Just Be My Ocean

di Kat Logan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bomba inesplosa ***
Capitolo 2: *** Nella notte ***
Capitolo 3: *** Il ponte ***
Capitolo 4: *** La spiaggia degli incontri ***
Capitolo 5: *** Wildest Dream ***
Capitolo 6: *** Il passato che ritorna ***
Capitolo 7: *** Oceano di fuoco ***
Capitolo 8: *** Miccia ***
Capitolo 9: *** Bivi - Parte I ***
Capitolo 10: *** Bivi - Parte II ***
Capitolo 11: *** Waves - Parte I ***
Capitolo 12: *** Waves - Parte II ***
Capitolo 13: *** Bombe emotive ***
Capitolo 14: *** Be Mine ***
Capitolo 15: *** Toccare il fondo prima di risalire ***
Capitolo 16: *** Toccare il fondo prima di risalire - Parte II ***
Capitolo 17: *** Qualcuno da amare ***
Capitolo 18: *** Incrocio di destini ***
Capitolo 19: *** Le luci dell'alba ***
Capitolo 20: *** Che rumore fa l'oceano? ***
Capitolo 21: *** September ***
Capitolo 22: *** Your Hero ***
Capitolo 23: *** Aria di tempesta ***
Capitolo 24: *** Tornado ***
Capitolo 25: *** AVVISO E BUON ANNO ***



Capitolo 1
*** Bomba inesplosa ***


Autore: Kat Logan

I personaggi di Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.

Foto: l'immagine appartiene all'artista Junfender

 





Just Be My Ocean


“But here I am, next to you 
The skies so blue in Malibu 
Next to you in Malibu 
Next to you”.

 
Malibu – Miley Cyrus
 
 
 
 

Il vento portava con sé l’odore pungente della salsedine in quella mattina soleggiata.
Per un momento chiuse gli occhi, nonostante dovesse guardare dove mettere i piedi per assaggiare meglio il sapore del Pacifico; leggermente salato sulle sue labbra.
Respirò a fondo, riaprendo le perle blu incastonate sotto alle lunghe ciglia chiare, ritrovandosi a guardare nuovamente il serpentone di terra brulla snodarsi proprio al di sopra della costa.
 
Malibu, dove le montagne incontrano il mare.
 
Nulla poteva descriverla meglio di quello slogan che appariva quasi un mantra sulla bocca di tutti i suoi abitanti.
La zazzera bionda, spettinata dalla velocità e dalla brezza marittima, rimbalzò ancora una volta nell’aria.
Haruka continuò a correre lungo il Trancas Canyon ascoltando solamente lo scroscio delle onde sotto di lei scandito dal suo battito accelerato.
Le parve quasi di tornare nuovamente bambina a quando giocava a nascondino nelle grandi pianure del Kansas in mezzo a distese dorate di grano. Correva in quel nulla lungo chilometri, apriva le braccia tentando di catturare il vento tra le dita e si ritrovava tra le mani manciate di spighe a pungerle le dita.
 
«Ha-ru-ka».
 
Improvvisamente i ricordi si diradarono come nebbia e Haruka si ritrovò a rallentare il passo senza  combattere contro se stessa per trattenere uno sbuffo di disappunto.
 
«Vai ancora troppo veloce» sentenziò l’amica col fiato tanto grosso da renderle difficile il comprendere la frase. Ma suo malgrado, Haruka, l’aveva già sentita tante di quelle volte da saperla a memoria.
«Non posso farci niente!» ribatté per poi sfoggiare un sorriso tronfio sul viso.
«E dire che dovresti essere in forma» punzecchiò ancora una volta la compagna nell’ego.
«Gentile» rispose la ragazza dai lunghi capelli mori affiancandosi a lei.
«Credo di preferirti quando sei tutta smorfie e grugniti» puntualizzò tenendo i palmi serrati in due pugni all’altezza dei fianchi.
«In realtà vi lamentate tutti sempre. Sia che parli, sia che non lo faccia. Dovete decidervi» puntualizzò la bionda.
«Questo è perché hai poco tatto in ogni occasione».
«E questo è il motivo per cui tu continui a non avere fiato» controbatté un’ultima volta.
Rei corrugò le sopracciglia in una smorfia confusa.
«Più baggianate dici, meno riuscirai a starmi dietro!».
Haruka era così. Doveva sempre metterci il punto. Decidere lei quando una conversazione era degna di arrivare al suo termine o meno.
Rei soffocò il suo spirito polemico per quieto vivere o non sarebbero arrivate vive alla fine del loro allenamento.
Un doppio bip le fece arrestare all’unisono.
Le suole delle scarpe fecero alzare la polvere giallastra del terriccio arido.
Un momento di stasi in cui le iridi blu si tuffarono nei pozzi scuri dell’altra.
Rei trovò l’amica bella anche in quel momento, con la pelle ambrata dal sole e le gote rosse per lo sforzo fisico.
«È il mio o il tuo?» chiese Haruka spezzando il silenzio e la magica contemplazione della mora.
Un altro doppio bip riecheggiò e questa volta Haruka fu certa provenisse dai suoi pantaloncini.
 
Rei tirò fuori il suo cercapersone e l’amica la seguì a ruota.
 
«Incendio a Brentwood» commentò Rei.
«Bomba al Beach Inn» sentenziò Haruka.
«Ci vediamo sta sera?» chiese frettolosamente Rei asciugandosi col dorso della mano la fronte coperta da lunghi ciuffi corvini e pronta a fare retro front.
«Solito posto».
 
Più che una promessa ogni volta era un rito scaramantico quello.
 
 

 
*** 
 
 
«Oh, finalmente sei qui».
Haruka si sentiva soffocare nella divisa da artificiere con l’estate alle porte.
«Teoricamente non ero in servizio» borbottò irritata e provata da tutta quella fretta che le era stata messa addosso dal proprio cerca persone.
«Siamo a corto di personale».
Dan fece spallucce, era un tipo tanto rilassato anche nei momenti di maggiore adrenalina da farle saltare i nervi.
«E poi si agisce sempre in due. Hanno chiamato me, non potevi startene in panciolle».
Haruka sbarrò gli occhi. «Ero ad allenarmi, non sul divano!» sbottò, per poi venire zittita dal classico gesto che faceva lui con la mano quando non ne voleva sapere delle sue lamentele.
Lei contò fino a cinque o ci sarebbe stato un omicidio per mano sua.
«Ciabella?» chiese Dan con fare rilassato, indicando il furgone della SWAT alle sue spalle con lo sportello aperto e una scatola bianca in bella vista poggiata sul sedile del passeggero.
«Fai sul serio?».
«Hey, sono donuts con ripieno doppio. Non scialbi dolcetti gluten free».
Haruka non era il tipo da perdersi in chiacchere, mentre lui lo avrebbe fatto fino a sera se solo qualcuno fosse stato ad ascoltarlo senza obbiettare.
«Entriamo o no?» domandò impaziente lei, avvertendo il formicolio alle dita dei polpastrelli tipico dell’essere sempre sul filo del rasoio.
Dan la fissò e Haruka in risposta arricciò il naso.
Non sopportava quando lo faceva, odiava quando qualcuno la fissava in silenzio e lei dentro stava scalpitando per entrare in azione.
Dan stese le labbra in un sorriso e le mollò una vigorosa pacca sulla spalla.
«Era un falso allarme!».
Le palpebre della bionda sbatterono più volte e il suo tic nervoso al naso sembrò peggiorare precipitosamente.
«Era solo uno stupido trolley abbandonato nell’atrio dell’hotel, ed è salito il panico a tutti dopo quella volta che…». Le labbra di Dan si mossero ancora qualche secondo, ma smisero di proferire parola poiché riconobbe l’istinto omicida negli occhi di Haruka. Forse aveva esagerato, ma l’espressione che assumeva lei ogni volta dopo uno stupido scherzo era impagabile.
«Mi stai dicendo…che nel mio giorno libero…» il caldo la stava trasformando in una belva assassina. «Mi hai fatto correre fin qui e non c’è niente che abbia lontanamente voglia di saltare per aria?!».
«A parte tu, niente di niente!».
«Quanto sei stronzo» commentò lei, togliendosi con stizza il casco nero dalla testa e mollandogli uno spintone.
Dan rise di gusto. ricevendo in risposta un altro paio di spinte da parte di Haruka che parve placarsi solamente per slacciarsi la divisa alla base del collo per evitare di soffocarci dentro.
«Su, calmati». Dan tirò su la manica e guardò il display digitale dell’orologio da polso «sei proprio in tempo per vederla».
«Di che diavolo stai parlando?» domandò con fare disperato Haruka che in quell’esatto momento avrebbe pagato oro per starsene in spiaggia a fare surf o a sorseggiarsi una bibita ghiacciata in santa pace.
«Dio, a volte sei proprio fuori dal mondo. Ancora nel desolante Kansas…».
Dan si guadagnò una gomitata al fianco e richiamò all’attenzione il loro collega.
«Hey, Ray! le ciambelle. Comincia lo spettacolo».
Ray, un ammasso di muscoli e tatuaggi, li raggiunse con la sua camminata ciondolante da montagna umana e aprì la famigerata scatola sotto ai loro nasi.
A loro si unirono anche altri due ragazzi della squadra anticrimine e si misero ad aspettare a braccia conserte fissando la porta della struttura a fianco l’hotel.
Era una piccola botique con una vetrina fitta di abiti da donna tutti pizzi e merletti.
Roba elegante e ricercata. Haruka la catalogò così nel suo pensiero.
Dan prelevò con fare distratto uno dei dolci cominciando a gustarselo lentamente e l’amica cominciò a battere il piede sull’asfalto con fare insofferente.
Non amava le attese né perdere tempo prezioso per un nonnulla.
 
Cosa diavolo stanno aspettando tutti quanti?
 
La risposta al suo pensiero non tardò ad arrivare.
Bastò attendere l’aprirsi della porta in verde salvia del negozietto accompagnato dal tintinnio del campanellino appeso all’entrata.
Lunghe onde acqua marina ricadevano sulle spalle scoperte di una giovane nascosta dietro ad un paio di occhiali da sole alla moda.
Un brusio da trogloditi si levò tutto attorno ad Haruka che come il resto della ciurma non staccò gli occhi di dosso alla figura poco lontana da loro.
«Ti presento tacco dodici» le sussurrò Dan all’orecchio.
«E voi idioti, nel vostro tempo libero, vi radunate qui a fare gli stalker?» chiese Haruka con fare superiore.
Tacco dodici era senza dubbio una bella ragazza, ma a Malibu ce n’erano a bizzeffe o quanto meno è quello che si disse Haruka interiormente per convincersi di non essere uguale a tutti quei decerebrati di cui si contornava.
«Ci ha rifiutati uno ad uno» commentò Ray.
La situazione era peggiore del previsto ne convenne Haruka.
«Crediamo sia una star» disse uno dei ragazzetti che si erano uniti alla visione in diretta del corpo perfetto.
«E tu Dan?» indagò Haruka, «ci hai provato?».
«Non ancora» fu Ray a rispondere per lui. «Doveva farlo oggi».
«E cos’è ti senti sotto pressione?». Haruka sfoderò un sorrisetto provocatorio, abbandonando mollemente un braccio sulle spalle dell’amico.
«Ma quale pressione…» commentò lui con ancora il boccone in bocca.
La sconosciuta caricò le borse sui sedili posteriori dell’auto e si sedette al posto di guida.
 
«Guarda e impara».
 
Haruka si passò una mano tra i capelli e attraversò la strada con gli occhi di tutti puntati addosso.
Camminava sicura di sé, come sempre del resto. Perché Haruka era cosciente che madre natura era stata generosa con lei e nascondere la realtà dei fatti non le avrebbe giovato nulla, perciò tanto valeva essere fiere di sé stesse e coscienziose del fatto che non esisteva nessuna in grado di resistere al suo fascino. E sebbene lei avesse compreso sin dall’adolescenza di essere interessata al gentil sesso, non importava che l’altra parte fosse tale e quale a lei. Se solo fossero esistite realmente delle regole per l’attrazione, Haruka Ten’ō le avrebbe sabotate senza troppo sforzo e piegate a suo vantaggio.
Avvertiva le pupille di tutti quanti i compagni attaccarsi alle sue scapole per non perdersi nemmeno un nano secondo di quella caccia spietata alla gazzella che Malibù sembrava agognare da giorni ma senza successo.
«Hey!» mostrò al dentatura bianca e perfetta in un sorriso degno di uno spot televisivo.
La ragazza aveva appena girato la chiave per accendere il motore, ma a dispetto di chiunque altro non parve interessata a guardarla in viso e perdersi in centottanta centimetri di pura bellezza.
«Qual è l’approccio oggi?» interloquì la giovane dietro agli occhiali scuri prima che Haruka potesse proferire parola.
«Perché ho già sentito quella dell’angelo caduto dal cielo e quella di google, che ammetto, è stata carina».
«Quale sarebbe quella di google?».
Haruka si lasciò distrarre da un’ondata di curiosità e interessarsi funzionava sempre. E’ risaputo che al genere femminile piace parlare, ancor di più se si tratta di sé.
L’altra sospirò senza lasciare andare la presa sul volante. E Haruka in quel tirare il fiato aveva riconosciuto quella che era niente poco di meno che una pacata reazione d’intolleranza verso chi evidentemente l’aveva importunata senza sosta.
«Ti chiami google? Perché hai tutto quello che cerco» recitò per poi inserire la marcia.
Haruka si sforzò di non ridere, ma chiunque l’avesse partorita doveva avere un premio per l’originalità.
«Ora ti sposteresti?» domandò la sconosciuta.
«Solo se mi lasci il numero di telefono».
«Così puoi vantarti con i tuoi amici di essere tu il vincitore, vero?».
 
Touchè. In fin dei conti era per quello che Haruka aveva cominciato. Voleva far vedere che poteva prevaricare senza problemi un gruppo di maschi arrapati ed essere l’alfa del gruppo pur essendo donna.
«Anche oggi è andata male» sentenziò l’altra girando le ruote dell’auto. «Potete riprovare, nella vita non si può mai dire. Ma ora, ti conviene spostarti, o il numero ti servirà solo per farmi contattare dal tuo legale dopo uno spiacevole incidente in cui io ti passo sopra con le ruote della macchina».
Haruka, esterrefatta perché presa letteralmente in contro piede, non poté che ubbidire.
Mai nella vita le era successa una cosa tanto assurda.
Ma Haruka non era un tipo da resa o da tirarsi indietro davanti ad una sfida difficile. Lei disinnescava bombe le difficoltà erano il suo pane quotidiano.
Così, mentre nella sua visuale rimaneva solo la targa di Beverly Hills destinata a scomparire nell’orizzonte, Haruka si ripromise di non mollare.
Nessuno poteva dare un due di picche ad Haruka Ten’ō, nessuno poteva sabotare le regole dell’attrazione tranne lei.
 
 
 

Note dell'autrice:
Hola, a chiunque abbia la pazienza e la voglia di seguire questa storia! Intanto grazie a chi ha avuto il coraggio di leggere questo primo capitoletto.
Nel corso della racconto subentreranno tanti altri nuovi personaggi. Purtroppo nell'elenco dell'introduzione non è possibile inserirne più di cinque, per tanto ho inserito il tag "un pò tutti". Per quanto riguarda l'etichetta OOC, come alcuni sapranno se hanno letto mie storie precedenti, la inserisco quando negli AU credo che possano mutare un pò gli atteggiamenti dei personaggi di Naoko in base a determinate situazioni o alla storia in generale. Se credete sia bene però toglierlo segnalatemelo pure, come sempre accetto consigli e sono contenta di confrontarmi.

Presto sarà presente un titolo per questo primo capitolo al posto di quell'insignificante 1.

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Capitolo 2
*** Nella notte ***


Makoto era una a cui piaceva essere pratica. Faceva spesa il giovedì quando il market aveva il “due in uno” per i detersivi e il “tre per due” sui pacchi dei cereali. Il pieno per la macchina era ammesso solo sulla Wilshire Bulevard perché così non doveva perdere tempo a fare svolte o inversioni, siccome si trovava già sulla strada in direzione per il lavoro. All’alba, quando la marea lo permetteva, surfava a Malibu in modo da essere già pronta per aprire il bar sulla spiaggia senza doversi nemmeno cambiare d’abito.  E al tramonto giocava a beach volley, perché ferma aveva capito di non riuscire a stare.
Le giornate correvano e lei non aveva la minima intenzione di rimanere indietro.
Solo il suo giorno libero le permetteva di non avere tutto pienamente sotto controllo o organizzato al secondo. Così, aveva aperto la porta di casa, si era stiracchiata nel vialetto e si era lanciata con le cuffiette nelle orecchie a correre per il quartiere con Ronald, il suo fido pastore australiano.
Anche quello era pragmatico: lei faceva attività fisica e si risparmiava la passeggiata per il cane perché stava già facendo entrambe le cose.
 
Sono multitasking.  
Era quello che le piaceva ripetersi.
 
Sullo stesso marciapiede qualcuno a testa bassa camminava in direzione opposta.  Una ragazza bionda dai lunghi capelli e una chitarra in spalla nascondeva gli occhi, solitamente pieni di stelle, bagnati come se piovesse.
Makoto e la sconosciuta si sfiorarono appena, Ronald le annusò le caviglie per poi seguire la padrona che era già davanti a un vialetto dai colori sgargianti e una bicicletta abbandonata a sé stessa sul prato ben tagliato.
Nell’abitazione, al di là della porta a vetri, una buffa ventitreenne dai codini dorati litigava animatamente con una pila di frittelle che pendeva pericolosamente in direzione del pavimento.
Una macchina dai vetri oscurati si accostò a ridosso dell’abitazione.
Makoto fantasticò sul possibile ospite della vettura. Le supposizioni scivolarono dal gangster, alla star del cinema fino ad arrivare al politico corrotto. Probabilmente nella lista dei papabili candidati avrebbe inserito anche il principe del Galles, quando venne distratta dal saluto che Michiru le lanciò dalla propria decapottabile.
 
Michiru, quella mattina, al contrario di Makoto non si era potuta godere a pieno il bel tempo che la California offriva loro.
Aveva guidato per un’ora e mezza imbottigliandosi nel traffico di Rodeo Drive, ma era ben altro quello che poteva sfinire una giovane donna come lei.  In primis l’istinto basso e basilare dell’uomo sapiens a competere solo per il gusto di sentirsi infallibile e pavoneggiarsi davanti ai suoi simili.
Michiru non ci stava. Non era quel tipo di donna; quella superficiale che accetta di essere usata e poi dimenticata dopo una scampagnata tra le lenzuola o una di quelle tanto prive di autostima, da accettare di diventare l’accessorio preferito del suo uomo fino a diventare una di quelle senza più una propria opinione.
Beverly Hills pullulava già a sufficienza di quegli involucri vuoti ingioiellati e lei non aveva intenzione di divenire parte di quell’inutile schiera.
Alzò la musica dell’autoradio per non cadere vittima del continuo e frenetico suono dei clacson. Un recente studio aveva dimostrato che lo stress di ritrovarsi fermi in mezzo a tanta gente, bloccati per strada, era una delle cause maggiori a scatenare istinti violenti nell’uomo.  Michiru che amava la tranquillità e aveva tutta l’intenzione di conservare il proprio senno permise al proprio cervello di concentrarsi sulla musica, piuttosto che su quel caos di scappamento e gente irritata.
Quando l’ingorgo parve sbloccarsi, poté dirigersi verso casa. Attraversò un lungo viale adornato da alte palme verdi dietro le quali si stagliavano cancelli in ferro battuto e vialetti bianchi che introducevano all’entrata di villette indipendenti tutte similari fra loro.
Riconobbe Makoto, una ragazza del proprio quartiere, intenta a fare jogging col proprio cane. La sorpassò facendole un cenno con la mano e compì un parcheggio da manuale nel proprio viale pieno di vasi colorati, straripanti di ibisco dalle tonalità fucsia e rossastre.
Solo una volta spento il motore, lanciando un’occhiata fugace allo specchietto, notò l’auto sospetta.
Michiru conosceva tutte le vetture dei vicini e sebbene quello fosse un buon quartiere non ospitava di certo star o gente di alto livello.
Chiavi in mano e buste raccattate, scese dall’auto.
 
«Si-signorina Kaiō?» una voce flebile, titubante, richiamò la sua attenzione prima che potesse girare le chiavi nella toppa e varcare la soglia di casa.
«Si? Sono io!».
Dietro a due uomini con tanto di auricolare e occhiali da sole si fece spazio una figura esile.
«Sono Ami».
«Oh certo! Ho qui tutta la tua roba!» le sorrise gioviale Michiru.
Non si aspettava che una delle menti più brillanti d’America si palesasse con due guardia del corpo.
Ami chiese sottovoce agli uomini di aspettarla fuori e raggiunse Michiru alla porta.
«Non se li aspetta mai nessuno» sottolineò non appena le fu vicina.
«Ma non sono stata io a chiederli!» si apprestò a spiegarle subito come a giustificarsi.
«Beh, sei una persona piuttosto importante ora. È una buona precauzione. Prego, entra».
 
Ami accettò l’invito della padrona di casa e una volta varcata la soglia dell’abitazione si palesò dinnanzi a lei un salotto in perfetto ordine, dai colori chiari e luminosi.
«MICHI SAMAAAAAAAAAAAAA!».
Entrambe sobbalzarono a quel verso improvviso proveniente dalla cucina.
Ami si portò una mano al cuore e Michiru alzò gli occhi al cielo richiudendosi la porta alle spalle.
Due codini biondi e un grembiule completamente ricoperto di macchie si presentarono nel salotto.
«Oh, hai ospiti. Scusa!».
«Tranquilla, Bunny. Non ci metteremo molto».
«Ooh ma tu…tu sei…» Bunny parve boccheggiare mollando il mestolo a terra. Si portò le mani alle guance e si pestò i piedi per l’emozione.
«TI HO VISTA IN TV!» gridò come se tutti i presenti fossero sordi puntando il dito verso Ami.
«Michi Sama hai portato una star in casa tua».
«Sembra proprio di sì» ne convenne Michiru, facendo cenno a Ami di accomodarsi sul divano.
«Cos’hai…».
«Combinato? Io?!» la bionda parve entrare in modalità finta tonta. «Nulla! Sapete? Riordino solo la cucina, ora. Proprio…ora! E vi faccio una limonata. Prima. Prima di riordinare la cucina. Si. Vado».
Una risatina sommessa scappò dalle labbra di Ami. Mai nella vita le era capitato di incappare in una persona tanto stramba come quella appena incontrata.
«Non farci caso. È solo un concentrato di vitalità, ma è innocua!» la rassicurò Michiru.
Lei era elegante e posata. Pensò Ami guardando Michiru posare la borsa e sistemare le buste che aveva con sé sul tavolino in vetro ai piedi del divano.
Sembrava che ogni suo gesto fosse misurato come quello delle geishe nella cerimonia del tè.
«Allora…ho qui qualcosa per te» cominciò Michiru, strappando Ami alle sue riflessioni.
«Hanno detto sei la migliore. E io se non si tratta di algoritmi o cose similari non so da dove cominciare».
«Per la cronaca. Sei tanto intelligente che nessuno dovrebbe guardare come sei vestita. Dovrebbero semplicemente pendere dalle tue labbra. Ma sicuramente l’abito giusto aiuta molto in alcune situazioni!». Michiru le schioccò un occhiolino e aprì una scatola dal colore giallo crema.
«Da quanto lo fai?».
«Che cosa? Vestire le star?» domandò.
Ami accennò un timido “si” col capo.
«È una cosa piuttosto recente. Non è un lavoro a tempo pieno…».
«Do-dovresti! Si dicono solo cose belle sul tuo conto. Litigano sempre per avere te!».
Michiru si sentì lusingata. Veniva spesso contattata da personaggi dello spettacolo che volevano ingaggiarla per rifarsi il guarda roba o essere sicuri di indossare l’outfit giusto sul tappeto rosso.
«Allora fidati se ti dico che dovrai indossare queste fantastiche scarpe!» annunciò aprendo la scatola e sottoponendole al giudizio della sua cliente. «Da abbinare con questo abito che ho scelto per te».
 
 
***
 
 
Sul molo a Malibu Rei si godeva i gabbiani piroettare per poi sfiorare il pelo dell’acqua.
Sedette allo sgabello del solito bar seguita dall’amica che da quando era rientrata a casa aveva la faccia da funerale.
«Mina ti prego, tirati su il morale perché sembra ti sia morto il gatto!».
«Non dirlo nemmeno per scherzo!». Minako si drizzò sulla sua postazione fulminandola con il suo sguardo azzurro cielo. Lei un gatto l’aveva sul serio e per essere scaramantica, non permetteva a nessuno di attentare a una delle sue nove vite che fosse a fatti o a parole.
Rei sbuffò sonoramente poggiando la guancia al palmo della mano e puntando il gomito al tavolino. Sbirciò l’orario nell’orologio che portava nel polso opposto, di Haruka ancora nessuna traccia.
«Vuoi parlarne?» domandò anche se poco convinta.
Minako si torturò una mano con l’altra, un vizio al quale cedeva sempre quando aveva il morale a terra ed era in procinto di vomitare fiumi di parole.
«Avevo il provino a West Hollywood oggi…».
Rei rubò una manciata di noccioline dalla ciotola in vetro trasparente davanti a sé.
«E mi ero preparata, davvero!».
«Si ho notato…» commentò Rei.
Minako la guardò torva e l’amica sventolò le mani tentando di recuperare alle parole che le erano appena uscite di bocche.
«Voglio dire, lo so. Insomma…quanto l’avrai suonata quella canzone? Almeno…cento volte?».
«Duecentoquarantasette per la precisione. Però la chitarra mi ha mollata. E’ partita una corda oggi. CAPISCI?!».
«Cosa dovremmo capire, Taylor Swift?» Haruka s’intromise senza salutare nella conversazione, o meglio, quello per lei era già un saluto bello e buono.
Spostò uno sgabello e si sedette accanto a Minako che aveva tutta l’intenzione di continuare a piangersi addosso.
«Ha fallito un provino» la ragguagliò Rei.
«L’ennesimo» puntualizzò Minako.
«La strada per il successo è impervia» commentò sarcasticamente Haruka.
Niente, non pareva dotata di tatto agli occhi altrui. Sembrava costantemente disinteressata delle difficoltà che costellavano il cammino degli altri, ma così non era e Rei, questo, lo sapeva bene.
Haruka non riusciva ad essere preoccupata nemmeno davanti a una bomba. Aveva fatto il pieno di ostacoli sin da bambina che se davanti a sé non si palesava una vera e propria tragedia non lasciava trasparire nulla.
Quella del Kansas, era stata una vera e propria fuga.
«Non sei morta nemmeno oggi» commentò Rei, facendo cenno a un cameriere per ordinare.
«No. E nemmeno Mina anche se ancora non pare accorgersene» cantilenò, mentre la bionda accanto a sé metteva su il muso incrociando le braccia al petto.
«Anche tu non mi sembri arrostita».
«Era uno stupido fornello. Si erano dimenticati il fuoco acceso con uno strofinaccio vicino. Non poteva nemmeno chiamarsi incendio quello».
Minako sbuffò «siete sempre così polemiche…». A volte era difficile essere lei, perché aveva due amiche che ogni mattina rischiavano la pelle mentre lei poteva giusto contare qualche callo sui polpastrelli a causa del continuo strimpellare.
Ma sin da bambina il suo sogno era quello di suonare e viveva per quello forse perché non aveva ancora incontrato qualcuno per cui vivere.
«Cosa posso portarvi?». Il cameriere arrivò al tavolo delle tre con un palmare alla mano.
«Un Bellini per me e due Long Island per loro» disse in automatico Minako facendo finalmente comparire sul viso un leggero sorriso.
«Basta un uomo per tirarla su!» ridacchiò Rei non appena il ragazzo si allontanò con le loro ordinazioni.
Minako fece una linguaccia ritrovando il buon umore nella luce del tramonto.
 
 
***
 
 
Era tarda notte quando il cellulare di Michiru s’illuminò nel buio della stanza. Fu la vibrazione insistente a svegliarla di soprassalto e con una mano, a tentoni, riuscì a recuperare il piccolo oggetto e a portarselo all’orecchio.
«Kaiō» sibilò senza rendersi nemmeno conto di non sapere chi fosse l’interlocutore dall’altra parte.
 
«Abbiamo bisogno di te».
 
Michiru si strofinò gli occhi portandosi una mano alla testa.
 
«Avevo detto di no per un pò».
 
«Sono passati sei mesi».
Michiru scalciò pigramente il lenzuolo tirando su il busto e poggiandosi con la schiena alla testata del letto.
Rimase in silenzio. Solo il suo battito pareva riecheggiare nella stanza.
«Devi smetterla d’incolparti».
Dall’altro capo del telefono non parevano mollare. Erano già passati sei mesi dall’incidente che l’aveva irrimediabilmente cambiata.
«Michiru?».
«Ci sono».
Le gambe sembravano non voler collaborare. Michiru madida di sudore rimase ancora qualche secondo immobile in quella posizione.
Aveva detto di esserci, ma non era vero. Con la testa era a sei mesi prima, all’inferno.
«Vincent Thomas Bridge».
«Ok» anche se niente in quel momento lo era.
«Fai presto». La linea cadde e con quella scoppiò anche la bolla di calma che Michiru si era faticosamente costruita.
 
 
 
***
 
 
«Queste sono le chiamate migliori». Dan era su di giri, mentre si aggiustava la tuta antiscoppio sul petto e Haruka tentava di infilargli il casco.
«Ma quale problema hai?» domandò lei senza credere alle sue orecchie.
Erano le quattro di mattina, aveva un sonno del diavolo e gli occhi minacciavano di chiudersi da un momento all’altro.
Aveva bisogno di un caffè nero sparato in vena. Subito. E se corretto con qualcosa di forte anche meglio, ma sul lavoro era senza dubbio vietato bere perciò avrebbe dovuto accontentarsi della brodaglia nera che avrebbe passato il convento.
«Le chiamate di notte. Passare all’azione, vedere l’alba…».
«Se vediamo l’alba dammi il numero del tuo spacciatore perché deve averti dato della roba davvero buona». Commentò Haruka tentando ancora una volta di centrare la zazzera di capelli di Dan per finire una volta per tutte la vestizione del compagno.
«Io alle quattro di mattina vorrei soltanto essere nel mio letto con una bella donna o a divertirmi da qualche parte. Non certo qui. Con te che sembri fatto come un copertone e…vuoi stare fermo?!». L’ultimo briciolo di pazienza era andato. Svanito nel nulla e lo fece capire all’amico con un’occhiataccia che avrebbe convinto chiunque.
 
Il camion dei pompieri parcheggiò alle loro spalle e dal posto di guida saltò già Rei intenta a trafficare con un elastico per raccogliere i lunghi capelli corvini.
«In forma, Ruka?» le schioccò un occhiolino e le mollò una pacca amichevole sulla spalla.
«Caffè» borbottò la bionda.
Il suo lavoro le piaceva di giorno, non al chiaror di luna quando era ancora più difficile individuare un ordigno e il rischio si triplicava.
«Non sono la tua barista, arrangiati» le disse tagliente Rei.
«Avete le sirene, fareste prima».
«Già, noi siamo ingombranti con questa roba addosso» le diede man forte Dan.
«Ray dovrebbe portarci le ciambelle. L’ho tirato giù dal letto con una chiamata anche se non era di turno chiedendogli di fare un passaggio da Dunkin Donuts».
Haruka scosse il capo sconsolata. Le sembrava sempre di essere a braccetto con uno da internare in un reparto di psichiatria per quanto era fuori di testa Dan. Lui e la sua ossessione per le ciambelle.
«Cosa stiamo aspettando?» chiese Rei.
«Il mediatore» borbottò Dan facendo scrocchiare le dita.
«E se si butta?».
«Facciamo il botto» disse candidamente Haruka.
 
Una volante a sirene spiegate si fermò davanti alla zona transennata.
«Capo delle operazioni presente» commentò Dan, facendo intendere a Rei di andare con i colleghi pompieri o quelli della SWAT avrebbero avuto grane per le troppe chiacchere.
La donna rispose alla ricetrasmittente oltrepassando i nastri e lo sbarramento.
«Capo Meiō» Dan si cimentò in una sottospecie di riverenza e la donna lo guardò dall’alto al basso per poi rivolgersi ad Haruka.
«Sviluppi?».
«No. L’idiota è lì. Abbiamo il sospetto che stringa in mano un possibile detonatore. La squadre sta setacciando il perimetro, per ora non abbiamo trovato l’ordigno. Se si butta saltiamo tutti per aria».
«Fantastico» Setsuna agognava una sigaretta, ma sarebbe stato poco opportuno.
«Possiamo avere il caffè capo Meiō?».
«Mi prendi per il culo Ten’ō?».
«Come non detto».
 
«Abbiamo il mediatore» gracchiò la ricetrasmittente.
Setsuna fece cenno agli agenti di far passare il loro uomo.
 
E sul Vincet Thomas Bridge, Haruka sbarrò gli occhi anche se in preda al sonno perché riconobbe senza indugio il mediatore.
Anche se ai piedi portava un paio di sandali adornati di gemme verde scarabeo, quella che avanzava verso di loro era senza ombra di dubbio tacco dodici.





Note dell'autrice:
Ecco qui un pò dei personaggi presentati alla "spicciola". Ovviamente non sono tutti e ognuno di loro verrà approfondito ma siccome erano già nove pagine non volevo fare un capitolo troppo lungo o avrete dovuto attendere per non so quanto a causa del poco tempo a disposizione.
Sono stati fatti tanti accenni alle storie di alcuni di loro, non rimarrà nulla del mistero perché pian piano vi svelerò tutto quanto.
Spero tanto abbiate potuto apprezzare anche questo capitolo. Al prossimo!

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Capitolo 3
*** Il ponte ***


Arrivata sul Vincet Thomas Bridge, Michiru dovette contare fino a dieci prima di decidersi a scendere dall’auto.
Le luci intermittenti blu e rosse si specchiarono nelle sue iridi azzurre come il pacifico che bagnava la coste di Malibu.
Prese un lungo respiro e chiudendo lo sportello intravide la lunga chioma di Setsuna, il capo delle operazioni, che non si era risparmiata per buttarla giù dal letto in piena notte.
 
Sorpassò le transenne e i nastri che delimitavano l’area all’operazione delle forze dell’ordine. Guardò l’asfalto nero sotto ai sandali bassi che portava ai piedi, in cerca di qualche indizio sfuggito a qualcuno dei presenti poiché, come insegnavano sin dal primo momento ai corsi per mediatori,  erano i dettagli che contavano.
Mostrò il distintivo a un poliziotto che stava poggiato al cofano di un auto della polizia che informò Setsuna del suo arrivo.
Michiru respirò pesantemente, non per l’attesa, ma per ricordare a se stessa di mantenere la calma.
Non era lei quella in bilico tra la vita e la morte in quel momento. Non lo era mai stata fortunatamente, ma il peso della salvezza di qualcun altro gravava sulle sue spalle continuamente. E sei mesi prima, quel macigno, era riuscita a schiacciarla in una notte come quella.
«Passi pure, l’aspettano».
Lei rispose con un cenno della mano per poi procedere in mezzo a quel raggrumo di umani in divisa. Era uscita di casa senza prestare attenzione a quello che si era messa addosso, ma sicuramente avrebbe trasmesso più sicurezza di chi era stato costretto a calzare la tuta da artificiere.
 
«Eccoti qui» Setsuna l’accolse poggiandole la mano tra le scapole e interrompendo la fitta conversazione avuta con due della SWAT.
«Hai fatto presto».
«Avevo scelta?» era nervosa. Lo si carpiva dalla voce.
«Michiru…».
«Avevo detto di aver bisogno di tempo» controbatté cercando di mantenere un tono basso e interrompendo il suo superiore.
«Sono l’unica a Los Angeles?».
«Sei la migliore a Los Angeles» la ragguagliò il capo delle operazioni.
«Forse lo ero prima, dovresti parlare al passato».
Setsuna assottigliò lo sguardo a quelle parole che suonarono al suo orecchio come un rimprovero . Loro due avevano un buon grado di confidenza, maturato nel corso di diverse operazioni che avevano condotto e portato a termine assieme. Ma nonostante la natura di quel rapporto il capo Meiō era famoso per la sua inflessibilità, caratteristica che l’aveva fatta arrivare a quel punto nella sua carriera e che non avrebbe tardato a far venire fuori.
«Il momento in cui era permesso lagnarsi è finito, Kaiō».
Michiru drizzò le spalle quasi fosse stata curva per tutto il tempo del suo arrivo. E sebbene non seppe che tipo di emozione la stesse pervadendo in quel momento, dovette ringraziare il “brutto” carattere di Setsuna per aver dissolto ogni suo tentennamento sul nascere.
«Vorremmo essere tutti altrove in questo momento. Ho bisogno di persone capaci. Sii una di quelle persone, Kaiō».
Michiru ripeté qualcosa a bassa voce tra sé e sé, una sorta di mantra che masticava tra le labbra prima di cominciare a fare ogni volta il suo lavoro.
«Ti presento due dei nostri artificieri. Harris e Ten’ō».
«Dan» allungò la mano quello più alto e ingombrante per l’abbigliamento antiscoppio.
«Si, o ciambella per gli amici» interruppe la conversazione Haruka riferendosi all’amico.
Michiru riconobbe il viso abbronzato e i capelli chiari del secondo.
«Chi si rivede…» commentò Haruka con un sorriso spavaldo da far salire i nervi anche alla persona più paziente dell’intero continente.
«Già. Cos’abbiamo?» sviò Michiru per andarsene al più presto da quel posto ed evitare di cadere vittima di ulteriori approcci scadenti.
«Due volte in un giorno, non ci si presenta?».
Setsuna intervenne zittendo la bionda con lo sguardo.
«Ok, ok» Haruka alzò le mani arrendendosi dal continuare a infierire. Anche se un’ ultima pungolata non se la sarebbe risparmiata.
«Senti, Beverly Hills. Abbiamo un tizio che minaccia di buttarsi di sotto. E in mano pare avere un detonatore. Sono certa che capirai in che brutta situazione ci troviamo. Se lui si butta, saltiamo tutti per aria».
«Da cosa lo deduci?».
Haruka fu quasi risentita per quella mancanza di fiducia nei suoi confronti. Gonfiò il petto e con fare ovvio rispose alla domanda di tacco dodici.
«Sembra uno di quelli a breve distanza. Vuol dire che c’è un ordigno qui. Niente timer. Lui deve sicuramente averlo sott’occhio o altrimenti  significherebbe essere troppo lontano per innescarlo».
«Lo avete identificato?».
«Sarei qui a parlare con te, altrimenti?».
Michiru guardò Haruka con sufficienza.
«Credo proprio di sì visto che sembra una brutta abitudine che hai in servizio. E poi sul serio…Beverly Hills?!».
«BAMBINI!!!» Setsuna perse la pazienza definitivamente e interruppe sul nascere quella che sembrava una pericolosa miccia in procinto di prendere fuoco.
«D’accordo. Il mio supporto? » chiese Michiru.
Setsuna si morse un labbro con fare sconsolato.
«Non ce l’hai Michiru. Non ne abbiamo trovato nessuno».
«Ok» mentì lei. Non poteva andare peggio di così, non poteva essere più difficile di così.
«Ci sono io» tentò di recuperare Setsuna.
«No, va bene. Ce la faccio. Ora vado».
«Senza nemmeno un giubbotto anti proiettili, Beverly Hills?».
«Se ha veramente un detonatore in mano…» sentenziò Michiru guardando Haruka dritta nel suo sguardo fiero «non mi servirà a un bel niente».
Le diede le spalle e Haruka fu costretta a zittirsi. Tacco dodici non era irriverente come lei, ma era bella da togliere il fiato e senz’altro con del fegato, anche se la bionda non lo avrebbe ammesso a sé stessa mai e poi mai perché era lei quella da prima linea.
Dan, Setsuna e Haruka la guardarono allontanarsi, dirigendosi a passo deciso, fino ad una distanza di tre metri dal possibile suicida.
«Capo, sul serio? La strizza cervelli da Beverly Hills, abbiamo? Psicanalizzerà le star con problemi di autostima o disordini alimentari. Non credo sia adatta a quest-».
«Ten’ō che razza di problemi hai questa sera?».
«A parte la mancanza di caffeina, come ho già sottolineato prima il…».
Setsuna mimò un basta con il palmo della mano destra.
«Non era una vera e propria domanda la mia. La strizzacervelli, come la chiami tu. E’ Michiru Kaiō».
Haruka scoppiò in una risata nervosa e Dan sbarrò gli occhi da sotto il casco.
«Quella…Michiru Kaiō?» si apprestò il ragazzo a domandare preso dall’entusiasmo.
Setsuna fece un cenno assertivo del capo. Maledicendo interiormente il cielo per essere di turno con quei due.
«Si, Dan…quella che è andata fuori di testa sei mesi fa» sottolineò Haruka.
«Ten’ō, ancora una parola su questa faccenda e giuro ti renderò la vita un inferno».
Haruka schioccò la lingua, frustrata dal doversi dare un freno e non poter continuare ad esprimere apertamente il suo disappunto. Sin dal primo vagito era stata uno spirito libero e irrequieto. Non amava avere restrizioni, tanto da aver dovuto abbandonare il Kansas per sfuggire ad una vita di costrizioni che le avrebbe portato via anche l’anima.
Sbuffò sonoramente incrociando le braccia in attesa d’intervenire.
Setsuna accese il dispositivo collegato con Michiru e Haruka non poté fare a meno di puntare lo sguardo sulle le onde acqua marina che danzavano nel vento.
Pensò all’infrangersi dei cavalloni contro la costa, senza poter sapere che in Michiru conviveva un mare in tempesta.
 
 
***

 
«Indietro. Indietro o giuro su Dio che mi butto».
La maggior parte delle negoziazioni cominciava così. Michiru era ormai abituata a quella frase ma ciò non voleva dire che non le facesse più effetto sentirla.
La maggior parte delle persone, anche se non sempre consciamente, bluffava. Si faceva spesso fermare nel momento in cui realizzava come si potesse ridurre il proprio corpo con l’impatto al suolo da certe altezze.
«Non ho intenzione di avvicinarmi più di così» lo rassicurò Michiru con un gesto di resa delle mani. «A meno che non lo voglia tu» aggiunse pacata per poi fermarsi alle spalle dell’uomo.
Sembrava poco più adulto di lei. Avranno avuto si e no una differenza di cinque anni.
Michiru sapeva di dover avere un contatto visivo con lo sconosciuto per essere più efficace.
«Mi chiamo Michiru…» si presentò come se dovesse farsi conoscere per fare amicizia e si sporse in avanti col busto per guardare di sotto.
Il vento le sferzò in viso prepotente e lei si fece cogliere da un brivido.
«È una bella altezza…» commentò, «soprattutto se si soffre di vertigini come me».
«È un bel nome» ne convenne l’uomo. «Ma non è di queste parti».
«Mia madre è americana. Mio padre era giapponese…lo ha scelto lui, posso sapere il tuo?».
«John» rispose lui sforzandosi di non guardare oltre le sue scarpe.
«John. John, posso avvicinarmi? Vorrei ripararmi dal vento sotto al pilone se non ti spiace. A quest’ora l’aria è piuttosto fredda».
Lui scostò la testa come per riuscire a vederla meglio. Michiru si strinse nel giubbetto grigio strofinando le mani ai fianchi come se avesse realmente bisogno di scaldarsi.
«Va bene».
«Grazie John». Ricevuto il permesso Michiru poté accostarsi a lui.
 
 
«Quanto ci vuole?» domandò Haruka impaziente a Setsuna.
«Dalle tempo. Sta andando bene, si è allineata a lui» constatò la donna più grande.
«Credo di dovermi avvicinare» insistette la bionda. «Se qualcosa va storto e lui…».
Setsuna la zittì per ascoltare la conversazione di Michiru e del volto che ora aveva un nome.
«Non vai da nessuna parte. Rimani qui».
«Si e poi rischieresti di farla innervosire e manderesti tutto all’aria» aggiunse Dan.
«Grazie».
«Non c’è di che» rispose lui senza cogliere il sarcasmo nella voce dell’altra. «Sono fatti anche per questo gli amici».
Haruka alzò gli occhi al cielo, lo fece nello stesso momento di Michiru che prese a guardare i cavi pieni di luci blu che illuminavano il ponte durante la notte.
 
 
Era passata un’ora e mezza e nella città degli angeli albeggiava.
Ami strofinò gli occhi stanchi per le troppe ore davanti al monitor a caccia di nuovi rivoluzionari algoritmi. Guardò il cielo dipingersi dei toni del rosa e del celeste per poi concedersi un lungo sonno ristoratore mentre chi come Minako, ancora aggrovigliata alle lenzuola dalla sera precedente, non accennava minimamente a svegliarsi troppo intenta a raggiungere sogni lontani.
Makoto e il suo fido cane diedero il buongiorno a Malibu sulla sabbia dorata di Malibu Lagoon State beach. Gli occhi nocciola della ragazza rincorsero l’orizzonte in cerca del cavallone perfetto e nello stesso momento Rei, dall’alto dell’autopompa, guardava l’unica cosa che si poteva avvicinare al suo ideale di perfezione ma che ignorava essere preda dei suoi desideri.
La bicicletta di Usagi era maldestramente abbandonata nel vialetto di un’amica sin dalla tarda notte e tutti sul Vincent Thomas Bridge trattennero il respiro quando l’uomo che aveva conversato per tutto il tempo con Michiru lasciò cadere di sotto ciò che teneva in mano da ore.




Note dell'autrice:
Alla fine ho deciso di pubblicare solo questo pezzo del capitolo togliendone la fetta finale che non mi convinceva per nulla. In ogni caso quello che ho cancellato ve lo renderò pubblico sulla mia pagina fb non appena non ci sarà il rischio spoiler! Detto questo, piccola anticipazione: nel prossimo capitolo avremo un pezzo in più sulle storie passate delle nostre protagoniste (anche se avevo detto che probabilmente, almeno per quanto riguarda Michiru, si sarebbe saputo qui di ciò che le è accaduto sei mesi prima). Oltre a ciò, nel prossimo capitolo vorrei anche dedicarmi molto di più agli altri personaggi, quindi probabilmente verrà lungo e avrò da farvi attendere un pochetto di più.
Per quanto riguarda Michiru e Haruka, chi si aspettava una storia semplice deve armarsi di santa pazienza. Non possono essere subito rose e fiori ma gli avremo! Un abbraccio a tutti voi e a presto.
 
 

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Capitolo 4
*** La spiaggia degli incontri ***


Sarah e Amos Fisher avevano sorriso quando all’orfanotrofio la trovarono con le braccia conserte e il broncio.
Haruka ancora si rammaricava di non aver prestato più  attenzione a quell’incurvatura delle labbra verso l’alto che Amos si era lasciato sfuggire, perché ben presto avrebbe imparato che quell’uomo non era incline ad avere un’espressione gioviale in viso. Quanto a Sarah, sul volto segnato dal tempo e della fatica della vita che i due conducevano, si poteva scorgere una perenne nota di dolcezza capace di cullare anche senza bisogno di proferire una sola parola i tormenti di una bambina ribelle come lei.
Nel Kansas, il campo di grano dei Fisher pareva sterminato come il mare che lambiva la costa californiana. Ma quell’immensità era sempre stata stretta ad Haruka che non appena ne aveva avuta l’occasione era scappata lasciandosi rapire dallo scrosciante blu marittimo.
 
«Non tornerà più, vedrai». Sarah si era lasciata sfuggire a voce flebile quell’ignobile confessione al lume di una candela. C’era una nota di vergogna nel suo tono per aver osato dire quella verità palpabile e che un uomo devoto come Amos non avrebbe mai e poi mai tollerato.
«Dio onnipotente, Sarah» tuonò Amos con un pugno serrato e tremante poggiato sul tavolo in legno grezzo e liso del salotto. «Non ti vergogni nemmeno un po’ ad aver così poca fede?!».
Sarah tacque sistemandosi sotto alla cuffietta bianca una sottile ciocca argentea.
«Se un giorno dovesse andarsene sarà solo tua la colpa. Credi non lo sappia cos’hai fatto?».
Haruka si sporse un po’ di più da dietro le scale; quanto bastava per scorgere lo sguardo della madre adottiva deviare colpevole sulle assi del pavimento.
«Le hai comprato un paio di jeans».
Haruka si morse le labbra e strinse i pugni stropicciando la camicia da notte castigata che odiava tanto quanto il vestito tradizionale, privo di bottoni, che era costretta ad indossare ogni giorno. Alle volte rubava dal filo del bucato i calzoni del fratellastro, anche se troppo lunghi per lei, per essere libera di correre per i campi. Sarah, questo lo sapeva e, a sue spese, aveva infranto le regole regalando quel paio di jeans alla ragazzina.
Haruka li aveva sapientemente nascosti in una vecchia valigia che dissotterrava ogni qualvolta sgattaiolava in città, ma forse non era stata abbastanza attenta se Amos aveva scoperto il loro piccolo segreto.
«L’hai già messa tu sulla strada sbagliata. Domani mattina, prima delle faccende, vai dal pastore e confessati. Portala con te». Così aveva ordinato lui.
Sarah annuì col capo e Haruka tentò di filarsela in punta di piedi nel solaio dove dormiva. Inciampò in un gradino per la fretta e cadde. Lo fece anche dalla tavola da surf, troppo presa da quel ricordo. Venne inghiottita da un cavallone, non oppose resistenza alla corrente e si lasciò andare un po’ più a fondo fino a che il leash non le strattonò la caviglia.
Lasciò andare i ricordi e per un momento le tornarono alla mente le onde dei capelli di Michiru. Avevano lo stesso colore di quel mare.
Haruka scacciò con un movimento di braccia anche quell’assurdo pensiero. Qualche bolla le scappò dalle labbra e ritrovando se stessa prese a nuotare tornando in superfice per poi aggrapparsi alla tavola che aveva ripreso placida a solcare l’acqua.
Rivolse lo sguardo verso la spiaggia, Dan stava intrattenendo la solita combriccola poggiato con la schiena al pick-up di Haruka. Lui si distrasse, guardò in mare verso di lei e con una mano gli fece un cenno per capire se andasse tutto bene.
Haruka rispose frettolosamente con un okay della mano.
 
Sarah aveva ragione. Sua figlia non era mai tornata a casa dal suo Rumspringa.
 
 
 
***
 
 
«La storia è questa!» esclamò goliardico Dan per poi tirare giù dal pick-up di Haruka le altre tavole da surf.
Dan amava raccontare ai colleghi non in servizio le mirabolanti avventure che si perdevano quando lui e l’amica erano al lavoro.
«Tutti ci buttiamo per terra con le mani sulla testa e aspettiamo di sentire il boato o di crollare assieme al cemento. Insomma, hey, il tipo ha mollato il detonatore di sotto senza avvisare!».
Quattro paia di occhi lo fissavano tentando di nascondere la smania per il finale della vicenda.
«E invece niente. Ce la facciamo nei pantaloni tutti ma non succede un bel nulla! Sapete il perché?».
«Perché?» inquisirono gli amici senza riuscire più a stare nella pelle.
«Perché non era un detonatore ma un walky talky».
Il pubblico di Dan rimase in silenzio. Confuso e forse deluso per quel finale senza il botto.
Haruka, appena tornata dalla ricerca dell’onda perfetta non aveva avuto bisogno di seguire il filo del discorso dell’amico. Conosceva le teste vuote con cui si ritrovava a lavorare e di sicuro l’espressione ebete degli amici non le era sconosciuta. Passò alle loro spalle, si scrollò dai capelli qualche goccia facendo finta di nulla per poi chiudere energicamente il cassone del proprio pick-up facendoli sobbalzare per lo spavento.
«Il tizio…» disse con poco interesse.
«John…» puntualizzò Dan per darle su ai nervi.
«John» calcò Haruka prima di dare a tutti la spiegazione esauriente dei fatti. «Aveva in mano il walky talky del figlio morto. Voleva buttarsi in preda alla disperazione dell’accaduto. Era solo uno stupido walky talky non c’era nessuna bomba pronta ad esplodere».
«E lui si è buttato?» osò domandare Ray.
«Michiru Kaiō non l’ha permesso» rivelò Dan con fare da oracolo. Ogni volta trasformava il racconto di una giornata lavorativa in una sorta di leggenda irripetibile. Avrebbe dovuto fare l’attore a teatro, ponderò Haruka.
«Lavora ancora?» domandò sbalordito Ray.
«Esatto» una voce alle loro spalle li prese alla sprovvista. Setsuna, in costume da bagno rigorosamente nero, aveva deciso di dedicarsi alla tintarella. Le piaceva farlo nel pomeriggio, quando i fisici asciutti e scolpiti dei surfisti coccolavano la sua vista per il duro lavoro che compiva ogni giorno.
«Per vostra informazione, teste vuote, Michiru Kaiō non è una pazza da internare. Sei mesi fa, quella donna, è stata per ben quattro ore a parlare con un altro essere umano che voleva farla finita. E ci era riuscita. Era riuscita a fargli cambiare idea, lui le aveva afferrato la mano ma è scivolato. Quella donna, la pazza, lo ha tenuto con quanta più forza avesse in corpo, tentando di salvarlo una volta ancora. È rimasta lei stessa appesa a un cornicione stringendo la mano di quell’uomo per poi sentire le sue dita lasciare la presa».
Nessuno osò proferire parola.
Persino Dan, parve rapito da quello che sembrava un thriller in piena regola sebbene non uscisse dalle proprie labbra.
«Ora, se non vi spiace ho un appuntamento con quel lettino in riva al mare. E...ah, dovreste trovare un’idea al più presto per il festival estivo. Anche la SWAT partecipa. Mettete in moto i criceti».
«Di quali criceti sta…»
«Dan, ti prego» Haruka bloccò la sua domanda sul nascere per poi assicurarsi che Setsuna si fosse allontanata a sufficienza.
Non avrebbe sprecato energie preziose per quello. Mai e poi Haruka Ten’ō si sarebbe applicata per far funzionare un evento al quale non avrebbe nemmeno voluto partecipare.
«Ragazzi, sfoggiate il vostro charme. Se non avete mogli, fidanzate o amanti vedete di trovare qualche donzella che abbia una stupida idea, per una stupida festa o Meiō sarà impossibile».
Tutti annuirono con un cenno del capo. Consapevoli che certe decisioni era meglio lasciarle in mano al gentil sesso perché nessuno di loro sarebbe arrivato a capo dell’enigma senza uscirne con il cervello fumante e un pugno di mosche in mano.
«Ma, Haruka tu conti come donna».
Lo aveva fatto di nuovo. Dan, aveva ancora una volta fatto uscire di bocca una di quelle fesserie che la bionda poco tollerava.
Haruka per tutta risposta si sporse dal finestrino aperto del pick-up sul sedile del guidatore frugò, con un grugnito e non poco sforzo, alla ricerca di qualcosa e poi aprì il palmo dell’amico mollandogli qualche dollaro.
«Prenditi una ciambella al bar e schiarisciti le idee. In questo caso, non contarmi come donna. Chiaro?!».
 
Nessuno osò protestare e gli uomini presenti si dileguarono mesti verso il bar di Makoto.
 
 
***
 

A Minako piaceva passeggiare lungo il molo e far cadere le iridi chiare sui lavori degli artisti che si ritrovavano lì dal primo pomeriggio sino al tramonto.
Lei, al contrario dell’amica Rei, era nata in Giappone. Ci aveva vissuto per l’intera infanzia fino ai primi anni della sua adolescenza, sino a quando suo padre decise era giunto il momento per lei di fare un’esperienza di studio all’estero. Minako non era stata entusiasta di partire tutta sola alla volta di un paese straniero, ma il suo spirito di adattamento e il carattere frizzantino l’aiutarono contro tutte le difficoltà. Una volta arrivata in America, con sua grande sorpresa, vi trovò il paese dei balocchi. Il suo più grande sogno era sempre stato uno: quello di poter cantare per la gente e diventare una stella del firmamento musicale. E quale posto migliore della California per poterlo realizzare?
 
Le note di una tastiera attirarono la sua attenzione.
In fondo al molo, Minako scorse un ragazzo dai lunghi capelli argentei suonare una melodia che sembrava essere la perfetta colonna sonora di quel paesaggio mozzafiato.
Uno stormo di gabbiani danzò sul filo dell’acqua, la spuma bianca di un’onda s’infranse contro il legno provocando una marea di schizzi che andò a bagnare la maglietta bianca del giovane sconosciuto.
Lui non prestò attenzione all’irriverenza del mare troppo preso da quella musica che sembrava scivolargli con così tanta naturalezza fuori dalle dita.
E Minako, come preda di un sortilegio, non badò al fatto che ogni singola fibra del suo corpo si muoveva in direzione del ragazzo; di quel fiume in piena di note che smaniose scivolavano e si rincorrevano sui tasti bianchi e neri accarezzati da polpastrelli sapienti.
 
Il vento ululò con più forza, a qualcuno scappò dalle mani un cappellino, alcuni manifesti accartocciati rotolarono sul lungo mare e un palloncino scappò dalle piccole mani di un bambino che disperato per la sua perdita cominciò a piangere. Il mare protestò ancora una volta. Per i surfisti il paradiso era portata di mano con onde titaniche da poter cavalcare.
Un altro cavallone d’acqua sbatté con più irruenza contro le travi del molo sollevando, questa volta, troppa acqua per far sì che il musicista misterioso continuasse la sua sonata. Fu in quell’istante, in quello che precedette la furia di un mare impetuoso, quello in cui le note furono soffocate prepotentemente e senza avviso che gli occhi verdi del ragazzo incrociarono lo sguardo azzurro di Minako.
Lei si sentì avvampare. Il cuore martellò tanto forte nel petto come se dovesse preannunciarle l’impatto prossimo con qualcosa che avrebbe potuto schiacciarla senza pietà.
Minako aveva sempre cercato il vero amore senza sapere come avrebbe potuto riconoscerlo una volta incontrato sulla propria strada, ma con enorme sorpresa non ebbe bisogno di pensarci un millesimo di secondo in più per intuire di averne appena intercettato lo sguardo.
 
 
 
***
 
 
«Michiruuuuuuuuuuuuuuuuuu». Usagi si sbracciò tanto da rischiare di cadere dallo sgabello di vimini intrecciato, sistemato al bancone del bar di Makoto.
Usagi era un asso nell’ustionarsi in spiaggia così aveva ben pensato di sistemarsi all’ombra di alcune palme a ridosso della struttura balneare sfoggiando il suo pareo rosa e azzurro.
Dal tono più carico del solito Michiru valutò che probabilmente l’amica era già al suo secondo cocktail anche se era a conoscenza del fatto che Makoto, santa ragazza, provvedeva a mettere meno alcool possibile nei bicchieri della bionda per evitare catastrofi inutili.
«C’è un gran trambusto oggi in spiaggia!» esordì Usagi battendo la mano sullo sgabello libero al suo fianco per indicare a Michiru dove sedersi.
«Si è alzato così tanto il vento che solo quegli scavezza collo dei surfisti osano entrare in acqua» commentò come se la sapesse lunga e lanciando un’occhiata fugace e languida a uno dei temerari in bermuda con tavola sotto braccio.
«Che si dice Michiru?» la salutò con un sorriso Makoto agitando uno shaker tra le mani per poi versarne il contenuto arancione in un bicchiere adornato di sottili fettine di frutta.
«Niente di eclatante» commentò l’ultima arrivata sedendosi per godersi qualche ora di libertà.
«Allora? Allora?!». Usagi interruppe l’attimo di calma piatta cominciando a battere le mani in modo frenetico. «Quando va in onda la trasmissione con Ami?».
«Mi pare domani. Alle cinque del pomeriggio se non erro».
Usagi si sporse verso Makoto come se desiderasse saltare dall’altra parte del bancone.
«Sai chi ha vestito?» domandò alla barista anche se non avrebbe aspettato una risposta da parte dell’altra perché piaceva a lei fornire tutti i dettagli del caso.
«Ami Aino».
Makoto che seguiva ben poco i telegiornali e non leggeva quotidiani o riviste di gossip troppo presa dalle proprie attività, sfoggiò un’espressione interrogativa. A lei bastava passare mezz’ora con Usagi per essere aggiornata sul mondo intero. L’amica aveva una lingua tanto lunga e un’innata capacità di farsi gli affari altrui che era impossibile non venire a sapere fin troppo da lei.
«Ma dai insomma. Ma dove vivi?!». Usagi scosse il capo con fare sconsolato seguita dai suoi immancabili lunghi codini.
«È quella che ha inventato l’algoritmo per l’attrazione tra due persone».
«Aaaah» Makoto spalancò occhi e bocca facendo finta di sapere cosa stesse blaterando l’altra.
«Bunny…» la interruppe gentilmente Michiru poggiandole la mano sul polso. «Quella non è la migliore delle sue scoperte» le disse con una risatina leggera.
«CHE COSA?! Insomma è utilissimo no?! Puoi capire in anticipo se due persone sono fatte l’una per l’altra».
Makoto si lasciò sfuggire un flebile «io non ci credo a queste cose» mentre Michiru avrebbe voluto portare la conversazione a un livello appena superiore a quello che si preannunciava un lungo e delirante monologo di Usagi.
«Adesso non va in tv per quello…».
La bionda tacque inclinando leggermente la testa.
«L’ho vestita perché voleva essere più credibile. Vedi, dopo quell’algoritmo. Che è diventato famosissimo che funzioni o meno ora deve presentare la sua nuova ricerca. Sembra sia sulla buona strada per aver studiato una cura rivoluzionaria e…».
«Oh» Usagi parve un po’ delusa. A lei piaceva fantasticare ad occhi aperti mentre le cose più concrete non l’entusiasmavano quanto una stupida applicazione per la ricerca dell’anima gemella.
Michiru, che la conosceva bene, intuì che l’argomento stava spegnendo il suo entusiasmo così abbandono il discorso.
«Comunque sì, è stata la ragazza più giovane del Giappone ad inventare una cosa del genere che ha spopolato anche qui» spiegò a Makoto per poi ordinarle un centrifugato di frutta fresca.
Usagi, soddisfatta di come aveva virato quel discorso tirò su con la cannuccia il rimasuglio del suo drink.
«Senti Michi-Michi, quando credi potremmo andare a fare shopping insieme? Mi serve qualcosa per fare colpo».
«Hai…un appuntamento?» colta alla sprovvista Michiru rimase in ascolto per ulteriori dettagli sulla questione; con Usagi bisognava andarci con i piedi di piombo e capire dapprima se si trattasse tutto di una sua fantasia mentale o di una realtà concreta.
«Una specie» disse misteriosa.
«Dobbiamo preoccuparci?» intervenne Makoto servendo Michiru e rifiutando con una smorfia i soldi dell’amica per la bevanda.
«Sciocchine!» Usagi gongolò tutta. «Ho intenzione di partecipare ad uno speed date».
«Oh per l’amore del cielo, Bunny…no!». Michiru non aveva intenzione di smontare l’entusiasmo della bionda, ma nella sua mente si era già palesata un’apocalisse di proporzioni bibliche a pensare l’amica che s’innamorava di tutti i possibili candidati finendo poi per diventare una stalker seriale di chi si sarebbe opposto alla sua sfacciata corte.
 
«Perché no?» la domanda arrivò come una voce fuori campo nella scena di un film. Michiru dovette voltarsi per capire chi si era intromesso nel loro discorso poiché era fuori dal suo campo visivo.
Nella sua muta da surf con tanto di capelli spettinati e gocciolanti il diavolo biondo era apparso per mettere bocca negli affari altrui.
Gli occhi di Usagi s’illuminarono nell’incrociare la figura atletica e dalla pelle ambrata che era comparsa come il suo principe azzurro perfetto.
«Non ti facevo così bacchettona, Beverly Hills».
«Lo conosci e non me lo presenti?!!» sgomitò Usagi fuori di sé.
Michiru le rispose con un filo di voce «evitiamo di mischiarci a certi elementi, Bunny ignora que-».
Haruka fece cenno a Makoto di lanciarle una bottiglietta di acqua naturale e Usagi non perse tempo a fare da sola le presentazioni.
«Sono Usagi, piacere di conoscerti» rimase con la mano penzolante mentre Haruka stappò la propria acqua e ricambio con un sorrisetto ammaliatore.
«Piacere Usami».
«No. No è Usagi. U-sa-gi».
«Si certo. Ehy Beverly Hills!» Haruka scansò la bionda per avvicinarsi a Michiru che aveva improvvisamente perso la voglia di bersi quel che rimaneva della sua bevanda.
«Sei una persecuzione».
«Allora che hai contro gli speed date? Guarda che Usami potrebbe fare colpo. Sono divertenti quegli incontri».
«Potresti chiamarmi anche Bunny. Gli amici mi chiamano così eh…» commentò Usagi arrossendo e prendendo a giocherellare con il pareo sul costume.
«Il fatto che tu dica siano divertenti mi fa supporre che tu ci sia stata».
«Hey, Sherlock hai fatto centro!» le fece l’occhiolino.
Michiru sorrise amabilmente anche se detestava quell’ironia pungente con cui l’altra rispondeva ad ogni frase.
«Ecco perché ci tengo che la mia amica non vada…» spiegò alzandosi dallo sgabello. «Potrebbe incontrare qualcuno esattamente come te».
Haruka rimase interdetta.
«Cosa vorresti dire con gente come me?!».
«Teste vuote arroganti e piene di sé. Superficiali e incapaci di ascoltare chi hanno davanti…» Michiru sferrò il suo ultimo attacco. «Che scambiano un walky talky giocattolo per un detonatore».
 
Auch. Quella che portava il mare nei capelli sapeva il fatto suo e non si faceva problemi a colpire con eleganza nel punto dove l’orgoglio bruciava di più.
 
Usagi confusa da tutti quei soprannomi e lo strano dialogo, si grattò la testa indecisa sul da farsi mentre Michiru, visibilmente intenzionata ad allontanarsi aveva tolto i sandali per affondare i piedi nella sabbia e si dirigeva verso la riva.
«Ehy!» Haruka lottava per avere l’ultima parola. «Se hai deciso di tornare in pista dovrai partecipare al festival estivo».
Non poteva essere l’unica a essere obbligata a prendere parte a quel dannatissimo inferno.
«Io non sono della SWAT. Non ho l’obbligo di fare un bel niente. Sono un consulente esterno…tanto per chiarire».
Michiru sorrise. Un sorriso soddisfatto perché aveva vagamente inquadrato che tipo fosse Haruka e quanto fosse difficile per lei mandare giù una sconfitta. E ad Haruka quel sorriso rimase lì, in bilico sullo stomaco.
Scalciò un cumulo di sabbia tentando di nascondere il suo disappunto e cercando di scacciare dalla testa quell’adorabile quanto fastidioso stiramento di labbra.
Forse Haruka non avrebbe potuta averla vinta in uno scontro verbale, ma sicuramente si sarebbe presa una piccola vendetta gironzolando attorno alle amicizie di Michiru Kaiō.
«Senti un po’ Usami, mi sembri una sveglia tu».
«Pa-parli con me?!» incapace di trattenere l’emozione Usagi si fiondò al fianco della nuova conoscenza. «Hai fatto centro» commentò poggiandosi una mano sul fianco ammiccante.
Haruka scoppiò a ridere. Dan era strano, ma la testa bionda di fronte a sé ancor di più.
«Tu te ne intendi di party no?».
«Certo che sì» gonfiò il petto Usagi.
«Allora, se ti chiedessero di organizzare un’attività. Qualcosa per intrattenere la gente e magari raccogliere fondi a una festa, tu…che faresti?».
«Mi stai chiedendo un consiglio?».
Anche Makoto dalla sua postazione non riuscì a trattenersi «sul serio stai chiedendo consiglio a lei?!».
Usagi si schiarì la voce per aver tutta l’attenzione dell’aitante surfista per sé.
«Per il festival estivo. Sai, roba grossa…» puntualizzò Haruka.
«Beh, penso che sulla spiaggia hai proprio trovato la persona giusta».
«Oh Dei del cielo…» farfugliò Makoto per poi decidere di riordinare le casse di bibite sotto al bancone.
«Io farei…».
 
Haruka era tutt’orecchie e Usagi, che amava avere un pubblico tutto per lei non la deluse con una delle sue folli trovate.
«Farei uno stand dei baci».
 




Note dell'autrice:
Benritrovati alla fine di un nuovo capitolo. Dopo il precedente in cui sono state presenti solo Haruka e Michiru ho voluto dare un pò di spazio anche a Minako. Man mano che la storia procede ci saranno più momenti dedicati anche agli altri protagonisti come in questo caso, così da poter parlare un pò di tutti quanti visto che sono presenti!
Come forse avrete capito, Haruka è stata adottata da una famiglia Amish. Potrei scrivere venti pagine su questo tipo di comunità ma non mi pare il caso. Nella realtà non credo siano presenti comunità Amish in Kansas ma passatemi la georgrafia! Per chi non ne sapesse assolutamente nulla sulla questione ve la faccio brevissima e superficiale: Le donne vestono abiti semplici tradizionali (senza fantasie o bottoni) e cuffiette per coprire i capelli. Non possono truccarsi né possedere cose come un paio di jeans (per noi normalissimi), poiché la vanità non è accettata ma è considerata un peccato. Sono comunità chiuse, religiose che vivono al di fuori del tempo. Non usano elettricità, non hanno telefoni, né automobili. Vanno in giro con cavallo e carrozza...e come ho detto potrei rimanere a dirvene per ore, questo è solo per farvi avere un'idea generale di come Haruka non potrebbe mai e poi mai vivere in un contesto del genere! Altra piccola informazione il Rumspringa che viene citato è l’opportunità che alcune comunità amish offrono ai loro ragazzi di vedere il “mondo” prima di decidere di abbracciare o meno la vita imposta dalla fede (solitamente tra i 16 e i 25 anni età limite per il matrimonio). Chi decide di vivere al di fuori della comunità e quindi di non accettarne le regole i contatti con la famiglia divengono assenti. Di 100 ragazzi che partecipano 80-90 tornano alla comunità pronti a sposarne le regole severe.

 
 
 

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Capitolo 5
*** Wildest Dream ***


Avvertenza: Il capitolo è lungo ventuno pagine perciò armatevi santa pazienza e soprattutto mettetevi comode per godervelo. Buona lettura!





Al LAX International Airport il volo da Honolulu atterrò sulla pista di Los Angeles.
Un campanello di passeggeri impazienti parve fare a gara per uscire dal mezzo e recarsi sull’aerobus che li avrebbe portati all’interno della struttura.
Tra di loro, un giovane alto dai lunghi capelli corvini e gli occhi blu oltreoceano si tirò dietro il proprio trolley per attendere la valigia più pesante al ritiro bagagli.
Sistematosi gli occhiali da sole sul naso, disattivò la modalità aereo dal cellulare per riattivare tutte le funzionalità del proprio dispositivo. Lo schermo s’illuminò facendo apparire come sfondo la foto di una ragazza sorridente con alle spalle l’imponente Diamond Head. Sospirò, sorridendo all’immagine per poi passare un dito sullo schermo come a toccare ancora una volta quei lunghi capelli acqua marina.
Ormai aveva già percorso la maggior parte della distanza che li divideva; non avrebbe dovuto cercare ancora per molto prima di ritrovarla.
 
 
 
Il pennello scivolò con una lunga macchia turchese sulla tela bianca. Michiru, tra le ortensie lilla del giardinetto sul retro, dipingeva l’ennesimo quadro che avrebbe finito per accatastare nello studio accanto alla camera da letto.
Faceva progressi; o almeno così diceva il suo terapista dopo averle chiesto che tipologia di colori, a distanza di sei mesi dall’incidente, usava per i propri dipinti. Per far fronte al disturbo post traumatico che aveva subito e per mantenere sgombra la mente dagli incubi che ancora la perseguitavano, le era stata prescritto di seguire una terapia dei colori e di dipingere con qualunque materiale le aggradasse.
Aveva sempre avuto un innato talento per le arti sin da bambina e far sì che macchie di tempera si tramutassero in fini opere d’arte e paesaggi dettagliati non le era poi risultato così difficile.
I primi mesi da buchi nero pece sfumavano solo tinte viola profondo o pesanti nubi grigio fumo. Poi, come dal nulla, comparvero le prime tonalità rosse fino ad arrivare a colori più chiari come il ceruleo. Le tempere brillanti erano ancora intatte e sigillate, forse più avanti avrebbe sentito l’esigenza di usarle. Lo avrebbe fatto solo a tempo debito, quando i tratti di quel volto che nelle notti più difficili la perseguitavano si fossero confusi tanto da riuscire a dimenticarli.
 
Sospirò pesantemente. Socchiuse le palpebre con le setole del pennello a scivolare lente sulla tela in parte ancora bianca. Se serrava troppo gli occhi lo vedeva ancora quello sguardo pieno di terrore tanto penetrante da contaminare anche il suo.
Respira. Ordinò a se stessa mentalmente.
La mano che stringeva il manico in legno scuro del pennello fece sì che la presa leggera e sinuosa divenisse più ferrea e scattosa. Nella sua mente le dita di quell’uomo scivolavano lentamente dalle sue nonostante cercasse di trattenerle con tutta la forza che aveva incontro.
Michiru non aveva mai sentito in vita sua l’esigenza di pregare, ma ricordava di averlo fatto quel giorno. Appesa a quel cornicione, nella sua mente, aveva implorato un Dio qualunque di aiutarla.
Forse avrebbe dovuto urlare la sua supplica, forse a dirla solo nella propria testa non si era fatta sentire abbastanza.
Respira. «È finita» disse poi in un sibilo quasi disperato.
Doveva distrarsi.
Aprì gli occhi. Le pupille sondarono l’ultima linea gocciolante tracciata e pensò a come poterla camuffare e soffocare così quell’incubo che a tratti ancora la perseguitava.
Inspirò ed espirò. Aprì un tubetto e subito dopo un altro. Lo fece con la foga di un grande artista in preda ad un’ispirazione violenta. 
Blu reale, carta da zucchero, acqua marina, quel turbinio di sfumature era quello dell’acqua dell’isola Oahu. Era quello di Hanauma bay con le sue quattrocento specie di pesci che l’abitano e dove si nuota con le tartarughe marine.
Michiru nippoamericana aveva vissuto fin all’età adulta alle Hawaii e il pensiero di quei luoghi tanto amati e a lei tanto familiari riuscivano sempre a placare il suo animo.
Alle volte l’idea di tornare la sfiorava, poi, per qualche motivo quel pensiero l’abbandonava alla stessa velocità con cui la coglieva.
Fiordaliso, la stessa sfumatura di azzurro degli occhi di Haruka Ten’ō. Boriosa, piena di sé. Michiru mollò il pennello facendolo cadere a terra, arricciando le labbra indispettita da quella strana associazione che la mente le aveva suggerito.
 
 
§§§
 
 
«Cosa stavi suonando?» domandò con la voce appena coperta dal frastuono di un’altra onda che pareva aver tutta l’intenzione di sommergere senza pietà il molo.
Il verde degli occhi di lui le fecero pensare a un’immensa distesa di quadrifogli, un campo verde speranza dove esprimere desideri ed essere baciati dalla fortuna. Ma in realtà lei agognava un bacio dallo sconosciuto che aveva di fronte.
Minako, a quel desiderio nascosto, sentì il cuore prendere l’ascensore e spostarsi dalla cassa toracica alle orecchie.
Si portò sovrappensiero una mano al petto, stringendo tra le dita la stoffa del vestito come ad impedire al suo cuore di uscire allo scoperto.
 
«Ma come, non lo sai?». Le labbra del ragazzo si piegarono verso il basso con aria delusa; come se lei avesse dimenticato di ricordare una cosa di vitale importanza.
Minako si sentì stupida per aver posto quella domanda, ma si riprese subito dalla spiacevole sensazione di averlo reso triste una volta che lui le rivolse nuovamente la parola.
«È la melodia dei nostri cuori. E i bassi sono i battiti frenetici che ci assalgono ogni volta che c’incontriamo».
Le prese la mano. Erano calde.
L’intero corpo di Minako ebbe l’unico impulso di inarcarsi verso il suo, come se la posizione eretta fosse uno sbaglio perché quella corretta doveva avere un contatto maggiore con quella del ragazzo.
«I quadrifogli portano fortuna…» sussurrò lei.
«Desiderio avverato, allora» disse sottovoce lui per poi baciarla e dimenticarsi di quella melodia dedicata al mare.
 
«Sveglia, svegliaaaaa!». Rei, trionfante, fece irruzione nella piccola stanza bianca e rosa di Minako. Aveva i capelli raccolti in una lunga coda corvina che ricadeva scompigliata su una maglia rossa dei Chicago Bulls troppo grande per lei, con tanto di mestolo in mano a battere sul fondo di una padella per risultare più incisiva.
Minako provò ad aprir bocca per protestare a quella sveglia che risultava più che altro una tortura legalizzata, ma dalle sue labbra ne uscì solamente un lamento rauco.
Le palpebre di Minako, aperte a mezzo erano ancora incastrate nelle tele di quel sogno a cui l’amica l’aveva strappata malamente.
«Beh? Che c’è? Pelandrona, alzati su. La colazione è pronta».
Minako era sull’orlo di esplodere a piangere. Riusciva solo a pensare che non sapeva il nome di quel ragazzo e che la nitidezza di quel sogno col passare dei minuti sarebbe lentamente scemata sino a scomparire. Un po’ com’era stato il loro incontro nella realtà.
Minako lo stava ascoltando suonare quando il mare in tempesta interruppe la magia del loro incontro. Si erano guardati, in silenzio. Lui era fradicio e bellissimo, lei imbambolata e con le gote rosse, sino a che il vento troppo forte non fece volare sul molo l’ombrellone che s’infrappose in quel momento che lei era parso essere sospeso fuori dal tempo.
Era sparito. E Minako ricordò di aver cercato sotto al molo per paura fosse stato trascinato in mare.
«Mina» ora il tono di Rei si fece più pacato, preoccupato.
«Io…». Rei posò padella e mestolo sulla scrivania piena di fotografie e libri di testo di Minako per andarsi a sedere ai piedi del suo letto.
«Io mi stavo chiedendo…». Rei si sporse in avanti come se servisse a capire meglio il discorso dell’amica che piano piano stava riemergendo completamente dal sonno.
«Se hai intenzione di dirglielo».
Rei alzò il sopracciglio perplessa. «Di cosa stiamo parlando?».
«Ooh avanti. Non fare la finta tonta. Forse puoi ingannare lei ancora un po’, ma non certo me». La bionda si tirò su dal suo giaciglio, si stropicciò gli occhi e stiracchiò le braccia sulla testa.
Artemis, il suo gatto bianco spuntò da sotto le coperte per poi accoccolarsi in mezzo alle sue gambe e reclamare qualche carezza mattutina.
«Lo sai benissimo di che parlo. Tu le muori dietro da troppo tempo. E se non fai qualcosa ti farai male».
Rei capì al volo e drizzò spalle e mento rifiutandosi categoricamente di seguire il consiglio che le era stato dato. A Minako piaceva l’idea dell’amore e fare cupido, ma Rei non amava rischiare quando si trattava dei suoi affari sentimentali.
«No e poi no. Haruka è troppo presa da fare la casca morta in giro per capire qualcosa. E io non voglio rovinare niente».
«Esploderai Rei, dammi retta. Glielo dici, magari può andare bene».
«O magari sarà una catastrofe e non riuscirà più a vedermi nemmeno come la sua amica».
Minako mise su il broncio smettendo di accarezzare il suo bianco felino che parve contrariato quanto lei da quella brusca interruzione.
«Ti sei svegliata con troppi grilli per la testa questa mattina».
«Beh, è colpa tua» ribatté la bionda.
«Beh è ora che ti alzi. Muoviti».
«Perché hai tanta fretta? Deve venire Haruka?».
Rei si alzò stizzita.
«No. È che sono stufa di vederti così avvilita per quello stupido provino e ti devi tirare su e andare a farne un altro». Rei tirò fuori dalla tasca dei pantaloncini un foglietto tutto stropicciato. Ne face una pallina, irritata dalla piega che aveva preso la conversazione e la lanciò alla coinquilina.
«Sbrigati» le disse uscendo dalla camera per dirigersi in salotto.
Minako sbuffò. Scalciò le coperte e tentò di stendere la carta tutta raggrinzita del volantino.
«Cerchiamo nuovi talenti della musica» lesse ad alta voce Minako. «Audizioni all’Hollywood Wax Museum…».
La ragazza tentennò qualche secondo. Strinse il volantino e posò lo sguardo sulla propria chitarra. Aveva in testa quella canzone, quella del molo. Aveva in testa il prato di quadrifogli negli occhi dello sconosciuto.
«Magari mi porti fortuna…».
 
 
§§§
 
 
 
Setsuna le stava col fiato sul collo e Haruka si sorprese nel rimpiangere la ruvidezza di Amos.
«Dunque…» cominciò il capo delle operazioni battendo alternativamente indice e medio sulla scrivania in modo cadenzato.
Lo aveva fatto di nuovo; quel ticchettio di unghie perfettamente laccate seguito dal tintinnio di alcuni bracciali che scivolavano sul polso smilzo scuoteva il sistema nervoso di Haruka. La bionda mantenne la calma sotto un’espressione impassibile, mentre dentro si domandava quando quella donna trovasse il tempo per la manicure visto tutto quello impiegato nel tormentarla.
«Voi teste vuote l’avete trovata un’idea sorprendente per il festival?».
Lo domandò stirando le labbra in un sorriso che non rappresentava uno stato di quiete quanto una minaccia. Le due sottili linee rosse carminio di Setsuna non erano capaci di regalarle serenità, ma erano un avvertimento che la induceva a mantenere i nervi d’acciaio.
«Certo» vostra grazia.
Setsuna la guardò con sguardo indagatore senza smettere di produrre quel fastidiosissimo rumore sul piano.
«Su Ten’ō è per beneficenza, mostra un po’ di entusiasmo. Aiuteremo dei bambini con la nostra partecipazione» la spronò con sottile ironia.
Haruka schiarì la voce come se dovesse presentarsi al presidente degli stati uniti.
«Uno…stand dei baci».
Il ticchettio molesto s’interruppe bruscamente e lo sguardo da gatta del suo superiore si fece sgranato.
La bionda non seppe tradurre il mutare d’espressione dell’altra e attese cercando di mantenere un certo contegno per quanto trovasse le sue stesse parole di una stupidità inaudita.
«Ma che razza…».
«I ragazzini sborseranno un sacco di bigliettoni per una cosa del genere» si ritrovò a interromperla Haruka senza sapere come le fosse uscita di bocca così in fretta una scusante per il progetto di Usagi.
«Beh, vi conviene mettervi all’opera. Non si costruisce da solo questo...» Setsuna fece roteare una mano nell’aria per evitare di usare l’espressione coso.
«Noi del dipartimento artificieri abbiamo una valida assistente».
«Non mi dire…».
«Sissignora». Haruka aprì la porta dell’ufficio alle sue spalle facendo entrare due codini biondi.
«Le presento Usam- ».
«Lascia fare a me» la scavalcò Usagi per evitare storpiasse ancora una volta il proprio nome.
«Usagi, piacere. Ho tutto sotto controllo!».
Siamo spacciati allora pensò Haruka trattenendo una risata isterica.
Setsuna si grattò nervosamente con un dito l’angolo della bocca.
«È una conoscenza di Michiru Kaiō» intervenne frettolosamente la sottoposta.
La donna parve rinvigorita da quella notizia anche se la faccenda puzzava di bruciato e non poco. Kaiō e Ten’ō che collaboravano era un’utopia.
«Sa quando le ho detto dei bambini Bever- ehm, Michiru ha insistito per rendersi utile».
Usagi si grattò la tempia confusa e portò la sua cartelletta piena di scarabocchi sotto braccio. Aveva pensato di apparire una professionista con quell’oggetto a presso.
«Capisco…» commentò Setsuna più convinta. Michiru era una persona sensibile e probabilmente avrebbe fatto il sacrificio di collaborare anche con un soggetto come Haruka Ten’ō per una buona causa.
«Perciò deduco parteciperà anche lei a questa vostra malsana idea».
«Masalana…ma quale maslana idea. I baci sono belli» borbottò Usagi con fare offeso.
Haruka roteò gli occhi a sentirla incapace di pronunciare l’aggettivo usato da Setsuna. Persino un parrocchetto avrebbe saputo ripetere alla perfezione una parola, ma Usami, o come diavolo si chiamava non ne era in grado.
«Ovviamente».
«Ehm, in realtà non abb-» Haruka pestò il piede a Bunny che si morse la lingua.
«Non abbiamo ancora cominciato e dobbiamo metterci all’opera. Quindi capo, beh, se è approvato noi andremmo…» disse mostrando la fila di denti bianchi in un sorriso falso come Giuda.
Setsuna brontolò un “approvato” poco convinto e spedì le due fuori dalla sua stanza.
 
 
§§§
 
 
Makoto passò il proprio strofinaccio per la terza volta sul bancone del bar. Solitamente era la barista più veloce della California a servire i propri clienti, ma quelle inutili attenzioni al legno sul quale strisciavano continuamente bicchieri o tazze erano la scusa per origliare meglio i discorsi di quella accoppiata singolare che sedeva sotto le palme di fronte al locale sulla spiaggia.
Haruka Ten’ō, l’impavida spezza cuori di Malibù e Usagi Tsukino, il disastro ambulate di Los Angeles parlottavano fitto fitto una di fronte all’altra. O meglio, Usagi blaterava come se stesse facendo una gara di dibattito e Haruka provava a non fare esplodere la propria cassa cranica per le troppe chiacchere.
«Quindi hai un piano? Perché non penso proprio che Michi Michi vorrà partecipare a una cosa del genere. Insomma, è una bravissima persona, dico davvero! La migliore che conosca però come dire…non ha il mio spirito di…di…non mi viene la parola cavolo!».
«Sbaciucchiatrice?» domandò Haruka svogliatamente per poi tornare a guardare il cielo limpido sulle loro teste.
«Mhm no. La parola è un’altra. Ma proprio non mi viene. E poi cosa ti fa credere che io sia una sbaciucchiatrice?».
«Non lo sei? Solo a una sbaciucchiatrice verrebbe l’idea di fare uno stand dei baci».
«È spirito imprenditoriale».
Haruka parve divertita. «Oh ma davvero?».
Usagi agitò i piedi sotto alla propria sedia per poi tentennare su che risposta dare. Era un tranello.
«Peccato…» sospirò maliziosamente Haruka per prendersi un po’ gioco di lei.
«Se fossi una sbaciucchiatrice avresti avuto l’opportunità di salire su quel palco e regalare le tue dolci labbra al popolo di Malibù».
Usagi arrossì violentemente.
«Beh, io, ecco…».
«E a me…coniglietta un bacio lo avresti dato?» le soffiò avvicinandosi di più al viso paonazzo Haruka.
«Per l’amor del cielo». Makoto si frappose tra le due col vassoio colmo.
Porse a Usagi una coppa di caffè con gelato al cioccolato e un ricciolo corposo di panna montata e ad Haruka una birra stappata sotto al naso.
La più grande emise un verso contrariato per l’intromissione della ragazza castana che aveva messo fine all’apice del suo divertimento.
«Beverly Hills è tua amica, no?» domandò a Usagi intenta a giocherellare con il biscotto sistemato sulla panna montata.
L’altra rispose affermativamente con un cenno del capo per poi prendere una generosa cucchiaiata dal proprio dessert.
«Beh allora penserai tu a convincerla».
«E io che ci guadagno?» chiese a bocca piena.
«Ti sto pagando quell’ammasso di calorie con cui ti stai ingozzando, non è già abbastanza?».
Usagi ridacchiò soddisfatta nel vedere Haruka tirare fuori il portafoglio e pagare per entrambe Makoto.
«Proverò a parlarle…».
«Oh no. Tu la convincerai. In cambio ti procurerò un appuntamento da favola».
Gli occhi azzurri di Usagi si fecero grandi e sognanti come quelli di una bambina al quale si è appena promesso di andare al Luna Park.
S’immaginava già in abito da sposa tra le braccia di un aitante bagnino o meglio ancora di un dottore che somigliasse al tanto famigerato Dottor Stranamore.
«Bene, siamo d’accordo allora» sentenziò Haruka mandando giù tutto d’un fiato l’ultimo sorso di birra per poi alzarsi dalla sedia e sentire la sabbia entrare nelle infradito.
«Meglio tu finisca in fretta quella roba. Hai un sacco di lavoro da fare considerato che la festa è domani».
Usagi rischiò di strozzarsi a quella notizia.
«Do-domani?! Io, io credevo che…».
«Appuntamento…» canzonò Haruka salutandola con un cenno della mano prima di lasciarla sola con quella bella gatta da pelare.
 
 
§§§
 
 
Minako non aveva avuto il tempo di prepararsi come faceva solitamente. Aveva trangugiato un pancake con sciroppo d’acero alla velocità della luce e buttato giù un bicchiere di latte freddo sulla soglia di casa.
Non aveva avuto nemmeno il tempo di scorgere il sorriso soddisfatto di Rei nel vederla uscire con la chitarra in spalla per recarsi al provino che le aveva procurato, tanto sapeva l’avrebbe ritrovata lì al suo ritorno. Anche dopo un battibecco o una pesante discussione ci sarebbero sempre state l’una per l’altra.
Minako, nella sua salopette bianca fermò con un gesto della mano un taxi.
«Hollywood Wax Museum, per favore» disse al guidatore sistemandosi con lo strumento sulle gambe e godendosi il panorama di Malibu che sfilava placido sotto al suo sguardo sino a che non si ritrovò ingorgata nel frastuono del traffico di Los Angeles.
Guardò l’orologio digitale sul cruscotto del taxista, emise un respiro profondo e decidendo di proseguire a piedi pagò frettolosamente la corsa.
«Faccio in tempo. Faccio in tempo…» ripeté tra sé e sé con il busto leggermente chinato in avanti per lo strumento sulle spalle.
Ora che un passo dopo l’altro si avvicinava alla sua meta si rese conto di non aver preparato nulla per la propria esibizione.
«Oddio, sarà un buco nell’acqua!» si fece prendere dal panico, bloccandosi nel bel mezzo del marciapiede indecisa se rinunciare a quell’opportunità perché troppo impreparata su tutto.
Manca un quarto d’ora. Valutò con le iridi azzurre a correre da una persona all’altra che la scansava per proseguire nella propria giornata.
Chiuse le palpebre leggermente truccate di rosa e respirò a fondo. Immaginò la spiaggia, lo scroscio dell’acqua e poi una musica in lontananza.
Il battito venne cullato da quella sensazione di calma e con lui Minako riuscì a ritrovare la calma che aveva sentito scivolare via dalle dita in un battibaleno.
«Forza Mina» mosse un passo, poi un altro in direzione della propria meta.
«Pure Lana Del Ray avrà timore a salire su un palco» sibilò tra sé e sé. Convincersi a voce alta delle cose l’aiutava a focalizzare il proprio obbiettivo, tanto che non si rese conto di essere arrivata prima di ritrovarsi a sbattere contro un ragazzo in fila.
«Hey, attenta!».
Minako cadde dalle nuvole e si rese conto di aver urtato qualcosa di nero e ingombrante.
Una tastiera. Pensò.
«Ero distratta, scusa» chinò leggermente il capo. L’abitudine dell’inchino giapponese non l’aveva mai abbandonata del tutto e continuava a farlo anche se in maniera meno pronunciata.
Due occhi verdi le scoccarono un’occhiata ancora irritata e Minako si sentì mancare.
Non può essere. Aveva appena urtato lo sconosciuto del sogno. E quelle fantasie notturne così vivide l’assalirono tanto violentemente da farla sentire in imbarazzo.
«Il numero». La sua voce, di nuovo. Era impostata, un tono leggermente piatto che denunciava una certa rigidità.
Minako ricordava un soffio caldo, profondo. Ma era stato solo nella sua testa.
Sbatté le palpebre imbambolata e il ragazzo le venne in aiuto sollevando il braccio e puntando il dito verso un angolo dell’entrata.
«Devi prendere il numero per l’esibizione».
«Giusto. Ehm, grazie».
Sono un’idiota.
Minako si diresse verso il piccolo stand adibito per i partecipanti alle audizioni con lo sguardo rivolto ai propri piedi che pestavano il pavimento riproducente le famose stelle della “walk of fame”.
«Sono qui per partecipare» disse timidamente alla ragazza occhialuta che distribuiva i numeri.
Solitamente Minako era frizzante e chiaccherona, ma quell’incontro e la tensione dell’esibizione l’avevano stravolta. Dovette pizzicarsi più volte il braccio per capire di essere sveglia.
Non sto sognando. Lui è qui. Ogni suo pensiero andava in direzione dello sconosciuto anziché rincorrere il suo sogno alla fama.
«Come ti chiami?» domandò l’addetta prendendo un modulo prestampato e una penna.
«Mh?».
«Mi servono i tuoi dati» puntualizzò.
Minako cercò di ridestarsi da quello stato catatonico in cui stava scivolando di continuo senza riuscire a riemergere.
«Minako Aino, ventidue anni. Voce e chitarra». Ormai era abituata a quello che volevano sapere perciò sparò a raffica tutte le informazioni necessarie al personale.
«Ok. Numero 34. Chiamano loro. Buona fortuna».
La biondina ringraziò tornando dietro al ragazzo dai capelli argento.
Minako non riusciva a fare a meno di chiedersi come mai fosse così. Distante come la luna e all’apparenza tanto freddo come il colore della sua lunga chioma. Forse era molto teso e concentrato, ponderò.
O forse gli doveva essere accaduto qualcosa, poiché Minako credeva che una persona fredda non potesse mettere così tanto calore nella propria musica, come aveva colto lei quel giorno sul molo.
«Numeri dal 30 al 38 dentro» un’assistente annunciò un gruppo di otto persone.
Minako e lo sconosciuto che aveva affittato ogni suo pensiero si mossero contemporaneamente per entrate.
«Prima tu» masticò asciutto lui, per non rischiare che lei inciampasse nuovamente nella sua tastiera.
«Assistiamo tutti all’esibizione degli altri?» chiese agitata Minako.
«Così pare».
Era ovvio fosse così. Perché diavolo glielo aveva chiesto?
 
Sfilarono davanti alcune statue di cera delle celebrità del cinema e della musica. Una falsa Angelina Jolie sorrideva in abito da sera e Minako si sistemò in un angolo aspettando il suo turno. I selezionatori erano due, un uomo e una donna. Lei sembrava annoiata e uscita da qualche rivista, lui aveva un ammasso di riccioli castani in testa tanto scompigliati da sembrare aver messo le dita nella presa di corrente.
L’uomo chiamò per nome e cognome il primo candidato. Lo fece sistemare al centro di una croce fatta con il nastro per terra e chiese a un tizio con telecamera e capellino di riprendere il giovane. La donna non si scompose, sospirò pesantemente come se le costasse essere lì e tirò fuori dalla borsetta in pelle di coccodrillo una lima con cui aggiustarsi le unghie già perfette.
Minako aveva un groppo in gola. Guardò il ragazzo del sogno adoperarsi con cura ad aprire la propria custodia e montare il cavalletto per la tastiera. Posato, metodico. Era silenzioso e concentrato. Minako lo invidiò, avrebbe voluto essere calma in quel modo anche lei e invece le mani le sudavano tanto da temere di non riuscire a pizzicare le corde della chitarra a dovere.
I pochi numeri prima di lei procedettero così veloce che quasi non se ne accorse. Non seppe dire se le esibizioni furono complete o i due avessero fermato qualcuno dei ragazzi che si era cimentato prima di lei nel proprio talento.
«Yaten…» il talent scout riccioluto dovette pulirsi una delle lenti degli occhiali prima di continuare. Strizzò gli occhi e alzò il foglio dal tavolino «Ko…» non riusciva a pronunciarlo.
«Yaten Kou, signore» lo aiutò senza timore il ragazzo per poi sistemarsi al centro del segno a terra e poggiare le mani sulla propria tastiera.
Minako lo guardò socchiudere le palpebre. Aveva le ciglia lunghe e chiare. Lei inspirò ed espirò silenziosamente assieme a lui. Le sembrò che fossero le sue le falangi sistemate sui tasti bianchi e neri.
Yaten ripeté nella testa. E così hai un nome ragazzo del sogno.
Si ritrovò a sorridere per poi venire catturata ancora una volta dalla sua musica. Impeccabile e pulita, ogni nota si librava nell’aria per poi venire divorata da quella dopo.
Ancora una volta quella sensazione. Quella del cuore che se ne andava a spasso per conto suo e cercava di evadere con l’insistenza di un carcerato sofferente per una lunga prigionia.
 
