Painkiller di Kim WinterNight (/viewuser.php?uid=96904)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 1 *** I ***
I
Scesi dall'auto con
l'intento di recarmi subito al mercatino. Quel giorno volevo
assolutamente
comprare delle piante e almeno un libro. Ero ispirato, volevo qualcosa
di nuovo
che mi soddisfacesse e mi aiutasse a dimenticare il litigio che era
avvenuto
poco prima a casa mia.
Quel mostro immondo
di mio padre non aveva fatto che gridare fin dalle prime ore dell'alba,
facendomi sentire una merda come soltanto lui era in grado di fare. Era
stato
orribile soprattutto sentirlo ribadire che ero un fallito
perché non avevo
ancora messo incinta una femmina fertile.
Mi ero limitato a
mandarlo al diavolo e mi ero precipitato in macchina, deciso ad
andarmene di lì
e a dedicarmi a uno dei miei adorati mercatini.
Cominciai a
gironzolare, facendo lo slalom tra persone e bancarelle che non
destavano il
mio interesse.
Mi venne quasi da
ridere nel ripensare al mostro che mi aveva messo al mondo. Se solo
avesse
saputo che le femmine
fertili di
cui parlava non mi interessavano più di
tanto, se solo avesse saputo che preferivo gli uomini maturi e
rassicuranti...
ah, avrebbe dato di matto, quel folle!
Ero in cerca di un
bel banco di piante rare e bellissime, quando notai una bancarella
stracolma di
cianfrusaglie. Non mi ci sarei mai soffermato, se dietro di esso non ci
fosse
stato un signore che straparlava con un sacco di clienti, quasi tutte
donne e
completamente catturare dalle sue ceramiche, dagli orologi da parete e
da un
sacco di altre chincaglierie.
Rimasi impalato a
osservarlo, pur mantenendo una certa discrezione, con il risultato di
ricevere
imprecazioni e spintoni dalle persone a cui stavo intralciando il
cammino.
Era bellissimo.
Doveva avere almeno sessant'anni, portava i capelli brizzolati corti e
teneva
gli occhi marroni e vispi a scandagliare i vari avventori che si
assiepavano
attorno al suo banco.
Come preso da un
istinto incontrollabile, mi accostai a mia volta e presi a osservare
con poco
interesse la merce esposta, lanciando continue e brevi occhiate al
venditore
che aveva destato il mio interesse.
«Quanto
costa
questa ciotola? Che bella!» strillò una signora,
la sua voce acuta mi penetrò
nelle orecchie, scombussolandomi.
«Venticinque»
rispose lui gentilmente. Il suo timbro era caldo e non troppo profondo,
mi fece
rabbrividire e costrinse i miei occhi a posarsi ancora una volta su
quel viso
particolare e attraente.
«Me lo fa lo
sconto?» gracchiò ancora la vecchietta,
sistemandosi meglio il fazzoletto sulla
testa.
«È
un pezzo unico,
ne approfitti, altrimenti lo compro io» intervenne una donna
poco più giovane,
esaminando attentamente la ciotola color tortora che ai miei occhi non
aveva
proprio niente di unico.
«La voglio
io, giù
le mani, maleducata!» si rivoltò la più
anziana, stringendo l'oggetto sotto il
braccio e portando fuori una banconota da venti euro. «Prendi
questi» aggiunse.
«Ho detto
venticinque, signora» le fece notare il venditore.
«Arrivederci!»
La
donna girò i tacchi e se ne andò in fretta,
zoppicando leggermente.
Io rimasi basito.
«La gente non ha più pudore» mi ritrovai
a commentare senza accorgermene.
L'uomo dietro il
banco spostò lo sguardo su di me e mi fissò per
qualche istante. «Non importa,
lasciamola perdere» ammiccò, mentre sul suo volto
maturo si allargava un dolce
sorriso.
Strinsi tra le dita
le chiavi della macchina. Era difficile non osservarlo per me, ero
caduto
vittima di un colpo di fulmine capace di stordirmi e mandarmi in tilt.
