Faded di _Sunspear_ (/viewuser.php?uid=951152)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - La gatta e l'orso ***
Capitolo 2: *** Scelta OC ***
Capitolo 3: *** Capitolo I ***
Capitolo 4: *** Ehi ***
Capitolo 5: *** Nuove iscrizioni ***
Capitolo 6: *** Capitolo II - Insomnia ***
Capitolo 7: *** Capitolo III - Imperium ***
Capitolo 8: *** Capitolo IV - Iustitia ***
Capitolo 9: *** Capitolo V - Viatori pt.1 ***
Capitolo 1 *** Prologo - La gatta e l'orso ***
Faded
La gatta e l’orso
Quell’anno, l’inverno era arrivato in ritardo, timido ed esitante come una bambina. La neve si manifestava in fiocchi semi sciolti, che sembravano galleggiare pigramente nel vento pungente di gennaio. La barriera che proteggeva il Campo era sempre più debole, tant’è che il freddo e le intemperie la superavano senza troppi problemi. Alle volte, Cat riusciva a vedere il vento girare attorno alla cupola di magia, tracciando archi di vento, foglie e neve nell’aria. Le piaceva il freddo. Amava l’aspetto che il freddo conferiva alle persone -pelle arrossata, capelli selvaggi e labbra pallide-, amava la maniera in cui due innamorati cercavano riparo dal gelo l’uno nelle braccia dell’altro. Trovava affascinanti i temporali, spettacolari nel loro caos. Avrebbe voluto che i suoi occhi stessi fossero una tempesta, come quelli dei figli di Zeus. Ed invece, si ritrovava a guardare il mondo con i suoi occhi scuri come un campo fertile.
Quel gelido e, per Cat, piacevole pomeriggio di gennaio, si rivelò essere poco producente. Passò buona parte del proprio tempo libero negli archivi del Campo Mezzosangue, lontana dagli sguardi impietositi degli altri semidei. Aveva bisogno di tempo per stare da sola, per parlare solo con sé stessa. O, forse, per tenere il più lontano possibile il ricordo di Bear. A lui non piaceva stare al chiuso, costretto al silenzio e al rispetto per le cose. Un tempo, Cat era come lui. Irrispettosa, piena di vita, socievole e sempre incline allo scherzo. Cat e Bear, la Gatta e l’Orso, erano l’Estate. Cat e Bear, la Gatta e l’Orso, erano i sorrisi, le battute, le nottate insonni passate a parlare, a stringersi l’un l’altra, a violare il coprifuoco per incontrare gli amici. La ragazza sorrise tristemente, sentendo gli occhi inumidirsi. Batté un paio di volte le palpebre, non riuscendo però a trattenere le lacrime. Doveva riuscire a capire chi, o cosa, le aveva portato via il suo Bear. Chi, o cosa, stava indebolendo il Campo. Chi, o cosa, voleva sottrarle via tutto ciò che aveva. Si accasciò sulla sedia, mettendo da parte i libri di testo e cominciando a singhiozzare. La vecchia Cat avrebbe trovato un modo per uscire da quello stato depressivo, ma la vecchia Cat aveva il suo migliore amico. Dopotutto, lei era diventata fredda e malinconica come l’inverno, ma non sapeva che da qualche altra parte, qualcun altro, la pensava alla stessa maniera. Solo che quel qualcuno aveva molto più potere e sangue freddo della ragazza spezzata.
Angolo Autrice Ehii ❤ Okay, sì, lo so. In questo prologo non si capisce una ceppa, ma è una cosa voluta, giuro ^^ Non mi piace rivelare subito i miei piani, checcepossofa. Bando alle ciance, questa è una piccola interattiva senza pretese, scritta da una mammalucca alle prime armi (sto cercando di impietosirvi ❤❤), quindi onestamente non so cosa ne possa uscire. Ho già molte idee per la testa e non vedo l’ora di metterle in pratica (vedi bene la nota Violenza). Le regole per partecipare sono molto semplici (sì, ho anche delle regole, dudes ❤): • Per partecipare, bisogna prenotarsi per recensione, specificando il sesso, il genitore divino e l’età. Non accetto schede scritte per recensione. Non mi complicate la vita T.T • Nell’oggetto del messaggio privato, dovete scrivere “Nome Oc-genitore divino.” (Tipo Giangiangelo White-figlio di Ade) • Accetto sia semidei greci sia semidei romani. • Sceglierò io i personaggi, vi prego in ginocchio di non offendervi se il vostro OC non sarà scelto. Prendo solo quelli maggiormente affini alla trama. Avete una settimana di tempo dopo il mio okay per inviarmi i personaggi • Potete inviarmi massimo due OC a testa. Credo sia tutto, a momenti le note sono più lunghe del capitolo ^^’ Vi lascio alla scheda, spero che parteciperete in tanti. (I campi con asterisco sono facoltativi)
Nome: Cognome: Soprannome*: Età: (min. 12 max. 25) Genitore divino e rapporto: Aspetto fisico: Prestavolto: Carattere: Paure: Cosa ama e le piace fare*: Cosa odia e non sopporta*: Famiglia mortale: Storia personale: Abilità: Poteri: Armi*: Relazioni: (sì/no e preferenze) Con chi andrebbe d’accordo: Con chi non andrebbe d’accordo: Altro*:
-sun
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Capitolo 2 *** Scelta OC ***
Faded
Scelta OC
Okay, finalmente ci siamo. Ci credete se vi dico che è stata un’impresa scegliere gli OC principali? T.T
Alcuni ancora non mi sono arrivati, ma non fa niente. Forse una settimana di tempo è troppo poco ^^^
Ci tenevo a precisare che anche gli OC che non appariranno qui sotto saranno utilizzati per la storia, solo che saranno un pochino meno presenti degli OC principali, ecco. Alcuni dei secondari potrebbero anche avere un PoV se la trama lo richiede. Sono una persona fottutamente gentile: amatemi c:
Oh, e visto che mi amate (?) avrei una richiesta: non è che qualcuno è capace di fare un banner? *^* Io sono negata in questo genere di cose. (Pls contattatemi)
Comunque sia, tra 1 settimana pubblicherò il capitolo vero e proprio.
Btw, ecco a voi i prescelti:
Tyler Davis, figlio di Apollo
Makayla Hill, figlia di Moros
Mary Jane Perkett, figlia di Ermes
Alexander Townsend, figlio di Clio
Morgana Winchester, figlia di Ecate
Justin Fair, figlio di Astrea
Lilith Henderson, figlia di Ade
Aiden Joestar, figlio di Marte
Corinne Waverly, figlia di Mnemosine
York Ryder, figlio di Efesto
Jackie Harmon, figlia di Imeneo
Catarina “Cat” Thorne, figlia di Chione
Ripeto: gli altri OC non sono stati scartati. Rispetto il lavoro di voi autori che comunque ci avete perso del tempo per creare gli OC, quindi questi non saranno eliminati dalla storia. Alcuni di loro sono dalla parte dell’antagonista ;) Ne vedremo delle belle.
Conto di riuscire ad aggiornare entro la fine del mese, perciò non sparite pls T.T
Baci
-sun
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Capitolo 3 *** Capitolo I ***
«Davvero, Morgs, non so come ringraziarti…» Seduta a gambe incrociate su una delle brandine della solitaria cabina di Ecate, Cat osservava con vago interesse la figura di Morgana Winchester, china su di un fornello da campeggio intenta a destreggiarsi tra foglie, spezie e pentolini. «Oh Cat, non c’è bisogno di ringraziarmi. Siamo amiche, noi.» Morgs le dava le spalle, e Cat poteva seguire i movimenti ipnotici dei lunghi capelli rossi della figlia di Ecate. Le aveva sempre invidiato quel colore di capelli. Il rosso era un colore così particolare; ricordava vagamente il fuoco. A Bear piaceva il rosso. Sosteneva fosse un colore mascolino, da uomo. Quando ancora non lo conosceva bene, Cat credeva che dietro quella preferenza vi fosse altro, ma a volte tendeva a sopravvalutare Bear. Semplicemente, gli piaceva il colore del sangue. Il pensiero del suo amico scomparso non fece che rattristarla, e fu felice che Morgana fosse troppo impegnata ai fornelli per notarlo. La figlia di Ecate non aveva mai approvato Bear, forse per via del suo fare da bullo. Cat ci aveva provato a farli andare d’accordo, in fondo erano entrambi suoi cari amici, ma non c’era stato verso. Morgana non sopportava la personalità egocentrica e boriosa del figlio di Ares, mentre Bear reputava la rossa troppo sfigata, falsa ed infantile. Tuttavia, Cat sapeva di dover spezzare una lancia a favore di Morgana; alle volte Bear era insopportabilmente arrogante e gradasso, ma questi suoi tratti non infastidivano più di tanto Cat. Il semidio sapeva anche essere dolce e protettivo, e il fatto che scegliesse di mostrare questo suo lato migliore solo a pochi… be’, non faceva che renderlo ancora più speciale agli occhi di Cat. E soprattutto, non faceva che rendere lei più speciale, essendo una dei prescelti. «Ancora un po’ e la tisana sarà pronta», annunciò Morgana, rivolgendo un sorriso a Cat. Tisana salutare, calmante e antistress, con questo non dico che tu sia esaurita, ma potrebbe esserti di aiuto, le aveva detto Morgana qualche giorno prima. In pratica, le aveva fatto notare in maniera non proprio velata quanto apparisse malata e stressata esteriormente. Così da quel giorno, ogni mattina ed ogni sera, Cat passava dai dieci ai venti minuti nella cabina di Ecate per prendere tisane e scambiare quattro chiacchiere con l’amica. «Ecco fatto!», esclamò Morgana, girandosi di scatto e rischiando di far cadere il piatto con la tazza. «Questa mattina ti ho preparato una bella tisanina a base di biancospino, menta, lavanda, melissa ed iperico. Et voilà!», disse poi, passandole la tazza e sedendosi di fianco a lei. Cat ringraziò e afferrò la tazza con entrambe le mani, beandosi dell’aroma e del calore che emanava. Uno dei motivi per cui veniva chiamata Cat, Gatta, era la sua costante ricerca di calore, umano e non. Per via della sua discendenza divina Cat non soffriva il freddo, non aveva bisogno di giacche, cappelli o piumoni, non rischiava di prendersi raffreddori o bronchiti. Guardava gli altri semidei andare in giro per il Campo con sciarpe e giubbini, mentre lei poteva benissimo farne a meno. La sua pelle era sempre fredda e questo la faceva sentire aliena, innaturale. Perciò aveva sviluppato una sorta di attrazione per il calore. Le piaceva sentirsi, anche solo per qualche attimo, normale, umana. Si riscosse dal tepore del vapore, lanciò un’occhiata alla rossa e sogghignò, avvicinando le labbra al bordo della tazza. Vide Morgana agitarsi, mentre gli occhi azzurri le brillavano di impazienza. Cat bevve un sorso della tisana al contempo calda e fresca per via della menta. Rivolse uno sguardo all’amica e rise, non riuscendo più a trattenersi. «10 punti a Tassorosso!» Morgana emise un gridolino gioioso e agitò un pugno in aria in segno di vittoria. Proprio in quel momento, uno dei suoi due gatti neri – Merlino, quello simpatico – le saltò in grembo, facendo le fusa. «Oh, menomale. Ero molto indecisa sulla menta», ammise la rossa, grattando la testolina del gatto, che sembrava apprezzare le attenzioni della padrona. Cat assunse un tono falsamente professionale «Una tisana osé. Sono sorpresa, Morgs», bevve un altro sorso della sua tisana a luci rosse. La figlia di Ecate ridacchiò, e nel mentre una folata di vento fece spalancare le finestre. Cat percepì una lieve sensazione di frescura, ma probabilmente doveva essere un vento gelido, visto che Morgana si alzò e si diresse verso la finestra semiaperta, battendo i denti. «D-dovrò accendere il c-camino.» balbettò infreddolita, nonostante i due maglioni e il jeans imbottito che indossava «così quando rientro dopo pranzo t-trovo l’Antro stregato b-bello caldo» Cat rise all’epiteto. «Grazie per la tisana, Morgs, ti lascio alle tue cose. Sicura che non vuoi che lavi la tazza?» Ogni tanto Cat ancora ci provava a non usufruire troppo della gentilezza dell’amica, ma senza successo. Quando la figlia di Ecate si metteva a disposizione, lo faceva con tutta sé stessa. «Ma per che razza di padrona di casa mi hai preso, screanzata?», ribatté infatti Morgana, indignata. Cat rise di nuovo, sentendosi più leggera. Abbracciò forte l’amica, ringraziandola di nuovo per tutto. Poi si sistemò la sciarpa di Bear al collo e uscì all’aria aperta.
«Ti scongiuro Annie! Dormi…» piagnucolò. Jackie Harmon non sapeva più che pesci pigliare. Le aveva provate tutte: latte caldo, massaggini, ninna nanne. Aveva persino preso in considerazione l’idea di ignorare sua figlia, nella speranza che si addormentasse per noia, ma i suoi cattivi propositi erano andati in fumo non appena aveva adagiato la bambina nella culletta. Annie aveva iniziato a piangere, distruggendo l’ultimo briciolo di sanità mentale che rimaneva a Jackie. Aveva cominciato a piangere anche lei, solo che a differenza della figlia i suoi lamenti erano conditi con una buona dose di bestemmie rivolte all’intero Pantheon. E così si ritrovava alle otto del mattino con i nervi a pezzi, un fagottino urlante fra le braccia e una gran voglia di defenestrare il suddetto fagottino. «Che cos’hai, per l’amor degli dei, Annie, che cos’hai?!» quasi gridò digrignando i denti, riuscendo solo a far aumentare le urla della bambina «Hai di nuovo le coliche? Sei sporca? Che cosa devo fare, Annie?», chiedeva Jackie esasperata. A volte le veniva voglia di abbandonare tutto e lasciare la bambina in adozione. Non lo faceva per cattiveria, anzi. Jackie amava più di ogni altra cosa sua figlia, ma era una pessima madre, ed Annie meritava di meglio. Era stata un’egoista a tenerla con sé, però era sua figlia. Sua, sua e basta. Aveva rinunciato a tutto per quella bambina nata per sbaglio. Sentì un lieve bussare alla porta, ed istintivamente Jackie strinse più forte a sé la bambina. No, non era pronta per mandarla via. Si schiarì la voce, tentando di darsi un contegno «Chi è?», chiese, avvicinandosi alla porta grigia. La cabina di Imeneo era estremamente anonima. C’erano letti a baldacchino, mobilio semplice e modesto. L’unica nota vagamente interessante era la parte di stanza dedicata ad Annie, completa di fasciatoio, culla e tutto quel che poteva servire ad una neonata. Una voce melodiosa e inconfondibile rispose: «Jackie, tesoro, sono Chloe» Chloe. Jackie si affrettò ad aprire la porta. «Chloe, grazie al cielo!» Chloe era l’unica figlia di Ilizia presente al Campo Mezzosangue. E, per intenderci, Ilizia è la dea dei parti. Era stata molto d’aiuto a Jackie. Quando Annie aveva un problema, la figlia di Imeneo era solita rivolgersi a lei o a qualche figlia di Apollo. La bionda figlia di Ilizia tese le braccia ancora prima di entrare. Per un attimo, Jackie pensò che volesse abbracciarla, ma poi capì e le passò la bambina. Entrò nella casa completamente a suo agio, prendendosi cura della figlia di Jackie come se fosse sua. La ragazza arrossì a quel pensiero. Chloe cantò qualche nenia in greco antico, mantenendo il tono di voce basso e carezzevole. Jackie sentì l’esasperazione e lo stress scivolarle via dalle viscere. È questo il suo potere, pensò Jackie, risiede tutto nelle corde vocali. «Tesoro», esordì la bionda una volta che Annie si fu calmata, «scusami per l’irruzione. Pensavo avessi bisogno di aiuto. Non ti ho nemmeno chiesto come stai…» Jackie si sedette di fianco all’altra semidea, osservando la sua piccola Annie sbadigliare pigramente. «Annie non dorme, Chloe… sono una pessima mamma. Vorrei che fossi tu a prenderti cura di lei. Sembri nata per fare questo» La mezzosangue le sorrise dolcemente, passandole la bambina assopita. Jackie la fissò come incantata. «Io sono nata per fare questo, Jackie» il suo nome aveva un suono così dolce pronunciato da Chloe «tu non lo sei. Hai bisogno di imparare, ma è normale. Sei molto giovane, non eri pronta per questo. Solo il fatto di aver tenuto Annie quando c’erano altre possibilità… be’, questo fa di te una madre meravigliosa.» L’altra scosse la testa. «Tu non capisci. Sono solo un’egoista. A volte penso di amare Annie solo perché, be’, è un’estensione di me stessa. Lei mi appartiene, capisci?» Chloe annuì, e Jackie non poté fare a meno di notare che, come la figlia di Ilizia, anche Annie aveva i capelli biondi. Purtroppo li aveva ereditati dal padre. «Io credo», esordì la semidea con tono deciso ma pacato, «che tu abbia bisogno di pensarci su. Ti dico solo che in parte sbagli. Lei ti appartiene, è vero. È tua figlia. La ami perché è parte di te, aye, ma…» «Chloe, basta. Non cercare di giustificarmi. Tu non sai quante sono le volte in cui penso di aver fatto un errore a tenerla con me. Una vera mamma non penserebbe mai a queste cose. Io non la merito...» Lo sguardo verde di Chloe indugiò qualche secondo sul viso di Annie. Si prese qualche istante prima di rispondere. «Tu credi di non meritarla, Jackie. Ti sbagli. Col tempo capirai» lo disse in un tono strano. C’era forse una punta di rammarico, in quel tono? Delusione? Rassegnazione? Era così difficile stabilirlo. Chloe Murray era sempre così pacata e tranquilla. Raramente la sua voce assumeva sfumature differenti dalla calma. Alle volte era snervante, perché questo suo distaccarsi dal mondo la rendeva distante, quasi estranea, e indecifrabile. E Jackie avrebbe dato di tutto pur di riuscire a scoprire cosa frullava nella testa della figlia di Ilizia. «Parli come una nonna, Chloe», sdrammatizzò, poiché sapeva di non essere pronta ad affrontare quell’argomento. E prima che la bionda potesse aggiungere altro, la figlia di Imeneo prese nuovamente parola: «Ho intenzione di portare Annie fuori» Dio. Perché non riusciva a parlare d’altro se non di sua figlia? Chloe finse di non notare il repentino cambio d’umore della ragazza, ma modellò sul suo bel viso un’espressione preoccupata. «Temo che faccia troppo freddo. Annie ha solo tredici mesi…» Nonostante fosse la madre, Jackie dovette farsi due calcoli. Mia figlia non è una forma di parmigiano, pensò, ha un anno, cavolo. Cosa ti costa dire un anno? «In lei scorre sangue semidivino, Chloe. È più forte degli altri bambini. Da quando è nata non si è mai raffreddata, soffre solo di coliche.» Solo. Però quelle parole la rendevano orgogliosa. Annie era sua figlia, dopotutto. Imeneo non era un dio forte e rispettato come Zeus o Poseidone, ma era comunque un dio. Rabbrividì, come sempre, al pensiero. «Be’, allora infagottala bene», sorrise Chloe accondiscendente.
“A partire dai primi anni del Settecento possiamo trovare numerosi dati di prime stazioni amatoriali, diventate col tempo ufficiali, proprio in concomitanza di quello che, secondo gli studiosi, è considerato in Europa l'Inverno in assoluto più freddo di tutta l'epoca moderna e contemporanea, quello in cui probabilmente si raggiunsero i picchi più bassi in parecchie zone del continente e quello che severamente colpì in particolar modo l'Europa Centrale, la Francia e l'Italia, il 1708-1709.
Ad onor del vero, gran parte del gelo eccezionale si concentrò nel solo mese di gennaio, e nemmeno per tutto il mese, ma fu talmente forte ed esteso da condizionare la media climatica di tutto il trimestre (che non fu comunque mite, anzi)
Il gelo fu più che eccezionale: iniziò la notte dell'Epifania, gelarono in poche ore tutti i fiumi, laghi, pozzi (gelata completa del lago di Garda, unica volta nella sua storia), in una situazione barica probabilmente che vedeva un anticiclone termico russo estesissimo fin verso la Francia e Spagna, con i nuclei gelidi più intensi in discesa proprio verso la Germania e l'Italia: la cronaca di quei giorni parla di gelo eccezionale a Parigi, col termometro sceso fino a -23,1 °C, tutti i grandi fiumi dell'Europa Centro-Occidentale riuscirono a gelare, addirittura riuscì a gelare la foce del fiume Tago a Lisbona; gelarono tutti i grandi porti come Barcellona, Marsiglia, Genova, Venezia, addirittura il mare riuscì a gelare fino a Livorno, si seccarono tutte le piante di ulivo, tutti i vigneti e gli agrumi andarono persi.”*
«Davvero curioso», mormorò Alexander Townsend osservando nuovamente gli appunti sul suo quadernetto, scrupolosamente ricopiati da Wikipedia. Sotto il testo vi erano dei piccoli schemi, tracciati in un momento di ispirazione. Erano giorni che Alex, buttando all’aria ogni stralcio di vita sociale, era chino su libri e schemi, cercando di trovare una spiegazione quantomeno plausibile alla luce dei fatti recentemente accaduti; l’innaturale ed improvviso gelo, le correnti d’aria sballate, l’indebolimento della barriera del Campo Mezzosangue. Alex faticava a trovare risposte, ma aveva alcune teorie più che sensate. Era consapevole di non dover badare solo al lato logico della faccenda, ma anche a quello divino. Sapeva inoltre di avere una marcia in più rispetto ai numerosi studiosi mortali che, sfortunatamente, ignoravano l’esistenza di un altro mondo, il suo mondo. Un mondo paranormale. Ma Alex non era stato l’unico semidio a pensarla in quel modo. Molti altri mezzosangue – in particolare figli di Atena – si davano da fare per riuscire a trovare una soluzione. Ma, di nuovo, la maggior parte dei semidei presenti al campo in quel periodo – quindi molto pochi – sembrava non curarsene. Era quasi riuscito a sciogliere quell’intrigo di nodi, era solo questione di tempo. Quel giorno, circa un ora prima dall’inizio delle attività mattutine, Alex aveva deciso che era arrivato il momento di approfondire le sue ricerche. Si era recato negli archivi del Campo, sicuro che ad una così buon’ora nessuno lo avrebbe disturbato. E nemmeno quella volta si sbagliò. Spulciò parecchi testi e diari di mezzosangue prima di poter ritenersi soddisfatto. Suo padre sarebbe stato d’accordo con lui. Forse lo chiamerò dopo via Skype, rifletté pensando al vecchio computer nella Cala Grande, per poi scuotere la testa. «No, ho già rischiato molto con Internet» Il suo sguardo si perse tra gli innumerevoli scaffali ricolmi di sapere: Thomas Townsend, suo padre, gli mancava terribilmente. Ma nell’ultimo periodo non poteva proprio sperare di vederlo. Con gli attacchi da parte di mostri triplicati e le strade ghiacciate, era praticamente impossibile muoversi di casa. Sarebbe potuto tornare verso novembre, quando la situazione generale era ancora gestibile, ma aveva scelto di rimanere. Forse un po’ se ne pentiva, ma lo faceva anche per il bene del genitore. Scosse la testa, passandosi una mano tra i capelli ricci, cercando di dargli un garbo. Ma quelli si rifiutavano di stare in ordine, come dei bambini capricciosi. Sbuffò contrariato. Odiava i suoi capelli. Con calma richiuse il quadernino, prendendosi tutto il tempo necessario per mettere in ordine fogli strapieni di inchiostro e cancelleria, riponendoli con cura sulla scrivania. Poi raccolse dal tavolo alcuni tomi su cui aveva studiato e sparì dietro agli scaffali. Quando riemerse, una figura dai lunghi capelli scuri era seduta di spalle sulla sua postazione, china sui suoi appunti. Non gli ci volle molto per capire chi fosse. Cercando di essere il più silenzioso possibile, in punta di piedi, le si avvicinò. «Alexander», chiamò Cat, poco prima che Alex la toccasse. Sbuffò, passandosi nuovamente una mano tra i ricci. «Immagino non si possa fare un agguato ad un gatto», disse con fare imbronciato. Lei si girò, tutta sorridente. «No, non si può», poi lo abbracciò, gettandogli le gelide mani al collo. La prima volta che l’aveva fatto, ad Alex erano sembrate mani morte. Ricambiò la stretta, cercando di scaldare il più possibile il corpo dell’amica. Non era ancora soddisfatto quando Cat si staccò e gli sorrise di nuovo. Alex non la conosceva bene, ma era bravo a capire le persone. E non gli ci era voluto molto per rendersi conto di quanto in realtà la ragazza stesse soffrendo, che dietro tutti quei sorrisi allegri si celava una maschera di malinconia e tristezza. Glielo si leggeva nello sguardo cerchiato di nero. «Hai scoperto qualcosa?», gli chiese, ferma in piedi di fronte a lui. Alexander annuì in silenzio. Si erano conosciuti circa una settimana prima, qualche giorno dopo la sparizione di Bear. Chi per un motivo, chi per un altro, si erano ritrovati a fare insieme ricerche negli Archivi. Cat gli era sembrata così disperata che non ci aveva pensato due volte ad elargire uno dei suoi famosi abbracci ed il suo aiuto. Anche se, a dire il vero, Alex già conosceva la figlia di Chione per via di alcune amicizie in comune, ma a quel tempo non potevano considerarsi amici. Tutt’altro. «Quel che hai letto», rispose il figlio di Clio, roteando gli occhi e tornando a sedersi al suo posto. Cat rimase in piedi all’altro capo della scrivania. Si piegò sul tavolo e rigirò il quadernino, lanciandogli una veloce occhiata «Be’, sii obbiettivo, non è molto» Il semidio la guardò con fare compiaciuto. «Credimi, Kitty, è molto più di quanto osassi sperare. Rifletti.», lo disse in tono stimolante, quasi enigmatico. Ad Alex piacevano le espressioni contrite che assumevano le persone quando riflettevano, e soprattutto gli piaceva esserne la causa. Fu più che compiaciuto quando la ragazza inclinò il capo come un cucciolo di cane curioso, storcendo le labbra con fare pensieroso. «Oh, insomma» farfugliò indispettita Cat dopo qualche secondo, «se stai cercando di dirmi che la causa di questo gelo è divina, be’, grazie tante, c’ero già arrivata. Non sono così stupida.» si ritrasse, quasi sulla difensiva. Alex si passò una mano tra i capelli, a disagio «Non l’avrei mai e poi mai pensato.» era serio, ma Cat lo guardò circospetta. «Questa cosa che hai scoperto può aiutarmi a ritrovare Bear?», domandò dopo un po’, la voce atona. Ogni volta che Cat nominava il figlio di Ares, la stima che Alexander provava nei suoi confronti scendeva di un po’. Bear Evans era una presenza talmente negativa, e lei sembrava sinceramente non accorgersene. Le farò aprire gli occhi, pensò. «Molto probabilmente» rispose con un sorriso mesto.
Quella mattina Morgana non aveva fame. Spiluccava svogliatamente i biscotti presenti nel piatto, sorseggiando di tanto in tanto il suo tea nero. Si sentiva spossata e vagamente nauseata, ma d’altronde non c’era da stupirsene. Da quando la barriera del Campo si era indebolita, parte delle sue energie le erano venuto meno. Aveva attribuito la colpa all’ansia. «Morgs? Va tutto bene?», le chiese Ethalyn Harper, seduta di fianco a lei. Morgana si limitò a sorriderle ed annuire, per poi tornare a concentrarsi sulla sua magra colazione. Aveva un brutto presentimento, e non riusciva a scrollarsi di dosso l’idea che qualcosa di terribile stesse per accadere. Lanciò un’occhiata nervosa alla panca di fronte alla sua, dove solitamente sedeva Cat. Si sarà di nuovo chiusa in cabina, pensò costernata. Bevve un altro sorso del tea, ripromettendosi di fare un salto da lei dopo le lezioni di tiro con l’arco. Avrebbe potuto prepararle un’altra tisana, o magari una cioccolata calda, tanto per cambiare. Doveva rivolgersi ai figli di Ermes e Demetra per gli ingredienti, ma non rappresentava un problema. Aveva tanti amici sia tra i primi che tra gli altri. Stava pensando a chi poter chiedere lo zucchero quando un urlo disperato dilaniò la quiete del mattino. Una panca si rovesciò. Si udì il tonfo del legno, seguito dal rumore di vetri infranti. Morgana si alzò di scatto facendo saettare d’istinto la sua mano destra al fianco sinistro, alla ricerca della sua spada di bronzo celeste. L’aveva dimenticata in cabina. Udì varie urla terrorizzata e la voce profonda di Chirone: «Lasciate passare! Per la miseria, state calmi!» Intanto Ethalyn era sparita. Morgana la ritrovò quando le acque si furono calmate. La figlia di Apollo era accovacciata sui talloni. Il suo corpo nascondeva il volto della ragazza in preda alle convulsioni. Morgana si fece spazio tra la calca di semidei, riuscendo finalmente a scorgere il viso della vittima. Gli occhi di Makayla Hill erano chiusi, ma il resto del viso era talmente contratto da fare impressione. Le vene sul suo collo sembravano in procinto di esplodere, e Morgana si sentì mancare. Scorse per un attimo lo sguardo sconvolto di Chirone, e solo allora capì che aveva avuto ragione. Il suo istinto non sbagliava mai.
Angolo Autrice
Ehm ehm… salve c:
Sono in ritardo, lo so. Vipregononuccidetemiiovivogliobene
Sono un pochino in ansia per questo capitolo. Rileggendolo mi viene da dire solo… meh.
Non so, ho come l’impressione che potrei fare di meglio. Spero di riuscirci.
In questo primo capitolo abbiamo visto la nostra Cat sotto due differenti punti di vista. Fatemi sapere cosa ne pensate di lei, sono curiosa ^^^
Poi abbiamo Morgana *^* Mi sono innamorata di questo personaggio <3 Perciò, Morgs, non sei al sicuro <3 <3 <3 *masochismomodeon*
And then abbiamo Jackie ed Annie Harmon + Chloe. Sì, Annie è la figlia di Jackie. E no, non vi dirò chi è il padre. Non ancora :3
E poi (x2) c’è Alexander *^* spero di averlo reso bene (mi dispiace aver storpiato il suo quadernino delle ispirazioni con stupide informazioni vitali T.T)
Sono curiosa di sapere cosa ne pensate dell’ultima parte. Cosa è successo a Makayla?
Mi raccomando, fatemi sapere se sto facendo un buon lavoro :3
Alla prossima!
Xoxo
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Capitolo 4 *** Ehi ***
Non sono mai stata costante nella mia vita. Mai. Ho sempre lasciato le cose a metà, non mi sono mai chiesta cosa sarebbe successo se avessi continuato. È passato molto tempo dall’ultima volta in cui sono entrata in questo sito. Sono cambiate tante cose, questo è evidente. Molti autori che conoscevo non scrivono più (o, almeno, non in questa sezione). È naturale. È passato molto tempo e siamo tutti cresciuti. In un certo senso, ci siamo un po’ tutti evoluti. Eppure questa cosina che scrissi tanto tempo fa… è come se l’avessi scritta ieri. Le idee sono ancora fresche nella mia mente. Come già detto, non entravo da molto in questo sito. Un po’ mi pento di aver abbandonato già al primo capitolo. Mi piaceva quello che stavo scrivendo, ma ero piccola e non mi sembrava di ricevere il riscontro positivo che avrei desiderato. Ora ho 17 anni, forse non dovrei essere qui, ma non importa. Non voglio più lasciare le cose a metà. Ciò che sto tentando di dire con questi immensi giri di parole è… se continuassi questa storia, ci sarebbe ancora qualcuno a supportarmi? Qualcuno sentirebbe ancora suo il personaggio che tanto tempo fa mi affidò? Lo so, è strano, ma non importa. È questo il bello dell’anonimato 😆 Fatemi sapere. Sarebbe bello... (È una cosa che sto scrivendo di getto, perciò scusate la presentazione.)
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Capitolo 5 *** Nuove iscrizioni ***
Ciao ragazzi! Sono senza parole… davvero. Non mi aspettavo di ricevere così tanto sostegno da parte vostra. Ho letto con attenzione i messaggi che avete lasciato sotto l’ultimo aggiornamento e… mi avete convinta. Riaprirò le iscrizione e continuerò questa storia. Dei personaggi precedenti terrò solamente quelli già presentati, in modo da dare una continuità a questa storia. Che ne dite? Nel caso qualcuno avesse voglia di partecipare, lascio qui la scheda da compilare. - Nome: - Cognome: - Età (non deve per forza essere un adolescente) e compleanno: - Genitore divino (greco o romano) e rapporto con esso: - Genitore mortale e rapporto con esso: - Descrizione fisica: - Prestavolto: - Storia personale: - Buono o cattivo? E perché?: - Descrizione caratteriale (siate molto dettagliati): - Cosa piace: - Cosa non piace: - Arma: - Abilità: - Con chi potrebbe andare d’accordo e con chi no: - Orientamento sessuale: - Paure e debolezze: - Altro:
Potete “prenotare” massimo due personaggi tramite recensione, specificando il genitore divino, l’età e lo schieramento (buono o cattivo). Detto ciò, spero che qualcuno partecipi ♡ A presto,
-sun |
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Capitolo 6 *** Capitolo II - Insomnia ***
Ciao ragazzi!
Brevissima nota prima di cominciare.
Lo ammetto, sono un abbastanza emozionata di ricominciare questa storia: non è sicuramente stata il mio più grande rimorso, ma sentivo che in questo specifico periodo della mia vita avevo bisogno di portare a termine qualcosa. E mi sono detta: “perché non partire da qui?”. Ed eccomi qua.
Ringrazio ognuno di voi per il supporto e la partecipazione. I vostri personaggi erano tutti bellissimi, perciò ho scelto di renderli tutti protagonisti (chi più chi meno ovviamente. Ma state certi che ogni personaggio avrà il suo momento per brillare). Ovviamente, onde evitare confusione e incomprensioni, verranno presentati nel corso della storia. Alcuni dei personaggi scelti in precedenza continueranno a far parte attivamente della storia: nella trama che ideai tanto tempo fa, la loro presenza è essenziale, soprattutto quella di un paio in particolare. Non voglio dilungarmi troppo, in fondo siete qui per la storia non per le mie pippe mentali ;.;
Spero che questo capitolo sia di vostro gradimento e non preoccupatevi se il vostro personaggio non è ancora presente, apparirà presto 😉
Ci vediamo a fine capitolo ♡
Insomnia
“Lamia era una bellissima regina della Libia, talmente bella da catturare il cuore del divino Zeus. Da lui ebbe un bel bambino, ma certamente non bello come te”, Jackie sorrise dolcemente e massaggiò il pancino di sua figlia, stesa di fianco a lei, il cuore carico d’amore. Era una fredda sera di marzo al Campo Mezzosangue, l’umido sembrava penetrare all’interno delle carni e delle ossa. Era stata una giornata particolarmente monotona: il freddo costringeva i pochi semidei presenti al campo a rimanere chiusi nelle proprie cabine, molte attività erano state sospese: prendere un raffreddore sarebbe stato altamente controproducente. Jackie aveva deciso di isolarsi completamente insieme alla sua bambina. Be’, quasi completamente. Chloe non l’aveva lasciata quasi mai da sola in quelle settimane, turbata come lei dal clima insolito e il morale negativo a seguito dell’incidente con la figlia di Moros. Quello, più di qualsiasi altra cosa, aveva turbato la figlia di Imeneo; sentiva come se un’aura negativa circondasse quella mezzosangue e l’ultima cosa che voleva era che qualcosa di potenzialmente pericoloso si avvicinasse alla sua amata Annie. La sua piccola, preziosa Annie, che in quel momento, fasciata nel suo pigiamino di pile rosa con i coniglietti bianchi, era rannicchiata sul suo letto sotto al piumone, in mezzo a lei e Chloe, che le stava accarezzando la testolina bionda.
Jackie si sentiva leggera, in pace con se stessa, mentre due grandi paia di occhi verdi la stavano guardando con curiosità. Continuò il racconto: “come c’era d’aspettarsi, sua moglie Era si arrabbiò molto…”
“Ea…?”, sembrò domandare Annie, aggrottando le sopracciglia bionde e agitandosi sotto al piumone. Sembrava che il nome non le piacesse particolarmente. Chloe ridacchiò, continuando ad accarezzare i ciuffi dorati della bambina.
“Fidati, ma petite fille, non vuoi davvero conoscerla”
Jackie rabbrividì. Aveva sempre avuto un debole per la voce di Chloe, soprattutto quando parlava in francese. La figlia di Ilizia le aveva raccontato che la sua prima matrigna veniva da Tolosa e che sin da subito aveva voluto insegnare alla dolce figlia del suo nuovo compagno, Julian Cartwright, la sua lingua d’origine, sostenendo che un bel visino come il suo doveva conoscere la lingua dell’amore. Ogni volta che sentiva la bionda pronunciare con la sua incantevole voce qualche parola in francese, Jackie ringraziava mentalmente la donna.
“Volete smetterla di interrompermi voi due? Sto cercando di raccontare una storia!”, le rimbrottò scherzosamente Jackie, sforzandosi di non sorridere.
