Losing My Religion

di Miss Ravenclaw
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione ***
Capitolo 2: *** Losing My Religion ***
Capitolo 3: *** Potion Approaching ***
Capitolo 4: *** Meet me at the corner ***



Capitolo 1
*** Prefazione ***



 


Prefazione

 

Il viso di Matthew era a pochi centimetri di distanza dal suo e l’unica cosa che Gigi riusciva a pensare era che avrebbe desiderato essere in tutt’altro posto.
Aveva sognato quel momento dalla prima volta che aveva incrociato il suo sguardo; eppure, adesso che era arrivata finalmente all’obiettivo, sapeva, con una certezza che non l’aveva mai contraddistinta, che non era la cosa giusta da fare.
Nonostante questa consapevolezza, lasciò che le sue mani le circondassero i fianchi e che quella bocca si spalmasse sulla sua.
Non avrebbero mai potuto dire che Gigi non ci provasse fino in fondo.
Il contatto rimase tale, un contatto.
Labbra che si muovevano, una lingua troppo impertinente che cercava di farsi spazio tra i suoi denti, delle mani che scendevano troppo velocemente verso il suo sedere.
Si allontanò, un campanello d’allarme aveva cominciato a suonare come impazzito nella sua testa.
Nessuno sembrava aver fatto caso a loro: erano tutti impegnati a ballare e la musica era troppo alta perché qualcuno avesse sentito il suo gemito di protesta mentre si allontanava da Matthew.
Anche lui sembrava non averci fatto caso: si guardava intorno con aria compiaciuta mentre con una mano si scompigliava gli umidi capelli castani.
Gigi si guardò intorno, cercando disperata la sua amica Tessa che sembrava essere scomparsa nel nulla.
Dov’era quando aveva bisogno di lei?
Non sperava che Matthew avesse capito le sue intenzioni, il suo sguardo malizioso le lasciava intendere tutt’altro.
Aveva la mente annebbiata dall’alcool e i sensi non sembravano rispondere come lei avrebbe voluto.
Fece un passo indietro, cercando di aggrapparsi all’ultimo barlume di sobrietà per non cadere; il pavimento scivoloso non le agevolò per nulla il compito.
Matthew allungò la mano verso il suo viso e, prima che Gigi potesse fare anche solo un altro gesto, le afferrò una ciocca di capelli scuri, cercando di tirarla di nuovo verso di sé.
Non ricordava quando aveva cominciato a percepire quei gesti non più come affascinanti tentativi di attirare l’attenzione ma solo come dei sordidi sforzi di prepotenza.
Un fioco barlume di lucidità le schiarì la mente il tanto che bastava ad allontanare definitivamente il ragazzo.
Si voltò, cercando di vedere qualcosa in quella moltitudine di corpi che si muovevano a ritmo di musica.
L’ambiente era annebbiato, Gigi non riusciva a capire se quell’effetto fosse dovuto all’alcool o alle luci rosse che rendevano l’atmosfera ancora più imperscrutabile.
Allontanarsi da Matthew fu un bene e un male allo stesso tempo: in pista il caldo era ancora più soffocante di quanto non lo fosse nelle zone riservate ai tavoli; le persone si accalcavano lasciando solo qualche centimetro di distanza tra un corpo e l’altro, rendendo quasi impossibile passare.
Non sapeva come avrebbe fatto a ritrovare Tessa per tornare a casa, l’unica cosa che le interessava in quel momento era uscire di lì.
Quando finalmente riuscì a farsi spazio tra la folla, le sembrò che fosse trascorsa un’eternità.
Si appoggiò al muro, chiuse gli occhi e cominciò a fare alcuni respiri profondi per cercare di calmare il violento capogiro che l’aveva colta alla sprovvista.
Frugò nella borsetta alla ricerca del suo telefono; quando lo trovò, inviò un messaggio a Tessa per avvertirla che se ne sarebbe andata.
Per quanto il poco buonsenso che le era rimasto le stesse urlando di rimanere in discoteca, non era sicura che sarebbe riuscita a reggere per un solo secondo di più quella musica.
Appena uscì dal locale l’aria fredda del mattino la fece sentire meglio: il cielo era ancora scuro e le stelle brillavano come fari nella notte.
Si tolse le scarpe e cominciò a camminare: l’asfalto era gelido e sentiva i sassolini della strada sotto le piante dei piedi ma era così sollevata di essere uscita da quell’inferno che non se ne curò.
Impiegò molto tempo a raggiungere la fermata dell’autobus che l’avrebbe riportata al dormitorio; quando finalmente si sedette sulla panchina, si sentiva distrutta: aveva i piedi gonfi e doloranti, molto probabilmente si era ferita i piedi con un rametto caduto da qualche albero e la testa le girava come se fosse appena scesa da una giostra.
Fu un breve istante quello che trascorse prima che cominciasse a provare odio nei confronti del mondo intero: verso Tessa che era riuscita a convincerla ad uscire e poi era sparita, verso Matthew che aveva deciso di farsi avanti quando era ormai troppo tardi e soprattutto verso sé stessa e la sua debolezza.
Ringhiò di frustrazione prima di accorgersi di non essere la sola persona ad essere seduta sulla panchina.
Solo quando si rese conto di quella presenza cominciò a percepire la musica che proveniva dalle sue cuffiette; era così alta che riusciva ad ascoltare il pezzo con chiarezza.
Il ragazzo accanto a lei era bello, di una bellezza non convenzionale: aveva lineamenti delicati, quasi femminei; il viso coperto solo da una lieve peluria scura era ovale e piegato in una smorfia di stanchezza; grandi occhiaie scure gli incorniciavano gli occhi chiari, così blu da somigliare al colore dell’oceano Atlantico; i capelli scuri schizzavano in tutte le direzioni, in una valida imitazione di Sid Vicious dei Sex Pistols.
Lo osservò giocare distrattamente con il percing al labbro inferiore, gli occhi fissi nel vuoto e le mani infilate nelle tasche della felpa.
Era così diverso rispetto ai ragazzi che quella sera aveva visto in discoteca da sembrare quasi alieno.
I fari dell’autobus illuminarono per un attimo la panchina dove erano seduti e il ragazzo sembrò riscuotersi dai suoi pensieri.
Si voltò verso Gigi, essendosi reso conto solo in quel momento di non essere solo, la scrutò solo per qualche istante prima di far scivolare via dalle sue orecchie le cuffiette.
L’autobus si fermò davanti a loro, cigolando in modo preoccupante.

«Che cazzo guardi?» sbraitò e prima che lei potesse anche solo pensare ad una risposta sensata, salì sul bus, lasciandola lì, a corto di parole.



******

Buongiorno a tutti.
Oggi per me è un giorno molto importante, finalmente ho ritrovato il coraggio di pubblicare qualcosa di mio.
Questa volta, però, è diverso; per la prima volta nella mia vita ho deciso di rendere pubblico qualcosa di interamente mio.
Penso sia scontato dire quanto io sia emozionata in questo momento.
Quello appena pubblicato è solo un piccolo frammento, una prefazione appunto, giusto per introdurre alcuni dei personaggi principali.
Mi farebbe davvero tanto piacere se mi lasciaste un piccolo parere, giusto per sapere se vi è piaciuto leggerlo almeno la metà di quanto sia piaciuto a me scriverlo.
Scusatemi per il papiro.
A presto.

 

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Capitolo 2
*** Losing My Religion ***


Capitolo 1

Losing My Religion




«Ho saputo – la voce di Tessa le arrivò attutita da dietro la porta del bagno – che Matthew, il tuo Matthew, ti ha baciata e tu lo hai respinto?»
L’incredulità della sua migliore amica non la sorprese per niente.
Erano le quattro del pomeriggio di una domenica monotona e Gigi non aveva alcuna voglia di continuare quel discorso: la testa le scoppiava, gli occhi non riuscivano a restare aperti per più di qualche minuto e le gambe erano così pesanti che sembravano essere di cemento armato.
Era nel pieno dei postumi di una sbornia colossale.
Non sapeva come Tessa riuscisse a reggersi in piedi avendo dormito solo poche ore.
Gigi la invidiò, poi si rigirò tra le coperte e chiuse di nuovo gli occhi, sperando che la sua amica la lasciasse in pace.
La fortuna non era dalla sua parte.
Tessa entrò come un tornado nella stanza, i corti capelli scuri che gocciolavano di acqua e la faccia tutta impasticciata di trucco.
«Mi rispondi?» Gigi ebbe la netta impressione che stesse per perdere la pazienza, quindi, facendo appello a tutta la forza che le era rimasta, scostò le coperte e si mise a sedere.
«Mi spieghi dove sei finita ieri sera?» Sapeva che non sarebbe riuscita ad evitare a lungo il discorso.
«Non cambiare argomento».
Appunto.
Gigi si passò le mani sugli occhi poi sbadigliò, cercando di temporeggiare il più possibile.
«La verità è che non so nemmeno io perché l’ho respinto – disse alla fine, capendo che sarebbe uscita da quella situazione solo parlando – quando si è avvicinato, ho avuto la sensazione che la situazione fosse del tutto sbagliata. A mia discolpa, però, posso dire che ho tentato» aggiunse e solo allora alzò lo sguardo verso l’amica.
Gigi non riusciva a capire se lo sguardo che le stesse rivolgendo Tessa fosse accigliato oppure avesse la fronte corrugata per lo sforzo di mettere a fuoco la sua figura malgrado la miopia.
«Non ho provato niente quando mi ha baciata, quindi ho deciso che non valeva la pena continuare una cosa che non riusciva a trasmettermi alcun tipo di coinvolgimento emotivo».
Tessa non rispose, si sedette sul letto di fronte a lei, prese la spazzola dal comodino e cominciò a pettinare i capelli bagnati, osservandola con aria assente.
«Lui sembrava molto arrabbiato del fatto che te ne fossi andata – parlò quando Gigi credette che non le avrebbe più risposto. – è venuto a cercarmi; tra parentesi, l’ho trovata una cosa molto frustrante dato che ero impegnata con un ragazzo.
Comunque, ha cominciato a sbraitare contro di te, dicendo che eri solo un’insicura del cazzo, che non meritavi la sua considerazione, che se non fosse stato per il fatto che tu gli morissi dietro da una vita non ti avrebbe calcolata minimamente, cose così…».
Gigi accusò il colpo e si lasciò cadere all’indietro.
Con la testa immersa tra i cuscini anche le parole di quell’ottuso di Matthew acquistavano meno importanza.
«Io, da brava migliore amica quale sono, l’ho mandato a quel paese, dicendo che non si sarebbe dovuto rivolgere in quel modo nei tuoi confronti e che, comportandosi così, non dava per nulla l’impressione di essere un vero uomo».
Tessa si era alzata, aveva indossato gli occhiali e si era seduta accanto a lei, cominciando ad accarezzarle le mani con una tenerezza atipica per lei.
«Ha davvero detto queste cose?» la voce le uscì spezzata, nonostante il fatto che stesse cercando con tutta sé stessa di trattenere il groppo che le aveva chiuso la gola.
«Sì, ma lo hai detto anche tu che non è la persona giusta per te, no?»
Tessa non capiva: per quanto Matthew potesse essere diventato importante da quando lo aveva conosciuto, a ferirla per davvero era la consapevolezza che qualcuno avesse espresso ad alta voce l’opinione che Gigi aveva di sé stessa e che, come un tarlo, le mangiucchiava a poco a poco il cervello da ormai 20 anni.
La sua amica era inquieta e rigida, come se si aspettasse un suo scoppio da un momento all’altro.
Decise di lasciar correre, sperando che Tessa facesse finta di niente, che fingesse di crederle.
Alzò le spalle.
«Sì, l’ho detto e va bene così, dopotutto non potevo aspettarmi di meglio da uno come lui, no?»
La sua amica non rispose subito, come se stesse cercando di trovare parole giuste per esprimere un concetto che in realtà nemmeno lei era sicura di voler esprimere a voce alta.
Alla fine, sembrò optare per il cliché: «Si chiude una porta, si apre un portone».
Con questa frase si alzò dal letto, per dirigersi verso il bagno.
«Dove stai andando?» domandò quando vide che la sua amica cominciava a vestirsi.
Tessa le lanciò un’occhiata maliziosa e sorrise.
«Mi devo vedere con il tipo di ieri».
Gigi si mise a sedere di scatto, all’improvviso sull’attenti: «E tu me lo dici solo adesso? Com’è? Carino?»
«Io lo trovo molto carino e suona anche il basso in una band punk rock, quel genere strano che piace anche a te».
Non riusciva a credere a ciò che le stesse dicendo.
«Cosa ci faceva un tizio che suona in una band punk rock in una discoteca dove suonano solo musica reggaeton?» le chiese, alzandosi dal letto per andare in bagno.
«Era al compleanno di un amico, infatti si vedeva che non si sentiva molto a suo agio. Se le cose andranno bene te lo farò conoscere, sicuramente andrete d’accordo» urlò Tessa per farsi sentire da dietro la porta chiusa del bagno.
Un attimo dopo la sentì andare via.
 
