Remember to learn to forget Whiskey shots and cheap cigarettes

di Lost In Donbass
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ragazzi del Blocco ***
Capitolo 2: *** I segreti di Valya ***
Capitolo 3: *** Ylja ***
Capitolo 4: *** Il Samovar degli Dei ***
Capitolo 5: *** Marina, Marina Petrachenko ***
Capitolo 6: *** Denis si innamora ***
Capitolo 7: *** I ragazzi soffrono ***
Capitolo 8: *** Al parco ci si rattrista ***
Capitolo 9: *** A passeggio per Ekaterimburg ***
Capitolo 10: *** Le ragazze amano ***
Capitolo 11: *** I ragazzi litigano ***
Capitolo 12: *** L'apoteosi della sfiga ***
Capitolo 13: *** Se questo è Amore ***
Capitolo 14: *** Le ragazze si salvano ***
Capitolo 15: *** San Pietroburgo ***
Capitolo 16: *** Segreti scomodi, molto scomodi ***
Capitolo 17: *** Angeli e Anelli ***
Capitolo 18: *** Devastati come non mai ***
Capitolo 19: *** Non ce la fanno più ***
Capitolo 20: *** Staremo bene ***
Capitolo 21: *** Addio, amici ***



Capitolo 1
*** I ragazzi del Blocco ***


REMEMBER TO LEARN TO FORGET WHISKEY SHOTS AND CHEAP CIGARETTES

CAPITOLO UNO: I RAGAZZI DEL BLOCCO

All my life they said I’d be nothing
But I’m something
And I rather be a stray
Than be nothing to no one at all
(Sleeping With Sirens – The Strays)



Li conoscevano tutti, nel quartiere. I ragazzacci rocker che se ne stavano tutto il giorno a bighellonare per la città, indolenti e annoiati. Il gruppo di scappati di casa che fumava sigarette riciclate e beveva vodka sin dalle otto di mattina. La compagnia da cui le madri ti tenevano lontano e dei quali i padri sparlavano a cena. Non c’era nessuno che non provasse una sorta di morbosa attrazione per quei ragazzi, un vago senso d’invidia per il loro menefreghismo e la loro bellezza da rivista. Non c’era ragazzo o ragazza in città che non aveva desiderato, almeno una volta, fare parte di quel gruppo che gli adulti denigravano come la peste. Li guardavano, spigliati, violenti e volgari, con gli skateboard appesi agli zaini e la musica a palla nelle casse che si portavano sempre dietro, mentre scendevano per le strade. Ridevano sempre, risate forti e conturbanti, amavano mettersi nei guai, con quelle mazze da baseball e quelle bombolette spray. Camminavano a testa alta, sfacciati e arroganti, si credevano padroni del mondo e facevano di tutto per ricordare ai loro concittadini che loro avevano decisamente una marcia in più. A scuola, tutti li osservavano di nascosto, nascondendosi dietro occhiate sdegnose o dietro sorrisi incerti, spiando le mosse del piccolo branco di teppisti. Tutte le ragazze della scuola avevano desiderato almeno una volta farsi sbattere dal capobanda, tutti i ragazzi avevano osservato il fisico da modella della bionda. Erano pur sempre la teppaglia da cui tutti cercavano di tenerti lontano, ma che calamitava l’attenzione più di quanto potesse farlo una rock band all’apice della fama. Belli, strafatti, inconcludenti: il fascino dei perduti che avrebbe incantato chiunque.
Erano i ragazzi di periferia, e questa è loro storia.

Un sorso di vodka. Una sigaretta. Un altro sorso di vodka. L’ultima hit dei Green Day da canticchiare a mezza voce. Dai, ancora un po’ di vodka. Si spegne la sigaretta e, cazzo, hai scordato l’accendino a casa. Occhi al cielo e colpo di tacco sul selciato. L’ennesimo sorso per tirarsi su di morale. Occhiolino alla sventola bionda che ti ha appena attraversato la strada. Occhiata al cellulare, giusto per ingannare il tempo. Ancora un po’ di vodka, forza. Frugata alla ricerca di un fiammifero e sbuffo quando la ricerca si rivela infruttuosa. Altro occhiolino alla sventola di prima che è tornata indietro e ti sta mangiando con gli occhi: ancora cinque minuti lì impalato e recuperi il suo numero, sicuro. Mano tra i capelli, come fanno gli attori americani. La sventola comincia ad avvicinarsi ancheggiando, e tu sei pronto. Sorridi, fingendo di sistemarti il chiodo di finta pelle. Eccola che arriva, la pollastra. Distogli un attimo lo sguardo, giusto per non fare la figura del morto di sesso. Regalata, bello, regalata. Lei è al tuo fianco, dice qualcosa, con quell’accento ucraino che ti manda su di giri come niente.  Ti volti, il ciuffo opportunamente sistemato sull’occhio. Ehi, dolcezza, hai mai visto niente di simile nella periferia dell’impero?

-Ohi, maiale, mi stai ascoltando oppure no?
Non appena udì la voce di Kuzma, il suo migliore amico, Denis si riebbe di colpo dalla trance autoindotta dopo aver visto l’ennesima pubblicità del concerto di quella cantante ucraina super sventola.
-Eh, sì, ci sono, presente.- si affrettò a blaterare, tentando di cancellare dalla mente immagini poco consone di lui e della cantante-sventola impegnati in una sessione di baci travolgenti. – Cosa mi stavi dicendo?
-Se mi ascoltassi, invece di farti seghe mentali su quella lì … dio, ma non puoi lasciare certe cose a quando sei da solo in camera tua?!
-Non basta, amico, non basta.- il filo di bavetta che seguì questa affermazione fu piuttosto esaustivo.
I due ragazzi seduti sul cavalcavia, impegnati a bere da una fiaschetta e a fumarsi qualche sigaretta appena girata, erano i classici tipi da cui la mamma vuole tenerti lontano. Chi li avesse visti dall’esterno, avrebbe riportato un ragazzo alto, con un fisico da militare e i chiari occhi sinceri, insieme a un altro poco di buono sporcato da tatuaggi e capelli spettinati, col chiodo bucherellato. Una coppia da cui stare alla larga, probabilmente violenti, probabilmente gentaglia col coltello sempre in mano. Chi invece li avesse conosciuti, avrebbe riportato un delicato giovane appassionato di poesia e di vestiti e uno scapestrato ragazzo affettuoso e innocentemente ossessionato dal sesso. Niente di così spaventoso come pensava la gente. Ma finché rimaneva la brutta nomea, i due non si preoccupavano più di tanto. In fondo, la periferia era la loro, non c’era altra storia. Quel cavalcavia di ferro dove si arrampicavano era la loro Statua della Libertà, da dove si vedeva tutto il Blocco, quel quartiere popolare nella periferia di Ekaterimburg che faceva rizzare i capelli in testa. Enormi palazzi di stampo sovietico incastrati nel gelo siberiano, distese di cemento, asfalto e rovina sociale che loro comandavano a loro piacimento. Erano fieri in maniera quasi morbosa di quel quartiere cadente e povero, orgogliosi della loro appartenenza, non avevano paura di dire “siamo ragazzi del Blocco”, ben sapendo cosa pensava la gente di quell’ammasso di brutture architettoniche e di demolizione sociale in ogni senso. Ma loro ci erano nati, il sangue che scorreva nelle loro vene era quello della periferia, il loro orgoglio era stato forgiato nel degrado, il loro senso dell’onore era stato inciso in quei palazzi semi distrutti. I ragazzi della periferia portavano alta la bandiera di quell’inferno urbano e non se ne vergognavano.
-Comunque, torniamo a noi. Cosa dicevi?- Denis lanciò nel vuoto il mozzicone della sigaretta e lo guardò cadere esattamente sopra a un tir che passava a tutta velocità.
-Che dovremmo trovare un nascondiglio migliore per la roba.- continuò flemmatico Kuzma, bevendo un sorso di vodka.
-Perché?!- Denis sbatté le lunghe ciglia da ragazza, che gli ombreggiavano un grosso paio di occhi ambrati – E’ già in un nascondiglio perfetto.
-Certo, tenerla dentro al mappamondo di tua nonna è veramente geniale, wow.- Kuzma scosse la testa, roteando gli occhi al cielo – Denis, ma dove ce l’hai la testa?
-In mezzo alle sue gambe … - il ragazzo indicò di nuovo l’immagine gigante della cantante-sventola che campeggiava esattamente di fronte a loro.
Un sordo schiaffo sul collo lo costrinse a distogliere lo sguardo dal sorriso smagliante della bionda ucraina e a concentrarsi sul suo migliore amico. Che, guarda caso, era biondo anche lui.
-Ahia, okay, scusa, torniamo a noi. Niente mappamondo. Se la mettessimo nel cassetto della biancheria di Sasha? Magari fingendo che siano i sacchettini alla lavanda che profumano?
-E pensi che sua madre non se ne accorga se sua figlia indossa biancheria che puzza di marijuana da qui a un chilometro?
Kuzma alzò un sopracciglio e Denis si ritrovò suo malgrado ad annuire.
-E se usassimo un libro finto? Compriamo una scatola, la imbottiamo di erba e poi fingiamo sia un volume di rara consultazione.
-Questa non è male. Sempre che a qualcuno non venga voglia di aprirlo …
-Kuzma, che palle! Sei un disfattista!
-Sei te che ragioni solo con l’aggeggio là sotto e mai col cervello, sempre che tu lo abbia! E sei anche fidanzato, ti ricordo.
I due amici si guardarono negli occhi, un paio piccoli e celesti e l’altro paio grandi e ambrati, e rimasero per un po’ in silenzio. A volte, tra loro, bastava quello per capirsi. Un’occhiata più significativa di mille parole, un’impercettibile stretta di mano, un dialogo muto che andava avanti da oramai diciotto anni e che si costruiva sui litigi furiosi, sugli abbracci rubati, sui ricordi condivisi, su un’amicizia che nulla avrebbe potuto spezzare. Non avevano nemmeno bisogno di parlare per capire come si sentiva l’altro, un solo sorriso poteva fermare un pianto, un ringhio interrompeva un errore ancora prima che fosse compiuto, un rapido cenno d’assenso era una promessa. Se glielo avessero chiesto, nessuno dei due sarebbe stato in grado di ricordare quando era cominciata la loro amicizia. Semplicemente, erano sempre stati un loro. Loro quando si ubriacavano. Loro quando pestavano. Loro quando piangevano. Loro quando sognavano. Semplicemente Denis e Kuzma, la coppia inseparabile che calcava da anni le periferie di cemento della grande città russa e che faceva faville con i loro sorrisi bruciati e le loro voci rovinate dalla vodka a poco prezzo e dalle sigarette riciclate.
-E’ successo qualcosa tra di voi?- Kuzma piegò la testa, alzando un sopracciglio.
Denis si morse il labbro, scompigliandosi i capelli, come faceva ogni volta che non voleva intavolare la conversazione. Bevve un sorso di vodka per farsi coraggio e sputò di sotto, beccando il parabrezza di una macchina che transitava. Ridacchiò da solo, fiero della mira dei suoi sputi
-Abbiamo litigato. Come al solito.
Non andava sicuramente fiero delle continue liti tra lui e Sasha, ma non poteva fare a meno di adottare quel tono sfrontato e menefreghista che poco si addiceva a quello che realmente provava quando lei lo cacciava fuori di casa. D’altronde, era lui l’uomo della situazione. Che razza di figura ci avrebbe fatto a piagnucolare solo perché il loro rapporto già ballerino andava deteriorandosi sempre di più? Nessuno si aspettava che Denis Shostakovich, il capobanda del Blocco, frignasse per una ragazza; e anche se lui lo avrebbe volentieri fatto, tentava di tenere alto il personaggio che si era costruito negli anni. Il belloccio di periferia che sputava in faccia a tutti e rideva di fronte alla morte.
-Cos’è successo questa volta?
Kuzma gli passò dolcemente un braccio attorno alle spalle e Denis gli si strinse contro, dondolando le gambe nel vuoto sotto di loro. A volte si chiedeva come sarebbe stato andare a letto col suo migliore amico, cosa avrebbe provato, come si sarebbero comportati, chi sarebbe stato sopra e chi sotto, ma ogni volta che provava l’impulso irrefrenabile di baciarlo, si bloccava. Aveva troppa paura dell’eventuale rappresaglia di Kuzma per muovere il primo passo, e tutti sapevano cosa comportavano le rappresaglie del ragazzo.
-Non me lo ricordo nemmeno più. Stavamo guardando la tv, in casa sua, e io devo aver fatto qualche commento su non so cosa, e lei si è innervosita, e allora mi sono girati i coglioni anche a me, e poi come al solito siamo quasi arrivati alle mani, così me ne sono andato sbattendo la porta e lei ha continuato a urlami contro dalla tromba delle scale. Solita, vecchia storia.
Denis fece le fusa come un gatto quando Kuzma gli scompigliò i capelli e gli baciò la tempia, con quei suoi modi delicati e affettuosi.
-A volte mi chiedo perché non ci siamo messi insieme io e te.- brontolò, passandogli la fiaschetta quasi vuota.
-Perché ci saremmo presi a ceffoni dopo due minuti.- gli ricordò tranquillamente Kuzma, bevendo quel che rimaneva della vodka – Den, io e te siamo fatti per essere migliori amici, non amanti.
Denis annuì, ma la voglia di baciare ed eventualmente andare a letto con Kuzma non era così peregrina nella sua testa. Certo, riconosceva che come coppia probabilmente si sarebbero davvero presi a pugni, troppo diversi per poter veramente stare insieme, ma contemporaneamente troppo simili per lasciarsi andare. No, forse non era innamorato del suo biondo migliore amico, ma ne era attratto. Attratto dal suo corpo perfetto, dai suoi occhi sinceri, dalla sua calma e dalla sua tranquillità, dalla sua erudizione sconfinata, dal suo coraggio e dalla sua gentilezza abilmente dissimulata dallo sguardo gelido e dai modi scostanti. Lo avrebbe ammesso senza tanti complimenti: Kuzma Lukjanenko era affascinante, e non nascondeva nemmeno a se stesso che ogni tanto, la notte, pensava a lui insieme alle varie cantanti più o meno vestite che andavano di moda. Triangoli. Ménage a trois. Cavolo, avrebbe dovuto fare il regista di film porno, il successo era assicurato.
-Cosa ne dici, andiamo un po’ a vedere cosa fanno gli altri?- propose, stiracchiandosi.
-Sì, così magari la pianti di sbavare su quel cartellone.
-Non sto sbavando!
-Muoviti, maiale.
-Ammetti che è una sventola storica.
-Ammetti che sei un maiale, e poi forse ne riparliamo.

Accocolate sul grosso letto rimboccato da un piumone rosa shocking, due giovani ragazze stavano guardando l’ennesima puntata di Pretty Little Liars, seppellite da grandi cuscini a forma di cuore e da una ciotola di patatine quasi finita. Niente di così innovativo nella tranquilla routine di Aleksandra e Valentina, più comunemente conosciute come Sasha e Valya, o, semplicemente, come “le ragazze del Blocco”.  Più che amiche, sorelle o amanti, le due vivevano in simbiosi da quando erano nate, attaccate una all’altra come gemelle, dipendenti come fossero una la sigaretta dell’altra. Certo, alcuni potevano trovare il loro rapporto quasi nauseante ma non i loro amici, abituati a vederle come un’unica entità semovente. Non c’era volta in cui le due non stessero insieme, esclusa qualche uscita romantica tra Sasha e Denis, che però si concludevano sempre con la medesima frase del ragazzo “Tanto varrebbe che venisse anche Valya”. L’ultima volta che aveva tentato di proporre una threesome, però, era stato brutalmente zittito da tutta la banda, tanto da costringerlo a tenersi per lui le sue strampalate idee su eventuali avventure notturne. In cuor suo, però, non aveva mai davvero perso le speranze.
-Stai ancora pensando a Den, o sbaglio?
Valentina interruppe la puntata, voltandosi verso l’amica, un sopracciglio alzato. Come se non sapesse che quando Sasha si rosicchiava le unghie era chiaro segnale di nervosismo. La ragazza smise di colpo di martoriarsi le unghie e sbuffò, roteando i grandi occhi verdi al cielo
-Dai, Valya, non infierire … - mugolò indistintamente, mettendosi a ruminare qualche patatina sbriciolata – Abbiamo litigato, come al solito.
-Litigate un po’ tanto in questo periodo, correggimi se sbaglio.
Valya accarezzò i lunghi capelli biondo platino di Sasha, mettendole una ciocca dietro l’orecchio, indugiando per un attimo quando sfiorò la candida pelle. C’erano momenti in cui avrebbe così tanto voluto mordicchiare quel piccolo orecchio da elfo, o affondare il nasino in quei lisci capelli così chiari e profumati, ma si tratteneva, sapendo quanto sarebbe suonata scorretta una sua azione del genere. Era la sua migliore amica, mica la sua ragazza, certe azioni non aveva sicuramente il diritto di farle. Eppure quanto avrebbe voluto essere al posto di Denis, a volte. Poterla tenere per mano quando si andava a bighellonare in giro, baciarla sotto la luce lunare, imboccarla di torta a San Valentino, prometterle il mondo ogni sera prima di addormentarsi. Invece, era confinata a far solamente l’amica: quella che sì, ci dorme insieme e la può guardare farsi la doccia, ma che non può permettersi di toccarla come avrebbe voluto né di dirle quello che le premeva da anni. Valya ci aveva sempre sofferto, e teneva dentro di sé quella malinconia come un germe che attechiva sempre di più. Ma cosa poteva fare, quando sapeva che Sasha era innamorata persa di Denis e che probabilmente era troppo etero per poter fare anche solo un mezzo pensiero su di lei? Niente, poteva fare, se non continuare l’eterna recita della migliore amica pronta a spalleggiare l’altra sino alla fine. E sperare che finalmente rompesse con il loro storico amico. Valya voleva molto bene a Denis, quello era chiaro, voleva solo che … ecco, che le lasciasse Sasha in palio.
-Ma è colpa sua!- sbottò Sasha, affondando tra i cuscini – Non so, guarda il culo a uomini e donne indiscriminatamente che io sia lì o no, probabilmente chissà chi si scopa quando io non ci sono, ha la sensibilità di un parafango, mi sventaglia in giro come fossi un trofeo … ma che maniere sono?!
-Lo sai che ti vuole bene, Sasha.- brontolò di rimando Valya, legandosi i lunghi capelli neri e rosa in uno chignon disordinato – E’ un bravo ragazzo, solo un po’ coglione. Deve ancora crescere, lo sai meglio di me.
-Me ne frego!- ribatté la bionda, sputando di colpo la manciata di patatine che si era inavvertitamente infilata in bocca – So benissimo che mi vuole bene, è mio amico e come amico lo posso ancora sopportare, ma come ragazzo basta! Nemmeno che fossi la sua sgualdrina.
Se Valya fosse stata sul punto di farle notare che, se si fossero messe insieme, lei l’avrebbe trattata come una principessa, non lo fece vedere. Rimase impassibile, con un certo sforzo e si trattenne anche dal darle un bacino su quella bella bocca. Erano anni che resisteva indomita alla tentazione, anni che si rodeva, anni che si autodistruggeva con quell’amore a senso unico. E anni che ogni mattina ci metteva sempre di più a dipingersi un sorriso sincero sulle labbra.
-Ma allora non capisco perché non lo lasci, tesoro.- osservò, sfarfallando le lunghe ciglia incrostate di mascara – Nemmeno che la vostra amiciza si guasti.
Sasha ci mise un po’ a rispondere, impegnata a rigirarsi una ciocca tra le dita, una buffa smorfia dipinta sul bel viso da bambolina dei sobborghi. Bellissima, sboccata, apparentemente stupida: Aleksandra Bazarova era l’idolo del Blocco di Ekaterimburg. Ma come per tutti era una stella nascente dell’infinito cielo russo, un angelo di periferia a tutti gli effetti, per sé stessa non era altro che un demone a doppio taglio che si uccideva da solo ogni santo giorno. Se solo la gente avesse saputo quanti drammi si nascondevano dietro agli occhi ridenti della bella Sasha. Se solo fossero stati capaci di strapparle quel falso sorriso da copertina e avessero scoperto il marcio che lei nascondeva abilmente sotto le felpe sformate.
-Non lo so, amore … - brontolò Sasha, poggiando la testa sul grembo di Valya – Forse perché a letto è una bomba.
Le due ragazze risero in coro, con le loro risate distrutte da adolescenze rovinate e infanzie mai davvero vissute.
-Oppure è solo perché non ho voglia di cambiamenti drastici.- continuò, più seria – Stare con Den è così tremendamente ovvio, così meccanico che non avrei proprio voglia di sconvolgere tutto, fare finta di non sopportarci per qualche settimana e poi ricominciare come amici. È più semplice vivere così.
-La vita non sarà sempre così facile, Sasha, ricordatelo.- le ripeté per l’ennesima volta Valya, tormentandosi l’anellino all’angolo del labbro – A volte bisogna anche saper fare delle scelte.
-Lo so … ma dovrò farne così tante quando crescerò che non ho proprio voglia di cominciare già adesso. Ma poi chi lo sa, magari domani rompiamo e io avrò bellamente dimenticato quello che ti ho detto oggi.
Sasha rise, gli occhi allegri e il sorriso luccicante e Valentina rise a sua volta, perché per lei la felicità era vedere la propria amica felice. Poteva suonare sdolcinato, ma in fondo a loro non rimaneva altro che quello. Le loro amicizie. I loro odi. Le loro liti. I loro drammi. Tutte cose alle quali erano troppo legati per lasciarle andare, cicatrici che li aiutavano a stare a galla e che ricordavano a tutti loro che sì, erano ancora in piedi, e che sì, in qualche modo sarebbero sopravvissuti. Mutilati, ma vivi.
Rimasero per qualche attimo abbracciate, avvolte dal rosa tenue delle pareti e dai poster di cantanti pop che tappezzavano le pareti, quando il delicato squillo di un messaggio non le svegliò dal dolce torpore che le aveva avvolte.
-Guarda, è Kuzma.- commentò Valya, scorrendo il messaggio – Chiede se abbiamo voglia di andare al covo. Ci sono anche Denis e Lera.
Le due ragazze si guardarono, e Sasha fu la prima a saltare in piedi, in un turbinio di capelli biondissimi e felpa blu elettrico
-Andiamo, allora. Forse prendere un po’ d’aria mi aiuterà a schiarirmi le idee.
-C’è anche Den, ti ricordo.- ridacchiò Valya, alzandosi a sua volta, stirandosi i vestiti spiegazzati.
-Me ne farò una ragione, anche se l’ascia di guerra è ben lungi dall’essere sepolta.
Le due ragazze si sorrisero e, in fretta e furia, cominciarono a mettersi le scarpe. Destinazione, il covo.


***
Eccoci qua con una nuova storia che spero vi piaccia. Ci sto mettendo anima e corpo quindi fatemi sapere cosa ne pensate! Per facilitare la lettura, lascio una schedina con i nomi e i diminutivi dei personaggi
Denis: Den, Denisoch'ka
Kuzma: Kuzja
Valentina: Valya, Valyoch'ka
Aleksandra: Sasha
Valerya: Lera, Leroch'ka
Ylja: Yljusha




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Capitolo 2
*** I segreti di Valya ***


CAPITOLO DUE: I SEGRETI DI VALYA

Got a secret
Can you keep it?
Swear this one you’ll save
Better lock it in your pocket
Taking this one to the grave
(The Pierces – Secret)
 
Valerya Tugusheva, nota a tutti come Lera, aveva i capelli più rossi che la città avesse mai visto. Sanguigni, scarlatti, morbidamente mossi, erano l’invidia di tutte le ragazze di Ekaterimburg. Tutti avevano desiderato almeno una volta passare le mani in quella massa di rosso brillante che incorniciava un visetto rotondo divorato dalle efelidi, o perdersi nei grandi e malinconici occhi d’inchiostro che facevano a pugni con i capelli. Non era normale, Lera Tugusheva, non lo era mai stata. Perché come era piuttosto singolare il suo aspetto, altrettanto singolare era la sua mente. Dotata di un’intelligenza fuori dal comune, la banda del Blocco tentava da anni di proteggerla dal mondo esterno. Non avevano mai capito se la loro amica fosse autistica, affetta da sindrome di Asperger o da chissà cos’altro, ma non importava: a loro bastava difenderla come fosse la loro zarina. Volevano preservare la dolcezza muta che sgorgava dagli occhi d’ossidiana, assicurare sicurezza a quella bambolina vestita con ridicoli abiti a palloncino e nastri colorati. C’erano volte in cui si chiedevano come mai Lera avesse scelto loro, cosa l’avesse spinta ad aggregarsi alla banda di teppisti più sgangherata del Blocco, ma erano tutte domande oziose. Erano fieri di poter avere con loro la ragazza più stupefacente di tutta la Russia, di essere stati prescelti come cavalieri della principessa con i capelli di sangue.
Anche in quel momento, stravaccati nel covo, la guardavano con affetto mentre sistemava pacifica la grande casa delle bambole che faceva la sua lustra figura in un angolo. Era così carina, con le sue lunghe trecce e il vestito a sbuffo di un tenue azzurro pastello, le manine lentigginose che si muovevano sicure tra i capelli delle sue bambole.
In realtà, anche la casa tutta rosa che Lera aveva sistemato faceva piuttosto a pugni con il covo in sé per sé. Si trattava di una grande stanza con le pareti di cemento nudo, incastrata nei fondi del palazzo di Valya, arredata come fosse un rifugio antiatomico. Amache, poster, una scrivania, libri e dischi di ogni tipo, mensole, quaderni, cibo, un impianto stereo scassato e addirittura un’altalena appesa al soffitto facevano la loro bella figura nel Covo. Sulla pesante porta di ferro campeggiava invece un grosso graffito con intrecciate le loro sei iniziali. Quel rifugio avrebbe potuto raccontare più storie che un grande scrittore: tra le sue mura, vi erano incastrati i sentimenti conturbanti dei suoi sei abitanti, le loro vicende, le loro liti, i loro drammi. Grondavano avventure, quei muri di cemento, almeno tanto quanto i ritratti che Kuzma faceva compulsivamente. Anche quel giorno era impegnato a fare un carboncino di Lera e Sasha, una impegnata a giocare e l’altra a scorrere le notifiche del cellulare, una pacifica e l’altra imbronciata. Kuzma amava disegnare, ed era capace di tirare fuori veri e propri capolavori da quei blocchi di fogli che si trascinava costantemente dietro. Ritratti. Sempre ritratti dei suoi amici, con ogni espressione, in ogni posa. A volte riusciva a cogliere attimi irripetibili, era capace di andare  più a fondo di quanto possa farlo uno psichiatra – rimaneva tutto incastonato nelle sue matite, nei suoi schizzi, nei suoi acquerelli. Non sapeva come facesse davvero, gli bastava un’occhiata ed ecco che tutto si riproduceva su carta, usciva fuori tutto, segreti, dolori, risate: i disegni assorbivano qualunque cosa. La depressione che Valya nascondeva dietro agli occhi. La dolcezza che Denis dissimulava nella rabbia. La follia che animava il sorriso di Lera. I segreti che divoravano la bellezza di Sasha. Le famiglia distrutta che Ylja tentava di allontare. Ma c’era una cosa che spaventava Kuzma, e quella erano gli autoritratti. Lui sapeva, in qualche accesso di autocompiacimento, di avere le capacità di catturare l’anima delle persone nei suoi disegni ed era proprio per questo che era terrorizzato dal disegnare sé stesso. Non voleva vedere la sua vita riflessa negli occhi ciechi di uno schizzo, non voleva venire a patti con qualcosa che tentava di nascondere. A volte si guardava allo specchio, passandosi una mano tra i corti capelli biondo grano e si chiedeva chi fosse quel ragazzo di belle speranze che lo fissava con un sorriso sicuro e vagamente altezzoso. Dov’era finito il bambino sensibile e solitario che si ricordava? Era cresciuto così in fretta da non sapere nemmeno più chi fosse il vero Kuzma e chi invece fosse il Kuzma tirato su per la vita da strada. Si guardava e scuoteva la testa, ripensando alle poesie di Lermontov che sua madre gli leggeva la sera, prima di dormire, ripensando ai mazzi di fiori in tavola, al sorriso triste di sua nonna. Dov’era tutto quello? Dov’erano finiti i suoi ricordi di anni felici? E cosa sarebbe apparso se avesse osato dipingersi? Dolore, solitudine, amore. Oppure rabbia, inadeguatezza e nervosismo abilmente dissimulato. Non lo sapeva, e non voleva scoprirlo. C’era già così tanto da affrontare ogni giorno che non glielo diceva il cuore di andarsi anche a sobbarcare sedute psicologiche a tu per tu con sé stesso.
Calcò un po’ la matita, cercando di cogliere meglio la luce che si rifletteva nei capelli di Lera, e silenziosamente si beava di quel silenzio. Appena Valya e Sasha erano entrate, come era presumibile, Denis era subito partito all’attacco e la bionda non era stata da meno. Tra lui e Valya, invece, era bastata una rapida occhiata, e prontamente la ragazza si era frapposta tra i due litiganti, trascinando fuori Denis prima che venissero alle mani. Erano rimasti dunque lui, Aleksandra e Valerya a godersi la tranquillità del covo, ognuno impegnato nella propria attività preferita, una vecchia canzone dei Potap & Nastya a fare da colonna sonora al loro disimpegno. Certo, non era entusiasta del fatto che i suoi due amici fossero in guerra aperta ma già che Valya si era presa la briga di portare via uno dei due, tanto valeva approfittarne e fare finta di niente. Tanto più che quel ritratto di Lera stava venendo letteralmente divino. Girò soddisfatto il foglio alla luce della lampadina e stava per cominciare a fare gli ultimi ritocchi che la voce di Sasha non risuonò
-Dimmi la verità, Kuzja, cosa ti ha detto Denis?
La ragazza si tolse le cuffiette e spense il telefono, fissando l’amico con i suoi grandi occhi di un bel verde brillante.
Ci risiamo, pensò Kuzma, preparandosi alle solite sedute da psicanalista in erba. Posò il disegno e accavallò le gambe
-Niente, tesoro, assolutamente niente. Dai, è inutile che ti fai del sangue marcio, lo sai meglio di me che tornerete insieme a tempo di record.
-Questa volta no!- strillò lei, sbattendo il piede per terra.
-Lo dici ogni volta, Sasha, smettila.- Valerya alzò lo sguardo e alzò un sopracciglio.
Poi, come ad essersi resa conto di essere suonata un po’ dura, si alzò e roteò nel suo vestitino da bambola fino ad abbracciarla
-Tu e Den siete una coppia tenerissima. Anche questa volta si risolverà tutto.
Sasha si morse il labbro, ma ricambiò l’abbraccio, stampando un bacio sulla guancia lentigginosa dell’amica storica
-Grazie, Leroch’ka. Sei così dolce, come al solito.
A volte capire veramente cosa pensasse la rossa non era molto semplice; infatti, Kuzma non stava capendo se considerasse davvero Aleksandra e Denis una coppia tenerissima o se lo stesse dicendo solamente per tranquillizzare la bionda. Era di dominio pubblico il fatto che la coppia più esplosiva del Blocco fosse di fatto l’assortimento dei due ragazzi più belli e sfacciati del quartiere. Potevano anche funzionare perfettamente come amici, ma come fidanzati … “semplici scopamici, diciamocelo”, concludeva sempre Ylja, ultimo membro della banda e ficcanaso di professione “è inutile che fingano anche di essere innamorati uno dell’altra”. A volte Ylja ci andava giù pesante con le critiche, ma Kuzma non gli dava torto. Sapeva per esperienza che Denis era ancora troppo bambino per potersi davvero innamorare di qualcuno e che per Sasha ci voleva qualcuno di molto più maturo di un qualche teppista da due soldi. Sfogliò distrattamente i suoi disegni: erano carini loro sei, tutti insieme, con le loro differenze, e le loro brutte storie. Potevano sembrare l’assortimento più sbagliato, ma lui era convinto che invece, insieme, funzionavano perfettamente, come un ingranaggio alieno. Sorrise tra sé e sé, quando gli capitò tra le mani il ritratto sorridente di Valentina – era venuto così bene. Anche troppo, pensò, mordendosi l’interno della guancia. Si chiese come stesse la ragazza dopo quello che era successo. Non ne avevano più parlato, un po’ per vergogna e un po’ per paura, anche se erano stati molti i momenti in cui Kuzma avrebbe voluto intavolare la conversazione. Per quanto riguardava lui, non era ancora riuscito a superarlo del tutto e qualcosa gli diceva che anche la ragazza ne era rimasta più ustionata di quanto non volesse ammettere. Ripensò a quando erano bambini e a quel gioco che facevano, il gioco dei segreti e di chi riusciva a mantenerlo più a lungo. Non avrebbe mai pensato che a diciotto anni si sarebbe ritrovato a rigiocarlo, con una posta in gioco molto più alta. Rivide quella notte, nel ritratto dell’amica e sprofondò ancora in quel mare di sensazioni che tentava di dimenticare
 
Pioveva, come in un qualsiasi dramma romantico adolescenziale che si rispetti, e loro due se ne stavano impalati di fronte a quell’ospedale, bagnati fradici sin nelle ossa. Lei gli teneva le mani, e lui ogni tanto le scostava una ciocca bagnata dalla fronte pallida. Non parlavano da ore, e il rumore del traffico che faceva da sottofondo non aiutava quel momento così disturbante. Erano lì, gli amici di una vita, i ragazzacci del Blocco, abbandonati come mai lo erano stati ma assurdamente legati una all’altro più che in ogni altro giorno delle loro vite. Lei piangeva in silenzio, ma non riusciva nemmeno più a capire quali erano lacrime e quali erano gocce di pioggia, il trucco che le imbrattava la faccia, e lui non sapeva cosa dire, indeciso se abbracciarla oppure no. Era tutto così strano, così alieno, sembrava loro di essere gli spettatori di una di quelle serie tv da ragazzi più che gli sventurati protagonisti. Ma era stato in un momento come quello che lei aveva alzato lo sguardo e gli aveva posato un dito sulle labbra, sussurrando
-It’s a secret.
Lui era rimasto un attimo ammutolito, prima di copiare il suo gesto e completare la frase, la storica frase che accompagnava i loro giochi da bambini
-Can you keep it?
Si erano abbracciati, in silenzio, e i singhiozzi di lei erano andati perduti nella tempesta che infuriava su Ekaterimburg.
 
-Kuzja, ti piace? L’ho pettinata bene?
La voce dolce di Lera lo distolse dai suoi torbidi ricordi e lo costrinse a concentrarsi sulla bella bambola accuratamente pettinata. Sorrise e scompigliò i capelli dell’amica
-E’ stupenda, Leroch’ka. Proprio come te.
Le baciò la fronte e lei rise, battendo le manine lentigginose. A volte sembrava una bambina nel corpo di ragazza, e bisognava trattarla di conseguenza, sopportando i suoi musi lunghi, ridendo delle piccole cose e assicurandola del primato delle sue bambole da collezione.
-Fai vedere anche a me!- strillò Sasha, planandole al fianco, improvvisamente dimentica della lite in corso col suo ragazzo.
Kuzma le guardò ridere tra loro, giocando con la splendida casa giocattolo rosa confetto e sorrise, rimettendo mano a matite e colori. Sì, non era il momento di pensare al passato ma di concentrarsi sui rari momenti felici del loro scombinato presente.
 
Qualche metro sopra il Covo, in strada, Valentina e Denis stavano discutendo già da tempo, attirando le occhiate di non pochi curiosi. Ma come si faceva a non notare un ragazzo di una bellezza eccessiva e uno scricciolo con i capelli mezzi rosa e il viso troppo truccato che litigavano davanti al portone di un palazzo?
-Cazzo, Valentina, la pianti di prendere sempre le sue fottute difese?!- stava urlando Denis, sbattendo l’anfibio per terra. – Possibile che in sto cazzo di gruppo tutti debbano stare dalla sua parte e mai dalla mia?!
-Non è assolutamente vero, Denis, ma questa volta ha ragione lei! Si è stufata di venire trattata come una sgualdrina qualunque!- ribatté Valya, piantandosi a braccia incrociate di fronte all’amico.
-Io non la tratto come una sgualdrina! Che cazzo si aspetta? Fiori, cioccolatini e una gita al fiume che non c’è? Dio, voi ragazze siete tutte uguali, tutte cerebrolese che aspettano un principe azzurro che non esiste.
Uno spintone ben assestato gli fece perdere l’equilibrio, e non cadde per terra solo grazie ai suoi ottimi riflessi.
-Ah no, bello, adesso non cominciare con i tuoi discorsi sessisti e maschilisti. Sasha non si aspetta niente del genere, le basterebbe anche solo che non ti scopassi mezzo quartiere e che non la sventolassi in giro come una banderuola.
Valya sapeva di essere partita lancia in resta, ma non le importava, non quando c’entrava il benessere della sua migliore amica.
-Io non la sventolo, cosa vai dicendo! E se proprio si è rotta di stare con me, che rompa. Non mi sconvolgo mica se mi molla, evidentemente non riesce a sopportare il fatto che io piaccia più di lei, boriosa com’è. Anzi, vogliamo dirla tutta? Dovrebbe mettere su qualche chilo, mi sono rotto il cazzo di scopare un bacco di legno che sembra doversi rompere da un momento all’altro!
-Ma sei bevuto o cosa, Shostakovich?! Non provare più a parlare di lei in questo modo, brutto stronzo!
I toni tra i due erano decisamente saliti, esattamente come gli spintoni che si stavano scambiando. Perché Denis e Valya erano così: violenti come la periferia che li aveva partoriti, arrabbiati con loro stessi più di quanto avrebbero dovuto, devastati come i cieli di perla che li vegliavano da sempre. Litigavano e si amavano con la stessa potenza travolgente di un inverno russo, non lasciavano nulla di intentato. E che fossero insulti, baci, pugni o nomignoli affettuosi, non cambiava. Erano troppo, in tutto quello che facevano. Erano figli della steppa, e lo davano a vedere in ogni modo possibile. Erano siberiani, la violenza cieca ce l’avevano nel sangue, esattamente come l’amore sconfinato. Bruciavano e si versavano benzina addosso quotidianamente, non c’era verso di calmarli ma a loro andava bene così. Gli piaceva ardere e autodistruggersi, gli piaceva farsi male da soli.
Il sordo schiaffo che lei gli tirò risuonò nella strada semi deserta. Doveva essere stato forte, siccome la guancia cominciò a diventare paonazza ma lui non mosse un muscolo, limitandosi a boccheggiare un attimo, prima di darle una spinta alla quale lei reagì con un ulteriore calcio negli stinchi. Denis rimase per un attimo immobile, il braccio già pronto a sferrare uno dei suoi leggendari pugni, ma qualcosa dovette ricordargli che se l’avesse fatto avrebbe non solo sparecchiato il viso di Valya, ma lo avrebbe anche reso un perfetto bastardo (“non si picchiano le donne, di qualunque età” era il motto del Blocco) pronto al disconoscimento di tutto il quartiere, perché si bloccò. Rilassò il braccio e sbuffò rumorosamente
-Okay, scricciolo, hai vinto.- si arrese, scostandosi il ciuffo scuro dagli occhi.
-Volevi davvero tirarmi un pugno?- Valya alzò un sopracciglio, rilassando anche lei i muscoli pronti a scattare. Denis aveva usato il soprannome “scricciolo”, e quello era chiaro segno di bandiera bianca. Decise di accettare la resa, era troppo stanca per continuare a battibeccare.
-Certo che no, stupida.- il ragazzo scosse la testa, e le porse la mano inanellata e rovinata dalle risse di strada – Dai, pace?
Valentina lo guardò per un attimo, da sotto il ciuffone che le copriva un occhio ma poi annuì, stringendogli con forza inaudita la mano
-Pace, coglione.
Rimasero per un attimo in silenzio, guardandosi dappertutto meno che in faccia quando Denis sfilò due sigarette dalla tasca degli skinny e ne porse una all’amica, facendo un rapido gesto col capo verso l’incrocio con un’altra via. Valya sospirò, prese la sigaretta e lo seguì. Erano belli, a vederli così, due storici amici litigiosi e orgogliosi, avvolti da una nuvoletta di fumo, che fingevano di essere ancora arrabbiati l’uno con l’altra ma che in realtà non vedevano l’ora di tornare a scambiarsi battutacce e pacche sulla schiena. Camminarono per un po’ in silenzio, i loro passi a scandire la loro litigata precedente finché lui non prese parola
-Va bene, Valyoch’ka, ho capito. Le chiederò scusa, ok?
-E’ il minimo, bello.- lei gli diede una leggera spallata affettuosa. Poi ci rimuginò un attimo, si fermò, e affondò le mani in tasca – Ma … tu ami davvero Sasha?
-Certo che la amo, che razza di domanda è?
Denis si fermò a sua volta, e guardò stranito Valya. Quest’ultima si mordicchiò il labbro inferiore, lasciando correre lo sguardo lungo la via infinita e triste, guardando i grossi palazzi tutti uguali e qualche macchina passare col rosso al semaforo.
-Non so. Se pensi al tuo futuro, ti vedi con lei? Magari sposati, magari con dei figli? In una casa vostra, con una vita da condividere. Che so, tu con un negozio di dischi e lei a fare la cameriera in qualche Hard Rock Cafè, anche se sappiamo entrambi che è una ragazza-rap.
Valentina si stava rendendo conto di poter suonare come una psicopatica, ma non poteva fare a meno di parlare, di dire a qualcuno quello che sognava da anni. Non si stava immaginando Denis e Sasha, ma piuttosto lei e Sasha, a vivere la tranquilla vita che si meritavano. Voleva tutto quello che sapeva che non avrebbe mai potuto ottenere e si stava uccidendo con quei sogni così realistici. Così vicini eppure così lontani.
-Boh, non lo so.- Denis si strinse nelle spalle, preso in contropiede – Valya, non riesco a immaginarmi tra un anno, figurati se mi spingo a immaginare come sarà la mia vita finita la scuola. Ma non penso che riusciremmo a resistere così tanto. Che ne so, non farmi ste domande.
Sbuffò, quasi infastidito, e Valentina si fece ancora più piccolina nella sua felpa oversize dei Bring Me The Horizon.
-Scusa, Denisoch’ka, ero solo curiosa.- tentò di giustificarsi, arrossendo sotto al trucco pesante – Volevo solamente controllare che continuassi ad amarla, cafonaggine a parte.
Si aspettava qualche risposta salace di Denis, qualche battuta poco fine, anche uno dei loro abbracci da lottatori di sumo, ma quando lo guardò, trovò un sorrisetto amaro e una strana luce nei bei occhi ambrati
-Sì, come no. Non me la stare a raccontare, Valya.- anche la voce aveva assunto un tono pungente e sarcastico – Lo so benissimo che sei innamorata di Sasha.
Se le avessero tirato un pugno nello stomaco, probabilmente ci avrebbe sofferto meno. Per la ragazza mora quello fu un vero e proprio colpo basso, tanto che si ritrovò a trattenere il respiro, spalancando i grandi occhi blu oceano, completamente allibita. Non sapeva nemmeno più che sentimento provare, cosa dire, come comportarsi. Era come se Denis le avesse appena distrutto il muro di sogni e speranze davanti agli occhi, facendole crollare il castello di carte che la teneva in vita giorno dopo giorno.
-Che cosa dici, non è vero.- balbettò, quasi a corto d’aria. Non voleva che qualcuno entrasse nel suo mondo privato, e soprattutto non voleva che quella persona fosse Denis, la causa principale di tutti i suoi mali. Perché quando devi scegliere tra un ragazzo bellissimo e arrogante e una ragazza emo squilibrata e ingestibile, a chi ti vuoi dare? Non c’era nemmeno da starci a pensare sopra.
-Valyoch’ka, amore, stammi a sentire.- Denis la prese per le spalle magre, costringendola a guardarlo negli occhi – Io ti voglio bene, sei una delle mie migliori amiche. Puoi dirmelo: sei innamorata di Sasha? Se fosse così, ti capirei perfettamente, anche se non mi credi io amo quella dannata ragazza. Per favore, sii sincera. Come faccio ad aggiustare le cose se non lo sei? È per questo che ti sei così incazzata prima? Su, Valya, non …
-Ti ho detto di no! Sei sordo, forse?! Non mi piace Sasha, è solamente la mia migliore amica, posso anche preoccuparmi di qualcuno senza essermene innamorata!
Valya gli diede uno spintone, ringhiando innervosita. Aveva sempre risposto così: con la violenza. Aveva paura, era sola e disperata, non conosceva altro mezzo per difendersi se non quello di mostrarsi forte quando in realtà non era altro che un pupazzo bistrattato dalla vita infame che le era toccata. Non era facile trattare con Valentina Tolokonnikova, lo sapevano tutti.
-Cazzo, Valya, datti una calmata!- le abbaiò in risposta Denis – Non è il caso di imbestialirti così, e non è nemmeno il caso di mentire, a me per di più!
-Non sto mentendo, okay?!- sbatté il piede per terra, schiacciando nervosamente la sigaretta sotto al tacco delle Vans. – Voglio tornare al Covo. Adesso.
Denis rimase un attimo in silenzio, ma poi annuì, facendo dietro front
-Come vuoi, ma non pensare che il discorso sia finito così.
-Prova a trattarla ancora male e ti spacco la faccia.- sibilò in risposta lei, affondando le mani in tasca, i capelli a velarle opportunamente il viso.
-E tu prova a metterti in testa che qui dentro il cattivo non sono sempre e solo io. Anche se sembra che sia sempre facile gettarmi tutto il fango addosso.
I due ragazzi si scambiarono un’occhiata di fuoco, mentre si trascinavano di nuovo al covo, lanciandosi ogni tanto sguardi arrabbiati. Avevano percorso sì e no qualche metro che Valentina si fermò di nuovo, costringendo Denis a imitarla. Era rossa in faccia, e si mordeva nervosamente il labbro
-E se fosse vero? Se amassi davvero Sasha, tu come la prenderesti?
Lui rimase zitto a lungo, le mani che tormentavano la sigaretta oramai ridotta a un mozzicone che ancora gli pendeva dalle labbra
-Non lo so.- distolse lo sguardo, ma poi lo focalizzò nuovamente sull’amica, questa volta caricò di crudele e arrogante sarcasmo – Ma tanto non è vero, o sbaglio? Tu non sei innamorata di lei, e lei è pazza di me. Tutto perfettamente nella norma, vero, Valentina?
Valya trattenne per un attimo il fiato, ma fu rapida ad ustionare Denis con una delle sue proverbiali occhiate più gelide del rigido inverno siberiano
-Vaffanculo, Denis. Vaffanculo.- sputò, prima di dirigersi a passo di corsa verso il suo portone, il cappuccio della felpa tirato su e una singola lacrima a scorrerle solitaria sul viso già abbastanza stravolto dalla rabbia e dal trucco sciolto. Questa volta, Denis aveva decisamente passato il limite.