Qualche altro
cliente fece un acquisto, qualcun altro osservò gli oggetti
e chiese
informazioni sui prezzi, e nel frattempo io rimasi lì a
godermi la compagnia di
quello sconosciuto e a sorridere ogni tanto per il modo bizzarro e
singolare
con cui si rivolgeva agli avventori e con cui scherzava apertamente.
Io ero decisamente
più timido di lui, non sarei mai stato capace di comportarmi
in quel modo.
Forse era proprio questo il motivo che mi dissuadeva dal portare i
prodotti che
coltivavo e producevo al mercato, sicuramente sarei stato incapace di
attirare
la clientela e di pormi nel modo giusto. Era un mestiere che richiedeva
molta
pazienza, ma anche un carattere solare, allegro e socievole.
Dopo un po' mi
decisi ad andarmene, non era certo utile che io rimanessi lì
impalato a fissare
un uomo che aveva almeno trent'anni in più di me e che era
decisamente fuori
dalla mia portata.
Chinai il capo e mi
voltai, pronto per cercare le mie piante e il mio libro.
Per tutto il tempo
non feci che pensare a lui, era come se camminassi a un metro da terra.
Poche
volte in vita mia avevo sperimentato sensazioni del genere, non avevo
la minima
idea di come gestirle.
Cominciai a
seguirlo in diversi mercatini, nonostante la sua merce risultasse
piuttosto
inutile e scadente ai miei occhi.
Un giorno faceva
freddo e io mi ero coperto per bene, mettendo addosso la mia fidata
sciarpa
fucsia e avevo messo ai piedi i miei scarponcini preferiti. Mi ero
perfino
guardato allo specchio prima di uscire, tentando di dare un senso ai
miei
capelli un poco scombinati.
Lo trovai che
contrattava per il prezzo di un orribile orologio da parete in ferro
battuto,
parlando animatamente con una donna di cinquant'anni che sembrava molto
perplessa riguardo al valore dell'oggetto in questione.
Avevo pensato molto
a un espediente per intavolare uno straccio di conversazione con lui, e
avevo
deciso che avrei finto interesse per uno dei suoi centrotavola in
ceramica,
affermando di dover comprare un regalo per mia madre. Forse ce l'avrei
fatto,
forse un poco avrebbe parlato con me.
Lasciai che finisse
la sua vendita, godendomi il momento in cui convinse la tizia a
sganciare ben
ottanta euro per un orologio che forse ne valeva dieci. Era un bravo
affarista,
sapeva come comportarsi con le persone e per questo lo ammiravo.
Infine presi
coraggio e mi piazzai proprio di fronte al banco, fingendo di esaminare
con lo
sguardo la merce. «Salve» lo salutai timidamente,
tenendo le mani affondate
nelle tasche del cappotto.
«Ciao. Come
posso
aiutarti?» replicò, dedicandomi la sua completa
attenzione.
Non ebbi il
coraggio di guardarlo, stavo letteralmente andando a fuoco e avevo
paura che
lui potesse scorgere il rossore sul mio viso. «Dovrei fare un
regalo a mia
madre» buttai lì. «Può
aiutarmi?» aggiunsi.
«Certo! Ti
piace
qualcosa in particolare? Altrimenti ho degli altri articoli sul
furgone.» La
sua voce mi confortava, nascondeva una nota di dolcezza che mi scaldava
il
cuore.
Erano poche le cose
capaci di scaldarmi il cuore, la mia vita era permeata da ben poco
amore. Mio
padre era un mostro e mia madre si interessava poco a me, capitava solo
ogni
tanto che mi facesse qualche regalo o che fosse d'accordo con me a
riguardo di
suo marito. La mia famiglia non esisteva più da tempo,
probabilmente non era
mai esistita, e io ero cresciuto in un ambiente insopportabile,
costretto a
lavorare come uno schiavo e incapace di ribellarmi. Del resto, dove
sarei
potuto andare? Cosa avrei potuto fare?
«Fa lo
stesso, mi
proponga qualcosa lei» gli comunicai, sbirciando nella sua
direzione con la
coda dell'occhio.
La sua mano
afferrò
una ciotola ovale, color sabbia, che recava un decoro color oro sui
bordi. Non
era male, ma certamente non l'avrei acquistata per me, se avessi potuto
scegliere.