Una volta, molto tempo prima, girovagando in rete, il commento di un utente di un forum sui rapporti interpersonali l’aveva fatta riflettere e l’aveva sconcertata allo stesso tempo: “E poi ci sono loro, quelle superflue, quelle che quando esci in comitiva e dici ‘sono tre o quattro ragazze’ sono proprio le “O4”, quelle di cui faresti tranquillamente a meno ma che poi diventano le mascotte del gruppo.”
Lei si era sempre sentita la Lady O4 della situazione: non aveva la bellezza sensuale di Tessa e nemmeno quella irruente di Martine, la classica bambola bionda che ogni ragazzo almeno una volta nella vita aveva desiderato.
Gigi era semplicemente Gigi: una finta sfrontatezza che ben mascherava un’anima troppo fragile per essere capita a primo impatto da qualcuno.
Era sempre stata consapevole di essere stata relegata in quella condizione e non aveva mai capito quanto la situazione le stesse stretta fin quando non aveva incontrato Matthew: lui che era gentile solo con lei, che scherzava solo con lei e che sembrava non vedere nessun altro oltre lei.
Per quanto all’inizio avesse pensato che fossero solo sue pippe mentali, alla fine aveva dovuto arrendersi all’evidenza che quel ragazzo sembrava avere una preferenza per lei, solo per lei.
Fu per questo motivo che, quel pomeriggio, mentre era sdraiata all’ombra del suo albero preferito nel parco del campus di Yale, non riuscì a non provare un certo ribrezzo nel vedere Matthew che si avvicinava sempre di più.
I contorni sfocati della sua figura divennero ben definiti e, malgrado la repulsione che in quel momento l’animava, non potette fare a meno di pensare quanto Dio fosse stato buono con lui, o quanto i suoi genitori si fossero impegnati nel concepirlo, a seconda dei punti di vista.
Matthew era il classico ragazzo che ogni mamma avrebbe voluto vedere accanto alla propria figlia, pur con la consapevolezza che l’avrebbe fatta soffrire come un cane.
«Mi spieghi perché ieri te ne sei andata in quel modo» il suo tono mal celava l’irritazione che provava.
«Forse perché sono solo un’insicura del cazzo che non merita la tua attenzione e con evidenti problemi a mascherare i suoi sentimenti» il mezzo sorriso che gli rivolse era carico di sarcasmo.
L’espressione di Matthew rimase immutata, nemmeno un’ombra di imbarazzo attraversò il suo bel volto.
«Tu non aveva il diritto di …» iniziò ma Gigi lo interruppe.
«Di fare cosa, precisamente? Di allontanarmi perché non avevo voglia di essere baciata da te? Ma ti ascolti quando parli, Matthew? Io ho diritto di fare ciò che voglio senza che nessuno possa avere la pretesa di insultarmi gratuitamente davanti a tutti» si mise a sedere, il volto arrossito dall’ira.
Anche Matthew sembrava essere sul punto di perdere la pazienza: le mani erano chiuse a pugno, come se stesse trattenendo un qualche gesto violento, gli occhi castani erano socchiusi e la osservavano con un miscuglio di disprezzo e derisione che Gigi non gli aveva mai visto assumere.
«Tu dovresti ringraziarmi per il semplice fatto che io abbia deciso di considerarti – il suo tono era cattivo e Gigi capì che ce la stava mettendo tutta per ferirla – sarai sempre la seconda scelta di tutti, non lo capisci? Io ero la tua unica possibilità».
Il viso di Matthew era a pochi centimetri di distanza dal suo e solo dopo qualche secondo si rese conto di essere stata lei ad avvicinarsi.
Le mani le tremavano e credeva, anzi, sapeva con certezza, che non sarebbe riuscita a reggere ancora per molto il confronto.
«Perché perdi tanto tempo con me se mi consideri alla stregua di una bambola di pezza? – la sua voce era un sussurro roco – lasciami in pace, dato che non mi ritieni all’altezza di essere al tuo fianco.
Di persone come te ne ho incontrate così tante nella vita che ormai sei solo la copia di una copia di una cosa che ho già visto.
Sei un essere così piccolo, così viscido, che riesci a provare piacere solo ferendo gli altri usano le loro debolezze.
Mi fai schifo, Matthew, in un modo così intenso, così profondamente radico nel mio essere da farmi quasi male».
Quando finì aveva il fiatone e le guance erano diventate ancora più rosse.
Alzava e abbassava il petto velocemente, cercando di incamerare quanta più aria possibile.
Il volto di Matthew era segnato da un’espressione sconvolta: l’ultima cosa che si sarebbe aspettato era una reazione del genere da parte di Gigi.
«Io…» la voce uscì flebile dalle sue labbra sottili e la ragazza fece una smorfia, non riuscendo a trattenere l’espressione di disgusto nel sentirlo parlare.
«Apprezzerei che tu non dicessi più nulla» lo interruppe per l’ultima volta mentre raccattava in fretta le sue cose.
«E se non chiedo troppo preferirei che tu cancellassi il mio numero, anzi, che tu cancellassi completamente la consapevolezza della mia esistenza dal tuo cervello. Le relazioni disfunzionali non sono per niente il mio forte» detto questo lo guardò per un’ultima volta: alla luce della nuova consapevolezza che l’aveva inondata, i tratti di Matthew, che aveva sempre considerato bellissimi, le parvero meno affascinanti.
Si allontanò, il cuore che sprofondava sempre di più in un macigno di incertezza.
Pregò Dio che il ragazzo non tentasse di raggiungerla; per fortuna, non lo fece perché, non appena fu così lontana da non essere più a portata d’orecchie del suo carnefice, scoppiò in singhiozzi.
 
Il Route 66 era un localino che si trovava al centro di New Haven, in una piazza quasi sempre affollata dai turisti che arrivavano per visitare Yale.
Dall’esterno aveva l’aspetto di un tipico pub inglese: la facciata rivestita di legno scuro, una grossa insegna al neon di un colore rosso fiammante che sormontava il tendone richiuso e una serie di tavolini addossati alle pareti che venivano utilizzati dai clienti per appoggiare i boccali di birra vuoti.
Gigi spostava lo sguardo dal telefono acceso nelle sue mani all’entrata del locale, non sapendo bene cosa fare.
La sera era quasi calata su New Haven e il cielo sembrava essere la tavolozza di un pittore alle prime armi che cominciava a utilizzare le sfumature: i colori si mescolavano e combattevano tra di loro in una guerra che non sembrava aver avuto ancora nessun vincitore.
Se fosse stata di un umore diverso avrebbe speso qualche secondo in più per ammirare il paesaggio che si estendeva di fronte ai suoi occhi.
Abbassò di nuovo la testa verso lo schermo del cellulare; Tessa scriveva come una furia, premendo invio al termine di ogni parola, con l’evidente intento di infastidirla.
 
“Se non vieni subito qui vengo a prenderti io ma, spero che tu non mi faccia arrivare a tanto” diceva il primo messaggio.
 
“Non puoi di certo recluderti in stanza perché quello stronzo ti ha insultata”.
 
Gigi arricciò il naso.
 
“È venuta anche Martine. Ho davvero bisogno del tuo aiuto per calmare l’istinto omicida che provo ogni volta che mette in mostra le tette”.
 
Sorrise divertita.
 
“Ti ricordo che domani inizieranno le lezioni, questa sarà l’ultima sera di libertà”.
 
E ancora:


“E poi voglio farti conoscere John, ti piacerà, vedrai”.
 