«NUMERO 34 è il tuo turno!». L’avevano già chiamata due volte per nome e lei non si era accorta nemmeno della fine dell’esibizione tenuta da Yaten. Doveva smetterla di estraniarsi così, ma lui la rapiva e la portava lontano con la sua sola e distante presenza.
«Ci sono».
«Speriamo» commentò la donna rimirando il suo lavoro di manicure e incrociando le gambe sulla sedia.
Lei la ignorò. Non aveva pensato nemmeno per un minuto a cosa presentare. Nella stanza, alle spalle della fila di candidati la statua di Taylor Swift svettava. Haruka la prendeva sempre in giro chiamandola col nome della cantante.
Poi li sentì. Gli occhi di Yaten si erano posati su di lei e il respiro le si mozzò.
Minako prese a suonare. Non dovette nemmeno pensarci ulteriormente, poiché non ci sarebbe stata canzone più azzeccata avendo il suo sogno in piedi davanti a lei.
 
«Say you'll remember me. Standing in a nice dress, staring at the sun set babe. Red lips and rosy cheeks…Say you'll see me again even if it's just in your wildest dreams…Wildest dreams».
 
 
§§§
 
 
Il festival estivo era un evento molto sentito a Malibu Beach. Le forze dell’ordine assieme agli enti per la salvaguardia dei cittadini erano soliti organizzare alcune attività, all’interno della serata, per raccogliere proventi da destinare alla cura dei bambini malati.
Mentre Makoto era intenta a smaltire la grande quantità di bevande ordinate Dan, estasiato come un bambino a cui si regalano i dolci, non riusciva a rimanere fermo sul posto.
«Quindi abbiamo uno stand» batté il piede ritmicamente nelle infradito che si riempirono di sabbia.
«Uno stand dei baci» sottolineò fiera Haruka buttando l’occhio a uno dei numerosi falò che vennero accesi in riva al mare.
«Sei davvero geniale» commentò il ragazzo.
«Lo so, lo so. Ho i miei metodi per riuscire a cavarmela sempre».
«Di certo non è l’eleganza sta sera» la pungolò l’amico guardandola dalla punta dei piedi a quella dei capelli.
Haruka aveva la chioma bionda scompigliata e indossava un paio di jeans neri strappati con gli anfibi di servizio e la maglietta nera della SWAT.
«Beh, cosa vorresti dire? Io ci rappresento almeno. Tu sembri un bimbominkia in pigiama».
Dan offeso portò le mani alla propria t-shirt che riportava al centro il disegno di un donuts pieno di zuccherini azzurri e gialli con tanto di occhietti neri vispi.
«Questo rappresenta la mia identità» le fece il verso lui.
Haruka schioccò la lingua e lo guardò come si fa con un caso disperato.
«Nessuno vorrà baciarti. E venderemo pochi biglietti per colpa tua. E i bambini non avranno biglietti».
«Quanto sei falsa. Non giocare la carta dei bambini!».
«L’ho fatto anche col capo Meiō» rivelò Haruka con un sorrisetto furbo.
«Hey ragazzi!» Rei arrivò sprofondando nella sabbia per colpa degli scarponi da vigile del fuoco.
«Sei in servizio?» chiese Haruka notando l’abbigliamento di routine. Se non lo fosse stata Rei sicuramente ne avrebbe approfittato per sfoggiare un po’ di più il suo bel fisico perciò la domanda in realtà era superflua.
«Dove c’è il fuoco ci sono io! Meglio tenere d’occhio i falò. E poi ieri ho oziato tutto il giorno e cercato di convincere Mina a ritentare con le audizioni».
«Il nostro stand è il più fico, farai un salto?» chiese Dan alla mora. «È quello dei baci» aggiunse come se quel dettaglio potesse risultare più convincente.
«Sul serio è il vostro?».
Haruka e Dan annuirono all’unisono all’espressione incredula di Rei.
Lei scoppiò a ridere «oddio, non ce la posso fare! E tu…» puntò l’indice verso l’amica. «Tu parteciperai?».
«Tsk. Se lo facessi gli altri non avrebbero possibilità. Mi consumerei le labbra solo io e non è il caso. Io mi occuperò delle vendite».
«Saggia decisione e…quindi chi partecipa?». Dan realizzò solo sul momento che se lui era lì per le donne qualcuno avrebbe dovuto regalare baci agli uomini.
«Hollywood naturalmente».
Dan e Rei si lanciarono un’occhiata confusa.
«Beverly Hills. Ho deciso di chiamarla Hollywood ora» spiegò la bionda all’amico. «Perché fa la preziosa come una diva».
Dan rispose con un “oooh” che serviva a manifestare il suo essere d’accordo e l’aver inteso ciò che l’amica aveva sottolineato.
«Io ancora non ho capit-» Rei non finì la frase perché captò l’interesse di Haruka per qualcos’altro. La bionda aveva dato una gomitata a Dan e poi stava indicando qualcuno col dito della mano destra.
Rei seguì la traiettoria immaginaria tracciata dall’amica fino ad identificarne il bersaglio.
Una giovane dai lunghi capelli acqua marina, avvolta in un lungo vestito blu notte con piccoli intrecci di pizzo aveva affondato i sandali con alcune perline lucenti nei granelli della spiaggia. Michiru, con appesa al proprio braccio Usagi sembrava una dea greca scesa dall’olimpo per far invidia a tutte le comuni mortali.
«Te l’ho detto che la convincevo…» bisbigliò Haruka a Dan che sembrava essersi ipnotizzato a quella visione.
 
Quella è Hollywood? I neuroni di Rei sembrarono impazzire. Non poteva certo trattarsi della biondina. Non era il tipo da catturare l’attenzione di Haruka, troppo bambinesca all’apparenza.
La radiolina di Rei gracchiò per sapere la sua posizione e richiamarla al proprio dovere.
«Io vado» annunciò asciutta con lo sguardo scuro illuminato da lampi poco benevoli nei confronti dell’ultima arrivata.
«Quindi passi dopo?» si assicurò Dan.
«Puoi contarci».
 
 
§§§
 
 
Michiru era la prima volta che partecipava all’evento. Il molo era adornato da sottili collane piene di piccole luci gialle e l’ingresso alla spiaggia illuminato da una serie di fiaccole in legno.
Più vicino alla riva qualche falò era contornato di giovani intenti a conversare con qualche drink in mano o ad arrostire su lunghi bacchetti i marshmallows ancora bianchi.
Il bar di Makoto, con le sue palme, era stato inglobato da una serie di stand adibiti solo per l’occasione e collegati tra loro da caratteristiche lanterne di carta. Al centro di tutta la zona, un piccolo palco era stato allestito per comunicare in diversi momenti della serata a quanto ammontavano le donazioni dei partecipanti e ad ospitare un paio di band del luogo che avrebbero allietato la serata con le loro canzoni.
Setsuna, sfoggiava l’abbronzatura in un completo bianco e castigato mentre era intenta a sistemare e a provare il microfono sul palco.
Michiru la salutò con un cenno della mano, ma prima che potesse avvicinarsi per scambiare due parole uno strattone da parte di Usagi la fece deviare.
«Di qua!» esclamò la bionda per paura che Setsuna potesse rivelare qualche dettaglio di troppo a Michiru di cui Usagi non l’aveva sapientemente messa al corrente.
Michiru era un osso duro da convincere e la prima cosa da fare era omettere che in tutta quella faccenda centrasse Haruka. Usagi perciò si era ben guardata dal nominarla e aveva solo concentrato il tutto sulla beneficenza, poiché il buon cuore di Michiru non si sarebbe certo risparmiato se poteva far del bene.
«Bunny, non sono sicura di aver capito bene come funziona…».
Usagi soffocò una risata e deviò l’attenzione dell’amica sui cocktail colorati e scenici che Makoto aveva inventato per l’occasione.
«Tu non preoccuparti di niente! Sarai una specie di…assistente».
«Un’assistente?».
«Si, quelle dei prestigiatori. E sarai bendata!».
«Mh». Michiru sentiva puzza di bruciato e non si trattava né dei falò né tanto meno delle fiaccole presenti in loco.
«Vuoi farmi affettare dentro una cassa?».
«OOOH SCIOCCHINA!!!». Eccola che ricominciava. Se Michiru chiedeva qualcosa di più dettagliato la bionda cominciava a starnazzare a un volume improponibile.
 
«Hollywood!» quella voce ormai Michiru la conosceva bene.
«Peggio del prezzemolo».
«Sei venuta alla fine!» Haruka sfoggiò la dentatura bianca avvicinandosi un po’ di più e salutando con una manata vigorosa sul capo anche Usagi.
«Per un momento avevo dimenticato che avrei potuto incontrarti qui. Sono venuta per la mia amica».
«Oh ma davvero?» eccolo lì. Dipinto sul volto di Haruka c’era quel sorrisetto irriverente che Michiru faticava a sopportare.
«Sono curiosa» continuò la bionda. «Come ti avrebbe convinta?».
«Si è data da fare a costruire uno stand, cosa che probabilmente una scansafatiche come te non ha fatto o ha delegato a qualche altra povera anima».
Quanto aveva ragione quella pseudo sconosciuta sul suo conto. Haruka si domandò come facesse, che le doti da strizzacervelli l’aiutassero a inquadrare sul serio le persone?
«È una roba di magia» sottolineò Usagi intromettendosi in quella conversazione scoppiettante. Haruka in risposta le lanciò un’occhiata poco convinta, ma se davvero quel balzano inganno aveva funzionato tanto di cappello a Usagi.
Setsuna fece fischiare le casse e tutti i presenti nelle vicinanze si lasciarono sfuggire una smorfia infastidita per il suono molesto.
«Ehm, scusate» commentò schiarendosi la voce prima di continuare il discorso di apertura. «Benvenuti al quinto festival estivo qui a Malibu!». Una serie di applausi entusiasti da parte del pubblico presente le fece fare un’altra breve pausa.
Setsuna sorrise per il calore che tutti manifestarono con quel battere di mani.
«Come ogni anno spero vi divertiate e spendiate bene i vostri soldi per una buona causa. L’anno scorso siamo riusciti a raccogliere davvero una bella somma e mi auguro che la vostra generosità contribuisca anche questa volta. Ringrazio tutti i volontari qui presenti che hanno dato una mano e che sono al lavoro per noi anche sta sera».
Setsuna annegò di belle parole e ringraziamenti una sfilza di persone e nel mentre Usagi prese una benda fuori dalla borsetta per metterla sugli occhi di Michiru.
«È ora» le disse stringendo il nodo dietro la nuca dell’amica.
«Bunny, io non vedo nulla».
«Ti guidiamo noi!» la rassicurò.
«Ma noi…chi?!».
«Hollywood, rilassati» sospirò Haruka posandole la mano dietro la schiena scoperta dall’abito.
Michiru ebbe un leggero fremito a quel contatto inaspettato.
«Bunny, me la paghi».
«Ma Michi Michi è per una buona causa!» cercò di discolparsi Usagi mordendosi il labbro.
«Ti prego dimmi che non è Ten’ō il mago che mi farà a fettine».
Haruka scoppiò a ridere di gusto. «Io le donne le tratto con i guanti. Non le infilzo, chi diavolo pensi che sia?».
Michiru non ne aveva idea. La superficie l’aveva grattata ma una personalità non è mai limpida come sembra e in qualche modo da quella domanda retorica fu incuriosita. Chi era Haruka Ten’ō sotto lo strato irriverente e borioso che mostrava al mondo intero? Si perse in quel labirinto di pensieri più a lungo di quanto pensasse. Senza rendersene quasi conto l’avevano fatta salire su un paio di gradini e qualcuno aveva fatto un annuncio a proposito di uno stand «dei baci?! BUNNY!».
Quell’esclamazione fece interrompere il lungo discorso alla folla dell’amica mentre l’altra bionda staccava biglietti a chi si era messo in fila.
«Impavida del pericolo quando si tratta di un’operazione e te la fai sotto per labbra e lingue appiccicaticce?» le soffiò cinica Haruka all’orecchio. Era a poca distanza da lei con la cassa, ne avvertiva la presenza.
Michiru avrebbe avuto voglia di mollarle un ceffone e andarsene ma non gliel’avrebbe data vinta così. Se si fosse ritirata da quell’impegno preso, anche se con l’inganno, quella testa bionda l’avrebbe tediata ancor di più e non ne aveva alcuna voglia.
«No che non mi tiro indietro».
Haruka si morse la lingua. Staccò un altro biglietto e prese nervosamente una banconota dalle mani di un giovane dai lunghi capelli corvini.
Qualcosa dentro di lei stava sperando che Michiru Kaiō facesse la codarda e mollasse anche se non conosceva il motivo di quello strambo desiderio.
«Dunque dunque!» esclamò Usagi sputacchiando nel microfono. «Per le signore questo è il giro del nostro bel…» si grattò il mento rendendosi conto di non sapere il nome del ragazzo bendato. «Ehm…come ti chiami bell’uomo muscoloso?» era diventata melassa, Michiru lo sentiva dalla voce.
«Dan».
 
Che razza di guaio. Che vergogna. Bunny me la paghi.
Michiru tenne duro quando Usagi annunciò la sua presenza per i pretendenti uomini.
«Mentina?» sentì il fiato di Haruka solleticarle il collo.
«No. Grazie» disse asciutta lei in risposta.
Haruka diede lo stop alla fila e contò i soldi raccolti sino a quel momento. Diede la somma a Setsuna che la mise in una busta per il conteggio di metà serata e la portò altrove.
La fila delle donne cominciò a scorrere per prendersi il proprio bacio dall’uomo donuts e quando Haruka cercò quella degli uomini non la trovò di fronte a sé.
Fu sollevata, fino a quando non si voltò verso Michiru che persino bendata non riusciva ad avere un’aria stupida ma sembrava provenire da un altro modo per la sua bellezza.
Se tutti prima di sapere chi fosse la corteggiavano e facevano a gara per uscire con lei, ora che ne avevano scoperto l’identità, si guardavano bene dall’avvicinarsi troppo. Haruka si sentì in colpa. Lei era stata la prima ad etichettarla come la pazza o la fuori di testa, una volta capito si trattava della persona che sei mesi prima aveva buttato all’aria l’ufficio del proprio capo ed era scomparsa dalla circolazione. Non si era curata di quanto le parole, soprattutto quelle malevole, potessero colpire o esiliare una persona. Le sue avevano avuto un peso enorme e se ne stava accorgendo in quel preciso istante. Così, Haruka la spezzacuori decise di acquistare da sola un biglietto per un bacio e tentare, forse per la prima volta, che se ne sgretolasse uno in meno a causa sua.
E poi la potrò prendere in giro e farla arrabbiare ancora di più. Pensò soddisfatta mentre si prendeva il resto dalla cassa e si accingeva a cominciare la fila che sarebbe toccata agli uomini. Una buona azione doveva essere compensata da un pensiero che portasse con sé una punta di malizia, o Haruka non sarebbe stata del tutto Haruka se improvvisamente avesse deciso di diventare la buona samaritana.
«Bene! Allora…avanti i ragazzi?» Usagi rimase interdetta nel vedere Haruka sventolare il proprio biglietto con fare trionfante nell’aria.
Michiru drizzò le spalle e l’altra riuscì a captare il suo petto muoversi per catturare un po’ più ossigeno e tranquillizzarsi.
Haruka salì i due gradini che le separavano.
Dal palco alle loro spalle risuonavano le parole di una canzone. “I've seen your soul grow just like a rose. Made it through all of those thorns, girl into the woman I know. And it's killing me, me to say I'm fine, I'm fine…When I really mean, mean to say: you're my all and more. All I know you taught me, you're my all and more…”.
L’impavida Haruka si bloccò col piede su un’asse cigolante a metà strada. Era tutta in subbuglio per qualche strano motivo.
Non è importante. Tentò di convincersi. È solo un bacio.
Un altro passo e le fu davanti.
Per qualche arcano scherzo della sua mente si ritrovò a sognare di passare le dita in quelle onde morbide. Come se ci fossero solo loro due e nessun altro.
Usagi a mascelle spalancate assisteva alla scena cercando di non far cadere dalle mani il microfono e Dan, appena sbendato, mimò un “sì” soddisfatto con un gesto del braccio.
«Ciao» soffiò a bassa voce Michiru sentendosi in imbarazzo senza dire niente, né poter vedere chi le stava davanti.
Haruka non rispose, abbassò lo sguardo e le prese le mani.
Non sentì più la musica, come se fosse cessata nonostante la cover band suonasse senza sosta.
Le dita affusolate di Michiru trovarono porto sicuro tra quelle sconosciute che le infusero un po’ di coraggio. E fu con quella leggera stretta che Haruka si decise. Poggiò le labbra su quelle di Michiru e la baciò. Lo fece come nelle favole o nelle commedie romantiche.
E mentre la bionda combatteva con la sensazione di sentire i fuochi d’artificio nello stomaco, Michiru pensò alle stelle cadenti. Alla loro fuggevole bellezza e a come fanno sentire le persone piene di speranza che affidano loro i più intimi desideri.
Quel bacio era uguale a quelle stelle. Una scia luminosa nel cielo destinata a scomparire nell’oscurità in un frangente di secondo.
 
«Woo, woo! Fermi tutti o andremo a fuoco!» Dan dovette intervenire strappando di mano il microfono a Usagi che non era più in grado d’intendere o volere perché persa a sospirare come di fronte alla sua serie televisiva preferita.
Haruka e Michiru si divisero. Le loro mani si lasciarono andare e Haruka ebbe la sensazione di malinconia che si ha quando si salpa dal porto di casa e si parte per giorni verso il blu sconfinato e solitario.
Tentò di riprendere il controllo di sé stessa e di raccogliere tutto quello che aveva dentro. Cercò di convincersi che quel bacio non fosse nient’altro che un atto caritatevole per far sì che qualcuno non soffrisse anche se senza saperlo aveva appena mandato in pezzi un altro cuore; quello di Rei che tra la folla si era fermata ad assistere alla scena.
La mora cercò lo sguardo dell’amica e ci vide dentro qualcosa che prima d’ora non aveva mai scovato e che aveva sempre sperato fosse per lei. C’era il fantasma di un sentimento, glielo poteva leggere nelle iridi chiare anche a distanza.
 
Haruka tornò al suo posto, destabilizzata. Avrebbe voluto farle una battutina, ma rimase zitta. Stava per far annunciare a chiunque avesse un microfono in quel momento il cambio dei baciatori, quando qualcuno la scansò salendo i gradini che portavano a Michiru.
«Sembra sia il mio turno» un paio di occhi blu profondo le schioccarono un occhiolino audace superandola e mostrando fieramente un bigliettino.
E questo chi diavolo è?!
Haruka strinse i denti desiderando di buttarlo giù di lì subito. Ma non ebbe il tempo di far nulla che il ragazzo portò le mani alle guance di Michiru.
«Ciao sirenetta» le sussurrò a bassa voce per poi far collidere le loro bocche in un bacio che non poteva portare con sé lo sfrigolio di stelle appartenente solo a quelli che si danno per la prima volta.
La brezza di Honolulu, la schiuma bianca degli enormi cavalloni a North Shore, «Aloha au ia ‘oe», l’abito bianco da sposa; tutti quei ricordi come un’ondata si frantumarono dentro la cassa toracica di Michiru con la violenza che solo l’eruzione del vulcano Kilauea poteva possedere.
«Seya…» esalò Michiru per poi togliersi la benda nera dagli occhi.
«In persona» le sorrise lui spostandole una ciocca dietro all’orecchio.
 
Haruka lo guardò in cagnesco. Lui aveva appena fatto quello che lei aveva sognato ad occhi aperti un istante prima. Nessuno si prendeva i suoi sogni. Haruka non lo aveva permesso nemmeno a un’intera comunità di farlo e non avrebbe lasciato quella libertà al primo bell’imbusto che si presentava senza invito.
«Credo sia ora di andare» disse Seya prendendo Michiru per mano e trascinandola giù da quel podio che l’aveva vista fin troppo come protagonista quella sera.
Michiru lo seguì e Haruka stizzita affisse il cartello di pausa allo stand lasciando a bocca asciutta tutti i pretendenti che attendevano con impazienza il loro turno.
«Wow Haruka, ma che è successo lì sopra con Hollywood ?» la incalzò tutto eccitato Dan.
L’amica lo ignorò senza riuscire a frenare quella sensazione di collera che aveva preso a scorrerle nelle vene e Dan capì al volo che doveva mettere a tacere l’entusiasmo.
«Bionda, chi diavolo è quel cretino?».
Usagi sospirò. Quella serata era troppo emozionante per il suo giovane cuore di ventitreenne.
«È Seya» rispose come in uno stato di totale trans.
«Non mi dice nulla così. Sii più specifica».
Usagi sospirò profondamente, stava per svelare probabilmente uno dei segreti di Michiru visto che nessuno dei presenti sembrava essere a conoscenza di chi fosse l’ultimo arrivato a Malibu.
 
«È il marito di Michiru».












Note dell'autrice:
Avrei dovuto scrivervelo all'inizio ma non sapevo come segnalarvi le rispettive parti del capitolo con le quali potete ascoltare le relative "colonne" sonore. In caso vogliate farlo (anche se non penso abbiate voglia di rileggervi il poema qui sopra) per l'esibizione di Minako la canzone è "Wildest Dream" di Taylor Swift (cover di Tayler Buono), la canzone che sente Haruka mentre sale sul palco è "Breathe" dei Lauv, mentre per la parte in cui Haruka scende e arriva Seya io ho ascoltato "Sorry" di Halsey.
Non elemosino mai recensioni, ma visto che mi sono impegnata a fondo per queste 21 pagine lasciatemi dire che gradirò ancor più del solito i vostri commenti/scleri (spero privi di minacce per la frase finale pronunciata da Usagi). 
Alla prossima!

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Capitolo 6
*** Il passato che ritorna ***


 
Tra il crepitio delle fiamme del falò Minako accordò la propria chitarra. Sedeva su un tronco decorticato e reso liscio dallo scrosciare della corrente che lo aveva trascinato a riva durante la tempesta di qualche giorno prima.
La musica del palco, poco lontana da lei, risultò ovattata fino a interrompersi  per l’annuncio di metà serata nel quale avrebbero reso nota la somma donata dai partecipanti dell’evento estivo sino a quel momento.
Inclinò il capo all’indietro e i capelli dorati le scivolarono liberi sulla schiena. Una marea di piccole stelle impreziosivano il cielo notturno sulla sua testa. Era talmente limpido da sembrarle possibile toccare con una mano quella trapunta luminosa. Così lontana eppure vicinissima ai suoi occhi.
La brezza serale la fece rabbrividire appena, vestita solo di un abito a fiorellini color cipria era troppo leggera per quel venticello irriverente.
A suonare un po’ mi scalderò,  ponderò per poi portare i palmi verso le fiamme.
Batté il tempo con la pianta del piede, poggiò i polpastrelli sulle corde tese della chitarra e cominciò a suonare.
«I walked through the door with you, the air was cold, but something about it felt like home somehow and I, left my scarf there at your sister's house, and you still got it in your drawer even now…».
Lo sciabordio di un’onda coprì i passi di qualcuno. Minako presa a ricordare le esatte parole della canzone fissava il fuoco e tra le fiamme aranciate qualcosa brillò. Gli inconfondibili capelli argentei di Yaten e i suoi occhi lucenti di una bellezza fredda, come quella delle stelle che Minako aveva ammirato qualche secondo prima, apparvero di fronte a lei.
Anche il fare gelido del ragazzo, come il vento freddo di cui stava cantando, in qualche modo l’aveva fatta sentire a casa il giorno prima. Perché in quella stanza piena di sconosciuti, per qualche assurdo mistero, la paura di fallire che provava era svanita grazie a quella presenza scostante dinnanzi a lei.
Minako troppo presa da tutto quel turbinio di considerazioni e dall’emozione di rivederlo rallentò il ritmo della canzone. Yaten fece un gesto con la mano, sedette sulla sabbia incurante dei propri indumenti e sussurrò un «continua» asciutto come un ordine.
«…Cause there we are again and I loved you so…».
Ma non ebbe il fiato di continuare, lui glielo spezzava solo a guardarla.
Minako continuò a strimpellare ma cessò di cantare.
«Hai saputo qualcosa dell’esito del provino?» domandò cautamente lei.
Yaten scosse il capo in segno di diniego e si cinse le ginocchia con le braccia; erano lunghe considerò lei.
Fatte per abbracciare forte qualcuno.
Lo stava facendo di nuovo, fantasticava ad occhi aperti e prima o poi avrebbe detto la cosa sbagliata e sarebbe stato più che imbarazzante; ne era certa.
Minako posò la chitarra accanto a sé con un sospiro.
«Nemmeno io». Lo informò, anche se lui non aveva chiesto nulla. Probabilmente nemmeno gli interessava.
Yaten rimase in silenzio a fissare le lingue incandescenti del falò come se lei non esistesse e a Minako la sensazione di essere ignorata da lui non le andò giù. Stava cercando un qualunque argomento per attaccare discorso e non sembrare una stalker, presa da quell’irrefrenabile sete di sapere sul suo conto quando ad aprire bocca fu proprio il ragazzo.
«Dio, ma quanto rumore riesci a fare battendo i denti?».
Lo sguardo verde la gelò e lei nascose la delusione di quel poco tatto sotto un’espressione interrogativa. Minako non si era nemmeno resa conto di star tremando.
«Mi chiedo come faresti a vivere in un posto come il Canada se fai così qui in estate».
Anche lui quindi si interrogava su di lei? Minako avrebbe potuto raccontare vita, morte e miracoli della propria vita se solo lui fosse stato interessato.
Il ragazzo, con l’aria perennemente assente, come fosse in un luogo lontano anni luce da lei, si alzò.
Lei boccheggiò. Lo infastidiva così tanto da far sì che se ne andasse?
Yaten pulì i propri jeans dai granelli residui con le mani; poi fece qualcosa di assolutamente inaspettato, visto il suo temperamento tutt’altro che amichevole. Si tolse la giacchetta in pelle e la sistemò sulle spalle di Minako che si sentì andare a fuoco all’istante.
Sto sognando, di nuovo. Per forza.
Il freddo era solo un lontano ricordo.
«Così almeno la smetterai» disse in un sibilo, come se volesse giustificare la gentilezza appena concessa. Ma Minako non lo stava ascoltando, troppo presa a pizzicarsi l’interno del braccio per verificare che tutto stesse realmente accadendo.
«Ahia. Ahi» soffocò lei strizzando appena gli occhi per il fastidio dei pizzicotti.
È tutto vero. Sta succedendo!!!
L’entusiasmo venne smorzato però da una voce familiare.
«Mina, andiamo?».
Rei l’aveva raggiunta e aveva il viso di chi era in procinto di scoppiare in lacrime. Yaten alzò appena lo sguardo, ne sondò i capelli corvini e la divisa dei vigili del fuoco.
«Che cosa…».
«Andiamo» e sta volta quella di Rei non era una domanda all’amica. «Ti prego, subito» aggiunse per essere più incisiva. Se Rei supplicava doveva essere più o meno questione di vita o di morte.
Il ragazzo non disse niente, non era solito immischiarsi nelle questioni che non lo riguardavano.
Yaten si teneva lontano da ciò che non lo toccava da vicino, chiuso nella sua corazza ermetica. Era dotato di uno spiccato senso di auto conservazione e di una conseguente estraneazione da ciò che gli accadeva intorno.
Minako, tutt’altro che insensibile, si alzò dal tronco e fece per restituire la giacca al legittimo proprietario.
«Me la riporterai un’altra volta» sentenziò con la sicurezza di chi sa per certo incontrerà nuovamente quella persona.
Lei non se lo fece ripetere ulteriormente, infilò le braccia nelle maniche calde e indossò la tracolla della chitarra.
Rei si avviò e Minako ebbe il tempo di salutarlo con un cenno della mano.
«Sono sempre tristi le tue canzoni». Il tono era quello di chi ci aveva riflettuto a fondo prima di proferire un’affermazione di quel tipo.
Minako accennò un sorriso. Il cuore le batteva all’impazzata.
«Parlano di sogni e amori impossibili» gli diede le spalle e corse per raggiungere l’amica, augurandosi che i suoi, di sogni e di amori, non fossero così irraggiungibili come quelli delle sue canzoni.
 
 
 
§§§
 


Quel giorno i colori sgargianti dell’Havana erano invisibili agli occhi di Rei. Persino nelle giornate di pioggia il grigio non riusciva a smorzare il carnevale di tinte che vestiva gli edifici più caratteristici del posto. Eppure lei non li captava più, qualcosa era sbiadito persino nella fascia scarlatta che sua madre intrecciava tra i propri capelli corvini.
«Ohi, mi niña». Rei al tocco sulla spalla della madre avvertì tutto il profumo dei caraibi. Portava sempre un ché di speziato la sua pelle.
«Qué pasa?» indagò preoccupata poggiando il cesto intrecciato di frutta che portava sul capo .
«Mami…» Rei provò a non piangere ma un singhiozzo le scappò a tradimento dalle labbra. Si coprì il volto con entrambi i  palmi, tentando di asciugare le lacrime che le bagnavano le gote. A sedici anni un amore finito male sembrava poter uccidere.
Un coco taxi con due turisti passò alle loro spalle. Due uomini seduti ad un bar sorseggiavano rum fumando i loro sigari cubani. Nell’ antico centro coloniale alle loro spalle, un gruppo di giovani e spensierati cubani cominciò a far festa.
Le ragazze ballavano scalze in strada e i ragazzi suonavano al ritmo che l’Havana si porta dentro da tempi lontani.
«Nessun uomo spezza il cuore di una chica latina» le disse sua madre.
«Io lo sono a metà» tirò su col naso una Rei adolescente.
«Mi hermosa!» sua madre parve contrariata da quelle parole quasi avesse detto una bestemmia.
«Tienes mi sangre. Mi fuerza e…».
Un altro singhiozzo interruppe la voce amorevole di sua madre.
«Non sarà uno stupido amore ad ucciderti».
Rei si sentì sollevata.
 
 
Erano passati otto anni da quel ricordo. Dalla piccola cicatrice che un amore adolescenziale aveva lasciato sul suo cuore e che sua madre era riuscita a rammendare con solo la sua amorevole presenza e quelle pochissime parole. Ma da quando la donna se n’era andata a rattoppare le ali agli angeli, anziché i suoi problemi di ragazza, Rei aveva lasciato i Caraibi. E quella notte la ricordava bene poiché era in quelle tenebre che il destino le aveva fatto incontrare Haruka e più tardi le avrebbe presentato Minako.
L’amica inserì le chiavi di casa nella toppa. Fece tre giri fino all’udire di un flebile ‘clack’ per poi cedere il passo alla mora nell’ingresso.
Rei entrò senza accendere la luce. Scalzò le scarpe lasciandole accanto alla porta e andò a rannicchiarsi nell’angolo del sofà senza dire una parola.
Minako l’assecondò. Non spinse l’interruttore della luce, la imitò disfandosi delle proprie calzature e poggiando la chitarra all’entrata. Senza liberarsi di altro si chiuse la porta alle spalle e scalza, stando ben attenta a non inciampare, prese posizione all’altro estremo del divano.
Attese qualche secondo e scorse nel buio Rei piegare la testa tra le proprie ginocchia.
Minako prese coraggio e con un respiro profondo si decise a porle la fatidica domanda.
«Cos’è successo?».
 
 
Aveva diciotto anni Rei quando con i suoi pochi risparmi aveva preso un aereo che la portasse da Cuba a Shreveport in Louisiana. Non era riuscita a permettersi tratta più lunga ma l’importante era sfuggire a quell’orco di suo padre che con i debiti e il troppo Rum aveva finito per sotterrare sua madre prima del tempo.
Vissuta per una settimana in aeroporto si era improvvisata aiutante per turisti asiatici o di lingua spagnola e con le mance guadagnate di nascosto era riuscita a spostarsi sino a Cullen, una cittadina di mille anime più simile ad un cimitero che ad un paesino.
Fu in quel mortorio monocromatico e lontano dal mare che tanto era stata abituata a vedere, dove incontrò Haruka, ancor più spaesata di lei.
La zazzera bionda saltò giù da un’enorme camion che posteggiò davanti al Louisiana Famous Fried Chicken.
Rei la fissò dall’altra parte della strada. La diciannovenne sembrava arrivare fuori da un altro tempo. Si trascinava dietro una piccola valigia in pelle consunta e sporca di terriccio, indossando un paio di jeans sorretti da lunghe bretelle color marrone sistemate alla bene e meglio su una camicetta bianca.
Non poteva ancora sapere che quelli erano gli unici pantaloni che Haruka possedesse e che la camicia, come le bretelle, erano stati rubati al fratello maggiore.
«Ehi, Frank!!» sbraitò agitando le braccia e mollando il singolare bagaglio a terra.
«In che buco di culo mi hai portata?».
Un uomo ben messo, con spalle larghe e una pancia vistosa coperta da una t-shirt grigia macchiata di grasso, si sistemò un cappellino sulla nuca ormai glabra.
«In un buco di culo dove il tuo calesse non sarebbe mai potuto arrivare, piccola amish!».
D’impatto nessuno avrebbe mai detto che quel Frank fosse un tipo raccomandabile e invece il sorriso bonario che rivolse all’irriverente e stramba figura convinse Rei ad attraversare la strada.
La ragazza bionda seguì il camionista all’interno del fast food e quando questa tentennò sul da farsi l’uomo le fece cenno di prendere posto al bancone, sullo sgabello accanto a lui.
Rei si bloccò con il naso contro il vetro del locale. Erano un paio di giorni che non metteva qualcosa sotto ai denti. E per quanto l’odore di unto e fritto stantio rendesse quel posto tutt’altro che invitante Rei avrebbe venduto l’anima per avere una briciola di quei piatti.
«Non so cosa dovrei prendere…» disse Haruka abbassando il capo per poi torturarsi le dita magre.
«Quello che ti piace piccola amish» rispose l’uomo.
«Non chiamarmi così!» si alterò quella fulminandolo con lo sguardo grande e azzurro.
«Allora rimani con la pancia vuota!».
Rei vide la ragazza scoprire i denti come un animale in procinto di ringhiare. Aveva l’aria di un randagio e in qualche modo credette di essere più simile a lei di quanto potesse esserlo chiunque altro sulla faccia della terra in quel momento.
«Quindi?». Insistette un’ultima volta l’uomo montagna.
«Io non so leggere…» ammise Haruka vergognandosi profondamente per quella confessione.
Frank sospirò, poi le mollò uno scappellotto sulla nuca ordinando anche per lei.
 
 
«Rei…» la voce di Minako la riportò alla realtà. L’amica le poggiò una mano sul ginocchio e ripose per l’ennesima volta la stessa identica domanda.
«Niente» la voce le tremò. Rei strinse le palpebre per evitare ancora una volta di piangere. Ma sapeva di non poter tenere alcun segreto con l’amica perciò cedette in fretta.
«Si tratta di Haruka?».
«Si».
«Le hai detto che…».
«No, non c’è bisogno che lo sappia» tagliò corto la mora.
Minako si sentì confusa e il non essersi tolta il giacchetto di Yaten di dosso non l’aiutò. Sentiva il suo profumo. Per la prima volta non doveva immaginarlo ma sapeva esattamente di cosa sapesse la sua pelle. Quella nuova scoperta non l’aiutò a mantenere la lucidità, ma si dovette far violenza ed essere lì, presente con tutta se stessa, per sostenere la compagna con cui condivideva le giornate e le nottate insonni.
«Ha baciato una».
«Sai che novità» si lasciò sfuggire Minako senza afferrare il punto.
«Insomma, le fai da spalla ogni benedetto giovedì e venerdì sera. E ogni santa volta lei va via con una tipa diversa e tu rimani con me».
«Credo sia diverso questa volta».
Rei si alzò un po’ più ritta con la schiena e portò una mano al petto. Sembrava dolerle. Eppure sua mamma le aveva insegnato che i cuori non si spezzavano.
«La conosci?» Minako era a corto di domande sensate. In realtà la faccenda si stava infittendo e la sua natura pettegola voleva nutrirsi di più particolari possibili, senza però ferire i sentimenti dell’amica.
«Si, no, cioè non proprio. La chiama Hollywood».
«Che cosa?!» Minako cominciò a ridere. Aveva tentato di trattenersi con tutta se stessa ma la faccenda stava assumendo sfumature al limite del ridicolo con quel soprannome ideato da Haruka.
Gli occhi di Rei parvero fulminarla nella penombra e l’amica tentò di stroncare quella risata col risultato di provocarsi il singhiozzo.
Fu a quel punto che Rei si sentì più sollevata e seppur con le iridi lucide cominciò a ridere a crepapelle.
 
 
§§§
 
 

«Quante possibilità ci sono di raggiungere il mare?» la sconosciuta che da un momento all’altra si era trasformata in un’amica la guardò masticando l’ultima delle sue patatine fritte.
«Prendi male con la geografia».
«Ma a scuola ci sei andata?».
«Che domande, certo!».
«E cosa ti hanno insegnato?».
Haruka la guardò come se la cosa dovesse essere ovvia.
«La Bibbia».
«E tu ci credi?» domandò con i suoi occhi scuri Rei.
Haruka non rispose. Stava solo pensando che tutto quel ciarlare di quel poco che conosceva la riportava irrimediabilmente al Kansas e a Sarah, di cui non poteva possedere nemmeno una foto poiché gli Amish non amano farsi fotografare.
«Quindi vuoi tornare indietro?» biascicò la bionda guardando l’insegna del fastfood emettere l’ultimo sfarfallio di luce.
Erano ormai le due di notte e si udiva solo il costante e strambo canto delle cicale.
«Non ne so molto ma a Cuba c’è il mare, no?».
Rei annuì col capo ma non aveva nessuna intenzione di tornare sui suoi passi.
«L’umidità mi uccide. E anche queste zanzare…». Borbottò Haruka per poi colpirsi un braccio nel tentare di uccidere uno degli insettini succhia sangue che l’avevano scambiata per il loro personale banchetto.
«Tu dove sei diretta?» le domandò Rei fissando il punto dal quale avevano visto andare il camion di Frank verso l’orizzonte.
«In California». Haruka rispose risoluta e facendo scattare le due sicure della valigetta sgangherata, frugando tra una cuffietta bianca, un paio di calzoni e un abito nero lungo estrasse un paio di fogli stropicciati.
«Li ho trovati prima di partire» disse sottoponendoli all’attenzione dell’altra. Per poi indicare con l’indice prima una riga e poi l’altra.
«Quello è il nome della mia vera madre. Me lo ha letto una cameriera di una tavola calda poco prima d’incontrare Frank. Poi lui mi ha letto il resto, come il fatto che qui dice che è della California ma…».
«Mancano dei dati perché sono le carte dell’adozione vero?» la interruppe Rei.
«La California è grande. Però c’è il mare. Vengo con te, cosa dici? Faremo due mestieri fichissimi E ti aiuterò io a trovare tua madre. Ci stai?».
La giovane Amish non poté accettare offerta migliore.
 
 
Haruka la sua madre biologica non l’aveva ancora trovata. Forse in fondo era perché non si era impegnata davvero per scovarla, poiché dentro di sé, in un angolo profondo e oscuro del suo essere lei aveva il terrore d’incontrarla.
Sarebbe solo un’altra sconosciuta. Lo aveva pensato spesso perché per quanto la vita nella comunità non sarebbe mai e poi mai stata la sua, in qualche modo aveva sentito essere Sarah Fisher sua madre. Lo sarebbe probabilmente sempre stata. Era lei che le aveva regalato di nascosto il primo paio di jeans sfidando tutti, ed era sempre stata lei che si era messa davanti ad Amos prendendosi uno schiaffo al suo posto. Sarah, per quanto semplice e forse limitata fosse, per quanto rigida e sottomessa, l’aveva sempre sfamata e accudita. Le aveva insegnato a confezionare le marmellate e aveva tentato di farle imparare come rammendare i propri abiti e pettinare i capelli. Haruka non era stata una brava allieva come lei era stata una buona insegnante, probabilmente era stata molto deludente persino come figlia, ma questo non cambiava il fatto che Sarah nella sua imperfezione, perché lontana dal mondo moderno, fosse stata una buona madre.
Haruka forse aveva smesso di cercare. Temporeggiava senza combattere le proprie paure, però il mare lo avevano raggiunto lei e Rei. Erano davvero arrivate in California e potevano vantare due mestieri di tutto rispetto. Poi, Haruka, nel blu intenso di quel mare aveva incrociato anche l’azzurro degli occhi di Michiru. E cominciava a detestarlo.
 
Si alzò dal letto, sudata. Aprì la vetrata del proprio loft e respirò a pieni polmoni la brezza notturna.
Le stava addosso solo perché non era una conquista facile. Era ciò che si ripeteva tra sé e sé mentre tentava di capire cosa fosse ciò che odiava realmente.
Forse non odiava Michiru Kaiō in sé, ma il non sapere un bel nulla su di lei.
Quell’aria di perfezione che si portava addosso, il portamento da gran donna che la contraddistingueva, erano tutta una copertura per una marea di fastidiosi segreti come quello di avere un marito.
«Non sono affari tuoi» si disse sentendo le palpebre sempre più pesanti.
«Il mare è pieno di splendide sirene…e io sto cominciando a parlare da sola. Fantastico!».
Socchiuse la finestra e a piedi scalzi tornò verso il proprio letto.
Si sdraiò fissando il soffitto.
Usagi per la prima volta si era rivelata una tomba. Haruka non era riuscita a corromperla e i codini biondi si erano dileguati nel bel mezzo della folla lasciandola a bocca aperta, sola, con un pugno di domande brucianti sulla punta della lingua.
«O maledizione!» strinse le lenzuola tra le falangi e scalciò indispettita sul materasso.
Odiava quando non riusciva a prendere sonno per colpa di un’ondata di pensieri.
Haruka si rigirò nel letto, sbuffando.
Chiuse gli occhi e attese. Attese come faceva di fronte ad un ordigno in procinto di esplodere. Quando metteva da parte tutti i rumori circostanti e si concentrava sul ticchettio, o sui numeri del timer, o quando semplicemente aspettava per sincronizzarsi al proprio battito l’attimo prima di tagliare il cavo che doveva essere quello giusto.
Serrò le palpebre e ascoltò il silenzio che impregnava la stanza. Poi lo scrosciare dell’oceano e non ebbe scampo. Riprovò di nuovo quella sensazione. Quella dei fuochi d’artificio e dell’esplosione silenziosa che era avvenuta dentro di lei mentre le sue labbra incontravano per la prima volta quelle della Dea Michiru, impossibile da catturare.
 
 
§§§
 
 
 
«Michiru Kaiō» Seya inarcò le labbra con fare divertito. «Da quando in qua regali baci agli sconosciuti?».
Era stato tutto talmente veloce che Michiru si era accorta appena di aver abbandonato la costa di Malibu ed essere di nuovo nell’affollata città degli angeli.
«Era per una buona causa» non ne era più pienamente convinta, ma in qualche modo doveva giustificare l’essersi fatta trascinare in una situazione del genere da Usagi.
Il giovane camminava accanto a lei. Le mani in tasca affondate nei jeans e il passo rilassato di chi vuole solo godersi il fresco della sera.
Non era più abituata a quello. Ad averlo di fianco per poter scorgere la sua figura che andava al suo stesso ritmo.
Erano sempre stati loro due. Sin da bambini, sulle spiagge paradisiache delle Hawaii. Poi erano cresciuti; per certi versi forse troppo in fretta.
«Gelato?» domandò Seya spezzando quel silenzio. Michiru lo aveva sempre trovato confortante quando tra loro due le parole tacevano per un po’. Quelli tra loro non erano stati mai silenzi pesanti o pregni d’imbarazzo, erano solo pause che scandivano la loro esistenza costantemente intrecciata.
«Di solito mi offrivi le noci di Macadamia».
«Non credo si trovino qui a Los Angeles» ridacchiò lui divertito.
«Una volta mi avresti portato anche la luna se te l’avessi chiesto…».
«Dici che ti ho abituata troppo bene?».
Lei non rispose. Al suo posto solo il frinire delle cicale.
Michiru non poteva controbattere in merito. Seya era sempre stato dapprima un grande amico, poi un ottimo ragazzo ed infine uno splendido marito. L’aveva protetta, adorata, servita, riverita e amata. E forse Michiru non era stata brava al suo stesso livello.
«Perché sei qui?» domandò bloccandosi sul marciapiede, davanti al cancelletto di casa.
«Che domande…per te».
 
Le tornò in mente quando avevano otto anni, sotto il sole battente a Papakolea Beach. La perla verde delle Hawaii, unica e rara com’era stato il loro rapporto. Era il loro posto segreto, tanto difficile da trovare da non essere segnato sulle cartine. Michiru piangeva sulla riva della spiaggia con le dita dei piedi affondati nei singolari granelli verdi.
Ancora una volta la disciplina militare di suo padre l’aveva spezzata facendola sentire sola.
«Vai via Seya!» era riuscita a dire cercando di allontanarlo maldestramente con il palmo della mano non impegnata a coprire il volto rigato di lacrime.
«No che non me ne vado» era sempre stato risoluto.
«Guarda un po’ che ho trovato» ignorando il desiderio dell’altra si era accovacciato al suo fianco e aveva tirato fuori da uno zainetto un sacchetto colmo di conchiglie dalle forme e i riflessi differenti.
Michiru aveva tentato di non lasciare che la curiosità avesse il sopravvento. Si asciugò gli occhi e da dietro le dita guardò distrattamente il tesoro dell’amico.
«Se sei qui per scambiarci le conchiglie non mi va. Hai vinto tu Seya, le tue sono più belle questa volta».
Seya sorrise. Ne prese una e la mise nel palmo di Michiru che tentava di scrutare l’orizzonte per non guardarlo con gli occhi rossi dal pianto.
«Che sciocchina sei…non sono qui per fare gli scambi con le conchiglie. Sono qui per te».
E così fu; sempre.
 
Michiru aggrottò la fronte per il déjà vu.
«Oh su…» lui parve pregarla. «Non fare quella faccia…».
«Sei mancato per otto mesi». La voce di lei s’incrinò appena.
«Era per lavoro, lo sai».
«Lo è sempre. Lo è da un pezzo».
Michiru prese fuori dalla borsetta le chiavi di casa. Non aveva voglia di cominciare per l’ennesima volta quella conversazione.
«Non puoi fare così. Non puoi comparire e scomparire come ti pare».
«Michiru io sono qui».
«Fino a che la prossima catastrofe non ti porterà lontano». Ora la sua voce era risoluta e qualcosa nello sguardo di Seya mutò. Qualcosa che minò la sicurezza di lei e la fece vacillare.
«Per favore…» la voce del giovane somigliava ad una supplica. «Ripensaci, non abbiamo ancora firmato le carte. Io voglio riprovarci».
Quanto avevano in comune ora? Oltre alla loro collezione di conchiglie quanto possedevano? C’erano dei voti, un anello, un impegno per la vita e qualcosa di ancora più grande.
«Ne riparliamo, okay? Sono stanca adesso…».
Seya parve riaccendersi. Alimentato da quelle parole che non erano state un netto rifiuto.
Lui fece un passo più vicino a lei, baciandole la fronte.
Michiru socchiuse le palpebre.
«Spero tu abbia un posto dove stare, perché sta sera non entrerai».
«Sono attrezzato, tranquilla. Ti conosco troppo bene».
Ne era certa, lui la conosceva come le sue tasche. E se fino a quel momento era stato qualcosa di romantico e su cui fare affidamento, ora sarebbe potuta diventare un’arma a doppio taglio. Senza difese come si sopravvive agli imprevisti della vita?
Michiru lo salutò ancora una volta. Attraversò il giardino ed entrò in casa.
Poggiò la schiena alla porta e prese un lungo respiro.
Tolse le scarpe, abbandonò la borsa e facendo piano camminò fino ad una porta socchiusa. Non entrò, rimase sulla soglia dando un’occhiata veloce all’interno della camera per poi rimanere ad ascoltare un sottile e flebile respiro.
Alcune stelle illuminavano il soffitto. Erano come quelle che aveva visto prima di venir bendata in spiaggia. Prima di quel bacio sconosciuto che le aveva fatto dimenticare persino chi fosse. Poi c’era stata la bocca di Seya, un bacio che si portava dietro il sapore di un amore lungo anni.
 
 
§§§
 
 
 
Il sole era sorto da alcune ore e risplendeva nel cielo limpido di Malibù.
I giornali meteo avevano annunciato una giornata torrida all’insegna del bel tempo. Non avrebbe tirato nemmeno un alito di vento e i surfisti avrebbero dovuto abbandonare ogni speranza per cavalcare l’onda perfetta.
Makoto, nel suo quartiere di Los Angeles, si era stiracchiata alla finestra senza curarsi di coprire la bocca dall’enorme sbadiglio che l’aveva colta di sorpresa. Sebbene fosse il suo giorno libero non poteva cominciare senza una tazza di caffè nero bollente perciò, ancora in preda al sonno, vagò con lo sguardo lungo la via residenziale.
Il bambino delle consegne lanciò il quotidiano alla sua porta e Ronald grattò prontamente la porta per uscire in giardino a recuperare il giornale.
La ragazza accese la macchinetta per il caffè, aggiunse l’acqua nel serbatoio e lo sguardò scivolo a due case appena più avanti.
Quella mattina non c’era Usagi con la sua bicicletta rosa davanti al suo cancelletto bensì un ragazzo dalla carnagione olivastra e i lunghi capelli mori.
«Ha un bel sorriso…» valutò tra sé e sé, inserendo distrattamente la capsula del caffè.
Michiru gli aprì, lui attraversò il vialetto come chi non ha timore di ciò a cui andrà incontro perché non aveva l’aria di essere un primo appuntamento.
Il profumo del caffè distolse l’attenzione di Makoto dalla scena. Rimase imbambolata per un paio di minuti davanti alla tazza a contemplare la calma di quella mattina.
Sino a che non udì il rumore di una motocicletta e con quello si spinse al di sotto del porticato vagando con lo sguardo sino alla fonte del suono.
Di fianco a lei il camioncino dei traslochi colpì il cartello vendesi apposto sul marciapiede e dietro a quello, il motore di un Harley Davidson V Rod nero lucente si spense.
Makoto, che non si preoccupava di apparire indiscreta, tentò di dare un’identità a quello che con tutta probabilità sarebbe stato il suo nuovo dirimpettaio.
Un centauro? Cercò d’immaginare come sarebbe mutata la sua vita da quel momento in poi se avesse colto nel segno. Motociclisti tatuati e barbuti, colmi di tatuaggi sulle braccia con giacche di pelle riportanti stampe aggressive sotto casa. Fiumi di birra a tutte le ore e rombi di motore sotto casa. No, non poteva permetterlo. Il loro era un quartiere tranquillo, dove i vicini portano le crostate di mirtilli fatte in casa ai nuovi arrivati. E in questo caso sarebbe stata lei a doverlo fare. Ad aver l’obbligo morale di presentarsi sulla soglia di casa dello sconosciuto con un dolce appena sfornato.
«Una scusa in più per indagare…» bofonchiò tra sé e sé prima di prendere un lungo sorso d’intruglio nero mattutino.
Un uomo alto, dall’aspetto forte scese dalla motocicletta. Due occhi cerulei al di sotto del casco si scontrarono con i suoi per un frammento d’istante.
Non una parola, né un sorriso di circostanza.
Makoto si bruciò la lingua e d’improvviso si svegliò come ogni mattina.
«È sicuramente un tipo da tenere d’occhio…». Ronald abbaiò apparendo totalmente in accordo con la propria padrona.
 
 
§§§
 
 
«È un caldo che si muore» si lamentò Haruka tra sé e sé passando il dorso della mano sulla fronte, al di sotto della frangetta bionda.
Avrebbe pagato oro per essere in spiaggia con la sua tavola e invece era ad addestrarsi come ogni buon artificiere doveva fare se non si trovava in azione sul campo.
La stanza di simulazione non era dotata di aria condizionata eppure Dan sembrava più a suo agio di lei con quel clima torrido.
«Mantieni la calma…» disse con fare rilassato il compare nei suoi bermuda a palme.
«Se Meiō vuole uccidermi ha trovato il modo perfetto di farlo senza sporcarsi le mani. Farò un reclamo, abbiamo diritto di non soffocare!».
Sbottò Haruka passandosi una mano tra la zazzera color grano per poi farsi aria con una mano.
«Rilassati…ora arriva la colazione».
«Fammi indovinare, ciambelle?».
Dan sbatté le lunghe ciglia scure come avesse detto una blasfemia.
«Non semplici ciambelle…» alzò il dito indice come ad ammonirla per la superficialità con cui parlava di pasticceria.
«Oggi ti delizierò con le cake donuts!».
L’aria d’impassibilità di Haruka non mutò alla notizia. Non capiva la differenza tra tutte le cose che Dan s’impegnava a farle assaggiare. Una ciambella rimaneva una ciambella per lei e di sicuro non si sarebbe applicata ad indagare su cosa quella cake donut differisse da un donut qualunque.
Ray face irruzione nella stanza con un cartone color zucchero filato che mandò in visibilio ciambella man.
«Sono arrivate!!» Dan si fiondò ad aprirne il coperchio e non riuscì a trattenersi dall’annusare la fragranza dei dolcetti ancora caldi.
«Niente lievito, bensì soda. Densa e compatta…» decantò con occhi quasi spiritati. «Sono al sidro, Haru. SIDRO!!!!».
«Ti verrà il diabete. E sembri fuori di testa per la cronaca. Devi trovarti una donna» commentò l’amica incrociando le braccia al petto per poi poggiarsi al tavolo che aveva le spalle.
Dan la ignorò perso a contemplare la sua colazione e solo dopo aver addentato uno dei dolci rispose alla provocazione dell’altra.
«Come te? Ci eri quasi riuscita ieri sera e poi…».
«ZITTO». Haruka lo ammonì. Non accettava di perdere, lei doveva sempre averla vinta.
«Ci esercitiamo» sottolineò con lo sguardo mutato a due strette fessure chiare che non ammettevano repliche di alcun tipo.
Dan sospirò. Si gustò il sapore zuccherino sulla lingua e trasformò la propria mano in una cornetta del telefono.
«Ehm, 911 sono un operaio in cantiere e durante gli scavi abbiamo trovato qualcosa di simile ad un ordigno…».
«Stai mimando sul serio la chiamata al 911?» domandò incredula Haruka.
«Bisogna cominciare dal principio, no? Per avere tutte le informazioni…».
«Si ma non esageriamo» lo rimbeccò lei. «Sintesi, Dan».
Il ragazzo roteò gli occhi al cielo con fare annoiato per poi dargliela vinta. La verità è che Haruka odiava le esercitazioni, sembrava viva solamente quando il pericolo era realmente pronto ad esplodere fra le sue mani.
«Cantiere. Hanno trovato una bomba inesplosa di un metro e quattordici centimetri. Carica esplosiva di centoventi kg di tritolo. Ha due spolette, cosa fai?».
Haruka tentò di visualizzare l’ordigno descritto dall’amico. Prese le misure con le braccia e lo immaginò davanti a sé.
«Dobbiamo tirarlo fuori dall’interramento totalmente prima di tutto. Per esaminare le meglio le spolette e…».
«Ok. OK. STOP!!» urlò Dan come preso dal panico.
Il telefono della divisioni artificieri squillò interrompendoli. Quel trillo sembrava trapanare i loro timpani ogni volta e Haruka non aveva mai compreso se fosse la tensione mista ad adrenalina a farle quell’effetto o se l’aggeggio avesse effettivamente un suono distorto.
«Linea esterna…» commentò Ray, prendendo un respiro profondo e mettendo il vivavoce.
«Ten’ō, PORCA MISERIA!!».
Haruka riconobbe la voce del capo delle operazioni. Se qualcuno urlava il suo nome non poteva che essere quella piaga di Setsuna Meiō. La cosa singolare però la nota d’isterismo che aveva nella voce. Mai una volta aveva perso la calma se non si trattava dei suoi colpi di testa.
«Dovete muovere le vostre chiappe pigre. Bomba».
«Ok, ok. Montiamo e arriviamo. Dove?».
«Ten’ō non scherzo. Dovete fare in fretta» di nuovo l’agitazione che macchiava la voce della donna. «È una scuola elementare».
I tre si guardarono senza riuscire più a muovere un muscolo.
«Ci siete, dannazione?!».
«Si siamo pronti» rispose Haruka mettendosi in spalla lo zainetto pronto che aveva a portata di mano per le emergenze sotto alla scrivania.
Dan si occupò di prendere le tute antiscoppio e Ray recuperò le chiavi del furgone della SWAT.
«Westwood. Fate in fretta».
 
 
 
A Los Angeles, Westwood, era conosciuto per essere la sede dell’università Californiana. Le panetterie e i caffè più alla moda pullulavano di studenti che si ritrovavano gomito a gomito con le star dell’industria cinematografica.
Non che Haruka avesse mai indagato a fondo su cosa ci fosse in quel distretto ma mai si sarebbe immaginata una scuola elementare in quella zona della città.
«Cosa diavolo ci fa una bomba in una scuola elementare?» domandò Dan, controllando tra una curva e l’altra di aver allacciato gli scarponi al meglio.
La compagna non rispose. Guardò oltre il finestrino abbassato i negozietti di dischi accanto alle cancellerie sfilare tra le casette a due piani in stile mediterraneo.
 
Ray frenò bruscamente al posto di blocco improvvisato mentre Dan e Haruka saltarono giù dal blindato per raggiungere Setsuna in tenuta tutt’altro che da federale.
«Togliti subito quell’espressione dalla faccia Ten’ō» l’avvisò nel suo accappatoio bianco che ancora profumava di SPA.
Haruka non aveva potuto far a meno di guardarla godendo del suo imbarazzo per l’abbigliamento fuori luogo, ma cancellò l’espressione derisoria dal volto non appena venne ripresa.
«Chi ha chiamato?».
«L’insegnante che li stava per portare in gita» disse Setsuna ordinando a un agente di portarle qualcosa di più consono alla situazione. «È sullo scuolabus» indicò poi con una mano l’autobus giallo sole per poi scrivere in fretta e furia un sms.
«Sono ancora dentro» aggiunse per poi attaccarsi al telefono.
«Ok…» Haruka respirò a fondo. Di lì a poco sarebbero arrivati anche quegli avvoltoi dei giornalisti e non ci sarebbe più stata pace vista la mole di genitori che si stava riversando nei pressi della scuola.
«Dan, isola l’area. Fai allontanare tutti. Soprattutto i genitori. Io salgo sul furgone».
«Haruka la tuta» la rimproverò preoccupato l’amico nel vederla senza.
«Lascia stare, ci vuole troppo» lo zittì lei avviandosi al mezzo.
Setsuna le urlò dietro di non incominciare a infrangere il protocollo di sicurezza, ma all’altro capo del telefono qualcuno rispose catturando la sua totale attenzione.
«Da quanto ve ne siete accorti?» domandò all’insegnante davanti alle porte dello scuola bus in preda al panico.
«C’era un ticchettio strano…venti minuti, credo».
«Ok, si sposti. Vada dietro al nastro, là dal mio collega».
Haruka fece cenno anche all’autista di scendere dal mezzo e una volta che anche l’uomo fu a terra salì.
Dieci bambini stavano ancora seduti e tutti avevano le teste girate verso gli ultimi posti occupati da una bambina e bambino pieno di lentiggini al suo fianco.
«Bene, marmocchi…» masticò fra i denti «sembra che la gita sia saltata».
«È lei!» una bambina con le trecce castane saltò in piedi sul sedile in pelle scatenando il panico in Haruka. Indicava la compagna di classe pallida seduta accanto a quello pieno di lentiggini. «È lei che fa tic, tac».
«Senti…pippi calze lunghe» la bambina parve contrariata da quel soprannome. «Ti hanno mai detto che fare la spia non è carino?».
«Ma…ma» la bambina cercò di discolparsi mettendo su un broncio che fece venire ad Haruka la pelle d’oca.
Non oserà mettersi a piangere! Si avvinghiò con una mano allo schienale di un sedile e per tagliare corta la faccenda decise di liberarsene subito.
«In questo caso è ok…scendi. Senza correre. Tu, tu e tu ciocciobello la seguite. Ma…ehi, con calma. O tutti quei poliziotti li giù vi arrestano è chiaro?».
I bambini obbedirono e la bionda poté avanzare ancora un poco. Ogni passo compiuto era stato scandito dal ticchettio molesto che aveva allertato l’insegnante.
«Voi cinque…imitate i vostri compagni. Senza far casino».
Haruka si abbassò. Era rimasta con i due bambini in fondo al pullman. Si mise in ginocchio e lanciò un’occhiata al di sotto dei sedili. La bomba era ancorata proprio sotto quello dove sedeva la morettina.
«Bene ragazzi. Siamo rimasti solo noi» tirò le labbra in un sorriso poco rassicurante per un bambino ma quello era il meglio che potesse fare.
«Paura?» domandò facendosi luce con una torcia portatile che aveva nel taschino.
«Io no» disse risoluta la bambina. «Posso tornare dalla mia mamma?» chiese invece l’altro.
Haruka assunse una posizione un po’ meno accovacciata.
«Dio, ma che uomo diventerai?! No. Non puoi andare dalla mamma adesso. Ora tu terrai la mano alla tua amichetta, okay? E tu…tu invece di paura dovresti averne un bel po’ mia cara».
«E perché?».
«Perché la paura è quello che ci tiene in vita».
La piccola tacque. Fissò la folla fuori dal finestrino e poi la mano dell’amichetto nella sua. Non sembrava le andasse troppo a genio l’idea di quella manina sudaticcia nella sua, ma non si azzardò a ribattere.
«Quindi…la sai togliere?» indagò.
Haruka si grattò il naso. La situazione era tutt’altro che rosea. Per un attimo rimase in silenzio a pensare chi le ricordasse. Aveva quel nasino piccolo, con la punta all’insù che la faceva pensare tremendamente a qualcuno eppure non sapeva a chi il suo cervello facesse riferimento.
«Certo che la so togliere. Io sono della squadra dei super eroi!».
«Ma i super eroi non esistono!» la rimbeccò il bambino.
«Senti…i tuoi genitori ti hanno mentito. E non s’interrompe chi sta parlando!».
«E Babbo Natale?» intervenne la bimba. «Lui esiste vero? Perché la mia mamma dice di sì e lei non è una bugiarda».
La discussione stava mettendo in difficoltà Haruka incapace di trattare per natura con gli infanti. Se esisteva un girone infernale per lei che aveva lasciato la comunità Amish, era sicuramente quello. Essere bloccata con due marmocchi e una bomba in procinto di farli saltare tutti per aria. Dove l’unico modo di disinnescarla era rispondere agli indovinelli su Babbo Natale e non fili da tagliare o codici da inserire.
 
Del trambusto al di fuori della vettura fece irrigidire Haruka. Qualcuno stava cercando di passare e irrompere nell’operazione.
Gli occhi grandi come due pozzi scuri della bambina la stavano fissando, mentre il suo compagno di scuola aveva tutta l’aria di cominciare a cedere ai singhiozzi.
«Ok signorina. Come ti chiami?».
«Hotaru».
«Bene, splendido. Hotaru senti un po’…tu e lentiggini qui. Sapete giocare alle belle statuine?».
Lui tirò su col naso accennando un sì mesto con la testa, mentre Hotaru corrugò la fronte.
«Ho bisogno facciate le belle statuine e rimaniate fermi. Soprattutto tu, Hotaru. Qualunque cosa succeda, chiunque salga o scenda, devi rimanere ferma. È vietatissimo alzarsi, d’accordo?».
Haruka scandì le parole perché la bambina comprendesse. Era più seria che mai.
Oltre i vetri sentì protestare, Setsuna alzò la voce e una serie di passi la colse alla sprovvista. Qualcuno alle sue spalle era salito sul veicolo ignorando gli avvertimenti di chi si doveva occupare della sicurezza.
Haruka non aveva bisogno di fare da bambinaia a qualcun altro o di vestire i panni di un buttafuori. Aveva una bomba che come una mina si sarebbe innescata se solo Hotaru avesse spostato il proprio peso da quel dannato sedile su cui sedeva.
«Mamma» la bambina sorrise alla figura appena arrivata e Haruka si girò di scatto per invitare malamente a scendere la donna aveva ignorato le forze dell’ordine.
Ceruleo dentro blu fiordaliso. Le loro iridi si scontrarono ritrovandosi ancora una volta.
«Hollywood…» la voce della bionda uscì come un soffio tanto fu lo stupore di quella scoperta.
Michiru in piedi alle sue spalle aveva coperto le labbra schiuse con una mano. In volto un’espressione sconvolta che Haruka non aveva mai immaginato disegnata da quei tratti perfetti e delicati.
Ecco di chi era il nasino alla francese che le aveva tolto la concentrazione poco prima. Hotaru lo aveva sicuramente ereditato da lei.
«Tesoro, tutto ok?» domandò Michiru alla bambina.
«Si, sono con un super eroe!» esclamò Hotaru.
Prima un marito, poi una figlia.
 
Quanti diavolo di segreti hai Michiru Kaiō?
 
Haruka si domandò quanti assi nella manica potesse ancora nascondere. E qualcosa la bloccò. Averla lì, a mezzo metro di distanza le faceva perdere lucidità.
Inspirò ed espirò. Il cervello non aveva intenzione di collaborare e di trovare assieme a lei una soluzione per uscire da quell’incubo.
Socchiuse gli occhi e tentò di afferrare il suo attimo di calma quello in cui sincronizzava i battiti, ma Haruka non riuscì. Perché nella testa non c’era il nero assoluto dell’attesa era impresso il volto di Michiru e ne poteva sentire lo sguardo sulla schiena alle sue spalle.
Ok basta.
«Scendi» ordinò monocorde.
Michiru non mosse un muscolo.
«Ho detto, scendi».
Haruka si alzò lentamente e si voltò del tutto verso di lei.
«Non posso andare…» sentenziò Michiru con gli occhi lucidi. «È mia figlia, non posso-».
«Ho capito. Credimi, ho capito che è tua figlia» la bionda cercò di mantenere un tono basso, sebbene combattesse con la voglia di gridare. Se solo avesse potuto le avrebbe urlato volentieri di smetterla di sbatterle in faccia tutta la sua stupida vita segreta.
«Ma adesso devi scendere».
Michiru provò a ribattere. Quando si trattava di Hotaru non era solo una donna caparbia, era una leonessa pronta a difendere il proprio cucciolo e non era incline a piegare il capo dinnanzi a nessuno.
Haruka la fissò impassibile. Non era disposta a scendere a compromessi perché semplicemente non poteva farlo. Strinse i pugni conficcandosi le unghie corte nei palmi.
«Hotaru…».
«Si, mamma».
«Devi fare tutto quello che dice il super eroe, ok?».
«Okay…».
«E devi essere coraggiosa».
«Michiru». Haruka per la prima volta l’aveva chiamata col suo nome e Michiru aveva perso un battito. Una strana sensazione le aveva attanagliato lo stomaco e non sapeva darle un nome.
La bionda le si avvicinò, la prese per un polso e la strattono verso l’uscita del veicolo.
«Tua figlia è praticamente sopra una mina…».
Michiru la guardò sprezzante. Mise da parte lo strano sentimento affiorato dalla voce dell’altra nel pronunciare il suo nome. Non aveva spazio per le cose nuove in quel momento. Doveva sistemare prima le vecchie che sembravano volerle cadere addosso una dopo l’altra.
«Salva la mia bambina». Non aveva lo sguardo intimorito ma quello di chi ha tutta l’intenzione di farti fuori se non farai come dice.
Michiru le aveva appena impartito un ordine ben preciso.
«È quello che sto cercando di fare. Ma ho bisogno che tu te ne vada fuori dai piedi, dannazione».
 
Lontana dalla mia testa e da tutto il resto.
 
 




Note dell'autrice:
Visto il ritardissimo nella pubblicazione causa questioni personali ve l'ho fatto lungo 22 pagine. Se siete arrivate alla fine beh...complimentoni! Devo ammettere che mi è piaciuto tantissimo scrivere di Haruka che incontra Rei da adolescente. Sicuramente se ci sarà occasione inserirò altri flashback del genere. Nel prossimo capitolo ci sarà sicuramente più Usagi. Per scrivere di tutti quanti ci vuole tempo e quindi pazienza nel leggere, ma vedrò di non lasciare indietro nessuno! 
Nel capitolo, quando si parla di Seya e Michiru viene menzionata una spiaggia verde. Ebbene sì, esistono solo tre spiagge del genere al mondo, di cui una è proprio alle Hawaii. Se vi capita di vedere le foto sono incredibili!! Più che sabbia sembra di vedere un prato.

Al prossimo aggiornamento!
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 7
*** Oceano di fuoco ***


Setsuna osservò le lancette dell’orologio da polso. Erano passati venti minuti da quando Haruka era salita sullo scuolabus senza uscire con una notizia qualsiasi.
«Maledizione…» masticò tra i denti con le pupille fisse sul veicolo. «Che cosa stai facendo?». Una domanda a cui non sarebbe arrivata presto risposta e che interruppe l’agente alle sue spalle con in mano un paio di anfibi e una divisa del dipartimento di polizia.
«È tutto quello che abbiamo trovato…» sentenziò il giovane porgendole gli indumenti e con la smania di tornare al proprio lavoro anziché fare il consulente d’immagine per il capo delle operazioni.
La donna lo guardò da capo a piedi, tolse le ciabattine in spugna fornite dalla SPA e fece segno al ragazzo di aprirle le portiere della volante accanto a loro.
«Muoviti. Devo cambiarmi e capire cosa sta combinando quella testa vuota bionda».
Setusuna s’infilò nella vettura sfilandosi l’accappatoio per indossare più velocemente possibile gli abiti che gli erano stati forniti.
All’improvviso ricordò l’addestramento. La mattina nelle camerate quando in fretta e furia bisognava saltare giù dalla branda e vestirsi alla velocità della luce.
«Forza signore, non siamo nei camerini di una botique!». Le rimbombavano ancora nella testa quelle parole e per un momento il tettuccio della vettura divenne il soffitto spoglio e umido del campo militare fino a che un vociare concitato non la riportò a quel momento.
 
«SI FACCIA INDIETRO». La voce di uno degli agenti addetti alla sicurezza stava cercando d’impedire di avvicinarsi troppo alla zona off-limits.
«FAMMI PASSARE O GIURO SU DIO CHE…».
Setsuna rischiò di dare una capocciata nell’uscire dall’auto e con i pantaloni ancora mezzi slacciati individuò il problema al di là del suo separé metallico improvvisato.
Michiru Kaiō, fuori dalle grazie del signore, minacciava un poliziotto di sparargli ad un piede se non si fosse tolto di mezzo spontaneamente.
«Amico, ti conviene ascoltarla…» Seya, con modi più diplomatici, cercò di far ragionare lo sconosciuto. «Non sembra ma è capace di farlo sul serio se non le dai retta».
Setsuna non intervenne; aveva avvisato lei Michiru non appena aveva riconosciuto l’istituto scolastico come quello frequentato dalla figlia della collega.
E l’ammirava. Ammirava quella luce – anche se disperata – negli occhi di Michiru che combatteva come una leonessa per il proprio cucciolo.
Nello sguardo dei suoi genitori non aveva mai scovato quella scintilla. Setsuna ricordava chiaramente il volto indignato del padre alla sua scelta di entrare nelle forze dell’ordine. Ricordava la fronte corrucciata di sua madre ad ogni promozione, anziché vederli fieri per ogni obbiettivo raggiunto. Una donna che concorreva alla scalata del potere e arrivava in cima non era motivo d’orgoglio in Giappone. Per quello Setsuna non si era lasciata sfuggire l’occasione di poter lavorare all’estero non appena si era presentata.
In America lei era riconosciuta come la donna forte e indipendente che effettivamente era e non come un  tassello scomodo in un sistema che doveva privilegiare l’uomo.
 
Inspirò profondamente ed essendosi resa il più presentabile possibile si avvicinò al campanello di curiosi che si spingeva a ridosso della zona transennata per seguire la vicenda.
«Signori, ho bisogno vi spostiate più lontano e lasciate lavorare questi ragazzi il più velocemente possibile». Si fece largo tra la gente ammassata facendo un segno del capo ad un agente che capì di dover allontanare ulteriormente i presenti.
«Kaiō è entrata, signore». Setsuna mimò il becco di una papera con la mano per zittire il suo scagnozzo e non mancò di lanciargli uno sguardo torvo.
«Va bene così» commentò per poi dirigersi verso l’uomo dai lunghi capelli corvini che si sporgeva oltre la zona di sicurezza.
«Kou, giusto?» indagò porgendogli una mano per presentarsi.
Setsuna non lo conosceva a fondo. Sapeva molto sulla sua carriera grazie ai vari fascicoli a cui aveva accesso, ma poco dell’essere umano che era il marito di Michiru Kaiō. All’inizio della loro collaborazione Michiru ne parlava con entusiasmo, forse sull’onda dell’incontenibile felicità propria dei novelli sposi, forse perché al principio tutti hanno un mare di cose da raccontare sulla propria vita di coppia. Un matrimonio, un trasferimento, carriere importanti…e pian piano tutto era scemato in un nonnulla. Forse il loro era un matrimonio ad un bivio, magari era bello che sepolto; ma questo a Setsuna non era dato saperlo.
«Mi spiace averla dovuta chiamare proprio qui. Considerando che è coinvolta anche vostra figlia se non se la sente…».
«Vado dove mi chiamano. E mi trovo sempre in situazioni poco felici ed estremamente difficili. Nessun problema» rispose risoluto Seya stringendo la mano della donna. «Io posso cominciare a parlare con il corpo insegnanti per dare direttive su come gestire il tutto nei prossimi giorni, ma le chiedo solo di tenerla d’occhio». Lo sguardo chiaro vagò sino alla folta chioma blu che s’intravedeva da uno dei finestrini del mezzo giallo. «Devo saperla al sicuro o non posso fare il mio lavoro».
Setsuna annuì con un cenno del capo combattendo la strana sensazione che si era annidata all’altezza del petto. Se Michiru combatteva con le unghie e con i denti per quella bambina, Seya appariva più preoccupato per la sorte della moglie piuttosto che per la figlia.
«La terrò aggiornata. E mi occuperò io del resto».
Il giovane le riservò uno sguardo grato e Setsuna si convinse del fatto che un uomo che aiuta gli altri in mezzo alle catastrofi o ad affrontare eventi traumatici non poteva certo essere una persona cattiva. Probabilmente usava quel distacco per concentrarsi sui propri doveri e tutta la sfilza di riflessioni che di colpo aveva aggredito i suoi neuroni s’interruppe di colpo nel vedere Michiru scendere dal mezzo.
Le labbra tirate, una mano stretta al petto e l’espressione deturpata da un’angoscia profonda.
«Ho bisogno di Harris» il gracchiare della ricetrasmittente sintonizzata sul canale di Haruka ruppe il silenzio.
 
 
§§§
 
 
 
Usagi, in sella alla propria bicicletta rosa confetto, si cimentò in un’altra pedalata.
Il sole era alto e con la coda dell’occhio riusciva a scrutare le palme che parevano arrivare a toccare il cielo. Boccheggiò per la calura, si lamentò del male alle gambe dopo aver percorso una breve salita e rallentò davanti alla vetrina di un caffè che metteva in bella mostra una vasta gamma di dolci strabordanti di glassa.
«Sono a dieta, sono a dieta…» ripeté tra sé e sé come in preda ad un mantra. Se lo ricordava ogni mattina, ma ogni giorno cominciava con uno sgarro che si trasformava inevitabilmente in un’abbuffata di cibo spazzatura.
Usagi adorava mangiare qualsiasi cosa fosse commestibile, andava pazza in particolare per i dolci che se pieni di coloranti rappresentavano il sacro Graal per lei.
I suoi genitori avevano aperto un ristorante giapponese molto in voga a Los Angeles e da che aveva memoria non aveva mai conosciuto la terra natia, poiché era nata e vissuta sempre in America. Durante la scuola, per guadagnare qualche soldo, aveva goffamente tentato di cimentarsi come cameriera al ristorante di famiglia, dove arrecando più danni e guadagnando per lo più figure barbine, era stata caldamente invitata dai familiari a trovare un nuovo impiego. Così, a ventitré anni suonati, Usagi pedalava verso casa di Michiru dove faceva la baby sitter.
Usagi suonò come un’ossessa il campanellino per avvertire un possibile ignaro passante del suo arrivo dopo la curva. Aveva spesso fantasticato sul fatto di investire il proprio principe azzurro su due ruote, ma il suo spensierato sogno ad occhi aperti venne bruscamente interrotto dal clacson di un furgoncino in sua direzione.
«Accidenti, quanta fretta!» s’imbronciò lanciando un’occhiataccia al conducente per poi venire attirata dal singolare affollamento vicino a casa di Makoto.
Il cancello che Michiru si premurava di tenerle solitamente aperto quella mattina le impediva l’ingresso. Usagi bypassò l’abitazione per poi frenare con tanto di talloni sul marciapiede dinnanzi al fazzoletto d’erba dove Ronald pascolava come suo solito.
«Mako-chan?».
Usagi scese dal suo mezzo curiosando con lo sguardo nel giardino della ragazza.
«Mako-chan cosa stai facendo?» indagò senza preoccuparsi di risultare indiscreta.
«Potrei farti la stessa domanda» le rispose la barista con la coda castana arruffata che spuntava dai cespugli del suo cortile.
«Io sono qui perché c’è qualcosa di strano. Michiru non mi ha chiamata questa mattina. E il cancello è chiuso…».
«Non è in casa» rispose distrattamente l’altra senza lasciar perdere qualunque cosa stesse facendo. «È uscita con uno».
«Suo marito Seya?».
«Mh, mh».
«Ohi ohi…» Usagi si grattò la nuca per poi prendere a molestarsi uno dei suoi codini. «Haruka non sarà per niente contenta» si lasciò andare ad un sospiro. Bofonchiò per l’assenza d’interesse della sua interlocutrice ai suoi crucci e poi fece un passo in direzione degli addetti ai traslochi intenti a scaricare scatoloni su scatoloni.
«FERMA DOVE SEI». Non fece in tempo a protestare che Makoto la trascinò nella propria proprietà, dietro ai cespugli, agguantandola per un braccio.
Usagi incespicò, sporcandosi di terra le scarpe da ginnastica bianche per poi ritrovarsi seduta sul prato con affianco la ragazza che stringeva un binocolo in mano.
«Chi si è trasferito?».
«SSSSHHHHHTT» Makoto la zittì mettendo l’indice davanti alla bocca. «È quello che cerco di capire».
«Hanno dei bambini?».
«Ma chi?».
«La famiglia che si trasferisce!» disse con fare ovvio la bionda. «Se Michiru mi licenzia perché d’ora in poi ci sarà Seya, o Haruka, mi serviranno altri bambini a cui badare…no?! Guardo ai miei interessi. È busi-» s’interruppe solo perché la parola che aveva sulla punta della lingua non riusciva a pronunciarla a dovere.
«Non è una famiglia e non ci sono figli. Per ora. O almeno credo. Dev’essere uno scapolo…» commentò Makoto lanciando un’occhiata alla moto parcheggiata davanti al vialetto.
«Oooh è bello? Affascinante? Lo sai che potrebbero arrestarti se ti beccano con quello? Penseranno tu sia una maniaca».
«Usagi…» Makoto sorrise amabilmente cercando di riservale più tatto possibile. «Credo tu non sia la persona più adatta per affrontare l’argomento stalker».
Usagi ridacchiò nervosamente. Makoto non aveva tutti i torti, ma spesso la bionda tendeva a dimenticare delle sue folli avventure in giro per il paese a rincorrere sconosciuti o a seguirli sotto casa per capire dove mandare loro lettere d’amore.
«Quindi che si fa?» domandò cauta per poi dare una carezza al pelo morbido e lungo di Ronald attirato dal loro stare accucciate alla sua altezza.
«Visto che non devi lavorare…» Makoto gonfiò il petto, si alzò e punto un braccio al fianco in posa da supereroe. «Mi aiuti a preparare un dolce di buon vicinato per il nostro nuovo amico».
«Affare fatto!».
 
 
§§§
 
 
«911 qual è l’emergenza?». La chiamata del capo delle operazioni venne trasferita dal numero di emergenza alla caserma dei pompieri.
Rei stava assicurandosi che tutti gli idranti fossero funzionanti quando lo stridere della sirena rossa riecheggiò per il locale.
«Forza, forza, veloci!» il tenente urlò quelle parole per incitare tutti gli altri ad entrare in azione. Rei infilò alla svelta le bretelle della divisa che le ricadevano lungo i fianchi sulle spalle, agguantò il caschetto e con gli anfibi slacciati salì sull’autopompa.
Ogni passo era zavorra con quelle calzature ma a Rei piaceva quella sensazione di pesantezza, la faceva rimanere ancorata alla tanto amata madre terra.
«Che abbiamo?» chiese chiudendo la portiera per poi occuparsi delle sue stringhe.
«Possibile esplosione da bomba».
«Fantastico» masticò fra i denti. Dove c’erano ordigni c’era Haruka e quel giorno, per la prima volta da quando si erano incontrate, non aveva nessuna intenzione di vederla.
 
Aveva passato l’intera nottata a sfogarsi con Minako e ogni parola sputata con l’amica era stato un macigno in meno sullo stomaco. Rei non aveva alcuna voglia di farsene nuovamente carico. Doveva solamente lasciar andare. E per farlo, per vedere la sua amica come solamente un’amica e basta, aveva bisogno di spazio non certo di un’esplosione che le scaraventasse vicine.
«Haruka te lo ripeto, se non vuoi t’insegni io a leggere…bisogna lo faccia qualcun altro. Altrimenti non sarai tanto diversa da un terrorista». Sentenziò una Rei arrivata da poco sulla costa Californiana. Il sole si stava ormai abbassando all’orizzonte e con i propri raggi aranciati bagnava il molo di Santa Barbara.
«Perché i terroristi non sanno leggere?» domandò confusa la giovane amish appena sfuggita alla propria comunità.
«No, non sono analfabeti. Ma voglio dire che dovrai studiare, fare dei test e passarli. Per farlo sono indispensabili libri e quant’altro ma soprattutto…che tu sappia leggere!» la ragguagliò la mora.
«Se io so fabbricare una bomba, saprò anche disinnescarla…no?!» sbottò la bionda sistemandosi meglio a sedere sulle assi umide del pontile.
«Sei solo una mina vagante. E poi…come ti salta in mente di fare un lavoro del genere? Ok puntare in alto, ma…la SWAT?!».
«E a te come è venuto in mente di voler diventare vigile del fuoco?» domandò in risposta l’amica.
Rei aveva sempre avuto sangue bollente nelle vene. A volte per quello che provava le sembrava di essere un rogo vivente e desiderava spegnere quegli incendi che venivano appiccati dalle emozioni dentro di lei, inconscia che se mai fosse riuscita nel suo intento avrebbe solamente cancellato se stessa rimanendo un inutile guscio vuoto.
E poi c’era quell’immagine a tormentarla. Quella delle fiamme che avevano avvolto la propria casa nel centro storico di Cuba. Era stato quell’infame di suo padre ad appiccarle. In una sera d’estate la tequila, il rum, o qualsiasi cosa gli avesse annebbiato la mente aveva scatenato quell’incendio che aveva distrutto tutto. Rei ricordava le urla e il terrore di chi risiedeva in quel palazzo di fuoco con loro. Nessuno meritava una cosa del genere, nessuno doveva venir inghiottito dalle fiamme o perdere ogni cosa per mano del fuoco una volta ancora sotto ai suoi occhi.
 
La domanda dell’amica rimase sospesa nel vuoto. Perché le riflessioni di Rei non presero mai la forma di parole. In quel momento tutto venne interrotto dall’arrivo di Minako. La sconosciuta bionda che mentiva al padre perché anziché studiare all’università rincorreva i suoi sogni, la stessa che anche se aveva abbandonato i libri di testo per sé li aveva aperti ad Haruka insegnandole a leggere e più avanti aiutandola a sostenere i suoi esami.
«Forse avrebbe dovuto fare l’insegnante. Dovrei convincerla a tornare sui banchi…» borbottò Rei in preda ai ricordi per poi perdersi con lo sguardo davanti alla scuola dove erano diretti.
Un pulmino giallo era fermo davanti all’ingresso e tra la folla riconobbe la sagoma di Dan farsi largo per poi salire sopra al veicolo.
 

 
§§§
 
 
«Ok, sono qui» si palesò così Dan una volta varcata la postazione vuota dell’autista.
Haruka era ripiegata su se stessa, con la testa sotto al sedile sopra il quale sedevano due bambini e la fronte grondante di sudore.
«E questo è un altro super eroe?» domandò Hotaru vedendo lo strano tizio con quell’abbigliamento singolare.
«Si all’incirca» la voce di Haruka era un soffio soffocato e i suoi occhi cerulei non si staccavano dall’aggeggio che avrebbe potuto mandarli all’altro mondo da un momento all’altro.
«Sembra l’omino michelin!» disse sottovoce la bambina al proprio compagno che annuì di rimando all’impressione avuta dall’amichetta.
«Hey belli!» Dan salutò con un cenno della mano i due piccoli umani cercando di mostrare loro il sorriso più genuino di cui poteva disporre in quel momento.
«Senti, bionda…dovresti metterti la tu-».
«Non so più da quanto tempo la sto fissando…» borbottò con gli occhi che le bruciavano, senza preoccuparsi delle solite raccomandazioni del proprio partner.
Il problema in quel momento non era il suo abbigliamento. Dan era fissato con la tuta antiscoppio e faceva bene a seguire il protocollo per la propria sicurezza, ma Haruka se ne infischiava bellamente. Lei doveva essere il più vicino possibile a quegli aggeggi di morte. Doveva avere meno filtri o barriere tra lei e loro per capirli a pieno.
Non so cosa devo fare. Eccolo il nocciolo della questione.
Si alzò lentamente, senza fare movimenti bruschi, come se dovesse stare attenta a non svegliare qualcuno passando davanti la stanza. Prese per un braccio Dan, facendolo avanzare di qualche sedile di modo da essere un po’ più lontani dalle quattro giovani paia di orecchie presenti.
«Devi far scendere lentiggini» disse con voce piatta.
«Sei sicura?» domandò piano il collega.
«Non sono sicura di un bel niente. Le sedute sono due, il suo peso non influisce sulla bomba da quello che ho visto. Quindi molto, molto lentamente solleva quello gnomo e riconsegnalo alla madre».
La bionda dovette respirare. Poggiò le mani alle ginocchia e cercò di incanalare quanta aria più possibile come se dovesse trattenere ossigeno per prepararsi a una lunga apnea.
«Dopo di che vai sul cingolato. Prendi la mia roba e vestiamo con quello che riusciamo la bambina» concluse.
«Ma è una tuta da adulto e…».
«Cazzo Dan lo so. Non sono rincitrullita ancora, ok? Mica le infiliamo i pantaloni. Le facciamo mettere la parte superiore o un giubbotto antiproiettile, qualsiasi cosa che la possa vagamente proteggere».
«Haruka…» Dan deglutì. Capì solo in quel momento come pensava di risolvere la faccenda l’amica.
«Se pesti una mina non c’è modo di disinnescarla e tu questo lo sai…» la bionda sottolineò la frase con uno sguardo che diceva più di qualsiasi altra parola potesse uscirle di bocca.
Quel guizzo azzurro non lo aiutò. Forse per la prima volta in quel lavoro il ragazzo si sentì pervaso dal terrore come mai prima d’ora. Ma più si ripeteva nella testa che non poteva svignarsela e sfuggire ai suoi doveri più il panico sgomitava per assalirlo.
«Pensi di potercela fare a muovere il culo con tutta quella zavorra addosso o devo chiedere a qualcun altro?».
Dan si ridestò da quell’improvvisa immobilità. Respirò a fondo anche lui e con passi pesanti ma calibrati raggiunse l’uscita del mezzo.
 
 
«Capo Meiō» la voce di Haruka gracchiò un’altra volta sulla spalla di Setsuna.
«Dimmi» rispose la donna allontanandosi quel che bastava da Michiru.
«Deve sgomberare la zona. Tutta quanta. Via genitori, insegnanti, pattuglie e chiunque respiri». A quelle parole le si gelò il sangue.
«Quando Harris rientrerà qui, avrete una decina di minuti non di più».
Era Setsuna quella che solitamente prendeva le decisioni, ma in materia di esplosivi doveva affidarsi alle teste calde della SWAT e la cosa non le piaceva per niente. Perché le decisioni di quegli esaltati non le sembravano mai abbastanza ponderate.
«Senti Ten’ō…» cominciò premendo il pulsante della radiolina. «Non so cosa tu voglia fare ma la faccenda non mi piace per niente».
Seguì un breve silenzio dall’altra parte che venne prontamente interrotto da quella boccaccia con sempre una risposta pronta per tutti e tutto.
«Signore…non c’è più tempo per discutere. Siamo a una strada senza uscita. Quindi dica ai pompieri di tenersi pronti con un mucchio d’acqua e mi dia retta, allontani anche il corpo di polizia. Se non fossi stata abbastanza chiara…facciamo esplodere tutto».
 
 
§§§
 
 
L’esplosione di una bomba sembrava essere avvenuta nella cucina di Makoto. Il pavimento dapprima intonso ora era ricoperto da un leggero strato di farina che rendeva difficoltoso non scivolare sulle piastrelle e una pila di pirofile e scodelle svettava nel lavello in attesa di tornare a risplendere.
Che Usagi avesse la nomea di uragano era risaputo, ma prima  di quel momento non aveva mai avuto il piacere di vederla in azione. Era riuscita a bruciare una mandata di biscotti e una crostata e solo per grazia di qualche santo non erano dovuti intervenire i pompieri. Makoto aprì le finestre per far sì che il fumo nero uscisse dall’ambiente e si domandò come la casa di Michiru potesse ancora essere in piedi e sua figlia viva e vegeta con una tata del genere.
«Opterei per una banale cheese cake senza cottura» sentenziò sfinita la ragazza castana per ripulirsi le mani nel grembiule.
Bunny per tutta risposta addentò un biscotto carbonizzato, non aveva resistito alla tentazione di buttare tutto nella pattumiera ma la smorfia che le si dipinse in volto era la conferma per sbarazzarsi dei dolcetti mal riusciti.
«Tanta fatica per uno che non sappiamo nemmeno se sia una brava persona…» disse trangugiando un bicchiere d’acqua per mandar via il saporaccio sulla lingua. «Mako -chan io voto per andare a comprare in pasticceria qualcosa e confezionarlo in maniera casalinga».
«Tu sei una truffatrice!» l’additò Makoto con le labbra socchiuse per lo stupore.
«Beh insomma…non puoi darmi torto. Magari è uno di quelli che tra due giorni chiama per dispetto la polizia perché il cane abbaia. Oppure potresti star preparando un dolce per uno cha fa parte di qualche setta, uno stupratore o…».
«Che film ti sei guardata ieri sera prima di andare a letto?».
«Il collezionista di ossa».
«Ecco, hai già detto tutto. Per forza uno diventa paranoico».
«Dì un po’, non ti piacciono i thriller?» indagò la bionda prendendo a lavare alcune delle stoviglie luride.
«Non ho molto tempo per guardare i film a dire il vero. Col bar sono sempre molto impegnata e poi…fare la barista è come avere una pellicola davanti agli occhi ventiquattro ore su ventiquattro. Non hai idea di cosa dica la gente davanti a un bicchiere di troppo». Makoto ridacchiò, al lavoro ne sentiva di tutti i colori. Forse nemmeno uno psicologo aveva modo di sentire tante storie in un giorno come accadeva a lei. E senza smentirsi, iperattiva come al solito, la ragazza sebbene potesse sembrare una che si perdeva in chiacchere, aveva ricominciato a mettersi all’opera preparando un’ottima base al biscotto per la torta da consegnare al vicino.
 
 
 
Qualche stoviglia pulita e un barattolo di marmellata svuotato più tardi Makoto aveva terminato la sua opera culinaria. Sistemato il dolce su un piatto da portata pulito lo fissò orgogliosa di sé.
«Mmmh ho l’acquolina…» commentò Usagi sognando segretamente di sgraffignarne una fetta e lasciare a bocca asciutta il destinatario della torta.
«Pronta per la missione!» esclamò l’altra con l’entusiasmo che trapelava dalla voce per la foga di andare a curiosare un po’ più in fondo sul motociclista misterioso.
«Io ti copro le spalle. Controllerò da dietro le tende che tutto fili liscio e in caso non ti veda tornare avvertirò il 911».
«Non sto andando al patibolo Bunny» puntualizzò Makoto sistemandosi la coda e prendendo un lungo respiro.
«Beh è sempre meglio prevenire!».
«Come dici tu!» Makoto le schioccò un occhiolino per poi avviarsi con la cheesecake fatta in casa nel giardino affianco.
 
La prima cosa che notò sul vialetto che conduceva alla porta d’ingresso dell’abitazione, fu l’aiola di rose tanto curata da far invidia a chiunque. Il nuovo vicino doveva aver ingaggiato qualche giorno prima del trasloco un giardiniere o essere passato per metterla a posto di persona, poiché i proprietari precedenti della casa non avevano mai avuto il pollice verde. Se però fosse stato il motociclista a mettervi mano Makoto aveva già un informazione molto importante su di lui, doveva essere una persona dalla precisione maniacale e in qualche modo ciò la turbò. Forse aveva ragione l’amica. Forse stava andando dritta in casa di uno di quei maniaci che alla luce del giorno si cimentano in opere di modellismo curando ogni minimo particolare e di notte rapiscono i bambini commettendo atrocità in scantinati segreti.
Si bloccò in mezzo al ciottolato grigio con quell’orrenda idea marchiata a fuoco nella mente, tanto che uno dei traslocatori la invitò a farsi da parte perché ostruiva il passaggio.
«Oh dannazione. Non devo darle retta» si disse tra sé e sé. Eppure le gambe fecero per fare dietro front e Makoto si ritrovò a dare le spalle alla porta pronta per tornare sui suoi passi.
«Oh andiamo…sarà un rozzo motociclista tutto birra e rutti non può essere stato lui a mettere mano al giardino».
«Ehy tu». Una voce profonda la fece sobbalzare e le mani le tremarono tanto da rischiare di far cadere per terra il suo dono culinario.
«Hai per caso l’abitudine di parlare da sola nelle proprietà altrui? Perché se così fosse potrebbe diventare un problema».
Makoto, rigida come un fuso sgranò gli occhi per poi girarsi verso il proprio interlocutore. Era lui, lo riconobbe dalle spalle forti e lo sguardo ceruleo tagliente che aveva intravisto qualche ora prima da sotto il casco.
«Io…» una sensazione strana le attanagliò la bocca dello stomaco. «Le ho portato una torta» riuscì a dire solo quello e l’altro non rispose. Rimase lì, in silenzio a fissarla. Come se dovesse essere lei a fare ancora una volta il primo passo.
Makoto non era solita imbarazzarsi ma in quel momento riusciva solamente a sentirsi stupida.
«Avrà sicuramente del trambusto e un mucchio di scatoloni da disfare, ma ecco…io sono la sua vicina. Mi chiamo Makoto e se dovesse in qualche modo avere bisogno mi trova lì…» indicò con la mano libera la propria casa e con la coda dell’occhio vide Usagi abbassarsi di scatto per rendersi invisibile.
«E quando non mi trova a casa, beh…mi trova al bar. A Malibù, sulla spiaggia…».
Oh cielo, cosa sto combinando? Gli racconto la mia vita? Oddio, se è un serial killer o qualcosa del genere adesso sa sempre dove rintracciarmi.
«Hai un bar?» lui ruppe la sua linea di pensiero e lei si scontrò di nuovo con quegli occhi. Una di quegli sguardi che riescono a far sentire inermi e indifesi.
Makoto annuì con un cenno del capo. Piano, come se la testa potesse svitarsi dal collo e andare altrove.
«Sulla spiaggia» ripeté.
«Ho una cosa del genere anche io» disse lui senza particolare entusiasmo. «Una pasticceria, ma non sulla spiaggia».
«Oddio…» Makoto fece per ritrarre la sua torta. «In questo caso, beh, non puoi mangiarla!».
La fronte dell’uomo si corrugò.
«Sì, insomma, sei un pasticcere…» e un centauro «quindi io non credo sia una buona idea che…».
«Sei brava a cucinare».
«Come?» lei rimase di stucco.
«Volevo dire che…sarà sicuramente buona. E se non lo fosse, apprezzo il gesto. Grazie» lui si avvicinò e senza permesso le prese piatto dalle mani.
Makoto rimase pietrificata. La sensazione allo stomaco si trasformò in confusione. Aveva camuffato quello che gli era uscito di bocca un istante prima. Il problema non stava nella frase che aveva detto, ma come l’aveva detta. Aveva parlato con la pacatezza e l’ovvietà di chi ti conosce da una vita. Lei non sapeva un accidente di lui, anzi la cosa era piuttosto strana e tutte le informazioni raccolte cozzavano tra loro. Un centauro pasticcere e maniaco del garden design? Una creature mitologica, non poteva esistere. Ma lui sembrava sapere già molto sul suo conto invece.
 