***
Spero vi sia piaciuto, mi raccomando lasciate un commento xd e grazie a chi sta seguendo la storia :D
Baci :*
Charlie

 

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Capitolo 3
*** Ylja ***


CAPITOLO TERZO: YLJA

We’re one mistake from being together
But let’s not ask why it’s not right
You won’t be seventeen forever
And we can get away with this tonight
[Metro Station – Seventeen Forever]
 
Ylja Zavgorodnij aveva tante particolarità, in primis la sua incredibile voce alto tenorile, più acuta di quella di una ragazza e più limpida di uno scroscio d’acqua di fonte. Per seconda cosa, i suoi grandi occhi di un verde acquamarina così chiaro da potervicisi quasi specchiare dentro. Per terza, l’abilità incredibile di procurarsi in modi più o meno illeciti biglietti, inviti, agganci per permettere alla banda del Blocco di infiltrarsi praticamente ovunque. Anche quel giorno, Ylja era arrivato al Covo sventolando sei biglietti con aria vittoriosa
-Ragazzi, ecco qua! Sei biglietti gratis per il Samovar degli Dei.
-Scherzi, Yljusha?! Il Samovar degli Dei?
Denis era balzato in piedi, gli occhi brillanti. Tutti sapevano quanto il Samovar degli Dei, uno dei locali più esclusivi di Ekaterimburg, fosse difficile da espugnare, specialmente per un manipolo di adolescenti squattrinati come loro. Avevano più volte provato a infiltrarsi dalle porte di servizio di quel posto così decantato dai più grandi come “fossa di eccitante perdizione”, ma ogni volta erano stati scoperti e cacciati a calci prima di poter entrare nella pista da ballo più volgare e splendida che la città potesse vantare. Inutile dirlo, la banda del Blocco aveva come punto d’onore quello di riuscire prima o poi ad entrare lì dentro a fare baldoria.
-Esatto, Denisoch’ka!- aveva strillato Ylja in risposta, abbracciando l’amico – Non potete crederci, vero?
-Ma come hai fatto?- chiese Valya, strappandogli di mano i biglietti, i grandi occhi blu luccicanti di eccitazione.
-Un prestigiatore non rivela i suoi segreti, tesoro.- Ylja sorrise, passandosi una mano tra i capelli corvini lunghi quasi fino alle spalle.
-Oh, ma chi se ne frega! L’importante è andarci!- continuò a strillare Denis, quasi dimentico della litigata avuta poco prima con Valya. L’emozione in quel momento era troppa per potersi concentrare su qualcosa d’altro.
-Quand’è?- Sasha si affacciò sulla spalla di Ylja, spiando i biglietti, per poi urlare – Oh dio, ma è stasera! Dobbiamo prepararci! Lera, Valya, è il nostro momento!
-È stupendo! È incredibile! È sensazionale!- trillava Lera, roteando nel suo vestito a sbuffo, stringendosi una bambola al petto.
-State veramente facendo tutto questo casino solamente per dei biglietti?- Kuzma alzò un sopracciglio, squadrando tutti con la classica aria che non ammetteva repliche. Lui non era mai stato il tipo da locali ma, chissà perché, Denis ce lo trascinava sempre, comprandoselo con quella sua espressione da cucciolo indifeso alle quali nessuno (o meglio, Kuzma) non sapeva resistere.
-Ma Kuzja, certo che sì.- disse Ylja, saltellandogli accanto – Dai, apprezza almeno la fatica che ho fatto per procurarmeli … saremo i primi ragazzi della strada ad entrare.
Il ragazzo sorrise, i grandi occhi di un verde liquido eccitati ma sempre illuminati da quella luce furba e sveglia.
-Ho capito, Yljusha, apprezzo il tuo sforzo, ma ciò non toglie che …
Non fece nemmeno in tempo di finire di parlare, che Denis gli era già saltato addosso, lunghe ciglia sfarfallanti e smorfia adorabile.
-Su, Kuzjen’ka … fallo per me almeno.- tubò, mentre controllava che le ragazze fossero troppo impegnate ad abbracciarsi e a strillare frasi sconnesse su trucchi, vestiti e pettinature impossibili per fare caso a loro. Poteva anche non nascondere a sé stesso l’attrazione che provava per il suo migliore amico, ma non ci teneva che gli altri lo sapessero, e soprattutto gli premeva che non lo scoprisse Sasha, o tantomeno Valya. Per quanto volesse bene ad entrambe, sapeva per esperienza che erano due iene – da brave ragazzacce del Blocco, sapevano essere di una crudeltà e di una ottusità incredibile quando si incontravano certi argomenti. Conoscendole, non ci avrebbero messo molto a costruire qualche storia delirante su tradimenti più o meno espliciti e la banda non aveva bisogno di ulteriori problemi da affrontare. Tendeva a nasconderlo anche a Lera, non tanto perché potesse essere un pericolo in sé per sé, ma perché poteva involontariamente fare la spia alle altre due, in quei suoi momenti di grande infantilismo o di distrazione totale. Invece, su Ylja poteva tranquillamente fare affidamento; in un certo qual modo, era convinto che l’amico sapesse già tutto senza che lui avesse mai detto niente. Ma era quello il bello di Ylja: aveva una sensibilità fuori dal comune, ma contemporanemanete sapeva sempre quando era meglio tacere.
-E va bene, gentaglia, vengo anch’io.
Kuzma gli sorrise, abbracciandolo a sua volta e Denis sentì un brivido percorrergli la spina dorsale e andare a scaldargli il basso ventre. In quegli ultimi tempi, sognava un po’ troppo spesso incontri di fuoco con il biondo e sentirsi stringere da quelle braccia forti, inebriandosi allo stesso tempo del suo profumo di colonia e musica rock non aiutava a calmare i bollenti spiriti. Quella sera avrebbe dovuto darsi da fare e scaricare tutta quell’eccitazione accumulata. Di nuovo, si chiese come avrebbe reagito e si rese conto che, nonostante fosse il suo migliore amico, non lo sapeva. Chissà se ci sarebbe stato, o se lo avrebbe respinto schifato. Da Kuzma potevi aspettarti di tutto, era troppo difficile interpretare quei piccoli occhi chiari che avrebbero frenato una valanga con una sola occhiata.
Denis fu segretamente grato a Ylja che si infilò nell’abbraccio senza tanti complimenti. Si stava lasciando trasportare troppo dalle idee poco caste che il bel viso pallido di Kuzma gli stava suggerendo. Senza dimenticarsi che due metri più in là c’era Sasha, e che anche lei era un’ulteriore distrazione per gli ormoni perennamente su di giri del capobanda. Decisamente, Denis era un ninfomane, se lo diceva da solo, ma cosa ne poteva lui se era circondato da bellezze stellari su ogni fronte? Mica lo faceva apposta!
-Posso portare anche Albyna, secondo voi?- chiese Valerya, agitando la sua bella bambola di porcellana vestita da sposa.
-Forse è meglio se la lasci a casa.- suggerì Valentina, grattandosi impacciata il retro del collo – Non vorrei che si rompesse nella calca.
La rossa ci rimuginò sopra un attimo, mordicchiandosi le unghie e poi alzò i grandi occhi neri sull’amica
-Ma si offenderebbe molto.- continuò, mettendo il muso.
-Pensa però a quanto potrebbe essere brutto se si facesse male.- disse Sasha, aggiustandosi il cappello beanie sulla testa.
-No!- Lera spalancò la bocca – Non me lo perdonerei mai!
-E allora lascia Albyna a casa, Lera.- concluse Kuzma, dandole un buffetto affettuoso sulla testa. – Così appena torni, lei sarà lì che ti aspetta.
Ylja e Denis annuirono alle sue parole, sorridendole rassicuranti e la ragazza sembrò rilassarsi. Guardò la bambola e annuì, sussurrando qualcosa tra sé e sé. Era così dolce, la piccola Lera, quando si dedicava anima e corpo alle sue belle bambole di porcellana, c’era qualcosa di magico nel suo trattarle come fossero vive, qualcosa di irreale nei sorrisi teneri che rivolgeva loro. Nessuno dei suoi amici l’aveva mai criticata per quello, l’avevano accettato tranquillamente, come fosse normale. Ognuno di loro, d’altronde, nascondeva demoni che li divoravano dall’interno e che gli altri sopportavano pazientemente, come la famiglia che erano. La banda del Blocco era molto di più di un gruppo di amici di vecchia data o di teppisti senza vergogna: era la famiglia che nessuno di loro aveva mai avuto, era la spalla su cui piangere, era lo scoglio al quale aggrapparsi quanto tutto cade a pezzi. Non esistevano, senza gli altri, erano cresciuti insieme, si erano tutti fatti carico delle cicatrici degli altri e avevano lottato spalla a spalla in ogni momento della loro vita. Erano fatti per stare insieme, loro sei, per litigare e amarsi come fratelli e per resistere impavidi a qualunque problema che si sarebbe parato loro davanti. E allora si sopportavano le crisi di nervi di Valya. Si giocava con Lera e le sue bambole. Si curavano senza parlare i lividi di Ylja. Avanti così, più spezzati che mai, la banda del Blocco non si arrendeva e tirava avanti meglio che poteva.
-Va beh, ragazze, andiamo a prepararci? Per la prima volta al Samovar dobbiamo essere uno schianto.- Sasha sorrise, prendendo a braccetto le altre due.
-Splendore, vuoi che ti passo a prendere prima di andare?- buttò lì Denis, nella speranza che la bionda avesse sepolto l’ascia di guerra almeno per quella sera.
-No. E non chiamarmi splendore.
Acida come un limone acerbo, Aleksandra Bazarova non si smentiva mai, pensò il ragazzo roteando gli occhi al cielo. Era ancora arrabbiata con lui, e ancora di più lo era la bassissima ma cattivissima Valya, che lo fulminò di brutto prima di sgambettare dietro alle amiche fuori dal Covo.
Una volta soli, Denis si lasciò cadere sulla poltrona girevole e sbuffò
-Che palle, almeno per la prima sera al Samovar poteva far finta di niente …
-Den, tesoro, nemmeno io te l’avrei fatta passare.- commentò Ylja con un risolino, aggiustandosi il ciuffo.
-Non ti ci mettere anche te, adesso. Ho già Valya che sta facendo di tutto per divorarmi.
In realtà, Denis stava pensando alla caduta di stile che avrebbe avuto a presentarsi al Samovar degli Dei senza avere al fianco Sasha … insomma, voleva mettere entrare abbracciato a una delle ragazze più belle e sexy del Blocco contro l’entrare da solo come un perfetto sfigato? Tanto più che Sasha si sarebbe messa in tiro come mai solo per farlo morire di desiderio e invidia. Tipico da lei.
-A proposito, piuttosto passa a prendere me stasera.- intervenne Kuzma. – La moto l’ha presa mia sorella e chissà quando me la riporta.
-Sarà fatto. Ylja, vuoi che prendo la macchina e do un passaggio anche a te?- chiese Denis, smettendo finalmente di tormentarsi l’orlo della maglia slabbrata.
-No, tranquillo, vengo da solo.- Ylja fece un breve sorriso, poi guardò il cellulare e il sorriso si allargò ancora di più – E ora devo andare, ragazzi. Ci vediamo stasera!
Detto questo, lo videro afferrare la giacca e precipitarsi fuori, sbattendosi la porta alle spalle. Denis e Kuzma si guardarono un po’, vagamente straniti
-Kuzja, hai notato anche tu che Ylja si sta comportando in modo strano? Sorride quando guarda il telefono, scompare, scappa dal Covo, non vuole passaggi … Secondo me è fidanzato ma non ce lo vuol dire.
-Dici? Beh, potrebbe anche essere … ma perché dovrebbe tenercelo nascosto?
Denis si grattò il mento
-Boh … magari sta aspettando il momento giusto.
-D’altronde, non sono nemmeno affari nostri, Denisoch’ka. Andiamo a casa anche noi, forza. Non vorrei che quella pazza di mia sorella mi stesse distruggendo la moto.
 
Seduto affianco all’uomo che amava, Ylja aveva ben altro in testa che gli oziosi pettegolezzi dei suoi due amici. Sorrideva, con quel suo sorriso scaltro e vagamente ironico, mentre la macchina nuova fiammante percorreva le vuote strade del Blocco superando di gran lunga il limite di velocità, e guardava soddisfatto fuori dal finestrino.
-Allora, amore, cos’hanno detto i tuoi amici per quei biglietti?
Ylja si voltò verso il suo vicino e sorrise raggiante, posandogli una mano sul braccio
-Oh, erano entusiasti Vik! Non se l’aspettavano, e, se devo essere sincero, non me lo aspettavo nemmeno io. È stato così carino da parte tua.
Viktor Smirnov sorrise a sua volta, stringendo la mano pallida di Ylja e il ragazzo si ritrovò ad arrossire, come ogni volta. Ancora non riusciva a capire come Viktor avesse potuto scegliere lui tra tutti i giovani del Blocco. Cosa avesse trovato in lui, con i suoi occhi pallidi e la sua voce bianca. Ma era un pensiero ozioso, appunto, perché oramai era suo: stava con uno degli uomini più influenti del Blocco ed era felice come mai lo era stato in vita sua. Lo guardò: basso e minuto ma estremamente agile e scattante, pelle olivastra tipica della gente del Caucaso del Sud, capelli scuri che gli cadevano morbidamente sulle spalle, occhi di un caldo nocciola animati da una luce arguta e sveglia, mani piccole strette sul volante. Era così bello, agli occhi di Ylja, così adulto dall’alto dei suoi trent’anni, già bruciato dalla vita ma uscitone vittorioso. Era un esempio, un punto fermo e dio solo sapeva quanto il giovane avesse bisogno di un riferimento nella propria esistenza disastrata. I suoi amici, per quanto li amasse, non erano abbastanza, erano soli come lui e non gli davano quel senso di sicurezza. Voleva un adulto, qualcuno che lo potesse proteggere e che gli mostrasse che si poteva benissimo gabbare la vita. Viktor si era materializzato proprio quando Ylja ne aveva più bisogno, un ramo a cui aggrapparsi, una bibbia alla quale affidarsi. Ma non aveva ancora rivelato nulla agli altri, ben sapendo come avrebbero reagito: urla, lavate di capo, e l’intimazione di lasciar perdere. Sapeva che avrebbero avuto paura per lui, che non lo avrebbero lasciato nelle mani di un uomo pericoloso come Viktor, ma Ylja era ben deciso a non lasciare che nessuno rovinasse la loro relazione. Lo amava, di un amore tenero, profondo e affezionato. Poteva essere pericoloso, ma non lo avrebbe lasciato andare.
-Tutto per farti felice, Yljusha.- gli disse Viktor, prendendo una curva troppo stretta – Così finalmente questa sera conoscerò i tuoi amici.
-Ehm … amore, forse è meglio di no.- Ylja arrossì, e si scostò i capelli dal viso – Non vorrei che ti facessi un’idea sbagliata, ma non so quanto la prenderebbero bene. Sai, sono un po’ iperprotettivi nei miei confronti e …
-Ho capito, tesoro, ho capito.- lo interruppe l’uomo, regalandogli un dolce sorriso di traverso – Preferisci non andare a sbandierare in giro la nostra relazione. Non c’è problema, non ti voglio fare pressione. Anche se devo dire che hai degli amici molto carini a preoccuparsi per te.
-Lo sono, Vik, lo sono.- cinguettò di rimando Ylja, rilassandosi ma continuando ad essere rosso come un pomodoro – Però a volte esagerano.
-Spero solo che almeno una volta in tutta la serata verrai a ballare con me. Non potrei sopportare l’idea di averti nello stesso locale senza poterti toccare.- Viktor gli lanciò un’occhiata in tralice, con quella luce nel profondo delle pupille che Ylja aveva imparato a temere. Sapeva benissimo che il suo fidanzato era qualcuno da cui stare alla larga; spediva i suoi uomini a scatenare risse con chiunque gli avesse inavvertitamente dato fastidio e aveva in mano traffici illeciti di cui Ylja sapeva poco e niente. No, non era un uomo affidabile ma il ragazzo non poteva fare a meno di amarlo. Amava anche quella luce sadica e vagamente maniacale che ogni tanto gli illuminava lo sguardo, nonostante non potesse nascondere a sé stesso che ne avesse un leggero timore. Sì, c’erano momenti nei quali aveva quasi paura di Viktor, ma non faceva mai in tempo a spaventarsi davvero che il suo fidanzato faceva qualcosa che lo calmava completamente e lo rassicurava del loro amore.
-Ma certo!- si affrettò a dire, spalancando gli occhioni, improvvisamente agitato di aver detto qualcosa di sbagliato – Starò sempre con te! Intanto i ragazzi saranno troppo impegnati a sballarsi per fare caso a me.
Viktor rise e scosse la testa, posando una mano sulla gamba di Ylja
-Amore, non ti agitare. Scherzavo, certo che puoi stare con i tuoi amici. Anche se, pensandoci, non mi dispiacerebbe se mi concedessi un ballo.
-Oh. Sì. Certo che balleremo, Vik. Mi piacerebbe così tanto.- Ylja arrossì ancora di più, e si morse il labbro inferiore.
Spesso Vik lo metteva in imbarazzo, ma era comunque una sensazione alla quale Ylja anelava come a tutto il resto.
-Sei così bello, Yljusha.- commentò Viktor, facendo risalire la mano sulla coscia del ragazzo, pericolosamente vicina al suo inguine, e dandogli una poderosa strizzata.
Ylja ridacchiò e intrecciò le dita scure del suo fidanzato con le sue. Non riusciva nemmeno a quantificare la felicità di poter stare con un uomo simile, la fortuna che aveva avuto a finire nelle sue braccia e nelle sue grazie. Gli sorrise, quando posteggiarono la macchina di fronte a uno dei grossi palazzi di cemento armato del Blocc. Scesero insieme, tenendosi per mano come una vera coppia. Inutile dirlo, Ylja si sentiva forte quando era con Viktor. Si sentiva realizzato, fiero, finalmente libero dalle angosce che lo perseguitavano tutti i giorni – era una sensazione così conturbante, alla quale non sapeva dare un nome ma che era abbastanza per dargli un motivo per tirare avanti in quell’inferno che era Ekaterimburg. Forse era amore, forse era passione, forse era gioia, non lo sapeva. Ma finché sarebbe durata, non aveva intenzione di farsela fuggire.
-Vuoi restare a dormire a casa mia stanotte?- chiese Vik, aggiustandosi il berretto da baseball calcato sui lunghi capelli castani.
-Davvero posso?!- esclamò Ylja, quasi strillando.
Era molto raro che lo invitasse a passare la notte intera a casa sua, e da un lato Ylja non gliene faceva una colpa. Era sicuramente un uomo impegnato.
-Certo che puoi, amore.- Viktor gli scostò un ciuffo dal viso – Anzi, questo weekend non devo andare via per lavoro, quindi puoi restare quanto vuoi.
-Oddio, grazie Vik!- questa volta Ylja strillò, abbracciando stretto il fidanzato. – Non vedo l’ora!
-Per farmi perdonare di tutti i fine settimana in cui ti ho lasciato solo.- rispose l’uomo, baciando dolcemente le labbra cedevoli del ragazzo.
Presto, il bacio si fece più corposo, più appassionato, più languido, e fu Viktor il primo a staccarsi gentilmente e a sussurrare
-Magari questo è meglio farlo in casa, non credi?
Ylja ridacchiò e annuì, facendosi trascinare dentro l’appartamento del fidanzato, un sorriso stampato sulle labbra e negli occhi una luce dolce come solo quella dei ragazzi innamorati può esserla.

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Capitolo 4
*** Il Samovar degli Dei ***


CAPITOLO QUARTO: IL SAMOVAR DEGLI DEI

Dressed up, messed up, put on a show
Show the whole damn world’s gonna know
That we were here
Running round, blackin’out
Young bloods burning it down
[Lights – We Were Here]
 
Aleksandra era bellissima quella sera, con quel vertiginoso tubino nero di seconda mano e quei capelli quasi bianchi sciolti sulla schiena ossuta, le scarpe col tacco alto che le slanciavano le già lunghe gambe da gazzella. Sì, era decisamente stupenda ma, come al solito, non era totalmente conscia di esserlo. Da quando era nata, la gente non faceva che dirle quanto fosse bella, ma lei non ci aveva mai creduto: non vedeva nulla di affascinante, nulla di speciale in quel viso affilato, in quegli occhi malinconici o in quei capelli troppo chiari, trovava sgradevole il suo sorriso esattamente quanto il suo fisico. No, non si piaceva. Anzi, si odiava. Era nato tutto pian piano, sempre meno fiducia in sé stessa, sempre più nasi storti di fronte allo specchio, sempre più ossessioni malate sul suo aspetto. Era in caduta libera, lo sapeva, e non era in grado di fermarsi, di fare fronte a qualcosa che, lo aveva capito, l’avrebbe distrutta. Ma l’odio si era talmente radicato in lei che combatterlo oramai era impossibile. Non lo faceva per moda, o per finta modestia: era un vero tarlo che la stava uccidendo. Poteva essere considerata la ragazza più bella del Blocco, poteva avere torme di ammiratori, poteva stare con il ragazzo più sexy di Ekaterimburg, ma continuava a non capire perché. Lei era brutta, così brutta, continuava a ripetersi davanti allo specchio, tra le lacrime, dando pugni isterici al vetro finché non lo vedeva scheggiarsi e distorcere l’immagine che tanto odiava. Era un’avversione irrazionale e distruttiva, e Sasha ne era letteralmente sommersa. Anche quella sera, ci aveva messo delle ore ad autoconvincersi di essere quasi presentabile. Chiusa in bagno a singhiozzare, aveva dovuto sistemarsi il trucco tre volte prima di essere pronta. Era stata tentata di chiamare Valya, inventarsi un mal di testa improvviso e starsene rintanata in casa, ma poi quella poca razionalità che aveva, aveva avuto la meglio: Valya si sarebbe allertata, e avrebbe indagato su cose che Sasha voleva restassero segrete. Doveva uscire, superare lo schifo che le faceva la sua immagine e sorridere, come al solito. Anche quella sera, aveva pianto, si era disperata, aveva tentato di rompere lo specchio e aveva strillato tutta la sua frustrazione. Poi, facendosi forza, aveva cominciato a prepararsi, con metodo, salvo fermarsi ad ogni passo per asciugarsi le lacrime e per tentare di calmare la crisi isterica in arrivo. Adesso, impalata con le sue amiche di fronte al Samovar degli Dei, stava facendo una fatica abnorme a non correre via piangendo. Non riusciva nemmeno a guardarsi le gambe nude, o le braccia coperte da una bolero di pelle: si sentiva così oscena, così inguardabile, avrebbe voluto nascondersi dalle occhiate ammirate della gente e andarsi a nascondere nel buco di Alice. Sorrideva, come sempre, ma dentro stava letteralmente morendo, soffocata dalla sofferenza. Invidiava Valerya, che sembrava così a suo agio nei suoi abiti da gothic lolita neri e fucsia, o Valentina, con i suoi shorts scosciati e i suoi top stracciati. Almeno loro sembravano fregarsene di come apparivano, a differenza sua. Si accese una sigaretta, nervosamente, nel tentativo di darsi una calmata, e sbatté il tacco a spillo sul selciato. Dei ragazzi non c’era traccia, e tutte loro si stavano seriamente chiedendo dove fossero finiti: solo dei deficienti come quei tre potevano pensare di lasciare le loro amiche sole in un posto poco raccomandabile come quello.
-Ma si può sapere dove sono finiti quei tre coglioni?- Valya diede voce ai pensieri di tutte, schiacciando la sigaretta sotto al tacco degli stivali di pelle lucida.
-Due coglioni sono qua, il terzo non si sa.
Sentendo una voce conosciuta, le ragazze si voltarono verso Kuzma e Denis, che, trafelati come non mai, erano appena arrivati correndo.
-Ragazzi, state bene? Perché avete corso?- chiese Lera, sistemando la camicia di Kuzma e riassettando il colletto del chiodo di Denis.
-Den si era scordato di avere la macchina sotto sequestro e la mia moto è dal meccanico dopo che quella scema di mia sorella l’ha presa in prestito.- spiegò Kuzma, passandosi una mano tra i capelli.
-Abbiamo corso perché non ci piaceva l’idea di lasciarvi sole in un posto simile.- concluse Denis, ansimando come un mantice.
-Wow, vi avevamo sottovalutato.- commentò Sasha, alzando un sopracciglio.
-E invece Ylja dove si è cacciato? È sempre in ritardo.- borbottò Valentina.
A quel punto, però, Sasha non ascoltava più i discorsi concitati dei suoi amici, ma aveva concentrato le sue attenzioni su Denis. Perché poteva fare tutte le scene che voleva, ma lei non era capace di lasciarsi alle spalle un ragazzo del genere. Lo guardò, alto e slanciato, la maglia slabbrata che faceva intravedere i tatuaggi di cui lei conosceva a memoria l’ubicazione, la massa di capelli lisci arruffati ad arte col ciuffo gli cadeva opportunamente sull’occhio destro, le lunghe dita inanellate, lo sguardo spavaldo e spaccone che nascondeva in realtà un animo affettuoso e buono. Dio, quel ragazzo era stato la sua perdizione più assoluta. Un amico fidato e coraggioso, certo, anche se come fidanzato aveva tante di quelle pecche … fece una smorfia quando lui le si avvicinò e le posò una mano sul fianco, sorridendole come solo lui sapeva fare.
-Sei stupenda stasera, Sashen’ka.- le sussurrò nell’orecchio, facendola rabbrividire. Aveva sempre avuto una voce così dolce e melodiosa. Aveva sempre avuto un fascino così maledettamente irresistibile.
-Anche tu non sei male, Denisoch’ka.- gli rispose,  infilandogli delicatamente la sigaretta tra le labbra, come d’abitudine.
-Vogliamo fare pace, splendore?- continuò Denis, passandole un braccio attorno alla vita, facendo quasi combaciare i loro corpi. Sasha si inebriò per un attimo del suo profumo e fu quasi sul punto di appoggiarsi a lui e baciarlo ma si trattenne. L’aveva fatta imbufalire e non avrebbe potuto cedere solamente perché le aveva fatto due moine. Piegò la testa da un lato, guardandolo nel profondo degli occhi. Amava Denis? Non lo sapeva. Se lo chiedeva ogni volta che facevano sesso, quando lui era sotto la doccia e lei rimaneva stravaccata sul letto, i capelli sparsi sul cuscino, le cuffie sulle orecchie e gli occhi persi a vagare sul soffitto. Ogni volta che dormivano insieme, lui che la stringeva forte come fosse un pelouche e lei impegnata a guardare le stelle, accoccolata al suo fianco. Ogni volta che litigavano, lui che se ne andava sbattendo la porta e lei che gli tirava dietro insulti dei più fantasiosi. Ogni volta che andavano in giro con la banda, lui che rideva e fumava allegro e lei che pensava alla musica e a quanto fossero belli i capelli di Lera. Sì, Sasha se lo chiedeva sempre, se amasse Denis o se in fondo non fosse solamente un caro amico con benefici. Non aveva mai pensato alla sua vita con lui, lo aveva sempre vissuto come una cosa giovanile, scherzosa, eccitante finchè sarebbe durata ma niente di più. Denis era un ragazzo d’oro, lo sapeva: un amico fedele, divertente e scapestrato, qualcuno di fidato sul quale avrebbe sempre potuto contare eppure per Sasha non era adatto a fare il fidanzato. Lei voleva qualcuno che le portasse mazzi di fiori, e lui non le aveva mai regalato nemmeno una margherita. Voleva promesse sotto la luna, non voleva stare a discutere di musica rock (lei, poi, che era una ragazza-rap, anche se Denis non sembrava saperselo mettere in testa). Voleva qualcuno che vedesse solo lei, e invece lui era irrimediabilmente impegnato a scrutare tutta la popolazione scopabile del Blocco. No, okay, forse Sasha lo vedeva solo come amico, non come fidanzato, e forse aveva ragione Valya quando le diceva che avrebbe dovuto lasciarlo. Intanto, cosa ci avrebbe guadagnato a stare con Denis? Litigate infantili, e niente altro. Sarebbe stato meglio per lei trovarsi qualcuno con le caratteristiche che voleva e per lui essere libero di fare un po’ quello che voleva con chi gli pareva.
-Senti, Den … forse dovremmo parlare.- sussurrò, accarezzandogli gentilmente il viso – Anche se questo non mi pare il momento più adatto.
Denis aggrottò le sopracciglia, e Sasha lo trovava così carino quando faceva la faccia da bambino.
-E’ successo qualcosa? Senti, se è per il fatto che …
-No, Denis, ascoltami. Ne parliamo domani. Stasera pensiamo a divertirci e non toccarmi il culo, non abbiamo ancora fatto pace maiale!
Gli diede uno schiaffo sulla mano e lo guardò ritirarla con aria offesa. Ma divertita. Perché alla fine con Denis ti facevi delle gran risate e basta. Lui fu sul punto di dire qualcosa, ma l’arrivo di Ylja li distrasse tutti.
-Alla buon’ora!- sbottò Valya, fulminando l’amico – Ma dove ti eri cacciato?!
-Ci ho messo un po’ a prepararmi.- si scusò Ylja, scostandosi i ciuffi corvini dalla fronte pallida. In giacca e cravatta, faceva sicuramente la sua bella figura in mezzo a camicie di terza mano e shorts scosciati e bucherellati.
-Vorrei ben vedere, dove li hai presi ‘sti vestiti?- chiesero in coro Kuzma e Sasha, alzando un sopracciglio in contemporanea.
-Segreto, gente.- Ylja fece un sorriso malandrino.
E segreto sarebbe dovuto rimanere, pensò tra sé e sé. Quei vestiti glieli aveva prestati Viktor proprio in occasione di quella serata, infatti i pantaloni gli erano un poco corti e non era del tutto a suo agio in quella giacca del completo, né con la cravatta al collo. Cravatta che, oltretutto, avevano usato due ore prima per una sessione di sesso selvaggio. Aveva provato a dire a Vik che forse non era il caso di indossarla, dopo che gli aveva cinto i polsi ancora arrossati, ma l’uomo non aveva voluto sentire ragioni e gliel’aveva aggiustata personalmente. Non sapeva perché, ma Ylja era quasi convinto che fosse un segno di proprietà, una sorta di collare virtuale per far intendere che lui era suo, e solo suo. Il ragazzo si stava chiedendo da un po’ se essere onorato o spaventato da quel tacito segnale, ma non fece in tempo a perdersi nelle sue congetture perché Denis prese parola
-Ora che ci siamo tutti possiamo anche entrare.- decise, passandosi una mano tra i capelli. Si sistemò il chiodo e sorrise, rivolgendosi ai suoi amici – Allora, pronta Banda del Blocco?
-Pronti, tavarish Shostakovich!- urlarono tutti in coro.
Detto questo, la banda si avviò verso l’entrata del Samovar degli Dei, biglietti in mano e sguardi esaltati. Erano uno spettacolo, sei ragazzi belli come solo i perduti possono essere, musi di periferia, sigarette in tasca e sogni nelle bottiglie, decisi e sfrontati come erano stati cresciuti, orgogliosi di un orgoglio bastardo e assassino, convinti di avere il mondo in mano. La Banda del Blocco era storia nel quartiere, non c’era giovane che non li conoscesse e che non avesse desiderato almeno una volta fare parte di quel gruppo di eletti. Tutti avrebbero voluto essere al loro fianco, ridere le loro lacrime e piangere le loro risate, partecipare alle loro avventure sempre sul filo del rasoio. Nessuno vedeva i sei ragazzi senza casa e senza futuro che erano, troppo impegnati a decantarne la libertà e il coraggio. Nessuno capiva che in realtà erano solo un manipolo di disperati che cercava un po’ di sollievo per non farla finita sotto a un treno. Erano loro sei, erano fratelli, erano un gruppo di soldati che cercavano di sopravvivere a quella giungla che era la vita con una risata, un abbraccio, un accordo di chitarra. E adesso il gruppo stava entrando nel mondo dei grandi, facendosi portavoce della nuova, scapestrata, generazione del Blocco.
Quando finalmente entrarono, per la prima volta dalla porta e non da qualche buco delle cantine, rimasero accecati dalle luci ballerine che illuminavano il locale. Erano in una stanza enorme, dove nugoli di persone scemavano di qua e di là, illuminate a tratti da un colorato guazzabuglio di rosa, violetto e indaco. Un enorme lampadario finto barocco di un orribile rosa pompelmo dondolava pigramente sopra le teste di tutti, e una grande vasca faceva la sua bella figura su una parete, mostrando piccoli pesci pagliaccio che nuotavano ignari nell’acqua colorata. Divani dei colori più disparati offrivano riposo, mentre una principesca scala di finto marmo saliva in una zona sopraelevata, riservata evidentemente alle persone ben ammanigliate. Un bancone a quadri neri e rosa occupava un’altra parte della sala, dove bottiglie dai contenuti più assurdi venivano continuamente  vuotate in alti flute di cristallo. La musica, sparata a un volume insostenibile, scuoteva la folla strafatta che ondeggiava in giro per quell’inferno di pacchianeria.
Lera sfarfallò gli occhioni neri, disturbata da tutto quel rumore. Adesso, non le sembrava più una grande idea essere entrata in quel posto. Era una ragazza delicata, lo era sempre stata, ed erano molte le cose che le creavano fastidio: per esempio, un luogo del genere poteva benissimo costituire un problema. Si girò nervosamente in giro, deglutendo quando una ragazza le fece una linguaccia, e si morse il labbro inferiore quando vide un manipolo di uomini sniffare avidamente quello che capiva benissimo non essere semplice zucchero. No, cominciava ad agitarsi. C’era rumore, e luci, e tutto quello di cui lei aveva paura. Come aveva potuto essere stata così stupida ad andare lì dentro? Sentì il cuore aumentare i battiti e afferrò nervosamente la grande mano di Kuzma. Lera si sentiva al sicuro quando era con lui, la loro roccia, il ragazzo resistente che li avrebbe trascinati tutti fuori dal pantano. Sin da quando erano piccoli, Kuzma si era preso cura di lei, proteggendola dai suoi demoni e aiutandola ad inserirsi, seppur faticosamente, nel mondo normale. Certo, tutti i ragazzi della Banda l’avevano sempre protetta e aiutata, ma Kuzma era quello che le comunicava più sicurezza e stabilità. Era quello presente, il fratello metodico e ragionevole.
-Lera? Stai bene?- le chiese lui, chinandosi su di lei, un lampo preoccupato negli occhi chiari.
-Ho paura.- piagnucolò di rimando la rossa, stringendosi a lui – C’è troppo rumore e troppe luci. Kuzja, voglio tornare a casa.
-Ascoltami Leroc’hka. Va tutto bene.- Kuzma si voltò verso di lei e le prese il viso lentigginoso tra le mani – E’ solo il primo shock. Adesso ti calmi, facciamo un giro e vedrai che andrà tutto bene. Non c’è motivo perché ti succeda qualcosa.
-No!- Lera sbattè il piede calzato in una ballerina rosa shocking per terra, grosse lacrime già pronte a scorrere – Ho paura, basta!
Si aggrappò alle spalle dell’amico, facendosi stringere in un abbraccio affettuoso. Non c’era nulla come gli abbracci di Kuzma che calmassero Lera. Si sentiva a casa, tra le braccia del biondo, al sicuro dai demoni che la angustiavano.
-Stai tranquilla.- sussurrò di rimando lui, accarezzandole i lunghi codini scarlatti –  Ora mi prendi per mano e stiamo insieme a Sasha e a Valya. Ci sediamo in quel divano laggiù, beviamo qualcosa e vedrai che si farà tutto più sopportabile. Cosa ne dici, magari un succo, sempre che ne abbiano, e poi non trovi che quel divano abbia l’aria davvero comoda? Poi chiamiamo le ragazze e spettegoliamo sulla gente. Hai visto che buffa quella ragazza coi capelli verdi? Quando sei stanca me lo dici e torniamo a casa. Dai, Lera, non vorrai aver fatto prendere un biglietto per niente?
Valerya fece un respiro profondo, tentando di sopprimere le lacrime e annuì piano, stringendo sempre più forte la mano di Kuzma. C’era qualcosa nella voce calma del ragazzo che era in grado di rassicurarla come niente altro. Si fidava di lui, ciecamente. Alzò gli occhi e annuì piano
-Va bene, Kuzja. Stiamo un pochino. Ma stammi vicino!
Il ragazzo rise e strinse a sé l’amica, mentre si facevano largo tra la calca, guidati da un esaltato Denis che saltellava in giro con gli occhi spalancati. Aveva già adocchiato qualche ragazza e qualche ragazzo niente male, e rivolto sorrisi a destra e a manca, come la star che era. La gente li guardava di sottecchi, tra un drink e l’altro, e si chiedeva chi fossero quei sei adolescenti buffi e spavaldi che si muovevano in formazione compatta come se il locale fosse il loro.
-Sasha, andiamo a bere. Voglio sballarmi abbastanza da non capire più niente.- disse Valentina, afferrando la mano dell’amica. Evitò di dire che lei si ubriacava solamente per poter allungare le mani su di lei senza dover avere scuse.
-Sì, Valya, arrivo. Voi cosa fate?- chiese Sasha, gli occhi brillanti di eccitazione.
-Prendete qualcosa da bere anche per me e Lera, noi cerchiamo di conquistare un divano. Non è il caso che Lera si agiti.- commentò secco Kuzma, osservando preoccupato gli occhi della rossa che andavano allargandosi pericolosamente e il labbro inferiore cominciare a tremare agitato.
-E noi andiamo a ballare!- trillò Denis, tirando Ylja per un polso – Ci vediamo sul divano tra un’ora a fare rapporto.
I sei si scambiarono un cenno d’intesa, e presto ognuno di loro si separò, disperdendosi nella folla sudata e strafatta del Samovar degli Dei.

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Capitolo 5
*** Marina, Marina Petrachenko ***


CAPITOLO CINQUE: MARINA, MARINA PETRACHENKO

Ты полюби меня пьяную, пьяную –
Мне лишь тогда хватает силы. Я говорю:
Не отвози домой, сама доеду, докурю.
Боюсь влюбиться, ну а вдруг я уже люблю.
 
(Tu amami quando sono ubriaca, ubriaca
Solo allora ho abbastanza forza. Ti dico:
Non mi accompagnare a casa, ci arriverò da sola, in qualche modo.
Ho paura di innamorarmi, ma penso di esserlo già)
[Мари Краймбрери – Пьяную]
 
Valentina era già ubriaca. Abbandonata sul divano, beveva compulsivamente quello strano liquido azzurro, non prestando nemmeno attenzione ai discorsi degli altri. Stava male, come tutti i santi giorni, perché sapeva che non avrebbe dovuto bere ma si ostinava lo stesso e si odiava per quello. Sospirò, passandosi una mano tra i lunghi capelli neri e rosa e fece un verso inconsulto. La musica le dava alla testa tanto quanto la cortina di fumo che era calata come una nebbia nella sala. Poteva percepire le voci dei suoi amici ma non riusciva a capire cosa dicessero. Le faceva male la gola e la testa. Si strusciò pesantemente sulla spalla aguzza di Sasha, e si inebriò del profumo fresco e conturbante dei suoi capelli. Ogni volta che beveva, la sua sofferenza sembrava acuirsi ancora di più, la prendeva alla gola, la soffocava e lei si chiudeva nel suo guscio di tristezza senza essere capace di uscirne. Non era mai stata forte, e lo sapeva. Poteva sembrare una bastarda, sarcastica, volgare e decisa, col suo trucco pesante e i jeans strappati, ma non era altro che un povero fuscello bistrattato dai venti siberiani. Voleva una ragazza che non avrebbe mai potuto avere. Imbottigliava tutto l’odio che provava senza mai lasciarlo uscire. Non riusciva a ricordare l’ultima volta nella quale era stata veramente felice. Nascondeva cicatrici con maniche lunghe e felpe oversize. Non dormiva da mesi, ormai. Era uno straccio, la piccola Valentina Tolokonnikova e nessuno lo sapeva. Bevve ancora un sorso e sfregò il naso nel collo di Sasha, lasciando che lei l’abbracciasse e le desse un bacio sulla guancia. Non voleva pensare a niente: la lite con Denis, il locale, la cicatrice che le decorava la pancia. Tutto sfumava quando Sasha la abbracciava o la coccolava. Per un attimo, a Valentina sembrava di potersi elevare in un altro universo, un mondo alternativo dove era felice e dove tutta la depressione che la soffocava scompariva, lasciandola leggera e felice di vivere. Ma erano solo attimi, e quando finivano, la caduta nel mondo terreno era sempre più devastante. Le ali sanguinavano come non mai, e l’angelo che era in lei veniva soppiantato da un demone deforme e straziato. Viveva male, e non sapeva nemmeno più con che forza andasse avanti. Forse erano gli occhi di Sasha a darle ancora quella spinta necessaria a trascinarsi stancamente giorno per giorno. Un lampo di dolore alla pancia le fece contrarre il viso in una smorfia, e, con un movimento inconsulto, si tirò su il bordo degli shorts, terrorizzata che qualcuno notasse la cicatrice che ancora le sporcava la pelle candida. Quel dolore che ogni tanto la colpiva, le ricordava puntualmente quello che era successo l’anno prima ed era un altro fardello che la ragazza non riusciva più a sopportare. Era già abbastanza difficile così, ma quando ci si metteva pure quello allora il dolore si faceva devastante. Quasi senza pensarci, si posò una manina sulla pancia, e ripensò a quel giorno, soffocando un conato. No, non doveva pensarci adesso, non quando era ubriaca, non con tutti i suoi amici lì vicino. Sospirò, e scompigliò i capelli di Sasha, lasciandosi andare a una risata alcolica. Era così bella quella sera … ma non era sua. Non lo era mai stata, d’altronde. Chiuse gli occhi, lasciando che i bassi la cullassero nel torpore malsano di quella notte kitsch, immaginando di essere in camera sua, stravaccata sul letto, i Pierce The Veil a tutto volume nelle casse, una sigaretta in bocca e i graffi che stentavano a cicatrizzarsi. Sola nel casino della sua mente, sola in mezzo ai suoi demoni, sola nell’incubo che si trascinava stancamente tra le strade di cemento di Ekaterimburg. La stanchezza che le pesava addosso aveva sempre la meglio, e oramai non le rimaneva altro che la musica per restare ancorata al mondo terreno. Musica a tutte le ore, musica che la salvava, musica che le parlava, musica che le ricordava che era ancora viva e che avrebbe dovuto resistere. Valentina non sapeva se le cose si sarebbero mai aggiustate, se ne sarebbe uscita o se si sarebbe suicidata in una notte da tregenda, ma finché aveva la sua musica, un briciolo di speranza le illuminava ancora lo sguardo blu notte. Si diceva sempre che ce l’avrebbe fatta, e alzava il volume degli Sleeping With Sirens per non sentire il ronzio dei suoi pensieri sbagliati. Si diceva che forse c’era ancora un motivo valido per rimanere lì a lottare. Stringi i denti, Valyoch’ka, alza il volume e fai vedere al mondo che sei ancora in piedi. Un rituale che le dava forza. Come il sorriso di Sasha.
Guardò la sua migliore amica che rideva, la testa rovesciata all’indietro e i lunghi capelli fruscianti, e le diede un leggero bacio all’angolo del labbro. Sasha si girò verso di lei, e ricambiò il bacino, forse troppo andata per capire che era a un passo dall’avverare lo storico desiderio di Valya. Alla ragazza andava bene anche quello, piuttosto che niente.
-Sei bellissima, Sasha.- piagnucolò, cercando di accendersi una sigaretta.
-Anche tu, Valyoch’ka.- sghignazzò Sasha, più andata di quello che sembrava.
Si stravaccò addosso a Valentina, accarezzandole il viso tondo con le lunghe dita nobili e ingioiellate.
-Mi chiedo perché non sono lesbica … - biascicò, ridendo da sola – I ragazzi danno così tanti problemi … invece le ragazze … le ragazze ti capiscono …
-Potremmo metterci insieme io e te.- mugolò Valya, mentre ringraziava mentalmente di essere ubriaca. Se fosse stata sobria, sarebbe scappata in lacrime a sentirsi dire una cosa del genere in modo così scialbo.
-Ma tu sei la mia migliore amica … - Sasha era completamente andata, e Valya fece un gigantesco sforzo per non mettersi a strillare. La mia migliore amica. Sempre e solo una dannatissima amica, anche da ubriaca la bionda non si smentiva.
Voleva dirle qualcosa, ma alla fine optò per un singulto che avrebbe voluto essere una risata e lasciò che l’ennesimo drink violetto le scorresse in gola. Sperò che fosse una cosa abbastanza forte da rintronarla.
Si lasciò cadere stancamente sui cuscini scomodi di un verde fosforescente, e staccò il cervello, lasciando che i pensieri corressero come più pareva loro. Pensava ad Aleksandra, e a tutto quello che significava per lei, pensava a Denis e a quello che si erano detti qualche ora prima, pensava a Kuzma che si preoccupava sempre troppo, pensava a Ylja, che in quei giorni era davvero strano, pensava a Valerya che cominciava a dare segni di nervosismo. Pensava al Blocco e a quanto odiasse Ekaterimburg, pensava all’ultimo disco degli Asking Alexandria, pensava alle lacrime che avevano cominciato a scorrerle sul viso senza che nemmeno se ne accorgesse. Pensava a quella notte orribile dell’anno prima, pensava allo smalto nuovo che doveva andarsi a comprare, pensava a quanto facessero schifo le sigarette girate da Ylja, pensava a come le piacesse il cielo notturno e la nebbia mattutina. Pensava a tante cose diverse, e quasi non si accorse del fermento in cui erano i suoi amici. Ci mise un po’ a realizzare che Sasha stava strillando istericamente e che si stavano tutti alzando di corsa, in un caos di voci concitate e bicchieri che si rovesciavano.
-Ma che cazzo succede?- grugnì, tentando di tornare con i piedi per terra.
-Valya, muoviti, Lera sta male!- le urlò Denis nell’orecchio, afferrandola per il polso e trascinandosela dietro.
Inciampò nei suoi stessi piedi, mentre cercava di rielaborare l’informazione. Lera stava male. Cazzo. Tenendosi sempre stretta a Denis, cercavano di farsi largo tra la folla, tra le strilla di Sasha e di Ylja. Vedeva male, le girava la testa, e le veniva da vomitare, ma quando finalmente riuscirono a uscire dall’inferno che era il Samovar degli Dei, l’aria gelida della notte fu come una secchiata d’acqua. Valentina sfarfallò un po’ le lunghe ciglia, trattenendo un conato e un brivido di freddo, ma d’improvviso si sentì anche molto più lucida, strappata di colpo al caldo soffocante del locale e all’alcol che cominciava ad essere troppo. Barcollò un pochino, e poi mise a fuoco Kuzma inginocchiato per terra che teneva Lera tra le braccia, Sasha che continuava a urlare che qualcuno chiamasse un medico, Denis che dava dei leggeri schiaffi alla rossa forse nel tentativo di farla vomitare. Valya se ne stava semplicemente lì in piedi, inebetita, senza sapere bene come comportarsi. Non voleva che la dolce Lera stesse male. Non voleva stare male lei stessa. Voleva solo dormire. Le girava la testa così tanto che non sapeva nemmeno come fare
-Lera, Leroch’ka … - sussurrò, cadendo pesantemente al suolo accanto a lei, cercando di accarezzarle i codini scarlatti.
-Valentina, sei ubriaca, levati.- le abbaiò Kuzma, spostandola di peso.
Lei ciondolò un pochino e poi si abbandonò sul marciapiede, le orecchie ovattate e gli occhi in ficco. Nel suo stupore alcolico vedeva Lera scossa da tremiti fortissimi che singhiozzava e i suoi amici che tentavano di capire cosa avesse; voleva aiutare ma sapeva di non esserne in grado, quindi si limitò a ululare come una sirena che qualcuno aiutasse la loro amica. Anche se nessuno sembrava particolarmente interessato a un manipolo di adolescenti disperati. Sentiva in sottofondo le voci concitate di Denis e Kuzma, i versi di Valerya, e la sua mente rumorosa che la stava definitivamente confondendo.
-Abbiamo bisogno di un medico.- stava dicendo Ylja, mentre con un fazzoletto cercava di pulire il viso di Lera sporcato di vomito.
-Ma che cos’ha, ragazzi, che cazzo le succede?- imprecava Denis, cercando di levarle i capelli dalla faccia lentigginosa.
-Si sarà agitata, c’era troppo casino là dentro.- borbottava Kuzma, che cercava di calmarla come meglio poteva.
-Ragazzi, cosa succede? La vostra amica sta male?
Una voce nuova, sensuale e femminile, si frappose nella concitata agitazione della banda. Persino Valentina si riscosse dalla sua trance ubriaca e concentrò le sue attenzioni sulla nuova arrivata. Era una donna giovane, bassa ma con un fisico atletico, vestita con scosciati vestiti di pelle da porno hip-hop. La lunga coda bionda chiaramente tinta frustava l’aria intorno a sé, e i grandi occhi truccatissimi le davano un’aria sì sensuale, ma estremamente pericolosa. Come una pantera. Una piccola, affascinante pantera.
-Sì! Sta male! Ti prego aiutala!- berciò Sasha, appendendosi strillando alla donna, per poi venire brutalmente tirata sul marciapiede da Valentina.
La donna si inginocchiò accanto a Lera, in bilico sui tacchi degli stivali vertiginosi, e Denis non poté trattenersi dal fare un mezzo fischio di apprezzamento.
-Scusa, ma … come pensi di poterci aiutare?- commentò gelido Kuzma, molto restio a lasciare Lera nelle mani della sconosciuta.
-Perché sono un medico, tesoro.- gli sorrise lei, alzando un sopracciglio perfettamente disegnato – L’abito non fa sempre il monaco. Allora, cos’è successo?
-Non lo sappiamo.- gemette Ylja – Ha cominciato a dare di matto dopo un po’, forse si è agitata, o forse le hanno messo qualcosa nel drink …
-Prende delle medicine?- lo zittì la donna, prendendo il polso della ragazza, che continuava a tremolare e a piagnucolare.
-Sì, è autistica. Cioè, non proprio. In realtà non lo sappiamo, però … - iniziò Denis, per venire brutalmente tacitato da Kuzma
-Prende degli psicofarmaci, anche se non siamo sicuri di quali siano. Soffre di una leggera forma di autismo, forse della sindrome di Asperger. Fatto sta che il rumore e la massa di gente che c’era dentro l’ha mandata in paranoia.
La donna lo ascoltava, mentre nel frattempo aveva creato un contatto visivo fisso con Lera e le aveva preso le manine tra le sue
-Perfetto. Come si chiama la vostra amica?
-Valerya.
-Bene. Valerya, va tutto bene. Respira con me.
Kuzma avrebbe voluto opporsi, dirle che Lera aveva paura degli estranei, che solamente loro erano autorizzati a calmarla, ma decise di tacere quando vide i grandi occhi della rossa spalancarsi e le guance gonfiarsi un pochino. Quando gonfiava le guance, allora si stava calmando.
-Respira, bella. Non è successo niente. Ora c’è silenzio. Lo senti? Silenzio. Non c’è nessuno. Nessuno ti farà del male. Silenzio. Rilassante, bellissimo, silenzio. Hai visto, Valerya? Va tutto bene. Siamo sole. Sole.
La donna tinta di biondo ripeteva quelle parole come un mantra, ipnotizzando quasi tutta la banda. Era una cosa strana da fare, in uno dei quartieri peggiori della città, seduti su un marciapiede lurido, in mezzo a ragazzini ubriachi. Ma sembrava sortire un certo effetto, perché Lera stava cominciando a respirare di nuovo normalmente, calamitata dalla dolcezza della voce nuova, dal sorriso splendente e dagli occhi sereni della dottoressa hip-hop. I ragazzi si erano pian piano allontanati, lasciando le due giovani donne nella loro dimensione tranquilla di silenzio e rilassamento. Aveva una voce bassa e sensuale, solo lievemente sporcata da un accento moscovita, e sembrava che stesse cantando una ninnananna. A un certo punto, tutti avevano smesso di ascoltare le sue parole per lasciarsi cullare da quella delicata cantilena che sapeva di casa, segreti e lettere mai aperte. La donna aveva qualcosa di magico in sé, un’aura che non volevano rovinare, un piglio misterioso che ti portava a starla a sentire. Erano incantati da quella piccola figura volgare e devastante, erano quasi portati a fissarla come fosse un idolo. Ipnotizzava come un serpente, dava alla testa come una droga. Invece, era solo una giovane dottoressa che era casualmente venuta in loto aiuto, eppure nessuno riusciva più a vederla come un’estranea gentile, ma più come una maga, una strega buona che era calata dal cielo in loro soccorso. Osservavano le mani fresche di manicure stringere quelle piccole e lentigginose di Lera, seguivano quello sguardo magnetico che si era impossessato di quello dolce e obnubilato della ragazza, guardavano quella bellezza feroce e violenta fare sua la rossa. Non era una donna, era una visione. Potente, totalizzante, inquietante, la Banda del Blocco era sicura di non aver mai incontrato una persona del genere. Non sapevano quanto tempo fosse passato dall’arrivo salvifico della donna, tutti troppo impegnati a fare loro quella visione dirompente, ma quando sentirono la vocine di Lera rimbombare nella via, seppero che l’incantesimo era spezzato e che, probabilmente, era servito davvero a qualcosa.
-Kuzma!
Lera si era alzata, un po’barcollante, ed era saltata al collo dell’amico, come se non fosse successo niente. Tipico da lei.
-Leroch’ka, amore mio, come stai? Meglio?- il ragazzo sembrò risvegliarsi dalla trance, e la strinse a sé, facendole fare una giravolta. Poi si voltò verso la donna, e di colpo tutto l’incanto era sfumato. Adesso davanti a loro non c’era più la strega superba e assassina, ma solo una bella ragazza di periferia, un poco volgare, con la fronte forse troppo alta e il sorriso accecante. Kuzma tossicchiò, come a volersi riprendere da quella strana trance di gruppo – Grazie, grazie davvero, ti siamo debitori.
-Figuratevi. Anche se la prossima volta fareste meglio a non portarla in posti simili. Non le hanno messo nulla nel drink, si è solo spaventata.- la donna si era alzata a sua volta, spazzolandosi il top di pelle che lasciava molto poco all’immaginazione. Molto terreno e molto poco magico, a dirla tutta.
-Certo, staremo più attenti.- trillò Ylja, con gli occhi luccicanti. – Non sappiamo veramente come ringraziarti!
Valentina e Aleksandra annuirono, ancora troppo trasognate dai fumi dell’alcol e della strana dottoressa, e biascicarono qualche ringraziamento mentre si appendevano a Valerya, di nuovo tornata allegra e infantile come al solito. Valerya che, ovviamente, non lesinò nemmeno la nuova arrivata da un abbraccio e da un “Grazie, bella straniera.” che fece ridere tutti, compresa la dottoressa. Nonostante fosse stata lei direttamente sotto l’influsso dell’ipnosi, sembrava quella che si fosse ripresa meglio. Ma la bella Lera era matta, lo sapevano tutti, funzionava secondo binari tutti suoi.
-Comunque, splendore, sei libera?
E giustamente Denis non si smentiva mai, pensarono gli altri, quando videro il loro amico ammiccare alla volta della donna.
-Sono lesbica, splendore.- rispose lei ridendo – E poi forse sarei un po’ vecchia per te, non ti pare? Comunque, questo è il mio indirizzo e il mio numero. Nel caso vi servisse ancora aiuto.
La donna trasse dalla borsetta un pezzetto di carta e vi scribacchiò sopra qualcosa, per poi allungarlo a Kuzma.
-Ciao, Valerya. E ciao anche a voi, ragazzi.
Sorrise ancora, e si voltò per andarsene ma la vocina squillante di Ylja la fermò
-Ehm, scusa, ma come ti chiami?
Lei si voltò, la coda che frustò nuovamente l’aria
-Marina. Marina Petrachenko.
Fece di nuovo un gesto di saluto, e scomparve nell’oscurità della notte, lasciando la banda a guardare la coda altalenante e le mosse da pantera della loro salvatrice dissolversi nella nebbiolina che puntualmente invadeva le strade del Blocco. Tutti avrebbero voluto che rimanesse ancora un po’ lì con loro, avrebbero voluto prolungare la chiacchierata, rimanere a fissare quegli occhi dal colore indefinito magistralmente truccati, stare a sentire ancora un po’ quella voce incredibile, ma lei se ne stava andando, bellissima e ruggente anche voltata di spalle. Sentivano il rumore dei tacchi battere sull’asfalto, lampi di biondo che ancora arrivavano loro mentre lei si infilava in una via laterale, lasciandoli lì da soli, la Banda del Blocco che aveva appena trovato qualcosa di così trascendente da esserne rimasti sconvolti. Rimasero tutti in silenzio, catturati dalla sensuale magia che scaturiva a onde da quella giovane donna bellissima, chi tirava il collo per cercare di vederla ancora, chi ripensava a quella voce, chi si chiedeva se non fosse stato tutto un sogno collettivo, quando la voce di Denis incrinò l’incanto.
-Wow, certo che una così me la scoperei anche sui chiodi …
-Denis!

