Meet the parents

di Arya Tata Montrose
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. I genitori di Ochako ***
Capitolo 2: *** II. I genitori di Katsuki ***



Capitolo 1
*** I. I genitori di Ochako ***


Meet the parents 

 

I

 

I genitori di Ochako

 

 

 

 

 

La luce inondava la stanza, senza l’ostacolo delle tende o delle persiane lasciate aperte la sera prima. Katsuki si svegliò con un rantolo, tentando di raccapezzarsi sul come potesse un sole tanto potente seguire la pioggia torrenziale che li aveva colti la sera prima. 

 

Gli occhi gli facevano male, desiderosi di nuovo buio. Sollevò il lenzuolo sul volto, notando che attraverso di esso, la luce assumeva un colore rosato, tenue e caldo, così diverso dal solito blu notte. Sentiva il suo profumo aleggiare per il piccolo spazio del letto, inebriando i suoi sensi e, alzando lievemente lo sguardo verso la sua figura, come lui immersa nelle lenzuola al riparo dalla fastidiosa luce del mattino, incontrò il suo volto, ancora rilassato nell’abbraccio del sonno. Mano a mano che i suoi occhi diventavano meno sensibili era più facile tenerli aperti ed osservare ogni dettaglio del viso di Uraraka, di solito tirato in un sorriso così gioioso che, mai avrebbe ammesso, ogni tanto aveva contagiato anche lui. Ora, invece, era lì, con gli occhi chiusi e le labbra socchiuse, così morbide alla vista quanto al tatto, il loro fantasma che sembrava premersi nuovamente su quelle di Katsuki. 

 

Non si mosse oltre, ossequioso verso la quiete in cui versava quell’idillio. Non la voleva svegliare – non ancora – preferendo rubare ancora qualche attimo di quella sensazione che avvertiva come nuova, una felicità genuina che sentiva riempirlo e riversarsi all’esterno tramite la piega delle labbra, spontaneamente curvate a formare un tenue sorriso. Voleva prendersi quel momento, assaporarlo. Di tempo ce n’era quanto volevano. Strofinò un po’ la guancia sul materasso, cercando di riaccomodarsi, beandosi di quel silenzio che rendeva tutto irreale, come un sogno da cui avrebbe voluto svegliarsi molto tardi.

 

 

 

Riaprì gli occhi d’improvviso, disturbato da un rumore del tutto estraneo a quell’atmosfera dai colori caldi ed ovattati. Quel suono aveva più i toni del grigio, come di metallo contro metallo, e di qualcosa che sembrava scattare, un lieve clangore. Ci volle ben poco perché il suo cervello, oramai allenato a riconoscere gli stimoli, collegasse quel suono sgradito allo scatto della serratura ed all’ancora più sgradevole immagine di qualcuno che faceva il proprio ingresso nella casa.

 

Qualcuno. Fu fulminea la realizzazione.

 

«Merda, i suoi» esclamò, soffocando quanto più possibile la voce, la sorpresa che riverberava in ogni fibra del suo corpo. Si sollevò, appoggiandosi su un gomito e allungando l’altra mano verso la ragazza. Le scosse la spalla, mentre al frenetico ritmo di «merda, merda, merda» passava in rassegna la stanza, alla strenua ricerca degli indumenti che indossava la sera prima.

 

«Uraraka, cazzo, svegliati e alza il culo»

 

Un rantolo gli giunse in risposta, la ragazza ora seduta a strofinarsi gli occhi. Katsuki era già in piedi, alla ricerca delle mutande.

 

«I tuoi» brontolò a mezza voce, implicando l’ovvio in quelle due semplici, terrificanti parole. Da una parte, mentre lo diceva, si dava dell’idiota per quanto quella situazione suonasse assurda e a dir poco ridicola: lui che mai nella sua vita si era preoccupato di farsi trovare nel letto di una ragazza (o con una ragazza nel letto), si sentiva spaventato come un gattino davanti alla prospettiva di essere visto così dai genitori di Ochako. Semplicemente patetico.

 

A lei servì un momento per realizzare, ancora intontita dai rimasugli del sonno e dalla brusca sveglia. Quando però la risposta del ragazzo si fece strada tra le nubi della sua coscienza, sobbalzò bruscamente, saettando fuori dal letto per infilarsi qualcosa addosso.

 

Era appena riuscita ad infilarsi i calzoncini quando udì bussare alla porta.

 

«Arrivo!» strillò la ragazza, guardando freneticamente in giro alla ricerca della maglia. La prima che prese dal pavimento la lanciò a Bakugou, l’altra, finita in qualche modo in appesa allo schienale della sedia, l’infilò in fretta e furia.

 

Aprì la porta col miglior sorriso che fu in grado di sfoggiare, controllando il respiro per non sembrare agitata. «Ehi, papà!»

 

«Ciao, tesoro.» L’uomo sorrise a sua volta, contento di vedere la figlia e la abbracciò caloroso. Oltre le sue spalle, però, qualcosa di insolito attirò la sua attenzione. 

 

«Ochako, lui chi è?»

 

La ragazza fece saettare gli occhi dal padre a quel poco della figura di Bakugou che riusciva a cogliere con la coda dell’occhio, mente sentiva il suo cervello fondere alla prospettiva di inventarsi una bugia così su due piedi, non tanto su chi fosse – i suoi sapevano benissimo chi fosse e la sua faccia era un po’ poco confondibile – quanto più sul perché fosse lì, nella sua stanza, ad un’ora imprecisata del mattino e con addosso una delle sue magliette.

 

Balbettò qualche sillaba, nel tentativo di prendere del tempo. Poi fu come se la sua mente si fosse fermata, avesse smesso di elaborare in favore di una fredda quiete. Fu come se l’illuminazione l’avesse raggiunta.

