Frammenti di Vita

di Sandie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I - Ritorno a Nankatsu ***
Capitolo 2: *** Capitolo II - Ritrovarsi ***
Capitolo 3: *** Capitolo III - Senza paura ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV - I due mondi di Genzo ***
Capitolo 5: *** Capitolo V - Inizio di primavera ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI - Frammenti di passato ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII - Presa di coscienza ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII - Sogni e speranze ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX - Hanami ***
Capitolo 10: *** Capitolo X - Yozakura (Rivelazioni) ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI - La spiaggia di Miho ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII - Anima in conflitto ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII - Complicazioni ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV - Padri e figli ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV - Tra passato e futuro ***
Capitolo 16: *** Capitolo XVI - Ammissioni e scoperte ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVII - Una felicità incompleta ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVIII - Un nuovo inizio ***
Capitolo 19: *** Capitolo XIX - Il passato si arrende al presente ***
Capitolo 20: *** Capitolo XX - Soltanto un mese ***
Capitolo 21: *** Capitolo XXI - Dura realtà ***
Capitolo 22: *** Capitolo XXII - L'Olimpiade ***
Capitolo 23: *** Capitolo XXIII - A Madrid ***
Capitolo 24: *** Capitolo XXIV - La corsa verso il sogno ***
Capitolo 25: *** Capitolo XXV - Scontri e disillusioni ***
Capitolo 26: *** Capitolo XXVI - Vite che cambiano ***
Capitolo 27: *** Capitolo XXVII - Kintsugi ***
Capitolo 28: *** Capitolo XXVIII - Insieme ***



Capitolo 1
*** Capitolo I - Ritorno a Nankatsu ***


Untitled

Capitolo I

Ritorno a Nankatsu

 


“Tutto parte da un sogno. Che va curato, innaffiato e amato,

poi frammentato in passi concretizzabili,

“umanizzato” e spogliato della sua connotazione poetica

per diventare reale. Però resta SOGNO.”

 

 

L'aereo della Lufthansa, proveniente da Amburgo, era da poco atterrato su una delle piste dell'Aeroporto Internazionale di Narita.

Hiroji, in piedi a braccia incrociate poco lontano dalle porte automatiche, cercava con lo sguardo la persona che, a breve, sarebbe dovuta comparire tra la moltitudine di passeggeri scesi dagli aerei giunti nell’aeroporto giapponese e che avevano compiuto le procedure di controllo.

Non dovette attendere molto, perché dopo pochi minuti vide un ragazzo dai corti capelli neri, alto e imponente, molto somigliante a lui, spiccare tra la folla di viaggiatori, trascinando un trolley di medie dimensioni.

Gli andò rapidamente incontro e quando fu abbastanza vicino da essere facilmente visibile, agitò una mano.

Il giovane rispose al cenno con un sorriso e velocizzò il passo, felice di rincontrare quella persona a lui molto cara.

«Genzo!» lo salutò Hiroji, mettendogli una mano sulla spalla, non appena lo ebbe raggiunto.

«Ciao.»

«Come ti senti?»

Genzo annuì lentamente «Bene.» Era una risposta sincera. Era spossato per via del lungo viaggio, ma rimettere piede sul suolo giapponese lo faceva sentire quasi sollevato.

Hiroji sorrise. Sì, Genzo aveva un’aria abbastanza distesa, lo sguardo era stanco ma la gioia di essere di nuovo in Giappone, di essere lontano da un’atmosfera che in Germania si era fatta insostenibile e di riabbracciare la sua famiglia, sembrava prevalere sulla delusione e sul nervosismo accumulati in quell’autunno difficile. Anche se, un mese prima, gli aveva confidato di essere disposto a lasciare Amburgo pur di poter tornare in campo, ciò non aveva reso lo strappo indolore.

 

Nel frattempo, un manipolo di persone armate di taccuini, penne, registratori, microfoni e telecamere si stava dirigendo a passi rapidi verso di loro. Si trattava di un gruppo di giornalisti, cameraman e fotografi che dovevano aver appreso da colleghi tedeschi del ritorno in Giappone di Genzo Wakabayashi che, non godendo più di alcuna considerazione da parte dell’allenatore della sua squadra di club, aveva deciso di mettersi a disposizione del c.t. Kozo Kira per il torneo asiatico che si sarebbe disputato di lì a poche settimane, la cui vittoria garantiva la qualificazione ai successivi Giochi Olimpici.

I giornalisti e i commentatori giapponesi non vedevano l’ora di avere dichiarazioni da parte dello stesso portiere, che confermassero oppure smentissero le voci che lo davano in procinto di lasciare la squadra amburghese, per trasferirsi in una delle importanti squadre europee che avevano mostrato interesse nei suoi confronti, tra le quali la più accreditata a rilevarne il cartellino sembrava essere proprio il Bayern Monaco, la più forte e titolata squadra tedesca, in cui giocava la stella della Nazionale Karl Heinz Schneider, al momento indiscussa capolista in Bundesliga con sei punti di vantaggio sulla prima inseguitrice.

Genzo non aveva nessuna intenzione di parlare di quell’argomento con la stampa e Hiroji appoggiava in pieno la sua decisione.

Quest'ultimo alzò una mano, per far capire che non avrebbero ottenuto alcuna intervista, ma a quelli sembrò non importare: uno di loro, giovane e decisamente intraprendente, si era già affiancato al calciatore piazzandogli il microfono sotto il mento, chiedendogli se il suo repentino ritorno in Giappone significava un addio alla sua squadra. 

«Parlerò quando sarà il momento.» fu la sua laconica risposta. Il cronista, per nulla soddisfatto, stava per porgli un’altra domanda quando Hiroji si frappose tra i due.

«Mio fratello ha detto che parlerà, ma non oggi. Dovete rispettare la sua volontà. E ora, se volete scusarci ...» disse calmo, ma con uno sguardo che aggiungeva ulteriore eloquenza alle sue parole.

Una mano si posò sulla spalla del giovane che stava cercando di intervistare Genzo. Si trattava di Nozaki, uno dei cronisti di calcio più noti e apprezzati in Giappone. Con quel gesto, invitò il collega a farsi da parte e ad attendere con pazienza il giorno in cui Genzo avrebbe deciso di parlare, perché l'avrebbe sicuramente fatto. In breve, tutti i giornalisti, sebbene riluttanti a farsi sfuggire il Super Great Goal Keeper, lasciarono passare i due fratelli.

«Grazie.» disse, non mancando di rivolgere un breve sguardo di gratitudine anche all'esperto reporter.

«Non dirlo nemmeno. Ora hai bisogno soltanto di tranquillità.»

 

Sebbene fosse ancora inverno, la giornata era piacevole: il cielo era sereno, illuminato da un pallido sole i cui raggi mitigavano l’aria gelida.

Raggiunsero la Lexus nera parcheggiata a poca distanza dall’aeroporto. Hiroji aprì il baule e Genzo vi caricò il suo trolley.

«Ken aveva insistito così tanto per poter venire anche lui che stava riuscendo a convincermi. Ma Annie non ha voluto sentire ragioni.» spiegò, mentre prendevano posto sui sedili anteriori «Ha preso l'influenza due settimane fa e ora ha solo un po' di raffreddore, ma lei teme una ricaduta e si ostina a tenerlo in casa.»

Kenichi, detto Ken, era il figlio di Hiroji, un vivace e affettuoso bambino di cinque anni con una venerazione per lo zio da cui aveva ereditato la passione per il calcio, ispirandogli il sogno di diventare anche lui un fortissimo calciatore, nel ruolo di attaccante perché così avrebbe potuto segnargli un gol. Tatsuo Mikami gli aveva spiegato che i portieri, solitamente, giocano a lungo e forse Genzo sarebbe stato ancora tra i pali della Nazionale giapponese quando Kenichi fosse cresciuto abbastanza da poter giocare anche lui a un livello importante.

Annie era la moglie, una ragazza inglese conosciuta al King's College, dove entrambi studiavano. Si erano sposati sei anni prima, dopo aver conseguito le rispettive lauree e un anno dopo era nato il loro primogenito.

Genzo ridacchiò «Sempre ansiosa quando si tratta dei bambini, eh?»

Hiroji fece una piccola smorfia divertita «Dice che finché lo sente starnutire, non si fida di lasciarlo uscire di casa. Per fortuna i domestici la aiutano con lui e con Aiko. A proposito, è sempre più bella, la nostra piccola Aiko. Sembra una di quelle bambole di porcellana che piacciono tanto alla mamma.»

Genzo sorrise, ricordando la sera di otto mesi prima in cui Hiroji, con la voce quasi irriconoscibile per la gioia che stava provando, gli aveva telefonato per comunicargli la nascita della bambina. Quella notizia era stata la ciliegina sulla torta al termine di una serata splendida, in cui era tornato in campo dopo il grave infortunio alle mani che lo aveva reso indisponibile per quasi tutta la stagione. L'Amburgo aveva sconfitto il Bayer Leverkusen e lui aveva dimostrato di essere tornato in piena forma, grazie a due ottime parate. 

Una piccola perla in un campionato modesto che aveva lasciato qualche rimpianto, ma anche un certo ottimismo per l'annata seguente. 

Il matttino dopo, Genzo aveva raggiunto a Londra la sua famiglia, tutta riunita ad eccezione del fratello mezzano Keisuke, che si trovava negli Stati Uniti dove studiava al Massachusetts Institute of Technology e aveva fatto giungere le sue felicitazioni con una bellissima e-mail.

Sembrava fosse passato un secolo: nessuno poteva immaginare che solo pochi mesi dopo, lui nell’Amburgo sarebbe diventato, di fatto, un separato in casa.

L'errore commesso nella partita contro il Bayern Monaco aveva aperto una frattura nel rapporto tra Genzo e l'allenatore Zeeman, che si era progressivamente allargata fino a diventare insanabile.

Il torneo asiatico era l’occasione per prendersi la sua rivincita: avrebbe giocato, mantenuto il ritmo partita in vista delle Olimpiadi e messo ulteriormente in mostra le sue capacità, tenendo vivo l’interesse delle squadre che già stavano sondando il terreno, pronte a fare un’offerta qualora il portiere fosse stato messo sul mercato. 

Per il momento, il presidente e i dirigenti dell’Amburgo non avevano preso nessuna decisione. Era tutto in sospeso; ora, e per almeno sei mesi, Genzo Wakabayashi avrebbe dedicato le sue energie solo alla Nazionale giapponese Under 23. Ma si sapeva già che il suo futuro sarebbe stato altrove.

Il ragazzo sospirò, mentre gli eventi degli ultimi mesi invadevano di nuovo la sua mente, anche ora che si trovava dall'altra parte dell'emisfero e stava guardando i paesaggi, le abitazioni e gli edifici del suo Paese d'origine che scorrevano veloci, con l'ampia distesa dell'Oceano Pacifico a fare da splendido sfondo.

Per tutto il mese precedente, aveva fatto il massimo per cercare di convincere Zeeman a dargli almeno una possibilità cercando, per l'ultima volta, di conciliare il sentimento con la ragione ma, per tutta risposta, non era stato schierato nemmeno nelle partite di Coppa di Germania. Schweitzer era diventato, ormai, il titolare inamovibile. 

Zeeman aveva messo in atto ciò che aveva già pensato di fare dopo la partita persa contro il Bayern Monaco, per castigare quell'iniziativa personale che aveva originato il gol di Schneider. Allora erano stati i compagni di squadra, Kaltz in testa, attribuitosi la responsabilità di aver, di fatto, messo la squadra in difficoltà con la sua espulsione, a prendere le sue difese e a convincere anche il tecnico a non punirlo in modo così severo.

Genzo era stato così schierato in campo nelle gare successive e aveva protetto la porta della sua squadra senza sbavature e con la consueta affidabilità. La situazione sembrava essere tornata alla normalità. 

Zeeman aveva però continuato a far giocare la squadra con il solito atteggiamento passivo e rinunciatario. Genzo risultava, quasi sempre, il migliore in campo, il che significava che la prestazione del resto della squadra non era stata certo brillante. Gli articoli dei cronisti sportivi parlavano di un Wakabayashi sempre estremamente affidabile e di una difesa attenta ed efficace, ma anche di un gioco pressoché inesistente che produceva soltanto scialbi pareggi e vittorie risicate. 

Dopo poche giornate, gli avversari avevano imparato a prevedere e annientare sul nascere la tattica della squadra amburghese, basata su una difesa solida e su azioni di contropiede nate da errori degli avversari, oppure da lunghi rinvii o lanci in avanti, alla ricerca del giocatore più avanzato e libero da marcature.

I difetti erano evidenti e vennero messi definitivamente a nudo un freddo sabato pomeriggio a Gelsenkirchen. Uno Schalke 04 ben diverso da quello sconfitto all'esordio per 5-1 dal Bayern, li aveva travolti per 3-0.

Genzo aveva deciso di affrontare il suo allenatore e di ribadirgli, con rispetto ma anche con fermezza, la sua disapprovazione verso un modo di giocare che, ne era certo, avrebbe condotto la squadra verso una stagione incolore. L'Amburgo era già scivolato al quinto posto in classifica e la qualificazione alla Champions League rischiava di diventare un'utopia.

«L’allenatore sono io, Wakabayashi.» aveva risposto perentorio «Se volevi vincere i Meisterschalen e le coppe, potevi andare al Bayern Monaco. Erano disposti a sborsare una cifra enorme per averti. Schneider si era persino scomodato venendoti a parlare di persona pur di convincerti, e tu hai deciso di rimanere ad Amburgo. Per me va bene Wakabayashi, ma non pretendere di aspirare a traguardi irraggiungibili. Non siamo attrezzati per vincere la Bundesliga né per arrivare in Champions League, mettitelo in testa.»

Da allora, Genzo era sceso in campo senza entusiasmo e senza stimoli.

Le posizioni del portiere e dell’allenatore erano inconciliabili. Inoltre, Genzo era indubbiamente un giocatore molto carismatico e i suoi compagni avevano in lui una fiducia incrollabile: difficilmente avrebbero ignorato o trasgredito le sue direttive, se avesse deciso di fare di testa sua. Aveva deciso, così, di relegare il titolare in panchina e di schierare tra i pali quello che, fino a quel giorno, era stato la sua riserva. Jens Schweitzer era un tedesco suo coetaneo, non aveva certo il suo talento ma svolgeva il suo compito diligentemente e stava sfruttando un'occasione in cui, con ogni probabilità, non aveva mai osato sperare.

Per Genzo era iniziato un periodo di frustrazione e di senso d'impotenza: soffriva doppiamente per essere costretto a rimanere seduto in panchina per intere partite e assistere, ogni settimana, al gioco tutt'altro che propositivo ed esaltante della squadra.

Era riuscito a resistere grazie all'amicizia di Hermann: era stato sempre al suo fianco durante gli allenamenti e lo aveva coinvolto nelle uscite serali, tenendolo su con il morale con il suo modo di fare scherzoso e allegro. Gli era grato di tutto questo. Tuttavia, l'unico modo per risolvere la situazione era tornare a giocare.

Voleva le Olimpiadi, voleva partecipare al passo seguente verso la realizzazione di quel sogno iniziato dieci anni prima. 

Al ritorno dalle vacanze natalizie, si era messo nuovamente a disposizione, ma la situazione non era cambiata. Stava per chiedere al direttore sportivo di essere ceduto, quando aveva ricevuto una telefonata di Kozo Kira, intenzionato a convocarlo per il torneo di qualificazione alle Olimpiadi.

Aveva deciso così di accettare la mano tesagli dal commissario tecnico della Nazionale Under 23.

Alla scadenza della sessione invernale del calciomercato, il portiere aveva ottenuto dalla società il permesso di tornare in Giappone per prendere parte al torneo asiatico.
Il giorno dopo si era recato al centro sportivo e aveva svuotato il suo armadietto. E poche ore più tardi, era salito sull'aereo per Tokyo.

 

Dopo quasi tre ore di viaggio, Hiroji e Genzo giunsero a Nankatsu.

Il cancello automatico si aprì lentamente, e l’auto attraversò il vialetto di ghiaia che conduceva davanti all’imponente villa Wakabayashi. Era la prima volta, dopo anni, che Genzo ci tornava per rimanere per un lungo periodo. 

«Papà! Zio Genzo!» gridò felice un bimbo correndo incontro ai due uomini. Abbracciò il padre, poi corse dietro la macchina, dove il portiere aveva appena scaricato il trolley.

«Ciao campioncino!» lo salutò, scompigliandogli i capelli.

«Kenichi!» una giovane donna castana, di media altezza e di costituzione snella anche se le sue forme erano ora un po’ arrotondate per via della recente gravidanza, si affacciò all'ampia porta d’ingresso della casa. Teneva in braccio una bambina molto piccola e aveva l’aria infuriata. 

«Quella canaglia! È bastato che Hitomi si assentasse per un attimo e non appena ha sentito il rumore dell’auto è scappato fuori.» protestò, uscendo sul portico.

«Non prendertela, Annie.» disse Hiroji posandole un bacio sulla fronte e sfiorando con una carezza una guancia di Aiko, che sorrideva contenta di rivedere il papà «Non mi sembra che Ken stia poi così male.» aggiunse, indicandole il bimbo che girellava entusiasta attorno a Genzo.

Anche il vecchio, fedele John, il cane di famiglia, si era unito alla festa per il ritorno del suo padrone e gli scodinzolava attorno, abbaiando felice.

«Avrebbe potuto almeno mettersi il giubbotto!» sospirò Annie, mentre salutava con un cenno il cognato che si stava avvicinando all’ingresso trascinando il trolley, seguito da Kenichi.

La bambina guardava Genzo con uno sguardo un po’ accigliato, quello che rivolgeva sempre a chi non vedeva molto spesso. Hiroji aveva ragione: era una bellissima bambina, con il volto roseo, i ciuffi castani e dei bellissimi occhi verdi. Somigliava molto ad Annie, mentre i capelli, i lineamenti e lo sguardo di Ken erano targati Wakabayashi senza possibilità di abbaglio.

«Guarda Aiko! Ecco lo zio Genzo.» disse, voltandosi leggermente perché il cognato potesse vederla meglio.

Il giovane tese una mano verso il viso della bambina «Ciao, Aiko.» disse, sfiorandole una morbida guancia con la punta delle dita.

La piccola emise un breve mugolio, per poi accoccolarsi nell’incavo della spalla della madre, stropicciando le piccole labbra in quello che sembrava un buffo sorriso. Annie non trattenne una risata.

Anche Genzo si mostrò divertito, specialmente dopo che Aiko era riemersa dall’abbraccio della mamma ed era tornata a fissarlo. Avrebbe avuto tempo e modo per abituarsi alla presenza costante del giovane zio.

Entrarono in casa, dove il calciatore ricevette il caloroso bentornato dai domestici, con in testa la governante Hitomi, una donna minuta dal sorriso gentile e i modi garbati.

«Bentornato signore. Sono felice di rivederla qui.» disse, dopo averlo salutato con un inchino. Lavorava per la famiglia Wakabayashi da poco prima della sua nascita, ed era sinceramente affezionata al ragazzo che aveva visto crescere fino agli undici anni.

«Tra poco sarà servito il pranzo. Le ho preparato il katsudon

Genzo annuì con un sorriso. Era uno dei suoi piatti preferiti. Sostanzioso e saporito, era l'ideale per recuperare energie e buonumore.

«E io ho fatto l'apple pie.» aggiunse Annie, con un ammiccamento.

«Visto, Genzo? Hai due donne che ti viziano.» scherzò Hiroji, suscitando una risata generale.

Il giovane calciatore in particolare, rise di cuore, come non gli capitava da tempo. L'atmosfera di casa stava già facendo un benefico effetto.

«Salgo in camera a sistemarmi.» avvisò, prima di cominciare a salire le scale.


La sua stanza era sempre stata arredata in modo semplice, ed era rimasta come l'aveva lasciata due anni prima. Lasciò il trolley accanto al letto e camminò per qualche minuto, osservando le fotografie e i trofei disposti sulle mensole in un'ordinata linea retta, le medaglie, i gagliardetti e gli attestati appesi alla parete, sopra l'ampia scrivania.

Si soffermò a guardare la foto del campionato di Yomiuri Land, quella del Mondiale Under 16 e quella del World Youth, vinto proprio in Giappone, che lo ritraevano sorridente e fiero, con i suoi compagni e amici di sempre. Gli stessi con cui di lì a poco avrebbe condiviso la nuova tappa della strada verso la realizzazione del sogno di portare il loro Paese al vertice del calcio mondiale.

 

 

 



 ***  Note ***

 


La citazione presente all'inizio del capitolo è tratta dal libro "Cosa ti manca per essere felice?" edito da Mondadori e scritto da Simona Atzori, una ballerina e pittrice milanese che ha saputo realizzare i suoi sogni nonostante sia nata senza braccia.

 

Lexus: acronimo di Luxury EXportation United States, è il marchio di lusso della Toyota. Creato in origine per il mercato statunitense, ha finito per imporsi anche in quello giapponese. Questo è il modello LS460L.

King's College: è una prestigiosa università londinese, situata in una posizione magnifica, a poca distanza dal London Eye, dal Big Ben, dal Palazzo di Westminster... nel cuore pulsante della capitale britannica.

Die Deutsche Meisterschale (o semplicemente Meisterschale) è l'equivalente dello scudetto, il titolo che spetta alla squadra vincitrice del campionato. Letteralmente significa "il piatto dei campioni" e infatti questo trofeo consiste in un grande piatto d'argento impreziosito con gemme di tormalina e oro, che viene assegnato ogni anno alla squadra vincitrice della Bundesliga. Ha un diametro di 59 centimetri e pesa 11 chilogrammi; vi sono incisi i nomi di tutte le squadre che hanno vinto il massimo campionato tedesco dal 1903.

Fonte: dfl.de
Katsudon: pietanza tipica della cucina giapponese, è costituito da una cotoletta di maiale impanata e fritta (tonkatsu), uova (il tuorlo e l'albume vengono  mescolati e versati sul piatto da sbattuti e crudi e si cuociono grazie al calore del piatto) e condimenti vari da versare sul riso caldo. Piatto molto sostanzioso, è spesso decorato con erba cipollina per aggiungere un tocco di verde.

Fonti: Wikipedia e romanzo "Kitchen" (1988) di Banana Yoshimoto.

Apple pie: torta tipica britannica, preparata con mele (le Bramley sono considerate le più adatte), farina, burro, succo di limone, zucchero e, a scelta, cannella. Il latte viene usato per formare uno strato di glassa sulla torta.

Fonte: TheSpruceEats.com


"Captain Tsubasa" © 1981

I personaggi di quest'opera appartengono a Yoichi Takahashi, che ne detiene tutti i diritti insieme alle case editrici che la pubblicano in Giappone (Shueisha) e negli altri Paesi.


Buonasera a tutti i lettori.

Ho deciso di ripubblicare la storia dall'inizio perché vi ho apportato delle aggiunte che la cambiano rispetto alla precedente versione. È stato un dispiacere cancellare le relative recensioni, che ho però salvato nel mio pc.

Ho inviato un messaggio alle autrici dei commenti rimasti senza risposta.

Sandie

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Capitolo 2
*** Capitolo II - Ritrovarsi ***


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Capitolo II

 

Ritrovarsi

 

 

 

 

Genzo aveva trascorso in famiglia la sua prima giornata a Nankatsu: dopo il pranzo, durante il quale aveva conversato con Hiroji e Annie e dopo aver convinto quest’ultima, non senza fatica, a lasciare uscire Kenichi per un po', aveva trascorso il pomeriggio nel grande giardino della villa, giocando a calcio e a baseball con il bambino e con Hiroji, che ne aveva approfittato per godersi qualche ora di divertimento e di relax, prima di rituffarsi in una nuova, intensa settimana lavorativa.

A metà pomeriggio, anche Annie era uscita sul portico per assistere all'improvvisata partita, declinando gentilmente l'invito dei tre Wakabayashi a unirsi a loro.

 

Hiroji era tornato in Giappone all'inizio dell'anno, per assumere l'incarico di amministratore delegato della Wakabayashi Electrics, l'azienda della famiglia fondata dal nonno. Dopo anni di conduzione senza difficoltà, a eccezione di un periodo di crisi vent'anni prima, la compagnia di produzione e commercializzazione di componenti e dispositivi elettrici ed elettronici aveva cominciato a soffrire la concorrenza delle altre aziende sia sul mercato interno, sia su quello estero.

Yasuhiro, il padre, divenuto presidente e amministratore delegato dopo la morte del fondatore, aveva capito che stavolta, si trattava di una recessione più seria rispetto a quella precedente, perché generata da cause diverse: il mondo e il mercato stavano cambiando e sarebbero servite una mentalità e un’organizzazione nuove per riuscire a superarla. Per questo, in anticipo rispetto ai tempi previsti, aveva deciso di affidare la guida e l'amministrazione al figlio maggiore, richiamandolo da Londra dove, dopo la laurea in Economia e Gestione Aziendale al King's College, aveva lavorato come responsabile del commercio per l'Europa nella filiale britannica.

Il signor Wakabayashi sarebbe rimasto nell'organigramma come presidente del consiglio d'amministrazione e avrebbe gestito le azioni e le partecipazioni della famiglia come presidente della holding, permettendo a Hiroji di concentrarsi sulla loro principale attività commerciale: sperava che, grazie alla preparazione e all'esperienza acquisite in Gran Bretagna, sarebbe riuscito a riorganizzare la società e a renderla più competitiva anche sulla scena internazionale.

Il neo-amministratore delegato aveva deciso di abitare a Nankatsu, nella villa di famiglia, lontano dal caos e dalla frenesia di Tokyo, come avevano fatto i suoi genitori quando avevano scelto di trasferire, per necessità logistiche, la sede principale dell'azienda nella capitale. I bambini avrebbero potuto crescere più tranquilli e sereni in una città non troppo urbanizzata e circondata da uno dei paesaggi più belli del Giappone.

Annie, nonostante avesse sempre vissuto a Londra, si era immediatamente mostrata disponibile a seguirlo in Giappone; i bambini erano ancora piccoli e non avrebbero patito troppo il distacco da amici o parenti: per fortuna, erano affezionati ai nonni paterni quanto a quelli materni. Lei, pur dispiaciuta di allontanarsi dai genitori e dalla sorella, era attratta dall’idea di vivere in un Paese così diverso dalla Gran Bretagna, dalla cultura particolare e affascinante, in cui aveva trascorso, in precedenza, soltanto pochi, brevi periodi di vacanza.

Suo marito aveva di fronte una sfida delicata, decisiva per il futuro della sua carriera e della sua famiglia: non gli avrebbe mai posto degli ostacoli. Sapeva quanto fosse importante, per lui, dimostrare di essere una guida all'altezza del nonno e del padre. Aveva perciò chiesto e ottenuto dal British Council, per cui lavorava come insegnante ed esaminatrice, il trasferimento alla sede di Tokyo; avrebbe tenuto dei corsi nella prefettura di Shizuoka, per non privare i figli della sua presenza e delle attenzioni di cui avevano bisogno.

 

Il mattino seguente, Genzo uscì a correre con John, come faceva da ragazzino.

Sentiva il bisogno di fare un giro per tutta la città: aveva sempre amato sfruttare le prime ore del mattino per fare esercizio fisico e, soprattutto, avrebbe potuto aiutarlo a scacciare il senso di malinconia che di tanto in tanto tornava a tormentarlo per via delle circostanze che l’avevano portato a terminare anzitempo la sua esperienza ad Amburgo.

L’Akita Inu mostrava un’agilità notevole per la sua età e lo affiancò senza fatica per tutto il percorso. Non appena lo aveva visto uscire di casa vestito con tuta e scarpe da ginnastica e l’immancabile berretto in testa, aveva lasciato il suo giaciglio sul lato destro del giardino e gli era lentamente andato incontro, affiancandosi a lui in prossimità del cancello.

Attraversarono la città quasi per intero, fino a giungere al parco Hikarigaoka, dove Genzo decise di fermarsi per un po': si sedette su una panchina e John si accucciò sull’erba, ai suoi piedi.

Respirò l’aria fresca, godendosi la tranquillità che solo le prime ore del mattino potevano offrire e il panorama visibile da quella posizione, che regalava una splendida vista dell'intera Nankatsu, in cui la sua villa spiccava - come dicevano, non a torto, i suoi amici - come una reggia.

Era impossibile non lasciarsi trasportare dal flusso dei ricordi. Ogni strada, ogni edificio, ogni angolo della sua città riportava alla mente episodi e immagini della sua infanzia: i suoi primi passi nel mondo del calcio, i giochi con i suoi fratelli e con John, le esercitazioni quotidiane con Mikami, le partite con la Shutetsu, la sfida del nuovo arrivato Tsubasa, il primo tiro parato a Misaki mentre andava allo stadio della sua scuola per affrontare la Nankatsu, il torneo di Yomiuri Land. A poco a poco quelle rievocazioni sostituirono quelle negative con le quali si era risvegliato e lo rasserenarono.

Un guaito di John interruppe il flusso di pensieri che stava scorrendo spontaneo nella sua mente.

Guardò in basso, dove il suo cane lo stava fissando con uno sguardo implorante.

«Che c’è, John? Sei stanco?» diede uno sguardo all’orologio da polso: erano passate ormai due ore e mezza, da quando era uscito di casa. Il parco cominciava a non essere più molto deserto. Si vedevano alcune coppie passeggiare tenendosi per mano o sottobraccio, signori anziani che chiacchieravano seduti sulle panchine, mamme che portavano a spasso i loro bambini.

«Che dici, torniamo a casa? Devi essere affamato.» disse, grattando il suo amico a quattro zampe sotto il mento, che mostrò di gradire molto quelle attenzioni.

 

Giunto in prossimità della sua casa, sentì delle urla e delle risate provenire dal giardino, e dei colpi di calci dati a un pallone. Quando giunse davanti alla cancellata, vide il piccolo Ken mentre giocava con due ragazzi di cui aveva già riconosciuto le voci: Taro Misaki e Ryo Ishizaki.

«Guarda un po’ con chi si sta allenando Ken!» disse ad alta voce, facendo voltare i tre nella sua direzione.

«Ehilà Wakabayashi! Sei tornato finalmente!» Ryo fermò il pallone sotto il piede e alzò un braccio in segno di saluto, mentre Genzo con John sempre al suo fianco, si dirigeva verso il terzetto.

«Allora, come va?» gli chiese Taro, con il suo consueto sorriso.

«Non c’è male. È da molto che siete qui?»

«No, saranno venti minuti. Sapevamo che saresti tornato a breve e così abbiamo deciso di ingannare il tempo giocando con Ken.»

«Ma quanti anni ha il tuo cane, Wakabayashi?» chiese Ishizaki guardando l’Akita Inu che si stava facendo coccolare dal bimbo «A volte penso che sia un robot fabbricato dagli operai della tua azienda.»

John scrutò il difensore dello Jubilo Iwata ed emise un brontolio.

«Lo senti Ishizaki? Ti sta dicendo che sei un po’ grandicello ormai, per dire certe stupidaggini.» gli rispose Genzo in tono beffardo, facendo ridere Taro.

Il piccolo Ken, invece, aveva seguito lo scambio di battute con un’espressione seria e le sopracciglia corrugate.

«Zio sei stato cattivo questa mattina non mi hai portato a correre con te e John!» si lamentò con aria offesa. Incrociò le braccia e arricciò le labbra.

Genzo sorrise leggermente e gli si avvicinò. «Ma ci siamo andati molto presto Ken e tu ancora dormivi.» si giustificò.

«Se mi chiamavi io venivo.» ribatté il bimbo continuando a tenergli il broncio.

«Va bene Ken, allora la prossima volta, se la tua mamma è d’accordo, verrai anche tu a correre con me e John.» concesse alla fine il portiere dandogli un buffetto «È una promessa.» aggiunse e riuscì finalmente a strappargli un sorriso.

«Sai ho giocato a calcio con Taro e Ryo! Taro mi passava la palla e io facevo sempre gol.» gli raccontò con entusiasmo e un notevole orgoglio.

«Non sempre.» puntualizzò Ishizaki fingendosi offeso «Comunque questo birbante ha stoffa Wakabayashi, anche se secondo me funzionerebbe bene come difensore. Dì un po’, Ken, non ti piacerebbe fare il difensore? Proteggeresti la porta di tuo zio quando ormai sarà vecchio e farà fatica a muoversi tra i pali.»

«Magari al posto di Ishizaki.» ribatté il Super Great Goal Keeper.

Ken scosse la testa «No. Io voglio giocare in attacco e allenarmi tirando allo zio e facendomi passare i palloni da Taro.»

La conversazione venne interrotta da Annie, che nel frattempo era comparsa sul portico dell’entrata della casa con in mano una ciotola piena di crocchette.

«Oh, sei tornato Genzo. Bene ragazzi, se volete rientrare, io e Hitomi vi abbiamo preparato uno spuntino. Per te c’è la pappa, John.» disse scendendo i gradini, mentre il cane si dirigeva velocemente verso la sua cuccia.

«Spuntino? Arriviamo subito!» rispose Ishizaki, sempre particolarmente sensibile all’argomento "cibo". Genzo e Taro si scambiarono un’occhiata divertita.

Hitomi entrò nella sala da pranzo portando un vassoio con tre tazze di tè e tre piattini su cui facevano bella mostra di sé altrettanti budini al crème caramel, lo depose sul tavolo e distribuì i piattini, le tazze, i cucchiaini e la zuccheriera, ringraziata dai tre ragazzi che si erano appena accomodati.

«Il crème caramel è la specialità della signora Wakabayashi. Spero sia di vostro gradimento.» disse.

«Squisito.» commentò Misaki mostrando il pollice alzato, dopo il primo assaggio.

«Sublime! Non ce n’è ancora?» chiese senza ritegno Ishizaki.

«Sei sempre il solito ingordo Ishizaki.» lo riprese Genzo ridendo.

«Oh sì.» confermò Misaki «Ed è sempre il solito buffone. Non oso pensare se ci fosse anche Urabe … pensa che a Iwata divido l’appartamento con questi due.»

«Non sei obbligato a starci.» Ryo incrociò le braccia con un’espressione scocciata, provocando l’ilarità dei due amici.

 

Annie che nel frattempo era rientrata insieme a Ken e aveva messo Aiko nel passeggino, aveva assistito divertita allo scambio di battute tra i tre amici e, compiaciuta del consenso riscosso dal suo budino, accontentò Ryo e gliene fece avere un’altra porzione. La scena non sfuggì agli occhi del bambino.

«Mamma, posso mangiare anch’io il crème caramel insieme a loro?» chiese, cercando di impietosirla sfoderando il più accattivante dei suoi sorrisi.

Ma Annie non si lasciò commuovere «Hai già avuto la torta per colazione! Su, vieni, la tua sorellina ha voglia di fare un bel giretto per la città.» disse, mentre Aiko si stava trastullando con il suo orsacchiotto di gomma. «E poi, ora Genzo e i suoi amici devono parlare dei fatti loro.» aggiunse, strizzando un occhio ai ragazzi.

Ken esitò un attimo pensieroso, poi sorrise «Va bene, mamma! Vengo» disse, richiudendosi la cerniera del giubbotto «però mi compri un gelato!» disse con lo sguardo furbo che era il marchio di fabbrica della famiglia di cui era entrata a far parte.

Annie sgranò gli occhi e li alzò al cielo «E va bene signorino, per questa volta cedo al ricatto. Ha proprio ragione la signora Mariko, quando mi dice che non è facile crescere un Wakabayashi.»

«In effetti, deve essere stata una gran faticaccia.» sghignazzò Ryo, mentre la donna si avviava verso l’uscita spingendo il passeggino e con Ken al fianco.

«Beh Ishizaki, non credo che tua madre abbia faticato meno della mia … e lei di figli ne ha avuti tre.» fu la sarcastica risposta di Genzo.

«Sei una serpe.» ribatté piccato il difensore, fendendo il crème caramel con il cucchiaino e mettendosene in bocca un altro pezzo. Era così buffo che gli altri due ragazzi non poterono fare a meno di ridere di nuovo, seguiti dallo stesso Ishizaki.

 

«E così, a fine stagione te ne andrai dall'Amburgo.» disse Misaki, cominciando finalmente a informarsi sullo stato d’animo del portiere.

«Di fatto me ne sono già andato, visto che questi mesi li dedicherò alle qualificazioni per le Olimpiadi. Poi, da giugno, ascolterò le proposte delle squadre interessate a ingaggiarmi.»

«Pensi di rimanere in Bundesliga o vuoi tentare un'esperienza in un altro campionato?»

«Ho intenzione di rimanere in Europa, se in Germania o in un altro Paese ancora non lo so e per il momento preferisco non pensarci.»

«Non faticherai a trovare un'altra squadra. Quello che è successo negli ultimi mesi non può cancellare quanto di buono sei stato capace di fare in questi anni.»

Per fortuna il commissario tecnico Kira conosceva bene il valore di Wakabayashi e quanto accaduto in Germania non gli aveva certo fatto cambiare idea, perché aveva già dimostrato di aver compreso il suo errore. E per quanto riguardava le vicende seguenti, era una questione riguardante lui e Zeeman.

«Quest’anno l'Amburgo, senza di te, farà un campionato mediocre.» pronosticò Ishizaki con un sorriso beffardo.

Genzo fece un mezzo sorriso amaro. Non era tipo da godere delle disgrazie altrui, e in fondo, nonostante gli ultimi eventi, era dispiaciuto per quella che era pur sempre la squadra in cui era ancora tesserato, si era formato come calciatore e aveva esordito come professionista, per i suoi compagni che non avevano smesso di incoraggiarlo e di sostenerlo anche e soprattutto quando tra lui e Zeeman era calato il gelo. Aveva pensato spesso a quel rapporto sempre leale e rispettoso e a come si fosse deteriorato nel corso di poche settimane.

Zeeman gli aveva insegnato molto e aveva sempre riposto grande fiducia in lui, fino a quella maledetta partita. Probabilmente, si era sentito tradito. Un giocatore che aveva contribuito a crescere e a rendere il più promettente tra i giovani portieri di tutto il mondo, aveva disobbedito alle sue direttive nel momento cruciale di una gara fondamentale ed era, in seguito, divenuto un silenzioso contestatore del suo sistema di gioco.

In fondo, era venuto meno alla principale prerogativa di un portiere: essere l'ultimo baluardo della propria squadra, proteggerla dagli attacchi degli avversari, evitare i gol. Lui invece era corso verso l'attaccante Boisler che si preparava a tirare la punizione, cogliendo tutti di sorpresa e lasciando di stucco Zeeman, incapace anche solo di gridargli di tornare subito indietro. Era accaduto tutto in nemmeno un minuto: la lunga rincorsa di Wakabayashi, il tocco di Boisler, il tiro potente e preciso del portiere. Sì, era preciso perché mirato all'angolo destro della porta di Drenner. Ma il centrocampista cinese Shunko Sho aveva previsto la traiettoria del pallone e aveva colpito a sua volta con tutta la sua potenza, calciando un bolide e mettendo in movimento Schneider, che si era messo a correre, velocissimo, verso la porta lasciata incustodita.

 

Erano in palese disaccordo, le loro posizioni erano inconciliabili. Genzo non voleva portare avanti un progetto nel quale non credeva più; Zeeman doveva affermare la sua autorità di allenatore.

Non aveva grossi rimpianti: riconosceva di aver commesso un grosso errore, ma era convinto che se fosse tornato indietro avrebbe fatto la stessa cosa, perché quel giorno si sentiva imbattibile ed era convinto che il suo tiro avrebbe dato la vittoria all'Amburgo. Il modo migliore per dimostrare a Schneider che aveva fatto la scelta giusta decidendo di rimanere.

Non provava rancore. Era solo amareggiato che una storia bella come quella che aveva vissuto con l’Amburgo fosse finita in quel modo.

«Piuttosto» disse dopo aver posato la tazzina del tè «raccontatemi di voi, i nuovi campioni del Giappone.»

Il secondo stage di J League si era concluso due mesi prima e aveva visto trionfare lo Jubilo Iwata.

Taro era ormai diventato la stella della squadra. Subito titolare, aveva preso in mano il comando del centrocampo e dimostrato di essere un partner perfetto per gli attaccanti Nakayama e Takahara, diventando l’idolo della tifoseria. Anche Ryo e Hanji potevano ritenersi soddisfatti: pur se non sempre in campo fin dal primo minuto, si erano fatti apprezzare per impegno e tenuta fisica, con i quali sopperivano alla tecnica non eccelsa, e avevano imparato molto dai colleghi di reparto più esperti. Certo, Taro era un giocatore dal talento eccezionale ed era destinato a un campionato molto più competitivo di quello giapponese. Presto avrebbe raggiunto anche lui Tsubasa, Hyuga, Wakabayashi e Aoi in Europa.

«Ehi Misaki, rischiamo di dimenticarci il motivo per cui siamo venuti qui!» esclamò Ryo.

«Giusto. Wakabayashi, noi e gli altri ex giocatori della Nankatsu ci siamo messi d'accordo per allenarci, ogni pomeriggio, al campo di calcio comunale finché non inizieranno i raduni al J Village. Se ti unisci a noi, saremo al completo e avremo due portieri! Che ne dici?»

La risposta di Genzo arrivò all'istante «Non vedo l’ora di mettere piede in campo.»

 

 

L'aria era piuttosto fredda ma il cielo, attraversato da nubi tanto lievi da sembrare sfumate, era illuminato da un sole pallido e blando.

Elena camminava stringendosi nel piumino nero, facendo oscillare la borsa sportiva a tracolla dello stesso colore. Si ravviò con una mano le lunghe ciocche di capelli biondi, che il vento sembrava divertirsi a scompigliare e a gettarle davanti agli occhi.

Si trovava a Nankatsu da pochi giorni, ospite dello zio materno, un campione di kickboxing a fine carriera e insegnante in un complesso sportivo della città, che viveva in una piccola casa a piano unico con Wilhelm, un Deutscher Jagd terrier di due anni.

Ripensò alla sera di fine dicembre, in cui Carlo, di passaggio a Roma per fare visita a lei e ai suoi genitori e ad alcuni colleghi e amici, le aveva proposto di raggiungerlo in Giappone, per sostituire l'assistente, incinta e prossima al congedo, dell'insegnante di ginnastica artistica della palestra in cui si allenava e insegnava.

La sua buona conoscenza del giapponese e l'ormai notevole dimestichezza dello zio con il Paese del Sol Levante, in cui soggiornava, dapprima periodicamente poi in pianta stabile, da almeno quindici anni, le avevano permesso di accettare quella proposta insolita, senza pensare di stare facendo una follia.

Aveva iniziato quella giornata con un po' di apprensione perché, dopo i primi giorni in cui lo zio l'aveva portata in giro a visitare la città, avrebbe cominciato ufficialmente la sua vita - almeno fino all'estate successiva - a Nankatsu.

Ripensò a quanto accaduto al mattino.

Era uscita di casa da poco e si stava recando all'Istituto Shutetsu per frequentare il corso di lingua e cultura giapponese cui Carlo l'aveva iscritta, quando era stata superata da una ragazza in piena corsa. Dopo pochi metri, l'aveva vista inciampare e cadere a terra, ed era corsa subito verso di lei.

Si stava massaggiando un ginocchio, i denti che mordevano il labbro inferiore in una smorfia di dolore.

«Ti sei fatta male?» aveva chiesto, tendendole una mano per aiutarla a rialzarsi. Era di corporatura minuta e non molto alta.

«No no, solo una botta.» aveva risposto, sorridendo e scrollandosi la polvere dal cappotto. Aveva una parlata sciolta e veloce e vispi occhi castani.

«Non direi. Sta sanguinando.» le fece notare, indicando con gli occhi il rivolo rosso che stava scendendo dal ginocchio. Nel dirlo, si era accovacciata e aveva estratto dal suo zainetto un batuffolo di cotone e un flaconcino di disinfettante.

«Ma no, non occorre che ti disturbi.» aveva protestato senza troppa convinzione, stringendo poi i denti per il lieve bruciore e guardando con apprensione l'orologio da polso.

Elena nel frattempo aveva applicato un cerotto, dopo aver disinfettato la ferita.

«Ecco fatto.»

«Grazie.» aveva detto Kumi ricambiando il sorriso dell'altra ragazza e prendendo la cartella, rimasta miracolosamente chiusa «E scusami! È che stamattina rischio di arrivare in ritardo!» aveva gridato, girandosi per riprendere la sua corsa.

«Kumi! Ti sei dimenticata il pranzo!» una donna castana, una versione adulta di Kumi - con ogni probabilità, sua madre - era uscita sulla strada tenendo tra le mani un contenitore di metallo smaltato, a colori e disegni vivaci, che Elena aveva identificato subito come il tipico bento.

«Mi chiedo dove tu abbia la testa, certe volte.» aveva sospirato dando la scatola alla figlia, che aveva cacciato la lingua imbarazzata, prima di dileguarsi.

Elena si era ritrovata a ridacchiare tra sé e sé: quell'episodio aveva sciolto la tensione e le aveva dato la tranquillità necessaria per affrontare la sua prima lezione di lingua giapponese. Un corso organizzato dall'istituto Shutetsu, per facilitare l'integrazione degli immigrati, cui Carlo l'aveva iscritta per perfezionare la conoscenza della lingua parlata e per migliorare quella scritta, con cui aveva ancora difficoltà evidenti.

 

Entrò in un negozio di telefonia ed elettronica per acquistare un adattatore per poter ricaricare il suo cellulare e un phon portatile.

Accanto a lei, mentre il negoziante le porgeva gli articoli scelti, una ragazza che brandiva una confezione di auricolari stava armeggiando con il suo portafoglio per tirare fuori i soldi necessari per acquistarli. Mentre estraeva alcune monete, questo le cadde a terra, spargendole per tutto il pavimento con un rumore assordante.

«Accidenti, che disastro!» recriminò la giovane, inginocchiandosi. Elena si chinò per aiutarla a raccoglierle.

«Ecco qui. Dovrebbero esserci tutte.» disse, porgendole quelle che aveva recuperato.

«Grazie.» disse, celando l'imbarazzo con un sorriso.

«Tu sei la ragazza di stamattina?» chiese, dopo che furono uscite dal negozio.

Elena ripensò al loro insolito primo incontro «Sì.» disse, lasciandosi sfuggire un sorriso divertito, lo stesso della giapponese.

«Beh, visto che è già la seconda volta che ci incontriamo e che abitiamo a poca distanza l'una dall'altra, mi presento: sono Sugimoto Kumi, ma puoi chiamarmi per nome.» tese la mano, prontamente stretta.

«Rulli Elena. Vale anche per me.»

«Non sei giapponese.» disse l'altra, per avviare la conversazione.

«Da cosa l'hai capito?» chiese ironica, suscitando la risata della sua interlocutrice «Vengo dall'Italia. Da Roma, per la precisione.»

«Che meraviglia!» esclamò Kumi «Non ci sono mai stata, ma deve essere stupenda.»

Elena diede un’alzata di spalle «Il mio giudizio è sicuramente di parte, però sì, è bellissima.»

La giapponese chinò il capo, assumendo un'aria meditativa «Hai qualche impegno, ora?» chiese poi.

Elena esitò un attimo. Mancavano ancora più di due ore all'inizio della sua lezione e non sapeva come riempirle. Non le andava di tornare a casa, né di recarsi in palestra con eccessivo anticipo, rischiando di ritrovarsi lì senza sapere come rendersi utile.

«Per il momento no. Perché?»

«Ti piace il calcio?»

L'italiana impiegò qualche secondo a rispondere, un po' sorpresa da quella domanda e da quella che sembrava essere la premessa di un invito. Ma la risposta poteva essere solo una.

«Fin da bambina.»

Il sorriso di Kumi si allargò «Io sto andando al campo comunale, alla periferia della città. C'è una partita tra i miei attuali compagni di scuola e gli ex membri del club di calcio della Nankatsu, che ora giocano nella J League e nella Nazionale Under 23. Ti va di venire? Ti assicuro che vale la pena vederli!»

Elena rifletté un momento, poi accettò. In fondo, una partita di calcio durava solitamente circa un’ora e mezza e quella era sicuramente un’ottima soluzione per trascorrere quel periodo di tempo senza rischiare di presentarsi in ritardo al lavoro. Inoltre, il calcio le era sempre piaciuto, fin da quando passava i pomeriggi al campetto del quartiere, a Roma, con gli amici della squadretta del Sant'Angelo, di cui era la "presidentessa" - sorrise al ricordo, e provò una fitta di nostalgia.

 

Si sedettero su una delle panchine, a pochi passi dal campo. Elena si sentiva una spettatrice privilegiata, rispetto agli altri astanti, per la maggior parte ragazzi, seduti sui gradini.

«Torno manager per un giorno.» ridacchiò Kumi «Qui ci sono le fette di limone con zucchero e miele per far recuperare le energie a fine partita.» disse, indicando il cesto che aveva con sé.

«Mi raccomando, cercate di non farvi sommergere di gol!» gridò poi, rivolta ai suoi attuali compagni di scuola, che stavano terminando il riscaldamento.

«Ehi manager, per chi ci hai preso? Non siamo mica degli incapaci! E comunque, giocheremo in squadre miste, quindi saremo di pari livello.» ribatté piccato Teruyuki Monio, robusto difensore della squadra di calcio del liceo e, da qualche tempo, anche della Nazionale Under 19.

Kumi si girò verso Elena «Devo punzecchiarli se voglio evitare i timori reverenziali.» rise, strizzando un occhio.

La partita cominciò ed era davvero piacevole come Kumi aveva garantito. Le due squadre si affrontavano a viso aperto, creando azioni e occasioni a ripetizione.

La manager faceva un tifo chiassoso ed entusiasta, battendo le mani e incitando senza sosta i calciatori di entrambe le squadre. A Elena ricordò molto com'era lei, ai tempi delle partite al campetto di periferia, di cui una in particolare, era rimasta indimenticabile.

«Sono in gamba, quei ragazzi.» commentò.

«Sì. Sono attuali ed ex studenti del liceo Nankatsu. Alcuni di loro giocano in J League e sono in Nazionale.» disse, non celando un certo orgoglio «In più, c'è nientemeno che Genzo Wakabayashi.» indicò il ragazzo tra i pali, con un berretto grigio in testa.

«Pensa» proseguì «che il c.t. della Nazionale Olimpica ha deciso di non convocare i giocatori impegnati all'estero, ma lui ha avuto, ultimamente, dei problemi in Germania con il suo allenatore che non lo faceva giocare, quindi ha deciso di rendersi disponibile per la Nazionale.»

Elena annuì. Wakabayashi era uno dei pochi calciatori giapponesi noti anche in Europa dov'era considerato, a ragione, un vero prodigio. Aveva letto, su alcuni giornali, del dissidio tra il portiere e l’allenatore dell’Amburgo, il cui motivo non era mai stato spiegato con chiarezza ma era cominciato, con ogni probabilità, dopo la clamorosa, per come era maturata, sconfitta contro il Bayern Monaco.

Il suo sguardo venne attirato da un giovane che aveva appena ricevuto un passaggio a metà campo ed era riuscito a evitare abilmente l'intervento dell'avversario con una roulette perfetta. Agile ed elegante, continuò la sua corsa portandosi sulla fascia sinistra e scartando altri due giocatori, per poi entrare nell'area di rigore, da cui lasciò partire un tiro che sembrava diretto verso il palo più lontano, ma curvò improvvisamente, cambiando direzione verso quello più vicino. Wakabayashi, pur avendo seguito l'azione con la massima concentrazione, era stato tratto in inganno dalla traiettoria del pallone e dovette ricorrere a un notevole colpo di reni per riuscire a pararlo.

Misaki era migliorato ulteriormente: i suoi tiri erano ora non solo ancora più precisi e puliti, ma anche più potenti e imprevedibili.

«Bel tiro, Misaki.»

«Grazie. Hai fatto un'ottima parata.» replicò il centrocampista per poi girarsi e correre verso la trequarti.

Genzo annuì e si sistemò il berretto sul capo. Rilanciò il pallone verso Takasugi, per impostare una nuova azione di gioco.

«Kumi … chi è il giocatore che ha appena tirato?» chiese Elena, anche se dentro di sé conosceva già la risposta.

La ragazza sorrise «Oh, è Taro Misaki. È un centrocampista di grande talento. Dopo il World Youth si è infortunato gravemente alla gamba sinistra, ma si è ripreso benissimo e a dicembre ha vinto la J League con lo Jubilo Iwata.» spiegò compiaciuta.

«È sempre bravissimo ….» mormorò con un tono dolce che lasciò Kumi stupita.

Quei pochi secondi le erano bastati per rivedere in quel giocatore così talentuoso, un ragazzo che aveva ripescato poco prima tra i suoi ricordi. Provò una sensazione di gioia che prevalse sullo stupore di apprendere che giocava nella J League e non in un campionato europeo. Seguì il match con ancora più attenzione, entusiasmandosi ogni volta che prendeva possesso della palla e si avviava verso l’area avversaria. In più occasioni si era alzata in piedi a incitarlo, con una mano messa accanto alla bocca a mo' di amplificatore, sotto gli occhi meravigliati di Kumi. E attendeva, con un misto di impazienza e di trepidazione, che la partitella finisse per poterlo salutare di nuovo.

 

La partita terminò un quarto d'ora dopo.

Alcuni ragazzi si diressero verso la linea laterale per riposarsi e per assaporare le fette di limone che Kumi stava distribuendo, mentre altri erano rimasti in campo, a palleggiare e a tirare. Tra questi c’era anche Misaki.

Taro aveva creato molte azioni pericolose e aveva fatto dei tiri che avrebbero messo in difficoltà qualsiasi portiere, ma quel Wakabayashi era davvero eccezionale ed era riuscito a mantenere la sua porta inviolata. «Come volevasi dimostrare.» pensò Elena, sorridendo divertita. Avrebbe dovuto attirare la sua attenzione, se voleva almeno salutarlo. Non le restava ancora molto tempo prima di recarsi alla palestra.

«Complimenti Taro! Hai giocato una partita stupenda, peccato non abbia segnato!» gridò Elena entrando nel rettangolo di gioco, destando ancora una volta l'attenzione di Kumi. Lo aveva chiamato … per nome?

Il centrocampista si voltò per ringraziare la persona che gli aveva parlato. Stava per aprire bocca, quando si arrestò, fissandola per qualche secondo con aria interrogativa. Ma impiegò poco per capire chi fosse quella ragazza dal buon giapponese, caratterizzato da un accento di una parte di mondo che conosceva bene.

«Elena?»

«Sì.» confermò, andandogli incontro.

«Sei proprio tu.» disse, identificando la ragazza dai capelli biondi e dagli occhi azzurri che aveva conosciuto anni prima, in quella settimana straordinaria in cui l'aveva reclutato come allenatore di una squadra di ragazzini innamorati del calcio, ma che dovevano ancora imparare a giocare come veri compagni.

«Come mai da queste parti?»

«Sono ospite di mio zio. Lavoro nella sua palestra. A proposito» disse, lanciando una rapida occhiata all'orologio da polso «è meglio che vada, o rischio di arrivare tardi. Ci vediamo presto. Ciao!» disse, voltandosi per salire la gradinata, salutando anche Kumi e ringraziandola per il piacevole pomeriggio che le aveva fatto passare.

«Ehi Misaki, chi era quella biondina?» chiese Ryo, che aveva osservato tutta la scena e si stava avvicinando con Urabe, con il quale aveva cominciato a battibeccare su un intervento a vuoto su un passaggio che aveva rischiato di mandare in gol Shun Nitta.

Taro cercò di usare parole che non dessero spazio a fraintendimenti, anche se sapeva che sperare che Ishizaki non facesse certe insinuazioni era da utopisti.

«Una ragazza che ho conosciuto anni fa durante un viaggio in Italia e che si è appena trasferita qui.»

«Avresti potuto presentarcela.» lo stuzzicò Urabe.

Misaki alzò le spalle «Aveva un impegno ed è dovuta scappare. Ma non vi preoccupate, la rivedrete presto.»

«È davvero carina! Ma allora quando andavi in giro per il mondo, non ti divertivi solo a giocare a calcio.» commentò Ryo, con un sogghigno.

«E io che mi ero illuso che, per una volta, non andassi a parare lì.» sospirò, alzando gli occhi al cielo e rimpiangendo che Yukari fosse in quel momento ancora impegnata alla scuola materna.

«Beh, non ci sarebbe nulla di male!» insistette Urabe, appoggiandosi con un braccio alla spalla del suo compagno di reparto. I due lo guardarono con il sorrisetto di chi la sapeva, o meglio pensava di saperla lunga. Taro scosse la testa. Era incredibile come quei due approfittassero di ogni stupidaggine per fare scaricabarile, ma fossero sempre in sintonia totale quando si trattava di fare battute e insinuazioni maliziose.

«Allora sono spiacente, ma devo deludervi. È solo un'amica.» ribadì sperando fosse sufficiente per liquidare l'argomento una volta per tutte.

«Misaki» intervenne Kumi «Ho qui una bottiglia di integratore, se vuoi.»

«Grazie, Sugimoto.» rispose prendendola dalla mano della ragazza che sfiorò appena, con uno dei tipici sorrisi gentili che da qualche tempo avevano il potere di far accelerare i battiti del suo cuore.

Kumi riuscì soltanto ad annuire ricambiando il sorriso. L'intraprendenza di alcuni anni prima, quando era Tsubasa a suscitare quelle emozioni, sembrava essersi dispersa. E ora c'era anche Elena che sembrava avere molta confidenza con lui ….

Dopo essersi dissetato, Taro si affrettò a tornare in campo dove Genzo, rimasto tra i pali della porta, parò senza problemi un hayabusa shoot di Nitta, che fece il gesto di tirare un pugno, tra il disappunto e l'ammirazione.

Il portiere stava respirando, dopo tanto tempo, la gioia di stare in campo e di vivere il calcio nella sua forma più pura: un gioco meraviglioso che aveva caratterizzato tante splendide giornate della sua infanzia e adolescenza. Dopo tanto tempo, finalmente si divertiva sul serio.

 

 


***Note***

 

Il personaggio di Elena Rulli appare nella puntata numero 89 della serie Shin dell'anime, intitolata "Una lettera dall'Europa". Ecco tre immagini.

 

Il Deutscher Jagd terrier è una razza canina originaria della Germania, poco nota al di fuori dell'Europa continentale. Di piccola taglia e di pelo duro dal colore scuro, si caratterizza per una grande agilità e resistenza. Testardo e reattivo, è adatto a un padrone energico, poiché ha bisogno di molto esercizio.

Fonte: agraria.org

Ecco due immagini: cucciolo e adulto.

Teruyuki Monio: appare nel "Golden 23" ed è uno dei compagni di Takeshi Sawada nella Nazionale Under 19 che si qualifica alla nuova edizione del World Youth. È uno dei sei giocatori giapponesi scelti tra i migliori del torneo di qualificazione. Nel manga non è specificata la sua squadra né la scuola frequentata, quindi l'ho collocato nella Nankatsu.

 

In Giappone le forme delle prese di corrente sono diverse da quelle italiane.

In Italia si utilizzano varie prese, dalla Schuko (quella tonda tedesca) a quella con tre piedini (larga e stretta), mentre in Giappone si utilizza una presa con due piedini rettangolari, più di rado quella con tre piedini.

È necessario quindi avere con sé un adattatore.

Tra i due Paesi vi sono differenze anche nel voltaggio: in Italia si usa una corrente a 230 V ad una frequenza di 50 Hz, in Giappone si utilizzano invece i 100 V ad una frequenza di 50 Hz per la parte est del paese e di 60 Hz per la parte ovest.

Nel caso di elettrodomestici come il phon è addirittura consigliato comprarne uno sul posto o comunque averne con sé uno dotato di commutatore.

Fonte: GiapponePerTutti

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Capitolo 3
*** Capitolo III - Senza paura ***


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Capitolo III

 

 

Senza paura

 

 

 

 

Elena premette il pulsante della sveglia prima che potesse suonare.

Scostò il piumone, scese dal letto e spalancò la finestra della sua stanza, facendo entrare la luce del sole e riempiendosi i polmoni dell’aria del primo mattino; le ricordava quella di Bad Tölz, la cittadina della Baviera di cui era originario il ramo materno della sua famiglia e dove era solita trascorrere parte delle vacanze estive.

La finestra dava sul giardino, e i suoi occhi si posarono sulla cuccia in cui ancora dormiva Wilhelm.

Era sola in casa. Carlo era uscito molto presto, perché aveva degli impegni a Tokyo che gli avrebbero consentito di tornare a Nankatsu solo nel pomeriggio. Il tempo di riposare un paio d’ore e poi si sarebbe recato al dojo per allenarsi e tenere i suoi corsi.

Comunque sarebbe andata, gli era grata per l’aiuto concreto che le aveva offerto: la sua vita aveva preso un corso completamente diverso da quello in cui sembrava essersi incanalata e lui l’aveva portata in Giappone per aiutarla a costruire nuove certezze, che sostituissero quelle che aveva perso nella seconda metà dell’anno precedente. Ed era cominciata meglio di quello che si aspettava: aveva rincontrato Taro e aveva conosciuto Kumi, una ragazza gentile e amichevole che l'aveva trattata subito con simpatia.

Quando Carlo aveva passato qualche giorno a Roma, durante le ultime vacanze natalizie, aveva trovato un’Elena irriconoscibile rispetto a quella che ricordava: apatica, triste, svogliata, incapace di guardare avanti, di riprendersi dalla tragedia vissuta pochi mesi prima e costretta a non prendere, per il momento, neppure in considerazione l’idea di iscriversi all’università. I soldi erano pochi ma con il suo diploma di perito aziendale corrispondente in lingue estere aveva trovato un impiego come segretaria in una piccola ditta di import-export, per aiutare i suoi genitori e cercare di mettere da parte un po’ di denaro per sé stessa.

«Si piange addosso, Carlo. E quando torna dal lavoro, ha la faccia ancora più triste di quando esce la mattina. Non so più che fare.» gli aveva detto sua sorella Clara, con gli occhi lucidi e la voce afflitta di una madre che vedeva la figlia spegnersi giorno dopo giorno, comportandosi ormai più come un automa che come un essere umano, mentre suo cognato Valerio, seduto sul divano del salotto, sguardo basso e mani intrecciate sopra il ventre, stringeva le labbra.

«Se non avete nulla in contrario a farla venire in Giappone con me … ci penso io.» aveva risposto l’atleta, dopo aver ascoltato in silenzio lo sfogo della sorella.

«Se servirà a farla tornare l’Elena che conoscevamo, quella che lei è veramente, sono disposto a fartela portare anche in capo al mondo.» gli aveva risposto Valerio.

«E tu che dici?» aveva chiesto infine, rivolto alla nipote, che pur tenendo gli occhi bassi senza mai intervenire, aveva ascoltato ogni parola della conversazione. «Ti va di riprendere in mano la tua vita, oppure preferisci andare avanti così?»

Elena aveva alzato lentamente la testa, a incontrare lo sguardo affettuoso, ma deciso, dell’uomo. Aveva abbozzato un sorriso e annuito. «Va bene. Verrò in Giappone.»

Andare dall’altra parte del mondo in un Paese che l’aveva sempre affascinata, dedicarsi allo sport che adorava più di tutti gli altri, conoscere gente nuova, prendere finalmente in mano le redini della sua vita. Carlo era convinto che sua nipote avrebbe tratto, da quell’esperienza, tutto ciò di cui aveva un bisogno ormai capitale.

«Tanto se gli avessi detto di no ti ci avrei trascinata io all’aeroporto, e di peso.» aveva giurato suo padre.

Era stato così che Elena già l’indomani aveva comunicato al direttore della ditta che si sarebbe licenziata e aveva dedicato le settimane successive ai preparativi per la partenza.

I suoi genitori quasi non vedevano l’ora di vederla salire sull’aereo; ciò non gli aveva comunque impedito di sprecarsi in mille raccomandazioni. Del resto, l’apprensione era una caratteristica insita nell’animo di tutti i genitori che avessero a cuore i propri figli. Nemmeno la disperazione poteva sopprimerla.

«Hai l’occasione di cominciare a ricomporre la tua vita, Elena. Ora sta a te non sprecarla.» le aveva detto Carlo, accogliendola al suo arrivo all’Aeroporto Internazionale di Narita. E la giovane aveva deciso che non avrebbe permesso al suo passato di impedirle di vivere appieno il presente. Cancellarlo non era possibile, ma lo avrebbe stipato e costretto nel recesso del suo cuore.

 

Dopo aver fatto colazione, decise di uscire per fare una corsa. Indossò una tuta e prese con sé il portafoglio.

Il pomeriggio sarebbe stato fitto di impegni: la aspettavano ben due lezioni, quella con le bambine e quella con le allieve più grandi, in cui avrebbe coadiuvato l'insegnante della scuola di ginnastica artistica, la signorina Shiroyama.

La cosa non le pesava; sembrava anzi che quasi la angosciasse l'idea che nelle sue giornate ci fossero degli spazi vuoti, per questo aveva portato con sé dei libri e delle vecchie riviste sulla ginnastica, nonostante le perplessità di sua madre.

L'aria era ancora pungente, ma il cielo era soleggiato e attraversato da poche candide nubi; sui rami di alcuni alberi cominciavano a spuntare le prime, minuscole gemme.

Alcune persone in attesa alla fermata dell'autobus si spostarono educatamente, per lasciarla passare.

«Ciao Elena.» una voce maschile, piacevolmente conosciuta, la indusse a fermarsi.

Si girò e vide Taro che le stava sorridendo nel suo modo gentile e affabile. Anche lui indossava una tuta e aveva con sé un borsello.

«Taro! Vedi? Te l'avevo detto che ci saremmo visti presto.» disse strizzando un occhio, avvicinandosi.

«Già.»

Elena esitò. Non voleva andarsene subito come aveva dovuto fare al campo di calcio, quindi decise di fermarsi a chiacchierare un po', finché non fosse arrivato l’autobus.

«Dove vai di bello, se non sono indiscreta?»

«A Gotenba, al centro di medicina sportiva Fuji. Devo ritirare i risultati delle mie analisi alla gamba sinistra.»

«Analisi?»

«Sì, le faccio periodicamente, perché …» in quel momento, l'autobus era comparso all'angolo della strada e si stava avvicinando alla fermata. Il ragazzo si strinse nelle spalle «Devo andare.»

Fu una decisione fulminea. In fondo, non aveva particolari scadenze quel mattino e la corsa era stata programmata per impegnare quelle poche ore libere.

«Vengo anch'io, così mi racconti tutto.» disse, avviandosi insieme a lui e agli altri passeggeri.

 

L'autobus li portò alla stazione ferroviaria, da cui presero il treno diretto a Gotenba. Durante il viaggio, ebbero modo di raccontarsi quello che era successo dall’ultima volta che si erano rivisti, risalente a due anni prima.

Quella primavera, Taro stava compiendo un viaggio in diversi Paesi del mondo per osservare gli stili di gioco e miscelarli per crearne uno personale, indipendente dalla combinazione con Tsubasa, come l'allora commissario tecnico dell'Under 19 Minato Gamo gli aveva imposto di fare quando lo aveva escluso dalla selezione, ma lo scopo sottinteso era, soprattutto, recuperare la gioia pura di giocare a calcio e perdere l'ossessione per la vittoria che ne aveva preso il posto negli anni del liceo. Ossessione legata anche al continuo raffronto tra lui e Tsubasa, mai fattogli pesare apertamente, ma che sapeva bene essere presente nella testa dei suoi compagni e dei suoi avversari, che pure non avevano mai messo in dubbio il suo enorme talento.

Tra le sue tappe, c'era stata anche Roma. Sperava di rincontrare almeno alcuni dei ragazzi che aveva conosciuto quattro anni prima, per sapere che ne era stato di loro e per recuperare l'entusiasmo e la voglia di imparare che aveva perso. Uno in particolare: Andrea, il ragazzino più talentuoso di quella squadra, di cui aveva in un certo senso scoperto o meglio, valorizzato le abilità.

Aveva mantenuto una buona conoscenza della lingua italiana, imparata prima del viaggio fatto con suo padre. Ichiro lo stava progettando da tempo e gli aveva chiesto di accompagnarlo, certo di ottenere una risposta positiva da parte del figlio, che certo non avrebbe disdegnato l'idea di visitare un Paese ricco di storia, paesaggi e bellezze artistiche come l'Italia. Taro aveva accettato con gioia, e così suo padre iscrisse anche lui al corso di lingua italiana che aveva intenzione di frequentare. I colleghi e amici di origine italiana che, insieme a lui, affollavano Montmartre, si erano offerti di insegnare le espressioni dialettali e gergali. Era stato meno difficile di quanto avesse creduto, visto che aveva la stessa matrice linguistica del francese, che padroneggiava ormai con sicurezza. Del resto, era stato uno sforzo di gran lunga più difficile imparare il francese partendo dal giapponese.

Grazie alle indicazioni di alcuni residenti, era riuscito a tornare nel quartiere periferico in cui si trovava il campetto in cui aveva giocato con quei ragazzi. Vi si stava allenando un gruppo di ragazzini che dovevano avere all'incirca la stessa età dei suoi amici all'epoca. Uno di loro era vicino di casa di Andrea e Taro aveva scoperto, con soddisfazione ma senza stupore, che il biondo, talentuoso attaccante era diventato uno dei punti di forza della Primavera della Roma.

Si era quindi nuovamente spostato, per andare ad assistere a un allenamento: nel gruppo di giovani promesse, aveva riconosciuto lui e Martino. Andrea era diventato un po' più alto, il fisico esile ed elegante. Martino aveva sempre la solita espressione da simpatica canaglia e i capelli scarmigliati, era più robusto e aveva uno stile di gioco piuttosto aggressivo, ma corretto.

I due ragazzi erano rimasti sbalorditi nel rivederlo, ma l'incredulità aveva lasciato subito il posto alla gioia e al desiderio di rincontrare e giocare di nuovo con quel ragazzo che li aveva resi consapevoli delle loro potenzialità e verso cui provavano un'immensa gratitudine. Erano ansiosi e impazienti, come due bambini entusiasti, di mostrargli tutti i progressi fatti in quei quattro anni in cui si erano impegnati a lavorare per trasformare il calcio da sogno a possibile professione.

«Ora siete voi a dovermi far riscoprire il piacere di giocare a calcio.»

Andrea e Martino lo avevano guardato straniti. «Cosa? Ma sei stato proprio tu a insegnarcelo!» aveva obiettato il biondo attaccante.

«È vero, ma a volte capita di disimparare ciò che si è cominciato a dare per scontato, per rincorrere cose molto meno importanti.» aveva detto, stringendosi nelle spalle. Era vero. Non se n'era mai reso veramente conto, finché Gamo non gliel'aveva fatto notare, con quelle parole dure, ma giuste.

Andrea aveva dimostrato un'abilità notevole nel palleggio. I suoi movimenti erano diventati più fluidi ed eleganti. Non si era sbagliato su di lui: aveva una classe e un senso del gioco innati. In Martino rivide la caparbietà e la foga con cui riusciva a rubare e a recuperare palloni agli avversari e a proteggerli fino al passaggio ai compagni di squadra. Doveva ammettere che lo avevano, in qualche occasione, messo in difficoltà: a fatica era riuscito a non farsi togliere il pallone dai piedi.

Era certo che, se avessero mantenuto quello spirito, erano destinati a una carriera ricca di soddisfazioni.

Taro si era fermato per quattro giorni nella capitale italiana e aveva passato i pomeriggi restanti a giocare con Andrea, Martino e i ragazzini incontrati al vecchio campetto. Era riuscito così a rivedere anche Elena, nella palestra in cui praticava la ginnastica artistica, "l’unico sport che batte il calcio nel mio cuore" come gli aveva confidato quattro anni prima mentre raccoglievano gli asciugamani e le bottigliette vuote di acqua e di integratori, lasciate sul campo dai calciatori in erba.

Aveva rivisto una ragazza molto carina e aggraziata, più pacata rispetto alla vivace e a tratti impetuosa "presidentessa" del Sant'Angelo cui era bastato vedere un suo lancio da bordo campo per reclutarlo come allenatore; sempre innamorata della ginnastica artistica e ora, anche di un giovane talento del kickboxing che si allenava nella sua stessa palestra.

«Tranquillo Taro, adesso Elena non ti salterà più addosso come quattro anni fa.» aveva sogghignato Martino, beccandosi un pugno sul braccio e un "Sei sempre il solito scemo!" dall'amica, tra le risate generali.

 

«Ma perché fai periodicamente delle analisi alla gamba sinistra? Sei stato infortunato?» chiese Elena, infine, tornando al presente.

Taro le raccontò, senza menzionarle i particolari, di aver subìto un grave incidente pochi giorni dopo la vittoria del torneo asiatico e la qualificazione al World Youth, che l'aveva costretto a saltare quasi tutta la competizione, riuscendo a giocare gli ultimi trenta minuti della finale contro il Brasile dopo un recupero miracoloso. Lo sforzo che il gol del vantaggio, segnato in combinazione con Tsubasa, gli era costato, aveva comportato un nuovo infortunio e un lungo periodo al centro di medicina sportiva Fuji, tra cure e riabilitazione.

E dopo, erano arrivati l'ingaggio da parte dello Jubilo Iwata, l'esordio nella J League e l'agognato debutto nel calcio professionistico. La volontà di recuperare il terreno perduto e potersi confrontare sul palcoscenico del calcio europeo e mondiale con i campioni più grandi e con i suoi connazionali e amici Tsubasa, Wakabayashi, Aoi e Hyuga costituivano ora la spinta a impegnarsi al massimo delle sue potenzialità.

 

Elena osservò uno scorcio del bellissimo paesaggio della prefettura che scorreva davanti ai suoi occhi: era davvero splendido come gliel'aveva descritto suo zio. La cima innevata del Monte Fuji sembrava incredibilmente vicina, si stagliava contro il cielo azzurro e il profilo del vulcano sembrava abbracciare tutta la zona.

Evitarono entrambi le domande più personali, percependo l'uno nei confronti dell'altra la volontà di non parlare del passato recente.

Dei brevi ricordi si erano affacciati alla loro mente.

Altre persone che non erano più lì con loro, si erano allontanate portando via con sé dei pezzi della loro vita.

Fortunatamente erano giunti a destinazione.

Dopo essere scesi alla stazione di Gotenba, presero un autobus e giunsero al centro di medicina sportiva Fuji.

La segretaria conosceva bene Taro e gli disse che il dottor Shibazaki era nel suo studio e non stava ricevendo alcun paziente. Il ragazzo bussò alla porta e alla risposta del medico entrò, seguito da Elena.

«Ah, ciao Misaki. Ti stavo aspettando.» disse il giovane medico, andandogli incontro.

«Buongiorno, dottore. Questa è Elena Rulli, una mia amica.»

I due si salutarono con un inchino.

Shibazaki si diresse alla sua scrivania e prese le immagini della radiografia della gamba sinistra del centrocampista.

«I risultati sono molto buoni, Misaki. La tua gamba è in ottime condizioni e continua a sopportare bene gli sforzi. Tuttavia, vale e varrà sempre quello che ti ho detto lo scorso settembre.» precisò.

Taro annuì. Elena guardò prima il dottore e poi l'amico, con aria interrogativa. A cosa si riferiva il medico?

«Vieni, ti voglio mostrare una cosa. O meglio, qualcuno.» disse il dottore, facendogli cenno di seguirlo fuori dallo studio. Elena uscì insieme a loro. Si diressero verso il retro della struttura, dove si trovava un grande campo di calcio, con attrezzature specificamente studiate per il recupero e la riabilitazione dei pazienti.

«Quel ragazzo si chiama Norihisa Fukui, ha diciannove anni e gioca da centrocampista, come te. Si è fratturato la tibia e il perone durante una partita di J League 2. Ha voluto curarsi qui proprio perché ha saputo che l'hai fatto anche tu: è un tuo grande fan e ora è lì che tira punizioni tutti i giorni, proprio come te. Per ora i risultati, come vedi, lasciano a desiderare, ma riesce a calciare il pallone con una certa forza e questo significa che ormai sta per avviarsi verso un pieno recupero.» spiegò il dottore incrociando le braccia, piuttosto soddisfatto.

Il ragazzo, uno sguardo concentrato che tradiva però una certa impazienza, posizionò il pallone, per poi calciarlo di interno sinistro. La sfera colpì una sagoma, per poi uscire dallo specchio della porta. Strinse le labbra, reprimendo un moto di impazienza e prese un altro pallone.

Taro avanzò verso il campo da gioco, raggiungendo Norihisa nella trequarti.

«Non male, ma se vuoi far entrare il pallone nella rete, devi indirizzarlo meglio.» disse, facendo sobbalzare il ragazzo, che si voltò di scatto e sgranò gli occhi.

«Tu sei... Taro Misaki?» chiese incredulo, vedendo il calciatore sorridente a pochi centimetri da lui, che gli si accostò e attirò il pallone a sé con il piede sinistro.

«Se vuoi orientare meglio il tuo tiro, devi mettere il piede così.» disse, mostrandogli l'inclinazione da tenere. «Prova.» disse, indietreggiando di pochi passi.

Norihisa mise da parte lo stupore e cercò di concentrarsi sulla posizione mostratagli da Misaki, scrutandolo a ogni movimento, per essere sicuro di riprodurla perfettamente. Non poteva permettersi di fare una brutta figura proprio davanti al calciatore che aveva eletto suo modello.

Al cenno d'approvazione del centrocampista dello Jubilo Iwata, effettuò un tiro decisamente più pulito di quello precedente, che scavalcò la barriera e uscì di poco a lato.

«Fantastico! Non ci è mancato molto!» disse, con un gran sorriso e gli occhi che brillavano, mentre Taro annuiva. Norihisa gli prese le mani tra le sue. «Grazie Misaki! Spero di poter diventare bravo come te. Tu per me sei il migliore.»

 

«È sempre un ottimo allenatore.» commentò Elena, che aveva assistito alla scena da bordo campo, accanto al dottore.

«Sì, credo anch'io che abbia una seconda carriera assicurata.» convenne Shibazaki «Spero comunque di vederlo ancora per molto tempo come calciatore.» aggiunse voltandosi verso di lei, che non poté che annuire di rimando.

 

Ringraziarono e salutarono il dottore e lasciarono il complesso ospedaliero, dirigendosi poi verso una pensilina, in attesa dell'autobus che portava alla stazione.

«E così, in quella struttura hai passato più di un anno. Deve essere stata dura.» gli disse Elena.

«Se intendi dire che ho avuto dei momenti di sconforto, sì, ci sono stati. Ma poi mi dicevo sempre che se mi fossi fermato, mi sarei precluso ogni possibilità.»

Elena ripensò alle parole di Shibazaki. Era come se la carriera di Taro avesse una spada di Damocle a penderle sopra. Forse erano cose riservate … ma doveva cercare di sapere.

«Taro … a cosa si riferiva il dottore, quando ti ha dato i risultati?»

Misaki serrò le labbra «Vedi, l'infortunio che ho subito due anni fa è stato molto grave, ha messo in pericolo la mia carriera. Se dovesse ricapitarmi un incidente simile, non potrò più giocare a livello agonistico.»

Elena mantenne lo sguardo fisso sull’amico, impressionata da quell’affermazione. Ma c'era una questione che le ronzava in testa da quando le aveva raccontato dell'infortunio. Dei particolari che non afferrava.

«Ma com'è possibile procurarsi un infortunio così grave soltanto calciando un pallone?»

Taro sospirò. Domanda logica, in fin dei conti.

«In effetti, l'incidente vero era capitato un mese prima.» ammise.

«E com'è avvenuto? Uno scontro di gioco?»

«Non so se è il caso di raccontartelo ….» mormorò. Temeva che raccontare quello che aveva subìto potesse impressionarla.

«Perché? È accaduto qualcosa di grave?» la domanda le venne spontanea. Sapeva che rischiava di risultare importuna, ma la preoccupazione la portò a formularla quasi senza averla elaborata.

Taro strinse le labbra. Non aveva senso fare misteri su quanto accaduto.

«Ero a Sendai, a fare visita a mia madre, il suo secondo marito e la figlia avuta da lui. Quando li ho lasciati, mia sorella ha percorso un tratto di strada insieme a me, poi mi ha salutato ed è corsa via in bicicletta. Dopo pochi metri è caduta. Ho visto lei stesa in mezzo alla strada e un camion stava sopraggiungendo, proprio in quel momento. Io sono corso verso di lei e sono riuscito a prenderla in tempo e a portarla via da lì, ma non sono riuscito a evitare l'impatto tra il camion e la mia gamba sinistra. Mi sono ritrovato steso sul marciapiede. La mia gamba era spezzata.»

Elena spalancò gli occhi e per alcuni minuti non seppe che dire. Un incidente ... Taro aveva rischiato la sua vita, per evitare che avvenisse un'altra tragedia, la perdita di una sorella da poco ritrovata. E se non la vita, avrebbe potuto perdere l'uso delle gambe ... deglutì, ma reagì immediatamente scuotendo la testa.

«Ma poi hai giocato la finale del World Youth.» riprese.

«Sì, un'amica mi ha dato l'indirizzo del dottor Shibazaki, e lui è riuscito a rimettermi in piedi proprio pochi giorni prima della finale. Ovviamente mi aveva sconsigliato di giocare, ma il desiderio di dare il mio contributo alla vittoria del torneo era troppo forte. Così ho lasciato la struttura di nascosto e mi sono presentato al Nagai Stadium.»

Taro fece un lieve sospiro. A Elena sembrò che i suoi occhi fossero diventati più lucidi.

«Ho tirato con tutte le mie forze, infortunandomi di nuovo. Ma segnai, insieme a Tsubasa. Sono stato nuovamente operato e sono poi tornato al centro di medicina sportiva. Il resto lo sai.»

«Io … non sapevo ti fosse successa una cosa così terribile.» mormorò, con uno sguardo turbato.

«Tutto sommato, poteva andare molto peggio.» disse, con tono calmo e sereno «E invece ho ancora la mia vita … e ho ancora il calcio.»

Elena annuì, ritrovando il sorriso. Taro sapeva sempre reagire con serenità e ottimismo alle avversità ... era sempre stata la sua forza.

«Ho deciso di continuare a giocare ogni partita» riprese «con la stessa voglia e la stessa grinta, lottando su ogni pallone. È l'unico modo per non avere rimpianti. Io adoro il calcio e se anche dovessi smettere, mi resteranno comunque dei bellissimi ricordi. Non sopporterei di giocare al di sotto delle mie potenzialità, solo per paura di subire un altro infortunio. Finché sarò in condizione, finché le mie gambe me lo permetteranno, continuerò a giocare e a dare il massimo.» dichiarò, lo sguardo rivolto verso il sole, in quel momento velato da una lieve nuvola passeggera.

 

Il treno aveva ormai raggiunto la zona costiera della prefettura. Elena guardò l’orologio da polso e sgranò gli occhi.

«Accidenti, è quasi mezzogiorno! Com’è volato il tempo!»

«Devi avvisare tuo zio?» le chiese Taro.

«No, per fortuna. È a Tokyo e pranzerà da alcuni suoi amici. È che non credevo fossimo stati via così tanto. Dovrò passare al supermercato a comprare qualcosa.»

«Se vuoi, puoi venire a pranzo da me. C’è anche mio padre, sarebbe un’occasione per rivederlo.»

«Mi piacerebbe molto.» rispose la ragazza. Aveva un bellissimo ricordo del signor Misaki, un uomo tranquillo e affabile, proprio come il figlio. Ricordava i suoi racconti sui suoi studi d'arte e sui numerosi viaggi e spostamenti suoi e di Taro e, a sua richiesta, le aveva fatto anche un ritratto che custodiva ancora a casa.

 

«Passo un attimo a casa. Non posso lasciare Wilhelm senza cibo.» avvertì Elena, quando furono scesi alla stazione di Nankatsu.

«Wilhelm?»

«È il cane dello zio. Non è molto grande, ma ha l’appetito di un alano.» ridacchiò.

 

«Eccoci arrivati» disse, mentre Wilhelm si avvicinava al cancello, scodinzolando. Notata la presenza di Taro, cominciò ad abbaiare in sua direzione.

«Ciao Wilhelm!» lo salutò il ragazzo, in tono allegro, mentre varcava il portone appena aperto.

Il cane si arrestò con la bocca socchiusa, osservandolo con un’espressione interrogativa.

Elena ridacchiò «Si starà chiedendo come fai a sapere il suo nome.» disse, andando verso la porta di casa.

Taro si avvicinò a Wilhelm, permettendogli di annusarlo. Si accucciò e, lentamente, cominciò ad accarezzarlo. Il cane capì che il ragazzo era un amico e prese a girargli intorno e ad annusarlo, scodinzolando.

Quando Elena tornò con il sacchetto delle crocchette, trovò il Deutscher Jagd Terrier disteso sull’erba a pancia in su, mentre si faceva coccolare beatamente da Misaki. Alzò gli occhi al cielo.

Wilhelm non era un cane aggressivo di per sé, ma era anche vero che Taro era una delle persone più socievoli che avesse mai conosciuto.

«Che razza di cascamorto.» commentò, con un tono di finta disapprovazione.

Taro alzò la testa e le sorrise, poi diede un colpetto sul fianco del cane per farlo rialzare.

«Allora, andiamo?» chiese Elena, dopo aver versato il cibo nella ciotola di Wilhelm.

Il centrocampista annuì. «A presto, Wilhelm.» disse dandogli un’ultima carezza.

Elena chiuse il cancello alle sue spalle e si allontanò con Taro. Il cane abbaiò finché non li vide sparire in fondo alla via.

 

Misaki abitava in una bella casa a due piani, non lontano dal centro della città.

«Mio padre non è in casa, ma dovrebbe tornare tra poco. Intanto, accomodati pure.» le disse, facendole strada.

Lasciò le scarpe nel vestibolo e calzò un paio di ciabatte, tra quelle a disposizione degli ospiti.

Elena ammirò i quadri appesi alle pareti del salotto, ritraenti dei paesaggi giapponesi. Non tutti erano del padre di Taro. C'erano anche delle antiche stampe giapponesi e delle fotografie che ritraevano padre e figlio nei tanti posti da loro visitati.

Dopo pochi minuti, i due ragazzi sentirono la porta aprirsi e videro Ichiro entrare nel vestibolo, cambiarsi le calzature ed entrare nel salotto, tenendo il suo cavalletto sottobraccio.

«Ciao papà. Ti ricordi di Elena?» disse, indicandogli la ragazza con un gesto della mano.

I

«Elena …» la osservò brevemente inclinando il capo, per poi assentire «Sì certo, mi ricordo di lei. La ragazzina di Roma che ti ha assunto come allenatore e che rincorreva gli amici che la facevano arrabbiare.»

«Già.» rise la giovane «Buongiorno, Misaki-san. Sono contenta di rivederla.» disse, inchinandosi.

L’uomo annuì e sorrise, ricambiando il saluto. «Ti fermi a pranzo da noi? Cucina Taro. È bravo a farlo quasi come a giocare a calcio.»

Elena si voltò verso l'amico, stupita «Sul serio?»

Il giovane sorrise, alzando le spalle «Diciamo che ormai ho una certa esperienza. Scommetto che non hai mai mangiato il piatto che sto per preparare.»

Le donne tendevano ad avere pregiudizi nei confronti degli uomini in cucina e lei, doveva ammetterlo, non faceva eccezione. Ma fu felice di riconsiderare la sua opinione assaggiando il pollo in salsa teriyaki, dopo aver già contemplato l'abilità e sicurezza con cui l'aveva preparato.

Ricordava il giorno in cui aveva imparato a cucinare quella pietanza. Era stata lei a insegnarglielo.

Kinuyo ….

 

Mangiarono e parlarono degli anni passati a Parigi e di quelli più recenti a Nankatsu, dell’attuale carriera di Taro allo Jubilo Iwata e di quella ormai bene avviata di Ichiro.

Dopo tanti anni di gavetta, di viaggi in giro per il Giappone prima e per il mondo poi, di tele ritraenti i paesaggi più disparati, anche i critici più noti si erano finalmente accorti della bravura e della versatilità di Ichiro Misaki e ormai molte erano le mostre, sia collettive sia personali, in cui erano state esposte le sue opere.

Fino a realizzare il sogno della sua vita: dipingere il Monte Fuji. Un risultato sofferto e inseguito da decenni, che gli aveva fruttato la conquista di un premio prestigioso.

Elena raccontò dei suoi anni da ginnasta, in cui aveva raccolto molte soddisfazioni, ma che erano stati interrotti da un grave infortunio al ginocchio che l’aveva costretta a stare ferma per diversi mesi, avvenuto a pochi giorni dal suo esordio in una gara di livello nazionale. Nonostante il medico l’avesse dichiarata ormai guarita, non aveva più ricominciato stabilmente per insufficienza di tempo e soprattutto per paura di provare ancora lo stesso, lancinante dolore che aveva sentito quando era caduta durante un esercizio alle parallele, il suo attrezzo preferito.

«Bene. Sarà meglio che vada.» disse dopo aver dato un’occhiata al suo orologio da polso «Grazie del pranzo e della compagnia.»

«Non c’è di che. Torna pure a trovarci, quando ne hai voglia.» disse Ichiro.

«Lo farò più che volentieri. Arrivederci.» si congedò.

Taro la accompagnò fino al cancello. Prima di salutarla, le mise una mano sulla spalla.

«Elena … avere paura è normale. Anch’io ce l’ho, ogni volta che scendo in campo. Ma non devi mai permetterle di bloccarti e di condizionare la tua vita, impedendoti di fare ciò che vorresti.»

Elena posò una mano su quella di Taro e gli rivolse uno sguardo pieno di affetto. Era sempre così gentile ed empatico ....

«Hai ragione. Grazie.»

Taro fece un cenno con la testa, come per incoraggiarla ulteriormente.

Si sentì sollevata. Si era confidata con l’unica persona oltre a suo zio con cui avrebbe potuto farlo, lì a Nankatsu. Sapere che, in qualsiasi momento, avrebbe potuto contare su un amico come lui, le dava serenità.

 

 

Elena infilò la giacca della tuta, lasciandola aperta sopra la maglietta azzurra. Uscì dallo spogliatoio, in cui aveva fatto la doccia dopo aver terminato la sua lezione con le allieve più piccole e si recò nello spazio riservato al dojo, da cui le giungevano le urla e i rumori dei movimenti dei ragazzi impegnati negli allenamenti di kickboxing e di judo.

Il dojo fondato e diretto dal maestro Akinori Shiroyama era da tempo una scuola affermata e molto nota anche fuori Nankatsu, ma il corso di ginnastica artistica era stato creato da pochi anni per il desiderio di sua figlia Mayuko, ex ginnasta di buon livello che aveva fatto parte anche della Nazionale.

La scuola riuniva le migliori aspiranti ginnaste di Nankatsu e dei dintorni per evitare la dispersione nei vari club scolastici, e aveva come modello di riferimento quelle russe, romene e statunitensi. La signorina Shiroyama era un’insegnante preparata e molto esigente, ma dotata della necessaria pazienza e aveva saputo circondarsi di collaboratori di ottimo livello.

Elena aveva conosciuto tutte le allieve e le erano sembrate ragazze molto educate e appassionate allo sport che praticavano. Loro erano molto incuriosite dall’avere un’insegnante straniera, dall’aspetto così poco orientale e le avevano fatto un’infinità di domande su di lei e sul Paese da cui veniva e su come si trovava in Giappone. Dopo alcune esitazioni causate dal doversi ambientare in una realtà nuova, era riuscita a farsi accettare e apprezzare dalle bambine, attingendo dalle sue precedenti esperienze nella sua vecchia palestra e dai suoi ricordi di piccola ginnasta in erba quando, un po’ impaurita nonostante la curiosità e la fascinazione che quello sport suscitava in lei, si era presentata alla sua istruttrice, spinta in avanti da sua madre e da Gabriele, l'allora fidanzata di Carlo. Era stata quest’ultima a farle scoprire la ginnastica artistica, proprio a discapito delle arti marziali cui sarebbe piaciuto avviarla suo zio.

Le bambine erano vivaci ma non indisciplinate: le bastavano pochi richiami per riportarle all’ordine e per le più ribelli era sempre efficace la minaccia di una dose massiccia di addominali.


Carlo era ancora occupato in un combattimento con un ragazzo di altezza e corporatura simili, in cui riconobbe Genzo Wakabayashi.

Decise di sedersi e di godersi lo spettacolo. Individuato un sedile libero, si accomodò e posò il borsone su quello accanto. Poco lontano da lei due ragazze, allieve della scuola di judo, stavano assistendo come lei allo sparring, anche se captava spesso commenti entusiastici e audaci, non tutti inerenti alle gesta sportive dei due.

Alzò le spalle e fece una smorfia divertita. In fondo, era comprensibile: entrambi alti, possenti, agili. L’uno, Wakabayashi, aveva capelli neri folti e scompigliati dall’attività fisica, dello stesso colore degli occhi; e suo zio, beh, a lei non era mai dispiaciuto sentirsi dire che si somigliavano: capelli corti, di un biondo un po’ più scuro dei suoi e occhi azzurri come laghi di montagna. Un viso dai tratti non arcigni e segnato da qualche ruga, ma che dimostrava meno dei suoi quarant’anni, al punto che fuori da un dojo o da un ring non sembrava un kickboxer.

Sì, erano obiettivamente un bel vedere.

Il portiere non aveva certo la preparazione di un kickboxer, ma se la cavava bene specie nella parte pugilistica. Era meno abile nei calci, potenti ma non sempre ben mirati: Carlo lo stava mettendo in difficoltà con continui colpi nel tentativo di fargli perdere l'equilibrio.

«Wakabayashi!» disse all'improvviso il maestro, fermandosi.

Genzo si arrestò un attimo, in attesa. Riuscì a scansarsi appena in tempo per evitare di essere colpito dal pugno del suo avversario.

Elena sorrise: era uno dei trucchetti classici di suo zio, per mettere alla prova i riflessi dei suoi allievi.

«Mai fermarsi, Wakabayashi!» lo redarguì quest'ultimo.

Genzo aggrottò le sopracciglia e ricominciò a spostarsi ripetutamente per schivare gli attacchi alle protezioni dei piedi ed Elena ravvisò che dopo quell'attimo di incertezza, stava dimostrando di essere un allievo decisamente promettente.

«Bene. Per oggi basta così.» dichiarò il kickboxer, dandogli un buffetto sulla spalla e sfilandosi i guantoni, imitato dal suo allievo.

«Bel match!» gridò Elena, battendo le mani e attirando l'attenzione dei due.

«Ah, eccoti qui. Wakabayashi, ti presento mia nipote.» disse, indicandola con un gesto della mano, mentre la ragazza si avvicinava.

«Elena Rulli.» disse, tendendogli una mano. Genzo ricambiò la stretta, presentandosi a sua volta.

L'aveva vista pochi giorni prima: era la ragazza che aveva salutato Misaki dopo la partitella al campo di calcio comunale cui aveva assistito seduta accanto a Kumi Sugimoto.

«Tenete.» allungò con l'altro braccio un paio di asciugamani recuperati dalle panchine, ringraziata dai due.

«Sei molto appassionata nel tifare per Misaki. Però finora non ha segnato nemmeno un gol.» sorrise di sbieco, con un guizzo beffardo negli occhi.

Elena fu sorpresa per un attimo da quell'esternazione. Ma allora aveva notato la sua presenza! Decise però di rispondere sullo stesso tono «Lo so, non per niente ti chiamano Super Great Goal Keeper. E poi, se è quasi riuscito a sorprendere te, immagino non avrà grossi problemi a segnare agli altri portieri.»

«Di questo non dubito.» sorrise, osservandone i lineamenti e gli occhi molto simili a quelli di suo zio, anche se più delicati.

«Comunque, te la cavi bene con i pugni.» commentò Elena per scacciare il lieve senso d'imbarazzo che le suscitava quello sguardo prolungato, mentre Genzo si passava l'asciugamano sul viso e intorno al collo.

«Ho già praticato la boxe.»

«Pensa che, grazie alla boxe, è riuscito a giocare quasi una competizione intera nonostante un infortunio ai polsi.» aggiunse Carlo.

«Davvero?» chiese Elena stupita, voltandosi verso Wakabayashi.

«Ero un po' sorpreso anch'io, sinceramente. Ma a quanto pare, il suo allenatore in Nazionale la sa lunga.»

Genzo sorrise, divertito. Era sicuro che fosse stato Kira a suggerire a Mikami quel metodo di allenamento. Non gliel'avevano mai confermato, ma poteva immaginare che le cose fossero andate così. Del resto, l'ex allenatore del Meiwa era uno specialista nell'inventare metodi di allenamento quantomeno insoliti, ma evidentemente fruttuosi.

«È accaduto due anni fa, al World Youth. Le mie dita erano integre, ma non erano ancora abbastanza forti da trattenere il pallone. Così potevo parare soltanto colpendolo con i pugni, stando attento a non farlo finire sui piedi di un avversario. All'inizio ero scettico, temevo di peggiorare le condizioni delle mie mani, ma ho provato, pur di tornare in campo. E alla fine, grazie ai miei compagni, siamo riusciti a vincere il torneo. Mi sono ritrovato con le mani e le braccia piene di ferite e ho potuto riprendere l'attività agonistica solo alla fine del campionato scorso, ma ne è valsa la pena.» concluse, mentre Elena lo ascoltava ancora più stupefatta.

«E pensare che quei due tiri ti avevano quasi distrutto entrambi i polsi.» disse Carlo. Elena non faticò a capire che era un altro pungolo per cercare almeno di affrontare le sue paure.

Il World Youth ... lo stesso torneo cui aveva partecipato Taro.

Sia Taro, sia Wakabayashi avevano avuto degli infortuni gravi come e forse anche più del suo, eppure il loro unico pensiero era stato recuperare la condizione fisica migliore e tornare più forti di prima.

A ogni partita, Taro entrava in campo con la paura che potesse essere l'ultima. Bastavano un fallo, un movimento errato, uno sforzo eccessivo per rischiare di compromettere definitivamente la sua carriera, a soli vent'anni. Eppure questo non lo aveva fermato, anzi gli aveva dato una carica incredibile, un’ulteriore motivazione a esprimere il massimo del suo potenziale.

E lo stesso era accaduto per Wakabayashi, che era ricorso a uno sport che aveva poco a che fare con il calcio per superare i limiti postigli dai suoi problemi alle mani e non aveva neppure atteso la guarigione completa per difendere la porta della sua squadra. Aveva contribuito a portarla alla vittoria del World Youth, a costo di infortunarsi ancora più gravemente e rimanere fuori dai campi di calcio per una stagione quasi intera. E poi era tornato di nuovo a giocare, più forte e motivato di prima.
Si sentì pervadere da una sensazione di vergogna e mortificazione. Il suo comportamento era stato da persona debole e vigliacca, al confronto con i due ragazzi.

Ma evitò di crogiolarsi in quel sentimento. Il senso di colpa andava riscattato, non alimentato ulteriormente piangendosi addosso per gli errori commessi.

Quelli di Taro e di Wakabayashi erano due esempi … due esempi che erano riusciti a colpirla più di tante, seppure sacrosante, parole.

 

 

Genzo uscì dal centro sportivo e si incamminò verso casa. Il sole era già sceso all'orizzonte e le luci dei lampioni illuminavano le strade della città.

Si sentiva stanco ma soddisfatto. Fare kickboxing gli piaceva: gli era di grande aiuto anche per scaricare la tensione e il nervosismo. Pochi giorni dopo il suo ritorno, aveva cominciato a seguire il programma di allenamento concordato con Mikami e Kira; poteva definirsi una versione più evoluta dell'allenamento di pugilato affrontato due anni prima, dopo essersi infortunato nella partita contro la Cina, durante le qualificazioni per il World Youth. Il kickboxing prevedeva anche i calci e un'attenzione e un'agilità ancora maggiori, perché i colpi non provenivano solo dalle mani, ma anche dalle gambe e dai piedi. I maestri Akinori Shiroyama, titolare del dojo, e Carlo Nerlinger erano preparati e carismatici; soprattutto Carlo, un quarantenne che, nonostante i tanti anni di sport alle spalle, molti titoli vinti a livello tedesco e internazionale e un bagaglio di esperienze ormai sterminato, dimostrava di essere ancora nel pieno delle forze e di non essere stanco di mettersi in gioco, tanto che aveva deciso di farsi allenare dal maestro Shiroyama, uno dei più famosi e competenti in tutto il Giappone, per prendere parte al suo ennesimo incontro.

Non vedeva l'ora di testare i suoi miglioramenti sul campo di calcio, in una partita vera.

 

Giunto davanti al cancello della villa, notò la Lexus argentata parcheggiata a lato, un modello diverso rispetto a quello del loro garage. I suoi genitori erano attesi per la mattinata seguente, ma evidentemente avevano deciso di anticipare il loro arrivo.

Non sapeva se esserne contento o meno: era sicuro che suo padre avrebbe riesumato una questione che, negli ultimi tempi, aveva creato qualche attrito tra di loro.

Trovò Hitomi ad aprirgli la porta.

«Buonasera signore. I suoi genitori sono arrivati mezz'ora fa.» gli annunciò, prendendo il cappotto che il giovane si era appena sfilato.

Entrò in salotto, dove Yasuhiro e Mariko erano seduti sui divani, intenti a conversare con Hiroji e Annie seduti accanto a loro, e a vezzeggiare Kenichi e Aiko, che si trovava in braccio alla nonna.

«Nonni guardate, c'è lo zio Genzo!» esclamò Ken, il primo ad accorgersi della sua presenza, indicandolo.

«Buonasera a tutti.»

Yasuhiro ricambiò il saluto con un sorriso e un cenno del capo «Sei stato al campo di calcio?» chiese, notando la tenuta sportiva del figlio e il borsone che reggeva nella mano destra.

«No, in palestra. Seguo un allenamento speciale.» spiegò.

«Allenamento speciale?» ripeté Mariko.

«Sì, kickboxing. Per le qualificazioni alle Olimpiadi del prossimo mese».

«Ah.» commentò il signor Wakabayashi «Ci stai dando dentro.» disse, annuendo con un sorriso.

Genzo inarcò mentalmente un sopracciglio, come aveva imparato a fare quando voleva celare i suoi reali pensieri a suo padre.

Si limitò a dire che sarebbe andato a farsi una doccia, avviandosi verso la scala.

Il tono di voce di Yasuhiro era inaspettatamente conciliante, troppo per credere che fosse del tutto sincero. Lo aveva esortato troppe volte a non pensare soltanto al calcio e negli ultimi mesi avevano avuto discussioni aspre sull'argomento; e sapeva bene che quel piccolo compromesso che stavano per raggiungere, sarebbe stato considerato soltanto un palliativo.

«Aspetta.» la voce di suo padre lo fermò al terzo gradino «Questo è per te.» estrasse un biglietto dalla giacca e glielo tese.

«Attendo una risposta entro questa sera.»

 

 



*** Note ***



Gotenba: città situata nel nord-est della prefettura di Shizuoka, alle pendici orientali del Monte Fuji. Vi si trova il Fuji Toranomon Orthopaedic Hospital: credo sia questa la struttura cui Yoichi Takahashi si è ispirato per il centro di medicina sportiva Fuji, la vista sul Fuji-san è molto simile.

 

J League 2: secondo livello del campionato giapponese, l'equivalente della Serie B italiana.

 

Gabriele in tedesco è un nome femminile.


Il termine teriyaki (composto dalle parole teri, che significa lucido o splendente, in riferimento al colore conferito dalla salsa, e yaki, che significa cotto su metallo, come una griglia, una piastra o una padella) si riferisce alla salsa che ha questo nome (i cui ingredienti base sono il sake o il mirin - sorta di sake da cucina di colore dorato -, salsa di soia scura e zucchero), ai piatti cucinati con il suo impiego e alla tecnica con cui vengono preparati. La salsa e i piatti correlati sono caratteristici della cucina giapponese tradizionale. Tra gli svariati alimenti cucinati con la salsa teriyaki vi sono pollo, manzo, pesce, frutti di mare, tofu. Secondo la tradizione giapponese, una pietanza teriyaki va consumata con il riso al vapore e verdure come guarnitura.

Nell'immagine: pollo con salsa teriyaki.

Fonte: Wikipedia

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo IV - I due mondi di Genzo ***


Untitled

 

Capitolo IV

 

I due mondi di Genzo

 

 

 

Nel biglietto che Yasuhiro aveva dato a Genzo la sera prima, era stampato un invito a una cena di beneficenza che si sarebbe svolta nella Grand Ballroom dell’hotel Ritz Carlton, uno dei più rinomati e lussuosi di Tokyo. Un evento organizzato dalla fondazione creata da Toshio Hosokoawa, presidente di una banca finanziatrice di molte aziende giapponesi tra cui quelle della famiglia Wakabayashi.

Superando le sue perplessità, Genzo aveva deciso di accettare e a cena aveva dato la sua risposta positiva, senza aspettare la domanda del genitore.

Da molto tempo non prendeva parte a feste dell’alta società, non legate a promozioni di manifestazioni sportive o cui non fosse comunque invitato con la squadra di club o con la Nazionale. Dai tempi della sua infanzia: si era trasferito in Germania appena undicenne e da allora era tornato in Giappone solo per occasioni come i matrimoni di Hiroji e Annie e di Tsubasa e Sanae, per il World Youth e per una recente amichevole contro la Nigeria.

Ora che si ritrovava nel mezzo del salone, vestito con uno smoking nero, gli sembrava di vedere il sorriso lievemente canzonatorio di Keisuke dirgli: "Adesso tocca a te, fratellino!".

Quella scenetta, soltanto immaginata, ma decisamente realistica visto il carattere scherzoso del secondogenito e la loro comunicazione fatta abitualmente di dispetti da bambini e di punzecchiature una volta cresciuti, gli strappò un breve sorriso.

Cercò Hiroji con lo sguardo: si trovava dall'altro lato del salone, intento a conversare con alcuni banchieri, imprenditori ed esponenti del mondo politico e sembrava decisamente a suo agio. Era l’erede designato, ciò cui era destinato fin dalla nascita, ed era anche ciò che aveva voluto per sé stesso. Uno dei pochi esempi di ragazzo i cui sogni e obiettivi avevano coinciso con quelli dei suoi genitori.

Questi ultimi si trovavano poco distante: anche loro erano impegnati in una conversazione con altri membri dell'alta società nipponica. Avevano una splendida figura, nonostante l'età non più giovane. Yasuhiro era alto, imponente, eretto, i capelli ancora neri e i sottili baffi scuri. Mariko era di piccola statura e di corporatura minuta, con i capelli castani raccolti in uno chignon e un elegantissimo abito color pesca.

Venne raggiunto da Annie, con un'espressione sofferente e quasi buffa.

«Odio questi tacchi alti.» si lamentò

In quel momento poco le importava se il lungo abito in taffetà color grigio perla la rendeva una delle donne più attraenti della serata, e a dirglielo era stato proprio Hiroji quando erano entrati nel salone, prima di venire avvicinato dagli altri esponenti dell'élite nipponica.

«Dai, consolati. Sei molto ammirata questa sera. E non dirmi che non hai fatto neanche un sorriso quando ti sei guardata allo specchio.»

La donna alzò le spalle e fece una smorfia. In fondo, Genzo aveva ragione. «Bah. Mi basterebbe avere Hiroji per un po'. Da quando è alla guida dell'azienda, ci incrociamo pochi minuti il mattino presto e la sera tardi, e ora che potremmo stare un po’ insieme, lui dedica tutto il suo tempo a quella pletora di pinguini.»

«Il mondo degli affari è anche questo.»

Annie fece un cenno d’assenso, rassegnata. Poi gli puntò uno sguardo ironico «Anche a te non dispiacerebbe essere altrove, scommetto.»

Genzo annuì «Effettivamente … stasera c'erano alcune partite interessanti in tv.»

La donna alzò gli occhi al cielo «Se Hiroji pensa sempre agli affari, tu hai sempre in mente il calcio.»

«A ciascuno il suo.» sogghignò «Scommetto che se ci fosse qualche artista o comunque qualcuno che ha a che fare con il mondo della cultura, non saresti molto diversa da noi.» disse strizzando un occhio, come faceva solo verso persone con cui era in stretta confidenza.

Annie emise un leggero sospiro. «Magari, almeno conoscerei qualcuno di interessante! Vostra madre avrebbe potuto farne invitare qualcuno.»

Il giovane cognato le sorrise, comprensivo. Quando l’aveva conosciuta, otto anni prima, era rimasto subito impressionato favorevolmente da lei. Era una ragazza positiva: la caratteristica più evidente era la curiosità per ogni argomento, soprattutto di genere letterario e artistico. Era stato il primo cui Hiroji l’aveva presentata, durante un breve viaggio ad Amburgo.

Prima di trasferirsi a Londra, aveva iniziato una frequentazione con la figlia minore di un famoso avvocato di Tokyo e nel suo ambiente si davano per scontate le future nozze, nonostante il loro non fosse ancora un legame ufficiale. L’allora studente universitario aveva conosciuto, tramite amici comuni, quella ragazza inglese che frequentava il suo stesso ateneo e, dopo pochi mesi, avevano capito di essersi innamorati.

Hiroji si era trovato in una situazione imbarazzante: per la prima volta si era trovato a detestare certe convenzioni della mentalità giapponese. Era considerato ormai impegnato con una ragazza che pur avendo molti meriti, non gli suscitava le emozioni provate con e per Annie. Aveva scoperto la differenza tra essere attratti da una ragazza ed esserne innamorati, ma temeva che i suoi genitori non avrebbero capito.

Annie aveva chiesto a lui e a Kaltz di portarla a visitare quanti più luoghi possibile tra quelli di cui aveva letto nella guida e aveva fatto loro molte domande. Il fatto che ci fosse una comunità inglese molto numerosa l'aveva resa ancora più entusiasta. Alla fine del viaggio, quasi ne sapeva più lei su Amburgo che Genzo e Hermann stessi.

I due fidanzati erano tornati a Londra sapendo che avrebbero avuto un forte alleato su cui contare nel caso i signori Wakabayashi si fossero opposti alla loro unione.

Timori che poi, fortunatamente, si erano rivelati fondati solo in parte. All’inizio c’era stata riluttanza dovuta più che altro al timore di mancare di rispetto alla famiglia dell'avvocato, ma alla fine il dissidio fu superato e Annie era stata pienamente accettata dai signori Wakabayashi e poi dall’alta società giapponese, nonostante le origini occidentali e l’assenza, nel suo albero genealogico, di qualsiasi traccia di familiari o parenti nati nel Paese del Sol Levante. Per un ricco giapponese, avere una moglie straniera era considerato uno status symbol, e soprattutto anche Annie proveniva da un’ottima famiglia: era, infatti, figlia di uno dei più apprezzati consulenti finanziari del Regno Unito e di un’insegnante della prestigiosa Latymer grammar school di Londra. La loro casa si trovava a Hampstead, una delle zone più eleganti e ricche della capitale britannica. Annie aveva frequentato le migliori scuole e si era laureata al King’s College, sempre con il massimo dei voti: la sua reputazione non aveva nulla da invidiare a quella di una ragazza giapponese di ottima famiglia e con lo stesso livello d’istruzione.

 

Alla serata erano presenti molti ragazzi più o meno coetanei di Genzo, tutti rampolli delle personalità più in vista dell’alta società giapponese. Erano laureati o comunque iscritti alle università più rinomate; alcuni di loro erano interessati alla sua inusuale carriera calcistica e gli avevano posto molte domande cui aveva risposto con educazione, cercando di celare l’insofferenza quando diventavano troppo numerose o importune; altri, più tradizionalisti, sembravano mostrare una curiosità più blanda, di circostanza. Di certo tutti lo consideravano un ragazzo particolare perché il calcio, nonostante gli indubbi progressi registrati negli ultimi anni, non era ancora uno degli sport più popolari, ma Genzo aveva conseguito risultati straordinari: vincitore di due titoli mondiali con la Nazionale giovanile e fino a pochi mesi prima titolare in una squadra del massimo campionato tedesco, in ogni caso considerato uno dei portieri più forti del mondo, che nonostante la giovane età era ormai più di una promessa.

Yasuhiro, dieci anni prima, aveva appoggiato con convinzione la sua scelta di trasferirsi in Germania per allenarsi in strutture di livello molto più avanzato rispetto a quelle giapponesi, dove il calcio era uno degli sport più amati e seguiti. Su un punto era stato categorico: il calcio non doveva precedere i suoi doveri scolastici, e Genzo era stato irreprensibile. Aveva conciliato brillantemente lo studio e gli impegni sportivi e l’estate precedente si era diplomato al Gymnasium Heidberg con il massimo dei voti, seppure con un anno di ritardo a causa della sua partecipazione al World Youth.

Alla richiesta del padre di proseguire gli studi, il giovane aveva però preferito prendere tempo e gli aveva annunciato che per quell'anno si sarebbe concentrato unicamente sul calcio. Era da poco rientrato nell'Amburgo e la stagione seguente sarebbe stata fondamentale per la sua carriera. Voleva essere il miglior portiere della Bundesliga e portare la sua squadra alla vittoria, rompendo la supremazia del Bayern Monaco. Nell'estate successiva, ci sarebbero state le Olimpiadi e lui contava di giocarle da protagonista. Sentiva di essere entrato in un periodo cruciale della sua carriera e non era sicuro di riuscire a dedicare agli studi il tempo necessario. Aveva scelto quindi di dare priorità alla carriera sportiva, per iniziare a dare il suo contributo permanente in azienda di lì a qualche anno.

Quella decisione non era piaciuta a Yasuhiro. La Wakabayashi Electrics stava per cominciare una nuova fase della sua storia ed era sicuro che, in futuro, ci sarebbe stato bisogno anche di Genzo. Hiroji aveva assunto la guida dell’azienda e di lì a non molto avrebbe potuto contare anche sull’apporto di Keisuke, che entro pochi mesi si sarebbe laureato in Ingegneria Chimica e aveva già espresso il desiderio di ritornare in Giappone ed entrare a far parte del dipartimento Ricerca e Sviluppo.

Dopo alcuni mesi di discussioni piuttosto accese, i due erano giunti a un accordo: Yasuhiro non gli avrebbe fatto pesare la decisione di dare la precedenza al calcio, a patto che Genzo svolgesse in contemporanea alcuni incarichi che gli avrebbero permesso di prendere confidenza, in prima persona, con la gestione delle attività familiari.

Mariko, che si occupava di promuovere iniziative educative e culturali nella Japan Foundation, aveva saputo suggerire al marito la soluzione giusta: aveva proposto così al figlio di diventare un membro del consiglio direttivo dell’Istituto Shutetsu. Lui aveva accettato con piacere: era il punto di partenza ideale ed era un ambiente che conosceva bene.

«Ehi, sembra che il colloquio sia finito.» disse Genzo, facendo un cenno con il mento verso gli uomini con cui Hiroji stava parlando poco prima «Ti consiglio di approfittarne, prima che si faccia sotto qualcun altro.»

Annie vide il marito momentaneamente solo accanto a uno dei tavoli e non indugiò oltre.

«Recepito, vado!» disse, avviandosi a passo svelto.

 

Nuovamente solo, riprese a vagare per il salone. Non molto lontano da dove si trovava, c’era un gruppetto di ragazze: erano tutte molto avvenenti ed eleganti e ogni tanto gli lanciavano delle occhiate, facendogli capire che era lui l’argomento della loro conversazione. Alcune di loro erano senza accompagnatore e probabilmente speravano di essergli presentate.

Una di loro si staccò dal gruppo e si incamminò in sua direzione. Era un volto non inedito per lui e man mano che si avvicinava, trovò tra i suoi ricordi il nome corrispondente.

Indossava un lungo abito di seta azzurra senza spalline, che valorizzava la figura snella e slanciata. I capelli lisci e neri come la pece lunghi fino alle spalle, creavano un affascinante contrasto con la pelle nivea. Aveva un incedere sinuoso, elegante. Un viso piccolo e magro, dai tratti delicati, truccato in modo sapiente ma non vistoso. Più indietro, vide i volti delle altre ragazze, da sorridenti e rilassati, farsi contratti e torvi.

«Ciao Genzo.»

«Asami.»

«Ormai ti sei stabilito in Germania e così non abbiamo mai occasione di vederci.» disse, inclinando leggermente la testa e fissandolo con i suoi occhi nerissimi.

Genzo esitò un attimo. Un lieve sorriso curvò le sue labbra «È vero, ma due anni fa mi sono fermato in Giappone per un po’… all’epoca eri tu a essere impegnata.»

Asami assunse un’espressione interdetta, poi sbuffò una risatina «Touché.» ammise «Ma da ora potremo vederci spesso, se ti va.» disse, allargando il suo sorriso nel vedere il portiere assentire.

 

I Wakabayashi e gli Ujimori guardavano con occhi deliziati i figli che chiacchieravano al centro del salone.

Asami Ujimori era la figlia di Tsutomu, proprietario della Ujimori Heavy Industries, compagnia leader nell’industria metallurgica. Era stato compagno di università di Yasuhiro e i due erano, da allora, grandi amici, avevano collaborato spesso e le due famiglie erano solite trascorrere insieme parte dei periodi di vacanza.

«A quanto pare, si sono già ritrovati.» sorrise Tsutomu.

«Già. Del resto, da che mi ricordo, Asami ha sempre avuto un debole per Genzo.» commentò sua moglie Maeko, mentre ricambiava il cenno di saluto rivoltole dal ragazzo.

 

«Sei una delle attrazioni della serata.» commentò Asami.

«Devo sentirmene lusingato?» una vena di sarcasmo era percepibile nella voce di Genzo.

La ragazza sorrise. «Beh, è naturale che susciti curiosità. Sei uno degli eredi di una delle famiglie più importanti del Giappone e un calciatore affermato. Non è una condizione molto comune, per un ragazzo giapponese della tua età.»

Le braccia distese e le mani intrecciate all’altezza del grembo, a sfiorare la stoffa azzurra dell’abito.

Era bellissima, più di come la ricordava. Aveva un portamento elegante, sicuro di sé e consapevole della sua avvenenza e dell’ammirazione che suscitava in chi la guardava. Un sorriso gentile e seducente, una voce pacata e chiara, piacevole da ascoltare. Erano caratteristiche che l’avevano sempre distinta da che la conosceva, ma ora che era una giovane donna erano ancora più evidenti.

Parlarono dell’ultimo periodo di Genzo in Germania e Asami gli raccontò aneddoti sui suoi studi universitari e sugli eventi cui aveva partecipato, sulla passione che coltivava tuttora per il tennis, sport che praticava con piacere e soddisfazione. Si interruppero solo quando vennero richiamati dai rispettivi genitori: la cena stava per avere inizio.

Accomodatisi al tavolo riservato per le due famiglie, il portiere partecipò poi alla conversazione tra Yasuhiro, Tsutomu e Hiroji, mentre Asami si unì a Mariko, Maeko e Annie.

 

Quello che Asami aveva detto a Genzo era sicuramente la spiegazione dell’interesse che suscitava, ma era anche ciò che lei stessa pensava di lui; la affascinava perché era diverso dallo standard dei ragazzi del loro ceto sociale e non solo perché era un calciatore talentuoso e aveva nella Germania una seconda patria.

Era schivo e riservato, apparentemente freddo e poco socievole, ma si dimostrava una persona estremamente interessante con chi aveva la fortuna di conoscerlo in modo non superficiale. Aveva una mentalità diversa da quella di tanti suoi coetanei cresciuti in Giappone, altre cose da raccontare, a differenza di altri ragazzi con cui le sembrava di ascoltare sempre lo stesso disco: università, attività di club, il posto nell’azienda, nella banca o nello studio legale del padre o di un altro membro della famiglia.

Asami aveva avuto una relazione importante con il figlio di uno degli avvocati più noti del Paese, a sua volta legale, ma quando aveva saputo che Wakabayashi sarebbe tornato in Giappone per prendere parte al torneo di qualificazione delle Olimpiadi e che avrebbe partecipato ad alcuni eventi mondani organizzati dalle varie fondazioni, si era detta che non poteva rinunciare a quell’occasione che, nonostante i suoi vent’anni, poteva essere l’ultima.

Lo osservò mentre rispondeva a una battuta del signor Ujimori. Aveva un indiscutibile ascendente. Alto, forte, imponente. Lo sguardo scuro, profondo, sicuro di sé.

Si rese conto che nella sua testa c’era sempre stato Genzo, da che l’aveva conosciuto, ma non aveva mai avuto l’opportunità di frequentarlo più assiduamente. Sorrise. Il destino era stato magnanimo e l’aveva rimesso sulla sua strada.

Non ebbero più molte occasioni di rivolgersi la parola nel rimanente corso della serata, ma era implicito che altri incontri sarebbero seguiti, a breve distanza. E si congedarono con questa certezza.

 

Elena indossò un paio di pantaloni neri con una riga bianca e una maglietta azzurra e raccolse i capelli per poi legarli in una coda di cavallo.

Sistemò il suo borsone nello spogliatoio riservato alle insegnanti e si diede un'ultima occhiata allo specchio.

Si avviò quindi verso la sua area di competenza, dove la stavano aspettando le sue piccole allieve.

Notò la presenza di un’adolescente esile, di bassa statura, con i lunghi capelli neri raccolti in una coda e lo sguardo, altrettanto scuro, accigliato, con la schiena appoggiata alla trave, a poca distanza dalle bambine che ingannavano il tempo chiacchierando. Giunta a pochi passi da loro, udì una di loro indicare la zona opposta della stanza e dire ingenuamente alla ragazza che le sue compagne si trovavano da quella parte.

«Lo so bene, non ho chiesto io di venire qua.» bofonchiò irritata.

«Io te l’ho solo detto.» rispose la bambina, sorpresa e intristita dalla reazione stizzita dell’allieva più grande.

«E tu che ci fai qui?» chiese Elena.

«Chiedilo alla Shiroyama.» ribatté, in tono insolente.

«Ora smettila Arimi, altrimenti il prossimo passo sarà spedirti fuori dalla palestra.» intervenne Mayuko, che nel frattempo le aveva raggiunte. Si rivolse a Elena.

«Lei è Arimi Shimokawa, una delle mie allieve. Fino a prima di infortunarsi era una delle migliori, ma da quando è rientrata, sembra che abbia scordato quale deve essere il primo, vero obiettivo di una ginnasta. Così ho deciso di mandarla qui. Conto su di te per rispolverarle un po’ la memoria.»

«Io non capisco perché non vuole farmi partecipare alla prossima gara.» protestò la ragazzina.

«Sei appena rientrata Arimi, devi recuperare la piena forma e io non voglio forzarti. Comunque, tra tre settimane, se ti impegnerai, avrai la tua occasione.» replicò Mayuko.

Arimi scosse la testa. «Sciocchezze. Io sono guarita, e sono pronta.»

La sua ostinazione fece adirare la donna. Si passò una mano tra i corti capelli neri e le rispose con tutta la freddezza imparata in tanti anni di agonismo e di studio.

«Se la tua insegnante dice "sciocchezze", lo fa anche per il tuo bene. Oltre alla forma fisica, hai davvero bisogno di recuperare anche qualcos’altro.» la fissò, severa. Arimi fu costretta ad abbassare lo sguardo, per evitare che la situazione peggiorasse ulteriormente.

«Questa è la mia nuova assistente, Elena Rulli» riprese «e da oggi sarà lei a occuparsi del tuo reinserimento.»

La ragazzina si staccò lentamente dalla trave e abbozzò un sorriso, ma sembrava piuttosto una smorfia fatta con un certo sforzo, così come il suo inchino sembrava dettato più dal rispetto delle norme di cortesia che dalla spontaneità.

«Non darci peso.» le disse Mayuko «Ci si abituerà. Tu non farti problemi e rimettila al suo posto se dovesse cominciare a fare di testa sua.»

Si recò poi dalle altre allieve, alcune delle quali avevano assistito alla scena scambiandosi occhiate divertite ed emettendo qualche risolino. Arimi le fulminò con un’occhiataccia.

Elena invitò tutte le sue allieve a disporsi in fila e l'adolescente, pur controvoglia, obbedì.

 

Erano circa le sei e mezzo della sera quando Kumi, irruente ed entusiasta come al solito, entrò nell'atrio in cui era situata la segreteria, salutando Elena e la signora Fumiyo Ukita, una delle segretarie, che ricambiarono con un sorriso divertito. Proprio in quel momento, alcune delle allieve, tra cui Arimi, stavano attraversando la stanza.

«Ciao Arimi!» la salutò subito Kumi.

«Kumi!» rispose entusiasta, raggiungendola a grandi passi «Come stai?» chiese, facendo un largo sorriso e posandole una mano su un braccio.

La ragazza annuì «Bene. Guarda cosa ti ho portato. In anteprima solo per te.» estrasse dalla borsa che aveva con sé una serie di fogli da disegno uniti con una graffetta verde, su cui era raffigurato un fumetto.

Arimi prese i fogli e si illuminò nel guardarli.

«Wow, il nuovo episodio di "Uedake no kyōdai"! Lo divorerò questa sera, prima di andare a letto.» commentò felice.

Elena assistette con sorpresa al repentino cambiamento d’umore della ragazzina, e il suo stupore aumentò mentre sbirciava - in modo un po' indiscreto, se ne rendeva conto - la vivace conversazione tra lei e Kumi. La sua nuova amica sembrava non solo conoscere bene Arimi, ma anche avere un buon rapporto con lei. Forse da lei avrebbe potuto sapere qualcosa sulla sua scontrosa allieva. Era evidente che non si comportava sempre così.

«Kumi, hai un momento dopo? Vorrei chiederti una cosa.» disse, interrompendo suo malgrado le due ragazze.

«Sì, certo!» fu la risposta, mentre Arimi, dopo aver rivolto uno sguardo scocciato alla bionda insegnante, mormorò alcune parole di scusa e di saluto, attenuando solo in parte la sua espressione accigliata e lasciò la palestra.

Dopo un attimo di stupore, Kumi si volse verso Elena e allargò le braccia, dispiaciuta. Poi si avvicinò al bancone cui era appoggiata l'italiana.

«Cos’era, un nuovo manga?» chiese Elena.

«Sì, l'ho disegnato io. È la storia di una famiglia giapponese, ambientata all'inizio del Novecento.»

«Sembra interessante!»

Kumi annuì «Ci lavoro da un po'. Ho cominciato alle elementari, e ora disegno ogni volta che ho un momento  libero. Oh scusa, come al solito ingrano con le chiacchiere e divento terribilmente noiosa.»

Così aveva conosciuto un’aspirante mangaka. Ecco il motivo per cui al campo di calcio l'aveva vista con un blocchetto da disegno e una matita rosa contrassegnata dall’inconfondibile musetto di Hello Kitty.

Elena sorrise e scosse la testa «Non ti preoccupare, mi piace il tuo entusiasmo.» ristette un momento, pensosa. Poi riprese «È contagioso: ha trasformato il broncio di Shimokawa in un sorriso.»

Kumi colse la sottintesa richiesta di qualche particolare riguardo la giovane ginnasta.

«Arimi è la sorella della mia migliore amica, la conosco da quando aveva tre anni. Siamo sempre andate molto d’accordo, tanto che spesso parla più volentieri con me che con Madoka.» disse, stringendosi nelle spalle «Sarà che abbiamo un carattere simile.»

Elena non riuscì a trattenere una smorfia di stupore «Non si direbbe. La Shiroyama l'ha mandata nel mio gruppo per via del suo comportamento, e ha tenuto il broncio per tutta la lezione. L'ho osservata mentre si avviava e usciva dagli spogliatoi, e non ha scambiato nemmeno una parola con le sue compagne.»

Kumi strinse le labbra «Davvero? Con me non si è mai comportata così. Certo, so che con i suoi genitori i rapporti non sono idilliaci, perché sono molto severi e hanno cercato di non farle riprendere la ginnastica artistica, che ritengono uno sport "inutile e pericoloso", specie dopo che si è infortunata. Madoka ha provato a fare da paciere, ma è difficile per lei difendere le ragioni di sua sorella senza attirarsi i rimproveri dei suoi genitori.» sospirò «Penso che dovresti parlare con lei, di questo, visto che sei la sua insegnante. Io e Madoka non riusciamo a farci dire granché.»

Elena annuì. Sarebbe stato difficile convincerla a parlare, visto il suo atteggiamento di chiusura pressoché totale. Tuttavia, era una situazione da affrontare il prima possibile: Arimi aveva già perso le gare della domenica successiva e i campionati nazionali juniores erano previsti per la fine del mese di maggio.

«Sì, e mi sarebbe utile anche parlare con sua sorella.»

«Potresti conoscerla domani sera, se ti va di venire alla festa che Ishizaki dà a casa sua.»

Elena spalancò gli occhi, poi alzò le spalle. Ishizaki era uno degli amici di Taro, il giullare della compagnia stando a quanto le aveva raccontato. «Dovrebbe essere lui a invitarmi … ma non ci conosciamo.»

Kumi fece spallucce e le strizzò un occhio «Non ti preoccupare, a lui non dispiacerà di certo averti tra i suoi ospiti.»

 

Organizzata per festeggiare la fine del liceo dei kohai che davano vita, con loro, alle partitelle al campo comunale, la festa che Ryo Ishizaki dava a casa sua era anche un modo per salutare e fare in bocca al lupo ai ragazzi che di lì a un paio di settimane avrebbero iniziato, con i loro compagni della Nazionale Under 23, il loro percorso verso il grande sogno olimpico, e a quelli che avrebbero partecipato alla nuova edizione del World Youth e la cui partenza per il ritiro era imminente.

Trovare la casa del difensore dello Jubilo Iwata non era stato difficile. Il bagno pubblico della famiglia Ishizaki era l'unico della città ed Elena ci passava davanti ogni giorno per andare verso la palestra, e la loro abitazione si trovava proprio lì accanto.

Le stelle punteggiavano lo scuro cielo serale.

A pochi metri dal cancello di casa Ishizaki, Elena vide una figura conosciuta camminare pochi passi davanti a lei.

«Taro!» chiamò, a voce sufficientemente alta perché potesse sentirla.

Il ragazzo si fermò, si voltò e la salutò con un sorriso.

«Stai andando anche tu alla festa di Ishizaki?» gli chiese, dopo che lo ebbe raggiunto.

Il ragazzo fece un cenno d'assenso «Ti ha invitata Sugimoto?»

«Sì, è passata alla palestra. È stato gentile da parte sua, considerato che per ora conosco solo lei, Wakabayashi e te.»

«Non ti preoccupare. I nostri amici sono persone estremamente simpatiche e socievoli. Ti faranno sentire subito una di loro.» le assicurò, mentre suonava il citofono appeso al cancello.

La porta si aprì immediatamente e Ryo comparve con in mano un hamburger strafarcito.

«Ehilà Misaki!» sorrise quando notò la ragazza bionda accanto a lui «Bene, vedo che hai portato la tua amica carina!»

«Scommetto che l'hai comprato al Seijo Ishii.» disse Taro quando arrivò alla porta, scoccando un'occhiata perplessa al grosso panino con un voluminoso ripieno di cui faticava a distinguere i singoli ingredienti.

«Non è malaccio. Se vuoi ce ne sono altri sul tavolo, ma sbrigati perché sono in limited edition

Misaki alzò gli occhi al cielo ed entrò in casa, seguito da Elena che, divertita dallo scambio di battute, salutò il padrone di casa con un inchino e gli si presentò. Quest'ultimo le sorrise entusiasta invitandola a chiacchierare e a mangiare quanto più le piaceva.

Elena scambiò un'occhiata con Taro. Un tipo un po' bizzarro il suo amico, ma gentile e ospitale.

Il salotto della casa era spazioso e arredato come si confaceva a una festicciola tra amici. C'era un grande tavolo imbandito di ogni tipo di ghiottoneria tra panini, tartine e dolci, musica alta ma non invadente, e un televisore acceso dalla parte opposta.

Era presente la classe di Kumi e i membri del club di calcio e i nazionali al completo. Pochi metri più in là c'era Wakabayashi, che salutò con un cenno del capo e un sorriso. Taro la presentò agli altri convitati, finché non incontrarono Kumi, fino a quel momento intenta a parlare con alcune amiche. La ragazza comprese immediatamente che erano arrivati insieme poiché fino a pochi minuti prima nessuno dei due era presente, ma facendo di tutto per ignorare le fitte di gelosia, riuscì a nascondere la sensazione di fastidio che l'aveva invasa e trascinò Elena verso le sue amiche e compagne di scuola. L'italiana conobbe in particolare Yukari, la ex manager della Nankatsu e fidanzata di Ishizaki, che la accolse subito con simpatia e la ragazza che, dal giorno prima, era curiosa di incontrare.

«Io sono Madoka Shimokawa, sono nella stessa classe di Kumi.» si presentò. Era una ragazza piccola di statura e di corporatura esile, con capelli neri a caschetto e occhi dello stesso colore.

«Fin dalle elementari.» precisò la ex manager.

«Tu devi essere la nuova assistente della Shiroyama.» riprese la ragazza dai capelli scuri. L’impressione che dava di sé, era quella di una ragazza molto posata e matura. E Arimi era, quindi, la piccola ribelle. Un cliché.

«Sì.» decise di affrontare l’argomento senza troppi preamboli «Ieri ho conosciuto tua sorella Arimi.»

Madoka strinse le labbra «Ti ha già dato qualche grattacapo, vero?».

Elena diede un’alzata di spalle. «Diciamo che ha un bel caratterino. È arrabbiata perché la signorina Shiroyama non le ha permesso di partecipare alle gare della prossima settimana, ma viene da un lungo infortunio e deve recuperare la piena forma fisica. La sua insegnante dice che ha un grande futuro davanti a sé e vuole averla al massimo per i campionati juniores del prossimo maggio.»

Madoka assentì «Ha ragione. Arimi ha un talento non comune, lo vedrai non appena potrà allenarsi con il suo gruppo.»

«Da tempo non abbiamo più un buon rapporto» continuò «e capitano giorni in cui ci salutiamo a malapena. È anche colpa mia e dei nostri genitori, lo ammetto, ma ora che vorrei parlarle, si sottrae.»

Elena le assicurò che avrebbe parlato con Arimi e avrebbe cercato, con la dovuta discrezione, di indurla a spiegarle perché il suo atteggiamento era così scostante.

«Spero che tu ci riesca. A questo punto sei l'unica che può farcela.»

«Arimi non è l’unica con cui devi chiarire qualcosa.» intervenne Kumi, rivolta a Madoka «C’è anche un certo Shun Nitta con cui dovresti parlare. Guardalo lì. Dai, adesso è solo, approfittane no?» la incalzò, facendole una lieve pressione su un braccio e indicandole il ragazzo che stava scrutando con sguardo ingolosito i manicaretti preparati da Yukari e dalla madre di Ryo.

«Adesso non mi sembra il caso.» rispose l’altra, mostrando di non avere la minima intenzione di spostarsi.

Kumi sbuffò «E quando ti ricapiterà un’altra occasione, stasera?» stava per spingerla verso l’attaccante del Reysol Kashiwa quando quest’ultimo, con una tartina in bocca e un’altra in mano, corse verso gli altri ragazzi, che avevano appena sintonizzato il televisore su una partita di Premier League inglese.

«Ecco, lo sapevo!» sospirò Kumi puntandosi i pugni sui fianchi «Per stasera te lo scordi.»

Madoka fece spallucce «Tanto non mi sarei messa a parlargli qui, sotto gli occhi di tutti.»

«Siete due fifoni.» replicò l’altra, incurante dell’occhiata maldisposta dell’amica «Potreste parlarvi, ma non lo fate. Lui da una parte, tu da quest’altra. Vi sentite al sicuro. In fondo, perché rischiare, perché andare a scuotere una situazione ancora in sospeso, non è così che la pensate?»

Madoka scosse la testa «Tra poco comincerà il torneo asiatico, credi che Nitta possa trovare anche solo un attimo per me?»

«O sei tu che, tutta presa come sei dai tuoi studi, potresti non avere tempo per lui?» ribatté Kumi. Madoka fece per rispondere qualcosa, ma non riuscì a trovare un valido argomento da opporle. Kumi aveva ragione e lei sentiva di avere una cospicua parte di colpa.

«E pensare che aveva tanto insistito perché venissi anche tu.»

Madoka inclinò la testa e inarcò un sopracciglio «Ma davvero? E allora perché mi ha soltanto salutata?»

«Madoka, se lui non prende l'iniziativa, devi farlo tu. Comunque, se volete ve la sbrigate da soli. Non faccio più da mediatrice.» concluse Kumi, esasperata da quel botta e risposta. Si voltò e raggiunse Yukari ed Elena, che nel frattempo erano state coinvolte in un’intensa chiacchierata dalla signora Ishizaki.

Madoka non la seguì, preferendo unirsi al gruppo formato da altre ragazze presenti. Tuttavia, partecipò a malapena alla conversazione, guardando spesso i ragazzi assiepati davanti alla tv, soprattutto Nitta, uno dei più coinvolti nel commento della gara trasmessa.

Si erano salutati, ma poi non avevano cercato né colto nessuna occasione per parlare da soli. Se lui non l'aveva avvicinata, lei aveva rifiutato di prendere ogni iniziativa. Non era nemmeno riuscita a ricordare a Kumi che anche lei avrebbe dovuto tentare di avvicinarsi a Misaki, anziché limitarsi a lanciargli qualche occhiata ammirata di tanto in tanto. Doveva essere stata scoraggiata dall'aver visto il centrocampista accompagnato da Elena. Ma da quel poco che aveva visto, il loro comportamento le sembrava quello di due buoni amici e nulla più.

Pensò poi alla sua storia con Shun, a come era iniziata due anni prima, durante il periodo di preparazione al World Youth: lei una ragazza che univa un ottimo rendimento scolastico a una brillante militanza nel club di pallavolo, lui un giovane centravanti che ogni giorno passava ore a fare tiri soltanto con la gamba sinistra.

La sua mente riandò a quel pomeriggio di primavera di due anni prima.

 

«Ah, non ce la faccio più! Con questo caldo, fare le pulizie è ancora più seccante.» sospirò Madoka, mentre passava la spugna insaponata sul ripiano di uno dei banchi della prima fila.

«Attenta Madoka, se qualche nostro professore passa di qui rischi di scioccarlo con questa tua uscita.» ridacchiò Kumi.

L'altra fece spallucce «A quest'ora saranno tutti nella sala insegnanti.» sorrise. Lasciò la spugna sul banco e si diresse verso la finestra, affacciandosi al davanzale per respirare un po' d'aria. La leggera brezza primaverile le donò un po' di refrigerio. A un tratto, la sua attenzione venne attirata da una presenza sul campo di calcio sottostante.

«Ehi, guarda lì sotto, c'è uno che è persino più fissato di Tsubasa.»

Kumi si avvicinò alla finestra e vide il ragazzo che si stava allenando facendo ripetuti tiri con il piede sinistro. «Nitta …» sussurrò, stupita. Che lei sapesse, aveva ritardato di un anno la conclusione del liceo per essere a disposizione del mister Mikami in vista del torneo asiatico di qualificazione. Per quale motivo era lì, ad allenarsi da solo per giunta?

«Madoka, scendo per qualche minuto.» annunciò, staccandosi dalla finestra e avviandosi verso il corridoio.

«Ehi, mi lasci qui a pulire l'aula da sola?» protestò, affacciandosi alla porta.

Kumi si voltò «Ma no, torno presto.» disse, camminando all'indietro «Come manager del club di calcio devo sapere perché il capitano non è in ritiro con l'Under 19.» si voltò di nuovo e scomparve velocemente verso le scale.

Da quando Gamo lo aveva escluso dal ritiro della Nazionale Under 19, Shun si recava al campo d'allenamento e vi rimaneva ben oltre la conclusione delle lezioni, per potenziare la gamba e il piede sinistro.

 

«Torno presto, eh?» bofonchiò scocciata, posando secchio e spazzolone. Alla fine le era toccato davvero terminare le pulizie da sola.

Dopo aver rimesso a posto il secchio, le spugne e le scope, scese in cortile, dov'erano ancora Kumi e quel fissato ... Nitta.

«Ehi Kumi, quel fanatico è ancora lì che tira? Avevi detto che tornavi subito, ma sei qui da mezz'ora!»

Il ragazzo si stava detergendo il sudore con un asciugamano passatogli dalla manager.

«Non ti scaldare, Nitta ha appena finito. Capitano, ti presento la mia amica Madoka Shimokawa.» gli disse, non riuscendo a trattenere una nota ironica.

Shun le sorrise «Grazie per il "fanatico", a dire la verità non sei l'unica che me lo dice.»

Madoka abbozzò un sorriso, imbarazzata suo malgrado.

«Credevamo fossi in ritiro con la Nazionale.» riuscì a rispondere, ricordandosi dell'ultima conversazione con Kumi.

«Lo ero, ma purtroppo il signor Mikami ha un'appendicite ed è stato sostituito da un nuovo mister, che mi ha momentaneamente escluso dalla squadra. Ha mandato via me, Misaki, Hyuga, i gemelli Tachibana, Soda e Jito.»

«Che? Anche Misaki e Hyuga?» chiese sgranando gli occhi, sconcertata. La rabbia ormai era svanita e anzi, provava stranamente un certo interesse nell'ascoltare il giovane attaccante.

Shun assentì «Dice che il nostro modo di giocare non va bene per la sua idea di calcio e che se non colmeremo le nostre lacune non saremo dei giocatori degni di partecipare al World Youth. Io, per esempio, mi sto allenando tutti i giorni per imparare a calciare anche con il sinistro. È faticoso, ma devo riuscirci.»

Kumi lo guardò dapprima allibita al pari di Madoka da ciò che aveva appena ascoltato, poi assunse un'aria perplessa «Non ce la farai mai da solo. Inoltre stai trascurando la squadra e questo è imperdonabile, soprattutto quando si è il capitano! Devi almeno farti aiutare dai ragazzi. Il calcio è un gioco di squadra!»

Così, a partire dal giorno seguente, Shun tornò ad allenarsi con i suoi compagni, che effettuavano, uno dopo l'altro, dei passaggi affinché lui colpisse il pallone con il piede sinistro, oltre a prendere parte agli allenamenti regolari. Perché aveva deciso di dare tutto sé stesso anche per la vittoria del torneo della prefettura.

Nitta … aveva degli occhi molto belli, non solo per il colore ma anche per il taglio.

Era carino … un ragazzo molto determinato, ma anche gentile. Quando la vedeva e la salutava, si sentiva invasa da un'emozione inspiegabile.

Da quel giorno cercò di andare spesso al campo di calcio, per vederlo allenarsi e giocare. Era un bravo capitano, rispettato e stimato dai suoi compagni. E sperava sempre che si voltasse, almeno qualche volta, verso di lei, anche se incrociare gli occhi con i suoi la faceva sempre sentire accaldata dal collo in su.

Kumi aveva notato questo suo inusuale comportamento e non aveva tardato a capire chi ne fosse la causa.

E pochi giorni dopo ebbe la conferma definitiva ai suoi sospetti.

 

Il torneo della prefettura era ormai imminente. La squadra stava svolgendo gli ultimi allenamenti prima della partenza per il ritiro e Kumi aveva da poco terminato gli ultimi preparativi.

«Ehi, ormai ci siamo, eh?» disse Madoka, avvicinandosi.

«Già.» disse l'amica, passandosi il dorso di una mano sulla fronte sudata.

«Mister, qui è tutto pronto. Rimangono soltanto le divise da lavare e stirare.» annunciò poi, rivolta al signor Furuoya.

Quest'ultimo si voltò a guardarla, distogliendo per un attimo l'attenzione dalla partitella in cui erano impegnati i giocatori «Benissimo, Sugimoto. Hai svolto un gran lavoro, come al solito.»

«La ringrazio mister, ormai ci sono abituata.» si schermì, con un'alzata di spalle.

L'allenatore le rivolse uno sguardo d'approvazione, poi continuò a osservare i movimenti dei giocatori sul campo.

«A proposito» ricominciò poco dopo «volevo chiederti se hai bisogno di qualcuno che venga ad aiutarti. Sei l'unica manager e ti dovrai occupare della squadra per una settimana, non vorrei fosse troppo faticoso per te.»

La ragazza scosse la testa «Non si preoccupi signor Furuoya, l'ho già fatto, non ricorda? E grazie alle senpai Nakazawa e Nishimoto sono diventata una brava manager.»

«Certo, ma … un'altra ragazza, oltre ad aiutarti, ti farebbe compagnia.»

Prima che la manager potesse aprire bocca, intervenne prontamente Madoka «Signor Furuoya, se non ha nulla in contrario, vengo io insieme a Kumi.»

L'allenatore le sorrise con gratitudine «Per me non ci sono problemi, Shimokawa, ma ... tu non sei impegnata con la squadra di pallavolo?»

«Due settimane fa mi sono slogata un polso e non sono ancora guarita completamente.» spiegò, mostrandogli la parte dell'arto ancora fasciata.

«Bene, allora se per Sugimoto non ci sono problemi, ma immagino di no …» disse, guardando verso la ragazza che scosse la testa con un sorriso « … allora sei dei nostri.»

 

«E così il "fanatico" ha fatto colpo su di te.» la stuzzicò più tardi Kumi, mentre chiudeva l'armadietto dopo essersi cambiata.

«Lo faccio per riguardo verso una cara amica.» ribatté Madoka, un po' rigida «Avrai molto lavoro da fare tutta sola, pensavo fossi contenta di avere qualcuno che ti aiutasse.»

«Certo che sono contenta, a maggior ragione se quella persona sei tu. Il punto è che a te non è mai importato nulla di calcio, fino a poche settimane fa. Quindi il motivo non può essere che uno: ti sei presa una cotta per un giocatore della squadra. E credo anche di sapere chi è.» le ultime parole vennero scandite incrociando le mani dietro la schiena e sporgendosi con il viso verso di lei, con un'espressione maliziosa.

Madoka spalancò gli occhi, poi sospirò e li alzò al cielo «E va bene, lo ammetto: Nitta mi piace. Però lo faccio anche per te.» ribadì.

«D'accordo, ti ringrazio. Allora oltre che a me, fai un favore anche a te stessa: dichiarati. Lui è molto concentrato sul calcio, quindi sei tu che devi farti notare.»

Madoka annuì, abbozzando un sorriso. Si chiedeva se avrebbe trovato il coraggio. Ma in fondo, Kumi aveva confessato i suoi sentimenti a Tsubasa nonostante avesse già compreso di non avere possibilità con lui.

Lei, invece, qualche chance l'aveva: non c'erano prove che Nitta fosse già impegnato o che dividesse una speciale intesa con un'altra ragazza. Se così fosse stato, i suoi compagni di squadra non avrebbero saputo tenere le loro lingue a freno, specialmente Urabe, Ishizaki o Taki.

 

Sdraiata nel suo futon nella stanza dell'albergo, stava fissando il soffitto in penombra da almeno un'ora.

Kumi si era già addormentata. Avevano ragione lei e il signor Furuoya: il lavoro di manager era davvero molto impegnativo e faceva spendere molte energie.

Andò accanto alla finestra: il cielo era sereno, punteggiato da tante stelle. Un'ombra si muoveva proprio nella zona sotto la loro stanza. Evidentemente qualcun altro faticava ad addormentarsi … forse era il momento giusto per mantenere una certa promessa fatta prima della partenza.

 

 

Elena si avvicinò all'appendiabiti collocato accanto alla porta d'ingresso di casa Ishizaki e prese il suo giubbotto.

Da tanto tempo non passava una serata così piacevole, in compagnia di ragazzi che formavano un gruppo pervaso da un forte spirito cameratesco e l’avevano fatta sentire subito a suo agio. Aveva conosciuto persone interessanti e simpatiche, chiacchierato e riso come se fosse stata tra vecchi amici. Era successo molte volte in passato, ma da mesi non ci era più abituata, così aveva cominciato ad avvertire un forte mal di testa e a sentire il bisogno di una boccata d’ossigeno.

Uscì sulla ringhiera, scese gli scalini e si ritrovò nel piccolo cortile. Era immerso nell’oscurità, a eccezione della pallida luce della luna. Vide un’ombra muoversi e voltarsi a braccia incrociate. Trasalì.

Era Wakabayashi.

Espirò, riprendendosi dallo spavento. Lui la riconobbe subito, perché era più alta rispetto alle altre ragazze presenti e indossava un giubbotto bianco.

«Ti ho spaventata. Scusami.» disse il portiere, avvicinandosi.

Elena scosse la testa «Non fa niente. Credevo non ci fosse nessuno.» poi riprese, per scacciare il rischio di un silenzio imbarazzante «Avevo voglia di respirare un po’ d’aria. Mi piace l’aria d’inverno.»

Genzo sorrise «Anche a me.»

«Sarà per via del nostro legame con la Germania.»

«È possibile.» convenne, assentendo di rimando. Rimasero così, a poca distanza, quasi affiancati.

«Schdād» commentò Elena a bassa voce, socchiudendo gli occhi. Genzo voltò la testa di scatto. «Mh?»

«Schdād.» ripeté «È rilassante.»

«Non è tedesco.»

Elena voltò il viso verso di lui «È bavarese.»

«Ammetto che non ci sarei mai arrivato.»

«Se la scorsa estate avessi accettato l'offerta del Bayern Monaco, forse sì.» si lasciò sfuggire la ragazza.

Lui non replicò. Una leggera smorfia fu l’unica reazione che riuscì a esternare. Non sapeva quale sentimento gli avesse suscitato quell'affermazione. Rimpianto? Amarezza? Quella partita ….

Elena non vi aveva assistito, ma ne aveva visto alcune immagini in un notiziario sportivo e la rocambolesca azione del gol segnato da Schneider nel finale era stata proposta più volte, da ogni angolazione, corredata da un’inquadratura tanto ravvicinata e prolungata, quanto impietosa, sul volto sudato e impietrito del SGGK.

Lo guardò dispiaciuta e contrasse le labbra: forse aveva parlato troppo.

Quella frase aveva innescato una riflessione nella mente di Genzo: se fosse passato ai bavaresi l’estate precedente oppure nel corso della sessione invernale del calciomercato, ora sarebbe stato in lizza per il Meisterschale e per la Champions League, in una squadra che stava dominando la Bundesliga, si era classificata al primo posto nella fase a gironi della massima competizione europea, praticava un calcio di grande livello e giocava sempre per vincere. Una situazione stimolante che gli avrebbe portato comunque la convocazione alle Olimpiadi.

No: tornare in Giappone, comunque sarebbe andata, era stata la scelta giusta per il suo futuro calcistico e anche per quello personale.

«Forse non dovevo nominare il Bayern. Scusami.» la voce dispiaciuta di Elena lo distolse dai suoi pensieri. Lei non aveva visto il leggero sorriso che gli aveva disteso le labbra.

Genzo scosse la testa «No, non ti preoccupare. Anzi, sono ancora più convinto di aver fatto bene a tornare qui e a giocarmi la qualificazione alle Olimpiadi insieme ai miei compagni.» le assicurò, sorprendendola.

«E ora sarà meglio rientrare, prima che Ishizaki rischi una denuncia per schiamazzi notturni.»

Elena annuì, divertita dall’immagine di uno sbraitante Ishizaki che chiedeva loro dove fossero finiti e se per caso non gli piaceva la festa, e soprattutto sollevata dal capire che non aveva messo Wakabayashi di cattivo umore.

 

 

 

 ***Note***

 

 

Madoka Shimokawa è un personaggio creato da Takahashi, anche se ha una piccola particina e ho inventato il suo nome e cognome di sana pianta. Fa parte del gruppetto delle amiche di Kumi (compaiono soltanto nel manga). È quella con i capelli neri a caschetto, assomiglia un po' a Sanae e, come si vede in queste vignette, è l'unica che, anche dopo essersi ripresa dallo shock di aver sentito Kumi proclamare di voler diventare la fidanzata di Tsubasa, ha una faccia quantomeno perplessa; poi però, decide di sostenerla. Da quel poco che ho potuto vedere e interpretare di lei, credo abbia un legame un po' più stretto rispetto alle altre due, e sia la più adatta alle caratteristiche che ho voluto dare alla migliore amica di Kumi e sorella maggiore di Arimi.

 

Grammar school: nel sistema scolastico britannico, istituto frequentato da allievi dagli undici ai diciotto anni, cui si accede dopo esami molto selettivi. Alcuni istituti sono maschili o femminili, altri a classi miste. La Latymer grammar school, a classi miste, è tra i più rinomati del Regno Unito e si trova nella zona nord di Londra.

Gymnasium: nel sistema scolastico tedesco, rappresenta la forma di istruzione più elevata e dura nove anni. Al termine del ciclo di studi, si sostiene l'Abitur, il corrispettivo del nostro esame di Stato, per conseguire l'Allgemeine Hochschulreife, il permesso di accedere all'università. Il Gymnasium Heidberg si trova ad Amburgo e vi si sono diplomati numerosi atleti della polisportiva HSV (acronimo di Hamburger Sport-Verein).