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Capitolo 6
*** Denis si innamora ***


CAPITOLO SEI: DENIS SI INNAMORA

Мы самые ненормальные в этом городе,
И я что-то чувствую к тебе вроде бы.
С первой ноты угадаю твою мелодию,
Твои глаза круче лёгких наркотиков.
 
(Siamo i più anormali in questa città,
E apparentemente provo qualcosa per te.
Dalla prima nota, indovino la tua melodia,
I tuoi occhi sono più forti di una droga leggera)

[Elvira T – Мутный]

 
-Penso che Sasha mi voglia lasciare.
Fu con quella frase secca e un poco arrabbiata che Denis inaugurò la conversazione con Valerya, mentre passeggiavano per le strade del Blocco. La ragazza lo guardò, sfarfallando le lunghe ciglia, piegando la testa da un lato.
-Come? Non ci posso credere, Denisoch’ka.
-Ma è sicuramente così, Lera.- si infilò le mani nelle tasche del chiodo e scosse il capo – Altrimenti perché continuerebbe a tenermi il muso, a evitare graziosamente ogni tentativo di scopata, e a fare finta di nulla?
-Magari è solo stanca.- Lera si strinse nelle spalle, lasciando frusciare la lunga coda di cavallo scarlatta. – Spesso le ragazze sono strane.
I due si stavano dirigendo verso l’indirizzo di Marina Petrachenko. Dopo essersi ripresi dallo shock, i ragazzi avevano aggiornato Lera su tutto quello che era successo, e lei aveva pensato che doveva ringraziarla in qualche modo. Quindi eccoli lì, lei e il suo cavaliere mattutino, con un pacco di cioccolatini, pronti a sfidare l’avvenente dottoressa della sera prima.
-Apprezzo il tuo tentativo di consolarmi, Leroch’ka, ma … no. L’ho capito che vuole rompere. Da un lato, ti dirò, forse aggiusterebbe un sacco di cose.
Denis non sapeva se essere sollevato oppure devastato. Quanto da un certo punto di vista sapeva che lui e Sasha non erano altro che amici con benefici, quanto dall’altro era veramente affezionato alla ragazza. Se ci fosse stata Valentina, sicuramente gli avrebbe detto “la ami?”. Non avrebbe saputo rispondere. Certo, era una ragazza meravigliosa, da tutti i punti di vista. Ma sarebbe stato pronto a morire per lei? A dedicarle una canzone? Sarebbe scappato a San Pietroburgo con lei? No, probabilmente no. Avrebbe sempre scelto Kuzma, il suo migliore amico, per essere spalleggiato nelle avventure più folli. Non poteva essere altrimenti, perché di fronte a lui tutto il resto sfumava. Sfumava pure Sasha, che avrebbe dovuto essere il primo dei suoi pensieri, ma che, chissà perché, finiva sempre in fondo alla lista. Denis si passò una mano tra i capelli scuri, alzando lo sguardo al cielo perennemente grigio. Era un posto triste, Ekaterimburg, triste e solitario ma a lui piaceva. Non aveva nessuna intenzione di scappare, non voleva abbandonare il Blocco, il suo regno, la sua casa. Ci era nato dentro, era stato il Blocco a forgiare il suo carattere orgoglioso e bastardo, era stato quell’ammasso di cemento a farlo diventare quello che era, e lui voleva restargli fedele. Il sangue siberiano rombava nelle sue vene, non taceva mai, gli ricordava puntualmente che lui non si sarebbe mai lasciato alle spalle quella città infernale. Aveva paura del mondo esterno? Non lo sapeva. Il non aver mai messo piede fuori da Ekaterimburg gli lasciava addosso quel dubbio, la paura dell’ignoto, di tutto quello che c’era fuori dai palazzi distrutti. Lì era al sicuro, era rispettato, era forte, era il capo, ma fuori cosa sarebbe stato? Niente, solo un ragazzino della periferia dell’impero, con un orribile accento strascicato e gli occhioni dolci. Null’altro che quello, e a Denis non andava bene. Lui voleva essere la stella decadente che era, e se il prezzo da pagare per esserlo era rimanere lì, allora ci sarebbe rimasto. Amava Ekaterimburg, amava la sua bruttezza, la sua violenza, la sua ferocia. Amava le strade che lo avevano messo al mondo, e voleva rimanere in quell’inferno perché sapeva che era l’unico posto dove si sarebbe sentito a suo agio. Potevano dirgli che era un ragazzotto semplice, ignorante, stupido, tutto quello che volevano ma per lui il Blocco era più importante di qualsiasi altra cosa. Voleva vivere sotto quei cieli di perla, respirare quell’aria malsana, calcare ancora quelle vie fumose. Non l’avrebbero mai strappato da Ekaterimburg. Poco ma sicuro.
-Non lo so, Den.- rispose Lera, facendo dondolare il sacchetto con i cioccolatini da regalare a Marina. – Non vorrei che si incrinasse qualcosa tra noi.
Il ragazzo sorrise, e passò un braccio attorno alla vita di lei, stringendosela contro
-Non succederà mai, Leroch’ka. Ti ricordi? “La banda del Blocco è per sempre”. Deve ancora nascere il bastardo che ci separerà.
Valerya sorrise, e le lentiggini con lei, mentre si avvicinavano a uno dei grossi palazzi tutti uguali, con il numero civico malamente dipinto sulla parete.
-Guarda, dovrebbe essere questo.
Il portone era aperto, e i due sgattaiolarono dentro, prendendo le grosse scale mai pulite che si aprivano su lunghi corridoio malamente illuminati. Sarebbe stato un posto inquietante per chiunque, ma non per i ragazzi del Blocco, abituati a vivere nel degrado di quei condomini lasciati a loro stessi. Il corridoio dipinto di un triste verdolino aveva dei vecchi neon che andavano ad intermittenza, lanciando inquietanti ombre sui muri, e deformando malamente le ombre stesse dei ragazzi, impegnati a capire quale delle mille porte di alluminio fosse la loro. I loro passi rimbombavano tristemente nel silenzio irreale, e quando finalmente trovarono la porta, lo strillo di Lera echeggiò nel silenzio, distorcendosi in un rumore da brivido. Denis si chiese se amasse anche quello, del Blocco, e decise che sì, amava anche quelle case da incubo. Non si sarebbe mai abituato a vivere in un bel palazzo moscovita, o, peggio, in una casetta con giardino di qualche Paese straniero. Aveva bisogno del degrado e del cemento tanto quanto aveva bisogno del sesso. Il sesso, che lo rodeva e distruggeva da dentro, la sua droga, la sua passione più sfrenata. Denis non lo faceva apposta ad essere sempre perennemente arrapato, e spesso si chiedeva se non avesse qualche problema. Ma poi si ricordava che aveva diciotto anni, era siberiano ed era il ragazzo più bello di Ekaterimburg e si consolava: tutto normale, tutto secondo i piani. Non aveva mai fatto mistero con nessuno della sua sessualità estremamente aperta, gli piacevano ragazze e ragazzi indiscriminatamente, si innamorava facilmente, e altrettanto facilmente si stufava, si divertiva più che poteva. Era Denis, era fatto così, e non lo avrebbero cambiato. Si risvegliò dai suoi pensieri e  bussò alla porta. Lera sembrava emozionata, e non le dava torto. Dio, quella dottoressa era una sventola incredibile. Pure la cantante ucraina che aveva adocchiato qualche giorno prima diventava una scialba ragazzetta al suo confronto. Aspettarono un po’, e proprio quando si stava accingendo a bussare una seconda volta, la porta venne aperta. Ma non era Marina quella sull’uscio, piuttosto … Denis deglutì rumorosamente, cercando di darsi un minimo di contegno, anche se i suoi ormoni stavano impazzendo. Era difficile incontrare un uomo bello come quello che aveva appena aperto loro la porta. Ed era ugualmente difficile cercare di mantenere una sorta di contegno. L’uomo, che avrà avuto suppergiù trent’anni, era alto ed estremamente magro, coperto di tatuaggi dal collo in giù. Tatuaggi che Denis avrebbe voluto scrutare e decifrare, in un bisogno irrefrenabile di toccarlo. Sentì Lera irrigidirsi al suo fianco, e istintivamente le prese la mano, cercando di rassicurarla. Tutti sapevano quanto si agitasse di fronte ad uomini estranei. L’uomo alzò un sopracciglio, passandosi una mano tra i capelli scuri.
-A chi devo il piacere?
Anche la voce era sesso, pensò Denis. Se l’era aspettata bassa e roca, mentre invece era cristallina, malinconica, anche se venata da un sarcasmo pesante. Si adattava perfettamente a quel viso magro, col naso dritto, gli occhi pungenti di uno strano grigio metallico, il ghigno sottile della bella bocca.
-Stiamo cercando Marina Petrachenko. La dottoressa.- rispose Denis, cercando di darsi un contegno, anche se sapeva di non starci riuscendo. Rinsaldò la presa sulla manina di Valerya, che fissava inquieta i tatuaggi dell’uomo.
-Davvero?- l’uomo ghignò, e quel ghigno era tante cose. Ironico, cattivo, divertito, dolce. Troppi contrasti in una stessa persona.
-Sì. Possiamo entrare?- ribatté Denis, sfoderando il suo ringhio migliore.
-Prego.- l’uomo si fece da parte, anche se lo sguardo ironico non lo abbandonava, e i due ragazzi entrarono, uno fingendo di fare lo spavaldo e una già in agitazione.
Erano in un salotto piccolo e disordinato, dove sembrava fosse appena scoppiata una bomba. La puzza di fumo e marijuana dava quasi alla testa, nonostante la finestrella spalancata. Un grosso gatto rosso riposava sul divano sfondato, mangiucchiando i rimasugli di una pizza gelida abbandonata sul pavimento. Lo stereo pompava musica metal a tutto volume, e Lera si strinse ancora più forte a Denis. Stava cominciando ad agitarsi, e non era un buon segno. Denis stava quasi per cominciare a consolarla, che l’uomo urlò
-Marin’ka, ci sono ospiti per te!
-Ospiti?!
E finalmente Marina fece il suo trionfale ingresso nella stanza. A vederla così, tutta la magia del giorno prima scompariva sensibilmente. Rimaneva sempre una donna bella e sensuale, certo, ma con quella tuta sformata e la crocchia arruffata era decisamente molto più umana.
-Oddio, i ragazzini del Samovar!- strillò, andando loro incontro – Che bella sorpresa!
Come di consueto, Lera l’abbracciò e Denis tirò un sospiro di sollievo. Non sapeva come facesse, ma sembrava che Marina avesse un effetto estremamente positivo sulla rossa. La vide calmarsi e distendere i muscoli del viso, lasciando che la donna le facesse qualche complimento sul vestito a pallini verdi e azzurri che indossava. Un problema di meno, ragionò, ci mancava giusto avere Lera in crisi e doversi rapportare anche col dio tatuato che sembrava volerselo mangiare con gli occhi. Doveva calmarsi, e calmare soprattutto i suoi ormoni.
-Siamo venuti a ringraziarti per ieri.- cinguettò Lera, allungandole il sacchetto – Mi sentivo in debito per quello che hai fatto per me.
-Che carini che siete!- continuò a strillare Marina, e Denis si chiese se fosse capace di parlare a voce bassa. – Non  dovevate disturbarvi. Hai visto, Yura?!
L’uomo sogghignò, e Denis era sempre più convinto che li stesse prendendo amabilmente in giro tutti quanti.
-Adorabili davvero, Marin’ka. Comunque piacere, io sono Yurij Seriabkij. Ma chiamatemi pure Yura, se preferite.
Yurij gli tese la mano tatuata e inanellata, e Denis, stringendogliela, venne percorso da un brivido. Eccitazione, timore, tutto insieme. Rimase per un attimo perso a guardare quegli occhi d’acciaio così simili al cielo siberiano, e quasi balbettò quando si presentò. Non gli era mai successo di incontrare una persona che lo travolgesse così tanto. Gli aveva fatto dimenticare tutti, Sasha, i ragazzi, persino Kuzma. Tutto scivolava via di fronte a Yurij, alla sua bellezza volgare e violenta, alla sua voce tossica. Denis non credeva nell’amore a prima vista, ma non poteva fare a meno di pensare di ritrattare tutte le sue credenze.
-Magari Valerya vuole venire un attimo con me di là, che ne dici?- disse Marina, poggiando una mano sulla schiena della rossa, con un sorriso che avrebbe sciolto qualunque uomo. Ma che non scompose minimamente la ragazza che annuì, contenta, e fece segno a Denis che andava tutto bene. Il ragazzo le sorrise a sua volta, anche se non gli andava di rimanere solo con Yurij. Avrebbe tanto voluto seguire le due donne in cucina, magari bere un the caldo, mangiare uno o due di quei deliziosi cioccolatini. Sicuramente preferibile che essere di fronte a un uomo bellissimo e letale, col rischio di eccitarsi proprio nel momento meno opportuno.
Fu quasi con terrore che le vide avviarsi fuori dal salotto. Pure il gatto rosso, il suo ultimo alleato, le seguì. Gli parve quasi che Yurij lo stesse guardando con aria di commiserazione, ora che era solo e indifeso. Mantieni la calma Den, si disse, passandosi una mano tra i capelli. È solo un tocco di paradiso scaraventato in un appartamento lercio. Puoi farcela, Shostakovich. Ma non poteva.
 
Yurij lo stava facendo suo con una forza inaudita, tanto che il letto sbatteva rumorosamente contro la parete scrostata. Lui urlava il suo nome a squarciagola, graffiandogli la schiena, in un amplesso che andava facendosi sempre più violento, verace e devastante. Le loro bocche si intrecciavano in un gioco perverso, divoratore, appassionato, finché non decise di ribaltare le posizioni e schiacciare l’uomo tatuato sul materasso sudato, cominciando a cavalcare la sua erezione gonfia e dura come marmo. Continuava a strillare, sentendo le mani di Yurij arpionargli i fianchi magri. Adorava sentirlo urlare il suo nome, mentre l’orgasmo si faceva sempre più vicino per entrambi, sempre più vicino, sempre più vicino …
 
-Bellezza, Marina mi aveva detto che la rossa era autistica, non pensavo lo fossi anche tu.
Il tono canzonatorio di Yurij lo distrasse dal sogno pornografico nel quale era caduto, e quasi lo fece sobbalzare. Pregò che il suo corpo non avesse reagito in maniera poco consona, e tossì, cercando di darsi un contegno.
-Non sono autistico!- ribatté, con la voce più acuta del normale.
Cristo, ci mancava solo la trance ad occhi aperti. Ma perché tutte a lui? Perché non era venuto Kuzma ad accompagnare Lera, Kuzma, che sembrava immune a qualsiasi persona, per quanto bella fosse?
-Un sognatore, forse?- Yurij ghignò, e per un attimo a Denis sembrò che gli avesse letto nella mente, che avesse assistito al suo pensiero. Dannazione.
-E tu un ficcanaso, forse?- tentò di fare il duro, come era solito fare, ma di fronte a quegli occhi che urlavano determinazione e violenza tutti i suoi tentativi di darsi un tono scadevano tristemente nella farsa.
-Forse, Denis.
Aveva un modo di pronunciare il suo nome che faceva venire le farfalle nello stomaco al ragazzo. Così sexy, misterioso, affascinante … quanto avrebbe voluto che glielo sussurrasse direttamente nell’orecchio, magari mordicchiandogli il lobo, mentre con le mani gli levava la maglietta e gli palpava il fondoschiena. Cristo, avrebbe dovuto darsi una calmata.
-La rossa è la tua ragazza?- chiese con falsa noncuranza Yurij, lasciandosi cadere su una poltrona semi sfondata e facendogli segno di accomodarsi sul divano.
-No, è una mia amica.- Denis tentò per lo sguardo più arrogante che gli riusciva – Marina è la tua donna?
-No, è una mia amica.- gli fece il verso Yurij, accendendosi una sigaretta – Anzi, la mia coinquilina, per essere precisi. Vuoi?
Gli offrì una sigaretta, che il ragazzo prese con molta circospezione. Non poté a meno di notare lo sguardo divertito dell’uomo, e allora se l’accese, rapidamente, quasi soffocandosi con la prima boccata. Sì, si stava decisamente rendendo ridicolo. Doveva recuperare in qualche modo, non esisteva che si facesse mettere i piedi in testa da un tipo simile. Doveva farsi valere, era il dannatissimo capo della Banda del Blocco, il manipolo di adolescenti peggiore della città. Aveva una faccia da mantenere, un nome da non infangare.
-Abbiamo conosciuto Marina ieri notte, al Samovar degli Dei.- iniziò, noncurante, e abbastanza fiero del tono arrogante e sicuro di sé che era riuscito ad adottare – Devo dirlo, io e i miei amici siamo piuttosto di casa lì dentro. Un posto come un altro, eh, nulla di speciale, ma ogni tanto ci divertiamo a fare una capatina.
Felice del risultato della sua bugia, era pronto a godere dell’occhiata ammirata di Yurij. Che non arrivò.
-Davvero? Che strano, perché non ti ho mai visto. E io devo dire che ci vado molto, molto spesso.
Yurij ghignò a vedere Denis impallidire di colpo, e tentare di recuperare fingendo di riaccendersi la sigaretta. Un ragazzino idiota, come tutti i bulli di quartiere. Sì, idiota, ma estremamente carino. Ed interessante.
-Magari non hai guardato abbastanza attentamente.- Denis sorrise a sua volta, fiero di come era riuscito a riprendersi dalla débacle.
-Non mi sarei mai fatto sfuggire un visino come il tuo, dolcezza.
Senza nemmeno che Denis se ne fosse accorto, Yurij si era pericolosamente avvicinato. Lui, i suoi tatuaggi e il suo sguardo predatore. Il ragazzo sentì il suo profumo forte di colonia e sigarette, che dava alla testa come una droga e per un attimo sprofondò di nuovo nel torpore dettato dalle sue fantasie. Dormire nel suo letto, in un tripudio di coperte, gambe intrecciate e cuscini stropicciati. Svegliarsi la mattina, indossare una delle sue magliette e scendere a fare colazione. Guardare un film insieme, abbracciati. Farsi la doccia insieme e lasciare che l’acqua lavasse via la loro passione. Yurij gli comunicava troppe emozioni devastanti, cose che nemmeno Sasha, o nemmeno Kuzma, gli avevano mai fatto venire in mente, dagli anni che si frequentavano. Era amore a prima vista, quello? Se lo era, Denis decise che era davvero scomodo, perché lo stava destabilizzando più di quanto lo volesse ammettere a sé stesso.  Lo aveva appena visto, eppure già era stato travolto da un mare di sensazioni terribili eppure meravigliose. Voleva Yurij, non c’era altro modo per dirlo. Si chiese se andarci a letto una volta lo avrebbe aiutato a mettere a tacere tutti quegli stupidi scenari stucchevoli che si stavano proponendo, anche se da un lato non avrebbe voluto smettere di sognare. Si stava sentendo così bene a immaginarsi in cucina con Yurij, a mangiare pane tostato imboccandosi. L’ultima volta che Sasha gli aveva proposto una cosa del genere, l’aveva guardata come fosse matta, e si era divorato i suoi toast da solo, ben lontano dall’ infilarli in bocca alla bionda. Quando poi lei se n’era uscita con l’idea di andare insieme a fare una breve gita fuori porta, lui aveva pensato bene di invitare tutta la banda con loro. Lei si era offesa, e gli aveva tenuto il muso tutto il giorno. Se gliel’avesse detto Yurij, però, Denis era già sicuro che sarebbe volato senza dirlo ad anima viva, per godersi quella meraviglia ossuta e tatuata da solo. Sì, non c’era storia. Quell’uomo lo stava già facendo ammattire.
Fece per dire qualcosa, sentendo il profumo di Yurij farsi sempre più conturbante, che la voce allegra di Marina interruppe il loro strano flirt.
-Eccoci di ritorno!
Yurij e Denis si allontanarono di scatto, come se fossero stati scottati, e tutta l’eccitazione che c’era nell’aria scomparve, lasciando i due vagamente straniti.
Denis si alzò di scatto, catapultandosi accanto a Valerya
-Allora, Leroch’ka, possiamo andare?
-Sì, Den!- cinguettò la rossa, scuotendo la lunga coda di cavallo – Marina ha detto che una volta o l’altra potremmo rivederci, magari anche con gli altri.
-Oh. Sì. Sarebbe … stupendo.- balbettò Denis, incrociando lo sguardo d’acciaio di Yurij. Che gli sorrideva sadicamente. – Magari adesso andiamo, però.
-Certo, ma tornate pure a trovarci. Siete forti, Banda del Blocco.- rise Marina, accompagnandoli alla porta e salutandoli.
-Potremmo continuare la nostra chiacchierata, Denis.- concluse Yurij, appoggiando una mano sulla spalla della bionda e regalandogli uno dei ghigni più sensuali e pericolosi che il ragazzo avesse mai visto.
-Non vedo l’ora, Yurij. Non vedo l’ora.- rispose, schiacciandogli l’occhio, pregando con tutto sé stesso di non essere sembrato un completo e penoso marmocchio. Cosa che probabilmente sembrò, vista la risata di Yurij.
Quando Marina chiuse la porta, e lui e Lera si avviarono a braccetto verso l’uscita, il giovane capobanda era giunto a una conclusione, tragica eppure eccitante: si era innamorato. Si era innamorato di Yurij Seriabkij.

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Capitolo 7
*** I ragazzi soffrono ***


CAPITOLO SETTE: I RAGAZZI SOFFRONO
I see a pain behind your eyes
I know you feel it everyday
It’s like a light that slowly dies
But it’s better not to say
[As It Is – The Stigma (Boys Don’t Cry)]
 
Un accordo di chitarra. Una strofa mormorata a mezza voce. Un cappuccio calato sul viso. Un paio di manine inanellate che correvano sulle corde. Valentina era abbastanza inconfondibile, arrampicata su una delle grosse scale esterne di uno dei palazzi del Blocco, facendo quello che le riusciva meglio. Suonare qualche acustica dei Tokio Hotel e lasciare che la musica assorbisse tutta la sua tristezza. Guardare il tramonto che tingeva il cemento di rosso fulgido, fare finta di non esistere per qualche attimo, galleggiare nelle sue dimensioni sospese, giocare a rimpiattino col fondo della sua anima tormentata. Tirò giù qualche accordo, sorridendo tra sé e sé. Ogni volta che suonava quella canzone, pensava a Sasha, e inevitabilmente le veniva da sorridere. Era così bello suonare col la bionda seduta ai suoi piedi che muoveva i capelli a ritmo. Era così romantico, e si illudeva di tutti i sogni che ancora la facevano galleggiare e le avevano permesso di non suicidarsi. Sorrise tra sé e sé, continuando a suonare. La chitarra era la sua vita, lo era sempre stata. Non c’era momento nel quale la si vedesse senza il suo fido strumento. Suonava ad ogni ora del giorno, componeva canzoncine, strimpellava e sognava ad occhi aperti, per fuggire da un mondo che odiava. Quante serate d’estate avevano passato sui tetti dei magazzini abbandonati, con falò dentro i barili, vodka scadente e la chitarra di Valya a tener loro compagnia, con ritmi allegri e frizzanti. Quante notti invernali invece si erano lasciati cullare da tristi ninnananne, nel Covo, con le luci soffuse e la dolce voce di Ylja ad accompagnarla nel canto. Sì, la chitarra era un elemento irrinunciabile per la Banda del Blocco, almeno quanto le casse che si portavano sempre dietro o i pacchetti di sigarette schiacciati nelle tasche dei jeans. Valentina suonava, e gli altri ondeggiavano a ritmo, un ritmo tutto loro, che si erano costruiti negli anni e che continuava a mutare, come le onde del mare che nessuno di loro aveva mai visto. Valya avrebbe tanto voluto vedere l’oceano. Lo sognava la notte, desiderava di poter toccare con mano quell’immensità, suonare su spiagge infinite, lasciare che fossero le onde a dettarle nuovi ritmi e nuove canzoni da poter cantare sotto le stelle. O sotto la spuma che bagnava la risacca. Si chiedeva di che colore fosse davvero il mare. Se di un azzurro gelido e pungente come gli occhi di Kuzma, o di un pallido verde acqua sagace e affascinante come gli occhi di Ylja. O magari di un blu cupo e devastato come i suoi. O come quelli di Aleksandra, verde smeraldino allegro e spensierato. Suonò qualche accordo malinconico, mordendosi l’anellino all’angolo del labbro, quando con la coda dell’occhio vide che qualcuno si era seduto accanto a lei. Si voltò, e incrociò lo sguardo di Kuzma. Sorrise.
-Ehi, Kuzja. Cosa ci fai qui?
-Non lo so, Valya.- rispose lui, con quel suo sorriso così adulto e triste – Forse volevo solamente sentirti suonare.
La ragazza rise un pochino, e cominciò a suonare un’acustica di una vecchia canzone dei Tokio Hotel, lasciando che l’amico muovesse la testa a ritmo, lo sguardo perso sul tramonto di sangue che bagnava Ekaterimburg. C’era qualcosa, lo sapevano entrambi. C’era sempre qualcosa, quando Valya intonava quella canzone e quando Kuzma abbassava gli occhi in quel modo. Aspettavano solamente il momento giusto per iniziare a parlarne. Non seppero nemmeno quando tempo se ne stettero in silenzio, uno accanto all’altra, finché non fu lui a prendere la parola
-Valya … come stai?
Lei interruppe la canzone di colpo, lasciando che l’ultima nota risuonasse stonata nel silenzio che era appena calato. Lo sapeva che prima o poi sarebbero arrivati a parlare di quel giorno maledetto, avevano lasciato decantare le cose per troppo tempo senza mai farne parola. Molte volte lei avrebbe voluto intavolare il discorso, ma sempre una fitta al cuore l’aveva fermata. Voleva scappare, dimenticare quella notte, ma sapeva che non avrebbe mai potuto farlo. Non si può fuggire da sé stessi. E non si può fuggire dai sensi di colpa che si acuivano ogni giorno di più.
-Sto bene.- mormorò, concentrando lo sguardo sui lacci delle Vans.
-Davvero, Valya. Come stai?
I loro occhi, un paio piccoli e celesti e un paio grandi e blu notte, si incontrarono e vi si leggevano dentro gli stessi sentimenti. Timore, vergogna, fatica. Rabbia, forse.
Lei prese un profondo respiro, e lasciò cadere la testa sulla spalla dell’amico
-Non faccio altro che pensarci. Non … oh, Kuzja, non lo so. Forse non avrei dovuto farlo. Forse avrei dovuto lasciare tutto come stava.
-Ne abbiamo già parlato.- Kuzma le prese il viso tra le mani – Non c’era molto altro da fare. Sarebbe stato solo un azzardo.
-Dici?- Valentina buttò giù un accordo a caso, sentendo gli occhi di nuovo umidi – Eppure … lo sogno sempre! Ogni notte, sogno una vita diversa e …
Si bloccò prima di scoppiare in singhiozzi e Kuzma la strinse forte a sé, lasciando che lei affondasse il viso rotondo e pallido nella sua felpa.
-Ne uscirai, Valyoch’ka, te lo prometto. È passato solo un anno, ma sono sicuro che supererai anche questa. Hai me, hai noi. Hai la Banda dalla tua.
-E se Sasha lo venisse a sapere?- Valya alzò lo sguardo sull’amico – Si infurierebbe!
-Sasha non lo saprà. E se mai lo scoprirà, sono sicuro che ti perdonerà. Anche se … avresti dovuto dirlo a Denis.
-Dirlo a Denis?! No!- strillò lei, allontanandosi quasi di scatto da lui.
-Avrebbe avuto diritto di saperlo.- si limitò a commentare Kuzma, stringendosi nelle spalle. – Era una cosa che lo coinvolgeva direttamente.
Valentina sembrò sgonfiarsi, e si aggrappò alla chitarra come fosse il suo ultimo scoglio, il suo ultimo appiglio per non venire travolta dalla tempesta
-Hai ragione, ma chissà come l’avrebbe presa. È imprevedibile. Magari avrebbe voluto che …
-Non lo sappiamo, ed è inutile piangerci sopra. Però ti prego, Valya, non lasciare che questo ti uccida. Io sono qui per te, ti sono stato accanto un anno fa e ti starò accanto anche adesso.- continuò Kuzma, prendendola per mano – Hai fatto quello che hai fatto, non so se sia stato giusto o sbagliato, ma non puoi lasciarti torturare dal passato. Abbiamo un presente da vivere, un inferno da sbaragliare, un futuro da progettare. Lascia dormire i tuoi demoni almeno per un po’.
Valentina represse un singhiozzo, stringendosi istintivamente all’amico, e lasciando che la stringesse a sé, reprimendo un pianto che ormai la sconquassava ogni dannata notte. Aveva ragione Kuzma, come al solito. Doveva andare avanti, sopprimere quei ricordi devastanti, farsene una ragione. Oramai era successo, e il segreto si era cementificato nei loro cuori, li stava portando a fondo con lui. Ma come faceva a passare sopra a una cosa del genere? Come poteva dimenticare il terrore di quella notte tempestosa?
-Kuzja … io non so se ce la faccio.- sussurrò, sentendo il trucco pesante colarle sul viso – Non so se ci riesco.
-Ce la farai.- rispose lui, accarezzandole i lunghi capelli – Magari non oggi, non domani e forse nemmeno tra un anno, ma prima o poi lo supererai. Hai me, Valyoch’ka, non sei sola a trascinarti dietro questo segreto.
Valentina soffocò un singhiozzo, stringendo Kuzma ancora più forte, come tacito ringraziamento. Ma dove lo trovava un amico così?  Sentiva qualche lacrima scorrere, anche se un pallido sorriso si faceva strada sul suo viso. Se lo diceva Kuzma, allora si fidava, sarebbe passata anche sopra a quello, in qualche modo avrebbe fatto in modo di convivere con quell’incidente che le aveva sconvolto l’esistenza. Poteva farcela. Doveva farcela. Era la dannatissima Valentina Tolokonnikova, la ragazzaccia del Blocco, con la sua chitarra e il suo sarcasmo agghiacciante. Anche se dentro stava cadendo a pezzi, rimaneva quello straccio di coraggio dettato dalla musica che le urlava di non mollare, di passare oltre a quel brutto incidente. Avrebbe ascoltato quella voce ancora una volta, avrebbe stretto i denti e avrebbe combattuto. Ancora.
Rimasero per un tempo indefinito abbracciati sulle scale, illuminati dagli ultimi raggi di sole, e fu uno strano movimento nel cortile sotto di loro che li distrasse dal loro silenzio doloroso e sofferto. C’era una figura conosciuta che stava correndo lungo il viale che costeggiava quel blocco di caseggiati. I due ragazzi si guardarono e poi si affacciarono alla balaustra
-Ma, sbaglio o quello è Ylja?- chiese Valya, scostandosi il ciuffo emo dal viso.
-Non sbagli.- mormorò Kuzma, assottigliando gli occhi – Ma dove starà andando così di corsa?
I due continuarono a seguire la piccola figura camminare spedita, fino ad incontrarsi con un uomo minuto, con i capelli lunghi e quello che pareva un cappellino da baseball calcato in testa.
-E quello chi diavolo è?- sibilò Valya, alzandosi sulle punte dei piedi.
-Boh, magari è un suo parente.
-E tu limoni con i tuoi parenti?
Guardarono con crescente curiosità Ylja e l’uomo baciarsi tranquillamente, e poi avviarsi per mano fuori dal complesso edilizio.
-Vuoi vedere che Den avesse ragione?- sussurrò Kuzma, più a sé stesso che altro.
-Ragione di cosa?- chiese Valya, facendo tanto d’occhi.
-Che Ylja avesse un fidanzato ma che non ce lo volesse dire. Forza, Valya, seguiamoli.
Valentina e Kuzma si scambiarono un’occhiata, e poi si precipitarono di corsa giù dalle scale, la chitarra che sbatteva rumorosamente sulla schiena di lei e finalmente un fatto che potesse far loro dimenticare un po’ i loro drammi personali.
 
Ylja aveva pianto. Viktor se ne accorse non appena lo vide, il viso ancora arrossato e il verde pallido degli occhi violato dalle lacrime. Non disse nulla, si limitò a stringerselo forte al petto, lasciando che il ragazzo gli seppellisse il viso nel collo, inumidendoglielo con grosse lacrime. Se glielo avessero chiesto, Ylja non avrebbe saputo ricordare tempi nei quali fosse stato felice e allegro. Gli sembrava fosse passata un’eternità da quando le cose in casa sua erano andate a rotoli. Un’eternità da quando il suo patrigno, quelle rare volte che tornava, lo prendeva a pugni dalla mattina alla sera. Un’eternità da quando sua madre aveva cominciato a maltrattarlo. Un’eternità da quando casa sua puzzava di alcol da far vomitare. Un’eternità da quando vivere era diventato sempre più difficile.
Anche quel giorno, il suo patrigno era entrato in camera sua, ubriaco, e gli aveva spento la musica di colpo, rovinando irrimediabilmente il cd al quale il ragazzo teneva da morire. Certo, avrebbe dovuto esserci abituato. Avrebbe dovuto starsene zitto, raccogliere i resti del povero cd e andarsene a procurare un altro. Avrebbe dovuto fare finta di niente, come al solito, ma per qualche strano motivo quel giorno aveva reagito. Uno strillo, un tentativo mal riuscito di tirare uno schiaffo a quell’uomo unticcio che li aveva rovinati, uno  scatto di nervi isterico, e si era ritrovato agonizzante sul pavimento, lo stomaco attorcigliato e gli occhi pieni di lacrime. Un calcio, un pugno, il solito “frocio di merda”, uno sputo e Ylja era rimasto lì, malamente accasciato sul pavimento della sua stanza, in mano i resti del cd di Yulia Savicheva che tanto adorava, il pianto che gli violava il viso. Odiava non riuscire a ribellarsi, odiava essere così dannatamente debole. Aveva provato a scappare di casa, una volta, a trasferirsi a stare nel Covo, ma alla fine era tornato indietro e ogni volta che ci pensava, avrebbe voluto prendersi a schiaffi. Era debole, e non poteva fare a meno di esserlo. Aveva bisogno di qualcuno, sempre, non riusciva a stare solo. Aspettava di poter finalmente finire la scuola per andare all’Università e potersi ricostruire da capo una vita, lasciarsi alle spalle una famiglia maledetta che gli aveva rovinato l’adolescenza. Non aveva mai trovato un abbraccio, delle coccole, un complimento: solo insulti, odio, alcol e botte. Scappava dalla Banda per farsi consolare, per sentirsi amato, si aggrappava a qualunque cosa ma non poteva dimenticare nemmeno per un secondo l’incubo che si perpetrava ogni giorno tra le mura mal intonacate di quell’appartamento del Blocco. Stava così male, e non sapeva come uscirne. Era un incubo, un incubo che non finiva mai.
-Yljusha, amore, cos’è successo?
La dolce voce di Viktor gli fece quasi illuminare gli occhi. Non sapeva cosa avrebbe fatto se non avesse trovato quell’uomo. Bastava un suo sguardo, un suo sorriso, una sua parola, e un pezzetto del cuore del giovane si scaldava. Si rattoppava. Smetteva di sanguinare.
-Vik … possiamo andare via?- sussurrò, asciugandosi gli occhi con la manica. – Non mi importa dove, da qualche parte.
Viktor sospirò, accarezzando i capelli corvini di Ylja e se lo strinse ancora forte al petto, massaggiandogli delicatamente la schiena.
-Andiamo a casa, piccolo. Andiamo a casa, e mi racconti tutto.
Ylja tirò su col naso e annuì, stritolando la mano abbronzata di Viktor. Aveva un modo così dolce di trattarlo, affettuoso ma mai falso. In quei grandi occhi scuri c’era una solitudine che a Ylja ricordava tanto la sua: forse anche Vik, da ragazzo, era stato solo come lui lo era adesso, e magari era lo stesso motivo per il quale lo capiva meglio di qualunque altro. Avevano entrambi gli occhi grandi e solitari, e a Ylja piaceva pensare che si erano incontrati e innamorati proprio grazie ai loro occhi simili. Stessa malinconia, stessa tristezza, stesso coraggio.
-Posso stare un pochino a casa con te?- chiese, mordendosi il labbro inferiore.
-Puoi restare quanto vuoi, Yljusha. È l’ora di mettere un freno a tutto ciò.- ribatté Viktor, stringendogli forte la mano e guidandolo verso l’uscita dal blocco edilizio.
Camminarono per un po’ in silenzio, mano nella mano, e Ylja si rese conto di star continuando a piangere solamente quando Viktor si fermò e gli asciugò il viso con il pollice. Lo guardava con tanta tristezza che quasi il ragazzo si sentì stringere il cuore,
-Ylja, tesoro, stammi a sentire: ce la farai. Lo so che stai soffrendo, ma non lasciare che questo ti urti.
Viktor gli accarezzò il viso, e a Ylja venne di nuovo da piangere. Avrebbe voluto scappare con Vik fino alla fine della Siberia, lasciarsi alle spalle una città che odiava e una famiglia che non poteva più vedere, rifarsi una vita altrove. Magari andare in Europa, chissà. Sposarsi, e ricostruirsi una storia per seppellire quella vera. Ma contemporaneamente non avrebbe mai voluto abbandonare la Banda. Erano la sua casa, i suoi amici e Ylja sapeva che non poteva lasciarseli alle spalle. La Banda era formata da tutti e sei, un meccanismo delicatissimo che non poteva funzionare se un pezzo era difettoso. Lui non voleva sicuramente essere il primo a incrinare il congegno ad orologeria che erano, eppure non poteva fare a meno di pensare che avrebbe dato qualunque cosa per poter partire. Vedere il mare. Mosca. Sentire altre lingue. Avviarsi verso nuovi lidi. Era così insofferente della sua vita da chiedersi a volte perché fosse ancora vivo. Forse era un codardo, in fondo. O forse era troppo innamorato e attaccato alla speranza per poter pensare di finire il proprio corso. Ylja sperava, sperava da quando era venuto al mondo e non aveva mai smesso. Credeva con tutto sé stesso che sarebbe cambiato qualcosa, e quando gli sembrava di perdere la speranza, trovava sempre un appiglio per non lasciarsi andare. Non c’era volta che il ragazzo si fosse arreso, e ogni giorno si convinceva che forse sì, avrebbe potuto farcela. Da quando era arrivato Viktor, poi, Ylja aveva ritrovato gli ultimi brandelli di coraggio ai quali affidarsi. Credeva così disperatamente da farsi male – però, però era ancora in piedi. E questo voleva pur dire qualcosa.
-Guardami, tesoro: ti porterò via da qui.- Vik gli aveva preso le mani tra le sue, e lo fissava, una vaga luce maniacale a illuminargli gli occhi scuri – Non importa come, ma ti giuro che ti salverò. Devi solo fidarti di me, va bene?
Ylja tirò su col naso e annuì, stringendosi di nuovo al petto dell’uomo e lasciando che lui gli baciasse i capelli e lo abbracciasse come nemmeno sua madre aveva mai fatto.
-Grazie Vik … non so cosa farei senza di te.
-Non dirlo, amore.- Vik gli mise un dito sulle labbra e gli sorrise – Stai facendo tutto da solo, sei forte più di quanto immagini. Io posso essere la tua spalla, e questo sarà per sempre. Ma sei tu quello che sta affrontando le cose in maniera più matura di quanto tu possa immaginare.
Ylja arrossì, e sorrise tra le lacrime. Si chiese come facesse Viktor a dire sempre la cosa che lui più voleva sentirsi dire. Come aveva fatto a trovarsi un uomo così perfetto e così amorevole proprio non l’avrebbe mai capito. Si sporse a baciarlo e quando le loro labbra si incontrarono, il ragazzo avrebbe di nuovo voluto piangere, ma questa volta dalla felicità. Per un attimo, anche i lividi sul corpo smisero di fargli male.
-Andiamo a casa, adesso.- concluse Viktor, passandogli una mano attorno alla vita. – E lascia che sia io a gestire la situazione.
Ylja si accorse immediatamente che la luce nelle pupille dell’uomo era qualcosa della quale probabilmente avrebbe dovuto avere paura. C’era del sadismo e della ferocia che mai gli aveva visto addosso. Deglutì
-Ehm, Vik, però …
-Ti ho detto che aggiusterò la situazione, Ylja.- anche la voce di Viktor era un sibilo che poco aveva di rassicurante – Sei mio, e nessuno può permettersi di rovinare le mie cose.
Il ragazzo annuì, mordendosi il labbro inferiore. Sapeva che Viktor era strano, e sapeva altrettanto bene che forse era troppo, ma non gli importava. Aveva deciso di dedicarsi a lui anima e corpo, e anche se era di una possessività che rasentava la follia ed era di una ferocia pericolosa, non avrebbe smesso di stare al suo fianco. Poteva spaventarsi, e quello accadeva spesso, ma aveva deciso che sarebbe stato suo fino a che le cose fossero andate avanti. Viktor voleva il suo benessere. Ne era più che convinto.
-Ti amo tanto, Vik.- sussurrò, ingoiando l’ultima lacrima. – Ti amo tanto.