 

«Bakugou Katsuki», disse semplicemente, allargando il braccio ad indicarlo. «Era con noi ieri al festival e il temporale ci ha presi alla sprovvista. Ci siamo riparati qui e ci siamo addormentati come pesci lessi.» Rise: non aveva bisogno di mentire se poteva semplicemente omettere. Per un momento aveva visto la catastrofe davanti ai suoi occhi, scordando qualsiasi cosa non fosse lo sguardo inquisitorio di suo padre davanti a lei. Ora lui aveva rilassato i lineamenti, si era aperto in un sorriso ed aveva salutato Bakugou, che, pregò di essere stata l’unica a notarlo, era sobbalzato leggermente quando aveva sentito il suo nome pronunciato dal signor Uraraka.

 

«Andiamo a fare colazione?» propose l’uomo e i due ragazzi annuirono, seguendolo fuori dalla stanza.

 

 

 

Non c’era nessuno strano silenzio in cucina, ma Katsuki poteva ugualmente avvertire la tensione sulla pelle, come mille fili che, seguendo i movimenti degli altri occupanti della stanza, si spostavano e gli solleticavano la schiena. Sentiva gli occhi di Hiroto Uraraka posarsi su di lui di tanto in tanto, tra una battuta ed una domanda a moglie e figlia con il perenne sorriso che Ochako aveva ereditato, osservandolo di sottecchi e cercando di studiarlo il più furtivamente possibile. Cercava di captare dei dettagli della sua persona, per quale motivo si trovasse lì, in casa sua, quale fosse il rapporto con sua figlia…

 

Come il suo cervello ebbe processato l’ultima parte della frase, Bakugou quasi si strozzò con il biscotto che stava masticando nei pochi secondi di attesa per il caffè. Tossì, interrompendo la battuta del signor Uraraka.

 

Lei sapeva di biscotti…

 

Altro colpo di tosse, questa volta più forte.

 

«Tutto okay, Bakugou?» chiese Ochako, sporgendosi leggermente verso di lui.

 

«Sì, sì.» Deglutì a vuoto, ingoiando l’imprecazione che gli vibrava prepotente in gola. Perché cazzo lo sto facendo? «Mi stavo solo strozzando con un biscotto.»

 

«Un po’ d’acqua?»

 

«Grazie, signora.» Da quand’è che sono così maledettamente fine?

 

Il microonde trillò, annunciando che il latte era finalmente caldo. Poco importava che fosse estate: la pioggia torrenziale della sera prima aveva donato a quella mattinata una ventata di fresco.

 

Dopo un attimo di silenzio anche la caffettiera richiamò nuovamente l’attenzione generale e Bakugou fu grato per quell’attimo in più di respiro. Si sentiva a disagio, come stretto in una morsa da cui non poteva liberarsi a modo suo. Avrebbe preferito di gran lunga poter urlare e far esplodere qualcosa, ma teneva abbastanza a Faccia Tonda da evitare di dare fuoco a casa sua e fare una cattiva impressione sui suoi genitori. Doveva usare la pazienza che aveva costruito negli anni, essere scaltro e non farsi cacciare fuori di casa a calci. 

 

«Allora» iniziò la madre, congiungendo le dita accanto alla guancia, come se imitasse qualcuno che dorme. «Com’è andato il festival?».

 

«Molto bene. Satsuki ha persino preso un pesciolino!» dichiarò Ochako. Incredibilmente, sembrava che nessuno di quei fili che Katsuki sentiva pressanti sulla pelle la sfiorasse. Era rilassata e sorridente e, notò, somigliava incredibilmente a sua madre. Quell’affermazione, però, strappò un sorrisino al ragazzo, al pensiero di come il povero animale fosse giunto tra le mani di una scalpitante Asui in miniatura.

 

«E Asui?» chiese di nuovo la donna. «Sai se lei ha evitato il temporale?»

 

«No, non l’ho ancora sentita. Ci eravamo appena svegliati, quando siete arrivati voi».

 

Hiroto sollevò un sopracciglio, aspettando ulteriori informazioni a riguardo, ma la signora Uraraka gli impedì di aprire bocca: prese la sua tazza dalle mani del marito, lamentandosi sottovoce di quanto fosse calda. «Mi raccomando, chiamala e fatti dire come sta», disse poi, rimestando la polvere di cacao nel latte.

 

Ochako annuì, rassicurando la madre e ringraziandola mentalmente per quell’insperato salvataggio. Quindi decise di partire all’attacco, evitando di nuovo che suo padre potesse porre qualche domanda un po’ troppo scomoda, a cui sarebbe stato difficile rispondere senza menzogne, reazioni corporee rivelatrici o balbuzie smascheranti. «Voi invece siete rimasti da zio Atsushi?»

 

La madre annuì: «Sì, ci ha preparato i letti e impedito di muoverci con quel tempo.»

 

«Temeva facessimo un incidente.» Hiroto s’intromise, un po’ di scherno nella voce, come a dire che sarebbe stato perfettamente in grado di tornare a casa sano e salvo, nonostante le preoccupazioni del fratello.

 

«Come gli hanno dato ragione i giornali di stamani, voglio ricordarti» lo riprese Azumi, sgranocchiando un biscotto. 

 

Hiroto tacque, vinto dalla risposta della moglie. Una manciata di secondi dopo, il sorriso tornò a troneggiargli in viso e Katsuki pensò che, decisamente, Uraraka aveva ereditato quel suo volto luminoso e quasi contagioso da quell’uomo, che fino a quel momento aveva visto solo nelle foto e, si rese conto, persino un’ombra nel viso della ragazza.