Kohai: termine giapponese con cui si indicano i compagni più giovani; contrapposto a senpai.

In Giappone, l’anno scolastico inizia ad aprile e finisce ai primi di marzo.

Seijo Ishii: catena di supermercati in cui si trovano in vendita i più famosi prodotti della grande distribuzione italiana e internazionale. Pare che i giapponesi vadano matti per tutto ciò che porta l'etichetta limited edition. :-)

"Uedake no kyōdai" è un titolo che fa il verso a quello di un vecchio film del grande regista giapponese Yasujiro Ozu, "Todake no kyodai" (1941) che in italiano è stato tradotto con il titolo "Fratelli e sorelle della famiglia Toda". Quindi il titolo del manga di Kumi sarebbe, se non ho commesso errori di grammatica giapponese, "Fratelli e sorelle della famiglia Ueda".

 

In tedesco, "rilassante" si traduce con la parola "ruhig"

 

Ringrazio susieprice per le sue recensioni e tutti coloro che stanno leggendo e seguendo questa storia.

Sandie


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Capitolo 5
*** Capitolo V - Inizio di primavera ***


Untitled

Capitolo V

 

Inizio di primavera

 

 

 

 

Il signor Kuroda, l'autista della famiglia Wakabayashi, fermò l'auto davanti al New National Theatre di Tokyo in perfetto orario. Genzo lo ringraziò e scese.

Osservò l'insegna luminosa sulla facciata dello stabile, che indicava titolo e orario dello spettacolo teatrale che si sarebbe rappresentato quella sera. Si prevedeva un'affluenza notevole, vista la quantità di persone presenti, tra quelle che stavano entrando, quelle raccolte davanti all'entrata, e quelle che arrivavano.

Individuò Asami venirgli incontro, vestita con un lungo ed elegante cappotto bianco. Tra le mani, protette da un paio di guanti dello stesso colore con decorazioni in argento, teneva una pochette turchese. Si sorrisero.

La sera stessa della cena di beneficenza al Ritz Carlton, lo aveva invitato a vedere una rappresentazione di "Yasha Ga Ike", una delle pièce più popolari e che entrambi conoscevano bene e amavano.

«Andiamo?» esordì lei, accostandoglisi.

Genzo annuì e le offrì il braccio. Si avviarono verso l'entrata dello stabile.

Asami era un’assidua frequentatrice del New National Theatre, fin da bambina. Sua madre Maeko amava molto il teatro e l'aveva sempre portata con sé, trasmettendole la sua passione; inoltre, era una grande appassionata di musica classica e le aveva fatto studiare il pianoforte con uno dei migliori insegnanti privati, diventando, a detta di molti, una buona suonatrice.

Neppure a Genzo dispiaceva assistere a spettacoli teatrali. I suoi genitori erano entrambi grandi amanti della cultura e avevano contribuito, attraverso la Japan Foundation e la loro fondazione, a organizzare e promuovere numerose iniziative.

Quella sera poi, quello svago gli era particolarmente gradito, visto che veniva da un confronto con suo padre nella sede della Wakabayashi Corporation, dove si erano incontrati per parlare del pacchetto azionario che gli aveva affidato alcuni mesi prima, quando si trovava ancora in Germania. Come aveva fatto a suo tempo con Hiroji e Keisuke, anche Genzo si era ritrovato, una volta preso il diploma, a doversi occupare di una piccola parte dell'impero economico della famiglia.

Perché non poteva confidare solamente nel calcio per il suo futuro ed era giusto che iniziasse ad assumersi parte delle responsabilità che di certo gli sarebbero toccate negli anni successivi.

Alcuni avventori li riconobbero e si inchinarono in segno di saluto, guardandoli con ammirazione.

Lasciarono i loro cappotti a un'addetta e andarono a sedersi in una delle prime file.

Genzo guardò Asami. Indossava un abito bianco lungo fino alle caviglie, con uno spacco che iniziava poco sopra il ginocchio sinistro. Le sottili spalline finivano in una lieve scollatura a punta.

La ragazza si voltò verso di lui e gli sorrise «Sta per cominciare.» annunciò a bassa voce.

Splendida e impeccabile, come sempre gli era apparsa tutte le volte che si erano incontrati.

 

Lo spettacolo era coinvolgente e ben rappresentato: dalle scenografie alla recitazione, dal canto alle coreografie, tutto era curato nei minimi dettagli. Meritava i giudizi positivi degli spettatori e dei critici. A entrambi riportò in mente un ricordo d'infanzia legato alla leggenda della principessa che avrebbe rinunciato a uccidere gli abitanti del villaggio in cui viveva in cambio dell'anima di una ragazza giovane e bellissima.

«Ti ricordi? Quando l'abbiamo vista la prima volta eravamo con le nostre famiglie.»

«Sì. Hitomi raccontava spesso questa storia a me e ai miei fratelli e così abbiamo tormentato i nostri genitori perché ci portassero a vedere lo spettacolo.» replicò Genzo, divertito.

 

«È stata una bella serata.» commentò Asami, dopo che furono usciti dal ristorante in cui avevano cenato dopo aver assistito alla rappresentazione «Sono stata bene.»

I suoi occhi brillavano.

Genzo annuì «Anch’io» rispose, guardandola con un sorriso.

Avevano chiacchierato piacevolmente tutta la sera, e si era spesso soffermato a osservare con ammirazione il bellissimo volto dai lineamenti delicati e i gesti eleganti e signorili dell'amica, pensando di avere di fronte a sé quanto di meglio il Giappone poteva offrire, quanto a bellezza e femminilità.

La accompagnò, con una mano che le sfiorava la schiena, verso la berlina bianca di proprietà degli Ujimori.

L'autista aveva già aperto la portiera posteriore per permettere ad Asami di salire. Alcuni passanti, perlopiù coppie o gruppi di amici, uomini d'affari e impiegati di rientro dal lavoro, camminavano sui marciapiedi e ogni tanto transitava qualche auto.

La ragazza sembrava esitare prima di entrare nella sua vettura. Era come se mancasse qualcosa. Non voleva salutare Genzo senza fargli capire cosa significasse, per lei, poter passare del tempo insieme, avere finalmente l'opportunità di approfondire quel rapporto che pochi anni prima era sembrato in procinto di diventare qualcosa di più intimo e la cui crescita era stata interrotta dal corso e dagli impegni delle rispettive vite.

Forse stava accelerando troppo i tempi? In fondo, non erano certo al primo incontro. Si conoscevano da anni, da quando erano bambini. Ed era convinta che qualcosa fosse rimasto in sospeso tra loro quattro anni prima, dopo alcune settimane passate a stretto contatto ad Amburgo, dove lei si era recata con alcune compagne per prendere parte a un torneo internazionale di tennis con le migliori allieve selezionate dai club scolastici. Erano, all’epoca, entrambi diciassettenni.

Lei, quando non era impegnata con la preparazione e lo svolgimento dei suoi incontri, andava a vedere gli allenamenti dell'Amburgo per poi aspettarlo al cancello d’uscita e passare insieme il tempo libero a disposizione. Genzo aveva anche assistito al suo match finale, conclusosi con un’onorevole sconfitta contro una statunitense che si era rivelata di un livello superiore rispetto a tutte le altre partecipanti.

Si cercavano, si frequentavano. Erano attratti l’uno dall’altra. Ma quel periodo magico era durato poco: la ragazza era dovuta ripartire per Tokyo e lui, ormai integratosi nella realtà europea, non se l'era sentita di iniziare un rapporto che richiedeva una stabilità che la distanza non avrebbe reso possibile.

 

Non era il caso di portare avanti schermaglie classiche di chi si è appena conosciuto. Inoltre, conosceva Genzo da troppo tempo per non sapere che difficilmente avrebbe preso l'iniziativa lì, in un luogo pubblico, una zona spesso affollata e trafficata. I lunghi anni vissuti in Germania non avevano scalfito la sua riservatezza.

Si alzò sulle punte, e posò un bacio leggero sulle sue labbra. Gli dedicò un ultimo, sorridente sguardo prima di entrare nell'auto, la cui portiera posteriore era ancora solertemente tenuta aperta dall'autista che, dopo aver assistito alla scena con stupore, non si trattenne dal rivolgere a Genzo un sorriso eloquente mentre lo salutava con un cenno del capo, prima di mettersi al posto di guida.

Genzo sospirò. Si sentiva preso alla sprovvista, come quando il pallone cambiava improvvisamente traiettoria, per l'effetto dato dall'autore del tiro e l’azione prendeva una piega diversa da quella prevista.

Doveva ammettere che la sensazione che stava provando in quel momento non era certo di disappunto, ma Asami lo aveva comunque disorientato.

Mise le mani nelle tasche della giacca e si avviò verso l'auto.

 

I dati riportati sui fogli del bilancio illustravano la situazione di un’azienda che aveva conseguito risultati piuttosto deludenti, specie in alcuni settori in cui era stata nettamente superata dalla concorrenza di altre compagnie.

«Credo che per uscire da questa crisi e iniziare una fase di crescita, dovremo diversificare la produzione, allargandola ad altri campi. Quindi fusioni e accordi di partnership.» commentò Hiroji, seduto alla scrivania del suo ufficio nella sede centrale della Wakabayashi Electrics, alzando gli occhi dai fogli che teneva tra le mani.

«Per farlo però, occorre investire. Serve molto denaro, e noi non ne abbiamo tantissimo da destinare a queste operazioni.» obiettò Hideyoshi Akajima, il direttore finanziario della Wakabayashi Electrics, suo braccio destro, seduto sulla poltrona dall'altra parte della scrivania. Era un uomo magro, di media altezza, con i capelli grigi e dall’aspetto compito. Aveva la stessa età di suo padre e aveva condiviso con lui gran parte del suo percorso lavorativo. Il settore dei conti era di sua competenza da più di vent'anni ed era stato stretto collaboratore prima di Heizo e poi di Yasuhiro Wakabayashi: con quest'ultimo era nata una solida amicizia. Quanto a Heizo, lo aveva considerato come un padre: era stato lui ad assumerlo e ad affidargli poi la gestione dei conti dell'azienda, incarico che aveva sempre svolto con zelo e massima correttezza.

Aveva conosciuto Hiroji quando era ancora molto piccolo e lo aveva incontrato molte volte finché aveva abitato in Giappone, ma all’epoca era un ragazzo che si divideva tra lo studio e il club di baseball e osservava il lavoro del padre nei momenti liberi. Dopo la sua partenza per Londra, lo aveva visto raramente e perlopiù in periodi di vacanza. In quell'ancora breve periodo di collaborazione aveva notato la propensione verso un deciso cambio di rotta e il ruolo di Akajima era proprio quello di metterlo in guardia.

Hiroji abbassò la testa in segno di assenso. «Lo so bene. Dovremo abbandonare i settori non più redditizi, vendere o accorpare alcune filiali, chiudere stabilimenti, se necessario.» concluse la frase con un impercettibile abbassamento di voce, come se gli costasse anche solo pensare a quell'eventualità.

«Se potessimo evitare di licenziare dipendenti …» replicò Akajima.

«Farò di tutto affinché non accada.»

Akajima rimase in silenzio per un attimo, meditabondo, indeciso se esternare o meno le sue obiezioni. Una delle prerogative della Wakabayashi Electrics era l'assoluta trasparenza e la fiducia reciproca, ed era giusto mettere al corrente il nuovo amministratore delegato dei suoi dubbi. Era giovane, non aveva ancora compiuto trent'anni e aveva trascorso gli ultimi dieci della sua vita quasi interamente all'estero. Anche se era sicuramente sempre stato in stretto contatto con il padre ed era informato sull'andamento degli affari, non aveva vissuto la realtà all’interno, ogni giorno.

«Lei ha in mente un vero e proprio sconvolgimento, signor Wakabayashi. Non credo che rivoluzionare tutto sia la soluzione; a mio parere rischieremmo troppo. Del resto l'azienda attraversa sì un momento non positivo, ma non è sull'orlo del fallimento: non dobbiamo distruggere la struttura esistente.»

Hiroji socchiuse gli occhi e strinse le labbra. Come immaginava, era una sfida difficile quella che stava affrontando: conciliare la necessità di rinnovamento con il rispetto per la storia e la tradizione.

Quando li riaprì, fissò uno sguardo determinato sul direttore finanziario. «Farò una serie di viaggi in tutto il Giappone, per vedere la situazione con i miei occhi. Nel frattempo, mi terrà aggiornato e mi riferirà ogni novità.»

Akajima annuì, confortato da quella saggia risoluzione. «Sarà fatto.»

 

Il giovane amministratore delegato uscì dal suo ufficio e andò nel piazzale antistante alla sede principale della Wakabayashi Electrics. Prese un pacchetto di sigarette prelevate da un distributore automatico, ne estrasse una, l'accese e aspirò una lunga boccata.

Guardò la larga nuvola di fumo che usciva dalla sua bocca e aleggiava perdendosi nell'aria, dissolvendosi nel cielo sgombro, cercando di associarla alla tensione in procinto di abbandonarlo. Quell’immagine lo aveva confortato spesso in passato, ma non era mai stata così illusoria come in quel periodo. Pensò all'apprensione che aveva, a suo tempo, preceduto i suoi esami universitari o i suoi primi incarichi nell'azienda. Sciocchezze, al confronto della vera e propria missione in cui si era impegnato. Non percepiva alcun rilassamento nei suoi muscoli, la sua inquietudine sembrava anzi crescere.

«Magari è la volta buona che smetto.» pensò, sorridendo mestamente. Ma tirò una nuova boccata.

Se Annie lo avesse visto in quel momento, gli avrebbe dato una lavata di capo memorabile: lei aveva sempre odiato il fumo e non perdeva occasione per persuaderlo ad abbandonare le sigarette. Lui, alla fine, aveva optato per un compromesso: non avrebbe più fumato quando era con lei, i famigliari e gli amici, ma avrebbe continuato nei luoghi in cui né lei né gli altri avrebbero potuto vederlo. Finora aveva funzionato.

Solo Yasuhiro, anch’egli con un passato da fumatore accanito, era al corrente del suo segreto. Lo aveva ammonito di non farsi mai beccare da sua moglie, che all'amarezza di vederlo ancora con una sigaretta in mano, avrebbe aggiunto la rabbia di essersi sentita raccontare una bugia per tanto tempo.

Si sentiva in colpa: credeva di aver ormai imparato a gestire la tensione e le preoccupazioni, almeno quel tanto che bastava per non avvertire il bisogno di recarsi a un distributore automatico e prelevare un pacchetto. Aveva persino provato con i chewing-gum, ma non avevano sortito lo stesso effetto.

L'incarico di amministratore delegato gli aveva dato un cumulo di responsabilità: ovviamente lo sapeva prima di accettare, del resto aveva avuto l'esempio di suo padre sotto gli occhi per anni, ma le sue precedenti mansioni non lo avevano preparato a sufficienza. O era lui a non essere ancora pronto o, peggio, a non essere la persona giusta? Suo padre gli aveva garantito la massima disponibilità a dargli consigli, ma non poteva ricorrere a lui ogni volta che aveva un dubbio. E nelle ultime settimane era stato tentato fin troppe volte di raggiungerlo nella residenza di Tokyo o nel suo ufficio alla Wakabayashi Corporation, la holding della famiglia.

Si stava ponendo troppe domande, e a nessuna di queste poteva dare una risposta immediata.

Come amavano dire Mikami e Genzo, ogni partita andava affrontata per volta, e così valeva per tutte le questioni della vita. Avrebbe compiuto la serie di viaggi e di visite per formarsi un'idea personale, poi ne avrebbe discusso con suo padre, Akajima e gli altri membri del consiglio d'amministrazione.

I suoi pensieri vennero interrotti dallo squillo del cellulare, che estrasse dalla tasca della giacca nera.

Annie.

Spense il mozzicone e lo gettò nel posacenere, prima di accettare la chiamata.

«Hiroji! Allora riesci a liberarti prima come mi hai promesso?» chiese la sua voce squillante e vivace all’altro lato della linea.

Sospirò e alzò gli occhi al cielo, divertito. Annie temeva sempre che il suo lavoro, non privo di imprevisti, lo costringesse a trattenersi a Tokyo. «Certo. Non prometto mai nulla se non sono convinto di mantenerlo, lo sai.»

Immaginò le labbra della moglie distendersi in un sorriso «Ti aspettiamo, ricordati che dobbiamo mettere le bambole sulla piattaforma. Ken ha promesso che ci aiuterà!»

Hiroji sorrise. Come al solito, sua moglie si entusiasmava ogni volta che scopriva nuove usanze e soprattutto il loro significato: da quell’anno, anche nella loro famiglia si sarebbe festeggiato lo Hina Matsuri. L’usanza prevedeva che fossero le bambine a disporre le bamboline, ma Aiko era ancora troppo piccola per poterlo fare e Annie aveva deciso che aveva comunque diritto anche lei alla sua corte imperiale in miniatura. E gli aveva annunciato che lei e Hitomi avrebbero preparato anche lo hishimochi, il dolce da lui mai assaggiato per il semplice fatto che in casa Wakabayashi non c’erano bambine.

Quella sensazione che tanto aveva cercato si fece finalmente strada.

Già, persino preparare una corte imperiale di bamboline e, soprattutto, vedere lo sguardo entusiasta di Annie, Aiko e Kenichi e quello intenerito di Hitomi poteva aiutarlo a cominciare il tour de force con la fiducia e l’ottimismo necessari.

 

«Bambine, ora basta giocare, e venite a darmi una mano.» gridò Elena mentre faceva il suo ingresso nell’area di competenza, richiamando il gruppetto che stava giocando a rincorrersi e a tirarsi addosso dei cubetti di spugna colorati.

Facendosi aiutare dalle sue piccole allieve, dispose gli attrezzi facilitanti preparati per l'insegnamento di alcuni movimenti da eseguire alla trave.

Alla fine arrivò, puntuale, anche Arimi, che la salutò con un inchino ma senza accennare nemmeno una parvenza di sorriso.

Elena non ne fu più di tanto contrariata. Sapeva di doverla avvicinare un poco alla volta, quindi si limitò a ricambiare il saluto e a invitarla a disporsi in fila.

Non aveva senso farle seguire lo stesso programma delle bambine, così, dopo gli esercizi di riscaldamento, la chiamò accanto a sé e le chiese di mostrare come si facevano gli esercizi che stava spiegando. Arimi in un primo momento accettò abbastanza di buon grado il ruolo di assistente assegnatole da Elena e riuscì a collaborare, ma poi, rendendosi conto che in realtà non faceva altro che ripetere movimenti basilari senza fare alcun progresso personale, decise di ribellarsi.

«Mi sono stancata. Io non vengo qui per far vedere cose imparate dieci anni fa.» sbottò, scendendo dall'asse d'equilibrio. «Non ho bisogno di queste cose, e lei non dovrebbe tenermi qui a fare queste stupidaggini!» sbraitò indicando l'attrezzo.

Elena fu momentaneamente sorpresa da quella che sembrava una reazione improvvisa, ma non si fece impressionare. «Secondo la signorina Shiroyama, sì.» replicò, con calma «E non ti richiamerà con sé finché non le avrai dimostrato di aver capito come comportarti. Alla prima lezione con il gruppo ha visto che non sei pronta per lavorare con le tue compagne e ti ha mandata da me per recuperare la condizione.»

«Io sono in ottima forma, e molto più in gamba di tutte loro.» ribatté impertinente, alzando il mento e puntandosi le mani sui fianchi.

Salì poi sulla trave posizionata lì accanto, e improvvisò un esercizio.

Era bravissima. Elena sapeva riconoscere con cognizione di causa le atlete più dotate e Arimi era molto promettente.

Le bambine si incantarono a guardarla, ammirate. Guardavano ciò che sognavano di essere quando avrebbero imparato a fare elementi più difficili. Il modo in cui Arimi riusciva a eseguire una ruota, un'enjambée, tre rovesciate all'indietro di fila mantenendosi in equilibrio sui soli dieci centimetri di larghezza dell'asse in legno, attiravano su di lei sguardi sognanti e accesi d'entusiasmo.

Ma avevano una lezione da seguire. «Ora basta, Arimi. O scendi e vieni ad aiutarmi a fare lezione oppure puoi andartene.» disse risoluta.

La ragazzina proseguì il suo esercizio, senza darle retta. Trasse un profondo respiro e prese una rincorsa per poi saltare giù dalla trave con un salto in avanti teso con doppio avvitamento, atterrando sul tappetino senza sbavature. Con uno sguardo più ostile che di sfida alzò le braccia nel classico gesto di saluto delle ginnaste al pubblico e ai giudici di gara, e si diresse poi a passo rapido verso gli spogliatoi.

Elena la guardò andare via e si mise le mani sui fianchi, stringendo le labbra.

Mentre se ne andava così sicura di sé, Arimi mostrava di non aver compreso il motivo per cui era stata esclusa dal gruppo.

Le altre allieve erano migliorate molto durante il suo periodo di assenza, perché erano libere dai condizionamenti che la compagna suscitava in loro. Era bravissima e lo avevano sempre riconosciuto: ma era anche arrogante, altezzosa e fin troppo consapevole delle sue straordinarie qualità, che la portavano a prevaricare sulle altre e a considerarle inferiori.

Senza di lei, le altre ragazze si sentivano più tranquille, più serene, avevano ritrovato una componente fondamentale come l'autostima e quindi la fiducia nelle proprie capacità. E il gruppo era diventato più coeso.

In un clima di maggiore serenità, avevano fatto tutte dei notevoli progressi individuali e avevano formato un gruppo affiatato.

Eppure … Arimi, arrogante o no, era sicuramente la ginnasta più talentuosa della scuola, e Mayuko voleva ottenere un ottimo risultato ai campionati regionali juniores: voleva che la Shiroyama Gymnastics Club fosse la scuola rivelazione della kermesse, e questo, nonostante i miglioramenti delle altre allieve, sarebbe stato possibile solo se Arimi avesse fatto parte del gruppo. Se solo avesse mostrato desiderio di integrarvisi ….

Al momento, sembrava una missione proibitiva.

Alla fine, lasciò da parte la questione e riprese la lezione con le bambine, ripromettendosi di ripensarci una volta tornata a casa, con la mente più distaccata e uno stato d'animo più rilassato.

Arimi sarebbe comunque tornata nei giorni seguenti, perché aveva compreso che stava cercando di spingerla a suggerire alla Shiroyama di reinserirla nel suo gruppo, cosa che non avrebbe mai potuto fare prima di raggiungere l'obiettivo di renderla più umile e meno egoista.

 

 «Finalmente si comincia a fare sul serio!» commentò Ishizaki cercando di soffocare uno sbadiglio, riuscendoci solamente in parte. Erano le sette e mezza del mattino di una fresca e soleggiata giornata di inizio marzo. Il giorno del primo raduno della Nazionale Under 23 in vista delle partite di qualificazione alle Olimpiadi era arrivato.

I ragazzi erano tutti riuniti sul binario 7 della stazione della città, in attesa del treno che li avrebbe portati a Naraha, la città della prefettura di Fukushima in cui si trovava il J-Village, la sede del ritiro della Nazionale giapponese. I primi ad arrivare erano stati i ragazzi del quartetto ex Shutetsu, poi alla spicciolata era arrivato il resto del gruppo, insieme a Yukari, Kumi ed Elena. Nitta scrutò queste ultime per vedere se insieme a loro era giunta anche un’altra ragazza di sua conoscenza, ma il cenno di diniego di Kumi pose immediata fine alle sue speranze, almeno per quel giorno.

Persone che attendevano le rispettive partenze camminavano lungo i marciapiedi dei binari, perlopiù con passo lento e l'aria assonnata, altri aspettavano seduti sulle panche, ingannando il tempo chiacchierando o giocando con il cellulare, ascoltando musica dagli auricolari oppure leggendo un quotidiano, una rivista, un libro.

Soltanto Wakabayashi mancava ancora all'appello.

«Eppure ci aveva assicurato che sarebbe partito insieme a noi.» ricordò Morisaki.

«Magari, da perfetto snob qual è, si farà portare sulla sua Lexus fiammante con tanto di autista.» commentò Ryo.

«A quanto pare, da perfetto snob quale sono, ho scelto di abbassarmi a prendere il treno come fate voi comuni mortali. E sono persino venuto a piedi.» l'inconfondibile voce pacata, resa tagliente dal tono sarcastico del diretto interessato zittì il difensore e fece ridacchiare gli altri ragazzi. Genzo, il giaccone sopra la tuta sportiva e il borsone saldamente retto nella mano destra, raggiunse il gruppo con un'espressione che era lo specchio perfetto delle parole appena pronunciate, ma con un lampo di divertimento negli occhi. In fondo, quello era il modo di comunicare abituale tra lui e il difensore dello Jubilo Iwata, da che si conoscevano.

«Ma dai Ishizaki, ti pare che uno che inizia le sue giornate facendo una corsa come il capitano possa farsi portare in macchina?» lo punzecchiò Kisugi.

«Ehi, a quanto pare sono arrivato in tempo!» un’allegra e stentorea voce maschile spostò l’attenzione su di sé. Un uomo alto, dal fisico asciutto e atletico e i capelli scuri lisci e leggermente lunghi, si stava dirigendo verso il gruppo con le mani infilate nelle tasche della larga felpa bianca che indossava sopra i jeans.

«Guardate chi c'è! Gon Nakayama!» esclamò Ishizaki alzando un braccio in direzione dell'attaccante dello Jubilo Iwata.

«Ciao ragazzi! Sono venuto a farvi un "in bocca al lupo" per le vostre partite. Mi raccomando, dovete farcela.» disse, fermandosi a pochi centimetri dai suoi compagni di squadra Misaki, Urabe e Ishizaki.

«Ci puoi contare! Vedrai, useremo tutto ciò che tu, il mister e gli altri compagni ci avete insegnato!» affermò l'ex capitano della Ootomo battendosi un pugno all’altezza del petto «Ma anche voi dovete difendere il titolo.»

Nakayama annuì strizzando un occhio, poi si rivolse a Taro «Peccato non averti per il campionato, Misaki. Per Ishizaki e Urabe ce ne faremo una ragione» disse lanciando un'occhiata scherzosamente beffarda ai due difensori «ma tu ci hai abituati troppo bene con i tuoi passaggi e la tua classe. Sarà dura sostituirti.»

Il centrocampista scosse la testa «Possiamo farcela. Anche per questo stage abbiamo una rosa molto forte e i nuovi acquisti sono molto validi.» replicò «Attento però a non criticare troppo i miei futuri compagni di stanza, altrimenti si offendono.» disse con un sorriso.

«Compagni di stanza?» chiese, sgranando gli occhi e sporgendo il viso leggermente in avanti «Accidenti Misaki, neanche in Nazionale riesci a liberarti di quei due?»

«Nakayama potevi anche restartene a Iwata se sei venuto solo per fare queste battute da quattro soldi!» ribatté uno stizzito Ishizaki facendo ridere tutti i presenti, compreso il suo interlocutore.

«Comunque non preoccuparti, Misaki farà un ottimo torneo, non deluderà i tifosi e non farà una brutta figura davanti alla sua adorata Elena.» aggiunse indicando la ragazza bionda.

Il centrocampista alzò gli occhi al cielo e sospirò, con un'espressione seccata.

«Chi è quello delle battute da quattro soldi?» ribatté Nakayama, per smorzare il disagio del compagno. Non sapeva che rapporto legasse Taro alla ragazza bionda dai tratti occidentali in piedi accanto a lui, ma ormai lo conosceva abbastanza bene per sapere che era molto riservato, pur essendo affabile e comunicativo. E Ryo, pur essendo un bravo ragazzo, a volte mancava di tatto con le sue battute.

«Ishizaki, gioca con la stessa disinvoltura con cui dici sciocchezze e sarai titolare in tutte le partite.» intervenne Elena, l’altra diretta interessata, anche lei infastidita dall’ironia allusiva di Ryo, incurante del fatto che in fondo si conoscevano da poco.

Gon approvò con un cenno del capo «Giusto. Non avrei saputo dargli un consiglio migliore.» poi si diresse verso Genzo. «Wakabayashi, appena trovo una giornata libera vengo al J-Village e ti sfido.»

«Quando vuoi. Io sono sempre pronto.» replicò con il suo solito piglio sicuro, approvato da una pacca sulla spalla dell'esperto attaccante.

Ormai mancava pochissimo tempo alla partenza. Per coloro che rimanevano, era giunto il momento di salutare i giovani calciatori.

«In bocca al lupo ragazzi! Verremo ad assistere alle partite contro la Malesia e il Bahrein.» assicurò Yukari.

«E faremo un tifo infernale!» aggiunse Kumi con i pugni stretti e gli occhi vispi e combattivi.

«Anego ha la sua erede.» rise Taki.

Il fischio e lo sferragliamento annunciarono l'imminente comparsa della locomotiva. Rallentò progressivamente, fino ad arrestarsi poco più avanti rispetto al punto in cui si trovavano.

Dopo aver atteso con perfetta calma e serenità che tutti i passeggeri scendessero e che quelli messisi in fila prima di loro salissero, i ragazzi varcarono la porta ordinatamente continuando a chiacchierare, ridere e scherzare, con il capotreno che vigilava. Elena sapeva benissimo che funzionava così in Giappone ma quella scena, paragonata all'esagitazione e alle resse cui le era capitato di assistere e trovarsi coinvolta in Italia, le suscitava sempre un piacevole stupore.

Il treno si mise in marcia, lasciandosi dietro i volti sorridenti delle tre ragazze e di Nakayama che salutavano i giocatori agitando le mani.

 

Shun si appoggiò con un gomito al bracciolo del sedile e adagiò il viso su una mano, apparentemente interessato al paesaggio che scorreva rapido davanti ai suoi occhi.

Era stato un illuso a pensare che Madoka sarebbe venuta alla stazione per salutarlo, in un orario così mattutino e soprattutto dopo che aveva mostrato di ignorarla per quasi tutta la durata della festa a casa di Ishizaki.

L'aveva salutata, ed era stato tutto. Non aveva avuto il coraggio di trarla in disparte per parlarle, né l'aveva incoraggiata. E quando aveva trovato una distrazione nella partita da guardare con gli amici, vi si era abbandonato fino a che non era finita, per poi constatare che la ragazza era già tornata a casa insieme a un paio di sue compagne.

Aveva perso quell'occasione, e ora si ritrovava a dover posticipare a dopo la conclusione del primo girone di qualificazione. Se ne avesse avuto il coraggio: perché c'era qualcosa che lo tratteneva dal chiederle di riallacciare i rapporti, ossia il timore che, con l'inizio dell'anno accademico, lei avrebbe ricominciato a prestare attenzione soltanto allo studio. E il fatto che la ragazza fosse stata ammessa alla Keio, ossia uno degli atenei più prestigiosi e selettivi, rafforzava questo suo presentimento.

Era stato tutto diverso, due anni prima mentre andava a Tsumagoi per il ritiro della Nazionale Under 19, dopo il periodo di "esilio" impostogli dal tecnico Gamo: stava guardando fuori del finestrino del treno, era una giornata soleggiata e tiepida, come in quel momento, ma nel suo cuore c'erano sensazioni di ben altra natura.

 

Dopo aver constatato, dal loro respiro regolare, che tutti i suoi compagni si erano addormentati, scivolò fuori dal suo futon senza fare rumore e, con passi lenti e felpati, uscì dalla stanza.

Non riusciva a prendere sonno, e aveva bisogno di respirare un po' di aria fresca per alleviare un senso d'oppressione.

Attraversò la hall dell'albergo in cui alloggiava con la squadra e andò a passeggiare nel piazzale antistante.

Avevano sbaragliato tutte le rivali e si erano ritrovati in finale contro la Shimizu, una squadra tornata a ottenere grandi risultati, che aveva il suo principale punto di forza nel portiere Kawakami.

Ma Shun non lo riteneva in grado di parare un tiro come il suo. No, non era la finale a tenerlo sveglio, a farlo sentire in ansia. Era la paura che tutti i suoi sforzi potessero essere inutili per la Nazionale.

I "sette del Giappone reale", i giocatori che Gamo aveva portato con sé e che minacciavano di distruggere i sogni suoi e degli altri sei ragazzi allontanati dal ritiro. Uno di loro era Ryoma Hino, l'uruguayano di origini giapponesi: un attaccante potente e veloce che non aveva nulla da invidiare a Hyuga. E se Gamo avesse deciso di selezionarlo al suo posto? In quelle settimane, si era impegnato anche per dimostrare di essere più bravo di lui.

La Tigre sarebbe certamente tornata in Nazionale, non c'erano dubbi, indipendentemente da Hino. E quei due insieme potevano costituire una coppia d'attacco davvero formidabile … nulla vietava a Gamo di mantenere in squadra entrambi.

Era convinto di essere lui quello che doveva temere di vedersi soffiare il posto. E non lo poteva permettere … aveva deciso di dedicare un anno intero al World Youth e non poteva lasciare che quel progetto andasse in fumo.

«Nitta.»

Si voltò di scatto, nell’udire la voce femminile che aveva spezzato quell'angoscioso flusso di pensieri.

«Shimokawa.» disse stupito, nel riconoscere la nuova manager.

«Sei teso per domani?» chiese, andandogli incontro.

«Un po', ma non tanto per la gara. Devo capire se sono veramente pronto per tornare in Nazionale.»

«Io penso che ce la farai: il tuo sinistro è diventato potente quasi quanto il destro. C'è una panchina lì, perché non ci sediamo un po'? Se non ti disturbo.»

«Certo. Tranquilla, non mi disturbi. Anzi, sono contento di poter fare quattro chiacchiere.» sorrise, andando a sedersi, seguito subito dopo dalla ragazza.

«Nemmeno tu riesci a dormire?»

La ragazza alzò le spalle «Non c'è un motivo in particolare. Rimanere sdraiata nel futon non mi aiuta, così ho deciso di uscire all'aria aperta.»

I capelli neri le sfioravano le spalle coperte dalla maglietta bianca. Era una ragazza dalla bellezza discreta, tutto sommato riservata e più tranquilla rispetto a Kumi, ma i suoi modi pacati e gentili l'avevano resa bene accetta dai ragazzi.

Il suo interesse per il calcio doveva essere piuttosto recente. Non l'aveva mai vista spesso agli allenamenti della squadra, sapeva che era nel club di pallavolo e a volte la scorgeva mentre parlava e scherzava con Kumi e altre ragazze. Ma non si erano mai incontrati, fino a quel pomeriggio nel cortile della scuola.

Parlarono per un po' di quella settimana, e dei rispettivi sogni. Shun le aveva raccontato i suoi timori per il confronto con i cosiddetti "sette del Giappone reale", i giocatori che avrebbero conteso al gruppo degli esclusi il posto tra i convocati per il World Youth.

«Se Gamo avesse voluto escludervi, lo avrebbe già fatto. Lui vi ha dato l'opportunità di tornare più forti e maturati. Io sono convinta che domani farai una grande partita e che saprai anche farti riaccettare in Nazionale.» gli assicurò, sorridendogli con un'espressione dolce che a Shun fece perdere un battito.

Ricambiò timidamente il sorriso e distolse lo sguardo, per poi guardare a terra. Seguirono minuti di silenzio che a entrambi sembrarono infiniti.

Madoka decise che quella era l'occasione da cogliere per confessargli i suoi sentimenti.

«Scusami se ti sembrerà troppo brusco e improvviso» cominciò, facendogli alzare la testa «non so nemmeno cosa ne penserai, ma tra non molto ti ripresenterai al ritiro della Nazionale e chissà quando avrò la possibilità di rivederti. Ma io … volevo dirti che mi piaci, Shun.» pronunciò il suo nome «Fin da quel giorno nel cortile della scuola in cui ti ho definito "fanatico".»

Il ragazzo la guardava con gli occhi spalancati e la bocca dischiusa, come se stesse cercando di riprendere fiato dopo averlo trattenuto troppo a lungo. Chiuse gli occhi, scosse la testa e tornò a guardare Madoka, con un sorriso.

Lei strinse le labbra e distolse lo sguardo, imbarazzata.

«Beh, torno nella mia stanza.» annunciò con un filo di voce, alzandosi.

«Madoka, aspetta.» disse, alzandosi a sua volta e afferrandole un braccio per trattenerla. Anche lui l'aveva chiamata per nome.

«Non vuoi sapere cosa ne penso?» le chiese a voce bassa, avvicinandosi senza lasciarle il polso. I suoi occhi scuri la guardavano con dolcezza.

I battiti del cuore di Madoka erano frenetici. Quando il volto di Shun fu a pochi centimetri dal suo, chiuse gli occhi. Avvertì le labbra del ragazzo sfiorare le sue. Si mossero piano, in sintonia, poi quelle di Madoka si schiusero, permettendo a Shun di rendere più intimo il loro contatto, passandole le braccia attorno alla schiena. Alzò un braccio e infilò le sue dita tra i capelli del giovane attaccante. Erano come fili di seta: così li aveva sempre immaginati, nelle fantasticherie in cui indugiava spesso da quando aveva cominciato a conoscerlo.

Abbracciati, completamente isolati dall'ambiente circostante, sfiorati dalla brezza della notte, non potevano certo accorgersi di Kumi che, dalla finestra della sua stanza, osservava la scena con un sorriso compiaciuto.

«Brava Madoka.» sussurrò, prima di infilarsi nuovamente nel futon per rimettersi a dormire.

Fu inutile perché, all'incirca mezz'ora dopo, l'amica entrò nella stanza e le scosse piano una spalla per svegliarla. Era troppo eccitata per poter pensare di addormentarsi senza raccontare l'episodio alla sua amica fidata e soprattutto si sentiva grata a lei per averla incoraggiata a dichiararsi.

 

La loro storia era proseguita per tutto il rimanente anno scolastico e si era incrinata dopo la fine del liceo, quando Nitta stava esaminando le proposte arrivategli da squadre di club della J League e aveva cominciato ad allenarsi al dojo di Ken Wakashimazu.

Madoka stava preparando gli esami di ammissione alle università che aveva scelto di frequentare, Shun era fin troppo concentrato sugli allenamenti e sul suo futuro professionale e mancava spesso da casa. Così, a poco a poco, la loro relazione era finita, dopo reciproche accuse di pensare troppo a sé stessi e non al loro rapporto di coppia.

Tornato a Nankatsu dopo la conclusione del secondo stage di J League, Shun aveva rincontrato spesso Madoka al caffè Ocean, uno dei ritrovi preferiti dei giovani della città, entrambi con i rispettivi amici.

Si erano rivolti la parola con cordialità, anche se la conversazione non andava oltre i saluti e le domande di rito. Ma c'era in Shun il desiderio di recuperare quel legame che gli aveva fatto vivere uno dei periodi più felici della sua vita. E a volte gli sembrava di vedere in Madoka l'analoga intenzione di andare oltre i convenevoli che la facevano sentire come un'estranea agli occhi di un ragazzo per cui aveva provato, e forse ancora provava, un sentimento così forte.

Ma la paura, fin lì, aveva sempre prevalso.

 

«Ehi Nitta, tutto bene?» chiese Kishida, riscuotendolo dai suoi pensieri.

«Eh? Sì sì, ero solo soprappensiero.»

«Ehi, non startene troppo sulle tue. Ci servi in perfetta forma. Senza Hyuga sarai tu a guidare l'attacco della Nazionale. Dovrai segnare tanti gol!» lo incalzò Urabe.

Hanji era sempre stato il trascinatore, ai tempi della Ootomo, e sapeva sempre come motivarlo.

Decise di abbandonare le sue preoccupazioni, almeno per quel periodo, e di partecipare alla partita a carte che Izawa stava organizzando.

 

 

 

 

***Note***

 

 

Il J-Village non ospita più i ritiri e gli allenamenti della Nazionale giapponese in seguito al terremoto e allo tsunami che hanno colpito il Giappone nel marzo 2011, ma l’ho mantenuto per una maggiore attinenza con il manga. A partire da quest'anno verrà riaperto parzialmente e dovrebbe tornare completamente a disposizione dalla prossima primavera.

 

"Yasha Ga Ike": nota anche come "Demon Pond", è un'opera teatrale kabuki di genere fantasy, scritta dal drammaturgo Kyoka Izumi nel 1913. Ne sono stati tratti due film, il primo nel 1979 e il remake nel 2005.

La trama, in breve, è questa:

"Anni '30 del Ventesimo secolo. Gakuen, un insegnante, sta cercando Akira, un suo amico scomparso nel nulla. Lungo il percorso, arriva in un misterioso villaggio nei pressi di un laghetto colpito dalla siccità: lì incontra una giovane e bellissima donna, Yuri, e le chiede del cibo.

Gakuen scoprirà che Yuri è la moglie di Akira, che è anche il custode della campana del villaggio.

Akira ha una grossa responsabilità: se la campana non viene suonata tre volte al giorno, la principessa Shirayuki, uno spirito che vive nel laghetto da quando, secoli prima, era stata offerta in sacrificio in cambio della caduta della pioggia, provocherà l'inondazione della città e l'uccisione di tutti i suoi abitanti.

Un giorno, la principessa Shirayuki riceve una proposta di matrimonio da parte di un principe: lei promette che lascerà il laghetto in cambio del sacrificio di una vita umana, e Yuri è l'anima prescelta".

Ulteriori informazioni sono disponibili - in inglese - in questi due articoli:

https://www.japantimes.co.jp/culture/2013/06/21/stage/the-bell-tolls-on-demon-pond/

http://www.weirdwildrealm.com/f-demonpond.html

Hina Matsuri significa "festa delle bambole": si tiene ogni anno il tre di marzo. È dedicata alle bambine che dispongono su una speciale piattaforma le bambole che rappresentano l'antica corte imperiale.

In questo stesso giorno i famigliari delle bambine pregano affinché vengano concesse alle ragazze salute e bellezza: si pensa infatti che le bambine in questo giorno trasferiscano tutta la sfortuna alle bambole, allontanandola da sé.

Lo hishimochi è il dolce che si prepara per questa festa. È composto da tre strati di riso mochi: il verde simboleggia la terra su cui cresce l'erba, il bianco indica la neve e il rosa rappresenta i fiori di pesco. Insieme questi tre simboli raffigurano l'inizio della primavera: quando si scioglie la neve inizia a crescere l'erba e germogliano i fiori di pesco.

Fonte: http://www.tradurreilgiappone.com/2017/03/03/hina-matsuri-festa-delle-bambine/

Gon Nakayama: è l’alter ego versione manga di Masashi "Gon" Nakayama, attaccante dello Jubilo Iwata e del Consadole Sapporo. Ha avuto una carriera lunghissima: ha cominciato quando in Giappone non esisteva ancora un campionato professionistico e lo Jubilo Iwata si chiamava Yamaha Motors; si è ritirato nel dicembre 2012 all’età di 45 anni, per via delle sue ginocchia ormai martoriate dagli infortuni.

È però ritornato all'attività agonistica nel 2015, anno in cui è approdato all'Azul Claro Numazu, squadra della J League 3 in cui gioca tuttora alla bella età di 50 anni!

È l’autore del primo gol del Giappone a un Mondiale, quello di Francia 1998.

Il suo alter ego compare nel "Road to 2002" e nel "Golden 23" e anche in "Hungry Heart", altro manga calcistico di Yoichi Takahashi, conosciuto in Italia come "La squadra del cuore".

In queste immagini: Gon nel "Road" con Taro, in "Hungry Heart" e il vero Masashi nel 2002.

Il New National Theatre di Tokyo (NNTT), in giapponese Shin Kokuritsu Gekijō, è la più importante sala per spettacoli del Giappone: vi si rappresentano opere liriche, balletti, spettacoli di danza contemporanea, pièces di prosa. Inaugurato nel 1997 e situato nel quartiere di Shibuya, dal 2004 ospita i Japan Record Awards.

Nelle immagini: il NNTT come si presenta all'esterno, e l'interno dell'Opera House.


La ginnastica artistica non è uno sport conosciuto e chiacchierato come il calcio: tutti sanno dire almeno a grandi linee cos'è, ad esempio, un cross o un pallonetto, ma i numerosissimi elementi della ginnastica artistica sono spesso definibili con precisione solo da chi segue questo sport in modo non superficiale. Ne esistono poi moltissimi che hanno preso il nome dal primo o dalla prima ginnasta che li ha eseguiti in un Campionato Mondiale o in un'Olimpiade.

In questo capitolo ne ho inseriti due tutto sommato semplici da spiegare e da visualizzare. Nell'esercizio eseguito da Arimi, l'enjambée è un salto in spaccata. L'uscita è un salto in avanti a gambe tese, in cui la ginnasta ruota su sé stessa per due volte.

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** Capitolo VI - Frammenti di passato ***


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Capitolo VI 

 

Frammenti di passato

 

 

 

 

«Non tornare più, Elena. Noi non possiamo più stare insieme.»

Lei scosse la testa e strinse la sua mano tra le sue dita «Non è vero. Io ti starò vicina. Non ti lascio solo perché …»

Lui la interruppe «No, finirà comunque. Io non sarò più lo stesso … e neanche tu.» le disse, fissandola con uno sguardo duro.

 

«Hai fatto presto a fartene una ragione, eh? Sei più tornata a trovarlo in ospedale? Hai più chiesto sue notizie? Se ti chiedo come si sente, sai rispondermi? No! Lo hai abbandonato ….»

Non aveva mai visto quello sguardo nei suoi occhi, da che la conosceva. Odio. No. Era disprezzo. Quel disprezzo che viene dalla delusione.

«Mi ha detto lui di non farmi più vedere. E io ho rispettato la sua volontà. Non ce la facevo più a farmi trattare così.» replicò con voce incrinata, le lacrime stavano per sgorgare dai suoi occhi.

Era la verità. Perché la stava accusando?

 

«Cosa avrebbe dovuto fare, chiudersi in casa e farsi consumare dalla disperazione?»

«No, ma avrebbe dovuto lottare insieme a lui.»

Fissò gli occhi su di lei. Uno sguardo ostile, astioso.

Stentava a riconoscere la sua compagna di squadra, la sua amica d'infanzia. E poi, parole che mai avrebbe immaginato, un giorno, di sentire pronunciare da lei.

«Sei una codarda, Elena.»

Questo era lei?

Una codarda.

 

Elena si svegliò di soprassalto e si ritrovò seduta sul letto. Cercò di calmare il suo respiro spasmodico, con una mano sul petto. Chiuse gli occhi e si passò una mano sulla fronte, trovandola intrisa di sudore. Scostò una ciocca di capelli dal collo e rimase così per almeno un minuto, prima di accendere la luce dell'abat-jour sul comodino e vedere l'ora indicata sul quadrante della sveglia.

Le sette. Non era ancora ora di alzarsi, ma era anche troppo tardi per sperare di potersi riaddormentare.

Fece per scostare il piumone e le lenzuola, ma vide che erano già stati spinti da una parte, nel sonno.

Sospirò. Si alzò dal letto e andò a spalancare la finestra, per respirare un po' d'aria e alleviare il senso d'oppressione. Appoggiò le mani sul davanzale e rimase affacciata per qualche minuto, poi prese un asciugamano, i suoi vestiti e il phon, e si diresse verso il bagno.

Carlo si sarebbe alzato mezz'ora dopo: avrebbe approfittato di quel surplus di tempo per farsi una doccia. Visto quanto aveva sudato, ne aveva decisamente bisogno.

 

Aveva fatto di nuovo quell'incubo. Quell'insieme di frasi che aveva pronunciato e che si era sentita dire, le voci nitide delle persone che le avevano espresse costituivano la sua fonte d'angoscia per lunghi mesi, un'angoscia che da quando era arrivata in Giappone era riuscita a tenere a bada.

Era stato tutto reale. Era come se tutto ciò che era riuscita a tenere costretto dentro di sé fino ad allora fosse esploso in quei pochi minuti, a ricordarle quello che aveva vissuto e ciò che aveva fatto. E che continuava a perseguitarla.

Il corridoio e le altre stanze della casa erano ancora deserte, rischiarate dalla luce del sole.

Entrò nel bagno, si spogliò ed entrò nella doccia, e aprì il getto. La sensazione di sollievo le consentì di liberare il cervello da quelle parole, da quelle voci, da quelle immagini ancora troppo recenti e troppo nitide.

Rimase lì sotto a lungo. Era come se temesse che quell'incubo ritornasse, una volta uscita da quel flusso d'acqua. Ma non poteva pretendere che il tempo fermasse il suo corso solo per lei. E, pensandoci bene, neppure voleva: aveva appena cominciato una nuova vita in Giappone, a migliaia di chilometri di distanza dall'Italia e in una cultura molto diversa. Aveva trovato cose e persone con cui riempire la sua vita, dei motivi per cui sorridere, impegnarsi, andare avanti.

Fermò il getto e uscì dalla cabina. Mentre si asciugava, guardò l'orologio da polso appoggiato sul mobiletto e constatò che erano passati quaranta minuti. Era davvero tanto, ma si sentiva meglio.

Uscita dal bagno, vide che la luce in cucina era accesa.

Trovò Carlo in piedi davanti al fornello, in procinto di scaldare un pentolino pieno di latte mentre Wilhelm gli girava pigramente attorno, in attesa che gli desse qualcosa da mangiare.

«Ciao, zio.» lo salutò vivacemente, avvicinandosi al tavolo, e dando una carezza sulla testa del cagnolino che era corso verso di lei.

«Ah, ciao Elena. Come mai già in piedi?»

«Risveglio anticipato.» riuscì a sintetizzare. Poteva capitare, in fondo.

«Molto anticipato. Ho temuto che stessi male.» commentò Carlo, scrutandola.

Elena abbassò un attimo gli occhi, presa alla sprovvista. Non pensava che suo zio l'avesse sentita uscire dalla sua camera. Credeva di non aver fatto rumore oppure semplicemente, anche lui era già sveglio.

«No, niente di grave. Me la sono solo presa un po' comoda.» ribatté con tono tranquillo.

Carlo annuì, posando un sacchetto di cereali sul tavolo. Elena si chiese se le avesse creduto, ma lui non le fece altre domande. In fondo, sapeva già tutto: anche lui aveva vissuto parte del suo dramma, seppure in maniera indiretta.

«Vado un attimo in bagno. Lo prepari tu il caffè?» chiese, indicandole la moka e il barattolo già sul ripiano.

«Certo.»

Wilhelm emise un guaito e riuscì finalmente ad attirare su di sé l'attenzione dei due.

«È da quando sono venuto qui che non fa che girarmi attorno e guardarmi con occhi supplicanti. Dagli una barretta al manzo, è nella credenza.» sospirò Carlo, alzando gli occhi al cielo, prima di sparire nel corridoio.

Elena ridacchiò e accontentò la richiesta di suo zio, poi prese in braccio Wilhelm per coccolarlo, mentre la stanza si riempiva dell'aroma del caffè.

 

Nel pomeriggio sarebbe partita per Tokyo, per assistere alla prima partita del Giappone nel girone di qualificazione alle Olimpiadi, contro la Malaysia, insieme a Kumi, Yukari e agli altri ragazzi del gruppo dei supporter.

Aveva accettato con gioia l'invito dei ragazzi a unirsi a loro e non vedeva l'ora di vedere i calciatori in una partita vera. Aveva avuto modo di conoscere meglio tutti, in quel breve periodo: nei giorni successivi alla festa a casa di Ishizaki, era andata al campo di calcio comunale ad assistere agli allenamenti dei ragazzi.

E ora sentiva la loro mancanza. Desiderava rivedere Taro, vedere come si sarebbe comportato in una partita ufficiale, in cui gli avversari non gli avrebbero fatto sconti e avrebbero fatto tutto il possibile per neutralizzarlo. Era certamente uno dei giocatori chiave della squadra, e il suo ruolo sarebbe stato ancora più determinante vista l'assenza del capitano Oozora. Sentire gli elogi di un giocatore affermato come Nakayama l'aveva riempita di gioia.

L'aveva incitato durante le partitelle, nella speranza di vederlo segnare un gol contro Wakabayashi. Aveva avuto l'impressione che il SGGK, dopo ogni parata, rivolgesse il volto verso di lei con un sorriso sghembo, per poi rinviare la palla verso uno dei difensori. Lei sorrideva e ci scherzava sopra.

Le capitava spesso di conversare con lui dopo aver concluso gli sparring con Carlo o con gli altri allievi del dojo e avevano ormai una certa confidenza, anche se i loro dialoghi si limitavano a qualche scambio di opinione sul calcio o sul kickboxing.

La prospettiva di una giornata che si annunciava piena e ricca di emozioni placò l'angoscia avvertita fino a pochi minuti prima, permettendole di mettere da parte pensieri e ricordi.

 

La ragazza si recò alla palestra Shiroyama per fare alcuni esercizi di ginnastica, come faceva quasi ogni mattina e in alcuni pomeriggi, prima della lezione, per riprendere confidenza con la pratica del suo sport, al riparo da occhi indiscreti.

Era domenica, ma in quanto insegnante possedeva una copia delle chiavi della palestra.

Guardò le parallele: ancora non se la sentiva di riprenderle. Si limitò agli esercizi di riscaldamento e al corpo libero, che le permetteva comunque di esprimersi e liberare la mente.

Si sentiva sempre più sicura: i movimenti diventavano sempre più fluidi, e il ginocchio non le aveva dato problemi, a parte il normalissimo indolenzimento dovuto alla lunga inattività.

Quel pomeriggio non c'erano lezioni in programma e ne avrebbe approfittato per esercitarsi. Poi sarebbe tornata a casa a prepararsi per la trasferta a Tokyo.

Pur con quella prospettiva, non riusciva a non pensare ad Arimi, che aveva dimostrato di essere un'allieva molto difficile da gestire e aveva respinto regolarmente i suoi tentativi di coinvolgerla nelle lezioni.

Elena era convinta che alla fine, la signorina Shiroyama l'avrebbe ripresa con sé per sfinimento, ma non voleva permetterlo, perché aveva ormai capito per quale motivo non era stata reinserita subito nel gruppo e rischiava di bruciarsi nonostante le sue enormi potenzialità.

Si era ripromessa di trovare una soluzione, ma non era ancora riuscita nell'intento.

«Devo trovare un modo per farle cambiare atteggiamento … ma come posso fare?»

La questione non era facile da risolvere e si chiedeva se in realtà Mayuko, escludendola dalle gare di Numazu, non le avesse sottratto un'occasione per cominciare a costruire un rapporto con le sue compagne.

«È sicura di fare la cosa giusta, signorina Shiroyama?» le aveva chiesto il giorno prima.

L'insegnante aveva assentito, sicura «Quella di Numazu è solo un'esibizione. La gara vera è quella in programma ad inizio aprile, quando verranno decise le ultime qualificazioni al campionato nazionale. Parteciperanno soltanto le squadre e per allora voglio un gruppo unito e affiatato. Le esibizioni sono individuali, ma il punteggio sarà di tutta la squadra.»

«Ma essere insieme alle sue compagne l'avrebbe aiutata a rendersi conto di quanto fosse sbagliato il suo atteggiamento.» insistette la ragazza.

Ma Mayuko aveva scosso la testa «Tu sei qui da poco tempo Elena, e non la conosci come la conosciamo noi. No, avrebbe pensato solo a sé stessa e a vincere la gara, come sempre, senza curarsi delle sue compagne. È per questo che ho affidato a te questo compito.»

 

Uscita dalla palestra, decise di approfittare della bella giornata andando a fare una passeggiata al parco Hikarigaoka. I rami degli alberi stavano cominciando a riempirsi di foglie e presto avrebbe finalmente assistito di persona a uno degli eventi dell'anno in Giappone: la fioritura dei ciliegi. Fino ad allora aveva solo ammirato delle splendide fotografie e immagini televisive: i suoi pochi viaggi precedenti erano sempre avvenuti a estate ormai inoltrata.

Giunse nella sua area preferita: il belvedere da cui si poteva osservare l'intera Nankatsu, o meglio "la villa di Wakabayashi e poi tutto quello che c'è intorno" come diceva Carlo, ed effettivamente era inevitabile posare gli occhi su quell'enorme dimora.

Mise il borsone sulle cosce e chinò la testa per cercare il pacchetto in cui era rimasta l'ultima caramella balsamica.

«Disturbiamo?» una voce femminile le fece alzare la testa di scatto. Si ritrovò a fissare con aria interrogativa, la caramella in bocca e le mani ancora dentro la borsa, la giovane donna castana dai tratti occidentali in piedi accanto alla panchina, con un passeggino in cui dormiva una bellissima bambina con un piumino bianco.

«Oh, sei una gaijin anche tu!» esclamò notando i lineamenti occidentali e i capelli biondi della ragazza «Sorry. Can we sit here?» chiese passando all'inglese, pensando che la sua reazione fosse dovuta alla mancata comprensione della lingua locale.

«Certo.» rispose Elena in giapponese, con un sorriso, riponendo il pacchetto ormai vuoto nel borsone. «Non si preoccupi, conosco bene il giapponese.»

«Ah, bene. Grazie.» sorrise a sua volta con un cenno d'approvazione e si sedette sulla parte di panchina libera. Posò la borsa e avvicinò il passeggino. Indossava un elegante cappotto e aveva un portamento signorile, senza risultare affettato o sussiegoso. «Non è così frequente incontrare altri stranieri in zone lontane dalle metropoli come questa.» commentò, mentre si sporgeva verso la bambina.

«Sono arrivata qui da poco.» replicò Elena dopo qualche secondo, non trovando nulla di meglio da dire.

«Anch'io. Sono qui dall'inizio dell'anno e sono sposata con un giapponese. È tornato qui per dirigere l'azienda della sua famiglia e io e i nostri figli lo abbiamo seguito.» spiegò e i suoi occhi si posarono, istintivamente, sulla villa che spiccava nel panorama di fronte a loro. «Beh, a questo punto mi presento. Mi chiamo Annie.» disse, volgendo nuovamente lo sguardo verso di lei e tendendole una mano.

Elena dopo un attimo di sorpresa, la strinse. «Io sono Elena.»

«Io sono inglese, di Londra. E tu?» proseguì Annie, che aveva notato la circospezione della ragazza.

«Italiana. Vengo da Roma.» rispose l'altra, tentando di sembrare un po' più sciolta.

Annie rise. «Sembrano frasi da manuale di conversazione.»

«È vero!» rispose, unendosi alla risata e sentendosi finalmente più a suo agio.

«Cosa ha portato qui una gaijin come te?» continuò, mantenendo il dialogo su un tono scherzoso che la sua interlocutrice sembrò apprezzare.

«Insegno ginnastica artistica in una palestra della città.» rispose, ormai libera dall'iniziale impaccio.

Annie assentì. «Anch'io sono un'insegnante. Di inglese. Il prossimo mese torno al lavoro, dopo il periodo di congedo per maternità.» disse, guardando con immensa dolcezza la figlia, ancora placidamente addormentata.

«Ha una bambina bellissima.» disse Elena, guardandola intenerita.

«Già.» sorrise l'altra, sfiorando una morbida guancia di Aiko con il dorso dell'indice «Oltre a lei, ho un frugoletto di cinque anni, identico a suo padre. Devo dire che non ci danno molti problemi. Con due bambini così, è facile conciliare gli impegni.»

«Insegnare non è un mestiere semplice.» sospirò Elena, stupendosi poi di essersi lasciata sfuggire quello sfogo. In fondo, conosceva quella donna da pochi minuti e lei aveva anche avuto un atteggiamento piuttosto rigido quando aveva attaccato discorso. Ma Annie le sorrise comprensiva, trovandosi d'accordo con quanto aveva affermato.

«No, effettivamente. Può dare molta soddisfazione, ma anche innervosire. Succede quando si ha a che fare con allievi particolarmente difficili. In quel caso, bisogna provare a parlare con loro e a mettersi nei loro panni, per quanto possibile.»

Elena sgranò gli occhi, come se fosse stata colpita da una rivelazione. Mettersi nei panni … le considerazioni di Annie le avevano dato un'idea.

Le due continuarono a parlare per un po', soprattutto delle differenze tra la parte di mondo da cui provenivano e il Giappone.

Aiko si svegliò in tempo per vedere per la prima volta il viso di Elena e farle un sorriso, prima che lei e la sua giovane mamma si salutassero.

 

Il gruppo dei supporter della Nazionale partì con un pullman da Nankatsu. Elena, su insistenza di Kumi e Yukari, aveva accettato di unirsi a quei ragazzi e di assistere almeno alle partite al Tokyo National Stadium e ora si trovava seduta in uno dei sedili anteriori insieme a Kumi, mentre Yukari sedeva in quelli dell'altra fila accanto a Manabu Okawa. Dietro di loro c'erano Kenichi Iwami, Koji Nishio, Masao Nakayama, altri ex giocatori della Nankatsu che avevano scelto di intraprendere carriere diverse da quella sportiva e i due storici, irriducibili capotifosi Kazuchige Ichikawa e Koji Nakano. Insieme a molte altre persone costituivano il nuovo gruppo dei supporter, fondato due anni prima da Sanae Nakazawa, che aveva esordito come meglio non si sarebbe potuto sperare in occasione del World Youth.

Quando arrivarono a pochi metri dal National Stadium, il piazzale era colmo di tifosi entusiasti, quasi tutti indossavano la maglia del loro giocatore preferito e chi non aveva quelle dell'Under 23 aveva sopperito con le casacche di calciatori della Nazionale maggiore. Ne aveva viste alcune con i nomi di due ex giocatori di Serie A tra i più amati in patria, Nakata e Nakamura, e non mancavano quelle di Gon Nakayama. C'era anche un piccolo gruppo di tifosi malesi, anch'essi ridenti e gioiosi nonostante i pronostici non molto generosi con la loro Nazionale.

Il gruppo si era sistemato nella zona centrale della curva riservata alla squadra di casa, nelle prime file. Avrebbero avuto un'eccellente visuale della partita e i giocatori avrebbero di certo sentito i loro incitamenti e i loro cori.

Di lì a poco entrarono in campo le due formazioni, ai lati della terna arbitrale.

Si disposero in fila orizzontale, ordinati e composti durante l'esecuzione dei rispettivi inni nazionali.

Seguì lo scambio dei gagliardetti tra il capitano giapponese Matsuyama e quello malese, e il tiro a sorte che assegnò il calcio d'inizio ai padroni di casa.

Gli spalti erano gremiti, colorati di blu, bianco e rosso come i colori della maglia e della bandiera nipponiche. Un folto gruppo reggeva una gigantesca bandiera con l'inconfondibile simbolo del Sol Levante. Un'altra comitiva faceva un allegro baccano con trombette, tamburi e gridava slogan e cori, alcuni aiutandosi con un megafono.

La luna splendeva nel cielo oltremare. L'aria era pungente, ma presto nessuno ci fece più caso: la squadra allenata da Kozo Kira aveva imposto il suo gioco fin da subito e dopo pochi minuti era passata in vantaggio proprio con un bellissimo pallonetto di Misaki, che fece esplodere la tifoseria in un primo, fragoroso boato.

L'entusiasmo dei tifosi contagiò presto anche Elena che si ritrovò a tifare insieme a loro, come se il Giappone fosse stato anche la sua Nazionale.

Osservò ammirata il gioco dei giovani giapponesi: dinamico, agile, propositivo. Molti di loro avevano davanti una potenziale carriera di prestigio: oltre a Wakabayashi e a Taro che erano alla pari dei migliori talenti mondiali, fu colpita dalla classe e dalla visione di gioco di Jun Misugi, dalla grinta e dall'abilità nel possesso palla di Hikaru Matsuyama, dalla combattività di Shun Nitta, che si avventava su ogni pallone che gli capitava proprio come un falco e anche dall'agilità e dalle doti acrobatiche del suo partner d'attacco, Ken Wakashimazu il cui ruolo principale, le avevano raccontato i ragazzi, era quello di portiere e alle Olimpiadi, con la presenza di Hyuga, avrebbe probabilmente conteso la porta a Wakabayashi.

Anche per questo Nitta si impegnava come un ossessionato: Kira avrebbe potuto decidere  di confermare Wakashimazu in attacco e affiancarlo alla Tigre, di cui aveva sentito parlare quando ancora si trovava in Italia. Aveva esordito in Serie A con la Juventus ma prima della chiusura della sessione estiva di calciomercato era stato mandato in prestito alla Reggiana, per farsi le ossa, e come Oozora, Aoi e Akai non era stato convocato dal c.t.

Il Giappone era forte in tutti i reparti: oltre a Wakabayashi e a Misugi, la difesa poteva contare su altri elementi molto validi come l'altro difensore centrale Gakuto Igawa e i due terzini Soda e Ishizaki.

La popolarità del calcio in Giappone era cresciuta moltissimo negli ultimi anni e, se la Nazionale Olimpica era davvero così forte da essere denominata “la Generazione d'Oro”, era destinata a raggiungere livelli che al momento era difficile immaginare. Un vero e proprio sogno, come lo aveva sentito definire più volte dai ragazzi.

All'ennesimo gol, su colpo di testa di Igawa, Kumi afferrò le mani di Elena e si mise a saltellare, coinvolgendola nella sua euforia. Yukari le osservò divertita.

Kumi era cresciuta, ma l'esuberanza era sempre la stessa e in fin dei conti era un aspetto del suo carattere che apprezzava, da quando non era più soltanto espressione della sua predilezione-fissazione per Tsubasa.

Taro giocò senza risparmiarsi. Aveva sviluppato una grande capacità di anticipare ed evitare gli interventi degli avversari, sfruttando al meglio ogni giocata. Insieme a Misugi e Matsuyama formava un formidabile trio tra difesa e centrocampo, non a caso battezzato "le tre M" da cronisti, commentatori e tifosi.

Sul finire del match, un tentativo dell'attaccante della Nazionale malese venne sventato senza difficoltà da Wakabayashi. Per lui fu una partita di relax quasi totale, ma seppe tenere alta la concentrazione.

L'arbitro soffiò per tre volte nel fischietto, decretando la fine della partita. La prova del Giappone era stata a dir poco strepitosa. Certo, la Malaysia si era dimostrata un avversario molto debole, ma il punteggio finale di 6-0 era segno di un grosso divario tecnico tra le due squadre.

I ragazzi corsero sotto la curva, dove i tifosi li chiamavano e li acclamavano, sventolando le loro bandiere, avvicinando i loro striscioni, stringendo e agitando i pugni e ostentando il segno di vittoria.

 

I giocatori nipponici giunsero nel piazzale fuori dallo stadio, chiacchierando in allegria, come al solito.

Elena andò verso Taro, non appena lo vide comparire tra gli altri ragazzi. Aveva seguito la sua gara con entusiasmo ma anche apprensione per le condizioni della sua gamba e adesso non vedeva l'ora di fargli i complimenti.

«Sei stato grande.» gli disse semplicemente, con uno sguardo carico d'ammirazione.

«Grazie. Ed è solo l'inizio.» sorrise, complice.

Elena annuì. Ne era più che certa.

Misaki e Ishizaki le presentarono i giocatori che lei ancora non conosceva e che la guardavano incuriositi per via della sua evidente familiarità con il centrocampista. Si complimentò in particolare con Misugi e Matsuyama, i giocatori che più l'avevano colpita insieme a Igawa e Wakashimazu, e loro le introdussero le rispettive fidanzate, Yayoi e Yoshiko, e l'altra ex manager della Furano, Machiko.

 

Il c.t. Kira aveva deciso di concedere una mezza giornata di riposo ai suoi giocatori: alcuni sarebbero tornati comunque in albergo per passare le loro ore di libertà in giro per Naraha e dintorni; altri, in gruppo oppure in dolce compagnia, sarebbero rimasti a Tokyo, per rientrare in tarda mattinata.

«Ehi, dov'è finito Wakabayashi?» chiese Soda, guardandosi intorno.

«È già andato via, con la Ujimori.» rispose Takasugi.

«Ujimori? Come l'industriale dell'acciaio?» chiese Jito, che pur infortunato aveva seguito la partita dagli spalti ed era sceso a salutare i suoi compagni.

«Sì, è sua figlia.» confermò il difensore dell'Hiroshima Sanfrecce.

«Io ho visto le sue foto sulle riviste della signora Saito. È una gran bella ragazza.» commentò Sano e diversi giocatori annuirono.

«E Wakabayashi esce con lei?» chiese di nuovo Soda, complimentandosi mentalmente con il portiere per il suo buon gusto.

Ryo annuì. «Si conoscono da bambini, perché i loro genitori sono amici di vecchia data. Anni fa la vedevo spesso a casa sua, e a quanto pare sono sempre rimasti in contatto. È che al nostro portierone non piace parlare di queste cose, ma non pensate che non abbia una vita sentimentale!»

«Tu sei il "Friday" della squadra e non ci hai mai raccontato niente! Non gli hai mai fatto neanche una battuta!» protestò Urabe.

Ryo fece spallucce «Perché non c'è gusto. Wakabayashi chiude gli occhi, accenna un sorriso e poi ti risponde con quel tono serafico e pieno di sarcasmo che ti fa sentire un idiota.» ammise, quasi con riluttanza. «Le sue reazioni non sono spassose come quelle di Tsubasa o di Matsuyama.»

« … o di Hyuga!» intervenne Soda «Vi ricordate quando ha rincorso Sawada per tutto l'albergo?» rievocò suscitando una risata generale, come se la scena si stesse riproponendo davanti ai loro occhi.

«E chi se la scorda? Scommetto che a Takeshi vengono i sudori freddi ancora adesso!» affermò Sorimachi passando un braccio attorno alle spalle dell'amico, che si limitò a sorridere imbarazzato.

«Visto che ormai siamo in argomento» continuò Izawa «secondo voi quei due …» disse facendo cenno con un movimento del capo a Taro ed Elena, pochi metri più indietro rispetto al gruppo: erano in piedi davanti a un chiosco con una bibita in mano ciascuno, intenti a conversare.

«Non so. Si conoscono già da sei anni, a quanto mi ha detto lui. Sembrano molto in confidenza. Io li punzecchio proprio per vedere se si tradiscono, ma forse sono davvero solo amici come insistono ad affermare.» riconobbe Ishizaki.

«Eppure li vedo sempre vicini. Avete visto quando siamo arrivati qui, la prima cosa che ha fatto Elena è stata andare da Misaki, e poi lo incitava sempre durante le nostre partitelle. Secondo me c'è qualcosa di più.» obiettò Taki.

Ryo sbatté gli occhi, perplesso. «Ho provato ad osservarli e a volte ho l'impressione che lei lo consideri più come un confidente, una specie di fratello maggiore.»

«Chissà. Magari è la classica storia dei due amici che si scoprono innamorati l'uno dell'altra.» ribatté Urabe, per nulla convinto e anzi, stupito dalla disamina priva dell'abituale malizia del suo compagno di reparto.

«Se così fosse, mi sa che qualcuno potrebbe rimanerci molto male.» gli rispose con aria sorniona, rifiutando di aggiungere altro nonostante l'evidente curiosità dei compagni.

«Mamma mia quanto siete pettegoli! Peggio del salone della mia parrucchiera!» li riprese Kumi, raggiungendo il gruppo insieme a Yukari e agli altri ragazzi del team dei supporter.

«Però ci hai ascoltati, visto che sai di cosa stavamo parlando!» ribatté Ryo.

«Per forza, parli a voce talmente alta che ti sentirebbero anche dentro lo stadio.» ribatté mettendosi le mani sui fianchi e sporgendosi leggermente in avanti.

Ryo alzò le spalle «È soltanto un po' di sano e rilassante gossip. Tu quando ti decidi a darci un po' di materiale?»

Nel frattempo, Elena e Taro avevano lasciato il chiosco e stavano raggiungendo il gruppo, apparentemente ignari delle disquisizioni dei loro amici.

Kumi scosse la testa con un accenno di sorriso «Non credo vi darò questa soddisfazione.»

Ryo inclinò la testa e la guardò con aria saputa «Ne sei davvero così sicura?»

«Ragazzi, è arrivato il nostro autista!» l'annuncio di Manabu fu provvidenziale, perché Kumi non avrebbe saputo cos'altro replicare.

«Andiamo a fare una bella mangiata?» propose Ryo «Questa partita mi ha fatto venire una

fame pazzesca.» disse, accarezzandosi la pancia con un movimento circolare.

«Tu non hai certo bisogno di giocare una partita per farti venire l'appetito.» lo canzonò Yukari.

«Io non posso, domani ho la lezione di giapponese e il mio lavoro.» disse Elena, stringendosi nelle spalle.

«E io aiuto mia madre nella cartolibreria.» aggiunse Kumi.

Yukari rimase a Tokyo con Ryo, mentre gli altri ragazzi del team tornarono a Nankatsu con Kumi ed Elena.

L'italiana si aspettava che la sua vicina di posto partecipasse alla conversazione in cui gli altri ragazzi, instancabili, erano più che mai coinvolti, commentando con trasporto ed entusiasmo le innumerevoli azioni da gol e giocate che la squadra di Kira aveva regalato ai suoi sostenitori, ma con sua sorpresa notò che aveva preso il suo iPod, aveva sistemato le cuffie nelle orecchie e aveva poi chiuso gli occhi, accomodandosi meglio sullo schienale. Evidentemente, doveva essere stanca, inoltre anche lei doveva lavorare il giorno dopo e forse voleva guadagnare un po' di riposo. Comprensibile anche per una ragazza con l'argento vivo addosso come lei.

 

Asami era scesa nel parcheggio antistante il National Stadium, dopo aver assistito alla partita, in tribuna.

Genzo era stato uno dei primi a uscire e avevano lasciato insieme lo stadio, sull'auto di lei.

Dopo aver cenato in uno dei ristoranti più esclusivi di Shinjuku, aveva accettato l'invito della ragazza a passare ancora un po' di tempo insieme nel suo appartamento, in cui lei si fermava per seguire più comodamente i corsi universitari.

Erano, ora, seduti sul divano rivestito in damasco del salotto. Lei aveva un braccio appoggiato alla spalliera e una mano sotto il mento. Una tazza di amazake allo zenzero era appoggiata sul basso tavolino davanti a loro, l'altra era tra le mani di Genzo.

«È salito sul tavolo e ha cominciato a cantare canzoncine oscene e dimenarsi agitando due ventagli con il Sol Levante, proprio come Ichinose, hai presente?» Genzo annuì e sogghignò immaginando la scena che aveva per protagonista il giovane e inappuntabile avvocato Hideaki Miyamoto, con cui la ragazza aveva da poco troncato una relazione iniziata due anni prima.

Si chinò per posare la tazza ormai vuota sul tavolino, poi tornò a guardare Asami.

«Tutti ridevano a crepapelle, ma io mi sono sentita quasi sprofondare dalla vergogna. L'ho lasciato pochi giorni dopo. Ti pare che io potessi stare con un tipo del genere?»

Genzo piegò leggermente le labbra «In questo tipo di feste può capitare di alzare il gomito e

lasciarsi un po' andare.» replicò diplomatico. «Mi hanno detto che è un bravo avvocato.»

Asami fece una piccola smorfia «Sì … ma per il resto non è un tipo molto serio. Una notte è

stato visto uscire da un love hotel seguito, pochi minuti dopo, da una donna. E non ero io.»

Genzo la guardò con comprensione. «Se la situazione era questa, hai fatto bene a chiudere.»

 

«Si è fatto tardi?» chiese la ragazza, guardando l'ora sull'orologio appeso alla parete di fronte. Erano quasi le due del mattino.

Genzo scosse la testa, sorridendo. Aveva colto la nota dispiaciuta nel tono della ragazza. «Per questa sera non siamo obbligati a rientrare subito al J-Village. Kira ci ha lasciato libera tutta la mattinata di domani.»

«Davvero?» Asami sorrise «E dove passerai la notte?» il tono di voce si era fatto più basso, sensuale. Gli occhi brillavano, con una punta ben visibile di malizia.

Senza aspettare una risposta, Asami si avvicinò e gli carezzò l’angolo destro della bocca con le labbra, per poi spostarsi verso il centro. Lui rispose a quell’invito, muovendo le labbra contro quelle della ragazza. Fece una leggera pressione, alzando una mano a sfiorarle una guancia, accarezzandole il viso, fino a raggiungere i suoi lunghi fili di seta.

Asami dischiuse le labbra, soddisfatta: sapeva che avrebbe dovuto solo toccare i tasti giusti, per convincere Genzo che poteva lasciarsi andare.

Le afferrò i fianchi con delicatezza e la portò sopra di sé.

Asami mise le mani sulle spalle di Genzo, e lentamente si staccò.

Il suo sguardo comunicava dolcezza mista ad audacia. Si alzò e Genzo fece altrettanto, le loro labbra entrarono nuovamente in contatto, dando vita a un bacio ancora più carico. Asami portò una mano sul collo di Genzo e infilò le dita dell’altra tra i suoi capelli, mentre le grandi mani di lui le accarezzavano i i fianchi e si infilavano, lente, sotto il dolcevita azzurro, provocandole dei fremiti. La pelle tremava di piacere sotto le dita del portiere, i loro corpi percepivano il reciproco desiderio.

Asami fece scivolare le sue mani sull'ampio e muscoloso petto di lui, accarezzandolo piano.

Le mani della ragazza scesero sui bicipiti, fino a raggiungere le mani e stringerle.

Si staccarono un'ultima volta. Nei loro sguardi una richiesta, un'esortazione che non aveva bisogno di parole.

 

Si alzò senza fare rumore, per non svegliare Asami profondamente addormentata e con un’espressione serena sul volto. Il pensiero di essere, con ogni probabilità, la causa di quello stato d’animo gli dava una sensazione molto bella, perché anche lui si era sentito bene come non gli accadeva da tempo.

In fondo, l'aveva voluto quanto lei. Era stato felice di rincontrarla quella sera al Ritz Carlton ed era rimasto subito affascinato dalla sua bellezza e dalla sua grazia naturale, così come dalla sua dolcezza. Era una riscoperta, dopo tanti anni vissuti in Germania e i quattro trascorsi da quel periodo in cui era stato vicino a iniziare una storia con lei.

Aveva sempre accettato i suoi inviti perché desiderava davvero vederla e passare del tempo con lei. E sapeva quale piega avrebbe preso quella serata … soltanto, con lei non poteva permettersi un breve flirt, non era una modella o aspirante star del mondo dello spettacolo con cui amoreggiare per pochi mesi; andare oltre con Asami, significava avviare una storia seria. E lui temeva di non essere pronto, di non essere in grado di fare promesse che quei legami in genere comportano. Lei aveva capito e aveva saputo convincerlo a provarci almeno.

Gli sembrava che tutto cominciasse ad andare alla perfezione. Le qualificazioni erano iniziate come meglio non si poteva sperare, la presenza di Hiroji, Annie e dei suoi nipotini aveva portato a villa Wakabayashi un’allegria e vivacità che mancava da quando il suo fratello più grande si era trasferito a Londra e anche i suoi genitori avevano cominciato a essere poco presenti, per via dei loro numerosi impegni.

Uscì dalla doccia, si asciugò e indossò un paio di jeans e una felpa nera, e tornò in camera da letto.

«Te ne vai di già?»

Asami, distesa su un fianco, con il lenzuolo che la copriva fino all'attaccatura dei seni, doveva essersi svegliata da poco: la sua voce era bassa e ancora lievemente assonnata.

Genzo annuì «Kira ci aspetta tutti per mezzogiorno.»

Asami si sollevò su un braccio e assentì, curvando un po’ le labbra «Peccato. Avrei voluto rimanessi un altro po’.» aveva ancora addosso la sensazione delle mani e della bocca del portiere a percorrere tutto il suo corpo.

Genzo trattenne per un attimo il respiro. Era splendida ... dovette respingere la tentazione di spogliarsi e amarla di nuovo.

Si avvicinò e si abbassò a baciarla, e quando si staccarono, la piccola smorfia di delusione si era trasformata in un sorriso disteso e comprensivo.

«Ci vediamo.» le sussurrò, prima di lasciare la stanza.

 

Era ormai notte quando il pullman con i ragazzi del gruppo dei supporter giunse nella stazione degli autobus e delle corriere di Nankatsu.

«Ciao ragazzi! Allora mi raccomando, tra due settimane ancora qui per la partita contro il Bahrein.» disse Ichikawa, dopo che furono tutti scesi dall'autoveicolo. «Ah, e complimenti Elena, sei una vera tifosa del Giappone!»

«È impossibile non appassionarsi con una squadra così.» replicò sorridendo.

Le due salutarono i loro compagni e si incamminarono verso le rispettive abitazioni. Avrebbero percorso la maggior parte del tratto di strada insieme.

«Ehi, ragazze!» sentirono chiamare da una potente voce maschile, emergente dalla quiete notturna.

Kumi mise una mano su un braccio di Elena e fece cenno con la testa verso un konbini lì vicino.

In piedi, appoggiato al muro della facciata c'era Carlo, con le mani nelle tasche della giacca e due sacchetti di carta bianchi collocati sulla panchina accanto.

«Zio! Come mai qui?» chiese Elena sorpresa, raggiungendolo. Kumi lo salutò con un leggero inchino.

«Ho pensato di accompagnarvi a casa, vista l'ora. E, pensando che aveste fame, vi ho preso qualcosa di gustoso ma che non vi rimarrà sullo stomaco.» disse, prendendo i due involti e porgendoli alle due ragazze.

Lo sguardo di Kumi si illuminò al solo sentire l'odore del contenuto «Wow, onigiri!» squittì infilando una mano e mettendosene subito uno in bocca «Lei è un vero cavaliere, signor Nerlinger.»

«Beh, direi un samurai, visto che siamo in Giappone e con il lavoro che faccio.» rise.

«Sì, il “samurai dagli occhi di ghiaccio”. Non è così che ti chiamano i tuoi fan nipponici?» intervenne Elena, dandogli di gomito, prima di prendere anche lei una polpetta dal suo sacchetto.

«Già.» ridacchiò «Sembra il titolo di un film con Bruce Lee. Però mi diverte questo soprannome.»

«E poi le si addice.» disse Kumi, fissando i suoi occhi con ammirazione.

Elena sorrise divertita, scrutando suo zio che sorrideva con una punta d'imbarazzo. Ogni volta si stupiva di come si schermisse quando riceveva apprezzamenti sul suo aspetto fisico, anche quando erano, appunto, complimenti e niente di più, come nel caso di Kumi e non certi commenti da bollino rosso che sentiva quando faceva lo sparring con i suoi allievi o con Wakabayashi. Fin da piccola lo aveva visto reagire in quel modo, e non era mai cambiato negli anni. Contrastava con l'immagine del guerriero determinato che mostrava sul ring e sui servizi fotografici, e in generale con lo spirito con cui affrontava ogni sfida, sportiva e non.

«Però dopo che avrai appeso i guantoni al chiodo, potresti veramente fare l'attore.» riprese «Sei fotogenico e hai il physique du rôle. Potresti diventare il nuovo divo del cinema d'azione, sulla scia di Jean-Claude Van Damme o Dolph Lundgren. Avresti una villa a Malibu o a Beverly Hills, attico a New York, auto lussuose con autista personale, tappeti rossi e stuoli di donne adoranti ai tuoi piedi.» elencò con occhi sognanti, ma in realtà faticava a trattenere una risata, così come Kumi.

Carlo infatti, stava già storcendo la bocca. «No grazie, non fa per me. Mi diverte guardare quei film, ma non vi reciterei mai, mi sentirei ridicolo. Le arti marziali sono una cosa seria, non sarei capace di dar vita a combattimenti il cui esito è stato già stabilito in un copione. E poi mi toccherebbe pure fare inseguimenti in auto, sparatorie e magari brandire spade e pugnali e tutto senza procurarmi neppure un graffio. No, quando smetterò, rimarrò nel mondo del kickboxing come allenatore o istruttore, come già sto facendo.» concluse risoluto. Poi consultò l'orologio al suo polso «Signorine, è meglio tornare a casa, altrimenti domattina sarete troppo stanche.»

«Hai ragione, sensei.» concesse Elena, sempre con il tono leggero che aveva avuto per tutta la conversazione. Era evidentemente di buonumore e la cosa fece molto piacere a Carlo, che l'aveva vista seria e pensierosa al mattino, mentre facevano colazione, anche se nelle poche frasi che si erano rivolti la ragazza aveva usato un tono spensierato. Gli era sembrato artificioso, così come era inconsueto da parte sua trascorrere tanto tempo in bagno. Ma conosceva bene sua nipote … abbastanza da intuire il motivo di quel comportamento. Sperava solo che quegli eventi non cominciassero a verificarsi spesso.

«Senti com'è spiritosa, stasera. È stato vedere la partita che ti ha reso così allegra?»

«Può darsi.» rispose guardando Kumi con aria complice. Quest'ultima, forse per la stanchezza, rispose con un sorriso appena accennato.

Le due ragazze gettarono i sacchetti nel cestino della spazzatura e si incamminarono verso il loro quartiere, seguite da Carlo.

 

 

 

***Note***

 

 

Gaijin: termine giapponese, significa letteralmente "persona esterna al Giappone", quindi "straniero" usato per lo più in senso dispregiativo dagli indigeni, ma qui con ironia da Annie.

Esiste un termine ufficiale, più neutro, usato dai giapponesi per indicare gli stranieri, ovvero gaikokujin, che significa "persona di una terra esterna al Giappone".

"Sorry. Can we sit here?": "Scusami. Possiamo sederci qui?"

"Friday" è un settimanale di gossip tra i più letti in Giappone, quanto di più simile ai nostri "Novella 2000" o "Chi".

Amazake: bevanda dolce a bassa gradazione alcolica, ottenuta dalla fermentazione del riso.

Hanae Ichinose è un personaggio del manga "Maison Ikkoku" (in Italia è stato intitolato "Cara dolce Kyoko") di Rumiko Takahashi, pubblicato in Giappone a partire dal 1980, da cui è stato tratto un anime nel 1986.

Ichinose è solita ubriacarsi in compagnia degli altri inquilini del residence ed esibirsi in ridicoli balletti agitando due ventagli con il simbolo del Sol Levante, per la disperazione di Kyoko, Godai e soprattutto del figlioletto Kentaro.

Love hotel: alberghi diffusi in tutte le città del Giappone dove le coppie possono trascorrere ore di intimità con assoluto rispetto della privacy, in ambienti spesso arredati con gusto decisamente kitsch.

Konbini: abbreviazione del termine inglese convenience store; si tratta di supermercati aperti sette giorni su sette, 24 ore su 24, diffusissimi in Giappone.

Onigiri: riso bollito preparato in bocconcini di forma sferica o triangolare, ripieni a scelta di prugne in salamoia, pezzetti di salmone o di tonno, e avvolti da una sfoglia di alghe o ricoperti di sesamo.

 

Jean-Claude Van Damme è un ex campione di kickboxing e attore belga di film d'azione, in cui ha fatto sfoggio delle sue abilità nelle arti marziali. Uno dei suoi film più celebri si intitola proprio "Kickboxer" (1989).

Dolph Lundgren è un attore svedese interprete di molti film d'azione, ma il suo ruolo più famoso è senz'altro quello del pugile sovietico Ivan Drago in "Rocky IV" (1985): celeberrima la frase "Io ti spiezzo in due" pronunciata prima di affrontare Rocky Balboa sul ring.

 

 

 

 

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Capitolo 7
*** Capitolo VII - Presa di coscienza ***


Untitled

Capitolo VII

 

Presa di coscienza

 

 

 

 

«Misaki?»

«Arrivo.» Taro finì di allacciarsi lo scarpino sinistro e raggiunse Jun Misugi, che lo stava aspettando sulla porta dello spogliatoio. I due ragazzi raggiunsero rapidamente i loro compagni, già in fila di fianco alla squadra thailandese e dietro alla terna arbitrale, pronti a entrare nel campo del Rajamangala National Stadium di Bangkok.

Temeva quella partita: un clima molto più caldo e umido di quello di Tokyo, una squadra ben più esperta e competitiva di quella malese e un difensore come il capitano Bunnark, alto, robusto e potente, ulteriormente migliorato dopo le due stagioni di Liga spagnola. Lui lo affrontava per la prima volta: lo aveva osservato in Thailandia prima del World Youth, quando era stato escluso da Gamo.

Aveva già avuto modo di confrontarsi con difensori molto forti come quelli danesi, nigeriani e paraguayani nelle amichevoli disputate tra autunno e inverno, ma era certo che lo attendeva un confronto ancora più duro di quelli già superati.

Aveva guardato più volte le registrazioni delle sue partite e anche se cercava di mostrarsi tranquillo, la sua tensione era evidente. Cosa che a Genzo non era sfuggita.

«Sei preoccupato?» gli aveva chiesto due giorni prima durante il pranzo, sedendosi accanto a lui sulla sedia lasciata libera da Izawa.

Taro lo aveva guardato rassegnato. Non sarebbe servito a nulla mentire con Wakabayashi. «Un po'. Quel Bunnark … temo i suoi interventi.» aveva ammesso.

Genzo gli aveva rivolto un sorriso canzonatorio «Se cominci ad avere paura adesso, non resisterai nemmeno un tempo, quando sarai in Europa.»

«Hai ragione.» aveva riconosciuto «È che non esiterà a ricorrere a qualsiasi mezzo pur di fermarmi … e la mia gamba sinistra è il mio punto debole.»

Genzo aveva taciuto per qualche secondo, poi si era rivolto verso Taro con uno sguardo risoluto. «Questo è il tuo primo vero test, Misaki. Bunnark è un difensore che gioca in uno dei principali campionati d'Europa e affronta giocatori di livello mondiale. Se ti lasci fermare da lui, significa che non sei degno neppure di sognare di confrontarti con loro. Come ben sai, gli infortuni, per quanto gravi siano stati, non sono un alibi.» aveva detto stringendo una mano a pugno «Ora la tua gamba sinistra è sana: puoi usarla per correre, per calciare il pallone, per passare e per tirare. E per opporti ai tuoi avversari. Dipende da te.»

Non si era limitato a un incoraggiamento verbale: dopo il consueto allenamento diretto da Kira, l'aveva invitato a trattenersi per un "supplemento speciale". Si era improvvisato difensore e con Morisaki in porta gli aveva mostrato possibili mosse che Bunnark, praticante di muay thai, avrebbe utilizzato per contrastarlo. Al limite del regolamento, ma sicuramente efficaci, come ben sapeva Tsubasa.

Taro si tranquillizzò pensando a come aveva saputo opporsi a quegli interventi, e l'occhiata di sfida del capitano thailandese incontrò uno sguardo sereno e per niente intimidito.

Il primo tempo fu equilibrato.

I fratelli Konsawatt si resero pericolosi in alcune occasioni, con le tecniche acrobatiche che i difensori giapponesi faticavano a contrastare. Genzo riuscì a neutralizzare tutti i loro tentativi, uno particolarmente difficile con il prezioso aiuto dei Tachibana.

Nel secondo tempo, il Giappone decise di dominare la gara e Misaki di dare agli avversari un saggio di ciò di cui era capace.

Il centrocampista ricevette il pallone da Soda e partì verso la porta avversaria, con i difensori che tentavano inutilmente di fermarlo. Eluse con classe e con maestria un intervento dopo l'altro con degli splendidi dribbling, giungendo al limite dell'area di rigore. Calciò proprio con il sinistro, anticipando Bunnark che stava entrando in scivolata.

Mandò così a vuoto l'intervento del capitano thailandese, mentre il pallone si infilava nell'angolo destro, alle spalle del portiere.

Il secondo gol venne segnato con un'azione simile a quella dell'amichevole contro la Nigeria, con Wakabayashi che, dopo aver parato un bolide di Faran Konsawatt, aveva effettuato un tiro potente in direzione di Misaki. Quest'ultimo lanciò poi verso Nitta che, a due passi dalla porta, spinse in rete.

 

Taro contrasse i bicipiti e strinse i pugni, il sudore colava da tutto il suo corpo. Era riuscito a superare la prova, resistendo a un'afa opprimente. E aveva anche segnato un bellissimo gol. Bunnark era stato l'avversario vigoroso e tenace che si era aspettato, ma facendo appello a tutte le sue capacità, era riuscito a vincere il loro personale duello. Si sentiva ancora più forte ed era consapevole che tale sarebbe stato reputato anche dai suoi compagni e dai suoi avversari. Aveva salito un altro gradino verso il suo obiettivo: essere un giocatore di livello internazionale.

 

«Stanno giocando benissimo! Il gol è solo una questione di tempo.» affermò Kumi, euforica.

Aveva invitato Elena a seguire la partita a casa sua e così, dopo aver cenato con gli squisiti kamaageudon preparati da sua madre Reiko, si erano sedute sul divano del soggiorno e avevano guardato l'incontro quasi come se si fossero trovate allo stadio di Bangkok. Di certo, stavano tifando con eguale intensità.

A pochi minuti dalla fine del primo tempo, il cordless appeso nel vestibolo cominciò a squillare e Reiko andò a rispondere.

Ritornò nel soggiorno dopo pochi minuti.

«Era papà?» chiese Kumi, senza curiosità.

«Sì.» rispose sua madre «Ha detto che si ferma a dormire a Tokyo, perché terminerà il lavoro molto tardi.»

«Che novità.» commentò sarcastica «Ormai può anche fare a meno di avvisare, a casa non c'è praticamente mai.»

Reiko strinse le labbra. «Funziona così quando si lavora per una ditta importante, e lui ora è caporeparto.» le ricordò.

«Già … è il destino ineluttabile di ogni giapponese con un minimo di senso della realtà.» commentò senza abbandonare l'ironia amara con cui si era espressa in precedenza.

Reiko sospirò e sembrò cercare una risposta con cui ribattere, ma non le venne in mente nulla di convincente. Da quando suo marito Shinji aveva scoperto che Kumi intendeva trasformare la sua passione per il disegno nella sua prima opzione per il futuro, i rapporti tra di loro si erano fatti difficili, quasi ostili.

«Vi porto del tè matcha?» preferì chiedere. In fondo, avevano un'ospite e non era giusto coinvolgerla nelle loro questioni.

«È fatto con foglie provenienti dalle piantagioni della prefettura: è una delle cose migliori che esistano qui in Giappone.» disse Kumi rivolgendosi a Elena, ritrovando l'entusiasmo.

«Volentieri.» rispose, ricambiando il sorriso e rivolgendone uno altrettanto amabile a Reiko.

 

«Misaki ha fatto una partita strepitosa.» commentò Kumi, mentre il giornalista annunciava la conclusione del breve notiziario sportivo trasmesso dopo la fine della partita.

«Davvero. Taro è un giocatore eccezionale. È un talento cristallino, fa cose splendide con la massima naturalezza.» affermò Elena, con l'espressione colma di affetto che le vedeva ogni volta che era con o si parlava di Misaki.

«Lo conosci bene.» disse l'ex manager.

Elena esitò prima di rispondere, per trovare le parole giuste per definire il loro rapporto.

«Forse dire che lo conosco bene è eccessivo, perché abbiamo passato relativamente poco tempo insieme. Il fatto è che Taro è un ragazzo così affabile e sensibile che mi viene naturale fidarmi di lui. È una sensazione rara, e devo dire che finora, a parte mio zio, mi è capitata solo con lui.» fece una breve pausa. Poi decise di svelarle anche un piccolo segreto: in fondo si trattava ormai soltanto di un bel ricordo della sua adolescenza.

«Sai, quando l'ho conosciuto, mi sono presa una cotta per lui. Avevo tredici anni: fino ad allora non mi ero mai interessata a nessun ragazzo ed era arrivato lui, così gentile, già allora bravissimo a giocare a calcio … e anche bello. È stato con me e i miei amici solo per una settimana, ma ci ha lasciato più di quanto fanno persone conosciute per anni. Quando lui e suo padre ci hanno salutati e hanno lasciato Roma, ho sentito come un vuoto, mi chiedevo se l'avrei mai rivisto.»

«Beh, il tuo desiderio si è avverato.» replicò Kumi accennando un sorriso.

«Sì, due anni fa è tornato a Roma, ha incontrato due miei amici del Sant'Angelo ed è venuto a trovarmi nella palestra dove mi allenavo. Abbiamo trascorso una serata in pizzeria, tutti insieme e non sembrava ci ritrovassimo dopo quattro anni e una sola settimana di frequentazione. Taro è un ragazzo speciale: aveva detto che si sarebbe sempre ricordato di noi ed è stato di parola, venendoci a cercare appositamente. E ora ho avuto la fortuna di ritrovarlo qui.»

Kumi ristette pensierosa, con le gambe incrociate sui cuscini del divano e le mani appoggiate ciascuna su un ginocchio.

Poco dopo, la voce di Elena la riscosse dai suoi pensieri e glieli fece momentaneamente accantonare, visto che la sua domanda riguardava un argomento diverso da quello di cui avevano appena finito di parlare.

«Potresti raccontarmi qualcosa di Madoka? Non le cose più personali, ovviamente. Mi piacerebbe solo sapere che rapporto ha con i suoi genitori, come va a scuola, cose del genere.»

«È per via di Arimi, vero?» era una considerazione, più che una domanda, continuò infatti a parlare senza attendere la conferma di Elena. «Beh, Madoka è la classica studentessa modello. Al liceo aveva una media molto alta ed è stata ammessa alla Keio. Ha passato l'esame di ammissione con un punteggio altissimo.»

«Faceva parte di qualche club scolastico?»

«Sì, quello di pallavolo. Ottima alzatrice e ricevitrice.»

«Era capitano?»

Kumi annuì «L'ultimo anno. Al liceo, il nostro club di pallavolo ha vinto due tornei su tre.»

«I suoi genitori saranno orgogliosi di una figlia così.»

«Altroché. La adorano. E quando usciva con Nitta era una delle ragazze più popolari della scuola. Erano un po' i nuovi Tsubasa e Sanae.» Kumi non trattenne un sorriso.

«Arimi invece?» chiese però Elena, finalmente arrivata al punto.

«Arimi è sempre stata più espansiva e chiacchierona. È educata e gentile, ma soffre l'eccessiva disciplina e per questo è stata rimproverata spesso dai genitori. Mi ha sempre detto che adora la ginnastica artistica perché può fare tutto quello che non le è concesso altrove. Correre, saltare, fare le capriole, danzare … immagino conosca bene anche tu quella sensazione.» disse, guardandola.

Elena assentì «Già.»

«Se potesse, Arimi vivrebbe di sola ginnastica.» riprese Kumi «Non l'ho mai vista interessata ad altri sport o ad altri passatempi, e non l'ho mai vista neppure adocchiare un ragazzo. La ginnastica è la sua unica, vera passione. Sono contenta che legga i miei manga anche per questo, così può staccare un po'. Ma credimi, se non è ossessionata poco ci manca.»

«Me ne ha già dato prova.» confermò Elena «Che rapporto c'è tra le due sorelle?»

Kumi rifletté alcuni secondi prima di rispondere «Madoka ha sempre amato molto Arimi, ha un atteggiamento protettivo nei suoi confronti. Ma lei in famiglia è molto chiusa, parla poco. Con me parla di più ma non mi fa molte confidenze, probabilmente perché teme che io possa rivelarle a sua sorella.»

Elena strinse le labbra. Sarebbe stato difficile spingerla a confidarsi, a meno di non farla sentire toccata sul vivo.

 

Elena era tornata a casa da poco. Kumi, dopo averla accompagnata alla porta e salutata, era andata in camera sua. In piedi accanto al letto, si stava preparando per andare a dormire. Libera di pensare alle sue preoccupazioni, le tornò in mente ciò che l'amica le aveva raccontato riguardo a Misaki.

Strinse le labbra. Ripensò alla chiacchierata tra i giocatori della Nazionale, dopo la partita contro la Malaysia. Lei si trovava a pochi metri di distanza con il suo gruppo e nonostante cercasse di partecipare alla conversazione non riusciva a fare a meno di ascoltare quello che si dicevano gli altri ragazzi, ed era tentata di sbirciare più indietro, dove si trovavano Elena e Misaki. Mentre sentire il gruppetto degli Under 23 era stato inevitabile, visto che parlavano a voce alta, era stato praticamente impossibile carpire qualcosa del dialogo tra l'insegnante e il centrocampista dello Jubilo Iwata.

In fondo, perché avrebbe dovuto interessarle? Aveva avuto modo anche lei di conoscere Misaki e di parlare qualche volta con lui, ai tempi del liceo. Certo, non era cieca, aveva notato quanto fosse carino e anche per questo molto ammirato dalle ragazze, sempre molto gentile e anche spiritoso, quando scherzava con i suoi compagni di squadra o con Sanae, con cui aveva più confidenza. Eppure non era mai andata al di là di quelle semplici considerazioni. Inoltre, i ragazzi lo punzecchiavano spesso riguardo a una certa Azumi, una ragazza che doveva avere conosciuto quando viveva in Francia.

"Poverina, chissà come si starà struggendo senza di te là a Parigi, ma le scrivi ogni tanto?" e analoghe domande da ficcanaso.

Lui negava che fosse la sua ragazza, ma l'espressione imbarazzata dimostrava che le cose non stavano esattamente così. Forse sapere fin da subito che forse era già interessato a quella Azumi, oltre a spiegare il fatto che non uscisse con nessuna delle sue ammiratrici, aveva anche impedito a lei di rimanere troppo affascinata dalle sue caratteristiche da principe azzurro.

Persino la sua amica Saya, la ragazza più bella e aggraziata che conosceva, quando aveva provato ad avvicinarlo aveva ricevuto un cortese due di picche.

E del resto, c'era già Sanae che viveva una relazione a distanza, perché non avrebbe dovuto essere così anche per Misaki? Inoltre, dopo le partite contro l'Olanda e la finale del World Youth aveva anche intravisto la famosa Azumi, e il loro affiatamento aveva fugato, ai suoi occhi, ogni dubbio.

Era andata con Yukari, Ishizaki, Okawa e altri ragazzi della comitiva a far visita a Misaki al centro di medicina sportiva Fuji, dove stava portando avanti il programma di riabilitazione sotto la supervisione del dottor Shibazaki.

Lo incontrarono nella sua stanza, dove era tornato dopo la seduta di fisioterapia. C'era già un'altra persona con lui: Azumi.

Taro Misaki, era sempre lui: il sorriso determinato e sereno, la passione per il calcio intatta, il desiderio implacabile di tornare sul campo di gioco.

Aveva scambiato qualche parola con lui e gli aveva fatto i complimenti per la determinazione e lo spirito di sacrificio che avevano permesso alla Nazionale di vincere il World Youth.

Kumi aveva lasciato il complesso ospedaliero con una sensazione indefinibile nel cuore. La sua mente produceva solo immagini di Misaki, il suo sorriso gentile, che esprimeva malinconia e speranza.

Non aveva mai smesso di pensare a lui, durante il viaggio di ritorno. Più volte Yukari l'aveva richiamata dicendole che le sembrava stranamente pensierosa e taciturna, ma non aveva fatto nessuna allusione. Probabilmente ciò era dovuto alla presenza, accanto al centrocampista, di Azumi: le aveva messo subito davanti agli occhi la realtà. Lì c'era un legame già esistente e a Kumi non rimaneva che spegnere la sua infatuazione sul nascere, non alimentarla oltre.

Del resto, quante ragazze si erano invaghite del bel centrocampista senza essere corrisposte? La vita era andata avanti per tutte e così sarebbe stato anche per lei. Così Kumi aveva dedicato i mesi successivi a studiare per gli esami di ammissione al tanki-daigaku e a disegnare i suoi manga e illustrazioni. E poi c'era anche il club di calcio, di cui era l'unica manager poiché molte ragazze si presentavano alle selezioni per potersi avvicinare ai loro giocatori preferiti, ma poi si stancavano di compiere le mansioni previste: annotare risultati, pulire e rimettere in ordine i palloni, lavare e stirare le divise, distribuire asciugamani e bottiglie di acqua e integratori, medicare le ferite e fare fasciature, una quantità di occupazioni da cui tutte finivano per desistere.

I suoi propositi erano stati raggiunti, al punto che aveva accettato l'invito a una festa cui avrebbe certamente incontrato anche Misaki. Quest'ultimo si era rimesso dal lungo infortunio ed era stato ingaggiato dallo Jubilo Iwata. I suoi compagni di squadra Ishizaki e Urabe e gli altri ex giocatori della Nankatsu gli avevano organizzato una serata in un ristorante per festeggiare la firma del suo primo contratto professionistico.

Era sinceramente curiosa di vederlo dopo che aveva finalmente recuperato la sua forma fisica.

Aveva provato una sensazione strana mentre lo vedeva entrare nel ristorante, indossando un paio di pantaloni scuri e una camicia azzurra … quella stessa sensazione che pensava di aver domato.

E Azumi non era al suo fianco.

Al tavolo, erano casualmente seduti l'uno accanto all'altra e si erano rivolti spesso la parola durante la conversazione con i loro amici: non era mai accaduto prima e non si era più ripetuto in seguito. Avrebbe voluto sapere se Azumi non era venuta perché trattenuta da impegni o da problemi di salute oppure semplicemente perché non stavano più insieme, ma si era vergognata di averlo pensato e ovviamente non gli aveva fatto alcuna domanda; l'aveva sorpresa però il fatto che nessuno dei ragazzi avesse tirato in ballo l'argomento.

Era tornata a casa felice di aver passato una serata così piacevole, ma anche con un senso d'inquietudine rendendosi conto che la sua mente continuava a concepire soltanto pensieri legati a Misaki.

Per carattere non era mai stata una persona che tratteneva tutto dentro di sé: aveva bisogno di confidarsi con qualcuno e aveva deciso di raccontare tutto a Madoka due giorni dopo, mentre facevano le pulizie nell'aula della loro classe. Con la massima sincerità, le aveva parlato anche delle sue sensazioni e le aveva chiesto una sua opinione.

 

«Quando ti interessa se un ragazzo ha la fidanzata, significa che vorresti esserlo tu.» le disse Madoka, fissandola negli occhi con aria saputa, dopo aver ascoltato tutto con attenzione.

Kumi spalancò gli occhi e scosse la testa «Ti sbagli. A me Misaki non interessa in quel senso.»

Madoka posò la spugna che stava passando sul ripiano di un banco «Sì, come no. La verità è che finalmente ti sei svegliata, Kumi Sugimoto! Mi ero sempre chiesta come potesse rimanerti indifferente un ragazzo così, quando alle medie andavi matta per Tsubasa che, con tutto il rispetto, è carino, ma non come Misaki e sembrava gli interessasse solo prendere a calci quel benedetto pallone! Ti assicuro che quando l'ho visto, ho pensato: "Accidenti, su questo qui sì che ci farei un pensierino! Ma è proprio il tipo di ragazzo che farebbe perdere la testa a Kumi". Ti giuro, ne ero convinta.»

«E invece non ho mai pensato a lui. E poi aveva già Azumi.» disse, inginocchiandosi e immergendo uno straccio dentro un secchio pieno d'acqua e detersivo per pavimenti.

«Forse, proprio per questo credevi non ti interessasse. E invece, quando l'hai visto arrivare senza di lei, è come se fossi finalmente riuscita a vedere con chiarezza nel tuo cuore.»

Kumi scosse la testa: le sembrava un'analisi cervellotica. «Non credo, i sentimenti non si comandano.» asserì, lasciando cadere lo straccio umido per terra.

«Ma si può cercare di ignorarli. E se ci si mette d'impegno, ci si riesce pure.» ribatté Madoka, definitiva. «Tu avevi paura di soffrire come ti è successo con Tsubasa, temevi di rivivere quell'esperienza e questo ti ha portata a convincerti di considerare Misaki soltanto un ragazzo carino e molto bravo a giocare a calcio.»

Kumi alzò un sopracciglio «Ti sbagli, io ho superato quella delusione e non ho paura di ammettere un sentimento se lo provo veramente.» affermò, muovendo lo spazzolone con energia.

«E allora perché mi hai chiesto un parere, e perché ti ostini a contestare quello che ti dico? La verità è che ti ho detto quello che non volevi sentire perché sì, hai paura di ammettere a te stessa che Misaki ti piace.» ribatté l'altra, scandendo le ultime tre parole. «Ma se adesso lui è libero, nulla ti impedisce di provare.» concluse, riprendendo a strofinare la spugna sul banco.

 

Ma una settimana dopo era iniziato il secondo stage di J League, e il centrocampista era tornato a Iwata con Urabe e Ishizaki per allenarsi e giocare le partite. E lei aveva ripreso a studiare con impegno per prepararsi all'esame di ammissione al tanki-daigaku e a fare la manager del club di calcio.

Poco tempo dopo, nuove indiscrezioni erano giunte alle sue orecchie tramite Yukari, sulla presunta frequentazione con una giovane cuoca di un izakaya di cui i suoi compagni di squadra erano clienti assidui.

Sembrava l'argomento di gossip preferito di tutti i giocatori dello Jubilo Iwata … e questo l'aveva convinta a non soffermarsi più a pensare a lui. Aveva smesso di seguire le partite dello Jubilo Iwata, anche se ne sentiva il resoconto dalle chiacchiere dei suoi compagni di classe, con tanto di giornale comprato all'edicola prima di arrivare a scuola. L'argomento più discusso erano ovviamente le gesta di Misaki.

Gol, assist decisivi e giocate da vero campione: il centrocampista era sempre determinante.

Ma Kumi era decisa a non soffrire ancora, ed era riuscita a non dare troppa attenzione alle conversazioni dei ragazzi.

Aveva funzionato fino al ritorno a Nankatsu di tutti i reduci della J League. E fino al giorno in cui Yukari le aveva confidato che tra Misaki e quella donna era finita.

 

Richiuse la cartellina in cui aveva inserito alcuni dei suoi ultimi schizzi e la posò sulla scrivania.

Madoka aveva colto nel segno e lei si ritrovava, dopo tanto tempo e soltanto rare e passeggere infatuazioni, a sospirare nuovamente per un ragazzo, in una situazione che percepiva sempre più simile a quella di pochi anni prima.

Con il tempo, tra Elena e Taro avrebbe potuto nascere qualcosa, quel loro rapporto così stretto avrebbe potuto evolvere in qualcosa di più profondo. E quella possibilità, per quanto cercasse di non considerarla inevitabile, la rendeva inquieta.

 

Elena si mise le mani sui fianchi e fece un profondo respiro. Stava per giocare la sua ultima carta. L'incontro con Annie le aveva dato l'idea che le aveva impedito di presentarsi dalla Shiroyama e ammettere di aver fallito tutti i tentativi. Dopo, poteva dire di averle tentate davvero tutte.

Con Arimi, la situazione non aveva visto grandi novità. La ragazzina partecipava alle lezioni, eseguiva gli esercizi proposti, ma non parlava molto né con lei, né con le sue piccole compagne. E non sorrideva mai. Ogni tanto la vedeva distrarsi e guardare verso il gruppo allenato dalla signorina Shiroyama ed era costretta a richiamarla. Aveva deciso, come insegnante, di essere aperta, perché era fondamentale saper trasmettere l'amore per il proprio sport, ma anche intransigente, perché la disciplina nella ginnastica artistica era un valore basilare.

«Se devi alzare la voce, fallo subito.» le aveva raccomandato Carlo «Le tue allieve devono capire subito di che pasta sei fatta. Se lasci andare le cose una volta, hai già compromesso tutto.»

Lei aveva cercato di seguire quel consiglio, e pensava di esserci riuscita. Era comprensiva e affabile, ma non troppo condiscendente.

Aveva già avuto delle esperienze da allenatrice delle allieve più piccole, aveva spesso dato consigli a ginnaste più giovani, ma era la prima volta che le capitava un caso come quello della ragazza ritenuta l'allieva più promettente del corso.

Doveva ammettere che faticava a mettersi nei suoi panni.

Lei non era stata particolarmente dotata, non aveva il fisico ideale della ginnasta essendo alta e avendo gambe lunghe, e aveva anche cominciato più tardi rispetto a molte sue coetanee: aveva già nove anni e non aveva praticato nessun altro sport prima di allora, a parte un corso di nuoto di pochi mesi.

Aveva però amato profondamente la ginnastica artistica fin da quando Gabriele, la ragazza che per molti anni era stata la fidanzata di Carlo, l'aveva portata in una palestra a mostrarle lo sport che aveva praticato da bambina e che, una volta adulta, aveva cominciato a insegnare.

Ricordava chiaramente il giorno della sua prima lezione: aveva superato la timidezza iniziale grazie a Shiori, la figlia minore di Alessandro, uno dei maestri di judo del complesso sportivo, grande amico di Carlo fin dall'adolescenza. In quel periodo, suo zio viveva a Roma e aveva rilevato la gestione della palestra con lui.

Shiori era figlia di un maestro di judo italiano e di un'imprenditrice giapponese e aveva la stessa età di Elena, ma aveva cominciato a praticare la ginnastica artistica a sei anni. Era un'ottima allieva e aveva preso la nuova arrivata sotto la sua ala, mostrandole il modo esatto di fare gli esercizi e di correggere i movimenti e le posture assunte in modo sbagliato.

La sua passione e l'impegno profuso in ogni lezione le avevano in seguito permesso di ottenere risultati più che soddisfacenti e dei piazzamenti di tutto rispetto nelle gare cui aveva partecipato.

Era cominciata così un'amicizia che sarebbe diventata ancora più forte durante la loro adolescenza e che era durata fino a pochi mesi prima. Prima che ….

Spalancò gli occhi, poi li serrò e scosse la testa. Non doveva permettere al passato di tornare a dominare i suoi pensieri. Se avesse ripreso ad abbandonarsi ai ricordi, il suo stato mentale avrebbe avuto gravi ripercussioni sul suo lavoro e sulla sua nuova vita. Sì, perché la sua vita precedente non esisteva più; era stata distrutta, demolita e non sarebbe tornato più nulla di quel periodo. Doveva solo guardare avanti e vivere appieno il suo presente.

 

Decise di approfittare della momentanea assenza della Shiroyama per andare a fare qualche domanda alle ragazze, in quel momento impegnate a fare alcuni esercizi di riscaldamento.

Aveva coadiuvato Mayuko in diverse lezioni ormai, e le conosceva abbastanza da potersi permettere un po' di confidenza.

«Cosa mi raccontate di Shimokawa?» chiese, dopo averle raggiunte e salutate.

«È bravissima e si allena tanto, ma non andiamo molto d'accordo con lei.» rispose Mitsuyo, l'allieva considerata più in gamba dopo Arimi.

«È antipatica.» aggiunse senza mezzi termini Shinobu, un'altra ginnasta abbastanza promettente.

«Ah sì? E perché?»

«L'ha vista.» sbottò ancora Mitsuyo, come se il motivo fosse più che ovvio «È troppo presuntuosa. È la migliore tra noi e non ho problemi ad ammetterlo, ma si ritiene talmente superiore da trattarci con sufficienza.» Le altre ragazze, lì intorno, annuirono.

«All'inizio la ammiravo veramente tanto.» intervenne Hanako, la più piccola del gruppo. «Riesce a fare cose che io non imparerei neppure allenandomi per giornate intere. Lei però è sempre fredda e altezzosa, sembra che pensi solo a sé stessa e a essere la più brava.»

«E quando è tornata dopo l'infortunio, la Shiroyama ha chiesto a Shinobu di fare un esercizio sulla trave e Arimi è saltata su e ha detto che lo avrebbe fatto lei, perché era già pronta e non aveva bisogno di aspettare che un'altra le mostrasse come si fa.» raccontò Mitsuyo, scimmiottando il tono arrogante usato dalla compagna.

«La signorina Shiroyama si è arrabbiata, l'ha fatta scendere dalla trave e l'ha mandata da lei.» concluse Hanako.

Elena annuì. Aveva perso quella scena, forse perché era successo quando si trovava ancora negli spogliatoi.

Il quadro nella sua testa si stava facendo sempre più chiaro. Le mancava una sola informazione per capire se era ciò che immaginava.

«Sapete come va a scuola?»

«Abbastanza bene, ma nulla di eccezionale. Ha voti discreti in tutte le materie, ma non eccelle in nessuna.» rispose Emi, compagna di classe di Arimi.

Ipotesi confermata. Forse Elena aveva capito il motivo che spingeva Arimi a comportarsi così.

La ginnastica non era solo una passione ostacolata dai suoi genitori … era la sua vita.

 

«Arimi, puoi spiegare tu a Himeko come deve sollevare le braccia? Io devo andare a parlare un attimo con la signorina Shiroyama.» spiegò Elena.

«Non sono qui per fare l'insegnante, sennò lei qui che ci sta a fare?» ribatté Arimi, sprezzante. «Se va a parlare con la Shiroyama, le dica che sono stanca di questa sceneggiata e che è ora che riprenda ad allenarmi come facevo prima di infortunarmi. Senza di me questa scuola non vincerà nulla ai prossimi campionati e la Shiroyama lo sa bene.» concluse, a braccia incrociate e con un sorriso insolente, mentre le bambine di fianco a lei la guardavano stranite.

Elena inspirò e chiuse gli occhi, un attimo. Quando li riapri, puntò su di lei uno sguardo glaciale. «Vedo che non è possibile collaborare. Va bene, puoi prendere le tue cose e andare a casa. Per quello che mi riguarda, sei fuori. Chiedi pure alla Shiroyama di riprenderti nel suo gruppo, ma se dovesse rifiutare, cambia pure palestra. Con questo atteggiamento non sei di aiuto per nessuno.» aveva pronunciato quelle frasi con un tono freddo, ma nell'ultima era percepibile una punta di irritazione. Una punta, solo perché aveva cercato di trattenersi. Non aveva mai visto tanta presunzione in una ragazzina.

Arimi inclinò la testa e fece una smorfia di stupore, poi annuì e si diresse verso gli spogliatoi. Osservò la ragazza che si allontanava velocemente, con la coda che ondeggiava a ogni passo.

«Signorina Rulli, non va a parlare con la signorina Shiroyama?» chiese timidamente la piccola Himeko, riportando la sua attenzione sulle allieve.

La giovane insegnante sorrise con dolcezza «No, posso farlo anche dopo. Voglio che impari a sollevarti prima che finisca la lezione. E anche voi ragazze, guardate bene.» aggiunse, rivolta alle altre allieve.

 

 Elena, seduta sulla sua solita poltroncina, appoggiò i gomiti sulle ginocchia, intrecciò le mani e si sporse in avanti. Fissò il punto della palestra in cui si stavano allenando gli allievi del kickboxing, senza vederlo realmente. La sua mente era occupata da quanto era successo durante la lezione da poco conclusasi.

Ormai le sue risorse e soprattutto la sua pazienza si stavano esaurendo. A malincuore, avrebbe dovuto comunicare a Mayuko che stava ormai per gettare la spugna.

«Tutto a posto?» la voce di Wakabayashi la fece sobbalzare. Il portiere era in piedi, a pochi passi da lei. Aveva appena finito gli sparring con alcuni allievi della scuola e aveva l'asciugamano buttato attorno al collo. Dopo la vittoria interna contro il Bahrein, era tornato a Nankatsu per riprendere il suo programma speciale, nei quattro giorni di pausa dati dal c.t. Kira prima di giocare le partite di ritorno.

«Ero soprappensiero e non mi sono accorta che eri qui.»

«Ho appena finito. Tuo zio è ancora impegnato con gli esami di alcuni allievi e tarderà un po'. Come sta andando con la piccola insofferente?» durante le pause delle loro lezioni, Carlo gli aveva parlato della complicata sfida che stava rischiando di logorare sua nipote. Capitava spesso di ritrovarsi insieme a chiacchierare, terminate le rispettive lezioni ed era ormai inevitabile toccare quell'argomento.

Elena si lasciò sfuggire uno sbuffo divertito per l'appellativo dato dal calciatore, ma assunse subito un'espressione grave «Beh, finora le ho provate tutte e non ho cavato un ragno dal buco. Si mette a fare esercizi per conto suo e se le chiedo di aiutarmi, mi dice che ci sono già io a fare l'insegnante e, sottinteso, devo arrangiarmi. Fa spaccate, rovesciate, ruote e capriole e mi guarda impertinente, come a dire: "Visto che sono già brava?". Le bambine rimangono ovviamente impressionate e si distraggono spesso. Non ha ancora capito che la Shiroyama l'ha mandata nel mio gruppo non perché pensa che non sia abbastanza brava, ma perché manca completamente di umiltà.» si era sfogata in un soffio e a voce alta, come se stesse cercando di espellere tutto il nervosismo accumulato di giorno in giorno.

Sospirò ancora e strinse le labbra. Genzo, intuendo che aveva ancora qualche sassolino da togliersi, non intervenne.

«Ho cercato di coinvolgerla in tutti i modi, ma non fa altro che tirare la corda per esasperarmi.» riprese, continuando a parlare con un ritmo concitato. «Mi dice sempre che tanto la Shiroyama la riprenderà con sé perché non può fare a meno di lei, e credo che andrà proprio così. In questa scuola ci sono ragazze molto brave, ma Arimi è una spanna sopra tutte.»

Genzo assentì piano, sorridendo leggermente.

«Ha un ego smisurato.» sogghignò «Un po' come me quando giocavo nella Shutetsu. Anch'io ero convinto di essere imbattibile. Poi però, arriva sempre la botta che ti fa tornare con i piedi per terra: incontrare un giocatore che mette in dubbio le tue capacità, costringendoti a impegnarti più di quanto tu abbia fatto finora, lottando contro quella vocina che insinua che forse non sei così bravo come credevi. A me è successo quando è arrivato Tsubasa, e poi con Misaki e Hyuga. Affrontando Schneider ho capito quanto avrei dovuto lavorare ancora per ritenermi in grado di giungere a un livello internazionale. Lo stesso accadrà ad Arimi: se parteciperà alle Nazionali juniores, incontrerà altre ginnaste molto abili e lei dovrà tirare fuori tutte le sue risorse, soprattutto mentali, per dimostrare di essere davvero la migliore.»

«Già. Io però non sono ancora riuscita a farglielo capire. Forse la Shiroyama non ha avuto una buona idea a mandarla da me.»

Genzo scosse la testa e si sedette sulla poltroncina accanto.

«Non credo si tratti del classico tentativo della disperazione. Non solo, almeno. Evidentemente la Shiroyama ha visto come ti sei ambientata e come hai saputo farti apprezzare dalle tue allieve e ha pensato che avresti saputo come prendere Arimi. Hai pochi anni più di lei e non hai pregiudizi. Il fatto che non hai mai ceduto è positivo.»

«Sì, ma non basta. Tutto ciò che ottengo è farle abbandonare la lezione anzitempo.» disse, avvilita «Mi dispiace perché la Shiroyama vuole che Arimi diventi una leader in grado di trascinare il gruppo, prima che una ginnasta bravissima e ambiziosa. Ma per questo deve essere stimata dalle sue compagne, cosa al momento impossibile.»

«È la filosofia degli Shiroyama.» commentò Genzo «Suo fratello Tadashi era il mio allenatore alla Nankatsu. Un vero martello: ha sempre insistito su impegno, umiltà e spirito di cooperazione e lo fa ancora oggi, con i ragazzini dell'attuale squadra. Soprattutto, voleva che fossimo una vera squadra, unendo le nostre forze. Degli uomini, prima che dei giocatori.»

«Arimi invece è una ginnasta che pensa solo a sé stessa. È egocentrica. Ora come ora, non farebbe altro che destabilizzare il gruppo.»

Mentre parlavano, Arimi varcò la porta d'entrata della palestra e attraversò l'atrio rivolgendo un rapido cenno di saluto alla segretaria.

Era ritornata alla palestra di corsa, dopo averla lasciata con altrettanta fretta un'ora prima.

Appena entrata nello spogliatoio dopo aver abbandonato la lezione, si era chiusa in uno dei bagni e aveva pianto a lungo. Si sentiva svuotata, devastata, disperata e senza più energie, ma il pensiero che le sue compagne avrebbero potuto rientrare e vederla in quelle condizioni le aveva provocato un sussulto d'orgoglio e spinta a reagire. Si era tolta i vestiti e aveva fatto rapidamente la doccia, per poi infilarsi gli abiti di ricambio con altrettanta velocità e uscire da quella palestra quanto prima. Non voleva incontrare le sue compagne, non avrebbe sopportato di sentire il loro chiacchiericcio e soprattutto di sentirle parlare delle esibizioni cui non avrebbe potuto partecipare. Ne aveva già persa una, e ne avrebbe saltata un'altra ancora. Aprile si avvicinava e lei non aveva fatto alcun passo in avanti, per colpa dell'ostinazione di "quella tedesca" come la chiamava tra sé e sé.

Che fosse una brava istruttrice non c'erano dubbi, ma perché insisteva nel coinvolgerla nell'insegnare alle bambine quegli elementi semplicissimi? Le stava soltanto facendo perdere tempo.

Con quei pensieri, era andata al caffè Ocean e aveva bevuto una cioccolata calda, per poi accorgersi di aver dimenticato il suo braccialetto negli spogliatoi.

Aveva dovuto così tornare indietro. Non trovare nessuno nello spogliatoio la fece sentire sollevata, perché significava che le sue compagne avevano già lasciato la palestra. Ma non c'era alcuna traccia nemmeno del suo gioiello.

Sbuffò. Era costretta a chiedere proprio alla persona da cui meno avrebbe desiderato farsi vedere.

Si incamminò verso l'area dedicata al dojo, dove sapeva lavorava suo zio.

La sua insegnante e Wakabayashi erano seduti l'uno accanto all'altra sulle poltroncine da cui si assisteva alle gare, e non ebbe neppure il tempo di formulare pensieri maliziosi sui due, perché stavano parlando … di lei!

Si avvicinò piano, stando attenta a non farli accorgere della sua presenza.

«Arimi invece è una ginnasta che pensa solo a sé stessa. È egocentrica. Ora come ora, non farebbe altro che destabilizzare il gruppo.»

Spalancò gli occhi e strinse i pugni.

Lei, destabilizzare il gruppo? Ma se era sempre stata la migliore, il fiore all'occhiello della scuola. La Shiroyama non poteva fare a meno di lei, non poteva sperare di vincere senza i suoi esercizi.

«È bravissima, ho praticato e seguito la ginnastica per molti anni e raramente ho visto ragazze con le sue capacità.» continuò Elena «Ma è troppo presuntuosa e fa pesare la sua superiorità a chi è meno bravo di lei.»

Arimi serrò i denti «Ora vado lì e …» sussurrò, ma si fermò quando udì di nuovo la voce di Wakabayashi.

«Io non ho mai creduto molto alla storia del predestinato. O meglio» precisò «non ci credo più da quando Tsubasa Oozora mi ha dimostrato che c'era qualcuno in grado di battermi e di giocare meglio di me. Mi sono sentito dare tante volte del "predestinato" da osservatori, commentatori, giornalisti e anche allenatori e compagni di squadra, e questo è capitato anche a Tsubasa, a Misaki, a Schneider, a Juan Diaz e a molti altri giocatori che ho affrontato e con cui ho avuto il piacere di giocare. Ho citato alcuni tra quelli che hanno sfondato o che sono sulla buona strada per farlo, ma ne ho conosciuti tanti altri cui è stato pronosticato un sicuro avvenire e poi si sono persi per strada. I motivi possono essere diversi, ma la maggior parte di loro ha una carriera inferiore alle aspettative perché si sono cullati troppo sul loro talento, pensando che rappresentasse, da solo, la garanzia di un posto da titolare; conosco invece molti calciatori non particolarmente dotati dal punto di vista tecnico, ma che grazie alla loro passione e all'impegno messo in ogni allenamento e in ogni partita hanno raggiunto ottimi risultati, fino a conquistare la fiducia dei c.t. delle loro Nazionali. Ishizaki per esempio, ti assicuro che quando l'ho conosciuto era la negazione del calcio!» sogghignò «Oppure Matsuyama: anche lui non ha molta tecnica, ma a forza di allenarsi persino sulla neve è diventato uno dei migliori portatori di palla in circolazione. E ti assicuro che anche i più talentuosi come Tsubasa, Misaki, Misugi e Hyuga, se non avessero lavorato ogni giorno della loro vita, per ore, sulle loro abilità, non sarebbero arrivati dove sono. E tutti - tutti - abbiamo avuto momenti di difficoltà, in cui siamo stati messi in discussione e abbiamo dovuto dimostrare le nostre capacità e soprattutto la nostra forza mentale. Perché è quella a fare la differenza, è ciò che rende possibile ogni traguardo.» fece una breve pausa. Un leggero sospiro, poi la considerazione finale, che suonava come una sentenza «Quindi credo che sì, si possa nascere predisposti per svolgere un mestiere o praticare uno sport, ma che i mezzi che la natura dona a ognuno di noi siano strumenti speciali da usare e affinare ogni giorno, e non un'investitura divina. Questo vale non solo per il calcio, ma per qualsiasi altro sport e in ogni ambito della vita.»

«E comunque, essere o considerarsi i soli a fare benissimo uno sport o un'attività alla lunga non è così stimolante. Se fossi stato veramente l'unico fenomeno in un Paese che all'epoca credevo scarseggiasse di talenti, ora non starei vivendo questo sogno. Forse sarei andato lo stesso in Germania e avrei magari accettato la naturalizzazione per giocare con la Nazionale tedesca, come mi hanno proposto più volte, ma non sarebbe stata la stessa cosa. Se vinci con una potenza mondiale come la Germania compi comunque una grande impresa ma sei un nome in più in una lista già lunga. Vincere con il Giappone significa irrompere nella storia. E aprire una nuova via. Non più solo Europa e Sudamerica, ma anche il Giappone. Non è meraviglioso?» concluse, guardandola. Negli occhi aveva un luccichio che, insieme al sorriso che distendeva le sue labbra, conferiva un fervore quasi infantile ai suoi lineamenti di giovane uomo.

Elena gli sorrise e annuì. Lo aveva ascoltato pendendo dalle sue labbra, trattenendo quasi il fiato. Aveva tradotto in parole tutto quello che lei aveva sempre pensato sull'approccio con cui affrontare lo sport e più in generale la vita.

Se solo Arimi avesse potuto sentirlo ….

Il sogno di Wakabayashi, di Taro e dei loro amici era come quello di Mayuko: il Giappone, infatti, aveva ottenuto splendidi risultati nella ginnastica artistica maschile, ma non si poteva dire altrettanto per quella femminile. Quante volte aveva insistito, durante le lezioni, su questo aspetto. Fare in modo che anche la ginnastica artistica femminile fosse ai livelli delle migliori scuole del mondo … e quello era il primo passo.

 

«Scusate.» mormorò una ragazzina a pochi passi da loro, facendoli voltare. Era Arimi.

«Signorina Rulli, ha per caso visto il mio braccialetto? Mi sono accorta di non averlo con me.» disse, tenendo gli occhi bassi.

«Certo. L'ha trovato Mitsuyo su una panchina. Eccolo qui.» disse con tono gentile, porgendoglielo.

«Grazie.» rispose afferrandolo e osando appena alzare lo sguardo. Senza aggiungere altro, fece un inchino a lei e a Genzo e si incamminò velocemente verso l'uscita, con il borsone a tracolla, a passo svelto e testa china, il viso coperto dai lunghi capelli neri lasciati sciolti.

«Che abbia sentito?» chiese Elena, gli occhi accesi dalla speranza.

«Credo di sì.» rispose Genzo, rivolgendole un sorriso d'intesa.

 

Mentre Elena si preparava per tornare a casa, si riaffacciarono alla sua mente ricordi di un periodo ormai lontano, ma impresso in modo indelebile nel suo cuore: il primo snodo fondamentale del suo percorso di vita.

Era una delle prime lezioni. All'inizio aveva fatto soprattutto esercizi di riscaldamento, poi l'insegnante, richiamata dai suoi colleghi, aveva diviso le allieve in due gruppi e aveva incaricato le migliori di aiutare le altre bambine a imparare i nuovi movimenti. Elena osservava le sue compagne, ma non aveva il coraggio di accennare una mossa. Le sembravano tutte molto, troppo più brave, soprattutto Shiori.

Lei aveva appena cominciato e, sebbene amasse la ginnastica, si sentiva ancora impacciata e legnosa, aveva paura di fare la figura dell'imbranata davanti agli occhi delle altre bambine. Quel salto del cosacco le sembrava difficile … avrebbe voluto unirsi al gruppo, ma continuava a guardare, voltandosi ogni tanto verso l'istruttrice che stava conversando con alcuni collaboratori e non stava osservando le allieve. Del suo immobilismo si era però accorta proprio Shiori, che aveva interrotto i suoi esercizi e si era avvicinata a lei.

«E tu? Perché stai lì ferma?»

La bambina bionda era trasalita, probabilmente era arrossita perché aveva avvertito del calore diffondersi sulle guance e aveva cercato di calmarsi. «Io … temo di non saperlo fare.» aveva farfugliato.

I suoi occhi dal taglio orientale l'avevano guardata, comprensiva.

«Ho capito. Vieni, ti insegno io. Osservami bene e poi cerca di copiare i miei movimenti. Non ti preoccupare se all'inizio non ti riesce bene, è normale. L'importante è non restartene lì impalata.» le aveva detto, prendendole una mano e portandola verso l'area di allenamento.

Le aveva mostrato come prendere la rincorsa e saltare con una gamba tesa in avanti e l'altra piegata. I primi tentativi di Elena erano stati alquanto goffi, ma a forza di provare aveva imparato a farlo in modo almeno decente. Aveva rotto il ghiaccio e come sempre accadeva in quei casi, a forza di provare e migliorare, avrebbe voluto continuare a oltranza.

Aveva gioito di ogni progresso e si era divertita, riuscendo a ridere anche dei movimenti più scoordinati e delle cadute più comiche, e Shiori le aveva sempre rispiegato e mostrato di nuovo gli esercizi per permetterle di memorizzarli. Così era nata la loro amicizia.

Shiori aveva la stessa età di Elena, ma aveva cominciato la ginnastica artistica tre anni prima ed era una delle allieve più brave del corso; nonostante questo, non si sentiva superiore a quella coetanea più alta e non molto sciolta nei movimenti, ma piena di forza di volontà. L'aveva messa a suo agio e le aveva insegnato ciò che sapeva, mentre continuava a lavorare sulle sue abilità.

 

Ecco. Shiori era la più brava del corso come Arimi, ma c'era una differenza fondamentale: Arimi non era disposta a condividere la sua passione, che per lei era anche uno strumento di riscatto. Amava la ginnastica esattamente come la amava Shiori e come la amava Elena stessa, ma in modo esclusivo. Voleva essere la migliore, vincere le competizioni, essere ammirata. Il suo rapporto con le compagne non era idilliaco, ma non sembrava importarle granché. L'eccessiva ambizione andava però a braccetto con l'egoismo e questo avrebbe finito per ritorcersi contro Arimi. Le esibizioni erano individuali, ma il punteggio era di tutta la squadra. L'amicizia, il sostegno delle compagne e dell'insegnante, degli appassionati che seguivano le gare dagli spalti: tutte cose fondamentali che lei rischiava di non avere, se avesse continuato a comportarsi in quel modo.

Wakabayashi, con le sue parole, aveva dato una nuova speranza: Arimi era andata via in fretta, le era sembrata impacciata e in imbarazzo. Se aveva sentito, forse … avrebbe avuto quantomeno di che riflettere.

Afferrò il borsone per il manico e si avviò verso l'uscita della palestra.

«Elena.» una voce femminile la costrinse a fermarsi.

«Signorina Shiroyama.» Mayuko giunse a pochi passi da lei, anche lei stava per lasciare lo stabile. Posò il borsone ai suoi piedi. La guardava seria, costernata.

«Mi dispiace signorina Shiroyama, anche oggi Shimokawa ha lasciato la lezione.» la informò la sua giovane assistente.

Mayuko le mise una mano su una spalla. «Tu hai fatto tutto quello che hai potuto Elena, ma dovrò fare di necessità virtù. Arimi è la migliore ginnasta della scuola, non possiamo raggiungere i nostri obiettivi senza di lei. È un talento naturale ma ha uno spirito troppo ribelle e individualistico, ha sempre pensato solo a essere una brava ginnasta, mai a instaurare un legame solido con le sue compagne. Ha sempre e solo lavorato per essere la migliore. Credo che questo suo atteggiamento sia impossibile da cambiare.» sospirò, rassegnata.

«Forse no.» rispose Elena, ricordando le parole di Wakabayashi e l'effetto che forse avevano avuto sulla ragazzina. «Mi lasci prima fare un altro tentativo, signorina Shiroyama. Non se ne pentirà.»

Mayuko la fissò negli occhi per qualche secondo e, convinta dalla risolutezza del suo sguardo, decise di dare a lei, ad Arimi e anche a sé stessa, quella possibilità. «D'accordo. È l'ultima carta a tua disposizione.»

 

 

 

***Note***

 

 

Kamaageudon: udon (pasta di farina di frumento in vario formato, il più usato è simile a grossi spaghetti) serviti con l'acqua di cottura, che si intingono in una salsa tsukejiru, preparata con salsa di soia, acqua, spezie.

Matcha: è una varietà di tè verde originaria della Cina, finemente lavorato, usato principalmente nella tradizionale cerimonia del tè. Le foglie vengono cotte al vapore, asciugate e ridotte in polvere finissima, tenuta al riparo da fonti di luce e ossigeno.

Ha proprietà antiossidanti, stimola il metabolismo, aiuta la memoria e la concentrazione.

La prefettura di Shizuoka è ricca di piantagioni di questa varietà di tè.

Tanki-daigaku: sono istituti generalmente privati che offrono insegnamenti (nel campo delle discipline umanistiche, delle scienze sociali, dell'insegnamento, dell'economia domestica e delle discipline mediche) in grado di agevolare l'ingresso nel mondo del lavoro.

Hanno durata biennale (triennale solo per infermieristica) e consentono, a chi lo desidera, di accedere al terzo o quarto anno dei corsi universitari.

Il termine inglese usato per definirli è junior college.

Fonte: MangaForever

Izakaya: è un termine giapponese composto dalle parole i (sedersi), saka (sake) e ya (negozio) e indica un tipico locale giapponese, dove si consumano bevande accompagnate da cibo.

Salto del cosacco: salto con una gamba tesa in avanti e l'altra piegata.

 

A proposito di ginnastica artistica: complimenti alle ragazze della Nazionale italiana juniores che hanno vinto ben sette medaglie (quattro ori tra cui quello a squadre, due argenti e un bronzo) agli European Championships di Glasgow!

Splendido risultato che fa ben sperare per il futuro della ginnastica artistica femminile italiana.

 

 

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII - Sogni e speranze ***


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Capitolo VIII

Sogni e speranze

 

 

 

 

Arimi spinse la porta d'ingresso del caffè "Ocean" ed entrò salutando i gestori del bar, che la conoscevano per essere una cliente assidua. Individuò un tavolino appartato, che dava sulla strada, e vi si sedette. Per fortuna, a quell'ora del pomeriggio il locale non era affollato, ma i suoi pensieri non le avrebbero permesso comunque di farci caso.

Ordinò una tazza di cioccolata e incrociò le dita sul ripiano in legno di noce, guardando distrattamente l'esterno visibile dalla vetrina, il cielo che stava cominciando a tingersi di sfumature rosa e arancioni.

Non aveva il borsone con sé, ma aveva voluto comunque uscire di casa, per passare meno tempo possibile tra le pareti di casa sua. Non si era recata alla palestra perché era ufficialmente esclusa dal gruppo, come le aveva detto la giovane insegnante.

Le parole di Elena e quelle di Wakabayashi riecheggiavano nella sua mente dalla sera prima … l'avevano colpita come uno schiaffo poderoso.

 

Elena era da poco uscita dalla palestra e stava percorrendo la via di casa. Passando accanto al caffè "Ocean" scorse Arimi attraverso la vetrina, seduta da sola a un tavolo mentre girava il cucchiaino in una tazza, apparentemente assorta.

Era un'ottima occasione per verificare se l'impressione sua e di Wakabayashi era corretta. Entrò e finse di guardarsi intorno per cercare un posto libero.

«Ciao.» disse, avvicinandosi al tavolo e facendole un sorriso.

Arimi sobbalzò leggermente al suono della sua voce, e alzò lo sguardo.

«Buonasera.» ricambiò il saluto, con molto meno entusiasmo e senza sorridere, riabbassando subito gli occhi sulla sua cioccolata.

«Ti dà fastidio se mi siedo qui?» proseguì Elena, per nulla scoraggiata dalla freddezza della sua allieva.

«Faccia come vuole.» rispose sempre atona, ma rimanendo seduta «È venuta qui perché sente la mia mancanza?» domandò, sarcastica.

«Per darti un'altra possibilità.» replicò «E poi perché ieri, quando ti ho detto che potevi andartene, speravo che ti dominassi e che decidessi di continuare la lezione.»

«Prende qualcosa, signorina?» le chiese una cameriera, che si era avvicinata nel frattempo.

«Solo un tè alla menta, grazie.»

«Sembri un po' giù.» disse poi, rivolgendosi di nuovo ad Arimi, con un tono di voce più accomodante.

Arimi sollevò un'occhiata che voleva essere maldisposta, ma che riuscì a comunicare solo tristezza.

«Succede.»

«Ne vuoi parlare?» chiese, quel sorriso rassicurante sempre sulle sue labbra.

Arimi la guardò esitante, con un'espressione che sembrava contrariata ma che tradiva, in realtà, il desiderio di confidarsi. In fondo, non aveva un motivo valido per avercela con Elena. Lei aveva sempre cercato di coinvolgerla nelle sue lezioni e aveva dimostrato di non volerla trattare come una bambina. Era stata Arimi a mostrarsi sempre ostile e refrattaria, posizionandosi su un immaginario piedistallo.

«Le interessa davvero?»

«Beh, se riguarda la ginnastica artistica, direi che è addirittura consigliabile parlarne con me.» rispose, strizzandole un occhio e ringraziando subito dopo la cameriera che le aveva appena servito il tè.

Arimi la guardò ancora. Quella ragazza le aveva sempre rivolto sguardi glaciali e contrariati, come naturale conseguenza del suo costante rifiuto di collaborare. Ora aveva uno sguardo conciliante, benevolo, quasi materno. Le stava concedendo l'ennesima possibilità. La sua conversazione con Wakabayashi si riproduceva nella sua testa dalla sera prima, come un filmato cui fosse stata abilitata la ripetizione automatica.

«L'anno scorso mi sono fratturata il malleolo della caviglia destra. Ho subito un intervento chirurgico. Il medico mi disse che non avrei potuto tornare ad allenarmi prima di quattro mesi. E non mi aveva assicurato una ripresa completa.»

Le rivolse un sorriso triste, appena accennato. Elena fece un cenno d'assenso, per incoraggiarla a continuare.

«Per me era come vivere un incubo. Ho cominciato la ginnastica artistica a sette anni. La mia scuola elementare aveva appena istituito un club anche per quello sport, e io che sognavo di farlo da quando avevo visto alcune gare in tv, chiesi subito a mia madre di iscrivermi. All'inizio non voleva, sosteneva che mi sarei solo fatta del male, e mio padre era della stessa opinione. Fu mia sorella, con Kumi a darle manforte, a convincerla. Loro sapevano bene quanto grande fosse il mio desiderio: lo hanno visto nascere.»

«Ah sì? Com'è successo?» le chiese Elena, certa che avrebbe suscitato delle sensazioni positive, alla rievocazione di quei ricordi e delle sensazioni provate da bambina.

«Ero nel salotto di casa mia. Madoka e Kumi stavano guardando la tv, mentre io giocavo con le mie bambole. A un certo punto avevano messo su un canale che stava trasmettendo gare di ginnastica artistica e le avevo sentite commentare sbalordite le evoluzioni delle atlete. Mi ero avvicinata, incuriosita, e subito ero rimasta incantata a guardare lo schermo. Da quel giorno smisi di giocare con le bambole e cominciai a passare ogni momento libero a fare salti e capriole, cercando di imitare quelle ragazze formidabili.»

«Ma mamma e papà non erano d'accordo, mi hai detto.»

Arimi annuì, con un sorriso amaro «I miei genitori hanno sempre fatto paragoni tra me e mia sorella. Lei è sempre stata più brava di me, in tutto. Studentessa modello, una delle migliori giocatrici del club di pallavolo, sempre educata, ordinata, impeccabile. Io invece sono sempre stata più ribelle, non mi è mai piaciuto studiare, fatico a restare ferma e composta, non ricordo quante volte mi hanno sgridata perché avevo le guance arrossate dal sudore e i capelli spettinati, o perché rischiavo di arrivare a scuola in ritardo.» sorrise brevemente, forse con un lieve imbarazzo per aver elencato i suoi difetti «Così ho deciso che la ginnastica sarebbe diventata anche la mia arma di riscatto. Se avessi cominciato a vincere tornei sempre più importanti, nessuno avrebbe avuto più nulla da rimproverarmi e anzi, sarebbero stati orgogliosi anche di me. Così, mi concentravo solo su me stessa, sui miei progressi. Le altre erano solo delle rivali di cui non avere alcuna compassione.»

Era come Elena aveva immaginato. Passione smisurata … e un desiderio disperato di riscatto.

«Verrai a vedere le tue compagne allora, a Numazu?»

Arimi sgranò gli occhi, stupita da quella domanda inaspettata e senza un legame apparente con quanto le aveva appena rivelato «Non lo so. Non è detto che sia libera domenica.» rispose, sbrigativa, assumendo di nuovo un tono freddo e insolente.

Elena annuì facendo una piccola smorfia «A ogni modo, la partenza è fissata per le nove e un quarto, davanti al complesso sportivo. Ma se non vuoi partire con noi, puoi venire a vedere la gara nel pomeriggio.» la informò spingendole sulla superficie del tavolo un biglietto, prima di afferrare il manico del borsone e dirigersi verso il bancone.

 

Sedeva con un'espressione seria e pensierosa e sembrava che non si fosse nemmeno accorta delle scodelle con il pranzo, posate sul tavolo.

«Cosa c'è che non va, Arimi?» chiese Madoka, mentre terminava con calma la sua porzione di riso.

«Nulla. Perché me lo chiedi?»

«Lo farebbe chiunque … sembri preoccupata, e non stai toccando cibo.» spiegò semplicemente.

«Non ho molta fame.» rispose, afferrando svogliatamente una ciotola e le hashi, per ingerire almeno un po' di riso.

Non si era presentata davanti alla palestra quella mattina. L'idea di fare il viaggio in pullman con le sue compagne la riempiva di disagio e di pena. Sentirle parlare con entusiasmo della gara cui avrebbero preso parte, mentre lei ne era esclusa! Sarebbe stato impossibile non sentirsi fuori posto. E poi sapeva di non godere della loro simpatia, perché era egocentrica e presuntuosa, e pensava soltanto a sé stessa e a vincere le gare. Questo era il ritratto che Elena aveva fatto di lei. Ed era certamente anche quello che pensavano le altre ragazze e la stessa Mayuko Shiroyama, sebbene l'avesse sempre lodata per il suo talento. In fin dei conti, doveva ammettere che non si poteva dire che avessero torto, o che lei stessa non avrebbe avvertito le stesse sensazioni se avesse avuto a che fare con una ragazza dal comportamento simile al suo.

Era stata proprio la signorina Shiroyama a chiederle di entrare nella sua scuola due anni prima, dopo averla vista al campionato scolastico di prima media, in cui lei faceva parte del club di ginnastica artistica della Nankatsu.

Il suo biglietto era ancora nella sua borsa … non aveva avuto la sfacciataggine di gettarlo.

«Se vai ora in stazione fai ancora in tempo a prendere il treno. Vuoi che ti accompagni?» la voce di sua sorella la strappò al suo flusso di pensieri.

«No. Ho deciso che non ci vado.» disse, infine.

Madoka sospirò «Arimi, credo che sia un errore da parte tua.»

«Ma no … tanto non ci sarò io, in gara.» replicò, con un'alzata di spalle.

Stava per alzarsi dal tavolo, quando il campanello dell'ingresso suonò.

Madoka posò le ciotole che aveva preso dal tavolo per riportarle in cucina e andò alla porta.

Ciò che vide la riempì di stupore ma anche di sollievo allo stesso tempo.

«Chi è?» le chiese Arimi, vedendola sorridere senza dire una parola.

«È una persona che vedi spesso nella tua palestra.» le rispose sibillina, invitandola ad affacciarsi alla porta.

«Non mi dire che è …» sentiva un nodo in gola al pensiero che potesse essere la signorina Rulli venuta a prenderla a casa, per poi rendersi conto dell'illogicità di quel pensiero. Ma provò sbigottimento nel vedere il ragazzo alto e imponente dai capelli neri, vestito con un paio di jeans e una maglia grigia, appoggiato alla Lexus parcheggiata davanti al cancello.

«Wakabayashi-san? Ha per caso sbagliato abitazione?» chiese, senza malizia.

Genzo chiuse gli occhi e scosse piano la testa, con un lieve sorriso. «No, sono sicuro che questo è l'indirizzo giusto.»

Le aprì la portiera dell'auto e la invitò a salire.

«Ma dove mi vuole portare?»

«Su non fare storie, entra.» le disse risoluto, avvicinandosi e afferrandole delicatamente un braccio, ignorando le sue proteste.

La sua presa non le faceva male, ma era comunque salda. Non avrebbe potuto divincolarsi neppure se avesse impiegato tutta la sua energia.

Arimi entrò nel vasto abitacolo della Lexus e si sedette sul sedile anteriore, accanto al posto di guida su cui si accomodò Genzo.

«Non dimenticarti la borsa.» la richiamò Madoka mettendogliela sul grembo. Chiuse la portiera, salutando entrambi.

«Si può sapere dove mi vuole portare?» chiese di nuovo, stizzita.

«Se ricordi che giorno è oggi, la risposta dovrebbe essere automatica.» rispose Genzo, mettendo in moto.

«A Numazu? Ma io non ho intenzione di andarci … e non ho nemmeno il biglietto con me.» obiettò.

«Quella striscia di carta che sporge dalla tua borsa ha tutta l'aria di esserlo.» le rispose beffardo, ammutolendola.

 

«Scommetto che lei e la signorina Rulli avete architettato tutto questo.» diede infine voce ai suoi pensieri dopo alcuni minuti di viaggio, non riuscendo a dissimulare la sua irritazione.

Genzo scosse la testa «No. Anch'io devo andare a Numazu, per altri motivi.»

«E come faceva a sapere che non ero già partita con le altre?»

«L'ho immaginato.» rispose, guardandola di sottecchi con un mezzo sorriso.

Arimi fece aderire la nuca all'appoggiatesta del sedile, sbuffando.

Il resto del viaggio proseguì con la sola autoradio a diffondere dei suoni all'interno dell'abitacolo.

Genzo guidava con espressione calma e concentrata, la stessa che aveva quando si posizionava tra i pali della porta, lasciandosi alle spalle tratti del paesaggio costiero illuminato dal sole di inizio primavera.

Numazu era una delle più belle città della prefettura, rinomata per le sue stazioni termali e per le sue spiagge.

Arimi sospirò impercettibilmente, pensando che non ci stava andando né per rilassarsi, né tantomeno per divertirsi.

 

Dopo un quarto d'ora, Genzo parcheggiò l'auto in una strada nelle vicinanze del palasport in cui era ospitata la kermesse.

Una volta entrati, consegnarono i biglietti e si sedettero sugli spalti, nei posti intermedi. Avrebbero avuto un'ottima visuale, senza essere facilmente individuabili dalle ragazze.

Le ginnaste di tutte le squadre si stavano già preparando a eseguire le rispettive routine, e poco dopo la competizione ebbe inizio.

 

«È dura starsene a guardare.» commentò Genzo, dopo che si erano svolti gli esercizi di alcune atlete.

Arimi si voltò di lato e lo guardò. Un lieve sorriso sul suo bel profilo.

«Cosa provi nel vedere le tue compagne in pedana?»

«Le invidio. Vorrei esserci anch'io.»

«Provi solo questo mentre le osservi?»

«Che altro dovrei sentire?»

Genzo strinse le labbra e distolse per un attimo lo sguardo dalla ragazzina, per poi tornare a guardarla con occhi gravi.

«Ecco il punto, Arimi. Tu pensi solo a te stessa.»

L'adolescente colse il rimprovero negli occhi del calciatore e abbassò gli occhi.

«Quando ti sentirai vulnerabile, quando attraverserai un periodo di forma non ottimale, se dovessi infortunarti, o sbagliare un esercizio … avrai bisogno dell'amicizia e del conforto delle tue compagne.» le spiegò, con calma.

«Io … la ginnastica è il mio sogno. Amo infinitamente questo sport … non sopporto di restare fuori.»

«Ti capisco. Ma quello che la signorina Shiroyama ed Elena hanno voluto insegnarti è che i risultati non sono tutto e soprattutto non potranno renderti felice se non c'è altro oltre alla legittima ambizione. Quello per la ginnastica è un amore da condividere Arimi, non da tenere per sé. Le tue compagne la amano quanto te, gioiscono per ogni esercizio riuscito bene e soffrono per un errore o un infortunio. Il fatto che tu abbia più talento rispetto a loro non significa che abbiano meno diritto di te a sognare di diventare delle campionesse. È un sogno, e non va precluso a nessuna. Anche se durante la routine sei sola, loro sono intorno a te. Loro, la signorina Shiroyama, Elena.» affermò, mentre Arimi chinava leggermente la testa, nell'apprendere quelle verità che lei aveva ignorato per tanto tempo.

