Nighthawks - I Nottambuli

di LionConway
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I - Le ombre della notte ***
Capitolo 2: *** Capitolo II - Riflessi ***
Capitolo 3: *** Capitolo III - Annegare ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV - Mosse e contromosse ***



Capitolo 1
*** Capitolo I - Le ombre della notte ***


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I.                 

Le ombre della notte

 

Se glielo avessero chiesto, Travis avrebbe negato. Non avrebbe ammesso di aver continuato a frequentare quel diner a Times Square, dove sovente si ritrovavano alcuni suoi colleghi di lavoro durante la pausa, nella speranza di rivedere quel giovane damerino su cui aveva imprudentemente soffermato il proprio sguardo fin troppo a lungo la prima volta che lo aveva visto.

Ancora non lo aveva ammesso nemmeno a sé stesso. Il solo pensiero lo faceva sentire ridicolo, grottesco, come una di quelle volgari barzellette che il Mago raccontava a voce fin troppo alta e di cui lui stesso rideva sguaiatamente, aggiudicandosi i legittimi sguardi infastiditi dalle cameriere di turno.

Eppure, doveva riconoscerlo, Travis si sentiva affascinato da quell’uomo. E non gli capitava spesso di sentirsi, in qualche modo, succube di un certo magnetismo da parte di qualcun altro, non quando passava intere nottate a trasportare da una parte all’altra della città quei rifiuti umani che si rigettavano in strada come gli scarti organici di un apparato digerente, le intestina di New York City. Eppure, accadeva, di tanto in tanto, che nel bel mezzo del fiume di melma si trovasse qualcuno in grado di distinguersi. Qualcuno di diverso, un individuo dotato di fascino e di carisma che non strisciava tra la folla, ma camminava a testa alta e si faceva notare. Travis si considerava uno di quegli individui e così l’uomo che guardava con così tanta ammirazione attraverso il locale.

Non veniva al diner tutte le notti, perlomeno non sempre allo stesso orario in cui era circoscritto Travis. Vi erano serate in cui quest’ultimo si sedeva, ordinava la solita tazza di caffè e un panino al bacon e aspettava. Passava in rassegna i volti di tutti i presenti nel bar a quell’ora della notte, con quella un po’ infantile speranza di vederlo apparire, e a volte i suoi desideri erano esauditi. C’era sempre un che di regale nelle sue entrate. Travis non si sarebbe sorpreso di vedere tutti gli altri clienti genuflettersi davanti a lui in un atto di reverenza, nella speranza che lui toccasse le loro teste in un gesto di benedizione. Ma ovviamente non succedeva. Si limitava a oltrepassare la porta a vetri, fare un cortese cenno di saluto al tavolo più vicino all’entrata –una volta era toccato a Travis e compagnia- e scivolare solitamente a un tavolo non troppo distante dal bancone. Era tutt’altro che alto, eppure il suo portamento e la sua presenza scenica lo facevano quasi sembrare un gigante. Travis era certo che fosse un soldato, ma  non un marine: la sua camminata era troppo militare, troppo subordinata perché fosse di prima linea. I capelli erano corvini e luccicanti, quasi sempre pettinati all’indietro come si portavano negli anni Quaranta; i tratti del viso erano morbidi e femminei, a eccezione di un lungo naso Nubian impossibile da non notare; la pelle perfettamente levigata e di uno splendido colore olivastro. Probabilmente si trattava di un ebreo o di un italiano.

Veniva sempre solo e solo restava. Nessuno si univa mai a lui. Parlava solamente con le cameriere quando ordinava, ogni tanto magari scambiavano qualche battuta di cortesia, ma finiva lì, con lui che rimuginava chissà cosa di fronte a una tazza di caffè fumante e una fetta di torta alla melassa. Aveva occhi scuri e profondi, ma non come i fondi di un pozzo, perché sembravano sempre irradiare un certo calore. Travis lo aveva notato la stessa sera che aveva salutato lui e i suoi colleghi appena entrato, e aveva continuato a notarlo nelle serate in cui era possibile osservarlo in volto a seconda di come entrambi erano seduti. Travis aveva notato anche, non senza una piccola sensazione di fastidio alla bocca dello stomaco, che spesso, mentre guidava il suo taxi, lanciava occhiate nervose allo specchietto retrovisore nella speranza di vedere quegli occhi che gli restituivano lo sguardo. Ma trovava solamente i propri, altrettanto scuri ma velati di malinconia e di ricordi che Travis avrebbe di gran lunga preferito dimenticare.

Quella sera, invece, poteva indugiare sul suo profilo. Tamburellava le dita sulla superficie del tavolo, come se aspettasse impazientemente qualcosa, e sedeva a gambe accavallate sulla sedia, spostata leggermente più indietro. Dollaro e Charlie T, gli altri due colleghi che Travis frequentava durante le pause, si erano già premurati di fare commenti circa la posizione adottata dal giovane che, a sentir loro, tradiva la sua omosessualità latente. A Travis aveva sempre fatto ridere come il disprezzo per i finocchi fosse in grado di mettere d’accordo un uomo bianco come Dollaro, chiamato così perché si sarebbe venduto anche la madre per guadagnare mezza lira in più, e un nero come Charlie T che indossava occhiali da sole in piena notte e sudava copiosamente. Il Mago, invece, aveva ribadito come pensasse che ognuno fosse libero di vivere come meglio credeva, purché non tentassero di ammazzarsi sul sedile posteriore del suo taxi come una coppia che aveva caricato qualche sera prima e che, a parole sue, si strillavano addosso come signorine in sindrome premestruale.

Mentre rimuginava su come avrebbero reagito i tre uomini se avessero scoperto che il loro fidato collega più giovane, che a sentir loro era “pieno di donne”, rimaneva imbambolato a fissare un altro uomo più o meno della stessa età, Travis fu distratto da un colpo di gomito contro il suo braccio. Tornato alla realtà, si voltò e incontrò gli occhi del Mago che lo fissavano interrogatori: «Ti sei imbambolato? Hai sentito cosa ti ho detto?»

Cercando di non dare ad intendere il proprio imbarazzo e costringendosi a non guardare nella direzione che gli interessava, Travis scosse la testa. Il Mago, per tutta risposta, grugnì e gli diede una strizzata alla base del collo, così forte che Travis temette potesse avere toccato qualche nervo in grado di paralizzarlo: la mano del Mago poteva tranquillamente stringergli tutta la testa in una morsa.

«Ti ho chiesto a che ora finisce la tua pausa, ragazzo» ridacchiò, strapazzandolo ben bene. Travis rise a sua volta e controllò il proprio orologio da polso: «Uhm – tra una ventina di minuti»

«Splendido. Ti fai un altro giro di caffè?»

Non ne aveva bisogno. Intanto non dormiva comunque. Ma stava lo stesso per accettare, più per cortesia che per altro, quando Travis notò un movimento con la coda dell’occhio e vide che il misterioso uomo solitario si stava alzando e dirigendo verso l’uscita, mentre cercava qualcosa nella tasca interna della giacca di tweed. Il cervello di Travis cominciò a funzionare più in fretta del normale.

«Torno subito» mormorò in risposta, alzandosi a sua volta e facendo in fretta il giro del tavolo, «ora che ci penso, devo controllare una cosa… ».

«Ma che diavolo-»

Travis ignorò la voce del Mago e volò fuori dal diner, sperando che le sue previsioni fossero azzeccate, che l’altro uomo fosse solo uscito per una sigaretta e non si fosse già dileguato nella notte, che non si fosse mimetizzato in mezzo all’immondizia umana che vagava per i marciapiedi di notte. Il solo pensiero di gente indegna che gli passava accanto, urtandolo, toccandolo, gli fece attorcigliare lo stomaco.

Fu fortunato. Era lì, a pochi passi da lui, a fumare in piedi accanto al parchimetro, proprio davanti al suo taxi giallo con gli scacchi. Travis deglutì. Si avvicinò cauto, le mani affondate nelle tasche del suo giaccone verde militare. Non si aspettava che quello facesse contatto visivo e gli rivolgesse la parola all’improvviso. Tolse la sigaretta dalla bocca, esalando sbuffi di fumo, e alzò l’altra mano per indicare il taxi alle proprie spalle: «È il suo?»

Travis annuì, a metà tra il disorientato e il divertito: si era aspettato che la sua voce fosse profonda e melodiosa. Invece, tutt’altro, era acuta e quasi gracchiante, come se lo avesse colpito un forte mal di gola. Probabilmente fumava da quando era in fasce. Eppure, in qualche modo, gli si addiceva. Sembrava sposarsi bene con la sua statura.

L’uomo parlò di nuovo e questa volta Travis notò il forte accento di Brooklyn nella sua voce. «Se è in pausa, posso aspettare» disse.

«No –no, va bene. Ho appena finito, in realtà».

Travis si sentì un idiota a balbettare in quel modo, ma lo aveva trovato impreparato. Non sapeva cosa si aspettasse quando lo aveva seguito là fuori. Tutto, ma non che volesse salire sul suo taxi. Il pensiero quasi lo lusingò, prima di rendersi conto che, probabilmente, sapeva alla perfezione che quello era un ritrovo dei tassisti notturni quando facevano pausa. Avrebbe potuto tranquillamente trattarsi di lui come del Mago, come di Dollaro, come di Charlie T. Quell’improvvisa realizzazione gli fece afflosciare le spalle, mentre affiancava l’uomo, apriva la portiera del guidatore e si sedeva al volante.

Stava per chiudere la portiera quando una mano la trattenne. Travis si sporse per incontrare lo sguardo dell’altro: stava sorridendo educatamente e quel leggero incurvarsi delle sue labbra carnose gli procurarono un certo calore alla base del collo.

«Le dispiace se finisco di fumare?» domandò, alzando la sigaretta «Non ci metterò molto. Preferirei non affumicarle l’auto».

Travis si sorprese di cotanta cortesia. A furia di trasportare drogati, ladri e puttane in giro per la città, anche un semplice gesto di educazione lo sbalordiva. Anche se proveniva da un uomo come quello, uno che già aveva sospettato ergersi al di sopra del marasma che abitava New York: Travis era ben felice di averci visto giusto. Il che rendeva il tutto più eccitante.

Si ritrovò a sorridere in risposta: «Faccia pure. Io aspetto». 

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Sono consapevole del fatto che, in teoria, questa storia non dovrebbe esattamente trovarsi in questa sezione: si tratta infatti di una fan fiction crossover tra i film Taxi Driver e Il Padrino. Il motivo di questa mia scelta, tuttavia, é dettato dalla scarsa attività nella sezione di quest'ultima opera, perciò preferirei sinceramente che il pubblico vi si approcciasse come a un'originale. Sono certa che sia comprensibile anche a chiunque non conosca le opere da cui essa deriva. Avrei potuto cambiare i nomi dei due personaggi principali, é vero, ma allora non si sarebbe più trattato della storia che ho in mente di portare avanti. 

Questa é la prima volta che pubblico un capitolo dopo tre anni di inattività qui su EFP, perciò mi sento estremamente emozionata. Mi duole ammettere che i capitoli si manterranno più o meno su questa lunghezza, dal momento che sto lavorando a un'altra long (davvero completamente originale, questa volta!), dall'impostazione corale e quindi più sostanziosa e impegnata. Così facendo, comunque, conto di essere abbastanza regolare negli aggiornamenti. 

Ringrazio anticipatamente chiunque mostrerà interesse nei confronti di questa storia, se recensirà o chi la inserirà nelle preferite/seguite. Sarebbe un piacere enorme. Se vi interessa, potete trovare la storia anche su Wattpad.

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Capitolo 2
*** Capitolo II - Riflessi ***


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 II.

Riflessi

 

Travis sistemò lo specchietto retrovisore, un gesto che ormai gli veniva quasi automatico, e osservò il riflesso del suo passeggero che si sistemava sul sedile posteriore. Teneva spesso gli occhi bassi. Non era come lui, così abituato a guardarsi attorno, a notare qualsiasi cosa lo circondasse, a soffermarsi sul benché minimo particolare. Lo vide gettare indietro la testa e sospirare. Si passò i palmi delle mani sul volto e allentò il nodo alla cravatta che indossava.

Travis pensò di rompere il ghiaccio. «Giornata lunga?» chiese, senza voltarsi, e sempre attraverso lo specchio, il suo interlocutore gli restituì uno sguardo a metà tra il sorpreso e l’interrogativo, come se non si aspettasse quella domanda. Si sentì incredibilmente stupido: la vita dei suoi clienti non erano affari suoi.

Travis stava per scusarsi, pensando di essere stato invadente, quando vide l’uomo annuire e spostare lo sguardo fuori dal finestrino: «Sì. Sì, decisamente lunga e stressante».

Travis si sentiva la gola secca. Girò le chiavi nel cruscotto e mise in moto l’automobile. «Se non le dispiace, svolto solo un attimo l’angolo» annunciò, controllando che non arrivassero altri veicoli da dietro. «Non mi va molto di salutare i miei colleghi, se escono anche loro».