 

Ci fu un breve intramezzo, in cui Uraraka e la sua famiglia discussero degli incidenti che la scrosciante pioggia della notte precedente aveva causato e colse giusto quel brandello di conversazione che includeva una macchina che per poco non investiva due ragazzi. 

 

«Che incoscienti» era stato il commento del padre di Uraraka e Katsuki dovette nascondere un mezzo sorriso che gli inarcava gli angoli della bocca. Chissà se sapesse che i due incoscienti erano sua figlia ed il suo… amico. Si costrinse a non rimuginare sull’ultima parola. Correva il rischio di porsi domande decisamente scomode e a cui non aveva nessuna intenzione di dare risposta, come “cosa siamo noi?”. No, assolutamente non lo poteva permettere.

 

Sentì Ochako raccontare della loro serata, di come lei e Asui avessero incontrato lui e Testa di merda– lei l’aveva chiamato Kirishima, ovviamente– e di come fosse sparito con la fidanzata. Poi del saluto di Asui e di come la pioggia li avesse presi così all’improvviso che si erano diretti alla casa più vicina – la loro. Poi ascoltò la noiosa serata dei signori Uraraka a casa del fratello della donna, tra chiacchiere ed aggiornamenti sulle vite di tutti – lo zio aveva comprato un nuovo tagliaerba ed avevano prenotato un bel viaggio ad Osaka –, noiosi giochi da tavolo e altre chiacchiere sul meteo e la gioventù odierna; oltre che, per i signori Uraraka, le lodi tessute alla figlia – meritatissime, secondo il suo modesto parere, che però non sarebbe mai giunto ad orecchio di anima viva.

 

«Ragazzo?» Hiroto lo richiamò all’interno di una scena di cui si sentiva semplice spettatore. 

 

Katsuki raddrizzò la testa di scatto e gli sembrò di dover rimettere tutto nuovamente a fuoco, rispondendo con un “sì” abbastanza stridulo e laconico.

 

L’uomo sbatté un paio di volte le palpebre, sorpreso dal tono. «Tutto bene? Sembri un po’… calmo»

 

Uraraka fece fatica a trattenere la risata che le nacque spontanea in gola e la madre di seguito a lei. Solo la ragazza però venne fulminata dallo sguardo di Katsuki, che per qualche motivo non aveva nessuna voglia di risultare antipatico agli occhi della donna – o meglio, non più di quanto la TV non lo dipingesse.

 

«Sono solo un po’ assonnato, signore.»

 

«Oh, hai dormito male? Beh, in due in quel letto…» considerò l’uomo e Katsuki rabbrividì, interrompendosi come congelato mentre portava la tazza alle labbra. Trattenne l’impulso di voltarsi a guardarla, conscio che qualunque gesto simile avrebbe potuto rivelare qualcosa. Piuttosto rilasciò il respiro e si concentrò sul suo caffè. Ne bevve un sorso abbondante, prima di rispondere.

 

«Sì, in effetti non ho dormito benissimo» confermò.

 

«Per forza, se continui a muoverti» ridacchiò la ragazza.

 

Fu solo allora che Katsuki si concesse di osservarla per un attimo, e si concesse anche un mezzo sorriso, nel breve tempo in cui ancora la tazza gli copriva la bocca. Non riuscì ad odiarsi più di tanto per aver pensato a quanto cazzo fosse carina con i baffi di cioccolato. Inarcò il sopracciglio, ed il suo sorriso divenne un ghigno, pronto a ribattere a tono.

 

Il signor Uraraka ridacchiò, interrompendolo. «Ecco spiegato il garbuglio di coperte, allora»

 

«Uh… sì, sì» annuì la figlia, colta in contropiede. Katsuki si nascose dietro la tazza.

 

«Agitato e attivo come da ragazzino, noto» si aggiunse Azumi, ricordando i tempi della scuola, quando la sua piccola Ochako le raccontava di questo e quell’altro avvenimento, metà delle volte nominando appunto Katsuki e la sua indomabile energia.

 

«Già, indomabile» chiosò, ancora ridendo, Hiroto, in un tono che insospettì pesantemente Ochako. Quando suo padre faceva così, gatta ci covava. O aveva mangiato la foglia. Perse un po’ di colore a quella prospettiva e sì sentì stringere la gola dalla fretta, nel mentre che si prodigava e si affannava a costruire una scusa decente per allontanare Bakugou – e possibilmente sé stessa – da suo padre.

 

Il vuoto.

 

Panico.

 

Dalla camera da letto si diffuse, insistente, una suoneria e sentì Katsuki brontolare. Erano salvi.

 

«È mia madre» sbuffò e si diresse a rispondere più in fretta che poteva, scaricando l’urgenza su sua madre che, a quanto pareva, avrebbe urlato il quadruplo se avesse dovuto richiamare.

 

Nei pochi secondi successivi, la famiglia Uraraka poté sentire una voce ovattata che stava evidentemente urlando ed una che rispondeva a tono, nel fallimentare tentativo di non farsi sentire dagli altri abitanti della casa. Osservavano tutti e tre la porta del corridoio dove era sparito Katsuki, scambiandosi saltuariamente occhiate alquanto divertite.

 

«Ora riconosco il ragazzo» fu il commento a mezza voce di Hiroto Uraraka.

 

La figlia ridacchiò di gusto e, trangugiato l’ultimo sorso del suo latte, si avviò anche lei verso il corridoio. «Vado ad aiutarlo»

 

 

 

Bussò alla sua porta, tanto per avvisarlo della sua presenza e lo trovò che girava per la stanza come un’anima in pena, urlando a sua madre che non era morto assiderato, che era asciutto, che si preoccupava per niente e che sapeva badare a sé stesso. Il tutto, misto ad una serie di insulti verso la genitrice che Uraraka pensò bene di censurare il più possibile chiudendo la porta della sua stanza.