Posò il telefono in borsa e in pochi passi raggiunse l’entrata.
Luci soffuse e odore di malto, se qualcuno le avesse mai dovuto chiedere di descrivere il Route 66, avrebbe detto questo.
Il locale era gremito di gente e una cappa di fumo rendeva l’aria quasi impossibile da respirare.
Il vociare insistente delle persone si confondeva insieme alla musica rock di sottofondo.
Alla radio, Losing My Religion dei R.E.M. accompagnava i clienti del pub che si muovevano a tempo: chi agitando la testa, chi battendo il piede sul parquet consumato.
Gigi percepì sulle labbra il sapore del misticismo che solo i R.E.M. sapevano infonderle, poi si riscosse, sentendosi chiamare da una voce familiare.
Quando si voltò, Tessa le era a parecchi metri di distanza e accanto a lei un ragazzo ricciuto la osservava con la testa inclinata e lo sguardo curioso tipico dei bambini che cercano di capire.
Da lontano scorse Martine: i lunghi capelli biondi erano legati in una coda alta e stretta e il top nero che indossava riusciva a mettere in mostra più parti del corpo del dovuto.
Una folla di ragazzi la accerchiava, riempiendola di attenzioni che lei sembrava gradire.
«Finalmente sei arrivata» Tessa appariva sollevata quando Gigi li raggiunse, le labbra carnose inarcate in un sorriso enorme.
«Lui è John – indicò il ragazzo accanto a lei con un gesto della mano – John , ti presento Gigi».
John le sorrise prima di stringerle la mano: aveva il sorriso del bravo ragazzo e un’espressione genuina negli occhi.
Dei ricci capelli scuri gli ricadevano disordinati sulla fronte e una folta barba gli copriva il volto; gli enormi occhiali dalla montatura squadrata riuscivano ad addolcire ancora di più il suo sguardo scuro.
«È un piacere conoscerti» disse Gigi e solo in un secondo momento notò che il ragazzo stringeva nella mano sinistra il manico di un basso.
«Tessa mi ha detto che suon il basso in una band, che musica fate?»
John le sorrise mentre faceva passare la tracolla del suo strumento intorno alla testa.
«Tra poco ascolterai, stiamo aspettando che arrivi il nostro batterista» le rispose e subito dopo alzò lo sguardo verso l’ingresso.
«Parli del diavolo – cominciò a bassa voce – Noah, siamo qui!» gridò per farsi sentire dall’altro lato della stanza.
Alzò la mano per farsi vedere poi continuò a parlare: «Stavamo aspettando solo te per iniziare, andiamo su» John si voltò per raggiungere il resto della band.
Un ragazzo alto, dalla folta capigliatura scompigliata, superò lei e Tessa.
Fu solo quando si voltò per rivolgere lo sguardo verso la banconista che Gigi lo riconobbe.
Avrebbe potuto ricordare il colore di quegli occhi ovunque: erano azzurri come il colore dell’oceano Atlantico.

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Capitolo 3
*** Potion Approaching ***


Capitolo 2


 
Potion Approaching

 

 
 
Gigi non riusciva a distogliere lo sguardo, per quanto volesse, per quanto ci provasse.
Il ragazzo del bus era lì, di fronte a lei, e sembrava non averla notata: parlava fitto fitto con la ragazza dietro il banco, giocando con le bacchette della batteria con fare disinvolto.
Era evidente che si conoscessero bene, che tra i due ci fosse un rapporto stretto, intimo; Gigi lo aveva capito subito: i visi erano troppo vicini, i sorrisi troppo maliziosi, i corpi si cercavano senza che se ne rendessero conto.
C’era una magica sintonia tra i due, una chimica inspiegabile che li legava come una corda di spago intrecciato, un’intesa rara che li rendeva estranei alla folla, come se si trovassero all’interno di una bolla.
La ragazza era appoggiata con i gomiti al bancone, le mani chiuse a pugno poggiate sotto il mento, gli occhi chiari rivolti verso il batterista, un’espressione sognante dipinta sui suoi lineamenti delicati.
Era troppo bella, di una bellezza che la irritava senza che Gigi ne riuscisse a capire il motivo.
Più li osservava e più capiva che quei due erano fatti per stare insieme.
Il ragazzo si allontanò e solo in quel momento, rendendosi conto di essere osservato, si voltò verso la sua direzione, lo sguardo che si trasformava, diventando sempre più interdetto e infuriato.
Infuriato?
Quando fu a pochi passi di distanza da lei si fermò, il volto atteggiato in un’espressione sarcastica.
«Hai sviluppato un’ossessione nei miei confronti, per caso?» la sua voce era profonda e roca.
Gigi lo osservò per qualche secondo prima di rivolgergli un mezzo sorriso.
«Non capisco perché tu ti ritenga così importante, in fondo, ti trovi in un locale molto frequentato dagli studenti di Yale, non in un posto sconosciuto anche a Dio» replicò piccata, incrociando le braccia e alzando un sopracciglio.
Non si sarebbe fatta mettere i piedi in testa da quel batterista da strapazzo.
«È la seconda volta che ti becco a fissarmi: la prima avrei anche potuto ritenerla una coincidenza ma alla seconda comincio a pensare che tu sia una stalker».
John li osservò, lo sguardo accigliato che si spostava dal ragazzo a Gigi a intervalli regolari.
«Già vi conoscete?» Fu Tessa che alla fine decise di parlare, rivolgendosi a Gigi.
«L’ho incontrata stamattina alla fermata dell’autobus mentre aspettavo – fu il batterista a rispondere senza smettere di guardarla – era senza scarpe e non smetteva di fissarmi».
«Ero senza scarpe perché quei trampoli cominciavano a farmi male – si rivolse a Tessa che la stava osservando come se le avesse nascosto il più importante dei dettagli – e poi, ti osservavo perché eri l’unico elemento interessante in quel contesto» Spostò di nuovo l’attenzione su Noah.
«L’unico elemento interessante? Spero tu stia scherzando» aveva cominciato a far roteare le bacchette tra le dita e, per un secondo, Gigi si perse a contemplare il movimento di quelle mani così agili, poi si riscosse e sorrise beffarda.
«Spero ti sia chiaro che in quella scena, tra alberi e cartelli stradali consumati, anche un porcospino sarebbe risultato interessante».
Il ragazzo non fece in tempo a rispondere che John lo bloccò: «Sarebbe davvero molto bello continuare questa conversazione, però, noi dovremmo fare un concerto. Lo hai per caso dimenticato, Noah?».
Gigi vide il ragazzo sbuffare spazientito prima di seguire John verso il palco.
Si voltò un’ultima volta nella sua direzione per poi prestare completa attenzione agli altri due componenti della band.
«Secondo me, ti vuole scopare» le sussurrò all’orecchio Tessa, facendola trasalire.
«Ma se fa gli occhi dolci alla banconista» disse divertita, non riuscendo a trattenersi dall’arrossire.
L’amica piegò la bocca in un’espressione contrariata prima di risponderle: «Claire è la sua ragazza ma questo non significa che non voglia scoparti».
Gigi alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa.
«Devi smetterla di dire la parola scopare» replicò alla fine.
Tessa le sorrise maliziosa.
«Perché? Ti dà per caso fastidio la parola scopare? Pronunciarla di fronte a te è quasi bello quanto farlo per davvero – la spintonò verso il palco – comunque, tu sei mossa da troppi sani principi, bimba, il maschio è questo: istinto. Adesso, guarda».
Gigi si voltò.
Il palco su cui i tre ragazzi si trovavano era così piccolo da riuscire a contenere a stento in larghezza la batteria; la pedana era di legno scuro, consumata dagli anni trascorsi in constante contatto con il fumo, e scricchiolava in modo preoccupante sotto il loro peso.
John aveva lo sguardo rivolti in direzione di Tessa, si stava inumidendo le labbra come se l’avesse appena baciata e volesse sentire il suo sapore.
Sapeva che, se si fosse girata, avrebbe visto la sua amica ricambiare l’occhiata del ragazzo con la medesima malizia, quindi preferì non indagare oltre.
Noah si era seduto alla batteria, gli occhi che scrutavano con disinvoltura le persone davanti a lui, concentrò per un attimo il suo sguardo su Gigi poi abbassò la testa prima di dare il tempo.
Era bravo: suonava con agilità, come se le bacchette non fossero corpi estranei ma prolungamenti delle sue braccia.
Aveva il volto concentrato, la fronte e le sopracciglia aggrottate, i denti che mordevano con violenza le labbra.
Gigi si chiese quale sarebbe stata la sensazione di trovarsi tra quelle braccia, avvinghiata a quel suo corpo aggraziato, come sarebbe stato essere baciata da quelle labbra carnose, giocare con il percing di metallo che aveva sul labbro inferiore, infilare le mani tra quei capelli scuri.
Cominciare a ballare per allontanare quei pensieri fu automatico e salutare.
Chiuse gli occhi mentre la voce del cantante le penetrava nella mente, le riempiva i sensi.
Il suo era più un agitarsi che un ballare vero e proprio ma non se ne curò: si lasciò trasportare come solo la musica rock riusciva a fare e mimò con le labbra le parole della canzone.
 
“Then we fell asleep in the car,
Until the bumps woke up in your grip
And the tide took me to your mouth,
And then swept me back down to your
palms”
 
Si muoveva a tempo, prima accarezzandosi le braccia sollevate con le mani, dopo agitando i capelli per lasciarsi liberi di seguire la musica.
Cercò di dimenticare tutto: la brutta giornata appena trascorsa, le parole di Matthew, il suo sguardo, come si era sentita nell’allontanarsi da lui.
Il corpo di Tessa si mosse accanto al suo e Gigi si scostò i capelli dal volto.
 
“It’s them that put me inside the
Reminder
That yours is the only ocean,
That I wanna swing from,
Yours is the only ocean,
That I wanna hang on” 1
 