«Che te ne
pare di
questa? Ti faccio trenta.»
«Vorrei
spendere
meno, è solo un piccolo pensiero» gli dissi,
alzando il capo e guardandolo in
faccia.
Volevo cercare di
capire
se stesse provando a imbrogliarmi come aveva fatto con la signora di
poco
prima, ma tutte le mie buone intenzioni andarono a farsi benedire
quando
incrociai i suoi occhi color nocciola, caldi e profondi, fissi su di
me.
Certamente mi stavo illudendo, ma era come se mi stesse esaminando,
forse per
farsi un'idea di che tipo di cliente fossi.
«Com'è
che ti
chiami?» domandò d'improvviso. «Ti vedo
spesso ai mercati.»
Il cuore mi
sprofondò nel petto e mi sentii avvampare ancora di
più. Mi sottrassi al suo sguardo
penetrante e tornai a fissare le ciotole sul banco senza realmente
vederle.
«Cosimo» mormorai.
«Io sono
Enea» si
presentò in tono allegro. «Allora, Cosimo, cosa
vuoi regalare a tua madre? Se
vuoi spendere meno, ti posso proporre questa. Venti euro e te la cavi,
fai pure
una bella figura per via di questa placchetta in argento»
blaterò, mostrandomi
un altro centrotavola. Stavolta era di vetro colorato, dalla forma
irregolare e
portava una piccola placca in argento a forma di fiore applicata sul
bordo.
Avrei comprato
qualunque cosa, pur di sentirlo ancora pronunciare il mio nome. Ero
rimasto
incantato dal modo in cui la parola prendeva forma e si srotolava tra
le sue
labbra, prendendo una cadenza particolare per via dell'accento
romagnolo che contraddistingueva
la parlata dell'uomo.
«Mi va
bene»
accettai senza pensarci troppo, del resto non mi importava
più di tanto di ciò
che stavo acquistato. Lo avrei consegnato a mia madre e forse lei
sarebbe stata
felice.
«Bene.»
Enea si
chinò sotto il banco per recuperare una busta di carta, poi
mi fissò e parve
riflettere un attimo. «Non posso farti il pacco regalo, ci
pensi tu?»
Annuii e feci un
cenno noncurante con la mano. «Si figuri»
farfugliai, cominciando a cercare i
soldi all'interno del portafoglio.
L'uomo
infilò il
centrotavola dentro la busta e me la porse, tenendola per i manici. La
afferrai
e nel farlo sfiorai per un attimo la sua mano, sentendola
incredibilmente
liscia e morbida.
Un brivido mi
investì senza che potessi controllarlo, così mi
affrettai a salutare Enea e a
lasciare il suo banco. Ero totalmente preda del mio stesso imbarazzo,
non
riuscivo più a stare fermo lì e a farmi penetrare
dai suoi occhi.
Per quel giorno
avevo dato abbastanza.
Stavo dando da
mangiare ai gatti quando l'orco arrivò al mio cospetto. Era
in compagnia di uno
dei suoi amici e stava portando fuori
oscenità irripetibili.
«Guarda
questa
merda, guarda! Non ha nemmeno mai scopato con una femmina, che schifo!
Non ti
vergogni?» mi si rivolse, battendo il piede per terra con
rabbia.
Il suo
accompagnatore se la rideva, era immensamente stupido e insignificante.
Mi
facevano pena, erano totalmente senza cuore e non avevano neanche un
briciolo
di cervello.
«Che
fallito... che
fallito! E adesso, merda, vai a prendermi da bere e da mangiare. E
anche per il
mio amico. Due caffè e del pane farcito. Vai! Che cazzo
aspetti?» sbraitava,
guardandomi con odio e disprezzo.
Io chinai il capo.
Non ne potevo più di sentirlo gridare, perciò era
meglio andare a fare ciò che
stava dicendo, altrimenti non avrei avuto tregua per il resto della
giornata.
Lasciai una piccola carezza sulla testa della gatta più
grande, poi mi misi in
piedi e, senza fiatare, mi diressi verso casa.