 

Vi si appoggiò e lo osservò girare ancora e brontolare contro la vecchia megera di lasciarlo in pace e che sarebbe tornato presto. 

 

«Allora, finito?» gli chiese quando, finalmente e con un sonoro sbuffo, Katsuki chiuse la telefonata. Ottenne in risposta solo un grugnito che la fece ridere e ne scatenò uno nuovo.

 

«Che hai da ridere?»

 

«Nulla, nulla». Gli porse lo yukata della sera prima, piegato e pulito. «Immagino che sia ora di andare»

 

«Dio, sì.»

 

Uraraka ridacchiò e, per salvare le apparenze, uscì dalla stanza mentre Bakugou si cambiava.

 

La trovò seduta di nuovo al tavolo con la sua famiglia, quando riemerse dal corridoio con lo yukata blu zaffiro di nuovo indosso – «Gli sta così bene», pensò Uraraka – e pronto per partire. Aprì la bocca per ringraziare, utilizzando quella minima quota di buone maniere che riteneva utile aver imparato, ma fu subito interrotto dal signor Uraraka.

 

«Spero che ti sia trovato bene, ragazzo. Qualcosa mi dice che non sarà l’ultima volta che ti vedremo» disse, indicando la moglie con lo sguardo. Questa ridacchiò. 

 

«Me lo auguro! Sei un così bel ragazzo!»

 

«Mamma!» sbottò Ochako, le guance sempre più rosse, guadagnandosi un’altra risatina della madre e, questa volta anche del padre.

 

Bakugou si affrettò a salutare i due – non senza essere catturato in un affettuoso abbraccio da parte della donna – e ad uscire pregando che una buca lo inghiottisse al più presto in modo da non fargli mai più mettere piede in quella casa. Che figura di merda, pensò.

 

 

 

L’aria era fresca e solleticava la sua pelle. La pioggia della sera prima aveva mitigato l’aria ed il suo odore permeava quella splendida, imbarazzante mattina. 

 

«Mi dispiace per… beh, tutto.» Uraraka guardava in basso, sul selciato, trovando ogni mattonella così tanto interessante da non poter assolutamente levare gli occhi per guardare Bakugou.

 

Un grugnito. «È stato bello. È stata la sveglia ad essere una merda.»

 

«Hai ragione» rise e prese un respiro profondo. Puntò gli occhi verso di lui, incontrando i suoi cremisi. «È stato bello»

 

Questa volta, fu il turno di Bakugou di distogliere lo sguardo e puntarlo lontano, sulla strada, cercando il coraggio di parlare. Voleva essere gentile, proporle di vedersi ancora una volta a casa, magari per una cena, ma era come se le parole gli si fossero bloccate in gola, impossibilitate da qualcosa che non conosceva ad uscire fuori.

 

«Ti andrebbe un caffè, domani?» 

 

Si voltò a guardarla e, semplicemente annuì, la gola ancora bloccata mentre gli occhi erano fissi in quelli di lei. 

 

«Allora a domani» lo salutò e, senza dargli tempo di emettere alcun suono di risposta, si alzò sulle punte per raggiungerlo e scoccargli un veloce bacio sulla guancia. Il suo viso era rosso e Bakugou avvertì le sue gote seguire l’esempio di quelle della ragazza.

 

«Mh» rispose e s’incamminò. Per l’ora si sarebbero scritti più tardi. Ora non voleva aggiungere null’altro. Qualsiasi cosa gli venisse in mente sembrava orrendamente stonata. Tuo padre aveva ragione, cazzo. 

 

Non si voltò a guardarla, e fu solo quando sentì la porta d’ingresso chiudersi alle sue spalle che si permise un secondo di debolezza e si sfiorò la guancia con le mani bollenti.

 

Il signor Uraraka  aveva fottutamente ragione: non sarebbe stata l’ultima figura di merda che avrebbe trovato protagonista Bakugou nella sua casa.

 

 

Note finali:

Ssssalve! 
Torno con questa storiella dopo tipo secoli, piccola continuazione di "Of crumby kisses on a Rainy Night", dato che mi sono detta che sarebbe stato divertente vedere la reazione della mattina dopo! E sono un sacco self indulgent, ho bisogno di loro e così ve li beccate.

Ci sto lavorando da tipo maggio, e sono oramai due anni che la carissima NanaLuna, pur non essendo nel fandom mi fa da direttore creativo/beta/povera crista che mi incoraggia a scrivere ste cagate e si subisce le mie paranoie. A scriverla mi sono divertita un sacco e spero che vi siate divertiti anche voi a leggerla!

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Capitolo 2
*** II. I genitori di Katsuki ***




II
 
I genitori di Katsuki
 
 
 
 
 
L’odore di caffè si era fatto stradadalla cucina fino alla camera da letto in cui Ochako ancora riposava, svegliandola dolcemente e conducendola  fino alla sua fonte, dove Katsuki, ancora in pigiama, la aspettava con due tazze di caffè bollente.
 
Ochako, ancora ferma sulla porta, si prese un momento per osservare il ragazzo, poggiato sul bancone con l’imbarazzante pigiama invernale che gli aveva regalato l’anno prima – maglia di pile con ricamato un lama bianco e rosa e la scritta “Not my problama” – e in cui lei lo trovava assolutamente adorabile, oltre che bellissimo come sempre.
 
«’Giorno» fece, la voce ancora impastata dal sonno, quando lui sollevò gli occhi da terra per accoglierla.
 
«’Giorno» replicò il ragazzo. 
 
