosse rimasta, non se ne sarebbe più andata.

Si limitò a spostare lo sguardo sul suo mantello, che ben presto lasciò il pavimento della bottega, e allo stesso modo Gemma, senza mai voltarsi indietro.

 

 

 

Angolo dell’autrice

Buonsalve a tutt*!

Fa un po’ caldo qui dentro o sbaglio?

E se dico che questo è probabilmente il mio capitolo preferito tra tutti, sbaglio di nuovo?

È una scena che ha preso vita da sola nella mia mente, le parole sono uscite da sole e quando la rileggo mi vengono ancora i brividi. Diciamo pure che Leonardo e le sue proposte sono una bella mina all’autocontrollo di chiunque…

Sarà l’ultimo incontro tra i due nemici, prima della partenza di Leonardo lontano da Firenze. Be’, si sono sicuramente lasciati molto a cui pensare. Entrambi.

Al prossimo capitolo, tra due settimane!

Un bacione

Amy W. Gildeary

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Capitolo 14
*** L'Eremita ***


Il Gioiello del Vaticano
Capitolo 14 - L’Eremita  

 

 

 

Nei Tarocchi, la carta dell’Eremita emana il soffio del sapere, ma anche della tradizione e dell’esperienza. La solitudine e il raccoglimento si mescolano alla saggezza di questa figura, che diviene medico dell’anima, oltre che del corpo. Significa anche riflessione su sé stessi, e sulle situazioni indicate dalle carte vicine. È desiderio di scoprire la verità, ricerca della verità.
Al negativo, però, l’essere taciturno diviene scostante, diffidente, pesante. La misantropia porta alla tristezza, si unisce alla povertà, spesso solo spirituale.

 

 

 

Uno dei suoi ultimi ricordi era il luccichio della moneta d’oro del Turco. Al-Rahim l’aveva fatta roteare su sé stessa su un piatto d’argento e la luce riflessa sulle sue facce aveva abbagliato l’artista.

Leonardo non era riuscito a distogliere lo sguardo e aveva continuato ad osservare quel movimento fluido ed elegante, come stregato. Poi i suoni si erano fatti più distanti e ovattati, gli oggetti intorno al piatto avevano cominciato a dissolversi e la stanza sembrava essersi trasformata in sabbia.

Subito dopo, era in sella al suo cavallo in mezzo al deserto, accompagnato dal misterioso Abissino e dalle sue parole criptiche riguardanti il Libro delle Lamine e il destino del mondo.

I Figli di Mitra non erano proprio capaci di parlare senza usare enigmi.

Poi l’Abissino gli aveva sussurrato una semplice parola: «Svegliatevi».

Il tempo di un battito di ciglia, e da Vinci era nel bel mezzo di un bosco, a cavallo e accompagnato dai suoi fidati amici Nico e Zoroastro. Per qualche secondo rimase tranquillo e imperturbato, come se si fosse effettivamente appena risvegliato dopo una lunga notte di sonno. Però in poco tempo si rese conto che non era nel suo letto, nella sua bottega, nella sua Firenze, ma chissà dove e chissà da quanto tempo.

            «Dove mi state portando?», chiese preoccupato ai suoi compagni.

Nico si scambiò uno sguardo colmo di confusione con Zoroastro, prima di ribattere.

            «Portando voi? Siete voi a condurre noi», replicò il giovane biondino.

            «Cosa?», domandò nuovamente Leonardo, mentre cercava di riconoscere il luogo in cui si trovava, ma senza successo.

            «Ci hai svegliati in piena notte con una delle tue geniali liste della spesa», borbottò Zoroastro, e la sua voce tradì tutto il suo fastidio per l’interruzione del suo prezioso sonno.  «Comprate più magnesio, prendete oscure bevande alcoliche d’Oriente, procuratevi tre cavalli…», iniziò ad elencare, scimmiottandolo.

            «Avete un piano! Non lo rammentate?», tentò di nuovo Nico.

            «Certo! Certo… che lo rammento», mormorò Leonardo, più per convincere sé stesso che non gli altri. «Da quanto tempo siamo…?», ma non ebbe il tempo di concludere la domanda, perché Zo aveva già capito e lo interruppe.

            «Giorni», rispose bruscamente: la sua irritazione era sempre più esternata.  «E sei stato torbo per tutto il viaggio», aggiunse, scoccandogli un’occhiataccia poco amichevole. «Per uno straniero imbecille che si è fatto rapire».

            «L’Abissino», lo corresse Nico, cercando allo stesso tempo di calmarlo.

            «È come… come se mi stessi svegliando», mormorò l’artista, stropicciandosi gli occhi con una mano. Le risposte dei suoi amici erano state tutte troppo vaghe per aiutarlo a ricostruire i suoi ricordi, e l’idea di avere interi giorni completamente cancellati dalla sua mente lo frustrava parecchio. «Ho perso una parte di me nel viaggio», aggiunse, con un filo di voce.

Doveva assolutamente recuperare la memoria, e al più presto possibile.

Ricordava vagamente la visita del Turco nella sua bottega. Ricordava l’assoluzione, la revoca delle sentenze in tribunale. Ricordava gli abbracci di Zoroastro, Nico e Vanessa, per festeggiare la sua libertà. Ricordava il suo piano di evasione e le sue minacce al giudice.

Ma erano tutti frammenti confusi e sconnessi, che non seguivano un filo logico, erano solo piccoli brandelli che piano piano gli comparivano davanti agli occhi.

Eppure, in quel caos, sentiva che c’era qualcos’altro, qualcosa che non riusciva a vedere ma che sentiva mancare. Un momento importante in quella vorticosa giornata.

            «Un’occasione di fuggire dalle bugie, dagli inganni, dalle manipolazioni».

E per un attimo gli parve di vederla di nuovo, di fronte a lui, ad un soffio dal suo viso, con il capo leggermente sollevato verso l’alto per poterlo guardare negli occhi.

Gemma non gli aveva concesso alcun verbale, ma nel suo cuore da Vinci sapeva di aver sentito una parte di lei avvicinarsi a lui, sapeva di aver percepito una vicinanza che era molto più che fisica, e sapeva che quella sera entrambi avevano mosso un piccolo passo l’uno verso l’altra.

Tuttavia, la contessa era scappata. Per un breve momento si erano avvicinati, ma subito dopo lei si era allontanata ed era fuggita via. E la missione di Leonardo in Valacchia era un’altra fuga.

Ciò da cui l’artista non riuscì a fuggire, purtroppo, fu il grosso ramo che lo colpì in piena fronte, ed egli, talmente perso nei suoi pensieri, non ebbe modo neanche di provare a reagire e restare aggrappato al suo cavallo. In un secondo passò dall’essere seduto sulla sella all’essere disteso a terra, in mezzo a foglie secche e sassolini sporchi di fango.

Eppure era un ramo bello grosso, tanto quanto l’albero al quale apparteneva: sarebbe bastata davvero poca attenzione, il minimo, per vederlo ed evitarlo. Per un attimo furono i pensieri di Leonardo, mentre sbirciava dalle fessure dei suoi occhi strizzati per il dolore. Provò a portare una mano sulla sua testa, nel punto in cui si era scontrato con il ramo, ma il dolore parve togliergli qualsiasi sensibilità, e gli sembrò di toccare il nulla.

Nico e Zoroastro, dal canto loro, lo osservarono con un misto di pietà e di imbarazzo, chiedendosi con uno sguardo se fosse il caso di intervenire o di lasciarlo lì a recuperare la sua dignità.

            «Leonardo, hai tempo cinque secondi per alzarti, o ti lasceremo lì dove sei», lo minacciò Zoroastro, guardandolo letteralmente dall’alto verso il basso.

Purtroppo per i due, nessuna risposta di senso compiuto lasciò le labbra dell’artista. Al contrario, solo lamenti per il dolore intervallati occasionalmente da qualche Gemma o contessa mormorati qua e là. Il che fu peggio del non ricevere alcuna risposta.

            «Nico, parti. Lo lasciamo dov’è», sentenziò il moro, afferrando le briglie del suo cavallo e strattonandole con forza.

All’ultimo, però, cambiò idea e scese a terra per raggiungere Leonardo, ancora steso nel manto di foglie e ancora perso nel suo momento.

            «Anzi, aspetta. Prima ho una domanda», esclamò, puntando il dito contro il suo amico. «Quale parte di È tua nemica e le basterebbe un tuo per trasformarti nel suo schiavetto personale non ti è chiara?»

Da Vinci esitò qualche secondo, prima di rispondere.

            «Quella… quella in cui non me lo ha ancora chiesto», mormorò, e forse a causa del dolore la sua mente vagò in libertà, immaginando per un istante uno scenario in cui Gemma gli poneva proprio quella domanda.

            «E in quel caso diresti immediatamente di No, vero?», tentò di nuovo il moro, con un che di disperazione nella sua voce. «Ti prego, dimmi che risponderesti di no», aggiunse sottovoce, serrando gli occhi come se stesse pregando.

Di nuovo, da Vinci si riservò qualche secondo di silenzio per poter pensare, e i movimenti con cui si stava massaggiando la fronte dolente rallentarono, fino a fermarsi completamente.

            «Non ne sarei… così certo», ammise l’artista, con rassegnazione.

            «Santa madre di Dio», commentò invece Zoroastro, e prima di potersi chiedere se fosse giusto o sbagliato, si chinò a terra per lasciare una sonora pacca in testa a Leonardo.

            «Ahia!», si lamentò l’ingegnere, fulminandolo con lo sguardo.

            «Hai perso la testa, amico», ribatté il moretto, sbrigativo. «Non può farti male».

            «La mia testa è al suo posto», si difese invece da Vinci, con un’occhiataccia truce. «E sì, fa male», puntualizzò poi, passando a massaggiare il punto appena colpito. Come se il ramo non fosse stato già abbastanza.

            «Allora è vuota, altro che mente più geniale d’Europa», concluse Zoroastro. Tuttavia, vedendo l’amico ancora steso a terra tra le foglie secche, scelse di provare comunque un minimo di compassione e gli porse la mano per aiutarlo a rialzarsi. «Il fatto che tu sia così ben disposto ad accettare una proposta simile mi fa realmente dubitare della tua genialità».

            «Grazie», borbottò Leonardo, con la voce colma di sarcasmo.

            «Meriteresti un altro ramo in testa, in realtà», aggiunse il moretto, incrociando le braccia al petto e osservando l’amico con aria di rimprovero.

            «Sono solo stato sincero con te», si difese l’artista. «Credevo che tra amici si potesse essere sinceri», aggiunse a voce bassa, spostando lo sguardo a terra.

A quel punto, anche il cinico Zoroastro non poté fare altro che ammorbidirsi.

            «Non è questo il punto», gli rispose, addolcendo il tono della voce. «Il punto è che non… non dovresti pensare a lei come a qualcosa di diverso da una nemica», tentò, usando le parole con molta cautela.

            «Io ci provo, Zo. Ci provo davvero», mormorò Leonardo, con un filo di voce. «Ma non ci riesco», ammise sollevando le spalle, e sul suo volto era dipinta la più impotente delle espressioni.

Ci aveva provato dall’istante in cui aveva saputo che la dama che aveva ritratto a palazzo Medici era l’arma segreta del Vaticano. Ci aveva provato al convento, dopo aver visto tutte quelle vite innocenti sacrificate per la sua crudeltà. Ci aveva provato nel buio vicolo di Firenze, quando gli sarebbe bastato un attimo per ucciderla.

Ci aveva provato ogni volta che si era ritrovato così vicino al suo viso da poter sentire il respiro di lei sulla sua pelle.

Ma puntualmente aveva fallito.

            «La guardo negli occhi, e nel frattempo continuo a ripetermi nella testa che io e lei siamo nemici, eppure non riesco a considerarla tale».

E a quelle parole, così sincere e genuine, Zoroastro non poté non ammorbidire il suo sguardo. Lo stesso fu per Nico che, ancora in sella al suo cavallo, aveva sentito tutto, ed era riuscito a percepire il dolore celato dietro all’ammissione di Leonardo.

            «Niente era mai riuscito ad ossessionarti a tal punto», osservò il moretto, e dopo tanti anni di amicizia, in cui era stato testimone delle peggio fissazioni dell’artista, le sue parole volevano dire molto.

            «Lei è… diversa», mormorò da Vinci, con lo sguardo perso nei ricordi. «Unica».

E tu sei innamorato, avrebbe voluto aggiungere Zoroastro, ma scelse saggiamente di mordersi la lingua.

            «Cerco solo di tenerti alla larga dai guai», provò a spiegargli. Poteva capire il dilemma che lo stava affliggendo, ma questa volta non era un’infatuazione inopportuna che avrebbe comportato al massimo qualche percossa. Cedere a quei sentimenti avrebbe portato con sé conseguenze molto più gravi. «Prima o poi… questo tira e molla finirà e uno di voi due perderà», proseguì, sinceramente dispiaciuto.

In tutta risposta, Leonardo si lasciò sfuggire un pesante sospiro.

            «Lo so, Zo. Lo so», mormorò l’artista, con la voce spezzata. «Quel giorno… quel giorno non so che cosa accadrà», ammise, e non volle nemmeno provare ad immaginarlo. «Ma non posso farne a meno, è più forte di me».

            «Vorremmo potervi dare una mano», si intromise Nico, avvicinandosi ai due amici.

            «Ma non potete», rispose il maestro, con rassegnazione, ma rivolgendo al suo giovane allievo un debole sorriso di gratitudine. «Nessuno può farlo».

            «Non ne farai una delle tue, vero?», chiese Zoroastro, vagamente preoccupato.

Leonardo però parve non sentirlo, lo sguardo ancora perso nel vuoto, e Dio solo sapeva che cosa stesse passando per la testa del geniale artista fiorentino.

Dopo diversi secondo di silenzio, finalmente aprì di nuovo bocca.

            «Magari questa lontananza farà bene», ipotizzò, con una debole alzata di spalle. «Ad entrambi», aggiunse, ma dirlo gli bloccò il respiro in gola.

            «Come no…», borbottò Zoroastro, sarcastico. «Hai la faccia di uno che vorrebbe solo tornare, trovarla, rapirla e scappare via», continuò, dando voce ad un pensiero che lo aveva assillato per tutto il viaggio.

In quella specie di stato di ipnosi in cui Leonardo era rimasto per giorni, prima di risvegliarsi, l’artista non aveva mai detto nulla riguardante la sua rivale romana, ma molto spesso il suo volto aveva tradito i sentimenti che gli stavano dilaniando l’animo. E con ogni probabilità, tornare da lei sarebbe stata la sola soluzione per placare quell’angoscia.

            «Quello sarebbe davvero fantastico», si lasciò scappare da Vinci, ricevendo in risposta due sguardi piuttosto stupiti. La mente più geniale d’Europa stava dando ragione al suo fedele compagno di avventure con tanta facilità, senza neanche una punta di orgoglio?

            «Sai, ti preferisco di gran lunga quando mi dici di chiudere la bocca e di pensarci bene prima di riaprirla e dire altre idiozie», si ritrovò suo malgrado ad ammettere Zoroastro.

Quanto meno, riuscì a strappare a Leonardo un debole sorriso divertito, il che sicuramente non guastò vista la piega che quella conversazione aveva preso.

            «Per una volta ci siamo scambiati i ruoli», ribatté l’artista, portando avanti il gioco.

            «Così pare», gli concesse lui, ma ben presto tornò serio. «Ma come…?», iniziò, ma dovette fermarsi, improvvisamente incerto sul da farsi. Forse non era il momento giusto per porgli quella domanda, forse sì, ma non riusciva a decidere quale scelta fosse la migliore.

            «Ma come cosa?», chiese Leonardo, dopo alcuni secondi di silenzio.

Zoroastro però, ancora incerto sulle parole da usare, si limitò a sospirare e a prolungare il suo silenzio. Così facendo, non fece altro che innervosire ulteriormente l’artista di fronte a lui.

            «Zo, sono certo che tu possa esprimere qualsiasi pensiero ti passi per la testa», lo incitò da Vinci, con una nota di seccatura nella sua voce.

Di fronte a quell’impazienza, il moro capì che forse era meglio continuare quel discorso e, con un po’ di fortuna, ne sarebbe risultato qualcosa di buono.

            «Come puoi essere sicuro che… Insomma, è una guerriera perfettamente addestrata, è un’arma del Vaticano. È fredda, cinica, disposta a tutto. Come puoi essere certo che sia capace di…», ma a quel punto dovette per forza zittirsi, perché avrebbe tanto voluto dire amare, ma non volle calcare troppo la mano. «…di provare dei sentimenti?»

Quella domanda lasciò Nico senza parole e lo portò a chiedersi come sarebbe riuscito a rispondere il suo maestro. Tuttavia, al contrario delle aspettative del suo allievo, Leonardo non si mostrò eccessivamente turbato, come se quello appena postogli fosse un interrogativo legittimo ma altrettanto semplice nella risposta.