 
§§§
 
 
Dan aveva riportato alla madre quello che Haruka si era ostinata a chiamare lentiggini per tutto il tempo. La donna si era messa a piangere nel riabbracciarlo e Dan non poté fare a meno d’intercettare lo sguardo di Michiru che imperterrita teneva le pupille piantate sullo scuola bus. Stoica non ne voleva sapere di cedere. Non aveva accettato di sedersi né tanto meno di bere un sorso d’acqua. Stava in piedi, con una mano all’altezza del cuore e gli occhi di una madre che veglia su tutto per tenere al sicuro il proprio bambino. Dan non sapeva se Michiru fosse religiosa, se in quel momento stesse rivolgendo suppliche a santi o preghiere a uno dei tanti Dei in cui gli uomini decidono di credere. Era certo però del fatto che si sentisse impotente e non volesse darlo a vedere. Perché una donna del suo calibro, una donna che nella vita ha il sangue freddo di trattare con criminali, terroristi e cercare di far ragionare aspiranti suicidi non aveva il lusso di poter far trapelare le proprie debolezze.
Setsuna aveva obbedito ad Haruka, creando ancora più vuoto tra loro e le persone ancora presenti. Ai poliziotti e ai curiosi si erano però aggiunti uno stuolo di giornalisti intenti a riportare lo scoop migliore ai telegiornali locali. E la stampa erano gli sciacalli peggiori per le persone come Michiru Kaiō in quei momenti.
«Procediamo» disse a Setsuna prendendo con sé ciò che del vestiario di Haruka potesse proteggere un minimo Hotaru.
«Cos’hanno deciso di fare?» domandò Michiru con voce ferma. «E non dirmi che oggi non sono in polizia ma sono solo la madre della bambina che è lì dentro».
Setsuna le poggiò una mano sulla spalla.
«Sei sempre in polizia o non ti avrei mai costretta a tornare non trovi?». Respirò soffiando l’aria al di fuori delle labbra come ad insegnare all’altra giovane donna come fare per tranquillizzarsi.
«Entrano in azione come solo la SWAT sa fare. Ten’ō ha un piano. E qualunque cosa deciderà di fare ti riporterà Hotaru» fu tutto quello che disse. Cercò di sembrare una di quelle persone che crede realmente nelle parole appena pronunciate, perché di certo non poteva dire a una madre che gli artificieri avevano deciso di far brillare l’ordigno sul quale sedeva la figlia.
 
«Dì un po’ che lavoro fa tuo padre?» Dan, non appena salito il gradino per entrare sullo scuolabus sentì Haruka conversare con la bambina.
«Mmh» Hotaru parve indecisa sul mestiere dell’uomo. Probabilmente non sapeva il nome di quella professione. «Mamma dice sempre che lui aiuta nei posti dove succedono cose molto brutte» scrollò appena le spalle e vagò con gli occhi fuori dal finestrino.
«È uno psicologo dell’emergenza» chiarificò Dan chinandosi e porgendo ad Haruka le parti della tenuta da artificiere che aveva recuperato.
Ma guarda un po’ uno strizza cervelli che corre dove crolla il mondo. Hollywood doveva per forza stare con una specie di Clark Kant, ovvio.
«Penso sia tipo un super eroe come te» commentò Hotaru toccando piano la spalla di Haruka.
«Hey noi siamo la squadra più fica. Guarda qua cosa ci mettiamo addosso per le nostre missioni. Scommetto che tuo padre ha un guardaroba più noioso!».
Dan le diede una gomitata.
«Ahia!» sbottò lei guardandolo in cagnesco.
«Potreste fare come gli Avengers!».
«Oh si fantastico…» commentò sarcastica la bionda.
«In effetti noi della SWAT siamo un po’ come gli Avangers. Siamo super eroi che collaborano con altri…». Dan diede corda alla bambina che lo additò come l’Hulk della situazione per il vestiario ingombrante che indossava.
«Ora diventi fica come noi. Ti presto dei vestiti» le disse Haruka sottolineando a Dan di aiutare con movimenti calibrati e lenti Hotaru.
«Tu però non emettere un respiro…» la ragguagliò con la fronte imperlata di sudore.
 
«Senti ciambella» Hotaru ridacchiò per il nomignolo con cui Haruka si riferì a Dan. «Ho solamente capito che questa roba è come un pappagallo verde».
«Roba sovietica?».
«Non lo so, non ho letto l’etichetta sulla scatola!» ironizzò Haruka. «Intendo il meccanismo. È imprevedibile. Non esplode al primo urto ma dopo una serie di pressioni o manipolazioni. Probabilmente è anche per questo che non abbiamo ancora fatto boom».
«Ma la manovra che tenteremo potrebbe essere l’ultima, vero?».
«Direi sei ottimista».
Haruka si alzò dalla sua posizione rannicchiata. Stirò al schiena alzando le braccia in alto e guardò oltre il finestrino. Incrociò gli occhi di Michiru. Era lontana, al sicuro, ma era convinta potesse vederla persino da laggiù. Le fece un cenno del capo, un’alzata di mento come a dire “si comincia”. La guardò e per un millesimo di secondo pensò di star guardando la cosa più bella del mondo e che quella non sarebbe stata affatto male come ultima immagine impressa nella retina da portarsi nell’aldilà.
Espirò rumorosamente e piegò le gambe come ad imitare un samurai.
«Ok ragazzi» sembrava dovesse incitare un esercito come fa il comandante nei film prima di una battaglia epica.
Dan scardinò come poté un paio di sedili che avrebbero costituito un ulteriore ostacolo. Il piano era semplice e al 98% fatale.
Non male come percentuale si ritrovò a pensare.
Dovevano solo sollevare Hotaru il più velocemente possibile e buttarsi come se non ci fosse un domani fuori di lì. Una capriola dal finestrino forse era la via di fuga più immediata e se quel due percento fosse stato dalla loro parte, il pappagallo verde avrebbe resistito ancora ad un urto prima di esplodere.
«Ultimi desideri?». Haruka lo chiese con l’aria di chi sta guardando la morte in faccia e le sta facendo il dito medio.
«Una ciambella oreo. Di quelle ripiene con crema, magari».
«Il castello di Barbie».
«Mi sembra ottimo, cimice. Te lo compro io se come supereroe oggi non fallisco d’accordo?».
Hotaru ebbe voglia di scalciare ed esultare con le braccia volte al cielo lasciandosi andare a un bambinesco Hurrà.
 
«Uno…» sentenziò Haruka.
In quel conteggio Hotaru le domandò se lei non avesse nulla da desiderare.
«Due…». La bionda ignorò la bambina, poggiò le mani al di sotto delle sue braccia e applicò la presa più salda che avesse mai usato in tutta la sua vita.
Pensò al Kansas, agli immensi campi, alle vacche lungo la strada dissestata dove passavano solo le carrozze. La sua prima cuffietta, il sorriso di Sarah, alla mano che le porse il giorno in cui con Amos la portarono via dall’orfanotrofio.
«Tre!» era una pellicola infinita d’immagini della sua vita che scorreva alla velocità della luce davanti ai suoi occhi.
Al di fuori della scatola su ruote nella quale erano imprigionati loro tre, i reporter puntarono le telecamere.
Haruka sollevò Hotaru, si sbilanciò per la spinta applicata per scollarla da quel sedile maledetto e davanti ai suoi occhi si palesò l’oceano con il suo incessante scrosciare. Poi, il boato.
 
«A TERRA!!!» la voce di Setsuna rimbombò quasi distorta mentre all’unisono le forze dell’ordine si lanciavano sul cemento. E il grido disperato di Michiru che veniva tirata giù dal suo superiore fu l’ultima voce che arrivò alle orecchie di Rei prima di dare l’ordine di aprire gli idranti.
Una nube di fumo e fuoco si levò nell’aria e il messaggio alla radio dei vigili del fuoco fu quello che la fece scattare verso quell’inferno di fuoco.
«Agente della SWAT coinvolto nell’esplosione».
 




Note dell'autrice:
Innanzi tutto mi scuso per il tempo passato dall'ultima pubblicazione, sono in un periodo che non so quando trovare uno stralcio di minuto per mettermi a scrivere e sicuramente questo capitolo ha risentito della mia mancanza di tempo. Tuttavia spero vi piaccia anche se per me è un pò "tirato via" rispetto il precedente. Il prossimo sarà più sentimentale (non so come definirlo ma direi di sì) rispetto a questo. Volevo togliermi sta situazione ansia per concentrarmi più tra le relazioni dei personaggi. Vi rassicuro sul fatto che nel prossimo capitolo ci saranno anche Minako e Yaten e per quanto riguarda Setsuna...volevo dire un pò di più su di lei, ma tanto c'è un' intera storia per conoscere più a fondo tutti quanti.

Ora, piccole precisazioni per gli interessati: i pappagalli verdi si chiamano davvero così. C'è una pagina che potete consultare su wikipedia se vi interessa o un piccolo trafiletto in quella dedicata alle mine terrestri. Altra cosa...non ho altra definizione per gli psicologi dell' emergenza. Sono psicologi che intervengono in caso di catastrofi naturali o eventi altamente traumatici come disastri tecnologici (come eplosioni nucleari), epidemie, atti terroristici ecc. Oltre alle persone coinvolte in questi eventi si occupano anche dei soccorritori e della comunità.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 8
*** Miccia ***


Lunghe linee aranciate volteggiavano sulla tela bianca sporcata dalle pennellate di Michiru. Non riusciva a fermarsi. La mano aveva vita propria e la mente, una volta ancora, non riusciva a liberarsi di quelle immagini. Se dapprima c’era il volto di chi non aveva salvato a tormentarla, ora c’era quell’esplosione. Il boato nelle orecchie, il calore sulla pelle, l’impatto con l’asfalto mentre la mano di Setsuna la tirava in basso e il poi un’altra crepa nel cuore; quella della perdita. In un millesimo di secondo il mondo poteva crollarti addosso, così come il fuoco poteva divorare tre persone senza distinzione.
Michiru si pulì distrattamente una mano nel grembiule colmo di macchie di tempera. Svitò un altro tubetto di acrilico e lo sguardo vagò perso al monitor acceso della televisione.
Erano tre giorni che i telegiornali non parlavano d’altro.
 
«Nessuna nuova notizia sull’agente della SWAT coinvolto nella terribile esplosione. La prognosi è ancora riservata».
 
La ripresa dall’elicottero mostrava una fitta cortina di fumo nero pece e lingue scintillanti come quelle del quadro che lei stava dipingendo.
Michiru lo ricordava l’odore forte di cui l’aria si era impregnata. E poi ricordava gli scarponi, quelli dei vigili del fuoco. C’era stata una ragazza tra di loro, con lunghissimi capelli mori acconciati alla bene e meglio sulla nuca. Si era gettata fra le fiamme come se non esistessero, senza paura o forse senza ormai più alcun briciolo di senno in corpo.
«Credo dovresti smetterla». Una voce alle sue spalle fece irruzione nella stanza coprendo quella della giornalista alla televisione.
Lei rimase in silenzio, con le setole del pennello a mezz’aria gocciolanti di tempera e lo sguardo fisso sulle tendine della finestra.
Seya aveva preso possesso del telecomando spegnendo il prontamente il monitor dinnanzi a lei.
«Michiru».
«Non psicanalizzarmi» rispose secca lei, con una voce tanto piatta che quasi stonava con la sua persona.
«Cos’è? Il quarto in due giorni che dipingi?».
«Il quinto. Se non ti piacciono puoi portarli in discarica o altrove».
«Non ho detto questo» rispose pacato lui. «E’ che questa sta diventando una camera degli orrori, non va bene».
La giovane poggiò il pennello prendendo un lungo respiro.
«Tua figlia sta bene, non c’è bisogno di tormentarsi in questo modo».
«Ecco. Lo vedi qual è il problema?» finalmente Michiru si era voltata e Seya poté fissare quei pozzi azzurri anziché le sue belle spalle. «Mia figlia è anche tua figlia. La frase corretta dovrebbe essere: nostra figlia sta bene».
«Oh andiamo Michiru…Lo sai che non intendevo questo».
«No, Seya. Non lo so. Perché mentre lei era in quell’incubo tu non c’eri. E ad occuparsi di lei c’era qualcun altro».
Seya s’irrigidì. E in quel momento i momenti vissuti assieme nelle paradisiache Hawaii gli sembrarono tanto lontani da dubitare fossero esistiti realmente.
«Mi stai incolpando perché stavo facendo il mio lavoro? C’erano persone che avevano bisogno di me lì».
«Anche noi avevamo bisogno di te. Ma eri altrove. Come sempre».
A Michiru pesò pronunciare quelle parole. Non era stato sempre così. Crescere con un padre militare non era stato affatto semplice e l’unica cosa bella per lungo tempo era stata solamente Seya, il suo angelo custode. Ne era conscia, ma i bei tempi passati sembravano esser caduti nel dimenticatoio in quel momento, poiché c’era mancato un soffio a perdere una delle cose più importanti della sua vita.  Alle volte essere Michiru Kaiō e una madre erano due cose inconciliabili, ma se avesse dovuto scegliere tra le due cose, lei avrebbe scelto mille volte Hotaru e ciò che era stato poteva anche andare a farsi benedire.
«Devi aiutarmi» fu ciò che uscì di bocca al ragazzo. «Devi aiutarmi a capire come posso fare per farmi perdonare da te».
Seya non si riferiva a quel particolare episodio. Non era stupido e aveva capito di dover provare una manovra di salvataggio per non far naufragare quel matrimonio ormai messo a dura prova.
«Comincia a fare il padre per prima cosa». Michiru si levò il grembiule da pittura riponendolo al proprio posto.
«Io esco».
E come l’attore principale sul palco sul finale della propria battuta uscì di scena.
 
 
§§§
 
 
Rei correva a perdifiato. I sassi sotto alla suola delle scarpe scricchiolavano per poi rotolare giù per il dirupo dal quale proveniva il gorgogliare del mare. Era irrequieto l’Oceano quella mattina. Sembrava andare di pari passo con i suoi pensieri.
Un rivoletto di sudore le scivolò dalla fronte offuscandole la vista per un momento, ma Rei continuò a spingere come le mattine in cui tentava di andare al passo di Haruka.
L’aveva creduta morta. Dopo l’esplosione, appena udito il messaggio, aveva dimenticato ogni buona regola a cui un vigile del fuoco deve sottostare per non farsi ammazzare dal proprio nemico. Tutto per colpa di Haruka.
«REI AS-ASSS-ASPETTAH!». La voce di Minako come un rantolo la costrinse a bloccarsi e a continuare a marciare sul posto per mantenere i muscoli caldi.
«Non andare così veloce. O rischierò di morire» aggiunse in preda al poco fiato l’amica, fermandosi per cercare di catturare un po’ d’aria a pieni polmoni e nascondendo il viso arrossato sotto la visiera del cappellino.
Rei, assente, con la mente era ancora tra le fiamme. Non aveva controllato il livello di ossigeno e si era gettata nel bel mezzo dell’esplosione. Tanto forte era il suo battito che al cervello non le arrivavano i richiami dei colleghi. Aveva in mente solo quel messaggio gracchiato e si aspettava di vedere da un momento all’altro il suo incubo avverato. Il pensiero della perdita di Haruka, della prima persona che era stata come una famiglia dopo essersene andata da Cuba, l’aveva attanagliata completamente e continuava a stritolarla come un boa fa con la sua preda.
Tra il fumo e le macerie, all’improvviso, in quella cortina densa e irrespirabile, comparvero sotto ai suoi occhi.
«Trovati. Li ho trovati» tossì nella radiolina per avvertire la propria squadra per poi compiere un altro passo in direzione di quel cumolo umano.
Dan, imponente e come una statua di marmo richiudeva nella sua tuta antiscoppio i corpi di Haruka e Hotaru.
A Rei mancò il fiato, ma non a causa delle sostanze che impregnavano l’aria circostante. Non era sicura ci fossero superstiti. I tre non si muovevano, parevano tre statue perfette ed immobili.
«REI» era la terza volta che Minako la richiamava all’attenzione. «Svegliaaaa» le sventolò una mano sotto allo sguardo incantato dell’altra.
«Sei con me su questo pianeta?».
«Ovvio» mentì. Ma l’amica se ne accorse, non era stupida e conosceva bene le reazioni dell’altra o quando cercava di farla franca.
«Pianeta Amish, ho capito».
Rei si lasciò andare ad un’espressione scocciata, non tanto per essere stata scoperta quanto perché sarebbe probabilmente partita una ramanzina da parte della bionda.
«Pensi ancora all’altro giorno?».
«Anzi che pensare a quel che penso io, pensa a correre!».
«Oddio, il tuo primo scioglilingua!» si complimentò Minako battendo le mani. Ma Rei non scherzava, aveva già ripreso consumare le suole delle scarpe per tentare di superare il record di resistenza di Haruka e continuò a correre.
 
 
§§§
 
 
Bip. Bip. Bip.
Il suono cadenzato dei macchinari aveva ipnotizzato per un po’ Haruka che aveva finito per addormentarsi in una posizione tanto inadatta da non capire più se possedeva ancora un collo o la spina dorsale aveva deciso di accartocciarsi e accorciarla di un bel po’ di centimetri.
«È sempre colpa tua» schioccò la lingua a quell’affermazione per poi stropicciarsi gli occhi infastidita. Lo sguardo blu cobalto rimbalzò sulle imposte e poi sul monitor riportante una linea bianca discontinua e alcuni parametri vitali.
Dan, come un moderno principe azzurro sembrava aver preso il posto della bella addormentata delle favole.
«Brutto idiota. A quest’ora saresti già a rompere con le tue maledette ciambelle. Non lo senti lo stimolo della fame?».
Haruka non ricevette risposta, ma non per quello si diede per vinta.
Decise di fare un po’ di rumore, come se disturbarlo potesse servire a svegliarlo da una dormita così profonda che la sveglia non sarebbe bastata.
Prese contro al carrello dell’infermiera, fischiettò la sigla di qualche serial televisivo e poi raccontò una barzelletta tanto scadente a cui non aveva mai riso nemmeno lei.
«Senti…e se facessimo krapfen per questa mattina?». Ancora nessuna risposta, Haruka sbuffò mettendosi nuovamente seduta.
«Ho saltato il mio allenamento. Se ingrasso sarà solo per colpa tua…». Incrociò le braccia, dimenticandosi della fasciatura lunga dal polso fino al gomito che a quell’urto le fece lacrimare gli occhi.
Una smorfia di dolore le si dipinse in volto il tempo di un minuto per poi scomparire e lasciare posto all’espressione di disappunto che le si era incollata in viso da quando le era stato permesso di entrare nella stanza di Dan.
 
Era stata Rei a scuoterla. Non riusciva a tenere gli occhi aperti per il bruciore ma ne aveva riconosciuto la sagoma da sotto il casco. La sua voce aveva rotto il fischio nelle orecchie causato dall’esplosione e poi era arrivato il dolore del contatto della sua mano sul suo braccio.
«Haruka. HARUKA MUOVITI!» aveva urlato prima disperata e poi impaziente. Ma il cervello di Haruka era rimasto indietro, ancora incollato alla struttura di quel pappagallo maledetto che aveva deciso di fare i fuochi d’artificio proprio quando erano con un piede oltre la porta dello scuolabus.
Erano state le braccia di Dan a prenderla. Le aveva sentite avvolgerla quando il rumore era diventato assordante, il calore insopportabile e la terra sotto ai loro piedi aveva ceduto. Lei di rimando aveva stretto la presa sulla bambina e poi aveva udito un battito sordo nel petto sotto la tuta antiscoppio dell’amico.
Si era sentita protetta. Come in fondo a una caverna mentre fuori imperversava una terribile tempesta, forse per quello non si era più mossa e non aveva sentito l’istinto della fuga. Si era dimenticata dello scoppio, del pericolo e di darsela a gambe. Era stato un mezzo secondo eterno in cui nella sua mente si era cancellata ogni cosa.
«Haruka, Haruka sei viva. Muoviti, dobbiamo andare» la voce di Rei insisteva. E su quel “sei viva” lei aveva ripreso coscienza. Si era scrollata da quello stato di congelamento e aveva realizzato che era ancora nel bel mezzo di una catastrofe.
«Ok, ciambella. Hai già toccato abbastanza, ora levati. Cominci a pesare…» non c’era stata risposta e il peso del corpo dell’altro addosso si faceva sentire sempre di più. Come d’improvviso la caverna accogliente di Haruka minacciava di crollarle addosso e seppellirla sotto le sue macerie. E se non fosse stato per il pugno di Hotaru e la sua tosse incontrollata a farla tornare vigile avrebbe ceduto al panico.
«Pulce?!» un lamento basso, un mugolio. Poi di nuovo la voce di Rei.
 
«Quanto sei idiota…» un altro insulto rivolto all’amico e la mano di Haruka scivolò sul dorso di quella destra del ragazzo.
«Il gioco è bello finché dura poco, Dan. Non te lo hanno insegnato tra una ricetta e l’altra per i donuts?».
Un sospiro pesante. Haruka apparve tremendamente stanca, come se lo sforzo di respirare fosse troppo. Se solo lo avesse ascoltato. I sensi di colpa stavano cominciando a fare da padroni nella stanza asettica. Forse se avesse seguito la procedura, se avesse indossato la maledetta tuta antiscoppio Dan non sarebbe stato costretto a farle da scudo umano. Forse lo avrebbe fatto lei per tutti e in coma ci sarebbe stata lei al posto suo.
 
«È permesso?» un leggero bussare alla porta e la chioma blu di Michiru fece capolino nella camera.
Haruka rimase impietrita, incapace di catalogare le emozioni provate in quel momento. Ritrasse la mano da quella del ragazzo, come a nascondere la fragilità umana che anche lei possedeva.
«Ero passata solo a portare questi…» disse quasi a giustificarsi Michiru, sentendosi tremendamente fuori luogo. Lei non era amica stretta di Dan, né faceva parte del team della SWAT, ma quel ragazzo, ora costretto in un letto d’ospedale, aveva contribuito a salvare la vita di sua figlia e questo era sufficiente a far sì diventasse parte integrante della sua vita.
«I fiori sono per i funerali». Fu tutto quello che uscì di bocca ad Haruka, rude e senza tatto. Lo disse forse credendoci poco, anche perché non ricordava se ai funerali nella comunità fossero presenti fiori. Sapeva solo che le donne si seppellivano con l’abito nuziale e i defunti col carretto erano trasportati al piccolo cimitero in una bara di legno grezzo.
Michiru parve ignorarla, presa a sistemare il mazzo di margherite e papaveri sul comodino biancastro. Sospirò, sembrò contarli e accigliata tolse una delle corolle dal mazzo.
«Non possono essere pari» sentenziò per poi porgere la margherita gialla ad Haruka. «Portano sfortuna per una pronta guarigione se in numero pari, perciò questo è per te…» lo sguardo di Michiru scivolò sulla lunga fasciatura dell’altra. «Per il tuo braccio» puntualizzò con un sorriso.
Haruka non batté ciglio. Rimase interdetta sul da farsi. Minako non le aveva insegnato a comportarsi in occasioni come quelle e i suoi genitori amish tanto meno. Non aveva mai ricevuto un fiore né lo aveva regalato. La galanteria non era di casa per le conquiste di una notte.
«Non è per il tuo funerale. E non morde».
Alle parole di Michiru, Haruka allungò la mano e accetto lo strambo dono.
Borbottò qualcosa d’indefinito fino a che l’altra non parlò nuovamente al posto suo.
«Ti fa molto male?».
La bionda gonfiò il petto con aria da donna vissuta. «Non è nulla che richieda più di yoghurt e salvia».
Michiru parve confusa e Haruka la guardò come se avesse detto un’ovvietà.
«Cosa ti prende Hollywood ? Non hai mai provato?».
In effetti i rimedi amish non erano alla portata di tutti ed Haruka, nonostante vivesse nel mondo moderno, aveva ancora qualche radice che la teneva salda al suo passato senza tempo.
«Se devo essere onesta…no». Michiru rise. Una risata argentina, simile al suono delicato di una miriade di campanelli.
Haruka non aveva mai udito una cosa del genere. Non credeva nei santi e nel paradiso e tanto meno negli angeli. Non aveva nemmeno idea se questi ultimi fossero muti o avessero voce, ma se avessero saputo ridere una cosa era certa; lo avrebbero fatto a quel modo.
«Devo andare» ad Haruka non piaceva sentirsi strana e tanto meno a quel modo. Doveva uscire da quella stanza al più presto perché non era da lei abbandonare la ragione e sognare ad occhi aperti risate angeliche e cori celesti.
«Haruka» per la prima volta Michiru la chiamò col suo nome e con un tono che nemmeno lontanamente portava l’ombra del disprezzo.
«Non ti ho ancora ringraziata…».
Lo sguardo della bionda sottolineò il suo cadere dalle nuvole.
«Per averla salvata».
«Ringrazia lui. Non me».
«Ti ho vista» la voce di Michiru la bloccò un’altra volta sulla porta. «La tenevi stretta anche barcollando in quella nube di fuoco e fiamme. Non riuscivi quasi a stare in piedi, perché ricordo quel vigile del fuoco che ti teneva su a sua volta. Ma tu non l’hai lasciata. Nonostante il tuo braccio…tu la stringevi». La sua voce si fece flebile, quasi rotta. Michiru probabilmente non aveva mai visto nemmeno Seya tenere in quel modo Hotaru.
«Te lo ripeto Hollywood» e il nomignolo risultò tremendamente forzato. «Io sono quella della pessima idea. Davvero, ringrazia lui. Lui, ci ha salvate entrambe. Ora scusami, ma devo privarti della mia sfavillante compagnia. Ho delle promesse da mantenere».
 
 
§§§
 
 
Minako era nervosa. Ad ogni passo si tormentava le mani come se le dita potessero caderle da un momento all’altro e lei dovesse accertarsi rimanessero al proprio posto. Dopo la chiamata a cui aveva risposto col fiatone non aveva idea di che direzione stesse per prendere il proprio futuro. Volevano rivederla. Solitamente se nessuno si fa sentire è sempre una brutta notizia, sei caduto nel dimenticatoio, ma se sei stata presa dovrebbero comunicartelo. Dunque quel limbo verso il quale si stava incamminando che significato poteva avere?
Tanta era la tensione che Minako perse il primo tram. Gli occhi aperti di chi è assorto nei propri pensieri e in realtà non vede cos’ha sotto il proprio sguardo.
Il mezzo si arrestò, fece scendere i passeggeri e annunciò la nuova partenza verso la città degli angeli con un lungo ed insistente suono. L’onda sonora risvegliò in parte la coscienza della ragazza che alzò le iridi verso uno dei finestrini.  E in quell’istante, nel riflesso del vetro, in quel barlume di realtà sempre troppo offuscata dai propri sogni lo vide.
Il riflesso dell’angelo dai capelli argentei oltre quella sottile lastra trasparente.
Yaten sedeva sul mezzo, intento a scarabocchiare qualcosa su un quadernetto. Con lo sguardo severo sul pezzo di carta quasi ammonisse i segni lasciati dalla mina della propria matita.
«Yaten…» il nome del ragazzo le uscì come un soffio dalle labbra. E per una coincidenza – come avrebbe detto lui – o forse a causa del destino – come invece avrebbe sostenuto lei, in quell’esatto millesimo di secondo Yaten alzò il proprio sguardo come se avesse udito quel richiamo e lo incrociò con quello di Minako.
Le ruote del tram si mossero e mentre il volto che Minako cercava insistentemente tra la folla da quando lo aveva visto stava lentamente scivolando altrove, la ragione sembrò accendere l’interruttore per far sì le sue gambe si muovessero in avanti.
Minako si sbracciò per gridare all’autista di aspettarla. Cominciò a rincorrere il tram con la chitarra sulla schiena e le braccia allungate per farsi notare.
Yaten si voltò, ne scorse il viso arrossato nel tentativo di non farsi scappare il passaggio. Scosse la testa, ritornò con l’attenzione allo spartito che stava lentamente componendo e poi sbuffò. Se non lo avesse fatto si sarebbe tormentato la coscienza, forse ne aveva le sembianze ma Yaten non era uno stronzo patentato.
«Hey…» la voce gli uscì troppo bassa per attirare effettivamente l’attenzione del guidatore. Si schiarì la gola con l’aria di chi sta facendo un sacrificio immenso «Hey, si potrebbe fermare? C’è una ragazza che la sta rincorrendo».
L’uomo al volante gli schioccò una smorfia di disappunto. «Se dovessi aspettare tutti i ritardatari del mondo non arriverei mai puntuale».
Normalmente Yaten avrebbe scrollato le spalle sedendosi nuovamente al suo posto, ma non lo fece. «Faccia finta oggi sia Natale e faccia una buona azione. Non vorrà si faccia male, si sta davvero impegnando per raggiungerci e se cadesse e si facesse male potrebbe denunciare la compagnia. Con gli orari e il numero di linea risalirebbero al suo turno e lei finirebbe nei guai. Magari solo una lavata di capo o magari…».
«Ok, ok ragazzo» l’uomo visibilmente scocciato frenò bruscamente per permettere a Minako di salire.
«Fai ne valga la pena almeno» disse a Yaten che lo guardò torvo come se gli avesse appena scaraventato addosso una marea d’insulti.
«Carina» aggiunse poi, aprendo le porte.
Yaten alzò gli occhi al cielo per tornare alla propria musica.
Minako, con il fiatone a spezzarle la voce ringraziò l’uomo per essersi fermato.
«Non devi ringraziare me» e con un cenno del capo indicò il ragazzo alle sue spalle seduto qualche sedile più indietro.
Minako incredula valutò l’opzione di svenire per la gioia ma si limitò a raggiungere Yaten con un sorriso che le attraversava il volto rosso da parte a parte.
«Lo hai…».
Lui non le permise di finire la frase «hai la mia giacca?».
Il cervello di Minako ebbe bisogno di un momento per elaborare la domanda, poi diede l’input alle labbra di schiudersi in un’espressione che parlava da sé.
«Mi dispiace io non sapevo ti avrei visto oggi e…».
«Fa niente» e anche se lui non la guardava lei per quanto strano potesse essere scoppiava di gioia.
«Posso sedermi?» tentò lei.
Lui stava per dirle che il posto era occupato, ma in realtà era evidente non fosse così. Sbuffò, slittando accanto al finestrino.
«A cosa lavori?» chiese lei accomodandosi senza tirare il freno alla curiosità.
«Sei salita per un interrogatorio?».
Minako ridacchiò. «Sono salita grazie a te».
Se Yaten non avesse coltivato così a lungo tanto autocontrollo sarebbe di certo diventato rosso come un peperone in viso, ma abile com’era ad ergere muri tra lui e le persone si limitò a tacere.
«Stai andando a Los Angeles anche tu?».
Il ragazzo considerò la tenacia della compagna di viaggio e se una punta nel suo profondo si pentiva di averla aiutata a non perdere il tram, capì che ignorarla non poteva essere un’opzione perché lei non sembrava essere una di quelle che si arrendeva.
«Così pare. Questa linea va solo lì».
Minako s’imbarazzò leggermente capendo di avere fatto una domanda stupida, ma dopo qualche secondo di silenzio riprese a parlare. A lei piaceva fare conversazione e soprattutto aveva scoperto ad ogni incontro una crescente curiosità nei confronti di Yaten nonostante quell’aria gelida che ostentava sempre.
«Io sto andando perché quelli del provino mi hanno richiamata».
Ora Yaten parve essere interessato, poiché il suo viso scattò all’insù trapelando attrattiva per l’argomento messo in tavola dalla ragazza.
«Hanno chiamato anche me».
«Sul serio? Fico!». D’improvviso l’ansia abbandonò Minako. Lei era contenta sul serio.
«Secondo te cosa ci diranno?».
Lui fece spallucce, «non ne ho idea».  Ed era vero, ma Yaten non aveva paura dell’ignoto e la prendeva con filosofia. Non si era nemmeno fatto troppe domande per quella convocazione.
«Ma per ogni evenienza ho un pezzo».
«Oddio…» Minako parve andare in iperventilazione e sventolò le mani davanti al viso per farsi aria. «Non ci ho pensato!».
D’istinto prese le mani di Yaten e le strinse.
Lui sobbalzò come se quel gesto gli fosse completamente sconosciuto. Rimase immobile, una statua di ghiaccio. Completamente paralizzato come si fa davanti ad un grizzly o a un pericolo talmente spaventoso che ogni fibra del tuo corpo impazzisce perché non ha idea di come reagire.
«E ora come faccio?!».
Lui boccheggiò. Non aveva mai gestito una donna in preda ad una crisi di nervi e non era sicuro potesse esserne all’altezza in quel dannatissimo momento.
Cosa si dice in questi casi?
«Andrà bene» cercò di risultare convincente e con sua meraviglia quelle due parole parvero bastare anche a lei perché allento la presa.
«Se dovessero chiedere di suonare qualcosa…beh canta una di quelle canzoni alla Taylor Swift che hai rodato ben bene».
«Okay…». Minako rispose con quel sibilo d’assenso. Non sapeva come avesse fatto, ma con così poco lui era riuscito a sedare l’ondata di paura che l’aveva travolta.
Nonostante Yaten avesse mani tanto fredde quanto il suo sguardo chiaro, lei vi aveva trovato con sorpresa un porto sicuro.
«Ora…».
«Si?».
«Potresti lasciarle?».
Minako si rese conto di star ancora stringendo le mani dell’altro e in preda all’impaccio più totale le lasciò bruscamente scusandosi all’impazzata.
Ad occhio esterno lui non pareva turbato, poggiò la schiena al sedile e guardò il paesaggio passare veloce sotto ai loro occhi.
Yaten non sapeva cosa si provava in quei casi, poiché aveva dovuto cedere il passo a qualcun altro ed era stato privato di un mucchio di cose nella vita.
«Siamo arrivati» disse senza preavviso. «È la nostra fermata».
Minako adorò la sensazione che le diede sentirlo parlare al plurale.
 
 
§§§
 
 
Quella mattina il capo delle operazioni si stava tormentando le tempie a furia di massaggiarle con gli indici. I gomiti puntati alla scrivania e il capo chino in avanti come se il peso della sua carica minacciasse di schiacciarla da un momento all’altro.
Mai Setsuna si era trovata in una situazione del genere.
«Che casino» sibilò per esternare tutta la sua frustrazione. Non sapeva chi incolpare, se stessa? Haruka? Il destino? Si può davvero avere sotto controllo ogni cosa nella propria vita? Quell’ultima domanda doveva essere quella con la risposta più importante.
«No che non si può…» parlò ancora una volta tra sé e sé per poi rimettersi con la schiena diritta contro la propria sedia. Tirò un lungo respiro, lanciò un’occhiata al proprio orologio da polso e si drizzò appena quando due tocchi vennero bussati al proprio ufficio.
«Avanti…».
Si palesò dinnanzi a lei un giovane alto e dalla folta chioma scura. Lui entrò e la salutò cordialmente accennando un sorriso gentile.
«Mamoru Chiba, giusto?» disse prontamente Setsuna per poi alzarsi e stringergli la mano.
E’ un bell’uomo. Valutò tra sé e sé mantenendo il contegno di cui era sempre dotata. Anche lei, come tutti gli esseri umani era fatta di carne e ossa, ed ogni tanto lasciava che il proprio autocontrollo si mandasse a far benedire e si concedeva all’istinto umano.
«Purtroppo gli altri non sono puntuali come lei…» ragguagliò il suo interlocutore con lo sguardo di chi ormai la sa lunga sui propri collaboratori.
Quelli della SWAT erano teste calde, Ten’ō più di tutti e Setsuna sapeva bene essere un azzardo quello che stava compiendo. Ma non poteva far altrimenti, era la procedura.
«Sono io che sono in anticipo forse» rispose gentile Mamoru.
Setsuna lo trovava affascinante e tremendamente cordiale. Aveva letto il suo curriculum e da quello aveva dedotto che lui fosse uno di quegli uomini su cui si può contare, sempre molto presente. La spalla ideale, affidabile. Il tipo di uomo che ogni donna desidera avere al proprio fianco. Dovette scrollarsi immediatamente quella sensazione di dosso o avrebbe finito per lasciarsi sfuggire il tipico sguardo di chi è stato colpito dal tanto famigerato colpo di fulmine e non campana più nulla.
«Vuole un caffè?» azzardò versando dalla macchinetta una tazza per sé.
«Mi dia del tu, per favore!».
«Oh beh, d’accordo. Allora…vuoi un caffè?».
«Volentieri».
E mentre Setsuna allungava al nuovo arrivato la tazza di liquido nero bollente fecero il loro ingresso Haruka e Ray. Entratono senza bussare, Ray masticava una gomma con la bocca aperta e Haruka, spettinata e con le mani affondate nei jeans, aveva l’aria di un gangster che va di fretta.
«Ohi, capo Meiō» annunciò la bionda, facendo una veloce radiografia di Mamoru.
Chi è il bell’imbusto? «Ha portato il fidanzato al lavoro!» esclamò per provocarla. Se solo avesse avuto più confidenza e la voglia di prendersi randellate di provvedimenti sul lavoro avrebbe anche dato una vigorosa pacca al giovane che divertito la stava fissando.
Setsuna s’irrigidì e sbarrò gli occhi per l’imbarazzo. Ringhiò un «Ten’ō » a denti tanto stretti da risultare incomprensibile. Poggiò il proprio caffè alla scrivania e si rimise nell’ordine mentale di essere solo il capo delle operazioni. Un ruolo, un’autorità, più che una persona.
«Artificeri…».
«Presenti» borbottò Ray, sempre di poche parole.
«Vi presento Mamoru Chiba, il vostro nuovo compagno».
Haruka non afferrò a pieno il concetto. Si limitò a sollevare un sopracciglio senza comprendere perché mai qualcuno dovesse aggiungersi alla squadra.
C’erano Ray, Dan, i due di cui non ricordava il nome e poi lei. Loro erano sufficienti non necessitavano di altra gente.
Setsuna dal silenzio della bionda intuì che non doveva aver compreso appieno le sue parole, mentre Mamoru tendeva una mano ai due della SWAT. Ray gli fissò il palmo per poi allungargli il pacchetto di gomme da masticare, mentre il cervello di Haruka ancora continuava ad interrogarsi su quella convocazione.
«Mamoru, sostituirà Harris. È un esperto in armi chimiche, ben qualificato sarà un valore aggiunto alla squadra».
Haruka parve stizzita. «Grazie ma decliniamo l’offerta. Harris è ancora in carica».
«Harris è in coma, Ten’ō». La frase di Setsuna fu una stilettata in pieno petto. La bionda sapeva bene quali fossero le condizioni dell’amico, ma preferiva pensare si stesse facendo solo un lungo sonno ed era convinta che la voglia di ciambelle presto lo avrebbe destato di colpo.
«Si riprenderà».
«Certo. Tutti ci auguriamo che ritorni presto in forma ma…».
«Non abbiamo bisogno di un dottorino» ribatté Haruka incrociando le braccia come una bimba capricciosa.
«Senza offesa» aggiunse Ray tra una masticata e l’altra.
«Nessuna offesa» intervenne Mamoru col suo fare pacato. «Spiacente ma non sono un dottore» si permise di puntualizzare con un occhiolino ad Haruka.
«Ho studiato chimica, biologia molecolare e quant’altro, ho passato un paio di anni a far brillare le mine in zona di guerra e poi mi sono dedicato al contrasto delle armi batteriologiche…».
«Si medici senza frontiere abbiamo capito» lo interruppe la bionda.
«Siamo a posto così» sottolineò nuovamente a Setsuna. «Io, Ray, Harris e bingo e bongo ».
Ray sul nomignolo dei due rimase un po’ interdetto. «Non erano Pinco Panco?» chiese sottovoce alla compagna che per tutta risposta gli fece un cenno con la mano alla “si come vuoi è uguale”.
Setsuna s’impose. Non piaceva nemmeno a lei turbare gli equilibri, ma erano senza un giocatore e dovevano sostituirlo che ad Haruka piacesse o no.
«Ten’ō forse hai frainteso. Non è una tua scelta. È così e punto. Chiba dalla prossima operazione sarà al vostro fianco che ti piaccia oppure no».
«Fantastico…» biascicò. «Ci pensa Ray a far la guida turistica, se permettete…è il mio giorno libero» e senza insistere oltre anche lei abbandonò il proprio palcoscenico.
Il bell’imbusto non avrebbe sostituito nessuno, mai e poi mai. E se credeva di comandare aveva sbagliato posto. Se Haruka Ten’ō si metteva in testa qualcosa, nessuno poteva mettersi tra lei e una sua idea.
 
 
§§§
 
 
Yaten a passo sicuro entrò nell’auditorium. Non era il tipo da farsi troppo intimidire a suon di giudizi. D’altro canto era cresciuto costantemente sotto pressione, all’ombra dei successi del fratello maggiore in una famiglia estremamente rigida. Quando gli avevano chiesto troppo, quando aveva capito che nessuno dei suoi sforzi sarebbe mai valso la sua felicità o una pacca sulla spalla aveva smesso di gareggiare. Si era semplicemente fermato e chiuso in se stesso, ma non c’era stata una singola volta in cui avesse avuto timore da che ricordasse.
Minako d’altro canto non aveva il suo stesso carattere. Era solare e frizzantina come una giornata di primavera inoltrata, ma sotto quel suo gioioso vivere nascondeva sicuramente più insicurezze di lui.
Dovette ricordarsi di prendere fiato e solo puntando lo sguardo sulla schiena del giovane le gambe mossero i passi sufficienti a seguirlo sul palco. Dinnanzi a loro i talent scout che avevano incontrato precedentemente tenevano nel palmo delle loro mani, o meglio, sulla punta delle loro lingue il loro destino.
«Sono arrivati» sospirò la donna che alle audizioni pareva essere pervasa dalla noia.
«Eccovi!» l’uomo riccioluto, leggermente più entusiasta della collega, giunse le mani come in preghiera per poi sfoggiare un piccolo inchino.
«Namasté» sussurrò con le labbra piegate in una curiosa espressione a metà tra il sorriso e qualcos’altro che Minako non riusciva a definire. Lei avrebbe voluto prendere la mano a Yaten come sul tram. Riusciva solo a pensare che quelle dita fredde fossero l’unico riparo in grado di far svanire quel turbinio di agitazione che la stava mettendo a dura prova dall’urlare per il panico.
«Vi domanderete perché vi abbiamo convocato entrambi…» cominciò l’uomo per poi affiancare la donna che rimirava le unghie fresche di manicure che parevano pronte a trafiggere una serie di carte che aveva in mano.
«Non abbiamo saputo decidere».
Yaten lo guardò come si guarda un’idiota. Che diavolo vuole dire? È il suo lavoro!
«Clyde» la donna lo richiamò con fare di rimprovero. «Non è esattamente questo».
Clyde deglutì. Quella che portava i pantaloni in quella stramba accoppiata doveva essere lei. Yaten non aveva ombra di dubbio su questo.
«Quello che sta cercando di dirvi è che avete una sola possibilità. Non ci sono compromessi nel mondo dello spettacolo. O fai successo o…» si portò le unghie laccate alla gola, «caput».
«Pamela sta dicendo che la vostra possibilità è quella di funzionare insieme» il riccioluto la interruppe con la sua personale traduzione.
Yaten era confuso da quello strambo duo, mentre Minako aveva smesso di essere agitata perché aveva carpito la possibilità di una flebile speranza al raggiungimento di un sogno.
«Se volete continuare su questa strada dovete lavorare, lavorare, lavorare…» Clyde s’incantò come un vecchio disco e Pamela prontamente riprese il filo del discorso.
«Dovete costruire un successo. Componete una canzone. Avete due settimane di tempo. Dopo di che vi esibirete al Moon Café per la serata Free talent. Noi saremo lì e se riuscirete nell’intento…» sventolò uno dei fogli dalla sua pila. «Firmerete un contratto con la nostra casa discografica».
Il cuore di Minako prese a galoppare freneticamente.
«E se non accettassimo?» intervenne pacato Yaten.
«Come ho detto non ci sono compromessi…» lo ragguagliò Pamela, con una sistemata alla folta chioma. «Ci rivedremmo forse più avanti a un altro casting, ma la vostra avventura con noi finirebbe qui. Oggi».
Seguì un silenzio diluito solo dallo strofinare delle lenti degli occhiali di Clyde all’apposito fazzoletto per pulirle.
Minako fissò l’uomo constatando di quanto fossero piccoli i suoi occhi senza quell’accessorio posato sul naso, poi si decise a guardare Yaten per cercare di capire il da farsi.
«Tu…» prese coraggio, un po’ titubante perché non sapeva cos’aspettarsi come reazione da lui. «Cosa ne pensi?».
Lei avrebbe accettato al volo. Avrebbe avuto finalmente l’occasione di brillare e in più la scusante per passare del tempo con il ragazzo misterioso che invadeva i suoi sogni notturni. Non sapeva spiegarselo ma era attirata verso di lui come la calamita alla magnetite.
«È…un’enorme scocciatura» disse limpidamente. Yaten scriveva la sua musica, componeva da solo e la condivideva in pubblico solo quando la sua idea aveva preso definitivamente forma. Non era abituato a scendere a patti, a dover mischiare il suo con quello di qualcun altro. Se a lui piaceva un accordo lo usava, non chiedeva il permesso. E se a lei non fossero andate bene le armonie? Se avesse messo becco su ogni singolo punto dello sparito? Se il mostro artistico gli avrebbe divorati distruggendo il loro sogno?
«Insomma…» Minako tirò una ciocca di capelli dietro all’orecchio guardandosi le scarpe e morsicandosi il labbro. «Se a te non va di provare…».
«Oddio» Yaten senza farla finire si portò il palmo agli occhi come per non vedere o nascondersi da quello che stava per dire. «So che vuoi firmare quel maledetto foglio. Te lo si legge in faccia. Quindi facciamolo».
Minako non credette alle sue orecchie. Stava per esplodere in un urletto pieno di gioia e per tutta risposta saltellò un po’ più vicino al ragazzo.
«Chi sono io per distruggere il sogno di qualcun altro?». Yaten aveva sempre visto sfumare i suoi a causa dei successi del fratello. Non poteva essere così egoista, non poteva negare una possibilità a qualcun altro senza dargli modo di tentare il tutto per tutto. Se per lei era importante almeno la metà di quello che poteva essere per lui quell’occasione, allora, sarebbe saltato fuori qualcosa di buono. Doveva essere così.
«Non ti azzardare ad abbracciarmi» disse a denti stretti vedendola avanzare sprizzante di gioia. «Vai a firmare quella carta prima che io cambi idea».
Minako ubbidì, ma prima di dargli le spalle gli lanciò un occhiolino.
«Sei il migliore! Non te ne pentirai».
Nessuno glielo aveva mai detto. Nessuno aveva creduto in lui così a quel modo o lo aveva ritenuto il migliore in qualcuno. Lui era sempre stato il perdente per tutti. E per la prima volta Yaten sperimentò uno strano calore all’altezza del petto che lo lasciò senza fiato.
 
 
§§§
 
 
Haruka aveva un diavolo per capello.
Setsuna non aveva il diritto di sconvolgerle la vita lavorativa e mai e poi mai quel tizio sarebbe entrato in squadra perché il posto era di diritto di Dan. Che sarebbe tornato più affamato che mai di ciambelle.
Haruka avrebbe ignorato il nerd dei virus e i compagni avrebbero fatto lo stesso, poiché accumunati da un unico senso di cameratismo. Nessuno avrebbe accettato un novizio al posto di un compagno; ne era sicura. Avrebbe avuto l’appoggio dell’intera squadra.
Forse Setsuna era stata ammagliata dal sorriso perfetto di quello che aveva un sorriso perfetto o forse avrebbe semplicemente dovuto dimettersi da quel ruolo. Fine della storia.
La bionda passò la vetrina di una pasticceria dove una ragazza era intenta a sistemare un cabaret di biscotti alle mandorle appena sfornati in bella vista. Più tardi si sarebbe fermata, avrebbe comprato un cartone di ciambelle con granella di nocciole e le avrebbe portate a Dan in ospedale. Avrebbe sicuramente aperto gli occhi, mai e poi sarebbe resistito ad una tentazione simile.
Percorse la Second Street di Los Angeles con le mani affondate nella tasche per poi incrociare l’insegna a neon spenta di un negozio di giocattoli. Haruka non era solita fare promesse, ma se le uscivano di bocca le avrebbe mantenute per quanto pazzo fossero.
Un piede dentro l’altro vi entrò con timore quasi reverenziale. Prima di quel momento Haruka non aveva mai visitato un negozio di quel genere. In orfanotrofio non erano previste gite all’esterno e una volta entrata nella comunità Amish, men che meno. Gli unici giocattoli permessi ai bambini lì erano bambole di stoffe senza volto e cavallucci in legno rigorosamente fatti a mano.
Nonostante Sarah le avesse procurato una coppia di bambole amish Haruka non si era mai azzardata a toccarle provando un senso d’inquietudine senza poterne scorgerne i tratti del viso. Inoltre non facevano al caso suo. Aveva sempre preferito scorrazzare per i campi a braccia aperte come un elicottero e sfidare il soffio del vento o arrampicarsi sugli alberi per poi lanciare le mele come fossero granate al fratellastro.
«Posso aiutarla?». La voce di una commessa con un sorriso timido e fanciullesco la interruppe dai propri ricordi.
Haruka rispose solo con un cenno affermativo del capo.
Che diavolo desiderava la cimice? Si grattò la zazzera bionda perplessa e poi masticò un «avete la casa di Barbie Malibu?».
«Abbiamo Barbie Malibu e il castello di Barbie. Oppure una graziosa casetta, o il camper per il campeggio…».
Il cervello di Haruka sembrò cominciare a friggere. «Era il castello di Barbie, ora che ricordo».
«Certo. Glielo porto alla cassa. Ha bisogno di altro?».
«Per carità di Dio. No».
Un’espressione indecifrabile si dipinse in volto alla commessa che l’accontentò.
Per quanto riguarda Haruka sbiancò nel vedere il prezzo dell’oggetto e un po’ restia strisciò la propria carta di credito.
«Certo che sa come fare affari la figlia di Hollywood».
 
 
 
§§§
 
 
«Quindi…dì un po’…» Bunny stirò le labbra nell’espressione di chi la sa lunga e puntò i gomiti sulla seduta del divano. «Ora mamma e papà abitano insieme?».
Se sapeva tutto di tutti era perché l’hobby d’impicciarsi degli affari degli altri era più forte di lei. O si appostava dietro ai cespugli, origliava al bancone del bar di Makoto, interveniva in conversazioni che non la riguardavano o chiedeva alla bocca della verità; l’ignara Hotaru.
La bambina, seduta comodamente sul divano sprofondava sui cuscini. Diede un’occhiata distratta al televisore acceso e poi scelse uno dei pastelli temperati dalla sua baby sitter per continuare il suo disegno. Tirò fuori la linguetta da una parte e corrucciò la fronte con fare impegnato. Fare un ritratto senza il modello presente nella stanza era qualcosa di estremamente difficile.
Bunny, seduta scomposta sul tappeto le diede un colpetto per recuperare la sua attenzione.
«Mh. Mh. Ora papà è qui ma non dorme nel letto con la mamma».
«E dove lo fa? In hotel?».
Hotaru parve meditarci su. Arricciò leggermente le labbra e poi scosse il capo in segno di diniego.
«No, sul divano. Questo si apre! Diventa un letto grandissimo!» si estasiò e aprì le braccia mollando per terra la matita colorata per indicare le dimensioni dell’oggetto.
«Adesso me la prepari la merenda?».
«Frittelle e sciroppo d’acero?».
«Quello lo usi perché le tue diventano nere, vero?» indagò la bambina.
Bunny ridacchiò nervosamente. «Stai insinuando che le brucio?».
«Quelle di mamma non sono nere. E le mangio solo con lo zucchero a velo».
«Oh». Colpita e affondata. La bionda era una catastrofe in cucina ma non si arrendeva a la realtà dell’evidenza e convinta del contrario perseverava nel destreggiarsi ai fornelli.
«Beh, vedo se la mamma ha lasciato qualcosa di pronto allora…».
Hotaru batté le mani entusiasta. Tornò a guardare il video luminoso della televisione fino a che il campanello non suonò catturandone l’attenzione.
La bambina saltò giù dal divano e a piedi scalzi raggiunse la porta.
«Bunny, Bunny hanno suonato!!! Posso aprire?».
La baby sitter mise il naso fuori dalla cucina intimandola ad aspettare per controllare di chi si trattasse.
Sbirciò attraverso i vetri della porta e scorse un enorme scatolone senza riuscire a capire chi vi si nascondesse dietro.
«Ehm…chi è?!» meglio chiedere. Negli anni 80 c’era stato quel caso del corriere che si era rivelato un malintenzionato e aveva sparato all’impazzata. E se ci fosse stato un omicida dietro a quell’enorme confezione?
«Mi si sta lussando una spalla. Mi apri?».
Bunny guardò Hotaru di fianco a lei in trepidante attesa.
«C’è un enorme pacco…» sibilò.
«Ma per Babbo Natale è presto» sostenne Hotaru.
«Già è vero» rispose Bunny in modo serio.
«Forse la fatina dei denti?» domandò dubbiosa la bambina.
«E se fosse un uomo dietro a quell’enorme affare?».
«VI SENTO!!» gridò Haruka spazientita. «Usami cosa diavolo fai lì?!».
Bunny ne riconobbe la voce e aprì immediatamente la porta d’ingresso.
«HARUKA!? Cosa ci fai tu qui!!».
Hotaru cominciò a saltellare in preda all’estasi. «C’è il super eroe della bomba!» esclamò canticchiando la frase con una melodia tutta sua.
«Io sono la baby sitter» spiegò Bunny, lasciando passare l’altra che poggiò sul pavimento di casa l’ingombrante dono.
«Se vuoi sbaciucchiare Michiru…beh lei non c’è» le disse con una mano davanti alla bocca e il fare malizioso.
Haruka la fulminò con lo sguardo per poi ignorarla. Setacciò con lo sguardo l’intera stanza e valutò che Michiru non avrebbe potuto abitare in un posto più grazioso, pulito e ordinato. Sembrava che tutto fosse al posto giusto, come nelle riviste di arredamento o nelle brochure delle agenzie immobiliari.
«ME LO HAI PORTATO» Hotaru non smetteva di gridare dalla gioia.
«Mi sei costata un mutuo».
«E la mia ricompensa?» domandò Bunny inserendosi nella conversazione delle due.
Haruka la guardò come se fosse totalmente impazzita per poi capire con un’illuminazione divina a cosa si riferisse.
«Oooh, l’appuntamento…» tentennò. Fu solo un momento di buio nella sua mente per poi trovare l’idea perfetta. Ora, il suo principale problema era di liberarsi di Mamosotuttoio perciò doveva ribaltare i suoi piani. E se si fosse dimostrata gentile e gli avesse combinato un appuntamento con Bunny? Sarebbe sicuramente scappato di sua spontanea volontà per poi non farsi vedere mai più. Poteva funzionare. Avrebbe preso due piccioni con una fava.
«Tranquilla. Ho già pensato a tutto» le disse con fare sicuro di sé, come se la cosa fosse effettivamente combinata.
«SUL SERIO?!» dissero all’unisono due voci. Una appartenente alla babysitter e l’altra proveniente dalle spalle di Haruka.
L’artificiere si voltò e nel suo campo visivo subentrò la figura di Michiru che aveva tutta l’aria di sapere cosa stavano combinando nel loro salotto.
«Michi Sama!».
«Hollywood…».
«Mamma guarda, il castello di Barbie!».
Michiru entrò, poggiò la borsa al divano e si chinò verso l’enorme scatola.
«E questo da dove arriva?» chiese con tono amorevole alla bambina per poi lasciarle un bacio tra i capelli corvini.
«Da Haru super eroe!».
Michiru guardò Haruka che fece spallucce. «Era una promessa» disse solo con fare indifferente.
«Di chi si tratta? È bello? Che tipo è? Quando sarà l’appuntamento?» Bunny non stava più nella pelle e Haruka la sedò con un «ne parliamo ma non qui» a denti stretti.
I due codini schizzarono alla velocità della luce a prendere le sue cose, la baby sitter salutò raggiante tutte le presenti con un cenno della mano pronta a fiondarsi sulla sua bicicletta. «Visto che sei tornata e hai ospiti Michiru, io vado! Ci sentiamo…e vediamo! Yuhuuuu!!».
«Di che appuntamento stavate parlan…».
Haruka sventolò una mano come se la faccenda fosse una cosa da nulla.
«Mah, niente. Le avevo fatto solo una promessa e…».
«E Haruka le mantiene!!!» disse Hotaru cominciando a scartare il proprio regalo con le manine avide di scoprire come fosse fatto il castello che tanto aveva desiderato.
Michiru lasciò cadere l’argomento. Si tirò su, tornando nuovamente all’altezza degli adulti e si sentì in dovere di fare gli onori di casa con la persona che aveva reso Hotaru felice con mai e le aveva salvato la vita.
«Posso offrirti…».
«No, sono a posto così». Stranamente Haruka si sentì a disagio per la prima volta. Forse era il fatto di veder sotto ai suoi occhi tutti i segreti di Michiru Kaiō alla luce del sole. Lei con una figlia che assomigliava tantissimo a un marito che Haruka fino a poco prima non aveva idea esistesse.
«Io…vado».
«Lascia almeno che ti dia i soldi per il giocattolo».
«No, è un regalo. E una promessa mantenuta. Quelle non si pagano, mai» sentenziò.
Hotaru corse dalla bionda per poi tirarla per una gamba.
«Eddai, eddai. Resta ancora un pochino».
«Ho da fare cimice, temo di dover proprio andare. Ma tu ora te la passerai con quello, no?!».
«Aspetta eh. Ho una cosa anche io per te».
Michiru guardò incantata il rapporto che stavano creando le due. Hotaru era sempre stata una bambina affabile, ma Haruka, per quanto la conoscesse poco sembrava essere un’altra persona con sua figlia.
Hotaru corse al divano, raccolse il foglio sul quale stava lavorando durante le ore passate con Usagi e lo portò al suo supereroe personale.
«Ecco. Tieni» glielo porse tutta orgogliosa. «L’ho fatto io».
«Oh» Haruka si schiarì la voce, girando il disegno tra le mani. «Cosa…sareb-».
«Ma come?! Mi prendi in giro?!» Hotaru assunse le sembianze di una piccola adulta. «Quella sei tu! Non lo vedi il mantello da superman?».
Anche Michiru sbirciò e ne convenne. «Eh sì, è proprio un mantello rosso quello!».
Le due scoppiarono a ridere all’unisono con Hotaru che non comprese a fondo cosa ci fosse di tanto divertente.
 
Dei passi in avvicinamento interruppero quel singolare momento che si era venuto a creare. Seya era rientrato e vedendo la porta di casa spalancata consumò il selciato in poche falcate.
Era da tanto non che non vedeva Michiru ridere a quel modo. E improvvisamente un flash nella mente lo riportò a quando erano due ragazzini che giocavano nelle baie Hawaiane tra spruzzi d’acqua e il tentativo di catturare pesciolini o paguri.
«Cosa mi sono perso?».
Haruka provò un senso di fastidio nel vederlo sulla soglia di casa. Avrebbe dovuto accettare il caffè, il bicchiere d’acqua o qualsiasi cosa Michiru le avesse offerto in precedenza pur di dare un po’ di fastidio a quello che appariva come un vero e proprio bacchettone.
«Questo. Questo!» Hotaru indicò il nuovo giocattolo.
«Ooh e questo da dove arriva?» chiese lui chinandosi per tirarlo fuori dallo scatolone e guardarlo meglio assieme alla figlia.
«Da super Haruka!» Hotaru gliela indicò con l’indice. Si avvicinò all’orecchio del padre e con una mano davanti alla bocca come a confidarle un segreto gli rivelò «è tipo gli Avengers. Però quelli come lei hanno un costume più fico» disse recitando ciò che Haruka le aveva detto sullo scuolabus.
Seya rimase interdetto dalla frase pronunciata dalla bambina.
«Bene, io vado» annunciò Haruka. Per fare la guerra ci sarebbe stato tempo. Per ora bastava la miccia a cui aveva dato fuoco Hotaru parlando con tutta la sincerità che un bambino può fare.
Michiru la salutò e la ringraziò con il labiale. «Ci vediamo».
«Puoi contarci!» Haruka ci mise tutta l’enfasi che poté. «Al lavoro» sottolineò come per avvisare al ragazzo che sarebbe stata sempre in mezzo. «Ciao Hotaru, buona serata Hollywood». Si stampò un sorriso sicuro di sé in viso, come avesse una mano vincente a poker. «E…a te…non so il tuo nome».
A Seya pizzicarono le mani. Aveva capito essere una chiara provocazione quella. Gli era stato appena sbattuto in faccia il fatto che Michiru non parlasse mai di lui, che non esistesse mentre quella persona doveva essergli tanto vicina da poterla chiamare con quell’assurdo nomignolo.
Ma il colpo di grazia Seya lo ebbe da Hotaru che con tutta l’ingenuità del mondo, mentre guardava con gli occhi brillanti di felicità il suo regalo esalò: «Oh mami…voglio essere anche io così da grande».
 
 
 
 
 


Note dell'autrice:
Se siete arrivati in fondo a queste 21 pagine di delirio siete stati davvero intraprendenti. Mi scuso per il ritardo nella pubblicazione e nella scrittura. Al momento ho parecchi problemi a trovare del tempo per dedicarmi alla scrittura perciò faccio quello che posso. Spero di riuscire a far prima col prossimo capitolo che lo vorrei all'insegna dell'amore! Vedremo però quel che uscirà perché ammetto che in questa storia di programmato non c'è un bel niente e forse...è meglio così. Grazie per la pazienza, il sostegno e per star continuando a leggere e a commentare. Dire che vi adoro è poco...alla prossima

Kat
 

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Capitolo 9
*** Bivi - Parte I ***


Remember when we met? Yeah, I know I was mean
Stones shirt, black boots and black jeans
And you were such a mess
I thought it was sweet
But that night still haunts my dreams
 
Chasing Ghosts – Against The Current
 
 
 
 
Haruka guardò Sarah ancora una volta. Era china in avanti, con le spalle ricurve e i polsini dell’abito tirati appena sul polso per raccogliere meglio il fieno. Il forcone era abbandonato all’entrata della stalla e Amos vi era al suo interno intento a mungere le loro cinque mucche. Di suo fratello nessuna traccia nelle vicinanze, doveva trovarsi a casa del pastore, sul tetto, a riparare le assi consunte dal tempo e dalle intemperie.
Al di là della distesa dorata, Haruka le rimirò ancora una volta. Le fronde verdi cariche di frutti succosi.
Rare come oro nel pianeggiante Kansas.
«Torno subito» borbottò in tono basso. E Sarah, vittima della fatica rispose solo dopo qualche minuto, asciugandosi la fronte imperlata di sudore con il dorso della mano segnata da una vita di duro lavoro, quando della bambina non vi era più alcuna traccia.
La donna sorrise. Haruka poteva godersi ancora un po’ di libertà e i bottoni sui vestiti, se solo le fossero piaciuti. Ma quello spiritello biondo, con i pantaloni e le bretelle del fratello addosso, era già lontana dalla madre adottiva.
In un battibaleno aveva attraversato di corsa l’intero campo ed era sbucata dalla parte opposta.
Senza indugiare scavalcò la staccionata in legno. Fece due grandi risvolti ai pantaloni troppo lunghi e si arrampicò su uno dei numerosi alberi per poi staccare una mela dopo l’altra.
«Una per me» lucidò il frutto contro la propria camicia con la mano libera per poi appollaiarsi sul ramo più vicino. «Una per Sarah…» mormorò, incastrandone un’altra sotto la bretella.
«E una per sta notte» disse soddisfatta per poi non resistere e dare un morso alla buccia. Gesto incauto quello di distrarsi, poiché quella piccola soddisfazione le costò caro.
Gli amish la chiamavano “shunning” quella pratica. L’ignorare totalmente un membro della comunità come punizione per aver combinato un guaio.
Haruka lo aveva imparato a sue spese la volta in cui da bambina rubò le mele al vecchio Samuel King. Aveva perso tempo per l’ingordigia anziché scappare, e l’uomo, una volta tirata giù dal suo frutteto con la forza, l’aveva riportata per l’orecchio a Sarah.
Samuel, aveva poi ammonito la donna per il comportamento e l’abbigliamento indecente della figlioccia e Amos, una volta scusatosi con il vicino, aveva aggiunto il carico da dieci intimando la famiglia di emarginare il demonio biondo. Atteggiamento che ogni singolo membro della comunità avrebbe adottato nei suoi confronti fino a che Haruka non avesse imparato dai propri errori. Nessuno le avrebbe più dato un passaggio sul carretto, rivolto la parola, mangiato con lei o si sarebbe seduta affianco a lei nella loro piccola chiesetta fuori dal tempo.
Ma Haruka sebbene spese poco tempo a contemplare le sue possibili colpe, non arrivò mai a capire se quella punizione fosse stata adottata per aver peccato di gola, non aver seguito il codice di abbigliamento o per aver rubato.
Quello che era certo però, era che per la prima volta, in quell’occasione, Haruka si era sentita invisibile. Pena peggiore della solitudine. Ma quello che non poteva sapere in quell’esatto momento, invece, era che a qualche chilometro da lei, la sua presenza era così palpabile da aver assunto le sembianze di una vera e propria minaccia.
 
 
Erano le otto del mattino e Seya aveva rinunciato a leggere il giornale. Lo aveva poggiato sul tavolo, accanto al caffè americano ancora fumante.
Michiru lo aveva notato. Se non fosse stata una persona attenta ai particolari in modo quasi ossessivo probabilmente non sarebbe stata adatta al suo lavoro.
Con la coda dell’occhio aveva visto il moro arrotolare il giornale anziché ripiegarlo in quattro com’era solito fare dopo averlo letto. Probabilmente gli occhi di Seya avevano scorso mezza riga di una pagina a caso anziché leggere le notizie perché un tarlo lo stava ossessionando togliendogli ogni briciolo di attenzione.
«Esci con quella persona?» una domanda sputata quasi come una sentenza a bruciapelo. Tanto diretta e inaspettata che Michiru dovette poggiare la propria tazzina di tè per non rovesciarla.
«Non ti sto seguendo» ammise.
E i pomeriggi a rincorrersi sulla sabbia al tramonto solo un ricordo ormai sfumato. Così poco nitido da apparirle come un vecchio sogno di quelli che giocano brutti scherzi alla mente tanto da non farti capire se ti sei effettivamente svegliato o meno.
«L’artificiere» puntualizzò lui.
Michiru non era abituata a quello scambio secco. Seya non era mai stato uno di poche parole, tutt’altro. Le pause tra loro, i brevi silenzi avevano sempre avuto un giusto peso non si trascinavano mai nulla di più dietro.
A Michiru venne da ridere. La domanda era talmente ridicola da apparirle una battuta e probabilmente la sua espressione risultò tremendamente divertita da sembrare una presa in giro nei confronti dell’altro.
«Dico sul serio, Michi».
«E a me scappa seriamente da ridere, Seya».
Lei e Haruka. Un’utopia.
«Mi sembra un dubbio più che lecito». Lui si drizzò sulla sedia quasi stesse scomodo in quella posizione. Ma la realtà dei fatti era che la cosa scomoda in mezzo alla loro relazione sembrava essere più grossa del previsto e soprattutto bionda.
«Viene in casa come un amico di famiglia e fa i regali a nostra figlia. Si pavoneggia e ti bacia. Capisco di essere stato lontano a lungo Michi, questo non lo posso negare. Ma non credevo tu ti fossi fatta un’altra vita nel frattempo, insomma…siamo ancora sposati. E per di più ti ho detto di volerci riprovare».
Lui sembrava essere un fiume in piena, ma Michiru lo seguì solo fino ad un certo punto,  poiché il cervello non parve riuscire a superare uno scoglio che Seya le aveva appena messo davanti. Quella verità era dinnanzi a lei come un iceberg di cui scorgeva incautamente la punta, senza però aver idea di cosa si celasse sotto il pelo dell’acqua.
«Fermati un attimo Seya. Cosa stai dicendo? Di quale assurdo bacio stai parlando?».
Doveva esserci una telecamera nascosta da qualche parte, poiché la faccenda si stava rivelando sempre più comica.
Il moro si bloccò e capì dal linguaggio del corpo della moglie che non stava mentendo. Lei non sapeva a cosa si stesse riferendo. E tra l’altro, la Michiru che conosceva non era in grado di mentire e nemmeno aveva mai provato a farlo, per lo meno con lui.
«Al festival» una breve pausa a cui seguì un occhiata sorpresa, «tu, tu non lo sapevi?».
Avvenne una strana esplosione nella cassa toracica di Michiru. Silenziosa, ma potente. Un battito fuori dal coro tanto forte che parve volerle frantumare lo sterno.
Il bacio al sapore di stelle cadenti apparteneva ad Haruka Ten’ō?
«Io…» non sapeva cosa rispondere. Non riusciva a trovare le parole per dire qualcosa di sensato, riusciva solo a ripercorrere quell’attimo magico che aveva vissuto sulla spiaggia e la sensazione dell’incastro perfetto delle sue dita tra quelle mani sconosciute fino ad un momento prima. «No che non lo sapevo» dovette concentrarsi.
«Come potevo. Ero bendata e…non era stato programmato niente».
Seya si placò. Si era fatto prendere dalla gelosia per la prima volta e non sapeva come gestire la cosa.
A Honolulu erano sempre stati loro due e nessun altro. Non aveva mai dovuto preoccuparsi di concorrere con qualcuno per il cuore di Michiru e ora, quel primato che aveva avuto per anni, gli era sembrato talmente vacillante da doversi mettere sulla difensiva.
«Andiamo da qualche parte?» domandò Michiru sentendosi improvvisamente soffocare tra le mura di casa.
«Certo che sì, sirenetta».
 
 
§§§ 
 
 
“Sta sera Malibu Beach” gli sms di Haruka sembravano sempre ordini perentori più che proposte, ma a questo ormai Rei era abituata e non sgranava nemmeno più gli occhi quando li leggeva.
«Sai che novità» borbottò a bassa voce per poi rispondere con l’emoji di un pollice alzato e rimettere nella tasca il cellulare.
Minako, che aveva ricevuto lo stesso messaggio essendo anche lei partecipante al loro gruppo whatsapp rispose con più entusiasmo. Un sfilza di fuochi d’artificio e calici di champagne vennero selezionati dal pollice sino a che non tornò a prestare attenzione alla sua coinquilina alle prese con una scala.
«Rei, mi sembra pericoloso dovremmo chiamare i pompieri» esordì incrociando le braccia e guardandola armeggiare con la scaletta a pioli in legno.
«Dì ma stai scherzando?» la mora sembrò quasi offesa. «Io SONO un pompiere. Perché devi mobilitare un’intera squadra quando hai qui me per un gatto?».
«È Artemis! Non un gatto qualunque!» sbottò Minako gesticolando freneticamente.
Il suo amico peloso quella mattina aveva deciso di sgranchirsi le zampe fuori casa. Si era arrampicato su una delle piante del viale alberato davanti a casa e si era messo a miagolare come un dannato rendendosi conto di non riuscire più a scendere.
«Che poi…gatto. Quale gatto è così tonto da non riuscire più a scendere da un ramo?». Rei rigirò il dito nella piaga per poi salire sui primi pioli ed invitare la bionda a tenere una presa salda sulla struttura in legno poggiata al tronco.
«Non è abituato poverino. Non offenderlo! Ti faccio cadere se dici un’altra cosa così!».
Rei alzò gli occhi al cielo per poi mimare il becco di una papera con una mano. La loro convivenza era sempre stata così. La mattina si punzecchiavano, il pomeriggio andavano d’amore e d’accordo e la sera succedeva quel che succedeva ma alla fine erano sempre presenti l’una per l’altra.
La mora fece leva con un braccio al ramo più vicino a sé e poi si sporse verso l’animale impaurito.
«Su, andiamo. Vieni qui fifone!» lo agguantò per la collottola e lo restituì alla legittima proprietaria che lo strinse amorevolmente tra le braccia riempendolo di baci e carezze.
«Se fossi stata un bel ragazzo sexy con la divisa credo ti avrei baciata».
«Ecco, per fortuna non lo sono allora!».
«Oh è vero. Non ti dispiacerebbe baciare solo Haruka come donna».
Colpita e affondata. Minako lo capì dall’espressione dell’altra quando le uscì di bocca quella frase.
«Scusa, scusa!» tentò di rimediare, agitandosi tanto da infastidire Artemis che volle scendere dalle braccia della padrona per rintanarsi in casa.
«No, è vero» esordì Rei in tutta tranquillità.
«L’hai superata?» chiese Minako titubante.
«Circa…» ammise la mora rimettendo tutto al proprio posto per poi tirare fuori le chiavi di casa.
«Vai a lezione? Domani è il giorno del mese in cui tuo padre ti chiama e ti bombarda di domande sull’università. Da quanto la stai tirando lunga questa farsa?».
«Oh cavolo…» Minako si grattò la nuca in preda al panico. «Me ne sono proprio dimenticata!».
«Lo so, senza di me non ce la puoi fare».
La bionda rispose con una linguaccia. Guardò l’orologio da polso e sbatté due volte le palpebre incredula nel vedere l’orario che si era fatto. «Oh cavolo…».
«Lo hai già detto Mina…».
«No, no. Non è per mio padre. E’ per Yaten!».
Rei improvvisamente assunse un’espressione confusa.
«Dobbiamo scrivere. Mi aspetta. Devo andare e non sono nemmeno lontanamente decente!».
«Aaaah il musicista bello e tormentato!».
«Non chiamarlo così!» urlò Minako in preda al panico fiondandosi in casa esattamente come il suo amico peloso.
«Mica era un’offesa» la ragguagliò Rei, sedendosi sul divano per godersi lo spettacolo dell’amica che metteva sottosopra l’armadio e che si sarebbe inciampata in qualche vestito per andare a caccia delle sue palette di ombretti.
«Preferisci…l’uomo dei sogni? Il ragazzo misterioso? O…».
«REEEEEEEEEEIIII».
«Okay. Vada per il noiosissimo Yaten allora. Rilassati».
 
 
§§§
 
 
Una brezza agitata soffiava a Malibu Pier. Le dita di Yaten erano impegnate ad annodare la cima per ormeggiare una piccola barca a vela il cui nome inciso sopra era Blue lagoon.
Intento nel suo operato, aveva perso di vista le lancette dell’orologio e lo scorrere del tempo. Era così preso da quell’operazione che nel momento in cui il suo sguardo chiaro si posò sulla sagoma che passeggiava sulla banchina pensò di aver visto un fantasma.
«Seya?!». «Yaten!?» i due nomi vennero pronunciati all’unisono con lo stupore tipico di chi ha trascorso anni alla ricerca di qualcuno per poi voler credere di non poterlo più ritrovare.
Michiru, teneva stretta a sé una busta all’altezza del ventre e fu l’unica a salutare il ragazzo dai capelli argentei con un sorriso e la voce macchiata da un sincero sollievo nel vederlo sano e salvo.
Aveva diciassette anni Yaten, la notte in cui rubò la barca al padre e partì alla volta di una nuova vita senza dir nulla. Aveva imparato da bambino a navigare, era l’unica cosa che aveva avuto modo di fare assieme al padre e al fratello ed era stata anche l’unica che gli aveva permesso di scappare e di non voltarsi più con lo sguardo verso le Hawaii.
Erano passati sei anni. Yaten da ragazzetto era diventato un ventiduenne che aveva saputo cavarsela senza l’aiuto di nessuno e Seya, suo fratello maggiore, era arrabbiato a morte con lui.
«Lo sai cosa mi hanno fatto passare?» era un rancore covato a lungo il suo, qualcosa che aveva dovuto sostituire la disperazione di immaginare la perdita di un fratello. Seya aveva scelto la rabbia piuttosto che il dolore.
Michiru tentò di placarlo, prendendolo per un polso e intimandolo di abbassare la voce.
«Sei un egoista. Hai rubato la barca di papà e…».
«E cosa?» l’interruzione di Yaten spiazzò il più grande. Mai lo aveva sentito ribattere, lui era sempre rimasto in silenzio con la testa china piuttosto che alzare la voce in famiglia. Quasi ne aveva dimenticato la voce e adesso a rispondergli era un tono più basso e profondo, mutato nel tempo. «Non hai potuto fare la regata per rendere orgoglioso papà? Dev’essere stata dura non essere il figlio prediletto per una volta…e poi cosa? Ti avranno dato qualche colpa…non eri abituato Seya, vero? Benvenuto nel mio mondo. Anche se scommetto che ti han perdonato e dimenticato tutto dopo una settimana. Per fortuna non eri tu ad essere quello scomparso o avrebbero mobilitato mari e monti».
«Ti abbiamo cercato…».
«Non abbastanza, o meglio avete cercato la barca…».
Yaten le aveva cambiato il nome. E aveva fatto tutto quello che era in suo potere per renderla irriconoscibile quanto sarebbe bastato a suo padre per perdere la pazienza e acquistarne una nuova. I soldi non erano mai stati un problema e quell’uomo era abituato a mettere una pezza su tutto piuttosto che impazzire per qualcosa che non gli avrebbe reso profitto. Yaten non era il figlio che poteva dar lustro alla sua famiglia e come lui, quella barca valeva troppo poco per perderci la testa.
«Ora basta…» la voce di Michiru era un soffio in mezzo a quell’esplosione di fuochi d’artificio. I due erano presi a versarsi addosso anni di lontananza, mancanza e dolore trasformato in rancore per badare a lei.
Ma Michiru Kaiō non era una donna che demordeva. Lei era quella che mediava con dei temibili criminali, quella alla quale si stava trovando in mezzo invece appariva come uno stupido litigio tra due bambini.
«Ho detto, BASTA! VERGOGNATEVI!».
I due si zittirono all’istante ed entrambi puntarono gli occhi su di lei.
«Non vi vedete dai sei anni e tutto quello che sapete fare è urlarvi addosso, invece che darvi un abbraccio».
Seya svicolò la presa di Michiru dal suo braccio e risentito per essere stato ripreso si allontanò prendendo contro ad una ragazza bionda con in spalla una chitarra.
Asciutto si scusò e Minako non seppe cosa rispondere.
«Da quanto sei lì?» Yaten la fulminò con lo sguardo e Minako si avvicinò all’imbarcazione facendo un timido cenno di saluto alla giovane che aveva messo fine al litigio.
E’ bellissima pensò nel passare di fianco a Michiru. La trovava elegante e con uno charme invidiabile, quasi fosse una diva uscita dalla pellicola di qualche vecchio film hollywoodiano.
«Il giubbotto…te l’ho riportato» disse al ragazzo allungandogli la giacca di pelle.
«Che fai? Rimani lì? Sali» ordinò lui tutto d’un pezzo, ritornando a liberare la propria imbarcazione.
Minako ubbidì, con il terrore di cadere in acqua e portarsi dietro anche la sua chitarra.
«E comunque…vedere te è stato un piacere Michiru» disse guardando altrove Yaten.
Anche se avevano tre anni di differenza, spesso e volentieri si era ritrovato a passare i pomeriggi nell’assolata Honolulu in compagnia sua e del fratello.
Michiru era sempre stata gentile nei suoi confronti e sebbene fosse sempre il più piccolo non lo aveva mai tenuto in disparte o fatto sentire da meno.
Minako desiderò essere come la ragazza dai capelli acqua marina. Se fosse stata affascinante quanto la sconosciuta sarebbe sicuramente piaciuta a Yaten.
Provò una punta di gelosia alle sue parole, fino a che l’altra non gli rispose chinandosi sulle ginocchia quasi con fare materno.
«Anche per me. Mi sei mancato al matrimonio, mi sarebbe piaciuto ci fossi stato».
Yaten schioccò la lingua e la barca si mosse piano all’indietro.
«Non capirò mai perché proprio Seya».
Lei gli allungò qualcosa lasciandoglielo nel palmo di una mano appena prima che risultasse troppo lontano da raggiungere.
«Non sparire più. È il mio numero…chiama se hai bisogno!».
Il molo si allontanò ancora un po’ e Michiru si alzò salutandolo con la mano.
Yaten rispose con un cenno del mento per poi riportare lo sguardo smeraldo sul fratello. Lo stava fissando, ma non lo faceva dall’alto in basso come quando tagliava un importante traguardo. Era qualcosa di nuovo per lui. Sembrava malinconico. Pareva uno di quegli sguardi che si riservano solo alle persona a cui tieni quando se ne stanno andando via, aveva gli occhi pieni di rimpianti.
 
 
§§§
 
 

Haruka aveva tutta l’aria di uno studente annoiato costretto a sedere nel primo banco di scuola.
«È ufficiale sai, la Meiō mi odia» disse con uno sbuffo per poi immaginare la smorfia che si sarebbe dipinta in volto a Dan con quelle parole.
L’amico sembrava dormire placidamente nel lettino d’ospedale, ma lei non si voleva arrendere e ogni minuto libero lo trascorreva al suo capezzale.
«Diavolo amico, ha indetto una sorta di corso. E indovina chi lo presenta? Medici senza frontiere. Ma dai, voglio dire…mica siamo in guerra. Quando cavolo ci si presenterà un’arma chimica da combattere?».
Solo il bip dei macchinari in risposta. Haruka sospirò pesantemente per poi avvicinarsi al monitor e abbassare il volume dell’apparecchio. Odiava quel suono, lo associava alla morte il che era paradossale. Comprendeva benissimo che un suono piatto era un brutto segno e quello cadenzato che sentiva era solo il battito cadenzato dell’amico. Ma non poteva farci niente, ogni bip per lei era un passo che il ragazzo compiva più lontano da lei.
«Devi svegliarti, brutto idiota» soffiò abbassando lo sguardo sui fiori che aveva portato Michiru il giorno che si erano incontrate in ospedale.
«Non puoi lasciarmi con il cocco di Setsuna. Ti ruberà il lavoro e mi riempirà le orecchie di stronzate con i suoi virus e bla bla».
Il sole al di fuori delle imposte aveva cambiato la sua posizione nel cielo. Era prima pomeriggio e la palla infuocata appariva sempre più pallida, quasi annebbiata.
Il vento si alzò ululando infuriato e Haruka si adoperò per abbassare la tapparella.
«Sai Dan…ogni giorno di coma si diventa sempre più stupidi o una roba del genere. Dicono così i medici…» una pausa, un silenzio pesante e la ragazza si voltò nuovamente verso l’amico.
«Il tuo quoziente ciambella mi sembrava già basso di suo. Io non rischierei di perdere quel poco di materia grigia che ti rimane. Vedi di muoverti, io non te lo dico più!».
Haruka si appoggiò alla parete. Sembrava non riuscire a stare ferma dentro alla stanza. Forse inconsciamente pensava che fare baccano potesse svegliare in qualche modo più velocemente Dan, o più probabilmente, anche se non voleva ammetterlo con se stessa non riusciva a reggere quella situazione.
E per qualche motivo pensò al Kansas, alla comunità. Al fatto che se fosse stata lei al posto del ragazzo sarebbe stata già spacciata. S’immaginò gli occhi di Sarah, gentili, buoni ma distrutti da un dolore silenzioso. E poi lo sguardo di Amos. Avrebbe avuto quell’espressione severa, probabilmente avrebbe scosso la testa con fare di disappunto e poi avrebbe costretto tutti a staccarle la spina. Perché gli amish fanno così. O sei capace di vivere o muori. Non si accetta altro intervento se non quello divino. Niente misure speciali, niente scienza. Solo la volontà di un Dio che Haruka non aveva mai sentito si stesse occupando anche lontanamente di lei.
Mosse un paio di passi e si avvicinò all’orecchio di Dan.
«La verità è che…» soffiò quel segreto senza che anima viva potesse udirlo. «Mi manchi, ciambella. Devi tornare a essere il mio amico svampito. L’unico idiota che mi salverebbe da una bomba».
Quella rivelazione non la fece sentire meglio. Fu una confessione a cuore aperto che riuscì solamente a farla sentire più vulnerabile che mai e questo ad Haruka non piaceva per niente. Lei non era una piagnucolona, lei non aveva bisogno di nessuno per andare avanti tanto meno di uno stupido Dio la cui mano invisibile a quanto pare la teneva in tasca.
Il cercapersone vibrò. Una chiamata col numero di emergenza.
«Come dicevo…mi odia. Devo andare…».
E se solo avesse rialzato il volume del monitor avrebbe sentito il cuore di Dan fare uno sfarfallio diverso.
 

 
§§§
 
 
Seya e Michiru avevano parlato a lungo dell’incontro con Yaten. E Michiru aveva capito che dietro quelle urla il marito covava nient’altro che una mancanza profonda con quel membro della famiglia scomparso all’improvviso.
«Penso dovresti andare a trovarlo un giorno di questi» gli disse Michiru con il suo solito fare calmo. La sua voce era simile a una di quelle melodie che sanno calmare gli animi in tempesta e Seya l’aveva sempre amata.
«Ora sappiamo dove ormeggia la barca. E anche se si arrabbierà come ha fatto oggi non perdere le staffe. Ma ti pare che queste cose debba dirtele io? Sei uno psicologo o no?!». Lei si lasciò andare ad una risatina e lui la seguì a ruota.
Erano seduti in riva al mare, con i piedi affondati nella sabbia e i capelli scompigliati dal soffio del vento.
Se quella fosse stata una baia nascosta e incontaminata e si fossero messi a cercare le conchiglie probabilmente Michiru avrebbe pensato di essere tornata alle Hawaii.
«Lo hai sentito…tuo padre?» domandò lui, sviando il discorso all’improvviso.
Michiru si perse a guardare l’orizzonte e tra i granelli di sabbia le dita di Seya intercettarono le sue.
«È troppo preso dalla sua amata base militare Hawaiana. Chissà dietro quale complotto di stato è impegnato…». Seya avrebbe voluto chiedergli di sua madre ma lei sembrò rassicurarlo all’istante.
«Ma va bene così. Sai com’è…ogni volta che apre bocca quell’uomo non fa altro che farmi sentire inadeguata. È meglio così. Ci vedremo al ringraziamento e andrà benissimo così».
«Sono…ancora invitato?».
Uno stormo di gabbiani si posò sul pelo dell’acqua. I lunghi capelli mori di Seya gli agitati dal vento gli coprirono parte del viso.
A Michiru venne in mente il cielo nero cosparso di stelle sulla spiaggia la notte del loro matrimonio e poi, come un fulmine a ciel sereno, nei suoi ricordi quelle stesse stelle si ritrovarono ad esploderle nel petto riportandole alla mente quel bacio taciuto da Haruka.
Una chiamata la ridestò. Michiru scostò la mano da quella di Seya per vederne il mittente.
Scusa, lavoro. Mimò con le labbra per poi rispondere.
 
Lui aveva avuto una sensazione. Si era sentito come se avesse recuperato terreno, come se non fossero mai andati via dalla loro isola, come se le distanze si fossero in qualche modo accorciate e i vuoti colmati.
«Seya» la voce di Michiru si confuse con le scrosciare delle onde. «Devo andare al lavoro».
«Vengo con te» si alzò perentorio, scrollandosi la sabbia dai pantaloni e riprendendo le proprie scarpe.
«No, non occorre. Ti avrebbe chiamato Setsuna».
Lei intercettò uno sguardo deluso e non poté fare a meno di prendergli la mano.
«Vai da Hotaru, ok? Così Bunny avrà la serata libera. Ci vediamo a casa, ok?».
«Okay».
Michiru lo salutò con un cenno della mano e nel momento in cui gli voltò le spalle, lui si rese conto che la distanza colmata non bastava. Era già lontana anni luce, di nuovo.
 
 
Al 30745 Pacific Coast Hwy a Malibu si trovava uno dei supermarket più in voga della cittadina californiana.
I Vintage Grocers erano luoghi troppo chic per un tipo come Haruka Ten’ō.
«Non è un semplice supermercato, no. E’ una vera e propria esperienza di vita questa» recitò la bionda come uno spot televisivo per poi sventolare il proprio smartphone per aria.
Ray e gli altri due ragazzetti della SWAT di cui la bionda si ostinava a non imparare il nome proprio, risero come un branco di pecore alla sua battuta.
«Ma dai, guardate che sito!» rincarò la dose con fare da sfottò fino a che non venne avvicinata da Mamoru.
«A me piace, credo sia il miglior supermercato della città».
«Ecco il dottor fighetto» borbottò suscitando un’ilarità incontenibile in Ray che quasi si cappottò oltre il cofano del blindato nero lucente.
Il moro si abbassò per sistemarsi i lacci degli anfibi. «Guarda che è bello sul serio…» tentò di convincerla lui col suo solito modo gentile. «Ci puoi anche pranzare e poi è sulla spiaggia. Hanno delle cose ottime e prodotti stagionali. Le uova vengono dalla fattoria di-».
«Ehm, stop». Haruka lo fermò con un gesto della mano. Sembrava una di quelle movenze tipiche dei film in cui la ragazza del ghetto si toglie gli orecchini prima di cominciare una vera e propria rissa.
«Io da un supermercato mi aspetto di fare un semplice spesa. Una cosa veloce. Fiocchi d’avena per la colazione, latte e bistecca per la cena. Se voglio fare colazione, non vengo qui…».
«Ti dico che la qualità è superiore, tutto qui».
Haruka si accigliò perché il novellino l’aveva messa a tacere. Tutti i ragazzi della squadra rimasero con il fiato sospeso.
«Lo ripeto. Sembri una di quelle casalinghe disperate fissate con il bio e la roba vegan. Non fa bene alla tua virilità».
«Ten’ō» il richiamo di Setsuna sedò sul nascere una possibile discussione.
«Che state combinando?» chiese a denti stretti la donna.
«Facciamo conversazione mentre aspettiamo che finiscano di transennare».
Setsuna la guardò come si guarda un invertebrato. «Potreste prestare la vostra forza lavoro per montare il campo…».
«Vuoi dire che faremo campeggio?».
«Vuol dire che credo andrà per le lunghe. C’è un mucchio di gente lì dentro».
Haruka parve contrariata.
«Che c’è? Ti perdi l’aperitivo?!».
Si. Doveva ammetterlo. Stava proprio pensando che avrebbe fatto tardi. E Rei odiava quando lei era in ritardo. Haruka non ne voleva sapere di una ramanzina anche perché aveva organizzato lei stessa la serata proprio per evitare intoppi.
Setsuna portò le mani ai fianchi e sospirò.
«Adoro questo supermercato…» constatò con fare quasi dispiaciuto.
«Ma non mi dire…» commentò acida Haruka, beccandosi così un’occhiata interrogativa da parte dell’altra.
«Siete proprio due anime gemelle tu e coso».
«Deduco tu ti riferisca a Mamoru».
«Deduci bene» rispose con la faccia da schiaffi per voltarsi e tornare dal proprio team.
 
E la vide. Michiru, un paio di jeans strappati a vita alta, i sandali e un top a fiorellini.
Il cuore di Haruka ebbe un sussulto.
«Ci sono, ci sono!» esclamò Michiru con fiato leggermente grosso.
Aveva camminato velocemente, Haruka lo notò dalle sue gote arrossate.
«Mediatore sul posto. Cominciamo» annunciò in tono deciso Setsuna alla squadra di poliziotti e investigatori.
«Hey, Hollywood».
«Hey, Haruka» lo sguardo di Michiru cadde inevitabilmente sulle labbra della bionda.
Non pensare. Concentrati sul tuo lavoro Michiru. Era solo un gioco. Uno scherzo. Uno stupido bacio.
«Sei carina, stai bene così». Michiru si sentì avvampare nello stesso modo in cui la prima cotta a scuola ti fa un complimento inaspettato.
«Hai fatto shopping?». Non che ad Haruka interessasse realmente delle compere giornaliere dell’altra, voleva solo sapere se era stata tutto il tempo con suo marito o aveva fatto a meno di lui. E poi lo aveva notato. Michiru aveva uno sguardo diverso. Un po’ ingenuo e imbarazzato, il che la rendeva ancora più bella agli di Haruka che aveva tutta l’intenzione di catturare la sua preda.
«Ehm…» era una provocazione? Michiru si sentì confusa da tutto quell’interesse. «No, non oggi. Insomma ho preso una cosa a Hotaru…».
«Aaah…e come sta?».
«Scusate?!!. Ten’ō puoi tornare dagli altri decerebrati?». Setsuna aveva interrotto bruscamente quello scambio verbale che aveva visibilmente destabilizzato Michiru.
«T’importuna?» indagò passandole un microfono da mettere all’orecchio.
«No» rispose ridacchiando Michiru. «Ti pare mi faccia mettere in piedi in testa così?».
Setsuna tentò di celare l’espressione dubbiosa che spintonava per comparire sul suo volto. Michiru era una che sapeva come evitare personaggi scomodi, ma Ten’ō era un osso duro. Se si metteva in testa qualcosa non mollava ed arrivava a sfinire la gente pur di ottenerlo.
«Forse dovremmo mandarla nelle zone di guerra per gli interrogatori…» pensò a voce alta.
«Chi? Di cosa stai parlando?».
«Di Ten’ō. Sfinirebbe anche un terrorista».
«Hey, Hollywood» Haruka si sbracciò e lesse nello sguardo di Setsuna una scintilla omicida. Ma non se ne curò, in fin dei conti adorava punzecchiarla. «A te piace fare la spesa in questo posto?».
«ABBIAMO UN BAVAGLIO!?». La più grande perse la pazienza scatenando le risate della SWAT e di un paio di agenti.
Anche Michiru rise e si sistemò i capelli in una lunga coda per poi fare segno ad un agente di essere pronta.
Setsuna riprese il controllo e le porse un telefono. «Si sono chiusi lì dentro. Non sappiamo quanti sono. Sono armati. All’interno del locale siamo riusciti ad indentificare cinque civili. Ho richiesto la lista del personale per capire quanti sono».
«Hanno esaudito richieste?».
«Il tuo numero di telefono!» fece il galletto Haruka.
«No» la ignorò Setsuna. «Ma tra poco farò io quella di aprire il fuoco su Ten’ō se non la smette».
«Ok, chiamiamo questi gentiluomini» ordinò Michiru attendendo che qualcuno rispondesse all’altro capo.
Haruka si appoggiò con il gomito al cofano del blindato.
«È sexy quando chiama i cattivi, vero?». Si aspettava una risposta da Dan e per un attimo rimase quasi delusa dal non riceverla. Era con lui che era solita fare la spaccona e tutte la sua sequela di battute.
«È una bella donna, si». Era Mamoru ad aver parlato e Haruka non seppe come reagire, se non virando altrove la conversazione. Non aveva alcuna intenzione di confidarsi con lui o di parlare delle curve di Michiru Kaiō.
«Dì un po’ Casanova…» tornò in posizione eretta per poi arricciare le labbra. «Ce l’hai la ragazza? O sei il tipo più adatto al matrimonio?».
Mamoru fu sorpreso da quella domanda. Soprattutto perché non sembrava contenere alcuna presa in giro e per quel che conosceva la sua collega pareva una cosa singolare.
«Non sono sposato. Non più».
«Ha voluto il divorzio perché sei uno noioso?».
«Ti sembro un tipo noioso?».
«Onestamente? Si. Una palla…» la sentenza venne sputata senza peli sulla lingua.
Mamoru non parve offeso da quella affermazione.
«Apprezzo la sincerità. E non ho divorziato…» sorrise mesto. «Sono vedovo».
Haruka si pentì di essersi fatta prendere la mano. Era stata indelicata, come sempre. Ma per essere fedele a se stessa non avrebbe chiesto scusa per la domanda. Di solito era Dan che mediava ai suoi “danni” non voleva dover essere lei a farlo. Sarebbe significato non averlo più accanto e quella non era un’opzione.
«Ti combino un appuntamento».
«Eh? Ma io…».
«Se è vero che non sei un tipo noioso, accetterai la mia proposta».
Mamoru boccheggiò preso in contropiede.
«Niente d’imbarazzante. Vai a uno speed date, così non è una di quelle cose a due costruite a tavolino eccetera. Fai finta di essere lì per caso e ci sarà anche lei».
«Ma lei chi?».
«Un’amica di Michiru. Tranquillo. É…bionda». Ad Haruka non venivano in mente aggettivi più entusiasmanti per descrivere Usagi, pensando che chiunque sarebbe scappato se avesse saputo in anticipo di che piaga sociale stesse parlando.
«Bionda? Che vuol dire bionda?».
«Ohi, hai respirato troppi virus in laboratorio? Bionda. Con i capelli tipo…Pamela Anderson».
«No, si ho capito. Ma perché stai facendo quel gesto…».
«Quello delle tette? Oh perché se penso a Pamela mi vengono in mente prima di tutto quelle. Si, scusa».
Mamoru rimase interdetto. Non sapeva se esserlo di più per l’imitazione delle rotondità dell’attrice, per il tipo di donna che avrebbe dovuto aspettarsi o se per la collega a cui in qualche modo affidava la sua vita. Perché era così che funzionava, una squadra di artificieri metteva la propria esistenza nelle mani dei propri compagni. Nessuno poteva fidarsi di una bomba.
 