«Prova ad osservarle cercando di metterti nei loro panni. Immagina cosa provano mentre si riscaldano, mentre provano l'esercizio, mentre si apprestano a eseguirlo.» le suggerì.

 

Sulla pedana, per l'esercizio a corpo libero, si stava presentando Shinobu.

L'inizio era stato molto buono. Poi però, commise un paio di errori di coordinazione, che le costarono delle penalità.

Non aveva calcolato bene i tempi di stacco tra un movimento e l'altro, ed era finita con i piedi fuori della pedana.

La ginnasta andò a sedersi accanto a Elena, che cercava di confortarla come poteva, dopo che ebbe ricevuto un abbraccio consolatorio da Mayuko.

Arimi strinse le labbra. Si sentiva … dispiaciuta, costernata, delusa. Per una sua compagna.

Istintivamente voltò il viso verso Wakabayashi, che osservava la kermesse con occhi attenti.

Il suo insolito compagno di viaggio aveva ragione. Nel suo egoismo, non aveva mai considerato che Mitsuyo, Shinobu, Hanako, Emi e le altre ragazze della scuola nutrivano una passione non inferiore alla sua, si allenavano con costanza e impegno, provavano ripetutamente i loro esercizi, cercavano di imparare nuovi elementi sempre più difficili, mettendosi continuamente alla prova. Proprio come lei.

Nel corso della signorina Rulli erano tutte alla pari, bambine che avevano cominciato a praticare la ginnastica da poco tempo, all'inizio del loro percorso. Non c'era spirito di competizione, ma solo tanta voglia di imparare, di aiutarsi e di essere amiche. E la loro insegnante stava bene attenta a far crescere questo spirito, evitando la nascita di rivalità e acredini, creando un clima sereno.

 

Mitsuyo … era migliorata moltissimo. Alla trave, eseguì con scioltezza dei movimenti di notevole difficoltà: una combinazione con una rondata, due flic-flac all'indietro e un Korbut alla perfezione. Poi fu la volta di un Arabian raccolto con mezzo avvitamento.

Completò la routine con un doppio salto indietro carpiato.

Un ottimo esercizio, fluido e con poche oscillazioni.

Arimi si rese conto che forse una rivale temibile stava già crescendo nella sua stessa palestra.

Mitsuyo Minobe non aveva fatto progressi soltanto alla trave, ma anche negli altri tre attrezzi. I due salti al volteggio, che era sempre stato il suo punto forte, vennero eseguiti perfettamente. Alle parallele, dimostrò di aver acquisito maggiore forza e stabilità. E al corpo libero, la sua eleganza e padronanza dei movimenti entusiasmarono il pubblico e convinsero i giudici di gara.

E anche le altre compagne stavano progredendo, diminuendo il divario con lei.

Non provava fastidio, e questo quasi la stupì. No, era … adrenalina, persino eccitazione. Uno stimolo a migliorare ulteriormente.

Forse era questo che intendeva Wakabayashi, nelle frasi conclusive del suo dialogo con la signorina Rulli?

"Essere o considerarsi i soli a fare benissimo uno sport o un'attività alla lunga non è così stimolante".

Erano sensazioni a lei sconosciute e che ora la stavano sopraffacendo.

 

Mitsuyo Minobe si classificò seconda, dietro a una ginnasta della prefettura di Yamanashi.

Stessa sorte per le rispettive scuole, con una graduatoria del concorso a squadre speculare a quella del concorso individuale.

«Sono state molto brave, non pensa anche lei, Wakabayashi-san?» commentò, voltandosi verso Genzo.

Trasalì nel vedere il posto vuoto accanto al suo.

«Ma dov'è finit… ehi!» gridò, alzando gli occhi e vedendo che il ragazzo aveva appena sceso la scalinata, circondato da molti altri spettatori che, alla spicciolata, stavano lasciando il palasport. Arimi balzò in piedi e si sporse leggermente sulla ringhiera.

«Ehi Wakabayashi-san!» gridò di nuovo, richiamando la sua attenzione e inducendolo ad alzare la testa verso di lei «Non mi lasci qui. Come torno a casa?» protestò.

«Con il pullman della palestra, insieme alle tue compagne e alle tue insegnanti.» sorrise, prima di voltarsi e lasciare la tribuna per avviarsi verso l'uscita.

«Ma …» cercò di replicare, ma Genzo era già sparito insieme a molti altri spettatori, oltre la porta.

Sbuffò. Beh, non restava che andare dalle sue compagne e dalle insegnanti. Trasse un profondo respiro, scese le scalinate che si stavano via via svuotando e, lentamente, si diresse verso la pedana dove Mitsuyo aveva ricevuto una medaglietta in argento con una piccola statuetta rappresentante una ginnasta nell'atto di fare un'enjambée.

Le allieve della Shiroyama Gymnastics School si stavano per avviare verso gli spogliatoi, seguite dalle due insegnanti.

«Avete fatto tutte una bella gara.»

Si voltarono tutte quasi contemporaneamente, nell'udire quella voce conosciuta. Arimi era lì, vestita con una maglietta a maniche lunghe e un paio di jeans, i capelli sciolti sulle spalle, e le guardava con un sorriso timido e le mani dietro la schiena.

«Complimenti Mitsuyo. Siete state tutte bravissime, ragazze.» aggiunse, a conferma di ciò che aveva appena affermato. Non c'era nulla di forzato in quell'espressione, e lei sentì qualcosa sciogliersi, come se si fosse finalmente liberata di una zavorra che le impediva di vivere la ginnastica come una passione, come qualcosa che la rendeva felice per il solo motivo di praticarla.

Le ragazze la guardavano un po' interdette, come se si stessero chiedendo se fosse veramente la boriosa e scostante Arimi, la ragazza che stava parlando.

Non l'avevano mai vista così: sorridente e un po' impacciata.

Ma alla fine, dopo un'occhiata a Mayuko ed Elena, sorrisero di rimando e la ringraziarono, sotto lo sguardo meravigliato, ma anche soffuso di gioia, delle due istruttrici.

 

Il viaggio di ritorno verso Nankatsu fu per Arimi meno terribile di quanto si fosse aspettata. Le ragazze non le fecero pesare la mancata partecipazione e anzi, l'ascoltarono attente mentre riferiva con rispetto e franchezza le riflessioni fatte mentre guardava i loro esercizi e le relative considerazioni, e rispondeva alle domande con naturalezza.

Le sue compagne si dimostrarono molto curiose anche riguardo al suo viaggio di andata.

«Sei venuta con Wakabayashi? Il portiere che si allena nel dojo?» domandò Hanako.

Elena, seduta su uno dei sedili anteriori, si voltò.

«Sì, è passato a prendermi a casa.»

«Oh, che razza di fortuna! Ma che ci faceva lui qui?» le chiese subito Shinobu, la più sensibile a quel tipo di argomento.

«Non lo so. Ha visto la gara con me e poi è andato via.»

«Ha assistito alla gara …?» le chiese Elena, con occhi sgranati per lo stupore.

La reazione della giovane insegnante non lasciava spazio al dubbio: non c'era stato alcun accordo tra loro, proprio come le aveva detto il ragazzo.

Il pullman giunse sul piazzale antistante la palestra quando il sole cominciava la sua discesa verso l'orizzonte.

Dopo aver salutato tutte le ragazze e la signorina Shiroyama, Arimi afferrò leggermente un braccio di Elena, accostandosi a lei.

Ripensò al dialogo tra lei e lo stesso Wakabayashi … a quel giudizio così duro, ma veritiero per come si era comportata fino ad allora.

«Signorina Rulli» chiese «davvero rappresento soltanto un peso?»

Elena la fissò per alcuni secondi, poi scosse la testa piano, con un leggero sorriso «No, Arimi. Sei sempre un valore aggiunto. Ma devi praticare la ginnastica con umiltà. Devi abbandonare quel piedistallo su cui tendi a posizionarti, e allora le tue compagne ti accetteranno nel gruppo e ti riconosceranno come la loro leader. Saprai incoraggiarle e non intimidirle.»

Arimi fece una piccola smorfia, apparentemente confortata da quelle parole «Signorina Rulli … io voglio provare a rientrare nel gruppo. Metterò da parte il mio … egocentrismo e la mia superbia.» proferì, usando quei termini con riluttanza ma senza ironia e lasciando la presa.

Elena la guardò e fece un cenno d'assenso «Sei bentornata, Arimi. Però devi essere costante, non ti basterà un solo giorno per convincere la Shiroyama. Lo sforzo iniziale è fondamentale, ma non varrà granché se non gli dai un seguito.» la avvertì.

«Lo so. Ma ho deciso, e lavorerò duro per raggiungere questo obiettivo.» dichiarò con un tono di voce determinato quanto il suo sguardo.

Elena le diede una leggera, amichevole pacca sulle spalle «Allora comincia subito con l'andare a casa e riposarti bene. Da domani ti aspetta una settimana intensa.»

 

Da una settimana Arimi si stava impegnando per aiutare Elena con le lezioni alle bambine e per convincere la signorina Shiroyama, che osservava tutto in silenzio e ascoltava i resoconti della sua assistente.

Elena si passò una mano sulla fronte, asciugando uno strato di sudore. La giovanissima ginnasta era stata inappuntabile, affiancandola negli allenamenti, dando consigli alle bambine, correggendone pazientemente postura e movimenti e persino suggerendo degli esercizi. Era certa che aveva assimilato la lezione e fatta propria, e che non sarebbe passato altro tempo prima che la Shiroyama la reinserisse nel suo gruppo.

E non solo per il pieno ed efficiente spirito di collaborazione con cui la coadiuvava.

Aveva notato che dopo la lezione, Arimi andava negli spogliatoi senza alcuna remora e si fermava a chiacchierare con le sue compagne, raccontando quello che aveva fatto. Ormai il suo rientro cominciava a essere richiesto dalle stesse ragazze e solo la fermezza impediva a Mayuko di rompere quel patto.

Le parallele erano forse l'attrezzo più difficile con cui si confrontavano le piccole allieve ed Elena aveva già dedicato diverse lezioni perché imparassero a padroneggiarlo.

«Arimi, potresti aiutare Nami mentre io rispiego l'esercizio a Yu e a Himeko?»

«Certo.» rispose, andando subito dalla bambina.

Nami aveva impugnato lo staggio singolo e si era tirata su fino a toccarlo con le cosce, ma faticava a piegarsi e fare la capriola. Le sue braccia tremavano per la paura.

«Aspetta. Non è questa la posizione giusta. Devi metterti così … ecco.» le spiegò Arimi con calma, spingendole delicatamente sul fianco con le dita.

«Ti tengo io. Non temere, non cadrai.» la rassicurò, incrociando gli occhi intimoriti della piccola.

Si spinse in giù, sempre sorretta da Arimi.

«Non lasciarmi.» la implorò, guardandola preoccupata.

«Stai tranquilla, la mia mano è qui e non la toglierò.» ribadì.

Nami spinse ancora, riuscendo finalmente a compiere un giro completo.

Ritornò nella posizione iniziale con un largo sorriso.

«Sì, ce l'hai fatta! Bravissima.» esclamò la giovane ginnasta, felice di aver assistito in prima persona al primo successo della piccola allieva e di avervi contribuito.

Arimi si voltò verso Elena, con un sorriso felice che la giovane insegnante, in piedi a braccia conserte, ricambiò, alzando poi il mento a suggerirle di dare un'occhiata alla sua sinistra.

Mayuko era lì accanto, in piedi con le mani sui fianchi, un sorriso sornione sul volto leggermente truccato. Si rivolse a Elena.

«Ho bisogno di una nuova ginnasta da inserire nel mio gruppo, ma le tue allieve sono ancora un po' troppo giovani. Credo che mi prenderò lei.» disse, indicando Arimi.

La ragazzina sorrise, ma non c'era nessuna espressione stile "Era ora" o, peggio, "Te l'avevo detto". Era un sorriso dettato dalla felicità, dalla consapevolezza di aver imparato qualcosa che l'avrebbe resa una ginnasta diversa, senz'altro migliore, pronta per mettersi al servizio della squadra. Nuova, come non a caso l'aveva definita Mayuko.

 

«Ragazzi, mi aiutate a portare dentro questo pacco? Lo mandano da Kashiwa ed è indirizzato al signor Nitta!» annunciò la signora Saito, l'apprezzata cuoca del J-Village, una donna di mezza età corpulenta e perennemente di buonumore, soprattutto quando aveva tanti giovani entusiasti della sua cucina attorno a sé. L'interessato lasciò subito il suo posto sul divano dove stava guardando un film e corse verso la donna, seguito da alcuni compagni di squadra, tanto solerti quanto curiosi.

«Questo è un compleanno speciale, diventa maggiorenne.» commentò Taki, aiutandolo a posare il pacco su un tavolo.

«Oh, guarda quante lettere ha ricevuto, il nostro falchetto.» disse Ishizaki, scorrendo alcune buste «Sentite questa: "Nitta Shun, quando vedo i tuoi occhi non capisco più niente …"»

L'attaccante alzò di scatto lo sguardo dagli oggetti che stava passando in rassegna, perlopiù pupazzetti ovviamente a forma di falco e disegni di suoi primi piani o nell'atto di calciare un hayabusa shoot.

Non mancavano le confezioni di cioccolatini, che fecero strappare una battuta a Soda: «Queste devono aver fatto confusione con San Valentino.»

«Razza di ficcanaso! Non l'avrai mica aperta?» sbottò.

«Ehi, per chi mi hai preso?» replicò Ryo, offeso «È che questa è talmente invasata che te l'ha scritto sulla busta, al posto del nome del mittente.» disse, lanciandogliela.

«Dammi le altre lettere.» voleva vedere se, tra tutti quei fan e ammiratrici, c'era una ragazza in particolare che si era ricordata di lui.

Scorse con attenzione tutte le buste, aprendo quelle che non recavano il nome del mittente e leggendo l'incipit delle lettere contenute all'interno. Poi rimise tutto dentro il pacco e lo richiuse, con uno sguardo amareggiato e contrariato.

«Signor Nitta!» gridò ancora la signora Saito, facendogli alzare la testa «È arrivato un altro pacco, più piccolo. No ragazzi, questo ce la faccio a portarlo da sola!» esclamò giuliva, rivolta a Taki, Izawa e Urabe che si stavano avvicinando e appoggiando sul tavolo una bassa scatola rettangolare, avvolta da un incarto blu e oro.

Shun lo scartò, circondato dai suoi compagni, scoprendo una scatola contenente una bellissima tuta composta da pantaloni scuri e una maglia con cappuccio grigia.

Vide un cartoncino ripiegato rimasto sul fondo della scatola e lo prese. Era decorato da un disegno … fatto da Kumi. Un biglietto d'auguri personalizzato: un falco pellegrino che volava verso il simbolo dei cinque cerchi olimpici, e una veduta dall'alto dello stadio "Santiago Bernabéu" sullo sfondo.

Aprì il biglietto e lesse il messaggio scritto all'interno: "Scusala … ma lo sai bene che a Madoka riesce tutto, tranne disegnare!".

Ridacchiò, ma provò un'emozione ancora più forte nel leggere le poche righe sottostanti.

"La tuta però, l'ho scelta io! Fatti valere. Madoka."

Urabe diede di gomito a Kishida, perfino Misaki non trattenne un sorriso nel vedere gli occhi scintillanti e le guance leggermente arrossate per l'euforia del giovane attaccante.

«Ragazzi, mi è venuta voglia di andare a fare una bella corsa. Ci vediamo dopo!» annunciò l'attaccante, afferrando l'ultimo regalo e dirigendosi, completamente dimentico dello scatolone, verso le scale che portavano al piano superiore, dove si trovavano le stanze dei giocatori.

 

 Kozo Kira dichiarò finita la seduta pomeridiana di allenamento.

«Andate a lavarvi e a cambiarvi, ci vediamo dopo a cena.»

I ragazzi si avviarono ordinatamente verso gli spogliatoi.

 

Prima di raggiungere l'allenatore e i suoi compagni per la cena, Genzo salì nella stanza che divideva con Shingo Takasugi, entrò e posò il borsone sul letto. Stava per posare il cellulare sul comodino accanto quando cominciò a suonare. Non appena lesse il nome sul display, accettò subito la chiamata.

«Ti cerco alle ore diciotto e trentacinque.» esordì l'inconfondibile voce di Kaltz.

Genzo rise. «Trentasei.» ribatté, osservando il quadrante del suo orologio digitale, che aveva da poco cambiato la cifra dei minuti.

«Tsk, sei sempre il solito precisino.» bofonchiò Hermann, con un tono fintamente irritato. «Stavolta almeno, ho azzeccato il fuso.»

Da quando Genzo era tornato in Giappone, Kaltz aveva provato a telefonargli alcune volte ma non era mai riuscito a mettersi in contatto con lui, e tutto perché si dimenticava che c'erano otto ore di differenza tra Amburgo e il Paese d'origine del portiere. E così a Genzo era capitato di accendere il cellulare al mattino e ricevere la notifica di una chiamata effettuata alle tre di notte. Così il pomeriggio, quando trovava un po' di tempo libero, richiamava Hermann.

«Giro con la mappa dei fusi orari come se fosse la patente.» scherzò il giovane tedesco.

«I nostri solerti giornalisti ci tengono costantemente aggiornati su di te.» proseguì «Complimenti per la tua conquista! Somiglia tantissimo a quella tua amica che era venuta qui anni fa con la sua squadra di tennis.»

«È lei.» confermò Genzo, senza aggiungere altro.

Il suo ormai ex compagno di squadra si limitò a un breve suono di approvazione. Sapeva benissimo quanto poco amasse il portiere parlare delle sue vicende sentimentali e non gli fece altre domande, preferendo optare per un argomento su cui l'avrebbe trovato senz'altro più loquace.

«State andando alla grande nelle qualificazioni.»

«Sì, stiamo disputando delle ottime gare. Sono contento, abbiamo una squadra forte che gioca per vincere.»

Hermann colse una implicita frecciata al gioco della sua ormai ex squadra. Non si offese: sapeva che quella del portiere era soprattutto una critica a Zeeman, e non aveva mai nascosto ai suoi compagni quello che  pensava in proposito.

Gli raccontò di come stavano andando le cose ad Amburgo, senza di lui. La squadra veleggiava ormai stabilmente pochi punti al di sotto della zona Europa League e aveva appena superato gli ottavi della Coppa di Germania, ma Kaltz non era molto ottimista per il prosieguo.

«Indovina chi ci siamo beccati ai quarti? Il Bayern.»

«Non avete nulla da perdere.» gli ricordò Genzo «Giocate come abbiamo fatto all'Allianz Arena e li metterete in difficoltà. Schweitzer è bravo, farà quanto possibile per fermare i tentativi dei loro attaccanti.»

«Stai scherzando?» obiettò Hermann «Sì, è bravo, ma conosco solo due portieri in grado di bloccare i tiri di Schneider, Levin e Sho nella stessa partita: tu e Deuter Müller.»

Genzo sorrise a metà. Non per immodestia, ma il suo amico aveva detto la verità: non per niente il Bayern Monaco aveva un ritmo inarrestabile in Bundesliga e aveva battuto nettamente il Manchester United nella gara di andata dei quarti di Champions League, lasciando poche speranze alla squadra inglese di poter ribaltare il risultato. Ma non aveva mai senso arrendersi prima di scendere in campo, e Jens aveva sempre messo una dose notevole di determinazione e buona volontà. In questo, gli ricordava Morisaki.

«Giocate al meglio delle vostre possibilità. È l'unico modo per non avere rimpianti. Male che vada, potrete essere fieri del fatto di avere messo il Bayern in difficoltà, di avergli fatto sudare la qualificazione.» era una frase forse inflazionata e banale, ma era stata una delle prime cose che aveva imparato sul calcio ed era ben consapevole che, detta da lui, avrebbe avuto un effetto positivo sull'autostima dei suoi compagni. Gli sembrava ancora così strano, essere ormai estraneo alle vicende della squadra di cui aveva fatto parte per dieci anni … ma sperava di far giungere comunque il suo sostegno fino all'altra parte dell'emisfero.

Hermann tacque per un attimo, poi Genzo poté udire un leggero sospiro «Sembro uno di quegli innamorati svenevoli da soap opera, ma ci manchi, Gen.»

 

«Wakabayashi c'è una chiamata per te, da Nankatsu.» gli annunciò Kisugi mentre metteva piede a pianoterra, indicando la signora Saito che gli sorrideva tenendo in mano la cornetta del telefono pubblico. Già, sorrideva: perlomeno, non doveva trattarsi di nulla di grave o di allarmante.

«Sarà la piccola peste di suo nipote!» ridacchiò Ishizaki, mentre Genzo andava a rispondere.

«È una ragazza.» gli sussurrò la cuoca con un gran sorriso, passandogli la cornetta.

Genzo ricambiò il sorriso, cercando di non assumere un'espressione ironica. Era una donna simpatica e alla mano, ma fin troppo appassionata di cronaca rosa e pettegolezzi, come dimostravano le riviste patinate che traboccavano dal portagiornali collocato in un angolo della cucina.

Rispose pensando si trattasse di Annie, si stupì invece nel sentire la voce di Elena. Probabilmente aveva provato a chiamarlo mentre parlava con Hermann, ma non ottenendo risposta aveva deciso di chiamare alla sede del ritiro.

«Ciao Wakabayashi. Volevo ringraziarti. Ieri Arimi è rientrata nel gruppo della Shiroyama.» gli annunciò, con un tono calmo ma che tradiva la soddisfazione per quel felice epilogo.

«Ce l'ha fatta, alla fine.» commentò, sinceramente lieto di apprendere quella notizia.

«Sì ed è merito tuo. Ha ascoltato la nostra conversazione e quello che hai detto l'ha fatta riflettere e le ha fatto capire dove stava sbagliando.» disse con convinzione.

«Ne sono contento. Ma gli insegnamenti vanno messi in pratica e quelli li hai impartiti tu. Devi ringraziare te stessa, non me.»

Elena sentì una piacevole sensazione di calore pervaderle il cuore. Wakabayashi le stava riconoscendo dei meriti, ma lui aveva avuto un ruolo fondamentale. Ce l'avrebbero fatta senza il suo distillato di esperienza e di saggezza non comune, in un ragazzo di soli vent'anni? Non ne era per niente sicura, e comunque era impossibile giudicare inutili le sue parole.

«No, non ti permetto di sminuire i tuoi meriti.» replicò, con tono deciso «Io stavo per mollare e tu ci hai dato questa possibilità.»

«D'accordo, accetto di prendermi il merito per avervi spronate, ma il resto lo avete fatto tutto voi.» insistette.

«Sì, hai ragione.» rise Elena. Rideva di gioia per quella prima impresa andata a buon fine e per il tono involontariamente burbero con cui Wakabayashi aveva accolto la sua gratitudine e aveva poi comunque attribuito a lei e Arimi il ruolo primario.

La telefonata si concluse con un'esortazione di Genzo a continuare su quella strada. Scostò la cornetta dall'orecchio e l'appoggiò sulla forcella, chiudendo la comunicazione. Con uno sguardo di sottecchi vide la signora Saito guardare verso di lui, mentre stava preparando uno dei piatti che avrebbe servito per la cena, per poi chinare rapidamente la testa sulle verdure che stava affettando.

Chiuse gli occhi, sorrise e tornò nella sala comune.

La telefonata di Elena lo aveva stupito ma gli aveva indubbiamente fatto piacere. Era contento di aver contribuito a farle vincere quella prima sfida professionale e di sentirla così raggiante e allegra dopo averla vista abbattuta e rassegnata pochi giorni prima. Era convinto di aver trattenuto il respiro dopo che l'aveva invitato a non svalutare i propri meriti, con un tono così determinato da rasentare il rimprovero.

Il giorno dopo era prevista la partenza per Naraha, stavano per cominciare le gare di ritorno del primo girone.

Si era fermato al palasport con l'intenzione di seguire solo l'inizio della gara, per assicurarsi che Arimi non decidesse di sgattaiolare via, per poi andare magari a fare una corsa su una delle bellissime spiagge del posto. Quel rischio era stato presto scongiurato dopo il loro scambio di battute, e poi era stato lui a rimanere lì a seguire tutta la gara. Aveva visto tutte le emozioni alternarsi sul volto di Elena durante gli esercizi delle allieve, perché era a lei che aveva prestato gran parte della sua attenzione.

L'aveva osservata molto, ammirato da come incoraggiava le ragazze prima che salissero sulla pedana, da come le assisteva mentre eseguivano i loro esercizi. I suoi sorrisi di soddisfazione ed esultanza e le smorfie di preoccupazione e di delusione quando commettevano degli errori l'avevano coinvolto più della gara stessa.

E al termine della competizione, si era accorto di aver passato nel palasport tutto il tempo che aveva progettato di dedicare al suo allenamento.

Si era alzato e se n'era andato prima che la ragazza potesse vederlo.

Aveva sorriso della cosa, mentre tornava a casa. Evidentemente, a forza di parlarne con lei, aveva finito per prendersi a cuore quella questione, ma Arimi doveva iniziare a riconciliarsi con le sue compagne e con la signorina Shiroyama. Lui poteva rappresentare soltanto un buon aiuto esterno.

«Chi era, Wakabayashi?» gli chiese Izawa.

«Era il dojo Shiroyama, mi sono accordato per i prossimi allenamenti.» mentì, riprendendo il suo posto sul divano.

 

Il sole illuminava l'oceano punteggiandolo di tanti cristalli dorati. Dal punto di vista meteorologico il mese di marzo si preparava a concludersi nel modo migliore.

Hiroji sperava di poter dire la stessa cosa anche per quanto riguardava un'altra questione ben più importante, che lo aveva tenuto impegnato per intere giornate e a volte anche per notti insonni, al punto da preoccupare Annie. Lui le accarezzava il viso, le dava un bacio sulla fronte e la pregava di avere pazienza almeno fino alla fatidica data del primo consiglio d'amministrazione.

Da quando era tornato in Giappone, aveva quasi sempre guidato lui l'auto, come aveva fatto quando viveva a Londra. Ormai Kuroda lavorava più per i suoi genitori che per lui. Adorava guidare, gli permetteva di scaricare la tensione e di far evadere la sua mente dai pensieri che lo rendevano così teso. Lo faceva sentire come nei primi anni della sua lunga permanenza in Gran Bretagna, quando aveva cominciato a essere Hiroji Wakabayashi e non più solo il figlio primogenito di un ricco e stimato imprenditore.

Quel giorno segnava per lui un nuovo inizio: era la prima riunione del consiglio d'amministrazione nel nuovo anno fiscale e doveva presentare il suo progetto per una nuova era nella storia della Wakabayashi Electrics.

Era tempo di approvare il bilancio dell'ultimo trimestre, stava per iniziare il nuovo anno fiscale e c'erano le prime decisioni importanti da prendere. Durante l'attesa riunione del consiglio d'amministrazione, avrebbe presentato il suo programma di riorganizzazione e rilancio dell'azienda.

Ne aveva parlato con Genzo alcune mattine prima, a colazione, tra un morso a una fetta di cheesecake ai frutti di bosco e un sorso di caffè. Suo fratello gli aveva risposto con la solita razionalità, facendo un paragone che aveva trovato calzante.

«È un po' come in una partita di calcio, anche se la riorganizzazione di un'azienda si svolge in tempi molto più diluiti. Devi rischiare in prima persona, ma anche essere pronto a correre ai ripari se la strategia non dovesse avere successo. Non capirai se stai facendo la cosa giusta finché non vedrai i primi risultati. Un po' come quando un allenatore arriva in una squadra di calcio: lui porta le sue idee e il suo metodo di gioco, ma solo dopo alcune partite si può capire se funzionano.»

Aveva passato il periodo iniziale del suo mandato a lavorare nel suo nuovo ufficio nel quartier generale dell'azienda, facendo conoscenza con i dipendenti e con i membri del consiglio d'amministrazione. Yasuhiro gli aveva lasciato tutto esattamente com'era fino al suo ultimo giorno da amministratore delegato e gli aveva assicurato carta bianca: nessuno, lì dentro, godeva di una protezione tale da renderlo inamovibile.

Si spostò sulla corsia si sorpasso e superò un'auto che procedeva ad andatura lenta.

Pensò ancora alle settimane precedenti, come in un riepilogo mentale.

Aveva passato l'intero mese a viaggiare per il Giappone, in visita agli stabilimenti e alle filiali nazionali della Wakabayashi Electrics. Aveva avuto molte risposte e aveva fatto molti incontri interessanti. Aveva conosciuto impiegati, tecnici e operai molto in gamba; tra loro c'erano dei potenziali ottimi collaboratori e aveva deciso di tenerli d'occhio: erano preparati, brillanti e alcuni di loro avevano anche fatto delle esperienze all'estero.

Aveva fatto molte domande e aveva ascoltato con attenzione tutto ciò che operai, impiegati e capi degli stabilimenti gli avevano raccontato, aveva seguito interi processi di lavorazione. Quelle persone che prima lo conoscevano più che altro di nome, erano state favorevolmente colpite dalla solerzia, dall'energia e dall'attenzione a ogni minimo dettaglio del loro nuovo principale.

Avevano letto sui giornali e sui siti Internet specializzati delle modifiche che Hiroji intendeva apportare all'assetto della società, erano prospettati accordi con altre aziende, forse anche straniere, per poter investire in nuovi settori. E, ovviamente, era stato ventilato anche lo spettro del licenziamento di un buon numero di dipendenti: anche per questo il giovane dirigente aveva deciso di visitare tutti gli stabilimenti e incontrare i lavoratori, per rassicurarli dalle informazioni prive di fondamento riportate da alcuni giornalisti che avevano evidentemente distorto le dichiarazioni rilasciate nelle interviste. Gli erano state poste numerose domande cui aveva risposto con chiarezza e senza annunciare provvedimenti di cui non aveva ancora verificato la necessità, ma alcuni sedicenti esperti di economia si erano spinti a formulare commenti e ipotesi del tutto personali. 

«Wakabayashi dovrà fare questo, Wakabayashi dovrà decidere così … ma se sono così bravi a dire quello che devo fare, papà, perché non hai chiamato uno di loro?» aveva chiesto ironicamente a Yasuhiro, durante una delle sue visite al suo ufficio nella holding.

Poi si concesse un altro ricordo, ben più dolce e recentissimo. Aveva pensato di dormire a Tokyo per arrivare ancora più preparato, ma Annie si era opposta a quell'idea.

«Saresti ancora più teso e agitato e non chiuderesti occhio. No, hai bisogno di arrivare con la maggior tranquillità possibile e questo lo puoi fare solo se dormi nel letto della tua stanza, con me accanto.»

Così era rimasto a Nankatsu. Ed era stata decisamente la scelta giusta: aveva fatto l'amore con Annie, aveva dormito tenendola tra le sue braccia.

Poche ore dopo, stava chiudendo i polsini della camicia quando la moglie era comparsa, in vestaglia, sul vano della porta.

«Sei nervoso?» gli chiese, con un tono dolce e uno sguardo rassicurante, ma su cui risaltava un sorriso sornione che la rendeva così sensuale, ai suoi occhi.

«Non più del normale, spero.»

«Potresti metterti a ballare come Hugh Grant in "Love Actually", è utile per scaricare la tensione.» scherzò, strizzandogli un occhio.

Hiroji sogghignò nella maniera tipica dei Wakabayashi «Non credo di saper dimenare i fianchi in quel modo.»

«Eppure pagherei per vedertelo fare.» replicò, ridendo piano per non svegliare i bambini che dormivano nelle stanze vicine.

"Love Actually" era stato il primo film che lui e Annie avevano visto insieme al cinema. La trama era composta da dieci storie d'amore e la loro avrebbe potuto benissimo essere l'undicesima.

Le sue labbra si piegarono spontaneamente in un sorriso.

Aveva una moglie generosa e piena di premure che lo sosteneva, lo capiva, ascoltava i suoi sfoghi e sapeva fargli vedere le cose nella prospettiva giusta quando i dubbi e le preoccupazioni lo gettavano nello sconforto e nell'insicurezza, proprio come sua madre faceva con suo padre.

Quando voleva sentirsi più sereno nei momenti di maggiore apprensione, gli bastava pensare alla sua donna, ai suoi bambini e alla sua famiglia.

 

Arrivato nella sede del quartier generale della Wakabayashi Electrics, un alto e largo immobile nel quartiere speciale di Minato, Hiroji sistemò la sua vettura nell'ampio parcheggio antistante. Fu felice di notare che in quel momento la sola auto già presente era quella di Akajima. Yasuhiro doveva essere arrivato condotto dal loro autista.

Salutò il custode, gli inservienti e i segretari, fece chiamare Akajima e si recò nel suo ufficio per rivedere i suoi fascicoli.

Aveva riempito il suo tablet di dati e annotazioni, che aveva usato per redigere, con la collaborazione del suo direttore finanziario, il suo piano di rilancio, resistendo a ogni tentazione di consultare il padre. Tutto per una questione anche di orgoglio, per dimostrare che era capace di assumersi tutta la responsabilità richiesta dall'incarico e dal progetto che si apprestava a sottoporre agli altri membri del consiglio d'amministrazione. La loro approvazione o rifiuto e soprattutto i loro commenti, positivi e negativi, lo avrebbero aiutato a scegliere se confermare oppure licenziare alcuni dirigenti non disposti o privi della necessaria convinzione a prendere parte alla nuova fase.

«Ci siamo.» disse Hiroji, cercando di dissimulare la sua tensione, che leggeva però anche negli occhi di Akajima.

«È qualcosa di insolito rispetto agli anni precedenti» ammise il suo braccio destro «forse non sono abituato a programmi di questo tipo.»

«Qualcosa bisogna rischiare, Akajima.» gli ricordò Hiroji «Ma è vero anche che dobbiamo essere pronti a rimediare se un investimento non andasse bene. Inoltre» aggiunse «se è ancora qui e mi ha aiutato a redigere questi fogli» disse, impugnandoli e agitandoglieli sotto il naso «significa che non è poi così scettico.»

Il direttore finanziario non poté che ricambiare quello sguardo d'intesa così simile a quello del suo vecchio amico Yasuhiro.

 

Gli otto membri del consiglio d'amministrazione erano seduti attorno a un tavolo ovale, con Yasuhiro nel ruolo di presidente. Guardava suo figlio, in piedi tra lui e Akajima, mentre si apprestava a parlare.

«Prima di illustrarvi il mio progetto, vorrei mettere in chiaro fin da subito quali sono le mie idee di gestione di un'impresa.» fu la sua introduzione, che catturò la massima attenzione dei dirigenti.

«Quando si parla di licenziamenti, si pensa sia una questione riguardante soltanto gli operai, considerati l'anello debole della catena, mentre in realtà, senza il loro lavoro nemmeno noi saremmo qui e la Wakabayashi Electrics avrebbe chiuso da tempo.» affermò, passando in rassegna con lo sguardo i volti dei membri del consiglio d'amministrazione «Beh, voglio dirvelo senza mezzi termini: gli alti dirigenti non godono dell'immunità. Nessuno gode di diritti acquisiti. Chi lavora male se ne va, qualunque incarico ricopra. Lo farò anch'io, se dovessi dimostrarmi inadeguato al progetto.»

I dirigenti lo guardavano con un'espressione scettica. I loro occhi si spostarono su suo padre, al suo posto di presidente del consiglio d'amministrazione. Yasuhiro mantenne uno sguardo imperturbabile, segno che non avrebbe posto ostacoli alle decisioni del figlio.

Quest'ultimo illustrò la strategia con cui intendeva riportare l'azienda al suo ruolo di leader nel mercato della componentistica e della produzione di dispositivi e annunciò la possibilità di ingressi di dirigenti stranieri e di accordi con altre società. I volti degli altri membri non avevano avuto mutamenti d'espressione, ma Hiroji sapeva bene che difficilmente tutti si sarebbero trovati d'accordo con i suoi propositi.

I dirigenti si guardarono tra di loro, indecisi su come reagire. Dire di sì avrebbe significato accettare la scommessa di rinnovare l'azienda, aprire un nuovo corso in cui loro però non sarebbero più stati considerati intoccabili come prima e della cui riuscita non erano sicuri. Le cose erano rimaste sostanzialmente invariate per anni, ma alla lunga la Wakabayashi Electrics aveva pagato il suo immobilismo, il troppo affidamento su una modalità di gestione ormai collaudata ma che con il passare del tempo e, soprattutto, con gli importanti cambiamenti degli ultimi anni, si era rivelata obsoleta.

Il giovane primogenito di Yasuhiro stava cominciando fin da subito a mostrare di che pasta era fatto e aveva messo da parte ogni riguardo.

 

Kumi osservò il foglio su cui aveva appena terminato uno dei disegni che componevano il suo manga.

«Sì, direi che va bene.» mormorò a sé stessa, posandolo sul tavolo. Guardò il cestino lì accanto, pieno di fogli appallottolati che non erano altro che le versioni scartate dell'ultimo disegno e di quelli precedenti.

Sospirò, pensando a quanto fosse difficile disegnare un buon manga. Eppure, nulla le piaceva di più.

Ci lavorava da mesi, ormai: a casa, nella sua camera da letto, ma anche a scuola - costringendo, alcune volte, Madoka a coprirla - e ora nel negozio di cartolibreria in cui stava sostituendo sua madre, approfittando della momentanea assenza di clienti.

Mancavano ormai soltanto quindici giorni al termine ultimo per la consegna del suo manga alla commissione esaminatrice della casa editrice Shogakukan. Si trattava di un concorso per giovani esordienti: Kumi era convinta di avere in mano la storia giusta e voleva partecipare a tutti i costi. Anche se non avesse vinto, il suo lavoro poteva comunque essere notato da uno dei membri della commissione e ricevere una menzione speciale e poi chissà, magari qualche mangaka famoso l'avrebbe voluta come sua assistente ….

«Sugimoto?»

Kumi alzò la testa di scatto e vide Misaki in piedi di fronte al bancone. Si era così immedesimata nel suo viaggio mentale che non aveva sentito neppure suonare il campanello dell'ingresso.

«Oh, ciao Misaki. Scusami, non ti avevo sentito.» disse, alzandosi e chinando per un attimo la testa per dissimulare il suo imbarazzo e assumere un minimo di disinvoltura. «Di cosa hai bisogno?» chiese, sorridente.

«Sono venuto a comprare degli album da disegno per mio padre, di quelli per fare gli schizzi.»

«Certo.» andò nel magazzino del negozio, dove erano riposti gli articoli arrivati da poco e non ancora collocati sugli scaffali.

Mentre Taro aspettava, il suo sguardo venne attirato dai disegni sparsi su un tavolino accostato all'estremità del bancone. Si avvicinò per sbirciarli. Alzò un attimo lo sguardo: Kumi era ancora nel retro. Prese in mano uno dei fogli e guardò le vignette con attenzione e con occhio esperto. Erano ben fatti, avevano un tratto agile, pulito. I personaggi e le ambientazioni erano tratteggiati in modo realistico, senza eccessi e nelle giuste proporzioni. La ricostruzione storica - riconobbe l'ambientazione in un'era del passato - era precisa e credibile. Il suo stile gli ricordava quello di Riyoko Ikeda e di Rumiko Takahashi. Sorrise, piuttosto stupito: aveva sentito dire che disegnava, ma non sapeva avesse un talento di tale portata.

Lo rimise in fretta sul tavolino quando sentì i suoi passi rapidi avvicinarsi.

«Ecco qui.» disse, posando album di varie dimensioni e tipi sul bancone e mostrandoglieli. Taro scelse il tipo di album richiestogli da suo padre e pagò la cifra necessaria.

«Quei disegni sono tuoi?» chiese poi, non riuscendo a trattenere la sua curiosità.

Kumi sbiancò «Sì …» rispose, sentendo i battiti del suo cuore farsi più rapidi.

«Sono molto belli. Davvero.»

«Ti ringrazio.» replicò, sperando che le sue guance non si fossero imporporate in modo evidente «Sono per un concorso indetto dalla Shogakukan cui vorrei partecipare. Mi piacerebbe davvero tanto diventare una mangaka.» ammise.

Taro annuì «Mio padre disegna sempre i suoi soggetti prima di dipingerli, quindi un po' d'occhio ce l'ho. Non conosco la trama del tuo manga, ma le scene sono ben rappresentate e i personaggi sono ben disegnati. Il mio parere è positivo, per quel che può valere.»

«Oh, per me vale molto.» mormorò. Spalancò gli occhi, rendendosi conto di aver abbassato e soprattutto addolcito fin troppo il tono della sua voce «Cioè sì, tuo padre è un bravissimo pittore, hai viaggiato insieme a lui per tanti anni e quindi non ho dubbi che te ne intendi.» si affrettò a precisare, nel tentativo di evitare che Misaki la fraintendesse.

Vedere che il ragazzo non aveva cambiato espressione né atteggiamento fu un sollievo.

«Il tuo apprezzamento mi dà un po' di fiducia. A volte ho la sensazione di non essere abbastanza brava per inviare un mio lavoro.» riprese, desiderosa di cogliere quell'occasione per parlargli, per stabilire un contatto.

Taro scosse piano la testa. «Se non tenti, non lo saprai mai. E anche se non dovessi vincere, non sarà la fine di tutto. Potrai continuare a disegnare e proporre i tuoi lavori a delle case editrici più piccole ma anche più disposte a lanciare nuovi talenti. Percorrerai una strada più lunga, ma ti costruirai un solido bagaglio di esperienze che ti aiuteranno a gestire con assennatezza il tuo successo, quando arriverà.»

Kumi lo guardò, sentendosi confortata dalle sue parole.

«Mio padre ha viaggiato e lavorato per anni prima di avere riscontri decisivi. Non è facile farsi strada nella vita, per gli artisti forse è ancora più difficile.»

«In fondo anche tu ne sai qualcosa, Artista del campo.» replicò con uno sguardo vispo e un sorriso da bimba, ritrovando per un attimo l'abituale disinvoltura.

Taro sorrise e stava per replicare quando entrò una coppia di signori di mezza età e la loro conversazione dovette, per forza di cose, finire.

«Provaci! In bocca al lupo.» disse però prima di salutarla.

«Crepi.» disse a voce bassa, tanto da non essere sicura che l'avesse sentita, e per qualche istante rimase a guardare, come incantata, la porta da cui era uscito.

Era stato liberatorio parlare con lui: le aveva dato una grossa iniezione di fiducia, al punto da renderle quasi attraente persino la prospettiva di non vincere il concorso ma lavorare per una piccola casa editrice e nel frattempo portare avanti i suoi studi.

Tuttavia .... sentiva una forte sensazione di disappunto verso sé stessa. Che le succedeva? Aveva rischiato di scoprirsi come un'ingenua, dopo mesi passati a cercare semmai di nascondere i suoi sentimenti, anche perché non era ancora riuscita a capire che tipo di rapporto lo legasse a Elena e quindi non sapeva come comportarsi. Si sentiva la scolaretta timida e facile all'imbarazzo che non era mai stata. Cosa avrebbe pensato Misaki di lei?

Eppure … era davvero sbagliato cercare di instaurare un rapporto con lui, che andasse al di là dei saluti e di qualche banale domanda?

Fu costretta a mettere subito da parte quegli interrogativi, per non fare una brutta figura anche con i suoi attuali clienti.

 

 

***Note***

 

 

Nel sistema scolastico giapponese, le scuole elementari durano sei anni (dai 7 ai 12), le medie tre (dai 13 ai 15), così come il liceo (dai 16 ai 18).

 

Hashi: bacchette che i giapponesi usano per afferrare e portare il cibo alla bocca.

 

-san: è il suffisso onorifico giapponese più comune ed è un titolo di rispetto usato praticamente fra persone di tutte le età. La traduzione più vicina è "signore" o "signora". Qui la quindicenne Arimi lo usa per rivolgersi al ventenne Genzo.

 

Kashiwa: città del Giappone, situata nella prefettura di Chiba, a sud-est di Tokyo. Vi ha sede la squadra di calcio del Reysol Kashiwa.

 

In Giappone, la maggiore età si raggiunge per legge a vent'anni.

  

"Love Actually - L'amore davvero" (Gran Bretagna, 2003) è una commedia romantica ambientata nella Londra contemporanea, nel periodo natalizio.

Questa è la divertente scena del balletto del primo ministro britannico, interpretato da Hugh Grant, sulle note di "Jump! (For My Love)" delle Pointer Sisters.

 

Riyoko Ikeda e Rumiko Takahashi sono due tra le più celebri mangaka giapponesi. La prima è l'autrice di "Berusaiyu no Bara" ("Lady Oscar"), la seconda, già citata nel sesto capitolo, ha creato, tra gli altri "Lamù", "Maison Ikkoku", "Inuyasha", "Ranma 1/2".

 

Piccolo dizionario di ginnastica artistica:

Flic-flac: detto anche ribaltata, è in effetti un ribaltamento (in avanti o all'indietro) sul piano sagittale composto da due fasi: l'una prima della posa delle mani (dalla stazione eretta alla verticale) e l'altra prima dell'arrivo dei piedi (dalla verticale alla posizione eretta).

Fonte: GinnasticaKinesRoma

Lo sa fare anche Juan Diaz (e ovviamente Tsubasa :-D).

Korbut: un salto all'indietro con arrivo a gambe separate sulla trave. La sovietica Olga Korbut lo eseguì alle Olimpiadi di Monaco di Baviera nel 1972. In questo filmato lo si vede da 00:47 a 00:51.

Arabian: salto raccolto. Consiste in una spinta all'indietro con un mezzo avvitamento che si conclude con l'arrivo in piedi sulla trave, in posizione opposta rispetto a quella di partenza. Lo si può vedere in questo filmato.


 

 

 

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Capitolo 9
*** Capitolo IX - Hanami ***


Capitolo IX

Capitolo IX

 

Hanami





Genzo osservò lo splendido giardino che circondava villa Ujimori, attraverso la grande portafinestra, per poi varcare la soglia e uscire sul portico, lasciando che la brezza primaverile e i raggi del sole gli accarezzassero il viso e i capelli neri.

I suoi occhi ammirarono l'erba verde perfettamente tagliata e curata, le rocce rotonde disposte con precisione a formare un sentiero che permetteva di spostarsi da una parte all'altra della casa, gli alti nespoli e i rododendri.

Stava trascorrendo la settimana di libertà lasciata da Kira a tutti i suoi giocatori dopo la conclusione del primo girone di qualificazione, in cui il Giappone si era classificato al primo posto vincendo tutte le partite. I suoi compagni di squadra avevano segnato molte reti, e lui aveva mantenuto la porta inviolata.

I genitori di Asami erano a Singapore in viaggio d'affari e lei gli aveva proposto di passare la notte nella villa di famiglia.

La ragazza, appena scesa dal piano superiore, si avvicinò in punta di piedi, perché non si accorgesse della sua presenza.

Lo abbracciò da dietro, passandogli le braccia attorno al busto e posando le mani sul suo torace, in una languida carezza. Appoggiò la testa sulla sua ampia schiena.

«Buongiorno.» sussurrò.

Genzo sorrise al delicato, gradevole contatto e si voltò di lato per guardarla in viso, mostrandole il suo bel profilo.

«Buongiorno.» rispose di rimando, voltandosi completamente e ritrovandosi di fronte a lei.

Indossava ancora la sua vestaglia di seta bianca.

«Così parti già oggi pomeriggio?»

Genzo annuì «Domani mattina mi aspetta una riunione del consiglio direttivo dell'Istituto Shutetsu. Devo essere a Nankatsu entro stasera.»

Asami gli si fece ancora più vicina, posando il capo sulla sua spalla. I suoi lunghi e setosi capelli neri gli lambivano il tessuto della camicia bianca. Lui le passò un braccio attorno alla schiena sottile, permettendole di accoccolarsi sul suo ampio petto.

Accarezzò ammirata i pettorali di lui, delineandone i contorni con le dita, attraverso la stoffa della camicia.

Era bella, intelligente e molto dolce. Stava bene con lei.

Fermarsi nel suo appartamento oppure nella villa della famiglia Ujimori, ogni volta che andava a Tokyo, era diventata ormai una piacevole consuetudine.

«È meglio cominciare a prepararsi, per non arrivare tardi al pranzo con Hiroji e Annie.» mormorò.

La ragazza sollevò la testa «A proposito di Hiroji, sai cosa mi ha detto? Che hai cominciato a praticare anche il pugilato e il kickboxing per migliorare come portiere.»

Lui assentì «A Nankatsu il maestro Akinori Shiroyama è affiancato da un campione di arti marziali tedesco: Carlo Nerlinger. È uno dei migliori in circolazione, animato da una passione inesauribile. Ha un'esperienza sterminata eppure crede di avere sempre qualcosa da imparare. E probabilmente anche questo ha contribuito a farmi migliorare.»

Asami sorrise «Non sei cambiato per niente. Hai sempre la stessa passione per il calcio.» gli sussurrò, mentre si alzava in punta di piedi per ricevere un nuovo bacio.

«Così rischiamo di farli aspettare.» sussurrò non troppo convinto, dopo che si furono staccati, mantenendo le labbra a pochi centimetri da quelle della ragazza.

«Forse. Ma … prima voglio un piccolo supplemento. Dopo sarà già tanto se riuscirò a darti un bacio, prima della tua partenza.» mormorò, passandogli le braccia attorno al collo e guardandolo con le belle labbra piegate in un piccolo broncio.

Genzo sorrise, mentre si chinava sul suo viso e la stringeva nuovamente a sé.

 

Una Lexus si fermò nel parcheggio del ristorante davanti al quale erano arrivati da poco, e ne uscirono Hiroji e Annie che, notata la presenza di Genzo e Asami, sorrisero e si incamminarono verso di loro.

Si erano dati appuntamento a Nakameguro, una zona poco lontana dal quartiere speciale di Shinagawa, dove si trovava villa Ujimori. E poi sarebbero andati a vedere i ciliegi in fiore.

 

«Ci sono novità dal consiglio d'amministrazione?» chiese Genzo, quando i camerieri ebbero servito tutte le pietanze ordinate.

Hiroji assentì «Se ne andranno in tre. Non mi fa piacere, ma me l'aspettavo. Già dopo la prima riunione mi avevano detto di non condividere il mio progetto.»

«Ora dovrai sostituirli.» commentò, sorseggiando un po' di vino dal suo bicchiere.

«Ho già individuato dei profili che fanno al caso nostro. Li sto contattando, da alcuni di loro ho già ricevuto la disponibilità a parlare del piano di riorganizzazione.»

«E papà, continua a insistere?» chiese poi, lanciando al fratello un'occhiata tra il divertito e il comprensivo.

Genzo posò il bicchiere e sorrise «L'ho convinto a lasciarmi in pace almeno fino al termine delle Olimpiadi.»

«Se ci andrete.» intervenne Annie, seduta accanto al marito, lanciandogli uno sguardo birichino e un sorriso sornione. Era chiaro che voleva soltanto punzecchiarlo con intenti scherzosi, e il cognato stette al gioco.

«Hai qualche dubbio?»

«Certo che ci andranno. Il Giappone è fortissimo e Genzo non ha subìto nemmeno un gol.» affermò Asami, guardando teneramente il suo fidanzato e accarezzandogli una spalla.

Hiroji e Annie guardarono con un sorriso di approvazione la giovane coppia. Erano stati felici di apprendere del legame da poco nato tra i due, che dopo anni di amicizia era sfociato in una relazione amorosa.

Erano bellissimi insieme e Asami era chiaramente innamorata di Genzo.

L'unico dubbio era la capacità di quest'ultimo di mantenere una relazione stabile, specie dopo il suo ritorno in Europa. Perché, anche se era in rotta con l'Amburgo, il portiere avrebbe sicuramente continuato la sua carriera calcistica in un'altra squadra del Vecchio Continente, dove si giocavano i campionati più prestigiosi e il calcio più competitivo.

Hiroji sapeva che l'amore non era mai stato una priorità nei progetti di vita del fratello: ad Amburgo non aveva mai avuto una ragazza fissa, ma solo brevi avventure. Sapeva anche che quattro anni prima aveva rinunciato a iniziare una relazione proprio con Asami, benché ne fosse fortemente attratto, a causa della distanza che separava Germania e Giappone.

Chissà … forse in quegli anni Genzo aveva rimpianto quella scelta. Oppure semplicemente, aveva ritrovato Asami in un momento in cui era più propenso a iniziare una storia. In fondo, era stata l'unica ragazza a instaurare con lui un rapporto duraturo di confidenza e di amicizia; certamente Genzo non si sarebbe legato a lei senza avere nei suoi confronti intenzioni più che serie.

I signori Wakabayashi avevano accolto con la massima soddisfazione la notizia della frequentazione tra il loro ultimogenito e Asami Ujimori. I genitori dei due ragazzi avevano auspicato già molto tempo prima, quando erano bambini, un'unione tra i loro figli e ora finalmente vedevano realizzato quel vecchio desiderio e, cosa ancora più gratificante, senza forzature da parte loro.

La loro unione avrebbe portato benefici anche dal punto di vista degli affari, grazie a una collaborazione esistente da lunga data. Gli Ujimori non avevano altri figli oltre Asami, quindi speravano in un buon matrimonio per poter passare la guida dell'azienda al futuro genero. E Genzo Wakabayashi era certamente un ragazzo posato e coscienzioso, con la testa sulle spalle, che avrebbe saputo farsi valere, in un futuro magari non lontano, anche come imprenditore. Già la sola parentela con una famiglia così influente garantiva ad Asami un futuro più che roseo.

«Ieri ho sentito Keisuke. Tornerà in Giappone in autunno.» annunciò Hiroji.

«Se non ricordo male, studia Ingegneria chimica.» intervenne Asami.

Genzo fece un cenno d'assenso «È proprio la materia adatta a lui. Da piccolo rompeva qualsiasi oggetto gli capitasse a tiro per vedere com'era fatto dentro.»

«Già, ti ricordi quando ha praticamente smembrato il tuo GameBoy per vedere come funzionavano i meccanismi all'interno e di quali materiali erano fatti?» rise Hiroji.

Il portiere sogghignò «E come potrei dimenticarlo? È stata la prima volta in cui ho pensato seriamente di ammazzare qualcuno.»

«Ragazze, era una furia! Ha rincorso Keisuke fino al cancello di casa. Lui ha cercato di arrampicarsi ma Genzo è riuscito ad afferrargli le gambe e a tirarlo giù. Poi gli ha strappato gli occhiali, ha spaccato la montatura e li ha gettati per terra. "Ecco, così non guarderai più niente!" gli ha gridato.» raccontò il giovane dirigente, imitando la voce furibonda del fratello più piccolo e faticando a contenere l'ilarità che quel ricordo gli suscitava, contagiando anche gli altri.

Genzo scosse la testa «Papà ci fece una ramanzina indimenticabile. Costrinse Keisuke ad accompagnarmi a comprare un'altra console, mentre io dovetti accompagnare lui a scegliere un nuovo paio d'occhiali.»

«Obbligando te a saltare l'allenamento di calcio e Keisuke quello di basket.» aggiunse Hiroji.

Annie e Asami risero di gusto, la prima tenendosi la pancia, l'altra con una mano davanti alla bocca.

Il pranzo proseguì piacevolmente, tra aneddoti e risate.

Nel pomeriggio, le due coppie andarono a Nakameguro, come voluto da Asami, per poi dividersi durante il percorso.

Era passato tanto tempo dall'ultima volta in cui aveva ammirato i ciliegi, in Giappone.

Le fronde cariche di petali bianchi e rosa si aggrovigliavano creando un tunnel che sovrastava il fiume Megurogawa, che si stava tingendo, di giorno in giorno, di quei colori. I raggi del sole filtravano attraverso gli spazi lasciati da quell'intreccio, riflettendosi sull'acqua e punteggiandola di piccoli cristalli dorati.

Asami prese Genzo sottobraccio e gli appoggiò la testa su una spalla.

«È sempre meraviglioso.» affermò, con occhi estasiati «È uno spettacolo stupendo … non finirà mai di stupirmi.»

«È proprio questo l'aspetto più fantastico di questo evento. Si ripete sempre uguale ogni anno, eppure suscita ogni volta un'emozione incredibile, che non si attenua mai.»

 

«Sei sicuro di non volerti fermare ancora un po'?» gli chiese, mettendosi di fronte a lui dopo alcuni minuti passati a passeggiare contemplando quella stupenda manifestazione della natura e parlando dei loro impegni futuri.

«No, purtroppo i tempi sono stretti, e a me piace organizzare tutto per bene.»

La ragazza annuì, con un lieve sorriso.

«Lo so. È che quando siamo insieme, vorrei che il tempo si fermasse. O almeno, che vivessi a Tokyo anche tu.» mormorò.

Le accarezzò i lunghi capelli, seta nera tra le sue dita, intenerito dal suo sguardo dolce e devoto.

Gli si strinse, e lui le circondò la schiena con le braccia.

Si salutarono nel parcheggio in cui Hiroji aveva lasciato l'auto. Genzo sarebbe tornato a Nankatsu insieme al fratello e a Annie. I più giovani si scambiarono un lieve bacio, mentre giungeva il taxi che Asami aveva chiamato per farsi riportare a casa.


Kumi e Madoka pedalavano con il vento che accarezzava la pelle del viso e delle braccia e faceva danzare i loro capelli, percorrendo le strade costeggiate da ciliegi nel pieno del loro rigoglio, che emanavano il loro inconfondibile profumo.

Chiunque stesse passando per di lì, avrebbe potuto udire le loro voci argentine e le loro risate.

Stavano passando gli ultimi giorni di vacanza prima di cominciare una nuova fase del loro percorso: avrebbero iniziato il nuovo ciclo di studi, Madoka a Tokyo all'università Keio, Kumi a Fuji, dove si trovava il tanki-daigaku. Una città distante pochi chilometri da Nankatsu e facilmente raggiungibile con l'autobus.

«Guarda laggiù.» disse Kumi, indicando all'amica il campo di calcio comunale «Ci sono i ragazzi. Proprio non riescono a stare lontani un singolo giorno da un pallone.» ridacchiò, rallentando progressivamente il ritmo della pedalata, fino a frenare.

«Già.» concordò Madoka, frenando anch'ella poco più avanti. Si fermarono a osservarli e ad ascoltare le loro grida, talvolta di esultanza, altre di disappunto. Poi si scambiarono un'occhiata.

«Che dici, andiamo a tifare un po'?»

Madoka esitò un attimo, poi sorrise «Perché no?»

Lasciarono le biciclette sull'erba, poco lontano dal ciglio della strada, dopo averle legate con l'apposita catena. Scesero i gradini e si avvicinarono a una delle panche collocate a bordocampo.

«Ehi, ciao ragazze!» le salutò Ishizaki, che era stato il primo ad accorgersi del loro arrivo.

«Nitta non c'è?» chiese Madoka, guardandosi intorno e riconoscendo tutti gli altri giocatori ex Nankatsu, senza individuare l'attaccante.

«È andato sui monti Hida insieme a Ken Wakashimazu e ad alcuni allievi del suo dojo, per forgiare un nuovo tiro da usare nella seconda fase delle qualificazioni.» le rispose Kishida.

«Sui monti Hida?» ripeté la ragazza, stupita e delusa. Aveva atteso con trepidazione quella settimana perché sperava di rivederlo, dopo la conclusione del primo girone, e invece … sempre il calcio, sempre le lezioni di karate con quel Wakashimazu!

«Sì. Lo avevano progettato già un mese fa. Ma la bella notizia è che domani o al massimo dopodomani tornerà a Nankatsu e al matsuri sicuramente ci sarà.» la informò, strizzandole un occhio.

Gli occhi di Madoka si illuminarono «Oh, bene.» riuscì a rispondere, improvvisamente sollevata.

Kumi si sedette sulla panca con un sorrisetto malizioso.

«Quindi tra un paio di giorni avremo la resa dei conti.» la punzecchiò, quando la raggiunse.

Madoka cacciò la lingua «E piantala di prendermi in giro! Io almeno ho deciso di darmi una mossa, mentre tu continui a tergiversare.» la rimbrottò, posando gli occhi su Taro Misaki, che si preparava a ricevere un cross da Izawa. Era un vero e proprio invito a segnare, rapido e preciso, e il centrocampista saltò per colpirlo di testa.

Il pallone entrò in rete, ma Morisaki nel raccoglierlo, si accorse che sul cuoio bianco e nero c'era, oltre alle macchie marroni e verdi lasciate dal terreno e dall'erba, una chiazza rossa … sangue.

«Misaki, ti sei rotto il sopracciglio.» lo avvisò il portiere.

Taro, inginocchiato, si passò una mano sull'orbita dolorante dell'occhio destro e avvertì il lungo taglio sulla pelle e il fluido sanguigno, rimastogli sulle dita.

«Ragazze, abbiamo bisogno di voi!» gridò Yuzo, rivolto alle due ex manager.

«Coraggio! Dove non agisci tu ci pensa il destino, a quanto pare.» insinuò Madoka.

Kumi la guardò stranita «Il destino? Ma che dici …»

«Su, vai!» la esortò, dandole una spinta.

«Misaki, vieni in infermeria, ti disinfetto la ferita.» disse, avvicinandosi a Taro e facendogli segno di seguirla.

Il ragazzo la guardò, poi annuì e si alzò. Nel frattempo, i ragazzi ricominciarono a palleggiare tra di loro.

 

Si sedette su una vecchia sedia imbottita mentre Kumi tirava fuori da un armadietto gli oggetti necessari alla medicazione e li posava su un tavolo accanto.

Gli passò il cotone imbevuto di disinfettante sul sopracciglio ferito, tamponando con delicatezza, sfiorandogli i capelli sulla tempia. Arrossì leggermente e strinse le labbra per cercare di reprimere l'imbarazzo datole dal sorgere di pensieri piacevoli ma inopportuni.

Taro attese in silenzio la fine della medicazione, avvertendo il tocco rinfrescante sulla sua arcata orbitale.

I suoi occhi si posarono all'altezza del petto e dei fianchi di Kumi. Li volse altrove con un lieve imbarazzo, non potendo muovere la testa.

La ragazza applicò una garza che coprì la ferita per tutta la lunghezza, e la fissò con un cerotto.

«Certo che ne hai prese di botte in testa, sul campo da gioco.» disse, dirigendosi verso l'armadietto per riporvi i medicamenti.

Taro ridacchiò «Già.»

«Come va la gamba sinistra?»

Il giovane, nell'ultima partita a Kuala Lumpur, aveva giocato soltanto il primo tempo perché sul finire di questo aveva subìto un intervento scomposto da parte di un difensore malese, che lo aveva costretto a uscire dal campo zoppicando e a rimanere negli spogliatoi.

Il ragazzo sorrise, rassicurante «È stato di più lo spavento. Kira ha preferito non farmi rientrare per precauzione, ma il giorno dopo la mia caviglia si era già sgonfiata.»

Kumi fece un cenno d'assenso.

«Hai poi inviato il tuo lavoro alla Shogakukan?» le chiese poi, ricordandosi della loro conversazione alla cartolibreria, poche settimane prima.

La ragazza strinse le labbra «No … devo ridisegnare l'ultima tavola.»

«Non ti convince il finale?»

«Già. È difficile …» sospirò, appoggiando una mano sul tavolo e portandosi l'altra su un fianco «… ogni volta penso di disegnare e scrivere delle sciocchezze o di sviluppare la trama in modo poco credibile o poco avvincente.»

Taro annuì, comprensivo «È molto comune. Succede anche davanti a una tela e spesso anche con un pallone tra i piedi. L'unica differenza è che sul campo di calcio le decisioni vanno prese in un secondo. Pittori e fumettisti possono prendersela con più comodo.» ridacchiò.

Kumi ricambiò divertita, poi si fece nuovamente seria «Ho litigato con papà proprio per questo. "Chi te lo fa fare di lambiccarti il cervello e di perdere giornate intere a disegnare cose inutili come i manga?".» riferì, imitando il tono autoritario e sprezzante di Shinji Sugimoto.

Il centrocampista scosse la testa «Quando hai un sogno, è un dovere fare tutto il possibile per realizzarlo. Non avrai nulla da rimproverarti, comunque andrà a finire.»

«Grazie Misaki. Il tuo sostegno mi sta facendo bene.» disse, rivolgendogli un sorriso amabile e riconoscente.

Si guardarono per alcuni secondi, senza parlare. Poi lui si alzò.

«Grazie a te per la medicazione. Adesso posso tornare in campo.»

«Fai più attenzione.» si raccomandò, con un sorriso e una voce calda, quasi materna.

Il ragazzo spalancò per un attimo gli occhi, poi le rivolse un amichevole cenno del capo, si voltò e uscì dall'infermeria, tornando nel terreno di gioco.


Elena guardò il quadrante dell'orologio al suo polso e sbuffò, seccata.

«Accidenti, eppure credevo di aver fatto bene i calcoli.» borbottò, mentre accelerava la sua andatura. Per fortuna aveva con sé soltanto una borsa capiente ma non troppo carica.

Aveva passato un paio d'ore ad allenarsi in palestra, poi negli spogliatoi aveva fatto una doccia rapidissima e si era infilata in fretta e furia una maglietta verde e un paio di jeans.

Rischiava di arrivare in ritardo alla lezione di giapponese, e il professor Nobuo Tokugawa mal tollerava il mancato rispetto degli orari. Era un insegnante molto preparato, ma anche severo.

Fortunatamente gli orari dei corsi per gli immigrati non coincidevano con quelli delle altre lezioni ed Elena non  si trovò a dover farsi largo tra la moltitudine di studenti dell'Istituto Shutetsu.

Un uomo alto ed elegantemente vestito, che era appena entrato nell'edificio, le tenne aperta la grossa porta a vetri, permettendole di passare.

«Grazie.» mormorò senza guardarlo in viso e si diresse verso l'aula destinata al corso di giapponese, la cui porta era fortunatamente ancora aperta.

Si fermò alcuni secondi prima di entrare, per riprendere fiato e per cercare di riportare le guance arrossate dalla corsa, al loro consueto colorito.

«Eccomi. Chiedo scusa, Tokugawa-sensei.» esordì, con un profondo inchino.

L'anziano insegnante si limitò ad annuire una volta con un cenno del capo, con uno sguardo impassibile e a invitarla a prendere posto con un gesto della mano.

Salutò i suoi compagni di corso con un inchino e andò a sedersi accanto all'unica ragazza con cui aveva instaurato un rapporto che andasse al di là dei saluti formali e dei convenevoli.

Si chiamava Paula ed era una studentessa di Medicina iscritta a un corso di specializzazione, dopo aver compiuto gli studi nel suo Paese d'origine. Aveva un corpo dalle forme piuttosto generose, un viso grazioso incorniciato da boccoli castani e occhi vivaci dello stesso colore, la tipica brasiliana dal carattere estroverso e brioso. Le ricordava molto Kumi, tranne che per una maggiore disinvoltura nel parlare di ragazzi.

«Wakabayashi si è comportato da vero cavaliere, tenendoti la porta aperta. Si vede che vive da anni in Europa.» le sussurrò, mentre Elena metteva sul banco il libro di testo e il quaderno.

«Intendi Genzo Wakabayashi?»

«Sì, proprio lui! È qui per una riunione del consiglio direttivo. È stato nominato al posto di sua madre.»

«È così affascinante in giacca e cravatta. Con un ritardo così, sai che me ne importerebbe delle occhiatacce di Tokugawa!» sospirò poi, con un'aria sognante che le avrebbe strappato una risata, se non avesse pensato a quanto era stata - seppure involontariamente - maleducata nel non salutare Genzo.

«Accidenti! Era Wakabayashi … che figura.» mormorò, stringendo le labbra ed estraendo lentamente una penna nera dal suo astuccio.

«Non te la prendere, mica ti butterà fuori dalla scuola!» rise.

«Non è questo … è che ci conosciamo da un po' di tempo e io mi sono limitata a dirgli "Grazie" senza nemmeno guardarlo in faccia.»

Paula incuriosita, fece per chiederle qualcosa riguardo a come si erano incontrati, ma proprio in quel momento il professor Tokugawa invitò tutti i suoi allievi a prestare attenzione all'argomento che si accingeva a spiegare.

 

Camminavano facendosi strada tra la folla degli allievi che avevano invaso l'atrio al cambio dell'ora.

Nell'ala opposta a quella in cui si trovavano, studenti euforici e studentesse adoranti avevano circondato il portiere, chiedendogli autografi, strette di mano e fotografie.

Elena vide Paula sfrecciare in avanti e dirigersi, con il suo taccuino aperto su una pagina intonsa e una penna, proprio verso Genzo. Il giovane le fece un autografo e ricevette un lieve bacio sulla guancia dalla ragazza, che si voltò poi verso di lei e la salutò agitando la mano con un sorriso trionfante, prima di uscire dalla scuola.

Quel gesto fece sì che Genzo notasse la presenza della giovane insegnante, che gli si stava avvicinando con un'espressione ridente che indugiava sulle sue labbra.

«Saluto affettuoso quello di Paula, eh?» scherzò.

«Un po' esuberante, specie per gli standard giapponesi.» convenne, anch'egli divertito.

«È una mia compagna di corso. È molto simpatica ed è anche una tua fan.» gli spiegò.

«Me ne sono accorto.» replicò, rivolgendole un altro dei suoi tipici sorrisi obliqui.

«A proposito … volevo chiederti scusa per non averti salutato prima. Andavo di fretta e non mi sono accorta che sei stato tu a tenermi la porta aperta.»

«Non preoccuparti, ho visto che eri di corsa. Tokugawa ti ha rimproverata?»

Elena si strinse nelle spalle, con un lieve sorriso «A parole, no. Ma con lo sguardo, credo di sì.» rispose roteando gli occhi, ricordando l'espressione severa con cui l'aveva fissata quando era entrata nella classe, ansante e con le guance arrossate per la corsa fatta.

«È un ottimo insegnante, ma è anche molto rigoroso.»

«Sei stato un suo allievo?»

«No, perché ho lasciato il Giappone prima di iniziare la scuola media. Ma è stato il professore di giapponese dei miei due fratelli. Eccolo che arriva.» disse, alzando il mento.

«Buongiorno, Tokugawa-sensei.» lo salutò, facendo un inchino.

«Buongiorno, signor Wakabayashi.» rispose, rivolgendogli un sorriso che lo rese quasi irriconoscibile agli occhi di Elena «Porga i miei saluti a suo fratello Hiroji e gli dica che mi farebbe piacere se mi venisse a trovare, quando potrà.»

«Per ora è molto impegnato con la riorganizzazione dell'azienda, ma non mancherò di riferirlo.»

«La ringrazio.» disse, con un inchino, per poi dirigersi verso la sala degli insegnanti.

 

«Hai due fratelli?» gli chiese, dopo essersi congedati dal professore.

«Sì, più grandi. Il maggiore è tornato da Londra all'inizio dell'anno, l'altro studia negli Stati Uniti e dovrebbe ritornare dopo l'estate. È prossimo alla laurea.»

«Ah … hai detto che il più grande è tornato da Londra?»

«Sì. Ma … perché me lo chiedi?» domandò, corrugando le sopracciglia.

«Scusami.» mormorò Elena, rendendosi conto di essergli sembrata indiscreta «Soltanto, un mese e mezzo fa ho conosciuto una giovane donna molto bella, che proviene proprio da Londra e si è trasferita qui con il marito dirigente di un'azienda. Aveva una bellissima bambina con sé e mi ha detto di avere anche un figlio di cinque anni.»

Genzo annuì con un mezzo sorriso «Annie, la moglie di mio fratello Hiroji.»

«E vivono qui a Nankatsu?»

«Sì, nella nostra villa. Nankatsu è un ambiente più sereno e a misura d'uomo rispetto a Tokyo.»

Elena fece un cenno d'assenso, e decise di lasciar cadere l'argomento, un po' perché fargli altre domande sarebbe sembrato inopportuno, e poi perché c'era un'altra questione che le ronzava in mente dal giorno della gara di Numazu.

 

«È possibile qui salire sul tetto?» chiese Elena.

«Sì, almeno quando i miei fratelli studiavano qui lo era.»

«So che sembra sciocco, ma mi piacerebbe andare fin lassù. Nella mia scuola non era concesso.»

«Questa scalinata porta verso il tetto. Andiamo.» disse Genzo, facendole cenno.

Poco dopo, i due ragazzi si ritrovarono sull'ampia terrazza, da cui era possibile vedere non solo l'intero cortile della scuola, in cui alcuni ragazzi stavano giocando a pallavolo e altri stavano facendo dei giri di corsa attorno al perimetro del campo, ma anche parte della città che si estendeva intorno.

 

Poche candide nuvole passeggere spezzavano la monocromia del cielo azzurro, illuminato dal sole.

Elena si schermò gli occhi con una mano, poi si voltò, appoggiandosi con la schiena alla balaustrata.

Genzo guardava il panorama con le mani nelle tasche e la giacca sostenuta dall'avambraccio.

All'interno dell'istituto funzionava un impianto di ventilazione, ma all'esterno faceva caldo … così, oltre a togliersi la giacca, aveva allentato il nodo della cravatta.

«Perché a Numazu sei andato via senza venire a salutarci?»

«Volevo che Arimi vi incontrasse da sola.»

Elena assentì, con un sorriso. Si aspettava quella risposta, ma la domanda le era servita per introdurre l'argomento. L'aveva stupita, sapere che era andato a prendere Arimi a casa sua e l'aveva poi accompagnata al palasport, seguendo poi tutta la gara.

«Comunque, rimango convinta che senza il tuo aiuto non sarebbe stato possibile farle capire i suoi errori.»

«Forse perché mi sono rivisto un po' in lei. Quando ero bambino, ero anch'io così: presuntuoso, non sopportavo di perdere e pensavo solo a me stesso.»

Elena appoggiò i gomiti sul parapetto. Il blando vento primaverile agitava i suoi lunghi capelli biondi, sciolti sulle spalle. Le stavano bene così … solitamente erano legati in una coda o in uno chignon.

«Quando ti sei reso conto che stavi tenendo un atteggiamento sbagliato?»

«Durante la partita finale del campionato delle elementari, dieci anni fa. Quando ero capitano della Shutetsu, decisi di abbandonare la squadra dopo il primo tempo, perché avevo perso la sfida con Tsubasa. Lui doveva segnarmi un gol … e lo fece. Mi sentivo umiliato. Lasciai il campo, dicendo ai miei compagni di cavarsela da soli. Mentre mi apprestavo ad andarmene con il mio borsone, comparve davanti a me il mio allenatore personale e mi assestò uno schiaffo che mi stordì, sbattendomi per terra. Se ci ripenso, avverto ancora l'impatto sulla guancia e quello della caduta.» sorrise.

«Ti fece bene. Però un pochino di boria ti è rimasta.» lo stuzzicò, con una piccola smorfia da monella.

Genzo sollevò un sopracciglio, ma poi chiuse gli occhi con un sorriso ironico, accettando di buon grado lo scherzo.

«Taro aveva ragione.» riprese, mettendosi le mani sulle ginocchia «Già nei giorni in cui ci siamo conosciuti, mi aveva parlato di un suo amico portiere che giocava in Germania e che era convinto sarebbe diventato un campione … e quando ti ho visto per la prima volta tra i pali dell'Amburgo, ho capito che eri tu.»

Il ragazzo ricambiò lo sguardo e il sorriso che gli venivano rivolti.

«C'è una cosa che mi piacerebbe mostrarti: è il posto in cui io, Tsubasa e Misaki ci siamo affrontati per la prima volta.» disse, invitandola a seguirlo.

 

«Questo è lo stadio della Shutetsu. È rimasto più o meno lo stesso di dieci anni fa.» commentò, abbracciando gli spalti e il campo con lo sguardo, con una mano su in fianco e l'altra a reggere la giacca che pendeva sulla schiena.

Il sole era alto in cielo e illuminava il campo di calcio in cui Genzo aveva mosso i primi passi della sua carriera di calciatore.

Elena osservò e cercò di immaginare i tre piccoli campioni di Nankatsu sfidarsi in quello stadio, Wakabayashi concentrato tra i pali con le mani protese in avanti, le ginocchia leggermente piegate e in testa l'immancabile cappellino, mentre scrutava Taro e Oozora avanzare verso di lui, passandosi il pallone.

Sul rettangolo di gioco, era presente un gruppo di bambini che vestivano la maglia verde e i pantaloncini rossi del club, intenti ad ascoltare le indicazioni del loro allenatore, un ragazzo di media altezza dai corti capelli neri, vestito con una tuta. Non dimostrava più di vent'anni.

«Ma io quello lo conosco.» esclamò Genzo, cominciando a scendere la gradinata che portava al campo di calcio. Si voltò verso Elena, rimasta alcuni gradini più indietro.

«Vieni, ti presento uno dei miei primi compagni di squadra.»

Elena sorrise e gli obbedì incuriosita, coprendo la distanza che li separava.

«Nakamoto?» gridò, raggiunto il bordo del campo.

Il ragazzo alzò la testa e spalancò gli occhi, rivolgendogli dapprima un'espressione interrogativa per poi mutarla in un sorriso pregno di stupore ed entusiasmo.

«Capitano! Questa sì che è una sorpresa! Da quanto tempo non ci si vede?» chiese andandogli incontro, mentre il suo gruppo di piccoli calciatori rimaneva indietro, scambiandosi bisbigli e tenendo lo sguardo fisso sui due nuovi venuti.

«Da quando mi sono trasferito in Germania. E non chiamarmi "capitano", non lo sono più da un pezzo ormai.»

«Lo so, ma mi viene spontaneo chiamarti così. Ai tempi della Shutetsu, nessuno ti chiamava per cognome. Per noi eri semplicemente "capitano". Si vedeva già allora che saresti diventato uno dei portieri più forti del mondo.»

«Vedo che dalla Germania non sei tornato da solo.» disse poi con un ghigno malizioso, posando gli occhi su Elena.

«Lei è un'amica. Si chiama Elena Rulli ed è italiana.» precisò, un po' rigido.

«Italiana? Con quei capelli biondi e quegli occhi azzurri, avrei giurato che fossi tedesca.» disse, salutandola con un inchino.

«In effetti, non hai sbagliato del tutto: mia madre è nata in Germania.» replicò, inchinandosi a sua volta.

Il ragazzo assentì con un sorriso «Io sono Nakamoto Tetsuya e giocavo come difensore nella Shutetsu, proprio davanti al capitano.»

«E così ora alleni le piccole promesse.» riprese Genzo.

«Sì. Studio Scienze Motorie e quando non sono impegnato all'università vengo qui ad allenare questi bambini.»

«Anch'io sono un'allenatrice. Le mie bambine però fanno ginnastica artistica.» intervenne Elena.

«Ah, delle piccole acrobate!» ridacchiò Tetsuya.

«Ehi, ma quello è Genzo Wakabayashi!» gridò un bambino, richiamando l'attenzione dei tre.

«Wakabayashi? Il portiere?» fece eco un altro.

«Sì, è lui che sta parlando con il mister!»

In breve tutti i bambini corsero verso il bordocampo e si fecero intorno ai tre ragazzi. Il loro obiettivo era naturalmente il portiere, che venne letteralmente subissato da richieste di autografi e di strette di mano.

«Wakabayashi-san, mi fa un autografo sui guanti? Vorrei che ci scrivesse anche SGGK.» gli chiese il piccolo portiere della squadra.

«Sì, così cominci subito a crederti chissà chi.» obiettò Nakamoto, mettendosi le mani sui fianchi.

«Ma è per essere ancora più motivato, mister!» ribatté il bimbo.

Genzo gli rivolse uno sguardo d'approvazione «Sono d'accordo.» asserì, prendendo i guanti e il pennarello dalle mani del bambino.

«Voglio diventare bravo come lei, Wakabayashi-san! Come fa a essere così forte?»

«Devi allenarti seriamente tutti i giorni, e obbligare i tuoi compagni a farti quanti più tiri possibile.» gli disse, porgendogli i guanti dopo averli vergati con i kanji del suo nome e cognome e con le lettere dell'acronimo che era ormai diventato una specie di marchio.

Il bimbo sorrise «Quando divento un po' più grande vado anch'io in Germania, così divento forte come lei e trovo anche una fidanzata bella come la sua.» dichiarò guardando Elena, la quale arrossì imbarazzata.

«Ma veramente …» mormorò, senza riuscire a completare la frase.

«Guardatela, è diventata rossa!» gridò il bambino, indicandola e scoppiando a ridere, seguito a ruota dai suoi compagni.

Genzo, vedendo l'imbarazzo crescente sul viso della giovane, decise che era meglio intervenire.

«Nakamoto ti lascio riprendere gli allenamenti, ti abbiamo già rubato tanto tempo e i tuoi piccoli calciatori si sono riposati e divertiti abbastanza.»

Tetsuya annuì con un sorriso d'approvazione «D'accordo capitano. Torna a trovarmi, e magari alla prossima riunione chiedi se ci forniscono delle nuove attrezzature.»

«Non preoccuparti, l'ho già fatto presente.» gli comunicò, con un cenno del capo.

Salutarono il giovane allenatore e i suoi piccoli calciatori, e si avviarono verso il cancello d'uscita dell'istituto.

«Mi dispiace per l'imbarazzo che ti ha creato il mio piccolo emulo.» disse Genzo, quando furono sulla strada.

«Oh, non fa niente. A quell'età si salta presto alle conclusioni.» replicò, con un sorriso e un'alzata di spalle.

 

Camminarono insieme per un altro tratto di strada, superati da qualche bicicletta e da poche auto.

Stavano per oltrepassare un famiresu, quando Genzo vi si fermò davanti.

«L'hanno aperto da poco e ho sentito dire da Ishizaki che si mangia bene. Lui è un pozzo senza fondo, ma di solito il suo giudizio è affidabile. Ti va di provare?» chiese, colto da un'ispirazione improvvisa.

Elena rifletté un momento. Solitamente suo zio l'aspettava per pranzo, ma le sarebbe bastato avvisarlo con una telefonata. «Perché no? E poi è di fronte al parco Hikarigaoka e voglio andare a vedere i ciliegi finché è possibile.» affermò, mentre rivolgeva i suoi brillanti occhi azzurri verso il giardino pubblico.

Era un locale non molto grande, ma ospitale, con le pareti color crema su cui erano appese numerose stampe giapponesi, e una grande vetrina lo rendeva ben illuminato.

Individuato, con l'aiuto di una cameriera, un tavolo tra i pochi ancora liberi, vi si sedettero e ordinarono un piatto di yakisoba ai frutti di mare ciascuno.

«E così sta per iniziare il secondo girone di qualificazione.»

Il primo girone era terminato in modo perfetto per il Giappone, tutte le partite erano state vinte con un'eccellente media gol e nessuna rete subìta. Una grande soddisfazione per Genzo.

«Abbiamo ancora pochi giorni di riposo, per poi tornare ad allenarci al J-Village.» rispose il portiere, mentre la cameriera li serviva.

«Come procede con la squadra di ginnastica artistica?»

«Tra venti giorni ci sarà una gara a livello regionale, l'ultima prima delle Nazionali juniores. Per Arimi è l'unica occasione per qualificarsi.»

«Arimi. Quella ragazzina è sempre nei tuoi pensieri.» la punzecchiò bonariamente.

Elena fece una risatina, poi affermò, con convinzione «Ha tutto per diventare una campionessa. E il suo rapporto con le altre ragazze migliora di giorno in giorno.»

«Tuo zio mi ha detto che fino a un anno fa anche tu eri una ginnasta.»

L'espressione fin lì allegra di Elena mutò in un sorriso triste. Rimestò gli spaghetti un paio di volte, prima di annuire una volta.

Un anno fa ….

«Sì, ma ho dovuto smettere a causa di un infortunio al ginocchio. Ora sto cercando di riprendere, un poco alla volta, esercitandomi per conto mio quando ho un po' di tempo libero. Ma gli impegni stanno aumentando, con la preparazione delle gare e del saggio per le bambine.» l'ultima frase era stata detta con un tono di voce che aveva ripreso la consueta vitalità.

Genzo assentì. Quel momentaneo cambiamento d'espressione e di intonazione non gli era sfuggito e si ritrovò a pensare ancora una volta a ciò che aveva già avuto modo di notare da diverso tempo, praticamente dai giorni in cui aveva cominciato a conoscerla: le sue giornate erano piene di impegni e sembrava che lei stessa cercasse di tenersi costantemente occupata, allenandosi e tenendo corsi per le sue allieve, per poi assistere agli sparring tra gli atleti del dojo, e studiare il giapponese.

E magari la sera, crollare sul letto addormentata.

Era come se non volesse lasciare nessuno spazio vuoto nella sua vita. Quegli spazi che di solito vengono presi d'assalto da pensieri tormentosi, probabilmente scaturiti da ricordi infelici.

«Fino a quando starai in Giappone?» chiese, dopo una pausa.

«Mi fermerò fino alla fine di giugno, poi si vedrà.»

Poi aggiunse, parlando per la prima volta dei suoi progetti per il futuro «Vorrei frequentare l'università. A Monaco di Baviera ho una cugina che mi ha detto che c'è una stanza pronta per me nel suo appartamento, se decido di andarci. Ma d'altra parte non so se me la sento di lasciare Roma e i miei genitori.»

«Dipende da quali obiettivi vuoi raggiungere.» le disse, e lei annuì.

«Già. Mi sono concessa un altro mese per decidere. Magari affronto l'esame sia alla Ludwig-Maximilian Universität sia alla Sapienza, per poi sceglierne una se dovessi superarli entrambi.»

 

Terminato con soddisfazione il loro pasto, pagarono e uscirono dal famiresu e, attraversata la strada, raggiunsero il parco Hikarigaoka.

Elena si guardava intorno con gli occhi vivaci e pieni di stupore come quelli di una bambina.

I petali di ciliegio creavano delle gigantesche, morbide, fiabesche nuvole rosa.

«È la prima volta che vedo dal vivo questo spettacolo. È … è incredibile. Esiste un Hanami anche a Roma, al Parco del lago dell'Eur, ma per quanto incantevole non potrà mai eguagliare quello originale.»

«È una delle cose che mancano di più a un giapponese quando si trova all'estero.» commentò il portiere, guardando alternatamente i grandi alberi baciati dai raggi del sole e gli occhi luminosi della ragazza accanto a lui.

 

«Grazie Wakabayashi. Mi sono davvero divertita.»

«Grazie a te. E chiamami pure Genzo. Ormai vivo in Europa da anni e sono abituato alle vostre usanze.»

«D'accordo … Genzo. Allora ci si rivede.» si congedò, dirigendosi verso la strada che portava alla casa di suo zio. Quasi senza accorgersene, dopo alcuni passi si voltò. Indugiò nell'osservare l'ampia schiena e il passo sciolto del ragazzo che si stava progressivamente allontanando.

Aveva passato una delle giornate più piacevoli da quando era arrivata in Giappone … e il fatto che fosse inaspettato l'aveva resa ancora migliore.

Ignorava che Genzo, poco prima, aveva pensato la stessa cosa, nel guardarla allontanarsi.

 




***Note***

 

Hanami: significa “osservare i fiori” (da hana - "fiori" e mi - "vedere") ed è il tradizionale evento giapponese che consiste nel celebrare e godere della bellezza dei fiori, soprattutto i fiori di ciliegio (Sakura), osservandone il loro fiorire nelle belle giornate di primavera.

L’Hanami consiste in una festa all’aperto sotto gli alberi di ciliegio che dura una o due settimane. Da metà gennaio ad inizio di maggio i Sakura fioriscono in tutto il Giappone e ad aprile in piena fioritura comincia questo magnifico evento.

Fonte: SakuraMagazine

L’Hanami viene festeggiato ogni anno da tantissime persone anche in Italia, al laghetto dell'Eur di Roma, dove si possono ammirare i 1000 Sakura donati dal primo ministro Nobusuke Kishi durante la sua visita ufficiale in Italia avvenuta nel 1959, che formano la Passeggiata del Giappone.

Fonte: GreenMe

Nakameguro: zona di Tokyo con molti ristoranti e negozi rinomati, situata nel quartiere speciale di Meguro. Vi scorre il fiume Megurogawa; lungo le sue sponde, per circa 3,8 chilometri, si stagliano gli ottocento alberi di ciliegio che fanno di questo luogo uno dei più belli a Tokyo in cui ammirare la fioritura. I ciliegi in fiore formano un lungo arco di petali rosa che si specchia sull'acqua creando un panorama che molti passanti si fermano ad ammirare e fotografare.

Fonte: GoTokyo

Tetsuya Nakamoto è un personaggio di Takahashi, ed è uno dei due difensori della Shutetsu (l'altro è Shimada) cui Genzo assegna la marcatura di Tsubasa all'inizio della gara contro la Nankatsu. Compito che non può assumere perché il futuro capitano viene schierato in posizione di libero. :-)

Il nome "Tetsuya" gliel'ho assegnato io arbitrariamente poiché nel manga viene sempre chiamato solo con il suo cognome.

In queste due immagini è il ragazzino a destra e indossa la maglia numero 4.

Famiresu: contrazione del termine inglese family restaurant. Presenti in tutto il Giappone, sono ristoranti in cui vengono serviti piatti di ogni tipo, sia della cucina giapponese sia di quella occidentale, a prezzi economici.

Tra le catene di famiresu più famose ci sono Gusto, Saizeriya, Joyfull e Denny’s.

Yakisoba: sono gli spaghetti saltati (dovrebbero essere quelli giapponesi di grano saraceno come indicato dal termine soba, in realtà vengono utilizzati i noodles cinesi solitamente impiegati anche nella ricetta del ramen).

I noodles vengono saltati nel teppan (una grande piastra riscaldata). È un piatto dalla cottura molto veloce, di cui esiste un'ampia varietà di ricette.

Fonte: TradurreIlGiappone

GameBoy: è una console portatile prodotta e commercializzata da Nintendo tra il 1989 ed il 2003.

Negli anni '90 era uno dei giochi preferiti da bambini e ragazzi.

I monti Hida o Alpi Settentrionali sono una catena montuosa giapponese, parte delle cosiddette Alpi giapponesi, che si estende attraverso le prefetture di Nagano, Toyama e Gifu. Una piccola porzione dei monti arriva anche nella prefettura di Niigata.

Fonte: Wikipedia


Mi scuso con tutti coloro che stanno leggendo questa storia, per il lieve ritardo.

Mi sono presa una breve vacanza.

Il prossimo capitolo segnerà una svolta decisiva.

Alla prossima!

Sandie

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Capitolo 10
*** Capitolo X - Yozakura (Rivelazioni) ***


Untitled

Capitolo X

 

 

Yozakura

(Rivelazioni)

 

 

 

Pounding like a drum inside my brain

I feel it

I feel it if it doesn't stop

I'll go insane

 

 

 

 

 

 

 

Elena entrò nel salotto di casa e trovò Carlo semisdraiato sul divano, intento a fare un annoiato zapping.

«Hai rinunciato a un piatto di lasagne ai funghi porcini per pranzare in un famiresu.» la accolse.

«Davvero? Peccato. Però in quel ristorante fanno ottimi yakisoba. Devi venirci un giorno.» rispose, in tono allegro.

«E quell'amico … è quel calciatore che hai conosciuto a Roma? Come si chiama … Taro?» chiese, guardandola attentamente.

Elena sorrise, ma scosse leggermente la testa «No, è Genzo Wakabayashi.»

Carlo sgranò gli occhi «Wakabayashi?»

Elena annuì «L'ho incontrato stamattina all'Istituto Shutetsu. Mi ha mostrato lo stadio in cui giocava da bambino e mentre eravamo sulla via di casa ha visto questo famiresu aperto da poco e, visto che ne aveva sentito parlare bene, mi ha chiesto se mi andava di pranzare lì.» spiegò con semplicità. «E poi, visto che di fronte c'è il parco Hikarigaoka, siamo andati a vedere i ciliegi.»

«I ciliegi?»

«Sì. La fioritura, hai presente? Mi guardi come se ti avessi detto di aver visto dei pony alati.» lo canzonò.

«Oppure dei topi dai piedi enormi come quelli con cui hai riempito la tua stanza.» ribatté, rivolgendole un sorriso di sbieco mentre si alzava dal divano.

«Diddl non si tocca!» gli gridò, mentre andava nella sua camera.

Carlo sorrise. Elena stava affrontando la sua esperienza in Giappone nel migliore dei modi. Aveva stretto nuove amicizie, anche al di fuori del contesto lavorativo, e la sua vita era decisamente piena e ricca di stimoli.

E a quanto pare, stava familiarizzando sempre più con Wakabayashi. Aveva tenuto per sé ogni allusione, sicuro che non avrebbe gradito e, mettendosi nei suoi panni, la capiva perfettamente.

Ma non da quel momento, si era accesa una speranza che, in cuor suo, non si sentiva di frustrare.

 

Elena appoggiò la sua borsa sul letto, poi si sedette alla scrivania e accese il computer portatile.

Scrisse e inviò un'e-mail ai suoi genitori, allegando le fotografie scattate in palestra con Mayuko e le allieve e quelle della kermesse di Numazu. Non dimenticò una cartolina festiva trovata navigando sul web: era la prima Pasqua che passava lontana da casa.

Sorrise, pensando a quando aveva insegnato a suo padre ad accedere a Internet e aprire una casella di posta elettronica, lui completamente digiuno di informatica e tecnologia.

Dopo aver spento il computer, prese il quaderno del corso di giapponese e ripassò gli appunti della lezione, poi decise di uscire di nuovo.

Avvertiva una strana sensazione di ansia, e uscire all'aria aperta l'avrebbe rasserenata.

Infilò la tuta, la maglietta, i pantaloncini e tutto l'occorrente per la palestra nel suo borsone, ma prima sarebbe andata al campo comunale, perché era quasi certa che i ragazzi si fossero dati appuntamento là.

Giunse nel quartiere in cui abitava Kumi, e vide proprio la ragazza nel giardino di casa sua.

La salutò, e lei rispose con la consueta allegria.

«Lo sai che dopodomani c'è il matsuri? Ne approfittiamo per salutare e fare in bocca al lupo ai ragazzi per il nuovo girone di qualificazione.» le annunciò.

«Davvero? Verrò volentieri.» rispose, con un sorriso.

«Sei stata fortunata a venire in Giappone quest'anno, perché la festa coincide con lo Yozakura … vedrai che meraviglia!» cinguettò «Le donne indossano un kimono o un furisode, per questa occasione. Tu ce l'hai?»

Elena rispose con un cenno di diniego.

«Io ho un furisode molto bello, so che ami l'azzurro quindi dovrebbe piacerti. Vieni, così puoi vederlo e provarlo!» disse, facendole cenno di avvicinarsi.

Era vero. L'azzurro era, da sempre, prevalente nel guardaroba di Elena. Era il colore del cielo e del mare: due elementi che associava all'infinito. Aveva sempre amato guardare l'orizzonte in cui cielo e mare sembravano toccarsi.

Mise da parte la sorpresa e la seguì.

Appena entrata, fu accolta da Reiko che la invitò ad accomodarsi in salotto e, dopo un breve dialogo con la figlia, andò in un'altra stanza, probabilmente la sua camera da letto, per tornare poco dopo con una scatola color panna adornata da motivi floreali. La posò sul tavolo, mentre Elena e Kumi si avvicinavano.

Reiko afferrò il coperchio e lo sollevò delicatamente, lo mise da parte e scostò la carta protettiva.

Gli occhi di Elena si spalancarono, mentre Kumi la guardava di sottecchi con un leggero sorriso.

Era splendido. Un morbido tessuto azzurro in pura seta, con fiori di ciliegio e peonie che sembravano rilucere su uno sfondo azzurro, attraverso la stoffa.

Reiko lo prese dalla scatola e lo spiegò lentamente, prima di tenderlo a Elena.

«Prova a indossarlo.»

Elena lo afferrò con la stessa delicatezza con cui la madre di Kumi lo aveva tirato fuori dalla confezione, lo rimirò prima di cominciare a infilarlo sopra i jeans e la maglietta.

Il furisode si chiudeva con una obi decorata con un motivo a fiori di ciliegio.

«Ora guardati.» disse Kumi, facendole strada verso la sua camera, dove c'era un armadio la cui anta era coperta da un grande specchio.

«Sapevo che era adatto a te.» commentò. Elena la vide sorridere dietro di lei, mentre si voltava ora da una parte, ora dall'altra per esaminare il furisode e come stava su di lei.

«Sì, ti sta molto bene.» intervenne Reiko, con un cenno d'approvazione «Se ti piace, puoi tenerlo. È tuo.»

 

Il giorno del matsuri arrivò.

La serata era splendida. Il cielo era sereno, di un blu oltremare privo di nuvole. L'aria era tiepida e i ciliegi, ovunque si trovassero, erano illuminati da tante lanterne, come voleva la tradizione dello Yozakura.

Elena si incamminò, in attesa di incontrare Kumi e gli altri amici durante il percorso.

Si ritrovò presto immersa nella folla che aveva riempito, di ora in ora, le strade della città.

Osservò i carri sfilare sulle strade, i gruppi di figuranti eseguire le danze tradizionali e suonare strumenti a percussione.

Le file di bancarelle sembravano interminabili, vi si alternavano le specialità della cucina giapponese e i giochi tipici di quelle occasioni.

Bambini, ragazzi e adulti si accalcavano davanti alle bancarelle della cattura dei pesci rossi, degli yo-yo e dei piccoli giocattoli, del lancio degli anelli, del tiro a segno.

Il giorno prima aveva incontrato Kumi e Madoka, con cui aveva parlato dei progressi di Arimi nel corso di ginnastica.

Quest'ultima le aveva detto che anche lei sarebbe venuta al matsuri, insieme ad alcune sue compagne.

La notizia le aveva fatto immensamente piacere. Il gruppo stava diventando sempre più unito e questo la stava rendendo sempre più fiduciosa in un buon risultato alle Nazionali juniores.

 

Avvertì qualcosa urtare contro la sua gamba e abbassò lo sguardo.

Era un bambino di cinque o sei anni, inginocchiato con le mani poggiate a terra.

«Ehi piccolo, attento. Ti sei fatto male?» chiese, abbassandosi per aiutarlo a rialzarsi.

Ma il bambino dai corti capelli neri si tirò su prontamente e le sorrise con uno sguardo furbo, per poi continuare a correre. Elena fu colpita da una sensazione di déjà vu … aveva già visto quel bimbo oppure le ricordava qualcuno.

«Kenichi!» gridò una voce conosciuta, pochi passi dietro a lei. Elena si voltò e vide Genzo venirle incontro.

«Ciao.» le sorrise. Ma certo … quel bambino gli somigliava come una goccia d'acqua. Stesso sguardo, stessi capelli neri.

«Stai cercando qualcuno?»

«Sì, mio nipote. Si è messo a correre ed è sparito tra la folla.»

«Poco fa è inciampato sul mio furisode.» sorrise «È andato di là.» affermò, indicando alcune bancarelle poco più avanti.

Genzo la guardò. Aveva i capelli raccolti nella tradizionale acconciatura giapponese, e il furisode che indossava … sembrava fosse stato creato appositamente per lei. La seta azzurra, i fiori di ciliegio e le peonie: simboleggiavano un nuovo inizio, oltre alla bellezza, l'onore e la buona sorte.

Era bella ….

«Qualcosa non va?» chiese, vedendo che Genzo non accennava a muoversi e aveva mantenuto lo sguardo su di lei.

Il ragazzo ebbe un sussulto. Si riscosse, come se fosse appena stato ridestato.

«No … sarà andato alla bancarella del tiro a segno. Vado a recuperarlo, Annie lo sta cercando.» riuscì a rispondere, nascondendo l'imbarazzo.

Si era incantato a fissarla come un ragazzino. Voltò lo sguardo e si ritrovò a incrociare gli occhi della cognata, che lo guardavano attenti.

«Oh, guarda chi si rivede! Ciao.» esclamò la donna, rivolgendosi a Elena.

«Buonasera.» rispose la ragazza, ricambiando il sorriso.

«Oh, per favore dammi del tu, altrimenti mi fai sentire vecchia.» ribatté, strizzandole un occhio.

«D'accordo.» rise.

«Il tuo furisode è bellissimo.» le disse poi, dando un'occhiata di sottecchi al cognato.

«Penso la stessa cosa del tuo kimono.» replicò Elena, guardando l'abito blu decorato con disegni di crisantemi indossato da Annie.

Genzo andò avanti, facendosi strada tra la folla, per andare a cercare Kenichi, ma non dovette allontanarsi molto. Il bambino stava, infatti, correndo verso di lui con un'espressione entusiasta.

«Mamma, zio Genzo, guardate! Ho vinto cinque trottole!» gridò, reggendole tra le due manine, pieno d'orgoglio.

«Bravo, Ken!» rispose il ragazzo, battendogli una mano su una spalla «Dove le hai vinte?»

«Alla bancarella del lancio degli anelli.»

«Non c'era bisogno di scappare, ti ci avremmo accompagnato noi.» lo rimproverò Annie.

«Ho visto che c'era solo un bambino prima di me e ci sono andato.» spiegò con un'alzata di spalle, come se fosse la cosa più logica del mondo.

Elena fece una smorfia, divertita. Così piccolo, e ragionava già come un ometto. Anche se non aveva conosciuto Genzo fin da bambino, non c'era da dubitare che anche lui fosse così, a quell'età.

«Dai, andiamo avanti. Ho voglia di assaggiare un po' di prelibatezze giapponesi.» disse Annie, facendo cenno al figlio e ai due ragazzi di seguirla.

Elena e Genzo si ritrovarono così a camminare affiancati, dietro alla cognata e al nipote di lui.

Si fermarono a una bancarella dove si cucinavano e vendevano piatti tipici della cucina nipponica, quando lo sguardo di Elena venne attirato dalla bancarella accanto, che si caratterizzava per una gamma variegata di premi esposti sullo sfondo e da un bersaglio per il tiro a segno.

«Non sapevo che tra i giochi ci fossero anche le freccette.» notò «Voglio provare.» disse, spostandosi.

Attese qualche minuto prima che giungesse il suo turno, poi il gestore le consegnò alcune freccette.

Genzo si avvicinò, e sorrise leggermente nel constatare che l'ex ginnasta era dotata di una mira alquanto scarsa.

I tentativi fallivano uno dopo l'altro e le freccette nella sua mano diminuivano, fino a che non ne rimase una soltanto.

«Qualche difficoltà?»

Elena sospirò «Proprio non mi riesce di avvicinarmi al bersaglio. Mi sono arrugginita.» disse, in tono rassegnato.

«Vuoi che provi io?»

«Visto che non credo possa riuscirmi un miracolo … accomodati. Hai una sola possibilità.» lo avvertì.

«Mi basterà.» rispose con un sorriso, tendendo la mano per farsi dare l'oggetto.

Genzo prese la mira ed effettuò un lancio che mandò la freccetta a conficcarsi proprio al centro del bersaglio.

Elena spalancò gli occhi e lanciò un'esclamazione di meraviglia e di ammirazione.

«Quando hai imparato a tirare così?»

«Ho cominciato a giocare a cinque anni. Il mio maestro è stato mio nonno.» spiegò «Diceva che mi sarebbe stato utile per allenare la concentrazione. Aveva ragione.»

Elena fece un cenno d'assenso.

«Che premio vuoi?» chiese poi il ragazzo.

«Il maneki neko, quello viola.»

Genzo ripeté la richiesta al gestore della bancarella, che glielo consegnò. Il portiere lo porse poi a Elena, prontamente ringraziato.

«Ne avevo comprato uno tre anni fa, durante un viaggio a Tokyo con mio zio, la sua fidanzata di allora e mia cugina. Lo dimenticai nell'appartamento, prima di partire. Quello però era bianco.» raccontò «È stato bello averlo così.» disse, abbassando la testa e guardandolo, con l'espressione felice di una bimba cui era appena stata regalata la bambola desiderata da tempo. Genzo non poté trattenere un sorriso.

«Si dice che il viola aiuti nella realizzazione dei propri sogni.» continuò la ragazza «Io ancora non so di preciso quali sono i miei, ma spero che si realizzino.»

«Beh, si potrebbe dire che, nell'immediato, desideri che la tua squadra vinca le Nazionali juniores e magari, che la nostra Under 23 vinca le Olimpiadi.» le suggerì.

Elena ridacchiò.

«Scherzi a parte, Elena … fai ciò che ti soddisfa di più, per cui ti senti più portata. Tu ami la ginnastica artistica e riesci bene nelle lingue straniere, quindi potresti trovare lì ciò che cerchi.»

Elena assentì piano, con espressione dubbiosa. In fondo Genzo aveva ragione … seguire le proprie passioni e attitudini, per non ritrovarsi a vivere una vita vuota e costellata di rimpianti.

 

Hanji, sotto gli occhi di alcuni suoi compagni di squadra, giocava a spaventare i bambini, tra cui il piccolo Daichi Oozora, indossando una maschera di Godzilla, ottenendo però come unico effetto dei risolini divertiti. Alla fine sfilò la maschera dal viso, rincorrendo ora l'uno ora l'altro.

«Urabe, sai una cosa? Eri più carino con la maschera addosso.» lo punzecchiò Hajime, incrementando l'ilarità dei bambini.

Hanji sollevò un sopracciglio, squadrando l’amico da capo a piedi «Ha parlato mister “più bello del Giappone”! E voi che avete da ridere, marmocchi? Se vi prendo …!» gridò, facendo uno scatto in avanti e inseguendo il fratellino di Tsubasa e i suoi amici che scapparono sulla strada, senza smettere di ridere.

Anche Shun e Taro trovarono quella scenetta decisamente divertente.

Il giovane attaccante era uscito di casa piuttosto agitato, ma stare con i suoi amici l'aveva fatto rilassare e, per alcuni momenti, era riuscito a non pensare alla promessa che aveva fatto a Kumi e che avrebbe dovuto mantenere quella sera.

Avvicinare Madoka, e chiederle di concedersi un'altra possibilità. Non avrebbe potuto cincischiare ancora a lungo, nella speranza di guadagnare - o forse perdere, alla fin fine - altro tempo.

La vide alla bancarella di fronte. Stava osservando gli oggetti esposti, perlopiù collane, braccialetti e altri tipi di gioielli, commentandone alcuni insieme a Kumi e ad altre amiche.

Kumi, con la coda dell'occhio, si accorse della sua presenza dietro di loro, si voltò e gli fece cenno di avvicinarsi.

Un attimo dopo, sussurrò qualcosa alle altre ragazze e si allontanò con loro.

Madoka non ebbe neppure il tempo di chiedere dove stessero andando, che Shun si era già accostato a lei.

Stavolta sapeva perfettamente da dove poteva iniziare, e rivolgerle una frase cui avrebbe dovuto per forza rispondere.

«Grazie per la tuta che mi hai regalato.»

Madoka si voltò e gli sorrise «Prego.»

«Com'è andato l'allenamento sui monti Hida?»

«Bene, sono tornato due giorni fa. Sono riuscito a imparare quel tiro!» esultò, stringendo una mano a pugno e rivolgendole un sorriso da bimbo felice. Sì, le stava parlando ancora di calcio, ma il suo cuore accelerò i battiti nel vedere quegli occhi così luminosi. Gli stessi che l'avevano incantata, quel giorno di due anni prima.

«Ne sono felice.» replicò con sincerità.

«Mi sono impegnato con tutto me stesso. Avevo promesso che non sarei tornato indietro finché non l'avessi completato.»

Madoka annuì. Sentiva la mente vuota, non sapeva cosa dirgli … le venne in aiuto la bancarella opposta.

«Oh, guarda … la pesca dei pesci rossi!» esclamò, dirigendosi verso di essa «Voglio provare a catturarne uno. Ci credi se ti dico che non ci sono mai riuscita?»

«Beh, qualcosa sfuggirà anche all'infallibile Madoka.»

«Spiritoso. Dai, questa volta devo farcela!» cinguettò, inginocchiandosi davanti alla vasca e prendendo un retino. Shun le si mise accanto e guardò divertito i suoi numerosi tentativi, che terminavano invariabilmente con il pesciolino riluttante a lasciarsi catturare.

«Che dici? Ci riproviamo?» si decise a chiederle.

Madoka sbuffò «Io mi sono stancata di provare a pescare pesci rossi senza prenderne nemmeno uno.»

«Io non parlavo di pesci rossi.» replicò, avvicinando il viso al suo e sorridendole con una punta di malizia, ottenendo come effetto l'imporporarsi delle gote della ragazza.

«Che ne diresti di fare una passeggiata nel parco?» le chiese poi, prendendole una mano.

Madoka chiuse gli occhi e tese un angolo della bocca, ma non lasciò la mano del ragazzo, in un muto assenso.

 

Sembrava che tutta Nankatsu si fosse data appuntamento per quella sera.

«Ehi, chi si vede! Ciao, Wakabayashi.»

Genzo si voltò e riconobbe Natsuko, la madre di Tsubasa.

«Buonasera, signora Oozora.»

«Tsubasa e Sanae ti hanno dato la bella notizia?» il viso di Natsuko, segnato da qualche ruga, era illuminato da occhi esultanti.

Genzo annuì, con un sorriso.

«Il mio nipotino dovrebbe nascere ad agosto.» lo informò entusiasta.

«Festeggeremo la sua nascita con la medaglia d'oro.»

«Questa ragazza ti ha seguito dalla Germania?» gli chiese indicando Elena.

«No, ci siamo conosciuti qui in Giappone. È la nipote del mio maestro di kickboxing.» le spiegò.

Elena arrossì, ma rimediò in fretta, presentandosi «Mi chiamo Elena Rulli, vengo dall'Italia, anche se effettivamente, mia madre è tedesca.» disse con disinvoltura.

«Io sono Natsuko Oozora, la madre di Tsubasa. Lui e Wakabayashi sono amici fin da bambini.»

Elena annuì «Lo so, Genzo e Taro mi parlano spesso di lui. È un grandissimo giocatore.»

Natsuko fece un cenno d'assenso, indubbiamente lusingata da quel complimento. Poi spalancò gli occhi, come se si fosse ricordata all'improvviso di qualcosa.

«Sarà meglio che vada a recuperare Daichi. L'ho visto allontanarsi con Ishizaki, scommetto che l'ha portato ad abbuffarsi!»

«Stia tranquilla signora Oozora, c'è Nishimoto con lui, i bambini sono al sicuro.»

«Lo spero proprio. Comunque, meglio che non lo lasci in giro troppo a lungo.»

 

«Ciao, ragazzi!» li salutò Kumi, poco dopo che la signora Oozora se ne fu andata «Avete già provato i sakuramochi? Venite, li preparano in quella bancarella. Dovete assolutamente assaggiarli!»

Elena si lasciò trascinare dall'entusiasmo dell'amica. Kumi trovava motivo di allegria ed eccitazione in tutto, anche nelle cose più semplici, e ammirava molto questa sua caratteristica.

Anche il suo furisode era meraviglioso: rosso, raffigurava un motivo di ventagli con figure tipiche della tradizione giapponese come campanule e peonie con fiori e di pruno e di ciliegio. Alcune gru, delle foglie d'acero e delle canne di bambù campeggiavano sullo sfondo di un ruscello.

A chiuderlo una obi decorata con un motivo di ventagli luminoso e cangiante.

Poco dopo arrivò anche Taro, che aveva preferito defilarsi non appena aveva visto Nitta avvicinarsi a Madoka.

«Me l'aveva promesso. Del resto, gli ho detto che gliel'avrei fatta pagare cara se non avesse mantenuto la parola.» disse Kumi, con un'espressione fintamente minacciosa che strappò una risata a Misaki, la quale provocò a sua volta un'accelerazione dei battiti in lei.

«Ragazzi, propongo di spostarci verso il parco Hikarigaoka. Tra poco inizieranno i fuochi d'artificio.» annunciò poi il centrocampista.

I suoi amici annuirono e tutti insieme si avviarono verso il parco, verso cui si stavano dirigendo anche molti altri abitanti di Nankatsu e dei dintorni accorsi alla festa.

 

Lo spettacolo dei ciliegi illuminati trovava il suo massimo splendore nel parco, proprio come durante il giorno.

Il mite vento che faceva oscillare appena i rami degli alberi, dava ad Elena la sensazione di trovarsi in un'atmosfera perfetta.

Con una simile disposizione d'animo, l'impatto con la realtà e con ricordi ancora troppo recenti e penosi per non provocare dolore, risultò ancora più devastante.

I suoi occhi si posarono su un uomo che stava spingendo una sedia a rotelle, su cui era seduto un ragazzo che poteva avere sui vent'anni. Si guardava intorno e sorrideva chiedendo al suo accompagnatore - probabilmente il padre - quanto mancava all'inizio dello spettacolo pirotecnico.

Elena si sentì trafiggere il cuore. La sua mente tornò indietro a quasi un anno prima …

Una carrozzina … l'unico mezzo che gli sarebbe rimasto per muoversi.

Rimase ferma, nel tentativo di arrestare le lacrime che stavano spingendo per uscire dai suoi occhi. Ci era sempre riuscita, ce l'avrebbe fatta anche quella volta.

No.

Le sentì scendere, rigandole il viso. Prima una. Poi un'altra … e un'altra ancora….

No, quella volta non sarebbe riuscita a ricacciare indietro il suo dolore. E allora … doveva sfogarlo, lontano da tutti. Era solo suo, nessuno doveva sapere.

Si voltò e corse via. Il furisode non le permetteva molta libertà di movimento e non poteva mantenere una velocità sostenuta.

«Elena, dove vai?» gridò Taro mettendosi a correre. Istintivamente, anche Genzo e Kumi lo seguirono.

In quel momento, i primi fuochi d'artificio cominciarono a riempire il cielo notturno dei loro suoni, luci e colori.

La trovarono seduta su una panchina, intenta a dare sfogo alle sue lacrime e ai suoi singhiozzi. La sua schiena sussultava, scossa dai singulti. Il maneki neko era appoggiato accanto a lei.

«Elena … che succede?» le chiese Taro, avvicinandosi piano. Spostò la piccola scultura e si sedette accanto a lei. Le mise una mano sulla schiena, attirandola leggermente a sé. Lei alzò la testa e quando lo vide, sollevò un braccio, lasciando che la abbracciasse.

Kumi, in piedi accanto a Genzo, abbassò istintivamente la testa, mentre il portiere osservava la scena provando una strana sensazione … il desiderio di essere seduto su quella panchina, al posto di Misaki.

Abbracciare Elena, mormorarle parole di conforto, chiederle cosa la faceva soffrire.

Ma dovette riconoscere che era Taro a conoscerla meglio, e da più tempo.

«Posso allontanarmi, se preferisci confidarti solo con Misaki.» disse Genzo in tono conciliante, pur avvertendo dentro di sé un senso di contrarietà.

Elena alzò la testa dalla spalla di Taro e lo guardò «No, resta.» mormorò. Desiderava che anche Wakabayashi, così come Kumi, ascoltasse la sua storia.

Era convinto che il suo cuore avesse mancato un battito, quando gli aveva rivolto quelle due semplici parole.

Voleva renderlo partecipe della sua esperienza, dei suoi timori, della sua angoscia e dell'incapacità di scrollarsi di dosso quei fantasmi.

 

«Avevo un ragazzo, prima di venire qui in Giappone.» cominciò «L’anno scorso, alla fine dell’estate, ha avuto un grave incidente in moto. È sopravvissuto, ma è rimasto paralizzato dal tronco in giù. E ha perso anche l’uso delle braccia.»

«Avevo appena trovato un lavoro in una ditta di import-export, come segretaria. Dopo il lavoro, andavo in ospedale a trovarlo. Spesso gli facevo assistenza per permettere a sua madre e a sua sorella di riposarsi. Poi un giorno ...» deglutì, non sopportando più il groppo in gola che le si era formato mentre raccontava «… mi ha detto di andarmene e di non tornare più a trovarlo. Mi ha detto che stavo rimanendo con lui per compassione e per senso del dovere e che in realtà stavo solo aspettando il momento giusto per lasciarlo. "Tanto fanno tutti così, prima o poi", le sue parole.»

Il flusso dei ricordi cominciò a scorrere nella mente e dalle labbra di Elena, dapprima con riluttanza, poi con spontaneità crescente.

 

Gianluca aveva perso il controllo della sua moto ed era volato fuori strada, andando a finire in un fosso.

Il passaggio di un automobilista che aveva assistito a quella scena tremenda aveva permesso l'arrivo dei soccorsi in un breve arco di tempo.

L'impatto del corpo del ragazzo con il terreno era però stato devastante.

Elena si era precipitata in ospedale subito dopo aver ricevuto la telefonata della madre di Gianluca.

Piangeva al punto da non essere più capace di parlare, ed era stato il padre del ragazzo a darle la notizia.

Non avrebbe più dimenticato le parole pronunciate dal medico.

«Il paziente ha riportato una lesione completa del midollo spinale, all'altezza della quarta vertebra cervicale.»

Lesione completa.

Funzionalità compromesse.

Perdita dell'uso dei bicipiti e delle braccia.

Paralisi totale dal tronco in giù.

Lesione completa.

 

Erano passate tre settimane dall'incidente.

Elena entrò nella stanza salutandolo nel suo solito tono allegro, ma non ricevette alcuna risposta. Gianluca non aveva nemmeno girato la testa.

Elena ripeté il suo saluto, ma nuovamente, nessuna reazione.

La ragazza attraversò la stanza e raggiunse lentamente la sedia accanto al letto, quando la voce di lui paralizzò i suoi movimenti, facendole spalancare gli occhi.

«Vai via, Elena.»

«Cosa?» gli domandò con un sorriso, credendo di aver capito male.

«Vai via.» ripeté, con un tono glaciale e gli occhi ora fissi su di lei.

«Ma se sono appena arrivata.» cercò di usare un tono scanzonato, per cercare di farlo rilassare.

Ma Gianluca non aveva accennato nemmeno una smorfia di distensione.

«Elena, non sto scherzando. Non voglio più che tu venga qui.»

«E … potresti spiegarmi il perché?» deglutì. Avvertì un senso di nausea, il suo petto attraversato da delle fitte, come se il suo cuore fosse stato trapassato da una raffica di lame.

«Non fingere di non capire!» sbottò, incapace di trattenere oltre la rabbia e la frustrazione «Mi vedi? Sono ridotto a un rottame! Non potrò più camminare. Non riesco a muovere le braccia, ho bisogno di essere aiutato dagli altri per qualsiasi cosa abbia bisogno, non ho più il controllo nemmeno delle mie funzioni corporali! Per quanto tempo sopporterai di rimanere con uno come me?»

L'espressione di Elena era stranita «Che domande sono, Gianluca? Io sono qui con te.»

Il ragazzo scosse piano la testa, con un sorriso amaro «Quando ti renderai conto di quanto è grave la mia situazione, mi lascerai. Non riuscirai a passare ogni giorno della tua vita così, con un mezzo uomo come me. Uno che non può avere un lavoro, non può praticare sport, non può offrirti un futuro felice.»

Elena mosse le labbra per protestare, ma lui la interruppe.

«Sono la compassione e il senso del dovere a farti venire qui. Quei tuoi sguardi pietosi … non riesco più a sopportarli.»

Elena, per alcuni minuti, non riuscì a parlare. Deglutì più volte, nel tentativo di sciogliere quel nodo in gola che sembrava ingrossarsi, man mano che avvertiva le lacrime pungerle gli occhi.

«Gianluca, non mi importa se pensi che io sia qui solo perché mi fai pena, come insinui tu. Io non ti lascio.» riuscì infine a dire, con la voce incrinata.

«Io invece, ti chiedo di farlo. Voglio troncare la nostra relazione. Io non sarò mai più lo stesso di prima, e nemmeno tu sarai l'Elena che conoscevo.»

 

«Ero sconvolta, ma il giorno dopo sono tornata comunque in ospedale. Sono stata fermata da un'infermiera che diceva di aver avuto l'ordine di non fare passare né me né qualsiasi altro membro della mia famiglia. Era sinceramente dispiaciuta, ma si diceva costretta a eseguire le disposizioni dei pazienti, se anche il medico era d'accordo. Avevo cominciato a passare le giornate in casa. Uscivo soltanto per andare in ufficio, non avevo più una vita sociale. Il mio cellulare era acceso solo quando ero fuori casa.»

Guardò in basso, sbatté alcune volte le palpebre, poi tirò su leggermente con il naso e scosse la testa.

«È stata messa in giro la voce che ho troncato io la relazione, perché non volevo passare la mia vita a fare da infermiera a un invalido. E così ogni volta che uscivo, sentivo addosso gli occhi della gente e i loro mormorii. E la cosa peggiore è che non reagivo più, perché mi ero convinta che in fondo avessero ragione, visto che avevo ubbidito alla richiesta di Gianluca e non mi ero più fatta vedere. Poi, una sera in un locale ho incontrato una mia amica e compagna di palestra ...»

Taro, Genzo e Kumi ascoltavano senza intervenire, non ponevano domande durante le sue pause.

«Una sera Martino» proseguì guardando Taro, che fece un cenno d'assenso nel sentire il nome del loro comune amico «mi ha invitata a uscire, per distrarmi. Io ho accettato. Siamo andati al cinema e poi in un locale a bere qualcosa. Nel corso della serata, ho visto Shiori entrare insieme ad alcuni amici. Non ci sentivamo da qualche tempo, e quando mi ha vista mi ha rivolto uno sguardo carico di astio e di rabbia. È venuta verso di me e mi ha rinfacciato il fatto che io me la spassassi mentre il mio ragazzo era ricoverato in un reparto di terapia intensiva e trascorreva le sue giornate nell'immobilità quasi totale. Ha accusato anche Martino: pensava stesse cercando di approfittarsi della situazione, ma siamo sempre stati solo amici, e comunque non si sarebbe mai comportato in un modo così cinico e disonesto. Mi aveva semplicemente offerto il suo sostegno da amico d'infanzia.»

Sospirò.

«Da allora non ho più sentito Shiori. Ma non riesco a biasimarla per quello che mi ha detto. Io gli ho fatto mancare il mio supporto. Lui sta affrontando delle prove tremende e io sono qui a migliaia di chilometri di distanza, dall'altra parte del mondo a divertirmi con la ginnastica artistica e  a seguire il calcio. Avrei dovuto insistere, forse lui mi avrebbe rivoluta con sé.»

Taro scosse la testa «Lui ha voluto allontanarti. Ricorda che ha persino detto alle infermiere di non lasciarti più passare. Non devi sentirti in colpa per aver voluto riprenderti la tua vita.»

«Misaki ha ragione, Elena.» disse Genzo «Lui ha scelto. Ora devi pensare a vivere la tua vita. Hai un lavoro da portare a termine, la responsabilità di due gruppi di ragazze che sognano di diventare delle campionesse, e tu stessa hai degli studi da compiere. Non devi più guardarti indietro né sentirti in torto.»

«E se dovessi avere dei momenti di sconforto, puoi parlare con noi.» aggiunse Kumi, con un sorriso.

Elena li guardò, uno per uno. Taro, Genzo, Kumi … il suo amico e le due persone con cui aveva legato di più, dal suo arrivo a Nankatsu. E ora, le tre cui aveva appena rivelato quel segreto che portava con sé.

Credeva, sperava che sarebbe riuscita a tenere tutto nascosto. Aveva fatto di tutto per evitare che il suo passato non la travolgesse anche lì, per non ritrovarsi a parlare di ciò che l'aveva ferita. Temeva quello che avrebbe potuto pensare chiunque l'avesse ascoltata. E invece … proprio come suo zio, le avevano offerto comprensione, consolazione ed esortazione a non farsi lacerare dai sensi di colpa e a pensare a costruire il proprio futuro, la sua nuova vita.

«Mi dispiace … per colpa mia avete perso lo spettacolo dei fuochi d'artificio.» mormorò.

Taro scosse la testa «Non ti preoccupare. Ti sei appena liberata di un fardello che ti portavi dentro da mesi.»

«E puoi stare certa che non lo racconteremo a nessuno.» aggiunse Kumi, strizzandole un occhio.

Genzo alzò le spalle «Avremo tempo per vedere altri fuochi d'artificio. Più importanti di questi.» disse con uno sguardo complice, un invito implicito a guardare avanti.

Elena li guardò, alternatamente. Le labbra si tesero in un timido sorriso.

«Penso sia ora di tornare a casa.» disse.

«Sì. Credo sia ora per tutti. Annie e Kenichi si staranno chiedendo dove sono finito.» scherzò Genzo, suscitando delle risate in Taro e Kumi e un altro sorriso, un po' più disteso, in Elena, che si alzò dalla panchina, imitata da Misaki. I quattro ragazzi si avviarono verso l'uscita del parco, dove stavano sciamando molte altre persone.

Genzo incontrò Annie e Kenichi al cancello e si incamminò con loro, mentre Kumi rimase con Taro ed Elena finché non giunse davanti alla porta di casa. Misaki proseguì insieme alla giovane insegnante. Sempre in silenzio.

 

Kumi rincasò con una sensazione che oscillava tra sollievo e preoccupazione. Erano ormai diverse occasioni che riusciva sempre a scambiare qualche parola con Misaki, ma era come se entrambi si stessero tenendo a distanza. Le sembrava di cogliere un certo interesse in lui, ma poi … c'era stata la crisi di Elena.

Sentiva una normale gelosia verso di lei, ma non avrebbe mai cercato di ostacolare un'eventuale relazione tra lei e Misaki. Era una ragazza gentile, assennata e generosa. La sua tragica esperienza lo dimostrava ulteriormente … non era da tutte rimanere accanto al proprio ragazzo dopo un incidente simile. Aveva ascoltato storie simili, e nella maggior parte dei casi si concludevano con una rottura. Erano situazioni talmente gravi e penose che nessuno poteva dire con certezza come avrebbe reagito.

Taro l'aveva abbracciata, l'aveva fatta confidare con lui. Avevano un rapporto stretto. Certo, non c'era un sentimento più profondo a legarli, almeno non da parte di Elena: lei continuava a pensare a quel ragazzo e a una relazione che non era finita per sua volontà …. Non immaginava nascondesse un tale segreto. L'averlo condiviso soprattutto con lui, anche se lei e Wakabayashi erano lì con loro… poteva averli avvicinati.

 

«Va meglio?» chiese Taro, quando furono arrivati davanti all'abitazione della ragazza.

Elena annuì debolmente.

«Ora vai a riposarti. Domani hai una giornata impegnativa.» le ricordò, con un sorriso.

Elena distese leggermente le labbra. Taro era sempre così rassicurante ….

La accompagnò fino alla porta.

«Zio, sono a casa.» disse, senza riuscire ad alzare molto la voce. Avrebbe capito subito che c'era qualcosa che non andava, e infatti poco dopo Carlo comparve, serio in volto.

Si trovò davanti la faccia ancora sporca di trucco della nipote, nonostante Kumi l'avesse pulita alla bell'e meglio, con una salvietta. Gli occhi erano lucidi e arrossati.

Gli bastò per capire cosa doveva essere successo … i ricordi erano riaffiorati, e stavolta non era riuscita a confinarli nel limbo della notte.

«Buonasera signore. Sono Taro Misaki, un amico di Elena.»

Carlo sorrise, tendendogli una mano «Mia nipote mi ha parlato di te. Vi siete conosciuti in Italia.»

Taro annuì, stringendogli la mano.

«Di solito, quando arriva a casa, grida "Tadaima!", per scherzo. Stasera non l'ha fatto, per questo ho capito che c'era qualcosa che non andava.» spiegò «Grazie per averla accompagnata.»

Taro fece un inchino, prima di sussurrare qualcosa a Elena e darle una carezza su una spalla.

«Sono stanca, zio.» mormorò dopo che l'amico se ne fu andato, e una volta entrata in casa «Voglio farmi una doccia e andare a letto.»

«Certo, Elena. Vuoi che ti prepari qualcosa? Una camomilla, del latte con il miele ….»

La ragazza scosse la testa e gli augurò la buonanotte, dandogli un buffetto su un braccio.

Andò nella sua camera e posò il maneki neko sul comodino.

Quando vi ritornò, dopo essere stata a lungo sotto il getto d'acqua, lo accarezzò piano, prima di sdraiarsi nel letto e prendere finalmente sonno.

 

Durante il ritorno a villa Wakabayashi, Annie lanciò a Genzo, di tanto in tanto, delle occhiate incuriosite, di cui lui sembrava non accorgersi. Sembrava assorto in chissà quali pensieri. Kenichi non lo notò, solo perché stava passando in rassegna alcune figurine vinte in un'altra bancarella.

A nessuno dei due però era sfuggita l'assenza del ragazzo durante i fuochi pirotecnici. Non erano riusciti a scorgerlo da nessuna parte, e Annie aveva concluso che aveva assistito allo spettacolo in un'altra zona del parco, con i suoi amici.

 

«Così conoscevi già quella ragazza … Elena.» disse Annie mentre, seduta sul divano del salotto, sfilava le forcine dai capelli.

«Sì. Era inevitabile, visto che lavora alla palestra Shiroyama.»

«Già … stava molto bene con quel furisode azzurro, non trovi?» gli chiese a bruciapelo, con uno sguardo indagatore.

Genzo colse il senso di quella domanda e si limitò ad annuire.

«Rimarrò a Nankatsu ancora un giorno, domani sera parto per Tokyo. Vedrò i miei genitori e Asami, e credo che andrò al J-Village direttamente da lì.» le annunciò senza che lei gli avesse posto alcuna domanda a proposito, come se volesse mettere a tacere eventuali pensieri insinuanti.

Annie lo guardò salire le scale e sparire lungo il corridoio, poi abbassò la testa sulle sue mani che giocherellavano con un fermaglio, le labbra distese in un leggero sorriso.

 

Genzo non riusciva a provare comprensione per il comportamento del fidanzato di Elena.

Poteva solo immaginare lo stato d'animo in cui doveva essere piombato quel ragazzo. Lui stesso faticava a immaginare una situazione del genere. Essere privato del movimento degli arti … non poter più camminare, non poter più giocare a calcio, non essere più autosufficiente! "Disperazione" era l'unica parola che gli veniva in mente per descrivere una simile condizione. Ma …

Aveva allontanato da sé una ragazza che si stava prendendo cura di lui ed era decisa a rimanergli vicino, e che non l'aveva lasciato un solo attimo, accusandola di agire soltanto per compassione. Aveva fatto ancora più male a sé stesso, e aveva gettato Elena nella depressione … per fortuna Carlo le aveva offerto il suo aiuto e l'aveva convinta a cominciare una nuova vita, in Giappone.

Le sue congetture si erano dunque rivelate corrette. Elena stava cercando di tenere soffocati i ricordi e il dolore che le provocavano. Finché l'immagine di quel ragazzo in carrozzina non aveva scatenato tutto il tormento che si portava dentro.

Quello sfogo non avrebbe certo cancellato né i ricordi né il dolore, ma da quel momento avrebbe potuto vivere un po' più serenamente. Così sperava.

Il pensiero di una giovane donna bionda che indossava un furisode azzurro con ciliegi e peonie, dominò la sua mente ancora per molto tempo, prima che riuscisse ad addormentarsi.

 

 

 

 

 

 

 

 

***Note***

 

 

Buongiorno a tutti.

Innanzitutto, spero di non aver trattato in modo superficiale il tema della tetraplegia e relative conseguenze.

Ho raccolto e visionato molte informazioni, visto video e letto testimonianze sui forum dedicati.

Anche la storia di Elena e Gianluca è ispirata a un fatto avvenuto realmente, cioè una ragazza allontanata dal fidanzato disabile. Più avanti la storia tratterà ancora questa vicenda.

 

Le strofe citate all'inizio del capitolo sono tratte dalla canzone "State of Mind" della cantante australiana Merril Bainbridge, contenuta nell'album "The Garden" del 1995. È il brano che fa da colonna sonora a uno dei tanti film sulla ginnastica artistica da me visti, "Perfect Body" (USA 1997, realizzato per la televisione e trasmesso in Italia con il titolo "Per un corpo perfetto").

 

Yozakura: nelle ore buie, Hanami cambia nome in Yozakura, che vuol dire appunto "la notte del ciliegio", e i sakura vengono illuminati e adornati con delle caratteristiche e scenografiche lanterne di carta.

Fonte: Skyscanner

Sakuramochi: dolci tradizionali giapponesi a base di riso e pasta dolcificata azuki (fagioli rossi giapponesi), avvolti in una foglia salata di ciliegio. Sono apprezzati per il loro gusto particolare, derivato dall'unire insieme due sensazioni opposte: il dolce della pasta azuki e il salato che ricopre la foglia di ciliegio.

Fonte: StraneStorieDiViaggi

Maneki neko: letteralmente significa “gatto che ti chiama” o “gatto della fortuna"; è una diffusissima scultura giapponese, fatta di porcellana, vetro, plastica o ceramica, che appunto si pensa porti fortuna. Raffigura un gatto che chiama o saluta con il cenno di una zampa alzata.

In Giappone la si può trovare anche esposta fuori nei negozi, nei ristoranti o in altre attività commerciali.

Il colore standard, che è anche quello più diffuso, è il bianco, ma oggi si trova in una vasta gamma di colori, ognuno con il suo significato, a seconda dei desideri e delle aspirazioni.

Nero: si dice che porti fortuna e tenga lontano gli influssi negativi.

Rosso: è un colore protettivo che per la sua vivacità tiene lontani gli influssi e spiriti maligni.

Oro: è associato alla ricchezza e al benessere economico.

Rosa: non è un colore che fa parte della tradizione ed è stato introdotto di recente; è associato ai sentimenti e all’amore.

Verde: è di buon augurio nel conseguimento di obiettivi importanti, specie nello studio e riconoscimenti accademici.

Viola: è di buon augurio per la realizzazione dei propri sogni.

Azzurro: propizia e aiuta nella crescita interiore e sicurezza personale.

Fonte: Sakuramagazine

 

Questi sono i bellissimi furisode indossati da Elena e Kumi. Entrambi sono della tarda epoca Showa (associata all'epoca dell'imperatore Hirohito (1926-1989), quindi dovrebbero essere stati realizzati negli anni '70-'80).

Questo è il kimono di Annie, appartenente anch'esso al tardo periodo Showa.






 


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Capitolo 11
*** Capitolo XI - La spiaggia di Miho ***


Untitled

Capitolo XI

 

La spiaggia di Miho

 

 

 

 

Il suono della sveglia si diffuse nella stanza, parzialmente schiarita da sottili lembi di luce.

Elena si sollevò dal letto e schiacciò il pulsante, mettendosi a sedere.

I suoi occhi si posarono sul maneki neko appoggiato sul comodino e istintivamente sorrise.

Avvertì, ovattati, i rumori dell'acciottolio dei piatti e delle tazze che Carlo stava prendendo dalla credenza.

Scostò la coperta leggera e scivolò sul bordo del letto, per poi alzarsi e uscire dalla stanza.

«Come va?» le chiese suo zio, quando entrò in cucina.

Elena abbozzò un sorriso «Meglio.»

Carlo fece un cenno d'assenso, posando il bricco del latte sul tavolo, invitandola così a fare colazione.

«Comunque Elena … se hai voglia di sfogarti, di parlare, io sono sempre pronto ad ascoltarti.» le disse, mentre entrambi si sedevano.

«Lo so.» fu dapprima la sua laconica risposta, poi tacque per qualche minuto, come se non avesse desiderio di toccare quell'argomento. Poi però, espresse la sensazione che la accompagnava ogni giorno, nel recesso del cuore.

«È come se una parte di me non volesse dimenticare. Gianluca è tetraplegico e io mi sono trasferita a migliaia di chilometri di distanza … ho conosciuto tante persone, mi diverto, rido e sto bene. Ma quando la mia mente è libera i miei pensieri vanno a lui, che passa le sue giornate in un letto, senza potersi muovere forse per il resto della sua vita. Mi sento in colpa e vorrei potergli essere accanto, sapere come sta, se sta lottando.»

Carlo la guardò, comprensivo «Sono certo che prima o poi troverà la forza di combattere, come faceva quando praticava il kickboxing. Ma tu non devi sentirti in colpa, è stato lui a volerti allontanare. Ha sbagliato, ma lui ha ritenuto opportuno fare quella scelta. E se era così convinto che fossi rimasta con lui per compassione, non avresti potuto fare granché per aiutarlo. La volontà di reagire in modo positivo deve nascere dentro di noi, e dobbiamo avere fiducia in chi ha sempre mostrato di volerci bene. Lui è convinto di non valere più nulla e di conseguenza crede che tu pensi la stessa cosa.»

«Ma non è vero. Pensavo di avergli dimostrato quanto lo amassi.»

«E io ti credo. Tuttavia, è lui quello costretto a rimanere immobile in un letto, senza poter muovere né gambe né braccia, e dipende in tutto e per tutto dagli altri. Gli ci vorrà molto tempo per accettarlo, se mai riuscirà a farlo del tutto. Io sarei disperato, e credo lo sarebbe chiunque.»

Elena annuì, non sapendo che altro aggiungere. Sentiva un pizzicore agli angoli degli occhi.

«È dura fare a meno del sostegno di una compagna» continuò Carlo «ma credo abbia pensato all'ulteriore colpo che avrebbe potuto subire se tu avessi deciso di lasciarlo. Sei giovanissima, bella, con la possibilità di scegliere tra molte strade, devi solo decidere quale ti dà le motivazioni più grandi.»

«Io non ho voluto liberarmi di lui.» replicò, la voce incrinata.

Carlo le mise una mano su un braccio «Tormentarti così non serve a nulla, Elena. Può darsi che lasciarti andare lo abbia reso un po' più sereno, perché non teme più che tu possa lasciarlo.» le suggerì. Poi, dopo una breve pausa, aggiunse «Vivi serenamente questi mesi. Lui ha comunque accanto i suoi famigliari, i suoi amici. Poi, una volta tornata in Italia, si vedrà.» le mise una mano su una spalla, e lei assentì, strizzando gli occhi per cercare di stroncare sul nascere quell'ennesimo pianto.

«Così oggi passerai la giornata al mare.» disse Carlo, per virare su un argomento più felice e proiettato nell'immediato futuro.

«Già.» sussurrò, prendendo dell'orzo in polvere da un barattolo con un cucchiaio e versandolo nel latte.

Una settimana prima, la Shiroyama le aveva proposto di portare le ragazze a Miho no Matsubara per farle esercitare sulla spiaggia e in acqua e perché trascorressero una giornata all'aperto. Era uno speciale allenamento pensato e pianificato per rinforzare e migliorare l'elasticità dei muscoli delle ginnaste, e per far loro respirare un po' di sana aria di mare, visto che passavano gran parte delle loro giornate al chiuso della palestra.

«Vedrai, ti piacerà. La spiaggia di Miho è una delle più belle del Giappone. È circondata da una bellissima pineta e godrai di una vista meravigliosa del Fuji-san

Elena abbozzò un sorriso e riuscì a terminare la colazione abbastanza tranquillamente.

Si alzò dal tavolo e si diresse verso il bagno. Mezz'ora dopo doveva arrivare alla palestra Shiroyama per radunare le sue allieve e partire per Miho.

 

Genzo si congedò con un inchino dagli altri membri del consiglio direttivo dell'Istituto Shutetsu e lasciò la sala delle riunioni. L'atrio era fortunatamente vuoto, segno che insegnanti e allievi si trovavano tutti nelle aule a fare lezione.

Varcato il cancello d'uscita dell'edificio scolastico, si avviò verso casa. Dopo alcuni metri, scorse Taro Misaki camminare in sua direzione, con un borsone caricato su una spalla.

«Ehi, Misaki!» lo chiamò, alzando una mano.

Taro sollevò il viso e, riconosciuto l'amico, alzò il mento e accelerò il passo.

«Wakabayashi! Come siamo eleganti.» scherzò, riferendosi alla tenuta in giacca e cravatta - quest'ultima opportunamente allentata - del portiere.

Genzo sorrise «Ho appena finito una riunione del consiglio direttivo della Shutetsu. Non vedo l'ora di andare a casa e togliermi questa roba di dosso.»

Così dicendo, estrasse il cellulare da una tasca dei pantaloni, e vide che sul display erano segnalate tre chiamate perse, tutte di Günther Hoffmann, il suo procuratore da quattro anni; tra i suoi assistiti vi erano numerosi giocatori della Bundesliga, tra cui Karl Heinz Schneider.

Sapeva cosa aspettarsi da un colloquio - seppur soltanto telefonico - con Günther, che di certo non lo stava cercando solo per chiedergli come se la stava passando in Giappone.

Decise di richiamarlo. Meglio esaurire la questione il prima possibile, tanto che il giorno dopo doveva presentarsi al J-Village per l'inizio del ritiro.

«Genzo, finalmente! Ma dov'eri finito?» esordì la voce aspra e gutturale del suo agente.

«Ero in riunione.» rispose, laconico.

«Beh, se non altro sono riuscito a rintracciarti. Hai visto la partita ieri?» chiese, con un tono più disteso.

Come sempre, Herr Hoffmann introduceva l'argomento prendendolo alla larga: il giorno prima, il Bayern Monaco era stato eliminato nei quarti di finale della Champions League dal Real Madrid. Schneider aveva dato ai campioni di Germania la vittoria per 1-0, che non era però stata sufficiente per ribaltare il pesante 3-0 subìto all'andata sul campo del "Santiago Bernabéu".

«Sì. Il Bayern ha giocato bene, ma il Real Madrid è troppo forte e ha dovuto soltanto amministrare la gara.»

«Analisi perfetta, come al solito. E hai sentito cos'ha detto Karl?»

«Sì» alzò gli occhi al cielo, decisamente annoiato «il Bayern ha tentato tutto il possibile ma ha bisogno di rinforzi per poter vincere la Champions League. Niente di clamoroso.»

«Ma non sai quello che ha detto a telecamere e microfoni spenti, a suo padre e a me. Vuole assolutamente che tu sia il prossimo portiere del Bayern Monaco; è convinto che sia tu il tassello mancante per costruire una squadra capace di vincere anche in Europa, ed è deciso a tornare alla carica.»

«Anche qui niente di nuovo … ma io gli risponderò che il mio unico pensiero, adesso, sono le Olimpiadi.»

Il procuratore sbuffò «Devi cominciare a pensare già ora al tuo futuro, Genzo.»

«Te l'ho già detto, Günther. Non voglio parlare di nessuna possibile trattativa almeno fino al termine del torneo asiatico.»

Ma il tedesco sembrava non volere dargli retta «Le più importanti squadre europee sono interessate a te, Genzo. In Germania c'è il Bayern che non molla, come ben sai. In Inghilterra ci sono il Manchester United, il Manchester City e il Chelsea. In Italia, il Milan e la Roma. In Francia, il Paris Saint Germain e in Spagna potrebbe inserirsi il Barcellona. Sarebbe una bella sfida, Wakabayashi contro Callusias!» concluse, decisamente entusiasta. Di certo pregustava la quantità di denaro che avrebbe guadagnato grazie al suo assistito.

«Non credo andrò al Barcellona.» asserì, raffreddando in parte il suo entusiasmo.

«Ma avrai pure una destinazione che ti è congeniale.»

«Sì. Madrid.»

Poté sentire Herr Hoffmann sospirare attraverso il ricevitore «Ma devi decidere il tuo futuro, dopo. La firma del contratto, la presentazione alla stampa, il ritiro …..»

«Non preoccuparti, non rischio di non cominciare la nuova stagione.» lo rassicurò con un sorriso consapevole.

«Ah, ho capito … tu sai già dove andare ma non me lo vuoi dire! Non è così? Magari hai già un accordo sulla parola!» replicò, non reprimendo una nota di fastidio nella voce.

«Niente di tutto questo, sai bene che non mi accorderei mai con una squadra senza parlarne con te … dico solo che è improbabile che io non trovi un buon ingaggio.»

«Ah va bene, ho capito. Ogni cosa a suo tempo.»

Genzo assentì con il capo «Bravo.»

«Sei testardo come un mulo. In ogni caso, prima della fine delle qualificazioni sarò da te in Giappone. Il tuo futuro dopo le Olimpiadi è comunque un argomento di cui dobbiamo discutere.»

«D'accordo.» borbottò infine, alzando ancora una volta gli occhi al cielo «Ora però dammi tregua almeno fino all'ultima partita, e magari occupati di qualcun altro dei tuoi numerosi assistiti. Da quel che leggo su Internet hai un bel po' di lavoro da svolgere.»

«Va bene. Ma a tempo debito non potrai sfuggirmi, ricordatelo.» lo avvisò, con un tono tra il minaccioso e lo scherzoso.

Genzo lo salutò con una battuta e terminò la chiamata. Rimise lo smartphone in tasca con un lieve sospiro.

«Così questo è il famoso procuratore Günther Hoffmann.» commentò Taro, divertito.

«È un ottimo agente, ma quando fiuta un affare non ti molla un attimo. Mi ha già rotto le scatole la scorsa estate quando ho deciso di rimanere ad Amburgo e ora che il mio trasferimento è inevitabile, è convinto di poter concludere l'affare del secolo.»

«Dal suo punto di vista è comprensibile. Chi vorrà ingaggiarti sborserà una grossa cifra.»

«Lo so, ma ora non penso ad altro che alle Olimpiadi.»

«Ma davvero?» lo prese in giro il centrocampista, prendendosi un leggero pugno su una spalla.

«Piuttosto, stai andando ad allenarti?» chiese Genzo, facendo cenno con gli occhi al suo borsone.

«Sì, vedendo questo sole mi è venuta voglia di andare alla spiaggia di Miho, a correre e fare una nuotata.»

«A Miho …» mormorò, pensoso.

«Sai che ti dico?» la voce del centrocampista lo riscosse «Andiamoci insieme, così possiamo passarci il pallone e posso farti qualche tiro.»

«Ottima idea. Prima però devo passare a casa a cambiarmi e prendere un costume.»

«Naturalmente.» sorrise Taro.

 

Circa mezz'ora dopo, i due ragazzi scesero dall'autobus e si diressero verso la spiaggia.

«Forse incontriamo Elena. Doveva venire qui con la signorina Shiroyama e le sue allieve.» ricordò Genzo.

Taro annuì «Sono sicuro che è qui. Ieri sera prima di lasciarla, le ho detto che oggi avrebbe avuto una giornata impegnativa, e lei ha fatto "sì" con la testa e mi ha sorriso. Ha un carattere forte e adora la ginnastica artistica, non è il tipo che rimane distesa su un letto a piangersi addosso.»

«E anche se lo facesse, ci penserebbe suo zio a scuoterla.» affermò il portiere.

Taro ridacchiò «Già.»

 

«Forza ragazze! Uno - due! Uno - due! Faito!» gridò Elena, dando il cambio a Mayuko, mentre le ragazze della squadra juniores dello Shiroyama Gymnastics Club seguivano a breve distanza, correndo a cadenza ritmata, con un'andatura regolare, sulla sabbia nera.

Suo zio aveva avuto, ancora una volta, ragione: Miho no Matsubara era un luogo meraviglioso. Il cielo era attraversato soltanto da poche, blande nuvole passeggere e il Monte Fuji si stagliava all'orizzonte, in tutta la sua maestosità e fierezza. Ricordò di aver visto proprio un paesaggio simile a quello che aveva davanti ai suoi occhi sulle pareti del salotto di casa Misaki. Sorrise. Era ovvio, non poteva mancare tra i soggetti ritratti da un fine paesaggista come Ichiro.

Da quando era uscita di casa per recarsi al complesso sportivo, era riuscita a non pensare al passato e a ciò che era capitato la sera prima, quando non aveva saputo trattenere le lacrime. 

Non le era mai capitato alla palestra o davanti a Mayuko e alle loro allieve. Ed era certa che difficilmente sarebbe successo: la ginnastica artistica assorbiva ogni sua energia; ogni suo pensiero e azione erano riservati allo sport che amava più di ogni altro e che le aveva insegnato una regola fondamentale nella vita: dopo ogni caduta, ci si deve sempre rialzare.

 

Le ragazze stavano riposando nella loro stanza dopo il pranzo, per recuperare le energie ad affrontare gli allenamenti del pomeriggio.

Elena allungò le gambe su un futon, intenta a immergersi nella lettura di un romanzo.

La sua mente sembrava però non voler obbedire ai suoi desideri.

Il mare … le riportava alla mente ricordi dolci nel passato, ma che avevano un gusto amaro nel presente.

Una moto e due caschi lasciati fuori dalla recinzione.

Due ragazzi che, mano nella mano, si immergevano lentamente nelle acque del Mar Tirreno.

Le loro labbra che si univano in un bacio ….

Scosse la testa, chiuse il libro e lo posò sul pavimento.

Si alzò e lasciò la stanza.

Uscì sulla spiaggia, nella speranza che l'aria salmastra riuscisse a liberare il cervello da quei ricordi.

Adesso era in Giappone ….

Per fortuna era soltanto aprile, in quella stagione anche se le ore erano le più calde della giornata, la sabbia non scottava. Raggiunse il bagnasciuga, lasciando che il mare, a intervalli regolari, lambisse le sue caviglie.

Scorse due figure maschili in lontananza, correre nella direzione opposta rispetto a quella in cui stava camminando lei. Uno di loro era poco più alto di lei, l'altro superava il metro e ottanta ed era più robusto e possente. Indossavano entrambi un paio di bermuda ed erano a torso nudo. I loro corpi erano tonici, atletici, prestanti, evidentemente modellati da anni di attività sportiva.

Man mano che si avvicinavano, le due figure si facevano sempre più conosciute … Taro e Genzo.

«Ehi, ragazzi!» gridò Elena, agitando una mano in loro direzione.

I due alzarono anch'essi un braccio, e aumentarono leggermente la loro andatura, fino a raggiungerla.

«Ti stai rilassando in riva al mare?» chiese Taro, piegandosi e mettendosi le mani sulle ginocchia, mentre Genzo le mise sui fianchi.

«Sì. Le ragazze stanno riposando, l'allenamento riprenderà tra un'ora e mezza.»

«Allora potremmo fare una corsa fino alla fine della pineta.» propose Genzo, indicando il punto d'arrivo.

«Sì, mi sembra una distanza ragionevole.» concordò Taro.

«Siamo tutti e tre allenati, non sarà difficile andarci e tornare in meno di un'ora.»

L'idea fu approvata.

Elena constatò con soddisfazione che non stava faticando a tenere il ritmo di corsa dei due calciatori. Non sapeva se fosse perché la sua resistenza era alla pari o perché i ragazzi avevano rallentato la loro andatura di proposito, ma di certo non si sentiva stanca.

A metà del percorso, Taro recuperò il suo pallone, e cominciò a fare dei passaggi con Genzo. I due a turno, di tanto in tanto, calciavano all'improvviso verso Elena, e tutti e tre risero dei maldestri tentativi della ragazza di mantenere il controllo della sfera, seguìti da delle finte proteste.

Arrivarono a destinazione ansanti, ma più per il divertimento e le risate che per la fatica della corsa.

Elena si buttò a sedere sul bagnasciuga, imitata dai suoi amici, a riprendere fiato ammirando la superficie del mare, lambita dai raggi del sole.

«Ragazzi, che ne dite di fare una partitella di simil-pallavolo?» propose Taro un quarto d'ora dopo, sollevando il pallone con il piede, per poi palleggiarlo con il ginocchio e farlo finire su una mano.

«Sono pronta.» disse Elena, posizionandosi tra i due ragazzi.

Genzo si mise in posizione di ricezione, aspettando che Taro lanciasse il pallone.

«Eh no, Wakabayashi! Sai com'è la regola: prima le signore!» scherzò quest'ultimo, battendo verso Elena.

L'ex ginnasta allungò il passo per raggiungere il pallone che Taro aveva lanciato un po’ troppo avanti.

Tese le braccia e riuscì a rinviarlo verso il centrocampista, ma nello slancio andò a finire contro Genzo. La ragazza si ritrovò con le braccia attorno al collo del portiere che, istintivamente per non farla cadere, le aveva cinto la schiena.

Sarebbe dovuto finire in una risata e con la ripresa del gioco. I due ragazzi invece, rimasero a guardarsi con un’espressione seria e Genzo tardava a scostare Elena da sé, così come la ragazza aveva fatto scivolare le mani sul petto del portiere, senza però staccarsi.

Misaki li osservò dapprima stupito, poi sorrise sornione, con il pallone sotto un braccio.

«Ehi ragazzi, posso allontanarmi se preferite.» scherzò, prima di rendersi conto dell'inopportunità di quella battuta.

Elena infatti, si scostò bruscamente da Genzo, mormorando una parola di scusa.

«Va bene ragazzi, ora è meglio che torni dalla signorina Shiroyama, tra poco devo riprendere gli allenamenti.» disse, dirigendosi verso la spiaggia.

