Il dubbio del diavolo

di Avareil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima ***
Capitolo 2: *** Parte seconda ***



Capitolo 1
*** Parte prima ***


Il dubbio del diavolo
 
Cosa desideri? Cosa brama il tuo cuore addolorato?
 
Diavolo, Mefistofele, Satana: il signore dei morti ha molti nomi.
Terribile, inquieto e algido, dal silenzio delle ombre egli bisbiglia perverse domande al cuore sofferente: “Cosa desideri?” chiede mellifluo mentre la coda serpentina lambisce le gambe del povero sventurato; “Cosa ti manca?” indaga interessato; “Cosa vorresti oltre ogni ragione?” sussurra seducente e maligno.
Nessuno resiste al richiamo suadente della voce roca.
Nessuno distoglie il volto impaurito dall’ombra nera che si staglia imponente contro il cielo appestato di zolfo e fumo denso.
L’osceno figuro, che batte un piede contro il pavimento con fare infastidito, resta in attesa di una risposta tremolante; ha tutto il tempo del mondo, il signore dei morti, eppure freme, si agita, è irrequieto: la lingua lambisce le labbra quasi a voler pregustare la succulenta rivelazione umana; perché egli gode delle sofferenze profonde, delle disavventure nobili, dei sacri intenti e dei profani risvolti, e mentre il fuoco dell’inferno scoppietta ai suoi piedi, egli soppesa, riflette, contempla quasi la possibilità di ingannare ancora, intrecciare altri fili, altri piani, schernire il trapassato con misterici scenari e alternative brillanti per poi sprofondarlo nelle fiamme della pena eterna e della delusione angosciante.
Ha molti nomi, il feroce sovrano dell’aldilà, molte facce, molte voci: è cattivo, perfido, irrequieto, ed anche dolce, sensuale, ardente. I folli, coloro che lo cercano nel buio della notte, dicono che i suoi occhi siano vitrei e che algidi osservino l’animella fluttuante al suo cospetto; altri, invece, più timorati, li descrivono simili a tizzoni ardenti, fumosi e cupi come il sangue versato presso gli altari nascosti di cui è il santo; è un essere perfetto nella sua decadenza, il Diavolo, e consumato da un tempo avvelenato, patisce un’eternità greve fatta di lamenti, urla e solitaria contemplazione del male.
Di lui si raccontano molte cose, ma non si ha il coraggio di proferirne l’antico nome.
Esso è andato perduto, strappato dalla bocca che ora sa solo di oro, incenso e mirra.
 
 
Δ
 
 
“Lei è solo una ciarlatana!”
 
L’urlo belluino squarcia le delicate cavità del suo essere per infrangersi contro le pareti finemente arredate con preziosi quadretti.
Furiosa, oscenamente offesa come un animale al quale abbiano appena ghermito una zampa nella tagliola, Cora Terrafranca si scaglia come un’Erinni contro la donna al suo cospetto che, ora terrorizzata, cerca di farsi scudo con le mani protese in avanti. A pagare il prezzo di quell’ira irrazionale sono le suppellettili eleganti, le fini pergamene e i fantomatici pendoli magici posti a mo’ di ornamento sull’immensa scrivania al centro della stanza, barriera tra le due.
Il braccio esile, infine, sollevato rigidamente, l’indice sottile puntato contro Eusapia Palladino, la sensitiva grassottella e pacchiana al suo cospetto, sanno di maledizione, condanna che perseguita.
 
“Voi siete una megera, una megera che si nutre del dolore delle persone! E pagherete, spregevole essere, pagherete in questa vita e nell’altra che certamente segue!”
 
Sei braccia la sollevano di peso, sei braccia d’uomo ne afferrano con mal grazia le membra e, come un sacco, la trascinano via dal salottino in fretta e furia prima che la rabbia animalesca e disperata mieta altre inanimate e preziose vittime.
Condotta all’esterno della garbata villetta nobiliare tra morsi e calci sfrenati, Cora non perde un istante e, appena libera dalla stretta altolocata, grida al piccolo e malsano mondo del suo quartiere tutto l’odio, la disperazione e l’angoscia lacerante in maledizioni scandalose contro Eusapia Palladino, se stessa e quel dio inesistente che le ha strappato via tutto in un sol colpo.
Era stata una stupida, una sciocca a fidarsi, a dare ascolto a quella proposta suggeritale nel più nero dei momenti, quando ancora il corpo di sua madre giaceva caldo sul tavolo dell’anatomista.
Delle bestie, bestie senz’anima e prive di dignità, l’avevano sedotta con promesse che sapevano di speranza celeste e lei, misera e tapina, aveva preferito fidarsi di quelle, false benefattrici, piuttosto che rincorrere l’ancora flebile filo della ragione.
La seduta spiritica, ovviamente, non aveva alleviato alcuna sofferenza: al buio, circondata da un carosello di signorotte ingioiellate, Cora aveva immediatamente percepito la menzogna di quegli sfioramenti ultraterreni, l’inganno degli ululati sommessi, l’impostura di quelle strane, stranissime coincidenze spiritiche partorite dalla mente scaltra e terribile della sensitiva; alla già fievole e sciocca speranza era seguita l’angoscia soffocante.
Soldi? Avevano voluto soldi, sì, ma non per quelli si avvilisce mentre volti ignoti e penosi le si avvicinano lungo il viale alberato nel vano tentativo di aiutarla a risollevarsi dal suolo polveroso. Non le importa delle monete rubate, dei monili ceduti né, tantomeno, della fama di quella sorta di postribolo imbiancato in cui lei, signorina per bene, si era dovuta recare per incontrare la spiritista famosa: odia quella donna per averla illusa, odia se stessa per essersi lasciata ingannare da un desiderio tanto impossibile e sciagurato, odia sua madre per averla abbandonata… e odia anche quei dannati cavalli.
 