Non aveva idea del perché avesse esternato quel pensiero ad alta voce, ma l’altro uomo ne rimase divertito e proruppe in una risata educata. Travis non poté fare a meno di lanciargli un’altra occhiata nello specchietto. Non lo aveva mai sentito ridere, non lo aveva mai visto con quell’espressione in volto: sembrava quasi un’altra persona, pareva più rilassato, più umano. Avvertì una bizzarra sensazione al basso ventre, come se una mano lo pizzicasse in prossimità della cintura.

Aveva appena svoltato l’angolo in una traversa della Settima Avenue quando l’altro uomo parlò di nuovo: «Non le piacciono i suoi colleghi?»

Travis accostò a un marciapiede e scrollò le spalle.

«Sono okay» rispose, lanciando uno sguardo alla moltitudine di persone oltre il parabrezza che ignoravano di essere costantemente osservate e giudicate dal suo sguardo inquisitore «Però non siamo esattamente intimi, mi spiego? E a volte diventano fastidiosi, dicono stupidaggini... Se fossero amici puoi anche sopportare, dare corda o, eventualmente, discutere –ma se sono solo colleghi che vedi durante le pause… »

Lasciò la frase in sospeso, non sapendo bene come concluderla, e mordicchiandosi il labbro inferiore. D’altronde, che ne sapeva lui dell’amicizia? Non ricordava di avere mai avuto un vero e proprio amico, nemmeno quando frequentava la scuola, e la vita da liceale se l’era fatta mancare andando a lavorare a quattordici anni nel negozio di alimentari dei suoi genitori. Questo aveva influito parecchio sulle sue capacità nel relazionarsi con altre persone, con i suoi coetanei, con le donne. Queste sembravano essere il più grande rompicapo che Dio avesse mai creato per l’uomo comune, figuriamoci per uno come Travis: sembrava sbagliare continuamente con loro, non le capiva, non ci si raccapezzava, anche solo un approccio innocente sembrava offenderle. Sapeva di aver fatto un errore con l’ultima ragazza con cui era uscito, un errore a cui aveva disperatamente tentato di rimediare, ma anche ogni sua buona intenzione veniva ignorata.

Il giovane tassista si rese conto di essere rimasto immerso nei propri pensieri un po’ troppo allungo perché il suo silenzio non venisse notato. Questa volta fu il suo passeggero a romperlo. «Già, non é esattamente la stessa cosa» sospirò. «Mio padre dice sempre che l’amicizia, quella vera, quella che prevede lealtà, è l’unica cosa importante quanto la famiglia. Che si basano sullo stesso concetto. Rispetto, amore, protezione»

«Suo padre ha ragione»

«Lei crede?»

Travis mosse di nuovo gli occhi sullo specchietto e si accorse che l’altro uomo sembrava essersi irrigidito: «Io penso che le amicizie si possano scegliere e valutare se ne vale la pena. Se risultano imprevedibili, a quel punto si ha l’opzione di tagliarle fuori dalla tua vita. Con i famigliari è già più complicato, temo. Per quanto tu possa cercare di allontanarti, a volte, non hai scampo».

Travis non condivideva al cento per cento quella constatazione, ma ciò che lo aveva colpito di quel discorso era la palese confessione a cuore aperto che uno sconosciuto aveva appena fatto trapelare. E così, il suo misterioso e affascinante straniero si era lasciato sfuggire di avere una situazione famigliare complicata. Che vagasse per le strade di notte per allontanarsene? Per evadere? Forse era davvero una checca come sostenevano Dollaro e Charlie T. e ai suoi parenti non stava bene la cosa. Ma anche se fosse stato così, Travis non riuscì a fare a meno di dispiacersi un poco per lui. Di provare pena. Non poteva aiutarlo a sistemare la sua vita in famiglia.

«Dove vuole che la porti?»

Gli parve saggio cambiare discorso. Il suo passeggero assunse un’espressione dapprima pensierosa, per poi scuotere la testa con gli occhi persi nel vuoto: «Vorrei saperlo anche io. Qualunque posto va bene, suppongo, purché mi tenga lontano da casa per un po’».

Quel discorso stava cominciando a prendere una piega deprimente, così Travis tentò di alleggerire la situazione: «Non posso sconfinare nel New Jersey senza un permesso, però!»

L’altro uomo rise di gusto e il tassista si sentì compiaciuto di quella sciocca battuta, ma ancora di più della reazione che aveva suscitato. Le sue battute sembravano non far mai ridere nessuno. Ricordava una volta, appena qualche settimana prima, in cui aveva provato a sdrammatizzare innocentemente sul fatto che il suo libretto della patente fosse pulito quanto la sua coscienza e il tipo che gli stava concedendo un colloquio lo aveva subito zittito, pensando che volesse fare il furbo con lui. Probabilmente avrebbe dovuto nominare il New Jersey anche in quell’occasione.

«Brooklyn, allora» si decise infine il giovane uomo, allungando una mano sullo schienale del sedile anteriore, appena vicino alla spalla di Travis. «Non ho ancora deciso esattamente l’indirizzo, ma è già qualcosa».

Travis annuì e fece ripartire l’auto: c’era tempo per pensare a una vera e propria destinazione, almeno fino al ponte. E per parlare. Ormai era sicuro che potessero farlo, che tenere una conversazione con lui gli piacesse e che la cosa fosse reciproca. Diavolo, non sapeva nemmeno il nome di quel tizio.

«Mi chiamo Travis!» si presentò, domandandosi subito dopo se non fosse svalicato troppo oltre la cortesia professionale. Gli era sempre difficile capirlo e probabilmente era quello il motivo per cui non chiacchierava spesso con i passeggeri. Non che di solito li considerasse degni della sua attenzione.

«Lo so» rispose l’altro uomo e il giovane tassista quasi sobbalzò nell’udire quella risposta: «Davvero? Come?»

«Ho letto il nome sulla patente».

Travis si sentì un idiota e lanciò uno sguardo in cagnesco alla targhetta sul cruscotto con la copia della propria patente in bella vista. «Odio quella fototessera» grugnì e sentì ridacchiare dietro di sé. «Ho una faccia stupida»

«Nessuno viene mai bene nelle fototessere» Sembrava un tentativo di conforto. «Le farei vedere la mia, se non stesse guidando. Anzi, no, mi vergognerei troppo»

«Sono sicuro che non sia così male».

Lui non lo era di certo. Travis scacciò subito via quel pensiero. L’altro uomo scosse la testa: «Non se ne parla. Sembra quasi una foto segnaletica. Avevo sedici anni»

«Touché». 

Altre risate. L’aria nel piccolo taxi sembrava essersi fatta improvvisamente più calda e accogliente.

Quando Travis si fermò a un semaforo rosso, sentì nuovamente una mano contro la propria schiena.

L’uomo si sporse in avanti per parlare con lui più da vicino: «Il mio nome é Michael».

Il suo respiro solleticò per un breve attimo l’orecchio di Travis che, quando ripartì, avvertì come se le viscere gli sprofondassero.

Lo guardava da lontano da almeno due settimane e finalmente aveva un nome da associare a quel volto. Michael. Gli si addiceva. Come l’angelo che scacciò Lucifero dal Paradiso. Il Bene che trionfava sul Male.

Il tragitto da Times Square a Brooklyn durava circa un quarto d’ora, sfrecciando velocemente nel traffico cittadino. Travis si arrovellò velocemente le meningi alla ricerca di un nuovo argomento su cui provare a intavolare una discussione, ma questa volta fu Michael a parlare per primo: «Quindi lei fa tutta la città?»

Travis annuì.

«Ogni notte?»

«Prima sì. Ora ho due riposi a settimana»

«Passerà le giornate a dormire, immagino».

Come no. Gli sarebbe piaciuto, ma addormentarsi era come abbassare la guardia, viveva nell’ansia costante che qualcuno gli sarebbe piombato addosso mentre le sue difese erano praticamente nulle. Viveva in un’enorme città con un tasso di criminalità impressionante, un vero e proprio campo di battaglia non troppo diverso da quelli su cui aveva combattuto in Vietnam, strade dove tutti erano in guerra con tutti.

Per tutta risposta, Travis si strinse nelle spalle. «Non molto, in realtà» ammise. «Qualche ora al pomeriggio, niente di più. Di solito, quando finisco il turno, vado al cinema»

Nello specchietto, vide Michael distogliere lo sguardo dal finestrino e inarcare un sopracciglio. «Alle sei del mattino?» chiese, incuriosito, ma sembrò realizzare subito dopo averlo detto perché scoppiò di nuovo a ridere: «Oh! Ho capito, mi scusi! È solo –quello non aiuta? A dormire, intendo».

Travis si sentì avvampare, mentre imboccava un cavalcavia. Per lui era una routine consueta, ancora prima che facesse domanda come tassista, stare in giro tutta la notte e infilarsi poi in uno di quei piccoli squallidi cinema sulla Quarantaduesima Strada alle prime luci dell’alba. Non perché fosse chissà quale estimatore di quel genere di film, semplicemente erano a disposizione di chiunque e lui poteva starsene seduto a mangiare popcorn e riempirsi di Coca-Cola. Quello che passava sullo schermo non gli faceva differenza, non lo eccitava nemmeno. Non andava lì per toccarsi, come tutti gli altri avventori attorno a lui che non si preoccupavano di nascondere il loro apprezzamento, era solo un modo come un altro di avere un posto dove recarsi. Una meta, un qualcosa. Da quando era tornato dalla guerra, Travis si era ridotto a una solitaria anima errante, senza uno scopo, senza qualcuno che lo facesse sentir vivo o che portasse il cambiamento nella sua triste quotidianità. Lavorava per lunghe ore, aveva già messo da parte un sacco di soldi, e non se ne faceva niente se non ordinare cibo spazzatura. Anche i punti sparsi per la città dove si fermava per far scendere la gente non erano una destinazione sua, ma dei suoi passeggeri. Era come se l’unico scorcio di vita che Travis vivesse fosse solo attraverso gli altri, attraverso le loro malefatte, la loro gola di sesso violento e autodistruzione. Ma quel Michael sembrava diverso. Sembrava.

«É che io non mi intendo di film» disse, come se c’entrasse qualcosa con quello che l’altro uomo gli aveva chiesto –non gli andava a genio l’idea di parlare dei propri genitali.

Michael si mosse un poco sul sedile posteriore. «Io li adoro» ribatté «Quando sono tornato a New York, una delle prime cose che ho fatto é stata fiondarmi al cinema. Ha mai visto Tutti gli uomini del Presidente

Travis non resistette e fece in modo che nello specchietto si vedesse la propria espressione interrogatoria: «Cosa dal titolo dovrebbe farmi capire che non sia un porno anche quello?»

Vide Michael nascondersi il volto tra le mani e singhiozzare a ritmo delle risate. Travis ridacchiò a sua volta e, quando l’altro si fu ripreso, notò come il suo bel volto olivastro si fosse arrossato in prossimità delle guance. Travis si morse involontariamente il labbro inferiore.

«No, é un film con Robert Redford e Dustin Hoffman» spiegò e il tassista annuì, nonostante quei nomi non suonassero in alcun modo familiari al proprio orecchio. In ogni caso, rimase comunque ad ascoltare interessato Michael che, ben preso, snocciolava la trama del film che, a quanto pareva, ripercorreva tutta l’inchiesta svolta da due giornalisti del Post che avevano portato alla luce lo scandalo Watergate.

«Io ho votato Nixon» ammise Travis con un ghigno e Michael storse il naso nello specchietto retrovisore.

«Anche mio padre» rispose «Difatti mi sono ben guardato dal trascinarlo con me a vedere il film. I fatti reali erano stati un colpo già troppo duro per lui»

Nella mente di Travis riaffiorarono per un attimo alcuni ricordi d’infanzia. «Ehi, a dirla tutta ricordo un paio di film che ho visto!» esclamò. «Beh –in realtà non ricordo proprio i titoli, ma so che mi piacevano i cowboy»

«Come a tutti»

Mentre parlavano, si erano rapidamente avvicinati alla meta. Travis vedeva già un pilone del ponte di Brooklyn stagliarsi contro il cielo puntigliato di stelle. Un po’ se ne dispiacque: non voleva che Michael scendesse, non così presto. Non quando finalmente aveva avuto l’occasione di parlargli. Chissà se anche a lui avrebbe fatto piacere? Se solo Travis non avesse avuto almeno altre cinque ore prima di finire il turno…

«Lei vive a Brooklyn?» domandò a un certo punto il tassista, curioso, mentre la piccola autovettura saliva lungo la rampa per entrare sulla carreggiata del ponte. «Non ho potuto fare a meno di notare l’accento, mi scusi»

Michael ridacchiò dietro di lui. A Travis piaceva quella risata, sembrava smuovergli qualcosa nelle viscere. Si rese conto che il proprio pensiero non aveva alcun senso e si affrettò a cacciarlo via, insieme alla marea di altre riflessioni che lo avevano assillato dalla prima volta che aveva visto l’uomo entrare nel diner.

«Long Island» lo corresse Michael «Lo so, possono essere somiglianti, a volte. Sono nato a Little Italy, comunque».

Travis sorrise tra sé e sé per aver azzeccato le origini italiane.

Michael tirò sul con il naso. «É lì che lavoro» spiegò. «Più o meno. Mio padre ha messo su una compagnia di importazione di olio d’oliva, quasi trent’anni fa. Ho appena ereditato la direzione».