Si staccò dal bancone e recuperò una tazza fumante, mentre Ochako raggiungeva la sua e si sedeva sull’isola, incurante. Iniziò a sorseggiare il liquido scuro e amaro, lentamente, attendendo che il suo effetto miracoloso la trascinasse via dalle avide braccia di Morfeo e le permettesse di iniziare la giornata.
 
Mentre i suoi occhi si aprivano e la sua mente diventava più vigile, Ochako registrò segnali che le comunicavano un’anomalia nel comportamento di Bakugou quella mattina. Era perfettamente normale che fosse scontroso e taciturno, che la sua voce suonasse roca e oltremodo infastidita dall’esistenza del mondo al di fuori di lui, lei e quella tazza di caffè. Tuttavia, era oltremodo fuori da quella piccola sfera – di per sé fuori dallo standard – di normalità che lei e Bakugou avevano creato insieme il cipiglio più nervoso che infastidito, il leggero brontolio che udiva provenire dalla sua gola, come se vi fossero incastrate delle parole, ancora troppo congelate e che il caffè bollente non aveva ancora potuto sciogliere.
 
Prima che però Ochako potesse aprire bocca per chiedergli alcunché, Bakugou sputò quelle acuminate schegge di ghiaccio, che la buttarono giù con prepotenza dal dolce scivolo verso la veglia in cui la stava trascinando il caffè.
 
«La vecchia strega ci ha preteso a cena. Ci. Me e te.»
 
Ad Ochako per poco non andò di traverso il suo scivolo distrutto.
 
 
 
Quella sera c’era la neve, e appena al di fuori dell’aereoporto Ochako era stata investita da una folata di vento gelido. Si era scrollata, rabbrividendo al passaggio dell’aria sotto al suo piumino e all’incombente incontro che li aspettava. Katsuki aveva chiamato un taxi che avrebbe portato loro e le loro valige direttamente a casa dei suoi genitori, che avevano insistito poiché alloggiassero da loro piuttosto che in un hotel. Il ragazzo aveva provato ad obiettare – Ochako doveva dargliene atto – litigando per un’ora al telefono con la madre, ma questa era stata categorica e non c’era stato assolutamente nulla che potesse fare per scaricarle almeno parte della pressione psicologica che, Katsuki lo sapeva, quella stramaledetta cena aveva addossato ad Ochako.
 
Durante l’intero viaggio, Ochako era riuscita a calmarsi un po’, sedata da un mantra che rinnovellava in loop e che si ripeteva ogni volta prima di venire intervistata – di solito in qualità di amica stretta di Deku, era raro che, data la natura del suo lavoro, fosse quello ad attirare su di lei i riflettori – oltre che da un’intensa attività di masticazione delle labbra. Katsuki lo odiava, ma la calmava. Così come la presenza stessa del ragazzo, palesata dalla forte stretta che esercitava sulla sua mano, nel tentativo di trasmetterle una sicurezza che, stranamente, in quell’occasione mancava anche a lui. Katsuki era forse più agitato di Ochako all’idea di farle incontrare i suoi genitori, o meglio, sua madre, perché Masato era forse la persona più normale dell’intera famiglia. Temeva che, dopo aver incontrato la vecchia megera, qualcosa potesse scattare nella testa di Ochako e spingerla a lasciarlo e a non volerlo rivedere mai più. Era irrazionale, lo sapeva e lo odiava, e cercava di scacciare quella vocina con tutta la rabbia e la volontà che trovava nel suo corpo, ma quella, in un angolino persisteva con i suoi fottutissimi sì, ma.
 
 
 
L’autista si fermò davanti ad una graziosa villetta singola a due piani, circondata da un basso muro coperto della soffice neve che aveva appena ripreso a scendere, su cui capeggiava, luccicante alla luce dei lampioni, una targhetta di metallo che recava incisi i caratteri del nome “Bakugou”. I due scesero e percorsero il vialetto con un brivido in corpo, nessuno dei due sapeva se fosse per l’aria gelata che sferzava i loro visi, i fiocchi di neve che vi si depositavano o per la febbrile attesa che aumentava ad ogni passo che facevano verso la porta d’ingresso. Ochako si strinse al braccio di Bakugou.
 
«Sai, non credo di aver avuto così fifa nemmeno quando mi hanno buttata a calci nel vero mondo degli eroi» scherzò la ragazza.
 
Katsuki sollevò un sopracciglio: «Non avresti nemmeno dovuto. Il nostro primo anno è stato un grande assaggio del “mondo reale”.»
 
«Infatti! Ma almeno allora sapevo come comportarmi!»
 
«E ora non lo sai, Faccia Tonda?»
 
«Ma se non ne hai idea nemmeno tu!» ribatté lei.
 
«Fottiti»
 
Ochako gongolò vittoriosa. 
 
«Sei pronta?»
 
«No»
 
Katsuki sospirò e con tutta la flemma di cui poteva essere capace suonò il campanello della casa dei suoi genitori.
 
Immediatamente dopo, si udì un frastuono di pentole ed una voce acuta ad un volume troppo alto perché potesse appartenere a qualcuno differente dalla madre di Katsuki. Se non fosse bastato quello, Ochako fu certa di riconoscere la medesima nota che vibrava anche nella voce filtrata dal telefono cellulare, quando sentiva il suo ragazzo litigare con la donna.
 
«Non sono pronta per nulla» ripeté, facendosi forza inalando l’aria fredda della sera.
 
La porta si aprì, rivelando una donna che non sembrava affatto né una vecchia né, tantomeno, una megera. Alta e dai capelli biondo paglia, la pelle con giusto un accenno di rughe, la donna sembrava addirittura troppo giovane per essere la madre di chiunque al di sopra dei dieci anni.
 
«Katsuki!» urlò nuovamente la donna, in un tono che lasciava trasparire la gioia nel rivedere suo figlio. 
 