Come si può dire addio a una madre?
 
Le gonne sporche, logore, strappate in più punti, l’abito nero dall’orlo scucito e sudicio: indossa ancora l’abito funebre – quello nuovo, relegato, fino a qualche giorno prima, nell’angolo più nascosto dell’armadio – la veletta, invece, non sa che fine abbia fatto.
Il ricordo di condoglianze indistinte, udite distrattamente dopo la semplice celebrazione, si è fatto brusio barbarico, eco risonante da una sponda all’altra della mente stanca; le immagini sorridenti del volto materno, invece, abitano gli occhi gonfi di pianto e si scontrano con violenza con quell’ammasso di carni martoriate e a stento riconosciute abbandonate sul tavolo medico.
 
Era quella, sua madre? Corpo distrutto e scomposto, calpestato dalla furia di animali imbizzarriti?
Era veramente quello, ciò che rimaneva dell’essere a lei più caro?
 
La casa familiare, ora deserta e buia, la osserva silenziosa, quasi a lutto anch’essa: non risuonano risa per i lunghi corridoi preziosi né battute divertenti riscaldano il salone lussuoso ed elegante; nessun 
saluto materno l’accoglie dal piano superiore con un “Come state, figlia mia?” tanto lontano da sembrare eterno, effimero, sfuggente.
 
Come si può dire addio a una madre?
 
Cammina lentamente, sorta di marcia funebre domestica, mentre lembi di tessuto sdrucito e sudicio abbandonano, ad uno ad uno, il corpo gracile e consumato: cinta solo di una sottile sottoveste e ammantata di disperazione, Cora non è capace di sollevare il capo verso la camera matronale: squarcia lo stomaco, il dolore, spezza il fiato, la consapevolezza di non saperla più lì, abbigliata come una nobile sovrana d’Oriente e pronta per la notte serena.
Al cospetto di quell’assenza oscena di cui non riesce ancora a comprendere il senso, Cora desidera credere per maledire, sapere dell’esistenza di un dio onnipotente e bestemmiarlo per averle strappato la madre così, per diletto, congiura o punizione; ma l’orologio, impietoso, segna già l’ora coi suoi rintocchi: la signora Terrafranca è morta, oramai, da tre giorni, e nessuno ha saputo dirle “perché”. Un sorriso sciagurato, forse folle, le stira le labbra secche e spaccate in più punti: perché di quella ignobile morte è nota la dinamica, scritta e riscritta sulle prime pagine dei rotocalchi locali, scivolata poi di bocca in bocca nei saloni raffinati; la signora madre, la nobile Demetria Terrafranca, ha trovato la morte nella più sfortunata delle maniere, travolta da cavalli imbizzarriti e senza padrone quando il piede aveva già intrapreso la via dell’attraversamento del viale principale. Distratta, forse, da chissà quale chiacchiera, era stata colpita, investita, calpestata; di lei, madre amata, rimanevano solo dei cocci, pezzi violati e martoriati che Cora, unico membro della famiglia, aveva dovuto riconoscere, ricomporre, rivestire.
Anche allora, al cospetto di un imbarazzato e addolorato medico, aveva sorriso impercettibilmente, sempre con quella strana luce delirante nello sguardo umido: si domandava, infatti, come fosse possibile, anche solo lontanamente immaginabile, rivestire un corpo distrutto da cavalli inferociti, sciolti in corsa dissennata; fortunatamente, però, a distrarla dalla riflessione macabra, era bastato un riflesso laterale: qualcosa brillava, lì, in quella camera appestata dal tanfo della morte.
Eccolo, l’unico superstite dell’infelice incidente, monile sacro per la madre tanto legata alle tradizioni familiari: l’anello d’oro, quello tramandato di madre in figlia di generazione in generazione e antico più del tempo stesso, era rimasto ferocemente attaccato a quello che, un tempo, era stato l’anulare della povera donna.
Con mano ferma, mossa da una lucida sragione, Cora lo aveva afferrato con delicatezza, sfilandolo dal dito insanguinato e rotto: il gioiello, impreziosito dal motivo di una spiga rigogliosa e ora lordo di sangue, rappresentava loro, donne di Terrafranca, che del suolo libero e rigoglioso erano le signore da secoli.
 
Vita derisoria: loro, padrone di fondi verdeggianti, venivano rase al suolo, estirpate, una ad una, come erbe cattive.
 
Orfana adesso, figlia di un padre assente, conteso tra sua madre e mille altre donne, mille altre famiglie, Cora era rimasta sola, padrona di una casa enorme, signora di ricordi angoscianti, donna giovane, troppo giovane per far fronte alle terribili voci che, nel buio della notte, si insinuano dolci come il miele nelle orecchie e scivolano fino al cuore per ghermirlo in una trappola appiccicosa e soffocante…Eusapia Palladino, le dicono, potrebbe aiutarla a mettersi in contatto con la madre, è una 
famosa spiritista, stupisce salotti benestanti, turba le menti dei presenti: “Se andrai da lei saprai di tua madre” le dicono.
 
“Lei è solo una ciarlatana!”
 
Piange al ricordo dell’ignobile inganno, mentre mani feroci artigliano la chioma brunita e le sue sfortunate ciocche: in ginocchio, adesso, ai piedi del talamo materno, si ritrova a pregare, pregare dissennatamente perché se solo fosse esistito qualcuno in grado di rendergliela, restituirgliela, magari avrebbe anche creduto, forse sperato.
Fosse esistito qualcuno in grado di ascoltarla, di ascoltare lei e la sua preghiera addolorata, allora lei l’avrebbe scongiurato quell’essere, inginocchiata ai suoi piedi l’avrebbe supplicato per la madre tanto amata e tanto presto strappata alla vita.
 
Ma non esiste più nulla per lei, ora che la madre è morta.
 