“Scusami tesoro, ma la colpa è tutta di questa signorinella”, fece Chloe. Si mise a gambe incrociate e sfilò Annie da sotto le coperte, mettendola seduta tra le proprie gambe e giocherellando con le sue manine. Annie ridacchiò, apprezzando tutte quelle attenzioni.
Jackie riprese a parlare: “come dicevo, Era si arrabbiò molto e decise di vendicarsi, uccidendo tutti i suoi figli”, un’ondata di disprezzo nei confronti della regina degli dei invase le viscere della figlia di Imeneo, che si costrinse tuttavia a continuare il racconto, “le uniche figlie che rimasero in vita furono Scilla e Sibilla. Lamia, giustamente, era disperata e decise di vendicarsi, seppur in modo sbagliato: cominciò a nutrirsi del sangue degli altri bambini, non curandosi della disperazioni delle altre madri. Questo suo orrendo comportamento mutò il suo stupendo volto in quello di un mostro, che aveva tuttavia l’abilità di attrarre gli uomini – che si sa, son stupidi – e berne il sangue. Le sue figlie vengono chiamate empuse e sono mostri che vogliono farci del male e combattiamo ogni giorno.”. Annie e Chloe la fissavano in completo silenzio. La ragazza aveva persino smesso di giocare con le braccine della bimba. Jackie arrossì mentre restituiva lo sguardo all’altra ragazza. “Ma ti prometto, tesoro mio, che ti proteggerò sempre”. Chloe spalancò gli occhi, poi dissimulò la sorpresa girando Annie verso di sé e sussurrandole: “Ma puce, hai davvero una mamma fantastica, sei così fortunata.” Per tutta risposta, Annie sbadigliò, facendo cadere il ciuccio e provocando una leggera risatina in Chloe, che la prese in braccio e la mise nella culla. La bambina protestò debolmente, ma la semidea sapeva essere perentoria. Jackie si alzò e le raggiunse, aiutando l’amica a sistemare il lettino e restituendo il ciuccio alla bambina. Poi si sporse nella culletta e diede un bacio a sua figlia, augurandole la buonanotte.
Chloe cominciò a intonare una dolce e armoniosa nenia in greco antico e dopo alcuni istanti Annie si assopì, il viso sereno mentre succhiava il ciucciotto. Jackie sospirò.
“Non so davvero come farei senza di te”, disse all’amica, andando a sedersi sul letto e sbadigliando rumorosamente; la magia di Chloe aveva fatto effetto anche su di lei. È straordinario. Chloe è straordinaria.
Chloe si diresse verso il suo letto, la spalle basse, l’espressione tranquilla e l’aria vagamente assonnata. Cominciò a prepararsi per la notte. Qualche tempo dopo la nascita di Annie, avvenuta al campo e supervisionata da Chloe stessa, Jackie aveva iniziato a soffrire di insonnia e attacchi di panico. Girava per il campo tremante, i capelli scuri spettinati, il viso sconvolto e con la bambina stretta in un protettivo abbraccio, convinta che da un momento all’altro i mostri le avrebbero strappato quel fagottino dalle braccia per farle del male. Sembrava uno spirito in pena. Chloe, che le era stata accanto sin dal principio, si era offerta di alleviare quella pena trasferendosi, con il consenso del Signor D., nella sua capanna e prendendosi cura di loro. “In fondo nella mia capanna ci sono solo io. Mi farebbe piacere un po’ di compagnia”, le aveva detto subito dopo averle proposte quella soluzione. Jackie ricordava ancora la sua espressione, leggermente titubante e ansiosa, come se avesse avuto paura di essere respinta. Anche se avesse voluto dirle di no, non avrebbe potuto farlo. Era impensabile: nessun essere umano munito d’anima sarebbe stato capace di negare qualcosa a quegli occhioni verde foglia. Già nei primi giorni Chloe si era rivelata un angelo: un angelo biondo che cambiava pannolini, curava irritazioni e, finalmente, le permetteva di dormire come si deve. “Lasci che mi prenda cura di voi”, le aveva detto. E forse era stato proprio in quell’istante che Jackie si era resa conto di voler davvero bene a quella ragazza. Lei c’era sempre stata, sin dal primo giorno in cui Jackie era entrata al campo, incinta di sette mesi, stanca, sporca e ferita. Ogni avvenimento importante nell’ultimo anno aveva il viso di Chloe come cornice: la nascita di Annie, i suoi primi passi, la sua prima parolina, pappa, che era dolorosamente simile alla parola papà, il primo dentino, tutto. Tutto aveva il colore dei suoi occhi, il suono della sua voce e il profumo della sua pelle. Chloe era diventata il suo tutto nell’arco di un anno e mezzo e Jackie non poteva farci assolutamente nulla. Era frustrante. Era sbagliato? Probabile. Perché Chloe era la sua migliore amica e non poteva assolutamente permettersi il lusso di perderla rovinando tutto con i suoi stupidi sentimenti. Ciò che importava era Annie, ed Annie aveva disperatamente bisogno della figlia di Ilizia nella sua vita. Jackie aveva disperatamente bisogno di lei.
Dopo aver entrambe indossato il pigiama, si misero sedute sul letto di Jackie. Chloe si inginocchiò dietro di lei sprofondando con le ginocchia nel piumone e, presa una spazzola dal suo comodino, cominciò a pettinarle i lunghi capelli scuri. La figlia di Imeneo chiuse gli occhi e piegò la testa all’indietro, agevolando il passaggio delle setole tra le ciocche. Era un’abitudine ormai: ogni sera, Chloe le spazzolava i capelli e le raccontava della sua giornata, utilizzando il proprio potere come lenitivo per le ansie dell’amica. Poco più in là, Annie ronfava placidamente nella sua culletta.
“Cosa pensi che diventerà da grande?”, Chloe ruppe il silenzio.
“Mmh?”
“Annie, intendo”
“Oh”, Jackie aprì gli occhi, “non lo so, e non mi interessa. Tutto quello che desidero è vederla crescere felice”.
“Sei proprio una brava mamma”, Chloe sorrise; Jackie non poteva vederla, c’era il muro di fronte a lei, ma riuscì a intuirlo dal tono di voce. Sorrise a sua volta, poi però si rabbuiò. “Non sto facendo un buon lavoro. Qualcosa sta per succedere, lo percepisco, ma invece di scappare o proteggerla sono qui, a farmi pettinare e ad affidarmi completamente a te.”
Jackie sentì i movimenti dell’altra rallentare, come se stesse riflettendo. “Cos’è che percepisci esattamente?”
La mora storse il naso. “Sento che quella figlia di Moros è pericolosa. Tutto dipende da lei e, so che è ingiusto, ma quel che farà o dirà ci porterà solamente sciagure”
“Perché dici così?”, Chloe era genuinamente perplessa.
È così ingenua…
“Ma non capisci? Moros è il dio del destino, talvolta avverso. Chissà cos’ha in serbo per noi. Lui non può parlarci direttamente: forse lo farà tramite la sua unica figlia mezzosangue.”
“Ma sono ormai quattro giorni che Makayla dorme”, Chloe smise si passarle la spazzola tra i capelli e cominciò a intrecciarli, partendo dall’alto, “se Moros avesse voluto dirci qualcosa l’avrebbe già fatto”
“Forse la profezia è così potente che Makayla non riesce a sopportarne il peso e le parole. Chi può saperlo? Quel che è certo è che questo freddo è innaturale e che tanti semidei sono spariti.”
“Potrebbero essere scappati”, ragionò Chloe, che intanto stava continuando ad intrecciarle i capelli in un’elaborata treccia francese.
“No, impossibile. Prendi quel figlio di Ares, ad esempio, quel… Bear. Non brillava certo d’educazione e gentilezza, ma non avrebbe mai abbandonato Cat. Forse questa è l’unica cosa che gli fa effettivamente onore, tralasciando quelle impresucce da nulla”
“Effettivamente…”, mormorò la riccia, ultimando la sua opera e posandole la treccia sulla spalla destra. Poi si sporse leggermente in avanti e le lasciò un bacio sulla guancia, facendola arrossire. “Non pensarci ora”, sussurrò, “dormi, è tardi”. Jackie sospirò lievemente mentre la ragazza si allontanava, poi gettò un’occhiata all’orologio.
Erano le 23:34.
Chloe si stiracchiò, poi si avvicinò alla culletta di Annie e sorrise in maniera spontanea e dolce.
“Buonanotte, petit papillon”
Niente. Non aveva scoperto assolutamente niente. Zero assoluto. Il vuoto più totale. Era snervante. Axel Klein richiuse la pergamena presa in prestito dagli Archivi con cura, la mano destra tremante a causa di un tic. Era uno dei pochi figli di Atena rimasto al Campo Mezzosangue, c’erano delle aspettative che doveva soddisfare, eppure ultimamente non sembrava capace di cavare un ragno dal buco. La maggior parte dei suoi fratelli era a casa per la primavera, come d’altronde accadeva ogni anno, altri invece… bè…
Sbuffò, altamente contrariato, e ripose il fragile cimelio sul suo comodino. Gli faceva male la testa e sentiva una strana sensazione all’altezza del petto, come se qualcuno gli avesse cementato il cuore. È questa la sconfitta?, si chiese, afflitto. Non era da lui non riuscire a trovare le risposte e, in qualità di figlio della dea della saggezza, aveva tutte le carte in regola per farlo. O almeno in teoria. Era… strano. Più informazioni raccoglieva, più sentiva di starsi allontanando dalla verità. Più volte si era confrontato con i suoi fratelli e con Alexander Townsend, il figlio di Clio, ma aveva come la sensazione di trovarsi a un punto morto. Quei misteri – i semidei scomparsi, il grande freddo, l’indebolimento degli dei, il coma della figlia di Moros – erano impossibili da risolvere, quei fili impossibili da sbrogliare. Chi – o cosa – si nascondeva dietro tutti quegli avvenimenti? Aveva provato a giustificare quel forte freddo con un avvenimento climatico totalmente naturale o con un capriccio di Chione, la dea della neve e delle bufere, ma entrambe le opzioni erano altamente improbabili. Dopo due anni al Campo Mezzosangue e qualche mese di permanenza al Campo Giove, Axel aveva capito che, in barba a quanto sostenesse suo padre a suo tempo, di naturale al mondo non c’era assolutamente nulla. Erano gli dei a decidere e controllare ogni cosa e a meno che Zeus non avesse perso la bussola di punto in bianco, non c’era motivo di causare tanto disagio climatico. Anche la seconda teoria, quella riguardante la dea Chione, era da scartare. Dopo la guerra contro i Giganti, la dea era stata duramente punita, condannata a vivere come un’anziana e brutta senzatetto mortale in Brasile per cinque anni. A quanto si diceva, la punizione aveva totalmente cambiato l’atteggiamento di Chione, che subito dopo la guerra era stata costretta a patire l’umiliazione e il calore brasiliano per quindici lunghi anni. E inoltre, quel grande gelo era sin troppo potente ed esteso per essere stato causato da una divinità minore. Dunque, anche questa teoria era da scartare. Axel sbadigliò, portandosi una mano davanti alla bocca. L’indomani avrebbe parlato con Alexander Townsend cercando di capirci qualcosa in più, ma in quel momento era troppo stanco. Si trascinò verso il bagno comune della sua cabina; dopo una protesta durata mesi, avvenuta esattamente durante i suoi primi due mesi di permanenza al Campo, campeggiata dalla casa di Afrodite, i semidei erano riusciti ad ottenere dei bagni personali per ogni cabina. La casa di Atena ed Efesto avevano lavorato senza sosta per progettare le tubature e, dopo un estenuante lavoro durato settimane, erano riusciti a creare dei bagni decenti e ben funzionanti per ognuna delle ormai numerosissime cabine presenti al Campo Mezzosangue. Axel andava molto fiero di quel progetto: era grazie a lui e ai suoi fratelli se ora ogni cabina poteva avere un po’ di privacy. Per un breve periodo, i figli di Ermes si erano rivolti a loro chiamandoli scherzosamente “Architetti dei Gabinetti”. All’inizio Axel era irritato da tanta mancanza di rispetto, ma poi aveva imparato a stare al gioco, ripetendosi che quel che aveva fatto era un ottimo contributo alla comunità.
Una volta arrivato in bagno, stando ben attento a non svegliare i suoi fratelli, rimasti ormai solo i quattro, iniziò a lavarsi i denti, osservando attentamente la propria figura allo specchio. I suoi capelli biondo cenere erano mossi e indomabili come al solito. Si annotò mentalmente di chiedere ad Elizabeth, una volta tornata dalla sua missione, di tagliarglieli un po’. Notò come il viso già normalmente pallido sembrasse ancora più incolore e smunto; doveva decisamente smetterla di fare le ore piccole. Mentre finiva di lavarsi i denti si chiese distrattamente se avesse dovuto farsi crescere la barba. Martin ce l’aveva, la barba… chissà come stava. Chissà se era cambiato dall’ultima volta in cui l’aveva visto. Chissà se era rimasto lo stesso dopo il Lotus...
Scosse la testa, sospirando lievemente, poi si sciacquò il viso e andò a letto, non prima di aver gettato una veloce occhiata fuori dalla finestra. Fortunatamente non scorse arpie.
Si infilò sotto alle pesanti coperte, chiuse gli occhi e li coprì con il braccio. Sembrarono passare solo pochi istanti quando sentì un forte rumore metallico, come se qualcuno avesse fatto cadere una forchetta sul pavimento. O peggio, un coltello. Non poteva trattarsi di Michael: quel ragazzo era un ghiro. Axel scattò a sedere, accese velocemente la lampada e afferrò il suo pugnale di puro bronzo celeste. “Cos…”
Lì, nella penombra, c’era un anziano barbuto, chino proprio su Michael, il fratello con cui condivideva la stanza. Era concentrato su di lui, ma quando Axel accese la lampada si immobilizzò con la mano a mezz’aria.
“Chi sei?! Allontanati subito da mio fratello!”, sbraitò Axel, scattando in piedi e puntandogli il pugnale contro. Ma perché Michael non si svegliava? Accidenti, aveva proprio il sonno pesante. Un’ipotesi iniziò a formarsi nella mente di Axel.
L’uomo si riscosse dalla sorpresa. Si mise dritto e, ondeggiando le mani in aria a mo’ di polpo cantilenò un: “Tu non hai visto nienteeee”.
Axel sbatté le palpebre, altamente perplesso. Stava forse sognando?
L’uomo sbuffò. “E va bene, forse mi hai visto. Touché”
“Allontanati da mio fratello”, ripeté Axel.
L’intruso indietreggiò di qualche passo. “Che delizioso accento tedesco abbiamo qui. Comunque non stavo facendo nulla di male al tuo fratellino. Anzi! Lo stavo aiutando. Voi mezzosangue siete diventati davvero un manipolo di ingrati al giorno d’oggi…”
Axel si diede un veloce pizzicotto al fianco. Era così confuso. “Sto sognando?”
“Ohh, sei davvero intelligente!”, l’intruso applaudì rumorosamente, non curandosi degli altri abitanti della cabina che, con grande sorpresa di Axel, non si svegliarono. Il vecchio continuò: “hai capito chi sono, è evidente. Modestamente posso vantare una certa notorietà tra voi mezzosangue. E, come avrai certamente capito, non stai sognando e stavo chiaramente aiutando tuo fratello.”.
Axel non ci aveva capito assolutamente nulla, ma decise di star al gioco, più per orgoglio che per strategia. Abbassò leggermente il pugnale. “Lo stavi aiutando?”
“Certo! Stava avendo un incubo sui bulldogs inglesi, quei mostriciattoli dal grugno corto, e io l’ho sostituito con uno decisamente più piacevole”. Aggrottò la fronte. “Mio fratello Fobetore sta proprio esagerando ultimamente”.
Alex abbassò completamente il pugnale. “Tu sei…”
Venne interrotto da Michael, che si rigirò nel sonno sorridendo e mormorando “ah, Blanca, sei proprio una mascalzona…”
L’uomo ridacchiò, palesemente divertito dalla situazione, poi si avvicinò ad Axel e arricciò il labbro superiore semi nascosto dai baffoni in un sorriso, mostrando una fila di bianchissimi denti. Il ragazzo si chiese stupidamente se si trattasse di una dentiera. “Presentiamoci come si deve, Axel Klein, che dici? Io sono Morfeo. Avrai sicuramente sentito parlare di me”
“Io sono… ehm… Axel Klein”
“Che bel nome! Chi l’avrebbe mai detto. Hai più la faccia da Francis.”
Ci furono alcuni istanti di silenzio, che Morfeo sfruttò per specchiarsi alla finestra e sistemarsi i baffi grigi. Axel si domandò come avesse fatto a non essere certo dell’identità del dio poco prima. Il mazzo di papaveri che aveva in mano, la barba slavata ed incolta, l’aspetto assonnato, i vestiti comodi e l’aria vagamente stralunata. Non c’erano figli di Morfeo al Campo Mezzosangue, ma di figli di Ipno invece ne erano rimasti tre e assomigliavano terribilmente all’uomo che si trovava in quel momento nella stanza. In fondo erano fratellastri.
“Ti vedo un po’ confuso, perciò lascia che ti spieghi il motivo per cui sono qui”. Morfeo si sedette ai piedi del letto di Axel, che non trovò la forza di protestare. Si sentiva stanco e vagamente confuso. La lunga barba grigia di Morfeo sembrava emanare un odore dolciastro, quasi penetrante, floreale. Il semidio sentiva gli occhi gonfi di sonno. Rimase in piedi, circospetto.
“Ah ti capisco. Non era mia intenzione svegliarti! Avevo già in mente cosa farti sognare. Sono molto più bravo con le immagini. A volte mi risulta difficile… uhm… esprimermi, ecco”. Morfeo cominciò a dondolare i piedi come un bambino. Un bambino rugoso e barbuto. “Vedi, tanto tempo fa conoscevo questa persona. Bada bene, non dovrei dirtelo, ma sei così intelligente! Hai addirittura percepito la mia presenza, a differenza dei tuoi fratelli”. Gettò un’occhiata quasi ammonitrice in direzione di Michael, che stava abbracciando il cuscino sorridendo beatamente. Morfeo si inumidì le labbra screpolate. “Conoscevo questa persona. Era simpatica, ma nessuno voleva effettivamente passare del tempo con lei perché era nata per sbaglio. O almeno, così dicevano. Odiava se stessa e odiava non poter porre fine alle sue sofferenze. Era un’anima triste, ma io trovai il modo per aiutarla. Vedi, come ti ho detto prima, sono molto bravo a creare immagini. Ogni volta che questa persona chiudeva gli occhi, io creavo nella sua mente ricordi felici, come in un sogno. Era il minimo che potessi fare, ma mai e poi mai avrei pensato che ciò avrebbe contribuito al suo declino. Alla sua discesa nella più totale collera”
La mente di Axel viaggiava, ma non abbastanza velocemente. Il dio dei sogni gli stava letteralmente rivelando la soluzione a tutti i suoi problemi, ma la sua mente era così distante da riuscire a carpire solo una parola su cinque. Il suo corpo si mosse come in automatico, andandosi ad infilare sotto le coperte, nel suo bel letto. Si stese, poggiò la nuca sul cuscino e continuò ad ascoltare la storia.
Morfeo sorrise quasi teneramente e gli si avvicinò un po’ di più, sedendosi all’altezza del bacino di Axel e sistemandogli le coperte. Ha gli occhi scuri, pensò distrattamente il ragazzo.
“Si cucì le palpebre, in modo da poter sconfiggere l’immortalità e vivere per sempre nel mondo perfetto che avevo creato per lei”.
“Ahia…”, mormorò Axel.
“Già. Ahia. Fatto sta che qualcosa sta cambiando, e a me i cambiamenti non piacciono. Te ne sarai sicuramente accorto. Sei intelligente, si vede.’”, Morfeo gli scostò un ciuffo biondo cenere dalla fronte. Normalmente Axel si sarebbe scostato, ma quell’odore era così confortante… e poi non c’era assolutamente nulla di malizioso in quel gesto. Era come un nonno che metteva a letto il proprio nipotino, raccontandogli storie della sua gioventù per farlo assopire.
“Cerca di non prestare troppa attenzione a quel figlio di Clio; la storia non c’entra un tubo con questa faccenda”.
Axel era perplesso, stava per chiedergli che cosa intendesse, ma il dio si alzò di scatto, come se si fosse scottato.
“Beh”, fece Morfeo allegramente, “ti ho detto anche troppo. Cerca di ricordartelo domani mattina. Sogni d’oro!” e gli sbatté letteralmente il mazzo di papaveri in faccia.
Faceva particolarmente freddo quella mattina. Quel clima ricordava ad Axel la Germania.
Erano circa le sette quando Axel aprì gli occhi, sentendosi incredibilmente riposato. Le sue coperte, che solitamente la mattina erano un groviglio a causa del suo sonno agitato, erano perfettamente infilate sotto al materasso e tenevano ben caldo il corpo del semidio. Non aveva alcuna voglia di alzarsi, ma non poteva certo gettare all’ortiche una giornata potenzialmente producente. Si mise a sedere e si stropicciò gli occhi, guardandosi un po’ intorno. La luce del sole penetrava timidamente tra le dense nubi grigie e illuminava la spoglia stanza che solitamente condivideva con due dei suoi fratelli minori, ma che in quel periodo ospitava solo lui e Michael. Il letto del suo fratellastro era sfatto e vuoto.
Quello sciattone, pensò Axel. Voleva bene a Michael, davvero, ma certe volte davvero non sopportava i suoi atteggiamenti da tredicenne ribelle. Era al Campo da quasi un anno ormai, e in tutto quel tempo non aveva mai accettato Atena come madre. Non lo avrebbe mai ammesso, ma spesso tendeva ad assumere le caratteristiche degli altri ragazzi del Campo. C’era stato un periodo tremendo in cui aveva deciso di comportarsi come un figlio di Ares, quello ancora più snervante in cui aveva deciso di sfruttare la sua intelligenza per fare scherzi come i figli di Ermes e quello più recente, in cui aveva deciso di assumere gli atteggiamenti involontariamente snob di alcuni figli di Afrodite. Axel non aveva idea del perché Michael avesse sviluppato questo rifiuto nei confronti del suo genitore divino; non voleva impicciarsi, ma gli voleva bene ed era preoccupato per lui.
Si costrinse ad alzarsi e a dirigersi, in pigiama e scalzo, verso la porta chiusa del bagno. Bussò un paio di volte. “Michael? Devo fare pipì”.
Dopo alcuni istanti la voce ovattata di suo fratello lo raggiunse. “Già rompi di prima mattina, Ned Stark?”
Axel sbuffò. Non aveva ancora ben capito perché al Campo molti lo chiamassero Ned Stark. Un giorno aveva chiesto a due dei suoi amici, Elizabeth Larson e Alexander Townsend, chi fosse questo Ned. Elizabeth gli aveva spiegato che si trattava di un personaggio di una famosa serie tv che andava in onda molti anni prima, Game of Thrones, scatenando alcuni borbottii da parte di Alexander che aveva ribattuto “Guarda che i libri sono di gran lunga superiori”.
“Sarà”, aveva risposto lei, “ma io sono dislessica e preferisco guardare la serie tv.”
“È per questo motivo che esistono gli audiolibri, insipiente!”
“Non possiamo usare così tanto internet, scimunito, siamo mezzosangue. Aspetta… come mi hai chiamata?!”
L’Axel del passato, piegato in due dalle risate, non se l’era sentita di chiedere altro. Quello del presente, invece, si ritrovò a sorridere al ricordo. Quei due erano probabilmente le persone con cui più andava d’accordo al Campo Mezzosangue. Ripensare a loro in quel momento, però, provocava in lui una sorta di malinconia. Erano settimane che non vedeva e non aveva notizie di Elizabeth, impegnata in una missione segreta per conto di Chirone, e ultimamente Alexander era così preso dalle sue ricerche da non avere più tempo per lui.
Dopo più di un quarto d’ora, Michael uscì dal bagno in accappatoio, i riccioli biondi appena lavati e l’aria fresca e riposata.
“Era ora!”, sbottò Axel, precipitandosi in bagno.
“Ah, inutile che ci provi Ned. Stamattina nemmeno la tua insipidità potrà turbarmi: ho fatto un sogno bellissimo!”
Quando Axel finalmente uscì dalla cabina sei, erano ormai le otto del mattino. A causa del freddo, le varie attività che il Campo offriva erano state spostate alle undici, quando il sole sembrava riscaldasse un po’ di più. Non sapeva bene perché si fosse svegliato così presto, né perché si stesse dirigendo in Infermeria. Fatto sta che, da quando si era svegliato, aveva come l’impressione di star dimenticando qualcosa di molto importante. Era una sensazione nuova per lui; aveva la fortuna di essere nato con una memoria eccezionale, che tutti gli invidiavano. Eppure c’era qualcosa che era certo di star dimenticando, ma proprio non riusciva a capire cosa.
Una volta arrivato in infermeria, notò, non sapeva se con piacere o nostalgia, quanto fosse vuota. Le uniche due persone presenti erano Ethalyn Harper, una talentuosa figlia di Apollo di soli quattordici anni, e Makayla Hill, stesa in stato quasi vegetativo su di un lettino. Erano ormai quattro giorni che dormiva e, secondo i Guaritori e Chirone, non dava alcun segno di volersi svegliare.
Ethalyn le stava sistemando il cuscino, spostandole leggermente la testa in modo da farle cambiare posizione ed evitare futuri indolenzimenti. Axel si avvicinò titubante. Non era mai andato a trovare Makayla in quei quattro giorni e nessuno poteva realmente biasimarlo; in fondo, la conosceva solo di vista.
“Axel? Che ci fai qui? Hai bisogno di un po’ di ambrosia?”, fece Ethalyn. Sembrava vagamente stupita dalla sua presenza lì, ma non gli domandò nulla.
“In realtà sono qui giusto per una visita. E anche per vedere se potevo essere d’aiuto”, mentì velocemente e sorridendo appena.
Ethalyn alzò un sopracciglio. “Capisco”.
Axel si avvicinò titubante. Di solito non era tipo da seguire l’istinto, era pur sempre figlio di Atena, ma qualcosa gli diceva che, facendo un piccolo strappo ala regola, sarebbe riuscito a trovare le risposte che cercava.
“Senti, già che sei qui, perché non mi dai una mano a farle bere un po’ di nettare? La trovo così pallida…”
“Certamente”
Axel si tolse il cappotto e prese delicatamente la testa di Makayla tra le mani e, facendo molta attenzione, gliela sollevò. Ethalyn prese una ciotolina con all’interno un liquido dorato. Poi, con un cucchiaino, imboccò la figlia di Moros, stando ben attenta a non far cadere nemmeno una goccia. Axel aggrottò la fronte quando Makayla deglutì solo dopo molti secondi.
“Non mangia né beve con facilità”, disse Ethalyn come se gli avesse letto nel pensiero, “è snervante. Senti, Axel, ma tu…”. Fu interrotta dal forte rumore della porta dell’Infermeria che si spalancava, sbattendo contro il muro.
“Ops”
Un ragazza dalle spalle larghe, la pelle scura e gli occhi a mandorla fece il suo ingresso, la mano destra che teneva stretta la sinistra in un panno insanguinato.
“Oh per amor di Apollo, Jun, di nuovo?!”, sbuffò Ethalyn, precipitandosi al suo fianco. Axel si rese conto di avere ancora tra le mani la testa bruna di Makayla. Si affrettò a lasciarla e a scostarsi velocemente, le mani alzate in segno di innocenza.
Ethalyn si affrettò a far sedere Jun, che intanto sorrideva con aria colpevole, su uno dei lettini dell’infermeria. Quando Ethalyn tolse il panno sudicio dalla mano ferita, un forte odore di sangue invase la stanza. Axel decise che era il momento giusto per andarsene. Andò a recuperare il cappotto che aveva lasciato cadere per terra e lo indossò. Proprio mentre stava per infilare la seconda manica, Ethalyn cominciò a cantare, intonando una delle varie litanie dei figli di Apollo. Axel osservò mentre la ferita sulla mano di Jun cominciava a rimarginarsi. E, proprio come l’arto della semidea, anche la sua mente sembrò cominciare a guarire. Come in un flashback, rivide il volto di un vecchio che sembrava essergli familiare, la penombra della cabina di Atena, Michael che mugugnava qualcosa. Il flusso confuso di immagini mute si concluse esattamente quando Ethalyn smise di cantare.
“Hai proprio una bella voce, Lyn”, la lodò Jun con il suo caratteristico sorriso caldo e vagamente ammiccante. Axel non la conosceva bene, ma sapeva per certo che Jun era così: una ragazzona dal cuore grande e costantemente avvolta da un’aurea di calore e positività. Non era raro vederla andare in giro per il campo a portare il buon umore e cercare di far sentire a proprio agio i mezzosangue più piccoli o appena arrivati. Elizabeth la trovava simpatica; Alexander rumorosa. Axel invece non aveva avuto modo di formulare un vero e proprio giudizio su Jun-Lin Ortega. Sembrava una tipa a posto e tanto bastava.
Ethalyn spostò il peso da un piede all’altro, imbarazzata e lusingata al tempo stesso. “Grazie. Ma l’importante sono le parole. Prova a muovere le dita”.
Jun stese il braccio e mosse le dita per aria. Il suo sorriso si allargò. “Ma è fantastico, è rimasta solo una piccola cicatrice”.
“Già, ma sta tranquilla: sparirà nel giro di qualche giorno. Hai fatto bene a non provare di nuovo a cicatrizzartela da sola con le tue fiamme. Avresti combinato un disastro come l’altra volta.”
Jun si arruffò i corti capelli scuri già di per se scombinati, poi le fece l’occhiolino. “Aspetterò l’estate allora, così saranno le tue sorellone a curarmi come si deve”
“Jun!”
Axel si sentiva di troppo, perciò si diresse verso l’uscita, gettando un ultima occhiata in direzione di Makayla e salutando cordialmente le due semidee. Jun lo richiamò e gli chiese di aspettarla, ma Axel rispose gentilmente che aveva un po’ di fretta e che non poteva perdere altro tempo.
“Sempre ligio al dovere, eh, lord Stark?”, lo prese bonariamente in giro lei.
Axel non aveva voglia di protestare, perciò si limitò a sorridere per poi allontanarsi, le mani in tasca e gli occhi alti verso il cielo nuvoloso e cupo. Forse dopo avrebbe scritto una lettera a Martin, ma prima aveva bisogno di liberarsi di quell’orrenda sensazione e ricordare.
5 Marzo 2045, domenica
Mark non si sentiva più i piedi. A dirla tutta, il suo intero corpo era indolenzito e completamente esausto. Se non fosse stato per la sua essenza semidivina e per la sua grande ed invidiabile forza di volontà, sarebbe collassato al suolo qualche ora prima, nel bel mezzo delle gelide strade di San Francisco. Non poteva fermarsi. In situazioni normali non gli sarebbe dispiaciuto girare per quella grande metropoli, facendo un po’ il turista e osservando i mortali vivere la loro vita quotidiana, completamente ignari dei pericoli che giornalmente correvano. Ma quella non era una situazione normale, decisamente no. Erano circa le quattro del mattino, facevano -6 gradi e Mark, sotto richiesta dei suoi superiori, era nel bel mezzo di un impresa potenzialmente suicida. Per di più, in compagnia di una rumorosa e alquanto inattendibile semidea greca, figlia di una delle più inaffidabili e disoneste divinità del Pantheon greco: si trattava di Elizabeth Larson, figlia di Ermes. Erano ormai due settimane che i due viaggiavano insieme, uno per conto del Senato, l’altra perché Chirone gliela aveva gentilmente chiesto. In principio, Mark sarebbe dovuto partire da solo, ma a seguito ad alcuni problemi con l’ambasciata greca, il Senato aveva deciso di affiancargli un compagno rigorosamente greco. Per questione di equità, avevano detto. Mark non era stato molto d’accordo con quella decisione. Non gli andavano molto a genio quegli indisciplinati, ma non si permise di contestare. Tuttavia pretese uno dei migliori elementi, se non il migliore, tra le schiere elleniche. “Non preoccuparti, Crassus, Chirone prende molto seriamente queste faccende”, l’aveva rassicurato con un sorrisetto Jonathan Blake, figlio di Iride e membro dell’ambasciata greca. Quando tuttavia Mark aveva richiesto il meglio, non si sarebbe mai aspettato di condividere il fardello di quell’importante missione con una ragazza di quasi quindici centimetri più bassa di lui, il sorrisetto da piantagrane, indisciplinata e assolutamente priva di senso dell’onore. Ricordò di essersi sentito incredibilmente preso in giro e stava per protestare, ma qualcosa lo fece desistere. Considerarsi meglio di quella ragazza significava peccare di tracotanza e superbia. E lui non poteva permettersi di peccare.
Ed era così che si ritrovava a camminare per le strade praticamente deserte di San Francisco, alle tre del mattino, Elizabeth che trascinava i piedi e sbadigliava continuamente al suo fianco. Mark si domandò se avesse la stessa aria esausta che aveva la sua compagna d’avventura: i lunghi capelli neri erano sciolti lungo le spalle e le sfioravano il bacino, gli occhi marroni erano cerchiati di viola, il naso pronunciato era screpolato per via del freddo, così come le labbra. Indossava un pesante cappotto color castagna - che stonava incredibilmente con il cappellino grigio -, ma sembrava comunque tremare leggermente. Le mani, le cui dita erano adornate da numerosi anelli, avevano le nocche spaccate dal freddo. A tratti le ricordava Livia, la sua gemella, figlia di Marte e Julia Crassus. La sua gemella che ora non c’era più. Fu forse questo a spingerlo a rivolgerle la parola dopo ore di silenzio, interrotto solo da qualche flebile mormorio per chiedere l’ora o per avvertire di qualche rumore. “Ci stanno ancora seguendo?”, sussurrò.
Elizabeth si voltò e, nel momento stesso in cui lo fece, il nutrito gruppo di mostri che li stava seguendo a parecchi metri di distanza si immobilizzò. Riuscì anche a sentire una voce cavernosa borbottare: “Dici che ci ha visto?”, e un'altra, decisamente femminile, rispondere: “zitto Zuccone, se non ti muovi non possono vederci”.
Elizabeth sbuffò. “Ma cosa vogliono? Non si sono già divertiti abbastanza a distruggerci la macchina?”
Mark sfiorò con la mano l’elsa della spada d’oro imperiale che portava lungo il fianco sinistro, senza smettere di camminare e guardando dritto davanti a sé. Erano sempre più vicini, poteva percepirlo. “Ci stanno osservando, è evidente. È per questo che non attaccano. L’unica opzione è sterminarli tutto e poi dirigerci subito dal vecchio”
La semidea rimase in silenzio e si finse impegnata a osservare i numerosi e pericolosi anelli su entrambe le mani, poi si girò di scatto, alzò le braccia all’aria ed esclamò “Un due tre… stella!”
I mostri si immobilizzarono. Un ciclope dalla folta barba scura e la testa pelata – che Mark decise essere Zuccone - alzò le braccia con qualche secondo di ritardo.
“Ah-ah-ah!”, fece Elizabeth agitando l’indice, l’espressione severa, “Ti sei mosso! Torna subito in fondo alla fila”
Zuccone sbatté il suo unico occhio, perplesso. “Cindy, devo…?”
Una dracena in armatura gli strisciò davanti, gli occhi puntati su Elizabeth. Mark afferrò l’elsa della sua spada, pregustando già il clamore della battaglia. Non poteva farci nulla: l’adrenalina che solo il combattimento poteva offrirgli era come una droga. Era pur sempre figlio di Marte.
“Ehi! Boccia di Cristallo deve rispettare le regole, funziona così il gioco”, esclamò la figlia di Ermes indicando Zuccone, che si toccò la testa glabra confuso. Elizabeth chiuse si rimirò nuovamente le mani, poi guardò Mark. “Che dici, quale uso oggi?”
Il figlio di Marte non poté non sorridere. “Quella di Ferro dello Stige”.
La mora alzò gli occhi al cielo. “Quella mi fa altamente cagare, ma ogni tuo desiderio è un ordine” e si sfilò uno degli anelli: quello nero. Si concentrò per pochi istanti e subito il gioiello si trasformò in una spada lunga, completamente nera e dall’aria molto affilata. Mark rabbrividì: dopo quello che era successo a sua sorella, provava un certo astio nei confronti degli articoli di bigiotteria, e il fatto che gli anelli di Elizabeth, dono di suo padre, fossero in realtà delle armi letali sembrava una battuta di cattivo gusto e una presa in giro bella e buona. Non è il momento di pensare a Livia, si disse Mark. Doveva concentrarsi. Erano in due contro una dozzina. Il semidio era molto sicuro delle proprie abilità, ma quella non era una sfida da prendere sottogamba. E poi, non aveva mai davvero visto Elizabeth combattere. Nelle ultime due settimane, aveva sempre lasciato fare a lui il lavoro sporco, agendo più come distrazione che come vera e propria minaccia. Quando in Nevada avevano affrontato alcuni carpoi, Elizabeth si era limitata ad appollaiarsi su di un albero e a lanciare sassi in testa ai mostriciattoli, distraendoli e permettendo a Mark di infilzarli uno ad uno. Meglio non pensare al Nevada.