Travis, che aveva ipotizzato una cosa, alzò un dito: «Ma è mica la Genco?»

«Quella»

«Allora sono un vostro cliente! È il miglior olio della città»

«Siamo la marca più venduta della East Coast. I prodotti ci arrivano direttamente dalla Sicilia».

Travis emise un piccolo “Ah” di ammirazione: «É da lì che viene la sua famiglia?»

Nel frattempo, avevano attraversato quasi tutto il ponte. Dentro di sé, un piccolo Travis mugugnava indispettito.

Michael annuì. «Ho vissuto lì nell’ultimo anno» aggiunse «Per affari. Mi sono pure sposato».

Travis si domandò perché quell’ultima affermazione lo avesse colpito allo stomaco come una palla di cannone che aveva appena lasciato una voragine. Istintivamente, portò lo sguardo in basso: lo stomaco era ancora lì, ma non se lo sentiva.

Una volta superato il ponte, Michael si sporse nuovamente in avanti, questa volta con tutto il corpo e Travis rabbrividì quando sentì il suo gomito contro il proprio bicipite. «Può svoltare a destra? Ho appena deciso di passare la notte all’hotel Mountview».

Travis eseguì.

Michael notò qualcosa: «Il tassametro?»

«Lasci stare, le offro la corsa»

«Ma dai!»

«Sul serio. Non ricordo l’ultima volta che ho avuto un passeggero così piacevole».

Travis si morse la lingua fino a farsi a male: non voleva dare l’impressione che ci stesse provando. Anche perché non era così. Non voleva che lui fraintendesse, non voleva bruciarsi l’opportunità di poter parlare nuovamente con lui.

L’italiano, però, non sembrò infastidito da quell’affermazione, anzi, per tutta risposta, gli strinse la spalla con una mano. «E io un tassista così efficiente» rispose e prese subito a frugarsi nelle tasche alla ricerca di qualcosa. Quando la trovò, alla fine, allungò una sigaretta oltre il sedile anteriore per passarla a Travis. «Si faccia almeno offrire una sigaretta, per piacere, anche se non fuma».

Travis la prese e lo ringraziò con un sorriso, mentre si accostava, infine, proprio di fronte all’hotel Mountview, la cui facciata in mattoni rossi fronteggiava il fiume.

Mise il freno a mano e si voltò dalla parte del suo passeggero. Aveva fatto male i calcoli: non si aspettava di trovare il suo volto così vicino al proprio e, nell’incrociare i suoi occhi scuri, Travis si sentì avvampare per qualche stupido motivo. Sperò che l’abitacolo fosse abbastanza buio perché l’altro non lo notasse.

«Io -» balbettò il tassista, cercando disperatamente di non far tradire il tremolio nella propria voce. «Penso – penso di potermi fermare cinque minuti per una sigaretta».

Intanto il tassametro era immobile.

Michael sembrò gradire quell’affermazione. Annuì, si sistemò la giacca di tweed e aprì la portiera dal suo lato. Travis fece altrettanto e scese dalla vettura. Si appoggiarono entrambi alla fiancata e il tassista lasciò che l’altro accendesse per lui. Rimasero in silenzio per un po’, esalando sbuffi di fumo, portati via dal venticello che risaliva dall’East River. Ogni tanto, Travis lanciava rapide occhiate di sbieco all’italiano che, invece, sembrava perso in pensieri ben più lontani da lui. Poco male. A Travis piaceva guardarlo, gli piaceva studiarne quei lineamenti. Lo avrebbe giudicato quasi statuario, una bellezza più greca che siciliana.

Erano entrambi a metà delle loro sigarette quando Michael, passandosi il pollice sul labbro inferiore, ricambiò il suo sguardo e gli chiese: «Vuoi salire in stanza?»

A Travis andò di traverso il fumo. Cominciò a tossire e sputacchiare rumorosamente e, quando si riprese, sentiva di avere la faccia paonazza e, probabilmente, non solo per la fatica di prendere fiato.

Michael non aveva fatto una piega, la sua espressione era rimasta impassibile e, anzi, si era già tranquillamente finito la sigaretta. Lo osservava in attesa di una risposta.

Travis distolse lo sguardo in tutta fretta e prese ad agitarsi sul posto. «Non posso, io- devo tornare a lavorare» balbettò. Non riusciva a tenere le mani ferme, si tormentava gli occhi e spostava il peso da una gamba all’altra come se stesse saltellando. Alla fine, prese un respiro e si impose di darsi una calmata, ma evitò di alzare nuovamente lo sguardo su Michael: sentiva di non potercela fare, che l’imbarazzo lo stava avvolgendo come una coperta pesante in piena estate. «Devo davvero andare, mi dispiace» mormorò «Il tassametro… non può stare fermo troppo a lungo»

«Certo, capisco»

Travis no, non capiva: aveva davvero mandato i segnali sbagliati? E dire che fino a pochi minuti prima era lui che non voleva rischiare che Michael pensasse fosse intenzionato a sedurlo. Forse si stava facendo troppe paranoie. Magari voleva solamente invitarlo a bere qualcosa.

Si sforzò di alzare di nuovo gli occhi sull’uomo. Si sorprese nel vedere che anche lui aveva abbassato lo sguardo. Per caso lo aveva offeso? Travis inspirò: «Però può offrirmi qualcosa la prossima volta che ci incontriamo in quel diner».

Vide Michael sorridere e annuire. Questa volta, tornarono a guardarsi negli occhi. Travis deglutì e sentì il cuore battere all’impazzata nella propria cassa toracica.

«Perché no?» fu la risposta dell’italiano. «Spero di rivederla presto, allora, signor Bickle».

Quindi sulla patente aveva letto anche il cognome, oltre che il nome. Travis si domandò, forse un po’ stupidamente, se questo significasse qualcosa.  

Il tassista non scostò lo sguardo dalla sua figura snella fino a quando non scomparve oltre la porta dell’albergo. Velocemente, zompò di nuovo al volante dell’auto e ripartì sfrecciando per le strade di Brooklyn. Si passò una mano sul volto e constatò quanto fosse accaldato e imperlato di sudore. Un turbinio di domande e altri pensieri si fecero strada nella sua testa, ma Travis cercò in tutti i modi di non cedervi, di pensare ad altro. Più avanti, vide un uomo che gli faceva segno di fermarsi. Il piccolo taxi giallo accostò e fu quando si fu fermato per far salire il prossimo passeggero che Travis notò qualcosa sul sedile accanto al suo, dove teneva la tabella dei prezzi e la scatola con i contanti. C’erano una sigaretta e un fazzoletto di carta piegato su cui vi era scritto qualcosa con un pennarello. Travis lo afferrò, mentre il suo nuovo cliente biascicava il nome della prossima destinazione, e lo spiegò per rivelare una serie di numeri seguiti da un nome: Mike  Corleone.

«Mi ha sentito?» abbaiò l’uomo dal sedile posteriore. Travis non rispose: si limitò a fare un cenno col capo e a spostare nervosamente lo specchietto retrovisore. Le luci al neon di un’insegna balenarono per un attimo nel riflesso.

Il suo passeggero grugnì: «Allora si muova, non ho tutta la notte».

Travis si inumidì le labbra, incollò le mani al volante e spinse sull’acceleratore, ripartendo a tutta velocità. Brooklyn era quasi completamente deserta a quell’ora. A chiunque avrebbe fatto paura, specialmente con un uomo di mezza età come ospite del proprio sedile posteriore, sporco e che parlottava tra sé e sé come in preda a una nevrosi.

Con un gesto fulmineo, Travis mise il fazzoletto nella tasca interna del proprio giubbotto e vi posò una mano sopra. Il cuore batteva ancora forte sotto tutta quella stoffa. 

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Ed eccoci al nuovo aggiornamento! In ritardo di una giornata rispetto al previsto, ma rispetto alla mia solita lentezza é un vero e proprio traguardo! Così facendo, magari, conto di portare avanti regolarmente sia questa storia che Bridge Over Troubled Water (che sarà il prossimo aggiornamento). 

Ringrazio vivamente chi ha letto e apprezzato il primo capitolo e chi ha inserito la storia nelle Seguite. Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate con una recensione, trovo estremamente utile ricevere pareri altrui e critiche costruttive e mi farebbe un immenso piacere <3 

A presto, spero, con il terzo capitolo. Vedremo cosa combinerà il nostro Travis adesso che quel furbacchione di Mike non ha decisamente perso altro tempo per farsi avanti con lui.

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Capitolo 3
*** Capitolo III - Annegare ***


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III. 

Annegare

 

Quando quella mattina finì il turno, Travis passò a prendere la colazione e, anziché al solito cinema porno, decise di recarsi direttamente a casa. Viveva in uno squallido monolocale non troppo distante dalla rimessa dei tassì, così evitava di farsi un tragitto in metropolitana per andare al lavoro.

Entrando in casa, storse il naso per l’odore nauseabondo delle decine di mazzi di fiori che tappezzavano gli angoli del minuscolo appartamento. Li aveva comprati per Betsy, la donna che aveva offeso la prima volta che erano usciti insieme. Le mandava un mazzo al giorno, nella speranza che lei capisse quanto fosse desolato, ma finivano sempre per tornare indietro. Avrebbe dovuto decidersi a bruciarli, prima o poi, pensò. Lanciò sul tavolo il sacchetto con dentro la colazione e si tolse il giubbotto, che cominciava a farsi effettivamente pesante per quel periodo dell’anno, appendendolo a una gruccia accanto alla porta.

Travis prese posto nell’unica sedia al tavolo, si sbottonò la camicia e aprì l’involucro marrone che conteneva una scatola con la colazione, posate di plastica e una lattina di Coca-Cola. Stappò la bibita e bevve un paio di lunghe sorsate.

Mentre mangiava, rifletteva sugli eventi accaduti quella notte. Pensò a Michael e la prima cosa che si domandò Travis fu se, per caso, non accettando quella proposta dell’italiano, avesse dato l’impressione di non voler avere più a che fare con lui. Che lo avesse completamente liquidato. Non era così. In cuor suo, Travis sperava ancora di rivederlo, di chiacchierare con lui davanti a una semplice tazza di caffè. In amicizia. Dio solo sapeva quanto avesse bisogno di un amico e, ne era certo, da come aveva parlato quella notte nel suo taxi, anche Michael ne aveva bisogno.

Mentre masticava una fetta di salsiccia, Travis lanciò un’occhiata al suo giubbotto dove ancora conservava il fazzoletto con il numero di telefono dell’italiano, domandandosi se avrebbe fatto bene a chiamarlo. Certo lui sembrava sperarci, ma era anche vero che glielo aveva lasciato prima di scendere dall’autovettura e, di conseguenza, prima di invitarlo a salire in una camera d’albergo insieme a lui a fare chissà cosa.

Il ricordo di quell’offerta fece avvampare Travis che avvertì all’istante il bisogno di bere. Finì la bibita in un paio di sorsi ma si portò comunque la lattina ancora fresca contro la guancia accaldata, sospirando di sollievo. Non era quella proposta che lo faceva dannare, ma la consapevolezza che avrebbe voluto accettare. Che, con ogni probabilità, lo avrebbe fatto davvero, se non avesse avuto davanti a sé ancora mezzo turno di lavoro. Ammetterlo gli costava una fatica disumana, probabilmente perché si trattava di una verità, o mezza tale, che doveva fronteggiare lui nei confronti di sé stesso.

La lattina rossa si accartocciò nel suo pugno saldo, prima di venire scagliata dalla parte opposta della stanza. Dannazione, ma che gli prendeva? Lui non era così. Non era attratto da Michael, di questo era certo, non poteva esserlo, era assurdo. Si sentiva affascinato da lui? Assolutamente sì, ma non era una questione di attrazione fisica: era lui ad essere affascinante, nel suo portamento, nel modo di vestire, nel suo parlare colto e istruito che Travis sapeva di non essere in grado di uguagliare a causa della sua misera formazione scolastica. Si rese conto solo in quel momento di nutrire uno sciocco sentimento di gelosia nei confronti di quell’uomo che, probabilmente, era fresco di una laurea al college, magari qualche università prestigiosa, e adesso si apprestava a diventare un potente uomo di affari come era probabilmente già stato suo padre prima di lui. Fu un lampo d’invidia fugace e travolgente che Travis represse subito in silenzio.

Era così. Si trattava solo di una forma di ammirazione, nient’altro. Doveva esserlo.

Una volta finito di mangiare, Travis sospirò e si alzò per gettare via i rifiuti. Attraversò poi la stanza intenzionato a buttarsi sul letto, ma si fermò di fronte allo specchio a figura intera appeso alla parete color tuorlo d’uovo. Studiando il suo riflesso nello specchio, si tolse la camicia e rimase a fissare il proprio petto nudo. Si passò una mano sull’addome, risalendo piano sui pettorali. Non aveva mai notato di essere così magro, così smunto e insignificante. Era sempre stato uno dei soldati più mingherlini del suo plotone, circondato da uomini grossi e dal fisico palestrato, un fisico che Travis sapeva non sarebbe mai stato in grado di ottenere a causa della sua fisionomia e del suo metabolismo troppo veloce. Di tutta quella massa non ne avrebbe mai avuta. Ma l’addestramento militare lo aveva portato ad avere almeno una buona serie di muscoli, duri e tesi sotto la pelle. Adesso gli sembrava di avere solo dei tessuti di carne flaccida attaccati alle ossa. Si promise di tornare a fare del movimento fisico il prima possibile e di migliorare la propria alimentazione.