Chiusa in un mutismo addolorato, serrato da labbra riarse dalla sete e dalla fame, Cora, infine, spranga la porta della dimora familiare.
 
Che il sonno eterno si porti anche lei, via per sempre.
 
 
Δ


È la notte il palcoscenico del male, è tra le sue tenebre che si insinuano i diavoli tentatori, nelle sue spire fumose danzano gli incubi, esseri malevoli travestiti da dolci sogni. Quando il sole ha oramai compiuto il suo giro e, stanco, si stende sul fondo dell’Oceano, ecco risorgere patimenti voraci, tentazioni frenetiche: soffre la follia, Cora, deprivata di qualsiasi nutrimento e, non più lucida, trema nel corpo, vacilla nel cuore, mentre gli occhi, disperati e serrati con forza, cercano la cara figura materna nelle ombre dietro le palpebre.

“Madre…”

Il bisbiglio umido si perde nella notte, attutito dalle ginocchia strette contro il petto:

“Madre, vi imploro, venitemi in sogno, baciatemi sulla fronte, carezzatemi il viso un’ultima volta.”

Ripete la preghiera, strana nenia avvilita, cullandosi avanti e indietro sull’immenso letto: stretto tra le dita sottili e gelide riposa ancora l’anello materno, quello che ha dovuto sfilare dal dito consumato; quello che, ancora caldo e sporco di sangue, ha portato alle labbra per un bacio devoto.
Sono passati giorni e il maledetto non ha ancora smesso di raccontarle la storia terribile e rivoltante: se lo osserva, vede il corpo sfatto della madre, se sfiora la spiga, ne ricorda le interiora rovesciate; se gratta via il sangue, percepisce il tanfo di morte appiccicato sulla pelle. È con l’immagine degli amabili resti di sua madre scolpita nella mente che abbandona freneticamente il letto per raggiungere il catino vicino la finestra socchiusa: rimette l’anima in quella bacinella di fine porcellana, riversa ogni dolore, ogni liquido residuo per poi, sfinita, crollare al pavimento rannicchiata su se stessa.

L’anello, dimenticato a pochi centimetri da lei, l’osserva muto.
 
 
Δ


Un brivido sinistro ed ecco che l’illusione fumosa del sonno si disperde; ancora rannicchiata mollemente vicino alla toletta, Cora ha in dono dal fato solo pochi istanti, finiti attimi di calma prima che la ferita del cuore, in un nuovo squarcio, la dilani con il peso della conoscenza: sua madre non è più e a lei non rimane che una casa vuota e un anello sozzo di sangue.

L’anello.

Rapida, quasi con sragionata frenesia, si protende verso il pavimento nella disperata speranza di trovare il monile perso solo qualche istante, minuto o ora prima per colpa dell’improvvisa nausea; ma è ancora buio e ombre troppo spesse, quasi surreali, soffocano qualsiasi ricerca.

“Cosa cercate con tanta dedizione, giovane signora?”

Una voce, sussurro spettrale sottile e sibilato, serpeggia ad un tratto tra le pieghe delle lenzuola e i risvolti delle tende per, infine, correre maligno lungo le gelide vene dei polsi di Cora; immobile come una lepre braccata e con ancora le mani protese in avanti, ella trattiene il flebile respiro.

“Cosa desiderate, piccolo, sfortunato essere? Cosa brama il vostro cuore addolorato?”

È successo, alla fine.
Era stata avvisata, avvertita e lei, piccola sciocca, non aveva voluto prestare ascolto a nessun consiglio. Pazza, completamente fuori di senno e persa nel vortice della follia addolorata, adesso ode voci surreali di esseri inesistenti che, preoccupati, o forse semplicemente derisori, la seducono con domande gentili, la confortano con tono carezzevole, la provocano con interrogativi taglienti.
Che sia un’illusione? Consolazione partorita dalla mente sfinita? O, piuttosto, un becero ladro introdottosi in casa, sicuro della sua enorme solitudine?
Il capo brunito, sollevato dal suolo a fatica, rivela occhi gonfi, rossi, cerchiati da ombre scure ed incapaci di scorgere alcunché in quella camera buia, dove nemmeno una fiamma di candela è stata accesa per lei.

“Se siete un ladro, signore, non disturbate il riposo di chi soffre un lutto. Prendete il denaro dalla stanza ad ovest e andate via da questa casa; ma se siete un fantasma, sciagurata proiezione della mia mente, allora vi imploro di mostrarmi per un’ultima volta mia madre.”

La risposta folle, feroce in quella lucida razionalità toccata dalla sventura, fuoriesce secca dalle labbra riarse. Cora, figurina asciutta e ancora prostrata al suolo, scruta il buio con occhi sbarrati: non teme più nulla. Non ha più nulla da perdere.
Una risata roca, quasi gemito gutturale, riempie la stanza avvolta dall’ inviolabile mantello della notte.
 
“Voi siete un essere particolare, sfortunata Cora.”

Il tono di voce basso, morbido e sinuoso la invita a prender parte alla danza perversa del Demonio: vuole insinuarsi nei pensieri disperati di quella, terribile essere, ghermire i suoi sospiri strozzati, abbracciarne le sofferenze più profonde per stritolarla tra le fauci fameliche.

“Chi siete?”
 
Nessuno e molti”

“Come conoscete il mio nome?”

“Conosco molte cose.”

“Non rispondete ad alcuna domanda.”

“Mi avete invocato a lungo, terribile signora, è bene che ora siate voi a prender parola: cosa desidera il vostro cuore turbato?”

L’ombra, di cui non si scorge che una sagoma di fianco all’uscio della porta socchiusa, sembra il frutto di un’allucinazione partorita dal corpo sfinito dalle deprivazioni: per tale motivo, esausta e avvilita, Cora risponde con rabbia e dolore, rivelando, scioccamente, la profondità della propria sofferenza.