«Dimmi quello che vuoi, bimba – la voce dell’amica era divertita – ma il batterista non riesce a toglierti gli occhi di dosso».
Gigi si riscosse: il locale sembrava essere diventato più buio di quanto già non fosse e impiegò qualche secondo prima di abituarsi di nuovo.
Una mandria di persone si era accalcata intorno a loro, rendendo l’aria opprimente e difficile da respirare: nuvole di fumo e sentore di alcool si mescolavano alla puzza di sudore dei corpi in movimento.
Si voltò in direzione del palco: Noah era lì, concentrato a suonare la batteria, gli occhi puntanti verso di lei.
Lo guardò e lui non abbassò lo sguardo.
Quegli occhi blu rimasero incastrati nei suoi e, come vittima di un incantesimo, lasciò che il suo sguardo le accarezzasse il corpo e lo baciasse.
Non smise di osservarlo.
Proseguì in quella sua danza e, mentre il cuore sembrava volerle uscire dal petto, lo vide inumidirsi le labbra.
Stava ballando per lui? Sì.
NO.
Assolutamente no.
Non riusciva a distogliere lo sguardo da Noah, da quelle labbra e da quel percing che non smetteva di tormentare con i denti.
Non seppe per quanto tempo rimasero così, a mangiarsi come degli affamati di fronte a una montagna di cibo.
Gigi si sentiva spinta da una forza oscura a continuare con quel gioco, attrarlo a sé con i suoi movimenti lenti e conturbanti.
Poi, così com’era iniziata, la canzone finì e Noah distolse lo sguardo per parlare con John.
«Comunque, lo devo ammettere – le disse Tessa mentre le note di una seconda canzone, Drain You dei Nirvana, cominciavano ad aleggiare nell’aria – quando vuoi, riesci a non essere rigida come una stecca di biliardo».
Gigi sbuffò.
«Grazie tante».
L’amica ignorò il suo commento e si avvicinò ancora un po’.
Sapeva che le avrebbe detto qualcosa che l’avrebbe turbata.
«Forse perché volevi che qualcuno ti vedesse?» Appunto.
«Io vado a prendermi una birra» borbottò.
La sentì ridere prima di perdersi tra la folla.
Il bancone era lurido e appiccicoso: molti clienti avevano rovesciato della birra sul ripiano di legno e delle bucce di arachidi vi erano appiccicate; dalle cicche di sigarette abbandonate nel posacenere fuoriuscivano ancora dei rivoli di fumo.
Tutta la clientela si era spostata in direzione del palco, lasciando quella zona del locale più vivibile.
Fece forza con le mani per sedersi su uno sgabello prima di rivolgersi alla banconista.
Vista da vicino, la ragazza di Noah, Claire, sembrava essere ancora più bella; per quanto il trucco colato e i capelli legati alla meno peggio riuscissero a guastare il suo aspetto, dava l’impressione di essere un effetto voluto e non causato dalla stanchezza.
«Ciao, cosa ti porto?» si passò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Una Blue Moon, grazie» le rispose, non riuscendo a guardarla negli occhi.
Claire non le portò subito l’ordinazione: si appoggiò al bancone con i gomiti e rivolse lo sguardo in direzione del palco.
«Sono bravi, vero?» le disse alla fine, indicandole con il mento la band.
Gigi sospirò prima di annuire.
«Sono molto bravi» sussurrò poi si voltò verso la ragazza.
Claire la stava osservando, la fronte aggrottata e le sopracciglia inarcate le fecero capire quanto fosse turbata.
Sembrò volerle dire qualcosa poi ci ripensò, sospirò e si voltò per continuare a lavorare.
Rimase seduta sullo sgabello per tutta la durata del concerto, non trovando il coraggio di ritornare da Tessa, sentendo lo sguardo di Claire sulla schiena e la voglia di scappare via che cresceva sempre di più.
Che le stava succedendo?
«Eccoti qui» alzò lo sguardo e osservò Tessa che la stava raggiungendo insieme a John.
Il ragazzo aveva la fronte imperlata di sudore e gli occhi che brillavano ancora di adrenalina.
Le sorrise e si sedette accanto a Gigi prima di passarsi una mano tra i folti capelli ricci.
«Cosa te n’è sembrato? A un certo punto non ti ho più vista vicino al palco» Noah comparve proprio in quel momento: parlava con il cantante in modo rilassato, giocando con le bacchette come gli aveva visto fare già altre volte in quella serata.
«Non sapevo che la mia amica fosse un’alcolizzata» rincarò la dose Tessa, appoggiandosi con un gomito alla spalla di John.
Gigi scosse la testa e la ignorò: «Siete stati fantastici, le cover degli Arctic Monkeys sono state quelle che ho preferito di più».
John annuì prima di bere un sorso di birra dalla sua bottiglia.
«Sono state un’aggiunta voluta da Noah, non sospettavamo che la gente si sarebbe gasata così tanto» le disse il riccio.
«Io lo sospettavo, invece, altrimenti non avrei suggerito di inserirle nella scaletta» si intromise Noah alzando un sopracciglio.
Gigi non lo guardò, sapeva che sarebbe arrossita fino alle punte dei piedi se lo avesse fatto.
«Sei sempre il solito spaccone» John gli diede una pacca sulla schiena prima di richiamare l’attenzione di Claire.
«Claire, birra per tutti?» La ragazza si avvicinò, si sporse sul bancone, mettendo in mostra tutte le sue grazie, e sorrise prima di inclinare la testa.
«La parolina magica?» la sua voce era una carezza difficile da rifiutare.
«Smettila di flirtare con me davanti al tuo ragazzo, Claire, non voglio che diventi geloso» scoppiò a ridere John circondando con un braccio la vita di Tessa.
«Poi qui c’è Tessa, non vorrei che si facesse un’idea sbagliata» abbassò lo sguardo, nascondendo gli occhi dietro il suo cespuglio di capelli.
Un coro da stadio si levò tra il gruppo ed John arrossì ancora di più prima di sorridere strafottente.
«Abbiamo un nuovo romanticone qui, non ci bastava Noah» il cantante si avvicinò al gruppo poi spostò lo sguardo su Gigi.
«Che ne diresti se ti mostrassi il MIO lato romantico?» le sorrise malizioso, alzando e abbassando velocemente le sopracciglia.
Rise di cuore prima di scuotere la testa.
«Grazie, ma no, grazie – cominciò senza smettere di sorridere – preferisco rimanere innamorata di te in segreto mentre tu continui a flirtare con le ragazzine» gli fece l’occhiolino poi si passò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Il cantante si portò una mano al petto, guardandola con aria afflitta.
«Mi hai spezzato il cuore – le rispose afferrando poi un boccale di birra per bere un lungo sorso – vorrà dire che affogherò i miei dispiacere nell’alcool».
«Sopravviverai» borbottò Noah appoggiandosi al bancone.
«Stai mortificando il mio orgoglio ferito – disse il cantante prima di guardare di nuovo Gigi – siamo circondati da maleducati, mio folle e non ricambiato amore, io sono Rick» le porse la mano.
«Gigi, piacere» gliela strinse.
«Comunque, tu ed John stavate parlando di quanto fantastica sia stata la mia esibizione, vero? Devi sapere che mi imbarazzo parecchio quando le persone parlano delle mie strepitose abilità canore» le disse Rick, prendendo uno sgabello per sedersi accanto a lei.
«Mi hai proprio letta nel pensiero, sai? – decise di stare al gioco – ma quando ti trovi davanti una persona con queste strepitose abilità canore è un po’ difficile non parlarne» il ragazzo gettò la testa all’indietro e scoppiò a ridere.
«Possiamo andare» Claire si avvicinò a Noah e lasciò che il ragazzo la stringesse e le lasciasse un bacio sulla cima della testa.
Stavano bene insieme: due lati speculari della stessa medaglia.
Noah le lanciò un’occhiata veloce poi si affrettò a distogliere lo sguardo, concentrando di nuovo tutta la sua attenzione nei confronti di Claire.
Se voleva far finta di nulla, lo avrebbe fatto anche lei, decise e insieme agli altri si avviò verso l’uscita del Route 66. 2
 
«Ahia, scotta!» Gigi cominciò a sventolare una mano vicino alle labbra, la bocca spalancata nel tentativo di incamerare più aria fresca possibile, al contempo, lanciava occhiate truci all’oggetto incriminante: il bicchiere di carta fumante che aveva appoggiato al bancone del bar.
«Tieni» Gabriel, il suo migliore amico, le persone un bicchiere d’acqua fresca senza smettere di ridere.
Gigi lo mandò giù in un unico sorso e il bruciore si alleviò.
Tutta la stanza si era voltata nella loro direzione, gli sguardi scioccati e divertiti allo stesso tempo.
Incassò la testa nelle spalle, a disagio, e guardò Gabriel che non smetteva di ridersela dietro il suo bicchiere di cappuccino.
«Una cosa positiva – cominciò il ragazzo, addentando una ciambellina glassata di cioccolato – è che con te non ci si annoia mai».
Gigi sbuffò sconsolata.
«Mi stavi raccontando – le disse Gabriel, riprendendo la conversazione che avevano interrotto – delle vicende interessanti che hanno sconvolto la tua vita monotona prima che io arrivassi questa mattina».
Lei e Gabriel erano amici da quando, due anni prima, avevano cominciato a frequentare il college.
Dal primo momento in cui lo aveva visto, Gigi aveva capito che sarebbero diventati amici.
Lo aveva guardato entrare in ritardo alla loro prima lezione: i capelli chiari scompigliati, i vestiti sempre in ordine trasandati e l’aria disorientata di chi preferirebbe trovarsi in tutt’altro posto.
Gli aveva indicato il posto accanto al suo e da quel momento in poi erano stati inseparabili.
Gabriel e Gigi condividevano una passione che li aveva spinti a scegliere lo stesso ramo di specializzazione, una passione che non avrebbe mai potuto condividere con Tessa.
Il teatro era il motore della sua vita, lo era stato fin dalla prima volta in cui suo padre aveva deciso di accompagnarla a uno spettacolo; innamorarsi dell’atmosfera, dei costumi, degli attori era stato naturale quanto respirare.
Ritrovarsi sullo stesso palcoscenico che aveva sognato mille volte anni dopo era stato sorprendente ed emozionante: ciò che provava era difficile da descrivere a parole.
Il teatro era un qualcosa che andava oltre il mettere in scena un’opera: erano le notti insonni passate a leggere i drammi, il cercare di immedesimarsi nei personaggi e capire la loro psicologia; era passione, tragedia, amore viscerale; era rileggere le battute così tante volta da farle diventare parte del suo stesso essere.
Il teatro era quel qualcosa.
«Terra chiama Gigi» Gabriel fece schioccare le dita di fronte alla sua faccia e la ragazza sobbalzò, presa alla sprovvista.
«Sei troppo distratta – l’amico alzò gli occhi al cielo – così mi fai pensare che tu non voglia raccontarmi ciò che ti è successo».
Gigi sbuffò per poi dargli una spallata scherzosa.
«Lo sai che non è vero, perché: uno – alzò l’indice – non ti avrei accennato nulla se non avessi voluto raccontartelo; due – alzò il medio – sei il più grande sostenitore di Matthew ed io devo trovare un modo per farti cambiare idea» gli sorrise prima di bere un sorso del suo latte macchiato.
Gigi e Gabriel parlavano come se avessero tutto il tempo del mondo, lasciando che le ultime giornate di sole prima dell’inverno li scaldassero; stavano camminando lungo i corridoi di Yale con calma, permettendo agli studenti in ansia per il primo giorno di sorpassarli.
Le pareti di mattone scuro del college erano tappezzate di volantini: corsi avanzati di matematica, numeri di tutor, avvisi per dormitori e appartamenti; le bacheche erano stracolme di avvisi inutili a cui nessuno prestava attenzione.
«Matthew è uno stronzo» esordì senza troppi preamboli, gettando il bicchiere di carta nella spazzatura.
«Questa è una cosa indiscutibile e che abbiamo appurato circa due anni fa quando lo abbiamo conosciuto. Adesso dimmi, qual è la novità?» Gabriel alzò un sopracciglio e la guardò con aria accigliata.
«Sabato siamo andati in discoteca e ha provato a baciarmi» cominciò, sapendo già la reazione che avrebbe avuto il suo amico.
«Un “ma” alleggia nell’aria» lo vide borbottare.
«Non lo so, Gab, sentivo che tutto era sbagliato: io, lui, la situazione, il fatto che fossi troppo ubriaca anche solo per dire due parole di fila di senso compiuto. Comunque, l’ho respinto e sono scappata» parlò in fretta, mangiandosi quasi le parole, sperando che quella conversazione terminasse il prima possibile.
Gabriel annuì, appoggiandosi con la schiena alla parete e continuando a bere dal suo bicchiere di carta.
«È ciò che fate tu e Matthew da due anni a questa parte: tu lo vuoi, lui ti vuole ma non si fa avanti, ad un certo punto lui prende l’iniziativa, ti spaventi, scappi, lui si incazza, non ti parla per qualche settimana e poi cominciate di nuovo tutto daccapo».
Gigi scosse la testa: «Questa volta è diverso: è andato da Tessa, incazzato nero e le ha detto un sacco di cose brutte sul mio conto».
Gabriel la esortò a continuare con lo sguardo e la ragazza sospirò prima di ricominciare il discorso: «Le ha detto che sono solo un’insicura del cazzo, che sono fortunata a piacere a una persona come lui e che l’unico motivo per cui “ci sta” è che palesemente gli muoio dietro».
«Un martire, insomma» replicò sarcastico l’amico, stringendo le mani a pugno e digrignando i denti.
«Ha esagerato questa volta» aggiunse alla fine, gettando ciò che rimaneva del bicchiere di carta ormai accartocciato tra le dita.
«Sì, ma non c’è bisogno che tu faccia qualcosa, Gab, ci ho già pensato io a mandarlo a fanculo» gli disse trascinandolo con tutta la sua forza in direzione del teatro dove avrebbero partecipato alla prima lezione del semestre.
Gabriel era rigido e silenzioso, camminava accanto a lei ma non sembrava essere presente per davvero.
«A cosa stai pensando?» gli chiese alla fine, quando il silenzio divenne opprimente.
L’amico scosse la testa e poi la guardò, i suoi occhi verdi sembravano volerle trapassare l’anima per capire a cosa stesse pensando.
«L’unica cosa che mi interessa è capire se qualche sega mentale ti sta arroventando il cervello in questo momento – alzò una mano per interrompere la sua protesta - non dire niente, ho cambiato idea; mi incazzerei ancora di più».
Entrarono nel teatro: solo le prime file di poltrone di velluto nero erano state occupate.
Quando si chiusero la porta alle spalle, i suoni provenienti dall’esterno si attutirono, lasciando che nella stanza calasse il silenzio.
Le sembrava di trovarsi in una vecchia cattedrale: le pareti erano alte e di pietra grigia, ai lati c’erano delle balconate da dove Gigi riusciva a scorgere ulteriori posti a sedere.
Il palcoscenico che si estendeva di fronte ai suoi occhi era immenso e occupava quasi del tutto il suo campo visivo; l’unico che avesse mai visto era quello nella sua città, a Moncks Corner, in Carolina del Sud, e non era di certo grande come quello: ricordava la sensazione che aveva provato nel calpestare quel legno scricchiolante, nell’osservare la platea di fronte ai suoi occhi, nel commuoversi nel vedere così tante persone pendere dalle sue labbra; ma quello, quello non era niente in confronto a ciò che le si parava di fronte agli occhi: il legno della pedana non era malandato come quello del teatro della sua città, sembrava solido, appena levigato, lucido come la seta; i pesanti drappeggi che incorniciavano il palcoscenico erano chiusi con dei cordoncini dorati, in pendant con gli intarsi che ornavano il tessuto rosso Borgogna.
Gigi si guardò intorno, girando su sé stessa, l’eco dei suoi tacchi bassi che risuonava nell’immensa stanza.
Si sedettero accanto agli altri: tutti osservavano il palco in religioso silenzio, eccitati come dei bambini in un parco giochi.
Osservò per un attimo Gabriel: dietro la sua corazza di indifferenza, notò quanto fosse rimasto stupito.
Le luci si spensero all’improvviso, facendo calare la stanza in una completa oscurità.
Fu un attimo: il palcoscenico si illuminò di una luce dorata, il silenzio venne interrotto da una musica di sottofondo e tre personaggi entrarono in scena.
A giudicare dalla stazza erano uomini: indossavano delle lunghe tuniche bianche e dei mantelli color rosso fiammante, agganciati alle tuniche da degli spilloni d’oro che erano riccamente lavorati con motivi greci; i volti erano celati da delle maschere grottesche.
Uno dei tre ragazzi si sedette a gambe incrociate sulla pedana in legno, gli altri due si posizionarono uno di fronte all’altro, in un chiaro gesto di sfida.
 