«Che ti è saltato in mente di dire quella frase, Misaki?»

«Hai ragione, ho detto una sciocchezza. L'ho fatto senza riflettere.»

Genzo sospirò e gli batté una mano su una spalla. I due imitarono Elena e uscirono dall'acqua, raggiungendola.

«Elena, scusami per prima. Volevo fare una battuta, ma ….»

La ragazza scosse la testa e gli sorrise «Non preoccuparti Taro, l'avevo capito. Va tutto bene, state tranquilli.» aggiunse, rivolgendosi anche a Genzo «Vi ringrazio per l'ora piacevole che mi avete fatto passare.»

 

Giunsero quando le ragazze avevano cominciato il riscaldamento da almeno venti minuti, constatò Elena consultando il suo orologio da polso.

«Elena! Dov'eri finita?» le chiese Mayuko, fermandosi e mantenendo le mani sui fianchi, con un'espressione severa.

«Sono venuta in spiaggia e ho incontrato i miei amici.» disse, indicando Taro e Genzo che si stavano avvicinando «Chiedo scusa per il ritardo.» aggiunse, inchinandosi.

«Non la sgridi, signorina Shiroyama. Siamo stati noi a proporle di fare una corsa fino al termine della pineta.» intervenne il portiere.

«E poi abbiamo fatto una nuotata. Il tempo è volato.» aggiunse Taro.

Difesero Elena sfoderando i loro migliori sorrisi, che riuscirono ad ammorbidire persino Mayuko che, per quanto inflessibile e rigorosa, era pur sempre una donna.

I due ragazzi non si accorsero - o forse, stavano facendo finta di niente - degli sguardi estasiati delle ragazzine, che nel frattempo avevano interrotto gli esercizi.

Mayuko fece un cenno d'assenso e consentì a Elena di riposarsi e andarsi a cambiare. La ragazza salutò i suoi amici strizzando loro un occhio in segno di ringraziamento, prima di incamminarsi verso l'hotel.

La titolare del corso di ginnastica si voltò verso le sue allieve e sgranò gli occhi.

«E voi che fate lì imbambolate? Riprendete subito a fare gli esercizi!»

Taro e Genzo si scambiarono un'occhiata divertita, salutarono il gruppo e si avviarono verso il punto in cui avevano lasciato i loro vestiti e i borsoni.

 

«La signorina Rulli è fortunata! Mentre noi ci riposavamo in albergo, lei è andata a correre sulla spiaggia con quei due fusti.» commentò Hanako, mentre faceva alcune torsioni.

«Sono Misaki e Wakabayashi della Nazionale di calcio.» precisò Mitsuyo.

«Si conoscono da tempo, sono amici.» intervenne Arimi.

«Certo che se fossi io, con due così … altro che amici!» sospirò Shinobu.

«Shinobu! Piantala, anzi piantatela tutte di dire sciocchezze e riprendete ad allenarvi!» le richiamò Mayuko, con espressione irritata.

«E comunque tu non ci combineresti un bel niente! Siamo troppo piccole per loro.» la punzecchiò Arimi, con un sorriso impertinente.

«Sei la solita guastafeste.» bofonchiò Shinobu.

«La festa ve la guasto io, se non vi mettete a lavorare seriamente! Tu Arimi, come caposquadra devi dare l'esempio.» intervenne nuovamente Mayuko.

La ragazzina fece una smorfia, mettendosi a eseguire dei piegamenti come indicato dall'insegnante, evitando di guardare verso Shinobu anche se era convinta le avesse fatto una linguaccia.

 

Elena infilò un paio di pantaloncini e una canottiera sopra il costume e legò i capelli in una coda, e uscì dall’hotel. Per tutto quel tempo, non aveva fatto che pensare a quello che era successo con Genzo. Contrariamente a quanto aveva potuto sembrare, non era stata la pur infelice spiritosaggine di Taro a farle avere quella reazione brusca, ma ciò che aveva sentito in quei secondi in cui era stata abbracciata a Genzo. Come se non avesse realmente voluto liberarsi da quella stretta. Aveva percepito calore, sicurezza, protezione. E anche un'altra sensazione … un fremito … sensualità ….

Che sarebbe accaduto se fossero stati soli, se non ci fosse stato Taro lì con loro?

Dio … le era bastato così poco? Nemmeno ventiquattr'ore prima stava piangendo come una disperata mentre ricordava e raccontava l'incidente capitato a Gianluca e le terribili conseguenze, quel mattino stesso aveva confidato a suo zio quanto ancora pensasse a lui e come il suo senso di colpa non la abbandonasse, e poi si sentiva turbata da un altro ragazzo, che l'aveva tenuta tra le braccia, anche se in modo del tutto accidentale?

Genzo era bello, aveva un corpo imponente e atletico, uno sguardo così scuro e intenso, difficile da reggere a lungo senza avere nessun tipo di reazione. Aveva avuto un momento di fascinazione e di incanto, tutto qui.

Una reazione fisiologica, nient'altro. Magari se anziché Genzo fosse finita addosso a Taro, si sarebbe sentita allo stesso modo.

Sì, era sicuramente così.

Corse verso la spiaggia, dove Mayuko aveva appena annunciato la ripresa degli esercizi.

«Forza ragazze! Facciamo una bella nuotata!» propose, incontrando il cenno d'approvazione dell'istruttrice.

«Emi, ti sei portata il salvagente?» chiese Shinobu, in tono ironico.

«Non ne ho bisogno!» rispose piccata l'altra, facendole una linguaccia.

«Benissimo Emi, ma ora per favore non mettetevi a litigare.» le riprese ancora una volta Mayuko sottolineando il "per favore" con uno sguardo che implicava non una supplica, quanto un'intimazione.

In pochi secondi, allieve e insegnanti si ritrovarono tutte a sguazzare nell'acqua, tra nuotate, risate e piccoli scherzi.

 

Genzo osservò il cielo color turchese, il sole rosso che stava ormai per sparire all'orizzonte e che stava progressivamente cedendo la scena a una piccola, bianca falce di luna.

Durante il viaggio sullo Shinkansen aveva ricevuto una telefonata da parte di Asami, che l'aveva invitato a cena nel suo appartamento.

All'uscita della stazione, chiamò un taxi.

Arrivato a casa della ragazza, lei gli aprì la porta vestita con un corto ed elegante abito blu e i capelli raccolti in uno chignon.

«Finalmente sei qui.» lo accolse, abbracciandolo, stordendolo con il suo profumo di camelie. Lui la baciò tenendola stretta, lasciandola poi andare con riluttanza.

Gli fece strada in salotto, dove si trovava il tavolo apparecchiato per due con la cena preparata dalla governante.

 

Alcune ore dopo, mentre giaceva sul letto della camera di Asami, con la ragazza che dormiva abbracciata a lui e con la testa posata sul suo petto, la sua mente gli ripresentò quell'altro corpo, da lui stretto quel mattino. Esile, ma non privo di quelle morbide forme tipicamente femminili. Le gocce d'acqua che scorrevano sulla sua pelle, i lunghi capelli biondi bagnati che, illuminati dal sole, brillavano come l'oro, gli occhi azzurri che lo guardavano comunicandogli qualcosa che lui aveva decifrato come desiderio, o era stata la sua immaginazione a ingannarlo, facendogli vedere ciò che lui avrebbe voluto?

No, non poteva essere … non poteva avere già dimenticato lui.

Eppure era arrossita quando aveva tolto bruscamente le mani dal suo petto.

Come si sarebbero comportati se Misaki non fosse stato lì con loro?

Voltò la testa da un lato e chiuse gli occhi, cercando di vincere la tentazione di indulgere in quel pensiero e per impedire al suo cervello di formulare una risposta che poteva metterlo in una situazione complicata da gestire, sia in relazione ai suoi sentimenti, sia nel rapporto con Asami ed Elena, e con la sua famiglia e i suoi amici.

 

L'autobus rallentò in prossimità della fermata. Taro si alzò dal sedile, reggendo il borsone in una mano, e afferrò un palo di sostegno con l'altra. Si avviò verso la porta d'uscita anteriore, davanti alla quale si erano posizionati un uomo anziano e una ragazza snella e di bassa statura, con una cartella in mano. Una ragazza che gli sembrava di conoscere.

Dopo che furono scesi, lei voltò parzialmente il viso, confermando la sua impressione.

«Sugimoto! Non sapevo fossi qui.» disse, facendole avere un moto di stupore.

«Misaki!» rispose, allegra «Beh, devi essere salito qualche fermata dopo di me. Io vengo da Fuji, è stato il mio primo giorno al tanki-daigaku.» spiegò, cercando di riportare alla regolarità i battiti del cuore che al solito, aveva cominciato a galoppare.

«Com'è andata?» chiese, l'espressione sinceramente interessata.

«Bene. C'è stata la cerimonia d'apertura, sono stati presentati i corsi che frequenteremo. Ho conosciuto le mie future compagne e penso che mi troverò bene.»

«Mi fa piacere.» rispose Taro «E il manga? Sei riuscita a terminarlo?»

«Sì, sto disegnando le ultime tavole. Per la fine del mese lo consegnerò.»

Dopo pochi minuti in cui avevano camminato affiancati, in silenzio, Kumi riprese la conversazione con una nuova domanda «Tu che hai fatto di bello oggi? Sei abbronzato, profumi di salsedine. Sei stato al mare?»

«Indovinato.» sorrise «Ho incontrato Elena, era con la signorina Shiroyama e le sue allieve della scuola di ginnastica artistica. Sta bene.»

«Sì? Sono contenta.» rispose, da un lato sinceramente sollevata dal sapere che l'amica si era ripresa, dall'altro cercando di ignorare la sensazione di fastidio provocatale dal fatto che Misaki l'avesse incontrata. Lei con ogni probabilità, indossava un costume da bagno. Alta e bionda, con un corpo snello e flessuoso, modellato da anni di ginnastica. Così doveva averla vista.

Chiuse gli occhi, imponendosi di non pensarci. In ogni caso, lei era impegnata con gli allenamenti, non poteva essere successo nulla tra loro. E poi, Elena pensava ancora al suo ex fidanzato.

Non doveva rovinare così le poche occasioni che aveva per parlare con Misaki e non voleva nemmeno provare sentimenti negativi verso la giovane italiana. Decise così di raccontargli quello che aveva fatto e visto durante quella giornata.

Taro sembrava interessato al suo racconto e aveva riso quando si era soffermata su alcuni episodi divertenti.

La compagnia di Kumi era davvero gradevole e non era nemmeno la prima volta che si soffermava a considerarlo. Raramente avevano interagito quando si erano conosciuti nell'ultimo anno, per lui, di liceo, in cui lei era entrata nel gruppo delle manager.

Solo in quei mesi avevano cominciato a entrare, seppur lentamente, in confidenza. Sentiva il desiderio di parlare ancora con lei e di conoscerla meglio. Invitarla a mangiare un okonomiyaki poteva essere una buona idea.

«Sugimoto …»

«Sì?»

«Kumi, sei arrivata? Dai, raccontami tutto!» la voce squillante di una bella donna dai capelli castani affacciata alla finestra, molto somigliante alla ragazza, impedì a Taro di aprir bocca. Misaki scoprì così di essere giunto davanti a casa di Kumi.

«Ciao mamma. Arrivo subito.» poi si voltò verso Taro, ricordandosi che lui l'aveva chiamata.

«Cosa mi stavi dicendo, prima?»

«Scusami?»

«Stavi per dirmi qualcosa, prima che la mamma mi chiamasse.» gli spiegò, con un'espressione un po' perplessa.

«Beh …» mormorò preso alla sprovvista, facendo vagare lo sguardo ovunque tranne che su Kumi, stupita dal canto suo da quella reazione «Spero di vederti allo stadio con gli altri ragazzi, a tifare per noi.» riuscì infine a trarsi d'impaccio.

Kumi strizzò gli occhi e sorrise «Non c'è dubbio su questo! Saremo sempre al vostro fianco!» affermò varcando il cancello del suo giardino e una volta entrata, lo salutò agitando una mano.

Taro sorrise e alzò un braccio, e si incamminò verso casa.

 

 

 

***Note***

 

 

 

Miho no Matsubara: chiamata anche semplicemente Miho, è una località balneare della prefettura di Shizuoka. Si trova sulla parte occidentale della baia di Suruga, a poca distanza dalla città capoluogo e a circa cinquanta miglia dal Monte Fuji. Da questa spiaggia, lunga sette chilometri e circondata da una pineta, è possibile godere di una suggestiva vista del vulcano simbolo del Giappone.

Faito!: è la pronuncia giapponese dell'esortazione inglese Fight!, molto usata nell'ambiente sportivo, durante gli allenamenti e le gare. È un incitamento a fare del proprio meglio ed è analogo al giapponese Ganbatte!.

Fonte: jref.com

Okonomiyaki: composto dalle parole okonomi (ciò che vuoi) e yaki (alla griglia), è un piatto agro-dolce giapponese che ricorda nella forma il pancake americano. Vi sono diverse varianti di questa specialità, fra le quali è popolare quella cucinata nella regione del Kansai. L'origine di questa pietanza è contesa tra la città di Osaka e quella di Hiroshima.

L'impasto comprende, tra i vari ingredienti, fettine di foglie di verza, acqua, farina di grano e uova. Vengono aggiunti, a seconda dei gusti, carne, seppie, gamberetti, e altro. Solitamente viene cucinato negli appositi ristoranti su una piastra calda chiamata teppan.

Fonte: Wikipedia

 

 

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Capitolo 12
*** Capitolo XII - Anima in conflitto ***


Untitled
 
Capitolo XII

 

Anima in conflitto

 

 

 

Kumi camminava in direzione del complesso sportivo Shiroyama con passo spedito.

Era appena uscita dall'agenzia viaggi dove aveva acquistato i biglietti per la trasferta che lei e Yukari stavano progettando da qualche settimana, all'insaputa di Elena, allo scopo di non lasciarle alcuna possibilità di rifiutare.

Quando entrò nella palestra, vide l'italiana in piedi su una trave, dove si stava apprestando a eseguire un elemento acrobatico. Compì due rovesciate all'indietro e un salto del cosacco, per poi eseguire alcuni elementi coreografici, seguiti da una breve rincorsa e un'enjambée, con la quale raggiunse l'altra estremità dell'attrezzo. Si voltò, inspirò e prese un'altra rincorsa, al termine della quale eseguì un salto in avanti raccolto, con il quale concluse l'esercizio, atterrando sul tappetino con un passetto di troppo.

Fece una smorfia. Le uscite erano sempre state il suo punto debole. Avrebbe dovuto lavorarci ancora per eliminare le sbavature.

«Ehi, bell'esercizio!» gridò Kumi, battendo le mani.

Elena, che nel frattempo aveva cominciato a togliersi i polsini, sollevò la testa e le sorrise. «Grazie Kumi, troppo buona. In realtà c’è molto da migliorare.»

L’ex manager alzò le spalle «Io riesco a malapena a fare le capriole.» ridacchiò e anche Elena lo fece, di rimando.

L’italiana si esercitava ogni mattina nella palestra, dopo le lezioni di giapponese. Il suo obiettivo era riprendere le parallele, e aveva fatto i primi timidi tentativi.

«Questo è per te.» disse, tendendole un cartoncino rettangolare.

«Un biglietto per Sydney?» chiese stupita rigirandolo tra le mani, dopo aver visto il nome della città australiana stampato sopra.

«Esatto! E con noi partirà anche Yukari. Andremo a vedere Australia-Giappone. È una gara decisiva, contro una squadra ostica, e i ragazzi avranno bisogno di tutto il sostegno dei loro tifosi. Coincide con la Golden Week, quindi saremo libere da impegni scolastici e di lavoro. Non hai scuse!»

Elena scosse la testa «Qui alla palestra Shiroyama si lavora tutti i giorni.»

Kumi sbuffò e puntò i pugni sui fianchi «Uffa! Sempre lavoro e ginnastica. Non pensi e non parli d'altro, ma come fai a non stancarti? Hai bisogno di una pausa, te lo dico io. Un breve soggiorno nella calda Australia e una partita della nostra amata Nazionale di calcio.» disse, con un tono che le ricordava gli speaker dei programmi dedicati a suggestive mete turistiche e che la divertì.

«Prima devo parlarne con la signorina Shiroyama. Siamo in piena preparazione, non so se è un bene che io mi prenda una vacanza proprio adesso.» ribadì, ma con un tono meno convinto di prima.

Kumi liquidò quell’obiezione con un gesto «Sono certa che non si opporrà. Smettila di fare il sergente e presentati alla fermata del bus dopodomani mattina! Guarda che ci conto! Ciao! E porta con te un costume da bagno e un abito per la sera!» cinguettò infine, uscendo dalla palestra.

Elena guardò il vano della porta da cui era sparita la sua amica, con occhi spalancati «Sergente? Ma sentila …» borbottò, dando un'altra occhiata al biglietto. Alzò le spalle, divertita suo malgrado, e lo depose nel suo borsone, prima di iniziare un'altra serie di esercizi.

 

Erano passati venti giorni dall’ultima volta in cui aveva visto i ragazzi.

Il Giappone aveva cominciato con un mezzo passo falso, pareggiando contro l'Arabia Saudita del fortissimo libero Al Owairan per 1-1 a causa di una sciagurata autorete di Ishizaki, ma poi aveva vinto agevolmente la gara contro il Vietnam e ora si apprestava a concludere le partite di andata affrontando la principale contendente al primo posto: l'Australia. Una squadra forte, composta in gran parte da calciatori militanti nei principali campionati europei, e guidata da un c.t. di grande esperienza internazionale come Giis Coleman.

Le atlete dello Shiroyama Gymnastics Club si erano classificate al primo posto alle regionali, qualificandosi così per le Nazionali juniores.

Come previsto e auspicato, Arimi si era rivelata il valore aggiunto della squadra, incantando i giudici ed entusiasmando il pubblico, tanto che i quotidiani della prefettura le avevano dedicato diversi articoli.

E ora avevano poco più di un mese davanti a sé per allenarsi.

 

«Non preoccuparti Elena. Non ho obiezioni.» le assicurò Mayuko.

«Ma dobbiamo preparare le Nazionali juniores …»

L'istruttrice scosse la testa «Per tre giorni non sarà certo la rovina della preparazione! Anzi, una breve pausa farà bene a tutte, tanto che anch'io ho deciso di dare due giorni di libertà alle nostre ragazze. E l'ultimo giorno, mi aiuterà Satoru. Tu parti pure per Sydney e tifa per i nostri calciatori.» disse, strizzandole un occhio.

 

«Mayuko era fin troppo rilassata. Sembrava sapesse già tutto.» confidò Elena a suo zio, una volta a casa, mentre prendeva degli spaghetti al pomodoro da una terrina e li passava sul suo piatto.

«Le ho parlato io.» le disse Carlo, mettendole una mano su una spalla.

«Ah, ora si spiega tutto.» replicò, mettendo un finto broncio «Pensi che sia il caso?» gli chiese, ancora dubbiosa.

«Ma certo. Anzi, un diversivo ti farà bene. Sei troppo presa da questi campionati e potresti arrivare a trasmettere ansia alle ragazze, anziché motivarle. Tre giorni di distacco faranno bene a tutti.»

Elena rifletté un attimo, pensando all’appellativo di “sergente” scherzosamente affibbiatole da Kumi e alla considerazione di Mayuko sull’opportunità di prendersi una pausa. Non avevano tutti i torti, effettivamente.

«E tu, come ti senti? Tra poco tocca a te.»

Carlo piegò le braccia e mostrò i pugni, nel classico gesto di vittoria dei pugili «Io mi sento in piena forma, sono motivato come ai tempi delle prime gare.»

«Ma pensi andrà tutto bene contro un kickboxer di venticinque anni, campione in carica?»

Carlo annuì con convinzione «Mi sto allenando con il massimo impegno, posso ancora dare del filo da torcere a chiunque.»

Elena annuì e sorrise. Suo zio era davvero lo stesso appassionato combattente di sempre. «Sarò da poco tornata in Giappone e immagino che il lavoro riprenderà. Guarderò il tuo match in tv.»

«E io tra tre giorni parto per Tokyo. Vedrai che non sfigurerò.»

 

Genzo uscì dal bagno della stanza dell'albergo in cui alloggiava con la Nazionale da un paio di giorni, sfregandosi i capelli appena lavati con un piccolo asciugamano.

La sua relazione con Asami andava avanti: si frequentavano, uscivano insieme, andavano al cinema o a teatro, o in qualche locale a ballare. E poi a casa di lei. Trascorrevano la notte insieme, parlavano dei rispettivi progetti per il futuro. Asami aveva le idee molto chiare: entro il marzo dell'anno successivo si sarebbe laureata in Lettere e Filosofia e avrebbe svolto un lavoro coerente con il titolo di studio conseguito. Non gliel'aveva ancora confidato apertamente, ma aveva fantasticato spesso su quanto sarebbe stato bello trasferirsi con lui in Germania o in Inghilterra o in qualsiasi altro Paese avesse deciso di giocare. Vivere stabilmente con lui, accompagnarlo nelle occasioni ufficiali … era la vita che sognava.

Genzo invece, si era reso conto che i suoi pensieri sul futuro avevano per protagonista sé stesso, ma non prevedevano necessariamente la presenza di Asami.

Stava bene tra le sue braccia, a contatto con il suo bellissimo corpo, i suoi lunghi capelli di seta, il suo profumo. Ma … sentiva che nulla stava realmente progredendo tra di loro, dalla prima notte trascorsa insieme. E lui non sapeva se voleva un futuro con lei, se era davvero la donna che voleva accanto a sé.

Il pensiero di Elena si affacciava di tanto in tanto alla sua mente. Non l'aveva più vista dal loro ultimo incontro a Miho no Matsubara e non l'aveva nemmeno più sentita al telefono.

Aveva salvato nella memoria del suo smartphone l'articolo del quotidiano sportivo che Carlo gli aveva inviato. Era la notizia della vittoria dello Shiroyama Gymnastics Club alle regionali di Hamamatsu, con Arimi che aveva ottenuto i punteggi più alti nell'all-around, alla trave e al corpo libero, mentre il volteggio e le parallele erano state vinte da Mitsuyo, con ottimi piazzamenti per Shinobu, Emi e Hanako.

Il pezzo era corredato da una foto che ritraeva le cinque vincitrici, con Mayuko, Elena e Satoru Tanisaka, uno dei collaboratori, dietro di loro. Le loro espressioni erano piene di orgoglio ed euforia.

L'aveva chiamata più volte per complimentarsi, ma non aveva ricevuto risposta. E questo l'aveva contrariato più di quanto avrebbe voluto ammettere.

 

L'aereo della Japan Airlines atterrò all’Aeroporto Internazionale “Kingsford Smith” in una mattinata soleggiata e calda.

Dopo aver scaricato i bagagli e compiuto le procedure di sbarco, le tre ragazze salirono su un taxi, che le portò all'albergo in cui avevano prenotato una stanza.

«Che ne direste di farci un giro per la città? C'è tanto da vedere e manca ancora molto tempo all'ora di pranzo. Ci conviene cominciare subito!» propose Yukari dopo che tutte si furono sistemate, incontrando il consenso delle due amiche.

A bordo di un autobus, attraversarono l'Harbour Bridge e visitarono il quartiere antico di The Rocks e Sydney Cove.

In Australia era autunno, ma la giornata era soleggiata e abbastanza calda da consentire di indossare un paio di pantaloni di cotone e una maglietta leggera.

Pranzarono in un ristorante della zona, per poi trascorrere il pomeriggio a Bondi Beach, ripromettendosi di osservare più da vicino l'Opera House il giorno dopo.

Le tre ragazze persero il conto delle foto che avevano scattato insieme, in tutti i posti che avevano visitato.

Elena scorse le immagini memorizzate nella card della sua fotocamera. Nuove bellissime immagini da inviare e che avrebbero riempito il cuore dei suoi genitori.

 

«È questo il locale che ha nominato Kira?» chiese Nitta, indicando il grosso stabile di fronte a loro e l'insegna a sgargianti luci colorate intermittenti che mostrava la scritta "Aussie Nihon". La temperatura era mite e miriadi di stelle punteggiavano il cielo blu cobalto. Sembrava una serata di tarda primavera.

«Sì. Non so come faccia a conoscerlo, ma deve essere proprio questo.» rispose Wakashimazu.

La comitiva della Nazionale giapponese Under 23 era al completo. Persino Gakuto Igawa aveva accettato di unirsi al gruppo, comunque impossibilitato a trascorrere la serata con la sua amata figlioletta Lisa, rimasta in Giappone con lo zio Hayato e la sua famiglia.

I ragazzi entrarono nel locale, trovando una folla consistente e cominciarono pazientemente a farsi strada.

«Voi siete i calciatori della Nazionale Under 23!» li approcciò un corpulento uomo di mezzo età alto e con i capelli neri, ma con inequivocabili lineamenti orientali.

«Ah, ci conosce?» chiese Soda, con un largo sorriso.

«Certo! Seguo il calcio e inoltre ho l'onore di conoscere personalmente il vostro c.t.»

«Ecco perché ci ha segnalato questa discoteca.» disse Sorimachi.

«Proprio così. Mi presento: sono Jotaro Wright, il proprietario e gestore, ma potete chiamarmi semplicemente Joe, come fanno tutti.»

Genzo fece un mezzo sorriso. Il nome denotava un'origine giapponese dalla parte materna.

I suoi genitori dovevano aver fatto come Hiroji e Annie: lui deciso a dare al loro primogenito un nome giapponese, lei propensa verso uno inglese, alla fine avevano optato per "Kenichi", in modo da poterlo abbreviare con "Ken".

«Lo conosce da molto tempo?» chiese Matsuyama.

Jotaro annuì «Mio padre è un suo vecchio amico, e anch'io lo sono. Ogni tanto torno in Giappone a far visita ai miei nonni ormai ultracentenari, e incontro anche lui. È grazie a mio padre che Kozo ha scoperto l'amore per il calcio. A proposito, perché non è qui con voi? Lui adora il sake, e quello del mio pub è ottimo.»

«Forse è proprio questo il motivo: ha promesso che si asterrà dal bere qualsiasi bevanda alcolica fino al termine delle Olimpiadi.» spiegò Wakashimazu.

«E ci ha detto che se torniamo all'albergo ubriachi ci prenderà a bastonate sul sedere.» soggiunse Sawada.

Joe scoppiò a ridere «Tipico di Kozo.» poi si ricompose «Tranquilli, posso servirvi anche ottime bibite a ridotto tasso d'alcool. Non avete che da ordinare ciò che più vi piace.»

 

Poco distante, Yukari, Elena e Kumi, ignare dell'arrivo dei ragazzi, stavano chiacchierando davanti alle loro birre appena servite.

Era stato Ryo a segnalare a Yukari quel locale, per far sì che i due gruppi potessero incontrarsi. Quest'ultima aveva raccontato di aver scelto spontaneamente dopo aver letto una recensione su Internet, per vedere come le due amiche avrebbero reagito nel vedere arrivare i giocatori della Nazionale. Lei e Ryo si erano infatti convinti che entrambe nutrissero una particolare simpatia per due di loro in particolare.

Elena posò il piccolo boccale sul ripiano del banco, dopo averne bevuto un sorso.

Quella birra era migliore di quanto si era aspettata.

Erano mesi che non metteva piede in una discoteca: dalla sera in cui Shiori l'aveva affrontata e accusata. Da allora il loro rapporto si era definitivamente interrotto e lei aveva praticamente smesso di uscire.

In quel momento una canzone terminò, e dopo una breve pausa ne iniziò un'altra.

Attacco inconfondibile.

«Questa canzone non la sento da secoli.» disse, alzandosi dallo sgabello «Io vado in pista.»

«Io rimango qui, magari vengo dopo.» declinò Yukari «Tu vai pure, Kumi.» disse, strizzandole un occhio.

La ragazza esitò, poi decise di seguire Elena. Aveva una gran voglia di scatenarsi. E poi erano in un Paese straniero, nessuno le conosceva.

 

«Ehi Ishizaki, che ti prende? Hai il torcicollo?» lo canzonò Masao Tachibana, vedendo che il difensore stava allungando il collo in tutte le direzioni.

«Macché, sto cercando Yukari. Le ho detto che saremmo venuti qui. Spero non si sia messa a ballare con qualche bellimbusto.» disse, rivolgendo frequenti occhiate ai numerosi ragazzi che affollavano il locale, alcuni dei quali fin troppo bellocci e muscolosi per i suoi gusti.

«Magari è appoggiata al bancone.» suggerì Morisaki.

«Lo spero per lei e per il tizio, chiunque sia.» replicò Ryo, provocando dei risolini divertiti nei suoi compagni, invero più interessati ad adocchiare qualche bella australiana che non avrebbero disdegnato di approcciare.

 

Dopo essersi fatti strada tra una folla di avventori intenti a danzare o a bere, raggiunsero la zona del bancone e, dopo un po', riuscirono a individuare Yukari, seduta su uno sgabello, con una bibita appoggiata sul ripiano e mentre osservava con un'espressione divertita la pista da ballo, dondolando la testa al ritmo della musica.

«Come mai sei qui tutta sola soletta?» esordì Ryo, sedendosi accanto a lei.

Dopo un attimo di sorpresa, Yukari si appoggiò al bancone, guardandolo con occhi ridotti a due fessure «Forse perché aspettavo il tuo arrivo, scioccone.»

«Sei sempre così dolce.» replicò il difensore, alzando gli occhi al cielo.

«Dai vieni, che ci scateniamo!» disse poi, afferrandole un braccio e trascinandola sulla pista.

 

«Ehi, ma quelle non sono le nostre due capotifose?» chiese Kisugi, facendo cenno con il mento alle due ragazze che stavano ballando al centro della pista.

Genzo e Taro si voltarono nello stesso momento e rimasero di stucco.

Elena e Kumi stavano ballando … ed erano scatenate!

Sembrava stessero facendo a gara a chi si muoveva di più. Ogni tanto si scambiavano sguardi d'intesa e avevano l'aria di divertirsi un mondo.

Genzo non staccava gli occhi da quella massa di capelli biondi che dondolava al ritmo incontenibile, ma dai movimenti aggraziati di quel corpo esile e flessuoso. Gli occhi chiusi, l'espressione di gioia e vivacità. Anche Kumi lo stupì. L'aveva sempre considerata una ragazza vivace ed espansiva, ma non l'aveva mai vista scatenarsi in un ballo. Guardò Taro, e appurò che anche lui stentava a distogliere gli occhi da quella zona della pista.

Si chiese se i suoi pensieri fossero simili ai suoi e su quale delle due ragazze era puntata la sua attenzione.

 

La canzone terminò. Elena smise di ballare e si passò una mano sui capelli. Posò l'altra sul petto, per cercare di calmare i battiti frenetici. Anche Kumi aveva una mano sul petto, e gli ansiti e la gola secca le impedivano quasi di parlare.

«Vado … a bere …qualcosa …» biascicò, tra un ansito e l'altro.

«Vengo con te.» disse Elena che, maggiormente abituata allo sforzo fisico, aveva quasi ripreso il suo tono di voce normale. Raggiunsero insieme il bancone, che nel frattempo si era riempito di loro conoscenze.

«Ehi Taro! Ciao!» gridò, alzando un braccio verso il centrocampista «Che combinazione!»

«Pare che il proprietario del locale sia un grande amico di Kira. E così eccoci qua.»

La ragazza assentì e si accomodò accanto a lui, mentre Kumi, dopo averlo salutato, si fermò sull'altro lato. Taro si trovò così seduto tra le due. Osservò l’ex manager con ammirato stupore. Indossava un corto abito azzurro smanicato, con scollatura a barchetta. Era un vestito che valorizzava la sua bellezza ancora acerba, ma evidente grazie anche ai suoi capelli, sciolti sulle spalle.

Elena si sedette proprio sullo sgabello accanto al quale era appoggiato Genzo, che si era spostato poco prima, proprio per lasciarle libero quel posto. Lei, euforica e intenta a parlare con Taro, non aveva ancora notato la sua presenza.

La osservò, prima di rivolgerle la parola. I capelli erano leggermente arruffati per via della danza sfrenata, e le guance erano arrossate. Indossava una maglietta viola con una scollatura che lasciava intravedere le clavicole, sopra una corta gonna nera, che scopriva le gambe lunghe e snelle.

«Ciao.»

Se lo ritrovò davanti, senza aspettarselo minimamente. La sua giacca nera lasciava intravedere una maglietta grigia sotto cui erano visibili le linee dei pettorali. Sorrideva, facendole capire che l'aveva vista mentre ballava. Avvertì il cuore batterle più forte.

«Genzo … ciao.» ricambiò il saluto, riprendendosi «Non mi aspettavo di trovarti qui.»

«Il coprifuoco scatta da domani.» replicò con ironia.

«Ti avevo telefonato per farti i complimenti, ma non hai mai risposto.» aggiunse, appoggiandosi di lato, per guardarla meglio in viso. Il suo atteggiamento era lo stesso di sempre, ma il suo sguardo … le sembrava diverso … penetrante, quasi indagatore.

«Sì … avevo visto le notifiche ma poi mi sono dimenticata di richiamare. È stato un periodo denso. Ti ringrazio adesso.» rispose, cercando di ignorare quell'inspiegabile senso di agitazione che avvertiva.

Genzo fece un cenno d'assenso.

In quel momento cominciarono a diffondersi le note di un brano strumentale. Un lento.

«Ti piace soltanto scatenarti, o balli anche i lenti?»

«Che cos'è, un invito?»

Lui annuì «Se ti va.»

Elena fece un cenno d'assenso, scivolò dallo sgabello e gli porse la mano, che lui imprigionò nella sua, conducendola poi sulla pista.

Genzo le mise una mano dietro la schiena, e le prese la mano destra con l'altra.

Lei gli passò un braccio attorno al fianco, posando la sua mano sinistra all'altezza della scapola. Posò il mento su una sua spalla e chiuse gli occhi. Era una bella sensazione. Il suo profumo, l'essere stretta al suo corpo solido e imponente. Sì, una bella sensazione … come quella provata alla spiaggia di Miho.

«Il Bayern Monaco è pronto a offrire non ricordo quanti milioni di euro per averti dalla prossima stagione.» gli disse, per scacciare i pensieri pericolosi che si stavano affacciando alla sua mente.

«Sai che non ne parlo.»

«D'accordo … però mi piacerebbe vederti giocare nel Bayern. E sarei curiosa di vederti nei giorni dell'Oktoberfest, vestito con il classico costume bavarese.»

A Genzo balenò in mente l'immagine di Karl Heinz Schneider e Shunko Sho vestiti con il famoso Lederhosen e accennò una risata «Attenta. Rischi di darmi un motivo per non andarci.» rispose, facendo ridere anche lei.

Il suo respiro le sfiorava la tempia e l'orecchio. Elena avvertì dei brividi lungo la schiena. E nessuna voglia di staccarsi da quel ragazzo. Erano sensazioni che non aveva più provato da mesi, e che Genzo le stava facendo riscoprire.

«Qual è il progetto che ti intriga di più?»

«Al momento non lo so. Saranno diversi fattori a determinare la decisione.»

«Competitività della squadra, ingaggio, modo di giocare dell'allenatore …» cominciò a elencare Elena.

«Certo, ma non solo. Si valuta la situazione della squadra, ma ha un peso anche la città in cui si andrà ad abitare.»

«Io posso parlare per Monaco e Roma. Sono due città bellissime, non ti annoieresti a visitarle e a scoprirle. E la gente è generalmente cordiale e amichevole.»

«I tifosi del Bayern dovresti conoscerli bene.» aggiunse poi, con un sorriso «Quelli della Roma sono molto aperti, calorosi. Amano la squadra in modo viscerale, al punto che molti lo considerano perfino eccessivo. Ti accoglierebbero in pompa magna, come un eroe. Ma credo che il tuo arrivo sarebbe gradito ovunque.»

«E tu dove ti vedi, tra qualche mese?» le chiese lui, cambiando apparentemente discorso.

L’aveva leggermente scostata da sé e ora la stava guardando, attento.

Si sentì accaldata dal collo in su, e combattuta. Avrebbe voluto che Genzo non la guardasse così, ma allo stesso tempo trovava piacevoli quei brividi, provocati da quei due pozzi neri cui si sentiva avvinta.

«Sono tentata dall'andare a studiare a Monaco. Ma Roma è la città in cui vivo.» mormorò.

Lui non disse nulla, ma sembrava voler leggere dentro quelle iridi azzurre.

Elena deglutì. Erano troppo vicini al livello di guardia ….

Si affrettò a distogliere lo sguardo e posò la testa sulla sua spalla, gli occhi leggermente umidi e un cuore che sembrava impegnato in una lotta ardente contro la ragione e contro i suoi ricordi.

Genzo chiuse gli occhi.

Nel suo petto, si agitava una tempesta alla quale non era minimamente preparato.

 

Taro e Kumi osservavano le danze, e i loro occhi cadevano inevitabilmente, per motivi diversi, sulla coppia formata da Genzo ed Elena.

Misaki aveva un'aria perplessa e preoccupata. Wakabayashi stava giocando con il fuoco. Aveva notato da diverso tempo l'inclinazione che il portiere sembrava avere verso Elena. Gli sguardi che le lanciava durante le partitelle al campo comunale che nessuno sembrava aver notato ma che a lui non erano sfuggiti, le attenzioni che ogni tanto le dedicava e che era così facile mascherare da atti di generosità e semplici manifestazioni d'amicizia, il modo in cui l'aveva guardata quando se l'era ritrovata tra le braccia alla spiaggia di Miho e mentre si scatenava con Kumi.

Era evidente, ai suoi occhi, che Genzo provava una forte attrazione verso Elena.

Non ci avrebbe visto nulla di strano né di indesiderabile, se non fosse stato per la particolare situazione di entrambi. Elena usciva da una storia che lei ancora non considerava conclusa, Genzo frequentava ufficialmente la figlia di una delle famiglie più in vista del Giappone.

Ben tre persone rischiavano di soffrire, sicuramente almeno una di loro ne avrebbe fatto le spese. E sia Wakabayashi sia Elena avrebbero dovuto presto affrontare i loro sentimenti e fare chiarezza nei loro cuori.

 

Nel frattempo, un bel ragazzo alto e robusto, dai corti capelli scuri, si avvicinò a Kumi e le chiese di ballare.

La ragazza, dopo un attimo di esitazione, accettò e si lasciò condurre sulla pista da ballo.

«Come hai detto che ti chiami?» le chiese il giovane, mentre cominciavano a muoversi al ritmo della musica.

«Non te l’ho ancora detto. Comunque, mi chiamo Kumi.»

«Kumi ... è un bel nome. Semplice e dal suono gradevole.»

«Grazie.» rispose, guardandolo con un sorriso. Era davvero un bel ragazzo. I lineamenti erano decisi, ma privi di asprezza, e aveva un sorriso amabile. «E tu come ti chiami?»

«Steven.»

«Anche il tuo è un bel nome.» mormorò, posandogli la testa sul petto.

Continuarono a muoversi in sintonia con la musica. Poi accadde qualcosa di stonato … come se all'improvviso la sinfonia si stesse tramutando in una progressione di suoni aspri e cacofonici.

Kumi avvertì la mano di Steven, fino a quel momento posata sulla sua schiena, cominciare a scendere piano, sfiorandole il fondoschiena.

Trasalì e spalancò gli occhi.

«Sai Kumi … sei veramente carina … piccolina, ma con uno splendido corpo.» le sussurrò con le labbra vicine all'orecchio, mentre la mano passava ad accarezzarle un fianco, per poi scendere di nuovo fino a infilarsi sotto il vestito, nel tentativo di toccare una coscia.

«No» disse, scostando la sua mano dalla gamba «Così non va bene.»

«Andiamo, piccola. Voglio solo divertirmi un po’. Pensavo di piacerti.»

«Prima di cominciare a toccarmi e dire queste cose, sì.» ribatté, cercando di divincolarsi «Ma così mi fa schifo.» lo fissò, dura.

Ma Steven non aveva nessuna intenzione di lasciarla andare. Rise, in un modo che le fece spalancare gli occhi e rabbrividire per l'orrore.

«Non fare la preziosa, adesso. Che ti aspettavi, di incontrare il principe azzurro?» sibilò, afferrandole i polsi in una presa salda.

«Lasciami! Voglio tornare dai miei amici.» sbraitò, strattonando con tutte le sue forze, ma lui la sovrastava fisicamente. Non sarebbe mai riuscita a liberarsi.

«Lasciami andare!» gridò più forte, con voce rotta.

 

I pensieri di Taro vennero interrotti da un urlo disperato proveniente dalla zona vicina alle toilette, che lo fece voltare.

Kumi, tenuta per un braccio dal ragazzo che l’aveva invitata a ballare, cercava disperatamente di divincolarsi.

«Ehi!» gridò, correndo verso di loro. Steven si voltò di scatto.

Il cuore di Kumi perse un battito. Spalancò gli occhi, incredula. Qualcuno era corso ad aiutarla … ed era Misaki!

«Lasciala. E subito.» gli intimò, con occhi torvi, le braccia tese lungo il corpo, le mani strette a pugno.

«Oh, ecco che arriva l'eroe. Ma sei un po’ troppo smilzo per me, giapponesino.» lo sbeffeggiò, squadrandolo.

«Ti consiglio di non sottovalutarmi.» sibilò il centrocampista, avanzando verso di lui.

Steven ridacchiò, sprezzante «Ti stenderò in un attimo.» disse, lasciando il braccio di Kumi. Si lanciò verso Taro, con il braccio teso, pronto a sferrare un pugno.

Il ragazzo riuscì a schivarlo e Steven si fermò giusto in tempo per non andare a sbattere contro la parete.

Imprecò e prese nuovamente la rincorsa.

Prima che potesse colpirlo, Taro gli sferrò un calcio su uno stinco, facendolo cadere con uno strido di dolore.

Steven rimase a terra e imprecò digrignando i denti e tenendosi la gamba.

Il calciatore si voltò e vide Kumi addossata alla parete, da cui aveva assistito allo scontro, tremante, con occhi pieni di spavento e di apprensione.

Le si avvicinò.

«Sugimoto, tutto bene?»

«Sì … adesso sì.» sussurrò, con un lieve sorriso.

Lui le si avvicinò ancora, con uno sguardo pieno di dolcezza e di empatia.

«Maledetto bastardo ... » bofonchiò una voce, dietro di loro.

«Attento!» gridò Kumi, vedendo Steven che stava tornando alla carica, cogliendo Taro impreparato.

Ma la sua corsa venne fermata da un diretto in piena faccia che lo spedì a terra, tramortito.

«Speravo di non dovermene servire per occasioni come questa.» disse Genzo, scrollando la mano, mentre Elena corse verso Kumi e le mise le mani sulle spalle, mormorandole alcune parole di conforto, per poi abbracciarla.

Taro espirò dopo aver trattenuto a lungo il fiato, guardando Steven a terra, esanime. «Giusto in tempo, Wakabayashi.»

«Io ed Elena abbiamo sentito le grida di Sugimoto e siamo corsi a vedere cosa succedeva.» spiegò, mentre guardava le due ragazze, ancora abbracciate.

 

Nel frattempo si era formato un capannello di ragazzi, attirati dalle grida e dal successivo scontro.

Arrivò anche Joe, facendosi spazio.

«Che sta succedendo qui?» chiese, guardando il ragazzo a terra, poi Taro, Genzo e infine Kumi ed Elena. Il gruppo venne raggiunto da Yukari, che mormorò qualcosa a Kumi e le passò un braccio attorno alla schiena, accarezzandola per darle sostegno.

«Quel verme» iniziò Taro, additando con disprezzo Steven «stava molestando questa ragazza.» spiegò, indicando Kumi «L’ha palpeggiata e ha cercato di trascinarla con sé nei bagni.»

Jotaro, dopo aver ascoltato inorridito e pieno di sdegno, si avvicinò a Steven, lo afferrò per la collottola della maglietta sollevandolo da terra, e poi per il colletto, guardandolo con una furia omicida.

«Cosa credevi di fare, delinquente?» gli fiatò addosso «Ti denuncio! Feccia come te non deve mettere piede nel mio locale! Portatelo via.» disse, rivolto a due addetti alla sicurezza, che afferrarono il ragazzo ognuno per un braccio e lo trascinarono verso l'uscita del locale.

«Signorina, sono desolato per quello che le è successo.» disse poi, rivolto a Kumi.

«Anch’io, signore. All'inizio, sembrava un tipo a posto.» mormorò.

Joe si mise le mani sui fianchi e sospirò.

«Episodi come questo accadono raramente nel mio locale. Purtroppo c'è sempre qualche lupo che gira travestito da agnello.»

«Era gentile. Poi ha improvvisamente cominciato a fare discorsi allusivi e a mettermi le mani addosso. Sembrava una trasformazione da Jekyll a Hyde.»

Elena fece una smorfia «Fanno sempre così, è la loro tattica.»

«Già, per adescare la loro preda.» commentò Ishizaki, con un'espressione disgustata.

«Tutto bene, Kumi?» fu la domanda che si sentì rivolgere dagli altri ragazzi che le si fecero attorno sinceramente preoccupati, soprattutto quelli del gruppo di Nankatsu.

Le fece piacere la partecipazione dei ragazzi, anche se in quel momento, più di tutto avrebbe voluto le attenzioni di uno di loro in particolare. Quel ragazzo che l’aveva guardata pieno di premura e che forse l'avrebbe rincuorata con un abbraccio.

Come se le avesse letto nel pensiero, Taro le fu di nuovo accanto «Forse un po’ di colpa ce l’ho anch'io. Se ti avessi chiesto di ballare ...»

Kumi alzò la testa e lo guardò, con un sorriso.

«Mi sarebbe piaciuto.» gli rispose, quasi senza rendersene conto. Taro la guardò, con un lieve sorriso.

«Ehi ragazzi, è quasi mezzanotte! Meglio se torniamo in albergo.» li avvisò Wakashimazu, picchiettando con un dito sull'orologio da polso.

«A domani allora.» disse nuovamente Kumi.

Taro annuì e dopo aver salutato Elena e Yukari, si avviò fuori dal locale, con i suoi compagni.

«Elena … Wakabayashi ci sta salutando con la mano.» disse Yukari, notando che l’amica non aveva più alzato la testa verso i ragazzi, apparentemente concentrata su Kumi, che aveva ricambiato il gesto del portiere.

La giovane sollevò lo sguardo solo dopo alcuni secondi, puntandolo in avanti, dove i ragazzi erano tutti di spalle, ormai nei pressi dell’uscita, poi lo abbassò di nuovo, senza parlare né cambiare espressione.

 

 

 

 

***Note***

 

 

Golden Week: detta anche Ōgata renkyū o Ōgon shūkan, è un'espressione giapponese che definisce il periodo in cui cadono le seguenti festività pubbliche:

29 aprile, Shōwa Day (Showa No Hi), compleanno dell'Imperatore Hirohito, istituita dal 2007

3 maggio, Festa della Costituzione (Kenpo Kinenbi)

4 maggio, Festa del verde (Midori No Hi) celebrata dal 2007

5 maggio, Festa dei bambini (Kodomo No Hi), detta anche Festa dei ragazzi (Tango No Sekku).

 

La canzone ballata da Elena e Kumi è "Hard to Beat" degli Hard-Fi, contenuta nell'album "Stars of CCTV" (2005). Questo è il video, particolare nella sua semplicità. :-)

 

L'Oktoberfest (Festa d'ottobre, in bavarese Wiesn) è un festival popolare che si tiene ogni anno a Monaco di Baviera negli ultimi due fine settimana di settembre e il primo di ottobre.

È l'evento più famoso ospitato in città, nonché la più grande fiera del mondo, e vede ogni anno la partecipazione dei giocatori, dell'allenatore e dei dirigenti del Bayern Monaco, spesso accompagnati dalle loro mogli e fidanzate, comunque tutti vestiti con i costumi tradizionali bavaresi: il Dirndl (per le donne) e il Lederhosen (per gli uomini).

In questa foto, il difensore della squadra bavarese Mats Hummels con la moglie Cathy all'ultimo Oktoberfest.

Fonti: Wikipedia e Oktoberfest.it

 

 

Eccoci … nel mezzo del cammin di questa storia. :-) Sì, perché i capitoli saranno in totale 25 più l'epilogo, e salvo imprevisti verranno pubblicati con cadenza settimanale.

Ringrazio tutti coloro che seguono questa fanfiction … nonostante le apparenze, siete tanti!

Chiunque voglia esprimermi la propria opinione, critiche costruttive comprese, anche in privato, è il benvenuto.

Auguri a tutti di Buon Natale!

Sandie

 

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Capitolo 13
*** Capitolo XIII - Complicazioni ***


Untitled
Capitolo XIII

Complicazioni

 

 

 

Yukari guardò Kumi ed Elena, sedute accanto a lei sul sedile posteriore del taxi che le stava

portando allo stadio di Sydney.

Entrambe sembravano con la testa altrove.

La prima era ancora scombussolata dalla brutta esperienza vissuta la sera precedente, cui

solo l’intervento di Misaki aveva impedito di diventare qualcosa di ben peggiore.

Già, Misaki … non le era sfuggito il fatto che i due si erano ultimamente avvicinati.

Certamente il giovane centrocampista avrebbe affrontato quel bruto anche se a esserne in

balìa fosse stata un'altra ragazza, ma il modo in cui aveva guardato Kumi, prima di andarsene

dalla discoteca, tradiva molto di più rispetto a una mera sollecitudine.

La seconda probabilmente pensava a Wakabayashi. Avevano ballato insieme tutta la sera,

senza pause, ma aveva evitato di salutarlo, quando lui se n'era andato dal locale con i suoi

compagni di squadra.

Doveva essere accaduto qualcosa tra i due … o forse stava nascendo.

Tutti nella squadra erano al corrente della relazione tra il portiere e la giovane ereditiera Asami

Ujimori, figlia di amici di lunga data e spesso soci in affari dei Wakabayashi, tuttavia era noto

anche il fatto che il portiere prendeva lezioni di kickboxing dallo zio di Elena e quest'ultima

lavorava nello stesso complesso sportivo, e si era instaurata una certa confidenza, facilitata

anche dallo stretto legame con la Germania, una seconda patria per entrambi.

La giovane maestra d’asilo sorrise sorniona, guardando il sole che elargiva le ultime ore di luce

a quella giornata: erano mesi interessanti quelli in arrivo, e non solo perché erano in

programma le Olimpiadi.

 

Kumi sembrava essere rimasta, con la mente, alla sera prima.

Ogni tanto si massaggiava delicatamente le braccia, ancora doloranti per le pressioni e gli

strattoni di quel verme. Così l’aveva definito Misaki, con la sua voce carica di rabbia e di

disprezzo.

Misaki ...

Provava disgusto e angoscia nel ricordare le mani di quel molestatore percorrere

impudentemente il suo corpo, ma poi indugiava sul momento in cui il centrocampista era

intervenuto per difenderla, la determinazione e il coraggio con cui aveva affrontato

quell’energumeno che era più grosso di lui.

L’espressione dolce e preoccupata con cui si era sincerato delle sue condizioni continuava a

occupare i suoi pensieri. Si trastullava nel formulare ipotesi su cosa sarebbe accaduto se quel

bastardo fosse rimasto a terra anziché rimettersi in piedi e cercare nuovamente di colpirlo.

L'avrebbe abbracciata? Si sarebbe limitato a sfiorarle una spalla, per poi invitarla a tornare al

bancone?

Più di tutto, non si toglieva dalla testa il sorriso che le aveva rivolto dopo che lei, in uno slancio

di audacia che aveva sorpreso anche sé stessa, gli aveva confessato che avrebbe voluto

essere invitata a ballare da lui.

E ora aspettava con trepidazione di incontrarlo di nuovo: cosa si sarebbero detti, come

l’avrebbe guardata? Nemmeno con Tsubasa si era sentita così: perché la situazione era

diversa.

All’epoca della sua cotta per il capitano sapeva, dentro di sé, di non avere possibilità.

Con Misaki, aveva colto dei segnali che potevano indurla a sperare di aver suscitato qualcosa

in lui.

Ma non voleva forzare: preferiva lasciare che le cose seguissero il loro corso.

 

Diversi e molto più contrastanti erano i pensieri di Elena.

Si era addormentata associando la sensazione del lenzuolo che la copriva fino alla schiena

con quella che aveva provato quando le braccia di Genzo l'avevano circondata. E quando

aveva chiuso gli occhi, il nero non era quello del buio, ma quello dello sguardo del portiere.

Era attratta da Genzo. Si sentiva in colpa per Gianluca. Oppure, amava ancora Gianluca ma le

mancavano le attenzioni di un ragazzo? Il suo cuore era un vortice di sentimenti confusi, che

non riusciva a isolare e a definire. E forse ad ammettere.

 

Elena, Kumi e Yukari raggiunsero i ragazzi del gruppo dei supporter nei pressi del "Sydney

Football Stadium", per poi entrare nello stadio e prendere posto insieme a loro nella curva

riservata ai tifosi della squadra ospite. Si ritrovarono proprio alle spalle di una delle porte.

Le squadre entrarono in campo, e i giocatori e la terna arbitrale si disposero in fila, a formare

una linea orizzontale, preceduta da un'altra linea formata dai bambini entrati in campo con loro.

Il lancio della moneta diede al capitano Matsuyama la possibilità di scegliere il lato del campo.

Nel secondo tempo, Wakabayashi sarebbe stato davanti alla curva giapponese.

Le due formazioni si dispersero sul campo, e i giocatori andarono a prendere posizione.

Il Giappone impose subito il suo gioco. Tuttavia, la difesa australiana era bene organizzata,

composta da calciatori dal fisico robusto e forti nei contrasti.

Alla mezz'ora, i ragazzi allenati da Kozo Kira riuscirono finalmente a raccogliere i frutti del loro

atteggiamento propositivo.

Soda corse velocissimo sulla fascia ed effettuò uno dei suoi cross a effetto.

Misaki evitò con uno splendido dribbling gli interventi dei difensori australiani, corse incontro

all’ottima palla lanciata dal difensore e saltò colpendola con il piede sinistro, scatenando la

gioia incontenibile dei tifosi.

Kumi fece un salto e mise un braccio attorno alle spalle di Yukari e l’altro attorno a quelle di

Elena, facendole quasi cadere, tra esultanze e risate.

Il primo tempo si concluse con il Giappone in vantaggio.

«Se segnassero subito, l'Australia si scoraggerebbe e a quel punto avremmo la partita in

pugno.» considerò Manabu, entusiasmato dall'ottima prestazione dei samurai.

Ma i padroni di casa, com'era prevedibile, cominciarono con una maggiore aggressività

rispetto alla prima frazione di gioco.

Per i ragazzi di Kira divenne più complicato impadronirsi del pallone e costruire nuove azioni.

A pochi minuti dall'inizio del secondo tempo, accadde qualcosa di grave nell'area di rigore del

Giappone.

Un giocatore australiano si avvicinò a Igawa e gli disse qualcosa. Doveva trattarsi di frasi

provocatorie perché il difensore nipponico, che già in precedenza aveva dato segni di

nervosismo, assestò una gomitata all'avversario, che cadde a terra. I compagni di reparto e

Genzo scattarono verso di lui, ma era troppo tardi.

L'arbitro aveva visto la scena. Si diresse verso Igawa e gli mostrò il cartellino rosso.

Il difensore dovette così uscire dal campo.

Il c.t. Kira, per tentare di bilanciare le forze in campo, richiamò Wakashimazu in panchina,

inserendo al suo posto Izawa.

 

Ma il peggio doveva ancora accadere.

Al ventesimo del secondo tempo, l'arbitro fischiò un calcio di punizione per l'Australia, per un

fallo di Soda su Konwell. Lo stesso Konwell si incaricò di battere, e disegnò un tiro angolato

che Genzo parò con sicurezza, ma non era riuscito a evitare Duviga che, corso in avanti per

cercare di deviare il pallone in rete, finì per spingere Wakabayashi verso il palo della porta.

L'impatto fu tremendo: il portiere andò a sbattere il viso nella zona dell'occhio sinistro.

Il maxischermo proiettò le immagini dell'azione in cui Genzo, aggrovigliato all'attaccante

australiano, aveva sbattuto la testa contro il palo. Elena sgranò gli occhi, scattò in piedi e si

portò una mano alla bocca.

«Genzo …» mormorò, spaventata.

Il portiere rimase a terra, e per alcuni minuti che sembrarono eterni non si mosse.

I suoi compagni di squadra lo attorniarono, preoccupati.

«Wakabayashi, mi senti?» chiese Matsuyama, accosciatosi accanto a lui.

Genzo strinse i denti, per il dolore. Un dolore lancinante all'occhio sinistro. Sotto il suo viso,

l'erba si stava macchiando di rosso.

«Sta perdendo sangue! Presto, fate venire il medico!» gridò Misugi, facendo segno alla

panchina e all’arbitro, che autorizzò l’ingresso dello staff medico.

I medici corsero in campo, portando una valigetta con l'occorrente per prestare cure

immediate e una barella.

Genzo fu aiutato ad alzarsi in piedi. Il suo viso era coperto per metà di sangue.

I tifosi giapponesi assunsero un'espressione sconvolta, alcuni di loro, soprattutto donne, si

coprirono il viso.

«Oh mio Dio …» esclamò Elena, giungendo le dita delle mani all'altezza del mento, sotto il

labbro inferiore. Il bel volto di Genzo sembrava una maschera macabra.

 

«Non mi serve la barella.» protestò il portiere.

«A ogni modo Wakabayashi, non puoi continuare. Il tuo occhio sanguina e sicuramente hai una

ferita orbitale. Devi lasciare il campo e consentire al c.t. di sostituirti.» gli disse perentorio il

dottor Takeda, il capo dello staff medico della Nazionale, pulendogli il viso e mettendogli in

mano una borsa piena di ghiaccio, che Genzo premette sull'occhio.

Il numero 1 nipponico uscì dal campo accompagnato dai medici e dagli assistenti che

trasportavano la barella da lui rifiutata, tra gli applausi dei suoi connazionali.

Batté una mano sulla spalla di Morisaki, esortandolo a proteggere quel risultato così prezioso.

Rimase in piedi accanto alla panchina, continuando a tenere la borsa premuta sull'occhio.

«Wakabayashi, è meglio se vai all'ospedale per gli accertamenti.» insistette il medico.

«Mancano venticinque minuti. Voglio restare qui fino alla fine della gara.» replicò, risoluto.

«Ma Wakabayashi, la palpebra è chiusa e tumefatta, l'occhio è gonfio. Se aspetti, rischi di

causare seri danni alla tua vista.»

«Non sento dolore. Voglio vedere la parte finale di questa gara.» ribadì, senza alcuna

intenzione di lasciarsi persuadere.

Alla fine, il dottor Takeda sospirò e annuì con una smorfia «E va bene, Wakabayashi. Ma dopo

il fischio finale, andremo subito all'ospedale.» replicò con tono fermo e ammonitorio, incontrando

stavolta il cenno d'assenso del giocatore.

 

Elena non aveva perso un attimo di quella scena, pur non potendo ascoltare il dialogo tra i due.

Kumi le prese una mano, per infonderle coraggio. Rabbrividì nel sentirla gelata.

Anche a gioco ripreso, i suoi occhi si spostavano dallo svolgimento della gara a Genzo in piedi

accanto alla panchina. Aveva deciso di rimanere vicino ai suoi compagni. Spesso lo sentiva

gridare frasi di incoraggiamento.

«Tenete duro, ragazzi. Mancano cinque minuti!»

Ma anche Elena sapeva bene che cinque minuti, nel calcio, potevano essere un'eternità. Il

risultato poteva rimanere invariato, come cambiare. E sperava che lo scorrere del tempo

smentisse quel brutto presentimento che era nato in lei già dopo l’espulsione di Igawa.

Morisaki riuscì a parare un bellissimo tiro di Konwell, mandando il pallone in calcio d'angolo. Lo

stesso talentuoso australiano andò a batterlo. Duviga si eresse in tutta la sua statura e

imponenza, e neppure Izawa riuscì a contrastarlo.

Il gol del pareggio galvanizzò l'Australia che passò in vantaggio dopo tre minuti, grazie a un

potente tiro ancora di Konwell.

Misugi riuscì a togliere il pallone a Shooker e lo calciò in avanti verso Matsuyama, che avanzò

palla al piede evitando gli avversari e tirando poi verso Nitta, che effettuò uno dei suoi hayabusa

shoot.

Calciò con tutta la potenza di cui era capace, supportata dalla forza della disperazione.

Il portiere riuscì a pararlo, ma soltanto deviandolo fuori campo.

Il Giappone ottenne così un calcio d'angolo, strappato con i denti.

Taro si incaricò del tiro.

«Non posso sbagliare … se perdiamo questa partita, la nostra strada verso Madrid potrebbe

essere compromessa ….» bisbigliò a sé stesso, mentre posizionava il pallone e indietreggiava

per prendere la rincorsa.

Poteva tentare il tiro direttamente in porta. In J League aveva segnato più volte in quel modo.

Ma c'era anche un ottimo colpitore di testa come Izawa, e Morisaki che aveva lasciato la porta

per prendere parte a quell'ultima occasione.

I tifosi giapponesi incitarono i loro giocatori con tutto l’ardore di cui erano capaci, sperando di

farsi sentire nonostante l’inferiorità numerica e la distanza dalla porta australiana.

Alla fine, Taro scelse di provare a sorprendere i Socceroos con un tiro a effetto: il pallone era

diretto verso l'angolo più lontano, dove Morisaki e Izawa stavano accorrendo per deviarlo in

rete. L'azione era stata però seguita da Duviga che anticipò i due giapponesi e colpì di testa

con una potenza tale che il pallone raggiunse il centrocampista Shooker il quale, libero da

marcature, calciò forte verso la porta giapponese, rimasta incustodita.

Ishizaki fu il primo a reagire e corse disperatamente verso il pallone che stava rimbalzando

verso la rete. Troppo velocemente. Un altro rimbalzo e avrebbe varcato la linea.

Ryo si tuffò, ma non riuscì a raggiungerlo. Ricadde a terra nello stesso momento in cui il

pallone concludeva la sua corsa andando a finire in fondo alla rete.

 

L'Australia aveva battuto il Giappone per 3-1.

I padroni di casa rinsaldarono la loro posizione in testa a punteggio pieno, mentre i nipponici

rimasero a quattro punti, insidiati da una scomoda contendente come l'Arabia Saudita.

La strada verso Madrid assunse, nelle menti di Kira e dei suoi ragazzi, l'immagine di una salita

ripida e proibitiva.

Genzo guardò i giocatori australiani e il loro c.t. Coleman esultare mentre i suoi compagni

rimasero fermi sul campo, con la testa bassa e le mani sui fianchi oppure a terra, delusi e

sfiniti dalla fatica.

Era come pietrificato, e la sua mano allentò la presa sulla borsa del ghiaccio.

«Andiamo, Wakabayashi.» lo esortò il dottor Takeda, mettendogli una mano sulla schiena.

 

«Rimarrà qui per una settimana, poi sarà operato. Non potrà giocare per il resto del girone.» gli

aveva annunciato cinque giorni prima il dottor Ikebe, il primario del reparto di chirurgia maxillo-facciale della clinica in cui

Genzo era stato trasferito dopo essere rimasto in osservazione per due giorni in un ospedale

di Sydney.

Era stato sottoposto a un esame clinico e a una tomografia computerizzata sia a Sydney sia a

Tokyo, e l'ultimo esame oculistico aveva escluso lesioni dirette all'occhio.

Fortunatamente il quadro clinico era molto meno preoccupante di quanto temuto dal dottor

Takeda.

Un intervento chirurgico era però necessario per evitare il verificarsi di asimmetrie del viso e

disturbi della visione.

 

Sdraiato nel suo letto con la parte sinistra del viso quasi completamente coperta dalla

fasciatura, strinse i pugni e digrignò i denti. Una lacrima uscì dall'occhio destro, rigandogli la

guancia.

Per lui non c'era notizia peggiore di quella di non poter giocare.

Aveva puntato tutto su quelle partite. Voleva concludere entrambi i gironi senza subire reti, e

ora si stava mettendo in forse la sua partecipazione ai Giochi Olimpici.

E la qualificazione si stava allontanando.

«Quest’anno sta andando male tutto … non credo al brutto karma o agli anni sfortunati, ma

ogni cosa che tocco si dissolve come cenere.» pensò.

Strinse i pugni. Più di tutte le sensazioni, odiava quella di impotenza.

Ma c'era anche un'altra cosa che lo angustiava, e mai avrebbe pensato che un sentimento di

tale natura avrebbe potuto tormentarlo come la prospettiva di una mancata qualificazione.

Elena ….

L'aveva ignorato quando aveva salutato lei e le altre ragazze, prima di andarsene dal locale.

Era come se volesse tenerlo a distanza, dopo aver lasciato che la stringesse per il tempo di un

ballo, dopo che i loro occhi si erano incatenati in un lungo sguardo.

Lo attraeva, era inutile negarlo. E anche lei sentiva la stessa cosa, ne era certo.

Entrambi avevano un motivo per non avvicinarsi troppo l'uno all'altra.

Non erano liberi.

Lui aveva un legame presente con Asami, una ragazza che aveva saputo capirlo e affascinarlo

come non aveva mai fatto nessuna, prima di conoscere la bionda insegnante, con cui aveva in

comune una vita passata di cui erano rimaste macerie.

Elena … lei stava cercando di rinascere dopo una storia finita non per suo volere, e soltanto

per una tragica circostanza. Non sapeva se erano i ricordi o un sentimento ancora presente a

tenerla legata a Gianluca.

Di una cosa era sicuro: una volta uscito dall’ospedale, l’avrebbe cercata. Non le avrebbe

permesso di sparire dalla sua vita prima di capire cosa provassero veramente l’uno per l’altra.

I suoi genitori erano passati il giorno prima, così come Mikami.

Keisuke gli aveva telefonato da Miami, dove si trovava per una breve vacanza.

Aveva ricevuto delle chiamate anche dalla Germania: Kaltz, Schneider e naturalmente

Günther Hoffmann.

Poi erano stati da lui alcuni compagni di squadra e aveva ricevuto un'altra chiamata da

Tsubasa, preoccupato dopo aver visto la gara contro i Socceroos.

L’infermiera gli annunciò la visita di suo fratello Hiroji, che subito dopo entrò con Annie e

Kenichi.

«Mica tanto dorata, questa settimana.» esordì il dirigente.

Genzo abbozzò un sorriso, amareggiato «Degna continuazione della mia stagione in

Bundesliga.»

«Su, ora non fare il pessimista! Non ti si confà.» lo ammonì Annie «Abbiamo appeso i koinobori

sopra la casa. Ce n’è uno anche per te.»

«Grazie.» disse, sorridendo dell’entusiasmo da bimba che la cognata sempre mostrava per le

tradizioni nipponiche.

«Abbiamo pensato fosse di buon auspicio, visto che ti trovi ad affrontare una situazione

difficile. La corrente si è fatta ostile.» spiegò Hiroji.

«Zio, mi dispiace che non sei tornato per le vacanze. Mi avevi promesso di aiutarmi a far volare

l’aquilone.» gli disse Kenichi, con un’espressione un po' crucciata.

Genzo tirò le labbra da entrambi i lati, dispiaciuto «Lo so, Ken. Purtroppo è successo questo

incidente.»

«E il tuo occhio come sta?»

Il giovane sorrise «Sta bene. Tra un paio di giorni verrà operato, poi rimarrà bendato e ben

protetto per qualche giorno, e poi metterò una maschera. Tra due mesi, o forse meno, sarà

come nuovo.»

«Una maschera? Come quella di Zorro?» chiese il bimbo, spalancando gli occhi.

«Più o meno.» fu la divertita risposta, data scambiando ridenti occhiate con il fratello e la

cognata.

«Ma giocherai alle Olimpiadi?»

«Certo. Farò l'impossibile pur di esserci.»

Hiroji fece una smorfia «Più che il tuo occhio, mi preoccupa il Giappone. All'Australia basta un

pari, e le vostre avversarie sono squadre tutto sommato deboli.»

Genzo contrasse la mascella «Non c'è ancora nulla di deciso. Il Giappone vincerà contro

l'Arabia Saudita e il Vietnam, e intanto speriamo in un errore degli australiani. Il Vietnam è la

cenerentola del girone, ma l'Arabia Saudita ha un paio di giocatori di ottimo livello come Vulkan

e soprattutto Al Owairan. Daranno del filo da torcere come hanno fatto con noi.»

«Sì … è giusto aggrapparsi a questa speranza. Finché c'è.» concordò il fratello.

«Ti abbiamo portato una vaschetta di kashiwamochi, così potrai addolcire un po’ queste

giornate.» disse Annie, posandola sul comodino di fianco al letto.

Genzo la ringraziò. Scambiarono ancora qualche parola, poi i suoi tre famigliari si

congedarono.

Appena usciti, si imbatterono in una ragazza bionda che veniva dalla direzione opposta alla

loro.

Elena si fermò, guardandoli. Annie e il piccolo Kenichi erano appena usciti dalla stanza in cui

era ricoverato Genzo, seguiti da un uomo bellissimo, alto e dal fisico imponente, con capelli e

occhi neri come la pece. Non c’erano dubbi che si trattasse del fratello maggiore del portiere.

«Ciao.» sorrise Kenichi quando la riconobbe, agitando una mano.

Elena rispose al saluto, estendendolo a Annie.

«Ciao Elena.» rispose la donna «Non conosci mio marito, vero? Questo è Hiroji.» disse, con

un gesto della mano.

«Lei è Elena, lavora alla palestra Shiroyama.» aggiunse poi, rivolta al giovane imprenditore.

«Molto lieta, Wakabayashi-san.» disse la giovane, con un inchino.

Hiroji sorrise e si inchinò a sua volta.

«Ti lasciamo andare da Genzo. A presto, Elena.» si accomiatò, per poi avviarsi con il marito e

il figlio verso le scale che portavano al piano terra.

 

Genzo riadagiò la testa contro il cuscino e sospirò.

La stanza era di nuovo vuota, e il suo cervello tornò preda di pensieri negativi e quasi

autolesionisti.

L'infermiera si affacciò alla porta e gli annunciò che c'era una nuova visita per lui.

La porta si aprì ed entrò Elena.

Genzo spalancò l'occhio destro per la sorpresa, ma lo stupore venne sostituito da un sorriso.

Quel momento di massimo scoramento gli sembrò a un tratto lontano, come se un raggio di

luce avesse appena squarciato una spessa coltre di nuvole.

«Ciao.»

«Ciao Genzo.» rispose la ragazza, fermandosi accanto al letto «Come stai?»

«È una frattura orbito-zigomatica dell'occhio sinistro. Tra due giorni mi opereranno, poi rimarrò

bendato per qualche tempo.» disse, recitando quasi a memoria la diagnosi pronunciata dal

medico.

«Ho pensato di portarti qualcosa che potrebbe aiutarti a farti un po' di coraggio. Avevo pensato

a un omamori, ma questo forse è più adatto a tenerti compagnia.»

Da dietro la sua schiena, fece comparire un maneki neko delle stesse dimensioni che lui le

aveva fatto vincere la sera dello Yozakura e glielo mise tra le mani.

«Rosso ….» sorrise Genzo, rigirandolo.

«Già. Il più adatto alla situazione.»

«Non solo questa. Se è efficace, i miei infortuni nel prosieguo della carriera dovrebbero

diminuire.» sogghignò, strappando un sorriso divertito alla ragazza.

Posò la scultura sul letto. «Grazie.» disse con un tono di voce basso e caldo, afferrandole una

mano.

Elena spalancò gli occhi, sentendo il suo cuore battere più forte e le guance accaldarsi «Di

nulla.» mormorò, dopo alcuni, lunghissimi secondi. «Sai, non mi aspettavo di vederti.» replicò.

Genzo la vide arrossire e avvertì le sue pulsazioni farsi più rapide. Allentò la presa e lei ritirò la

mano, evitando di incrociare quell’occhio che, ne era certa, stava cercando di scrutare la sua

anima.

In quel momento, l’infermiera annunciò la visita di due signore, e poco dopo fecero il loro

ingresso Maeko Ujimori e la figlia Asami.

Elena si voltò, e incrociò subito lo sguardo della donna più giovane.

Una ragazza bellissima, di media altezza, con lunghi, lisci e lucidi capelli neri e occhi dello

stesso colore. Un viso privo di difetti, un portamento impeccabile. Una perfetta rappresentante

della bellezza femminile giapponese, una donna capace di suscitare ammirazione immediata

in chi la guardava. Intuì subito di avere davanti a sé Asami Ujimori, la fidanzata di Genzo.

Rimasero a guardarsi per alcuni secondi, in cui Elena ebbe l’impressione di sentirsi chiedere

«E tu chi sei?» da quei profondi occhi neri.

«Bene, allora vado, Wakabayashi-san. Spero di rivederti presto in campo.» disse,

congedandosi con un inchino. Genzo la guardò dapprima stupito. Wakabayashi-san?

Poi capì. Aveva finto una conoscenza superficiale, aveva usato il suffisso onorifico per non

creargli problemi con quella che aveva intuito essere la sua ragazza, anche se non c'erano

state presentazioni.

Elena rivolse un altro inchino ad Asami e alla madre e uscì dalla stanza, seguita dallo sguardo

di entrambe.

Quella ragazza aveva il tipico aspetto nordico. Era bella, senza dubbio, anche se aveva un'aria

semplice, perfino un po' dimessa con quella maglietta un po' larga e quei jeans scoloriti. Forse

era tedesca … ma non aveva chiamato Genzo per nome, segno che tra di loro non doveva

esserci molta confidenza. Eppure era andata a fargli visita.

«Carina quella ragazza.» sorrise Maeko, con il tono affabile di chi sapeva che non poteva

comunque eguagliare il fascino di sua figlia, e che a Genzo provocò un fremito di fastidio.

«È la nipote del mio maestro di kickboxing, lavora anche lei nella palestra dove mi alleno.»

replicò, riuscendo a non farlo trasparire dalla voce.

Asami annuì «È vero, mi avevi detto che il maestro Nerlinger ha una nipote. Dev’essere

l’insegnante di ginnastica artistica, se non ricordo male.»

Genzo assentì, e Asami decise che quell’argomento aveva esaurito tutto il suo interesse.

Proseguì informandosi sulle sue condizioni, e raccontandogli, con la collaborazione della

madre, ciò che le era accaduto nei giorni in cui lui era in Australia.

Quasi non l'ascoltò. I suoi pensieri vagavano fuori da quella stanza e da quell'edificio, da cui lei

doveva essere ormai uscita.

 

Elena scese dal taxi e attraversò le strade del quartiere speciale di Meguro con aria assente,

immersa tra la folla brulicante come un formicaio, mentre dirigeva i suoi passi verso la

struttura in cui era ospitato Carlo con il suo staff.

Un senso di scoramento si era fatto strada in lei, dopo aver incrociato Asami Ujimori.

Quella giovane e sofisticata ereditiera era bellissima, con un'eleganza naturale e un portamento

che emanava classe e raffinatezza.

Non sapeva se si sentiva a disagio per il fatto di sentirsi attratta da un ragazzo già impegnato o

per il dubbio che lui si stesse soltanto divertendo a flirtare con due ragazze, o se era dovuto al

paragone che stava facendo tra lei e sé stessa.

Aveva deciso di andare a Tokyo per sfuggire a una domenica fatta di stanco e annoiato

girovagare. La compagnia di un cagnolino vivace e affettuoso come Wilhelm non era

abbastanza per dimenticare, seppure per poco, le sue preoccupazioni. Era così andata a

trovare suo zio, impegnato negli allenamenti per il suo incontro, e poi si era recata al tempio.

Lì aveva pensato a Genzo, Taro e alla Nazionale, al sogno che rischiava di infrangersi contro la

barriera australiana.

Vedere Wakabayashi sbattere la testa contro il palo della porta le aveva provocato fremiti di

paura che ancora la facevano rabbrividire, al ripensarci. E aveva temuto che l'occhio del

portiere avesse subìto un danno tale da compromettere la sua carriera.

Sapeva che sarebbe stato meglio mantenere le distanze, ma non voleva perdere la sua

amicizia e dimostrarsi ingrata per le volte in cui l'aveva aiutata e ascoltata.

Aveva deciso così di fargli visita e di portargli un talismano che potesse scacciare i cattivi

presagi. In un primo momento aveva pensato di comprargli un omamori, poi le era venuto in

mente quel maneki neko su cui ogni mattina si aprivano i suoi occhi e che le suscitava sempre

un sorriso, e un inevitabile pensiero anche a chi le aveva reso possibile ottenerlo.

Ebbe un fremito nel rendersi conto che avrebbe potuto accadergli la stessa cosa.

Si affrettò verso il dojo che Carlo aveva scelto come sede dei suoi allenamenti.

 

L'atmosfera sembrò essere tornata, almeno per quella calda e luminosa domenica di maggio,

simile a quella degli anni delle medie e del liceo, pensò Kumi, seduta a un tavolo del "Caffè

Ocean" con due amiche del suo gruppetto storico, davanti a una tazza di tè e a una fetta di

torta.

«Così Madoka sta trascorrendo un romantico week-end con Nitta?» le chiese Saya mentre svuotava una bustina di zucchero nella sua tazza. I suoi gesti, qualunque cosa facesse, denotavano sempre una grazia naturale.

«Sì.» rispose, prendendo un sorso del suo tè «Sono andati alle terme.» sussurrò poi, con aria

misteriosa.

«Oh, stanno recuperando alla grande, quei due.» commentò Ikuko, una ragazza con un viso

un po' paffuto incorniciato da due lunghe trecce rosse, con una risata.

«E tu, con Misaki? Passi avanti?» chiese ancora Saya, ravviandosi una ciocca dei suoi lunghi capelli castani.

Kumi fece una piccola smorfia, giocherellando con il cucchiaino «Forse.»

Raccontò, con un po' di riluttanza e disagio, quanto accaduto nella discoteca di Sydney,

rianimandosi nella parte in cui Taro era arrivato ad affrontare il suo quasi aguzzino.

Le due amiche si profusero in espressioni contrite e sdegnate per quello che aveva subìto, ma

sospirarono con occhi sognanti nell'immaginare Misaki nelle vesti di coraggioso cavaliere che

interveniva a salvarla.

«Oh Kumi, secondo me sei sulla buona strada. Misaki è il ragazzo dei sogni, devi cercare di

incontrarlo e di fargli capire che ti piace!» la esortò poi Saya.

La ragazza scosse la testa «Ora sarà difficile. Il Giappone ha perso l'ultima partita e deve

vincere le prossime tre. I giocatori sono rientrati subito al J-Village e solo dopo Kira ha

concesso due giorni di pausa.»

«E lui non è tornato a Nankatsu?»

«No. A quel che mi ha detto Yukari, è andato a Sendai dalla famiglia di sua madre, e a quanto

sembra è rimasto a dormire da loro. In fondo, non aveva alcun motivo per tornare qui: suo

padre sta facendo un viaggio in Corea del Sud.» si strinse nelle spalle.

«Già, nessun motivo …»

«Beh, sei nel gruppo dei supporter, no? E allora, la prossima partita che giocheranno in casa,

placcalo subito non appena esce dallo stadio!» gridò quasi Ikuko, battendosi un pugno sul

palmo dell'altra mano, facendo girare verso di sé altri avventori e guadagnandosi un'occhiata

assassina da parte dell'amica.

«Prima che lo faccia la biondina.» aggiunse Saya con un tono più sommesso, facendole

l'occhiolino.

Kumi sorrise, perplessa.

«Sapete … da quel che ho visto a Sydney, non sono più così sicura che a Elena interessi

Misaki.»

«Davvero? Questa è una splendida notizia!» esclamò Saya, giungendo le mani «Se è così, hai

la strada libera da rivali. Però …» continuò, come colpita da un'illuminazione «Se pensi che

non le interessi Misaki, allora significa che l'hai vista flirtare con qualcun altro!»

Kumi non trattenne un tremolio delle labbra.

«Ah, ho colto nel segno! Chi è?»

«Dai Kumi, diccelo! È un altro giocatore della Nazionale?» insistette Ikuko, sporgendosi verso

di lei, con le mani sul tavolo.

«Non mettetevi a gridare …» le ammonì, con uno sguardo minaccioso al quale fecero un

cenno d'assenso « … Wakabayashi.»

Entrambe repressero a malapena un gridolino «Wakabayashi! Certo che ha gusti raffinati, la

biondina. Ma pensandoci bene, è naturale che si butti su di lui. È alto, tedesco d'adozione …

peccato che sia fidanzato con l'ereditiera.» ricordò Ikuko, con un ammicco.

Kumi si rese conto di aver parlato troppo. Per esprimere una sua speranza e poi per non

tradire la confidenza fatta da Elena la sera dello Yozakura, aveva esposto lei e il SGGK a dei

pettegolezzi.

Era stato indelicato attribuire già un interesse per un altro, a una ragazza che soltanto un mese

prima confessava tutto il suo dolore e senso di colpa per l'ex fidanzato, cui non aveva mai

smesso di pensare. Ma era l'impressione che aveva avuto in Australia guardando

Wakabayashi ed Elena insieme, e che le aveva dato anche la reazione della ragazza dopo

l'infortunio del portiere.

In fondo, non era così impossibile. Erano passati molti mesi da quell'incidente, e la giovane

insegnante si era liberata di un peso confidandosi.

Inoltre, Wakabayashi era dotato di un fascino e di un carisma non comuni in un ragazzo della

sua età. Aveva la capacità di risvegliare certe sensazioni in una ragazza che era rimasta

legata a un ricordo e che inconsciamente aveva deciso che non avrebbe più potuto esserci

nessun altro, per lei.

Pensò a quanto quei due fossero simili: entrambi erano tornati in Giappone per costruire un

nuovo punto di partenza per la loro vita, entrambi avevano visto, seppure per motivi diversi, i

loro mondi disgregarsi nel giro di pochissimo tempo. Sarebbe stato bello se avessero potuto

proseguire il loro percorso insieme ….

«Proprio per questo … vi prego di non parlarne in giro. È solo un'impressione che ho avuto

vedendoli insieme. In Europa la gente è abituata a comportarsi più apertamente, può darsi che

io esageri.»

«D'accordo. Però speriamo per te che sia veramente così. In ogni caso, con Misaki fai come ti

abbiamo detto, braccalo! Come farebbe la vecchia Kumi.» la esortò Saya, con un altro,

significativo ammicco.

 

Alcune ore dopo, seduta alla sua scrivania, Kumi ripercorse mentalmente la sua giornata,

soffermandosi sulla conversazione con Ikuko e Saya.

Le avevano consigliato di agire come la vecchia Kumi, quella intraprendente, che cercava di

sfruttare ogni occasione per interagire con il ragazzo che le piaceva.

Ripensò soprattutto al suo primo anno di scuola media, quando cercava di farsi notare da

Tsubasa.

Già … cos'avrebbe fatto la vecchia Kumi, in una situazione del genere?

Al netto dei comportamenti un po' invadenti e immaturi della tredicenne che era, avrebbe

cercato almeno di mettersi in contatto.

Scorse la rubrica del cellulare, alla ricerca di quel numero che aveva memorizzato due anni

prima, quando era manager, per poi accordarsi con Sanae e Yukari su quali giocatori sarebbe

spettato a ognuna di loro chiamare per le comunicazioni improvvise legate agli allenamenti e

ad altri impegni del club.

Chissà se era ancora quello … premette il tasto di avvio della chiamata, con un po' di

inquietudine.

«Sugimoto?» la ragazza trasalì nel sentire la voce limpida e gentile di Taro. Aveva conservato

anche lui il suo numero? O forse … si mise una mano sul petto.

«Calmati, Kumi.»

«Ehm … sì.» rispose schiarendosi la voce e maledicendo la sua insospettata timidezza. «Ciao

Misaki. Volevo solo augurarti buon compleanno.»

«Grazie.» rispose il ragazzo, sorpreso ma anche felice del fatto che Kumi lo avesse chiamato.

«E tu come stai?» chiese poi, desiderando poter recuperare per telefono almeno parte di

quella conversazione che non era stata possibile dopo la gara.

«Ora abbastanza bene.»

«Bene …» replicò Taro sedendosi sul letto, senza sapere che altro dire.

«Sei ancora a Sendai?» chiese però Kumi, togliendolo dall'impaccio.

Quella sera aveva festeggiato il suo ventunesimo compleanno in un ristorante della città, con

Yumiko, Yoshiko e Taisho. La famiglia Yamaoka non aveva badato a spese e gli aveva offerto

una cena da principe. Era da poco rientrato a casa, e ora era in camera da letto, in procinto di

cambiarsi d'abito. Aveva appena finito di sbottonarsi la camicia quando aveva sentito suonare

lo smartphone.

Con stupore aveva letto il nome della mittente e aveva tenuto gli occhi fissi sullo schermo per

alcuni secondi, prima di riscuotersi e accettare la chiamata.

«Sì, ho festeggiato con la mamma, con mia sorella e il signor Yamaoka. Ci tenevano a stare

con me almeno una volta, in un giorno come questo.»

«Hai fatto bene. Sono contenta che abbiate recuperato il vostro rapporto.»

«Sì, anch'io sono felice di poter dire che ho una mamma e una famiglia che mi sostengono,

oltre a papà.» disse, e a Kumi si strinse il cuore.

«Domani riparto, vado direttamente al J-Village. Ci aspettano tre partite dure, e non sappiamo

nemmeno se ci basterà vincerle tutte.» le confidò poi.

«È inutile chiederselo. Vanno vinte e basta. E poi … si può soltanto sperare.»

«Già … hai ragione.»

Kumi guardò l'orologio. Era tardi. Avrebbe voluto dirgli ancora tante cose, anche solo per

continuare a sentire la sua voce.

«Allora, alla prossima partita, con l'Arabia Saudita.» riuscì a dirgli, infine.

«Sì … vedrai, la vinceremo.» disse, con un tono caloroso e rassicurante che sorprese ed

emozionò entrambi.

 

Taro chiuse la chiamata e appoggiò lo smartphone sul comodino, senza spegnerlo, e si sdraiò

sul letto.

Aveva pensato spesso a Kumi. Non ricordava di averle mai lasciato il suo numero, né di avere

lui il suo. Dovevano averlo scambiato ai tempi del club di calcio, non c’era altra spiegazione.

Non era riuscito a rivederla, dopo la partita: lui e gli altri giocatori non avevano potuto incontrare

i tifosi fuori dallo stadio, poiché Kira aveva deciso di ripartire subito per il Giappone, così erano

defluiti da un'uscita secondaria.

Gli era parsa così fragile … e bella. Avrebbe voluto prenderla tra le braccia e dirle di non

tremare più, che era al sicuro. E forse l'avrebbe fatto, se quel bastardo non avesse cercato di

colpirlo di nuovo.

Le sue labbra si tesero in un sorriso, mentre con il cervello cercava di ricreare quel contatto

mancato, e scivolò in un sonno sereno.

 

 

 

 

***Note***

 

 

Omamori: amuleti giapponesi dedicati sia a particolari divinità Shinto, che a icone buddiste. La

parola giapponese mamori significa protezione, mentre il prefisso onorifico o- dà alla parola un

significato movente verso l'esterno, andando a significare "Tua protezione".

La copertura dell'amuleto è fatta solitamente con stoffa e racchiude al suo interno una

preghiera scritta su un foglio di carta o un pezzo di legno.

In quest'immagine, un omamori contro gli spiriti maligni, detto yakuyoke. È anche uno dei più

richiesti.

Come già spiegato nelle note al capitolo IX, il rosso è un colore protettivo che per la sua

vivacità tiene lontani gli influssi e spiriti maligni.

 

Socceroos: è il soprannome dei calciatori australiani, nato da una fusione tra i termini soccer

("calcio") e kangaroos ("canguri", che com’è noto sono gli animali simbolo dell'Australia).

 

Kodomo No Hi: la "festa dei bambini", l'ultima nell'ambito della Golden Week, si celebra il 5

maggio ed è un’occasione per esprimere gratitudine per la crescita in salute dei ragazzi e di

preghiera e per preservarli dalle malattie e dalle influenze negative.

Tradizioni di questa festività sono l’esposizione di bambole di guerrieri, i kabuto ningyo,

equipaggiate con elmo e armatura, e il famoso koinobori, le carpe di carta appese a dei

pennoni che si fanno ondeggiare nel cielo.

La carpa è considerato uno dei pesci più virtuosi per la sua capacità di risalire i torrenti ed è

simbolo di tenacia (secondo una leggenda cinese, la carpa che nuota controcorrente si

trasforma in drago). Così come le carpe nuotano controcorrente, allo stesso modo i koinobori

nuotano” controvento, e costituiscono un augurio per i bambini, affinché crescano tenaci e

robusti come le carpe.

Come tradizione, si usa preparare i kashiwamochi, cioè dolci di riso farciti con marmellata di

fagioli azuki avvolti in foglie di quercia, che poi vengono distribuiti tra amici e vicini, e i chimaki

(dolcetti di riso avvolti in foglie di bambù), che invece vengono mangiati in famiglia.

Fonte: TradurreIlGiappone

 

Ikuko e Saya (quest'ultima, citata anche nel capitolo VII) sono le altre due amiche del gruppo di

Kumi comparse nel manga.

Anche i loro nomi come quello di Madoka, sono stati attribuiti da me, poiché nelle tavole del

Taka non vengono mai menzionati.

Lo stesso discorso vale per Taisho, il signor Yamaoka.

 

 

Auguro a tutti un Buon Anno Nuovo e una buona Epifania!

Sandie

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Capitolo 14
*** Capitolo XIV - Padri e figli ***


Capitolo XIV

Capitolo XIV


Padri e figli

 


L'autobus proveniente da Fuji rallentò in prossimità della fermata e accostò.

Kumi era appena scesa, quando sentì una piccola goccia di pioggia caderle sul viso.

Poi ne seguirono altre, che costrinsero lei e altre persone che camminavano sulla strada ad accelerare il passo e infine a correre, sollevando la cartella sopra la sua testa.

Una volta davanti alla porta di casa, sbuffò seccata, ma si rasserenò nel riscontrare che si era trattato soltanto del dispetto di una nuvola passeggera, e il sole aveva ripreso la sua preminenza in cielo.

«Sono qui.» gridò, entrando nel salotto dopo essersi cambiata le calzature nel vestibolo. «Ciao papà.» disse poi, in tono più calmo, vedendolo seduto al tavolo, intento a leggere un quotidiano.

«Ciao Kumi.» rispose l'uomo alzando gli occhi giusto per l'attimo necessario a guardarla in viso, per poi tornare alla sua lettura.

La ragazza fece un mezzo sorriso, per nulla stupita.

«Ciao Kumi! Questa mattina hai ricevuto questo.» le annunciò Reiko, posando una busta bianca sul tavolo.

Kumi la prese tra le mani e avvertì un colpo al cuore quando lesse l'indirizzo stampato sul retro.

Con gli occhi sgranati e le labbra socchiuse, sollevò l'ala superiore della busta e ne estrasse un foglio su cui era scritto un breve comunicato: poche frasi, ma che le mozzarono il fiato.

Le avevano risposto più rapidamente di quanto si fosse aspettata …

Venti giorni prima Umeko, una sua compagna di classe conosciuta al tanki-daigaku e come lei appassionata di manga, le aveva prestato una rivista pubblicata da una piccola casa editrice, la cui sede si trovava proprio a Fuji.

«È stata fondata pochi anni fa.» le aveva detto la ragazza «Al momento produce due riviste, molto piacevoli da leggere. A quanto ne so, vendono bene. Chissà, potrebbe espandersi!»

Kumi era rimasta colpita favorevolmente da quel giornalino, le cui pagine ospitavano manga interessanti e, memore dei suggerimenti di Misaki, aveva inviato alcuni suoi disegni all'indirizzo stampato sull'ultima pagina.

«Ho ricevuto una lettera dalla casa editrice Uchiyama Shoten. Sono interessati ai miei lavori.»

«Che casa editrice è? Non l'ho mai sentita.» chiese Shinji, inarcando un sopracciglio.

«È stata fondata da pochi anni, ha sede a Fuji. Sta cercando nuovi autori.» spiegò Kumi.

«Credevo fossi andata a Fuji per studiare.» replicò sarcastico.

La giovane sospirò «Certo. Ma nel contempo, non rinuncio ai miei sogni.» ribatté.

Shinji tirò le labbra da un lato «Alla tua età non avevo questi grilli per la testa.»

«Eppure è anche grazie a te se ho cominciato a disegnare.» affermò Kumi, con un mezzo sorriso di sfida.

«A me?» chiese, con un tono tra lo stupito e l'ironico.

«Sì, a te. Perché eri tu quello che fin da piccola mi faceva vedere i film dei nostri grandi cineasti, e che mi raccontava antiche leggende. Le stesse storie che ispirano i miei disegni.» dichiarò con tono beffardo, incrociando le braccia e sporgendosi verso di lui.

Shinji sembrò esitare, poi aggrottò le sopracciglia «Non ho mai desiderato che tu facessi la mangaka. È un lavoro che non dà nessuna certezza, è troppo legato ai gusti del pubblico, che cambiano come il soffio del vento.»

«Ci sono artisti che hanno saputo attraversare le generazioni.»

«Ah sì? Beh, le Rumiko Takahashi e le Naoko Takeuchi si contano sulle dita di una mano.»

«Ma esistono. Voglio sognare, finché potrò.» ribatté ancora, imperterrita «Questa lettera è la dimostrazione che ci sono persone, in quel settore che vedono in me del talento e che sono intenzionate a darmi una possibilità. Sarei stupida a rinunciare proprio adesso.» insistette, mettendogliela davanti al naso perché la leggesse.

Ma Shinji sbuffò e allargò le braccia, in una posa teatrale «Certo, e fuggire così dalla vita reale. Il club di calcio, i manga … Sai una cosa, Kumi? È proprio vero, sei tutta strampalata. Proprio come tua nonna.»

La ragazza si alzò di scatto spingendo indietro la sedia «Lascia in pace mia nonna! Lei è una sensitiva. È una sua dote naturale, e non l'ha soffocata.» gridò quasi, con gli occhi contratti per la rabbia.

«Io mi preoccupo per te Kumi, come fanno tutti i genitori per l'avvenire dei loro figli!» ribatté Shinji, alzando anch'egli la voce.

«Continuerò a studiare al tanki-daigaku, se temi che io possa lasciare la scuola. Ma cercherò anche di realizzare il mio sogno. Non voglio avere il rimpianto di non averci mai provato.» disse, in tono definitivo. Prima che suo padre potesse replicare, si alzò dal tavolo e uscì dalla porta di casa.

«Kumi! Dove stai andando?» gridò, ma Reiko gli mise una mano su un braccio.

«Smettila di trattarla come una bambina irresponsabile.»

«È lei che si comporta così. È mio dovere farle tenere i piedi per terra.»

«Lei ce li ha già, i piedi per terra. Solo che ogni tanto le piace passare qualche ora in mezzo alle nuvole. L'importante è che si ricordi di scendere quando serve. E finora l'ha fatto.» replicò la donna, con un ammicco.

Shinji scosse la testa, con una smorfia divertita, suo malgrado «Kumi somiglia a te e a tua madre, da me ha preso poco o nulla.» affermò, guardando il bel viso di sua moglie, ancora giovanile nonostante fosse vicina a compiere quarant'anni. Si erano sposati appena maggiorenni, quando Reiko era già incinta di Kumi.

Era stata una gravidanza difficile … la donna era stata costretta a passare gran parte di quel periodo a letto, per non perdere la bambina. Ricordava ancora con nitidezza l'angoscia patita in quei mesi che sembravano non dover terminare mai …

Era ancora bella, i lunghi capelli castani e gli occhi di un colore poco più chiaro di quelli di Kumi. E anche se a vederla ora sembrava strano da credere, anche Sakamae, la nonna, aveva avuto quell'aspetto, da giovane. Erano tutte e tre donne vivaci, entusiaste, curiose.

Lui, che era un sarariman anche nell'aspetto con i suoi corti capelli neri sempre in ordine e il suo impeccabile completo in giacca e cravatta, aveva trovato in Reiko una compagna allegra e con un atteggiamento sempre positivo, un antidoto alla noia e al grigiore che avrebbero altrimenti ammorbato la sua vita.

«Non è esatto. La cocciutaggine è tale e quale.» lo punzecchiò «E anche se non ci credi, è una ragazza con la testa sulle spalle. Non ha mai saltato un giorno di scuola, ha sempre avuto bei voti, sta studiando con impegno anche al tanki-daigaku. Sarebbe onesto riconoscerglielo, da parte tua.»

Shinji strinse le labbra «Avrebbe avuto voti più alti, se non avesse perso tempo con il club di calcio e con i manga. Come la figlia degli Shimokawa, che studia in uno degli atenei più prestigiosi del Giappone.»

«Madoka è naturalmente portata per lo studio e ha altre aspirazioni.» puntualizzò Reiko «Comunque non devi preoccuparti. Kumi non si perderà per strada. Sei tu piuttosto, che devi fare attenzione. Hai sempre criticato le sue passioni, i suoi hobby, i suoi sogni. Continuando così, finirà per odiarti e tu perderai tua figlia.»

Shinji sospirò e incrociò le braccia, stringendo ancora le labbra.

Reiko si sedette di fronte a lui e si sporse sorridente, appoggiandogli una mano su un braccio.

«Non è così difficile, sai? Trova un compromesso, proprio come sta facendo lei.»

 

I tifosi giapponesi, per la maggior parte in piedi sugli spalti del National Stadium di Tokyo, trattennero il respiro nel vedere il tiro potente e preciso di Mark Al Owairan dirigersi verso la porta del Giappone.

Mancavano pochi minuti al termine della partita e la Nazionale del Sol Levante stava vincendo per 1-0. Un risultato fondamentale con cui i calciatori nipponici stavano per togliere di mezzo la diretta rivale per la qualificazione al secondo posto del girone.

Ishizaki respinse con la faccia il pallone lanciato dal capitano saudita.

I supporter locali esultarono come se il difensore avesse segnato un gol.

Izawa recuperò la sfera e ingannò gli avversari fingendo un disimpegno.

Effettuò invece un passaggio verso l'accorrente Misaki, che a sua volta eseguì uno splendido lancio in direzione di Nitta, che stava correndo velocissimo verso la porta, in posizione regolare. L'attaccante si trovò solo davanti al portiere e lo spiazzò con il suo potente tiro di destro.

Dopo pochi minuti, l’arbitro fischiò per tre volte nel fischietto, decretando la fine della partita tra Giappone e Arabia Saudita.

I calciatori dell’Under 23 giapponese levarono le braccia al cielo e strinsero i pugni, esultando compostamente.

Il primo tassello era stato posto.

Mark Al Owairan, il giovane capitano saudita, si passò una mano sul viso per asciugare il sudore misto a qualche silenziosa lacrima e si diresse verso Taro Misaki, che aveva appena dato una pacca sulla spalla al portiere Morisaki che non aveva fatto passare un solo tiro, nemmeno quelli più insidiosi, come se lo spirito di Wakabayashi si fosse in parte trasferito dentro di lui.

«Complimenti, Misaki. Diventi più forte di partita in partita.» sorrise, tendendogli una mano.

«Grazie. Anche tu e i tuoi compagni vi siete fatti onore.» replicò, stringendogliela.

Mark assentì con il capo.

«Il sogno olimpico per noi finisce qui, Misaki. Ma come membro della famiglia reale e giocatore della Nazionale saudita, onorerò questa maglia anche contro l'Australia e giocherò con il massimo impegno.»

«Grazie Mark. Ho fiducia nelle tue parole.»

   

Taro scese dall'autobus che dalla stazione di Tokyo lo aveva portato a Nankatsu.

Kira aveva concesso un paio di giorni di riposo, prima delle partite con Vietnam e Australia, tra le quali non ci sarebbero state pause, e lui aveva deciso di approfittarne per trascorrere un po' di tempo con suo padre, che non vedeva da settimane per via del suo soggiorno in Corea del Sud.

Giunto in prossimità della sua abitazione, i suoi occhi vennero attirati da qualcosa di insolito.

La Toyota Yaris parcheggiata davanti all'entrata di casa, con i fanali rivolti verso l'esterno, testimoniava la presenza di ospiti. Si chiese chi potesse essere arrivato.

Attraversò il vialetto lastricato che portava all'ingresso dell'abitazione e aprì la porta.

Incontrò subito suo padre nel vestibolo. Stava per rientrare in salotto, ma si era voltato nel sentire la maniglia della porta abbassata.

«Sei solo in casa?» chiese, guardandosi intorno alla ricerca di altre persone.

«Certo. Chi altro dovrebbe esserci?»

«C'è un'auto lì fuori. Credevo fosse venuto qualcuno.»

«Ah, quell'auto?» disse in tono di apparente noncuranza, dirigendosi verso la porta e invitandolo a uscire con lui.

Nel giardino, Ichiro guardò la Toyota e poi si voltò verso Taro, con un sorriso.

«Papà …» mormorò il ragazzo, dopo aver trattenuto il fiato.

Ichiro annuì e gli afferrò le spalle «Buon compleanno, figlio mio.»

 

Taro guidava lungo una strada poco trafficata, diretto a Fuji, il luogo scelto dal padre come soggetto del suo nuovo quadro.

Perché non poteva tralasciare proprio la città omonima del vulcano per cui provava da sempre un misto di venerazione e soggezione, anche dopo aver realizzato l'opera che gli era valsa un premio prestigioso.

Gli occhi di Ichiro erano fissi sul paesaggio costiero che scorreva davanti ai loro occhi, deciso a coglierne nuovi particolari.

Era tornato dal suo breve soggiorno in Corea del Sud portando con sé nuove tele, in cui aveva ritratto paesaggi suggestivi, come sempre lontani dal caos, dalla frenesia, dal sovraffollamento cittadino. Campagne, periferie, località in riva al mare. Quei paesaggi di cui troppo spesso ci si dimenticava l’esistenza o cui non veniva data adeguata considerazione.

E ora aveva ripreso a dedicarsi al suo amato Giappone, e soprattutto al Monte Fuji cui aveva intenzione di dedicare una serie di quadri come aveva fatto Hokusai con le sue "Trentasei vedute".

Gli occhi di Ichiro erano piccoli, ma sapevano cogliere dettagli che ad altri sfuggivano.

La contemplazione dei paesaggi e della natura era ciò che l’aveva affascinato e appassionato fin da bambino, al punto da voler passare la sua vita a imprimere ognuna di quelle manifestazioni su una tela, quando aveva scoperto che esisteva un mestiere bellissimo: quello del pittore.

Abbassò la testa sulla fotocamera, scorrendo le immagini che Taro aveva scattato nella sua breve permanenza a Sendai. Taro abbracciato a Yumiko e con le mani sulle spalle della sorella Yoshiko, e altre foto che lo ritraevano con la famiglia Yamaoka al completo, un'altra ancora in cui era seduto al tavolo con Taisho, la sera della cena organizzata per festeggiare i suoi ventun anni.

«Sai papà … ora che ho un ottimo rapporto anche con la famiglia della mamma, mi piacerebbe festeggiare un compleanno in cui siamo tutti insieme.» gli confidò Taro dopo quei minuti di silenzio, come se avesse captato i suoi pensieri.

Ichiro annuì, con aria assorta «Sì, sarebbe bello.»

 

Una volta a Fuji, Taro parcheggiò di fronte a un bar-ristorante, a poca distanza da una radura da cui il grandioso vulcano offriva una vista a dir poco emozionante.

Sembrava così grande e così vicino …

Ichiro si diresse verso quel luogo, riempiendosi gli occhi di ogni elemento di quello scenario.

Vagò per il terreno, quasi misurando i passi, poi appoggiò il cavalletto sul punto da lui scelto. Posizionò la tela e il secchio, prese la tavolozza, il pennello e cominciò a mischiare i colori, osservando il paesaggio davanti a sé.

«Sai Taro» disse voltandosi verso il figlio, in piedi qualche passo dietro di lui «Ho sempre visto in te qualcosa di tua madre. I lineamenti del viso, il taglio e il colore degli occhi, li hai presi da lei. E anche la riservatezza, quella straordinaria emotività che ha rischiato di distruggerla.»

«Non si è fatta sentire per dieci anni … le ho chiesto il perché e mi ha risposto che temeva di non essere una buona madre, per me … che aveva dovuto ricostruire sé stessa, e mi ha lasciato con te perché sapeva che mi avresti cresciuto con amore e con attenzione. Poi mi ha guardato come per pregarmi di non chiederle altro.»

Ichiro chinò leggermente la testa, con un sorriso triste «Vedi Taro, quando stavamo insieme, io mi spostavo spesso per il mio lavoro, e Yumiko mi seguiva.» si interruppe ed emise un sospiro impercettibile. Stava per rivelare a Taro un periodo doloroso e penoso della loro vita, e aveva scelto di tacerlo per non instillargli l'idea sbagliata che lui ne fosse stato la causa. Ma adesso suo figlio era un uomo, ed era giusto che conoscesse tutto di un passato che riguardava anche lui.

«Quando rimase incinta di te, lasciò momentaneamente gli studi e mi seguì finché il suo fisico glielo permise. Poi ci stabilimmo a Kobe, la sua città natale. Poche settimane dopo la tua nascita, a tua nonna, la madre di Yumiko, venne diagnosticato un tumore al pancreas. Era già in fase avanzata e i medici da subito non avevano dato speranze di guarigione. Tuttavia, Yumiko non si perse d'animo: accompagnava sua madre alle sedute di chemioterapia, le comprava e le somministrava le medicine, le stava accanto nei momenti peggiori, quando vomitava tutto quello che mangiava e beveva …» raccontò, con un lieve abbassamento della voce, mentre gli occhi di Taro divenivano sempre più sconvolti.

Sua madre non gli aveva mai raccontato nulla … sapeva che la sua nonna materna era morta pochi mesi dopo la sua nascita, ma aveva sempre ignorato tutti i particolari che Ichiro gli stava raccontando.

«Io rimanevo a casa ad occuparmi di te, lei quando poteva tornava e ti dava da mangiare, mi aiutava a cambiarti il pannolino, a farti giocare … ti cantava la ninnananna.» ricordò ancora Ichiro, con un sorriso triste «Non ti ha trascurato. Cercava di dare la giusta attenzione a te e a tua nonna. Ti abbiamo desiderato entrambi, Taro. Purtroppo la situazione della madre di Yumiko era compromessa e lei era l'unica che poteva starle costantemente accanto e aiutare suo padre, perché sua sorella viveva a Okinawa con la sua famiglia, e raramente veniva a Kobe.»

Guardò ancora Taro, che lo stava ascoltando attentamente e con gli occhi lo esortò a continuare. Ichiro trasse un altro profondo respiro e raccontò infine l'ultima parte di quella storia, quella più angosciosa per quella che era stata la famiglia Misaki … una famiglia sfaldatasi poco dopo essersi formata …

«Tua nonna morì pochi mesi dopo. Yumiko ebbe un esaurimento nervoso e cadde in depressione. Non riprese gli studi come era sua intenzione. Cominciò a soffrire di disturbi alimentari, diventò aggressiva verso gli altri, anche verso di te. Una notte, tu cominciasti a piangere e lei si alzò di scatto e ti sollevò dalla culla. Credevo ti avesse preso in braccio per cercare di tranquillizzarti, invece iniziò a gridare, a scuoterti … mi fiondai su di lei e ti strappai letteralmente dalle sue mani. Non si poteva più andare avanti così … e la convinsi a ricoverarsi in una clinica. Io nel frattempo, per motivi di lavoro dovetti lasciare Kobe e ti portai con me. Il padre di Yumiko non fece nulla per trattenermi, anzi mi invitò a non farmi più vedere finché sua figlia non fosse completamente guarita … non aveva mai visto di buon occhio la mia relazione con lei… non ero il classico impiegato, con un posto di lavoro e uno stipendio fisso. E ovviamente ha dato la colpa a me, di quello che le era capitato.»

Taro strinse le labbra. Non aveva mai conosciuto suo nonno, sapeva solo che era anziano e viveva ancora a Kobe. Yumiko non ne parlava spesso, e quello che gli aveva raccontato suo padre eliminò ogni briciolo di desiderio di conoscerlo.

«La mamma non me ne ha mai parlato …» mormorò.

«È normale, Taro. Tutti tendiamo a vergognarci del male che facciamo agli altri e a noi stessi, quando ce ne rendiamo conto. E non parlarne è un po' come fingere che non sia accaduto e minimizzarne le conseguenze.»

Il ragazzo abbassò la testa e strinse le labbra. Agli angoli degli occhi erano comparse due piccole lacrime.

«Sono passati tanti anni senza vederci … lei nella mia infanzia non c'è mai stata … ma ora abbiamo un buon rapporto, e non ci voglio rinunciare.»

Ichiro annuì e gli mise una mano su una spalla «Se accetti un consiglio, Taro … quando ti legherai a una donna … amala, proteggila, ma non permetterle di dipendere da te. Deve avere una sua personalità, un'individualità, dei sogni suoi. Altrimenti finirete per soffrire entrambi.»

   

Taro attraversò la strada e si recò al bar-ristorante di fronte al parcheggio in cui aveva lasciato la sua nuova auto. Ichiro stava dipingendo ininterrottamente da quasi un'ora e il giovane calciatore aveva deciso di andare a prendergli un caffè e qualcosa da mettere sotto i denti.

Si trovava da poco davanti al bancone in attesa di essere servito, quando si sentì chiamare da una squillante voce femminile. Una voce che ormai conosceva bene …

Si voltò e vide Kumi che agitava una mano, seduta a un tavolo con un'altra ragazza dai corti capelli castani che lo guardava incuriosita.

«Sugimoto!» rispose con un sorriso, e si avvicinò. L'altra ragazza stava di fronte a lei, probabilmente una sua compagna di scuola. Kumi gli presentò Umeko e i due si salutarono con un cenno del capo.

«Hai terminato i corsi?» chiese poi all'ex manager.

«Quelli del mattino, ma tra non molto iniziano quelli pomeridiani.»

In quel momento sentirono il rumore di una sedia spostata all'indietro.

«Kumi, io vado avanti. Ci vediamo dopo, a scuola.» le annunciò Umeko strizzandole un occhio e salutando nuovamente Taro, il quale andò a sedersi sulla sedia imbottita lasciata libera.

«Sai» disse Kumi «Un paio di settimane fa ho inviato alcuni miei disegni alla Uchiyama Shoten, una casa editrice di questa città.» si interruppe e lo guardò, attendendo la sua reazione.

«Hai fatto bene.» rispose, con un cenno di approvazione «Hai già ricevuto una risposta?»

Kumi annuì, con gli occhi che brillavano come quelli di una bimba «Sì. Ieri mi è arrivata una loro lettera, e sono interessati. Vogliono che li chiami per fissare un appuntamento e presentarmi alla sede con altri miei lavori.»

«Ma è splendido!» esclamò Taro, esprimendo un entusiasmo quasi pari a quello dell'amica.

Kumi sollevò le labbra, scoprendo i denti in un sorriso pieno di gioia. La gioia di aver ricevuto una così bella notizia, aggiunta a quella di vedere il ragazzo che amava parteciparvi sinceramente …

«È merito tuo se ho preso questa decisione. Mi sono ricordata di quello che mi hai detto due mesi e mezzo fa, alla cartolibreria.» disse.

Taro avvertì un intenso calore invadere il suo petto, a quelle parole. «Hai intenzione di accettare?»

«Credo di sì, indipendentemente dall'esito del concorso. In fondo, vincerlo significa fare uno stage alla Shogakukan, certo sarebbe un'esperienza fantastica ma non è detto che poi mi assumano.»

«E tuo padre lo sa?» le chiese Taro, ricordandosi di quello che gli aveva raccontato sulla ferrea opposizione del signor Sugimoto a quel progetto.

Kumi smise di sorridere e tirò le labbra da entrambi i lati «Sì … ero seduta a tavola con lui quando la mamma mi ha dato la lettera. Non l'ha presa bene. I soliti discorsi: devo pensare a studiare, disegnare non mi darà un futuro stabile, sono un'illusa … e altre amenità.» concluse, appoggiando il mento su una mano e abbozzando un sorriso amaro.

«È una convinzione radicata nella società, Sugimoto … molti faticano a metterla in discussione.»

«So che in fondo lui si preoccupa per me. Ma questa mancanza non dico di approvazione, ma di comprensione … me lo rende lontano. E questo mi dispiace.» disse, stringendo le labbra, e mostrandogli per la prima volta degli occhi malinconici e sofferenti.

«Pensare che quando ero bambina» riprese poi, giocherellando con gli angoli di un tovagliolo «mi faceva vedere i classici del cinema d'animazione e i film dei grandi registi. Quando ero piccola, di ritorno dal lavoro mi portava sempre qualche rivista piena di fumetti o dei libri illustrati. In un certo senso, è stato lui a far nascere dentro di me questa passione. E ora che vorrei farne un lavoro, cerca di convincermi che non ne vale la pena.»

«Sono sicuro che con tuo padre le cose si sistemeranno, prima o poi. Intanto, hai già delle persone che ti sostengono: tua madre, le tue amiche, e anche io ed Elena apprezziamo molto i tuoi disegni.»

Kumi sorrise e assentì con il capo «Grazie Misaki. Le tue parole mi fanno capire che non sono sola.»

«No, Sugimoto. Non sei sola.» ribadì lui, guardandola con un sorriso teso a confortarla e incoraggiarla.

I due tennero lo sguardo l'uno sull'altra per alcuni secondi, poi lei sgranò gli occhi e alzò il braccio per controllare il suo orologio da polso.

«Devo andare. Tra pochissimo comincia la lezione. Arriverò sicuramente in ritardo.» esclamò, alzandosi e prendendo la sua cartella posata per terra.

«Non perdi mai il vizio, eh?» la punzecchiò Taro, con bonomia.

Kumi lo guardò stupita, e Taro fece una smorfia, imbarazzato.

«Scusami. È che mi sono ricordato di quando arrivavi di corsa a scuola e ti fiondavi in fretta nella tua classe.»

La giovane chinò la testa e ridacchiò «Già. Dovevo essere proprio buffa.»

Taro rise di rimando «Comunque ho l'auto parcheggiata qui fuori. Se vuoi ti do uno strappo fino al tanki-daigaku. Non so se servirà a evitarti il ritardo, ma almeno guadagnerai qualche minuto.»

«Va … va bene.» rispose stupita. Era tutto così … bello, così inaspettato da sembrarle irreale.

Taro comprò due filoni di pane e due lattine di caffè, Kumi pagò il conto del suo pranzo, e i due ragazzi uscirono nel piazzale antistante il locale.

Il sole dominava nel cielo azzurro, solo poche nuvole scorrevano lente, senza attenuarne lo splendore. Un vento lieve giocava con i capelli di Kumi.

Il calciatore aprì cavallerescamente la portiera del lato passeggero della sua auto, permettendole di prendere posto e accomodarsi. Poi, andò a mettersi alla guida.

Dopo pochi minuti arrivarono davanti al cancello ancora aperto della scuola.

Kumi guardò ancora una volta il suo orologio e lanciò un gridolino di gioia «Sono puntuale! La lezione inizia tra tre minuti!» cinguettò, suscitando in Taro una smorfia divertita. Recuperò la sua cartella, scese e si chinò leggermente, per ringraziarlo attraverso il finestrino abbassato.

Il ragazzo fece un cenno del capo e la salutò, prima che lei si voltasse e si mettesse a correre verso l'entrata.

Mantenne gli occhi su di lei finché non la vide aprire la porta e sparire all'interno dell'edificio.

Rimise in moto e si diresse verso la radura dove suo padre stava ancora dipingendo.

 

«Papà, che ne dici di fermarti e fare una pausa? A pancia piena si dipinge meglio.»

«Aspetta … l’ispirazione non va interrotta.» rispose Ichiro, sfumando la chioma di un albero con il pennello.

Taro accennò una risata «È sempre così quando lavori a un quadro … perdi la cognizione del tempo e ti dimentichi perfino di mangiare.»

Il pittore alzò la testa, tenendo il pennello stretto tra le dita e si voltò verso il figlio, con un’espressione di bonario rimprovero «E tu dimentichi tutte le volte che sei arrivato in ritardo per la cena, perché eri rimasto al campo di calcio?»

Taro alzò le spalle «Touché

«A ogni modo hai ragione, è meglio fare una pausa.» disse, riponendo il pennello e la tavolozza e prendendo la lattina di caffè che il figlio gli stava porgendo.

Poi Taro stese una tovaglia sul prato.

Ichiro lasciò momentaneamente il suo lavoro e si sedette, prendendo un filone di pane.

«Con ogni probabilità, sarà una delle ultime giornate che potremo passare così, Taro.» disse, spezzandolo in due parti.

Sentiva che dopo quell’estate, avrebbe preso il volo. Anche con la qualificazione alle Olimpiadi in bilico, Taro aveva attirato l’interesse di importanti squadre europee: l’Atlético Madrid, il Siviglia, il Borussia Dortmund, l’Arsenal e quel Paris Saint Germain che era stato a un passo dall’ingaggiarlo, prima che quel maledetto infortunio facesse sfumare tutto.

Lui, lo aveva già deciso, sarebbe rimasto in Giappone.

Le immagini di suo figlio comparivano con sempre maggiore frequenza sui quotidiani e riviste specializzati, la sua maglietta dello Jubilo Iwata era ancora la più venduta, e le sue giocate, le movenze con cui aveva superato avversari forti e con maggiore esperienza internazionale erano spesso proposte dalle trasmissioni sportive.

Era considerato già uno dei centrocampisti più promettenti della nuova generazione che avrebbe dato lustro al calcio internazionale nel decennio successivo.

 

Genzo si arrestò davanti al complesso sportivo Shiroyama. Rimase fermo per qualche minuto davanti all'entrata, riprendendo fiato.

Era stato operato e ora doveva osservare un periodo di convalescenza.

Il dottor Ikebe gli aveva detto che c'erano ottime probabilità di un recupero più rapido rispetto ai tempi previsti.

Le sue lezioni di kickboxing erano finite anzitempo, e incapace di starsene a casa a vagare per il grande giardino, aveva indossato una tuta ed era andato a fare una corsa per la città.

Spinse la porta, salutò la segretaria e si diresse verso la palestra in cui si insegnava ginnastica artistica. Non vi si stava svolgendo nessuna lezione … ma c'era lei.

Era accanto a una vaschetta e si stava cospargendo le mani di polvere di magnesio.

Si apprestava a eseguire un esercizio alle parallele … quell'attrezzo che per tanto tempo non era riuscita ad affrontare.

Con un salto afferrò lo staggio inferiore e fece una prima, semplice capovolta.

Eseguì alcuni volteggi, saltando con scioltezza da uno staggio all'altro.

Poi tentò alcune combinazioni più difficili.

Una verticale a gambe unite e tese, per poi fare una capovolta e darsi una spinta al termine della quale si ritrovò nella medesima posizione, per poi lasciare la presa sullo staggio inferiore e cercare di afferrare quello superiore.

Era uno Shaposhnikova, come gli aveva detto Arimi quando l'aveva visto alla kermesse di Numazu.

Forse era stato allora che si era reso conto di quanto Elena lo affascinasse.

Il modo in cui incitava, incoraggiava, riprendeva e consolava le sue ragazze lo aveva coinvolto e colmato d'ammirazione, e aveva alimentato il desiderio di conoscere ancora di più, su di lei.

 

Un errore della ragazza lo fece sussultare.

Elena mancò di poco la presa e ricadde sul materassino. Rimase con le ginocchia piegate e portò le mani sulle cosce. Inspirò profondamente, e rilasciò un lento sospiro.

Era il primo esercizio che stava cercando di svolgere per intero, dopotutto. E aveva provato un elemento difficile, forse troppo per lei che aveva ripreso dopo un anno.

«Ti sei fatta male?» le chiese Genzo, avvicinandosi a passo rapido.

La ragazza trasalì e alzò la testa, guardando dapprima davanti a sé, per poi voltare il viso verso di lui. Era a pochi passi dal materasso, nello spazio tra le due parallele.

«No, non mi sono fatta niente. Capita spesso di cadere dalle parallele.» spiegò, con un leggero sorriso.

Genzo fece un cenno d'assenso con il capo, e le tese una mano.

Lei scosse la testa, facendo dondolare la coda in cui aveva legato i suoi capelli «Una ginnasta deve sapersi rialzare da sola.» disse con voce pacata, e con una spinta si sollevò sulle gambe segnate da alcuni lividi, parzialmente coperti dalla polvere di magnesio che era sparsa anche sulla canottiera e i pantaloncini che indossava.

Soffiò sui palmi delle mani, dove la pelle era screpolata.

«Ti fanno male?»

Elena fece una piccola smorfia «Vesciche … non ci sono più abituata.» sorrise ancora.

I suoi occhi brillavano. Era la stessa luce che vedeva negli occhi dei suoi compagni quando giocavano a calcio e che di certo aveva anche lui stesso.

Ma il suo tono sembrava più … freddo, rispetto ai loro precedenti incontri.

Si stava ritraendo di nuovo nel suo guscio.

«Vedo però che non hai intenzione di fermarti.» continuò lui, senza lasciarsi scoraggiare.

Elena annuì «La grande Nadia dice che l’unico modo per sconfiggere le proprie paure è correre verso di loro e calpestarle sotto i piedi.»

Genzo fece un sorriso d'approvazione.

Le si avvicinò e le prese le mani. I palmi avevano delle sbucciature, contornate da altra polvere di magnesio, di cui alcuni granelli si erano depositati anche sui ciuffi di capelli sfuggiti all'elastico.

«Le mani sono importanti anche per una ginnasta.» mormorò, sfiorandole piano, con una delicatezza impensabile per quelle mani così grandi, disegnandone i contorni con lievi tocchi delle dita.

Elena ne osservò i movimenti e quella stretta ormai familiare quando si trovava accanto a lui, quel calore che si irradiava dal petto, la invase.

La ginnastica artistica era un mondo in cui le sue preoccupazioni e i suoi turbamenti non esistevano. Quando si allenava o si apprestava a fare un esercizio, dimenticava tutto. I pensieri, le preoccupazioni, le angosce … si dissolvevano. Era come entrare in un'altra dimensione.

E Genzo stava irrompendo anche lì … non poteva permetterlo.

«Genzo … non invadere il mio mondo … l’unico in cui mi sento al sicuro.» gli disse, sfilando le mani dalle sue dita.

Lui la guardò. Quegli occhi azzurri sembravano diventati due gemme dure.

«Al sicuro? Elena … parli come se avessi paura di me …» replicò, guardandola dritto negli occhi. Le sue iridi, nonostante fossero contornate dalla maschera protettiva, sembravano più larghe … la ragazza sentì che si sarebbe persa, se le avesse guardate un secondo di più.

Arrossì e distolse lo sguardo.

Genzo strinse le labbra e si allontanò di pochi passi.

«Vado.» disse «Stasera sarò al Tokyo Dome a vedere il match di Carlo.» le annunciò, per poi voltarsi e avviarsi verso l'uscita della palestra.

Elena era rimasta nella stessa posizione e si riscosse solo quando udì la porta chiudersi.

I suoi occhi erano umidi. Il cuore batteva sempre forte, più forte di quanto volesse …

Nei primi mesi successivi all'allontanamento di Gianluca, si addormentava desiderando di risvegliarsi in un giorno qualsiasi purché fosse precedente a quello dell'incidente.

Ma ogni giorno riapriva gli occhi, rendendosi conto inevitabilmente che era sempre un nuovo domani, anche se le sue giornate avevano preso a susseguirsi tutte uguali.

Pensava al futuro senza slancio, senza stimoli. Vedeva soltanto il vuoto … poi le vacanze natalizie avevano portato Carlo a Roma, dove le aveva proposto di passare un periodo in Giappone.

E lì aveva trovato più di quanto si fosse aspettata … forse persino più di quanto avesse sperato e voluto.

Aveva riscoperto la sua passione per la ginnastica artistica, aveva fatto nuove amicizie, aveva rincontrato Taro e conosciuto una ragazza piena di energia ed entusiasmo come Kumi. E poi … aveva conosciuto anche Genzo. Un ragazzo dal carattere forte e determinato, ma anche sensibile e generoso. Un vero amico. Ma negli ultimi tempi l'ammirazione e l'affetto verso di lui erano progressivamente cresciuti, e ora aveva paura di dire fino a che punto.

Sì … aveva paura dei suoi sentimenti. Sentiva che non doveva stargli accanto troppo a lungo, perché anche quando pensava di aver eretto una barriera, lui riusciva sempre a indebolire, pian piano, le sue difese. Anche solo guardandola e pronunciando il suo nome … con lui, ormai, era come camminare su un filo sottile.

Era affascinata e temeva che uno sguardo o un gesto in più da parte di lui avrebbero potuto causare qualcosa che le avrebbe procurato un senso di colpa indelebile.

Anche perché ormai riteneva di conoscerlo abbastanza bene per essere certa che non stava fingendo, non si stava divertendo a darle attenzioni di cui sentiva la mancanza.

Ma ogni volta che Genzo si avvicinava a lei, ogni volta che la guardava, il pensiero di Gianluca bloccato in un letto, incapace di muoversi, la faceva sentire meschina per sentirsi attratta da un ragazzo che era la personificazione della salute e della forza fisica e interiore.

Era quasi felice che il fidanzamento con quella bellissima ereditiera costituisse un ostacolo che il portiere evidentemente ancora non voleva o non poteva rimuovere.

Anche se i suoi sentimenti per lui non erano più quelli dei suoi primi mesi in Giappone.

Chiuse gli occhi, sentendosi improvvisamente più fiduciosa.

In fondo … avrebbe dovuto tenere duro soltanto poco più di un mese, ossia quanto mancava alla fine dell'esperienza alla palestra Shiroyama e al ritorno in Italia.

Ce l'avrebbe fatta.

 

Cominciò a camminare a passo più svelto già a pochi metri di distanza dalla palestra, per poi riprendere gradualmente il ritmo di corsa.

Che si aspettava? Elena pensava ancora al suo ex ragazzo, e lui frequentava Asami.

Asami … l'avrebbe vista anche quella sera, perché sarebbe andato a cena con lei e poi insieme, a vedere il match.

Già, finito l'incontro avrebbe presentato a Carlo quella che era ormai considerata la sua fidanzata ufficiale.

E poi l'avrebbe accompagnata a casa e lì avrebbe fatto l'amore con lei, come sempre.

Anche se il giorno dopo aveva un esame.

Tutto questo mentre Elena sarebbe rimasta a casa perché in quel periodo alla palestra il lavoro era raddoppiato e ormai la teneva impegnata anche al mattino.

Mancava poco più di un mese, poi lei sarebbe tornata in Italia … doveva capire cosa voleva davvero, prima che uscisse dalla sua vita, lasciandogli soltanto domande cui non avrebbe mai potuto dare una risposta.

 

Accolti dagli applausi e dalle grida di incitamento degli spettatori che avevano riempito il Tokyo Dome, in una scenografia con sfondo scuro illuminata dai riflettori e dai flash dei fotografi, i due contendenti, il tedesco di origini per metà italiane Carlo Nerlinger e il giovane astro nascente, il serbo Dragan Iljanovic fecero il loro ingresso sul ring, accompagnati dai rispettivi allenatori e secondi uomini, introdotti da un'entusiastica presentazione in stile americano.

Dopo le rituali spiegazioni delle regole da parte dell'arbitro, il match ebbe inizio.

Carlo fece subito valere la sua esperienza attaccando Iljanovic con una combinazione di calci e pugni che lo disorientarono.

Poi il giovane serbo riuscì a recuperare terreno e fu il suo turno di sferrare calci e pugni dalla potenza micidiale, alle gambe, ai fianchi, alla testa.

Carlo resistette eroicamente in piedi, fino al termine del primo round.

All'inizio del secondo round, dopo pochi minuti passati dal gong, Dragan trovò la combinazione risolutiva.

Il giovane serbo colpì Carlo con un calcio al fianco sinistro, e con i pugni riuscì a sfondare la sua difesa. Lo colpì di nuovo, stavolta dal lato sinistro, con un calcio alla testa che lo fece cadere a terra.

I dieci secondi della conta dell'arbitro passarono tutti, senza che Carlo riuscisse a rialzarsi. Dragan corse verso uno degli angoli del ring, e sollevò braccia e pugni, esultando mostrando un sorriso da bambino felice, coperto dal paradenti.

L'arbitro alzò il braccio del nuovo campione, mentre Carlo, rialzatosi con l'aiuto di Akinori Shiroyama e del suo secondo, il suo allievo Ieshige Honda, sorrideva orgoglioso, come sempre, e dopo la proclamazione andò ad abbracciare il suo erede.

Genzo applaudì, dispiaciuto per la sconfitta del suo maestro, che usciva comunque dal ring a testa alta, ma convinto che avesse perduto contro un degno avversario.

Asami applaudiva e sorrideva accanto a lui.

«È stato davvero un bell'incontro. Breve, ma emozionante.» commentò, alzando leggermente la voce per farsi sentire in mezzo alla salva di applausi e grida d'incitamento.

Genzo fece un cenno d'assenso. Un pensiero si fece strada nella sua mente, e per un attimo lo spiazzò. Si chiese se Elena si sarebbe limitata a un commento tutto sommato banale come quello appena espresso dalla sua ragazza.

Si affrettò a scacciarlo, alzandosi in piedi e tendendole una mano.

«Vieni, ti faccio conoscere il maestro Nerlinger.»

Lei abbassò la testa in segno d'assenso e intrecciò le dita con le sue, per poi alzarsi a sua volta.

Avevano quasi percorso tutta la fila delle poltrone su cui erano stati seduti quando furono raggiunti da uno Ieshige sudato e agitato.

«Honda, che succede?» chiese Genzo, esprimendo nella sua voce l'angoscia mostrata dal giovane allievo.

«È terribile, Wakabayashi!» rispose, con voce rotta «Il maestro Nerlinger … io e il maestro Shiroyama lo abbiamo trovato nello spogliatoio, disteso per terra … svenuto! Respira, ma non risponde … non si sveglia! Abbiamo chiamato i sanitari. Stanno per portarlo in ospedale.» spiegò concitato, davanti all'espressione sempre più inorridita di Genzo e al viso preoccupato di Asami, che strinse le mani attorno al braccio del fidanzato.

«Io e il maestro Shiroyama adesso andiamo con lui allo Juntendo Hospital.»

«Va bene, Honda. Io vi raggiungerò più tardi.» disse, dandogli una leggera pacca sulla spalla per infondergli coraggio.

«Devo chiamarla.» mormorò, dopo che Ieshige se ne fu andato.

Asami lo guardò, senza dire nulla. Sapeva di chi si trattava: la nipote di Nerlinger, la ragazza che aveva incontrato in ospedale quando Genzo era stato ricoverato.

 

«Elena? Sì, è finito.» sorrise debolmente, accennando una risata forzata «Sì, ha perso davvero con onore. Credo anch'io che non mollerà tanto facilmente. Senti, devo dirti una cosa …» sospirò, cercando di metterla al corrente della situazione senza allarmarla più del dovuto «Tuo zio si è sentito male negli spogliatoi. L'hanno appena portato allo Juntendo Hospital. Io sto andando lì … ti chiamo un taxi che ti porti alla stazione di Nankatsu. Poi, a Tokyo, troverai Kuroda ad aspettarti. Sì, me ne occupo io. Ti chiamerò se ci saranno delle novità.»

Ripose il cellulare nella tasca e si rivolse alla ragazza accanto a lui.

«Asami, ti accompagno a casa e poi vado in ospedale.»

«Lo Juntendo Hospital è più vicino rispetto a casa mia. Ti faccio accompagnare lì.»

Genzo annuì e i due si incamminarono verso l'uscita del Tokyo Dome.

 

La berlina della famiglia Ujimori giunse nel piazzale davanti all'ospedale in cui era stato portato Carlo.

«Vengo con te?» chiese Asami.

Genzo scosse piano la testa «Non so a che ora tornerò. Tu hai un esame importante, domani.» le disse, sfiorandole una spalla con le dita «Hai bisogno di riposare.»

La ragazza piegò il capo, in segno d'assenso «Va bene. Fammi sapere. So che gli sei affezionato, è anche grazie a lui se sei migliorato ancora in questo periodo.»

Genzo annuì. Le posò un lieve bacio sulle labbra e scese. L'autista degli Ujimori rimise l'auto in moto e si avviò verso l'appartamento in cui abitava la giovane ereditiera.

    

«Ma com'è possibile … è sceso dal ring, sorrideva, era lo stesso di sempre.» obiettò, incredula.

«Sì è sentito male nello spogliatoio ed è svenuto. È stato soccorso dai sanitari, che lo hanno intubato e lo hanno portato in ospedale con un'ambulanza.» le spiegò Genzo.

Elena rimase zitta per alcuni secondi, il suo cervello faticava a razionalizzare ciò che l'amico le aveva appena detto, a credere a ciò che le aveva succintamente raccontato.

«Ti faccio chiamare un taxi, tra poco sarà da te. Poi, arrivata alla stazione di Tokyo, troverai Kuroda ad aspettarti. Ti porterà davanti alla clinica. Anch'io sto andando lì.»

«Elena, mi hai sentito?» chiese, non sentendo giungere alcuna risposta.

«Sì …» mormorò. Poi, in un tono più deciso «Sì, scusami. Grazie. A più tardi, allora.»

Chiuse la chiamata e lasciò la presa sul cellulare, che cadde sul cuscino del divano.

Ristette in piedi, senza altro pensiero che recarsi all'ospedale e rivedere suo zio.

Poi iniziò a muoversi, confusa e agitata, il televisore ancora sintonizzato sul canale che aveva trasmesso il match tra suo zio e Dragan Iljanovic, cercando di mantenere almeno la lucidità necessaria a mettere nella sua borsa lo stretto necessario per una notte da passare nella sala d'attesa di un ospedale.

La telefonata di Genzo l'aveva dapprima sorpresa, poi sconvolta e gettata nell'angoscia totale.

Aveva potuto seguire il match solo alla televisione, perché il mattino seguente doveva andare in palestra per coadiuvare Mayuko nella direzione degli allenamenti delle loro ginnaste.

Avvertì un tuffo al cuore quando sentì Wilhelm abbaiare. Si avvicinò a una delle finestre della facciata della casa e vide un'auto bianca rallentare e fermarsi davanti al cancello.

Era tutto vero … stava accadendo realmente …

Prese la sua borsa, ci infilò il cellulare e uscì nel giardino.

«Buono, Wilhelm.» mormorò, chinandosi ad accarezzargli la testa «Vado dallo zio … che non sta bene.» disse a voce bassa. Il cane sembrò percepire la preoccupazione nell'espressione e nel tono di voce della ragazza, perché abbassò le orecchie e si accucciò, incassando il muso tra le zampe anteriori.

Elena aprì e varcò il cancello e salì sul taxi.

 

Nel cielo nero in cui occhieggiavano le stelle, la luna piena e luminosa sembrava vegliare sul suo percorso, ma in quel momento non vedeva nulla attorno a sé.

Soltanto l'immagine di Carlo, combattente indomito che ora stava lottando per la sua vita.

 

Ogni tanto guardava lo schermo del cellulare. Non c'erano simboli di chiamate perse o di messaggi ricevuti. Riusciva soltanto a rimanere seduta, guardando fuori dal finestrino dello Shinkansen che la stava portando a Tokyo.

Non percepiva né rumori né voci attorno a sé, se non sotto forma di brusio.

 

Era passata la mezzanotte quando arrivò all'ospedale.

Salì le scale che portavano al primo piano, dove si trovava la stanza assegnata a suo zio, come recitavano le indicazioni datele da Genzo in una seconda telefonata, in cui le aveva annunciato che il primario aveva disposto una delicata operazione alla testa.

Si ritrovò ancora una volta ad attraversare quei corridoi bianchi e asettici. Il forte odore di disinfettante le penetrò nelle narici. Sperava di non mettere piede in un luogo come quello, almeno lì in Giappone. E invece c'era stato l'infortunio di Genzo, e ora suo zio …

 

Vide Genzo seduto all'estremità più lontana di una serie di poltroncine e velocizzò i passi, al punto che lui sollevò la testa e si girò verso di lei, alzandosi subito in piedi e andandole incontro.

Dietro di lui vide Ieshige Honda, seduto con le spalle ricurve, la gambe allungate davanti a sé e le mani intrecciate sulle ginocchia, che alzò appena la testa per rivolgerle un cenno di saluto. Si stava letteralmente consumando dalla preoccupazione, e non era un'immagine incoraggiante. Genzo, invece, era imperscrutabile.

Oppure semplicemente, stava aspettando di conoscere l'esito dell'intervento, senza esternare la sua apprensione.

«Genzo. Come sta lo zio?»

«È ancora in sala operatoria.»

Elena annuì, ma dentro di sé avvertì la morsa stringere ancora di più il suo petto.

Stava andando per le lunghe …

«Il maestro Shiroyama è qui?»

«È andato via poco fa. Deve essere a Nankatsu per sottoporre degli allievi a degli esami per l'assegnazione delle nuove cinture. Honda rimarrà qui fino al termine dell'operazione.» disse, guardando il ragazzo, che continuava a guardare per terra, incapace di uscire dalla bolla fatta di paura e inquietudine.

Elena emise un lieve sospiro «È meglio che chiami i miei, prima che lo leggano su Internet o che lo sentano da qualche giornalista sportivo su un canale tematico.» affermò, selezionando il numero di sua madre dal registro delle chiamate sul cellulare.

In Italia erano passate le sedici, doveva aver già terminato il suo turno al supermercato.

Comunicò la notizia senza giri di parole, cercando di sembrare tranquilla. Non voleva nascondere nulla, ma nemmeno allarmare oltremodo i suoi genitori.

«Vi terrò aggiornati. Ah mamma, papà come sta? Almeno lui … sì, ci sentiamo domani.» riattaccò, facendo una piccola smorfia.

«Le ho chiesto come sta papà …» disse poi, con un sorriso amaro «sembra che agli uomini che mi stanno accanto debba sempre accadere qualcosa di brutto …» mormorò, volgendo gli occhi verso il basso.

Chiuse gli occhi e cercò di fare un respiro profondo, per cercare di calmarsi, ma questo si spezzò.

Le sue guance cominciarono a rigarsi di lacrime, il suo petto venne scosso dai singhiozzi.

Genzo le andò incontro e le mise le sue grandi mani sulle spalle. La trasse lentamente a sé, e lei non oppose alcuna resistenza.

Pianse con il viso sepolto sul suo petto, mentre lui le cingeva la schiena con un braccio e le accarezzava piano i capelli con l'altra mano, senza dire niente.

Senza chiederle se tra gli uomini di cui parlava c'era anche lui.

«Carlo è un lottatore nato. Ce la farà.» le disse soltanto, con voce pacata e rassicurante.

Il suo respiro le sfiorava i capelli, poteva sentire il calore delle sue parole irradiarsi dal petto e avvolgere anche lei.

Gli si accostò ancora di più, abbandonandosi alla sensazione di sicurezza che le donava. L'unica cosa che desiderava, dopo il risveglio di suo zio, era che Genzo continuasse a tenerla stretta, trasmettendole la convinzione che nulla di brutto sarebbe potuto succedere.

 

Un uomo di mezza età, magro e non molto alto, comparve sul corridoio.

Indossava un camice e una mascherina pendeva dal collo. Fece un cenno verso Genzo, che scambiò un'occhiata con Elena e si avvicinò insieme a lei e a Honda.

«Lei è una parente?» le chiese il dottore.

«Sì, sono Elena Rulli, la nipote del signor Nerlinger.»

L'uomo fece un cenno d'assenso.

«Signorina, suo zio ha riportato un trauma cranico dovuto ai colpi ricevuti durante l'incontro. È stato sottoposto a un intervento chirurgico per la riduzione di un ematoma, fortunatamente non molto esteso. È in prognosi riservata, ma la situazione è sotto controllo.»

 «Quindi non è in pericolo di vita …?» chiese Elena, con occhi spalancati che imploravano una risposta affermativa.

Il medico le sorrise e scosse la testa «No, signorina. Si riprenderà.»

Elena espirò, chiuse gli occhi e sorrise, e si mise una mano sul petto «Grazie.»

Il dottore assentì con il capo e tornò nella sala operatoria.

Ieshige guardò verso l'alto e strinse i pugni in silenzio, Genzo chiuse gli occhi e sorrise, manifestando compostamente il suo sollievo.

Pochi minuti dopo, nel corridoio comparve il letto su cui era sdraiato Carlo, spinto da due infermiere. Era addormentato.

Elena e Ieshige lo seguirono con lo sguardo finché non venne sistemato nella stanza, il fiato trattenuto e gli occhi lucidi, mentre Genzo guardava alternatamente il suo maestro e poi la ragazza.

La ragazza strinse la mano a Honda, poi guardò Genzo e gli sorrise. I suoi occhi brillavano di nuove lacrime, questa volta di sollievo e di felicità. Lui avrebbe voluto stringerla di nuovo tra le sue braccia, ma si limitò a ricambiare il sorriso e a chiederle se avesse bisogno di qualcosa.

Elena scosse la testa «Rimarrò qui, voglio esserci quando lo zio si risveglierà.»

«Ora sono più tranquillo.» intervenne finalmente Ieshige «Devo tornare a Nankatsu per gli esami degli allievi. In assenza del maestro Nerlinger, lo sostituisco io. Tornerò a trovarlo domani sera.» annunciò, incontrando il cenno d'assenso di entrambi i ragazzi.

 

Non sapeva da quanti minuti avesse lo sguardo su di lei, come a vegliarla.

Rassicurata dalle parole del medico sulle condizioni di suo zio, Elena si era addormentata su una poltroncina accanto a quella dov’era seduto lui. Si era seduta di traverso, con le gambe appoggiate su un bracciolo e la testa sullo schienale, il busto leggermente ricurvo.

I suoi lunghi capelli gli celavano il viso. Avrebbe voluto alzarsi, avvicinarsi a lei e sfiorarglieli con una mano, ma rimase fermo dov'era.

Un gesto di troppo avrebbe potuto rovinare tutto …

Una giovane infermiera comparve sul corridoio, fermandosi davanti a lui.

«C'è un divanetto nella sala d'attesa accanto, ed è libero.» lo informò.

Genzo annuì e la ringraziò, poi guardò Elena. Se l'avesse svegliata, avrebbe rischiato di spaventarla, ma non poteva nemmeno lasciare che dormisse in quella posizione scomoda.

Si alzò e si avvicinò a lei. Si chinò, le mise un braccio attorno alla schiena e fece passare l'altro sotto le sue gambe, sollevandola e prendendola in braccio. Percorse qualche passo verso la saletta accanto e, con la massima delicatezza, la stese sul divanetto.

Le scostò alcuni capelli rimasti sul viso, sfiorandole inavvertitamente una guancia.

Rimase a contemplarla, per alcuni istanti. I lineamenti del viso rilassati, la bocca leggermente dischiusa … era bella. Sentì un calore ormai consueto nascere e irradiarsi nel suo petto.

Chiuse gli occhi ed emise un leggero sospiro.

Doveva accontentarsi di questo, per il momento …

Poi si voltò, per tornare nel corridoio.

L'infermiera aveva assistito alla scena e lo guardò con un sorriso, ma non era malizioso né insinuante. Era dolce e quasi commosso, tanto che Genzo lo ricambiò d'istinto, prima di tornare a sedersi sulla poltroncina e chiudere gli occhi, cedendo infine anch'egli alla stanchezza prodotta dalla mancanza di sonno e dalle emozioni susseguitesi nel corso di quella giornata.

    

«Elena.»

Le scosse una spalla con quanta più delicatezza possibile, ma abbastanza forte da riuscire a svegliarla.

La ragazza fece una smorfia e aprì lentamente gli occhi, sbattendo più volte le palpebre per abituarli alla luce del sole che filtrava dalle persiane abbassate.

Poi mise a fuoco il volto di Genzo che le sorrideva con dolcezza, infondendole subito quella calma che le faceva capire che era stata una notte serena, non c'erano state brutte sorprese e nella migliore delle ipotesi suo zio dormiva tranquillo dietro la porta della stanza in cui era stato ricoverato.

«Che ore sono?» chiese, la voce ancora flebile per il sonno, mentre si rendeva conto di essere sdraiata su un divanetto.

«Quasi le nove.» rispose Genzo.

Elena si mise a sedere, i capelli biondi le ricaddero sulle spalle e ne scostò alcune ciocche finite davanti al viso.

«Non mi sono addormentata qui, stanotte.» disse, alzando gli occhi sul portiere.

«No, infatti. Un'infermiera mi ha avvisato che quel divanetto era libero e io ti ho sollevata e ti ci ho sdraiata.» spiegò semplicemente, senza alcuna nota di malizia.

Elena assentì «Grazie.»

Genzo le sorrise e le tese una mano per aiutarla a rialzarsi, come aveva fatto il giorno prima.

Stavolta Elena la accettò, e riuscì a reggersi in equilibrio sulle ginocchia indolenzite.

«E tu sei rimasto qui tutta la notte …?»

Genzo annuì. La maschera celava le occhiaie, ma non i capillari che attraversavano le sclere dei suoi occhi e che testimoniavano le poche ore di sonno.

«Non dovevi …» mormorò commossa, dandogli una lieve carezza su una guancia.

Genzo avvertì la pelle bruciare lì dove Elena l'aveva toccato.

Lei gli sorrise, con dolcezza e gratitudine.

Quei gesti lo stavano sconvolgendo più di quanto gli accadeva facendo l'amore con Asami …

Fortunatamente fu la sua stessa sollecitudine a venirgli in aiuto, facendogli recuperare il contegno.

«Vuoi mangiare qualcosa? Posso andarti a prendere un caffè al bar qui sotto.»

Elena lo guardò ancora, riconoscente per la sua premura che sembrava infinita …

«Sì, grazie … mi prenderesti anche un croissant alla fragola? Io intanto, vado a darmi una sistemata.» disse, passandosi una mano sui capelli spettinati.

Lui annuì, distendendo le labbra in un sorriso aperto.

Un quarto d'ora dopo, Genzo ritornò al primo piano e trovò Elena seduta su una delle poltroncine. Il ragazzo si accomodò accanto a lei e le porse il cornetto ancora caldo e fragrante e la tazza di caffè, prontamente ringraziato.

Era strano, e sicuramente non sarebbe stato possibile se suo zio fosse stato ancora in pericolo di vita, ma Elena provava una sensazione di benessere e serenità.

La bontà e la dolcezza di quella colazione, sapere che Genzo aveva vegliato su di lei per tutta la notte e si stava prendendo cura di lei, in un certo senso. Come un amico.

Le sarebbe mancato, una volta tornata in Italia, e i pensieri che aveva fatto quel mattino in merito non le sembrarono più così confortanti.

 

«Signori, se volete vedere il signor Nerlinger, si è svegliato.» la voce dell'infermiera li riscosse e li fece voltare. Si alzarono quasi contemporaneamente e si diressero verso la donna, che fece loro cenno di entrare.

Appena varcata la soglia, Elena corse verso il letto su cui era sdraiato Carlo, che le sorrise non appena la vide, la parte superiore della testa completamente fasciata.

«Zio … come stai?» gli chiese, chinandosi su di lui e circondandogli il collo con le braccia, in un buffo abbraccio.

«Ho la testa dura.» rispose, toccandosi leggermente la fasciatura e, nel contempo, sollevando l'altro braccio per scambiare una forte stretta di mano con Genzo.

«Ci scherzi sempre su … ma io ho avuto paura di perderti.» confessò, sollevandosi e guardandolo con un piccolo broncio di rimprovero.

«Sì, questa volta me la sono vista brutta, effettivamente.» ammise infine, con un tono di voce fattosi serio «Ma credo sia stato il mio ultimo incontro. I medici mi hanno sconsigliato di riprendere l'attività agonistica.» rivelò, guardando i due ragazzi con le labbra tirate ai due lati.

I suoi occhi azzurri sembravano ancora più chiari, e si affrettò a stringerli per impedire alle lacrime di scendere lungo il viso e manifestare la loro presenza.

Genzo vide in quel gesto un comportamento che era caratteristico anche di Elena … non mostrare la propria sofferenza.

«Puoi essere fiero della tua carriera zio, e dell'esempio che hai saputo dare, facendo sempre le tue scelte in autonomia. E comunque puoi continuare a insegnare, hai dimostrato di saper trasmettere le tue conoscenze e soprattutto la tua passione. Genzo può testimoniarlo.»

Il portiere assentì, di rimando.

Carlo sorrise, con una smorfia che sapeva di rassegnazione «Sarà difficile … nel codice del guerriero non esiste la resa. E anche quando il corpo dice "Basta", lo spirito grida "Mai".» affermò, risoluto. Poi ammise, con un tono di voce più sommesso «Ma stavolta ho davvero temuto di non svegliarmi mai più.»

 

L'infermiera annunciò una nuova visita, e lasciò entrare un uomo alto, con un corpo massiccio, corti capelli castani e un volto squadrato dai tratti decisi, segnato da un paio di cicatrici testimoni di una carriera di kickboxer conclusa da alcuni anni.

«Frank!» lo salutò Elena, andandogli incontro.

«Sei Elena, vero?» esclamò l'uomo, stringendole la mano con entrambe le sue, grandi e ruvide «Sì, lei è la tua nipotina bionda, quella mora si chiama Angelina, se non ricordo male.» disse guardando verso Carlo, che assentì con il capo. «Da quanto tempo non ti vedo?» chiese, rivolgendosi nuovamente a Elena «Eri alta la metà di adesso e io ero ancora un aitante ragazzone che si divertiva a far penare tuo zio sul ring!»

«Veramente quello che ti faceva sputare sangue ero io.» ribatté Carlo, sporgendosi verso di lui con un tono tra il provocatorio e lo scherzoso.

«Eccoli che cominciano …» ridacchiò Elena, voltandosi verso Genzo «Ti presento Frank O'Malley, ex kickboxer statunitense, uno dei suoi rivali più agguerriti.»

«Chi vinceva più gare?» chiese il portiere, con un sogghigno, aspettandosi già la risposta.

«Io!» gridarono infatti entrambi gli atleti, per poi scoppiare a ridere.

«Diciamo che ce le davamo di santa ragione. Però sempre nel rispetto delle regole, e fuori dal ring siamo sempre stati ottimi amici.» rispose Carlo.

«Se non sbaglio, lui è il portiere che stai allenando.» disse Frank, guardando Genzo.

Il ragazzo fece un cenno d'assenso.

«Viaggio molto per lavoro e ho visto spesso la tua foto sui quotidiani sportivi. Complimenti, sei uno forte.» gli disse, stringendogli la mano e dandogli una pacca sulla spalla.

«Lui ha capito da un pezzo quando è saggio fermarsi.» commentò Carlo, facendo cenno con il mento al suo antico compagno di battaglie.

«Ero completamente suonato. Non ho mai avuto la tua resistenza.» obiettò Frank.

«Hai preferito tenerti tua moglie e farci dei figli, mentre io non ho voluto lasciare il kickboxing. E così ho detto addio alla donna che mi è stata accanto per quindici anni.» replicò Carlo, con un lampo di disappunto negli occhi.

«Su coraggio, ormai ci sono uomini che si sposano e fanno figli a sessant'anni, tu sei ancora un ragazzino.»

Carlo scosse la testa «Mi sa che i miei nipoti diventeranno genitori prima di me.» ribatté guardando Elena di sottecchi.

Lei pensò ad Angelina che aveva sentito per telefono il giorno prima e le aveva nuovamente chiesto dove intendeva frequentare l'università. In fin dei conti, era maggio ormai, ed era tempo di prendere una decisione.

 

«Che ora è, ragazzi?» chiese Carlo, dopo che Frank se ne fu andato.

Fu Genzo a rispondergli, dopo un'occhiata al suo orologio da polso «Le undici.»

«Le undici? Elena, che ci fai ancora qui? Devi tornare a Nankatsu, a preparare le Nazionali juniores!» la rimproverò Carlo.

Elena spalancò gli occhi, poi aggrottò le sopracciglia e si mise una mano su un fianco «Come potevo andarmene senza sapere se ti saresti ripreso?»

«Beh, sei qui da ore ormai, e adesso sto bene. Rimarrò qui ancora per diversi giorni, ma mi riprenderò in tempo per venire ad assistere alle gare, quindi devi rimetterti al lavoro.»

Elena chiuse gli occhi e sorrise «Va bene, vado in stazione a prendere il treno.»

«È un peccato che tu sia costretto qui, Carlo. Avrei voluto invitarvi a cena insieme a Mikami, la sera della partita contro il Vietnam.» disse Genzo, volgendo lo sguardo anche alla ragazza.

