Nymphna l'apprendista

di Nymphna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Arrivo a Vesuvia ***
Capitolo 2: *** Una casa ***
Capitolo 3: *** Asra ***



Capitolo 1
*** Arrivo a Vesuvia ***


Arrivo a Vesuvia


 

Con gli occhi chiusi inspiro la brezza marina. La nave su cui sto viaggiando rallenta pian piano, lo sento sotto le suole degli stivali. Avverto il cappuccio che si muove a causa dell'aria, il vento mi scompiglia i capelli.

Il fruscio delle onde sulla prua.

Un gabbiano garrisce e altri gli rispondono.

Ora ci sono altri odori. Odore di pesce, soprattutto. Odore di alghe. Di fumo. Di legno bagnato.

Apro gli occhi.

Vesuvia sembra quasi una visione. Il sole nasce da dietro le guglie del palazzo, lasciando il porto in ombra. Alti palazzi sono sparsi per la città, le guglie terminano con delle cupole a punta. Non riesco ancora a vedere i colori della città, sembra tutta scura.

Un'emozione si impadronisce del mio cuore. Avverto un peso scendere su di esso, come se si trattasse di un'ombra. Un'ombra pesante, densa, che man mano si intreccia al mio cuore.

Mi poggio una mano sul petto.

Vesuvia…

Sono giunta alla mia meta. Mi sembra di guardare ora la città in maniera totalmente differente.

È qui.

Il mio futuro è qui.

Mentre la nave si avvicina al porto i marinai corrono su e giù per il ponte, agli ordini del capitano e autonomamente.

Sono qui. Sono arrivata. Non so che cosa dovrò fare, quale sarà il mio compito, ma so che è qui.

 

Arrivo da un piccolo villaggio delle Terre dell’Ovest, dove impariamo la magia fin dalla più tenera età. Non abbiamo padre o madre, siamo figli del villaggio. Tutti sono nostri fratelli, nostri genitori e nonni. E ognuno di noi, all'età di quattordici anni, deve seguire il proprio destino.

Durante il rituale, mentre gettavo le rune nel fuoco bluastro, ho capito che non sarei rimasta lì. Che avrei dimenticato il nome del villaggio, le persone con cui ero cresciuta fino a quel momento.

“Una Viaggiatrice”, aveva mormorato Ghalyma, la matrona. Poi mi aveva guardata con quei suoi tre occhi penetranti. “Il tuo futuro non è qui, Nymphna. Ma non vi sono indizi. Vi è il mare, vi è il fuoco. Tu viaggerai”.

E così avevo salutato tutti quanti con affetto, qualche lacrima, innumerevoli abbracci. Avevo raggruppato i miei pochi averi. E mi ero diretta là dove le rune mi consigliavano di andare: verso il porto. Avevo attraversato il bosco con tenacia, forte delle mie conoscenze erboristiche per sopravvivere.

Poi erano cominciati i problemi. Non avevo soldi, nemmeno una misera moneta bucata tagliata a metà. Così avevo trovato un'occupazione. Avevo girato di casa in casa, intorno al porto, chiedendo se qualcuno avesse bisogno di servigi magici. Mi era andata piuttosto bene. Per i primi giorni, si era trattato solo di sussistenza: nessuno si fida davvero di una ragazzina di quattordici anni, seppure essa si dichiari una maga. Poi avevo cominciato a farmi una fama grazie alla guarigione di un bambino dalla febbre e alle previsioni meteorologiche corrette. Avevo cominciato a guadagnare.

Dormivo su un pagliericcio di una casa, i proprietari non si erano disturbati a cercare un letto libero, ma avevano decretato che avrei potuto stare comoda nell'androne, vicino ai maiali.

Così era cominciata la mia avventura.

Guadagnato un discreto gruzzolo, qualche Luna dopo, mi ero comprata qualcosa da mangiare ed ero andata dal capitano di una nave.

“Dove mi può portare, se le pago cinque corone?”

Lui si era infilato nella tasca della palandrana le mie corone e mi aveva presa a bordo.