Si riscosse dai suoi pensieri quando Cindy la dracena urlò: “ALLA CARICA!” e una dozzina di mostri assortiti si precipitò verso di loro, urlando e agitando le armi. Elizabeth fu rapida, più rapida di Mark stesso: si slanciò in avanti e, con una sorprendente velocità, tagliò di netto la testa a Cindy, il cui corpo di disintegrò ancora prima di toccare terra. Altrettanto rapidamente Elizabeth tornò di fianco a Mark, che non ebbe tempo per congratularsi, dal momento che un ciclope e un telchino gli piombarono addosso. Fu facile eliminarli, ma non fu altrettanto facile evitare l’attacco immediatamente successivo di un empusa, che con la lama del pugnale gli perforò la manica del giubbino. Mark grugnì, infastidito, e le trapassò lo sterno con la punta della spada dorata. La donna mostro si tramutò in polvere. Dopo solo un paio di minuti, i due semidei avevano fatto fuori la maggior parte dei mostri. Ne rimaneva solo uno: Zuccone. A Mark quasi dispiaceva ucciderlo. Elizabeth tornò al suo fianco. Aveva perso il cappellino, la fronte imperlata di sudore e le spalle basse. Mark era stanco, sì, ma non così tanto. Si rese conto che la ragazza era come un giaguaro: veloce e letale nello sprint iniziale, ma completamente inutile sul fronte della resistenza fisica. Zuccone alzò le braccia, l’occhio umido. “Ti prego, ragazzo, non uccidermi.”
Mark era inespressivo. Fece per alzare la spada e colpirlo, ma Elizabeth urlò: “Fermo!”
Mark si immobilizzò, confuso.
Il corpo della semidea tremava, forse a causa della stanchezza e dell’adrenalina, ma la presa sulla spada era salda e la voce ferma e decisa. “Perché ci stavate osservando? Per chi lavori?”
Il ciclope emise un verso animalesco e si girò per scappare, ma Elizabeth fu più rapida e gli conficcò la spada nera nella gamba, inchiodandolo a terra. Il mostro ululò di dolore. “Ti ho fatto una domanda”, insisté la ragazza.
Mark non osò proferì parola, stupito dal cambiamento della sua compagna. Arrivò persino a pensare che, in fondo, non era stata una così cattiva scelta da parte dei greci e, molto in fondo, non gli dispiaceva averla come partner.
Stavolta Zuccone pianse sul serio. “La disperazione!”, urlò.
Elizabeth aggrottò la fronte. “Mi prendi in giro?”
“Già. La prendi in giro?!”, rincarò la dose Mark, che proprio non riusciva a sopportare gli sfottò, soprattutto se da parte del nemico.
“No, no vi assicuro! Vi prego, ve l’ho detto, non…”
Mark gli mozzò la testa con un colpo secco. Un po’ di sangue spruzzò sull’addome di Elizabeth, a cui però non sembrò importare più di tanto. Si rimise al dito l’anello nero, ansimando. Fece per sedersi a terra, ma Mark la prese per le ascelle e l’aiutò a rimanere eretta, scuotendo la testa. Anche lui era stanco, ma non poteva permettersi di cedere. Quando ricomincio a respirare regolarmente, guardò Mark e sospirò, scostandosi e cercando di sorridere. “Mark… io lo so che vuoi continuare la missione, lo capisco. Ma n-non ce la faccio più. Ho davvero bisogno di dormire. Almeno un’ora.”
“Va bene”
Elizabeth sgranò gli occhi scuri. “Niente proteste? Niente no, Elizabeth, dobbiamo completare la missione?”, abbassò il timbro vocale per imitarlo, ma era davvero stupita.
Mark alzò gli occhi al cielo e si ripulì i pantaloni.
“No, sei stata brava”
Un grande sorriso si formò sul particolare viso di lei. Il complimento sembrò rinvigorirla. Lodare Elizabeth Larson era come lodare un bambino, pensò lui. Bastava davvero poco per renderla felice.
Erano le quattro e mezza di mattina quando finalmente arrivarono in hotel. Mark manipolò un po’ la Foschia in modo da non dover rispondere a troppe domande, ma, ignorando i suggerimenti di Elizabeth, pagò comunque l’impiegata alla reception. Aveva preso due camere separate. Era sicuro che, una volta lasciato l’hotel, quella stessa mattina, la camera di Elizabeth sarebbe stata totalmente vuota. In quelle due settimane, quella ragazza era stata capace di rubare di tutto, persino uno sgabello da un fast-food. Lunga storia. Mentre i due si auguravano la buonanotte e si dirigevano verso le rispettive camere, Mark si rese conto che sotto sotto apprezzava la compagnia della semidea. Sarebbe potuti capitargli un compagno di gran lunga peggiore. Sarebbe potuto capitargli un ragazzo. Mark arrossì al pensiero. Non avrebbe proprio saputo come gestirlo. Non perché fosse… gay, non di certo. Era totalmente escluso. Lui era un uomo vero, punto e basta. Era solo che i ragazzi – soprattutto quelli carini – gli facevano uno strano effetto. Non sapeva bene come descriverlo e forse nemmeno voleva dare un nome a quelle strane sensazioni che provava. Forse ne era spaventato…? No, no, era da escludere anche quell’opzione. Lui non aveva paura. Lui non poteva averne.
Svegliare Elizabeth, come aveva potuto costatare tempo prima, non era un’impresa facile. Lui non aveva bisogno di dormire molto, tre ore a notte erano più che sufficienti, ma la figlia di Ermes era tutta un’altra storia. Era capace di addormentarsi alle nove di sera e svegliarsi ad ora di pranzo. Perciò quando i due non avevano la fortuna di poter alloggiare comodamente in qualche ostello, era solitamente lui ad occuparsi dei turni di guardia. Era noioso, ma non poteva fare altrimenti: Elizabeth si trasformava in uno svogliato e fastidioso zombie quando non dormiva abbastanza. Rimase a bussare alla porta della sua camera abbastanza a lungo da provocare la stizza di alcuni ospiti dell’albergo. Quando finalmente la semidea aprì la porta, aveva il pigiama, i capelli tutti gonfi e spettinati e l’aria stralunata. “Mark. Che vuoi?”
“Sono le nove del mattino.”
“Bello”
Il figlio di Marte bloccò la porta con la mano proprio mentre l’altra stava per richiuderla. “Non ci pensare nemmeno.”, disse tra i denti, “Preparati. Alle nove e mezza lascerò l’hotel. Con o senza di te. È chiaro?”
Elizabeth sbuffò e brontolò qualcosa come “e dire che abbiamo la stessa età” mentre chiudeva la porta. Quando dopo quaranta minuti Elizabeth uscì dalla camera, pulita e ordinata, Mark stava finendo di preparare le sue cose.
“Ho fame”, disse la ragazza.
“La colazione era alle otto”
“E non mi hai conservato nulla?”, Elizabeth era particolarmente offesa.
Mark ghignò. “Se ti fossi svegliata prima avresti fatto colazione, non dare la colpa a me. Mangerai dopo che avremo acciuffato il vecchio”.
Elizabeth imprecò in greco sottovoce. Mark la ignorò e uscì dall’hotel, senza curarsi di salutare lo staff. Perché darsi pena? Non li avrebbe più rivisti.
Appena uscì dall’hotel, sentì una familiare ma strana sensazione, come se qualcuno lo stesse coprendo con un velo trasparente, e si girò verso Elizabeth, che aveva l’aria concentrata. O costipata, dipende dai punti di vista. “Di già?”, chiese Mark.
“Mi sento in forze. E poi, non voglio che il vecchiaccio ci senta arrivare”
“Ah, giusto. Perché ieri abbiamo fatto di tutto pur di non far casino”, disse Mark con giusto una minuscola puntina di sarcasmo.
Elizabeth non rispose, ma rigirò uno degli anelli sull’anulare destro con il pollice della stessa mano, pensierosa. “Faremo meglio a sbrigarci”, disse poi, “non mi va di perdere troppo tempo con Fiato d’Alghe, è disgustoso”.
Mark annuì e insieme si diressero verso il molo. Percepiva l’abilità di Elizabeth come una specie di leggera pressione al centro della testa. Essendo figlia del dio dei ladri, Elizabeth doveva essere capace di confondersi tra la folla e cercare di passare inosservata. Perciò, suo padre le aveva concesso l’abilità di poter omologarsi e confondersi in qualunque ambiente si trovasse, come un camaleonte. Ma l’abilità non si estendeva solo a livello fisico, da momento che la ragazza aveva anche l’abilità di celare la propria aura e il proprio odore ai mostri. Veniva attaccata ugualmente, questo purtroppo era inevitabile, ma rispetto agli altri semidei emanava segnali nettamente più deboli. Di recente, avevano scoperto che era possibile coprire almeno in parte anche un altro semidio. Elizabeth si lamentava spesso che l’aura di Mark era troppo forte per poter essere mascherata completamente. Il semidio si mostrava compiaciuto da quel commento, quindi Elizabeth, pur di smorzare la sua baldanza, ribatteva che in realtà quella che era forte era la puzza.
Quando arrivarono al molo, strapieno di senzatetto, il fetore d’acqua stagnante e frittura mista andata a male era ormai insopportabile. Elizabeth gonfiò le guance, inorridita. Si legò i capelli puliti in una lunga coda, le dita scintillanti a causa degli anelli. Mark alzò gli occhi al cielo. “Non penso proprio che questo freddo ci siano pidocchi i cose così”.
Elizabeth lasciò ricadere le braccia. “E tu che ne sai? Con questo taglio da soldatino non rischi niente.”
“Potrei tagliarteli esattamente così durante la notte mentre russi. Non te ne accorgeresti nemmeno”, minacciò velatamente Mark mentre seguiva quell’odore tremendo. Per Roma, si disse cercando di farsi coraggio, per rendere la mia famiglia fiera di me. Ripensò alla sua inflessibile madre, Julia, che vedeva in lui più un soldato che in figlio. Ripensò a sua nonna Octavia, rattrappita dalla vecchiaia ma ugualmente fiera e comprensiva. E infine l’immagine di sua sorella, la sua bellissima sorellina, occupò completamente la sua mente. Mark e Livia si assomigliavano molto fisicamente: gli stessi occhi blu scuro, gli stessi capelli lisci e scuri, il naso allungato e le mani curate, nonostante quelle di Mark fossero leggermente callose a causa della scherma. Caratterialmente, Livia pareva più una figlia di Venere che di Marte, e forse fu proprio questa la sua condanna. Mark scosse la testa vigorosamente ed Elizabeth lo guardò, comprensiva. “Ti capisco, questa puzza ti penetrata proprio nelle narici”. Si coprì il naso pronunciato con la manica del cappotto e cercò di respirare con la bocca.
Passarono tra vari sacchi a pelo e materassi di fortuna, quando finalmente scorsero in lontananza un vecchio che non sembrava patire particolarmente il freddo. Era ridicolmente grasso, aveva la barba lunga e bianca e l’aria arrabbiata anche nel sonno. Se ne stava appoggiato ad una baracca in legno, il cappellino di lana calato sulla fronte, la bocca sdentata semiaperta.
Quindi è questo Nereo? È peggio di quanto pensassi.
Mark gli si avvicinò lentamente, deciso sul da farsi. Si girò per comunicare ad Elizabeth la sua strategia, ma lei era rimasta di parecchi passi indietro e gli mostrava i pollici sorridendo. Tipico.
Mark si lanciò di peso sul dio, che subito inizio ad urlare e dimenarsi. Il suo alito si abbatté con prepotenza sul volto del semidio, che diventò verde dalla nausea.
“AAAAAAHHHH! LASCIAMI PERVERTITO! LASCIAMI!”
“Sono un mezzosangue!”, urlò Mark cercando di sovrastare il suono delle sue grida, “devo porti una domanda!”
“NO! PURE PEGGIO! VATTENE VIA!”
E cominciò a strisciare a mo’ di lombrico, le braccia lungo ai fianchi, con Mark attaccato al busto.
Elizabeth saltellava sul posto e agitava le braccia. “Vai Mark, tienilo! Tieni giù il grassone! Vai cowboy!”, lo incoraggiò con voce acuta.
Nereo cercò disperatamente di avvicinarsi all’acqua salmastra, ma Mark era nettamente più forte. Dopo un po’ di tempo, finalmente Nereo smise di dibattersi e sospirò affranto. “Hai vinto, puoi lasciarmi. Giuro che risponderò alla tua domanda.”
Il figlio di Marte lo lasciò andare, sudato e puzzolente, ma soddisfatto.
Elizabeth gli si avvicinò, zampettando allegramente come un cucciolo di labrador. “Lo abbiamo preso! Ottimo lavoro, centurione”
Mark le gettò un’occhiataccia al abbiamo, ma decise di passarci sopra. Finalmente avrebbero scoperto chi si nascondeva dietro tutti quei misteri e almeno un quarto della missione affidatagli dal Senato sarebbe stata completa.
“Allora?”, sbottò Nereo, piegato in due dalla fatica, “questa domanda?”
Mark non riusciva a guardarlo completamente in faccia, perciò si concentrò su una mollica probabilmente di pane incastrata tra i fili bianchi della sua barba. “Qual è il nome di colui che sta provocando tutto questo scompiglio tra i campi?”, scelse con cura le parole, temendo un tranello.
Nereo ghignò, poi mise le mani guantate sui fianchi deformati dai grassi. “Ho giurato di rispondere alla domanda e lo farò, ma prima ho una richiesta: figlia di Ermes, sciogli la tua protezione.”
“Perché dovrei farlo?”, chiese Elizabeth, sospettosa.
“Fallo e basta”, le disse Mark con durezza senza nemmeno guardarla. Dopo pochi istanti di esitazione, il velo invisibile che gli copriva il capo svanì, lasciando la sua aura libera di essere captata.
“Ecco, l’ha fatto. Ora voglio la mia risposta”
Nereo per tutta risposta scoppiò in una fragorosa e puzzolente risata. “Oh, è tremendo! Davvero tremendo. Povero te. L’avevo già percepita prima quando mi hai afferrato, ma ora, senza questo fastidioso scudo è chiaro: è proprio la maledizione dei Crassus!”
Mark si irrigidì e strinse i pugni. “La risposta!”
Il dio si passò la mano sotto al naso gocciolante e ghignò. “La risposta è semplicissima: si tratta della disperazione. Ma non la sua. La vostra.”.
Mark stava per prenderlo a pugni ma, prima che potesse anche solo alzare il braccio, Nereo corse via come il ciccione più veloce della storia e si lanciò in mare, sparendo alla vista.
Il ragazzo si sentiva ribollire di rabbia. Si allontanò senza una parola dal molo, digrignando i denti e con i pugni serrati. Doveva cercare di non esplodere. Elizabeth lo raggiunse, l’espressione preoccupata. “Mark…”
“Sta zitta”, le intimò.
“Di cosa stava parlando Nereo? La maledizione dei Crassus?”, continuò lei imperterrita.
“Ho detto: fa’ silenzio” Mark stava cominciando a perdere la pazienza. Il vaso ormai era pieno e stava per traboccare.
“Okay, va bene, tieniti pure i tuoi segreti”, sbuffò lei, “ma come fai a non capire? Anche quel ciclope aveva nominato la ανία. Non tutto è perduto.”
“La che? Anìa?”, domandò Mark. Il suo cervello non era fatto per il greco antico.
“Oh, l’ho detto in greco? Scusa. Intendevo la disperazione. Pensaci: anche il ciclope pelato aveva detto una cosa del genere. Aveva detto la verità, dopotutto. Nereo non può mentire.”
La desperatio. Né in inglese né in latino gli piaceva il suono di quella parola. E in greco suonava quasi come una maledizione. Già, la maledizione.
Si voltò verso Elizabeth, che ricambiò lo sguardo aggrottando la fronte. “Dimentica quello che hai sentito riguardo la maledizione”, le disse a voce bassa. Le strade stavano cominciando ad essere affollate. I due mezzosangue si spostarono verso il parco più vicino. Mark sentì la protezione di Elizabeth coprirlo totalmente; sembrava quasi essere più forte del solito.
“Sei maledetto?”, gli domandò in un sussurro, avvicinandosi con occhi sgranati.
“Sì”, rispose Mark in un soffio, “ma non ti riguarda”.
“E invece sì!”, saltò su Elizabeth, “sei mio amico e voglio aiutarti. Di che si tratta?”
Amico. Era finito ad essere amico di una greca. Non sapeva come sentirsi al riguardo. Non gli piacevano particolarmente i greci, li trovava particolarmente fastidiosi e indisciplinati, ed Elizabeth incarnava perfettamente l’idea che si era costruito sui mezzosangue ellenici. Eppure non gli dispiaceva essere considerato suo amico, anche se ancora non se la sentiva di considerare lei alla stessa maniera; diciamo che “rispettabile commilitone” poteva bastare per il momento.
“Ne parleremo in un secondo momento”, le rispose invece senza battere ciglio e fermandosi in prossimità di un parchetto, “abbiamo dei semidei da portare al Campo e un’impresa da portare a termine”.
“Ci sto!”, esclamò Elizabeth motivata, gli occhi scuri brillanti e determinati, “andiamo a prendere Baron.”.
Crystal si ritirò nella sua stanza privata, stanca e nervosa; il peso delle sue grandi responsabilità gravava sulle sue spalle e sentiva di star per esplodere. In qualità di Pretore del Campo Giove e figlia del re degli dei in persona avrebbe dovuto sapere cosa fare, era quello che tutti si aspettavano da lei. Eppure, mentre guardava allo specchio il suo viso stanco nonostante fossero solo le sei di sera e gli occhi lucidi, Crystal realizzò che non poteva pretendere di farcela, non da sola. Si sedette sul suo letto. La testa le doleva. Si portò due dita alle tempie, massaggiandole e cercando di schiarirsi le idee. Il colore blu, predominante nella sua stanza, quasi la infastidiva. La riunione in Senato era stata una colossale perdita di tempo. Crystal poteva contare sull’appoggio di molti membri delle legioni e sui suoi fidati ed influenti amici, primo fra tutti Aster Sage, figlio di Somnus e augure del Campo, ma questa volta sembrava che ciò non bastasse per convincere i senatori più anziani. Quei bastardi dovevano solo ringraziare Terminus e la sua fissazione per le armi al di fuori del confine. Quanto avrebbe voluto sfoderare Arcadia e fargli assaggiare un po’ di sana ragionevolezza. A ventiquattr’anni Crystal voleva solamente un po’ di tranquillità. All’inizio di settembre non le era sembrato nemmeno un miraggio così lontano, dal momento che quello sarebbe stato il suo decimo ed ultimo anno di servizio – come poteva dimostrare il suo tatuaggio – ma tutto era andato in malora nel momento in cui la grande ondata di freddo aveva colpito il Nord America e un numero spropositato di semidei era letteralmente sparito.
Crystal si fece forza e si alzò, cominciando a sfilarsi la toga purpurea e a prepararsi per qualche ora di riposo, che non sentiva di meritare ma che era necessario per poter essere pienamente cosciente e concentrata. Osservò per qualche istante la sua pelle olivastra e ricoperta di cicatrici pallide, memento della vita passata a combattere e fuggire i mostri. La cicatrice più evidente, tuttavia, era quella sul lato sinistro della testa, che la costringeva a portare un taglio di capelli piuttosto insolito ma che lei apprezzava, in quanto le conferiva un’aria autoritaria e in un certo senso rispettabile. Per qualche motivo, le tornò alla memoria il giorno in cui Percy Jackson, ormai adulto, padre di famiglia e cittadino onorario di Nuova Roma, le aveva chiesto come si fosse procurata quel taglio. Quando Crystal gli disse che era stato a causa di una roccia, il figlio di Poseidone era scoppiato a ridere, per poi scusarsi e rispondere allo sguardo offeso della ragazza con un sorriso malinconico: “Un tempo aveva un amico figlio di Giove. Fu colpito da un mattone in testa il primo giorno che ci incontrammo. E beh, altre innumerevoli volte. Deve essere una cosa di famiglia.”. Crystal ricordò di aver sorriso più per cortesia che per altro. Non le piaceva essere paragonata ad altre persone, anche se si trattava di uno dei più grandi semidei della storia. Come lei, anche Jason Grace era stato pretore e figlio di Giove e, come lei, era stato letteralmente costretto ad accettare quella carica per il bene di Nuova Roma.
Una volta tolti tutti i vestiti, Crystal si gettò sotto alla doccia, beandosi del calore dell’acqua ed immaginando tutte le responsabilità scivolarle via di dosso, insieme alle preoccupazioni e alle insicurezze.
Ripensò a quello che le era stato detto poc’anzi in Senato dagli anziani: che era testarda e orgogliosa per ascoltare ragioni, che il Campo Giove non poteva permettersi di rischiare la propria stabilità per delle semplici casualità o per i suoi film mentali. L’aria era carica di elettricità. Crystal era stanca di dover sempre essere colei a cui toccava risolvere la situazione, di dover capire, raggiungere e soddisfare le esigenze di tutti in qualità di leader. Più si sforzava, più i risultati non sembravano arrivare.
Si insaponò i capelli, passando con delicatezza i polpastrelli sul lato rasato della testa, sentendo la cicatrice in rilievo al tatto.
Tutto ciò che era riuscita ad ottenere era stata un’impresa combinata per uno dei suoi sottoposti: il centurione Mark Crassus. In primo luogo, gli aveva ordinato di trovare e interrogare Nereo. C’era sicuramente riuscito; era una richiesta semplice. Poi, gli era stato chiesto di recuperare alcuni potenti e potenzialmente pericolosi mezzosangue di cui si erano smarrite le tracce, affidandosi all’aiuto del suo compagno greco, di cui Crystal sentiva di potersi fidare, forse anche a causa della discendenza divina di sua madre. Infine, c’era una questione da chiarire riguardo un’aura divina e misteriosa proveniente da alcuni campi in Georgia. Crystal aveva bollato quest’ultima richiesta come trascurabile, in quanto la Georgia era molto lontana dal Campo Giove e non si aspettava certo che Mark facesse miracoli. Se ne sarebbero occupati in un secondo momento.
Finì di risciacquarsi ed uscì dalla doccia, avvolgendo il corpo tonico ed allenato in un lungo asciugamano, per poi indossare dei vestiti comodi ad asciugarsi i capelli con il phon.
Aveva quasi finito quando sentì bussare alla porta. Si morse l’interno della guancia, sconcertata. Di solito nessuno – tranne Sasha e Cecily che di solito erano ben accette ma che in quel momento non erano al Campo Giove - osava disturbarla quando si trovava nelle stanze private del pretore. Si trattava forse del suo collega, Martin? Aster? O forse era Carson che veniva a scambiare due chiacchiere. Quando aprì la porta fu più che sorpresa di trovarsi davanti il moro James Wilmington, figlio di Bellona.
“James? Che ci fai qui?”, domandò Crys, genuinamente curiosa. Il ragazzo rimase in silenzio. Non era un segreto che il figlio di Bellone provasse dei forti sentimenti per lei, ma ciò non aveva mai seriamente minacciato di incrinare il loro rapporto amichevolmente professionale. James aveva l’aria preoccupata, gli occhi scurissimi fissavano il pavimento. Portava i jeans e un pesante cappotto sopra la maglietta viola del Campo Giove, i capelli neri erano leggermente più lunghi del solito taglio a spazzola. Crys si fece da parte per permettergli di entrare in camera, per nulla preoccupata di ciò che avrebbe potuto farle: James non era quel tipo di ragazzo e, anche se lo fosse stato e avesse provato a farle del male, Crys l’avrebbe subito rimesso al suo posto. Socchiuse la porta e lo fissò, in attesa. Il figlio della dea guerriera entrò, rimanendo in piedi e guardandola finalmente in faccia.
“Ti ho vista sconvolta durante la riunione. Io… volevo accertarmi delle tue condizioni. È raro vederti così.”. Aveva un tono strano, criptico quasi.
Crys iniziò a preoccuparsi. Fece un passo verso di lui. “Io sto bene, ma è raro vedere te così. Che ti prende? È accaduto qualcosa?”. Eccola lì: sempre a preoccuparsi per gli altri. Era più forte di lei. Ma come poteva ignorare la velata richiesta d’aiuto di un ragazzo che conosceva da più di dieci anni?
James si torturò le mani per un po’, poi la guardò intensamente, le iridi talmente nere da non riuscire a distinguere la pupilla. “Tu mi piaci, Crystal Wolff. Tantissimo.”.
Crystal spalancò la bocca, stupita. Non che non lo sapesse, ma ciò che la lasciò interdetta fu la tempistica. Perché, di tutti i momenti, James sceglieva proprio quello per aprire il suo cuore e confessarle ciò che provava.
“Mi piacciono i tuoi occhi, così elettrici e pieni di determinazione. Mi piacciono i tuoi modi, il tuo modo di ragionare, il tuo corpo, i tuoi capelli, il tuo modo di combattere. Tutto. Non c’è una sola cosa in te che sia sbagliata”, gli tremò leggermente la voce, come se il peso delle sue emozioni fosse troppo da sopportare, nonostante il fisico temprato da anni di allenamento, “ti chiederai perché io sia qui, propria ora, a mettermi in ridicolo così”.
La ragazza addolcì la propria espressione. “James, non ti stai…”.
Ma lui la fermò alzando la mano e gonfiando il petto. “Ti sto dicendo addio.”
“James, cosa…”
“Non c’è posto qui per me. Né nella legioni, dove sono stato per più dei dieci anni di servizio, né nel tuo cuore. Ho bisogno di trovare me stesso e smettere di orbitare intorno a te e alla tua grandezza.”
Crystal era troppo sconvolta per parlare. Non indietreggiò quando James le si avvicinò e premette le labbra contro le sue. A Crystal il contatto fisico non piaceva particolarmente, ma lo lasciò fare dal momento che si trattò più che altro di un veloce bacio a fior di labbra.
“Ho ricevuto un offerta che proprio non potevo rifiutare. Se mai un giorno vorrai trovarmi, cercami nella disperazione”.
E, prima che Crys potesse fare nulla, il semidio premette con forza le dita sul suo collo.
E dopo, il buio.
Ciao ragazzi!
Spero che il capitolo sia di vostro gradimento, ci ho messo un po’ a scriverlo.
Alloooora… che ne pensate? Uno di questi personaggi vi ha colpito particolarmente? Cosa pensate accadrà nei capitoli successivi?
Oh, e state tranquilli, questo non era nemmeno un quarto dei personaggi principali. Sono tanti, è vero, ma ho le idee abbastanza chiare e farò del mio meglio per non rendere tutto troppo confusionario.
Lasciatemi una recensione se vi va e, per chi non l’avesse ancora inviato, aspetto il vostro personaggio
A presto,
-sun
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Capitolo 7 *** Capitolo III - Imperium ***
Imperium
Richard Greenwood saggiò con il
polpastrello la punta di uno dei suoi coltelli da tiro, il ferro gelido al
tatto. Osservò ad occhi socchiusi uno dei numerosi bersagli, ostacolato dalla
scarsa luce; il sole era infatti coperto da grossi e cupi nuvoloni grigiastri.
Erano circa le 10 del mattino, Richard aveva un’ora prima che le consuete
attività del Campo ricominciassero. Non gli dispiaceva la compagnia degli altri
mezzosangue, ma preferiva di gran lunga la tranquillità della solitudine.
Quando era solo non doveva sforzarsi di cercare la cosa giusta da dire, né
c’erano aspettative da soddisfare. E poi, alle 11 in punto sarebbe cominciato
il suo turno in Infermeria.
Richard prese un bel respiro e, con
movimento sicuro, lanciò il coltello. La punta penetrò nel centro scarlatto del
bersaglio. Il ragazzo sorrise, soddisfatto dalle proprie prestazioni. Quando si
trattava di coltelli da lancio, Richard poteva vantare un’ottima mira.
Probabilmente era in buona parte merito di Eros, suo padre, che con le sue
frecce centrava e scombussolava la vita di mortali e divinità.
Richard andò a riprendere il coltello,
gemendo lievemente quando si accorse di non aver centrato perfettamente il
bersaglio; e inoltre la lama non era penetrata perfettamente come avrebbe
voluto.
Non si lasciò scoraggiare. Forse doveva
semplicemente allenarsi di più. In fondo, la sua costituzione magra e la sua
scarsa forza fisica non gli permettevano di tirare con forza. E in più
bisognava considerare i vari fattori di disturbo: il lieve venticello che
deviava la traiettoria, la scarsa luminosità, l’umidità e l’arrivo di un imponente
figura che aveva preso ad osservarlo a qualche metro di distanza.
Si trattava di Arthur Clarke, la sua
spina nel fianco.
Il ragazzone asiatico lo stava fissando
con i suoi caldi occhi scuri, le braccia conserte, l’aria rilassata e un
placido sorriso sul volto.
Richard non gradiva essere oggetto di
tutte quelle attenzioni, perciò lo guardò, un sopracciglio alzato. “Arthur. Che
vuoi?”
Non sapeva bene perché, ma da quando era
arrivato al Campo Mezzosangue, quasi un anno prima, il figlio di Dioniso aveva
deciso di prenderlo sotto la sua ala protettiva. All’inizio l’idea non gli andava
particolarmente a genio, ma con il tempo l’esuberante e a tratti pressante
personalità del figlio di Dioniso era diventata parte della sua routine.
Richard cercava ancora di evitarlo; provava delle strane sensazioni quando
l’asiatico gli girava intorno, ma non riusciva bene a dare loro un nome. Il che
era strano: essendo figlio di Eros, Richard avrebbe dovuto conoscere bene
l’emozioni. Eppure non era così. Faticava a riconoscere i propri impulsi e
quelli degli altri, ma la cosa non lo disturbava più di tanto. Con il tempo,
diceva a se stesso, sarebbe riuscito a definire e a dare un nome a quelle
strane sensazioni.
Tuttavia, in quel momento era più che sicuro
di star provando tolleranza: non gli
piaceva essere disturbato mentre si allenava, ma non poteva certo cacciare in
malo modo il figlio del direttore del Campo. Almeno non subito.
Il sorriso di Arthur si allargò. Quando
cominciò a parlare, Richard poté scorgere il leggero luccichio del piercing
sulla lingua del ragazzo.
“Vedo che hai ancora il vizio di startene
qui tutto solo. Posso farti compagnia?”
“No.”
“Perché no?”
Se non avesse avuto sempre quell’aria
così leggera e spensierata, Arthur sarebbe potuto passare per un teppista. Con
quei suoi capelli neri pettinati in una morbida cresta e i numerosi anelli ad
entrambe orecchie. Non sarebbe per niente piaciuto al signore e alla signora
Greenwood.
Richard sbuffò, poi decise di tentare con
un approccio più gentile: “Ho poco tempo prima che cominci il mio turno in Infermeria.
Puoi lasciarmi allenare in pace?”
Arthur valutò per qualche istante la
richiesta, poi sorrise scuotendo la testa. “E se io volessi allenarmi con te?”
“Sei libero di farlo,” concesse Richard
dopo qualche istante, “ma cerca di lasciarmi in pace. Devo concentrarmi: ho
come l’impressione che presto mi servirà tutto questo allenamento.”
“Ah sì?,” fece Arthur, genuinamente
curioso, “perché pensi questo?”
Il ragazzo si avvicinò a Richard con un
paio di ampie falcate, sovrastandolo di circa quindici centimetri. Poi gli
sfilò il coltello dalle minute mani, le labbra tirate in un lieve ghigno.
“Pensi che questo misero coltellino ti
aiuterà lì fuori?” chiese, aggiungendo subito dopo: “Non voglio insultarti, sto
solo domandando.”
Richard non si azzardò a riprendere il
coltello dalle mani dell’altro, il viso accaldato, probabilmente
dall’irritazione. Fece un respiro profondo. “Guardami,” gli disse.
Arthur fece guizzare le sopracciglia. “Lo
sto facendo.”
“Bene. Non so cosa tu veda, ma io vedo un
fisico troppo minuto per maneggiare una spada o un’ascia; una struttura troppo
fragile per tendere un arco o sollevare martelli. Questo,” e prese uno dei
coltelli che aveva nella cintura, “è tutto ciò che ho per difendermi. Ma
credimi, uno di questi gioiellini nel punto giusto basterà a garantirmi la
vittoria o la fuga. Contento ora?” concluse acidamente.
Arthur lo guardò per qualche secondo, gli
occhi più scuri di quanto Richard ricordasse. Non che passasse il tempo ad
osservarli, sia chiaro. Fece un passo indietro, a disagio. Avvertiva di nuovo
quella strana e pesante sensazione all’altezza del petto. Quando fece per
parlare, pur non sapendo bene cosa dire, una voce femminile lo interruppe.
“Arthur?”
Il diretto interessato sbatté velocemente
le palpebre e, riconoscendo la proprietaria di quella voce così dolce, si voltò
sorridendo. “Xue Hua!”
Richard mosse i piedi, leggermente a
disagio.
Freya Gray, figlia del tremendo Deimos,
si avvicinò a testa bassa ad Arthur, che le sorrise, le prese il viso pallido
fra le mani e le scoccò un veloce bacio sulle labbra.
“Scusami il disturbo… ciao Richard.”
Freya agitò lentamente la piccola mano guantata, un timido sorriso modellato
sulle labbra rosee.
Il ragazzo ricambiò il saluto con
cortesia, non capacitandosi di quanto potesse essere contraddittoria la figura
di Freya Gray. Pur essendo figlia di Deimos, il dio del terrore, era una
normalissima e gentilissima ragazza, che non aveva assolutamente nulla di
peculiare. Tralasciando, ovviamente, i capelli bianchi, che in quel momento
erano lasciati sciolti e le sfioravano le spalle. Una volta, spinto da
un’improvvisa curiosità, aveva casualmente domandato ad Arthur se fossero
naturali. Il figlio di Dioniso gli aveva risposto con un secco sì, che aveva lasciato Richard
perplesso: non era da Arthur dare una risposta così breve e coincisa. Tuttavia alla
fine non aveva insistito, decidendo di farsi gli affari suoi.
Freya era una ragazza dolce e gentile,
non la si vedeva spesso in giro e Richard era convinto che se non fosse stato
per la sua particolare discendenza divina sarebbe passata totalmente
inosservata. Richard non pensava questo per cattiveria, ma proprio non riusciva
a capire come una persona esuberante ed avventurosa come Arthur potesse aver
scelto come compagna una ragazza tranquilla e silenziosa come lei.
Non che fossero affari suoi, no di certo.
In fondo, se stavano insieme da quasi due anni evidentemente un motivo c’era.
“Io e Richard ci stavamo allenando,”
disse allegramente Arthur, che sembrava aver totalmente dimenticato la tensione
di qualche attimo prima, “vuoi unirti a noi?”
“No, grazie. Ho delle faccende da
sbrigare ora, ma penso che dopo andrò ad allenarmi un po’ e poi forse mi vedrò
con Morgana: mi sembra particolarmente giù in questo periodo,” Freya si sistemò
il berretto nero sul capo, infreddolita, “il Signor D. vuole che passi a
trovarlo il prima possibile, Arthur.”
“Spero si sia finalmente deciso a
chiedermi qualche consiglio di stile! Quello zoticone ha bisogno di tirarsi a
lucido.”
Richard non riuscì a trattenere un
sorrisetto divertito, che si trasformò in un espressione gentile non appena
Freya si rivolse anche a lui.
“Chirone mi ha anche chiesto di ricordare
a tutti i capocabina della riunione di dopodomani. Sembra si tratti di qualcosa
di importante, ma non ha voluto dirmi altro.”
“Va bene, sarò puntuale.” Assicurò
Richard.
Essendo l’unico figlio di Eros
attualmente presente al Campo Mezzosangue, era toccato a lui ricoprire il ruolo
di capocabina. Non era una carica che gli pesava, dovendo rappresentare solo se
stesso. E poi, aveva conosciuto tante persone relativamente simpatiche grazie a
quel ruolo.
“Okay, piccola messaggera, adesso perché
non vai direttamente nella cabina di Morgana? Stai tremando, dovresti stare al
caldo.” Arthur strofinò le grandi mani sulle braccia di lei, cercando di
trasmetterle calore.
Freya scosse la testa, guardandolo – come
avrebbe detto sua sorella Rachel – con gli
occhi della devozione. Che stupidaggine.
“Te l’ho detto, ho bisogno di allenarmi
un po’ prima. Però sei davvero carino a preoccuparti per me, tesoro.” Sembrava
quasi essere dispiaciuta nel contraddirlo.
Arthur sospirò con fare drammatico. “Non
lo faccio sempre?”
La ragazza ridacchiò e gli prese la mano.
“Starò attenta. E se dovessi prendermi un brutto raffreddore sarai libero di
dirmi con fare saccente te l’avevo detto.”
Grazie al suo unico potere, Richard
percepì una grossa ondata di affetto provenire da entrambi i semidei.
Ringraziando gli dei, non avvertì quantità spropositate di desiderio sessuale
come spesso accadeva quando era in prossimità di alcune coppiette di
adolescenti. Era un po’ strano, ma cosa poteva capirne lui? Quando si accorse
di star fissando, Richard si affrettò a distogliere lo sguardo e a rimettere a
posto nella cintura i restanti coltelli da lancio. Se Freya non fosse stata
così gentile e Arthur così petulante, probabilmente Richard se ne sarebbe già
andato senza dire una parola. Non si sentiva a proprio agio quando le persone si
dimostravano affetto in maniera così spontanea.
Alzò lo sguardo solamente quando udì
Freya augurargli educatamente una buona giornata e allontanarsi a passo svelto.