Travis si tolse gli stivaletti marroni che indossava, slacciò la fibbia della cintura e si sfilò i jeans, rimanendo solo in biancheria intima, in piedi davanti allo specchio. Si guardò le gambe che gli parevano più lunghe del normale, ossute, con le ginocchia nodose. Unì i piedi e vide che nel punto in cui le cosce avrebbero dovuto quasi toccarsi, ci sarebbe passata tranquillamente quasi tutta la sua mano. Per un attimo immaginò che fosse una delle mani candide e ben curate di Betsy a insinuarsi in mezzo alle proprie gambe, eccitandolo al tocco della propria pelle nuda. Travis scosse la testa, scacciando quel pensiero e si sedette sulla sponda del letto, prendendosi la testa tra le mani: Betsy non era così. Non si era mai nemmeno permesso di pensare che fosse quel genere di donna, non era questo che aveva cercato di farle intendere invitandola a vedere quel tipo di film in quel tipo di cinema. Voleva solo passare del tempo con lei. Conoscerla e farsi conoscere, non gli sarebbe mai nemmeno passato per l’anticamera del cervello di mancarle di rispetto, era solo uno stupido film, dannazione.

Sospirò e decise di sdraiarsi sotto le lenzuola e cercare di prendere un po’ di sonno. In posizione fetale, Travis si tirò la  coperta fin sopra la testa, facendosi buio contro i raggi del sole mattutino che filtravano attraverso le imposte. Chiuse gli occhi e, per qualche bizzarro motivo, non fu il volto angelico e incorniciato da ciocche dorate di Betsy a balenare nella propria mente, ma quello scuro e levigato di Michael, con i capelli corvini tirati all’indietro e gli occhi bassi persi in chissà quale pensiero.

Il suo sonno fu, come sempre, alternato a fasi di veglia di almeno mezz’ora ciascuna e, quando si fecero le quattro del pomeriggio, Travis decise che aveva poltrito a sufficienza. Si fece una doccia di tutta fretta, si rivestì cambiando la camicia e mangiò una mela al volo. Mentre masticava, ponderò un po’ su quello che avrebbe potuto fare per ammazzare l’ora e mezza di vuoto che aveva prima di andare a prendere il taxi e cominciare una nuova e lunga Odissea tra i gironi infernali della Grande Mela. I suoi occhi restarono fissi sul proprio giaccone fin troppo a lungo e, alla fine, si decise a estrarre dalla tasca interna il fazzoletto con il numero di Michael scritto sopra. Non aveva il telefono nell’appartamento, quindi afferrò le chiavi, uscì dalla porta e scese le scale fino all’ingresso del proprio condominio, dove compose il numero al telefono pubblico attaccato al muro.

Si appoggiò contro la parete ruvida e rimase in attesa con la cornetta premuta tra l’orecchio e l’incavo della spalla. Non fece in tempo a domandarsi cosa mai avrebbe potuto dire che qualcuno all’altro capo del telefono rispose dopo un paio di squilli: «Pronto?»

Travis s’irrigidì nell’udire la voce nel ricevitore. Non era Michael. Apparteneva decisamente a un altro uomo, uno sconosciuto dalla leggera inflessione irlandese. Per un momento, il ragazzo temette di aver sbagliato numero, o peggio, che l’italiano gli avesse giocato uno scherzo, lo avesse preso in giro.

«Pronto?» ripeté l’altro uomo nella cornetta e Travis si costrinse a rispondere, più per cortesia che per altro perché, se fosse stato per lui, avrebbe già buttato giù la chiamata. «Ehm –cerco Michael? Michael Corleone?»

«Mi dispiace, è andato via un’oretta fa. Non tornerà in ufficio prima di domani. Ma se vuole lasciare un messaggio posso tranquillamente farglielo arrivare entro un paio d’ore».

Travis si morse il labbro inferiore. Dannazione, lo aveva mancato di poco.

«Be’, non è particolarmente urgente, in realtà» bofonchiò, domandandosi inconsciamente chi fosse quel tipo che sembrava frequentare l’italiano anche oltre gli orari lavorativi. «Gli può solo dire che ho telefonato? Purtroppo non ho un telefono privato sul quale farmi richiamare»

«Glielo dirò senz’altro» Il tono dell’altro uomo era quieto ed estremamente educato. Travis pensò che avrebbe potuto leggergli la propria sentenza di morte e lui lo avrebbe trovato comunque rilassante. «Il suo nome?»

«Travis. Travis Bickle»

«Molto bene. Se non c’è altro, le auguro una buona serata, signor Bickle»

«Sì. Arrivederci»

Travis riagganciò involontariamente la cornetta con una tale forza che temette che il telefono potesse staccarsi dal muro. Alla fine, decise di uscire di casa e farsi una passeggiata nei dintorni prima di iniziare il turno.

Quando quella notte entrò nel diner, non gli ci volle molto per rendersi conto che Michael non era ancora arrivato. Travis si unì al suo solito trio di colleghi, che quella sera avevano preso posto al tavolo lungo vicino alla porta, di fronte alla vetrata.

Scivolò sulla sedia accanto al Mago e di fronte a Charlie T., che lo salutò con il suo solito “Ehi, cowboy” al quale Travis rispose con un cenno della testa. Dollaro sventolava un foglio sotto il naso del Mago sostenendo che una famosa attrice fosse salita sul suo taxi e gli avesse firmato quel grosso pezzo di carta. L’altro, tuttavia, lo prendeva in giro ribattendo che sicuramente fosse un falso, che una star di quel calibro non si sarebbe mai sognata di montare sul retro di un taxi a quell’ora della notte in mezzo alle puttane e ai drogati e che Dollaro fosse così disperato per i suoi debiti che avrebbe potuto far passare qualsiasi lembo di carta igienica sporca come il pezzo che aveva pulito il culo di Liza Minelli e intascarci della grana. Subito Dollaro sembrò voler controbattere, ma ammise poi che come idea non sarebbe stata poi così male.

Il Mago scosse la testa, lasciandolo al suo destino, e si volse verso Travis, a cui diede un’amichevole pacca sulla spalla. «Non hai ancora preso il tuo caffè» osservò.

Travis scosse la testa: «Non ne ho molta voglia, adesso»

«Diamine, ragazzo, che ti prende ultimamente? Sembri davvero strano. Insomma, più strano del solito».

Travis soffocò l’impulso di liquidare il collega con una smorfia: quindi era questa la considerazione che gli altri avevano di lui? Che fosse strano, bizzarro?

Vide Dollaro distogliere lo sguardo dal presunto autografo, ora in mano a Charlie T. per uno studio più approfondito, e sollevarlo su di lui. «Senti, Travis» mormorò e nei suoi occhi baluginò per un attimo un riflesso inquietante, come se fossero fatti di vetro «Anche a te capiterà gente pericolosa, non é così?»

«Eh»

«Ce l’hai un pezzo di ferro?»

Travis scosse la testa: l’idea di impugnare nuovamente una pistola dopo tre anni che si era abituato a non imbracciare armi, non gli andava così tanto a genio.

«Ne vuoi una?» continuò Dollaro «Conosco un rappresentante che ti farebbe un buon prezzo. Sai com’è, bisogna stare accorti di questi tempi, soprattutto con il lavoro che facciamo»

«No, ti ringrazio» tagliò corto Travis e quando udì spalancarsi la porta del ristorante, voltò la testa così di scatto che temette che il proprio collo potesse spezzarsi. Poté giurare di sentire il proprio stomaco attorcigliarsi quando vide la figura snella di Michael entrare nel locale con quella sua consueta aria solenne. Il completo nero che indossava in contrasto con il neon dell’ambiente sembrava farlo risplendere di luce propria, come un Dio tra i mortali. Travis avrebbe volentieri strisciato ai suoi piedi e baciato quelle scarpe di vernice dall’aria estremamente costosa. Ma si costrinse a mantenere una certa dignità e ricambiare il sorriso cortese che l’italiano rivolgeva a lui e agli altri tre tassisti.

«Buonasera» salutò Michael e, attorno a sé, udì i suoi colleghi biascicare un «’sera» di rituale.

Quando i suoi occhi indugiarono nuovamente su Travis, questi si alzò automaticamente in piedi e un po’ si gongolò di essere in vantaggio di qualche centimetro rispetto a lui. Gli piaceva come adesso era Michael a osservarlo dal basso verso l’altro, gli piaceva come il sorriso dalle sue labbra non si fosse dissolto. Gli piaceva come fossero ancora più vicini l’uno all’altro rispetto alla notte precedente. Gli piaceva meno rendersi conto di sentirsi totalmente impotente e incapace di rispondere delle proprie azioni quando si ritrovava ad aver a che fare con quell’uomo. Non gli piaceva decisamente la consapevolezza che Michael avrebbe potuto tranquillamente fargli un’altra proposta come quella della scorsa serata e che sarebbe stata un’offerta che non avrebbe potuto rifiutare. Che non ci sarebbe riuscito.

Quando Michael parlò, la sua voce roca era pacata ma graffiante: «Credo di doverti un caffè, se non sbaglio».

Travis annuì, avvertendo una serie di brividi scorrergli per tutta la spina dorsale e, quando Michael si voltò per fargli strada verso un tavolo più avanti, lo seguì sentendosi come un profeta scelto tra milioni di anime mortali. Udì i mormori indiscreti del magico trio alle proprie spalle e si decise a ignorarli.

I due giovani presero posto su due sgabelli al bancone, in modo da ordinare più sbrigativamente. Michael comandò due caffè e due fette di torta alla melassa. «Devi assolutamente provarla» si giustificò e Travis annuì sorridente, fidandosi del suo giudizio.

Una volta che furono serviti, vide Michael lanciare uno sguardo alla sua destra, oltre la spalla di Travis, per poi abbassare nuovamente gli occhi e afferrare la piccola brocca di panna liquida in mezzo alle tazze.

«I tuoi amichetti non sembrano troppo felici di vederci insieme» osservò, vuotandosi la panna. Quando la offrì a Travis, vide che sulle labbra gli si era formato un mezzo ghigno divertito. Il tassista ricambiò l’espressione e lo lasciò vuotare la panna anche nella sua bevanda.

«Te l’ho detto, non sono miei amici» rispose, prima di attaccare la torta con la forchetta «mi piace parlare con te».

Pensò subito che forse, con quella frase, aveva nuovamente azzardato troppo, perciò si affrettò a riempirsi la bocca con il dolce: Michael aveva ragione, il sapore era assolutamente squisito.

Accanto a lui, l’italiano aveva preso a girare il cucchiaino nel liquido marrone scuro con la sua solita aria pensierosa, forse anche leggermente sconsolata. «Mi fa piacere» sospirò «Dopo la pessima figura di ieri sera, credevo che non avresti mai più voluto avere a che fare con me».

Dentro di sé, Travis si maledisse per essere scappato in quel modo come un vigliacco.

«Ma no» mormorò, la voce leggermente tremolante. Si schiarì la gola e prese a punzecchiare lo strato più esterno della torta con la forchetta. «Non fa niente, davvero, è solo –io non sono… insomma…»

Non era cosa? Cosa cercava di negare così disperatamente da non riuscirci nemmeno? Non era un finocchio? Certo che non lo era, lo sapeva perfettamente. Gli piacevano le donne, per quanto lui non piacesse mai a loro; gli piaceva Betsy, si era innamorato di lei, lo sapeva, se lo sentiva. Non era attratto da Michael? No, era affascinato da Michael, una cosa diversa. Travis non poteva essere attratto da lui perché, come appena appurato, non era un finocchio. Fine. Era pura e semplice questione di logica.

«Credevo fossi sposato» osservò Travis ed era consapevole di quanto suonasse ridicola come scusa perché sapeva che non voleva dire niente. Raramente le persone si prendevano l’impegno di mantenere la promessa del matrimonio, perché giurare davanti a Dio era più semplice che scendere concretamente nei fatti. Quante volte aveva dato passaggi a uomini fedifraghi con la moglie a casa e la puttana preferita sottobraccio, quante volte aveva udito, sul sedile posteriore del proprio tassì, il lamento di mariti traditi che pianificavano aggressioni alle proprie donne, maschi che si sposavano ma poi preferivano uscire per farsi fottere da altri maschi, quante volte aveva sentito parlare di matrimoni andati a male per colpa di questo o quell’altro motivo.

«Lo ero, infatti» confermò Michael, tagliando un pezzo della propria torta «ma non lo sono più, purtroppo. Mia moglie é morta in Sicilia».