Ochako si rilassò un poco, con un sorriso che iniziava a nascerle sulle labbra. 
 
«Era ora, disgraziato!» riprese la donna. «Ti sembra che debba essere io a invitarvi a cena, per conoscere la povera anima che ha il coraggio di uscire con te?»
 
Come non detto, Ochako tornò a tendersi come una corda di violino mentre la donna li faceva accomodare e continuava a sbraitare verso Katsuki, che teneva un muso scontroso e lungo tanto quanto quello di un cavallo.
 
«Oh, ma che maleducata!» fece la donna, rivolgendosi ora a lei. «Non mi sono nemmeno presentata!» Le porse la mano. «Sono Mitsuki Bakugou, piacere di conoscerti. Tu devi essere…»
 
«Uraraka Ochako, signora. Piacere mio» Strinse la mano della donna con una decisione che, si disse, doveva avere tirato fuori dal cappello magico, ansiosa di dare una buona impressione di sé già con una pronta e solida stretta di mano, come suo padre le aveva sempre insegnato. Non che ci fosse da fare una gran “buona impressione”, perché a quanto pareva, chiunque avesse avuto il coraggio non solo di convivere, ma anche solo di avere una qualsivoglia relazione romantica con il figlio era già santificato in partenza. 
 
 
 
Mitsuki li condusse nella sala da pranzo, dove un uomo stava finendo di apparecchiare la tavola. Katsuki le presentò quindi suo padre, Masato Bakugou, che anche solo dall’apparenza era una persona molto più sobria, silenziosa e tranquilla della moglie e del figlio. Le diede un caldo benvenuto e, al contrario di Mitsuki, ad Ochako trasmetteva un senso di calma che quella sera nemmeno Katsuki era in grado di infonderle. Forse il fatto di avere un alleato in territorio nemico la tranquillizzava assai più che la fidata presenza del suo compagno, in una situazione dove lei era la pedina neutrale, appena approdata in un campo che non conosceva e in cui non sapeva assolutamente come muoversi. Masato, per come la vide Ochako, avrebbe rappresentato in quella cena una sorta di aiuto dall’alto in cui non avrebbe mai osato sperare.
 
«Accomodati pure, Uraraka-san» le disse Masato indicandole una sedia che aveva scostato appositamente per lei. Ochako si sedette, non senza imbarazzo – tanto che le sue guance divennero di un rosa ancora più scuro –, e Katsuki fece lo stesso accanto a lei.
 
«Dove credi di essere, signorino?» Urlò sua madre sbucando dalla cucina. «Non si usa più aiutare?»
 
«A cena come ospite, vecchia megera!» gridò il ragazzo di rimando, tuttavia alzandosi e dirigendosi verso la cucina. «Da quando si fanno lavorare gli ospiti, eh?»
 
Ochako lo osservò sparire oltre la soglia della sala, rivolgendo poi a Masato uno sguardo che doveva essere in bilico tra l’incredulo e lo sbigottito. 
 
L’uomo ridacchiò, grattandosi imbarazzato la nuca: «Fanno sempre così…»
 
«Lo immaginavo» fece lei, «ma rimane strano a vedersi»
 
Entrambi risero un poco, con l’atmosfera che sembrava distendersi almeno un poco. Masato era agitato almeno quanto lei: temeva che quella cena potesse risultare in un disastro e che, in qualche modo, potesse risultare nella ragazza che se ne scappava lontano. Era l’ultima cosa che l’uomo potesse volere: mai aveva visto suo figlio così felice e sereno come quando l’estate prima era rientrato a casa la mattina, dicendo che aveva passato la notte da un’amica del liceo; o come quando, quella sera stessa, aveva varcato la soglia in compagnia di quella stessa amica.
 
Katsuki tornò nella sala da pranzo carico di ciotole e piatti da portata pieni di cibo, seguito da sua madre leggermente meno carica. Posarono tutto in tavola e finalmente si sedettero anche loro.
 
«Buon appetito!» augurò la signora Bakugou, invitando poi Ochako a servirsi.
 
«Buon appetito!» si sentì rispondere la donna, in una cacofonia di toni differenti, che andavano dal nervoso, al borbottio, al calmo e placido.
 
Mitsuki non perse tempo e, prima che Ochako potesse prendere il primo boccone, l’aveva già colta alla sprovvista con una domanda. 
 
«Allora, Ochako,» iniziò, gesticolando nella sua direzione con la forchetta. Masato notò che era saltata direttamente al nome. «Visto che quel deficiente di mio figlio non mi ha detto poi molto, su di te o su di voi, ti va di raccontarmi come vi siete conosciuti?»
 
«Ehm… ci conosciamo dai tempi della scuola. Eravamo compagni di classe.» rispose la ragazza, infilandosi in bocca del riso. Udì stranita i sospiri di sollievo di Bakugou e di suoi padre: almeno ha lasciato che finisse di parlare.
 
«Oh, no cara. Intendevo come vi siete ritrovati. Con che forza di volontà non hai cambiato strada!» rise la donna.
 
Ochako fissò la signora Bakugou per qualche secondo, un pochino confusa. Sapeva che il soggetto fosse Katsuki e, fosse stato chiunque altro, una tale affermazione non l’avrebbe sorpresa. Ma da sua madre si aspettava… un po’ più di fiducia? Non lo sapeva nemmeno lei. 
 
Katsuki si mise una mano in fronte, mentre l’espressione di Masato assumeva una leggera nota di sconforto. Mitsuki non sarebbe mai cambiata e non sapeva se considerarlo un bene o meno. Scelse la prima, tornando a guardare Ochako con occhi gentili. 
 