Arthur ritornò a concentrarsi completamente
su di lui. “Di cosa pensi voglia parlarci Chirone?”
Richard si riscoprì vagamente irritato,
non sapeva bene per quale motivo. “Non lo so,” rispose scostante, “ma ora non
m’importa. Devo andare in Infermeria.”
Arthur sembrò ignorare il suo tono di
voce. “Spero si parli di questo freddo: non ne posso più del naso screpolato!”
La giornata di Perseo Baron Harris non
era cominciata particolarmente bene.
Erano le 8:34 di un uggioso e tetro
mercoledì di marzo, a San Diego faceva un gran freddo e la lezione di inglese
era più pesante del solito. Perseo non aveva idea di cosa ci fosse scritto alla
lavagna, né di cosa stesse dicendo Mr. Dallas. Già di per sé il vecchio
insegnante era noioso e poco coinvolgente, se poi si aggiungevano la dislessia
e l’iperattività di Perseo… beh, il risultato era un gran mal di testa per il
povero ragazzo e un quaderno completamente privo di appunti.
Perseo sospirò, annoiato. Altri 26 minuti
e finalmente quella lezione sarebbe giunta al termine. A seguire ci sarebbero
state ben due ore di matematica.
Finalmente.
Contò le penne nel suo portapenne,
annoiato e infastidito dal clima. Due penne nere, due blu e due rosse. Sei.
Numero pari. Perseo sospirò nuovamente, questa volta soddisfatto. Trovava una
certa pace nei numeri; a causa della sua dislessia, leggere non gli risultava
essere un’attività semplice e piacevole: le lettere cominciavamo a muoversi, a
farsi irriconoscibili. Con i numeri invece era diverso. Quelli rimanevano fermi
dove dovevano stare; chiari, immobili e immutati.
Oscar, il suo compagno di banco, un
ragazzo magrolino e dai capelli rossi, gli chiese in prestito la gomma da
cancellare. Perseo gettò una veloce occhiata sul quaderno del compagno, che
invece di prendere appunti stava disegnando un gatto siamese. A quanto pareva
non era l’unico a non star seguendo.
Una volta utilizzata, Oscar la ripose
distrattamente sul banco di Perseo, lasciando pezzettini di gomma ovunque.
Leggermente irritato, Perseo si affrettò
a gettare oltre il bordo del banco quella fastidiosa sporcizia e a riporre la
gomma nel portapenne. Proprio non sopportava il disordine.
Le 8:47. Erano passati 13 minuti e ne
mancavano ancora altri 13 al suono della campanella.
Guardò fuori dalla finestra,
profondamente annoiato. Il suo posto alla penultima fila gli permetteva il
lusso di poter staccare un po’ la mente senza essere notato. Non troppo almeno.
L’aula di Perseo affacciava sul cortile e il cancello della scuola. Gli alberi
che poteva scorgere all’esterno – li aveva contati minuziosamente: ce n’erano
ventitré – erano completamente spogli così come le varie aiuole che
costeggiavano la strada. Il quartiere dove si trovava la Westerburg High era
particolarmente tranquillo e curato. Nonostante l’edificio si affacciasse
proprio su una delle strade principali, il traffico era poco e l’inquinamento
acustico ridotto al minimo. Si ritrovò a pensare alla sua città natale: New
Orleans. Mesi fa, Chirone aveva fatto in modo che la sua famiglia si spostasse
a San Diego. In un primo momento, Perseo l’aveva trovata una decisione stupida.
Che senso aveva allontanarlo così tanto dal Campo Mezzosangue? Poi, un’idea
forse non del tutto sbagliato aveva preso a formarsi nella sua mente: la sua
sorellastra, Cecily, frequentava il college nei pressi di New York. Probabilmente
due figli di Poseidone non potevano vivere così vicini a causa della loro
potente aura. E, forse, anche perché i due si detestavano e un possibile
scontro fisico poteva rivelarsi una catastrofe vera e propria. Perseo non lo
trovava per niente giusto, ma non poteva contestare gli ordini diretti del
Signor D. e di Chirone. Quest’ultimo gli aveva garantito che tuttavia la
vicinanza al Campo Giove gli avrebbe garantito tutta la protezione di cui aveva
bisogno. In effetti, San Diego era molto pulita
come zona: erano mesi che Perseo non subiva attacchi rilevanti: qualche
empusa di qua, un paio di Ciclopi di là… niente che non sapesse gestire.
Stava osservando per l’ennesima volta il
cancello del cortile, in balia dei suoi pensieri, quando avvertì una strana
sensazione nelle viscere, come se qualcosa gli avesse scombussolato lo stomaco.
Non gli piaceva. Anche grazie ai suoi poteri, Perseo aveva imparato a dar retta
al proprio istinto, perciò si chiese se fosse il caso di avvertire Avery. Ci
pensò su per un paio di secondi e, come se gli avesse letto nel pensiero, udì
un paio di colpi alla porta dell’aula.
Mr. Dallas alzò lo sguardo apatico.
“Avanti.”
Avery, con i suoi ricci biondi e il
sorriso luminoso, fece il suo ingresso nella classe. “Buongiorno, professor
Dallas”, salutò educatamente, “posso rubarle un secondo Harris? È una questione
importante.”
Perseo si alzò in piedi prima che il
professore potesse rispondere. Quest’ultimo lo guardò, un po’ contrariato. “Ma
sì, vai pure. Ma solo perché è Benson a chiedermelo così gentilmente. Non che
faccia alcuna differenza… non stavi comunque prestando attenzione.”
“Mi dispiace”, si sforzò di dire Perseo,
“prometto che la prossima volta starò più attento alla sua lezione.”
L’uomo non era per nulla convinto, ma lo
liquidò con un gesto veloce della mano ossuta.
Perseo uscì dall’aula, l’espressione
corrucciata. “Che succede?”
Il caratteristico sorriso di Avery si
spense. “Abbiamo un problema.”
Avery Benson era un mezzosangue, come
lui. Da quel che Perseo era riuscito a capire, era stato mandato nella sua
stessa scuola per vegliare su di lui
e assicurarsi che non gli accadesse nulla di male. A quanto pare Chirone
riteneva che avesse bisogno di una guardia del corpo o stronzate simili a causa
del suo forte odore-attira-mostri. “Ma
d’altronde,” gli aveva detto il vecchio centauro, “non è colpa tua. Sei figlio di Poseidone, è chiaro che i mostri siano
attratti da te.” La cosa lo infastidiva non poco. Gli altri mezzosangue
sostenevano che essere figlio di uno dei Tre Pezzi Grossi fosse una figata
pazzesca ed aveva i suoi vantaggi; tutto ciò che Perseo aveva ottenuto da
quando Poseidone l’aveva riconosciuto come figlio erano stati una buona dose di
ansia e aspettative, un’irascibile e fastidiosa sorellastra e un nutrito numero
di mostri ed entità antiche che volevano farlo fuori. Sì, davvero una figata pazzesca.
Comunque sia, Avery non aveva esattamente
l’aspetto di una guardia del corpo:
con quel suo aspetto da principe delle favole e il carattere costantemente
allegro e positivo non avrebbe dissuaso alcun mostro dal fargli del male. E
poi, era figlio di una dea pressoché sconosciuta: Leucotea, che a quanto pareva
era una specie di divinità protettrice dei marinai. Perseo non ne sapeva molto,
ma era abbastanza convinto che non si trattasse di una dea particolarmente
pericolosa.
Eppure in quel momento, Avery era così
serio da incutere quasi un certo timore. Quasi.
Era comunque più basso di lui.
“Non mi dire… qualche mostro nei
paraggi?” indagò Perseo.
Avery scosse la testa bionda. “No,
peggio. Seguimi.”
I due mezzosangue si diressero
indisturbati verso i bagni al piano inferiore, i corridoi praticamente deserti.
Perseo era sempre più preoccupato.
Guardò Avery, sconcertato. “Ehm… che ci
facciamo qui?”
L’altro si fermò davanti alla porta
bianca dei bagni maschili al piano terra. Si mise a braccia conserte, il
maglione blu tirato sulle braccia discretamente muscolose “Entra.”
Perseo non sapeva cosa pensare. Il
comportamento dell’altro lo turbava “Cosa? Perché…?”
Avery fece per parlare, ma proprio in
quel momento, dall’interno del bagno, provenne un’ovattata voce femminile:
“Avery?” chiamò.
Perseo sgranò gli occhi, ancora più
confuso. “Ma che sta succedendo?”
Il biondo fece spallucce “Entra e basta.
Io rimarrò fuori a fare da palo.”
Perseo sbatté un paio di volte le
palpebre, ma si decise ad entrare, aprendo con cautela la porta per poi
richiuderla alle proprie spalle.
Con sua grande sorpresa, dall’unico dei
quattro bagni con la porta chiusa venne fuori una ragazza dall’aria sin troppo
familiare: capelli lunghi e scurissimi, naso vagamente aquilino e sopracciglia
espressive e costantemente inarcate. La vista dei numerosi anelli sulle sue
dita gli fece ritorcere le budella: non c’era un ordine logico in quella
composizione. Perché tenerne tre sull’anulare quando sull’indice ce n’era solo
uno?! Ma Perseo era troppo sorpreso per prestare veramente attenzione a quei
particolari.
“Elizabeth? Che ci fai qui?” quasi
esclamò, rimanendo impalato lì dov’era.
“Ciao, Baron!” fece lei con un sorrisetto
colpevole, “come stai? Spero bene, perché sono venuta qui a prenderti.”
Il mondo sembrò vorticargli attorno. Non
poteva essere. Stava andando tutto così bene! Nessun attacco di mostri recente,
le cose in case andavano per il meglio e in settimana sarebbe andato a studiare
matematica a casa dei suoi amici. Sì, si
trattava senz’altro di uno scherzo di cattivo gusto.
“È uno scherzo? Dai, seriamente, che ci
fai qui? E come ci sei arrivata?”
Elizabeth sembrò quasi dispiaciuta. “No,
purtroppo non è uno scherzo. Al Campo Mezzosangue le cose vanno male e avere
proprio te lontano dalla supervisione
di Chirone è… pericoloso. Contattare sia te che Avery è risultato inutile: c’è
qualcosa di strano nei messaggi Iride ultimamente…” fece un breve pausa, in modo
da lasciargli assimilare il tutto, poi riprese: “non è stato difficile
trovarti, se è questo che intendevi. Non è stato nemmeno difficile entrare in
questa scuola.” Ed indicò una finestrella semiaperta in alto, da cui proveniva
aria fredda dall’esterno.
Perseo sentì la voce di Avery oltre la
porta. Stava dicendo a qualcuno, forse ad un professore, che il suo amico era
dentro a vomitare e che non conveniva proprio disturbarlo.
“Baron…” cominciò Elizabeth, ma venne
interrotta da una profonda voce maschile proveniente dall’esterno.
“Elizabeth? Quanto ci vuole? Se non vuole
venire legalo, imbavaglialo e trascinalo fuori di lì. Se entro dieci minuti non
siete fuori giuro che... ”
“Sì, sì,” sbuffò la mezzosangue, alzando
gli occhi al cielo.
Perseo aggrottò la fronte. “Chi è
quello?”
Un sorriso sornione si modellò sulle
labbra della ragazza. “Oh, si chiama Mark. Vedrai, è un simpaticone!”
La porta si aprì nuovamente. La testa di
Avery spuntò da dietro il legno bianco. “Allora? Che si fa? Il professore è
andato via: o ce ne andiamo ora o mai più.”
“Hai intenzione di andare?” chiese
Perseo, incredulo.
“Amico… abbiamo scelta?”
Si girò verso Elizabeth, che li stava
guardando con un’espressione che faceva intendere che no, non ce l’avevano.
“Il Campo… entrambi i Campi hanno bisogno di te.” Disse, gli occhi scuri
imploranti fissi nei suoi.
Perseo distolse lo sguardo e prese uno,
due, tre profondi respiri. “Come faccio con la scuola? Con la mia famiglia…?”
“Lascia fare a me,” lo rassicurò la
semidea, “Chirone ha già pensato a tutto. Dobbiamo solo passare a casa tua per
prendere le tue cose e poi siamo pronti ad andare.”
L’ultima cosa che Perseo voleva era
un’iperattiva figlia di Ermes in casa sua. Rabbrividì al pensiero della sua
impeccabile camera messa a soqquadro dalla ragazza. Si girò a guardare Avery,
che lo stava fissando intensamente. Annuì impercettibilmente.
“Oh, e va bene,” decise infine,
esasperato, “andiamo.”
“Quale dei due è il figlio di Poseidone?”
Grazie alla Foschia creata da Elizabeth e
alle sue abilità da ninja americano,
come diceva lei, i tre erano riusciti a sgattaiolare fuori dalla scuola
completamente indisturbati.
Ad aspettarli all’esterno c’era un
ragazzo armato dall’aria burbera e costantemente infastidita. Era ben
infagottato nei propri vestiti invernali, la schiena perfettamente dritta, le
braccia conserte e le sopracciglia scure aggrottate. Questo deve essere Mark. Non l’ho mai visto al Campo Mezzosangue.
Perseo gettò una veloce occhiata al fodero da gladio che pendeva dalla sua cinta. È romano, realizzò.
Perseo notò con piacere di essere più
alto di lui di almeno una decina di centimetri.
“Lui è Perseo,” disse Elizabeth,
indicandolo con l’indice ingioiellato, “è lui il nostro obbiettivo. Lui invece
si chiama Avery,” fece poi indicando il biondo, che le sorrise quasi
timidamente.
Mark squadrò entrambi con i suoi profondi
occhi blu, soffermandosi in particolar modo su Perseo. La cosa lo metteva
leggermente a disagio, ma decise di non volergli dare alcun tipo di
soddisfazione.
“Quindi abbiamo fatto tutta questa fatica
per lui?” Non c’era cattiveria nel
suo tono di voce, ma a Perseo non piacque ugualmente.
Gonfiò il petto, infastidito. “Non ho
chiesto io di essere venuto a prendere.”
“No, certo che no. Mi aspettavo
semplicemente qualcosa in più. Ma chi
sono io per giudicare?”
Perseo alzò le sopracciglia, poco
impressionato. Quel tipo non gli piaceva per niente.
“Nessuno.”
Avery ed Elizabeth si scambiarono un
veloce sguardo preoccupato. Fu la ragazza a prendere la parola e a spezzare la
tensione, un sorriso carico d’ansia sul volto pallido. “Okay! Ora che abbiamo
fatto tutti amicizia, che ne dite di muoverci? Non abbiamo una macchina, perciò
la strada sarà lunga.”
“Dove andiamo?” domandò Perseo.
Gli occhi scuri di Elizabeth brillarono.
“Sei mai stato a Nuova Roma?”
La risposta era no. Perseo aveva sentito
parlare di quella straordinaria città. Si diceva che l’architettura in quel
posto fosse spettacolare. L’idea di poter ammirare dal vivo un tale splendore
rendeva la prospettiva di quel viaggio nettamente più allettante agli occhi del
figlio di Poseidone.
“Comunque sia, sta’ tranquillo,” lo
rassicurò Elizabeth, “È la prima volta anche per me, ma sono sicura che Mark
sarà ben felice di farci da guida. Non è così, Mark?”
Il ragazzo si limitò a lanciarle
un’occhiataccia.
“Se posso permettermi…” intervenne Avery
con un sorrisetto, rivolgendosi soprattutto alla semidea “possiedo una
macchina”
“Bene.” Fece Mark.
“Benissimo!” esclamò Elizabeth.
Un largo sorriso compiaciuto si formò
sulla bocca di Avery. “L’unico problema è che questa mattina sono venuto con
l’autobus…”
Perseo sentì Mark borbottare qualcosa, ma
decise di ignorarlo.
“Non c’è problema,” assicurò Elizabeth, “Possiamo
chiamare un taxi.”
“Con quale telefono?” domandò Perseo.
Erano mezzosangue, dopotutto. I figli di Efesto si stavano ingegnando per poter
creare dei telefoni a prova di mostro, ma erano ancora tutti da collaudare.
“Con questo!”, disse allegramente
Elizabeth, tirando fuori dalla tasca un cellulare di ultima generazione.
“E questo da dove sbuca fuori?” chiese
Mark.
Elizabeth si limitò a fare spallucce.
Fece un paio di telefonate. “Dobbiamo spostarci un po’ più verso la strada
principale. Il tassista dice che questa è una strada a senso unico. Andiamo.”
Il gruppo si incamminò verso il punto
indicato loro dal tassista. Mentre camminava, Perseo avvertì un’improvvisa strana
sensazione all’altezza della vertigine. Era come se un velo invisibile gli
stesse ricoprendo l’intero corpo partendo dalla testa. Proprio mentre la
sensazione andava ad intensificarsi, Elizabeth, che stava in testa al gruppo,
si accasciò su se stessa. Prima che potesse toccare terra, Mark scattò in
avanti e la sostenne, evitando che cadesse.
“Che succede? Che hai?” chiese il semidio
romano. Perseo si stupì nell’udire una nota di preoccupazione nel solitamente impassibile
tono del ragazzo.
Avery si immobilizzò, sconcertato.
Elizabeth sbatté le palpebre, mettendo
piano piano a fuoco le figure dei tre ragazzi. Posò lo sguardo su Perseo mentre
si rialzava. Sembrava quasi lo stesse accusando, ma il semidio non riusciva a
capirne il motivo. Elizabeth continuò a fissarlo, il volto pallido e le labbra
tirate. “Sei davvero potente, Baron.”
“Cosa intendi?” domandò il diretto
interessato.
“La tua aura da mezzosangue,” spiegò lei,
“ho provato a comprimerla e mascherarla tutta per evitare eventuali attacchi
ma… è stata una stronzata. A volte sono troppo sicura di me.”
“Riesci a metterti in piedi?” volle
sapere Mark, tenendola per un braccio.
Elizabeth annuì e si rimise in piedi.
“Sì, è stato solo un momento.” Perseo percepì la protezione affievolirsi ma non
sparire completamente.
“È pazzesco,” commentò Avery, “come riesci
a farlo?”
“Ho scoperto da poco di poter espandere
questa cosa anche ad altri mezzosangue… c’è bisogno di molta concentrazione ed
energia. È… complicato.”
Avery fece segno di aver capito, ma
Perseo lo conosceva bene: non aveva capito un tubo.
Una volta accertatosi delle condizioni
della sua compagna, Mark riprese a camminare. Raggiunsero il luogo stabilito
dal tassista e, dopo un paio di minuti, vennero raggiunti dal veicolo.
Il tassista non sembrò far caso alla
pericolosa spada che penzolava dal fianco di Mark.
“Non dovreste essere a scuola, ragazzi?”
domandò l’uomo.
“Non dovresti farti gli affari tuoi?”
replicò Mark.
Il tassista non parlò più se non per
chiedere quale fosse la destinazione.
Dopo quattordici minuti, erano arrivati a
casa Benson.
I quattro semidei pagarono e scesero dal
taxi.
“Aspettatemi qui, per favore.” Disse
Avery. Tirò fuori dallo zaino delle chiavi e si avviò a passo svelto verso la
porta.
Perseo si guardò un po’ intorno. Non era
mai stato a casa di Avery prima di allora. Frequentavano la stessa scuola da
mesi, eppure solo in quel momento Perseo si rese conto di non conoscere
assolutamente nulla della vita di quello che ormai considerava un amico. Non
sapeva chi fosse suo padre, se avesse fratelli mortali, cosa facesse nel tempo
libero. La cosa lo destabilizzò un po’.
La sua era una normale casetta nel
classico stile americano; molto probabilmente le fondamenta erano di legno il
che, secondo il modesto parere di
Perseo, non era un materiale adatto per la costruzione di case del genere.
Il cortile era poco curato: c’erano
parecchie erbacce sparse lungo tutto il viottolo principale, alcune statuette
da giardino era piazzate in giro senza un apparente ordine logico. C’erano due
nani da giardino, un cerbiatto e quattro coniglietti. Qualcuno aveva provato a
piantare un alberello – forse di mimose – ma il freddo e le poche attenzioni
l’avevano fatto letteralmente appassire.
Elizabeth si era accovacciata di fianco
ad un nano da giardino con il cappello a punta rosso e lo stava osservando con
occhio critico. Probabilmente si stava domandando quanto valesse.
Mark aveva le braccia conserte e si stava
guardando attorno. Impallidì. “Non mi dire che…”
Perseo seguì il suo sguardo. Aveva
adocchiato una macchinina color crema: assomigliava vagamente ad una British
Leyland Mini.
“Ma è la macchina di Mr. Bean!” esclamò
divertita Elizabeth, indicandola.
Perseo si godette l’espressione
inorridita di Mark.
Si rese conto di non conoscere ancora il
genitore divino del ragazzo. Era curioso, ma non aveva intenzione di
rivolgergli più parole del necessario.
Dopo un paio di minuti, Avery tornò da
loro, un paio di zainetti in spalla e le chiavi della macchina ciondolanti al
dito.
Porse uno dei due zaini a Perseo, che lo
ringraziò e se lo sistemò in spalla.
“Dobbiamo passare da te, amico?”, domandò
Avery, “però sappi che in questa borsa c’è tutto quello di cui potresti aver
bisogno. L’avevo pronta da tempo…”
Mark guardò intensamente Perseo, che
sostenne il suo sguardo solo per pochi secondi. Quanto mi infastidisce, pensò stringendo i pugni.
“Ehm… Baron,” intervenne Elizabeth con
gentilezza, “non abbiamo molto tempo. So che potrebbe farti piacere passare a
salutare la tua famiglia e prendere le tue cose ma… è un po’ tardi. Più tempo
passiamo qua fuori più siamo esposti al pericolo. Se ci assicuri che si
tratterà solo di un paio di minuti però...”
Perseo ci pensò su. Sua madre non lo
avrebbe lasciato andar via così facilmente. Avrebbe preteso spiegazioni e
chiarimenti, costringendo Elizabeth a creare uno spesso strato di Foschia e a
dar fondo ad ulteriori energie. Non capiva ancora da chi lo stessero apparentemente
proteggendo, ma da quando Poseidone l’aveva riconosciuto come figlio suo aveva
imparato a dar retta al proprio istinto. E in quel momento il suo istinto gli
stava suggerendo – o meglio, imponendo
– di fidarsi di Mark ed Elizabeth.
Sospirò, ricacciando giù il groppo che
gli si stava formando in gola. “No, possiamo andare. Cercherò di mettermi in
contatto con la mia famiglia dopo.”
Con sua grande sorpresa, Mark annuì,
approvando il suo gesto. “Ottimo spirito di sacrificio.”
Avery gli lanciò un’occhiata preoccupata,
ma Perseo lo ignorò. In che guaio si stava cacciando?
D’altra parte, per Elizabeth la questione
era chiusa: si lanciò con un scatto fulmineo verso la macchina, conquistando il
posto di fianco al guidatore. “Mio!” esclamò soddisfatta.
Avery ridacchiò e si sistemò al volante.
A Perseo toccò stiparsi sui sedili
posteriori insieme a Mark. Entrambi i ragazzi tenevano le gambe ben strette tra
di loro per evitate contatti indesiderati. Il romano borbottò un’ imprecazione
in latino e guardò in cagnesco Avery.
Il biondo sorrise, mostrando i brillanti
e dritti denti bianchi. “Che strada prendo?”
Perseo, suo malgrado, sentì Mark agitarsi
di fianco a lui.
“Non puoi lasciar guidare me?”, domandò
fra i denti.
Avery assunse una finta espressione
corrucciata. “Mmh, no. Questo gioiellino è un po’ capriccioso. Bisogna saperci
fare.” E gli fece l’occhiolino.
Se possibile, l’espressione del romano si
fece ancora più arcigna.
Elizabeth si sistemò la cintura di
sicurezza e posò il proprio zaino ai suoi piedi. Non aveva armi, notò Perseo. “Oh,
non prendertela Mark! In fondo non hai nemmeno la patente…” poi tirò fuori
dalla tasca il cellulare che aveva probabilmente rubato.
“Ma sei impazzita?!” sbottò Perseo,
allarmato. “L’hai già usato prima! Non possiamo rischiare ancora.”
“Non urlare,” brontolò a bassa voce Mark.
Perseo si girò verso di lui. “Hai
intenzione di lasciarla fare?”
L’altro scrollò le spalle. “Saremo più
veloci di qualsiasi mostro. O almeno è quello che spero.” Guardò con
aspettativa Avery, che intanto picchiettava le dita sul volante e osservava
Elizabeth smanettare con il cellulare, gli occhi scuri saettanti sullo schermo.
Quando si accorse che il romano si stava
rivolgendo a lui, raddrizzò le spalle e gonfiò il petto. “Ci puoi scommettere!”
“Ecco fatto!” esclamò Elizabeth. Abbassò
il finestrino e vi gettò fuori il telefono. “So benissimo dove andare. Metti in
moto, Avery, vi guido io!”
L’ultimo affermazione non tranquillizzò
per nulla Perseo, che poggiò la schiena sul sediolino, rassegnato.
“Ho vinto di nuovo!”
“Tutta fortuna…”
“No, questo è talento.”
Eva Jean Hooke amava vincere. Secondo il umile parere non esisteva sapore più
dolce di quello della vittoria, né tra i mortali né tra gli dei.
Non poté fare a meno di gongolare mentre
tirava a sé il piccolo bottino di monete d’oro. Il suo avversario, un gracile
anziano a cui mancavano tutti i denti fatta eccezione per un unico sporgente
incisivi inferiore, brontolò.
“Tu bari,” disse.
Eva impilò sorridendo le monete.
Lentamente, gustandosi quella dolce ed inebriante sensazione. “Questa è
calunnia, Adam. Calunnia bella e buona. Vuoi la rivincita?”
Adam la fissò per un lungo istante con i
suoi piccoli occhietti astiosi, poi voltò di scatto il capo, emise un rumoroso
gorgoglio e sputò sul pavimento. “Sei una stronza. Ci sto!”
A quel punto, Eva non riuscì più a
trattenersi e cominciò a ridacchiare, per poi mescolare le carte di gioco. “Mi
dispiace, ma non c’è un gioco in cui io non sia campionessa.”
Adam sospirò, poggiando il peso del
proprio corpo rattrappito sullo schienale della sedia in legno. “In gioventù
ero io il campione di Pinnacolo.”
“Beh,” disse Eva, spezzando il mazzo e
continuando a mischiare, “le cose cambiano. Però facciamo così: se vinci questo
round, prometto che ti restituirò tutto quello che hai perso. Che ne dici?”
Adam fece un paio di gestacci che
suscitarono l’ilarità della giovane semidea. “Non ho bisogno della tua carità,
mocciosetta.”
“Vedila più come una scommessa. Dici che
in gioventù eri tu il campione… quindi non sarà difficile per te
dimostrarmelo.”
Detto ciò, i due sfidanti si calarono in
un’intensa partita di carte, condita da numerosi insulti da parte di Adam e più
moderate provocazioni da parte della semidea più giovane.
Si trovavano nel modesto salotto
nell’altrettanto modesta casetta dell’anziano. Elle, l’ottantaseienne moglie di
Adam, le aveva spiegato che era impossibile tenere oggetti pregiati nella
stessa casa dove viveva l’uomo, che aveva da sempre avuto il vizio di
scommettere e giocare d’azzardo. Nel momento in cui Elle gli aveva proibito di
maneggiare denaro, Adam aveva iniziato a mettere in palio i vari oggetti
presenti in casa. La povera donna era stata costretta a mettere sotto chiave
qualsiasi genere di ninnolo, dal vecchio orologio a cucù al corredo nuziale.
Nonostante l’abitazione fosse un po’
spoglia, c’era un bel tepore. Eva aveva addirittura poggiato il giaccone sullo
schienale della propria sedia.
Non erano nemmeno arrivati a metà
partita, quando il campanello suonò, interrompendoli sul più bello.
“Elle! Melissa! Qualcuno apra quella
dannata porta!”, abbaiò Adam, stizzito, “e tu!”
fece poi, puntando un indice ossuto verso Eva, “non azzardarti a smettere di
giocare. Me lo sento, questa è la mia partita.”
Eva non aveva alcuna intenzione di
muoversi, ma annuì ugualmente. Ad aprire fu una donna bionda e grassoccia sulla
quarantina: si trattava di Melissa, una delle nipoti di Adam.
I due tornarono a concentrarsi sul gioco.
“Ciao, come posso aiutarti?”, udì Melissa
chiedere con una lieve punta di incertezza nella voce.
“Sì, salve… ehm… cercavo Eva. Eva Hooke.
Mi chiamo Fil Wong, siamo amici.”
“Oh, ma sì! Sei il figlio di Plutone.
Entra pure! Zi… Eva? C’è Fil Wong alla porta per te!”
Eva lo ignorò, non distogliendo lo
sguardo dalle carte, completamente assorta. Non poteva perdere, non l’avrebbe
sopportato.
“Eva, non
cominciamo. È important…” fece Fil entrando in casa, ma venne prontamente
interrotto dalla voce raschiante di Adam.
“Fa’ silenzio, cinesino, stiamo facendo una cosa seria qui.”
“Nonno!”, scattò su Melissa, “ti prego di
perdonarlo… è sputo quello lì per terra?”
“Non importa,” disse il ragazzo,
schiarendosi la voce, “però, Eva, dobbiamo proprio andare. Crystal e Martin
chiedono di te.”
Eva gli concesse finalmente la sua
attenzione, con grande disappunto di Adam, che gettò le carte per aria,
stizzito. “Dei! Un vecchio non può
più nemmeno giocare in casa propria?! Proprio ora che stavo per vincere,” fece
poi con fare lamentoso.
Melissa lo raggiunse, aggirando
accuratamente la macchia di saliva sul pavimento, e gli posò una delicata mano
sulla spalla, sospirando. “Dai, nonno, non fare così. Prometto che giocherò con
te non appena Eva se ne sarà andata.”
“Bah! Non è la stessa cosa.” Sbottò il
vecchio. Se anche Melissa ci rimase male, non lo diede a vedere. Era una donna
adulta dopotutto.
“Cosa possono mai volere da me i due
pretori?”
“Tanto per cominciare,” fece Fil, a
disagio, “sei centurione della quarta coorte.”
“Quisquiglie.”
“… è c’è anche Aster con loro.”
“Ah beh,” sospirò allora Eva, poggiando i
palmi delle mani sul tavolo e alzandosi con riluttanza, “questa volta mi tocca
proprio. Adam?”
Il diretto interessato sbuffò. Quel
vecchiaccio non faceva altro che sbuffare.
“Oh, ‘fanculo. Va’ se proprio devi.
Finiremo questa partita in un secondo momento. Ma intanto,” e si allungò con
sorprendente agilità sul tavolo, afferrando con disinvoltura il sacchetto di
monete di Eva; ghignando lo scosse, facendo tintinnare il bottino, “questo
rimane qui con me.”
Fil non volle dirle niente riguardo
l’incontro. Lungo il tragitto, il ragazzo cambiava continuamente discorso,
facendo innervosire la già di per sé nervosa Eva: l’avevano interrotta proprio
sul più bello. Qualsiasi fosse la loro richiesta – perché, andiamo, perché scomodarsi tanto se non per pretendere qualcosa da
lei? – non era esattamente ben disposta a dar loro retta.
“Adam sembra star meglio. Stare con te
gli restituisce vigore.”
Eva scosse le spalle. “Un po’ di sana
competizione restituisce vigore a chiunque. A nessuno piace perdere.”
Fil non parlò più finché non raggiunsero
Crystal ed Aster. I due potevano essere scorti dalla vetrina di un bar poco
lontano dalla casa di Adam. A vederli così, sembravano una semplice coppia di
amici intenta a passare una fredda mattinata invernale nella piacevole
compagnia l’uno dell’altro. Ma già da lontano Eva poté notare che c’era
qualcosa di strano nella coppia, soprattutto in Crystal. Sembrava stanca, e
qualcosa nei suoi elettrici occhi azzurri sembrava essersi spenta.
Fil si congedò.
Eva entrò nel bar, facendo tintinnare il
campanellino sulla porta rossa. Senza salutare nessuno, si diresse direttamente
al tavolo dei due. Sedevano vicini e non avevano ancora ordinato nulla.
“Ce ne hai messo di tempo,” commentò
Crystal, vagamente infastidita dal suo ritardo.
“Ero da Adam.” Rispose semplicemente Eva,
mettendosi comoda sulla poltroncina rossa intrecciando le mani sul tavolo, in
attesa che uno dei due parlasse. I suoi occhi passavano dall’uno all’altro, le
sopracciglia inarcate. Crystal la stava deliberatamente osservando con il suo miglior
sguardo inquisitore. Eva sentì l’ansia correrle lungo la spina dorsale, perciò
decise di concentrare tutte le proprie attenzioni su Aster, che d’altra parte
sembrava preoccupato. “Allora?”, fece dopo qualche secondo di troppo di
silenzio, “che succede? Dov’è Martin?”
Fu proprio Aster a schiarirsi la voce a
rispondere. “Arriverà presto, aveva un paio di faccende da sbrigare prima. Ti
chiederai il perché di tutta questa urgenza…”
“Fatemi indovinare,” sospirò Eva, “si
tratta di quella rompicoglioni di mia madre, non è così?”
Crystal si guardò attorno nervosamente,
ma non accadde nulla. “Fa’ attenzione, Hooke. Non parlerei della dea Vittoria
in questa maniera se fossi in te. È una divinità potente.”
Eva fece irrispettosamente schioccare la
lingua in un gesto di sdegno. “Sai quanto me ne importa. Sono diciott’anni che
mi rovina la vita con le sue malsane aspettative.”
Vittoria superava di gran lunga Eva a
livello di competitività. La dea, sin da quando Eva era poco più di una
bambina, soleva raccomandarla per ogni genere di missione ed istigarla a non
frenare i suoi impulsi più egoisti. Un buon genitore avrebbe dovuto dire alla
propria bambina che no, non si può avere
tutto dalla vita e l’importante è
partecipare o ancora vincere non è
tutto. Ma Vittoria non era quel tipo di madre. Lei pretendeva che la
propria prole eccellesse in tutto e surclassasse il migliore in ogni ambito
possibile; a partire dal lancio dei coltelli, alla corsa delle bighe, fino ad
arrivare alla danza o alla cucina.
Eva aveva sempre adorato vincere, sin dai
tempi della scuola materna. Gli altri bambini la detestavano a causa della sua
prematura e sconcertante arroganza. Suo padre poi… no, non se la sentiva ancora
di ricordare suo padre.
Aster parve leggermente a disagio. “Oh,
beh… è proprio di questo che volevamo parlarti. Ho avuto una visione… tua madre
mi ha parlato.”
Eva sentì il sangue ribollirle nelle
vene. Quando avrebbe smesso di intromettersi nella sua vita? Mise le mani sotto
al tavolo e strinse forte i pugni, intimando a se stessa di stare in silenzio e
sopprimere le proprie emozioni. Come se
stessi giocando a poker.
Aster si inumidì le labbra, scambiando
una breve occhiata con Crystal prima di continuare. “Mi ha parlato e mia detto
che il successo di Roma significa tutto per lei. Non c’è nulla che non farei per
Roma e Nuova Roma, ha detto così...”
“E io cosa c’entro?”
Crystal le lanciò un’occhiataccia.
“Lascialo parlare,” intimò.
Eva incrociò le braccia al petto e poggiò
la schiena alla poltroncina, gli occhi socchiusi e il mento tenuto su con
arroganza. Non osò tuttavia rispondere per le rime, suo malgrado intimorita
dall’altra ragazza. Non era mai corso buon sangue tra le due, questo era chiaro
agli occhi di chiunque; per questo e in rispetto del quieto vivere generale, le
due avevano scelto di ignorarsi.
Esaminò velocemente il pretore: aveva
l’aria stanca; non si era pettinata i capelli e la cicatrice sembrava
risaltare. Quando Crystal si accorse di essere osservata, ricambiò
silenziosamente lo sguardo, spingendo Eva ad abbassare docilmente la testa.
Aster stava osservando silenziosamente la
scena, affascinato. Si passò una mano tra i suoi bizzarri capelli bianchi,
abbozzando un lieve sorriso. “Ho osservato gli uccelli per giorni…”, fece una
breve pausa, riuscendo così a far sorridere divertite le due semidee, “okay, mi
è uscita male, ma sapete quello che intendo. Con questo freddo ne ho visti ben
pochi, perciò tutto quello che so viene principalmente dal sogno e da tua
madre.”
Si ammutolì quando il cameriere si
avvicinò per prendere gli ordini. “Ovviamente,” stava dicendo l’inserviente, un
ometto tutto pelle e ossa, “per il Pretore, l’Augure e la signorina Hooke offre
la casa.”
Alla fine presero tre cioccolate calde,
sotto insistenza di Aster. Crystal non aveva l’aria di una che aveva voglia di
perdere più tempo del previsto per sorseggiare una bevanda calda. Eva non
poteva biasimarla, non su questo. Era brava a leggere le persone – ogni buon
giocatore d’azzardo deve saperlo fare –
ed era chiaro ormai da tempo che il ruolo di pretore le stava stretto.
Quando il cameriere se ne andò, Aster
riprese a parlare. “Sei qui perché tua madre ha fatto esplicitamente il tuo
nome. Sostiene di conoscere la profezia e che il tuo nome figura tra quelli
degli altri eroi.”
Eva sbatté le palpebre un paio di volte,
confusa. “Profezia? Di quale profezia stiamo parlando?”