Travis si sentì un verme e desiderò scomparire dalla faccia della Terra per aver provato a pensare anche solo per un momento che Michael si fosse macchiato di adulterio, per averlo paragonato ai fenomeni da baraccone che incontrava ogni notte. «Mi dispiace, davvero» farfugliò, tenendo gli occhi sul proprio piatto, terribilmente imbarazzato «non intendevo –mi dispiace»

«Ehi, va tutto bene»

Travis sentì la mano di Michael posarsi sul suo ginocchio ed era un gesto così confortante che lo lasciò fare. Il suo pollice esercitava una leggerissima pressione. Il giovane si domandò se tutti gli italiani cercassero così tanto il contatto fisico tra di loro o se fosse un comportamento che Michael aveva deciso di riservare solo a lui. Il pensiero lo imbarazzava e lo lusingava al tempo stesso.

Michael bevve un altro sorso di caffè, ma non mosse la mano da lì. «Non crucciarti, non potevi saperlo se non te lo avevo detto».

Travis decise di cambiare discorso e bevve finalmente anche lui il proprio caffè fumante. «Ti ho telefonato, oggi» disse e Michael annuì: «Già, Tom me lo ha detto. Di solito passo in ufficio nel primo pomeriggio, mi dispiace non essere stato reperibile, oggi. Speravo di incontrarti qui, stasera».

Il piccolo Travis nelle sue interiora si gongolava di piacere: quindi ci sperava. Sperava di vederlo, di poter parlare con lui. Gradiva sul serio la sua compagnia, non lo evitava a prescindere, non lo considerava strano come facevano i suoi colleghi, non lo prendeva in giro.

Il tassista ingoiò un’ultima fetta di torta e prese un altro lungo, sorso di caffè, riflettendo su quello che stava per fare. Era un’idea che gli frullava in testa già da quella mattina e che, a dirla tutta, pensava di mettere in atto già quando aveva telefonato, ma era stato impossibilitato a causa di forze maggiori. Si domandava se avrebbe fatto bene, se per caso Michael avrebbe frainteso. Alla fine, si decise e tirò un lungo sospiro prima di chiedere: «Vuoi venire a vedere un film con me?»

Sapeva che Vedere un film era richiesta per un eventuale appuntamento, almeno con le donne, almeno era quello che aveva intenzione di lasciar trasparire quando aveva invitato Betsy al cinema. Ma a lui non stava proponendo un appuntamento, solo una serata tra amici, non diverso da una bevuta al bar. O, perlomeno, era questo che intendeva Travis: sarebbe stato lo stesso per Michael? Qualunque fosse la risposta, sperò comunque che accettasse. Sentirlo parlare di cinema con una certa passione lo aveva assai incuriosito.

Michael ridacchiò e ritrasse la propria mano dal ginocchio di Travis. «I film che piacciono a te o quelli che piacciono a me?» domandò.

Anche Travis sorrise e abbassò lo sguardo, a metà tra il divertito e l’imbarazzato. «I tuoi, decisamente» rispose e prese un’altra sorsata della sua bevanda calda. «Si vede che te ne intendi decisamente più di me, quindi ti lascio decidere».

«Stasera immagino che tu stia lavorando, vero?»

Il tassista annuì, risollevando gli occhi sull’italiano: «Purtroppo sì. Ma domani e dopodomani sono i miei giorni liberi».

Suonava come un appuntamento. Non lo era.

Michael si grattò il mento, pensieroso. «Passa domani in ufficio alle sette» disse «è l’orario di chiusura. Poi andiamo insieme. Sai dove si trova?»

Travis annuì: ci era passato davanti un paio di volte con il taxi e ci si arrivava facilmente anche con la metropolitana. Lanciò un’occhiata all’orologio da polso e storse il naso quando vide che mancavano dieci minuti alla fine della sua pausa. Michael notò il suo disappunto: «Si torna a sgobbare?»

Travis si passò una mano sul volto e fece in modo di finire il suo caffè in un paio di sorsi. «Odio questo lavoro» sospirò e si rese conto che era la prima volta che ne parlava apertamente con qualcuno. «La gente di notte si trasforma in animali primitivi. Le persone in questa cità… sono pazze! Anzi no, sono proprio cattive. L’altra notte mi è capitato uno che mi ha indicato la figura di sua moglie attraverso la finestra di un palazzo. Non la finiva più di farneticare su come da lì a qualche minuto sarebbe salito e l’avrebbe uccisa. Continuava a dire che dovrei vedere come una 44 Magnum riduce la faccia e la vagina di una donna».

«Cristo Santo, Travis»

«E sai qual è la cosa peggiore? Che non potevo fare niente. Cosa avrei potuto fare Mike, uh? Andare alla polizia? Quelli non fanno mai niente, aspettano che accada il fattaccio per alzare il culo dal divano, e comunque non avrei fatto in tempo. Urlargli addosso che era pazzo, tentare di fermarlo? Probabilmente ce l’aveva davvero una pistola di quel calibro sotto la giacca, mentre io ero completamente disarmato».

Frenò l’impulso di guardare in direzione di Dollaro e si concentrò invece sulla domanda che gli porse Mike: «Si sa che cos’è successo alla donna? I giornali hanno riportato qualcosa?»

Travis si strinse nelle spalle. «Non leggo molto i giornali» ammise «guardo il notiziario ogni tanto, ma poi tutte le notizie sembrano sempre così uguali tra loro. Ma mi sono sentito così… impotente».

Vide Michael puntare lo sguardo dritto davanti a sé, come perso nel vuoto. «So cosa vuoi dire» sospirò e si mosse sulla sedia, cercando di cambiare discorso. «Senti, mi accompagneresti in un posto? Nessuna Magnum addosso, garantito».

Il giovane tassista annuì e scese dal proprio sgabello. «Vado un attimo in bagno».

Mentre si svuotava la vescica, venne raggiunto dal Mago all’orinatoio di fianco al suo: «Ehi, ma che stai combinando?»

Travis voltò il capo in direzione dell’omone e sollevò un sopracciglio: «Sto pisciando?»

«Non fare il finto tonto, hai capito perfettamente cosa intendo»

«E invece no. Ti prego, se hai un problema dimmelo, non parlare per indovinelli»

Il Mago si appoggiò all’orinatoio di ceramica bianca invasa da scritte oscene in pennarello indelebile e puntò su di lui uno sguardo accusatore che Travis sostenne di gusto.

«Te la fai con quel damerino, adesso?» chiese risoluto «Non senti cosa dicono Dollaro e Charlie, di lui?»

Travis distolse lo sguardo dal collega e scosse la testa con aria esasperata. «Ma perché dovrei dare retta a quello che dicono loro?» ribatté, mantenendo lo sguardo fisso sul muro di mattoni davanti a sé «É salito ieri sul mio taxi. Abbiamo chiacchierato e l’ho trovato piacevole, tutto qui». Ovviamente, omise la parte in cui Michael lo aveva invitato a prendere una stanza insieme. Ma anche così il Mago non sembrava convinto: «Per questo ti sei fiondato fuori dalla porta a tutta velocità, ieri notte? Quando ti mancava ancora un quarto d’ora di pausa?»

«Oddio, ma che ti importa?» Questa volta Travis aveva sbottato. Si tirò su la zip e camminò fino ai lavandini. L’altro uomo gli trotterellò dietro come una mamma chioccia.

«Senti, lo so che non sono affari miei di come gestisci i tuoi orari o in generale di quello che fai nel tuo tempo libero» tentò di giustificarsi il Mago.

«Ecco, esatto: non ti deve interessare»

«Tantomeno mi importa di chi ti porti a letto»

«Non mi porto a letto proprio nessuno»

Travis era infastidito e, a dirla tutta, parecchio sorpreso dall’insolenza che quell’uomo stava mostrando nei suoi confronti. Ne era deluso: aveva sempre stimato il Mago, lo aveva sempre visto come un punto di riferimento per via della molta più esperienza dall’alto di un uomo di una certa età; gli aveva infuso una certa sicurezza quando aveva iniziato il lavoro, aveva fatto in modo che non si sentisse spaesato perché nuovo. Evidentemente, aveva fatto bene a non annoverarlo nella sua schiera di amicizie più strette. Ma il rispetto c’era sempre stato, da parte di entrambi.

«Mi sto solo preoccupando per te!» 

Travis sentì le mani forti dell’uomo sulle sue spalle che cercavano di convincerlo a voltarsi. Assecondò il gesto, trovandosi a fronteggiarlo: il Mago era un po’ più alto di lui, decisamente più largo e muscoloso e i capelli brizzolati gli crescevano solo ai lati della testa, lasciando il capo pelato e sudaticcio. I piccoli occhi azzurri ravvicinati incontrarono quelli scuri del più giovane e Travis vi lesse una certa apprensione. Evidentemente, il Mago pensò di aver esagerato perché mollò la presa dalle spalle del ragazzo e cercò di sistemargli la camicia a quadri.

«Perdonami, figliolo, non intendevo essere brusco» si scusò il Mago «cerco solo di dirti –stai, attento, okay? Se le persone cominciassero a pensare…. Potresti farti male».

Non era stupido, Travis, capiva perfettamente quello che il collega stava cercando di dirgli: che se qualcuno di poco raccomandabile avesse mai potuto sospettare che fosse attratto dagli uomini, avrebbero cominciato a escluderlo, avrebbe potuto essere licenziato o massacrato di botte. Sapeva che, in un certo senso, il Mago era in buona fede nei suoi confronti, ma aveva avvertito la sua preoccupazione come un’invasione del suo spazio personale, del suo privato e, soprattutto, della sua virilità. Erano tutte stronzate, tutte ansie inutili perché Travis non era così.

Strinse i pugni bagnati, avvertendo le unghie penetrargli la carne, e se non avesse avuto quel briciolo di autocontrollo, probabilmente un cazzotto ben assestato all’uomo più anziano non glielo avrebbe risparmiato nessuno.

Invece si limitò a ringhiare tra i denti «La mia pausa è finita», girò sui tacchi e attraversò il locale a passi pesanti, avvertendo la rabbia ribollire dentro di lui. Quando arrivò alla porta, lanciò uno sguardo carico d’odio a Dollaro e Charlie T, quest’ultimo che se la rideva di gusto, e uscì fuori sul marciapiede. Vide Michael più avanti, appoggiato al suo taxi, che gettava una sigaretta ai propri piedi e si raddrizzava. Gli sorrise gentilmente, ma quando Travis si avvicinò, l’espressione mutò in interrogatoria: «Che ti prende?»

Evidentemente la faccia del giovane tradiva tutta la propria collera. Travis stava per rispondere, ma avvertiva la fronte farsi sempre più sudata e il cuore che cominciava a battere all’impazzata. Gli sembrò come se la gola gli si chiudesse, mozzandogli il respiro e, quando allungò una mano per aprire la portiera del guidatore, ebbe un forte giramento di testa, barcollò e cadde a terra. Michael venne subito in suo aiuto, spaventato, e gli sbottonò il colletto della camicia, cercando di fargli aria. «Travis! Travis, guardami!»

E lo guardava, Travis, ma gli appariva sfocato attraverso il velo di lacrime che cominciava a sgorgare dagli angoli dei propri occhi. Teneva la bocca spalancata e ansimava come un pesce fuor d’acqua, cercando disperatamente di far entrare aria nei polmoni.

Sentì le mani di Michael sul suo volto e la sua voce gli suonava ovattata, come se si trovasse in un’altra stanza. «Chiudi la bocca. Non cercare di respirare, trattieni!» diceva.

Trattenere il fiato? Stava praticamente morendo!

«Fa’ come ti dico!»

Travis provò a eseguire. Chiuse la bocca, stringendo le labbra, e gli parve di affogare. Nella testa gli sembrava di avere un martello che picchiava forte contro le proprie meningi. Il cuore sembrava volergli esplodere nel petto. Si concentrò sul proprio battito irregolare. Ta-tunf, ta-tunf, ta-tunf, forte contro la propria cassa toracica. Alla fine, non ce la fece più, riaprì la bocca ed espirò sia da lì che dal naso. Quando inspirò nuovamente, sentì l’aria della notte entrare con prepotenza dentro ai polmoni. Stava sudando copiosamente, la testa gli girava ancora, le vertigini gli davano la nausea, ma il battito cardiaco stava lentamente cominciando a riprendere un ritmo normale.

Davanti a sé, a pochi centimetri dal proprio viso, c’era Michael, accucciato sul marciapiede e ancora con le mani sulle sue guance sudate. Probabilmente gli aveva appena salvato la vita.

«Va meglio?» gli domandò, tirando via una mano dal suo volto per afferrargli il polso sinistro. «Sembra che tu ti stia calmando».

Travis annuì, spostato, e si schiarì la gola che gli bruciava. Tentò di dire qualcosa, ma ancora non ci riusciva.

Michael lo aiutò a sollevarsi. Si mise il braccio destro di Travis attorno alle spalle, sostenendolo con il suo corpo, e gli circondò i fianchi con il suo arto sinistro. Il ragazzo si lasciò trascinare lungo il marciapiede, sotto lo sguardo incuriosito di alcune persone con i volti illuminati di rosso dal neon delle insegne. Michael fermò un taxi di servizio e lo aiutò a montare sul sedile posteriore insieme a lui.

«All’ospedale più vicino, per favore, è urgente» sentì Michael ordinare al tassista e quello partì.