«Beh, io non potrò esserci per ovvi motivi, ma … tu Elena, ci puoi andare.» le disse, con un ammicco.

«Io …» esitò, presa alla sprovvista « … certo, perché no?» concesse poi, guardando Genzo con un sorriso. In fondo, l'aveva aiutata e le era stato vicino, ancora una volta. E non aveva ragione di avere paura di lui, quali che fossero i suoi sentimenti. Non si sarebbe mai comportato in modo sleale, non l'avrebbe mai forzata a fare qualcosa che lei non avesse voluto. E poi, non sarebbero stati soli, visto che era ospite anche il suo allenatore e mentore.

Mandò un sms a Mayuko. Sarebbe tornata alla palestra quel pomeriggio stesso.

«Genzo, puoi accompagnarla se vuoi.» gli propose Carlo, strizzandogli un occhio.

 

Erano da poco giunti al pianoterra quando incrociarono il giovane campione serbo, Dragan Iljanovic.

Sul viso erano ancora visibili i lividi e le escoriazioni retaggio dei colpi ricevuti durante il match.

«Scusate. Volevo sapere come sta il maestro Nerlinger.» disse in un inglese dall'accento slavo.

Elena fece un cenno d'assenso con la testa «Sta bene. Ha riportato un trauma cerebrale, ma si riprenderà.»

Dragan annuì, sollevato «Mi dispiace averti fatto prendere questo spavento. Purtroppo nel nostro sport si danno e si ricevono colpi molto duri e a volte questo può arrivare a costarci la vita.»

«Lo so. Ma è la vostra passione.» replicò, mostrando di comprendere perfettamente di cosa stava parlando e i sentimenti che provava.

Dragan sorrise «Carlo è uno dei miei idoli, fin da bambino. Posso andare a fargli visita?»

«Certo. È ricoverato al primo piano, stanza 31.»

Il giovane la ringraziò e si diresse verso le scale.

 

Uscirono dal piazzale dell'ospedale e si ritrovarono sul marciapiede della strada antistante, nuovamente immersi nella luce del sole e nei rumori della città. Un primo ritorno alla vita di tutti i giorni.

Elena si portò dietro le orecchie le ciocche di capelli mosse da un vento un po' più forte rispetto agli altri giorni.

«Vieni anche tu alla stazione?» chiese, volgendosi verso Genzo.

Stava per risponderle quando sentì un trillo ovattato provenire dalla tasca dei suoi pantaloni.

Estrasse il cellulare e il simbolo e la scritta sul display gli comunicavano che aveva appena ricevuto un messaggio.

Ho passato l'esame. Massimo dei voti. Pranziamo insieme?

Genzo sospirò.

«No. Ho un impegno.» disse con voce monocorde, digitando qualcosa sul cellulare e riponendolo nella tasca, stringendo le labbra.

In quel momento, un taxi rallentò e accostò nel punto in cui si trovavano.

«D'accordo. Ci vediamo la sera della partita allora. Grazie ancora, di tutto.» replicò Elena con serenità, per poi aprire la portiera del taxi e infilarsi dentro.

Mentre l'auto spariva nel traffico, Genzo rimase a vagare per alcuni minuti su quel tratto di marciapiede, per poi fermare anche lui un taxi e farsi portare alla residenza della sua famiglia, lì in città.

 

 

 

 

 

***Note***

 

Come suggerisce il titolo, in questo capitolo ha molta importanza il rapporto che lega tre dei quattro protagonisti di questa storia ai loro padri o comunque parenti che possono essere considerati una sorta di figura paterna (come nel caso di Carlo con Elena).

Ichiro, padre che ha sempre incoraggiato Taro a inseguire i suoi sogni e a prendere in autonomia anche le decisioni più importanti, persino quelle solitamente ritenute premature; Shinji, padre che tende invece a dissuadere Kumi dall'intraprendere un percorso che lui non approva poiché non lo ritiene "sicuro" per il suo avvenire. 

Carlo non è il papà di Elena, ma lo si può considerare una seconda figura paterna per lei. L'ha avviata al mondo dello sport, l'ha chiamata con sé in Giappone, le sta vicino e la consiglia come se fosse un genitore.

 

Shoten è un termine giapponese che significa "libreria". Viene usato molto dagli editori che decidono di dare il loro cognome alle case editrici da loro fondate.

 

Sarariman: pronuncia giapponese del termine inglese salaryman, significa letteralmente "lavoratore salariato" e indica un lavoratore dipendente impiegato nel settore terziario, in particolare presso aziende, con un reddito fisso.

 

La descrizione dell'azione del gol di Shun Nitta e il dialogo tra Mark Al Owairan e Taro Misaki sono tratti dal capitolo 82 del "Golden 23".

 

Hokusai, nome d'arte di Katsuhika Sori (1760-1849) è stato un pittore e xilografo giapponese, autore appunto della serie "Trentasei vedute del Monte Fuji", di cui fa parte la celeberrima opera "La grande onda di Kanagawa".

Qui la sua biografia.

 

Il Tokyo Dome è uno stadio situato nel quartiere speciale di Bunkyo, dove si trova, tra l'altro, l'Università di Tokyo (Todai). Inaugurato nel 1988, ospita moltissimi eventi di vario genere, dalle gare sportive (football, boxe, arti marziali) ai concerti degli artisti più famosi a livello mondiale. Lo Juntendo Hospital esiste realmente e si trova sempre nel quartiere speciale di Bunkyo, a poca distanza dal Tokyo Dome.

 

 

Le parole di Carlo e il breve dialogo tra Dragan ed Elena sono ispirate dalla canzone "Burning Heart" dei Survivor, che fa parte della colonna sonora di "Rocky IV" (1985).

In particolare, questa parte di testo:

 

In the warrior's code

There's no surrender

Though his body says, "Stop"

His spirit cries, "Never"

 

Deep in our soul

A quiet ember

Knows it's you against you

It's the paradox that drives us on

 

It's a battle of wills

In the heat of attack

It's the passion that kills

The victory is yours alone

 

Questa è la traduzione: 

[Nel codice del guerriero

Non esiste la resa

Se il suo corpo dice "Basta"

Il suo spirito grida "Mai"

 

Nel profondo della nostra anima

Una quieta brace

Sa che sei tu contro te stesso

È il paradosso che ci guida

 

È una battaglia di volontà

Nel fervore dell'attacco

È la passione che uccide

La vittoria è solo tua]

 

 

Piccolo dizionario di ginnastica artistica:

La "grande Nadia" è Nadia Comaneci, leggendaria ginnasta romena, la prima a ottenere un "10 perfetto" ai Giochi Olimpici di Montréal 1976 (gliene vennero assegnati sette in tutto). È rimasto nella storia e nell'immaginario collettivo degli amanti di questo sport il suo esercizio alle parallele asimmetriche (qui il video).

Sua la frase: "Non scappo da una sfida perché ho paura. Piuttosto corro verso di lei, perché l'unico modo per sfuggire alla paura è calpestarla sotto i piedi" citata da Elena.

Una curiosità: il secondo nome della Comaneci è proprio Elena.

A proposito di curiose coincidenze, esiste un'ex ginnasta che ai tempi in cui gareggiava era la sosia in carne e ossa proprio della nostra protagonista.

Si chiama Olga Mostepanova e nella prima metà degli anni '80 ha fatto parte della fortissima Nazionale sovietica. Era una ginnasta dall'eleganza e dal talento sbalorditivi, ma a causa del boicottaggio deciso dal governo dell'URSS non poté partecipare alle Olimpiadi di Los Angeles 1984.

Ecco due immagini. La somiglianza con Elena è notevole!

 

Lo Shaposhnikova, chiamato familiarmente "Shaposh" è un elemento delle parallele asimmetriche presentato da Natalia Shaposhnikova, una delle ginnaste di punta della Nazionale sovietica a cavallo tra gli anni '70 e '80. Qui un video che mostra le evoluzioni di questo elemento, ripreso e arricchito nel corso degli anni da altre ginnaste, con combinazioni sempre più difficili.

 

Ecco il XIV capitolo … riesco finalmente a postarlo dopo un mese infernale -_-

Chiedo scusa per il ritardo.

Grazie ancora a chi continua a leggere questa storia! :-*

Sandie

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Capitolo 15
*** Capitolo XV - Tra passato e futuro ***


 

Capitolo XV

 

Tra passato e futuro

 

 

Taro terminò di vestirsi, prese una giacca, il portafoglio e un borsone, e uscì dalla sua stanza.

«Papà, io vado.» disse, affacciandosi al vano della porta della cucina, dove Ichiro era intento a prepararsi del riso al curry.

«Va bene, Taro. Ci vediamo domani, divertiti!»

 

D'accordo con Urabe e Ishizaki, sarebbe andato a prenderli davanti al piccolo supermercato dell'ex capitano della Ootomo, che da negozio in cui si vendeva prevalentemente tofu aveva allargato la sua attività, proponendo un vasto assortimento di prodotti alimentari.

Avevano deciso di andare a vedere la partita tra lo Jubilo Iwata e il Vissel Kobe.

La loro squadra seguiva a due punti di distanza l'Urawa Red Diamonds e una vittoria era fondamentale per rimanere nella scia.

 

«Così ti diverti a fare lo spaccone con la macchina nuova, eh?» lo punzecchiò Hanji.

«No, è solo che me la voglio godere il più possibile.» sorrise, invitando i due amici a salire con un gesto della mano.

Dei flash, dei frammenti dei mesi vissuti a Iwata si susseguirono nella sua mente.

Come in una rassegna, gli tornò alla mente il suo primo giorno da giocatore dello Jubilo, in cui aveva ritrovato i suoi amici dai tempi della Nankatsu e aveva conosciuto Gon Nakayama.

 

Era da poco arrivato allo Yamaha Stadium, dove lo Jubilo Iwata stava ultimando la preparazione alla partita d'esordio nel secondo stage di J League.

Ishizaki e Urabe stavano correndo alle spalle dell'attaccante e colonna della squadra, Gon Nakayama, che si stava rapidamente dirigendo verso il pallone da lui appena calciato.

«Se raggiungete il pallone prima di me, vi offrirò un gigantesco yakiniku per cena!»

«Yakiniku?!» gridarono all'unisono i due difensori, increduli.

«Proprio così! E ora provate a impedirmi di segnare, se ci riuscite!» gridò, correndo nel contempo velocissimo verso la porta.

Non capivano dove Nakayama trovasse tutto quel fiato, per correre e per parlare contemporaneamente.

L'attaccante arrivò per primo sul pallone e calciò. La sfera tuttavia, non finì dentro la rete, perché un piede fermò la sua corsa.

Taro Misaki si chinò per raccoglierla con una mano e stringerla al petto, guardando i tre calciatori con un sorriso accennato e un lampo determinato negli occhi nocciola.

«Misaki … sei proprio tu?» disse Ryo, incredulo, correndo verso di lui, seguito da Hanji.

«Significa che giocherai nello Jubilo Iwata?»

Taro annuì con un cenno del capo, incontrando lo sguardo compiaciuto di Gon Nakayama.

 

«Perché non stasera?» protestò Hanji.

«Perché stasera ho già un impegno.» rispose prontamente Gon, come se si trattasse della cosa più ovvia del mondo.

Avevano appena terminato di vestirsi e l'attaccante aveva messo la mano sulla maniglia dello spogliatoio.

«Ma avevi detto che ci offrivi lo stesso la cena!» intervenne Ryo, in supporto all'amico.

Gon sogghignò «Sì, ma non ho detto che ve l'avrei offerta questa sera. Quindi dovrete pazientare un paio di giorni.» disse voltandosi e salutandoli con un gesto della mano, prima di uscire e avviarsi verso il garage dov'era parcheggiata la sua macchina.

«Comincio a odiarlo.» sibilò Ishizaki, con Urabe che annuiva, altrettanto contrariato.

 

«Signor Mizuno, la sua cucina è semplicemente superlativa!» Ryo diede ulteriore eloquenza al suo elogio riempiendosi per la terza volta il piatto di carne.

Alla fine, dopo due giorni Gon, prima di lasciare il centro sportivo dopo un altro estenuante allenamento, aveva dato appuntamento ai tre nuovi acquisti all'izakaya gestito da Danjuro Mizuno, un uomo segaligno dalla statura poco superiore alla media, e soprattutto un vero mago ai fornelli. Mizuno-san.

«Grazie ragazzi, ma il merito va diviso con la mia splendida aiutante, Kinuyo Harada.» disse, indicando con un gesto della mano la giovane donna che stava raggiungendo il loro tavolo.

I ragazzi si voltarono verso di lei, e quando la sua figura sottile si fermò accanto a Danjuro, i loro volti si illuminarono per l'ammirazione.

«Ero curiosa di conoscere i tre nuovi calciatori del nostro amato Jubilo. Molto piacere, ragazzi.» esordì. Aveva i capelli neri raccolti in una coda, a far risaltare il bellissimo viso dalla pelle candida e liscia. Due brillanti occhi neri spiccavano in quell'incarnato di porcellana.

Taro la guardò come incantato, al punto che anche i suoi compagni se ne accorsero.

«Hai già conquistato il nostro nuovo campione, Kinuyo.» sghignazzò Gon, seguito dalle risate di Hanji e Ryo, che davano di gomito al povero Taro, che arrossì come un pomodoro ma si guadagnò l'interesse della donna, che ne fece il principale destinatario delle sue domande.

 

Kinuyo partecipò alla conversazione tra i giocatori della squadra, rispondendo con puntuta ironia alle battute di Nakayama e intervenendo con considerazioni pertinenti sulle partite dello Jubilo e sulla J League.

Taro si ritrovò spesso a guardare verso di lei, e i suoi sguardi furono altrettanto spesso ricambiati.

Quella scena si ripeté altre volte, nelle settimane successive.

Finché una sera, il centrocampista decise che non era più capace di accontentarsi di quegli sguardi e di brevi dialoghi scambiati sempre nell'ambito di una conversazione generale.

Voleva vederla da solo … si vestì con cura nella sua camera da letto, arrivando persino a spruzzarsi del profumo di muschio bianco.

«Io esco.» annunciò, infilandosi una leggera giacca di jeans.

«D'accordo, Misaki.» gli rispose Urabe, spaparanzato sul divano con le braccia allungate sullo schienale.

Come immaginava e sperava, né Ryo né Hanji lo avrebbero seguito. Quando c'era il loro programma preferito in tv, nulla poteva smuoverli.

Uscì dal palazzo e diresse i suoi passi verso l'izakaya, sulla strada illuminata dalle luci dei lampioni. Ogni tanto transitava qualche auto, incrociò poche persone, perlopiù impiegati di ritorno dal lavoro o coppie e gruppi di amici che rientravano a casa.

 

C'erano poche luci accese e nessuna voce proveniva dall'interno, segno che l'orario di apertura era terminato.

Entrò e si sedette. Sentì dei rumori provenire dalla cucina.

Acqua che scorreva, acciottolio di piatti, bicchieri, recipienti e utensili vari.

Poco dopo, il rumore cessò e venne sostituito da quello dei passi leggeri di Kinuyo.

«Ehi, ciao!» esordì lei con vivacità, comparendo sul vano della porta, asciugandosi le mani con uno strofinaccio.

«Ciao.» replicò lui, con il suo sorriso gentile.

«Kirin Ichiban, come al solito?»

Taro annuì.

Kinuyo sparì per pochi istanti in cucina, per poi ricomparire con due bottiglie di birra. 

Le appoggiò sul bancone e tolse il tappo a entrambe con uno sturabottiglie.

Ne afferrò una, nello stesso momento in cui Taro prendeva in mano l'altra.

Fecero cozzare le due bottiglie, prima di bere parte del contenuto, guardandosi negli occhi.

«Scusami se ti sembrerò indiscreto, ma per caso Nakayama è innamorato di te?» chiese lui, all'improvviso, con una curiosità che suonava insolita perfino a sé stesso.

Kinuyo sgranò gli occhi, poi scoppiò a ridere, mettendosi una mano davanti alla bocca.

«Innamorato di me, Gon? Figurati, siamo come un fratellone con la sua sorellina. E poi lui è felicemente sposato con una cugina di Danjuro.»

«Sul serio? Non credevo. Ecco perché è così legato a questo posto.» rispose Taro, un po' stupito.

Passarono almeno un'ora a chiacchierare, al punto che le birre erano diventate più che tiepide e si erano nuovamente messi a ridere.

Kinuyo sfilò dai suoi capelli il fermaglio che li tratteneva e si passò una mano sul viso per ravviare alcune ciocche.

«Avevo proprio bisogno di una pausa. Ora sarà meglio che torni a casa.»

«Posso accompagnarti?»

«Certo.»

 

Lei aprì la porta, entrò e mantenne la mano sulla maniglia, ricambiando il suo sguardo.

Rimase fermo ad aspettare sulla soglia, senza staccarle gli occhi di dosso.

Al suo cenno, Taro avanzò, entrando in casa.

Kinuyo gli chiuse la porta alle spalle.

Il centrocampista fu sicuro di aver avvertito una scossa elettrica, quando la giovane donna gli si avvicinò, accarezzandogli il viso glabro e posando le labbra sulle sue.

Fece scivolare la giacca dalle sue spalle e gli passò le braccia attorno al collo, mentre dischiudeva le labbra, invitandolo ad approfondire il contatto.

Gli prese le mani e le posò sui suoi fianchi, affinché le facesse scorrere sul suo corpo.

Taro non aveva mai provato un simile grado di eccitazione. Si rese conto che fino ad allora non aveva saputo cosa significasse toccare una donna con ardore, baciarla con passione.

Dopo alcuni momenti di iniziale impaccio, il desiderio e l'istinto presero il sopravvento, e presto si ritrovarono nudi e avvolti nelle lenzuola del letto di lei, a riempire la stanza dei loro gemiti e sospiri.

 

«Sei un ragazzo speciale, Taro. Mi sei piaciuto subito, fin dal primo momento.» mormorò, adagiando la testa sul suo petto nudo e sfiorandogli l'addome con delle lievi carezze.

Lui, troppo inebriato per poterle rispondere, le passò le dita tra i capelli di seta e sulla schiena.

 

Erano stati mesi favolosi.

Lui, sempre presente in campo con lo Jubilo Iwata, stava trascinando la squadra verso la conquista del secondo stage, e si stava imponendo e facendo notare anche all'estero per la bellezza dei suoi gol e per la precisione dei suoi passaggi. Prestazioni che confermava anche nelle amichevoli con la Nazionale Under 23, contro due selezioni più collaudate a livello internazionale come la Danimarca e la Nigeria.

Kinuyo assisteva sempre alle partite giocate nello Yamaha o nell'Ecopa Stadium, e seguiva in tv tutte le trasferte, facendo un'eccezione se queste erano previste nella prefettura di Shizuoka.

Taro disertava sempre più spesso l'appartamento preso in affitto con Ishizaki e Urabe, per passare le notti e a volte anche le giornate a casa di Kinuyo.

Lei gli insegnò a cucinare alcune pietanze tipiche della cucina giapponese, e finivano sempre per punzecchiarsi e ridere, tra un'effusione e l'altra.

Era troppo bello … sembrava una favola. Di più, un sogno.

E infatti, si era interrotto bruscamente.

  

Pochi giorni dopo l'amichevole vittoriosa contro il Paraguay, Kinuyo gli aveva sbattuto in faccia quella rivelazione, e nel momento peggiore: dopo aver fatto l'amore.

«Ho incontrato un uomo, Taro. Ha ventotto anni, lavora da cinque come assicuratore per la Nomura, ha una carriera ben avviata. È serio e gentile. Ci ha presentati mio zio e …»

«Un omiai?» chiese Taro, un'espressione indecifrabile sul volto.

«Taro, io ho già ventisei anni. Tutto quello che desidero è un matrimonio stabile e costruire una famiglia. Con te ora è tutto meraviglioso, ma chi ci dice che durerà? Hai solo vent'anni, dei sogni che ti porteranno lontano dal Giappone e io non voglio chiederti cose che non puoi o non ti senti di darmi.»

«Puoi sempre venire con me.» replicò, con un'espressione che sembrava chiederle quale fosse il problema.

«Io qui ho un lavoro, i miei genitori, la mia vita. Non potrei mai lasciarli.»

«Ma tu non ami quell'uomo.»

«Lo stimo e lo rispetto. So che mi renderà felice, che mi darà un futuro sereno e senza problemi.»

«Io invece non sono in grado di darti garanzie, non è così?» aveva alzato la voce, al colmo dell'incredulità e della delusione.

Kinuyo lo guardò con un sorriso triste «Rimarrai uno splendido ricordo, che porterò sempre con me. Certe storie sono belle e intense ma non sono fatte per durare. E tu hai bisogno di una ragazza disposta a condividere con te il tuo sogno. Io non ci riesco.»

Taro non rispose nulla. Chiuse gli occhi, si alzò dal letto e si rivestì, senza neppure andare in bagno. Prese i suoi pochi effetti personali e uscì dall'appartamento, per non tornarci più.

 

Arrivarono allo Yamaha Stadium e presero posto in zona centrale.

Alcuni tifosi li riconobbero e li circondarono, alla ricerca di autografi, strette di mano e fotografie.

La loro presenza venne salutata dall’entusiasmo dei supporter e sottolineata dai cronisti.

Lo Jubilo Iwata batté il Vissel Kobe per 2-0, con una doppietta di Nakayama.

E una notizia splendida arrivò da Saitama, dove grazie ai brasiliani Pepe e Leo, il Kashima Antlers a sorpresa aveva battuto in casa la capolista Urawa Red Diamonds.

Risultato fondamentale perché valse il sorpasso dello Jubilo, che ora si trovava in vetta.

«Fantastico!» Ryo era in visibilio «Speriamo succeda qualcosa di simile anche a noi tra qualche giorno!»

 

«E ora, tutti a festeggiare da Mizuno-san!» gridò Gon, da poco uscito dallo stadio, nel piazzale dove, insieme ad altri giocatori, lo avevano atteso i suoi tre giovani compagni di squadra.

«Volentieri!» esultò Ishizaki «Ho proprio voglia di mangiare la famosa grigliata di Danjuro!»

«Misaki, te la senti di venirci?» chiese poi, guardando attentamente l'amico.

«Certo, perché non dovrei?» rispose con aria affabile, anche se dentro di sé provava una leggera apprensione … l'avrebbe rivista dopo cinque mesi. Come avrebbe reagito?

Era curioso e inquieto allo stesso momento.

Il primo sentimento prevalse, così come i ricordi felici delle serate passate in quel locale con gli amici e i compagni di squadra.

 

All'interno dell'izakaya, Danjuro accolse tutti con l'entusiasmo di sempre e si illuminò quando si accorse della presenza della nuova stella dello Jubilo.

«Ehi, guarda chi si rivede! Misaki! Da quanto tempo non venivi qui?»

«Da gennaio, poco dopo i festeggiamenti per la vittoria del secondo stage.»

«Certo, e come dimenticare? Una festa per i nostri campioni … ora sono tutti impegnati con il campionato e dopo aver superato l'Urawa Red Diamonds in classifica, speriamo di poterci confermare in questo stage.»

«Lo spero anch'io. Tiferò sempre per lo Jubilo!»

Il gestore aggrottò le sopracciglia «Che significa? Non mi starai dicendo che ci lasci?»

Taro sorrise «Per ora no, ma se dovessi disputare una buona Olimpiade, non disdegnerò l'interessamento delle squadre europee.»

Danjuro alzò le spalle «Beh, del resto tu sei un grande giocatore. Non ho mai visto fare ad altri giocatori qui in Giappone quello che hai fatto tu.»

 

Stavano mangiando, chiacchierando e ridendo da mezz'ora quando Danjuro raggiunse nuovamente il loro tavolo.

«Ragazzi, siete venuti appena in tempo per salutare Kinuyo. Tra un mese si sposerà e andrà a vivere a Osaka.» annunciò.

Urabe e Ishizaki si girarono istintivamente verso Taro, che mantenne un'espressione impassibile. Entrambi sapevano che non significava nulla in sé … Misaki era sempre stato bravo a nascondere i suoi sentimenti, quando non voleva lasciarli trasparire.

Dopo pochi minuti, la donna comparve nella sala da pranzo con altri piatti pieni di carne da arrostire, salutata dagli applausi e dalle grida dei clienti.

«Ehilà, ragazzi! Sono felice di rivedervi, mi siete mancati!» esclamò entusiasta, non appena riconobbe i tre giocatori ex Nankatsu.

«Ciao, Kinuyo! Allora è vero che ti sposi e te ne vai?» le chiese subito Urabe.

La ragazza annuì.

Incrociò gli occhi di Taro, che la guardava con un leggero sorriso, senza parlare.

«Ciao Taro. Ti ho visto alle qualificazioni, sei sempre più bravo.»

«Grazie, Kinuyo.» rispose il centrocampista, afferrando il suo boccale di birra e bevendone alcuni sorsi.

La serata passò in goliardia, tra battute, scherzi, risate, aneddoti dei mesi passati tutti insieme a Iwata e racconti del periodo più recente, il primo stage della nuova stagione per chi stava ancora giocando in J League, le partite delle qualificazioni per i tre nazionali.

 

All'uscita del locale, ignorando lo sguardo di rimprovero di Gon, Kinuyo si avvicinò a Taro, quasi furtiva e gli sfiorò una spalla.

«Ti va di accompagnarmi a casa?» sussurrò.

Il suo respiro gli sfiorò il lobo dell'orecchio provocandogli un brivido, suo malgrado.

Qualche nuvola rischiarava il blu oltremare del cielo, velando di tanto in tanto la luna e le stelle.

«Sono in auto con Ishizaki e Urabe.» obiettò.

«Non ti preoccupare, Misaki.» intervenne Hanji, addirittura prima che potesse terminare la frase. «Possiamo anche tornare a piedi, vero Ishizaki?» disse, dando di gomito al compagno.

«Sì, certo. Dopo questa mangiata, fare quattro passi e prendere una boccata d'aria fresca è quello che ci vuole.»

«Va bene, ti accompagno.» rispose allora Taro, incontrando l'espressione lieta di lei.

 

Lasciò l'auto a pochi passi dal palazzo in cui abitava Kinuyo.

Dopo aver percorso pochi gradini di scale, la seguì nel suo piccolo appartamento, che si trovava al primo piano.

Quell'abitazione adatta a una donna single, sarebbe presto rimasta vuota e data in affitto ad altri inquilini.

«Ti rimane poco tempo per vivere qui.» disse, tanto per rompere il silenzio caduto tra loro quando erano entrati.

«Già. Sai, un po' mi dispiace. Mi ero affezionata a questa casetta. La prima in cui ho vissuto da donna indipendente.»

Taro sorrise, con lieve ironia.

«La tua relazione con l'assicuratore della Nomura va bene, allora.»

La ragazza gli si avvicinò. Giunse a pochi centimetri da lui e gli diede un lieve bacio sulle labbra «Lui non è come te, Taro …» mormorò, guardandolo con un mesto sorriso.

«Hai fatto la tua scelta, Kinuyo …» rispose lui.

«Lo so.» disse, guardandolo con occhi malinconici «Prima era diverso. Quando lo frequentavo, sapevo che poi qui c'eri tu. Ma ora …» continuò languida, posando le mani sul suo petto.

Per un momento, Taro fremette a quel contatto. Non aveva dimenticato la sua relazione con lei, quello che c'era stato fra loro.

Conosceva bene il suo corpo. Lo aveva esplorato tante volte, senza stancarsi, nei mesi in cui aveva vissuto e giocato a Iwata.

Ricordava ogni momento del loro primo incontro, della loro prima notte insieme.

Era stata la prima donna con cui si era lasciato andare completamente, con cui aveva fatto l'amore, mettendo da parte ogni inibizione. L'aveva amata, in modo totale e forse ingenuo da ventenne, ma si era sentito pronto a costruire un futuro, con lei.

Taro chiuse gli occhi ed espirò, con un mezzo sorriso.

«Cosa vorresti dirmi, ora? Che sei pentita, che non lo ami veramente, che ti sono mancato?» chiese, in tono beffardo.

Lei trasalì, non aspettandosi di udire tanta durezza nella sua voce. Così tanta da sembrare, in lui, innaturale.

«Fammi sognare un'ultima volta, Taro …» lo abbracciò, certa di ispirargli ancora quei sentimenti che li avevano legati mesi prima, e gli afferrò i polsi per fargli posare le mani sui suoi fianchi. Aveva fatto così la loro prima volta insieme … aveva guidato le sue mani lungo tutto il suo corpo, per poi lasciare che seguisse il suo istinto.

Taro strinse i denti dietro le labbra serrate, avvertendo l'eccitazione crescere, suo malgrado.

Fu tentato di stringerla, spogliarla, accarezzarla in tutti i modi possibili, su tutto il corpo, e possederla con tutta la passione e la veemenza con cui sempre lo aveva implorato di fare, per alimentare in lei i rimpianti, per renderla consapevole una volta di più quello che stava perdendo.

Per orgoglio personale. Perché era stato messo da parte, declassato a eccitante avventura in quanto senza laurea e senza un lavoro stabile, quindi incapace di offrirle garanzie per il futuro. Perché non lo amava al punto da condividere i suoi sogni, le sue aspirazioni, i suoi traguardi e le sue speranze.

Al contatto con le labbra della giovane donna, le separò con la lingua, esplorando la sua bocca. Poi percorse quei centimetri di pelle che lei gli aveva offerto, reclinando la testa all'indietro. Ascoltò i suoi ansiti, sentì la carotide pulsare convulsamente sotto la pelle serica e contro le sue labbra.

Con le mani aveva preso ad accarezzarle le spalle, i seni, i fianchi, strappandole altri sospiri.

«Taro ...»

Il gemito della donna ruppe quell'incantesimo.

Sollevò la testa e la fissò dritto negli occhi.

Lei lo guardò, stupita e delusa dall’interruzione di quel contatto prolungato che la stava mandando in estasi, come quando stavano insieme.

Taro sorrise.

No, non era più come prima.

L'aveva illusa, come lei aveva fatto con lui, trattandolo come un giocattolo e dando per scontato che le sarebbe bastato ricomparire sulla sua strada, per avere di nuovo il dominio sui suoi sentimenti.

E soprattutto, aveva scorto un barlume di chiarezza nel suo cuore.

Un sentimento nuovo, all'orizzonte. E il volto di una ragazza dai vivaci e brillanti occhi castani. Una per cui valeva la pena lasciarsi il passato alle spalle.

«Le cose cambiano, Kinuyo …» sibilò, scostandosi da lei e voltandosi verso l'uscio.

Aprì la porta e scese i pochi scalini che portavano all'atrio del palazzo.

Gli parve di sentire un pianto sommesso, provenire dall'interno dell'appartamento.

Uscì e dopo pochi passi fu di nuovo sulla strada.

 

Rientrato nel suo appartamento, trovò Urabe ancora seduto sul divano, con una bottiglia di birra vuota e l'altra piena per metà sul tavolino.

«Ehi Misaki! Come mai già qui? Eravamo convinti che ti avremmo rivisto domattina.» disse, strizzandogli un occhio.

«Non consolo le spose infelici.» replicò il giovane con sarcasmo, passando dietro il divano e dirigendosi verso la sua stanza.

Hanji alzò le spalle e bevve un altro sorso di birra. Poi sogghignò.

«Vuoi vedere che quei due pettegoli di Ishizaki e Nishimoto hanno ragione …»

   

Elena si guardò a lungo allo specchio, indecisa su come vestirsi. Genzo non era certo uno snob né un fanatico dell'etichetta, anzi non ostentava per nulla la sua ricchezza.

Ma viveva comunque in una villa enorme e lussuosa. Non poteva certo presentarsi in jeans e maglietta.

Indossò così un lupetto smanicato azzurro e una gonna nera. Infilò dei collant un po' più scuri per coprire i lividi sulle gambe e ai piedi un paio di sandali. Sul viso, mise un ombretto color oro e un gloss rosa perlato.

Le rimaneva da decidere come pettinarsi. Raccogliere i capelli nel consueto chignon, oppure lasciarli sciolti?

Alla fine, optò per una via di mezzo: afferrò due ciocche, le portò all'indietro e le fissò con un fermaglio.

Un look semplice ed elegante, con cui sperava di non far storcere il naso ai domestici della villa e agli ospiti di Genzo.

 

Arrivò davanti all'alto cancello di villa Wakabayashi quando il sole cominciava a tingere il cielo di sfumature rosse. Suonò il citofono e pronunciò il suo nome quando sentì una melodiosa e garbata voce femminile risponderle.

Il cancello iniziò ad aprirsi ed Elena attraversò il vialetto di ghiaia, osservando l'enorme giardino che si estendeva ai lati. Le file di alti sempreverdi, il prato all'inglese curatissimo, adornato da splendidi fiori.

E infine, la facciata della villa, che sembrava ancora più ampia e torreggiante, ora che la guardava dal basso, a pochi metri di distanza.

Un cane bianco sbucò dal retro della villa e le corse incontro, abbaiando.

Elena sussultò, ma continuò a camminare senza fretta e quando l'animale le si avvicinò, tese una mano, per permettergli di annusarla.

Iniziò poi ad accarezzargli prudentemente la testa e il cane la lasciò fare, continuando a fissarla guardingo.

«Vedo che stai cominciando a fare amicizia con John.»

Elena alzò la testa e vide Genzo, a pochi passi da lei e dal suo amico a quattro zampe.

Gli sorrise, con una delle sue tipiche smorfie da monella.

«E così sei tu il famoso John.» disse poi rivolta al cane, che si mostrò un po' più espansivo, come se aspettasse una sorta di "nulla osta" da parte del suo padrone.

«È con noi da quando avevo nove anni. È un vecchietto un po' diffidente, ma pare che tu gli stia andando a genio.» scherzò il portiere.

«Entriamo?» le domandò poi.

Elena annuì «Sono curiosa di vedere com'è l'interno di una villa giapponese.»

Aveva fatto bene a scegliere un abbigliamento più elegante. Genzo era vestito con dei pantaloni neri e una camicia bianca, i capelli leggermente arruffati.

Nell'ampio vestibolo, li aspettava una donna di mezza età di bassa statura e corporatura minuta, con il volto delicato e segnato da poche rughe incorniciato da corti capelli neri tagliati a caschetto.

«Buonasera, signorina Rulli. Cambi pure qui le sue calzature, queste devono essere della sua misura.»

«Lei è Hitomi Sakai, da vent'anni è la nostra governante.»

«Vent'anni?»

«Sì, fui assunta poco prima della sua nascita.» confermò Hitomi.

«L'ha visto crescere, quindi.» considerò, colpita subito dopo dal pensiero che avrebbe voluto farsi raccontare qualche aneddoto sull’infanzia del portiere … di certo quella donna ne conosceva moltissimi.

Hitomi annuì e a Elena parve che stesse per dirle qualcosa, quando Genzo si rivolse a lei.

«Sei la prima. Mikami non è ancora arrivato.»

«Sei solo?»

«Sì. Hiroji e Annie, come ogni finesettimana, sono andati a Tokyo dai miei genitori e hanno portato con sé i bambini.»

«Sai … ero curiosa di vedere la piccola Aiko.»

«Sta imparando a camminare, un po' alla volta.»

«Quella bambina è deliziosa.» disse Hitomi, intenerita, congedandosi dalla stanza per ultimare i preparativi della cena.

Pochi minuti dopo arrivò Tatsuo Mikami.

Elena l'aveva intravisto durante le partite al National Stadium, accanto al dirigente più giovane con lunghi capelli scuri, Munemasa Katagiri, ma non si erano mai incontrati.

Genzo li presentò ed Elena fu sorpresa quando le disse che aveva già sentito parlare di lei.

«Sono stato l'allenatore personale di Genzo qui in Giappone e, per un breve periodo, anche in Germania, prima che entrasse a far parte del settore giovanile dell'Amburgo. So che Genzo si allena nella palestra dove lavori.»

«È più corretto dire che mi allenavo …» precisò il portiere, incrociando le braccia.

«Quando il tuo occhio sarà guarito completamente, potrai tornare a farlo.» gli ricordò Tatsuo.

Mikami … l'uomo che per primo aveva intuito il talento di Genzo.

Anche lui lo conosceva benissimo e chissà quanti episodi poteva raccontarle, soprattutto sui suoi primi anni in Germania, costretto a confrontarsi con una lingua e una cultura così diverse da quelle del suo Paese d'origine.

 

Una voce stentorea e gutturale riecheggiò nel vestibolo, in un giapponese dalla pronuncia un po' stentata.

Genzo spalancò gli occhi, poi sbuffò, seccato.

Günther Hoffmann aveva deciso di comparire al momento più opportuno per sé stesso, ma meno adeguato per lui.

«Buonasera, signora Sakai. Le ho portato un mazzo di peonie, so che lei gradisce moltissimo questi fiori.» le disse in un tono talmente gentile da rasentare lo svenevole.

Hitomi lo avrebbe trovato imbarazzante se non fosse stato un uomo di mezza età, dal fisico da granatiere e gli occhi azzurri che creavano un attraente contrasto con i capelli castano scuro un po' ingrigiti sulle tempie.

«Signor Hoffmann, sono meravigliosi. Non sapevo fosse stato invitato anche lei.»

«Anche? Perché, ci sono altri ospiti?»

«Sì, il signor Mikami e la signorina Rulli.»

«Rulli? Ma non si chiamava Ujimori?» chiese, sorpreso.

«Asami non è qui. La signorina Elena Rulli è una mia amica, la nipote del mio maestro di kickboxing. Sarebbe dovuto essere anche lui qui stasera, ma è ancora convalescente dopo un intervento alla testa.» intervenne Genzo, entrando nel vestibolo togliendo così d'impaccio la governante, senza preoccuparsi di nascondere un'espressione contrariata.

«Buonasera Herr Hoffmann. Lieta di conoscerla.» si fece avanti la giovane.

«Buonasera signorina. Il suo nome è italiano, ma dal suo aspetto e dalla sua pronuncia perfetta si direbbe che scorre anche sangue teutonico nelle sue vene.»

«Non sbaglia. La famiglia di mia madre vive in Germania.»

«In quale zona?»

«La Baviera, non lontano da Monaco.»

«Bene … io vengo da Augsburg.»

Poi si rivolse al suo assistito.

«Che si tratti di fidanzate o amiche, caro Genzo, dimostri sempre un ottimo gusto.» si complimentò ammiccando, mentre Elena fece un blando sorriso all’udire quelle parole.

Il ragazzo alzò gli occhi al cielo e fece cenno a Hitomi di far servire la cena il più presto possibile.

 

Una volta seduti a tavola, il procuratore non perse tempo e riesumò subito l'argomento che in realtà più di tutti gli premeva trattare.

«Ti avevo detto che avremmo parlato del mio trasferimento soltanto dopo le qualificazioni, Günther.» gli disse Genzo, senza nascondere la sua irritazione.

«Certo, e se non ti fossi infortunato, avrei rispettato questa scadenza. Ma ora la tua prossima partita la giocherai alle Olimpiadi, se il Giappone si qualificherà, quindi preferisco portarmi avanti. Anche perché per l'appunto, ora come ora rischiate di non andarci, a Madrid.» disse, senza ironia.

Genzo sospirò. La sola idea gli faceva gelare il sangue nelle vene, ma Günther aveva ragione: l'esclusione del Giappone dai Giochi era una minaccia concreta.

«Il Bayern ti vuole, è disposto a sborsare qualsiasi cifra. Li hai letti i giornali? Sei il portiere più seguito, per te spasimano tutti i grandi club.»

«Lo faccio ogni giorno. Non mi hai detto nulla di nuovo.» ribatté, in tono annoiato.

«Quello che non sai, è che Zeeman molto probabilmente andrà via dall'Amburgo, a fine stagione. È richiesto dalla Dinamo Dresda, che sta per essere promossa in Bundesliga. Ed è stato contattato anche dal Rapid Vienna e dal Losanna.»

«No, non lo sapevo, ma non mi stupisce. I risultati delle ultime due stagioni sono stati mediocri e comunque al di sotto delle aspettative.»

«Ma tu torneresti ad Amburgo se Zeeman andasse via?» lo incalzò Günther.

Per lo spazio di un attimo, quella notizia colpì Genzo come se si fosse aperta, improvvisamente, una breccia. Ma preferì non sbilanciarsi.

«I miei rapporti si sono incrinati con lui, non ho avuto problemi né con i miei compagni, né con i dirigenti, né con gli altri membri dello staff tecnico.»

Günther sogghignò «Beh, non ti rivorranno comunque. Il club ha grossi problemi finanziari, fa fatica a mantenere i conti in pareggio e ha bisogno di fare cassa. E tu sei il pezzo più pregiato.»

Genzo lo guardò. Un lampo di disillusione passò nei suoi occhi. Günther gli sorrise con comprensione.

«Questa storia dell'esclusione dall'undici titolare per fare posto ad altri tre extracomunitari, tecnicamente non eccelsi per inciso, è stata tutta una pantomima, Genzo. Il direttore sportivo dell'Amburgo era convinto che avresti accettato il trasferimento al Bayern, invece sei rimasto e hai fatto saltare un affare che avrebbe rimpinguato le casse del club. E così hanno aspettato l'occasione giusta per portarti alla rottura. Senza saperlo, gliel'hai servita su un piatto d'argento.»

«Io mantengo il mio proposito. Ci penserò solo dopo le qualificazioni.» ribadì.

Günther annuì, ma non rinunciò al suo ennesimo tentativo di persuasione.

«Se rimani in Germania, hai il vantaggio di conoscere già la lingua, così come se dovessi andare in Inghilterra. L'unico inconveniente, chiamiamolo così, di un trasferimento al Bayern è che i tuoi attuali tifosi ti bollerebbero come un "traditore", specie dopo il tuo "assist" dell'andata.»

Genzo lo fulminò con lo sguardo, ma Hoffmann lo ignorò.

«Però, e questa è la cosa più importante, riempiresti l'ultimo tassello che manca al Bayern per poter prevalere sulle migliori d'Europa. E cominceresti finalmente a vincere, anche a livello di club, i titoli e i trofei che un portiere del tuo calibro merita di conquistare.» concluse serio.

«Non vogliono semplicemente un portiere forte, vogliono te.»

Elena aveva seguito con enorme interesse, al pari di Mikami, la conversazione tra Genzo e il suo procuratore.

Per un attimo le era balenata in testa l'idea che se il portiere si fosse trasferito al Bayern Monaco e lei fosse stata accettata alla Ludwig-Maximilian Universität, avrebbero potuto rivedersi ancora, anche in Germania. Non riuscì a negare di considerarla una prospettiva tutt'altro che spiacevole.

 

Al Mỹ Ðinh National Stadium di Hanoi, i giocatori giapponesi arrivarono quasi sempre al tiro, trasformando presto la partita in un assedio per i loro avversari.

La partita si mise sul binario giusto dopo dieci minuti, grazie a uno splendido destro di Jun Misugi, che univa tecnica e potenza.

Al venticinquesimo, Matsuyama segnò con uno dei suoi insidiosi tiri rasoterra.

Al trentesimo del secondo tempo, un potente tiro di sinistro di Misaki si infilò alle spalle del portiere vietnamita, senza che questi avesse mosso un muscolo.

«Avevo ragione a non essere preoccupato per la partita contro il Vietnam, la stiamo vincendo senza difficoltà. È il risultato di Arabia Saudita-Australia che temo … si può soltanto sperare che Al Owairan e Vulkan abbiano giocato la loro miglior partita, trascinando i loro compagni.»

«Certo, non hanno più grandi motivazioni visto che sono già eliminati.» obiettò Mikami.

«Ma giocano in casa. Vorranno congedarsi dal loro pubblico con una prestazione dignitosa.» insistette Genzo.

Ripensò a quello che Misaki gli aveva detto al telefono, quando si erano sentiti in mattinata.

«Ho parlato con Al Owairan al termine della partita contro l'Arabia Saudita … mi ha promesso che darà il massimo contro l'Australia. A noi, non resta che vincere e sperare in un risultato positivo per noi, a Riyad.»

 

Mancavano pochi minuti al termine della partita e l'Australia stava conducendo per 1-0.

Ma Mark Al Owairan ancora non si dava per vinto.

Era sempre stato convinto che nel calcio, con sufficiente tempo a disposizione, poteva accadere qualsiasi cosa e molte volte i fatti gli avevano dato ragione.

E in tre minuti l'Arabia Saudita avrebbe potuto pareggiare e forse anche vincere.

Aveva fatto una promessa a Misaki ed era determinato a onorarla fino in fondo. Avrebbe tentato, tentato fino al fischio finale dell'arbitro.

 

Ide Tamotsu raggiunse il campo in lacrime.

I giocatori in campo e in panchina, Kira e il suo staff si voltarono verso di lui.

L’assistente tecnico si fermò e si mise le mani sulle ginocchia, ansando e continuando a piangere.

«Ragazzi … a Riyad è finita … 1-1! Gol di Al Owairan al quarantaquattresimo!» gridò, alzando i pugni e liberando finalmente tutta la sua gioia.

Tutti i giapponesi, in campo, in panchina e sugli spalti dello stadio, esultarono.

Il boato si diffuse in metà stadio.

I giocatori levarono le braccia al cielo, si abbracciarono, saltellarono sul terreno in preda all'euforia.

Taro strinse i pugni e si deterse il sudore dalla fronte e le lacrime di felicità dagli occhi.

Mark aveva mantenuto la sua promessa.

 

Schizzarono tutti in piedi, saltando e alzando i pugni.

Elena gettò le braccia al collo di Genzo, gridando felice.

«Oh Genzo è meraviglioso! Abbiamo di nuovo la qualificazione nelle nostre mani!»

Sgranò gli occhi quando si accorse degli sguardi tra lo sconcertato e l'ironico di Mikami e Hoffmann, puntati su di lei. Genzo aveva un'aria sorpresa, mista a un luccichio di gioia.

Si slacciò dal ragazzo e si ricompose.

«Oh, scusami. Scusate. Ero … in preda all'entusiasmo.» si giustificò, rivolta prima al portiere e poi volgendosi verso l'allenatore e l'agente, i quali risero sotto i baffi nel vedere il suo volto in fiamme.

 

Approfittando della momentanea assenza di Genzo, che si era trattenuto sulla porta di casa a parlare con Mikami appena congedatosi, Elena salì le scale e percorse il corridoio, con la sola intenzione di dare un’occhiata ai quadri appesi alle pareti, alcuni dei quali erano ritratti di membri della famiglia Wakabayashi.

Giunse davanti a una porta semiaperta, da cui si intravedevano fotografie, trofei e gagliardetti.

Doveva essere la stanza di Genzo.

Si guardò intorno esitante, poi la curiosità ebbe la meglio ed entrò.

Günther Hoffmann se n'era andato da poco e nella villa, a eccezione dei domestici, erano rimasti soltanto loro.

Si trovava lì da pochi minuti, quando la voce del portiere la fece sobbalzare.

«Ah, eri qui.»

Lei si voltò e lo vide fermo accanto a uno stipite della porta, le braccia incrociate ma il suo tipico sorriso sghembo sul viso.

«Scusami … è che la porta era aperta e ho intravisto le foto sulla parete … e mi sono incuriosita. Non ho toccato nulla.»

Genzo scosse la testa «Non ti preoccupare. Sono legato a quelle immagini, più che a tutte le altre.» le confidò, entrando nella stanza e affiancandosi a lei.

Le mostrò le fotografie e le descrisse gli eventi cui si riferivano, le raccontò dei tornei di Yomiuri Land, soprattutto quello vinto con la Nankatsu.

«Questa è stata scattata nella nostra villa di Londra, dopo la vittoria al Mondiale Under 16 a Parigi.» continuò a elencare.

«E questo è il mio primo trofeo vinto nel campionato della prefettura, con la Shutetsu. L'uomo accanto a me è mio nonno.» le spiegò, indicandole l'alto signore dai capelli bianchi che gli teneva orgogliosamente una mano su una spalla. Occhi neri come l'ebano e sguardo fiero, lo stesso del nipote.

Elena sorrise, intenerita.

«So che solitamente glissi su questo argomento, ma posso fartela una domanda?»

«Dimmi.»

«Davvero non hai nessuna idea di dove ti piacerebbe andare a giocare? Una squadra preferita, una situazione più stimolante rispetto alle altre …»

Genzo fece un sorriso triste e diede un'alzata di spalle «È difficile lasciare una città in cui si è vissuto per tanti anni. Io credevo sarei rimasto ad Amburgo per tutta la carriera …» le confidò.

«Le bandiere nel calcio sono sempre più rare. Le ultime si stanno ammainando ed è difficile che ci sia qualcuno pronto a raccogliere il testimone.» replicò la giovane «I club oggi preferiscono vendere i loro pezzi migliori e incassare quanti più soldi possibile, per far quadrare i conti e acquistare altri giocatori. Lo stanno facendo anche con te: come ha detto Herr Hoffmann, la vicenda con Zeeman è stata strumentalizzata e in realtà cercavano soltanto una scusa per cederti.»

Genzo piegò le labbra da un lato «Forse ero soltanto presuntuoso. Pensavo che solo con le mie parate, l'Amburgo potesse vincere la Bundesliga. Ci siamo andati vicini tante volte, ma poi arriva sempre primo qualcun altro.»

«È qualche anno ormai, che arriva primo sempre il Bayern.» ribatté Elena, strizzandogli un occhio.

Genzo sorrise di rimando, poi replicò, serio in volto «Come ha detto Günther, se andassi a Monaco, specie dopo quanto accaduto a settembre, i tifosi amburghesi mi vedrebbero come un traditore, uno che è cresciuto nella loro squadra per poi andare a cercare vittorie e titoli con i loro rivali.»

Elena scosse la testa «Non sei un traditore, ma un professionista. Tra Amburgo e Bayern ci sarà una rivalità storica, ma da anni sono su due piani diversi, quanto a competitività e obiettivi da raggiungere. Credo tu sia abbastanza onesto da ammetterlo.»

Genzo la guardò, poi abbozzò un sorriso e assentì con il capo.

«Ho passato un periodo fondamentale della mia formazione umana e calcistica in Germania.» affermò «Non so se limitarmi a cambiare città, o se trasferirmi in un Paese diverso addirittura e fare un'esperienza in un altro campionato.»

«Come ti ho già detto, a me piacerebbe davvero vederti difendere la porta del Bayern Monaco.» ammise, con un leggero sorriso.

Genzo la guardò ancora. Un pensiero gli attraversò la mente: se lei avesse scelto di studiare a Monaco, lui avrebbe davvero potuto accettare l'offerta dei bavaresi … ma preferì non dire nulla. Era di nuovo vicina, ma ancora non poteva toccarla, e allora doveva evitare che si allontanasse.

«Ti va di bere qualcosa? Ho delle birre e altre bevande in frigo.»

«Una birra andrà benissimo.»

 

«Io sono giapponese fino al midollo, ma devo riconoscere che preferisco quella tedesca.» affermò, afferrando due bottiglie e posandole sul tavolo della cucina, cui lei si era seduta.

Hitomi si era già ritirata nella sua stanza.

Rimasero lì fino a tardi, a parlare delle loro vite, a ridere, a raccontarsi episodi della loro adolescenza.

Genzo non aveva mai parlato di sé stesso con tanta spontaneità a una ragazza.

Con Elena, sentiva di poter discorrere di qualsiasi argomento senza sentirselo liquidare con risposte banali. E alle sue battute, sapeva ribattere con altrettanto spirito.

Durante la partita, aveva sorpreso Mikami e Hoffmann con le sue osservazioni e commenti puntuali e appropriati sulle azioni e sulle caratteristiche dei giocatori.

Gli dispiacque e gli sembrò di risvegliarsi da un bel sogno, quando lei si scostò piano all'indietro, con la sedia.

«Si è fatto tardi. È meglio tornare a casa. Domani devo essere in palestra.»

«Ti accompagno.»

«Non ce n'è bisogno, non disturbarti a fare tutta la strada.» obiettò.

Genzo scosse la testa «Come hai detto tu, è tardi, e sei anche un po' brilla.» le fece notare.

«Brilla?» ripeté, corrugando le sopracciglia, con un buffo broncio.

Genzo ridacchiò e confermò la parola usata con un mezzo sorriso «Esatto.»

Effettivamente, non aveva certo perduto la lucidità, ma l'alcool e la spensieratezza di quella serata l'avevano un po' alterata. Si sentiva più leggera e rilassata.

Si affacciò alla finestra e osservò il cielo ormai scuro.

«Mi sono dimenticata di portare una giacca con me.»

«Aspetta.»

Uscì dalla cucina e salì le scale, per poi tornare poco dopo con una morbida giacca bianca di cotone.

«Puoi mettere questa. È di mia madre.» disse, aprendola e adagiandogliela sulle spalle, mantenendo per pochi attimi il contatto delle sue mani, divise dalla pelle nuda soltanto da quel leggero strato di stoffa.

Elena si voltò e incontrò il suo sguardo, premuroso come al solito.

Non poté fare altro che sorridergli, in un muto ringraziamento.

 

Kumi entrò nel locale seguita da Madoka, Ikuko e Saya, e individuò subito un tavolo situato proprio dirimpetto al grande televisore fissato al soffitto della stanza.

Yukari era a Hanoi insieme ai supporter, mentre lei era rimasta in Giappone, perché voleva passare il finesettimana con il suo gruppo di amiche, cosa che non accadeva da molti mesi.

Aveva invitato anche Elena, per dare la possibilità soprattutto a Ikuko e Saya di conoscerla meglio, ma l'insegnante aveva rifiutato, adducendo un impegno già preso in precedenza, senza specificare di cosa si trattasse.

Le quattro ragazze passarono così la serata in un famiresu, a seguire la partita sul grande schermo, tifando ed esultando ai gol della Nazionale giapponese.

Persino Ikuko e Saya si entusiasmarono, trascinate da Kumi e Madoka, e impazzirono letteralmente di gioia quando appresero del pareggio tra Arabia Saudita e Australia.

Al termine del match, le quattro ragazze lasciarono il locale tutte insieme e, dopo aver percorso un tratto di strada tra chiacchiere e risate, il gruppo si divise a metà.

Madoka e Kumi proseguirono verso l'abitazione dell'ex manager.

«Sai, Shun mi ha promesso che al termine delle qualificazioni andremo a Kyushu per una breve vacanza. Indipendentemente dal risultato.»

«È molto bello da parte sua … non vuole farti pesare un'eventuale eliminazione.»

«Già … è presto per dirlo, ma forse la nostra storia può davvero funzionare. Siamo ripartiti con il piede giusto e io, giorno dopo giorno, mi sento sempre più innamorata.» affermò, con aria sognante.

Kumi la guardò con tenerezza e anche con un po' di invidia.

«A proposito … che mi dici di Misaki? Vi siete rincontrati?» Madoka sembrava averle letto nel pensiero.

Lo sguardo di Kumi si illuminò «Sì.» e le raccontò del loro breve incontro a Fuji.

La sua amica, dopo aver ascoltato con attenzione, annuì con approvazione.

«Devi cominciare a farglielo capire, Kumi. I segnali favorevoli ci sono tutti.»

«Non so se li coglierebbe, ora come ora. Siamo nel momento della verità … sta pensando soltanto alle qualificazioni.»

Madoka strinse le labbra «Già … anche Shun ultimamente non parla d'altro. I Giochi Olimpici sono una vetrina internazionale, non parteciparvi sarebbe un'occasione persa e una possibilità in meno per la loro carriera.»

«E le Olimpiadi capitano una volta sola nella vita. Perché per loro non è solo questione di essere notati da squadre europee e affermarsi in campionati prestigiosi, è anche il raggiungimento di una nuova tappa verso la realizzazione del sogno di portare il Giappone sul tetto del mondo.» spiegò Kumi.

Voltarono l'angolo e Madoka notò due figure conosciute camminare nella direzione opposta alla loro.

«Ehi Kumi! Guarda.» le sussurrò, dandole di gomito e attirandola dietro una cancellata.

La ragazza la guardò dapprima con aria interrogativa, poi diresse il suo sguardo verso le due persone e spalancò gli occhi.

Man mano che si avvicinarono, le due amiche distinsero anche le loro voci e parte di ciò che si stavano dicendo.

Wakabayashi stava accompagnando Elena a casa e si erano fermati davanti al cancello, uno di fronte all'altra.

 

«Ti restituisco la giacca.»

«Puoi tenerla. Me la ridarai un'altra volta.»

«Ma non è giusto … e se tua madre volesse metterla?»

«Non viene spesso a Nankatsu. Lei e papà passano più tempo nella loro casa di Tokyo, dove c'è la sede della nostra holding.»

Genzo riuscì, in tono divertito per quel buffo scambio di battute, a convincerla.

«E va bene.» disse infatti, alzando gli occhi al cielo.

Prima di aprire il cancello, si voltò verso il ragazzo.

«È stata una bella serata, Genzo. Grazie.»

«Lo è stata anche per me, Elena.» rispose con una voce bassa e calda, che le spedì l'ennesimo brivido lungo la schiena.

Si guardarono per un lungo attimo.

Lui si avvicinò e le sfiorò le braccia con le mani.

I suoi palpiti erano così frenetici che le sembrava di sentir pulsare anche la testa.

I loro visi erano distanti ormai pochi centimetri … poteva sentire il suo respiro.

Era sempre riuscita a distogliere in tempo lo sguardo dall'incredibile intensità dei suoi occhi.

Non quella volta.

Ipnotizzata da quelle due iridi nere come l'ossidiana, chiuse gli occhi …

 

I due ragazzi sobbalzarono e si guardarono con un'espressione interdetta.

Wilhelm abbaiava e saltava sulle sbarre del cancello, reclamando attenzione.

Elena emise uno sbuffo e si voltò.

«Buono, Wilhelm! Sveglierai tutti quanti!» lo rimproverò severa, e il cane si acquietò, emettendo un timido guaito.

«Ti presento Wilhelm, il cane dello zio.» disse poi con un tono più calmo, cercando di recuperare un po' di scioltezza.

Genzo assentì, con un mezzo sorriso.

«Beh … ci vediamo, allora.» proferì, incontrando il cenno d'assenso di Elena.

Si salutarono, e lui prese la strada di casa.

Nel suo animo si alternavano sentimenti di varia natura. Era contrariato perché quel cane aveva rovinato il loro momento, e lui desiderava ormai più di ogni altra cosa il contatto delle labbra di Elena, ma doveva ammettere che un osservatore esterno avrebbe trovato la cosa divertente. C'era però un'altra sensazione … ed era di speranza.

Perché Elena aveva chiuso gli occhi … non l'avrebbe respinto.

Era una conferma di ciò che aveva sempre pensato: anche lei era attratta, e i suoi tentativi di tenersi a distanza non erano dovuti a un rifiuto nei suoi confronti, ma ai sensi di colpa che nutriva nei confronti del suo ex fidanzato.

Ma prima di chiedere a lei di provare a guardare avanti, doveva essere lui a chiudere una storia che ormai non lo coinvolgeva più. Non sapeva come avrebbe fatto ad affrontare Asami e a dirle che non se la sentiva di continuare la loro relazione, ma non poteva nemmeno andare avanti così. Stare con lei e pensare a un'altra, era comunque una forma di tradimento. E lui provava rispetto per Asami e le voleva bene.

Doveva affrontare un probabile scontro con la sua famiglia, pur di evitare a lei e a sé stesso un futuro infelice.

 

«Hai visto, Kumi?» sussurrò Madoka, trattenendo a stento una risata.

«Sì …» rispose l'ex manager. Allora le sue impressioni erano corrette: stava nascendo qualcosa tra Elena e Wakabayashi … non c'erano più dubbi, almeno per quanto riguardava la giovane italiana. Si chiese se Misaki sapeva o immaginava quello che stava accadendo tra i suoi due amici, e come l'avrebbe presa.

Era l'unico dubbio che le rimaneva, prima di provare a fare il passo decisivo.

 

Elena sfilò il fermaglio dai capelli e si gettò a sedere sul divano, per poi reclinare la testa sullo schienale.

Stava per baciare Genzo …

Non aveva provato sollievo, ma disappunto quando Wilhelm aveva abbaiato, spaventandoli e interrompendo irrimediabilmente quel momento.

Dovette ammetterlo.

Genzo le piaceva, si sentiva felice quando era accanto a lui e avvertiva un senso di vuoto quando se ne andava, dopo aver trascorso del tempo insieme.

Ma nulla sarebbe stato possibile tra loro, finché non si fossero decisi a recidere i loro legami già esistenti. E lei ancora non era disposta a buttarsi alle spalle il suo, senza sentirsi colpevole.

Per tutta la notte fu incapace di prendere sonno. Si rigirò nel letto, alla ricerca della posizione più favorevole, ma quei pensieri e dubbi non la abbandonarono.

 

 

 

 

 ***Note***

 

 

Yakiniku: termine con cui in Giappone si indica una varietà di piatti a base di carne alla griglia. Prevede che gli ingredienti, diversi tagli di carne di manzo marinata (ma anche di maiale, cavallo o pollo) e verdure, vengano serviti crudi e poi cotti dai commensali su una griglia in comune posta in mezzo al tavolo. Carne e verdure vengono poi mangiati accompagnati da alcune salse tra le quali la più famosa, chiamata tare, è fatta con una base di salsa di soia, mirin, sake, zucchero, sesamo e aglio.

Fonte: Ohayo.it

 

La birra Kirin Ichiban è una delle preferite dai giapponesi. Viene prodotta seguendo il metodo Ichiban Shibori (tutti gli ingredienti vengono pressati una sola volta) e utilizzando solo malto della più alta qualità

Viene servita fredda, direttamente dal frigorifero.

Fonte: JapanCentre

 

Il miai o omiai (nella sua forma onorifica) è un'usanza tradizionale giapponese che consiste nel far incontrare due persone libere da legami sentimentali affinché prendano in considerazione la possibilità di sposarsi. Letteralmente significa "guardarsi reciprocamente" ma è traducibile come "colloquio formale a scopo matrimoniale", per questo non è corretto definirlo, come spesso avviene, "matrimonio combinato".

Una figura frequente, ma non indispensabile nell'organizzazione di un omiai è il nakodo ("sensale di matrimoni") che svolge il ruolo di intermediario tra le famiglie; solitamente viene scelto tra i componenti o gli amici di una delle famiglie oppure ci si affida a un professionista.

Fonte: Wikipedia

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Capitolo 16
*** Capitolo XVI - Ammissioni e scoperte ***


Capitolo XVI

 

Ammissioni e scoperte

 

 

 

Genzo correva a ritmo sostenuto per le strade di Nankatsu, rischiarate e scaldate da un sole ormai quasi estivo.

Passò davanti al campo di calcio oggetto di tante contese e rivendicazioni con i suoi rivali della prima Nankatsu, dove stavano giocando dei bambini che avevano la loro stessa età dell'epoca.

In parte li invidiava: a dieci anni era tutto più semplice, i turbamenti sentimentali erano al di là dal venire e lui era anche riuscito a tenerli lontani per più tempo rispetto a molti suoi coetanei.

Si era svegliato con in mente il bacio sfiorato la sera prima, tra lui ed Elena.

Il freddo, granitico Genzo Wakabayashi non aveva più saputo resistere, alla fine.

In quel momento c'era solo Elena davanti a sé, nella mente e nei sensi, aveva dimenticato completamente la sua situazione e ogni altro legame.

Sentiva ancora il suo profumo dolce e discreto, vedeva ancora gli occhi azzurri fissi nei suoi, per poi chiudersi mentre i loro visi si avvicinavano.

Era andato a correre non solo per sua abitudine quotidiana, ma anche per evitare di crogiolarsi troppo in quel pensiero.

 

Tornato a casa, si infilò sotto la doccia, con l'intenzione di dedicare la solita ora alla navigazione su Internet, controllando la casella di posta elettronica e leggendo le notizie delle varie testate giornalistiche.

Ma un fuori programma lo costrinse a rinunciare a quella consuetudine.

Dalle finestre della sua camera da letto vide infatti, il previsto arrivo di Hiroji, Annie e i bambini. Ciò che non aveva immaginato, era di vedere anche la Lexus della famiglia Ujimori percorrere il vialetto di ghiaia che dal lungo e pesante cancello conduceva alla villa. A scenderne però fu soltanto Asami.

Genzo lasciò la sua stanza alcuni minuti dopo, quando tutti erano riuniti nel salotto.

Non appena comparì, la sua ragazza si alzò e andò ad abbracciarlo, sotto gli occhi benevoli di Hiroji e quelli indecifrabili di Annie.

 

«Era da tanto tempo che non venivo qui.» disse Asami, seduta sul divano a dondolo del salotto all'aperto nel giardino di villa Wakabayashi, dove lei e Genzo si erano spostati dopo il pranzo.

Respirò l'aria salmastra proveniente dalla baia di Suruga, da cui la città di Nankatsu distava pochissimi chilometri.

La ragazza aveva sempre amato quella zona del Giappone, scenario di tante giornate felici della sua infanzia. Il Monte Fuji che a Tokyo le sembrava così lontano, era sempre sullo sfondo, a dominare un paesaggio che manteneva intatte molte delle sue caratteristiche naturali, non ancora fagocitate da selve di edifici e grattacieli.

Genzo era in piedi a pochi passi da lei. Contemplò, ammirata come sempre, la sua figura statuaria. Indossava dei pantaloni neri e la maglietta bianca si tendeva sopra le sue ampie spalle.

«Vieni a sederti qui.» lo invitò quasi sussurrando, sorridendogli con fare suadente.

Lui si voltò verso di lei. Fino a non molto tempo prima, quel tono di voce e quell'atteggiamento lo avrebbero attirato come il canto di una sirena.

Ma da un po' di tempo ormai non era più così.

Il pensiero di Elena si era fatto sempre più frequente e doveva fare grossi sforzi su sé stesso per non concedersi dei momenti in cui chiudere gli occhi e lasciare che l'immaginazione corresse a briglie sciolte.

La chiamata di Kozo Kira era arrivata provvidenziale. Il c.t. gli aveva comunicato la convocazione per l'ultima partita contro l'Australia e lui sarebbe partito l'indomani, per raggiungere il J-Village.

Era ormai completamente guarito dalla frattura allo zigomo, e la maschera protettiva era una sorta di precauzione di cui avrebbe fatto definitivamente a meno di lì a un paio di settimane.

Era da considerarsi un giocatore recuperato e idoneo a difendere i pali se ce ne fosse stato bisogno, ma Kira lo aveva chiamato soprattutto per essere di sostegno ai suoi compagni.

Il suo carisma, la sua forza di carattere, la sua voglia di vincere avrebbero trasmesso agli altri ragazzi la fiducia indispensabile a battere l'Australia.

Sapeva già quindi che avrebbe visto la gara dalla panchina, ma era felice di poter condividere quei giorni con i suoi compagni e di avere un'altra importante questione cui pensare.

Ciononostante, sorrise ad Asami di rimando e si sedette accanto a lei.

La ragazza sospirò di piacere e gli si accostò, posandogli la testa su una spalla e la mano sul petto, accarezzandolo piano con le sue dita sottili.

«Sai … mi ricordo ancora benissimo di quando venivo qui a passare le vacanze. Tu ti allenavi ogni pomeriggio con il signor Mikami e poi facevamo merenda insieme, seduti proprio lì.» disse, indicando il tavolo in legno bianco poco distante, attorniato da alcune sedie di vimini.

«Ricordo un giorno in cui eri arrabbiato perché eri stato sfidato da un ragazzino appena arrivato in città e Mikami dovette sgridarti per costringerti a interrompere l'allenamento.» aggiunse, non udendo una risposta da parte di Genzo.

«Già, Tsubasa … immagino tu sappia che si è sposato con Anego e aspettano un bambino.» replicò, infine.

«Anego? Ah, quel maschiaccio!» rise Asami.

Genzo annuì con un mezzo sorriso, ricordando la dirompente capotifosa delle elementari.

«Crescendo, è cambiata. È diventata molto femminile. E vuole essere chiamata Sanae, altrimenti si arrabbia.»

«Non l'ho più vista da allora. E non mi sono più interessata al calcio, dopo che sei partito per la Germania. Tranne che per le notizie che Mikami o Hiroji e i tuoi genitori ci portavano su di te.» gli confidò, alzando la testa e guardandolo con un sorriso, che lui ricambiò, di nuovo senza replicare.

Il suo bel viso assunse un'espressione perplessa «Oggi sei così taciturno … sei preoccupato per la partita?»

Scosse piano la testa «Lo ero di più prima, quando dovevamo sperare in un loro passo falso. Ora dipende da noi, anche se abbiamo il vincolo dei tre gol da segnare.»

«Vorrei tanto venire allo stadio, ma parto per Kyoto proprio domani.» disse, stringendosi nelle spalle.

«Per Kyoto?» chiese il ragazzo, aggrottando le sopracciglia.

«Sì, te ne avevo parlato una settimana fa, non ricordi? È un viaggio di alcuni giorni con compagni e professori d'università. Visiteremo monumenti, musei e biblioteche. Mi servirà per scrivere la mia tesi di laurea.» rispose, perplessa e un po' delusa.

Genzo assentì «Certo, ora ricordo. Scusami, è che sono settimane particolari.»

La ragazza fece un cenno di diniego «Non ti preoccupare. So quanto queste Olimpiadi siano importanti per te.»

Lui abbozzò un sorriso.

«In bocca al lupo, Genzo.» gli sussurrò, avvicinandosi e posandogli un bacio sulle labbra.

 

Genzo aprì la porta di casa e trovò davanti a sé proprio l'unica persona che mai si sarebbe aspettato di vedere in quel momento.

«Elena.» disse, l'espressione stupita e una scintilla negli occhi neri che le fece trattenere il fiato.

«Ciao Genzo.» rispose lei dal canto suo, gli occhi azzurri che lo guardavano leggermente spalancati.

Trasalì, fortunatamente senza darlo a vedere, quando vide Asami comparire dietro il ragazzo e fissarla con la stessa espressione di quando l'aveva incontrata nella stanza in cui era stato ricoverato.

La salutò facendo un inchino.

L'ereditiera ricambiò con un cenno del capo e un lieve sorriso.

«Ho appena riportato la giacca di tua madre.» disse poi a Genzo, volgendosi leggermente verso Hitomi che teneva tra le mani l'indumento perfettamente stirato e ripiegato.

Il ragazzo fece un cenno d'assenso e la ringraziò.

«Vado … le mie allieve mi aspettano in palestra.»

Genzo la salutò, voltandosi poi a guardarla mentre si avviava verso il cancello.

Asami lo osservò.

Sembrava essersi rianimato nei pochi minuti in cui aveva visto quella ragazza.

I suoi occhi erano più accesi e sembravano voler trattenere la sua immagine quanto più a lungo possibile.

Aveva alternato lo sguardo dall'uno all'altra durante quel breve dialogo e aveva visto una muta complicità che le aveva fatto avvertire un tuffo al cuore e un senso d'inquietudine.

 

Asami si congedò da villa Wakabayashi nel tardo pomeriggio, salutando con un breve abbraccio e un piccolo bacio Kenichi e Aiko, e dando poi una carezza su una guancia a Genzo.

Salita in auto, ordinò al suo autista di fermarsi davanti al complesso sportivo Shiroyama.

Una volta entrata, salutò cortesemente la segretaria, che rispose con un sorriso altrettanto cordiale.

«La signorina Rulli è qui?»

«Sì, sta facendo lezione.»

Asami la ringraziò e si diresse verso l’area in cui si tenevano gli allenamenti di ginnastica artistica.

Elena stava supervisionando e dando consigli e indicazioni alle giovanissime atlete, tutte impegnate nella preparazione alle Nazionali juniores, mostrando la postura da tenere durante gli esercizi e correggendo le imperfezioni dei movimenti.

Indossava dei pantaloncini e una canottiera come le ginnaste, i capelli legati in una coda.

Era bella, socievole, dal modo di fare deciso come avevano fama di essere le ragazze di origine tedesca.

Strinse le labbra e ripensò all’incontro tra lei e Genzo.

Doveva averla vista praticamente ogni giorno, quando si trovava a Nankatsu.

Si conoscevano abbastanza da chiamarsi per nome, cosa che, lo ricordava benissimo, non avevano fatto quel giorno all’ospedale.

Ma poi c’era stata quella notte che Genzo aveva ammesso di aver trascorso per intero allo Juntendo Hospital, quando lo zio di lei era stato ricoverato per trauma cerebrale.

Con lei …

Girò sui tacchi e si incamminò verso l’uscita del centro sportivo, per poi risalire sull'auto.

Il suo autista ripartì dopo averle lanciato un'occhiata attenta dallo specchietto retrovisore, che gli rimandò l'immagine di una ragazza dall'espressione turbata.

 

Era passata circa un’ora da quando Asami era andata via.

Dopo essere rimasto seduto sul divano a giocare alla PlayStation con Hiroji, Genzo si alzò e andò nella sua stanza per prendere una giacca.

Il mattino dopo avrebbe dovuto alzarsi presto per arrivare al J-Village in tempo.

Troppo presto … e lui doveva rivederla prima.

Mentre usciva dalla sua camera, Annie era sul corridoio e lo guardava, attenta.

«Genzo, hai finito di leggere quel romanzo?»

«No … mi mancano gli ultimi capitoli.»

«Sbrigati a leggerli. Lo dico per te, non per me.» gli disse, con un lampo esortativo nei suoi occhi verdi «E poi Genzo … se vuoi parlare, io sono sempre disposta ad ascoltarti.» aggiunse.

«Lo so. Grazie, Annie.»

La cognata gli strizzò un occhio e si diresse verso le scale.

Prima di partire per Naraha, avrebbe infilato nel suo trolley anche quel libro con la copertina dagli angoli un po' consunti che gli aveva prestato una settimana prima.

 

Elena alzò lo sguardo e vide Genzo sulla soglia della porta d'entrata della palestra e avvertì un nodo alla gola.

Aveva pensato spesso alla sera precedente e aveva reagito mettendo ancora più impegno nel suo lavoro di quanto non fosse già solita fare.

Mayuko era a Tokyo per via di un incontro con i vertici della Federazione giapponese di ginnastica artistica e aveva quindi avuto gioco facile nel far credere alle ragazze che ciò fosse dovuto alla necessità di ovviare all'assenza della sua datrice di lavoro.

Il ragazzo sembrava quasi aver pianificato con cura il momento in cui comparire, visto che avvenne durante una breve pausa concessa alle ragazze da pochi minuti.

Le fece un cenno di saluto con la mano, cui rispose di rimando.

Si avvicinò. Indossava una giacca sopra la maglietta e un paio di jeans scuri. Attirò, come al solito, gli sguardi ammirati delle allieve, cui si aggiunse presto la curiosità.

«Come mai qui?» gli chiese, notando che non aveva il consueto borsone con sé.

«Sono solo passato a salutarvi … domani parto presto. Torno al J-Village.»

Elena spalancò gli occhi, piacevolmente sorpresa.

«Giochi contro l'Australia?»

«No, andrò in panchina, pronto a entrare se ce ne sarà bisogno. Il titolare sarà ancora Morisaki e io mi fido di lui.»

«Sì, ha fatto molto bene nelle ultime due partite.»

«Come hai detto tu, la qualificazione è nuovamente nelle nostre mani.» le ricordò, sorridendo di sbieco.

«Già …» mormorò la giovane, visibilmente imbarazzata per l'allusione a quella sera e al gesto che aveva accompagnato quelle parole.

Tacquero per un momento. Elena sembrava aver assunto di nuovo un atteggiamento riservato. Genzo maledisse la sua incapacità di evitare quella provocazione.

«Ormai manca poco anche per voi.» le disse quindi, cercando di rimediare.

«Già … sono un po' emozionata.» ammise.

«Le ragazze si stanno allenando con impegno, e con due allenatrici come te e la signorina Shiroyama, questa squadra raggiungerà ottimi risultati. E io sarò allo Yoyogi Stadium a vedervi.» concluse, con un tono di voce più affettuoso.

«Grazie, Genzo.»

I suoi occhi si accesero e le labbra si distesero in un sorriso.

Era nuovamente riuscito a farle abbassare le difese … e proprio lì dove si sentiva pressoché invulnerabile.

Rimasero a guardarsi.

Come al solito, avvertivano la sensazione che altre parole aleggiassero in sospeso tra di loro, ma non riuscirono a dirsi nient'altro.

Inoltre c'erano le ragazze che li fissavano con fin troppo interesse.

«Buongiorno, Wakabayashi-san!» Arimi comparve dietro Elena, agile come un folletto.

«Ciao Arimi! Sei pronta?»

«Mi sto allenando come una matta tutti i giorni, da mesi.» rispose, con un sorriso fiero e le mani dietro la schiena.

«Allora ci vediamo allo Yoyogi Stadium. Fatevi valere.» rispose prima di salutarle, stando bene attento a rivolgere a Elena l'ultimo e il migliore dei suoi sorrisi, facendole mancare un battito, per l'ennesima volta.

 

«Che gentile Wakabayashi a venire a trovarci!» sorrise Mitsuyo.

«Io credo sia venuto soprattutto per la signorina Rulli.» insinuò Shinobu «Avete visto come la guarda?» chiese poi, abbassando la voce con occhi maliziosi.

«Se è così, beata lei!» sospirò Hanako.

«Ehi, ragazze! La pausa è finita. Le chiacchiere non fanno vincere medaglie!» gridò Elena battendo le mani con un'espressione temibile sul viso, inducendo le sue ginnaste a rimettersi immediatamente al lavoro.

L'unica che continuava a sorridere era Arimi, al pensiero che forse aveva agito, seppure inconsapevolmente, da Cupido.

 

Quando Elena uscì dalla palestra, i suoi pensieri tornarono nuovamente a Genzo.

Estrasse il cellulare dalla tasca dei jeans e selezionò il nominativo di Taro dalla rubrica.

Le rispose dopo un paio di squilli … fortunatamente non era impegnato con l'allenamento.

 

Il ragazzo stava scendendo le scale che portavano all'atrio dell'albergo quando il suo cellulare squillò.

Guardò con aria interrogativa il nome di Elena campeggiare sullo schermo, per poi accettare la chiamata.

«Ciao Elena. Dimmi.»

«Taro … dopo la partita ho bisogno di parlarti.» replicò.

«Hai bisogno … c'è qualche problema?»

«Sì. Cioè, non proprio … non so come definirlo. So solo che non è una cosa di cui discutere per telefono.» rispose un po' impacciata, pronunciando l'ultima frase con un po' di concitazione.

Taro corrugò le sopracciglia, sempre più perplesso «Va bene, Elena. Quando esco dallo stadio mi dirai tutto.» concesse infine, rassicurato dal fatto che non era successo nulla di preoccupante.

 

Dopo la cena, i ragazzi si radunarono davanti al televisore per vedere un film.

Genzo lo trovò noioso per i suoi gusti e lanciando un'occhiata a Misaki, constatò che il centrocampista doveva essere d'accordo con lui dal momento che smanettava sul suo smartphone senza mai alzare gli occhi sulle scene che si susseguivano sul largo schermo.

Si alzò così dal suo posto, gli scosse leggermente la spalla con una mano e gli bisbigliò qualcosa, in seguito al quale anche Taro si alzò e lo seguì fuori dall'albergo.

«Ti va di farmi qualche tiro?» gli chiese, ottenendo un cenno d'assenso dal centrocampista.

Si recarono nel campo di calcio pochi metri più avanti.

Accesero i riflettori e presero dei palloni, dopodiché Genzo si mise in porta.

Taro arrivò portando il pallone con il piede, lo posizionò e poi indietreggiò di alcuni passi. Dopo una breve rincorsa, calciò con forza, di sinistro.

Genzo si spostò con agilità e tolse il pallone dall'incrocio dei pali.

Il portiere aveva dovuto attendere prima di buttarsi, perché il tiro di Misaki era ad effetto.

«Bel tiro, Misaki.»

«Non ancora abbastanza da segnare contro di te, Wakabayashi.»

«Renderesti felice una ragazza di nostra conoscenza.» ironizzò il portiere, con apparente noncuranza.

«Non ne sono così sicuro.» replicò l'amico, con un sorriso sornione che gli fece alzare un sopracciglio.

Si sedettero sulla panchina.

«Con Asami? Tutto bene?»

Genzo strinse le labbra e abbozzò un sorriso.

«Dalla tua espressione, non sembrerebbe un sì.»

«Non mi sento più coinvolto come all'inizio della nostra storia.» ammise.

«È perché ti sei innamorato di un'altra ragazza di nostra conoscenza?» insinuò, ripetendo volutamente le parole usate poco prima dal portiere.

Genzo spalancò gli occhi, poi li chiuse, con un sorriso obliquo, come se ancora faticasse a credere che fosse capitato proprio a lui che fino a quel periodo aveva sempre avuto relazioni di scarsa importanza.

«L'ho notato da un po', sai.»

«È così evidente?»

«Sei un ragazzo generoso e ti fai in quattro per aiutare gli amici, ma certe tue attenzioni per Elena mi sembravano andare oltre il semplice desiderio di aiutarla. E quel pomeriggio a Miho …»

« … ti ha rivelato tutto.»

Taro sorrise. Genzo sospirò.

«È innegabilmente bella, ma non è solo questo. Con lei posso essere me stesso e parlare di qualsiasi argomento, ma soprattutto, mi sento attratto dal suo entusiasmo, dalla sua determinazione, dalla voglia di riuscire in quello che fa, dalla passione che mostra nell'insegnare ciò che sa alle sue allieve.» tacque per alcuni secondi. I suoi occhi si erano illuminati nell'elencare quelle qualità che tanto apprezzava nell'ex ginnasta. Era un'espressione che Taro non aveva mai visto nell'amico, pur conoscendolo da tanti anni.

«Asami è una ragazza intelligente, gentile, raffinata. Però è come … è come se vivesse soltanto nel suo mondo dorato e non volesse uscirne. Con lei frequento solo ristoranti alla moda, compagnie altolocate, discoteche in cui il prezzo dell'ingresso è così alto che alla fine ci si ritrova solo la jeunesse dorée giapponese. E io, forse perché sono un calciatore e mi sono trasferito in Germania da ragazzino, mi sento un estraneo in mezzo a quella gente, sebbene faccia parte del mio ceto sociale.» riprese, lo sguardo fattosi serio.

Taro annuì, mostrando di comprendere.

«E con Elena?»

«È reciproco, Misaki. La sera della partita contro il Vietnam, l'ho accompagnata a casa. Non sono riuscito a resistere e mi sono avvicinato per baciarla … e lei non si è tirata indietro.»

Taro lo guardò, aspettando che fosse lui a proseguire.

«Purtroppo, il cane del maestro Nerlinger ha abbaiato proprio mentre stava per succedere.» confidò, con una smorfia tra il contrariato e il divertito che fece ridere Taro.

«Lei continua a sentirsi in colpa per il suo ex fidanzato.» riprese, dopo il breve attimo di ilarità «Se cedesse, penserebbe che in fondo quello che le aveva detto era vero, che lei gli era rimasta accanto per compassione e non perché ne era innamorata. Teme di essere una persona meschina, invece è una ragazza splendida. Vorrei farglielo capire …» disse, con un tono di voce appassionato che Taro gli aveva sentito solo quando parlava dei traguardi da raggiungere nella sua carriera di calciatore. Un tono che tradiva anche sofferenza, data dalla sensazione di dover sconfiggere qualcosa di più potente di lui.

«Elena potrebbe anche essere trattenuta dalla tua relazione con Asami. Prima dovresti spiegare la situazione a quella che è ancora la tua ragazza, Wakabayashi. Poi sarai libero di dichiararti.»

Genzo strinse le labbra «Credevo che Asami potesse essere la donna giusta. La conosco da tanti anni ed era l'unica con cui potevo scambiare più delle solite frasi. Finché non ho cominciato a conoscere meglio Elena. E ora mi ritrovo in questa situazione … sarebbe bastato aspettare un po'. Vorrei evitare di farla soffrire.»

«Purtroppo è inevitabile.» replicò Taro, guardandolo con comprensione «Hai seguito i tuoi sentimenti, Wakabayashi. Proprio perché in quel periodo eri convinto che Asami fosse quella giusta, hai cominciato una storia che lei per prima ha voluto. E poi …» gli strizzò un occhio « … è una ragazza talmente bella e raffinata che nessuno oserebbe biasimarti per averle ceduto.»

Genzo abbozzò un sorriso. Taro riprese il filo del discorso.

«A me è successo con Azumi … avevamo iniziato una storia che è finita non appena io mi sono ripreso dall'infortunio e lei è andata all'università. Credo che siamo rimasti tutti un po' suggestionati dalla storia tra Tsubasa e Sanae. Anche Misugi e Matsuyama hanno trovato presto la donna della loro vita, e noi abbiamo cercato la nostra Sanae, Yayoi o Yoshiko nella ragazza che abbiamo avuto vicino da ragazzini. E così io mi sono infatuato di Azumi come tu di Asami. Per poi incontrare due donne che hanno scompaginato tutto.»

«Mi avevi detto che con Kinuyo è finita … »

«Non sto parlando di Kinuyo … cioè, sì, con lei ho vissuto una storia che è durata poco, ma è stata molto intensa. Avevo perso la testa per lei … ma ho finito per scottarmi.» emise un breve sospiro «In questi mesi ho conosciuto meglio una ragazza che è il suo opposto: ha un sogno e si sta impegnando con tutte le sue forze e tutto il suo talento per realizzarlo, a costo di litigare con suo padre. Non ha la malizia e le sottili arti seduttive di Kinuyo, ma mi ha colpito per la sua vivacità e il suo entusiasmo.»

«Stai parlando di Sugimoto?» chiese Genzo, dando voce a una sua intuizione.

Taro annuì.

Genzo fece un mezzo sorriso «È un bel peperino.» commentò, divertito «Hai già fatto la prima mossa?»

Taro scosse la testa con un leggero sorriso «Non ancora.»

«Beh, che aspetti?»

«Ho voluto frequentarla un po', prima. Chissà, forse temo di ricevere un'altra delusione come con Kinuyo. Voglio essere sicuro di interessarle sul serio.»

«Ti capisco, Misaki. Però bisogna rischiare. Non conosco molto Sugimoto, ma mi sembra una ragazza sincera. Non credo ti illuderà, né giocherà con i tuoi sentimenti.»

«Siamo in due allora, a dover rischiare.» disse, con un'occhiata significativa.

«Già … tra poche settimane Elena tornerà a casa, Misaki. Il pensiero che potrei non rivederla più mi tormenta. E passeranno altre settimane, forse mesi, prima che possa incontrarla di nuovo. Prima di allora … voglio essere sicuro che non uscirà dalla mia vita.» 

 

Il sole al tramonto tingeva il cielo di striature color pesca. Su Tokyo spirava una brezza calda, rendendo il clima molto simile a quello di un mese prima, a Sydney.

Il Giappone era chiamato a ribaltare quel risultato.

I tifosi giapponesi avevano gremito il National Stadium di Tokyo, trasformandolo in una bolgia come Kozo Kira li aveva esortati a fare nelle sue dichiarazioni in conferenza stampa.

Il c.t. aveva promesso di lasciare il mondo del calcio in caso di mancata qualificazione.

Memore del 3-1 subìto a Sydney contro una squadra che schierava tutti i giocatori tesserati per importanti club europei, aveva contattato Tsubasa Oozora e Kojiro Hyuga, per richiedere la loro disponibilità a tornare in Nazionale per la partita contro l'Australia, cedendo alle pressioni dei mass media e dell'opinione pubblica e venendo meno al suo stesso proposito, ma incontrando il rifiuto dei due campioni.

Tsubasa e Kojiro avevano rigettato la convocazione di Kira, riponendo piena fiducia nei compagni che fin lì avevano disputato il torneo.

Affidavano le sorti della Nazionale Under 23 ai giocatori che l'avevano portata a quello che era a tutti gli effetti uno spareggio.

Avevano saputo riprendere il destino nelle loro mani nelle gare precedenti, potevano farcela a battere gli australiani con tre gol di scarto.

Elena si sentiva tesa, ma nello stesso tempo avvertiva un senso di malinconia, di precoce nostalgia.

Era l'ultima partita della Nazionale che avrebbe visto, almeno in Giappone.

Aveva seguito il percorso di quei ragazzi, con alcuni dei quali aveva stretto un rapporto d'amicizia, con coinvolgimento e passione. E ora voleva vederli conquistare la qualificazione.

Prese posto tra Yukari e Kumi, che quella sera aveva accanto a sé Madoka, ormai stabilitasi nella capitale per motivi di studio, che rimase inizialmente stupita e delusa per la mancata presenza in campo di Shun, lasciato in panchina da Kira.

Non poteva credere che, proprio la sera in cui il Giappone doveva vincere con tre gol di scarto, il c.t. avesse rinunciato a schierare fin dal primo minuto proprio l'attaccante che aveva segnato in quasi tutte le partite fin lì disputate.

 

«Misaki, lei c'è?»

Taro guardò verso gli spalti, approfittandone per cercare un'altra presenza che gli premeva vedere. Individuò entrambe e alzò una mano in segno di saluto.

«Sì, Wakabayashi.»

Genzo annuì e andò a sedersi in panchina, tra Takasugi e Wakashimazu.

 

Il calcio d'inizio venne assegnato all'Australia.

I giocatori della squadra ospite stavano semplicemente passandosi il pallone, con tutta calma, prendendo tempo. L'obiettivo era preservare le energie per il secondo tempo e prevalere così sugli avversari, innervosendoli nel frattempo con una avvilente melina.

Elena strinse le labbra. Sapeva bene chi era Giis Coleman: un allenatore molto celebre in Europa, un olandese giramondo, una vecchia volpe.

La strategia stava dando i suoi frutti. I giocatori nipponici sembravano essere caduti nella trappola.

Ma il selezionatore dell'Australia non aveva fatto i conti con la sagacia di Kozo Kira e con lo straordinario spirito di sacrificio dei gemelli Tachibana, che con la collaborazione di un lancio alto e preciso da parte di Misaki, permisero al Giappone di passare in vantaggio.

Lo sforzo impiegato nell'esecuzione della loro ultima "catapulta infernale" li costrinsero a uscire dal campo in barella, sofferenti ma fieri e orgogliosi del proposito raggiunto.

Il Giappone era in vantaggio, a pochi minuti dall'inizio della partita.

Nitta e Wakashimazu entrarono al loro posto.

Madoka, che si era da poco seduta, schizzò nuovamente in piedi, fremente d'entusiasmo.

 

Taro ritornò di corsa a centrocampo, con il pallone sotto il braccio.

Voleva che il gioco riprendesse il più rapidamente possibile, perché mancavano altri due gol da segnare, che in una partita del genere erano tantissimi; la difesa dei Socceroos, composta da calciatori alti e prestanti, era difficile da superare ed era indispensabile siglare il secondo gol entro la mezz'ora.

In caso contrario, il sacrificio dei Tachibana sarebbe stato inutile.

I giocatori australiani ricevettero da Coleman l'ordine di giocare in modo più aggressivo, per contrastare il rinnovato vigore giapponese.

Ishizaki passò a Misaki, che si era portato sulla fascia destra dopo aver scambiato la posizione con Misugi.

Avanzò, saltando due difensori australiani con un salto poderoso, mantenendo il pallone incollato al piede.

Si mise in posizione di tiro. Il possente difensore Alo Phard cercò di fermarlo opponendogli tutto il corpo, ma Taro lo saltò trattenendo il pallone tra i piedi e lo lanciò di tacco verso Wakashimazu, che stava correndo verso la porta, seguito da Nitta.

Affrontato da due difensori alti e robusti quanto lui, Ken tirò in rovesciata verso Shun.

L'attaccante eseguì un hayabusa shoot  di una potenza inaudita, che si infilò in rete con un Malic rimasto immobile, senza nemmeno aver visto la palla.

Madoka saltò in piedi e si mise a saltare coinvolgendo Kumi nella sua gioia sfrenata.

«È quello … è il tiro che ha preparato insieme a Wakashimazu quando sono andati sui Monti Hida!» spiegò con voce ansante, dopo essersi ricomposta a fatica.

Elena e Yukari batterono le mani, guardandosi divertite.

 

Dopo che un potente rasoterra di Matsuyama era finito fuori sfiorando l'esterno della porta, il portiere australiano riuscì a parare il kamisori shoot di Soda e a togliere dall'incrocio dei pali il flying drive shoot di Misugi.

Subito dopo arrivò il duplice fischio dell'arbitro, che consentì ai Socceroos di tornare negli spogliatoi senza subire il terzo gol.

Kira lasciò la panchina estremamente fiducioso per il secondo tempo: era certo che il Giappone avrebbe segnato il gol della vittoria, quello che l'avrebbe portato alle Olimpiadi.

I tifosi sugli spalti, non erano da meno. L'euforia aleggiava in tutta la larga frangia dei supporter nipponici, che pregustavano la gioia della qualificazione, come se fosse stata soltanto questione di tempo.

«Siamo già avanti di due gol! Dai che ce la facciamo!» gongolò Manabu.

«Attenzione però … se segnano un gol tocca farne uno in più.» avvertì Nishio.

«Non fare il gufo!» lo riprese Iwami «Hai visto che facce avevano i nostri avversari mentre si avviavano fuori dal campo?»

«Io ho visto quella di Coleman ed era sorridente. Quello è un volpone, sono sicuro che caricherà i suoi giocatori a dovere.» replicò l'ex difensore della Ootomo.

Elena dovette concordare con quest'ultimo. Certo, aver già segnato due gol era sicuramente un ottimo viatico per il prosieguo della gara.

Taro era stato decisivo in entrambe le reti, con i suoi assist.

La sua presenza era stata fondamentale in tutto il torneo … sarebbe stato bello se avesse segnato lui il gol risolutivo.

Ma un'Australia che schierava tutti i giocatori militanti in prestigiose squadre europee e quindi mettendo in campo tutto il suo potenziale, avrebbe certamente fatto di tutto per non essere battuta da un Giappone che aveva rinunciato ai suoi campioni impegnati in Europa.

 

Alla mezz'ora del secondo tempo, la qualificazione tornò in bilico.

Taro tentò un'iniziativa personale, cercando con un salto di evitare l'intervento in contemporanea di due avversari, ma uno di questi, il centrocampista Shooker, lo colpì con i tacchetti sulla caviglia destra e si impossessò del pallone.

Il numero undici cadde a terra con uno strido di dolore, tenendosi la gamba ferita.

L'arbitro lasciò proseguire l'azione, lasciando esterrefatti i giocatori giapponesi che per un momento rimasero inerti, permettendo così al forte australiano di avanzare e ingannare i difensori fingendo un tiro che trasformò in un passaggio di tacco a Konwell.

Il tiro di quest'ultimo venne deviato in rete dall'inserimento di Duviga.

I giocatori giapponesi contestarono inutilmente la decisione dell'arbitro, che non aveva ritenuto falloso l'intervento del difensore australiano.

Mancava un quarto d'ora … e i gol da segnare erano diventati due, contro una squadra che aveva ripreso coraggio.

 

Misaki infortunato, uscì dal campo per ricevere le cure mediche.

«Non hai nessuna distorsione, Misaki. Mi basterà farti una fasciatura.» gli disse il giovane infermiere dello staff medico, dopo avergli tastato la caviglia.

«Bene … ma per favore, fai in fretta!» lo esortò, con un tono quasi aggressivo che solitamente non gli apparteneva, ma la qualificazione stava ora sfuggendo di mano, e lui non era in campo a combattere con i suoi compagni.

 

Genzo tremò dalla rabbia. I suoi compagni si stavano demoralizzando, dopo aver incassato il gol dell'Australia.

Ma mancava ancora un quarto d'ora… dovevano segnare due gol invece di uno.

Quindici minuti… due gol. Non poteva accettare che finisse così, senza nemmeno lottare e sputare sangue se necessario, fino all'ultimo secondo!

Scattò in piedi, fino a ritrovarsi poco dietro la linea di bordocampo.

 

Elena trattenne il fiato.

Un ragazzo con la tuta bianca e blu della Nazionale e un berretto bianco in testa era spuntato da sotto la tettoia della panchina.

Genzo era in piedi, poco dietro la linea di bordocampo e stava suonando la carica ai dieci ragazzi rimasti sul rettangolo di gioco.

«Morisaki, reagisci! Tocca a te incoraggiare i tuoi compagni! Ragazzi, non arrendetevi! La vera partita comincia ora, ORA!» gridò, i pugni stretti e le gambe divaricate, il berretto bianco calcato in testa.

Quelle frasi carpite da quella striscia di campo ebbero in lei l'effetto di una scarica di adrenalina.

Serrò i pugni e si voltò verso gli altri supporter.

«Genzo ha ragione, ragazzi! È in momenti come questo che dobbiamo farci sentire di più e tifare per i nostri ragazzi, fino a perdere la voce!» gridò, incurante di aver chiamato il portiere per nome davanti a tutti, i pugni ancora più stretti e incassando un ulteriore grido di approvazione, per poi riprendere a incitare la Nazionale Under 23 con una foga ancora maggiore.

 

Gli incitamenti di Wakabayashi sembrarono sortire il loro effetto su Morisaki, che compì una parata difficile su un tiro di Shooker.

Il pallone rotolò oltre la linea, permettendo a Taro, di nuovo in piedi dopo la medicazione, di riprendere la gara.

Il centrocampista rientrò in campo con fiducia ed energia rinnovate.

Superò almeno metà squadra avversaria con una stupenda serie di dribbling e finte, per poi lanciare verso Igawa, che con la coda dell'occhio aveva visto correre lungo la fascia, spiazzando così i due difensori in stretta marcatura su Wakashimazu e Nitta.

Il difensore segnò in tuffo, di testa il gol del 3-1, riscattando definitivamente l'espulsione subita a Sydney.

Mancavano sette minuti … la speranza era tornata tra i tifosi giapponesi, ancora più forte.

E Il National Stadium tornò a essere una bolgia.

Coleman cambiò modulo e schema di gioco e rinforzò la difesa, lasciando Duviga in avanti come unica punta e assegnando a Macbeth la marcatura su Misaki.

Kira rispose alla mossa del collega sostituendo Sawada con Mitsuru Sano, per avere una nuova fonte di gioco.

Il fantasista venne bloccato subito dai giocatori australiani che diedero vita a un contropiede cui Ishizaki impedì la rete del 3-2 che avrebbe stroncato il loro sogno.

Di nuovo in possesso del pallone, Sano attirò su di sé tre avversari, stordendoli con i suoi dribbling. Poi passò a Misaki, che a sua volta lanciò verso Nitta.

Il tiro dell'attaccante del Reysol Kashiwa venne respinto con il petto da un difensore, ma la sfera tornò verso Misaki, che saltò per evitare l'intervento del portiere ed eseguì una splendida rovesciata, segnando il gol del 4-1.

Kumi e Madoka si abbracciarono così forte da rischiare di stritolarsi a vicenda, ma tutti erano troppo stravolti dalla gioia e impegnati a saltare, urlare e a sventolare bandiere per farci caso.

Il Giappone difese con fermezza e tenacia il risultato per i minuti restanti e a nulla valsero gli strenui tentativi della selezione australiana.

Coleman riconobbe la sconfitta e il valore dell'avversario e si complimentò con il suo collega, esortando la sua squadra a vincere una medaglia.

I giocatori giapponesi festeggiarono inondandosi a vicenda con bottiglie d'acqua.

Jito, sceso in campo dalla tribuna con la piccola Lisa Igawa, e Wakashimazu afferrarono il loro c.t. e con l'aiuto degli altri ragazzi lo sollevarono e lo lanciarono più volte in aria, tra grida di esultanza e risate.

Poi corsero tutti sotto la curva giapponese, formando una linea quanto più larga possibile.

Madoka, Kumi, Elena e Yukari batterono le mani felici, ognuna con lo sguardo rivolto verso un giocatore in particolare, tra legami già ufficiali e altri che attendevano la svolta che ne avrebbe sancito la nascita.

 

«E così pur tra mille peripezie ragazzi, alla fine ce l'abbiamo fatta!» gridò euforico Makoto Soda, accolto dal boato dei suoi compagni.

La Nazionale Under 23 al completo stava festeggiando la qualificazione in una rinomata pasticceria del quartiere di Shibuya, con una torta gigantesca e fiumi di bevande assortite.

Kira non era con loro, ligio più che mai alla sua parola d'ordine "Astinenza" e aveva preferito una più tranquilla cena con Tatsuo Mikami, Munemasa Katagiri, Minato Gamo e gli altri membri del suo staff.

Elena mise una mano su un braccio di Taro e gli lanciò un'occhiata significativa.

Il centrocampista annuì e si diresse con lei verso l'uscita del ristorante, seguiti dai mormorii maliziosi di alcuni tra i ragazzi.

La scena non era sfuggita né a Genzo né a Kumi, che li avevano cercati con gli occhi per tutto il tempo.

Kumi non seppe cosa pensare. Genzo era perplesso.

Entrambi non riuscirono a trascorrere quella serata di festa con la spensieratezza immaginata e voluta.

 

Si sedettero nell'unico tavolo rimasto libero nella gelateria, da poco inaugurata, che si trovava a pochi metri dalla pasticceria.

Elena ordinò un'enorme coppa di gelato alla panna e frutti di bosco, Taro fece altrettanto con crema pasticcera e cioccolato.

«Hanno messo anche le amarene … mi fanno impazzire.» commentò entusiasta l'insegnante quando il gelato fu finalmente davanti a lei, prima di tuffare il cucchiaio e gustarne il primo boccone.

Taro sorrise e la imitò, poi decise di entrare in argomento.

«Allora, di cosa devi parlarmi?»

Esitò un attimo, indecisa su come cominciare, poi scelse di lasciar perdere i preamboli.

«Si tratta di Genzo.»

Taro annuì una volta, con un leggero sorriso.

«Ti sei innamorata di lui.»

Elena per poco non si strozzò con la panna, provocando una leggera risata nell'amico.

«La metti già in questi termini?» chiese, il viso paonazzo e la voce indispettita.

«E che altro dovrei dire?» ribatté lui tranquillamente.

La ragazza strinse le labbra e volse gli occhi verso il basso «Io non so cosa provo per lui.»

«Ho guardato la partita contro il Vietnam a casa sua. Mi ha invitata a cena, con noi c'erano anche il signor Mikami e il signor Hoffmann. Alla fine della serata, mi ha accompagnata a casa e …» emise un leggero sospiro «… stavamo per baciarci. Ma Wilhelm ha abbaiato e ha interrotto tutto.» disse, divertita suo malgrado.

Taro ridacchiò, ricordando quello stesso episodio raccontatogli da Genzo la sera prima.

«Lì per lì mi ha dato fastidio.» ammise «Poi, a mente fredda, ho pensato che è stato meglio così, avevo ceduto a un momento di debolezza di cui poi mi sarei pentita. Ma quattro giorni fa l'ho rivisto in palestra e … ormai succede sempre così, con lui. Sento il cuore battere più forte, vederlo mi rende felice.»

«Vedi che non sono lontano dalla verità.»

Elena abbassò gli occhi e fece un lieve sorriso «Lui mi piace, Taro. È affascinante, sicuro di sé, determinato … e generoso. Ma … non è passato neppure un anno e io mi sento già attratta da un altro uomo. Mi sembra una cosa … sbagliata, ecco.»

«Diventare una persona arida e incapace di amare è sbagliato, Elena.»

Lei lo guardò, stringendo le labbra.

«Ho anche un altro dubbio … il suo procuratore gli ha detto che ha sempre ottimi gusti in fatto di donne, come a dire che ne ha avute tante a scaldargli il letto. Io non voglio allungare la sua lista.»

«Wakabayashi non ti tratterebbe mai come un trofeo di caccia. Ha stima e rispetto per te, non sta giocando con i tuoi sentimenti. Posso garantire su questo.»

Elena gli rivolse un'espressione scettica. «Passo parte delle mie vacanze in Germania e mi è capitato ogni tanto di sfogliare qualche rivista di gossip … ho trovato spesso fotografie di Genzo in compagnia di una bella ragazza, mai la stessa. Titoli tipo "Lo charme giapponese del SGGK fa un'altra vittima" e commenti come "Ad appena vent'anni il SGGK vanta già un curriculum anche sentimentale di tutto rispetto" e così via. Non è che succederà anche con me? Dopo pochi mesi potrebbe conoscere una ragazza che lo attrarrà di più e lui mi metterà da parte.»

«Allora non ti limitavi a guardare le foto, li leggevi anche gli articoli su Wakabayashi.» la punzecchiò, e lei per tutta risposta scosse la testa sorridendo.

«Comunque quelli erano dei flirt, Elena. Ragazze più che disponibili, conosciute e frequentate nello spazio di poche settimane che poi si vantano di essere state a letto con il grande portiere. Wakabayashi si è innamorato di te proprio perché ti ha conosciuta e ha capito che non sei come quelle.»

«Davvero pensi che sia addirittura innamorato?»

Taro la guardò divertito. Aveva sgranato gli occhi, come se faticasse a rendersi conto di ciò che era avvenuto in quei mesi … qualcosa che lei avrebbe certamente escluso nei suoi primi mesi di permanenza in Giappone.

«Di certo è molto preso da te. Non l'ho mai visto così.»

«E come spieghi il fatto che stava per baciarmi, pur essendo legato a un'altra donna? Questo denota la sua incostanza!»

A quel punto, Taro fu costretto a rivelarle la conversazione avuta con il portiere al J-Village. E ciò che Genzo aveva detto di lei, l'ammissione dei suoi sentimenti e quando si era reso conto di provarli.

Elena avvertì una morsa stringerle il petto sempre più, man mano che Taro le riferiva quanto confidatogli dall'amico, al punto che smise di mangiare. La parte finale del gelato si era sciolta e ora, nella sua coppa, era rimasta soltanto una crema bianca striata da rivoli di sciroppo rosso.

Non poteva credere che Genzo avesse parlato di lei in termini così appassionati.

Si sentiva orgogliosa di aver suscitato in lui un sentimento tanto fervido, ma nel contempo era sempre più confusa e combattuta, tra il desiderio di ricambiarlo e la difficoltà di andare oltre i suoi sensi di colpa.

«Taro … non so, forse sto sbagliando, ma io ancora non riesco a non pensare a Gianluca e a quello che gli è accaduto. Non riesco a sentirmi in pace con la mia coscienza, è più forte di me. E comunque Genzo è ancora fidanzato con la Ujimori. Pochi giorni fa lei era a Nankatsu. Li ho visti insieme.»

Il ragazzo fece un lieve cenno del capo. Sarebbe stato facile dirle che innamorarsi di Wakabayashi o di qualcun altro non l'avrebbe certo resa una persona di poco valore, ma l'esperienza che Elena aveva vissuto era stata talmente traumatica che era impossibile giudicare senza averne sperimentato gli effetti sulla propria pelle.

Inoltre era comprensibile da parte sua l'intenzione di non accettare le attenzioni del portiere che evidentemente faticava a troncare la sua relazione, finché non sarebbe stato libero.

«Aspetterò. Tornata in Italia, starò per un po' di tempo senza vedere Genzo, e allora vedremo se la mia è solo un'infatuazione o se è qualcosa di più importante.»

Quella decisione non avrebbe fatto piacere al suo amico, ma Taro non riusciva a criticarla, nonostante il dubbio che Elena, con la scusa di voler fare chiarezza nel suo cuore, stesse in realtà cercando di fuggire dai suoi sentimenti.

 

Fecero ritorno al locale con aria rilassata e divertita.

«Ah, rieccovi! Dove vi eravate nascosti?» li accolse Taki, con un bicchiere di sake in una mano e una fetta di torta nell'altra.

«Siamo andati nella gelateria qui vicino. Ne avevamo sentito parlare bene ed eravamo curiosi.» replicò prontamente Taro.

«E ne avete approfittato per un romantico tête à tête.» insinuò Ryo con aria maliziosa.

«Hai poca fantasia, Ishizaki.» lo liquidò Elena.

«Beh, siete sgattaiolati via quasi subito, quasi prima che iniziassimo a festeggiare!» insistette il difensore.

Elena alzò gli occhi al cielo, seccata.

Sentiva gli occhi di Genzo su di sé, ma evitò di incrociarli.

Ignorando la parte di torta rimasta sul grande tavolo, si diresse verso il bagno.

 

Chiuse il rubinetto e schiacciò il grosso pulsante dell'erogatore di aria calda, stendendo poi le mani sotto il diffusore.

Si sentì picchiettare sulla spalla e quando si voltò, si ritrovò davanti Kumi che la fissava, seria.

«Elena, devo chiederti una cosa.» le disse, rispondendo alla sua occhiata interrogativa.

«Tu e Misaki … che rapporto vi lega veramente?»

L'italiana aggrottò le sopracciglia, invitando l'amica a spiegarsi meglio.

«Io e Madoka ti abbiamo vista tornare a casa con Wakabayashi, la sera della partita con il Vietnam.» continuò l'ex manager, senza badare all'espressione sempre più stranita dell'amica «Abbiamo anche visto che stavate per baciarvi. Ma stasera sei uscita con Misaki, mentre il resto della squadra festeggiava la qualificazione … non puoi giocare con i sentimenti di due ragazzi.»

Elena sgranò gli occhi, poi sorrise e scosse la testa, desiderosa di chiarire subito quell'equivoco.

«Taro è un mio caro amico … gli ho chiesto come mi devo comportare con Genzo.»

Kumi sentì la tensione in mezzo al petto abbandonarla.

«Sei innamorata di Wakabayashi?» le chiese, con spontaneità.

«Non lo so. Mi piace molto, questo sì. Ma tu, perché ci tenevi tanto a sapere di me e Taro? Non sarà che …»

Kumi abbassò la testa con un lieve sorriso, un po' impacciata.

«Sì, ho una cotta per Misaki. Da qualche mese, ormai. Ma poi sei arrivata tu e ho visto che avevate molta confidenza, e ho voluto capire cosa ci fosse esattamente tra voi …»

«Quindi tu, per tutto questo tempo …» replicò Elena, stupita di come tante cose le fossero sfuggite e nel rendersi conto di come in quei mesi si fosse concentrata quasi esclusivamente su sé stessa.

Scosse la testa, con uno sguardo rassicurante «No, siamo soltanto buoni amici. E lui conosce da tempo sia me sia Genzo, quindi era il più adatto a darmi un consiglio.»

«Bene. Quindi ora posso confessargli i miei sentimenti … sai, io sono convinta che quando una persona ti piace, l'unica cosa da fare è dirglielo.»

«Hai ragione, Kumi. Mi piacerebbe vedere Taro con una ragazza come te, credo che potreste stare bene insieme.»

Elena le sorrise ancora, con affetto.

Sì, a ripensarci, c'erano stati dei particolari rivelatori. L'entusiasmo più accentuato quando a segnare era il numero undici, lo scambio di sguardi quella sera a Sydney, dopo la tentata violenza di quel mascalzone … che tradivano qualcosa di più della naturale predisposizione di Taro a preoccuparsi per gli altri e ad aiutarli.

Lì per lì non ci aveva fatto molto caso, concentrata com'era sul suo lavoro alla palestra, sulla necessità di tenere a bada i ricordi, la sua stessa mancanza d'interesse per la possibilità di innamorarsi di nuovo … anzi, non l'aveva minimamente considerata. Finché non aveva cominciato a conoscere meglio Genzo.

Lui era stato la sorpresa, l’imprevisto, la variabile impazzita. Per lui, era successo ciò che lei dava per scontato non sarebbe più potuto avvenire.

«E tu, dirai a Wakabayashi quello che provi?» la voce di Kumi interruppe le sue congetture.

Elena alzò le spalle, dubbiosa «La nostra situazione non è così semplice. Lui è ancora impegnato … e io non mi sento pronta per avere una nuova storia.»

Kumi increspò le labbra «Rischiate di perdervi, così. Tu gli piaci sul serio, Elena. Dopo averti vista uscire con Misaki, è stato di pessimo umore per tutta la sera. Era accigliato e ha parlato pochissimo.»

L'italiana avvertì l'ennesima stretta al cuore. Ma rimaneva sempre un fatto incontrovertibile …

«Lui ancora non lascia la sua ragazza.»

«Se ti vuole davvero, lo farà. E tu … amare qualcuno non può essere una colpa. Non rinunciarci.»

  

 

 

 

 

 

 Un saluto a chi è su questa pagina!

Questo capitolo è un po' di transizione, con più dialoghi e introspezione psicologica che azione e fa da preludio al prossimo, in cui tutti i protagonisti della storia saranno chiamati ad affrontare i loro sentimenti.

Grazie a tutti coloro che stanno seguendo le vicende di Genzo, Taro, Elena e Kumi! :-*

Sandie

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Capitolo 17
*** Capitolo XVII - Una felicità incompleta ***


 

Capitolo XVII

 

Una felicità incompleta

 

 

 

Elena guardava la pioggia cadere rapida e copiosa dal cielo di Tokyo.

Le gocce avevano ormai bagnato completamente i vetri delle finestre e ogni tanto i lampi illuminavano il cielo, seguiti da tuoni fragorosi, in quella che sembrava un’anticipazione della stagione delle piogge.

La passeggiata programmata per il pomeriggio nei quartieri di Ginza e Akihabara era saltata.

Lei, Mayuko e Satoru Tanisaka erano arrivati nella capitale giapponese tre giorni prima, insieme alle cinque allieve che avrebbero partecipato alle Nazionali juniores.

Erano riusciti a prenotare alcune stanze in un albergo non lontano dallo Yoyogi Stadium, dove si sarebbe svolta la competizione.

Le ragazze si erano sedute sul divano del salotto e sbuffavano annoiate, cercando di ingannare il tempo ascoltando musica dai loro iPod o facendo giochi di cui presto si stancavano.

Elena andò nella sua stanza. Frugò brevemente nel suo piccolo trolley, per tirarne fuori una custodia colorata contenente il dvd con l’edizione giapponese di “Stick It”, acquistato in un centro commerciale della capitale, in uno dei suoi recenti viaggi.

Aveva fatto bene a portarlo con sé: era certa che prima o poi le sarebbe stato utile.

«Ragazze, forse ho trovato il modo di rimediare. Non sarà come visitare il centro di Tokyo, ma con me e le mie compagne ha sempre funzionato.» annunciò al suo ritorno.

Inserì il dvd nell'apposito lettore.

In breve la sala si riempì dapprima dei commenti incuriositi e poi delle risate delle giovanissime atlete, ravvivando un pomeriggio altrimenti tedioso.

 

«Signorina Rulli, la signorina Ujimori Asami la sta aspettando nella hall.» la avvertì l'addetto alla reception dell'albergo.

«Ujimori Asami?» replicò, con uno sguardo stupito.

«Sì, ha chiesto espressamente di lei.» rispose l'uomo, stringendosi nelle spalle.

Elena mantenne un'espressione perplessa, ma poi si rese conto che c'era un solo motivo per cui Asami volesse parlare con lei. «Va bene, le dica che arriverò a momenti.»

Andò nel bagno a darsi una breve sistemata ai capelli, poi si diresse verso la hall, tra gli sguardi curiosi delle ragazze e anche di Mayuko.

Era ormai tardo pomeriggio, e il sole era tornato a dominare il cielo dopo il temporale.

La vide accanto a una parete della grande sala, intenta a osservare i quadri che vi erano appesi.

Indossava una maglia azzurra e una corta gonna bianca, a sottolineare le gambe perfette.

Si voltò proprio nel momento in cui Elena arrivò dietro di lei. Doveva averlo fatto alcune volte, da quando il receptionist era andato a chiamarla.

Dopo aver scambiato i convenevoli, Elena invitò Asami a sedersi sulle poltrone lì accanto.

La giovane ereditiera fece un cenno di diniego.

«Non starò qui per molto.» la scrutava con un'espressione gelida che le provocò un senso di disagio, che tuttavia si sforzò di non dare a vedere. Sostenne lo sguardo e attese ciò che la giovane ereditiera aveva da dirle.

«Non farti illusioni su Genzo. Ci sarò anch'io con lui, a vedere la gara delle tue allieve. Mi ha invitata.» precisò, con un sorriso «Tra noi c'è un legame solido e di lunga data, che solo a causa della lontananza non si è trasformato prima in qualcosa di più profondo. E non potrà certo venire spezzato da una ragazzina spuntata dal nulla.»

I suoi occhi neri sembravano mandare lampi, il suo tono di voce era freddo e risoluto.

Elena continuava a sentirsi infastidita, ma fu altrettanto ostinata a non abbassare lo sguardo.

Se pensava di umiliarla facendole pesare la condizione sociale inferiore alla sua, si sbagliava di grosso. Per fortuna nella sua famiglia le avevano insegnato a non vergognarsi mai né di sé stessa né delle sue origini.

«Non accetto di essere definita "una che spunta dal nulla" solo perché non sono figlia di un ricco industriale. Il denaro me lo sto guadagnando con il lavoro e non cercando di sedurre un ricco rampollo, come evidentemente insinui.» replicò, con fermezza.

«Allora Genzo non ti interessa?» chiese l'altra, lì per lì colpita dalla reazione della ragazza italiana ma abile a mantenere un'espressione imperturbabile.

Fu il turno di Elena di subire il colpo ma rimediare con altrettanta prontezza «Cosa ti fa pensare che io abbia delle mire su di lui?»

Asami fece un altro sorriso, come se ritenesse ovvia la risposta «Sai, Genzo è un personaggio pubblico, un calciatore famoso in Giappone ma soprattutto in Europa. E naturalmente è uno degli eredi di una famiglia tra le più importanti del Paese. So che siete diventati amici in questi mesi e io non ho nulla in contrario, ma non aspettarti nulla di più.» la scrutò, cercando di cogliere segni dell'effetto delle sue parole «Lo conosco da molto più tempo di te e lo amo sul serio, è l'uomo con cui voglio sposarmi e creare una famiglia.»

«Se anche Genzo la pensa così, non hai nulla da temere.» ribatté Elena, con un sorriso sereno.

Ma Asami notò che gli occhi della sua rivale erano più lucidi.

Allora non era stata una sua impressione … provava davvero qualcosa per Genzo, anche se doveva ammettere che stava cercando di dissimulare in maniera quasi ammirevole.

Doveva affondare il colpo di grazia.

Chiuse gli occhi e scosse la testa con un sorriso di scherno, come se avesse di fronte a sé una bambina che si era appena resa conto che il mondo reale non è come quello raccontato nelle fiabe.

«Dopo la gara, andremo a cena e magari brinderemo anche alla tua vittoria. E poi concluderemo la serata nel mio appartamento, come sempre.» la informò con un sorriso beffardo, per poi avviarsi verso l'uscita dell'albergo.

Si voltò brevemente prima di uscire e vide Elena di spalle, ancora lì ferma.

 

Avvertì la sensazione di una lama gelida e affilata perforarle il cuore.

In fondo era vero, Asami conosceva Genzo da tanto tempo e lei da soli cinque mesi.

Con Asami aveva una relazione stabile, mentre con lei non erano mai andati al di là di un bacio sfiorato in un'atmosfera particolare. Un bacio di cui aveva forse rischiato di pentirsi.

E allora perché quelle parole la ferivano così tanto?

 

«Signorina Rulli, cosa voleva quella donna?» chiese Shinobu, la più curiosa del gruppo, non appena vide la sua insegnante tornare nel salotto.

Elena scosse la testa con un sorriso, cercando di ignorare il nodo che le stava serrando progressivamente la gola, ma si affrettò a guadagnare le scale.

«Vado a fare una doccia, tra non molto sarà ora di cena.»

 

Chiusa la porta dietro di sé vi si appoggiò, reclinando la testa.

Sentì le lacrime scendere lente dai suoi occhi e rigarle il viso.

Strinse le labbra, avvertendone comunque il sapore amaro.

Era stato l'atteggiamento di sufficienza da parte di Asami o sapere che Genzo nonostante tutto, la amava ancora?

Tutti quei gesti … quelle premure … il suo modo di guardarla, il calore con cui le aveva stretto la mano in ospedale e quel bacio quasi avvenuto davanti a casa di suo zio.

Possibile che avesse sempre finto?

E Taro … poteva averle mentito?

Le sembrava assurdo.

Non poteva credere che Genzo e Taro si fossero presi gioco di lei. Di certo non il suo vecchio amico.

Eppure i giorni seguenti alla partita sembravano confermare le parole di Asami.

Aveva visto Genzo un paio di volte e sempre in palestra, ma si erano scambiati poche frasi irrilevanti, come se il loro bacio sfiorato e l’incontro del giorno dopo, con sguardi carichi di sottintesi, non fossero esistiti.

Le loro conversazioni somigliavano a quelle avute all'inizio della loro conoscenza.

Lo osservava mentre faceva gli sparring, e si chiedeva perché tutto a un tratto si stesse comportando come se lei fosse stata poco più di una conoscente.

Ma in fondo, l’aveva a dir poco ignorato la sera della partita finale contro l’Australia.

Si era stancato del suo atteggiamento, che prima sembrava quasi incoraggiarlo per poi intimargli di non oltrepassare la linea?

Forse anche lui stava aspettando che se ne andasse, per essere sicuro che non si trattasse soltanto di un’infatuazione passeggera.

Poteva capitare di prendere una sbandata per poi rendersi conto di quanto fosse importante il legame con la propria ragazza, e forse Genzo temporeggiava perché si stava rendendo conto di non poter rinunciare ad Asami con leggerezza.

E lei forse l’aveva affascinato, ma non aveva suscitato in lui un sentimento addirittura superiore a quello che provava per la sua ragazza.

Da quando erano venute a conoscenza dei rispettivi sentimenti per Taro e per Genzo, Kumi era diventata la sua confidente.

La mangaka sembrava tifare per un suo futuro fidanzamento con il portiere, e non glielo nascondeva. Ma soprattutto, era contraria al suo ritorno in Italia senza prima aver parlato con lui.

«Quello che provi non può essere un'infatuazione come quella per un ragazzo conosciuto durante una vacanza al mare o a una festa. È un sentimento che è nato quasi senza che te ne accorgessi, anzi in un certo senso persino contro la tua volontà, e che è cresciuto con il passare del tempo. Se posso permettermi Elena, io non credo che tu abbia bisogno di capire, ma di ammettere.» le aveva detto, con la schiettezza che aveva imparato a conoscere e apprezzare in quei mesi.

«Io dirò a Misaki quello che provo prima della partenza per il Messico. L'incertezza è la cosa peggiore, Elena. Ti illude di essere al riparo da ogni delusione e sofferenza, in realtà ti logora e potrebbe farti perdere l'occasione giusta senza che tu te ne accorga.»

Ma ora le sembravano frasi prive di senso.

Non c'era che dire … se Genzo l'aveva ingannata, era riuscito a farlo talmente bene da far prendere un granchio anche a Kumi e a Taro.

Si passò le mani sulle guance e sugli occhi quasi con rabbia, asciugandosi le lacrime: se Genzo l'aveva presa in giro, se non sapeva decidersi o aveva delle difficoltà a distinguere i suoi sentimenti in fatto di donne, non sarebbe stata lei a pagarne le conseguenze.

 

Guardò il maneki neko. Lo aveva portato con sé, sperando che i presunti influssi positivi fossero reali e non solo una delle tante leggende giapponesi.

Lo accarezzò per l'ennesima volta.

Il suo primo desiderio, nell'immediato: vedere mesi di lavoro duro e appassionato coronati almeno da un ottimo piazzamento.

«E sapere cosa c'è davvero nel cuore di Genzo … e nel mio.»

 

La ginnastica artistica non era uno sport molto considerato dal punto di vista mediatico, con l'eccezione dei pochi campioni affermatisi nelle competizioni internazionali, ma i palasport erano quasi sempre pieni e lo Yoyogi Stadium era gremito di spettatori entusiasti, tra cui tanti bambini e ragazzi.

Al torneo partecipavano squadre provenienti da tutto il Giappone. Favoriti erano sempre i club come Asahi e Konami, che oltre a formare le atlete più forti disponevano anche di grandi risorse economiche e contavano sull’appoggio e la sponsorizzazione di ricchi imprenditori e importanti società. 

Elena e Mayuko raggiunsero la postazione assegnata allo Shiroyama Gymnastics Club e la loro panca si riempì di giacche, borse e zainetti colorati.

Le ragazze cominciarono i loro esercizi di riscaldamento, intervallati da brevi battute e piccoli scherzi allo scopo di allentare la tensione.

Erano tutte in lizza. Il giorno prima erano riuscite a superare la fase eliminatoria, con ottimi punteggi e in alcuni casi avendo la meglio anche su ginnaste di scuole più blasonate.

 

«Mayuko Shiroyama?»

Una squillante voce femminile fece voltare le due allenatrici.

«Miho Shinoda!» esclamò la titolare della scuola, voltandosi e ritrovandosi di fronte la donna che l'aveva chiamata, stringendola subito nel suo abbraccio.

Era una donna non molto alta e di corporatura minuta come Mayuko, ma si faceva notare per una chioma biondo platino.

«Quanto tempo! Ho visto le ultime regionali e anche le gare di ieri. Complimenti, hai messo su una squadra davvero valida. E quella Shimokawa ha la stoffa della campionessa.»

«Grazie, ma il vero banco di prova è questa sera, con i titoli in palio.» rispose Mayuko.

«Ti presento Elena Rulli, la mia vice.» disse poi, mostrandole la ragazza con un gesto della mano.

Elena sorrise d'orgoglio nell'apprendere che la sua datrice di lavoro non la considerava una semplice collaboratrice e assistente, ma un'allenatrice in seconda a tutti gli effetti.

«Molto lieta, signora Shinoda.»

«Piacere mio. Ero una compagna di squadra di Mayuko in Nazionale, più o meno quando tu eri in fasce.» le disse, con un sorriso divertito.

Elena annuì «Ho visto molti vostri filmati su Internet.»

«E ovviamente eravamo bravissime, vero?» replicò Miho, strizzandole un occhio.

«Naturalmente.» confermò, con un sorriso sincero.

«Di certo più che a cantare.» intervenne Mayuko, roteando gli occhi con un sorriso birichino.

«Ah, sentila che insolente! E io che volevo regalarti il nuovo disco delle T&C Bomber, in caso di vittoria!» esclamò, passandole un braccio attorno al collo, fingendo di volerla strozzare.

«Beh, facciamo così, se hai inciso una canzone carina la userò per la prossima routine a corpo libero di una mia allieva.» concesse, stando allo scherzo. 

 

Sugli spalti si sbracciarono e si fecero notare, chiamandola forte, anche Kumi, Shun e Madoka. E accanto a loro, c’era anche Taro.

Elena li salutò agitando un braccio.

Poi fece scorrere lo sguardo su altri settori, ma non le parve di scorgere Genzo.

Forse non era ancora arrivato … o forse Asami era riuscita a convincerlo addirittura a non andare?

«Allora, sei emozionata?» la voce di Carlo, comparso dietro alle sue spalle, la fece sobbalzare e le fece mettere momentaneamente da parte le sue congetture.

«Quasi come ai tempi delle mie gare.» ammise.

«Non preoccuparti. Io ti ho vista quasi tutti i giorni, alla palestra. Tu e Mayuko le avete allenate bene, quelle ragazze. Vedrai che non deluderanno.»

Suo zio era stato, come sempre, di parola. Era stato dimesso dallo Juntendo Hospital proprio lo stesso giorno della sua partenza, ed Elena, appena saltata giù dallo Shinkansen aveva affidato il suo piccolo bagaglio a Satoru, tenendo con sé soltanto lo zainetto e aveva chiamato un taxi per farsi portare al complesso ospedaliero.

Avevano trascorso insieme la mattinata prima di recarsi all'albergo scelto per la permanenza nella capitale.

Era ormai perfettamente guarito, il suo passo era tornato agile e i movimenti sciolti come erano sempre stati. Sembrava quasi che quell'incidente non fosse mai accaduto, ma il medico, prima di congedarlo, era stato molto chiaro, ribadendo la necessità di interrompere l'attività agonistica.

«Ma niente e nessuno potrà mai impedirmi di fare l'allenatore.» aveva dichiarato con fermezza.

E prima di tornare a Nankatsu, le aveva assicurato che sarebbe stato in prima fila ad assistere al suo primo trionfo come allenatrice.

Lui aveva mantenuto la sua promessa, ora toccava alle sue cinque combattenti mostrare di essere pronte a competere con le pari età di tutto il Paese.

 

«Allora ragazze, tenetelo presente oggi più che mai. Quando entrate in pedana, siete solo voi e il vostro esercizio. Tutto attorno a voi sparisce. Portate in gara tutto l'impegno che avete messo nella preparazione, proprio come avete fatto nelle eliminatorie.» le esortò Mayuko.

«Mi tremano un po’ le gambe ...» ammise Hanako.

«Se le lasci tremare, perdi e mandi all’aria tutti gli sforzi fatti finora.» ribatté Arimi, puntandole due occhi decisi, quasi minacciosi.

 «Ha ragione Arimi.» intervenne Elena «Vi siete allenate per mesi, avete lavorato con impegno tutti i giorni e non c'è stato un allenamento in cui non vi abbia visto acquisire qualcosa in più rispetto a quello precedente. Ora dovete mettere a frutto i risultati dei vostri allenamenti: avete seminato tanto, è tempo di raccogliere.»

 

Durante la gara, le ginnaste dimostrarono di aver recepito perfettamente le istruzioni delle loro allenatrici.

Davanti a loro rimasero la pedana e gli attrezzi.

La concentrazione le isolò dal contesto circostante, le grida del pubblico divennero un fievole brusio, per poi non essere più percepite se non al termine dell'esercizio.

E quasi sempre furono applausi misti a urla di incitamento e ammirazione.

Mitsuyo si confermò un vero talento alle parallele e al volteggio, in cui aveva dimostrato di saper compiere con precisione anche elementi di notevole difficoltà. Nelle stesse specialità Shinobu e Hanako riuscirono a giungere in finale, mentre Emi venne eliminata in semifinale alle parallele a causa di una presa mancata durante un Tkatchev e conseguente caduta che le causò una penalità.

Tutte avevano dimostrato di possedere un grande senso dell’orientamento, davano l’impressione di compiere gli esercizi senza alcuno sforzo e di vivere la ginnastica con il sorriso sulle labbra, come la loro grande passione.

 

Arimi in particolare, si dimostrò la vera rivelazione della competizione, risultando indiscussa vincitrice al corpo libero e alla trave e infine anche nell'all-around, in cui superò di poco la giovane campionessa in carica, in forza alla Konami.

La sua routine al corpo libero era una sequenza perfettamente combinata di elementi acrobatici e coreografici. Le diagonali formate da serie di rovesciate all'indietro con una mano e di salti mortali si concludevano con atterraggi perfetti agli angoli della pedana, e vennero sottolineate ogni volta da boati entusiasti e applausi calorosi.

La stessa cosa avvenne per il suo esercizio alla trave, dove mostrò di padroneggiare con eleganza e freddezza un ampio repertorio di elementi. Si trattasse di rovesciate, di enjambée o di movimenti più complicati, sembrava che, tranne per una brevissima oscillazione, muoversi su una pedana o su un ripiano largo dieci centimetri non facesse differenza.

E sempre con un'espressione sicura di sé e rilassata che dava quasi l'impressione di un esercizio improvvisato sul momento e non provato e riprovato per mesi, con fatica, sudore, perseveranza e anche momenti in cui stava per esplodere di rabbia e impazienza.

Il suo ritorno al mondo circostante venne salutato da un'ovazione e da una salva di applausi, mentre le giudici si consultavano sui punteggi da assegnare all'esercizio.

Scesa dalla pedana, andò ad abbracciare le sue allenatrici, ricevendo pacche sulle spalle dalle sue compagne e strette di mano dalle sue avversarie.

Aveva ripetuto il risultato delle regionali, ma stavolta il suo nome balzò all’attenzione degli appassionati, allenatori e commentatori di tutto il Paese. Questi ultimi non tardarono a indicarla subito come il nuovo astro spuntato nel firmamento della ginnastica nipponica.

Dopo la cerimonia di premiazione, i giornalisti le si fecero attorno, come api attorno a un alveare. Poi fu il turno delle altre ragazze di ricevere la loro parte di attenzione, seppure minore, e i microfoni e gli obiettivi delle telecamere raggiunsero anche Mayuko e la stessa Elena che, completamente spiazzata, lì per lì non seppe cosa dichiarare.

Poi pensò all'amore che nutriva per quello sport, la dedizione con cui lo insegnava e lo praticava tutti i giorni, il fatto che, nonostante l'infortunio e i sogni infranti di un anno prima, le avesse restituito le gioie che le erano state negate, seppure in un altro ruolo, e riuscì a evitare una sconcertante scena muta.

 

Madoka, sugli spalti, applaudì con le lacrime agli occhi, accanto a Shun, Kumi e Taro e si precipitò di corsa dalle scale per andare a condividere la sua gioia con la sorella.

 

«Congratulazioni.» trasalì al suono di quella profonda voce maschile.

Aveva ormai imparato a conoscerla … e ad amarla.

Si voltò e sorrise.

«Grazie, Genzo.»

Il giovane si guardò intorno, con un sorriso compiaciuto. Sugli spalti il pubblico applaudiva e gridava entusiasta dello spettacolo offerto dalle scuole partecipanti.

«Avete fatto una gara splendida. Arimi ha sbaragliato tutte le rivali, e anche le altre ragazze sono state bravissime.» commentò.

«Sì, sono state tutte meravigliose. Sono fiera di averle allenate.»

«E loro sono fortunate ad avere due allenatrici come te e la signorina Shiroyama.» replicò lui.

«Grazie. Ma, almeno per quanto riguarda Arimi … non so se sarebbe andata così, senza il tuo aiuto.» gli confidò, con uno sguardo che dava a quella frase un significato più profondo di quanto esprimesse di per sé.

«Complimenti anche da parte mia.» la voce flautata di Asami li fece trasalire e sciolse l'incanto.

Genzo si rese conto di essersi completamente dimenticato della presenza della sua fidanzata, accanto a sé … come se tutto si fosse circoscritto a lui ed Elena soltanto.

«Le ragazze della vostra squadra sono bravissime. Shimokawa è una vera campionessa. Hai intenzione di fare l'allenatrice?» chiese con tono gentile e amichevole.

Stentava a riconoscere in quella ragazza così educata e cortese quella che pochi giorni prima l'aveva affrontata, decisa a sminuirla e intimidirla.

«Non lo so. Di certo, mi piacerebbe rimanere in questo campo. Quando ti innamori di questo sport, non lo lasci più.» disse, con spontaneità, apparentemente dimentica di quanto accaduto, mostrando un entusiasmo simile a quello che animava Genzo quando parlava di calcio.

Il ragazzo accentuò il suo sorriso e continuò a tenere il suo sguardo su Elena, al punto che Asami non poté non accorgersene.

L'aveva visto seguire la gara con entusiasmo e con apprensione, stringere i pugni, applaudire con calore e partecipazione. Non poteva essere un semplice interesse per lo sport.

Chi avevano guardato i suoi occhi? Le ginnaste che si alternavano sulla pedana, o la bionda allenatrice che, vestita con una tuta bianca e rossa, le incitava?

«Genzo, che dici, andiamo a cena?» gli chiese, infilando un braccio sotto il suo.

Il portiere assentì con un cenno del capo.

«Allora … buon proseguimento di serata.» disse Elena, con un sorriso e uno sguardo in cui Genzo credette di leggere un'ironia amara.

«Grazie. Faremo un brindisi anche per voi.» rispose Asami, ribadendo volutamente la frase pronunciata quel pomeriggio.

Elena annuì con un altro sorriso e si voltò, ritornando da Mayuko, Satoru e le altre ragazze che erano state raggiunte nel frattempo dal loro gruppo di amici e parenti.

Carlo la abbracciò forte, riempiendola di complimenti.

La loro scommessa era stata vinta. La vittoria delle Nazionali juniores era stata la conferma della bontà della sua decisione di farle passare quel periodo in Giappone ed Elena, qualunque fosse stato il suo futuro, aveva ripreso in mano le redini della sua vita. 

 

E così era andato tutto come le aveva annunciato Asami … ma non avvertiva quel senso di disperazione che l'aveva invasa pochi giorni prima. Era preparata a quell'eventualità.

Sorrise suo malgrado.

Forse era stato meglio così. Non era stata colta di sorpresa e non avrebbe rischiato di mettersi a piangere alla festa, magari in mezzo a tutti com'era successo allo Yozakura.

Lo Yozakura … le tornò in mente lo sguardo con cui Genzo aveva indugiato su di lei e sul suo furisode, il maneki neko che le aveva messo tra le mani e su cui apriva gli occhi al mattino e li chiudeva la notte, la comprensione con cui l'aveva ascoltata esortandola poi a guardare avanti.

E ora doveva farlo … guardare avanti, forse anche oltre lui.

  

«E ora andiamo tutti quanti a festeggiare!» gridò Shun, seguito da urla di approvazione.

La sala al primo piano del locale scelto si riempì con i parenti e gli amici arrivati a Tokyo per assistere alle gare.

Solo Carlo era tornato subito a Nankatsu per presenziare agli allenamenti del giorno dopo.

Una festa con una grande torta, bibite rigorosamente analcoliche per le giovani campionesse e musica che risuonava per tutta la sala, trasformandola così in una piccola discoteca.

 

Si trovavano lì da circa un'ora.

Era stato meno difficile di quanto avesse creduto, mostrare che la felicità per la vittoria ottenuta le aveva riempito completamente il cuore.

Aveva brindato, ballato, chiacchierato con tutti e mangiato addirittura due fette di torta con gusto, grazie alla sua passione per i frutti di bosco e all'attenzione con cui Mayuko aveva tenuto conto dei suoi gusti.

Ma ogni volta che posava gli occhi sulle lancette dell'orologio, pensava inevitabilmente a uno scenario che da un ristorante di lusso doveva essersi spostato a un appartamento di Shinjuku, e ogni volta scuoteva la testa e stringeva le labbra.

Cercò Taro con lo sguardo, ma non riusciva a scorgerlo da nessuna parte.

Decise così di uscire sul terrazzo, per prendere almeno una boccata d'aria.

«Ah, ecco dov’eri finito!» esclamò, vedendolo seduto sul parapetto, e andandosi a mettere accanto a lui.

«Bella festa, no?» rispose lui, con un sorriso.

«Già …»

«Peccato che manchi qualcuno.»

Elena lo guardò, poi chinò il capo e abbozzò un sorriso. 

«È andato a cena con la Ujimori. Forse, a conti fatti, preferisce stare con lei. Posso capirlo, in fondo. È bellissima, ricca, elegante, istruita, stravede per lui e lo segue ovunque. Cosa potrebbe pretendere di più da una donna?» considerò, senza ironia. Anzi, a pensarci era un ragionamento di una logicità cristallina, tanto che si chiese come potesse avere creduto che Genzo la preferisse a lei.

Era stata incredibilmente ingenua. Un'illusa.

Eppure i suoi gesti … ma la donna che lo accompagnava a ogni sua uscita e con cui condivideva anche i momenti più intimi era Asami.

«Genzo adesso starà facendo l'amore con lei …» mormorò a occhi bassi, quasi senza rendersene conto.

Taro strinse le labbra. Non poteva dirle niente, non era in grado di rassicurarla.

Gli sembrava impossibile che il portiere, dopo tutto quello che gli aveva confidato al J-Village, pensasse davvero di trascinare quella relazione, ma nel contempo il fatto che avesse assistito alla gara e lasciato lo Yoyogi Stadium con la sua fidanzata, gli impediva di manifestarle il suo scetticismo.

«Io posso solo assicurarti che non mi sono inventato nulla, Elena, riguardo a ciò che mi ha detto al J-Village.»

«Taro, sai che cosa ha fatto la Ujimori? Pochi giorni fa è venuta addirittura all'hotel dove alloggiavo con la squadra, per dirmi di non illudermi e che il loro rapporto è troppo solido e profondo per poter essere messo in pericolo da una "ragazzina spuntata dal nulla".» gli riferì, indicando sé stessa, e imitando il tono altezzoso dell'ereditiera.

«Davvero? E se è così, perché ha sentito il bisogno di venire a dirtelo?»

«Non lo so. Ma evidentemente ha ragione.»

Taro la guardò, perplesso. Effettivamente il comportamento di Wakabayashi sembrava incoerente con quanto confidatogli più di una settimana prima.

A meno che …

 

Kumi si diresse verso il terrazzo con un po' di apprensione.

Stringeva tra le dita della mano destra il ritratto disegnato nei mesi precedenti, dopo prove su prove.

Era un disegno che ritraeva Misaki con la divisa della Nazionale: la riproduzione a pastelli di una foto scattata sei anni prima, ai tempi del Mondiale Under 16, e pubblicata in un numero speciale di "Soccer Eleven" dedicato alla vittoria dei ragazzi giapponesi. All'epoca non aveva tenuto in grande considerazione quell'immagine, poiché l'aveva acquistato per le numerose fotografie di Tsubasa.

Poi, quando aveva cominciato a nutrire interesse per l'altro componente della Golden Combi, aveva ritrovato quella vecchia rivista nel suo armadio e aveva guardato, questa volta con l'attenzione che meritavano, le immagini che lo raffiguravano.

E quella le era rimasta impressa più di tutte. L'idea di riprodurla sotto forma di ritratto le era venuta in mente dopo il loro incontro alla cartolibreria. Sentiva che avevano rotto il ghiaccio, in qualche maniera, e quella sera stessa aveva cominciato a lavorare a quel progetto, per poi metterlo in un cassetto in attesa del momento giusto.

Dopo la partita contro l'Australia, Taro era tornato a Sendai per fare visita a sua madre prima di partire per il ritiro di Toluca e poi aveva accompagnato suo padre a Osaka, dove si era svolta una mostra collettiva che comprendeva una selezione di sue opere.

E lei, tra gli impegni scolastici e la collaborazione con la rivista della Uchiyama Shoten, con cui aveva concordato la pubblicazione di una serie di manga autoconclusivi, non era riuscita ad avvicinare Misaki.

Ora mancava poco alla partenza della Nazionale e lei doveva sbrigarsi … era nervosa ma non voleva più aspettare oltre. Due mesi in più non avrebbero cambiato nulla, se non in peggio, condannandola a un'attesa logorante.

Aprì una delle ante della portafinestra e trasalì nel vedere Taro ed Elena seduti l'una accanto all'altra, sul parapetto. 

«Ah, scusate.»

«Figurati, Kumi. Abbiamo giusto concluso una chiacchierata amichevole. Io devo tornare dentro, ma sono certa che Taro non ha nulla in contrario a rimanere qui a farti compagnia, giusto?» disse, staccandosi dalla balaustra e facendo un occhiolino all'amico, che rimase stupito. Possibile che anche lei sapesse …?

Rivolse un sorriso eloquente anche a Kumi, prima di rientrare.

La giovane mangaka sorrise timidamente, avvicinandosi e andandosi ad appoggiare dove era stata l'amica fino a poco prima.

«È stata una serata trionfale per Elena.» commentò, cercando di rompere subito il ghiaccio.

«Già. È pienamente meritato. Hanno lavorato tutte duramente, per mesi.»

Kumi assentì.

«E con la Uchiyama Shoten, come va?» chiese, desiderando portare il discorso su di lei.

«Ho consegnato un paio di storie disegnate un anno fa. Le ho risistemate e se tutto va bene saranno pubblicate in uno dei prossimi numeri della loro principale rivista.»

«È splendido.»

Kumi annuì con un sorriso.

«Se anche avessi vinto il concorso della Shogakukan, mi sarei dovuta trasferire a Tokyo. Invece così posso continuare i miei studi a Fuji e nel contempo concentrarmi con serenità sul mio lavoro di mangaka, senza l'assillo di dover sfondare presto e a tutti i costi, piegandomi ai diktat commerciali.»

Seguì un momento di silenzio.

«Coraggio, Kumi. L'incertezza è la cosa peggiore.»

«Misaki, volevo darti questo.» riprese, alzando il braccio e ponendo quindi alla sua attenzione il disegno.

«L’idea mi è venuta vedendo la tua foto in una vecchia rivista.» spiegò «Mi piaceva: avevi solo quindici anni, ma uno sguardo che sembra guardare lontano … così ho pensato che poteva essere un regalo gradito.» disse, tendendoglielo.

Taro lo prese e lo contemplò, tenendolo delicatamente tra le mani.

«È bellissimo Kumi … grazie.» disse, sinceramente emozionato e impressionato dalla somiglianza.

La ragazza spalancò gli occhi. L'aveva chiamata … per nome.

Alzò lo sguardo e vide che Taro aveva avuto la stessa reazione.

«Scusami … è che …»

La ragazza scosse la testa e gli sorrise. Gli occhi brillavano al punto da sembrare più chiari.

«Non devi scusarti. Da tempo sognavo di sentirmi chiamare per nome da te.» disse in un fiato, addolcendo il tono della sua voce e confessando in una sola frase e in modo del tutto imprevisto, i suoi sentimenti.

Taro la guardò. Aveva gli occhi puntati sui suoi, come se stesse aspettando una sua parola o un suo gesto.

Si staccò dalla balaustra e le si avvicinò lentamente.

Alzò una mano, a sfiorarle una guancia.

Il cuore di Kumi batteva all'impazzata, al punto da sentirlo pulsare anche nella testa.

Si sollevò sulle punte, e chiuse gli occhi nel momento in cui Taro posò le labbra sulle sue.

Le sfiorò, saggiandone la morbidezza, poi esercitò una lieve pressione, per invitare Kumi a dischiuderle.

La ragazza avvertì il calore della bocca di lui.

Fu un contatto lento e delicato. Taro la esplorava senza fretta …

Si staccarono piano, e Kumi gli si appoggiò addosso, quasi senza fiato.

Era troppo bello … le sembrava quasi impossibile che fosse reale.

Sollevò una mano sul viso di Taro e lo accarezzò, come per sincerarsi che fosse accaduto davvero. Lui le sorrise e mise una mano sulla sua.

«Kumi … tra pochi giorni dovrò partire per il Messico, con la squadra … voglio rivederti ancora, prima di quella data.»

«Anch'io … Taro.» sorrise, con occhi ancora inebriati, che lo spinsero a cercare ancora la sua bocca.

  

 

 

***Note***

 

 

Miho Shinoda è un'ex ginnasta che ha fatto parte della Nazionale giapponese tra la fine degli anni '80 e i primi anni '90, partecipando alle Olimpiadi di Seul 1988.

In seguito ha fatto l'allenatrice e la commentatrice, e per alcuni anni anche la cantante nel gruppo pop Taiyo to Ciscomoon, poi rinominato T&C Bomber.

Nella fanfiction, ho immaginato che lei e Mayuko fossero state compagne di squadra.

Fonte: Wikipedia

 

Arimi è ispirata a Catalina Ponor, ginnasta romena che ha gareggiato nella Nazionale dal 2004 al 2007 per poi tornare (e con successo) all'agonismo nel 2011. Elegantissima e con una tecnica sopraffina, e molto espressiva.

Ho scelto di attribuire ad Arimi le sue due routine al corpo libero e alla trave con cui ha vinto altrettante medaglie d'oro alle Olimpiadi di Atene 2004 (dando un forte contributo alla conquista del titolo a squadre). Cliccate sui nomi delle due specialità per aprire i relativi video, in cui troverete anche le didascalie con i nomi dei vari movimenti così come sono indicati nel codice dei punteggi (alcuni prendono il nome dalle ginnaste che per prime li hanno eseguiti a un Mondiale o a un'Olimpiade).

 

Nel capitolo è citato un elemento delle parallele asimmetriche, il Tkatchev, che potete vedere qui da 00:53 a 00:57.

 

"Stick It" (USA 2006) è un film che ha per protagonista Haley Graham (interpretata dall'attrice canadese Missy Peregrym), una ragazza ex promessa della ginnastica artistica dal passato difficile e che ha problemi con la giustizia.

Proprio il ritorno alla ginnastica rappresenterà il suo riscatto, grazie al burbero ma generoso allenatore Burt Vickerman (Jeff Bridges).

In questa scena, Haley spiega a modo suo (ovvero con una spiccata e pungente ironia) cos'è per lei la ginnastica artistica.

Citare "Stick It" in questa fanfiction era inevitabile perché per le amanti della ginnastica e per le ginnaste stesse rappresenta un vero e proprio cult. :-)

 

 

 

Un saluto a tutti!

Lo so, è passato quasi un mese dall'ultimo aggiornamento, ma sono state settimane burrascose e frenetiche.

Ora il clima è finalmente un po' più sereno e conto di ridurre i tempi di pubblicazione tra i prossimi capitoli, rendendoli più ravvicinati.

Anche perché stiamo entrando in una fase decisiva, soprattutto per la definizione del rapporto tra Genzo ed Elena, che stanno penando un po' rispetto alla loro neonata coppia di amici. ;-)

Buona Pasqua e Lunedì dell'Angelo!

Sandie

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Capitolo 18
*** Capitolo XVIII - Un nuovo inizio ***


 

Capitolo XVIII

 

 Un nuovo inizio 

 

 

 

Genzo si alzò dal letto e si infilò la camicia adagiata sullo schienale di una sedia.

Si chinò sul minibar e prelevò una lattina di birra.

Si avvicinò all'ampia vetrata panoramica e vi rimase affacciato.

Grattacieli e palazzi si stagliavano nel panorama notturno di Tokyo, sovrastato da una luna luminosa.

In lontananza, spiccava il profilo dorato della Tokyo Tower.

Per via di un colloquio con suo padre alla Wakabayashi Corporation riguardante il suo pacchetto di azioni, aveva alloggiato in quella stanza al Park Hotel anche nei due giorni precedenti, senza dire nulla ad Asami che di certo gli avrebbe chiesto di stare presso di lei.

Aveva evitato di incontrare Elena prima delle Nazionali juniores, sebbene si trovasse anche lei a Tokyo.

Averla vicino era un rischio … ormai rappresentava per lui una tentazione continua.

Ogni volta che la vedeva, l’istinto era quello di prenderla tra le braccia, ma non poteva farlo finché era legato ad Asami. Aveva già rischiato una volta e sarebbe bastato solo un gesto o uno sguardo perché si ripetesse.

E anche se non avesse potuto avere Elena … doveva chiudere la sua storia con la giovane ereditiera. Non la amava veramente, in ogni caso non provava più per lei ciò che aveva sentito nei mesi precedenti. Ne era rimasto affascinato, in un momento in cui stava pensando a ricostruire la sua vita dopo Amburgo. Come Elena, aveva cercato di riempire i suoi giorni per non ripensare a un passato così importante … un pezzo fondamentale della sua vita.

Questo aveva pensato quando era arrivato nella capitale.

Mentre sorseggiava la birra dalla lattina, ripercorse mentalmente quanto accaduto poche ore prima.

 

Nel parcheggio dello Yoyogi Stadium, trovarono l’autista della famiglia Ujimori ad attenderli.

Cenarono nel loro ristorante preferito a Shinjuku, per poi dirigersi verso l’appartamento di Asami.

L'aveva assecondata nella conversazione, mostrando interesse per i suoi racconti, sebbene i suoi pensieri vagassero altrove.

Quando era andato a complimentarsi con Elena, avrebbe voluto in realtà stringerla tra le sue braccia come aveva visto fare a Carlo, quando si era voltato un'ultima volta prima di uscire dallo Yoyogi Stadium.

Ma alla fine aveva seguito Asami, deciso a evitare di rivivere una situazione come quella, e aveva accettato di non partecipare alla festa per la vittoria dello Shiroyama Gymnastics Club e passare il resto della serata da solo con la sua ragazza.

Ancora per poco, pensò mentre uscivano dall’ascensore del palazzo in cui viveva Asami e percorrevano i pochi passi che li dividevano dal suo appartamento.

Lui la seguì all’interno e chiuse la porta.

«Fino a poco tempo fa non facevamo in tempo a varcare la soglia che eravamo già l'una nelle braccia dell'altro …» mormorò la ragazza, accarezzandogli il petto con le mani e passandogli poi le braccia attorno al collo.

Avrebbe potuto lasciarla continuare, e lui rispondere ai suoi baci e alle sue carezze immaginando Elena al suo posto.

Ma non poteva farle una bassezza del genere.

Né era giusto tacere oltre.

La scostò piano da sé e confessò, tutto d'un fiato e senza giri di parole.

«Asami … io non mi sento più coinvolto.»

Non era completamente inaspettata. Tuttavia, la staffilata arrivò dolorosa.

L'immaginazione, anche quando riguardava un evento temuto, era accompagnata sempre da un filo, per quanto esiguo, di speranza.

Che fosse stata un'eccessiva quanto ingiustificata gelosia a metterla in allarme.

Che il pericolo venisse solo da quella ragazza e che sarebbe bastato metterla fuori dai giochi spiegandole quanto fosse inadeguata per un Wakabayashi, contando sulla convinzione che, in fondo, anche Genzo la pensasse allo stesso modo.

La realtà invece, non dava via di scampo e decretava la morte di ogni illusione.

Rimase di fronte a lui, imponendosi di guardarlo negli occhi.