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Capitolo 8
*** Al parco ci si rattrista ***


CAPITOLO OTTO: AL PARCO CI SI RATTRISTA
Ты сердце моё
Прости за любовь-
Остыло ...
Послушай меня,
Я просто любила …
 
(Sei il mio cuore
Scusa se l’amore
Si è raffreddato
Ascoltami,
Una volta io amai)
[Юлия Савичева - Прости за любовь]
 
 
-Quel ragazzo è una bomba, Marin’ka. Dio, non puoi capire. È … wow.
-Non ammazzarti di seghe, Yura, che poi mi diventi cieco.
Stravaccati su una panchina del Parco Mayakovskij, Marina e Yurij fumavano distrattamente sigarette e si passavano un pacchetto di patatine fritte comprate a un botteghino. Era un’abitudine al quale entrambi rinunciavano a fatica: ogni giorno, alle 6, quando Yurij chiudeva il negozio, passava a prendere l’amica in ambulatorio e andavano a farsi una sana passeggiata per la città. Quel giorno, era toccato al Parco Mayakovskij e ai suoi chioschetti di patatine. Un posto pacifico, ma contemporaneamente zeppo di persone particolari sulle quali spettegolare come quando erano ragazzini.
-Ci metterei la firma, ragazza.- sghignazzò lui, spegnendo il mozzicone per terra – Comunque, non ti ricordano noi?
Marina sorrise, passandosi una mano tra i lunghi capelli appena mossi.
-Da morire. Ma ti ricordi, Yura, i bei vecchi tempi?
I due si guardarono, con aria divertita e nostalgica al tempo stesso. Certo, era impossibile non pensare a loro da ragazzi guardando la Banda del Blocco. Quando erano loro gli squinternati adolescenti spacconi che pensavano di avere la Siberia in mano, la loro religione era la musica e il loro credo era la strada. Non era cambiato niente, nelle nuove generazioni. Era bastato vederli una volta, per capire che li accomunavano più cose di quanto avrebbero potuto immaginare. Quei giorni nei quali anche loro correvano sugli skateboard e si cannavano nel retro delle fabbriche abbandonate in periferia. Dio, che ricordi, che adesso avevano soppiantato con affari loschi da tenere in mano, amicizie discutibili e orribili patatine fritte che grondavano olio.
-Li vivremo di nuovo con loro.- rispose lui, passandosi una mano tra i capelli scuri, portati appena sotto la mascella.
Certo, Yurij Seryabkij era un bell’uomo. Bello di una bellezza disturbante e cinica, sarcastica e dannata. Sapeva di avere fascino da vendere e non aveva mai nascosto un’arroganza fastidiosa e un perenne autocompiacimento. Personaggio antipatico e dai costumi morali discutibili? Indubbiamente, ma non se n’era mai preoccupato. Sapeva che poteva tenere il mondo in mano con quei suoi occhi metallici, e che bastava un suo ghigno per far capitolare uomini e donne. A volte si chiedeva perché fosse rimasto ad Ekaterimburg. Perché non se ne fosse andato a cercare fortuna altrove, magari nella Russia europea, invece di star in quell’inferno urbano. E poi si ricordava che lui non sarebbe mai stato in grado di abbandonare quella città che l’aveva cresciuto e reso quello che era. Poteva sembrare un discorso infantile, forse stupido, ma per Yurij il Blocco rappresentava più di quanto fosse disposto ad ammettere persino a sé stesso. Si sentiva a casa, tra quei muri di cemento, tra gente che parlava col suo stesso, strascicato accento, uscendo con amici che avevano vissuto le sue stesse avventure e che non si vergognavano di portarne addosso le cicatrici. Era un uomo di periferia, e avrebbe lottato per quello.
-Comunque, perché la rossa, Marin’ka?- chiese, finendo di sgranocchiare l’ultima patatina – Ho visto come la guardi, come ne parli … cosa succede?
Marina si morse il labbro, incrociando le gambe. Ci aveva pensato anche lei, perché sin dal primo momento in cui aveva incrociato gli occhi neri e vacui di Valerya aveva sentito qualcosa dentro di sé tornare a scaldarsi. Non aveva senso, ovviamente, era solo una diciottenne autistica che aveva soccorso fuori da un locale, ma non poteva pensare che fosse normale non fare altro che pensare a quei capelli rossi o a quelle lentiggini. C’era qualcosa, in quella ragazza, che aveva disturbato l’intimo della donna. Voleva vederla, prenderla per mano, sentirla raccontare di cose assolutamente assurde, voleva provare a capire quel piccolo genio che le aveva solleticato così tanto la curiosità.
-Non lo so, Yura.- rispose, arrossendo appena – E’ solo che … mi interessa. La sua stranezza, il suo viso, tutto di lei mi incuriosisce.
-Ti incuriosisce solo o ti ricorda lei?
Marina odiava quando l’amico riusciva perfettamente a cogliere il fulcro dei suoi pensieri, a volte prima ancora che lei stessa ci arrivasse. Lo guardò e incontrò un sorriso stranamente affettuoso. Certo, Yurij era conosciuto per essere un bastardo, un uomo senza cuore, che prendeva tutto ciò che voleva senza mai dare, ma lei sapeva quanto in realtà fosse un amico al quale potersi affidare in qualunque momento. Dovevi vincere le sue barriere, conquistarti la sua fiducia e il suo affetto, e quello sicuramente non era semplice. Ma una volta convinto della tua lealtà, si tramutava in un alleato che non ti avrebbe mai abbandonato. Marina lo sapeva bene, e fu per quel motivo che si accoccolò al suo fianco, poggiandogli la testa sulla spalla aguzza. Lei era la sua donna, lui il suo uomo. Non c’era niente che potesse rompere la loro perfetta equazione, perché loro erano più che amici, amanti, confessori: erano Marina&Yurij, la coppia più resistente del Blocco. Erano compagni d’armi, e non avevano mai smesso di esserlo.
-Forse mi ricorda un po’ lei.- ammise, stringendosi nelle spalle – In realtà, sono diversissime ma quella dolcezza, quel sorriso … le assomiglia.
Rovesciò la testa all’indietro, guardando il grigio cielo siberiano e ripensò a lei. Al suo sorriso, alla sua scomposta crocchia castana, al suo buffo modo di ridere. Chissà dov’era adesso. Mosca, forse San Pietroburgo. O se fosse a Novgorod? Comunque lontana, da lei e da tutto quello che avevano avuto. A volte Marina provava a convincersi che era passata sopra a quel divorzio, che aveva dimenticato quella ragazza e che era pronta a ricostruirsi una nuova vita. Eppure, quando le sembrava di essersi convinta, si ritrovava la notte a singhiozzare disperata, la testa in grembo a Yurij e una foto del matrimonio stropicciata in mano. Non superi così facilmente un divorzio inaspettato, pensava, soprattutto se la tua compagna era ha condiviso con te le cose più incredibili della tua esistenza. Si svegliava ancora, la mattina, cercando il corpicino caldo accanto al suo e trovando solamente un letto freddo. Aspettava baci che non sarebbero mai più arrivati.
-Non le assomiglia.- ribatté duro Yurij – Sono convinto che la piccola rossa sarà molto meglio di quella stronza egoista.
-Yurij! Non parlare così di lei!- strillò in risposta Marina, ma l’espressione ferita sul suo viso diceva tutt’altro.
-Parlo di lei come mi pare, Marina. Perché se la rivedo, giuro che la concio così tanto male che non la riconoscerà più nemmeno sua madre. Ti ha spezzato il cuore, ragazza. Non la perdonerò mai per questo.
La bionda annuì, lasciando che il caldo abbraccio dell’amico le evitasse di piangere, in ricordo dei bei vecchi tempi, quando erano tutti e tre amici e sembrava che la vita dovesse essere perfetta. Ripensò a quando si erano sposate, tra abiti bianchi, fiori e promesse tra baci appassionati. Aveva ancora la fede al dito: Yurij aveva fatto di tutto per fargliela togliere, ma lei ancora non ce l’aveva fatta e si odiava per quello. Sicuramente lei l’aveva tolta, magari addirittura buttata via, si era sicuramente rifatta una vita, forse nemmeno più si ricordava del loro passato, ma Marina non era in grado di andare avanti. La ferita era ancora troppo fresca, il suo sguardo quando le aveva fatto firmare i fogli del divorzio perseguitava i suoi incubi, e no, non riusciva ancora a realizzare davvero che non erano più una coppia, ma erano solo un mero ricordo. La fede restava, e le ustionava la pelle, ma senza quel dolore non avrebbe resistito nemmeno un secondo. Elvira. Il nome della sua ex moglie inciso tra le labbra ogni mattina, com’era inciso nell’anello d’oro col brillante che tanti ammiravano.
-Non voglio usare Valerya come rimpiazzo per Elvira, però … ho bisogno di rivederla. Non c’è un perché.- concluse, stampando un bacio sulla guancia ispida dell’amico.
-Ne approfitterò per rifarmi gli occhi con Denis.- ridacchiò Yurij, con fare allusivo – E gli altri ragazzi? Come sono?
-Belli, anche se li ho visti male, era buio. C’erano due biondi affatto male, una topolina coi capelli mezzi rosa, e un altro con gli occhi più pallidi che abbia mai visto … bella merce, amico.
I due si diedero di gomito, quando delle voci concitate li distrassero. C’erano due ragazzi che litigavano davanti a loro, e, guarda caso, i due conoscevano il ragazzo: perché quello era Denis, non c’era dubbio alcuno, insieme a una ragazza magrissima con lunghi capelli quasi bianchi. Si scambiarono un’occhiata e con fare furtivo si avvicinarono un pochino, spostandosi su una panchina più a favore. Curiosi? Da morire. Delle vecchie zitelle? Anche. Se ne vergognavano? Assolutamente no.
Per quanto riguardava i ragazzi, Denis avrebbe voluto sotterrarsi. Non aveva nessuna voglia di litigare furiosamente con Sasha nel bel mezzo del Parco Mayakovskij, ma sembrava oramai inevitabile la rottura. Il loro “usciamo e parliamone civilmente” si era ben presto tramutato in un “usciamo e facciamo sapere a tutto il Blocco cosa non va tra di noi”. Sasha gli stava rinfacciando tutte le sue mancanze come fidanzato, e lui tentava debolmente di difendersi senza insultarla, anche se faceva molta fatica. Avrebbe tanto voluto voltarle le spalle e scappare da Kuzma, dai suoi occhi celesti e dal suo sorriso adulto, ma sapeva che quella volta avrebbe dovuto affrontare la cosa di petto. Inevitabilmente, quella si stava rivelando come  la giornata che entrambi avevano tentato di rimandare il più possibile: ovvero quella nella quale si sarebbero lasciati ufficialmente per non tornare insieme mai più. E sarebbe stato tutto molto più semplice se Sasha non fosse stata fissata con sceneggiate da film romantico di serie b.
-Mi sono rotta, Denis, mi sono rotta di farti da puttana personale!- stava strillando lei, sbattendo i piedi per terra.
-Da puttana personale?! Ma ti fai, Bazarova?!- abbaiò in risposta, mettendosi le mani tra i capelli – Non mi pare che tu ti sia mai tirata indietro per una scopata.
-Cosa c’entra, Denis, possibile che non tu pensi ad altro che al sesso? Madonna, sei un cazzo di ninfomane infoiato. Io voglio ro-man-ti-ci-smo. Chiaro?
Sasha incrociò le braccia al petto, il cappello beanie calcato in testa e una fortissima voglia di piangere e scappare da Valya. Non avrebbe mai voluto litigare così col suo amico storico, ma da un lato era inevitabile. Continuare quella relazione era davvero una stupida farsa.
-Lo sapevi che non sarei mai stato il ragazzo adatto a smancerie e cioccolatini.- ribatté, mordendosi il pugno per non bestemmiare – Cristo, Sasha, mi conosci da sempre: non potevi aspettarti un principe azzurro.
-Ma potevo aspettarmi un  ragazzo che mi fosse fedele, in primis, e in secondo luogo che dimostrasse almeno uno straccio di affetto vero.- strillò Sasha, dandogli uno spintone.
-Affetto vero? Cazzo, ragazza, ti ho comprato un fottutissimo cd dei Make Me Famous per il tuo compleanno, ma sai quanto ci ho messo a trovarlo e quanti cazzo di rubli ci ho speso sopra?!- Denis spalancò gli occhi, con una smorfia offesa.
-Apprezzo lo sforzo, tesoro, se non fosse che a me dei Make Me Famous non me ne frega niente, te lo vuoi mettere in testa che sono una ragazza-rap, e che la roba metal mi fa schifo!?- sbottò Sasha, mettendo il broncio – Te ne sei sempre fregato dei miei gusti e delle mie passioni, hai sempre anteposto te a me!
-Ah sì? Okay, perfetto, vaffanculo Aleksandra, vuoi rompere? Mi vuoi lasciare? Va bene, vai!
Denis si passò una mano tra i capelli. Voleva Kuzma, in quel momento, non voleva litigare con Sasha e non voleva che si lasciassero con così tanta rabbia. Ma era inevitabile, perché quando dicevi Denis&Sasha, dicevi automaticamente collera, litigate, sesso e una vecchia amicizia apparentemente logorata ma in realtà inaffondabile.
-La metti così? Ottimo, addio Shostakovich!
La ragazza girò sui tacchi e partì in quarta verso la parte opposta del parco. Cazzo. Non pensava che prendesse sul serio le sue parole, era davvero imprevedibile. Prima che potesse davvero rendersi conto di quello che stava facendo, le stava già correndo dietro, strillando
-No, no, ehi, amore, aspetta, stavo scherzando! Dai … cazzo, Sasha, ferma!
Sasha si bloccò e si girò con un’espressione decisamente stufa
-Cosa vuoi ancora? Mi hai detto te di andarmene.
-Sì, lo so, ma non intendevo davvero. Su, possiamo parlarne e …
-Denis, tesoro, sono seria.- Sasha lo prese per le spalle, respirando profondamente, e pensò quanto Denis fosse straordinariamente bello. E quanto sapeva che in realtà continuava a volergli bene, nonostante tutto. – Non siamo fatti per stare insieme. Ci siamo divertiti, abbiamo avuto ragione di essere, ma adesso basta. Non ha più senso, chiudiamola qui e amici come prima.
Lui si morse il labbro, facendo vagare lo sguardo prima di concentrarlo sul viso pallido e sublime della ragazza
-Lo sai che per i primi tempi non potremmo nemmeno vederci, vero?
-Lo so, Den, ma passerà anche il momento di odio.
Si guardarono dritti negli occhi e il ragazzo sapeva che lei aveva perfettamente ragione. Lui non l’amava. Lui amava qualcun altro che era ben lunghi dall’essere un’adolescente fissata con l’hip-hop e le fan fiction romantiche. Ma le voleva bene, e quello non l’avrebbe mai cambiato, perché Sasha era sua amica e lui continuava a vederla come un membro della Banda del Blocco, prima di tutto.
-Okay, allora presumo che … abbiamo rotto.
Faceva fatica ad ammetterlo, però. Non sapeva perché, ma bruciava.
-Sì, abbiamo rotto.- concluse lei, e per un attimo a lui parve che lei stesse per versare qualche lacrima. Ma forse era solo un effetto della luce incerta del tramonto – Dunque, ciao Den. È stato bello finché è durato.
-Piantala con queste frasi da fan fiction … - borbottò lui, mettendosi le mani nelle tasche dell’immancabile chiodo di pelle.
-E te piantala di fare il duro, bello. Non lo sei.- si passò una mano tra i capelli – Ci vediamo al Covo, domani. Ciao.
Lui non la salutò nemmeno, riducendosi a fissarla andarsene con quella sua andatura da modella, verso l’uscita del parco. Avrebbe potuto rincorrerla. Afferrarla, baciarla, urlarle “ti amo” davanti a tutta la città. Ma non lo fece, perché sapeva quanto fosse patetico e sapeva quanto inutile sarebbe stato. Non erano fatti per stare insieme, punto. Sarebbe stata solo una scenetta penosa. Continuò a fissarla mentre scompariva dietro la curva, i capelli biondi che parevano bianchi al tramonto, e si rese conto che avrebbe voluto piangere. Non sapeva perché, ma le lacrime erano pronte a sgorgare dai suoi grandi occhi innocenti. Voleva piangere per Sasha che l’aveva lasciato, per sua madre che era morta esattamente cinque anni prima, per suo padre che era un buono a nulla, per i suoi amici che soffrivano come lui, per Kuzma che forse era più che un semplice amico. Voleva piangere ma cercava di trattenersi perché era il dannato capo della Banda del Blocco e non poteva mettersi a frignare nel bel mezzo del Parco Mayakovskij. Sarebbe tornato a casa a testa bassa, rinchiudendosi in camera sua e finalmente si sarebbe messo a piangere, la testa soffocata nel cuscino e il suo peluche preferito stretto al petto. Piangeva spesso quando era da solo, per liberare i demoni che da anni lo inseguivano e lo angustiavano. Poteva sembrare un ragazzo libero e senza pensieri, ma solo dio sapeva quanto in realtà vivesse un’esistenza tormentata da ricordi che avrebbe voluto dimenticare. Poi, dopo che avrebbe pianto per un’ora soffocato dal cuscino e dopo aver baciato la foto di sua mamma, in bella mostra sul comodino, avrebbe chiamato Kuzma e si sarebbe fatto consolare tutta la notte. Sarebbero andati a bere insieme sui tetti dei palazzi, avrebbero ascoltato qualche canzone drammatica dei Mayday Parade e poi avrebbero dormito insieme, anche se ci stavano stretti nei loro letti, così si sarebbero dovuti abbracciare e Denis avrebbe dormito in pace con sé stesso. Magari avrebbero letto qualcosa di Pushkin insieme, come facevano da bambini, lui non avrebbe capito e Kuzma gli avrebbe spiegato il significato. Ecco, sarebbe successo quello, come ogni volta, e la mattina Denis sapeva che sarebbe stato meglio. Si asciugò una lacrima che tentava di sfuggire, e si voltò, pronto a correre a casa e lasciare che il pianto gli sconvolgesse il viso, quando scontrò rumorosamente un’altra persona.
-Scusami, non volevo!- si affrettò a dire, senza nemmeno guardare chi avesse travolto, ma si congelò di colpo quando sentì la sua voce.
-Dove vai così di corsa, Denis?
Alzò gli occhi e finalmente lo vide. Yurij. In tutta la sua bellezza devastante. Arrossì selvaggiamente, quando l’uomo sorrise e si incartò quasi mentre blaterava
-Niente, io … devo andare a casa … e … io … scusa … Sasha … io … sto bene …
Doveva andarsene, non voleva che lo vedesse in quella condizione, non voleva che …
-Stai piangendo tesoro, non stai affatto bene.
Yurij gli si avvicinò, poggiandogli una mano tatuata sulla spalla e solamente in quel momento Denis si rese conto che grosse lacrime gli stavano rigando il volto. Dannazione, non voleva farsi vedere da Yurij mentre piangeva, non voleva fare di nuovo una figura patetica, ma proprio non ce la faceva a trattenere il pianto. C’era qualcosa, negli occhi d’acciaio dell’uomo, che gli stava suggerendo che poteva lasciarsi andare, che non era sbagliato aprire il proprio cuore. Non singhiozzò, non fece nulla, lasciò solo che la lacrime silenziose parlassero da sole e che fosse Yurij a passargli delicatamente un braccio attorno alle spalle.
-Senti, è successo qualcosa? Denis, non ti lascio stare da solo in queste condizioni.
Aveva una voce dolce e malinconica, quasi tossica e quel suo abbraccio era qualcosa di così tiepido e salutare che il ragazzo cancellò ogni proposito di allontanarsi di corsa. Lasciò che fosse Yurij a prendere il comando della situazione, mentre le lacrime gli ustionavano il viso e quando lui disse
-Capisco di non essere la persona più adatta ma … vuoi parlarne?
Denis, semplicemente, annuì.

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Capitolo 9
*** A passeggio per Ekaterimburg ***


*Scusate il ritardo e scusate se è corto D: Se volete, passate dalla mia nuova long "Hospital For Souls - There Is A Hell, Believe Me, I've Seen It"*

CAPITOLO NOVE: A PASSEGGIO PER EKATERIMBURG


Turn around, I’m here
If you want, it’s me you’ll see
Doesn’t count far or near
I can hold you when you reach for me
[Tokio Hotel – By Your Side]
 
-Quindi, se ho ben capito, la tua ragazza ti ha mollato.
Yurij e Denis avevano occupato un’altra panchina, e il ragazzo si stava seriamente chiedendo come avesse fatto a finire a piagnucolare tra le braccia di un giovane uomo appena conosciuto. Il fatto che poi l’uomo in questione fosse non solo il suo sogno erotico, ma la sua prima, vera, diabolica cotta era un’altra storia.
-Sì, ma non è quello il solo problema.- borbottò Denis, tirando rumorosamente su col naso. Il profumo di sigarette e colonia di Yurij gli stava davvero dando alla testa, e tutto sembrava sopirsi di fronte ai suoi occhi di metallo. Una piccola parte di lui gli stava dicendo che avrebbe dovuto andare da Kuzma, scappare dalle fauci di Yurij, ma il suo incantesimo era troppo potente per poter essere spezzato e in fondo forse non voleva nemmeno farlo. – E’ che … oh, ma non so nemmeno perché ti sto dicendo queste cose.
-Forse perché sono quasi le otto di sera, siamo entrambi gente del Blocco e stai piangendo nel bel mezzo di un parco cittadino.- rispose Yurij, con un sogghigno.
Denis si passò una mano tra i capelli, e si morse il labbro inferiore, guardando di sottecchi i tatuaggi intricati dell’uomo seduto accanto a lui. Avrebbe voluto baciarlo, sederglisi a cavalcioni, spogliarlo di quell’inutile maglietta, tracciare col dito tutti i disegni che gli vergavano il corpo magrissimo, un po’ per cercare di migliorare quella giornata orribile, un po’ per mettere a tacere la sua libidine scatenata. Non voleva pensare ancora a tutto quello che era successo, voleva dimenticare, seppellire tutto nella passione che gli divorava le viscere.
-Dai, partiamo dall’inizio. Perché avete rotto?- Yurij gli allungò un fazzoletto col quale il ragazzo si soffiò rumorosamente il naso.
-Non lo so.- Denis gonfiò le guance e poi le sgonfiò in uno sbuffo – No, beh, in realtà lo so: lei è una delle mie migliori amiche, siamo scopamici da un’eternità, solamente che lei ha cominciato a pretendere qualcosa di più serio, io non sono stato in grado di dirle sin da subito che io non sono il ragazzo adatto a fare il fidanzato serio, così abbiamo cominciato a litigare sempre di più, e alla fine lei mi ha piantato.- si girò verso Yurij, e quando lo vide sghignazzare senza ritegno si offese – Cosa c’è da ridere?
-Scusa, bellezza, ma hai un modo di mettere le cose semplicemente esilarante.- Yurij scosse la testa, passando con nonchalance un braccio attorno alle spalle di Denis. Si rese benissimo conto dell’effetto che fece al ragazzo un gesto del genere, e segretamente ne gioì. Lo voleva nel suo letto, non c’era storia. Se poi volevano allargare la cosa anche a un’amicizia, perché no? Yurij non disdegnava mai la compagnia di giovani scavezzacollo come era lui da adolescente. – A parte tutto, sei sicuro che sia solo per questo? Si piange per una rottura, ma non mi sembra il tipo di relazione sulla quale disperarsi, correggimi se sbaglio.
Denis lo guardò, e arrossì un pochino sotto il ciuffo. Si chiese come avesse fatto a capire immediatamente che quella era una giornata partita tutta sbagliata ma quando incontrò quelle iridi grigio ferro, si sentì a casa più di quanto si fosse mai sentito in vita sua. Era come se Yurij potesse capirlo, come se avesse vissuto i suoi stessi drammi e ne fosse uscito vincitore. Un maestro col proprio allievo, che si districavano tra cicatrici, lutti e musica rock. Non sapeva se raccontargli davvero il motivo per il quale stesse piangendo, anche perché forse non lo sapeva nemmeno lui, ma quando l’ennesimo singhiozzo gli proruppe dalle labbra, pensò che avrebbe fatto decisamente meglio a parlare con qualcuno che non fosse Kuzma. Se non altro, per non pesare sempre sul suo povero amico tutta la devastazione con la quale doveva convivere. Poteva liberarsi l’anima? Sperava di sì, ma l’avrebbe fatto comunque, perché ci sono cose che, per quanto puoi lottare per tenerle dentro, prima o poi usciranno fuori. Ci sono drammi che ti sei ripromesso di non rivelare mai a nessuno, ma quando incontri gli occhi giusti, senti la voce che volevi sentire, o trovi l’abbraccio che tanto cercavi, allora sembra così facile lasciarsi andare che lasci andare ogni corda e ti fai trascinare dalla gioia di aver trovato la persona giusta. Denis, in quel momento, era convinto di aver trovato la persona giusta, senza un motivo, senza un perché, voleva parlargli, e raccontargli quello che sapeva solo Kuzma e le sue lacrime amare. Si asciugò gli occhi arrossati e fece per dire qualcosa, ma Yurij lo precedette
-Vieni, Denis, camminiamo. Forse ti aiuterà.
Gli porse la mano e il ragazzo la prese, lasciandosi guidare da quell’uomo divino nella sua brutale bellezza di strada. Non gli sembrava nemmeno che fosse vero, uscire dal Parco Mayakovskij accanto a Yurij, ai suoi tatuaggi e alla sua mano fredda ancora stretta attorno alla sua. Non c’era però nulla di sensuale o di romantico in quel gesto, ma solo un legame stretto tra due ragazzi che avevano vissuto le stesse cose e che tentavano di non collassare in quell’inferno che era Ekaterimburg.
Si immisero nel traffico rumoroso di quella città grigia e perennemente ricoperta da una pesante cappa di smog, e fu allora che Denis cominciò a parlare, con voce rotta
-E’ solo che oggi … oggi è l’anniversario della morte di mia mamma. Sono un po’ giù per quello.
Si tirò il colletto della maglietta, visibilmente a disagio. Non amava parlare con nessuno che non fosse Kuzma di quello che era successo, ma chissà perché, Yurij sembrava quasi togliergli le parole di bocca. Una parte di lui lottava per tacere, per sviare l’argomento, mentre l’altra quasi smaniava dalla voglia di raccontargli tutti i problemi della sua vita. Ma perché, si chiedeva. Perché diavolo doveva andare ad innamorarsi di un uomo appena conosciuto, cosa lo portava a fidarsi di lui? Non lo sapeva, ma il bisogno di aprirsi era così forte che non riusciva a contrastarlo. Voleva parlare, raccontare, forse anche piangere di fronte a quegli occhi metallici e più tentava di arginare sé stesso, più voleva lasciarsi andare
Guardò Yurij, e incontrò uno sguardo consapevole. Non c’era ironia, non c’era derisione. C’era … comprensione. Estrema comprensione.
-E’ come se si fossero sommate tutte le cose: la mamma, la mia ex, il mio migliore amico, … tutto. Ma più che tutto, è lei. Mi manca tanto. Troppo.
-Una madre non manca mai troppo, Denis.- disse Yurij, posandogli una mano sulla spalla – Ho perso la mia che avevo sedici anni. Adesso ne ho trentuno e non ci sono ancora davvero passato sopra, quindi … capisco cosa provi. Capisco che quando scocca il rintocco di quel giorno, ti sembra che niente possa più andare avanti. Ma lo fa, anche se non ti sembra possibile. Vivi, in qualche modo ti fai forza e ti fai largo in quest’inferno che chiamiamo vita. Passi oltre al fatto che hai dormito troppo poco nel suo letto, o che troppo poco le hai detto “ti voglio bene”, o che l’hai fatta incazzare troppe volte. Te ne fai una ragione, alla fine, e impari a trattare quel dolore come una cosa positiva. Cominci a ricordare le cose belle che facevi con lei, le ninnananne che cantava, i regali che ti impacchettava. E la rabbia, la disperazione, vengono mutate in nostalgia e dolcezza. Così sorridi, magari piangi un pochino, ma sarà sempre con gioia che la ricordi, non con la furia colpevole di prima.
Yurij guardava il cielo, mentre parlava, e Denis si chiese se non stesse tentando di arginare a sua volta le lacrime. Oramai lui le lasciava correre libere sulle guance lisce, stringendo sempre con più forza la mano tatuata dell’uomo. Quello che gli aveva appena detto gli risuonava in testa come un mantra e più ci pensava più lo trovava dannatamente veritiero. Faceva male sentire quella voce malinconica tirare fuori i demoni che lui tentava di soffocare, ma era un dolore giusto, positivo, qualcosa che stava scaldando il cuore del ragazzo. Si tenevano per mano, ma andava bene così, non c’era nulla di romantico e di sensuale in quel gesto, solo la comunanza di un dolore comune. Denis non si era mai sentito così leggero come quel giorno, nemmeno quando era con Kuzma riusciva a provare la stessa felicità luccicante che gli stava illuminando gli occhi.
-Forse hai ragione.- sussurrò, passandosi una mano tra i capelli – Anche se la ferita è più dolorosa di quanto possa sembrare.
-Non ho detto che non faccia male, Denis. Fa male eccome, ma anche al dolore ti puoi assuefare.- rispose Yurij, guardandolo.
C’era tanta malinconia consapevole in quelle iridi d’acciaio, e il ragazzo per un attimo ebbe una voglia di baciargliela via e farlo sorridere. Alzarsi sulle punte dei piedi e baciargli le palpebre, prima ancora che le labbra. Assorbire la sua tristezza e soffiarla nel vento, farla volare via nei cieli siberiani e far tornare a sorridere chi era stato costretto a smettere di farlo.
-A volte però assuefarsi a qualcosa non fa bene.- ribatté Denis, mordendosi il labbro.
-O a volte può essere l’unica cosa che ti tiene in vita.
Yurij fece un mezzo sorriso, e lasciò andare la mano del ragazzo. Denis, in un moto quasi improvviso, ebbe voglia di riprendergliela, di stringerla e pensò che Yurij se ne accorse quando sogghignò, e intrecciò nuovamente le loro dita, quelle di uno callose e rovinate dalle lotte di strade e quelle dell’altro tatuate e signorili. Si stava vergognando? No, assolutamente no.  Non capiva che cosa stesse scatenando quell’uomo in lui, ma stava bene. Parlare di sua madre a quel modo … non c’era mai riuscito, senza che gli venisse voglia di spaccare tutto, o senza che cominciasse a singhiozzare come un bambino. Era riuscito ad affrontare la cosa in maniera così adulta e controllata che si sentiva quasi fiero di sé stesso. Alzò timidamente lo sguardo e pensò che non aveva mai visto un uomo più bello. Ma non era la solita bellezza da copertina, quella buona per una scopata e basta: no, era qualcosa di sublime, di doloroso, di dolce, qualcosa che lo stava facendo commuovere. Denis piangeva molto raramente, ma quando lo faceva, allora era qualcosa di totalmente sentito – voleva Yurij, e non solo perché era un sogno erotico, ma perché lo aveva tenuto per mano quando più ne aveva bisogno, perché lo aveva aiutato ad affrontare una cosa che ancora non era riuscito a superare, perché lo aveva portato fuori da quel parco come se fosse una persona importante. Denis si sentiva così bene, a tenerlo per mano, si sentiva ascoltato più che mai e solo Dio poteva sapere quanto avesse effettivamente bisogno di ascolto. In fondo, chi voleva sentire un teppista di periferia? Chi poteva pensare che anche lui aveva canzoni da cantare, sussurri da urlare, ribellioni da scatenare? Perché la Banda lo ascoltava, certo, ma Denis aveva così tanta paura di risultare un peso, lui, che era il dannatissimo capo, a costringersi a ingoiare la maggior parte delle sue paure. Ma con Yurij, sembrava che tutto riuscisse a sgorgare rapidamente. E poi c’era Kuzma, che gli teneva la mano prima di dormire, che lo accompagnava al cimitero, che gli dava consigli e che il ragazzo vedeva come parte di sé. Si chiese come avesse fatto Yurij a fargli dimenticare addirittura Kuzma per tutto quel tempo. Si chiese semplicemente come avesse fatto Yurij a farlo innamorare così perdutamente in un solo istante.
-Vuoi che ti accompagno a casa, Denis?- chiese l’uomo, distraendolo dai suoi pensieri.
-No, grazie, non ce n’è bisogno.- rispose timidamente, arrossendo – Hai già fatto moltissimo per me, oggi.
-Insisto.- Yurij gli sorrise, facendo dondolare le loro mani unite – Facciamo una passeggiata, Denisoch’ka. Va bene se ti chiamo così?
Denis arrossì ancora di più, ma sorrise, un sorriso infantile, felice e dolcissimo, un sorriso che raramente gli illuminava il viso.
-Sì, certo. Va benissimo.
Non disse che trovava estremamente bello il modo in cui pronunciava il suo nome. Sensuale, ma allo stesso tempo malinconico, come tutto Yurij.
Continuarono a camminare, tenendo sempre le mani intrecciate, per le cupe e rumorose strade di Ekaterimburg. Si stava bene, decise Denis, a passeggiare con Yurij, i ricordi della litigata con Sasha oramai relegati nell’anticamera del cervello. Gli sembrava di essere approdato in un altro universo, dove lui non era il Denis Shostakovich bullo di periferia, che pensava solo a fare sesso con ragazze e ragazzi di ogni tipo e a spaccarsi di vodka e musica heavy metal. Qui era un Denis solo e triste, che veniva gentilmente raccattato da quello che poteva non essere un principe, ma sicuramente era un angelo caduto. Poteva intravedergli le ali insanguinate muoversi gentili nell’aria, poteva sentire il freddo angelico sgorgargli dagli occhi. Gli piaceva questa sua nuova versione? Sì, decise, gli piaceva da morire. Si sentiva protetto e amato come mai in vita sua, e questo non faceva che lenire dolcemente le ferite sanguinanti che gli incrostavano il cuore.
Camminavano, senza parlare, solamente lasciandosi guidare dalla loro vicinanza, diretti verso una casa che forse non lo era nemmeno più. Un po’ senza pensare, e un po’ pensando troppo, si trovarono davanti al palazzo del ragazzo, dopo un giro che nessuno dei due aveva davvero sentito, troppo travolti dalla stranezza del loro amichevole e affettuoso silenzio. Si fermarono, e improvvisamente Denis non avrebbe mai voluto lasciare andare la mano di Yurij. Gli andava bene anche andare sino a Vladivostok a piedi, se potevano farlo tenendosi la mano e anche se sembrava una cosa dannatamente sdolcinata, non gli importava.
-Siamo arrivati?- Yurij gli sorrise, facendo dondolare ancora le mani.
Denis annuì, e per un secondo ebbe l’urgenza travolgente di baciarlo. Prendere quel viso magro e triste tra le mani e premere labbra contro labbra. Poteva farlo. Poteva assolutamente farlo. Poteva …
-Sicuro di stare bene, Denisoch’ka?
La voce di Yurij lo distolse dai suoi propositi, facendolo brutalmente ricadere coi piedi per terra.
-Certo che sto bene!- disse, un po’ troppo velocemente. – Anzi, grazie. Di tutto.
-Sai dove abito, dolcezza.- sorrise Yurij, lasciandogli andare la mano ma scostandoli il ciuffo ribelle dal viso – Quando hai bisogno, passa.
Denis si morse il labbro, ma annuì. Già gli mancava il calore dell’altra mano nella sua.
-Certo, grazie. Davvero, sei stato … grazie.- gli mancavano le parole.
Yurij gli scompigliò i capelli, e per un secondo al ragazzo parve che gli stesse fissando le labbra con una certa insistenza e una certa fame. Ma forse era solo un abbaglio.
-Resisti, ragazzino. La vita non fa sempre così schifo.- gli disse Yurij, prima di chinarsi su di lui e sussurrargli nell’orecchio – Comunque, voglio rivederti presto, dolcezza. Prima di quanto immagini.
Denis sogghignò e annuì, recuperando per un attimo la solita sfacciataggine che lo caratterizzava da sempre
-Certo, Yura. Sarò alla tua porta molto presto.
Si guardarono negli occhi e si sorrisero, e in quel sorriso c’era un tacito ringraziamento da parte di entrambi. Un qualcosa che assicurava che sì, erano due giovani uomini distrutti e sì, si volevano salvare a vicenda, in qualche modo. Qualcosa che nessuno dei due aveva mai trovato in nessun altro prima.
-Allora … ci vediamo.- concluse Denis, giocando distrattamente con il bordo del chiodo.
-Certo, Denisoch’ka. Abbi cura di te.
Yurij gli rivolse un ultimo sorriso travolgente e si voltò, avviandosi dall’altra parte della strada. Per un attimo, Denis fu tentato di corrergli dietro, come avrebbe voluto fare con Sasha, ma nuovamente si bloccò, cercando di concentrare tutte le sue energie nel canalizzare i sentimenti che Yurij gli aveva comunicato. Rimase fermo fuori dal portone come un perfetto idiota, un sorriso stupido stampato sul viso e tutta la consapevolezza di aver appena incontrato la persona più importante della sua vita. Non sapeva ancora che ruolo avrebbe rivestito, ma Yurij non sarebbe scomparso tanto presto dal suo scenario, glielo diceva quel sorriso, quegli occhi di perla, quella voce tossica. Guardò il cielo grigio e si ritrovò a ridere da solo, senza pensare più a Sasha, ai ragazzi, alla sua vita, ma solamente a lui e a quelle parole che gli avevano scaldato il cuore. Sarebbe tornato a trovarlo, avrebbero parlato ancora, e poi magari avrebbero fatto l’amore, e avrebbero mangiato bliny insieme sul divano sfondato di casa sua, sentendo metal a tutto volume. Sì, sarebbe andato tutto bene, se lo sentiva, se Yurij glielo aveva detto allora ci credeva con tutto sé stesso.
-Hai visto, mamma?- sussurrò alle nuvole – Hai visto com’è felice il tuo Denisoch’ka?
Adesso, avrebbe chiamato Kuzma e avrebbero portato insieme un mazzo di rose sulla tomba di sua madre, gli avrebbe raccontato tutto e Kuzma sarebbe stato felice per lui. Sì, dai, in fondo la sua vita poteva ancora essere salvata, in qualche modo. Prima di infilare la mano in tasca per prendere il telefono, gli parve che una nuvola gli stesse sorridendo.

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Capitolo 10
*** Le ragazze amano ***


CAPITOLO DIECI: LE RAGAZZE AMANO

I want to paint down my memories
So I don’t forget
Can we dance when it’s cold outside?
Can we live with no regrets?
[Sleeping With Sirens – Save Me A Spark]
 
Aleksandra stava piangendo. Disperata, teneva la testa affossata sotto al cuscino, malamente abbandonata tra pigiami e coperte rosa. Era una stupida. Una stupida egoista. Il vago sapore del vomito la dava la nausea, ma non aveva nemmeno la forza di andare in bagno a sciacquarsi la bocca. Poco prima di chiamare Valya, si era chiusa in bagno a vomitare il misero pasto che sua madre le aveva preparato, e adesso non sapeva nemmeno più lei per cosa stesse piangendo. Se per Denis, se per l’anoressia che ormai l’aveva avvolta nelle sue spire, se semplicemente perché non ne poteva più. Voleva dormire, ma non ce la faceva. Voleva ascoltare la musica, ma le doleva la testa. Voleva …
-Ehi, Sasha … non piangere, dai, spiegami cos’è successo.
La voce dolce di Valya, appena arrochita dal fumo, le sospirò nell’orecchio, e la costrinse a riemergere dal cuscino, capelli arruffati e occhi gonfi. Valentina le stava acciambellata al fianco, intenta ad accarezzarle la schiena ossuta, quel sorriso triste dipinto sul volto tondo e una preoccupazione lampante negli occhi blu.
-Va … Valya … - ansimò, soffiandosi rumorosamente il naso – Ho fatto un casino. Sono una deficiente, una stronza deficiente!
Valentina roteò gli occhi al cielo, e le scostò una ciocca bionda dal viso
-Questo l’ho capito, tesoro, ma non ho capito perché. Bevi un po’.
Le diede un bicchiere d’acqua, che Sasha bevette avidamente, prima di crollare di nuovo scossa dai singhiozzi
-Ho mollato Denis.- gemette, guardando fisso negli occhi della sua migliore amica.
-Oh, Sashen’ka, ne abbiamo già parlato … - iniziò Valya, stringendosela al fianco e sfregandole affettuosamente le spalle – Rimarrete amici e …
-Non è per quello, Valya!- strillò la bionda in risposta, scollandosi di nuovo dall’amica e cominciando a piangere in silenzio – Il problema è che l’ho lasciato oggi. Oggi!
Valentina aggrottò le sopracciglia, cercando di fare mente locale. Cosa succedeva quel giorno? Era un anniversario? Un compleanno? Una ricorrenza? Un … d’improvviso, la risposta la colpì come un fulmine. Soffocò uno strillo nella mano guantata, e spalancò i grandi occhi truccatissimi, sbiancando.
-No, non può essere vero.- mormorò, ma lo sguardo devastato di Aleksandra non faceva che avvalorare la sua tesi.
-Invece lo è.- pianse Sasha, dando un pugno nel muro dipinto di rosa – E’ l’anniversario della morte di sua mamma, e io l’ho lasciato!
Le due ragazze si fissarono per qualche secondo in perfetto silenzio, prima che Valentina stirasse le gambe e si appoggiasse al muro
-Cazzo, ragazza, l’hai fatta davvero grossa.
-Grazie, Valentina, lo so già da sola!- abbaiò Sasha, alzandosi e cominciando a girellare istericamente per la stanza – Ho provato a chiamarlo venti volte, gli ho mandato trecento messaggi, pure una mail, e mi sta ignorando! Sarà distrutto, e io l’ho devastato ancora di più. Ma che razza di amica sono?! Che razza di ragazza?!
-Va bene, adesso calmati però.- Valya si era alzata a sua volta, e aveva afferrato le spalle dell’altra, fronteggiandola – Non c’è errore che non si possa riaggiustare. Denis capirà, sono sicura che …
-Capirà cosa, Valya? Sono stata un’egoista, mi sono dimenticata di una cosa del genere, e c’eravamo tutti a quel funerale.
Sasha si lasciò ricadere sul letto, passandosi una mano tra i capelli e legandoseli in una crocchia scomposta. Era attonita dal suo stesso comportamento: come aveva potuto trattare Denis così? Come aveva fatto a dimenticarsi di una cosa simile? Tacitamente, nella Banda del Blocco, tutti sapevano come trattare il capo con un occhio di riguardo quando scoccava il giorno suddetto. Era un ricordo doloroso per tutti, perché riportava alla mente quella fatidica sera di cinque anni prima, nel quale Denis si era precipitato da loro sconvolto come mai lo avevano visto e avevano tristemente appreso del suicidio della dolce signora Svetlana Shostakova. Da quel giorno, Denis non era mai più stato lo stesso. Poteva essere un bullo di periferia, ma quella luce spezzata nessuno era ancora riuscita a cancellarla. A volte, quando di punto in bianco prendeva e scappava, un fazzoletto premuto sul viso e un singhiozzo strozzato, sapevano che era perché i ricordi avevano brutalmente avuto la meglio su di lui, e lo rispettavano. Rispettavano il suo silenzio, il suo lutto, il suo dolore. Rispettavano il capo e la sua forza di cercare di andare avanti.
Valentina sospirò, e le si sedette al fianco, prendendole una mano. Se solo Sasha si fosse resa conto dell’espressione terribilmente innamorata dipinta negli occhi dell’amica. Se solo fosse stata un poco più perspicace nel capire che in quelle mani intrecciate c’era più di una semplice amicizia. Ma in quel momento pensava solamente a Denis, alle sue lacrime e a quello che aveva combinato.
-Lo so, ma lui non è stupido. Lo sa che non l’avresti mai fatto intenzionalmente, ti perdonerà. La Banda del Blocco è per sempre, Sasha: non si spezza per cose simili.
-E se invece fosse proprio questo a spezzarla?- ribatté la bionda, raggomitolandosi contro la testata del letto – Se fosse colpa mia?
-Piantala adesso!- sbottò Valya, tirandole affettuosamente un cuscino – Ti stai solamente piangendo addosso. Andrà tutto bene. Te lo prometto.
Le due ragazze si guardarono negli occhi per qualche minuto, in silenzio, e poi Sasha abbracciò Valentina, affondandole la testa nella spalla
-Grazie, Valyoch’ka. Mi chiedo come farei senza di te.
Valentina annuì, accarezzandole la schiena, e il fantasma di una lacrima le brillò tra le lunghe ciglia – se Aleksandra avesse saputo quanto erano veramente necessarie l’una all’altra, cosa covassero davvero dentro di loro, ma sapeva che era tutto inutile. Si beò il più possibile del caldo abbraccio nel quale si erano strette, annusando il profumo dei capelli dell’amica, stringendo la sua felpa con le sue piccole manine abituate a correre su e giù sulle corde di chitarra. Sarebbe rimasta stretta a lei per tutta la vita, se glielo avessero chiesto, e si sciolse dall’abbraccio malvolentieri. Sasha la guardò, con un sorriso timido dipinto sul viso ancora bagnato di pianto, e andò dallo stereo, mettendo una delle ultime hit di Mari Kraymbrery, accennando distrattamente a qualche passo di danza. Valya la guardò, e pensò che fosse bella anche così, in pigiama, la crocchia sfatta, gli occhi più rossi che verdi, e con un sorriso triste sul viso magro. Forse era dimagrita ancora, registrò la ragazza: avrebbe dovuto controllare che andasse tutto bene, non era sicura che eccessive perdite di peso per uno stecco come Sasha fossero normali. Ma in quel momento tutto scemava, di fronte alla sua bellezza, e alla sua dolcezza, anche sfregiata dalla tristezza e dal disprezzo per sé stessa.
-Balliamo?
-Eh? No, dai, sai che sono …
Ballarono. Da sole, nella tranquillità della camera, come erano solite fare da anni e Valentina sapeva che erano momenti come quelli che la facevano sentire viva. Si dimenticava del suo dolore, dei tagli, della devastazione interiore e lasciava che Sasha la guidasse in quel turbinio di capelli svolazzanti e mani intrecciate. C’era una canzone che diceva “possiamo ballare quando fuori fa freddo?”, e ogni volta pensava che si adattava perfettamente a loro due, rinchiuse nella gelida Ekaterimburg, ma travolte dalle loro innocenti danze adolescenziali. Sasha rideva, anche se le lacrime ancora le sporcavano gli occhi, ma Valya rideva con lei, di un riso doloroso ma liberatorio, mentre roteavano abbracciate sulle note di qualche canzone hip-hop russa che tanto piacevano alla bionda. Improvvisavano valzer senza regole, seguendo un ritmo che era solo nelle loro vene e dimenticavano per un attimo tutti i drammi delle loro vite. Ciocche bianche e nere si intrecciavano insieme alle loro dita inanellate, ai loro sorrisi feriti, mentre roteavano per la stanza, cercando di soffocare per un attimo i problemi che le assillavano. Erano belle, quando danzavano insieme, erano fresche, innocenti e stupende nella loro crudele bellezza di periferia. Aleksandra fece fare una giravolta a Valentina, e poi se la strinse al petto, e fu in quell’attimo che il cuore di Valya perse seriamente un battito. C’era sempre così tanto in un loro abbraccio, così tanti segreti condivisi, consolazioni dell’ultimo minuto, risate volgari, canzoni da cantare sotto le stelle, pettegolezzi succosi, casini irreparabili, che era impossibile non venire sopraffatti dai ricordi e dai sentimenti. Fu durante uno di quegli abbracci che successe. Fu proprio in quel momento, tra lacrime, Mari Kraymbrery nelle casse e sensi di colpa che Valya si alzò sulle punte dei piedi e stampò un bacio sulle labbra di Sasha. Così, senza un perché, un casto bacio che voleva dire tante cose. Ti amo, ma anche ti voglio bene, voglio essere la tua ragazza, ma anche sono la tua migliore amica. Un bacio che voleva suggellare qualcosa di più tra le due ragazze. Qualcosa che poteva come no iniziare qualcosa di completamente nuovo per entrambe. Valentina aveva aspettato così tanto tempo, che quando lo fece sentì come un peso levarsi di scatto dal suo cuore tormentato. Aveva ripreso a respirare, mille risate le rintronavano il cervello, mille strilla entusiaste le risuonavano intorno, era finalmente riemersa dallo stagno dove si era affogata con le sue stesse mani. Era contenta, sì, era dannatamente contenta di poter finalmente gustare le labbra di Aleksandra, di poter sentire quel profumo di vaniglia più vicino a sé. La baciò, e per una frazione di secondo non pensò a niente. Fu probabilmente il secondo più bello della sua vita, meglio ancora del concerto dei Tokio Hotel a cui aveva trascinato la Banda del Blocco al completo, ma poi, non appena fu esaurita la carica esplosiva che si era impossessata di lei, si rese conto di quello che aveva fatto. Aveva baciato la sua migliore amica, etero, peraltro, in un suo momento di debolezza. Cazzo. Aveva fatto un casino, un atroce, irreparabile, casino. Ma come aveva potuto?! Di colpo, tutta la gioia e la sicurezza che si erano impossessate di lei erano miseramente scemate, lasciando spazio solo alla vergogna e al terrore di essere rifiutata. Si allontanò istantaneamente da Sasha, gli occhi blu comicamente spalancati dall’orrore. La bionda la stava fissando con altrettanto sconcerto, vagamente inebetita, persa, e Valentina ebbe voglia di vomitare. Aveva appena mandato a puttane un’amicizia costruita su anni di fedeltà e di rispetto per uno stupido colpo di testa.
-Io … Io … Sasha … - balbettò, sentendo le lacrime cominciare a bruciarle gli occhi.
Sasha scosse il capo, sempre in silenzio, e si passò una mano tra i capelli. Ecco, pensò Valya, ecco come riesco a inimicarmi la mia migliore amica. Fissò quegli occhi verdi dove turbinavano mille emozioni diverse e si premette una mano sulla bocca, nel tentativo vano di fermare il pianto che già cominciava a sgorgare.
-Non volevo, Sashen’ka, scusami, ti prego … - piagnucolò, sentendo le lacrime rigarle le guancie pallide, mentre Aleksandra continuava a fissarla senza dire nulla.
Valya poteva quasi vedere fisicamente la rabbia, lo schifo che le si sarebbero rovesciati addosso e sentiva il cuore battere all’impazzata. Sarebbe finito tutto, per uno stupido errore di giudizio si stava giocando la sua vita, la sua migliore amica, il suo posto nel branco. Dopo quello che era successo il fatidico anno prima, si era ripromessa che non avrebbe mai fatto più nulla per far soffrire Sasha, eppure eccola lì, ad aver compiuto l’ennesimo sbaglio. Forse sarebbe stato meglio che avesse scoperto il segreto tanto doloroso, piuttosto che quello … si leccò le labbra, guardando con un certo terrore l’amica che si avvicinava a lei. Magari le avrebbe tirato uno schiaffo. Forse l’avrebbe abbracciata, dicendole che andava tutto bene. Avrebbe potuto sputarle in faccia.
-Scusa, scusami … - mormorò, cercando di soffocare i singulti.
-No, Valya.- la interruppe Sasha, con una fermezza quasi estranea – Non ti devi scusare. Non dopo quello che sto per fare io.
Detto questo, Aleksandra le prese il viso tra le mani e la baciò lei, con molta più rabbia, molta più passione, molta più ferocia repressa. Valentina quasi barcollò, stranita. Non quadrava: Sasha stava ricambiando il bacio. Non andava bene. Oppure andava troppo bene per poter essere vero? Quasi impacciata, mise le mani tra i capelli bianchi dell’amica, ricambiando con più timidezza il bacio. Ma poi, pensò, non avrebbe dovuto forse approfittarne, fregarsene di tutto e lasciare che per una volta fosse la follia a guidare le sue azioni? Stava piangendo in quel momento, e non sapeva se per la tensione sciolta, o per la felicità. Finalmente, Sasha stava realizzando il suo sogno, e allora non avrebbe dovuto far altro che lasciarsi andare e cavalcare quella chimera finché le fosse stato possibile.
Sasha la strinse a sé, spingendola sul letto e Valya sorrideva, cercando disperatamente un contatto sempre più di fuoco
-Sasha, Sasha ti amo.- mormorò, nei rari momenti in cui prendevano aria.
La bionda la fissò per un attimo nel profondo degli occhi, ma non disse nulla, riprendendo a baciarla con sempre più rabbia, sempre più passione e Valya si chiese perché lo stesse facendo. Forse l’amore non era davvero ricambiato. Forse lo stava facendo solo per isteria. Ma in fondo, cosa importava? Almeno, poteva dire di aver avuto Sasha, una volta nella vita. Avrebbe potuto chiedere di più, ma era così pazza di lei da potersi anche accontentare di una cosa simile.