«Sono l’agente Michiru Kaiō, con chi ho il piacere di parlare?».
La voce di Michiru interruppe la strana conversazione tra i due e Haruka non poté far a meno di avanzare di qualche passo. Come faceva a farlo? Sembrava conversare con un amico più che con un malintenzionato.
«Trump? Come il presidente degli Stati Uniti? Carino…vorrei parlare con chi comanda lì. Sono qui per aiutarvi perché sono certa che voi vogliate qualcosa…».
«Come sa che vogliamo qualcosa?». La voce all’altro capo del telefono era di un uomo.
«Perché ogni essere umano, vuole qualcosa…è insito nella nostra natura».
«Lei cosa vuole agente Kaiō?».
Ad Haruka si gelò il sangue. Ma Michiru sembrava perfettamente a suo agio. Una negoziazione poteva durare ore, altre giorni interi. Ma tutti all’inizio facevano così. Tutti le chiedevano fatti personali per rompere il ghiaccio. Solo uno sprovveduto perché in preda al panico avrebbe cominciato direttamente con una lista di desideri da sottoporre al genio della lampada di turno.
«Vorrei essere altrove…magari con mia figlia a casa…o…».
Haruka incrociò lo sguardo con quello della mediatrice.
«Con qualcuno che mi piace, a bere un bicchiere di buon vino vista spiaggia».
Dall’altro capo del telefono solo il respiro dello sconosciuto.
«Perciò facciamo così…».
Haruka non riusciva a staccarle gli occhi di dosso, come se le pupille si fossero incollate lì, incapaci di vedere qualsiasi altra cosa.
«Avete venti minuti e poi vi richiamo. Mi dite cosa volete e vedo cosa posso fare per voi. Ognuno ottiene quel che vuole».
Michiru chiuse la telefonata, tolse il microfono ed espirò a lungo. Anche Setsuna parve ricominciare a respirare. Sembrava essere rimasta in apnea per tutta la conversazione.
«Ottimo lavoro».
«Abbiamo appena cominciato Sets-».
La più grande le poggiò una mano sulla spalla. «So che finiremo anche in modo ottimo». Lasciò cadere tutte le aspettative sulle spalle dell’altra, poi si allontanò per recuperare la lista dei dipendenti del supermercato.
Michiru gettò un’occhiata all’orologio da polso e sollevo il capo solo nel momento in cui la coda dell’occhio intercetto gli scarponi di Haruka.
«Racconti loro sempre cose vere?».
L’altra fece spallucce. «Il più delle volte».
«Perché non menti mai?».
«Perché un bugiardo sa fiutarne un altro. E la maggior parte di quella gente fa cose di questo tipo mentendo a sé stessa».
«Bella teoria, Hollywood».
«Che ci fai qui?».
Haruka tentennò. Intendeva sul posto o a parlare con lei? Optò per la prima.
«Sono armati. Potrebbero avere dell’esplosivo o anche no…ma…ci sono armi e noi ci siamo».
«Mh…». Michiru sembrò assentarsi per un momento. «Intendevo qui. Perché mi stai intrattenendo?».
«Per quel bicchiere di vino. Quello sulla spiaggia» rispose candidamente. «Se facciamo in tempo, vieni a berlo con me».
Le labbra di Michiru s’incurvarono appena. «Gli ho detto che vorrei andarci con una persona che mi piace».
Probabilmente chiunque si sarebbe tirato indietro a quell’affermazione, o comunque solo i più sicuri di sé avrebbero avuto il fegato sufficiente a non sentirsi indesiderati.
Haruka aveva abbastanza faccia tosta per risultare boriosa piuttosto che codarda e nemmeno davanti alla morte si tirava indietro. Un rifiuto non l’avrebbe di certo uccisa.
«Insomma, Hollywood. Mi stai forse dicendo che io non ti piaccio?».
Un brivido percorse la schiena di Michiru, facendole perdere un po’ di quel sangue freddo avuto sino a quel momento al telefono.
 
Mi piace? Haruka, mi piace?
 
 
§§§
 
 
Era ormai il tramonto. L’imbarcazione di Yaten galleggiava placida sul pelo dell’Oceano.
Erano al centro del nulla blu. Minako non scorgeva più la costa californiana. Solo un’immensa distesa liquida dinnanzi a loro.
Il vento si era calmato e la superficie pareva piatta come una tavola.
Erano rimasti in silenzio da quando avevano lasciato il porto. Minako aveva intuito dagli stralci di conversazione che Yaten non doveva avere una situazione rosea alle spalle e a lei non andava di riaprire le ferite di qualcuno. Così si era seduta e aveva cominciato a pizzicare le corde del proprio strumento.
In quel silenzio per un momento si scordò della presenza dell’altro come se fosse solo lei e il mare, senza alcun pensiero.
«Without you there's holes in my soul. Hey, hey, let the water in. Where ever you've gone? How, how, how?». Cantò con un filo di voce.
Yaten reclinò la testa contro l’albero. Socchiuse gli occhi e si perse in quelle parole. Come se riuscissero a riempirgli d’aria i polmoni.
Qualcuno se l’era davvero domandato dove se n’era andato quando era sparito?
«I just need to know…That you won't forget about me. Where ever you've gone?». Forse aveva bisogno di sapere se qualcuno si sarebbe ricordato di lui se fosse andato lontano di nuovo.
«And I get lonely without you, and I can't move on…».
Si alzò e la guardò. E si rese conto di un’ innegabile verità. Lei era come le maree che l’avevano cullato nelle notti di navigazione solitaria. La sua voce, era come quelle onde placide che bussavano piano contro il fianco della barca.
Era il fascio di luce lunare che rompeva l’oscurità dell’Oceano quando al largo non scorgeva alcun lume.
«And I get lonely without you, I can't move on. Move on». Sembrava crederci davvero in quelle parole. Stava soltanto cantando? O si sentiva sola senza di lui? Qualcuno poteva sentire la sua mancanza per davvero? E se fosse stato lui quello che aveva bisogno di lei? Ma lei era solo una sconosciuta con una chitarra acustica e la voce di un angelo.
Yaten si sentì destabilizzato, ma non era mal di mare. Lui non lo soffriva.
«Smettila». La ragazza si bloccò d’improvviso stroncando a metà un accordo.
Forse gli aveva dato fastidio, magari lui era salpato in cerca del silenzio e lei aveva rotto quella pace cantando.
«Devi metterti questo» sembrò aggiustare il tiro lui passandole qualcosa di un colore arancione fosforescente.
Minako assunse un’aria stranita per poi rigirarsi fra le mani l’oggetto.
«È un salvagente. Siamo in mare aperto, bisogna sempre averlo addosso anche se si sa nuotare».
«Oh. Okay» sibilò lei indossandolo prontamente.
«L’abbiamo rubata?» domandò poi.
Yaten la guardò senza capire a cosa si stesse riferendo.
«La barca» puntualizzò lei. «L’abbiamo rubata? Devo aspettarmi che ci vengano a prendere e ci mettano in manette?».
«Non l’abbiamo rubata. È mia la barca!» protestò lui.
«Ti credo sulla parola?».
Yaten l’afferrò per un braccio. «Te lo mostro» disse trascinandola sotto coperta.
Un paio di scalini e Minako si ritrovò in una piccola cabina adibita a studio di registrazione.
«È un po’ rudimentale ma c’è tutto quello che serve» si sbilanciò lui.
«Wow». La ragazza riuscì ad emettere solo quel suono tanto era meravigliata per ciò che si trovava davanti.
Yaten aveva ragione. Non mancava di nulla. C’era un mixer, la sua tastiera, un tappeto colmo di spartiti, una divanetto, una parete insonorizzata, un piccolo amplificatore con sopra poggiate un paio di cuffie.
«Chi altro potrebbe avere questa roba su una barca?».
«Potresti essere un abusivo» ridacchiò lei prendendolo in giro. L’espressione del ragazzo però non mutò in divertita, rimase tremendamente seria, quasi tirata.
«Dai Yaten sto scherzando! È bellissima». Minako portò le mani dietro alla schiena facendo una piccola giravolta su se stessa.
«Dunque…è qui che abiti?».
Lui accennò un sì col capo. «Di là c’è un bagno e la cuccetta dove dormo».
«Che figata» si lasciò andare lei.
Lui sembrò entusiasta di quella reazione.
«Se vuoi potremmo comporre qui. Anziché prenotare uno studio. Risparmieremmo un bel po’ di soldi».
«Credo sarebbe perfetto» sorrise lei in preda all’emozione.
Soddisfatto, Yaten, le offri un’aranciata dal mini frigo. A Minako parve sciogliersi un po’, poiché si sbilanciò in una sorta di brindisi silenzioso facendo sbattere la propria lattina con quella della ragazza.
«Che dici…torniamo indietro? Ormai si è fatto tardi. Possiamo cominciare col nostro progetto domani…se ti va».
Minako dovette trattenersi dall’urlare di gioia. Certo che gli andava e poi, cosa poteva chiedere di meglio? Vedere due giorni di fila Yaten non aveva prezzo. Sarebbe stata una pazza a non accettare, così rispose con un tale impeto del capo che le bollicine della bevanda le andarono su per il naso pizzicandole le narici e provocandole un secco colpo di tosse.
«Tutto okay?» domandò preoccupato avvicinandosi. Rimase indeciso se toccarla o meno, poi lasciò i ragionamenti da parte per darle una pacca leggera tra le scapole.
«Era un sì!» si affretto a precisare lei.
«Cavolo non ti ho mica chiesto di sposarmi».
Lei arrossì e poi si ritrovarono a ridere per nulla all’unisono. Di certo quel momento sarebbe stato uno dei migliori da incidere in quella stanzetta se solo la musica avesse potuto descriverlo.






Note dell'aturice:
Come previsto non ho avuto il tempo di finire il capitolo, perciò questa è solo una prima parte e spero al più presto di riuscire a buttare giù la seconda per poi pubblicarvela. Intanto, mi pareva giusto non farvi aspettare oltre e spero che vi piaccia.
La canzone cantata da Minako è "Don't Forget About Me" dei Cloves. 
Per quanto riguarda il contest indetto sulla mia pagina FB per la scelta della canzone che "scriveranno" Minako e Yaten ha vinto "Broken Strings" di James Morrison e Nelly Furtado.

A presto!! 

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Capitolo 10
*** Bivi - Parte II ***


Alcuni l’avevano definita una disgrazia, altri, un dono.
Makoto ci aveva messo un po’ ad interpretare ciò che le era accaduto nel secondo modo, anziché arrabbiarsi e maledire il destino.
In realtà le prime settimane era stato così. Era circondata da sconosciuti e le poche parole che sputava erano tanto colme di rabbia da essere irripetibili oltre che cozzare con la sua personalità.
Poi erano arrivati loro. Una marmaglia di nomi e facce mai viste prima che l’avevano accolta nel proprio cerchio. Un circolo segreto nel quale la storia di ogni singolo era quella di tutti gli altri e sentirsi soli non era un’opzione.
Makoto era nata due volte. Makoto aveva avuto il dono di avere due vite e della prima portava con sé solo un ricordo fuggevole; qualcosa di quasi inesistente.
«Grazie a tutti per essere venuti oggi e aver condiviso le vostre storie con noi, ora sono di tutti. Al prossimo mercoledì».
La voce della coordinatrice del gruppo di sostegno risvegliò dal trans in cui era caduta Makoto forse troppo velocemente. Lei era ancora lì, attaccata alla propria sedia come si fa quando non si vuole scivolare in un abisso.
«Ti senti bene?».
La ragazza castana sollevò d’istinto il mento riuscendo finalmente a scorgere i tratti della donna più grande che le si era avvicinata con una cartellina blu stretta al petto.
«Sì, tutto ok. Ho solo…» Makoto tentennò un momento, poi portò la mano in alto sulla gamba sinistra ed espirò profondamente. «Ho solo male alla cicatrice» la rassicurò con un sorriso.
«Posso lasciarti seduta ancora un pò se non te la sent-».
«Non occorre!» scattò in piedi come un fuso. «Sto bene» sottolineò ancora una volta agguantando la sua tracolla.
«Ci vediamo mercoledì».
Eleonor, la matriarca del gruppo la salutò con un cenno della mano.
 
Makoto uscì in strada, salutando con sorrisi di circostanza e cenni disseminati i partecipanti dell’incontro.
Doveva andare ad aprire il bar ed era in ritardo, ma non poteva saltare quell’impegno. Era l’unica cosa che le ricordava di non aver subito un’ingiustizia ma una seconda possibilità.
Lei era forte ed era nata due volte. Come una dea.
 
 
§§§
 
 
Il sole si distendeva sull’orizzonte e Rei era arrivata perfettamente in orario a Malibu Beach.
Amava quel momento della giornata. Lo scrosciare delle onde sulla battigia e i riflessi lucenti sul pelo dell’acqua rendevano magico quella perla incastonata nell’oceano.
Nessun sms da parte di Minako e non una parola da  parte di Haruka, nonostante fosse stata “l’organizzatrice” della serata. Me se il secondo caso non la sorprendeva, il primo invece la metteva in allarme. Rei inspirò ed espirò a fondo. Erano soltanto dieci minuti di ritardo ma arrivata a venti avrebbe allertato la guardia costiera oltre che la polizia, poiché Minako Aino non taceva nemmeno via smartphone così a lungo.
Una manciata di ragazzi le passò chiassosa alle spalle. Ridevano e si spintonavano come fosse il loro modo naturale di passeggiare per strada.
Rei chiuse gli occhi e per un momento ritrovò la sua terra. L’odore acre dei sigari, il profumo della piña colada e quello delle distillerie artigianali di Rum. I colori sgargianti, l’umidità e il riso bruciato. Gli occhi splendenti di sua madre e le canzoni ritmate ballate per strada.
Riaprì gli occhi d’improvviso come se istantaneamente dovesse riemergere da una lunga apnea e nel suo campo visivo entrò una figura alta dai capelli castani rilegati dietro alla nuca.
L’uomo si avvicinava al chiosco di Makoto e lei non lo aveva mai visto prima. Fece per muovere un passo in direzione dello sconosciuto, presa dal suo senso di responsabilità quando una risata cristallina riecheggiò dal molo.
La coda dell’occhio catturò l’istantanea di Minako presa a scendere da una barca. Il ragazzo dai capelli argentei che aveva visto di sfuggita al falò le tendeva la mano per aiutarla come un prode cavaliere. Sembravano usciti da una di quelle commedie romaniche che fanno tanto battere i cuori e piangere le ragazze davanti ad uno schermo.
 
«Sicuro di non voler venire?» domandò Minako una volta poggiati entrambi i piedi sulla terra ferma. Avrebbe voluto prolungare quel contatto di dita in eterno, sebbene si rese conto che Yaten le aveva teso la mano perché l’aveva già immaginata con la testa sott’acqua a far le bolle in mezzo ai pesci e non sana e salva sulle assi fradice del molo.
Yaten tentennò rimanendo così in silenzio. Ritrasse il palmo dal suo per allungarle la custodia contenente la chitarra.
«Alle mie amiche non dispiacerà, puoi star tranquillo».
«Magari un’altra volta» borbottò con un filo di voce, preoccupandosi di ormeggiare a dovere la propria barca.
«Allora ci vediamo domani?».
«Stesso posto, stessa ora».
Minako lo salutò con un cenno della mano, si sistemò lo strumento sulla spalla e vedendo lo sguardo di Rei vegliare su di lei come un falco le riservò un sorriso.
Yaten rimase in piedi a guardarla allontanarsi, in balia dell’ondeggiare causato dalla marea in porto. Non era mai stato un animale da compagnia e spesso vi aveva trovato conforto nel silenzio, ma qualcosa, qualcosa che lui non avrebbe saputo esprimere ancora nemmeno su uno spartito musicale, aveva preso a scavare come il più ostinato dei tarli dentro di lui.
Sentì il fantasma delle dita di Minako tra le sue e avvertì una singolare stretta al cuore. Come quella della nostalgia di casa nel momento in cui vide sparire nel buio le coste Hawaiane durante la sua fuga da un posto che riusciva solo a farlo sentire più piccolo e mai gli avrebbe permesso di crescere a dovere.
«MINAKO» urlò tanto forte da sentire la sua voce riecheggiare e per un attimo ebbe l’impressione che tutti gli sguardi dei passanti puntassero dritto su di lui.
L’azzurro delle iridi della ragazza lo investì in pieno. Un colpo di pallottola sparato dritto all’altezza del petto. E alla strana sensazione di poco prima si aggiunse quella di vertigine. Forse era stato troppo a lungo in barca e ne stava risentendo. Ma qualunque fosse la ragione non ci spese troppo tempo sopra e senza rendersene conto abbatté il primo mattone di quel muro invalicabile che aveva costruito tutto attorno a sé. Con un balzo i piedi abbandonarono la sua casa sull’acqua per trovare sicurezza sul legno scivoloso del porto.
«Aspettami» disse solo mentre la raggiungeva.
La ragazza ubbidì. Non esalò un suono come se la cosa detta in modo sbagliato potesse farlo ritrarre e scappare.
Attese solo che i passi dell’altro potessero unirsi a suoi.
 
 
§§§
 
 
Le infradito di Makoto affondarono nella sabbia senza far rumore. Fu lei ad arrivargli alle spalle e sebbene lo avesse visto una sola volta era certa di chi si trattasse.
Strano. Pensò tra sé e sé. Lei non aveva una particolare memoria visiva eppure quell’immagine era come se facesse a lungo parte della sua routine. Come succede quando hai vissuto per tanto tempo con un’altra persona e la riconosci senza aver bisogno di vederla. Magari ne conosci il peso dei passi o sai a memoria i gesti che compie. Ed esattamente in quel modo la linea delle sue spalle forti era disegnata in modo limpido nei pensieri di Makoto.
La ragazza fu sorpresa di ritrovarlo lì. Aveva davvero ascoltato quando lei aveva straparlato su dove lavorasse.
Devo preoccuparmi? Si guardò attorno, senza trovare la sua compagna di “marachella” Usagi.
Inspirò a fondo, guardò ancora una volta la figura seduta sulla sabbia e decise di aprire il bar facendo finta di nulla.
Lui lasciò passare qualche minuto per poi alzarsi. Si scrollò i granelli di sabbia dai pantaloni di lino leggero per poi stagliarsi con tutta la sua altezza verso il bancone del localino.
Makoto rimase con un braccio a mezz’aria per accendere le lucine appese al tetto ricoperto in paglia, ma completò lui quell’operazione.
«Faccio io».
Lei rimase pietrificata. Incapace di muovere un solo muscolo come in presenza di un orso bruno sul sentiero nel bel mezzo della foresta.
«Non pensavo apristi così tardi» dichiarò lui accomodandosi sullo sgabello sistemato dinnanzi alla postazione del barista.
«Non lo faccio di solito. Oggi è stato un…caso» era imbarazzata. Tesa come una corda di violino. Era indecisa se il centauro, più che un nuovo vicino fosse in realtà uno stalker come aveva predetto Usagi.
«È carino qui».
«Grazie».
«Qualcosa non va?» domandò lui.
Makoto ebbe di nuovo quella sensazione. Quella di non essere un mistero ma la pagina di un libro che si conosce a memoria.
«Stavo pensando che…» il cervello dovette realmente elaborare qualcosa di sensato da dire. «Non so il tuo nome. Io mi sono presentata ma tu no».
Lui sorrise e qualcosa in quell’istante si sbloccò in Makoto. In cuor suo sapeva che quell’incurvatura era come un fiore nel deserto, troppo rara per essere avvistata normalmente su quei tratti squadrati.
«Puoi chiamarmi Nev».
Il nome, come la chiave per un lucchetto di guardia a qualche segreto dentro di lei, sbloccò un eco lontano.
Le labbra di Makoto avevano pronunciato quel nomignolo un’eternità di volte. Ma non se lo ricordava, non sapeva nulla di più. Aveva solo quella sensazione sbiadita che possedeva le sembianze di un ricordo.
«Tutto ok?» indagò preoccupato lui.
Quello sguardo freddo e tagliente che si ammorbidiva le faceva girare la testa come se si trovasse in alto mare.
«Si». Makoto riprese il controllo di sé stessa. «Oggi è stata solo una giornata un po’ stancante» lo ragguagliò prendendo ad occuparsi dei bicchieri da asciugare.
«Allora, pasticcere…la mia torta ha superato la prova?».
«Sì, è stata una buona prova. Ma vorrei assaggiassi una delle mie».
«Vuoi forse umiliarmi?».
«No, voglio un parere sincero e spassionato su un dolce che ho studiato per notti intere».
L’espressione di Makoto si fece sorpresa. Si trovava a metà tra la diffidenza e l’essere totalmente spiazzata ma in maniera positiva.
«Come sai che sarò sincera sul mio giudizio?».
Lui si morse la lingua. Bloccò sul nascere qualcosa che sapeva di non poter dire. Non aveva mai coltivato la pazienza, ma sapeva essere necessario in quel frangente.
«Hai l’aria di esserlo» tagliò corto senza troppi giri di parole.
«Ti aspetto in pasticceria domani, ci stai?».
Makoto fece un timido cenno di assenso col capo. Aveva come l’impressione di starsi per cacciare in un grosso guaio eppure non riusciva a fermarsi. Qualcosa in cuor suo la spingeva a dar corda a quello sconosciuto.
«Tieni» le passò qualcosa strisciandolo sul bancone.
«Cos’è?».
«L’indirizzo».
Makoto abbandonò lo strofinaccio per guardare il biglietto da visita.
Nevius. Era il suo nome completo e qualcosa esplose nella sua testa come una bomba.
Una serie d’immagini, frammenti di quella vita precedente di cui aveva perso ogni traccia.
New York. La neve. E quel nome scritto con la penna stilografica.
Indietreggiò, barcollando appena per poi fermarsi contro la lavastoviglie alle sue spalle.
Lui era svanito come un fantasma, non era più seduto dinnanzi a lei. Fu solo il rombo di una moto in partenza che le diede la certezza di non essere impazzita.
 
§§§
 
 
«Dove cavolo si è cacciata Haruka?» Rei era visibilmente scocciata. Continuava a guardare ossessivamente la strada e a battere le dita sulla superfice del tavolino.
Minako scossò la testa guardando Yaten con lo sguardo di una che lo ragguaglia sul fatto di non fare caso alla situazione.
«Adesso arriverà, lo sai che ha un lavoro imprevedibile». Tentò di calmarla la bionda.
«Beh, anche il mio lo è» ribatté la mora per poi aggiungere «però io sono sempre puntuale».
Yaten non aveva idea di come comportarsi, così optò per nascondere la faccia nella carta del menù alla ricerca di qualcosa da ordinare.
Perché mi sono cacciato in questa cosa?. Il suo pensiero non trovò risposta ma venne interrotto ancora una volta dalle voci delle due amiche.
«Eccola!» esultò Minako puntando un dito verso il lato opposto della strada.
Rei si voltò per seguire la scia invisibile disegnata dalla falange dell’altra e quasi cadde dallo sgabello quando intravide l’amica.
Non seppe mordersi la lingua e sputò veleno senza pensare al nuovo arrivato.
«Perché c’è quella con lei?».
Haruka sembrava divertita e con le mani in tasca aveva tutta l’aria di essere rapita da quello che la sua bellissima accompagnatrice le stava dicendo. Pendeva dalle sue labbra e Rei non poteva sopportarlo.
«Quella, è mia cognata» sbottò Yaten.
Rei non seppe se sotterrarsi per la figura appena fatta o fare i salti di gioia perché la parola cognata presupponeva che la ragazza fosse sposata o quanto meno accompagnata.
 
«Mi dici come fai?». Per la prima volta nella sua vita Haruka era sinceramente colpita e smaniosa di tirar fuori i conigli dal cilindro.
«A fare cosa?» ridacchiò Michiru rispondendo con un'altra domanda.
«A risolvere questo tipo di situazioni. Come fai a sapere cosa devi dire?».
Michiru fece spallucce, faticava a dare una spiegazione con le parole ad una cosa che per lei era naturalissima.
«In fondo siamo tutti uguali, Ten’ō».
«Tu dici?» lo sguardo di Haruka si fece d’improvviso scettico fino a che fermò la sua camminata per avere una spiegazione più esauriente dalla sua accompagnatrice.
«Vogliamo tutti le stesse identiche cose».
«Non credo di voler le stesse cose di un criminale».
Michiru le fece segno con la mano di lasciarle il tempo di spiegare, zittendola d’imperio.
«Il punto non è essere un nuotatore, un poliziotto, una casalinga o un rapinatore» sospirò interrompendo per un secondo la sua riflessione. Gli occhi cerulei di Haruka puntati su di lei le mettevano i brividi. «Il punto è che tutte queste categorie, noi comprese, siamo esseri umani. E gli esseri umani, in qualunque modo tu voglia catalogarli, alla fine dei giochi vogliono le stesse identiche cose».
«E io Hollywood? Io, cosa voglio?» inquisì la bionda.
«Le stesse identiche cose dei malviventi che erano chiusi là dentro» disse con tono sicuro di sé Michiru.
«Libertà».
Haruka era la prima ad averla desiderata, lasciandosi alle spalle una vita piena di costrizioni.
«Amore».
C’era sempre un piccolo pensiero riservato a Sarah e poi la volontà di ritrovare la sua vera madre che l’aveva spinta sino a lì e le innumerevoli compagne di una notte che sopperivano alla mancanza di una figura fissa nella propria vita da amare.
«Speranza…e potrei ancora continuare».
Haruka doveva ammetterlo, Michiru ci sapeva fare.
«Perciò se mi chiedono un elicottero, una moto, un camion o quant’altro vogliono fuggire verso la loro libertà, se rilasciano degli ostaggi hanno compassione e probabilmente qualcuno che a casa li aspetta e li ama…».
«E la speranza?» la interruppe Haruka ancora una volta.
«Quella è la scintilla che li tiene in vita anche quando il loro piano si sta frantumando sotto ai loro piedi. Sono io che gliela do…».
«Perciò hai il mondo in mano!» ironizzò Haruka.
«Si più o meno!» rise di gusto Michiru.
 
Fu solo nel momento in cui fermarono la loro conversazione che Haruka si rese conto di essere osservata piuttosto insistentemente. Le labbra si schiusero in una smorfia di presa di coscienza. L’aveva fatta grossa, con tutto quel trambusto e soprattutto troppo presa da Michiru Kaiō si era completamente dimenticata dell’appuntamento.
Minako sventolò una mano in segno di saluto.
Troppo tardi, ci hanno viste.
Haruka tirò un sorriso di circostanza in viso, ma sapeva che Rei non gliel’avrebbe perdonata.
«Ehmm…».
«Una ragazza ti sta salutando» la ragguagliò Michiru. «In modo quasi forsennato…» osservò divertita.
«Ecco, io…».
«Ma quello è Yaten!» proseguì strizzando appena gli occhi per vederci meglio.
«Cavoloooo» mugolò Haruka. «Io me ne ero completamente dimenticata. Dovevo uscire con le mie amiche sta sera ma…».
«Ten’ō». Michiru si stava sforzando di non cedere ad una fragorosa risata. Non l’aveva mai vista così. Per la prima volta quella corazza di sfrontatezza e sicurezza si era sgretolata per un millesimo di secondo dinnanzi a lei. Sembrava che l’Haruka con gli stivali neri e il sorriso smagliante pronto a chiederle il numero di telefono se ne fosse fuggita a gambe levate per lasciarle lì una zazzera bionda in preda al panico per una figura barbina.
«Mi spieghi quale sarebbe il problema?».
«Avevo promesso di esaudire il tuo desiderio di negoziatore. Vino e mare».
«E di grazia…non lo si può prendere in compagnia?».
Haruka sbuffò. Aveva architettato una cosa ben diversa nella sua testa. Ma se questa manche l’avrebbero vinta le amiche, alla prossima non avrebbe certo fallito.
 
«Hey, RUUUUUUUUKAAAAAA!! Siamo qui!!» Minako si sbracciò ancora una volta rischiando per l’ennesima volta di capitombolare, mentre Yaten cercò di farsi piccolo a fianco a lei per evitare gli sguardi curiosi attirati da tutto quel baccano.
«Chi è Yaten?» domandò Haruka avanzando verso il tavolo.
«Il fratello di Seya».
 
Buon Dio, ci mancava solo questa.
 
«Ti sei fatta proprio  attendere sta sera…» commentò Rei facendole segno di sedersi nello sgabello vuoto.
«E la tua amica è…».
«Michiru Kaiō» rispose la giovane allungando la mano da stringere in segno di saluto.
Rei si rese conto di odiare ogni cosa di lei. Persino la voce e quel modo di fare così dolce da risultare quasi stucchevole. Che cosa ci trovava Haruka in lei?
«Io prendo una coca cola» esordì Yaten tentando di porre fine a quella tensione palpabile nell’aria. Rei aveva fatto diventare l’atmosfera elettrica, tanto che a lui parve di sentire il tipico sfrigolio nelle zone sottoposte ai cavi dell’alta tensione.
«Ehm…Michiru questa è Taylor Swift invece» si apprestò a presentare l’amica Haruka.
«In realtà è Minako il mio nome! Tanto piacere!». La bionda si beccò un calcio sotto al tavolo da Rei che la fulminò con un occhiataccia.
«Sei amica di Yaten vero? Ci siamo intraviste oggi» chiese Michiru visibilmente incuriosita.
«Beh noi…suoniamo insieme. Stiamo partecipando a una specie di concorso».
«Dobbiamo scrivere una canzone» intervenne il ragazzo.
«Sul serio!?».
Rei mimò con le labbra l’entusiasmo di Michiru a quella scoperta inaspettata.
«Si può sapere che hai che non va?!» era stata Haruka a sbottare. Si era morsa la lingua da quando era arrivata, ma non essendo una grande detentrice di pazienza era bastato poco per farla esplodere.
La mora rimase di sasso. Da quando si erano conosciute non avevano mai discusso una singola volta o quanto meno, per quanto Haruka fosse indelicata, non si era mai rivolta a lei con una rabbia tale.
«Tutto okay, Haruka?». Michiru le posò una mano sulla spalla come a sedare il suo animo.
«Mi sono stufata. Ce ne andiamo» rispose decisa l’artificiere spostando la mano di Michiru dalla propria spalla per stringerla nella sua.
Un battito forte e inaspettato rimbombò nella cassa toracica di Michiru a quel gesto. La presa dell’altra aveva tanto l’idea di un porto sicuro, in qualche modo di casa.
«Certo, ti stufi sempre presto di tutto tu. Donne e amiche comprese» fu la risposta lapidaria di Rei che con stizza prese il proprio giacchino facendo per andarsene.
Minako era in mezzo a un fuoco incrociato. Era amica di entrambe ma scegliere una fazione era talmente pericoloso che seppe solo imitare Yaten e fissare in silenzio la carta dei drink.
«Oh ma che dici…sei proprio una bambina, Rei». Haruka le voltò le spalle trascinando con sé Michiru incapace di proferire parola.
«No tu lo sei. Hai mollato pure Sarah, l’unica che forse poteva sopportarti…». Rei sapeva di stare esagerando, ma aveva le fiamme dell’inferno dentro. L’amica di sempre, per cui aveva preso una di quelle sbandate che non ti fanno dormire la notte, quella per cui si era buttata senza indugio tra il fuoco di una bomba, stringeva la mano a qualcun altro. Stava difendendo a spada tratta una sconosciuta piuttosto che indagare su come si sentiva lei, la sua spalla. «Probabilmente hai preso dalla tua madre biologica…».
«Rei…». Minako dovette alzarsi, aveva appena previsto una catastrofe.
«Cos’hai detto?». Haruka era pietra.
«Rei, no. Basta così. Andiamo» insistette la convivente in preda al panico.
Ma la mora non demorse. Se poteva ferire un decimo di quanto stava facendo col suo atteggiamento chi aveva davanti lo avrebbe fatto. «Doveva essere una che si stufava facilmente pure lei. E ti ha mollata Haruka. Esattamente come fai sempre tu».
Michiru la sentì tremare. Vide la mascella serrarsi tanto prepotentemente da aver paura si potesse rompere da sola.
«Andiamo, ti porto in un posto» soffiò a bassa voce.
Non sapeva niente di loro. Non sapeva nulla sulle loro storie, ma Michiru era una persona che ricambiava i favori. L’eroe che aveva salvato sua figlia era in difficoltà e doveva sdebitarsi. Portare Haruka via di era in suo potere perciò lo avrebbe fatto.
«Non azzardarti a parlarmi mai più». Furono le ultime parole della bionda rivolte a Rei prima di sparire in fondo alla strada assieme a Michiru.





Note dell'autrice:

Carissime, premetto che il capitolo non mi piace e lo trovo un pò scialbo ma DOVEVO pubblicare perché ormai avevo l'ansia. Ho avuto un blocco nel mezzo ed è successo tutto quello che non doveva succedere ma ehi...è andata così! XD E voi direte "Kat sei fuori di testa, sei tu che scrivi. Cosa vuol dire che è successo quello che non doveva succedere?". Significa che ogni tanto parte la mano matta e i personaggi fanno di testa loro. D'altronde non avevo programmato niente quindi l'improvvisazione fa parte di questa storia! Bando alle ciance e al mio ciarlare...spero di potervi pubblicare un capitolo al più presto. Una piccola anticipazione è che penso ci sarà l'incontro tra Mamoru e Usagi. Ohi ohi...prevedo delle figuracce.

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Capitolo 11
*** Waves - Parte I ***


There is a swelling storm
And I’m caught up in the middle of it all
And it takes control
Of the person that I thought I was
 
Waves – Dean Lewis
 
 
 

 
Malibu riempiva gli occhi col mare e Haruka lo sapeva meglio di chiunque altro. Lei non poteva piangere, le sue iridi erano già colme grazie alla distesa oceanica che le si parava dinnanzi.
Se Haruka si era stancata dell’immenso nulla del Kansas, per qualche motivo l’infinito blu di quella lunga lingua di spiagge l’aveva invece catturata per non lasciarla più andare. Ed ora ruggiva sotto di lei. Con gorgogli sempre più cupi e alti i cavalloni inghiottivano qualsiasi altro suono a El Matador.
Michiru era stata trascinata in quel silenzio violento. Si sentiva affogare in quel blu oltre mare che al calar del sole si tramutava in nero feroce.
Poteva essere uno dei suoi quadri.
Uno dei primi dipinti, di quelli che aveva abbandonato dietro a tutte le altre tele in cui era comparsa una qualsiasi altra sfumatura di colore nella speranza di dimenticare i suoi tormenti.
«Va tutto bene?» Michiru spezzò quel silenzio soffocato dalla marea violenta anche se era conscia di quanto fosse stupida la sua domanda.
La bionda si scrollò nelle spalle. Muta, con lo sguardo rivolto verso l’arco scolpito nella pietra della scogliera. Stava mettendo a posto i tasselli. Cercava di comprendere quali sentimenti fosse lecito provare e quali invece fossero da soffocare nell’immediato.
L’odio non s’insegna a un Amish e forse, lei, nemmeno comprendeva se quello che stava provando nei confronti di una delle sue più care amiche corrispondesse a quell’emozione. Rei era stata velenosa, su quello non sussisteva alcun dubbio in merito, ma odiarla, era concesso?
«Chi è Sarah?» azzardò Michiru senza più mezzi termini.
«Diavolo, Hollywood. Sei proprio una ficcanaso». Sbottò l’altra.
La mediatrice aveva finalmente ottenuto una reazione venendo travolta dallo sguardo dell’artificiere. Un fulmine ceruleo che per qualche arcano motivo la intimoriva. Come se quegli occhi potessero essere una trappola mortale.
«Mi hai portata tu qui». Dovette alzare la voce per non farsi sovrastare dal vento impetuoso e con le mani tentò di tenere a bada i lunghi capelli che tentavano di celarle il viso. «Perciò dovrai quanto meno rispondere alle mie domande» riuscì a dire a gran voce.
Haruka rimase in contemplazione di quel caos, immobile. Come se il freddo violento dell’aria non la colpisse minimamente.
Al contrario Michiru rabbrividì e dopo esser stata schiaffeggiata l’ennesima volta dal vento decise di arrendersi.
«Se le cose stanno così me ne vado». Fece per portare le mani sugli avambracci, decisa a rientrare e a dare il bacio della buona notte ad Hotaru, quando le lunghe dita di Haruka le afferrarono il polso.
Hai vinto. Se avesse voluto essere onesta lo avrebbe detto ad alta voce ma Haruka poteva affrontare una sola sconfitta alla volta per rimanere in piedi, per tanto non avrebbe certo confessato a parole.
«Sono stata adottata» disse tagliente come un coltello. «Sarah è la mia madre amish».
Michiru provò ad immaginare Haruka nella campagna quieta e preda di una vita semplice e rigorosa; non ci riuscì. In un altro frangente probabilmente avrebbe pensato ad una battuta, ma lei sapeva quando qualcuno mentiva e la bionda, per quanto ermetica volesse apparire, aveva lasciato trasparire di essere sincera in quel momento.
Michiru schiuse le labbra, incapace di trovare le parole adatte a quel momento. Avrebbe voluto dirle che le dispiaceva di non aver avuto il suo solito tatto, ma la verità è che in quel momento Haruka le aveva inconsciamente spalancato un portone e lei fremeva per sapere di più. Come se avesse intravisto lo scorcio di un giardino incantevole e poi non le fosse stato permesso di andare oltre.
Inspirò, tacque e la presa di Haruka si fece meno salda sino a sciogliersi completamente.
«Come mai ti piace questo posto?».
«Perché zittisce ogni cosa. Ogni pensiero».
Michiru guardò le palpebre dell’altra socchiudersi e le lunghe ciglia grano accompagnare quel movimento lento e quasi solenne. Haruka ascoltava il vento. Annullava ogni rumore, qualunque tormento.
Michiru ci provò con lei. Si concentrò sulla forza dell’acqua che sbatteva irriverente contro le rocce e in quel momento si rese conto che Haruka aveva ragione. Il frastuono della natura poteva annullare i pensieri e calmare gli animi più impetuosi. Eppure c’era qualcosa. Una piccola stilla che bruciava nel petto di Michiru. Una domanda capace di bussare ininterrottamente alla porta dei desideri sino a costringere il buon senso a nascondersi in angolo buio e remoto. Se in quel luogo avesse commesso un peccato, sarebbe stato cancellato o messo a tacere? La forza del vento avrebbe zittito un bacio proibito?.
«Perché lo hai fatto?» domandò Michiru cercando in tutti i modo di scacciare quel tarlo. Haruka riaprì gli occhi per poi guardarla con sguardo interrogativo.
«Puoi essere più specifica?».
«Perché mi hai baciata? Sulla spiaggia, al festival».
L’aveva presa in contropiede e per essere una con la risposta sempre pronta in quel momento sentì la lingua accartocciarsi contro al palato.
«Una buona causa» tirò un sorriso forzato. Non poteva certo far cadere l’ultimo brandello di orgoglio che si ritrovava e dirle che da quando l’aveva vista non faceva che pensare a come conquistarla.
«Oh quindi è stata beneficenza la tua» rispose piccata Michiru. Era delusa. In realtà non sapeva bene cosa volesse sentirsi rispondere da Haruka, ma ritenne di potersi sentire offesa in ogni caso dalla risposta.
«Non…era quella giusta vero?» sibilò tra i denti l’altra, portandosi una mano alla nuca con fare imbarazzato.
Che casino.
«Che faccia tosta. Ora sul serio, me ne vado».
«No, ma dai…Hollywo-».
Michiru questa volta schivò prontamente la mano di Haruka che rimase ferma a mezz’aria. La fissò. Senza paura né imbarazzo.
 
Il telefono della bionda squillò insistentemente nella tasca dei suoi pantaloni. Haruka tentennò sul da farsi e la risposta alla decisione da prendere arrivò dalla bocca dell’altra.
«Rispondi. Potrebbe essere importante».
Un numero sconosciuto lampeggiava insistentemente sul display. Una strisciata del pollice bastò per accettare la chiamata dal prefisso indicante Los Angeles.
«Ten’ō». Haruka abbassò il capo e si tappò l’orecchio libero come a ripararsi dal vento.
«Ronald Reagan Medical Center».
L’Ospedale di Dan. Alzò il viso e fece per ripetere quel pensiero con il labiale per informare Michiru della chiamata, ma come uno strano sogno durante una notte di tempesta lei era sparita.
 
 
§§§
 
 
Le 9.00 di mattina svettavano a caratteri verdi fosforescenti sulla sveglia digitale del comodino.
Makoto, nonostante non fosse sua abitudine, era ancora distesa nel letto con gli occhi puntati al soffitto. Aveva faticato a prendere sonno quella notte. E probabilmente non era stata l’unica.
Aveva notato sul pontile la sua vicina nel bel mezzo di un’accesa discussione. Ma di certo non era stato quello ciò che l’aveva tenuta sveglia.
Era stato quel biglietto. Il nome Nevius e l’appuntamento fissato per quel giorno.
Lo aveva sentito uscire di casa. Aveva acceso la moto e si era allontanato dal vialetto all’alba mentre lei era rimasta lì, incastrata tra le lenzuola e i dubbi che l’assillavano.
Dovrei accettare?
Il campanello la fece sobbalzare e lei, come la bambina protagonista di un film horror tirò la coperta sin sopra la testa.
Ronald, impavido uomo di casa a quattro zampe si mise ad abbaiare alla porta.
«Mako-samaaaaaaaa!!!» la voce venne accompagnata da un frenetico bussare.
Era Usagi. Solo lei poteva aver così poco tatto da insistere piuttosto che andarsene se il padrone di casa non si faceva vedere sulla soglia.
Makoto tirò una mano fuori dalle lenzuola, cercò a tentoni il cellulare sul comodino e una volta riuscita ad afferrarlo compose il numero della biondina.
Il frastuono all’esterno sembrò cessare, subito però seguito dalla suoneria e dalla voce di Usagi che tentava di intonarla senza stonare.
Cosa ho fatto di male? Si domandò la brunetta per poi cedere e alzarsi di malavoglia ad aprire.
Usagi sulla veranda si era un po’ troppo lasciata trasportare dal ritmo e ballava “Party Rock Anthem” con un movimento di bacino troppo pronunciato anche per un video imbarazzante da sbattere su youtube.
«Oh eccoti Makoto!».
«ENTRA! ORA!» le ordinò nascondendosi dietro la porta di casa.
Usagi con un sorriso enorme stampato in faccia non si fece troppi problemi e si accomodò nel salotto della barista.
«Ebbene. Qual buon vento ti porta qui?».
La bionda spense il cellulare. «Ehm scusa. Questa canzone mi fa letteralmente impazzire. Non riesco più a controllarmi e non ho risposto. Ma…cosa?! C’è vento? Io sono venuta con la bici e…».
«Era un modo di dire. Lascia stare». Makoto si diresse in cucina . Urgeva un caffè per far partire il motore e quella giornata sempre più singolare.
«Oh, ma sei in pigiama ancora» osservò Usagi. «Ti ho svegliata?» domandò portandosi l’indice alle labbra appiccicose di lucidalabba rosa.
«Non proprio. Non ho dormito bene…».
«E come mai?» indagò prontamente l’altra. Se avesse potuto essere ancora più inopportuna avrebbe registrato la conversazione col cellulare a mo’ di giornalista.
«Ho una specie di strano appuntamento con il vicino».
«OMMIODDIO!!!» Usagi prese a saltellare come un’ossessa. Portò i palmi alle guance arrossate, incapace di trattenere l’eccitazione.
«MA SIAMO GEMELLE DEL DESTINO!!».
Makoto tentò di non sputare il caffè e fece segno di placarsi all’altra con un gesto della mano.
Usagi dovette respirare a fondo. Lo fece in modo teatrale, portando il dorso della mano alla fronte, inclinando il capo e inspirando rumorosamente.
«Anche io! Al buio! Non so se si spenga la luce…».
«Al buio vuol dire che non conosci l’altra persona…».
«Oh sì. Beh hai fatto centro».
Makoto si mise a ridere. «Lo so. Posso offrirti qualc-».
«SI» la interruppe l’altra. «Dei cereali con latte per favore. Non ho fatto colazione per l’agitazione ora che ci penso».
«Dì un po’…chi te l’ha organizzato l’appuntamento?» domandò sinceramente incuriosita Makoto tirando fuori dalla dispensa la scatola degli anelli al miele e porgendolo all’altra.
«Il boyscout biondo di Michiru».
«Non ti seguo».
«Dai, come si dice quando una persona ha tante ragazze ai suoi piedi?».
«Playboy, Bunny. Non boyscout».
Sempre boy c’era. Pensò tra sé e sé la più giovane mettendo su un broncio offeso.
«Comunque…» Makoto alzò gli occhi al soffitto, poggiando la tazza ormai vuota nel lavello. «Come mai sei qui?».
«In realtà ero venuta per Michi-sama» la ragguagliò portandosi alla bocca un cucchiaio troppo colmo di latte e cereali. Bunny gonfiò le guance come un criceto e solo dopo aver mandato giù il boccone esagerato, ed essersi pulita il viso con un tovagliolo prontamente fornitole da Makoto, continuò la sua spiegazione.
«Volevo mi aiutasse a vestirmi per sta sera. Ma non c’è nessuno in casa. E già che mi trovavo qui…».
«D’accordo. Rimani pure. Puoi fare compagnia a Ronald mentre non ci sono?».
Usagi fece rispose con un cenno di assenso del capo. «Quindi hai deciso di andare?».
Ho deciso? Makoto si morse un labbro. L’istinto le diceva di andare più a fondo a quella strana sensazione. Come se qualcosa di ormai svanito la stesse reclamando.
«Si» disse avviandosi in camera da letto per cambiarsi. «Voglio sentire quella torta…» tentò di convincersi con le farfalle nello stomaco.
 
 
§§§
 
 
Le infermiere avevano fatto aspettare Haruka per due lunghe ore nella sala di attesa. Un via e vai infinito di dottori, controlli ed esami. Poi il silenzio della notte all’improvviso e lei aveva temuto di aver perso il suo amico per sempre. Con la testa china tra le gambe e le mani sulle orecchie respirava fissando il pavimento e se fosse stata una brava amish avrebbe pregato. Lo avrebbe fatto per lui e non per sé stessa. Ma Haruka non lo era. Non si era mai sforzata di esserlo e non avrebbe messo la vita di Dan nelle mani di qualcuno di cui dubitava fortemente l’esistenza.
Aveva smesso di pensare a Rei, alla loro litigata e anche a quanto la faceva dannare Michiru e il suo caratterino.
Nessuna notizia. Nessuno che le dicesse perché era stata richiamata lì con tutta fretta. Scorse la rubrica del cellulare. Nessuno a notte fonda avrebbe risposto e tantomeno lei avrebbe saputo cosa dire.
«Giuro che se non mi fai un brutto scherzo lo organizzo alla testa bionda lo speed date». E mentre borbottava tra sé e sé e il cigolio di un carrello metallico si attraversava la stanza ecco la mano di un’infermiera sulla sua spalla.
«È sveglio. È vigile. Può entrare se vuole a trovarlo ma non lo faccia stancare troppo».
«Dan…è…» si portò una mano alla bocca, incredula. Cercò un’altra volta il permesso nello sguardo dell’infermiera per andare e si fiondò nella stanza dell’amico.
«Che stupida testa di ciambella che sei! Brutto idiota!».
«Sono felice anche io di vederti».
Haruka balzò sul letto mettendogli una mano sulla fronte come a doversi accertarsi non avesse la febbre.
«Stai cercando di uccidermi? Haru, la flebo, ci sei seduta sopra!».
«E chissenefrega. Zitto un po’ che ora faccio una cosa che non si ripeterà mai più nella vita».
Dan non fece in tempo a chiedere di più perché si ritrovò le braccia di Haruka attorno al collo. Non lo aveva mai abbracciato così, era la prima volta. Si sentì felice e segretamente anche l’amica lo era di quel contatto mai osato prima d’ora nei confronti di nessuno al mondo.
«Se lo dici a qualcuno ti uccido».
«So che lo faresti, ci hai appena provato con una bomba non vorrei rischiare di nuovo».
Haruka si staccò e dal ragazzo scendendo dal lettino.
«Non cominciare. Sei tu che hai voluto fare l’eroe e poi ti sei addormentato come una ragazzina».
«Sì e non mi hai lasciato nemmeno dormire in pace. Non mi aspettavo potessi essere così logorroica. Sei proprio una donna…».
Lei arrossì imbarazzata. Non poteva crederci. La sentiva mentre era in coma?
«Come…cosa vorresti dire? Tu…potevi sentirmi?!».
«Non lo so. Qualcosa. Ogni tanto…era strano. Era come sognare senza vedere le immagini e c’era la tua voce, una sorta di eco ogni tanto. Ma non ricordo nulla se ti consola. Dì un po’…hai fatto confessioni piccanti al tuo uomo preferito?».
«Dio, Dan. Ti sei proprio fottuto l’unico neurone che avevi con questa storia del coma. Sei diventato più stupido di prima!».
«Beh, direi che sono davvero in forma visto che continui ad offendermi. Non lo faresti con un vero malato, giusto?».
Haruka fece spallucce. E Dan si mise a ridere ma venne sorpreso da una fitta alla testa.
«Ohi, ohi…» si lamentò.
«Chiamo qualcuno?» si allarmò la bionda.
«Naaa. È solo troppo te tutto in una volta».
«Hey, sono io la stronza!».
«Giusto».
Dan socchiuse gli occhi, poggiando il capo al cuscino. Era strano essere di nuovo lì. Si domandò se non fosse ancora in coma e stesse sognando o se magari fosse già bello che morto e quello fosse una sorta di limbo. Di certo non il paradiso, o si sarebbe meritato una nuvola colma di scatole di Donuts per il suo gesto eroico.
«Devo fare una cosa» bofonchiò Haruka apprestandosi a mandare un doppio sms a Mamoru e a Usagi. Lo aveva promesso. Non sapeva bene a chi, se a Dio, il destino, alla morte o a sé stessa, ma Dan era sveglio e lei aveva la missione speed date da portare a termine per onorare il suo fioretto.
«Cosa combini?» chiese Dan sempre ad occhi chiusi.
«Devo organizzare un’uscita al tuo sostituto».
«CHE COSA?!» urlò lui strozzandosi con la saliva per la gola secca.
Il monitor emise una serie di picchi verdi e Haruka ebbe seriamente paura che a Dan prendesse un attacco di cuore.
«Si lo so, uno schifo. Ma niente paura. Lo sbattiamo fuori ora che sei tornato. E’ per questo che serve l’appuntamento…lui s’innamora e scappa con lei come nei film o qualcosa del genere. Tranquillo».
«Non posso crederci».
«Ho litigato con il capitano sissignora stronza Meiō per questo».
«Sul serio?» il ragazzo sembrò placarsi e compiacersi per quelle parole. Si era tutto ad un tratto ringalluzzito e incuriosito dalla frase appena sentita.
«Quanto ho dormito?».
«Abbastanza per perderti un’infinità di roba, amico».
«Allora aggiornami. Voglio sapere tutto».
«Hanno detto di farti riposare…».
«E da quando segui gli ordini?».
Un sorriso si tirò sul viso di Haruka.
«Raccontami ogni cosa e poi vammi a prendere un Donuts, non è un ordine ma il dovere di una migliore amica. Condanna alla quale non si può sfuggire».
 
 
§§§
 
 
«Penso tu abbia esagerato Rei» si erano date la buona notte così Rei e Minako. L’amica le aveva fatto sapere il suo punto di vista per poi ritirarsi nella sua stanza e uscirne solo il mattino seguente con Artemis tra le braccia.
La mora era ai fornelli, intenta a rigirare un pancake dietro l’altro per completare la pila di frittelle che aveva cucinato e sistemato in maniera poco stabile sul piatto in ceramica blu e bianca.
«Colazione?» domandò Rei con un filo di voce per terminare la torre pendente una volta vista con la coda dell’occhio la lunga chioma dorata.
«Mh». Minako era sempre inabile al colloquio appena sveglia. Diede un bacio alla testa pelosa del gatto per poi allungare svogliatamente un braccio e prendere lo sciroppo d’acero dal piano della cucina.
Rei la conosceva a menadito e senza chiedere altro le scaldò il latte di mandorla per poi sistemare la tazza fumante dalla sua parte del tavolo.
La coinquilina si sedette stropicciandosi gli occhi per poi liberare dalla sua presa amorevole il candido felino.
«Vai in caserma oggi?» fece un’enorme sforzo nel proferire una frase di senso compiuto.
La mora mise in mezzo il piatto di frittelle per poi prendere posto.
«Sì, tra un paio d’ore. Tu? Lavori alla canzone con il tenebroso oggi?».
Minako parve illuminarsi. Rei non seppe dire se era l’effetto del primo sorso di latte o per l’argomento Yaten, ma vedere una risposta dall’altra parte la rincuorò. Tutta notte non aveva fatto altro che tormentarsi sul fatto di rischiare di perdere anche l’amica. Aveva come avuto l’impressione che Minako avesse tenuto la parte di Haruka e se si fosse davvero schierata con lei Rei sarebbe diventata un’isola.
La bionda infilzò un pancake, lo sistemò nel piatto dividendolo in due per poi ricoprirlo di sciroppo denso e zuccherino. Solo dopo aver finito la sua porzione si decise a parlare.
«Pensi farete pace?».
«Se non mi scusassi tu saresti ancora mia amica?».
«Che domande Rei, ma certo». Minako finì il proprio latte e con un paio di graziosi baffetti bianchi sulle labbra continuò. «Ma come tua amica credo dovresti tornare sui tuoi passi. Insomma, ha davvero senso buttare tutto all’aria perché Haruka sembra interessata a quella ragazza?».
«Non so se mi va giù».
«Abbiamo già fatto questo discorso…».
Era vero. La conversazione era un perfetto deja vù della serata dopo il festival estivo. Rei, prima dello scoppio della bomba, aveva deciso di sotterrare i propri sentimenti ma la cosa era risultata più ardua del previsto.
«Lei ti perdonerà. Farà la sostenuta, ma sai che poi lo farà».
Minako faceva sembrare tutto facile e Rei in quel momento non poté fare a meno di credere avesse ragione.
Anche se a mente lucida avrebbe constato che tra dire il fare c’era di mezzo il mare, o un intero oceano se si trattava dell’orgoglio ferito di Haruka Ten’ō.
 
 
§§§
 
 
Michiru aveva visto le luci dell’alba dalle finestre della palestra del dipartimento.
I capelli raccolti in una lunga coda, un paio di pantaloni militari addosso e il top nero sportivo. Un giro dopo l’altro di corsa, fino allo sfinimento per scacciare quel fastidioso turbinio di pensieri che la stava mettendo sempre di più sul ciglio della propria vita.
Doveva buttarsi o fare un passo indietro? Cos’era meglio per Hotaru? E per lei? Sarebbe stata ancora felice se avesse sul serio dato una possibilità a Seya?
Rallentò il passò. Diede le spalle all’entrata inspirando ed espirando profondamente. Raccogliendo i pensieri senza trovarvi una vera risposta, senza rendersi conto che a volte il destino decide di per sé e non chiede permesso.
Haruka. Il guizzo blu dei suoi occhi le attraversò la mente. Cosa doveva fare con Haruka? Perché si comportava a quel modo quando le era vicina? Perdeva il lume della ragione e si lasciava trascinare da un’oscura corrente.
Alzò le braccia al cielo, pronta per un saluto al sole, quando qualcuno la braccò da dietro.
Una presa ferrea, una prigione fatta di carne ed ossa. Qualcuno l’aveva presa alle spalle, di sorpresa, facendole quasi perdere l’equilibrio.
Michiru abbassò il mento, la prima regola del corso di autodifesa. Arpionò con le mani il braccio che la teneva scattando di lato, rendendosi conto che il suo aggressore non stava applicando una gran forza per poi liberarsi con una gomitata che non riuscì ad andare a segno poichè intravide il volto di chi l’era arrivata alle spalle.
«Haruka» sibilò sgranando gli occhi, dando voce a quel nome che sino a un istante prima era solo nella sua testa.
«Dì un po’ Hollywood…sai picchiare la gente?!». Aveva in viso una smorfia divertita e la solita voce goliardica come se le parole della notte prima pronunciate da Rei fossero rimbalzate altrove, lontane.
«Cos’è? Jujitsu?» la incalzò ancora una volta tentando di braccarla con un’altra pesa che Michiru fermò con i propri avambracci.
«Krav maga» rispose lapidaria.
La bionda scosse la chioma lasciandosi andare a una piccola risata.
«La strizzacervelli che sa usare le tecniche militari dell’esercito israeliano».
Michiru espresse il suo disappunto con un’espressione offesa in viso. La stava forse sottovalutando?
«Guarda che sono un’agente come un altro. Non è che solo perché ho una specializzazione per mediatrice non so tenere in mano una pistola o permetta a qualcuno di pestarmi».
«E i tuoi genitori che ne pensano?».
«Mio padre è un militare, Ten’ō».
Chissà che razza di bastardo è il mio.  Fu il pensiero di Haruka. Certo con Amos non aveva fatto un grande affare, ma quello biologico poteva forse essere peggiore. Non aveva mai pensato a suo padre, era la prima volta quella. Ogni pensiero, sin da bambina, era stato riservato ad una madre sconosciuta che alle volte era stata offuscata dalla materna e gentile presenza di Sarah.
«Cosa ci fai qui?». Michiru interruppe i pensieri dell’altra ed entrambe sull’attenti si misero a studiarsi come due pugili sul ring.
Camminavano lente con un movimento circolare su una pedana nera al centro della palestra.
«Ero venuta ad allenarmi».
«Non fai surf?» domandò Michiru come fosse un’ovvietà. Haruka aveva il colorito ambrato di chi passava il tempo libero in spiaggia.
«Quello è per divertimento».
Michiru aveva un particolare in più. Su quel tappeto si era aperto uno spiraglio su quel giardino intravisto tra le tenebre della notte appena trascorso.
«Forse sei tu che fai jujitsu…».
Haruka mosse il capo in segno di diniego con un’espressione quasi arrogante in viso.
«Muay Thai».
«Non hai i guantoni, Ten’ō».
«Non ho intenzione di prenderti a pugni».
«Bene. Anche perché me ne stavo andando».
«Come hai fatto questa notte?».
Michiru si bloccò di colpo. Colpita e affondata.
«Sei scappata».
«Io non scappo» ribatté Michiru con convinzione.
Haruka la stava facendo innervosire, ne era conscia. D’altro canto era il suo passatempo preferito ultimamente. Pizzicare sul vivo l’impostata ed elegante Hollywood. Si chiedeva se arrivata ad un certo punto sarebbe riuscita ad esplodere o se potesse trattenersi addirittura in quello.
«Se non scappi. Facciamo un incontro allora, su forza. Fammi vedere di cosa sei capace».
Maledetta Ten’ō. Michiru non era solita rispondere a provocazioni.
«Su, un colpetto. Uno solo» insistette l’altra sfidandola l’ennesima volta.
«Avresti un buon motivo no? In fin dei conti ti ho baciata senza permesso!».
Quell’incurvatura. Quel sorriso ribelle che faceva tentennare Michiru. Stava perdendo il controllo. Avrebbe voluto far la superiore, abbassare la difesa e andare altrove. Dire che non aveva tempo da perdere per i giochetti, che chiedesse a uno dei suoi compagni della SWAT di prenderla a botte. Invece rimase. Emise un sospiro talmente pesante da far rumore.
«Cinque minuti» disse con un filo di voce. «Solo per aiutare un collega ad allenarsi, chiaro?».
Ma nemmeno riuscì a finire la frase che Haruka la caricò quasi fosse un toro in preda al colore rosso puntando alla sua vita.
Michiru si divincolò dalla presa ma venne nuovamente agguantata.
«L’effetto sorpresa rende più efficace un allenamento. Se te lo aspetti non dai il meglio di te».
«E allora vai a fare una rissa al bar!» esclamò Michiru tentando di far leva col proprio corpo per togliersela di dosso.
«Non sarebbe così divertente» il cuore di Haruka aveva preso a correrle nel petto. «E io non ho chiesto di essere il tuo svago!» rispose l’altra col fiato corto.
Le braccia di Haruka aggrovigliate alla vita di Michiru come una pianta rampicante mantenevano la presa salda. E ogni volta che Michiru se ne liberava si ritrovava ingabbiata da lei, così come faceva la sua mente che più ne scacciava il pensiero più lo andava a ricercare nei momenti solitari. Una dolce persecuzione alla quale segretamente la mediatrice non sfuggiva più.
Traballarono. Nessuna delle due era disposta a cedere e a perdere quello strambo scontro. Le due barcollarono, Michiru tentò di riprendere un po’ dell’equilibrio perduto ma inciampò tirandosi dietro l’altra.
«Ohi!» sibilò piano, quasi per non farsi sentire.
«Tutto ok?» domandò Haruka con le mani ancora ancorate alle sue spalle.
Michiru era a terra, schiena poggiata al pavimento che le sembrava gelido al contatto con la sua pelle accaldata.
«Diavolo, Ten’ō».
«Ehi dai, scusa miss. Ti sei fatta sul serio male?». Cominciava a preoccuparsi lo si capiva dal timbro della voce che via via perdeva di sicurezza e quella note di superiorità che ostentava sempre.
«Sei sempre in mezzo». Era disperata. Tanto che non sapeva più cosa le stesse uscendo di bocca. La verità è che era stanca di combattere per far la cosa giusta. Stanca di essere quella perfetta, ordinata, impeccabile.
«Onorata che ti aggradi la mia presenza».
Michiru parve allontanarla con un palmo della mano fino a che non fece presa sulla sua spalla trascinandola più verso di lei.
Sentiva il suo battito nelle orecchie e l’azzurro dei suoi occhi si tuffò in quello dell’altra. Come le onde. Come a El Matador dove il vento soffia talmente forte da far tacere anche la ragione. Michiru aveva spento il senno, ne aveva buttato all’improvviso la chiave per mollare ogni costrizione tra cui il buon senso alle spalle. E fece ciò che aveva fatto Haruka sotto il cielo stellato. La prese alla sprovvista e la baciò. Senza avviso, senza un perché. Perché i baci che paiono non aver alcun motivo sono quelli che fan più rumore, quelli dalle mille parole silenziose. Le sue labbra su quelle dell’altra. E ancora una volta Michiru avvertì quello scoppiettio. Quello delle stelle cadenti che cadono in picchiata.
 
 
 
 
 
 
Note dell'autrice:
Loganiane chiedo scusa per l'infinita attesa. Come ho accennato su fb probabilmente pubblicherò una volta al mese da ora in poi, anche se la seconda parte di questo capitolo tenterò di farvela avere prima di febbraio. L'ho dovuto dividere in due perchè stava venendo come al solito troppo troppo lungo. Nel prossimo ovviamente avremo da sbrogliare gli incontri di Usagi, Makoto e Minako. Non dimenticherò nessuno! 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 12
*** Waves - Parte II ***


I can feel your heart hanging in the air
I'm counting every step as you climb the stairs
It's buried in your bones, I see it in your closed eyes
Turning in, this is harder than we know
We hold it in the most when we're wearing thin
 Coming like a hurricane, I take it in real slow
The world is spinning like a weathervane
Fragile and composed
I am breaking down again
I am aching now to let you in
 
Fleurie – Hurricane
 
 
 


Lo scintillio delle stelle cadenti scomparve con un ultimo flebile schiocco di labbra.
Quando riaprì gli occhi Michiru incontrò il blu intenso delle iridi di Haruka che in silenzio la fissavano con lo stupore di chi guarda un’opera d’arte per la prima volta.
Per qualche oscuro motivo sentì le onde travolgerla. Un maremoto di emozioni contrastanti e ruggenti come le onde di El Matador.
Cos’aveva appena fatto?
Intrappolata sotto di lei, in un immobile perfezione, Michiru apparve ad Haruka come una di quelle sculture tanto realistiche da toglierti il fiato. E chi erano Michelangelo, Sanmartino o Canova al cospetto di chi aveva dato la vita a lei? Una dea fuggevole e di una bellezza tanto perfetta da sembrare irreale.
Haruka, persa in quella silenziosa contemplazione quasi non se ne accorse dello scivolare altrove dell’altra.
Michiru si era alzata con tutta l’intenzione di fuggire in punta di piedi. Come fanno le avventure di una notte o gli sbagli alle prime luci del mattino.
Si avviò verso la porta con la fretta di chi ha paura di perdere un treno, quando lei stava tentando di aggrapparsi con tutte le forze al senno per non mollare la presa e cedere alle emozioni.
Riprese la propria borsa e la felpa abbandonate sulla panca accanto all’uscita con gesti automatici; in preda alla paura di dover giustificare quel suo gesto e di dire a voce alta la verità.
«Dove…credi di andare?» fu tutto quello che riuscì ad elaborare la bionda riprendendo anche lei la posizione eretta. Mai lo avrebbe ammesso o reso pubblico ma qualcosa l’aveva scossa. Forse perché quello era stato un vero bacio, uno di quelli senza inganno, uno di quelli capaci di frastornarti come se fossi la vittima di un terremoto.
«A casa» sibilò in tono monocorde Michiru, senza voltarsi. Conscia di aver perso ogni controllo su sé stessa e soprattutto conscia del fatto che se avesse nuovamente incrociato lo sguardo dell’altra sarebbe bastato un nonnulla per sgretolare in pezzi la vita che aveva faticosamente costruito.
Cosa diavolo sto combinando?
Come un fulmine a ciel sereno gli occhi scuri di suo padre che la fissavano con aria di rimprovero erano nella sua testa.
«Non combinerai mai niente nella vita, Michiru». La divisa militare indosso e il tono severo erano più vicini che mai anziché un lontano ricordo. «E sai perché?».
Michiru serrò le mani in due pugni, stringendo le palpebre come a scacciarlo. Lei aveva sentito abbastanza, aveva sopportato per quasi una vita la sua costante delusione nei suoi confronti. «Tu non hai idea di chi diavolo sei. Né tanto meno di chi vuoi diventare».
«Haruka…».
La bionda alle sue spalle era tutt’orecchie.
«Se lo dici a qualcuno io…».
«Che cosa fai, Hollywood?» il suo solito tono sarcastico e pungente. «Mi uccidi?».
Michiru non rispose in preda ai fantasmi nella sua testa. Non sapeva più da cosa un tempo era fuggita; se dalle Hawaii, dall’autorità di suo padre o dal silenzio di sua madre che rimbombava come un eco ogni qualvolta non aveva preso le sue difese. L’unico porto sicuro era stato Seya e lei come lo stava ringraziando? Tradendolo. Fuggendo anche da lui. Che razza di madre sarebbe diventata per Hotaru?
Nell’uscire, senza darle risposta, sentì il suo coraggio venir meno. E come un moderno Orfeo alle soglie dell’Ade dovette andar avanti, senza voltarsi però, nonostante il suono dei passi di Haruka dietro di lei.
 
 
§§§
 
 
Makoto stava temporeggiando. Era ferma sul marciapiede dall’altra parte della strada da almeno dieci minuti. Fissava il via e vai di gente. C’erano le coppie mano nella mano, gli amici che ridevano, una madre che correva dietro al proprio bambino intento a giocare con un pallone da spiaggia, una coppia di anziani che procedevano a piccoli passi e un ragazzo intento a far jogging scadendo ogni passo a suon di musica.
La pasticceria era graziosa. Lineare, in stile moderno con grandi vetrate che lasciavano intravedere l’interno del locale. Dei vasi di gerani adornavano l’ingresso, mentre dell’interno poteva scorgere grandi lampadari di cristallo e  pareti dai colori tenui.
«Forza» si disse fra sé e sé. «Sei arrivata fin qui…».
Respirò profondamente e decise di attraversare la strada. Passò di fianco alla moto di Nevius parcheggiata proprio di fronte alla pasticceria, passandoci sopra l’indice come a verificarne l’effettiva lucentezza.
«Pensi di entrare o di rubarmela?» la voce del ragazzo la prese alla sprovvista, tanto che Makoto soffocò un grido portandosi la mano al petto come in preda ad un infarto.
«Siamo nervose?».
«Ma chi? Io? Assolutamente no!». Una risatina al limite dell’isterico la tradì, venendo però soffocata all’istante da Makoto che tentò di mascherarla con un colpo di tosse.
Nevius la guardò con quel suo sguardo. Pareva sempre trascinarsi dietro un’aria di superiorità, quasi dalla sua altezza potesse vedere cose che gli umani non avrebbero mai potuto scorgere.
«Che fai? Quindi entri? O…» le stava tenendo aperta la porta e lei doveva essere risultata alla stregua di un baccalà.
Ottimo inizio, Mako. Complimenti. Nemmeno Bunny potrebbe essere così imbarazzante. Oddio…Bunny. E’ in casa mia. Da sola. Con il mio cane. Povero Ronald…sopravvivrà?
La brunetta non perse altro tempo e si decise ad entrare. Davanti a lei la vetrina dei dolci era un vero e proprio spettacolo per gli occhi. Colma e piena di delizie colorate dal design unico e ricercato.
«Le fai tutte tu?» era sbalordita e ancora il connubio motociclista pasticcere faceva fatica a parerle reale nella sua testa.
Nevius accennò un sì col capo e le fece strada dietro al bancone sino al suo piccolo laboratorio.
A Makoto piaceva cucinare, soprattutto i dessert. Non ricordava i tempi della scuola ma sapeva di aver frequentato economia domestica nella sua “prima” vita. 
«Wow,  è proprio bello qui. Complimenti».
«È una quasi fedele riproduzione del mio locale di New York».
«Si ma manca quel terribile orologio a forma di gufo rosso che…» Makoto divenne una statua di sale. Non seppe precisamente se s’irrigidì per ciò che le era uscito di bocca o per l’espressione che si era dipinta in volto al ragazzo. Le sue labbra carnose si erano schiuse come se d’un tratto non avesse più fiato nei polmoni e i suoi occhi dall’aspetto tagliente si erano ingranditi nel giro di qualche secondo.
«Scusami…» sibilò, sentendosi strana. «Io non so perché l’ho detto e…».
«È okay». Parve che lui dovette ricomporsi nel dire quelle parole. «Sai, è proprio strano perché in effetti ho un orologio del genere là».
E tu odiavi come ticchettava. Avrebbe voluto aggiungere lui. Pazienta. Si ripeté nella testa come un mantra. Pazienta e dai al tempo al tempo. Anche se Makoto non aveva la minima idea di quanto lui avesse atteso. Di quanto avesse perso e di quanto si fosse impegnato a rimettere insieme i cocci di una vita intera, senza avere la certezza che un giorno l’avrebbe effettivamente riavuta indietro.
«Io volevo un’opinione su questo» cambiò discorso in modo repentino, chinandosi e allungando un braccio dentro al frigorifero.
È così alto. Si ritrovava a pensare lei ogni volta che lo vedeva. Non sapeva perché ma il suo aspetto le trasmetteva un’enorme sicurezza, probabilmente era il suo prototipo di uomo fisicamente, ma allo stesso tempo la situazione la inquietava. Non sarebbe mai riuscita a descriverlo a parole era come se in qualche modo lui non volesse dare a vedere quanto la conoscesse. Un po’ come lo stalker di quella serie di Netflix. Ommioddio. Potrebbe uccidere Bunny e…STOP.
Makoto riprese per quel che le era concesso il suo controllo mentale. Doveva smetterla di vedere certi programmi e soprattutto smettere di conversare con l’amica di determinati argomenti.
Nevius sistemò sul piano della cucina una torta che riportava una scultura in pasta di zucchero grigiastra.
«Ma…è la statua della libertà!» esclamò lei, girando attorno al dolce quasi fosse un avvoltoio.
«Sei piuttosto patriottico» aggiunse con un sorriso.
«Come, scusa?».
«Non sei di New York?» inquisì con lo sguardo confuso.
«No».
«Allora è…».
«Si chiama benvenuta nella grande mela».
«Oh, uhm grazie!» scherzò lei mimando un piccolo inchino.
Il ragazzo prese un colino prendendo a spolverarci sopra una generosa manciata di zucchero a velo. Sembrava davvero New York sotto la neve. E Makoto per un altro strano momento ebbe la sensazione di trovarsi proprio lì, a Central Park, d’inverno, con indosso un paio di calde manopole blu intenta a catturare alcuni fiocchi di neve.
«La tagli tu?». Nev le stava porgendo tutto l’occorrente perché scegliesse la sua porzione e Makoto non riusciva a staccargli gli occhi di dosso, quasi dovesse a tutti costi scorgere una verità a lungo celata di cui solo lui era il custode.
Impossibile. Si ripeté nella testa.
Era sempre più confusa. Cosa stava succedendo? Erano ricordi? E lui, possibile sapesse davvero molto più di quello che volesse far credere?
La brunetta accennò un “sì” col capo quasi fosse in trans. Allungò il braccio e prese dalle mani dell’altro coltello e paletta per poi tagliare con estrema precisione una fetta di torta.
Sotto allo strato glassato esterno, si nascondeva un pan di spagna a strati dalle diverse tonalità di marrone e una farcitura cremosa incastrato perfettamente a metà tra le soffici strisce.
«Vado?» tentennò poi attrezzandosi di forchettina.
«Non è avvelenata». Era strano che lui la rassicurasse in quel modo su una cosa tanto stupida ma Nevius aveva intuito che Makoto non era completamente a suo agio, tutt’altro. Tesa come una corda di violino, ignara del fatto che lui l’aveva sempre protetta tranne quel maledetto giorno.
Gli faceva ancora male averla persa. Doleva all’altezza del petto come il giorno in cui all’ospedale i genitori di lei lo avevano additato a pericolo per la figlia e lo avevano intimato di sparire. Bruciava ancora come nel momento in cui si erano incrociati nel corridoio del reparto e lei non lo aveva riconosciuto.
«MMMM!!!» venne strappato dai suoi pensieri con quel suono.
Makoto si portò il palmo davanti alle labbra e sgranò gli occhi grandi.
«Oddio» bofonchiò con voce impastata.
«Stai soffocando?!».
Lui si precipitò a prendere un bicchiere e a riempirglielo d’acqua ma quando glielo porse lei cominciò a ridere a crepapelle.
«Oddio dovevi vedere la tua faccia!!!» la mano che si trovava davanti alla bocca si abbassò sino ad arrivare sul ventre come a contenere le risate.
«Credevo ti stessi soffocando! Che ti fosse andato di traverso tutto!».
Lei scosse il capo in segno di diniego.
«No» mandò giù e ne approfittò per prendere un sorso d’acqua.
«È solo uno dei dolci più buoni che io abbia mai mangiato sino ad ora» confessò. «Scusa» aggiunse sorridendogli.
«Scuse accettate» borbottò in tono basso lui. Segretamente pieno di gioia nel vederla ridere esattamente come un tempo.
 
 
§§§
 
 
Michiru era rientrata. Usagi aveva visto la sua macchina sfrecciare per il quartiere e aveva prontamente recuperato la propria bicicletta rosa per raggiungerla.
 
Infilate le chiavi nella toppa Michiru inspirò a fondo e pregò silenziosamente che Seya non fosse in casa o probabilmente non sarebbe stata capace di guardarlo in faccia. Lui aveva l’innato potere di comprendere quando lei gli nascondeva qualcosa. Lui la capiva sempre. La leggeva come fosse il suo libro preferito e forse l’amore doveva essere quello, conoscere tutto dell’altro, anche la più piccola ruga d’espressione.
Mollò tutto sul pavimento nonostante ciò non fosse assolutamente da lei. Michiru era una perfezionista, una maniaca dell’ordine. Ma quando dentro sei un casino il tutto si rispecchia anche all’esterno.
Si adagiò mollemente sul sofà, sprofondando col capo tra i cuscini.
Aveva voglia di urlare. Probabilmente le avrebbe giovato o quanto meno l’avrebbe liberata per qualche secondo da il turbinio che aveva dentro.
«O andiamo…» disse ad alta voce. «Riprendi il controllo di te stessa Michiru, forza».
 
«Riprenditi». La voce veniva dall’alto. Dal sergente che le guardava tutte come fossero bamboline pronte a spezzarsi da un momento all’altro.
«Kaiō, tra dieci secondi se non ti rialzi sei morta». Pioveva come fosse il diluvio universale.
Lei strinse i denti e con le mani nel fango fece leva sugli avambracci per ricominciare a correre. Con la coda dell’occhio lo intravide. Lui era lì e scuoteva il capo come fosse la peggiore delusione della sua vita.
 
Michiru riaprì gli occhi e si scrollò di dosso tutto sentendo la suonata insistente e familiare di Usagi. Le sembrava di essere ancora immersa fino al collo nella melma, ma non si era inciampata questa volta, ci si era buttata lei.
«Bunny?!».
«Eccoti, per fortuna stavo perdendo le speranze!». Tutta spettinata l’amica s’infilò nel salotto che ben conosceva con tanto di mani sui fianchi quasi volesse rimproverarla.
«Bunny, Hotaru non c’è».
«Si si lo so. Io sono venuta per me».
Michiru raccolse tutta la pazienza di cui era dotata.
«Hai una faccia…che ti è successo?».
«Oh no, niente. Sono solo stanca perché non ho dormito e…».
«Ommioddio fai troppo J.Lo in quel video o erano le Destiny’s Child?!». Presa da quel dubbio atroce Usagi consultò con lo smartphone il suo Dio persona, Google.
Da una parte Michiru era fortunata ad avere un’amica con qualcosa tanto simile ad un disturbo dell’attenzione. Se non era abbastanza attenta da fiutare il suo umore non avrebbe cominciato a far domande, soprattutto perché troppo presa da sé stessa.
Una benedizione. Pensò ritrovando un pizzico di buon umore.
«Si era Survivor. Adoooro!» la ragguagliò l’altra con un gesto da fashion blogger isterica della mano.
«Ok…Bunny, come posso esserti utile?».
«Oh sì certo». La biondina prese un respiro come per fare un annuncio di rilievo mondiale. Si sistemò le ciocche ribelli dietro al lobo delle orecchie sino a che decise di interrompere il pathos da lei stessa creato.
«Devi vestirmi. Ho un appuntamento sta sera». Cominciò a saltellare. «Grazie ad Harukaaa yuhuuuu!».
È una vera persecuzione. È ufficiale.
«Andiamo bene…» le scappò di bocca.
Bunny si bloccò quasi avesse sentito una bestemmia sul suo motore di ricerca preferito.
«Cos’è tutta questa negatività? Sciò, sciò!».
«Io mi preoccupo per te Bunny. Chissà che squilibrato potresti trovarti davanti se il consiglio arriva da Ten’ō».
«Mh».
Michiru la guardò stranita.
«Curioso».
Michiru chiese ancora una volta spiegazioni con lo sguardo. Non era nello stato mentale giusto per fare una traduzione dal modo strambo di Usagi per esprimersi a quello dei comuni esseri umani.
«È curioso come riesca a cambiarti l’umore Haruka. Sai Michi-san cosa dicono?».
«Illuminami, ti prego».
«Che se qualcuno è in grado di cambiarti l’umore, beh non è una persona qualunque. Tutt’altro».
Michiru incassò in silenzio. Deglutì a fatica e cercò con tutta se stessa di mantenere la sua solita facciata di tranquillità e contegno.
«Vuoi parlarne o mi aiuti?».
«Ti aiuto. Senza dubbio». Michiru non ci pensò un istante in più e le fece strada al piano di sopra.
«Siediti lì» le ordinò aprendo la porta dell’enorme cabina armadio. Lì dentro aveva un’infinità di capi, tra cui molti mai usati. Recapitateli da alcuni delle celebrità che aveva vestito come ringraziamento.
«Parlami di lui» disse andando alla ricerca di qualcosa che rispecchiasse soprattutto la personalità di Usagi, ma senza esagerare, poiché lei era già troppo lei e ad un primo impatto un potenziale principe azzurro avrebbe potuto sentirsi intimorito.
«Non lo conosco. È un coso date…».
Michiru alzò gli occhi al cielo.
«Però ecco, io lo immagino alto, con gli occhi azzurri e la mascella un po’ squadrata tipo Zac Efron e…».
«Questo» la interruppe Michiru. «Questo è bello e non dice:  sono una facile».
«Già. Non lo sono. Cerco il principe azzurro io, mica uno qualunque. E quella roba dove la si trova scritta? Sull’etichetta?».
A certe cose che uscivano di bocca ad Usagi non ci si abituava mai. Michiru sorrise porgendole la camicetta bianca con le maniche a sbuffo ed una gonna non troppo corta.
«Borsa, scarpe e gioielli. Facciamo minimal. Aspetta, dovrei avere qualcosa proprio qui…».
Usagi fece finta di ascoltare il pensare ad alta voce dell’amica. Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni il telefono e mandò un sms al numero di Haruka.
 
 
§§§
 
 
«Cosa le hai fatto?». Haruka credette di aver letto male il messaggino. «Ah, io?! Ma se ha fatto tutto lei».
Coalizzazione femminile, la peggior minaccia esistente. Ancora più pericolosa di una bomba innescata.
«Chi ti scrive?» domandò incuriosito Dan con la bocca sporca di zucchero.
«Zitto e mangia».
«Si tratta così un malato?» chiese offeso ma attento a non far cadere dalle ginocchia la scatola rosa confetto contenente i suoi dolci preferiti.
«Non sei più malato. Sei in pieno recupero. Devi solo fare fisioterapia perché ti sei tutto ammosciato a furia di dormire».
Dan tirò un sorriso. «Il solito tatto Kansas. Chissà chi hai offeso in mia assenza. Hai fatto una delle tue cose amish?».
«Che robe amish farei io, scusa?!». Haruka dall’isterismo rischiò di lanciargli il cellulare in pieno viso.
Il ragazzo la guardò come avesse un caso perso tra le mani. «Sai quando tu parli senza consultare prima il buon senso o il tuo neurone biondo. O quando agisci in maniera un po’ rozza e non sai nemmeno di star sbagliando perciò risulti boriosa e piena di…».
«Ok può bastare. Non voglio sapere altro» lo fermò perché incapace di ascoltare un’altra critica su sé stessa.
La prima volta forse era vero, non era rimasta al suo posto. Ma la seconda aveva fatto tutto Michiru. Era lei che l’aveva baciata ed era ancora lei ad essersene andata per prima e ad averla minacciata. «Non ho fatto alcuna cosa amish, io» ci tenne a sottolineare.
«E pulisciti quei baffi bianchi. Arriverà Meiō a rompere le scatole. Magari potremmo attaccarti qualcosa alle gambe per farti stare in piedi così ti fa rientrare prima in servizio…».
«E ti cadrò addosso anziché salvarti le chiappe…».
«Ehi non ti gasare. Hai già fatto l’eroe una volta, ed è bastato».
«Hai davvero un modo singolare di dire grazie».
 
 
§§§
 
 
Minako camminava sul molo con la fedele chitarra in spalla e il cuore traboccante di emozione. L’avventura musicale che aveva intrapreso, il suo sogno all’orizzonte e l’attesa d’incontrare il suo principe di ghiaccio le faceva perdere la concezione di tutto il resto. Le ore con Yaten diventavano un altro mondo, il suo. Il resto si annullava. L’università che aveva mollato senza dirlo a suo padre, le amiche in lite, erano problemi di una vita che all’improvviso appariva più lontana di quanto realmente fosse.
C’era il cigolio delle assi di legno bagnate sotto ai piedi, l’odore di salsedine, il canto dei gabbiani, lo scrosciare delle onde e quella barchetta danzante sul pelo dell’acqua.
Ondulava placida e su quella, scorse il capitano del suo cuore. Con i lunghi capelli argentati raccolti dietro la nuca in concio spettinato, lo sguardo severo e le mani intente ad annodare una cima.
«Sei arrivata» disse lui senza spostare lo sguardo sulla ragazza.
«Credevi di esserti già liberato di me?» scherzò lei senza perdersi d’animo.
Non lo conosceva a fondo, ma aveva capito che il suo fare distante e un po’ burbero erano solo una facciata. Yaten era come un iceberg. Mostrava solo una piccola parte di lui tralasciando tutto ciò che davvero era, impegnandosi a fondo per nascondere tutto il resto.
«Viste le tue amiche non era da escludere fossi stata un pasto anche tu, magari lo spuntino notturno».
Lei non rispose e lui, finalmente, la guardò dritta negli occhi chiari. Fu un contatto di un attimo, quel che bastava a Minako per non ragionare più con lucidità.
«Che fai? Sali o no?».
La sua voce le risultò leggermente ovattata.
«Ehm, si arrivo». Recuperò lei, passandogli la chitarra e salendo a bordo con un piccolo balzo.
«Dunque…» cominciò lui con aria concentrata. «Questa notte ho pensato a una cosa, una parte della melodia. Mi ha colto all’improvviso e non ho più dormito».
«Hai già scritto la melodia?» chiese esterrefatta Minako.
Moriva dalla curiosità di sentirla e sperava di essere all’altezza di quel compito perché lei non aveva ancora cominciato un bel niente invece.
Yaten la precedette, dirigendosi nel piccolo studio sottocoperta. Raccolse una manciata di spartiti da per terra e si sistemò alla tastiera.
«Ok, maestro. Sentiamo» annunciò lei, accomodandosi sul tappeto con le gambe incrociate e la chitarra in grembo.
«È solo l’inizio» precisò lui. «Non ci sono arrivato al ritornello».
«Sentiamo comunque» lo incoraggiò lei con un largo sorriso.
Quando Yaten mise le mani sui tasti bianchi e neri, Minako rabbrividì. Le venne in mente la prima volta che lo scorse suonare. In mezzo al caos della tempesta, con la maglia bianca bagnata dall’acqua e le lancette del tempo ferme all’improvviso.
Incapace di comprendere se i brividi fossero per lui, per il ricordo di quel singolare primo incontro o per la melodia agrodolce che scivolava da sotto le sue dita. Si lasciò trasportare, socchiudendo gli occhi e ascoltando quello che il crepuscolo gli aveva sussurrato all’orecchio e lui era riuscito a trasformarlo in musica.
«Cosa ne pensi?».
Quando lui terminò la sua esibizione, Minako era lontana con la mente. Lei aprì gli occhi, in preda ad uno strano ondeggiare dettato un po’ dalle onde che battevano al di sotto dell’imbarcazione e in parte per la canzone appena ascoltata.
Lui era lì, in attesa e forse per la prima volta nella sua intera vita voleva davvero sapere l’opinione di qualcun altro in merito a qualcosa che aveva scritto.
«Credo che…» le labbra di Minako s’incurvarono in un sorriso trattenuto, quasi malinconico. «Sia bellissima ma allo stesso tempo triste. Come una storia d’amore senza lieto fine. Di quelle che si concludono a fatica perché in realtà non si vuole lasciare andare l’altra persona».
Probabilmente Yaten si era fermato alla prima parte della “recensione” della ragazza, perdendosi la filippica sugli amori tormentati o se l’aveva ascoltata non la menzionò nella sua risposta.
«Sono sempre tristi le canzoni che canti».
Minako ebbe un deja vù. Lui le aveva chiesto il perché lo fossero al loro incontro davanti al falò.
«Perciò è adatta a te» concluse lasciandosi andare a una piccola smorfia che aveva tutta l’ombra di una risata.
Lei non poteva dire il contrario, lui aveva tremendamente ragione. E nella testa il pensiero che lui avesse scritto qualcosa che le calzasse addosso, qualcosa appositamente per lei, la riempì di gioia.
Batté tre colpi con la mano sulla cassa della chitarra acustica chiedendogli con lo sguardo di ripetere la parte iniziale della melodia così che lei potesse seguirlo con il suo strumento.
«Let me hold you, for the last time…it’s the last chance to feel again» cominciò a cantare lei con un filo di voce. Come fosse una confessione da fare a bassa voce, un ultimo desiderio. In effetti, se Minako avesse vissuto una grande storia d’amore destinata però al fallimento lei un ultimo abbraccio lo avrebbe chiesto.
E mentre continuava a pizzicare le corde, pensando a come poter mandare avanti quel testo appena abbozzato sulle labbra, non si rese conto che Yaten la stava guardando con lo stesso sguardo che un artista rivolge alla sua musa.
Un ultimo accordo alla tastiera e la voce di lui accorse in suo aiuto.  «But you broke me, now i can’t feel anything».
La frase più vera che lui avesse mai cantato. Se si fosse permesso di amarla, sicuramente lui ne sarebbe uscito distrutto e allora davvero, non avrebbe sentito più nient’altro al mondo che il sentimento per lei.
 
 
§§§
 
 
«Ora, tu mi spieghi cosa ci faccio io qui». Haruka svettava in altezza rispetto alle altre donne presenti all’esterno del locale. Le maniche della camicia bianca arrotolate fin sopra il gomito e le braccia conserte contro il petto strette come non mai per il disappunto.
Mamoru, vestito in una giacchetta sportiva ma dal taglio fashion di un egocentrico blu elettrico non smetteva invece di tormentarsi le mani.
«Un uomo non dovrebbe avere una spalla in queste occasioni?» domandò in preda all’agitazione. Non era solito esternare il proprio nervosismo in un occasione di disagio, ma il suo solito modo pacato sembrava aver lasciato posto a un tic compulsivo delle mani che non sapeva assolutamente dove mettere.
Lui non perdeva la calma. Era estremamente paziente e non era solito farsi intimorire, ma era da una vita che non usciva. Non lo aveva più fatto da quando era rimasto vedovo e prima di conoscere la metà perduta, il suo modus operandi di conoscere persone era di tutt’altro stampo.
Perciò era nervoso. Estremamente nervoso. Non sapeva cosa aspettarsi e soprattutto chi aspettarsi. A giusta ragione oltretutto, visto che quell’incontro era stato orchestrato da Haruka che non pareva aver una grande simpatia nei suoi confronti.
Ma una delle doti di Mamoru era quella di dare una seconda possibilità alle persone. Di cercarne il lato buono. Lui voleva credere che infondo, la bionda accanto a lui, lo considerasse quanto meno uno del team.  Magari un giorno sarebbero diventati buoni amici, perché nella vita tutto può accadere.
«Senti Bruce Wayne, è uno speed date di che spalla hai bisogno? Hai dieci minuti per parlare con ogni ragazza che ti capita davanti. Più facile di così…».
«Perché Bruce Wayne a sto giro?».
«Non lo so, sei un po’ damerino, tipo Batman…» blaterò distratta lei. Era infastidita da quella situazione. Lui le aveva mandato una sorta di s.o.s via whatsapp e l’aveva distolta dalle sue lamentele con l’amico ancora ricoverato.
Mamoru Chiba si stava prendendo troppe libertà. Era della “squadra”, ma Haruka riteneva fosse uno di quei giocatori che si tengono sempre in panchina perché in campo non brillano. Lui era per far numero, era il sostituto del quarterback temporaneamente infortunato.
Accidenti a te, Dan.
«Così non va bene…» commentò lei, vedendo la fila di giovani che si era radunata dinnanzi al cordoncino rosso di fronte alla porta del locale.
C’è troppa concorrenza per Pippi Calze Lunghe. Se poi mi rimane zitella dovrò organizzarle un altro appuntamento e non è il caso.
Le elucubrazioni di Haruka resero Mamoru ancora più nervoso al suo fianco.
«Ok, campione mettiti in fila». Decise di opzionare per la modalità motivatore di cause perse. «Tu tra poco gronderai di sudore se continui così e noi non vogliamo questo giusto?».
«Assolutamente no».
«Bene. Quindi VOLA in fila. Fai il disinvolto. Se lei arriva e ti vede al mio fianco capirà che il tronista della situazione sei tu. E diavolo, già sei agitato così. Serve a rilassarsi lo speed date ok? Zero tensione…». Le ultime due parole le fece risuonare vagamente zen.
Mamoru decise di seguire il consiglio. Forse non sapere chi doveva incontrare era l’idea migliore. Così avrebbe solamente parlato con un mucchio di ragazze senza dover dimostrare niente a nessuno se non a se stesso che nelle relazioni sociali non era un codardo.
 
 
Usagi arrivò su un paio di zeppe color jeans appesa al braccetto di Michiru pronta a far dietro front quando nel suo campo visivo entrò la figura di Haruka.
Aveva già avuto la sua dose giornaliera di Ten’ō urgeva una disintossicazione immediata.
«Bunny rallenta…» le sibilò sottovoce e sistemandosi meglio sul naso gli occhiali da sole, come se potessero renderla invisibile.
«Io ti lascio qui, okay? E se hai bisogno mi chiami. Io corro, promesso».
Sembrava tanto una madre intenta nelle raccomandazione alla propria bambina e prima che Bunny potesse protestare o l’altra salutarla, l’incubo biondo di Michiru interruppe quella che doveva essere una separazione netta e frettolosa proprio per evitare d’incrociare il fuoco nemico.
Non posso crederci. Michiru voleva nascondersi e correre il più lontano possibile.
«HA-RU-KA». Usagi mostrò tutto il suo entusiasmo nel vedere l’altra con una sorta di coro da cheerleader.
«Usami, ti sei proprio tirata a lucido!» commentò Haruka con un fischio di approvazione «complimenti». Le scoccò un occhiolino e Usagi, come da copione, sentì sciogliersi all’istante.
Oddio com’è fortunata Michiru. Pensò lei, incapace di resistere al fascino dell’artificiere, con gli occhi che le si erano illuminati per quel complimento. È sempre circondata da Haruka e da bei ragazzi…compreso Seya!.
Haruka interruppe i monologhi interiori di Usagi invitandola a mettersi in coda per entrare. «L’evento comincerà a minuti. Lui è già pronto. Vedrai ti piacerà!».
«Posso avere un aiutino? Un indizio su come riconoscerlo?».
«Sembra Bruce Wayne».
Usagi aggrottò la fronte e subito consultò wikipedia alla ricerca di una foto di tal personaggio.
«Le hai promesso batman?» domandò a bassa voce Michiru.
Haruka fece spallucce. «Si troveranno bene, vedrai».
«Ten’ō…ti giuro che…».
«Hollywood, ti serve un corso accelerato di minacce. Lo sai questo, vero? Non attacca» la stroncò insolente la bionda.
«Ooh è ricco…» commentò Usagi con gli occhi puntati sullo schermo del cellulare.
«È un moderno principe azzurro. Su, raperonzolo. Vai, che ci penso io a dare una mano al destino. Dovreste chiamarmi cupido!».
Michiru non riuscì a trattenersi dall’alzare gli occhi al cielo, mentre Bunny ovviamente si beveva ogni fesseria che usciva di bocca ad Haruka.
Usagi salutò l’amica e si diresse trotterellante all’entrata che piano piano stava venendo smaltita da un imponente bodyguard con auricolare e giacca nera indosso.
«Perché gliele dai da bere così?» domandò Michiru preoccupata che l’amica potesse rientrare delusa dalla serata.
«Oh ma smettila. Guarda che la gente merita di divertirsi ogni tanto». Le rispose Haruka componendo un numero di telefono.
Michiru si sentì punta sul vivo. Stava forse insinuando che lei era una bacchettona incapace di far la casca morta con un branco di single disperati?
«Joe, sono io. Ok, senti, fai in modo di mettere nello stesso gruppo giacca blu elettrico e la bionda con la gonnella a fiori rosa. Bene, amico. Grazie. Ti devo un favore». Haruka concluse quella chiamata facendo una smorfia che sembrava dire a Michiru un chiaro “te lo avevo detto”.
«Conosco il gestore. È stato un gioco da ragazzi» commentò.
Ma Michiru ancora piccata non stava nemmeno a sentirla. Haruka Ten’ō poteva conoscere l’intera costa californiana per quello che la riguardava. Dovevano fare a gara di amicizie? Perché lei avrebbe vinto su tutta la linea avendo nella sua rubrica un buon carnet di nomi di Hollywood.
«Ehy, Hollywood. Dici che possiamo parlare ora di quello che è successo o ti scappa il treno?».
Michiru assottigliò lo sguardo. Non le andava giù. Quella faccia perfetta che la spuntava sempre non l’avrebbe avuta vinta.
«Scusami. Io so come divertirmi, non ho proprio tempo per te».
Haruka dovette trattenersi dal sgranare gli occhi quando l’altra si sciolse i capelli frizionandoseli con una mano e con l’altra slacciò un bottone in più della scollatura.
Le mollò la borsetta in mano come fosse il suo personale portantino e vi buttò dentro gli occhiali da sole di Chanel.
«Ora vado» lo disse sottovoce, schioccandogli un occhiolino da civetta.
Maledizione. La bionda sudò freddo.
Michiru che andava a far la scema con gli scapoli di Los Angeles. Non che vantasse qualche diritto su di lei, ma la cosa non le andava a genio per niente.
Rimase imbambolata come una statua di sale e nella testa le parole di Dan che le ricordavano di non fare “cose da amish”. Non aveva minimamente compreso quali fossero e cosa non dovesse assolutamente fare in certi casi, ma ciò che era certo è che Haruka Ten’ō dopo aver incassato un brutto colpo non andava certo al tappeto. Lei combatteva.
«L’hai voluto tu Kaiō».
 