Il primo viaggio in mare era stato a dir poco emozionante. Non riuscivo a smetterla di correre su e giù per il ponte, a prua per cercare la direzione, a poppa per vedere i narvali che giocavano con le onde della nave. I momenti più belli del viaggio li ho passati stesa prona al margine estremo della poppa, all'alba, a guardare narvali, delfini. Non credo che il mio cuore potrà mai dimenticare l'emozione di quando vidi terra per la prima volta. Quando sentii lo stridio di un gabbiano e l'urlo di uno dei marinai: “Terra! Terra!”.

Lì mi scaricarono. Erano le gelide Terre del Sud. Pericolose, fredde, bellissime. Vidi l'aurora boreale e imparai a cacciare. Scoprii quanto poteva essere meraviglioso il fuoco quando la terra gela e guadagnai tanti soldi da avere un capogiro, asciugando gli abiti delle persone, accendendo falò che non si sarebbero spenti nel mezzo della notte e isolando le case dal gelo.

Ma poi dovetti ripartire.

 

Ho visitato molti luoghi durante lo scorso anno e mezzo. I miei occhi si sono riempiti di bellezze, di meraviglie. Di persone cordiali e di lotte all'ultimo sangue. Le mie dita si sono gelate e ho anelato l'acqua in mezzo all'infinita distesa salata. Sono rinata.

La mia pelle si è scurita, le mie mani si sono riempite di calli e le mie gambe si sono fatte muscolose. I capelli, che ho sempre tenuto lunghi, sono stati intrecciati mille e mille volte perché non mi infastidissero quando tirava vento, quando mi buttavo a bagno nel mare e quando pioveva.

 

E infine eccomi qui. Lo sento. Sono arrivata dove devo essere.

 

La nave si accosta alla banchina, il ponte viene calato. Saluto con un cenno della mano il capitano, che ho aiutato dirigendo il vento, talvolta. Mentre la tavola traballa sotto il mio peso, mi sento carica di energia e di aspettative. Sono qui. Sono arrivata.

Mi abbasso il cappuccio del mantello per guardare meglio, ora che il sole è più alto e comincia a illuminare con le sue lame le vie di Vesuvia.

Sono qui.

Sono pronta ad affrontare il mio destino.

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Capitolo 2
*** Una casa ***


Una casa

 

La prima cosa che faccio appena arrivata in città è girarla il più possibile. Voglio capire che genere di posto è, questa mia nuova casa. Voglio avere dei punti di riferimento, quando cercherò un modo per guadagnarmi da vivere, in attesa del futuro. Domani cercherò un'abitazione, un lavoro. Resterò qui finché non avrò capito qual è il mio futuro. Ho un bel gruzzoletto guadagnato durante i miei viaggi e forse posso farci qualcosa, anche se non so quanto questi soldi valgano nella valuta corrente.

Passeggiando senza una meta, raggiungo un'ampia piazza, circondata da portici sotto i quali erboristi e alchimista vendono la loro merce e le loro capacità. Al centro della piazza vi è un'alta statua di un uomo a cavallo. Sotto c'è scritto in una lingua che so leggere a stento - sebbene la mastichi - che si tratta del fondatore di Vesuvia.

La piazza è gremita di gente che transita, che si incontra, di risate e di persone che si urlano addosso. È un'atmosfera davvero calorosa che mi fa sorridere: è molto più grande della piazza del mio paese, ma non è nemmeno così grande da perdersi. Faccio un giro tutt'intorno, poi scorgo, alla fine di un portico, una scalinata che scende verso il basso.

Vesuvia è una città costruita a salite e discese e le case sono strette le une tra le altre; la gran parte di quelle che ho visto sono semplici abitazioni su più piani, dalla facciata rovinata dal vento e dalla salsedine. Ma qua è là ci sono delle vere e proprie ville con giardini e cancelli e alte torri cupolate sempre battute dal sole. Ho potuto sbirciare dentro a qualche giardino dai cancelli aperti ed è stato bellissimo vederli così rigogliosi e ricchi, all'interno delle mura. Il mio paese era un insieme di case schiacciato tra gli alberi, qua sembra un mondo parallelo in cui è tutto l'opposto: i boschi sembrano essere incastrati tra le mura.