“Mia madre, voglio indietro mia madre”, geme mentre lacrime rotolano lungo le guance morbide.

“Perché?”

“Non ho nessun altro. Sono sola al mondo, adesso.”

Non ha fretta, lo spettro, non forza la risposta, non proferisce verbo mentre quella, che ondeggia pericolosamente sul filo della consunzione, cerca di frenare i gemiti angosciati che le squarciano il petto.

“Qual è il vostro nome, signore?”

“Io possiedo molti nomi.”

La risposta ambigua, proferita con tono carezzevole, è accompagnata da un leggero svolazzare di tende: l’aria della stanza si è fatta irrespirabile, ammorbato palcoscenico per le ombre spettrali ora lunghe contro le pareti finemente arredate. Trema il cuore umano, freme la mente debole.

“Con quale nome posso io invocarvi?”

“Lucifero lo devo al padre mio, Belzebù agli ebrei eletti e Satana ai miei nemici. Mefistofele, invece, fu per la minuziosa precisione nel tener conto dei miei adepti e Principe delle Tenebre lo scelsi da me, dolce signora, per sbandierare alle schiatte angeliche il vero sovrano di voi mortali.
Nascosto, sempre nascosto nell’oscurità di cui sono il signore, odo le preghiere ardenti e rispondo.
Io rispondo sempre.”
 
“Ecco. Voi non esistete. Non potete esistere.”

Spezza l’incanto, la giovane scettica, non crede più a nulla di esoterico. Sua madre è morta. Eusapia Palladino ha già infranto ogni illusione.

“Mi offendete, signora. Non credete alle mie parole?”

“Assolutamente no, signore. Voi vi prendete gioco di me.”

Il Diavolo è stupito, quasi piacevolmente stregato da quella cosa fragile ancora aggrappata alla ragione. È affascinato dall’aspetto consunto, dal profumo di sofferenza, dal fremito delle carni infreddolite.
 
“Cosa sareste disposta ad offrirmi per questo folle desiderio che infiamma il vostro cuore? Cosa sareste disposta a darmi in cambio di un ricongiungimento con vostra madre?
Io posso rendervela, restituirvela…”
 
È sufficiente un unico istante di lucidità e il semplice richiamo di quella formula le fa sgranare gli occhi, accelerare il respiro: quell’essere ambiguo, fatto d’ombra e zolfo, recita la sua preghiera, quella urlata ai piedi del capezzale materno, bisbigliata contro le ginocchia tremanti.

“Avete detto chiaramente che, qualora fosse esistito qualcuno in grado di rendervi vostra madre, di restituirvela, magari avreste creduto… che se fosse esistito qualcuno in grado di ascoltarvi, di ascoltare la vostra preghiera addolorata, allora voi lo avreste scongiurato, quel giusto salvatore. Avete detto che, inginocchiata ai suoi piedi, l’avreste supplicato per la madre tanto amata e tanto presto strappata alla vita.”

È diabolico, Satana, gioca con le parole, turba i sentimenti. Recita la preghiera avvilita e ne stravolge il senso. È conturbante, seducente, feroce nella sua arringa e mentre la osserva, ancora saldamente aggrappata alla parete, sente quasi un fremito arrogante e primordiale scuoterlo dentro. La vuole. Desidera quell’anima.

“Dunque? È tanto forte il desiderio di averla con voi?”

“Sì.”

“E cosa sareste disposta a cedere?”

“Qualsiasi cosa.” bisbiglia in un sussurro che la fa apparire ancora più giovane dei suoi pochi anni.

“Siete certa della vostra risposta?”

Un lungo silenzio gela l’ambiente: solo il respiro accelerato di Cora scandisce il tempo immobile.

“Sì, purché non si arrechi male a nessun altro all’infuori di me, signore.”
 
Piccola, piccola innocente anima: il demone quasi si impressiona per quella lucidità folle che sente battere nelle vene minute e nel cuore incredulo. Brama quell’essere, ne desidera le carni, ne pretende l’anima bella: è strana l’umana al suo cospetto.

“Da troppo tempo patisco l’aridità del mio regno: esso mi svilisce con le urla e gli atroci tormenti e non provo più alcun conforto nella solitudine dei castighi. Esigo una consorte, una sposa, una compagna, Regina d’Oltretomba e dei dannati che lo abitano. Accettereste questa mia offerta? La vostra anima, la vostra mano, in cambio del ritorno della madre?”

Freme nuovamente, Lucifero, ripete più volte la domanda e batte il piede mentre un respiro impaziente solleva il suo petto: non è abituato a patti del genere. Ne ha intrecciati di peggiori, scellerati, ha fatto proposte più ardite, meritevoli di scomunica, ma questa lo tocca da vicino. Esigere la mano mortale significa ammettere la solitudine, il patimento, l’angoscia di un’esistenza tormentata. Proporre una clausola del genere vuol dire confessare una sofferenza antica, una brama famelica e mai sazia: formicolano le mani artigliate, ribolle il ventre demoniaco mentre sordidi, troppo umani 
pensieri, travolgono la mente solitamente scaltra. Ha tutto il tempo del mondo, il Diavolo, ma non vuol attendere.

“Accettereste?”

“Vi prendete gioco di me, sciagurato signore? Con che tempo potrei stare al fianco di mia madre se proprio quel tempo voi lo reclamate per intero per voi?”

Ma le luci dell’alba si fanno più chiare, le ombre fuggono dal cielo e nessuna parola giunge in risposta alla corretta e razionale osservazione della giovane sconvolta: non ama il giorno, il signore dei morti, disprezza i raggi caldi e accecanti; per questo motivo, avvolto in un pesante drappo nero, tergiversa ancora solo pochi istanti, giusto il tempo di assaporare con gli occhi di nebbia, quello strano e sconvolto rossore che ha imporporato il volto e il collo e il petto delicato dell’umana. Le rivolge un inchino rispettoso, quasi dal sapore d’altri tempi, diavolo galantuomo, e con un bisbiglio, che sa di minaccia e promessa al contempo, la gela contro la parete elegante.