«C'è un'altra?»

Genzo la guardò in silenzio, poi fece un cenno d'assenso con il capo.

«È quell'insegnante … la nipote di Nerlinger?»

Chiuse gli occhi e fece un altro cenno.

«Sì.»

Asami strinse le palpebre nel tentativo di ricacciare indietro le lacrime che si preparavano ad uscire dai suoi occhi.

«Avete fatto …»

«No.» affermò, risoluto «Ti rispetto, Asami. Non avrei mai potuto farti una cosa del genere.»

«Perché?» chiese, senza sapere cosa pensare, come stordita «Cos'ha lei più di me?»

Già … cos'avrebbe potuto dirle?

Genzo fece un profondo respiro, nel tentativo di tradurre con parole adatte ciò che sentiva.

«Non è questione di essere migliore o peggiore. Soltanto, conoscendola, ho cominciato a provare un'ammirazione che si è trasformata in qualcosa di più forte … un sentimento tale da non poter essere più ignorato né soffocato.»

Asami serrò le labbra e si passò una mano tra i lunghi capelli neri, cercando di mantenere la calma.

«Lei prova la stessa cosa per te?»

«Non ne sono sicuro, ma ho buone ragioni per pensarlo.»

«Genzo … potrebbe volerti solo per i soldi e per la popolarità, al pari di tante altre. Sei bello, ricco e famoso. Non lasciarti ingannare dalle sue moine.»

«È proprio qui che ti sbagli, Asami. Lei non ha fatto nulla per attirarmi verso di sé. È stato un avvicinamento avvenuto in modo del tutto spontaneo.»

La ragazza abbassò gli occhi e deglutì. I suoi occhi neri sembravano gemme traslucide.

Genzo la guardò costernato. Sapeva di averle inferto una ferita straziante e si sentì in pena, ma era il prezzo da pagare per essere onesto verso sé stesso e verso di lei, e per permettere a entrambi di guardare avanti.

D'altro canto, non era certo del consenso di Elena. Lei di lì a poco sarebbe tornata in Italia … avrebbe potuto anche salutarlo per poi sparire dalla sua vita, visto che in certi frangenti il suo atteggiamento sembrava volto ad allontanarlo.

A maggior ragione, non avrebbe fatto di Asami un ripiego.

«Pensaci, Genzo. Rischi di mettere in difficoltà i rapporti tra le nostre famiglie.» lo avvertì, in una sorta di tentativo estremo di riportarlo alla ragione.

«Mi dispiace, Asami. Posso dirti che non ho mai finto con te, in questi mesi. Ma meriti un uomo che ti ami sul serio e che ti consideri la prima e l'unica. E non uno che mentre è con te si chiede come sarebbe la sua vita con un'altra.»

La ragazza strinse le labbra e chinò la testa, con le lacrime che avevano preso a scenderle dagli occhi.

Ogni altra parola, ogni altro gesto sarebbero stati fuori luogo.

Genzo si voltò, aprì la porta e uscì, senza guardare indietro.

  

Aveva fatto tutto come previsto.

Aveva compiuto il fatidico passo, e ora avvertiva una sensazione strana.

Si sentiva più libero ma provava anche un senso d'inquietudine dato da una situazione completamente nuova.

Teoricamente, nulla lo divideva da Elena. Ma lei, era pronta a ricambiare i suoi sentimenti?

E su una cosa Asami aveva ragione: avrebbe dovuto affrontare i suoi genitori che di certo non avrebbero capito una scelta del genere.

Per il momento, comunque fosse andata, non avrebbe parlato a nessuno di Elena. Non voleva esporla alle sicure critiche dei suoi genitori e forse di Hiroji, dato che non sapeva nemmeno se il suo futuro sentimentale sarebbe stato con lei.

Annie no, gli aveva tacitamente fatto capire di essere dalla sua parte, raccomandandogli di leggere "L'età dell'innocenza".

Aveva capito tutto, come sempre, ed era l'unica al corrente della situazione.

Perspicace e coraggiosa, perché anche lei rischiava di avere dei dissapori con il marito e con i suoceri.

Spinto a confidarsi con lei dopo averle restituito il libro, le aveva infine rivelato i suoi sentimenti per la giovane insegnante, senza però raccontarle il dramma vissuto dalla ragazza.

Pensò alle scene che più lo avevano colpito di quel romanzo americano.

La seconda parte in particolare, sembrava contenere la descrizione dei sentimenti che avrebbe rischiato di provare, se avesse continuato la sua storia con Asami rinunciando così a Elena.

Era sicuro che Annie gliel'avesse prestato per quel motivo: la cognata aveva una capacità di penetrazione non comune, che a volte lo sconcertava.

Non voleva finire come Newland Archer, il protagonista maschile.

Mentre leggeva alcune scene di quel libro, immaginava sé stesso al posto del giovane e brillante avvocato newyorkese, sposato con una bella ed elegante ragazza della buona società ma innamorato della cugina di lei, la contessa Ellen Olenska reduce dal fallimento del suo matrimonio con un aristocratico polacco. Elena in comune con quest'ultima non aveva nulla se non il nome di battesimo e il carattere schietto, né vi erano parentele con Asami, ma i sentimenti in gioco erano del tutto simili.

Desideri mai trasformati in azioni concrete, incontri clandestini, promesse impossibili da mantenere, menzogne e sotterfugi.

Non voleva una vita reale dalla quale fuggire con la mente appena possibile, fatta di periodi ipotetici, episodi creati dalla sua immaginazione e domande destinate a rimanere per sempre senza una risposta. Lui era abituato a realizzare i suoi sogni e non a perpetuarli in fantasticherie consolatorie sul momento, ma il cui effetto finale era frustrante, come una droga che dona un'illusoria sensazione di benessere per poi lasciare con l'animo e la mente devastati.

E tutto solo per compiacere la sua famiglia e adeguarsi a convenzioni tipiche della mentalità giapponese e più in generale della buona società.

E comunque, lui ormai non amava più Asami. Non poteva vivere un rapporto basato su una finzione.

A tempo debito, avrebbe affrontato anche quella questione.

Ora doveva tornare a Nankatsu e parlare con Elena …

In ogni caso, la sua vita stava cambiando … doveva solo capire se i loro percorsi erano destinati a unirsi o a proseguire distinti dopo essersi incrociati.

 

La luce del sole invase la stanza, colpendogli il viso e facendolo destare sulla poltrona su cui si era addormentato.

Accese il cellulare e vide che gli erano arrivate tre notifiche, tutte con il nome di Misaki.

Tre chiamate, l'ultima mezz'ora prima.

Selezionò l'opzione di richiamata e attese.

«Wakabayashi? Finalmente ti sei fatto vivo! Sei ancora a Tokyo?»

«Sì … cosa devi dirmi?»

«Visto che anch'io sono a Tokyo, è meglio se te ne parlo di persona. Possiamo incontrarci questa mattina?»

«Certo. Vieni al Park Hotel nel quartiere di Minato, se non hai ancora fatto colazione offro io.»

«Ok, sono anch'io nel quartiere di Minato … sarò lì tra non molto.»

    

Venti minuti dopo, nel grande bar-caffetteria dell'hotel, tra il viavai di camerieri, avventori, imprenditori e manager, medici arrivati a Tokyo per un convegno e turisti, vide finalmente comparire Misaki … ma non era solo. Al suo fianco c'era Kumi. Alzò un sopracciglio e fece un sorriso sghembo.

«Devo essermi perso qualche puntata …»

«Soltanto quella di ieri sera.» ribatté prontamente l'ex manager.

Li guardò. Stavano bene insieme e non solo perché erano entrambi di bell'aspetto. Lui pacato e riflessivo, lei vivace e brillante: erano tratti caratteriali che si compensavano e che facevano ben presagire per il loro futuro come coppia.

Kumi si guardò attorno un po' spaesata. Quello era un albergo di lusso e, con la sua maglietta fantasia e i suoi jeans, si sentiva fuori posto in quel locale affollato da tanta gente facoltosa e vestita con abiti firmati.

Ma vedendo le bacheche piene di frutta fresca di stagione, dolci e prodotti da forno di ogni tipo riprese presto il suo consueto brio.

«Taro mi ha detto che offri tu … posso ordinare quello che voglio?» chiese, congiungendo le mani e sfregandole tra di loro.

Genzo assentì, scambiando un’occhiata divertita con Taro.

 

Pochi minuti dopo erano seduti davanti a tazze di caffè e cappuccino e vassoi di frutta e croissant ripieni di crema al cioccolato e crostatine farcite con confettura di albicocca e di ciliegia.

«Avremo una wag in più in Spagna, allora.» scherzò Genzo.

«Ci sarei stata comunque, con il gruppo dei supporter. Però … da wag è ancora meglio. E poi, se non sbaglio, wag è anche l'acronimo in inglese di "ginnastica artistica femminile".» replicò Kumi, con una punta di malizia.

Genzo scambiò un'occhiata con Taro, poi chiuse gli occhi e sorrise dell'arguzia con cui la ragazza gli aveva ritorto contro la sua battuta.

«Così la notte l'hai passata qui?» chiese il centrocampista.

Il portiere annuì, mentre faceva roteare il cucchiaino nel suo caffè.

«Pensavamo fossi dalla Ujimori. Ieri hai visto le Nazionali juniores con lei e poi siete andati via insieme.»

«Sì … siamo andati a cena al solito ristorante, poi a casa sua.»

Taro e Kumi lo fissarono, con aria grave.

«L'ho lasciata.»

«Fantastico!» cinguettò Kumi, battendo le mani entusiasta e strappando un sorriso sia a Genzo sia a Taro, che ritenne però opportuno mostrare un'approvazione più contenuta.

«Bene. Allora presumo che il prossimo passo sarà parlare con Elena.»

«Devi farlo al più presto. Aveva un'aria demoralizzata, è convinta che tu abbia passato la notte con Asami. Credo stia cominciando a credere che tu ti stia prendendo gioco di lei.» lo ammonì Kumi.

Genzo spalancò gli occhi.

«Ti ricordi la sera dell'ultima partita contro l'Australia, quando io e lei siamo andati in quella gelateria?» proseguì Taro «Lo abbiamo fatto perché lei me lo ha chiesto … voleva parlarmi di te.»

Il suo amico lo guardava sempre più stupito.

«Voleva sapere come comportarsi. È attratta da te, ma i suoi sensi di colpa per il suo ex fidanzato e la tua storia con Asami l'hanno sempre trattenuta dal lasciarsi andare a questo sentimento. Mi ha detto che vuole tornare in Italia e capire se è solo un'infatuazione. Io penso che tu debba muoverti, Wakabayashi e dichiararti.»

«Mettila in condizione di dover fare una scelta.» intervenne Kumi «Tornare in Italia senza dirti nulla è soltanto un modo per evitare di affrontare i suoi sentimenti. So che la sua situazione psicologica è difficile e io non posso e non voglio giudicarla, ma penso che soltanto uno scossone possa farla risolvere in un modo o nell'altro. Altrimenti continuerà a vivere in un limbo che le farà solamente altro male. E farà male anche a te.»

Genzo la guardò. Kumi aveva colto nel segno.

Elena avrebbe potuto riscuotersi solo sentendosi dire chiaramente quello che sentiva per lei. Ora era tutto astratto, passi in avanti seguiti da altrettanti passi indietro, continui dubbi ed esitazioni che stavano tormentando entrambi. E lei poteva considerare più conveniente e soprattutto rassicurante evitare di esporsi e lasciar così passare le ultime settimane del suo soggiorno in Giappone e tornare a casa con un bel ricordo della sua esperienza e della loro amicizia.

Cosa di cui lui non era disposto ad accontentarsi.

«Io non le dirò nulla della nostra conversazione. Dovrete essere voi a parlarvi e a chiarirvi.» affermò infine Taro.

Continuarono la colazione parlando di altri argomenti di minore importanza, poi si alzarono dalle sedie.

Genzo si diresse verso il bancone per pagare il conto, mentre Kumi e Taro si avviarono verso l'uscita del bar, dove rimasero ad attenderlo.

Una volta raggiunti, i due ragazzi lo salutarono.

«Dobbiamo andare alla stazione a prendere il treno per Nankatsu.» disse Kumi.

«Io resterò a Tokyo ancora per qualche ora, ho un altro impegno.»

«Va bene, allora ci vediamo.» replicò Taro, dandogli una lieve pacca sulla spalla.

«E mi raccomando Wakabayashi, parla al più presto con Elena. Ora non hai più scuse.» lo esortò ancora la giovane mangaka.

Genzo rispose con un cenno del capo e mentre i suoi amici si incamminavano verso l'uscita dell'hotel, lui si diresse verso la reception per pagare il conto dell'intera permanenza. Poi chiamò un taxi.

Aveva davvero un'ultima cosa da fare prima di lasciare Tokyo, con il pensiero a una ragazza che in quel momento si trovava in un treno, a pochi chilometri dalla prefettura di Shizuoka.

 

Stava osservando le varie specie di fiore presenti in quel negozio non molto grande, ma piuttosto fornito, da una decina di minuti ormai.

Non ne aveva mai regalati di sua spontanea iniziativa, a parte a sua madre e Annie, e una volta anche ad Asami … e sempre delle rose, per andare sul sicuro.

Ma questa volta, sentiva che era una scelta troppo facile e scontata.

Una ragazza con gli occhiali dalla vistosa montatura verde e con i capelli scuri raccolti in due codini gli si avvicinò, con le mani dietro la schiena. Indossava una salopette in jeans e aveva un'aria sveglia e un sorriso ampio e luminoso.

«Buongiorno, signore. Sta cercando dei fiori da regalare?»

«Sì … pensavo a delle rose, ma poi ho visto quelle piante …» rispose, indicando un gruppo di fiori di diverso colore poco lontano dal bancone.

«È per la sua ragazza?»

Genzo esitò un momento, poi assentì con il capo.

«Ho capito! È per la ragazza che le piace, ma ancora non state insieme.» affermò la giovane, facendogli sgranare gli occhi.

Lei annuì con aria saputa, poi si avvicinò alla pianta indicata da Genzo.

«È un'Amaryllis belladonna. È un fiore bellissimo … simboleggia la bellezza splendente, la finezza e l'eleganza. E ha un profumo delicato.» descrisse, prendendone una e accostandogli i fiori per farglieli annusare.

«È perfetta. Mi prepari un mazzo di Amaryllis rosse con striature bianche.»

La giovanissima fioraia annuì soddisfatta.

Mentre preparava i fiori, Genzo scrisse un breve messaggio d'accompagnamento su un cartoncino.

Infilò il biglietto in una busta, su cui scrisse il nome della destinataria, trattenendo la penna per scrivere qualcos'altro su un secondo cartoncino.

La ragazza si illuminò quando lesse il nome.

«Si chiama Elena! Che bel nome … deriva dal greco e significa "splendente". Ha fatto proprio la scelta giusta!» cinguettò, mentre univa il tutto all'involucro trasparente con una pinzatrice.

Genzo sorrise.

«Glieli faccia avere per questo pomeriggio, a questo indirizzo.» disse, lasciandole un altro biglietto.

«Arriveranno puntuali a destinazione.» replicò lei, ammiccando.

 

«Sicura che sia una buona idea, Arimi?» chiese Mitsuyo, da poco giunta con l'amica e le loro tre compagne di squadra davanti al grande cancello di villa Wakabayashi.

Era ormai giugno. Si stavano susseguendo bellissime giornate assolate.

I refoli di aria fresca attenuavano il caldo che avrebbe certamente caratterizzato l'intera giornata.

«È l'unica strada percorribile.»

«Speriamo almeno che Wakabayashi-san sia in casa.» sospirò Emi, mentre la neocampionessa nazionale premeva il pulsante del citofono.

 

«Rispondo io, Hitomi!» gridò Annie, strofinando le mani sul grembiule, mentre usciva dalla cucina e si avvicinava al ricevitore.

«Chi è?»

«Buongiorno. Siamo Shimokawa Arimi, Minobe Mitsuyo, Otsuka Shinobu, Suzumura Hanako e Sakurai Emi, le ginnaste dello Shiroyama Gymnastics Club. Il signor Wakabayashi Genzo è in casa?» chiese Arimi, a nome di tutte.

«Sì, certo. Vi apro il cancello.» rispose, premendo il pulsante che azionava il meccanismo.

Le ragazze attraversarono il vialetto guardandosi intorno e scambiandosi commenti di ammirazione per la bellezza ed estensione del giardino, mentre Annie le attendeva sorridente sotto il portico, con ancora addosso il grembiule sporco di farina e crema al cioccolato.

Accanto alla cuccia era seduto John, che le scrutò per poi sdraiarsi e appoggiare il muso sul prato non appena vide la donna accogliere le ragazze con affabilità, per poi invitarle a entrare nel vestibolo.

«Ciao ragazze. Io sono Annie Crawford Wakabayashi, la cognata di Genzo. È tornato da poco dalla sua corsa mattutina e ora è sotto la doccia, ma sarà qui tra non molto.» disse, mentre cambiavano le calzature.

«Sotto la doccia?» ripeté Shinobu con uno scintillio negli occhi che Arimi ritenne opportuno smorzare con una gomitata.

Annie accennò una risata e le invitò ad accomodarsi, prima di tornare in cucina.

«Ehi, sei impazzita?» protestò a denti stretti, massaggiandosi il braccio colpito.

«Devi imparare a tenere i tuoi ormoni sotto controllo, soprattutto se sei ospite di una famiglia come i Wakabayashi.» replicò, mentre tutte prendevano posto ridacchiando sul divano dell'ampio salotto.

Genzo comparve dopo una decina di minuti e assunse un'espressione interrogativa quando le vide, ma poi le salutò con gentilezza.

Le cinque ragazze si alzarono in piedi quasi simultaneamente e lo salutarono con un inchino.

«Buongiorno, Wakabayashi-san

«Ciao ragazze. Come mai qui?» chiese, facendo loro cenno di risedersi e prendendo posto di fronte a loro, sull'altro divano.

«Vorremmo chiederle un favore, visto che è nel consiglio direttivo dell'Istituto Shutetsu e la sua famiglia è molto influente.»

Genzo alzò un sopracciglio, ma fece un cenno con il capo, invitando Arimi a continuare.

«Vede, noi vorremmo preparare un breve esercizio collettivo come omaggio alla signorina Rulli.» il lampo passato negli occhi del giovane per il riferimento a Elena non le sfuggì. «Vorremmo chiederle di lasciarci libera la palestra dell'Istituto Shutetsu per provarlo e inserirlo, ovviamente con il permesso degli insegnanti e del direttore, nello spettacolo che si terrà nell'auditorium della scuola.»

«Farlo alla palestra Shiroyama sarebbe troppo scontato e soprattutto comprometterebbe l'effetto sorpresa. E noi vogliamo che sia totalmente inaspettato.» aggiunse Hanako.

Genzo increspò un angolo delle labbra, poi si sporse in avanti intrecciando le dita delle mani. «Non è una richiesta semplice … vi si allena sempre almeno un club sportivo.»

«Lo sappiamo, Wakabayashi-san.» intervenne Mitsuyo, che con Hanako frequentava proprio l'Istituto Shutetsu «Ma sarebbe solo per pochi pomeriggi poiché al mattino frequentiamo le lezioni … e poi pensi a quanto si emozionerà la signorina Rulli.»

«Le è affezionato, no?» riprese la parola Arimi, facendogli un occhiolino.

«Molto affezionato.» rincarò Shinobu, con un largo sorriso malizioso.

Genzo alzò un sopracciglio, poi sogghignò, sentendosi leggermente in imbarazzo per la simpatica impertinenza di quelle ragazzine.

«Va bene. Non vi prometto niente, ma vi garantisco che farò tutto il possibile.»

 

Il tavolo della cucina era disseminato di ciotole, sacchetti di farina e zucchero, barattoli di miele e vari utensili da cucina.

«Se non avessi dovuto ancora infornare i biscotti, ne avrei volentieri offerti un po' a quelle ragazze.» disse Annie, stringendosi nelle spalle.

«Magari glieli farò avere io nei prossimi giorni … visto che probabilmente si alleneranno nella palestra della Shutetsu.» rispose Genzo, che l'aveva raggiunta dopo che le ginnaste se n'erano andate.

«Ho sentito … allora cosa farai, parlerai con Elena?»

«Sì, lo farò dopo lo spettacolo.»

Annie assentì, con un deciso cenno di approvazione.

«Forse sto contribuendo a metterti nei guai con i tuoi genitori … ma sono convinta che in una relazione debba esserci un amore forte e autentico. E reciproco. Comunque andrà a finire, io sono dalla tua parte, Genzo.»

Gli rivolse un sorriso quasi materno. Il ragazzo ricambiò con una lieve carezza su una guancia.

«Hai appena fatto la crema al cioccolato … ti dispiace se la assaggio?» chiese poi abbassando gli occhi verso una larga ciotola, prelevandone una ditata e portandosela alla bocca.

«Ehi, giù le mani! Ah, Genzo! Sei peggio di Kenichi!» gridò, fingendo di volerlo colpire con lo sbattitore.

 

Era tarda mattinata quando arrivò in prossimità della casa in cui abitavano Carlo ed Elena.

Il cielo era limpido e sgombro, il caldo reso meno soffocante da una lieve brezza.

Lei era nel giardino, con un cesto di plastica contenente del bucato posato per terra, mentre stava stendendo dei vestiti, con Wilhelm che le girava attorno.

Indossava un prendisole color giallo dorato e aveva i capelli raccolti in uno chignon.

«Wilhelm, togliti da lì!» lo rimproverò Elena, dandogli uno scappellotto sulla schiena e facendolo allontanare con un mugolio.

Cominciò ad abbaiare quando notò la sua presenza.

Elena si accorse così dell'imponente figura del portiere, ferma davanti al cancello.

«Ciao, Genzo.» disse, avvicinandosi.

«Ciao, Elena.» sollevò lievemente la visiera del berretto.

«Entra pure. Mio zio è ancora in palestra, ma tornerà tra non molto.» disse aprendo il cancello e facendolo passare.

«In realtà sono venuto per parlare con te, ma continua pure quello che stai facendo.»

La ragazza si sentì invasa da un senso di agitazione al pensiero che fosse lì di proposito e non perché ci passava per caso, ma fece un cenno d'assenso e una volta richiuso il cancello, riprese la sua mansione.

 

Genzo si accosciò e si mise ad accarezzare Wilhelm, che lo annusava con insistenza avvertendo l'odore di John.

«Se me lo tieni occupato, riesco a finire di stendere questi vestiti. Cerca sempre di afferrarli e di portarli via.»

«Allora ti piace proprio fare i dispetti, eh Wilhelm?» scherzò, alzando subito il viso su Elena, che per un attimo si era fermata trattenendo tra le dita i lembi della maglietta che stava stendendo.

Continuò a dargli le spalle finché non ebbe terminato, consapevole del fatto che lui la stava guardando.

Genzo la osservò mentre tirava fuori un fazzoletto e lo passava sulla pelle, per asciugare le gocce di sudore che le imperlavano la fronte, il petto, le spalle e la schiena.

Il suo sguardo seguiva i suoi movimenti, facendolo scorrere così sul corpo della ragazza.

Era bella e sensuale, da togliergli il fiato.

I loro occhi si incrociarono ed Elena arrossì.

«Oggi fa davvero caldo.» affermò, cercando di sembrare più spigliata e lo invitò a entrare in casa.

Appena varcata la soglia, vide subito, con sua soddisfazione, i fiori di Amaryllis in un vaso al centro del tavolo.

«Sei stato gentile a regalarmeli. Grazie.»

Lui fece un cenno d'assenso, sorridendo.

Gli aveva scritto qualcosa di simile in un sms quella sera stessa, poche ore dopo averli ricevuti.

Non gli aveva scritto l'emozione provata quando il fattorino le aveva consegnato quel mazzo e il batticuore con cui aveva letto il biglietto d'accompagnamento …

Per non aver festeggiato con te ieri sera. 

 

Un profumo di mele, cannella e uva passa impregnava ancora la cucina e il piccolo salotto.

Sul ripiano accanto al fornello, faceva splendida mostra di sé uno strüdel che doveva essere stato sfornato da poco.

«Ne vuoi una fetta?» gli propose, indicandolo.

«No grazie, tra poco sarà ora di pranzo.»

«Allora te ne taglio un po', così potrai farlo assaggiare anche a Annie, a tuo fratello e ai bambini. E anche alla signora Sakai!» disse, prendendo un grosso coltello dalla lama seghettata da un cassetto e cominciando a tagliare metà dolce.

«Non me ne stai dando troppo? L'avevi appena fatto …» obiettò lui, mettendosi di fianco.

Elena diede un'alzata di spalle.

«Qui siamo solo io e mio zio, questo ci basterà e comunque posso sempre farne un altro. Ormai mi viene in automatico. È una ricetta tradizionale che le donne della mia famiglia si tramandano di generazione in generazione.»

Genzo sorrise «D'accordo, allora.»

Elena sorrise di rimando e prese un contenitore di plastica, in cui adagiò la porzione di dolce e lo ricoprì con un coperchio.

«Ecco qui.»

Lui ringraziò e afferrò il contenitore, ma lo rimise subito sul ripiano.

«Devo chiederti una cosa.»

Lei annuì, inducendolo a continuare.

«Venerdì sera ci sarà uno spettacolo all'auditorium dell'Istituto Shutetsu. Una serie di balletti e di canzoni cantate e suonate dai ragazzi del club di musica. Mi piacerebbe se vi assistessi anche tu.»

«Oh … la Ujimori non può?» chiese lei, con un tono di voce fattosi improvvisamente più rigido.

Genzo mantenne uno sguardo e un tono di voce impassibili.

«No, lei non ci sarà.»

«Capisco.» disse, piuttosto sorpresa ma immaginando che la sua assenza poteva essere dovuta a impegni già presi.

«Non so se posso accettare il tuo invito, comunque. Ho molte cose da fare, il saggio delle bambine è tra pochi giorni e ho anche le ultime lezioni di giapponese e i preparativi prima della partenza.» elencò freddamente, staccandosi dal ripiano e facendo alcuni passi in avanti.

Genzo le andò dietro, le afferrò un braccio e la costrinse a voltarsi.

«Elena, per favore. È importante che ci sia anche tu.» affermò con risolutezza.

In fondo ai suoi occhi, le parve di scorgere persino una supplica.

«E va bene, verrò. Basta che la smetta di stringere.» concesse infine, distogliendo lo sguardo.

«Scusami.» mormorò dispiaciuto, allentando subito la presa e dandole istintivamente una carezza che la fece tremare.

Lei continuò a guardare da un'altra parte.

Ormai Genzo sapeva interpretare il suo comportamento. Faceva così quando sentiva che avrebbe potuto cedere, se solo lui avesse fatto un gesto in più.

Poteva già confessarle tutto … perché aspettare? Erano l'uno di fronte all'altra ed erano soli … e lui cominciava a essere stanco di quella situazione.

«Elena …» sussurrò, sollevandole delicatamente il volto con una mano, per costringerla a guardarlo.

Lei si ritrovò a incrociare le sue iridi che le parvero, ancora una volta, così grandi e accese …

Avvertì il cuore palpitare con frenesia e il volto accaldarsi sotto il tocco delle sue dita.

«Genzo! Che sorpresa, come mai qui?» la voce di Carlo li fece trasalire. Non l'avevano sentito entrare, non avevano nemmeno udito la porta aprirsi.

I due si affrettarono a spostarsi e a salutarlo.

Genzo si sincerò delle sue condizioni di forma.

«Gli ho dato metà del nostro strüdel, visto che non l'ha mai mangiato.» spiegò Elena, desiderosa più che altro di scongiurare subito qualsiasi tipo di insinuazione.

«Hai fatto benissimo.» commentò, dirigendosi verso la sua stanza per depositarvi il borsone.

«L'ho invitata a vedere uno spettacolo all'auditorium dell'Istituto Shutetsu.»

Carlo fece un cenno d'approvazione.

«Tu hai accettato, vero Elena?»

«Sì …» rispose abbozzando un sorriso, sperando che non avesse notato nulla.

«Ti fermi a pranzo con noi, Genzo?» propose poi Carlo, facendo perdere un altro battito alla nipote.

Ma il ragazzo scosse la testa «No, sono già atteso a casa mia. Vi ringrazio, sarà per un'altra volta.» disse riprendendo in mano il contenitore e il berretto posato sul tavolo, prima di congedarsi.

Elena tirò un sospiro di sollievo, dentro di sé. Sarebbe stato difficile celare il suo turbamento se Genzo fosse rimasto lì con loro, dopo quello che era accaduto … e che forse stava per accadere e cui Carlo aveva probabilmente almeno in parte assistito, nonostante l'atteggiamento volto a fare finta di niente.

E anche in quel caso, non sapeva se rimpiangere o rallegrarsi.

Una cosa era certa: quell'altalena che sia lei sia Genzo avevano alimentato la stava logorando … e un chiarimento si era ormai reso ineludibile.

 

 

 

 

***Note***

 

Park Hotel: è una catena di alberghi di lusso. Quello in cui alloggia Genzo è ubicato nel quartiere speciale di Minato.

Questo è il sito ufficiale con molte fotografie.

 

"L'età dell'innocenza" è un romanzo della scrittrice americana Edith Wharton, pubblicato nel 1920 e da cui è stato tratto un film prodotto nel 1993, diretto da Martin Scorsese e interpretato da Daniel Day-Lewis, Michelle Pfeiffer e Winona Ryder.

 

L'Amaryllis belladonna è una pianta originaria del Sudafrica, dalle foglie di color verde vivace e fiori molto profumati che a seconda della qualità possono essere di diversi colori: bianco, rosso, rosa con striature giallo chiaro e così via.

Potete trovare informazioni più dettagliate qui.

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Capitolo 19
*** Capitolo XIX - Il passato si arrende al presente ***


Capitolo XIX

 

Il passato si arrende al presente

 

 

 

Taro ricevette il pallone da Izawa a metà campo, sulla fascia sinistra.

Cominciò subito a correre, evitando l'intervento di due avversari e saltando l'energico tackle di Takasugi.

Entrato in area di rigore, avanzò fino a trovarsi a tu per tu con Genzo.

Contrariamente alle attese, Taro non effettuò un tiro, ma un passaggio alla sua destra verso Kisugi che stava arrivando velocissimo.

Il portiere, sebbene sorpreso, riuscì comunque a cambiare direzione in tempo per fermare il potente destro dell'attaccante del Cerezo Osaka.

«Wakabayashi è davvero imbattibile.» commentò Izawa, mentre Genzo si rialzava con il pallone in un braccio, mentre con l'altra mano si sistemava il berretto.

«Puoi dirlo forte.» disse Teppei, detergendosi il sudore dalla fronte con una mano «Neppure con un assist di Misaki all'ultimo secondo e a due passi dalla porta riesco a fargli gol.»

«I suoi riflessi erano già eccellenti prima, ma ora sono ulteriormente migliorati.» gli fece eco Taki.

«Credo sia merito anche dei suoi allenamenti di pugilato e kickboxing. In quegli sport i riflessi sono tutto.» intervenne Takasugi.

«Alle Olimpiadi avremo una delle migliori difese del torneo, poco ma sicuro.» disse Taro rivolgendo il suo sguardo a un Genzo più silenzioso del solito, dirigendosi con gli altri ragazzi verso gli spogliatoi.

Mancavano ormai soltanto quattro giorni al loro ritorno al J-Village, per il raduno cui sarebbe seguita la partenza per Toluca, la sede scelta per il ritiro preolimpico.

I ragazzi di Nankatsu, ad eccezione di Shun ancora in vacanza a Kyushu con Madoka, avevano deciso di incontrarsi per un'ultima partitella al campo di calcio comunale, sotto il caldo sole mattutino di una primavera ormai quasi al termine.

 

«Tra pochi giorni ci siamo, ragazzi. E io non vedo l'ora di iniziare! Ho già i brividi.» esclamò Ryo, entrando nello stanzino comune dello spogliatoio, dove gli altri ragazzi avevano già cominciato a rivestirsi dopo la doccia.

«I brividi rischiano di venirmi se Kira schiererà te titolare, Ishizaki.» intervenne Genzo, con un sorriso sardonico.

«Ehi, guarda che ho già giocato da titolare e, a parte qualche errore, me la sono sempre cavata e qualche volta ho anche salvato il risultato!» protestò il difensore, incrociando le braccia, stizzito.

«Ma lo sappiamo bene, Ishizaki. Non hai ancora capito che ti provochiamo solo perché è troppo divertente vederti perdere le staffe?» ribatté Taki, tra i sorrisi e le risate degli altri ragazzi, che finirono per coinvolgere lo stesso difensore.

«Avrei voluto incontrare Tsubasa prima di partire per il Messico, ma a quanto pare arriverà in Giappone dopo che ce ne saremo andati.» disse poi Ryo.

«A proposito ragazzi, avete visto le ultime foto che ci ha mandato da Barcellona? Sanae ha un pancione enorme!» commentò Urabe.

«Sfido, sono due gemelli!»

«E così a ventun anni diventeranno genitori di due figli in un colpo solo. Sono felice per loro, ma non li invidio!»

«Non ti preoccupare Urabe, tanto non ti sposa nessuna!» scherzò Kishida, che schivò per un pelo l'asciugamano che Hanji gli aveva scagliato.

«Ehi, ti ci metti pure tu? Non mi posso più fidare nemmeno dei miei vecchi amici!» si lamentò indispettito, tra le risate di tutti.

«Quello che non mi aspettavo era Misaki con Kumi. Non avevo mai notato nulla, convinto com'ero che ci fosse del tenero tra lui ed Elena.» disse Teppei, guardando il centrocampista.

«Io vi avevo detto che eravamo solo amici, ma non mi avete mai creduto.» rispose, alzando le spalle.

«Per forza, dopo ogni partita vi allontanavate insieme! E poi ti incitava nelle partitelle, veniva spontaneo pensare che avesse un debole per te.»

«Ad averlo saputo, un pensierino su di lei lo avrei fatto.» ammise Mamoru, con un sorriso timido.

Genzo, che stava piegando un asciugamano, rimase per un attimo fermo e corrugò le sopracciglia. Taro, l'unico a guardare subito verso di lui e ad accorgersene, sorrise divertito.

«Scusa ma quell'estetista di Yokohama … Chiyoko. Che fine ha fatto?» lo punzecchiò Taki.

«Non ci sentiamo più. Non è mai stato niente di serio, comunque.» rispose il centrocampista, facendo spallucce.

«Elena se ne va tra poco più di una settimana, se non ho capito male.» disse Urabe, tornando all'argomento precedente.

Taro assentì.

«Sono contento di averla conosciuta. Si è inserita perfettamente nel nostro gruppo, ve la ricordate alla festa a casa di Ishizaki? Dopo poche battute sembrava già di chiacchierare come vecchi amici.» commentò Morisaki.

«Già e quando veniva a vedere le partite tifava come se fosse anche lei giapponese!» concordò Takasugi, incrociando le braccia.

«Sarebbe bello rivederla alle Olimpiadi. In fondo da Roma alla Spagna ci si mette poco, in aereo.» considerò Kishida.

«Beh, non è detto che non la rincontriamo, in futuro. Io la conosco da tempo e poi lei, Kumi e Yukari sono diventate amiche, quindi rimarremo in contatto.» affermò Taro «E se arriviamo in finale, credo proprio che a Madrid ci sarà anche lei.»

 

Dopo aver lasciato il campo, il gruppo condivise un tratto del percorso, per poi disperdersi verso le rispettive abitazioni.

Taro e Genzo si ritrovarono così a fare l'ultimo pezzo di strada da soli.

«Mi devi un favore, Wakabayashi. Se Izawa non avesse creduto che Elena stesse con me, te lo saresti ritrovato come rivale in amore.» scherzò il centrocampista.

Il portiere fece spallucce «Non credo avesse intenzioni serie.» disse, lapidario.

«Questa sera le parlerai?»

Genzo fece un cenno d'assenso. «Sai … sono un po' nervoso.» ammise.

«Me ne sono accorto. Stamattina non hai quasi spiccicato parola. Non che tu sia un chiacchierone, ma a parte la battuta su Ishizaki la tua voce non si è mai sentita.»

Genzo fece un lieve sorriso.

«È che non ho mai dovuto dichiararmi a una ragazza. Non ho mai dovuto confessare i miei sentimenti, né sono mai stato incerto sull'esito di una mia iniziativa. Con Elena è diverso … lei è diversa.»

Taro annuì. Capiva perfettamente quello che intendeva l'amico con quell'ultima frase. Se ne rendeva conto ogni volta che pensava a Kumi … nessuna ragazza lo faceva sentire a suo agio come lei.

Da quando erano tornati a Nankatsu, si erano incontrati praticamente ogni giorno e qualche volta era anche andato a prenderla con l'auto all'uscita dal tanki-daigaku.

Stavano vivendo l'inizio della loro storia con l'entusiasmo della loro giovane età ma giorno per giorno.

Già in quei mesi si era reso conto che Kumi era una ragazza radiosa, di indole ottimista ma capace anche di rimanere con i piedi per terra, come testimoniavano le sue scelte scolastiche e lavorative.

Sarebbe trascorso almeno un mese prima che si potessero rincontrare in Spagna e voleva passare quanto più tempo possibile con lei, per farle capire quanto tenesse al loro rapporto.

Era sicuro che l'influsso di Kumi avrebbe avuto effetti positivi anche su Elena.

Le due ragazze si erano incontrate spesso nelle ultime settimane e il loro rapporto di amicizia si era fatto ancora più stretto e confidenziale.

La sua amica italiana ormai non negava più i suoi sentimenti per Genzo.

Kumi stava cercando di convincerla a non rinunciare a viverli.

 

Elena guardò la sua immagine riflessa nel grande specchio della sua camera da letto, contemplando con aria critica la sua figura fasciata in un tubino blu lungo fino a poco sopra il ginocchio, con un leggero spacco a lasciare liberi i movimenti delle sue gambe.

Era un abito che aveva acquistato in una boutique di Sydney, su pressione di Kumi e Yukari che avevano sottolineato quanto fosse perfetto addosso a lei.

Aveva pensato di indossarlo per la serata in discoteca, ma poi l'aveva ritenuto troppo elegante e aveva optato per un'altra mise.

Vi ripensò con un sospiro. Quella era stata la serata in cui il suo rapporto con Genzo era definitivamente passato dall'amicizia all'attrazione reciproca.

Si rese conto che stava scegliendo abbigliamento, acconciatura e trucco non solo in funzione della serata, ma pensando anche all'impressione che avrebbe avuto su lui.

Raccolse due ciocche laterali e le fissò con un fermaglio.

Poi abbassò le mani e si guardò i palmi, sbuffando leggermente nel vedere le piccole vesciche che li deturpavano.

Tre giorni senza parallele non erano bastati a farle scomparire del tutto, nonostante le medicazioni.

Pensò a quando Genzo le aveva delicatamente prese tra le sue mani, accarezzandone i contorni.

Chiuse gli occhi con un altro sospiro. Ormai qualsiasi cosa le faceva venire in mente quel ragazzo.

Aveva anche passato una notte in bianco e pianto, per lui.

Il confronto con Asami, la serata della finale delle Nazionali juniores e vederlo andarsene con la giovane ereditiera le avevano fatto capire che si era innamorata. O meglio, l'avevano costretta ad ammetterlo.

Il dubbio non era più sui sentimenti che provava per Genzo, ma se si sentiva pronta a lasciarsi alle spalle definitivamente la sua relazione con Gianluca, non facendosi più bloccare dai suoi sensi di colpa.

Il suo proposito di aspettare il ritorno in Italia per capire cosa provava per lui stava andando in fumo, perché Kumi si era comportata da perfetto grillo parlante dicendole che lei in realtà sapeva benissimo quali fossero i suoi sentimenti per il portiere, soltanto non aveva ancora trovato il coraggio di riconoscerli.

Ma a che sarebbe servito tutto questo, se lui non aveva ancora posto fine alla relazione con Asami?

Incrociò lo sguardo di Kumi, seduta sul letto dietro di lei, che la guardava con un sorriso d'approvazione.

«Sei stupenda, Elena. Devi mettere quell'abito! Mi immagino la faccia che farà Wakabayashi quando ti vedrà.» disse, ammiccando.

L'insegnante sorrise leggermente e raggiunse l'amica.

«Oh, magari si comporterà da cavaliere. Ma domani è sabato, e se non sbaglio inizia la due-giorni da dedicare alla sua fidanzata.» affermò sprezzante, spingendosi con il busto leggermente all'indietro e poggiando le mani sul lenzuolo che copriva il materasso.

Kumi sgranò gli occhi e increspò le labbra, stupita e un po' seccata.

«Volevo aspettare che fosse lui a dirtelo, ma sentendoti parlare così non posso più tacere.»

Elena si voltò verso di lei, con aria interrogativa.

«Wakabayashi ha sì lasciato lo Yoyogi Stadium con la Ujimori per andare a cena con lei e poi a casa sua.» rivelò, mentre Elena abbassava lo sguardo e faceva un breve respiro.

«Ci è andato per dirle che la lasciava. L'ha lasciata, Elena, e poi è andato a dormire in una stanza al Park Hotel, sempre a Tokyo.» spiegò, osservandola mentre la sua bocca si dischiudeva e i suoi occhi si spalancavano. Poté vedere la gioia impregnare i suoi occhi azzurri.

«Lui non me l'ha detto …» mormorò, pensando a pochi giorni prima «O forse … era ciò che lui stava per dirmi prima che arrivasse mio zio …»

Kumi annuì.

«Fidati, è andata così. Il mattino dopo le Nazionali io e Taro abbiamo fatto colazione con lui proprio al Park Hotel. Quando gli abbiamo detto che tu credevi avesse passato la notte con Asami, era molto rammaricato e mi è sembrato anche irritato con sé stesso.» le afferrò un braccio, sporgendosi verso di lei «Ora dipende davvero tutto da voi.» la esortò, guardandola negli occhi.

Elena fece un leggero sorriso, poi chinò leggermente il capo «Ho paura, Kumi.» ammise, semplicemente.

La giapponese la guardò, poi scosse la testa ed emise uno sbuffo.

«"Ho paura", "Mi sento in colpa", "Mi piace, ma".» le fece il verso, stizzita «Basta! Io capisco che tu possa avere delle remore, ma non puoi andare avanti così per tutta la vita.»

«Non è semplice, Kumi.» replicò, aggrottando le sopracciglia e assumendo un tono un po' infastidito.

«Lo so! Ma rinunciare a una persona di cui sei innamorata per mantenere un legame con un passato che non c'è più, è deleterio.» ribatté prontamente.

«Tu e Wakabayashi non potrete mai più essere soltanto amici. I vostri sentimenti sono andati troppo oltre e non potete tornare indietro.» aggiunse perentoria, mentre Elena stringeva le labbra e deglutiva, senza sapere cosa rispondere.

«Tu pensi solo a quello che succederebbe se gli dicessi di sì, accettando di amarlo e lasciarti amare da lui. Prova a pensare a come ti sentiresti se invece decidessi di rinunciare: lo faresti perché ti senti in dovere e non perché è la cosa migliore. Immagina il rimpianto che proverai ogni volta che lo vedrai apparire in tv o su qualche articolo … perché lui è un calciatore famoso e inevitabilmente ti capiterà di vederlo apparire su uno schermo o sulle pagine di qualche giornale. E oltretutto, mica penserai di rompere i contatti anche con me e Taro. Perché io ti scriverò, e non ci sarà un'e-mail o un messaggio in cui non ti nominerò Genzo Wakabayashi.» la ammonì con un dito alzato e aria minacciosa.

Elena spalancò gli occhi «Ehi, questo è terrorismo psicologico!» obiettò, pur divertita dal piglio dell'amica.

Kumi scosse la testa e le passò un braccio attorno alle spalle «No, cerco soltanto di farti capire che hai la felicità a portata di mano e per questo non devi scusarti con nessuno.»

 

L'auditorium dell'Istituto Shutetsu era ampio e fornito delle più moderne attrezzature per le luci e il suono. Il palco era esteso e adatto a ospitare esibizioni di ogni genere, dalla recita teatrale al concerto al numero di danza.

«È già pieno, ragazzi.» disse Taro, mentre si faceva spazio tra la folla, seguito da Kumi ed Elena.

«Dove stai andando, Taro?» gli chiese Kumi, notando che il suo ragazzo non smetteva di avanzare.

«Sto cercando dei posti in prima fila.»

«Ammesso che ce ne siano ancora, non è più corretto lasciarli ai genitori e parenti degli allievi?» obiettò Elena.

Taro socchiuse le labbra per risponderle, ma poi, aiutato anche da un lieve pizzicotto di Kumi su un braccio, si ricordò del patto concordato con Wakabayashi e si limitò a strizzarle un occhio, senza smettere di dirigersi verso le prime poltrone.

Un uomo di mezza età, probabilmente un segretario, si fermò davanti a loro.

«Lei è la signorina Rulli?» chiese, rivolto alla giovane italiana.

«Prego, si sieda qui.» le disse al suo cenno affermativo, indicandole uno dei posti in prima fila, proprio di fronte al palco.

«E voi siete il signor Misaki e la signorina Sugimoto, se non erro. Sedetevi pure qui.» aggiunse, indicando i due posti accanto, prima di andarsene.

Elena lo guardò con aria interrogativa, poi sedette, stupita.

Si voltò verso Taro e Kumi, che però sembravano soprattutto contenti di potersi godere lo spettacolo da una postazione privilegiata.

Si guardò intorno, perplessa, cercando con lo sguardo l'uomo che aveva tanto insistito perché si trovasse lì.

Dopo pochi minuti lo vide.

Entrò accompagnato da uomini e donne tutti più vecchi di lui, tranne un ragazzo che doveva avere all'incirca la sua età e con cui sembrava avere molta confidenza. Dovevano essere gli altri membri del consiglio direttivo.

Era vestito con un elegante completo in giacca e cravatta scuri, che evidenziavano il suo portamento e il suo fascino.

I loro sguardi si incrociarono e lui si arrestò un istante, lo sguardo tra lo stupito e l'ammirato, poi la salutò con un cenno del capo e un sorriso.

Indossava un elegante abito blu lungo fino a poco sotto il ginocchio, leggermente scollato e un paio di décolleté dello stesso colore ai piedi. Donava ulteriore eleganza alla sua figura e risaltava il suo aspetto nordico.

Era bellissima … se non fosse stato per il suo accordo con le ragazze, le avrebbe chiesto di venire via da lì e di passare la serata soltanto con lui.

Elena avvertì un piacevole turbamento, misto a timore che quello sguardo potesse vanificare l'effetto delle gocce di ansiolitico che aveva inghiottito prima di uscire.

Ma durò poco, perché tutti gli spettatori vennero invitati a sedersi.

Le luci vennero abbassate e lo spettacolo cominciò.

In entrambi albergava il rimpianto per non essere seduti l'uno accanto all'altra, ma d'altro canto, la lontananza non li avrebbe distratti da quanto stava per svolgersi sul palcoscenico.

 

Lo spettacolo era piacevole, ben concepito e realizzato.

Numeri di danza si alternavano a esibizioni di canto, a volte fondendosi.

Tutti i giovanissimi allievi, guidati dai loro insegnanti, si dimostrarono dotati di talento e capaci di trasmettere le loro emozioni al pubblico.

Nel corso di un intervallo tra un numero e l'altro che sembrava protrarsi più a lungo rispetto ai precedenti, Elena consultò il programma che le era stato consegnato dopo aver preso posto.

Mancavano poche esibizioni al termine dello spettacolo.

Le luci si attenuarono gradualmente, fino a creare una penombra.

Iniziò una canzone che Elena conosceva, ma che non era indicata nel programma.

"Reach" di Gloria Estefan … una delle sue preferite, che ascoltava sempre prima di ogni gara.

Si trattava del disco originale e non di una versione cantata da un'allieva dell'Istituto.

Le luci si alzarono lentamente, rivelando cinque figure femminili che si affiancarono l'una all'altra per poi avanzare insieme sul palco, su cui notò che erano state disposte delle parallele asimmetriche e una trave.

Elena sgranò gli occhi, il fiato le si spezzò.

Erano Arimi, Mitsuyo, Shinobu, Hanako ed Emi …

Le cinque ginnaste si fermarono e alzarono le braccia, nel tipico gesto di saluto precedente ogni routine.

Istintivamente si voltò verso Genzo, che però era parzialmente coperto da altre persone sedute in mezzo a loro, che sembravano avere l'espressione attenta ma non troppo stupita.

Si sentì afferrare una mano e vide Kumi che le faceva l'occhiolino con un sorriso complice, lo stesso con cui la guardò anche Taro.

A turno, le ragazze eseguirono delle routine di corpo libero, parallele asimmetriche e trave.

Le serie di rovesciate ed enjambée, di combinazioni di salti raccolti, carpiati e avvitati catturarono presto l'attenzione e l'ammirazione degli spettatori.

Erano tutto ciò che lei e Mayuko avevano insegnato in quei mesi.

I loro sorrisi e la scioltezza e coordinazione dei loro movimenti davano l'impressione che tutto fosse eseguito con facilità e leggerezza, doti che da sempre distinguevano le migliori ginnaste.

Elena sorrise, fiera di loro.

Se fosse stata una gara vera, avrebbero ricevuto come valutazione un "dieci perfetto" o lo avrebbero quantomeno sfiorato.

 

Genzo si sporse leggermente, per cercare di vedere il viso di Elena.

I suoi occhi sembravano più larghi e brillanti, le sue labbra erano un poco dischiuse: stava assistendo con un misto di stupore e di ammirazione e orgoglio per la coreografia che le cinque ginnaste stavano realizzando con i loro movimenti e combinazioni.

Sorrise e tornò a guardare l'esibizione.

 

Alla conclusione, le ragazze vennero premiate con uno scroscio di applausi entusiasti.

Si presero per mano e, con Arimi al centro, avanzarono quasi fino al limite del palco e fecero un inchino.

Quando il pubblico smise a poco a poco di battere le mani, la giovanissima campionessa prese la parola.

«Sono Arimi Shimokawa, ginnasta dello Shiroyama Gymnastics Club. Grazie. Il vostro entusiasmo ci dimostra che abbiamo fatto un buon lavoro con questo numero collettivo. È stata un'idea nata quasi all'improvviso e con la quale abbiamo voluto fare una sorpresa a lei.» disse, indicando con una mano Elena, seduta proprio di fronte a dove si trovavano loro.

«La signorina Elena Rulli, una delle nostre insegnanti. Grazie a lei e alla signorina Mayuko Shiroyama siamo migliorate tantissimo, fino a classificarci al primo posto agli ultimi campionati Nazionali juniores. La loro competenza e la loro passione ci hanno fatto amare il nostro sport e portato ad essere tra le migliori ginnaste del Giappone.» proseguì, mentre Elena assisteva con aria incredula e commossa.

«La signorina Rulli tornerà in Italia tra poco più di una settimana. Abbiamo voluto salutarla a modo nostro, per ringraziarla di tutto quello che ci ha insegnato e per dirle che non ci dimenticheremo mai di lei!» aggiunse Mitsuyo.

«Signorina Rulli, venga sul palco con noi!» gridò Arimi, saltando giù e afferrandole le mani.

Elena tentò una debole protesta, ma alla fine si lasciò convincere, grazie anche a una leggera spinta di Kumi.

Salì sul palco, dove si posizionò tra Arimi e Shinobu, che le aveva afferrato l'altra mano. Si inchinò, con un sorriso commosso e le lacrime agli angoli degli occhi, mentre il pubblico ricominciava ad applaudire.

I suoi occhi incrociarono quelli di Genzo, che batteva le mani con un sorriso aperto, carico di affetto. Era così raro vederlo sorridere in quel modo … e i suoi occhi la guardavano con tenerezza e persino con orgoglio.

Un calore le si irradiò all'interno del petto: ecco perché le aveva detto che la sua presenza era importante. Aveva proposto lui l'inserimento del numero collettivo nello spettacolo … e l'aveva fatto per lei.

 

Lo spettacolo era terminato da circa mezz'ora e Kumi, Taro, Elena e Genzo avevano da poco lasciato l'Istituto Shutetsu.

Era una stupenda serata di fine primavera. L'aria era mite, il cielo nero era illuminato dalla luna piena e dalle stelle.

«Che meraviglia l'esibizione delle ragazze! E vi giuro che quando hanno ringraziato pubblicamente Elena e l'hanno chiamata sul palco, stavo per mettermi a piangere.» commentò Kumi.

«Senza nulla togliere agli allievi dell'Istituto, la loro performance è stata quella che mi ha emozionato di più. Loro sono bravissime e tu e la signorina Shiroyama le avete allenate davvero bene, Elena.» concordò Taro.

«Hanno creato una coreografia splendida.» ammise l'ex ginnasta, guardando Genzo che rispose con un sorriso.

«Volete andare da qualche parte, ragazzi? Al bar, alla gelateria …» propose poi Taro.

«Io preferisco andare a casa.» rispose Elena «Sono un po' stanca …»

Il ragazzo annuì, comprensivo.

«Posso immaginarlo. Allora noi andiamo al bar, che ne dici Kumi?»

«Tu che fai, Wakabayashi?» chiese la mangaka, sapendo già quale risposta aspettarsi.

«Credo che andrò anch'io a casa. Sono ore che ho addosso questo completo.» disse, allentandosi la cravatta.

«D'accordo, allora ci vediamo!» li salutò con un lieve ammicco, mettendo le sue mani attorno al braccio di Taro e avviandosi con lui, lasciando Genzo ed Elena soli.

 

«Tu e le ragazze mi avete fatto una bellissima sorpresa.» cominciò lei, dopo aver percorso alcuni metri.

«Sono venute a casa mia a chiedermi di lasciar loro libera la palestra dell'Istituto Shutetsu e di inserire il loro esercizio nello spettacolo. La vittoria alle Nazionali juniores ha avuto risonanza anche nella nostra scuola, per via della presenza di Mitsuyo e Hanako, e io sono riuscito a convincere i membri del consiglio direttivo e gli insegnanti di alcuni club sportivi a spostare gli allenamenti in altre strutture, sempre collegate alla scuola.»

Elena annuì. «Avrò un altro splendido ricordo. Ho passato mesi bellissimi con queste ragazze … sentirò la loro mancanza. È stata un'esperienza più importante e bella di quanto avrei immaginato.»

«Anche tu lascerai un bel ricordo. Ho sentito che Mayuko ha cercato di convincerti a rimanere.»

«Già. Ma io ho deciso quale direzione voglio dare alla mia vita. Voglio studiare e vivere in Italia o in Germania, e magari insegnare ginnastica in un'altra palestra per pagarmi gli studi. Mia madre mi ha chiamato ieri e mi ha detto di aver avviato l'Anerkennung per la domanda d'iscrizione alla LMU.»

Genzo fece un cenno d'assenso.

«Sei sicura di voler andare subito a casa?» chiese, dopo alcuni attimi di silenzio.

Elena assentì.

«Allora ti accompagno. Vorrei passare ancora un po' di tempo con te.» ammise.

Lei indugiò su di lui con lo sguardo, poi sorrise. Le spalle le tremarono.

«Hai freddo?»

«No … guarda, la casa dello zio è lì a pochi passi.» rispose, facendogli cenno con il mento.

«Se vuoi, puoi entrare a bere qualcosa.» gli disse, quando furono giunti davanti al cancello.

Genzo assentì e la seguì nel cortile.

Voleva passare ancora del tempo con lei … e soprattutto, doveva parlarle. Lo avrebbe fatto, qualunque cosa fosse accaduta. Tra di loro non doveva rimanere nulla in sospeso.

«Spero di non disturbare Carlo.»

Elena scosse la testa «No … lo zio è andato a Kyoto per assistere a un match e tornerà domani.»

Genzo trasse un respiro profondo.

Quello era il luogo e il momento. L'unico in cui potevano guardarsi negli occhi senza filtri né penombre, con la certezza che nessuno li avrebbe interrotti né disturbati.

 

Fortunately you have got

Someone who relies on you

We started out as friends

But the thought of you just caves me in

the symptoms are so deep

It is much too late to turn away

We started out as friends

 

Accarezzò brevemente Wilhelm, che gli si era avvicinato festoso, e seguì Elena in casa.

«Birra o Bacardi Breezer?» gli chiese, dopo che ebbe chiuso la porta - e Wilhelm - alle loro spalle.

«Meglio non esagerare con l'alcool … Bacardi Breezer.»

«Sono d'accordo.» sorrise la giovane, dirigendosi verso la cucina.

Prese due bicchieri e li riempì con una lattina di gusto limone della famosa bevanda.

Lui seguì i suoi movimenti rapidi e flessuosi, retaggio di anni di attività sportiva.

«È stato meraviglioso vedere le ragazze che facevano quell'esercizio, progettato con cura e realizzato senza sbavature. Hanno scelto gli elementi su cui abbiamo lavorato di più in questi mesi.» disse lei dopo che fu tornata nel salotto, porgendogli un bicchiere.

«Sì, è stato bello assistere alla bravura di quelle ragazze e all'entusiasmo del pubblico.» concordò «Ma è stato bello anche vederti così felice.»

Gli occhi di Elena si allargarono, in un misto tra stupore e piacere.

«Ed è proprio per questo, che ho fatto di tutto per convincere gli organizzatori dello spettacolo a inserire quel numero.»

«Sei gentile.» mormorò, abbassando lo sguardo e arrossendo leggermente.

Lui si mise davanti a lei e le sfiorò il mento con un dito, facendole sollevare il viso e incrociare i suoi occhi e le sue labbra piegate in un sorriso affettuoso.

Anche Elena sorrise, ma sarcasticamente, nonostante il piacere che le provocava quel tocco.

Kumi non aveva lasciato spazio a dubbi quel pomeriggio … ma finché non fosse stato lui a dirle come stavano realmente le cose, non sarebbe riuscita a crederci completamente.

«Se la Ujimori ci vedesse in questo momento avrebbe seri dubbi sulla solidità del vostro rapporto …» disse, scostando il dito di Genzo dal suo viso.

Il giovane alzò un sopracciglio, dapprima stupito dal suo improvviso cambio di atteggiamento, ma mantenne il suo contegno: lui si trovava lì proprio per parlarle anche di quanto accaduto quella sera.

«Mi sembra di cogliere una nota di gelosia in quello che dici, o sbaglio?» la provocò, mentre le restituiva il bicchiere ormai vuoto.

Elena si voltò di lato, per poi tornare a dargli rapidamente le spalle. Mise i bicchieri nel lavandino della cucina, poi tornò nel salotto e si accostò al tavolo, accanto al vaso degli Amaryllis.

«Ti sei scusato per non aver festeggiato con me, ma avevi un'ottima ragione per non venire, no?»

Genzo strinse la mascella, leggermente infastidito da quel tono ostile. Ma replicò con calma, rendendosi conto che ora sapeva perfettamente quali erano le parole con cui esprimerle i suoi sentimenti.

«Sì, effettivamente avevo un buon motivo per non venire alla vostra festa.» iniziò. «Dovevo andare a casa di Asami. Per dirle che intendevo chiudere la nostra storia.» proseguì, mettendosi di fianco a lei per guardarla in viso.

«L'ho lasciata, Elena.»

La ragazza strinse le mani attorno al legno del tavolo.

Le lacrime le stavano salendo agli occhi e il cuore sembrava volerle uscire dal petto.

Ma continuò a tenere gli occhi bassi.

Aveva bisogno di un'altra conferma.

«Elena per favore, voltati. E guardami.» la sollecitò, mettendole le mani sulle spalle ed esercitando una lieve pressione, per spingerla a girarsi.

Si trovarono di nuovo l'uno di fronte all'altra, lei tra il tavolo e Genzo.

«Asami è venuta all'hotel dove alloggiavo, pochi giorni prima della finale. Mi ha detto che tra voi c'è un legame troppo forte e solido perché potesse essere spezzato. E che non dovevo farmi illusioni su di te.» gli svelò, e stavolta fu lei a puntargli addosso uno sguardo penetrante e quasi inquisitorio.

Genzo spalancò gli occhi, sorpreso. Non sapeva nulla di quell'incontro. Ma non le chiese altri particolari. Qualunque cosa le avesse detto, in quel momento non aveva importanza.

«Ho parlato con lei e le ho detto tutto. Che non ero più coinvolto, che non aveva più senso continuare la nostra relazione. E che da tempo ormai penso a un'altra donna … la splendida ragazza che è qui di fronte a me.» le confessò, mentre i suoi occhi si spalancavano «Non so se hai superato i tuoi sensi di colpa, Elena. Ma non potevo continuare a stare con lei quando pensavo sempre più a te. E non potevo nemmeno lasciarti andare senza dirti quello che provo.»

Elena avvertì un colpo al cuore. Era vero … quello che le aveva detto Kumi … era tutto vero …

Lui la guardò.

I suoi occhi erano lucidi, luminosi, le labbra leggermente dischiuse. Era commozione …

Lei chiuse gli occhi, stringendoli e sorrise.

Avrebbe voluto rispondere qualcosa … ma non riusciva a trovare le parole adatte a esprimere le sue emozioni. Erano troppo forti, troppo intense, troppo inaspettate …

Genzo sollevò una mano, a portarle una ciocca di capelli dietro un orecchio e la fece scorrere piano sulla guancia.

Poteva scostarsi e dirgli di smettere, gliene stava dando tutto il tempo.

Ma non lo fece. Continuava a guardarlo, in attesa. Le labbra tremavano leggermente, così come il suo corpo.

«Ho paura di fare una cosa sbagliata, Genzo …» mormorò.

Il ragazzo le sorrise dolcemente.

«Tu cosa vuoi?» le chiese, mettendole di nuovo le mani sulle braccia, sfiorandole in una carezza.

Chinò il viso sul suo, e lei chiuse gli occhi.

Un istante dopo, ogni distanza venne annullata.

Genzo mosse lentamente le labbra contro quelle di Elena, come se volesse farle riprendere confidenza con un approccio e un'emozione cui non era più abituata.

Erano morbide … così come la sua pelle.

La sua mano risalì e raggiunse il fermaglio con cui aveva raccolto i capelli e lo sfilò delicatamente, lasciandolo cadere sul tavolo.

Affondò le dita tra quei lunghi e ondulati fili di seta, continuando ad accarezzarle le labbra, in modo sempre più audace.

Si scostò per poterla guardare. I suoi occhi azzurri sembravano risplendere …

Aveva aspettato quel momento per tanto tempo, voleva che lei se ne rendesse conto.

Entrarono in contatto di nuovo e stavolta Elena dischiuse le labbra, lasciando che una sensazione di calore e di voluttà la invadesse.

Avvertì le ginocchia tremare …

Lui le passò le braccia attorno alla schiena, per sostenerla e per stringerla a sé, man mano che il loro bacio si approfondiva.

Lei sollevò le braccia, mettendogliele attorno al collo.

Si ritrovò così avvolta nel suo abbraccio, e persa nel fervore dei suoi baci.

Fece scorrere le sue dita sottili verso l'alto, fino a raggiungere e stringersi attorno ai suoi capelli, dietro la nuca.

Il corpo di Genzo fremette …

Ora Elena stava rispondendo, con una passione pari alla sua.

Avrebbero voluto prolungare quel momento all'infinito …

 

Si staccarono con riluttanza.

Elena accostò la fronte al mento di Genzo, riprendendo fiato e accorgendosi che anche il respiro del ragazzo era leggermente affannoso.

Gli posò una mano sul petto e avvertì i battiti accelerati del suo cuore.

Chiuse gli occhi e sorrise, mentre lui le sfiorava la fronte e la tempia con le labbra.

Si rese conto che era quello che aveva desiderato per settimane, forse mesi, senza trovare il coraggio di confessarlo a sé stessa.

Genzo continuò a tenerla stretta. Contemplò il suo volto leggermente arrossato, gli occhi trasognati e lucidi.

Si sentiva inebriato, quasi stordito. Non aveva mai baciato una ragazza con tanto trasporto.

Erano sensazioni nuove, di un'intensità a lui fino ad allora sconosciuta.

«Elena … lunedì parto per il raduno al J-Village e poi andrò in Messico con la squadra. Voglio passare questo finesettimana con te. Andiamo a cena, al mare, al cinema … dove vuoi. Purché possa rivederti.»

La ragazza si scostò leggermente e lo guardò, poi sorrise.

Le loro labbra si toccarono ancora e lei gli si abbandonò di nuovo, come se non avesse potuto esserci vita fuori dalle braccia e dalla bocca di Genzo.

 

 

 

 

***Note***

 

 

Questo è il tubino indossato da Elena, così come lo immagino. :-)

 

Anerkennung: termine tedesco che significa "riconoscimento".

I titoli conseguiti in Italia o in un altro Paese estero devono essere validati e riconosciuti in Germania attraverso una procedura chiamata per l'appunto Anerkennung.

Per immatricolarsi a un corso di laurea in Germania sono necessari principalmente due requisiti:

un titolo di studio di scuola media superiore o equivalente;

conoscenza della lingua tedesca, generalmente tra un livello B2 del Quadro Europeo, ad esempio per i corsi di laurea in lingua inglese, e un livello C2, come nel caso di corsi di laurea in traduzione e interpretariato.

Se si è diplomati presso un istituto estero, come ad esempio in Italia, si dovrà quindi lasciar tradurre il proprio attestato da un traduttore giurato e farlo riconoscere attraverso questa pratica.

Fonte: MadreinItaly.info

 

"Reach", la canzone di Gloria Estefan scelta dalle cinque ginnaste dello Shiroyama Gymnastics Club per il loro esercizio, è il tema ufficiale delle Olimpiadi di Atlanta 1996. Potete ascoltarla qui.

 

Le strofe inserite nel capitolo appartengono alla stupenda canzone "Sign Your Name" di Terence Trent D'Arby (oggi si fa chiamare Sananda Maitreya) contenuta nell'album "Introducing the Hardline According to Terence Trent D'Arby" del 1987.

Questa è la traduzione:

 

Per fortuna hai qualcuno

che ha fiducia in te.

Abbiamo cominciato da amici

ma il pensiero di te mi preme dentro

i sintomi sono tanto profondi

(ma) è troppo tardi per tornare indietro

Abbiamo cominciato da amici.

 

Altre parti del testo verranno inserite nei prossimi capitoli, perché lo trovo praticamente perfetto per la storia di Genzo ed Elena.

 

 

Grazie a tutti coloro che stanno leggendo questa storia!

Sandie

 

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Capitolo 20
*** Capitolo XX - Soltanto un mese ***


 

Capitolo XX

 

Soltanto un mese

 

 

 

«Pensi che questo sia più adatto a illustrare la leggenda di Tanabata

Taro inforcò gli occhiali ed esaminò il disegno che Kumi gli aveva appena passato.

Era uno degli ultimi che, seduti sul letto di lui, stavano scorrendo per scegliere quali versioni proporre per il nuovo numero della rivista con cui la ragazza aveva iniziato a collaborare.

Era stato abituato a essere obiettivo fin dalla più tenera età, con suo padre che gli aveva insegnato a non temere di criticare i suoi quadri e a indicargli schiettamente quello che non lo convinceva.

Il suo parere era imparziale ma non vincolante e alla fine Kumi decideva sempre in completa autonomia, anche se più di una volta i consigli del suo ragazzo si erano rivelati preziosi.

Lei lo osservò, per cercare di intuire cosa ne pensava, certo … ma anche perché quella montatura gli dava un'aria da giovane professore che avrebbe fatto breccia in molte studentesse, se avesse intrapreso quella strada anziché quella calcistica.

«Secondo me, il più rappresentativo è questo, ma quest'altro» disse, riprendendone in mano uno passato in rassegna poco prima «è più di impatto.»

Kumi prese i disegni dalle sue mani e li confrontò, un po' indecisa.

«A me questo piace di più ...» commentò infine, increspando un po' le labbra.

«Sono belli entrambi, Kumi. Tu porta a Fuji questi due e magari ne discuterai con i redattori e con il direttore.» le suggerì. «Potrebbe pure succedere che te li scelgano tutti e due.» ammiccò.

«Non sono la loro unica illustratrice.» rise, seppur compiaciuta.

Posò i fogli sul letto, afferrando poi un altro disegno.

«Questo voglio regalarlo a Elena. Che ne dici?» gli chiese, mostrandogli un ritratto della bionda insegnante in un'elegante posa ginnica.

«Dico che ne sarà felice.»

«Sai … stamattina mi ha telefonato. Lei e Wakabayashi si sono dichiarati e si sono anche baciati. E passeranno gran parte di questi due giorni insieme.» disse, con un sorriso raggiante.

«Sì, anche Wakabayashi me l'ha raccontato, addirittura ieri sera. Era appena tornato a casa. Quel ragazzo è riservato e sembra un blocco di granito tra i pali di una porta, ma quando prova dei sentimenti è come la lava di un vulcano.»

«Sono felice per loro. Sembra quasi voluto dal destino. Entrambi sono venuti qui dopo che il mondo era crollato loro addosso, e ora possono cominciare la loro nuova vita, insieme.»

Taro sorrise, perfettamente concorde.

«Posso provare i tuoi occhiali?» gli chiese dopo alcuni attimi di silenzio, tendendo le mani.

«Va bene.» rispose, togliendoli e dandoli alla ragazza che li prese con cautela e li indossò.

«Ah, non vedo niente! Ma quante diottrie ti mancano, Misaki?» rise, guardandosi intorno tenendo le dita premute sulle stanghette della montatura.

«Ma smettila, ragazzina insolente che non sei altro!» esclamò, afferrandole i fianchi e buttandola di peso sul letto, facendole emettere un gridolino divertito.

Si ritrovò sopra di lei, le mani appoggiate sul materasso.

Rimasero a guardarsi.

Il respiro di Kumi era accelerato, come dimostrava il rapido alzarsi e abbassarsi del suo petto.

Le sfilò gli occhiali dal viso e li posò sul comodino accanto.

Lei allungò una mano ad accarezzargli una guancia, raggiungendo l'attaccatura dei capelli.

Taro la guardò. Era sempre più bella … aveva lasciato crescere ancora i suoi capelli, che ora superavano di poco le spalle e la luce del sole vespertino si riverberava sui suoi occhi attraverso la finestra aperta, rendendoli di un bellissimo colore ambrato.

Si chinò e lambì piano le sue labbra, facendo una lieve pressione per indurla a schiuderle.

Lei sollevò le braccia e gliele mise attorno al collo, lasciando che il ragazzo si stendesse su di lei e rendesse più intimo il loro contatto, tenero dapprima, poi sempre più intenso.

Sussultò quando avvertì le mani di lui scendere lentamente e infilarsi sotto la sua maglietta, accarezzandole i fianchi. Quasi contemporaneamente le sue labbra lasciarono la bocca di Kumi e scesero sulla morbida pelle del collo, facendola sospirare e socchiudere gli occhi.

Con una mano intanto prese ad accarezzarle una gamba e risalendo sfiorò l'inguine, e lei si lasciò sfuggire un gemito.

«Taro … io non …» mormorò.

Lui seppure riluttante, sollevò la testa, sorrise e le accarezzò il viso. La desiderava, ma ancor di più la rispettava. Non l'avrebbe mai forzata a fare un passo per cui non si sentiva pronta.

«Non ti preoccupare. Aspetterò … l'importante è che non sia per colpa di quel bastardo.» aggiunse, guardandola attento.

Kumi sgranò gli occhi, poi scosse la testa sorridendo.

«No, assolutamente. Non potrei mai confonderti con quel tipo.»

Lui si sollevò e lei si mise a sedere raccogliendo le gambe tra le braccia.

«Sai, qualche mese fa mentre guardavamo in tv la partita contro la Thailandia, Elena mi disse che eri un ragazzo sensibile e le veniva naturale fidarsi di te. Aveva ragione.»

Taro sorrise.

«Mi ha anche detto che quando vi siete conosciuti, si è presa una cotta per te.»

Il giovane increspò le labbra in una smorfia divertita. «L'avevo sospettato. Certo lei era molto carina e simpatica, e aveva molta grinta. Era una via di mezzo tra te e Sanae ai tempi in cui era capotifosa della Nankatsu. Una "Anego" più femminile. Ma aveva solo tredici anni e io stavo per tornare in Francia. E poi la consideravo un'amica.»

«L'hai sempre considerata solo un'amica? Anche quando l'hai vista anni dopo?»

«Sì. Ma perché tanta curiosità? Pensavi anche tu che fossi innamorato di lei?»

Kumi sorrise e assentì.

«Eri sempre così premuroso nei suoi confronti. Dopo le partite chiacchieravate sempre insieme, sembrava quasi che vi deste appuntamento.»

«Erano semplici scambi di parole tra amici.»

«Sai … io ero gelosa.»

Taro spalancò gli occhi. «Già allora?»

La ragazza fece un cenno d'assenso, arrossendo leggermente. «Da quando sono venuta a trovarti con gli altri ragazzi al Centro di Medicina Sportiva, a Gotenba. Stavi affrontando una riabilitazione durissima dopo due gravi infortuni e tu eri così sereno e determinato. Mi è scattato qualcosa dentro e da allora non ho più potuto pensare a te come facevo prima.»

«Non mi hai mai fatto sospettare niente …» replicò, stupito.

Kumi allargò le braccia «Perché avevi sempre qualcun'altra. All'epoca stavi con Hayakawa, poi sei andato a Iwata e ti sei messo con quella giovane cuoca. E in questi mesi ho frainteso il tuo rapporto con Elena. Ho cercato di farmela passare, per non soffrire. Poi la nostra passione in comune ci ha fatti avvicinare e proprio a Sydney, ho capito che forse avevo delle possibilità.»

Taro strinse le labbra. «Quella sera ero irritato con me stesso, per non averti invitata prima di quello schifoso. E non solo per quello che ha cercato di farti.»

«Oh, ma allora ero riuscita a farti ingelosire!» gioì come se quella scoperta avesse avuto il potere di lenire almeno in parte la pena di quel ricordo, avvicinandosi a lui e assumendo una posa da gattina maliziosa.

Taro ridacchiò «Mettiti composta, Sugimoto. Quella è una posizione pericolosa.»

«Guarda che voler aspettare un po' prima di concedersi non significa essere frigide.» ribatté lei imperturbabile, avvicinandosi con un tono da tentatrice, cui rispose abbrancandola e baciandola di nuovo, mentre i pochi fogli rimasti sul letto caddero sparsi sul tappeto.  

 

Elena uscì dalla sua stanza con passo lento e lievemente ciondolante.

Non aveva neppure sentito il suono della sveglia ed era stata la voce di Carlo a destarla.

Si sentiva piacevolmente frastornata.

Genzo …

Avvertiva ancora il suo sapore in bocca e la sensazione delle sue grandi mani che l'avevano accarezzata, le braccia forti che l'avevano cinta e fatto aderire il suo corpo a quello di lui, i suoi occhi neri che la guardavano, fervidi.

Si erano baciati a lungo, ancora, prima di darsi appuntamento per la tarda mattinata.

 

«È stato qui Genzo, ieri sera?» esordì Carlo quando lei entrò in cucina. Una frase che suonava più come un'affermazione che come una domanda.

«Cosa te lo fa pensare?» chiese, in tono di finta noncuranza.

«Hai lasciato due bicchieri nel lavandino e il tuo fermaglio sul tavolo.» rispose l'uomo, con un sorriso malizioso.

Elena non rispose e si diresse verso il tavolo.

«Hai anche un'espressione da "Kiss me Licia".» insistette, decisamente divertito.

«Non è vero.» reagì infine, arrossendo e voltandosi.

Carlo rise. Le si avvicinò e le afferrò le spalle.

«Guarda che io sono felice per te, Elena. Anzi, ero preoccupato dal fatto che sembravi ammettere solo il lavoro e gli amici nella tua vita. Mi chiedevo se avresti detto di no a tutti gli uomini che ti avessero corteggiata. Perché ce ne saranno Elena, non credere. Ma pare che Genzo sia riuscito a scalfire quella barriera che avevi eretto intorno al tuo cuore.»

Elena sospirò e si voltò verso di lui. «Come hai fatto a capire?»

«Beh, pochi giorni fa, quando sono entrato in casa e voi vi siete spostati così in fretta, mi è sembrato chiaro che avevo interrotto qualcosa … così quando è venuto in palestra per allenarsi, l'ho pungolato un po'. Quel ragazzo è innamorato di te. Sapevo che ieri sera vi sareste rincontrati, così ho deciso di rimanere a Kyoto anche per la notte.»

«Vi siete messi d'accordo?» chiese, incredula.

«No, lui non sapeva nulla. Diciamo che ho voluto fare in modo che aveste un luogo in cui stare da soli.»

Elena lo guardò. I suoi occhi, così simili ai suoi, erano illuminati da un'espressione colma di affetto paterno.

«Io sarei felice se tra voi nascesse qualcosa di importante. Certo, è presto per parlarne, ma mi sento di dire che Genzo è un ottimo ragazzo e con te intende fare sul serio. Non farti bloccare dai sensi di colpa o dalla paura di amare, Elena.»

La ragazza abbassò un attimo gli occhi, facendo un breve sospiro seguito da un lieve sorriso.

«Sai zio, proprio adesso che ho deciso di buttarmi in una nuova storia, lui sta per andarsene.»

Carlo alzò le spalle. «Viviamo in tempi in cui è possibile mettersi in contatto in ogni momento e perfino vedersi mentre ci si telefona. Una volta al massimo ci si telefonava ogni tanto o ci si scrivevano lettere che potevano impiegare settimane o addirittura mesi prima di giungere a destinazione. Ma i legami autentici resistono alla prova del tempo.»

«Non è come stare faccia a faccia, non si può avere contatto fisico … e siamo solo agli inizi, non abbiamo ancora messo radici.» replicò.

«Avete ancora questi due giorni. Il mio consiglio non richiesto è di comportarti come se non lo fossero. Dovete divertirvi, passare ore spensierate, porre le basi della vostra relazione. È stata la tua spontaneità a conquistarlo, Elena. Sei stata te stessa, non avevi intenzione di sedurlo e così l'hai ammaliato senza nemmeno accorgertene.» ridacchiò, suscitandole un altro sorriso lievemente imbarazzato. «E in quanto alla mancanza di radici, non sono d'accordo. Il vostro non è stato un colpo di fulmine, ma un rapporto che si è evoluto nel corso dei mesi. Rendigli questi giorni indimenticabili e vedrai che quando vi rincontrerete in Spagna, non starà nella pelle dalla voglia di riabbracciarti.»

Elena gli accarezzò un braccio. «Grazie zio. Farò come dici, a patto che tu non racconti niente a mamma e papà, e nemmeno ai nonni, agli zii o ad Angelina.»

«Promesso. E ora forza, facciamo colazione che tra non molto dovrebbe arrivare Genzo, o sbaglio?» rispose, facendole l'occhiolino.

 

Dopo circa un'ora, la Lexus con Genzo alla guida si fermò davanti al cancello.

Elena aprì la porta di casa e lo salutò con sorriso, e lasciò che afferrasse la maniglia della sua borsa da viaggio per caricarla nel baule.

Carlo li salutò rimanendo sul vano della porta, rivolgendo al portiere uno sguardo a metà tra l'approvazione e la raccomandazione.

 

Genzo parcheggiò non lontano dal grande parco pubblico del Castello Sunpu a Shizuoka, una delle città dove Elena gli aveva chiesto di portarla.

Aprì il baule e scaricò la sua borsa, mentre la ragazza scendeva dall'auto.

Si guardò brevemente attorno, poi la attirò a sé.

«Voglio verificare se ieri è stato soltanto un bellissimo sogno o se è stato tutto vero …» le sussurrò, cingendole un fianco con una mano.

«Stanotte ho dovuto prendere un tranquillante per riuscire a dormire … ti basta?» chiese in un tono malizioso che aveva dimenticato potesse appartenerle.

Un lampo di soddisfazione attraversò gli occhi del giovane.

«No.» rispose, prima di posare le labbra sulle sue.

 

Passarono la mattinata e il primo pomeriggio nel capoluogo della prefettura, dove visitarono l'area in cui sorgeva la fortezza voluta da Tokugawa Ieyasu, il fondatore dell'omonimo shogunato nel Seicento, e di cui era rimasto solo l'antico fossato.

Fecero poi una lunga passeggiata nel Momijiyama Japanese Garden, dove Elena si incantò a osservare la riproduzione di alcuni dei luoghi più suggestivi della prefettura. 

Visitando alcuni dei numerosi negozi della zona, si innamorò letteralmente dei manufatti e degli oggetti realizzati in legno e in bambù, e dei portamonete, portafogli e borsette fatte a mano con tessuto kuzufu, e fece incetta di souvenir per i suoi familiari che ormai contavano i giorni che mancavano al momento in cui l'avrebbero riabbracciata.

Genzo la canzonò sul fatto che avrebbe dovuto procurarsi una valigia solo per stiparvi i numerosi ninnoli che aveva acquistato.

«Questo lo prendo per la mamma.» disse, prelevandoli dagli scaffali l'uno dopo l'altro e mettendoli con cura in un cesto «E quest'altro per Angelina. E questi due li regalo alla nonna e alla zia Inge. Poi devo prendere anche un regalo per papà, per il nonno e per mio cugino Sebastian.»

Genzo la guardò, sorridendo al pensiero di quanto gli sarebbe piaciuto, in un futuro non lontano, incontrare quelle persone che costituivano la famiglia di Elena e fare in modo che i loro rispettivi mondi si armonizzassero, anche se al momento era una strada in salita che ancora non voleva percorrere, desiderando tenere la ragazza per sé e proteggerla dalla probabile disapprovazione dei suoi genitori.

Nella seconda parte del pomeriggio si spostarono a Yaizu, altra bellissima città che si affacciava sul mare.

Trascorsero la serata cenando in un ristorante sul porto e guardando al cinema uno dei film più pubblicizzati del periodo. Nulla di memorabile di per sé, ma loro lo avrebbero sempre ricordato come il primo film visto insieme.

 

Il giorno dopo, il cielo era illuminato dal sole ma attraversato da numerose nubi e la temperatura era più fredda di quanto ci si potesse aspettare.

Decisero così non spingersi fino alla penisola di Izu e di andare a Miho no Matsubara. Dove tutto era cominciato …

Dovettero rinunciare al costume da bagno e indossare lui una maglietta e un paio di pantaloni scuri, e lei una camicetta bianca e dei jeans.

Solo poche persone passeggiavano sulla spiaggia e nessuno faceva caso a loro.

Stavano camminando affiancati a pochi metri dal bagnasciuga quando gli occhi di Elena individuarono un grosso e scuro tronco d'albero adagiato sulla sabbia.

Lo raggiunse dopo una breve corsa, seguita da Genzo che si fermò a pochi passi.

La ragazza si voltò verso di lui e alzò le braccia nel gesto di saluto delle ginnaste, strappandogli un sorriso divertito.

Poi salì sul tronco e cominciò a improvvisare un esercizio, muovendo con grazia le braccia e le mani, e compiendo alcuni movimenti coreografici con le gambe.

Si appoggiò con le mani ed eseguì una rovesciata in avanti. Nel seguente tentativo di fare una piroetta, perse l'equilibrio e scivolò, ma venne prontamente afferrata da Genzo, che le cinse subito la schiena.

«Non vale!» protestò, con un tono indispettito più simulato che reale, mettendogli le mani sulle spalle.

«Quel tronco non è una trave e la sabbia non è una pedana. Avresti potuto farti molto male.» replicò lui, senza lasciarla.

Elena gli posò le mani sul petto e assunse un'aria imbronciata. «Questa me la segno. Sei saccente e paternalistico.»

Genzo sollevò un sopracciglio e sorrise. «"Paternalistico" non me l'aveva mai detto nessuno.»

Elena alzò il mento e gli rivolse un sorriso da monella. «Sei incorso in una penalità.»

«Credevo fosse la ginnasta a perdere il punto.» ribatté, mantenendo lo stesso tono.

La ragazza fece una piccola smorfia. «Ah, ma è possibile che tu voglia avere sempre l'ultima parola? E allora prova a prendermi, se ci riesci!» disse, liberandosi dalla sua presa, che lui aveva nel frattempo allentato.

Si mise a correre, ma Genzo non impiegò molto a raggiungerla e imprigionarla tra le sue braccia.

«Ah, e io che pensavo che i portieri fossero più lenti degli altri calciatori!» gridò ridendo, mentre lui la faceva voltare verso di sé e le scostava quelle fluenti onde dorate che il vento le gettava davanti al viso.

Si guardarono, nero ardente contro l'azzurro del mare e del cielo.

Le loro labbra si toccarono e si unirono in un bacio lungo, tenero e appassionato al tempo stesso.

Quell'aria un po' fredda l'aveva fatta rabbrividire, all'inizio.

Ma ora sentiva soltanto il calore della bocca di Genzo, che stava incendiando ogni fibra del suo corpo. E lei rispose con un fervore che fino a due sere prima aveva dimenticato di possedere, decisa a fargli provare le stesse sensazioni.

Le scostò i capelli dal collo e dopo pochi istanti le sue labbra lasciarono quelle delle ragazza e andarono a posarsi su quella pelle serica, facendogli udire per la prima volta il suono dei suoi sospiri.

«Mi stai facendo il solletico.» mormorò, con un lieve tremolio nella voce.

«È una protesta?» la stuzzicò.

Lei accennò una risata, poi gli prese il viso tra le mani e posò di nuovo le labbra sulle sue.

Gli accarezzò le spalle, il petto e le braccia, come a voler imprimere nella mente i contorni delle sue fattezze.

E fargli capire cosa fosse stato capace di fare risvegliando emozioni e sentimenti che credeva non sarebbe più riuscita a sentire.

 

Genzo le passò un braccio attorno alla schiena e la attirò a sé.

Elena gli posò la testa su una spalla.

Lo sciabordio delle onde che si rincorrevano sotto il sole pallido faceva da sottofondo, mentre il solenne Monte Fuji sembrava vegliare su quello scorcio di prefettura.

Chiuse gli occhi.

Gli sarebbe mancato da impazzire.

Pensò a quanto avesse esitato anche dopo essersi resa conto dei suoi veri sentimenti. Era stata ricalcitrante e aveva rinunciato così a vivere più momenti come quello.

Aveva persino pianificato di tornare in Italia senza dirgli nulla, rischiando di perderlo.

Non voleva sentirsi una di quelle eroine tragiche di certi romanzi rosa e soap opera, ma il pensiero di non vedere Genzo per tutto quel tempo le provocava delle fitte nello stomaco.

"Non parte mica per la guerra!" avrebbe sbottato sua nonna Heike, che pure di quelle storie strappalacrime non se ne perdeva una, con un braccio piegato e la mano aperta a mezz'aria.

Tuttavia, quell'attesa si annunciava lunga …

Non si poteva fermare il tempo e allora dovevano cercare di far durare quei momenti il più possibile.

  

Quella splendida domenica stava per volgere al termine ed era arrivato il momento di tornare …

Elena si soffermò a osservare il profilo del ragazzo concentrato alla guida.

Gli occhi attenti sulla strada, le grandi mani salde sul volante, le sue belle labbra distese in un'espressione identica a quella con cui si piazzava tra i pali di una porta.

Lui le lanciò una breve occhiata con la coda dell'occhio, piegando le labbra in un sorriso, facendole capire che si era accorto del suo sguardo prolungato.

Elena sorrise di rimando e arrossì leggermente.

«Genzo … quando è cominciata? A Miho, o prima?» gli chiese allora, facendogli per un attimo spalancare gli occhi.

Si concesse alcuni secondi prima di rispondere, per riordinare i suoi pensieri e richiamare alla mente i suoi ricordi dopo quella domanda inaspettata.

«Forse è più corretto chiedersi quando me ne sono accorto.» cominciò, con una frase che sarebbe piaciuta moltissimo a Annie. «Quella domenica, quando sono venuto a Numazu con Arimi … all'inizio avevo pensato di accompagnarla al palasport e rimanere lì giusto il tempo di assicurarmi che rimanesse a seguire la gara. Ma poi … ho visto te che incitavi le ragazze, le consigliavi, assistevi agli esercizi con una partecipazione tale che sembrava ti immedesimassi nelle tue allieve. Sei riuscita a coinvolgere anche me che non mi sono mai interessato di ginnastica artistica e quasi non ti ho staccato gli occhi di dosso per tutta la gara.» ammise, provocandole un piacevole brivido. «Quando me ne sono andato, mi sono ripetuto che era stato perché mi ero preso a cuore la questione. Ma poi più ti incontravo e più mi rendevo conto che non era così. E a Miho ho avuto la conferma definitiva. Dalla tua espressione ho capito che provavi le mie stesse sensazioni.»

«Quella sera a Sydney ti ho detto che non ti avevo risposto perché era stato un periodo denso di impegni … in realtà, non l'ho fatto perché temevo ciò che avrei potuto provare nel sentire anche solo la tua voce.» ammise, sentendosi avvampare per quella rivelazione e nel ricordare quei giorni in cui aveva osservato, con un nodo alla gola, il ritmico illuminarsi del display del suo cellulare e la suoneria che la avvisava invano della chiamata in corso.

Genzo sorrise. «Avevo pensato subito che quella scusa non reggeva, visto che quando Arimi è rientrata nel gruppo della Shiroyama mi avevi chiamato addirittura al J-Village per ringraziarmi. Così ho cominciato a cambiare atteggiamento, ti ho invitata a ballare per vedere come reagivi a un contatto più prolungato di quello avuto a Miho. Il corpo non mente mai e ho capito che anche tu ti sentivi attratta da me. E questo, in seguito, è stato sempre più evidente.»

«Il fatto che io mi sentissi ancora in colpa per Gianluca non ti ha scoraggiato?»

Scosse la testa. «Sapevo che non avresti respinto me, ma l'idea di avere una storia con un altro uomo, specie se non danneggiato dalla sua disabilità.»

Elena sgranò gli occhi. Genzo aveva perfettamente reso in parole quello che l'aveva sempre spinta a mettersi sulla difensiva.

«Ma a darmi la spinta decisiva, è stato il pensiero che i giorni stavano passando e tu saresti tornata in Italia … mi sono reso conto che rischiavi di sparire dalla mia vita e non volevo che succedesse. Non mi era mai capitato.»

Erano le stesse sensazioni che aveva provato Hiroji quando si era innamorato di Annie.

Anche lui frequentava già un'altra ragazza e anche se non era un legame ufficiale, nelle loro famiglie e nell'alta società si dava per scontato il fidanzamento tra i due e ricordava perfettamente i timori del fratello riguardo un'accoglienza non favorevole per la bella studentessa inglese.

E ora stavano insieme da dieci anni, avevano due bambini e si amavano come e anche più di quando li aveva visti insieme per la prima volta.

Se non si era mai realmente innamorato di una ragazza, era perché lui aveva in mente quell'ideale incarnato alla perfezione da Hiroji e Annie. Nessuna gli aveva mai dato la sensazione di poter essere "la sua Annie". Finché non aveva cominciato a conoscere meglio Elena.

Avrebbe voluto dirle anche questo, ma la loro storia era appena agli inizi ed era forse precipitoso e prematuro.

Avevano ancora tante cose da scoprire l'uno dell'altra … un percorso che si annunciava intrigante e che non vedeva l'ora di intraprendere.

 

«Siamo arrivati.» disse, accostando l'auto davanti al cancello.

Elena guardò la facciata della casa di suo zio, illuminata solo dai lampioni.

All'interno, tutte le luci erano spente.

Esitò qualche secondo, poi si voltò verso il ragazzo.

I suoi occhi erano lucidi, le labbra distese in un sorriso.

«In bocca al lupo per le Olimpiadi, Genzo. Cerca di non lasciar passare nemmeno un gol.»

«Il Giappone arriverà in finale. Tu dovrai essere a Madrid, a vederci.»

Elena si sporse verso di lui e gli accarezzò piano una guancia, poi gli posò un lieve bacio sulle labbra.

«A presto, Genzo Wakabayashi.» disse prima di voltarsi, aprire la portiera e scendere.

Udì il motore dell'auto ripartire nello stesso momento in cui apriva la porta d'entrata.

Se la richiuse alle spalle, lasciando entrare anche Wilhelm.

Lo prese in braccio e lo coccolò, poi si sedette sul divano e appoggiò un gomito sul bracciolo, posando la testa su una mano.

Sentì gli occhi inumidirsi e pungere.

Prese lo smartphone dalla sua borsa e aprì la rubrica, cercando il nominativo di Kumi.

Anche lei era reduce da una domenica trascorsa interamente con Taro.

«Non ti rattristare più di tanto, Elena.» la confortò l'amica «Noi wags giapponesi ce ne intendiamo di lunghi periodi di lontananza. E comunque, a Orohime e Hikoboshi è andata molto peggio.» ironizzò, riuscendo a strapparle una risata.

 

 

 

 

 

***Note***

 

 

 

La festa di Tanabata ("settima notte") è una dei cinque gosekku, le più importanti festività del calendario giapponese.

Celebra il ricongiungimento delle divinità Orohime e Hikoboshi, rappresentanti le stelle Vega e Altair.

Secondo la leggenda, i due amanti vennero separati dalla Via Lattea potendosi incontrare solo una volta all'anno, il settimo giorno del settimo mese del calendario lunisolare.

La scelta della data di questa festa, oltre ad avere una valenza simbolica e sacra per via del ripetersi  del numero 7, dipende dal fatto che, secondo gli studiosi, è questo il periodo di massima luminosità delle stelle; soprattutto all'inizio di luglio si può notare anche una maggiore vicinanza tra Vega e Altair rispetto al resto dell'anno.

Fonte: kitsunebi.it   

 

 Le informazioni sul Castello Sunpu e sul Momijiyama Japanese Garden sono tratte da questo sito: marcotogni.it

 

Kuzufu: tipo di tessuto realizzato intrecciando fibre di kuzu, una pianta selvatica rampicante.

In Italia è nota con il nome di pueraria montana e la polvere ottenuta dalle sue radici è usata a scopo terapeutico e curativo.

 

La frase con cui Genzo comincia a raccontare a Elena quando e come sono nati i suoi sentimenti per lei sarebbe piaciuta a Annie perché è ispirata al dialogo tra Elizabeth Bennet e Fitzwilliam Darcy tratto da "Orgoglio e pregiudizio", il celeberrimo romanzo di Jane Austen, pubblicato nel 1813.

Questa è la trascrizione:

«Come è cominciato?» chiese. «Posso capire che una volta nata, la cosa abbia preso piede, ma che cosa ti ha fatto innamorare all'inizio?»

«Non posso fissare né l'ora né il posto, o lo sguardo o le parole che furono il principio del mio amore. È passato troppo tempo. Ero già innamorato prima di accorgermene.»

 

 

 

Mi tocca ringraziare il da poco trascorso maggio anomalo dal punto di vista atmosferico, che mi ha ispirato le scene di questo capitolo. :-)

Grazie come sempre a tutti i lettori!

Sandie

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Capitolo 21
*** Capitolo XXI - Dura realtà ***


Capitolo XXI

 

Dura realtà

 

 

«Mi avevi promesso che avresti atteso per la mia decisione fino a dopo le Olimpiadi.»

«Sì, ma non ho mai detto che non saremmo più tornati sull'argomento.»

Yasuhiro gli lanciò un sorriso sornione e intrecciò le dita sul ripiano della sua scrivania, dopo aver posato la tazza di tè da poco portata dalla giovane segretaria, insieme a quella che Genzo aveva davanti a sé e non aveva ancora toccato.

Il giovane si trovava da mezz'ora nella sede della Wakabayashi Corporation, la holding di famiglia, seduto su una delle poltrone dello studio di suo padre. Era vestito con la divisa ufficiale della Nazionale di calcio poiché dopo quell'ultimo colloquio si sarebbe diretto all'Aeroporto Internazionale di Narita, e da lì sarebbe partito per il Messico insieme alla squadra.

«Sono soddisfatto di come hai lavorato all'Istituto Shutetsu. Il consiglio direttivo ha approvato molte tue proposte e il recente spettacolo ha avuto un grande successo. So che hai fatto inserire a sorpresa un numero collettivo di ginnastica artistica ed è stata davvero un'idea azzeccata.»

«Sì … due allieve dello Shutetsu fanno parte dello Shiroyama Gymnastics Club. Insieme alle loro compagne hanno voluto fare un omaggio alla loro insegnante.» spiegò asciutto, stando attento a non far trapelare nulla.

Yasuhiro assentì, indugiando per qualche secondo su di lui con lo sguardo.

«Tutto questo, insieme al modo in cui gestisci le azioni che ti ho affidato mi convince sempre più che le nostre società hanno bisogno anche di te, Genzo. Vorrei che ti iscrivessi all'università e che entrassi in una delle filiali della Wakabayashi Corporation.»

Genzo si accorse di aver trattenuto il fiato prima che suo padre riprendesse a parlare.

Non era felice del fatto che fosse tornato a incalzarlo, ma sapeva bene come rispondere a quell'esortazione.

«Credevo avessimo trovato un accordo su questo, papà.»

«La carriera calcistica non dura tutta la vita, Genzo. Inoltre, hai già subìto molti infortuni e hai solo vent'anni.»

«Esatto, ho solo vent'anni e sto per giocarmi le Olimpiadi. Ti chiedo solo un po' di tempo per dare una direzione alla mia carriera. Ti ricordo che quest'estate, dopo tanti anni, lascerò l'Amburgo e ancora non so dove giocherò.»

«Proprio per questo devi pensare seriamente al da farsi. Stai parlando di qualcosa che avverrà non tra un anno, bensì tra poco più di un mese.»

Genzo emise un breve sospiro e si alzò dalla sedia. «Tu da una parte e Hoffmann dall'altra mi state braccando, ma queste sono decisioni che vanno prese dopo essere state ponderate e senza avere altre questioni, peraltro più urgenti, cui pensare.» gli disse, avviandosi poi verso la porta.

Yasuhiro sospirò impercettibilmente. «Quanto sei testardo. Ma al tuo ritorno, parleremo di questo.» lo avvertì.

«Ci vediamo tra un mese e mezzo, papà.» disse, spingendo in basso la maniglia.

«Ehi Genzo!» si sentì richiamare, quando aveva già varcato l'uscio.

Il giovane si riaffacciò, con uno sguardo serio.

«Torna in Giappone da vincitore.»

Genzo riprodusse la stessa occhiata e sorriso d'intesa impressi sul viso del padre.

Ora poteva iniziare la sua avventura olimpica con serenità.

Suo padre non gli aveva accennato nulla …

Con ogni evidenza, Asami non aveva detto nulla ai suoi genitori.

Troppo umiliante per lei raccontare di essere stata lasciata … oppure, aveva semplicemente voluto evitare contrasti tra le loro famiglie, lasciando a lui la responsabilità di annunciare la fine del loro fidanzamento.

Inoltre, era segno che sperava in una loro riconciliazione. Del resto, l'aveva invitato a pensarci bene, lo aveva messo in guardia sul fatto che Elena poteva essere soltanto affascinata dall'idea di essere fidanzata con un calciatore ricco e famoso. Inoltre, l'interruzione della loro storia rischiava di compromettere i rapporti personali e anche lavorativi tra le due famiglie.

Gli Ujimori l'avrebbero ritenuta un affronto, un incredibile e vergognoso colpo di testa.

Aveva deciso di non rivelare niente e in quel modo avrebbe protetto la sua storia con Elena ancora per un po' di tempo, anche se c'era il rischio di giustificare le false speranze di Asami.

Avrebbe sistemato ogni cosa, a suo tempo.

Ogni questione con la sua famiglia, per quanto riguardava l'azienda e i rapporti con gli Ujimori, sarebbe stata affrontata dopo le Olimpiadi, come si era ripromesso.

 

Carlo guidava senza fretta verso l'Aeroporto Internazionale di Narita.

Elena osservava le poche nubi candide che attraversavano il cielo limpido e dominato da un sole luminoso, mentre nell'abitacolo si succedevano canzoni rock anni Settanta, il genere preferito da suo zio.

La sua avventura giapponese era giunta al termine.

Gli ultimi giorni a Nankatsu erano trascorsi simili a quelli in cui i ragazzi della Nazionale erano in ritiro al J-Village. Si era tenuta costantemente impegnata per non lasciare spazio alla malinconia.

Nel saggio di fine anno le bambine avevano dimostrato di padroneggiare alla perfezione tutto ciò che aveva insegnato in quei mesi e Mayuko l'aveva salutata commossa, confessandole che se non fosse stata così decisa a tornare in Europa, le avrebbe proposto la riconferma nel ruolo di vice allenatrice.

Lei l'aveva ringraziata e le aveva assicurato che non avrebbe mai dimenticato né lei né le sue allieve. E neppure era escluso che si sarebbero riviste.

Arimi ne era convinta e le aveva fatto l'occhiolino, con una chiara allusione a Genzo.

Il giorno prima aveva incontrato Annie e i piccoli Kenichi e Aiko al campo di calcio dove il bambino si allenava con i suoi coetanei, tra cui Daichi Oozora che mostrava già, con i suoi movimenti e giocate, una precoce inclinazione. Anche Kenichi univa al suo tiro potente e preciso un ottimo senso della posizione. Senza lasciarsi suggestionare dalla parentela e dalla somiglianza, le era venuto spontaneo considerare i tiri del piccolo Wakabayashi molto simili a quelli che Genzo sempre più spesso eseguiva dopo le sue parate, per aiutare i suoi compagni a impostare una nuova azione.

Annie l'aveva salutata dicendosi certa che si sarebbero rincontrate spesso in futuro, accompagnando quelle parole con un ammicco, senza aggiungere altro.

Aveva poi trascorso la serata con Kumi e il suo gruppo di amiche. Nessun abbraccio commosso né piagnistei: avrebbe sicuramente rincontrato le due ragazze legate a Taro e Nitta, e comunque si sarebbero mantenute in contatto.

E infine era arrivato il giorno della partenza.

Aveva coccolato a lungo Wilhelm, che sembrava aver capito che la ragazza non sarebbe tornata per un po' di tempo.

Quel soggiorno aveva cambiato la sua vita per sempre e le aveva restituito entusiasmo e fiducia nel futuro, facendole capire quali fossero i suoi sogni. Aveva ricominciato a credere in sé stessa e aveva anche scoperto di poter amare di nuovo, grazie all'incontro con Genzo.

Il portiere era partito per il Messico due giorni prima e ora stava con ogni probabilità smaltendo il fuso orario. Sorrise, avvertendo una consueta, piacevole sensazione in mezzo al petto.

L'avrebbe chiamato una volta arrivata a casa.

 

«Zio, io non so come ringraziarti. È stato un periodo meraviglioso, ricorderò sempre ogni giorno di questi mesi.»

Carlo scosse brevemente la testa, con un sorriso. «Era il minimo che potessi fare per aiutarti. Dopo sei mesi posso dire che sei tornata l'Elena che conoscevo … anzi no: è nata una nuova Elena, pronta ad affrontare la sua vita da donna adulta.»

Lo abbracciò forte, mentre gli altoparlanti diffondevano l'annuncio della partenza del volo della Japan Airlines per Roma Fiumicino.

  

Mentre si avviava verso l'uscita per iniziare la procedura d'imbarco, notò un'orda di giornalisti e cameraman armati di telecamere, taccuini, smartphone, registratori e microfoni, avviarsi in direzione dei passeggeri da poco scesi da un volo Iberia proveniente da Barcellona.

Fu così che, poco prima di partire, assistette all'arrivo in Giappone di Tsubasa Oozora, accompagnato dalla moglie Sanae i cui movimenti erano resi lenti e un po' impacciati da una pancia ormai prominente.

Il giovane fuoriclasse del Barcellona aveva deciso di concedersi alcuni giorni di vacanza nel suo Paese natale, dopo la lunga e trionfale stagione in blaugrana e prima di raggiungere i suoi compagni nel ritiro messicano.

Venne avvicinato e letteralmente circondato dai cronisti e lui rispose sorridente e cortese alle numerose domande, senza però smettere di avanzare verso l'uscita dell'aeroporto, con un braccio tenuto premurosamente attorno alla vita della moglie. Dietro di loro, un uomo alto e robusto e una donna minuta che sembrava una versione matura di Sanae, lo aiutavano a trasportare i bagagli.

          

Una cordiale voce femminile annunciò l'imminente atterraggio dell'aereo della Japan Airlines all'aeroporto di Fiumicino.

Elena allacciò la cintura e osservò il cielo italiano che riempiva nuovamente il suo campo visivo.

Dopo alcuni minuti in cui compì le procedure di sbarco, Elena recuperò i suoi bagagli dal nastro trasportatore e si diresse a passo rapido verso il varco d'uscita.

Percorsi pochi metri, vide i suoi genitori che agitavano la mano.

Clara cominciò subito a correrle incontro, mentre la figlia aveva istintivamente accelerato il passo.

Una volta raggiuntala, sua madre le prese il viso tra le mani.

«Elena … fatti guardare.» le disse. Era una bella donna alta e slanciata, poco più che quarantacinquenne, dai corti capelli castani tagliati a caschetto e gli occhi azzurri come quelli della figlia. Occhi, questi ultimi, stanchi per via delle molte ore di viaggio, ma così diversi da quelli che rispecchiavano il tormento interiore di una ragazza che aveva perso la voglia di vivere e che pensava di non avere più futuro proprio quando era il momento per costruirlo.

Un po' indietro rimase Valerio, un uomo di media altezza dal fisico un po' appesantito e i capelli corti e brizzolati, ma con un volto che non dimostrava i suoi sessant'anni. Assistette con un sorriso commosso all'abbraccio tra madre e figlia … le sue due donne.

Dopo che si furono staccate, si avvicinò anch'egli con un sorriso fiero e commosso, e allargò le braccia, per poi stringerla a sé.

Fu il turno di Clara di assistere all'abbraccio tra il marito e la figlia.

Una piacevole sensazione di calore le invase il petto nel guardare nuovamente il suo viso … Elena era adesso determinata e combattiva.

Davanti a quello sguardo, le si fermò quasi il cuore al pensiero di ciò che sarebbero stati costretti a rivelarle, una volta a casa.

 

Durante il viaggio in auto, raccontò ai genitori alcuni tra gli aneddoti più interessanti del suo soggiorno nel Paese del Sol Levante, e arrivata nell'appartamento in cui abitavano nel quartiere del Prenestino, aprì la valigetta in cui aveva trasportato i manufatti acquistati a Shizuoka e li appoggiò sul tavolo, sotto lo sguardo stupito e ammirato soprattutto di sua madre.

«Anche noi ti abbiamo preparato una sorpresa.» annunciò Valerio, indicandole una delle pareti del salotto.

A Elena quasi si spezzò il fiato.

Avevano appeso un quadro con alcune delle fotografie che aveva inviato, nei mesi precedenti, dal Giappone.

«Così se dovesse venirti un po' di nostalgia, ti basterà alzare gli occhi e guardare queste foto.» le strizzò l'occhio e lei gli sorrise con gratitudine.

Poi si fece seria.

Una domanda le ronzava in mente da quando erano arrivati a casa e riguardava una questione che era rimasta in sospeso al tempo della sua partenza e su cui non aveva più ricevuto alcuna notizia.

«Allora, siete riusciti a ripianare quella pendenza con la banca?» chiese infine, con un po' d'apprensione.

Valerio aggrottò le sopracciglia e scosse la testa. «No. Abbiamo anche chiesto un prestito, un mese fa, ma ce l'hanno negato. Non siamo in grado di fornire garanzie di rimborso. Troppi debiti e troppi pagamenti arretrati.» disse, prendendo una lettera inviata da una società di finanziamenti da un cassetto di un mobile e porgendogliela.

Elena la prese e guardò la busta su cui erano scritti gli indirizzi del mittente e il loro, stringendo le labbra.

«Se non avessi fatto quelle sciocchezze, ora non saremmo in questa situazione.» si lamentò Clara, rivolta al marito.

«Mamma, papà, per favore! Non litigate.» intervenne Elena, posando la breve lettera sul tavolo dopo averla letta. «Ho guadagnato bene alla palestra Shiroyama e ho ancora dei soldi da parte. Possiamo usarli per pagare il mutuo.»

«Tu volevi iscriverti all'università, Elena. Non vogliamo rubarti il futuro.» replicò suo padre.

La ragazza alzò le spalle. «Non importa. Mi troverò un lavoro e così avremo un'entrata in più. E quando avremo sistemato tutto, penserò anche all'università.»

«Ci dispiace, Elena. Sappiamo quanto ci tenevi.»

Scosse la testa con un leggero sorriso. «Non vi preoccupate.»

«No, Elena. Troveremo un modo. Non puoi rinunciare al test alla LMU. E poi abbiamo già avviato l'Anerkennung, non ha senso fermare tutto.» insistette Clara.

«Per ora è fondamentale che mi trovi un lavoro. Poi vedremo.»

 

A pranzo, Elena non toccò quasi cibo. Fu facile far credere di essere solamente stanca per il fuso orario. In realtà, dall'espressione dei suoi genitori aveva capito che avevano semplicemente mangiato la foglia.

Andò nella sua stanza. Dal trolley tirò fuori il maneki neko e uno dei pupazzi di Diddl che aveva portato con sé anche in Giappone e si stese sul letto.

La sua stanza era spaziosa e colorata: era disseminata di altri pupazzi del suo amato topolino e dei suoi amici, alle pareti erano appesi poster delle sue due ginnaste preferite Nadia Comaneci e Nastia Liukin, due quadri con numerose fotografie che la ritraevano bambina e adolescente con le sue compagne della scuola di ginnastica artistica oppure con i ragazzi del Sant'Angelo. In alcune immagini c'era anche Taro.

Accostata alla parete opposta al letto, era collocata una libreria con dizionari, testi scolastici e numerosi libri tra cui racconti per l'infanzia e romanzi classici della letteratura italiana e tedesca, inglese e francese.

Sulla scrivania era collocato un computer, un portapenne pieno di penne a sfera nere e rosse, matite a mine ed evidenziatori, alcuni quaderni con anelli a spirale, un'agenda e un blocchetto di post-it. Su una mensola accanto, uno stereo portatile e due porta-cd.

Il Giappone … adesso era davvero lontano e non solo geograficamente.

La situazione era rimasta difficile come quando era partita, anzi era peggiorata.

Non ne aveva mai parlato ai suoi amici giapponesi, non avrebbero potuto fare nulla per lei e non voleva dare l'idea di essere in cerca di aiuto o di compassione.

Quando era in Giappone non aveva mai speso molto per sé, badando a mettere da parte un po' di denaro per aiutare i suoi genitori.

Le cifre da restituire erano troppo alte per poter ancora chiedere soldi in prestito ai nonni materni e a sua zia Inge. Carlo li aiutava quando poteva con versamenti sul loro conto, ma aveva delle spese anch'egli con la palestra. E comunque prima o dopo avrebbero dovuto ridare il denaro anche a loro. Dalla parentela di suo padre non c'era niente da aspettarsi: la nonna era vedova e viveva con una pensione sociale che bastava appena per provvedere a sé stessa e i rapporti con la zia erano ridotti a freddi e impersonali auguri in occasione delle feste di Natale e di Pasqua.

«E poi non sono mai andato a genio ai tuoi genitori. Lo so che non volevano che tu mi sposassi, perché ho quindici anni più di te, ho la terza media, faccio l'operaio e non il bancario …» udì la voce di suo padre attraverso la parete della stanza.

«Lascia stare, Valerio. Non è questo che intendo. Non ci troveremmo in questa situazione se tu avessi gestito meglio il denaro. Avresti almeno potuto lasciar fare a me, se proprio non ne eri capace!»

Elena sospirò. Pensò a Genzo, che sapeva soltanto che suo padre era un operaio e sua madre una commessa in un supermercato.

Delle loro difficoltà economiche non gli aveva accennato neppure una sillaba.

Né voleva dire niente di lui ai suoi genitori, per il momento. Suo padre era un grande appassionato di calcio e sapeva bene chi era, e soprattutto sarebbe stato felice di saperla legata a un ragazzo affermato nel suo lavoro e ricco, magari sperando in un intervento da parte sua.

Ma lei non aveva intenzione di chiedere alcun contributo a Genzo.

Ricordava bene le parole di Asami, che l'aveva accusata di aver messo gli occhi su di lui solo perché era un calciatore ricco e famoso.

Avrebbe finito per darle ragione e per instillare quel dubbio anche nel ragazzo.

No, ce l'avrebbe fatta con le sue risorse.

 

Era ormai sera inoltrata e si stava preparando ad andare a dormire quando sentì lo smartphone squillare.

Non poteva e non voleva negarsi.

«Sei arrivata a casa?» la voce pacata e premurosa del suo portiere le infuse un po' di conforto.

«Sì. Il viaggio è stato tranquillo.»

«Ero indeciso se chiamarti o no. In Italia devono essere le dieci di sera … avresti anche potuto essere già a dormire.»

«No, stavo per telefonarti io.» sorrise «Come va lì a Toluca? Ti sei abituato?»

«Tra poco cominciamo una seduta di allenamento. Qui l'altitudine è elevata, il clima caldo e l'aria rarefatta. I primi giorni sono stati tremendi e mi sentivo quasi scoppiare. Ora però va sempre meglio. Servirà ad aumentare la nostra capacità di resistenza.»

«Anche Misugi? So che il suo cuore non gli permette di fare sforzi troppo intensi e prolungati.»

«Sì, lui ha una preparazione differenziata rispetto alla nostra, ma reagisce molto bene. Ora giocheremo due amichevoli: una domani con la Nuova Zelanda e l'altra fra tre giorni con il Messico. Kira ha convocato trentatré giocatori e dal ritiro usciranno i ventitré della Nazionale Olimpica.»

Elena alzò le spalle. «Per te non dovrebbero esserci problemi.»

«Non bisogna mai dare niente per scontato, specie se l'allenatore è Kozo Kira. E ricordo bene cos'è accaduto l'ultima volta che ho dato qualcosa per già acquisito.» ribatté serio.

«Hai fatto vincere la tua futura squadra?» lo punzecchiò con tono divertito.

«Questa è una provocazione che non raccolgo.» rispose, ma una scintilla di divertimento era percepibile nella sua voce. Non poteva ancora ammetterlo, ma ci stava pensando e anche con attenzione.

«Va bene, tanto tra un mese al massimo sapremo la verità.»

Anche se non era dentro il mondo del calcio, aveva seguito e letto abbastanza da comprendere per quale motivo Genzo non potesse fornirle alcuna indiscrezione.

Il suo agente puntava a farlo ingaggiare al massimo prezzo possibile e se avesse disputato una buona Olimpiade, il suo valore di mercato sarebbe schizzato ancora più in alto.

«Anche tu hai la tua prima prova importante, tra non molto.»

«Sì, l'esame per la certificazione di lingua giapponese è tra due settimane. Sono un po' in pensiero per lo scritto. Mi chiedo se non ho osato troppo scegliendo il livello più difficile.» gli confidò, lanciando un'occhiata ai quaderni poggiati sulla scrivania.

«Ce la farai. Hai sempre comunicato con tutti noi, senza difficoltà. Non sei mai ricorsa al tedesco con me, o al francese o all'italiano con Misaki. Inoltre, ho parlato con Tokugawa quando eravamo ancora in Giappone e mi ha detto che eri tra i migliori allievi del suo corso. Detto da lui, è una specie di benedizione.»

«Davvero?» Elena sgranò gli occhi, piacevolmente sorpresa pensando a quell'uomo talmente imperscrutabile da sembrare altero, e che invece l'aveva tacitamente apprezzata.

«Vai e non pensare neppure per un momento di non poterci riuscire.» la esortò.

«Grazie, Genzo. Fammi sapere quando hai delle novità, ma sono sicura che in Spagna sarai tu il portiere titolare.»

 

La mattina dopo, Elena si mise a scartabellare alcuni giornali e riviste impilati in uno scatolone in attesa di essere smaltiti, e sull'edizione locale di un quotidiano che Valerio comprava abitualmente lesse un annuncio.

Una nota discoteca cercava bariste e cameriere per la stagione estiva.

Anche se la data stampata sul giornale era di una settimana prima, dovevano esserci ancora dei posti disponibili.

Era già stata tempo prima in quel locale ed era un posto rispettabile, ben frequentato e presente ormai da molti anni.  E si trovava a una decina di minuti di autobus.

Il pomeriggio stesso si presentò e chiese al proprietario e gestore del locale se era possibile lavorare part-time, visto che stava preparando un paio di esami d'ammissione.

Dopo un breve colloquio Lorenzo, un uomo sui quarant'anni dalla barba biondo-rossiccia ben curata, piuttosto magro ma con una pancia sporgente dovuta a robuste bevute di birra, decise di assumerla. Era un uomo dai modi spicci e non gli interessava comportarsi da amico o da figura paterna con le ragazze. Per lui erano soltanto delle lavoratrici alle sue dipendenze, ma a lei non importava, le bastava essere rispettata e ricevere regolarmente la sua retribuzione, come le aveva garantito.

Avrebbe cominciato dalla sera successiva.

 

Incamminandosi verso l'uscita del locale, incrociò una donna dai lunghi riccioli color mogano ravvivati da mèche rosse e occhi castani da cerbiatta.

Era truccata in modo vistoso e indossava un paio di pantaloncini e una canottiera che sottolineavano un corpo ben modellato su cui spiccava un petto generoso.

La squadrò dalla testa ai piedi, per poi farle un sorriso complice.

«Sei bella, lo sai?»

Elena spalancò gli occhi e alzò un sopracciglio. «Anche tu, ma francamente ho altri gusti.» rispose poi, affrettandosi a passare oltre.

La donna scoppiò a ridere. «Ma cos'hai capito? Intendo dire che con il tuo aspetto potresti anche non limitarti a fare la barista o la cameriera, part-time oltretutto e fare invece la ragazza immagine. Guadagneresti molto di più e se sai anche ballare un po' …» spiegò, seguendola e affiancandosi a lei.

«Non ho intenzione di dimenarmi mezza nuda attorno a un palo e farmi infilare banconote nel reggiseno o nell'elastico di un perizoma.» tagliò corto.

«Guarda che qui non funziona così. Non del tutto almeno. Va bene …» replicò alzando gli occhi al cielo, visto che Elena non accennava a cambiare espressione né a fermarsi, e aveva ormai quasi raggiunto la porta. «Ho già capito che soltanto con le parole non ho possibilità di convincerti. Ma almeno questa sera vieni qui e guarda quello che faccio. Io mi chiamo Sara.»

«Elena.» concesse infine, voltandosi verso la ragazza mentre posava una mano sulla maniglia. «Verrò, ma non ci sperare troppo.»

 

Sara aveva ventidue anni, anche se il trucco pesante la faceva sembrare un po' più vecchia.

Ma in quel locale era praticamente impossibile trovare ballerine sopra i trent'anni e lei era già considerata una "veterana".

Elena guardò lei e le sue colleghe con attenzione e ignorando i suoi pregiudizi, ma non cambiò idea. Era convinta di non aver bisogno di arrivare a esibire il proprio corpo e regalarlo alla vista e ai commenti di uomini famelici e volgari e donne maligne e gelose.

Non che nessuno avesse tentato di allungare le mani mentre serviva ai tavoli, ma era ben diverso dal muovere il proprio corpo in modo provocante al suono di musiche allusive.

Ribadì perciò che avrebbe fatto esclusivamente quello per cui era stata assunta.

Continuò così, per tre sere.

 

Tornò a casa, fece una doccia e poi contò, seduta alla sua scrivania, i soldi guadagnati. Fece il calcolo di quanti ne mancavano per saldare l'intero debito.

Sospirò scoraggiata.

Erano ancora tanti. Troppi. C'erano un paio di bollette e un altro di tasse arretrate e le quote d'iscrizione per la certificazione di lingua giapponese e per l'università.

Chinò la testa e mise una mano sulla fronte, le banconote sparse sul ripiano e le parole di Sara che le mulinavano nella mente come un richiamo che faceva sempre più fatica a ignorare.

 

«Quanto hai guadagnato, Elena?»

La serata era ormai terminata, i clienti se n'erano andati ed era quasi ora di chiudere.

Le comunicò la cifra che Lorenzo le aveva corrisposto in quei primi quattro giorni.

Sara sorrise, come se si aspettasse esattamente quella risposta.

«Guarda quante ne ho prese io soltanto stasera, invece.» sparse le banconote sul bancone e a Elena si mozzò il fiato. Erano il doppio delle sue e di taglio maggiore.

«Con queste mi pago le rette dell'università, l'affitto, il vitto e le tasse … e così evito di pesare sulle spalle dei miei.» le confidò.

«Lo so che agli occhi della gente passo per una puttana e forse anche tu l'hai pensato.» proseguì guardandola dritto negli occhi, ma senza rimprovero né provocazione.

«In realtà, molte di noi scelgono questo lavoro semplicemente perché è più redditizio e permette un'indipendenza economica che altri mestieri più "puliti" non consentono di avere.»

Per la prima volta vide la vera Sara, sotto la corazza di giovane donna spavalda e un po' impudente.

«Io vorrei aiutare i miei genitori a ripagare i debiti e potermi iscrivere a una prestigiosa università.» le confessò.

Sara annuì, comprensiva. «Come vedi, se fai solo la cameriera non riuscirai a guadagnare abbastanza rapidamente. Se ti può aiutare, pensa che di notte diventi un personaggio che esiste solo qui e non è la persona che sei nella vita di tutti i giorni. In fondo si tratta di un paio di mesi. E passano in fretta, te lo assicuro.»

 

Era in piedi dietro a una specchiera nello stanzino in cui Sara si vestiva e si truccava prima di entrare sul palco.

Il sole filtrava attraverso le imposte lasciate aperte per mitigare il caldo di quelle giornate.

«Sai ballare un po'?» le chiese, dapprima guardandola attraverso lo specchio, per poi alzarsi dalla sedia e mettersi di fianco a lei.

«Ho fatto ginnastica artistica per dieci anni.»

«Allora non dovresti avere problemi a muoverti in modo sciolto e aggraziato. Io prima di cominciare ero un pezzo di legno, e guarda adesso come mi muovo.» disse divertita, mettendosi a ondeggiare con le gambe e il fondoschiena. Poggiò le mani sulle ginocchia con la malizia espressa dagli occhi e dalla piega delle sue labbra.

Elena si sentì avvampare all'idea di ripetere quei movimenti e riprodurre quello sguardo. Scosse la testa.

«Non potrò mai fare una cosa del genere.»

«Elena! Non guadagnerai abbastanza per estinguere i debiti e per pagarti l'università e l'affitto dell'appartamento a Monaco e relative tasse, limitandoti a fare la cameriera.» le rammentò. «Anch'io ero imbarazzata all'inizio e mi credevo incapace di farlo, cosa credi? Ma alla fine è un lavoro che mi permette di essere indipendente. Spesso chi mi giudica una poco di buono è peggiore di me.» affermò, perentoria e orgogliosa. «Pensa ai tuoi genitori che saranno più sereni, e a te stessa quando sarai in Germania a costruirti il tuo futuro. C'è un prezzo per tutto e ti assicuro che non è nemmeno così salato.»

«Hai presente "Il grande sogno di Maya"? Ecco, pensa che stai per indossare una maschera e interpretare un personaggio. E magari chissà, potresti incontrare anche tu un bel giovanotto ricco sfondato che si innamorerà perdutamente di te.» scherzò infine, strizzandole un occhio, cercando di alleviarle un po' il senso di disagio.

Elena si sforzò di sorridere. Lei lo aveva già conosciuto, il ragazzo descritto da Sara … e di certo non sarebbe stato felice di sapere quello che stava per fare.

Ma se fosse riuscita a trasferirsi a Monaco, avrebbe potuto vivere nella stessa città in cui, lo sentiva, avrebbe aperto la nuova fase della sua carriera.

Sì … lo stava facendo anche per lui.

  

Mentre si guardava allo specchio, con addosso un costume con lustrini neri e fucsia, succinto e provocante, le sembrò di avere di fronte a lei un'estranea con cui aveva in comune soltanto il colore dei capelli e degli occhi.

Il top era di due taglie inferiori alla sua, per far sembrare i seni più grandi.

La gonna era cortissima e lasciava scoperte le gambe per intero, lasciando intravedere i glutei. Sorrise leggermente: in fondo, in questo non era molto diverso dai body indossati nelle gare di ginnastica artistica.

Il ventre era interamente scoperto, ombelico compreso.

Ai piedi, un paio di stivaletti dello stesso colore dell'abito con orli neri e tacchi alti.

Ma ciò che la sconvolgeva di più era il trucco.

Pesante. Vistoso.

Un rossetto di un rosso deciso, l'ombretto dorato a sottolineare l'azzurro dei suoi occhi. Il mascara e il fard la facevano apparire più vecchia di almeno quattro anni.

Così era ancora più difficile riconoscere sé stessa e più facile pensare di stare semplicemente andando in scena a recitare una parte.

Non era veramente Elena Rulli, ma una ragazza che si esibiva in quel locale e casualmente si chiamava come lei.

Esisteva solo lì, nessuno l'avrebbe conosciuta se non il gestore, le sue colleghe e gli avventori del locale.

Un'estate così, anzi poco più di due mesi … e poi sarebbe stato solo un ricordo.

Né i suoi genitori, né Genzo avrebbero saputo nulla.

Avvertì il tocco leggero di una mano dalle unghie laccate di rosso posarsi sulla sua spalla.

«Sei pronta?» la voce di Sara era poco più di un sussurro, ma i suoi occhi erano risoluti, come se quella domanda accettasse una sola risposta.

Elena piegò la testa in segno d'assenso. «Ho scelto. Non tornerò indietro.»

Uscì dal camerino ed entrò nella sala vera e propria, illuminata da luci abbaglianti e insistenti, con la musica che riempiva tutto il locale. Il palco era lì accanto.

Vi salì, insieme a Sara e ad altre tre ballerine.

  

 

 

***Note***

 

 

Il JLPT (Japanese Language Proficiency Test), è l'esame per la certificazione di lingua giapponese, gestito dalla Japan Foundation and Japan Educational Exchanges and Services.

La certificazione prevede cinque livelli di difficoltà: da N1, la più difficile, che attesta la capacità di utilizzare il giapponese in tutte le circostanze, a N5, che attesta un livello di conoscenza basilare.

Altre informazioni qui.

In Italia è prevista un'unica sessione, quella di dicembre. Per questa fanfiction mi sono concessa una piccola licenza inserendone una anche nel mese di luglio, peraltro prevista in altri Paesi europei.

 

 

Un saluto a tutti.

Cambiano i luoghi e cambia l'atmosfera.

Il Giappone è ormai lontano ed Elena deve fare i conti con una situazione economica difficile.

Per aiutare i suoi genitori e per non rinunciare ai suoi sogni fa una scelta controversa.

Da qui inizia la parte finale della storia.

Grazie come sempre a tutti i lettori, mi scuso per l'assenza prolungata.

Sandie

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Capitolo 22
*** Capitolo XXII - L'Olimpiade ***


 

Capitolo XXII

 

L'Olimpiade

 

 

 

Kumi camminava portando una grande e colorata borsa di plastica. Era da poco uscita dal supermercato in cui si era recata a comprare l'occorrente per preparare la cena.

Passò accanto al campo di calcio recintato in cui si allenavano spesso insieme i bambini della Nankatsu e della Shutetsu, agli ordini dell'ormai storico allenatore Tadashi Shiroyama.

Sentì un rumore di calci dati a un pallone, ma non udì alcuna voce.

Incuriosita, si voltò per vedere chi fosse impegnato in quell'allenamento solitario.

Si avvicinò e posò la borsa a terra.

Un ragazzo in maglietta e pantaloncini chiari stava correndo con un pallone tra i piedi.

Raggiunta la linea di metà campo, si mise in posizione e caricò il tiro, calciando poi con potenza.

Il pallone sembrava destinato a sorvolare la porta, ma improvvisamente la traiettoria curvò verso il basso e la sfera andò a insaccarsi in rete.

Drive shoot, inconfondibile. Così come la capigliatura e il modo di muoversi e di correre impresso nella sua mente fin da quando, ragazzina, lo seguiva negli infiniti allenamenti e partite della Nankatsu.

C'era stato un periodo in cui i suoi occhi e la sua mente erano pieni di lui.

Ora non poteva pensarci senza tenerezza nei confronti di quella ragazzina di tredici anni alle prese con la sua prima vera cotta.

Tsubasa Oozora si diresse verso la porta, per recuperare il pallone in fondo alla rete.

«Tsubasa senpai

Il giovane alzò la testa e si voltò in direzione del punto da cui aveva sentito provenire la vivace voce femminile.

Al di là della rete di recinzione, una graziosa ragazza di bassa statura e dal corpo esile agitava la mano.

Si avvicinò.

«Bentornato a Nankatsu.»

La guardò con un'espressione dapprima dubbiosa, ma quegli occhi vivaci e quel sorriso erano inconfondibili.

«Kumi?»

Lei annuì, divertita.

Lui sorrise di rimando e si portò una mano dietro la nuca, il suo tipico gesto di imbarazzo sopravvissuto alla consacrazione a livello internazionale che lo aveva reso celebre in tutto il globo.

Si diresse verso il cancelletto e uscì dal campo.

«Avevo riconosciuto la tua voce, ma mi sembra strano vederti con i capelli così lunghi.» disse, raggiungendola.

«Già … mi piacevano e così li ho lasciati ricrescere.» sorrise, inclinando il capo.

Stettero per qualche secondo, senza sapere che dire. Così Kumi decise che nulla avrebbe potuto fargli piacere come parlare del suo ennesimo successo sportivo.

«Complimenti per la vittoria della Liga.»

«Grazie. Purtroppo non è andata altrettanto bene in Champions League, ma ci riproveremo la prossima stagione. Sarà ancora più entusiasmante perché ci saranno sicuramente alcuni dei miei compagni di Nazionale.»

«Già. Wakabayashi interessa a molte grosse squadre e Hyuga tornerà alla Juventus.»

«Sì, e inoltre Aoi tornerà all'Inter e sono sicuro che anche Misaki giocherà in Europa.» aggiunse, gli occhi accesi dall'entusiasmo.

«Sì, credo anch'io. Ha giocato uno splendido torneo di qualificazione.» rispose, cercando di non tradirsi.

«Mi ha detto che spera tu possa raggiungerlo in Spagna il prima possibile. Vuole portarti in giro per Barcellona.»

Kumi lo guardò stupita. «Ti ha raccontato di noi?»

Tsubasa replicò con un sorriso. «Beh, le confidenze non ve le scambiate solo voi donne!»

Kumi rise.

«Già, e ci sono pur sempre Ishizaki e gli altri. Mi sa che gli unici che si fanno gli affari loro sono Wakabayashi e Morisaki … sarà perché giocano in porta.» ironizzò.

Tsubasa ridacchiò. «Può darsi.»

«Credevo fossi già in Messico. I ragazzi sono partiti due giorni fa.»

«Infatti domani parto anch'io. Sono tornato per accompagnare Sanae e stare un po' con lei.»

«A proposito, come sta?»

«Bene. Oggi aveva l'appuntamento con la ginecologa ed era tranquilla. Ora dovrebbe essere a casa. Puoi venire a farle visita se vuoi.»

«Sì, mi piacerebbe molto. Non la vedo da più di un anno.»

 

L'insolita passeggiata si svolse in silenzio finché non giunsero a casa Nakazawa.

Accolti dalla madre di Sanae, trovarono la ragazza seduta sul divano del salotto, accanto a Yukari. L'ex prima manager fu dapprima sorpresa di vedere entrare Kumi, ma poi la salutò con un sorriso.

Kumi ricambiò il saluto dell'amica con affetto e un po' di commozione, nel vedere il suo pancione di quasi otto mesi.

«CI siamo quasi, eh?» disse, indicandolo.

«Già. I bambini nasceranno durante i Giochi, pare proprio nei giorni della finale.»

«Oh, allora non verrai in Spagna?»

Sanae scosse la testa, con un lieve sorriso.

«Anch'io resterò in Giappone, per starle vicina.» spiegò Yukari.

Kumi annuì, comprensiva.

«Tu invece ci andrai, a tifare per Misaki.» sorrise Sanae.

La ragazza sgranò gli occhi.

«Come fai a saperlo?» chiese, per poi rivolgere un'occhiata in tralice all'ex seconda manager.

«Io non c'entro. Sanae lo sapeva già.»

«Ma se non è stata Yukari, allora … Tsubasa?» si voltò verso il calciatore con un'espressione stupita. «Non ti facevo così pettegolo!»

Lui ridacchiò, mettendosi una mano dietro la testa. «Beh, Sanae è mia moglie … è normale chiacchierare insieme dei nostri più cari amici.»

Kumi chiuse gli occhi e fece un sorriso.

In fin dei conti, Tsubasa e Sanae erano tra le persone cui Taro teneva di più … e le stavano mostrando di approvare la loro seppure ancora acerba relazione.

«Da una parte sono triste perché non ci sarete. Anche Madoka non potrà essere presente dall'inizio, e nemmeno Elena.»

«Ci saranno Yayoi e Yoshiko. Anche la mamma di Ryo si è arruolata nel gruppo dei supporter.» la rassicurò Yukari.

«Sul serio? Sarò comunque in buona compagnia allora.»

«Un momento, chi è Elena?» intervenne Sanae, incuriosita.

«Mi riferivo a lei quando, nell'ultima e-mail, ti scrivevo di "novità interessanti". È la ragazza che ha folgorato Wakabayashi.» rispose prontamente Yukari.

«Wakabayashi? Ma non si era messo con quella sua amica, Asami?» chiese guardando Tsubasa che annuì, non meno stupito della moglie.

Kumi alzò le spalle. «È una lunga storia.» raccontò a grandi linee l'incontro con Elena e com'era nata la storia con il portiere, omettendo ciò che l'aveva portata a trasferirsi in Giappone.

«Pensa … proprio Wakabayashi.» sorrise Sanae, sorpresa ma anche divertita da quanto aveva appena appreso. «Sono curiosa di conoscere questa ragazza.»

«Oh, sono convinta che andrete d'accordo. È una di noi.» rispose, ripromettendosi mentalmente di contattarla.

 

Elena si affacciò al terrazzo del suo appartamento.

L'aria era calda e il cielo era limpido, illuminato dal sole di un mattino ormai inoltrato.

Tornata dentro, accese la radio e il ventilatore, poi si recò in cucina e aprì il frigorifero.

Sua madre aveva fatto una crostata con crema pasticcera, ciliegie, more e mirtilli.

Ne tagliò una bella fetta, poi prese un bicchiere e vi versò del succo di melagrana.

Mise tutto su un vassoio insieme a un tovagliolo di carta e si spostò nel salotto con la sua colazione.

Sospirò.

Da quasi due settimane ormai, conduceva una sorta di doppia vita.

Da quando era tornata a Roma, passava la maggior parte delle sue giornate a casa o faceva al massimo qualche passeggiata nei dintorni, al mattino quasi sempre da sola perché i suoi genitori erano fuori per lavoro.

La sua solitudine non durava molto, comunque, perché tornava dalla discoteca a tarda notte e al mattino si svegliava più tardi rispetto a quando si trovava in Giappone.

Fortunatamente la prima partita del girone, contro l'Olanda, sarebbe iniziata alle cinque e mezza del pomeriggio. Avrebbe potuto seguirla interamente in tv.

Il torneo di calcio olimpico era considerato una sorta di Mondiale giovanile ed effettivamente vi partecipavano le Nazionali vincitrici e le migliori classificate delle competizioni continentali.

Il faticosissimo ritiro a Toluca, senza precedenti per difficoltà e dispendio di energie, era ormai un ricordo e ora la Nazionale giapponese si trovava a Barcellona, città diventata ormai il "regno" di Tsubasa.

In America, avevano giocato due amichevoli con la Nuova Zelanda e il Messico, entrambe vittoriose, e ora si stavano preparando ad affrontare l'Olanda, il primo avversario nel cosiddetto "girone della morte" in cui le due Nazionali erano state inserite con l'Argentina e la Nigeria.

In quel momento, si stavano sicuramente allenando.

 

Andò di nuovo in camera, dove la attendevano i suoi libri.

Stava studiando in modo quasi maniacale per l'esame di lingua giapponese e per quello d'ammissione alla LMU. Aveva ripreso in mano persino i libri di grammatica tedesca, nonostante lo parlasse praticamente da madrelingua e avesse ottenuto, quando frequentava l'istituto tecnico, una certificazione con il massimo livello di valutazione.

Non voleva dare nulla per scontato.

Passò così le due ore successive, prima del ritorno a casa di Clara seguito da quello, mezz'ora dopo, di Valerio.

 

«Questo pomeriggio c'è Giappone-Olanda.» disse suo padre, mentre consultava sul televideo la programmazione della giornata, come faceva sempre, a pranzo terminato.

«È una grande partita. Il Giappone ha giocatori molto forti.» commentò Elena.

«Sì, so che c'è Oozora, quello del Barcellona e il portiere è Wakabayashi.»

«Sì.» la sua voce risentì lievemente del tremolio provocatole dal nome dal portiere. «E poi ci sono due calciatori che militano in Italia, Aoi e Hyuga: hanno entrambi disputato un'ottima stagione in Serie C e torneranno all'Inter e alla Juventus. E ce ne sono altri che sicuramente verranno richiesti da grandi squadre europee, come Taro Misaki.»

Valerio corrugò le sopracciglia, assumendo per un attimo un'espressione assorta.

«Misaki … non si chiamava così il ragazzo che hai conosciuto anni fa?»

«Esatto, è proprio lui.»

«Ah, gioca con l'Under 23 giapponese? Avevi ragione allora, quando mi raccontavi che era bravissimo. Ma l'hai rivisto, in Giappone?»

Elena roteò gli occhi e sorrise timidamente. «L'ho incrociato qualche volta, quando tornava a Nankatsu per fare visita a suo padre.» mentì.

Valerio assentì senza replicare e non le chiese altro riguardo a Taro.

Nei mesi precedenti, non aveva mai menzionato l'incontro con lui e con gli altri giocatori della Nazionale, né aveva mai parlato di nessun ragazzo in particolare, nemmeno degli allievi di Carlo e del maestro Shiroyama.

Non voleva insinuazioni né inviti velati a guardarsi intorno. Probabilmente era stata una precauzione eccessiva: quello che era accaduto era troppo grave perché a qualcuno venisse voglia di essere spiritoso o anche solo in vena di romanticismi. A nessuno interessava che trovasse un altro ragazzo, ma soltanto nuovi stimoli, nuove ragioni per continuare a vivere e a progettare il suo futuro.

Genzo era stato il fattore imprevisto, una felice coincidenza del destino.

 

Elena tornò in salotto quando il collegamento con il "Camp Nou" era appena iniziato e i giocatori e la terna arbitrale, accompagnati da bambini emozionati e orgogliosi, si erano appena disposti in fila orizzontale.

«Certo che l'Olanda ha i tre fuoriquota che sono fortissimi, e poi quel Brian Cruyfford che è un fuoriclasse. Grazie a lui l'Ajax è arrivato in semifinale di Champions League, quest'anno. Il Giappone ha coraggio a schierare solo giocatori in età. Sarà una bella partita.» commentò Valerio, mentre la figlia si sedeva accanto a lui, sul divano.

Sullo schermo passarono uno dopo l'altro i volti dei giocatori, mentre cantavano l'inno.

Molti di loro erano visibilmente emozionati, compreso Taro. Erano sul campo di uno degli stadi più famosi, sotto gli occhi di migliaia di spettatori, senza considerare che l'evento era seguito da televisioni e media di tutto il mondo.

Le riprese indugiarono su quelli più affermati e celebri.

Tra questi c'era ovviamente Genzo. Si distingueva da tutti gli altri per la sua divisa bianca, con un berretto dello stesso colore. Era l'unico a portarlo e questo costituiva la sua particolarità, oltre alla fama di portiere quasi imbattibile di cui già godeva.

I due capitani, Cruyfford e Oozora, si scambiarono i gagliardetti e si spartirono le metà campo dopo il lancio della monetina.

Dopo le fotografie di rito, i calciatori si sparsero per il campo, andando a prendere le rispettive posizioni.

Le telecamere spaziavano da un giocatore all'altro.

A un certo punto, sullo schermo comparì Genzo mentre, in piedi fra i pali della porta, si stava sistemando il cappellino in testa.

La regia lo riprese a figura intera, per poi restringere su un bel primo piano.

Il suo sguardo era sempre fiero e fisso davanti a sé.

Improvvisamente, i suoi occhi guardarono in camera.

Il ragazzo fece un lieve cenno del capo toccandosi la tesa del berretto con uno dei suoi sorrisi obliqui, per poi riprendere la sua proverbiale espressione seria e concentrata.

Elena sentì il cuore perdere un battito e il volto accaldarsi.

«Elena, stai bene? Hai le guance rosse e la pelle d'oca.» esclamò Valerio.

«Eh? Sì sì tutto a posto, non ti preoccupare … è solo un piccolo sbalzo.» mormorò, sfregando le braccia per riportare la pelle al suo aspetto naturale.

Quel gesto era tutto per lei, ne era certa … aveva voluto salutarla attraverso lo schermo, a pochi secondi dall'inizio della prima partita.

Avvertì una confortante sensazione di calore in mezzo al petto.

«Fatti valere, Genzo.»

 

L'avventura del Giappone ai Giochi Olimpici iniziò con un'esaltante vittoria per 4-1, ottenuta dopo un inizio in salita, in cui Genzo aveva subìto la prima rete di Cruyfford.

Il centrocampista olandese era riuscito a ingannarlo con una splendida finta.

Poi i ragazzi avevano saputo ribaltare il risultato, surclassando gli avversari.

Genzo si era riscattato ampiamente, compiendo delle parate fantastiche sullo stesso Cruyfford e respingendo i disperati tentativi degli attaccanti olandesi.

Non solo: aveva diretto la difesa in modo impeccabile, confermandosi una guida solida e sicura per tutto il reparto.

Elena sorrise: anche se era Oozora a portare la fascia, il Giappone aveva di fatto due capitani.

In un'inquadratura, aveva scorto Günther Hoffmann sorridere compiaciuto, in tribuna.

Era evidente che stava già cominciando a pregustare l'ingente cifra che il Bayern Monaco avrebbe dovuto sborsare per vedere Genzo compiere quelle prodezze anche con la casacca bavarese.

Aveva sofferto per l'impossibilità di tifare ed esultare per le sue parate e per i gol della Nazionale, limitandosi a sorridere e a stringere i pugni.

Aveva invidiato Kumi, la madre di Ishizaki e le fidanzate di Misugi e Matsuyama, che si trovavano al "Camp Nou" e potevano dare libero sfogo alla loro gioia.

Ricordò con nostalgia le serate passate al "National Stadium" di Tokyo.

Ma doveva tenere duro. Se avesse continuato a lavorare alla discoteca, sarebbe riuscita ad andare a Madrid per vedere la semifinale e la finale.

 

Erano passate ormai quasi due settimane da quando aveva iniziato a ballare sul palco di quella discoteca.

Gli anni di ginnastica artistica le avevano donato movenze eleganti e la capacità di isolarsi mentalmente, di concentrarsi solo sulla sua esibizione.

Elena riusciva a danzare in modo sensuale, senza risultare volgare.

Udiva gli apprezzamenti grossolani e le grida sguaiate dei clienti che assistevano allo spettacolo, ma non si lasciava influenzare né deconcentrare.

Stava interpretando un personaggio utilizzando ciò che aveva imparato nei suoi anni di ginnasta.

Sara la osservò, invidiandole suo malgrado quelle qualità: si stava comportando esattamente come le aveva dichiarato di voler fare.

Non guardava i clienti, ammiccava raramente e sempre in modo accennato, quasi impercettibile. Puntava tutto sulle sue doti di ballerina, come a voler mettere in chiaro che sì, si lasciava guardare, ma nessuno poteva toccarla.

Perché quel diritto era già riservato a qualcun altro.

 

Al termine della serata, si diressero come sempre allo stanzino, dove si erano già fiondate le loro colleghe.

Sentirono delle urla e dei rumori sordi provenire dal fondo del corridoio e si misero a correre per vedere cosa stesse succedendo.

Una delle ragazze che si esibivano insieme a loro, Ilaria, era bloccata contro il muro da una giovane cliente, che le stava tirando i biondi capelli tagliati a caschetto, tra grida, insulti, imprecazioni e minacce di spaccarle il viso.

Ilaria si teneva la mano sulla fronte, da cui scendeva un grosso rivolo di sangue e tentava disperatamente di difendersi con l'altra, implorandola di smettere e chiamando aiuto.

«Ehi, lasciala stare!» gridò Elena, frapponendosi tra le due ragazze.

«Tu levati di mezzo, sennò distruggo il bel visino anche a te!» gridò la sconosciuta, cercando di avventarsi su di lei con un pugno.

Parò prontamente il colpo, poi le afferrò un braccio e lo strinse fino a obbligare la giovane a desistere.

Nel frattempo, Sara prese Ilaria tra le braccia per proteggerla dalla furia di quella specie di erinni.

«Quella puttanella si è messa a ballare davanti al mio ragazzo!» sbraitò, cercando di liberarsi dalla presa ferrea di Elena.

«Tesoro, lei è una ballerina e si esibisce davanti a tutti i clienti. Il tuo ragazzo è quello che si è messo ai piedi del palco apposta per guardarla. Prenditela con lui!» gridò Sara.

«Ehi, che succede qui?» intervenne Lorenzo, giunto nel frattempo con due buttafuori al seguito.

Elena spinse la ragazza contro di loro.

I due uomini l'afferrarono per un braccio ciascuno e fu necessaria tutta la loro forza fisica per condurla fuori dal corridoio mentre continuava a dimenarsi e a dare in escandescenze.

«Va tutto bene?» chiese Lorenzo, rivolto a tutte e tre le ragazze, ma soprattutto a Ilaria.

Al loro cenno affermativo, l'uomo annuì.

«Non so se sia più cretina la fidanzata gelosa o il ragazzo che se la porta dietro.» disse caustico, prima di lasciarle per tornare nella sala.

«Devo medicarti.» disse Elena, rivolta a Ilaria ancora allacciata a Sara. Aprì la porta e le fece entrare nello stanzino.

«Nel bagno deve esserci un kit di pronto soccorso. Vado a prenderlo.» disse Sara, dopo aver fatto sedere Ilaria su una sedia.

Giunse quasi subito con l'occorrente, ed Elena disinfettò la ferita.

«Che destrezza!» commentò la ballerina più esperta, mentre la osservava passare l'unguento sulla fronte e fermare la garza con un cerotto.

«Quando si fa ginnastica, si cade e ci si fa male spesso. Inoltre per un periodo ho seguito una squadra di calcio formata da amici, quindi ho medicato un bel po' di ferite.» replicò, mentre Ilaria le sorrideva e la ringraziava.

«E quella mossa?»

«Ho uno zio che pratica arti marziali e mi ha insegnato un po' di autodifesa.»

Le tornarono in mente i mesi passati in Giappone, ancora vicini dal punto di vista temporale ma che le sembravano distanti anni luce, nel paragonare le due situazioni.

Si affrettò a scacciare quel pensiero. Non era tempo di lasciarsi prendere dalla nostalgia.

«Bene, allora finché lavorerai qui, sarai il nostro angelo custode.» sorrise Ilaria.

 

«Tu hai un ragazzo, non è così?» chiese Sara dopo alcuni minuti di silenzio, mentre finivano di struccarsi. Le altre ragazze se n'erano già andate, compresa Ilaria che aveva da poco chiuso la porta dietro di sé.

Elena corrugò le sopracciglia, un po' sorpresa da quella domanda. «Non te l'ho mai detto.»

«L'ho intuito. Balli con una certa sensualità, ma anche con pudore, come se temessi di offenderlo, in un certo senso. Devi amarlo molto.»

Elena sorrise. «È iniziata da poco … però tengo molto a lui. E sì, faccio fatica a dimenticarmene quando sono sul palco. Penso che se mi vedesse, non sarebbe contento …» mormorò, volgendo gli occhi verso il basso.

Sara diede un'alzata di spalle. «Niente di nuovo.»

«Abita qui a Roma?» chiese poi.

«No. Adesso è in Spagna … per motivi di lavoro. Se va bene, ci rimarrà per due settimane.»

«Che lavoro fa?» chiese, sempre più incuriosita anche dal tono con cui Elena le stava parlando … titubante, come se le stesse facendo una confidenza che avrebbe voluto tenere segreta, ma da cui traspariva anche aspettativa, come se si trattasse di un'esperienza importante.

«Si occupa di calcio, e questo lo porta a girare molto.» rispose, cominciando ad avvertire un senso di nervosismo. 

«Fa il giornalista?»

Elena abbozzò un sorriso, e Sara capì che la stava mettendo a disagio. Annuì, comprensiva.

«Ah già, è iniziata da poco. Capisco, vuoi andarci con i piedi di piombo. D'accordo, non ti chiederò altro. Anzi scusami, sono stata invadente con le mie domande.»

Elena fece un cenno del capo. Apprezzò il fatto che avesse riconosciuto e disapprovato la sua stessa eccessiva curiosità.

 

Completamente rivestite e struccate, salutarono Lorenzo e uscirono dalla discoteca.

La strada era quasi deserta, come sempre. La luna dominava il cielo notturno e l'aria era piacevolmente fresca.

«È domani che hai l'esame di giapponese, se non ricordo male. Devi riposare, sarà meglio muoversi.» disse Sara, sospingendo Elena gentilmente verso la sua auto.

Si fermò a pochi metri dal suo palazzo, dove Elena scese e la salutò.

Si avviò stancamente. Sara aveva dovuto svegliarla perché, stremata, si era addormentata sul sedile.

 

«Stavo per telefonarti. Sei tornata più tardi rispetto alle altre sere.» la accolse Clara, quando entrò nel loro appartamento. Era rimasta sveglia ad aspettarla, come sempre, fin dai tempi delle sue prime uscite con gli amici.

«Sì, mi dispiace. C'è stato un contrattempo. Nel locale c'era più gente e più confusione del solito e ho dovuto fermarmi a pulire la sala.»

Sospirò. Un improvviso senso di scoramento si impadronì di lei.

«Sono stata egoista, mamma. Se fossi rimasta qui, avrei continuato a lavorare in quell'azienda di import-export, avrei guadagnato di più e non ci troveremmo tutte queste spese.»

«Non dire sciocchezze, Elena. Ti ricordi come passavi le giornate, lavoro a parte? Eri sempre a casa, non uscivi praticamente mai.»

La giovane ripensò ai mesi trascorsi tra l'incidente di Gianluca e la sua partenza per il Giappone.

Sua madre aveva ragione.

Le loro giornate, a un certo punto, erano scandite da dialoghi composti dai consueti saluti del mattino appena alzati e della sera prima di andare a dormire, e domande come "Cosa vuoi per cena?", "Com'è andata al lavoro?", "Vuoi ancora della pasta?" e relative monotone risposte, oppure racconti sentiti in giro riguardo qualche loro conoscente, che venivano ascoltati con indifferenza e dimenticati in fretta.

Clara la abbracciò. «Se stai bene tu, siamo più contenti anche noi. E i nostri problemi economici li risolveremo, vedrai. Stai già dando un grosso contributo.»

Mamma … non avrebbe mai permesso che venisse a sapere la sua reale mansione in quel locale.

La ringraziò e le diede un bacio sulla guancia, poi si diresse nella sua camera da letto.

Diede un ultimo sguardo allo schermo del suo smartphone, su cui spiccavano le notifiche di due chiamate perse: una di Kumi e l'altra di Genzo.

E un sms inviatole venti minuti prima.

Non riesco a rintracciarti. Spero tu abbia visto il mio saluto prima della partita.

Fatti sentire domani, per dirmi che hai superato il test.

Sorrise. Fu tentata di digitare qualcosa in risposta, ma poi spense il cellulare.

L'avrebbe richiamato l'indomani, come da lui auspicato.

Aveva anche lei il suo piccolo torneo da vincere.



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Capitolo 23
*** Capitolo XXIII - A Madrid ***


Capitolo XXIII

 

A Madrid

 

 

 

 

«Ecco, lo vedo!» gridò Ryo, mentre la larga sagoma rettangolare del Meliá Maria Pita, l'albergo scelto per il ritiro si stagliava sempre più nitida davanti a lui, a Taro e a Tsubasa.

Avevano passato tutta la mattinata a provare il nuovo tiro che la Golden Combi intendeva utilizzare per battere il portiere tedesco Deuter Müller, riuscendo a realizzarlo dopo innumerevoli tentativi.

Avrebbero dedicato la mattinata successiva, l'ultima prima della partita, a perfezionarlo.

La giornata era molto calda, il sole era alto nel cielo in cui riecheggiavano i gridi dei gabbiani e un vento gentile soffiava solleticando i loro corpi bagnati.

Da quando erano arrivati a La Coruña, non c'era giorno che, regolari allenamenti a parte, non avessero trascorso sulla Praia de Riazor, a provare nuove tecniche e rinforzare le gambe con lunghe corse sul bagnasciuga.