Proseguo giù per la scalinata e arrivo in una grande, grandissima via colorata, piena di negozi e tende e odori sfiziosi che arrivano da ogni dove. Chiudo un momento gli occhi, lo stomaco che si lamenta. Sono sicuramente settimane che non mangio qualcosa di fresco e appena cotto. Ed è da quando sono partita che vado avanti di carità: non sempre le persone sono così gentili da darmi la parte migliore del pasto.

Quasi senza accorgermene, i piedi mi portano a una bancarella coperta da una tenda, fuori da un negozio da cui un uomo sta uscendo con in braccio un enorme vassoio di pane. Con gli occhi luccicanti e l'acquolina in bocca, osservo le pagnotte appena sfornate.

“Qualcosa mi dice che hai fame, ragazzina!”, ride il panettiere. Capisco poche parole, ma intuisco che cosa mi sta dicendo.

“Sì. Va bene moneta di Pakra?”, domando, speranzosa, tirando fuori una moneta d'argento. Non so quanto costi qui, il pane, ma sono certa di volerne tanto. L'uomo ride.

“Io la metterei via, quella, se fossi in te, ragazzina. Non ne hai una mezza di bronzo?”, un po’ sopraffatta da tutte quelle parole, gli porgo ancora la moneta.

“Tutto”, cerco di esprimere.

“Con questa”, dice lui scandendo le parole, “Ti prendi tutto il banco”.

Forse troppo.

Ritiro la moneta, torno a frugare nella borsa. Finalmente tiro fuori una moneta di bronzo, ma è delle Terre del Sud. Gliela porgo. L'uomo ridacchia.

“Quindi hai viaggiato molto, eh? Quanti soldi hai? No, aspetta, non dirmelo. Non ne voglio sapere niente. Vai in piazza, lì vicino c'è un tizio che ti cambia le monete in quelle di Vesuvia. Avrai un bel patrimonio. Lui è una persona onesta”, mi consiglia, dandomi quattro pagnotte e del resto. Ci mette un po’ a spiegarmi tutto nella maniera corretta.

Quando capisco, mi dirigo alla ricerca di questo Jospha di sua conoscenza. Torno su per la scalinata e arrivo nella piazza. Il sole è quasi all'apice del cielo prima che io riesca a trovare il luogo che mi occorre. Si tratta di un piccolissimo banco di cambio, in cui un omino magrissimo e molto pallido è chino su un grande librone, circondato di monete.

“Jospha?”, domando, titubante.

“Sono io. Chi mi cerca?”

“Sono Nymphna. L'uomo-pane mi ha detto di venire qui”

“Ah, il panettiere, certo. Vieni pure avanti. In che cosa posso esserti utile?”

“Quanto posso cambiare?”, gli domando.

“Tutto quello che vuoi”, mi risponde lui, “Dipende da quanto ti serve”.

Tiro fuori la borsa dei soldi dalla mia a tracolla, e cerco anche all'interno di quella grande qualche monetina che si è liberata. Jospha mi guarda con tanto d'occhi. Apre la borsa del denaro, tira fuori qualche moneta - ne ho molte, di diversi posti - e assume un'aria pensierosa. Poi mi guarda con sospetto.

“Ma tu chi sei?”

“Maga di Terre di Ovest. Un anno e mezzo di viaggio. Lavorato molto”.

Annuisce con aria saggia.

“E puoi provarlo?”

“Con monete”, replico, cominciando a sentirmi a disagio.

“E chi mi dice che tu non le hai rubate?”

Ora comincio ad arrabbiarmi. Questo vuole mettere le mani sui miei soldi. Sento il mio potere scorrermi nelle vene. Sono arrabbiata. Stringo la mascella sperando di calmarmi. Ma il mio potere è forte, ed è cresciuto molto nell'ultimo anno e mezzo, nutrendosi di vento e mare e sole. I miei capelli si muovono mossi da un'aria invisibile. Sento la mia ombra allungarsi e inscurirsi dietro di me. Farsi più pesante. Ora l'atmosfera è tesa. Jospha sembra farsi più piccolo e affonda nello schienale della propria sedia.