“Domani notte vorrò una risposta, mia signora” mormorio basso e carezzevole simile alla buonanotte sussurrata dalle madri contro la fronte dei bimbi addormentati.

Cora ha il coraggio di muovere un passo solo al cantare del gallo.

È mattina.

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Capitolo 2
*** Parte seconda ***


Ha molti nomi, il maligno, fa molte promesse e stringe innumerevoli patti: non ne rispetta nessuno, ma esige un guadagno, sempre.
Per questa ragione – e mille altre che non ha il coraggio di ammettere con se stesso, infido demone – la notte seguente è puntuale nel suo presentarsi nell’ora più nera, quando l’animo è turbato e la mente sconvolta da lugubri pensieri.

“È permesso?”

La sottile allusione all’ingresso è largamente anticipata dal suo farsi strada nella camera oscura. Un solo passo oltre la soglia e il suo odore, che sa di tempo, ambra e zolfo, riempie le narici umane travolgendole in una spirale olfattiva oscenamente seducente: è alto, il signore dei morti, abbigliato di nero e interamente celato all’occhio umano da ombre impenetrabili.
La osserva con interesse mentre quella, muta, gli rivolge solo un breve cenno del capo. Gli dà le spalle, la preda sciocca e, seduta alla scrivania, continua a scarabocchiare la siluetta di una spiga arcuata alla luce di una candela fioca; il calore che le illumina il volto la fa sembrare ancora più assente al suo cospetto, mostro che non conta più i millenni.

“Avete soppesato l’importanza del vostro desiderio? Io attendo ancora una risposta.”

La giovane, quasi richiamata dalla voce bassa e leggermente metallica, in silenzio posa la penna di fianco al calamaio, pulisce la mano da residui d’inchiostro e, con una lentezza che la rende simile a creatura effimera, abbandona la sedia per ergersi stanca, ma fiera, a pochi passi dall’ombra.
Ne scruta i tratti, ma un’aria nera sembra renderlo indistinto ai suoi occhi umani.
 
“Desiderate una sposa, crudele signore, ma come posso, io, accettare uno sposo nascosto? Dite, Diavolo, siete forse osceno come le vostre sciagure?”

Vorrebbe essere più timorosa, accorta, attenta, vorrebbe essere in grado di frenare la lingua, chinare il capo e sollevare le mani in preghiera salvifica, ma il dolore della perdita atroce l’ha corrotta, toccata, maledetta: anche lei sente il fetore della morte tra i capelli, nelle pieghe delle vesti e nella bocca riarsa.

“Giudicate voi stessa.”

Sogghigna, il maligno, apprezza la lucidità folle che anima lo sguardo turbato e per questa ragione, negli occhi dolci color miele rivela i propri, grigi e spettrali eppure vivi e scandalosi e, insieme ad essi, le sembianze mefistofeliche.
È bello, pensa con una fitta al cuore, è bello in maniera sragionata, diabolico nella parvenza umana che mal nasconde dettagli mostruosi.
Rimane senza parole Cora, per un istante trema al pensiero di se tra quelle braccia; perché la percepisce distintamente la tentazione di quel corpo, la malia del profumo ultraterreno, e quasi vacilla mentre il Diavolo le gira intorno come fa’ una fiera famelica.
 
“Perché io?”

“Perché no? Il diavolo opera in modo imperscrutabile …”

Quanto è blasfemo quell’essere che ora le sorride furbo rivelando canini da belva. È oscenamente calamitante, fa leva sulla sua sofferenza e gioca con il suo animo in frantumi.

“Ricordo la vostra proposta, oscuro signore, e sono costretta a rifiutarla. Non vi concederò la mia anima. Mai.”

“Allora niente patto.”

Improvvisamente gelido, quasi offeso da quella risposta che lo tocca nell’orgoglio antico, il diavolo allunga una mano artigliata contro il volto etereo e pallido della donna per saggiarne un’ultima volta la morbidezza.

“È un vero peccato, sfortunata Cora. Vostra madre rimarrà profondamente addolorata per colpa di questa illogica scelta e io con lei. Trovo stranamente piacevole la vostra compagnia e sarà un vero peccato privarsene.”

Ecco la lusinga addolorata del Diavolo, la parola ben orchestrata che smuove il cuore con il senso di colpa.

“Addio.”

“Aspettate!”

Il piacevole risvolto si concretizza in un istante di fremente agitazione. “Vi darò il mio tempo.”

“Osate contrattare con il diavolo?”
 
È spiazzato, Mefistofele, disturbato dalla vicinanza che egli stesso ha preteso e conquistato in un sol movimento: non presta attenzione alle parole di quella quanto piuttosto alla sinuosa danza della bocca spaccata vicinissima al polpastrello; non immagina alternative o patti ancor più intricati da proporle, ma osserva la vestaglia da notte candida e pesante cadere dritta fino ai piedi nudi, ostacolo inconsistente tra lui e il corpo fragile e stanco. Il profumo di fiori appassiti, poi, mescolato a quello della pelle estenuata, lo travolge completamente, sicché diventa impossibile, per lui, rivestire il ruolo di entità bieca e malevola.
La invita a proseguire nella sua controproposta mentre gli occhi assaporano la carne della bramata sposa, solo sfiorata in carezza leggera.
 
“Vi chiedo di riavere con me mia madre tra i vivi, spettrale essere. Lasciate che passi con lei almeno sei mesi della mia esistenza, poi, la restante parte dell’anno sarò vostra sposa, in un ciclico andare e venire dal mondo dei morti di cui io e voi solamente condivideremo il segreto.”