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Capitolo 11
*** I ragazzi litigano ***


CAPITOLO UNDICI: I RAGAZZI LITIGANO
My outlaw eyes have seen their lies
I choke on all they had to say
When words collide, what’s left inside?
I hold on tight and hear you pray
[Black Veil Brides – Rebel Love Song]
 
Kuzma aveva un mal di testa assassino che gli stava facendo scoppiare le tempie. Sembrava che quel giorno dovesse succedere l’impossibile: prima la scoperta del segreto di Ylja, poi la fuga di Valya a consolare Sasha, il conseguente apprendimento della rottura della coppia storica, la chiamata esagitata di Denis, e adesso lo scontro aperto con Ylja. Ma cosa aveva fatto di male per meritarsi tutti quei problemi, pensava sempre il ragazzo biondo. Perché in fondo la filosofia era sempre la stessa: qualunque problema, Kuzma te l’avrebbe risolto. Eppure, quando era lui quello con qualche dramma, nessuno riusciva mai ad aiutarlo o a sostenerlo come avrebbe voluto. Certo, lui era d’acciaio, lo era sempre stato, era un blocco di ghiaccio dotato di una fermezza e di una lucidità disarmanti, ma cristo, aveva diciotto anni pure lui, aveva dei problemi, aveva delle insicurezze, aveva anche lui un’adolescenza da affrontare: però pareva che tutti se ne dimenticassero.
Così, in quel momento, stava facendo fronte all’ennesimo inghippo della giornata: affrontare in campo aperto Ylja sul suo fantomatico fidanzato. Piazzati in un angolo poco frequentato del quartiere, i tre maschi della Banda del Blocco si fronteggiavano, per una volta senza musica nelle casse e senza vodka in mano.
-Okay, ricapitoliamo.- attaccò Denis, il cappuccio alzato e le mani in tasca – Sei impegnato a nostra insaputa.
-E’ inutile che menti, ragazzo, io e Valya ti abbiamo visto che ti avviavi a braccetto con un tizio, due ore fa. Chi è?- chiese Kuzma, alzando un sopracciglio.
Ylja era strano. Li fissava con i suoi grandi occhi pallidi, quasi terrorizzati, e si tormentava l’orlo della maglietta. Non era affatto contento che la sua relazione fosse stata portata così brutalmente alla luce; non era pronto a sentire la ramanzina dei suoi amici, voleva solamente scappare di nuovo da Viktor e riposarsi per almeno qualche giorno. Invece, visto che Ylja Zavgorodnij era sinonimo di sfiga cosmica, era stato beccato in flagrante e non aveva potuto esimersi dall’andare all’appuntamento fissato dai suoi inferociti compagni di sventura. Ma perché, perché dovevano andargli tutte storte?
Si passò nervosamente una mano tra i capelli corvini, cercando di prendere tempo, ma Denis fu più veloce a intervenire
-Dai, Yljusha, siamo i tuoi migliori amici, perché ci devi tenere nascosta una cosa simile? Manco che ti facessimo scenate.
-Esatto!.- rincarò Kuzma – Se stai con qualcuno non devi mica vergognarti.
-Sì, come no, vi conosco.- sbottò Ylja, tirandosi l’orlo della giacca di jeans – Ma poi che cazzo vi frega se ho un ragazzo? Perché mi spiate?
-Non ti stavamo spiando, ti abbiamo solo visto. E ora vogliamo sapere, mi sembra logico.- Kuzma fece una smorfia, accendendosi una sigaretta. Non che aiutasse quel dolore pulsante alle tempie, ma tant’è.
-La Banda è tutti, la Banda è casa.- citò Denis, aprendo le braccia – Non ti ricordi più? Non puoi pretendere che ce ne stiamo.
Ylja sbuffò, facendo un giro su sé stesso, non sapendo bene cosa fare. Avrebbe potuto mentire, certo, se solo non fosse stato un dannato libro aperto per chiunque. Ma con che coraggio rivelava la sua relazione con l’uomo più pericoloso della città?
-Va bene, okay, sto con un uomo!- disse, alla velocità della luce. Un vago rossore gli imporporò le guance mentre parlava – Contenti?
-Un cazzo! Chi è? Come si chiama? Quanti anni ha? Lo conosciamo?- chiese Denis, spalancando i grandi occhi scuri. – Cristo, Ylja, parla!
E Ylja avrebbe anche tentato di mentire al loro infantile capobanda, ma gli occhi gelidi di Kuzma gli dicevano tutt’altro. Era come se il biondo avesse capito che nascondeva un segreto più complesso che un semplice capriccio, e dio solo sapeva quanto Ylja fosse imbranato a mentire, per di più a Kuzma.
-Fammi indovinare,.- disse infatti il biondo, assottigliando gli occhi – E’ qualcuno che sai che noi non approveremmo.
Ylja avrebbe voluto sprofondare, e si guardò in giro, alla ricerca di un’eventuale via di fuga. No, i suoi amici l’avevano letteralmente messo al muro. Avrebbe potuto tentare di sfondare la barricata ma cosa poteva fare lui, magro, basso e macilento, contro due pezzi di ragazzi abituati a fare a botte dalla mattina alla sera?
-Non sono cazzi vostri.- ripeté, affondando le mani in tasca.
-Lo sono, coglione.- abbaiò Denis, spingendolo contro il muro.
Kuzma non sapeva cosa Denis gli dovesse dire di così urgente, ma sapeva che era sicuramente qualcosa che lo aveva eccitato. Conosceva quello sguardo famelico, conosceva quella frenesia che lo catturava quando succedeva qualcosa di bello. Guardò Ylja, che li fissava con un nervosismo sempre crescente, e realizzò quanto male gli facesse la testa. Avrebbe tanto voluto andarsene a casa a dormire, ma pareva che il fato lo avesse voluto sulla cresta dell’onda tutto il giorno.
-Insomma, Ylja, sputa il rospo. Non ti lascio andare finché non ci riveli la sua identità.- stava perniciosamente continuando Denis, avendo oramai bloccato l’amico contro il muro, togliendogli ogni possibile via di fuga.
Ylja si morse il labbro, ma poi pensò: perché avrebbe dovuto vergognarsi di Viktor? Cosa potevano fare i suoi amici? Nulla, appunto, lui avrebbe continuato a viversi la sua vita in pace e che loro se ne facessero una ragione. La Banda del Blocco è per sempre, si ricordò, non poteva sicuramente incrinare il loro delicato meccanismo. Però contemporaneamente non voleva creare dissidi inutili tra loro; sapeva benissimo cosa pensassero di gente della risma del suo fidanzato, e forse non avevano nemmeno tutti i torti, ma cocciuti com’erano sarebbe stato difficile far loro capire che lui era al sicuro e che Viktor si comportava da vero gentiluomo.
-Dai, ce lo dici? Non ti giudicheremo mai, coraggio.- insisté ancora Kuzma, appoggiandosi al muro e accendendosi una seconda sigaretta. Se Ylja lo conosceva abbastanza bene, allora era perché aveva un’emicrania killer.
Il ragazzo si passò una mano tra i capelli corvini, guardandosi intorno qualche secondo, prima di sputare, alla velocità della luce
-Viktor Smirnov.
Seppe di essersi appena firmato la condanna a morte quando vide i suoi due amici spalancare gli occhi e boccheggiare, increduli. Ma oramai aveva parlato, e non avrebbe mai potuto ritrattare la sua dichiarazione. Sii forte, Yljusha, si disse, ti accetteranno. Ti vogliono bene.
-Smirnov?! Veramente, Ylja?! Vitkor Smirnov, l’uomo più pericoloso di Ekaterimburg?!- strillarono in coro Denis e Kuzma, quasi senza fiato.
Ecco, aveva fatto male i conti. I tre si fissarono per un attimo negli occhi, senza quasi osare parlare, e Ylja sapeva di aver mandato a monte tutto, ma non gli importava. Era la sua dannata vita, ci avrebbe fatto quello che voleva.
-Sì, sì, lui, problemi?- ribatté, sbattendo il piede per terra.
-Ma certo che abbiamo dei problemi!- ululò Denis, dando un pugno sul muro – Cazzo, non ci credo. Ti scopi Smirnov e non ci hai detto niente?
-Perché, adesso dovete sapere tutto della mia vita privata?- Ylja si mise le mani sui fianchi, spalancando gli occhi pallidi in una smorfia esterrefatta.
-Sì, dobbiamo, perché la Banda non deve avere segreti, tesoro.- gli fece il verso Denis, quasi arrossendo dall’agitazione – Ma poi che storia è, stiamo parlando di un fottutissimo mafioso, mica del primo spacciatore beccato all’angolo della strada.
-Ylja, devi lasciarlo.
Lapidario come al solito, Kuzma era intervenuto, freddo come la Siberia che li aveva partoriti e Ylja sapeva benissimo che quello sguardo non presagiva nulla di buono. Era lo stesso che adottava prima di massacrare qualcuno di botte, quello che rivolgeva a Denis quando commetteva qualche cazzata colossale (cosa che accadeva peraltro molto spesso), quello che lo faceva temere e rispettare da tutti i ragazzi del Blocco. Quella che faceva paura, in sostanza. Ma non aveva fatto i conti con l’amore devastante che l’amico poteva provare
-No, Kuzma. Non lo lascerò mai.- sbottò risoluto Ylja – Io sto col mio ragazzo quanto mi pare e piace, non avete il diritto di ficcanasare!
-Questo non è ficcanare, è proteggerti, testa di cazzo!- urlò Denis, mordendosi il pugno forse per non stamparlo sul nasino dell’amico. – Porca puttana, Zavgorodnij, ti rendi conto con chi ti sei impelagato?! Col cazzo di padrone del Blocco!
-E allora?! Sei geloso, Shostakovich?! Avete sempre questa mania mal riposta di volere che tutto vada secondo i vostri meschini piani, volete capire che ho una cazzo di vita anche io al di fuori della Banda e che sto con chi voglio?!
-Non stai capendo.- lo fermò Kuzma, afferrandolo per un braccio – Ylja, noi te lo stiamo dicendo perché ti amiamo. Sei il nostro migliore amico, cazzo, non vogliamo lasciarti nelle grinfie di uno psicopatico.
-Dici così perché non lo conosci. I vostri sono tutti pregiudizi, non conoscete davvero com’è. Viktor mi ama, mi protegge, mi vuole bene e voi non avete il diritto di rovinare la nostra relazione!
Ylja cominciò a piangere. Un pianto doloroso, furioso e stanco. Sapeva che sarebbe arrivato quel giorno, ma non se lo aspettava così drammatico. L’aveva sempre saputo, che non avrebbero accettato una storia del genere ma contemporaneamente non era pronto ad affrontare una discussione del genere. Aveva già così tanto per la testa che ci mancava solo una lite del genere. Voleva scappare da Viktor, in quel momento, rifugiarsi tra le sue braccia e sperare che fosse tutto un brutto sogno.
-Perché ti usa, coglione!.- continuò a imprecare Denis – Vuole solo scoparti e sventolarti in giro, scappa appena puoi. Ti prego, Yljusha, non farti traviare da quello lì, è un bastardo, un sociopatico di merda, vuole solo …
Il capobanda si bloccò quando gli arrivò un doloroso manrovescio sulla guancia.
-No! Non lo conoscete, lui non è così! Siete degli ipocriti, Viktor è mio, mi ama, non mi usa affatto. E sapete cosa? Se non potete accettare la mia felicità, allora bene, vaffanculo tutti e due!
-Noi vogliamo la tua felicità, testa di cazzo, ma non con lui!- sbottò Kuzma, dandogli uno spintone – Ylja, santo dio, lo vuoi capire che non è la persona adatta a te?
-E tu che ne sai, Kuzma?! L’hai letto in uno dei tuoi fottuti libri da intellettuale di periferia? L’ha detto qualche cantante di quelle cazzo di band metal con cui vi fracassate quel poco di cervello che avete? No! So io cos’è bene per me, grazie molte.- strillò Ylja, cercando di ricambiare lo spintone, le lacrime che ormai gli oscuravano gli occhi.
Non voleva litigare. Non voleva arrabbiarsi. Voleva solo dormire. Dormire. Dormire fino alla fine dei tempi, perché era così dannatamente stanco da non farcela più.
-Ma quell’uomo è un assassino, lo vuoi capire? Ha le mani in pasta dappertutto, non puoi … - cominciò Denis, incartandosi con le stesse sue parole.
-Direi che la conversazione finisce qui!- Ylja si asciugò con la manica le lacrime – Se non siete in grado di accettare la mia relazione, allora vaffanculo. Me ne vado e sì, non vi perdono. Tornate quando sarete un pochino meno coglioni.
Detto questo, diede una spinta a Denis e cominciò a correre, lontano, i singhiozzi che ancora lo scuotevano e il pianto che gli rigava le guance. Gli altri due rimasero per un secondo inebetiti a fissare il loro amico scappare, ma quando il capobanda fece cenno di rincorrerlo, venne fermato da Kuzma
-Den, lascia perdere.- mormorò, spegnendo la sigaretta sul muro – Lascialo andare.
Denis guardò la figura di Ylja scomparire dietro l’angolo, e si appoggiò alla parete del palazzo, scuotendo la testa
-Cazzo, Kuzja … non ci posso credere. Ylja e Smirnov. Non ha senso.
Kuzma si strinse nelle spalle, massaggiandosi le tempie doloranti. No, effettivamente era un gran bel casino. Non volevano che il loro storico amico si mettesse nei guai, aveva già tanti di quei problemi, ci mancava giusto quell’uomo.
-Dobbiamo lasciar decantare la cosa, Den. Vedrai che poi si aggiusterà.
-Spero che tu abbia ragione.- Denis sospirò – Comunque, se gli farà del male, lo massacreremo. Me ne sbatto che è il padrone del Blocco.
Kuzma annuì e ragionò se accendersi una terza sigaretta, ma poi desistette, il dolore alla testa così forte da fargli quasi venire nausea. Si voltò verso l’amico
-Comunque, cosa dovevi dirmi? Prima della storia di Ylja e tutto il resto.
A quelle parole, gli occhi d’ambra di Denis si accesero di una luce esaltata e un sogghigno eccitato gli si dipinse sulle labbra piene
-L’impossibile. Ho portato la vodka e le casse; c’è bisogno del Cavalcavia per un resoconto del genere.
-Dobbiamo proprio? Ho un’emicrania della madonna, Denisoch’ka.
-Ti prego, Kuzjen’ka … non ci puoi credere.
-C’entra qualcosa con la rottura con Sasha?
-Come fai a saperlo?!
-Me l’ha detto Valya; Sasha l’ha chiamata mentre stavamo stalkerando Ylja.
-Uffa, manco più le sorprese si possono fare!
I due ragazzi si guardarono qualche secondo e poi scoppiarono a ridere, un riso liberatorio, spezzato e affettuoso, esattamente come l’abbraccio in cui si strinsero un secondo dopo. Rimasero stretti uno all’altro per qualche minuto, ascoltando il ritmo dei loro cuori e si sciolsero quasi a malincuore
-Andiamo a casa mia, mi prendo un  analgesico e parliamo, va bene?- disse Kuzma, spettinando affettuosamente i capelli di Denis.
-Sei il migliore, amico!- trillò il capobanda, mettendosi lo zaino su una spalla. Ma un attimo dopo un’ombra gli attraversò il bel viso – Comunque … sono troppo preoccupato per Ylja. Non voglio che si senta abbandonato da noi, siamo i suoi migliori amici. Forse avremmo dovuto affrontare la cosa in un altro modo.
Kuzma si morse il labbro inferiore, cedendo infine alla tentazione della terza sigaretta
-Lo so, siamo stati due bastardi … domani gli chiederemo scusa. Ma non possiamo perderlo d’occhio, è appeso a un filo.
-Se ci inimichiamo Smirnov però è la fine.
-Faremo in modo di non inimicarcelo. Siamo la Banda del Blocco, dopotutto. Il Blocco è tanto suo quanto nostro.
Denis e Kuzma si guardarono, e nei loro occhi brillava la stessa, identica, luce: difesa del territorio, difesa di un membro del branco, possessività e coraggio sfrenato. Annuirono da soli, e si diedero un’affettuosa spallata a vicenda prima che Denis alzasse allusivamente un sopracciglio
-A proposito, sei troppo eccitante quando fai il duro.
-Piantala, maiale!
 

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Capitolo 12
*** L'apoteosi della sfiga ***


CAPITOLO DODICI: L’APOTEOSI DELLA SFIGA

Больно не будет, с неба - вода.
Мы счастливые люди.
Под дождём без зонта.
Нас не отпустит.
Я с тобой навсегда.
Навсегда...
 
(L’acqua dal cielo non farà del male.
Siamo persone felici,
Sotto la pioggia, senza ombrello
Non ci lascerà andare
Starò con te per sempre.
Per sempre … )
[Alekseev – Навсегда]
 
Quando Valerya uscì da scuola, era semplicemente raggiante. Non era facile vederla con quel sorriso entusiasta, le lentiggini frementi e gli occhi luccicanti, ma quel pomeriggio non c’era nulla che avrebbe potuto scalfire il suo entusiasmo. Perché quando avevi vinto un posto per partecipare a un esclusivo stage in una delle più rinomate università di tutta la Russia, beh, allora dovevi essere felice per forza. Lera aveva lavorato così duramente per conquistarsi quel posto, in barba ai suoi squilibri e al suo leggero autismo, e ce l’aveva fatta. La preside del Liceo Tolstoj, la sgangherata scuola superiore del Blocco, le aveva appena consegnato il tanto agognato premio – e ora Lera era pronta a godersi la meritata vittoria. Ce l’aveva fatta, dannazione. E che la gente smettesse di guardarla con sorrisi di condiscendenza solamente perché veniva considerata fuori di testa. Era in gamba, la giovane Lera Tugusheva, e aveva abbastanza cervello da poter divorare tutto il Blocco, se avesse voluto. Ma come contrappeso c’erano i demoni che la angustiavano da quando aveva spalancato i suoi strani occhi sul mondo. C’era qualcosa che non andava, dentro di lei, ma non avrebbe saputo dire cosa succedeva quando i mostri prendevano il soppravvento, quando si sentiva strozzare dall’interno, quando vedeva tutto nero e sprofondava in incubi ad occhi aperti. Conviveva con quel secondo mondo da quelli che erano anni, oramai, e si era creata una seconda casa nell’inferno che la perseguitava, un posticino confortevole tra demoni, voci e visioni inspiegabili che la piagavano.
Appena uscita, scosse i lunghi codini rossi e cercò con lo sguardo i suoi amici. Non ci mise molto a individuarli, appoggiati al muretto, cappucci tirati su, sigarette in bocca, fiaschetta da passarsi di mano in mano e una canzone dei Louna sparata a tutto volume. Sorrise, e strillò a squarciagola
-Banda del Blocco, tutti a rapporto!
Come tirati su da un filo invisibile, i ragazzi alzarono le teste e si precipitarono letteralmente da lei urlando frasi sconnesse
-Leroch’ka! Com’è andata?!
-Dov’è la mia rossa preferita?
-Hai vinto?! Eh, eh, hai vinto? Hai vinto?
-Principessa, vieni dal tuo Denisoch’ka!
-Dio, Lera, siamo troppo sulle spine!
Valerya li guardò uno per uno negli occhi, le guance teneramente rosse e gli occhi luccicanti. Si godette silenziosamente quel momento di trepidante attesa per poi annunciare, quasi tremando di eccitazione
-Ce l’ho fatta. Vado all’Università di Stato di San Pietroburgo!
Ci fu un secondo di silenzio incredulo, prima che lo strillo di Sasha risvegliasse tutti dallo sbigottimento generale e un coro di urla scomposte e di abbracci non travolsero Lera. La ragazza rise, tra i baci e le urla dei suoi amici, e pensò di essere veramente fortunata. Nel Blocco, per gente come lei, fuori fase e fuori di testa, non c’era posto, e non era una novità. Il Blocco era un posto violento, feroce, non c’era posto per nessuno che non fosse in grado di lottare con le unghie e i denti per il suo posto nel branco. Una come Valerya sarebbe rimasta sotto la marea se la Banda non l’avesse presa sotto la propria protezione, e lei non poteva essere loro più grata. L’avevano salvata, amata, protetta con tutte le loro forze, avevano dato tutto per la loro principessa coi capelli scarlatti, avevano permesso che diventasse rispettata da tutto il Blocco, e lei si era ripromessa di non deluderli mai. Aveva messo il suo genio al servizio della Banda, e non se ne sarebbe mai pentita, perché amici come i suoi non li avrebbe trovati da nessun’altra parte.
Eppure, quel giorno, nonostante tutti le stessero facendo festa, Lera si accorse che qualcosa non andava tra di loro. Non avrebbe saputo dire bene cosa, ma lo percepiva nello sguardo distratto di Ylja, in quello vagamente colpevole di Kuzma, in quello troppo eccitato di Denis, in quello perso di Valentina, in quello stravolto di Aleksandra. Sì, c’era qualcosa che angustiava la Banda del Blocco, e lei avrebbe tanto voluto scoprire cosa – se c’era qualcosa che non andava, Lera era la prima a risentirne, perché la sua iper sensibilità veniva urtata da qualunque situazione appena fuori dalla norma. Spesso non capiva tutti i passaggi delle trivialità dei suoi amici, ma soffriva lo stesso a vederli arrabbiati, tristi, disturbati.
-Ho vinto la borsa di studio.- continuò, sistemandosi la gonna rosa confetto con i volant bianchi  - Ma c’è un problema. Devo andare a San Pietroburgo.
Tutti sapevano quanto Lera avesse fondamentalmente dei problemi a stare da sola. Quanto potesse essere pericoloso lasciarla a sé stessa, con le sue paure, i suoi disturbi, i suoi demoni che potevano prendere il sopravvento da un momento all’altro, e nessuno era contento di vederla senza nessuno, in terra straniera. Si guardarono tutti negli occhi, l’esaltazione spentasi di colpo
-Ah … ma sei sola? Proprio sola?- tentò Denis, grattandosi il retro del collo.
-Sono l’unica della scuola, anzi, della città, ad aver vinto.- rispose Lera, chinando il capo, improvvisamente mogia.
-Lera, amore, non disperare. Troveremo una soluzione.- disse Sasha, accarezzandole la schiena come movimenti circolari, come piaceva a lei.
-Siamo la Banda del Blocco, non c’è niente che non possiamo risolvere.- continuò Valya, stampandole un umido bacino sulla guancia lentigginosa.
-Adesso pensiamo a festeggiare, sì?- concluse Kuzma, e se la fece saltare in spalla, scatenandone il riso allegro e felice.
Certo, ci sarebbe stato tutto il tempo per ragionare su come mandare Lera a San Pietroburgo, pensò il biondo, incamminandosi con gli altri sulle note delle Blackpink, messe in esclusiva per la rossa. Ci sarebbe stato se non fossero stati tutti dannatamente a pezzi. Kuzma era disturbato profondamente da tutti i problemi che si stavano riversando sulla banda in quel momento, e non ultima la storia di Valerya. Come avrebbero fatto a spedirla dall’altra parte della Russia da sola, senza nessuno che la supportasse e che la abbracciasse nel caso avesse paura? E soprattutto, perché tutti i problemi dovevano investire sempre e solo lui?
I ragazzi si stavano dirigendo rumoreggiando lungo le strade, come erano soliti fare, tra urla, risate sguaiate, una bottiglia di Stolichnaya da bere a garganella e musica a un volume inimmaginabile, ma Kuzma aveva occhi solamente per la loro situazione disperata. Guardava Sasha e Valya e capiva perfettamente che tra le due ci fosse qualcosa di più, lo intravedeva nel modo in cui si tenevano la mano e in cui si scambiavano occhiate di fuoco. Guardava Ylja e soffriva, perché era palese che tentasse di nascondere il disagio con sorrisi di circostanza e risatine isteriche. Guardava Lera, che rideva di cuore e si sentiva inutile per non poterla aiutare. Era compito della Banda riuscire a trovare un modo per farla andare a quello stage universitario, ma sapeva quanto potesse essere difficile: erano un gruppo di spiantati incredibili, e la famiglia della rossa era modesta, e sempre sull’orlo del collasso, visto che dovevano pagare tutte le cure per Lyosha, il fratello minore gravemente malato. Pensò che avrebbe potuto chiedere un prestito a suo padre, ma poi si rimproverò da solo: certo, quel bastardo non gli avrebbe mai allungato nemmeno uno spicciolo. Kuzma odiava suo padre, lo aveva sempre fatto, anche quando viveva a casa con loro, ma l’odio si era acuito da quando era fuggito con l’amante a Kazan’, abbandonando lui, sua madre e sua sorella – un uomo che non meritava nulla, che se ne fregava dei figli come fossero stati solo che brutti ricordi. A stento mandava loro qualche rublo per Natale, quando il ragazzo sapeva benissimo che aveva più di una risorsa economica e che se avesse voluto li avrebbe potuti mantenere tutti e tre come zar. Ma erano i Lukjanen’ko, una famiglia infame e maledetta, che il biondo aborriva con tutto il suo cuore. E il problema di Lera rimaneva, in tutti i casi. Bevve un sorso di vodka, con aria pensosa, e accarezzò distrattamente i capelli rossi dell’amica, impegnata a raccontare ad una Sasha incredula tutti i dettagli dell’esame che aveva brillantemente passato. Era la loro stella, e lo sarebbe rimasta per sempre. La piccola, geniale, Lera Tugusheva che da sola poteva tranquillamente competere con tutti loro cinque messi insieme.
Fu solo in quel momento che Kuzma voltò finalmente lo sguardo su Denis. E fu anche lì che, come al solito, il cuore perse un battito. Rideva, col capo rovesciato all’indietro, i capelli ribelli e le collane volgari sulla camicia slacciata – era bellissimo, come al solito. Kuzma si chiese come mai avesse dovuto proprio innamorarsi del suo migliore amico, perché andarsi a incasinare così tanto la vita, ma poi pensò a quanto fosse bello amare un ragazzo speciale come Denis. Era dolce, era stupido ma era anche il migliore amico che uno potesse desiderare, perché era presente, anche se era avventato e non particolarmente intelligente.
Erano anni che provava verso di lui quel sentimento tenero e un poco malinconico, anni che languiva in silenzio nel timore di dichiararsi e di venire rifiutato. Kuzma non era il tipo che faceva le cose senza avere la certezza di vincere, e quell’amore lo disturbava nel profondo perché sapeva quanto fosse a senso unico. Sicuramente Denis non l’avrebbe mai guardato come lui desiderava, e lui si sarebbe ridotto a soffrire per quella passione racchiusa sotto strati di freddezza e gelo. Anche solo vederlo così gli scaldava un angolo di cuore e si vergognava da solo di quel sentimento. Non era un ragazzo che si innamorava facilmente e fondamentalmente trovava l’amore una cosa stupida, ma quando si parlava di Denis allora tutto cambiava. Quante notti insonni aveva passato a guardarlo dormire, sistemandogli le coperte quando si agitava, quante volte aveva sentito l’impulso irrefrenabile di baciarlo, quante volte si erano ritrovati stravaccati sul pavimento insieme, mano nella mano e qualche canzone rock sparata nelle casse, quante volte avevano lottato insieme, fianco a fianco sino alla fine – lui e Denis avevano una storia che pochi potevano vantare. Erano fratelli, commilitoni, costantemente pronti a guardare la schiena all’altro, e forse era proprio per questo che non c’era spazio per una relazione. Avevano troppo, per poter stare insieme, non c’erano segreti, non c’era vergogna. Era il primo a rifiutare sempre quelle semi dichiarazioni idiote dell’amico, sempre nel terrore di perdere il controllo e posare finalmente le proprie labbra sulle sue. Sapeva che non se lo sarebbe mai perdonato, perché un’amicizia è molto più di una storia d’amore, su un’amicizia si fondano segreti e condivisioni che superano qualunque cosa e Kuzma non era pronto a giocarsi la loro storia per uno stupido errore di giudizio. Era perseguitato da domande come “e se ci mollassimo?”, “e se lui mi tradisse?”, “e se …”, ed erano proprio quelle domande a non farlo dormire la notte e a tormentarlo. Quanto ci era rimasto male quando Denis gli aveva rivelato di essersi innamorato di quell’uomo, Yurij. Aveva sorriso, aveva abilmente dissimulato il suo dolore, ma la notte l’aveva passata a guardare la luna, tentando di arginare le lacrime, una sigaretta in bocca e ballate metal per soffocare l’ennesima stilettata al cuore. Non era bravo a passare sopra le cose, ma si obbligava a farlo per il bene di Denis. Se lui era contento, allora lo sarebbe stato anche lui. Ci voleva una forza di carattere mica da ridere, ma Kuzma ce l’aveva, era d’acciaio, lo era sempre stato, e avrebbe retto anche a quell’urto osceno. Si chiese pigramente quanto ancora avrebbe potuto resistere così, quanto il suo acciaio avrebbe resisito a botte e sollecitazioni sempre più forti, ma si ripromise che sarebbe stato forte per la Banda. Aveva devoluto tutto sé stesso al bene dei suoi amici storici, e avrebbe retto ancora, non esisteva che il giovane Lukjanen’ko si spezzasse per cose simili. Anche se, a pensarci bene, quanto ancora avrebbe riuscito a reggere, senza potersi confidare con nessuno, rimanendo a guardare passivamente cose gli divoravano il cuore? Quello non lo sapeva e forse non voleva nemmeno saperlo.
-Kuzja, sei sicuro di stare bene?- Lera lo prese a braccetto, sfarfallando le ciglia.
-Certo, Lera, va tutto bene.- si costrinse a dire, quando avrebbe voluto solamente urlare dalla frustrazione – Ti prometto che troverò un modo per mandarti a San Pietroburgo con qualcuno.
Valerya annuì, piegando il capo da una parte e poi dall’altra
-Stavo pensando che, visto che sicuramente i miei genitori non possono e nemmeno voi della Banda, potrei chiedere a Marina.
-Marina? La dottoressa?!
-Esatto. Sono sicura che riuscirà a trovare una soluzione.
Kuzma si strinse nelle spalle
-Non so, fai come pensi. Non ti starai mica affezionando troppo a quella donna?
-Piantala, sei solo geloso!- Lera rise, e lo abbracciò – Non ti devi preoccupare sempre così tanto, Kuzjen’ka. Andrà tutto bene.
“Sì, certo” pensò amaramente il ragazzo “Peccato che ogni volta che qualcuno mi dice che va tutto bene mi ritrovo sempre nei guai sino al collo.”
-Non mi perderai mai, anche se adesso voglio andare a San Pietroburgo con Marina.- continuò Lera, stritolandogli la mano.
-Certo, Leroch’ka, lo so.- mormorò lui – Dai, vieni in spalla!
Mentre la prendeva in spalla e raggiungeva gli altri, pensò a quanto schifo facesse la sua vita. Con una madre alcolizzata che lo ignorava, una sorella che pensava solo a sé stessa, un padre assente, un amico inguaiato col capo del Blocco, un’altra nelle mani di una strana dottoressa di quartiere, due che nascondevano sicuramente dei segreti malsani e il ragazzo che amava innamorato di un uomo sicuramente più bello e interessante di lui. Cristo, Kuzjen’ka, sei messo malissimo, si disse. Sei veramente l’apoteosi della sfiga.


****
Heyaaaa! Ciao gente, qui è Charlie che vi parla!
Siamo arrivati al dodicesimo capitolo ... woah ... lo so che questo capitolo fa schifo ma volevo aggiornare, farvi sapere che non ero morta, e indagare un po' meglio su Kuzma. Colpo di scena, è innamorato di Denis! Chi l'avrà vinta tra Kuzma e Yurij? Si accettano scommesse!
Fatemi sapere assolutamente cosa ne pensate della storia :D Volevo anche sapere, qualcuna/o di voi ieri sera (13 novembre) era mica a Milano al concerto dei Bring Me The Horizon? Io ci sono stata ed è stato SPAZIALE. Sono una loro grande fan, se qualcuno c'era me lo dica ahaha
Niente, la pianto con gli scleri che domani abbiamo scuola
Baci, 

Charlie

 

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Capitolo 13
*** Se questo è Amore ***


CAPITOLO TREDICI: SE QUESTO E’ AMORE

Но просто, он тоже любит дым.
И так легко, как с ним.
Мне не было с другими.
Так просто, все просто.
 
(E’ solo che anche a lui piace fumare.
E con lui è tutto così semplice.
Come non nessun altro.
Così semplice, tutto così semplice)
[Мари Краймбрери - Он тоже любит дым]
 
Denis, impalato sotto il portone di casa sua, stava febbrilmente attendendo l’arrivo di Yurij. Quando gli aveva chiesto di uscire la sera, non aveva potuto credere ai suoi occhi: rimediare un appuntamento con l’uomo più sexy del Blocco, beh, mica uno scherzo. Schiacciò la sigaretta spenta sotto il tacco dell’anfibio, e si guardò intorno, nell’enorme strada deserta, malamente illuminata da tristi lampioni mal funzionanti. Si era vestito meglio che poteva, e ci aveva messo ore a scegliere che profumo spruzzarsi addosso, quali collane indossare, se mettere la camicia slacciata oppure una canottiera slabbrata di qualche band metal – nessuna preparazione era mai stata elaborata quanto quella. Ma, diamine, il palio era altissimo. Si sistemò ancora una volta i capelli, spettinandoseli ad arte, e sospirò. Come avrebbe dovuto comportarsi? Sicuramente con più maturità, non come era solito fare con i suoi amici, o con le sue scopate estemporanee. Avrebbe dovuto essere completamente adorante passivo? O più sul sensuale andante? Poteva anche tentare la tecnica del non mi importa di te per eccitarlo. Oppure …
-Pensieroso, Denis?
Il ragazzo fece un salto quando sentì la voce di Yurij, e si voltò con una giravolta imbarazzata. Illuminato dalla luce dei lampioni, con i capelli scuri portati poco sotto la mascella, i tatuaggi in bella mostra, e lo sguardo predatore, Denis pensò di non aver mai visto uomo più bello.
-Ti stavo aspettando.- sorrise, e si rese perfettamente conto che invece di aver sfoderato il sorriso assassino che si era preparato, aveva solamente prodotto quello dolce e ancora infantile. Ma non se ne pentì, perché tutto di fronte a Yurij si scioglieva e lui si sentiva un ragazzino alle prime armi.
-Allora perdonami per il ritardo.
Yurij si chinò a baciargli la guancia, e Denis fece ricorso a tutte le sue forze per non avventarsi sulle sue labbra. Profumava di colonia, di sigarette, di muschio e di qualcos’altro di dolce; e quando gli mormorò “sei bellissimo” nell’orecchio il ragazzo ebbe un tuffo al cuore. Aveva una voce così vibrante e sensuale, eppure venata da quella malinconia che la rendeva unica nel suo genere. Come se fosse il pianto di un angelo lussurioso caduto dal Paradiso.
Denis ebbe la buona creanza di arrossire, perché tutto in quel momento lo stava portando a fare pensieri poco casti (anzi, direttamente pornografici). Si chiese cosa avesse Yurij per averlo fatto capitolare così; nessuno avrebbe potuto ricollegare quel Denis timido e adorante col solito capo della Banda del Blocco sfacciato e spaccone. Eppure in quell’uomo c’era più di una bellezza assassina e di una sensualità disarmante; il ragazzo aveva letto in quegli occhi d’acciaio cose segrete di sofferenze incredibili, misteri che aspettavano di essere svelati, lacrime che avrebbero voluto essere piante. C’era tanto, in Yurij, come in una bellissima matrioska tutta da svelare, e lui aveva deciso che avrebbe aperto tutte le scatole, sino all’ultima.
-Vogliamo andare?
Denis annuì e poi prese l’iniziativa, prendendolo sottobraccio.
-Dove mi porti?- trillò, sfarfallando le lunghe ciglia da ragazza.
-Ovunque vuole la mia principessa.- rispose Yurij, ammiccando.
-E chi ti dice che io sia la tua principessa?
A questo gioco si può giocare in due, pensò Denis, cercando di fare un sorriso il più possibile scaltro.
-Allora sarai la mia zarina.- ribatté l’uomo, passandogli un braccio sulle spalle e stringendoselo a sé, con un gesto che aveva dell’erotismo e contemporaneamente dell’affettuoso, dentro.
Denis arrossì un pochino, ma dentro di sé gioì silenziosamente. Chissà cosa avrebbe pensato Sasha se l’avesse visto così. Bah, non era certo il caso di pensarci in quel momento, visto che la bionda era acqua passata, oramai. Si chiese se ci fosse rimasto tanto male di quella rottura, e in fondo aveva deciso che no, non l’aveva sofferta. Aveva trovato un degno rimpiazzo, e aveva deciso che si sarebbe giocato tutte le carte del mazzo per poter intrecciare qualcosa di più di una semplice amicizia-attrazione.
Camminavano per le strade di Ekaterimburg come fossero i padroni della città, e Denis si sentiva così potente al fianco di Yurij, come se fosse elevato a tre metri sopra al cielo. Sapeva che avrebbero potuto fare qualunque cosa e lui si sarebbe sentito perfettamente a posto con sé stesso. Come quando era con Kuzma, con la sostanziale differenza che qui lui era la principessa ribelle trascinata dal bandito nella loro Wonderland, invece di essere lo scanzonato messaggero.
-Oggi è venuta a casa nostra la tua amica Valerya.- disse Yurij, passandosi una mano tra i capelli – Doveva parlare con Marina.
-Ah sì. Ha vinto una borsa di studio per l’Università di Stato di San Pietroburgo, e cerca qualcuno che l’accompagni.- Denis sorrise, fiero della sua amica – Sai, Lera è molto intelligente, ma ha qualche problema a stare da sola. Cioè, in realtà ha qualche problema in generale, ma sembra che si fidi molto di Marina.
-Ho avuto modo di appurarlo. A parte tutto, è una ragazza molto carina.
-Non le avrai mica messo gli occhi addosso?- Denis alzò un sopracciglio.
-Ho messo gli occhi addosso a te, principessa.
Denis avvampò di piacere, anche se tentò di non darlo a vedere. Adorava essere sotto le attenzioni di Yurij, anche se era più impacciato che mai ma era proprio per quello che gli piaceva. Per la prima volta, era lui ad essere impunemente corteggiato e questo gli scaldava il cuore. Gli piaceva essere spogliato con gli occhi ma contemporaneamente essere trattato con malizia e gentilezza, senza essere precipitosi ma nemmeno troppo melensi. Guardò gli occhi grigi di Yurij e pensò che non avesse mai incontrato delle iridi più devastanti e devastate di quelle. C’era così tanto in un solo uomo da far girare la testa, eppure Denis si sentiva pronto a indagare fino all’ultimo segreto nascosto in quei tatuaggi, pronto a spogliare quel ghigno di tutto il suo sarcasmo, fino ad arrivare al nudo dolore, pronto ad ascoltare e a filtrare ogni parola che uscisse da quelle labbra, pronto a scoprire tutto quello che si nascondeva dietro a quel viso magro e a quelle mani lunghe e nervose. Non si era mai ritenuto un ragazzo particolarmente poetico né sensibile, molto più legato a cose veraci e terrene come il sesso, le dichiarazioni plateali e mielose, le canne, la vodka e la musica rock. Era volgare, allegro, superficiale, era il Denis del Blocco che tutti conoscevano e stimavano; ma, ben nascosto, esisteva anche il Denis innamorato dell’amore, perennemente alla ricerca di qualcosa che il mero divertimento non gli poteva dare, il Denis che si commuoveva di fronte a un film senza happy-ending, il Denis che sognava ad occhi aperti e che voleva disperatamente trovare la persona giusta. Poteva fingere di essere quello che non era, ma non aveva mai mentito a sé stesso: lui voleva l’Amore, ma quello con la A maiuscola, quello che ti fa battere il cuore un po’ più veloce, che ti fa arrossire per niente, che ti porta a suonare la chitarra per strada cantando i pezzi romantici degli Sleeping With Sirens come se non ci fosse un domani, che ti fa venir voglia di leggere le poesie dell’Achmatova insieme per poi dedicarsele a vicenda, che ti obbliga a lottare come un matto per quello che provi, che ti toglie il sonno e ti fa ballare sui tetti fino alle quattro del mattino, aspettando di vedere l’alba insieme. Denis cercava quello, e si chiedeva selvaggiamente se Yurij sarebbe stato quello giusto. Aveva cercato per anni quell’Amore, inutilmente. Non l’aveva trovato in Sasha, né in nessun’altra ragazza, o ragazzo, incontrati a scuola o nei locali del Blocco. Forse era abilmente dissimulato nel sorriso di Kuzma, ma non era mai così sicuro, perché Kuzma sarà anche stato il suo migliore amico ma era un dannato indovinello irrisolvibile. Forse si nascondeva in una persona lontanissima da lui. Oppure, era nei tatuaggi di Yurij che avrebbe trovato quello che cercava da sempre. Si era perfettamente reso conto che quello che li univa era più che semplice attrazione sessuale, c’era una componente misteriosa che non vedeva l’ora di risolvere. Si erano riconosciuti come gente simile, entrambi con una facciata da mantenere ma con un’anima più complessa di quello che la gente potrebbe pensare. Cos’erano, dopotutto? Un diciottenne scapestrato a capo di una squinternata banda di teppisti e un trentenne che faceva il tatuatore con molti più segreti di quanto volesse ammettere. Cos’erano? Erano quello, erano gente del Blocco e forse proprio perché lo erano avrebbero avuto più semplicità a finire insieme. Potevano capirsi, perché erano nati sotto quei cieli infiniti, avevano subito le stesse violenze, avevano vissuto la stessa vita sul baratro, avevano distrutto le stesse cose. Essere del Blocco di Ekaterimburg era una cosa della quale non ti saresti mai liberato. Ce l’avevi tatuato nell’animo, e non c’era modo per potersene staccare.
-Vieni, Denisoch’ka, vediamo come te la cavi a ballare.
Yurij gli sorrise e lo trascinò dentro a un locale buio, illuminato a sprazzi da luci violette e vermiglie. Denis non c’era mai stato e una scarica di adrenalina gli percorse la spina dorsale. Strinse più forte la mano di Yurij quando cominciarono a farsi largo tra la folla che si agitava ai ritmi di musica elettronica a tutto volume, e nel frattempo si guardò intorno, cercando di capire in che strano posto fossero finiti. Si rese conto di non conoscerlo, ma non aveva paura, finché era con lui. Rise, di un riso liberatorio e felice, spintonando una massa di persone strafatte che ondeggiavano come mille cloni in trance, e si ritrovò tra le braccia di Yurij, inspirando ancora il suo profumo tossico. Sorrise, mordendosi il labbro inferiore, e cominciò a muovere il bacino, come gli aveva insegnato Sasha. Nessuno, nella Banda, aveva potuto risparmiarsi le incessanti lezioni di ballo della bionda, nonostante gli improperi di Kuzma e le lagnanze di Valya. Beh, Denis non le sarebbe mai stato abbastanza grato per tutte le ore passate a “fare dubbi movimenti pelvici, agitando le braccia come indemoniati”, come diceva sempre Kuzma. Avvolse le braccia attorno al collo di Yurij, godendosi le sue mani strette sui fianchi magri e sfarfallò le ciglia in maniera sensuale, come solo lui sapeva fare.
-Apri la bocca, principessa.- gli sussurrò Yurij nell’orecchio e Denis non ebbe nemmeno modo di reagire razionalmente che la spalancò, tirando appena fuori la lingua. Forse aveva capito cosa stava per succedere. Forse …
Aveva capito.
Yurij gli fece scivolare sulla lingua una pillola azzurra, con un sorriso diabolico, e Denis ingoiò volentieri la pasticca di ecstasy, o quello che era, perché voleva sballarsi, voleva dimenticare, voleva fare tutto.
-Bravo bambino.- gli mormorò ancora nell’orecchio Yurij, afferrandogli le natiche e stringendogliele, mozzandogli il fiato.
Denis prese un profondo respiro, e poi decise di buttarsi, buttando all’aria tutta la sua mascolinità e la sua poca credibilità. Approfittando del fatto che fosse partita quella canzone dei Kazka che andava tanto di moda e che era così dannatamente sensuale, cominciò a strusciarsi addosso a Yurij pesantemente, facendo scontrare i loro bacini, le fronti poggiate le une alle altre e gli occhi famelici almeno quanto le loro bocche che però erano ancora ben lungi dal toccarsi. Ma Denis aveva deciso che avrebbe tirato più che poteva quel piacere, approfittando del buio del locale e della massa di gente che li circondava. Poteva giocarsi quella carta e voleva farlo.
Si girò, facendo aderire la sua schiena al petto di Yurij, e cominciò a sfregarsi abbondantemente contro il bacino dell’altro, e gioì segretamente quando sentì il suo respiro farsi appena più pesante. Vai così, Denisoch’ka, si disse, sei una dannata bomba di sesso.
Gli poggiò la testa sulla spalla, ruotando gli occhi all’indietro, e incatenandoli con quelli di Yurij, un sorrisino appena accennato sulla labbra che presto si tramutò in un mugolio di sorpresa e piacere quando Yurij gli infilò prepotentemente la mano in mezzo alle gambe, toccandolo al di sopra della stoffa degli skinny jeans.
-Non te l’aspettavi, vero, Denisoch’ka?
-Non t’aspettavi questo, vero, Yuroch’ka?
Di colpo, Denis si voltò, gli afferrò il viso tra le mani e lo baciò. E quando lo baciò, si rese perfettamente conto che forse aveva trovato l’Amore. Fu un bacio passionale, tutto lingua, morsi, labbra succhiate, ma il ragazzo si sentì meglio di quanto si fosse mai sentito in vita sua. Fu come se ogni cosa brutta, ogni pensiero fastidioso, ogni dolore scomparisse dentro quegli occhi grigi e in quelle labbra che sapevano di fumo e di menta. Non si era mai sentito così bene dai tempi in cui sua mamma era ancora viva e gli cucinava i bliny raccontandogli le leggende di Vassilissa e la Baba Yaga. Non c’era mai stato più nulla in grado di farlo sentire totalmente in pace con sé stesso, e pensò che momenti come quello se li sarebbe ricordati fino alla fine. Si sarebbe ricordato le mani che vagavano nei capelli di Yurij, si sarebbe ricordato il calore del suo abbraccio e le sue mani sui fianchi, si sarebbe ricordato le labbra che si prendevano e mollavano in un gioco violento e desideroso. Ma si sarebbe anche ricordato quella malinconia di fondo che filtrava anche in mezzo a un bacio tutto lingua e a una semi erezione che premeva contro i jeans, il dolore che entrambi tenevano rinchiuso per paura che potesse portarli all’autodistruzione, la passione cercata per soffocare i demoni che li perseguitavano. C’era tantissimo, in quel momento apparentemente sporco, c’era un ragazzo che cercava l’Amore e un uomo che aveva perso ogni speranza di trovarlo. C’erano due giovani vittime del Blocco che volevano vivere talmente a fondo fino a farsi male, perché sapevano che se giocare col fuoco era pericoloso, loro ci si sarebbero buttati dentro ricoperti di benzina, perché volevano ardere fino a rimanere cenere.
Anche mentre inciampavano nel bagno lercio del locale, intenti a slacciarsi i jeans e a divorarsi il collo e il viso di baci, Denis sapeva che non sarebbe finito tutto lì ma che ci sarebbe stata una storia che avrebbe giustificato quella passione sfogata e devastatrice. Lo pensava mentre Yurij gli tirava giù i jeans e i boxer, lo pensava mentre lo prendeva in braccio, lo pensava mentre gli slacciava la camicia, mordendolo e baciandolo come mai in vita sua, lo pensava mentre Yurij spingeva dentro di lui con forza, mentre lui strillava tutto il suo piacere, cercando un contatto sempre più profondo, chiedendogli di andare più veloce, di scoparlo con violenza, lo pensava mentre urlava il nome di Yurij, tirandogli disperatamente i capelli, lo continuava a pensare mentre sentiva l’orgasmo sempre più vicino, mentre Yurij ansimava il suo nome e lo faceva andare fuori di testa. Lo pensò con sempre più convinzione quando vennero travolti dall’orgasmo, e la situazione poteva anche essere squallida, in un bagno sporco, sesso veloce, una voglia disperata di soddisfarsi, ma quando posò i piedi per terra e Yurij lo rivestì lui, con calma, con un mezzo sorriso ancora allucinato, accarezzandogli il viso sudato e baciandolo castamente sulla labbra, sulla fronte e sulla punta del naso, come fosse un bambino, fu lì che Denis capì perfettamente che forse aveva trovato l’uomo giusto per lui. E si ripromise che avrebbe lottato per un Amore che era pronto a sbocciare, si sarebbe fatto in quattro per conoscere Yurij sin nel profondo, per capire la sua malinconia, per fare amicizia con i suoi demoni. Sì, decise il ragazzo del Blocco, intrecciando la mano con quella tatuata dell’uomo di fronte a lui, era pronto a sacrificarsi per iniziare una storia che avrebbe potuto essere violenta, verace e di periferia, ma che sapeva che gli avrebbe riservato la felicità che fino a quel momento aveva fatto così tanta fatica a trovare.