Crystal prese la parola: “Questo ancora
non lo sappiamo, ma gli anziani ed Aster sostengono che qualcosa si sia
risvegliato. Ho mandato Mark Crassus in missione per cercare informazioni, dal
momento che dai Greci l’Oracolo tace.”
Aster annuì, posando lo sguardo ceruleo
sul tavolo, chiaramente impensierito. “Il punto è che non sappiamo se lasciarti
partite oppure no.”
Eva si mosse sulla poltrona, scalpitante.
“Chi meglio della figlia di Vittoria può garantire il successo di Roma?”, disse
gonfiando il petto, poi abbassò la voce, “odio mia madre per ciò che ha fatto a
me e a mio fratello, ma non si possono ignorare le profezie.”
“Eva, non ci fidiamo di te,” intervenne
Crystal senza troppi giri di parole, “tu cerchi la gloria personale, non quella
di Roma.”
“Può darsi,” ammise lei, spiazzando i
suoi due superiori, “ma chi rimarrà ad osannarmi se lascio che il Campo Giove
venga distrutto o sottomesso?”
Aster scosse la testa, sorridendo appena.
“Non cambi mai tu, eh?”
Ricambiò il sorriso, facendo per parlare
ma venendo interrotta dall’arrivo delle cioccolate.
“Tieni,” disse Crystal al cameriere,
premendogli in mano una manciata di monete, “e tieni il resto.”
L’ometto fece per parlare, ma poi ci
ripensò, abbassò la testa quasi con riverenza e si allontanò, tenendo nel pugno
le monete e stringendosi al petto il vassoio.
Eva alzò un sopracciglio, ma non disse
nulla.
Il sorriso di Aster non fece che
allargarsi. L’augure tornò a concentrarsi su Eva. “Quindi mi assicuri, ci assicuri che porterai a termine la
missione, qualunque essa sia?”
La ragazza annuì, soffiando sulla propria
tazza. “Io non sono mio fratello.”
“No, non lo sei,” concesse Crystal, “ma
purtroppo il sangue non mente.”
“Non ho mai tradito il Campo Giove! Mi
state facendo passare per una povera irresponsabile…”
“Tua madre dice di essere dalla nostra
parte,” riprese Crystal, fissando la tazza con occhi assenti, “ma si sa, non le
piace perdere. Come non piace perdere a
te. Cosa accadrebbe se Vittoria ci voltasse le spalle? Cosa faresti tu in quel caso?”
Un forte peso si avviluppò al petto della
semidea. Era vero, lei odiava essere
sconfitta più di ogni altra cosa. Sarebbe rimasta fedele al Campo nonostante
tutto? Avrebbe protetto Nuova Roma con tutto ciò che aveva. Ripensò a suo
fratello, indifeso e scartato da tutti… tradire la città significava tradire
lui e la sua famiglia. No, non doveva, non poteva
lasciarsi corrompere dai propri impulsi.
Guardò prima Aster, poi il pretore dritto
negli occhi, il peso nel petto sempre più pressante ed invasivo. Ci volle tutto
il suo coraggio per sostenere lo sguardo elettrico e indecifrabile di Crystal.
“Io non sono né mia madre né mio fratello. Sono un soldato al servizio di Roma
e centurione della mia coorte. E mai
volterò le spalle alla mia gente. Quando e se
i Greci ci comunicheranno la profezia, io seguirò il volere del Fato.”
Lo sguardo di Crystal ebbe un guizzo
divertito. “Interessante.”
Eva sospirò, conscia del significato di
quell’espressione. “Cosa posso fare per convincerti?”
“Assolutamente nulla,” disse la mora,
“l’hai detto tu, no? Seguirai il volere del Fato, e gli dei solo sanno cosa ha
in serbo per tutti noi.”
“Letteralmente,” aggiunse Aster, “solo
gli dei sanno, e a volte neppure loro.”
Freya Grey, con quella sua pelle diafana,
i capelli bianchi e gli occhi grigi e slavati, sembrava un fantasma. Richard
non riusciva a non pensarci, mentre passava con delicatezza un unguento a base
di erbe sulla coscia destra di lei: un lungo taglio percorreva l’arto nella sua
quasi totale interezza, partendo da metà coscia per poi fermarsi poco sopra il
ginocchio.
“Ahi…”, mugolò Freya, gli occhi lucidi e
il bel viso contratto in una smorfia di dolore. Era seduta in mutande e
maglietta a maniche lunghe su uno dei lettino dell’infermeria, le dita strette
sulle lenzuola e i denti affondati nel labbro inferiore. Per essere una semidea, sopporta veramente poco il dolore, pensò
Richard, mentre esaminava con attenzione la ferita. Non era un taglio grave,
nulla a cui un po’ di unguenti non potessero provvedere. Fortunatamente era
arrivata in tempo.
“È tutta colpa mia! Avrei dovuto dire a
Fred di lasciar perdere quella sua invenzione…”
A parlare era stata Jun, della casa di
Efesto, un’iperattiva ragazzona dalla pelle mulatta e i tratti asiatici. Era
stato difficile per Richard rimanere impassibile dinanzi alla scena che gli si
era presentata davanti agli occhi una decina di minuti prima. Jun aveva
spalancato la porta dell’Infermeria con un vigoroso calcio, facendo perdere a
Richard dieci anni di vita. La ragazza era in canottiera e urlava frasi
sconnesse mentre teneva a mo’ di sacco di patate la povera Freya, che sembrava
più confusa che sofferente. L’aveva poi fatta sedere su di una brandina,
iniziando a spiegare a Richard la situazione: a quanto pareva, Freya era andata
nelle fucine per ricordare proprio a Jun dell’incontro dei capocabina che si
sarebbe tenuto l’indomani. Fred, un chiassoso ragazzo di sedici anni, stava
proprio in quel momento brevettando la sua ultima invenzione: il lancia- shuriken. “All’inizio pensavo
fosse una grande idea!,” disse Jun gesticolando con enfasi, “ma poi
quell’imbecille l’ha fatto cadere e quell’aggeggio ha iniziato a sparare
stelline ninja di bronzo celeste dappertutto!”
Freya ridacchiò lievemente al ricordo,
nonostante il dolore. “Non ho mai sentito tante parolacce insieme in vita mia.”
Jun arrossì, accaldata. Richard le offrì
un bicchiere d’acqua, ma lei scosse la testa, continuando a raccontare e
scusarsi e offrire a Freya di stringere la propria mano per sopportare il
dolore. “Noi figli di Efesto abbiamo la pellaccia dura, ma questa poverina è
così delicata… oh, sono così dispiaciuta!”
Freya si irrigidì un po’ al termine poverina, ma sorrise ugualmente con
dolcezza. “Non fa niente, Jun, capita. E poi, non sono così delicata come cred…
ahi! Richard, perché mi hai artigliato la gamba?”
Richard aveva gli occhi spalancati, ma
non stava fissando lei, bensì qualcosa alla sua destra. Freya e Jun si
voltarono lentamente. Ciò che videro causò l’urlo della figlia di Deimos e un
rumoroso “O carajo!” da parte di Jun:
Makayla, l’indifesa figlia di Moros, era seduta a mezzo busto sul letto, le
numerose lenzuola le coprivano solo le sottili ed ossute gambe; i capelli erano
disordinati, le guance incavate e la pelle pallidissima. Ma ciò che fece
rabbrividire Richard furono gli occhi: Makayla, che di norma possedeva dei
caldi ed affabili occhi scuri, in quel momento esibiva orbite completamente
bianche e spiritate. Richard dovette ricredersi: il fantasma non era Freya,
proprio per nulla.
Il semidio cercò con lo sguardo Ethalyn,
ricordandosi solo in seguito che era stato proprio lui a mandarla dai figli di
Ermes a recuperare altre bende.
“Jun,” sussurrò, “corri a chiamare
Chirone. Non posso lasciare Freya qui.”
Quest’ultima aveva allacciato le braccia
intorno al collo di Richard, che intanto le aveva messo un braccio intorno alla
vita, e stava tentando di mettersi in piedi grazie al suo aiuto, ma lo sforzo e
la contrazione dell’arto infortunato causarono la caduta di diversi rivoli di
sangue e il sommesso lamento della semidea.
Jun li guardò con un’espressione a metà
tra l’esasperazione e la paura, poi si allontanò cautamente da loro, uscì
dall’infermeria e cominciò a correre in tuta e canottiera alla fredda aria
aperta.
“Makayla? Riesci a sentirmi?,” tentò
Richard. Quella girò lentamente la testa, poi si inumidì le labbra screpolate e
cominciò a parlare con voce gutturale.
“Mark
Anthony Richard Greenwood.”
“Ehm… sì, sono io.”
“Freya
Grey.”
Gli occhi pallidi di Freya si
illuminarono. “Ci riconosce!”
“Imbecilli!
Prendete carta e penna!”, sbottò Makayla.
Imbarazzata, Freya si separò da Richard e
si mise a sedere sul letto, lo sguardo basso. Più infastidito che spaventato
dalla situazione, Richard si affrettò a cercare una penna. Una volta trovata,
si rese conto di non avere più né carta né bende. Quindi ritornò da Freya e
cominciò a scrivere sul cuscino bianco.
“Jun-Lin
Ortega, Mark Crassus, Avery Benson, Arthur Clarke…”
Sia lui che Freya trasalirono udendo
l’ultimo nome, sin troppo familiare per entrambi.
“Blanca
Delgado, Jackie Harmon…”
“Un attimo!,” fece Richard, agitato, “si
è scaricata la penna.”
Makayla, o chiunque ci fosse nel suo
corpo, aspettò pazientemente mentre Richard andava alla frenetica ricerca di
una nuova penna. Ma dove diavolo erano le penne? Erano sempre lì quando non
servivano e ora…
“Chirone…” sentì Freya sussurrare,
sollevata. Richard, ancora impegnato nella ricerca di una penna, udì il
familiare rumore degli zoccoli del centauro e il preoccupante rumore di
numerosi passi. Sbuffò, sentendo l’ansia crescergli in petto.
Proprio quando stava per rinunciarci,
finalmente trovò una Bic nera su di uno scaffale.
Alzò lo sguardo, notando nel gruppo
alcuni visi familiari: c’erano Chirone, il Signor D., Jun, Morgana, Arthur…
quest’ultimo aveva gli occhi fissi su Freya, in particolare sulla sua ferita.
Il figlio di Dioniso fece per raggiungerla, ma fu proprio suo padre a
trattenerlo per un braccio. Arthur provò a divincolarsi, ma senza successo: la
stretta del dio era salda, seppur non troppo stretta. A dispetto delle
apparenze, il Signor D. era comunque una divinità: era sin troppo semplice per
lui tenere a bada un semidio, anche se
della stazza di Arthur.
Richard ritornò a scrivere sul cuscino.
“Elizabeth
Larson, Axel Klein, Daphne Nabizaba, Eva Hooke e Perseo Harris. Sono
questi i nomi del gruppo che partirà alla ricerca dei mali e della Spada di
Attila. Seppur non da soli, sono loro che sconfiggeranno la disperazione e
porranno fine al gelo.”
“Aspetta, devo scrivere anche questo?”,
domandò Richard, genuinamente confuso.
“E io?!”, esclamò una voce femminile
dalla folla: quella di Cat Thorne, “io non posso
rimanere qui! Devo partire! Devo… devo cercare…” ma prima che potesse spiegare
le proprie motivazioni, ormai note a tutti, venne portata via da un ragazzo
biondo con un Fedora nero che non riuscì a riconoscere in tempo.
“Divino Moros, cosa significa tutto
questo?”, domandò Chirone.
Moros. Come aveva fatto a non capirlo subito?
Avrebbe dovuto immaginare che quello che aveva posseduto Makayla non era un
fantasma, ma bensì suo padre, il dio delle profezie e del destino inevitabile.
Notò gli altri semidei guardarsi attorno incuriositi. Tra loro c’erano anche
Jackie Harmon e la sua bambina.
Si ritrovò colto da un’improvvisa
tristezza. In infermeria c’erano solo lui e Freya quando Moros aveva fatto il
nome della figlia di Imeneo. Povera
Jackie, costretta a separarsi da sua figlia…
Il viso di Makayla si contorse in
un’agghiacciante smorfia sofferente. Il tono di Moros ora era urgente: “Non posso occupare il corpo di mia figlia
così a lungo, non ho intenzione di ucciderla. Perciò ascoltatemi bene: la Spada
di Attila è un’arma potente e pericolosa. C’è più di un motivo se Attila veniva
chiamato Flagello di Dio. Se Anìa dovesse trovarla… si vendicherebbe su tutti
noi, dei e mortali compresi. Inoltre, dovrete anche trovare i Mali.”
Richard notò Arthur e il Signor D.
scambiarsi un veloce sguardo d’intesa. Durò un istante, ma lo notò ugualmente.
Che sapesse qualcosa…?
“Mi scusi,” disse un ragazzo riccio che
riconobbe essere Alexander Townsend, figlio di Clio, “è una profezia?”
Makayla si accigliò. “Cosa vuoi che sia, ragazzo?”
“Ma… non è né in rima né criptica,”
protestò Alexander, “è sorprendentemente chiara.
Tutti conoscono i Mali.” Si guardò intorno, sconcertato dagli sguardi confusi
dei suoi compagni, “O forse no…?”
Le gote di Makayla arrossirono. “Beh, che posso dire? Sono un tipo pratico
io. Se volete però mi ci posso mettere d’impegno e buttar giù un paio di eleganti
ed elaborati versi.” L’ultima affermazione era chiaramente intrisa di
sarcasmo.
Alexander alzò le mani in segno di resa,
ritenendosi soddisfatto dalla risposta.
Faccio
parte di una profezia?,
pensò Richard, stralunato.
Al suo fianco, Freya assunse
un’espressione confusa. “Chi… Chi è Anìa?
Significa disperazione in greco antico… se non sbaglio.”
Tutti gli occhi si puntarono su di lei,
anche quelli di Moros. Solo allora la ragazza si rese conto di essere ancora in
mutande. Arrossì violentemente e si coprì alla svelta con una delle numerose
lenzuola presenti sulla brandina. Stava tremando, ma Richard non capì se a
causa del freddo o della mortificazione.
Makayla – o meglio, Moros – non distolse lo sguardo da lei. “Si tratta della Quarta Ora.”
“Ma le Ore sono solo tre!”, protesto
Michael Donovan, della Cabina Sei.
“Ed
è qui che sbagli figliolo. Sempre saccenti questi figli di Atena! Le Ore sono
quattro, ed è proprio per affermazioni come la tua che Anìa cerca vendetta. Lei
è… diversa.”
Un rivoletto di saliva colò dalla bocca
di Makayla. Richard vide solo in quel moment le lacrime e il sudore bagnare il
viso smagrito della semidea. Gli dispiacque per lei, sembrava stesse soffrendo
molto. Si ripromise di offrirle tutto l’aiuto possibile una volta conclusasi
quella fastidiosa faccenda.
Se
riuscirò a tornare vivo da questa fantomatica missione, ricordò a se stesso. Perché Moros
avesse scelto proprio lui, questo non gli era chiaro. Forse si era trattato
semplicemente di sfortuna; forse… forse si era trovato nel posto sbagliato al
momento sbagliato.
Rabbrividì quando il dio ricominciò a
parlare: “Avete tempo fino al Solstizio
di Primavera. A quel punto Anìa avrà già preso la spada e corrotto i Mali.”
Detto ciò, Moros posò per un lungo istante il suo sguardo spento sul Signor D.,
che rimase impassibile, poi il corpo di Makayla si accasciò, privo di sensi.
Ethalyn, che aveva con sé una busta piena
di bende e che Richard aveva notato solo in quel momento, accorse in suo aiuto.
Stessa cosa fece Arthur, che si precipitò
nella direzione sua e di Freya.
Con sua grande sorpresa, li tirò entrambi
in un grande abbraccio.
Richard rimase pietrificato, confuso e
stupito.
Arthur non riusciva nemmeno a parlare.
“Pensavo… pensavo… oh, ho avuto paura...”
“Tesoro… va tutto bene,” lo rassicurò
Freya, poi però gemette, “ti stai… ti stai appoggiando sulla gamba…”
Arthur si affrettò a separarsi dai due.
“Cos’è successo? Chi ti ha ferita, Xiao
Hua?”
La ragazza sorrise, intenerita. “È una
lunga storia, ma Richard mi ha aiutata e non mi ha lasciata nemmeno per un
secondo.”
Richard abbassò lo sguardo, sentendo
tuttavia gli occhi di Arthur penetrargli la nuca con la loro intensità. Non lo
stava guardando, ma poteva quasi immaginare il suo sguardo riconoscente. “È il
mio lavoro.”, rispose, un po’ a disagio.
La folla di semidei intanto urlava e
faceva domande, accalcandosi intorno a Chirone e al Signor D.. Il viso di
quest’ultimo stava assumendo man mano una pericolosa sfumatura vermiglia.
Arthur continuò a fissarlo per un lungo, lunghissimo, momento. Poi coprì con le
sue grandi mani le orecchie di Freya e ridacchiò leggermente. “Amico mio…
preparati, sarà divertente.”
Dopo un paio di secondi, Dioniso esplose:
“AVETE ROTTO LE PALLE!”, urlò, esasperato, il viso rosso e i pugni grassocci
stretti, “FATE SILENZIO. TACETE, STUPIDI BABBUINI! BUON ZEUS! STUPIDI SUINI CHE
NON FANNO ALTRO CHE ROTOLARSI NELLA MELMA DELLA PROPRIA IGNORANZA.”
I mezzosangue ammutolirono nel giro di un
secondo. Freya, nonostante la premurosa accortezza del suo ragazzo, aveva udito
ogni parola e si era premuta le piccole mani sulla bocca, cercando di non
scoppiare a ridere. Arthur guardava in basso, un lievissimo sorriso stampato
sulle labbra.
Richard invece non ci trovava così tanto
da ridere. Guardò Chirone, che era rimasto stranamente serio e, con sua
sorpresa, il centauro stava ricambiando il suo sguardo.
Si schiarì la voce, e parlo con tono
chiaro e forzatamente pacato. Richard rabbrividì nuovamente. Se anche Chirone
era in ansia allora la questione era davvero seria.
“Ne parleremo oggi nel tardo pomeriggio,”
disse il mentore, “anticiperemo la riunione alle diciotto. Siate puntuali,” poi
si rivolse a Richard, “saresti così gentile da portare il cuscino?”
Richard annuì, stringendosi al petto l’importantissimo
oggetto.
Cat aveva una gran voglia di urlare.
Si sentiva inutile, indifesa, persa. Era
da tempo che non provava altro.
Osservò leggermente intimorita il ragazzo
che l’aveva trascinata nei pressi del bosco.
Jack Walker, figlio di Acli, era un tipo
particolare. Bear ce l’aveva a morte con lui dopo ciò che aveva fatto ad uno
dei suoi fratelli. Cat non ricordava bene la storia; tutto ciò che sapeva era
che quel ragazzo la rendeva inquieta. Morgana, invece, sosteneva fosse un tipo
eccentrico, con quel suo modo di vestire tanto particolare: capello Fedora
nero, camicia bianca e gilet scuro. In quel momento però, Jack aveva messo da
parte il gilet per far spazio ad un lungo cappotto nero che faceva risaltare i
suoi occhi chiari.
“Perché mi hai portata qui?” chiese Cat
sulla difensiva. Ricordò il modo brusco in cui le aveva afferrato con la mano
guantata la pelle del braccio nudo in Infermeria e l’aveva trascinata senza
emettere nemmeno un suono. Per qualche motivo l’aveva lasciato fare.
Jack si guardò attorno, assicurandosi di
essere soli. Poggiò il peso del proprio corpo sull’albero più vicino, facendo
trasalire Cat. Le ci volle qualche istante per ricordarsi che le driadi
andavano in letargo.
“Beh, tanto per cominciare ti ho
risparmiato una grande figuraccia. Ringraziami dopo,” incrociò le braccia al
petto, guardandola con un sopracciglio alzato, “e poi… mi servi.”
Cat sussultò. “In che senso, scusa? Cosa
puoi mai volere da me?”
Jack si avvicinò a lei, gli occhi puntati
nei suoi. “Hanno portato via una cosa a me molto preziosa. Ho bisogno di
persone disperate come te per riportarla indietro.”
Man mano che lui si avvicinava, Cat
indietreggiava. L’ansia cominciò a montarle in petto, la leggera canotta che
indossava la faceva sentire esposta. Riportò alla mente gli insegnamenti di
Bear, ciò che le aveva detto sul conto del figlio di Acli: “Stagli bene alla larga. Quel ragazzo ha
fatto cose… non fidarti di quello sciroccato.”
“Non un altro passo,” mormorò la ragazza,
“non posso aiutarti.”
Jack si fermò, alzando il mento. “Certo
che puoi. Insieme li riporteremo indietro.” Qualcosa luccicò negli occhi del
semidio.
Non
fidarti di quello sciroccato.
“Io… noi non facciamo parte della
Profezia.” Tentò, abbassando lo sguardo e sentendosi messa in trappola. Jack
poteva davvero aiutarla? Possedeva davvero un tale potere?
“E con questo?”
“Gli dei non ci aiuteranno.”
La risata di lui le fece raggelare il sangue.
“Quando mai ci hanno aiutato! Andiamo, Thorne, è un offerta che non puoi
proprio rifiutare. Vuoi o non vuoi salvare il tuo ragazzo?”
Cat alzò la testa di scatto. “Bear non è il mio ragazzo. Il nostro rapporto
non funziona così.”
“Perdonami. Che figura sgradevole che ho
fatto.”
Immagini di lei e Bear insieme, le sue
forti braccia attorno al suo esile corpo mentre le sussurrava che “sì, sarò sempre dalla tua parte.” Immagini,
momenti del turbolento passato che condividevano insieme: la prima canna, il primo
litigio, la prima fuga. Un giorno, forse, avrebbe avuto la forza di raccontare
a qualcuno di quei momenti. Nemmeno Morgana, la sua cara amica Morgana,
conosceva i particolari della loro storia. Suo malgrado, sentì le lacrime
formarsi e minacciare di bagnarle le guance fredde.
“Io non voglio tradire la fiducia di
Chirone,” sospirò, “e nemmeno quella del Signor D.”
Jack emise in verso a metà tra lo scherno
e l’esasperazione. “Ma andiamo! Pensa a quanto sarà contento Chirone quando non solo riporteremo Abigail e… Bear… a
casa, ma tutti i semidei scomparsi!”
Cat soppesò quelle parole, sfregandosi a
disagio un braccio. “Io… non lo so. Valuterò questa proposta e ti darò una
risposta dopo la riunione di stasera.”
Il ragazzo sembrò soddisfatto da quella
risposta. Sorrise di nuovo, questa volta con maggior gentilezza.
“Rifletti su queste mie parole: saremo
ricordati come eroi, Cat. Al diavolo Moros e la sua profezia!”
Con sua grande sorpresa, le afferrò la
mano, stringendola. Jack tremava, ma la sua voce era ferma e convinta.
“L’amore… l’amore e più forte di
qualsiasi profezia.”
Xue
Hua: piccolo fiocco
di neve
O
carajo!: oh cazzo!
Xiao
Hua: fiorellino
I know, I know… sono un filiiiiiiiino in
ritardo. Chiedo umilmente perdono.
Con la
fine della scuola e tutto ho avuto davvero poco tempo per occuparmi della
storia, ma ora eccomi qui c:
Ho
cercato di dar retta ai vostri consigli e spero vivamente di esserci riuscita.
Parto
subito col dirvi che il prossimo capitolo sarà quasi interamente dedicato ai villain . Ne vedremo delle belle.
Spero
vivamente che questo capitolo sia stato di vostro gradimento, non esitate a
farmi notare eventuali errori e, nel caso, a richiedere chiarimenti. Mi state
dando tutti, chi più chi meno, aiutando a migliorare il mio modo di scrivere e
raccontare una storia. Fatemi inoltre sapere se preferite questo stile di impaginazione o quello precedente.
A
presto! (Questa volta per davvero ♡)
-sun
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Capitolo 8 *** Capitolo IV - Iustitia ***
Iustitia
“Non sono mai stata brava in niente.”
La stanza era semplice ed accogliente, non un oggetto fuori
posto né un singolo granello di polvere. Le tende erano marroni, perfettamente
tirate. Enormi scaffali pieni di libri circondavano il comodo divanetto su cui
era stesa Mallory, la testa poggiata sul morbido bracciolo. Era stesa a pancia
in su, gli occhi fissi sul soffitto bianco, una semplice lampada emetteva un
lieve bagliore luminoso.
“Quando lo dissi alla mia mamma, lei rispose che era una
sciocchezza, che tutti avevano un talento. Ma era una bugia. Mamma ne
raccontava tante, di bugie…”
Sua mamma era una donna stupenda, dai lunghi capelli scuri e
gli occhi neri come la pece. Sempre dolce, sempre gentile, mai un dettaglio
trascurato o fuori posto. Si chiamava Diane, ma questo Mallory l’aveva scoperto
solo in seguito. Per lei, era sempre e solo stata semplicemente Mamma.
“Mi dica di più di sua madre,” fece una voce nasale,
maschile. Mal udì il graffiante suono della penna sul taccuino. Chissà cosa
stava scrivendo.
“Sosteneva fossi portata per la letteratura, ma questa era
solo un’altra menzogna. Non sono brava a trovare le parole giuste. Non mi va di
parlarne.”
“Capisco,” fece la voce, “e in quanto a suo padre?”
Mallory continuò a tenere lo sguardo fisso sul pallido
soffitto. Sentiva il bisogno di girarsi e osservare il suo interlocutore, ma
qualcosa la faceva desistere.
“Il mio papà era grande e forte; un guerriero. Aveva gli
occhi azzurri e i capelli biondi. O forse rossi? Non ricordo.”
“E ora dov’è?”
“È morto.” Rispose piano la ragazza. Si aspettava di
piangere, ma non lo fece.
“E la tua mamma?”, le venne nuovamente chiesto.
“Morta anche lei.”
Questa volta Mallory batté velocemente le palpebre, punta sul
vivo. Cercò di scacciare il pensiero dei suoi ormai defunti genitori, ma non ci
riuscì. I loro volti, seppur sbiaditi, non facevano che balenarle nella mente,
restii a lasciarla andare.
“Di chi è la colpa, Mallory? Chi li ha uccisi?”
Ispirò pesantemente dal naso, le palpebre ebbero un fremito.
Sentì la gola chiudersi, le guance arrossarsi dalla rabbia. “Gli dei.” Rispose
senza alcuna esitazione.
L’altro dovette ritenersi soddisfatto, poiché smise di
tediarla con quelle domande così difficili e le chiese di parlargli un po’ di
se stessa.
Ci furono alcuni istanti di silenzio. Silenzio che Mal non
riuscì a tollerare. Cominciò a parlare a vanvera di qualsiasi cosa: la sua vita
a Nuova Roma, il suo piatto preferito, la sua paura del buio. Stava parlando
della sua passione per le ciambelle quando un suono, simile ad un basso
nitrito, la interruppe. Voltò la testa di scatto, gli occhi spalancati. Al suo
fianco, seduto su di una comoda poltrona, c’era il corpo di un normalissimo
uomo in completo elegante e cravatta. Alzando lo sguardo però, Mal non vide
alcun tipo di faccia; bensì un muso lungo e scuro, due occhi completamente neri
e distanti tra loro, orecchie alte ed appuntite, pelo grigio ed una lunga
criniera scura.
Il suo psicologo era un asino.
Letteralmente.
Mal si mise lentamente a sedere, le ginocchia unite e le mani
abbandonate sul grembo. “Sei un asino,” costatò, tutta la voglia di parlare
svanita.
“E tu sei una noia,” ribatté l’equino, appuntando anche
questo sulla sua agenda.
Mallory stava per ribattere, ma decise di rimanere in
silenzio per qualche momento, misurando per bene le parole. Ne aveva fatti di
sogni strani, ma quello… quello li superava di gran lunga tutti. “Cosa
significa tutto questo, Fobetore?”
Con suo grande orrore, il viso del cavallo mutò,
trasformandosi questa volta in quello di un gorilla, il corpo sempre umano. Mal
rabbrividì, indietreggiando con un colpo di anche e trascinandosi dietro tutto
il divanetto.
Anche la sua voce era cambiata, questa volta profonda e
vagamente gutturale. Le faceva ribrezzo, ma era sempre meglio della faccia
d’asino. “Devo tenere viva la fiamma, dolcezza. Sia mai che decida di
abbandonare la causa della Signora.”
“Credevo di essere stata chiara,” sbuffò Mal, “cerco
giustizia per i miei genitori e per tutti i semidei innocenti.”
Il volto di Fobetore mutò nuovamente, tramutandosi in quello
di un’anziana megera, la voce ora gracchiante e fastidiosa. “E con questo?
Credi che dopo tutto ciò che ha passato si fiderà della tua sola parola? La
nostra Signora ha bisogno di fatti.”
“Sono la sua più devota servitrice.” Almeno fino a quando terrà fede alla sua promessa, aggiunse
mentalmente.
La vecchia emise un rantolo disgustoso, come se volesse
tossire muco, poi il viso cambiò nuovamente. Questa volta, il viso di un
giovane uomo dai capelli biondo-fragola prese il suo posto. Anche gli abiti
mutarono, facendo posto ad una maglia arancione a mezze maniche con la scritta CAMPO MEZZOSANGUE e un paio di jeans scuri. Mal serrò le labbra,
cercando di trattenere le lacrime.
Quello
non è Papà. Papà è stato ucciso, ucciso dagli dei!
“Non c’è bisogno che tu mi ricordi costantemente il motivo
per cui combatto.” Mormorò, pizzicandosi forte il braccio, “fammi
svegliare.”
“La mia piccola Mal,” disse piano l’uomo, avvicinandosi di
qualche passo a lei, “sono così orgoglioso di te.”
“Fammi svegliare! Fobetore, ti prego…” urlò disperata,
conscia di quello che stava per accadere. Cercò di alzarsi, di girarsi, di
coprirsi gli occhi con le mani, ma una forza invisibile la teneva ancorata al
divano, impossibilitata.
“Io e tua madre ti vogliamo così tanto bene.” Le sorrise suo padre, arrivandole a pochi
centimetri di distanza.
Lacrime e muco le bagnavano la faccia, gli occhi gonfi che
proprio non ne volevano sapere di chiudersi. Le bruciavano, così come le
bruciavano il petto, il naso, la testa, la gola.
“Mia Signora!”,
implorò, “ti prego! Papà!”
Proprio quando suo padre, il suo adorato papà, stava per
sfiorarle il viso con la punta delle dita pallide, un ombra scura lo spinse sul
duro pavimento. Mal urlò mentre il mastino infernale gli apriva le viscere e
gli sbranava le interiora. L’uomo urlava, si dimenava, implorava la sua divina
genitrice affinché lo salvasse, ma niente. L’impeccabile stanza era ormai
ricoperta di sangue. Il sangue di suo
padre.
“Ricorda per cosa combatti,” mormorò l’uomo, il volto
straziato dal dolore, mentre esalava il suo ultimo respiro.
Finalmente, Mal poté chiudere gli occhi.
Stava ancora piangendo quando si risvegliò, avvolta nel suo
soffice e caldo piumone.
Quella notte, Fobetore aveva davvero esagerato. Molte volte
il dio degli incubi le aveva mostrato scene simili, ma quella notte non le
aveva permesso di distogliere lo sguardo, di poter accovacciarsi in un angolo
ed aspettare che quell’orrore finisse. Alle volte il dio era gentile,
concedendole di passare del tempo con la sua famiglia durante un picnic, al parco
giochi. La notte prima aveva passato dei piacevoli momenti insieme alla madre,
che le aveva raccontato alcune favole dal libro verde che le leggeva sempre da
bambina; a volte doveva fermarsi, perché la dislessia non le permetteva di
leggere in maniera fluida, ma la sua mamma si era sforzata, stringendo gli
occhi neri e talvolta, Mal lo sapeva, inventando il continuo del racconto pur
di non far perdere il filo alla sua bambina.
Se c’era una cosa che accumunava ogni sogno, quella era il
finale; bello o brutto che fosse, i suoi genitori si congedavano sempre con la
frase “Ricorda per cosa combatti.”
Una volta Mal ne aveva parlato con Lizzie, l’unica che
potesse considerare una vera amica in quel posto, e la figlia di Venere le
aveva risposto che anche lei sognava cose simili. Sosteneva si trattasse di un
modo della Signora per sincerarsi dell’effettiva lealtà dei suoi guerrieri. Un
sistema crudele ma efficace. Ogni mattina, Mallory si alzava dal letto con
rinnovata voglia di far fuori ogni divinità, greca o romana che fosse.
Tutti
egoisti, si ripeteva, tutti
falsi.
Si mise a sedere, guardandosi intorno. Era ancora buio.
La sua Signora non era così. Lei aveva sofferto, ma aveva
avuto la forza e la possibilità di reagire. Mal la ammirava per questo. Se solo
avesse potuto far aprire gli occhi a tutti… insieme avrebbero creato un mondo
migliore, un posto sicuro. Era questo quello che i suoi genitori avrebbero
voluto, ne era sicura.
Dopo qualche minuto, le lacrime si erano completamente
dissipate, lasciandole solo una profonda sensazione di vuoto. Si alzò in piedi
e si posizionò davanti al grande specchio; la sua era una camera piccola ma
accogliente, sulle tonalità del blu e dell’indaco. A Mal piaceva, la sentiva
come una cosa sua. In quel breve
periodo in cui aveva vissuto al Campo Mezzosangue, non aveva mai provato quel
senso di appartenenza che da alcuni mesi a quella parte provava per il covo di Anìa. Erano tutti così ingiusti!
Perché la sua Signora doveva nascondersi? Cosa aveva fatto di male?
Si riavviò i corti ricci scuri, tagliati a caschetto. Faceva
troppo freddo quella mattina, non aveva alcuna voglia di lavarseli, perciò se
li sistemo in una corta coda alta. Avvicinò il viso allo specchio, notando con
rammarico un brufolo spuntarle proprio al centro della larga fronte. Pensò a
Lizzie, alla sua pelle perfetta, e a tutti gli altri numerosi figli di Venere –
o Afrodite – che avevano scelto di abbracciare la causa di Anìa: loro erano
sempre bellissimi, perfetti, impeccabili.
Quanto li invidiava.
Si lavò velocemente, si vestì e rifece il letto.
Quando si sentì pronta, uscì dalla camera.
Si trovavano in North Dakota, un posto freddo d’Inverno e
solitamente caldo ed accogliente durante la stagione estiva. Da quel che aveva
capito, si trovavano nei pressi della città di Fargo, ma Mallory non ne era
completamente sicura. Non aveva un gran senso dell’orientamento e di geografia
capiva ben poco. Sapeva per certo che faceva un gran freddo. Anìa e i primi
mezzosangue entrati al suo servizio avevano provveduto alla ricerca di una base
perfetta: si trattava di un hotel aperto da poco, circa sei anni, situato non
troppo al centro ma nemmeno troppo in periferia. Si trattava del Best Western Inn&Suits: un posticino
accogliente, moderno e alla mano. A Mal piaceva. Mesi prima uno dei figli di
Venere aveva convinto i proprietari a lasciar loro il posto, poi Mal, grazie
alla sua discendenza da Ecate, aveva tirato su uno spesso e fitto strato di
Foschia. A meno che lei non fosse morta, quel posto era introvabile.
Percorse i lunghi corridoi, passando per la Hall.
“Ehi, Cespuglio!”, disse una voce che, suo malgrado,
riconobbe appartenere a Simon Gregory, il grasso e fastidioso figlio di Eos.
Mal non si girò, continuando la sua ricerca di qualche viso
noto e amichevole. Non sapeva quante persone fossero entrate al servizio della
sua Signora: durante l’ultimo giro di ispezione, ne aveva contati meno di un
centinaio. Erano per lo più adolescenti, di cui la maggior parte sembrava non
avere alcuna motivazione valida per trovarsi lì.
“Già sveglia a quest’ora? Sei sicura che interrompere il tuo
sonnellino di bellezza sia una buona idea? Guarda che ne hai davvero bisogno. È
un brufolo quello?”
“Gira al largo, Panzone,” sputò Mallory, acida.
Simon non le diede retta, e continuò a seguirla. “Come mi hai
chiamato?!”
“Panzone. È quello che sei, in fondo. Oggi non ho voglia di
star dietro alle tue stronzate, Gregory, perciò faresti meglio a lasciarmi in
pace.”
Il ragazzo le afferrò la mano. All’iniziò Mal lo guardò
sorpresa, ma poi Simon cominciò a stringere. E a stringere. E a stringere. Sentì le ossa delle dita
scricchiolare ed emettere preoccupanti rumori, ma lei non emise un suono. Si
limitò a fissarlo, cercando di controllare il dolore. Con l’altra mano, Simon
le afferrò il bavero del maglione, spingendola contro il muro. Le stava
schiacciando le clavicole, ma ancora, Mal non emise nemmeno un verso. Patetico, pensò, ora gliela faccio vedere io chi è il più forte.
“Simon! Cosa stai facendo?” esclamò una melodiosa voce che
Mal riconobbe all’istante. Non sorrise quando Simon la lasciò andare; si limitò
a sistemarsi il maglione e guardandolo con fermezza, si affianco alla
proprietaria di quella voce: Lizzie.