“E quando il tempo di vostra madre sarà concluso?”

“Che anche il mio tempo si concluda, secondo natura, e allora verrete a prendermi alla soglia del regno dei vivi. Una volta varcate le nere porte sarò vostra compagna, in eterno.”

Resta in silenzio, l’oscuro signore, per un tempo che sembra infinito: soppesa le parole di quella nella maniera più lucida possibile, ma è sempre stato irrequieto e irruento; non sa placare gli istinti né, tantomeno, godere delle attese. Vuole tutto e lo vuole all’istante.

“Scriviamo”, sussurra impetuoso mentre dirige ampie falcate verso la scrivania ingombra di carte. Pesca un foglio candido, muove la penna sinuosa e sogghigna quando percepisce il corpo caldo della donna farsi avanti, di fianco al suo, per sporgersi tremante nel vano tentativo di cogliere qualche lemma.

Voi, Cora Terrafranca, cedete a me, Satana, demone giusto, il vostro tempo, in vita, e la vostra anima, in morte, in cambio di un ricongiungimento con la madre trapassata.”

“È corretto?”

“Sì.”

“Firmate allora.”

Sorride ferino quando quella segna il nome elegante di fianco al suo, ed ha una strana luce negli occhi mentre, con fare sapiente, afferra la ceralacca color cremisi e ne scioglie una generosa quantità sulla carta immacolata, giusto sigillo di fianco alle firme appena vergate. La invita a indossare l’anello materno, quello che tiene legato morbosamente al collo con una catenina d’oro, per meglio vincolare se stessa e la madre al suo nome eterno.

“Domani notte vostra madre vi sarà restituita. Tre volte chiamerà il vostro nome. Voi non rispondete ma, seduta, attendete che varchi la soglia.”

Dice restituita, Mefistofele, e non accenna ad altro prima di sparire, ancora una volta, alle prime luci dell’alba.
 

Δ

 
Lo ricorda distintamente quel terribile vizio materno, cagione di innumerevoli pianti: stesa sul letto e ancora con l’anello stretto tra le dita, Cora fruga nella sua mente alla ricerca di una distrazione in grado di tenerla lontana dal pensiero del patto con il Diavolo. Quando era bambina, ad esempio, più e più volte era scoppiata in pianto dirotto per colpa della madre che, volendo eludere spiacevoli incontri con signorine ingioiellate, possibili amanti del padre, sgattaiolava in casa dall’ingresso domestico laterale – quello che dava sui campi – per palesarsi nel bel mezzo della sala in assoluto silenzio. Solitamente, la dolce madre, procedeva poi di soppiatto fino alle sue spalle per abbracciarla stretta – facendola spaventare a morte; altre, invece, la ignorava, turbata da qualche antico pensiero. Il loro gioco era diventato un’usanza simpatica che anche lei, da adulta, aveva fatto sua: come la madre, pure lei preferiva la compagnia delle piante silenti al chiacchiericcio becero delle signore della nobiltà vicina.
Se serra le palpebre, poi, percepisce distintamente il piacere ridente e sottile di quella volta in cui era stata lei a palesarsi alle spalle materne per un abbraccio vendicativo, causa di un urlo di spavento e tante risate.
Sì, avevano riso fino alle lacrime.

Sono passati anni oramai eppure quel ricordo, e altri mille simili a questo, diventano l’appiglio sicuro al quale Cora può aggrapparsi quando il dubbio di aver compiuto una scelta folle inizia a tormentarle il cuore.
Ha ceduto se stessa, si ripete mentre acqua fresca inizia a bagnarle la lingua riarsa.
Ha scambiato la sua vita per quella della madre, recita mentre chicchi di frutta saporiti e dolci invadono, con i loro succhi dissetanti, il corpo consunto.
La madre avrebbe fatto lo stesso per lei, si convince mentre sceglie con accuratezza l’abito da indossare per l’occasione gioiosa.
Eppure qualcosa non torna.
Le è stato insegnato che non esiste sortilegio in grado di richiamare in vita i morti, che solo il Diavolo può tentare una simile impresa, ma che egli esige sempre un prezzo terribile, troppo alto per un desiderio che mai viene esaudito in pieno. Perché il demone gioca, confonde e tormenta, sibila patti, ne intreccia di diversi e tesse tele di ragno indistricabili: le catechesi infantili, quelle a cui ha partecipato per poco, abitano ancora la parte più inconscia della sua anima e bisbigliano ammonimenti e scongiuri.
“Che sia tutto un inganno?” si domanda mentre il giorno si fa pomeriggio caldo e timori sempre più sconcertanti lacerano il cuore già provato dalla scellerata menzogna di Eusapia.
Il Maligno è perverso, oscenamente scaltro: lo sa, l’ha sempre saputo, ma anche lui ha siglato il patto, anche lui ha sottomesso l’indole feroce al contratto legittimo; non può averla ingannata, raggirata, illusa così, per diletto e cattiveria. Eppure ne sarebbe in grado, capace per indole, per natura.
Il duello mentale, silenzioso e morboso, sfinisce Cora: non ha più il coraggio di mettere in dubbio nulla, non ha la forza di far fronte ad un’altra possibile amara delusione. Meglio credere.
Per questa ragione rimane in attesa con il cuore cavalcante e, seduta rigidamente sulla poltrona della sala, contempla il pendolare ritmico del grande orologio antico aspettando pazientemente che qualcuno invochi il suo nome mentre le prime ombre oscurano il cielo.
 

Δ


“Cora.”

La voce della madre giunge improvvisa, simile ad un’invocazione lontana: è chiara e armonica, ma qualcosa, minuscolo dettaglio, la rende diversa, quasi non bella, non viva; ma freme la figlia, ignora la minuzia. Si impone di rimaner seduta e muta mentre il miracolo si realizza.