 
§§§
 
 
 
La fine di un’altra giornata si affacciava all’orizzonte con il sole calante sul mare.
Le luci dei locali si accendevano al suon di musica pompata nelle casse e tavolini affacciati sulle spiagge e i moli cominciavano a venir assediati dai fanatici degli happy hour.
Makoto aveva lasciato la pasticceria di Nevius con un peso strano allo stomaco, ma era certa che non si trattasse del dolce assaggiato. La mente era un po’ meno lucida tanto da convincerla, che forse, tra gli scatoloni presenti nel suo lucernario, avrebbe trovato qualcosa in più. Una risposta.
Lei non aveva mai desiderato scavare troppo a fondo in quello che era stato un passato dimenticato. Aveva la convinzione che se le era stata data un’altra possibilità e fatto tabula rasa di ciò che era prima, allora, l’unica sua preoccupazione era solo quella di andare avanti ed essere ciò che desiderava senza voltarsi più indietro.
 
Nello stesso momento la Blue lagoon scivolava placida sulle onde aranciate dagli ultimi raggi di sole.
Minako respirava a pieni polmoni la sensazione di libertà che le dava stare in barca e per la prima volta dopo lungo tempo, compose il numero di cellulare del padre. Aveva intenzione di dirgli la verità, di confessargli che non si sarebbe mai laureata perché non era ciò che voleva.
Yaten le si avvicinò. Prese posto accanto a lei, silenzioso come un ninja.
«Domani voglio andare in un posto con te» ammise con voce piatta e un po’ roca. E se solo il mare fosse stato meno placido quell’affermazione sarebbe andata persa sino al fondo dell’oceano senza mai arrivare alle sue orecchie.
 
Dalla costa Seya seguiva con lo sguardo la sagoma della vela dell’imbarcazione.
Senza riuscire a credere al viaggio in solitaria di suo fratello e al fatto che Yaten non si fosse mai più fatto vivo. Lo aveva creduto morto, lo aveva fatto l’intera famiglia. Lui, tanto bravo ad aiutare la gente in situazioni catastrofiche, era incapace di convincere se stesso ad annullare un lutto mai esistito.
Hotaru gli strattonò la mano sottraendolo a quegli oscuri pensieri.
«Voglio andare a casa dalla mamma» commentò infreddolita per il vento che si era alzato.
Seya annuì col capo. «Le prendiamo dei fiori prima?» le chiese lui ricevendo un largo sorriso in risposta.
«Li scelgo io però». Decise la bambina come a dire che conosceva meglio di chiunque altro i gusti della madre.
Lui acconsentì e insieme si diressero al chiosco profumato alla fine della via. Ignari che alcun regalo avrebbe potuto ricucire un legame divenuto così labile come il loro.
 
 
§§§
 
 
Usagi aveva la ferma convinzione di riconoscere il vero amore. Di film romantici ne aveva visti a bizzeffe, teneva monitorato costantemente l’oroscopo, aveva una vasta cultura in fatto di riviste per ragazze e soprattutto si era fatta leggere la mano. Sapeva cosa aspettarsi, dunque. Era un’allieva pronta e preparata. In passato aveva esagerato con lo stalking e ne aveva preso coscienza, più o meno.
Dunque, una volta che l’uomo giusto si sarebbe seduto dinnanzi a lei avrebbe sicuramente sentito le farfalle nello stomaco. Lui l’avrebbe guardata nel modo in cui Jack fa con Rose mentre la ritrae sul Titanic e allora sarebbe scoccata la scintilla.
Per ogni dubbio, in ogni caso, Google avrebbe trovato risposta per lei.
«Forza Bunny!» si fece coraggio ad alta voce, stringendo la mano destra in un pugno leggermente sollevato verso l’alto fino a che qualcosa non la confuse enormemente.
Nel gruppo affianco al suo aveva fatto ingresso Michiru anziché andare a casa.
«Ma Michi-sama ha un marito e…» non riuscì a continuare il suo borbottio perché persino Haruka che sussurrò all’orecchio del gestore del locale qualcosa di fin troppo losco, sembrò volerle pedinare.
«Ma che cavolo…». La sua testa si girò in direzione dell’altra bionda, forse era lì per farle un segnale quando il suo cavaliere avrebbe preso posto di fronte a lei?
«Oh ma io non ho certo bisogno dell’aiuto di nessuno per riconoscere il vero amore» constatò ad alta voce e con una smorfia leggermente piccata.
Mamoru, sotto invito del moderatore della serata, prese posto al suo tavolo. Le sorrise, sistemandosi la giacca e aspettando che il conto alla rovescia partisse. Come si poteva conoscere qualcuno in pochi minuti? Quali erano le domande giuste da fare per andare oltre all’impatto visivo e darsi una possibilità? Avrebbe voluto esistesse un manuale, ma suo malgrado si rese conto di dover davvero improvvisare.
 
Usagi tentò di darsi un contegno nel momento in cui ebbe quella visione.
Lui, alto, moro, con gli occhi chiari e le spalle larghe era esattamente il suo prototipo di uomo; anche se a dire il vero la maggior parte della popolazione maschile lo era, purché fosse di bell’aspetto.
Il timer partì per tutti i partecipanti della serata. E se Mamoru avesse conosciuto Usagi avrebbe mandato a quel paese metà delle ansie, poiché se lui non aveva la minima idea di come far cominciare quella conversazione lei ne possedeva sin troppe.
«Piacere, Usagi!» civettò lei allungandogli mollemente la mano.
«Mamoru» sorrise educatamente chiedendosi come avrebbe riconosciuto la sua ragazza.
«Di cosa ti occupi?» domandò lei. Prima di tutto sondava il terreno. Un uomo doveva pur mantenerla e viziarla. Bunny aveva degli standard abbastanza alti visto che l’unica cosa che sembrava fare in modo discreto era la babysitter.
«Al momento sono nel corpo della SWAT anche se…».
«MA ALLORA SEI TU!» gridò lei, presa da un entusiasmo tale che la costrinse ad alzarsi dalla sedia poggiando i palmi sul tavolo.
«L’amico di Haru Haru, intendo» tentò di aggiustare il sorriso gongolando. Haruka aveva mantenuto la parola. Le aveva consegnato su un piatto d’argento un vero e proprio stallone.
«Ah». Mamoru non era uno che giudicava dalle apparenze ma rimase allibito per la scelta operata dalla propria collega. In effetti era bionda il che corrispondeva all’unica caratteristica che l’altra le aveva rivelato in anticipo. «Sei l’amica di Michiru» sentenziò con un filo di voce.
Lei annuì col capo. «Che ti ha detto di me quel payboy di Haru Haru?» indagò la ragazza crogiolandosi nella speranza che fosse stata fatta di lei una descrizione che esaltasse il suo essere.
«Payboy?» il moro era piuttosto confuso.
«Si dai…quelle persone che hanno la stuoia di donne».
Mamoru era in netta difficoltà. Forse serviva l’aiuto di un dizionario apposito per interpretarla o forse la sua interlocutrice parlava per slang. Corrucciò le sopracciglia, inarcandole in una smorfia concentrata fino a che, in qualche modo, riuscì ad arrivare a capo dell’enigma. Gli sembrava di star partecipando a un quiz televisivo dove le parole vincenti erano “playboy” e “stuolo”.
«Oh, beh…» cosa poteva inventarsi? Non poteva certo dirle che l’aveva descritta con le forme di Pamela Anderson. «Voleva mantenere un certo mistero sul nostro incontro, quindi non è stata molto eloquente».
«Momento». Usagi lo stoppò col palmo della mano, cercando su google la parola usata dal moro. Come diavolo si scrive? Elo-che?! Non posso mica fare una figuraccia.
«Usagi, posso farti una domanda?» tentò un po’ timoroso.
Lei non si lasciò sfuggire l’occasione, tutt’altro. Lui si stava interessando a lei e Usagi pensò bene di lasciar perdere la ricerca sul dizionario.
«Quanti anni hai?».
«Oh andiamo…» fece una risatina. «Non si chiede l’età ad una signorina».
 
Il tempo a loro concesso terminò con un trillo fastidioso. E se Usagi si corrucciò per quella interruzione, lui si alzò con un mare di dubbi per la testa.





Note dell'autrice:
Aiuto. Si vede che non sono abituata a scrivere di Usagi e Mamoru, ho fatto una gran fatica. Probabilemente perché lei è un caso perso e lui un uomo fatto e finito...ma...the show must go on! XD Ho concluso così e ripartirò con una sorta di flashback per recuperare tutti i pezzi della serata altrimenti qui scrivevo altre 20 pagine a vuoto. Detto questo, spero non vi siate annoiate troppo a leggere sto popò di roba. Grazie mille a chi ci arriva sempre in fondo e mi lascia il suo punto di vista. Al prossimo aggiornamento!

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Capitolo 13
*** Bombe emotive ***


ATTENZIONE: Il seguente capitolo tratta (da metà in poi) una tematica delicata. Poiché il resto della storia non è da "bollino rosso", il raiting rimane perciò arancione. Leggete quindi SOLO fin dove ve la sentite. 
Mi auguro che nessuno rimanga turbato perché non è nel mio intento. Per chi non volesse arrivare a fine capitolo provvederò a un mini riassunto privo di particolari da inserire in testa al prossimo così che tutti possano continuare la storia senza problemi.

 


Le bombe esplodono. Alcune in modo silente, altre fanno un gran baccano. Ma la cosa che hanno sempre in comune è una: la distruzione.
Quelli innescati sulle costa Californiana, tra Malibù e Los Angeles, erano tutti ordigni della stessa natura. Erano gli esplosivi più pericolosi per l’uomo. E non erano dotati di micce, non scatenavano fiammate, fumo o radiazioni. Erano bombe emotive. Di quelle che lacerano prima l’animo e poi distruggono certezze e spesso i rapporti umani.
 
La prima esplosione avvenne la sera precedente alla fine dell’incontro organizzato da Haruka per Usagi e Mamoru.
L’aria della sera era insolitamente calda, come quella che si avverte prima dell’arrivo di un terremoto.
Le onde dei capelli blu di Michiru sembravano danzare al ritmo del soffio del vento. Lei rideva con un paio di ragazzi. Uno di quei suoni che una donna emette come un richiamo per far cadere in trappola il suo vero obbiettivo. Era una tacita scommessa tra lei ed Haruka quella. Chi sapeva divertirsi di più? Chi sarebbe uscita con più accompagnatori dallo speed date solo per dimostrarsi più abile nell’arte della conquista? Michiru non lo aveva fatto con l’intento di trovare un compagno, né tanto meno l’uomo di una notte. Aveva dispensato sorrisi e fatto la carina, ma sempre senza malizia. Aveva trasformato i due ragazzi alti e di bell’aspetto che l’accompagnarono fuori dal locale nei suoi più fidati complici e quando si era girata per l’insistenza dello sguardo di Haruka sulla propria schiena, le aveva fatto un cenno del capo. Uno di quelli soddisfatti che volevano dire “hai visto di cosa sono capace? So ancora come prendere all’amo qualcuno e mi diverto come una matta a farlo”.
E la bionda era caduta in trappola o semplicemente aveva deciso lei stessa di affondare i piedi in quella tela tessuta con tanta perizia per l’intera serata dall’altra.
«Hai vinto» le disse avvicinandosi con quel suo fare un po’ di superiorità e poco disposto ad ammettere una sconfitta. Ma in quel caso sembrava voler depositare sul serio le armi.
«Puoi ripetere, scusa? Non ti ho sentita bene» la pungolò Michiru, forse troppo piena d’orgoglio per quell’insulsa battaglia appena vinta.
«Non sono una che si ripete. Ma ho capito. Sai come far cadere la gente ai tuoi piedi. Sai spassartela».
Fulminò con lo sguardo i due bell’imbusti tutti tirati a lucido, intimandoli a portare i loro spiriti bollenti altrove. Lontano da quella sirena blu che incantava uomini e donne. Probabilmente sarebbe riuscita ad affondare un’intera flotta di marinai senza nemmeno impegnarsi troppo, ne convenne silenziosamente Haruka.
«Hai usato i trucchi da strizzacervelli o…».
«Ti pare che riveli i miei segreti a chiunque?».
Erano vicine. E le loro anime, forse per la prima volta dal loro incontro erano in sintonia. Se uno sconosciuto si fosse fermato a guardarle avrebbe sicuramente scorto quella scintilla che brilla in due persone innegabilmente attratte l’una dall’altra.
«Come credi sia andata la serata per Usagi?» virò la conversazione Michiru. Faceva sempre un passo indietro non appena sentiva il controllo scivolarle via dalle mani. Non poteva certo rischiare una volta in più dopo quel bacio che le aveva mollato prepotentemente sulle labbra senza che lei stessa lo avesse calcolato. Forse era quello uno dei suoi problemi più grandi. La sua mania del controllo. Il suo pianificare ogni dettaglio. Era stato così con il suo matrimonio, con la scelta della casa, con il giardino coltivato alla perfezione, con la ricerca dell’abito perfetto per ogni suo cliente. L’unica cosa inaspettata nella sua vita era stata Hotaru, ed era meravigliosa. Ma Michiru non riusciva a concepire ugualmente di uscire dai suoi schemi e che forse osando, lasciando andare il freno a mano, avrebbe trovato dietro l’angolo un’inaspettata felicità.
«Ha sicuramente lasciato il numero per dottor strange». Le rispose con le mani in tasca Haruka. Avrebbe voluto invitarla da qualche parte, o ancor meglio a casa sua. Ma sapeva che Michiru non le avrebbe dato soddisfazione, non quella sera per lo meno.
Avrebbe mai ceduto? L’unica certezza in possesso di Haruka era quella di trovarsi davanti, senza ombra di dubbio, una donna diversa dalle altre. Michiru non si sarebbe mai fatta comprare da un paio di calici di champagne o da uno dei suoi sorrisi conquistatori. Haruka con lei avrebbe dovuto davvero impegnarsi,  doveva usare l’artiglieria pesante; era una sfida e voleva vincerla a tutti i costi. Nonostante il tempo che ci sarebbe voluto.
 
«Michiru».
Stagliato nell’ombra di un lampione, come un incubo per Haruka, comparve Seya.
Da quanto era lì? E cosa diavolo voleva?
Persino Michiru sembrò in difficoltà nel vederlo muovere una serie di falcate in loro direzione.
«Che cosa stai combinando?» il tono da rimprovero e lo sguardo tra il deluso e l’indignato.
«Ti metti a partecipare a questo genere di cose?».
«Ho accompagnato Usagi. Mi sono assicurata che non si cacciasse in qualche guaio per colpa di un appuntamento al buio» sostenne lei senza dover calibrare le sue parole. Stava dicendo la verità in fine dei conti, aveva accompagnato l’amica e poi si era concessa un’innocua serata libera.
Haruka fissava il ragazzo come si guarda un insetto che ti sta dando il tormento e non hai idea di come farlo fuori prima che lui ti sfidi ronzandoti ancora una volta attorno.
«E Usagi aveva bisogno anche del tuo amico?» la incalzò lui ancora una volta.
Michiru non era solita alterarsi. Aveva imparato a mantenere un certo self control nel suo mestiere, ma Seya la stava pungolando con troppa insistenza.
Nemmeno lui era solito alzare la voce, ma aveva il fare deluso che per una vita suo padre le aveva riservato e questo la metteva in seria difficoltà.
«Perché non ti rilassi?» fu Haruka ad intervenire e venne prontamente fulminata dagli occhi celesti della sirena dai capelli blu.
«Sto parlando con te per caso?».
«Credo tu stia parlando di me, però». Lei sorrise beffandosi di lui e Michiru scorse l’irritazione nascere sul viso del marito.
«Seya, facciamola finita. Andiamo a casa» tentò di sedare gli animi la mediatrice prevedendo un finale dai toni troppo accesi.
«Ma Usagi non è ancora uscita». Puntualizzò il moro. Sembrò farle il verso e fu quel suo atteggiamento a mettere la moglie sulla difensiva. Michiru lo conosceva da una vita, ma quel suo lato non lo aveva mai visto prima. Era sempre stato rispettoso, un uomo di cui non ci si poteva lamentare se non fosse stato per il suo essere distante.
«Con chi hai lasciato Hotaru?» la preoccupazione nacque nel suo petto di madre ignorando la mancanza di fiducia nei suoi confronti.
«Ora te ne preoccupi? È tutta sera che chiede di te».
«Seya, dov’è Hotaru?» insistette Michiru con voce che nemmeno lei riconobbe. Pareva quasi un ringhio basso e soffocato.
«In macchina. Dorme».
«Allora andiamo» ripeté lei, questa volta con più decisione.
«Puoi accompagnare Usagi?» domandò ad Haruka prima di andarsene.
Michiru ebbe l’impressione che la bionda avesse chiuso le orecchie, troppo impegnata a fissare Seya in cagnesco.
«Haruka?».
«Ma certo Michiru» un sorriso luciferino sul suo volto e gli occhi sempre sul suo avversario. «Su di me puoi sempre contare».
Haruka aveva appena innescato il conto alla rovescia all’esplosione. Seya colpito nell’orgoglio di uomo non aveva intenzione di affondare senza combattere ed eccolo lì: l’istinto più basso.
Michiru poté giurare di aver avvertito una sorta di “crack” derivante dal controllo del marito quando lui contrattaccò senza usare le parole e afferrando il bavero della camicia immacolata della bionda.
«Che stai facendo Seya, smettila. Finiscila subito» lo intimò Michiru cedendo al panico. Non sapeva più per chi voleva sedare quella rissa. Se la preoccupazione era per il fatto che Haruka sapeva sicuramente come combattere e avrebbe messo al tappeto il moro, o perché l’artificiere era una donna ed era inaccettabile che lui pensasse anche solo di torcerla un capello.
Michiru lo strattonò dalla vita serrando le palpebre.
Haruka e la sua faccia da schiaffi non fecero che aumentare il crepitio di rabbia e gelosia che stava offuscando Seya. E lei lo colpì, un pugno ben assestato all’altezza della mascella.
Lui mollò la presa per il dolore. Barcollò all’indietro rischiando di far cadere Michiru che lo stava tirando con tutte le forze per trattenerlo.
Usagi uscì dal locale e si portò una mano alla bocca schiusa in una “o” di incredulità misto a panico alla scena che le si parò sotto agli occhi.
«Dai coglione, credi di riuscire a menarmi?». L’adrenalina faceva straparlare Haruka o forse era il suo essere attacca brighe che usciva allo scoperto. Gliele avrebbe date di santa ragione, non si sarebbe certo risparmiata. Piuttosto si sarebbe beccata una denuncia, ma lo avrebbe fatto scappare a gambe levate e metà dei problemi si sarebbero risolti con la dipartita dello psicologo da strapazzo.
Seya ripartì all’attacco. Non era un combattente, era un uomo accecato dalla gelosia che non trovando più appiglio nella ragione, se provocato, diveniva furente come un toro a cui si sventola sotto agli occhi bandiera rossa.
«FINITELA!» a niente servivano le grida di Michiru.
«Michi-sama» Usagi intimorita arrivò alle spalle dell’amica. «Seya è un uomo che…» non fece in tempo a finire la frase che nel suo campo visivo entrò Mamoru. Di corsa prontamente sedò la scazzottata mettendosi in mezzo ai due rivali. Rischiò di rompersi il setto nasale sotto il colpo di Seya indirizzato ad Haruka e agli occhi di Usagi risultò il cavalier senza macchia e senza paura accorso per salvare la donzella di turno.
«Vorrei essere io la principessa in pericolo» bofonchiò accecata dalla sua visione da commedia romantica della vita prima di tornare alla realtà dei fatti.
«Amico sparisci. Che ti salta in mente di mettere le mani addosso a una donna?». Seya strizzò gli occhi incredulo. Quel demonio biondo era una donna?
«Cristo, Bruce. Così mi screditi. Una femmina non può difendersi?». Haruka si scrollò di dosso il moro con un ultimo spintone e piccata fissò il collega.
«Non travisare le mie parole» rispose secco Mamoru mettendo almeno un metro tra i due e deciso a porre fine ad ogni polemica.
«Cazzo, Michiru. Sul serio?». Per la prima volta, Seya, aveva lo sguardo allucinato quanto quello di un pazzo, reduce da una mazzata dietro l’altra. Michiru stava sgretolando il suo orgoglio senza remore. Si sarebbe mai fermata? Lui sarebbe riuscito a racimolarne qualche pezzo o sarebbe andato tutto perduto per sempre?
«Con una donna?!».
«Oh cacchio è vero» commentò a bassa voce Usagi grattandosi la nuca.
Il cuore di Michiru prese a battere l’impazzata. Solo in quel momento ne aveva preso coscienza. Non che non lo avesse capito sin dal principio, perché non aveva mai dubitato che l’altra fosse una donna. Non si era mai soffermata su quell’aspetto perché l’aveva sempre e solo vista come una persona a prescindere dal genere.
Il proprietario del locale uscì domandando alla bionda se dovesse chiamare la polizia. Ma con un gesto Haruka lo rassicurò invitandolo a rientrare nel proprio bar.
«Brucia eh…» lo disse sottovoce, dando una spallata a Seya. Non riuscì a risparmiarselo.
«Ci vediamo al lavoro Hollywood».
 
Michiru, incapace di proferire parola, rimase immobile tra le macerie di quell’esplosione di cui solo loro erano i superstiti.
 
 
§§§
 
 
 
Il sole era sorto da poche ore e Haruka sollevava con le scarpe da corsa la polvere del Trancas Canyon. Si preannunciava una giornata torrida e le poche ore di sonno accumulate quella notte si facevano sentire.
Le onde del mare danzavano placide sotto di lei, accarezzando la costa rocciosa. Gli auricolari alle orecchie le trasmettevano le canzoni mandate in radio quella mattina a un volume troppo poco alto per coprire i rumori che la circondavano.
Haruka gettò un’occhiata distratta al numero dei battiti presenti sul display del proprio orologio.
Un scalpiccio alle sue spalle si faceva sempre più nitido sino a che non la raggiunse per poi affiancarla. Il fiato di un’altra persona al suo fianco. Con la coda dell’occhio riconobbe il profilo della punta di un piccolo naso all’insù.
Rei aveva le gote rosse e lo sguardo puntato in avanti.
Haruka non disse nulla continuando a correre. Non si erano più sentite dalla litigata tra loro e lei non si era premurata di cambiare l’itinerario per il proprio allenamento.
«Si preannuncia una di quelle tipiche giornate in cui prende fuoco ogni cosa. Fa troppo caldo…» commentò la mora in preda al fiatone, come se fosse una normale conversazione da affrontare, come se fosse tutto in ordine e niente fosse cambiato tra loro.
La bionda aumentò il passo, staccando l’altra di poco. Ma Rei era una combattiva e con uno spirito di competizione sempre acceso.
Non si lasciò sopraffare dalle gambe ormai provate da una lunga salita e riprese la sua posizione accanto all’altra.
«Ho fatto progressi. Ora riesco a raggiungerti» disse con una punta d’orgoglio. «Prima faticavo a starti dietro» constatò col fiato via via sempre più grosso.
Haruka sapeva di poterla seminare. Se avesse spinto un po’ di più avrebbe guadagnato terreno sufficiente per arrivare prima di lei di almeno cinque minuti con passo costante, ma ne sarebbe uscita distrutta. E quello più di un allenamento sarebbe risultato un’inutile tortura. Una volta poi arrivata alla meta, in cima alla scogliera, a ridosso del dirupo dove la strada finiva sarebbe anche dovuta tornare indietro. A meno che non si fosse buttata di sotto, ma quella non era certo un’opzione plausibile. Perciò rimase. Sempre in silenzio, ma questa volta spegnendo totalmente la musica di sottofondo.
«Non indovinerai mai chi ho sognato questa notte». Rei sapeva di star facendo un monologo e che la cosa forse non si sarebbe mai trasformata in una conversazione vera e propria, ma era l’unico modo di tentare per ricucire quel rapporto logorato da una stupida discussione. Conosceva Haruka e non avrebbe mai e poi mai fatto il primo passo. Per contro, la bionda conosceva a fondo Rei e sapeva che non era solita mollare. La tenacia era una cosa che segretamente le aveva sempre invidiato, ma alle volte, come in quel caso, poteva essere un’arma a doppio taglio. Sarebbe stata capace di non arrendersi e parlarle a vuoto per un mese se si fosse messa in testa quello come obiettivo.
«Frank» rivelò Rei. «Il camionista che ci ha fatte incontrare in Louisiana».
«So chi è». Haruka spezzò il silenzio in modo secco, ma diede modo a Rei di capire che la stava ascoltando.
Haruka era testarda, aveva uno spirito che s’incendiava con nulla, peccava di presunzione, ma per quanti potessero essere i suoi difetti aveva un pregio che li sotterrava tutti: era buona. E lei aveva compreso benissimo che l’amica stava compiendo uno sforzo enorme per chiederle scusa.
«Non ti domandi mai che fine abbia fatto? Se guida ancora il camion? Se passa ancora alla stessa tavola calda e magari pensa a te con quelle bretelle troppo lunghe e i pantaloni logori di tuo fratello?».
La bionda arricciò il naso. Una folata di vento sollevò un fastidioso polverone rossastro che rischiò di farla starnutire.
Prima che Rei lo nominasse, ad Haruka non era mai tornato alla mente Frank. Lo conservava in un cassetto della memoria e a sentirne il nome certamente la mente correva solo a lui. A quella montagna gentile che le aveva dato un passaggio portandola sulla strada per la vita che ora conduceva.
Lui le aveva dato le chiavi della libertà, eppure non gli aveva mai riservato un pensiero profondo. Non si era mai domandata dove fosse e cosa stesse facendo, semplicemente perché Haruka al passato guardava con cautela. Il Kansas, gli amish e la sua fuga erano come un vaso di Pandora. Occorrevano delle mani di velluto per aprirlo e guardarci dentro sino in fondo.
Chissà però se per lui era come diceva Rei. Se ogni tanto gli spuntava un sorriso pensando al loro incontro. Se mangiava ancora in quel posto triste e desolato.
Arrivarono al loro traguardo. Alla strada chiusa che terminava con il dirupo roccioso.
Il vento a quell’altezza soffiava forte e caldo come una tempesta nel deserto.
Haruka poggiò le mani sulle ginocchia recuperando fiato e Rei la imitò. Fu solo quando l’altra rialzò la zazzera bionda che l’amica la notò in viso per poi scorgere qualcosa d’insolito.
«Ma che hai fatto?» domandò con sguardo allarmato.
«Che?».
«Il labbro…».
Haruka fece spallucce. Il suo classico modus operandi per rispondere a domande scomode.
«Hai fatto a cazzotti o era un criminale con in mano una bomba che assolutamente dovevi evitare innescasse?».
«La prima che hai detto».
«Non ci credo…» Rei scosse la chioma nera raccolta nella lunga coda di cavallo. «Guarda che non ho i soldi per la cauzione se ti sbattono dentro».
«Perché…se li avessi verresti a tirarmi fuori?».
Rei portò le mani ai fianchi, inspirando ed espirando profondamente per riprendere fiato e prepararsi alla discesa.
«Che domande. Ma certo».
«Persino se io fossi dalla parte del torto?».
«Haruka». La mora le sorrise. «Tu lo sei praticamente sempre».
«Sarà per le cose amish che faccio» citò Dan sbuffando, per poi azzerare il cronometro.
«Questa volta però lo ero io».
Haruka fece fatica a comprendere le parole dell’altra.
«Sono io che ho sbagliato. Scusami…». Rei abbassò lo sguardo colpevole.
«Abbiamo passato di peggio, per strada» concluse l’altra.
Era un modo per dire che accettava le sue scuse, erano amiche come prima?
«Adesso muoviti. E parla meno. O te lo puoi scordare di starmi dietro e arrivare con i polmoni interi giù».
Haruka stirò le braccia per poi avviarsi verso la discesa. E Rei ne ebbe la certezza. Era di nuovo tutto al suo posto.
 
 
§§§
 
 
 
Dopo il boato emotivo di quella notte solo la desolazione. Ecco cos’aveva provato Michiru nel rientrare a casa. Aveva varcato la soglia con il peso di Hotaru addormentata addosso e le aveva rimboccato le coperte.
Datole il bacio della buona notte sulla fronte aveva aspettato qualche sospiro della piccola prima di allontanarsi, e spenta la luce della stanzetta, rimasta nella penombra della finestra con le imposte aperte, si erano affacciati i fantasmi.
Michiru aveva sentito il gelo addosso e si era stretta le braccia al petto frizionandole con i polpastrelli.
Solo vuoto attorno a lei. Quello che aveva percepito ad ogni rientro dalle spiagge Hawaiane con una madre sottomessa e un padre che manifestava la propria presenza solo col disappunto e una ferrea disciplina.
Una volta però c’era il pensiero di Seya a salvarla. A volte guardava oltre il vetro della camera il cielo trapuntato di stelle e dalla fitta vegetazione appariva lui; con la pelle abbronzata, i bermuda perennemente indosso e il sacchettino di conchiglie rare appeso in vita.
Le bastava averlo lì, vederlo sorridere e accomodarsi sul prato tagliato all’inglese come fosse un soffice piumone per sentirsi di nuovo serena ed essere grata per averlo nella propria vita. Lui rimaneva sino a che il sonno non la coglieva e non appena Morfeo le aveva sussurrato all’orecchio, lui tornava a casa nel cuore della notte, rientrando dalla finestra che Yaten teneva aperta. Ma in quell’oscurità, essere sotto allo stesso tetto dopo averlo visto infuocato dallo stesso sdegno del padre, per Michiru era tutt’altro che un sollievo.
Doveva cambiare la serratura? Rifilargli una seconda volta le carte del divorzio e accantonare ogni passo fatto verso una possibile riconciliazione?
Lei non aveva mai immaginato di fallire in quel matrimonio così tanto desiderato, ma allo stesso tempo non voleva essere un uccello in gabbia come sua madre. Non voleva un uomo che le tarpasse le ali, non voleva esser ridotta ad un’ombra sul muro o ad uno spettro vagante in una bella villa di Beverly Hills.
Suo padre avrebbe schioccato la lingua, scosso il capo per l’ennesima volta e le avrebbe fatto pesare il fatto di essere una donna tanto debole da farsi piegare da un mollusco, perché aveva sempre definito così Seya. Un uomo che si nascondeva dietro successi raggiunti grazie all’intelletto e probabilmente al denaro di una famiglia benestante, anziché prestare servizio per il proprio paese sotto alle armi.
Michiru rimase nella stanzetta della figlia dove gli astri fosforescenti brillavano sul soffitto, chiudendo fuori dalla porta il mostro per non affrontarlo; come un bambino che tira le coperte sin sopra al capo per nascondersi dall’uomo nero o dalla cosa cattiva che si nasconde sotto al letto.
 
 
§§§
 
 
«Mi ha fatto recapitare un biglietto con un coniglietto e a fianco un venticinque. Fammi capire, dunque. Mi hai organizzato un appuntamento con una ragazzina?!». Mamoru si sentì venir meno. Erano cinque anni di differenza che però in un rapporto potevano pesare come macigni. E nella sua mente era scattata un’ignobile scenetta di Bunny che lo chiamava Mamo-sempai in divisa da marinaretta e domandava con tono languido aiuto per i compiti a casa.
Il moro, che aveva una certa integrità da mantenere, scosse il capo per scacciare quel pensiero perverso dalla testa e ritrovare la lucidità che richiedeva il suo lavoro.
«Guarda che vuol dire è maggiorenne, non ti arresta nessuno, tranquillo» commentò distrattamente Haruka intenta a controllare che la propria ricetrasmittente funzionasse per poi sistemarsi al meglio l’auricolare nell’orecchio destro.
«Haruka, io non so se…».
Lei lo fermò prima ancora potesse continuare la frase, aveva tolleranza zero per i drammi inutili e inesistenti come quelli. «Senti, sei stato bene? Ti piace? Ci faresti una gita per sessolandia? Che te ne importa. Ci sono problemi più grossi nella vita».
«Sì, come io che metto a rischio il mio setto nasale perché tu fai a botte con gli uomini sposati».
«È una predica per caso? Perché non ti ho chiesto io d’intervenire». Lei lo fulminò con lo sguardo azzurro e il labbro ammaccato dalla zuffa della sera precedente.
«Ten’ō da quando fai la sfascia famiglie?». Setsuna, visibilmente accigliata per quanto aveva udito, s’intromise in quella conversazione. Senza invito anche lei, esattamente come aveva fatto Seya prima del sorgere del sole.
Haruka sospirò pesantemente, cercando di mantenere un basso profilo trattandosi sempre del suo superiore. «Capo, da quando s’intromette nelle vite altrui?!».
«Da quando metti in mezzo i miei agenti nelle tue scorribande» commentò diretta la donna.
«Le piace proprio Bruce» borbottò con tono canzonatorio la bionda sotto lo sguardo confuso di Mamoru. Lui navigava nelle acque dell’ignoranza come ogni uomo, forse con dei sottotitoli alla propria vita avrebbe avuto una vaga idea della situazione in cui era immerso, ma probabilmente persino con quelli avrebbe avuto difficoltà a comprendere che il capo delle operazioni aveva visibilmente un debole per lui. E dopo quella costatazione Haruka si sistemò in posizione. Dietro all’auto della polizia pronta ad intervenire in caso di necessità.
Contò i secondi al suo arrivo. Sentiva solo l’inesorabile attesa scorrere e ogni altro trambusto derivante da quella situazione divenne un flebile ed ovattato suono di sottofondo.
Eccola, l’apparizione. Dovette contare soltanto fino a venticinque e Michiru si fece largo tra la marmaglia di agenti che contornavano la macchina di Setsuna.
Le sue dita affusolate s’incastrarono tra la chioma cerulea imprigionando le lunghe ciocche in uno chignon improvvisato. Una maglietta bianca extralarge indosso e un paio di jeans macchiati di tempera. Doveva essere scappata di casa non appena aveva ricevuto la telefonata di rito per intervenire sul posto. Ed era ancor più bella così di quando si agghindava di tutto punto per un appuntamento. Non che ne avessero avuto uno vero e proprio loro due, ma Haruka ne aveva la certezza. Si rese conto di essere imbambolata nel momento in cui di Michiru vide solo il labiale senza udirne le parole e si risvegliò bruscamente da quello stato di trans, come quando ci s’immagina di cadere, vedendo spuntare il viso tirato di Seya.
«Cristo» soffocò sul nascere quello che le stava scappando di bocca grazie alla mano sulla spalla di Mamoru che la intimò a tacere, o quanto meno a starsene buona senza fare ulteriori danni.
 
«Ok, Sets. Resoconto della situazione». Michiru era telegrafica ed estremamente seria. Haruka la notò irrigidita quasi le stessero puntando tra le scapole la canna di un fucile. Era tesa come non l’aveva mai vista e la sua bellezza d’improvviso pareva di granito.
«Un insegnante ha chiamato il 911 che ci hanno girato le informazioni del caso. Qualcuno, uno studente pare, è entrato armato a scuola. La donna ha sentito degli spari ed è riuscita a barricarsi in biblioteca con la sua classe. Degli altri non sappiamo nulla» riassunse Setsuna tutto d’un fiato.
«Quante le vittime?».
«Una accertata».
«Possibile non si sappia altro?». Michiru parve sul punto di cedere. Haruka non l’aveva mai vista fragile come in quel momento, da granito era divenuta di cristallo all’improvviso.
«Michiru ho bisogno di te» sussurrò Setsuna con un filo di voce. «Te la senti?».
«Si» rispose lei socchiudendo gli occhi per un momento e mettendosi la cuffietta. «Si, scusami. Ce la faccio. Ok». Inspirò ed espirò. Alla ricerca di ogni singolo briciolo di calma racimolabile per la situazione. «Abbiamo il cellulare dello studente?».
Setsuna rispose col capo in segno di diniego.
«Chiamiamo il telefono della scuola. E speriamo sia lui a rispondere».
La donna fece partire la chiamata. Il trillo di un telefono rimbombò per i corridoi apparentemente vuoti dell’istituto.
«Perché devono succedere queste cose…» sussurrò Michiru tra sé e sé e Seya la udì. «Se non ce la fai devi solo dirlo» disse sottovoce come fosse un segreto tra loro quello appena soffiato al suo orecchio. Lei lo guardò torva, decisa a non mollare.
Un altro trillo, ma solo fantasmi all’altro capo.
«Meiō». Seya la fissò eloquentemente. Sapeva che la moglie era reduce da un’esperienza non ancora superata del tutto. Quella pressione avrebbe potuto spezzarla irrimediabilmente. Lui vedeva ogni giorno le menti altrui incrinarsi sotto il peso gravoso degli eventi terribili ai quali assistevano.
Haruka non riuscì più a trattenersi. Fece scattare a vuoto il grilletto come un’eloquente risposta alle parole del giovane e lui, per tutta risposta, la fissò come la peggior infezione al mondo da debellare.
«Andiamo…» sibilò Michiru ignorando gli sguardi di fuoco dei due pretendenti.
Un altro squillo.
Un alito di vento caldo.
«Ha una spalla, puoi star sereno» commentò la bionda.
Se solo si fossero trovati su una strada polverosa vestiti in pieno stile cowboy sarebbero risultati i perfetti interpreti di un film western.
Michiru perse la concentrazione nel sentire la voce della bionda che tirava a segno le proprie frecciate e nel frattempo un passo cauto e silenzioso, si avvicinò alla cornetta sulla scrivania del preside.
«Non permetterti di parlare quando non sai cosa è meglio o no per lei».
«Parlo finché mi pare» controbatté Haruka imbracciando il fucile di precisione, quasi volesse minacciarlo con quello.
«Pronto?!» Michiru interruppe il battibecco dei due con un gesto della mano. «Zitti, state zitti tutti e due».
Dall’altra parte della cornetta un respiro pesante.
«Pronto, ci sei? Mi chiamo Michiru Kaiō».
L’intera unità si zittì. Setsuna indagò con lo sguardo in quello di Michiru. Chi aveva risposto al telefono? Lo studente armato o qualcun altro?
«È qui…» disse piano la voce. «È qui vicino».
«Dove? Quanto è vicino?».
«I bagni. Credo. Credo sia nei bagni di fronte. Non chiamare più o mi sentirà».
«C’è una finestra?» chiese Michiru frettolosamente, col terrore che la ragazza potesse attaccare prima di trovare una via di fuga.
«Si, certo che c’è».
«Ok, sposta la cosa più pesante che trovi nella stanza contro la porta e poi esci dalla finestra».
«Ma è il terzo piano e poi…».
«Fidati di me. Ti faccio venire a prendere».
«Okay» la linea cadde.
Michiru strinse i denti passandosi il dorso della mano sulla fronte.
«Era una studentessa. Chiama un cecchino, un agente, chiunque. Fallo andare dalla finestra ne facciamo uscire una». Sembrava una mitragliatrice. D’un tratto Michiru aveva perso il suo essere posata e il tono pacato con cui parlava normalmente. Sapeva di avere i minuti contati. Era conscia che ogni secondo decretava la vita o la morte di qualcuno in quelle situazioni e Setsuna ne seguiva ogni istruzione, ogni singola richiesta.
«La mappa. Serve la mappa dell’edificio, Sets».
La donna non se lo fece ripetere due volte e srotolò la pianta dell’istituto scolastico.
«Terzo piano. Davanti all’aula del preside dovrebbero esserci dei bagni. È lì che si trova ora».
«Avviso i cecchini». Setsuna gracchiò qualcosa alla radiolina ricevendo la risposta del tiratore appostato sul tetto di fronte.
Due spari. Uno dietro l’altro arrivarono alle loro orecchie dall’interno dell’ edificio. Nessun altro rumore. Né urla, né lamenti.
Poteva voler solo gettare il panico, poteva voler annunciare di essere vicino alla prossima vittima, poteva esserci stata una colluttazione o peggio. C’erano troppe possibilità e poco tempo a disposizione per evitare una carneficina.
«Che altro Michiru?» la incalzò la più grande vedendola puntare lo sguardo sull’ingresso.
Lei si liberò del superfluo. Caricò la propria pistola sotto alla maglia, nascosta nel retro dei pantaloni. «Entro».
«Non se ne parla» disse risoluto Seya prendendola per un braccio.
«Non abbiamo contatti all’interno. Entro» ribadì Michiru sostenendone lo sguardo e liberandosi dalla sua presa.
«Non credo sia una buona idea…» cercò di dissuaderla Setsuna. «Deve esserci un’altra soluzione».
«Non c’è Setsuna. Possiamo chiamare fino a che vogliamo, non risponderà nessuno e arriveremo troppo tardi. Il cecchino potrebbe metterci troppo a centrare l’obbiettivo e forse nemmeno riuscirci. Quindi…Entro. Parlerà con me. Te lo porto fuori».
«È troppo rischioso» commentò Seya giocandosi il carico da dieci. Voleva far leva sul fatto che aveva una famiglia e che se qualcosa fosse andato storto Hotaru avrebbe perso la madre.
 
Il sole picchiava sulla carrozzeria dell’auto rendendola quasi incandescente, ma in quel momento che bruciava non c’erano solo le lamiere. Erano gli animi a starsi infuocando.
«Lo è ogni volta» rispose Michiru troncando la conversazione. Non era stupida, conosceva bene i rischi del mestiere e li aveva accettati di buon grado poiché lei era dalla parte dei buoni, del bene. E per salvare le persone occorreva sacrificio e qualcuno disposto ad immolarsi per la causa.
«Entro con lei» era Haruka ad avere parlato questa volta. Sapeva che Seya doveva rammendare le menti di chi capitava in mezzo a quei disastri e non aveva le competenze per fermare un pazzo armato. Lei invece sì e come gli aveva ribadito più di una volta era la spalla di cui parlava.
«Visto? Entra con me. Siamo a posto?» con quelle parole Michiru cercò approvazione nel viso di Setsuna che si ritrovò a sospirare.
Le fisso entrambe con aria severa. «Permesso accordato. Ah, Ten’ō…».
«Che c’è?».
«Niente colpi di testa questa volta».
 
 
 
§§§
 
 
 
Rei e la squadra di pompieri erano arrivati sul posto montando perentoriamente il cuscino da salto penumatico per agevolare la fuga della studentessa dal terzo piano.
La presenza di una mole sostanziosa di forze dell’ordine concentrata in un solo punto e le transenne avevano come da manuale attirato frotte di giornalisti e curiosi sul posto che sgomitavano per essere i primi a sapere qualcosa in più di ciò che stava accadendo.
 
Da quando Michiru e Haruka avevano salito i gradini di pietra e avevano varcato la soglia della scuola tra i presenti aleggiava una tensione pesante.
Seya se l’era presa con Setsuna, dichiarandola incapace di disciplinare le decisioni prese dai suoi sottoposti e accusandola di farsi mettere i piedi in testa da un artificiere allo sbando. Lei, che aveva combattuto per i suoi diritti e la propria posizione nel suo paese natio, lo aveva zittito senza lasciarsi intimorire dalla voce grossa, per poi intimarlo ad andare a compiere il proprio dovere altrove.
Nessun uomo l’avrebbe schiacciata, non un superiore, non suo padre e tantomeno un marito isterico.
 
«Alla fine sei riuscita a indispettirlo anche questa volta» disse Michiru con la bionda a coprirle le spalle una volta entrate nell’edificio all’apparenza deserto.
Il corridoio era vuoto. Privo di presenza umana. Una marea di volantini erano a far compagnia ad alcuni libri di testo sul pavimento.
«Non ho idea di cosa tu stia dicendo…» commentò Haruka puntando lo sguardo nel mirino del fucile.
«Parlo di Seya e lo sai bene». Michiru compì qualche passo con le mani alzate come se si trovasse d’innanzi ad un plotone.
«Io sto facendo solo il mio dovere, è lui che è di troppo».
Michiru si girò a guardarla con uno sguardo più eloquente delle parole.
«Oltre all’artificiere sono una tiratrice scelta. Sono come quella russa, la Galina Slequalcosa».
«Slesareva» la corresse lei.
«Non so come tu abbia superato i test».
«Non mi ritieni abbastanza colta per ricoprire un ruolo del genere?».
«No, parlo del tuo autocontrollo inesistente» scoccò quella verità fuori dalle labbra senza troppi complimenti. Esattamente come avrebbe fatto Haruka al suo posto.
«Non mi pare che lo strizzacervelli là fuori ne abbia più di me. E forse tra i due sarebbe più opportuno ne avesse lui piuttosto che la sottoscritta».
«Touché» commentò Michiru tirando un piccolo sorriso. Avanzò lentamente, quasi camminasse su un campo minato.
«Ero bravissima nel camuffamento…ho imparato alla fattoria». Haruka ricordò come staccava grandi quantità di spighe nel Kansas e se le sistemava addosso per mimetizzarsi meglio nel campo, tentando di catturare qualche animaletto selvatico o di quanto fosse abile a nascondersi per sfuggire alle lezioni della piccola scuola della comunità.
«E cosa mi dici del tiro. Sai mirare, almeno?». Indagò Michiru con un filo di voce.
«Così mi offendi».
«Credo tu debba posarlo».
«Credo che la tua sia una delle idee più stupide sul pianeta terra, Hollywood. Siamo dentro ad una scuola con un esaltato che spara a destra e a manca e tu vuoi offrirgli un fucile da tiro pieno zeppo di colpi? Ottimo, Sherlock».
«Se ce lo troviamo davanti. Cosa che mi auguro perché voglio parlarci e portarlo fuori di qui, di sicuro riesce a piantarmi una pallottola da qualche parte perché tu lo spaventerai. Mentre dobbiamo tenerlo tranquillo, è quello l’obbiettivo. Altrimenti avrei la pistola in bella vista anziché a grattarmi la schiena non credi?».
Haruka roteò gli occhi al cielo. Le dinamiche del mediatore lei proprio non le concepiva.
Ricordò il corso di addestramento. Lo strisciare per quattro ore con addosso gli otto chili di fucile, il camuffarsi per riuscire ad avvicinarsi meglio all’obbiettivo, il non farsi scoprire dagli osservatori e i tanti test che volevano prepararli al fatto che per ogni target colpito vedi anche un uomo cadere per mano tua.
Haruka fino a quel momento non aveva mai dovuto farlo. Non era mai stata un carnefice dietro ad un mirino con licenza di uccidere, ma piuttosto era l’eroina che disinnescava bombe ed impediva le tragedie. Se lo avesse avuto a tiro, avrebbe premuto il grilletto? Sarebbe riuscita a farlo? Avrebbe ancora dormito? Perché Michiru aveva perso il sonno e per un certo periodo anche il senno per non essere riuscita a salvare qualcuno, ma ad Haruka, se avesse ucciso consapevolmente, cosa sarebbe accaduto?
«Un rumore. C’è qualcuno in quella classe» disse quasi impercettibilmente Michiru facendole un cenno con la testa.
La bionda deglutì, Michiru abbassò la maniglia della porta e la lasciò entrare per prima con il fucile spianato. Ci furono una serie di sussulti e qualche gridolino soffocato.
Nella stanza una serie di studenti e un paio di insegnanti si erano nascosti sotto ai banchi e dietro le ante di alcuni armadietti.
«Tutto okay, tranquilli» disse Haruka abbassando l’arma, segretamente contenta di non essersi trovata dinnanzi all’aggressore.
«Devi portarli fuori» la intimò Michiru. «Dobbiamo farne uscire il più possibile».
«No. Chiediamo a Setsuna rinforzi. Li scorterà fuori qualche agente».
«No, ci sarà troppo trambusto. Se ne accorgerà e andrà fuori di testa».
«È già fuori di testa quello!» ribatté la bionda decisa a non darle retta.
Michiru diede un’occhiata al corridoio e poi guardò il gruppo di ragazzini terrorizzati sul pavimento.
«Mi dispiace, devo giocarmi la carta del mediatore. In questo caso sono superiore di grado a te. Dico che devi portarli fuori tutti o avrai un bel po’ di problemi. Non si discute».
Haruka scosse il capo incredula. I giochi di potere li detestava e sapeva che poteva aggirarli una volta, forse due e farla franca, ma la corda a furia di tirarla si sarebbe spezzata e non ne sarebbe uscita bene.
«D’accordo» schioccò la lingua, raggruppando i superstiti per poterli portare in salvo.
Michiru informò a Setsuna di non fare fuoco perché sarebbero usciti i civili accompagnati da Haruka.
«Questa me la paghi» sottolineò la bionda ritornando nel corridoio.
«Mai avuto debiti con nessuno».
«Allora a dopo e…Hollywood».
«Che c’è?».
C’era un passo tra di loro. E entrambe dovevano prendere direzioni opposte.
«Stai attenta».
Michiru asserì col capo, decise di non guardarla ulteriormente o sarebbe uscita con lei dalla porta alle sue spalle. Sorrise, prima di voltarsi e Haruka ebbe paura di vedere per l’ultima volta quell’incurvatura sul viso dell’angelo più bello visto sulle spiagge di Malibù.
 
 
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Nell’ambulatorio di riabilitazione Dan era intento a rincorrere la piena forma fisica. Un fisioterapista lo incitava a muovere un passo dopo l’altro come si fa con i bambini non appena decidono che il momento di gattonare è terminato. E lui si sentiva stupido, tremendamente stupido, con le mani appoggiate alle due sbarre di ferro e a sudare per camminare.
L’unica sua consolazione era l’assenza dell’amica nella stanza o avrebbe dovuto reggere anche alle sue prese in giro.
«Te lo faccio vedere io testa bionda…» digrignò i denti, a testa bassa, con un’andatura incurvata e non del tutto naturale. Vedeva le scarpe dell’idiota che sembrava far la cheerleader per lui. Era vicino, bastavano tre passi che sarebbero sembrati tre chilometri. Ma le vedeva.
«Dai Dan. Forza. Manca poco. Ci sei quasi».
«Vorrei ci fosse una bella donna al tuo posto, ma farò lo sforzo» disse sentendo la fatica attanagliarlo.
Il fisioterapista rise di gusto alla battuta e Dan pensò che doveva darsi una mossa perché presto ci sarebbe stata qualche bomba da disinnescare e lui sapeva farlo bene.
«Nessuno si prenderà il mio posto».
Ancora un passo e la televisione col sottofondo quasi azzerato sarebbe stata esattamente sopra alla sua testa.
Lo schermo trasmetteva una serie di immagini registrate da un elicottero. Un campo delle forze dell’ordine tirato in piedi da alcuni militari di fronte ad una scuola.
«Mi mettono sempre i brividi queste cose…» commentò il ragazzo perdendo per un momento di vista il proprio paziente.
«Chi? Quelli che devono ricominciare a camminare?» chiese ingenuamente Dan, decidendo di pensare a un premio per tutta quella fatica. Magari una scatola di Donuts direttamente recapitati da Haruka.
«No, le sparatorie nelle scuole…» lo ragguagliò l’altro per poi farsi battere il cinque da Dan una volta raggiunto il traguardo.
«Ok, ora siediti. Ottimo lavoro».
Dan mugugnò qualcosa e sfinito si mise sulla panca puntando gli occhi sullo schermo. Una giornalista stava descrivendo l’accaduto e alle sue spalle comparve la testa bionda più famigliare a lui sul pianeta terra.
«Il telecomando. Alza!» ordinò con foga.
«Ecco, come potete vedere un’agente della SWAT ha appena portato in salvo un gruppo di docenti e studenti che potranno riabbracciare le proprie famiglie. All’interno della scuola si trova però ancora l’aggressore di cui non si conosce ancora l’identità e il mediatore che…».
«Oh no. No». Dan come in preda a un lampo di consapevolezza scosse il capo alzandosi in posizione eretta senza badare alla fatica che fino ad un istante prima lo aveva quasi messo k.o.
«No, Kansas. Stupida idiota, stai buona…».
Sullo schermo Haruka, poggiato il fucile sulle scale, aveva contato le persone che l’avevano seguita all’esterno e poi era sparita dall’obbiettivo della telecamera rientrando dal portone.
 
Dan la conosceva come le sue tasche e se avesse potuto far arrabbiare qualcuno non si sarebbe di certo risparmiata.
 
 
 
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Michiru ebbe un sussulto quando la campanella suonò rimbombando nel bel mezzo dei corridoi. Si catapultò spalle al muro e dovette respirare a fondo per calmarsi.
Sentiva un caldo micidiale, ma non era per la temperatura quanto per la tensione del momento.
Svoltò l’angolo, era al secondo piano e informò della sua posizione la pattuglia esterna.
 
Setsuna cercava di contenere la folla di giornalisti impazzita e fece interrogare le persone portate in salvo da Haruka per avere un identikit del loro bersaglio.
«Dove diavolo è andata a finire Ten’ō?!» urlò innervosita la donna alla ricerca della zazzera bionda tra i vari agenti.
Ray scrollò le spalle e i due ragazzetti continuarono imperterriti a controllare l’attrezzatura di tutto il corpo della SWAT.
«Perché ci sono gli artificieri? Lo studente potrebbe essere in possesso di esplosivi? Ci sono stati altri spari? A quanto ammonta il numero delle vittime?». Tutte quelle domande incessanti e i flash delle macchine fotografiche stavano letteralmente aggredendo il capo delle operazioni.
«Signori, credo dobbiate lasciar stare l’agente Meiō è qui per fare il suo lavoro e non per rilasciare interviste». Mamoru liquidò la stampa con quelle poche parole poggiando una mano sulla schiena della donna per portarla più lontano dalla calca smaniosa di notizie.
«Penso sarò io a saltare in aria» disse sospirando pesantemente come se dovesse ricominciare a respirare dopo una lunga pausa. «Ho bisogno di sapere ogni agente dove diavolo si trova e ovviamente all’appello manca quel cavallo pazzo di Ten’ō».
Il ragazzo ascoltò quello sfogo, la invitò a prendere un altro profondo respiro e sondò con lo sguardo chiaro i dintorni.
«Io non l’ho vista. E di sicuro non è al tendone con Kou che sta facendo il suo lavoro».
«Kou» Setsuna pronunciò il nome con fare scocciato. «Mi mancava solo lui col fiato sul collo oggi. Si può sapere che diavolo succede? Sembrano tutti impazziti».
«Vuoi la storia breve?» Mamoru si lasciò scappare una risata. «Ten’ō ha più che un debole per la nostra mediatrice e fa saltare i nervi al marito ogni volta che ne ha l’occasione».
«Oddio, è con lui che ha fatto a botte quindi. Dannazione…».
«Non preoccuparti di questo ora. Se la sbrigheranno loro. Stai facendo un ottimo lavoro, capo».
Setsuna fu rincuorata da quelle parole. Da dove saltava fuori un uomo del genere? Sicuramente doveva essere già sposato o impegnato, una perla rara così bisognava accaparrarsela immediatamente.
Dovette mordersi la lingua per non sbiascicare un “sei perfetto” che sarebbe certamente risultato poco professionale. Di gente che faceva cose fuori luogo c’è n’era già a sufficiente nei dintorni.
«È arrivato l’identikit» mormorò Mamoru passandole un foglio con un ritratto fatto a matita, seguito da una dettagliata descrizione sul retro.
«Dobbiamo informare Michiru».
 
 
«Tutto ok, Michi. Tutto bene…è solo la campanella». Dovette contare fino a tre e poi respirare. Sbatté le palpebre e riprese la sua camminata per il corridoio.
Passò l’aula di musica, una manciata di spartiti era a terra e altri erano sparpagliati sulla cattedra.
Un flauto e un violino erano stati abbandonati a loro stessi e in ogni stanza sembrava che il tempo si fosse fermato d’improvviso come quando si scappa dalle guerre.
Un’altra serie di passi e poi lo vide. Una figura stesa a terra supina in una pozza di sangue.
Michiru abbandonò la calma per correre verso il corpo del giovane studente.
«Ehi, ehi, puoi sentirmi?!». Lo scosse per le spalle e gli portò le dita sul collo per sentirne il battito.
«Oh no. No…». Si portò le mani al viso. Situazioni come quella non erano assolutamente nuove, troppe volte il notiziario mandava in onda servizi del genere, ma Michiru non poteva concepire in ogni caso che cose come quelle potessero accadere.
Si rialzò da terra, con i jeans macchiati di rosso oltre che di tempera e cercò di recuperare se stessa prima di cadere vittima dei suoi tormenti non ancora debellati.
«Michiru». La voce di Setsuna nell’auricolare. «Michiru ci sei?»
«Setsuna». Voglio uscire. «Sets sono qui. Ci sono». Fatemi uscire di qui.
«Ascolta Michiru…».
«C’è un ragazzo Sets. Uno studente. Avrà quattordici anni…» Michiru prese a parlare e guardò la posizione del corpo del ragazzo. Era stato preso di spalle. Sicuramente stava scappando e il suo omicida era dalla parte opposta al corridoio, dietro di lui, diretto al terzo piano.
«È morto».
Silenzio dall’altra parte, ma Michiru sapeva che l’altra la stava ascoltando.
«Come si fa a morire a quattordici anni?».
«Michiru è terribile. Stai bene?».
Michiru soffocò un singhiozzo. C’erano due anime che combattevano in lei. Una provata, allo stremo e che voleva fuggire. L’altra devota alla giustizia, al dovere, convinta, che voleva a tutti costi prendere il colpevole.
«Sappiamo chi è. Una delle insegnanti che hai salvato con Haruka lo ha riconosciuto».
Sentiva il cuore esploderle nel petto. Dovette ritirarsi dal corridoio per un momento ed entrare nell’aula di chimica per riprendere fiato o non avrebbe fatto un passo in più.
Si asciugò le lacrime che senza permesso le avevano rigato il volto e qualcosa attirò la sua attenzione. Nella vetrina di fronte a lei dove erano sistemati alcuni fornelletti e vetrini da laboratorio, si specchiavano due figure. Erano due ragazze con le mani si tappavano la bocca per non emettere un solo fiato.
«Ce ne sono altre due. Ne ho trovate due. Vive!» fu in quell’ultima parola che Michiru trovò la forza di non abbandonare la sua missione.
Si fiondò dalle due studentesse, diede una carezza loro sul capo e mostrò loro il distintivo.
«Dovete far venire qualcuno a prenderle, secondo piano. Aula di chimica, dopo quella di musica».
«Ok».
«Ragazze, vi chiudo qui dentro. Ci sono io fuori dalla porta. Non entrerà nessuno. Vi vengono a prendere tra qualche minuto. È tutto finito, va bene?».
Le due annuirono e Michiru richiuse la porta alle sue spalle. Corse nella stanza di fronte con la porta spalancata, frugò negli astucci e negli zainetti fino a trovare un tubetto di tempere. Segnò la porta con una “X” per la squadra di soccorso e senza guardarsi indietro procedette.
«Dimmi di lui» disse sottovoce.
«Adam Popov».
«Qualcosa mi dice che è russo».
«Non sbagli».
Michiru salì le scale di soppiatto arrivando al terzo piano. Si guardò attorno, valutando che l’edificio sembrava un vero e proprio labirinto.
«Abbiamo contattato la madre. Ma dice di non aver notato nulla di strano…».
«Mi serve qualcosa in più».
«Indossa un’uniforme mimetica. Da militare».
Una serie di spari rimbombò come una marcia funebre. Dei passi concitati seguirono al suono del piombo e delle urla.
Michiru cominciò a correre in direzione della scarica. Era all’inferno e ci era scesa da sola di spontanea volontà. La razionalità venne meno, voleva solo fermare tutto. E allora urlò quel nome con quanto fiato aveva in corpo.
Non sapeva a chi stava correndo incontro, fino a che qualcosa fermò la sua corsa, facendola rovinare a terra. Michiru era appena inciampata nella gamba di qualcuno. Si mise a sedere sul pavimento, con l’adrenalina nelle vene che pompava e le ordinava “in piedi” esattamente come facevano al suo addestramento in mezzo al fango.
Udì un flebile “aiuto” dall’ostacolo umano in cui era appena inciampata.
Strisciò, gli occhi puntati ancora verso la meta che si era prefissata di raggiungere e si avvicinò al viso della studentessa.
«Come ti chiami?».
«Kate».
«Ok, Kate. Fammi dare un’occhiata…». Michiru voleva piangere, ma si trattenne. E se una cosa del genere fosse successa alla scuola della figlia? Perché quella con cui stava parlando era la figlia di qualcun altro e lei aveva il dovere di tenerla al sicuro e di non abbandonarla.
«Mi chiamo Michiru…dove senti male?».
«Lì…» indicò un punto imprecisato della schiena.
«Scusami, ti ho fatto male?».
«Perché? Correvi come un demonio ma non ho sentito niente io. Ho troppo male lì…».
Le gambe, non sente più le gambe.
Sorrise. Il sorriso di chi mente ma è giustificato a non dire nulla di quanto è vero.
«Hai ragione. Non ho rispettato il limite di velocità» si sforzò di fare una battuta.
«Ora chiamo qualcuno e finirà tutto, va bene?».
Kate annuì. Sembrava tranquilla di aver finalmente qualcuno con lei.
Michiru si alzò da terra e cercò nella classe una cassetta del pronto soccorso. Sapeva solo di dover fermare l’emorragia.
Trovato ciò che le serviva alzò la maglia alla ragazza e premette con delle garze.
«Se arriva usiamo il trucco più vecchio del mondo e ti fingi morta, ok?». La voce le tremò nel dire quelle parole e la ragazza annuì.
Michiru sentì dei passi avvicinarsi, scattò in piedi come dovesse mettersi sull’attenti e alzò le braccia in alto.
Un ragazzo alto, dai corti capelli platino in tuta mimetica imbracciava un’ Ak47 verso di lei.
«Tu devi essere Adam…».
Michiru ne studiò l’espressione, non aveva le pupille dilatate di chi è esaltato ma piuttosto pareva quasi catatonico.
Lui rimase in silenzio e la fissò a sua volta. La stava studiando e forse, pensò Michiru, stava meditando se spararle a brucia pelo o ucciderla in modo differente.
«Come hai avuto quello?» gli domandò senza abbassare le braccia e attenta a non fare movimenti bruschi.
«Non stai piangendo» rispose lui indispettito.
«No, Adam».
«E non stai nemmeno gridando. O implorando…».
Michiru avrebbe voluto farlo. Avrebbe voluto urlare. Aveva paura, non tanto per se stessa quanto per come sarebbe finita quella storia, ma mai e poi mai glielo avrebbe fatto capire.
«Ti piace quando lo fanno?» domandò lei inclinando appena la testa di lato. «È per questo che lo stai facendo? Vuoi sentire di avere il potere? È la tua vendetta contro qualcuno? O insegui un ideale?». Troppe domande. Ma Michiru come poteva entrare nella testa di una persona del genere? Non era qualcuno da salvare, si trattava della persona da cui salvare se stessi.
Adam non sembrò preso da quella conversazione, tutt’altro, era quasi annoiato. Strizzò un occhio, puntando la canna del kalashnikov verso di lei e l’altra pupilla dritta nel mirino.
 
«Lo abbiamo, obbiettivo individuato. Mediatore sulla traiettoria, passo».
Setsuna rimase col pollice sul pulsante della ricetrasmittente.
«Sta puntando l’arma. Ripeto, mediatore sulla traiettoria. Obbiettivo individuato. Procedo? Passo».
Haruka saltò gli ultimi due gradini della rampa che conduceva al terzo piano. Percorse a perdifiato il corridoio e lo vide nello stesso momento in cui il ragazzo vide lei.
 
Un unico sparo riecheggiò fin dentro alla sua cassa toracica.







Note dell'autrice: Eccomi qua, col capitolo del mese. Lo so, lo so, questo è tutt'altro che romantico e di Usagi, Makoto e Minako non c'è nemmeno l'ombra. Per questo motivo non ho voluto pubblicare ieri, a S. Valentino. Vi rassicuro subito dicendovi che il nuovo capitolo è già in fase di scrittura e che non sarà assolutamente di questo tipo. Niente lavoro per Haruka e Michiru. Solo problemi di cuore per tutti quanti. Chi mi segue da tempo e ha letto la saga di Stockholm Syndrome sa bene che oltre ai sentimenti ho sempre la propensione a scrivere storie dal contenuto un pò (non so bene se è corretto) thriller/spionaggio/suspance e penso che questo capitolo ne sia stato il vero esempio. Non era stato studiato a tavolino, è uscito da solo e ve l'ho presentato così com'è, un pò crudo. So che è una storia d'amore, ma il contesto, i lavori dei nostri protagonisti convergono per la maggior parte in questo tipo di situazioni perciò era inevitabile che non saltasse fuori un capitolo del genere. Mi auguro che nessuno ne sia uscito turbato e per il prossimo preparate l'assetto da commedia romantica! 

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Capitolo 14
*** Be Mine ***




 
“All the voices in my head
Are pushing me right to the edge
If this is real love
Beatin' like a thousand drums love
Burnin' like the hottest sun love
You're the only one I want
I want, I want real love
Hit me like a hurricane love
Feel you runnin' through my veins love
You're the only one I want”
 
Real Love - Florrie
 
 
 


«Tu credi negli angeli?».
Quel ricordo che portava con sé la voce di Hotaru le balenò nella mente come un lampo. Era accaduto tutto in un frangente di secondo, troppo poco perché il cervello potesse elaborare correttamente le informazioni di ciò che realmente era accaduto.
Forse la speranza di Michiru si era arresa come la fiammella di una candela spenta da un alito di vento.
Lei non era riuscita a leggere i pensieri della bestia e tantomeno era riuscita a trovare l’umano che si nascondeva sotto quella maschera di ragazzino.
Lui aveva messo il dito sul grilletto e lei aveva chiuso gli occhi.
Il suono di uno sparo e giù. Sul pavimento freddo, pesante come un macigno.
«Tu credi negli angeli, mammina?». La voce di Hotaru sparì così com’era comparsa e Michiru sgranò gli occhi azzurri. Respirò rumorosamente come fosse appena riemersa senza più fiato dall’affondare in un gelido abisso.
Non era stato un proiettile a colpirla, erano due paia di braccia ad averla trascinata giù. Ad aver fatto sì che stesse ancora lì a respirare.
«Cosa…?» sbatté le palpebre, toccò quelle mani ancora ancorate alla sua vita fino a che la stretta non la liberò. Un angelo custode?
Haruka; erano di Haruka le ali invisibili che non avevano permesso alla morte di portarsela nel suo gelido regno.
«Hai detto che non hai debiti con nessuno…» pronunciò la bionda massaggiandosi con una mano il capo e un’espressione di dolore misto a compiacimento stampata in viso.
«Cosa? Parli a vanvera. Cosa ci fai qui? Oh mio Dio, Haruka stai bene?». Le parole di Michiru erano frenetiche, stava cercando di ricomporre quel puzzle confuso.
«Ti credevo meno pesante Barbie Malibu…» la schernì l’altra per poi tirarsi su e allungare la mano per aiutarla ad alzarsi. «Sto bene e pure tu. È tutto finito».
Quante volte aveva ripetuto la frase “è tutto finito” negli ultimi minuti per infondere coraggio a qualcun altro? Lo era davvero questa volta?.
Uno squadrone di agenti si riversò nell’edificio, prestando soccorso alle persone ancora intrappolate all’interno e per riportare la situazione alla normalità.
Michiru strinse le dita tra quelle di Haruka come si fa con una cima che ti viene gettata in acqua per non annegare e solo dopo esser tornata di nuovo su due gambe si guardò attorno.
Adam, inerme, era a terra. Una squadra di soccorritori si occupò di Kate che non appena sistemata su una lettiga riuscì ad alzare il pollice e a sorriderle quando incrociò il suo sguardo azzurro incredulo.
Haruka non aveva sparato. Tanto meno lo aveva fatto Michiru che si era arresa al suo destino. Il colpo in canna era partito dal cecchino sul tetto di fronte.
«Ora non fare la finta tonta. La testa l’ho battuta più io che te, quindi non puoi giocarti la carta dell’amnesia».
Michiru schiuse le labbra, avrebbe voluto dirle che non riusciva a seguirla ma non emise un solo fiato.
«Come ringraziamento per averti salvato la vita e come scusa per esserti comportata da boss senza scrupoli voglio un appuntamento. Hai detto che paghi i tuoi debiti, no?». La incalzò Haruka come se la tensione per la situazione non l’avesse nemmeno sfiorata.
 
Mamoru e Setsuna arrivarono al piano. Il capo delle operazioni abbandonò per un momento la sua corazza, portandosi una mano al petto e ringraziando Dio nel vedere entrambi i membri della sua squadra illesi.
«Quell’idiota. Mi mancava proprio un’altra testa calda» sentenziò con la coscienza più leggera. Non aveva dato il permesso di sparare sapendo che Michiru si trovava sulla traiettoria del proiettile, ma il tiratore, forse per non sprecare quell’occasione d’oro, aveva fatto di testa sua.
Mentre Setsuna vaneggiava sul far cadere la testa del soldato indisciplinato, tra le forze dell’ordine, la scientifica e i soccorsi, Seya riuscì a raggiungere il resto del gruppo senza più fiato in corpo.
Ignorò l’irritante presenza di Haruka sulla scena e corse ad abbracciare la moglie come fosse un gesto non compiuto da secoli.
«Sei tutta intera» disse con voce rotta dal sollievo. «Stai bene. Sei salva…».
Michiru gli portò una mano sulla schiena come a confortarlo e puntò il mento sulla sua spalla. Era troppo scossa per combattere, eppure stretta in quell’abbraccio guardava altrove, oltre la schiena del ragazzo sino al cuore di quel singolare angelo biondo che chiedeva pietà per non assistere ulteriormente a quello spettacolo.
E seppure silenziosa, una risposta ad Haruka arrivò con l’azzurro delle iridi dell’altra puntato in sua direzione.
In un gesto impercettibile, ingabbiata come un uccellino tra le braccia del giovane marito, Michiru accennò un cenno del capo. Un debito va sempre saldato, soprattutto se immenso come una vita salvata.
 
 
§§§
 
 
Minako era in elegante ritardo e Yaten, stufo di aspettare.
Batté la suola delle converse sul terreno, con le braccia conserte, sbuffando una volta ancora nel controllare l’orario sul proprio display del cellulare.
«Ma dove cavolo si è cacciata?». Lui non era mai stato uno impaziente, tutt’altro. Aveva passato l’infanzia ad attendere che i suoi genitori si accorgessero dei suoi traguardi, aveva aspettato pazientemente il rientro dalla finestra del fratello maggiore tutte le notti e non aveva perso la speranza che arrivasse l’occasione giusta per far conoscere la propria musica. Ma Yaten, in quel momento non ne poteva più. Segretamente scalpitava come un bambino la mattina di Natale per scartare i regali sotto all’albero.
Si era fatto prendere dall’atmosfera del pomeriggio precedente e aveva deciso di portare Minako nel suo posto. Non uno qualunque, ma il suo. Quello che lo aveva rallegrato quando si era sentito sperduto e solo al mondo dopo aver navigato a lungo sulla sua Blue lagoon.
Lui, per la prima volta voleva portarci qualcuno. E lei non era ancora lì.
Si sentì risentito e allargò le narici quasi fosse un toro per il disappunto.
«Ok. Lo hai voluto tu. Non ti ci porto» mormorò offeso come se stesse realmente parlando a Minako. Forse stava facendo le prove per quando lei si sarebbe presentata e lui si sarebbe rifiutato di mantenere quella promessa.
Poteva far finta di nulla. Poteva tirarsi indietro. In fin dei conti non era mica sceso nei particolari col suo invito.
«Oh andiamo…». Un ripensamento. Un altro sbuffo.
«Stupido idiota, ma chi te lo fa fare di cacciarti in questa situazione?». Cominciava a sentirsi un pazzo. Parlava da solo. Nemmeno in barca, al largo, in solitudine lo aveva mai fatto. Lui era fatto d’acciaio. Non aveva proferito una sola parola per tutto il tempo. Si era concesso giusto un fischiettio per comporre meglio alla tastiera ma nulla di più. Aveva preferito ascoltare la marea e dimenticare ciò che era stato, ciò che si era lasciato indietro.
 
“Mandami la posizione”. Mandò quel messaggio senza ulteriori indugi e quasi gli venne un colpo quando Minako rispose inviando il proprio indirizzo di casa.
«Fantastico. Fai pure il cavaliere. Senza cavallo. Senza una macchina. A piedi». Furono le ultime parole per sé stesso prima d’incamminarsi.
 
 
Pomeriggio inoltrato. I raggi di sole bagnavano l’intera stanza di una luce gialla intensa.
Minako a braccia aperte, buttata sul letto fissava il soffitto. La chiamata a suo padre non era stata una delle migliori e lei non sapeva più se dire la verità ne era valsa la pena. Costava così tanto la libertà? Ne convenne che se ci avevano fatto delle rivoluzioni per averla evidentemente sì. C’è sempre uno scotto da pagare.
Prese un cuscino se lo piantò in faccia e soffocò contro il guanciale tutta la frustrazione.
«Ok. Non pensiamoci più. Il danno è fatto Mina. Papà si calmerà. Non l’ha presa bene ma in fin dei conti sono sempre la sua unica bambina».
Sospirò pesantemente e lo sguardo le cadde sulla chitarra poggiata al muro. Doveva portarla con sé?  Doveva considerarlo un appuntamento quello o soltanto un posto diverso per comporre musica? Yaten era stato vago, più telegrafico del solito con quel suo «voglio portarti in un posto».
Cosa stava a significare esattamente quella frase? Più ci pensava e più la testa minacciava di scoppiarle. Perciò mise da parte le incertezze e si tirò su piena del suo solito entusiasmo.
«Abbiamo la nostra canzone» disse sorridendo allo specchio per poi sistemarsi il trucco leggero che si era applicata. «Ed è bella. Ma che dico…bellissima!».
Artemis si stiracchiò sul tappeto e per un momento parve rinunciare a sonnecchiare per guardarla tutta presa dal suo monologo.
«Devo muovermi» ponderò la ragazza lanciando un’occhiata al proprio orologio da polso. Era tardi, inesorabilmente tardi. Ma Yaten sarebbe passato a prenderla.
«Oddio passa a prendermiiii!!» si lasciò andare ad una serie di urletti d’eccitazione per quella situazione che faceva tanto commedia rosa e ringraziò che Rei non fosse in casa o sarebbe riuscita a guastarle la festa.
Minako si buttò letteralmente dentro all’armadio spalancandone le ante. Doveva trovare qualcosa di adatto, ma se non aveva idea di dove lui l’avrebbe portata come poteva capire quale fosse il vestito giusto? «Uomini» sospirò come se non vi fosse speranza. «Ma che problemi mi sto facendo?» si voltò verso il felino, che attento si era messo seduto. «Mi faccio tante paranoie e nemmeno mi guarda!». Artemis non proferì miagolio, ma per tutta risposta iniziò il suo impellente bidet giornaliero sino a che il campanello non le fece cadere di mano l’abito che aveva arpionato.
«È qui. È già qui» respirò come fosse in travaglio e cercò di darsi una sistemata veloce ai capelli per poi correre ad aprire.
Il cuore le batteva forte nel petto e quando lo vide spuntare oltre il portone del palazzo il battito non fece che accelerare.
Si appoggiò alla porta così non avrebbe fatto brutte figure per l’emozione e non avrebbe inciampato.
«Ciao!» sorrise radiosa, quasi non lo vedesse da tempo.
«Sei in ritardo» lui esordì con quella frase, con la fronte leggermente aggrottata per il disappunto.
«Lo so, scusa. Scusaaa». Lei cercò di fargli andare via quell’espressione scura che aveva in viso e lo trascinò dentro casa per un polso. «Solo non sapevo decidermi».
«Di che parli? Non sapevi se volevi uscire?». Gli occhi verdi del ragazzo vennero attraversati da un lampo.
«Ma no, sciocchino!». Minako rimase colpita. Yaten aveva forse pensato che lei non volesse vederlo? Se solo avesse saputo che se lo sognava ogni notte per la voglia di stare in sua compagnia gli sarebbero passate le paturnie di colpo.
«Non sapevo se dovevo portare la chitarra».
«Non occorre».
«E non sapevo dove volevi andare».
«Perché non te l’ho detto».
«Eh lo so che non me l’hai detto. Ma io come mi devo vestire?».
Le donne facevano tutte quelle domande?
Yaten parve confuso ed evidentemente lei glielo lesse in viso, così si affrettò a raffazzonare una spiegazione. «Se si va in barca devo portare qualcosa per il vento…se andiamo a fare un’attività sportiva mi metto comoda o…».
«Mina…».
Minako schiuse le labbra per la sorpresa. Aveva usato per la prima volta un nomignolo per rivolgersi a lei. E i soprannomi escono fuori dalle bocche di chi è in confidenza. Quindi lei non era solo una qualunque con cui fare musica di cui a malapena ricordava il nome. Non sapeva cosa fosse di preciso, ma di sicuro non corrispondeva a “nessuno”.
«Vai benissimo così».
Sei bellissima così. Gli stava sfuggendo di bocca, ma Yaten, abituato a ponderare ogni singola parola si fermò in tempo prima di dar voce ai suoi pensieri.
«Dai, ora usciamo».
 
 
§§§
 
 
 
Minako e Yaten attraversarono l’arco riportante la targa blu e bianca del Santa Monica Yacht Harbor.
Passeggiavano l’uno accanto all’altra.
Lui con le mani in tasca, con passo cadenzato quasi poggiasse i piedi al suolo al ritmo di una musica solo nella sua testa.  Lei, con una mano timidamente appigliata alla bretella dello zainetto per non cedere alla tentazione di cercare la sua mano.
Attraversarono la rampa che conduceva al di sopra del litorale, all’inizio del molo vero e proprio.
Minako, ben attenta a non farsi cogliere in flagrante con la coda dell’occhio spiava il profilo di Yaten, scorgendone uno sguardo sempre più sereno via via che procedevano per quella passeggiata.
«Lo sai che negli anni quaranta questo era un attracco per le imbarcazioni a livello internazionale. Charlie Chaplin fu il primo personaggio famoso che acquistò uno spazio per la sua barca qui». Il ragazzo spezzò il loro silenzio così, con un aneddoto tra lo storico e il gossip.
«Non sapevo che Charlie Chaplin navigasse». Minako sapeva benissimo essere un commento stupido il suo, ma in materia era tutt’altro che ferrata.
«A quanto pare…».
 
L’odore del mare impregnava ogni cosa e il canto dei gabbiani era la colonna sonora a quello scenario pronto a bagnarsi dei colori del tramonto.
Yaten parve notare il cambiamento del cielo e abbandonò la lezione di storia per puntare un dito dritto dinnanzi a lui.
«Sbrighiamoci».
Minako strizzò gli occhi per inseguire la linea invisibile da percorrere oltre alla fila brulicante di ristorantini e bar che le correva sulla sinistra.
«Il luna park?!» lo domandò piena di entusiasmo e Yaten rispose con un cenno di assenso del capo.
«Lo sai che non ci sono mai stata da quando sono arrivata in California?».
«E allora te l’ho detto. Sbrighiamoci! Chi arriva ultimo paga lo zucchero filato!». Quasi non finì di illustrarle le condizioni di quella sfida che cominciò a correre in direzione delle luci colorate del Pacific Park.
Minako si buttò al suo inseguimento con il cigolio delle assi impregnate di salsedine sotto alle suole e una miriade di odori differenti, provenienti dalle cucine dei locali, a solleticarle le narici.
Non correva così da quando era una bambina e determinata a non perdere la sfida che l’era stata lanciata quasi non si accorse che il ragazzo rallentò il passo per farsi superare.
«HO VINTO!» gridò la biondina con il fiato spezzato e le braccia tese verso il cielo una volta arrivata all’entrata della loro destinazione.
«Lo vedo». Yaten lo disse sorridendo e lei si sentì sciogliere all’istante.
«Credo di doverti uno zucchero filato dunque, ma prima…» sembrò dover pensare alle sue parole, anche se in realtà lui aveva le idee chiarissime sul loro programma. «Ti offrirò un giro sulla ruota».
Minako, con le gote rosse e la frangetta spettinata dalla corsa, schiuse le labbra tentando di fermarlo dall’allungare la banconota al giostraio.
«No, Yaten. No!».
Lui prese i biglietti che l’uomo gli allungò con un gran sorriso e la guardò interdetto.
«Guarda che posso ancora permettermeli anche se al momento il mio guadagno è solo quello delle mance quando suono».
«No, non è questo…è che…». Minako del sentirsi in paradiso si ritrovò a sprofondare negli abissi dell’imbarazzo. «Soffro di vertigini».
«Mh». Yaten fece una smorfia stranita e lei credette di averlo deluso in qualche modo, fino a che slacciò la bandana che portava al collo e gliela sistemò sugli occhi.
«Ti aiuto io» sentenziò, deciso a non arrendersi.
«C-che?!».
«A superare le tue paure. Ti aiuto io».
Minako si rese conto di essere arrossita mentre le sue dita stringevano il nodo di stoffa dietro alla sua nuca. E per un momento ammise a se stessa di essere felice di ritrovarsi bendata così da non dover cercare di guardare altrove per l’imbarazzo del suo avvampare.
«Mano» ordinò lui. Lei aprì il palmo cercando di afferrare qualcosa d’invisibile e quando sentì le sue dita intrecciarsi a quelle di Yaten il cuore le prese a battere all’impazzata.
Ho un infarto.
«Gradino…saliamo» le indicò lui per poi aiutarla a trovare il sedile all’interno della piccola cabina.
Una leggera vibrazione e un lento movimento indicò l’inizio della salita verso l’alto.
«Siamo in orario perfetto» commentò Yaten tra sé e sé guardando verso l’orizzonte.
«In orario per cosa?» chiese con voce flebile lei.
«Ora te lo mostro. Aspetta ancora un attimo».
Si tenevano ancora la mano e Minako strinse la presa un po’ di più.
«Guarda che ti sembrerà di essere ferma. Non fa paura, sul serio» la rassicurò lui. «Te l’ho solo messa per la salita. Penso sia la parte peggiore».
«E se cadiamo di sotto?».
«Che apocalittica che sei. Non cadiamo».
«È mai successo però?».
«Non che io sappia».
«Ma le probabilità che accada quante sono?».
Minako presa dal panico straparlava senza riuscire più a dare un freno alla lingua e Yaten doveva fermarla in qualche modo o sarebbe uscito di testa.
Maledetto lui che l’aveva portata fuori e maledetta lei, che anche quando perdeva la testa sapeva essere così dannatamente bella.
Se Yaten fino a quel momento era riuscito a tenere fuori il mondo, a tenersi lontano da tutto e tutti, se possedeva una sorta d’interruttore capace di mantenere alto quel muro che aveva pazientemente costruito, senza forse nemmeno rendersene conto, lo spense nell’attimo in cui lasciò la mano di Minako annullando però tra loro ogni distanza. Le dita aggrovigliate tra i suoi lunghi fili d’oro e le labbra premute contro le sue zittendola all’istante.
Lei, sebbene non potesse certo guardare di sotto, avvertì un senso di vertigine. E subito dopo uno stormo di falene intrappolate nello stomaco intente a sbattere così forte le ali dell’emozione da riuscire a cancellare ogni paura o tormento che le attanagliasse la mente.
Non esisteva più alcuna cabina, ruota panoramica o paura. Per quanto la riguardava persino l’intera California era stata cancellata in una frazione di secondo dalla faccia della terra con quel bacio.
Sta succedendo sul serio?
Se nelle favole il principe azzurro baciava la principessa per svegliarla da un lungo e profondo sonno a Minako doveva essere accaduto il contrario. Forse non era mai nemmeno uscita di casa, forse si era addormentata e stava sognando sul suo divano di casa. E prima di potersi porre un ulteriore forse la magia s’interruppe. Le labbra di Yaten non rubavano più il fiato dalle sue così come la sua mano non poggiava più dietro al suo capo e Minako si sentì tremendamente disorientata. Sentiva le guance accaldate, il cuore galopparle nel petto come un puledro impazzito e le farfalle migrare altrove.
Lei non riuscì a proferire parola fece solo scivolare la bandana del ragazzo dagli occhi sino al sotto mento e dopo una strizzata di palpebre riuscì a capire perché lui l’aveva portata lì.
Le luci del tramonto bagnavano l’intera città. Miliardi di luci brillavano snodandosi come un maestoso cobra lungo la baia.
«A quest’ora è questo il mio posto preferito» svelò Yaten poggiando la punta del naso al vetro del finestrino.
«Non so perché ma a quest’ora, con questa luce, tutto sembra possibile».
Minako non poteva che essere d’accordo con lui. Persino i sogni nell’ora del tramonto diventavano realtà.
 
 
§§§
 
 
Mamoru accese la luce sul pianerottolo per poi discendere le quattro rampe di scale che lo separavano dalla strada. Abitava in una palazzina di mattoni, un edificio anonimo e senz’anima visto dall’esterno. Una posizione comoda al cuore della città, ad un passo da ogni sorta di comodità.
A lui piaceva tutt’alto. Amava gli spazzi aperti e stare a contatto con la natura. Avrebbe desiderato quanto meno un terrazzo e invece si era adattato ad accontentarsi di un piccolo balcone reggente un vasetto di basilico. Lui che se non prendeva sonno stava chino alla luce di un abatjour a leggersi le riviste per creare orticelli da balcone e progettava minuscoli giardini da città, si ritrovava ora a vivere in quello che era ben lontano da suoi desideri.
C’era stato un tempo diverso per lui. Una sorta di favola. Aveva incontrato presto la ragazza che sarebbe poi diventata sua moglie, la fantomatica anima gemella. Si erano sposati e la loro prima casa era stato un ranch in Arizona. Lei amava i cavalli, la vita di campagna e le attività all’aria aperta. Aveva adibito un’ala della loro casa a bed & breakfast così da sentirsi meno sola quando il lavoro portava lui lontano da casa.
Erano passati una manciata d’anni da quella vita e Mamoru la ricordava con la malinconia di un uomo ormai prossimo alla fine dei suoi giorni. Sembrava tutto tremendamente lontano, ovattato.
Dopo una giornata come quella che aveva vissuto, andare a spazzolare il cavallo o occuparsi delle stalle sarebbe stato terapeutico.
E lei sempre al suo fianco, con i lunghi capelli biondi e il cappello da cowboy in testa.
 
Attraversò la strada, con l’andatura un po’ ricurva e con gli occhi sull’asfalto nero come il loro ultimo periodo assieme. La malattia di Serenity li aveva costretti ad un trasloco. Nessuno poteva più occuparsi di ricevere ospiti e la vita da ranch era troppo stancante per lei. Non si erano arresi però. Lei aveva deciso di vivere il tutto come una nuova avventura. Si erano trasferiti a San Diego dove i weekend buoni facevano una passeggiata sulla spiaggia o si sedevano l’uno accanto a l’altro sulla sabbia per parlare di dove li avrebbe portati l’indomani; sino a che l’ultimo viaggio, per lei, aveva avuto come capolinea un appartamento poco lontano dall’ospedale con vista mare. Aveva detto di volersi addormentare guardando l’oceano se non poteva cavalcare in mezzo a distese verdi smeraldo e lui l’aveva accontentata ancora una volta. Lo aveva fatto sino all’ultimo giorno. Senza di lei aveva rinchiuso tutto quello che amava in un ricordo lontano, una scatola dimenticata in uno scantinato e si era trincerato in un buco cittadino lontano da tutto quel che era stato e aveva amato. Era stato più facile così, anche se più che andare avanti sembrava essersi fermato in quel buco nero.
 
Bastò svoltare in un altro isolato, attraversare ad un altro semaforo per arrivare a destinazione.
All’angolo della via qualcuno fece stridere i freni della propria bicicletta. Bunny lo aveva riconosciuto. Aveva fermato d’imperio il suo potente mezzo color confetto piantonando le suole delle scarpe all’asfalto.
«Accipicchiolina!» squittì scendendo dalla bici per poi parcheggiarla col cavalletto. «È proprio destino incontrarsi in una città così grande».
Si era ripromessa di aspettare prima di cominciare ad indagare sul conto del suo principe azzurro. Lei gli aveva lasciato un biglietto in fin dei conti e stava a lui chiamarla per primo per un appuntamento. Certo, se non si fosse sbrigato a farlo dopo ventiquattro ore, lei avrebbe colto l’occasione per riparare a quella disdicevole mancanza nei suoi confronti e allora avrebbe attivato tutte le app possibili di rintracciamento del gps e sfoggiato così le sue doti di stalker. Perché come amava dire lei “Se è destino accadrà, ma un aiutino male non fa”.
«Dunque…» tuffò le mani nella borsetta sistemata nel cestino alla ricerca di uno specchietto e del gloss colorato. Sistemò i capelli, si mise a posto il trucco e si scattò un selfie da postare sul suo profilo instagram.
«Tutto a posto. Michi-sama sarebbe fiera di me» gongolò soddisfatta del proprio aspetto.
Mise su l’aria di chi si trova puramente per caso nel posto in cui dove avverrà un incontro voluto dal destino e si affrettò a raggiungere la gelateria nella quale era entrato il giovane.
Galeotto fu il gradino che lei non notò perché troppo presa da quella sua commedia.
Usagi sentendo la terra sotto i piedi venirle meno, lanciò un gridolino di terrore arpionandosi alla prima cosa in rotta di collisione con lei.
Come un meteorite che superata l’atmosfera terrestre arriva contro il suolo provocò in quella rovinosa caduta qualche danno collaterale. Mamoru, il suo paracadute umano, si ritrovò con due coni gelato spiattellati sulla maglietta fresca di bucato.
«Ti sei fatta male?» come da galateo s’informò prima dello stato della ragazza prima che al suo aspetto ora irrimediabilmente trasandato.
«Oh che pasticcio. Ohi ohi» commentò lei mortificata per poi sentirsi andare a fuoco.
«Oh ma sei tu!» esclamò poi il moro riconoscendola mentre l’aiutava a rimettersi in posizione eretta.
«Già che coincidenza!».
«Vieni spesso da queste parti ad inciampare contro gli altri?» domandò lui ridacchiando sommessamente.
Bunny gonfiò le guance portando i pugni ai fianchi per poi formare due triangoli a lato delle proprie anche. Voleva forse attaccare briga?
«E tu vai spesso in giro conciato così?!».
Mamoru si guardò la maglietta lurida; da nera intonsa pareva essere divenuta una tela di Pollock.
Subito si affrettò a prendere una manciata di salviette per tentare di pulire alla bene e meglio quel danno colorato e zuccherino che colava incessantemente dal petto sino a minacciare i pantaloni, ma s’impietrì nel momento in cui quell’incontro lo prese ancora una volta contro piede.
Usagi, senza preoccuparsi di essere inopportuna allungò la mano verso l’indumento pieno di gelato per poi raccogliere un grumo rosa acceso con la punta del dito e portarselo alle labbra piene.
«Non ti facevo un tipo da fragola» commentò. «E quello invece cosa sarà mai?».
«Cocco e nocciola» la fermò lui pulendosi energicamente.
«Preferisco offrirtene uno piuttosto che farti mangiare dalla mia maglietta!».
«Io avrei preferito invece che tu mi avessi richiamata. Sono sicura di averti lasciato anche il mio numero di telefono oltre al resto sul biglietto».
Colpito e affondato. «Mea culpa» rispose un po’ imbarazzato.
«Non volevi farlo o sei stato molto impegnato a salvare il mondo?» indagò lei sospettosa.
Perché non l’ho richiamata? Si prese un istante per riflettere e non ci volle oltre per trovare le giuste risposte.
Da quando era rimasto vedovo era diventato insicuro, inoltre non aveva più riflettuto sulla possibilità di avere un’altra relazione. Se poi ci voleva un’ulteriore giustificazione, la sparatoria sicuramente non lo aveva aiutato nel voler tentare d’incontrare un altro essere umano o ad impegnarsi per fare colpo su qualcuno.
Mamoru sorrise intimidito e Bunny era già con i suoi pollici sulla tastiera digitale del cellulare a compiere una ricerca sul web sui significati delle diverse espressioni facciali ad un appuntamento galante.
«In effetti è stata una giornata impegnativa».
Usagi interruppe la sua affannosa ricerca. E’ ovvio, è così perfetto…sarà stato impegnato a salvare le vite di mezza città. Che stupida, non poteva certo invitarmi fuori. Credo dovrò abituarmi a frequentare un tipo come Superman, o Spiderman o…«In questo caso credo dovrò perdonarti» sentenziò ponendo fine a quel suo ciarlare interiore.
«Ma dimmi un po’…» lo incalzò nuovamente una volta che la curiosità prese il sopravvento. «Sei così goloso da volerti mangiare due gelati? Perché credevo non ci fosse nessuno goloso quanto me a questo mondo!».
Mamoru boccheggiò appena. «No, è che…» come lo avrebbe spiegato? Non erano nemmeno al loro primo appuntamento. E un attimo prima di ritrovarsi a dover rispondere a quella scomoda domanda, una chiamata lo salvo in corner.
Un numero lampeggiava insistentemente sul display del cellulare.
«Ehm, scusa devo…rispondere!».
Usagi ridacchiò facendogli un cenno di saluto. «Io beh, devo andare!».
«Ma non eri venuta per il gelato?».
«Oh, ehm…si è fatto tardi. Però, insomma…chiamami. Sì se ti va. O se non devi salvare il mondo».
Mamoru questa volta rise di gusto, ricambiando quel cenno frettoloso per poi vederla attraversare di corsa la strada e raggiungere la bicicletta.
Trascinò il dito sulla cornetta verde per portarsi il dispositivo all’orecchio.
«Chiba» disse solo.
«Dio, sei noioso anche a rispondere al cellulare». Non dovette nemmeno pensare a chi appartenesse la voce, perché solo una persona avrebbe esordito così ad una chiamata.
«Haruka?» domandò interdetto.
«Non hai salvato il mio numero. Potrei essere offesa. Che razza di collega…».
Mamoru si grattò il capo sempre più interdetto. Dove aveva preso il suo numero? E perché lo stava chiamando?
«Non devo partecipare ad una rissa, vero?».
«Bruce. Non ti avrei certo chiamato per fare a botte. So badare a me stessa».
«Ti va quindi di venire al punto?».
«Sei ad un appuntamento per caso?».
«No».
«Ecco, appunto. Noioso».
Avrebbe dovuto dirle di Usagi? In fin dei conti era una sua amica se gliel’aveva presentata. Ma loro erano amici? Poteva farle certe confidenze? In ogni caso sarebbe tornato a casa con una presa in giro, quella era una certezza assoluta.
«Comunque…» cominciò lei. «Cos’è la storia dello psicologo? Mica è la prima volta che vedo uno che spara o roba del genere».
«Haruka, non ti sto seguendo».
«Sì ho notato. Devi avere altra roba per la testa. E mi auguro siano un paio di belle gambe e tett-».
«VIENI AL PUNTO? Sono vecchio e stanco. Vorrei andarmene a letto!» sbottò per farla sbottonare.
Dall’altra parte un breve silenzio. Se avesse potuto sondare l’espressione dell’artificiere le avrebbe senz’altro letto in viso la tipica faccia di chi ha la certezza assoluta di aver capito ogni cosa del suo interlocutore.
«Guarda che poi il ciclo passa. E’ questione di giorni, ti ci abituerai…».
«Ok io metto giù» l’avvertì lui.
Ma Haruka non lo permise. «Mi stai dicendo che non ne sai niente. Maledetta Meiō».
Lei stava borbottando ad alta voce e lui s’incamminò verso casa scordandosi del gelato.
«Quindi tu non ci devi andare dallo strizzacervelli. Mi da della pazza, forse?».
Si faceva così ad essere amico di una donna? La si faceva parlare a vanvera fino a che non riattaccava o si poteva intervenire? Lui di Serenity si era subito innamorato, non era mai stato suo amico prima di diventare suo marito.
«Che poi chi è?! Ma perché tu no?».
«Ti stai forse lagnando perché il capo ti ha dato da fare i compiti e a me no?».
«Quanto mi stai antipatico, Cristo…». Solo a lei era permesso fare battute, nessuno avrebbe potuto eguagliarla.
«È sempre un piacere parlare con te».
Haruka buttò giù il telefono e Mamoru tornò al suo appartamento e dal suo piccolo grande segreto.











Note dell'autrice:

Eccomi qui carissime Loganiane! Innanzi tutto mi scuso per eventuali errori/ripetizioni poiché siccome il tempo è pochissimo non ho ricorretto il capitolo. Spero sia leggibile e che vi piaccia. So benissimo di aver lasciato indietro Makoto e Nevius ma riprenderemo anche la loro storia. Ho voltuo dare un pochino più spazio a Minako e Yaten e a questa nuova strana coppia formata da Usagi e Mamoru visto che lo scorso capitolo era un super concentrato di Haruka/Michiru. Per poter accorciare il tempo di pubblicazione ho quindi dovuto fare la scelta di selezionare soltanto determinati personaggi per il capitolo, non preoccupatevi comunque che ci sarà un tempo per tutto e tutti. 
Alla prossima!