La figlia di Venere aveva le piccole e delicate mani sui
fianchi stretti, i grandi occhi castani socchiusi. Non era molto alta, ma in
quel momento incuteva quasi un certo timore.
“Quando imparerai a lasciar in pace Mallory?” domandò. Non stava usando
la lingua ammaliatrice, ma Simon abbassò ugualmente lo sguardo e mormorò
qualcosa, pieno d’ira. Tutto fumo e
niente arrosto, pensò Mallory, disgustata.
“Non la sopporto, okay?,” sbottò alla fine lui, “con quella
sua mono-espressione e l’aria da padrona. Ma chi ti credi di essere?”
“La ragione per cui tu sei qui e non alla mercé degli dei,”
rispose pacatamente Mallory, “se non fosse per me, a quest’ora la barriera
sarebbe già caduta.”
“Ovviamente,” disse Simon, tornando dietro al bancone della
reception, sorridendo amabilmente, “d’altronde… i tuoi poteri sono più forti di
una normale discendente di Ecate… sbaglio?”
Mallory strinse i denti. Prima che potesse fare nulla, però,
Lizzie la afferrò gentilmente per il polso e la trascinò via. Simon fece per
urlare qualcosa, ma Lizzie fu previdente: “Silenzio!,”
ordinò. Simon si zittì all’istante, o almeno così Mal credeva. La Lingua
Ammaliatrice della ragazza era potente, perciò anche Mal fu costretta a
rimanere in silenzio per un po’. Non che la cosa le desse particolarmente
fastidio.
Quando finalmente arrivarono all’ascensore, Lizzie si
concesse di rivolgerle uno sguardo preoccupato.
“Grazie,” sussurrò piano Mallory una volta ripreso l’uso
della parola, “sei stata molto gentile, ma posso gestirlo.”
Lizzie alzò un sopracciglio curato. Si passò velocemente una
mano sui capelli color cioccolato, poi sospirò. “Hai ragione. Il fatto è che
proprio non sopporto tutti questi bulli! Si sono uniti alla causa della Signora
con la mentalità sbagliata.” Premette il dito contro il pulsante
dell’ascensore, che si illuminò. “Sono venuta a cercarti, comunque. Dobbiamo
controllare le reclute.”
Mal alzò un sopracciglio. “I prigionieri, vorrai dire.”
“Cerco sempre di non pensare a loro in questo modo,” ammise
quasi timidamente.
“Sei troppo buona. Non capisco perché sei qui, francamente.
Non l’ho mai capito. Adrian deve mancarti terribilmente.”
Lizzie non rispose, chiaramente dispiaciuta al solo pensiero.
Mal si sentì leggermente in colpa, ma, come al solito, non lo diede a vedere.
Adrian era il ragazzo di Anne Elizabeth. Lei ne parlava
sempre con occhi scintillanti ed immensa devozione. Un po’ la invidiava: doveva
essere bello avere qualcuno innamorato a tal punto da accettare ogni tua decisione,
aspettandosi e pregando per la tua sicurezza.
Le porte dell’ascensore si aprirono. Le due ragazze entrarono
in silenzio, Lizzie a testa bassa.
Scusa,
scusa, scusa! Non volevo portarti alla mente ricordi dolorosi! Liz…
Ma le parole non uscirono. Non potevano uscire. Non poteva mostrare debolezza, nemmeno con lei.
L’ascensore cominciò a scendere di uno, due, tre piani. Fu
solo allora che Liz parlò, cambiando completamente argomento: “Spero che Lorina si sia comportata bene con
le reclute. O almeno, meglio di Henry…”
“Se vuoi sapere come la penso, quel Henry ha qualche rotella
fuori posto. Questa missione è solo una scusa per lui per fare quello che gli
pare.”
L’immagine di un ragazzo stupendo, gli occhi azzurri che
risaltavano sul viso rosso sporco di sangue le balenò velocemente davanti agli
occhi. Non erano molte le persone che Mallory davvero temeva, ma quel ragazzo…
la ragazza cercava sempre di essere particolarmente scostante con lui nei
paraggi. Era convinta che nemmeno la Lingua Ammaliatrice di Lizzie sarebbe
stata in grado di placare la su furia.
Quando finalmente l’ascensore di servizio arrivò ai
sotterranei, le due ragazze vennero accolte da un forte odore acre e
particolarmente spiacevole, come di plastica bruciata. Lizzie si portò
immediatamente indice e pollice alle narici, chiudendole. Quando parlò, lo fece
con voce nasale. “Che sta succedendo qui?”
Mal la imitò e di guardò attorno. C’erano voluti poco più di
dieci giorni per creare quella sorta di sotterranei. Grazie ad una figlia di
Plutone e un paio di ragazzi di Efesto, non era stato difficile scavare quella
specie di mega tunnel sotterraneo e piazzarci dento gli alloggi delle reclute.
Non erano proprio celle, quanto più
stanze con una piccola finestrella sulla porta, per poter far passare viveri e
altre necessità. Le porte erano di spesso metallo rinforzato, rosse con le
rifiniture viola. Fortunatamente, Mal non aveva avuto occasione di dare
un’occhiata all’interno delle stanze. Solo i Guardiani potevano. Lizzie era una di loro.
Lizzie non le aveva mai parlato apertamente del suo compito,
non ne aveva il permesso, ma Mallory non era stupida: la maggior parte dei Guardiani erano figli di Afrodite – o Venere – o persone
che sapevano essere molto… convincenti,
come Lorina o Henry. Ogni settimana, un nuovo soldato veniva fuori dalle porte
di quell’ascensore argentato, pronto e determinato a servire la causa della
Signora. Quando il suo turno finiva, Lizzie non sembrava essere particolarmente
orgogliosa di se stessa.
“Lorina!” chiamò Lizzie, sempre tenendo le narici ben
serrate. L’odore di plastica bruciata era insopportabile.
Dopo qualche istante, una ragazza dal caschetto scuro e
asimmetrico uscì da una cella, sbattendosi la pesante porta di metallo alle
spalle. Un leggero ghigno le increspava le labbra sottili. “Oh, alla
buon’ora!”, fece, avvicinandosi a Lizzie e ignorando Mal.
“Cos’è questa puzza?” domandò la figlia di Venere.
“Uh, non preoccuparti, mia cara, Henry si è preso la briga di
risolvere la situazione,” fece un gesto estremamente plateale, alzando le
braccia come a voler dire che vuoi che
sia?, “vedi, una fastidiosa biondina ha provato a fondere la maniglia della
cella. Non chiedermi come, non ci sono più le bionde di una volta.”
Si diresse verso l’ascensore.
“Henry è con lei?,” chiese Lizzie con una punta di
preoccupazione.
“Credimi, mia cara, non oserà più fare una cosa del genere,”
Lorina ghignò di nuovo, finalmente posando gli occhi grigi come il ferro su di
lei, “e tu, piccolo incesto, che ci
fai qui? Non dovresti star leccando i piedi alla Signora?”
“Lorina…” mormorò
Liz, facendo dardeggiare gli occhi scuri da lei a Mal. Quest’ultima però si
limitò a guardare il viso compiaciuto della figlia di Eris. Non le avrebbe dato
soddisfazione.
Lorina fece un verso di scherno, poi allargò nuovamente un
braccio, facendo a Mal cennò di entrare in ascensore. “Il tuo posto non è qui.
Con quella tua mono-espressione non riusciresti nemmeno a convincere un vecchio
a saltare la fila per la pensione. È interessante però,” disse entrando in
ascensore, Mallory subito dietro e lo sguardo preoccupato di Lizzie che spariva
dietro le porte argentate, “un giorno dovrai insegnarmi; tante persone provano
a metter su un’espressione apatica come la tua, ma alla fine sembrano solo
pesci lessi! Deve essere uno dei tanti poteri conferiti dall’incesto…”
“Potresti smettere di parlarne?” fece Mallory infastidita,
mentre l’ascensore saliva e abbandonava il sottosuolo.
“Ma è la verità, no? Vuoi negarlo?”
Mallory non rispose, limitandosi a fissare nel vuoto. No, non
voleva negarlo. Non poteva. Per
quanto orribile, per quanto inaccettabile… quel che si diceva in giro era la verità,
nient’altro che la verità. Per quanto si sforzasse, per quanto continuasse a
ripetere a se stessa che con il DNA
divino non funziona così!, a livello sociale la situazione non sarebbe mai
mutata.
Perché sua madre era figlia di Ecate.
Suo padre pure.
Lizzie entrò nella stanza numero 8, un largo sorriso forzato stampato
sulle labbra. Le pareti erano grigie e rovinate, graffiate e sporche in più
punti, il letto sfatto e il gabinetto, sistemato nell’angolo un po’ più
appartato era forse l’unica cosa rimasta intatta nella stanza.
Nella stanza, oltre al letto, c’era un piccolo mobile con
quattro cassetti per sistemare la biancheria e quei pochi vestiti appartenenti
alla recluta, due sedie in legno scuro, una lampada e un contenitore di
riviste. Con i fogli delle riviste, il ragazzo ci aveva fatto delle barchette
di carta. Una delle quattro luci al neon sul soffitto era spaccata in due e
lampeggiava in maniera sinistra.
Sospirò. “Ramiel… perché?” Si rese conto di suonare come una
giovane madre esasperata, e cercò di ignorare la sensazione. Si mise a sedere
su una delle sedie, osservando il ragazzo seduto a gambe incrociate sul letto.
Ramiel Harington era un tipo grande e grosso, muscoloso ma
allo stesso tempo atletico e dalla postura perfettamente eretta. Aveva la pelle
leggermente mulatta, gli occhi scuri ed il viso ormai da giovane uomo, con un
lieve accenno di barba sulla mascella squadrata. Tutto sommato era un ragazzo
attraente, ma al suo bell’aspetto compensava il suo pessimo carattere. Era
forse per questo che la Signora aveva deciso di mandare lei a parlarci: con la
violenza non avrebbero cavato un ragno dal buco, e nemmeno con la seduzione. Ci
volevano razionalità e gentilezza, e a questo Lizzie sperava di poter provvedere.
Ramiel stiracchiò le lunghe gambe, rivolgendole un sorriso
malizioso. “Oh, ma guarda. È tornata la terapista. Lasciatemi andare.”
Lizzie gli sorrise di nuovo. “Come stai oggi, Ramiel?”
“Bene, grazie. Starei ancora meglio se mi lasciaste andare.”
Lei si costrinse a mantenere il sorriso cortese. “E a me non
chiedo come sto?”
“Non me ne frega un cazzo. Lasciatemi andare.”
Lizzie fece un paio di respiro profondi, riuscendo in tal
modo a non vacillare. “Per favore, basta così; non accadrà.”
Era la sesta volta che andava a trovare quel semidio, e ogni
volta lui diventava sempre più fastidioso e irriverente. Veniva dal Campo
Mezzosangue, questo era certo: Anne Elizabeth non l’aveva mai visto prima
d’allora tra le strade di Nuova Roma – e un tipo così lo avrebbe notato di
certo –.
“Andiamo, dolcezza. Sono qui da quanto? Una? Due settimane?
Tutto ciò che ho per svagarmi qui dentro sono queste merdose riviste. Se
potessi uscire di qui, muovermi, fare a botte…”
“Questo non è possibile, Ramiel.” Lizzie accavallò le gambe,
agitando il piede di quella superiore, leggermente irritata dalla situazione.
Sei volte che entrava in quella stanza, sei volte che si ripeteva sempre la stessa, identica conversazione. Non sapere come andare avanti, come
riuscire nel proprio intento… era frustrante.
“Questo tizio è un
guerriero più che valido, Richardson,” le aveva detto Lorina la prima
volta, “portarlo dalla nostra parte è
indispensabile.”
“Perché?” aveva
domandato Lizzie.
“Lo capirai.”
“Non vedo perché no. Come non capisco perché mi abbiate
portato qui contro la mia volontà. Perché io non ho potuto scegliere come tutti
gli altri?”
Ramiel la fissò con i suoi grandi occhi color nocciola, le
sopracciglia di una tonalità di castano più scuro rispetto a quello dei suoi
capelli. Aveva ragione… le altre reclute venivano trattenute più per scrupolo
che per altro. Ma per i semidei come lui era diverso. Anche queste era una
domanda che già le aveva posto più e più volte. Oramai aveva la risposta
pronta:
“Perché la Signora ha esplicitamente chiesto il tuo
contributo. Lei non è irragionevole, perciò una volta svolto il tuo compito,
sarai ampiamente ricompensato.”
“E quale sarebbe, di grazia, il mio compito?,” il suo tono
era quasi canzonatorio, come se si fosse annoiato anche lui di quella
conversazione così ripetitiva e la stesse invitando a darle un po’ di pepe.
“Sai perfettamente cosa vogliamo da te, Ramiel. Possiamo
passare oltre? Come posso convincerti?”
Lui sembrò pensarci su un momento, poi scrollò le spalle e si
mise in piedi. “A questo punto mi faccio una pisciata.”
Lizzie si alzò in piedi di scatto, le guance in fiamme. “Non
abbiamo ancora finito!”
Il ragazzo si stava già sbottonando i jeans. “Non ti ho mica
chiesto di uscire. Che ne so, girati e tappati le orecchie, se proprio sei così
facilmente impressionabile.”
La semidea si voltò di spalle, il volto arrossato, ma non si
tappò le orecchie. Quando sentì il liquido colpire la ceramica del gabinetto,
strinse i pugni. “Volgare,” decretò.
Al di sopra del fastidioso rumore, Lizzie udì la voce
profonda del ragazzo: “Sono già tenuto qui come un animale in gabbia, ora devo
anche chiedere il permesso per fare una pisciata?”
“Sapevi che sarei venuto a quest’ora! Potevi farla prima.”
Sentì Ramiel riabbottonarsi i jeans, tirare lo scarico e
aprire il rubinetto del lavandino di fianco al gabinetto. Chi l’avrebbe mai detto! Un rozzo come lui che si lava le mani!
“Può girarti,” le disse, “e no, non potevo saperlo.”
Quando si rigirò, Lizzie vide che si era riseduto sul letto
sfatto e stava indicando l’orologio appeso al muro: non aveva più le lancette
ed il vetro era spaccato in due.
“Perché distruggi tutto ciò che tocchi?” disse lei ad alta
voce. Si mise una mano davanti alla bocca. Non era sua intenzione pronunciare
realmente quelle parole… guardò con preoccupazione il semidio e stava per
porgergli le proprie scuse, quando un sorriso quasi malinconico si formò sul
viso di lui.
“Me lo chiedo spesso anch’io.”
Ci fu un lungo silenzio. Lizzie si sentì terribilmente in
colpa. Come in un lampo, l’immagine della scheda informativa compilata a mano
del semidio le comparve davanti agli occhi: Ramiel
Harington, 20 anni, figlio di Ares e della mortale Paulina Harington, deceduta…
Ripensò istintivamente a suo padre, di cui non conosceva né
il viso né il nome, ai suoi genitori adottivi… ricordò inoltre quello che le
aveva detto Dancy, una delle ragazze greche che aveva avuto a che fare con
Ramiel in precedenza: “Formidabile,
questo è vero, ma una vera e propria bestia. Avresti dovuto vederlo combattere:
non c’è avversario che tenga. Persino il nostro Henry ha una ridicolmente bassa
possibilità di batterlo nel corpo a corpo.”
Come fa
ad essere così forte?
Glielo chiese, e Ramiel la guardò con fare serio ed
emigmatico. “Con la forza dell’amicizia.”
Lizzie lo guardò, stralunata. La forza dell’amicizia? Beh,
forse aveva senso…? “Davvero?”
Stava per domandargli altro, ma il semidio le scoppiò a
ridere in faccia. “Ma ti pare?!” la derise.
“E allora come?”
Ramiel scosse la testa, sogghignando. “Non vi rivelerò i miei
segreti. Ma ora voglio porla io a te una domanda, figlia di Venere.”
La conversazione stava prendendo una piega interessante. Finalmente. Un piccolo campanello di
allarme risuonò nella mente di Anne Elizabeth. “Come fai a sapere che sono
figlia di Venere?”
Ramiel si alzò dal letto, che emise un rumoroso cigolio, e si
mise a sedere sull’altra sedia a pochi palmi di distanza da lei. “Un bel
faccino come il tuo non può che appartenere alla progenie di Afrodite. E, dal
momento che sembri non conoscermi, deduco che tu faccia parte del gruppo maglie viola.”
“Non sono solo un bel faccino,” sbottò Lizzie, “e sono
fidanzata.” Si pentì un secondo dopo averlo detto. Quanto doveva essergli
sembrata stupida ed ingenua? Non era quello il suo compito; lei doveva apparire
forte, affabile, convincente. Come si
era ritrovata in quella situazione? Perché non era rimasta in silenzio? Oh, Adrian... tu sapresti cosa fare e cosa
dire, pensò di getto.
Quel fiume in piena di pensieri venne bloccato dalla risata
di Ramiel, che tuttavia sembrò non aver fatto caso alla sua ultima
affermazione. Tanti problemi per nulla.
“Questo è chiaro, perciò ti chiedo: perché non hai utilizzato
la Lingua Ammaliatrice per convincermi sin dal primo giorno?,” sembrava
genuinamente curioso.
“Potrei non avercela,” tentò la ragazza.
“Ne dubito,” replicò lui senza scomporsi.
A quel punto, Lizzie gli concesse quella piccola vittoria e gli
rispose, stando ben attenta a non lasciarsi scappare qualche informazione di
troppo. Esitò giusto per un breve istante. “Beh, vedi… sarebbe stato inutile.
Gli effetti della Lingua Ammaliatrice non sono infiniti, e lasciarti a piede
libero così instabile sarebbe stato controproducente.”
Ramiel annuì, facendole segno di aver capito con un lieve
“Mmh.”
Qualcosa scattò all’interno della ragazza. Quello… quello era il momento giusto! Aveva
tutta la sua attenzione, doveva solamente scegliere le parole giuste.
Si guardò intorno casualmente, facendo soffermare lo sguardo
sull’orologio rotto. “Io non capisco, sai?”
“Benvenuta nel club.”
Anne Elizabeth si concesse una risatina. “No, davvero. Non
capisco perché vi ostiniate a proteggere gli dei. Aspetta!” esclamò con urgenza
quando lo vide alzare gli occhi al cielo ed incrociare le braccia, “Non sto
cercando di convincerti, voglio solo capire. Insomma… perché rimanere fedeli
agli dei, quando tutto ciò che fanno è usarci e lasciarci morire mentre loro se
ne stanno da qualche parte sul quel Paradiso che è l’Olimpo a grattarsi la
pancia e a ridere di noi? Perché dovrei morire per loro, quando tutto ciò che
fanno è puramente a scopo egoistico? Non sono mai riuscita a capirlo.”
Ramiel rimase in silenzio, e Lizzie lo prese come un ottimo
segno. “Solo perché la Signora Anìa ha avuto la forza di ribellarsi adesso è
considerata il nemico. Non è giusto! Sai cosa le è successo? È stata scartata e
additata come diversa solo per il suo modo di essere, per il suo scarso potenziale. Essere messa da parte
così… è terribile, non trovi? E allora spiegami perché, Ramiel, spiegami; ci
sono tante cose che forse non comprendo, ma questa… questa proprio non la
capisco.”
Si rese conto di aver parlato a cuore aperto, riversando
nelle sue parole ogni suo più puro sentimento. Decidendo di seguire Anìa,
Lizzie era sicura di aver fatto la scelta migliore. Anche se gli dei non le
avevano mai fatto personalmente un torto, sentiva che quella era anche la sua
battaglia. Non poteva ignorare il disperato grido di aiuto della sua Signora,
non ci riusciva. Se in quel mondo popolato da dei ed esseri sovrannaturali non
esistevano giustizia ed equità, allora le avrebbero create loro. Un mondo migliore, diceva Anìa, un mondo che potremo governare in pace.
Tutti insieme.
Il ragazzo la guardò con un’espressione indecifrabile, la
schiena inarcata, gli avambracci posati sulle ginocchia aperte e le grandi mani
dalle dita callose intrecciate lasciate penzolare nel vuoto tra le due
giunzioni. “Quindi,” disse piano dopo qualche istante, “è così che speravi di
convincermi ad aiutarvi? Era questo il tuo ultimo grande discorso?”
Lizzie lasciò ricadere la schiena sullo schienale della
sedia, visibilmente sconfortata. Ma come
fa? Ho convinto così tanti ragazzi prima di lui… perché non cede? Come fa ad
essere così forte?
Dopo qualche istante, decise che rimanere non aveva più
senso. Si alzò, maledicendo la sua bassa statura per il poco contegno che lo
conferiva, e lo guardò con le mani sui fianchi. Gli occhi di lui sembravano
perforarla mentre raddrizzava quasi minacciosamente la schiena, ma lei rimase
stoicamente lì dov’era.
“Tu ci aiuterai, Ramiel Harington, volente o nolente. Ci sono
mezzosangue come te che dobbiamo necessariamente
portare dalla nostra parte: tu sei solo il primo,” fece un gesto ampio con la
mano, indicando la stanza distrutta, “vuoi davvero rimanere qui? Ancora? Ne
dubito. Unisciti alla nostra causa, Ramiel, accetta adesso… perché se non lo
farai, Anìa manderà qualcun altro a convincerti.
E fidati, non saranno pazienti come me.”
Detto ciò, Lizzie si diresse impettita verso la porta. Il
viso le andava a fuoco, non capiva se per la rabbia, l’imbarazzo generale o se
per la vergogna di aver pronunciato quelle parole così audaci. Proprio mentre
stava per posare la mano sulla maniglia, la voce di Ramiel la raggiunse.
“Per proteggere una persona…” era poco più di un sussurro, ma
Lizzie lo udì chiaramente.
“Stai cercando di distrarmi?,” gli domandò, esitante, “puoi
anche provare a fuggire, se vuoi, ma la barriera non ti permetterà di
allontanarti da qui.”
Ramiel si spostò dalla sedia al letto con studiata
tranquillità, incrociando le braccia dietro alla nuca e fissando il soffitto,
apparentemente con noncuranza. Ma Lizzie stava iniziando a capire. Allontanò la
mano dalla maniglia, rimanendo comunque vicino alla porta di metallo,
aspettando una risposta.
Il ragazzo mosse solo gli occhi, serio come non era mai stato
prima. “Mi hai chiesto come ho fatto a diventare forte,” puntualizzò,
continuando a guardare il soffitto.
Senza emettere un suono, Anne Elizabeth tornò a sedersi sulla
sedia.
Theresa disprezzava il freddo.
Dover indossare abiti così pesanti ed opprimenti quali
giacconi e sciarpe la rendeva nervosa ed irritabile. Quel giovedì di marzo,
poi, non faceva nemmeno così freddo.
Erano le quattro del mattino, il Sole non era ancora sorto e
le strade di Nuova Roma erano piacevolmente prive di gente. Theresa tenne
ugualmente testa bassa, cercando di mantenere la calma. Anche con le strade
deserte, si sentiva ugualmente oppressa, osservata. E lei odiava sentirsi così.
Tuttavia doveva concentrarsi, non poteva permettersi distrazioni, ne valeva
della sua vita. Le era stato detto che in quel posto ci vivevano dei fantasmi –
o meglio, i Lari – perciò doveva
comunque tenere un profilo basso, cercare di fare alla svelta.
Quella mattina, grazie all’aiuto di un complice dall’interno,
era riuscita a far breccia, indisturbata, nel sistema di sicurezza magico di
Nuova Roma. Non era stato difficile: grazie alle lezioni di Circe, era stato
piuttosto semplice celare la proprio identità con un semplice ma efficace
incantesimo. Si leccò le labbra, pregustando la dolcezza di ciò che sarebbe
accaduto di lì a poco. La vendetta è dolce, le avevano detto, e finalmente, finalmente, sarebbe stata in grado di
provarla. Quel che stava per fare andava contro gli ordini diretti di Anìa,
colei che aveva momentaneamente deciso di seguire, ma come poteva lasciarsi
scappare un’occasione simile? Controllò nuovamente la mappa della città, per
poi ricacciarsela nella tasca del giaccone. Un fremito le percorse la spina
dorsale. Era così impaziente… ma
prima aveva un piccolo compito da svolgere.
Incontrò James Wilmington al punto prestabilito, in un vicolo
particolarmente isolato nei pressi di una comune panetteria. Alla sola idea di
dover unire le forze con quel maschio
le si accapponava la pelle. James era un tipo dall’aria austera e posata, gli
occhi scuri e i capelli corti da bravo soldatino qual era. O almeno, quale
sarebbe dovuto essere.
Un’espressione tagliente si modellò sul viso di Theresa.
“Traditore,” lo apostrofò, “hai qualcosa per me, oltre ad una pugnalata alle
spalle?”
James sembrava nervoso. Theresa poté percepire la sua ansia,
mentre si guardava attorno e frugava nel suo zaino. Tirò fuori un paio di
normalissimi quaderni, di quelli tutti colorati per i bambini delle elementari.
I
registri, capì Theresa, afferrando bruscamente i quaderni e
controllandone velocemente il contenuto, strizzando gli occhi per abituarsi al
buio. In quei quaderni, vi erano tutti i nomi e le discendenze divine dei soldati
romani. Anìa le aveva raccomandato di prenderli e tenerseli stretti; c’erano
ancora tanti ragazzi da reclutare. Theresa li infilò velocemente nel proprio
zaino, guardando con la coda dell’occhio il ragazzo romano.
Si risistemò lo zaino in spalla. “C’è un’altra cos-“
“Sono stato bravo?,” la interruppe lui, la voce ricolma di
urgenza e… speranza? Theresa lo guardò con disgusto.
“Come dici tu, sì. Ora stammi a-“
“Posso andare dalla Signora, adesso? Non posso più sta-“
Con un movimento repentino, Theresa estrasse uno dei coltelli
che aveva nella cintura. Preferiva di gran lunga la balestra, come arma, ma
quel ragazzo la stava irritando. “Stammi a sentire ora,” sibilò, “non me ne
importa un cazzo di dove vai o cosa fai, è chiaro? Ora dimmi dove posso trovare
Will Collins*, figlio di Nike. Ho saputo che si è trasferito qui dopo la
guerra, anni fa.”
James si irrigidì e le afferrò il polso all’istante, senza
tuttavia torcerglielo. Che idiota,
pensò, potrei ucciderti qui, all’istante.
Chi mai piangerebbe la morte di un traditore?
“Will Collins…” rifletté il ragazzo ad alta voce, spostando
lentamente la mano armata di Theresa, mentre intanto la semidea aveva già
afferrato un altro coltello con l’altra mano e glielo stava lentamente portando
alla gola.
James sospirò. “La mappa.”
Theresa gli fece segno con lo sguardo di prendersela da solo,
troppo impegnata a puntargli due coltelli contro. No, non si fidava proprio dei
traditori.
“Abita qui,” le disse, indicando una via non lontana dal
College. Solo in quel momento sembrò realizzare. I suoi occhi neri come
ossidiana si indurirono. “Perché hai bisogno di saperlo?”
“Questi sono solo affari miei,” replicò seccamente lei.
“Non-“
“E la casa dei Jackson? Dimmi, dov’è la casa dei Jackson?”
James impallidì. Sembrò realizzare solo in quel momento ciò
che aveva fatto. Scattò verso di lei, le mani alzate come per placcarla, ma
Theresa fu più rapida: con un unico, fluido movimento gli conficcò uno dei
pugnali dritto nello stomaco.
Le spalle di James si contrassero, poi si afflosciarono e si
contrassero di nuovo. Ebbe qualche spasmo di dolore, ma riuscì ugualmente a
trovare la forza di afferrarle i polsi, insozzando con il suo lurido sangue il
cappotto di Theresa. “Avevamo un accordo… io e Anìa…” le affondò le unghie
nella carne della mano, piegandosi in due sempre di più: il veleno sul pugnale
stava facendo effetto.
“Hai ragione,” disse bruscamente Theresa, estraendo il
coltello e separandosi dal ragazzo con uno strattone, facendolo ruzzolare per
terra, “l’accordo era fra te e Anìa, non fra te e me. Ora guardati, a morire in
un sudicio vicolo… sudicio quasi quanto te.”
James cercava di fermare il sangue con le proprie mani, ma le
forze gli stavano venendo man mano meno, sia per l’emorragia che per il veleno
di cui era intrisa la lama. Il veleno di
Medea.
“Vuoi sapere una cosa?,” fece Theresa, accucciandosi di
fronte a lui, pochi centimetri che li separavano; James riuscì a stento ad
alzare una mano e portargliela al collo in un patetico tentativo di
strangolarla, “non provo pietà per te. Sei la peggior specie di traditore, di
quelli che prima si fingono amici e poi ti pugnalano alle spalle. E se anche tu
fossi una spia del Pretore, cosa di cui dubito… avresti infranto l’accordo che
hai fatto con Anìa.”
A questo punto, Theresa aveva già mandato a farsi benedire il
voler essere cauta. Questo… questo la stava facendo star bene. Vedere una vita
afflosciarsi lentamente e spegnersi a causa sua… la vita di una persona così
miserabile e disgustosa, per giunta… sì, le piaceva. Le piaceva giocare a fare
la dea, un’entità abbastanza potente da poter decidere per le vite altrui.
Quando James smise di respirare, Theresa riprese a vivere.
Anìa le aveva promesso giustizia, e giustizia avrebbe avuto; le aveva promesso
equità, ed eccola lì, di fronte a lei. Una scarafaggio che moriva come uno
scarafaggio, in uno sporco vicolo a contorcersi per il dolore, impotente e
indifeso a causa delle sue scelte sbagliate. Ma era stato tutto rapido, troppo
rapido...
Erano ormai le quattro e mezza del mattino quando finalmente
raggiunse casa Collins. James l’aveva lasciato lì dov’era. Le persone si
preoccupavano forse di seppellire gli insetti? No. O almeno, non le persone
normali: d’altronde Theresa si reputava una ragazza semplice che seguiva la massa,
a modo suo. Se anche l’avessero trovato, che importava? Chi mai avrebbe pianto
per lui, il più infimo dei vermi traditori?
Si nascose nell’ombra. Presto,
pensò caricando la sua balestra, un gran sorriso sulle labbra, presto giustizia sarà fatta.
Con il cappotto sporco di sangue, le mani intorpidite dal
freddo ed incrostate di sporcizia e un’arma letale fra le mani, Theresa non era
mai stata così entusiasta. Prese lo specchietto che portava sempre con sé,
controllando la sua immagine riflessa. A restituirle lo sguardo fu, come al
solito, un orrido mostro. Maledetta
puttana, pensò, me la pagherai.
Rimise lo specchietto in tasca, imbracciando nuovamente la
balestra.
“Ricorda
per cosa combatti.”
“Notizie su una fonte magica in Georgia sono giunte a noi un
paio di settimane fa; c’è la possibilità che si tratti di un semidio.”
Mal si guardò intorno, studiando le reazioni del gruppo
appena stato convocato. A parlare era stato Edward, un lentigginoso figlio di
Vulcano dagli occhi verdi e i ricci rossicci. Mal ci aveva parlato solo un paio
di volte: lo trovava un tipo un po’ strano, ma tutto sommato timido e
facilmente influenzabile. Un bravo ragazzo, insomma. In quel momento, era
seduto a capotavola, le mani intrecciate sul piano davanti a lui e gli occhi
dardeggianti. Sembrava stesse cercando aiuto, in particolare dal ragazzo seduto
di fianco a lui: Jaime Rivera, figlio di Venere.
Jaime aveva un’espressione indecifrabile. Mal aveva avuto
modo di conoscerlo superficialmente, tre settimane prima: era un bel ragazzo,
alto e slanciato, capelli folti e scuri legati in un codino alto e viso
cosparso di lentiggini. Un tipo tranquillo, ma che Mal non riusciva a
comprendere. Percepire le aure era una delle sue abilità, e quella di Jaime…
era particolare… affollata, le veniva
da dire, ma non capiva bene perché. Era da un po’ di tempo che aveva intenzione
di avvicinarsi al ragazzo per poter capire.
Affollata, confusa, sbilanciata…
Cinque semidei erano seduti a quel tavolo rettangolare,
situato in una piccola sala adibita ad aula del consiglio. La Signora preferiva
starsene chiusa nelle sue stanze, mostrandosi raramente ai suoi sottoposti.
Edward, a quanto pareva, era stato uno dei pochi fortunati a poterla vedere in
volto. Non gli andava di parlarne, questo era palese.
“La… uhm… Signora dice di aver bisogno di noi. Dovremo andare
a controllare, presto o tardi,” fece una breve pausa, ponderando per bene le
parole, “ha scelto personalmente il gruppo, la partenza è prevista entro un
paio di giorni, salvo imprevisti.”
“Perché proprio noi?,” domandò Mary Price, figlia di Pomona.
Tutti gli occhi si puntarono su di lei. Mary era una bella ragazza, dai lunghi
capelli castani e le ciglia lunghe; era chiaramente sovrappeso, ma, non
considerando alcuni dei soliti imbecilli, nessuno aveva mai osato prenderla in
giro.
Edward aveva la risposta a quella domanda, e fu ben felice di
esporla. “La Signora sostiene si tratti di una fonte naturale, forse legata a
qualche spirito della natura: ecco perché sei qui, Mary. Pomona è legata alla
natura, quindi sarai probabilmente in grado di aiutarci. Mallory, ecco…” esitò
qualche secondo prima di parlare. Mal non ci fece particolarmente caso,
abituata com’era agli sguardo di disagio degli altri. Quando finalmente trovò
le parole giuste, Edward riprese a parlare: “con ogni probabilità sarà presente
una barriera, perciò tu avrai il compito di eliminarla. Sei molto brava in
questo genere di cose.”
Mal apprezzò il tentativo, ma la sua espressione non cambiò.
Si limitò a ricambiare lo sguardo del figlio di Vulcano, osservandolo bene in
viso mentre lui distoglieva lo sguardo, chiaramente a disagio. Edward aveva
delle labbra molto carnose, quasi innaturalmente grosse. Il viso era magro, ed
era ricoperto di lentiggini, probabilmente dalla testa ai piedi. Mallory lo
osservava spesso, lo capiva: quel suo sforzarsi di essere empatico, di
comprendere gli esseri viventi come comprendeva le macchine… in un certo senso,
Mallory si rivedeva in lui.
“Jaime è molto abile con la spada, ed è bravo a maneggiare la
balestra,” continuò il semidio, questa volta il suo tono pratico e monocorde
alleggerito da una punta di calore. Mal fece saettare lo sguardo sul figlio di
Venere, che aveva accennato un lieve e modesto sorriso e si stava toccando la
nuca con una mano. Mal socchiuse gli occhi. Affollato.
Confuso. Sbilanciato.
“Per quanto riguarda Henry…”
Edward guardò con esitazione il figlio della dea della
persuasione Peito, all’altro capo del tavolo, isolato, con la i gomiti poggiati
sul piano e il viso fra le mani, l’aria assonnata e terribilmente annoiata, i
corti riccioli scuri che gli ricadevano sulla fronte placidamente. I suoi
magnifici occhi azzurro chiaro erano puntati nel vuoto. Mallory percepiva noia,
indignazione, sconforto… e rabbia, tanta rabbia. Sembrava un dio greco
vendicatore, un tremendo Apollo pronto a scoccare le sue letali frecce portando
caos e punizioni, seguendo il suo distorto senso di giustizia. Tutti i presenti
avevano cercato di ignorare la sua presenza fino a quel momento, il fastidio
generale palpabile.
Nessuno proferì parola per lunghissimi istanti.
“Henry non ci vuole
venire,” disse lui, continuando a guardare nel vuoto, “portatevi dietro quella
megalomane di Lorina o, che so, quella palla di merda di Simon Gregory.”
Mary si irrigidì, ma non osò dire nulla.
Mallory rimase immobile sulla sua sedia, facendo da
spettatrice. Anche Edward tornò a sedersi, sbuffando sonoramente, esasperato. “Henry…”
Henry si tirò si alzò in piedi, ringhiando minacciosamente.
“Mi state facendo perdere tempo. Questa è una missione per idioti. Non ho
alcuna intenzione di farmi una penosa gitarella con questo gruppo di sfigati.
La Signora ha grandi piani per me.”
Inaspettatamente, Jaime Rivera si alzò di scatto, battendo i
pugni sul tavolo, un ghigno provocatorio sul volto. Sembrava quasi essere
un’altra persona. E la sua aura, poi…
“Ma chi ti credi di essere?! Stammi bene a sentire, casse
coullies, non abbiamo intenzione di
perdere tempo dietro al tuo culo viziato! Quindi vedi non farci perdere tempo e
fa’ quello che ti è stato ordinato, bouffon.”
Mal sentiva la testa girarle. Non conosceva bene Jaime, ma
era abbastanza sicura che il ragazzo non avesse mai avuto quel marcato accento
francese. Jaime batté le palpebre velocemente, ora sembrava essere arrabbiato
con se stesso. No, non con sé stesso…
Affollato.
Edward scattò al fianco di Jaime, ma Henry fu più veloce.
Come un cane rabbioso, si lanciò sul tavolo lo afferrò per il maglione e gli
tirò una poderosa testata. Jaime cadde ed Henry gli piombò addosso, iniziando a
colpirlo.
Confuso.
Mary urlò e inciampò nella sedia nel tentativo di alzarsi
alla svelta, Edward… beh, Edward, preso dalla foga e preoccupato per il suo
amico, afferrò una sedia e la spaccò dietro la schiena di Henry, che urlò dal
dolore e si accasciò solo per pochi istanti.