«Ehi guardate! Una sirena avanza verso di noi.» disse Ryo, indicando una leggiadra figura femminile che stava camminando lentamente tra i flutti.

Taro e Tsubasa si voltarono, ridendo.

«Se ti sentisse Yukari …»

«Ma come, Misaki? Proprio tu, dovresti sapere meglio di me che non si arrabbierebbe affatto.» lo punzecchiò il difensore.

Taro lo fissò con aria interrogativa, poi si voltò ancora, per guardare meglio la ragazza.

Stava ora uscendo dall'acqua.

Non molto alta, con un corpo esile e armonioso coperto da un bikini blu.

Quella figura … aveva imparato a conoscerla molto bene negli ultimi mesi.

Kumi si fermò davanti a loro. I lunghi capelli bagnati appena scostati dal collo e dalle spalle, le gocce che scorrevano impudenti sul suo corpo, suscitando l'invidia di Taro.

«Ehi, ragazzi!» li chiamò, alzando un braccio. «Ho incrociato Nitta dieci minuti fa. Avete fatto tutti allenamento in spiaggia?»

«Sì, noi stavamo provando la nostra arma segreta contro la Germania.» rispose Ryo, con un'espressione fiera.

«Stavate? Capisco Taro e Tsubasa, ma tu che c'entri, Ishizaki?»

«Grazie per il tuo tentativo di non farmi sentire la mancanza di Yukari.» rispose sarcasticamente il difensore, facendo ridere i suoi amici. «Comunque c'entro alla grande, perché senza di me Tsubasa e Misaki non avrebbero mai potuto mettere a punto questa meravigliosa tecnica.»

Gli occhi della ragazza si illuminarono per l'interesse. «Potete mostrarmela, in anteprima?»

«Veramente sono sfiancato e ho una fame pazzesca. Non puoi pazientare fino a domani?»

Kumi alzò gli occhi al cielo. «Non ti smentisci mai, Ishizaki! Ma in fondo» diede una rapida occhiata al suo orologio «non hai tutti i torti, sembrate sfiniti. E poi ho scoperto che la Nazionale tedesca alloggia nel vostro stesso albergo, Müller potrebbe essere nei paraggi.»

 

Aveva salutato i tre ragazzi da pochi minuti e si stava dirigendo verso l'ostello in cui aveva preso una stanza, lasciando che i raggi del sole le accarezzassero la pelle ancora umida.

Si sentì afferrare e cingere da dietro, in una presa salda.

Trasalì ma si tranquillizzò non appena vide il volto sorridente di Taro.

Gli aveva rivolto uno sguardo significativo prima di andarsene, un tacito invito a seguirla.

«Mi hai spaventata.» finse di rimproverarlo.

«Credevi che ti avrei davvero lasciata scappare in albergo?»

«Veramente quello che doveva essere in albergo per l'ora di pranzo sei tu.»

Taro mantenne la stretta e si abbassò un poco, per avvicinare le sue labbra all'orecchio di Kumi. «Prima dovevo dirti di farti trovare pronta stasera per le otto, perché ti porto a cena al Puerto Deportivo

«Sul serio?» gli occhi di Kumi si illuminarono alla prospettiva di passare la serata in un ristorante con la vista sul mare, con le luci che si riflettevano sull'Oceano Atlantico, tra cui quella del faro Hércules.

Aveva sentito parlare così poco di La Coruña e quando l'aveva visitata, aveva scoperto una città molto più bella e interessante di quanto pensasse.

«Certo. La sera Kira ci lascia liberi di uscire, purché non rientriamo a notte fonda.»

«Già, pensa che bello spettacolo: Kira che sbraita contro dei ragazzi che dormono in piedi!» rise Kumi.

Il ragazzo si unì a lei nella risata e la sollevò leggermente dalla sabbia, strappandole un grido divertito.

Per Taro, gli intervalli tra un allenamento e una partita significavano un'inattesa vacanza insieme a Kumi. Le ore di libertà concesse da Kira erano state interamente sfruttate dal centrocampista per visitare le città insieme alla sua ragazza.

Lei gli elencava i posti che intendeva vedere e si aggirava per le strade, i monumenti e le bellezze artistiche come una bambina curiosa ed entusiasta.

Avevano scattato una quantità imprecisata di fotografie, che Kumi aveva provveduto a inviare ai loro amici rimasti in Giappone e a Elena.

In particolare, avrebbe voluto che la sua amica italiana fosse stata lì in Spagna, anche per consolidare il suo rapporto con Wakabayashi così come lei stava facendo con Taro.

Era però consapevole che l'ex ginnasta aveva valide giustificazioni per non essere lì con loro: stava studiando duramente per superare gli esami di ammissione alle università che intendeva frequentare e stava anche lavorando per guadagnare i soldi necessari a pagare almeno la prima retta.

 

A Barcellona, i due ragazzi avevano trascorso i momenti liberi visitando la città, opportunamente consigliati da Tsubasa sui posti e sui monumenti da vedere e sui ristoranti in cui fermarsi a mangiare.

Avevano visitato la Sagrada Familia e altre splendide opere di Antoni Gaudì, come Park Güell e Casa Battló.

Avevano fatto un'immancabile passeggiata sulla Rambla, per poi ammirare alcune tra le altre splendide cattedrali.

Prima di lasciare la bellissima città catalana, Kumi aveva bevuto un sorso d'acqua alla Fontana di Canaletes e quasi obbligato Taro a fare lo stesso, perché aveva letto in una guida che chi lo avesse fatto sarebbe tornato a Barcellona.

«Per te, potrebbe significare giocare nella Liga o in Champions League!»

  

Genzo sentì la tensione sciogliersi mentre, dal pullman della Nazionale, vedeva stagliarsi la sagoma dello stadio "Riazor".

In tutte le tappe della loro avventura olimpica, aveva guardato Misaki, Misugi, Matsuyama e gli altri giocatori in dolce compagnia con invidia.

Non avrebbe mai pensato potesse capitare proprio a lui.

Con Tsubasa e Ishizaki formava un insolito terzetto di "scapoli loro malgrado".

In compenso, aveva notato spesso Hyuga smanettare con il suo smartphone. Era evidente che cercasse di dissimulare, ma i sorrisi che di tanto in tanto gli sfuggivano tradivano il fatto che si stesse tenendo assiduamente in contatto con una ragazza … l'ormai famosa Maki Akamine, emergente giocatrice di softball anche lei a caccia di una medaglia alle Olimpiadi, un nome che Sawada sussurrava per evitare la furia del suo schivo ex capitano.

 

Quando scese, accolto come gli altri ragazzi da una folla urlante ed euforica, una giovane e spigliata giornalista tedesca gli si avvicinò impugnando un microfono e sfoderando un sorriso malizioso.

La conosceva: seguiva la Bundesliga per Sky Sport Deutschland e l'aveva intervistato numerose volte.

«Genzo, abbiamo notato che prima del fischio d'inizio guardi in camera, sorridi e ti tocchi la tesa del berretto. Viene da pensare che si tratti di un saluto … è per caso rivolto a una persona speciale?»

«L'hai detto tu.»

«Io penso si tratti di una lei.» lo incalzò la donna.

«Tifa per il Giappone nelle prossime partite, così forse lo scoprirai.» replicò con un sorriso enigmatico che per un attimo fece vacillare persino la disinvolta reporter e permise a lui di allontanarsi.

  

Karl Heinz Schneider infilò la sua maglia numero 11 e la fascia da capitano e si sedette sulla panca dello spogliatoio della Nazionale tedesca, in attesa che tutti i suoi compagni fossero pronti.

Ripensò alla conversazione avuta con il suo procuratore, lo stesso di Wakabayashi, che era passato a fargli visita al Meliá Maria Pita.

Era certo che avesse parlato anche con il portiere e lui non aveva saputo resistere alla tentazione di estrapolargli qualche indiscrezione.

 

«Ascoltami, Günther … com'è la situazione, con Wakabayashi? So che sei perfino andato a casa sua in Giappone, lo scorso maggio. Avrete parlato anche del suo futuro.»

«Naturalmente.»

«E non sei riuscito a carpirgli niente?»

«Genzo mi ha sempre detto di essere concentrato soprattutto sulle Olimpiadi, ed è vero. In questo momento, il suo obiettivo di conquistare la medaglia d'oro occupa la sua mente. Non significa che non stia pensando al dopo, ma la sua priorità è la Nazionale.»

«Bene, allora farò in modo di costringerlo a scegliere presto la sua prossima squadra di club. Lo batterò, e la Germania eliminerà il Giappone. E lui verrà al Bayern.»

«Stai attento, Genzo è migliorato moltissimo in questi mesi e lo si è visto anche nel girone eliminatorio. Sarebbe un peccato se il suo torneo si interrompesse proprio adesso: incontrare squadre di spessore ha fatto raddoppiare il suo valore di mercato e chissà quanto ancora potrebbe lievitare se dovesse confermarsi anche contro la Germania, la Spagna e la squadra che arriverà in finale.»

«Allora ci sei tu dietro tutto questo … sei tu che hai suggerito a Wakabayashi di tenere un atteggiamento ambiguo.»

«Wakabayashi non è tipo da prendere ordini sulla condotta da tenere con la stampa o con chicchessia.» replicò il procuratore. «E se il Bayern vuole Genzo, dovrà sborsare molti soldi. Sai meglio di me che non è un portiere qualsiasi, altrimenti non insisteresti così tanto con lui e con la società.»

«Ed è tuo interesse far aumentare quanto più possibile il suo valore.»

«Ovvio! È da qui che si vede la bravura di un procuratore.»

«E sei disposto anche a tifare contro la Nazionale del tuo Paese pur di cavare quanti più soldi possibile da questa operazione?»

Günther diede un'alzata di spalle. «Diciamo che avrò un ottimo premio di consolazione.»

Karl sogghignò e scosse brevemente la testa. «Comunque ho più di un buon motivo per battere il Giappone. La tua gallina dalle uova d'oro mi ha detto che se vinco io, verrà al Bayern, ma se vince lui, dovrò ballare nudo quel tormentone giapponese … la "PPAP".»

Günther sgranò gli occhi, poi scoppiò a ridere di gusto.

«Addirittura … ormai conosco il suo sprezzante senso dell'umorismo, ma questa le supera tutte!»

«Credo però di poterti tranquillizzare, Karl: ho come l'impressione che la scommessa potreste perderla - o vincerla - tutti e due.»

Il ragazzo lo guardò con aria scettica. «Com'è possibile? Il turno lo passa una sola squadra.»

Günther liquidò quell'obiezione con un gesto della mano. «Dai tempo al tempo. Alla fine Genzo-Bayern Monaco si farà. Ma la spinta decisiva non verrà da me, né tantomeno da te.» gli rivelò, sornione.

L'attaccante lo guardò con aria interrogativa. «E da chi, allora?»

«Te lo rivelerò a tempo debito. È qualcosa che non ti aspetteresti da uno come Wakabayashi.» disse, strizzandogli un occhio.

 

Karl fece una smorfia. A quanto pareva, il periodo passato nel suo Giappone aveva reso il SGGK una fucina di sorprese. E a dar retta a Hoffmann, c'era una ragione misteriosa che prometteva di spingere il portiere ad accettare il trasferimento al Bayern Monaco, a completamento di quella folle scommessa che avrebbe rischiato di assestare un duro colpo al suo amor proprio!

«Ehi Schneider! Ti vedo teso.» lo punzecchiò Kaltz, in piedi accanto a lui.

«Per me le sfide contro Wakabayashi hanno sempre un sapore speciale, lo sai.»

«Soprattutto da quando ti sei messo in testa di farlo ingaggiare dal Bayern.»

«Perché voglio diventare il calciatore più forte del mondo, e per farlo devo giocare nella squadra più forte del mondo. Con Wakabayashi in porta, il Bayern non avrà più punti deboli. E poiché lui è ostinato quanto me, l'unico modo per convincerlo definitivamente è batterlo.» affermò, alzandosi e avvicinandosi alla porta.

 

I giocatori del Giappone e della Germania Under 23 si schierarono sul terreno dello stadio "Riazor".

L'arbitro fischiò l'inizio della gara.

La vincente avrebbe incontrato in semifinale i padroni di casa della Spagna, che si erano imposti per 6-2 contro il Messico, dopo aver recuperato e ribaltato uno svantaggio di due reti.

La Germania aveva superato il primo turno come seconda del suo girone, dopo lo spettacolare pareggio contro il Brasile; il Giappone si era invece qualificato concludendo il girone al primo posto a punteggio pieno.

Contro l'Argentina, l'altra squadra qualificata, aveva disputato un'altra partita sofferta e bellissima. Juan Diaz aveva disputato una gara degna della sua nomea di genio del calcio, e aveva segnato due reti contro Genzo.

La prima era stata meravigliosa, l'altra invece irregolare, segnata con una mano, ma convalidata poiché sia l'arbitro sia il guardalinee avevano avuto la visuale coperta e perciò, nel dubbio e come da regolamento, avevano assegnato la rete.

Ma Tsubasa, Nitta e infine Misaki avevano provveduto a rovesciare il risultato.

Contro la Nigeria invece, era stato più facile del previsto: 3-0 grazie a una tripletta di Kojiro Hyuga, e un dominio durato per tutti i novanta minuti.

Sembrava proprio che chi volesse segnare contro il SGGK dovesse inventare, nel bene e nel male, delle soluzioni inaudite. Un portiere della sua bravura metteva alla prova le capacità dei giocatori che lo affrontavano.

Karl Heinz Schneider era l'unico che aveva sfidato e battuto Genzo più volte, l'unico che potesse definirsi sua "bestia nera".

Il più temuto, ma anche quello che conosceva meglio.

Si erano incontrati quasi dieci anni prima, e da allora erano stati compagni di squadra e rivali in allenamento, poi avversari in Nazionale e in Bundesliga.

Si affrontavano per la prima volta dopo la partita Bayern-Amburgo.

Entrambi erano migliorati ulteriormente in quei mesi.

Genzo prometteva di dimostrarsi forte come allora, ma più affidabile. Non avrebbe messo a repentaglio la partita cedendo a un colpo di testa.

Schneider tentò subito di segnargli con una spettacolare rovesciata.

Genzo uscì e bloccò la sfera con una solidità tale che Karl cadde rovinosamente a terra.

Con i tentativi successivi non andò meglio. I suoi collaudatissimi Fire shot si infransero regolarmente contro il muro eretto dal SGGK.

Il Kaiser si rialzò e si passò un braccio sul volto madido di sudore, furioso.

La difesa giapponese era predisposta in modo impeccabile: Genzo stava impartendo delle direttive perfette ai suoi compagni, che gli obbedivano con incrollabile fiducia.

La stessa che lui riponeva in loro.

Stava raccogliendo i frutti degli allenamenti sostenuti in Giappone e in Messico.

Non ricordava di aver mai faticato tanto e si era preparato con una precisione anche superiore a quella, già maniacale, con cui si era sempre allenato in Germania.

Aveva dovuto abituarsi all'aria rarefatta, a respirare in modo diverso. Aveva dato ulteriore resistenza al suo corpo e migliorato la sua capacità di concentrazione. L'allenamento di kickboxing gli era stato di enorme aiuto, perché aveva affinato ulteriormente la sua attenzione, i suoi riflessi e la sua reattività.

Non lo stava solo battendo nella loro sfida personale, lo stava decisamente umiliando.

Nonostante ciò, il primo tempo si svolse all'insegna dell'equilibrio.

Genzo Wakabayashi e Deuter Müller, pur infortunato alla mano e alla spalla sinistra, avevano neutralizzato tutti i tiri dei rispettivi avversari.

Il portiere giapponese stava praticamente tenendo in scacco il più forte centravanti europeo, ma anche il tedesco si era opposto con efficacia ai tentativi dei nipponici, da Tsubasa a Misaki, a Hyuga.

Nel secondo tempo la partita cambiò.

Tsubasa e Misaki sbloccarono il risultato dopo dieci minuti grazie alla loro nuova eccezionale tecnica, che spiazzò Müller.

Il portiere subì poi un altro gol: un potentissimo tiro di Hyuga, su rigore.

Il dolore alla spalla e alla mano si stava facendo sentire e stava progressivamente limitando la sua capacità di respingere e trattenere il pallone.

Genzo dal canto suo, era in forma perfetta e aveva reso la sua porta una fortezza impenetrabile.

Il Giappone era in vantaggio di due gol, ora bisognava pensare a gestire e proteggere il risultato, anche perché la Germania stava attaccando a tutto spiano.

Schneider, Goethe, Teigerbran, Schester, Margus, con Kaltz a imbeccarli e a guastare le iniziative dei giapponesi. Un assedio che Genzo respinse a ogni tentativo, ogni volta più potente e insidioso, aumentando la rabbia e la frustrazione degli avversari.

Poi, a dieci minuti dalla fine, un lampo di speranza accese gli animi dei tifosi della Mannschaft.

Schester deviò un poderoso tiro di Teigerbran, facendo scattare in avanti Schneider.

L'attaccante colpì di destro, con tutta la forza che aveva in corpo.

Era un'occasione irripetibile … Wakabayashi era fuori posizione perché ingannato proprio dall'inserimento di Schester.

Genzo si oppose ancora una volta con successo, riuscendo però soltanto a respingere il tiro.

Si lanciò sul pallone prima che lo raggiungesse il capitano tedesco, che stava arrivando, velocissimo.

Ma Genzo riuscì ad anticiparlo di quel tanto che bastava e bloccò la sfera con entrambe le mani.

Karl non riuscì a saltare in tempo per evitare l'impatto e il suo piede finì sulla spalla di Genzo, lacerandogli il tessuto della maglia e anche quello muscolare. Il portiere emise un grido e digrignò i denti, stringendo le dita attorno al pallone per evitare che gli sfuggisse dalle mani.

L'arbitro fischiò per interrompere il gioco.

Lo staff medico entrò in campo, per valutare le condizioni del portiere nipponico.

Wakashimazu era stato sostituito nel corso della partita, quindi l'unico portiere disponibile era rimasto Morisaki.

«Wakabayashi, forse è meglio procedere alla sostituzione.» disse il dottor Takeda.

Genzo si mise lentamente a sedere, e scosse la testa. «No, mancano pochi minuti. Concluderò la partita.» replicò, mentre uno degli infermieri cominciava a pulirgli la ferita sulla spalla.

«Sei più ostinato che prudente, Wakabayashi.» lo rimproverò il medico.

Genzo chiuse gli occhi e fece una smorfia. «Conosco i calciatori tedeschi quanto lo stesso Müller. Ho grande stima di Morisaki, ma nessuno è più adatto di me per fermarli.»

«E va bene. Ma non forzare troppo. Ci sono le due partite più importanti da giocare.»

Genzo assentì con il capo e attese che il medico terminasse di fargli la fasciatura.

Müller stava giocando con una spalla e una mano infortunate, lui non doveva e non voleva essere da meno. Anche se le sue fibre muscolari erano in fiamme.

Per fortuna mancavano pochi minuti. E con essi si riducevano le possibilità di segnare e riequilibrare il risultato. La sconfitta prendeva una forma sempre più consistente davanti agli occhi di Karl Heinz Schneider.

 

Genzo infilò con fatica il braccio destro nella corrispondente manica della camicia, trattenendo una smorfia.

Si trovava in infermeria, dove era stato da poco medicato.

La porta si socchiuse e Karl fece capolino con la testa.

«Ti disturbo, Wakabayashi?»

Il portiere gli rivolse un sorriso ironico, mentre cominciava ad abbottonarsi la camicia. «Andiamo, entra. Questa ostentazione di buone maniere non è da te.»

Karl sorrise di rimando ed entrò nella stanza. «Ehi, non sono un santo ma nemmeno un troglodita. Come va la tua spalla?» gli chiese fermandosi a pochi passi da lui, con le mani nelle tasche dei pantaloni della divisa ufficiale.

«Il medico mi ha appena fatto una fasciatura. Guarirò in tempo per la semifinale.»

Karl distese i due lati delle labbra. «Già …»

«Sembra che abbia vinto io la scommessa.»

«Io continuo a credere che tu debba essere il prossimo portiere del Bayern, Wakabayashi. E a quanto pare, non sono l'unico a pensarla così.» affermò, con aria saputa.

«Tu come lo sai?»

«Me l'ha detto un uccellino di nome Günther.»

«Chiamalo uccellino … quello è un falco.»

E lo era davvero. In quella sessione di calciomercato aveva concluso un paio di trattative difficili, riguardanti due tra i più apprezzati giocatori della Bundesliga e della Premier League. Si stava confermando come uno dei più bravi e abili procuratori a livello europeo, scaltro ma anche estremamente competente poiché era un fine conoscitore del mondo del calcio. Non per nulla era figlio di un ex importante dirigente della Deutscher Fußball-Bund e dell'UEFA.

Incontrava quotidianamente colleghi, dirigenti, giornalisti e aveva promesso che al termine delle Olimpiadi avrebbero saputo quale sarebbe stata la nuova destinazione del portiere, considerato il terzo grande affare dell'estate.

«Pensiamo a cose più concrete: dobbiamo organizzare tempo e luogo del tuo numero di danza.» disse il portiere, sviando il discorso.

«Lo farò se verrai al Bayern.»

Genzo spalancò gli occhi. «Ehi, non credere di ricattarmi.»

«Cerca di capire Wakabayashi, sono troppo giovane per perdere la mia dignità in questo modo.»

«Questi sono gli accordi.» ribatté, senza scomporsi.

«Allora usiamo un velo e una luce che proietti la mia ombra. Sarò nudo comunque.» insistette Karl, allargando le braccia.

Genzo rise. «Vederti così in imbarazzo è qualcosa di impagabile, Schneider.»

«Baka.» sbottò l'attaccante, rispolverando quel poco di giapponese che il suo stesso ex compagno di squadra gli aveva insegnato, ai tempi dell'Amburgo.

Genzo alzò un sopracciglio, guardandolo interdetto.

Ma fu solo per pochi istanti, prima che entrambi scoppiassero a ridere.

 

Elena rilesse per l'ennesima volta la missiva con cui la Japan Foundation le comunicava di aver superato il JLPT con un punteggio molto alto, più di quanto si fosse aspettata, anche se sapeva di aver svolto un buon test.

Quella giornata le aveva portato diversi motivi per sorridere.

Sull'applicazione e-mail del suo smartphone era arrivato un messaggio di Kumi, che le comunicava che Taro e Genzo avevano prenotato i posti per loro, per la semifinale e finale olimpica e avrebbero ritirato i biglietti allo stadio. In tribuna. I posti migliori nel mitico "Santiago Bernabéu". Si rammaricava che non avesse fatto parte della comitiva fin dall'inizio e la informava degli sguardi di invidia di Wakabayashi, anche se l'orgoglioso portiere non lo avrebbe mai ammesso.

Lei le aveva risposto assicurando la sua presenza.

Aveva messo da parte soldi a sufficienza per il viaggio e la permanenza nella capitale spagnola. L'amica aveva già provveduto a prenotarle una stanza nell'hotel dove alloggiava insieme a parte del gruppo dei supporter.

Sorrise. Tra pochi giorni avrebbe nuovamente respirato il clima dei mesi trascorsi in Giappone.

Non fu difficile spiegare l'invito ai suoi genitori: aveva parlato loro di Kumi e delle altre amicizie fatte durante il suo soggiorno.

E per loro qualunque cosa dimostrasse l'inizio di una nuova vita per la loro amata figlia, era da guardare con favore.

Aveva tanto invidiato Kumi, Yayoi e Yoshiko, non tanto perché stavano praticamente trascorrendo una vacanza in alcune tra le città più belle della Spagna, ma soprattutto perché erano al fianco dei loro fidanzati e seguivano le loro gesta dagli spalti.

Lei dal canto suo, aveva continuato il suo lavoro in discoteca.

Di serata in serata, aveva guadagnato una somma cospicua. Fortunatamente non erano più accaduti episodi come quello successo a Ilaria. Quest'ultima e Sara erano diventate sue buone amiche ed era il lato positivo di quell'esperienza che per il resto, non vedeva l'ora di concludere, pronta ad affrontare le sfide che le stava mettendo davanti il suo futuro.

Ma ora più di ogni altra cosa, voleva riabbracciare Genzo.

Seguire le sue Olimpiadi era stato al contempo esaltante ma le aveva anche provocato un senso di frustrazione, per non poter essere con lui.   

Lo aveva visto ergersi imponente davanti a Juan Diaz, come un muro.

Aveva subìto due gol, il primo imprendibile per qualunque portiere e il secondo messo a segno con una scorrettezza.

Taro e Tsubasa avevano dimostrato di avere abilità tecniche non inferiori a quelli del genio argentino e del suo partner d'attacco Alan Pascual. Le loro giocate, oltre ad aver propiziato le loro reti, avevano permesso anche a Nitta di segnare contro la fortissima Albiceleste.

L'ultima partita del girone, contro la Nigeria, era stata poco più di una formalità. La Nazionale africana era stata battuta con un sonante 3-0, grazie alla tripletta di Kojiro Hyuga.

E infine, la bellissima vittoria contro la Germania, una partita perfetta che aveva rischiato di essere compromessa dall'infortunio alla spalla nei minuti finali.

Era quasi saltata sul divano quando aveva visto i tacchetti di Schneider calpestare la spalla del portiere.

Aveva seguito con angoscia i minuti in cui gli erano state prestate le cure e quelli successivi, in cui gli assalti alla sua porta si erano moltiplicati.

Con grande tenacia e l'aiuto dei suoi compagni, Genzo era riuscito a mantenere la sua porta inviolata.

Era uscito dal campo tenendosi la spalla, con le labbra strette per il dolore e ai tifosi aveva rivolto solo un breve saluto con il braccio alzato a metà prima di sparire negli spogliatoi, accompagnato dal medico.

Aveva atteso un'ora dal termine della gara, per poi telefonargli e chiedergli notizie sul suo infortunio e lui le aveva assicurato che avrebbe giocato le due partite rimanenti anche in caso di recupero incompleto.

E non c'erano dubbi che l'avrebbe fatto: in fondo, era già accaduto e sempre aveva mostrato la sua affidabilità.

 

L'albergo in cui alloggiava la Nazionale giapponese si trovava a poca distanza dal campo in cui si allenavano e dal quartiere in cui era ubicato lo stadio "Santiago Bernabéu".

Giunta all'Eurostars Gran Madrid, non trovò né Kumi, né la signora Ishizaki, né le altre ragazze.

Come aveva sperato: prima di tutto, voleva rivedere Genzo e a quello scopo non aveva comunicato a nessuno l'orario del suo volo.

Il facchino si congedò dopo aver portato il suo trolley nella camera.

Si diede una breve rassettata e uscì.

Chiamò un taxi e diede all'autista l'indirizzo dell'albergo in cui alloggiava la Nazionale giapponese, fattole avere da Kumi.

 

Varcate le porte automatiche dell'Eurostars Madrid Tower, aveva subito scorto una figura conosciuta attraversare l'ampia e lussuosa hall.

Andò rapidamente incontro all'uomo dai capelli grigi e dagli occhiali scuri che si era accorto della sua presenza e le stava già rivolgendo un sorriso, facendole capire di averla riconosciuta.

«Buongiorno, Mikami-san

«Buongiorno, Elena. Sei arrivata oggi?»

«Sì … ho appena sistemato i miei bagagli in albergo. Volevo salutare Genzo, Taro e gli altri ragazzi.»

«Sono tutti all'allenamento.» disse, osservando l'espressione di Elena che oscillava tra il deluso e il perplesso. «Genzo deve invece osservare una giornata di riposo ed è rimasto in camera.»

Gli occhi della ragazza si illuminarono. «Posso vederlo?»

Mikami annuì, divertito. «Certo. La sua stanza è la 215.»

Elena arrossì leggermente, rendendosi conto di non essere riuscita a dissimulare.

Ma Mikami non sembrava sorpreso. Eppure doveva essere stato al corrente della precedente relazione con Asami.

Poi ci pensò. In fin dei conti, Genzo considerava il suo ex allenatore personale come una sorta di padre putativo, quindi poteva benissimo avergli parlato di lei.

E Mikami, a quanto pare, non aveva nulla in contrario a che si frequentassero.

Lo ringraziò e si avviò rapidamente sulle scale.

 

Arrivata davanti alla porta della stanza, la trovò socchiusa. Lui o il suo compagno di stanza dovevano essersi scordati di chiuderla.

Esitò. Era indecisa se bussare o se fargli invece una sorpresa …

Aprì piano la porta.

Lo scorse mentre era seduto alla scrivania. Stava scrivendo qualcosa …

Era concentrato e non aveva sentito nulla.

La scrivania era accostata al muro accanto alla finestra, quindi le stava dando le spalle.

Avanzò lentamente nella stanza, con passi leggeri e fluidi.

Ciò le rese più facile giungere dietro di lui senza che si accorgesse di nulla.

O quasi, perché Genzo posò la penna e richiuse l'agenda su cui era stato chino fino a un secondo prima e scostò la sedia all'indietro.

Elena si arrestò, e lui si alzò e si voltò subito dopo.

Sgranò gli occhi.

«Elena.»

Le sue iridi diventarono più grandi e luminose e alla ragazza si spezzò il respiro.

Abbassò le spalle e gli rivolse quel sorriso da monella che gli era tanto mancato.

Le andò incontro e lei fece altrettanto, annullando in pochi passi la distanza che li divideva.

Lui fu un secondo più rapido ad afferrarle i fianchi e attirarla a sé, e lei gli circondò subito il collo con le braccia.

Le loro bocche si incontrarono e si fusero in un contatto che era mancato per troppo tempo.

Le cinse la schiena con le braccia e avvertì le sue forme esili plasmarsi contro il suo torace.

Quella sensazione di sicurezza, di benessere, la pervase di nuovo.

A Genzo parve di aver appena colmato un vuoto.

Le sfiorò la tempia con le labbra, mentre riprendevano fiato.

Dalla sera in cui si erano salutati prima della partenza di lui per il pre-ritiro al J-Village e per tutto il tempo in cui era stata a Roma, aveva desiderato quell'abbraccio. Ogni sera si era avvolta tra le sottili lenzuola di lino del suo letto per avere la sensazione delle braccia di Genzo attorno a sé.

Adesso era, finalmente, reale.

 

«Sono praticamente appena arrivata.» gli spiegò «Ho lasciato i miei bagagli in albergo e sono venuta qui. Volevo rivederti e volevo sapere come stavi.» disse, sfiorandogli la spalla infortunata.

«A quanto pare, il maneki neko non fa appieno il suo dovere.» aggiunse, lanciando uno sguardo alla statuetta rossa posta sulla scrivania. «Ti fa molto male?»

Genzo scosse la testa, con un lieve sorriso. «Come ti ho detto, è solo una lussazione. Sarò in campo per la semifinale. Voglio neutralizzare Michael.»

Il giovanissimo spagnolo, vera rivelazione del torneo: sconosciuto fino a pochi mesi prima, era diventato il giocatore chiave della Nazionale di casa. Proprio perché sapeva così poco su di lui, Genzo lo considerava l'avversario più difficile da affrontare.

Elena sorrise, con uno sguardo sicuro. «Avrà del filo da torcere. Ho visto tutte le partite … si vedono chiaramente i progressi dovuti ai tuoi allenamenti di kickboxing. Non solo perché giochi ancora meglio con i piedi: sei anche più reattivo, i tuoi riflessi sono ancora più pronti. E ho l'impressione che i tuoi avversari debbano sempre inventarsi qualcosa di incredibile per segnarti una rete … arrivando anche a giocare sporco, oppure a sfruttare un tuo infortunio, come ha fatto Schneider.»

«Non riuscendoci nemmeno così.» sogghignò.

«Già.» rise lei, di rimando.

«Lui ormai non ha più segreti, per me.»

«Allora a questo punto, tanto vale averlo come compagno di squadra, no?» replicò lei, prontamente.

Genzo chiuse gli occhi e tirò le labbra da un lato. «Se non ti conoscessi, penserei che sei una spia assoldata dal Bayern per convincermi a trasferirmi.»

«Purtroppo no, ho soltanto visto qualche partita allo stadio. Ma se davvero ci riuscissi potrei chiedere un piccolo compenso.» ironizzò, strappandogli una breve risata.

 

«Sei stanca?» chiese dopo alcuni istanti, accarezzandole piano lo zigomo e la guancia.

«Un po'.» mormorò con un leggero sorriso, avvicinando il volto.

La baciò di nuovo.

«Ti porto a bere qualcosa. In questo hotel c'è un bar con una terrazza. La vista sulla città è splendida.»

 

L'aria era quella mite del tardo pomeriggio, il sole illuminava incontrastato il cielo.

Elena guardò il panorama. Era proprio come le aveva detto Genzo: Madrid sembrava stendersi sotto i suoi occhi e non vedeva l'ora di poterla visitare.

Parlarono liberamente del mese trascorso dal loro ultimo incontro in Giappone, come non avevano potuto fare nelle telefonate e nei messaggi scambiati via e-mail.

Gli raccontò del suo lavoro nella discoteca. Non gli disse tutta la verità ovviamente, solo che stava guadagnando qualche soldo facendo la cameriera, che era poi l'impiego per cui si era originariamente presentata.

Non aveva alcuna intenzione di rovinare quei momenti raccontandogli cose di cui sarebbe venuto a conoscenza soltanto se gli fossero state riferite da lei stessa.

«E così Schneider è tornato alla carica?» gli chiese poi, non desiderando più soffermarsi su quell'argomento.

«Già … a La Coruña le nostre Nazionali hanno alloggiato nello stesso albergo, quindi ci incontravamo spesso.»

«E tu cosa gli hai risposto?»

«Sono sempre rimasto sul vago. Mi ha detto che se passo al Bayern, posso affrontare Tsubasa in Champions League, e io gli ho detto che potrò farlo anche andando in Spagna. Volendo, anche tutti i giorni in allenamento.»

«Pensi di andare al Barcellona?» gli chiese, con un senso di apprensione che aveva ormai smesso di definire con aggettivi come "inspiegabile", "strano" o "incomprensibile".

«No. Prima o poi, io e Tsubasa ci affronteremo in una finale di Champions League. Non so quando, ma avverrà sicuramente.»

«E allora dove andrai?»

«Immagino in una delle grandi d'Europa. In ogni caso, andrò dove sarò sicuro di trovare tutto quello che voglio.» disse, lanciandole uno sguardo significativo.

«Io voglio frequentare la LMU. È l'università giusta. E Monaco è la città in cui voglio costruire la mia vita.» affermò lei, assumendo un'espressione speculare a quella del ragazzo.

Lui ripensò alle partite fin lì disputate, ai mesi trascorsi in Giappone, alle chiacchierate con Schneider e con Hoffmann.

E infine Elena, sguardo determinato e ora anche dolce davanti a lui.

E gli sembrò di vedere il suo futuro cominciare a stagliarsi in modo sempre più nitido nella sua mente.

 

Varcò l'entrata dell'Eurostars Madrid Tower e si tolse gli occhiali da sole, guardandosi intorno ammirato: la Federcalcio giapponese aveva scelto con cura e con ottimo gusto l'albergo in cui fare alloggiare i suoi giovani calciatori.

Dopo aver finalmente tagliato il primo importante traguardo della sua vita, aveva deciso di regalarsi una vacanza in Europa, facendo in modo di trovarsi in Spagna proprio nel periodo delle Olimpiadi.

Perché era un appassionato di sport, ma non solo.

Stava per recarsi alla reception, quando notò proprio la persona che stava cercando.

Stava scendendo le scale insieme a una ragazza bionda.

Brillanti occhi azzurri, alta, graziosa. Tipica bellezza tedesca.

Stavano parlando e sembravano decisamente in confidenza.

Vide Genzo guardarsi brevemente intorno, per poi sorridere a qualcosa che lei gli aveva detto e darle un rapido bacio sulle labbra.

Osservò l'avvenente sconosciuta mentre si avviava verso le porte automatiche, per poi uscire dall'hotel.

I suoi occhi passarono poi a Genzo, che l'aveva guardata finché non era sparita dalla sua visuale.

Sorrise e si diresse verso di lui.

Gli mise una mano sulla spalla e il portiere si voltò, assumendo poi un'espressione stupita.

«Volevo farti una sorpresa, ma a quanto pare sei stato tu a farla a me, fratellino.»

 

 

 

 

 

***Note***

 

 

 

La Deutscher Fußball-Bund (DFB) è la Federcalcio tedesca.

Die Mannschaft  è il soprannome della Nazionale.

"PPAP" ("Pen-Pineapple-Apple-Pen"): canzone-ballo tormentone lanciato nel 2016 dal giapponese Pikotaro.

Qui il video: immaginatevi Karl! C'è da capire il suo imbarazzo. :-D

 

 

 

Un saluto a tutti!

Per quanto riguarda la partita Giappone-Germania, la trama della mia fanfiction si discosta da quella originale di "Rising Sun", perché non me la sono sentita di infliggere a Genzo lo stesso ennesimo supplizio (chi ha visto le scanlations sa di cosa parlo) cui lo sta condannando un Taka la cui passione sembra sia inserire scene splatter dentro CT. :-/

E anche Elena ha già patito abbastanza per gli uomini della sua vita (e va be', qui è colpa mia).

E va da sé che la stessa magnanimità l'ho concessa a Jun e Yayoi.

Buon Ferragosto!

Sandie

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Capitolo 24
*** Capitolo XXIV - La corsa verso il sogno ***


Capitolo XXIV

 

La corsa verso il sogno

 

 

 

 

 

Elena si trovava nella hall dell'Eurostars Gran Madrid, seduta in una poltroncina non lontana dalla reception.

Scorse la cartella "In arrivo" dell'applicazione e-mail del suo smartphone, e il suo dito si fermò su un messaggio ancora segnalato in grassetto e ricevuto in aprile. Di proposito non lo aveva mai aperto.

Perché era di Shiori. Non c'era un oggetto ad anticipare, seppur stringatamente, il contenuto della sua e-mail, probabilmente per indurla a leggerlo.

Ma lei stava preparando le Nazionali juniores oltre a studiare e temeva che leggerla potesse sconvolgere quell'equilibrio che era riuscita a costruire con tanta fatica.

Ora si riteneva pronta a scoprirne il contenuto. Con un lieve sospiro, toccò la scritta evidenziata e davanti ai suoi occhi comparve un testo non lunghissimo, ma denso di informazioni importanti.

 

Cara Elena,

Innanzitutto, voglio chiederti scusa.

Scusami per aver dubitato di te, del fatto che saresti rimasta accanto a Gianluca anche in quelle condizioni, anche dopo l'incidente.

Quella sera in quel pub mi sono comportata in un modo a dir poco vergognoso … rivolgere simili accuse a una ragazza che considero sorella più che amica e di cui dovevo conoscere la lealtà e la generosità. Purtroppo ho creduto alle maldicenze di persone di cui mi fidavo quanto mi fidavo di te. Anzi, evidentemente di più, per poi rendermi conto della loro ipocrisia e perfidia.

A volte vado a fare la spesa nel supermercato dove lavora tua mamma e lei mi racconta quello che stai facendo in Giappone, come ti trovi … so che lavori bene in quella palestra e che hai stretto delle nuove amicizie.

L'ho detto a Gianluca.

Sono andata a trovarlo all'ospedale e mi ha confessato che gli manchi, tantissimo.

Credo ti pensi ancora molto e non potrebbe essere altrimenti, sei l'unica ragazza che lui abbia amato davvero e in ogni caso, avete condiviso emozioni che con nessun'altra potrà più provare.

Ha lasciato Roma una settimana fa con i suoi genitori e ora è ricoverato a Montecatone, nel reparto di Unità Spinale. Non sappiamo quanto ci rimarrà. Cercherà di recuperare almeno parte della sua mobilità, anche se sarà molto difficile. Ma ha solo vent'anni, deve tentare.

Fino a poche settimane fa pensava che la sua vita fosse finita, ma con l'aiuto di uno psicologo ha cominciato un percorso che pian piano lo porterà ad accettare la sua condizione.

Ogni tanto andremo a trovarlo, compatibilmente con i nostri impegni di lavoro e di studio.

Riesce a leggere e scrivere con un computer apposito, qualche volta riesce anche a sorridere con i nostri racconti e battute. Il dottore ci ha avvertito che non sarà un percorso breve, né semplice e lineare.

Spero di rivederti quando tornerai a Roma.

Nel frattempo, una cosa voglio dirtela: non sentirti in colpa. Lui mi ha raccontato di come tu non l'avessi abbandonato un solo giorno, dopo l'incidente e di come non avessi nessuna intenzione di farlo.

Sono certa che ti ha allontanata perché temeva di diventare un peso per te.

Spero di avere presto tue notizie, ma se non dovessi rispondere capirò, ti ho trattata in un modo davvero orrendo.

Ti voglio bene.

Shiori

 

Emozioni che con nessun'altra potrà più provare …

Arrossì leggermente nel rileggere quelle righe.

Allora Gianluca non abitava più a Roma … aveva deciso di darsi una seconda possibilità e di farsi ricoverare in una clinica specializzata. Aveva scelto di reagire, alla fine.

Sorrise. La vita era ricominciata anche per lui o almeno ci stava provando.

Si sentì più sollevata.

Stava cominciando a guardare oltre lei.

E Shiori aveva capito e dalle sue righe traspariva il suo desiderio di riallacciare i rapporti.

Si ripromise di cercarla, una volta ritornata a Roma.

Il suo smartphone suonò e comparve un'icona simboleggiante un testo scritto: un sms.

Vediamoci al mio albergo tra un quarto d'ora.

 

Si incontrarono nella hall dell'hotel in cui alloggiava la Nazionale giapponese.

Elena arrivò in leggero anticipo rispetto a Genzo, che scese dopo pochi minuti.

Indossava la tuta e profumava ancora di bagnoschiuma e di shampoo.

«Libera uscita?»

«Sì, fino all'ora di pranzo. Giusto una boccata d'aria.»

Elena sorrise. «Sei pronto?»

«Ho giocato in condizioni peggiori di questa e ormai la spalla mi dà solo un po' di fastidio, una sensazione che sparirà non appena metterò piede nello stadio.»

«La Spagna è fortissima, gioca in casa ed è composta da diversi giocatori che militano nel Real o nell'Atlético, ma voi siete il peggiore avversario che le potesse capitare.» affermò convinta.

Genzo fece un cenno d'assenso. «Non sarò degno del soprannome SGGK per molto tempo, se dovessi prendere sei gol.» dichiarò, dopo un momento di silenzio.

«Non li farà anche a te.»

«Non esserne troppo sicura, Elena. Espadas è uno dei migliori portieri del mondo, per me è stato uno shock vederlo subire così tante reti! Non ho mai visto un giocatore come Michael … è apparso improvvisamente nelle giornate finali della Liga. Ha trascinato il Numancia alla salvezza mettendo sotto scacco squadre come Valencia e Real Madrid. Il Barcellona ha vinto il campionato anche grazie alle sue straordinarie prestazioni. E dà l'impressione di non aver ancora rivelato tutto il suo potenziale.»

Numerosi servizi televisivi e articoli di giornali e siti Internet erano stati dedicati alla stupefacente partita giocata dallo spagnolo dall'aspetto da cherubino, autentica rivelazione del torneo. Un personaggio sorprendente di per sé: non si sentiva parlare spesso di un calciatore con un passato da seminarista.

Genzo e i suoi compagni avevano rivisto più volte il quarto tra Spagna e Messico, cercando di carpire quanto più possibile di quel prodigio.

Elena fece una piccola smorfia. «Sai, io non me ne intendo granché, ma la partita contro il Messico l'ho vista dal primo all'ultimo minuto. E secondo me … il modo migliore per prepararsi ad affrontarlo è costringere i ragazzi a tirare in tutti i modi possibili, utilizzando tutte le loro tecniche. Specialmente i più tecnici e creativi come Tsubasa, Misaki, Misugi, Sano, Aoi e Sawada. E anche Soda che sa far cambiare direzione ai suoi tiri e Matsuyama che ha un tiro non fortissimo, ma insidioso.»

Genzo rimase a guardarla, con un'espressione indecifrabile.

Elena si strinse nelle spalle.

«Lo so, è un consiglio stupido. Del resto sono un'appassionata, ma non un'esperta.»

«In te non vedo proprio nulla di stupido.» sorrise, accarezzandole il volto. «Anzi, credo proprio che farò come mi hai detto. Sottoporrò i ragazzi a un ultimo allenamento intensivo.»

«Non massacrarli però, altrimenti arriveranno sfiancati.»

«In tal caso li ricaricherò a dovere, ma sono sicuro che non ce ne sarà bisogno.»

Tra una schermaglia e l'altra, non si accorsero di Kira che, giunto nel frattempo dietro a loro, fu costretto a schiarirsi la voce per richiamare la loro attenzione.

«Ragazzi, mi dispiace dover interrompere così il vostro incontro romantico» sogghignò, davanti alla loro espressione interrogativa «ma questa sera c'è una partita cruciale e non dobbiamo sgarrare nemmeno di un minuto.»

Elena sorrise, con un'alzata di spalle.

«Lo so, mister Kira. Mi consolerò andando a pranzo con Kumi, Yayoi e Yoshiko.»

«A sparlare dei vostri ragazzi, mi auguro.»

«Ovviamente!» replicò stando al gioco, strizzando un occhio a Genzo.

«Vado, non voglio farvi perdere un secondo di più.» si congedò poi, rivolgendo un sorriso a Kira e dando una lieve carezza a un braccio del portiere.

 

«Pensi anche a lei quando porti in campo i tuoi sentimenti, Wakabayashi?» gli chiese il c.t, dopo che Elena ebbe lasciato l'hotel.

Genzo fece un cenno d'assenso.

«Allora mi aspetto una grande partita da te. Scegliere tra legno e bronzo o tra argento e oro dipenderà anche dalla tua capacità di sventare gli attacchi degli avversari.»

 

L'attesa semifinale era cominciata da pochi minuti.

Il "Santiago Bernabéu" era pieno di un tifo fervido ed entusiasta, come se si stesse disputando el Clásico.

I giocatori di casa vennero accolti con incitamenti, cori e applausi, mentre a quelli della Nazionale giapponese erano riservati fischi e urla di disapprovazione.

Una situazione che Genzo, Tsubasa e in parte anche Kojiro e Shingo Aoi avevano già affrontato.

«Siamo qui perché abbiamo disputato una grande Olimpiade. Siamo tra le prime quattro Nazionali del mondo. Ora dobbiamo diventare una delle prime due, e poi la prima.»

Li aveva motivati Kira, negli spogliatoi.

La Spagna aveva però preso il comando del gioco, grazie alla sua nuova stella.

Michael dribblò con agilità tutti gli avversari che gli si paravano davanti.

Ingaggiò un duello sul possesso palla con Matsuyama, ingannandolo con una finta rapidissima.

Poi fu la volta di Tsubasa e Misaki.

Grazie a uno scambio con Raíl riuscì a raggirare entrambi e a farli scontrare mentre si dirigeva verso la porta difesa da Wakabayashi.

Genzo, fermo e concentrato tra i pali, osservò Michael avanzare palla al piede.

Doveva stare attento: anche un ottimo portiere come Ricardo Espadas aveva subìto sei gol.

Si era preparato a quel confronto ascoltando i consigli di Mikami, con cui aveva parlato molto, e anche quelli di Elena.

Il biondo centrocampista effettuò una triangolazione rapidissima con Raíl e Fersio Torres. Quest'ultimo lasciò scorrere l'ultimo passaggio, su cui piombò proprio Michael.

Genzo bloccò il tiro con sicurezza.

Il numero undici iberico fece una smorfia, ma poi sorrise.

Wakabayashi era davvero un osso duro.

Genzo piegò le labbra da un lato ed effettuò un lungo, potente lancio di destro verso Nitta, che stava correndo, velocissimo, verso la porta.

L'attaccante calciò al volo di sinistro, infilando il pallone all'incrocio dei pali, spiazzando completamente Callusias.

Shun protese una mano verso la telecamera.

Madoka, seduta davanti allo schermo del suo laptop nella stanza affittata a Tokyo, sorrise emozionata.

 

La Spagna cercò di reagire, ma la difesa del Giappone, sapientemente disposta da Genzo, aveva chiuso tutti gli spazi.

Finché Michael, approfittando di una distrazione dei difensori nipponici ingannati dal movimento degli attaccanti avversari, si liberò della marcatura di Soda e corse verso l'area di rigore.

Genzo, con la visuale coperta dai due attaccanti spagnoli, non riuscì a vedere con quale piede Michael calciò il pallone.

La sfera si insaccò alle sue spalle.

Le due squadre tornarono negli spogliatoi con il risultato in parità.

 

Il secondo tempo fu molto più arduo del primo, per entrambe le squadre.

La difesa spagnola era impeccabile e Callusias stava giocando allo stesso livello di Wakabayashi. Dopo l'uscita di scena di Espadas e Müller, si candidava, con lo stesso giapponese e con il brasiliano Salinas, a essere il miglior portiere del torneo.

La spalla di Genzo era ancora dolorante, non era guarita completamente ma non avvertiva dolore, grazie all'infiltrazione fattagli dal medico prima della gara.

La semifinale si decise nei minuti di recupero.

Hyuga sancì il passaggio del turno con uno dei suoi micidiali Tiger shot, al termine di una splendida azione partita da Misugi e portata avanti con una triangolazione tra Tsubasa e Misaki, Aoi e Sawada.

Il Giappone era in finale, certi della conquista di una medaglia e a un passo dalla realizzazione del sogno.

 

Elena e Genzo si trovavano nel locale in cui avevano deciso di trascorrere la serata insieme, quando lo smartphone del ragazzo cominciò a squillare.

Lo estrasse dalla tasca e sospirò leggermente. Era Günther … e stava sicuramente per comunicargli quella notizia che stava aspettando da alcuni giorni.

«Il tuo tempismo è sempre stupefacente.» non si trattenne dal dirgli. Elena al suo fianco, ridacchiò sommessamente.

«Siete già lì? D'accordo, vi raggiungo tra poco.»

All'udire quelle parole, la ragazza assunse un'espressione seria.

Genzo chiuse la chiamata e si rivolse a lei.

Sospirò e non solo perché stava per rinunciare a passare una buona parte del loro appuntamento.

«Vado in un locale a poca distanza da qui, dove incontrerò alcune persone.»

«Dirigenti del Bayern?»

Genzo annuì.

Elena sorrise.

«Cercherò di raggiungerti al più presto.»

«Pensa ad ascoltare e discutere la loro proposta. È una decisione importante per il tuo futuro.» gli disse, mettendogli una mano sul petto.

 

Si voltò e appoggiò i gomiti sul bancone.

Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter assistere alla discussione tra Genzo, il suo procuratore e i dirigenti del Bayern Monaco.

Tutti i cosiddetti "esperti di mercato" indicavano la squadra campione di Germania come favorita per l'acquisto di Genzo. 

Schneider spingeva per l'ingaggio dell'estremo difensore nipponico: che ne fosse il principale sponsor era un aspetto ormai conclamato e sottolineato in tutte le narrazioni giornalistiche.

«Vuole ordinare qualcos'altro, signorina?» le chiese il barista, con un sorriso cordiale.

Elena esitò prima di rispondere, al punto che un cliente appena arrivato pensò di precederla.

«Buonasera! Per me una sangria, per favore.» disse una profonda voce maschile, dallo spagnolo comprensibile anche se un po' incerto, con un accento americano un po' particolare.

Elena si voltò per vedere a chi appartenesse.

Un ragazzo dai tratti orientali - anzi, giapponesi - si era seduto sullo sgabello accanto al suo.

La sua figura la colpì. Era alto, con un corpo atletico e imponente che si intuiva sotto la maglietta bianca e i jeans blu. Il viso dai tratti decisi, su cui spiccavano occhi di un nero intenso. Se quel giovane si fosse tolto gli occhiali dalla grande montatura blu squadrata e non avesse avuto i corti capelli tagliati a spazzola tinti di biondo grano, l'avrebbe trovato decisamente simile a Genzo.

Il nuovo arrivato si appoggiò con i gomiti incrociati sul ripiano e si guardò intorno.

«Bel posto, questo. Sono qui da appena due giorni e questa città mi piace già parecchio.» commentò, guardandosi intorno. Poi il suo sguardo si posò su Elena.

Il ragazzo fece un ammicco e lei arrossì, rendendosi conto di non avergli staccato gli occhi di dosso nemmeno per un secondo da quando si era materializzato accanto a lei.

«Anche lei è qui come turista, signorina?»

«Più o meno.» rispose, cercando di dissimulare l'imbarazzo.

«Accidenti che maleducato sono, non mi sono nemmeno presentato: mi chiamo Keisuke.» disse, tendendole la mano.

Lei la strinse dopo un attimo di esitazione. «Elena.»

«Tedesca?»

«Per metà. Ma sono nata e cresciuta in Italia.»

«Io invece, sono giapponese.» replicò «Si vede che hai origini nordeuropee. Con quei capelli biondi … non sono mica finti come i miei!» scherzò, sfregando le punte con le dita.

Elena accennò una risata.

Quel ragazzo … sembrava simpatico, ma stava indubbiamente cercando di attaccare bottone.

«Sei parecchio disinvolto per essere giapponese.» constatò, più che altro nell'intento di far prendere alla conversazione una piega diversa.

Lui ammiccò. «Vivo da cinque anni negli Stati Uniti e ho imparato a essere diretto. Ora mi sento più spontaneo e meno ingessato. Non fraintendermi: amo il Giappone, è il mio Paese e lì certi valori sono tenuti ancora in grossa considerazione mentre non si può dire che lo stesso valga ancora qui in Occidente, purtroppo. Per altri aspetti però, la mentalità è reprimente: impone un eccessivo controllo delle proprie emozioni e non permette di esternare convinzioni personali.»

«Sono d'accordo.»

Lo sguardo di Keisuke si fece ancora più interessato. «Sei stata in Giappone?»

«Sì, per sei mesi, proprio quest'anno. Ho uno zio che vive e lavora nella prefettura di Shizuoka e che mi ha ospitata per quel periodo. È come dici, però ho conosciuto anche persone molto aperte e spontanee, con cui ho stretto amicizia.»

«In effetti, nelle zone rurali o comunque non troppo urbanizzate come quella da cui provengo anch'io è ancora possibile.»

Continuarono a parlare del Giappone, dell'Europa e degli Stati Uniti.

Quel ragazzo aveva viaggiato molto e conosceva bene soprattutto il mondo e la mentalità anglosassone.

Elena trovava piacevole la sua compagnia: continuava a trovare familiari certi tratti, anche se le sembrava un po' sui generis persino rispetto ai più baldanzosi tra i ragazzi che aveva incontrato durante il suo soggiorno. Ma l'idea di flirtare con lui non la sfiorava e non vacillò neppure per un secondo davanti alle allusioni garbate, ma sempre più frequenti.

«Sai Elena, trovo che tu sia una ragazza molto interessante. Mi piacerebbe conoscerti meglio. Sono troppo avventato se ti invito a cena per domani?»

«Sì.»

Keisuke ed Elena sgranarono gli occhi e si voltarono verso la persona che aveva appena pronunciato quel tetro monosillabo.

«Genzo, sei qui finalmente. Com'è andata?» reagì lei, dopo un attimo di silenzio.

«Mi sono preso qualche giorno per decidere. Ci sono alcuni dettagli del contratto che vanno discussi.»

«Non vi è bastata un'ora per venirne a capo?»

«A quanto pare no. Vedo comunque che hai trovato un modo per ingannare il tempo.» ribatté lui grave, lanciando uno sguardo al ragazzo accanto a lei.

Elena aggrottò le sopracciglia e schiuse le labbra per rispondergli, ma Keisuke fu svelto a intervenire.

«Pace, mettiamo fine alla pantomima. Io sono Keisuke Wakabayashi, il fratello di Genzo.» le rivelò, mettendo una mano sulla spalla del portiere, che per la prima volta dal suo arrivo accennò un sorriso.

Elena passò lo sguardo dall'uno all'altro. «Suo … fratello?»

Ecco perché glielo ricordava così tanto. Sapeva che viveva e studiava negli Stati Uniti, ma non si aspettava che si trovasse anche lui a Madrid.

«Sì. E a scanso di equivoci, era tutto concordato.»

Elena era ancora più basita. «Tutto concordato? Ecco perché non ti sei più fatto sentire.» disse, rivolta al suo ragazzo, che sorrise e scambiò un'occhiata con il fratello.

«Già.» replicò quest'ultimo. «Volevo conoscerti, senza filtri. Volevo parlare con una ragazza vera e non con una che cerca di fare buona impressione davanti al suo potenziale cognato.»

«E allora come sono andata?» chiese, incrociando le braccia e alzando il mento.

«Beh, dirlo dopo un'ora scarsa di conversazione è un po' prematuro, ma conosco mio fratello e, senza vanterie, la capacità di osservazione è una caratteristica distintiva di noi Wakabayashi, quindi solitamente capisco presto se una persona merita fiducia oppure no. E il fatto che tu abbia cominciato a essere un po' più rigida quando ho cercato di entrare più in confidenza mi ha convinto che ci tieni veramente, a mio fratello.»

Elena sorrise e scambiò un'occhiata con Genzo.

«Che tu fossi un tipo stravagante ormai è risaputo, ma un look del genere su di te non me lo sarei mai aspettato.» disse poi quest'ultimo.

«Ah, questi sono frutto di una scommessa fatta con i miei compagni di università. Avevo promesso che se mi fossi laureato con il massimo dei voti mi sarei tinto i capelli e avrei pagato una cena per tutti nel più raffinato ristorante di Boston, e così è stato.» spiegò, tastandosi le punte dei capelli.

«Immagino lo shock di mamma e papà.»

Keisuke scosse la testa.

«Ovviamente la tinta l'ho fatta dopo la partenza dei nostri genitori e di Hiroji. Sai però che mi hai dato una bella idea? Ora ci facciamo una foto insieme e la mando direttamente a papà. Mi dispiacerà solo non vedere la sua faccia.» rise, suscitando anche l'ilarità di Genzo ed Elena.

Prese il suo smartphone e si mise in posa con il fratello, scattando una foto.

La ragazza li guardò divertita.

Erano due fratelli che si punzecchiavano e si prendevano in giro, ma indubbiamente molto legati.

 

Erano seduti in un tavolo a parte, poco lontano da quelli in cui stavano cenando gli altri ragazzi.

Keisuke aveva salutato tutti con calore, a partire da Izawa, Kisugi e Taki fino agli altri ex giocatori della Nankatsu e aveva anche chiacchierato e scherzato con quelli delle altre squadre, rendendosi subito simpatico con la sua innata socievolezza.

«Ho avuto l'impressione che ti fossi immedesimato troppo nella parte.» disse Genzo, portando il discorso su Elena dopo aver parlato del lungo periodo passato negli Stati Uniti dal fratello maggiore.

Keisuke accennò una risata e scosse la testa.

«Ti dico solo una cosa, fratellino. Se non fosse già impegnata con te, ci avrei volentieri passato la serata insieme. È una ragazza interessante da ascoltare, oltre che piacevole da guardare. Non sarò certo io a fare obiezioni, ma non posso mettere la mano sul fuoco per Hiroji e soprattutto per papà e mamma. Anche perché ci sono di mezzo gli affari tra le nostre aziende.»

«Non manderanno tutto all'aria per questo.»

«Certo che no, ma i rapporti con gli Ujimori si incrineranno.»

Genzo strinse la mascella. Era certo che Asami sperasse ancora in una riconciliazione.

Non aveva detto a nessuno che l'aveva lasciata, i suoi genitori non sapevano ancora nulla.

«Mikami e Katagiri mi hanno detto che la Federcalcio ha intenzione di organizzare una festa, in caso di vittoria. Sarà i primi giorni di settembre, quando i campionati si fermeranno e le Nazionali saranno impegnate con le gare di qualificazione e le amichevoli. In quell'occasione, parlerò con papà, mamma e Hiroji.»

Keisuke gli mise una mano su una spalla. «Se hai bisogno di manforte, puoi contare su di me.»

 

Anche la serata della finale arrivò.

Si affrontavano Giappone e Brasile, come nel World Youth di due anni prima.

Una mite brezza estiva spirava sul "Santiago Bernabéu", il cielo stava ormai diventando scuro e una dorata falce lunare sembrava vegliare sullo scenario insieme alle stelle.

I calciatori delle due squadre andarono a prendere le rispettive posizioni in campo.

«Sono uno dei pochissimi giocatori che ti hanno segnato un gol da fuori area Wakabayashi, e stasera conto di darti un altro dispiacere. Anzi, più di uno.» gli disse Natureza.

«Attento a non sognare troppo Natureza, che poi i risvegli fanno male.» ribatté.

«In tal caso, sarò io a spedire il pallone dietro le tue spalle.» intervenne Santana.

«Per riuscirci dovrai giocare la migliore partita della tua carriera.» replicò Genzo con il medesimo tono, abbassandosi la tesa del berretto e avviandosi verso la sua porta.

Sugli spalti erano presenti molti tifosi spagnoli, tra i quali i fan di Natureza, ma non mancavano anche i tifosi del Barcellona divisi tra Rivaul e Tsubasa.

Proprio il fuoriclasse blaugrana era rimasto impressionato dalla bravura del portiere giapponese. Era giovanissimo ma aveva una mentalità e un carisma da veterano.

L'aveva seguito nelle precedenti stagioni e nel torneo asiatico. L'aveva impressionato, ma era anche vero che le Nazionali affrontate in quei mesi erano troppo modeste per costituire delle prove attendibili.

Era stato felice quindi di vedere inserito il Giappone nel gruppo più competitivo, anche perché Tsubasa e i suoi compagni sarebbero stati costretti a dimostrare fin da subito il loro valore.

E le partite disputate nei Giochi lo avevano convinto definitivamente della sua eccezionale bravura.

 

Fu una partita bellissima: le squadre si affrontarono a viso aperto ed era un continuo botta e risposta fra azioni, tiri spettacolari e ribaltamenti di fronte. I due portieri si dimostrarono entrambi all'altezza della situazione e i tempi regolamentari terminarono con il risultato di 0-0.

Nei tempi supplementari, entrambe le squadre accusarono la stanchezza accumulata nel corso dei primi novanta minuti, giocati a un ritmo frenetico.

I tiri finivano perciò per essere imprecisi e fuori misura.

E soprattutto, Salinas e Wakabayashi sembravano aver alzato una saracinesca.

Pur essendo stati entrambi impegnati per tutta la gara, non persero neppure per un attimo la loro concentrazione e lucidità.

L'arbitro soffiò nel fischietto per tre volte.

Sarebbe stata la lotteria dei rigori a decidere quale delle due squadre avrebbe conquistato una delle medaglie d'oro più contese di quell'edizione.

 

I calciatori delle due squadre si radunarono accanto alle rispettive panchine, dove si concessero alcuni minuti per prendere fiato e dissetarsi, mentre gli allenatori parlavano soprattutto con i ragazzi incaricati di battere i rigori.

«Vi ricordate quando, nella finale del World Youth, vi dissi che se fossimo andati ai rigori, per me sarebbe stata l'occasione di diventare l'eroe della partita? Bene, quel giorno sembra essere arrivato.» sorrise Genzo.

I ragazzi fecero altrettanto, di rimando.

«Non vedevo l’ora che arrivasse un momento così.» ribadì rinfilandosi i guantoni.

«Se paro i rigori, le mie quotazioni saliranno vertiginosamente e dovranno spendere fior di quattrini per ingaggiarmi.» sogghignò, strizzando un occhio.

Una dichiarazione simile a quella di due anni prima, al World Youth, che come allora fece ridere i suoi compagni e stemperò la tensione.

Sì, con un Wakabayashi in quello stato di forma, era imperativo essere ottimisti.

 

Santana fu il primo giocatore a presentarsi davanti al dischetto.

L'attaccante del Valencia cercò di sorprendere Genzo con il cucchiaio, ma lui non si fece ingannare e parò il tiro.

La sua opposizione non fu altrettanto efficace contro l'esperienza di Robecaro e Rivaul.

Nel primo caso era riuscito a intuire la direzione del tiro ma non si era buttato in tempo per fermarlo, nel secondo invece fu completamente spiazzato dalla finta del fuoriclasse brasiliano.

Soda, scelto a sorpresa, disorientò Callusias, che si aspettava un tiro a effetto, con un normale rigore calciato di potenza.

Matsuyama sbagliò inaspettatamente il suo tiro, calciando il pallone tra le braccia del portiere.

Serrò la mascella e raggiunse i suoi compagni, che tentarono di consolarlo con alcune pacche sulle spalle e parole di incoraggiamento.

Yoshiko sospirò e strinse le labbra. Yayoi e Kumi di fianco a lei tentarono di confortarla come meglio potevano.

Non era tutto perduto.

Hikaru si mise le mani sui fianchi e guardò Radunga dirigersi verso il dischetto.

Tiro potente e preciso, gol.

Stesso esito per i rigori di Tsubasa e di Hyuga.

Taro fu l'ultimo calciatore del Giappone a incaricarsi del tiro.

Stava per lasciare la metà campo quando sentì una grande mano posarsi su una sua spalla.

«Segnalo, Misaki. Poi parerò il tiro di Natureza.»

Detto da qualsiasi altro portiere, sarebbe sembrato un eccesso di sicurezza per non dire una spacconata. Ma Wakabayashi non affermava mai nulla con tanta decisione senza sapere perfettamente ciò che diceva.

A Taro non restò che fare un cenno d'assenso e dirigersi verso il dischetto.

Baciò la sfera e la posizionò sul piccolo tondo bianco.

Indietreggiò di alcuni passi.

La rincorsa fu breve.

Tiro angolato. Esito classico. Pallone da una parte, portiere dall'altra.

Ora toccava nuovamente ai verdeoro tenersi aggrappati a quel filo sottile.

Kumi alzò le braccia con i pugni stretti, ricevendo abbracci e pacche sulle spalle dalle amiche.

Per Elena, il momento di massima tensione si ripeteva a ogni rigore.

Natureza …

Toccava a lui tenere vive le speranze della Seleçao.

Genzo lo osservava con uno sguardo carico di sfida. Era sicuro di sé, determinato, perfino intimidatorio.

Il giovane campione dell'Amazzonia avvertì un senso di agitazione.

Scosse la testa. No, perché preoccuparsi? Per quanto eccezionalmente bravo, era pur sempre un essere umano. E in fondo, lui due anni prima gli aveva segnato un gol da fuori area, il pallone non lo aveva nemmeno visto! E non gliel'avrebbe fatto vedere nemmeno quella sera.

Collocò la sfera sul dischetto e lanciò un sorriso verso Genzo, che non cambiò espressione.

Natureza fece alcuni passi a ritroso, respirando profondamente.

Genzo piegò le ginocchia leggermente in avanti.

Partì poco prima che il piede di Natureza colpisse il pallone.

Era un tiro di una potenza e una rapidità micidiali.

Si era buttato un secondo prima, ma era in ritardo ...

Genzo strinse i denti, tendendo il braccio destro e le dita più che poté.

I calciatori giapponesi, quelli brasiliani e tutti i tifosi trattennero il fiato.

 

Nello stadio "Santiago Bernabéu" esplose un boato assordante.

Genzo venne letteralmente sommerso dai suoi compagni, precipitatisi in massa su di lui, rischiando di soffocarlo sotto i loro abbracci.

A pochi metri da quella montagna umana dalle maglie bianche e blu, il pallone fermo sull'esterno della rete. E Natureza steso supino accanto alla linea di delimitazione dell'area di rigore, con le mani sulla faccia, sul terreno del suo stadio, mentre alcuni suoi compagni si mossero dalla metà campo per raggiungerlo e cercare, per quanto possibile, di confortarlo.

Le immagini sul maxischermo mostrarono più volte la deviazione con la punta delle dita con cui il portiere nipponico aveva neutralizzato il tiro dell'attaccante del Real Madrid.

I supporter giapponesi erano troppo intenti a esultare per vederle, mentre quelli brasiliani assistevano con sguardi increduli e avviliti.

I ragazzi del gruppo dei supporter erano fuori di sé dalla gioia.

La signora Ishizaki strinse una dopo l'altra le sue giovani compagne di tifo in un incontenibile abbraccio, in attesa di riservare quello più traboccante di affetto a quel figlio spesso rimproverato, ma che amava come il dono più prezioso che la vita le avesse fatto.

Elena provò un sospiro di sollievo nel vedere Genzo riemergere finalmente da quell'ammasso di ragazzi in pieno tripudio.

Il suo portiere era stato abbracciato e travolto dalla gioia e dall'euforia dei suoi compagni come se fosse stato un attaccante che avesse segnato il gol decisivo.

Perché la parata di Genzo significava quel gol negato che era valso al Giappone la medaglia d'oro.

 

«Vieni, Elena!»

Vide Kumi correre verso Taro e abbracciarlo, Yayoi appoggiare le mani sulle guance di Jun per sussurrargli qualcosa e poi stringersi a lui, Hikaru e Yoshiko darsi un lieve bacio.

Persino Maki andò incontro a Kojiro per stringergli le mani.

E lei? Era ferma quasi a bordo campo, a pochi metri dalla panchina, intimidita da quella selva di telecamere che stavano riprendendo i ragazzi.

Avvertì una mano posarsi sulla sua spalla.

«Non vai da Genzo?»

Mikami le sorrideva con affetto.

«Non so se posso farlo.» mormorò.

«Lui vuole condividere questo momento con te. Perché rovinare tutto?»

Elena gli sorrise e fece un cenno d'assenso.

Si incamminò in direzione del portiere, che stava parlando con Tsubasa.

Gli toccò un braccio e lui si voltò.

«Ce l'hai fatta, Numero Uno.» sorrise.

Lui la attirò a sé, con un gesto rapido.

«Ehi!» gridò, ridendo.

Appoggiò la testa sul petto coperto dalla maglia sudata e sporca e afferrò delicatamente la medaglia.

«Chi l'avrebbe mai detto che ne avrei vista una da così vicino.» mormorò.

Ignorarono i flash dei fotografi, che si susseguivano l'uno dopo l'altro sui loro volti.

«Potrò mettere la medaglia d'oro al collo di papà.» mormorò Taro accanto a loro, gli occhi lucidi e il sorriso emozionato come quello di un bambino.

 

«Forza mister, l'astinenza è finita!» gridò Wakashimazu, versando del sake nella coppa ben salda tra le mani del suo ex mentore.

«Ehi Ken, piano! È quasi un anno che non bevo nemmeno un goccio, non vorrei mettermi a dare i numeri!» lo ammonì Kira, tra le risate dei ragazzi ma anche dei membri dello staff e persino di Mikami, Katagiri e Gamo.

Alla festa era presente anche Maki Akamine. Una conferma del legame che la univa a Kojiro Hyuga.

I due ragazzi si ponevano ogni tanto in disparte dal resto del gruppo, comportandosi con discrezione, ma la giovane giocatrice di softball, rivelazione della Nazionale vincitrice della medaglia di bronzo, familiarizzò anche con le altre ragazze e i compagni di Kojiro, dimostrandosi affabile e simpatica.

 

Era una serata perfetta.

Questo stava pensando Genzo, mentre abbracciava con lo sguardo il salone illuminato in mezzo al quale spiccava il grande tavolo su cui era rimasto ormai ben poco cibo, mentre le bevande continuavano a scorrere.

Aveva da poco terminato una lunga chiacchierata con alcuni compagni e ora stava cercando Elena con lo sguardo, ma non riusciva a scorgerla da nessuna parte.

Incrociò lo sguardo di Kumi che piegò leggermente la testa in direzione della portafinestra.

Genzo la ringraziò con un cenno del capo e vi si diresse.

«Ah, eccoti. Eri scappata sul terrazzo.»

Elena si voltò e gli sorrise, le mani ancora appoggiate sul parapetto.

«Non sono scappata. È solo che pur amando divertirmi con gli amici, dopo un po' di tempo passato in mezzo alla confusione sento il bisogno di uscire a prendere una boccata d'aria e starmene un po' per conto mio. Sono fatta così.» spiegò, con un'alzata di spalle.

Genzo fece un cenno del capo. «Sono l'ultima persona cui devi spiegare queste cose.» la rassicurò.

L'aria era mite, in cielo splendeva una mirabile luna piena.

Elena, con i capelli sciolti sulle spalle e lo sguardo reso più luminoso da quel riflesso lunare, era bellissima.

Indossava lo stesso abito blu della serata all'auditorium dell'Istituto Shutetsu.

Un intrecciarsi di contingenze che lo convinse che non era vero che la perfezione non potesse esistere, fosse anche per poco.

«In realtà, c'è anche un altro motivo per cui sono venuta qui.» disse, facendogli assumere uno sguardo attento.

«Lì dentro, tra i dirigenti, i giornalisti e gli amici, finiamo sempre per restare lontani. Alla festa di Ishizaki, quando ero da poco in Giappone, avevo notato che anche tu hai questa abitudine … così sono uscita, sperando che mi raggiungessi.» sorrise.

Gli parve di scorgere una punta di malizia nella sua espressione.

Ricordava bene quella serata … era stata la loro prima vera conversazione, per quanto breve.

Breve ma significativa, perché aveva dissipato gli ultimi dubbi sul suo ritorno in Giappone.

Nessuno dei due immaginava quello che avrebbe significato quel periodo.

Un periodo che, per entrambi, sarebbe dovuto essere lontano da lì.

La guardò e sorrise, pensando a come il destino si fosse divertito a giocare con le loro vite. L'attirò a sé e chinò il viso sul suo, esaudendo finalmente il desiderio di entrambi.

 

Le ante della portafinestra si spalancarono di colpo, facendoli sobbalzare mentre un euforico - e probabilmente anche alticcio - Takeshi Sawada irrompeva nel terrazzo.

«Ehi ragazzi, vi ho trovati finalmente! Sono tutti pronti per la foto collettiva, mancate solo voi!»

Poi si bloccò e sgranò gli occhi, fissandoli.

«Non volevo disturbarvi …» mormorò, imbarazzato.

Genzo dopo un momento di stupore misto a disappunto, scosse la testa e sorrise. «Non preoccuparti, Sawada. Arriviamo.»

Takeshi annuì e rientrò nel salone.

Genzo ed Elena si scambiarono un'occhiata, rassegnati ma anche divertiti dall'imbarazzo del giovanissimo centrocampista.

Quando entrarono, furono bersagliati da una raffica di occhiate maliziose e battute allusive che Genzo liquidò con la consueta ironia, consentendo a Elena di limitarsi a fare spallucce sorridendo.

 

Dopo aver scattato più volte la fotografia, tra persone assenti al momento della posa e da recuperare anche con ineleganti strattoni, scherzi e risate, Taro afferrò delicatamente un braccio di Kumi e la trasse un po' in disparte dal resto del gruppo.

«Sai, ieri ho ricevuto una notizia importante.» le confidò, davanti all'occhiata interrogativa di lei.

«Davvero? E di che si tratta?» chiese la ragazza, incuriosita ma già con un'intuizione in testa.

«Ho ricevuto un'offerta ufficiale da parte del Paris Saint Germain. Vogliono far valere l'opzione fatta l'anno scorso.»

I suoi occhi si illuminarono subito per l'entusiasmo. «È meraviglioso, Taro! Con Pierre Leblanc e J.J. Ochado formeresti uno dei centrocampi più competitivi a livello mondiale. E con un finalizzatore come Louis Napoléon, l'attacco diventa una macchina da gol. Sarete la squadra da battere in Ligue 1 e una tra le più competitive in Champions League.»

Taro fece un lieve sorriso. «Questo significherà stare lontani.»

Kumi scosse la testa.

«Sei troppo bravo per non attirare l'interesse del calcio europeo. Non ho pensato neppure per un secondo che dopo le Olimpiadi saresti rimasto allo Jubilo Iwata. Rimarremo in contatto e ogni tanto verrò a trovarti … o verrai tu a trovare me. Ce l'hanno fatta Tsubasa e Sanae, ce la stanno facendo Hyuga e Akamine, tu stesso ci eri riuscito con Hayakawa e paradossalmente vi siete lasciati proprio quando abitavate entrambi in Giappone. Metteremo alla prova il nostro legame: se è solido, resisterà.»

Taro la guardò con tenerezza e le passò un braccio attorno alla schiena.

«Misaki, la signorina Yamaoka Yoshiko ha chiesto di lei.» annunciò uno dei camerieri.

Il centrocampista si sciolse a malincuore dall'abbraccio e si diresse alla porta d'uscita.

Una volta sul corridoio, vide la sorella sorridergli entusiasta.

«Taro!»

Kumi si affacciò alla porta poco dopo.

Una ragazzina di circa dodici anni, dai capelli castani a caschetto e vivaci occhi nocciola stava abbracciando il centrocampista, complimentandosi ripetutamente con lui. Era vestita con un abito estivo bianco e rosa e molto graziosa.

Yoshiko notò la presenza della ragazza che li stava osservando e si scostò dal fratello.

«Ah, sei in dolce compagnia! Spero di non avervi disturbato.» sorrise, guardando Kumi.

La ragazza mise le mani dietro la schiena e alzò le spalle, con un gran sorriso.

«Non ti preoccupare.» la rassicurò. «Io sono Kumi.» aggiunse, inchinandosi.

«E io sono Yoshiko, la sorella di Taro.» si presentò a sua volta, ricambiando il saluto giapponese.

Furono raggiunti da una bella donna dai corti capelli castano ramati, a incorniciare un viso dai tratti delicati e dagli occhi nocciola. La dolcezza di quei lineamenti, di quel sorriso e l'espressione mite di quegli occhi erano identici a quelli di Taro e della stessa Yoshiko.

Accanto alla donna, un uomo di corporatura robusta, dai corti e lisci capelli neri dello stesso colore degli occhi, delimitati da un paio di occhiali dalla montatura grigia.

«Loro sono Yumiko e Taisho Yamaoka, mia madre e suo marito.»

«Mamma, Taisho-san, lei è Kumi Sugimoto. La mia ragazza.»

Yumiko la guardò e poi sorrise, facendole un inchino. Gesto imitato dal marito.

«Ciao Kumi. Sono contenta di conoscerti.»

«Anche per me è un grande piacere, signori.» disse la ragazza, ricambiando il loro gesto di saluto.

«Perché non andiamo a mangiare una torta o un gelato tutti insieme?» propose Yoshiko.

Yumiko esitò, perplessa. «Non so … forse volevate festeggiare con i vostri amici.» obiettò, rivolta a Taro e Kumi.

Il ragazzo scosse la testa con un sorriso. «Posso benissimo passare un po' di tempo con voi. Sono certo che al ritorno, li troveremo tutti ancora qui.»

Yoshiko batté le mani, entusiasta. «Splendido! Vieni con noi, Kumi?»

«Certo che verrà.» rispose Taro spegnendo sul nascere ogni esitazione, prendendole una mano.

La mangaka fece per obiettare, ma i sorrisi di approvazione dei genitori e della sorellina del fidanzato la convinsero che la sua compagnia era gradita, più di qualsiasi parola.

 

Non appena seppe dell'abilità di Kumi nel disegno, opportunamente rivelatale da Taro, Yoshiko chiese subito alla ragazza un ritratto di Sailor Moon, uno dei suoi personaggi preferiti.

Kumi la accontentò, tirando fuori dalla sua borsa il suo inseparabile blocchetto da disegno e una matita, eseguendo poi un disegno di notevole somiglianza.

«Wow! Sembra che l'abbia disegnato Naoko Takeuchi in persona! Sei bravissima!» cinguettò, mostrando la piccola opera anche ai suoi genitori, che annuirono.

«Hai già cominciato a collaborare con qualche casa editrice?» le chiese Yumiko.

«Sì, disegno manga e illustrazioni per una piccola casa editrice di Fuji. I miei genitori, specie mio padre, non sono molto entusiasti di questa mia scelta, ma si convinceranno prima o poi. Altrimenti pazienza. Il lavoro più bello è quello che faresti anche gratis.»

Yumiko assentì. «È solo questione di tempo: quando ti vedranno felice e realizzata, saranno orgogliosi di te più di quanto lo sarai tu di te stessa.»

 

Dopo una breve passeggiata, si fermarono in una gelateria.

Kumi e Yoshiko erano sedute su una panchina illuminata da un lampione collocato lì vicino e le stava facendo un altro disegno, sotto gli occhi curiosi e partecipi di Taisho.

Yumiko e Taro erano, invece, seduti a un tavolo poco fuori il piccolo edificio e avevano appena terminato di mangiare i loro coni alla crema e cioccolato: avevano scoperto con divertito stupore di avere gli stessi gusti.

Yumiko si pulì la bocca con una salvietta e poi la porse a Taro, che aveva teso la mano.

«Taro … tuo padre lo sa?» gli chiese, dopo che il figlio l'ebbe gettata in un cestino.

«Intendi me e Kumi?»

Yumiko fece un cenno d'assenso, voltandosi a dare un'occhiata alla ragazza che aveva, con ogni evidenza, già conquistato la simpatia della sua secondogenita.

«Glielo dirò al nostro ritorno in Giappone. La conosce già dai tempi del liceo comunque,

non credo avrà riserve su di lei.»

«Per quanto mi riguarda, mi piace. Ti sostiene e sta portando avanti i suoi sogni. Con una ragazza così hai la possibilità di costruire un rapporto importante.»

«Papà mi ha detto che una donna deve avere dei sogni propri, non deve dipendere da me.» le confidò.

«Sì … ha ragione.» gli disse, con un sorriso dolce, dopo un breve silenzio.

«Mamma … dieci anni fa non avevo capito. E non sapevo … ma ora sono contento che tu ti sia rifatta una vita. Taisho è un bravissima persona e hai avuto con lui una figlia splendida. Sono felice di aver recuperato il rapporto con te e aver conosciuto loro.»

«Mi sono sentita meschina per aver perso diciotto anni della tua vita. Ma sapevo che Ichiro sarebbe stato un ottimo padre. Tu hai avuto la bontà di perdonarmi, e ora ti prometto che per te ci sarò sempre, Taro.» disse, mentre un paio di piccole lacrime le solcavano piano le guance.

«Non devi piangere, mamma. Ora possiamo finalmente guardare avanti, mettendo da parte i rimpianti. E ho già detto a papà che il mio prossimo compleanno dobbiamo festeggiarlo tutti insieme.»

«Per me va bene. Spero ci sarà anche Kumi.» gli confidò, passandosi un piccolo fazzoletto sul viso.

Taro sorrise.

Yumiko ammiccò e gli passò un braccio attorno alla schiena, mentre il figlio le circondò le spalle con il suo.

 

La famiglia Yamaoka tornò nel suo albergo, Taro e Kumi si incamminarono verso l'Eurostars Madrid Tower.

«Un po' mi dispiace aver passato poco tempo con i ragazzi. Però capisco che tu abbia voluto stare con tua madre. A quanto pare, non vi vedete spesso.»

«Purtroppo meno di quanto vorremmo, ma il rapporto è ottimo. E sono contento che tu abbia avuto la possibilità di conoscere lei e una parte della sua e della mia famiglia.»

La ragazza roteò gli occhi, un po' dubbiosa. «Credevo fosse un po' troppo presto.»

«Mi fido delle mie sensazioni. Desideravo che vi conosceste. E in ogni caso, non potevo certo piantarti lì.»

«Effettivamente, ci sarei rimasta molto male.» ammise lei, tra il serio e lo scherzoso.

«Quasi quasi ti presento i miei, quando torniamo in Giappone.»

Taro ammiccò, mettendole un braccio attorno alle spalle. «Sono sicuro che tuo padre vedendomi con la medaglia d'oro al collo, non avrà nulla da criticare.»

«Ah, il signor Misaki è molto sicuro di sé …» esclamò Kumi, mettendogli una mano sul petto.

«Conoscere un ragazzo che ha vinto le Olimpiadi ha il suo fascino, devi riconoscerlo.»

Quando arrivarono nel salone in cui i ragazzi, come previsto da Taro, stavano ancora festeggiando.

«Ehi, dov'è Elena?» chiese Kumi, non vedendo l'amica nel salone.

«È tornata al vostro hotel poco fa, perché era stanca. Wakabayashi è andato via con lei.» rispose Urabe, con aria maliziosa.

 

«Io torno nel mio albergo.» annunciò Elena.

Genzo assentì e per alcuni istanti la guardò senza dire nulla.

«Vengo con te. Mi sembri molto stanca.»

«Effettivamente … stanotte ho faticato ad addormentarmi e le gambe potrebbero cedere da un momento all'altro. Volevo aspettare le altre ragazze, ma rischio di crollare.» ammise.

«Ragazzi, accompagno Elena al suo hotel.» avvertì Genzo, rivolto ai suoi compagni ancora intenti a scherzare e alcuni anche a mangiare e bere.

«Va bene, Wakabayashi! Se non torni, capiremo il perché.» ammiccò Taki, facendo arrossire lievemente Elena.

Genzo scosse la testa. «Che insolente. Ai tempi della Shutetsu non avrebbe mai osato parlarmi in quel modo.» commentò, mentre lasciavano il salone e aspettavano l'ascensore.

«Beh … in fondo, a quell'epoca eravate ancora dei bambini.» obiettò Elena, cercando di buttarla sullo scherzo.

Genzo sogghignò. «In effetti, hai ragione.»

Uscirono dall'hotel.

Un taxi accostò al marciapiede pochi minuti dopo e vi salirono.

Elena pronunciò il nome e l'indirizzo dell'Eurostars Gran Madrid.

Rimasero seduti a leggera distanza l'uno dall'altra. Gli occhi di Elena ogni tanto si socchiudevano, in un misto tra stanchezza e una leggera ebrezza.

Genzo guardava di sottecchi il suo volto illuminato a intermittenza dalle luci dei lampioni.

Giunsero davanti all'entrata dell'albergo, il ragazzo pagò la cifra del tragitto e uscì dall'auto, poi andò dall'altra parte dove Elena aveva aperto l'altra portiera e le tese la mano.

La ragazza scivolò fuori dall'abitacolo e la afferrò.

Era leggermente malferma sulle gambe. Genzo le passò una mano dietro la schiena e la sorresse mentre si incamminavano verso le porte automatiche.

Alla reception, chiese a Elena il numero della stanza e, alla sua risposta, si fece dare la tessera magnetica.

Entrarono nell'ascensore.

Una volta chiuse le porte, Elena si separò da Genzo e rimosse, uno dopo l'altro, i sandali dai suoi piedi.

«Ecco fatto. Non ne potevo più.» sospirò sollevata, appoggiandosi a una delle pareti laterali.

Genzo sorrise. «Sei meno abituata ai tacchi e all'alcool di quanto tu voglia far credere.»

In quel momento, l'ascensore raggiunse il piano in cui si trovava la stanza di Elena e le porte si riaprirono.

«Non ho mai detto di amare le scarpe con i tacchi alti né di essere un'ubriacona.» ribatté impermalita, tendendo la mano per farsi dare la tessera e precedendo il ragazzo.

«Un po' scontrosa sì, però.» la punzecchiò mentre lei, appena aperta la porta, gettava i sandali sul pavimento senza troppa attenzione.

Lei si voltò e lo fissò per alcuni secondi.

La guardava con quel sorriso accennato, come ad attendere la sua replica.

Avvertì il cuore accelerare i battiti e il flusso del sangue farsi più rapido.

Istintivamente arretrò, lasciandogli spazio a sufficienza per varcare la linea tra il pavimento del corridoio e quello della stanza.

La attirò a sé e chinò il viso sul suo, trovando subito le sue labbra.

Lei fece un altro passo indietro e lui richiuse la porta dietro le sue spalle.

Le circondò la schiena con le braccia, mentre lei gli passava le sue attorno al collo.

Elena percepiva solo le grandi mani di Genzo che avevano preso ad accarezzarle la schiena e il calore della sua bocca, fusa con la sua.

Il ragazzo fece scorrere le mani dalla schiena alle sue braccia.

La sua pelle era leggermente increspata per l'emozione.

La accarezzò delicatamente, dall'alto verso il basso.

Le mani di Elena disegnarono il largo contorno delle spalle del ragazzo, poi scesero ad accarezzargli le clavicole e il petto.

Si infilarono sotto i lembi della giacca e li sollevarono piano, iniziando a farglieli scivolare dalle spalle, fino a farla cadere sul pavimento.

Genzo trasalì e si scostò.

Si guardarono, ansanti.

Elena avvertì il contatto del legno contro le sue gambe. Aveva raggiunto la sponda del letto.

Gli occhi di Genzo erano accesi e brillanti, sembravano due braci ardenti.

«Avevi detto che eri stanca …» la provocò.

Lei sorrise. Senza staccargli gli occhi di dosso, gli mise una mano sui capelli, giocherellando con i fili di seta nera che si arricciavano alla base della nuca.

Lui cinse il fianco di Elena con una mano, chinando il viso a cercare la sua bocca.

La fece gradualmente sdraiare sul letto, mentre il loro bacio si faceva più profondo e passionale.

Le mani di Elena accarezzarono il viso di Genzo, per poi scendere sulle sue spalle.

Erano ampie, forti …

Le labbra di lui intanto presero a percorrere la mandibola e il collo.

Il suono sommesso dei suoi ansiti lo spinse a continuare … quella pelle nivea e liscia lo stava trascinando verso sensazioni di un'intensità mai provata.

Era la prima volta da quando stavano insieme, che si spingevano oltre qualche bacio.

Elena inarcò leggermente la schiena e infilò le dita tra i suoi capelli quando passò a baciarle le clavicole e la parte di seno lasciata scoperta dalla scollatura del vestito.

Socchiuse gli occhi, le labbra semiaperte.

Avvertì la sua mano scendere sul fianco e insinuarsi sotto l'orlo del vestito, percorrere la sua coscia fino a sfiorarle l'inguine.

Sussultò ed emise un gemito.

Erano sensazioni che la stavano sconvolgendo. Genzo la toccava e la baciava con delicatezza e ardore allo stesso tempo e lei sentì la sua femminilità risvegliarsi con prepotenza.

Stava perdendo il controllo.

«Genzo …» mormorò, posando una mano su quella del ragazzo.

Lui sollevò la testa e tornò a guardarla. Le accarezzò piano il volto e i capelli.

La pelle nivea leggermente arrossata, gli occhi azzurri che lo guardavano afflitti.

Le gambe che si erano istintivamente serrate.

«Mi dispiace …» mormorò lei.

Lui scosse la testa, con un sorriso gentile. «Non ti preoccupare. Posso capire. Ti desidero, ma non ti forzerò a farlo se non ti senti pronta.»

Si sollevò e si mise a sedere e lei fece altrettanto.

La guardò. Le spalline abbassate, il seno semiscoperto e i capelli biondi spettinati, che lei riavviò.

Strinse la mascella. Si alzò, dandole rapidamente le spalle. Recuperò la sua giacca e raggiunse la porta, che aprì forse con troppo impeto.

«Ci vediamo domani.» disse voltandosi appena e chiudendo con più calma la porta dietro di sé.

Elena abbassò gli occhi e si morse piano il labbro inferiore.

Sospirò.

Si sdraiò sul letto e chiuse gli occhi, ripensando alle sensazioni vissute poco prima.

Avevano già scambiato effusioni, ma non aveva mai provato nulla di così intenso, di così eccitante.

Genzo ci sapeva fare … era evidente. E se non l'avesse fermato … avrebbe fatto ancora di più. Una parte di sé rimpianse di non averlo lasciato continuare, ma era iniziata da poco e voleva aspettare, prima di vivere anche quell'aspetto della loro storia.

Forse se non avesse letto quell'e-mail, se non le fosse tornata in mente quella frase sulle emozioni che Gianluca non sarebbe stato più in grado di rivivere, nemmeno se avesse trovato un'altra donna, il pensiero che lei invece stava quasi per farlo, con un ragazzo nel pieno del vigore come Genzo ….

Fu il suo ultimo pensiero, prima di cedere alla stanchezza e addormentarsi.

 

 

 

 

 

***Note***

 

 

El Clásico è l'espressione con cui è universalmente noto il confronto tra Real Madrid e Barcellona, le due squadre più blasonate di Spagna.

 

 

Un saluto a tutti.

Dopo una piccola riorganizzazione, i capitoli saranno infine 27.

Grazie come sempre a chi dedica un po' del suo tempo a leggere queste pagine.

Sandie

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Capitolo 25
*** Capitolo XXV - Scontri e disillusioni ***


Capitolo XXV

 

Scontri e disillusioni

 

 

 

Una delle prime cose che Elena fece al suo ritorno a Roma, dopo la breve ma meravigliosa parentesi a Madrid, fu chiamare Shiori, come si era ripromessa.

La sua amica d'infanzia le aveva risposto con un tono di voce dapprima titubante, poi sempre più aperto e allegro. Si erano parlate per il tempo necessario a darsi appuntamento davanti alla loro palestra per l'indomani, nel pomeriggio.

 

La vide seduta sulla cima della scalinata antistante l'entrata del complesso sportivo, mentre scorreva, un po' annoiata, un dito sul suo smartphone.

Aveva appena messo piede sul primo gradino quando Shiori aveva alzato la testa.

Elena sorrise e con pochi, rapidi passi la raggiunse.

Si guardarono e si sorrisero. Si abbracciarono.

«Da quanto non fai ginnastica?» le chiese, semplicemente, come se si fossero viste per l'ultima volta pochi giorni prima.

«Da due mesi almeno.»

Dal suo rientro in Italia. Quanto le mancava …

«Andiamo a divertirci allora, come ai vecchi tempi!»

«Non vedo l'ora.»

 

«Elena, sei più brava adesso che prima dell'infortunio!» fu il sincero complimento che la giovane italo-giapponese le rivolse, dopo aver passato buona parte del pomeriggio a improvvisare esercizi.

Erano sedute sulla pedana, con ancora addosso le canottiere e i pantaloncini chiazzati, così come alcune parti del corpo, di polvere di magnesio.

«Grazie Shiori. Anche tu sei sempre bravissima.»

L'amica inclinò la testa.

«Dai, ora raccontami un po' della tua esperienza in Giappone. Ci sei stata più tu che io in tutta la mia vita.»

Elena la accontentò, mentre si alzavano dalla pedana e si avviavano verso lo spogliatoio.

 

«Hai fatto bene ad ascoltare tuo zio. Si vede che c'è una luce diversa nei tuoi occhi.»

Dopo aver fatto la doccia ed essersi cambiate, erano uscite dallo spogliatoio ed erano tornate nel perimetro in cui per tanti anni si erano allenate insieme.

Elena fece un cenno d'assenso. Il sorriso indugiò sulle sue labbra, al punto che a Shiori venne spontaneo chiederle se c'era qualcosa che tentennava a dire.

«Ho conosciuto un ragazzo. È giapponese, ma vive in Germania. E ora … stiamo insieme.» le confidò.

«State insieme?»

Un lampo di stupore passò negli occhi della ragazza e a Elena non sfuggì.

«Sì. Da poco prima del mio ritorno.» si strinse nelle spalle.

Dentro di sé avvertiva una sensazione sgradevole … quello sguardo, le sapeva di rimprovero.

«Così se riesci a entrare alla LMU, potrete frequentarvi con assiduità.» commentò, con un sorriso che agli occhi di Elena sembrava troppo tirato per essere sincero.

«Già … sarebbe importante, per consolidare il nostro rapporto e vedere se può funzionare.»

Shiori parlò di nuovo dopo alcuni istanti di esitazione. «Beh, prima o poi sarebbe accaduto. Certo, è passato relativamente poco tempo.»

«Shiori, Gianluca non è morto. Ha avuto un gravissimo incidente ma mi ha voluta allontanare da sé. E io, dopo mesi di depressione, ho deciso di riprendermi la mia vita. Non pensavo a un nuovo legame, figurati. Ma quando si cambia vita, si conoscono anche tante persone. E può capitare anche di incontrarne una che poi diventa speciale. E a me è successo.» spiegò.

Nel frattempo, erano uscite dal complesso sportivo e ora si trovavano nella strada antistante.

Le giornate stavano cominciando ad accorciarsi, e la luce del sole stava assumendo sfumature rossastre.

Shiori annuì lentamente, poi guardò il suo orologio da polso.

«Si è fatto tardi, a casa mi staranno aspettando per la cena. Ci sentiamo, prima che tu parta per Monaco.»

Elena assentì. Si salutarono e si avviarono ognuna verso la rispettiva abitazione, con la sensazione che qualcosa si fosse incrinato tra loro.

 

Nella tarda mattinata del giorno seguente, Angelina arrivò alla stazione di Roma Termini insieme a Mattias, il suo fidanzato. Erano già stati a Torino e poi a Milano, dove lui aveva concluso degli affari per l'azienda di Monaco per la quale lavorava.

Ora gli rimaneva l'ultimo, proprio a Roma, dove aveva programmato di fermarsi per tre giorni.

Poi lui e Angelina sarebbero rimasti in Italia, per trascorrere due settimane di vacanza sulla Costiera Amalfitana.

Elena li salutò entrambi con calore.

Ormai stavano insieme da tre anni ed erano una coppia affiatata.

 

Le due cugine decisero di passare il pomeriggio sulla spiaggia di Ostia, dove Elena provò a impartire alcuni rudimenti di ginnastica ad Angelina.

«Dai, vediamo se ti ricordi come si fa!» disse la più giovane delle due, con le mani strette attorno ai polpacci dell'altra.

«Ah, no! Sono passati anni, non riesco nemmeno più a tirarmi su!»

«Devi sollevare il peso del tuo corpo, Angelina!»

La ragazza, seppure a fatica, riuscì a compiere una verticale un po' traballante.

«E ora prova a stare in equilibrio!» la esortò Elena, staccando le mani dalle caviglie della cugina, che rimasta priva di sostegno, cadde in avanti con un tonfo, ritrovandosi distesa sulla sabbia a pancia in su.

«Ehi, ma sei impazzita?» protestò, irritata.

«Sei sempre una frana, Angelina!» rise.

«Ah, se ti prendo …!» disse, scrollandosi la sabbia dalle gambe e mettendosi a rincorrerla, tra gli scoppi di risa di entrambe.

 

«Ieri ho rincontrato Shiori.» le confidò, sedute sulla sabbia fine e scura del litorale, a contemplare l'andirivieni delle onde del mare, sospinte da un vento calmo.

Si erano avvicinate al bagnasciuga, abbastanza da sentire l'acqua fredda lambire i loro piedi.

«La tua amica della scuola di ginnastica? Avete fatto pace?»

Elena diede un'alzata di spalle. «Così mi era sembrato. Ma quando le ho detto che ho cominciato una storia con un altro ragazzo, ha avuto un atteggiamento più freddo. Mi ha detto che ci sentiamo, ma sono sicura che in realtà non intende rivedermi.»

Sospirò, con una piccola smorfia. Angelina la guardò senza intervenire.

«Ho avvertito un po' di impaccio tra noi, specie dopo che le ho detto che ho intenzione di trasferirmi in Germania, dove abita anche lui. È diventata più rigida … come se pensasse che stessi facendo un torto a Gianluca.»

«Era inevitabile che prima o poi ti saresti innamorata di qualcuno, a meno che tu non decidessi di farti monaca.»

Elena fece un mezzo sorriso.

«Purtroppo capita che le amicizie, anche quando sono lunghe e di vecchia data, finiscano … e che le strade si dividano. L'importante è andare avanti e ricordarsi che per una persona perduta se ne possono conoscere tante altre. Ed è quello che è capitato a te.» le ricordò Angelina.

«Piuttosto, raccontami qualcosa di questo ragazzo. È giapponese?»

Sua cugina era una delle poche persone di cui si fidava completamente, era sempre stata una specie di sorella maggiore per lei. A lei poteva raccontare tutto.

«Lo conosci, almeno di fama.»

Angelina alzò un sopracciglio. «Come, di fama? Mica sarà quel ginnasta, come si chiama … Uchimura?»

Elena sgranò gli occhi, poi scoppiò a ridere.

«No, purtroppo non l'ho incontrato … però hai pescato nel settore giusto, perché è uno sportivo.» rispose, sibillina.

«Mah … hai detto che vive in Germania … mi viene in mente solo il portiere dell'Amburgo, Wakabayashi.» spalancò gli occhi. «No, non posso crederci … Wakabayashi?»

Elena annuì più volte, senza trattenere un gran sorriso.

«Accidenti … no dai, non è possibile.»

Elena, senza smettere di sorridere, le mostrò le fotografie scattate a Madrid e memorizzate nel suo smartphone.

«È proprio lui!» esclamò Angelina, sempre più stupita. «Ma da quanto vi conoscete? Non mi hai mai raccontato nulla!»

«A Nankatsu  vivono anche alcuni giocatori della Nazionale Olimpica, che in quel periodo stavano disputando le qualificazioni. C'era anche Taro, il ragazzo che ho conosciuto sei anni fa. Genzo faceva allenamenti di kickboxing con lo zio, così ci incontravamo spesso.»

«E da cosa nasce cosa.» concluse Angelina, con un sorriso.

«Siamo ancora all'inizio, servirà tempo per capire se può funzionare. Ma voglio provarci.»

«Lui com'è? Ha sempre un'espressione seria in foto, ma da alcune interviste mi è sembrato dotato di una certa ironia.»

«Lo è. Poi certo, è un ragazzo riflessivo e accorto, spesso sembra più vecchio dei suoi vent'anni, ma sa anche essere spiritoso.»

«Ed è anche bello.» aggiunse Angelina, strizzandole un occhio.

Elena fece un cenno d'assenso, senza trattenere l'ennesimo sorriso.

«Però vedi … a volte mi sento ancora colpevole.» le confessò, tornando seria.

«E perché?»

«Genzo è un ragazzo forte, robusto, vigoroso. È quanto di più sano potrebbe desiderare di essere un uomo ….»

«Fammi capire … se ti fossi innamorata di un altro disabile ti sentiresti meno in colpa?»

Elena sgranò gli occhi e la guardò interdetta. Angelina sorrise.

«Ti rendi conto delle stupidaggini che dici?» la rimproverò bonariamente.

«Elena, a diciannove anni la vita è ancora tutta da vivere. Deve averlo pensato anche Gianluca … dal suo punto di vista, costringerti a occuparti di lui era come condannarti a una prigionia.»

Elena ristette per alcuni istanti, perplessa.

«E chi ti dice che non l'abbia fatto perché non si fidava di me?»

«Non ne sono sicura, infatti. Forse è l'affetto che provo nei tuoi confronti, ma il fatto che so che tu gli saresti senz'altro rimasta accanto me lo fa credere. E a me piace pensare che sia così.» affermò, incoraggiante.

 

Il sole non aveva ancora cominciato a tramontare quando Elena disse ad Angelina che per lei era giunta l'ora di tornare a casa.

«Questa sera lavoro alla discoteca.» si giustificò.

Un paio di fermate prima della loro, Elena si sentì toccare sulla spalla.

Alzò la testa e vide Sara che, in piedi, si stava preparando a scendere.

«Ehi, collega! Sei stata al mare?»

«Sì. Questa è mia cugina, Angelina.» rispose, indicandole la ragazza dai lunghi capelli castani e occhi azzurri seduta accanto a lei. «Angelina, lei è Sara. Lavora alla discoteca con me.»

Le due si strinsero le mani e si sorrisero.

«Facciamo impazzire tutti i clienti, con il nostro "stile di danza".» disse, strizzandole un occhio.

Angelina alzò un sopracciglio, poi guardò Elena con aria interrogativa.

L'ex ginnasta strinse le labbra e rivolse uno sguardo di rimprovero alla sua collega, che però finse di non coglierlo.

L'autobus accostò poco dopo e Sara le dovette salutare subito, non prima di aver gridato un "A più tardi!" a Elena.

«Elena, che storia è questa? Gli zii lo sanno?»

«No, non lo sa nessuno. Ci servono soldi e sono stufa di andarli a chiedere a destra e a manca.»

«Mi manca poco per raggiungere la cifra necessaria a pagare la prima retta. Non sto facendo nulla di osceno, comunque. Ballo per qualche ora, e basta.» soggiunse, irritata dal volto accigliato della cugina.

«Questo lo chiami ballare?» ribatté Angelina, sarcastica.

Elena chiuse gli occhi e sorrise di rimando. «Non è l'Opéra di Parigi, ma in giro c'è di peggio, basta accendere la tv.»

Angelina socchiuse le labbra per ribattere qualcosa, ma sentì che qualunque cosa potesse dire, non sarebbe risultata convincente.

«Sei sicura di stare facendo la cosa giusta, Elena?»

«È una parentesi. Da settembre potrò tornare la ragazza di sempre.»

Angelina sospirò perplessa, anche se nel fondo del cuore sperava che l'ottimismo della cugina avesse davvero fondamento. Sperò che l'autunno avrebbe portato serenità e importanti novità nella loro vita.

  

Genzo scostò lo smartphone dal suo orecchio e lo rimise in tasca, contrariato.

«Non risponde?» chiese Taro, in piedi accanto a lui davanti all'ingresso dell'albergo in cui avevano preso una stanza ciascuno, a Roma.

«No… è già il terzo tentativo.» piegò le labbra in una smorfia.

«Forse è occupata.» buttò lì.

«Vorrei rivederla … e pensare che mi ha detto di lavorare come barista in una discoteca, e io non le ho mai chiesto come si chiama e in che zona si trova. Che stupido.»

«Abita nel Prenestino. Potremmo provare ad andare in una discoteca dei dintorni e vedere se è lì. Me ne ricordo una molto nota in quella zona.»

 I due amici avevano deciso di trascorrere in compagnia i pochi giorni di vacanza a disposizione prima di partire, rispettivamente per Parigi e per Monaco di Baviera. Trovandosi entrambi in Europa, la loro scelta era caduta su Roma e non solo per la sua importanza storica e le sue attrattive turistiche.

Entrambi erano attesi dall'inizio di un nuovo capitolo della loro carriera.

Per Taro era l'agognato approdo al calcio europeo e internazionale e per Genzo, il salto di qualità in una delle grandi del calcio mondiale.

Anche per questo, il portiere sperava di incontrare Elena … per poterglielo dire di persona.

 

Si trovavano nel salone da circa mezz'ora, seduti davanti a una birra.

La musica avvolgeva tutto l'ambiente e la pedana era piena di persone, giovani e meno, che ballavano.

«Mi è venuta fame. Vado a ordinare un dolce, ti va?» chiese Genzo, incontrando il cenno d'assenso di Taro.

Si alzò e si diresse verso il bancone.

L'aveva quasi raggiunto facendosi educatamente strada tra la gente, quando urtò contro una ragazza che in quel momento era scesa dal palco.

Stava per chiederle scusa ma le parole gli morirono in gola, non appena vide il suo volto.

Era molto truccata e indossava un succinto abito nero e fucsia, ma quel portamento e quello sguardo … ormai li avrebbe riconosciuti tra mille.

«Elena?»

«Genzo … cosa fai qui?»

«Dovrei essere io a farti questa domanda!» replicò sconvolto, alzando la voce.

«Non posso risponderti ora. Sto lavorando.» affermò, rigida.

Genzo rise incredulo, in modo sguaiato. «E tu questo lo chiami lavoro?»

La ragazza gli rivolse un'occhiata di fuoco, poi si voltò e si incamminò verso gli spogliatoi.

«Elena!» gridò, muovendo un passo per seguirla.

«Wakabayashi.» cercò di riportarlo alla calma Taro, avvicinatosi nel frattempo, mettendogli una mano su una spalla.

Ma il ragazzo si divincolò con un rapido movimento e si mise a correre nella direzione in cui era sparita l'ex ginnasta.

«Ehi! Non puoi andare là!» cercò di fermarlo Sara, ma Genzo sembrò non essersi nemmeno accorto della sua presenza.

«Accidenti! Dopo quella pazza, ci mancava questo!»

«Che sta succedendo?» Angelina comparve sul corridoio.

«Oh meno male! Cerca di parlare con quel marcantonio, tu che sei tedesca!»

«No Angelina, stanne fuori. È una questione tra me e Genzo.» la fermò Elena, con un tono che non ammetteva obiezioni.

Alla ragazza non restò che annuire. Allargò le braccia e rimase nel corridoio.

  

Si era sorpreso molte volte a fantasticare sul suo corpo nudo o scarsamente vestito, ma mai avrebbe voluto vederlo così, in quel contesto.

Pensò a quella notte a Madrid, quando lei lo aveva fermato.

E ora ballava in quel modo, con ammiccamenti allusivi e si lasciava sfiorare da chiunque come se niente fosse.

«Elena! Che razza di storia è questa?» chiese in giapponese.

La ragazza trasse un profondo respiro. Era arrivato il momento che sperava non avrebbe mai dovuto affrontare.

«Questo è uno spogliatoio femminile, non puoi stare qui!» replicò, dirigendosi verso la porta per invitarlo a uscire, ma lui la afferrò per un braccio.

«Guardati! Sei mezza nuda, e con quel trucco sembri una …» si fermò appena in tempo, ma Elena sorrise sarcasticamente, divincolandosi dalla sua presa.

«Cosa sembro? Dai Genzo, dilla quella parola. Puttana. Mi basta l'espressione dei tuoi occhi per leggerci il tuo disprezzo.»

Il giovane scosse la testa.

«Dovevi arrivare a questo? Con tanti lavori che avresti potuto fare?» chiese, seguendo Elena fuori dalla porta, da cui era uscita.

Sara picchiò con un dito sulla spalla di Taro e gli chiese cosa aveva appena gridato il suo amico.

Il centrocampista glielo rivelò e lei non si trattenne dall'urlargli ciò che pensava.

«Ahimè bel samurai, chi non ha mai avuto problemi economici non può capire che con certi mestieri si fa la fame o comunque si guadagna troppo poco e le agenzie per la riscossione delle tasse non sentono ragioni, specie con i comuni mortali.»

Genzo volse per un attimo lo sguardo verso la ragazza, poi tornò a guardare Elena.

Gli aveva urlato qualcosa, certamente in tono polemico, ma aveva afferrato solo pochi termini, insufficienti per comprendere tutto.

«Potevi parlarmene. Ti avrei dato una mano.»

«Certo! Così davo ragione alla tua deliziosa ex, convinta che punti solo ai tuoi soldi!»

«Asami fa parte del passato, non mi importa cosa pensa di te. Ma almeno avresti evitato di degradarti.»

Di nuovo quell'occhio scrutatore, che sembrava biasimarla.

Elena deglutì. Il suo sguardo si fece duro e carico di delusione.

«Vattene Genzo.»

Il ragazzo non accennò a muoversi. «Io non ti sto giudicando, Elena. Soltanto …»

«Ah, no? E allora perché mi hai seguita fin qui come una furia?» gridò, stringendo le mani a pugno. «Farò questo lavoro almeno fino a quando non conoscerò l'esito dell'esame di ammissione. Se non sei capace di sopportare questa prospettiva, lasciami in pace.»

Genzo strinse i denti, cercando di calmarsi. «Io non sono arrabbiato con te, Elena. È solo che … mi chiedo se era proprio necessario che arrivassi a questo.»

«Se ne avessi parlato con i miei genitori o con qualsiasi altra persona, avrebbero sicuramente fatto di tutto per dissuadermi, non certo per una questione economica ma perché effettivamente a chi fa piacere sapere che la propria figlia o ragazza o amica fa la ballerina in un locale? È consueto pensare che chi fa questo mestiere sia una poco di buono, una ragazza di facili costumi … la realtà è molto più complessa di come appaia e me ne sono resa conto conoscendo Sara e le altre.» gli spiegò risoluta, traendo poi un profondo respiro.

«Questo è un periodo di transizione e per me è soltanto una parentesi. Poi cercherò un lavoro come insegnante di ginnastica artistica o mi metterò a dare ripetizioni.» aggiunse, con voce più pacata.

«Insisto, potevi evitarlo. Non tutte le ragazze per guadagnare soldi, si mettono a ballare mezze nude.»

Elena alzò la testa e lo guardò, dura. «Andiamo, non essere ipocrita! Quante te ne sei fatte di "quelle", nei posti in cui sei stato grazie al tuo lavoro e al tuo status?» gli chiese provocatoria, calcando volutamente sull'ultima parola.

«Anche se fosse, non è la stessa cosa! Tu sei la mia ragazza. Ti avrei aiutata, se me lo avessi chiesto.»

«Ti ho già detto che non voglio la tua carità!» gridò, esasperata.

Genzo la guardò, sospeso tra rabbia e ammirazione.

«In ogni caso, ormai il più è fatto. E se non avessi avuto la brillante idea di venire a Roma a cercarmi, ora non sapresti niente.»

«Perché ovviamente non avevi alcuna intenzione di raccontarmelo.»

«Già. Vista la tua reazione, non avevo tutti i torti.» concluse lapidaria.

«E ora fammi la cortesia di andartene. Se ai tuoi occhi sono definitivamente "degradata", con un po' di fortuna potrai sempre incontrare una ragazza pura come un giglio, meglio se benestante. Una tipo la Ujimori, insomma.»

«Elena …»

«Voglio concentrarmi solo sullo studio e sul mio test d'ammissione. Cose su cui decido io e di cui non devo rendere conto a nessuno. Te lo ripeto Genzo: lasciami in pace.» scandì le ultime tre parole, prima di rientrare nello stanzino.

Il portiere rimase fermo alcuni istanti davanti alla porta che lei aveva chiuso dietro di sé, poi strinse la mascella e si voltò, incamminandosi verso il salone.

Alla fine del corridoio vide Angelina che, a braccia conserte, lo guardava con un mezzo sorriso.

«Per lei è un'esperienza temporanea. Una volta saldati i debiti e iscritta all'università, tornerà a essere la brava ragazza che conoscevi.» concluse senza celare una nota d'ironia, battendogli una mano sulla spalla e superandolo nella direzione opposta alla sua, per bussare alla porta dello stanzino, in cui entrò subito dopo.

 

Nel camerino, passò le salviette struccanti sul suo viso con energia e rabbia.

Voleva tornare a essere Elena e fingere che non fosse accaduto nulla.

Gran parte del mascara e del fard erano colati per via delle lacrime che avevano preso a scendere silenziosamente già durante il suo diverbio con Genzo.

«Su, non piangere. Era stupito: forse se gliene avessi parlato quando vi siete visti a Madrid, non avrebbe avuto quella reazione.» tentò di consolarla Angelina.

«Sono certa che ora mi crede una poco di buono, disposta a tutto.»

«Se è così, non avrai perso granché.» intervenne Sara, che stava finendo di vestirsi.

«Comunque per ora non me la sento di perdonarlo. Si è comportato come il ragazzo ricco che schifa le condizioni più umili. Per fortuna la mia scelta di studiare a Monaco è indipendente dal rapporto tra me e lui.» affermò, cominciando a rivestirsi.

 

Genzo e Taro rimasero fuori a pochi metri dal locale.

Si erano seduti su una panchina, Genzo con la testa abbassata e lo sguardo tra l'irritato e il costernato, le dita intrecciate sotto il mento. Taro lanciava ogni tanto delle occhiate verso la porta, da cui stavano uscendo gli ultimi avventori.

«Cos'è che mi ha gridato quella ballerina?» si decise a chiedere il portiere, dopo diversi minuti di silenzio.

Taro glielo riferì e lui accennò un sorriso. «Forse ha ragione. Per quante persone di umili origini possa conoscere, non ho mai vissuto questa situazione sulla mia pelle.»

«Diciamo che hai avuto una reazione impulsiva e poi le hai rinfacciato tutto come se avesse compiuto chissà quale crimine.»

«Se tu avessi beccato Sugimoto in quella situazione, come ti saresti comportato?» gli chiese, senza malizia.

Taro sospirò, tirò il busto indietro e allargò le braccia.

«Non lo so. Di certo, non ne sarei stato felice. Ma di una cosa sono sicuro: Elena ha dimostrato, se mai ce ne fosse stato bisogno, di tenere molto alla vostra relazione e di non stare con te perché le interessano i tuoi soldi.»

Genzo annuì. «Ho combinato un bel pasticcio.» mormorò, con un sorriso amaro.

 

Passarono almeno altri venti minuti, prima che Elena uscisse insieme a Sara e Angelina.

Notò subito i due ragazzi seduti sulla panchina a pochi metri da dove si trovavano.

Genzo si alzò e si avvicinò, lo sguardo sempre fisso nel suo, ma questa volta contrito.

Taro fece altrettanto, ma rimase indietro, a breve distanza.

«Perdonami per prima. Non ho mai pensato che tu fossi una poco di buono, nemmeno per un momento. Soltanto … avrei voluto che non me lo tenessi nascosto. Avresti potuto parlarmene a Madrid.»

«I giorni passati a Madrid sono stati gli unici in cui sono stata bene, da quando ho lasciato il Giappone. Volevo godermi quei momenti, sicura che con un altro mese di lavoro mi sarei assicurata il pagamento della quota d'iscrizione.»

Genzo la guardò.

La attirò a sé e le diede un bacio sulla fronte. Elena gli si accostò spontaneamente, avvertendo quel senso di calore e di protezione che lui sapeva darle.

«Elena, allora vieni? Sto crollando dal sonno!» gridò Sara, dal posto di guida della sua auto. Angelina era seduta sul sedile posteriore.

«Sì, arrivo!» rispose, voltandosi un attimo verso l'amica, poi di nuovo verso Genzo.

«Ti ho cercata perché volevo dirtelo di persona … domani parto per Monaco, dove mi aspettano le visite mediche. Se tutto va bene firmerò un contratto quadriennale e il club ufficializzerà lunedì il mio trasferimento.» le annunciò.

Lei lo guardò seria, senza proferire parola.

Aveva aspettato quella notizia per tanto tempo. Solo una settimana prima, gli sarebbe saltata al collo per la gioia. In quel momento però, riusciva a provare solo amarezza.

«Allora forse ci rivedremo in Germania, se passerò l'esame e se tollererai questa macchia nella mia vita.» gli disse con una vena di sarcasmo, scostandosi da lui.

Poi andò ad abbracciare Taro e gli rivolse un "in bocca al lupo" per la sua nuova avventura parigina.

I due ragazzi la guardarono salire sull'auto della sua collega, che li salutò con un sorriso furbo prima di mettere in marcia.

 

Il salone dell'hotel Peninsula, scelto come sede della festa organizzata dalla Federcalcio per celebrare la conquista della medaglia d'oro ai Giochi Olimpici, era pieno di personalità del mondo del calcio, dell'alta società, della politica e dell'imprenditoria.

I calciatori arrivarono in compagnia delle loro mogli o fidanzate, tranne Genzo e Tsubasa e pochi altri.

Sanae aveva partorito due splendidi gemelli, cui erano stati dati i nomi di Hayate e Daibu. Era a casa, a riposarsi e a prendersi cura di loro, con l'aiuto dei suoi genitori e di quelli di Tsubasa, oltre a quello di Yukari, quando era libera da altri impegni.

Lo stesso capitano annunciò che avrebbe presenziato per un paio d'ore, poi sarebbe tornato a Nankatsu per stare vicino alla moglie e ai figli.

Shun invece, si presentò raggiante tenendo per mano Madoka, che per i suoi studi non aveva potuto seguirlo in Spagna.

Per il resto, nessuna era voluta mancare: Kumi, Yayoi, Yoshiko, Maki e Yukari erano un po' impacciate per via dell'atmosfera formale, ma l'occasione di festeggiare un importante traguardo della carriera dei rispettivi fidanzati le faceva apparire radiose.

Maki in particolare sembrava esitante nel suo lungo abito di seta bianca, ma i suoi occhi si illuminarono dopo che Kojiro le ebbe sussurrato qualcosa all'orecchio, per poi sorriderle.

Genzo era arrivato a Tokyo dopo aver concluso il suo trasferimento a titolo definitivo al Bayern Monaco.

La Bundesliga era iniziata due settimane prima. Lui avrebbe preso posizione tra i pali del Bayern dopo la sosta per la Nazionale, anche per guarire definitivamente dall'infortunio alla spalla. Taro aveva invece già esordito in Ligue 1, in una partita terminata con un 2-0 del Paris Saint Germain sul Nantes. Non aveva segnato, ma aveva mandato in gol sia Le Blanc sia Napoléon, con due passaggi precisi al millimetro.

Il centrocampista e Kumi furono tra i primi ad andargli incontro, al suo arrivo alla festa.

«Elena non c'è?» chiese la giovane mangaka.

«No, è rimasta a Roma. Tra pochi giorni dovrà partire per Monaco e fare l'esame d'ammissione all'università.»

Lei fece un cenno d'assenso. «Sì, ne aveva parlato quando eravamo a Madrid. Ho sperato fino all'ultimo che riuscisse a venire. Le invierò l'immagine di un omamori via e-mail, sperando sia comunque di buon auspicio.»

«Credo di sì, e poi ha anche il suo maneki neko.» rispose Genzo, con un sorriso.

In fondo, in un certo senso era stato lui a regalarglielo.

Aveva guardato attentamente Kumi negli occhi, durante la loro breve conversazione.

No, non ne sapeva nulla.

Elena non aveva raccontato niente a nessuno, e probabilmente anche Angelina lo sapeva solo perché era stata a Roma. Taro, da vero amico, si era comportato in modo discreto e non aveva rivelato nulla di quell'episodio senza il consenso dei due diretti interessati.

 

A poco più di metà serata, il brusio delle chiacchiere tra i numerosi ospiti si interruppe.  

Nel salone era appena entrata una persona: una splendida ragazza dai lunghi capelli corvini, la cui figura leggiadra era fasciata da un lungo abito color lilla. Sul volto dai lineamenti gentili e dalla pelle candida spiccavano due intensi occhi neri.

Attirò l'attenzione di tutti i presenti, che la guardavano con ammirazione, ma lei sembrò quasi non accorgersene, concentrata com'era su Genzo.

Un particolare impossibile da non cogliere.

Dopo i saluti, i due giovani si spostarono in una saletta più piccola e appartata, tra gli sguardi incuriositi e i bisbigli degli astanti.

«Asami … che ci fai qui?»

«Sono venuta a celebrare la vittoria delle Olimpiadi. In fin dei conti ho condiviso gran parte del tuo percorso.»

Lui non replicò.

«E la tua bella insegnante dov'è?» chiese, con un sorriso sereno.

«Non è qui.» rispose, laconico.

La ragazza inclinò la testa, con un sopracciglio alzato e un lieve sorriso.

«È impegnata con il test d'ammissione a un'importante università di Monaco.» si affrettò ad aggiungere.

Per Asami fu un pesante colpo.

Aveva aspettato, convinta che sarebbe stato soltanto un fuoco di paglia, un'infatuazione destinata a finire una volta vissuto il "momento magico" e passato il periodo di esaltazione tipico delle relazioni appena cominciate.

A quanto pareva invece, quei due avevano deciso di abitare nella stessa città.

«Ma non hai ancora avuto il coraggio di dire ai nostri genitori che mi hai lasciata.»

«Mi aspettavo di vederti proclamare il tuo amore per la tua bella insegnante europea, ma hai preferito tacere.» insistette, davanti al silenzio dell'ex fidanzato.

«La nostra storia è ancora all'inizio e io voglio proteggerla.» replicò, infine.

Asami accennò una risata sarcastica. «Proteggerla. Lo ammetti anche tu che una ragazza come quella non è considerata degna di entrare in una famiglia appartenente al kazoku e stai pensando a come potresti far digerire la notizia ai tuoi.»

«I titoli nobiliari in Giappone sono stati aboliti nel secondo dopoguerra, Asami. Un'appassionata di storia come te dovrebbe saperlo.»

La ragazza non si lasciò smontare dal suo tono beffardo. «Certo, ma hanno continuato ad avere un peso nella società. E continueranno ad averlo. Inoltre se viene minata l'armonia tra le nostre famiglie, c'è il rischio che anche gli affari ne risentano.»

«È solo questione di tempo, Asami. Al mio ritorno in Germania comincerò una nuova vita, nella mia nuova squadra. A tutti voi non resterà che prenderne atto.»

«… e annuncerai al mondo il tuo fidanzamento con la studentessa originaria della periferia romana, che si mantiene agli studi insegnando ginnastica artistica alle bambine. Accidenti, Cenerentola esiste davvero.»

Genzo sospirò, cercando di gestire la crescente sensazione di fastidio.

«Asami, anche se non stiamo più insieme, hai ancora tutto il mio rispetto. Ora ti chiedo di rispettare Elena e di non ritenerla inferiore solo perché non è nata in una famiglia ricca. Spesso le gemme più preziose si trovano nascoste nella terra.»

La giovane piegò le labbra in una smorfia ironica. «Che frase romantica, Genzo. Non vorrei che un bel giorno tu scoprissi di esserti lasciato abbindolare da una ragazza che ha trovato un modo a dire il vero poco originale, ma sempre efficace per risolvere definitivamente i suoi problemi economici.»

«Te lo ripeto: evita di parlare così di una ragazza che neppure conosci. Stai basando le tue affermazioni su un pregiudizio.»

«Cerco soltanto di metterti in guardia, come fa un'amica.» esitò un istante, poi scosse leggermente la testa. «No, non un'amica. I sentimenti non cessano da un giorno all'altro. Anche se è finita, io ti amo ancora Genzo. E non voglio che tu debba soffrire per una che cerca soltanto di scalare posizioni nella società.»

Genzo mantenne un'espressione impassibile, anche se sentiva il petto in subbuglio.

Quelle insinuazioni su Elena lo stavano facendo infuriare per la malignità contenuta in esse e per l'immagine che Asami gli stava dando di sé.

Non poteva rivelarle quello che la sua ragazza aveva fatto per non chiedergli soldi e per potersi trasferire a Monaco, e neppure sentiva di doversi giustificare.

«È tutto, Asami? Perché tra poco la festa finirà.»

Lei gli sorrise, si avvicinò e cercò di toccarlo, ma lui la fermò.

I suoi occhi si spalancarono di fronte al suo sguardo ostinato.

«Asami, non c'è spazio per le illusioni. Anche se tra me ed Elena dovesse finire un giorno … io per te provo solo amicizia. Avrò un bel ricordo della nostra storia, ma è finita. Ora, il massimo che posso fare per te è chiederti di guardare avanti. Se poi saprai farlo smettendo di giudicare dall'alto chi non ha avuto la fortuna di nascere in una famiglia agiata, non avrai che da guadagnarci.»

L'ereditiera strinse le labbra e lo guardò contrita. «Genzo … ti prego solo di fare attenzione.»

Lui la scrutò con uno sguardo severo, che la mortificò.

Poi la oltrepassò e uscì dalla saletta, lasciando in Asami il sapore amaro della sconfitta e della disillusione. 

 

Kumi e Taro entrarono in una delle stanze dell'hotel.

Era tardi per tornare a casa e così avevano deciso di fermarsi lì a dormire. Era però rimasta libera solo una matrimoniale, che accettarono con una lieve esitazione da parte di lei, che lui seppe dissipare con una battuta.

Taro si sedette sul letto.

Il volto era stanco, ma gli occhi ancora brillavano per l'euforia.

Kumi sorrise e gli andò incontro, mettendosi di fronte a lui. Si avvicinò il più possibile, alzando una mano e passandogli le dita sui capelli.

Taro chiuse gli occhi, beandosi di quelle carezze. Poi le posò una mano su un fianco, inducendola ad avvicinarsi ancora.

Kumi trasalì nell'avvertire il contatto leggermente umido delle labbra del ragazzo sul suo ventre, attraverso la stoffa del vestito. Era un gesto tenero e sensuale allo stesso tempo.

Istintivamente strinse le dita attorno alle ciocche di capelli.

Taro alzò la testa e afferrò la mano libera della ragazza. La osservò, fremente.

Kumi smise di accarezzargli i capelli e sfilò lentamente le dita.

Dandosi una lieve spinta all'indietro, Taro si sdraiò sul letto e attirò Kumi sopra di sé.

Poteva sentire il cuore di lei battere forte, a contatto con il suo petto.

I loro visi erano vicini. Lui le accarezzò i capelli e portò alcune ciocche dietro le orecchie.

«Sei bellissima.» mormorò, guardandola con occhi quasi liquidi.

Lei trattenne il fiato, poi gli sorrise.

Stava scoprendo un nuovo lato di sé, quello seducente e malizioso. E man mano che lo sperimentava, si divertiva sempre più a giocarci.

Si avvicinò ancora, e le loro labbra si toccarono. Presto il contatto si fece più intimo.

Kumi aveva le mani sulle spalle di Taro, mentre il ragazzo le accarezzava lentamente la schiena, sfiorandole la pelle nuda.

Il loro bacio si faceva sempre più profondo, passionale. Per Kumi era una sensazione del tutto nuova. Per Taro … era bello ed eccitante, più di quanto lo fosse stato con Kinuyo.

Lei appoggiò una mano sul suo petto e cominciò ad accarezzarlo piano, spaziando sulle spalle e scendendo verso il suo addome, disegnando i contorni.

Avvertiva i suoi muscoli contrarsi sotto il suo tocco delicato.

La avvolse nel suo abbraccio, poi si sollevò e la fece sdraiare sotto di sé.

Kumi aprì le labbra poi le richiuse.

Poteva leggere una muta, appassionata richiesta nello sguardo del suo ragazzo.

«È la prima volta.» riuscì soltanto a mormorare, con una punta di imbarazzo. Le guance calde e arrossate.

Non aveva alcuna esperienza, ma la voglia era tanta …

«Lasciati andare, Kumi. Vedrai, non c'è nulla da temere.» le sussurrò. La voce calda, intensa, rassicurante.

Chiuse gli occhi e posò le labbra su quelle di Taro, invitandolo a continuare.

Incoraggiato da quell'iniziativa, mise le mani sulle spalline del vestito e le fece scivolare verso il basso, sfilandolo dopo che lei aveva inarcato la schiena.

Poco dopo la camicia di Taro cadde sul pavimento.

Poi fu il turno degli altri indumenti.

Taro accarezzò lentamente quella pelle chiara e liscia e si chinò su di lei.

Kumi lo arrestò a pochi centimetri, accarezzandogli le spalle, le braccia e il petto, tracciando con le mani i contorni dei suoi muscoli.

Taro stette al suo gioco, poi le afferrò piano i polsi e posò nuovamente le labbra sulle sue.

 

Kumi portò le braccia sulla fronte. La testa reclinata all'indietro, gli occhi chiusi, le labbra semiaperte.

La bocca di Taro si stava posando ovunque sul suo corpo e indugiava sulle zone più sensibili, donandole un piacere che stava attenuando i suoi timori e che le fece perdere coscienza del mondo circostante.

Si distese su di lei, le baciò il viso e i capelli e le accarezzò i fianchi e le gambe mentre entrava in lei, per alleviare la fitta di dolore che le fece emettere un piccolo grido soffocato. Continuò a muoversi delicatamente, affondando il viso nell'incavo tra spalla e collo.

 

Le labbra di Taro sulla sua fronte e l'abbraccio in cui la strinse, fu ciò che Kumi avvertì prima di chiudere gli occhi, accostandosi a lui.

 

 

 

 

***Note***

 

 

Kohei Uchimura è un ginnasta giapponese, attualmente il più forte al mondo. Nel suo ricchissimo palmarès ci sono sette medaglie olimpiche (tre d'oro, quattro d'argento) e diciannove mondiali (dieci d'oro, sei d'argento e cinque di bronzo). Nella sua carriera ha vinto due titoli olimpici consecutivi (Londra 2012 e Rio de Janeiro 2016) e sei titoli mondiali consecutivi dal 2009 al 2015.

 

Il Kazoku (letteralmente "lignaggio illustre/floreale") è stato il sistema ereditario di nobiltà dell'Impero del Giappone in vigore tra il 1869 e il 1947.

Con il Peerage Act del 7 luglio 1884, il governo Meiji espanse la nobiltà ereditaria premiando con l'ingresso nel kazoku persone che avevano compiuto atti eccezionali al servizio della nazione. Il governo inoltre divise il kazoku in cinque ranghi basati sulla parìa inglese, ma con titoli derivati dall'antica nobiltà cinese:

Principe o duca (公爵 kōshaku)

Marchese (侯爵 kōshaku - con un carattere cinese diverso)

Conte (伯爵 hakushaku)

Visconte (子爵 shishaku)

Barone (男爵 danshaku)

Nel 1946 la nuova Costituzione del Giappone abolì il kazoku e tutti i titoli di nobiltà o di rango eccetto quelli della famiglia imperiale.

Nonostante ciò molti discendenti delle famiglie kazoku continuano a occupare ruoli preminenti nella politica, industria e società giapponese.

Fonte: Wikipedia

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Capitolo 26
*** Capitolo XXVI - Vite che cambiano ***


Capitolo XXVI

 

Vite che cambiano

 

 

 

«Nonno, metti su Eurosport che sta per iniziare il telegiornale sportivo!»

L'anziano uomo lanciò un'occhiata maldisposta al più giovane dei suoi tre nipoti, un dodicenne alto e magro, un bel volto incorniciato da corti riccioli castani su cui spiccavano i brillanti occhi azzurri, e portò alla bocca un'altra forchettata di pasta, senza rispondergli.

Al suo fianco la moglie, una donna bionda della sua stessa età, fissò il nipote con aria di rimprovero, le mani congiunte e le dita intrecciate sotto il mento.

«Sebastian! Dì almeno "per favore"!» lo rimproverò sua madre Inge, una donna poco più che quarantenne, dai corti capelli biondo cenere.

Il ragazzino li guardò dispiaciuto, poi sospirò. «Per favore.»

Il nonno sorrise e abbandonò per un momento la forchetta sul piatto, afferrò il telecomando e premette i tasti che componevano il numero corrispondente al canale richiesto.

Elena e i suoi genitori sorrisero, divertiti da quel piccolo battibecco e dall'atteggiamento sornione del padrone di casa.

Mancavano ormai solo due giorni all'esame di ammissione e Clara aveva proposto di andare a Bad Tölz a trascorrere un breve periodo di vacanza nella sua vecchia casa, dove vivevano ancora Peter e Heinrike, da tutti chiamata Heike: i nonni materni di Elena.

La ragazza non si era opposta per non destare interrogativi, ma soprattutto per la convinzione che alcuni giorni di relax accanto a persone cui era molto legata, nella bellissima cittadina lontana cinquanta chilometri da Monaco e che amava quanto Roma, l'avrebbero aiutata ad affrontare il test con la migliore disposizione d'animo.

Le donne di casa, a eccezione di Angelina che si trovava ancora in vacanza in Italia con Mattias, avevano dato vita a un vero e proprio gioco di squadra nel cucinare il pranzo per quasi tutta la famiglia, preparandosi a servire a tavola una combinazione di cibi italiani e bavaresi.

Durante il viaggio, varcato il confine tra Austria e Germania, il suo cuore aveva perso un battito quando aveva sentito una notizia alla radio, in un intermezzo tra una canzone e l'altra.

«È ufficiale il passaggio di Genzo Wakabayashi dall'Amburgo al Bayern Monaco. Il ventenne portiere giapponese, grande protagonista alle ultime Olimpiadi vinte dai Blue Samurai, ha firmato un contratto che lo legherà per quattro anni ai campioni di Germania.»

La giornalista aveva riferito poi altri dettagli riguardanti la cifra versata dai bavaresi per l'acquisto e quella che il giocatore avrebbe percepito per ogni anno di contratto, compresi altri emolumenti elargiti dagli sponsor. L'accordo definitivo era stato sottoscritto il giorno prima, come aveva confermato il procuratore Günther Hoffmann, evidentemente soddisfatto per l'ottima transazione messa a segno.

La conferenza stampa per la presentazione ufficiale era prevista per il giovedì seguente.

 

Avevano da poco iniziato a mangiare quando il giornalista lanciò il primo servizio del notiziario, che provocò a Elena un nuovo tuffo al cuore, al punto che la forchetta con cui stava per infilzare una manciata di penne all'amatriciana si arrestò a pochi centimetri dal piatto.

«Cominciamo con l'evento calcistico del giorno, ovvero la presentazione alla stampa del nuovo portiere del Bayern Monaco, il giapponese Genzo Wakabayashi. L'ex Amburgo, fresco vincitore della medaglia d'oro con la sua Nazionale ai recenti Giochi Olimpici di Madrid, come ricorderete si è recato lunedì alla sede del Bayern Monaco per porre la sua firma sul contratto che lo lega ai campioni di Germania per i prossimi quattro anni.»

«È un trasferimento che potrebbe entrare nella storia recente del glorioso club bavarese.» annunciò il giornalista con enfasi, con l'inviata a fargli eco.

«Sì, se consideriamo la splendida Olimpiade da lui giocata. Le sue incredibili parate sono state decisive per la conquista della medaglia d'oro.»

«Ed è anche un giocatore carismatico, intelligente sul piano tattico, capace di prevedere le giocate avversarie e di dare istruzioni appropriate ai suoi compagni.»

«Sì va be', tra un po' dirà che cammina sulle acque.» obiettò Heike.

«Guarda che ha detto la verità.» non riuscì a trattenersi Elena, reagendo con un tono che risultò un po' troppo severo persino alle sue stesse orecchie.

La donna la guardò un po' stranita. Non capiva tanta impetuosità e la ragazza si sarebbe trovata in forte imbarazzo se non fosse intervenuto Sebastian.

«Elena ha ragione, nonna! È un portiere fenomenale. Con lui in porta, il Bayern rivincerà il campionato e conquisterà la Champions League!»

«Sono d'accordo con Elena e Sebastian.» aggiunse Valerio. «L'ho visto alle ultime Olimpiadi, è uno dei portieri più forti che io ricordi da almeno trent'anni a questa parte. È dotato di una freddezza e di un'affidabilità eccezionali per un ragazzo di soli vent'anni.»

Elena faticava a trattenere un sorriso dettato dal piacere e dall'orgoglio di sentire quelle lodi rivolte al portiere da coloro che ignoravano il legame che li univa.

Nonostante avessero seguito la finale tra Giappone e Brasile in tv, non avevano visto l'abbraccio tra lei e Genzo. Una circostanza fortuita, ma fortunata che l'aveva risparmiata dal dover dare spiegazioni su una relazione di cui, per il momento, non intendeva parlare.

Heike diede un'alzata di spalle, con un sorriso birichino simile a quello della nipote.

«Devo dire però che è un gran bel ragazzo. Un così bel giapponese l'ho visto solo in un film in bianco e nero di tanti anni fa.»

Sul televisore, intanto, scorrevano le immagini della conferenza stampa: Genzo, in piedi, reggeva tra le mani la nuova casacca del Bayern Monaco con il suo cognome e il grande numero 1 stampato sulla schiena, dietro al lungo bancone con i microfoni e le bottiglie di acqua e integratori e il pannello con gli sponsor alle spalle.

Ai suoi fianchi, l'amministratore delegato Karl Heinz Rummenigge e l'allenatore Frank Schneider.

Elena sorrise.

Il grande Rummenigge sembrava persino più emozionato di Genzo. O forse, era semplicemente orgoglioso di essere finalmente riuscito a portare al suo Bayern quel portiere di primo livello che da tempo mancava.

Frank Schneider pareva pregustare le vittorie che sarebbero arrivate, con il figlio Karl a guidare l'attacco e Wakabayashi a dare solidità, sicurezza e direttive ineccepibili alla difesa.

Lo sguardo di Genzo, illuminato dai flash, era sempre fiero anche se i suoi occhi tradivano un po' di turbamento: non era abituato a quella situazione. E quel lieve sorriso aleggiante sulle sue labbra poteva essere al contempo un indice di fiducia in sé stesso e un modo per mascherare la tensione.

Pochi minuti dopo era seduto, pronto a rispondere alle numerose domande dei tanti giornalisti arrivati all'Allianz Arena per intervistarlo. Moltissimi ovviamente i giapponesi, ma il nome di Wakabayashi aveva richiamato cronisti da tutta Europa, Sudamerica e altre parti del mondo.

«Essere stato scelto per difendere la porta del Bayern Monaco mi rende orgoglioso ma mi dà anche un forte senso di responsabilità. Posso assicurare che mi impegnerò al massimo per concludere ogni partita senza subire reti. Finché la mia porta rimane inviolata, il Bayern non potrà perdere.» fu il suo breve, ma significativo enunciato di presentazione.

Rispose poi brevemente a qualche domanda sull'Amburgo.

«Rimarrò sempre legato sia alla squadra sia alla città. Ma ora sono un giocatore del Bayern Monaco.»

«Continuerà a portare il suo ormai peculiare cappellino?» gli chiese una giornalista.

«Naturalmente.» sorrise.

«Cosa l'ha convinta ad accettare il trasferimento alla squadra campione di Germania?»

«La certezza che a Monaco avrei trovato tutto quello che avrei voluto.»

I suoi occhi guardarono in camera per pochi secondi. Un gesto apparentemente involontario, ma chi lo conosceva sapeva bene che Genzo Wakabayashi non faceva mai nulla per caso.

Elena avvertì un'ormai familiare e piacevole sensazione diffondersi nel suo petto.

 

Elena, in piedi sulla terrazza della sua stanza, respirò un'ultima volta a pieni polmoni la fresca aria della sera e rientrò.

Si avvicinò alla scrivania e guardò il disegno che Kumi aveva fatto per lei e le aveva regalato la sera prima della sua partenza dal Giappone.

L'amica aveva riprodotto alla perfezione l'entusiasmo e la sensazione di libertà che provava ogni volta che faceva ginnastica. Sarebbe certamente riuscita a farsi conoscere: non era banalmente brava a disegnare; aveva una sensibilità e una passione genuine, la capacità di cogliere emozioni e sfumature e rappresentarle poi sulla carta.

Lo infilò nella sua agenda nuova di zecca, come una sorta di portafortuna, e mise il tutto nel suo zainetto.

Poi andò a sedersi sul letto e accarezzò il maneki neko posato sul suo comodino, un rito ormai irrinunciabile prima di sdraiarsi.

Prima però prese il suo smartphone, rimasto spento tutto il giorno e lo accese.

Dopo alcuni secondi, sullo schermo comparve il simbolo di un foglietto a righe: un sms di Genzo.

Conto su di te.

 

Lo Shinkansen proveniente da Tokyo raggiunse la zona costiera della prefettura di Shizuoka. Era lontano ormai solo pochi chilometri dalla stazione di Nankatsu.

Le gocce di pioggia cadevano sempre meno frequenti.

Il sole di fine estate si fece spazio tra i nembi che si stavano progressivamente diradando.

Kumi dormiva, con la testa inclinata sullo schienale e le labbra socchiuse, in un'espressione quasi infantile.

Taro sorrise intenerito e le sfiorò una guancia con la mano.

La ragazza trasalì leggermente e sbatté alcune volte le palpebre.

«Tutto a posto?» le chiese a bassa voce, quando si fu voltata verso di lui.

Lei gli sorrise e fece un cenno d'assenso.

«Sono solo un po' stanca. Ma sono sicura che non appena respirerò di nuovo l'aria di Nankatsu, mi torneranno le energie.»

La sua mente si riempì di nuovo delle emozioni vissute poche ore prima.

La sua prima volta …

Aveva detto tante volte a sé stessa di voler aspettare il momento in cui si sarebbe sentita pronta, invece era accaduto tutto come in una concatenazione spontanea di eventi.

Quando l'addetto alla reception aveva detto che era disponibile soltanto una camera doppia, era stato inevitabile pensare alle possibili implicazioni.

In quel momento aveva capito che, nonostante l'esitazione dovuta più a imbarazzo che a timore, non si sarebbe opposta se le cose avessero preso quella piega.

E Taro aveva avuto per lei il massimo riguardo, mostrando di non considerarla un oggetto di piacere, preoccupandosi soprattutto del suo benessere.

«Voglio presentarti a papà.» le aveva detto, quando si trovavano ancora alla stazione di Tokyo.

Erano gli ultimi giorni che Taro poteva passare con suo padre prima di tornare a Parigi.

Lei e Ichiro Misaki si conoscevano più che altro di vista. Non mancava mai alle partite del figlio. Non aveva avuto l'occasione di parlargli, ma ogni volta che l'aveva visto interagire con Taro, aveva percepito la profondità del rapporto che li legava.

E si era sorpresa già allora a pensare che era fortunato ad avere un padre che lo sosteneva e seguiva il suo percorso, quando i suoi impegni glielo permettevano.

Cosa che Shinji, invece, sembrava non aver ancora intenzione di fare.

Sospirò sommessamente.

Appoggiò la testa sulla spalla del suo ragazzo e chiuse gli occhi.

 

Il sole aveva ormai riacquistato il dominio del cielo quando giunsero davanti all'abitazione dei Misaki.

Taro aprì la porta e fece strada a Kumi, dopo che ebbero lasciato i trolley nel vestibolo e cambiato le calzature.

Dalla cucina proveniva un profumo invitante: Ichiro stava scaldando del tenpura.

Si affacciò nello stesso momento in cui i due giovani stavano per entrare.

«Oh, ciao ragazzi. Tu se non sbaglio, sei Kumi Sugimoto, una delle ex manager della squadra di calcio.»

«Proprio così, Misaki-san. Ricorda benissimo.» confermò lei, contenta dell'accoglienza che l'uomo le stava riservando fin da subito.

«Così è lei la tua ragazza.» sorrise poi, rivolto al figlio.

Taro sorrise di rimando.

Non era stupito. Suo padre aveva capito già da prima della partenza per Toluca che aveva cominciato una relazione. Il suo uscire ogni sera e anche il pomeriggio quando andava a prendere Kumi al tanki-daigaku, la cura che dedicava al suo aspetto, erano stati segnali inequivocabili.

E Ichiro lo salutava sempre con un sorriso complice, senza fargli domande, conscio che sarebbe stato lo stesso Taro a parlargli e a fargli conoscere la fortunata, quando lo avesse ritenuto opportuno.

«Bene. Si capisce allora che sei invitata a pranzo anche tu. Ho fatto proprio bene a friggere un po' di gamberi e di verdure in più.»

 

«Prima di tornare a Parigi, devo assolutamente mantenere una promessa.» affermò Taro, mentre si avvicinava al padre con una mano nella tasca della giacca.

Giuntogli a fianco, estrasse la medaglia d'oro e gliela mise attorno al collo, osservando divertito la sua espressione commossa.

Ichiro afferrò il disco dorato e lo guardò, emozionato.

Ricordava come se fosse stato il giorno prima, il tema letto in classe da Taro, in cui dichiarava di volere, da grande, vincere le Olimpiadi.

«Ce l'hai fatta, figlio mio.» mormorò, mettendogli un braccio attorno alle spalle.

Kumi sorrise intenerita nel vedere quell'immagine emblematica dell'orgoglio di un padre per il traguardo conquistato dal suo amato figlio.

 

Kumi e Ichiro avevano una passione in comune che si dimostrò un punto di partenza naturale per la loro conversazione.

Gli mostrò alcuni suoi disegni e la copia del primo numero della rivista su cui erano state pubblicate delle illustrazioni e un manga autoconclusivo.

«Hai del talento.» constatò, osservando l'operato della ragazza.

Il pittore ascoltò con interesse la storia di com'era nata la sua passione e condivise il rammarico della ragazza per il fatto che il padre cercasse di dissuaderla. Non perse però tempo per darle un consiglio fondamentale.

«Ovviamente non puoi pensare, specie all'inizio della carriera, di riuscire a mantenerti solo con i disegni. Anch'io per molti anni ho fatto altri lavori, seppure saltuari, oltre a dipingere. Spesso erano mestieri che non avevano niente a che vedere con l'arte. Ma chi non lavora non mangia, e se non si mangia diventa difficile anche sognare.»

Kumi assentì. «È vero. Infatti studio al tanki-daigaku e ho tutta l'intenzione di prendere il diploma.»

Ichiro le rivolse un cenno d'approvazione.

«Serve tempo, e quindi costanza e pazienza. Ma hai intrapreso la strada giusta, non hai fretta di affermarti e questo è un punto a tuo favore.»

 

«Sai Kumi … stavo pensando a quello che ti ha detto papà. Ha ragione: stai vivendo la tua passione con serenità, non hai l'ansia di arrivare.» constatò Taro, mentre accompagnava la ragazza verso casa.

Lei mise le mani dietro la schiena e ammiccò, fermandosi e mettendosi di fronte a lui. «Forse perché in fin dei conti, sono una persona felice. La mamma e la nonna mi hanno sempre sostenuta, mi impegno in tutto quello faccio, sono sì una sognatrice ma so anche rimanere con i piedi per terra. E poi ho tanti amici e un ragazzo splendido che diventerà un campione osannato in tutto il mondo e strapagato: non ho motivo di concentrarmi solo sulla carriera tralasciando gli affetti.» concluse, con un largo sorriso e un lampo di divertimento negli occhi.

Taro alzò un sopracciglio e increspò le labbra. «Strapagato … devo dedurre che mi sono messo con una furbacchiona?»

Kumi scoppiò a ridere e lo prese sottobraccio.

«Che ne dici di andare a trovare Sanae e Tsubasa? Così vedrai i piccoli Hayate e Daibu. Sono così teneri e adorabili!»

«È un'ottima idea.» rispose, avviandosi con lei verso l'abitazione dei Nakazawa.

 

Genzo, giunto ormai a pochi metri dal complesso sportivo Shiroyama, rallentò il suo ritmo di corsa.

Era da poco stato a casa Nakazawa, dove aveva visto per la prima volta i due gemelli Oozora. Erano due bambini bellissimi, con gli stessi occhi vivaci del padre.

Vedere i suoi due amici d'infanzia così felici e innamorati, aveva fatto apparire nella sua mente un'immagine che gli aveva fatto perdere un battito e provocato una sensazione di calore in mezzo al petto.

Lui ed Elena …

Doveva rivederla. Per lui non era cambiato nulla, anzi la stimava e la amava ancora di più. Ma lei aveva avuto un atteggiamento freddo e non gli aveva più telefonato né mandato messaggi. Le poche volte che aveva risposto alle sue telefonate erano state tutte precedenti all'esame d'ammissione: si era limitata a poche frasi, giustificandosi con i numerosi impegni e con la tensione legata all'esame ormai imminente.

Erano stati Misaki e Kumi, incontrati a casa degli Oozora, a informarlo che aveva superato l'esame ed era ora ufficialmente iscritta alla LMU.

Era tempo di riallacciare definitivamente i rapporti, che per lui non si erano mai spezzati.

Prima di ritornare in Germania, avrebbe chiarito ai suoi genitori e a Hiroji quale fosse l'attuale situazione.

Aveva accettato il fatto che Elena avesse lavorato come ballerina in una discoteca.

Aveva voluto farcela da sola, dimostrando di essere in grado di cavarsela e di raggiungere i suoi obiettivi.

Era una ragazza coraggiosa e determinata … e lui si era ritrovato più innamorato di prima.

 

Salutò la segretaria, che lo ricambiò cordialmente e rispose affermativamente quando le chiese se Carlo era presente.

Lo vide quasi subito, mentre stava facendo lezione ai suoi allievi. Andò a sedersi sulle panchine accanto ai suoi ex compagni di allenamenti, che lo salutarono con calore.

Al termine di uno sparring, l'ormai ex kickboxer annunciò una pausa e quando si voltò verso la panchina, ebbe un lieve sussulto per la sorpresa.

«Ehi, chi si rivede!» esclamò, con la sua voce stentorea.

«Ciao Carlo.» rispose, alzandosi.

«Tutto bene, Genzo?»

Il ragazzo accennò un sorriso.

«Non sembra un sì. Come procede con Elena?»

«Da qualche giorno non riesco a mettermi in contatto con lei.» rispose, stringendo le labbra.

Carlo assunse un'espressione preoccupata. «È successo qualcosa?»

«Abbiamo avuto una piccola discussione …» fece una lieve pausa, non volendo raccontare i particolari. Era evidente che non sapeva nulla del lavoro della nipote alla discoteca. «Io sono stato un po' troppo duro, ma le ho chiesto scusa. Lei mi ha salutato con freddezza, ma tra di noi non è finita.»

«Ho provato a chiamarla, ma non mi ha più risposto. Ho saputo dal mio compagno di squadra Taro Misaki che ha superato l'esame di ammissione alla LMU, quindi ora dovrebbe vivere a Monaco.»

«Certo che abita a Monaco! E lei non si è più fatta sentire, nemmeno per dirtelo?»

Genzo scosse la testa, con un sorriso amaro.

«Che razza di testona.» bofonchiò, contrariato. Poi sospirò leggermente. «Credo sia dovuto al fatto che ha appena cambiato vita, si sta ambientando nel suo nuovo contesto. Vedi … Elena è una ragazza che ha bisogno sempre di un po' di tempo per adattarsi ai cambiamenti.»

«Non credo ci riuscirà pienamente, finché continuerà a fingere che non esisto.» replicò il portiere, con una vena di sarcasmo.

Carlo fece un cenno d'assenso.

«Abita nell'appartamento dell'altra mia nipote, Angelina, forse non la conosci.»

Angelina … ovviamente ricordava il fugace incontro avuto a Roma, ma Genzo evitò di dirglielo e preferì mentire.