“Pensa ragazzo, quali sono le conseguenze della temperanza, a quanti piaceri devi rinunciare, fanciulli, donne, cottabo, leccornie, bevute, divertimenti… Vale la pena di vivere a questo modo?
Ora, consideriamo le necessità della natura: poniamo che tu ti sia innamorato della moglie di un altro, e che ti colgano in flagrante. Sei morto se non sei capace di parlare. Ma se appartieni al mio circolo, puoi sfruttare la natura, ridere, impazzare, non avere tabù. Se anche ti beccano in flagrante adulterio, basta dire che non hai colpa di nulla e rovesciare tutto su Zeus: anche lui cede all’amore delle donne… Tu, che sei uomo, mica puoi essere più forte di un dio, no?”
 La maschera del primo attore che aveva parlato era atteggiata in un’espressione di drammatico divertimento: le cavità degli occhi erano spalancate, la bocca piegata in un sorriso deforme e derisorio; si rivolse in direzione del ragazzo seduto a gambe incrociate, con l’evidente intenzione di istruirlo.
E se per averti dato retta gli cacciano un ravanello nel culo e lo depilano con la cenere rovente, potrà negare di essere un rottinculo?” Rispose per le rime il secondo attore all’in piedi e, per contro, la sua maschera era disperata, in evidente contrapposizione con quella del suo interlocutore.
“E anche se fosse, che c’è di male?” l’altro allargò le braccia e distese le dita.
“Ma c’è qualcosa di peggio, dico io?” il secondo attore pestò i piedi a terra, frustrato.
“E che mi dici se ancora una volta ti dimostro che hai torto?” lo canzonò l’altro, agitando l’indice.
“Starò zitto; che altro posso fare?” sbuffò e scosse la testa, rassegnato.
“Allora dimmi: gli avvocati, che gente sono?” Il primo attore aveva assunto un tono da maestrino, avvicinandosi di un passo all’altro.
Il ragazzo seduto di fronte a loro girava la testa a intervalli regolari, seguendo il discorso dei due con crescente trasporto: annuiva sempre più convinto al termine di ogni battuta per poi ripensarci.
“Rottinculo” il secondo attore abbassò la testa.
“D’accordo. E i poeti tragici?” Annuì l’altro soddisfatto.
“Rottinculo” la sua voce era solo un roco sussurro.
“Benissimo. E i politici?” il primo attore diventava via via più eccitato.
“Rottinculo!” Per contro, l’altro sembrava essere sempre più disperato.
“E allora, lo vedi che dicevi una sciocchezza? E gli spettatori, per la maggior parte, chi sono?” sorrideva vittorioso.
“Sto guardando…” il ragazzo si rivolse in direzione del pubblico, il viso sporto in avanti, le mani grandi portate alla bocca atteggiata in un’espressione infelice.
“E che vedi?” L’altro gongolava: le braccia incrociate al petto, la testa che dondolava a destra e a sinistra in modo canzonatorio.
“Per gli dei, la maggior parte sono rottinculo. Questo lo conosco e anche questo, e quell’altro coi capelli lunghi!” Si sedette sul bordo del palco, la voce che si alzava via via che continuava con la sua battuta.
“E allora, che mi dici?” Anche il primo attore si era avvicinato al bordo del palco e con il piede nudo lo infastidiva, colpendogli con insistenza il fianco.
“Abbiamo perso. Razza di culaperti, tenete, eccovi il mio mantello: passo dalla vostra parte!” Detto questo, il secondo attore si strappò il mantello dal braccio e lo gettò in direzione del pubblico, alzando il mento in un’espressione ferita e sconfitta.
 