Sbilanciato.
La porta della Sala si aprì lentamente, e il viso paffuto
della quattordicenne Valerie Kingstone spuntò da dietro il legno massiccio. “Ho
sentito urlar-“
“VA’ FUORI,” le urlarono all’unisono i tre ragazzi, Mary che
correva fuori dalla porta e trascinava via con sé la ragazzina, Mallory ancora
seduta sulla sua sedia. Continuava a osservare la scena con un certo interesse,
talvolta chiudendo gli occhi. Tre presenze, ora quattro, ora di nuovo tre… ora
una in più, diversa da quella precedente.
Decise di averne abbastanza. Una lieve luce purpurea scaturì
dalle sue piccole mani, creando una sorta di corde di energia luminosa. Con un
veloce movimento, Mallory scagliò le catene in direzione di Henry,
incatenandolo e gettandolo a pancia all’aria sul pavimento, la nuca che batteva
rumorosamente. Con un altro veloce movimento delle dita, sollevò il tavolo e lo
scagliò contro il muro, creando una debole barriera fra Henry e gli altri due
ragazzi. Tutti e tre avevano il fiatone. Il bel viso di Jaime era sporco, il
labbro gonfio e il naso grondante di sangue. Edward sembrava essersela cavata
meglio, avendo riportato solo qualche livido.
Le spalle di Jaime erano basse, come se fosse stanco… o come
se si vergognasse di qualcosa.
Mallory lo guardò per un lungo istante. Tre. Poteva percepire
tre presenze, oltre alla sua, in quella stanza. Quella che aveva percepito prima…
non c’era più. Svanito nel nulla. Poof.
Come era possibile? Cosa stava succedendo. Si rese conto di aver sempre sentito
quella strana sensazione, quando Jaime era nei paraggi, ma ora… ora era
genuinamente curiosa.
“Andate a cercare qualcuno che possa rimettervi in sesto,”
disse, atona.
“Non possiamo lasciarti da sola con lui,” tentò Edward. Il suo tono era più pratico che realmente
preoccupato. Sembrava stesse sottintendendo qualcosa come tu rimani, lui ti ammazza o cose del genere.
“Me la caverò,” assicurò Mallory. Non fare finta di essere preoccupato per me, avrebbe voluto
aggiungere, ma si trattenne.
Dopo qualche secondo di esitazione, sia Jaime che Edward si
congedarono, parlando a bassa voce tra di loro, le teste vicine. Mallory li
guardò andare via, poi rivolse la sua attenzione ad Henry.
Il semidio sembrava aver perso i sensi, perciò Mallory decise
di sciogliere l’incantesimo. Le braccia di Henry, non più costrette dalle corde
magiche, ricaddero mollemente sul pavimento con un lieve tonfo. Mal gli si accucciò vicino,
scostandogli i riccioli dalla fronte, gli toccò la guancia ispida di barba, la
mascella, gli zigomi.
Lo schiaffeggiò. Forte. Avrebbe potuto usare un incantesimo
revitalizzante… ma voleva davvero sprecare le sue energie per un individuo del
genere? Per colui che, avendo vissuto al Campo con lei, aveva sparso in giro
voci sulla sua discendenza anche lì, condannandola ad una permanenza triste e
solitaria?
Lo schiaffeggiò di nuovo, stavolta sull’altra guancia.
Henry non si svegliò.
Ah beh, pensò
scrollando le spalle e rimettendosi in piedi, guardandolo dall’alto, anche se dovessi morire, poco
male, non mancherà a nessuno.
*la creatrice del personaggio non ha specificato il cognome,
perciò mi sono arrangiata.
Casse coullies: rompi coglioni
Bouffon: buffone
Ciao a tutti!
Scusate
per l’assenza, di nuovo, ma sono
stata davvero molto impegnata. Spero che il capitolo sia di vostro gradimento.
È un
capitolo un po’ più corto, non ho nemmeno presentato tutti i personaggi! Ho pensato di prendermela con comoda. I cattivi sono personaggi molto complessi e
molto più complicati da scrivere (ma è questo il bello no?)
Cosa ne
pensate di questi nuovi personaggi? E della sorte del povero James? Sentiremo
ancora parlare di lui, tranquilliii
Spero di
riuscire ad aggiornare presto!
Baci,
-sun
|
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Capitolo 9 *** Capitolo V - Viatori pt.1 ***
Viatori
9 marzo 2045, giovedì.
Mark aveva mollato Elizabeth e gli altri cinque
minuti dopo aver varcato i confini di Nuova Roma.
Respirò a pieni polmoni quell’aria familiare,
beandosi della tranquillità e della sicurezza che gli trasmetteva e che tanto
gli erano mancate in quelle quasi tre settimane di viaggio. Forse dopo sarebbe
passato a trovare sua nonna e avrebbe fatto rapporto anche a sua madre. Il
pensiero della sua famiglia lo stava tormentando; sarebbe riuscito a renderli
fieri e a spezzare la terribile maledizione che da tanto tempo affliggeva la
dinastia Crassus?
Si diresse a passo svelto verso gli alloggi dei
due Pretori, ripassando mentalmente il discorso preparatosi durante quelle
estenuanti ore di macchina. C’era voluto molto più tempo del previsto, dal
momento che quella scatoletta infernale color crema che Avery si ostinava a
chiamare macchina non riusciva a superare i sessanta. Elizabeth, poi, aveva
avuto la brillante idea di fermarsi
per un break dopo soli venti minuti
di viaggio. Con grande disappunto sia di Mark che del figlio di Poseidone,
Avery aveva annuito con entusiasmo e pochi minuti dopo erano fermi ad una
stazione di servizio a sorseggiare caffè e, nel caso di Elizabeth ed Avery, a
fagocitare muffin e pancakes. E tanti saluti al “prima arriviamo, meglio è”.
Una volta usciti dal bar, Elizabeth ed Avery soddisfatti, Perseo esasperato e
Mark incazzato nero, erano stati accolti da due simpaticissime Gorgoni, con indosso delle divise da vigili urbani.
Una di loro aveva tra le brutte labbra un
fischietto, l’altra una mano ossuta ed innaturale sul cofano della macchina di
Avery – Sunny, si chiamava la vettura; perché Mark lo sapesse questo ancora non
gli era chiaro –. “Questo veicolo è sotto sequestro!” aveva esclamato una delle
due Gorgoni. “Col cazzo!” aveva replicato Avery. Senza dire una parola,
Elizabeth aveva messo tra le mani del biondo uno dei suoi anelli, un ghigno
divertito sul viso; dopo pochi istanti, al posto del gioiello il greco aveva
tra le mani una spada lunga dall’elsa dorata a forma di caduceo: un’arma
estremamente pomposa e da esibizionisti, ma che a quanto pare faceva il suo
lavoro.
Dopo che il ragazzo ebbe finito, i suoi vestiti
erano macchiati di polvere di mostro e sangue scuro, melmoso. “Mai, mai toccare la mia macchina,” aveva
infine detto Avery rimettendosi alla guida di quel suo carretto, l’aria
altezzosa e gli occhi assottigliati, pronti a scovare e gestire una nuova
possibile minaccia ai danni della sua Sunny.
Comunque sia, il gruppo sarebbe dovuto arrivare
massimo per le undici del mattino, ma tra una sosta e l’altra, il continuo
cambiare percorso di Elizabeth – un fantastico navigatore umano, Mark doveva
ammetterlo – a causa dei mostri e la ridicola velocità del catorcio, si erano fatte ormai le dodici passate.
Arrivò finalmente agli alloggi dei Pretori,
delle stanze messe da parte per i due ragazzi più importanti ed influenti del
Campo Giove. Mark avrebbe tanto voluto trovarsi al loro posto: essere Pretore
era il suo sogno sin da quando era bambino. Pur trovandosi a metà dell’opera –
essere centurione non è mica cosa da poco – vedeva quel sogno farsi sempre più
distante mano a mano che i giorni passavano. Diventare Pretore l’avrebbe forse
condannato, essendo questo sogno in realtà una vera e propria ambizione? Valeva
la pena rischiare di risvegliare la
maledizione? Forse, se si fosse comportato bene abbastanza al lungo, la
maledizione si sarebbe completamente dimenticata della sua esistenza.
Crystal Wolff era lì ad aspettarlo nelle sue
stanze, il suo collega Martin Weber, figlio di Bellona, al suo fianco. Se ne
stavano in piedi dietro una grande scrivania insolitamente disordinata, le
espressioni gravi e le mani in costante movimento mentre sfogliavano senza
sosta pagine e pagine di quaderni strapieni di scritte che Mark non riusciva a
decifrare a causa della grande velocità con cui venivano bruscamente voltate.
“Non sono da nessuna parte…” stava brontolando
Martin, gli occhi scuri che dardeggiavano da un foglio all’altro. Indossava la
toga da Pretore, come se fosse appena uscito da un incontro in Senato o da una
riunione con la delegazione greca, sopra un maglione scuro di lana pesante.
Crystal, d’altra parte, aveva l’aria esausta e vagamente sfatta: indossava la
maglia viola con la scritta Campo Giove
in grassetto giallo scuro e una giacca in pelle macchiata sui polsi, i capelli
color cioccolato arruffati a tal punto da coprire parzialmente anche il lato
della testa sfregiato dalla lunga cicatrice.
Mark si schiarì la voce.
Due paia di occhi, uno nero come ossidiana,
l’altro di uno sfolgorante blu elettrico, si posarono su di lui nel giro di
pochi istanti. Il figlio di Marte si impose di rimanere dritto e impassibile,
conservando il suo caratteristico contegno.
“Centurione Crassus, sei tornato,” costatò Crystal,
chiudendo velocemente i quaderni e posizionandosi davanti alla scrivania
poggiando le mani sul piano con disinvoltura.
Il Pretore Martin rimase fermo dov’era, il
quaderno che stava affannosamente sfogliando pochi istanti prima ancora aperto
fra le sue mani. Gli rivolse un sorriso educato, chiaramente sollevato ma al
contempo curioso. “Mark. Come è andato il viaggio? Rapporto.”
Mark intrecciò le mani dietro alla schiena
tenuta ben dritta, il mento alto e lo sguardo fisso sulla parete dinanzi a lui
mentre iniziava a parlare: “Come mi è stato comandato, sono partito il giorno
23 febbraio 2045 per un’impresa affidatami dai miei superiori in compagnia
della semidea greca Elizabeth Larson, figlia di Ermes. Ci siamo prima diretti
in Nevada, alla ricerca di quella cosa lì,”
scoccò una veloce occhiata a Crystal, che abbozzò un lieve sorriso
rassicurante.
“Chiamala pure con il suo nome, Centurione: Vaso di Pandora.”
Mark annuì. Anni prima, il Pretore era stata
coinvolta in un’impresa per recuperare il Vaso, ma qualcosa era andato storto e
la ragazza preferiva non parlarne. Solo i suoi collaboratori più stretti
sembravano conoscere la storia per intero, ma fedeli com’erano non avrebbero
mai tradito la fiducia di Crystal.
Se dovessi
diventare Pretore, pensò Mark, voglio dei collaboratori del genere anch’io.
“Non c’è traccia del Vaso,” si costrinse ad
ammettere Mark.
Crystal annuì, pensierosa. “Lo immaginavo. Non
fartene un cruccio, Mark: sia noi che il Senato sapevamo che non sarebbe stato
così semplice.” La figlia di Giove si sistemò meglio sulla cattedra. Si tirò su
le maniche della giacca di pelle, il tatuaggio sull’avambraccio ora in bella
mostra. Dieci linee, rifletté Mark, dieci
anni di servizio. Quanti anni poteva avere Crystal? Ventitré, ventiquattro?
Difficile a dirsi. A Mark dava l’impressione di una ragazza costretta a
crescere troppo in fretta, determinata a non essere schiacciata dal peso del
comando.
Martin si mosse dalla sua postazione e si andò
ad affiancare a Crystal, le folte sopracciglia scure aggrottate. “E quindi dove
si trova il Vaso? Siamo certi si trovi ancora in America?”
“Non ho dubbi al riguardo,” replicò Crystal. Il
suo tono era così sicuro ed affabile che Mark le credette senza alcuna
esitazione.
“Nereo non ci è stato di molto aiuto,” continuò
Mark dopo un cenno di Martin, “si è limitato a parlare della disperazione, ma né io né la greca siamo
riusciti a capirne appieno il significato.”
Crystal si separò dalla scrivania, l’espressione
di chi si era appena ricordato qualcosa di particolarmente importante. “A
proposito di questo…”
Prima che potesse però continuare la frase, la
porta della stanza di spalancò ed un trafelato Augure Aster varcò la soia, il
viso arrossato e i capelli bianchi arruffati. “Crystal! È terribile…” si piegò in due, tenendosi una mano sul
diaframma. La semidea accorse al suo fianco, poggiando una mano sulla sua e
l’altra sulla schiena, il volto distorto dalla preoccupazione. Mark e il suo
resoconto erano immediatamente passati in secondo piano.
“Aster, miei dei, respira. Cos’è successo?”
Anche Martin era accorso al fianco dell’Augure,
invitandolo a calmarsi e a sedersi. Aster scosse vigorosamente la testa, gli
occhi lucidi. Mark rimase lì dov’era, immobile. Anche se si fosse avvicinato,
non sarebbe stato in grado di aiutare, perciò reputò intelligente rimanere in
disparte.
“Due omicidi,” riuscì infine a snocciolare
l’Augure, “William Collins, un uomo sulla quarantina, figlio di Nike e
residente al Campo Giove sotto permesso speciale, è stato ucciso da cinque colpi
di balestra. E, Martin mi dispiace così tanto…”
Il diretto interessato serrò le labbra,
attendendo la notizia, ma Aster sembrava non avere il coraggio di emettere
altro suono.
Crystal si mise ritta, lo sguardo totalmente
mutato. “Cosa? Aster…”
“James Wilmington, figlio di Bellona, è stato
trovato morto in un vicolo di Nuova Roma, pugnalato a morte da un coltello
intriso di veleno. È stato trovato una decina di minuti fa da un panettiere...”
Sia Martin che Crystal rimasero in silenzio. Il
primo fece alcuni passi a ritroso, come se volesse allontanarsi da quella
terribile realtà, le pupille dilatate e le mani tremanti. Mark provò una forte
empatia nei suoi confronti: sapeva cosa significasse perdere un fratello – una
gemella, nel suo caso – e quel dolore… quel dolore non svaniva mai veramente,
così come non svanivano i sensi di colpa e il disprezzo nei confronti di un
mondo così crudele. Crystal invece chiuse gli occhi e sollevò lentamente il
capo, come in una muta preghiera, solo il lieve tremolio delle labbra tradiva
il suo effettivo stato d’animo.
Quando Aster riprese la parola, lo fece piano e
con delicatezza. “C’e bisogno del vostro consenso per far venire qui un figlio
di Ade il prima possibile, in modo da poter rintracciare l’anima di James e far
sì che il colpevole venga trovato e giudicato dal Senato. Terminus è fuori di
sé dalla rabbia: non capisce come siano riusciti ad introdurre una balestra e
un pugnale avvelenato oltre i suoi confini.”
Si aspettò che uno dei due Pretori iniziasse a
piangere o sbraitare, come ogni essere umano avrebbe fatto, ma con sua grande
sorpresa nessuno dei due accennò minimamente una reazione del genere. Non
subito, almeno.
Martin tornò a sedersi sulla scrivania,
schiacciando con il suo peso alcuni dei quaderni, lo sguardo perso nel vuoto ma
gli occhi completamente asciutti. Quando invece Crystal riaprì i propri, di
occhi, sembrava che questi avessero ripreso colore: le occhiaie, la pelle opaca
dalla stanchezza… tutto impallidiva di fronte alla luminosità di quelle iridi
cerulee, innaturalmente intense. La ragazza si rivolse a Martin, il tono
delicato: “Sta’ tranquillo, Martin, mi occuperò personalmente dell’indagine.
Troveremo e puniremo il colpevole.” Solo in quel momento rivolse finalmente la
sua attenzione verso Mark, la voce dura da
comandante. Mark non conosceva che quel tono di voce: per tutta la vita,
sin da quando era solamente un bambino, gli erano stati impartiti ordini e
affidati compiti.
“Centurione Crassus, il Campo Mezzosangue ha una
Profezia e tu ne fai parte. Voglio che tu, Elizabeth Larson, Avery Benson e
Perseo Harris andiate subito a prepararvi; ho mandato dei ragazzi a cercare Eva
Hooke, dovrebbe arrivare a momenti.”
Per andare
dove?, stava per chiedere Mark, ma lo
sguardo urgente e ammonitore della semidea lo fece desistere. Quello non era il
momento. Martin continuava a fissare nel vuoto e fu solo quando Mark si diresse
verso la porta con Aster e mormorò un “Mi dispiace per la tua perdita,” che
cominciarono i singhiozzi.
“Ha preso i miei anelli, quella stupida statua!”
Perseo alzò gli occhi al cielo, sospirando
mentre Avery dava alla loro compagna qualche confortante pacca sulle spalle
incurvate per la rabbia e lo sconforto. Perseo, invece, prese la cosa con
un’allegria piuttosto fuori luogo: finalmente quel tremendo e disordinato agglomerato di gioielli non
gli avrebbe più fatto ritorcere le budella. Almeno per qualche giorno.
“Vedila con razionalità, Eli,” tentò il biondo,
“sono armi! Non puoi entrare nella città armata di tutto punto.”
Elizabeth tirò su con il naso, sottraendosi
indispettita al suo tocco. “Non la vedevi così quando ti ho prestato la mia
spada preferita per maciullare qualche mostro.”
Avery emise un verso alquanto buffo. “Era per
una buona causa!”
Gli schiamazzi dei suoi compagni passarono in
secondo piano nell’esatto istante in cui Perseo rivolse lo sguardo altrove,
posandolo sulla città: immensi palazzi si stagliavano in lontananza, case
costruite con grande maestria costeggiavano i vialetti fatti di ciottoli scuri;
in lontananza, Perseo poté scorgere alcuni insiemi di alberi dai rami nudi e
secchi, forse piantati in prossimità di qualche parco giochi. Quella città era
un vero e proprio piacere per gli occhi e per la mente; solo a guardare la
simmetria e la pulizia di Nuova Roma, Perseo sentiva i nervi distendersi e un
sorriso spontaneo spuntargli sulle labbra.
Si allontanò dai suoi due compagni, che già dopo
due minuti avevano messo da parte i loro dissapori e si stavano spintonando
scherzosamente, scambiandosi esilaranti battute che Perseo tuttavia non trovava
particolarmente divertenti: quei due sapevano essere incredibilmente rumorosi,
e Perseo – così come Mark, a quanto pareva – non apprezzava particolarmente
tutta quella confusione.
Si prese qualche altro istante per osservare la
città, lo stomaco che brontolava rumorosamente. Era quasi ora di pranzo, e
Perseo non ci vedeva più dalla fame. Si guardò intorno, esaminando con cura i
cittadini; non c’erano molte persone, d’altronde era ora di pranzo. C’erano due
ragazzi che stavano animatamente gesticolando e battibeccando tra di loro,
fermi in prossimità del Mini Market alla fine della strada, poco prima della
curva in salita; una signora sulla cinquantina, che camminava passo svelto e
strofinava i palmi delle mani nude fra di loro: probabilmente aveva dimenticato
i guanti a casa. Dall’altro lato della strada, invece, un ragazzo atletico sui
venticinque anni camminava a testa bassa, gli occhi puntati sulla strada, i
lunghi capelli lisci e scuri mossi dal fastidioso vento freddo.
“Baron? Ti sei incantato?” La voce di Elizabeth
lo raggiunse e lo riscosse da quella sua specie di torpore. I due l’avevano
raggiunto, lei lo guardava con aria divertita, Avery con una punta di
preoccupazione che Perseo non riusciva a comprendere.
“No,” disse piano, “osservavo. È ben organizzata
questa città, mi piace.”
“Troppo piccola,” replicò lei, “troppo
asfissiante. Tutti conoscono tutti, è…” si mordicchiò il pollice, alla ricerca
del termine giusto.
“Snervante?” suggerì Avery di fianco a lei.
Perseo alzò un sopracciglio.
“Mmh… no, non è questo il termine. Beh, mi verrà
in mente. Comunque ho fame.”
“Anch’io,” disse Perseo stringendosi nel proprio
cappotto, “il romano ci ha mollato non appena ne ha avuta l’occasione.” Era
particolarmente indispettito.
Elizabeth annuì, continuando a mordicchiarsi il
pollice. Perseo, infastidito, di impulso le tirò via la mano dalla bocca,
sperando di non essere stato troppo brusco o invadente. Ma nessuno le aveva mai
corretto quella cattiva abitudine? Lei lo guardò con tanto d’occhi; il ragazzo
non riuscì a capire se volesse trucidarlo sul posto per essersi preso tanta
confidenza o se stesse per scusarsi. Era sempre così lunatica: un momento prima sembrava stesse per abbracciarti,
l’attimo dopo ti aveva già conficcato una matita in un occhio. Delle volte era
snervante starle vicino, ma Perseo, come d’altronde ogni mezzosangue al Campo,
riconosceva il suo valore e la rispettava per tutto ciò che aveva fatto per
loro.
Avery, percependo la tensione, si schiarì la
voce. “Perché non chiediamo in giro? Deve pur esserci un posto economico in cui
mangiare.”
“Non ho soldi con me,” fece sapere controvoglia
Elizabeth, incrociando le braccia al petto. Il suo sguardo scuro vagò per
qualche secondo, finché adocchiò i due ragazzi che stavano discutendo in
lontananza. Un sorriso furbo le illuminò il viso pallido. “Torno subito,” e,
prima che le si potesse dire qualcosa, si era già avvicinata ai due
sconosciuti, che smisero immediatamente di parlare e rivolsero la loro attenzione,
curiosi e un po’ guardinghi, verso la figlia di Ermes. Sembrava già essersi
dimenticata di lui, ma forse era meglio così.
“Che figura di merda…” borbottò Avery.
Perseo si sforzò di distogliere lo sguardo,
concentrandosi sull’amico. “Perché ci siamo cacciati in questo guaio?”
Avery puntò gli occhi scuri nei suoi, un sorriso
arrendevole e accondiscendente sul viso esteticamente impeccabile. Perseo si
ricordò di quella volta in cui l’aveva preso in giro per il suo aspetto da Ken, e Avery, tutto impettito, aveva
replicato: “Sì, uso creme per il viso, e
allora? Dovresti vedere come mi lascia liscia la pelle la Bubble Mask!”
Rimase in silenzio per un minuto buono, prima di
ghignare e guardarlo.
“Il Campo chiama, i semidei rispondono.”
Perseo lo corresse, un gusto acre in bocca. “Gli dei chiamano e i semidei
rispondono.”
Avery ridacchiò. “Gli dei chiavano e i se-”
“Ragazzi!”
Elizabeth tornò da loro, letteralmente
trotterellando. Dietro di lei, i due estranei. Il ragazzo era alto quanto
Perseo – circa un metro e ottanta –, aveva una massa di doppi e spettinati
ricci castani in testa e un’espressione infinitamente divertita in volto. La
sua biondissima compagna, invece, li guardava con diffidenza, le labbra sottili
deformate in una smorfia poco convinta. Probabilmente, il ragazzo aveva
convinto la ragazza a dare retta ad Elizabeth, divertito dalla situazione o
mosso da chissà quale strana proposta. Entrambi però avevano dei modi di fare
sicuri, dei visi fastidiosamente attraenti e una nota di curiosità, più
accentuata in lui che in lei, in quei loro occhi talmente grigi da sembrare
quasi innaturali.
“Elizabeth, cosa gli hai detto?” mormorò Perseo.
La semidea per tutta risposta lo ignorò.
“Robert, Grace, questi sono i miei compagni: Perseo ed Avery,” mise una mano
sul braccio di Robert come se lo
conoscesse da una vita, e puntò il dito spoglio su Perseo, “è lui il figlio di
Poseidone.”
Perseo si irrigidì. Ma cosa le saltava in
mente?! Sbandierare ai quattro venti la sua discendenza, esporli in quella
maniera! Quando quell’imbarazzante incontro sarebbe finito, le avrebbe fatto un
bel discorsetto. O meglio, un gran cazziatone.
Avery, da bravo gentiluomo (leggasi: deficiente) qual era, prese la mano di
Grace e le baciò delicatamente le nocche, mormorando un “incantato”
tremendamente fuori luogo. Grace aveva l’aria di una pronta a tirargli un
calcio in bocca, ma la voce pacata e allo stesso tempo divertita di Robert la
distolsero dal suo intento. Peccato.
“Elizabeth ci ha raccontato velocemente del
vostro viaggio. Per gli dei, mi vergogno per questa tremenda accoglienza, non
potendo avvisare poi, con i problemi alle varie vie di comunicazione...” si
passò una mano tra i ricci, sorridendo imbarazzato “non è stato carino da parte
di Mark lasciarvi nel bel mezzo di una città sconosciuta.”
Avery annuì ed incrociò platealmente le braccia
al petto. “No, proprio no.”
“Conosci Mark?” volle sapere Perseo.
“Certo,” gli occhi grigi di Robert
scintillarono, “eravamo nella stessa coorte. Dovete capirlo, non ha avuto un
passato semplice con quella madre che si ritrova…”
Elizabeth tossicchiò, invitandolo ad andare
avanti.
“Noi stavamo raggiungendo la nostra famiglia,
comunque. Mia madre sarà ben contenta di ospitarvi tutti a pranzo: oggi fa
l’insalata di pollo.”
Grace bofonchiò qualcosa e alzò lo sguardo al
cielo.
Perseo si mise le mani in tasca e si mise dritto
con la schiena, cercando di trasmettergli con il linguaggio del corpo il
proprio stato d’animo. “Perché questa voglia di aiutarci? Non so cosa ti abbia
detto Elizabeth,” e le scoccò uno sguardo ammonitore, a cui la ragazza rispose
con una scrollatina di spalle, “ma ce la stiamo cavando benissimo da soli.”
“Ascolta,” si intromise Grace, “non avete un
soldo e mio fratello vuole solamente aiutarvi. Sì, sarà stata un po’ diretta,”
e anche lei rivolse uno sguardo ammonitore ad Elizabeth, che stavolta inarcò
entrambe le sopracciglia, “ma ha centrato il punto, ed è così che un
mezzosangue deve fare per sopravvivere. Tu sei figlio di Poseidone, o almeno
così sembra,” fece un’espressione eloquente, “Martin ha detto che ti stanno
cercando e noi vogliamo evitare che ti venga fatto del male.”
Un numero spropositato di domande si annidò
nella mente di Perseo. Sono fratelli?
In effetti, il naso dritto, gli zigomi alti, la corporatura e i ricci, seppur
di tinte differenti, lasciavano poco spazio ai dubbi. Osservò meglio la bionda:
sul sopracciglio destro spiccava un piccolo anellino metallico, che sembrava
quasi far risaltare gli occhi argentei della giovane, le braccia erano
incrociate con aria di sfida. Era alta quasi quanto Robert, e li guardava
dall’alto in basso con aria saccente, la schiena dritta e inarcata
inconsapevolmente all’indietro, velatamente sulla difensiva. Come fanno a sapere che qualcuno mi sta
cercando? Cosa vogliono da me?
“Chi è Martin?” chiese Avery, sgusciando al suo
fianco, impaziente di avere l’attenzione della bionda.
“Il nuovo Pretore.” Risposta secca.
“Interessante,” fece ammiccante, “non è mica il tuo ragazzo,
vero?”
Prima che Grace potesse rispondere, Elizabeth
gli mollò uno schiaffo dietro la nuca. “E finiscila!”
“Okay, okay,” Robert alzò le mani con fare
conciliatore, “capisco i punti di vista di ognuno di voi, però posso
assicurarvi che i nostri genitori saranno più che contenti di incontrarvi.
Siamo gente per bene, davvero.” Perseo lo guardò, e doveva aver messo su
un’espressione particolarmente antipatica perché Robert sospirò. Con pochi e
pratici gesti, si tirò su la manica del giubbino, mostrandogli un intricato
tatuaggio nero stilizzato accompagnato da dieci linee altrettanto scure. “Vedi?
Ho servito nella seconda coorte per un decennio. Mark mi conosce, se lui fosse
qui in questo momento non ci penserebbe due volte a seguirmi.”
Prima che Perseo potesse dare un’occhiata più da
vicino, Robert rimise a posto la manica, rabbrividendo per il freddo.
“Oh, ma che cosa ci costa andare?!” fece
Elizabeth, visibilmente stizzita, “Anche se fossero ‘cattivi’, siamo tre contro due.”
Grace fece un verso di scherno, l’anello al
sopracciglio che scintillava alla fioca luce solare. “Pensi davvero che voi tre
sareste davvero capaci di battere me e Bob?”
“Ehm… sì? Non parlo a vanvera io,” la greca fece
per aggiungere altro, ma si fermò di colpo ed emise una specie di pernacchio
divertito, “aspetta, Bob? Ho
incontrato un Telchino di nome Bob,
una volta.”
Per tutta risposta, Grace la guardò con
sufficienza, spostando poi lo sguardo sul fratello. “Possiamo lasciarla sul
ciglio della strada? Ti prego.” Poi girò sui tacchi e si incamminò lungo la
strada in salita.
Elizabeth cominciò a brontolare. La raggiunse
strillando frasi di sfida e gesticolando animatamente, un imbarazzatissimo
Avery subito dietro.
La testa di Perseo aveva ricominciato a dolere.
La pace interiore che aveva provato prima era svanita, lasciando posto ad una
forte sensazione di disagio. Le voci degli altri sembravano penetrargli nella
fronte e trapanargli il cervello, innaturalmente acute e stressanti.
Uno, due,
tre, quattro, cinqueseisetteottonove…
“Andiamo?”
La voce calda e gentile di Robert lo raggiunse.
“Non ho ancora accettato,” mormorò Perseo, messo
alle strette. Stupidi! Dove state
andando?
“Fidati,” lo rassicurò il moro, “siete i
benvenuti. Vedi, i miei genitori sono più che ben disposti ad aiutare giovani
eroi come voi.”
Perseo sospirò e si incamminò al suo fianco,
Avery, Elizabeth e Grace a qualche metro di distanza. Fece schioccare la
lingua. “Eroi, dici? Ma ci hai visti bene?”
Robert ridacchiò, allungando prima le braccia al
cielo, stiracchiandosi, mettendo poi le mani dietro la nuca, i gomiti
all’infuori e il passo strascicato.
“Eroi alle prime armi, forse, ma senza ombra di
dubbio eroi.”
Non mangiarono mai l’insalata di pollo, e Avery
ci rimase particolarmente male.
Chiamatelo pure idiota o materialista, ma stava
morendo di fame.
Stavano risalendo la stradina che portava a casa
di Robert e Grace. Erano davanti alla porta e lei stava per suonare il
campanello con quelle sue belle dita affusolate, quando un ragazzo asiatico dai
capelli tagliati a spazzola corse loro incontro, fermandosi poi a pochi metri con
il fiatone.
“Fil?” Grace rimase ferma dov’era, la mano a
mezz’aria a pochi centimetri dal pulsante, “tutto bene?”
Fortunato
Fil, pensò Avery, la bella Grace ricorda il tuo nome! Fil non rispose, guardandosi
nervosamente attorno per alcuni istanti. Posò prima lo sguardo su Perseo, i
capelli scuri sciolti a sfiorargli le clavicole ossute, poi su Elizabeth, che
sembrava incuriosita dall’interruzione e aveva fatto alcuni passi incerti in
avanti, e infine su di lui, che si limitò a sorridergli e salutarlo con la
mano. L’educazione prima di tutto, no?
Robert lo imitò. “Fil. Cos’è successo? Problemi
in Senato? Grace, vuoi suonare questo benedetto campanello, sì o no?”
Grace gli lanciò un’occhiataccia ma obbedì,
mentre il nuovo arrivato continuava a squadrarli divorato dall’ansia. Alla
fine, riuscì a balbettare qualcosa e a domandare ad alta voce: “Sono loro i
Greci?”
Elizabeth incrociò le braccia sotto il seno,
poggiando la maggior parte del peso su di una gamba. “I Greci hanno bocca e orecchie.”
Fil deglutì. “Dovete venire con me,” pigolò.
Avery decise di darle manforte. Si mise al suo
fianco, eliminando accuratamente ogni traccia di sorriso dal proprio viso. “Non
è molto ospitale da parte vostra.”
In quel momento, la porta della villetta si
aprì. Un uomo sulla cinquantina, dai capelli e la barba neri striati di grigio,
il viso temprato dagli anni ma ugualmente bonario fece capolino dalla porta.
Aveva un’espressione genuinamente confusa sul volto e, per un istante, solo per
un istante, ad Avery ricordò Perseo. Un campanello d’allarme gli risuonò nel
cervello, ma al momento era troppo impegnato a guardare con serietà Fil. E, dei, se era difficile mantenere
l’espressione corrucciata! Ma come diavolo faceva Mark a rimanere imbronciato
ventiquattr’ore su ventiquattro? Era stancante.
“Uhm… qualcuno vuole spiegarmi perché siete così
in tanti e perché vi state guardando male sul vialetto di casa mia?” domandò
l’uomo, un cipiglio profondamente confuso sul viso.
“Signor Jackson, mi manda l’augure. Ha chiamato
il Campo Mezzosangue, c’è bisogno dei… uhm, Greci…” scoccò un’occhiata veloce
ad Eli, che tuttavia sembrava troppo sconvolta ed impegnata a fissare l’uomo a
bocca aperta. Anche Avery era confuso. Quello… quello era…?
Il signor Jackson posò lo sguardo su ognuno di
loro, indugiando in particolar modo su Perseo, che era fermo, immobile, con i
pugni serrati e gli occhi verdi spalancati. Tremava leggermente e stringeva
convulsivamente i pugni, e Avery temette stesse per essere colto da un infarto
o roba simile. Conosceva il suo amico, poteva immaginare cosa stesse provando…
ammesso che fosse lui. Forse si trattava di una coincidenza, chi poteva dirlo?
Jackson era un cognome così diffuso. Ma quegli occhi, quella somiglianza…
Quando l’uomo posò le iridi verdemare su di lui,
Avery si costrinse a guardare altrove, schiacciato dal peso del suo sguardo.
L’altro sembrò notarlo, perciò si affrettò a rivolgersi a Fil.
“Beh,” fece quindi il signor Jackson, “vogliamo
continuare a parlarne fuori o volete entrare? Mia moglie ha fatto l’insalata di
pollo.”
Grace emise un rumoroso e stizzito ‘ugh’ ed entrò in casa, ma gli altri,
compreso Robert, rimasero fermi dov’erano. Avery la guardò andare via per
qualche istante, poi distolse lo sguardo. Non poteva certo fissare il sedere
della figlia di Percy Jackson in sua presenza: lo avrebbe disintegrato sul
posto.
“Signore, è urgente. L’augure ha ricevuto un
messaggio da Chirone e una scadenza. E… c’è di peggio. Una tragedia, signore.”
Avery continuava a fissare Perseo, che ora aveva
gli occhi fissi nel vuoto. Starà pensando? Starà contando? Era difficile a dirsi. Avrebbe voluto mettergli una mano
sulle spalle, dirgli qualche parola di conforto, qualcosa come tranquillo, sei meglio tu. Più o meno. Ma rimase lì, fermo.
“Che genere di tragedia?” volle sapere Robert.
Fil esitò. “Due omicidi. James Wilmington,
figlio di Bellona, e Will Collins, di Nike. Collins… è stato trovato da sua
moglie meno di un’ora fa.”
Avery sentì un lieve fruscio alle sua spalle, un
rumore di passi, ma non si mosse. Teneva gli occhi puntati a terra, mentre
Robert tratteneva bruscamente il fiato. “James…?” mormorò, incredulo.
Percy Jackson non si mosse per alcuni istanti,
poi afferrò il cappotto, se lo infilò e lo abbottonò per bene e poi mise una
mano sulla spalla di Robert. “Di’ a tua madre di non aspettar-”
“No, papà,” lo interruppe Robert, allungando un
braccio e chiudendo la porta alle spalle del padre, “Conoscevo James. Non era
mio amico, ma era un buon soldato e ci rispettavamo a vicenda.”
Percy Jackson annuì risoluto, poi alzò gli
occhi. “Andiamo a-” si bloccò di colpo, si guardò intorno ed aggrottò le
sopracciglia scure. “Dov’è l’altro ragazzo?”
Avery si voltò di scatto. “Perseo?!” Non c’era.
Percy lo guardò. “Sarebbe Perseus. Meglio Percy, in realtà.”
“No, no! Il mio amico, si chiama Perseo.” Spiegò
Avery, gesticolando freneticamente. Cerco con gli occhi quelli di Elizabeth, ma
lei evitava accuratamente il suo sguardo. E sembrava tranquilla,
incredibilmente tranquilla… stranamente
tranquilla.
“Tornerà, state tranquilli,” disse semplicemente
lei.
“Come puoi dire questo quando c’è un assassino
in giro?!” sbottò Avery, preoccupato a morte.
“Stai facendo una scenata, Avery. Aveva bisogno
di starsene un po’ per conto suo, e poi è perfettamente in grado di cavarsela
da solo.”
Finalmente Avery capì. Tutto quello che Perseo
odiava, tutto quello che aveva sempre temuto… era lì, proprio davanti a loro.