“D'accordo. Ho capito. Sei una Maga potente, sebbene giovane. Non ti ostacolerò”

La mia magia si calma. La brezza di potere si arresta. La stanza si svuota dall'ombra. Tutto torna tranquillo. Sebbene non vorrei ammetterlo, la verità è che non so ancora gestire bene il mio potere, si manifesta sempre tramite le emozioni. Forse è perché sono ancora giovane, o perché non ho avuto modo di meditare molte, nell'ultimo periodo, se non a Pakra, dove i maghi sono molti e vi è un ottimo rapporto con il popolo. È un paese molto ricco. Non ho guadagnato tantissimo lì, ma le monete del luogo valgono tantissimo.

Jospha comincia a trafficare in silenzio. Conta le monete, comincia una serie di precisissimo calcoli su diversi libroni che tira fuori da sotto il tavolo. Impila i soldi, prende delle altre monete, li paragona. Io aspetto, osservandolo. Vorrei capirci qualcosa per rendermi conto se mi sta fregando oppure no. Immagino di non avere scelta, di certo non posso imparare tutte queste cose nel giro di qualche minuto.

Alla fine, quando finisce, infila le monete nella mia borsa, così tante che la gonfiano in una maniera che non ho mai visto, tenendone una parte per sé, la commissione. Poi spinge il denaro verso di me.

“Che cosa hai intenzione di fare con tutto quel denaro?”

“Casa”, mi sento rispondere, senza riflettere. Lui annuisce pensieroso.

“Beh, non ti sarà difficile trovarla. Se ti interessa, c'è un intero quartiere quasi vuoto, il Distretto Allagato. Vai giù di là. A uno dei lati del porto lo troverai”.

“Grazie”

In fondo, tutto sta andando meglio di quanto pensassi. Ho già mangiato, cambiato i soldi e forse trovato una casa. Che siano dei segni? Che mi dicano che questa è la strada giusta? Mi dirigo verso la parte indicatami dall'uomo. Sto per passare nuovamente davanti al mercato, ma decido di cambiare strada e invece di scendere ancora giro verso destra, verso una parte della città ancora sconosciuta. In fondo, ho ancora tempo.

Entro in una via ombrosa a causa delle case a più e più piani dai tetti a punta. È meno trafficata delle altre che ho visto, ma proprio per questo, forse, mi piace particolarmente. Osservo le case: sono tutte molto carine, con i fiori sui davanzali, gatti pigri che si scaldano sulle pietre calde e mamme che tengono per mano bambini sorridenti. In fondo alla stradina si apre una piazzetta piccolina, con un paio di negozietti ai lati, ma per il resto tranquilla. Al centro c'è una piccola fontana. Oltre ai tetti si vedono le torri e le cupole, quasi sfuocate nella luce abbagliante del sole. È una zona bellissima.

Nymphna…  

Mi sento chiamare e mi giro bruscamente.

Sulla mia destra c'è una casa rovinata, l'unica della strada. Mi guardo intorno cercandone un'altra nella stessa condizione, ma non c'è. Mi stupisce che sia in queste condizioni, il tetto è ancora solido seppure i muri siano rovinati e le finestre distrutte, la porta scardinata. Pezzi di legno e calcinacci si intravedono da fuori. Mi avvicino e sbircio oltre a una finestra. La stanza centrale è abbastanza ampia, almeno così, quasi vuota. Al centro c'è un grande tavolo di solido legno, però senza una gamba. Anche le sedie sono ormai smembrate. C'è un grande camino sporco, illuminato da una lama di luce, sotto la quale si crogiola un gatto. Al fondo della stanza vi è uno spazio più piccolo pieno di vetri infranti, intuisco dal luccicare. Delle scale salgono verso l'alto, anch'esse in pessime condizioni. È da qui che arrivava la voce.

“Era la casa di due maghi”

Sobbalzo e mi giro. Di fianco a me c'è una vecchietta, un cesto di tuberi appeso al braccio. Ha parlato nella mia lingua.

“Come fa a…”

“Un tempo ho conosciuto gente delle tue parti. I tuoi capelli color carota e gli occhi d'oro non mi ingannano, ragazzina”, sta sogghignando sotto i baffi.

“E’ davvero così palese?”, domando con un sorriso.