«Come vi siete ritrovati, dopo tutto questo tempo?» chiese in tono pacato.
 
Ochako sembrò calmarsi e raccontò brevemente l’incontro del tutto casuale all’Hanami dell’anno prima e della pioggia torrenziale che li aveva sorpresi e costretti alla fuga verso la casa più vicina, la sua.
 
Mitsuki si voltò di scatto verso suo figlio. «E tu hai aspettato un anno e mezzo per presentarcela?» chiese indignata.
 
«Avrei aspettato anche di più, se avessi potuto, vecchia racchia! Col cazzo che l’avrei portata volontariamente qui a farla passare sotto il tuo fottuto “scanner” se non mi avessi obbligato.» sbraitò il ragazzo. Implicitamente, la stava accusando di far scappare Ochako, e lui ne aveva una paura matta. L’ultima cosa che voleva era che lei se ne andasse senza più volerlo rivedere, troppo spaventata da quella pazza di sua madre.
 
«Ma taci! Se non è scappata dopo il primo giorno sotto il tuo stesso tetto…» ribatté la donna.
 
«Dal tuo tetto ci sono scappato io!»
 
«Come osi, piccolo delinquente!»
 
Katsuki guardò l’espressione di Ochako, un misto di sorpresa e imbarazzo per essere finita in mezzo ad una lite famigliare. Non le avrebbe certo dato colpa se non avesse più voluto vederlo, perché si rendeva conto che avere a che fare con lui significava avere a che fare non solo con lui stesso, i suoi demoni e il suo carattere tutt’altro che facile, ma anche con sua madre, che sembrava volerlo sabotare in ogni modo e da cui lui stesso aveva preso l’atteggiamento. Grugnì e tornò a guardare nel suo piatto, mentre sua madre riprendeva come se niente fosse a rimproverarlo e a vessare la povera Ochako di domande. Ascoltava attentamente, pur evitando di sollevare lo sguardo. Principalmente, si trattava di domande riguardo gusti e interessi, sul lavoro, la famiglia e sui loro amici, nel tentativo di capire che tipo di persona fosse “quella poveretta che ti sopporta”. Suo padre tentava di mediare con qualche battuta, ma a poco serviva.
 
Ochako rispondeva un po’ imbarazzata, a voce più bassa del solito, ma si sforzava di sorridere e cercava in ogni modo di fare una buona impressione. Ad un tratto, da sotto il tavolo gli prese la mano, e lui dovette resistere per alzare la testa di scatto, eseguendo il movimento nella maniera più fluida e naturale possibile.
 
Aveva un sorriso un po’ tirato, ma le vedeva negli occhi la determinazione così tipica di lei nel riuscire al meglio, e sentiva la sua piccola mano stringere il suo polso. Non sapeva se per far forza a sé stessa o se per rassicurare lui. In ogni caso, sembrava avere effetto in entrambe le direzioni – e le era grato, perché quella stretta sembrava voler dire “non ho alcuna intenzione di mollarti”. Abbozzò un mezzo sorriso anche lui, e rimase in silenzio per il resto della cena.
 
 
 
Quando si alzarono, Ochako insistette a dare una mano a sparecchiare. 
 
Mitsuki dapprima la osservò con un cipiglio che pareva offeso, e Masaru si chiese quanto la ragazza ci avrebbe messo a crollare e a seguire le direttive della moglie, sedendosi sul divano senza fare nulla.
 
Ochako però resse lo sguardo della donna per dei secondi che a Katsuki e suo padre parvero infiniti. Si fermarono nel mezzo della stanza con le stoviglie sporche ancora in mano, in attesa febbrile del destino di Ochako.
 
Mitsuki scoppiò in una fragorosa risata, così improvvisa che per poco al marito non cadde di mano la pila di ciotole. Katsuki invece dovette sforzarsi per non rimanere a bocca aperta. Certo, quella era decisamente una reazione da Mitsuki, ma non si aspettavano che la risata durasse così tanto. O che mettesse una mano sulla schiena di Ochako e complimentandosi per la determinazione la conducesse in cucina.
 
«Katsuki, te lo devo chiedere. Non è che per caso il suo è un quirk d’incanto?» Masaru osservò suo figlio, con un’espressione tra il serio e quella stupida smorfia che faceva quando proponeva una delle sue battute idiote e poco divertenti.
 
«No, fa solo fluttuare cose.»
 
«Oh.» L’uomo sembrò deluso dalla risposta. «Non ho mai visto tua madre fare così. Mai.»
 
Katsuki raccolse i bicchieri. «E con questo? Quella donna è pazza.»
 
Masaru si concesse un sorriso benevolo nei confronti del figlio. Posò le ciotole che ancora – miracolosamente – aveva in mano, e gli scompigliò i capelli in una carezza piuttosto goffa. «Credo che le piaccia»
 
In quel momento, Katsuki sentì solo un grosso peso scivolare giù dal suo petto, come se il mondo avesse improvvisamente smesso di calpestarlo, e quella mano tra i suoi capelli non gli diede fastidio come al solito. Rimase così per un attimo, con i bicchieri in mano e il viso come muto, prima di scrollare la testa e allontanare il padre.
 
«Come dici tu!», borbottò, e si affrettò a portare i bicchieri in cucina.
 
 
 
«Allora, ragazzi, che ne dite di un caffè?» Masato giunse i polpastrelli assieme con un sorriso. Per lui, un bel caffè era la conclusione perfetta per quella cena. Certo, forse avrebbe raccomandato una camomilla a moglie e figlio, ma preferì evitare nuove discussioni. Era per il bene delle sue orecchie e di quelle di Uraraka. E del vicinato.
 
«Sì, grazie, volentieri.»
 
«Sì, tesoro!»
 