            «Io… non lo so, non ne sono certo», ammise l’artista con sincerità. «Ma sono convinto che lei non sia persa completamente. Credo che possa essere salvata», e nel dirlo la vide di nuovo davanti a sé, al convento, quando le sue provocazioni erano riuscite a farla crollare e ad aprire un piccolo spiraglio nella sua maschera.

Non avrebbe mai reagito in quel modo se quelle accuse non l’avessero colpita nel profondo. Se davvero fosse stata priva di rimorsi e disposta ad uccidere degli innocenti senza perderci il sonno, avrebbe liquidato le sue calunnie con non curanza e sarebbe tornata a parlare di affari.

Invece il suo primo istinto era stato quello di mettere mano alla spada, per difendersi da delle parole che le stavano facendo del male. Il suo primo istinto era stato quello di proteggersi.

E se Leonardo ripensava a quello che aveva visto nel suo sguardo, aveva sempre più ragione di credere che ci fosse molto altro che non sapeva, qualcosa nella sua storia che era ben lontano dalla maschera di fredda e cinica arma senza sentimenti. E che avrebbe portato da Vinci a darsi dell’idiota altre mille volte, dopo le accuse che le aveva rivolto.

            «Io vorrei tanto aiutarla, ma lei non me lo permette», confessò, con un filo di voce. «L’ho visto nei suoi occhi, nel nostro modo di rapportarci… l’ho visto in lei», proseguì, in una sorta di monologo con sé stesso. «Alle volte incontro il suo sguardo e trovo che ci sia molto di più della fredda e spietata assassina che lei vuole far credere di essere. Credo che sotto tutti quegli strati di ghiaccio e di violenza ci sia una giovane donna che aspetta solo di potersi mostrare. Ha sofferto troppo per Dio solo sa cosa, e questi sono i risultati».

Come se si fosse nuovamente risvegliato, Leonardo sbatté velocemente le palpebre e sollevò lo sguardo verso Nico e Zoroastro, ricordandosi solo in quel momento che stava parlando con loro. E pochi secondi dopo, ricordò la domanda che aveva dato il via a tutto.

            «Sono convinto che la vera Gemma non sia quella che appare. Quella è solo una maschera. Lei è lì, da qualche parte, ma c’è».

Per un momento, seguì solo il silenzio. Da parte di tutti e tre.

            «…wow», fu tutto quello che uscì dalla bocca di Zoroastro.

Dopo tutto quello che aveva appena sentito, non se la sentì di contestarlo né di dire altro, ma sapeva che una dimostrazione di vicinanza sarebbe stata meglio di qualunque frase di circostanza o di accondiscendenza.

Si avvicinò all’artista e gli poggiò una mano sulla spalla, in un gesto di amicizia. La sua espressione, però, era molto seria.

Dopo qualche altro secondo di silenzio sospirò, con un che di rassegnazione, e gli lasciò un’altra sonora pacca sulla schiena.

            «Sì, sei proprio innamorato», sentenziò, cercando in tutti i modi di trattenere un sorriso divertito. Con la coda dell’occhio, però, vide che anche Nico si era lasciato scappare una risatina per quell’affermazione.

L’unico tutt’altro che divertito dalla situazione era Leonardo, che rimase immobile sul posto mentre i suoi amici si preparavano a ripartire.

Non vedendolo arrivare, Zoroastro si voltò verso di lui e lo osservò con un che di sorpresa.

            «Che c’è? Non dirmi che la mente più geniale d’Europa non l’aveva già capito da solo», protestò con semplicità, come se avesse appena detto che il cielo era blu.

            «Lo ha capito quasi tutta la corte», commentò Nico a bassa voce, facendo ridere il suo compagno di burle.

            «Non… non sono… innamorato», balbettò l’artista scuotendo la testa, dapprima lentamente ma poi sempre più energicamente.

            «Certo, certo», finse di assecondarlo il moro.

            «Zoroastro», lo ammonì l’ingegnere, anche se il suo sguardo truce aveva ampio margine di miglioramento. «Non scherzare».

            «E chi scherza? Mai stato più serio», ribatté lui, facendo spallucce.

            «Io. Non. Sono. Innamorato», ripeté Leonardo, scandendo lentamente le parole.

            «Mmh mmh», fu nuovamente la riposta accondiscendente del suo amico.

Da Vinci capì che continuare quella conversazione sarebbe stata una battaglia persa, e liquidò la questione con un gesto della mano, ma Zoroastro non demorse.

            «Rispondi a questo: se potessi scegliere tra avere il Libro delle Lamine e salvare Gemma dal suo ruolo, cosa faresti?», lo provocò ulteriormente.

            «Ma che diavolo stai dicendo?», sibilò da Vinci, guardandolo in maniera tutt’altro che amichevole mentre risaliva in sella al suo cavallo.

            «Non si risponde ad una domanda con un’altra domanda», lo rimproverò il moro, muovendo l’indice contro di lui come se stesse sgridando un ragazzino disobbediente.

Purtroppo, ottenne solo altro silenzio.

            «Non ho sentito la risposta», lo punzecchiò di nuovo, cercando di soffocare le risate. Anche Nico, poco distante, si stava divertendo parecchio.

            «E non ne sentirai altre sull’argomento», borbottò Leonardo, dimostrando un comportamento più adatto ad un bambino di cinque anni che ad un giovane uomo.

            «In effetti, hai risposto eccome», si corresse Zoroastro, concedendosi una grassa e grossa risata. «Forza, troviamo questo Vlad e andiamocene, così il nostro artista può tornare dalla sua fidanzata», esclamò, drizzandosi in sella al cavallo come se dovesse partire per la più importante delle missioni.

Per qualche minuto, la passeggiata dei tre amici proseguì nella calma e nel silenzio, dando a da Vinci l’illusione che l’argomento fosse stato chiuso e accantonato.

            «La tua è una femmina di cavallo?», domandò Zo, rompendo il silenzio. «Potresti chiamarla Gemma», propose, con un sorrisetto sornione.

            «È un maschio, castrato», rispose Leonardo, con la voce stranamente pacata. «Proprio come te se dirai ancora una parola».

 

 

 

Angolo dell’autrice

Buonsalve a tutt*!

Come state?

Vi ho strappato una risata? Era il momento di scherzare un po’, ma anche di una chiacchierata cuore-cuore, schietta e onesta. Ma solo dopo aver preso un ramo in testa, ovviamente: chissà che non abbia smosso qualcosa nella testolina di un certo artista.

A quanto pare, però, i ruoli si sono invertiti e non è più Leonardo il genio della situazione, quello che capisce sempre tutto con un solo sguardo: Nico e Zo lo hanno decisamente superato in arguzia!

Che dire, ci rileggiamo tra due settimane! C’è una contessa di nostra conoscenza rimasta senza la sua preda.

Un bacione

Amy W. Gildeary

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Capitolo 15
*** La Giustizia ***


Il Gioiello del Vaticano
Capitolo 15 - La Giustizia

 

 

 

Nei Tarocchi, la carta della Giustizia rappresenta la conseguenza logica di ogni azione, poiché è ordine e armonia che scaturiscono dalla natura, alla cui base sta una giustizia universale. Indica integrità morale e spirituale che determinano onestà, disciplina e libertà di spirito. È regola ferrea, è conseguenza di errori. Può significare il giudice, il ministro, l’uomo di legge.
Può anche voler dire resa dei conti, verifica, prova superata, virtù.

 

 

 

Se davvero esisteva un Signore Iddio, un Gesù Cristo portatore della parola divina o uno Spirito Santo, quello era un buon momento per assistere ad una manifestazione terrena del potere della fede.

Nonostante le imposizioni che gravavano su di lei, per via dei suoi legami di sangue con il Santo Padre, Gemma credeva in Dio ed era cresciuta rivolgendogli la sua fede e le sue preghiere.

Sebbene la vita l’avesse messa a dura prova, più e più volte, si era rifugiata nella preghiera e aveva trovato conforto nella speranza che ci fosse un potere molto più grande di tutta l’umanità, una forza inspiegabile che potesse permetterle di dire Tutto accade per una ragione.

Le lunghe e affusolate dita delle sue mani avevano spesso stretto le perle del rosario, in molte preghiere silenziose e condotte nella solitudine che a volte riusciva a ritagliarsi.

Quando il peso del suo ruolo diventava troppo gravoso per poter essere sopportato, Gemma si nascondeva sotto pesanti mantelli di velluto e di broccato e fuggiva via, lontano da Castel Sant’Angelo e da San Pietro, per rifugiarsi in una piccola e anonima chiesa di Roma, una qualsiasi dove nessuno avrebbe pensato di cercarla.

In alcuni momenti di calma in Vaticano, papa Sisto la esonerava temporaneamente dai suoi incarichi e la esiliava a Imola, a governare la città. Per la contessa Riario, però, quelle non erano punizioni, ma preziosi momenti di pace in cui poteva tentare di illudersi di avere una vita normale, di essere solo una nobildonna, una delle poche donne a governare una città.

Anche in quei momenti, la fede era per lei un rifugio sicuro, in cui poteva nascondersi per tentare di scappare dalla realtà.

Da qualche giorno, però, Gemma si era ritrovata più e più volte ad alzare gli occhi al cielo e a chiedersi quale preghiera avrebbe dovuto invocare per essere aiutata dal suo Signore Iddio.

Leonardo era letteralmente scomparso da Firenze, senza lasciare traccia. Da un giorno all’altro, il geniale artista si era dileguato e, dopo aver setacciato ogni angolo della Repubblica fiorentina, i soldati della contessa erano giunti alla conclusione che da Vinci si fosse recato altrove, al di fuori del loro raggio d’azione.

Tuttavia, Gemma non si era persa d’animo. Afferrata una cartina e stesa sul tavolo del suo studio, aveva tentato di pensare come Leonardo e aveva individuato alcuni punti in cui proseguire la sua ricerca; un minuto dopo, dozzine di soldati e agenti del Vaticano erano stati sguinzagliati secondo le direttive della contessa Riario.

Fortunatamente, papa Sisto era troppo impegnato a inveire contro Lupo Mercuri e a maledire in modo molto colorito il Magnifico, per via della sua missione diplomatica a Urbino, per potersi accorgere della momentanea sparizione dell’ingegnere bellico di Lorenzo. E soprattutto, per accorgersi del fallimento di Gemma nel sorvegliarlo e nel convincerlo a prostrarsi al servizio della Santa Chiesa.

Ciò nonostante, la pazienza della giovane donna era stata messa a dura prova già molte volte negli ultimi mesi, e continuava a sfumare ogni volta che un suo agente metteva piede nel suo studio per portarle cattive notizie.

Quel pomeriggio, però, sembrava promettere una svolta. Alcune guardie svizzere avevano iniziato a parlare di un certo artista catturato in territorio francese, e in breve tempo la notizia era giunta alle orecchie di Gemma e del suo fedele braccio destro, Grunwald. Sollecitati a parlare, alcuni soldati le avevano promesso una conferma da lì a poche ore, seguita subito dopo dall’arrivo di Leonardo alle porte di Castel Sant’Angelo, legato e prostrato ai suoi piedi.

La contessa non voleva gioire prima del dovuto, ma quella poteva essere la fine della sua missione e delle minacce di Sisto, per cui non poté fare a meno di rifugiarsi nel suo studio e di rivolgere una preghiera al Signore, implorandolo di porre fine a quell’agonia. Ogni suo errore poteva facilmente diventare l’ultimo, e vivere con quel terrore nel cuore non poteva chiamarsi vita.

Fece appena in tempo a riporre il rosario nello scrigno, quando Grunwald fece il suo ingresso nello studio.

            «Contessa Riario», la chiamò lui, con un cenno di riverenza del capo.

            «Capitano Grunwald», rispose lei, congiungendo le mani davanti a sé. «Prego, potete entrare».

Non avendo previsto alcun viaggio o uscita, quel giorno Gemma aveva congedato le sue servitrici prima del solito, senza permettere loro di concludere la sua acconciatura. Alcune morbide trecce le raccoglievano delle ciocche lontane dal viso, ma lasciavano il resto dei suoi capelli liberi da costrizioni e morbidi lungo la schiena.

Sul campo di battaglia o in missione, la giovane donna aveva bisogno di pettinature più pratiche e composte, ma in altre situazioni poteva concedersi qualche piccola libertà. E dopo anni al suo servizio, anche Grunwald avrebbe preferito per lei una vita più serena, una vita molto diversa da quella che doveva condurre l’arma più potente del Vaticano.

            «Il messaggero che state aspettando dovrebbe arrivare tra pochi minuti», le comunicò, sperando di vedere una scia di sollievo sul suo volto.

            «Molto bene», rispose Gemma. «Restate pure. Avute quelle informazioni, ci accorderemo sul da farsi».

Il capitano annuì e la raggiunse accanto al suo scrittoio, con una mano già pronta sull’impugnatura della spada. Che fosse solo la forza dell’abitudine o un celato desiderio di difenderla, non avrebbe saputo dirlo nemmeno lui.

Vista la portata delle notizie che dovevano giungere in Vaticano, Gemma si aspettava di sentir bussare alla sua porta in maniera forte e decisa, non così debole da essere a malapena udibile.

Per un attimo si rivolse a Grunwald con uno sguardo confuso e scettico, vedendo nel volto del soldato la stessa diffidenza.

            «Prego», disse lei con fermezza, e d’istinto strinse le mani l’una nell’altra, cercando di resistere all’impulso di afferrare un qualsiasi oggetto dalla sua scrivania per stringerlo bruscamente tra le mani.

Dovette attendere qualche altro secondo prima di vedere la porta aprirsi, secondi che non fecero altro che innervosirla ancora di più.

            «C-con-contessa Ri-ario…», balbettò intimorito il piccolo messaggero.

Era di bassa statura, pallido come un fantasma e con il viso imperlato di sudore: considerata la fresca temperatura nella stanza, di sicuro non era una conseguenza dovuta al clima.

Il valletto chiuse la porta alle sue spalle ma vi rimase così appresso da poter lasciare la sua sagoma impressa nel legno, e nel mentre le sue mani tremolanti corsero a togliersi i capelli dalla fronte.

            «Sono proprio io, in carne ed ossa», rispose Gemma, con il suo caratteristico tono tagliente. «La stanza è molto grande e poco affollata. Non c’è bisogno che vi castighiate in un angolo», aggiunse, con falsa gentilezza.

A sottolineare il velato ordine, lo convocò con un cenno della mano a raggiungerla davanti al suo scrittoio.

Sperando di non essere notato, il messaggero prese un lungo e profondo respiro prima di obbedire alla richiesta della contessa. Tuttavia, lasciò ancora qualche passo di distanza tra lui e una donna il cui desiderio di mettere mano allo stiletto era sempre più visibile in volto.

            «Sto aspettando», lo informò Gemma, e fu la sua ultima frase di cortesia prima di passare alle minacce.

            «E-ecco… d-da V-vin-ci…», iniziò lui, con un filo di voce. «E-ecco, l-lui…», ma fu interrotto dalla contessa.

            «…è qui fuori e attende solo che voi lo annunciate prima di essere portato davanti a me in catene?», chiese lei, retoricamente. Quello stampato sul suo viso era il più falso dei sorrisi, ma fu ben compensato dallo sguardo truce che Grunwald rivolse al valletto; giusto in caso il piccoletto fosse lento di comprendonio.

            «…l-lui», tentò di nuovo il messaggero, ma prima di poter esitare ancora vide gli angoli della bocca di Gemma abbassarsi sempre di più, e il suo istinto di sopravvivenza gli strappò le parole di bocca. «…n-non è stato trovato, mia Signora», mormorò flebile.

Quel silenzio parve durare in eterno.

Grunwald rimase immobile al suo posto, pronto ad eseguire all’istante qualsiasi ordine; il valletto invece non osò alzare lo sguardo dai suoi piedi, neanche per un secondo.

Il mondo poteva anche essersi fermato, per quello che potevano saperne i presenti in quella stanza. Nemmeno la natura, appena fuori dalla finestra, parve azzardarsi a fare rumore.

            «Come, prego?», domandò Gemma infine, la voce calma e pacata.

Non sentendo tracce di ira, l’ultimo arrivato parve ritrovare un po’ del suo coraggio e rialzò lo sguardo verso la contessa. La vide serena, i lineamenti distesi, e quello che poteva tranquillamente essere un accenno di sorriso.

            «Ecco… la soffiata su da Vinci in territorio francese… si è rivelata falsa», rispose lui, concludendo la frase con un leggero inchino di scuse. «…non lo abbiamo trovato».

Seguirono altri istanti di silenzio.

Se prima quell’accenno di sorriso era stato di rassicurazione, ora iniziava a diventare vagamente inquietante, come un presagio di sventure. Il piccoletto cercò di trovare una via di fuga spostando lo sguardo sul capitano, ma vide solo un’espressione molto minacciosa che lo convinse a scegliere di guardare di nuovo il pavimento.