“Per chi conosce la gente dell’Ovest, lo è. In molti avete i capelli di questo colore”

“Ha ragione”, concordo. La vecchietta ha uno sguardo oltremodo gentile. “Posso aiutarla con il cesto?”

“Ti ringrazio”, mi dice, passandomelo. È pesante ma le mie braccia sono temperate dal lavoro. “Ti ospiterò a casa mia, in mancanza di una tua. Sempre che tu sappia fare decotti e curare le ossa come la tua gente sa fare”.

“Ma certo. La ringrazio di cuore”

Camminiamo un po’ in silenzio, scendendo per un vicoletto verso il porto. Le scalette per scendere verso gli scogli è ripida ma il panorama è splendido.

“Quindi, eri interessata a quella casa?”, mi domanda.

“Mi ha come chiamata, se mi spiego”, dico. Lei annuisce con aria saggia.

“Lo credo bene. Tanti anni fa era la dimora di due maghi, Salim e Aisha. Loro venivano dai paesi al confine del Deserto. Hanno tenuto il negozio per tanti anni, e avevano un figlioletto adorabile. Chissà dove sono andati a finire tutti quanti, poveracci”, mi racconta. Maghi? Una casa di maghi? Ecco perché mi chiamava. Ancora sentivo la loro energia.

“Che cosa è successo?”, le domando, mentre lei svolta veloce in una viuzza secondaria appena prima di arrivare sul mare.

“Il Conte li ha chiamati. E loro non sono più tornati. E il figlioletto, ora ha un banco al mercato. È cresciuto solo, tra mille difficoltà”.

“Il Conte?”

“Ci sono tante cose che non sai, su Vesuvia, eh?”

“Non so nulla”, sospiro, “Ancora”. Lei ridacchia.

“Allora ti racconterò tutta la storia”.

Kahira, questo il suo nome, mi conduce nella sua piccola casa a nel Quartiere Sud di Vesuvia. La grande stanza che compone la maggior parte della cassa è illuminata dal sole. C'è odore di legno e di erbe, qui. Quando arriviamo, mi invita a pulire le patate, mentre lei accende il fuoco e comincia a gettare erbe e altre verdure in un grande pentolone pieno d'acqua.

Mi racconta la storia di Vesuvia. Un paese scosso da un governo quasi inesistente. E in continuo cambiamento. Poi, dieci anni prima, la svolta: un mercenario era riuscito a guadagnarsi il trono e il castello. Era diventato conte. Da subito si era capito che non si era trattato di un grande acquisto. Il conte era spesso crudele con i cittadini. Organizzava grandi feste che distraevano il popolo ma non davano da mangiare; era crudele e amava vedere ladri e altri criminali uccisi brutalmente per il suo divertimento. Quando girava per i quartieri prendeva spesso e volentieri di mira gli abitanti più deboli e fragili, che non potevano reagire. Faceva quello che voleva, arrogante e presuntuoso. Anni prima si era fatto creare un braccio d’oro, meccanico, con cui picchiava e feriva gli avversari, veri o immaginari.

Ascoltata la storia, mi rattristo. Pensavo che le cose andassero bene, nella città c’è una tale aria di spensieratezza che mai avrei pensato che potesse essere diverso.

 

Il giorno seguente, dopo aver fatto due decotti per Kahira, mi dirigo verso il magistrato della città, a cui ci si deve rivolgere per comprare una casa, come mi aveva spiegato la mia nuova protettrice.

“Voglio comprare la ex casa dei maghi”.

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Capitolo 3
*** Asra ***


Asra



La mattina mi alzo di buon’ora, faccio i decotti per Kahira, visito qualche casa che ha bisogno di una guaritrice. Il pomeriggio vado nella mia casa (casa mia! Non ci posso credere!) e cerco di metterla a posto.

Per ora ho ripulito dai vetri, tenendone alcuni colorati per farne poi un acchiappa-luce. La seconda cosa di cui mi occupo sono i mobili. Alcune sedie sono irrecuperabili e le accatasto in un angolo, insieme a gambe ormai inutilizzabili se non per farne un fuoco. La stessa sorte tocca ad alcuni scalini che ormai sono distrutti. Il tavolo è ancora in piedi e lo spingo insieme alle sedie in un angolo.