Uno scroscio di applausi si levò dalle poltrone, Gabriel, accanto a Gigi, aveva portato due dita alla bocca per fare un lungo e sonoro fischio.
Gli attori si godevano gli applausi, seduti di fronte a loro, le gambe a penzoloni sul palco.
«Basta così» una voce allegra che proveniva dal fondo del teatro risuonò forte e chiara, facendo piombare tutto in un istantaneo silenzio.
Le luci si riaccesero e da un’ombra comparve colui che doveva essere il professore di recitazione.
Era un omuncolo tutto pancia, dall’aspetto impettito e l’aria gioviale.
Indossava vestiti formali: pantaloni beige gessati, panciotto in pendant così stretto da sembrare sul punto di scoppiare e camicia inamidata.
Un principio di calvizie lo aveva colpito: i capelli brizzolati cominciavano a diradarsi sulle tempie.
Una rada peluria gli copriva le guance ma l’elemento più interessante erano i baffi arricciati alle punte in una precisa imitazione di Salvador Dalì.
Camminava tra le poltrone con le mani infilate nei pantaloni, il mento alto e gli occhietti da topo che scrutavano i ragazzi.
«Complimenti, complimenti» batté le mani in un applauso che si spense in pochi secondi.
«Siete stati davvero molto bravi, ragazzi» aggiunse quando raggiunse, in un tempo che parve interminabile, la prima fila di poltrone.
Salì in fretta i pochi gradini e si sedete tra gli attori sul bordo del palco, le mani appoggiate alle cosce grassocce.
«Innanzitutto, benvenuti – cominciò, rivolgendo alla platea un grande sorriso – mi presento, sono il professor Williams e sarò il vostro insegnante di recitazione per questi due anni» voltò lo sguardo in direzione degli attori e posò sulle loro spalle le grosse mani.
«Quelli che avete appena visto recitare sono gli attori più promettenti della Yale School of Drama3 – colpì con uno schiaffo amichevole il primo ragazzo – Tom Baston – il chiamato in causa sfilò la maschera e rivolse loro un sorriso imbarazzato – Cameron Shelleys e Noah Jenkins».
Quando anche il terzo ragazzo fece scivolare via la maschera dal viso, Gigi spalancò gli occhi.
Noah il batterista, Noah dallo sguardo sexy, lo stesso che l’aveva chiamata stalker, era seduto di fronte a lei: madido di sudore, i capelli incollati alla fronte, gli occhi blu fissi sul pubblico.
Il professor Williams continuava il suo discorso, ignaro della battaglia interiore che infuriava nella sua testa.
Che diavolo ci faceva lui lì?
Fu assalita da una malsana quanto abituale voglia di scappare via.
Artigliò con forza il poggia gomiti di velluto nero della poltrona per reprimere quell’impulso.
Gabriel le scoccò un’occhiata confusa prima di prestare di nuovo attenzione al professore.
Era logico, non poteva capire il suo travaglio interiore, non era stato presente in nessuna delle due occasioni in cui aveva incontrato Noah.
Sbuffò sconfortata, lanciando di sottecchi un’occhiata al ragazzo seduto sul palco.
Sembrava rilassato: la schiena inarcata in avanti, i gomiti appoggiati alle cosce, le mani che stringevano con delicatezza ma allo stesso tempo con fermezza la maschera di ceramica che fino a quel momento aveva indossato.
«Se avete scelto di intraprendere questa specializzazione – stava dicendo il professor Williams – dovete essere di certo attratti in qualche modo dal mondo dello spettacolo.  Forse un giorno diventerete attori, registi, sceneggiatori, costumisti.
Sappiate che, qualsiasi strada percorrerete in futuro, ricorderete per sempre questo giorno come l’inizio di tutto» pescò dalle tasche una bustina di carta bianca e l’agitò davanti agli occhi, il suo sorriso si accentuò nel vedere gli sguardi degli studenti diventare sempre più confusi.
«Adesso – esordì alla fine, mettendosi faticosamente all’in piedi – vi farò delle domande, ad ogni risposta esatta guadagnerete un cioccolatino».
Il professor Williams camminava lungo il palco facendo dei passi lunghi, il volto sollevato verso l’alto, le labbra arricciate e un’espressione concentrata dipinta negli occhi scuri; riusciva a catalizzare tutta l’attenzione su di sé: era un qualcosa di magnetico che aveva nel modo di agitare le mani, nel modo in cui riusciva ad occupare con pochi movimenti tutto il palco senza rubare la scena a nessuno.
«Chi sa dirmi che tipo di teatro i nostri fantastici attori hanno messo in scena?» la sua voce risuonò forte e chiara nell’enorme teatro.
Un attimo di silenzio, tutti i ragazzi seduti sulle poltrone si guardarono intorno, spaesati e spaventati dalla domanda che li aveva mandati in confusione.
Gigi alzò la mano.
Sentì gli occhi di Noah trapassarla da parte a parte e si mosse a disagio sulla poltrona.
«Prego, prego, mi dica» il professor Williams continuò a camminare senza spostare lo sguardo su di lei.
«Teatro greco» rispose incerta, sperando di aver dato la risposta giusta.
Con la precisione di un cecchino, l’uomo le lanciò il cioccolatino che le aveva promesso.
«Molto bene!» esclamò entusiasta poi riprese a camminare, l’espressione di nuovo seria.
«Qualcuno sa dirmi, invece, il genere?» un ragazzo in prima fila fu più veloce di Gigi ad alzare la mano.
«Commedia».
Risposta giusta.
«Adesso passiamo alle domande difficili – annunciò, ridacchiando – nome e autore dell’opera?».
Gigi sorrise poi attirò di nuovo l’attenzione del professore.
L’uomo si girò nella sua direzione, lo sguardo che le rivolse era incerto, come se non si aspettasse che qualcuno conoscesse la risposta.
«Le Nuvole di Aristofane» rispose ed esultò come se avesse appena vinto la finale di una partita di football quando ricevette il cioccolatino.
«Vedo che qualcuno qui ha fatto i compiti!» ridacchiò Williams e le rivolse un sorriso grande e sorpreso prima di sedersi di nuovo accanto agli attori.
Gigi non riuscì a reprimere l’espressione orgogliosa che voleva a tutti i cosi spuntare sul suo viso.
«Il teatro – ricominciò a parlare l’uomo – è una delle arti più antiche e in assoluto più belle create dall’uomo. Il nostro compito è quello di ridare una nuova dignità a questa disciplina, diventando abbastanza bravi da riuscire a replicare ciò che è stato fatto in passato e, se siamo fortunati, a creare una nuova magia, magari migliore ma, in sostanza, diversa».
Nella stanza calò un profondo silenzio, tale da riuscire a percepire il ronzio delle luci al neon che illuminavano il teatro.
Durò per qualche secondo, poi il professor Williams si sfregò le mani e li guardò, un lampo di eccitazione attraversò i suoi occhi scuri.
«Devo dirvi la verità, questo è in assoluto il momento che preferisco, riesco a leggere nei vostri occhi le stesse emozioni che provavo io un tempo quando vedevo un palcoscenico: ansia, adrenalina, estasi allo stato puro.
È bello vedere come le cose siano cambiate ben poco nonostante il tempo. Sono sicuro, comunque, che tutte queste sensazioni riuscirete a catalizzarle in modo positivo nel monologo che dovrete preparare per me per cercare di ottenere una parte nello spettacolo che la Yale School of Drama sta preparando.
Ogni anno, i laureandi in arti sceniche organizzano per i ragazzi del primo anno di specializzazione uno spettacolo, prodotto in tutto e per tutto da loro: copione, sceneggiatura, costumi, scelta del cast verranno pianificati al minimo dettaglio con la mia supervisione per essere messo in scena verso febbraio, pochi giorni prima dell’inizio degli esami.
Il vostro obiettivo sarà quello di ottenere una parte all’interno della rappresentazione teatrale, coloro che non ci riusciranno aiuteranno me e i ragazzi della School of Drama nei costumi e nella sceneggiatura. Sono stato chiaro?» un brusio di assenso si levò tra le poltrone.
«Avrete tre settimane di tempo per preparare un monologo a vostra scelta, per mostrare a me ma soprattutto ai ragazzi della School of Drama le vostre capacità» detto questo il professore si alzò e scomparve dietro le quinte del teatro, lasciandoli da soli, con i loro dubbi.

 
 
 


1 La traduzione della canzone (Potion Approaching degli Arctic Monkeys) è: Poi ci addormentammo in macchina fino a quando i dossi mi svegliarono mentre ero nella tua stretta. E la marea mi condusse alla tua bocca, e poi mi fece tornare alle tue mani. Sono loro che mi ricordano che il tuo è l’unico oceano su cui voglio oscillare, il tuo è l’unico oceano su cui voglio galleggiare.
 
2 Alla fine del capitolo precedente ho dimenticato di dirvi che il Route 66 non esiste ma è frutto solo della mia invenzione.

3 Ho fatto molte ricerche e ho scoperto che la specializzazione e la Yale School of Drama sono due cose diverse: la specializzazione fa parte sempre del primo percorso di studi universitario, al termine del quale i ragazzi americani ottengono il Bachelor, che sarebbe una nostra laurea triennale; la Yale School of Drama, invece, è una specializzazione della specializzazione, e corrisponde al nostro Master.




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Buon pomeriggio a tutti.
Prima di tutto, voglio fare i miei più sentiti auguri a tutte le donne che leggeranno questa storia. Buona festa della donna a tutte!
Nonostante il fatto che io non creda molto in questa particolare festa, mi sembrava “doveroso” fare questo preambolo prima di parlarvi di questo capitolo.
Scrivere questo capitolo è stato molto difficile ed è per questo motivo che non ho potuto pubblicare domenica, ho preferito perdere un po’ più di tempo per essere sicura che potesse essere degno di essere pubblicato; nonostante tutti i miei sforzi, non è che mi sia piaciuto molto il risultato finale, però non potevo lasciarvi per troppo tempo in sospeso.
Abbiamo messo (finalmente, direi) un po’ di carne a cuocere! Hahaha
Ho introdotto molti personaggi, tra cui alcuni molto importanti.
Cosa ne pensate del fatto che Noah abbia una ragazza? E della sua reazione durante il concerto?
Ormai, colpa del destino (o forse mia?), Gigi e Noah finiscono sempre per incontrarsi: prima alla fermata dell’autobus, poi al Route 66 e infine anche a teatro! Poteva andarle peggio/meglio di così?
Ho visto che molte di voi hanno aggiunto la storia tra le seguite, quindi vi ringrazio tutte per la fiducia che state dando alla storia. <3
Adesso vi lascio, anche perché ho rotto abbastanza per oggi. Spero che il capitolo vi piaccia. A presto.

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Capitolo 4
*** Meet me at the corner ***


È passato probabilmente più di un anno da quando ho aggiornato questa storia, mi scuso davvero tantissimo.
La verità è che non avevo più ispirazione, ogni cosa che buttavo giù sembrava essere forzata, non mi piaceva la piega che stava prendendo tutta la storia.
Ho deciso, quindi, di cancellare alcuni capitoli già pubblicati, cambiare qualcosina e ritornare sulla retta via, sperando che questa volta sia quella giusta.
Spero che il capitolo vi piaccia, sarei contenta di sapere il vostro parere.
A presto. xx

 




 
 