Faceva strano trovarsi quasi del tutto sdraiato sul sedile posteriore di un taxi, ma non tanto quanto essere appoggiato contro il petto di Michael, con il suo braccio attorno. Tuttavia, il fatto che fosse strano non lo rendeva meno piacevole. Travis sollevò una mano e trovò quella dell’altro che ricadeva appena sopra la sua spalla. Le loro dita si intrecciarono. Si domandò se quel tassista fosse un occhio di falco tanto quanto lui, se avesse intravisto qualcosa, se per caso lo conoscesse.

«Ho avuto un attacco d’asma?» farfugliò Travis, la voce ancora tremante.

«No» rispose Michael «hai avuto un attacco di panico. É meglio portarti all’ospedale per degli accertamenti»

Il giovane non replicò. Per tutto il resto del viaggio, rimasero in silenzio, e le loro mani non lasciarono la presa l’uno dell’altro nemmeno per un attimo. 

__________________________ 

Bonsoir! Voglio congratularmi con me stessa per essere stata in grado di aggiornare almeno questa storia nei tempi prestabiliti. Avrei voluto dare la precedenza a Bridge Over Troubled Water, dal momento che conta ancora un solo capitolo, ma questa settimana ho avuto impegni e problemi familiari che hanno rallentato la scrittura, perciò mi sono ritrovata a fare una scelta. Ma sono felice perché finalmente si sta formando un po' di zucchero tra questi due complessati -perché non pensate che Michael sia meno problematico di Travis. Be', forse solo un pochetto... Comunque, li shippo a bestia!

Piccola precisazione: in questo capitolo i protagonisti cominciano a darsi del "tu" rispetto al "lei" dei capitoli scorsi, ovviamente non sono stata troppo a pensarci su dal momento che la forma di cortesia nella loro lingua, l'inglese, non esiste. 

Come al solito, vi invito a lasciare qualsiasi tipo di parere, recensioni critiche sono le benvenute tanto quanto quelle positive. Grazie anche a chi segue questa storia in silenzio, un bacione a tutti e al prossimo capitolo (:

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Capitolo 4
*** Capitolo IV - Mosse e contromosse ***



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IV. 

Mosse e contromosse

 

 

Travis mosse il braccio indolenzito, sollevandolo e riabbassandolo un paio di volte in un gesto meccanico e tenendo sempre ben premuto sul pezzo di cotone attaccato all’interno del gomito con un cerotto. Appena arrivati al pronto soccorso, gli avevano fatto degli esami del sangue e gli era stato trovato un calo di zuccheri. Che soffrisse pesantemente di stress era una cosa già assodata, ma una chiacchierata con il medico aveva confermato ogni sospetto e gli aveva consigliato di stare a riposo per un po’ di tempo. Così Travis, una volta congedato, dovette telefonare alla Yellow Cab per prendersi qualche giorno di malattia.

Il supervisore in carica gli domandò dove avesse lasciato il taxi e Travis diede l’indirizzo del diner. Quello gli assicurò che qualcuno sarebbe passato a prendere l’auto per riportarla alla rimessa, lui ringraziò e chiuse la chiamata.

Si voltò verso Michael, seduto dall’altra su una sedia di plastica dall’altra parte di quella piccola sala d’aspetto, accanto a un distributore di bevande calde; teneva le gambe elegantemente accavallate e le mani poggiate in grembo, le dita intrecciate. Sorrise: «Licenziato?»

Travis storse la bocca in quello che voleva essere un mezzo sorriso e una mezza smorfia divertita e scosse la testa. Attraversò la stanza a piccoli passi e si sedette di fianco a lui. L’italiano distese un braccio lungo lo schienale della sua sedia e Travis vi si appoggiò leggermente con il collo, reclinando la testa all’indietro.

«I dottori mi hanno prescritto una bella dormita e qualche sonnifero per aiutarmi» sospirò, lo sguardo fisso sul soffitto bianco sopra di lui.

«Hai proprio l’aria di uno che ne ha bisogno» osservò la voce acuta di Michael.

«Ehi, non ti ho ancora ringraziato» Travis girò la testa in sua direzione, il collo ancora appoggiato al suo braccio, e gli occhi scuri di entrambi si incrociarono gli uni negli altri. «Avevo già sofferto di attacchi di panico, ma mai così forti. Se non fosse stato per te, probabilmente sarei ancora ad annaspare su quel marciapiede.»

«Beh, aiutarti mi sembrava il minimo, visto che ti sei sentito male proprio di fronte a me.»

«Molti non lo avrebbero fatto. C’era un sacco di gente lì attorno. Nessuno di quella feccia avrebbe mosso un dito per aiutarmi. Le persone non lo fanno più, non ci provano neanche ad aiutare gli altri.»

«Sei proprio un misantropo, te lo hanno mai detto?» ridacchiò Michael e posò la sua mano destra sul dorso di quella di Travis «Sei fortunato allora, perché si dà il caso che io sia molto bravo ad aiutare le persone.»

Lo era. D’altronde era l’angelo che scacciava il Male, come ancora una volta suggeriva il suo nome. Quel suo altruismo pareva renderlo alla stregua di un qualsiasi supereroe. Travis si divertì a fantasticare su quello che avrebbero potuto fare insieme per contrastare il putridume che imperversava nella città. Intervenire contro le ingiustizie e difendere chi ne aveva bisogno, come quei tizi mascherati che aveva visto sulle copertine di qualche fumetto. Ma tenne quei pensieri per sé, ritenendoli forse troppo infantili per essere espressi ad alta voce, e finì invece per concentrarsi sul tepore della mano di Michael, lo stesso calore familiare che gli aveva infuso calma e sicurezza durante il tragitto in taxi fino all’ospedale. Gli piacevano le sue mani, delicate e femminee ma capaci di una presa salda e vigorosa. Travis si ritrovò a domandarsi cosa effettivamente non gli piacesse di Michael e si rese conto di non avere una risposta. Lo trovava così… cercò disperatamente di non pensare all’aggettivo attraente, ma era stupido continuare a ignorare il fatto che fosse così: tutto della sua persona urlava quella parola e Travis non poteva fare a meno di sottostare a quel magnetismo che sprigionava, sentendosi attirato verso di lui come una calamita contro la sua volontà.

Probabilmente era rimasto in silenzio e con lo sguardo fisso su quella dannatissima mano per almeno un paio di minuti, perché fu Michael a riscuoterlo dai propri pensieri, spostando quello stesso arto per dargli un buffetto sotto il mento e attirare la sua attenzione: «Ehi, ti sei dissociato?»

Riuscì a malapena a terminare quella breve frase perché Travis si sporse verso di lui con tutto il corpo e lo baciò con foga. Avrebbe voluto dire che il suo cervello aveva dato completamente forfait, che non si rendeva conto di cosa stesse facendo, ma sarebbe stata una menzogna perché sapeva perfettamente la verità: era stato travolto da un’improvvisa voglia di baciarlo, di assaggiare quelle labbra e lo aveva fatto prima di cambiare idea. Probabilmente lo desiderava dalla prima volta che lo aveva visto, era solamente stato davvero bravo a reprimere quella voglia sconveniente che si nascondeva nel profondo delle sue viscere e che tentava la scalata ogni qualvolta che vedeva Michael. E ora si trovava in una sala d’attesa di un ospedale, a baciare un uomo intrappolato tra il suo corpo e un distributore di bevande. Inizialmente, sentì Michael irrigidirsi a quel contatto imprevisto. Ma furono pochi secondi appena, una probabile reazione all’effetto sorpresa, perché si rilassò quasi subito e rispose al bacio, più e più volte, e fu lui a proporre per primo di approfondire e a volersi insinuare dentro la bocca di Travis, che dischiuse piano le labbra e accolse la sua lingua. Si ritrovò a sospirare contro la bocca dell’altro, a gemere di piacere e il pensiero lo fece avvampare. Era passato così tanto tempo dall’ultima volta che aveva baciato qualcuno che gli pareva di essersi dimenticato come si faceva.

Il suo ultimo bacio con una ragazza era stato almeno un anno prima di partire per il Vietnam, dove, a differenza dei suoi commilitoni, non si era mai permesso di intrattenere alcun tipo di rapporto con le povere ragazze del posto sfruttate e vendute per soddisfare qualunque pensiero perverso dei soldati americani lontani dalle loro donne. Ma baciare un uomo, avvertire il suo corpo premuto contro al suo, era un’esperienza totalmente nuova e assolutamente imprevista. Aveva fantasticato per mesi di baciare Betsy e mai era avvenuta questa possibilità. E adesso, l’oggetto delle sue ossessioni da almeno tre settimane leccava le sue labbra con un certo impeto, gli accarezzava una guancia con una mano parsimoniosa mentre con l’altra, più decisa, lasciava correre le dita tra le ciocche scure dei suoi capelli. E si trattava di un uomo. Era la cosa più surreale che gli fosse mai capitata e, ciononostante, Travis sarebbe rimasto così ancora a lungo, a bearsi del gusto di Michael, se non avesse udito dei passi lungo il corridoio che entravano velocemente nella sala.

Indietreggiò, separandosi da lui con la stessa velocità con cui gli era praticamente saltato addosso ed entrambi si misero dritti e composti (Travis sembrava proprio scattato sull’attenti) mentre un uomo abbigliato in un completo di tweed azzurro inseriva un paio di monetine all’interno del distributore e selezionava un caffè.

Travis sentiva di avere il volto in fiamme, la fronte imperlata di sudore, un po’ perché baciare richiedeva comunque un certo sforzo, ma soprattutto per l’ansia di quello che quell’uomo avrebbe potuto dire se li avesse colti in una situazione così compromettente. Con la coda dell’occhio, vide invece che le labbra di Michael erano incurvate in un malizioso sorrisetto e, Travis poteva giurarlo, aveva le gote tinte di una leggera sfumatura rosea sull’incarnato olivastro.

La macchinetta finì di versare il caffè nel contenitore di plastica. L’uomo in tweed lo afferrò, con una mano un po’ incerta ma attenta a non rovesciare il contenuto, e si congedò a loro con un fugace «Arrivederci» al quale Michael rispose gentilmente.

Travis sospirò rumorosamente e si lasciò sprofondare nella sedia, passandosi le mani tra i capelli. «Mi dispiace!» esclamò, un po’ più ad alta voce del previsto «Non avrei dovuto farlo!»

«Perché no?» domandò Michael e Travis si chiese per un attimo se il suo tono di voce non avesse una piccola nota di delusione. Non ne sarebbe stato sorpreso: aveva già capito la sera prima che quel ragazzo nutrisse un certo interesse nei suoi confronti, non era stupido. Forse si era spinto un po’ troppo oltre, forse stava rischiando di illuderlo in qualche modo, ma non riusciva ad ammetterlo, non riusciva a convincersi del tutto di non essere effettivamente attratto fisicamente da lui. Ma non riusciva ad ammettere neanche il contrario, così Travis decise di rimanere sul vago. Era la cosa migliore da fare, in quei momenti di confusione. «Se ci avesse visto…» mormorò, ma finì per lasciare la frase in sospeso perché Michael lo interruppe con uno sbuffo.

«Non stavamo facendo nulla di illegale» osservò e si mise a rovistare nelle tasche della giacca alla ricerca di qualcosa.

«Sai che cosa intendo»

«Perché lo hai fatto, allora?»

Travis sobbalzò a quella domanda, mentre l’altro non fece una piega ed estrasse qualche moneta dalla giacca. Si alzò in piedi e passò in rassegna la lista delle bevande calde disponibili prima di spingere qualche centesimo giù dalla macchinetta.

Travis distolse lo sguardo: «Te l’ho detto, è stato impulsivo, non avrei dovuto. Non so perché l’ho fatto. Mi dispiace.»

«Io invece penso che tu lo sappia benissimo e ti sia pure piaciuto. Ti mancano solo le palle per ammetterlo.»

Travis non rispose ma serrò i pugni: perché gli stava parlando così? Perché si era spazientito a quel modo? Non capiva quanto tutto quello fosse nuovo e confusionario, per lui? Non ci si raccapezzava e anziché cercare di comprenderlo, preferiva giudicarlo.

Come se gli avesse letto nel pensiero, sentì una mano poggiarsi piano sulla sua spalla e un piccolo bicchiere di plastica fumante si intromise nel suo campo visivo. «Scusami» fece Michael, adesso tornato al suo solito tono di voce suadente, «non volevo perdere le staffe. É solo- mi sembri un po’ confuso, Travis».

Il ragazzo sospirò ed accettò di buon grado la bevanda che l’altro gli offriva. Afferrò il bicchiere, facendo attenzione a non scottarsi, e prese a mescolare in senso orario con il bastoncino di plastica che faceva capolino da quello che sembrava essere tè allo zenzero. Michael gli si sedette nuovamente accanto, il corpo voltato nella sua direzione, le gambe accavallate e la testa appoggiata a una mano.