Mi passo la manica della camicia sulla fronte. Sono già sudata e affaticata. Mi guardo intorno per riflettere sulla prossima mossa, mentre bevo un po’ di acqua fresca dalla borraccia. Come farò a spostare i calcinacci più grandi?

“Ehi!”

Mi volto di scatto. Nel vano della porta aperta c'è un ragazzo. Deve avere giusto un paio di anni in più di me, ancora giovanissimo. La sua pelle è color cannella e i capelli sono bianchi come le nuvole - e delle nuvole hanno anche la consistenza. Non vedo bene i suoi tratti.

“Posso aiutare?”, chiedo, nella mia lingua ancora stentata.

“Che cosa ci fai qua?”, mi domanda, entrando con disinvoltura. Faccio un passo indietro, interdetta.

“Casa mia”

“No, questa è casa mia”.

La mia mente corre rapida. Deve essere il figlio dei maghi, quello che ha un banco al mercato.

“Ho comprato casa”, spiego, “Ho foglio”.

Rovisto nella borsa e tiro fuori la pergamena che attesta la proprietà della casa. Gliela passo. Lui la afferra e legge velocemente. Ora che posso vederlo meglio, noto che ha dei tratti molto delicati, un bel nasino dritto e gli occhi color dell'ametista. Sospira tristemente e mi porge il foglio, senza dire una parola.

“Allora non c'è più niente da fare”, dice, per poi voltare la schiena e dirigersi verso l'uscita. Guardo le sue spalle, mentre lui si ferma ad accarezzare la porta di pesante legno con aria nostalgica. Sento che è lui. È davvero lui, e questa era la sua casa. Provo un moto di simpatia nei suoi confronti. Sono giovane, è vero, e non ho mai affrontato le difficoltà che deve aver passato lui. Non mi sono mai stati portati via i punti di riferimento e nemmeno la casa. Finché non sono partita, le quattro mura in cui ho vissuto sono state sempre lì, per me. Il mio cuore si contrae dal dolore, pensando a come dev'essere per lui.

Il ragazzo gira verso destra e vedo la sua immagine passare davanti alla finestra, senza un'ulteriore sguardo alla casa. Ma dalle spalle curve avverto il suo dolore. Mi mordo un labbro.

“Aspetta!”, esclamo, correndo per strada. “Ehi!”.

Lui si gira e mi guarda con un misto di speranza e diffidenza.

“Tè?”, gli domando, facendo cenno alla casa. Lui scuote la testa.

“No, grazie. È già abbastanza doloroso così”.

Sta per girarsi di nuovo, ma lo rincorro.

“Puoi aiutare?”, chiedo. “Puoi entrare quando vuoi”

Mi guarda incuriosito. Sono solo poco più bassa di lui, posso guardarlo negli occhi senza problemi. Mi studia.

“Perché?”, chiede.

“Perché mi dispiace”, gli rispondo, senza saper bene cosa aggiungere.

“Vieni dall’Ovest?”

“Sì”

“Perché hai comprato la casa?”

“Perché mi ha chiamata”

Soppesa le mie parole. Mi studia ancora. Poi con un sospiro si arrende.

“Va bene”

È un po’ imbarazzante. Prima di offrirgli il tè promesso devo sgombrare il camino e accendere il fuoco. Afferro la scopa che mi ha prestato Kahira e tolgo vetri, polvere e cenere dal focolare. Tiro fuori dalla tasca un gessetto e disegno il simbolo che serve per accendere un fuoco. Il ragazzo mi guarda con attenzione. Finalmente una fiammella si alza dal cerchio che ho disegnato. Svuoto la borraccia nel pentolino appeso al gancio del fuoco e mi giro a guardarlo.

“Quindi… sei una maga?”, mi chiede a bassa voce. Io annuisco. Lui sembra rilassarsi.

“Vorrei negozio”, cerco di spiegare, aprendo un braccio a indicare la casa. Una luce sorpresa gli illumina gli occhi.

“Davvero?”, chiede, avvicinandosi finalmente al fuoco. Improvvisamente i suoi occhi sembrano più dolci. Io annuisco. “Anche io sono un mago. Mi chiamo Asra”. Mi tende la mano. La stringo con la mia.