Capitolo 3
 


Meet me at the corner
 


La Sterling Memorial Library si ergeva maestosa di fronte ai suoi occhi.
Per quanto ci fosse abituata, la sua vista la lasciava sempre a bocca aperta: ogni volta che la guardava scopriva sempre un ulteriore dettaglio, un posto nuovo, una statua che fino a quel momento non aveva notato.
Era un edificio in pietra, in pieno stile gotico, con due portoni d’ingresso in legno massiccio e un’enorme vetrata ad arco ogivale al centro.
Amava camminare per i suoi corridoi, perdersi nella contemplazione dei quadri che li decoravano, immaginare quante persone illustri avevano fatto il suo stesso percorso.
Le era sempre piaciuto il profumo di libri che si respirava in biblioteca: vecchi e nuovi che fossero, aveva sempre avuto lo strano impulso di spalancarli per sprofondarci dentro.
Amava l’odore pungente della carta consumata, voltare con delicatezza le pagine con la punta delle dita, leggere le scritte sbiadite.
Abbassò la maniglia ed entrò, stando attenta a richiudere la porta alle sue spalle: la stanza era quasi vuota; poche persone si svegliavano così presto di sabato mattina per andare in biblioteca.
Le scrivanie in mogano massiccio erano quasi sgombre e solo di rado si udiva il rumore della frizione della penna sul foglio.
Era un suono rilassante, che contribuiva a diffondere nell’aria un’atmosfera onirica.
Si abituò quasi subito alla luce artificiale dei lampadari.
Raggiunse la scrivania della bibliotecaria; era una donna sulla sessantina, tutto nella sua figura trasmetteva un senso di stanchezza e trascuratezza: le grosse occhiaie scure che le contornavano gli occhi, la pelle pallida raggrinzita per l’età, i capelli spettinati e l’insopportabile odore di cipolla che alleggiava intorno a lei.
«Buongiorno – sussurrò, aggrappandosi con le dita alla scrivania – vorrei sapere qual è lo scaffale dedicato alle opere teatrali».
La donna la squadrò per qualche secondo, abbassando con le sue unghie sbeccate gli occhiali dalla montatura da gatta color magenta.
«Scaffale 10» borbottò per poi spostare di nuovo la sua attenzione sul libro che aveva davanti.
«Sa se c’è una sezione dedicata ai monologhi?» chiese ancora Gigi.
La vide sbuffare e reprimere il desiderio di mandarla al diavolo prima di guardarla di nuovo.
Le rivolse un sorriso lezioso e strizzò gli occhi, non riuscendo a controllare del tutto il moto di stizza.
«Scaffale 10» ripetette, appoggiando il mento sulla mano raggrinzita.
«Quindi non sa se ci sono libri dedicati ai monologhi?» insistette Gigi, non riuscendo a capacitarsi dell’incompetenza e della supponenza della donna.
«Se ci sono non ne ho idea ma l’unico scaffale dedicato al teatro è il 10» le rispose, stringendo i denti.
«Non può controllare sul computer?» le chiese ancora, reprimendo l’impulso di prenderla a sberle.
«No, non posso, adesso sparisci, mi hai già scocciata abbastanza» le disse, ritornando al suo libro.
«Ma che razza di bibliotecaria è lei, mi scusi?» borbottò Gigi, scuotendo la testa e voltandosi dell’altra parte.
Ignorò la risposta contrariata della donna e cominciò a camminare per la stanza, osservando i numeri con cui gli scaffali in legno scuro erano stati contrassegnati.
Lo scaffale 10 si trovava in fondo, in una zona isolata rispetto alle altre.
Impiegò una buona mezz’ora prima di trovare il libro giusto.
Erano passati tre giorni da quando il professor Williams aveva detto loro della rappresentazione teatrale e Gigi non aveva la benché minima idea di cosa fare.
Aveva scartato subito a priori Giulietta e Ofelia, consapevole che molte delle sue compagne di corso avrebbero scelto quei monologhi.
Per quanto avesse amato alla follia leggere “Romeo e Giulietta” e “l’Amleto” sapeva che sarebbero stati testi scontati.
Il professor Williams le era sembrato così singolare che l’unico obiettivo che si era prefissata in quel momento era quello pensare quanto il più possibile fuori dagli schemi.
All’inizio aveva soppesato l’idea di portare il suo cavallo di battaglia, quello recitato per ottenere il ruolo da protagonista nel dramma messo in scena dalla scuola di teatro della sua città.
La sua interpretazione di Salomè di Oscar Wilde aveva riscosso un successo clamoroso; Gigi ricordava le lunghe notti passate a ripetere sempre le stesse battute, il sapore della vittoria sulle labbra quando il suo professore alla fine le aveva detto di essere riuscita a ottenere il ruolo da protagonista.
Aveva scartato quasi subito quell’opzione, non volendo che il risultato finale di un evento così importante dipendesse da un qualcosa già fatto.
Quindi, aveva capito di essere in estremo ritardo con la sua scelta quella mattina, quando Gabriel l’aveva avvisata con un messaggio di essere riuscito a trovare il monologo giusto.
Ed era questo il motivo per cui in quel momento si trovava lì, alle otto di mattina di un sabato bellissimo, a cercare di recuperare ciò che non era riuscita a fare nei giorni precedenti.
Con la coda dell’occhio percepì un movimento e alzò lo sguardo.
Matthew si trovava di fronte a lei, le braccia stracolme di libri, gli occhi stanchi e infossati di chi aveva trascorso una notte insonne.
Prestò di nuovo attenzione al suo libro, preferendo ignorare il ragazzo e sperando che avesse il buonsenso di sedersi quanto il più possibile lontano da lei.
Lo stridio di una sedia spostata e il tonfo di un peso morto sulla scrivania le fecero capire che, come aveva già appurato molto tempo prima, le sue preghiere non venivano mai esaudite.
Sospirò affranta, girando una pagina.
Matthew si schiarì la voce e cercò di afferrarle una mano ma Gigi si scostò, voltandosi nella direzione opposta.
«Lasciami in pace» sussurrò tra i denti, restando con lo sguardo fisso sul suo libro.
«Sono stato uno stronzo» le disse, piegandosi sulla scrivania per avvicinare il viso al suo.
Non rispose.
«Lo so che sei arrabbiata con me per quello che ti ho detto e per come ti ho trattata – continuò imperterrito Matthew – ma anche io sono rimasto alquanto scosso da ciò che è successo nel parco».
Gigi si girò verso di lui, gli occhi socchiusi in un’espressione infuriata.
«Hai la minima idea di come mi sono sentita quel pomeriggio?» ringhiò indignata.
«Non era mia intenzione offenderti, Gigi, sono state cose dette in un impeto di rabbia» le rispose e vide il suo sguardo accigliarsi sempre di più.
La bocca sottile era piegata verso il basso, la mascella contratta.
Gigi lo osservò per qualche secondo, sorprendendosi sempre di più nel constatare quanto Matthew si stesse trattenendo in quel momento.
«Possiamo uscire fuori per parlare?» le chiese alla fine, avvicinando di nuovo le mani alle sue per poi stringerle a pugno, come se si stesse trattenendo dall’afferrarla e portarla fuori.
Gigi scosse la testa.
«Mi dispiace, Matt, non ho niente da dirti» gli rispose, non staccando nemmeno per un attimo lo sguardo dal suo.
Colpiti dai raggi del sole che penetravano dalle vetrate, gli occhi castani di Matthew sembravano essere più chiari, quasi velati da una patina acquosa.
Lo vide sbatterli più volte, come se fosse sorpreso da quella risposta, come se non si aspettasse che Gigi fosse così sicura della sua decisione.
Le nocche delle sue mani si contrassero sulla scrivania, poi lo sentì sbuffare spazientito.
Matthew era un agglomerato mortale di orgoglio e dignità ferita che Gigi aveva imparato a capire dopo molto tempo.
Ormai, però, riusciva ad accorgersi ei suoi cambiamenti d’umore, del suo nervosismo: le mani strette a pugno, un leggero tic all’occhio, gli occhi sempre rivolti verso il cielo.
Per quanto cercasse di mascherare i suoi sentimenti dietro dimostrazioni di sarcasmo e cinismo, Gigi lo capiva, forse come non era mai riuscita a fare con nessuno.
«Ti prego» quella preghiera sussurrata in tono roco la sorprese.
Matthew che capitolava al suo cospetto era una scena che aveva sempre immaginato solo nelle sue più fervide fantasie.
Perché si lasciava ancora manipolare in quel modo da lui?
Soppesò per un attimo le due opzioni: seguirlo o non seguirlo, lasciare che anche quella volta l’avesse vinta oppure no.
Come sempre, quando si trattava di Matthew, era un debole.
Si limitò ad annuire, chiudendo con un tonfo il libro di testo per seguirlo fuori dalla biblioteca.
Quella mattina il sole scottava come una calda giornata di giugno e non come se l’inverno si stesse avvicinando sempre di più.
Si sedettero in silenzio sui gradini di pietra dell’entrata.
Matthew tirò fuori dalla tasca dei suoi pantaloni neri un pacchetto di Marlboro rosse e ne pescò due sigarette.
Gliene porse una e Gigi l’afferrò, poi le avvicinò l’accendino al viso.
Tirò una lunga boccata di fumo.
Matthew la osservava tra le ciglia, fumando in silenzio, con i gomiti appoggiati ai gradini e le gambe distese.
Ricordava come fosse facile nei primi tempi parlare con lui, come i discorsi uscissero spontanei, come si sentisse fiera di camminare nel paco del campus con lui e sentire gli sguardi invidiosi di tutte le ragazze.
Com’erano arrivati a quel punto?
In quel momento, per quanto s’impegnasse, non riusciva a trovare nulla da dire per spezzare quel silenzio.
Matthew non sembrava imbarazzato, era a suo agio come se fosse normale per loro fumare una sigaretta insieme.
Un lungo brivido le percorse la schiena.
«Allora?» borbottò alla fine, spostando lo sguardo sulla distesa di alberi che li circondavano.
«Io ti piaccio – esordì Matthew con semplicità – lo capisco dal fatto che tu non riesca a guardarmi, da come tremi quando sei accanto a me».
Non si voltò a guardarlo: le guance le stavano andando a fuoco, le mani non riuscivano a stare ferme.
«Tu mi piaci – il ragazzo parlava con naturalezza, percepiva la sua mano giocare distrattamente con le sue lunghe ciocche di capelli scuri – così tanto che quando sono con te tutto il mondo scompare. Ci sei solo tu, capisci? Questa cosa non mi fa affatto bene, soprattutto se penso che non sei mia».
Gigi sbuffò.
«Non puoi dire certe cose di me la settimana prima per poi pensare che io creda a queste stronzate, Matthew» la voce le uscì bassa, incastrata in gola.
«All’inizio pensavo di riuscire ad averti subito, per questo mi sono avvicinato a te.  Ti vedevo così presa, guardavi solo me, quando eravamo insieme gli altri non esistevano, eri così impacciata da farmi tenerezza – le sorrise e Gigi percepì in quelle sue parole una struggente dolcezza - Però, la verità è che subito dopo ho capito di non poter ottenere ciò che volevo da te, almeno non facilmente come pensavo».
Avrebbe desiderato trovarsi in tutt’altro posto in quel momento, correre via per nascondersi da qualche parte e non incontrarlo mai più.
«Non ci ho mai provato per davvero perché, per quanto ti dimostrassi interessata, eri sempre così distante, seduta sul tuo stupido piedistallo di superiorità, guardando tutti come se non fossero degni di parlare al tuo cospetto – Gigi aprì la bocca per protestare ma Matthew alzò la mano, in una muta richiesta di silenzio – solo dopo ho capito che la tua era semplice timidezza. Nonostante tutto, non sono riuscito ad abbattere il tuo muro. Dimmi, Gigi, cosa devo fare per scalfirti?».
Quando smise di parlare, la sigaretta gli si era quasi consumata del tutto tra le dita e aveva il fiato corto, come se avesse corso una maratona.
Negli occhi riusciva a leggere tutta la sua tensione.
Le risultò difficile incrociare il suo sguardo.
«Non sono seduta su nessun piedistallo – sussurrò alla fine, spostandosi una ciocca di capelli dagli occhi – la sola idea che tu possa aver pensato questo dopo tutti i discorsi che abbiamo fatto mi irrita».
Matthew sbuffò e scosse la testa.
«Ti ho appena detto che non riesco a stare senza di te e l’unica cosa a cui ti appigli è il fatto che io ti abbia definita snob?» le chiese, per nulla incredulo.
Gigi scosse la testa.
«Mi appiglio a tutto ciò che mi hai detto da quando ci conosciamo: che sono un’insicura patologica, che non merito la tua considerazione – elencava tutte le offese con le dita, il sopracciglio che si alzava progressivamente – che mi vieni dietro solo perché sono innamorata di te. Oggi poi, ho scoperto che oltretutto mi consideri una snob del cazzo, che guarda le persone dall’alto in…».
Questa volta, quando la baciò, fu più preparata della sera in discoteca: le braccia di Matthew la circondarono, la sua bocca raggiunse in una frazione di secondo quella di Gigi.
Si sorprese a ricambiare quel bacio; la parte razionale del suo cervello le stava urlando di scappare.
Sapeva quanto la situazione fosse sbagliata, quanto lo fosse sempre stata, ma, contro ogni sua aspettativa, ancora una volta, lasciò che il momento fluisse; non seppe spiegarsi razionalmente perché: forse tutte le loro vite erano già state prestabilite e le loro azioni dovevano essere considerato solo come parte integrante di un piano cosmico a loro sconosciuto, come il moto prestabilito dei pianeti, l’esplosione di una stella, la traiettoria di una cometa.
Le labbra carnose di Matthew erano morbide, calde, invitanti; avevano il sapore del caffè amaro che il ragazzo beveva prima di entrare in aula.
Giocò, mordicchiò e torturò quella bocca con dedizione, come se il suo obiettivo principale fosse sempre stato quello.
La lingua di Matthew le accarezzò il labbro inferiore, in una muta richiesta di accesso che Gigi non gli negò.
Si baciarono ancora a lungo, stringendosi e aggrappandosi l’uno all’altra come se la loro vita dipendesse da questo.
Si allontanarono, forse troppo presto, controvoglia.
«Ammetto quanto fosse squallido il contesto in cui ho provato a baciarti per la prima volta – le sussurrò a pochi millimetri di distanza da lei, tanto che, a quelle parole, le loro labbra si sfiorarono di nuovo – se avessi saputo prima che sarebbe stato così bello baciarti lo avrei fatto molto tempo fa».
Gigi sbuffò una risata per poi abbassare lo sguardo sulle loro mani intrecciate.
In quel momento, riusciva solo a pensare quanto fosse bello stare così accanto a lui, senza alcun pensiero che le ronzasse per la testa.
«Guardami» le sussurrò piano Matthew, accostando la sua bocca all’orecchio e facendola rabbrividire.
Il ragazzo sciolse il contatto tra le loro mani, per far passare le sue braccia intorno alla vita di Gigi.
La strinse a sé e il suo profumo le penetrò quasi fin dentro i pensieri, imprimendosi per sempre nella sua memoria.
Matthew profumava di pulito, di dopobarba e di menta.
«Mi farò perdonare per ciò che ho detto, lo prometto» le baciò la cima della testa, stringendola ancora di più.
Gigi si scostò dal suo abbraccio per guardarlo negli occhi, un sopracciglio sollevato in un evidente espressione sarcastica.
«Non fare promesse che poi non riesci a mantenere» lo sfidò con lo sguardo, tamburellando sulle sue spalle con le dita.
Matthew le sfiorò con la punta delle dita una guancia poi le afferrò una ciocca di capelli e cominciò a giocarci.
«Lo vedrai» le disse alla fine, non distogliendo nemmeno per un attimo lo sguardo dal suo.
Gigi sospirò, non sapendo cosa dire, sperando che Matthew le avesse detto la verità: che ci avrebbe provato per davvero, che quella volta sarebbe stato diverso.
«Stasera hanno organizzato una festa strepitosa – quando parlò, la voce del ragazzo era ritornata quella di sempre, ogni traccia dell’emozione percepita poco prima sembrava essere sparita – vieni anche tu, no?»
Soppesò quella proposta: cosa intendeva? Verrai con me oppure ci becchiamo lì?
«Chiederò a Tessa» gli rispose, guardandolo con timidezza.
Le sembrò di essere ritornata ai primi tempi, quando aveva ancora timore di guardarlo negli occhi per paura di balbettare.
Matthew le sorrise prima di avvicinarsi per darle un bacio a stampo.
«Perfetto, allora. Ci vediamo lì, d’accordo?» si alzò e cominciò ad allontanarsi con il suo solito passo spavaldo.
Quello era decisamente un “ci becchiamo lì”.
 