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Capitolo 15
*** Toccare il fondo prima di risalire ***


“Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo.
Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c'è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato.”
 
Haruki Murakami
 
 
 
 

Setsuna non amava essere contraddetta, né tanto meno sottovalutata. Lei era sottostata a tutte le regole che negli anni le si erano parate dinnanzi e aveva sudato per la sua posizione. Non avrebbe permesso a nessuno di spodestarla o sminuire la sua autorità.  E tanto meno era incline a passare dei guai per l’esaltazione e la testardaggine di altri.
«Adesso ve lo faccio vedere io, branco di inetti…» disse con un filo di soddisfazione nella voce. Sebbene fosse dotata di molta pazienza quando la corda veniva tirata troppo non si faceva molti scrupoli. Era il capo delle operazioni in fin dei conti e ciò, voleva dire avere il pieno potere di prendere le iniziative che riteneva più opportune per il bene della squadra.
«Scannatevi pure fra di voi» sentenziò apponendo la propria firma su quello che aveva tutta l’aria di essere un comunicato ufficiale.
 
La sigaretta che pendeva dalle sue labbra tinte di un rossetto acceso seminò cenere sul pavimento.
Rigirò il foglio tra le mani e lo scansionò ai piani alti per poi affiggerlo alla bacheca del dipartimento.
Un paio di telefonate e la sua piccola vendetta fu messa in atto in men che non si dica.
 
 
§§§
 
 
«Quella strega. Deve aver esagerato con il vino ieri sera» blaterò Haruka con le mani in tasca e lo sguardo pieno di disappunto per essere uno dei primi nomi segnati in quella lista degli orrori.
«Devi sbrigarti a tornare non posso reggerla da sola» brontolò portandosi nuovamente il cellulare all’orecchio.
Dan dal canto suo combatteva per infilarsi i pantaloni della tuta nella sua stanza d’ospedale.
«Ci sto provando» commentò infastidito dalla stoffa che non voleva saperne di scivolare sulle sue gambe.
«Pure i poppanti imparano a camminare. Quanto ti ci vorrà testa vuota?» lo incalzò la bionda che si trascinava con passo svogliato verso la sua nuova destinazione.
«Ancora un po’. Dicono almeno tre sedute. Che poi dovrebbero chiamarsi camminate perché le chiappe non stanno certo poggiate su una sedia».
Haruka, insofferente per la mancanza della propria spalla roteò le iridi al soffitto sbuffando.
«Mettiti a correre, così si convincono».
«Non sfinirmi anche tu…» la pregò lui.
«Ciambella, mi si prospetta una mattinata difficile, non contraddirmi…» lo avvertì l’amica strofinandosi gli occhi per il poco sonno accumulato durante la notte.
Dall’altra parte della città Dan scosse il capo sconsolato.
«Ti devo lasciare» tagliò corto nel vedere entrare il suo terapista dalla porta.
«Salutami l’infermiera del piano» commentò con fare provolone la bionda.
«E tu la psicologa».
«Spiritoso. Perché poi dai per scontato che sia una donna?».
«Perché così sicuramente sarai più di buon umore e io mi eviterò un po’ d’ingiurie gratuite».
Haruka sorrise tra sé e sé.  Sorriso che svanì nel millesimo di secondo in cui dopo aver bussato alla porta spuntò la figura longilinea di Seya vestito di tutto punto.
«Non ci crederai mai…» commentò con la voglia di vivere sotto alle scarpe. «Ti richiamo».
Terminata la chiamata tentennò sulla soglia.
Poteva sopportare tutto. Le poche ore di sonno, i colpi di testa di Setsuna, una seduta terapeutica per farsi due risate...tutto; ma non quella faccia.
«Entra» più che un invito quello di Seya suonò come una minaccia.
«È uno scherzo, vero?». Haruka non riuscì a frenare la lingua come suo solito. Con lo sguardo, incredula, cercò una telecamera.
«Ten’ō» si schiarì la voce lui cercando di mantenere un tono professionale. «Ti conviene entrare». Si scostò dalla soglia per farla passare, ma non ottenne collaborazione dall’altra parte.
«Altrimenti?».
«Posso non abilitarti al servizio» stilettò lui prendendo finalmente in mano la situazione.
Alla bionda non piaceva essere messa alle strette. A quale gioco sadico stava giocando Setsuna? Doveva proprio odiarla per farle una cosa del genere. O forse sperava che si massacrassero tra di loro, fino a che non ne sarebbe rimasto solo uno e lei avrebbe avuto una rogna in meno senza sporcarsi le mani.
Battle royal. Pensò Haruka per poi decidersi ad entrare nella stanza adibita a studio. Al dipartimento il terapista era una figura che aveva del mitologico e tutto lì dentro, all’apparenza, era nuovo e intonso.
Seya inspirò profondamente per poi controllare l’orologio. Avevano una mezz’ora e anche se nessuno dei due l’avrebbe mai ammesso era chiaro sarebbero stati trenta minuti d’inferno.
Tuttavia, s’impegnò ad essere superiore.
«Dunque…».
Haruka si sedette sul divanetto allargando le braccia sullo schienale. Le mancava una birra nella mano destra per sembrare pronta alla visione di una partita di football sul proprio schermo di casa.
«Parliamo di come ti senti dopo ciò che è accaduto ieri».
Lei alzò un sopracciglio. Dovevano fare veramente una conversazione del genere?
«Queste cose non dovresti chiederle agli studenti di quella scuola?».
Lui rigirò la penna a sfera tra le dita per poi farla schioccare sulla cartelletta nera che teneva in mano.
«Non è il caso di stare così sulla difensiva» la ragguagliò in tono monocorde.
«Potresti prendermi a pugni, non si sa mai» commentò sarcastica lei.
Di certo non avevano cominciato con il piede giusto in passato, ed entrambi sapevano in cuor loro che non sarebbe mai andata meglio.
«Senti, Haruka…».
«Vacci piano. Non hai tutta questa confidenza per cui puoi permetterti di chiamarmi per nome».
«Puoi continuare fino a che ti pare. Ma fino a che su questo foglio…» sventolò un documento compilato a mano col nome di lei con l’aria di chi sa di avere il coltello dalla parte del manico. «Non c’è la mia firma, tu puoi scordarti di fare il tuo lavoro. E so benissimo quanto ti piaccia…».
Dio, Barbie Malibù. Non ti facevo il tipo da essere la sposa di Satana.
Haruka sorrise beffarda scatenando nel ragazzo l’insana voglia di attaccarla al muro e prenderla a sberle.
Dimenticava sempre di avere una donna davanti. Ogni volta che se la trovava di fronte prevaleva solo l’istinto di chi vuole eliminare una piaga dalla faccia della terra. E la sensazione era reciproca.
«Sei davvero così insicuro?» lo punzecchiò lei.
Seya la guardò senza capire. Drizzando ancor di più la propria postura sebbene al contrario suo fosse già seduto composto.
«Devi atteggiarti in questo modo e minacciarmi, per sentire di avere ancora un briciolo di controllo sulla tua vita? Perché scommetto…» lei tamburellò le dita sul rivestimento in ecopelle del divano, «che in realtà vorresti parlare di tua moglie piuttosto che sapere se ho dormito sogni tranquilli o meno».
Touché.
Lui abbassò lo sguardo scarabocchiando qualcosa.
«Perciò la mancanza di sonno non è un problema…» disse in tono basso e piatto. Dall’esterno sarebbero apparsi come un qualsiasi dottore di fronte al proprio paziente problematico, mentre in realtà erano due fiere pronte a sbranarsi da un momento all’altro. «E che mi dici dell’ansia? Sotto controllo anche quella? Niente sobbalzi per rumori improvvisi o…».
«L’unica cosa che mi fa sobbalzare è la vista di Michiru».
Il moro fermò la corsa dell’inchiostro sulla carta. Se avesse avuto in mano una matita l’avrebbe spezzata a mezzo.
I suoi occhi azzurri colpirono in pieno lo sguardo chiaro e beffardo che lo fissava con una certa insistenza.
Che cosa diavolo ci trova Michiru in te?. Mentre pensieri scomodi sballottavano tra le pieghe dell’anima di Haruka, la sua lingua sembrava non voler trovare un freno.
«Credo che persino il suo cuore sobbalzi quando vede me» girò il dito nella piaga, consapevole di starlo aizzando. Perché lo scopo il suo scopo era quello di fargli perdere le staffe e fargli calare la maschera una volta per tutte. Chi mai avrebbe voluto fra i piedi uno psicologo che attacca briga con qualcuno? Sicuramente quella pagliacciata sarebbe finita quella mattina stessa se lui avesse reagito. E Setsuna avrebbe avuto una lavata di capo con i fiocchi per non essere stata abbastanza diligente nel suo lavoro.
«Quindi…vuoi davvero parlare di mia moglie?».
«È l’argomento che preferisco in assoluto». Haruka portò i palmi dietro la nuca e distese le gambe in avanti per poi incrociare i pesanti anfibi l’uno sull’altro.
«Non c’è niente che non sappia di Michiru» sostenne lui.
«Scommetto che qualcosa te lo tiene nascosto…».
«Sarebbe?».
«Ah non so. Sai tutto di lei hai detto, non è vero?».
Seya sentì vacillare il raziocinio. Setsuna da che parte stava? Era a conoscenza della loro situazione? Voleva che lui desse lei una lezione, o che si distruggessero a vicenda?
«Non puoi minimamente competere…» ora era lui quello con la faccia soddisfatta forte del loro vissuto intrecciato saldamente.
«Noi siamo sempre stati insieme. Sin da bambini. Conosco ogni singolo angolo della sua anima e conosco anche i tipi come te. Pensi di spaventarmi? Credi di essere anche solo in gara? Sai cos’è che ama di più al mondo Michiru? Nostra figlia. E sai cosa desidera di più? Una famiglia in cui crescerla a dovere. Bene, Ten’ō. Per quanto tu credi di vedere crepe nel nostro rapporto ti assicuro che non è nulla di irreparabile. Lei continuerà a mettere insieme i cocci pur di assicurare ad Hotaru un’infanzia felice e due genitori. Perché è quello che è mancato a lei. Perciò…se pensi minimamente di avere una speranza, beh ti sbagli di grosso».
Haruka sentì l’ondata della rabbia omicida assalirla. Non riusciva più a starsene beatamente svaccata come se nulla fosse e finì sul bordo della seduta quasi fosse in procinto di darsela a gambe in vista di un pericolo imminente.
«Se anche Michiru ti avesse fatto credere di essere minimamente interessata...mi dispiace deluderti ma mentiva. Perché lei sa come entrare nella testa delle persone e indurle a credere o a fare quello che vuole. È il suo lavoro. È una burattinaia. Pensi davvero che dei criminali da un momento all’altro decidano di costituirsi perché sono sinceramente pentiti? No. Lei fa credere loro di avere una via d’uscita, fa pensare loro di avere una riduzione di pena e che tutto andrà per il meglio quando sa benissimo che il loro destino è un altro».
E lui? Lui giocava con la testa delle persone? Lo stava facendo in quel momento con lei? Voleva forse farle il lavaggio del cervello?
Lei sapeva di essere un osso duro. L’avevano addestrata a non perdere la testa a rimanere lucida davanti a una bomba. Haruka aveva la scorza dura, era stata forgiata sin da bambina dalla vita e allora perché sentiva vacillare qualcosa dentro di lei? Perché la sicurezza, compagna di una vita, sembrava scivolarle via dalla lingua e non riusciva più a rispondere a tono?.
«Va anche a dispensare baci in giro per convincere le persone?». Troppo tardi per fermarsi. Haruka non avrebbe mai fatto la spia se non si fosse sentita realmente minacciata come in quel momento; messa all’angolo. Aveva incassato colpi su colpi e un attimo prima di cedere, eccola lì l’occasione di mettere a segno un destro deciso.
E adesso chi era il pugile in procinto di essere messo k.o.?
Qualcosa nello sguardo del moro mutò. Haruka non era brava a leggere le emozioni altrui perciò non comprese quale demone s’impossessò di lui, ma non doveva esser nulla di buono.
Il ticchettio del barometro si arrestò. La bionda non vi aveva fatto caso sino a quel momento perché all’improvviso il silenzio tra loro fu più vuoto e pesante che mai.
«Qui abbiamo finito» sentenziò Seya lapidario.
«Mi hai firmato quel dannato foglio?».
«Assolutamente no. Non posso autorizzarti. Mi spiace».
Era il suo modo per vincere.
«Brutto figlio di p-».
Due colpi alla porta interruppero i due.
«Avanti» rispose prontamente lui.
Setsuna, nel suo paio di Jeans stretch e camicetta fece la sua comparsa.
«Tutto bene qui? Ho sentito dei toni piuttosto accesi».
«BENE UN CAZZO!» sbottò Haruka con un diavolo per capello. «Cos’è questa pagliacciata?!».
«Ten’ō contegno» il capo delle operazioni la zittì con un gesto della mano. «Ho ritenuto opportuno dei colloqui dopo ciò che è successo ieri. Voglio che i miei uomini siano nella condizione fisica e psichica migliore per tornare sul campo. E non tollererò più certi atteggiamenti».
Haruka la fulminò con lo sguardo.
«Sto bene. Sono una roccia. Glielo dica».
«Non sta a me fare una valutazion-».
«Oh al diavolo!». Senza trovare appoggio in Setsuna, Haruka, stizzita, si diresse con passo di marcia nel corridoio.
«NON CI STO!» urlò in preda al nervoso sino a che non colpì con una spallata il povero malcapitato presente sulla sua strada.
Fu un gemito sommesso a fermarla. Alzò lo sguardo e nel suo campo visivo entrò l’elegante figura di Michiru che si massaggiava la spalla.
«Brutta giornata?» chiese con voce morbida per poi sistemarsi una ciocca di capelli dietro all’orecchio.
Come faceva a dirle che il solo vederla faceva schiarire il cielo anche durante la più violenta delle tempeste?
«Haruka, ti senti bene? Sembri pallida…».
La sua mano affusolata sulla spalla e lo sguardo ceruleo macchiato di sincera preoccupazione.
Stai mentendo? Mi stai fottendo il cervello senza che me ne accorga?
Haruka sentì venir meno l’aria ai polmoni. Barcollò appena sentendo un cerchio alla testa.
Cosa diavolo mi succede?
«Ok, Haruka mi sto preoccupando. Cosa c’è che non va? Sei stata ferita ieri?».
Michiru le apparve sinceramente confusa e preoccupata anche se la sua voce si fece ovattata e lontana.
Haruka sentiva il cuore batterle freneticamente nelle orecchie.
L’aveva incantata? Doveva essere vittima di una malia o qualcosa del genere. E senza che potesse opporsi le tornò alla mente Amos che l’ammoniva ogni volta che si avvicinava al piccolo cimitero della comunità, dove al centro vi era la lapide senza nome di una ragazza ritenuta una strega.
«È solo un attacco di panico» la sua voce di Michiru divenne un eco indistinto.
I sabba, il demonio.
«Haruka, respira…».
Ma nella testa solo i rimproveri di Amos che tornavano a galla.
«Devi seguire gli insegnamenti di Dio o finirai male».
Per un momento i lunghi capelli di Michiru le solleticarono il viso. Erano come quelli della ragazzina che aveva sognato da bambina. La strega del villaggio.
E ancora una volta il suo patrigno le sussurrò all’orecchio.
«Non nominarla. Scacciala dai pensieri con le prime luci del mattino o ti avvelenerà la mente».
 
«Spostati». Haruka scacciò il tocco dell’altra ringhiandole contro come un bestia ferita.
Riprese a respirare, rendendosi conto di quanto era stato facile per Seya avvelenarle la mente.
Sentì gli sguardi di tutti addosso. Se fosse stato possibile avrebbe detto che ognuno di loro la stava strangolando con solo l’ausilio degli occhi. C’erano quelli glaciali di Seya, i pozzi scuri di Setsuna e quell’oceano capace di farla annegare con una sola ondata.
«Haruka, io…».
«Se vuoi giocare, continua la tua partita con lui. Non con me» fu tutto quello che riuscì ad esalare prima di lasciarsela alle spalle così come avevano fatto gli amish della comunità, seppellendo la giovane strega sotto metri di terra.
 
 
§§§
 
 
Makoto strofinava da cinque minuti lo stesso identico punto del bancone con lo sguardo perso verso l’orizzonte.
Il suo comportamento aveva destato numerosi sospetti al gruppo di sostegno, poiché non era da lei saltare due sedute dietro fila senza farsi sentire. Se qualcuno di loro scompariva all’improvviso non era mai un buon segno e probabilmente ognuna di quelle persone si aspettava le fosse accaduto il peggio. Lei aveva spento il cellulare dopo la decima chiamata senza risposta da parte del proprio sponsor e l’ennesimo sms senza risposta. Non poteva più tornare davanti a loro. Non era più chi credeva di essere, la nata due volte. Non aveva più la sua storia da raccontare per infondere coraggio o speranza ad ogni nuovo arrivato, perché lei non la possedeva più una storia. Tutto. Anche il suo presente, quello che si era costruita, era svanito nell’istante in cui aveva aperto il vaso di pandora e vi aveva fissato il fondo. Quello scatolone in soffitta, aveva cancellato ogni traccia di ciò che credeva di essere facendo sì che si perdesse, se possibile, ancora di più in quella vita di cui non riconosceva più niente.
Una risata di bambina la distolse da quel suo gesto insignificante ed automatico.
Makoto si rigirò tra le mani lo strofinaccio incapace di capire cosa diavolo ci facesse lì, quale fosse il suo scopo.
Si guardò attorno come se non riconoscesse più niente. Le sembrava di essersi catapultata in uno dei quei buchi neri che il suo cervello si era divertito a farle vivere una volta risvegliata in quel lettino d’ospedale.
 
Le infradito sulla passerella di legno e la zazzera mora di chi tentava di scrollarsi di dosso troppi granelli di sabbia spensero per un momento tutto quel caos che le sballottava dentro.
Lui si accomodò al bancone, guardando la riva del mare e la bambina che correva cercando di scampare agli schizzi delle onde.
«Non so da che parte iniziare…» mormorò lui sovrappensiero, con una mano che gli copriva la bocca e faceva d’appoggio al mento. Lo disse così piano da essere convinto di starlo solo pensando, ma Makoto, troppo stanca di rincorrere i suoi pensieri su dei binari morti lo aveva udito.
«È un problema comune a quanto pare» si sorprese da sola nel sentire la sua stessa voce che diceva quelle parole.
Lo sguardo di Mamoru incrociò il suo e lei parve volerlo consolare in qualche modo. «Nemmeno io so più da dove cominciare» lo rassicurò prendendo piano piano atto di ciò che stava dicendo a una persona sconosciuta. «Non sapevo nemmeno di possedere un appartamento a New York…».
«Non sembra una cosa di cui dimenticarsi» rispose sorpreso lui, per poi appollaiarsi meglio sul trespolo al banco.
«Dico anche io!» lei ridacchiò nervosamente per poi scrollarsi nelle spalle. «Quello è il meno comunque. È peggio quando capisci di non sapere più niente di te stesso. Di esserti costruito qualcosa in testa che poi a quanto pare non è reale».
Si trovò stranamente solidale con lei. Nemmeno lui, dalla morte di Serenity sapeva più davvero chi fosse. Oltre al Mamoru Chiba lavoratore, chi era? Cos’era rimasto dell’uomo che aveva sposato l’incredibile donna che aveva lasciato uno squarcio nel suo petto e di conseguenza nella sua esistenza?
«Ma sai, non è da me essere così chiaccherona. In fin dei conti io sono da questa parte del bar e tu da quella. Tocca a te parlare. Io posso solo servire da bere!».
Makoto prese un bicchiere fra le mani lanciandosi sulla spalla l’asciugamano umido con cui si era dilettata per tutto il tempo.
«Dunque, cosa ti posso dare?».
«Una buona dose di coraggio, credo» rispose lui.
«È un po’ vaga la scelta…» si permise lei, accennando un sorriso.
«Il problema è quello di cui parlavi tu. Non so chi diavolo sono, perciò non so nemmeno cosa mi piace da bere, forse».
«Non mi sembri un tipo da scotch, intanto».
«Da cosa lo deduci? Se posso chiedere…».
«Non fumi il sigaro, non sembri uno che ha l’autista e ti mancano i baffi!».
Mamoru e Makoto scoppiarono a ridere all’unisono.
«Se è così allora, direi che sì, non sono decisamente un tipo da scotch».
«Fammi pensare…». Makoto allargò le braccia sul balcone e s’incurvò appena come a volerlo studiare meglio.
«Mare o montagna?» chiese curiosa.
«Montagna». Mamoru fece una pausa. «In più credo di non poter alzare troppo il gomito. Sono reperibile per il lavoro e ho un po’ di responsabilità a cui far fronte».
«Con un succo di frutta mi offenderei. Facciamo una birra doppio malto?».
«Facciamo così!».
Makoto, orgogliosa di aver trovato una bevanda per il suo nuovo cliente si abbassò per raccattare una bottiglia dell’alcolico dal mini frigo. La stappò provocando un leggero sibilo nel togliere di mezzo il tappo e gliel’allungò.
«Non mi farai bere da solo, vero?» disse inclinando il collo della bottiglia verso la ragazza.
Makoto sembrò pensarci su per un’istante a quella proposta. In fin dei conti era il capo di se stessa e una birra non l’avrebbe certo stesa, così accettò l’invito dell’altro a fargli compagnia e ne stappò una anche per sé.
«A quelli che non sanno più niente di se stessi» annunciò lei facendo tintinnare il vetro scuro contro quello nelle mani dell’altro.
«Ma che si ritroveranno» aggiunse lui prima di prendere una lunga sorsata.
 
 
§§§ 

 
«Io giuro che quello lo gonfio di botte». Haruka incrociò le braccia al petto con lo sguardo puntato contro la vetrata del bar presente nell’ospedale dove ancora l’amico alloggiava. Si era adagiata mollemente su una delle sedie giallo limone in plastica come a voler sprofondare su un comodo divano, ma continuava a scivolare sempre più sotto al tavolino color argento sistemato dinnanzi al loro.
«Gli cambio i connotati a costo di finire in galera» continuò senza riuscire a placare quell’ondata di violenza che l’aveva pervasa.
Dan, dal canto suo, molestava con una forchettina il muffin ai mirtilli sopra al piattino in ceramica bianca.
«Ti porterò le arance…» rispose distratto.
«Con la scusa di essere zoppo non ti farai più vedere. Altro che arance…».
«Non ho mica una gamba di legno, mi vuole solo ancora un po’ di tempo» contestò piccato.
«Ma che assicurazione sanitaria hai? Ti copre ancora? Ci hai piantato le tende qui».
«Come sei petulante…».
«Lo mangi o no quel coso? La pianti di bucherellarlo?». Haruka sembrava essere sull’orlo di una crisi di nervi e Dan si chiese se l’avrebbero mai santificato per sciropparsi tutto quell’isterismo.
«Te lo dico io, questi sono decongelati. Altro che mirtillo fresco del Saskatchewan».
Lei fece una smorfia come a dire che l’amico era un caso perso e probabilmente lui stava pensando lo stesso della bionda anche se mostrando più tatto.
«Insomma, Kansas cosa ci devo fare io? Quello è un cane a cui sta venendo toccato il suo osso. Ringhierà sempre più forte fino a morderti se continuerai a stuzzicarlo in questo modo».
«Hollywood paragonata a un osso di cane…» brontolò sommessamente. Sembrava non andarle a genio nessuna della parole che l’altro stava spendendo.
«Non era buona come metafora?» lui sembrò preoccupato come uno scrittore a cui contestano una licenza poetica, ma Haruka mise fine a quei suoi tomenti insensati con una scrollata di spalle.
«Sai che ti dico? Chissenefrega» concluse buttando giù l’ultimo goccio di caffè amaro nella tazzina come fosse un cicchetto alcolico.
Lui la guardò con fare pensoso. La conosceva ormai da troppo tempo e quel suo mollare lì il discorso, come se non avesse più alcuna importanza, sapeva benissimo essere una difesa e null’altro. Haruka voleva far credere di essere talmente forgiata da potersi far scivolare addosso qualsiasi cosa. Ma mentiva. E lo faceva male, perché un amish non dovrebbe essere in grado di dire il falso, sarebbe peccato. Haruka non era certo credente, ma l’essere cresciuta con gente che diceva la verità non l’aveva resa una buona bugiarda con chi la conosceva a fondo.
Avrebbe potuto fregare la conquista di turno, uno sconosciuto ma non certo lui.
«Ascolta…» lui s’incurvò verso di lei quasi dovesse svelarle un segreto. «Io credo una cosa» sentenziò con fare fraterno.
«Penso che la cosa ti rughi così tanto perché provi un sincero interesse per lei».
«Oh andiamo Dan!» esclamò Haruka con fare tanto teatrale da far sobbalzare le due suore a un tavolinetto di distanza.
«Era solo una stupida sfida. Volevo il numero di telefono per far vedere a voi omaccioni che sono superiore e stuzzicarla un pochetto. Lo sai che la cosa mi diverte».
«Guarda che faccio ancora fatica a camminare ma il cervello ti assicuro che è a posto. Dalla da bere a qualcun altro. Se fosse una delle tue sfide o una delle tante ragazze da collezionare non saresti facendo tutto questo casino. Saresti passata oltre e basta. Invece fai rissa con un tizio sposato, rientri in un edificio dove un pazzo omicida spara a destra e a manca e usi me, il tuo amico, come psicoterapeuta per questo cuore amish di pietra che comincia a battere. È così dura da ammettere?!».
Quelle parole ebbero l’effetto di un cazzotto su di lei. Un pugno tanto ben assestato da atterrarla e farla rimanere senza la sua solita risposta pronta. Perché aveva tremendamente ragione e a lei non piaceva affatto avere torto o dover difendere delle ragioni evidentemente inesistenti.
«Ohi, pronto. C’è nessuno?» il ragazzo le schioccò le dita sotto al naso come a risvegliarla da uno stato di trans.
«Kansas, se ti piace gioca la partita fino in fondo. Gli attributi li hai no?!».
Provo realmente interesse per Michiru? Haruka si perse a tentar di comprendere i suoi sentimenti. Non si era mai concessa un po’ di tempo per analizzare ciò che realmente provava. Aveva sempre e solo avuto la brutta abitudine di seguire la pancia senza soffermarsi sulle cose.
Lei schioccò la lingua. Quello era il suo modo di dargli ragione, senza ammettere però apertamente che si era presa una vera e propria sbandata.
«Fatti abilitare e rubagli la moglie. Cosa ci vuole…» la istigò ancora una volta lui.
«Ecco a cosa servono gli amici» sentenziò lei. Dan la guardò perplesso, rinunciando a mangiare definitivamente il dolcetto di fattura scadente.
«A darti cattivi consigli».
 
 
§§§
 
 
Haruka se lo sentiva nello stomaco. Quella sensazione si era fatta strada da un momento all’altro, tanto irruente da non riuscire più a farla stare seduta.
Aveva salutato l’amico sull’onda di quella carica che lui le aveva infuso e senza perdere altro tempo, salita sul pickup, aveva premuto col piede l’acceleratore per tornare più in fretta possibile da dove era venuta.
Le ruote divoravano l’asfalto rovente, mentre al di sotto della scogliera l’oceano ruggiva e come lui anche Michiru sembrava voler far sentire la sua voce.
 
Lei non era solita perdere la pazienza. Aveva sempre avuto un carattere mite dosato dalla disciplina ferrea del padre e dalle buone maniere impartite da sua madre. Se era stata una figura sottomessa e poco presente non si era certo risparmiata però nel farla crescere “come si conveniva”.
Tuttavia a Seya bastò una sola occhiata per comprendere il disappunto che animava la moglie.
Michiru, forse per la prima volta,  aveva liquidato Setsuna con un saluto gelido per poi richiudere, senza troppi complimenti, la porta dello studio alle sue spalle.
Era turbata. Lui lo aveva capito quando era venuto meno quel suo solito modo elegante di camminare e le braccia si erano serrate con le mani a toccare i suoi gomiti come volesse trincerarsi dietro le sue ossa.
Era un chiaro atteggiamento di difensiva e non ti serve difenderti se non hai intenzione di attaccare. E quando le ciglia perfettamente in ordine e ben curate s’inarcarono, furono l’annunciazione silenziosa che il turbamento era divenuto rabbia. Michiru, silenziosa, lo trafisse con l’azzurro dei suoi occhi. Era il suo modo di intimidirlo, anche se con lui era tutto vano. Poiché essere alla stregua di un libro aperto per l’altro giocava a suo svantaggio. Lui conosceva ogni suo punto debole e vi avrebbe fatto leva se fosse stato necessario. Era una partita persa in partenza, ma a Michiru avevano insegnato a combattere sino alla fine.
Quasi sgraziata, come un toro in procinto di attaccare il matador nell’arena, animata da quel sentimento che la incendiava, lo caricò fino a puntargli il dito medio al petto.
Ma lui anziché preoccuparsene riuscì solo a pensare a quanto tempo era passato dall’ultima volta in cui erano stati così vicini; tanto da sentire l’uno il fiato dell’altro solleticare il proprio collo.
«Si può sapere cos’hai fatto?» domandò minacciosa.
Lui attese il resto. Voleva sapere cosa le stava passando per la testa e la risposta non tardò ad arrivare.
«Cos’hai detto ad Haruka?».
Seya non aveva mai avuto paura della moglie e non avrebbe certo cominciato in quel momento. Lei era sempre stata da proteggere non aveva mai rappresentato un pericolo o un’insidia.
«Esiste una cosa che si chiama segreto professionale, Michi». Provò a sedarla con quella blanda scusa e lei non abboccò.
«Oooh andiamo». Abbassò l’indice senza indietreggiare, continuando a fissarlo come un soldato fa per avere la confessione di un prigioniero di guerra. «Non fare il furbo con me Seya».
Il moro espirò profondamente per poi sedersi. «Non faccio il furbo. Sai benissimo che esiste il segreto professionale, quella cosa tra medico e paziente». Insistette lui.
«Devo chiederlo a lei?».
«Sono preoccupato per te» disse con voce pacata, quasi stesse riflettendo tra sé e sé. «Michiru credo sia troppo tutto questo».
«A cosa diavolo ti riferisci?». Il suo tono si fece leggermente stridulo. Lui se ne stava seduto a incrociare le gambe e a stringere i palmi in un pugno in una posizione che ricordava la statua di qualche filosofo greco.
«Sei tornata troppo in fretta al lavoro. Troppo stress e tensioni. Temo ci voglia una nuova terapia. Non ti rendi conto che sei ancora instabile? Non c’è niente di male a prendersi il proprio tempo».
Michiru non credeva alle sue orecchie. Stava forse cercando di farla passare per una pazza fuori di testa?. Dovette mordersi la lingua. Tentò di mantenere il decoro che l’aveva sempre contraddistinta, ma non aveva alcuna intenzione di farsi mettere i piedi in testa.
«Hai firmato quelle carte?».
«No».
«Devo quindi chiamare un avvocato e costringerti?».
Passò alle minacce.
Lui si alzò, le poggiò le mani alle spalle e prese a parlarle sottovoce come dovesse ipnotizzarla.
«Tu sei sconvolta. Devi solamente respirare, calmarti e far fare tutto a me». Forse voleva realmente rassicurarla o forse era diventato talmente meschino da volerle inculcare quello che più gli faceva comodo.
Una volta lei gli avrebbe creduto senza battere ciglio. Un tempo era stato realmente il suo salvatore, il principe azzurro, l’uomo perfetto e perché mai ora gli sembrava tanto subdolo?
«Seya» lei si scrollò la presa dell’altro di dosso. «Sul serio. Voglio che firmi quelle carte e che te ne vada di casa. Oggi stesso» ribatté con voce ferma.
Michiru non aveva idea di dove fosse andata a pescare tutto quel coraggio. Se nella vita affrontava criminali e pazzi omicidi, non aveva mai pensato di rivoltarsi contro una delle persone più importanti della propria vita. Stava distruggendo un matrimonio e, per la prima volta, si rese conto che suo padre non aveva sbagliato di una virgola sul conto di Seya.
«Ti rendi conto di quello che stai dicendo? Vuoi davvero distruggere la nostra famiglia Michiru? E a Hotaru cosa dirai?».
«Non tirare in mezzo Hotaru. Sa a malapena chi è suo padre».
Lui perse le staffe. Se era stato sempre il cavalier prodigo, gentile e premuroso, quello che aveva fatto un passo avanti per salvare il loro matrimonio, ora, messo alle strette, aveva deciso di lasciare venir fuori il lato peggiore di sé.
«Stai facendo tutto questo casino per quell’idiota biondo? Michiru è una donna. Un’indisciplinata, squilibrata, cosa credi di guadagnarci? Sai benissimo che da sola con Hotaru non ce la farai mai e sei così disperata da attaccarti a quell’idiota? Ti fa sentire al sicuro? Durerà per l’estate e poi cambierai idea tu, ammesso non si stanchi lei per prima».
Michiru deglutì rumorosamente, sentendo all’improvviso la stanza restringersi.
«Firma quei dannati documenti e vattene» era un sussurro il suo, ma determinato.
Lui mosse un altro passo in sua direzione facendola indietreggiare sino contro la scrivania.
«Ora smettila di dire sciocchezze. Tu hai bisogno di me, ne hai sempre avuto uno stramaledetto bisogno e lo sai benissimo».
 
«Cosa credi di fare?» la voce di suo padre le tuonò in testa. Michiru serrò le palpebre come in preda a un incubo.
L’aveva intrappolata tra il suo corpo e il muro, battendo sul palmo sinistro la cinghia in pelle. «Vuoi scappare con quel ragazzetto? Non durerete due giorni. Tu hai bisogno di me. Non puoi farcela da sola».
 
«Torna in te».
Michiru dovette soffocare un singhiozzo. Per la prima volta ebbe paura della persona di cui più si era fidata.
«Allontanati, Seya» ribatté quasi allo stremo.
 
«Sei sordo? Hai sentito che ha detto?».
Haruka era sulla soglia e come suo solito non aveva avuto bisogno di chiedere il permesso per entrare.
«Cosa sei tornata a fare?» tuonò Seya girando le spalle a Michiru.
Haruka non resistette. Mise in mostra la fila di denti bianchi perfettamente allineati in un sorriso beffardo.
«Sono venuta a riscuotere un pegno». Si riferiva all’appuntamento che Michiru le aveva concesso. «Vero, Michiru?».
Lei rispose con un cenno del capo scivolando fuori da quello che era diventato uno spazio angusto.
«Non puoi entrare così».
«È qui che sbagli psicosatana» rispose lei a tono. «Qui sono di casa e faccio quello che mi pare. Nella scala gerarchica non sei un bel nessuno qui dentro».
«Voi due…l’abilitazione ve la scordate» un disperato tentativo d’incutere timore.
«Lo vedremo. Pronta, Michiru?».
«Ma certo» sentì il cuore più leggero e si avviò verso la bionda. Si voltò solo prima di andarsene e guardò Seya come si guarda per l’ultima volta casa. «Non scherzo. Voglio la tua stupida firma».
 
 
§§§
 
 
 
Fu il garrire incessante dei gabbiani a svegliarlo nel primo pomeriggio.
Yaten non aveva chiuso occhio sino alle prime luci dell’alba troppo preso per tutta notte a darsi dell’idiota incosciente. Cosa gli era saltato in mente di baciare Minako la sera precedente?
«Che casino» brontolò in uno sbadiglio, senza trovare la forza per alzarsi dalla cuccetta.
Quello che rendeva quella situazione un casino era il fatto che Yaten fosse terrorizzato all’idea di sentirsi felice. Per anni ci aveva provato, aveva tentato di essere all’altezza per sentirsi gratificato e amato dai suoi genitori quanto il fratello maggiore. Dopo di che aveva compreso che non sarebbe mai riuscito nell’impresa e aveva abbandonato. Decidendo di barricarsi dietro a quella freddezza tessuta pazientemente nel suo viaggio solitario nel bel mezzo dell’Oceano per non sentire più niente. Né la nostalgia di casa, né la paura di fallire nuovamente. Essere felice con qualcuno voleva dire mostrare ogni più piccola crepa della sua anima e soffrire nuovamente. Lui non aveva tempo di stare male o cincischiare, doveva rincorrere il suo sogno, doveva dimostrare a sé stesso di valere qualcosa.
Niente distrazioni.
Ma le labbra calde di Minako parevano essere ancora lì, incollate alle sue e il solo pensiero gli mozzò il respiro.
«Yaten» una voce seguì una serie di passi sul ponte della sua Blue lagoon.
«Merda!» si tirò su di scatto ancora vestito solamente dei boxer e vagò alla disperata ricerca di qualcosa da mettersi addosso.
«Yaten, ci sei?».
Era Minako. Era uscita dai suoi pensieri per materializzarsi lì e mettere a dura prova ancora una volta il suo autocontrollo.
Il ragazzo afferrò la prima maglietta appallottolata che aveva a portata di mano incespicando nello spazio angusto.
«A-arrivo!» gridò di rimando per poi infilarsi i pantaloni della sera prima.
Ebbe solo il tempo di strofinarsi gli occhi col dorso della mano che
Minako aveva già sceso le scale per poi apparire sottocoperta.
«Oh, eccoti. Come ti senti?» domandò lei sinceramente preoccupata.
Lui dovette pensare un momento al motivo di quella domanda ma dopo un paio di secondi l’illuminazione arrivò. Dopo il bacio al tramonto, Yaten, non sapendo più come comportarsi l’aveva piantata in asso con la scusa di sentirsi male. Mettendo così fine alla loro gita.
 
Che femminuccia. Il cervello non tardò a demolire un altro po’ la sua autostima, ma Yaten non aveva tempo di auto flagellarsi emotivamente perché lei era lì. Con i capelli dorati sciolti, un grazioso vestito a fiori ed era in pena per lui che stava facendo lo stronzo.
«Cavoliii» senza aspettare risposta Minako avanzò verso di lui con uno scatto veloce per afferrare una delle sue ciocche argentee. «Yaten ma sono lunghissimi! Non li avevo mai visti slegati. Hai sempre la coda o il concio stile samurai…».
Lui, impietrito, non seppe come reagire. Si scostò con un passo indietro, allontanandosi per ripristinare una “distanza di sicurezza” tra loro.
«Mi sono ripreso…» disse vagamente. «Dev’essere stato qualcosa che ho mangiato prima di uscire ieri».
«Mh, capisco» lei sorrise debolmente. Imbarazzata perché il suo fantasticare ad occhi aperti, raccontando l’accaduto a Rei la notte precedente, si stava rivelando una delusione. Probabilmente si era pentito e comunque lei non gli interessava come possibile fidanzata.
«Tieni» gli allungò una bustina in carta. «Dentro c’è un antiacido e un frullato che mi hanno assicurato fa miracoli per lo stomaco. Non sapevo se ti sentissi ancora male o meno».
«Ti ho fatta preoccupare così tanto?». Era una domanda stupida la sua, ne era conscio ma era rimasto senza parole. L’unica persona che si era preoccupata per lui era stata Michiru. Sua madre lo aveva tenuto in salute, ma di certo non aveva mai mostrato particolare apprensione nei suoi confronti.
Minako abbassò lo sguardo. «E’ naturale. Ci tengo a te».
Lui, intenzionato a non cedere e ad annegare tutti quei sentimenti che scalpitavano per venire a galla, comprese nel momento in cui allacciò le braccia dietro all’ esile schiena di Minako, di star combattendo essere reduce una battaglia persa in partenza.
La strinse a sé, socchiudendo gli occhi e inspirando il suo profumo zuccherino.
Sarebbe così pericoloso lasciarsi andare?
«Grazie».
Minako era in balia di quel tum tum galoppante quanto una carica di fanteria che virava dal petto verso le orecchie.
Non poteva crederci. Stava succedendo davvero? Sapeva bene di non dover illudersi, ma quanto meno lui le stava dimostrando di considerarla qualcuno e non una perfetta sconosciuta.
Forse voleva mantenere un rapporto professionale per il loro debutto e allora si era tirato indietro. D’altro canto è sempre stato chiaro come il sole che amore e musica creano sempre delle problematiche.
«Ti senti pronta per domani sera?» chiese lui distaccatosi nuovamente.
Minako avvertì subito una sensazione di freddo al dissolversi del loro contatto, tanto da ritrovarsi a rabbrividire.
«Non credo sarai sorpreso se ti dico che sono agitata».
«E’ una bella canzone. Penso tu possa stare tranquilla».
«Ma io non sono mai stata su un palco» ribatté lei.
«Non riempiremo uno stadio» minimizzò lui come era solito fare.
La bionda sbuffò. La cosa non la rincuorava in ogni caso.
«E se non andasse bene? Insomma, distruggerei il tuo sogno».
«Faresti a pezzi anche il tuo».
Come faceva a stare così calmo? Impossibile non gli importasse più. Se aveva capito una cosa di Yaten era proprio che la musica nella sua vita veniva prima di qualunque cosa.
Avrebbe voluto la metà del suo coraggio e della sua sicurezza. Sicuramente l’indomani avrebbe cavalcato quel palco con maggior tranquillità e sprezzante di ciò che sarebbe stato.
«Oh diavolo» commentò lui interrompendo il turbinio che si faceva stradanella ragazza. «Fa davvero schifo questa roba!».
La bocca di Minako formò una piccola “o” di sorpresa. Yaten stava tossendo tentando di non sputare la bevanda che lei le aveva procurato per il mal di stomaco.
«Volevi avvelenarmi, Mina?!».
«Io…NO!».
«Ma cosa ci hanno messo dentro?!».
«Era un centrifugato fresco ma…».
«E’ sbobba! Sarebbero capaci di venderti cacca per oro» la schernì bonario lui.
«Yaten, io volevo essere gentile!»
Lui rise spensieratamente. E Minako fu certa lo avessero buttato giù dal paradiso perché quello che aveva davanti, anche se burbero e glaciale non poteva essere altro che un angelo.
Il ragazzo l’abbandonò per correre su per le scale continuando a prenderla in giro per la pessima scelta fatta e lei non indugiò oltre per rincorrerlo e mollargli un ceffone qualora se lo fosse meritato.
 
«Bugiardo, guarda quanto te ne sei ciucciato con quella cannuccia. Fammelo sentire, non ti credo!». Lo incalzò lei, baciata dal sole, nel tentativo di strappargli di mano il bicchierone da passeggio.
Yaten si sporse contro la battagliola, alzando più in alto possibile il frullato divertito da tutto quel saltare della ragazza.
«Dai su fammi sentire!».
«Prenditelo ranocchietta!».
«Quanto sei antipatico, non ci arrivo, non…».
«ASPETTA MINA, ASP-». Non ebbe il tempo di finire la frase per la posizione fattasi improvvisamente instabile.
Minako ci aveva messo troppa spinta nell’ultimo tentativo di recuperare l’oggetto della disputa finendo così per sbilanciare ancora di più la loro posizione già precaria in partenza.
Il ragazzo mollò il bicchiere nel sentire il vuoto dietro di lui e Minako, presa in contropiede si attaccò alla sua maglietta col solo risultato di far cadere entrambi nell’acqua del porto.
Quando il corpo di Yaten si schiantò contro la superficie dell’acqua il peso della ragazza, ancora avvinghiata a lui, venne meno.
Per una frazione di secondo nella sua testa si affacciarono i ricordi dei tuffi dalla scogliera nel mare blu delle Hawaii, ma un attimo dopo ci fu solo il pensiero di lei.
I capelli di Minako come tentacoli di medusa ondeggiavano al rallentatore tra le bolle, le braccia tese verso l’alto e il suo sguardo. Aveva qualcosa di diverso. Aprì la bocca nel tentativo di dir qualcosa e poi uno scatto convulso. Fu in quel momento Yaten si rese conto che lei non sapeva nuotare.
 
 
§§§
 
 
Da bambina suo padre l’aveva scritta ad un corso di nuoto, ma Minako non ne voleva sapere.
L’insegnante aveva provato più volte ad incoraggiarla per buttarsi, diceva l’avrebbe presa, ma lei preferiva di gran lunga starsene seduta a bordo vasca limitandosi a creare disegni fantasiosi con i soli piedi a mollo.
Le piaceva andare in spiaggia, al lago e perdersi a guardare le grandi distese d’acqua, ma per lei era sempre stata una cosa bella da godersi a debita a distanza. Un po’ come Yaten. Forse sarebbe stato meglio ammirarlo solamente da lontano senza rischiare di avvicinarsi troppo. Limitarsi a sognare la loro storia come uno di qui grandi amori impossibili descritti nei romanzi. Sarebbe stato meno pericoloso. Ma lei, di annegare in un mare di rimpianti non ne aveva alcuna intenzione.
 
Ancora un po’ di ossigeno in corpo.
Agitò le mani nel tentativo di raggiungere la mano di Yaten e lui l’afferrò. Una presa salda che la trascinò nuovamente in superficie.
Minako spalancò le labbra respirando a pieni polmoni, continuando a scalciare l’acqua come a volersela allontanare di dosso.
«Come ti è venuto in mente?!». Lo sguardò di Yaten era duro. Sembrava essersi arrabbiato di colpo e la sua espressione dapprima splendente come il cielo estivo si era rabbuiata come il passaggio di una tempesta.
«Ma che ti passa per la testa? Non mi hai mai detto di non saper nuotare. E ti ho portata in barca!».
Minako era gelata. Con il vestito leggero appiccicato addosso e stretta a lui come l’unica ancora di salvezza al mondo sentì il battito galoppante nel cuore dell’altro.
Non era arrabbiato. Yaten era solamente preoccupato in modo spaventoso. Lo era per lei.
«Mi dispiace» cos’altro avrebbe potuto dire?
«Andiamo» soffiò lui risoluto, trascinandola verso la banchina.
«Metti le mani qui» la istruì lui per poi darsi una spinta e riuscire a risalire all’asciutto. L’aiutò ancora una volta a venir fuori dall’acqua e solo allora Yaten parve concedersi di respirare nuovamente.
«Stai bene?».
Minako accennò un sì del capo tremante.
«Quanto cavolo è fredda» disse battendo i denti.
«È pur sempre l’oceano…». Si sentì in dovere di puntualizzare quell’ovvietà per poi farle cenno di avviarsi verso la barca.
«Da dopo il nostro debutto imparerai a nuotare» sembrava un ordine il suo. «Non posso essere sempre lì pronto a salvarti».
Minako bloccò la sua marcia fissandogli le spalle. Il freddo sembrava svanito e al suo posto solo un’ondata di rabbia a pervaderla per quell’insensata sgridata. «Se sono tanto una palla al piede per te, trovati un’altra con cui suonare!» sputò fuori senza remore.
«Non la voglio un’altra con cui suonare». Yaten si girò, tornando indietro per raggiungerla. Uno stormo di gabbiani galleggiava placido sulle increspature cristalline. «Probabilmente io non sono il massimo della chiarezza Aino». Depose le armi e ancora una lunga crepa invase quel muro messo su un mattone alla volta. «Ma quello che sto cercando di dirti è che non voglio tu corra alcun pericolo. Perché questo mi fa stare male».
Le mani di Yaten scorsero sulla stoffa impregnata d’acqua che copriva le spalle di lei. Perché resistere ancora una volta? La sua boccaccia aveva appena detto troppo. Tanto valeva sigillare quella confessione con un altro bacio, no?
E questa volta fu Minako ad anticiparlo. Col cuore in gola e il petto gonfio di gioia per quella rivelazione, si alzò in punta di piedi per scontrare le proprie labbra con le sue. Per rendergli un po’ di fiato e dimenticare il paesaggio da cartolina che li circondava. A lei non importava più niente. Né lo scrosciare insistente del mare, né la telefonata minatoria di suo padre, né il freddo, né tantomeno la competizione. C’erano solo loro e quei respiri intrecciati che divenivano uno soltanto.
Un bacio e ancora un altro. Una catena silenziosa di promesse appena sussurrate.
«Ora andiamo» soffiò lui con la fronte poggiata alla sua e gli occhi che parevano immersi nelle stelle tanto erano lucidi. «Ti presto qualcosa di asciutto» la prese per mano, lasciando orme bagnate su tutto il ponte della Blue lagoon.
 
«Tornato da una gita romantica, fratellino?».
Seya, come un incubo pronto a mandare in frantumi quello che per Yaten era stato un preludio di placida felicità si stagliava di fronte a lui.
 
«Mina, scendi di sotto e prendi quello che vuoi» le disse piano come a rivelarle un segreto. Lei ubbidì, discendendo le scale con la sensazione di ritrovarsi nel bel mezzo di un cliché da pellicola cinematografica. Il momento in cui il passato di uno dei due protagonisti si affaccia per mandare all’aria la felicità appena assaporata.




Note dell'autrice:

Chi è giunto fino a qui spero abbia preso coscienze del fatto che questa è la storia infinita. Forse mi perdo troppo a sviscerare le vicende di tutti, ma ormai ho preso questo "andazzo" quindi...abituatevi se volete procedere, ahahah.
Ho "diviso" in due il capitolo perché troppo lungo. Nella prossima parte non temete, ci sarà anche la nostra amica Usagi e procederemo innanzi con tutto sto popò di roba. Per ulteriori aggiornamenti c'è sempre la mia pagina fb. Spero il capitolo vi sia piaciuto anche se io l'ho trovato noioso allo sfinimento e sono stata tentata di cancellaro da cima a fondo!

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Capitolo 16
*** Toccare il fondo prima di risalire - Parte II ***


“Nothin' goes as planned.
Everything will break.
People say goodbye.
In their own special way.
All that you rely on and all that you can fake.
Will leave you in the morning. But find you in the day.
Oh you're in my veins and I cannot get you out
Oh you're all I taste at night inside of my mouth
Oh you run away 'cause I am not what you found”.
 
Andrew Belle – In My Veins


 
 
 
La calma piatta non esiste. Mamoru di quella convinzione ne aveva fatto uno stile di vita. Per lui poteva esistere la calma apparente, ma sapeva bene che nel bene o nel male la vita nascondeva sempre qualche sorpresa.
Il primo sentore fu l’incessante parlottare all’interno del dipartimento di sicurezza. Gruppetti di persone, più o meno della stessa divisione, erano intenti a raccontare qualche avvenimento succulento che doveva aver smosso le acqua di quella mattina sin troppo placida.
Un continuo inserire di monetine alle macchinette del caffè come fossero slot machine e qualche sguardo distratto gli si cucì addosso nell’attraversare il lungo corridoio.
Un tizio piccoletto, con i capelli a spazzola e la divisa dell’ hostage rescue team gli si avvicinò con fare circospetto e si fece avanti per una buona dose di curiosi.
«Hey, novizio».
Mamoru, per quanto poco incline a dar troppa confidenza a quello che lo stava etichettando quasi fosse l’ultima ruota del carro, si mostrò come sempre paziente e ben educato. Potevano passare gli strampalati soprannomi che Haruka gli affibbiava, ma dal primo che incontrava avrebbe desiderato un po’ più di rispetto.
«Hai bisogno?».
«Sei amico di quella testa calda, vero? Quella Ten’ō».
Siamo amici? Per mantenersi neutrale soppesò come sempre le parole.
«Lavoriamo assieme, perché?».
«Ha fatto un bel casino la tua amica. Ma che vi mangiate voi artificieri a colazione? Pane ed esplosivo?».
Cosa mi sono perso? Lasciò cadere nel vuoto quella battuta scialba e fece per recarsi alla sezione artificieri quando si sentì braccare da una mano smaltata che lo trascinò all’interno dell’archivio.
«Oh porca miseria» sbiascicò preso in contropiede e ritrovandosi col naso a un passo da una serie di faldoni impolverati.
«Se ne sono andati?».
Mamoru riconobbe la voce di Setsuna prima ancora d’incrociarne la figura.
«Ehm…» doveva ancora prendere atto di ritrovarsi nascosto col capo delle operazioni in quello che era grande come uno sgabuzzino, se poi doveva anche decifrare le frasi altrui la faccenda rischiava di divenire davvero complessa.
«Da chi stiamo scappando esattamente?».
«Ti facevo un po’ più pronto di riflessi Chiba…» bisbigliò la donna, affacciandosi a quella che appariva come una feritoia in vetro che svettava sopra la segnalazione “archivio”.
«Sono ancora tutti li fuori a parlarne vero?».
«Credo solo di aver capito che il nodo della questione è Haruka» rispose con fare un po’ sconsolato.
«Ten’ō, mi fa dannare» dichiarò Setsuna in un sospiro. «Non credevo però la questione fosse così grave».
Mamoru vagò con lo sguardo sopra le scaffalature, come se quei documenti potessero rivelargli le risposte del caso.
«Tra lei e Seya» puntualizzò il capo delle operazioni.
«Credevo fosse solo un bisticcio. Che lei avesse fatto una delle sue battutine scomode…».
«Si sono di nuovo presi a botte?!».
Lei rispose con un gesto di diniego del capo.
Mamoru la vide affranta per la prima volta. Ma Setsuna sapeva di doversi assumere delle responsabilità e fare ammenda.
«Come finirà?» si azzardò a chiedere Mamoru.
«Che non potrò lasciare impunito nessuno e ai piani alti decideranno il da farsi con me».
«Capo Meiō…». Mamoru si permise di metterle una mano sulla spalla per trasmetterle un po’ di supporto.
«Capita a tutti di sbagliare. L’importante è quello che si fa dopo per rimediare».
Setsuna sorrise debolmente.
Un uomo così avrebbe fatto girare la testa a chiunque.
Lei, recepito il messaggio, si schiarì la voce, drizzò le spalle e uscì a testa alta nel corridoio. Avanzò sicura così come aveva sempre fatto per tutta la vita.
«Voi tutti, scansafatiche. La ricreazione è finita. Smettetela di cincischiare e tornate a fare il vostro dovere. I gossip sono riservati al bar fuori orario di lavoro!».
 
 
§§§
 
 
Immobile come un pezzo di ghiaccio Yaten fissava Seya in cagnesco.
Un vento dispettoso si era alzato, intiepidendo quel pomeriggio estivo e qualche avventore passeggiava sul molo.
Il capitano di un modesto peschereccio attraccato ogni giorno accanto alla sua barca da regata lo salutò con un cenno della mano e lui ricambiò con un gesto del capo. A nulla serviva temporeggiare, perché quel macigno sullo stomaco non si sarebbe spostato di lì fino a che suo fratello non si fosse dissolto come un lontano ricordo.
«Ti sei fatto una bella nuotata?» indagò Seya con fare sprezzante sondando gli abiti fradici dell’altro.
Yaten quasi sibilò. «Un piccolo incidente». La maglia impregnata d’acqua gli si appiccicava contro l’addome come una pelle di serpente e preso dalla stizza di liberarsi da quella costrizione la tolse gettandola ai suoi piedi.
«Vieni al dunque Seya. Cosa vuoi?».
«Si saluta così tuo fratello dopo tanto tempo?».
«Io un fratello non ce l’ho più. E da molto ormai. Se sei venuto qui per farmi vedere ancora una volta qual’è la differenza tra noi due, puoi anche scendere dalla mia barca».
«La tua barca…» il moro schioccò la lingua guardandolo esattamente come sei anni prima, dall’alto in basso.
«Ancora con questa storia?!» il minore era in procinto di esplodere e questa volta Michiru non era nei paraggi per mantenere una parvenza di civiltà tra i due.
«Di tuo non hai un bel niente Yaten. Ricordatelo sempre. Se non fosse stato per mamma e papà…».
«Se non fosse stato per loro…cosa? Cosa sarei ora?! A capo del golf club di Honolulu? WOW, l’aspirazione di una vita».
«Sei diventato più loquace. Però hai messo su il carattere del lupo di mare» gli rispose a tono l’altro mettendo le mani in tasca e ammorbidendo la propria postura.
Seya era diventato un giovane uomo dall’ultimo suo ricordo in cui era presente alle Hawaii. In ordine, elegante, arrogante più di quanto ricordasse e quel suo improvviso essere meno impostato nel portamento sembrò cozzare con tutto il resto.
«Non sono venuto qui per litigare» un vano tentativo di rassicurarlo.
Yaten spazientito alzò gli occhi al cielo. Non gli importava affatto il motivo della sua visita, voleva solo che se ne tornasse da dov’era venuto lasciandolo in pace una volta per tutte. Mentre Seya rimase lì. In silenzio. Nell’unico posto che in qualche modo poteva ormai considerare casa.
 
 
§§§
 
 
Come due fuggitive, senza voltarsi indietro erano salite sul pick-up percorrendo le strade dissestate della costa.
Haruka, occhi puntati sull’asfalto, guidava immersa in un muto silenzio.
Senza rendersene conto la mente era tornata ai giorni dell’orfanotrofio e a quei pallidi stralci di ricordi che ancora custodiva dentro.
Erano dei flash sconnessi che le affollavano le mente. La camerata colma di letti, una marea di bambini, le vessazioni di quelli più grandi nei confronti degli ultimi arrivati. Era stato come vivere allo zoo piuttosto che in una casa rifugio, ma lei, come una delle più ostili piante avrebbe messo radici anche nel bel mezzo della desolazione del deserto pur di sopravvivere.
Poi, ancora una volta, come un’immagine in loop, la calda gentilezza di Sarah e l’espressione più rara sul viso di Amos ad accoglierla.
Fu un solo microscopico istante, un tremore all’altezza dello sterno. Cos’era? Malinconia forse? Quasi boccheggiò. Schiuse le labbra e tentò di dir qualcosa pur di scacciare quella stramba sensazione.
Con la coda dell’occhio notò la figura di Michiru. Seduta accanto a lei. Con il mento poggiato al dorso della mano e lo sguardo triste volto verso l’oceano.
«Ferma l’auto». Solo la voce di Michiru spezzò il suono cadenzato dei penumatici intenti a divorare i chilometri.
«Siamo nel bel mezzo del nulla…»
«Accosta» ribatté risoluta.
Haruka ubbidì. Fece appena in tempo a fermare quella corsa verso il nulla che Michiru aveva già aperto la portiera per catapultarsi fuori dalla vettura.
Immobile, con le mani ancora ancorate al volante guardò nello specchietto retrovisore. Solo la polvere alzata da quell’imminente arresto di marcia.
Dov’era finita, lei?
Spento il motore scese per raggiungerla. La trovò al dissiparsi delle particelle ocra che si erano alzate in volo. Ricurva in avanti con una mano sulle labbra e lo sguardo di chi vede solo macerie attorno a sé.
«Sono un disastro» sibilò Michiru tentando malamente di soffocare un singhiozzo. Era come vagare all’interno di un labirinto e all’improvviso aver la certezza che si è irrimediabilmente perso l’orientamento. Se Seya per anni era stato la sua stella polare, si era spento. E lei aveva brancolato nel buio, accanendosi per una scintilla che non sarebbe più tornata vivida come un tempo.
«Ma che stai dicendo…». Haruka poco avvezza a certe situazioni poté solamente seguire ciò che l’istinto le diceva. E ogni singola fibra del suo corpo, era votata alla protezione di quella Dea scesa in terra che aveva intrecciato il suo cammino.
«Perché sei tornata indietro?» le domandò Michiru con lo sguardo rivolto al mare. Aveva paura a guardarla perché ogni volta pareva diventare irrazionale in sua presenza.
La bionda si sedette a bordo della strada su uno sperone roccioso che dava sull’infinito blu.
«Ho avuto paura» le costò dire quelle parole, coscienziosa del fatto che certi timori possono annientarti e rivelarli è sempre una scelta pericolosa. «Ho avuto paura che potesse farti del male. Lui non mi piace».
«E perché sei tornata indietro dentro a quella scuola?».
«Per lo stesso motivo».
Michiru inspirò. Ecco la chiave di uno dei tanti quesiti che le affollavano la mente. Quella sconosciuta in qualche modo la faceva sentire al sicuro. Seya aveva vegliato su di lei per anni, da bambini, da adolescenti e poi aveva smesso. Come se il diventare adulti implicasse che Michiru sapesse badare a sé stessa in ogni situazione. Lei non era sprovveduta, né tantomeno debole, ma aveva i suoi nei come chiunque altro. Delle piccole anomalie, dovute al proprio vissuto che se da una parte l’avevano resa una combattente dall’altra l’avevano indebolita. Michiru sapeva come cavarsela ma allo stesso tempo aveva bisogno di un angelo custode pronto ad aiutarla a rialzarsi quando cedeva ai suoi incubi.
Si sedette anche lei, piegando le ginocchia per poggiarci la guancia umida e poterla finalmente guardare.
«Non mi ha fatto del male. E a te ne ha fatto?».
«Solo per un momento, credo».
«Mi dispiace».
«Non importa».
«Posso chiederti un’altra cosa?».
Haruka sospirò pesantemente. «Se proprio insisti».
Michiru abbozzò un mezzo sorriso. Per un momento non l’aveva riconosciuta ma quell’ultima risposta poteva solamente essere da Haruka Ten’ō. «Perché te ne importa così tanto di me?».
Bella domanda. Perché?.
Il sole cominciava a battere insistentemente sulle loro spalle.
«Onestamente?».
«Non credo tu sappia dirla una bugia. Quindi sì, va bene la verità. Ovviamente».
«Beh, proprio non lo so».
«Nemmeno io so più molte cose ultimamente» confessò l’altra. «Puoi portarmi a casa, Haruka?».
«Ne sei sicura?».
Michiru accennò ad un sì col capo. Per quanto non lo comprendesse più, Seya non meritava quella come loro ultima conversazione.
Haruka si pulì maldestramente le mani nei pantaloni impolverati per poi aiutare Michiru ad alzarsi.
«Hollywood?».
«Si?!».
«Per la cronaca. Questo non vale come appuntamento».
«Lo so».
 
 
§§§
 
 
Usagi, appoggiata allo scivolo dove Hotaru era intenta a fare su e giù fissava lo schermo del suo cellulare. Ancora nessuna chiamata. Eppure dopo il loro incontro in gelateria aveva creduto che lui l’avrebbe cercata. Si sarebbe accontenta anche di un cuoricino sotto a uno dei suoi scatti del profilo instagram, ma forse non aveva nemmeno avuto il tempo di mettersi a cercarla sui social.
 
«Deve proprio essere così impegnato il mio principe azzurro?» in preda ad un sospiro sconsolato si lasciò andare a quella riflessione a voce alta.
Hotaru, sempre pronta a dire la sua, l’aveva sentita e aveva prontamente interrotto quel suo “su e giù” per intervenire in aiuto ai dubbi della propria baby sitter.
«Certo che sono impegnati. Devono sempre salvare le principesse».
Quanta verità aveva potuto tirar fuori quella bambina?
«In effetti il mio Mamoru le salva di continuo…» ponderò la ragazza.
«Chi è Mamouuu, Bunny?».
Indagò pensierosa la bambina aggrappandosi alla sponda blu dello scivolo con entrambe le mani.
«Mamoru, Hotaru-chan. Mamoru. Non è una mucca!» esclamò con fare saccente Usagi e le guance inevitabilmente imporporate.
«Pure mio papà si chiama così». La vocetta che aveva proferito parola, Usagi non l’aveva mai sentita. Abbassò lo sguardo e all’altezza delle proprie ginocchia una bambina dai grandi occhi scuri e i capelli raccolti in due simpatici codini la stava fissando.
«Come, come?».
Un’altra voce e un correre affannato s’intromisero in quella conversazione che stava prendendo una strana piega, oltreché troppo di dominio pubblico.
Ami, trafelata, raggiunse la piccola impicciona che aveva colto Bunny alla sprovvista.
«Corri già troppo veloce, devi starmi vicina!» il rimprovero bonario della zazzera blu non sembrò venir troppo preso sul serio dalla bambina.
Usagi aggrottò la fronte pensierosa. Dove l’aveva già vista? Passò in rassegna, col dito sullo schermo, gli avatar dei propri contatti. Nulla. Eppure non era una faccia nuova, ne era sicura. Avrebbe voluto scattarle una foto e trascinarla sulla barra di google per una ricerca incrociata come i famosi conduttori del programma Catfish, ma ebbe timore di una denuncia. Sarebbe stata la volta buona per cacciarsi realmente nei guai e se fosse successo mentre badava a Hotaru sarebbe stato un vero e proprio disastro. Così infilò nella tracolla il suo dispositivo e si armò di coraggio.
«Perdonami, posso farti una domanda?» domandò un po’ intimidita.
L’altra ragazza fece un’espressione strana, quasi si sentisse ancora più a disagio di lei. «Mi hai riconosciuta vero? Questo cappellino non serve a nulla…» bofonchiò.
«Mizuno no!» strillò la bambina dalla capigliatura simpatica. «Non toglierlo o dopo verranno tutti a scocciarci».
Usagi si domandò se non fosse la più piccola a fare da balia alla più grande. Ma infondo chi era lei per criticare?
«Mizuno…ODDIO MIZUNO!».
«SSSSSSSSSSSSSHHHHH!!!» in tre le fecero cenno di abbassare il tono della voce, zittendola all’istante.
«Santa polenta» esalò sottovoce. «Sei quella lì. Quella che Michiru ha vestito. Il genio dell’algoritmo amoroso!».
Ami, con espressione colpevole avvampò. Era da sempre stata una ragazza riservata e nonostante la fama accumulata non si era ancora abituata. Essere al centro dell’attenzione non era nelle sue corde, il che la rendeva piuttosto nervosa.
«Diciamo che ho una specie di ragazzo» cominciò Usagi già su di giri, dimenticando del tutto la spiegazione di Michiru su di lei. «Posso fidarmi del tuo algoritmo? Cioè come fa a capire realmente se lui è per me, per me o meno? Io devo essere sicura!».
Hotaru era già annoiata da tutto quel ciarlare. Scalciò un po’ per attirare l’attenzione per poi decidere di scivolare sin a terra e raggiungere la coetanea per conoscerla meglio.
«Per quanto sia io ad averlo inventato beh, direi che è più affidabile la tua esperienza con lui che il mio programma» le rispose gentilmente l’altra.
«Ci siamo già viste però da Michiru, non è vero? Scusami non ricordo il tuo nome!».
Bunny le porse una mano perché potesse stringerla. «Si! Sono Usagi, ma tutti mi chiamano Bunny. Ci siamo viste il giorno che sei venuta con quei due bestioni che…oh, ma dove sono ora?».
«Beh io…».
«PAPA’!!!». Il grido di Chibiusa e il suo tirare insistentemente la maglia a righe di Ami non le lasciò finire la frase. «C’è papà Ami!» insistette indicando con la mano l’alta figura che si accingeva a raggiungerle.
Usagi per un momento non svenne.
Come sarebbe a dire papà?!!! Quello è…Si portò entrambe le mani davanti alla bocca come se avesse appena singhiozzato.
«Sei sposata con Mamoru?!».
Famosa, intelligente e pure sposata con IL MIO MAMORU?! Che umorismo pessimo la vita. Non è possibile, NON E’ POSSIBILE!!!
«Oh no, santo cielo! Hai frainteso!» l’altra si apprestò a smentire il pensiero della bionda, mentre la bambina corse incontro a Mamoru che non tardò a stringerla tra le braccia e a darle un bacio sulla fronte.
Chibiusa era tutto ciò che rimaneva della sua amata Serenity. Il pezzo di felicità che le aveva regalato prima di scoprire di essere malata e lasciarlo in un mondo che era divenuto grigio e triste.
«Bunny» era un saluto imbarazzato quel nominare il suo nome. Uno dei motivi per cui Mamoru non si era lanciato per un nuovo appuntamento era quel suo piccola grande segreto. L’avere una bambina poteva essere un deterrente per una nuova relazione.
«Ecco perché i due gelati. Non eri goloso…» fu la risposta di Usagi che non trovava il coraggio di guardarlo in faccia. Non ci stava capendo più niente.
«Beccato!» sorrise lui, mentre la bambina apriva i palmi sui suoi occhi canticchiando un «non guardare, non guardareeeee» via via sempre più insistente.
Il giovane la fece scendere e l’attenzione di Chibiusa venne prontamente catturata da Hotaru che la trascinò a rincorrere una farfalla.
«Ti ringrazio per aver badato a lei, Ami». Usagi dovette mordersi la lingua e s’impose di non fare con il labiale l’imitazione di lui. Stava per dare fuori di testa anche se non aveva compreso mezza virgola di tutta quella situazione.
«Tranquillo, è sempre un piacere. Ora io…andrei. Ho un mucchio da fare in laboratorio!» annunciò la ragazza salutando entrambi con un cenno della mano prima di dileguarsi.
 
Mamoru aveva conosciuto Ami quando si era trasferito con la moglie per le cure sperimentali. Stava emergendo nel campo della medicina dopo il suo debutto con l’algoritmo sentimentale. Ma nonostante la professionalità e la preparazione della giovane nulla servì a salvare Serenity. Dopo la morte della donna Ami si sentì in dovere di non abbandonarlo. Lui aveva contribuito a finanziare alcune sue nuove ricerche e lei si era impegnata per continuare a ricercare una cura che avrebbe potuto salvare milioni di vite.
 
Lo scalpiccio delle scarpe di Ami si fece sempre più lontano.
Per un momento non ci furono parole tra Bunny e Mamoru, solo il frinire delle cicale e le voci ovattate delle due bambine che avevano inventato un gioco tutto loro.
«Io…» doveva giustificarsi forse? «Non sapevo come chiederti di uscire per…questo».
«Per il fatto che hai già una relazione con un genio o che avete una bambina al di fuori del matrimonio?». Bunny non riuscì a frenare la lingua. Le mani serrate in due pugni distesi lungo il corpo e lo sguardo volto verso l’erba. Si sentiva presa in giro e un po’ stupida per averci creduto ancora una volta.
«Che cosa?! Oddio, no. Non ho una relazione con Ami, né tanto meno una figlia con lei!».
Usagi piegò il capo da una parte leggermente rincuorata alla rivelazione del giovane. «Quindi lei è…la baby sitter?». In un attimo aveva ritrovato la sete di risposte e la speranza di non essersi sbagliata su quel futuro che sognava ad occhi aperti per loro due.
«Un’amica di famiglia. Mi aiuta con Chibiusa alle volte».
«Mh». Lo sguardo azzurro di Usagi vagò in cerca di Hotaru. Le due bambine sembravano andare d’amore e d’accordo.
Le parvero due farfalle intente a rincorrersi in mezzo ad un campo di fiori.
Mamoru prese il coraggio a due mani. Ormai era fatta. Se voleva buttarsi il momento giusto era quello o tanto valeva sciupare anche quella che poteva essere l’ultima occasione. «È un problema per te?».
Usagi piantò le sue perle azzurre nello sguardo di Mamoru. L’essere un padre single era solo un singolo tassello in quell’insieme che faceva di quel giovane uomo Mamoru Chiba. Lei, per quanto fosse maldestra o goffa non era un tipo che si arrendeva facilmente.
Era proprio come in quelle commedie romantiche di cui faceva incetta nelle serate solitarie a casa. Uno dei momenti che la facevano sospirare. Quello in cui uno dei due protagonisti scopre dell’altro qualcosa che può rivelarsi una vera e propria sfida nel loro rapporto.
Riescono sempre a superarlo perché alla fine è vero amore. Rifletté Usagi, prendendosi ancora qualche secondo.
«I bambini mi piacciono. Sono brava con loro. Perciò, no. Non è un problema per te».
Qualcuno avrebbe davvero rinunciato ad uscire con lui per una bambina?
«Allora che ne dici?» la incalzò lui ancora una volta. «Sopravvivi un pomeriggio con Chibiusa e usciamo a cena».
Lei scoppiò a ridere. Quello era sicuramente il modo più originale che avessero mai usato per invitarla ad uscire; oltre che il primo.
 
 
 



Note dell'autrice:
Lo so. Lo so. E' breve e noioso. E' semplicemente la seconda parte (finale) del precedente capitolo che era diventata da solo un'epopea. Perciò, non demordete. Arriverà pure il prossimo e sarà SICURAMENTE più tutto. Considerate questo un ponte tra il precedente e il prossimo. Insomma, non lasciatevi avvilire (come la sottoscritta) da questo capitolo! XD 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 17
*** Qualcuno da amare ***


 
I’m going under and this time I fear there’s no one to save me
This all or nothing really got a way of driving me crazy
I need somebody to heal
Somebody to know
Somebody to have
Somebody to hold


 
Someone You Loved – Lewis Capaldi
 
 
 
 
«Vuoi che te lo racconti nuovamente Michi?».
Usagi si agitò sul divano, rimirando i calzettoni da notte a stelline rosa che indossava. Stavano lì sopra da così tanto che avevano perso la cognizione del tempo e i cuscini si erano sagomati con le forme dei loro corpi.
Una volta riaccompagnata a casa da Haruka, Michiru, aveva aspettato Seya. Il quale sembrava essersi dissolto nel nulla. Poi era rientrata Usagi per riaccompagnare Hotaru dal loro pomeriggio al parco. Aveva un entusiasmo tale addosso e un sorriso più grande della faccia che Michiru non riuscì a far finta di nulla, finendo così per invitarla a rimanere nonostante l’umore sotto alle scarpe.
La cena era consistita in pizze troppo condite e vasetti di gelato ai gusti più disparati che in quel momento troneggiavano sul tappeto e il tavolino dinnanzi al divano incriminato.
Sembrava esplosa una bomba lì dentro, sintomo inequivocabile che qualcosa non andasse perché in un altro momento, Michiru, a veder ridotto in quel modo il suo salotto avrebbe ceduto a una vera e propria crisi di nervi.
 
Usagi aveva allietato la serata con il racconto del suo incontro con Mamoru, arricchendolo così tanto di particolari e fronzoli fantasiosi da allungare talmente tanto la storia da stancare persino Hotaru che, alle nove in punto, decise di sua spontanea volontà e senza alcun capriccio, di andarsi a lavare i denti ed infilarsi nel suo lettino.
 
L’ennesimo film drammatico veniva riprodotto sullo schermo LCD del televisore. Nemmeno quell’ultimo cucchiaino di gelato al cioccolato l’aveva aiutata a sciogliere quel nodo in gola che sembrava essersi cementificato lì, all’altezza della trachea.
«Ti rendi conto? Ho praticamente l’appuntamento in tasca. E pensavo…» il blaterale di Usagi era una cantilena ovattata. Ed ecco il punto del filmato in cui Ewan McGregor stringeva tra le braccia una Nicole Kidman ormai in fin di vita.
«Scrivi…racconta la nostra storia, promettilo, così io sarò sempre con te».
Michiru crollò con un rumoroso singhiozzo e il cucchiaino incastrato tra le labbra.
Usagi, presa alla sprovvista da una scena tanto anomala, sgranò gli occhi e fissò il contenitore vuoto del gelato.
«Vado a vedere se ce n’è dell’altro in freezer. Calma. Non piangere però!» si fece prendere dal panico per quella situazione surreale.
«Era l’ultimo!» mugolò Michiru con le lacrime che avevano preso a rigarle il bel viso.
«Ne vado a comprare? Il market aperto 24 ore su 24 non è tanto lontano» disse scattando sull’attenti la bionda. Se c’era una dota che Usagi riteneva di avere senza alcun dubbio era certamente quella di problem solving.
«Noooo». Michiru tentò di asciugarsi il viso con la manica del pigiama, fermandola con un gesto della mano simile a quello dei vigili che dirigono il traffico. «Ingrasseremooo» vaneggiò con la voce rotta al pianto e i singhiozzi.
Era un’ardua scelta quella per Usagi. Come doveva comportarsi? E Michiru si era commossa per la fine del gelato o il film? Forse era per il suo racconto su Mamoru? Bridget Jones come avrebbe reagito? Perché quella era una scena similare al film in tutto e per tutto.
In quel momento apparve con passo titubante, nella penombra del salotto, Hotaru.  Vestita di tutto punto e con lo zainetto sulle spalle.
«Amore, cosa ci fai alzata e vestita così?» domandò la madre tentando di darsi un contegno per poi abbassare il volume del film ormai arrivato ai titoli di coda.
«Mammina perché guardi quel film se ti fa piangere? E comunque…» aveva gli occhi di entrambe puntati addosso. «È ora di andare a scuola» chiarì a quelle che dovevano essere le due adulte responsabili presenti nella stanza.
«Ma…com’è possibile?» domandò confusa Michiru alla ricerca di un orologio, quasi non si trovasse in casa sua.
«Per dindirindina Michi!». Usagi fissò da prima la batteria quasi scarica del cellulare e poi l’orario sul display del suo dispositivo. «Abbiamo passato la notte alzate ad ingozzarci».
Fu solo un breve istante quello in cui parve preoccupata per il lasso di tempo trascorso perché poi il fuoco dell’entusiasmo le fece stringere i pugni verso il cielo con un salto euforico. «UN PIGIAMA PARTY DA PAURA!».
 
Hotaru dondolò sul posto. Mai un giorno sua madre si era dimenticata di prepararle la colazione o di darle un bacio sulla fronte per svegliarla. La situazione era stramba persino per lei.
«Posso prendere lo scuolabus…» tentò.
Michiru scattò in piedi, quella piccola creatura sembrava aver più sale in zucca e coscienziosità di tutte e due le maggiorenni presenti nella stanza.
«Certo che no tesoro. Ora la mamma ti porta» disse tirando su il naso per poi asciugarsi il viso alla bene e meglio. Usagi, per rendersi utile, le lanciò le chiavi della macchina.
«Su, andiamo. Non voglio tu faccia tardi».
«Uhm, Michi?».
«Bunny, riusciresti a dare una sistemata qui? Io l’accompagno e torno subito».
«Si, Michi. Certo, ma…».
Michiru la guardò senza capire perché l’altra la stesse trattenendo ancora.
«Stai uscendo con le pantofole e i pantaloni del pigiama».
La più grande abbassò lo sguardo sui due unicorni che bianchi che le ricoprivano i piedi.
«Sono belle pantofole però» suggerì innocentemente Hotaru.
«Sì, vanno anche di moda…» le diede manforte la bionda.
«Al diavolo. Sono fantastica!» esultò poco convinta Michiru per poi salire in auto.
 
Per la prima volta trovò liberatorio non essere del tutto in sé. Un po’ di leggerezza e disordine non avrebbe nuociuto a nessuno.
 
§§§
 
 
Rei bussò una volta ancora alla porta di Haruka. Solo dopo quell’incessante toc toc  fattosi sempre più alto e simile al rullo di un fastidioso tamburo la bionda si degnò di aprirle.
«Alla buon ora!» sbottò Rei sulla soglia fissando l’altra con i capelli arruffati dal sonno e la bocca spalancata in un tutt’altro che un elegante sbadiglio.
«Buongiorno anche a te» masticò Haruka, venendo malamente scostata dall’uscio per l’irruento entrate dell’amica in casa sua.
Caffè. Aveva assolutamente bisogno di una tazza enorme e bollente di caffè nero, o parlare sarebbe stato inutile.
«Sono le nove Haruka. Dì un po’, ti sei sballata ieri?» indagò con aria di rimprovero l’amica per poi dirigersi, come fosse casa sua, all’isola in cucina dove si trovava la macchinetta del caffè. Conosceva troppo bene l’altra e sapeva che senza quel magico liquido nero sarebbe stato come parlare ad un muro.
«Non è da te saltare il nostro appuntamento per la corsa. Cosa diavolo sta succedendo?». La incalzò ancora una volta per poi consegnarle la brodaglia color pece.
Haruka, per tutta risposta, sbatté le palpebre due volte. Aveva la vista ancora leggermente appannata.
Allungò letargicamente una mano verso il caffè americano per poi poggiarsi al piano in marmo e lucente. Quella cucina era come nuova, mai usata – tranne per la macchinetta – essendo totalmente disinteressata per all’arte culinaria. Se non fosse stato per i take away e gli aperitivi sarebbe certamente morta di fame nel giro di poco.
Rei attese che l’amica prendesse la sua prima lunga sorsata. Batté nervosamente due dita sull’isola per poi riprendere il suo discorso.
«Mina non è rientrata sta notte». Ora pareva una madre preoccupata.
Haruka scrollò le spalle col naso tuffato dentro la tazza.
«Taylor Swift avrà avuto una notte bollente» le lanciò un sorrisetto per poi spalancare le labbra e mugolare un “scotta scotta”, per poi buttarsi con la faccia sotto al lavandino alla ricerca di acqua per ristorare la lingua dalla botta di calore improvviso.
«Elegante come sempre» commentò la mora, controllando ancora una volta gli sms.
«Che vorresti dire?».
«Pensavo che frequentando certe persone fossi migliorata».
«tsk» uno schiocco di lingua. Lei non stava frequentando un bel nessuno. La situazione era fin troppo complicata da spiegare anche all’amica, perciò Haruka, com’era solita fare, preferì starsene sulle sue e dirottare la conversazione sull’altro argomento principe di quell’incursione in casa sua.
«Scherzi a parte non preoccuparti per Minako. Sa badare a sé stessa». Lo diceva lei, che ogni giorno vedeva le cose peggiori.
Rei, forse per quello le credette. «Sarà sicuramente col suo principe azzurro».
«Il capellone?».
La mora accennò un cenno del capo.
«Sta sera debuttano, sarà un fascio di nervi».
«Stai proponendo di andare?».
«Sto dicendo che andremo e la supporteremo».
Haruka mandò giù l’ultima boccata di caffè.
«Ok, basta dirlo».
 
 
§§§
 
 
Minako non aveva idea di quanto fosse durata la conversazione tra Yaten e il fratello.
Lei, ancora fra le nuvole per i baci del ragazzo, gli aveva ubbidito senza obbiettare ed era scesa sotto coperta. Ne aveva approfittato per farsi una doccia, asciugare alla bene e meglio l'intimo con il phon e poi si era ritrovata con le mani tra i panni di Yaten. Il profumo del ragazzo su quei vestiti era ovunque. Poteva chiudere gli occhi e sentirlo lì, accanto a lei, come la stringesse.
Con fare quasi circospetto, mordendosi il labbro inferiore e il cuore galoppante di emozione, Minako indossò una maglietta appartenente a lui. Ecco, ora poteva sentirlo addosso. E inebriata da quella sensazione vagò per la stanzetta. Scalza. Passando le dita sui tasti bianchi e neri del suo strumento, sfiorando i fogli pieni di annotazioni e melodie. Quello era decisamente il mondo di Yaten, ogni singola cosa lì dentro era un tassello di lui e lei si sentì privilegiata a poter spiare quel mondo.
Di sottofondo solo il lento scrosciare dell'acqua contro il molo. Era quella ninna nanna che lo cullava ogni notte? Un parlottare via via sempre più alto e acceso la strappò a quel pensiero. Dovevano star litigando. Minako ebbe l'istinto di salire e intervenire in qualche modo, ma se aveva capito una cosa di lui era che non era certo uno sprovveduto. Perciò temporeggiò ancora un po’ restando lì, in quell'angolo di quiete.
Sedette sulla cuccetta cominciando a canticchiare qualcosa. E prima che potesse dimenticare il tempo che stava battendo col piede e la melodia che timida le usciva dalle labbra agguantò un pezzo di carta per farsi un appunto. L'ispirazione era arrivata così, dal nulla. Un po' come aveva fatto lui nella sua vita tra gli schizzi delle onde e la tempesta di quel giorno.
Minako riempì di note un foglio e poi un altro ancora, sino a che non perse la cognizione del tempo cadendo nel sonno su quelle coperte e il suo profumo.
 
 
§§§
 
 
 
Seya non aveva concluso niente in fin dei conti.
Era andato dal fratello il giorno precedente, ma anziché aprirsi gli aveva scaricato addosso tutta la sua frustrazione, peggiorando quel rapporto già logoro da anni. Forse era quello il suo problema. Il non saper comunicare. Per lavoro era un ascoltatore, un rassicuratore, eppure tutto quel calarsi nella parole altrui non sembrava averlo aiutato nell’intento di aprirsi agli altri. Ne fu prova evidente il suo dissotterrare vecchi cadaveri che non facevano altro che minare la sicurezza di Yaten, anziché scusarsi con lui per i torti passati e la scarsa attenzione fraterna riservatogli. Avrebbe potuto ammettere la superficialità del padre nelle ricerche dopo la sua scomparsa e raccontargli di come le cose con Michiru stessero andando a rotoli, invece che vomitargli addosso ancora una volta colpe che sarebbero ormai dovute essere annegate nelle profondità del passato.
Di sicuro si era sfogato. Nel modo sbagliato e con la persona sbagliata, ma lo aveva fatto.
Al tramonto se n’era andato, o meglio era stato cacciato a male parole da Yaten e aveva passato la notte in un motel poco lontano dalla spiaggia.
Con gli stessi abiti del giorno precedente e la sua tipica camminata spedita e sicura, si era diretto al dipartimento per dare le dimissioni.
Bussò alla porta dell’ufficio del capo delle operazioni, ignorando gli sguardi di chi si aggirava per i corridoi, senza però ricevere risposta alcuna.
 
«Non è in ufficio» fu una voce alle sue spalle che conosceva sin troppo bene ad avvertirlo.
«È andata da Harris. Uhm, Dan».
Chi diavolo è Harris? Aggrottò le sopracciglia in cerca di una risposta sempre con lo sguardo verso volto la porta.
«Se ti stai chiedendo chi è, si tratta dell’artificiere che ha contribuito a salvare nostra figlia».
Michiru lo conosceva bene. Si trincerava dietro al silenzio quando doveva trovare in fretta una risposta nei meandri della memoria.
Seya non controbatté in alcun modo. Non era interessato ad approfondire la conversazione. Era stufo degli artificieri Californiani, o forse lo era della categoria in generale. Teste vuote colme di testosterone che giocavano a fare gli eroi con le bombe.
«Vorrà dire le parlerò più tardi».
«Dove sei stato questa notte?». Michiru non riuscì a frenare la lingua e la sua voce tremò leggermente.
«Se non sbaglio mi hai detto di non tornare a casa». Una stilettata gelida.
Michiru, colpita in pieno, faticò a ribattere.
Aveva ragione lui.
«Ero arrabbiata» cercò di giustificarsi.
Lui si voltò. La mascella tirata e un’espressione severa in volto.
«Non ho voglia di parlarne qui».
Avevano già dato fin troppo spettacolo e lei non aveva certo bisogno di altra cattiva pubblicità visti i recenti e turbolenti avvenimenti.
Lei lo seguì in silenzio nello studio, chiudendosi la porta alle spalle. Provò un certo disagio a stare in quella stanza, ma dovevano confrontarsi una volta per tutte senza interruzioni e possibilmente in modo civile.
Seya aprì di poco le imposte. Affondò le mani in tasca alla ricerca dell’accendino e di una sigaretta.
«Che cosa vuoi esattamente, Michiru?» domandò accendendo la cartina contenente il tabacco che scintillò con un leggero sfrigolio.
«Parlare».
«E arriveremo ad una conclusione questa volta?».
«Lo scopo sarebbe quello».
Lui fece uscire un filo di nebbiolina dalle labbra. Sapeva quanto lei odiasse l’odore della nicotina e aveva smesso di fumare in sua presenza solo per accontentarla.
«Te lo ripeto…» la voce roca da quella cattiva abitudine. «Cosa vuoi esattamente? Perché fino a che non risponderai sinceramente a questa domanda temo saremo fermi allo stesso punto».
Michiru mantenne la lucidità. Le pizzicavano gli occhi e quell’odore acre non faceva altro che farle tornare alla mente suo padre. Forse l’unico uomo che aveva odiato davvero.
Che cosa voglio? Se lo domandò sinceramente, cercando qualsiasi risposta che corrispondesse alla più pura verità. Rimanere incatenati in un limbo sarebbe stata un’inutile tortura per entrambi.
Erano stati una cosa sola per lungo tempo. Questo Michiru mai lo avrebbe rinnegato o dimenticato, ma quella simbiosi era terminata ormai da tempo.
Dalla nascita di Hotaru il loro perfetto equilibrio si era irrimediabilmente spezzato, poiché quel piccolo angelo non era stato un dono del cielo voluto da entrambi.
Michiru indagò nel profondo, scaravoltando senza pietà ogni singolo desiderio alla ricerca della più pura e semplice verità.  Fu con una certa dose d’incredulità che si ritrovò a capire di non sapere in realtà nulla di ciò che voleva realmente. Era come aver camminato per anni senza sosta e rendersi di colpo conto di aver smarrito la strada. Di non aver la più pallida idea di cosa si fosse rincorso per tutto il tempo. Forse aveva solo voluto costruire quello che non aveva mai avuto; un’ideale di famiglia perfetta e felice. Ed era stato solo un misero fallimento.
Ma Michiru non si sarebbe lasciata piegare da quella rovinosa caduta. Se il passato le aveva donato un insegnamento prezioso era stata la capacità di rialzarsi e lo avrebbe fatto. Era una tela bianca, ora. Pronta da imbrattare con i colori che la vita le avrebbe offerto.
«Sin da bambini siamo stati in simbiosi, una cosa unica. Forse, però, ci siamo sposati troppo giovani Seya. O forse siamo sempre destinati ad essere solo due binari paralleli che han finito per non incrociarsi più».
Lui sospirò pesantemente e lei continuò come un fiume in piena.
«Non lo so…» gli occhi poggiati su di lui e le mani dietro la schiena che si torturavano a ridosso della porta chiusa alle spalle. «Penso davvero che chiudere sia la cosa migliore. Non posso permettere che Hotaru ci vada ancora di mezzo. Non è questo che volevo».
«Già, nemmeno io» Seya la interruppe con un’ultima boccata di fumo.
Spense la sigaretta e compì un passo verso di lei.
«Anche io non volevo questo» precisò. «Credevo saremmo stati per sempre noi due». Fermo sulla sua posizione. Era stato quello l’inizio del problema. Non aveva mai ceduto di un centimetro per una terza persona nel loro rapporto, che si trattasse del frutto del loro amore o meno.
«Così non è stato».
«Lo hai deciso tu».
«Certo che l’ho deciso io. Era nel mio diritto, non credi?!». Michiru si accese come un petardo. L’istinto di protezione che solo una madre cova nel profondo era forte più di ogni cosa al mondo. Non le importava tenere un basso profilo se era di sua figlia che si parlava.
«Anche io avevo voce in capitolo. Ma tu non hai voluto sentire ragioni!» ringhiò quasi di rimando.
«Hai già sottolineato più volte il tuo dissenso per questo».
Seya si avvicinò ancora un po’ portando i palmi negli incavi dei gomiti di lei.
A Michiru parve altissimo. Più di quanto non lo fosse mai stato.
«Ora le cose potrebbero essere diverse».
«Non lo sono però. Sono così. E Seya…» lei si allontanò. «Io la mia decisione non la cambierei per nulla al mondo».
«Anche se significa distruggerci». Erano così distanti nelle idee che non avrebbero mai più trovato un territorio neutrale dove ricostruire il loro amore. Era finita. Lo si poteva avvertire nei loro toni di voce e negli sguardi.
Per Michiru non poteva più esistere un mondo senza Hotaru. E chi non poteva accettare quel suo bisogno primordiale di essere la madre di quella bambina, allora poteva sparire con le proprie idee altrove.
Allo stesso tempo, Seya, per la prima volta fece i conti con sé stesso e anche se non lo avrebbe ammesso mai davanti a lei comprese di non essersi impegnato abbastanza per rimediare ai danni che il loro rapporto aveva subito.
«Sembra proprio il nostro capolinea» disse amaramente.
Michiru riuscì solo a fare un cenno di assenso col capo. Non le andava più di discutere, non ne aveva la forza.
«Ti farò avere le carte che ti servono. Ma Michi…».
«Sì?».
«Promettimi di stare attenta».
«Lo farò».
 
 
§§§
 
 
Usagi, dopo aver diligentemente rassettato il caos della nottata nel salotto di Michiru, la vide parcheggiare per circa cinque minuti alla bene e meglio nel vialetto per poi sgattaiolare nella propria stanza a darsi una sistemata. Ci aveva messo circa un quarto d’ora, un tempo fin troppo ragionevole per una persona che teneva in maniera quasi maniacale al proprio aspetto e curava i look di alcune persone del mondo dello spettacolo.
Michiru le aveva farfugliato qualcosa sull’andare a prendere Hotaru all’uscita da scuola, lasciandole poi il suo compenso settimanale sul mobile accanto alla porta. Dopo di che era sfrecciata al dipartimento abbandonandola nel silenzio di quella casa vuota.  Ed erano proprio quei momenti di pace assoluta che la bionda partoriva le idee più bizzarre.
Usagi si stiracchiò, si tolse la tenuta che l’aveva tenuta comoda nella nottata appena trascorsa a casa dell’amica e spalancò l’armadio di Michiru.
«Bene, bene» sentenziò in mutande e calzettoni dinnanzi al guardaroba sistemato in maniera impeccabile per gradazione di colori.
«Che cosa indosserebbe la fidanzata perfetta?». Michiru non se ne avrebbe avuto a male. Era una persona altruista e quando Usagi necessitava di qualcosa non si era mai tirata indietro dal prestarglielo, nonostante vestissero stili distanti anni luce l’una dall’altra.
«Magari una camicetta…» tentennò, come una gazza ladra in preda al luccichio di una miriade di gioielli.
«Però pure comoda devo essere» ponderò, spostandosi verso la parte di guardaroba più sportivo.
«Ma a Mamoru che tipo di donna piacerà?».
Se solo avesse dato retta ad ogni singolo dubbio che le si affacciava alla mente non si sarebbe mossa di lì per giorni. Ma Bunny da un momento all’altro spegneva il cervello e agiva come le dicevano cuore e fantasia.
 
Così, con l’outfit degno della palestra più in delle star di Hollywood, inforcò la propria bicicletta pedalando verso il luogo di lavoro dell’amica.
 
 
§§§
 
 
Dan si stava assicurando di aver preso tutti i suoi effetti personali per svignarsela dall’ospedale col proprio borsone. Era intento a guardare sotto al lettino in metallo di non aver dimenticato niente che quando quella voce lo prese alla sprovvista per poco non batté la testa rischiando un ulteriore ed immediato ricovero.
«Come te la stai cavando Harris?».
Setsuna, con le braccia abbronzate dal sole californiano e gli occhiali da sole sistemati come un fermacapelli sul capo, lo fissò dalla soglia della stanza.
«C-capo Meiō». Harris boccheggiò più che sorpreso da quell’improvvisata.
«Proprio così. Vedo che la memoria non ne ha risentito».
Dan tirò un sorriso imbarazzato. Come doveva comportarsi con il proprio superiore in quel frangente? Una come Haruka se ne sarebbe infischiata dei gradi e della condotta da tenere al di fuori del lavoro, d’altro canto persino sul campo era indisciplinata, ma Haruka era semplicemente Haruka. Un’amish trapiantata in una città caotica e che, probabilmente, non si sarebbe mai adattata fin in fondo a quella che sarebbe stata una vita normale e delle dinamiche che comportava.
«Immagino avresti preferito che venisse quella testa calda di Ten’ō…» disse Setsuna passandosi fra i capelli una mano perfettamente smaltata.
Aveva cambiato colore per le sue unghie. Lui lo notava sempre. Una volta alla settimana, il capo delle operazioni aveva un colore differente addosso. Ora, al posto del borgogna, un ocra brillante le abbelliva la carnagione ambrata.
«Ho pensato fosse carino ridarti il benvenuto in squadra e riaccompagnarti sul campo di battaglia, sempre che tu sia realmente pronto. Ma forse ho peccato di presunzione».
Dan si rese conto di essersi imbambolato come un ebete così impiegò una ventina di secondi prima d’intervenire in quel discorso che fino a quel momento era stato a senso unico.
«Mi fa piacere» chiuse con la zip il proprio borsone per poi caricarselo sulla spalla destra. «È un gesto apprezzatissimo e di Ten’ō ne ho sempre una dose molto alta, perciò non rischio di sentirne la mancanza!».
Setsuna sembrò illuminarsi. Lui l’aveva adulata e lei si ritrovò a sorridere sinceramente per la frase.
«Sono contenta che tu stia bene. Davvero». Avrebbe dovuto forse dovuto partorire una frase più incisiva, una sorta di incoraggiamento ma l’idea di uno di quei sermoni che i capo uffici dispensavano ai propri dipendenti non le andava affatto. Era semplicemente lei. Non il capo delle operazioni, non la donna in carriera che si faceva strada senza paura in un mondo pieno di uomini, era semplicemente Setsuna.  
E anche se Dan non poteva saperlo, forse era proprio quel suo essere semplicemente lei, al di fuori della divisa, del suo ruolo di tutti i giorni, a far sì che la vedesse sotto una nuova luce.
«Vogliamo andare? Ho parcheggiato vicino all’uscita. Non sapevo se ti stancassi ancora molto in fretta o…».
«Non corro ancora a pieno ritmo, ma sono operativo» disse Dan gonfiando un po’ il petto fiero dei suoi risultati.
«Un vero eroe» sentenziò lei col sorriso sulle labbra, camminando al suo fianco sino all’ascensore.
«Però Harris…» si schiarì la voce, pigiando il tasto del loro piano per prenotare la loro corsa fino al piano terra. «Ti sarei grata se non facessi cose avventate. Capisco che nel vostro mestiere sia tutto un rischio. Sei stato fenomenale, per non dire eroico, ma…forse non dovrei dirlo come capo delle operazioni, ma mi sento in dovere di farlo come essere umano, un po’ meno eroismo e un po’ più di autoconservazione, ok? Non voglio rischiare di perdere nessuno di voi».
Dan ignorò il campanello dell’ascensore e l’aprirsi delle porte automatiche dinnanzi a loro.
«Capo Meiō…». Haruka l’avrebbe ammazzato di sicuro. Cosa diavolo gli saltava in testa? «Sarebbe avventato o inopportuno, se le chiedessi di…» fece una pausa. Si maledì mentalmente e si morse la lingua. Doveva mantenere quella sicurezza che l’aveva pervaso. Niente battutine o arrampicamenti sugli specchi. «…uscire? Sta sera». Rapido e conciso.
Setsuna entrò nella cabina. Strinse al ventre la propria borsa e lo guardò con fare serio.
«Questo. È davvero avventato e inopportuno, soldato». Premette il pulsante per il piano terra e Dan entrò con fare da cane bastonato.
Le porte si chiusero.
Setsuna guardò il panello luminoso sulle loro teste e incurvò le labbra in un sorriso.
«Tuttavia…». Dan la guardò e lei tuffò le iridi scure in quegli occhi buoni e onesti. «Sono felice di accettare il tuo invito».
Rinvigorito da quelle parole si drizzò con le spalle e si ritrovò di nuovo a testa alta e con lo sguardo fiero. «Non fare troppa pubblicità con i tuoi amici. Intesi?».
«Intesi, Capo Meiō».
 