Era già pronto a pregare e a supplicare per avere salva la vita, quando accadde l’inaspettato.

Gemma rise.

Scoppiò a ridere come se si trovasse nel mezzo di un’amichevole conversazione con altre dame di corte, tutte troppo disinibite da qualche bicchiere di vino in più per poter rammentare le regole dell’etichetta.

            «Come avete detto?», domandò la giovane romana, ridendo. «Non lo avete trovato?»

Cercando di vincere la paura suscitatagli da quell’improvviso cambiamento d’umore, il valletto scosse la testa.

            «P-purtroppo no, contessa», balbettò con incertezza. «Non… non sappiamo dove si sia recato».

            «Nemmeno una vaga idea?», domandò di nuovo Gemma, con un tono dispiaciuto che fu presto sostituito da un’altra risata, mentre si alzava in piedi.

            «Sono… s-siamo, contessa. Siamo…», si corresse il messaggero. «…tutti mortificati per questo… fallimento», e quell’ultima parola uscì dalla sua bocca come una sentenza di morte.

Gemma finalmente calmò la sua risata e si limitò ad un largo sorriso sul suo volto.

            «Mortificati», ripeté tra sé e sé, abbassando lo sguardo. «Mortificati…», mormorò di nuovo, e lasciò calare il silenzio.

Il pugno che tirò sullo scrittoio fu così forte che scosse perfino Grunwald. Il giovane valletto invece non tentò neanche di soffocare un urlo di terrore.

            «Mortificati?!», gridò Gemma, con una tale rabbia nella voce che il piccoletto indietreggiò subito verso la porta. «I miei soldati falliscono di nuovo così miseramente, ed è questo tutto quello che riuscite a dirmi?!»

            «Contessa…», tentò di avvicinarla Grunwald, ma lei lo distanziò immediatamente con un secco gesto della mano.

            «Giorni e giorni di ricerche e di spedizioni, e venite a dirmi che un artista da quattro soldi è riuscito a lasciare l’Italia senza battere ciglio?»

Per la rabbia, Gemma tirò un secondo schiaffo contro lo scrittoio, ma non sentì nemmeno una punta di dolore superare la rabbia che le stava bruciando in corpo.

            «P-poss-possiamo…», tentò di dire il valletto, probabilmente per proporle una nuova spedizione, ma il capitano lo fulminò con lo sguardo e il giovane non proferì altro.

            «La totalità delle mie risorse e del mio tempo investita in questa ricerca, per tornare qui con un pugno di mosche? Vi sembra forse accettabile?», esclamò di nuovo la nipote del Papa, la voce così spezzata dalla collera da farle male in gola.

            «Contessa, possiamo tentare di nuovo», le disse Grunwald, nel tono più fermo possibile.

            «No!», gridò Gemma, voltandosi di scatto verso di lui. «No, io non tollererò alcun tentativo, non più. Io voglio risposte, voglio risultati, e li voglio adesso!», sibilò, puntando il dito contro la superficie lignea ad ogni parola.

Approfittando di quel breve margine d’azione, il povero messaggero dimenticò completamente l’etichetta e fuggì via dallo studio senza pensarci due volte. La contessa lo degnò appena di uno sguardo infastidito, prima di tornare a pensare alla missione.

Era stato tutto inutile. Tante ricerche, tanti tentativi per capire quale direzione avesse preso da Vinci, tante energie, eppure erano di nuovo al punto di partenza. E tutto per colpa di quel surrogato di giullare armato di pennelli.

            «Miserabile sciagurato…», sibilò lei, rivedendo davanti a sé quel ghigno di soddisfazione che era la sua firma.

            «Contessa Riario», tentò di nuovo Grunwald, facendo appello ai titoli per richiamare la sua attenzione.

            «Io non lo accetto», mormorò Gemma, a voce così bassa che il capitano fece fatica a sentirla. «Io non posso accettarlo», disse di nuovo, a voce più alta. «Non posso, e non lo farò».

            «…contessa?», provò lui, ancora, avvicinandosi di qualche passo.

            «Devo trovarlo», si ripeté, annuendo, come se stesse seguendo un discorso tutto suo. «Devo trovarlo, e costringerlo alla resa, a qualsiasi costo».

A quel punto, Grunwald lasciò perdere i limiti del consono e si spinse oltre un confine che molto raramente si concedeva di superare.

            «…Gemma?», la chiamò, usando volutamente il suo nome.

Il piano parve funzionare, e per un attimo la giovane donna si sentì distratta dal suo monologo e la sua attenzione fu finalmente catturata.

Grunwald la vide voltarsi verso di lui, ma ciò che vide in lei non fu solo rabbia e determinazione. Non vide la forza che distingueva Gemma da tutti gli altri, non vide quel fuoco bruciante che la rendeva semplicemente unica agli occhi altrui.

Vide paura.

Data la reputazione di Sisto IV, era una reazione comprensibile dopo aver ricevuto la notizia di un altro fallimento da parte dell’esercito romano e della sua guida.

Ma Grunwald conosceva il terrore che Gemma provava nei confronti del Santo Padre, e non era quello il caso.

Lei invece temeva di aver capito qual era la paura che le stava stringendo il cuore. Ben poche cose potevano spiegare quel sentimento angosciante e straziante che sentiva stringerle il petto.

Era paura verso tutt’altro.

Paura di provare qualcosa. Di nuovo.

            «Devo vincere», mormorò la contessa, con un filo di voce. «Non posso permettermi altrimenti».

 

 

 

Angolo dell’autrice

Buonsalve a tutt*!

Dopo lo smarrimento di Leonardo, lontano da Firenze e da Gemma, era il turno della nostra contessa di trovarsi faccia a faccia con la situazione, senza un certo artista dalla mente geniale da minacciare di persona.

L’idea iniziale per questo capitolo era un po’ diversa, ma poi ci ho visto una bella occasione di approfondire la storia di Grunwald e il rapporto tra lui e l’arma preferita di papa Sisto, e devo dire che mi è piaciuto molto questo rapido passaggio ‘impazienza-risata isterica-rabbia fuoriosa’ di lei per l’imprevisto dato dalla partenza di Leonardo.

E con i due piccioncini divisi e lontani l’uno dall’altra, vi do appuntamento non fra due ma fra tre settimane. Diciamo che per rispettare la solita cadenza umm… dovrei litigare un po’ con… il fuso orario.

Un bacione

Amy W. Gildeary

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Capitolo 16
*** Il Sole ***


Il Gioiello del Vaticano
Capitolo 16 - Il Sole

 

 

 

Nei Tarocchi, la carta del Sole rappresenta la luce simbolica che salva, che rivitalizza. È la ragione che illumina lo spirito. Indica armonia, amicizia, generosità, felicità. Inclina alle arti e ai talenti. Dona chiarezza di ragionamento e di giudizio, dona onori e successi.
Al negativo, però, indica eccessi di frivolezza, idealismo falso, sacrificio. Può essere indicatore di aggressività, di permalosità e di mancanza di senso pratico.

 

 

 

Nonostante le frequenti raccomandazioni di Andrea, Leonardo non aveva ancora rinunciato definitivamente alla pratica di fumare oppio. Credeva fosse una buona idea per riuscire a fare ordine nei suoi pensieri, ma come suo solito aveva esagerato e le palpebre iniziavano ad essere sempre più pesanti.

Doveva resistere e restare sveglio. Era a Roma per trovare la seconda chiave e aveva ancora moltissimo lavoro da fare, mappe da esaminare, piani da elaborare.

Tuttavia, i suoi tentativi di concentrarsi sulla miriade di fogli che aveva sparso sullo scrittoio furono vani. Istante dopo istante, si rese conto che i contorni stavano sbiadendo e che le linee dei disegni erano ormai un groviglio confuso.

Si ritrovò a poggiare la testa contro il tavolo senza nemmeno accorgersene, caduto in un sonno profondo, ma turbato. Sentiva solo vagamente le dita delle mani agitarsi, di tanto in tanto, come percorse da deboli tremiti. Tutte le informazioni acquisite nelle ultime ore gli affollavano la mente, ma da Vinci non riusciva a concentrare la sua attenzione su qualcosa in particolare; l’unica cosa che poteva fare era lasciare che quel brusio lo attraversasse, senza opporre resistenza.

Uno spasmo più forte degli altri gli percorse il braccio, tanto da fargli urtare un oggetto poggiato lì accanto. Il suono del vetro in frantumi riuscì a destare l’artista dal torpore, ed egli alzò la testa di scatto, spalancando gli occhi. Cercò con lo sguardo la causa di quel rumore, e quasi sobbalzò dalla sedia quando si rese conto che si trattava di una piccola ampolla, un tempo piena di sangue.

Sangue che, in quel momento, si stava espandendo copiosamente sui fogli che ricoprivano il tavolo. Era impossibile che un oggetto così piccolo contenesse tanto liquido, eppure in breve tempo tutto lo scrittoio fu impregnato di quel fluido scarlatto, rendendo illeggibili le mappe del Vaticano.

Poco importava: Leonardo era più che capace di riprodurre tutto a memoria; eppure quella scena lo agitò notevolmente, gravandolo della sensazione di avere un peso addosso che minacciava la sua possibilità di respirare.

L’ampolla era ridotta in frantumi, ma il sangue continuò a scorrere, inzuppando ogni lembo di carta lungo il suo cammino, fino a giungere ai bordi del tavolo, gocciolando sul pavimento. In mezzo a tutto, da Vinci intravide il suo quaderno, accuratamente avvolto dalla pelle che ne faceva da copertina. Nel momento in cui si ricordò quello che conteneva, in particolare su una delle tante pagine, tentò di balzare sul tavolo e di salvarlo da quella rovina, ma prima di poterlo afferrare il sangue lo raggiunse.

Nello scatto, la chiave che aveva al collo venne spinta avanti per poi ricadergli sul petto, attirando lì lo sguardo dell’artista. Solo allora si accorse che anch’essa era macchiata di sangue, e la prese tra le mani per cercare di ripulirla.

I movimenti, inizialmente nervosi e concisi, si fecero via via più lenti e deboli, mentre lo sguardo di Leonardo tornava sul tavolo davanti a lui, insieme ad un terribile senso di inquietudine nel petto.

Solo allora capì, e riuscì a dare un nome a quel sentimento: era incertezza.

Nonostante gli piacesse vivere in un mondo tutto suo, convinto di riuscire a combattere le leggi e le regole, di poter agire senza limitazioni, sapeva che la realtà era molto diversa dalla sua immaginazione e, senza dubbio, molto più crudele. Ogni cosa aveva un prezzo, e la ricerca della conoscenza rischiava di chiederne uno troppo caro.

Il sangue davanti a lui ne era la prova.

Non aveva esitato a gettarsi a capofitto in una ricerca ben più grande di lui, a lasciarsi ogni altra cosa alle spalle, raccontandosi di non aver bisogno di altro che non fosse la libertà. E continuava a ripeterselo, ogni qual volta il benché minimo dubbio lo assaliva.

Ma in quel momento, in una dimensione che era molto lontana dalla realtà e dalle menzogne che egli stesso si raccontava, poteva permettersi di dirsi la verità, e di dimenticarla una volta risvegliato: non era più così sicuro di voler proseguire.

Ogni progresso, ogni passo verso il tesoro che stava cercando, non avevano portato altro che sofferenza e distruzione, e più lui si avvicinava a trovare la strada, più le conseguenze erano devastanti.

Riabbassò lo sguardo sulla sua chiave, percorrendo con le dita il cordoncino che dal collo scendeva fino al freddo metallo, in un gesto che sapeva di amarezza e di nostalgia. Perché una sola persona aveva fatto lo stesso, in più di un’occasione, e quella stessa persona incarnava al meglio le sue strazianti incertezze.

Sentì dei passi alle sue spalle, lenti ma costanti, dapprima lontani poi sempre più vicini, fino a quando non poté scorgere una figura indistinta al suo fianco, con la coda dell’occhio.

            «Crediamo sempre che siano la vita e le sue prove il nostro peggior nemico», e Leonardo per un momento chiuse gli occhi, cullato da quella voce che non ascoltava da troppo tempo. «Ma non ci rendiamo conto che è la verità il più grande degli ostacoli».

L’artista riaprì lentamente gli occhi, e altrettanto lentamente si voltò al suo fianco, verso l’artefice del suo tormento più straziante.

Di fronte a lui, la contessa Riario non era costretta nella divisa del Vaticano, né in un contegno considerabile consono all’occasione. Era semplicemente Gemma, illuminata solamente in viso, mentre il resto della sua figura era celato sotto un pesante mantello di velluto nero, con un cappuccio decorato da piccole pietre preziose lungo il bordo.

Niente però nascose la sua espressione, così diversa da quella che aveva indossato nei loro precedenti incontri. E scontri.

Stava sorridendo; debolmente, ma stava sorridendo. L’espressione libera da malizia e scaltrezza, quasi… serena.

Leonardo non ebbe alcun controllo sul suo corpo quando si ritrovò spinto nella sua direzione; le mani corsero senza esitazione all’orlo del cappuccio, facendolo scivolare via dal suo volto e scoprendo così una cascata di tanti piccoli diamanti tra i morbidi capelli castani della giovane donna.

La sua mente era così affollata di parole, ma nemmeno una riuscì a raggiungere le sue labbra, e si ritrovò suo malgrado ad osservare Gemma in silenzio, a studiare ogni minimo dettaglio, ad imprimerlo nella sua memoria per l’eternità.

            «Che cosa vi ferma, Leonardo?», mormorò la contessa con un sorriso dolce, così estraneo all’atteggiamento che aveva sempre dimostrato.

Da Vinci cercò di nuovo le parole, ma la sua voce era misteriosamente sparita, forse incapace di donarsi ai troppi pensieri che lottavano per essere espressi. Tutto ciò che fu capace di fare fu scuotere la testa, accennando un debole sorriso, mentre la sua mano risaliva lungo il profilo del volto della giovane donna, fino a sfiorare una delle tante gemme tra i suoi capelli.

            «Cercate di soffocare quelle sensazioni, ma forse dovreste concedere loro la vostra attenzione», continuò Gemma, nel tentativo di incoraggiarlo.

            «Temo di aver già compreso…», mormorò Leonardo, con amarezza e un sospiro sconsolato. «E pensarci mi fa mancare la terra sotto ai piedi».

La contessa sollevò delicatamente una mano da sotto il pesante velluto nero, e cercò quella dell’artista, per stringerla con forza nella sua.

            «Che cosa è in grado di tormentarvi in questo modo?», chiese Gemma, ma il suo tono era più un invito che una vera domanda, e il suo sguardo era quello di una persona che conosce già la risposta.

            «Voi», mormorò Leonardo, accarezzandole il dorso della mano con il pollice.

La contessa sorrise, e lo fece con una dolcezza a dir poco disarmante, così potente da strappare all’artista stesso il medesimo sorriso.

            «Siete… un mistero», proseguì da Vinci, osservandola di nuovo come se fosse la prima volta. «Forse il più grande mistero con cui io abbia avuto a che fare».

            «E siete davvero certo che ogni mistero meriti di trovare la verità?», domandò lei, tornando più seria.

Il giovane artista sospirò, e a malincuore lasciò la sua mano, ma solo per avvicinarsi pian piano al tavolo e vedere i suoi appunti ormai illeggibili. Allungò una mano verso il suo prezioso quaderno, e lentamente sciolse il nodo che stringeva la pelle della copertina attorno ai fogli ingialliti e consumati.

Non si sorprese di trovare molti di essi macchiati, ma la sua impazienza lo portò a sfogliarli velocemente, fino a giungere ad un punto preciso, un punto che era stato il suo solo ed unico pensiero, la sua sola preoccupazione, mentre il liquido scarlatto dell’ampolla distruggeva ogni indizio raccolto. Rimase sorpreso quando trovò quel ritratto ancora intatto, i tratti della matita perfettamente delineati e nitidi, come la prima sera in cui erano stati tracciati sulla carta.

Di nuovo udì dei passi alle sue spalle, e di nuovo Gemma lo raggiunse, aspettando pazientemente al suo fianco. Eppure, fu certo che lei stesse sorridendo.

            «Ne vale la pena?», mormorò Leonardo, con un filo di voce, stupendosi di essere riuscito a dare forma a quel pensiero con tanta facilità.

Si voltò verso di lei, l’espressione improvvisamente combattuta, sofferente, dilaniata da una domanda che lo assillava ogni giorno di più, ma a cui non riusciva a dare una risposta.

            «Tutta questa distruzione, tutta questa sofferenza, tutto questo odio…», continuò lui, ripensando a tutto quello che era successo da quando quella ricerca aveva avuto inizio. «Vale davvero la pena soffrire tanto?»

Gemma lo guardò con lo stesso dispiacere e lo sguardo colmo di compassione, come se riuscisse a capire perfettamente quale terribile tormento lo straziasse tanto.