Gigi si osservava dall’unico specchio della stanza, sfiorando con le dita il tessuto nero elasticizzato.
Si guardava, non riuscendo a capire perché si sentisse così nervosa: non era la prima volta che Matthew la invitava a qualche festa della confraternita: allora perché quello strano senso di inquietudine non l’abbandonava?
«Forse a te va un po’ più stretto perché ho il seno più piccolo del tuo» Tessa la guardava dall’entrata del bagno, la spalla appoggiata all’asse della porta e un tubetto di mascara stretto tra le mani.
Aveva interpretato il suo sguardo spaventato come una reazione al vestito da lei prestatole.
Gigi avrebbe tanto voluto che quella inquietudine fosse motivata dal vestito e non da una paura ben più radicata e profonda in lei.
«Però stai molto bene. Sei davvero sexy questa sera - le sorrise maliziosa, cercando di calmarla – sicuramente quando Matthew ti vedrà non desidererà altro toglierlo a morsi quel vestito, per vedere cosa c’è sotto».
«Non risulto ridicola?» le chiese senza staccare lo sguardo dallo specchio.
«Sei ridicola se continui con queste seghe mentali, Gigi – il suo tono era diventato serio – sei pronta, no? Andiamocene prima che tu decida di cambiarti».
Indossò in fretta i sandali alti, pescò dall’armadio il suo giubbotto di jeans e si guardò un’ultima volta allo specchio prima di uscire insieme a Tessa dalla stanza.
Nei corridoi c’era il tumulto: ragazze in reggiseno che parlavano a telefono, vestiti abbandonati sul pavimento, musica a palla.
Camminarono per un po’ in silenzio, troppo intontite dal frastuono nei corridoi per riuscire a parlare.
Fu un sollievo uscire finalmente dal dormitorio.
L’aria quella sera era fresca ma non fredda.
Raggiunsero in fretta la casa dove si sarebbe tenuta la festa.
La confraternita si era impegnata tanto per far capire agli studenti quale fosse il punto di ritrovo: le porte dell’edificio erano spalancate e si riusciva a sentire anche da parecchi metri di distanza la musica sparata a tutto volume.
Era una di quelle classiche feste dove quegli scimmioni dei giocatori di football giocavano a beer pong e le ragazze si ubriacavano come se non ci fosse un domani.
Se per i primi due anni l’idea di partecipare a quegli eventi l’aveva esaltata, in quel momento sentiva il netto bisogno di darci un taglio.
Si avvicinarono all’entrata: seduti sul porticato della casa, due ragazzi stavano facendo a gare a chi terminasse di bere più velocemente una bottiglia di birra da un litro; la gara, come di consueto, era accompagnata da grotteschi cori di incitamento per entrambi i malcapitati.
In casa la musica era assordante, tanto da non permetterle di sentire ciò che le stesse dicendo Tessa.
Le luci erano soffuse, una quantità spropositata di bicchieri di carta giaceva sul pavimento.
Gigi si guardò intorno: la situazione era già fuori controllo; delle coppiette limonavano sulle scale di legno, palpeggiandosi insistentemente, rendendo quello spettacolo non adatto ai minori; dei ragazzi in mutande correvano per i corridoi, tenendo sollevate le braccia e stringendo tra le mani una bottiglia di vodka ciascuno.
Si addentrarono nella casa, in una zona che sembrava ancora non essere stata devastata: le luci erano più nitide rispetto all’ingresso e si respirava un forte odore di deodorante per ambienti evidentemente spruzzato per cercare invano di coprire la puzza di fumo che impregnava l’aria.
Un lungo biliardo era posto al centro della stanza; intorno ad esso dei ragazzi erano intenti a organizzare una partita.
Matthew era lì, lo vide all’improvviso, seduto sul bordo del tavolo da biliardo.
Sembrava rilassato: la schiena un po’ incurvata, il gomito appoggiato alla stecca, il braccio lasciato penzolare.
Era bello da toglierle il fiato.
Gigi si girò in direzione di Tessa, tutt’a un tratto a disagio.
E se avesse cambiato idea?
«Che aspetti ad andare da lui?» le domandò, osservandola con disappunto.
Gigi scosse la testa: le mille paranoie che l’avevano tormentata fino a quel momento si ripresentarono più forti di prima, sommergendola come un fiume in piena.
«Mi sento inadeguata» le confessò, non osando girare la testa in direzione del tavolo da biliardo.
Come poteva un ragazzo renderla così insicura?
«Penso che dovrebbe essere lui a sentirsi inadeguato – borbottò Tessa – insomma sei uno schianto questa sera e, anche se devo ammettere che non è per niente male anche lui, tu sei decisamente due spanne sopra».
Gigi sorrise, grata alla sua amica per quelle parole.
Ma come poteva crederle per davvero? Insomma, era evidente quanto fosse di parte.
Sbuffò, stringendo i pugni lungo i fianchi prima di girarsi di nuovo in direzione del tavolo da biliardo.
Dalla posizione in cui si trovava riusciva a vedere benissimo Matthew, pur sapendo di risultare nascosta ai suoi occhi.
Si era raddrizzato e messo di lato, in attesa del suo turno.
Tessa le diede una leggera spintarella con il fianco poi le sorrise.
«Vado a cercare John, ci vediamo dopo».
Era sola.
Prese coraggio, se avesse potuto sarebbe rimasta lì, sull’uscio della porta, parzialmente nascosta, per tutta la serata; la prospettiva di essere vista, però, l’aveva dissuasa da tale intento.
Appena entrò nella stanza, Matthew si girò nella sua direzione, quasi come se il suo corpo fosse attratto da quello di Gigi, probabilmente mosso da quella stessa alchimia che aveva sentito scorrere nelle sue vene quando quella mattina si erano scambiato quel bacio appassionato sulle scale della biblioteca.
Il percorso che la divideva da Matthew le sembrò durate una vita; quando alla fine lo raggiunse aveva gli occhi di tutti i suoi amici puntati addosso.
Si erano fermati tutti, forse pronti a vedere la solita scena vissuto ad ogni festa: Matthew che rimorchiava una ragazzina per poi prenderla in giro.
Ma lui le circondò le spalle con un braccio, attirandola e stringendola al suo fianco.
Il tempo sembrò bloccarsi per secondi che le parvero interminabili: gli amici la guardavano, quasi senza capire cosa stesse succedendo, poi decisero che il fatto che il loro amico avesse finalmente messo la testa a posto non fosse un evento di grande importanza e ritornarono a prestare attenzione alla partita.
Meglio di niente.
«Pensavo che non venissi più» le sussurrò all’orecchio.
«La serata è appena iniziata» lo prese in giro, decidendo che forse non era il caso di raccontargli del buon quarto d’ora speso sull’uscio a decidere se fosse meglio scappare oppure affrontare la sua vita.
Lo sentì sorridere tra i capelli e la sensazione di malessere che fino a quel momento aveva provato in un attimo sparì, relegata nei recessi della sua mente.
Non c’era niente da temere.

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