 
§§§
 
 
La zazzera corvina e folta di Mamoru era reclinata su un volume di dimensioni piuttosto consistenti riguardante la guerra chimica, mentre un Haruka, visibilmente irrequieta, era appoggiata alla scrivania di qualche agente di cui non conosceva l’identità intenta nel divorarsi una mela rossa.
I centralini parevano impazziti ma nessuna emergenza sembrava dover richiedere il loro intervento e Haruka non sopportava l’idea di starsene chiusa lì dentro con le mani in mano. Diede l’ultimo morso alla sua merenda per poi lanciare il tuorlo del frutto, come una professionista della pallacanestro, nel cestino dei rifiuti presente a qualche metro da lei nella stanza. Nello stesso momento, Ray girava su se stesso, spaparanzato su una sedia da ufficio che emetteva un fastidioso cigolio e minacciava di soccombere da un momento all’altro sotto la sua stazza massiccia.
Haruka tamburello le dita sul tavolo, controllò l’orario sul display del cellulare, visualizzò i messaggi in arrivo, emise un finto colpo di tosse, cominciò a battere un piede e poi l’altro sul pavimento, si schiarì la voce e poi si stufò di dover attirare con ogni sotterfugio possibile l’attenzione dei presenti.
«Bruce» chiamò all’attenzione Mamoru che gli rispose con un disinteressato “mh?” e gli occhi piantati sulla carta inchiostrata.
«Hey Batman dico a te».
«Lo so» sospirò lui, per poi girare la pagina.
«Cosa leggi?».
«Armi e guerre chimiche».
«Sei un fanatico o roba del genere?».
Mamoru sospirò pesantemente, comprendendo di dover togliere l’attenzione dal trattato perché non sarebbe comunque stato in grado di capirci niente se lei avesse continuato a tormentarlo.
«Suona male dire che sono un fanatico. Diciamo che è un ripasso. Sono un esperto in armi chimiche ricordi? Te lo aveva detto Setsuna il giorno che ci siamo presentati».
«Non avevo prestato attenzione alla cosa» ammise Haruka. «Ero arrabbiata con te».
Lui tentò di riprendere la lettura, ma la voce della bionde lo interruppe prontamente a metà della prima frase.
«Ora cosa farai?».
«In che senso?».
«Dimettono Dan oggi».
«Il mio contratto qui è fino a Dicembre al momento. Se dovessero cambiare le cose farò quel che mi dicono di fare e cambierò i miei piani».
Haruka asserì in modo silenzioso per poi tornare a fissare porta.
I gemelli litigavano oltre la soglia piegati sotto al peso delle attrezzature da pulire e controllare appartenenti alla squadra della SWAT.
«Senti…».
Il ragazzo a quel punto chiuse sconsolato il libro. Ci avrebbe dato un’occhiata più tardi o magari a casa quella stessa sera.
Haruka stava per confessargli che non le creava più alcun problema averlo in squadra e che le dispiaceva essersi comportata da stronza. Ma qualcosa, o meglio qualcuno le impedì di continuare.
Era la voce squillante di Bunny che alla portineria stava intrattenendo l’agente che le aveva chiesto di indentificarsi.
 
«Allora glielo rispiego. Sono Usadi Tsukino, ma tutti mi chiamano Bunny. Ho organizzato lo stand dei baci alla festa sulla spiaggia. Se lo ricorda? E’ stato favoloso. Per forza che se lo ricorda! Comunque qui ci lavora la mia amica. Anzi due. Si perché anche Haruka ormai la posso considerare un’amica anche se lei si arrabbierebbe di sicuro se lo sapesse. Ma non sono qui nemmeno per lei io devo vedere Mamo-».
 
Dalla sua postazione Haruka non riusciva a carpire l’intero discorso di Usagi.
«Siete poi usciti?» chiese a bassa voce al collega.
«Non ho avuto tempo di badare alla mia vita amorosa».
«Balle!».
«Non è una balla, insomma lo vedi, siamo sempre qui a…»
«A NON FARE UN BEL NIENTE!» disse enfatica, alzando il tono di voce e le braccia al cielo. «Tu tentenni, mio caro Bruce. Hai solo bisogno di una spintarella. Ci penso io».
«No, Haruka. Che fai. Haru-». Non aveva fatto in tempo a fermarla che lei gli aveva già voltato le spalle e si era fiondata in portineria alla velocità della luce.
«Caro Jackie vuoi far passare questa donzella o no?». Haruka poggiò vigorosamente le mani sulle spalle del poveretto che aveva cercato di fare il suo lavoro sino a quel momento.
«Non mi chiamo Jackie sono Jackson…».
«HARUKA!» urlettò Bunny facendole un cenno di saluto con entrambe le mani.
«Biondina! Vieni. Non ti far fermare da questo bell’imbusto qui».
«Le serve il pass. Quello dei visitatori» provò a dire il giovane.
«Ma quale pass. Vediamo di risparmiare un po’ di carta. È la fidanzata di Chiba».
Le guance di Bunny si dipinsero di tutte le sfumature di rosso possibili e immaginabili. Le batteva il cuore all’impazzata.
«Beh, non ancora, insomma…».
«Ti avevo promesso un appuntamento e ho mantenuto la promessa no? Mi sento un po’ cupido…vieni. Vieni, è di là quel birbante».
Bunny si lasciò trascinare. Salutò con un sorriso i gemelli che smisero di litigare incuriositi dalla situazione anomala e cercò di apparire nuovamente sicura di sé per apparire al meglio agli occhi del suo futuro principe azzurro.
«Sei felice Haruka? Perché sei loquace oggi. Non ti ho mai sentita così parlantina. Si dice così no?».
La più grande non rispose, le diede solo una spintarella obbligandola così a varcare la soglia.
Mamoru era di nuovo con il naso sul libro, ma sapeva benissimo che questa volta non stava leggendo sul serio, quel codardo se la stava facendo sotto e avrebbe fatto il finto tonto quando lei si sarebbe presentata lì.
«Ehm, uhm, Mamoru? Ciao, ti disturbo?».
Haruka si domandò dove fosse finita tutta la vitalità di Usagi che all’improvviso pareva esser diventata un cumulo di timidezza.
Il ragazzo alzò il capo dal tomo, tentò un’espressione stupita ma fallì miseramente. La salutò con un cenno della mano e un sorriso.
 
«Ciao, Bunny. Mi pareva di aver sentito la tua voce…cosa ti porta qui?» la incalzò col suo modo delicato, quasi avesse paura di poterla rompere con le parole. Senza rendersi conto che forse tra i due era lui quello più fragile, quello che portava più cicatrici.
Lei parve rinvigorita dalla sua voce, tanto che quasi corse alla scrivania poggiò con vigore i palmi al piano cosparso di carte e carpette.
«Volevo il tuo permesso per una cosa» cominciò. «Hotaru e Chibiusa hanno legato subito. Lei si diverte con me, ma credo che le farebbe meglio frequentare una circacoetanea. Perciò, col tuo permesso, dopo aver preso da scuola Hotaru, mi piacerebbe poter andare a prendere anche Chibiusa e magari portarle al parco come ieri. Ammesso non ci sia Ami con lei o che…».
«Chi è Chibiusa?». Haruka era talmente confusa da aver esposto il suo dubbio amletico a pieni polmoni.
«La figlia di Mamoru» le rispose candidamente l’altra.
Haruka agguantò una sedia per lo schienale, la trascinò facendola stridere sul pavimento sino a loro due e vi sedette sopra al contrario con le braccia conserte contro il poggia schiena.
«Bruce sul serio? Non me lo avevi mai detto. Questa testabionda sa più cose di me. Dovresti rimediare. Noi siamo amici no? Vengo colta alla sprovvista così».
«Beh, non abbiamo avuto molto modo di parlare dell’argomento…».
«Non essere gelosa, sciocchina!» Usagi le schioccò un occhiolino per poi tornare a riporre tutta la sua attenzione sul moro.
«Non ci conosciamo molto, ma Michiru mi sembra una donna in gamba e una brava madre. Se lei ti ha dato fiducia per occuparsi di sua figlia, beh, credo allora che anche Chibiusa starà bene…».
Mamoru aveva lasciato la bambina soltanto ad Ami. Non era da lui cedere ad una sconosciuta il ricordo di Serenity più prezioso che possedeva. Era l’ultimo frammento di lei rimasto sulla terra, l’unico barlume della sua breve ed intesa vita che ancora poteva custodire.
Lui però aveva visto lo sguardo di Michiru e la tenacia che possedeva nei confronti della figlia. Poteva dunque fidarsi se una madre amorevole e protettiva come lei affidava il suo piccolo tesoro ad Usagi.
«Evviva!».
«Però, ti avverto. Chibiusa non ha un carattere facile con gli sconosciuti».
«Non sarà un problema! Diventerò la sua preferita. Puoi giurarci!».
Haruka schioccò la lingua, mentre Mamoru non poté trattenersi dal fare una risatina. Se lei fosse riuscita nell’impresa non si sarebbe davvero più potuto tirare indietro da un appuntamento. Una promessa è una promessa.
 
 
§§§
 
 
Un altro tramonto dipingeva il cielo di Malibù, ma quello non era solo un altro scivolone del sole sotto alla linea sottile dell’orizzonte. Poteva essere l’inizio di qualcosa di molto più grande.
Minako inspirò ed espirò a fondo. Fece il pieno di quell’aria intrisa di salsedine come dovesse stare in apnea per ore e quella fosse l’ultima boccata disponibile.
Aveva passato la giornata a provare con Yaten e nelle orecchie le risuonava insistente il ritornello di quella canzone. Eppure, paradossalmente, sentiva la testa vuota come in preda a qualche misteriosa amnesia.
«Tieni» la voce di Yaten spezzò il fischio della tensione che le parve di udire nell’aria. Lui, con la sua giacchetta di pelle e i jeans strappati, le stava porgendo un bicchierino di plastica con un liquido pallido dentro.
Era sempre una visione. Un tuffo al cuore ogni volta che se lo ritrovava davanti.
Minako tenne saldo il controllo per poi guardarlo interrogativa.
«Bevi» ordinò lui senza troppi giri di parole o particolare cortesia.
Quando si era svegliata lo aveva trovato accanto a lei e le aveva borbottato che il caffelatte si sarebbe raffreddato se non si fosse data una mossa. Si era domandata dove lui avesse dormito se lei aveva occupato il suo letto, ma non si era azzardata a chiedere. Yaten, dal canto suo, sembrava essersi resettato. Non avevano parlato di ciò che era successo prima dell’arrivo di Seya, né delle parole che le aveva sbattuto in faccia con la furia di un uragano una volta usciti dall’acqua. Si erano soltanto dedicati alla musica e al loro sogno. Eppure, lei riusciva sempre a scorgere un gesto gentile nei suoi confronti. Una premura, una carezza invisibile e silenziosa che le riservava per poi ritirarsi di nuovo sotto la sua coltre gelida.
Minako ubbidì. Portò alle labbra il bicchierino per poi rischiare di sputare tutto quanto addosso al compagno.
«MA CHE CAVOLO! Mi avveleni?!».
«Quante storie…».
«È orribile!».
«È acqua e limone. Hai la faccia di una che sta per vomitare» sentenziò lui.
«Ah, ti ringrazio…».
«Insomma, quella ti libera se proprio devi vomitare. Se no passa e basta» disse pacato.
«Sono solo nervosa». Ribadì la ragazza. Aveva le mani che le sudavano e sentiva le ginocchia tremare. Il cuore martellava come un invasato nel suo petto ma Minako non riusciva più a comprendere se fosse per l’ansia dello spettacolo o per colpa sua.
«Non ce n’è motivo. Hai superato l’ostacolo più grande».
Il neon del Moon bar emise uno sfarfallio argentato.
Quella sera c’era il pienone. D’altronde i Free Talent erano piuttosto amati dalle persone del luogo e avevano una corposa lista di partecipanti visto che potevano esibirsi dilettanti e non, con una semplice iscrizione.
Dopo un altro respiro profondo da parte di Minako, i due entrarono nel bar.
La luce era soffusa e una quindicina di tavolini tondi era ricoperta da una tovaglia bordò troneggiata da un’elegante lampada.
«Secondo te saranno già qui?».
«Chi?».
«Gli strambi della casa discografica».
«Per ora non li vedo» sentenziò guardandosi attorno.
Yaten era impassibile e se solo le avesse stretto la mano forse avrebbe contagiato anche lei con quella tranquillità che pareva contraddistinguerlo.
«C’è però qualcun altro che conosci» le disse toccandole una spalla.
Minako seguì la scia invisibile che il suo indice aveva disegnato nell’aria. Al tavolino più a destra del palco, in penombra, stavano prendendo posto Rei e Haruka.
La bionda non se lo fece ripetere due volte e trascinò Yaten dalle due amiche.
«Hey, Taylor Swift! ». Haruka accompagnò il saluto con un cenno della mano. «Badboy…».
«Yaten. Haruka, si chiama Yaten…» le ricordò Minako portandosi una mano alla fronte per quel caso perso che era la spilungona bionda.
«DOVE CAVOLO SEI STATA?!» Rei l’abbracciò come se non la vedesse da anni. Poi strinse un po’ di più le braccia attorno alle sue spalla.
«Mi stroz-zi» commentò Minako sentendosi stritolare in quella morsa.
L’amica le sibilò all’orecchio. «Certo che ti strozzo. Mi hai fatto prendere un colpo. Avvisa quando decidi di non tornare e fare le notti brave fuori di casa».
«Mi sono solo addormentata!».
«Ma come sei conciata?».
Minako si guardò. Si era dimenticata di aver ancora addosso la roba che Yaten le aveva prestato dopo il tuffo non programmato.
«Oh cacchio…mi sono dimenticata anche di passare da casa e…».
 
«E la tua amica mi ha chiamata in soccorso!» una voce sopraggiunse alle sue spalle. La ragazza e Yaten si voltarono in sincrono e nel loro campo visivo comparì Michiru con due paia di grucce e un beauty case voluminoso arpionato dall’altra mano.
La bocca larga di Usagi le aveva detto che Michiru vestiva le star di Hollywood nel tempo libero. E Haruka, temeraria, vista la situazione, le aveva chiesto un favore per supportare nell’unico modo che poteva l’amica.
«Andiamo nel dietro le quinte?» le chiese con un sorriso gentile Michiru.
Haruka mimò un grazie col labiale sopprimendo ogni sogno ad occhi aperti che bussò alla sua testa nell’istante in cui la vide.
 
Michiru e Minako si avviarono, mentre Yaten tentò di congedarsi prima di venire fermato dalla mano di Rei che lo trattenne per la spalla.
«Non voglio entrare nei vostri affari».
Il ragazzo si sentì gelare. Prima per il contatto fisico che evitava sempre, poi per le parole che sembravano preannunciare uno di quei discorsetti che somigliano tanto alle minacce dei padri che riservano agli spasimanti delle proprie figlie.
«E non ti conosco bene. Solo una cosa…». Yaten si scostò e la trapassò con lo sguardo. Lei sembrò ripensarci per un istante, non era abituata ai suoi modi di fare e si domandò cosa potesse trovarci in lui una persona così solare e alla mano come l’amica.
«Trattala bene».
«O ti facciamo passare dei guai» sorrise sorniona Haruka.
«Bene!». Rai unì le mani in preghiera con un sorriso smagliante. «Intanto vado a prendere da bere. Il primo giro lo offro io! Volete qualcosa?».
«Stordiscimi ti prego» rispose Haruka.
Yaten pensò fossero due psicopatiche. Certo che Mina ha gusti strani in fatto di amicizia. Ma per quanto strambe non poté fare a meno che apprezzarle. Loro si erano preoccupate sinceramente per una persona alla quale tenevano. E per quanto lui non si esprimesse aveva di certo compreso di quale gemma preziosa fosse Minako. Lui ci avrebbe provato. Avrebbe fatto del suo meglio per non ferirla, anche se non aveva idea di come si facesse. Da dove si cominciasse con quello che erano, con quello che non avevano definito. Loro gli avevano parlato come fosse il suo ragazzo o una cosa del genere, ma lui tremava al solo pensiero poiché Yaten, che appariva forte e sicuro come una fiera dallo sguardo e le parole taglienti, non era sicuro di sapere come ci si connettesse ad un altro essere umano. Esisteva un modo giusto per legarsi al dito mignolo anima e cuore di qualcuno? A lui nessuno lo aveva insegnato.
«ACCIDENTI!».
Yaten e Haruka si guardarono come fossero l’uno il riflesso dell’altro. Avevano gridato insieme la stessa cosa.
«Fai il pappagallo?» domandò Yaten con la fretta che gli aveva appena afferrato le caviglie.
«No. E’ che…quelli sono il mio capo e il mio migliore amico!».
 
Setsuna, il corpo fasciato da un tubino nero e una collanina brillante al collo era entrata sorridente al braccetto di Dan. Anche lui sembrava divertito. Aveva l’espressione che Haruka gli aveva visto in volto solo quando raccontava i suoi aneddoti spassosi al team degli artificieri. Quella che metteva su quando era sicuro di sé, tra amici.
Lui le scostò uno sgabello e la fece accomodare al bancone.
Haruka rimase imbambolata fino a che non sentì la voce di Yaten cupa e bassa come un incubo.
«Devo andare».
«Dove?!». La bionda parve farsi prendere dal panico. Che diavolo di situazione è questa?!
«Il più lontano possibile da lui».
 
Seya aveva appena varcato l’ingresso del locale.





Note dell'autrice:

Il prossimo capitolo comincerà proprio da qui. E onestamente...NON VEDO L'ORA di scriverlo! Mi dispiace per il pessimo tempismo, ma non ho avuto un singolo momento per scrivere perciò ci ho messo una vita. Spero di fare più velocemente con il prossimo.
La coppia improbabile Seya/Dan è spuntata fuori così a caso. Però mi piacciono cavolo. E 'mo che si fa?! Nel prossimo capitolo spero di far dare una mossa a tutti quanti. Questa zuppa si è allungata forse troppo. Si vede non mi piace correre, vero?
Spero ad ogni modo sia di vostro gradimento!

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Capitolo 18
*** Incrocio di destini ***


«Unmei no akai ito» il filo rosso del destino. Fu come un sussurro al suo orecchio che portava la voce del fantasma della moglie defunta. Mamoru, con la sensazione addosso di avere ancora Serenity accanto a sé, si svegliò di soprassalto rischiando di cadere dalla sedia.
Si stropicciò gli occhi con le falangi strette a pugno, in preda al batticuore e confuso si guardò attorno come a cercarne la figura alle sue spalle.
Doveva essere stato un sogno, ma la sensazione di averla sentita realmente lì non sembrava voler scemare.
Massaggiò con una mano il collo dolorante per la posizione errata tenuta per il tempo della sua dormita e si rese conto solo dopo un paio di minuti, recuperata la calma, di trovarsi ancora sul luogo di lavoro.
«Cavolo». Sbirciò l’orario dal cronografo al polso e schioccò la lingua per poi drizzarsi come un fuso. Era crollato sul libro che Haruka non gli aveva permesso di leggere per tutto il pomeriggio perché troppo presa dalla paranoia di non essere ancora abilitata al servizio da Seya.
Erano le dieci di sera e il dipartimento era deserto.
Mamoru si affrettò a recuperare le sue cose e ad uscire in strada per tornare al suo appartamento con la fretta alle calcagna.
Fortuna aveva voluto che la sconosciuta dai lunghi codini biondi avesse avuto l’idea di occuparsi di Chibiusa quel pomeriggio, o sarebbe stato un vero e proprio disastro.
Controllò il cellulare. Nessun messaggio o chiamata. Doveva essere andato tutto liscio, altrimenti una babysitter con un po’ di senno avrebbe sicuramente avvertito in caso di problemi. Ammesso e concesso, fosse sopravvissuta al caratterino della piccola birbante.
Mamoru sorrise sotto la luce dei lampioni.
«Sei capitata proprio al momento giusto» disse tra sé e sé, guardando il display senza notifiche.
 
Alcuni l’avrebbero chiamata fortuna, altri coincidenza. Serenity invece avrebbe proprio pronunciato quella parola: destino.
 
 
§§§
 
 
Al Moon bar, i fili annodati ai mignoli degli amanti dovevano aver formato una matassa intricata da sciogliere.
Con tanta scelta sul luogo dove far serata erano capitati tutti lì, in un posto solo e nel medesimo giorno. Gli amori finiti, quelli appena nati, quelli che dovevano ancora scoprirsi e quelli taciuti si ritrovavano nella stessa stanza ignorando il fatto che qualcuno aveva già scritto per loro il preciso copione del loro avvenire.
Rei schioccò l’occhiolino a Dan non appena gli fu di fianco al bancone. Non aveva la confidenza che si ha con un amico, ma spesso e volentieri si erano ritrovati assieme per lavoro o per qualche ora la sera, vista l’amicizia che avevano in comune.
Lui la salutò con un sorriso e un cenno frettoloso della mano. Tutta la sua attenzione era riservata alla giovane donna con cui era uscito e a nessun altro, tanto che non si era ancora accorto della presenza di Haruka nel locale.
 
«Come mai proprio questo posto, Harris?» domandò Setsuna facendo un cenno al barista per poi accavallare le lunghe gambe sullo sgabello.
«Mi piace scovare i talenti nascosti delle persone» disse di rimando lui, attento a non far cadere troppo l’occhio sui lembi di pelle ambrata scoperti dal vestitino nero della sua accompagnatrice.
«Tu ne hai?» chiese lei con aria divertita.
«Beh, se escludiamo il fatto di essere super affascinante e saper disinnescare una bomba, oltre che sconfiggere la morte…» fece una pausa. Gli angoli della bocca erano talmente incurvati all’insù da sembrare di poter arrivare agli occhi. «Sono un estimatore di ciambelle. E mi creda, capo Meiō, non è una cosa semplice».
Setsuna scoppiò a ridere come non faceva da tempo. Non passava tanto tempo in compagnia perché il tempo libero scarseggiava e di conseguenza le amiche. Lei era una donna votata alla propria carriera, con un obbiettivo arduo da perseguire e per cui aveva rinunciato a tutto. Le rare volte in cui rideva, dunque, erano le più spontanee e preziose che si potessero collezionare.
«Da una parte sono curiosa e vorrei approfondire l’argomento, dall’altra ho paura di sapere la risposta. In cosa consisterebbe essere un estimatore di ciambelle?».
«Innanzi tutto…» cominciò lui tirando in fuori il petto con fare orgoglioso. Sembrava dovesse parlare di un dottorato o una laurea guadagnata con anni di duro studio. «Ho girato quasi tutti i locali che vendono donuts e ciambelle. Le ho assaggiate TUTTE. Ci è voluto tempo credimi. E adesso so riconoscere ad occhi chiusi ingredienti, impasti e quant’altro. C’è anche una gara sai?».
Lei sbatté le ciglia allungate dal mascara. «Credo di star immaginando una di quelle sagre dove ci si sfida a chi mangia la quantità maggiore di hamburgher o cose del genere».
«Roba da principianti» rispose lui ordinando una Guinness. «Cosa prende capo Meiò? Non so se è più una donna da vino, cocktail o…».
«Una Guinness anche per me» disse al barman prima di piantare gli occhi scuri in quelli del ragazzo.
«Sono una donna che non vuole mai essere da meno rispetto a chi si trova di fianco. E…Harris…».
«Si?».
«Piantala di chiamarmi capo Meiō se siamo fuori dall’ufficio».
«Si-signora».
«Andiamo proprio di male in peggio».
Lui si agitò, perché prese ad aver caldo e lo sgabello era divenuto improvvisamente scomodo.
«D’accordo, Setsuna» recuperò lui.
«Ho un’altra richiesta…» aggiunse lei, ringraziando con un cenno del capo il ragazzo dietro al bancone che le servì la pinta. «Voglio che mi porti in uno dei tuoi posti. Voglio proprio capire di cosa parli».
Dan sorrise come un bambino.
«Affare fatto».
 
 
§§§
 
 
In una piccola stanzetta sul retro del locale, adibita a camerino per i partecipanti alla serata, Michiru, organizzata e puntigliosa come al solito, stava lavorando agli ultimi ritocchi sui capelli di Minako.
La bionda continuava a stropicciarsi l’orlo in pizzo del vestitino bianco che la più grande le aveva fatto trovare dentro ad una busta blu in preda all’impazienza.
«Posso vedere ora?» domandò con fare smanioso e un piede che batteva insistentemente fuori tempo.
«Non ancora. Ma sei bellissima, puoi stare tranquilla. Farai un figurone vedrai». Disse Michiru con un filo di voce nel tentativo di sedare l’ansia della più giovane.
Si mise una forcina tra le labbra mentre le mani erano intente ad armeggiare con piastra e lacca, concentrata come una vera professionista.
 
Visto come si erano lasciate il giorno prima Haruka e Michiru, ricevere la chiamata dell’artificiere che le chiedeva il favore di aiutare l’amica per la sua serata era stato davvero singolare. Tanto che solo dopo aver concluso quel breve scambio di parole per avere qualche informazione in più Michiru si era domandata come Haruka avesse avuto il suo numero di telefono. Probabilmente lo aveva sgraffignato dalla rubrica di Setsuna, ma poco importava perché inaspettatamente quel compito le aveva alleggerito l’animo. Era contenta di essere utile e indirettamente di aiutare anche il giovane ex cognato.
 
«Lo fai da tanto tempo?» domandò Minako, strappando l’altra ai suoi pensieri, per  cercare di stemperare la tensione dovuta a quell’esibizione che avrebbe non solo potuto cambiare la sua di vita, ma anche quella di Yaten.
«Da qualche anno. È cominciato come un hobby, poi sono arrivate le prime richieste da persone più in vista. Mi sono fatta notare con quelle e adesso lo faccio spesso, lavoro permettendo. Mi piace. Sono diventata abbastanza brava a capire cosa vogliono le persone». Trovò quasi buffa quell’ultima frase. Perché se capire la gente era realmente il suo mestiere, sia come mediatore che come stilista, della sua vita non comprendeva quasi più niente. Ne aveva perso il controllo con una facilità tale da non riuscire a capacitarsene.
«Capisci bene anche Yaten?» si lasciò sfuggire Minako, mordendosi poi la lingua.
Michiru si fece scappare una risatina.
Yaten per lei era rimasto sempre il bambino col broncio che seguiva in ogni dove il fratello maggiore, cercando di catturarne invano l’attenzione. Anche se l’ultima volta che lo aveva visto alle Hawaii era già un ragazzino ed ora lo aveva ritrovato come un giovane uomo fatto e finito sulla costa californiana.
«Cosa vuoi sapere di lui?» chiese la più grande rifinendo l’ultimo boccolo biondo di Minako.
«Vorrei sapere tutto» rispose l’altra con un sospiro. Se solo si soffermava a pensare a lui il cuore prendeva a batterle talmente fuori da somigliare a un treno che deragliava nella sua cassa toracica e le mancava il respiro.
Non aveva una gran confidenza con quella splendida donna alla quale Haruka pareva dedicare tutte le sue energie, ma sin da quando l’aveva incontrata sul molo il primo giorno in cui era andata alla barca di Yaten le era sembrata gentile e sincera.
Michiru sospirò. Ripose i suoi strumenti per poi chinarsi davanti alla sedia sulla quale sedeva la ragazza e poterla guardare nei suoi grandi occhi azzurri.
«Io non so più se sia la persona che conoscevo una volta. Non so se quello che ha passato in questi anni l’abbia cambiato in qualche modo. Ma sono certa di una cosa, Minako. Lui ha un grande cuore. Lo ha sempre avuto sin da bambino anche se ha sempre voluto tenerlo nascosto a tutti».
La ragazza l’ascoltò come se le stesse svelando il mistero della creazione.  «Sembra distante e disinteressato spesso e volentieri, ma quello che vedi fuori è solo un muro dietro al quale ha trincerato tutto quello che lui è realmente. Se è ancora lo Yaten che conoscevo io, è la persona migliore di questo mondo da avere al proprio fianco. Sacrificherebbe tutto per le persone a cui tiene anche se a prima vista non lo diresti mai».
 
«Minako» la voce del ragazzo interruppe la conversazione tra le due.
Michiru si scostò, ammirando il proprio lavoro e Minako rispose perentoria a quel richiamo alzandosi dalla sua postazione.
Lui rimase immobile e qualcosa nel suo sguardo parve tremare.
«Quasi non ti riconoscevo» disse come fosse rimasto senza fiato dopo una lunga corsa.
Michiru alzò gli occhi al cielo raccogliendo trucchi e pennelli nella sua cassettina.
Possibile che non riuscisse a fare un complimento a quella ragazza che sarebbe stato palese a chiunque non fosse solo una co-musicista?
«Oh» Minako corrucciò la fronte per poi ritrovarsi una smorfia delusa in volto. Ma lui sembrò captarle prima ancora che potesse contaminare quel suo bello sguardo, tentando di regalarle un complimento più palese.
«Stai molto bene».
Lei sorrise imbarazzata e con la coda dell’occhio sbirciò allo specchio la sua immagine. Forse in nessun altra occasione sarebbe mai stata bella e curata come in quel momento.
 
«Okaay ragazzi!» esclamò Michiru interrompendo il silenzio tra i due piccioncini. «Io qui ho finito e andrò di là a fare il tifo per voi! Mettetecela tutta».
Ma prima che potesse lasciarli, Yatene la bloccò sulla soglia con poche parole.
«È venuto Michi» sembrava sconvolto. Lo sguardo perso di chi non sa più ritrovare la via di casa. «Seya, è qui».
Michiru si concesse un piccolo gesto che li portò indietro nel tempo. A quando i piedi bruciavano affondando nella sabbia vulcanica e portavano al collo collane di conchiglie.
Gli lasciò una carezza sul capo e pigiò piano l’indice sulla punta del suo naso.
«Forse è la sua prima volta» gli sussurrò e con fare materno. «Ma è venuto per te. Anche se non lo ammetterà mai».
Yaten non ribatté in alcun modo. Aveva sempre creduto a Michiru, ma mai aveva riposto fiducia in una possibile redenzione di quel fratello che si era lasciato alle spalle su spiagge paradisiache.
 
 
§§§ 
 
 
 
Seya, camicia sbottonata all’altezza del collo, aveva rinunciato al completo elegante per andare in quel locale. Non era propriamente il genere di posto che avrebbe frequentato. Lui era un tipo più da Jazz bar. Ambiente formale, lume di candela e musica dal vivo in sottofondo.
Notò la lunga chioma del capo delle operazioni al banco, sebbene ci mise qualche istante prima di riconoscerla fuori dall’ambiente lavorativo. Con le mani in tasca si diresse in direzione della donna per ordinare qualcosa e magari riuscire a parlarle delle sue dimissioni.
 
«Attenzione, permesso…».
 
Nello stesso momento, Rei, si destreggiava per uscire dalla calca di ragazzi che si stava formando all’angolo bar, quando una spinta frettolosa e distratta la fece inciampare nei propri piedi. I bicchieri le scivolarono di mano e un liquido scuro, freddo e appiccicoso finì col riversarsi sulla camicia immacolata di Seya che si dirigeva in senso opposto al suo.
 
«ACCIDENTI!» fu un esclamazione all’unisono. E senza rendersene conto le mani del ragazzo erano finite ancorate ai gomiti dell’altra che aveva trovato un appiglio nelle sue spalle larghe.
«Cavolo!». Rei sibilò tra i denti l’imprecazione. Forse non era il caso di dirgli di guardare avanti perché la colpa probabilmente stava nel mezzo se non nell’avventore distratto che le aveva fatto combinare quel macello.
«Ti sei fatta male?» domandò lui.
«No. Sono apposto». Lei alzò lo sguardo, ma un po’ imbarazzata per la figura barbina finì per fissare le macchie sull’indumento dell’altro.
«Guarda qui, che macello…ODDIO». Le sue labbra si spalancarono in una smorfia di terrore, poiché quella camicia doveva costare un occhio della testa. «Gas. Ci vuole del gasss! Cazzo».
«Che cosa? Cosa stai dicendo?».
«Acqua gassata. SUBITO!» disse perentoria fiondandosi dal barman e infischiandosene della fila. Lo stipendio di un vigile del fuoco era già abbastanza scarso per diminuire drasticamente per la camicia di marca di uno sconosciuto.
Seya, preso alla sprovvista da tutto quel trambusto, non riuscì a muovere un muscolo tranne che per rimirare quel macello sul petto che si stava espandendo lentamente divenendo marroncino.
«Sono qui. Ho tutto. Apri». Come un chirurgo in sala operatoria Rei ordinò allo sconosciuto di aprirle la bottiglietta, mentre dalle tasche tirava fuori una decina di fazzoletti.
«Cosa stiamo facendo?» domandò porgendole l’acqua.
«Cerchiamo di salvare la tua camicia e il mio stipendio».
Seya alzò un sopracciglio. «Credi ti chiederei i danni per una stupida camicia?».
«Credo che certa gente sia capace di tutto».
«Su questo non posso darti torto» sospirò lui.
Rei sfregò vigorosamente sul tessuto. Era tanto impegnata in quell’azione di salvataggio che un espressione concentrata le deturpava il viso e la punta della lingua aveva fatto capolino a lato delle labbra.
Seya non poté che scoppiare a ridere, trovandola estremamente buffa.
«Ti sembra divertente?!». La mora lo fissò in cagnesco, rallentando il movimento della mano. Forse avrebbe dovuto passarci sopra ed essere più gentile, ma una cosa che contraddistingueva Rei era il suo carattere scoppiettante quanto un fuoco d’artificio.
Lui si sentì tutt’altro che minacciato sebbene sicuramente fosse la ragazza più peperina del locale.
«La situazione non so, ma la tua espressione sì…è divertente».
Lei si drizzò mollandogli addosso i fazzolettini inumiditi.
«Puoi finire da solo. Vedrai com’è divertente».
Seya le bloccò la mano con sguardo di sfida.
«Sicura?» sorrise furbo lanciandogli uno sguardo ammaliatore. «È Dior».
Rei deglutì, ma non si fece intimorire. Affrontava a testa alta gli incendi ogni giorno non aveva ragione di preoccuparsi per un riccastro affascinante che aveva tutta l’aria di aver voglia di giocare al gatto e al topo.
«Preferisco Kalvin Klein».
 
 
§§§
 
 
«Ma dove si è cacciata?». Haruka, impaziente, borbottò alla ricerca dell’amica con lo sguardo. Si era persa a seguire con la coda dell’occhio Seya, rimanendo a debita distanza, fino a che non parve inghiottito dalla folla che richiedeva a gran voce un drink per prepararsi alla serata.
Guardò Dan e Setsuna gesticolare e ridacchiare complici. Lei, per tutta risposta a quell’insolito quadretto emise un grugnito scostante.
Haruka, fin dalla nascita, non aveva mai avuto nulla di veramente suo. Non una madre o un padre, non una casa o un giocattolo. La vita in orfanotrofio era stata dura e quella dopo, nella fattoria amish, non era certo da potersi considerare più semplice. Aveva dovuto faticare per costruirsi una vita a misure per lei e una delle poche cose che poteva ritenere sue erano l’amicizia con quel ragazzone amante dei dolci.
Un pizzicore fastidioso che si poteva tradurre come qualcosa di simile alla gelosia si fece strada in lei. Avrebbe dovuto dividere Dan con un’altra persona?
 
«Un’altra magia è stata compiuta». La voce di Michiru la prese alla sprovvista e Haruka si ritrovò a sobbalzare, scaraventata dai suoi pensieri fino al pianeta terra.
Si voltò scorgendo la figura dell’altra che appoggiava le proprie cose su una delle sedie libere al tavolino che lei e Rei avevano scelto per godersi l’esibizione di Minako.
Quel silenzio e la strana espressione dell’altra bloccarono però Michiru.
«Qualcosa non va?». Forse non avrebbe dovuto prendersi la libertà di tornare dalla bionda e sistemarsi come avesse ricevuto l’invito per passare con loro la serata.
«No, affatto».
Michiru tirò un sorriso. Si ritrovò stranamente in imbarazzo. Forse perché lei l’aveva vista come non si era fatta vedere mai; fragile e priva di difese. Rimase in piedi, dondolandosi appena cominciando a tirarsi piano le dita delle mani e lo sguardo rivolto alla band sconosciuta che si stava esibendo.
La penombra l’accarezzava e assieme alle luci soffuse lo faceva lo sguardo di Haruka che continuava a combattere una patetica guerra contro se stessa.
Michiru desiderava spezzare quel silenzio. Avrebbe detto qualunque cosa pur di non sentirsi in quel modo eppure non riusciva ad articolare mezza frase perché sapeva benissimo che sarebbero state parole sputate fuori per poi cadere nel vuoto. Ma Haruka, impaziente persino con il proprio autocontrollo, cedette per prima abbandonando la sua posizione e riducendo le distanze.
 
“Nobody knows you better than me, Better than the lace you wear…”.
 
La voce della cantante rimbombò tra le pareti del locale.
Lei avvertì la musica vibrarle dentro come se la corrente elettrica attraversasse di punto in bianco il suo corpo.
Temeraria, com’era solita essere, allungò una mano verso quelle dell’altra. Interrompendo quella sorta di tic che aveva pervaso Michiru.
 
“Every curl inside your hair and I'm falling in, fallin into the light”.
Guardò i riflessi di luce che lampeggiavano negli occhi della bionda e con un filo di voce riuscì a malapena a farsi sentire.
«Haruka, io credo che…».
«Hollywood…è solo un ballo. Rilassati» le soffiò all’orecchio l’artificiere per poi intrecciare le dita alle sue e poggiare una mano al suo fianco.
«Non ti si può vedere così…».
Un brivido percorse Michiru dalla spina dorsale sino alla suola delle scarpe a quel contatto.
«Così come?» domandò poi di rimando, senza riuscire a sostenere più l’azzurro intenso di quegli occhi che la guardavano.
«Come la bella ragazza al ballo di fine anno che nessuno invita a ballare. E se ne sta lì impalata con l’aria triste e affranta…».
 
Era quello il suo segreto. Il sortilegio che ogni volta la incantava lasciandola a boccheggiare come un’idiota priva della capacità di raziocinio di cui era perfettamente dotata in realtà.
Haruka non era mai distante per davvero. S’incendiava con un nonnulla e aveva sempre quell’aria di superiorità quasi fastidiosa ad accompagnarla, ma senza nemmeno esserne conscia era dotata di un incredibile dono. Lei sapeva come spegnere i tormenti delle persone. Le bastavano una battuta e quel suo sguardo che riusciva a scavare in fondo agli animi più bui per risollevare dal proprio baratro qualcuno.
 
“Anything you want to do…You and me, you and me intertwined…”.
 
«Sei stata a molti balli liceali?» chiese divertita Michiru per poi cingerle il collo con le braccia sulle note di quel lento.
Era tremendamente alta Haruka, più di quanto le fosse mai parsa prima di quel momento.
«Nemmeno uno» confessò. «L’ho visto in una marea di film che mi hanno propinato Rei e Mina, però».
«E a ballare dove hai imparato?».
«Improvvisazione».
Michiru non poté fare a meno di ridere a quella risposta.
«Scopri le tue carte Ten’ō. Quanti talenti nascosti possiedi ancora di preciso?».
«Se mi dedicassi un po’ più di tempo…» sorrise beffarda, «forse potrei anche svelarteli tutti».

Aveva le farfalle allo stomaco. Michiru lasciò che la musica le cullasse ancora per un lungo momento nel quale il tempo sembrò rallentare. E in quel lento dondolio non riuscì a staccarle gli occhi di dosso.
Ipnotizzata, si sentiva come la prima volta in cui succede. Quella in cui scopri per la prima volta l’amore e non hai idea di come comportarti.
Forse ti lascerò fare. Pensò. Magari, più tardi. Si dovette mordere la lingua per non dirlo ad alta voce.
Respira, Michi. E mentre invocava il proprio autocontrollo la magia s’interruppe quando persero il ritmo sul finire di quella esibizione.
«Ahi!».
«Lo avevo detto che stavo improvvisando» si giustificò Haruka, sciogliendo il contatto tra di loro. Aveva appena pestato un piede alla dea dai lunghi capelli blu, ma per non essere troppo blasfema si trattenne dal ridere per la propria sbadataggine.
«Hai sempre la scusa pronta!» la rimbeccò bonariamente Michiru, portandosi prontamente una mano all’altezza della caviglia. Lo fece non perché sentisse male, ma per stroncare sul nascere la voglia prepotente che ebbe di toccarla di nuovo.
Haruka creava un cortocircuito in lei, provocandole una strana dipendenza.
 
Un fascio di luce illuminò nuovamente il palco.
 
«Tocca a loro» profetizzò solenne la bionda.
 
In sottofondo lo speaker della serata annunciò il debutto di Yaten e Minako.
 
 
§§§
 
 
«Li vedo. Sono arrivati». Minako avvertì Yaten con voce tremante, rimpiangendo per un solo secondo la sfida che i talent scout avevano lanciato loro.
Adorava cantare, lo faceva mettendoci tutta se stessa ma quel pubblico era fin troppo per lei.
Si allontanò di un passo in quello che era il retroscena provvisorio del palco montato per la serata dei talenti, facendosi aria con una mano.
«Credo che la chitarra non sia accordata decentemente» disse presa dal panico, rischiando d’inciampare in un groviglio di cavi.
Aveva bisogno di una scusa per andarsene, di qualsiasi cosa pur di non affrontare il proprio destino, convinta che l’avrebbe divorata senza pietà per poi rigurgitarla in ginocchio da suo padre a chiedere perdono per la strada perseguita sino a quel momento, disobbedendogli.
«Tranquilla, biondina. E’ a posto».
«Yaten, io non credo di farcela» sbottò lei in preda a un attacco di panico in grande stile.
«Quante volte l’abbiamo suonata? Provata e riprovata?» le chiese lui con tono impassibile.
«Non le ho contate. Non lo so. Tante volte, ma eravamo io e te…non un locale gremito di gente e due tizi che decideranno del nostro sogno».
Era diventato il loro sogno. Da quando si erano incontrati non era più qualcosa che custodivano gelosamente ognuno per sé.
«Mina, ehi» lui poggiò i palmi sulle sue spalle per rassicurarla. «Respira. Non si canta stando in apnea».
Lei prese una boccata d’ossigeno e lo fissò. Non era più per la paura di deludere se stessa o di non riuscire a dimostrare a suo padre che poteva farcela. Aveva paura di deludere lui. Di spezzare le ali a Yaten.
«Se il problema è la gente, non pensarci».
La sua voce riusciva a calmarla. Minako socchiuse le palpebre per un istante, mentre l’uomo sul palco li annunciava a gran voce.
Riaprì gli occhi. Yaten era ancora lì.
«Siamo solo noi. Solo io e te» le disse con la sicurezza di chi sa come rialzarsi quando si cade.
La ragazza fece un cenno d’assenso col capo. Prese la propria chitarra e lo seguì sul palco.
 
Le luci puntate su loro più brillanti del sole.
 
Minako si sedette sullo sgabello adibito per lei, guardò oltre la piattaforma in legno.
C’era Haruka poco più in là e accanto a lei Michiru. Vagò con lo sguardo alla ricerca di Rei e incontrò altri cinquanta volti in un millesimo di secondo.
Prese un respiro profondo, prima di farli scomparire uno ad uno. Lo fece sulla prima nota scivolata sotto i polpastrelli di Yaten, al suono della voce del marinaio che sapeva come condurla fuori dalle sue tempeste interiori.
 
«Let me hold you, for the last time…».
 
Con lei c’era solo lui.
 
 
§§§
 
 
Rei, come nella ricostruzione di una scena del delitto, aveva perso per strada gli indizi che l’avevano condotta a quel momento.
Se le avessero chiesto quali azioni o parole l’avessero portata lì, incastrata con la schiena tra un lavandino e il corpo di uno sconosciuto sfacciato, non avrebbe saputo rispondere.
 
Le labbra di Seya lasciarono un altro segno roseo del loro passaggio sulla pelle del suo collo e, col capo reclinato, in preda all’eccitazione dell’incontro clandestino con uno sconosciuto, lei capì che cercare risposte sarebbe stata solo un’inutile distrazione.
Arpionò le dita sotto alla camicia sbottonata del ragazzo come a perlustrare ogni centimetro di quel bel corpo straniero. Emanò uno sbuffo caldo, lasciandosi andare contro allo specchio imbrattato di scritte di qualche giovane vandalo innamorato, incapace di tenersi per sé le proprie parole d’amore. In preda a quella frenesia che le stava dando alla testa come la peggiore delle sbornie Rei perse la cognizione del tempo e Seya dimenticò il motivo per cui aveva messo piede nel locale.

 
§§§
 
 
Salite le scale e arrivato al piano, Mamoru inspirò profondamente prima di girare le chiavi all’interno della toppa.
Poggiò un orecchio alla porta blindata, come per indagare ancora un minuto prima del suo rientro.
Forse si aspettava di ritrovare l’apocalisse nel proprio appartamento, ma udì solo il ronzio della televisione accesa in sottofondo.
Contò fino a dieci ed entrò, ritrovandosi dinnanzi Bunny placidamente addormentata sul suo sofà con le bambine sulle ginocchia.
 
Scalzò le scarpe per non far rumore, lanciando un’occhiata fugace al programma in sottofondo. Era un film anni ottanta, di quelli con la grana un po’ sbiadita e non con i colori brillanti delle opere rimasterizzate.
Sorrise mettendo in muto l’apparecchio e avvicinandosi a Chibiusa con la bocca impiastricciata da quella che doveva essere stata una cena condita di capricci.
Usagi non le aveva mentito, in fin dei conti se l’era cavata senza dover chiamare il 911.
 
«Bunny» soffiò al suo orecchio, ricevendo in risposta un mugolio.
«Ehi, Bunny. Sveglia».
Non avrebbe voluto interrompere il suo sonno. Ma Hotaru si trovava ancora lì e sicuramente Michiru avrebbe voluto fosse sistemata nella sua cameretta al suo rientro.
«Non l’ho…rubato io il vino…giuroooo» bofonchiò la biondina immersa ancora nel suo sonno.
Mamoru si tappò la bocca con una mano per non scoppiare a ridere.
Prese tra le braccia Chibiusa, spostandola nella sua stanzetta provvisoria.
Le rimboccò le coperte, sospirando quando incrociò il volto sorridente di Serenity incorniciato sul comò.
Lui desiderava che la figlia potesse ricordare in qualche modo sua madre. E allo stesso tempo, stava maturando l’idea di voler una figura femminile stabile nella sua vita.
Forse, Haruka, sebbene inconsciamente, gli aveva dato il miglior consiglio possibile. Doveva rifarsi una vita e trovare qualcuno da amare. Qualcuno che lo ricambiasse e colorasse quell’esistenza deviata sui toni del grigio e che a sua volta amasse anche Chibiusa.
 
§§§
 
 
Alle 23 di quella stessa sera i due talent scout in compagnia di un discografico, parlottando tra loro emisero il loro solenne verdetto.
Minako e Yaten, ancora sul palco, col fiatone per l’emozione, sommersi dagli applausi del pubblico raggrumato nel locale, immersi in una sensazione d’invincibilità, li videro alzarsi per poi perderli con lo sguardo in direzione dell’uscita.
 
Allo stesso orario, Setsuna e Dan abbandonarono il banco del bar. Lei tolse i tacchi per il male ai piedi ridendo pervasa da quella strana felicità che regala un bicchiere di troppo diretti verso una nuova meta.
 
Dall’altra parte della città, Usagi aprì gli occhi convinta di essere ancora preda del suo sogno mentre Mamoru tentava un timido invito per un vero appuntamento.
 
Rei, seguita dall’amante di una notte raggiunse Haruka che in compagnia di Michiru aveva dimenticato di star aspettando il drink della serata.
«Dov’eri finita?!» l’accolse con lo sguardo di chi sta urlando: “guarda chi si rivede, alla buon ora!”.
«Cosa mi sono persa?». Fu a quella domanda che l’amica fece due più due, vedendo Seya raggiungerla con qualche falcata e rabbuiare la propria espressione.
«Davvero Rei? NON POSSO CREDERCI». La bionda agitò le mani al cielo sentendo la ragione abbandonarla.
«Ti sei persa forse il momento più importante della nostra amica per questo?!».
«Ten’ō, abbassa i toni» la interruppe lui abbottonandosi un’ultima asola dell’indumento macchiato.
«Vi conoscete?» boccheggiò Rei con lo sguardo di chi cade dalle nuvole per poi sgranare lo sguardo scuro.
«Non provare a darmi ordini, TU» sbottò senza più freni inibitori. Lo sguardo cobalto passò dal giovane all’amica guardandola come mai prima di quel momento. Nemmeno la volta che Rei aveva sputato sentenze sulla sua madre biologica si era meritata quello sguardo carico di tutta la delusione che Haruka aveva in corpo.
«Di tutta Los Angeles Rei dovevi proprio andare a rintanarti con lui?! Ma fai sul serio?!!». Fuori dalle grazie di Dio, l’istinto di prendere a cazzotti Seya venne placato soltanto dalla strattonata di Michiru.
«Lascia stare» la sua voce non era quella di una supplica, era ferma. Una corda tesa. E se anche era stato messo un punto di comune accordo alla loro relazione, Michiru lo guardò con tutta la disapprovazione che aveva in corpo.
Haruka, coi pugni serrati che le formicolavano, dovette fare appello a tutta la buona volontà per darle retta.
 
«Brava Ten’ō vai. Ti tiene già al guinzaglio…» la provocò.
 
Lei si bloccò digrignando i denti.
 
«Finiscila Seya» lo rimproverò Michiru fulminandolo con lo sguardo.
 
Rei e Michiru erano in mezzo a due fuochi.
Yaten e Minako li avevano raggiunti e avevano assistito alla scena.
«Non sei rimasta?» domandò delusa Minako all’amica.
«Io…». Rei prese coscienza di ritrovarsi in mezzo all’incendio più pericoloso nella sua carriera di pompiere senza sapere come uscirne illesa. Non c’erano scuse da accampare, non c’era via d’uscita per quel disastro annunciato.
Non tentò nemmeno di completare quella frase morta lì sulle labbra, predestinata a non avere una fine, poiché sul suono della batteria dell’ennesima esibizione Haruka sferrò il suo pugno destro in pieno viso a Seya.







Note dell'autrice:
Non potrei essere più delusa da questo capitolo che volevo tanto scrivere. Ho perso la bussola e sta andando tutto a rotoli. Inoltre il caldo asfissiante e il tempo nullo da dedicare alla scrittura hanno tutt'altro che aiutato nella composizione di tutto ciò. Spero non vi annoi troppo e per il resto odiate e amate chi vi pare.
Se avrò possibilità pubblicherò a fine mese, perché ad agosto temo dovrò saltare scrittura e pubblicazione. In ogni caso vi avvertirò tramite fb!

Un abbraccio grande a chi ha ancora il coraggio di proseguire.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 19
*** Le luci dell'alba ***


Sulla Venice Beach Bulevard, a pochi passi dal Versailles Cuban Resturant, erano tutti col naso all’insù a fissare la densa fumana nera che rendeva l’aria quasi irrespirabile. Lo scheletro di quello che fino alla mezzanotte era stato un ufficio postale era stato divorato per buona parte dalle fiamme.
 
Rei si asciugò il sudore dalla fronte col dorso ricoperto dagli spessi guanti che indossava per poi chiudere il getto dell’acqua proveniente dalla manichetta.
Si trovavano tutti lì, sul luogo dell’incidente, perseguitati dai demoni che si nutrivano dei loro malumori.
 
L’auto di Dan superò il posto di blocco provvisorio, adibito dagli agenti in poco meno di venti minuti, facendo scendere dall’auto Setsuna che lanciò i propri tacchi sul sedile posteriore della vettura.
«Harris!», tuonò come se dieci minuti prima non si fosse trovata in sua compagnia a degustare ciambelle su ciambelle in una pasticceria notturna per scoprirne le differenti sfumature di sapore. «Hai un maledetto paio di scarpe da tennis?».
Lui, improvvisamente intimidito da quel ritorno di autorità, boccheggiò come un pesce for d’acqua. Non era solito portarsi un paio di scarpe dietro e se anche fosse stato non sarebbero state certo del suo numero.
«Ok, ho capito. Non perdiamo tempo». Tagliò corto lei che a piedi nudi richiuse lo sportello con veemenza per poi scendere dalla vettura.
In macchina, con una punta d’imbarazzo che aveva mascherato guardando al di fuori del finestrino, lo aveva avvisato che non avrebbe fatto favoritismi di nessun genere.
Non si sarebbe guadagnata battutine sul posto di lavoro da quei trogloditi degli artificieri trattandone uno di loro con più confidenza, né tantomeno avrebbe tollerato frecciatine di qualsiasi genere sul loro rapporto se qualcuno ne fosse venuto a conoscenza.
 
Haruka, nera di rabbia e con un cerchiò rossastro a lato dell’occhio stava discutendo con Pinco Panco per avere la propria attrezzatura dal cingolato della SWAT.
«Dovreste essere dalla mia parte, imbecilli!» tuonò prendendo uno dei due ragazzetti per il bavero.
Ray intervenne separandola dal ragazzino per poi cercare di rabbonirla, sebbene fosse nera di rabbia e pertanto intrattabile.
«Haru, ma noi lo siamo solo che ci cacceremo nei guai se-».
«Cosa diavolo succede, ora?!». Setsuna con una smorfia di dolore per l’asfalto bollente sotto alle piante dei piedi raggiunse il gruppetto.
«Non mi fanno prendere la mia roba per colpa di quello stupido foglio» si lamentò la bionda.
«Ti autorizzo io, al diavolo la burocrazia» rispose prontamente Setsuna, conscia di non  poter sostenere anche la tortura delle continue lamentele di Haruka.
«Una notte bollente con Dan e…» la maggiore la fece ammutolire con un gesto a papera della mano.
«Una parola e giuro su Dio che IO non ti faccio più mettere piede in nessun distretto». La minacciò con lo sguardo severo di chi non ammetteva repliche,  rendendola miracolosamente muta all’istante. «E si può sapere cosa diavolo hai fatto alla faccia?! Ancora risse come gli studenti idioti di un campus universitario!?».
Haruka arricciò la fronte in una smorfia perplessa per quella comparazione. Sfilò gli occhiali da sole dalla tasca dei jeans e li sistemò con un ringhio infastidito sul naso prima di salire a prendere i suoi indumenti da lavoro.
«Qualcuno può illuminarmi su cosa succede o devo chiederlo al presidente degli Stati Uniti?». Non demorse sollevando le braccia al cielo per poi lasciarle cadere pesantemente lungo i fianchi con fare sfinito.
«Quell’idiota di Seya». Era Michiru ad aver parlato. E l’appellativo che suonava totalmente sbagliato, quasi una bestemmia, se pronunciato dalla bocca di Michiru, provocò un’espressione al limite del scioccato sul viso della più grande.
«Mi riferivo al palazzo» sentenziò Setsuna.
«Fantastico» bofonchiò l’altra incrociando le braccia.
«Ti dispiacerebbe venire con me?» domandò la donna prendendola da parte.
Le due si spostarono di qualche metro, lontane da orecchie indiscrete, sotto alla tettoia del ristorante cubano di fronte.
«Michiru cosa ci fai qui? Non abbiamo bisogno di un mediatore. Non mi hanno segnalato la presenza di civili o…».
«Ero al locale con Haruka e gli altri quando è squillato il suo cercapersone. In ogni caso sono un’agente e-».
«Si» Setsuna la interruppe prima che potesse continuare. «Lo sei, ma non hai ricevuto il benestare per…».
«Certo». Seccata Michiru non sapeva più che pesci pigliare per quella faccenda. «Non lo avrò mai se deve essere Seya a darmelo» sbottò, alzando un po’ di più la voce.
«Perdonami Michiru ma sono d’accordo con lui in questo caso».
«Che cosa?!» la mediatrice non poteva credere alle sue orecchie e la donna cercò di spiegarle al meglio le sue parole.
«Ti hanno quasi sparato. Sei viva per miracolo. Penso tu debba prenderti una pausa».
«Però dopo che ho lasciato morire quell’uomo hai ritenuto potessi rientrare senza badare ai tempi di recupero che mi aveva dato il terapista!» gli occhi le si arrossarono istantaneamente a quelle parole.
Era incredula.
«Michi, io voglio solo fare la cosa giusta e…».
«Se vuoi essere giusta allora manda via il mio ex marito e fammi tornare al lavoro».
Setsuna non poteva credere alle sue orecchie.
«State divorziando?!».
Una doccia gelata. Rimase pietrificata guardando Michiru annuire con il capo a quella domanda che le era uscita con troppa spinta dalle labbra.
«Il punto è che c’è un conflitto d’interessi e mi tratta come fossi un’inferma mentale. Cosa che non sono affatto. Sono in grado di fare il mio lavoro e lo sai benissimo».
Setsuna si morse le labbra alla ricerca della giusta decisione di prendere.
Se avesse licenziato Seya l’avrebbero additata tutti perché sapevano quanta stima avesse nei confronti di Kaiō. Ma se i due stavano divorziando, non era nemmeno strano che lui potesse farle una ripicca di quel genere. E lei, era una che lottava per le donne. Perché potessero ricoprire la carica che meritavano davvero senza essere schiacciate da un uomo.
Se Seya avesse dato le dimissioni, lei non avrebbe fiatato. D’altra parte però riteneva davvero fosse ancora presto per l’amica tornare sul campo.
«Ascolta, Michiru» addolcì il tono della voce, prendendole una mano.
«Risolverò questa storia, te lo prometto. Però ora vai a casa, sul serio. Ho abbastanza gente qui, anche se so sei capacissima di fare il tuo lavoro. Devi rimettere in ordine la tua vita prima di tutto».
Lei inspirò profondamente. Non era solita insistere e lesse nel suo sguardo la  sincerità di chi era preoccupato sinceramente per lei.
Guardò il mezzo della SWAT. Haruka scese nella sua divisa, fermandosi sotto alla luce di un lampione. Guardò in sua direzione, un cenno della mano alla quale Michiru ricambiò con un movimento silenzioso del capo.
 
 
§§§
 
 
«Perciò ti vedi con Meiō». Lo disse senza mezzi termini, quasi fosse un’accusa, mentre Dan allacciava i propri anfibi.
«Haruka è ancora notte. Quegli occhiali da sole sono ridicoli a quest’ora».
«Sei già petulante come la tua donna».
«Non è…la mia donna».
Lei abbassò le lenti scure. In effetti non vedeva un bel niente con quelli indosso.
«Guarda che vi ho visti al locale tutti ciccìcoccò».
«E io vedo che tu non sai fermarti mai quando devi. Guarda la tua faccia».
Haruka, annoiata, roteò gli occhi al cielo.
«Giuro che mi manca Bruce. E non credevo l’avrei mai detto!».
«Arriverà, tranquilla».
 
Il posto aveva assunto le sembianze di un campo di battaglia.
Alcuni mezzi militari erano fermi a delimitare l’area in cui si trovavano e numerose auto della polizia con i lampeggianti accesi sembravano disposte per creare una barriera tra la Los Angeles da film e quell’inferno ancora fumante che emanava un calore insopportabile nei dintorni.
«Capo…». Dan attirò l’attenzione di Setsuna intenta a coordinare uno stuolo di agenti.
«Avevamo questi sul mezzo. Non sono comodi, ma saranno sempre meglio che girare scalza nei dintorni».
Setsuna accettò di buon grado gli scarponi esalando un asciutto «grazie Harris» che se non fosse stato per quello sguardo avrebbe celato qualsiasi dubbio sul loro rapporto.
Le loro mani si sfiorarono in quello scambio. Un tocco durato un secondo che si trascinava dietro il sapore di eterno.
 
Haruka dovette mordersi la lingua per non canzonare l’amico che aveva assunto un’espressione da cane bastonato non appena la donna si allontanò tornando ai suoi doveri.
Cercò di distrarsi correndo con lo sguardo altrove.
Aveva visto Michiru allontanarsi, scortata da un auto di pattuglia e se prima nei posti pieni di macerie, o in quelli che minacciavano di diventarlo da un momento all’altro, Haruka si sentiva a casa, ora, senza la dea dai lunghi capelli blu, sembrava mancarle qualcosa.
 
«Eccolo il tuo principe della notte» bofonchiò Dan, ancora risentito per la frecciatina che l’amica le aveva lanciato poco prima.
«Geloso di Bruce?» lo pizzicò lei.
«Chi dovrebbe essere geloso di me?» Mamoru aveva fatto in tempo a captare il finale della frase, presentandosi direttamente dal gruppetto in nero degli artificieri.
«Non darti delle arie» rispose Haruka con fare distaccato.
Poggiò la schiena al cingolato, incrociando le braccia come era solita fare nei momenti di attesa. Lanciò un’occhiata torva in direzione di Rei, intenta a fare su e giù dall’auto pompa, fino a che non si arrestò all’arrivo di Seya.
«Ma che hai fatto all’occhio? Ci vuole una bistecca lì sopra!» esclamò Mamoru esaminando la macchia rossastra semi celata dagli occhiali da sole.
«Lo sa» s’intromise Dan. «Non ha mica bisogno della balia. E poi sono meglio i legumi congelati».
Mamoru guardò l’altro moro sorpreso. Ora che Haruka non era più diffidente con lui non si sarebbe mai aspettato che qualcun altro mostrasse astio nei suoi confronti.
La bionda, tutt’altro che attenta ai discorsi dei due, si sporse come se potesse origliare la conversazione dell’amica. Ma niente, era troppo lontana.
«Tiè» Dan le lanciò in faccia del ghiaccio secco.
«Ma che…» lei lo afferrò al volo, sfilandosi le lenti scure per metterlo a ridosso della tempia.
«Abbiamo il kit di pronto soccorso, li sopra» sottolineò Dan facendo una faccia scocciata all’ultimo arrivato.
«Dì un po’, che ha il tuo amico? E cos’hai fatto?».
«Bruce, sei in ritardo dove cavolo sei stato fino ad ora? Te la sei presa con comodo».
Mamoru sbatté le palpebre. Lei non lo stava nemmeno guardando in faccia. Era distratta dall’amica e Seya che parlottavano fitto tra loro in lontananza e aveva il coraggio di fare l’evasiva.
«Non si risponde a una domanda con un’altra domanda».
«Quanto sei noioso. Vorrei poter dire che sembri mio padre». Gli occhi cobalto si scontrarono finalmente con i suoi. Non seppe perché tirò fuori quella frase. Non aveva mai pensato a chi potesse essere suo padre, a che tipo di uomo fosse. Possedeva solo quel documento che Sarah le aveva lasciato. Avrebbe voluto trovare sua madre. In fin dei conti era andata in California per quello in principio, ma mai prima di quel momento si era soffermata a pensare a quale figura paterna le avesse dato la vita.
Mamoru, che della sua vita si rese conto di non sapere nulla, tacque. Perché mai qualcuno avrebbe dovuto dire una cosa del genere?
«Ho accompagnato Usagi a casa di Michiru con Hotaru. E ho cercato di sistemare mia figlia…» sospirò pesantemente. «Da quando sono qui, sono un padre davvero poco presente» era rammaricato per il poco tempo passato con lei. Rammaricato perché non poteva dedicare tutto se stesso a quella piccola cosa preziosa che gli aveva dato la forza di andare avanti dopo Serenity.
«Non sarai mai peggio di uno che suo figlio l’abbandona» sentenziò Haruka con un sospiro pesante.
Seguì uno strano silenzio tra i due, interrotto dal gracchiare di Setsuna alla ricetrasmittente della bionda che richiamava gli artificieri all’attenzione.
 
«L’incendio è spento. Potete entrare nell’edificio accompagnati da qualche pompiere per verificare perché diavolo siamo tutti qui. Dopo di voi entrerà la scientifica, perciò ragazzi…mani a posto!».
 
«Ricevuto». Haruka schioccò la lingua, lanciando il ghiaccio e i rayban a Ray, quasi fosse un galoppino, che preso alla sprovvista mancò la presa ritrovandosi ad imprecare tra i denti.
«Avete sentito ragazzoni? Si entra in scena».
 
 
§§§
 
 
Lui non doveva essere lì. Non era stato chiamato come gli altri sulla scena perché non c’era nulla che gli competesse. Eppure, preso in contropiede da quell’ordine che aveva messo fine a quel caos catastrofico che avevano creato nel locale, si era lasciato trascinare dalla corrente ritrovandosi sul posto.
 
Blackout. Il pugno che gli aveva assestato Haruka aveva rischiato di metterlo k.o. Lo aveva colpito senza preavviso, era arrivato con la scarica di un fulmine che colpisce il terreno durante un forte temporale.
Rei e Michiru si erano messe in mezzo. Un groviglio di mani e braccia tentava di contenere quella follia e rabbia incontrollata che era scaturita all’esterno da entrambi traducendosi in colpi andati poi a vuoto.
Ma non erano bastate loro. E nemmeno Yaten che gli aveva urlato addosso ancora una volta come un randagio appestato dalla rogna. Era cresciuto il suo fratellino. Seya doveva ammetterlo. Sebbene fosse ancora un ragazzo, il mare e la solitudine lo avevano temprato più che una gitarella in caserma. Il loro vecchio, sebbene ammirasse le personalità forti, avrebbe avuto da ridire. Per lui il rigore e il rispetto erano tutto e Yaten non avrebbe più chinato il capo ma piuttosto gli avrebbe ringhiato contro.
E in quanto a lui? Anche Seya lo avrebbe deluso. Perché uno come lui non avrebbe di certo dovuto provocare una rissa per il gusto di far lo sbruffone.
 
Le labbra del poliziotto dinnanzi a lui emisero un altro suono che però Seya non udì. Quel discorso era stato ovattato da inizio a fine perché il giovane era preso da tutt’altro.
«Certo, ho capito» sentenziò. Frase di rito che sapeva far sempre centro, qualunque cosa gli fosse stata detta.
Lo scroscio dell’acqua s’interruppe e Seya guardò la squadra dei pompieri fermarsi.
Avevano estinto l’incendio, ma il puzzo di bruciato sembrava essersi attaccato alle narici dei presenti senza volerli mollare.
Recuperò un paio di caffè da un thermos abbandonato sul cofano di una delle volanti. Era incredibile come gli agenti, nonostante le emergenze, avessero ovunque e sempre a portata di mano quel liquido nero.
Si destreggiò tra la folla in divisa, ignorando i nastri o le transenne apposte, arrivando sino a Rei, che con la divisa slacciata da cui spuntavano gli abiti indossati per la serata, faceva avanti e indietro dall’auto pompa coordinandosi con la propria squadra.
«Penso sarà una lunga nottata» disse porgendole il bicchierino in plastica.
Rei si bloccò, asciugandosi la fronte e riprendendo a respirare.
«Bollente. Oserei dire». Si riferiva all’incendio, al caffè, alla rissa e a ciò che c’era stato prima. A quello strano incontro iniziato con un drink sprecato su una camicia firmata e finito in cerca del piacere con uno sconosciuto.
Sorrise, accettando il caffè e prendendone un sorso. «Grazie».
Seya ricambiò il sorriso, ma non appena tentò di bere il liquido caldo si trasformò in una smorfia dolorante per il labbro tagliato.
Rei arricciò il naso come a soffrire un po’ con lui.
«Molto male?».
«Naa» rispose lui rinunciando al caffè.
«Se vendi la camicia un plastico lo rimette a posto».
«Non occorre vendere la camicia».
«Pagano così bene in polizia?» lo prese in giro lei.
«Non sono un piedi piatti» rispose lui. Tenendosi per sé il fatto che avrebbe potuto anche oziare per l’intera vita e vivere di rendita.
«Nemmeno un artificiere» constatò Rei.
«Nemmeno».
«Quindi sei uno stalker?».
«Cosa te lo fa pensare?».
«Il fatto che sei ancora qui».
Gli venne da ridere. Aveva fegato da vendere e una lingua pungente la morettina.
«Non sapevo fossi amica di Haruka». Seya posò lo sguardo sullo scheletro del piano di sotto del palazzo.
«E io che fossi l’uomo di un’altra».
«È un problema?».
«Se non lo è per te perché dovrebbe esserlo per me?». Rei alzò le spalle, strizzando il bicchierino di plastica.
«Non sei come quelle amanti che fanno le scenate perché l’uomo con cui si divertono non si decide a divorziare?».
«Mh. Siamo già a questo punto? Mi sono persa il resto della storia. Forse sei un maniaco sul serio. Visto che non mi hai risposto in merito a questo».
«Sai, abbiamo saltato un po’ di passaggi».
Rei si levò la giacca. Faceva un caldo da impazzire nonostante fosse ancora notte.
«Tu dici?» lo schernì.
«Cominciamo dall’inizio». Seya allungò la mano verso la sua per stringerla in un gesto di presentazione. «Seya, piacere».
«Mmh» lei dondolò un po’ con la mano ancora stretta a quella del giovane. «Fammi capire è l’inizio del tuo romanzo mentale in cui io finisco per essere l’amante in crisi mistica?».
«È solo una presentazione. Ma se preferisci possiamo trovare un altro bagno senza sapere come ci chiamiamo».
Rei avvampò. Avvertì il rossore salirle sino alle guance. E il suo corpo ricordò come i polpastrelli e le labbra dell’altro l’avessero percorso senza scrupoli sotto agli indumenti.
 
«Kou, possibile che devo cacciarvi tutti questa sera?». Setsuna lo richiamò all’ordine e lui ritrasse la mano, lasciando che Rei tornasse a respirare correttamente.
«Che ci fai tu qui?».
«Ero con tutti gli altri».
«Non ci sono vittime, feriti, né gente traumatizzata. Non puoi stare qui. E io non voglio passare per l’antipatica di turno. Ne ho già abbastanza di nomignoli sulle spalle».
Seya alzò le mani in segna di resa come a dire “okay”.
 
«Servono almeno un paio di voi che portino dentro quelle teste calde lì» Setsuna deviò tutta la sua attenzione su Rei che chiamò prontamente un compagno e fece per dirigersi verso il punto d’entrata.
«Seya» il moro si voltò nuovamente. «È Rei, il mio nome».
Lui accennò una smorfia soddisfatta.
«Alla fine il tuo nome me lo hai detto. Ricordi? Potrei essere uno stalker».
Lei rise piano facendo segno agli artificieri di seguirli e di stare attenti a dove mettere i piedi.
 
 
Haruka passando incrociò lo sguardo di Seya.
Si guardarono come due belve assetate di sangue, mentre Mamoru e Dan all’unisono la spintonarono per passare oltre.
 
 
§§§
 
 
«Piano, fate piano» intimò Rei a capo del gruppo. Lei e il suo compagno furono i primi ad entrare armati di torce nell’edificio.
Una rapida occhiata ai muri e al soffitto prima di procedere ulteriormente e permettere alla scientifica di entrare.
In mezzo ai calcinacci, lo scheletro dell’edificio emetteva un sinistro cigolio. Avevano i minuti contati e dovendo prestare la massima attenzione, il tempo a disposizione risultava preziosissimo.
Gli artificieri, abituati a dover agire sempre con un tempo limitato a disposizione si misero all’opera non appena ebbero il benestare dai vigili del fuoco.
Haruka, si chinò, cercando al di sotto di quel che rimaneva del mobilio qualche indizio che la riconducesse alla causa scatenate di quel falò notturno.
«Cercate di contaminare il meno possibile la scena» tuonò l’uomo a capo della scientifica.
Lei e Dan si lanciarono un’occhiata complice, mentre Mamoru si attenne scrupolosamente al protocollo.
 
Ripensò a come aveva chiesto ad Usagi un appuntamento.
Inginocchiato, come ad una proposta di matrimonio, per essere all’altezza del sofà dove l’aveva ritrovata. A bassa voce, come fosse un segreto, le aveva semplicemente detto “usciamo venerdì sera?” e lei aveva sgranato lo sguardo azzurro, proprio come reagisce una sposa novella alla vista del fatidico anello, per poi cominciare a snocciolare in modo convulso una lista di possibili scenari.
Lui dovette soffocare una risata prima d’intimarla a fare piano se non si fossero voluti ritrovare con entrambe le bambine sveglie e in preda al pianto per la stanchezza.
Devo essere uscito di senno. Per un momento aveva dimenticato la loro differenza di età. Ma poi quel numero diveniva un dettaglio insignificante il quel quadro generale e di fronte alla curiosità sincera che nutriva nei suoi confronti. Sebbene la prima volta avesse pensato che Haruka volesse rifilargli un tiro mancino presentandogliela, Mamoru, nelle rare occasioni in cui il destino lo aveva incrociato con i passi di Usagi, si era reso conto di essere vittima di una spensieratezza perduta da tempo in sua compagnia.
 
«Credo di averlo trovato» sentenziò Dan, indicando ciò che rimaneva di una busta gialla.
Immediatamente tutti si raggrupparono attorno a lui, puntando i propri fasci di luce sul cadavere rinvenuto.
«Guarda, guarda che lavorino…» biascicò Haruka. Pareva un avvoltoio che girava in cerchio ad una carcassa.
«Un tubo bomba…» sentenziò Dan grattandosi il mento.
«Deve esserci da qualche parte anche il timer. Sarà saltato in aria all’attivazione dell’ordigno» la bionda si guardò attorno alla ricerca del pezzo mancante, mentre Dan si assicurava che le rimanenze della bomba fossero stabili per essere raccolte e portate in laboratorio.
«Tre minuti, non di più…» li avvertì Rei controllando nuovamente la struttura ormai fragile.
 
Haruka alla ricerca del pezzo aveva gli occhi fissi sul terreno pieno di detriti. Cercò d’intuire una possibile traiettoria fino a che non venne distratta dalla mora che si affiancò a lei in quella ricerca dell’ago in un pagliaio.
«Pensi di tenermi il broncio?» chiese Rei sulle spine.
L’altra emise un rumore gutturale in risposta. Doveva rimanere concentrata e parlare di Seya non avrebbe giovato alla situazione.
«Si può sapere perché scatti sempre come una molla?» insistette l’amica, puntandole la torcia negli occhi per interrompere l’affannosa ricerca dell’altra.
Haruka si protesse le iridi con una mano, intimandola a toglierle di dosso il fascio di luce. Per un momento nell’oscurità vide solo macchie violacee. Sbatté le palpebre per poi strofinarsi gli occhi e guardarla.
«Non mi importa con chi te la fai Rei, lo sai. Io non posso certo farti la paternale». La bionda infatti, per quante stranezze avesse, attirava donne e ragazze come mosche. Nel tempo non si era mai certo fatta scrupoli per una notte brava con le donzelle più disparate. Aveva sempre vissuto al massimo come se dovesse recuperare il tempo perduto in precedenza.
«Quindi il problema è stato perché è l’uomo della tua nuova fiamma? Delle due la cosa dovrebbe dar noia a me, non a te».
«Oh quindi mi hai fatto un favore. Gentile da parte tua!».
 
«Ehm…ragazze…» Mamoru provò a farle smettere. Si erano girati tutti quanti poiché entrambe avevano alzato il tono di voce, ma venne prontamente ignorato.
«Non faranno a botte, vero?» chiese Dan con un filo di voce.
«Non credo» rispose Mamoru sull’attenti e pronto ad intervenire in caso avessero cominciato a tirarsi i capelli.
 
«Che problema hai?!». Rei alzò gli occhi in preda a un raptus isterico. Era al limite della sopportazione per le manie della migliore amica.
«Il problema è che mi preoccupo ancora per te!» sbottò l’altra, lanciando per la stizza la torcia a terra.
«Non mi piace. Non mi piace per niente» aggiunse Haruka ricalcando tutto il disappunto che scoppiettava fuori dalle labbra come un petardo.
«E si è capito! E io come facevo a sapere fosse lui?!».
«Perché te lo dico io, ADESSO».
 
«R-A-G-A-Z-Z-E».
 
«TU. ZITTO!» urlarono all’unisono le due puntandogli contro un dito.
«Stanno diventando pericolose» osservò Dan, mentre la scientifica avvisava di aver finito il proprio lavoro.
Setsuna lo avvertì via radio. Il tempo era scaduto.
 
«Se suo fratello è scappato e persino la moglie lo ha fatto, un motivo ci sarà. Non ti basta questo come avvertimento?».
«Non farmi la predica. Esci pure tu con una sposata. Ah, aspetta…è pure suonata!».
«Che hai detto?!».
«CHE E’ SUONATA».
Quando Rei perdeva le staffe la lingua andava a briglie sciolte senza curarsi di far terra bruciata attorno a lei. E Haruka, da parte sua, era un toro accecato dal color rosso che cercava ad ogni costo lo scontro come via d’uscita.
«RITIRA QUELLO CHE HAI DETTO!».
 
«Ragazze, andiamo». Era un brusio in sottofondo o forse nemmeno, visto che le due continuavano imperterrite a discutere animatamente senza curarsi del resto.
 
«Oh no. Ho offeso la tua nuova fidanzata…» ribatté con la voce quasi in falsetto Rei e una smorfia.
 
«Dai, HARU!» provò ad insistere Dan ormai all’uscita, visto che Mamoru non era stato minimamente calcolato e per di più zittito.
La sua voce però venne coperta, disperdendo nel nulla quell’incitazione ad uscire di lì, poiché un boato, simile a quello che provoca una scossa sismica vicino al suo epicentro fece tremare l’edificio.
Dan stese le braccia per tenersi saldo a quella che era stata la porta d’entrata dell’ufficio postale.
Un muro cedette sotto al peso dei piani superiori lesionati dall’incendio e una coltre di polvere si levò nell’aria costringendolo a tossire, mentre il soffitto crollava dividendolo dall’amica.
 
Quando il fragore di quella slavina di cemento terminò più nessuna voce risuonò all’interno della stanza.
Il silenzio calò nei toni caldi dell’albeggiare.
 
 
§§§
 
 
 
Le tinte dell’alba avevano fatto capolino. Makoto sedeva in veranda con lo sguardo perso verso l’orizzonte bagnato di un rosa acceso quasi accecante.
Non era riuscita a chiudere occhio una volta chiuso il bar, così, anziché rigirarsi in quel letto vuoto aveva deciso di godersi il fresco che solo quell’orario sapeva regalare prima che la temperatura divenisse torrida.
Con una tazza in mano e una coperta leggera sulle ginocchia prese a fissare il vialetto col roseto ben curato del suo vicino.
«Nevius, mi devi un po’ di risposte» biascicò tra sé e sé, con di sottofondo sotto il mugolio addormentato di Ronald accovacciato nella sua cuccia esterna.
 
Non se lo sarebbe fatta scappare. La moto era ancora parcheggiata lì e sicuramente a minuti sarebbe dovuto andare in pasticceria.
Non aveva programmato un attacco elaborato, perché quando c’erano di mezzo le emozioni nulla andava mai secondo i piani. E lei ne era colma. Aveva sentimenti contrastanti, alcuni dei quali indecifrabili e che forse non sarebbe mai riuscita a comprendere sino in fondo. Non da sola.
Quello che era certo era che aveva bisogno di risposte.
Uno stormo di rondini svolazzò nella via. L’auto di Michiru parcheggiò davanti a casa e un’ Usagi sbadigliante ma su di giri l’accolse stiracchiandosi oltre il cancello.
Makoto immersa in quella scena mattutina e avvolta dalla pace di cui solo l’alba è impregnata, quasi si fece scappare il cigolio di una porta che si apriva per poi richiudersi.
Le mandate all’uscio, il tintinnio di un mazzo di chiavi e i passi di Nevius che si accingevano a raggiungere la propria moto.
Lui si bloccò nel vederla in veranda a quell’ora e lei buttò lo sguardo verde intenso nel suo.
Non mi scappi.
Un brivido la prese in contropiede. Poggiò la tazza e dovette combattere con l’euforia che la stava pervadendo da capo a piedi. L’euforia di qualcuno che si sta gettando a capofitto in una situazione di cui non riesce a prevederne l’esito. Forse lui avrebbe chiamato la polizia, forse sarebbe finita in un istituto psichiatrico. Ma Makoto voleva tornare a dormire sogni sereni. Anelava a scoprire la sua vita precedente sebbene non l’avesse mai cercata ma, anzi, seppellita come un cadavere sotto tonnellate di terra.
Poi uno spiraglio, una porta socchiusa dalla quale non aveva resistito a sbirciare e che l’aveva fatta deragliare come un treno impazzito fuori dai binari di ciò che aveva costruito.
Andiamo, muoviti. Scattò sull’attenti, mentre lui accennò un saluto con la mano prima di allacciarsi il casco sotto al mento.
«FERMO!» urlò lei con la fretta nella voce.
Nevius si bloccò vedendola scavalcare con un balzo il suo impeccabile roseto.
«Dobbiamo parlare» l’anticipò prima che lui potesse dire qualsiasi cosa.
«Cosa ti porta a calpestare l’erbetta appena seminata nella mia proprietà?».
«Il fatto che tu mi debba un mucchio di risposte».
Lui salì a cavallo del suo ferro con tutta l’intenzione di mettere in moto.
«Ti vuoi fermare?».
«Devo andare al lavoro».
Il problema non era aprire in ritardo. Il problema era che doveva combattere ogni volta con l’istinto di non lasciarla andare mai più. Doveva allontanarsi prima di cedere.
«Sei il capo al lavoro nessuno avrà da ridere». Makoto lo minacciò con lo sguardo puntando le mani sulle manopole del manubrio.
A quel punto provò nuovamente quella sensazione di vuoto. Una sensazione di smarrimento e il rombo di un motore quasi assordante le trapanò le orecchie sebbene fosse tutto solo nella sua testa.
«Stai bene?». Nevius l’aveva vista tremare e subito scavallò dal sedile per invitarla a sedersi sul gradino d’entrata.
«Cosa ti prende?» domandò preoccupato, senza più quell’aria da sbruffone che aveva messo su poco prima.
«Perché ho un appartamento a New York?» domandò Makoto con le mani strette sul capo e gli occhi serrati alla ricerca dell’equilibrio che le era venuto improvvisamente a mancare.
«E io come faccio a saperlo?» lui deglutì. Forse lo fece troppo rumorosamente. Non era bravo a mentire, non a lei.
«Devi saperlo per forza. Ho un contratto che porta una firma che ha tutta l’aria di corrispondere al tuo nome».
Lui gelò e da chinino si sedette per terra accanto a lei.
«Quindi forza, sgancia la bomba. Cosa significa?».
«Non cambi proprio mai» sospirò lui scuotendo piano la testa. Un sorriso nostalgico gli si dipinse in volto. «Sei sempre quella che ottiene ciò che vuole».
Lei corrugò la fronte, ma subito le rughe d’espressione scomparvero nel momento in cui lui le sorrise.
«Hai aperto lo scatolone, vero?».
«Tu come fai a sapere che ho uno scatolone?!». La cosa stava diventando stranamente inquietante.
 
«Entriamo a parlare, d’accordo?».
 
 
 
§§§
 
 
Per raccontarle la loro storia dal principio alla fine, sarebbero serviti eoni probabilmente. Nevius non aveva idea di quale dovesse essere l’inizio del suo discorso, seppure si fosse esercitato davanti ad uno specchio per un tempo che oramai pareva infinito. Ogni mattina si era ripromesso di preparare un discorso per lei, per quando finalmente avrebbe ricordato. Ma nessuno, tanto meno lui, poteva sapere cosa effettivamente avrebbe ricordato e come avrebbe reagito.
 
Minako entrò guardandosi attorno. Il mobilio era lineare e inamidato, quasi non ci vivesse nessuno.
Lui le fece strada in cucina, invitandola a sedersi accanto alla finestra da dove si vedeva il suo giardino e Ronald seduto in veranda ad osservare il passaggio mattutino della via residenziale.
«Vuoi qualcosa?» chiese lui, dandogli un momento le spalle per accendere la macchinetta del caffè e tirar giù una serie di utensili da cucina.
«Tu sai cosa mi piace, vero?». Makoto non si preoccupò di risultare stupida o inopportuna. Non c’era nemmeno bisogno di metterlo alla prova perché sentiva che le cose stavano esattamente così. Che lui la conoscesse meglio di quanto lo potesse farlo lei stessa.
«Caffè nero bollente…Non ti piace quando si raffredda. E poi pancakes allo sciroppo d’acero». Nevius lo aveva detto senza alcuna incertezza nella voce, come fosse un’ovvietà. Un’abitudine ben rodata.
Makoto rimase in apnea. Le faceva strano starsene lì con uno sconosciuto che sapeva benissimo cosa le piacesse.
Incrociò le dita delle mani tra di loro poggiandole al grembo in attesa di scoprire il resto.
«Cosa vuoi sapere, Makoto?».
Non sapeva da dove cominciare nemmeno lei. C’era una domanda più importante delle altre forse?
Lui armeggiò con destrezza, tra uova, farina e padella. Si notava era un pasticcere. Più che cucinare sembrava stesse danzando con movimenti misurati delle braccia e lei si ritrovò incantata come non avesse visto niente di più magico che la preparazione di una colazione in tutta la sua vita.
Il gorgoglio del caffè e lo sfrigolare della padella la distolsero da quella sorta di trans nel quale era caduta per un breve momento.
«Et voilà» la servì lui, mettendole sotto al naso piatto e tazza fumante.
«Ne bevi sempre un po’ troppo» commentò lui con un’occhiata al caffè per poi prendere posto di fronte a lei.
«Come sai tutte queste cose di me?».
Lui sospirò pesantemente quasi dovesse liberarsi finalmente di quel segreto taciuto sin troppo.
«Perché ci conosciamo molto bene…».
«Quanto, bene?».
«Tanto da starci per sposare, Mako-chan» quel nomignolo gli sfuggì dalle labbra senza che potesse tenerlo ancora rilegato sotto alla lingua.
Makoto sbiancò, lasciando cadere le posate sul pavimento.
«Il contratto che hai trovato…quello con la mia firma, è il contratto della nostra prima casa».
 
§§§
 
 
 
«Voglio che ci facciamo una promessa».
«Cos’è una promessa?».
Rei corrugò la fronte prima di scoppiare a ridere in faccia a quella che era stata la sua compagna di viaggio in quella fuga dalle proprie origini.
«È una specie di giuramento. Qualcosa che niente potrà scalfire, sciogliere o rompere».
«Parli troppo difficile per una come me, ma okay». Con ancora indosso i vestiti da Amish del fratellastro, Haruka la guardò confusa.
Sul molo, il mare s’infrangeva contro la palizzata di legno e il sole calava splendente all’orizzonte, proiettando le loro ombre sul suolo.
Non avevano ancora una casa. Solo una sacca piena di cianfrusaglie, un documento di adozione e una manciata di propositi.
Rei alzò la mano destra, tirando il più possibile in alto il proprio mignolo.
«Fai così» la incitò ad imitarla fino a che le due piccole dita smilze non s’intrecciarono.
«Cosa promettiamo?» domandò Haruka nascondendo lo sguardo sotto alla frangia spettinata. Non lo aveva mai fatto prima e in cuor suo sapeva essere qualcosa che avrebbe rispettato fino alla fine dei suoi giorni.
«Di essere amiche per sempre. Qualunque cosa accada. Promettiamo di non lasciarci mai».
Haruka tirò le labbra in quello che fu uno dei suoi primi sorrisi.
«Promesso».
«Non andrai mai via senza di me, quindi?» chiese divertita la mora.
«Hai detto che una promessa non s’infrange. Quindi è così…rimarremo sempre assieme. L’una al fianco dell’altra».
 
 
 
 
Note dell'autrice:
Bella gente, ciao! Come al solito chi arriva alla fine dei miei capitoli e non molla è sempre un temerario. Complimenti!!! Mi spiace di aver temporeggiato così a lungo sul capitolo. La maggior parte era già stata scritta prima della mia partenza per le vacanze. L'ho appena concluso anche se forse vi avevo promesso qualcosa in più. Ma sapete...è inutile che programmi qualcosa. Preferisco scrivere secondo il mio istinto e magari aggiungere pian piano altre vicende. 
Per chi mi segue da un pò sa che sono un'autrice catastrofica e che spesso e volentieri fa fuori alcuni dei propri personaggi. Sto combattendo con questo istinto da un pò, ma chi può dirlo...In ogni caso mi auguro vi sia piaciuto il capitolo ;P Alla prossima
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 20
*** Che rumore fa l'oceano? ***




 
 
Il cielo rischiarava illuminando le incertezze di Minako.
«Quindi…finisce così?» mormorò lei, lasciandosi andare ad un lungo e pesante sospiro.
Quel momento, quello per cui si erano trovati, era passato. Avevano suonato cercando gli occhi l’uno dell’altro su quella canzone che era il bambino di entrambi. E quello, quel momento, era stato magico. Irripetibile. Ma era andato. Finito. Ed ora cosa rimaneva? Loro, esistevano ancora?
La morsa della malinconia l’attanagliava allo stomaco. Si sentiva come fosse lontana anni luce da Yaten e da quel loro rapporto che non aveva avuto alcuna definizione.
«Forse». Aveva risposto lui, lasciando cadere la sua voce nel vuoto.
La ragazza sentì tutto il peso della tensione e della stanchezza scivolarle addosso. Dapprima sulle palpebre e poi sul resto del corpo sino ad arrivare alla punta delle dita.
Lanciò un'altra manciata di briciole in acqua e un piccolo stormo di gabbiani scese in picchiata nelle vicinanze.
Si voltò verso di lui, esausta.
Yaten comprese il suo sguardo. Voleva fosse più esaustivo.
«Forse abbiamo solo fatto una performance pazzesca. Forse…abbiamo convinto qualcuno. Non puoi pretendere che venissero subito a stringerci la mano. Dagli tempo».
Minako si sentì confusa. Cos’era quella? Fede cieca? Ottimismo? C’era stato un cambio di ruolo inaspettato?. Chi era chi? Tutto quel turbinio di domande la fece riflettere sul fatto di aver solo scalfito la superficie della complessa personalità del ragazzo.
E ciò non fece altro che alimentare il suo desiderio di conoscerlo. Di godere ancora un po’ del tempo a loro concesso. Come se ci fosse un’inevitabile scadenza al loro stare assieme.
 
«Che hai?» domandò lui vedendola strana.
«Posso chiederti una cosa?».
«Ho forse scelta?» domandò con uno sguardo di sfida.
 
Lei inclinò il capo accennando un sorriso, ignara che quella fosse la debolezza di Yaten.
 
«Hai navigato a lungo. In mare aperto. Per giorni e notti, senza fermarti in un porto. Fino ad ora, fino a fermarti qui».
«Giusto» asserì lui, passandosi distrattamente una mano fra i capelli.
 
Lei fece un passo per avvicinarsi. L’aria frizzantina le scatenò la pelle d’oca. O forse era il suo sguardo. Perché come ogni volta che lui la guardava dritta negli occhi, lei si smarriva.
 
«Raccontami».
Lui strizzò un occhio confuso, emettendo un sospiro prima che lei lo interrompesse finendo la frase.
«Che rumore fa l’Oceano di notte?».
 
 
 
§§§
 
 
 
Il gallo della modesta abitazione accanto al loro fienile cantò una volta ancora.
Haruka si strofinò gli occhi intontita dal sonno.
Il cielo terso del Kansas illuminava le sue grandi pianure accecando chiunque tentasse di spiarne la lucentezza.
Mugulò stiracchiandosi, alzando lo sguardo alle travi in legno bucate dai tarli sopra alla sua testa.
 
 Il secchio accanto al giaciglio di paglia era pieno di acqua pulita che Sarah aveva amorevolmente cambiato alle prime luci dell’alba, così che lei potesse lavarsi il viso. Lei, sapeva che Haruka spesso si rifugiava lì piuttosto che al piano di sopra dov’era stata allestita una cameretta povera e scarna come si addice ad una bambina Amish. Ma ad Haruka le bambole senza volto di pezza non piacevano affatto. Era come se la fissassero nonostante la mancanza degli occhi. Non capiva come le bambine amish potessero starsene ad acconciarle con trecce o a portarle in giro come fossero preziosi tesori.
Erano inquietanti. Senza identità.
E lei chi era? Se si soffermava su quel pensiero aveva poche risposte a cui aggrapparsi. Forse qualcuno un giorno l’avrebbe trovata inquietante proprio come quei fantocci anonimi?
Balzò in piedi, scrollandosi di dosso il sonno e con quello tutti quei pensieri.
 
Di prima mattina, quando il gallo cessava il suo canto, si poteva udire lo scroscio possente del fiume Missouri e Haruka smaniava per correre lungo le sponde umide per tentare di catturare a mani nude qualche pesce. Perché lei non sapeva nulla di se stessa se non che era come una raffica di vento irriverente. Uno spiritello dispettoso di qualche leggenda nordica.
Allargava le braccia, continuando a correre sino a rimanere senza fiato, con gli occhi chiusi, inclinando il corpo leggermente come a virare, fingendo di essere un’aquila, sognando di planare con un paio d’ali enormi in aria,  bagnandosi nell’azzurro di quel cielo che vegliava sul suo capo.
 
«Haruka!» una voce la chiamava in lontananza. Forse Sarah che si preoccupava bevesse quanto meno un bicchiere di latte appena munto.
Ma Haruka non ascoltava, troppo presa dalle sue fantasie di bambina.
 
 
§§§
 
 
Michiru stava per coricarsi quando accese la televisione.
Le serviva un sottofondo per inebetire i pensieri che spintonavano nella testa impedendole di cedere subito nonostante la stanchezza.
Si sistemò sul divano, tirandosi una coperta sino alle spalle, godendo per un momento della flebile luce dell’albeggiare che la salutava dalla finestra.
Emise un sospiro pesante come un macigno.
Pensava ad Haruka. Al momento in cui avevano ballato e niente era stato più lo stesso. C’era il suo tocco, il suo sguardo intenso che scrutava nel blu dei suoi occhi adornato di mille piccole scintille a causa del riflesso delle lucine nel locale.
Sarebbe potuto crollare il mondo in quel momento e lei non si sarebbe accorta di nulla in quella bolla temporanea simile ad un sogno.
«Sembri Usagi. Riprenditi…» mugugnò, tentando di convincere la se stessa un po’ più adulta e accovacciandosi meglio.
A breve Hotaru si sarebbe svegliata e avrebbe reclamato la colazione e lei doveva assolutamente chiudere occhio.
Fu in quell’istante; quando serrò le palpebre e il sonno sopraggiunse che le parve di sentirla. La presenza irriverente di Haruka, il soffio caldo che l’aveva solleticata quella volta in palestra prima di quel bacio maldestro.
Per un attimo la vide. In quel frangente di sogno che si mescolava ai ricordi. Con i capelli spettinati dal vento, scesa dall’auto per controllare stesse bene. Era tremendamente bella. E Michiru un pensiero così su un’altra donna non lo aveva mai fatto. Spesso se ne dimenticava. Scordava cosa fosse per scovare chi fosse realmente.
«Lasciami in pace…» sospirò in quel leggero sonno che via via stava per trascinarsela lontano dal mondo reale, da quel nuovo giorno.
Morfeo le aveva stretto i polsi ormai, c’era quasi riuscito a prenderla. Sino a che una voce in sottofondo non la costrinse a riaprire gli occhi.
La conosceva.
Setsuna. Una certezza che le attraversò le sinapsi come un fulmine a ciel sereno.
 