“Cora.”

Le mani gelide artigliano i braccioli della poltrona elegante: freme ancora, la giovane, ma non per gioia; il secondo richiamo giunge biascicato, storto, malato. Cora non ha l’animo di pensare, ragionare o semplicemente porsi delle domande di cui teme morbosamente la risposta.
Ma è il terzo richiamo a turbarla nell’intimo, a gelarle il sangue. Diventa, infatti, impossibile ignorare il malsano che appesta la casa e quella stessa voce, ora mormorio contorto, accozzaglia di vocalizzi storti e sofferenti, ansimati e sputati con dolore.
Ha detto ricongiungimento, il Maligno, le ha promesso un suo ritorno, Satana.
È quello il preciso istante in cui la giovane infelice comprende il piano del Diavolo, l’inganno terribile; eppure non le basta, non le è sufficiente.
Allunga una mano verso il camino e impugna l’attizzatoio mentre ode l’uscio scricchiolare e passi sghembi e zoppi muoversi verso la sua direzione. Non emette un fiato quando percepisce un respiro spezzato ammorbare l’aria buia della camera e non freme nemmeno quando due braccia consumate l’avvolgono da dietro, ricordo spettrale del gioco d’infanzia.
È sua madre quell’accozzaglia di viscere e muscoli, ma a stento reprime un conato di vomito quando l’occhio scorge le sembianze martoriate e purulente e putrefatte. È sua madre quell’essere martoriato e ricomposto contro natura, ma a stento trattiene le urla mentre il fetore della morte le si appiccica addosso, proprio come il sangue nero che ora le macchia le fine vesti, le mani, il volto.
 
“Madre, mia dolce madre…cosa vi ho fatto?”

Gliel’ha restituita, il nero signore, le ha ricongiunte, il terribile Lucifero: perverso e maligno ha mantenuto la promessa, a suo modo.
Il senso di colpa, il dolore e lo sdegno divorano il cuore, turbano la mente sfinita e guidano verso il baratro dal quale nessuno fa ritorno: basta un unico movimento violento e l’attizzatoio, brandito a mo’ di arma, spegne, ancora una volta e ancora con violenza, l’esistenza dell’essere a lei più caro.
Le mani lorde di sangue putrido stringono il ferro freddo mentre nuove urla riempiono la sala appestata:
 
“Maledetto essere! Dove vi nascondete, infido spettro? È così che mantenete le vostre promesse?”

La giovane folle non si accorge degli occhi grigi che la osservano al di là del grande specchio, occhi nebbiosi, forse tristi, magari soddisfatti, certamente consapevoli del compimento del piano spregevolmente ordito.

“Cora.”

Ecco la voce ben conosciuta, temuta, cercata e invocata con odio, mentre la disperazione acceca ogni residua lucidità.
 
“Mi avete beffata. Avete tradito il patto!”

“Avreste dovuto prestare più attenzione.”

Il gelido silenzio viene infranto da una risata isterica e consapevole: Cora osserva il demone con sguardo folle.

“Sapete, caro signore? Il peccato è condiviso. Anche voi avreste dovuto prestare più attenzione.”

Mefistofele è spiazzato, turbato quasi dalla risposta di cui non coglie il senso: a pochi passi da lei l’ammira agitarsi convulsamente nel vano tentativo di ripescare l’anello pendente dalla sottile catenina.

“Cosa avete intenzione di fare, donna?”

Stende una mano verso quella, il fremente signore dei morti, ma non fa in tempo a bloccarle le dita affusolate né ad allontanare il monile dalle labbra umide. La osserva sollevare il castone dall’anello antico e riversarne il contenuto dritto in gola.

“La mia vita non si conclude secondo natura, il mio volto non conoscerà ruga, il mio ventre non darà alla luce dei figli: muoio prima del tempo, caro signor Diavolo, mi tolgo la vita per non morire tra le vostre braccia in eterno.”

Ci mette un istante a comprendere il folle gesto, quasi lo ferisce la feroce determinazione della giovane, lo impietosisce certamente lo sguardo macabro che le illumina le iridi cupe e serra i denti feroce quando l’odore pungente dell’aconite invade le narici. È stato beffato, lui che dei tranelli è il principe, eppure l’ammira mentre le terminazioni del corpo magro vengono paralizzate; vorrebbe sfiorarla quando ode il respiro farsi prima eccitato e poi depresso, paralizzato, sulla sottile soglia dell’asfissia, ma quella lo tiene a distanza, creatura fiera e folle. Accetta da lui una carezza solo quando i primi terribili spasmi le impediscono i movimenti.

“Aconite, l’erba del diavolo. Siete una donna certamente dotata di senso dell’umorismo” le bisbiglia furioso e agitato,

“Ma sapete che sorte tocca a coloro che da soli si tolgono l’esistenza: mio è il domino dei suicidi e dei violenti.”

“Pura resto, anche tra voi bestie, e voi, Demonio, di me avrete solo l’ombra, né il tempo né l’animo vi saranno concessi.”

La afferra in un rapido movimento prima che le membra consumate si accascino al suolo prive di forza; ne sfiora la chioma brunita, accarezza la guancia gelida, ma prima che la morte, di cui lui è il signore, la strappi alla vita bastarda e infelice, ode da quella solo un bisbiglio.

“Aidoneus” dice.

“Aidoneus è il vostro nome”

Nascosto.
 