Come se anche lei fosse vittima della stessa tragica disgrazia.

            «Perché io non ne sono più così sicuro», mormorò infine Leonardo, abbassando lo sguardo sul ritratto.

            «Non è la conoscenza il bene che più agognate?», domandò Gemma.

L’artista non riuscì a trattenere una lieve risata, a quella domanda. Negli ultimi tempi, si era consolidata in lui la convinzione che l’infallibile Gemma Riario fosse sempre pronta ad ogni imprevisto, sempre capace di trovare una via di fuga, di scovare la verità dietro ad ogni quesito. Eppure, in quel momento, la risposta a una domanda del genere sembrava così scontata che la perplessità che le vedeva in volto fu quasi comica.

            «Non sono più sicuro nemmeno di questo», rispose infine, rialzando lo sguardo solo per posarlo su di lei, sui suoi occhi, sul suo viso, ed infine sul piccolo fiocco che chiudeva il suo mantello, proprio in corrispondenza della gola. Sembrava stretto, quasi soffocante, così tanto che per un momento Leonardo stesso si sentì mancare l’aria.

            «Dunque cosa desiderate, per davvero?», chiese la contessa, genuinamente curiosa, strappandogli un altro sorriso.

L’artista si prese qualche istante di silenzio, prima di rispondere.

            «Svelare un mistero», rispose, annuendo con convinzione. «Ma non quello che avvolge il Libro delle Lamine», precisò poi, muovendo un passo più vicino a Gemma.

La sua attenzione venne catturata dal quaderno che ancora stringeva tra le mani, e in particolare dalla pagina su cui era ancora aperto.

            «Qual è tale mistero?», lo incoraggiò la contessa, nascondendo le mani e le braccia sotto al pesante mantello di velluto.

            «Il vostro», disse immediatamente Leonardo, sfiorando con le dita il ritratto che le aveva fatto quella sera, durante il loro primo incontro. «Perché io sono profondamente convinto che ci sia molto altro che ancora non so, Gemma».

La vide sorridere per la piccola libertà che si era preso chiamandola per nome, e avrebbe dato qualsiasi cosa per vederla sempre con quel sorriso, con quella sensazione di pace e di serenità.

            «E sono altrettanto convinto che la contessa che ho visto sul campo di battaglia, che mi ha minacciato più e più volte, che è ricorsa a misure estreme per compiere la sua missione… non sia la vera Gemma», continuò poi, più serio. «Non è la giovane donna spigliata e spontanea che ho conosciuto quella sera», aggiunse, avvicinandosi a lei.

L’espressione della contessa si fece via via sempre più malinconica e nostalgica, e lo sguardo di Leonardo cadde di nuovo su quel nodo, che in quel momento più che mai gli diede l’impressione di bloccarle l’aria in gola, rendendole sempre più difficoltoso respirare.

Lentamente, abbandonò il quadernetto e si avvicinò a lei, sollevò le mani all’altezza della chiusura del mantello e con delicatezza strinse i lembi di stoffa tra le dita, per poi iniziare a sciogliere il fiocco.

            «La donna che mi ha tenuto testa tanto abilmente…», iniziò, abbassando il tono della voce. «La donna con cui ho ballato e che ho potuto stringere tra le braccia…», continuò, sciogliendo finalmente il fiocco, e vedendola inspirare profondamente alla ricerca di aria. «La donna che ho visto regalarmi il sorriso più bello che io abbia mai visto… Quella donna esiste, ma è celata», concluse, lasciando cadere a terra il mantello.

Come a sottolineare maggiormente quanto appena detto dall’artista, il pesante velluto nero svanì a terra, scoprendo uno splendido abito bianco. La seta, soffice e liscia, avvolgeva delicatamente il corpo della giovane donna, per poi scendere morbida e leggiadra fino a terra, tempestata delle stesse gemme che brillavano tra i suoi capelli, lasciati sciolti.

Per quanto la sua bellezza lo stordisse ogni volta come se fosse la prima, Leonardo si ritrovò comunque a trattenere il fiato, mentre faceva scorrere gli occhi lungo la sua figura. Quando poi tornò a guardarla in volto, rivide la stessa espressione di quella sera al banchetto, e sentì il cuore colmo di gioia.

            «Eccoti…», mormorò, senza nemmeno accorgersi di aver abbandonato le formalità, tanto alienato dall’averla ritrovata.

In risposta, lei gli sorrise dolcemente, e mosse le mani per cercare le sue, producendo un leggero fruscio con la stoffa candida e leggera. Da Vinci non le diede nemmeno il tempo di compiere quel gesto fino in fondo che fu lui stesso a cercare e stringere le loro mani, desiderando solamente dimenticare tutti i suoi dubbi e tutte le sue sofferenze e restare lì, dovunque si trovasse, lontano da paure e ombre.

            «Ma sapete meglio di me che la realtà è molto più difficile di così», mormorò lei, il suo sorriso che diventava amaro e malinconico.

            «So che tu ci sei…», rispose Leonardo, sollevando una mano per poterle accarezzarle la guancia. «In fondo in fondo, nascosta da un ruolo che ti grava addosso e che ti costringe ad annullarti per volere di altri... ma so che ci sei».

Le accarezzò lentamente lo zigomo, prima di avvicinarsi ulteriormente e poggiare la fronte contro la sua, chiudendo gli occhi.

            «E so che vorrei trovarti», mormorò, sospirando con amarezza.

Quando poi riaprì gli occhi, niente di quanto aveva appena visto era più davanti a lui. Nemmeno si accorse di essersi precipitato a cercare il suo quaderno, né di essere corso a sfogliare freneticamente le varie pagine, fino a quella che conservava come il più prezioso dei tesori.

Percorse lentamente i tratti a matita con uno sospiro nostalgico, volendo imprimere ancora una volta il ricordo di quello sguardo, di quell’anima che aveva intravisto dietro ad una maschera impregnata di bugie. Osservò il disegno per un’ultima volta, prima di chiudere il quadernetto e tornare al tavolo.

 

 

 

Angolo dell’autrice

Buonsalve a tutt*!

Ho scalato di una settimana in più rispetto al solito, ma ho scoperto di aver fatto bene perché avrei sì avuto problemi col fuso orario e, in più, non avrei avuto un computer per caricare il capitolo. Sto aggiornando ora dopo aver betato con il jetleg a gravarmi addosso, mi ritengo fiera di me.

Scena un po’ alienata dalla realtà, in un’atmosfera a sé, ma forse è l’unico luogo e l’unico momento per essere sinceri. Vero, Leonardo?

Sicuramente gli è andata meglio che nella serie, dove Lucrezia lo uccide senza tanti mezzi termini.

Che altro dire? Noi ci rileggiamo tra due settimane, tornando al palinsesto tradizionale.

Un bacione

Amy W. Gildeary  

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Capitolo 17
*** Il Diavolo ***


Il Gioiello del Vaticano
Capitolo 17 - Il Diavolo

 

 

 

Nei Tarocchi, la carta del Diavolo ha una polarità attiva e passiva. È l’istinto cieco al di là del conscio, è l’impulsività senza luce di ragione. Parla di messa in pratica di magnetismo umano, d’invadenza nell’inconscio altrui. Indica sovvertimento dell’ordine, passioni ed eccessi.
Al negativo, però, è indicatore di squilibri, di nevrastenia. E ancora, incentra gli abusi, le perversioni in tutte le loro forme. La persona macchinosa che non controlla i propri istinti.

 

 

 

Papa Sisto pregava davanti alla maestosa poltrona rivestita di stoffa dorata, inginocchiato sul pavimento ligneo e intento a recitare l’ultima di una serie di orazioni.

Il suono dei passi sulle lucide assi di legno non sembrò raggiungerlo, e la contessa aspettò qualche altro istante, prima di schiarirsi la voce e aspettare una reazione.

L’uomo, con fare pigro e svogliato, recitò le ultime parole in latino, e si alzò in piedi, per poi voltarsi verso la persona che lo aveva disturbato. In altre circostanze, il suo sguardo sarebbe stato sprezzante ed alterato, ma evidentemente ricordava il motivo dietro a quella visita e la sua espressione divenne un ghigno soddisfatto. Posò gli occhi sulla giovane donna, che rispose con un cenno d’assenso del capo, prima di indicare con la mano l’uomo in piedi accanto a lei.

            «Sua Santità», iniziò, accennando un inchino. «Posso presentarvi Federico da Montefeltro, Duca di Urbino?».

L’uomo appena nominato rimase al suo posto, la postura fiera e il mento alto, ed osservava Papa Sisto con sguardo solenne, attraverso il solo occhio rimastogli.

            «Federico», mormorò il papa, porgendo avanti il braccio destro, gesto che l’ospite interpretò come un permesso di avvicinarsi.

            «Santità», rispose il duca, umilmente.

Prese la mano dell’uomo tra le sue e baciò l’anello color ambra, accompagnando il gesto da un piccolo inchino.

            «Grazie, per essere venuto in così breve tempo», continuò Sisto, in un atteggiamento di gratitudine a dir poco inusuale per il suo temperamento freddo ed arrogante.

            «Tutto per Vostra Santità», minimizzò l’ospite, con un accenno di sorriso, e ritornando al suo posto. «Io sono un servo di Dio», aggiunse, ma dal suo tono traspariva una nota di sarcasmo.

            «Un servitore alleato con la mano che porge l’offerta più attraente», commentò Gemma, scoccandogli un’occhiataccia eloquente. «Un interessante bisbiglio, riguardante una vostra alleanza con Firenze, ha raggiunto la città del Vaticano», aggiunse, con un sorriso di finta cortesia e l’aria angelica.

            «Che voce a dir poco bizzarra», rispose Federico da Montefeltro, con aria divertita.

            «Siete una città famosa per la sua originalità, dopo tutto», ribatté la contessa: un riferimento decisamente poco celato alla piccola opera svolta all’occhio destro del duca.

Ciò nonostante, l’ospite rise divertito.

            «Perdonate mia nipote», si intromise Papa Sisto. «La schiettezza è una delle sue caratteristiche più marcate», aggiunse, scoccandole uno sguardo di rimprovero.

            «No, non occorre alcuna scusa», lo tranquillizzò l’uomo, per poi voltarsi di nuovo verso la contessa, con sguardo ammirato. «Una donna tanto risoluta è un tesoro raro… una gemma preziosa», aggiunse, senza fare nulla per celare uno sguardo tutt’altro che consono alla situazione. «Al vostro posto, farei molta attenzione a tenermela ben stretta».

Gemma non era affatto nuova a situazioni come quelle, tutt’altro che lusinghiere e piacevoli, e non fece nulla per nascondere uno sguardo scettico e vagamente infastidito, prima di spostare la conversazione su tutt’altro territorio.

            «Dunque cosa potete dirci riguardo alla vostra alleanza con Lorenzo de’ Medici?», domandò, alzando le sopracciglia con aria di sfida e incrociando le braccia al petto.

            «Non potrei essere più d’accordo con voi, contessa Riario», rispose il duca, ignorando lo sguardo di ammonimento rivoltogli poco prima. «Non faccio certo mistero della mia brama verso ciò che mi attrae», proseguì, e lo sforzo compiuto da Gemma per non mettere mano al proprio stiletto fu a dir poco ammirevole.

Sisto, d’altro canto, tornò a sedersi comodamente sulla sua poltrona, osservando il piccolo scontro con un sorriso soddisfatto. Non perdeva occasione di vedere la sua piccola spia all’opera e di compiacersi della decisione di aver investito tempo e risorse nella sua preparazione. Dimenticando per un momento quanto tempo stava impiegando per recuperare la chiave, era una delle migliori armi a disposizione del Vaticano.

            «Lo Stato Pontificio vi offre cinque mila fiorini d’oro per combattere per noi contro i Medici», rispose la contessa, tenendo ben salde le braccia attorno al petto, o al minimo segnale di cedimento le sue mani sarebbero corse alle armi.

            «Non è il denaro ad attrarmi», rispose il duca. «Non uccido per soldi. Lo faccio per piacere», aggiunse con un ghigno sadico stampato in volto, e abbassando il tono della voce sull’ultima parola.

Tutto, nella postura e nello sguardo di Gemma, indicava quanto volentieri avrebbe voluto sguainare la spada.

            «Federico», si intromise Sisto, prima che la situazione iniziasse a degenerare. «Credo vogliate ristorarvi prima di discutere di affari. Bene, ci vedremo di nuovo più tardi», lo congedò, prima di fare cenno ad una serva di guidarlo verso gli alloggi degli ospiti.

Gemma lo seguì con lo sguardo colmo di disprezzo, sguardo che ebbe premura di celare quando si voltò di nuovo verso Sisto.

            «Credo proprio che dovresti tenerti alla larga dalle nostre trattative politiche», le disse il papa, e la contessa si aspettò di ricevere un altro sguardo di rimprovero, per cui fu parecchio sorpresa di vederlo sogghignare soddisfatto. «Sei più agguerrita del solito, ultimamente», aggiunse, studiandola con attenzione. «Interessante».

            «La congiura dei Pazzi è alle porte e creerà molto scompiglio. Dobbiamo essere tutti pronti alle sue conseguenze», rispose lei con noncuranza.

            «E una nuova era nascerà con essa», aggiunse Sisto. «Ma fino ad allora, anche essere sempre vigili è importante. Il viaggio del Duca di Urbino potrebbe aver raggiunto orecchie indiscrete, quindi occupati di controllare tutto il perimetro», le ordinò, congedandola con un cenno della mano.

            «La prudenza non è mai troppa», concordò Gemma, annuendo.

            «E nemmeno la violenza».

 

 

 

 

Uscita dalla stanza in cui Sisto si era ritirato in preghiera, Gemma raggiunse il suo piccolo gruppetto di guardie svizzere e, con un semplice schiocco di dita, le sguinzagliò fuori dalla fortezza, in modo da far controllare le entrate e i giardini circostanti. Un’altra mezza dozzina di soldati la seguirono verso la parte più remota del palazzo, e vennero da lei inviati a sorvegliare gli ingressi.

            «Controllerò lo studio di Sua Santità e gli Archivi», disse la giovane donna con tono asciutto, avvicinandosi all’entrata dei bagni.

            «Contessa Riario, siete certa di non volere alcuna scorta?», chiese il capitano Grunwald, accompagnato da altre due guardie.

            «Non ne ho alcun bisogno», rispose la giovane donna, portando una mano sopra all’impugnatura della spada, in un gesto eloquente. «Più tardi il Santo Padre si riunirà con il Duca di Urbino per rafforzare le nostre alleanze, e il loro incontro deve procedere senza alcuna interruzione».

            «Darò ordine ai soldati di controllare i loro alloggi», rispose il capitano, senza bisogno di ricevere ulteriori istruzioni.

Gemma annuì e li congedò con un cenno della mano, prima di varcare la soglia dei bagni. Solo quando sentì la porta chiudersi alle sue spalle, poté permettersi di rilassare i muscoli del suo corpo.

La partenza di Leonardo da Firenze era stata uno scomodo imprevisto, e la contessa temeva la vendetta di Sisto da un momento all’altro, viste le numerose settimane trascorse senza alcuna nuova informazione utile. Fortunatamente, la Pasqua era ormai alle porte e il collerico papa non aspettava altro che colpire la dinastia de’ Medici: la congiura sarebbe stata per lui un ottimo intrattenimento, una distrazione dalla ricerca della seconda chiave.

La giovane donna iniziò a camminare lungo i bordi della vasca, con lo sguardo poco attento e la mente che vagava altrove. Doveva concludere quella missione il prima possibile, e soprattutto prima che i suoi pensieri, ancora confusi, diventassero veri e propri dubbi.

Non si accorse nemmeno di aver già finito il perimetro della stanza e di essere tornata al punto di partenza, accanto al portone d’ingresso. Diede un’ultima occhiata tutt’intorno, poi si voltò verso il passaggio segreto per gli Archivi.

Ebbe appena il tempo di dare le spalle ai bagni, quando sentì un tonfo sordo dietro di lei, seguito dallo scorrere dell’acqua. Incerta, tornò più vicina alle vasche, ma il vapore celava ogni cosa sotto di esso, rendendole impossibile capire quale fosse stata la causa di quel rumore.

Poi, d’un tratto, una figura iniziò ad emergere dalla densa nebbia bianca.

In un primo istante, Gemma fu sicura di essere vittima delle allucinazioni, e rimase immobile con lo sguardo confuso e diffidente, aspettando di vedere quell’immagine scomparire dalla sua mente.

Leonardo emerse dal candido vapore, alcune gocce d’acqua che cadevano dalle ciocche di capelli bagnati sul suo viso, gli abiti completamente aderenti al suo corpo, e il suo caratteristico sorrisino soddisfatto.

La contessa indietreggiò di qualche passo, la mente che le urlava di risvegliarsi e di mettere mano alle armi, di fermarlo, di cogliere immediatamente quell’occasione. Ma non riuscì a fare nulla del genere, rimase a fissarlo sconvolta e privata della voce.