Travis, invece, manteneva lo sguardo fisso sul caldo liquido trasparente, non sapendo bene cosa rispondere. Certo che era confuso, non lo era mai stato tanto in vita sua. Quell’uomo era entrato nel suo quotidiano da meno di tre settimane, ci parlava da poco più di ventiquattr’ore e già gli aveva fottuto il cervello a quel modo. Si chiese cosa riservasse il futuro. «É che … » farfugliò, continuando a evitare i suoi occhi, «non mi ero mai sentito così. Non mi era mai capitato, voglio dire … non-»

«… non con un uomo» Michael terminò la frase in sua vece e non era una domanda, ma un’affermazione alla quale Travis annuì debolmente. Accennare a quel piccolo movimento di testa risultò ancora più difficile di quanto avrebbe creduto. Ma la mano di Michael, che oramai aveva imparato ad associare a qualcosa di confortante, trovò la sua spalla in una dolce stretta che sperava di infondere sicurezza. «Ascolta, Travis, non devi parlarmene adesso, se non vuoi. Se è qualcosa di nuovo per te, capisco che tu possa sentirti spaesato, che tu abbia bisogno di metabolizzare, di capire quello che vuoi. Se, invece, te la sentissi, sappi che hai tutta la mia comprensione, intesi? So come ci si sente. Ci sono passato. E sappi che non c’è nulla di sbagliato.»

Travis non rispose. Soffiò un po’ sul tè per renderlo quantomeno bevibile e mandò giù un paio di sorsi.

A Michael non sfuggì quel silenzio. «Vuoi che me ne vada?» chiese, e Travis volse la testa così di scatto che quasi si fece male al collo.

«No!» esclamò, senza ombra di dubbio «No, che non voglio! Senti, io –non so che cosa devo fare, adesso, forse … forse è come dici tu, magari devo solo pensarci un po’ … l’unica cosa di cui sono sicuro é che voglio che tu resti. Va bene?»

Si rese conto di suonare probabilmente assai disperato perché Michael scoppiò in una risatina moderata e alzò le mani in segno di resa: «Okay, tranquillo! Non vado da nessuna parte, cowboy.»

Il tassista rilassò le spalle e distese le labbra in un piccolo sorriso, mentre l’altro sollevava una manica della camicia e controllava l’orologio da polso. «Sono quasi le quattro» osservò «perché non vieni un po’ a casa mia? Intanto non è che domani sera devi lavorare, dico bene?»

«Oh, io –non vorrei essere di troppo»

«Nessun disturbo» rispose Michael, alzandosi in piedi. Travis lo imitò. «Ci sono solo mio padre e mia madre, in casa, e se la dormono alla grande. Non mi sentono mai quando torno a casa così tardi.»

Si incamminarono fianco a fianco lungo il corridoio e poi fuori dall’ospedale. Michael fermò un taxi. Mentre sfrecciavano in direzione di Long Island, Travis azzardò: «Credevo che tuo padre fosse morto. Insomma … per la storia dell’eredità e il resto.»

«No, non ancora» ridacchiò Michael, ma evitò il suo sguardo, preferendo portarlo al di fuori del finestrino, e Travis ebbe la sensazione che ci fosse qualcosa in più che non se la sentiva di dirgli «ma ha avuto un brutto incidente l’anno scorso e ormai è vecchio e cagionevole di salute.»

«Capisco» si limitò a rispondere l’altro e trascorsero il resto del viaggio in silenzio.

Quando giunsero a Long Island il cielo era ancora buio e costellato di stelle. Il taxi imboccò un viale costeggiato da tigli e delimitato a destra da un alto muretto di pietra e si fermò poco distante da un piccolo cancello. Travis trattenne il respiro quando si accorse che era sorvegliato da tre uomini, di cui uno estremamente grasso che si avvicinò all’autovettura per guardare chi vi fosse dentro. Ma Michael, tranquillamente, sorrise e aprì la portiera, sporgendosi leggermente fuori con la testa: «Lasciami pagare un attimo!»

L’uomo grasso scoppiò in una risata sguaiata. Si voltò nuovamente verso il resto del capannello e Travis lo sentì dire: «É Mikey. Aprite pure.»

Come se nulla fosse, Michael estrasse il portafoglio, contò un paio di banconote e le allungò al tassista. Poi scese dall’auto e Travis lo seguì.

«Avresti dovuto lasciarmi pagare almeno una corsa … » bofonchiò, ma Michael scosse la testa: «Vorrà dire che me ne offrirai un’altra quando avrò bisogno di te»

«Così mi rovini.»

Ridacchiando, si erano avvicinati al cancello e quindi al piccolo stuolo di uomini che, Travis era pronto a giurarlo, erano armati di pistola sotto le giacche eleganti perché quando si era fermato il tassì le loro mani erano già state fatte prontamente scivolare all’interno di esse.

Il grassone, che sembrava il più vecchio dei tre e somigliava incredibilmente a un budino umano, sorrise a Michael e lo accolse in un abbraccio che quasi fece scomparire il giovane. La differenza di corporatura aveva un qualcosa di comico che costrinse Travis a soffocare una risatina sul dorso della mano. Liberato dalla morsa, Michael lasciò un tenero buffetto sull’enorme braccio dell’uomo.

«State facendo un ottimo lavoro qui » disse e fece cenno a Travis di avvicinarsi a lui per presentarlo agli altri. «Peter, lui è il mio amico Travis. Non terrorizzatelo, mi raccomando.»

Travis non aveva ancora ben registrato che Michael lo aveva introdotto con il termine amico perché il budino gigante gli afferrò la mano e, a dirla tutta, la sua stretta non era neanche così possente. «Peter Clemenza» si presentò, per poi sporgersi nuovamente verso Michael per sussurrargli qualcosa all’orecchio.

«Va bene» mormorò il ragazzo e affondò le mani nelle tasche dei pantaloni neri, «chi viene a dare il cambio?»

«Tessio. Verso le sei.»

Michael lo ringraziò in italiano. Poi prese Travis sottobraccio e si incamminò con lui attraverso un piccolo sentiero di mattonelle circondato da aiuole che conduceva a un compound di quattro case costruite in pietra e disposte in circolo, davanti alle quali erano parcheggiate diverse automobili d’epoca laccate di nero. Una delle villette era dipinta di un aggraziato color crema, aveva le travi a vista e una veranda al posto del portico. Michael lo condusse lì, sollevò lo zerbino di fronte alla porta, afferrò la chiave che vi trovò sotto e aprì, invitando Travis a entrare per primo.

Una volta messo piede nell’ingresso buio, Michael si mosse per accendere una piccola lampada a muro che emise una luce fioca, poi richiuse lentamente la porta. Si portò due dita alle labbra, intimando a Travis di fare silenzio, dopodiché gli prese nuovamente il braccio e lo condusse verso quella che sembrava essere la porta di uno scantinato. In fondo alle scale, invece, Travis vi trovò un’accogliente tavernetta in stile rustico, adibita a cucina e sala da pranzo. Il rumore di una lavatrice in funzione in una stanza adiacente gli suggeriva la presenza della lavanderia.

Travis, che non era decisamente abituato a un tale lusso e, soprattutto, a quell’ordine si guardava attorno registrando ogni minimo particolare: dal lungo tavolo in noce, circondato da alcune sedie e una cassapanca dello stesso materiale, ai vasi di piante appesi al soffitto, alle pareti in pietra grezza adornati di fotografie di cui molte in bianco e nero. Travis venne particolarmente attratto da quella più grossa, a colori, che stava al centro della parete dietro al tavolo e che era sicuro rappresentasse la famiglia di Michael al completo durante un matrimonio. Lo intravide a destra dell’immagine, sorridente e in piedi tra due belle ragazze, una dai lucenti capelli castani abbigliata in rosa che pareva essere la damigella d’onore, e un’altra dalla chioma dorata il cui cappello quasi nascondeva il viso di Michael accanto a lei. Travis riconobbe la divisa militare che indossava lui e non riuscì a trattenersi. «Anche io ero nei Marines!» esclamò, voltandosi. Michael si stava vuotando un po’ d’acqua del rubinetto in cucina in un bicchiere di vetro. Il ragazzo mandò giù qualche sorso, prima di rispondere: «Appena arrivato dall’addestramento, mi hanno spedito subito a Khe Sanh»

«Io ero a Cam Ranh quando è stata bombardata. Sono stato congedato nel ‘73»

«Non parliamo di guerra» lo interruppe Michael e Travis si trovò d’accordo. Ogni giorno cercava disperatamente di non pensare alla sua esperienza in Vietnam eppure quelle sensazioni che aveva provato ogni giorno in guerra continuavano a ripresentarsi in maniera prepotente nella sua testa, attorno a lui, nei volti delle persone che lo fissavano o che urlavano per strada o che si sparavano addosso in lontananza nel buio dei vicoli.

Michael gli si avvicinò, appoggiandosi al tavolo di legno, e si mise a guardare la foto che aveva catturato il suo interesse. «I miei» spiegò, indicando il quadretto con un dito.

Travis ridacchiò: «Non so perché ma l’avevo capito»

«Ah, zitto. Quelli sono i miei genitori, Vito e Carmela» Il padre di Michael, che troneggiava al centro della foto, era un patriarca dall’aria austera e possente: tarchiato, dai radi capelli brizzolati, elegantemente agghindato con un frac e una rosa all’occhiello, teneva sottobraccio una bella signora sorridente, dalla chioma riccia e dai tipici lineamenti della donna siciliana e un lungo vestito di raso rosa pastello.

«Tua madre ti somiglia molto» osservò Travis, facendo scivolare lo sguardo un po’ sulla donna e un po’ su Michael.

«É vero» ammise Michael, per poi sgranare gli occhi mezzo secondo dopo, come se avesse realizzato qualcosa all’improvviso. «Oh mio Dio, sai che cosa ho notato? Che tu sei praticamente identico a mio padre quando era giovane!»

«Macché!»

«Ah no? Giudica tu stesso, é quello lassù» e gli indicò una foto decisamente più datata, in bianco e nero, che stava un po’ più in alto e ritraeva un giovane di bell’aspetto, con i capelli pettinati all’indietro come li portava Michael. Teneva una coppola tra le mani e l’espressione sul suo volto e nei suoi occhi scuri aveva un ché di malinconico e forse fu proprio quel piccolo particolare a far rendere conto Travis che, effettivamente, poteva esservi una certa somiglianza tra lui e quell’uomo non più così giovane.

Travis lanciò uno sguardo di approvazione a Michael, prima di tornare a concentrarsi sulla foto del matrimonio: «Chi altri c’è lì?»

Gli piaceva l’idea che Michael avesse una famiglia numerosa. Aveva sempre desiderato un fratello o una sorella con cui crescere, giocare, scorrazzare nei campi dietro casa, ma i suoi genitori non gli avevano mai donato quel tipo di compagnia.

Michael si schiarì la gola e tornò a snocciolare velocemente alcuni nomi: «Gli sposi sono mia sorella Connie e suo marito Carlo. Lui è mio fratello Fredo, che adesso sta a Las Vegas. Tom Hagen –vi siete parlati al telefono»

«Ah» fece Travis, e non seppe perché, ma apprendere quella nozione suscitò in lui una strana sensazione indecifrabile. «Non avevo capito che fosse tuo parente stretto. Aveva un accento mezzo irlandese … »

«Già» ridacchiò Michael «mio fratello Sonny lo trovò quando era un bambino che mendicava per la strada. Lo portò a casa e ha sempre vissuto con noi da allora. I miei non lo hanno mai adottato ufficialmente perché mio padre insisteva che divenisse il consigliere di famiglia.»

Travis annuì, ma in realtà era ancora più confuso di prima. Da quando erano arrivati a Long Island gli frullavano in testa mille domande, come perché ci fossero degli uomini armati di guardia fuori dal cancello della tenuta o che diavolo fosse un consigliere, ma non voleva rischiare di sembrare troppo invadente. Quindi decise che avrebbe lasciato che Michael gli desse chiarimenti se e quando avrebbe voluto lui.

Michael indicò nella foto un giovane alto, con le spalle larghe e i ricci ramati. «Lui è Sonny, mio fratello maggiore» disse. Spostò il dito sulla ragazza dai capelli castani: «Sua moglie Sandra … un gran bel pezzo di ragazzo … » -risero perché aveva indicato sé stesso- «e Kay. La mia ex ragazza».

Travis non riuscì a trattenersi dal rivolgergli un ghigno e Michael esclamò: «Ehi, che hai da ridere?» Ma era visibilmente divertito anche lui.

«Fai stragi di donne, tu, eh?»

«Mh. E non solo»

Travis fu tentato di chiedergli qualcosa in proposito, ma poi vi ripensò e lasciò che fosse Michael a parlare: «Mi faccio un bagno. Non riesco a dormire senza. Vieni.»

Travis fu colto alla sprovvista: «Vuoi –che venga in bagno con te?» farfugliò, sentendo chiaramente il rossore impossessarsi delle sue gote. Ma Michael non gli lasciò nemmeno il tempo di replicare, gli prese il braccio e lo guidò in un piccolo antibagno dove aprì un piccolo armadio ad ante. Dentro vi era una scarpiera e, sopra, alcune mensole che contenevano asciugamani, scatole per il cucito e alcuni giochi da tavola. Cautamente, Michael estrasse una grossa scatola di legno con sopra una scacchiera. Muovendola, le pedine all’interno fecero un gran baccano.

«Sai giocare a scacchi?» domandò, chiudendo l’anta dell’armadio. Travis scosse la testa. «Non fa niente. Ti insegno io. Puoi prendere una sedia, per favore?»