 
Δ
 

Diavolo, Mefistofele, Satana: il signore dei morti ha molti nomi.
Terribile, inquieto e algido, dal silenzio delle ombre ha bisbigliato perverse domande al cuore sofferente, ma non ha ottenuto soddisfazione.
Si reca spesso presso quella selva irta e triste: la cerca tra le ombre, fantasmi trapassati e smorti, lei che tra tutti riluce di purezza sfrontata e profuma di fiori marci. L’ammira da lontano, il giusto sovrano di quei luoghi, ne studia i movimenti, tenta di carpire i pensieri fugaci che di tanto in tanto le oscurano lo sguardo bello, perso tra i tronchi secchi e adunchi. L’ha desiderata morbosamente, ha bramato oscenamente la carne tenera e la mente fremente e, adesso, nascosto da ombre impenetrabili, ne scruta il passo, il respiro, il volto pallido. Non esiste istante in cui lui non speri che quel piede si arresti, il capo si sollevi e le labbra, solitamente dritte e secche, si incurvino per lui in sorriso dolce.
Aspetta, il diavolo, adesso aspetta paziente e non batte più il piede, non saggia più le labbra come a pregustare nuovi tormenti: è feroce per natura, il signore dei morti, non si è mai pentito dei patti osceni né delle conseguenze terribili eppure, quando succede che quel piede si arresta, il capo si solleva e solo un sguardo gelido lo trapassa, ecco che, anche lui, dubita.
 
 











L'angolo di Avareil

Gentili lettori, gentili lettrici,
è con grandissima emozione che vi presento il mio lavoro “Il dubbio del diavolo”, partecipante al contest indetto dalla cara Shilyss “Patti oscuri, alleanze di ferro e promesse vincolanti”. Come riportato in descrizione, ho scelto il pacchetto “Patti oscuri o patto di perdizione” con l’aggiunta sia del bonus A che del bonus B, giusto per fare le cose semplici semplici.
 Il dominio di riferimento è la mitologia greca, con liberissima trattazione dei personaggi protagonisti del mito del rapimento di Persefone, ovvero Persefone stessa e Ade, dio dei morti, in questa storia divenuti Cora e il demone dai molti nomi che tenta e seduce.
Ovviamente, rispondendo al requisito 1, esistono un milione di disparità tra i due: il diavolo è un essere millenario, ha molti nomi, ha vissuto infinite storie e conosce ogni cosa, a differenza di Cora, giovane signorina di una nostrana epoca Ottocentesca travolta e sconvolta dalla morte della madre. Il 
dislivello, però, è anche un altro, più sottile: Cora ha imboccato la via della follia e della denutrizione consapevole, a differenza del Diavolo che è sempre lucido, anche se frenetico.
 La ribellione, requisito 2, sta tutta, invece, nel tentativo di scendere a patti col maligno messo in atto da Cora durante la seconda notte. Vuole far ragionare il diavolo e pesa le parole con grande cura: se il demone la vuole ingannare, lei, invece, anche se in parte inconsapevolmente, pone le basi per un contro-inganno incarnato in quel secondo natura che sfugge al demone, a sua volta sedotto.
 Tutti i momenti salienti della storia hanno luogo di notte, nell’ora più nera e oscura. Requisito 3.
 Il bonus A scelto è l’anello, oggettino di famiglia tramandato di generazione in generazione, di madre in figlia. La storia dell’anello, di cui alcuni tratti vengono taciuti nel corso del racconto, è profondamente legata alla solitudine patita da tutte le donne della famiglia Terrafranca: Demetria, infatti, accetta di rimaner senza l’uomo di cui è innamorata pur di non vedersi umiliata dai tradimenti, proprio come sua madre, e sua madre prima di lei. Sono donne sole, preferiscono la solitudine al dominio maschile e ciò si sposa con il rancore che nutre Cora nei riguardi del piccolo borgo nel quale abitano, intriso di becera ignoranza. Il veleno in polvere che l’oggetto rivela è l’emblema ultimo di una condizione di vita scelta con criterio: a un’esistenza sottomessa, le donne Terrafranca preferiranno sempre la morte o la solitudine. Esso, inoltre, è sempre presente nei momenti chiave del racconto, cesura degli istanti che segnano il degenerare folle della ragazza: ella lo sfila dal dito rotto della madre, lo bacia anche se lordo di sangue, lo porta al collo con fare morboso e con esso sigla il patto demoniaco.
 Ed infine il bonus B, il più esaltante: il patto non deve essere rispettato.
La figura di Cora è molto complessa: è giovane e determinata ma sfinita; ha subito il trauma della morte materna, ha dovuto riconoscerne il corpo, ricomporlo, rivestirlo e, stravolta, è caduta tra le braccia di Eusapia Palladino, sensitiva menzognera che, con false promesse, la inserisce nel circuito delle danarosissime sedute spiritiche, ovviamente inconcludenti. Al dolore del lutto, quindi, si somma il rancore verso se stessa e chiunque percepisca come nemico menzognero. Soffre una pena inguaribile e quando una nuova speranza, anche se generata da un patto con il maligno, la anima nuovamente, non può non sperare. Per questo motivo, all’ennesimo tradimento, imbocca la via del suicidio. Non può tollerare più alcun tipo di sofferenza: sa di aver fatto male a se stessa e teme di aver recato dolore anche a quella sorta di corpo ricomposto che è la madre, richiamata dal mondo dei morti solo per patire altri dolori. Se il diavolo avesse mantenuto la sua parola, lei avrebbe fatto altrettanto. Ma così non è: per questo si toglie la vita e spezza il patto.
Un piccolo richiamo, infine, anima la conclusione del racconto: Cora, anima sfuggente, non presta attenzione al signore dei morti. Lo ignora proprio come Didone fa con Enea nell’Eneide; solo che se Enea finge di non sapere di averle recato tanta sofferenza e implora il perdono, il diavolo, invece, è assolutamente conscio delle proprie malefatte ma, per la prima volta, dubita di sé.

Toni macabri, dunque, colorano il mio ritorno sulla scena del crimine: EFP. ^^'
Sperando che il racconto vi sia piaciuto e abbia, in qualche modo, smosso un'emozione, vi saluto con grandissimo affetto.
Avareil

 

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