            «Contessa», mormorò da Vinci, percorrendola dalla testa ai piedi con lo sguardo.

            «Artista», rispose Gemma in un sussurro, stupendosi di essere riuscita a fare qualcosa di diverso dal restare immobile al centro della stanza.

            «La porta era chiusa», scherzò Leonardo, indicando un punto indistinto alle sue spalle.

Il tempo di rendersi conto di possedere finalmente un vantaggio su Gemma e, in un istante, il suo sorrisino sparì e la mano corse alla cintura, afferrando e sguainando una balestra. E l’arma puntava proprio lei.

            «Un’entrata di grande effetto», commentò la contessa, alzando lentamente le mani in aria, in segno di resa.

            «Per ottenere un’udienza… privata», rispose l’artista, marcando notevolmente l’ultima parola, e non risparmiandole un altro languido sguardo lungo il suo corpo. «Sono sorpreso di vedervi sulla difensiva», aggiunse poi, soffermando l’attenzione sulla spada e sullo stiletto.

            «Un’eccellente conoscenza delle tecniche di combattimento», rispose lei, cercando di tenere sotto controllo il nervosismo per lo svantaggio che stava accumulando. «Sguainare una delle mie armi richiederebbe comunque più tempo dello scocco di una delle vostre frecce».

Leonardo annuì, d’accordo con il suo ragionamento, ma una parte di lui si sentì amareggiata dalla tacita accusa celata dietro alle sue parole: quella secondo la quale non ci sarebbe stata alcuna esitazione nel ferirla.

            «Speravo di poter avere un colloquio con papa Sisto», disse Leonardo, uscendo dalla vasca ed avvicinandosi alla contessa. «Ma devo ammettere che questo imprevisto non mi dispiace affatto», proseguì, giungendo a pochi passi da lei.

            «Temo di non poter dire lo stesso, artista», rispose Gemma, ma sentire una certa mancanza di convinzione nel pronunciare quelle parole le sottrasse un altro po’ di fiducia, carenza che andò ad alimentare il suo già discreto svantaggio.

            «Sono passate settimane dall’ultima volta che abbiamo avuto il piacere di sfidarci», proseguì Leonardo, senza dare segno di voler abbassare l’arma. «Non vorrete farmi credere che io sia stato l’unico a sentirne la mancanza», aggiunse, abbassando notevolmente il tono della voce.

            «Dev’essere stata una tortura straziante, per portarvi a rischiare la vita introducendovi nella tana del lupo», ipotizzò la contessa, cercando in ogni modo di spostare l’argomento della conversazione altrove.

Sentiva la sua caratteristica sicurezza abbandonarla secondo dopo secondo, e la sensazione di camminare così vicina al limite delle sue certezza non la stava aiutando.

            «Un pericolo ampiamento ricompensato…», sussurrò Leonardo, avvicinandosi ulteriormente, e per Gemma resistere all’impulso di indietreggiare fu molto difficile. «…dalla vostra presenza e da questo interessante scambio di ruoli», concluse, arrivando a un soffio da lei.

            «Vi suggerisco dunque di goderne, fin tanto che potete», rispose la contessa, con aria di sfida. Ma sapeva meglio di lui che sarebbe stato alquanto arduo riportare la situazione sotto il suo controllo.

            «Assolutamente», sussurrò Leonardo, allungando una mano verso la cintura della giovane donna ed estraendone prima lo stiletto, e in seguito la spada, per poi gettarli entrambi nei pochi centimetri d’acqua che ancora coprivano il fondo della vasca.

Senza mai dar segno di voler abbassare l’arma, da Vinci mantenne il contatto visivo con la contessa, e nel mentre la mano libera iniziò a vagare per tutto il suo corpo, premendo abbastanza da poter riconoscere la presenza di altre armi. Non distolse mai lo sguardo, nemmeno quando si chinò per controllare lungo le sue gambe, e mai perse il suo tipico sorriso di vittoria.

In tanti incontri che avevano avuto, in tante occasioni in cui erano arrivati ad un soffio l’uno dall’altra, in tanti contatti fisici… Gemma non si era mai sentita tanto nervosa, né il suo corpo aveva mai risposto in quel modo al suo tocco. Era sempre riuscita a restare calma e sicura di sé, i muscoli rilassati ma pronti a rispondere ad ogni riflesso, la mente sgombra da distrazioni e concentrata sull’obiettivo.

In quel momento, le sue certezze erano svanite, l’avevano abbandonata, lasciando il posto a reazioni e pensieri del tutto incapaci di tranquillizzarla. Ogni punto del suo corpo raggiunto da quel tocco sembrava bruciare, protestare per le barriere frapposte, bramare perché quel contatto potesse essere qualcosa di più.

Qualcosa era cambiato, e niente era mai riuscita a spaventarla tanto.

Leonardo raggiunse di nuovo la sua altezza, in un contatto visivo che non era mai stato spezzato, e si concesse alcuni istanti per assaporare quel momento. Dopo numerosi e vani tentativi di tenere in pugno la situazione, era giunta la sua occasione di condurre i giochi, e sapere di non essere lui quello con le spalle al muro gli regalò una piacevole sensazione di soddisfazione.

Non abbassò comunque la balestra, nonostante avesse appurato che la contessa non aveva altre armi con sé, ma questo non le avrebbe impedito di contrattaccare e difendersi usando nient’altro che il suo corpo.

Ormai vicina ad un limite che non aveva alcuna intenzione di oltrepassare, Gemma osservò Leonardo con sguardo confuso, abbassando lentamente le braccia.

            «Non avete ragione di preoccuparvi, artista. Privata delle armi, che altro potrei farvi?», domandò, cercando di ritrovare il tono caratteristico dei loro scontri, una zona a lei familiare che potesse donarle un minimo e sicurezza.

            «Oh…», quasi gemette da Vinci, inclinando di poco la testa di lato. «Innumerevoli cose, in innumerevoli modi», mormorò, vagando con lo sguardo fino alle sue labbra.

            «Non se continuate a starmi così addosso», rispose invece Gemma. Non esattamente quello che il fiorentino si aspettava, ma attribuì la causa alla situazione, per la prima volta svantaggiosa, in cui la contessa si trovava.

            «Potreste usare un po’ di fantasia: sono certo che trovereste qualcosa da fare», proseguì Leonardo, ricordando con una certa dose di ammirazione la capacità di Gemma di trovare punti deboli anche in momenti che ne sembravano privi.

            «O potreste muovere qualche passo indietro», ribatté la contessa, apostrofandosi mentalmente da sola, alla ricerca di una capacità di rispondere a tono che sembrava sparita.

            «Io sto benissimo», commentò da Vinci, sempre più sorpreso dall’improvvisa mancanza di malizia nelle parole della sua avversaria. «Siete voi che apparite un po’ tesa», proseguì, accorciando ulteriormente la già modesta distanza. «Posso fare qualcosa per… aiutarvi a rilassarvi?», mormorò, con un filo di voce.

Gemma lo vide abbassare lo sguardo sulle sue labbra e le pupille dilatarsi per il desiderio, ed attinse a tutte le sue forze per ritrovare la sua maschera: se non per contrastarlo almeno per guadagnare del tempo.

            «Sono certa che non possediate alcuna altra abilità, se non quella di mettermi i bastoni tra le ruote», mormorò, un’insinuazione molto più velata di tante altre precedenti, ma sufficiente per farle ritrovare un minimo di tranquillità.

Leonardo però mandò la sua piccola conquista a monte, decidendo di proseguire la conversazione vicino al suo orecchio. Troppo vicino al suo orecchio.

            «Io invece sono certo che ce ne siano parecchie», mormorò lui, con voce roca. «Una più soddisfacente dell'altra», aggiunse, quasi sfiorandole la pelle con le labbra.

L’inaspettata fitta che la colpì allo stomaco la colse completamente impreparata, e nemmeno si accorse di aver assecondato il suo desiderio di chiudere gli occhi, di non sentire altro che non fosse il suo respiro sulla pelle e la sua voce calda e morbida. Ebbe bisogno di qualche secondo per ritrovare il contatto con la realtà, giusto in tempo per capire che proseguire lungo quel sentiero sarebbe stato troppo pericoloso.

            «Che cosa volete, artista?», domandò lei, molto più brusca di quanto non volesse.

Leonardo parve ridestarsi a quelle parole, iniziando a ricordare il vero motivo che lo aveva spinto ad azzardare un’impresa del genere.

            «Sarebbe scortese non invitare un vostro ospite a visitare gli Archivi Segreti, non trovate anche voi?», mormorò lui con tono retorico, allontanandosi di un passo e puntandole di nuovo contro la balestra.

La conosceva da un po’ di tempo, abbastanza da aver ormai imparato che il minimo punto debole diventava, per la contessa, un’occasione irresistibile di attaccare. Era l’unico motivo che lo convinse a non riporre l’arma, per quanto fosse tentato.

            «Pretesa piuttosto arrogante, da parte di chi si è appena introdotto furtivamente nella casa di Dio», rispose Gemma con diffidenza.

Di nuovo, non ebbe nemmeno il tempo di sentirsi tranquilla e su un terreno a lei familiare, che Leonardo la destabilizzò un’altra volta, iniziando a camminarle intorno fino a sparire dalla sua visuale.

            «Pretesa che, tuttavia, sarebbe meglio per voi esaudiate», mormorò l’artista alle sue spalle, premendo la balestra contro la sua schiena.

Un istante dopo, la sua mano libera indugiò di nuovo sul suo corpo cingendole la vita, il tocco delicato ma allo stesso tempo fermo e deciso, di sicuro non intenzionato a lasciare la presa tanto facilmente. 

            «Avete improvvisamente ritrovato il senso della giustizia?», domandò Gemma, con un che di amaro nel tono della voce. «Non vi ho mai visto così zelante nei confronti della vostra amata Firenze», aggiunse, ricordando quanto le fosse stato facile distrarlo dai suoi doveri nei confronti della città.

            «Gli Archivi Segreti…», ripeté Leonardo, chinando il capo su di lei. «…Gemma», mormorò con un filo di voce, ad un soffio dal suo collo.

La contessa avrebbe tanto voluto voltarsi. Che fosse per prenderlo a schiaffi o per zittirlo in altro modo non aveva importanza, ma ciò che più bramava in quel momento era la possibilità di voltarsi.

            «Se non desiderate altro…», mormorò Gemma, sperando che fosse ben celato l’orgoglio che le bruciava dentro.

Adocchiò immediatamente la porta d’ingresso principale, e in religioso silenzio iniziò a camminare in quella direzione. Non era un’ingenua: c’erano ben poche cose che Leonardo poteva voler trovare negli Archivi Segreti, e il pensiero che quel particolare oggetto fosse addosso a lei non era d’aiuto, in un’infinita lista di punti a suo sfavore.

Il respiro le si bloccò in gola quando sentì la presa attorno alla sua vita stringersi all’improvviso, fermandola sul posto.

            «So delle guardie là fuori», mormorò da Vinci, fin troppo vicino al suo orecchio. «Così come so che esiste senz’altro un’altra via per accedere agli Archivi», aggiunse, senza alcun accenno di volersi allontanare.

            «Dunque non vedo come io possa esservi utile, se sapete già tutto», ribatté la contessa, restando immobile dov’era.

            «Non apprezzate la mia compagnia, forse?», chiese l’artista, con finto tono perplesso. «Eppure…», proseguì, rafforzando ancora di più la presa, e la contessa trovò improvvisamente difficile riuscire a deglutire. «…il vostro corpo dice tutt’altro», bisbigliò, avvertendo chiaramente, nonostante gli strati di stoffa, i muscoli dell’addome tesi.

E Gemma lo sapeva, sapeva benissimo di aver perso ogni controllo sulle reazioni che il tocco di Leonardo le stava scatenando. La sua ultima speranza era cercare di minare il suo potere su di lei, portare entrambi allo stesso livello.

            «Vedo che la vostra brama di dimostrarmi quanto apprezziate il mio corpo è rimasta invariata», mormorò, abbassando il tono della voce ad ogni parola. «Così come il mio… bruciante desiderio… di piegarvi al mio volere», mormorò, riducendo il tutto ad un sussurro roco.

Per la prima volta da quando era emerso dalla vasca, anche Leonardo sentì il suo autocontrollo vacillare notevolmente, al solo provare ad assecondare la sua mente nelle immagini che quelle parole avevano evocato. Con non poca difficoltà, mantenne salda la presa attorno alla balestra, ma non poté nulla contro l’improvviso desiderio di avvicinarsi ai suoi capelli e inspirare profondamene.

Aveva sentito la sua mancanza ogni giorno durante il viaggio intrapreso in Valacchia, ma in quel momento si chiese come aveva potuto resistere tanto a lungo senza di lei. Senza vederla, senza sfidarla, senza toccarla.

            «E così niente è cambiato. Tranne forse per un dettaglio…», mormorò, le parole di lui soffocate contro i suoi morbidi capelli. «…non sono io a trovarmi dalla parte sbagliata di un’arma, ora», aggiunse, stringendole di nuovo la presa in vita e facendole premere la schiena contro la balestra.

Gemma riconobbe facilmente la nota di soddisfazione e compiacimento nella sua voce di Leonardo, la stessa che assaporava lei ogni volta che sentiva di avere l’artista in pugno. A ruoli invertiti, sentiva la mancanza di quel potere.

            «Siete per caso dispiaciuto per questa posizione?», mormorò la contessa con finto rammarico, la sicurezza che piano piano stava, inspiegabilmente, tornando. «Possiamo tranquillamente rimediare».

            «Invero questa posizione mi dà molto piacere», ribatté Leonardo, incapace di resistere alla tentazione di chinare nuovamente il capo e proseguire ad un soffio dal suo orecchio. «E il mio intuito mi dice che per voi è lo stesso», sussurrò e, a riprova delle sue parole, spostò di poco la mano poggiata all’altezza della vita, avvicinandosi pericolosamente al seno.

            «Non brillate certo per la vostra perspicacia, artista», commentò Gemma, in un tentativo di voltare il capo e di poterlo vedere in volto.

Il suo sforzo per proseguire la conversazione restando fermi dov’erano fallì, quando sentì la balestra spingerla di nuovo in avanti.

            «Gli Archivi Segreti, contessa», ripeté Leonardo, concentrandosi su quell’obiettivo pur di non cedere alla tentazione di mandare tutto al diavolo e assecondare le sue provocazioni.

Gemma trattenne un sospiro di frustrazione, e ricominciò a camminare in direzione del passaggio segreto, celato dietro al drappo di velluto appeso alla parete.

Camminava lentamente.

Molto lentamente.

 

 

 

Angolo dell’autrice

Buonsalve a tutt*!

Ho di nuovo finito di betare dieci minuti fa: questo nuovo palinsesto non mi è ancora entrato in mente, o forse sono io che eccello nell’arte di procrastinare le cose da fare. Chi può dirlo.

Non so se si evince da questo capitolo (o dalla storia in generale, a voler essere più precisi), ma io ho un vero debole per le scene come queste: provocazioni, sfide, punti deboli scovati e sfruttati, frasi più o meno velate… Ed era da un po’ che l’artista fiorentino e la contessa romana non si cimentavano in questa gara a chi dei due cede per primo.

Quest’intero scontro negli Archivi Segreti era originariamente un enorme capitolo di venti pagine, ma per ovvie ragioni di lunghezza (e di suspence) si interrompe qui e prosegue in quello successivo.

Spero di avervi incuriosito abbastanza da attendere il prossimo aggiornamento con più impazienza del solito. Come sempre, ci si rilegge tra due settimane.

Un bacione

Amy W. Gildeary

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Capitolo 18
*** La Ruota della Fortuna ***


Il Gioiello del Vaticano
Capitolo 18 - La Ruota della Fortuna

 

 

 

Nei Tarocchi, la carta della Ruota della Fortuna ha molti significati: l’inizio dell’individualità, energia creativa, ma anche spirito creativo. Indica inoltre la riuscita attraverso opportunità e occasioni. Naturalmente, il successo è aiutato dalla fortuna che, a volte, dona senza richiedere meriti individuali. Può indicare situazioni remunerative, ma non continuative.
Al negativo, però, indica instabilità, positività incostante.

 

 

 

            «Quanto tempo credete che servirà alle guardie per notare la mia scomparsa?», domandò Gemma, scostando il pesante tessuto che copriva la porta. Suo malgrado, Leonardo dovette spostare la presa dalla vita alla spalla, per permetterle di compiere il movimento.

            «Abbastanza perché voi mi facciate fare un giro completo degli Archivi».

            «Continuate tranquillamente a crederlo», rispose lei con tono asciutto, girando il crocifisso che fungeva da leva per aprire il passaggio.