L’ultimo fu un borbottio, ma Masato lo interpretò come assenso. Mentre la macchinetta ronzava, sentiva Mitsuki parlare ancora, descrivendo qualche diavoleria di Katsuki quando era ancora piccolo. Ricordava bene la prima volta che erano finiti al pronto soccorso perché lui si era scottato. Solo al ritorno a casa, la mattina dopo, si erano accorti della necessità di chiamare anche un bravo muratore, perché Katsuki aveva fatto un buco nel muro.
 
«E per fortuna che non era portante!» rise Mitsuki, mentre il figlio sbraitava insulti e le diceva di smettere. 
 
Masato rimase per un attimo con il fiato sospeso, fino a quando non udì Ochako ridere. Meno male, si disse. Gli piaceva quella ragazza, Katsuki aveva davvero fatto un’ottima scelta ed era contento che ci fosse una persona come lei accanto al suo ragazzo. Turbolento e difficile, ma pur sempre il suo amatissimo figlio. Né lui né Mitsuki avrebbero mai permesso che chiunque– qualche malintenzionata dalla sorprendente resistenza psicologica, aveva spesso ventilato Mitsuki, paranoica – entrasse così profondamente nella vita di Katsuki, con il rischio di ferirlo. Perché Katsuki era forte, era un grande eroe con dei poteri ed una resistenza straordinari, ma sapevano quanto per lui fosse problematico il fronte emotivo, e avevano visto in prima persona gli effetti di relazioni disastrose sul suo di per sé pessimo carattere. L’avevano reso ancora più chiuso, se questo era possibile, facendogli tutt’altro che bene. Uraraka Ochako, d’altro canto, sembrava davvero un toccasana per Katsuki. Lo vedeva felice, e di questo le era grato.
 
Servì il caffè, mentre ancora Katsuki si lamentava e sorrise sedendosi insieme a loro e unendosi al racconto. Ora, Mitsuki stava raccontando di altre volte i cui Katsuki aveva distrutto cose, principalmente muri e mobilio.
 
«Se ci fossimo conosciuti prima, magari mio padre avrebbe potuto fare qualcosa per i muri» rise la ragazza.
 
«Sì, sarebbe stato provvidenziale!»
 
«Grazie ma anche no, vecchia. Ora, credo sia ora di andare. Nevica e ho intenzione di svegliarmi presto domattina.» Katsuki si era come sentito fulminare all’idea che i suoi genitori e quelli di Ochako potessero conoscersi. Sarebbe stata una disgrazia, soprattutto considerata la mattina dopo al famoso hanamiin cui si erano così fortuitamente ritrovati. Raggelò.
 
«Beh, mi pare una ragione in più perché restiate a dormire qui, piccolo idiota di un figlio. E sì che sei così intelligente…»
 
«Scordatelo, vecchia!» replicò il ragazzo.
 
Masaru alzò un dito, come per intervenire, ma non trovò nessuna argomentazione che potesse aiutare nessuno dei due. Comprendeva entrambi i lati, e onestamente non aveva idea di come uscire da quella situazione. Cosa più unica che rara, a dire il vero.
 
Ochako intervenne in suo aiuto. «Ma no, signora, si-»
 
«Ti ho già detto di non chiamarmi signora, avanti!»
 
«Uh, sì, ecco. Mitsuki, non si disturbi. E poi abbiamo già prenotato in un albergo, quindi sarebbe davvero superfluo.»
 
La donna continuava a sembrare ben poco convinta. 
 
«Ma sì, tesoro. Sarà per la prossima volta. Magari avvisandoli prima, così che non prenotino altrove. Immagino le vostre valigie siano già là.»
 
Ochako annuì.
 
«Esatto, vecchio. Quindi, bella cena, ma dovremmo andare. Ho già chiamato il taxi.» Bakugou fu un po’ meno gentile. Si sentiva che non vedeva l’ora di fuggire prima che sua madre macchinasse altre trappole o che raccontasse altro alla sua ragazza.
 
«Uff, e va bene. Ma copritevi! E non credere che sia l’ultima volta che la vediamo, mi hai capito, piccolo delinquente?»
 
«Come vuoi, vecchia megera!» e, già sommersi in sciarpe e piumoni, Ochako fece in tempo a salutare e ringraziare per la cena, prima di chiudersi la porta alle spalle e incamminarsi con Katsuki lungo il vialetto.
 
«Non l’hai ancora chiamato, il taxi, vero?» chiese Ochako, un sorriso che già nasceva sulle sue labbra. Alla fine, quella cena non era stata poi così spaventosa. Non del tutto, almeno.
 
«No» fu la risposta, un borbottio mascherato dalla sciarpa e rivelato dalla nuvoletta di condensa.
 
Ochako gli si strinse al braccio e rise, leggera. «Scemo!»
 
Lui si abbassò di un poco, abbassando la sciarpa che le copriva l’orecchio con il mento. Ochako sentì il suo fiato scaldarle la pelle e la sua voce sommessa scaldarle il cuore. 
 
«Ti amo» Cazzo se ti amo, stronza che fa fluttuare le cose.
 
No, decisamente quella serata non era andata poi così male.

 

Note finali:

Eccomi qui, come promesso, con il secondo capitolo! (Settimana prossima un paio di palle, ma vbb, oramai mi conoscete)
Spero che anche questo possa piacervi e di essere rimasta IC, soprattutto con Katsuki. Non immaginate la fatica per scrivere certe scene, io, che sono incapace di scrivere con più di tre personaggi! Mi sono impegnata e sono uscita un po' dalla mia zona di comfort, e onestamente il risultato mi piace.

E, come sempre, si ringrazia NanaLuna per il betaggio e il supporto :3

A presto,
Tata


 

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