 

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Capitolo 14
*** Le ragazze si salvano ***


CAPITOLO QUATTORDICI: LE RAGAZZE SI SALVANO
I kissed the scars on her skin
I still think you’re beautiful
And I don’t ever wanna lose my best friend
[Pierce The Veil – A Match Into Water]
 
Bombolette spray. Cappucci calati sul viso. Skateboard appesi agli zaini. Valentina e Aleksandra giravano lungo il perimetro della vecchia fabbrica in disuso firmando ogni centimetro del grosso muro di cemento armato, le casse portatili che sparavano l’ultima hit di Elvira T. – erano contente, come mai lo erano state, e ridevano, gettando il capo all’indietro, scambiandosi occhiate di fuoco mentre facevano quello per cui erano nate: le teppiste del Blocco.
Valya stava finendo di scrivere in un grande cuore le loro iniziali e si ritrovò a pensare alla loro situazione: stavano insieme? Non lo sapeva. Certo, non passavano minuto senza baciarsi platealmente, senza fare sesso selvaggiamente, senza dirsi “ti amo” ma secondo la mora quello non era la cosa di cui avevano bisogno. Non metteva in dubbio che fosse eccitante vivere quella storia clandestina con Sasha, lasciando la Banda nella più totale ignoranza, ma c’era qualcosa che non le andava. Perché, nonostante tutto, lei era innamorata di Sasha, amore che si rendeva conto non essere totalmente ricambiato. Era sempre più convinta che la bionda la vedesse sempre con un’amica e che si illudesse di amarla per cercare di vendicare la rottura con Denis. E questo, assolutamente, non andava bene perché quando si sarebbe spenta la fiamma di passione, cosa sarebbe rimasto? Imbarazzo, cenere e un cuore spezzato. Valya sospirò, aggiustandosi il beanie calcato in testa e guardò le loro iniziali intrecciate nel murales: perfette nella loro imperfezione, come loro due. Come se non si fosse accorta che Sasha fosse dimagrita ancora. Come se non fosse tornata a tagliarsi i polsi piangendo nel terrore che il suo cuore venisse preso a calci l’ennesima volta. Si era ripromessa di fare presente alla bionda quel suo ragionamento, cercare di farle capire quanto lei in realtà fosse innamorata ma ne era spaventata: cosa avrebbe fatto Sasha di fronte a una dichiarazione del genere? Forse le avrebbe tolto anche quel rapporto puramente fisico al quale Valya anelava disperatamente. Lei non aveva bisogno di una migliore amica in quel momento, ma di una ragazza, di un cuore che battesse al suo stesso ritmo.
-Amore, abbraccio!
Lo strillo di Sasha e l’abbraccio soffocante nel quale venne travolta la distolse per un attimo dai suoi tristi pensieri. Lasciò seguire uno dei loro baci tutti lingua e passione, e pensò a quanto fossero perfette le loro labbra intrecciate insieme: erano nate per essere una coppia, Valentina se lo sentiva, doveva solamente trovare il modo di farlo capire all’altra. Perché la desiderava anche con lo spirito, non solo col corpo, e non sarebbe stata tranquilla finché non avrebbe avuto quello che voleva.
-Sei bellissima.- mormorò, alzandosi in punta di piedi e baciandola ancora, arrotolandosi una di quelle ciocche biondissime attorno a un dito. – Ma stai mangiando, Sashen’ka?
Aleksandra arrossì un pochino, e accarezzò la guancia pallida dell’amica
-Sì, Valyoch’ka, tranquilla. Sto bene, non ti devi preoccupare sempre.
In realtà, non stava affatto mangiando. Vomitava il poco che ingeriva e ogni sera passava ore davanti allo specchio a piangere. Ma non aveva il coraggio di rivelarlo a nessuno, e benché meno a Valentina, perché sapeva quanto anche lei avesse i suoi demoni ed era terrorizzata dal caricarla anche con i suoi di problemi. Perché se Valya si fosse spezzata, Sasha sapeva che sarebbe caduta con lei. Non esistevano senza l’altra, non c’era storia, erano le ragazze del Blocco che non potevano essere separate.
Valya annuì distrattamente, giocherellando con le lisce ciocche rosa che le decoravano le punte e poi la prese per mano, obbligandola a seguirla in quella passeggiata malinconica lungo il perimetro della fabbrica ricoperta di graffiti. Sasha sapeva che quando faceva così era per iniziare un discorso serio, e dentro di sé sbuffò. Non se la sentiva di discutere, né di parlare – aveva un disperato bisogno di distrazione, di divertimento, non di altri problemi che si sommassero ai suoi. Rinsaldò la presa sulla mano della mora e la guardò di sottecchi, gli occhi blu abbassati e il capello calcato in testa. Amava Valentina? Non lo sapeva, e forse non voleva nemmeno saperlo.
-Valya.- iniziò, un  pochino titubante – C’è qualcosa che mi devi dire?
Le due ragazze si guardarono, e avevano gli occhi tristi entrambe. Tristi in maniera diversa, e devastati allo stesso modo, le ragazze del Blocco sapevano che non sarebbero mai uscite vive dalla loro adolescenza. “Non uccidete la mia infanzia”, c’era scritto su un murales accanto a loro e Sasha pensò che avrebbe tanto voluto averla avuta, un’infanzia, visto che erano stati scaraventati nel mondo senza nemmeno un minimo di preparazione, senza un aiuto, senza nessuno. “Non uccidete la mia infanzia” – non uccidete i ragazzi, per favore.
-Mi ami?- di punto in bianco, Valya spalancò i grandi occhi truccati e le strinse più forte le mani – Davvero, Sasha: mi ami?
La bionda rimase un attimo interdetta, e si morse il labbro. “Non uccidete la mia infanzia” – avrebbe di nuovo voluto essere bambina e non dover scegliere. Lei odiava scegliere, voleva sempre che ci fosse qualcuno a farlo per lei. Ma ora sei grande, Sashen’ka. Come faccio ad essere grande se non sono mai stata bambina?
-Io … dai, ma che domanda è, non …
-E’ semplice.- Valentina era ferma e dura nella sua dichiarazione – Sono innamorata di te. Sono pazza di te, Aleksandra. Ma voglio capire se il mio sentimento è ricambiato.
Sasha giocherellò nervosamente con i cordini della felpa e abbassò gli occhi ombreggiati dalle lunghe ciglia bionde. Non voleva sentirselo dire, non voleva perché aveva paura di quello che avrebbe comportato. Non si sentiva pronta ad amare davvero una persona, si sentiva ancora infantile, aveva paura di poter ferire davvero Valentina. Aveva percepito quanto fosse forte l’amore dell’altra, e ne era spaventata perché non voleva illuderla ma contemporaneamente non voleva che quella loro storia clandestina finisse. Aveva trovato una casa tra le braccia magre dell’amica, un nuovo sollievo nei loro baci alla fragola, una pace nuova nel tenersi per mano e nel chiamarsi “dolcezza”. Però non sapeva se il loro fosse vero amore o se per lei non fosse solamente una scoperta dopo la travagliata storia con Denis. Quando l’aveva baciata per la prima volta, era perfettamente cosciente di averlo fatto solo per cancellare l’immagine del ragazzo, sapeva di volersi solo sfogare, ma in quel momento stava mettendo in dubbio tutto. Forse lei e Valya erano davvero fatte per stare insieme, o forse no. Era ancora troppo presto per dirlo. Sasha voleva essere libera, si era stufata di essere tirata a fondo nella melma. “Non uccidete la mia infanzia” – rivoglio occhi innocenti e non più iniettati di sangue, di alcol, di fumo.
-Valya … anche tu mi piaci, ma …
-Non è più questione di piacere o meno!- Valentina si scostò il lungo ciuffo dal viso – Ti sto dando il mio cuore, per me ormai sei più di un’amica. Anzi, lo sei sempre stata, non posso fare a meno di amarti. Per favore, Sasha, dimmi che anche tu mi ami.
Le due ragazze respiravano profondamente e si guardavano nel profondo degli occhi. C’era tanto amore nelle loro iridi tormentate, c’era un legame ancora acerbo che però si sentiva pronto a sbocciare. Sasha si arrotolò una ciocca di capelli attorno al dito e abbassò lo sguardo. Poteva fare quel passo, forse avrebbe dovuto buttarsi, per la prima volta, in qualcosa di adulto. Aveva sempre fuggito gli impegni, ma si rendeva perfettamente conto che fare la bambina ormai non era più possibile. Stava parlando della vita della sua migliore amica, doveva essere in grado di darle una risposta matura. Era inutile dirle sì se sapeva che poi sarebbe collassato tutto. E sarebbe stato ugualmente inutile dirle no se poi in cuor suo non faceva che pensare a lei. Guardò Valya, e le accarezzò una guancia, sorridendo gentilmente. Conosceva quella ragazza meglio quasi di sé stessa, aveva toccato con mano i suoi demoni, le aveva asciugato le lacrime, e aveva cercato di lottare al suo fianco per sconfiggere la depressione che l’affliggeva. Si chiese se forse quello non fosse amore, in realtà, la sua dedizione incredibile, il suo sacrificarsi sempre per il benessere dell’amica, il suo sopportare i silenzi pesanti e le crisi isteriche. Sasha aveva sempre trovato giusto occuparsi di Valentina, lo sentiva come suo dovere e forse sapeva che quello era il motivo per cui era nata: salvare Valya da sé stessa. E l’avrebbe fatto fino alla fine dei tempi, perché il sorriso vero dell’amica era di quanto più bello potesse trovare. Questo è amore, Sashen’ka, le disse una voce nella testa. Sorrise tra sé e sé – sì, forse quello era amore. Il suo voler sempre vedere l’amica sorridere, il suo tranquillizzarsi quando era con lei, il suo sentirsi normale e bella solo quando glielo diceva Valya, il suo sentirsi coraggiosa con lei, erano tutte cose piccole ma che, sommate insieme, non facevano che renderle una coppia perfetta. Ferite, spezzate, doloranti, ma indistruttibili nel loro affetto.
Sì, si sarebbe data a quella storia con tutta la sua forza, ci avrebbe creduto, sarebbe cresciuta, sarebbe diventata finalmente una ragazza forte.
Strinse forte le manine di Valya e disse
-Valya, ti amo anche io. Sono pronta ad essere la tua ragazza. Probabilmente sarò infantile, imbranata e ti farò incazzare, ma sappi che ti amo e che mi impegnerò con tutta me stessa per starti vicino. Dammi tempo, tesoro, ma so che non ti abbandonderò mai. Mai, Valentina.
Poi, tremando appena, le sollevò le maniche della felpa oversize e scoprì quelle braccine ferite dai tagli autoinflitti. Valentina boccheggiò, e fece per ritrarsi, ma Sasha le strinse forte i polsi, impedendoglielo. Si chinò e posò un bacio su ogni taglio. Un bacio a fior di labbra, e ad ogni bacio, una lacrima scorreva sulla guancia di Valya. Due ragazze, un unico amore, un sacrificio condiviso. Sasha continuò a baciare i polsi feriti dell’amica, con delicatezza e fermezza. Voleva che si fermasse, voleva salvarla da sé stessa.
-Sasha … Sasha … - balbettò Valya ma la bionda le posò un dito sulle labbra.
-Va tutto bene. So che smetterai. So anche che è difficile, ma voglio aiutarti a farlo. Ti amo lo stesso, anche se ti tagli.
Fu lì che Valentina scoppiò a piangere. Un pianto liberatorio, selvaggio, rumoroso, il viso affondato nella spalla della ragazza e le braccia avvolte attorno alla sua vita. Rimasero strette per un po’, le casse che continuavano a pompare musica, le bombolette abbandonate per terra e i cappucci caduti. Erano sbagliate e dolenti, ma insieme, forse, ce l’avrebbero fatta a sconfiggere il Blocco di Ekaterimburg. Sapevano entrambe che il loro amore e la loro amicizia non potevano essere spezzate – c’era troppo tra di loro per poter collassare. Valya continuava a piangere, in silenzio, perché quel gesto valeva più di mille parole. Solo Sasha avrebbe potuto fare una cosa simile, solo lei sarebbe stata in grado di portarla fuori dall’inferno e Valya ci credeva con tutta sé stessa. Avrebbe lottato per il loro amore e non avrebbe mai lasciato andare la corda, per quanto difficile potesse sembrare.
Si staccarono leggermente e si sorrisero, tra le lacrime e la disperazione.
-Grazie, Sashen’ka.- sussurrò Valentina, accarezzandole i capelli – Ma sai che farò fatica a uscirne, vero?
-Non mi importa quanto ci metterai, tesoro, perché so che ce la farai. Ce la faremo. Siamo o non siamo ragazze del Blocco?- Sasha sorrise, aumentando la presa sulla mano della mora.
-Hai fatto come dice la canzone dei Pierce The Veil.- sorrise Valya, tirando di nuovo giù le maniche della felpa.
-Non ci capirò nulla di inglese, né di quella musica, ma questo l’avevo capito. E mi è sembrata la cosa più bella che potevo fare.- Sasha la strinse di nuovo a sé e le fece fare una giravolta – Perché ti amo, e voglio che tu sia felice.
Nessuna delle due si era mai sentita leggera come in quel momento. Era come se essersi dichiarate a vicenda non avesse sollevato una patina di dolore per lasciare spazio a quello che davvero volevano essere. Si sentivano il cuore leggero, e avevano voglia di ridere, di piangere, di ballare sino al mattino, di suonare e cantare fino a perdere la voce. Avevano voglia di continuare a vivere insieme e combattere contro una vita che le voleva morte, ma sapevano anche che insieme avevano una chance in più di farcela veramente. Sarebbero scappate per mano fino ai confini della Siberia, se fosse stato necessario, perché insieme completavano la melodia. Sarebbero state una il sostegno dell’altra, fino alla fine, e se una avesse perso, beh, l’altra sarebbe andata fino alla fine dell’Inferno per recuperarla.
-Mi puoi fare una promessa, però?- chiese Valya, mordicchiandosi il labbro inferiore.
Aleksandra annuì, incoraggiandola a continuare.
-Per favore, puoi ricominciare a mangiare?
Un attimo di silenzio calò tra loro, e Sasha si prese un attimo prima di sussurrare
-Ci proverò, Valyoch’ka. Ci proverò con tutta me stessa, ma non so se ce la farò.
Si guardarono ancora negli occhi, e poi si baciarono, nuove lacrime che cominciarono a scorrere disperate sui loro visi pallidi. Ma, questa volta, le lacrime erano di gioia.
 

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Capitolo 15
*** San Pietroburgo ***


CAPITOLO QUINDICI: SAN PIETROBURGO

My only hope is the light that’s shining from inside you
Cause you believe in what we are
You believe in what we’ll be
Give me strenght, so I can stand beside you
[t.A.T.u. – You & I]
 
Era tanto che Marina non metteva piede a San Pietroburgo, da quando era ancora sposata con Elvira, e sicuramente non si sarebbe aspettata di tornarci in compagnia di Lera. Quando la ragazza le aveva espressamente chiesto di accompagnarla a seguire quello stage universitario, non aveva perso tempo a dare la sua disponibilità. Yurij l’aveva presa in giro, ma lei era sicura che Lera era diventata una nuova protagonista della sua vita. Non sapeva perché, ma si sentiva bene quando vedeva quegli occhi di tenebra, o quando sentiva quella risata argentina – c’era qualcosa, custodito dentro la rossa, che le faceva battere il cuore. Anche in quel momento, impegnate a passeggiare per le Prospettive, gioiva segretamente del bel sorriso che Lera aveva stampato sulle labbra. Ancora innocente, in quel vestitino con i teschi, si guardava in giro con gli occhi luccicanti, le lunghe trecce che luccicavano scarlatte e un’espressione delle più benevolmente misteriose. Erano già tre giorni che erano lì e che Marina la aspettava alla fine delle lezioni per portarla a passeggiare. Si chiese come facessero ad essere così in sintonia, due giovani donne del Blocco apparentemente diversissime ma in realtà molto sole e incomprese. Quanto una cercava di ricostruire la sua vita dopo un divorzio dei peggiori, quanto l’altra si stava affacciando in un mondo che non la comprendeva e la scartava. Erano entrambe appese sul baratro, e sapevano che bastava un passo falso per l’annientamento – eppure, da quando si erano incontrate, sembrava che entrambe le loro corde si fossero rinsaldate. Si tenevano per mano, come due sorelle, e ridevano per ogni piccola cosa, incuranti delle occhiate stranite della gente. Erano le ragazze del Blocco, ed erano scandalosamente perfette nella loro imperfezione di periferia.
-Marinoch’ka, ci fermiamo a fare merenda? Ho fame.- trillò Lera, tirandola per il polso verso una pasticceria dall’aria signorile e deliziosa. Un profumo di croissant appena sfornati e di torta uccello invadeva l’ingresso e le ragazze si guardarono con un risolino affamato.
-Perché no, Leroch’ka. Offro io!
Entrarono, in un tripudio di risate e mani intrecciate, nel locale più rosa che avessero mai visto. Tutte le tonalità del colore preferito di Lera sfumavano in poltroncine con le nappe, in tavolini perfetti, in morbidi tendaggi, e in oggettistica varia, insieme a qualche dolce canzone classica passata per radio. Era un bel posto, pensò Marina, abbastanza tranquillo e abbastanza estroso per due come loro. Sollecitò la rossa verso uno dei tavolini più in disparte, proprio quello sotto una foto autografata di Alla Pugacheva, e si ritrovò a pensare che fosse perfetta in un ambiente del genere, con quei capelli, quel viso di incredibile dolcezza, quei vestitini da bambolina. Lera era perfetta nella sua follia, nella sua imperfezione, nel suo mondo incantato. Più la guardava, più vi vedeva dentro molto più che l’adolescente geniale ma ancora bambine che vedevano gli altri – no, Valerya era molto di più: era una ragazza di estrema sensibilità, buon gusto e dolcezza. Sapeva come convivere con i suoi demoni e come stare a galla, anche a fatica, sapeva come destreggiarsi nella sua follia senza perdere il senno ma anche senza perdere quella magia che le faceva brillare gli occhi di tenebra di splendide supernove.
Più la guardava e la sentiva parlare, più Marina pensava che fosse perfetta. Più toccava quelle manine lentigginose, più sentiva il cuore battere appena più veloce. Le comunicava una calma e un piacere interiore che non provava dai tempi del matrimonio con Elvira – si chiese pigramente se forse non si stesse innamorando. Beh, anche se così fosse stato, non se ne preoccupava perché innamorarsi di Lera non poteva che essere una bella cosa dopo quel divorzio drammatico che aveva dovuto subire. Lera era follia, sì, ma anche stabilità. Era stranezza, ma anche amore. Marina aveva spesso desiderato baciare quelle labbra a cuore, intrecciare quei lunghi boccoli rossi, accarezzare quelle guance lentigginose: sì, forse era innamorata di Lera, ma non se ne preoccupava. Era un sentimento tanto perfetto che anche covato così la faceva sentire bene.
-Marin’ka, cosa ne dici? Pensavo di prendere un chai latte e una fetta di torta d’uccello.
La voce allegra della ragazza la distolse dai suoi pensieri. Annuì, e sorrise, stringendo ancora la manina lentigginosa.
-Perfetto, cara. Io andrò con i bliny al miele e … sì, dai, un chai latte anche per me.
Le due ragazze si guardarono e risero, di un bel riso fresco e affettuoso, una di quelle risate che solo due ragazze innamorate senza un pensiero possono avere. Marina e Valerya si amavano ancora senza saperlo, di un amore un po’ così, tenero come due rose appena sbocciate, infantile eppure già adulto, un legame stretto e legato nelle stelle, che aspettava solamente di essere rivelato. Una col cuore spezzato che non riusciva a rappezzarsi, l’altra isolata dal resto del mondo: erano perfette per stare insieme, perché si accettavano, si guarivano, si salvavano in un mondo che non aspetta nessuno. E che sicuramente non aspetta i cuori infranti e i matti poeti.
-Marinoch’ka … so che forse è una domanda indelicata, ma … posso sapere come mai indossi una fede? Sei stata sposata?- chiese timidamente Lera, intrecciando le dita con quella della donna bionda.
Marina sospirò, assottigliando le labbra, e aumentò la presa sulle dita della rossa.
-Sì, Lera. Aveva una moglie, Elvira, ma abbiamo divorziato l’anno scorso. O meglio, lei ha chiesto il divorzio, e io … beh …
-Oh. Mi dispiace così tanto, non avevo intenzione di … - interruppe subito Lera, ma venne interrotta di nuovo da Marina.
-No, hai ragione a voler sapere. Ormai è una cosa passata, e dovrò ben parlarne prima o poi, no?- scosse un po’ la lunga coda di cavallo e lanciò uno sguardo fuori dalla finestra – Io e Elvira ci conosciamo da quando eravamo bambine. Siamo cresciute insieme, io, lei e Yurij. Sai, eravamo un po’ come la Banda del Blocco. Più stupidi ancora, forse. Eravamo innamorate … e alla fine, compiuti i venticinque anni ci siamo sposate. Per me Elvira è sempre stata tutto; con lei ho fatto tutto. La prima sigaretta l’avevamo fumata insieme al Parco Mayakovsij, la prima ubriacatura è stata con lei, la prima esperienza del sesso, il primo bacio, le prime paure: lei ha costituito tutto quello che può costellare la vita di una ragazza. Eravamo inseparabili, tanto che il matrimonio era stato il finale adeguato per una storia che andava avanti sin dall’adolescenza. Io ho dato tutta me stessa per lei; il nostro era più che amore, era … tutto. Era la vita. Ma poi lei si è stufata di me. Aveva un’altra donna, e mi ha obbligata a firmare le carte del divorzio. Aveva campato su una marea di stupidi motivi per i quali non mi voleva più nei piedi, perché diceva che ero diventata noiosa, appiccicosa, mentre tutto quello che io volevo era mandare avanti quella storia scritta nelle stelle. E così alla fine ha vinto. Ho firmato quelle carte e lei è volata via da me, con quell’altra. Mai più incontrata, mai più una lettera, una chiamata, un saluto: è scomparsa dalla mia vita e io non ci sono ancora passata totalmente oltre. Ti capisco se mi dai della penosa.
-Marinoch’ka, non è affatto così.- Valerya le prese entrambe le mani, e nei suoi occhi c’era tanta comprensione. Tanto affetto. Tanto amore. – Se tu ed Elvira avevate questa storia decennale alle spalle, è ovvio che tu ci soffra disperatamente. È lei che ha sbagliato, è lei che ti ha spezzato il cuore, è lei che ha lasciato andare qualcosa di così importante. E sono sicura che dovunque sia, anche lei si sta pentendo di quello che ha fatto, perché tu sei una donna fantastica. Sei divertente e sfacciata, certo, ma sai anche come fare sentire una persona a casa. Sei dolcissima, e allo stesso tempo decisa. Sei fantastica, Marina, perché mi hai aiutato quando nessun altro sembrava in grado di farlo. Mi hai fatto sentire normale, e per una come me non è così scontato. Quando mi hai aiutato, fuori dal locale, e tutte le volte che mi hai tenuto compagnia, mi hai trattata come una principessa, ma non di cristallo, bensì una principessa guerriera. I miei stessi amici certe volte sono troppo solerti nel trattarmi come una bambola, ma non è quello che cerco: io voglio essere una ragazza come tutte le altre, e con te, con te lo sono stata e continuo ad esserlo. Quindi qui non sei tu che sbagli, ma è stata Elvira a trattarti malissimo. Capisco quanto può essere dura recuperare dopo una vita passata insieme, ma lei non ti merita e tu devi capire che a questo mondo ci sono molte altre persone che hanno bisogno di te, del tuo sorriso, della tua positività. E io sono una di quelle, Marinoch’ka.
Marina non si rese conto di star piangendo se non quando vide il sorriso dolce di Lera e sentì le sue manine asciugarle il pianto dalle guance. Piangeva in silenzio, perché non avrebbe mai pensato di sentirsi dire cose così belle da una matta ragazza del Blocco di Ekaterimburg. Non pensava nemmeno di poter essere così importante nella sua vita, e questo non faceva che renderle il cuore sempre più leggero. Soffocò un singhiozzo nel fazzoletto, e lasciò che Lera si avvicinasse a lei sul divanetto e la stringesse, facendosi coccolare da quel gioiello di ragazza dai capelli scarlatti.
-Oddio, Lera … io … scusa, sto piangendo come una deficiente …
-Piangere fa bene, tesoro. Me lo dice sempre Denisoch’ka.- Valerya le sorrise, baciandole una guancia con una tenerezza tutta sua. – E lui, anche se vuol fare il duro, piange sempre. Tutti noi piangiamo, ma la Banda del Blocco è fatta per consolarci in qualunque momento. Lo facciamo quando Ylja scappa dalla sua famiglia violenta. Lo facciamo quando Valya non regge più il peso della sua depressione. Lo facciamo quando Sasha non mangia. Lo facciamo quando Denis pensa a sua madre, che è morta. Lo facciamo quando io cado a pezzi. Lo facciamo sempre, ed è per questo che siamo così amici: conosciamo le nostre debolezze e ci sappiamo curare.
Marina annuì, sorridendo tra le lacrime
-Siete forti, Banda del Blocco.- rise un po’, tirando su col naso – Ma … come mai non hai menzionato Kuzma?
Lera rimase un attimo in dubbio, aggrottando le sopracciglia, e poi scosse la testa
-Kuzma … non piange mai. Ci consola, ma dagli anni che lo conosco non l’ho mai visto versare una sola lacrima. Non so, Marin’ka. A volte è così riservato, così …
-Tesoro, cerca di farlo piangere. Avete ragione a dire che piangere fa bene, ma capisco anche lui che vuole sembrare forte. A volte però è una lama a doppio taglio, non vorrei che gli succedesse qualcosa di brutto.- commentò la donna, asciugandosi il trucco sciolto con un fazzoletto.
-Lo farò. Ma ora come ti senti?- Lera l’abbracciò stretta, affondando il nasino in quei morbidi capelli tinti di biondo.
-Grazie a te, meglio.- Marina si sistemò un attimo e poi tornò a sorridere, stringendo forte la mano della ragazza. Poi indicò con la forchetta il cibo che era stato loro servito ed esclamò – Vogliamo favorire?
Risero entrambe, e cominciarono a mangiare, commentando qua e là, dandosi affettuosi schiaffetti e ridendo allegramente. Sì, forse era vero: Marina era davvero innamorata di Valerya. In lei c’era una purezza della quale la donna aveva disperatamente bisogno, c’era tutto quello di cui aveva bisogno dopo l’abbandono di Elvira. Perché Lera era capace di smuovere i suoi sentimenti più profondi, capace di consolarla nella sua disperazione inconsolabile, capace di farla sentire utile a qualcuno e solo dio poteva sapere quanto Marina avesse bisogno di una spalla in quel momento, qualcuno a cui dedicarsi anima e corpo, qualcuno da proteggere e da amare. E sembrava che la giovane Lera fosse caduta dal cielo proprio per lei: voleva amarla, la voleva per sé, voleva tenersela stretta e non lasciarla mai andare.
Fu proprio in quel momento, quando Lera le porse la forchetta per farle assaggiare un pezzo della sua torta che lo fece. Spostò delicatamente la forchetta, e la baciò. Senza fretta, un bacio casto sulle labbra, con tanto affetto e tanto amore, senza affrettare nulla. La baciò, e sentì un peso levarsi dal suo cuore. Quando Lera si staccò da lei, rossa in viso ed incredula, non si sentiva in colpa. Si limitò a prenderle la mano e a dire, con tutta la calma possibile
-Scusami, Leroch’ka, ma dovevo farlo. Spero che non ti abbia dato fastidio, è solo che …
Non fece in tempo a finire la frase che Valerya le prese il viso tra le mani e la baciò a sua volta, lasciando che questa volta Marina avesse pieno accesso alla sua bocca, intrecciando delicatamente le loro lingue in un gioco pacifico e dolce, un po’ melenso, forse, ma sempre d’effetto. Si baciarono a lungo, sedute su quel divanetto della deliziosa pasticceria di San Pietroburgo, le mani intrecciate, e quando si staccarono entrambe sorridevano, le fronti poggiate le une contro le altre
-Non ti scusare mai più per baciarmi.- mormorò Lera, posandole ancora un bacio a stampo sulle labbra.
Marina sorrise, e le posò un bacio sul naso. Abbassò un attimo gli occhi e poi sussurrò
-Lera, ti amo. Sappilo, ti amo, ti amo tantissimo, ma … - indugiò un attimo, incerta su come affrontare l’argomento, ma Lera fu più rapida di lei e completò la frase al posto suo.
-Lo capisco se ancora non riesci a toglierti la fede. Non ti voglio fare pressione, la toglierai solo quando sarai pronta. Ma ti amo lo stesso, Marinoch’ka. Ti amo, perché mi hai accettata per quello che sono, e il mio amore per te non tramonterà. Né ora, né mai.

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Capitolo 16
*** Segreti scomodi, molto scomodi ***


CAPITOLO SEDICI: SEGRETI SCOMODI, MOLTO SCOMODI

The wasted years,
The wasted youth,
The pretty lies,
The ugly truth
[Marina & The Diamonds – Teen Idle]
 
-E così ci sei andato a letto.
-Non vi dico, ragazzi, è una bomba. Penso di non aver mai urlato così tanto.
-Si sente, non hai praticamente più voce, zoccola che non sei altro!
-Avrei voluto vedere te, con lui, in quel letto, e mi diceva di quelle cose …
-Tipo? Dai, cosa ti diceva?
-Mi vergogno a ripeterle … ma erano efficaci, credetemi.
-Così stretto e così bagnato per me …
-Piantala! Non sei divertente!
-E’ arrossito, vuol dire che hai colto nel segno!
-Illazioni a parte, spero di uscire con lui stasera, mi manca già.
-Mi fai venire il diabete, ragazzo.
Denis, Kuzma e Valentina risero di cuore, stravaccati nella camera del biondo. Con Valerya ancora a San Pietroburgo, Ylja perso chissà dove e Aleksandra impegnata, non era rimasto loro che starsene al calduccio in una casa. Al Covo faceva veramente troppo freddo, e si erano dimenticati la stufetta elettrica. Era uno di quei tranquilli pomeriggi autunnali dove la Banda del Blocco se ne stava pacificamente ricantucciata in un angolo, a godere delle loro stesse risate e della compagnia anche silenziosa. Erano amici per quello, quegli strani ragazzi. Sapevano godere anche dei loro silenzi, dei loro sorrisi timidi, delle loro lacrime di cristallo. Si erano spalleggiati in una periferia che non aspetta nessuno, si erano salvati a vicenda dal vortice che li avrebbe soffocati tutti e tre. Senza gli altri, non esistevano, erano fatti per creare un gruppo solido come un plotone, pronto ad uccidersi per il bene superiore della Banda. Nati per combattere fianco a fianco, dove sarebbero finiti senza l’appoggio sempiterno dei propri amici? Probabilmente tossici, suicidi, spacciatori del sottobosco del Blocco. E invece erano lì, più forti che mai, pronti a sbranare chiunque per mantenere viva la banda. Corriamo, amici, aveva detto una volta Denis, quando il tramonto calava su Ekaterimburg e l’ultimo treno per Saratov lasciava la stazione. E avevano corso, tutti e sei, dietro ad un treno che probabilmente non sarebbero mai riusciti a prendere, urlando, tenendosi per mano, avevano corso fino a cadere stravolti sul bordo delle rotaie e avevano riso, come mai in vita loro, stravaccandosi per terra, le casse con qualche canzone strappalacrime dei Green Day. Erano rimasti lì a guardare l’ultimo treno scomparire all’orizzonte, quel corriamo amici che ancora risuonava nelle orecchie. Kuzma ci stava pensando proprio in quel momento, seduto ai piedi del letto, impegnato ad accarezzare distrattamente la caviglia nuda di Denis. Sì, Denis, il ragazzo contemporaneamente più vicino e lontano che aveva.
-Ragazzi, vi ricordate? Corriamo, amici.
-Il treno per Saratov.- Valya annuì , spegnendo la sigaretta nel posacenere ormai ricolmo. Si appoggiò allo schienale della sedia girevole e sorrise beata. Per una volta in vita sua sembrava che le cose stessero andando perfettamente bene. Lei e Sasha pronte a combattere insieme. Denis di nuovo felice. Una nuova vita da vivere e da affrontare.
-Avevamo corso fino a star male.- continuò Denis, accarezzando distrattamente i capelli di Kuzma – Sulle rotaie.
-Inseguendo un sogno migratore.- Kuzma sospirò, e chiuse gli occhi per un attimo – Quanto avevamo? Quindici anni?
Gli altri due annuirono, e si presero un momento per pensare a quel giorno, all’emozione devastante che li aveva travolti, al coraggio scanzonato che era loro e solo loro, a quella canzone dei Green Day a tutto volume nelle vecchie casse. A quella voglia di fuga che li aveva da sempre caratterizzati.
-Mi chiedo perché non ci eravamo saliti davvero, su quel treno per Saratov.- commentò Valya, mordicchiandosi il labbro inferiore – Perché c’eravamo limitati a seguirlo e poi a fermarci quando ormai aveva preso velocità. Avremmo potuto scappare veramente, quel giorno.
-Non ne abbiamo mai davvero avuto il coraggio.- disse lapidario Kuzma, stringendo i denti. Si era chiesto moltissime volte come mai non erano scappati davvero, e non era mai riuscito a trovare una risposta che lo soddisfacesse. Per paura del cambiamento? O per troppo coraggio, troppa voglia di combattere a casa loro, nel loro Blocco? O forse per tutti e due i motivi. – Ci siamo tirati indietro all’ultimo perché in fondo siamo una manica di codardi.
-Oppure perché sapevamo che tanto siamo gente del Blocco, e che avremmo dovuto finire la nostra formazione nella nostra periferia.- intervenne Denis, rotolandosi un po’ sul letto – Quindici anni, fuori di testa, ma abbastanza furbi da capire che dal Blocco non se ne esce così facilmente.
-Lo rimarremo per sempre, mi sa.- sussurrò Valya, accavallando le gambe magrissime – E’ come una malattia congenita.
-Di cui non ti puoi liberare se non con la morte.- concluse tombale Kuzma, alzandosi dal pavimento e andando ad aprire la finestra.
Guardò fuori, e vide i soliti palazzi sovietici del Blocco di Ekaterimburg, grigi, distrutti, enormi e sorrise amaramente. Lui odiava quella città, odiava essere uno di loro, odiava non potersene andare perché in fondo i suoi amici avevano ragione, non ti liberavi del Blocco, del suo odore, della sua violenza. Ti marchiava l’anima e non potevi farci nulla, saresti rimasto uno di loro fino alla fine dei tempi. C’erano ragazzi come Denis, come Sasha, che non davano particolare peso alla cosa, si erano aggrappati disperatamente a questa appartenenza e non sembrano essere in grado di allontanarsi anche solo un giorno dalla loro città. C’era gente come lui invece che provava un’insofferenza incredibile contro quella periferia soffocante. Sospirò, fissando la distanza col terreno. Non lo nascondeva a sé stesso, aveva meditato il suicidio. A volte, ci pensava a come sarebbe stato buttarsi giù dalla finestra e non doversi più preoccupare di nulla. Dormire, dormire per sempre, senza dover più languire per Denis, senza dover salvare Valentina da sé stessa, senza dover sempre fare da padre a tutti, senza dover più sopportare una famiglia che aborriva. Tutti dicevano che Kuzma Lukjanen’ko era forte, era d’acciaio, ma lui pensava di non essere altro che una povera bambola bistrattata. Lui non si considerava forte, si sentiva solamente stanchissimo, debole, solo come nessun ragazzo di dicott’anni dovrebbe esserlo. Avrebbe tanto voluto che qualcosa nella sua vita andasse nel verso giusto ma sembrava che niente lo aiutasse ad affrontare una vita che ormai non riusciva più a reggere. La pressione, la tensione, l’insofferenza, tutto questo si stava facendo largo nel cuore del biondo ragazzo e lo distruggeva, lo divorava, lasciandolo spossato e distrutto. Forse era depresso, sì, molto probabilmente lo era, ma era così bravo a nascondere il suo dolore da chiudere meccanicamente tutti gli altri fuori dal suo castello di menzogne e devastazione. Avrebbe solo voluto essere felice, almeno una volta nella vita. Ridere di cuore, avere Denis tutto per sé, poter permettersi di sbagliare, non dover esaudire i desideri di tutti, non dover essere il ragazzo perfetto che la gente credeva fosse. Appoggiò la fronte al vetro freddo, osservando le foglie secche involarsi nel cielo color perla e pensò a quanto avrebbe voluto volare anche lui come le foglie. Andare lontano. Lasciarsi tutto alle spalle. Scappare lontano mille miglia dalla Russia e dal Blocco.
-Kuzja, ce l’hai ancora la foto che avevamo scattato sulle rotaie quel giorno?
La vocina di Valya lo distrasse dalla sua crisi contemplativa. Si voltò verso di lei e indicò la libreria
-Quinto raccoglitore, c’è scritto 2015-2016.
-Sapevo di poter contare su di te.
La piccola Valentina scattò in piedi e cercò di recuperare il quinto raccoglitore, dove Kuzma aveva diligentemente tenuto il diario di tutto quello che era accaduto alla Banda del Blocco. Da quando erano bambini, non c’era cosa che il biondo non avesse raccolto, catalogato e riportato nei suoi immensi raccoglitori.
La ragazza si alzò sulle punte dei piedi, tendendo le braccia, ma, ovviamente, non ci arrivava. Sbuffò sonoramente, agitando impotente le piccole manine callose
-Dai, gnomo, ti aiuto io.- rise Denis e si alzò.
-No! Ce la faccio!- strillò lei, continuando a saltellare invano.
-Sicuro, Tolokonnikova, stanga come sei.
-Ti ho detto che ce la faccio, Shostakovich!
Ora, che Valya e Denis insieme fossero un danno, Kuzma avrebbe potuto prevederlo, esattamente come avrebbe potuto prevedere che tra spintoni e finti schiaffi, i raccoglitori sarebbero rovinati al suolo. E se lo comprese, oramai era troppo tardi, perché un rumore sordo rimbombò nella stanza, insieme a tre raccoglitori che caddero al suolo, spandendo in giro tutto il loro contenuto e facendo finire per terra Denis. I ragazzi cacciarono un  urlo, prima di ritrovarsi circondati da fogli, foto, documenti, biglietti dei concerti usati.
-Ma che cazzo, ragazzi!- abbaiò esasperato Kuzma, mettendosi le mani tra i capelli – Ma stiamo scherzando?!
-Porca … scusa, Kuzjen’ka … - Denis allargò comicamente gli occhi, togliendosi qualche foglio dalla testa.
-Ops, non volevamo.- borbottò Valya, passandosi una mano tra i capelli scuri, osservando dispiaciuta il disastro.
-Oh dio, c’ho messo secoli a farli! Perché dovunque andate fate casino?- sbottò il biondo, chinandosi per terra a raccogliere disordinatamente alcuni fogli.
-Ti aiutiamo a rimettere a posto.- si offrirono gli altri due, con smorfie colpevoli.
-Mi ci manca, fareste solo altri danni.
Valentina e Denis si guardarono mogi, cercando di raccapezzarsi in quel delirio di fogli e quaderni volati dappertutto. Cominciarono in silenzio a prendere qualcosa e a depositarlo sul letto e sulla scrivania, i Bullet For My Valentine che ignari continuavano a pompare metal dalle casse. Continuarono il loro lavoro per quelle che parvero ore, mentre forse erano stati solo alcuni minuti, di sezione, di ordine, di vecchi fiori secchi contenuti in buste. Tutti sapevano quanto Kuzma ci tenesse all’ordine e alla precisione, e quanto odiasse quando qualcuno gli rovinava quel famoso ordine. E allo stesso modo tutti sapevano quanto fondamentalmente Denis e Valya fossero disordinati e imbranati. Nel frattempo, Kuzma continuava a pensare a quel corriamo, amici. C’erano momenti in cui era stato tentato di fare uno zaino e scappare, anche da solo, prendere il primo treno e fuggire lontano da quella vita che gli andava sempre più stretta. Ricostruirsi un’esistenza all’estero, cercare di cambiare, di seppellire il Kuzma del Blocco sotto strati di nuovi ricordi, di nuove avventure, di nuove adolescenze, ma ogni volta si era bloccato. Non sapeva perché, ma qualcosa lo legava indissolubilmente a quella città, al suo gruppo di amici, a quei palazzi immensi e semidistrutti. Scappare, scappare via, scappare da sé stesso. Sistemò con cura i sei biglietti del concerto dei Tokio Hotel e quelli di qualche festival hip-hop, cercando di spiegare a Valya come catalogare le pagine del diario dell’anno prima, quando la musica si spense di colpo e la voce di Denis ruppe il silenzio
-Ragazzi, ma che roba è questa?
I due si voltarono, e, non appena si resero conto di cosa stesse tenendo in mano, ebbero un tuffo al cuore. Kuzma sbiancò, e Valentina si mise la manina davanti alla bocca, indietreggiando. No. Non era possibile che l’avesse trovato. La ragazza sentì il terreno sotto i piedi spalancarsi, e trattenne a stento un urlo. Quei fogli … quel segreto … la sua vita …
-Dammeli subito!- strillò, saltando verso l’amico, ma Denis li sollevò in alto, dove lei non sarebbe mai potuta arrivare.
-Denis, lasciali stare.- sbottò Kuzma, fulminandolo.
-Che cazzo di roba è.- ripeté il capobanda, scostandosi il ciuffo dal viso.
-Niente che ti interessi.- continuò a strillare Valya, sentendo gli occhi pungerle dal pianto. Non poteva stare succedendo veramente, doveva essere un incubo.
-Invece sì che mi interessa!- urlò Denis, sbattendo il piede per terra – Sono documenti di un aborto! Ma che razza di storia è!?
A sentire quella parola, il silenzio calò nuovamente nella stanza. Aborto. Quella parola che Valentina non riusciva più a pronunciare da quella fatidica notte di un anno prima, quando si era ritrovata con Kuzma in quell’ospedale, le manine intrecciate sulla pancia appena rigonfia e lacrime già pronte a scioglierle il trucco. La ragazza cadde seduta sul letto, la bocca spalancata e la respirazione accelerata. Non voleva che il suo segreto fosse riportato alla luce così brutalmente, non voleva ritornare a pensare a quel giorno maledetto nel quale aveva scoperto di essere incinta, non voleva tornare a sentire quello spiazzante senso di colpa e quel dolore soffocante alla gola. Non voleva e basta.
-Den, per piacere … - iniziò Kuzma, ma anche lui aveva capito benissimo che adesso era arrivato il momento tanto temuto. Rivelare il segreto più oscuro della Banda. Fare i conti con la spaccatura a cui avrebbe inevitabilmente portato. E tutto si sarebbe come al solito rovesciato su di lui, portandolo ad agonizzare sempre di più nella sua depressione devastante e assassina.
-Cos’è. Vi chiedo solo questo. Cos’è.- Denis li guardò entrambi con i grandi occhi ambrati spalancati. Aveva suborodato qualcosa, i ragazzi se n’erano perfettamente accorti. Ma cosa fare, a quel punto? Continuare a mentire? Inventarsi una bugia? O dire tutta la verità, e guardare come li avrebbe massacrati? Kuzma non sapeva quale male scegliere.
-Ho avuto un aborto.- la voce di Valya si fece sentire, improvvisamente fragile come quella di una libellula – Ero rimasta incinta l’anno scorso.
-Incinta?! E come mai non ne sapevo nulla? Perché avete tenuto nascosto una cosa del genere alla Banda?- sbottò Denis, passandosi una mano tra i capelli. – Cristo, il nostro motto è proprio non avere segreti e voi due ve ne uscite con una cosa del genere!
-Non te l’abbiamo detto perché … - cominciò Kuzma, per essere interrotto brutalmente dall’urlo di Valya
-Perché eri tu il padre di quel dannatissimo bambino!
La frase rimase per un secondo sospesa nella stanza, insieme agli sguardi che i tre si scambiarono. E c’era tanto, in quegli sguardi. Dolore, sorpresa, tradimento, amicizia, sconvolgimento, c’era tutto quello su cui era fondata la Banda del Blocco. Perché ora che quel segreto malsano era venuto alla luce, col suo marcescente olezzo, era arrivato il momento di testarsi: avrebbero resistito all’urto, come erano soliti dire, o sarebbero caduti a pezzi, senza nessuna possibilità di risalita? Era tutto da vedere, ma si stavano chiedendo se veramente fosse valso la pena di buttare tutto all’aria per una cosa del genere.
-Eh?- Denis sbatté le lunghe ciglia, alzando un sopracciglio – Com’è possibile, io e te non abbiamo mai scopato, Valya!
-E invece sì! Fai mente locale: l’anno scorso, festa a casa di Sasha. Ylja si sente male, ha un attacco d’asma, non sappiamo come fare. Kuzja, Sasha e Lera lo caricano in macchina e lo portano all’ospedale. Rimaniamo io e te, a guardare la casa. Continuiamo a bere quel che resta della vodka. Eravamo ubriachi marci, e pieni di cannabis da stare male. Beh, in quelle condizioni lì, sì, abbiamo fatto sesso. E io sono rimasta incinta. E ho abortito.
Denis e Valentina si guardarono a lungo negli occhi, ambra dentro blu notte, prima che lui scoppiasse istericamente a ridere.
-Non ci credo. Non ci posso credere. Non ci credo.- si accese nervosamente una sigaretta, prima di sbattere il pugno sul muro – Ma perché cazzo non me lo avete detto?! Perché?!
-Perché avevo paura, okay?!- abbaiò lei, scoppiando in lacrime – Avevo paura, avevamo entrambi tradito Sasha nel suo stesso letto, ero incinta, Denis! Incinta!
-Ma avrei avuto il dannato diritto di saperlo!- urlò lui, spedendo un po’ di cenere sul pavimento – Cristo, che cazzo di casino!
-Rimarrà tra queste quattro mura.- intervenne Kuzma, tranquillamente. Gli altri lo fissarono con tanto d’occhi – Abbiamo sbagliato, Den, forse avremmo dovuto dirtelo subito, ma ormai quel che è fatto è fatto. Ma ora basta, questo non dovrà mai più saperlo nessuno. È passato un anno, e ne passerano altri mille prima che qualcuno scopra questo disastro.
-Perché non me l’avete detto?- insisté Denis, lasciandosi cadere sulla poltrona – Mi considerate davvero così stupido?
-Non è per quello, ma avresti potuto sclerare, come hai fatto adesso, e Valya non aveva bisogno di altri problemi in quel momento.- rispose Kuzma, accarezzandogli delicatamente i capelli scompigliati. – Scusaci, Denisoch’ka.
Denis si scostò dalla mano dell’amico e inspirò il fumo della sigaretta. Era tutto un disastro, un fottuto disastro, e come al solito loro ne finivano immersi fino al collo. Si chiese perché alle fine finissero sempre per dover combattere come matti nella loro vita disastrata e disturbata. Perché dovessero sempre esserci problemi, perché non potevano essere degli adolescenti normali come tutti i loro coetanei, ma essere sempre sotto pressione, sempre avvolti dalla devastazione e dal dolore. Guardò Valentina, raggomitolata sul letto, che singhiozzava e Kuzma, accanto alla finestra, che li guardava con quei suoi tristi occhi celesti. Sospirò rumorosamente e si alzò, andandosi a sedere accanto all’amica, toccandole delicatamente la spalla gracile
-Valya …
-Io non volevo, non …
-Respira, Valyoch’ka. E raccontatemi. Voglio sapere tutto. Ma questa volta, per favore, non mentite. Se dobbiamo portare il peso di questa cosa, vorrei che almeno fossimo in tre. Passatemi un po’ del vostro bagaglio di dolore, perché forse riusciremo a portarlo meglio. Dai, racconta. E, per favore, non piangere più.