            «Chi sospetterebbe mai di una vostra scomparsa involontaria o del fatto che siate tenuta contro la vostra volontà negli Archivi? I vostri uomini vi temono e vi considerano troppo in gamba perché un’eventualità del genere possa accadere», spiegò da Vinci, seguendola attraverso il passaggio ed avendo cura di restarle ben vicino.

Senza accorgersene, Gemma si ritrovò con un accenno di sorriso dipinto sulle labbra.

            «Un velato complimento, artista?»

Leonardo dovette mordersi la lingua per non lasciarsi sfuggire qualcosa di decisamente troppo esplicito, con ogni probabilità riguardante quali fossero le lodi e le lusinghe che avrebbe tanto voluto tessere in suo onore.

            «Potrebbe essere il primo di una lunga serie», rispose l’artista, la mano che prima era poggiata sulla spalla che lentamente iniziava a vagare verso la clavicola e il colletto della giacca.

            «Potreste aver finalmente destato la mia attenzione», ribatté la contessa Riario, sperando di dare alla frase un tono provocatorio, a celare la genuina curiosità che sentiva nel petto.

            «Dopo aver finito qui sono certo che potrei proseguire», rispose Leonardo, con un sorrisetto soddisfatto che lei però non poteva vedere. «Vi assicuro, Gemma, che è una lista molto lunga», aggiunse in un sussurro, sfiorandole l’orecchio con le labbra.

Quando voltarono l’angolo, la giovane donna si chiese se ricordava ancora la strada da percorrere, tanto si sentiva stordita dalle ultime parole pronunciate. E non andava bene. Non andava bene per niente.

Non doveva reagire in quel modo, il massimo che poteva concedersi di provare era una sana soddisfazione nel vedere gli effetti delle sue provocazioni. Non il desiderio di sentirlo proseguire, di scoprire cosa avesse da dirle, di sentirlo di nuovo parlarle ad un soffio dalla pelle.

            «Eccovi giunto negli Archivi Segreti del Vaticano», affermò lei bruscamente, prima che i suoi pensieri sfuggissero al suo stesso controllo, e si fermò al centro del corridoio.

Leonardo si allontanò di qualche passo ed iniziò a guardarsi intorno, sempre mantenendo la balestra puntata verso la contessa. Dopo qualche momento di silenzio, però, scoppiò in una fragorosa risata.

            «Dovrei sentirmi offeso?», chiese lui, tornando di nuovo di fronte a Gemma.

            «Offendere implica sminuire delle qualità. Ma non si può sminuire qualcosa che non esiste», rispose la giovane donna, con un sorriso di finta cortesia.

            «Davvero mi credete così stupido da cascarci?»

            «Oh, lo credo. Eccome».

Stava prendendo tempo, e lo sapevano entrambi, ma assaporare di nuovo quelle loro tipiche conversazioni, quei loro tipici toni di sfida e provocazione, era così piacevole da non riuscire a smettere, e le settimane passate l’uno lontano dall’altra erano solo un incentivo in più.

            «Non apprezzate una sana sfida, artista? Non si riceve mai niente per niente», lo punzecchiò la contessa, incrociando le braccia al petto e inclinando la testa di lato.

            «Io adoro le sfide», mormorò da Vinci, iniziando ad avvicinarsi, e il suo sguardo fu immediatamente catturato dalle labbra della giovane donna davanti a lui. «E voi, Gemma, siete una sfida a cui è impossibile resistere», proseguì in un bisbiglio, arrivando ad un soffio da lei.

            «Eppure…», iniziò la giovane Riario, spostando anche lei lo sguardo dagli occhi alla bocca dell’artista. «…per qualche ragione, state opponendo resistenza», ed entrambi si chiesero se fosse solo un’osservazione, o un invito a smettere di resistere.

            «Portatemi negli Archivi Segreti e smetterò di farlo», proseguì l’uomo, con la voce roca.

            «E se non lo facessi?»

Le parole di Gemma, il suo tono di voce, la sua vicinanza… Leonardo stava per cedere, lo sentiva. Sapeva che starle vicino comportava sempre un rischio del genere, così come sapeva che, da parte della contessa Riario, non c’era alcuna emozione di fondo, alcun sentimento, solo un’accondiscendenza mirata a raggiungere uno scopo. Fu quel pensiero l’unica arma in grado di risvegliarlo, quando ormai la distanza tra lui e la giovane donna stava per essere colmata definitivamente.

Si allontanò di qualche passo e si premurò di distendere di nuovo il braccio destro, sottolineando il suo vantaggio: la balestra. Nonostante tutto, volle comunque provare a studiare la sua espressione, per cercare di cogliere qualche indizio su cosa lei stesse provando in quel momento.

Forse era vittima di allucinazioni, forse la prolungata mancanza d’aria che lo aveva quasi soffocato nella sua tuta per le immersioni gli stava giocando brutti scherzi, ma avrebbe giurato di aver visto una punta di amarezza nei suoi occhi, una nota di delusione. Ebbe appena un paio di secondi per osservarla, prima di vederla voltarsi e ricominciare a camminare verso l’altra parte della stanza.

            «Vista la vostra ossessione per i tesori della Chiesa, forse potrebbe interessarvi un’altra offerta», disse Gemma, continuando a dare le spalle all’artista.

Da Vinci ebbe subito il brutto presentimento che un altro subdolo trucchetto stesse per colpirlo, e si sbrigò a raggiungere la giovane donna, ma solo per premere di nuovo la balestra contro la sua schiena.

            «Camminate, contessa. Io vi ascolto molto attentamente», rispose lui, sinceramente curioso di conoscere tale proposta, nonostante il suo obiettivo fosse e rimanesse la seconda chiave.

Nel mentre, Gemma raggiunse il maestoso tavolo al centro della sala, e si voltò verso Leonardo indossando la sua imperscrutabile maschera di indifferenza.

            «Se siete negli Archivi Segreti del Vaticano, è perché cercate un tesoro. E sono certa che ci sia qualcosa di prezioso che potreste volere», disse, accompagnando la parola prezioso con un che di malizioso, e Leonardo non poté fare a meno di squadrarla da capo a piedi, al solo pensare ai possibili sottintesi.

            «Invero, c'è più di un tesoro negli Archivi che ha destato il mio interesse», mormorò l’artista, soffermando lo sguardo negli occhi di Gemma

            «Potremmo dunque giungere ad un accordo», rispose lei, soddisfatta, prima di abbassare il tono della voce. «Un accordo… estremamente vantaggioso, per entrambi», aggiunse, e sul suo volto ricomparve la tipica espressione maliziosa che tanto la caratterizzava.

            «Vi ascolto», accettò Leonardo, più attratto da quello sguardo che dall’offerta in sé.

            «Posso fare in modo che voi diventiate il nuovo curatore degli Archivi Segreti. Tutti i suoi tesori…», e di nuovo da Vinci si chiese se la sua particolare scelta di parole, con tutti i loro possibili significati, fosse intenzionale. «…a vostra completa disposizione. La possibilità di avere quanto più bramate al mondo».

 

            «Non è la conoscenza il bene che più agognate?»

            «Non sono più sicuro nemmeno di questo».

            «Dunque cosa desiderate, per davvero?»

 

Per un attimo la rivide, davanti a lui, vestita di bianco e ricoperta da piccoli e brillanti cristalli, il suo sguardo che implorava di avere una risposta. E un attimo dopo ricomparve l’altro suo volto, la cupa divisa del Vaticano e la sola intenzione di ingannarlo a guidare le sue azioni.

Dovette sbattere le palpebre più e più volte per recuperare la lucidità, ma lo sforzo non fu nemmeno paragonabile a quello necessario per ricordare qual era stata l’ultima frase detta.

            «Proposta allettante», mormorò, deglutendo a fatica. «Molto… allettante», gli sfuggì dalle labbra. «Tuttavia, ho la tendenza a non accettare prima di aver visto con i miei occhi questi… tesori», proseguì, riacquistando un minimo di contegno.

In tutta risposta, Gemma gli fece cenno di raggiungerla e di salire sull’imponente tavolo di metallo, invito che l’artista accettò senza però mai abbassare l’arma.

            «Posso fare molto più di questo», sussurrò lei, con uno sguardo che mise a dura prova l’autocontrollo dell’artista. «Se vedere con i vostri occhi non è sufficiente...», continuò, mentre si avvicinava alla leva. «...forse vi convincerà la possibilità di... toccare con mano».

Con un gesto secco, azionò il meccanismo segreto del tavolo il quale, dopo qualche scossa di assestamento, cominciò a scendere in uno spazio buio e angusto. Diversi secondi dopo, la piattaforma si fermò, e la vista degli scaffali colmi di libri fu sostituita da quella di un’imponente porta di legno massiccio.

Gemma la raggiunse e con una lieve spinta la aprì: oltre la soglia, apparve una cupa galleria sotterranea, fredda e umida, illuminata solo da un paio di fiaccole appese alle pareti ad intervalli regolari l’una dall’altra.

            «E se io, futuro curatore degli Archivi Segreti del Vaticano…», iniziò Leonardo, cercando di restare serio, ma non riuscì a trattenere una risatina divertita a quell’ipotesi. «…volessi cercare qualcosa legato al Libro delle Lamine?»

Sicuro di averla messa in difficoltà, rimase molto sorpreso nel vederla voltarsi verso di lui con aria tranquilla e sicura di sé.

            «Una delle sue pagine potrebbe essere di vostro gradimento?», domandò Gemma, con noncuranza.

            «Per incominciare… sì, potrebbe», rispose lui, mascherando al meglio il suo stupore.

            «Dunque, seguitemi», disse la contessa, prima di incamminarsi lungo la galleria.

Più tempo passava, più aumentavano le probabilità che le sue guardie notassero l’improvvisa assenza del braccio destro del papa. Gemma stava prendendo tempo come meglio poteva, ma privata di spada e stiletto era davvero con le spalle al muro. A suo favore, però, si presentava la sua profonda conoscenza degli Archivi e, soprattutto, delle armi disseminate al loro interno.  

Doveva solo muovere qualche altro passo in avanti, e avrebbe trovato una delle preziose lance lì custodite, pronta per essere afferrata ed usata.

Nei suoi calcoli, sfortunatamente, non erano compresi i crescenti dubbi di Leonardo riguardanti il suo strano comportamento, più incoerente ed irrazionale del solito. Un attimo prima la vedeva maliziosa e sicura di sé come in tanti altri precedenti scontri, quello dopo invece era nervosa, tesa e turbata. Leonardo aveva notato tutti quei piccoli segnali, ed era pronto a vedere un altro improvviso cambiamento da un momento all’altro.

Ragion per cui, quando la vide scattare verso una delle sporgenze della parete, con ogni probabilità per afferrare un qualsiasi oggetto per difendersi, fu pronto a fermarla. La afferrò per un braccio e la spinse contro il muro di pietra della galleria, bloccata tra di esso e il corpo dell’artista.

Dopo un primo istante di smarrimento, il respiro di Gemma si fece conciso e irregolare, sconcertata dall’essere stata fermata ancor prima di riuscire a mettere mano ad un’arma. In un qualsiasi altro momento, avrebbe di certo trovato qualcosa di velenoso e tagliente da dire, ma in quel momento, con la sensazione sempre più forte che i vestiti iniziassero ad essere di troppo, non riuscì nemmeno a pensare, figurarsi a parlare.

Perfino da Vinci si ritrovò costretto a prendersi qualche istante di silenzio, resosi conto della totale mancanza di spazio tra i loro corpi. Fu ancora più sorpreso, però, di non udire nemmeno una parola da parte della sua avversaria, e capirlo lo spronò a cogliere l’occasione al volo.

            «Posizione interessante, Gemma», mormorò Leonardo ad un soffio dalle sue labbra, prima di chinarsi su quanto del suo collo era lasciato scoperto dalla divisa. «Non trovate anche voi?», aggiunse, sfiorandole la pelle con la punta d­­­el naso.

            «Niente…», iniziò la contessa, costretta purtroppo ad interrompersi per assicurarsi di avere ferma la voce. «…che non ci sia mai successo».

            «Avete ragione, ma ogni volta è piacevole come la prima», rispose l’artista, con un sorriso malizioso. «Specialmente a ruoli invertiti».

            «Non avete perso il vizio di sopravvalutarvi».

            «E voi quello di provocarmi», e per non darle modo di ribattere, le sfiorò il lobo dell’orecchio con le labbra, prima di mordicchiarlo lentamente, e sorrise compiaciuto sentendola tentare di soffocare un sussulto di sorpresa.

Lentamente, Leonardo ripristinò un minimo di distanza e puntò di nuovo il suo sguardo negli occhi di lei, incapace di celare il sorrisetto di s­­­­­­­oddisfazione che si era dipinto sulle sue labbra.

            «Mi avevate promesso una pagina del Libro, se la memoria non mi inganna», mormorò lui con finta perplessità.

Raramente Gemma aveva provato sulla propria pelle l’amaro sapore dell’orgoglio ferito, ma in quel momento si sentì bruciare dall’indignazione e dalla frustrazione, scoprendo di non volere altro che la possibilità di restituire il favore all’arrogante artista che aveva di fronte.

            «Non siete interessato agli altri tesori che la precedono?», gli chiese, e il suo sguardo era una chiara conferma del velato sottinteso.

            «Assolutamente no», ribatté però Leonardo, facendo spallucce.

Gemma sospirò pesantemente, alla ricerca di un autocontrollo che però, in quel momento, non sarebbe mai giunto in suo aiuto, e si staccò dalla parete alle sue spalle, ritrovandosi di conseguenza ancora più vicina al viso dell’artista. Fece per incamminarsi verso il resto della galleria e continuare, suo malgrado, il percorso, ma Leonardo spinse il proprio corpo contro il suo, imprigionandola di nuovo tra lui e il muro.

Se solo gli sguardi avessero avuto il potere di uccidere, da Vinci avrebbe visto la sua fine in quella cupa e umida galleria segreta.

Al contrario, lo sguardo di Leonardo la stava osservando con molta attenzione, venato di malizia, e soffermatosi sugli occhi iniziò a percorrerle il viso, indugiando sulle labbra, fino a giungere alla costrizione della divisa del Vaticano. Quando poi vide la, ormai familiare, sciarpa di seta scura, un’idea gli balenò in testa.

Gemma era una spia perfettamente addestrata, pericolosa, difficile da tenere sotto controllo, e avrebbe potuto tentare di attaccarlo di nuovo in qualsiasi momento, forse riuscendoci. Da Vinci si aggrappò a quel pensiero per giustificare quanto stava facendo: stringere i polsi della contessa tra le mani, trattenerli entrambi con una mentre l’altra lentamente scioglieva il nodo della sciarpa.

Una scena già vista, che lo aveva tormentato giorno e notte senza accennare ad una tregua, ma che riusciva a strozzargli il respiro in gola ogni singola volta. E a giudicare dalla postura tesa della giovane donna, anche la sua capacità di inspirare ed espirare era messa a dura prova.

            «Non vi state opponendo», mormorò l’uomo, così come aveva fatto quella notte nel vicolo.

A differenza di quell’incontro, però, la contessa Riario non fiatò, nemmeno un flebile sussurro, e per le labbra di Leonardo piegarsi in un ghigno soddisfatto fu una tentazione irresistibile.

Gemma non avrebbe mai pensato, nemmeno nelle sue ipotesi più irrazionali, di ritrovarsi un giorno con la sensazione di essere un topolino in gabbia, metaforicamente e letteralmente con le spalle al muro per colpa di Leonardo, di essere oppressa dal turbamento. Eppure, quando il suo sguardo seguì le mani dell’artista e le vide usare la sua sciarpa per legarle i polsi, la tentazione di scappare via divenne insopportabile. E pregò con tutte le sue forze che il suo sguardo non facesse trapelare quelle emozioni.

            «Non lo trovate anche voi… tremendamente eccitante?», mormorò da Vinci, prima di serrare definitivamente il nodo.

            «Oh sì, sono divorata dal desiderio...», rispose Gemma, la voce impregnata di sarcasmo come sua unica arma di difesa. «…di tagliarvi la gola», aggiunse poi, sollevando lo sguardo negli occhi di Leonardo e fulminandolo.

            «Sarei curioso di sapere come fareste», sussurrò lui, così vicino alle sue labbra da sfiorarle.

            «Ho dimostrato più e più volte di sapervi sorprendere».

            «Sorprendetemi, dunque».

Gemma ebbe la netta sensazione che quella distanza stesse per essere colmata, una volta per tutte, e la ormai crescente convinzione che quel gesto sarebbe stato il punto di non ritorno fu la sua voce della ragione, l’arma che la convinse a voltare il capo verso la galleria, lo sguardo puntato verso quella che, con ogni probabilità, era l’ubicazione della pagina. I suoi occhi non accennarono a muoversi, né il suo corpo tentò una qualsiasi mossa, e Leonardo capì che così sarebbe rimasta, se lui non avesse mosso almeno un passo indietro.