Alla televisione una mandria di giornalista la stavano assalendo con i loro microfoni.
Michiru si drizzò col cuore in gola scoprendo che a qualche chilometro da lei erano sprofondati all’inferno.
 
 
 
§§§
 
 
 
Setsuna aveva assistito impotente a quello spettacolo catastrofico.
Aveva visto il palazzo sgretolarsi come un castello di sabbia sotto al suo naso e ogni muscolo del suo corpo parve come paralizzato.
E nonostante da bambina non volesse fare la principessa, lei lo aveva imparato. Dove c’è un maledetto castello esiste anche un principe. E il suo era ancora là dentro. In quello che era venuto giù con una facilità tale da credere di essere intrappolati in un incubo nel bel mezzo della notte.
 
«Oh Cristo santo…».
 
Tutti gli agenti si erano riparati il volto ed alcuni erano ancora chini all’interno delle volanti, increduli a quello che si palesava dinnanzi ai loro occhi.
Solo lei era rimasta in piedi. Impassibile. Mentre una nube grigiastra si alzava nell’aria impedendo la vista di ciò che rimaneva di quella carcassa.
 
«Li ho uccisi. Li ho uccisi tutti…» boccheggiò, sentendosi venir meno l’aria ai polmoni. Si portò le mani alla bocca riuscendo finalmente ad uscire da quella sorta di paralisi che l’aveva pervasa nel momento in cui il boato aveva assunto anche una forma fisica.
«Capo Meiō. Capo Meiō, cosa facciamo?»  chiese nel panico uno degli agenti che le era accanto.
Lei lo ignorò, cominciando a correre verso la nube.
Se l’istinto umano dell’auto conservazione faceva scappare più lontano possibile le persone da quelle situazioni, lei, come una carpa, andava contro corrente.
«Meiō chiama Harris, rispondi».
Parlò nella ricetrasmittente senza riuscire a comprendere cosa stesse dicendo.
Doveva raggiungerli.
Dovevano essere vivi.
Sentì la gola bruciare e il respiro venirle meno. Cambiò stazione e comunicò di chiamare un’ambulanza sul posto.
Dovette chiudere gli occhi per la polvere, avanzando ancora anche se alla cieca.
«Chiba. State bene? Qualcuno mi risponda. Cazzo».
Silenzio radio. E la sensazione di star camminando nel bel mezzo di un cimitero.
Setsuna sentì solo il suo cuore. Una marcia di tamburo talmente assordante che rischiava di farla impazzire.
Forse sarebbe svenuta da quello strazio che stava scavando un tunnel profondo dentro di lei. Forse sarebbe morta per il senso di colpa perché non sarebbe riuscita ad uscirne come aveva fatto Michiru.
Quanta forza ci voleva per essere come lei?
Gettò a terra la radiolina, con un rantolo disperato fino a che non venne colpita.
 
Cercò di aprire gli occhi nel bel mezzo di quella nebbia e non poté crederci.
Era Dan. Imbiancato da testa ai piedi di calce e chissà cos’altro che l’aveva presa prima che potesse inciampare nei suoi stessi piedi.
«Dan, oddio…». Gesticolò stranamente, quasi non avesse idea di come comportarsi. I suoi movimenti non avevano più una connessione col cervello tanta era l’incredulità del trovarselo davanti in piedi. Statuario. Sano e salvo.
Uno dei macigni sembrò scivolarle giù dalla gola fino a rotolare altrove a quella sorpresa.
«Setsuna… No, capo Meiō…» si corresse in preda all’agitazione. «Cosa ci fa qui? È venuto giù tutto. E’ pericoloso».
«Lo vedo, idiota». L’insultò lei con la voce spezzata battendo i pugni contro il suo petto.
Stava cedendo come quelle fondamenta. Si ritrovò incapace di reggere tutte quelle emozioni che l’avevano colpita come proiettili nei suoi punti vitali.
«Pensavo fossi morto» poggiò la testa al suo petto, ignorando tutto il resto. Piangendo.
«Pensavo di averti ucciso per la seconda volta».
Tutto il peso di quelle responsabilità, il peso di tutte quelle vite umane la stava schiacciando. E lo faceva tutto in una volta, senza preavviso. Senza che potesse difendersi come aveva fatto sino a quel momento.
«Sono un eroe ricordi?».
«Ti avevo detto di non fare cose stupide o avventate».
«Infatti ti ho ascoltato, sono uscito e…».
Setsuna si asciugò il volto alzando lo sguardo. Si schiarì la voce e guardò alle sue spalle.
«Dov’è quella piattola di Ten’ō?».
«Haruka» lui sembrò rinsavire. Entrambi avevano come ricevuto un colpo in testa per ritrovarsi catapultati nuovamente alla realtà.
«Stavo correndo per chiedere aiuto per lei».
Setsuna sbiancò.
«Lei e Rei sono ancora là dentro. Là sotto». Sottolineò lui. Prendendo nuovamente coscienza dello scorrere del tempo.
«Ho chiamato l’ambulanza» lo rassicurò Setsuna con voce tremante.
Doveva respirare e riprendere in mano la situazione.
«Abbiamo perso le radio. Hanno già cominciato a scavare. Abbiamo bisogno degli altri» spiegò come un fiume in piena Dan.
«Ok. Corri» lo intimò lei scambiandosi un ultimo sguardo prima di vederlo allontanarsi.
 
 
Setsuna respirò a fondo. Chiamando a raccolta tutto il contegno di cui poteva essere provvista.
Sarebbero arrivati i giornalisti e l’avrebbero azzannata come lupi.
 
 
 
§§§
 
 
«Vuoi saperlo sul serio?».
L’oceano, di notte, aveva il rumore della solitudine più profonda. Di un pozzo buio in cui si rischia di annegare e non ritrovare più se stessi.
Quello era il suo suono per Yaten. Ma se ci si metteva a riflettere a fondo, probabilmente il mare aveva una voce più articolata che cambiava a seconda dello stato d’animo dei marinai. Ma come poteva spiegarlo a Minako?
Lei era lì, con gli occhi curiosi di una bambina in attesa della favola della buona notte.
«Che razza di domande…» schioccò la lingua lui.
«Oh Yaten, dai. Non farti pregare!» lei si avvinghiò al suo braccio con un gesto istintivo.
Il ragazzo sospirò e trascinandosela in quella posizione risalì a bordo della sua piccola imbarcazione.
«Mh, vediamo».
Minako venne pervasa da un capogiro a causa del dondolio della Blue Lagoon, ma era sinceramente curiosa della risposta dell’altro per prestarci attenzione.
Lei aveva deciso che voleva sapere tutto. Anche il dettaglio più sciocco che lo riguardava prima di andare. Se le loro strade si fossero dovute dividere allora voleva essere convinta di conoscerlo davvero. Di poter vantare quel privilegio.
«A volte è come un rombo. Un gorgoglio forte e scuro».
«Quando è in tempesta?».
Lui accennò un cenno affermativo col capo. Ricordava il rumore sordo e secco delle onde battere prepotentemente contro la fiancata. Il ponte bagnato e le onde talmente alte da aver paura di scomparire in quel nero pece liquido.
«E quando non lo è?» domandò lei come ad incitarlo a continuare.
«È…una tavola piatta e scura se non c’è la luna. Quasi un fruscio. Se invece è una notte serena brilla di fasci argentati, ma il suono è sempre lo stesso. Una nenia pacata…» la mente scivolò altrove. Lui sembrò quasi estraniarsi e ritrovarsi sdraiato nel bel mezzo del nulla a fissare il cielo puntinato di stelle. Col vento freddo e il nulla più assoluto davanti a lui.
«E come ti faceva sentire?» lei lo guardò negli occhi prendendogli la mano. «Solo?».
Yaten deglutì forse troppo rumorosamente. Dove voleva arrivare e perché si sentiva strano? Perché lei lo confondeva talmente tanto da non riuscire più a distinguere le sue emozioni?
«Che piattola che sei». Cercò di scrollarsela di dosso con tutto quel carico emotivo che lei gli stava lanciando addosso.
«Ma io voglio saperlo!» protestò.
«Perché?» domandò seccamente. Non amava che qualcuno scavasse così a fondo dentro di lui. Forse perché nessuno ci aveva mai provato. Eppure, per quanto scontroso apparisse o si comportasse da indolente tutto voleva tranne che lei si allontanasse. Che andasse via e lo riportasse alla noiosa e solitaria routine in cui aveva sguazzato prima del suo arrivo.
Lei s’imbarazzò alla domanda di Yaten e dovette abbassare gli occhi per un attimo, incapace di reggere allo sguardo ipnotico del ragazzo.
«Voglio solo…».
«Che cosa?».
«Voglio solo non perdermi niente di te».
«Parli come fosse un addio» ne convenne.
«Non lo è? Se non ci chiamassero. O ci dicessero che siamo andati male. Se io avessi rovinato il tuo sogno. Tu, vorresti ancora passare del tempo assieme? Non torneresti a percorrere la tua strada?».
L’espressione del ragazzo mutò trasformandosi in una smorfia indecifrabile.
«Cavolo bionda» esordì. «Tu pensi che io me ne vada in giro a baciare chiunque?!».
Era arrabbiato. Minako lo aveva capito dall’incrinatura della voce. Non era una rabbia selvaggia come quella che riservava a Seya, non era rancoroso. Era più che altro deluso, probabilmente.
«Come ho già detto, non sono un maestro con le parole. Le so mettere solo in musica, d’accordo?».
«Yaten, io…» lei boccheggiò ma venne zittita dall’impeto che il ragazzo stava mettendo in quel discorso. Probabilmente il più lungo della sua vita.
«Ma credevo non fossi stupida Mina. Insomma, ti ho portato nel mio posto, ti ho baciata più di una volta. E…oh cavolo!». Alzò le spalle, lasciando che le braccia si alzassero sulla sua testa per poi ricadere lungo il suo corpo.
«Non ci posso credere. Io ti sto persino dando delle spiegazioni!». Calciò la barca, ignorando il male che l’urto gli provocò al piede.
Faceva schifo nelle relazioni. Aveva preso davvero dai suoi parenti. Era così geneticamente tarato da non riuscire a far comprendere ad una ragazza i suoi sentimenti. Ed era difficile sputare fuori dalla bocca quello che sentiva.
Ma credeva che Minako lo avrebbe compreso, perché lei era stata diversa sin da subito.
«Calmati…» gli si avvicinò come fosse un animale pericoloso. «Scusami, io sono stata sciocca. Ho solo paura, credo». Le labbra si tirarono in quello che somigliava ad un debole sorriso e bastò per fermare quella rabbia cieca. Bastò per rabbonirlo e sedare il suo spirito bollente.
«Vuoi sapere che rumore fa l’oceano?!» la voce gli graffiò la gola. Yaten allungò una mano e prese il palmo di Minako per poi metterlo all’altezza del suo petto.
«Lo senti?» chiese. «L’oceano è un sibilo in confronto a questo».
Aveva il batticuore. Forse gli sarebbe venuto un infarto e la colpa era solamente di Minako e del suo stupido sorriso. Di quegli occhi blu gentili che lo guardavano come fosse un angelo caduto dal cielo o qualcuno di speciale.
Le lasciò la mano per portargliela dietro al collo e baciarla.
Chiuse gli occhi e come scomparve il mondo circostante, lo fece anche quella delusione che l’aveva colto un istante prima. Perché era quello il suo posto. Con le labbra incollate a quelle di Minako.
Lei si lasciò andare. Cingendogli le spalle con le braccia come per ingabbiarlo impedendogli di fare il gabbiano e volare altrove.
Forse lei era stupida e lui incomprensibile ma in comune avevano di non poter più esistere l’uno diviso dall’altra.
 
«Mi fa fatto sentire solo l’oceano. Tremendamente solo» sibilò lui col fiatone, scostandosi appena dal viso di lei.
«E Mina, non mi voglio più sentire così».
Lo aveva detto. Aveva confessato tutto senza doverci girare troppo attorno. Ed era stato stranamente semplice.
«Non dovrai più farlo» soffiò Minako. «Non finché ci sarò io».
«Stai dicendo che rimarrai. Lo sai?» la presa di lui si fece più salda e scivolò dietro ai suoi fianchi.
«Certo».
«Rimani?».
«Rimango».
 
Una promessa per lui era sufficiente. Le credeva perché sapeva che lei lo aveva detto sentendolo.
Un altro bacio per sigillare quel giuramento e Minako lo spintonò giù per gli scalini in legno, fino alla stanzetta che era stata il loro riparo. Il loro inizio.
Lui la sollevò da terra senza più sapere nemmeno dove si trovassero.
Voleva solo non lasciarla più.
E lei desiderava solo sentirlo addosso, così vicino come non lo era stato mai.
All’improvviso non c’era più nessuna clessidra a scandire il loro tempo assieme. Nessuna paura. Nessun tormento.
C’erano il tocco di Yaten sulla sua pelle e le mani di Minako nei suoi jeans.
 
C’era ancora una volta solo il mare come testimone silenzioso a quell’amore impetuoso come una tempesta.
 
 
§§§
 
 
Haruka non si stava chiedendo come fosse giunta sino a lì.
Lo conosceva quel posto. Era la tavola calda alla quale sgattaiolava di nascosto quando riusciva a scappare per qualche ora dalla comunità.
Aveva indosso i Jeans che teneva nascosti nella valigia sotterrata a un paio di chilometri da “casa”.
Aveva indosso il peccato che Sarah, aveva compiuto per farla felice.
Se esisteva un paradiso, l’anima di Sarah non sarebbe potuta andare altrove per lei. Anche se Amos non condivideva la sua teoria.
Ma loro non avevano nulla in comune. Forse Haruka, per la verità, non aveva nulla in comune proprio con nessuno.
A lei piacevano gli inglesi[1].  Le piacevano le canzoni alla radio di quel jukebox anche se gracchiavano un po’.
Quel posto desolato nella campagna del Kansas accoglieva i viaggiatori e alcuni cowboy intenti a bere birra e a sputacchiare arachidi.
Era il tipo di posto dove si fermava Bob.
Era il tipo di posto che le aveva permesso di fuggire.
 
Haruka si fermò sulla soglia.
Vide Rei seduta a un tavolo dall’altra parte della sala.
Fece per avvicinarsi a lei sino a che qualcuno non la chiamò di nuovo.
Non era Sarah. Ma conosceva quella voce.
Rei alzò lo sguardo. La salutò con la mano e il viso felice di chi è contento di rincontrare finalmente una faccia amica.
Loro però non erano mai state lì insieme.
Loro si erano incontrate durante una fuga quando erano più piccole.
«Vieni a sederti, Haruka!». Rei si sgolò sbracciandosi.
 
Haruka fece nuovamente per raggiungerla ma qualcuno la fermò prendendola per il polso.
Erano delle belle dita, lunghe e affusolate.
«Haruka…».
Lei abbassò lo sguardo e nel suo campo visivo una cascata di onde blu fece la sua comparsa.
«Resta qua. Non andare».
Era Michiru che la implorava.
 
Ma perché mai Haruka avrebbe dovuto allontanarsi dall’amica? Non potevano sedere assieme tutte e tre?
 
«Michiru?! Cosa ci fai qui?» domandò in preda alla sorpresa.
«Sono qui per te, sciocchina». La sua presa si fece più lenta. Michiru batté piano la mano sul tavolo.
La cosa strana è che non fece alcun suono nel farlo.
«Siediti qui con me».
Ora che ci faceva caso nemmeno il parlottare degli avventori era udibile. Né tantomeno la musica del jukebox.
Ma per quanto le cose le paressero irreali, Haruka, tendeva a perdere quei particolari subito dopo averli raccolti.
«Rei mi aspetta» sentenziò.
Michiru parve rabbuiarsi. «Anche io».
Haruka tentennò.
 
Avvertì un fischio lontano poi solo il canto sempre più vivido dell’oceano.



Tre.
Due.
Uno...libera!
 




Note dell'autrice:
Sicuramente non il mio capitolo più riuscito. Purtroppo ho zero tempo per scrivere e anche solo questo è stato un parto.
Avrei voluto scrivere di più di tutti, ma ho preferito "tagliare corto", mettere meno cose e pubblicare visto l'attesa tanto lunga. Spero di ritrovare un pò di calma per poter scrivere uno dei miei poemi al più presto.
Sono conscia del fatto che ci siano tantissimo Yaten e Minako ma li avevo saltati di pari passo nel capitolo precedente perciò ho dato la priorità a loro. So già che è la storia infinita perciò prima o poi tocca a tutti.
Grazie a chi ancora sarà qui a leggere a supportarmi!

 
 
 
 
 
 
 

[1] Gli Amish sono soliti chiamare inglesi gli stranieri o le persone al di fuori delle loro comunità.

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Capitolo 21
*** September ***


Era settembre.
Per quanto la calura della California persistesse oltre l’estate, agosto aveva fatto capire di aver salutato tutti con un pallido cenno della mano, mozzando il pesante e caldo respiro del Santa Ana.
Il cielo era terso quella mattina. Il sole era sorto alla linea di confine blu dell’Oceano bagnando di luce dorata la cresta delle onde che si stagliavano contro la costa rocciosa di Malibu.
 
Makoto era a cavalcioni della tavola da surf. Seduta con la schiena dritta, lasciandosi cullare dalla marea calma del mattino. Godendosi il canto dei gabbiani e socchiudendo gli occhi in contemplazione di quella pace che di lì a poco sarebbe cessata con l’avvento della folla in spiaggia.
Accanto a lei, Nevius. Con la sua statura imponente, i capelli lunghi bagnati e i bermuda scuri, pareva un tritone uscito da qualche saga dei supereroi DC.
Vegliava su di lei; silenzioso. Come se qualcosa potesse spuntare da un momento all’altro ed aggredirla strappandogliela via ancora una volta.
 
Era trascorsa lenta una settimana dalla rivelazione della vita precedente a cui Makoto era stata sradicata bruscamente. E lei, improvvisamente ingorda di briciole appartenenti al proprio passato, l’aveva monopolizzato come fosse un canta storie.
Ma Nevius non era l’unico angelo custode impegnato a vigilare su qualcuno. A qualche chilometro da Malibu, nella sempre assolata Los Angeles, Seya e Michiru vagavano per lo stesso piano da ormai sette giorni. Come due sentinelle, instancabili, attendevano un miracolo.
Erano rimasti a distanza, correndo con lo sguardo dietro ad ogni camice bianco che passava nel corridoio. Facendo fuori e dentro da due stanze attigue, senza scambiarsi una parola. Non erano in collera l’uno con l’altra, ma entrambi avevano il desiderio di parlare con chi era disteso oltre quelle porte e non poteva farlo.
Fino a quel momento, solo Minako aveva tentato di picconare quella coltre gelida dietro la quale i due si nascondevano. Come un orologio svizzero, spaccando il secondo, entrava allo stesso orario con un mazzo di fiori per Rei e un cestino per Haruka.
«A lei dei fiori non importa un fico secco. Ma credimi, quando si sveglierà, sarà una iena per la fame. Te lo dico io. Meglio gli snack per Haru».
Aveva redarguito così Michiru, posando poi sul comodino della bionda i propri doni. Dopo di che aveva salutato Seya e nell’altra stanza gli aveva svelato che le rose per Rei sarebbero state scontate. «Dai retta a me, potrebbe tirartele dietro. E’ una a cui piace essere sorpresa».
E dopo il chiacchericcio di Minako, quando lasciava nuovamente le sue amiche addormentate come le principesse delle migliori fiabe, calava nuovamente il silenzio.
 
Seya e Michiru si fissavano. Lui con le braccia conserte strette contro al petto, poggiato con la schiena al muro. Lei seduta composta sulla sedia, accanto al boccione dell’acqua.
«Dovresti andare da Hotaru» sibilò lui, quasi con tono grave nella voce.
«Sta bene, è con Usagi. Tra poco la porterà a scuola».
«Sì ma dovresti andare a casa» insistette lui.
«Anche tu».
E quando quello scarno scambio di parole stava per accendere la miccia di uno scontro dettato dall’ansia e dalla stanchezza, le porte dell’ascensore tintinnarono mostrando il sorriso smagliante di Usagi.
La bionda con passo saltellante raggiunse Michiru.
«Ecco fatto. Fatto tutto. Hotaru è a posto. Sistemata. Nemmeno un capriccio. Oh Michiru, ma guarda un po’ in che condizioni sei!». Poggiò le mani sui fianchi e scossò il capo in segno di diniego. «Così non va proprio bene» sentenziò.
Poi si girò verso il giovane e lo salutò con un cenno della mano. «Ciao Seya! Puoi andare al bagno ora. Faccio io la guardia a quella porta».
Lui sgranò gli occhi come a riprenderla per quella frase. Ma che cosa le saltava in mente d’insinuare certe cose?. «Su, su. Vai» insistette Usagi non curandosi di oltrepassare il limite.
E lui, forse più per l’imbarazzo che altro, ubbidì.
«Dovresti andare anche tu Michi…» disse con un filo di voce, sedendosi accanto all’amica.
«Non devo fare pipì…».
«Oh ma sul serio?!».
«Ok, forse un pò».
«Anche una doccia. Vai a casa, dai».
«Ma se…».
La bionda la interruppe ancor prima che potesse finire la frase. «Se si svegliasse e ti vedesse così, ripiomberebbe nel sonno. Scusa la franchezza eh».
«Ok, scuse accettate».
In effetti si sentiva uno straccio e probabilmente la brutalità di Usagi non era altro che la voce della ragione.
«Ci metto quaranta minuti» sentenziò Michiru guardando l’orologio da polso come fosse un cronometro in corsa col tempo.
«Impossibile. Ce ne metti quaranta col traffico solo ad arrivare a casa. Prenditi qualche ora…».
Michiru stava per protestare. Usagi lo sapeva perché aveva notato il suo martoriarsi il labbro e stringere in maniera convulsa il manico della borsetta quasi la stessero insultando.
«Ci parlo io con lei. Resuscito persino i morti per quanto parlo!» tentò di placarla.
Michiru si concesse una debole risata per poi sospirare pesantemente.
«Non ti mangerai le sue merendine, vero?».
«NO! SONO A DIETA. Fino a stasera. Perché…» Usagi cominciò a battere i piedi sul posto in preda all’eccitazione scoppiettante che aveva dentro. «Sta sera finalmente esco con Mamoru! Abbiamo rimandato e rimandato…».
«È vero. Avete rimandato un po’ troppo con questa storia. Ma loro non se la prenderanno di certo se uscite».
Michiru sorrise. Lo fece per davvero. Sapeva quanto l’amica aspettasse quel momento e non era giusto attendesse ancora oltre.
«Mi organizzo io con Hotaru. Ti lascio un vestito sul letto, d’accordo?».
«Davvero, davvero?!» a Usagi s’illuminò lo sguardo.
«Sì, promesso».
«Vado a dirlo ad Haruka!» urlò la più piccola, catapultandosi dentro alla stanza.
 
 
§§§
 
 

Minako per un soffio non incrociò il turbine biondo dal nome Usagi che saliva al piano delle amiche.
Uscì dall’ospedale sorridendo a Yaten che la stava aspettando a cavalcioni di una staccionata adibita a dividere le aiuole dal camminamento della struttura.
Era bello come un miraggio, non poteva fare a meno di pensarlo ogni volta che si perdeva ad osservare i dettagli del suo viso. Ed era suo, finalmente.
«E’ ancora di sopra» esordì lei avvicinandosi fino ad arrivare solo a pochi centimetri dal suo viso. «Dovresti andare a salutarlo. Ha una cera…».
Yaten rimase tutto d’un pezzo come era solito fare quando si parlava del fratello.
«Sembra che finalmente abbia deciso di esserci per qualcuno. Non vorrei interferire con questo miracolo».
«Yaten, dai…».
Lui cambiò discorso saltando giù dal suo trespolo.
«Se non insisti sei più carina» rispose dandole un bacio a fior di labbra e troncando così la questione.
 
«Pensavo ad una cosa» cominciò lui dirottando una volta per tutte quell’argomento piuttosto scottante.
Minako lo prese per mano. Lo sentì irrigidirsi appena, perché ancora veniva preso alla sprovvista da quel continuo contatto che lei era sempre solita cercare per essere rassicurata.
Ma la verità era che lui adorava il fatto che lo cercasse continuamente, come se fosse diventato una sua appendice. Una parte di lei senza la quale non si sarebbe più ritrovata nel mondo. Lui non l’avrebbe di certo mai urlato ai quattro venti ma lui ora si sentiva esattamente in quel modo.
«Se non dovesse essere andata con la casa discografica…» s’incamminarono a passo lento. «Pensavo potremmo farci un viaggio in barca io e te soltanto. Toccando tutte le tappe che desideriamo vedere».
Minako si ritrovò a boccheggiare per l’emozione.
Davvero sarebbe partito con lei alla volta del mondo?
«Avresti l’occasione di sentire il rombo dell’oceano nella notte» gli strizzò un occhiolino. E lei segretamente desiderò quasi abbandonare il sogno di musicista per quella proposta da film.
Le batteva il cuore all’impazzata quando la suoneria del cellulare interruppe quel momento magico.
Minako frugò nella borsa vedendo sullo schermo lampeggiante il nome di suo padre.
«Scusami» farfugliò allontanandosi di qualche passo per rispondere.
Yaten al contempo venne sorpreso dalla vibrazione nella tasca dei jeans.
Erano i discografici.
Ci siamo.
Prese un respiro e rispose anche lui.
 
Nessuno dei due poteva sapere che da quelle due chiamate sarebbe dipeso il loro destino.
 
 

§§§
 
 
Il passo pesante dovuto agli anfibi di Dan sembrava il battito di una cassa tamburo sul pavimento.
A fianco a lui Mamoru saliva le scale per il reparto in cui si trovavano Haruka e Rei.
Non si era mai visto un tale via e vai di forze dell’ordine e di vigili del fuoco sino a quel momento. Oramai le infermiere del piano erano tanto abituate a vedere le stesse facce che non chiedevano nemmeno più i documenti agli ormai noti avventori.
«Come se la passa Meiō?» domandò Mamoru al collega.
Dan fece finta di cadere dalle nuvole.
«Come faccio a saperlo io?» sbottò con un brontolio gutturale mentre lo sguardo tentò di vagare altrove.
Mamoru sorrise. «Guarda che lo sappiamo vi frequentate» puntualizzò.
Dan sentì sudore freddo scendergli dalle vertebre per tutta la schiena. Era stata chiara Setsuna quella notte. Non voleva che nessuno al lavoro sapesse della loro frequentazione; frequentazione che a ben pensarci si era ridotta alla sera del disastro, al ritrovarsi in mezzo alle macerie e all’alba del giorno dopo in cui Haruka e Rei erano state ricoverate.
Dopo quel momento lei era sparita. Dan l’aveva chiamata, ma sembrava essersi fatta di nebbia. Eppure quello sguardo lucido di lacrime e la sua preoccupazione erano stati sinceri. Lo aveva avvertito sin sotto l’epidermide, lo aveva sentito in ogni suo battito mentre aveva poggiato il capo contro il suo petto come a controllare che il cuore gli battesse ancora.
«Siamo usciti una sera» fece il vago lui. «Quella sera» puntualizzò. «Poi mi ha piantato. Credo».
Mamoru lo tirò per la maglia in un angolo. Accanto al distributore delle bibite per dare meno dell’occhio.
«Te lo chiedo perché ho sentito delle voci…». Si guardò in modo attorno, circospetto, per sincerarsi non ci fossero colleghi pronti a cogliere quel succulento gossip.
«Credo sia stata sospesa».
«CHE COSA?!».
Mamoru lo spintonò quasi volesse una colluttazione con lui per farlo tacere.
«Non fare tutto questo casino. Attirerai l’attenzione» lo zittì frettoloso.
«Sei un detective per caso?» arricciò il naso infastidito scrollandosi le sue mani di dosso. «Cosa ti fa pensare una cosa del genere? Insomma è impossibile. Lo sappiamo tutti che è una vera bestia alle volte, ma è brava in quello che fa. La migliore di sicuro qui».
«Lo so Dan. Non sto mettendo in dubbio le sue capacità, ma è sparita subito dopo quella chiamata e la cosa è plausibile. Pensaci bene. Haruka non era stata autorizzata da Seya a tornare in servizio. Setsuna ha bypassato l’autorità…».
«Per quanto discutibile» lo interruppe Dan.
«Per quanto discutibile, sì, di uno che ha il potere di certificare la gente non idonea, instabile o come la vuoi mettere. E sfortuna ha voluto che quella notte, Haruka ci ha quasi rimesso le penne e la responsabilità ricade su Setsuna».
«Setsuna non poteva sapere che sarebbe crollato tutto».
«Lo so. Non è me che devi convincere».
Dan tentò di ricomporsi. Prese un lungo e profondo respiro, promulgando la sua sentenza.
«Non risponde al telefono. Andrò a casa sua anche se non ho idea di dove abiti. Dovrò rubare qualche fascicolo, probabilmente».
«O magari chiedere in giro. Prima di cacciarti nei guai».
«Non ci avevo pensato».
«Lo so».
«Ha ragione Haruka. Sei saccente. Un vero dottorino».
Mamoru per nulla offeso dall’appellativo sorrise un po’ nostalgico.
In quel poco tempo trascorso con Haruka aveva imparato ad apprezzarla, sebbene convivere col suo caratterino sprezzante e la lingua biforcuta l’avessero messo a dura prova talvolta. 
Gli mancava, doveva ammetterlo.
 
«DAN! MAMO-SAMA!!!» Usagi, come in preda ad un grido di guerra apparve nel corridoio con tutto il suo baccano.
«…Mamo-sama…» lo canzonò Dan dandogli una gomitata al fianco. «La tua ragazza non sa in che guaio ti ha appena cacciato», gongolò ancora appuntandosi mentalmente quel nomignolo da riferire ad Haruka non appena si fosse svegliata.
«Sparisci» mugugnò a denti stretti il più grande cercando di non apparire uno che stava supplicando. Avrebbe voluto sotterrarsi dalla vergogna.
Usagi saltellò verso di loro. Era scoppiettante come un petardo. Mamoru quasi era sorpreso della mancanza di scintille.
«Sono venuta a dare il cambio a Michiru. Andrà giù di testa completamente se non si prende una fiesta». Si apprestò lei a giustificare la sua presenza.
I due inarcarono le sopracciglia confusi.
«Siesta» si corresse lei dandosi un colpetto alla tempia con il palmo della mano.
«In ogni caso…ho deciso dove andare questa sera!».
«OK IO LEVO LE TENDE. Vado a salutare la bionda! Poi dove ti ho detto». Alzò le mani Dan abbandonando i due alla loro conversazione privata.
 
«Ci vuoi ancora uscire con me, vero Mamo-sama?» domandò lei, rabbuiandosi all’istante dopo aver seguito con lo sguardo la figura alta di Dan che si allontanava.
Andava bene? Anche se lui era più grande? Avevano rimandato abbastanza. Haruka gli avrebbe sicuramente dato del codardo, o peggio, se avesse temporeggiato ancora.
«Ma certo».
Lei si riprese all’istante e lui riuscì a scorgere nuovamente nei suoi occhi quel luccichio che caratterizzava il suo sguardo perennemente allegro.
«Aaah ho capito. Non sei abituato a donne che prendono l’iniziativa…».
Non era proprio abituato alle donne. Ne aveva amata sin da subito una e lo aveva fatto fino al suo ultimo respiro.
«Beh non preoccuparti. Sei in una botte di ferro con me».
«Ci credo».
«Ti mando la posizione del posto su whatsapp, ok? Tu fatti trovare lì alle 20.00. Ah sono graditi mazzi di fiori o cioccolatini».
Lui esplose in una risata fragorosa. Di tutte le cose che aveva vissuto e visto nella sua vita, mancava certamente all’appello una ragazza che dettava legge su possibili doni da recapitare ad un primo appuntamento.
«Farò del mio meglio. Però ho da chiederti un favore».
«Ti ascolto, Mamo-sama».
«Smettila di chiamarmi così, ti prego. Mi fa sentire un vecchio decrepito».
«Ti ho offeso?».
«No assolutamente».
«Fiuuu, per fortuna. Ok, capito. Niente più Mamo-sa…».
«Mamoru e basta, va bene».
«Agli ordini!». La bionda si mise sull’attenti come per ubbidire a un generale e poi si ritrovò a ridacchiare. Poteva chiamarlo per nome. Erano già talmente così in confidenza nella sua testa che si poteva saltare direttamente il primo appuntamento e andare di corsa all’altare.
Era quello giusto. Se lo sentiva.
 
 
§§§
 
 
Un suono. Una melodia.
Il canto degli uccellini.
Avanzò nella penombra piano. Come se non potesse vedere nitidamente accanto a sé. Strisciando piano i palmi sul muro sconnesso e umido di una vecchia stalla.
Qualcuno intonava una canzone.
«Sarah?» chiamò con un filo di voce.
Si sentiva piccola come quando era bambina.
L’odore del fieno.
Il cigolio del filatoio.
Ancora una volta quella canzone quasi sussurrata.
Haruka fece un altro passo.
Quelle parole intonate divennero la musica prodotta da uno sfregamento di corde.
Un violino.
L’aria profumava di fiori, poi di salsedine.
Sentì i piedi bagnati e d’imperio si ritrovò le caviglia lambite dalla marea.
Era sulla spiaggia. Ed era di nuovo adulta.
Il canto degli uccellini divenne quello dei gabbiani.
«Per quanto vuoi rimanere ancora qui?» un soffio nel suo orecchio e un paio di braccia le cinsero le spalle.
Quelle mani curate, con lo smalto blu brillante potevano essere solo di Michiru. Ne era sicura. Anche se non poteva vederne il viso.
Le parve di sentire il calore del sole sulla faccia.
Haruka guardava l’orizzonte. Una barca a vela solcava il pelo dell’acqua. E prima che potesse rendersene conto era in pace col mondo. Avvolta da un calore che solo un altro corpo umano può dare.
«Quando siamo arrivate?» chiese.
«Non importa. La domanda importante è quella che ti ho appena fatto, Haruka. Quanto vuoi ancora rimanere qui?».
«Dipende».
«Da cosa?» chiese Michiru, solleticandole il coppino con dapprima con la guancia e poi con le labbra.
«Tu sarai qui?».
«Mi vuoi qui con te?».
«Questo cos’è? Un sogno? Un ricordo? Dove siamo?».
E prima che potesse aver risposta lei era sparita.
Haruka si guardò attorno. Era notte.
 
«Sveglia. Dobbiamo andare».
Era tornata indietro un’altra volta.
Rei la tirava per un braccio ed erano tornate adolescenti.
«Dobbiamo sbrigarci o perderemo l’ultimo pullman per Los Angeles».
«Perché dobbiamo andare?» sentiva le braccia pesanti e anche le gambe. Aveva dei macigni al posto degli arti.
«Stai scherzando vero? Dobbiamo trovarla».
Haruka non capiva più niente.
Rei arrestò la loro corsa frugando nella tasca dello zainetto sdrucito.
Le sventolò sotto al naso il foglio che le aveva dato da leggere.
«Tua madre, sciocchina».
Haruka venne accecata dalla luce di due fari bianchi.
Provò a coprirsi gli occhi con le mani ma non riuscì a fermare quel bagliore troppo brillante per permetterle di vedere nuovamente.
 
Sgranò gli occhi, ritrovandosi troppo ossigeno nei polmoni.
La stanza girò per un istante.
Era buio tutt’attorno.
Sentiva il panico imprigionarla in una gabbia senza sbarre e poi quella stretta.
«Haruka, guardami. Haruka!».
Le sue dita risposero stringendo quella mano che era avvinghiata docilmente alla sua.
«Respira. Piano. È tutto okay…».
Sbatté le palpebre.
Cos’era quel suono? La macchina alla quale era attaccata? Il suo cuore? Era lui. Batteva. Uno tonfo dietro l’altro. Accelerando nel momento in cui incrociò quel mare blu.
Era lì. Michiru era lì come nei suoi strani sogni.
Sembrava in procinto di piangere.
«Sei tornata…» sibilò incredula.
«Non credo di essermene mai andata».
«Sbagli. È una settimana che mancavi».
«Da casa?» farfugliò la bionda senza rendersi conto di aver dato voce ad un pensiero.
 
«Mancavi a me» le rispose senza paura Michiru.
 








Note dell'autrice:
Che casino. Ho scritto il capitolo in tre momenti diversi per mancanza di tempo e non ci capisco più niente!! Motivo per cui non ho completato l'intera vicenda perché stavo impazzendo. Dunque, nel prossimo troveremo Setsuna, Usagi col suo appuntamento e sicuramente scopriremo il destino di Yaten e Minako. Oltre a capire se Rei è viva o morta. 
Non so più come scusarmi per il ritardo. Posso solo provare a postare il nuovo capitolo prima possibile!
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 22
*** Your Hero ***


Usagi di una cosa era certa. Il primo appuntamento era quello decisivo. Proprio per quel motivo doveva essere perfetto. E lei era stata capace di organizzare con maestria un vero e proprio piano di battaglia - con tanto di sveglie puntate nel cellulare - per passare ad ogni fase della serata.
Fortunatamente la preparazione era stata più semplice del previsto.
Mamoru l’aveva già incontrata diverse volte, perciò sapeva benissimo che aspetto avesse. Così, l’ansia da primo contatto visivo era scongiurata. Come se non bastasse, la sua fata madrina Michiru, le aveva fatto trovare pronto sul letto l’intero outfit per la serata; insomma cosa poteva volere di più?
«SARA’ GRANDIOSO!» urlò come in preda ad un grido di battaglia senza quasi rendersene conto.
Aveva il cuore a mille e forse il nastrino di quel vestito azzurro pastello che Michiru le aveva scelto, non sarebbe riuscito a contenere la sua cassa toracica. Sarebbe esplosa per l’emozione. Ma subito quell’immagine si trasformò in una scena tanto macabra da farla dapprima rabbrividire per poi ridacchiare da sola.
«Ma guarda un po’ questa testolina cosa partorisce…» disse tra sé e sé mentre per un istante il pensiero di una carriera come regista di film splatter le solleticò il cervello.
«Ok, concentrati Bunny». Respirò a fondo guardandosi allo specchio.
L’abito ad altezza ginocchio con tante piccole margheritine bianche ricamate tra la stoffa le stava d’incanto. I lunghi capelli biondi, solitamente pettinati in due codine, erano acconciati in un’unica treccia. E Michiru, maniaca dei dettagli le aveva riservato un cerchietto floreale per sistemare la sua frangetta ribelle.
Usagi sorrise soddisfatta del risultato. Mandò l’indirizzo del ritrovo a Mamoru e mentre il tramonto bagnava l’east cost, lei prese l’ultimo autobus in direzione della collina.
 
 
Dopo Serenity, per Mamoru, era la prima volta.
Se fosse stato per lui sarebbe arrivato con l’auto sotto casa di Usagi a prenderla, ma lei era sembrata decisa a fare di testa sua e mandarle la posizione del posto che avrebbe fatto da cornice al loro primo appuntamento.
L’auto tossì tra la polvere e la salita ripida che il navigatore gli stava indicando.
«Ma dove diavolo sto andando?».
Di certo, le colline californiane, non lo avrebbero fatto sprofondare nel panico dopo aver passato anni in laboratorio o sui libri a studiare le armi batteriologiche, ma più macinava chilometri e più si allontanava dalla città. Dovette ammetterlo, tra le nuvole di terriccio arido e lo sbuffare del motore quello che prima era una sorta di stranimento cominciò a divenire curiosità.
Aveva già imparato una cosa su Usagi: era fuori dagli standard. E questo non poteva giocare che a suo favore.
Sovrappensiero si ritrovò ad inchiodare arrivato davanti ad una staccionata in legno.
Spense il motore e rimase in silenzio.
Riecheggiò soltanto un nitrito lontano e per un momento credette di essersi catapultato nel passato, al suo ranch, dove i giorni in famiglia avevano il gusto di quelle commedie romantiche americane.
Perse un battito. Il tramonto pareva lo stesso, quando un “toc toc” al vetro del passeggero lo fece sobbalzare.
Era Usagi che con le nocche attirava la sua attenzione.
Mamoru abbassò il finestrino di rimando, cercando di ritrovare il proprio contegno.
«La P di parcheggio è di là» commentò lei sbracciandosi a ‘mo di vigile.
«Oh cavolo». Per la prima volta si sentì un’idiota impacciato. Ma lei non sembrò darci peso perché si sporse dentro al finestrino come a voler giocare alla contorsionista.
«OMMIODDIO MA QUELLO E’ PER ME!». Usagi era in preda all’entusiasmo. Ben allacciato con la cintura di sicurezza un orsetto con una scatolina sedeva accanto a Mamoru.
«Allora sei un bravo soldato!» sorrise lei. «Hai eseguito gli ordini!».
«Non proprio…signor tenente» rispose divertito.
«Anche se è settembre, è ancora troppo caldo per la cioccolata. Quella si scioglie…».
«Credo ti perdonerò». Le brillavano gli occhi. Nessun ragazzo l’aveva mai omaggiata di un dono. E in cuor suo sapeva che Mamoru non aveva solo eseguito gli ordini, ma aveva fatto di testa sua.
Usagi cercò di allungarsi per agguantare l’orso, ma lui giocò d’anticipo slacciando la cintura al peluche e allontanandoglielo ancora un po’.
«Ehi ma che fai?!» protestò lei con l’aria di un insettino buffo che sbatte le zampette per ritrovare l’equilibrio.
«La pazienza è la virtù dei forti. Fammi parcheggiare e avrai ciò che è tuo!».
Lei protestò con un borbottio per poi ubbidire.
Lui accese il motore e prima di fare manovra si permise di alzare la voce per farsi sentire. «Sei molto carina questa sera miss Usagi».
Bunny dovette pizzicarsi un braccio per verificare di non stare sognando.
 
 
§§§
 
 
Ha detto che sono carina.
Usagi avanzava a un palmo da terra verso la macchina del suo principe azzurro, finalmente messa al suo posto.
Era incredula. Il suo appuntamento da sogno non sarebbe potuto cominciare meglio. E mentre lei sentiva già le campane a suon di nozze nella testa, finalmente Mamoru si palesò in piedi in tutta la sua bellezza.
Ora svengo. Pensò lei.
Le parve più alto del solito. Ma doveva essere la sua testa troppo presa a cercare di rimanere lucida e non sprofondare in un sogno ancora più bello di quello che stava vivendo.
Usagi era così. Perennemente con i pensieri in preda a fantasie amorose degne di una favola. Ma il fatto che Mamoru fosse un uomo di bell’aspetto era un fatto oggettivo.
I suoi capelli mori danzarono nel vento caldo scompigliandogli la zazzera e facendo svolazzare i lembi della camicia a quadri sbottonata.
«Ecco a te» disse lui porgendole l’orso.
Era strano, come per la prima volta si sentisse finalmente a suo agio in sua compagnia.
«Quindi al posto della cioccolata cos’ha nella scatola?» domandò lei incuriosita.
«Caramelle gommose».
«Che col caldo si appiccicano di più!».
«Esattamente» rise lui. «Però ha uno zainetto…» le indicò lui. «Lì dentro c’è qualcosa che è un po’ una parte di me».
Usagi era tutt’orecchie e senza riuscire ad aspettare sbottonò il piccolo bagaglio del peluche.
«Così saprai meglio chi sono. In un certo senso».
All’interno vi trovò una bustina trasparente ben sigillata.
«Cosa sono?» domandò lei.
«Dei semi. Ne ho portati un po’ dall’Arizona prima di trasferirmi. Sono di alcune piante grasse che avevo al ranch. Se le tratterai con cura faranno dei fiori spettacolari, è una promessa».
«Perciò in un certo senso hai portato anche il mazzo di fiori!».
«Non perdi un colpo».
«Grazie».
«Lo so è una cosa un po’ strana, ma è una delle cose che amo».
«Non è strano» lo interruppe lei, risistemando il suo nuovo amico peloso e tutto il suo bagaglio. «Credo sia molto bello».
«Meglio così allora».
A Usagi vibrò il cellulare nella tasca. Era la prima sveglia. Era l’ora di entrare a destinazione.
«Tu hai portato un orso e io i cavalli».
In quel momento fu lo sguardo di Mamoru ad illuminarsi.
«Avevo visto un evento di questo posto tempo fa». Santo Facebook. «E ho scoperto che oltre ad essere un maneggio, hanno adibito una vecchia stalla a ristorante. E siccome si tratta anche di un’azienda agricola, organizzano cene con degustazione a base dei loro prodotti. Ma ho pensato fosse più carino che andare al ristorante. Siamo tutto il giorno in mezzo al caos della città e qui invece è tutto più tranquillo. Poi ci sono i cavalli appunto. E ci aspetta una piccola passeggiata prima dell’antipasto e…» non si fermava più. Ma a Mamoru non importava della sua parlantina. O della differenza di età che tanto lo aveva spaventato sino a poco prima. Lei non aveva idea del regalo che le aveva fatto.
Avrebbe soltanto voluto abbracciarla.
 
 
§§§
 
 
Non era stato facile scovarla, ma Dan era uno che non si dava per vinto. E forse, proprio per questo era entrato sin da subito nelle grazie di Haruka.
 
Un altro scossone e avvertì nuovamente gli ammortizzatori della macchina rimbalzare tra le buche dello sterrato, sino ad arrivare a ridosso di un piccolo piazzale nel bel mezzo del nulla.
 
Spense il motore tamburellando nervosamente le dita sul volante della vettura.
 
Non aveva mai pensato quale tipo di luogo potesse essere adatto a lei.
Alle volte riusciva ad immaginarla nel bel mezzo di una folla brulicante di colletti bianchi giapponesi, in una metropoli dalle luci pulsanti e un pacifico villaggio ai piedi del monte Fuji per sfuggire alla frenesia di una settimana intensa. Ma tremendamente lontana da quel riserbo garbato appartenente alla sua gente, da quella pacatezza di cui Dan aveva solo sentito parlare – o visto in qualche documentario - ma mai sperimentato in prima persona. Questo non perché lei fosse in qualche modo maleducata o poco elegante, ma perché era piena di vita.
Glielo si leggeva negli occhi.
Arrivava ogni giorno al lavoro con lo sguardo di una guerriera, impavida come appartenesse ad una lunga stirpe di samurai. Setsuna, era quel tipo di donna che non taceva, che urlava a pieni polmoni -  senza paura di venire giudicata - ad una massa di uomini che volenti o nolenti avrebbero eseguito i suoi ordini. Lei era quel tipo di donna che avrebbe potuto intimorire un uomo. Quel tipo di donna che non abbassa la testa e procede come un carrarmato per una giusta causa, anche se significa soffrire le pene dell’inferno.
Ecco che idea aveva lui di lei.
Ecco, come l’aveva guardata ogni sacrosanta mattina da qualche anno rimanendo sempre al suo posto. Sull’attenti come un soldato in attesa di ricevere ordini dal proprio tenente. E tra una presa in giro dei compagni, un commento o le provocazioni di Haruka, Dan di Setsuna aveva sempre notato quei particolari che nessuno si era mai curato di cogliere.
 
Scese dall’auto e con lui anche il sole scivolò oltre la sua posizione.
Il crepuscolo intingeva il cielo della California e Dan sentì venir meno la convinzione che lo aveva portato sin lì.
Non era mai piombato a casa di qualcuno che non fosse Kansas. E sebbene di Haruka potesse prevedere ogni reazione ad una sua azione con Setsuna era come brancolare nel buio.
Oltrepassò un’aiola semicircolare fatta di pietra bianche ed atta a circoscrivere un agglomerato di piante grasse e cactus di forme e specie differenti.
Il flebile brusio di un televisore e nessun altro rumore proveniva dalla piccola ma graziosa abitazione che aveva dinnanzi.
Salì i gradini in marmo chiaro con fare circospetto, quasi dovesse nascondere il fatto di trovarsi lì o la sua identità, sino a che decise di suonare il campanello. Dopo di che solo il battito incessante del suo cuore. Una marcia dapprima cadenzata e poi sempre più veloce di tum, tum, tum.
«Chiunque tu sia vattene». Nessun viso oltre la porta, solo una voce.
«Sono Dan» disse tutto d’un fiato. «Harris» si corresse come avesse sbagliato a dire il proprio nome.
Passò un’istante, come se lei stesse esitando per dare la risposta corretta ad un quiz televisivo.
«Vattene comunque». La sentenza.
«Setsuna…».
«Ho detto vai».
«Capo Meiō, uhm…».
«Dico, MA SEI SORDO PER CASO HARRIS?!» questa volta oltre alla sua voce ci fu anche lo spalancarsi della porta. Setsuna lo fece con così tanta foga che a Dan sferzò in viso una ventata d’aria calda nonostante la temperatura stesse per precipitare considerevolmente col calare della sera.
Fresia, pensò. Il profumo che portava sempre lei e che era rimasto intrappolato anche nell’ufficio che lui aveva setacciato per trovare il suo domicilio.
«Come mi hai trovata?» domandò lei con sguardo confuso e una bottiglia che pendeva pericolosamente dalla mano sinistra.
«Non sono un detective ma sai…».
«No, aspetta. Non m’interessa. Ciao, vai».
Dan bloccò la porta prima che potesse richiudergliela in faccia.
«Che diavolo stai facendo?!» si era innervosita.
«Non ti permetto di cacciarmi».
«Bene, d’accordo». Setsuna alzò le mani al cielo in segna di resa. Aprì la porta uscendo sul piccolo porticato con andatura barcollante. «Me ne vado io» annunciò.
Camminava scalza e una sottile cavigliera scandiva ogni suo singolo passo incerto che compiva sulla veranda.
Dan la guardò come potesse trovare nella sua figura il giusto approccio.
«Mamoru mi ha detto delle voci che girano al dipartimento, come stai?».
Lei parve ridere. Ma non era la risata serena del loro appuntamento. Era arresa, amara, spenta.
Per un momento sembrò fare stretching nei suoi leggins neri poi si appoggiò a una colonna. «Le voci…» rise di nuovo, guardando la sua macchina, poi altrove, evitando accuratamente di incrociare lo sguardo del giovane.
«Quante ne ho dovute sentire…». Bevve un lungo sorso e Dan poté scorgere la bottiglia di vino scendere oltre la metà del suo contenuto.
«Ma queste…queste sono tutte vere. Vi siete liberati finalmente di me».
Dan venne colto dallo stesso impeto che lo prese in ospedale «E’ PALESE CHE NON SIA COLPA TUA, NON POSSO FARLO!». Una protesta urlata al vento.
Lei non parve turbata dal suo tono alto e concitato, gli si avvicinò, con sguardo sottile; felino quasi.
«Possono. Lo hanno già fatto» il che si traduceva in questione chiusa.
Lei le batté sul petto la bottiglia vuota e gliela mollò passando oltre.
Erano giorni che in televisione i tg la martellavano sottolineando la sua incompetenza. Ignorando e vanificando il lavoro che aveva fatto per una vita intera, per un singolo errore umano.
Se non le permettevano di sbagliare, di essere umana, allora Setsuna gli avrebbe accontentati uno ad uno, smettendo di esserlo. Avrebbe fatto l’automa sarebbe stata all’altezza delle aspettative.
«SETSUNA» tuonò il suo nome tanto da farla bloccare.
«Io non ti lascio da sola». Lo disse con una tale fermezza nella voce da non poterne dubitare.
C’era sempre qualcosa in lui capace di farla tremare. Come se riuscisse a scuoterle un terremoto dentro che la costringesse ad abbassare ogni difesa, ogni muro che lei aveva pazientemente costruito per arrivare fino a quel punto. Anche se ora, dalla cima della sua piramide era stata buttata giù con una sola e poderosa spinta.
 
Si voltò, piantando gli occhi scuri nei suoi come a sondarne lo sguardo.
«Perché devi essere così?» tremava anche la sua voce. «Perché devi fare l’eroe della situazione? Perché sei il principe azzurro pronto a salvare la donzella in pericolo?». Le sue parole non suonavano come un rimprovero sebbene forse in parte lo fossero. A lei non avevano mai porto una mano per rialzarsi. Aveva sempre contato solo su se stessa, sulle proprie forze e in questo era simile ad Haruka più di chiunque altro in quella cerchia di persone che si erano ritrovate assieme durante quella maledetta notte.
In lei combattevano due poli opposti. Uno la spingeva ad allontanarlo, come se quel destino che si era accanito all’improvviso su di lei potesse divenire contagioso per chiunque altro. Poi c’era l’altra parte. Il nervo scoperto. La sua debolezza finalmente venuta a galla e che implorava silenziosa di non abbandonarla, di restare con lei.
Che lei volesse ammetterlo o no, la verità è che Dan riusciva a farla sentire al sicuro; Protetta.
Nonostante le sue stranezze e il suo fare un po’ bambinesco Dan Harris poteva essere la sola ed unica roccia di Setsuna Meiō.
«Perché l’hai mai sentita una storia dove il principe lascia affondare nelle sabbie mobili la principessa che ama?».
«Harris» lo pronunciò con suono morbido abbandonando l’ascia di guerra. Stanca di mantenere quell’atteggiamento da dura e indifferente che aveva provato ad ostentare con lui. «Forse sono  un po’ alticcia…» confessò.
Lui sorrise intenerito.
«Ma stai forse cercando di dirmi che mi ami?».
 
In un’altra occasione le parole a Dan si sarebbero inceppate sulla lingue e avrebbe fatto la figura dell’ammasso di muscoli imbranato. Ma con sua grande sorpresa tutto gli scivolò fuori con una naturalezza mai avuta prima d’ora.
Come se niente potesse scalfirlo o abbatterlo.
«Capo Meiō…Setsuna. Probabilmente ti sembrerà impossibile quello che sto per dirti. Forse pensi che io sia un’idiota come tutti i miei compari artificieri. Forse, come molti credono io sono solo muscoli e ciambelle. E non posso dire che questo non faccia parte di me, che io non sia così, ma posso affermare con assoluta certezza che non sono solo questo. Io sono quello che sul posto aspetta di vedere scostarsi dalla transenna il poliziotto, perché quello è il momento in cui arrivi tu. E per quanto la situazione sia terribile, catastrofica…Nonostante vada tutto in fiamme, stia per scoppiare una bomba o ci sia una pioggia di proiettili in corso…Quel momento, quello in cui tu arrivi è l’attimo che preferisco della mia giornata. E’ il momento in cui mi sento vivo. Quello in cui il rumore del mio cuore supera il ticchettio della bomba che devo disinnescare…». Lo stava dicendo sul serio. Dan stava aprendo il suo cuore come mai prima d’ora, come fosse un fiume in piena. Come fosse in caduta libera dopo essersi buttato da un grattacielo.
«…E se quella bomba esplodesse fra le mie mani, se non riuscissi a fermare quel disastro, io morirei contento perché ti ho vista. Ci sono alcune situazioni in cui sono terrorizzato, in cui non so se riuscirò a fare il mio dovere fino in fondo. E in quei momenti io guardo te. Che gesticoli, che dai ordini a tutti e che riesci a mettere in riga chiunque voglia fare di testa sua. Tu che hai quel coraggio da leone, il coraggio di chi ha in pugno la vita di tutti i presenti e gioca a scacchi col destino ogni giorno per riportarci tutti sani e salvi a casa. Guardo te…che sei una forza della natura e sei bellissima. Con le tue unghie sempre di colori differenti, che arrivi di corsa in accappatoio, in pigiama, col vestito da sera, la tuta da ginnastica e quello che voglio dire…».
Dan si avvicinò a lei, mollando la bottiglia su un gradino.
«Continua…» Setsuna sembrò pregarlo. Aveva gli occhi lucidi e si ritrovò quasi senza sapere più chi fosse, ubriacata dalla percezione che lui aveva di lei.
«Quello che voglio dire è che sei tu, quella che mi fa diventare un eroe ogni sacro santo giorno della mia vita. Sei tu quella che da un senso alla giornata, quella che fa il bello e il cattivo tempo. Se questo vuol dire amarti, allora ti amo. Probabilmente sono anni che ti amo senza dirtelo. Ma lo dico ora se può servirti a non farti mollare, a non permettere che ti butti via. Perciò non me ne vado via. Rimango qui, con te. Che tu lo voglia o no».
 
§§§
 
 
Minako aveva subito intuito dallo sguardo di Yaten che si trattava di buone notizie.
Da quando lo aveva conosciuto sul molo non gli aveva mai visto quella luce negli occhi. Quei piccolissimi barlumi appartenenti a un sogno nel cassetto che d’improvviso scintillavano nelle sue iridi chiarissime.
«Ce l’abbiamo fatta» aveva detto buttandole le braccia al collo come non si era mai permesso di fare prima.
L’aveva stretta forte e Minako in quell’abbraccio aveva quasi dimenticato la telefonata ricevuta da suo padre.
«La canzone è piaciuta e abbiamo già due date fissate in un paio di locali. Vogliono metterci sotto contratto ma dobbiamo lavorare ad altre tracce. Dobbiamo farlo da subito».
A Minako batteva il cuore all’impazzata. Era anche il suo sogno quello ad essersi appena avverato. Ma se Yaten pareva essersi risvegliato da un torpore durato per anni di solitudine, lei per quanto fosse felice non lo era abbastanza.
Eppure aveva lavorato duro per quel momento. Si era consumata le dita sulle corde della sua chitarra nelle notti di solitudine in riva al mare mentre Rei era al lavoro.
«Allora Mina, sei felice?». Lui lo aveva domandato sinceramente. Con il sorriso in volto di un bambino e per un momento la ragazza dubitò che chi aveva davanti fosse la stessa persona per cui aveva perso la testa.
Aveva annuito, sorridendo di rimando. Ricacciando in un antro oscuro dei pensieri quello che realmente le balenava per la mente. Una preoccupazione che doveva sedare nell’immediato. Una preoccupazione che in fondo però sapeva di non poter combattere se non arrendendosi.
Ma non avrebbe inferto quel colpo a Yaten. Non nel momento in cui finalmente il ragazzo aveva assaporato il suo riscatto. Quello di aver dimostrato di essere davvero bravo in qualcosa. Di essere bravo quanto quel fratello che aveva da sempre occupato il primo posto sul podio di famiglia.
Erano andati a festeggiare. Avevano mangiato frittura di pesce, brindato con qualche bottiglia di birra al largo e ballato sul ponte della blue lagoon come in preda al ritmo dei tamburi tribali dell’Africa nera. Poi si erano baciati fino a far venire sera e Minako aveva perso la cognizione del tempo tra quelle braccia che ormai erano diventate la sua casa.
 
Solo una volta rientrati al porto lei ritornò con i piedi sulla terra ferma.
Faticò a salutarlo. Lo fece col groppo in gola di chi dice inevitabilmente addio anche se non vorrebbe farlo.
Doveva trovare una soluzione e doveva farlo alla svelta. Perché se c’era una cosa di cui era certa era che suo padre non era famoso per la pazienza.
 
 
Minako salutò l’infermiera di turno. Anziché essere andata a casa era tornata in ospedale. Doveva parlare con Rei. Come avrebbero fatto sul divano alle due di notte.
«Rei…» entrò nella stanza richiudendosi la porta alle spalle. Non c’era nessuno e sul piano regnava un silenzio surreale.
«Ho bisogno di te. Devi aiutarmi. Devi fare come fai sempre…».
Se Rei fosse stata sveglia le avrebbe lanciato un’occhiata interrogativa, si sarebbe sistemata una lunga ciocca corvina dietro alle spalle e le avrebbe detto di sputare il rospo.
«Ho ignorato il suo primo avvertimento. Pensavo che ci sarebbe passato sopra, ma mi ha tagliato i fondi. Ho tutte le carte di credito bloccate. Mi rimangono…» frugò nella borsetta e controllò il portafoglio. «Sessanta dollari».
«Bastano a malapena per le scatolette di artemis e una spesa. Lo so che puoi anticiparmi una rata di affitto, ma fai già i salti mortali con quei turni. E poi lasciatelo dire…non ti pagano abbastanza. Non puoi sobbarcarti di tutto».
Minako avvicinò la sedia al lettino dell’amica. Le prese la mano e la strinse.
«Rei lo sai. Il problema non è trovare un lavoretto». Sospirò. «È solo l’ultimo dei suoi avvertimenti e poi passerà alle maniere forti.
Nessuna risposta se non il bip del monitor che controllava le funzioni vitali della mora.
«Ci andrà di mezzo Yaten. E non posso permetterlo…».
La biondina si alzò. Cosa avrebbe detto ora Rei?
«Buona notte, spero domattina ti sveglierai» sibilò, sospirando pesantemente.
Minako aprì la porta. Sentì un bisbigliare concitato dalla stanza accanto. Era quella di Haruka e un medico era appena entrato.
«Un, un…piano». Era la voce di Rei nella sua testa? La bionda sobbalzò.
«Ti serve…uno stramaledettismo piano».
 
 
§§§
 
«Mancavi a me».
 
Haruka era ancora frastornata. Non sapeva se fosse a causa di Michiru o del suo attuale stato di salute.
«Piano, fai piano…» le sussurrò lei con un fruscio di onde blu.
Quanto era bella. Le era sembrato passato un secolo dall’ultima volta in cui l’aveva vista davvero. Haruka trovò impossibile che Michiru fosse più bella nella realtà che in quei suoi strani sogni o qualunque cosa fossero.
Cercò di respirare profondamente. La guardò ancora una volta e la stanza smise di girare.
«Chiamo il medico» sillabò lei con un sorriso sollevato in volto.
Ma la bionda la bloccò, come a non volerla fare alzare da dove si trovava. Come se non potesse sopportare di mettere una distanza tra loro ora che la sentiva più vicina che mai. Una vicinanza strana, profonda. Come se appartenesse alla loro anima piuttosto che al piano fisico.
«Sul serio?» le domandò poi, litigando con uno dei tubini che le si era annodato al camice.
«Appena sveglia e sei già pronta a mettere in dubbio quello che dico?». Michiru le aveva risposto con un filo di voce ma in tono scherzoso. Aveva l’incurvatura di quelle labbra a cuoricino rivolta verso l’alto, come se non potesse smettere di sorridere e gli occhi lucidi di chi sta per piangere.
In effetti lo avrebbe voluto fare, avrebbe voluto piangere di gioia per quel dono che la vita le aveva concesso. Un altro giorno di spina-nel-fianco-Haruka.
Che nonostante la sfacciataggine, l’ironia pungente, la sua faccia tosta e quel carattere fumantino, era riuscita a rapirle il cuore più di quanto volesse ammettere a se stessa.
«Ti ho vista in quella tavola calda…e sulla spiaggia…» la bionda parve vaneggiare. Aveva lo sguardo ancora trasognato.
Michiru spinse il tasto di chiamata senza lasciare il capezzale dell’altra per poi avanzare una richiesta che l’altra mai si sarebbe aspettata.
«Haruka…posso abbracciarti?».
«Sapevo avresti ceduto. Se proprio insisti…» sorrise furba.
«Mi hai fatto passare la voglia!» scherzò Michiru. In realtà era al settimo cielo. Haruka sembrava essere tornata nel mondo dei vivi esattamente come aveva tentato di lasciarlo. Senza che una quasi morte avesse scalfito il suo spirito o il suo modo di fare da birbante.
La bionda allargò le braccia con un po’ di impaccio e Michiru, le cinse piano le spalle come potesse rompersi da un momento all’altro se avesse stretto con troppa forza.
Ed eccola lì, la certezza di aver trovato il proprio posto nel mondo.
«Sei sempre stata qui, vero?».
«Sempre. Non mi sarei mai perdonata se ti fosse successo qualcosa e ti avessi lasciata sola». Credette di sussurrarlo a se stessa, tanto era ormai abituata a parlare con lei senza ricevere risposta.
«Allora credo dovrai aiutarmi a fare una cosa…».
Di secondo in secondo, quel viaggio nel suo inconscio appena compiuto, stava svanendo come un sogno alle prime luci del mattino. Ma dentro di lei, indelebile, era rimasta la certezza di dover mettere a posto i tasselli più importanti della sua vita e per farlo avrebbe avuto bisogno di una compagna d’avventure.





NOTE DELL'AUTRICE:
In ritardo pauroso eccomi qui. Domani è il mio compleanno e per festeggiare (visto che sarà un compleanno in quarantena al momento) faccio un regalo a voi postandovi il capitolo. Ho raccolto tutto il tempo che avevo per finirlo in velocità, sperando vi possa aiutare a passarvi un pò il tempo se siete costretti/e in casa.
D'altra parte ce l'ho un pò con me stessa perché mi rendo conto che sia tutto di una noia mortale. Al prossimo giro, penso la cosa si farà più movimentata o di sicuro non sarà così piatta.
Detto ciò qualche piccolo appunto:
1. Rei doveva morire. Ve lo dico chiaramente, poi presa da non so quale mistica benevolenza l'ho fatta svegliare. Ho pure pensato di farla svegliare e morire dopo, ma vabbé, volevo essere positiva (?). Tutto questo per dirvi che non ho idea ora di che futuro avrà sta donna.
2. Nel testo "originale" Haruka chiede di Rei a Michiru praticamente appena sveglia. Ho tagliato la cosa non perché non gliene sbatta niente, ma perché non riuscivo a chiudere il capitolo e avreste aspettato invano altri due mesi. Perciò...come se fosse stato chiesto d'accordo?!!
Ho finito. Alla prossima! 

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Capitolo 23
*** Aria di tempesta ***


 
 
 
 
 
Sette giorni trascorsi fuori dal mondo. Sette giorni in cui l’intero pianeta sembrava essersi fermato.
Los Angeles pareva essersi improvvisamente addormentata con l’inoltrarsi del mese di settembre.
Non c’era stata alcuna emergenza. I cattivi sembravano essersi eclissati, così come la stagione estiva. Tutti avevano rallentato il proprio ritmo. Persino il traffico sulla costa pareva essere meno frenetico del solito.
In quella settimana alcuni avevano dovuto fare i conti con la propria vita e decidere di cambiare la rotta della propria esistenza.
Makoto per prima, che d’accordo con Nevius, avrebbe ripercorso tutta la loro storia di persona. Sarebbe andata alla casa acquistata assieme a lui a New York per sperimentare un’assurda convivenza col centauro che in una “vita precedente” stava per sposare e che nel presente, invece, stava conoscendo per la prima volta.
Si sarebbe specchiata nelle vetrine alla moda. Avrebbe annusato gli odori dei carretti sui marciapiedi di Manhattan e sperimentato la frenetica vita della grande mela.
Makoto, in quei sette giorni, aveva anche scoperto da dove derivava il suo estro culinario. Lei e Nevius si erano conosciuti ad un concorso di pasticceria e dopo essersi sfidati a colpi di glassa e pasta frolla erano divenuti inseparabili sino ad aprire una pasticceria assieme nei pressi di Central Park.
Se si fermava a pensarci sapeva essere una vera e propria pazzia quella di ribaltare la sua vita per quella della Makoto precedente. Ma inverosimilmente, e senza alcuna spiegazione logica, sapeva essere la cosa giusta da fare.
Makoto, presa da una scarica di frenesia, scalpitava per quella seconda possibilità di riscoprirsi e ritrovare ciò che aveva perduto in precedenza.
 
Avrebbe lasciato il bar di Malibù in ottime mani.
 
Minako, infatti, si era offerta per gestirlo in sua assenza così da riuscire a guadagnarsi i soldi necessari per continuare la sua vita sulla costa Californiana tra un accordo di chitarra e un bacio sulla Blue Lagoon.
Suo padre era stato di parola. Le aveva tagliato tutti i fondi lasciandola letteralmente al verde. Ma lei non poteva rinunciare, non ora che il suo sogno era a portata di mano e che aveva trovato il suo principe dai capelli argentei.
 
Qualcun altro, come lei, aveva forse trovato la sua metà.
 
Dan era rimasto al fianco di Setsuna. Lo aveva fatto anche dopo la sua sbornia, nel momento in cui ogni donna si sente meno desiderabile e non vorrebbe null’altro che nascondersi dal mondo intero o morire autocommiserandosi nel proprio letto.
 
E allo stesso tempo, a Los Angeles, un cowboy aveva realizzato che il destino era dotato di uno strano senso dell’umorismo. Mamoru non era uscito soltanto indenne dall’appuntamento con Usagi, ma persino sorpreso. Mai avrebbe pensato di ritrovarsi senza il macigno della solitudine e del dolore sullo stomaco. Per la prima volta dopo tanto tempo aveva sorriso ed era tornato a casa con uno strano senso di leggerezza.
In quella settimana aveva anche pensato di scriverle qualche sms e ovviamente lo aveva anticipato lei, facendo sbocciare un sorriso sulle sue labbra.
 
 
 
§§§
 
 
Il blu la inghiottiva. La cullava con l’andirivieni delle onde dell’oceano, l’avvolgeva quando chiudeva gli occhi e sprofondava nel proprio letto, la rapiva se ripensava alle onde dei capelli di Michiru e alle sue iridi azzurre bagnate di gioia quando incrociarono le sue cobalto non appena sveglia.
Senza che potesse rendersene conto, il mondo di Haruka si era completamente tinto di tutte le tonalità oltremare senza lasciarle scampo alcuno.
Nessun pensiero passava indenne da quella sfumatura.
Amore? Ossessione? Qual’era il confine?
 
«Terra chiama Kansas».
 
Dan la catapultò dal paradiso all’inferno in meno di un secondo.
Lei lo guardò in cagnesco, strappata a quella sorta di sonno profondo e ristoratore nel quale si crogiolava pur avendo gli occhi spalancati.
 
«Non mi hai minimamente ascoltato, vero?» domandò con fare piccato Dan.
«Assolutamente no» tagliente come una lama, Haruka non risparmiò l’amico.
«Riassunto» intervenne Mamoru in aiuto. «Vuole preparare qualcosa di speciale per il capo Meiō, ma le previsioni del tempo non sembrano favorevoli».
«E perché cavolo devi fare una cosa speciale?!». Sbuffò la bionda, alzando gli occhi al cielo.
«Perché Setsuna è tornata. Non che avessi dubbi ma…».
«Già, nemmeno io» lo interruppe lei. Non lo avrebbe mai detto apertamente ma era scontato persino per lei che il capo delle operazioni fosse troppo in gamba per far calare il sipario sulla sua carriera così presto. Meiō non era il tipo di donna da far cadere nel dimenticatoio da un giorno all’altro. Aveva fegato e ancor di più sapeva fare il suo lavoro molto meglio di tanti altri pieni di raccomandazioni e che avrebbero venduto l’anima pur di soffiarle il posto. E per questo, anche se in segreto, Haruka l’ammirava.
 
«Zitti, zitti. State buoni!» li riprese Mamoru portando un braccio all’altezza del petto di Haruka per farla aderire di più al cingolato.
«Ehi Bruce, giù le mani!».
«Si, appunto» le diede manforte Dan anche se lo sguardo minaccioso lanciato al collega non sortì alcun effetto.
«Andiamo, andiamo. Facciamo incursione ora!» sibilò Dan pronto a scattare.
«NON E’ IL MOMENTO!» perse la pazienza Mamoru, mentre l’altro, incurante dei suoi suggerimenti si lanciò in una corsa che finì con un capitombolo a terra causato da un colpo.
Una raffica di spari riecheggiò, costringendo per un momento Chiba e Ten’ō a tapparsi le orecchie.
«E poi sono io l’impaziente!» sibilò inferocita la bionda. «Stupido Harris!».
A quel punto, Haruka, si lanciò senza paura contro il fuoco nemico.
Quell’idiota di una montagna mora aveva rovinato tutto provando a fare l’eroe, peggio quindi lei non poteva fare.
«MI HANNO COLPITO!» gridò ancora a terra Dan.
Haruka tentò di tirarlo per l’uniforme come fosse un pesante sacco di patate.
«L’ho visto IDIOTA! E come minimo finirò anche io per…»
Il suono stridulo di una sirena e l’accendersi delle luci all’interno del capannone segnò la fine dell’esercitazione.
 
«Possibile riusciate a fare tanto baccano?» dalla cima di una scalinata in ferro, Setsuna scosse il capo sconsolata.
«Harris tirati su. Sei stato colpito a morte. Guarda quanta vernice blu hai addosso» lo riprese lei, tentando di nascondere il sorriso che le affiorava sulle labbra.
«Ten’ō, la prossima saresti stata tu…» aggiunse schioccando la lingua il capo delle operazioni. «Chiba, ottimo lavoro».
«MA SE HA FATTO LA BELLA STATUINA!!» protestò Haruka, disfandosi con stizza del casco e del fucile che ancora imbracciava.
«La pazienza è la virtù dei forti. Ed ora, prima di ulteriori proteste…festeggiamo».
La donna porse loro una scatola di pasticcini e la squadra della SWAT, come fosse un branco di monelli imbrattati dopo una malefatta, cominciò a spintonarsi per aggiudicarsi il dolcetto migliore.
 
 
§§§
 
 
«Guarda, guarda un po’ chi si vede. Hollywood! Vieni forse direttamente dal tappeto rosso degli Oscar?».
Michiru, avvolta nel suo pareo dalla stampa pregna di fiori esotici, si avvicinò al banco del bar dove Haruka era appollaiata sullo sgabello in paglia.
«Vorrei poterti chiedere da quando in qua sei così sfacciata, ma ormai è un marchio di fabbrica il tuo!» rise lei, per poi salutare con un cenno della mano Minako intenta a servire una serie di aperitivi ad un gruppetto di avventori.
«Come se la cava?». Domandò sottovoce Michiru con sincero interesse per la ragazza di Yaten.
«Direi alla grande» rispose Haruka, portando le labbra al collo della bottiglia di birra che fino a quel momento aveva rigirato tra le mani.
Si sentì improvvisamente nervosa, come se la vicinanza dell’altra la facesse tremare dalla punta dei capelli a quella dei piedi.
Ma quella sensazione svanì non appena la voce di Michiru uscì dalle labbra ancora una volta per lei.
«Ho una cosa per te». Disse tirandosi dietro all’orecchio una lunga ciocca blu e sedendosi nello sgabello accanto a lei.
Ad Haruka parve di sprofondare nuovamente in uno di quei film. Quella dove le immagini vanno al rallentatore e ci si sofferma solo sui dettagli del protagonista togliendo l’audio alle parole dell’altra.
“Oh diavolo…”.
Tornò alla realtà al tocco di Michiru che allungò una mano per toglierle la birra di bocca.
 
«Hey ma che fai?!» protestò la bionda.
«Non dovresti bere…» sentenziò l’altra arricciando le labbra.
«Sei diventata la mia mammina?» domandò con tono irriverente e con un’occhiata languida traditoria.
«Assolutamente no. Ma se smettessi di protestare per un non nulla…». Michiru interruppe il suo discorso per poi sospirare e andare dritta al dunque.
Se aveva imparato una cosa sull’altra era che i giri di parole facevano sì che Haruka perdesse il focus del discorso. «Non dovresti bere in servizio. Hai sempre la reperibilità no?».
Haruka aggrottò le sopracciglia in una smorfia confusa.
Michiru stirò le labbra in uno dei suoi sorrisi benevoli e gentili, strisciandole un foglio bianco ripiegato a mezzo sul bancone.
«Ecco la tua autorizzazione per tornare sul campo» precisò lei.
«Non ci posso credere…» commentò stupefatta l’artificiere. «Hai venduto per caso l’anima al diavolo per averla?».
«Ho i miei trucchetti» le schioccò un occhiolino Michiru.
«Cos’hai dovuto fare?» lo sguardo cobalto di Haruka si rabbuiò appena.
«Seya non è così tremendo se preso nella maniera giusta» le confidò alzandosi l’altra, facendo poi per andarsene. «Penso abbia sicuramente influito anche la buona parola di Rei sul tuo conto».
Haruka soffocò un grugnito impedendo alla lingua biforcuta di pronunciare qualcosa che sarebbe risultato sgradevole.
«Per quel che vale...credo ci tenga davvero a lei. Si è preso un bello spavento. Come ce lo siamo presi tutti per voi due in fin dei conti. Insomma, credo sia sinceramente contento che sia finito tutto nel migliore dei modi, perciò penso anche che accantonerà la faida con te se depositerai l’ascia di guerra».
Per tutta risposta Haruka soffocò uno sbuffo un po’ troppo rumoroso. Le sarebbe costato troppo pronunciare un “va bene” vista la sua poca accondiscendenza nella vita di tutti i giorni.
Ma ci avrebbe provato, se non altro per la sua migliore amica.
«Senti…» la bloccò cambiando discorso. «Allora ci stai per quella cosa?».
Michiru la guardò dritta negli occhi come a voler sondare nell’abisso della sua anima attraverso le iridi chiare.
«Te la senti davvero?».
Un cenno di assenso del capo le scompigliò la zazzera bionda.
«Ok, allora ci sto».
«Bene».
«Andremo a cercare tua madre» sentenziò Michiru.
 
 
 
§§§
 
 
 
Ben oltre il tramonto, a spiaggia deserta, Minako si apprestò a spegnere le lucine colorate al bancone per poi avviarsi dalla spiaggia al molo.
Canticchiando a fior di labbra mandò un sms a Yaten per informarlo che lo avrebbe raggiunto presto alla Blue Lagoon.
Avevano un bel po’ di notti in bianco da passare per lavorare alle nuove tracce, per poi esibirsi nuovamente in alcuni locali prima del loro vero e proprio debutto come duetto.
Minako, fin a quel momento non aveva voluto mollare nonostante la minaccia telefonica del padre e il suo ricatto.
Aveva ingoiato il rospo, si era tirata su le maniche e con il suo solito sorriso non si era lasciata scoraggiare dall’uomo che l’aveva cresciuta.
Non voleva rovinare quel momento a Yaten, perciò lo aveva lasciato all’oscuro del suo rapporto complicato col padre. Lui non aveva certo bisogno di altri drammi famigliari, ma solo di concentrarsi sul suo futuro musicale.
Avrà mangiato? Si perse per un momento a vagliare l’ipotesi che il ragazzo fosse a stomaco vuoto, perciò tentennò sul prendere qualcosa d’asporto. E mentre il pollice scorreva sul display, tra una serie di menù digitali, il gorgogliare sinistro dell’oceano coprì l’inchiodare di un auto con i vetri oscurati che le tagliò la strada.
Minako indietreggiò con un balzo, pronta ad inveire contro il guidatore del veicolo sino a quando non lo riconobbe. Uno degli scagnozzi di suo padre le fece cenno di salire sul sedile posteriore della vettura con sguardo minaccioso.
Poteva rifiutarsi.
Un vento violento la frustò in viso con le lunghe ciocche bionde.
Avrebbe potuto correre e nascondersi.
Le dita della mano destra si ancorarono violente alla borsa appesa alla sua spalla.
Il segnale radio di un take-away lungo il molo gracchiò in modo inquietante.
Minako serrò le labbra fino a farle divenire una sottile linea dritta. Non era stupida ed era cosciente più che mai che il secondo avvertimento di suo padre era l’ultimo prima di agire nel peggiore dei modi. Non era famoso per essere un uomo paziente in patria. E soprattutto non era uno che aveva paura di sporcarsi le mani se necessario. Mr Ainō aveva sempre ottenuto ciò che voleva in un modo o nell’altro.
«Salga, abbiamo un messaggio per lei. Da parte di suo padre» la invitò nuovamente lo scagnozzo.
Minako avvertì aria di tempesta. Il suo cuore batteva all’impazzata come fosse in procinto di poter esplodere da un momento all’altro nel suo petto.
«Potrebbe chiamare…o mandare una mail» provò a far la splendida. Un ultimo mero tentativo di apparire imperturbabile e armata di un coraggio che in realtà era venuto a mancare nell’esatto istante in cui aveva riconosciuto l’uomo che le stava parlando.
«Preferirei di no».
L’uomo mosse un passo in sua direzione.
«Potremmo parlare qui, evitando le cose da gangster che si vedono nei film».
Il suo interlocutore si arrestò a un passo da lei.
Minako corse con lo sguardo sino ad intercettare il luccichio della pistola sistemata alla cinta dell’uomo, seminascosta solo dalla lunga giacca.
«E’ ora di tornare a casa. In Giappone».
Minako si sentì mancare l’aria.
Il proprietario del take-away inveì allo spegnersi improvviso dei suoi neon per un guasto alla corrente.
«La vacanza studio è finita. Ed è l’ultimo avvertimento se vuoi evitare una visita alla barca del tuo amichetto».
Le ali delle farfalle che Yaten aveva fatto sì volassero nel suo stomaco con ogni suo bacio vennero brutalmente strappate da quelle parole.
L’ossigeno le venne meno e per un momento credette di svenire.
Abbassò il tronco, portandosi le braccia alla vita mentre i fari dell’auto svanirono nel buio così come erano comparsi.
Svegliati Mina. Intimò alla sua testa, prendendo a sudare. Svegliati da questo miserabile incubo. Rantolò per poi tossire. Ancora una volta tornò alla ricerca di aria ma respirare era divenuta un’operazione troppo dolorosa e difficile.
Si chinò completamente persa, come avesse improvvisamente ricevuto una botta in testa e avesse perso l’orientamento.
Suo padre aveva colpito laddove poteva farle più male e i colpi che aveva sempre sferrato nella vita erano stati volti ad uccidere più che a ferire.
Minako non poteva vincere contro di lui e non poteva rischiare che a Yaten fosse fatto alcun male, perciò con l’ultimo barlume di lucidità che le rimaneva in corpo capì quale fosse l’unica cosa da fare per salvarlo.
Lasciarlo. Fargli credere che era stato tutto fuorché che amore il loro.




NOTE DELL'AUTRICE: 
Care Loganiane, ho deciso di far venire la neve, perciò ho pubblicato! 
Scherzi a parte...avevo cominciato il capitolo mesi fa e poi è subentrato un blocco allucinante. Lavorare 13 ore al giorno non mi ha aiutata a trovare il tempo per scrivere, ma ora che ho perso quell'occupazione e ho ricominciato a vivere ho provato a finire l'obrobrio cominciato. Ne convengo con voi, poteva essere migliore di così e più esaustivo...ma sapete una cosa? Ho pensato "dopo così tanto tempo meglio corto che niente!" perciò spero vi faccia piacere in ogni caso.
Colgo l'occasione per ringraziarvi infinitamente della pazienza e per essermi state accanto quest'anno che si è rivelato durissimo. A breve toglierò l'avviso (capitolo fake precedente) ma sappiate che i vostri commenti rimarranno sempre con me.
Vi auguro il meglio e spero di regalarvi un altro capitolo prima di Natale anche se la vedo ardua. UN BACIO GIGANTE

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Capitolo 24
*** Tornado ***


 
Non ti amo.
Tre parole che come un proiettile lo avevano colpito in pieno petto.
Preso di sorpresa e disarmato, Yaten, era stato piegato come canna di bambù al vento per mano di Minako, che come il più spietato degli assassini lo aveva ucciso a sangue freddo nel bel mezzo della notte precedente.
Se n’era andata, lasciandolo inerme sul ponte della Blue lagoon. E lui - per lo shock -non aveva reagito come il più codardo degli uomini; freddato da quella manciata di sillabe non aveva chiesto spiegazione alcuna.
In fondo che cosa c’era da dire se mancava l’amore? In assenza di un sentimento nessuna soluzione sarebbe stata possibile.
 
Rimasto solo, seppe soltanto contemplare l’ultimo regalo lasciatogli da Minako. La voragine che l’assenza di lei gli aveva aperto nel bel mezzo del petto.
 
Che rumore fa l’oceano di notte? La voce della ragazza riecheggiò nella sua mente e per un attimo Yaten venne trasportato al giorno in cui fecero l’amore per la prima volta. Quello in cui lei, affamata di ogni suo piccolo particolare o pensiero, gli pose quella domanda.
Quanto tempo era passato da allora?
Un’eternità o un minuto appena?
 
Che rumore fa l’oceano di notte, Yaten?
«È il sibilo di un serpente a sonagli pronto a paralizzarti col suo veleno…» sussurrò in preda allo sconforto che mano a mano diveniva un dolore sempre più insopportabile.
 
Ma quella non era la vera risposta che le aveva dato.
 
La giungla dei ricordi lo inghiottì nuovamente.
«Stai dicendo che rimarrai. Lo sai?»
«Certo».
 
«Bugiarda».
Nonostante le parole uscitegli di bocca faticava a pensare non fosse stata sincera quella volta.
 
«Rimani?».
«Rimango».
 
Le aveva creduto senza riserve. Forse come uno stupido, ma lo aveva fatto.
E lei aveva sigillato quella promessa con un bacio prima di diventare sua una volta per tutte.
 
Non poteva aver mentito. Yaten i bugiardi li riconosceva a chilometri di distanza e sapeva che Minako non gli avrebbe mai fatto del male. La sua Minako non sapeva mentire. Non a lui.
Sospirò pesantemente.
E accadde qualcosa di inaspettato, di nuovo.
Il suo viso era bagnato.
Si passò il dorso della mano sulla guancia, incredulo.
Stava piangendo? Ne era ancora capace?  
 
Non ti amo.
 
Glielo aveva detto senza guardarlo negli occhi. Come fanno i codardi.
Ma Minako non lo era.
Un codardo non combatte per i suoi sogni, getta la spugna e rinuncia a ciò che lo rende vivo.
Era una falsa speranza la sua? Stava forse impazzendo incapace di accettare la realtà dei fatti?
Yaten strinse i denti e ripensò ancora una volta a lei. Anche se in quel momento era la cosa più dolorosa che potesse fare. Ma nel ricordo del suo angelo biondo vi trovò inspiegabilmente conforto.
La Minako che aveva conosciuto e con cui aveva corso lungo il molo per portarla nel suo posto segreto, non era capace di liquidare qualcuno così. A lei piacevano le parole, a volte ne faceva persino un uso spropositato. Le piacevano così tanto da farle cantare storie intere pizzicando le corde della sua chitarra.
Minako era dolce.
Era sensibile.
Lei teneva forse più a lui che a quel sogno che avevano raggiunto con fatica assieme.
 
Ed ecco la chiave di tutto. Il fulmine a ciel sereno che rischiarò la nottata solitaria di Yaten con estrema chiarezza.
Lui la conosceva meglio di quanto conoscesse in fondo se stesso.
 
All’alba di quel nuovo giorno il vento soffiò sinistro.
Al largo della costa i cavalloni d’acqua sembravano voler sfiorare il cielo con la loro spuma. E Yaten comprese che l’unica menzogna di Minako era stata proprio quella della notte precedente.
 
Rinvigorito da quella certezza e dalla cieca fiducia riposta in lei doveva solo capire il motivo per cui si era mascherata da bugiarda.
 
 
§§§
 
 
 
Pioveva a dirotto.
Il cielo di un grigio cupo pareva voler far tornare notte all’istante piuttosto che rischiararsi ed annunciare l’arrivo del mattino.
Rei, con un ombrello gocciolante aiutò l’amica con i bagagli.
«Sicura sia la cosa giusta da fare?» domandò con un filo di voce, per poi dare una spinta ad uno dei trolley di Minako.
La bionda sospirò pesantemente come non aveva mai fatto prima. Raccolse le briciole di un sorriso rassegnato e annuì all’amica.
«Non vedo altra soluzione. Oserei dire che mio padre è stato molto chiaro. Non voglio rischiare ci vada di mezzo Yaten».
Il suo cuore s’incrinò al pronunciare il nome del ragazzo.
Avrebbe voluto tanto vivere la scena di uno di quei film romantici in cui lui si rende conto della realtà delle cose e corre a perdifiato in aeroporto.
Ma Minako, per quanto sognasse una commedia romantica, sapeva di essere immersa sino alla nuca in un dramma.
Non sarebbe accaduto niente del genere. E sullo screen della sua storia d’amore erano già apparsi i titoli di coda da ore.
 
Un’occhiata al tabellone dei voli per scovare il proprio gate e strinse la cinghia della chitarra in spalla.
«Tenterò di calmare le acque tornando a casa. Poi vedrò il da farsi».
Nutriva ancora un timida fiammella di speranza in cuor suo. Quella di tornare e riprendere la sua vita in California, come se quello di suo padre fosse un capriccio passeggero.
Magari, facendo la studentessa modello, lo avrebbe convinto. Era stata una stupida a mollare l’università solo per concentrarsi sulla musica. Ma se non lo avesse fatto non avrebbe mai incontrato il ragazzo che amava con tutta se stessa e per cui era pronta a sacrificare ogni cosa pur di tenerlo al sicuro.
«C’eri così vicina…come farai con la casa discografica?». Rei interruppe quelle riflessioni che non l’avrebbero portata da nessuna parte se non alle porte della disperazione più profonda.
«Inventerò qualcosa» affermò mordendosi le labbra.
 
Il riflesso di un lampo si stagliò nelle iridi delle due giovani.
«Se…» Minako dovette far una pausa ancor prima di cominciare a parlare. «Se dovessi incontrarlo, fagli avere questo». Estrasse dalla borsa un lettore mp3 per porgerlo a Rei.
«Per favore» aggiunse quasi la dovesse convincere, ma in realtà quella era una sorta di preghiera verso la sorte della sua storia d’amore.
Rei annuì senza fare ulteriori domande.
 
Il fragore di un tuono s’intromise tra la conversazione delle due facendole sobbalzare.
«Credo che il tuo volo non sarà molto pacifico...».
«Non ci avrei mai sperato» ironizzò Minako.
Rei aprì il palmo della mano.
«Ti accompagno».
Minako intrecciò le dita alle sue con un sorriso di gratitudine.
 
E’ solo un’altra stupidissima avventura.
 
 
§§§
 
 
«Tra tutti i giorni doveva proprio piovere oggi» mugolò lamentoso Dan al volante del cingolato della SWAT, spazzando via le fitte gocce con la vigorosa passata dei tergicristalli.
Haruka, al suo fianco, fece roteare gli occhi in un moto d’intolleranza sobbalzando al loro prendere troppo veloce una buca sul manto stradale. Odiava le attese sul prima di entrare in azione, anche perché sapeva bene essere l’inizio di grezzi pettegolezzi da parte dei colleghi o sproloqui senza capo ne coda per riempire lo scandire dei minuti che poteva separarli dalla morte.
«Un romantico pic nic in autunno…cosa pretendevi? Hai avuto tutta l’estate davanti per sdraiarti sull’erba a ingozzarti in dolce compagnia».
«Tecnicamente no» le rispose piccato Dan. «Mica stavo assieme al capo Meiō».
«Ho i brividi quando la chiami così. Ora è la tua donna no?! Capo Meiō…» fece schioccare la lingua lei usando una strana vocetta per denigrare l’amico.
 
«Per quel che vale l’idea di un pic nic autunnale io l’approvo in pieno».
Ad Haruka quasi venne un infarto a sentire quella voce alle spalle. Si voltò con gli occhi spalancati e incredula scorse la figura di Usagi che biascicava allegramente un chewingam, esibendo bolle rosa da primato tra una presa di fiato e l’altra.
«Voglio dire, si possono fare degli scatti fantastici per insta con il foliage e poi essere sorpresi dalla pioggia e stare in due sotto allo stesso ombrello a braccetto…e…».
«COSA DIAVOLO CI FAI QUI?!» Haruka non riuscì a controllare il tono della voce mandando in frantumi i sogni romantici della bionda.
«Kansas, datti una calmata…» intervenne bonario Dan avendo ricevuto manforte dalla ragazza.
«Si, datti una calmata!».
«SIETE IMPAZZITI PER CASO?! E TU…» l’indice di Haruka indicò l’infiltrata con fare minaccioso. Tu, sei su un mezzo militare nel bel mezzo di un’azione, sei forse andata FUORI DI TESTA?!».
Usagi sembrò dover processare una risposta esauriente.
«Haru, è quel giorno del mese per caso?».
«Non posso crederci…» farfugliò sfinita da quel siparietto senza capo ne coda, Haruka.
Dan arrestò il mezzo inchiodando bruscamente.
«Arrivati!». Il ragazzone gongolò con un mezzo sorriso apprestandosi ad uscire sotto alla pioggia battente. «Su Haru, metti via il broncio. Le abbiamo dato solo un passaggio…».
«Eh già Haru» sospirò Usagi sistemandosi le calosce a fiorellini modaiole che sfoggiava nei rari giorni di maltempo «mi avete accompagnata dal mio principe!». Un secondo per indicare Mamoru, intento a ispezionare la zona, e sparì da sotto gli occhi dei presenti per precipitarsi da lui.
 
Facciamo anche il servizio taxi ora.
 
Il fragore di un tuono coincise col suo salto fuori dal cingolato.
Lei, incurante del temporale lasciò che la pioggia carezzasse il suo viso. Le iridi cerulee percorsero il perimetro fino a schiantarsi ancora una volta tra le onde acqua marina di Michiru intenta a conferire con Setsuna.
Poi, come se la sua presenza potesse richiamarla all’istante, la mediatrice si voltò verso di lei sorridendole. Haruka non poté far altro che fare il conto alla rovescia al perdere il controllo di se stessa. Ogni muscolo del corpo chiedeva pietà per il supplizio di resistere ancora sull’attenti come un soldato intento al saluto militare.
La verità è che si sarebbe inginocchiata sotto alla pioggia per Michiru Kaiō; ormai il gioco del gatto e il topo era durato sin troppo a lungo.
Avrebbe voluto abbracciarla, ispirare il profumo della sua pelle e annodare le dita ai suoi lunghi capelli fino a sentirsi in pace col mondo. Fino a regolare il proprio battito con quello della pioggia.
Forse sarebbe diventata una pappa molla come il suo amico Dan e avrebbe escogitato strambi pic nic autunnali anche lei se fosse servito a far felice Michiru Kaiō.
La stessa Michiru che quasi a passo di danza si avvicinò a lei sino a prenderla sotto il suo ombrello navy.
«Ti prenderai un malanno» le disse con voce carezzevole. «E non puoi proprio permettertelo, no? Abbiamo un viaggio importate da fare dopo questo lavoretto».
Lei riusciva a far sparire tutto. Persino la tensione di dover scovare la sua vera madre. Haruka ormai vedeva solo lei.
Cos’è questa sensazione?
«Tutto bene, Haruka?» domandò poggiandole una mano sulla spalla l’altra.
Sono completamente andata. E non ho la minima idea di cosa fare. Perché non so comportarmi diversamente dalla cinica, insopportabile, irreverente Haruka che viene dal Kansas.
Sarebbe dovuta scappare da se stessa, così come aveva fatto dagli amish per piacere a Michiru?
«Senti…Hollywood». Il soprannome le uscì quasi stonato dalle labbra. Appena impercettibile, soffiato all’orecchio dell’altra quasi dovesse essere un segreto tra due teneri amanti.
Michiru rimase in attesa, con un velo di preoccupazione negli occhi chiari che non accennavano a smettere di guardarla.
Forse aveva capito che era imbarazzata. Che voleva dirle che era interessata a lei non per gioco.
Lo sguardo della bionda scivolò altrove, senza riuscire a mantenere quello dell’altra. E fu in quel momento che qualcosa la bloccò dalla sua “dichiarazione”.
«Mi stai preoccupando, cosa c’è che non va?».
Il cielo. Il cielo aveva cambiato colore.
Tinte verdastre si affacciavano tra le nubi temporalesche.
 
«To-tornado».
Deglutì anche se lo trovò impossibile da fare per la prima volta nella vita.
 
«Credo ci sia in arrivo un tornado».



Note dell'autrice:
Non dirò più la cadenza con cui posterò perché purtroppo ho capito di non riuscire più a far previsioni. Posso solo scusarmi per il tempo passato tra questo e lo scorso capitolo ma quando il "blocco dello scrittore" colpisce è davvero impietoso con la sottoscritta. Ad ogni modo mi scuserò anche per il capitolo in sè che come solito non mi convince, ma se devo stare dietro anche a tutte le mie paranoie possiamo dire addio alla fine della storia...perciò ho rischiato e ve l'ho postato.
Alla prossima e...buone vacanze!

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Capitolo 25
*** AVVISO E BUON ANNO ***


Loganiane, buonasera...ma soprattutto buon 2024!
Mi auguro abbiate passato delle buone feste e che abbiate cominciato al meglio questo nuovo anno.

Questo avviso per dirvi che...mi hanno hackerato fb e con quello non posso più accedere alla mia pagina FB "Kat Logan EFP", dove mettevo i miei aggiornamenti. Purtroppo non riuscirò a recuperarla e mi spiace tantissimo per tutti i ricordi che avevo lì (come sul mio vecchio profilo personale).
Penso provvederò a fare una nuova pagina e soprattutto, un proposito per questo anno sarebbe tornare a scrivere.

Con l'augurio di sentirvi presto e aggiornare se non questa ff il mio account qui con una nuova storia (perchè del domani non c'è certezza!) vi mando un grande abbraccio.

Kat 

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