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Capitolo 17
*** Angeli e Anelli ***


CAPITOLO DICIASSETTE: ANGELI E ANELLI

They say that love is forever
Your forever is all that I need
Please stay as long as you need
Can’t promise that things won’t be broken
But I swear that I’ll never leave
Please stay forever with me
[Sleeping With Sirens – If I’m James Dean You’re Audrey Hepburn]
 
Stravaccato sul letto sporco, Ylja si stava nervosamente mangiando le unghie, aspettando che Viktor rientrasse in camera. C’erano molte cose che non quadravano, in quel periodo, in primis la litigata con gli altri membri della Banda. Dannazione, avrebbe voluto correre da loro a chiedere scusa ma sapeva che non lo avrebbe fatto. Un po’ per orgoglio, un po’ per amore, un po’ per codardia, il ragazzo si era ritrovato di nuovo tra di fuochi. Ma come faceva a scegliere tra i migliori amici di una vita e il suo unico amore? Non ci riusciva, e si odiava per quello, per essere sempre il più debole della catena, quello che non era in grado di fare delle scelte e che subiva gli eventi passivamente, senza far mai sentire la sua voce. Mugolò di disappunto verso sé stesso, e affondò il viso nel cuscino candido. Perché non poteva addormentarsi e svegliarsi in un mondo perfetto, senza problemi, tutto pace, amore e canne? Lo sapeva perché: era nato nel Blocco, e avrebbe dovuto combattere per la vita, come faceva da quando era in fasce. Lotta continua, nel cuore, nella strada, nell’animo, per quei ragazzi non esisteva altro che la guerra. Era stanco, Ylja, stanco da morire, ma non si sarebbe arreso perché poteva anche essere quello debole, ma aveva dentro un’ultima fiamma che lo invogliava a resistere alla tempesta, in attesa di tempi migliori. Si morse il labbro, e si rotolò un po’ nelle coperte. C’era un problema, quel giorno, e non era un problema da nulla: avrebbe litigato con Viktor, lo sapeva, non voleva farlo, ma sarebbe successo. Perché nonostante l’amore travolgente che provava per lui, quella volta l’aveva fatta davvero grossa. Si stravaccò sulle coperte, e le strinse fino a farsi sbiancare le nocche, soffocando un singulto. Niente avrebbe potuto emulare lo shock di quando era tornato a casa e aveva trovato il suo patrigno in un lago di sangue, vivo per miracolo, sua madre disperata che piangeva, e il tacito messaggio nell’aria “non si toccano le cose di Smirnov”. Era contento che Viktor avesse fatto pestare il suo patrigno per vendicarlo? Non lo sapeva, e non voleva nemmeno saperlo. Un conato lo aveva scosso quando era rincasato, perché i suoi sogni più violenti sembravano essersi avverati. Il bastardo aguzzino finalmente messo fuori gioco, la vendetta bruciante fresca in quell’appartamento lurido, tutto il suo odio velenoso rovesciato, l’orrore finalmente travolto da qualcosa di violento ma essenziale. Era sbagliato, sì, eppure sembrava dannatamente giusto. Era rimasto immobile a fissare la scena, prima di precipitarsi fuori di casa e mettersi a vomitare dietro a un cassonetto, rimanendo imbambolato a guardare il proprio vomito per quello che era sembrata un’eternità. E poi era andato a casa di Viktor, come un automa, continuando a pensare a quello che era successo. Non riusciva a capacitarsi di nulla, travolto da quello che aveva contemporaneamente più voluto e più temuto – quante notti aveva pregato che qualcuno sfasciasse il suo patrigno, quante volte aveva desiderato follemente la sua morte, dopo ogni schiaffo, ogni insulto, ogni calcio nello stomaco. Eppure, adesso che finalmente le sue preghiere erano state esaudite, si sentiva stranito. Era giusto fare una cosa del genere a un uomo, per quanto abietto fosse? No, forse non lo era, però Viktor l’aveva fatto lo stesso, e Ylja sapeva bene quanto il suo fidanzato fosse una testa matta. Troppe volte erano tornato da lui in lacrime, con ematomi violacei e crisi isteriche in corso. Troppe volte aveva tentato di scappare di casa. Troppe volte aveva mostrato a Viktor l’incubo che viveva ogni volta che rincasava. Troppe volte, ed ecco che l’uomo aveva attuato il suo piano assassino, riducendo l’uomo a uno straccio sputacchiante. Bene. Era vendicato. Il suo patrigno non avrebbe più osato alzare le mani su di lui o sulle sue cose. Probabilmente sarebbe potuto sistemarsi a casa di Viktor per l’eternità. Gli andava bene? Sì, certo, ma ne aveva lo stesso paura. Perché lui avrà anche desiderato la morte del patrigno, ma in quel momento non si sentiva in grado di processare una cosa del genere.
Si mise a sedere sul letto, passandosi una mano tra i lunghi capelli neri e gemette a voce alta. Era sempre un fottuto disastro, come al solito, e avrebbe dovuto uscirne da solo quando sapeva anche che non ce l’avrebbe mai fatta. Tentò di accendersi una sigaretta, ma la piantò dopo il primo tentativo; fumare l’avrebbe reso solo più ansioso. Si alzò e andò alla finestra, guardando il Blocco estendersi davanti a lui, grigio, terribile, assassino: la casa che tanto aveva odiato e che lo stava rovinando. Lanciò lo sguardo fino all’orizzonte color amaranto, fissando il sole al tramonto che bagnava Ekaterimburg e pensò a quanto avrebbe voluto andarsene. Prendere Viktor per mano e scappare insieme fino ai confini del mondo. Vedere l’Europa, andare a Parigi, Stoccolma, Roma, e poi magari correre fino in America, lasciandosi la Siberia alle spalle una volta per tutte. Ylja odiava Ekaterimburg, con tutto il cuore, e non c’era niente che volesse più di fare i bagagli e partire, per non tornare mai più. Magari portare con sé i suoi amici, fare una fuga di gruppo, come quella volta che erano corsi dietro al treno per Saratov. Corriamo, amici, si disse. Corriamo per non tornare più, per dimenticare il Blocco e vedere nuovi porti, nuovi lidi, nuove città. Appoggiò la fronte sul vetro freddo, tracciando con le dita il suo nome nell’aria. Sarebbe andato via, un giorno o l’altro, se l’era ripromesso a sé stesso, per non tornare più indietro e relegare la sua infanzia disastrata a cupi ricordi ai quali tornare nelle sere di tempesta.
-Ehi, tesoro, qualcosa non va?
Sussultò quando sentì le braccia magre ma forti di Viktor avvolgerlo da dietro. L’uomo gli baciò dolcemente la guancia, posandogli il viso sulla spalla.
-Oh, Vik, sei arrivato … - mormorò, intrecciando la mano pallida con quella olivastra dell’altro giovane. – No, figurati, va tutto bene.
-Ylja, ti conosco. Sicuro di stare bene? Sei pallidissimo.
Viktor lo fece voltare, e gli accarezzò gentilmente la guancia. Ylja arrossì, e baciò appena il palmo del fidanzato. Era tentato di esporgli i suoi dubbi su quello che era successo, ma non era sicuro affatto della reazione che avrebbe potuto avere: se si fosse offeso? Viktor era un uomo estremamente complicato, permaloso, e indecifrabile. A volte lo stesso Ylja era in difficoltà a capire le sue reazioni.
-No, davvero, non c’è nulla.- continuò a dire, sedendosi sul bordo del letto – Stavo solo pensando a quello che è successo.
Viktor lo fissò a lungo con un’espressione incomprensibile, e il ragazzo si morse il labbro, aspettando. Era ansioso, e quell’ansia lo stava divorando vivo. Solo come mai lo era stato in vita sua, aspettava un responso per quello che era successo, e lo aspettava con molto più terrore di quanto potesse immaginare.
-Tesoro, era la cosa giusta da fare.- gli rispose pazientemente Viktor, stringendogli una mano e alzandogli il viso con un dito – Quel bastardo avrebbe continuato a malmenarti e a distruggerti emotivamente. Non potevo permettere che ti facesse ancora del male.
Era quello che lo disturbava, pensò Ylja. Veramente non ci sarebbero stati altri modi? Veramente lui era di sua proprietà? Veramente era diventato un gioco del genere?
-Lo so, Vik ma era veramente necessario fare una cosa del genere?- sussurrò, mordendosi il labbro quasi a sangue – Voglio dire, hai lasciato che i tuoi uomini lo distruggessero completamente. Non ti pare esagerato?
L’uomo lo guardò, le labbra strette in una linea dura e gli occhi che vagavano quasi isterici per la stanza. Ylja conosceva quello sguardo, ma aveva anche imparato a non temerlo più. Viktor lo amava, non gli avrebbe mai fatto del male. Ma quanto si sarebbe spinta la loro relazione malata, quanto travolgente avrebbe potuto diventare il loro amore? Il ragazzo strinse il pugno fino a farsi sbiancare le nocche, guardando di sottecchi Viktor. Se lo conosceva bene, stava cercando di non dare di matto. Ylja aveva sempre apprezzato il tentativo di trattenere la sua furia cieca quando si trovava nelle sue vicinanze. Come se avesse capito che Ylja avesse bisogno di calma estrema, era sempre stato attento a non impazzire accanto a lui, ma a tentare di mantere il controllo. Sapeva che per uno come Viktor non era una cosa facile, e per questo ne apprezzava moltissimo il gesto. Provava, non sempre ci riusciva.
-So bene quello che ho fatto, Ylja.- disse, stringendo i denti – Non ho intenzione di tornare sui miei passi: il tuo patrigno ha pagato per quello che ha fatto. Punto.
-Lo so, Vik, lo so ma tutta questa violenza io non so se riesco a reggerla.- sbottò il ragazzo, alzandosi di scatto e andando alla finestra.
Viktor lo guardò un attimo, prima di alzarsi e posargli le manine callose sulle spalle gracili. Erano entrambi così magri e minuti, apparentemente così fragili, come vetro.
Potevano sembrare assurdi insieme, il capo del Blocco e il debole adolescente, ma in realtà erano una coppia forte, forte come l’acciaio. Perché resistevano, nella tempesta, e lo facevano insieme, senza lasciare che nulla incrinasse il loro rapporto. Avevano lottato, Ylja e Viktor, contro i pregiudizi della gente, contro la differenza d’età, contro la stessa Ekaterimburg che li voleva tutti morti. Si erano feriti, in quella guerra, ma non avevano mai smesso di esserci l’uno per l’altro. Quando uno cadeva, l’altro era pronto a sorreggerlo; se perdevano fiducia era solo per ritrovarla ancora più solida di prima; se volevano morire, la vita riusciva comunque a filtrare nell’oscurità. Ylja aveva sempre ringraziato il cielo di aver trovato un uomo come Viktor, che era stato in grado di salvarlo quando tutto era caduto a pezzi, lo aveva stretto nelle notti d’orrore mostrandogli che non era spezzato, gli aveva dato un motivo per continuare a vivere. Sì, gli doveva tutto, gli doveva la stessa vita. Chi è che si era sobbarcato i suoi pianti, chi gli aveva curato i lividi, chi aveva passato notti insonni a consolarlo? Viktor, con  i suoi capelli lunghi e l’inseparabile cappellino da baseball calcato in testa. Chiuse per un attimo gli occhi, lasciandosi abbracciare da dietro e insipirando a pieni polmoni il suo profumo delicato di muschio. Sarebbe andato tutto bene, erano mesi che se lo ripeteva come un mantra. Sarebbe andato tutto bene e lui sarebbe riuscito a scappare definitivamente dal Blocco.
-Yljusha, tesoro, ascoltami bene: lo so che non sopporti la violenza, lo so che sei delicato, ma devi capire in che situazione ci troviamo. Siamo nel Blocco, e non se ne esce senza una sana dose di pugni. Sei la cosa più bella che mi sia mai capitata: non poteva soffrire l’idea che qualcuno ti stesse facendo del male. Ti devo tantissimo, tesorino mio. Mi hai reso un uomo diverso da quello che ero, mi hai dato un motivo per continuare a lottare, mi illumini le giornate col tuo sorriso, anche se hai i denti un po’ storti. Quando ti ho visto per la prima volta, ho pensato “diavolo, Vik, non puoi lasciarti scappare quel ragazzino”. Sono stati i tuoi occhi d’acquamarina a calamitarmi, perché sono così puri, così innocenti da fare male. Non potei fare altro che seguirti, te e i tuoi occhi stupendi. Ylja, ti amo, ti amo da impazzire per quello che mi hai reso. Sei stato in grado di importi nella mia vita come nessuno mai, sei riuscito a convincermi che l’amore vero esiste. Ti sembra una cosa da poco? Non credo proprio, non quando ti vedo e penso che sei il motivo per cui ho tenuto duro. Quindi scusami se ti ho agitato, scusami se ho usato metodi che odi ma per me quell’uomo non è altro che un demone venuto a rovinare il mio angelo. Sei il mio angelo, Yljusha, mi hai aiutato a volare quando le mie ali non erano altro che monconi sanguinanti. Sei tutto per me, ragazzo. Tutta la mia vita.
Viktor lo strinse forte, affondandogli il viso nel collo e Ylja poté sentire tremule lacrime bagnargli il colletto della maglia. Gli veniva da piangere? Sì, da morire, anche se tentava disperatamente di trattenersi. Nessuno, nemmeno sua madre, lo aveva fatto sentire così importante per la vita di qualcuno. Lui, Ylja Zavgorodnij, il ragazzo con la voce da femmina che canta ad ogni ora del giorno e che si commuove sempre, lui che non era mai stato altro che un povero stupido bistrattato dalla vita, eccolo assumere le veci di salvatore, di angelo capitombolato giù dal Paradiso. Sentì il cuore aumentare i battiti, ma per la prima volta se lo immaginò completo, tutti i pezzi sistemati al loro posto, tutti pronti a battere insieme senza lasciare niente indietro. Era felice, Ylja, felice come mai lo era stato in vita sua, sembrava che un enorme peso gli si fosse sollevato dalla coscienza. Aumentò la presa su Viktor, e lo baciò dolcemente, pensando a quanto fossero perfette le loro labbra unite e a quanto volesse lottare per quell’amore così sbagliato. Avrebbe resistito ancora, avrebbe stretto i denti e avrebbe sbranato pur di poter farsi  portare all’altare da quel ragazzo con la pelle olivastra.
-Vik … Vik, io non so cosa dire … io … - balbettò, ma venne zittito da un altro bacio e da una carezza sui capelli corvini.
-Non dire niente, Yljusha. Mi basta sapere che sei al mio fianco in tutto ciò, che perdonerai i miei errori passati, presenti e futuri. Mi basta sapere che mi ami.
L’uomo gli scostò una ciocca dalla fronte pallida e lo fece sedere nuovamente sul letto. Poi gli si accomodò accanto e frugò nella tasca dei jeans, fino a tirare fuori un piccolo anello d’argento con uno smeraldo sopra. Lo guardò per qualche secondo, prima di prendergli la manina e infilarglielo lentamente al dito.
-E so che questo non è niente, ma vuole racchiudere tutto quello che non riesco a dirti a parole, angelo mio.
Ylja ci mise qualche secondo a processare quello che era accaduto. Aveva un anello al dito. Un anello preziossimo che Viktor gli aveva dato come eterno pegno d’amore. Sentì le lacrime cominciare a correre selvagge sul suo viso, ma non si preoccupò più di trattenerle. Rimase semplicemente lì, a piangere tutta la sua tensione, tutta la sua passione, tutta la sua tristezza, in silenzio, lasciando che quei cristalli di lacrime bagnassero l’anello che gli brillava al dito. Pianse, per tutto quello che gli era successo, pianse forte e si accasciò tra le braccia di Viktor, pensando che forse l’angelo non era lui, ma proprio il giovane uomo che incuteva tanto timore alla gente ma che in realtà non era altro che un altro figlio del Blocco bruciato dalla vita. Lo sentì abbracciarlo ma lui continuò a piangere, e pianse quando baciò lo smeraldo luccicante, pianse quando baciò le labbra dell’uomo tanto amato.
-Vik, sta succedendo veramente?- mormorò tra i singhiozzi, , stringendo la maglietta dell’altro fino a sbiancarsi le nocche.
-Sì, amore, sta succedendo.- gli sussurrò Viktor nei capelli, prima di sollevargli il viso con un dito e baciargli dolcemente le labbra dischiuse – Mi ami?
Ylja annuì, afferrando con entrambe le mani il volto di Viktor e lo baciò con più passione, lasciando che tutti i suoi sentimenti devastanti si riversassero in quel bacio, in quel momento che lo voleva salvare dai suoi demoni, dalla sua devastazione interiore, dal suo dolore tossico che lo uccideva. Sì, forse Ekaterimburg li voleva morti ma loro avrebbero lottato per vincere contro quella città maledetta, si sarebbero sorretti in qualsiasi situazione, sarebbero volati lontani, lontani dalla Siberia e dal suo gelido dolore.
-Vik, voliamo via?- mormorò il ragazzo, accarezzando i lunghi capelli scuri dell’altro.
Viktor ci mise un attimo a rispondere. Si prese il suo tempo ad osservare il volto bellissimo stravolto dal pianto, gli occhi di quel colore innaturale, i capelli arruffati, la maglietta stropicciata troppo grande. Guardò tutto quello che era Ylja e intrecciò le loro dita
-Non ancora, tesoro mio. Dobbiamo combattere, e per farlo dobbiamo rimanere qui nel Blocco. Ti prometto che appena ne saremo in grado, ti porterò lontano. Ti porterò a Roma, a Parigi, a Londra, ti farò volare. Ma per adesso dobbiamo aspettare che le nostre ali si riaggiustino, stanno sanguinando ancora troppo per poterci permettere una fuga sicura. Lascia che io ti aggiusti le ali come tu riaggiusterai le mie. E allora, finalmente, scapperemo per sempre dal Blocco e da tutti i nostri incubi.

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Capitolo 18
*** Devastati come non mai ***


CAPITOLO DICIOTTO: DEVASTATI COME NON MAI

Вызови такси, я уеду домой.
Мне нельзя за руль — я пила вино.
Ты теперь не мой, мой, мой.
Кто тому виной уже всё равно
 
(Chiama un taxi, me ne vado a casa.
Non posso guidare, ho bevuto del vino.
Ora non sei più mio, mio, mio.
Di chi è la colpa, non importa.)

[Мари Краймбрери - Вызовы такси]

 
 
Denis stava bevendo, ormai da quelle che parevano ore. Abbandonato in un bar dei più tristi, appeso disperatamente alle bottiglie di birra che andavano ad aumentare vertiginosamente di numero, pensava a quello che gli aveva rivelato Valentina. Un figlio. Avrebbe avuto un figlio dalla sua migliore amica, un figlio di cui lei non gli aveva mai parlato. Si chiese se fosse davvero così stupido e infantile per aver convinto i suoi amici a non rivelargli nulla. L’immagine scanzonata e superficiale che si era costruito aveva davvero preso così campo nella sua vita? Dio, che casino. Bevve ancora un sorso, sapendo che sarebbe finito ubriaco marcio sul pavimento, ma a quel punto non gli importava nemmeno più. Non dopo che l’avevano fatto sentire come il peggiore degli idioti, il peggiore degli amici. Già il fatto di essere andato a letto con Valya gli ricordava quanto avesse sempre maltrattato Sasha, tradendola a destra e a manca, ma poi tutto quello che ne era succeduto … e Kuzma, che si era dovuto sobbarcare quel disastro da solo, come al solito … no, Denis stava male, si sentiva a pezzi. Era un dolore al cuore così forte da farlo quasi piegare in due, qualcosa che non se ne sarebbe andato con qualche birra e qualche sigaretta, era qualcosa che sarebbe rimasto come un cancro. Pensò a quanto avrebbe avuto bisogno di Yurij, in quel momento, e contemporaneamente a quanto non lo volesse vedere. Si sentiva così stupido, così egocentrico e ignorante. Si prese il viso tra le mani, le guance bollenti e i capelli arruffati: era a pezzi e non sapeva come uscirne. Era solo, solo come mai lo era stato, solo con i suoi demoni e con la sua devastazione interiore. Valya, la piccola Valya che ascoltava musica emo e che cercava di combattere la sua depressione, Valya, con cui litigava sempre ma con la quale alla fine si faceva le risate più sane, Valya, che gli saltava sulle spalle e che suonava la chitarra come se non ci fosse un domani, Valya, che stava male ma che riusciva sempre a dipingersi un sorriso sulle labbra, Valya, che aveva dovuto affrontare un aborto a soli diciassette anni.
Denis sospirò rumorosamente, facendosi servivere l’ennesima vodka ed ebbe un singulto al pensiero del figlio che avrebbero potuto avere. Sarebbe stato un maschio o una femmina? O forse due gemelli? Come l’avrebbero chiamato? Sarebbe stato bello quanto lui, o microscopico quanto Valya? Avrebbe avuto la loro forza e la loro depressione? Sarebbe diventato il nuovo Jimi Hendrix, o il nuovo Pasternak? Oppure sarebbe stato totalmente nella norma, come i suoi genitori? Erano tutte oziose domande che divoravano lentamente l’animo del ragazzo, domande rivolte a un bambino mai nato, un bambino di cui lui non sapeva nulla, un piccolo feto ucciso ancora prima di sapere chi fosse. Si chiese anche come stesse Kuzma, che si era dovuto sobbarcare quel segreto al posto suo, Kuzma, che era sempre lì per tutti quando nessuno era mai lì per lui. Avrebbe dovuto esserci lui, in quell’ospedale, lui a tenere la mano dell’amica, lui ad abbracciarla dicendole che sarebbe andato tutto bene, e invece niente, l’avevano lasciato all’oscuro di tutto, relegandolo a quella dimensione di infantile capobanda qual’era. Stava male, Denis, male come mai in vita sua. Che razza di amico, di ragazzo era? Un coglione totale, ovviamente, uno che non era riuscito a conquistarsi la fiducia piena dei suoi amici, uno che veniva considerato abbastanza cretino per non essere messo a parte di un segreto del genere. Chissà come doveva essersi sentita Valentina: aveva tradito la sua migliore amica, aveva abortito, si era dovuta tenere quel segreto lacerante dentro. E lui? Lui niente, aveva continuato a vivere ignaro e contento, come al solito, senza rendersi conto di cosa andava avanti sotto ai suoi ciechi occhi ambrati.
Bevve un altro sorso di vodka, sbattendo il bicchiere sul bancone per richiederne ancora. Il grasso barista lo guardò dubbioso, mentre gli versava l’ennesimo sorso, che il ragazzo bevve avidamente, le lacrime pronte a sgorgare di nuovo, incendiandogli il viso già in fiamme.
-Ragazzo, stiamo per chiudere.- disse il barista, levandogli dalle mani la bottiglia di birra ormai vuota – Forza, esci.
-Ancora un po’.- ansimò Denis, rendendosi conto di essere ormai ubriaco marcio – Ancora un po’.
-No, ragazzino, hai già bevuto abbastanza per oggi. Vai via, torna a casa.
Denis avrebbe voluto rimanere ancora ancorato a quello sgabello, appeso disperatamente all’alcol come maldestra via d’uscita, ma non si oppose particolarmente all’ordine del barista, alzandosi e trascinandosi pesantemente fuori dal locale. Faceva freddo, quella notte, ma il ragazzo non sentiva niente che non fosse la morsa al cuore. Barcollò un po’, aggrappandosi a un lampione, ma poi si lasciò cadere pesantemente sul marciapiede, la testa tra le mani e gli occhi allucinati. Guardò la strada che si estendeva davanti a sé, i palazzoni sovietici impossibili da distinguere, le poche macchine che passavano a velocità folle, il vento che soffiava impietoso e batteva il selciato umido di pioggia. Eccola, Ekaterimburg, la città maledetta che li aveva partoriti, che li aveva portati alla distruzione, che giocava con le loro anime innocenti e non li lasciava andare.
Si tirò i capelli, sentendo le prime lacrime cominciare a sgorgare e a sporcargli inevitabilmente il viso. Sì, voleva piangere, e non sarebbe stato l’orgoglio a fermarlo. I primi singhiozzi lo scossero, e lui affondò il viso tra le mani, lasciando che il pianto lo risucchiasse completamente. Pianse disperato, seduto per terra, pianse lacrime alcoliche, sussurrando il nome di Valya tra le labbra. Era un idiota, un perfetto idiota, e si odiava per quello. Si odiava per aver sempre trattato male Aleksandra, per non essere ancora passato oltre la morte di sua madre, per aver messo incinta Valentina e non averla aiutata, per essere sempre un cretino, per non aver accompagnato Valerya a San Pietroburgo, per non aver accettato la relazione di Ylja, per rovesciare sempre tutto addosso a Kuzma, per essere semplicemente quello che era, uno stupido ragazzotto del Blocco che non  sarebbe mai riuscito a uscire dalla sua condizione sociale. Pianse, Denis, pianse a dirotto, sotto la pioggia che aveva cominciato a frustare la città, pianse per i suoi amici, per sé stesso, per la sua vita che faceva schifo, per la sua fuga nell’alcol. Pianse, semplicemente, lasciando che tutta la tristezza che aveva accumulato uscisse fuori e si mescolasse alla pioggia acida. Avrebbe dovuto chiamare Kuzma, in quel momento, farsi consolare, appoggiarsi a quello che non lo aveva mai abbandonato. Chiedergli scusa magari, farsi fare una tazza di tisana e dormire nel suo letto, sentirsi dire che gli volevano ancora bene, che non lo odiavano, che lo avrebbero sempre amato.
Si tascò le tasche del chiodo fino a riesumare il cellulare, e con gli occhi accecati dal pianto, compose il numero del ragazzo biondo. Aspettò qualche minuto, continuando a singhiozzare, sperando vivamente che rispondesse, che non lo ignorasse.
-Denis, si può sapere che cazzo vuoi? Sono le tre del mattino, porca troia.
Non molto fine, abbastanza furioso, ma pur sempre il suo Kuzma.
Denis tirò rumorosamente su col naso e balbettò, cercando di frenare il pianto
-Kuzja … Kuzja io … ti prego, vienimi a prendere …
Sentì dei rumori al di là della cornetta, come di lenzuola spostate e di un corpo che si alzava pesantemente da letto. E poi udì di nuovo la sua voce, questa volta più allarmata
-Come? Ma dove sei? Denis, cosa sta succedendo?
-Sono … sono dal vecchio bar, quello della Zelenaya Uliza, io … per favore, vieni …
Dall’altro capo del telefono, calò il silenzio più assoluto, tanto che fece temere al ragazzo che l’amico si fosse stufato della sua inconcludenza e che lo avrebbe lasciato lì, dall’altra parte del Blocco, da solo, a piangersi addosso fino al mattino.
-Kuzja … - tentò, con voce rotta, lasciando che dei nuovi singhiozzi lo scuotessero.
-Sto arrivando, pezzo di cretino. Tu non ti muovere.
Denis si trovò a fissare il telefono, per poi spostare lo sguardo sul cielo e scoppiare di nuovo a piangere, questa volta molto più forte, molto più tragicamente. Sarebbe arrivato Kuzma. Sarebbe andato tutto bene. O almeno, lo sperava.
 
-Tieni, bevi questo.
Kuzma era appena tornato in camera con una grossa tazza di the, che Denis bevve abbastanza avidamente. Dopo averlo pescato dalla sua postazione sullo sporco marciapiede, lo aveva portato a casa propria, messo un pigiama gigante e gli aveva sciacquato il viso sporco di lacrime, moccico, e birra. Come un automa, Denis si era raggomitolato sul letto dell’amico, fissando con occhi vuoti la stanza, la tazza tra le mani e nuove lacrime pronte a scorrere. Si sentiva dannatamente in colpa, perché invece di chiamare Yurij si era ridotto a tornare da quel santo del biondo.
-Den, perché sei andato a bere?- Kuzma sospirò rumorosamente, sedendosi accanto a lui. Aveva un profumo buonissimo, di muschio e di fumo.
-Io … mi sentivo in colpa.- piagnucolò Denis, scostandosi il vistoso ciuffo scuro dagli occhi – Dopo quello che ho scoperto oggi, su Valya.
Kuzma si passò una mano tra i capelli e gli accarezzò appena il viso col dorso della mano, con quel suo sorriso triste che lo caratterizzava da sempre.
-Senti, lo so che sei rimasto scioccato, ma ubriacarsi così non è la soluzione. Non te ne abbiamo mai parlato non perché non ci fidassimo di te ma … senti, tesoro, è una cosa grossa. Ci siamo spaventati anche noi, cosa credi.
-Lo so, Kuzja però … sarebbe potuta venire da me, invece che trascinare anche te in questo casino.- Denis si morse il labbro, sentendo un fastidioso mal di testa premergli contro le tempie.
-E tu avresti dato di matto, come al solito. Ti conosci, lo sai che non riesci a gestire le situazioni di crisi con polso e serietà. Dai, ora mettiti a letto.
Kuzma lo fece stendere, con delicatezza, e Denis obbedì tristemente, lasciandosi aggiustare le coperte addosso. Guardò a lungo l’amico, e ponderò quanto fosse bello, con quei tratti calcati ma puliti, quegli occhi celesti tanto nostalgici, quel taglio della bocca, sempre un po’ malinconico, quelle mani grandi e callose eppure così delicate. Si chiese anche perché alla fine non si fossero mai messi insieme loro due, e sorrise appena quando il pensiero di tenerlo per mano gli balenò nella mente stravolta dalla vodka e dalla birra a poco prezzo. Forse Kuzma sarebbe stato il suo compagno perfetto, quello che lo metteva a posto, che lo sgridava e che lo teneva a freno, ma contemporaneamente quello che lo appoggiava sempre, che gli faceva da eterna spalla. Sospirò, e gli accarezzò il viso, appena, indugiando sulla gobbetta appena accennata del naso.
-Sei bellissimo, Kuzma.- mormorò, l’alito puzzolente di alcol e gli occhi già semi chiusi – Ti amo.
-Piantala, stupido, sei solo ubriaco- ribatté il biondo, spostandogli delicatamente la mano.
-Non sono ubriaco. Cioè, lo sono, ma ti amo …- continuò a vaneggiare Denis, rotolandosi pesantemente nelle coperte. – Saremmo la coppia più bella del mondo, se ci pensi. Siamo fatti per stare insieme, da quando siamo bambini siamo sempre stati fianco a fianco, forse era tutto un meccanismo scritto nelle stelle per dire che io e te ci dovremmo sposare per far saltare in aria il Blocco e tutta la città.
Kuzma si chiese quanto ancora avrebbe resistito prima di scoppiare a piangere. Al diavolo, lui ci credeva. Ci credeva nell’amore per Denis, ci credeva che insieme sarebbero stati perfetti, ci credeva così disperatamente da uccidersi quotidianamente per quell’amore a senso unico che non li avrebbe portati da nessuna parte. Si passò una mano sul viso, soffocando un singhiozzo strozzato. Eccolo lì, il suo Denis, con un po’ di bavetta alla bocca, gli occhioni spalancati e i capelli arruffati, ecco il suo migliore amico, il ragazzo che amava disperatamente da una vita intera. Ecco che di nuovo lo accoltellava al petto tirando fuori cose che lui non avrebbe mai voluto che uscissero.
-Per favore, Denisoch’ka, dormi.- riuscì a dire, fissando quelle belle labbra piene così vicine alle sue, mentre, chinato su di lui, gli sistemava le coperte.
-Non dormo se non vieni con me.- ribatté cocciuto il ragazzo, spostandosi pesantemente da un lato. – Dai, come quando eravamo piccoli.
Kuzma alzò un sopracciglio e sospirò, guardandolo con quei suoi sguardi carichi di dolore, che solo un ragazzo depresso che finge che vada tutto bene può avere.
-Va bene, ma Pushkin non te lo leggo. È tardi.- mormorò, sdraiandosi vicino all’amico di una vita.
Denis lo abbracciò e Kuzma avrebbe voluto soffocare, perché solo dio sapeva quanto amasse quelle braccia magre ma forti avvolte attorno al suo petto. Prese un profondo sospiro e strinse Denis a sé, per non farlo cadere dal letto. Sì, come quando erano piccoli e ancora non pensavano che sarebbero finiti così, uno scapestrato bulletto di periferia e un poeta depresso e solo come un cane.
Sentiva i loro cuori battere allo stesso ritmo, lenti e misurati, e si chiese  se gli angeli lo avessero giudicato, se avesse osato baciare le labbra dell’amico. Aveva qualcosa da perdere, Kuzma Lukjanen’ko? La faccia, l’onore, l’orgoglio incrollabile. Ma erano cose alle quali avrebbe potuto rinunciare? Non lo sapeva, lui, che aveva sempre messo la propria figura rispetto ai sentimenti. Forse, se fosse mai stato più sciolto e non rigido come un bastone, magari non sarebbe sempre stato sul punto di suicidarsi per non dover reggere la pressione mostruosa alla quale si era sottoposto da solo.
-Kuzja, ti voglio così tanto bene …- ansimò Denis, stringendogli con forza la maglia del pigiama.
-Anche io ti voglio bene, Den. Non sai nemmeno tu quanto.- si ritrovò a dire, con una dolcezza sconosciuta.
Gli accarezzò i capelli spettinati e inalò il suo odore, di sudore, vodka scadente, fumo, menta, niente di così buono ma abbastanza da farlo andare fuori di testa.
Fu in un momento come quello, alle quattro di mattina, in un letto stretto, in una delle camerette del Blocco, perfettamente tirata a lucido, che Denis lo baciò. Senza lussuria, senza secondi fini, stampò le proprie labbra su quelle di Kuzma, con gli occhi chiusi e una delicatezza impalbabile. Kuzma rimase per un secondo interdetto, e lo rimase ancora di più quando si rese conto di aver afferrato il viso di Denis tra le mani e di starlo baciando con più decisione, con più trasporto. No, idiota, no! continuavano a urlare le voci nella testa, ma lui chiuse le imposte del cervello e si concentrò solamente sul baciare il suo migliore amico, lasciare che gli si arrampicasse sopra, mettergli le mani nei capelli, sentire finalmente quelle tanto agognate labbra, sentire la loro consistenza, il loro sapore alcolico. Si baciarono a lungo, quella notte, per quelle che a Kuzma parvero ore, ma forse erano stati solo secondi, lunghi, bellissimi secondi, senza scambiarsi una sola parola, ma solo baci, e baci, e carezze innocenti sui visi arrossati. Smisero solamente quando Denis, sopraffatto dalla stanchezza e dall’ubriachezza, si rotolò sulla pancia e si mise a russare appena, ancora ancorato al corpo dell’amico, la bava di nuovo pronta a scendere e il viso che sembrava quello di un quindicenne innocente.
Kuzma rimase a lungo ancora sveglio, stretto accanto all’amico, sulle labbra il suo delizioso sapore, sul viso ancora la sensazione di quelle lunghe mani callose. Non riusciva a capacitarsi di quello che fosse successo, non riusciva a … sentì gelide lacrime cominciare a scorrere, bagnandogli la faccia e il collo, sporcando fino i capelli di Denis. Pianse in silenzio, fermo immobile, pianse perché sapeva che quello non avrebbe portato altro che un’ulteriore desolazione, una devastazione interiore che lo avrebbe mangiato vivo. Non avrebbe dovuto cedere, lo sapeva, perché adesso stava succedendo esattamente quello che aveva temuto: l’odio per sé stesso, la consapevolezza che non avrebbero mai avuto nulla di più che un’amicizia che a lui, oltretutto, non riusciva più a bastare. Guardò Denis, che russava beato al suo fianco, e si chiese se si fosse mai chiesto cosa nascondesse dietro agli occhi. Se si fosse mai reso conto che lui era sempre sull’orlo del suicidio, se sapesse della sua depressione, del suo amore a senso unico. Si chiese semplicemente se il suo migliore amico lo conoscesse davvero.
Si mise  a singhiozzare selvaggiamente quando capì che no, il suo migliore amico non lo conosceva affatto.