Percy Jackson, suo omonimo, suo fratello,
l’eroe che lui non sarebbe mai stato. Come temeva, non aveva retto il
confronto. A nulla erano servite tutte le volte in cui lo aveva rassicurato
dicendogli che ognuno di noi è diverso e speciale a modo suo: di fronte
all’oggetto del suo odio, Perseo non aveva retto. Guardò Eli: lei c’era sempre
stata, conosceva ognuno di loro come le sue tasche. Lei c’era stata il giorno
in cui lui era arrivato al Campo e c’era stata quando Perseo era stato
riconosciuto come figlio di Poseidone. Fu quel pensiero a spingerlo a fidarsi
della sua amica.
“Hai ragione,” riconobbe infine, guardandosi
alle spalle un’ultima volta, “tornerà. Andiamo.”
Non stava pensando. Non riusciva a riflettere
lucidamente. Le lettere, i numeri, i pensieri, era tutto così maledettamente
confuso.
Lui è
Percy Jackson, mio fratello. Il mio perfetto fratello. No, no! Prince è mio
fratello.
Il numero due gli si parò davanti, scarlatto e
in rilievo, talmente luminoso e vicino da accecarlo. Due Perseo? C’erano due
Perseo?
Gli mancava il respiro. Voleva prenderlo a
pugni. Voleva… voleva correre via.
Aveva incontrato le iridi scure di Elizabeth. Lei aveva annuito in maniera
quasi impercettibile. Lui era sgusciato via.
Aria.
Aria.
Di tutte le persone, di tutti i semidei! Proprio a casa sua dovevano portarlo?
Proprio i suoi figli doveva incontrare?
E che cosa
sono Robert e Grace per me? Nipoti? Estranei?
Si ritrovò in una stradina che non aveva mai
visto, nuvoloni grigi andavano ad oscurare il cielo pomeridiano. Prese alcuni
respiri profondi e guardò l’orologio.
13:47.
Quattro numeri, uno pari e due dispari. Quella
nuova consapevolezza fece rallentare i battiti accelerati del suo cuore,
regolarizzò il respiro. Si guardò attorno, quanto aveva camminato? Perché aveva
sentito il bisogno di scappare?
Si trovava in una via totalmente diversa da
quella presa in precedenza, una stradina senza negozi ma piena di piccole
villette a più piani. Si mise a sedere sul bordo del marciapiede, la testa fra
le mani. Rimpianse la sua scelta, non avrebbe dovuto seguire Elizabeth e Mark,
non avrebbe dovuto trascinare con sé anche Avery. Ciuffi di capelli scuri gli
ricadevano davanti agli occhi, perciò decise di raccoglierseli in un codino
alto, recuperando un nuovo tassello di serenità. Essere più ordinato lo rendeva
di riflesso più tranquillo e razionale.
Guardò di nuovo l’orologio. 13:50.
Si alzò, passandosi una mano sul retro dei
jeans, pulendoli dallo sporco delle strade.
Non doveva aver corso molto, perché in
lontananza gli sembro di riconoscere un paesaggio familiare. Prese un respiro
tremante. Non poteva continuare così. Avrebbe dovuto scusarsi per la scenata?
Rimanere imbronciato? Ignorare completamente la situazione? Quell’indecisione
lo sfiniva.
Cominciò a camminare, le mani fredde nelle
morbide tasche del suo cappotto beige. Le case attorno a lui erano ordinate,
non un’anima per strada.
Le 13:55. Aveva percorso un buon tratto di
strada, il punto dove si era accasciato pochi minuti prima ben lontano alla
vista. Non era il caso di farsi prendere dal panico, quanto poteva essere
grande Nuova Roma? Seguendo un ragionamento logico, se avesse raggiunto la
piazza principale forse sarebbe riuscito a trovare qualcuno a cui chiedere
indicazioni. Ma cosa gli avrebbe chiesto?
Portami da Mark? Sì, grande idea, ma qual era il suo cognome? Elizabeth Larson, Avery Benson? No,
nessuno conosceva i loro nomi, almeno non lì. Portami da Percy Jackson… sono suo fratello. E come avrebbe potuto
dimostrarlo? Non aveva l’abilità di muovere l’acqua o intavolare una simpatica
conversazione con qualche sogliola di passaggio.
Andrò da
quella strana statua parlante, sicuramente saprà dirmi cosa fare.
Eccolo lì, Perseo Harris, disposto a chiedere aiuto ad una statua in marmo.
Come, nell’universo, la vita di un adolescente di sedici anni poteva arrivare a
quel punto?
“Ti sei perso, marmocchio?”
A due metri da terra, affacciato alla finestra
di una delle villette, il volto rugoso di un vecchio dagli occhietti acquosi e
la bocca sdentata lo guardava con aria divertita ma allo stesso tempo ostile.
Eppure, Perseo vide quel nonnetto come una manna dal cielo.
“Sì,” si limitò a dire il semidio. Doveva aver
messo su la sua miglior faccia da bimbo sperduto. E se ne vergognò.
L’anziano lo squadrò dall’alto in basso, poi
sputò per terra a pochi centimetri da Perseo, che balzò indietro, allibito.
“Melissa! Prendi la sedia! Vado a fare un giro.”
Una distante voce femminile lo raggiunse. “Ma
nonno, non hai ancora mangiato la tua vellutata di asparagi…”
“ ‘fanculo la vellutata di asparagi! Io ci
sputo, sui tuoi asparagi!” e, tanto per sottolineare il suo punto di vista,
sputò nuovamente a terra, indignato.
Perseo, indeciso sul da farsi, si mise sul
marciapiede al lato opposto.
I due battibeccarono ancora un po’, e Perseo
temette che il vecchio stesse per lanciarsi dalla finestra pur di raggiungerlo,
quando alla fine il suo volto sparì e, dalla rampa a scivolo che solo ora aveva
notato vennero giù due figure: una in sedia a rotelle, l’altra dietro che
spingeva la suddetta sedia.
Visto da vicino, il vecchio sembrava ancora più
rattrappito e macilento. Aveva pochi capelli sottili e bianchi sulla testa
chiazzata, le guance cadenti e le mani incartapecorite e sottili. Sembrava di
star guardando uno scheletro. Era ben infagottato, una coperta di lana pesante
sulle gambe magre e una in pile attorno alle spalle ricurve. A guardarlo
meglio, così infagottato, sembrava una larva. Una piccola, rugosa larva
incazzata.
La donna alle sue spalle era in carne, i ricci
biondi legati in una coda di cavallo alta. Indossava il pantalone del pigiama
sotto al lungo cappotto nero abbottonato fino al collo. Aveva l’aria di una
abituata ai capricci del nonnetto, e sembrava aver accettato il suo destino.
“Vado da solo, Melissa. Come ti chiami,
marmocchio? Sei greco?” la voce graffiante del vecchio lo raggiunse, mettendolo
momentaneamente in soggezione.
“Mi chiamo Perseo, sono figlio di Poseidone.”
Non sapeva bene perché glielo avesse detto, ma
sentiva lo strano e pressante bisogno di darsi un tono dinanzi all’uomo.
Gli occhietti acquosi di quest’ultimo
scintillarono, un’espressione disgustata gli comparve in volto. “Ugh, siamo pieni di Greci, da vent’anni
a questa parte. Tutti a chiedere il permesso per rimanere qui! Ma dico io, ce
l’avete o no un campo tutto vostro? Rimaneteci, per gli dei! Il mio nome è
Adam, comunque. Non che sia importante, dal momento che tu mi chiamerai signore.”
Perseo batté le palpebre un paio di volte. “Va
bene, signore. Può aiutarmi? Devo
trovare i miei compagni.”
Adam gorgogliò qualche insulto a mezza voce, poi
si batté una mano ossuta sul ginocchio magro. “Ma che idiota! Perché credi che
io, un povero e fragile vecchietto, sia sceso con questo tempaccio? Melissa, al
mio ritorno voglio una bistecca di cavallo.”
Perseo sentì la bile salirgli in gola, ma la
ricacciò giù. Non poteva parlare con pesci o simili, ma con i cavalli portava
avanti discorsi niente male. E la cosa continuava a disturbarlo parecchio.
Perseo raggiunse i due individui, aiutando
Melissa a spingere la carrozzina in strada. Lei lo guardò con tanto d’occhi.
“Se gli cade la coperta dalle spalle, rimboccagliela, te ne prego. E cerca di
non prendertela quando ti chiama idiota,
non lo pensa davvero,” poi aggiunse a bassa voce, “quando vorrà tornare,
affidalo a qualche ragazzo con il tatuaggio del Campo, lo conoscono tutti.”
Perseo afferrò i manici della carrozzina,
annuendo. Si chiese distrattamente se Adam fosse un veterano di guerra o cose
simili.
“So per certo di dover raggiungere un certo Mark
e i miei amici Greci e… uhm… magari Perseus Jackson.”
Adam sbuffò, stringendosi la coperta sulle
spalle. “Non so chi diamine sia questo Mark, ne conosco a decine! Ma quel che
posso fare è portarti da mia sorella.”
Perfetto, sbottò mentalmente Perseo, un’altra astiosa e rugosa anziana di cui prendersi cura.
Seguì le indicazioni di Adam, spingendo la
carrozzina lungo le strade gelate di Nuova Roma. Di tanto in tanto, l’uomo si
lamentava di qualsiasi cosa gli passasse per la testa, e ogni volta Perseo
compativa la povera Melissa.
“Non ci voglio stare, con quella mia nipote
ingrata,” stava dicendo Adam, “mi tratta come un bamboccio rimbecillito, e io
non lo sopporto! Ho superato da un pezzo i settanta e presto sarò uno dei
veterani più anziani della città, e lei che fa? Mi tratta come un poppante!
‘sta stronza. Mille volte meglio quella carogna di mia sorella.”
14:27, si stavano avvicinando ad un edificio
ampio, dall’aria antica, ma Perseo non osava osservarlo con maggior attenzione,
troppo concentrato sulla strada e la traiettoria della sedia a rotella.
L’ultima cosa di cui aveva bisogno era far spaccare la faccia ad un ottantenne.
“Vedi, ragazzo, mia sorella è con i Pretori e i
Centurioni. Si è tenuto un incontro urgente, non ho ben capito per quale
motivo. Una delle solite stronzate, te lo dico io.”
Perseo ci riflette su per qualche istante.
Possibile che Adam non sapesse degli omicidi? Doveva forse dirglielo? Lo conoscono tutti, aveva detto Melissa.
Forse era in buoni rapporti con le vittime e non poteva rischiare di
sconvolgerlo, si trattava pur sempre di un fragile anziano.
Stettero per un paio di minuti sul ciglio della
strada, ad osservare in silenzio quello che doveva essere il Senato, quando da
dietro l’angolo venne fuori una giovane ragazza dai capelli biondissimi,
seguita a ruota da Mark, Elizabeth, Avery, Robert, e, suo malgrado, Perseus
Jackson e un’altra ragazza dai capelli scuri e un’aura molto particolare; non
capiva bene perché, ma sentiva il bisogno impellente di allontanarsi da lei.
Non le aveva ancora parlato, ma in qualche modo sapeva che non sarebbero andati
d’accordo.
Quando li vide, la ragazza bionda ghignò e si
avvicinò a grandi falcate nella loro direzione. “Adam,” cominciò, “vecchiaccio
che non sei altro, fa un freddo cane qua fuori.”
Adam la guardò male. “Melissa ha fatto gli
asparagi. Mi fanno schifo gli asparagi.”
“Sì,” fece la ragazza, “lo so. Ma ti fanno bene
e grazie a loro puoi sperare di non tirare le cuoia entro la fine del mese,
vecchio rottame.”
“Perseo!” Avery lo raggiunse in pochi istanti, l’aria
sollevata, “ma dove sei stato? Ti sei perso la visita in Senato. Ti sarebbe
piaciuta, sai? Con tutte quelle robe architettoniche che ti piacciono tanto…”
Perseo scosse la testa. “Meglio così,
tranquillo.” Scoccò una veloce occhiata in direzione di Percy Jackson, che
stava parlando assorto con una ragazza dai capelli scuri rasati da un lato e
con Mark.
Anche Elizabeth lo raggiunse, affiancata da
Robert Jackson. “Chi è il nonnino?” volle sapere lei.
Robert lo fissò mentre scrollava le spalle. “Mi
ha aiutato a raggiungervi, mi ero perso.”
“Perché sei scappato?” domandò quindi Robert.
Prima che potesse rispondere, Elizabeth lo
precedette, sulla difensiva. “Beh, vorrei tanto vedere! Anch’io avrei bisogno
di aria sapendo che dei cattivi mi stanno dando la caccia. E, Baron, facciamo
parte di una profezia, a quanto pare.”
Questo non se lo aspettava.
Adam attirò la loro attenzione con un rumoroso
colpo di tosse grassa.
Perseo si riscosse. “Oh, è vero. Non c’è più
bisogno di sua sorella, signore, sono loro i miei compagni.”
“Questo l’avevo capito,” replicò il vecchio
acidamente, “ma, come promesso, ti ci ho portato lo stesso da mia sorella,” e
posò lo sguardo sulla bionda.
Questo
proprio non se lo aspettava.
La romana rise, divertita dalla reazione
generale. Come lui, anche Avery ed Elizabeth erano rimasti completamente sotto
shock, Robert, Mark e la ragazza mora impassibili. Non si curò di rivolgere la
propria attenzione a Jackson.
“Perché mi stavate cercando?” domandò, legandosi
la chioma bionda in una coda bassa, ma non aspettò risposta, “comunque sia,” e
si rivolse a Perseo, “il mio nome è Eva Hooke, e faccio parte della Profezia di
Moros,” mise una mano sulla spalla di Adam, che se la scrollò di dosso,
infastidito, “lui è il mio fratellone, figlio di Vittoria come me.”
Eva aveva dei bei occhi verde foglia grandi e
leggermente sporgenti, ciglia, sopracciglia e capelli biondissimi e viso ovale,
pallido e privo di imperfezioni. Una
bambolina di porcellana, l’avrebbe definita sua madre. Ma l’espressione
maliziosa nei suoi occhi e il ghigno stampato sulle sue labbra piene poco si
addicevano alla sua figura quasi eterea. Era poco più alta di Elizabeth, quindi
sfiorava probabilmente il metro e 67. Non somigliava quasi per nulla al suo presunto
fratellastro, ma per quanto ne sapevano loro sotto tutte quelle rughe avrebbe
potuto celarsi l’identico gemello di lei.
Mark continuava a discutere animatamente con
Percy Jackson e la ragazza mora. Elizabeth, invece, lo guardò con
un’espressione che diceva palesemente ‘stai
bene?’. Perseo la ignorò.
“La Profezia di Moros?”
“Se tu non fossi… se tu non ti fossi
allontanato,” si corresse Robert, “sapresti che al Campo una figlia di Moros ha
enunciato una specie di Profezia sotto possessione. Riguarda principalmente i
Greci, ma i nomi di Mark Crassus ed Eva Hooke figurano tra i vostri.”
Mark li raggiunse, seguito a ruota dalla ragazza
e Percy Jackson, quest’ultimo sembrava avere un’aria affranta sul volto. Perseo
distolse lo sguardo e si concentrò sulla ragazza – che scoprì in seguito essere
Crystal Wolff, figlia di Giove e Pretore del Campo Giove – che li guardava con
i suoi magnetici occhi elettrici.
“Dovrete partire subito per raggiungere il
vostro gruppo. Il nostro nemico si chiama Anìa,” a Perseo non sfuggì lo scambio
di sguardi tra Mark ed Elizabeth, “la quarta Ora. E sì, so che può sembrare un
nemico da niente, ma una volta che si sarà impossessata della Spada di Attila e
avrà corrotto i Mali,” fece una pausa, ponderando l’evolversi della situazione,
“sarà una catastrofe. Chirone crede che una volta raggiunto il suo pieno
potenziale, Anìa raderà al suolo sia il mondo mortale che quello divino.
Suppongo che il vostro compito sia recuperare la Spada prima di lei, mettere al
sicuro i Mali, e recuperare sia il Vaso di Pandora che i semidei scomparsi. Ho
già detto a Mark tutto quello che so, vi parlerà lui della scadenza e del modus operandi.”
“Perché noi?” domandò Perseo, una domanda ancora
più macabra che gli premeva sulla punta della lingua, “c’entra lei con gli omicidi?
È riuscita ad infiltrarsi al Campo?”
Crystal gli puntò lo sguardo addosso, e Perseo
sentì di star soffocando. Perché gli dei
non hanno scelto lei? è così potente.
“Non lei,” rispose, “ma i suoi seguaci. Non
siamo riusciti a prendere l’assassino, ma è solo questione di tempo.”
Adam tossì di nuovo, questa volta con più
insistenza. Tutti si voltarono verso di lui. Tutti tranne Mark, che fissava
attentamente Crystal, concentrato e pronto a carpire ogni suo comando.
“Ho fatto preparare degli zaini per voi, potrete
ritirarle da Terminus insieme alle vostre armi” tagliò corto il Pretore, “date
ascolto a Mark durante il viaggio, lui sa cosa fare.”
Mark annuì. Senza aggiungere altro, Crystal
prese il posto di Perseo dietro la carrozzina di Adam. “Oh, Adam, perché devi
sempre fare l’eroe? Uscire con questo tempo solo per scortare un giovane
mezzosangue…”
A quelle parole, Perseo trasalì, sentendosi in
colpa. Davvero Adam l’aveva fatto solo e unicamente per lui? Per aiutarlo? Lo stesso Adam che si era
lamentato per tutto il tragitto?
Il vecchio aveva il viso pallido e le palpebre
pesanti. Ignorò la ragazza, gli occhi fissi in quelli di Eva. Le afferrò la
mano, la presa salda nonostante i tremori. “Vinci per me, stronzetta. E ‘sta
attenta. Se tu muori, con chi giocherò e scommetterò a carte?”
Eva gli diede un bacio sulla fronte rugosa, poi
sghignazzò. “Hai tempo per mettere da parte qualche risparmio, fratello. Quando
sarò di ritorno, perderai anche le mutande.”
“Che brutta scena,” mormorò sorridendo appena
Adam, poi Crystal voltò la sedia a rotelle e iniziò a spingere l’anziano verso
casa.
Eva li guardò andare via, un’espressione cupa in
viso. Percy Jackson li guardava con un’espressione altrettanto tetra. Perseo a
stento trattenne un brivido di fastidio quando prese la parola.
“Sappiate che potete sempre contare su di noi.
Me, mia moglie, i miei amici e sì, anche i miei figli,” puntò poi lo sguardo su
Perseo, che lo guardò con astio “possiamo scambiare due parole, lungo il
tragitto? Io e Robert vi accompagneremo da Terminus.”
Perseo congelò sul posto, ma si costrinse ad
annuire, denti e pugni stretti.
Il gruppo si avviò, e lui rimase indietro con il
suo odiato perfetto fratellastro. Il Perseus a cui era sempre, sempre stato
comparato. “È solo la sua brutta copia,”
dicevano al Campo, “è così strambo. Non
combinerà mai niente e, se lo farà, non sarà mai alla sua altezza.”
Procedettero in silenzio, contando i secondi che
separavano la tanto agognata separazione. Il suo stomaco brontolò, ma cercò di
non farci troppo caso. Era stanco, e
a giudicare dalla camminata strascicata dei suoi compagni di viaggio, dovevano
esserlo anche loro. Era stanco, sì, ma soprattutto affranto. La sua non era una vita perfetta, era vero, ma lasciarla
andare per una missione potenzialmente suicida… stanco, affranto e… amareggiato.
Jackson rimase in silenzio per qualche istante,
poi esordì con un imbarazzato: “Quindi… figlio di Poseidone, eh? È strano
sapere di avere… ecco, sì… un fratello. Insomma, ho Tyson ed Estelle ma…
capirai che questo è diverso.”
“C’è anche Cecily, da qualche parte,” ribatté
secco Perseo. Cercò di rilassarsi. Cercò di essere cortese e bonario. Ma non ci
riusciva, proprio non ci riusciva. Una piccola parte di lui si sentiva in
colpa. Jackson non gli aveva fatto un torto, non direttamente, ma ogni volta
che si soffermava su quel viso così familiare aveva voglia di afferrare la sua
Clymore e tagliarlo a fettine.
“Sì, beh… lei è particolare.” L’uomo si passò una mano sulla mascella, l’aria
assorta. Stava per aggiungere altro, ma Perseo sbuffò.
“Chi non lo è?”
Ci furono attimi di imbarazzante silenzio.
Jackson si passava una mano sulla barba scura, lo sguardo che vagava. “So che
non deve essere facile per te. Vorrei tanto averti conosciuto prima e averti
tenuto vicino come… beh, sì, un fratello. Sento questo legame-”
“Non c’è nessun legame fra di noi,” lo
interruppe Perseo, poi mise le mani in tasca, cercando di calmarsi, ma non ci
riusciva. Non stava urlando. La propria voce gli giunse alle orecchie calma ma
tagliente come la lama di un rasoio. “Per tutta la mia vita sono stato
comparato a te. Anche prima di venir riconosciuto, per via del mio stupido
nome. Mi è sempre stato ripetuto quanto io fossi diverso da te, quanto nostro
padre preferisse te. Potevo accettarlo, si, potevo farlo. Ma poi sono iniziate
le aspettative, le pressione… e io non ho mai voluto niente di tutto questo.”
Il gruppo era a pochi metri più avanti. Robert
parlottava con Elizabeth, mentre Avery si avvicinava pericolosamente ad Eva,
che sembrava non aver alcuna voglia di essere scocciata da quel biondino
insolente.
Percy Jackson tornò all’attacco. “Pensi che sia
stato facile per me? Che nessuno avesse aspettative?” lo disse in tono
incalzante ma ugualmente maturo e gentile. Perseo lo odiò ancora di più.
“Beh, le cose raddoppiano per me. Vivere nella tua ombra non è facile,” sentì un peso
abbandonargli lentamente il petto. Quelle cose… se le teneva dentro da così
tanto tempo da essere diventate ormai insostenibili. “posso accettare di essere
l’eterno secondo, e perché no? Anche terzo, se si conta Cecily. Ma la vuoi
sapere una cosa? Prima io sono scappato da
te. Non sopportavo la tua vista, e francamente nemmeno adesso riesco a
guardarti in faccia, sapendo che probabilmente anche tu mi stai giudicando. Non
sono quelli che ti aspettavi? Non sono il grande eroe che la stirpe di nostro
padre merita? Lo so benissimo.”
L’altro aprì la bocca, poi la richiuse. Il suo
sguardo si indurì. “Non ti conosco nemmeno. Se tu me ne dessi l’opportunità-”
Perseo alzò una mano per fermarlo. Si sentiva
stranamente coraggioso, in quel momento, il peso nel suo petto sempre più
leggere. “Non ha importanza,” disse in maniera pratica, “non c’è niente che tu
possa dire o fare che mi farà mai cambiare idea. So che deve essere difficile
per te – il grande eroe, amato da tutti!
– sopportare questo mio odio viscerale, ma dovresti farlo. Almeno provaci.
Fingi che io non esista, se proprio può farti star meglio. Io con te,
purtroppo, non ho potuto farlo.”
Perseus lo guardò in totale silenzio, la linea
della mascella dura, come se stesse stringendo i denti.
Si sentiva svuotato, leggero… ma non era una
bella sensazione. Non bella quanto si sarebbe immaginato. Quell’uomo che ora lo
guardava confuso era un eroe. Sembrava davvero dispiaciuto, o meglio, colpito dalle sue parole. Doveva essere
strano scoprire di essere profondamente odiato da una persona che nemmeno
conosceva.
Arrivarono alla statua di Terminus in completo
silenzio. Dei grandi zaini da campeggio in tela viola erano stati poggiati ai
piedi del dio statua, che li guardava con un cipiglio torvo. Una volta raccolte
le armi e sistemati gli zaini in spalla, fu il momento dei saluti.
Mark, Elizabeth, Avery ed Eva strinsero la mano
sia a Robert che a Jackson, Perseo afferrò solo quella di Robert, che mormorò
ad ognuno di loro parole di incoraggiamento. Quando fu il turno di Elizabeth,
Perseo vide chiaramente il ragazzo far scivolare un piccolo foglietto nella
mano di lei, che sembrava più divertita che sorpresa.
“Buona fortuna, eroi,” disse Percy Jackson,
guardandoli uno ad uno, “abbiate fede nelle vostre abilità, restate unite e
diffidate dagli dei.”
Elizabeth annuì, mentre Avery strabuzzò gli
occhi. “Ma, signor Jackson…”
“Percy” lo corresse quello, ma non aggiunse
altro.
Terminus, che in quel momento era rimasto chiuso
in un ostile silenzio, sbuffò. “Allora? Non ho tutto il giorno! Piantatela con
queste moine e sbrigatevi a varcare i confini!”
Daphne Nabizaba aveva avuto una settimana
particolarmente strana: tra i vari allenamenti, il suo nome citato in una
profezia formulata dal dio del destino avverso e la caotica riunione
d’emergenza presenziata da un centauro con in mano un cuscino imbrattato di
inchiostro, credeva di averle passate tutte per quella settimana.
Ma come si fosse trovata abbracciata alla
solitamente burbera e scostante Jackie Harmon, ora in lacrime, era ancora un
mistero.
La stessa Jackie che, quando le veniva chiesto
il suo vero nome, rispondeva con un’occhiata di sufficienza e una smorfia, ora
stringeva con dita tremanti la giacca di Daphne che, in un primo momento, era
rimasta paralizzata dalla sorpresa.
Stava andando in armeria per delle frecce
speciali, la testa dolente per lo stress e l’ansia. Girando l’angolo, aveva
notato una figura accucciata vicino a delle asce da guerra, le spalle scosse da
potenti singhiozzi e il viso fra le mani. Daphne non aveva esitato un solo
secondo prima di inginocchiarsi al suo fianco e, gentilmente, scostarle le mani
dal volto arrossato e deformato dalla disperazione.
“Jackie…?” aveva sussurrato.
La ragazza, gli occhi verdemare arrossati a causa
del pianto, ciglia e guance bagnate di lacrime, aveva serrato le labbra e
smesso di singhiozzare per qualche istante. “Che vuoi?” aveva sbuffato
acidamente, la voce roca, “stavo solo cercando un’arma.”
Daphne sbatté le palpebre, mordendosi le labbra.
Aveva ancora le mani pallide dell’altra ragazza fra le sue, decisamente più
scure. “E… uhm… l’hai trovata?”
Gli occhi di Jackie si riempirono nuovamente di
lacrime.
“No.”
E le si gettò tra le braccia, soffocando un urlo
sul giubbotto di Daphne, che la strinse forte a sé. Sentiva le lacrime e il
muco bagnarle i vestiti, ma cercò di non farci molto caso distogliendo lo
sguardo.
Jackie Harmon non era esattamente la persona più
gentile della Terra. Daphne ricordava ancora il giorno in cui venne al Campo:
era estate, aveva varcato la soglia del Campo Mezzosangue con i capelli neri
lunghi fino alla vita sporchi e sudati, febbricitante, il ventre gonfio e le
ginocchia sbucciate. Daphne stava insegando ad un paio di figlie di Apollo a
difendersi da una strangolamento frontale quando l’aveva vista barcollare oltre
i confini del campo. Come avesse fatto a superare il drago Peleo rimaneva un
mistero. Ricordò di averla aiutata a reggersi in piedi, le due figlie di Apollo
– Patricia e Katie – pronte a darle sostegno. “Da dove vieni?” le aveva chiesto Katie. “Mio figlio,” aveva sussurrato Jackie, gli occhi verdi accessi dalla
febbre, “pensate a mio figlio.” Avuta
quella notizia, Daphne non ci aveva pensato due volte a mandare a chiamare
Chloe, la figlia di Ilizia, dea dei parti.
Dopo quel momento, Jackie aveva passato la
maggior parte del suo tempo nella cabina di Imeneo, isolata dalla maggior parte
dei mezzosangue. In pochi conoscevano il suo nome: per tutti era sempre stata la ragazza incinta, finché alla
fine del mese di gennaio non divenne la
ragazza con la bambina.
Anne Rose, si chiamava la neonata, che oramai avrà avuto circa
un anno.
Per quanto Jackie passasse tutto l’anno al
Campo, erano poche le volte in cui la si vedeva in giro, troppo presa a
prendersi cura di sua figlia. E, quelle poche volte in cui qualcuno che non
fosse Chloe aveva la sfortuna di rivolgerle la parola, lei rispondeva con
insulti velati o con stizza. Era una ragazza fatta di ghiaccio, di quello che
cristallizza il pelo dell’acqua nei laghi, troppo sottile e fragile per
sopportare la minima pressione.
Daphne prese ad accarezzarle lentamente la
chioma scura, sorprendentemente morbida. Ormai i suoi capelli non erano più
lunghi come un anno prima: ora le arrivavano poco sotto le scapole.
Dopo alcuni minuti che sembrarono durare secoli,
Jackie tirò su con il naso e mormorò contro la clavicola di Daphne: “A volte
vorrei tanto tornare ad essere una bambina.”
Colpita, Daphne le prese il viso fra le mani.
Jackie la guardò con tanto d’occhi, il viso arrossato, umido ma pulito. “Non
serve piangersi addosso. Ti ho sempre considerata una donna forte, cosa è
successo?”
Riconosceva quella disperazione, ci era già
passata in prima persona. Se non fosse stato per suo padre Zefiro, che l’aveva
confortata e le aveva dato un posto in cui stare, Daphne non sarebbe stata lì.
Se chiudeva gli occhi, poteva ancora vedere gli occhi chiari e i capelli scuri
del suo adorato padre, il dio Zefiro, tanto in contrasto con quello della
madre, Latifa, tutto occhi scuri e veli.
Jackie non era la persona più buona e gentile
del mondo, ma meritava di essere consolata a sua volta.
Tutti
meritiamo qualcuno che ci dica che va tutto bene, anche le ragazze di ghiaccio.
Jackie si staccò bruscamente e si mise in ginocchio, asciugandosi la faccia con
il dorso della mano, l’altra piantata a terra come per sorreggersi.
“Non avresti dovuto vedermi così,” la sua
espressione sembrò indurirsi, ma la ragazza continuava a piangere, forse per la
rabbia e l’umiliazione. Ma quale
umiliazione?, pensò Daphne, tutti
piangiamo, chi più di altri. E io non ho mai visto questa ragazza piangere.
“Forse,” disse piano Daphne, mettendosi a
sedere. Avrebbe voluto alzarsi, ma aveva paura che il gesto avrebbe
indispettito la semidea, “però è successo. È per l’impresa, non è così? Per tua
figlia?”
Jackie si alzò velocemente in piedi, guardandola
con rabbia, le guance ancora umide. “Non so nemmeno il tuo nome, non sono
affari che ti riguardano.”
Pur non vedendone il motivo, Daphne ci rimase
male. Non conosceva il suo nome? Dopo tutto quel tempo?
Probabilmente Jackie vide qualcosa nella sua
espressione cambiare, perché addolcì il tono di voce e si mise in piedi. “Non
dirlo a nessuno…” e sembrò attendere qualcosa.
“Daphne” disse piano, “mi chiamo Daphne
Nabizaba.”
Le labbra di Jackie si assottigliarono. “Ti
chiami come mia nonna,” sbottò, per poi girare sui tacchi e allontanarsi a
passo veloce.
Daphne la guardò allontanarsi, frastornata. Cosa
cavolo era appena successo? Prima le era caduta tra le braccia, singhiozzante e
agonizzante, poi si era arrabbiata con lei per averla consolate e ora la
insultava! Si mise in piedi lentamente. Cosa ci era venuta a fare in armeria?
“Le frecce…” mormorò dopo un breve attimo di
riflessione, guardandosi attorno. Il cuore le martellava forte nel petto,
sentiva il viso ed il collo accaldati, le mancava il respiro.
Prese ciò di cui aveva bisogno: le frecce
speciale che Katie, la figlia di Apollo, aveva fatto confezionare apposta per
lei. Forse, si disse, le sarebbero tornate utili. Forse suo padre avrebbe
guidato le sue frecce verso il bersaglio giusto, dandole la forza di
sopravvivere.
Dandole la forza di vivere, come aveva già fatto
prima.
Axel stava iniziando a ricordare.
Nel momento stesso in cui aveva udito le parole
di Moros, il viso placido e sorridente del vecchio Morfeo gli aveva fatto
capolino nella mente. Non ricordava ancora bene cosa gli avesse detto, ma
ricordava bene il particolare degli occhi cuciti di Anìa, ma non ne aveva
ancora fatto parola con nessuno, non sapeva ancora bene perché. Probabilmente
una piccola – ma nemmeno troppo – parte di sé riteneva fosse un’informazione
troppo personale.
Era ormai pomeriggio inoltrato. Quel giovedì era
stato piuttosto movimentato, tra riunioni varie e preparativi. Si sentiva
agitato, temeva che qualcosa sarebbe andato terribilmente storto. Si trovava
nella sua Cabina, intento a fissare pensieroso il suo zaino. Decine di libri e
quaderni erano sparsi sul suo letto. Qualcosa gli diceva che aveva bisogno di
tutta la sua conoscenza per tornare vivo da quell’impresa suicida.
Chirone aveva detto che come prima cosa si
sarebbero recati in Georgia, per via di una strana fonte magica. Bisognava
capire come fare per rintracciare Anìa, la Quarta Ora… assurdo, no? E per di
più, bisognava trovare un punto di incontro con altri semidei provenienti da
San Francisco. Elizabeth, la sua amica, era tra loro.
Il pensiero di rivederla lo metteva di buon
umore. Elizabeth era una garanzia, su questo tutti i semidei erano d’accordo.
Non risultava difficile l’idea che, presto o tardi, la figlia di Ermes avrebbe
fatto parte di un’importante profezia. Ma lui… cosa c’entrava lui?
Michael entrò nella stanza, l’aria corrucciata.
“Ned,” disse, “a quanto pare Barty Crouch ha messo il tuo nome nel Calice di
Fuoco.”
Axel sbatté le palpebre, confuso. “Eh?”
Michael sbuffò “non hai niente a che vedere con
tutto questo; sei una pippa” e gli tirò qualcosa, che Axel afferrò al volo. Si
trattava di una semplice matita perfettamente temperata. “Ehi!” protestò.
“Portala con te,” biascicò Michael, come se gli
costasse molta fatica pronunciare quelle parole. Rimase lì fermo dov’era,
fissandolo intensamente con i suoi occhi chiari.
Axel corrugò la fronte. “Ma ce l’ho già una
matita. Ne ho cinque, per l’esattezza.” Si rigirò la matita tra le mani. C’era
qualcosa di strano in quell’oggetto. La punta sembrava brillare sommessamente
di luce purpurea, ma era impossibile. No?
“Ho chiesto a Morgana di fare un incantesimuccio
da nulla,” spiegò Michael, “la grafite è intrisa da incantesimi di memoria.
Qualsiasi cosa scriverai con questa matita, rimarrà impresso nella tua mente
finché non verrà cancellato.”
Axel era senza parole. “Io… Michael, grazie.”
“Non ringraziarmi, dovrò partecipare a tutte le ore del tè di Morgana per questo”
rispose il ragazzino con un brivido, avvicinandosi e prendendo la matita fra le
mani. Prese a scribacchiare qualcosa su uno dei quaderni sparsi sul letto di
Axel. Le parole si fissarono immediatamente nella sua mente.
Sono un
idiota.
“Michael!”
Con sua grande sorpresa, il fratellastro si mise
a ridere, poi però tornò serio in un lampo. “Ricordatelo sempre. Quando
crederai che la dea ti stia guardando le spalle, che ti voglia bene...” lo disse quasi come se sputasse veleno,
“ricordatelo. E’ importante.” Gli restituì la matita, guardandolo con quei suoi
occhi azzurrissimi.
“Nostra
madre mi salvò la vita, una volta” puntualizzò Axel, “l’avrebbe fatto anche con
te. Siamo figli suoi.”
Michael scosse la testa e si avviò verso la
porta. Quando si girò a guardarlo, i riccioli biondi ricaddero sul suo volto da
ragazzino. “Lei sapeva che sarebbe giunto questo momento, per questo ti ha
salvato. Le porterai onore e gloria, qualunque sia il tuo destino.” Fece per
uscire dalla porta, ma nuovamente si fermò, questa volta senza girarsi. “Domani
mattina non verrò a salutarti, fratello. Non mi piacciono questo genere di
cose.”
Questa volta uscì, lasciando Axel da solo a
rigirarsi la matita tra le dita.
Ciao a tutti! Sarò molto breve J
Ho deciso di dividere il capitolo in due, in
modo da poter rendere la narrazione più fluida. Pubblicherò a breve la seconda
parte. Per farmi perdonare, ecco alcuni dei personaggi che appariranno nella
parte II: Edward, Jaime, Mal, Henry, Tessa Wells (ancora da presentare), Cat,
Jack e Blanca Delgado (ancora da presentare). E poi, beh, si parlerà di
Partenze e… ne vedremo delle belle!
Detto ciò, sono molto dispiaciuta che questo
sito stia “cadendo in rovina”. Ci sono davvero poche persone attive, ma spero
che comunque i pochi rimasti possano leggere e gradire la mia storiella.
Ci sentiremo presto (non credo abbandonerò mai
questa storia, ma mai dire mai eheh)
-sun
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