A passi piccoli e lenti, un po’ per prendere altro tempo e un po’ per non dargli motivo di imprigionarla di nuovo, Gemma percorse la galleria in silenzio, seguita dall’artista alle sue spalle, fino a raggiungere un blocco di marmo grezzo nel mezzo del corridoio.

            «Eccola», disse la giovane donna, molto più bruscamente di quanto volesse.

Perplesso, Leonardo iniziò a guardarsi intorno, pensando a un qualche tipo di trucco o manipolazione messo in atto dalla contessa, ma non trovò niente che lo aiutasse a capire.

            «Oh oh, il vostro piano ha una falla», mormorò Gemma, con una punta di soddisfazione.

            «Mi piacerebbe sapere qual è», rispose da Vinci, raggiungendola alle sue spalle.

            «Mi servono le mani libere», spiegò la contessa, sollevando i polsi a sottolineare il concetto.

            «E che cosa vorreste farne?», le sussurrò Leonardo all’orecchio, e un istante dopo le sue mani si poggiarono sul corpo di Gemma, all’altezza dei fianchi.

Con una lentezza straziante, incominciarono a risalirle la vita, la schiena e poi le spalle, prima di scendere di nuovo lungo le braccia e terminare quel percorso sui polsi ancora fasciati dalla seta. E suo malgrado, la contessa sentì ogni cosa, ogni istante di quel tocco, ogni parte del suo corpo bruciare in risposta, e gli occhi chiudersi e assecondare quel piacere.

Solo quando lo sentì sospirare pesantemente sulla sua pelle, parve ritrovare un briciolo di lucidità, il minimo per ribattere senza tradirsi.

            «A parte uccidervi, s’intende?», chiese lei, con un filo di voce.

            «A parte uccidermi», ripeté Leonardo, soffocando una risata divertita contro il suo collo, rendendole molto difficile trattenere un sospiro di piacere.

            «Esaudire quanto avete chiesto», fu la risposta della giovane donna, con tutti i suoi possibili significati.

            «Io vi ho chiesto una pagina del Libro delle Lamine, niente che implichi l’uso di queste splendide mani».

            «Come tutte le cose preziose, anche la pagina è ben custodita».

            «Oh… capisco», mormorò l’artista, con scarsa convinzione e, soprattutto, poca intenzione di allontanarsi. «Ditemi dov’è, dunque».

            «Proprio davanti a voi, ma è tipico di voi uomini non riuscire a vedere nemmeno quello che si trova ad un palmo dal vostro naso», ribatté Gemma, prima di agitare nuovamente i polsi in un gesto eloquente.

Leonardo però ebbe bisogno di qualche altro secondo per pensarci, chiedendosi se fosse l’ennesimo trucco oppure, per una volta, la verità. Lentamente, ed indugiando ben oltre i limiti del consono, raggiunse con le proprie mani quelle della contessa, ed iniziò a sciogliere il nodo di seta.

            «Spero di avere di nuovo l'onore di poter utilizzare questa sciarpa», le sussurrò all’orecchio, mentre lasciava cadere a terra il lembo di stoffa. «Magari, in un luogo più consono», aggiunse, con voce roca.

            «Chi può dirlo, artista», mormorò Gemma, e la sua mente non fece in tempo a fermare quel pensiero prima che si trasformasse in parole.

Travolta dal terrore che potesse accadere di nuovo, si sbrigò a trovare altro su cui concentrare la propria attenzione. Con le mani finalmente libere, afferrò il bordo della teca che sporgeva appena appena dal blocco di marmo, e sollevò il quadro di vetro contenente la pagina.

Tutta la spavalderia che ormai costituiva la firma di Leonardo evaporò nel momento in cui i suoi occhi si posarono sul quel tesoro. La pagina non era sicuramente nelle sue migliori condizioni: i bordi sgualciti, delle pieghe troppo marcate perché la teca di vetro potesse distenderle, il materiale ingiallito. Nonostante tutto, però, sembrava brillare di luce propria.

Incassata nel blocco di marmo si trovava una fiaccola accesa e, dopo alcuni istanti di smarrimento, l’artista la afferrò e la avvicinò all’involucro di vetro, per osservare meglio i tratti d’inchiostro che tempestavano la superficie del manufatto.

­­­­Si accorse che Gemma aveva, a sua volta, allungato una mano e stretto il manico di legno solo nel momento in cui la fiamma venne fatta da lei ondeggiare davanti alla pagina, da parte a parte. Ogni volta che la luce le passava davanti, i simboli scritti mutavano.

            «Le parole cambiano ad ogni sguardo, e non hanno mai lo stesso contenuto», spiegò Gemma, dando voce agli stessi pensieri che ronzavano in testa all’artista. «E in ogni caso le informazioni sono scritte in lingue completamente sconosciute».

            «Incredibile», mormorò da Vinci, con un filo di voce.

Il giovane fiorentino afferrò nuovamente la torcia e riprovò a compiere lo stesso movimento, più e più volte, e puntualmente la pagina assumeva un aspetto sempre nuovo.

            «È stata recuperata a Firenze anni fa, ma in tutto questo tempo nessuno è mai riuscito a leggerla o a tradurla», continuò Gemma, senza mai distogliere lo sguardo da quel foglio, così piccolo e insignificante all’apparenza, eppure tanto potente e pericoloso.

            «È un enigma», sussurrò lui sospirando, ancora alle spalle della contessa Riario.

            «Esattamente», concordò lei, con un fil di voce.

            «Se solo riuscissi a risolverlo…»

E a quelle parole, la giovane donna ricordò improvvisamente ogni cosa: il suo ruolo, la sua missione, il suo posto… e il sapore amaro della delusione le strozzò per un attimo il respiro in gola. Se da Vinci non avesse accettato di collaborare con la Chiesa, si sarebbe ridotto tutto ad una sola scelta: la vita dell’artista o quella della contessa, e Gemma non era più tanto sicura di meritare di conservare la propria.

Forse, ponendolo davanti all’idea che un solo non era nulla al confronto di quello che avrebbe potuto avere trovando il libro, sarebbe riuscita a trovare il suo punto debole.

            «Il Vaticano può offrirvi tutte le risorse di cui avete bisogno, non dovete fare altro che chiedere», disse la contessa, grata di dare ancora le spalle all’artista e di non permettergli di vedere l’amara espressione dipinta sul suo volto.

Lo sentì chiaramente, a un soffio dal suo viso, sospirare sconsolato per l’ennesimo tentativo di convincerlo a sottomettersi a Roma, e un attimo dopo muovere un passo indietro, allontanandosi dalla pagina.

            «Mettermi al servizio della Chiesa? Di papa Sisto? Mai», rispose Leonardo, asciutto.

            «Non si fermerà davanti a nulla, finché non vi avrà», mormorò Gemma, e si voltò in modo da poterlo guardare negli occhi, per fargli capire con il suo sguardo, e non solo con le parole, che stava rischiando molto più di quanto il Libro potesse valere.

            «Non mi avrà, se è questo a preoccuparvi», rispose da Vinci con un velo di diffidenza, nonostante crederle e fidarsi di lei fosse quanto di più bello potesse sperare di fare.

            «Non è preoccupazione, è una certezza», precisò la giovane donna. «Ho visto più e più volte di che cosa è capace il Santo Padre».

Non erano i soliti toni con cui la contessa faceva capire, senza possibilità di equivoci, quanto serie fossero le sue intenzioni, e a Leonardo sfuggì un lieve sorrisino di compiacimento.

            «Vi state forse dando pena per me? Avverto dell’apprensione nella vostra voce».

            «Come ho già detto, non brillate certo per perspicacia. Non è niente di diverso dalle molte altre minacce che vi ho rivolto in passato», e Gemma avrebbe pagato oro per essere libera di dirgli che non era una questione di non voler provare dei sentimenti, ma di non poterlo fare.

            «Ne siete davvero certa?», indagò Leonardo, avvicinandosi di nuovo al suo orecchio fino a sfiorarlo con le labbra, ormai piuttosto sicuro che la contessa ne fosse tutt’altro che indifferente.

            «…sì», mormorò Gemma con un filo di voce, dopo una esitazione che era durata troppo a lungo per non destare sospetti.

            «Non ci credete nemmeno voi», rispose da Vinci, senza il minimo accenno di volersi allontanare, e questo diede alla giovane donna un istante per chiudere gli occhi e tentare, con tutte le sue forze, di recuperare la sua razionalità, di negarsi quei sentimenti che tanto premevano per raggiungerla.

            «Ne sono certa», disse lei, e la sicurezza riemersa nella sua voce fu dolorosa. Per entrambi.

            «Anche io sono certo delle mie condizioni».

            «Rifiutarvi vi condurrà alla morte».

            «Morirei comunque, se dovessi lavorare per Roma», disse Leonardo, ripristinando un minimo di distanza tra i loro volti. «Magari non fisicamente, ma mentalmente sì. Roma non sarebbe altro che una gabbia: una splendida gabbia dorata, ma pur sempre una gabbia».

            «C’è sempre un’altra scelta», riprovò Gemma, arrabbiata ed angosciata per la poca importanza che l’artista stava dimostrando per la sua stessa vita. «C’è sempre la possibilità di raggiungere un compromesso. Che cosa potrebbe convincervi?»

            «Non lascerei mai Firenze», rispose lui prontamente, e la contessa iniziò ad essere davvero esasperata.

            «Una collaborazione a distanza, dunque», tentò lei di nuovo, ma ricevette solo l’ennesimo cenno di rifiuto.

E fu in quell’istante, nel brevissimo momento in cui l’artista distolse lo sguardo dai suoi occhi, che Gemma vide la balestra, incustodita, in una delle tasche della cintura. E capendo che quella era la sua unica scelta, sentì il suo cuore spezzarsi.

            «Non voglio avere niente a che fare con Roma», mormorò da Vinci, rialzando lo sguardo in quello della giovane donna.

            «Ne siete certo, artista?», mormorò la contessa, con quel poco di voce rimasta, e per un attimo Leonardo avrebbe giurato di aver visto i suoi occhi colmi di dolore.

            «Mai stato così certo», rispose lui, ma più attento a lei che alle sue stesse parole.

La vide chiaramente combattuta, esitante, priva della risolutezza e della sicurezza che erano le sue firme, e in quel momento capì che c’era qualcosa che non andava.

Lo sguardo di lei indugiò un’ultima volta nei suoi occhi, prima che la sua mano scattasse verso la balestra e l’afferrasse.

Gemma fece appena in tempo a stringerla tra le dita e a tirarla fuori dalla tasca, che Leonardo le afferrò il polso e lo strattonò, affinché la sua presa attorno all’arma cedesse. Con l’altra mano colpì la balestra, facendola cadere a terra, e usò la presa attorno al polso di lei per far ruotare la giovane su sé stessa, attirandola di schiena contro il proprio petto. La sentì sussultare, nel momento in cui la distanza tra i loro corpi fu annullata, e in quel frangente da Vinci le afferrò anche l’altro braccio, bloccandole i movimenti.

Gemma però non si lasciò fermare, nonostante il notevole svantaggio: sollevò un piede e colpì il blocco di marmo che custodiva la teca, spingendo entrambi indietro verso la parete della galleria.

Leonardo sentì l’aria lasciargli i polmoni nell’impatto della sua schiena contro il muro, e suo malgrado la presa attorno al corpo della contessa si affievolì per un istante, ma abbastanza per permetterle di liberarsi. Lo sguardo dell’uomo vagò ovunque, e si fermò su una teca socchiusa proprio accanto a lui, contenente una spada.

Non si fermò nemmeno un istante a riflettere: se lo avesse fatto avrebbe esitato, sarebbe stato assalito dai dubbi, e non ne sarebbe uscito vivo. Gemma ebbe appena il tempo di liberarsi e correre verso la teca per recuperare la balestra, che Leonardo afferrò la lancia e la raggiunse. Le afferrò un braccio e la fece voltare di nuovo su sé stessa, bloccandola tra il marmo e il suo corpo, e un momento dopo la lancia premeva sul collo della contessa, proprio alla gola.

Gemma sentì il respiro bloccarsi per un momento, prima di forzarsi a calmarlo ed immobilizzarsi sotto la minaccia della lama. Si aspettava il taglio da un momento all’altro, sarebbe bastato davvero il benché minimo movimento per provocarle una ferita mortale. Eppure, da Vinci esitò, e invece di applicare pressione sull’arma, la applicò sul braccio che premeva contro il petto della contessa.

Ed in quel momento, la sentirono entrambi: la chiave, proprio sotto al tocco dell’artista, la camicia e la giacca che non potevano celarla.

La giovane donna vide lo sguardo incredulo di Leonardo abbassarsi su quel punto. Non c’era alcuna speranza che si fosse sbagliato, e Gemma capì che era giunta la sua fine.

Aveva fallito, per l’ennesima volta, e Sisto non avrebbe sicuramente sorvolato.

Aveva tirato troppo la corda, per l’ennesima volta, e Leonardo non l’avrebbe perdonata.

E non aveva nient’altro nella sua vita, niente che fosse dipeso dalle sue scelte, invece che da quelle di qualcun altro. Per l’ennesima volta.

Quando sentì i bottoni della camicia saltare e il tessuto strapparsi, scoprendo la seconda chiave, la contessa smise di respirare e serrò gli occhi, aspettando il colpo decisivo.

Era la fine, e lo sapeva.

I pochi secondi successivi le sembrarono i più lunghi e strazianti della sua vita, mentre temeva il dolore lancinante della sua ultima ferita da un momento all’altro.

Invece, un istante dopo, sentì una breve ma intensa pressione dietro il collo e subito dopo la catena della collana spezzarsi con un tintinnio, e non poté nulla contro il sussulto che lasciò le sue labbra.

Leonardo si allontanò di scatto e Gemma si accasciò a terra, il capo chino e il respiro affannoso mentre tentava di recuperare fiato, pochi secondi che però per lui furono preziosi per scappare via.

La contessa fece appena in tempo a vederlo chiudersi la porta alle spalle, prima che le guardie svizzere facessero irruzione nella galleria.

 

 

 

Angolo dell’autrice

Buonsalve a tutt*!

Spero di avervi suscitato abbastanza curiosità con lo scorso capitolo da farvi arrivare a questo con un po’ di trepidazione.

Capitolo lunghissimo, con il quale tutte le carte sono in tavola e ormai pochi segreti sono rimasti al sicuro. Attenzione: pochi, non nessuno.

Diciamoci pure che tra Gemma e Leonardo è difficile dire quale dei due fosse il più confuso e provato dalla situazione, diviso tra ‘Quello che devo fare’ e ‘Quello che voglio fare’. Ma tutto getta le basi per il gran finale, tra due settimane.

Ultimi saluti, ringraziamenti, ed eventuali cosine da comunicare, alla prossima volta.

Un bacione

Amy W. Gildeary

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Capitolo 19
*** L'Angelo ***


Il Gioiello del Vaticano
Capitolo 19 - L’Angelo

 

 

 

Anche conosciuta come “Il Giudizio”, la carta dell’Angelo rappresenta la libertà da legami corporei e la consapevolezza nella spiritualità. Indica la rinascita alla vita spirituale, la comunicazione con lo spirito divino. Significa anche chiaroveggenza spirituale, è un richiamo dal passato, perciò un’evocazione. Indica ristabilimento anche nella persona fisica, ma soprattutto morale e spirituale; è predicazione, spirito missionario.
Al negativo, però, indica nervosismo profondo, esaltazione, reputazione negativa, giudizio degli altri verso di noi, mancanza di temperanza.

L’Angelo è una carta di rinnovamento, evidentemente una situazione va mutando. La situazione muta poiché si è arrivati al momento della resa dei conti. Non si può più tergiversare, posticipare, ma si deve affrontare la resa dei conti e le relative conseguenze. Nodi che vengono al pettine, chiusura di una situazione, giudizio finale.

 

 

 

Seduta su una delle sedie di legno nella sagrestia Vecchia, Gemma torturava incessantemente l’anello d’oro che portava al dito, nella vana speranza di sfogare la sua angoscia.

La messa di Pasqua era cominciata, e il momento della comunione si stava avvicinando pericolosamente. Sarebbero bastati pochi minuti, una volta consumata l’ostia, perché tutto quell’inferno di odio e astio avesse fine. La dinastia de’ Medici sarebbe crollata, i Pazzi avrebbero assunto il controllo della città, e il suo compito come spia del Vaticano si sarebbe concluso.

Sarebbe rientrata a Roma, al servizio del papa, o nel migliore dei casi avrebbe ricevuto l’ordine di tornare a Imola, per occuparsi di politica e della sua città. Nel peggiore dei casi… non voleva nemmeno pensarci.

Istintivamente fece per mordersi il labbro, in un gesto dettato dal nervosismo, ma una fitta di dolore le ricordò quanto successo solo una settimana prima.