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Capitolo 19
*** Non ce la fanno più ***


CAPITOLO DICIANNOVE: NON CE LA FANNO PIU’

I should I have never told you
That you were the only one
I should I have never told you
That you are the reason for this song
[Tokio Hotel – Elysa]
 
-E alla fine, eccoci qui, di nuovo. Mi viene da dire, finalmente!
La voce limpida di Sasha spezzò il silenzio imbarazzante che era calato tra loro. Sì, dopo tutti i vari naufragi ai quali avevano dovuto sottostare, erano tornati tutti e sei nel Covo, sull’amaca, sul divano sfondato, sulla poltrona girevole. Eccoli lì, appunto, la Banda del Blocco al completo, che era tornata insieme, perché loro erano fatti per naufragare, sì, ma per farlo spalla a spalla. Avevano sofferto, a stare separati, a litigare, ma alla fine non avevano potuto fare altro che collassare di nuovo tutti nel loro amato Covo, sguardi sfuggenti, guance arrossate, occhiate colpevoli ma la certezza di essere tornati a casa. La Banda del Blocco era una casa per tutti loro, che non l’avevano mai avuta, erano la famiglia che mancava, l’amicizia immortale che avrebbe superato qualunque apocalisse. Si erano spezzati? Non lo sapevano, forse sì, forse no, ma l’importante, per adesso, era che erano riusciti a stare tutti nella stessa stanza, sorrisi appena accennati che ancora facevano fatica a sorgere e la certezza di essere imbattibili, quando erano fianco e fianco. Potevano litigare come cani, potevano fingere di odiarsi, ma tutti sapevano benissimo che la loro vera forza sorgeva da un’amicizia che non si poteva spezzare, da una conoscenza gli uni degli altri che andava oltre a qualche segreto, no, era qualcosa che li accomunava da sempre, erano le lacrime che avevano pianto, le risate che avevano condiviso, i ricordi che si erano scambiati, il dolore che avevano combattuto: la Banda del Blocco era molto di più che un gruppo di amici di periferia, erano una schiatta di perduti che si sostenevano con tutta la forza possibile per non finire uccisi da un mondo che non aspetta nessuno. “Blocco, Blocco, Blocco!” urlavano per le strade, coi pugni chiusi, risate pronte a sgorgare, musica rock a palla e sorrisi franchi sui visi feriti. Erano il gruppo di adolescenti più folle di Ekaterimburg ma non gli importava, non quando erano insieme, pronti a combattere con i denti e con le unghie per la loro amicizia incrollabile. Potevano soffrire, potevano scontrarsi, potevano credere che non ce l’avrebbero più fatta ma alla fine la musica era sempre quella: non potevano crollare perché erano fatti per stare insieme, non potevano separarsi perché se uno cadeva, gli altri cinque cadevano con lui. Oppure si sarebbero sacrificati per farlo risogere. Era incredibile, la Banda del Blocco, e sarebbe rimasta così per sempre, perché un’amicizia nata per le strade delle violente periferie siberiane, un’amicizia che ha resistito così coraggiosamente a tutto, beh, è fatta per non spezzarsi mai. Incrinarsi, forse, ma mai spezzarsi. Non erano mai stati di vetro, erano di dannato acciaio inossidabile, come le fabbriche che li circondavano, come il cielo di perla che li aveva dati alla luce.
-E’ tutto perfetto, adesso.- commentò Lera, pettinando una delle sue belle bambole vittoriane – La Banda è fatta per restare, sempre. Mettiamo Vremya&Steklo?
Si guardarono tutti negli occhi, prima di lasciare che qualche risatina nervosa risuonasse nel silenzio, insieme alle note allegre del duo ucraino.
Forse non era tutto perfetto come diceva Lera, ma sicuramente si sarebbe aggiustato. Si sarebbero appianate le divergenze, si sarebbero raggiunti dei compromessi e la Banda sarebbe tornata come prima. O almeno, lo speravano. Non avevano capito bene cosa fosse successo quell’anno, ma sembrava che niente andasse per il verso giusto. I loro dolori personali si erano fatti sempre più tragici, la loro furia si era scatenata, la loro tristezza si era fatta soffocante. Niente di positivo per quei poveri ragazzi.
-E’ stato un periodo di merda, diciamocelo.- commentò Valentina, stirando le gambe fasciate in un paio di skinny neri strappati. Lanciò un’occhiata in tralice all’indirizzo di Denis, ma non fece commenti – Ma adesso spero che si riaggiusti tutto.
-Chissà perché, non ne sarei così sicuro.- interruppe caustico Kuzma, smettendo per un attimo di disegnare. Guardò a lungo i suoi amici, prima di tornare sul suo ritratto.
-Su, Kuzja, non fare sempre così.- sbottò Ylja, giocherellando distrattamente col suo vecchio borsalino nero – Abbiamo appianato le divergenze. Non dirmi che ce l’hai ancora con me per quella storia di Viktor.
-Certo che no, Ylja!- il biondo lo guardò, scuotendo la testa – Ti ho detto che mi va bene, finchè non ti tratta male. Ci ho solo messo un po’ a digerirlo, e ti chiedo scusa per questo. È solo che … oh, al diavolo. Lasciatemi stare.
Sbattè la matita sul tavolo e girò nervosamente su sé stesso con la sedia girevole.
No, per lui tutto quello non stava andando bene. Non dopo il bacio con Denis, non dopo l’ennesima stilettata al cuore, non dopo che le cose continuavano ad andare male. Si mise le mani tra i capelli e si alzò di scatto. Si chiese cosa fosse successo di male per aver completamente scompaginato la Banda. La relazione pericolosa di Ylja, i problemi di Lera, l’aborto di Valya, l’anoressia di Sasha, la storia con Denis … era tutto un maledetto casino e lui, come al solito, ne era la prima vittima, perché tutto gli si rovesciava addosso. Stava male, Kuzma, male come non lo era mai stato in vita sua. Non vedeva via d’uscita, non riusciva a capacitarsi di come ne sarebbe scampato, e forse nemmeno voleva. Era dannatamente stanco, così tanto da fargli venire la nausea. Nausea della vita, dei problemi, degli amici, della musica, della vodka, dei disegni, nausea di tutto. Voleva scappare, ma non sapeva dove, voleva togliersi per sempre dai problemi ma non sapeva come. E a quel punto, la più tragica delle prospettive sembrava l’unica possibile per un ragazzo che non aveva più niente se non la sua depressione e la sua devastazione.
-Devo andare.- sbottò, e corse fuori dal Covo, il quaderno degli schizzi in una mano e la giacca nell’altra, solo la rabbia e l’impotenza ad animargli gli occhi celesti.
-Ma cosa gli prende?- chiese Ylja, mentre Denis afferrava il chiodo di pelle e si precipitava dietro all’amico, sbattendosi la porta alle spalle.
Rimasero gli altri quattro, a guardarsi a lungo negli occhi, incerti.
-Cosa succede al povero Kuzjen’ka?- borbottò Valerya, raggomitolandosi accanto ad Ylja, la bambola Albyna stretta in una mano e una smorfia corrucciata sul tondo visetto lentigginoso.
-Non lo so, ma non mi piace.- commentò Aleksandra, dondolando appena dalla sua postazione sull’amaca bucherellata – Non è che ha litigato con Denis?
I ragazzi si scambiarono qualche occhiata imbarazzata e dubbiosa. No, forse la situazione non stava affatto migliorando. Continuavano a soffrire, continuavano a doversi misurarsi con problemi molto più grandi dei loro, continuavano a trovarsi nei guai senza sapere come uscirne. Non andava bene.
Valya si alzò e andò a sedersi accanto alla fidanzata, accarezzandole i lunghi capelli che alle luci al neon sembravano completamente candidi. Anche lei era incredibilmente stanca, ma c’era qualcosa che le diceva che in qualche modo ne sarebbero usciti. Feriti, pieni di cicatrici di guerra, sconvolti e devastati, ma comunque in piedi, perché dannazione, erano la Banda del Blocco. Intrecciò le dita ai capelli dell’amica e si accese una sigaretta, anche se sapeva che di regola dentro al Covo non si fumava. Non che a quel punto importasse poi così tanto delle vecchie regole. Guardò la bella Lera, con i suoi occhioni neri incantati e le sue bambole, e pensò che avrebbero dovuto fare di tutto per salvarla da quell’incubo. Guardò Ylja con il suo orribile borsalino di seconda mano, e realizzò solo in quel momento quanto quel ragazzo avesse bisogno dei suoi amici, visto l’incubo che doveva vivere ogni giorno rincasando. Gli sarebbe stata vicino, si ripromise, qualunque cosa sarebbe successa, non avrebbe abbandonato Yljusha e la sua voce da donna. Guardò Aleksandra, e sorrise appena, baciandole la guancia liscia e pallidissima. Lei ce l’avrebbe fatta, aveva giurato alla luna che l’avrebbe strappata dai suoi demoni e l’avrebbe di nuovo fatta splendere della vecchia, travolgente luce. Poi guardò sé stessa, la piccola, terribile, velenosa Valentina Tolokonnikova e si disse che era ancora in piedi, e che ciò voleva significare che era indistruttibile. Aveva visto il baratro, ma stava imparando a uscirne, a pezzi, ma ogni pezzo d’acciaio. Sperò solamente che anche Kuzma rimanesse in piedi nella tempesta, Kuzma, che era sempre stato lì per tutti quando nessuno era lì per lui, Kuzma che sembrava inossidabile ma che in realtà stava cadendo a pezzi.
-Vado in clinica.- disse Sasha, rubandole la sigaretta dalle dita magre.
-In clinica? Per … per curare i tuoi disturbi col cibo?- sussurrò Ylja.
-Esatto. Ho deciso che non posso continuare così, devo darmi una mossa e cercare di guarire. È per questo che mi ricoverano, per cercare di stare finalmente bene e di poter essere di vero aiuto per la Banda, invece che la solita Sasha bella, scema e tormentata. Non ho mai preso niente in mano nella mia vita, ho sempre lasciato che fossero gli altri a decidere per me: beh, adesso basta. È il momento di lottare per me stessa, è il momento di sconfiggere questa fottuta anoressia- la bionda si morse il labbro e tirò appena su col naso.
Era fiera di sé stessa, non lo nascondeva. Fiera di essere finalmente riuscita a prendere in mano la sua vita e di decidere di aver bisogno di un aiuto serio per superare i suoi problemi. Lo aveva ponderato a lungo con Valya, ma alla fine le era sembrata la cosa più logica: non poteva distruggersi ora che la Banda aveva bisogno di tutti loro. Solamente con un ricovero sarebbe riuscita a sconfiggere il demone della sua anoressia e dei suoi drammi sull’aspetto fisico, solamente con un ricovero sarebbe tornata più forte e in grado di sostenere i suoi amici fino alla fine. Non era una scelta presa a cuor leggero, ma era decisa, decisa come mai lo era stata in vita sua: se fosse guarita, un pezzo della Banda si sarebbe risanato. Erano come un corpo unico tutto malandato e dolorante, si doveva guarire pezzo per pezzo. Adesso ne avrebbero aggiustato uno, e poi, con calma, sarebbero passati ad aggiustare tutti gli altri. Non potevano lasciar perdere proprio in quel momento, non potevano lasciare che il Blocco di Ekaterimburg avesse la meglio su di loro.
-Sono così fiera di te, Sashen’ka!- urlò Lera, e le saltò al collo, facendola capitombolare per terra. La bionda rise e strinse forte la rossa a sé, affondandole il viso nei morbidi boccoli profumati.
-Fatti abbracciare, finalmente!- strillò a sua volta Ylja, unendosi all’abbraccio – Ce la farai, tesoro, staremo al tuo fianco ogni secondo del tuo ricovero.
-Siamo o non siamo la Banda del Blocco, il gruppo di bastardi più in gamba di tutta la Russia?!- completò Valentina, saltando in braccio agli amici.
Risero forte, come non stavano ridendo da ormai troppi anni, di nuovo tutti insieme, di nuovo abbracciati, di nuovo parti di uno stesso cuore che batteva selvaggiamente perché sì, dannazione, voleva vivere. Voleva vivere.
 
-Kuzma. Kuzma, cazzo, che cosa c’è!
In strada, Denis e Kuzma si stavano fronteggiando, entrambi orgogliosi come pochi, entrambi spezzati da una vita che andava troppo stretta.
-C’è che non sto bene, Denis, non sto bene!- abbaiò il biondo, trattenendosi dallo sbattere il pugno contro il muro del palazzo – Io … tu … oh, Cristo, perché ci siamo baciati?!
Denis fece tanto d’occhi, facendo una giravolta su sé stesso
-Per favore, ancora con questa storia? Ero ubriaco, okay? Vuoi che mi scuso? Va bene, scusa amico, scusa, sono stato un cretino. Ma mi pare che ne avessimo già parlato, ero in crisi per la storia di Valya, da deficiente quale sono ho bevuto, e poi … beh, poi è andata come è andata. Perché sei così in crisi?
Denis non ci stava capendo più niente. Dalla mattina dopo quella maledetta notte, Kuzma era diventato intrattabile, sfuggente, devastato e lui non capiva il perché. Come mai quel bacio lo aveva disturbato così tanto? Erano migliori amici da una vita, si era sempre aspettato qualcosa del genere, e allora perché adesso non andava più bene? Cos’era cambiato?
-Non avremmo dovuto farlo, non adesso.- disse Kuzma, passandosi una mano tra i corti capelli biondi, tentando di trattenere le lacrime che già premevano per uscire. Basta. Basta. Basta. Voglio morire.
-Ma non capisco perché!- continuò a sbraitare Denis, agitandosi – Siamo gay tutti e due, siamo amici da sempre, abbiamo sempre scherzato su una nostra possibile relazione, ero ubriaco fradicio: niente fa presupporre cuori spezzati, tradimenti, shock o cosa ne so. È tutto nella norma, tutto nella norma!
-Non è tutto nella norma, ragazzo! Sei sempre stato stupido, così stupido, non hai mai capito un cazzo di come potessi sentirmi io, non hai mai pensato nemmeno una volta ai miei sentimenti, per te sono sempre stato l’indistruttibile amico da cui correre e dal quale rifugiarsi ma anche io ho un cuore, anche io ho diciotto anni, anche io ho una guerra da combattere, Denis!
Kuzma diede finalmente il pugno nel muro, lasciando che le lacrime gli violassero il viso pulito di rara bellezza slava. Non ce la faceva più e anche se aveva sempre odiato farsi vedere debole di fronte agli altri, ormai aveva perso ogni ritegno e non gli importava più nulla che non fosse il suo dolore tremendo. Denis doveva sapere. Denis doveva capire la sua sofferenza nauseante.
Il capobanda sfarfallò le lunghe ciglia, quasi annichilito e gli si avvicinò, posandogli una mano sulla spalla muscolosa. Non aveva mai visto il suo amico così scompaginato come lo stava vedendo in quel momento, e ciò lo stava distruggendo. Era sempre stato abituato a vedere in Kuzma l’ancora di salvezza, l’eroe dal quale rifugiarsi quando tutto cadeva a pezzi, il punto fisso che sempre l’avrebbe protetto dal male del mondo e vederlo così, devastato, lo stava destabilizzando. Come avrebbe fatto se la sua ancora fosse affondata? Se l’eroe fosse morto? Se Kuzma non ce l’avesse più fatta?
-Kuzja … io … io ti voglio bene … non volevo … ti prego, spiegami cosa sta succedendo, ho paura, Kuzja, ho paura per te … ti voglio bene …
-E io ti amo! Ti amo, ti amo da morire, ti amo da sempre, e tu non l’hai mai capito!
Kuzma sapeva che probabilmente non sarebbe dovuto esplodere così ma ormai non ce la faceva più, e lasciò semplicemente che tutta la sua rabbia si riversasse addosso all’amico di una vita.
-Tutte quelle tue battute idiote su una nostra possibile relazione mi hanno sempre ucciso perché io vorrei, ho sempre voluto disperatamente che io e te potessimo stare insieme davvero. So anche che tu ami Yurij e non te ne faccio una colpa, ma quella notte è stata troppo. Sono sempre stato io a dovermi sobbarcare i problemi di tutta la Banda, sempre e soltanto io. Chi ti è stato vicino ogni singolo istante della tua scriteriata esistenza? Chi ha sorretto Valentina quando ha abortito? Chi ha sopportato le lagnanze di Aleksandra quando ancora stavate insieme? Chi ha curato i lividi di Ylja? Chi ha combattuto con Valerya per sconfiggere i suoi demoni? Io, Kuzma Lukjanen’ko, lo sfigato ragazzo del Blocco che ha sempre dato ma non ha mai avuto niente in cambio. Non ho mai chiesto nulla, Denis, nulla se non la tua felicità ma tu non puoi continuare a giocare con il mio cuore in questo modo francamente imbarazzante. Sono anche io un ragazzo, ho anche io i miei problemi anche se tu e gli altri sembrate non accorgervene mai, visto che sembra che io esista solamente per farvi da muro del pianto. Ma ora basta, mi sono rotto, basta!
Denis lo guardava sconvolto, appena boccheggiante, perché tutto quello era troppo anche per lui. Stava ferendo Kuzma, stava ferendo il suo migliore amico, la sua spalla, il suo tutto. Faceva veramente così schifo? Era stato veramente un amico così penoso? Non ci poteva credere. E poi cosa voleva dire che lo amava? Cosa diavolo stava succedendo?
-Io … scusa … scusami … ma io … - balbettò, ma si rese perfettamente conto che qualcosa dentro al biondo si era spezzato. Lo vide nello sguardo che conosceva meglio di qualunque altro, lo lesse all’inverso in quelle iridi più azzurre del cielo estivo, lo comprese nelle lacrime che correvano selvagge sul suo viso, lo incontrò nella disperazione nera di quelle pupille a punta di spillo. E seppe che quella volta non sarebbe bastato un abbraccio, una bevuta, una canzone strappalacrime dei Five Finger Death Punch da cantare a squarciagola sotto la pioggia. Non sarebbe più bastata la loro incrollabile amicizia, non sarebbe più bastato nulla perché ormai Kuzma era a pezzi e niente sarebbe più riuscito a rimontare i pezzetti. Denis non riusciva quasi a crederci, di aver potuto portare il suo amico a un tale livello di devastazione, non ci voleva credere.
-No, Denisoch’ka. Basta con le scuse, non le accetto più.
E Kuzma si voltò e cominciò a correre, a correre sempre più veloce, lacrime ad accecarlo e la certezza che no, basta, poteva farla finita. Non c’era più un motivo per piangere, per ridere, per amare. Non c’erano più motivi per continuare a vivere una vita che lo stava uccidendo sempre di più.

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Capitolo 20
*** Staremo bene ***


CAPITOLO VENTI: STAREMO BENE

How stubborn are the scars when they won’t fade away?
Or just a gentle reminder that now are better days?
We’ll be home soon, so dry your eyes
You’ll be okay
[Asking Alexandria – A Prophecy]
 
Ylja se ne stava sdraiato a letto con Viktor, accarezzandogli distrattamente i lunghi capelli scuri, gli occhi semi chiusi nella penombra rilassante della grande stanza. Era un po’ di giorni che si era trasferito momentaneamente a casa del capo del Blocco, ormai completamente libero da legami di ogni tipo, e non poteva che trovarlo meraviglioso. Stava bene, finalmente, dopo tanto tempo si sentiva a posto con sé stesso e con i suoi amici. L’unico che lo preoccupava era Kuzma, che dopo la scenata di due giorni prima non si era più fatto vedere. Avevano provato a chiamarlo, a fargli la posta sotto casa, ma era stato tutto inutile. “Gli passerà”, aveva detto Denis, ma le lacrime pronte a sgorgare mentivano il suo tono solo in apparenza spaccone e strafottente. Eppure, nonostante quello, era felice. Felice di essersi riappacificato con la Banda, di essere protetto da Viktor, di aver trovato una pace interiore che non sperava più di poter trovare. Mugolò qualcosa di indistinto, stringendosi al petto dell’uomo e inspirò il profumo caldo della sua pelle olivastra. Gli piaceva giacere a letto dopo aver consumato un amplesso, le luci soffuse, il fumo della sigaretta che si perdeva nella camera, gli occhi che si perdevano a fissare i ghirigori del soffitto, la certezza di un amore che non si poteva incrinare. Si arrotolò attorno al dito pallido la collanina che non abbandonava mai il collo di Viktor e pensò che forse, finalmente, anche lui aveva il diritto di sorridere come qualunque ragazzo di diciotto anni dovrebbe fare. Ylja era debole, lo era sempre stato, e sapeva perfettamente di esserlo, ma non se n’era mai fatto una colpa. C’erano persone come Kuzma e Denis che erano forti, indistruttibili, feroci belve che non si facevano mettere i piedi in testa da nessuno, c’erano persone deboli come lui e Sasha, che faticavano sempre così tanto a decidere qualcosa per loro stessi, che agonizzavano nel mondo e infine c’erano persone folli, come Valya e Lera, che invece vivevano in una dimensione tutta loro e che sembravano non avere bisogno di legami con la realtà. Lui era cosciente di essere la catena debole della Banda del Blocco, sapeva di essere quello che mollava sempre, che piangeva per un nonnulla e che non era mai in grado di imporsi, ma in quegli ultimi tempi sembrava aver maturato una propria forza, un proprio coraggio, qualcosa che lo stava aiutando a tenere duro e a non farsi travolgere dalla marea. Era fiero di sé stesso, perché per la prima volta in vita sua stava prendendo le armi e si stava facendo in quattro per resistere alla devastazione interiore che lo avrebbe fatto schiavo se non avesse avuto i suoi amici e Viktor a sostenerlo. Doveva molto, a quelle persone, perché erano tutte state in grado di dimostrargli il loro amore, di dargli un motivo per stringere i denti e per combattere nel tentativo di stare a galla. Ce la poteva fare, e sapeva che ormai aveva messo in gioco tutto proprio nel nome di quel coraggio che gli era stato così estraneo fino a pochi mesi prima. L’Ylja debole e solo, vittima sacrificale, aveva lasciato il posto a un Ylja deciso a prendere in mano la propria vita per farne la sua nuova bandiera. Andava tutto bene, per il giovane con gli occhi liquidi, tutto perfettamente bene.
-Sei felice, Yljusha?- chiese Viktor, la voce appena roca, la sigaretta quasi spenta tra le dita.
-Tantissimo, Vik.- mormorò, sporgendosi a baciargli l’angolo delle labbra. – Sto finalmente imparando cosa vuol dire lottare, e adesso che ci sono dentro, posso dire che è dannatamente bellissimo.
Viktor soffiò una risata e si voltò, guardandolo nel profondo degli occhi d’acquamarina, accarezzandogli col pollice la guancia pallida.
-Sono così fiero di te, angelo. Non puoi nemmeno immaginare quanto sia contento di vederti finalmente sorridere anche con gli occhi, non solo con le labbra. Ti avevo promesso che ce l’avremmo fatta, e vederti finalmente vincitore su te stesso non può che rendermi felice.- lo baciò a lungo, accarezzandogli i capelli corvini e Ylja si trovò perso e travolto da quel bacio, ma era così felice da sentirsi quasi male.
Finalmente stava trovando la sua fatidica seconda stella a destra, che gli voleva dare un motivo per stringere i denti e non lasciare vincere il maledetto Blocco, che li voleva tutti morti ma che non avrebbe più distrutto la Banda. Rise da solo, rise di cuore, come aveva disimparato a fare da tempo e strinse forte il corpo magro ma atletico di Viktor.
-Sono contento, Vik. Avevo perso le speranze, del tutto, mi ero adagiato su una vita d’inferno che mi aveva completamente sfigurato ma in qualche modo sono riuscito a uscirne e mi chiedo come ho fatto. Devo tutto a te e ai ragazzi, senza di voi non sarei mai riuscito a trovare abbastanza forza per dire basta.
I due ragazzi si sorrisero e si misero a sedere sul letto, accendendosi altre sigarette e infilandosele in bocca a vicenda, sorrisi felici sui volti sfruttati, gli occhi ancora disturbati dai fantasmi del passato ed espressioni calde sui visi bruciati da una vita che non aspetta nessuno. Erano belli, Ylja e Viktor, belli di una bellezza rovinata ma coraggiosa, una bellezza che si era fatta largo tra le brutture della periferia di Ekaterimburg, una bellezza che aveva resistito a qualunque urto e che era stata in grado di fortificarsi abbastanza per arrivare sino a lì, a quel punto, tra orrore e devastazione. Avevano lottato duramente entrambi, per un amore che molti avrebbero condannato, ma eccoli lì, vincitori, insieme contro il mondo, pronti a sacrificarsi per stare insieme contro qualunque imprevisto.
-Yljusha, ho un’idea.- disse tutt’a un tratto Viktor, afferrando l’amante per le spalle gracili – Andiamo via.
-Come? Cosa vuoi dire?- Ylja alzò un sopracciglio, e si lasciò cadere di nuovo tra le coltri. Un brivido di eccitazione gli percorse la spina dorsale.
Certo, lui voleva andarsene, aveva sempre sognato di farlo ma non avrebbe mai pensato di potercela fare davvero. Lui, lo sfortunato ragazzino di periferia, finalmente in grado di lasciarsi Ekaterimburg alle spalle? No, non ci poteva davvero credere. Eppure … eppure forse con Viktor ce l’avrebbe fatta. Lasciarsi alle spalle le distese di acciaio e cemento, vedere nuovi lidi, sentire nuove lingue, baciare nuovi soli e piangere sotto a nuove lune: tutto questo non poteva che eccitarlo straordinariamente ma gli sembrava un sogno così proibito da non poter nemmeno essere concepito. A volte gli pareva che le sue stesse fantasie fossero cose vietate per uno come lui, non si riteneva abilitato a figurarsi certi scenari nella sua mente sognatrice. E la fuga all’estero era uno di quei sogni vietati: poteva davvero farlo, o doveva ancora finire il suo allenamento selvaggio nella violenta periferia siberiana? Poteva permettersi di avere un desiderio che gli scaldasse il cuore, o doveva solo pensare al sangue, al sesso, alla droga e alla vodka? Poteva ancora aggrapparsi a speranze deboli e migratrici come colombe?
-Ti voglio portare in Europa.- disse Viktor, accarezzandogli il viso col palmo della mano – So del tuo desiderio folle di uscire da questo inferno, e penso che non ci sia momento più adatto di questo. Partiamo, andiamo a Parigi. A Roma. A Berlino, dove preferisci. Prendiamoci due settimane di tempo per pensare a noi stessi, per sperimentare qualcosa che non sia la nostra vecchia e marcia Russia. Hai tutto il diritto di prendere in mano la tua vita, Ylja, e devi farlo prima che sia troppo tardi.
Ylja boccheggiò, quasi incredulo. Non poteva credere a quelle parole e a quello che nascondevano: una fuga in Europa, lontano dai suoi incubi. Avrebbe finalmente potuto lasciarsi alle spalle la Siberia e tutto quello che comportava. Insieme a Viktor, una fuga d’amore in quelle capitali così romantiche di cui tanto aveva letto nei libri romantici che leggeva fino alla nausea. Sfarfallò le lunghe ciglia scure, cercando di processare le parole del suo fidanzato e si rese conto che qualche lacrima gli stava bagnando delicatamente le guance.
-Mi porteresti davvero in Italia? A Roma? O a Parigi, a Montmartre, ai Moulin che dipingeva Degas?
-Ti porterei dovunque, angelo mio. Basta solo che tu me lo chieda; hai vissuto fin troppi incubi qui.
-Ma Vik, sei stato tu a dirmi che è ancora troppo presto per lasciare Ekaterimburg.
Viktor sospirò e lo baciò teneramente, intrecciando le dita coi capelli dell’altro.
-Per andarsene, sì, è troppo presto. Ma non per prendersi una pausa. Ti porterò in Europa, così ti renderai conto di cosa esiste fuori da qui, e avrai ancora dei motivi per tirare avanti, per resistere in questo posto infernale. Vedremo le capitali più romantiche del mondo, e poi torneremo qui, finché non sarà arrivato il momento per andarcene del tutto. E che il nostro futuro sia a Mosca, a Kazan’ o a New York, potremmo dire di aver vissuto veramente. Vuoi venire con me, Yljusha?
-Con te andrei fino in capo al mondo, Vik.- mormorò il ragazzo, asciugandosi le lacrime col dorso della mano.
Lo abbracciò, affondandogli il viso nella spalla nuda, e finalmente mormorò, a voce così bassa che quasi non si sentì da solo
-Grazie per avermi salvato.
Viktor sorrise, baciandogli i capelli e sussurrò, anche lui come fosse un segreto che nessuno avrebbe dovuto sapere
-No, Ylja. Sei tu che ti sei salvato da solo. Sei tu l’eroe di te stesso.
 
Sedute su una panchina del Parco Mayakovskij, Valya e Sasha si tenevano per mano, guardando il sole che tramontava e incendiava il Blocco di violenti rossi e viola. Aleksandra aveva iniziato il percorso psicoterapeutico per guarire dalla sua malattia e questo la rendeva così fiera di sé stessa. Era sempre stata una ragazza con poco carattere, abituata che fossero gli altri a decidere per lei, senza mai davvero voglia di imporsi, per pigrizia, per noia, per insicurezza. Ma adesso qualcosa le aveva detto che non poteva sempre lasciare che fossero gli altri ad organizzarle l’esistenza, ma che avrebbe dovuto prendere seriamente in mano la sua vita e fare qualcosa di sensato. Come, per esempio, cominciare a guarire. Sapeva di non essere sola in quella battaglia, ed era così grata ai suoi amici per non averla abbandonata, ma si sentiva rinnovata. Finalmente, Sasha Bazarova era in grado di lottare per sé stessa, per mantenere vivo quel sorriso che faceva girare la testa a tutti, per continuare ad essere la ragazza più bella di Ekaterimburg, per non lasciare da sola la sua adorata Valya. Poteva essere forte anche lei, aveva deciso, poteva far vedere al mondo che anche lei era pronta a farsi valere.
-Sono contenta, Sashen’ka.- disse Valentina, mettendole una ciocca bionda dietro l’orecchio – Sembra che finalmente le cose stiano andando per il verso giusto.
-Mi fa strano andare da una psicologa, ma penso che in qualche modo mi aiuterà a uscirne.- commentò la bionda, e passò un braccio attorno alle spalle dell’amica – La cosa importante è che siamo insieme, non potrei figurarmi una vita senza di te.
-Aw, come sei romantica!
Le due ragazze risero, e si scambiarono un bacio a stampo, rimanendo un attimo fronte contro fronte, occhi blu e occhi verdi persi gli uni dentro gli altri. Sì, erano insieme, le due ragazze del Blocco, insieme come amiche, come amanti, come confidenti, come commilitoni. Non ci sarebbe stato nulla che avrebbe mai spezzato il loro rapporto così stretto e cementificato da anni di convivenza sincera e leale. Sasha e Valya erano fatte per stare insieme, per sostenersi qualunque cosa accadesse, per spalleggiarsi fino alla fine, per tenersi per mano nell’oscurità che oramai troppo spesso calava sulla città tanto amata e tanto odiata. Non c’era stato momento nel quale erano vacillate, erano sempre state pronte a sacrificarsi per uno stesso bene, covando forse un amore che ci avevano messo tanto a realizzare.
-A volte penso a quando stavo ancora con Denis.- disse Aleksandra, accavallando le lunghe gambe da gazzella – A quanto stessimo male insieme.
-Non eravate necessariamente male assortiti.- ponderò Valentina, accendendosi una sigaretta – Siete entrambi belli, bellissimi, così belli da fare male. Siete sfacciati, siete vincenti, siete … siete, e basta. Non eravate una brutta coppia, ma eravate costruiti dalla situazione nella quale eravamo finiti. Forse è meglio che sia finita così, Den non era in grado di darti quello di cui hai veramente bisogno, è stupido, e troppo preso da sé stesso. Forse è un bene che abbia trovato quell’uomo, Yurij. È grande, saprà dargli quello che vuole e saprà anche come tenerlo a freno. Va tutto bene, Sasha. Va tutto bene, finalmente.
Sasha annuì, poggiando il capo sulla spalla ossuta dell’altra ragazza e chiuse per un attimo gli occhi. Sì, forse sarebbe andato tutto bene, avrebbero trovato un nuovo equilibrio sul quale reggersi, sarebbero andati avanti senza naufragare più. Prese di nuovo la mano di Valya, guardò le dita piccole e magre, le unghie mangiucchiate con lo smalto nero scrostato e sorrise. Amava anche quelle manine gracili, soprattutto quando erano avvolte attorno alla sua, di mano, lunga e nobile. Amava baciarle, amava sentirle sulla pelle, amava quando le si attorcigliavano attorno ai capelli. Amava tutto di Valya, qualunque lacrima, risata, sbaglio, o imperfezione. Amava quella che poi era la sua migliore amica e non l’avrebbe mai cambiata con nessun’altra donna o uomo che fosse.
-Valyoch’ka, fammi vedere i polsi.- disse, dolcemente ma con fermezza.
La ragazza mora gonfiò le guance, ma poi scosse la testa, tirando giù nervosamente le maniche della felpa oversize di qualche band emo.
-Perché? Non c’è niente da vedere.
Sasha alzò la testa e la fronteggiò, assottigliando gli occhi verde smeraldo.
-Invece sì. Non avere paura di me, non mi arrabbierò, qualunque cosa ci sia lì sotto. Voglio solo che tu stia bene, amore. Solo quello. Dai, tirati su le maniche.
Valentina si morse il labbro quasi a sangue, ma poi obbedì, e tirò timidamente su la felpa. Qualche taglio ormai pallido ornava la pelle candida, ma le vecchie cicatrici ancora luccicavano, bianche e crudeli. Ma erano vecchie, perché era tanto che la ragazza aveva messo da parte il coltello, le lamette, le forbici. Non sapeva come era riuscita in quella battaglia che sembrava ormai persa, ma si era resa conto che avrebbe dovuto essere forte per Sasha e che non c’era bisogno che continuasse a fare quelle brutte cose a sé stessa. Voleva resistere per chi la forza non ce l’aveva più, voleva lottare a fianco dei suoi amici e voleva farlo seriamente. Si era rassegnata a resistere alle sue tendenze autolesionistiche, si era sentita forte, in grado di combattere quello che l’aveva rovinata da anni a quella parte. Davanti allo specchio, semi nuda, si era guardata e aveva detto “ce la puoi fare, Valentina”. Aveva chiuso le lamette in un cassetto, aveva pianto, guardando le sue braccine ferite, ma erano settimane che non si tagliava e quello era uno dei più grandi traguardi che avesse mai raggiunto. Era riuscita a vincere una parte di quella depressione naturale che l’affliggeva, aveva salvato sé stessa ed era dannatamente fiera di quello che era diventata. Una ragazza emo forte e coraggiosa, in grado di mettersi dei freni, in grado di lottare per la donna che amava, per gli amici di una vita, per il Blocco che l’aveva cresciuta.
-Valya, ce la stai facendo!- strillò Sasha, afferrandole i polsi – Stai vincendo anche tu la tua battaglia!
-E’ solo grazie a te e ai ragazzi.- si schernì, arrossendo sotto il ciuffo rosa – Non potevo lasciare che quella brutta storia avesse la meglio su di me, di nuovo.
Sasha sorrise, un sorriso delicato e saputo. Baciò lentamente i polsi dell’amica, come aveva fatto tempo prima, quando ancora i tagli ornavano dolorosamente la pelle pallida, mentre adesso era pulita, e c’erano solo cocciute cicatrici che non se ne voleva andare, forse gentili moniti che adesso finalmente erano arrivati tempi migliori.
-Sono così contenta, Valya. Così contenta che non puoi nemmeno immaginarlo.- mormorò, e una lacrima le brillò tra le lunghe ciglia chiare.
Valentina si tirò giù le maniche e si alzò, prendendola per mano
-Abbiamo diritto anche noi alla nostra felicità. Adesso andiamo a casa, Sashen’ka. Andiamo a casa, e ti prometto che staremo bene. Staremo bene.

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Capitolo 21
*** Addio, amici ***


CAPITOLO VENTUNO: ADDIO, AMICI

Ein neuer Tag beginnt,
eine neue Hoffnung.
Ein erneutes Ende, für mich.
Wieder ein Kapitel, doch meine Rolle stirbt für dich.
Jetzt - lass schon los, denn ich muss gehen.
 
(Un nuovo giorno è incominciato,
Una nuova speranza.
Una nuova fine per me.
Un altro capitolo, ma il mio ruolo sta morendo con te.
E’ ora di lasciar perdere, perché me ne devo andare)
[Nevada Tan – Ein Neuer Tag]
 
Il sesso con Denis era stato grandioso quella notte, stava valutando Yurij, stravaccato sul divano sfondato di casa sua. Il corpo flessuoso del ragazzo si era mosso con grazia e passione sopra di lui, e ogni volta che vi affondava dentro e toccava il suo punto debole un urlo spezzato e lussurioso prorompeva da quelle belle labbra arrossate da baci disperati. Aveva lasciato che lo cavalcasse, e si era ritrovato a imprecare disperatamente, data tutta la forza che ci aveva messo il ragazzo a impalarsi selvaggiamente sulla sua erezione gonfia e dura da morire. Era stata una notte di passione spropositata, di grida, di fervore, di sfrenatezza così forte da essere quasi stata tossica e Yurij si stava chiedendo oziosamente il perché. Non che Denis non fosse sempre una bomba a letto, ma quella notte c’era stato qualcosa di diverso, una rabbia nuova, un senso di impotenza che voleva essere soppiantato dal sesso, una furia cieca che sapeva nascondere qualcosa di più.
Yurij sospirò, accendendosi una sigaretta e rovesciò il capo all’indietro. Amava Denis? Sì, lo amava, e non solo perché era bello, sexy e divertente. No, aveva imparato ad amare la sua franchezza, il suo senso di giustizia, il suo coraggio, la sua bontà che voleva dissimulare sotto a un comportamento spaccone e arrogante. Era bravo, Denisoch’ka, molto più bravo di quanto volesse far credere e Yurij era contento di poter avere al suo fianco un ragazzo così. Ma adesso stava male, e lui voleva trovare un modo per aiutarlo. Non poteva sopportare quella luce agitata nel fondo degli occhi d’ambra, quel senso di inadeguatezza che da qualche giorno a quella parte angustiava quel sorriso da fotomodello. C’era qualcosa, qualcosa che non andava bene ma che non riusciva totalmente a cogliere. Sospirò rumorosamente, passandosi una mano tra i capelli scuri, appena mossi, e soffiò una voluta di fumo nell’aria. La Banda del Blocco. Quello stralunato gruppetto di ragazzi straordinari che gli aveva completamente disastrato l’esistenza. Non ci aveva sofferto particolarmente quando un Denis rosso e imbarazzato gli aveva rivelato di aver baciato il suo amico, Kuzma, non ci era rimasto male perché sapeva quanto amore provasse quel ragazzino nei suoi confronti. A volte si chiedeva se si meritasse davvero quell’affetto spropositato, quel comportamento da cagnolino felice che assumeva e pensava che forse Denis era troppo buono per il suo stesso bene. Poteva fare il duro quanto voleva, ma era un pasticcino e lo dimostrava l’amore quasi tossico che li legava, quel sentimento forte e prorompente che li aveva legati insieme, che era andato oltre al sesso ma si era tramutato in un legame stabile, forse litigioso, forse sbagliato, ma comunque forte, indistruttibile. O meglio, Yurij avrebbe voluto che fosse indistruttibile perché si era legato al ragazzo più di quanto volesse ammetterlo a sé stesso. C’era una gioia nuova nel vederlo aprire gli occhioni la mattina, nel spettinargli la massa arruffata di capelli, nel ricordargli che sarebbe stato meglio mangiare con la bocca chiusa, nel sentirlo cantare sotto la doccia. Era speciale, il giovane Denis, più speciale di quanto potesse far pensare l’immagine di bulletto di periferia senza niente da perdere.
-A cosa pensi, ragazzo?
Marina era silenziosamente entrata nella stanza, e gli era caduta affianco, la vestaglia rosa malamente drappeggiata addosso, i capelli con una spessa ricrescita castana che avrebbero avuto urgentemente bisogno di una nuova tinta, il trucco semi tolto e le unghie acuminate smaltate di rosso. Non era fine, Marina Petrachenko, non era aggraziata ma era la migliore amica che potresti trovare.
-A Denis. Ai suoi strampalati amici. Alla nostra vita.- rispose malinconicamente Yurij, accavallando le lunghe gambe magre. Si voltò verso l’amica e le accese una sigaretta – Cosa ne pensi, Marin’ka?
-Che ci siamo trovati due perle di ragazzi anche se sono matti.- commentò lei, appoggiando la testa sulla spalla aguzza di lui.
Nelle stanze affianco si sentiva il sordo russare di Denis e l’ansimare leggero di Valerya e i due giovani si sorrisero, tornando poi a guardare l’impietosa luna siberiana illuminare il Blocco, violento e malvagio. Anche loro erano persi, esattamente come lo erano i loro fidanzati, persi e mai più ritrovati, vittime di una città che li aveva avvolti nelle sue spire e li aveva uccisi, lentamente, facendoli propri e rendendoli per sempre schiavi dei palazzoni sovietici e delle fabbriche sullo sfondo. Marina e Yurij erano due persone bruciate dalla vita, rovinate dal fumo a poco prezzo e dalla solitudine, dalla tossicità della loro amicizia, dal lento trascinarsi di giornate tutte uguali, ma avevano entrambi trovato un motivo in più per resistere là dentro: il capo della Banda del Blocco e la rossa tutta matta erano riusciti in qualche modo a rompere le loro barriere, a dare loro una forza nuova, a convincerli che ci sarebbero stati ancora giorni degni di essere vissuti.
-Mi sono innamorato di Denis.- disse Yurij, così, a bruciapelo – Pensavo fosse solamente una storia di sesso e invece … mi sono innamorato.
-Era l’ora, vecchio maiale.- Marina gli diede una spallata affettuosa – Den è un ragazzo a posto, non ti farà male stare con lui. Ti dà delle responsabilità nuove, forse riesce a mettere a freno la tua follia. Se sei occupato a pensare a come salvaguardare lui, non avrai tempo per pensare invece a come autodistruggerti. Anche tu hai bisogno di qualcuno, Yura. Qualcuno che ti ami, e Denis ti ama alla follia. Glielo leggi negli occhi, quanto ti adora, quanto ti venera. E forse è un bene che sia così: hai bisogno di qualcuno che ti tenga ancora a terra, amico. Non potrò sempre esserci io al tuo fianco.
Yurij annuì e spense la sigaretta nel posacenere. Ovviamente, Marina aveva ragione.
Denis era la sua nuova ragione di vita, la sua luce nel cielo di novembre, la sua benzina da buttare su un fuoco che aveva smesso di ardere da anni. Aveva trovato in lui tutto quello che gli mancava, tutto l’amore che non aveva mai ricevuto, tutta la venerazione di cui aveva sempre avuto bisogno. Si sentiva pronto a dare al ragazzo tutto quello che voleva purché restasse al suo fianco e gli ricordasse quanto era bello vivere, quanto era bello vedere il sole la mattina, ridere e piangere. Aveva bisogno di Denis più di quanto fosse capace di ammetterlo a sé stesso.
-Non lascerò che se ne vada.- mormorò, chiudendo per un secondo gli occhi grigi – Non ho intenzione di abbandonarlo a sé stesso, abbiamo troppo bisogno l’uno dell’altro.
-Marin’ka, vieni a dormire?- si intromise la vocina di Lera.
I due si voltarono e la videro sull’uscio del salotto, i capelli scarlatti legati in due lunghe trecce e la camicina da notte rosa che le cadeva sgraziata sul corpo rotondo.
Marina sorrise e si alzò, raggiungendola e posandole un bacio sul naso
-Certo che vengo a dormire, tesoro. Sei la cosa più speciale che mi sia mai capitata, lo sai?
Lera si strinse nelle spalle e la abbracciò, posandole il capo sulla spalla.
-Ti amo. Mi basta sapere questo.
Le due donne si sorrisero e intrecciarono le loro manine, una lentigginosa con le unghie mordicchiate e uno pallida, con le unghie fresche di manicure. Erano completamente diverse, Marina e Valerya, ma forse era proprio per quello che erano perfette insieme. Si salvavano, nella devastazione dettata dal Blocco, si appoggiavano una all’altra per uscire da un divorzio distruttivo e da una follia congenita. Cercavano di resistere al vuoto totale che le aspettava se si fossero lasciate andare, e per farlo si aggrappavano disperatamente una all’altra, convinte che insieme niente sarebbe stato in grado di trascinarle nel baratro.
Yurij le guardò baciarsi appena e ritirarsi per mano nella loro camera. Aveva notato che Marina aveva tolto la fede. Scosse la testa e sorrise al muro, per poi alzarsi e tornare a letto. Denis dormiva scompostamente tra le coperte, ancora nudo, un filo di bava a colargli sul mento e la bocca spalancata. Yurij si sdraiò di nuovo tra le coltri, e strinse a sé il ragazzo, baciandogli i capelli scompigliati. Sapeva di sudore, sesso, muschio e qualcosa che era solo ed esclusivamente Denis. Un profumo buonissimo di cui Yurij si sarebbe inebriato fino alla nausea. Lasciò che il ragazzo si aggiustasse nel sonno e lo abbracciasse pesantemente. Lo strinse con forza a sé, e si morse il labbro quasi a sangue. Non lo avrebbe lasciato andare nemmeno a rischio della propria vita, non in quel momento, non quando aveva disperatamente bisogno di lui. Voleva Denis così tanto da fare male, voleva saperlo al suo fianco, voleva vederlo sorridere, voleva amarlo con tutta passione e la dedizione possibile.
-Yura … sei sveglio?- brontolò Denis, aprendo mezzo occhio.
-Dormi, cucciolo.- sussurrò dolcemente l’uomo in risposta, baciandogli la fronte – Ti amo tantissimo.
-Anche io ti amo, amore. Non sai nemmeno quanto.- disse Denis, prima di cadere di nuovo addormentato a ricominciare a russare rumorosamente.
Yurij sorrise, nel buio della camera. Oh, eccome se lo sapeva. Eccome se lo sapeva.
 
E alla fine, eccolo lì. Sul treno per Saratov. Zaino tra le gambe, cuffie sulle orecchie e lacrime che scorrevano sul viso, Kuzma stava partendo. Aveva preso quella decisione tra il pianto e la disperazione, un momento dopo essersi reso conto di starsi per buttare giù dal Cavalcavia. In bilico sopra la strada trafficata, aveva cercato di prendere in mano la sua vita una volta per tutte: voleva davvero morire? No, forse non era ancora arrivato il suo momento. Aveva chiuso gli occhi, e si era detto resisti, Kuzjen’ka. Resisti, aveva urlato nella notte, a pieni polmoni, gli occhi annebbiati e una bottiglia di vodka vuota ai piedi. Era stato in quell’attimo, quando si era davvero trovato tra la vita e la morte che aveva deciso di partire, di scappare, di lasciarsi alle spalle una vita che non sopportava più. Aveva pensato ai suoi amici, aveva disperatamente pensato alla Banda e a tutto quello che avevano significato per lui ma sapeva anche che non ce l’avrebbe più fatta a stare lì. Voleva ancora bene a tutti loro, ma sapeva che ormai era arrivato a un livello di sopportazione tale da non rendergli più possibile di resistere oltre. Forse scappare sarebbe stata la soluzione giusta, lasciarsi alle spalle una città maledetta, una famiglia odiata, un’esistenza che ormai lo stava distruggendo.
Pensò a quel giorno in cui erano corsi dietro a quello stesso treno sul quale era seduto in quel momento, a quel Corriamo, amici, che aveva urlato Denis, il suo bellissimo Denis, e non riusciva quasi a rendersi conto che adesso era lui quello che stava correndo, che stava fuggendo da un incubo che sopportare si era fatto impossibile. Si passò una mano tra i capelli e poggiò la fronte contro al finestrino. Stava scappando di casa, ma sapeva che alla sua alcolizzata madre non sarebbe importato. Stava scappando di casa, e sapeva che i suoi amici ne sarebbero stati distrutti. Si sentiva in colpa per star loro facendo una cosa del genere, per andarsene così, senza aver detto addio ma ormai non era più in grado di resistere oltre. Avrebbero dovuto essersi comportati in modo diverso se l’avessero voluto ancora lì con loro. Era stanco, Kuzma, così tanto stanco da sentirsi male. Passò una mano sul vetro, guardando le luci del Blocco e trattenne un singhiozzo. C’era stato un tempo in cui non aveva creduto possibile poter scappare da Ekaterimburg, ma adesso si stava rendendo conto che era perfettamente fattibile, bastava solo che i tempi fossero maturi. Stava per abbandonare la città che più aveva odiato, quella periferia maledetta che l’aveva lentamente ucciso, quell’inferno urbano che non aveva fatto altro se non ferirlo e trascinarlo con sé in un baratro dove non c’era china di risalita.
Pensò ai suoi amici, e nuove lacrime corsero sul suo viso. Pensò a Sasha, e sperò con tutto il cuore che potesse guarire dall’anoressia, che riuscisse finalmente ad essere forte, a prendere in mano la sua vita. Pensò a Ylja, e gli chiese scusa, scusa per non aver accettato la sua relazione, scusa per tutto quello che gli aveva detto. Desiderò che potesse vivere la storia d’amore più bella di sempre. Pensò a Valya, ricordando con un mezzo sorriso i suoi occhi blu come il cielo notturno, e ripose in un angolino del cuore quel segreto scioccante che si sarebbe portato nella tomba perché poteva essere un fuggitivo ma non avrebbe mai tradito la memoria di un’amica. Pensò a Lera, e una lacrima corse solitaria sulla guancia, pensando alla sua speciale rossa, alla ragazza che portava sulle spalle, ai suoi occhi di tenebra, al suo sorriso infantile, alle sue meravigliose bambole di porcellana, e si chiese se ce l’avrebbe fatta, a uscire vincitrice da quel mondo infame. Infine, pensò a Denis, e si chiese con che cuore stava abbandonando il suo migliore amico. Non avevano fatto pace, lo stava lasciando con il peso della loro ultima litigata, non aveva accettato le sue scuse, non aveva fatto nulla ma a quel punto, cosa importava? Cosa importava, quando era stato sul punto di suicidarsi, quando stava fuggendo come un disperato per vivere la vita che si meritava? C’erano tante cose in sospeso, con la Banda del Blocco, tanti interrogativi a cui rispondere, tante lacrime da asciugare, tante battute da spiegare, tanti orrori da dimenticare ma lui li stava lasciando, di modo che se la sbrigassero un po’ da soli.
In tutti quegli anni non aveva fatto altro che essere lì per tutti, si era sacrificato per il loro bene, li aveva protetti, aiutati, sostenuti, ma adesso era arrivato il momento di pensare a sé stesso, di recuperare la sua vita, di ricostruirsi un’esistenza nuova sulle ceneri di una buttata al macero. Non aveva chiesto scusa, non aveva detto addio, non aveva fatto altro che fare uno zaino e prendere il primo treno per la Russia europea, per cercare di cancellare i demoni che lo perseguitavano, per mettere a tacere i suoi incubi, per rinascere come l’araba fenice. Era pronto, Kuzma, pronto ad affrontare una nuova serie di eventi, pronto a lottare per nuovi ideali, pronto a riscriversi una storia nelle violente stelle del cielo russo.
Tirò fuori dalla tasca del cappotto la vecchia foto della Banda del Blocco e sorrise appena, baciando lentamente ognuno di loro, lasciando che qualche lacrima bagnasse ogni viso. Se ne stava andando, una volta per tutte.
Il treno si mise in moto e cominciò ad allontanarsi dal Blocco, e nuovi singhiozzi lo scossero, lì, solo, nello scompartimento buio e vuoto. Guardò Ekaterimburg allontanarsi per sempre da lui, guardò la sua città lasciarlo andare dalla sua presa dannata e lanciò un ultimo bacio, un ultimo saluto, un ultimo sguardo a quei palazzi sovietici, a quelle strade violente, a quelle luci della fabbriche di periferia. Strinse forte la fotografia tra le mani e un’ultima lacrima colpì il viso di Denis.
Corriamo, amici, avevano detto tanti anni prima.
-Addio, amici.- mormorò Kuzma, chiudendo gli occhi – Addio.

 
Kонец - THE END

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E così, è finita. Non riesco ancora a crederci. La folle storia della Banda del Blocco è giunta alla sua naturale conclusione, e mi mancheranno, mi mancheranno da morire. Mi mancherà Denis, e la sua sfacciataggine, Sasha e la sua dolcezza, Lera e la sua follia, Valya e il suo coraggio, Ylja e la sua speranza, Kuzma e la sua solitudine. Mi mancheranno anche Yurij, Viktor e Marina. Ho lottato tanto, con questa storia, ognuno dei ragazzi della Banda porta con sé un pezzetto di me, un mio dramma, una mia avventura, sono tutti parte integrante della sottoscritta e questo mi fa commuovere. Vi giuro, sto piangendo, perché mi sono affezionata in maniera quasi disperata ai miei personaggi. Cosa vi devo dire, eccoli qui, con le loro debolezze, i loro dolori, la loro devastazione. Li ho amati, e li amerò per sempre. Grazie a tutti quelli che hanno recensito, seguito e letto la storia, e un grazie speciale va ad AlexEire e lei sa perchè *-*
Cosa vi devo dire, eccoci qui, noi ragazzi della Banda del Blocco. Ekaterimburg non ci ha uccisi. Siamo ancora qua. Siamo ancora vivi.
Proshay, druzey.
Un bacio fortissimo a tutti, la vostra commossa
Charlie 

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