“Nymphna”.

“Vorresti aprire qui un negozio di magia?”, domanda ancora.

“Sì”, rispondo piano.

Poi rimaniamo in silenzio. Passa qualche lungo minuto. Uno accanto all'altra, guardiamo il pentolino e controlliamo l'acqua, che pian piano diventa sempre più calda, finché un filo di fumo comincia a srotolarsi sopra di esso. Poi lui sorride.

“Sai, era tanto tempo che questo camino non veniva utilizzato. Alla fine, sono contento che qualcuno gli dia una nuova vita, soprattutto se vuole farlo tornare il negozio di un tempo”, mi sorride. “Mi spiace solo che non sarà mio. Ho sempre pensato che lo sarebbe stato, sai, ma non sono mai riuscito ad avere abbastanza soldi”.

“Forse tu puoi aiutare”, oso, a voce bassa. Lui mi guarda incuriosito.

“Che cosa intendi?”

“Tu sei di Vesuvia. Io no. Io non conosco bene lingua, posto, cultura. Forse possiamo lavorare insieme”, propongo.

Asra è sorpreso e mi guarda con tanto d'occhi.

“Dici davvero?”. Annuisco ancora. L'acqua ora bolle e lui si fa avanti per versarla nell'unica ciotola integra che ho trovato qua dentro. Ci sediamo entrambi a terra, io prendo dalla bisaccia alcune erbe e le lascio cadere in pizzichi nell'acqua calda. “Allora accetto”, mi dice all'improvviso.

Ci guardiamo negli occhi. E guardandolo, ho una sicurezza. Lui c'entra con il motivo per cui sono qui a Vesuvia. Questo ragazzo è sicuramente nel mio futuro, in un modo o nell'altro. Sento che mi posso fidare di lui. Gli sorrido.

“Compagni?”, domando.

“Soci”, dice lui, scoppiando a ridere, per poi spiegarmi il significato di questa parola che non conosco.

Beviamo il tè passandoci la ciotola l'un l'altro. È tutto così strano. Nel giro di pochissimo tempo ho trovato un aiuto e un socio, questa parola nuova che ora mi appartiene ed appartiene a lui, e sono convinta che tutto questo faccia parte del grande disegno che mi compete.

 

Nei giorni seguenti, Asra e io trascorriamo parecchio tempo insieme. Riusciamo a ripulire tutta la casa, in due; il camino ora è molto più pulito e utilizzabile, con una catasta di legna di scarto accanto per accenderlo; il tavolo grande e massiccio viene spostato nella stanza più piccola sul retro, che decidiamo di adibire a sala dei consulti. Asra utilizza i tarocchi, io le rune, e parliamo moltissimo di tutto ciò che concerne la magia. I nostri metodi sono molto simili e non ci vuole molto prima che cominciamo a domandarci che cosa succederebbe mischiando quelli più diversi.

Quando riusciamo ad accedere al piano di sopra, Asra è colmo di nostalgia. Il letto in cui i suoi genitori dormivano un tempo è ancora lì, in un'alcova accanto a una finestra. C'è una piccola cucina lì, che è resistita al tempo e ai vandali solo perché inaccessibile.

Rimettiamo tutto a posto. Buttiamo le coperte ormai marcite, laviamo con vigore i pavimenti e ripariamo con la magia le finestre.

Stanchi, una sera al tramonto ci sediamo al calore del fuoco, per terra, condividendo un tozzo di pane e un po’ di formaggio.

Il nostro futuro negozio sta pian piano prendendo forma. E, per me, anche una casa, e, ancora più importante. Un'amicizia.





NdA
Ciao a tutti! :) E scusate il ritardo. Dopo aver pubblicato lo scorso capitolo il mio computer è stato affogato dalla caldaia che perdeva, perciò sono rimasta senza. E dal tablet non riesco a inserire i capitoli su Efp. Una congiura! Ma ora rimedio, finché avrò un pc disponibile (sono a far vacanze dai miei). 
Un abbraccio e grazie a Another_brick_in_the_wall per la recensione e a tutti coloro che hanno letto! 

N. 

 

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