Nulla avevano potuto le guardie che avevano fatto irruzione negli Archivi Segreti: da Vinci aveva trovato un’altra via di fuga ed era riuscito a scappare. E con lui, stretta saldamente nella sua mano, la seconda chiave per aprire la Volta Celeste.

Né erano riuscite, quelle stesse guardie, a mitigare la rabbia di Sua Santità, quando l’uomo si era trovato di fronte a sua nipote. Non ci era riuscito il suo aspetto, né gli abiti strappati, che per tutti erano stati chiari indizi di un’aggressione da parte dell’artista. Non ci era riuscita la sua espressione, per la prima volta dopo tanto tempo umile, mortificata, dilaniata dai sensi di colpa.

Niente aveva trattenuto la mano di Sisto. E una settimana dopo, i segni erano ancora ben visibili: sulle labbra, sullo zigomo, attorno all’occhio, sulla tempia…

Aveva fallito, e se era ancora viva il merito era solamente dell’imminente congiura contro Firenze. Era ancora lei al comando della rivolta, e quel compito doveva essere portato a termine, prima di poter prendere una qualsiasi altra decisione.

Ancora una volta, la sua sopravvivenza si era ridotta ad una scelta: la sua vita, o quella di altri.

Eppure, tutto quello a cui riusciva a pensare era l’espressione sul volto di Leonardo, resosi conto che la seconda chiave era sempre stata nelle sue mani. La delusione, l’amarezza, il dolore che aveva potuto scorgere nei suoi occhi, come se tutto quello che avevano passato si fosse distrutto in un istante.

            «Contessa Riario», la chiamò una delle sue guardie, destandola dai suoi pensieri.

            «Sì?», mormorò lei, alzando appena lo sguardo.

            «È il momento», rispose lui sottovoce, e Gemma capì che le ostie avvelenate stavano per essere servite.

            «Bene», affermò la giovane donna con un filo di voce, e mai nulla di più falso aveva lasciato le sue labbra. «Tenetevi pronti», aggiunse, volgendo lo sguardo al resto delle guardie svizzere lì presenti, e ricevendo immediatamente un cenno di assenso.

Gemma si rialzò lentamente in piedi, con tutta l’intenzione di allontanarsi il più possibile dalla porta che conduceva nel duomo, quando un tonfo sordo giunse alle sue orecchie: era senza alcun dubbio il suono delle porte d’ingresso della cattedrale che venivano aperte. Immediatamente tornò vigile e attenta, e schioccò le dita, zittendo ogni brusio proveniente dalle guardie lì con lei.

            «Che cosa vi è successo, Eccellenza?», domandò qualcuno in chiesa, e quelle parole furono più che sufficienti per capire: Giuliano de’ Medici era tornato a Firenze.

            «Santo Iddio…», mormorò la contessa, chiudendo gli occhi: sembrava davvero che quell’inferno non avesse fine. «Preparate le armi», aggiunse poi, rivolta ai suoi scagnozzi.

            «I Pazzi cospirano contro di noi, la mia famiglia!», urlò Giuliano, dall’altra parte della porta. «Sono in combutta con Roma, e tradiscono tutta Firenze».

            «No…», gemette Gemma, con la voce così flebile che a malapena riuscì a udirsi da sola.

            «Popolo e libertà…», si intromise Francesco Pazzi, e la giovane serrò gli occhi. «A morte i Medici!».

Un istante dopo, non si udì altro che colpi di spada, urla di terrore e il caos.

Le guardie svizzere si voltarono immediatamente verso la contessa Riario, in attesa di ordini, ma Gemma ebbe bisogno di alcuni istanti prima di poter proferire parola.

            «Andate», mormorò semplicemente, senza nemmeno guardarli. 

            «Contessa…», tentò il capitano Grunwald, avvicinandosi a lei.

Quando però la giovane donna rialzò lo sguardo, l’uomo non vi scorse più quella scintilla di forza e determinazione, quel fuoco che l’aveva sempre contraddistinta, ma vide solo il vuoto, qualcosa di estraneo alla sua natura. Non era più lei, e lo sapevano entrambi.

            «Non doveva andare così», mormorò Gemma, volgendo lo sguardo alla porta. «Non avrà mai fine…», aggiunse, con un filo di voce.

            «Cosa volete che faccia?», domandò il capitano, con la mano già pronta sulla spada.

Ma per qualche altro secondo, ci fu solo il silenzio in risposta, e mai prima di allora era successo: Gemma era una guerriera straordinaria, terribilmente brava a mantenere ogni cosa sotto controllo, anche quando un imprevisto mandava in pezzi i suoi piani.

            «Voglio alcuni uomini a controllare gli altri ingressi del Duomo», disse finalmente, incrociando le braccia al petto. «E voglio sapere ogni cosa su chiunque fosse a parte di questo piano», proseguì, rialzando lo sguardo su di lui. «Ogni membro di quella cerchia di congiurati. Chi sopravvivrà a questo… io lo voglio qui, davanti ai miei occhi».

Grunwald annuì in silenzio, e si spostò verso un piccolo gruppo di guardie svizzere rimaste nella sagrestia, indicando loro quali ordini avessero. Al contrario, lui e un altro paio di uomini rimasero lì, come scorta per la contessa.

D’altro canto, Gemma si allontanò in un angolo con una mano premuta sulla fronte, cercando di recuperare tutto il suo autocontrollo e di calmarsi. Eppure, tutto quello a cui riusciva a pensare era che non doveva andare in quel modo. Se tutto fosse andato come da piano, in quel momento i Medici sarebbero caduti a terra avvelenati e si sarebbe vista la parola Fine a quella che ormai Gemma sentiva di poter paragonare a una tortura.

Il suo ultimo barlume di speranza, l’unica cosa a cui riusciva a pensare senza sentire la gola chiudersi per il panico, era il destino di Leonardo: l’artista doveva imbarcarsi sul Basilisco e partire alla volta del Nuovo Mondo. In tutto quell’inferno di spade, odio e tradimenti, almeno lui sarebbe rimasto al sicuro e neppure lei, assieme a tutti i suoi uomini, sarebbe stata in grado di trovarlo in tempo per catturarlo.

Nel groviglio dei suoi pensieri, nemmeno si accorse dello scorrere del tempo, fino a quando una voce a lei familiare non la ridestò.

            «Contessa», la chiamò Lucrezia Donati, con il respiro affannoso e la paura ben marcata nella voce.

Gemma però si prese un secondo per un profondo respiro, e rimase voltata di spalle. Doveva essere passato molto più tempo di quanto non pensasse, se le sue guardie erano già riuscite a trovare i congiurati di cui aveva chiesto notizie, ma non era ancora il momento. Non era ancora pronta a ritornare alla realtà e a fare quello che doveva essere fatto.

            «Non adesso, Madonna», rispose freddamente la nipote del papa, con lo sguardo verso un punto indefinito.

            «Contessa», ripeté l’altra di nuovo, con più decisione.

            «Ho detto: non adesso», ribatté bruscamente la Riario, la rabbia che iniziava a crescerle dentro.

            «Gemma!», urlò Lucrezia, con la voce ormai ben lontana dalla calma, ma impregnata di panico e angoscia. «Lui è qui».

E fu come se il tempo si fosse fermato.

La giovane donna si sentì gelare il sangue nelle vene, mentre lentamente rialzava il capo e si voltava verso Lucrezia, la sua espressione che pregava di aver capito male. Ma quando le due donne si guardarono l’un l’altra negli occhi, per Gemma non ci furono più dubbi. E fu peggio di uno schiaffo in faccia.

Il capitano Grunwald teneva saldamente la nobildonna fiorentina ferma dov’era, stringendo le mani sulle sue spalle. Rialzando lo sguardo, Gemma capì subito che la guardia la stava studiando, perché era chiaro a lui come era chiaro a tutti: la contessa Riario non avrebbe mai reagito in quel modo senza un’ottima ragione. Ma lei era troppo occupata a non farsi prendere dal panico per curarsene.

Salvare da Vinci, sempre ammesso di riuscirci, significava tradire il Vaticano, e a quel punto niente e nessuno sarebbe stato in grado di garantirle più di un paio di giorni di vita. Ma mantenere il suo ruolo avrebbe condannato l’artista a morte certa.

Ancora una volta, la sua sopravvivenza si era ridotta ad una scelta: la sua vita, o quella di altri. Ma l’altra non era più la vita di uno sconosciuto o di un nemico. Era quella di Leonardo.

Gemma non disse nulla, nemmeno una parola, mentre superava a passo svelto le guardie lì presenti ed usciva dalla sagrestia Vecchia. A malapena si rese conto di quale carneficina stesse avendo luogo nel mezzo del Duomo; il suo sguardo guizzava da una parte all’altra per trovare, in un groviglio di volti estranei, quello che ormai aveva imparato a conoscere.

A malapena notò il corpo senza vita di Giuliano, accanto a una delle panche di legno della navata centrale, né il Magnifico a terra con una mano premuta sul collo, pallido in volto e con il terrore negli occhi. Quando vide l’artista, il suo corpo agì di vita propria, e corse nella sua direzione.

Gemma ebbe appena il tempo di avvicinarsi di qualche passo, quando una violenta esplosione si frappose tra Leonardo e i congiurati, assicurandogli qualche istante di vantaggio. La contessa scattò fulminea ed evitò le fiamme, mentre la famiglia Pazzi indietreggiava e tentava di proteggersi dal fuoco.

Con molta fatica, da Vinci trascinò sé stesso e Lorenzo verso la sagrestia delle Messe e si lanciò contro le porte con tutte le sue forze, spalancandole sotto il suo perso. Spinse il Magnifico all’interno della stanza, e si rialzò velocemente in piedi per tornare indietro e chiudere l’ingresso.

Fu allora che si videro.

Il tempo di scambiarsi uno sguardo, ma lo capirono entrambi.

Capirono che era giunto il momento da cui avevano tentato di scappare. Capirono che non c’erano più vie di fuga o sotterfugi: erano l’uno contro l’altra, ma solo una delle loro vite poteva salvarsi. Capirono che era la fine. E non c’era niente che potessero fare.

Gemma lo vide, vide quale dolore lo stesse colpendo a quella consapevolezza, quanto quei sentimenti tanto a lungo combattuti gli stessero straziando il cuore. Ma per la prima volta da quando si erano conosciuti, anche Leonardo intravide lo stesso dolore negli occhi della giovane donna. Lo scorse nel suo volto, in uno sguardo che non era il suo, ma quello di una persona imprigionata in una maschera di dolore, costrizioni e manipolazioni.

Quello non era lo sguardo della Gemma che aveva conosciuto e per la quale avrebbe dato ogni cosa, pur di salvarla e di riportarla alla vita. Qualcosa in lei si era spezzato. E quando vide, un istante prima che le porte della sagrestia si chiudessero, i lividi e le ferite sul suo volto, fu come ricevere una pugnalata al cuore.

Il tempo di scambiarsi uno sguardo, e le porte si chiusero.

Da Vinci abbassò gli occhi sulle sue mani e si accorse che stavano tremando violentemente, così come il suo respiro che sembrava essersi bloccato in gola. Tentò di calmarsi, di concentrarsi su qualcos’altro, e corse da Lorenzo per provare a medicare il profondo taglio che aveva sul collo. Ma i suoi gesti erano poco più che movimenti vuoti ed automatici, il suo corpo stava agendo da solo; la sua mente invece era ben lontana da lì, devastata da quanto aveva visto.

Dall’altra parte della porta, Gemma non si stava nemmeno sforzando per recuperare il fiato in gola. Non si era neppure accorta di aver smesso di respirare, fino a quando una voce alle sue spalle non la riportò violentemente alla realtà.

            «Contessa», sibilò il capitano, e a lei non sarebbe servito a nulla voltarsi e vederlo in faccia: il suo tono era in tutto e per tutto una minaccia.

Grunwald aveva visto l’intera scena, e come lui altri testimoni, e ogni secondo a cui avevano assistito era soltanto una prova in più ad avvalorare i loro sospetti. E se Gemma non avesse fatto qualcosa per smentirli, non sarebbe uscita viva dal Duomo.

            «Capitano…», mormorò lei, e si costrinse a respirare prima di proseguire. «Abbattete le porte», aggiunse, la voce miracolosamente più ferma di prima.

Lo sentì allontanarsi a passi pesanti alle sue spalle, e fece tesoro di quel breve momento da sola per indossare di nuovo la sua maschera. E per pregare che, in un modo o nell’altro, Leonardo trovasse il modo di salvarsi.

Poco dopo alcune guardie svizzere e la famiglia Pazzi la superarono a grandi passi, impugnando qualsiasi oggetto che potesse essere un’arma, e iniziarono a colpire l’ingresso della sagrestia. Ma Gemma non era un’ingenua, le era bastato un solo sguardo a quel possente portone di legno per capire che non avrebbe ceduto tanto facilmente.

Prese un ultimo profondo respiro, prima di rinunciare per sempre a sé stessa, e fare ciò che andava fatto.

Si voltò alle sue spalle, cercando con lo sguardo il capitano Grunwald, e l’uomo capì immediatamente quale ordine gli fosse stato rivolto. Tornò poco dopo con una pesante spingarda tra le sue mani, ma Gemma nemmeno si voltò verso di lui, perché sapeva che facendolo quella flebile traccia di determinazione in lei sarebbe svanita.

            «Procedete», mormorò la contessa, e sfogò ogni sua esitazione mordendosi violentemente l’interno della guancia.

Sentì dei passi deboli e indecisi alle sue spalle, ben diversi dai pesanti colpi caratteristici delle sue guardie, e capì che Lucrezia le si era avvicinata.

            «Gemma…», la supplicò sommessamente, la voce incrinata e ormai prossima al pianto.

Ma la giovane non l’ascoltò. Non poteva permetterselo, perché stava già morendo dentro al pensiero di quello che stava per compiere.

            «Contessa?», domandò un’ultima volta il capitano Grunwald, al suo fianco.

Lucidi e velati di lacrime, Gemma rialzò gli occhi sull’ingresso della sagrestia, ed annuì.

            «Fuoco», mormorò, con un filo di voce.

L’uomo la superò e prese posizione di fronte al portone, mentre la corda del colpo in canna si stava consumando, divorata dalle fiamme. Ormai prossima allo sparo, Gemma serrò gli occhi, e una lacrima le rigò la guancia mentre voltava il capo dall’altra parte.

La fiamma si spense e il colpo esplose, diretto alla porta della sagrestia.

E con essa, anche il cuore di Gemma andò in pezzi.

 

 

 

Angolo dell’autrice

Sarà un angolo molto grande…

Buonsalve a tutt*!

Che dire… Non ho mai pensato ad un finale roseo, volevo una scena spacca cuore e, spero, qualche lacrima. Se ci sono riuscita, anche solo a metà, sono già felice.

(Vi svelo un segreto: poteva andare peggio. Ipoteticamente, potevano pugnalare Gemma e poteva toccare a Leonardo cercare di salvarle la vita. E, sempre ipoteticamente, il capitolo poteva finire con un La contessa si salverà o non si salverà?)

Avevo rimandato “saluti, ringraziamenti, ed eventuali cosine da comunicare” a questo capitolo, dunque così sia.

I saluti sono d’obbligo in quanto ultimo capitolo, ma c’è anche da dire che questa era la prima stagione su tre, quindi questi possono essere saluti definitivi o in vista di una reunion. Tempo libero permettendo, a me piacerebbe molto proseguire, perché mi sono affezionata al personaggio di Gemma molto più di quanto pensassi e vorrei continuare a raccontare la sua storia. La contessa di Imola ha ancora tante cose da dire. A voi piacerebbe leggere di lei ancora?

Insieme a questi saluti, lascio una piccola richiesta a chi mi ha letto in questi mesi. Vedo le vostre visite e quei numeri mi scaldano sempre il cuore, soprattutto quanto aggiorno e vedo che un’ora dopo siete già passat*. Spero che in occasione di questo finale, vogliate farmi un piccolo (ma per me grandissimo) regalo e lasciarmi un commento, anche di poche righe, con le vostre opinioni sulla storia. Non avete idea di quanto mi fareste felice. In qualsiasi caso, però, vi ringrazio uno per uno per questi mesi insieme e per aver dedicato del tempo a leggere quest’avventura.

“Eventuali cosine da comunicare”? Dopo tante insistenze da parte di una persona di mia conoscenza, ho ceduto e ho aperto un profilo instagram tutto per Gemma e per la sua storia, e se vi va di passare lo trovate qui: https://www.instagram.com/gemma.riario/

Perché solo ora, che è finita la storia? Perché finisce qui su EFP, ma… inizia altrove, su Ao3. Per ora in italiano, ma chissà… Anche lì, mi trovate come AmyWendys (tutto attaccato): https://archiveofourown.org/users/AmyWendys

E direi che può bastare o mi dilungherei troppo.

Che sia un addio o un arrivederci, io vi saluto con un forte abbraccio e vi mando un bacione grandissimo!

Con affetto  

Amy W. Gildeary

 

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