Lui eseguì. Quando mise piede nel bagno, Michael aveva già posato la scacchiera su un piccolo sgabello e aperto il rubinetto della vasca per riempirla di acqua calda. Presto, il bagno si riempì di un piacevole tepore e dell’odore di sapone e sali da bagno, mentre i due sistemavano i pezzi per prepararli al gioco. Travis imparò presto che ogni pedina aveva la sua casella e un movimento proprio: l’Alfiere esclusivamente in obliquo, il Cavallo a L, la Regina a proprio piacimento… Era pieno di regole e più complicato di quanto avesse mai pensato, ma Michael gli assicurò che avrebbe capito meglio una volta iniziato a giocare. Quando la vasca fu abbastanza piena d’acqua, Michael cominciò a sbottonarsi la camicia e Travis scostò lo sguardo, sentendosi profondamente imbarazzato, e tornò a guardarlo soltanto una volta che lo udì immergersi. Il fatto che avesse evitato di guardare la sua nudità più intima, non lo aiutò a sentirsi più a suo agio. Il suo petto bagnato, sul quale pendeva un piccolo crocifisso d’argento appeso al collo, si alzava e riabbassava lentamente seguendo il ritmo regolare con cui il ragazzo inspirava ed espirava, rilassandosi e beandosi del vapore che li circondava. Prese una manciata d’acqua e se la versò sulla testa, bagnandosi i capelli, passandosi le mani tra le ciocche marroni che ricaddero spettinati sulla sua fronte. C’era un qualcosa di più infantile in lui, con quell’aspetto, eppure Travis pensò che fosse ancora più bello. Si ritrovò a frenare il crescente impulso di strapparsi di dosso i propri vestiti e unirsi a lui. Il solo pensiero lo fece eccitare.

Oh, merda. Oh cazzo, no, no, non adesso!

Si mosse a disagio sulla sedia e accavallò in fretta le gambe, cercando di nascondere disperatamente la propria erezione che cresceva sfacciatamente. Era una posizione tremendamente scomoda.

Travis si impose di non guardare Michael, di non pensare al fatto che l’acqua gli copriva a malapena la zona pelvica, e si concentrò sulla scacchiera, schiarendosi la voce per attirare l’attenzione dell’italiano e iniziare il gioco.

Michael si voltò e sorrise: «Scusa, ci sono. Hai tu i bianchi, quindi spetta a te la prima mossa.»

Travis annuì e mosse un pedone avanti di due caselle. Sollevò gli occhi su Michael, in cerca di approvazione, ordinando a sé stesso di non abbassare lo sguardo su qualunque altra parte del suo corpo bagnato: «Posso farlo all’inizio del gioco, vero?»

«Come prima mossa sì» rispose lui, e spinse un suo pedone.

Travis fu il primo a perderne uno nella sua schiera. Ovviamente se lo era aspettato. Ma dovette perderne altri cinque o sei e pure una Torre prima di rendersi conto che, effettivamente, c’era qualcosa che non andava.

«Mi stai imitando!» esclamò e Michael gli rispose con un ghigno.

«Effetto specchio» spiegò «mosse e contromosse. É lo svantaggio del bianco. Ti serve una strategia.»

Al suo nuovo turno, Travis si fermò per pensarci un po’ su. Doveva anticiparlo. Bloccarlo in qualche modo, portare il gioco a un nuovo livello.

Michael lo vide in difficoltà e decise di venire in suo aiuto. «Ti do un indizio» mormorò «il tuo Re è scoperto.»

Aveva ragione. L’Alfiere nero era pericolosamente nella traiettoria. Travis afferrò la regina e la spostò di qualche casella davanti al Re. Michael rise. Afferrò l’Alfiere e si mangiò la Regina. Aveva vinto.

«Scacco Matto» ridacchiò.

Travis gli riservò un’occhiataccia: «Mi hai ingannato!»

«Avresti perso comunque. Ma ti concedo una rivincita.»

«Sei troppo bravo» sospirò Travis, lasciandosi cadere contro lo schienale della sedia.

Michael si appoggiò con entrambe le braccia al bordo della vasca e vi posò sopra la testa. «Gioco solo da più tempo» osservò «Mio padre è ossessionato dagli scacchi, ha voluto per forza farci imparare tutti. Mosse e contromosse.» Il suo sguardo mutò in un attimo, nel ripetere quelle parole, divenne quasi tediato e si spostò nel vuoto, in un punto impreciso del pavimento. «Dovevo entrare negli affari di famiglia per rendermi conto di cosa volesse dire in tutto questo tempo.»

Travis si raddrizzò sulla sedia. Doveva chiederglielo. D’altronde, aveva il diritto di sapere, dal momento che si ritrovava sotto il suo tetto ed era stato lui a invitarlo lì. Ed era come se Michael fosse sempre in procinto di dirglielo, ma per qualche motivo si bloccava, cambiava idea, ritornava sui suoi passi. Era giunto il momento di mettere le cose in chiaro.

«La tua famiglia non importa solo olio d’oliva, non è vero?» chiese e il cuore prese a battergli più forte del previsto. Aveva paura di sfanculare tutto quello che era stato costruito con Michael e, visto il brevissimo arco di tempo e il punto in cui si ritrovavano, non sembrava trattarsi di poco.

Michael contrasse le labbra in una smorfia, ma non negò.

«Facciamo affari» rispose «abbiamo alcuni casinò a Las Vegas.»

Travis grugnì: «Non mi piace quella roba»

«Neanche a me. Per questo ci ho spedito Fredo. Lui dirige laggiù e Tom si occupa di controllare cosa ne incassiamo. Mi chiamano solo se c’è qualche problema, per discutere di compravendita e cose di questo genere.»

Travis piegò la testa di lato e lo osservò: «E tu?»

«Io cosa?»

«Tu che ci fai qui?»

Michael si raddrizzò nella vasca ed inspirò profondamente prima di rispondere: «Favori.»

Travis, il cui corpo non era rimasto immune alle azioni dell’altro uomo, si costrinse a rimanere concentrato sulla conversazione, che ormai aveva preso toni decisamente seri. «Che tipo di favori?»

«Qualunque tipo che faresti a una cerchia di amici» rispose Michael, scrollando le spalle «se qualcuno ha bisogno di soldi per aprire un ristorante, viene da me e può chiedermi un prestito. Se qualcuno fa un torto a un amico o a un membro della sua famiglia, io mando qualcuno a punirlo. Purché siano cose serie, ovviamente, non perché il vicino tiene il volume della televisione troppo alto. Prendi il pazzo della Magnum di cui mi hai raccontato stasera. Metti che abbia ammazzato la moglie.»

Travis rabbrividì a quelle parole.

«Ora, se quella donna fosse stata, per esempio, la figlia di un caro amico di famiglia, questi potrebbe venire da me a chiedermi giustizia. Una telefonata a un mio uomo fidato ed ecco che il killer della Magnum rimane solo un brutto ricordo.»

La bocca di Travis si spalancò; un po’ per lo stupore, un po’ per il pensiero di quel pazzo a cui veniva fatto saltare in aria il cervello come lui gli aveva raccontato che sarebbe successo a sua moglie.

«Cazzo … » fu l’unica parola che fuoriuscì dalle proprie labbra, mentre quelle di Michael tornarono a incurvarsi alla vista della sua espressione. «Te l’ho detto» sussurrò «sono bravo ad aiutare le persone.»

Travis fu colto completamente alla sprovvista. Vide Michael alzarsi velocemente e si ritrovò a contemplarlo completamente nudo davanti a lui. E questa volta non distolse lo sguardo, anzi. Lo lasciò vagare. Lasciò che i propri occhi registrassero ogni cosa, ogni muscolo teso, ogni goccia sulla sua pelle ambrata. Guardò le sue gambe, le sue cosce levigate, si soffermò forse un poco più sulla sua virilità che ricadeva morbida da sotto i peli del pube. Risalì sui suoi addominali non particolarmente scolpiti ma comunque evidenti, seguendo la linea dei peli del petto, e si leccò le labbra alla vista dei suoi capezzoli bagnati, delle sue clavicole, del suo collo impregnato d’acqua, di quel suo viso angelico. Era bellissimo. Una visione celestiale. Il dislivello della vasca rispetto al pavimento gli regalava qualche centimetro in più e, dalla postazione di Travis sulla sedia, sembrava un titano. Ancora meglio, un Dio nato dall’acqua, come in un dipinto di qualche altro italiano famoso nel Cinquecento o giù di lì.

Travis si mise in piedi, incurante della propria erezione che oramai premeva quasi dolorosamente contro quei maledetti jeans, e Michael gli sorrise. Non si dissero niente. Nemmeno quando gli mise una mano sulla spalla, appoggiandosi a lui per uscire dalla vasca. Non parlarono quando Michael iniziò a slacciargli la cintura. Si limitavano a guardarsi negli occhi, le labbra di Travis appena schiuse e tremolanti, quelle di Michael incurvate in quel lieve e sensuale sorriso che non accennava a smorzarsi. Trattenne il respiro quando sentì la mano destra del ragazzo massaggiare la sua erezione attraverso la stoffa grigia dei boxer che indossava e si lasciò sfuggire un forte gemito quando gli abbassò la biancheria e il suo palmo e le sue dita si serrarono decisi sulla sua intimità. Michael mosse avanti e indietro la mano, accarezzandogli il membro lungo tutta la lunghezza, alternando movimenti lenti e minuziosi con altri più veloci e incredibilmente eccitanti. Con la sinistra, invece, dalla spalla era risalito al suo collo, poi fino al suo volto e gli accarezzava dolcemente una guancia, passando ogni tanto il pollice sulle sue labbra, da cui Travis lasciava fuoriuscire sospiri e gemiti di piacere intenso al quale non era più abituato. Dio, non ricordava nemmeno l’ultima volta che si era toccato da solo e Michael era così dannatamente bravo e deciso che sapeva che non sarebbe durato ancora a lungo. Quando avvertì di essere sempre più prossimo al limite, Travis afferrò il volto di Michael e lo baciò per la seconda volta in quella serata, se possibile, con ancora più vigore e passione rispetto a un paio di ore prima. Si rese subito conto della differenza. La prima volta era stato un bacio di pura e semplice impulsività. Questa volta c’era di mezzo tutto il fermento dell’attimo e fu bellissimo. Venne nella mano di Michael, ringhiando eccitato sulle sue labbra. Le gambe di Travis tremavano, come se avesse corso, e la parte più bassa del suo ventre quasi doleva. Gli sembrava di aver fatto uno sforzo sovrumano. Strinse Michael in un abbraccio, sfinito, nascondendo il viso nell’incavo tra la sua spalla e il collo e si beò per qualche attimo dell’odore della sua pelle ancora bagnata e profumata di sapone. Probabilmente aveva fatto un macello perché lo sentì borbottare: «Mi ero appena lavato, comunque.»

Travis rise, ma non lo lasciò andare per un po’. Stare stretto a lui lo faceva sentire calmo e appagato e gli infondeva una certa sicurezza, come se nulla al mondo potesse sfiorare i loro corpi intrecciati. Sentì le dita di Michael accarezzargli l’attaccatura dei capelli. 


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Salve, follettini e follettine! Questa volta devo dilungarmi un po' di più in queste note d'autore (che sto riscrivendo per la seconda volta perché il mio pc ha pensato bene di crashare). Anzitutto, spero vi sia piaciuto questo po' di zucchero (e non solo, muahahah) tra i nostri due eroi. Sinceramente, non sono del tutto soddisfatta di questo capitolo, che é stato un parto: lo avevo molto ben delineato in testa, ma alla fine ho continuato a tagliare e rielaborare parti e il risultato é che non mi sembra particolarmente completo. Ad esempio, avrebbe dovuto esserci un vero e proprio chiarimento tra Mike e Travis che avrebbe portato a una vera svolta nella trama; qui Michael accenna giusto un poco a quello che fa davvero, perciò ho deciso di lasciare quella parte per uno dei prossimi capitoli (il quinto, probabilmente).
Siccome ci troviamo in casa di Mike, in questo capitolo compaiono e vengono citati altri personaggi de Il Padrino; se avete visto il film, avrete senz'altro riconosciuto Clemenza e, ovviamente, tutta la sacra famiglia dei Corleone. Se, invece, non lo avete visto, be', spero che fosse comunque tutto abbastanza chiaro.
A un certo punto, ho voluto proprio fare la simpaticona perché quando Mike dice a Travis che somiglia a suo padre quando era giovane, é un chiaro riferimento al fatto che entrambi i personaggi sono stati interpretati da Robert De Niro. Scusatemi, ma non ho resistito a fare questa trashata.

Altra cosa un po' più importante: il prossimo aggiornamento arriverà con qualche giorno di ritardo in più perché la prossima settimana parto per Londra e, siccome in ostello sarò ovviamente impossibilitata ad aggiornare, questa settimana mi dedicherò esclusivamente al terzo capitolo di Bridge Over Troubled Water, l'altra mia storia. Se non la seguite, fatelo!

Ringrazio come sempre chi lascia recensioni e anche chi ha inserito la storia nelle Preferite/Seguite. Spero che non mi abbandonerete, ci si vede al prossimo aggiornamento <3

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