Il maestro gli batté una pacca sulla spalla.

«Ti scrivo l'indirizzo, così potrai rintracciarla.»

 

Rientrato a villa Wakabayashi, estrasse il foglietto dalla tasca dei pantaloni e lo infilò nella sua agenda, sulla scrivania.

Dopo aver fatto una rapida doccia, raggiunse suo padre nel giardino, seduto sul dondolo del salotto all'aperto, sotto il pergolato, intento a leggere un quotidiano.

«Ti stavo aspettando.» gli disse, alzando la testa verso di lui.

Genzo sorrise e si sedette accanto a lui. 

Yasuhiro chiuse il giornale lo mise da parte. «Volevo parlare con te di un paio di cose, prima della tua partenza per la Germania.»

«Innanzitutto, vorrei dei chiarimenti riguardo ciò che è accaduto a Madrid.»

Genzo alzò un sopracciglio. «Il Giappone ha vinto le Olimpiadi. Su questo non ci sono dubbi.»

Yasuhiro chiuse gli occhi e fece un sorriso obliquo. «Sì, certo. Non mi riferivo a questo, ovviamente. Parlo della ragazza bionda con cui sei stato visto, allo stadio e fuori da un hotel. In giorni diversi. Questo non è un comportamento rispettoso verso la tua fidanzata.»

«La mia fidanzata è lei.» affermò Genzo.

Yasuhiro spalancò gli occhi e lo guardò come se fosse una sorta di mitomane.

«Asami ed io non stiamo più insieme dallo scorso giugno, da prima della mia partenza per il Messico.» rivelò, infine.

Yasuhiro lo guardò ancora più stranito.

Sbatté le palpebre un paio di volte e scosse la testa.

«Raccontami dall'inizio. È vero che negli ultimi mesi Asami non parlava molto della vostra relazione, anche perché quest'estate è stata molto impegnata tra esami e viaggi. Mi sono stupito del fatto che non abbia assistito alla finale di Madrid, ma non ha mai accennato al fatto che vi foste lasciati.»

«Perché si era convinta che la mia fosse solo una sbandata e che sarei tornato con lei. Ma quello tra me ed Elena non è un flirt.»

Yasuhiro sospirò seccato. «Continui a nominarmi questa Elena, ma io non ricordo di averla mai vista né conosciuta, se non nelle descrizioni e nelle fotografie.»

«Elena è la nipote del mio ex maestro di kickboxing, qui a Nankatsu. Ci siamo conosciuti e gradualmente è nato un sentimento che è andato oltre l'amicizia.»

«Vi frequentavate già durante la tua storia con Asami?» chiese, con un'espressione grave.

Genzo scosse la testa. «Non ho tradito Asami. L'ho lasciata prima di iniziare la mia attuale relazione. Ieri sera l'ho incontrata alla festa della JFA. Sperava che tornassi sui miei passi, ma le ho detto di smettere di illudersi.»

«Tu hai lasciato Asami da tre mesi e ti sei legato a un'altra ragazza e non mi hai detto nulla?»

Genzo assentì. «Se l'avessi fatto, non mi avresti dato pace. Avresti fatto di tutto per convincermi che stavo commettendo un errore, che non dovevo cedere a quello che avresti certamente giudicato un "colpo di testa", che mi ero lasciato sedurre da un'arrampicatrice sociale e chissà che altro.»

Yasuhiro lo guardò interdetto, poi abbassò leggermente il capo,

«Ho passato dei giorni splendidi con lei, a Madrid.» proseguì Genzo, ormai un fiume in piena. «Ora si trasferirà a Monaco, dove frequenterà la LMU.»

Suo padre rimase in silenzio, per alcuni istanti. Poi rialzò il capo e lo guardò, attento.

«Lavorava nella palestra con suo zio?»

«Sì, insegnava ginnastica artistica. Ma è anche una brillante studentessa e da quest'anno frequenterà la LMU a Monaco.»

Yasuhiro assunse un'espressione pensosa. «È un'ottima università. Dubito che il lavoro di insegnante sia sufficiente a pagare le rette e l'affitto. A meno che non chieda aiuto a chi può arrivare dove lei non riesce.»

Genzo contrasse la mascella, e lanciò uno sguardo duro verso il padre.

«Possibile che tu riesca a ragionare soltanto per pregiudizi? Non la conosci nemmeno e la stai giudicando solo perché non è ricca. Ecco perché vai d'accordo con Asami. Avete la stessa mentalità: la classe agiata non si deve mischiare con quella popolare.»

Yasuhiro fece per rispondere, ma il figlio lo anticipò.

«Comunque so che qualunque cosa io ti dica, non basterà a convincerti. Che dire, papà: ci aggiorniamo tra qualche mese. Una cosa è certa: per me è iniziata una nuova fase della mia vita, sta cambiando tutto. E nulla sarà più come prima.»

 

Hiroji era sul retro del giardino.

Kenichi era appena corso in casa, lui accarezzò John sulla testa e poi lo lasciò andare.

«Avete chiacchierato per un bel pezzo, tu e papà. È tornato alla carica con l'azienda?»

Genzo abbozzò un sorriso. «Anche, ma la questione principale è stata un'altra.»

«Ah, sì? E di cosa avete parlato, allora?»

«Della mia relazione con Asami, finita prima della mia partenza per il Messico.» replicò il giovane, serenamente.

Hiroji lo guardò sconcertato. Per alcuni istanti, non riuscì a proferire parola.

«Hai voglia di scherzare.» reagì, alzando un sopracciglio.

Genzo mantenne la sua espressione, scuotendo la testa.

Il dirigente fece altrettanto, di rimando.

«Ma cosa ti è passato per la testa? Ci sono uomini che farebbero carte false per una ragazza come Asami Ujimori, e tu la lasci?»

«Questo è un bene per Asami, significa che non faticherà a trovare un uomo più adatto a lei.»

Hiroji lo fulminò con lo sguardo. «Risparmiami la tua ironia, almeno su quella ragazza.»

«Non è ironia. L'ho lasciata proprio per questo, per permetterle di concentrarsi sulla sua vita.» ribatté il fratello, imperturbabile. 

«Le cose tra noi non andavano più bene da un po' di tempo e ho deciso che era meglio troncare.» aggiunse.

«Cosa c'era che non andasse? Sembravate così uniti e affezionati l'uno all'altra.» obiettò Hiroji, mettendosi le mani sui fianchi.

Il suo sguardo era attento e penetrante, come a voler sondare i pensieri del fratello.

«Non c'era più quella sintonia che ci ha legati all'inizio e per quanto mi riguarda è venuto a mancare il coinvolgimento.»

Il fratello maggiore sospirò. «Ascoltami Genzo … io so che a Madrid sei stato visto e fotografato con una ragazza ...»

«Si chiama Elena.» rispose, senza lasciarlo finire, dato che, come in precedenza il loro padre, l'aveva portato esattamente dove lui voleva arrivare. «L'ho conosciuta qui in Giappone. Ha vissuto a Nankatsu nei mesi scorsi, è la nipote del mio ex maestro di kickboxing.»

«Lo so. Me l'ha detto Annie, che la incontrava di tanto in tanto, soprattutto al parco Hikarigaoka. Inoltre l'ho vista una volta, nell'ospedale in cui sei stato operato dopo l'infortunio all'occhio.»

«Bene. Allora tu non dovresti aver bisogno di molte spiegazioni.»

Hiroji fece un sorriso amaro. «Così mentre frequentavi Asami, tu …»

«No. L'ho lasciata prima di iniziare la mia storia con Elena. Puoi disapprovare la mia scelta, ma mi sono comportato correttamente.»

«E perché non ce l'hai detto subito?»

«Mancavano pochi giorni alla mia partenza per il J-Village e al ritorno in Italia di Elena. Volevo passarli con lei, per rinforzare il nostro legame prima di una separazione di almeno un mese.»

«Avresti fatto meglio a parlarcene.»

«Volevo evitare di coinvolgere Elena ed esporla alle vostre riprovazioni. Sapevo che l'avreste accusata di avermi sedotto e di avermi diviso da Asami. In realtà, le cose tra di noi avevano cominciato a non andare bene già da prima, abbiamo punti di vista divergenti su cose che per me sono fondamentali.»

Hiroji sembrò assentire, con lievi cenni del capo, ma i suoi occhi tradivano un certo nervosismo.

«La vostra rottura potrebbe avere effetti negativi sull'andamento degli affari.» lo ammonì, infine.

«Cosa?» detta da Hiroji, gli sembrava un'affermazione priva di logica, involontariamente comica. Era ciò che gli aveva detto Asami, ma non l'aveva presa sul serio poiché dettata da un vano e obiettivamente risibile tentativo di intimidirlo.

«Abbiamo una trattativa in corso e questo potrebbe ostacolarla, così come i rapporti con gli Ujimori!»

Genzo lasciò cadere le braccia lungo il corpo, sconcertato.

«Di quale trattativa parli?» gli sembrava tutto assurdo.

«Abbiamo cominciato a parlare di una possibile acquisizione della Ujimori Heavy Industries da parte della Wakabayashi Electrics.» ammise Hiroji. «È un progetto che nelle nostre intenzioni, si concretizzerà tra qualche anno. Tsutomu rimarrebbe uno degli azionisti e vorrebbe affidare a te un importante incarico dirigenziale. E naturalmente spera, o forse da quel che mi racconti è più corretto dire sperava, in un matrimonio tra te e sua figlia.»

Genzo strinse la mascella.

«Non credevo che vi divertiste a disegnare il mio futuro e a fantasticare su un progetto concepito senza di me.»

Nella mente del giovane si fece strada l'idea che, la sera della cena di beneficenza, il vero obiettivo di suo padre fosse farlo incontrare con Asami, in modo da riallacciare i rapporti con lei e far sì che sfociassero in quella relazione sempre caldeggiata.

Asami parlava di questo … un progetto che non era più un auspicio come aveva a lungo creduto, ma una trattativa bene avviata. E a quanto pareva il loro matrimonio doveva rappresentare la ciliegina sulla torta, se non era proprio parte dell'accordo.

«Hiroji, io ho cominciato a undici anni a costruire il mio futuro da uomo indipendente. E ora sono un calciatore professionista, gioco in uno dei campionati più competitivi del mondo, guadagno abbastanza da mantenermi da solo. Sono libero di fare le mie scelte e non sono ricattabile da nessuno, né da voi né dagli Ujimori.» affermò, risoluto.

«E comunque la Wakabayashi Electrics è un'azienda di grande importanza e prestigio, non farà fatica a trovare altri partner commerciali, se il suo amministratore delegato saprà far valere la propria intraprendenza e competenza.» continuò, negando al fratello qualsiasi margine di replica. «Quanto a Tsutomu, non so quanto gli convenga rinunciare a un simile progetto. Scommetto che finirà per convincersi anche lui che il matrimonio di sua figlia con me non è una condizione imprescindibile.»

   

Rientrati in casa, Genzo diede una carezza ad Aiko che, non appena aveva visto entrare il padre e lo zio, aveva camminato rapidamente verso di loro con il suo passo ancora un po' traballante. Hiroji la prese in braccio, le diede un piccolo bacio sulla fronte e la fece accoccolare sul suo largo petto.

Annie era appena entrata in salotto con Kenichi che stava sgranocchiando un biscotto.

Mariko e Yasuhiro erano seduti sul divano. Sul televisore di fronte a loro, stavano scorrendo le immagini di un vecchio film.

L'attenzione di tutti si concentrò su Genzo.

«Non rimarrò qui a cena. Parto per Narita. Stasera ho il volo per Monaco. Mi dedicherò alla mia nuova avventura al Bayern e alla mia nuova vita. Mi chiamo Wakabayashi ma non sono obbligato a diventare quello che voi avete deciso per me.» annunciò, incamminandosi verso le scale.

Hiroji strinse le labbra ma non cercò di trattenerlo né di dissuaderlo.

I signori Wakabayashi non cambiarono espressione.

Kenichi alzò la testa verso Annie, perplesso.

La donna sorrise e lanciò un'occhiata al marito, cui sembrò di aver rivisto il sé stesso di poco più di dieci anni prima, riflesso negli occhi del fratello.

 

Genzo si riposizionò tra i pali della porta e piegò le ginocchia, sporgendosi leggermente in avanti, preparandosi a parare l'ennesimo tiro del penultimo allenamento prima della partita di Coppa di Germania.

Era stato a Monaco diverse volte, ma era diverso arrivarci per rimanerci. Doveva ancora abituarsi completamente all'idea che la capitale bavarese sarebbe stata la sua nuova città.

Come dieci anni prima ad Amburgo, l'unico modo che conosceva per ambientarsi il più rapidamente possibile era dimostrarsi all'altezza della situazione, provando che i dirigenti del Bayern avevano visto giusto a sceglierlo come portiere di una squadra costruita per vincere e rimanere ai vertici del calcio tedesco e internazionale.

Il tiro di Levin era potente ma non angolato, e Genzo lo bloccò con sicurezza.

Il centrocampista svedese sbuffò, rassegnato. In quell'allenamento non lo aveva superato nemmeno una volta.

Solo Schneider ci era riuscito, ma la sua percentuale di realizzazione era molto lontana da quella dei tempi di Amburgo. Se a quell'epoca era del cinquanta per cento, ora era sì e no del venti.

L'attaccante non sapeva se essere deluso da sé stesso o rallegrarsi per i grandi progressi fatti dal portiere e rivale storico in quell'anno.

«Va bene, Wakabayashi, oggi sei imbattibile! Facciamo una pausa, è quasi ora di pranzo!» lo supplicò Shiken, il campione croato.

«Sì, ma prima voglio un altro giro!» gridò però il portiere.

«Ancora?!» protestarono tutti di rimando, quasi all'unisono, con una faccia sconvolta, oltre che stravolta dal caldo e dalla fatica.

Quell'allenamento sembrava interminabile. Inoltre, il sole era caldo come in una giornata di piena estate, nonostante si fosse ormai oltre la metà di settembre.

Un particolare di cui Genzo sembrava non essersi accorto nonostante le gocce di sudore che gli imperlavano il viso.

«Wakabayashi, abbi pietà di quei poveri ragazzi! Lasciagli tirare un po’ il fiato!» lo rimproverò bonariamente Schneider, l'unico a non lamentarsi e che anzi, rideva sotto i baffi.

«Tutti dicono che sono i migliori attaccanti del mondo. Lo dimostrino allora!» ribatté, senza fare una piega.

«Eravate così ansiosi di avermi come portiere, e questo è tutto quello che riuscite a fare?» li provocò ancora.

«Schneider, era così anche ad Amburgo?» gli chiese Sho, passandosi un braccio sulla fronte.

«Oh, no. Adesso è molto peggio.» gli rispose sornione, battendogli una mano su una spalla.

Il giovane cinese sospirò pesantemente, andando a rimettersi in fila per una nuova tornata di tiri, sotto lo sguardo compiaciuto di Frank Schneider.

 

Genzo chiuse la cerniera del suo borsone e se lo caricò su una spalla.

Karl lo imitò e i due uscirono insieme dagli spogliatoi.

Gli ultimi giocatori erano usciti da poco, alla spicciolata.

«Ora puoi dirmelo, Wakabayashi. Cosa ti ha fatto superare le tue riserve su un trasferimento al Bayern?»

Genzo diede un'alzata di spalle. «I motivi che già mi spiegasti tu. Giocare ogni giorno un calcio più competitivo.»

Karl fece una piccola smorfia, non troppo convinto. «Va bene, ma ho la sensazione che ci sia qualcos'altro. Günther, prima dei quarti, mi ha detto che se avessi accettato l'offerta non sarebbe stato merito né suo né mio, ma di una terza persona, e che da te non me lo sarei mai aspettato. Puoi dirmi a cosa o a chi si riferiva?»

Genzo si guardò un attimo intorno, poi chiuse gli occhi e sorrise. «Te lo dirò dopo la partita con l'Amburgo, se avrai un po' di pazienza.»

«Ehi, ma la partita con l'Amburgo è fra tre mesi!» obiettò.

«Se hai proprio tanta fretta, potresti pagare quella penitenza che io ti ho generosamente sospeso.» replicò sornione, strizzandogli un occhio.

Karl alzò gli occhi al cielo. «Nah, in questo caso preferisco tenermi la curiosità. In fondo, con tutto il tempo che ci hai messo a deciderti a venire qui, posso anche aspettare.» disse, battendogli una mano sulla schiena.

 

Time I'm sure will bring

Disappointments in so many things

It seems to be the way

When your gambling cards on love you play

I'd rather be in hell with you baby

Than in cool heaven

It seems to be the way

 

 

Alzò gli occhi al cielo, infilando le mani nelle tasche della sua giacca. Era la seconda volta che suonava al citofono del palazzo nel quartiere di Maxvorstadt indicato nell'indirizzo scrittogli da Carlo, ma non rispondeva nessuno.

Avrebbe atteso altri cinque minuti poi, se anche il terzo tentativo fosse andato a vuoto, se ne sarebbe andato.

Abbassò la visiera del suo berretto e finse di controllare qualcosa sul suo smartphone.

Stava pensando di premere di nuovo il pulsante quando vide una ragazza dai lunghi capelli castani ondulati, piuttosto alta e dal fisico esile, camminare rapidamente, trasportando una borsa di plastica carica e una confezione di bottiglie d'acqua.

Quando si arrestò davanti all'ingresso, Genzo alzò la visiera del cappello e le sorrise.

Lei sgranò gli occhi.

«Genzo Wakabayashi?» mormorò, con voce leggermente ansante per lo sforzo.

Il portiere annuì.

«E tu sei Angelina, se non sbaglio.»

«Già. Elena però adesso è all'università e credo non rientrerà prima di sera.» replicò, stringendo le labbra.

«Però abita in questo palazzo, con te.»

«Sì, al terzo piano.»

«Ti posso parlare?» le chiese con tono pacato e un sorriso gentile.

Ad Angelina non restò che annuire.

Aveva sempre pensato che definire i suoi occhi "magnetici" da parte di Elena, fosse la classica esagerazione da ragazza innamorata, ma ora che se lo ritrovava davanti e non aveva un'espressione sconvolta né arrabbiata, si dovette ricredere. Quello sguardo era davvero di un'intensità non comune.

Lui le sfilò la borsa e le bottiglie dalle mani quasi senza che se ne accorgesse.

«Non ti disturbare, tanto salgo con l'ascensore …» mormorò imbarazzata.

«Ma le porterai pure dentro con te, sia nell'ascensore sia in casa.» ribatté lui prontamente, con un sorriso sghembo.

«Effettivamente.» riuscì a rispondere. «Beh, grazie.» disse acquistando finalmente un po' di disinvoltura, mentre entravano nell'ascensore.

Aveva appena vent'anni, ma possedeva già un portamento e un fascino capaci di far vacillare qualsiasi donna. Era sicura che se Mattias li avesse visti in quel momento, avrebbe fatto una scenata di gelosia, sebbene non potesse accadere assolutamente nulla di compromettente.

Genzo era venuto soltanto per parlare di Elena, e quanto a lei … la fascinazione non l'avrebbe mai indotta a fare un torto alla cugina, cui voleva bene come a una sorella, e all'uomo che amava.

 

«E così vorresti che ti aiutassi a rimetterti in contatto con Elena.» disse, posando sul tavolo due bicchieri appena riempiti con succo d'arancia.

Genzo fece un cenno d'assenso.

«Lei passa la domenica a Bad Tölz, dove abitano i nostri nonni. Dopo il pranzo, le piace andare a passeggiare sul ponte sul fiume, dove nuotano sempre dei bellissimi cigni bianchi e germani reali. Potresti farle una sorpresa.»

«Non ci sarebbero problemi … io gioco sabato e la prossima settimana non ci sono partite di Coppa. Devo però essere sicuro di incontrarla sola.»

Angelina fece spallucce. «I nonni non escono mai di casa prima delle quattro del pomeriggio. Quanto a me, dedico la domenica al mio ragazzo, visto che durante la settimana ci vediamo poco, mentre il mio fratellino trascorre il weekend da papà.» spiegò. «Avrai campo libero.»

«Come pensi reagirà?»

Angelina diede un'altra alzata di spalle e sorrise incoraggiante. «Non ha perso una partita, e fa fatica a nascondere la sua gioia davanti alle tue parate, persino quelle più facili.»

Gli occhi di Genzo si illuminarono. Non riuscì a trattenere un sorriso.

«È innamorata di te. Da quando è qui a Monaco, si è buttata nello studio e nel lavoro, ma c'è un posto fisso per te, nei suoi pensieri. Magari sta aspettando proprio che tu ti faccia vivo.»

Si diresse verso la console su cui era collocato un telefono e aprì il piccolo bloc-notes accanto.

Prese una penna, scrisse qualcosa rapidamente e strappò il foglio.

Poi tornò da lui e glielo porse.

«Questo è l'indirizzo della casa dei nonni. Tanto poi con il navigatore ci arrivi.» disse, strizzandogli un occhio.

 

Elena, stretta nel suo giubbetto, si muoveva lentamente sul ponte che sormontava il fiume Isar.

Fare una passeggiata in quella zona poco distante dalla casa dei suoi nonni era una consuetudine fin da quando era bambina, e non se ne sarebbe mai stancata.

Osservava gruppi di cigni, anatre e oche nuotare insieme nel fiume, la splendida cornice formata dagli alberi dalle chiome variopinte, la sagoma delle Dolomiti che si stagliava all'orizzonte.

Si era calata completamente nella sua nuova vita in Germania.

Lei e Angelina si ritrovavano perlopiù al mattino a colazione e la sera a cena, trascorrendo di tanto in tanto il pomeriggio a fare shopping o qualche serata al cinema, quando Mattias era fuori città per lavoro.

Grazie a Gabriele, l'ex fidanzata di Carlo, era stata assunta in una palestra di Monaco, come insegnante di ginnastica delle bambine. Le sue giornate erano divise così tra le lezioni ricevute nelle aule universitarie e quelle impartite alle ginnaste in erba.

Elena aveva saputo farsi apprezzare fin da subito, grazie anche al bagaglio di esperienza accumulato in Giappone.

Nel frattempo, preparava i suoi primi esami. In mezzo a tutto questo, trovava sempre un paio d'ore da dedicare, il sabato o la domenica oppure il martedì o il mercoledì, a seguire le partite del Bayern Monaco, che a un mese e mezzo dall'inizio della Bundesliga guidava la classifica con cinque punti di vantaggio sulle due inseguitrici appaiate Stoccarda e Werder Brema.

La squadra allenata da Frank Schneider aveva cominciato benissimo anche in Champions League, e in quella competizione Genzo aveva difeso i pali fin dall'inizio. Due partite e due vittorie convincenti, contro squadre ostiche.

Seguire ogni match era un modo per trattenere Genzo Wakabayashi nella sua vita … anche se sentiva la sua mancanza. Ripensava al modo in cui lo aveva salutato, così freddo e distaccato.

«Per quanto tempo andrai avanti ancora così, senza vederlo?» le chiedeva Angelina, ogni volta che la vedeva trepidante davanti allo schermo.

Aveva ragione … per quanto riempisse le sue giornate, Genzo le mancava terribilmente. Le mancava la sua voce calda e carezzevole, il suo sguardo intenso. Le mancava sentire i muscoli delle sue braccia contrarsi quando la abbracciava. I suoi baci. La sensazione che ogni cosa attorno a loro sparisse.

Non avevano condiviso l'emozione della prima partita in Champions League, eppure non aveva mancato di rivolgerle quel saluto divenuto ormai un rito, sicuro che lo stesse guardando.

«Eccoti qui, finalmente.»

Elena trasalì. Avvertì la pelle tremare e il cuore cominciare a battere all'impazzata.

Quella voce … no, non poteva essere … a forza di pensare a lui, doveva essersela immaginata.

Ma possibile che anche i passi che sentiva sempre più vicini, il profumo che gli apparteneva, il respiro che le sfiorava i capelli e le grandi mani posate sulle sue spalle, fossero frutto della sua fantasia?

Deglutì. Si voltò lentamente.

Genzo era di fronte a lei, con quel sorriso che le faceva sempre rischiare un arresto cardiaco.

Le mise le mani sui fianchi e la attirò a sé.

 

«È stata Angelina a dirti che ero qui.» disse, mentre passeggiavano per Marktstraße. Non era una domanda, ma una constatazione.

Genzo annuì. «Prima però, è stato Carlo a darmi l'indirizzo del vostro appartamento. Elena.»

Lei lo guardò, in attesa. «D'ora in avanti, basta pause tra di noi. Di qualsiasi tipo esse siano.»

«Va bene.» rispose, con un sorriso. «Che ne diresti allora, di tornare a Monaco insieme?»

Il ragazzo annuì con un cenno del capo e ricambiò l'espressione allegra di lei.

La attese nel parcheggio in cui aveva lasciato la sua auto, per il tempo in cui Elena era tornata a casa a prendere il trolley, già quasi pronto.

Caricò il suo bagaglio nel baule e andò a mettersi al posto di guida, accanto al quale Elena si era accomodata.

Mise in moto e partì insieme a lei, verso Monaco.

 

  

 

 

 

***Note***

 

 

Il "bel giapponese" ricordato dalla nonna di Elena è l'attore Ryo Ikebe (1918-2010).

Molto celebre in patria, a livello internazionale il suo film più famoso è "Inizio di primavera" ("Sōshun") del 1956, diretto da Yasujiro Ozu. Questo è un suo primo piano tratto proprio da una scena di questo film.

 

Un dettaglio che non ho precisato nello scorso capitolo è quello relativo al nome della cugina di Elena, che si pronuncia "Anghelina".

La scelta non mi è stata ispirata dalla celebre attrice statunitense Angelina Jolie ma dalla bravissima pallavolista tedesca Angelina Grün, che nella sua pregevole carriera ha giocato anche in Italia, a Modena e a Bergamo, vincendo molti titoli a livello nazionale e internazionale.

 

Karl Heinz Rummenigge, spesso chiamato con l'affettuoso nomignolo Kalle, è amministratore delegato del Bayern Monaco dal 2002, dopo esserne stato vicepresidente.

È stato un fortissimo attaccante tra gli anni '70 e '80, noto per la potenza dei suoi tiri.

Le sue squadre più importanti sono state il Bayern Monaco, l'Inter e naturalmente la Nazionale tedesca. Ha vinto due Palloni d'Oro consecutivi, nel 1980 e nel 1981.

Takahashi si è evidentemente ispirato a lui per creare il personaggio di Karl Heinz Schneider (vi è anche una notevole somiglianza fisica tra Karl e il giovane Kalle, come dimostra questa immagine).

 

Tenpura: piatto tipico giapponese che consiste in una frittura leggera di verdure, gamberi o anche carne in pastella croccante.

 

JFA: acronimo di Japan Football Association, la Federcalcio nipponica.

 

Come anticipato nel capitolo XIX, ho inserito in questo capitolo un'altra strofa della bellissima "Sign Your Name".

Qui la traduzione:

 

Sono sicuro che il tempo

Porterà con sé delusioni per molte cose

Sembra essere questa la strada quando

Giochi le tue carte sull’amore

Preferirei essere con te all’inferno

Piuttosto che da solo in un freddo paradiso.

Sembra essere questa la strada.

 

Martedì 8 ottobre 2019 è una data storica per la ginnastica artistica italiana: la Nazionale femminile ha infatti vinto la medaglia di bronzo nel concorso a squadre ai Mondiali svoltisi a Stoccarda. Prima delle azzurre soltanto due superpotenze come Stati Uniti e Russia.

Bravissime ragazze!

 

 

Eccoci quasi alle battute finali … sì, perché il prossimo capitolo sarà l'ultimo e porterà con sé anche un epilogo.

Grazie come sempre a tutti voi che seguite questa storia.

Buona settimana e a presto!

Sandie

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Capitolo 27
*** Capitolo XXVII - Kintsugi ***


 

Capitolo XXVII

 

Kintsugi

 

 

 

«Siamo quasi arrivati all'Allianz Arena, signorina.»

La voce squillante e dal tono affabile del giovane tassista riscosse Elena dai suoi pensieri.

Prese la sua borsa e si preparò a pagare il tragitto.

Stava per assistere alla partita tra Bayern Monaco e Amburgo, la più importante per Genzo.

Lei e il portiere stavano vivendo la loro relazione in pianta stabile da quando si erano rincontrati a Bad Tölz. Si vedevano ogni volta che avevano del tempo libero da dedicare l'uno all'altra, e la loro intesa continuava a crescere.

Ricordò divertita una sera di due settimane prima, quando lei e Angelina, per festeggiare il compleanno di Genzo avevano deciso, di comune accordo, di invitare a cena nel loro appartamento i rispettivi fidanzati, l'uno all'insaputa dell'altro.

Per pura casualità Genzo e Mattias erano giunti quasi in contemporanea davanti al portone del palazzo. Il giovane impiegato aveva così scoperto con sbalordimento che il portiere del Bayern Monaco era il ragazzo di Elena.

Passato il momento di iniziale stupore, i due uomini avevano familiarizzato, regalando così alle loro fidanzate una serata splendida, tra chiacchiere e risate.

 

Il taxi si fermò a poca distanza dai cancelli dello stadio.

Con il sorriso ancora sulle labbra, Elena tornò al presente, diede all'autista quanto dovuto e scese.

Era l'ultima giornata prima della pausa invernale. Poi ci sarebbero state tre settimane di vacanza, prima del rientro a Monaco per l'inizio del girone di ritorno.

Il Bayern aveva già guadagnato il titolo di "campione d'inverno" e sperava di poter allungare il suo vantaggio in classifica, visto che nella stessa giornata le altre due contendenti al titolo, lo Stoccarda di Müller e il Werder Brema di Schester e Margus, si sarebbero scontrate tra loro. Genzo giocava per la prima volta contro la squadra in cui si era formato come calciatore e in cui aveva militato fino alla stagione precedente. Era passato poco più di un anno dalla gara che aveva cambiato completamente il corso della sua vita.

«Voglio che tu venga a vedere questa partita, Elena.» le aveva detto lui alcune sere prima, durante una passeggiata serale per il centro di Monaco.

«Sei teso?» le aveva chiesto lei.

«Certo, l'Amburgo è la squadra in cui sono cresciuto e diventato un professionista. E per la prima volta giocherò contro i tifosi che mi hanno sostenuto fin da ragazzino. Ma voglio che tu ci sia soprattutto perché, in fondo, è cominciato tutto da lì. La messa fuori squadra da parte di Zeeman, la mia decisione di tornare in Giappone, il nostro incontro. Tu hai facilitato la mia scelta di venire a giocare qui.»

 

Fuori dai cancelli, tra la cospicua folla di tifosi con sciarpe, cappellini, bandiere e striscioni, vide un uomo dai tratti giapponesi, elegante nel suo completo grigio. I capelli brizzolati e gli occhiali dalle lenti fumé non lasciavano dubbi su chi fosse.

Nel frattempo anche lui notò la sua presenza e le rivolse un sorridente cenno di saluto.

«Signor Mikami!» rispose lei, avvicinandosi.

«Ciao Elena.»

«Anche lei qui a vedere Genzo contro l'Amburgo?»

«Già. Ti stavo aspettando.»

«Me?» chiese, un po' stupita.

«Sì. Genzo mi ha detto di prenotarti il posto accanto al mio.»

«Ha invitato qualcun altro, oltre a noi?»

Tatsuo scosse la testa e le sorrise.

«Andiamo.»

 

Elena si accomodò sulla poltroncina riservata per lei all'Allianz Arena.

Era in tribuna e non in curva, ma non aveva rinunciato alla sua sciarpa con colori e scritte del Bayern Monaco.

Osservò gli spalti, gremiti dagli euforici e appassionati tifosi bavaresi, ma anche il gruppo dei sostenitori amburghesi si stava facendo sentire.

La sua contemplazione venne interrotta dalle parole di Mikami.

«È arrivato il grande giorno: Genzo affronta per la prima volta la squadra in cui ha costruito la sua carriera di calciatore. Per lui era importante che ci fossi anche tu.»

«Genzo parla di me con lei?» non si trattenne dal chiedergli.

Tatsuo annuì. «Fin da ragazzino, ha passato più tempo con me che con i suoi genitori. Io ho assecondato e poi condiviso la sua passione per il calcio, cercando di aiutarlo, per quanto mi fosse possibile, a far emergere il suo talento. È un ragazzo riservato, ma non esita a parlare di ciò che gli sta più a cuore con le persone di cui si fida.»

Con un occhio sempre rivolto al campo, in cui le due squadre stavano compiendo gli esercizi di riscaldamento, le raccontò di quando erano arrivati in Germania, gli innumerevoli episodi in cui erano stati scambiati per padre e figlio, la decisione dell'allenatore di tornare in Giappone e lasciare che Genzo intraprendesse un percorso di integrazione più autonomo.

Le descrisse l'emozione di quando, dopo due anni, l'aveva ritrovato cresciuto e maturato, sia dal punto di vista fisico sia da quello caratteriale.

«Ma non l'ho mai visto tanto forte e determinato come ora. Credo sia anche merito tuo.»

Elena piegò le labbra in un sorriso, senza rispondere. Faticava a trovare parole che non suonassero banali o sdolcinate.

Ma Mikami era pienamente convinto di ciò che aveva appena affermato e anzi, lo ribadì.

«Lui in campo sembra un blocco di granito, in realtà è un ragazzo sensibile. Sapere che ci sei tu a vederlo da qui, gli darà la fiducia necessaria a giocare con concentrazione, come se di fronte a lui ci fosse una squadra qualsiasi. Vedrai che giocherà un'ottima partita.»

 

Le due squadre entrarono in campo, insieme all'arbitro e ai guardalinee.

I cori dei tifosi si fecero più accesi. Quelli del Bayern sottolinearono con un boato di entusiasmo il nome di Genzo, il primo pronunciato dallo speaker che stava elencando le formazioni e via via i nomi di tutti gli altri giocatori.

Il portiere era ormai acclamato quasi quanto Schneider.

Non mancarono i tifosi amburghesi che lo apostrofarono come "traditore", rivolgendogli dei fischi alla sua entrata in campo. Ma la maggior parte di loro era consapevole che il portiere se n'era andato per motivi indipendenti dalla sua volontà.

In ogni caso, la sua popolarità, già alta in Germania, in quei mesi era cresciuta esponenzialmente in tutta Europa. Tra Bundesliga e Champions League, le sue parate lo stavano consacrando come uno dei migliori portieri del mondo.

Molti cronisti e commentatori si erano occupati di lui sia nelle trasmissioni televisive sia nelle testate giornalistiche, ed era ormai solo questione di tempo prima che venisse scoperta la sua relazione con Elena, sebbene fossero fin lì riusciti a viverla con discrezione.

L'Amburgo, che aveva in panchina un nuovo allenatore e aveva inserito alcuni giovani nella squadra, schierava in porta Schweitzer, confermato dalla stagione precedente e reduce da un buon inizio in Bundesliga.

A guidare il centrocampo era Hermann Kaltz, promosso capitano dopo che l'attaccante Boisler aveva deciso di concludere la sua carriera lì dov'era cominciata, all'Eintracht Francoforte.

Il Bayern Monaco schierava la sua formazione consueta.

L'Amburgo, le cui peculiarità erano la fisicità e l'aggressività, riuscì a contenere gli attacchi del Bayern Monaco nella prima mezz'ora e tentò di rendersi pericoloso in un paio di occasioni, ma Genzo si fece trovare pronto.

Proprio quando gli amburghesi pregustavano un ritorno negli spogliatoi sullo 0-0 Schneider, con un potentissimo tiro di destro, ruppe gli equilibri e canalizzò la gara verso l'ennesima vittoria dei campioni di Germania.

Nel secondo tempo, l'Amburgo riuscì ad avvicinarsi alla porta avversaria solo con una combinazione tra Kaltz e il promettente attaccante brasiliano Amoroso.

Il bel tiro di interno sinistro fu però bloccato con sicurezza da Wakabayashi. Su potente rinvio di quest'ultimo, Karl segnò un'altra rete. A un quarto d'ora dalla fine, Levin portò il risultato sul 3-0.

Genzo distese appena le labbra in un sorriso e salutò i suoi ex compagni di squadra.

Schneider fece altrettanto e poi afferrò la mano del portiere, in una vigorosa stretta di mano.

Era diventato una specie di rito, che compivano dopo ogni partita.

Fin lì aveva portato bene: il Bayern era imbattuto.

Hermann si avvicinò e si parò di fronte a loro, a braccia incrociate e una smorfia imbronciata.

«Vi dovrebbero diffidare per concorrenza monopolistica, altroché! Avete una squadra a dir poco strepitosa, e vi siete presi anche Gen. Praticamente siete blindati.»

«Ammetto che mi piacerebbe battere il record di minuti passati senza subire un gol.» affermò Genzo, senza scomporsi.

«Sempre il solito Gen, sicuro di sé al limite della superbia. Certo che tra voi due è una bella lotta a chi gonfia di più il petto.»

I tre ragazzi scoppiano a ridere.

«Ehi, questa sera me lo devi dire.» ricordò Karl, rivolto al portiere.

«Devi dirgli cosa?» chiese Hermann, incuriosito.

«Chi lo ha convinto a venire al Bayern. È da quest'estate che me lo domando.»

«Non è stato il vostro infallibile procuratore?» replicò il centrocampista, alzando un sopracciglio.

Karl scosse la testa. «È stato proprio lui a dirmi che è merito di un'altra persona.» insistette, tornando a guardare Genzo.

L'interessato chiuse gli occhi e fece un sorriso. «Ancora un po' di pazienza, ragazzi.»

«Ehi, a questo punto voglio saperlo anch'io, Gen! In fondo, abbiamo giocato insieme fino all'anno scorso.» esclamò Hermann, incamminandosi con i suoi due amici d'infanzia verso il tunnel degli spogliatoi.

 

Genzo fu il primo ad arrivare nel piazzale esterno allo stadio, senza aspettare i suoi compagni. Ad attenderlo, c'erano Mikami ed Elena.

L'allenatore lo salutò con una pacca su una spalla, Elena lo abbracciò.

«Congratulazioni, Numero Uno.» gli sussurrò, dandogli poi un bacio sulle labbra.

«Schneider, mi sa che ci siamo persi qualcosa!»

La voce di Kaltz li fece sobbalzare e scostare bruscamente l'uno dall'altra.

Il centrocampista annuì più volte con aria saputa e un sorriso malizioso, senza tuttavia nascondere l'ammirazione per Elena.

Anche Karl sorrideva divertito, seppure in modo meno plateale.

I due ragazzi salutarono Tatsuo e tornarono a rivolgere la loro attenzione alla giovane coppia, che decise di prendere in mano la situazione.

«Vi presento Elena. La mia ragazza.»

«Ciao ragazzi. Ero curiosa di conoscervi.» disse, tendendo la mano, ricambiando la stretta e la presentazione.

«Anche noi.» rispose Hermann.

«Così è lei.» constatò Karl, senza smettere di sorridere.

«Non ci posso credere: Genzo Wakabayashi si è trasferito a Monaco per amore.» rincarò la dose il centrocampista.

«Diciamo che è stato un felice incrocio di circostanze.» replicò il portiere, cercando di nascondere il lieve imbarazzo, sotto lo sguardo divertito di Elena e di Tatsuo.

 

Trascorsero una piacevole serata.

Karl e Hermann ascoltarono con interesse e commentarono con bonaria ironia il racconto di come Genzo ed Elena si fossero conosciuti proprio in Giappone e di come lui avesse preso proprio a Madrid una delle decisioni più difficili della sua vita.

 

Era quasi mezzanotte quando salutarono Karl. L'aria era pungente, la luna piena dominava il cielo scuro.

Elena si strinse a Genzo, mentre camminavano per Marienplatz.

Il freddo era una scusa sempre valida per accostarglisi, e lui non le negava mai il suo braccio passato attorno alle spalle.

«Che ne dici di andare insieme in Giappone per una settimana, dopo le feste natalizie?»

«Volentieri! Così andiamo anche a salutare lo zio. Domani però devi accompagnarmi al mercatino di Natale.»

Genzo alzò gli occhi al cielo e sorrise. «Sissignora.» scherzò, prendendosi in risposta una lieve gomitata.

 

I due ragazzi avevano deciso di comune accordo di trascorrere separatamente la prima parte del periodo festivo. Genzo avrebbe accettato l'invito della famiglia Draxler a trascorrere con loro il Natale, mentre Elena sarebbe tornata a Roma. Lì la ragazza avrebbe trascorso il suo Natale con i genitori e con la nonna paterna, poi sarebbe tornata a Bad Tölz a festeggiare il Capodanno con la famiglia della madre.

Genzo sarebbe forse volato a Londra a raggiungere il fratello, la cognata e i nipoti.

Per nulla al mondo Annie avrebbe rinunciato a trascorrere i giorni di festa con i suoi genitori e sua sorella, che non vedeva da quasi un anno, e nemmeno ad assistere ai fuochi d'artificio sulle rive del Tamigi, tra i rintocchi del Big Ben e le luci, i colori e suoni del Big Eye, e il rito annuale accompagnato dall'ormai storica canzone "Auld Lang Syne".

 

Taro, all'aeroporto "Charles de Gaulle", si stava preparando a salire sul volo per Narita.

Aveva quasi benedetto quella sosta, e non certo perché la prima parte della stagione fosse andata male. Anzi: la realtà aveva superato di gran lunga le sue aspettative più rosee.

Il Paris Saint Germain aveva chiuso il girone d'andata al primo posto e aveva superato senza grosse difficoltà il girone eliminatorio della Champions League.

Taro era diventato uno degli idoli della tifoseria e la sua intesa con Pierre Leblanc aveva dissipato ogni dubbio sulla capacità di coesistere in campo dei due calciatori più talentuosi.

Il giovane giapponese era sempre stato tranquillo su questo e lo aveva dichiarato anche nella conferenza stampa di presentazione: la sua collaborazione con Tsubasa aveva sempre esaltato le abilità di entrambi. Sarebbe stato così anche con Leblanc.

I fatti avevano dato ragione a lui e all'allenatore della squadra campione di Francia.

Anche il cannoniere Louis Napoléon aveva tratto beneficio dalla loro visione di gioco, classe e inventiva: facendosi sempre trovare pronto a ricevere i loro passaggi, aveva segnato in quasi ogni partita. Era in vetta alla classifica dei marcatori di Ligue 1 e della Champions League e contendeva a Karl Heinz Schneider e a Kojiro Hyuga il titolo di giocatore più prolifico in Europa.

I giornali, le emittenti televisive e i siti Internet specializzati si erano riempiti di servizi, articoli e fotografie dedicati alla "corazzata PSG" e soprattutto a quelli che i giornalisti avevano soprannominato, senza troppa originalità, i "quattro moschettieri", comprendendo il centrocampista nigeriano Ochado.

Ma era soprattutto lui, il nuovo fuoriclasse venuto dall'Estremo Oriente, a suscitare la curiosità e l'entusiasmo dei tifosi e degli appassionati. I giornalisti lo cercavano continuamente per intervistarlo, per conoscere sempre più aneddoti sulla sua storia, sulla sua amicizia con gli altri quattro "giapponesi d'Europa" Tsubasa, Wakabayashi, Hyuga e Aoi, e sulla sua vita privata.

Taro non si lamentava. In fondo, aveva lavorato senza risparmiarsi proprio per arrivare lì dove si trovava ora, e se possibile ancora più in alto.

Ma temeva che tutta quella popolarità, giunta in così breve tempo e senza essere molto preparato a gestirla, gli avrebbe dato alla testa, facendogli perdere il contatto con la realtà.

In quei mesi, non aveva lasciato passare un solo giorno senza parlare con suo padre, sua madre o Kumi. Era soprattutto quest'ultima a mancargli: la sua allegria e dolcezza lo avevano aiutato a non lasciarsi travolgere dalla prima ondata di notorietà giunta con le Olimpiadi.

E ogni sera, a casa o in un locale con alcuni amici, si ritrovava a pensare che più o meno in quello stesso momento, Tsubasa trovava Sanae e i loro bambini ad aspettarlo, e Genzo usciva con Elena.

Mentre lui e Kumi erano divisi da migliaia di chilometri e due continenti praticamente interi … forte fu il loro abbraccio, appena sceso dallo Shinkansen che da Narita lo aveva portato alla stazione di Nankatsu. 

 

I due pranzarono a casa dei Misaki, dove Taro ebbe il piacere di vedere un'accresciuta familiarità tra suo padre e Kumi, dovuta certamente al fatto che si erano incontrati altre volte, in quei mesi. Aveva anche notato un netto miglioramento negli ultimi lavori della ragazza, frutto dei consigli datile da Ichiro.

«Sai cos'è successo? Quando ho detto ai miei genitori che avevo un ragazzo, loro mi hanno risposto che sapevano già tutto.» gli confidò lei, mentre la accompagnava a casa.

«Sapevano tutto?»

Kumi sorrise e diede un'alzata di spalle. «Già. Sai com'è: Nankatsu è piccola. Ci hanno visti uscire insieme e così la voce si è diffusa fino ad arrivare a loro.»

«Spero almeno che non abbiano pregiudizi nei miei confronti. So che tuo padre non vede di buon occhio i mestieri considerati "precari".»

Lei scosse la testa. «Mi ha soltanto detto che vuole conoscerti, appena possibile. Ma se temi che abbia qualcosa da obiettare, puoi sempre dirgli quanto guadagni al Paris Saint Germain.» scherzò, con un'aria apparentemente candida.

Taro alzò un sopracciglio. Passò un braccio attorno alle spalle di Kumi e la attirò contro di sé. «Stai diventando impertinente.» finse di rimproverarla, mentre lei rise, fingendo di volersi liberare dalla sua presa.

 

I genitori di Kumi erano entrambi seduti a tavola, intenti a guardare un telefilm alla tv, quando i due ragazzi entrarono in casa.

Taro venne accolto con cordialità sia da Reiko sia da Shinji.

La madre di Kumi si premurò subito di preparare un tè, mentre il padre gli fece alcune domande, inerenti soprattutto il suo lavoro di calciatore.

La conversazione si svolse in un clima disteso e a tratti fu persino divertente, come la ragazza si ritrovò a constatare, piacevolmente sorpresa.

Shinji e Reiko avevano ascoltato Taro con interesse e avevano risposto alle sue poche e discrete domande.

Kumi gioì dentro di sé e la sua soddisfazione traspariva anche all'esterno, poiché i suoi occhi brillarono e le sue labbra faticarono a trattenere un sorriso.

Sul tavolo era appoggiata la rivista edita dalla Uchiyama Shoten, la terza ormai in cui i suoi disegni erano stati pubblicati.

«Hai dato un'occhiata?» chiese a suo padre, facendo cenno con lo sguardo al periodico.

Shinji annuì. «Non disegni male.» fu la sua laconica risposta.

Reiko alzò gli occhi al cielo, mentre Kumi fece una smorfia tra il rassegnato e il divertito.

Taro sospirò sommessamente e fece un lieve sorriso.

«La Uchiyama Shoten punta molto su di lei.» affermò.

Shinji sollevò lo sguardo sul ragazzo e fece un cenno d'assenso.

In realtà, gli aveva fatto uno strano effetto vedere il nome della figlia pubblicato in calce a delle tavole che, doveva ammetterlo, denotavano uno stile pulito, bello da vedere.

«Ci hai pensato tu ad aprirti la strada.» disse poi, rivolto a Kumi. «Anche se volessi, non potrei fare nulla per fermarti.»

«Vuol dire che non cercherai più di dissuadermi, e non dirai più che vado dietro a delle stupidaggini?»

Shinji la guardò, poi chiuse gli occhi e annuì. «Sei mia figlia ed è giusto che mi limiti a vigilare su di te, senza mettermi di traverso.»

«Non mi sembri ancora convinto.» replicò.

«No, non lo sono. Ma è soltanto perché sei ancora giovanissima, con un futuro in costruzione. So che stai studiando con impegno al tanki-daigaku, non stai puntando tutto solo sui manga. Il tempo dirà se sarà quella la tua strada.»

Sul volto di Shinji non c'era più contrarietà né risentimento. Era finalmente, l'espressione di un padre semplicemente preoccupato per il futuro di sua figlia, perché desiderava vederla felice, e non costretta a soffrire per dei problemi evitabili con la consapevolezza che la vita non era una passeggiata di salute per nessuno e con il senso di responsabilità che ciò doveva comportare.

«Grazie papà. Sono felice che tu capisca, anche se ancora non approvi.»

«Sai Kumi, questo tuo ragazzo … mi piace.» affermò guardando Taro, che sorrise di rimando. «È tranquillo, giudizioso, con la testa sulle spalle. Perdonami se ti sono sembrato ostile, ma questo è forse il periodo più difficile per un papà e una mamma che vedono i propri figli diventare grandi. Ogni genitore si chiede cosa sarà dei propri figli, e questo è il periodo in cui decidete cosa fare della vostra vita. Ma le tue scelte mi suggeriscono che posso avere fiducia in te.»

 

Il nuovo anno era arrivato e il terzo giorno del mese aveva portato con sé il ventesimo compleanno di Elena.

Due giorni dopo la festa con famigliari e amici a Bad Tölz, era all'aeroporto di Monaco di Baviera, dove salì sull'aereo che l'avrebbe portata a Narita.

Giunta a destinazione, vi trovò Carlo ad aspettarla.

Il maestro vide l'immagine di una ragazza così bella e radiosa, nonostante la stanchezza dovuta alle molte ore di volo, da rimanerne commosso.

Ricordava l'aria spenta e il sorriso un po' forzato con cui lo aveva salutato poco meno di un anno prima. Si era ripromesso di aiutarla a riprendere in mano le redini della sua vita, ed Elena aveva saputo fare anche di più: una volta smesso di contemplare le macerie del suo passato, aveva costruito una vita tutta nuova.

Appena scioltasi dall'abbraccio di suo zio, Elena notò una figura conosciuta passare accanto a loro, diretta verso l'uscita.

Elena le andò dietro, raggiungendola dopo pochi, rapidi passi.

«Kumi!»

La ragazza si arrestò di colpo e si voltò, con il sorriso luminoso che le apparteneva.

«Elena!» le prese le mani e si lasciò abbracciare.

«Ho accompagnato qui Taro.» le confidò. «È ripartito da poco per Parigi.»

Elena si strinse nelle spalle, dispiaciuta.

«Accidenti. Se fossi arrivata mezz'ora prima, avrei potuto salutarlo.»

«Beh, magari ci ritroviamo tutti insieme la prossima estate, a stagione finita.»

«Sarebbe splendido.»

«È un'ottima idea, e poi ormai il Giappone è la terza casa di Elena.» commentò Carlo, che le aveva appena raggiunte, trascinando con sé il trolley della nipote.

Le due ragazze sorrisero.

«Siete venuti qua in treno?» chiese l'uomo.

Kumi annuì.

«Allora possiamo andare tutti alla stazione, così facciamo il viaggio insieme.» propose Elena, con l'approvazione di entrambi.

 

Genzo passò a prendere Elena a casa nel pomeriggio del giorno seguente al suo arrivo.

Avrebbero cenato insieme a Hiroji e Annie.

Il cielo era bianco e l'aria molto fredda. I meteorologi avevano previsto possibili nevicate, ma i due ragazzi avevano troppa voglia di passare la serata insieme, e Genzo in particolare voleva introdurre Elena nella sua famiglia.

Annie era sempre stata dalla loro parte.

Hiroji, dopo l'iniziale scetticismo per non dire opposizione, si era mostrato disponibile a conoscerla.

Giunti a villa Wakabayashi, Elena venne accolta con un sorriso da Hitomi e con gentilezza da Hiroji, e con affetto da Annie.

Kenichi la salutò con educazione e con un bel sorriso, mentre Aiko dapprima la guardò con un'espressione seria, per poi sciogliersi in una smorfia allegra non appena Elena si inginocchiò davanti a lei e la salutò.

Genzo osservò la scena con compiacimento e soddisfazione: Elena era stata accolta con l'affabilità e simpatia che si era aspettato.

Keisuke, tornato a Boston per trascorrere alcuni giorni di vacanza con alcuni suoi amici, aveva già mostrato e dichiarato a Madrid, la sua approvazione.

Rimanevano solo i suoi genitori, a quanto pareva ancora arroccati sulla loro posizione.

«Non preoccuparti, Genzo. È solo questione di tempo.» lo aveva rassicurato Annie, e il ragazzo in cuor suo sperava di non dover attendere ancora per molto.

 

Dopo nemmeno mezz'ora dall'arrivo, Genzo e Hiroji uscirono in giardino a giocare a calcio con Kenichi che, piazzatosi davanti alla porta con il giubbotto già indossato e il pallone tra le mani, li aveva reclamati a gran voce.

Elena rimase nel salotto con Annie e la piccola Aiko, seduta sul tappeto a baloccarsi con i suoi giochi.

Dall'esterno giungevano le urla e le risate dei tre Wakabayashi, misti all'abbaiare di John.

Le due donne si guardarono e si misero a ridere.

«Manca ancora un po' di tempo alla cena. Ti offro una tazza di tè e un knickerbocker glory.» le propose la giovane inglese.

«Scusa l'ignoranza, ma … cos'è il knickerbocker glory

«Potrei anche descrivertelo, ma con le sole parole non renderei l'idea e soprattutto non gli renderei giustizia.» rispose, facendole un occhiolino prima di sparire in cucina.

Dopo dieci minuti, Hitomi entrò reggendo un vassoio su cui spiccavano due alti bicchieri di vetro contenenti gelato alla crema e frutta disposti a strati alterni, intrisi di sciroppo alla ciliegia e coronati da un'amarena sciroppata e una cialda a spicchio.

Pochi istanti dopo Annie ritornò. Hitomi aveva appena collocato i due bicchieri sul tavolo, ringraziata da Elena.

«È una coppa gelato.» commentò ingolosita.

Annie assentì. «È una delle cose più squisite che esistano. Purtroppo qui in Giappone non riesco a trovare dappertutto locali dove si fanno e così ho imparato a prepararmeli da sola. A proposito, mesi fa ho assaggiato il tuo strüdel: è meraviglioso! Per caso sai fare altri dolci?» le chiese, sedendosi di fronte a lei e brandendo il suo bicchiere.

«Qualche torta e i biscotti.»

«Bene. Se ci stanchiamo di fare le insegnanti, potremo metterci in società e aprire una pasticceria.» scherzò.

«Chissà.» stette al gioco, con un'alzata di spalle e tuffando il lungo cucchiaio nel suo gelato.

 

Poco tempo dopo, mentre chiacchieravano sedute sul divano, Aiko si alzò e si mise a camminare, barcollando leggermente. Ormai aveva imparato a compiere sempre più passi senza cadere, raggiugendo un buon equilibrio.

La bambina piantò le manine sul divano e fece pressione per cercare di salire.

Elena, vedendola sbuffare per lo sforzo, tese le braccia.

«Che c'è, piccolina? Vuoi venire qui?»

La tirò su, delicatamente.

Rise e se la ritrovò in braccio, dove ristette tranquilla.

Annie le guardò, divertita.

«A volte fa così anche con Genzo. Quando lo vede seduto qui, si avvicina e pianta le mani e lo guarda finché lui non se ne accorge e la prende in braccio. E poi se la tiene sul petto finché non si addormenta.»

Elena socchiuse per un breve istante gli occhi e sorrise intenerita nell'immaginare il suo ragazzo mentre teneva la nipotina tra le braccia.

«Sì … le braccia di Genzo danno un senso di protezione.» disse, addolcendo il tono della voce. Poi arrossì leggermente, rendendosi conto di aver rivelato qualcosa di intimo.

Ma Annie sorrise compiaciuta.

«Lui mi ha raccontato quello che sente quando ti vede, quando siete insieme. Ti assicuro che non c'è paragone con quello che mostrava quando era legato ad Asami. Erano belli da vedere, ma niente di più. Ora che ci penso, lui non ne parlava mai.»

Elena sorrise, guardando Aiko che cercava di afferrarle una ciocca dei suoi lunghi capelli. «La nostra storia è iniziata da pochi mesi, e ho una grande voglia di viverla.»

Annie fece un cenno d'approvazione. «A me piace vedere le persone felici, Elena. E tu puoi rendere felice Genzo e lui fare altrettanto con te.»

 

Era quasi l'imbrunire quando Genzo, Hiroji e Kenichi rientrarono dal loro pomeriggio di giochi all'aperto.

Erano tutti e tre ansanti e divertiti, con i giubbotti sporchi di terra e le facce sudate.

«Chi ha vinto?» chiese Annie.

«Che domande. Io, ovviamente.» rispose Hiroji.

«No, io!» obiettò Kenichi.

«Ma cosa state dicendo? Se ve le ho parate tutte.» ribatté Genzo, tranquillamente, suscitando i mormorii e gli scuotimenti di dita del fratello e del nipotino.

Poi si accorse che Elena stava tenendo tra le braccia Aiko.

Quell'immagine gli scaldò il cuore.

Le sorrise intenerito, e la ragazza ricambiò.

«Su, andate a darvi una ripulita, che tra non molto è ora di cena.» li esortò Annie.

La donna, nel vedere Genzo avvicinarsi a Elena, fece segno a quest'ultima di darle in braccio la bambina.

Il giovane ringraziò la cognata con lo sguardo e si chinò sullo schienale del divano, arrivando quasi a sfiorare l'orecchio della fidanzata.

«Tra un quarto d'ora sali in camera mia. È importante.»

 

Elena bussò alla porta della stanza di Genzo all'orario convenuto.

«Cosa devi dirmi?» gli chiese, dopo che l'aveva fatta entrare.

«Ho un regalo per te.» disse, mostrandole una scatola rettangolare, in velluto violetto.

Elena la prese dalle sue mani e la aprì.

I suoi occhi si spalancarono per la meraviglia.

Un braccialetto in oro …

«È bellissimo.» disse.

Lo tolse dalla protezione in ovatta e lo agganciò intorno al polso destro.

Poi passò le braccia attorno al collo di Genzo. «Grazie.» mormorò, per poi dargli un bacio sulle labbra.

Rimasero a guardarsi per alcuni istanti, come a voler esprimere qualcosa che ancora non riuscivano a dirsi con le parole.

«Manca poco, è meglio scendere.» disse lui, a bassa voce ed Elena fece un cenno d'assenso, scostandosi controvoglia e seguendolo al piano inferiore.

 

Quella serata fu motivo di grande soddisfazione per Genzo, e non solo perché Hitomi aveva preparato un'eccellente cena giapponese.

La governante e Annie avevano unito le loro forze e abilità e avevano realizzato una grande, meravigliosa torta alla crema pasticcera, cioccolato e frutti di bosco, con la quale stupirono e quasi commossero Elena, che non si aspettava di festeggiare il suo compleanno anche a villa Wakabayashi.

Sia Hiroji sia Annie l'avevano trattata come una di famiglia. Se per la cognata aveva pochi dubbi, non era altrettanto certo della buona accoglienza del fratello. Era stato gentile, si era informato con discrezione su di lei, aveva ascoltato con interesse i suoi interventi durante la conversazione. Ed era stata pienamente accettata anche dai bambini, soprattutto Aiko che ogni tanto mostrava di volersi fare prendere in braccio da lei.

 

Dopo la cena, si riunirono tutti nuovamente nel salotto.

Elena guardò l'orologio. Il momento del ritorno a casa si avvicinava.

«Papà, guarda come nevica!» gridò Kenichi, eccitato, indicando la finestra.

Hiroji si alzò raggiunse il bambino, seguito da Annie e poi da Genzo ed Elena.

Il giardino era completamente imbiancato e i fiocchi cadevano rapidi.

«Non credo sia prudente incamminarsi, Elena.» disse Annie.

La ragazza guardò fuori dalla finestra. Effettivamente, se fosse stata a casa di suo zio, difficilmente sarebbe uscita: c'era già molta neve per terra e altra ne stava continuando a cadere, nulla lasciava presagire potesse smettere a breve.

«In questa villa ci sono diverse stanze per gli ospiti. Puoi rimanere qui a dormire. Così domattina potrai assaggiare i miei famosi biscotti al burro e scaglie di cioccolato.» disse, strizzandole un occhio.

«Per me non ci sono problemi.» disse Hiroji.

«Neanche per me.» affermò Genzo.

Elena li guardò, a braccia conserte. Poi annuì.

«Va bene. Avviso mio zio.»

Prese il suo smartphone e chiamò Carlo, che approvò subito la decisione della nipote.

Dopo poco, Hitomi le fece strada verso la stanza che Genzo le aveva fatto assegnare.

Era grande e molto bella, con un letto matrimoniale.

C'era un'ampia finestra con dei pesanti tendaggi color crema, e una scrivania appoggiata alla parete opposta. Un ampio armadio e una specchiera erano collocati a poca distanza dal letto, e c'era perfino una porta comunicante con un bagno.

Alle pareti, erano appese alcune antiche stampe giapponesi.

 

In attesa di avere da Annie un ricambio per la notte, fece una lunga doccia.

Aveva da poco finito di spalmare una crema per il corpo, quando sentì bussare alla porta.

Indossò una vestaglia bianca e andò ad aprire.

Trasalì leggermente quando vide Genzo con un pigiama rosa e grigio tra le braccia.

«Aiko fatica ad addormentarsi e Annie è dovuta rimanere in camera, così sono venuto io.» spiegò.

Elena annuì, con un sorriso. Si sentiva stranamente agitata. Prese il pigiama dalle mani di Genzo, ma le scivolò dalle mani e finì per terra.

«Scusami.» disse, inginocchiandosi prima che lo facesse lei e recuperando l'indumento.

«No, figurati. Sono io che ho le mani di pastafrolla.» ridacchiò imbarazzata, prendendolo dalle sue mani e posandolo sul ripiano della specchiera.

Genzo non accennava a muoversi.

Elena lo guardò, ma non disse nulla.

Quella tensione si faceva sempre più forte …

Sulle sue labbra, la smorfia divertita aveva lasciato il posto a un sorriso ammirato, e gli occhi la contemplavano con riverenza e desiderio.

Elena gli sorrise di rimando. Ormai aveva smesso di distogliere lo sguardo, da quando aveva capito che non doveva né voleva più difendersi da ciò che provava per lui.

Genzo chiuse la porta alle sue spalle.

Pochi passi e fu di fronte a lei.

Le afferrò delicatamente le braccia e la attirò a sé.

Si avvicinò con il viso, le loro labbra si unirono.

Genzo prese ad accarezzarle il viso, a sfiorarle il collo e le spalle. Poi percorse quella stessa pelle con le labbra, mentre le mani andarono a sfiorarle i seni e ad accarezzarle i fianchi, facendola fremere.

La sua pelle così chiara … era liscia e morbida, emanava un profumo delicato che gli andò alla testa.

«Elena … mai come in questo momento io …» mormorò rauco, prima di posarle un altro bacio, tra la base del collo e la spalla.

Lei socchiuse gli occhi e sospirò.

Se avesse potuto scrutare all'interno del suo corpo, avrebbe visto il suo cuore pulsare impazzito e il suo sangue scorrere come la rapida di un fiume.

 

 

All alone with you

Makes the butterflies in me arise

Slowly we make love

And the earth rotates

To our dictates

Slowly we make love

 

 

Non cercò di fermarlo quando afferrò uno dei lembi della cintura e lo tirò lentamente, fino a sciogliere il nodo, per poi sfilarla.

La vestaglia si aprì, rivelandogli parte del suo corpo.

Le mise le mani sulle spalle e il sottile indumento di seta cadde, lasciandola nuda.

Percorse il suo corpo con lo sguardo, poi iniziò ad accarezzarlo, come se lo stesse modellando con cura.

Le sue mani erano grandi, e calde.

Elena si accorse di tremare, per il piacere e per l'emozione.

Gli serrò i polsi con le sue dita, costringendolo a fermarsi.

Lui la guardò interrogativo, e vide quel sorriso da monella che ormai gli faceva perdere la testa, distenderle nuovamente le labbra.

«Ti stai prendendo troppi punti di vantaggio.» sussurrò, mentre cominciava a sbottonargli la camicia.

Lui la osservò mentre lo spogliava con lentezza, con occhi traslucidi e assorti.

Fece scorrere i lembi della camicia e la fece scivolare dalle spalle, come aveva fatto con la giacca, qualche mese prima a Madrid.

Gli si accostò e gli accarezzò le spalle e il petto, per poi premere le labbra all'altezza dello sterno. Avvertì i suoi muscoli contrarsi a contatto con la sua bocca.

Sorrise e gli sfiorò la pelle con altri baci.

Genzo fremette. Quel gioco gli provocava eccitazione e impazienza allo stesso momento.

Elena si staccò e sollevò la testa.

Gli sorrise, dolce e seducente a un tempo.

Non voleva più controllare, frenare e respingere le sue sensazioni e i suoi desideri.

Voleva viverli nella loro interezza, relegare ricordi ed esitazioni e lasciare agire soltanto il cuore, che ormai la supplicava di amare e lasciarsi amare di nuovo.

«Voglio fare l'amore con te.» gli soffiò sulle labbra, facendogli udire le stesse parole che lui si era trattenuto dal pronunciare.

A Genzo sembrò che il cuore si fosse fermato nel momento in cui Elena aveva pronunciato quelle parole. Sul suo volto si dipinse un sorriso di pura emozione.

La sollevò e la distese sul letto.

Si liberò degli indumenti che ancora indossava e si stese sopra di lei, che gli accarezzò nuovamente le spalle e il petto, prima di ricevere il suo bacio.

Elena avvertì la bocca di Genzo scendere, iniziando a percorrere il suo corpo, con delicatezza ma anche con l'intenzione di non risparmiarne un solo centimetro.

Raggiunse i seni e vi si soffermò, soprattutto sulle sue sommità.

La sentì ansimare, mentre gli infilava le dita tra i capelli.

Con le dita accarezzò piano le sue cosce, risalendo fino a sfiorare la sua intimità.

Affondò nella sua morbidezza e calore.

Elena inarcò la schiena e soffocò un gemito contro la sua spalla.

La sua bocca scese ancora, sul suo ventre.

Poi avvertì un tocco diverso, per lei completamente nuovo.

Umido e morbido.

Ardente.

Ogni altro tipo di percezione venne annullato. Quasi non sentì nemmeno le sue stesse dita stringersi con forza attorno al lenzuolo.

Poi lui risalì, fino a incontrare di nuovo il suo viso.

La accarezzò dolcemente e la baciò di nuovo, facendo scorrere le mani lungo i fianchi.

Elena gli passò le mani attorno alla schiena e fece scivolare le gambe attorno al suo bacino mentre entrava in lei.

Genzo posò la testa nell'incavo tra la spalla e il collo, beandosi del calore e del profumo del suo corpo, sperando di perdersi dentro di lei il più a lungo possibile.

 

Rimase sdraiato sopra Elena, con il volto affondato tra i suoi capelli.

Era inebriato. Sconvolto. Non avrebbe saputo dare un nome alla sensazione che gli aveva invaso il sangue e il cuore.

Per la prima volta, si sentì privato di ogni energia.

Elena prese ad accarezzargli la nuca.

«Non andare in camera tua. Rimani qui.» gli sussurrò, sfiorandogli la tempia con un bacio.

Lui alzò la testa abbastanza perché vedesse il suo sorriso, dolce come non l'aveva mai visto nessuno oltre a lei.

 

Deboli raggi di luce entrarono nella stanza.

Elena e Genzo dormivano abbracciati, coperti dalle pesanti lenzuola.

Alcuni di essi si posarono sul viso della ragazza, svegliandola.

Aprì piano gli occhi, focalizzando il volto di Genzo, ancora addormentato.

La sua espressione era così serena e persino dolce, che non si sentì di svegliarlo.

Lo contemplò, pensando alle sensazioni vissute poche ore prima: così intense da poterle descrivere solo con una serie di aggettivi … si era sentita amata, desiderata e voluta nel corpo oltre che nello spirito.

Gli accarezzò piano una tempia, poi mise a sedere sul letto e raccolse le gambe contro il petto. Guardò fuori dalla finestra.

Aveva lasciato le tende discoste, constatò con una piccola smorfia divertita, appoggiando il mento su una mano.

Il cielo era di un azzurro molto chiaro e aveva smesso di nevicare.

Si alzò e si avvicinò alla finestra.

Il sole brillava sopra un giardino coperto da un grande manto bianco, in cui John quasi si confondeva.

«Genzo! Guarda che meraviglia!» esclamò spontaneamente, facendolo svegliare.

Il ragazzo si tirò su, facendo scivolare il lenzuolo dal suo petto. Si passò le dita tra i capelli e sugli occhi e si voltò verso la giovane insegnante.

«Quale? Quella affacciata alla finestra o quella fuori?» chiese, con un sorriso malizioso.

Elena arrossì, rendendosi conto solo in quel momento di essere completamente nuda.

«Tutti uguali voi uomini. Quando vedete una donna nuda vi mettete a fare i buffoni.» gli rinfacciò, cercando di nascondere l'imbarazzo.

Genzo sogghignò e si alzò dal letto, offrendole a sua volta la sua immagine senza veli. «Mentre voi donne commenti non ne fate mai, vero?» la punzecchiò.

Elena per tutta risposta, gli fece una linguaccia.

Genzo era sempre più divertito dal suo atteggiamento. Adorava quando faceva la risentita, ed era certo che lei lo avesse capito.

Fosse stato per lui, l'avrebbe afferrata e stesa di nuovo sul letto.

Ma l'orario segnato sulla sveglia digitale posata sul comodino lo sconsigliava.

«Meglio prepararci e scendere. Se siamo fortunati troviamo Annie e Hitomi che preparano la colazione.»

«Prima mi serve una doccia.» ribatté però lei, allontanandosi dalla finestra e accostandosi al letto. Poi lo fissò.

«A te no?» aggiunse, con una smorfia da monella.

Genzo sorrise e lasciò cadere sul letto gli indumenti che aveva appena recuperato.

La colazione poteva attendere qualche minuto in più …

 

Fortunatamente quando arrivarono, nessuno era seduto a tavola.

C'erano stati dei contrattempi, dovuti al fatto che Hiroji e Kenichi erano andati a giocare con la neve, con John che si divertiva a fare da disturbatore.

Hitomi e Annie erano ancora indaffarate nei preparativi ed Elena si offrì di dar loro una mano, unendosi all'andirivieni tra salotto e cucina.

«Buongiorno.» esordì Genzo.

«Ah, sei a casa Genzo? Avevo visto la tua stanza vuota e pensavo fossi uscito a correre.» lo accolse la cognata. Poi guardò alternatamente lui ed Elena e sorrise a entrambi.

Genzo chiuse gli occhi e sorrise di rimando, Elena fece altrettanto ma arrossendo leggermente.

Nel frattempo, Hiroji e Kenichi erano rientrati.

Il dirigente si tolse il giubbotto e la sciarpa e strizzò un occhio a Genzo.

Elena e Annie si rivolsero vicendevolmente una smorfia di rassegnazione.

Uomini …

  

Yasuhiro rientrò nella stanza in cui alloggiava con la moglie, in un ryokan di Kurokawa.

Il loro soggiorno alla stazione termale nell'isola di Kyushu era ormai agli sgoccioli.

I rapporti con gli Ujimori si erano fatti più freddi e tesi in quegli ultimi mesi, dopo la rottura tra Genzo e Asami.

La giovane ereditiera sosteneva di essersi sentita comunque tradita, anche se durante la loro storia non c'erano stati rapporti fisici tra il suo ex fidanzato ed Elena.

Era un'umiliazione il fatto di essere stata lasciata per una ragazza di ceto sociale inferiore, straniera, che aveva usato chissà quali arti sottili per sedurlo.

Yasuhiro, pur disapprovando la scelta del figlio, non se l'era sentita di schierarsi contro di lui, cosa che aveva irritato i suoi amici e soci.

Le prese di posizione di Annie e Keisuke, seguiti da Hiroji e il rifiuto di Mariko di inimicarsi il figlio minore lo fecero esitare.

Lui e Genzo avevano sospeso i contatti da quattro mesi ormai, da quel pomeriggio di settembre. Ne soffriva, doveva ammetterlo.

Non aveva mai smesso di avere sue notizie tramite Mikami, Hiroji e Keisuke.

E a quanto sembrava, la storia con quella ragazza continuava. Quello che era portato a credere fosse stato un colpo di testa aveva l'aria di essere invece un legame serio.

Lo stesso Mikami gli aveva confidato che Genzo era innamorato di quella ragazza, al punto da voler costruire qualcosa di importante, con lei ed era stato lui il primo a informarlo della sua presenza a villa Wakabayashi.

«Io torno a Nankatsu. Voglio rivedere Genzo e conoscere quella ragazza.» affermò Mariko, risoluta.

Yasuhiro la guardò, senza rispondere.

«A quanto mi hanno raccontato Mikami, Hiroji e Annie, si sono conosciuti quasi un anno fa, quindi non è una storia nata così, all'improvviso. E poi Genzo non affronta niente a cuor leggero. Se l'ha portata nella nostra casa significa che ha intenzioni serie.»

«O che quella ragazza è particolarmente abile.» replicò lui, meno convintamente che in passato.

Mariko sospirò, spazientita.

«Devi essere realista, Yasuhiro. Genzo condivide ormai da mesi la sua vita con lei. Nostro figlio non è mai stato uno sciocco e nemmeno un ingenuo. Si vede che c'è un legame solido a unirli, e se lei è una brava ragazza che studia e lavora per mantenersi, perché dovremmo vedere la loro relazione come una cosa negativa?»

Yasuhiro strinse la mascella e congiunse le mani.

«Almeno incontrala, prima di giudicarla e di farti delle idee così avverse su di lei.»

L'imprenditore alzò gli occhi sul volto dall'espressione risoluta di sua moglie.

Perfino lei, sempre discreta e spesso in sintonia con lui, aveva preso posizione in favore della relazione tra quei due ragazzi.

Una relazione nata dall'amore e non dall'interesse o per un vecchio capriccio, o ancora per consolarsi da una delusione, come aveva affermato Annie la sera di un mese prima, in cui l'aveva affrontato.

 

«Hiroji aveva pochi anni in più di Genzo. Faceste obiezioni quando lui vi disse che intendeva sposare me?»

«No.» ammise.

«Esatto. Perché venivo da una famiglia più che benestante, ero figlia di un consulente finanziario e sapeva che non ci avrebbe perso nulla. Anzi, i suoi affari in Europa ci hanno guadagnato, grazie ai consigli di mio padre. Elena Rulli no, invece, è figlia di un operaio e di una commessa di supermercato, che degradazione per la famiglia Wakabayashi!»

Yasuhiro alzò un sopracciglio.

«Non mi aspettavo questa presa di posizione da te, Annie. Stai difendendo una ragazza che ha rubato il fidanzato a un'altra.»

Annie alzò gli occhi al cielo. «Ve l'ha detto anche Genzo, che non è andata così. E se la mettete in questi termini, allora anch'io ho rubato il fidanzato alla figlia di quell'avvocato. Ma a parte qualche piccola remora all'inizio, non mi ricordo vi siate stracciati le vesti, per il motivo che abbiamo detto, purtroppo.»

«E quanto agli Ujimori … beh, se riescono a buttare a mare quarant'anni di amicizia per questo, allora dal mio punto di vista è meglio perderli che trovarli. Genzo non ha mai promesso nulla né ad Asami né a loro.»

 «A te quella ragazza è simpatica perché ti rivedi in lei.» replicò l'imprenditore, dal cui atteggiamento traspariva una certa esitazione, come se Annie fosse riuscita a scalfire le sue convinzioni.

«Di certo ho maggiori affinità con Elena che con Asami. Siamo due europee conquistate dalla cultura giapponese, per esempio. Abbiamo diverse cose in comune. In ogni caso, ciò che davvero è decisivo è l'amore di Genzo per lei. Proprio come lo è stato quello di Hiroji per me.»

«Inoltre» continuò la nuora «lei non si è mai opposto a che Genzo frequentasse persone di una classe sociale inferiore alla sua, altrimenti non gli avrebbe mai permesso di praticare uno sport come il calcio, cui lo ha avviato uno dei suoi migliori amici, Tatsuo Mikami. Che lei ha conosciuto quando era impiegato nella sua azienda. Un giovane e umile sarariman

 

Era impossibile negare che Annie gli avesse detto cose veritiere.

E ora anche Mariko gli imponeva di dare una possibilità a quella ragazza … a Elena Rulli.

Si mise di fronte all'armadio. Aprì le ante e cominciò a tirare fuori gli abiti da indossare l'indomani.

 

A villa Wakabayashi erano tutti riuniti in salotto a guardare e commentare un film, quando sentirono il suono del grande cancello automatico che cominciava ad aprirsi.

Kenichi e Aiko erano ancora a letto, per il sonnellino pomeridiano.

Pochi minuti dopo, Hitomi tornò dal portico, seguita da Yasuhiro e Mariko Wakabayashi.

Tutti alzarono la testa. Annie e Hiroji si scambiarono un'occhiata.

Gli occhi dei due signori si posarono su Genzo ed Elena.

Il portiere fece cenno alla sua ragazza di alzarsi. Le passò un braccio attorno alla schiena e la condusse verso di loro.

La presentò ai genitori, come sua fidanzata.

«Piacere di conoscervi, Wakabayashi-sama.» esordì lei, facendo un inchino.

La madre di Genzo era una bella donna minuta e di bassa statura, con i capelli castani raccolti in uno chignon. La guardava con occhi neri incuriositi e un sorriso gentile.

Anche il signor Wakabayashi era un bell'uomo, per la sua età. Di statura imponente e corporatura robusta, i lineamenti del viso marcati e severi. Il suo sguardo penetrante e altero la stava esaminando con attenzione, deciso a capire il motivo per cui il suo erede più giovane aveva preferito lei a una ragazza bellissima, sofisticata e altolocata come Asami.

Da parte sua, Yasuhiro dovette ammettere di avere di fronte a sé una ragazza avvenente, molto diversa dalla giovane Ujimori e quindi non paragonabile dal punto di vista estetico.

Un po' più alta della media, vestita semplicemente con un paio di jeans blu e un maglioncino a girocollo viola. Era educata, aveva un portamento aggraziato ed era una buona conoscitrice delle convenzioni e delle norme di cortesia della società giapponese. E soprattutto, per nulla intimorita.

In un'altra situazione, poteva essere abbastanza per far vacillare le sue idee.

Yasuhiro Wakabayashi era un uomo orgoglioso e tradizionalista, ma non era cieco al punto di negare che quella ragazza non sfigurava accanto a suo figlio.

I quattro si accomodarono sui divani, sedendosi di fronte, sotto lo sguardo attento ma discreto di Hiroji e di Annie.

Yasuhiro cominciò a porre alcune domande a Elena, alle quali lei rispose con serenità.

Mariko interveniva, di tanto in tanto.

Poi la conversazione cominciò a vertere sul rapporto della ragazza con il mondo del lavoro e con i soldi, l'argomento che più interessava trattare al signor Wakabayashi.

«Non ho particolari complessi verso chi è più abbiente di me. In famiglia mi hanno sempre insegnato a non vergognarmi di me stessa e delle mie origini. E che se avessi studiato e lavorato duramente, avrei potuto costruirmi un futuro migliore.»

Yasuhiro fece un cenno d'assenso.

«L'idea di dipendere economicamente da qualcuno mi terrorizza.» soggiunse ancora Elena, proprio mentre lui stava per porle un'altra domanda.

L'uomo, colpito da quella affermazione, alzò un sopracciglio. «Addirittura?»

La giovane annuì, convinta. «Se ho un buon titolo di studio, un buon lavoro e un reddito posso considerarmi una persona indipendente. E anche Genzo lo è. Se c'è bisogno ci si aiuta, ma ognuno conserva la propria autonomia. Suo figlio mi rispetta, mi appoggia e mi sostiene. E anche quando non è d'accordo, non cerca mai di impormi il suo punto di vista.»

 

Genzo raggiunse suo padre, in piedi sul portico a osservare il giardino finalmente illuminato da un bel sole invernale. Una mano in una tasca della pesante giacca, l'altra che reggeva una pipa.

Era orgoglioso di come Elena aveva affrontato quella situazione, capitata in modo improvviso e inaspettato.

«Sei ancora fermo sulle tue posizioni?» gli chiese, senza troppi preamboli, come lui gli aveva insegnato a fare.

«Se ti dicessi che non mi ha fatto una buona impressione, mentirei Genzo, e mi dimostrerei più ottuso di quanto tu avrai certamente creduto.» rispose, con un lieve sorriso, che il giovane ricambiò, suo malgrado.

«E quanto a tua madre … beh, credo si possa intuire, come la pensa.» affermò, guardando verso il salotto in cui Mariko era rimasta a dialogare con Elena.

 

Era ormai quasi mezzanotte. Hiroji e Annie erano da poco saliti nella loro stanza.

I signori Wakabayashi erano ripartiti per Tokyo poco prima del calare della sera, preferendo lasciare i figli e le loro donne da soli.

Genzo ed Elena erano in piedi al centro del salotto, indisturbati poiché anche Hitomi si era ritirata nella sua camera.

«Sei stata splendida, con i miei genitori. Soprattutto con papà, che non è un tipo facile da convincere.»

«Ero pronta anche a dirgli che ho fatto la ballerina in una discoteca, se fosse servito a convincerli che non punto ai tuoi soldi.»

«Temo che avresti rovinato tutto.» commentò, perplesso.

Elena diede un'alzata di spalle. «Come ho detto anche a tuo padre, io non mi vergogno delle mie origini, né delle mie scelte.»

«Dici che sono orgoglioso, ma anche tu non scherzi.» sorrise. Le mise le mani sui fianchi e la attirò a sé.

«Ti dispiace?» replicò lei, passandogli le braccia attorno al collo. La sua voce si era fatta poco più di un sussurro. Le sue labbra sfiorarono quelle di Genzo.

Lui chiuse gli occhi e colmò quella lievissima distanza.

La cinse con le sue braccia e approfondì il contatto, perdendosi nella dolcezza e nel calore della sua bocca.

Quando si staccarono, gli occhi di Genzo si posarono sul grande mobile appoggiato alla parete di fronte.

Sulle mensole erano allineati dei bellissimi vasi in ceramica attraversati da strisce irregolari in oro e argento, alcuni dei quali erano stati ridotti a dei cocci in un periodo collocato tra dieci e vent'anni prima, come non mancava di sottolineare sua madre ogni volta che ne parlava. Era evidente il riferimento all'infanzia dei suoi tre figli.

Se avesse dovuto definire la storia tra lui ed Elena con una parola, avrebbe scelto kintsugi.

Le loro vite precedenti erano state sconvolte da rotture inaspettate. Avevano subìto due separazioni che avevano spezzato il cuore e mandato in frantumi tutte le loro certezze. Erano entrambi arrivati in Giappone per ricostruire la loro vita. E si erano ritrovati a raccogliere i frammenti della loro vita precedente e a realizzare una nuova opera, insieme.

 

 

 

 

***Note***

 

  

In Italia si usa l'espressione "campione d'inverno" per indicare la squadra che conclude al primo posto il girone d'andata del campionato nazionale.

In Germania, l'espressione corrispondente è Herbstmeister, che letteralmente significa "campione d'autunno".

 

I Draxler sono la famiglia di Amburgo che accoglie Genzo dopo che Mikami ha deciso di ripartire per il Giappone. Grazie a loro, il futuro SGGK si è integrato nella società e nella cultura tedesche e ha imparato a comunicare nella nuova lingua.

Sono tra i personaggi introdotti da Takahashi in "Rising Sun".

 

Auld Lang Syne: è una canzone tradizionale scozzese diffusissima nei paesi di lingua inglese, dove viene cantata soprattutto nella notte di Capodanno per dare l'addio al vecchio anno e in occasione di congedi, separazioni e addii (per esempio dai compagni di classe alla fine di un corso di studi, o dai commilitoni al termine del servizio militare, o dai colleghi di lavoro in occasione del pensionamento, o ancora per salutare gli amici conosciuti in vacanza al momento del rientro).

Il titolo della canzone è un'espressione scozzese ormai accolta nei dizionari della lingua inglese, dove è tradotta letteralmente come "old long since", o, in modo meno letterale ma più corretto, "the good old days" nel senso de "i bei tempi andati".

Il testo è un invito a ricordare con gratitudine i vecchi amici e il tempo lieto passato insieme a loro.

In Italia è nota come "Valzer delle candele".

Fonte: Wikipedia

 

Il knickerbocker glory è un gelato a strati (in inglese sundae) molto elaborato e servito in alti bicchieri di vetro a forma conica, e un lungo cucchiaio con cui mangiarlo.

Gli strati possono includere frutta secca (noci, nocciole), meringhe, frutta, biscotti o cioccolato, guarniti con panna montata a sua volta decorata con una ciliegia sciroppata o simili.

Fonte: foodsonengland.co.uk

  

Ultima strofa di "Sign Your Name" ad accompagnare il primo incontro d'amore tra Genzo ed Elena.

Questa è la traduzione:

 

Stare solo con te

Mi fa mancare il fiato

facciamo l’amore piano

E la terra gira

al nostro ordine

facciamo l’amore piano

 

Kintsugi è una parola giapponese che significa "riparare con l'oro".

Si riferisce alla pratica di riparare oggetti (vasellame, statue e così via) specialmente in ceramica, usando oro o argento liquido oppure lacca con polvere d'oro per saldare assieme i frammenti. La tecnica (come si legge su Wikipedia) permette di ottenere degli oggetti preziosi sia dal punto di vista economico (per via della presenza di metalli preziosi) sia da quello artistico: ogni ceramica riparata presenta un diverso intreccio di linee dorate unico ed irripetibile per via della casualità con cui la ceramica può frantumarsi. La pratica nasce dall'idea che dall'imperfezione e da una ferita possa nascere una forma ancora maggiore di perfezione estetica e interiore.

Il risultato è dare una nuova vita all'oggetto andato in pezzi, impreziosendolo appunto con questi inserti, anziché gettarlo.

Questo, e la considerazione finale di Genzo, spiegano anche il concetto che ha dato il titolo all'intera fanfiction.

Aggiungo due link, per chi volesse approfondire la conoscenza di quella che non è solo un'interessantissima tecnica, ma soprattutto una vera e propria filosofia di vita da cui, secondo me, c'è molto da imparare.

 

E non finisce qui …

Domani, al massimo dopodomani pubblicherò quello che doveva essere l'epilogo … ovvero il capitolo 28 con un epilogo più breve.

A presto, quindi!

Sandie

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Capitolo 28
*** Capitolo XXVIII - Insieme ***


Capitolo XXVIII

 

Insieme

 

 

 

Genzo accarezzò il volto di Elena, illuminato dalla luce lunare che filtrava attraverso le imposte semiaperte della stanza d'albergo in cui si trovavano, a Roma.

I capelli biondi sparsi sul cuscino. Il volto sudato, ancora trasfigurato dal piacere.

La loro intesa era cresciuta sempre più in quei mesi, dopo che avevano cominciato a viversi anche sotto quell'aspetto.

Gli imbarazzi e le esitazioni si erano via via attenuati e diradati, fino a sparire.

Non c'era zona del corpo in cui non l'avesse lambita, con le mani o con la bocca.

E lei, dopo un periodo di leggero impaccio, in cui si era lasciata soprattutto guidare, aveva cominciato a giocare con maggiore disinvoltura con quel lato di sé che lui le aveva fatto scoprire, ogni volta di più.

Le posò un bacio su una spalla e poi adagiò la testa sul suo petto e chiuse gli occhi.

Lei gli passò le braccia attorno alla schiena e gli accarezzò piano i capelli, intenerita e sorpresa allo stesso tempo.

Che fosse Genzo Wakabayashi a posarle la testa sul petto chiedendole tacitamente di cullarlo, forse persino confortarlo … aveva sempre pensato fosse lui il più forte nella coppia e lei ad avere più bisogno di sostegno e protezione.

Era lui che la consigliava, la spronava e la riportava alla ragione nei momenti in cui vedeva tutto nero e stava per scoppiare.

Il suo percorso universitario e lavorativo era stato fin lì degno di quello di Genzo in Bundesliga, Champions League e Coppa di Germania: stava sostenendo i suoi esami nei tempi previsti e con ottime valutazioni. Insieme a Gabriele stava preparando le sue allieve del corso di ginnastica artistica per le gare del Land della Baviera, e sperava in un buon piazzamento. Non aveva trovato un'Arimi tedesca, ma era un gruppo di ragazze appassionate e con una grande voglia di imparare.

Genzo si era ormai adattato alla sua nuova vita a Monaco, dopo i primi mesi in cui aveva cercato anzitutto di non lasciarsi schiacciare dalle aspettative con cui era stato caricato un po' da tutti, chi apertamente, chi in modo implicito.

Con lui in porta, i dirigenti e i tifosi si aspettavano la Champions League, oltre all'ennesima riconferma in Bundesliga. Era stato acquistato proprio per completare la squadra, per renderla imbattibile anche a livello continentale e mondiale.

Quelle spalle così larghe e quel fisico solido e possente sembravano fatti per sopportare qualsiasi peso. Così pensava chi lo conosceva in modo superficiale.

Ma lei poteva dire di aver conosciuto l'uomo e non solo il calciatore. E di conseguenza, anche quelle fragilità invisibili a chi considerava solo l'immagine pubblica di Genzo Wakabayashi, il Super Great Goal Keeper.

Pensò ai suoi racconti di quando era arrivato in Germania, le difficoltà incontrate nel doversi adattare a una società diversa, a un'altra cultura e lingua. La lotta quotidiana per essere accettato dai nuovi compagni di squadra, che lo avevano osteggiato dapprima per le sue origini giapponesi, poi per paura che potesse diventare titolare, visto che Schneider aveva intuito il suo potenziale e lo stava aiutando a farlo emergere.

In quei giorni difficili non aveva mai potuto rifugiarsi nell'abbraccio di sua madre, specie dopo che era stato selvaggiamente e vigliaccamente picchiato dal portiere delle giovanili e da altri tre compagni di squadra. E poi, gli altri momenti critici che si era trovato a vivere nella sua carriera, contando solo su sé stesso per superarli.

In fondo, anche dopo la fine brusca e dolorosa della sua lunga avventura amburghese aveva cercato conforto, in qualche modo. La sua famiglia, i suoi amici d'infanzia, la storia con Asami.

Doveva essersi sentito perduto, in quel periodo …

Avrebbe voluto sussurrargli qualcosa, ma non disse nulla. Non ce n'era bisogno, né lui le aveva chiesto di farlo.

Genzo poteva mostrarle il suo lato più fragile e umano, senza vergognarsi o temere di non essere capito.

Se l'amore era affetto e fiducia reciproca, allora il legame che li univa si stava consolidando, giorno dopo giorno.

 

Erano arrivati a Roma poche ore prima, dove Genzo avrebbe finalmente conosciuto i genitori di Elena.

Avevano avuto giusto il tempo di sistemarsi nella stanza d'albergo prenotata da un paio di settimane, e poi erano bastati un'occhiata e uno sfiorarsi di mani per finire l'uno tra le braccia dell'altra.

La ragazza pensava di aver scelto il periodo giusto per farli incontrare: passare qualche giorno di vacanza insieme avrebbe dato a Genzo quella serenità indispensabile per affrontare quell'impegnativo scorcio di stagione.

Mancavano pochi punti alla vittoria aritmetica del Meisterschale, anche se proprio per questo nessuno, nel Bayern, si sognava di abbassare la guardia. E soprattutto, le semifinali di Champions League, che per ironia della sorte e forza delle rispettive squadre, avrebbe messo l'uno contro l'altro le quattro stelle della Nazionale giapponese: Tsubasa avrebbe sfidato Genzo con il suo Barcellona, Taro avrebbe affrontato Hyuga che con i suoi gol aveva trascinato la Juventus a un passo dall'ultimo atto.

 

Era ormai aprile e Roma era baciata da splendide giornate di sole.

Giunsero davanti all'appartamento della famiglia Rulli in tarda mattinata.

Ad aprire la porta fu la madre di Elena, che la accolse con un abbraccio. Poi alzò gli occhi, azzurri come quelli della figlia, e gli strinse la mano.

«Piacere di conoscerti, Genzo.» gli disse, in tedesco.

Il portiere ricambiò il suo saluto e la guardò con ammirazione. Era molto bella e fine nei modi. Con ogni probabilità Elena avrebbe avuto quel volto, alla sua età.

«Vieni, ti presento mio marito. Valerio, è arrivata Elena con il suo fidanzato!»

Nel salotto comparve un uomo non molto alto, piuttosto corpulento, con uno sguardo sveglio e vispo.

«Finalmente vi vedo insieme dal vivo.» commentò con ironia, nel suo bizzarro e un po' claudicante tedesco dall'accento romano, riferendosi alle fotografie apparse sulle riviste di gossip tedesche e italiane, per via della nazionalità della "ragazza che aveva fatto perdere la testa al SGGK".

Lo salutò con una stretta di mano e gli mise le mani sulle spalle.

«Ci credo che prendi pochissimi gol. Uno come te incute soggezione solo a vederlo tra i pali della porta.» commentò, facendogli un occhiolino.

Genzo sorrise, divertito.

I signori Rulli erano come la figlia: non avevano atteggiamenti affettati e cerimoniosi, né mostravano inutili complessi di inferiorità o ansia di piacergli. Nessun compiacimento né presunzione per il fatto di avere una figlia fidanzata con un calciatore famoso, e parlavano del suo lavoro quasi come se fosse un'occupazione qualsiasi. Valerio in particolare, dimostrò di essere un ottimo intenditore di calcio, ed Elena doveva certamente a lui la sua passione per quello sport.

Erano persone semplici e lo stavano trattando come uno di loro, proprio come aveva fatto Carlo, quando l'aveva conosciuto nella palestra Shiroyama.

E come avevano fatto anche i nonni e gli altri zii di Elena, nelle ormai diverse volte in cui aveva pranzato con loro a Bad Tölz. Solo il piccolo Sebastian lo considerava una specie di semidio, ma dal punto di vista di un dodicenne tifoso sfegatato del Bayern era comprensibile. Ricordava la sua espressione sbalordita e incantata quando, insieme a Elena, si era presentato al centro di allenamento di Säßener Straße, per conoscere i giocatori della sua squadra del cuore, in particolare Schneider, il suo idolo di sempre.

Lo disse a Elena, quando lasciarono la sua casa per portarlo a fargli visitare un po' la città. I suoi genitori e parenti lo facevano sentire parte della loro famiglia.

Di quel viaggio avrebbe ricordato un momento in particolare.

Seduti sulla Fontana di Trevi, Elena gli fece una domanda apparentemente strana.

«Sai perché si usa gettarvi una moneta?»

«Certo. È la promessa di ritornare a Roma.»

Elena assentì. «Non tutti sanno però che si deve esprimere un desiderio, mentre si lancia la moneta. Se lo si fa, questo ha grandi probabilità di avverarsi.»

Lui chiuse gli occhi e scosse leggermente la testa, con un sorriso. «Non credo molto a queste cose.»

Elena sorrise di rimando. «Tentare non nuoce. Dai, provaci.» lo esortò, dandogli una moneta.

«E va bene.» concesse, aprendo il palmo della mano. Si girò e chiuse gli occhi, e compì il lancio.

Elena ridacchiò e gli passò un braccio attorno al suo.

«Quando l'hai buttata, ho espresso anch'io un desiderio. Sono convinta che è uguale al tuo.» mormorò, con un ammicco.

 

La prima semifinale vide opposte il Barcellona e il Bayern Monaco.

Dopo tanti anni, finalmente Tsubasa e Genzo rinnovavano la loro sfida personale.

L'andata, disputatasi in Germania, era finita a reti inviolate, rimandando ogni risoluzione alla gara di ritorno.

L'incontro iniziò in salita per la squadra tedesca.

Dopo venti minuti in cui le due compagini si erano esaminate a vicenda, un intervento in difesa di Payol diede avvio a una rapidissima azione dei blaugrana. Grandios ricevette il pallone poco prima della linea di metà campo e passò a sinistra, verso Rivaul. Quest'ultimo lanciò il pallone a Tsubasa, che anticipò l'intervento di Magath e calciò verso Luikal, che era scattato in avanti.

Genzo tentò un'uscita, ma l'attaccante olandese passò nuovamente il pallone al giovane giapponese, che nel frattempo si era avvicinato ed era giunto praticamente a tu per tu con il suo vecchio amico e rivale. Tsubasa finse di calciare con il piede sinistro, ma poi colpì il pallone con il destro, spiazzando Genzo.

Il Barcellona passò così in vantaggio, grazie a un'astuta finta di Tsubasa.

Il portiere del Bayern Monaco digrignò i denti e assestò un pugno sul terreno di gioco, irritato con sé stesso per essersi lasciato ingannare.

Fece un profondo respiro, cercando di calmarsi.

Non doveva e non voleva più ricadere in quell'errore di mentalità che lo aveva messo nei guai un anno e mezzo prima: l'intima convinzione di non avere più nulla da imparare.

Il kickboxing, uno sport in cui la scaltrezza e l'autocontrollo contavano moltissimo, gli aveva insegnato anche questo.

Si rialzò e si riposizionò tra i pali della porta, con rinnovata fiducia e concentrazione.

Nelle successive azioni del Barcellona, attese ogni volta l'ultimo passaggio, prima di intervenire. Diede istruzioni ai difensori e ai centrocampisti affinché formassero una rete che impedisse ai campioni di Spagna di avvicinarsi all'area di porta.

Tsubasa, Rivaul e gli altri giocatori furono così costretti a tentativi da fuori area.

Anche Schneider retrocedeva verso il centrocampo in copertura, se necessario.

A tre minuti dal termine del primo tempo, il tedesco mostrò la sua forza e capacità di calcolo sottraendo il pallone a Tsubasa.

Karl avanzò dalla trequarti fino all'area di rigore del Barcellona, inesorabile come un carro armato. Con un tiro preciso infilò il pallone nella parte sinistra della porta lasciata incustodita da Valtes, che aveva tentato una precipitosa uscita.

Il pareggio turbò i giocatori della squadra spagnola, convinti di avere costretto il Bayern a giocare una partita tutta in difesa, subendo le loro iniziative. Inoltre, era un risultato che qualificava proprio gli avversari.

Nel secondo tempo, il ritmo della partita scese, soprattutto da parte dei giocatori della squadra di casa, che avevano speso molte energie nei primi quarantacinque minuti di gioco.

Il Bayern ne approfittò dapprima con Levin che, con una serie di finte, sfuggì alla marcatura dei difensori e segnò con un tiro di straordinaria potenza.

A distanza di pochi minuti, arrivò la doppietta di Schneider, con un siluro da metà campo che gli avversari quasi non scorsero.

Karl strinse i pugni e alzò un indice al cielo, memore delle giornate dedicate a mettere a punto quel tiro con cui era riuscito, dopo tanto tempo, a battere Wakabayashi in allenamento.

Quel gol fiaccò ulteriormente il morale del Barcellona. I gol da segnare per riagguantare la qualificazione erano diventati tre … e mancavano solo sette minuti.

E in porta c'era Genzo Wakabayashi, che in quella stagione non aveva mai subìto più di due gol in una partita e aveva trovato il modo di imbrigliare le azioni degli avversari.

Sarebbe servita più di un'invenzione, ma nemmeno Tsubasa sapeva più cosa escogitare contro l'unico giocatore che non gli era mai riuscito di sconfiggere.

Quegli ultimi minuti furono poco più di un conto alla rovescia.

 

«Elena, siamo in finale!» esultò Angelina, abbracciando la cugina, che aveva i pugni stretti dalla gioia.

Vide Genzo sorridere soddisfatto e scambiare strette di mano e pacche sulle spalle con i suoi compagni, per poi fermarsi a parlare con il suo amico e rivale di sempre, Tsubasa.

Ora toccava al Paris Saint Germain superare l'ultimo ostacolo sul fin lì strepitoso percorso verso la finale: la Juventus, che quel trofeo lo agognava da anni.

Sarebbe stato fantastico vedere Genzo e Taro affrontarsi nello stadio di Wembley, sotto gli occhi suoi e di Kumi.

 

Tsubasa batté una pacca sulla spalla di Genzo, che aveva appena scambiato la consueta, energica stretta di mano con Schneider.

«Non c'è niente da dire. Siete i più forti.»

«Il più forte è quello che vince. E noi non abbiamo ancora vinto nulla.» replicò Karl.

Il fuoriclasse giapponese lo guardò e fece un cenno d'approvazione.

«Devo rivelarti una cosa, Wakabayashi.» disse poi, mentre Schneider si dirigeva verso la panchina.

«Un segreto?» rispose Genzo, con un mezzo sorriso.

Tsubasa ridacchiò. Wakabayashi stava vivendo un periodo felice, sia sotto il punto di vista professionale sia sotto quello affettivo.

La storia con Elena aveva accentuato quel lato scherzoso che già possedeva. E lo aveva reso ancora più determinato e tenace in campo.

«Ho evitato di dirtelo prima perché la scorsa estate ti ho visto molto combattuto, e non volevo influenzare la tua decisione. Ti ricordi quel sogno che Sanae aveva fatto durante il nostro viaggio dal Brasile verso l'Europa? Beh … la casacca che indossavi tu era proprio quella del Bayern Monaco.» gli svelò.

Genzo spalancò gli occhi, sorpreso ma anche divertito. «Pensa un po' … Sanae preveggente.»

«Già.»

«Allora il nostro scontro in una finale di Champions è soltanto rimandato.» affermò, strizzandogli un occhio.

Tsubasa annuì. «Poco ma sicuro. Stasera ho capito che sei tu la mia vera bestia nera. E potrò ritenermi il calciatore più forte al mondo solo dopo averti battuto.»

«Allora credo che quel momento arriverà tra molti anni. Forse.» lo punzecchiò, per poi passargli un braccio attorno alle spalle, con una risata, a mostrare la grande amicizia che li legava, oltre ogni rivalità.

 

La sera successiva, nell'altra semifinale, il Paris Saint Germain batté la Juventus.

I campioni d'Italia, che avevano vinto per 1-0 nell'andata disputata a Torino, si portarono in vantaggio dopo pochi minuti con una cannonata di Hyuga, ma nel secondo tempo i francesi reagirono, dapprima ristabilendo la parità con un potentissimo tiro di Napoléon, analogo a quello dell'attaccante giapponese, e passando poi in vantaggio con una triangolazione tra Misaki, Leblanc e Ochado che mandò in confusione i centrocampisti e i difensori bianconeri e si concluse con la rete, a due passi dalla porta, del capitano della Nigeria.

A pochi minuti dalla fine, Gentile fece un intervento in scivolata su Taro, appena entrato in area di rigore dopo aver superato quattro giocatori avversari con una serie di dribbling.

L'intervento fu giudicato falloso dall'arbitro, che assegnò un rigore.

Fu Taro stesso a presentarsi sul dischetto, dopo aver chiesto e ottenuto da Leblanc, rigorista designato, il permesso di batterlo.

Dopo una breve rincorsa, Taro calciò il pallone e lo mandò in rete. A nulla valsero i tentativi del portiere di deconcentrarlo, anzi finì per buttarsi dalla parte opposta alla traiettoria del tiro.

Sugli spalti del "Parco dei Principi" proruppe la gioia dei tifosi di casa.

 

Kumi scattò in piedi dal divano del salotto ed emise un gridolino, al colmo della felicità, coinvolgendo anche Reiko, che stava seguendo la partita insieme a lei.

Poco dietro di loro, Shinji sorrise. Aveva appena finito di annodarsi la cravatta e aveva la ventiquattrore pronta sul tavolo.

«È valsa la pena fare una levataccia, allora.» commentò, avvicinandosi allo schermo, in cui si vedeva Misaki stringere i pugni e scambiare strette di mano e pacche sulle spalle con i suoi compagni di squadra.

«Puoi dirlo forte!» gridò Kumi, voltandosi verso di lui con un'espressione raggiante.

Il suo Taro aveva regalato al Paris Saint Germain la finale di Champions League, e

l'altro contendente alla "coppa dalle grandi orecchie" sarebbe stato il Bayern Monaco!

Lei ed Elena si sarebbero ritrovate nello stesso stadio, anche se il tifo le avrebbe stavolta divise.

 

Taro e Kojiro si strinsero le mani.

«Stavolta hai vinto tu, Misaki.»

«Beh, un po' per uno, Kojiro. Ai campionati scolastici del liceo mi hai sempre battuto, ora mi prendo la rivincita.» replicò, strizzando un occhio.

Hyuga sorrise e incrociò le braccia. «Ora affronterai Wakabayashi e Schneider. Il Bayern ha una difesa e un attacco formidabili, ma la tua squadra non è da meno. Potete giocarvela.»

«Non ci tireremo indietro. Più forte è l'avversario, più grande è la motivazione.» replicò Taro.

Kojiro fece un cenno d'approvazione.

Il suo primo anno in Europa aveva fatto crescere ulteriormente Misaki: non era più lo spensierato ragazzino che si divertiva a fare splendide evoluzioni con il pallone, ma un calciatore maturo, grintoso, desideroso di mostrare tutto il suo valore e di ritagliarsi un ruolo da protagonista, pur continuando a mandare in rete i compagni in una posizione migliore.

Il suo stesso sguardo lo dimostrava.

I due ragazzi si tolsero le rispettive maglie e le scambiarono, stringendosi la mano.

 

Taro parcheggiò l'auto nel box del condominio in cui aveva preso un appartamento nel quartiere di Montmartre, a venticinque minuti di macchina dal centro di allenamento di Camp de Loges.

Gli andava bene così: abitava in una zona tranquilla e che conosceva bene, e guidare gli piaceva.

Pensò alla sua prima stagione in Europa, giunta ormai all'ultima fase. Con il Paris Saint Germain aveva vinto la Ligue 1 con quattro giornate di anticipo ed era arrivato all'ultimo atto della Champions League.

Sarebbe stata una finale difficilissima.

La favorita era, ovviamente, il Bayern. Da un lato, la pressione sarebbe stata tutta sulla squadra bavarese, dall'altro c'erano i risultati, che giustificavano pienamente il ruolo attribuito.

Non erano tanto i gol messi a segno, comunque tantissimi, a preoccuparlo, quanto quelli subiti.

La stagione di Wakabayashi era stata fin lì splendida.

Schneider aveva avuto ragione nel definirlo il "tassello mancante" alla costruzione di un Bayern Monaco capace di dominare in ogni competizione.

Nessun infortunio, pochissime assenze dovute a ragioni di turnover, non aveva mai incassato più di due gol ed era andato molto vicino a stabilire il record di minuti giocati mantenendo la porta inviolata. La sua eccellente difesa aveva permesso al Bayern di vincere o comunque non perdere anche nelle prestazioni meno brillanti.

Ogni volta spostava l'asticella un po' più in su: la sua elevazione, la sua potenza, i suoi riflessi … tutti miglioramenti frutto anche degli allenamenti di kickboxing.

«Pensa che potresti entrare nel club dei pochi che sono riusciti a fare un gol a Wakabayashi!» gli aveva detto Kumi, quando ne aveva parlato con lei, al telefono.

Forse aveva avuto ragione Kinuyo, quando gli aveva detto che aveva bisogno di una

ragazza capace di condividere i suoi sogni.

Kumi sapeva trovare il lato positivo in ogni cosa.

La sua passione per il calcio, la voglia di giocare e vincere era aumentata, da quando stava con lei. La chiamava quasi ogni giorno, per sentirla vicina almeno con la voce.

Tra poco meno di un mese l'avrebbe riavuta accanto a sé.

 

Genzo scrutava con leggera apprensione i tabelloni con gli orari dei voli.

Mancava ormai pochissimo alla sua partenza per Londra, dove di lì a quattro giorni, avrebbe disputato la finale di Champions League.

A Wembley, erede dell'omonimo stadio, tempio del calcio mondiale.

Elena non aveva lezioni da seguire all'università e aveva voluto accompagnarlo all'aeroporto: poteva e voleva salutarlo prima della partita più importante della stagione, il motivo per cui i dirigenti del Bayern avevano scelto lui come portiere.

Ogni tanto alcuni compagni, a qualche metro di distanza, gli lanciavano delle occhiate maliziose. Genzo era però abituato a fare finta di niente e a liquidare tutto con un mezzo sorriso, come a sottolineare la loro malcelata invidia.

Lei gli stava raccontando un episodio divertente accaduto all'università, che lo fece ridere.

Era così bello il suo Genzo, quando rideva … perché quella risata così spontanea la concedeva a pochi, e lei era tra questi.

L'altoparlante annunciò il volo per Heathrow.

Lei gli posò un bacio sulle labbra. «In bocca al lupo.»

«Ci vediamo a Wembley.» replicò lui.

«Sì.» mormorò, con un cenno del capo.

Le sorrise un'ultima volta, poi si voltò e si incamminò verso compagni e allenatore.

Aveva mosso pochi passi quando Elena sgranò gli occhi, come se si fosse ricordata di qualcosa all'improvviso.

«Ah, Genzo!» lo chiamò, raggiungendolo e toccandogli un braccio.

Lui si arrestò e si girò, con aria interrogativa. «Dimmi.»

Lo guardò e abbassò la testa, esitante. Poi sorrise e puntò gli occhi nei suoi.

«Ti amo.»

Lui quasi trasalì. Il suo cuore perse un battito, e un lampo di emozione gli attraversò le iridi nere. Per un momento gli sembrò che tutto, attorno a lui, si fosse fermato e fosse rimasta solo Elena, di fronte a lui.

Distese le labbra in un sorriso e la attirò a sé.

Le accarezzò una tempia con le labbra.

«Anch'io, Elena.» mormorò, sfiorandole l'orecchio e provocandole un piacevole brivido.

«Wakabayashi, vuoi giocarla questa finale oppure no?» gridò un irritato Frank Schneider, mentre la speaker annunciava per la seconda volta il volo con il quale la squadra doveva imbarcarsi.

«Arrivo, mister!» rispose Genzo di rimando, staccandosi con riluttanza.

Scambiò un ultimo sguardo con Elena, poi afferrò la maniglia del trolley e si voltò, andando a raggiungere il resto della squadra.

Elena lo accompagnò con lo sguardo finché non sparì verso il gate.

 

La partita più attesa della stagione infine arrivò.

Elena e Kumi, sedute in tribuna a poca distanza da Mikami e Katagiri, attendevano trepidanti l'ingresso in campo dei calciatori.

A Wembley, stavano per affrontarsi in campo le due squadre più forti rispettivamente in Germania e in Francia, entrambe fresche vincitrici di Bundesliga e Ligue 1, pronte a contendersi la Coppa dei Campioni oggetto del desiderio di ogni calciatore e allenatore, che troneggiava fuori dal tunnel degli spogliatoi, in attesa di essere incisa con il nome e di essere ornata con i nastri recanti i colori sociali del club vincitore.

Ad assistere alla gara erano giunti anche molti famosi giocatori, tra cui Kojiro Hyuga accompagnato dalla fidanzata Maki, Shingo Aoi, Kaltz e alcuni campioni del Real Madrid.

I calciatori della "Generazione d'Oro" avrebbero certamente assistito in tv alla "partita dell'anno", incuranti del fuso orario, così come Tsubasa e Sanae a Barcellona.

Il Bayern appariva praticamente privo di punti deboli, con Wakabayashi in porta e Schneider, Levin e Sho in attacco. Una squadra ricca di campioni in tutti i reparti che incuteva timore soltanto elencandone la formazione.

La speranza era che la creatività di Misaki e Leblanc e la potenza di Ochado e Napoléon scalfissero l'impenetrabilità della difesa bavarese.

Gli allenatori e i giocatori delle due squadre si erano scambiati solo parole di elogio, tranne che per una pepata querelle a distanza tra Napoléon e Schneider, pretendenti al titolo di capocannoniere della competizione, in cui si era inserito Wakabayashi che, con la consueta ironia, rivendicava il ruolo di ago della bilancia, a vivacizzare la vigilia e far accrescere l'attesa, già alta, per l'inizio del match.

 

I giocatori delle due squadre entrarono in campo, ognuno tenendo per mano un bambino o una bambina, insieme alla terna arbitrale.

Tutti cercavano di non far trasparire l'emozione che doveva pervaderli.

Stavano calpestando l'erba dello stadio di Wembley, di lì a poco avrebbero giocato la finale del massimo torneo continentale.

Nell'impianto risuonò l'ormai celeberrimo inno della competizione.

La mitica "Coppa dalle grandi orecchie" stava lì a qualche metro, come un magnifico miraggio.

O come un bersaglio da centrare, come sembravano comunicare gli occhi glaciali di Karl Heinz Schneider.

I cameramen e i giornalisti poterono gustare lo sguardo di sfida lanciato da Louis Napoléon a Karl prima e a Wakabayashi poi, opportunamente ricambiato da entrambi.

Più cordiali e amichevoli le strette di mano e gli sguardi scambiati con Misaki e Leblanc.

Dopo le fotografie di rito, il Kaiser e il centrocampista francese si scambiarono i gagliardetti.

Il rito della monetina sancì il calcio d'inizio per il Bayern Monaco.

L'arbitro fischiò. Il tocco di Levin verso Schneider diede inizio alle ostilità.

Non era più tempo di sogni ad occhi aperti.

L'inizio fu in salita per la corazzata tedesca.

La difesa e il centrocampo del Paris Saint Germain avevano bloccato le vie di passaggio verso Schneider e Levin.

Misaki e Leblanc, con la collaborazione di Ochado, cercarono di tessere una serie di passaggi che potessero mettere Napoléon o un altro giocatore davanti alla porta.

Louis aveva fatto anche innumerevoli esercizi per potenziare le sue gambe, nella previsione e nella speranza di affrontare proprio Wakabayashi. Era l'unico, nella squadra, ad avere la potenza necessaria per segnare al SGGK un gol da fuori area.

Ma il portiere aveva predisposto la stessa ragnatela in cui era rimasto avviluppato il Barcellona: i difensori bavaresi arrivavano sempre in anticipo e le rare volte in cui non riuscivano a intercettare un passaggio o venivano superati da un avversario, Genzo bloccava il pallone con sicurezza.

Il primo tempo si concluse sullo 0-0.

Il Bayern Monaco aveva avuto poche occasioni.

I rinvii con cui Genzo aveva cercato di servire Levin, Sho o Schneider erano stati intercettati da Misaki o da altri giocatori su istruzione del centrocampista nipponico, che conosceva molto bene il suo vecchio amico e compagno di Nazionale.

 

Kumi sospirò, mentre guardava le due squadre rientrare negli spogliatoi. «Come pensi finirà?» chiese, rivolta a Elena.

L'italiana si strinse nelle spalle e fece una piccola smorfia. «Non lo so. Sembra una partita a scacchi.»

«È vero.» intervenne Mikami. «Fin qui hanno neutralizzato le rispettive azioni, una dopo l'altra. Questa finale potrebbe anche decidersi ai supplementari o addirittura ai rigori.»

Katagiri non sembrava completamente d'accordo con Tatsuo. «Il Bayern sta facendo una partita molto simile alla semifinale contro il Barcellona. Il Paris Saint Germain ha giocato e ha avuto qualche occasione in più, ma nessuna davvero pericolosa. Con Wakabayashi in porta, servirebbe un'invenzione di Misaki o Leblanc, ma sarei curioso di vedere Napoléon tentare un tiro da fuori area. E se la situazione rimarrà questa, probabilmente lo farà.»

Le parole del giovane dirigente della JFA infusero ottimismo in Kumi, mentre Elena fece una smorfia, contrariata. Poi sorrise, con aria saputa. «Schneider, contro il Barcellona, ha segnato con il tiro con cui ha battuto Genzo in allenamento, dopo mesi. Napoléon dovrà fare un tiro ancora più potente.»

 

Nel secondo tempo, il Bayern mostrò un atteggiamento più propositivo e molte furono le azioni in cui la difesa e il centrocampo parigini dovettero fermare i giocatori bavaresi, anche con interventi al limite del regolamento.

I minuti passavano e con essi cominciarono a diminuire anche energie, concentrazione e lucidità.

Louis guardò Wakabayashi fermo tra i pali della porta. Aveva sempre ritenuto il portiere giapponese un presuntuoso, per via di quel soprannome: Super Great Goal Keeper.

Ma doveva ammettere che era più che meritato, non solo per le parate strepitose: era anche un vero stratega.

Il modo in cui aveva disposto i difensori, aveva vanificato persino le iniziative e i passaggi di due giocatori pieni di talento come Misaki e Pierre.

E il suo unico tiro in porta era stato bloccato senza difficoltà.

 

Ricevette il pallone proprio dal giovane giapponese. Impeccabile, come sempre.

Avanzò con la palla al piede, cercando di spaccare la difesa bavarese, ma davanti a lui si parò il grande acquisto della sessione di gennaio, l'argentino Galvan.

Preferì passarla indietro, ancora verso Taro.

Fu così che prese la decisione.

La partita era ormai entrata nel recupero, i calciatori erano stanchi, la paura di perdere cresceva.

Tanto valeva provarci.

Si voltò e corse verso la linea di centrocampo.

«Misaki, ripassami la palla!» gridò, facendogli cenno con le dita.

Taro lo accontentò.

Aveva ragione … era quasi finita, perché non tentare il tutto per tutto?

Louis si impadronì del pallone.

Fu questione di pochi secondi, dare un fugace sguardo alla porta di Wakabayashi e calciare prima dell'intervento di Galvan.

Genzo riuscì soltanto a deviare quella cannonata.

L'arbitro assegnò il calcio d'angolo. Mancava un minuto alla fine dei tempi regolamentari …

Taro si incaricò di andarlo a battere.

Era un'occasione d'oro. Poteva provare a segnare direttamente da lì ...

Scosse la testa. Sarebbe stato bello, ma probabilmente Wakabayashi aveva messo in conto quella possibilità. No, serviva qualcosa di imprevedibile.

Dopo una breve rincorsa, colpì il pallone di sinistro, verso Napoléon.

Louis lasciò passare il pallone, notando Ochado posizionato meglio di lui.

Il capitano della Nigeria effettuò un tiro potente, che Genzo respinse.

Il pallone finì sui piedi di Leblanc, che evitò i difensori con una serie di dribbling e passò a Misaki, che per scavalcare i difensori eseguì un pallonetto.

Genzo non lo vide partire, perché alcuni giocatori gli avevano coperto la visuale.

Non sarebbe mai riuscito a raggiungerlo in tempo …

Un intervento in acrobazia di Schneider, rientrato in copertura, impedì al pallone di varcare la linea.

La sfera finì sui piedi di Sho, che iniziò così un'azione di contropiede.

Karl scattò in avanti rapidissimo, anticipando i difensori avversari, che si ritrovarono così a doverlo inseguire.

I due fuoriclasse del Bayern correvano affiancati, a pochi metri di distanza, in una progressione inarrestabile.

I giocatori del Paris Saint Germain cercarono di raggiungerli.

Invano. Al difensore Jean Rust non restò che tentare un intervento in scivolata, doveva evitare il gol, a costo di rimediare un cartellino.

Sho fu un secondo più veloce e prima di essere messo a terra dal giovane francese calciò un tiro fortissimo verso Schneider, che scaraventò in rete un pallone carico della potenza sua e del campione cinese.

Il portiere non aveva neppure provato a muoversi.

I bavaresi esultarono, elettrizzati.

Genzo alzò i pugni al cielo, con un grido liberatorio.

Elena, che aveva trattenuto il fiato fin dal tiro di Napoléon, scattò in piedi e mise una mano sulla spalla di Mikami, che si girò e gliela strinse.

Kumi strinse le labbra, condividendo lo scoramento dei giocatori francesi, fermi con la testa bassa e le mani sui fianchi, altri in ginocchio.

Era finita … l'arbitro, infatti, eseguì il triplice fischio non appena venne battuto il primo calcio da metà campo.

Sotto la luna piena che dominava il cielo di Londra, il Bayern Monaco celebrava la conquista della vetta d'Europa.

 

I giocatori, l'allenatore, l'intero staff del Bayern salirono sul palco allestito in tribuna, per la premiazione. Tutti ricevettero la medaglia d'oro, e toccarono o posarono un bacio sulla Coppa, come ad assicurarsi che fosse reale.

A Karl toccò l'onore di sollevarla al cielo, in un'esplosione di fuochi d'artificio e tripudio di festoni e coriandoli bianchi e rossi.

L'attaccante la cedette poi al padre e allenatore Frank, che aveva plasmato una squadra che aveva appena aperto un ciclo destinato a durare molti anni. Poi fu la volta di Levin, Sho, Wakabayashi e via via tutti gli altri.

 

Taro e i suoi compagni di squadra guardarono con un misto di rassegnazione e invidia le scene di festa e di giubilo dei giocatori del Bayern, presto raggiunti da mogli, fidanzate e figli.

Vide Genzo passare un braccio attorno alla schiena di Elena e stringerla a sé, posandole un bacio sulla fronte e facendole toccare la Coppa.

Le medaglie d'argento al loro collo, dopo essere stati a un passo dalla vittoria erano una consolazione così magra che alcuni di loro, come Louis, se l'erano sfilata.

Il volto del cannoniere francese era ancora umido delle lacrime versate al prolungato fischio finale che aveva posto fine al sogno.

Il suo corpo disteso a pancia in giù sul terreno di gioco e le braccia incrociate a coprire il volto, era l'immagine della delusione del Paris Saint Germain.

Taro lanciò uno sguardo verso di lui, che di tanto in tanto scambiava qualche parola con Leblanc.

E lui stava quasi per dare la vittoria alla sua squadra ...

«Coraggio. Oggi hanno vinto loro, ma prima o poi toccherà a noi.» la voce di Kumi, sedutasi accanto a lui, lo fece sobbalzare.

Era così assorto da non averla sentita arrivare.

Lui sorrise.

«Ci puoi giurare.» disse, abbracciandola.

 

Kumi seguì Taro a Parigi, al ritorno da Londra.

Aveva deciso di trascorrere alcuni giorni con lui, rimediando almeno in parte al lungo periodo di distacco.

Il ragazzo la ospitò a casa sua e la portò a visitare la città: era rimasta incantata dagli Champs-Elysées, dal panorama che si poteva vedere dalla cima della Torre Eiffel, dal Sacré Coeur.

Avevano attraversato la Senna di notte sul bateau mouche, e Kumi si era fatta fare un ritratto da uno dei disegnatori di Montmartre.

Il dinamismo, l'entusiasmo e la curiosità della ragazza furono la miglior medicina contro la delusione.

Tornavano a casa sempre a tarda notte.

«Non riesci a darti pace?» gli chiese, mentre si preparavano ad andare a dormire.

«Quando ho fatto quel pallonetto, credevo veramente alla vittoria. Wakabayashi era fuori posizione, ma Schneider era lì in copertura e noi ci siamo fatti sorprendere dal contropiede di Sho.»

«Ci riproverai il prossimo anno, e se non dovesse andare bene, tra due anni. Questo sogno rappresenta la tua vita. È così: Taro Misaki non potrebbe vivere senza il calcio.»

«Soprattutto ora che ci sei tu a condividere le mie gioie e le mie delusioni.» disse, cingendole la schiena.

Lei prese ad accarezzargli il viso e il petto.

C'era ancora un po' di timidezza, di ingenuità nel suo modo di toccarlo.

La sollevò tra le braccia e le baciò piano il collo.

Kumi socchiuse gli occhi e sospirò.

Pochi istanti dopo, giacevano insieme nel letto di Taro.

 

Kumi aprì gli occhi, destata dai raggi di sole che rischiaravano la stanza.

Il posto accanto a sé era vuoto, ancora tiepido del corpo di Taro.

Vi passò sopra una mano, lentamente.

Avvertì un profumo gradevole provenire dalla cucina.

Era caffè ….

Si alzò, infilò la sua camicia da notte e, dopo una breve permanenza nel bagno, raggiunse Taro che, come aveva immaginato, stava preparando la colazione.

Gli si avvicinò e si accostò dietro di lui, sbirciando.

«Che si cucina?»

Taro alzò la testa e si voltò.

Kumi era lì, con le mani dietro la schiena e l'espressione incuriosita e molto interessata.

Sorrise. «Pane tostato, confettura di ciliegie e crème au chocolat

La ragazza lo guardò con aria interrogativa. «L'ultima cosa sarebbe?»

Taro le indicò il barattolo con la crema al cioccolato.

«Ah, allora so cosa fare!» cinguettò, prendendo una fetta di pane e mettendola sul tavolo, coperto da una tovaglia e su cui era collocato anche un paniere con alcune brioche. Cominciò a spalmarla per metà con la crema e per metà con la confettura di ciliegie.

Taro scosse la testa e sorrise.

Kumi era sempre così entusiasta e vispa …

Stavolta fu il turno del centrocampista di mettersi dietro di lei.

Impietoso, le scostò i lunghi capelli e la baciò sotto la nuca.

La sentì fremere tra le sue braccia.

«Pare che abbia scoperto un altro punto sensibile …» sussurrò.

Lei emise una risata soffocata. Le labbra di Taro presero a percorrerle una spalla, e le sue mani si posarono sul suo grembo.

La fetta parzialmente spalmata rischiò di scivolarle dalla mano.

«Ehi, avrei voglia di mettere qualcosa sotto i denti …» protestò debolmente, cercando di reprimere, senza successo, il piacere provocatole dal suo tocco.

Taro ridacchiò e la sciolse dal suo abbraccio, permettendole di sedersi a tavola e iniziare a mangiare.

 

«Verrai a vivere qui con me, dopo aver finito il tanki-daigaku?» le chiese, dopo essersi seduto a sua volta.

Kumi alzò la testa, un po' spiazzata da quella domanda così diretta. Piegò le labbra da un lato. «Non lo so … a Nankatsu ho la cartolibreria, a Fuji la Uchiyama Shoten. Qui a Parigi non ho niente, a parte te. Non so neppure il francese.»

«Non ti preoccupare di questo, Kumi. Conosco una scuola molto valida. Una volta imparato a esprimerti in un francese comprensibile vedrai che sarà tutto più semplice. E per quanto riguarda i manga … qui in Francia ci sono tanti appassionati di fumetti e di cultura giapponese. Troverai terreno fertile.»

Lei distolse lo sguardo per alcuni istanti, dubbiosa.

Era una richiesta impegnativa. Lasciare il Giappone, la sua famiglia e forse momentaneamente il suo lavoro, per trasferirsi a migliaia di chilometri di distanza, dalla parte opposta dell'emisfero.

Amava Taro, per mesi aveva sognato momenti come quelli che stavano condividendo, e la esaltava l'idea di costruire il suo futuro insieme a lui.

Ma si sentiva intimorita dall'idea di passare da una cittadina di poche migliaia di abitanti come Nankatsu, in cui ci si conosceva tutti o quasi, a una metropoli come Parigi, immensa e cosmopolita, ancora tutta da scoprire. E capitale di un Paese con una società, una mentalità, una cultura molto diverse da quelle giapponesi.

Confessò a Taro le sue perplessità e il sentirsi impreparata ad affrontare un cambiamento così radicale.

«Anche a me Parigi è sembrata subito troppo grande e troppo diversa, quando sono arrivato con mio padre. E questo nonostante fossimo abituati a continui spostamenti. Ci siamo ambientati giorno dopo giorno, affrontando ogni situazione, aiutandoci e sostenendoci.» le prese una mano.

«Tu sei una ragazza in gamba, Kumi. Non sei il tipo che si arrende alle prime difficoltà. Inoltre ci sarò io ad aiutarti, quando ti sembrerà di non farcela.»

La ragazza lo guardò, poi sorrise e gli accarezzò una guancia e un angolo delle labbra con un dito.

«E va bene. Magari mi metterò a studiare un po' già quest'anno, così non arriverò completamente digiuna.»

«Potrei già insegnarti io qualcosa.» replicò, con un'espressione maliziosa.

Kumi ammiccò, di rimando. «Io ho già imparato una breve frase. Senti se la pronuncio bene.» ribatté, sporgendosi leggermente e avvicinando la sua bocca all'orecchio del ragazzo.

«Je t'aime.» sussurrò.

Taro spalancò gli occhi.

«Ripetilo. Credo di non aver capito bene ...»

Lei sorrise e inclinò la testa, intrecciando le dita sul tavolo.

«Se mi porti a visitare il Louvre, la Cattedrale di Notre-Dame e il "Parco dei Principi".»

«Certo, quella è la parte migliore, l'ho tenuta per ultima apposta.»

Il sorriso di Kumi si allargò. «Allora te lo ripeto se lasci a me l'ultimo croissant.» disse, usando volutamente il termine in francese.

Taro alzò un sopracciglio.

«Ah, ma allora avevo ragione: sei una piccola strega!»

La ragazza rise e prese la brioche, ancora fragrante, dal paniere.

Poi la tese a Taro, che ne afferrò una parte e spezzò il dolce a metà, mentre le loro bocche si fondevano nuovamente in un bacio.

 

Genzo uscì nel grande giardino illuminato dell'imponente e lussuosa villa, poco fuori Monaco, di proprietà del presidente del Bayern Monaco, il signor Richter, dove si stava svolgendo la festa organizzata per celebrare la vittoria del trofeo.

Era passata una settimana dalla finale.

I giorni immediatamente seguenti erano stati frenetici e permeati da un'atmosfera quasi irreale.

Aveva ricevuto una caterva di telefonate e messaggi, dal Giappone e dall'Europa. I genitori, Hiroji e Annie con il contributo di Kenichi, Keisuke, Carlo, i suoi amici e compagni di squadra in Nazionale.

Aveva passato più di mezz'ora a rispondere a tutti.

Poi c'era stato il giro sul grande pullman, con le strade di Monaco invase dai tifosi in visibilio. Infine, la lettura di tutti gli articoli celebrativi della conquista della Coppa dei Campioni, pieni di narrazioni al limite dell'apologia e dell'epica.

Gli sembrava di essere immerso in un sogno. Aveva già provato sensazioni simili quando aveva vinto i Mondiali juniores e l'Olimpiade, ma la risonanza avuta sui media di tutto il mondo non era paragonabile.

La persona che più di tutti aveva condiviso con lui quel senso di appagamento e di felicità era stata, oltre ovviamente al resto della squadra, Elena.

Quando erano arrivati alla festa, erano stati investiti da una salva di flash, e la ragazza si era stretta istintivamente a lui, come a cercare protezione.

Ricevette molti sguardi ammirati e complimenti, e le vennero rivolte molte domande sulla sua relazione con il SGGK.

Ciò le creò qualche imbarazzo: era evidente che non era abituata a tutto quel clamore.

Altre donne presenti sembravano invece nel loro contesto naturale e aveva la sensazione che deridessero la sua scarsa dimestichezza con quell'ambiente.

Fortunatamente non tutte: alcune di loro, come la fidanzata di Galvan e la moglie del secondo portiere Drenner, avevano dimostrato comprensione, trattandola con simpatia.

Ciò non le impedì di chiedere a Genzo di ritagliarsi alcuni minuti soltanto per loro ed evadere per un po' da quell'atmosfera soffocante.

«Mi sento un po' a disagio.» ammise, appoggiandosi alla ringhiera del portico.

Genzo le sorrise, comprensivo. Si mise di fianco a lei, osservando il grande parco illuminato, con le mani nelle tasche della giacca.

Elena tirò fuori il suo smartphone e scorse alcuni messaggi.

«Arimi e Mayuko ti fanno tanti complimenti.»

«Ringraziale da parte mia.»

«Già fatto.» disse, chiudendo la custodia e rimettendolo nella sua piccola borsa.

Il ragazzo stava per dirle qualcosa, quando un rumore di porta che veniva aperta li fece voltare.

«Ehi Wakabayashi, torna dentro per favore. C'è il presidente che vuole accanto a sé i giocatori per un discorso.» gli annunciò Karl, con un'espressione seria, quasi seccata.

«Beh, non basta il capitano per questo?» replicò Genzo.

Karl socchiuse gli occhi e scosse la testa, con un sorriso sornione. «Tu sei stato il grande acquisto della stagione, e Herr Richter vuole che tu dica qualcosa a tutti i costi. Non vorrai mica sottrarti.»

Il portiere sospirò. «E va bene. Accontentiamo il signor Richter.» disse, alzando gli occhi al cielo.

Il Kaiser distese le labbra con un lieve cenno del capo, e rientrò.

«Cosa dirai nel tuo discorso?» chiese Elena, dopo che furono rimasti nuovamente soli.

Genzo diede un'alzata di spalle, con una piccola smorfia. «Immagino che ringrazierò il presidente, Herr Rummenigge e mister Schneider per avermi dato la possibilità di giocare nel Bayern Monaco e che spero sia solo l'inizio di una lunga serie di trionfi.» affermò, come se stesse recitando il programma di uno spettacolo.

«Tutto qui? Nessuna dedica speciale?» domandò alzando il mento, con un sorriso birichino.

Genzo sorrise. «Quelle per me sono una cosa privata, lo sai.»

Indugiò su di lei con lo sguardo, come se stesse cercando le parole adatte a dirle una cosa importante.

«Sai Elena … da quando stiamo insieme, ho la sensazione che ci sia stata una vita prima di conoscerti e un'altra dopo averti conosciuta.» disse, riavvicinandosi.

La ragazza avvertì una sensazione di calore diffondersi nel petto.

Fece un profondo respiro e sorrise dolcemente.

«Io non so se sono davvero la donna della tua vita.» gli confidò, con uno sguardo serio. «Ma un modo per scoprirlo c'è.» aggiunse.

«Quale sarebbe?»

Elena inclinò la testa e sorrise. «Restare con te. Seguire tutte le tue partite, condividere soddisfazioni e delusioni e superare insieme i momenti difficili. E anche accompagnarti alle feste ufficiali, quando proprio non se ne può fare a meno.» ironizzò, alzando gli occhi al cielo.

Lui sogghignò. «Non si può avere tutto dalla vita.»

Elena accennò una risata. «Dai, meglio rientrare, altrimenti fai arrabbiare Karl.» disse, mettendogli una mano su un braccio.

Il portiere fece spallucce. «Io ho sempre la mia carta da giocare, e lui lo sa.»

La ragazza chiuse gli occhi e scosse la testa, ridacchiando. Quando Genzo le aveva raccontato della scommessa fatta a Madrid, era rimasta dapprima incredula, poi era scoppiata in una risata quasi incontenibile.

«Sei tremendo!» esclamò.

Lui rise di rimando.

Le passò un braccio attorno alla schiena e lei gli si accostò, lasciandosi avvolgere dalla sensazione di protezione che lui sempre le sapeva dare.

Rientrarono, stretti l'uno all'altra, sperando in cuor loro di vivere ancora molti momenti simili a quello.

 

  

Quattro anni dopo.

 

Le onde salivano e si smorzavano sulla battigia con ritmo calmo e regolare.

Genzo ed Elena passeggiavano ormai da un paio d'ore sulla spiaggia di Miho no Matsubara, un luogo speciale per entrambi: lì, per la prima volta, quel pomeriggio di cinque anni prima, avevano smesso di guardarsi come dei semplici amici.

Il giovane alzò gli occhi verso il cielo, azzurro e limpido.

Come gli occhi della ragazza che amava e che era ormai una presenza indispensabile nella sua vita.

Erano fidanzati da ormai quattro anni, e da due condividevano anche l'appartamento in cui vivevano insieme da quando Angelina si era sposata con Mattias.

I due si erano stabiliti in una villetta, sempre a Monaco, e a Genzo era venuto spontaneo chiedere a Elena di trasferirsi da lui.

Erano tornati in Giappone una settimana prima, per trascorrervi parte delle loro vacanze.

Il mese precedente, avevano visto Arimi trionfare nell'all-around dei campionati mondiali di ginnastica artistica, svoltisi proprio a Monaco. E ora tutti i titoli erano per la ventenne ginnasta giapponese che aveva sbaragliato le grandi potenze statunitensi e russe.

La ragazza era andata a salutarli e ad abbracciarli in tribuna, dopo la premiazione.

Per ogni traguardo raggiunto in carriera, oltre che a Mayuko Shiroyama, sarebbe stata eternamente grata anche a Elena Rulli e a Genzo Wakabayashi.

La sua ex insegnante aveva risvegliato la passione autentica, l'amore per lo sport al di là delle legittime ambizioni di vittoria.

Il calciatore aveva saputo mettersi nei suoi panni, perché aveva ragionato come lei, in passato. E un po' di quella sicumera a volte riaffiorava, seppure di rado e in dosi tutto sommato limitate e persino benefiche.

Un carattere orgoglioso e caparbio che aveva permesso a Genzo di mandare in archivio un'altra annata ricca di soddisfazioni: il Bayern Monaco aveva conquistato l'ennesima Bundesliga e riscattato la delusione di un anno prima, patita contro il Real Madrid, vincendo la Champions League.

Continuava a perseguire l'obiettivo di diventare il secondo portiere a ricevere il Pallone d'Oro.

Ci era andato vicino due volte, ma era stato sempre sconfitto nonostante i trofei vinti: in entrambe le occasioni era stato Schneider a precederlo. Stesso palmarès, ruolo diverso.

«Ho capito che non prenderanno mai sul serio l'idea di dare questo premio a me, un portiere, finché non vincerò il Mondiale.» aveva commentato, senza polemica nei confronti del suo compagno di squadra e amico di lunga data, durante un'intervista per il canale ufficiale online del Bayern.

Il ragazzo aveva ormai messo radici a Monaco: aveva prolungato il suo contratto con il club più prestigioso di Germania ed Elena aveva conseguito la laurea.

La giovane aveva inviato il suo curriculum a molte aziende e nel frattempo continuava con successo il suo lavoro come insegnante di ginnastica.

Era stato un anno significativo non solo per loro, ma anche per molti amici e persone vicine.

Kumi era una delle autrici più apprezzate della Uchiyama Shoten, ormai non più una piccola casa editrice, ma una delle realtà emergenti più interessanti del panorama dell'editoria giapponese, per quanto riguardava i manga e le pubblicazioni per bambini e adolescenti.

Taro aveva anch'egli rinnovato il suo contratto con il Paris Saint Germain, resistendo alle lusinghe del Real Madrid e della Juventus, pronte a sborsare cifre ingenti per averlo.

Ma a lui non interessava diventare un nababbo: ormai Parigi era di fatto la sua seconda casa e gli piaceva l'idea che i suoi compagni di Nazionale e amici giocassero ognuno in una squadra di un Paese diverso.

Il fatto che ognuno di loro conoscesse bene i campionati europei più competitivi aveva permesso alla Nazionale di giocare alla pari, e in diversi casi battere, le più forti selezioni europee.

Inoltre, il rapporto tra lui e Kumi aveva trovato stabilità da quando la sua donna si era trasferita a Parigi. Terminato il tanki-daigaku, per il centrocampista era stato naturale rinnovarle la richiesta di andare a vivere insieme a lui.

E Kumi aveva accettato. Dopo i primi difficili mesi di adattamento, aveva cominciato a farsi conoscere e apprezzare anche dal pubblico francese, senza interrompere la collaborazione con la casa editrice che l'aveva lanciata.

 

Shun Nitta e Madoka Shimokawa si preparavano al trasferimento in Inghilterra.

L'attaccante era stato ingaggiato dall'Arsenal: aveva finalmente deciso per il grande salto, dopo tre stagioni in Russia, allo Zenit San Pietroburgo, in cui aveva giocato per potersi mettere alla prova in un campionato europeo senza allontanarsi troppo dal Giappone e dalla sua ragazza. Ma ora Madoka si era brillantemente laureata in Legge alla Keio ed era disposta a mettersi in gioco in Europa. Era sempre stata una studentessa dotata e avrebbe frequentato un corso di specializzazione al King's College di Londra.

Nella Premier League, Shun avrebbe affrontato Hikaru Matsuyama, ormai affermato difensore del Manchester United.

 

Anche per Asami Ujimori la vita era andata avanti. L'ereditiera aveva metabolizzato la fine della storia con Genzo, legandosi a un imprenditore nel settore dell'edilizia, con cui si era sposata un anno prima.

Il progetto di acquisizione della Ujimori Heavy Industries dalla Wakabayashi Electrics non era andato in porto, anche se sussistevano alcune collaborazioni e c'era stata una distensione nei rapporti tra le due famiglie.

Elena sospettava che il motivo fosse legato ad Asami, che non voleva rischiare di avere ancora a che fare con Genzo.

Gli affari dell'azienda della famiglia Wakabayashi avevano però prosperato.

Erano state effettuate acquisizioni e stretti accordi di partnership con aziende giapponesi e anche europee, in particolare tedesche e britanniche, che avevano allargato le aree di competenza e rafforzato il prestigio e la presenza sui mercati.

Hiroji Wakabayashi era riconosciuto come uno dei più validi e capaci imprenditori della nuova generazione e aveva un ottimo collaboratore nel fratello Keisuke, che dirigeva con competenza il dipartimento Ricerca e sviluppo.

Annie teneva corsi di formazione in inglese per i dipendenti stranieri, per avere più tempo da dedicare ai bambini, che stavano crescendo e avevano bisogno della presenza costante della madre.

Con i figli che avevano preso sempre più in mano le redini, Yasuhiro si era via via defilato, continuando a presiedere la holding e il consiglio d'amministrazione, ma intervenendo raramente, pur senza mai far mancare i suoi suggerimenti, quando richiesti.

 

Genzo si voltò e vide Elena china su alcune conchiglie, che stava raccogliendo ed esaminando. Sorrise. Aveva mosso pochi passi in sua direzione, quando il suo smartphone squillò.

Era Hiroji.

Accettò la chiamata.

Come immaginava, lo aveva contattato per comunicargli che la riunione era stata fissata per la settimana dopo.

Genzo era entrato nel consiglio d'amministrazione della Wakabayashi Electrics due anni prima. Si era iscritto alla facoltà di Economia della LMU, e il suo rendimento era ottimo, pur non frequentando le lezioni per via dei suoi impegni.

Aveva sempre portato a termine ogni cosa con il massimo impegno, così sarebbe stato anche con lo studio.

Dopo tre anni e numerose discussioni con un padre persistente e ostinato, Genzo era riuscito a trovare un compromesso tra carriera calcistica e impegno nell'azienda di famiglia, pur continuando a dare priorità alla prima.

«Ricordati di venire a Yomiuri Land, domani!» si raccomandò, infine.

«Lo dici proprio a me, Hiroji?»

Il dirigente rise. «Hai ragione. A domani, allora.»

Genzo chiuse la chiamata e rimise il suo smartphone nella tasca dei pantaloni.

Kenichi avrebbe disputato la finale dell'ormai storico torneo delle scuole elementari.

Lui e Daichi Oozora avevano trascinato la selezione della città di Nankatsu, allenata come sempre da Tadashi Shiroyama, che avrebbe affrontato un'altra celebre scuola, la Musashi.

 

«Genzo!»

Si voltò nuovamente, e stavolta vide Elena che stava correndo verso di lui, con un braccio teso, a mostrargli la grossa conchiglia che teneva in mano.

Indossava un leggero vestito di lino bianco, che lasciava parzialmente scoperte le sue gambe. I suoi capelli oscillavano come lunghe onde auree.

«Guarda questa, che meraviglia.» disse, mostrandogli sul palmo di una mano, il grosso guscio ovale dai luminescenti colori verde e blu.

Genzo annuì. «Sì, è una delle più belle che si possano trovare, su queste coste. Si chiama abalone, oppure orecchia di mare.»

Elena spalancò gli occhi. «Tanto bella la conchiglia, quanto bizzarro il nome.» rise, infilandola nella piccola sacca che aveva portato con sé.

«Il suo nome scientifico è Haliotis.» replicò, strizzando un occhio.

«Suona già meglio.» convenne, con un cenno del capo.

In quegli anni, aveva scoperto che Genzo era anche un esperto di conchiglie.

Era stato suo padre a insegnargli tutti i nomi, fin da quando lui e i suoi fratelli erano bambini.

E anche lei aveva finito per diventare un'appassionata collezionista e approfittava di ogni gita al mare per cercare e raccogliere qualche nuovo esemplare, di cui lui le forniva puntualmente il nome e descriveva le caratteristiche.

 

I suoi occhi si posarono sulla pineta e poi spaziarono fino alla baia di Suruga.

Erano passati cinque anni dal giorno in cui, su quel punto della spiaggia, erano finiti l'uno addosso all'altra durante l'improvvisata partita di pallavolo con Taro.

Era stato allora che si era aperta la prima breccia in un cuore che era convinta di avere chiuso a doppia mandata.

Ricordava l'ostinazione con cui aveva cercato di reprimere quei sentimenti che, alla fine, non era più riuscita ad arginare.

Guardò il ragazzo accanto a sé e pensò a ciò che aveva rischiato di perdere.

Il loro era ormai un rapporto saldo, la loro sintonia e intimità era tale che spesso si capivano soltanto con lo sguardo.

Le feste ufficiali avevano continuato a essere il suo tallone d'Achille per diverso tempo, ma le numerose vittorie del Bayern l'avevano costretta ad abituarcisi, anche se non era ancora riuscita a perdere quell'istinto di stringersi a Genzo, ogni volta che i fotografi li bersagliavano con i loro flash.

Si era però ormai rassegnata a trovare, quando le capitava di sfogliare qualche rivista, fotografie sue e del portiere mentre passeggiavano per le vie di Monaco, come una comune coppia di fidanzati.

La loro normalità e la loro discrezione li aveva aiutati a vivere la loro storia con serenità.  

 

Aveva riallacciato i rapporti con Shiori. Tra loro non era tornata l'antica amicizia, ma se capitava di incontrarsi, scambiavano quattro chiacchiere, parlando delle rispettive vite.

Aveva saputo così che Gianluca era tornato a Roma e continuava la sua lotta per conquistare qualche pezzo in più di autonomia.

Il suo atteggiamento verso la vita era cambiato. Aveva trovato uno scopo: si era iscritto all'università, dove studiava Informatica. Sperava di diventare un bravo programmatore.

Aveva scelto non di buttarsi via, ma di darsi una possibilità.

Sarebbe stata una lotta difficilissima, ma lui aveva deciso di intraprenderla.

Quella notizia l'aveva spinta a chiedere a Genzo e alla sua famiglia di finanziare, con la loro fondazione, dei progetti per l'aiuto e il sostegno ai disabili.

Richiesta che era stata immediatamente accolta con favore da tutti i Wakabayashi.

 

«Guarda.» gli disse, mostrandogli il suo smartphone.

Kumi le aveva inviato una foto scattata con Taro e con il signor Misaki. Erano sul terrazzo della loro nuova casa a Parigi. Il ragazzo la abbracciava da dietro e le posava le mani sul grembo. Ichiro sorrideva accanto a loro.

«Aspetto un altro messaggio, a breve.» gli confidò. «Kumi mi ha parlato di un ritardo sospetto …»

Genzo distese le labbra in un sorriso. «Sarebbe splendido.»

Si riferiva certamente alla loro coppia di amici, da cui avrebbero trascorso alcuni giorni di vacanza prima di tornare in Germania, ma anche a lui ed Elena. Ogni volta che la vedeva giocare con la piccola Aiko, che la adorava, pensava che il giorno in cui l'avrebbe vista tenere in braccio un figlio loro, avrebbe davvero potuto dire di aver avuto dalla vita tutto ciò che desiderava.

 

«A cosa stai pensando?»

Genzo abbassò la testa verso di lei e sorrise. «Il prossimo anno voglio realizzare almeno tre obiettivi.»

«Triplete, Mondiale …»

Genzo fece un cenno d'assenso e rimase a guardarla, come se si aspettasse di sentirla menzionare anche il terzo.

«E il Pallone d'Oro?»

Lui scosse la testa.

«Quello semmai è il quarto, e dipende da una giuria spesso prevenuta.»

Elena sbatté un paio di volte le palpebre con aria pensosa, poi fece una piccola smorfia.

«Devi dirmelo tu.»

Genzo piegò le labbra nel suo classico sorriso obliquo, poi trasse un lieve respiro.

«A quindici anni, si pensa che basti un pallone e giocare a calcio tutto il giorno per sentirsi felici. Poi diventando adulti, il proprio punto di vista cambia. Si comincia a sentire il bisogno di condividere la propria passione, a voler celebrare i successi e metabolizzare le sconfitte con qualcuno che non sia l'allenatore e i compagni di squadra.» disse, interrompendosi brevemente e guardandola attentamente. Lei inclinò la testa, incoraggiandolo a continuare.

«Perciò il mio terzo desiderio è il più grande ed è anche il più importante. Ma non posso realizzarlo da solo. Mi serve il tuo consenso.»

Elena spalancò gli occhi. Quella tensione che aveva avvertito poco prima si stava trasformando in una morsa che le stringeva il cuore.

Lui sorrise ed estrasse dalla tasca dei pantaloni una piccola scatola rivestita di velluto blu, con l'effigie di una nota gioielleria.

«Genzo …» mormorò, giungendo le mani all'altezza delle labbra.

Lui aprì la scatola, facendo comparire un bellissimo anello in oro, impreziosito da una fila di piccoli zaffiri.

Lei lo guardò mentre compiva quei gesti, la vista parzialmente offuscata dalle lacrime che sentiva scorrere sul suo viso e le confermavano che era tutto incredibilmente, magnificamente reale.

Allungò la mano sinistra, leggermente tremante, per permettere a Genzo di infilarle l'anello al dito.

Piegò le dita e guardò quel prezioso circoletto brillare sul suo anulare.

Lui le accarezzò piano il viso, asciugandolo dalle lacrime.

Elena alzò gli occhi su di lui.

«Cominciavo a credere che non me l'avresti mai chiesto.»

 Genzo alzò un sopracciglio, poi le afferrò i fianchi e la sollevò in una presa salda, ma senza farle male.

«Ehi!» gridò lei, ridendo e prendendogli il viso tra le mani.

«Ti diverte proprio afferrarmi così, a tradimento, eh?» finse di protestare.

«Non ci rinuncerei per niente al mondo.» ribatté lui, senza battere ciglio.

Avrebbe voluto cristallizzare l'immagine che aveva davanti agli occhi.

Elena era bellissima ...

Il vento giocava con i suoi capelli biondi, e i suoi occhi azzurri sembravano quasi trasparenti per il riflesso del sole.

La fece scivolare giù piano, fino a farle raggiungere la sua stessa altezza.

«Cosa ti ha fatto pensare che non volessi sposarti?»

«Non hai mai accennato all'argomento.» spiegò, semplicemente.

Genzo sgranò gli occhi e la guardò dispiaciuto, come a scusarsi di averle dato quell'impressione.

Certo, era praticamente l'unica cosa di cui non aveva mai parlato, con lei.

Com'era facile essere fraintesi …

«Ho solo voluto lasciare che ti concentrassi sui tuoi obiettivi, e aspettare che li raggiungessi.» la rassicurò.

Elena dischiuse le labbra.

Sentì i suoi occhi inumidirsi.

«Genzo ...» mormorò, mentre lui la rimetteva a terra.

Aveva voluto darle il tempo di costruirsi il suo futuro da donna indipendente, prima di chiederle di legarsi a lui ...

«Sarei una stupida se ti dicessi di no.» mormorò di nuovo, accarezzandogli una guancia e avvicinando il viso.

Si scambiarono un bacio.

Quando si staccarono, rivolsero i loro volti verso il mare.

Due anziani coniugi stavano passeggiando a pochi metri da loro, mano nella mano e dovevano aver assistito alla scena perché li stavano guardando con un'espressione intenerita e perfino commossa, forse ricordando sé stessi da giovani.

Elena e Genzo ricambiarono il sorriso e poi si guardarono, divertiti ed emozionati allo stesso tempo.

Lui le passò un braccio attorno alla schiena e la attirò a sé, e lei gli posò la testa su una spalla.

Ripresero la loro camminata sulla spiaggia, osservando di tanto in tanto l'orizzonte, dove la luce del sole si rifletteva sulle onde del mare.

 

 

 

FINE

 

 

 

 

 

***Note***

 

 

Haliotis è un genere di molluschi gasteropodi marini, conosciuti anche come aliotidi, orecchie di mare o abaloni. Hanno grosse conchiglie dai colori iridescenti e con l'interno rivestito di madreperla, le cui dimensioni variano dai 2,5 ai 30 centimetri.

Fonte: Wikipedia

 

In Germania, si usa portare l'anello sull'anulare sinistro durante il periodo del fidanzamento.

Nel giorno del matrimonio, viene spostato sull'anulare destro.

 

 

 

E il momento fatidico è arrivato, seppure con un lieve contrattempo.

Per me si conclude una piccola "odissea" durata quasi 10 anni tra stesure multiple, pubblicazioni, lunghe pause, cancellazioni.

Ma sono contenta di non aver mai negato una possibilità a questa fanfiction e ai suoi personaggi.

Ringrazio tutti coloro che mi hanno accompagnata in questa lunga avventura, leggendo e/o commentando e inserendo questa storia in una delle tre liste, e chi potrebbe farlo in futuro.

Un grosso abbraccio a tutti voi.

Sandie

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