Ancora le grida
animalesche di quei due rimbombavano nelle mie orecchie, procurandomi
un acuto
senso di nausea. Ero circondato da dinosauri, gente con il cervello
fossilizzato fin dalla nascita, come potevo sperare che esistesse un
uomo
diverso? Come potevo illudermi che il venditore di ceramiche fosse
diverso dal
mostro che mi maltrattava e dai suoi amici stupidi?
Forse quando era al
mercato a vendere si comportava bene con i clienti per preservare la
sua
reputazione, per mantenere la clientela; ma probabilmente anche lui era
cattivo
e insensibile con la sua famiglia, di sicuro aveva una moglie e dei
figli che
lo detestavano proprio come io odiavo la bestia che mi dava del fallito
e mi
denigrava di fronte alla feccia della società.
Avrei tanto voluto
sputare nei loro caffè e metterci del veleno per topi, ma mi
limitai a fare il
mio lavoro e sperai che quella tortura finisse il prima possibile.
Avevo un
sacco da fare già per i fatti miei, non avevo alcuna voglia
di stare appresso
anche a quei due.
La mia unica
speranza risiedeva nel pensiero che il giorno seguente avrei rivisto
Enea; il
solo posare gli occhi su di lui e sentirlo blaterare con i clienti mi
bastava
per essere un po' meno depresso e triste.
«A tua madre
è
piaciuto il regalo?»
Quella domanda
giunse inaspettata e mi schiaffeggiò bruscamente,
strappandomi all'anonimato in
cui credevo di essermi immerso. Mi ero fermato a qualche metro dal
banco di
Enea e armeggiavo con il cellulare, scrivendo a delle amiche. Ero certo
che lui
non mi avrebbe notato, eppure fui costretto a ricredermi quando la sua
voce
raggiunse le mie orecchie.
Sollevai cautamente
il capo e incrociai i suoi occhi caldi. «Ah... sì,
sì, molto...» farfugliai,
stringendo un po' di più le dita attorno allo smartphone.
«Non mi
sembri
molto convinto» proseguì Enea, sorridendomi
apertamente.
«No,
davvero. Le è
piaciuto» ripetei, sperando di convincerlo e di non
offenderlo. Non volevo
dargli l'impressione di star mentendo, anche se in verità la
reazione di mia
madre non era stata particolarmente entusiasta quando le avevo
consegnato il
centrotavola.
«Meglio
così.» Enea
continuò a guardarmi. «Ragazzo, che hai?»
Sgranai gli occhi e
non seppi cosa rispondere. Non avevo idea a cosa si stesse riferendo.
«Hai una
faccia da
funerale» spiegò l'uomo, facendomi cenno di
accostarmi al suo banco.
Senza riflettere,
feci qualche passo verso di lui e mi fermai solo quando fui abbastanza
vicino
da poterlo osservare in tutto il suo splendore. Non capivo
perché stesse
parlando con me e come mai gli importasse tanto del mio stato emotivo.
«Hai
litigato con
la morosa?» se ne uscì, inclinando il capo di lato.
Mi venne da ridere
e non riuscii a trattenermi. «Macché...»
«No? E
allora?»
Non sapevo cosa
dirgli, anche se sapevo bene il motivo del mio stato d'animo. In quegli
ultimi
giorni mio padre mi aveva fatto impazzire, sfruttandomi come un servo
della
gleba e gridandomi contro gli insulti più brutti e cattivi
che un essere umano
potrebbe immaginare. Ero stremato, non ce la facevo più.
«Non si
preoccupi,
sono solo stanco» tagliai corto.
Una cliente si
accostò al banco di Enea e lui fu costretto a dedicarle
tutta la sua
attenzione. Fui tentato di andarmene, ma non volevo porre fine a quella
piccola
illusione; in qualche modo quell'uomo sconosciuto si stava curando di
me, e io
non potevo permettermi di perdere quell'occasione d'oro.
La donna rimase a
rompere per almeno un quarto d'ora, chiese il prezzo di ogni singolo
oggetto
esposto e alla fine non comprò nulla. Ero ammirato dalla
pazienza che Enea
possedeva.
L'uomo
tornò a
guardarmi. «Sei sicuro di stare bene?»
domandò.
Annuii, mentre le
mani mi tremavano e il mio viso diventava rosso. Avevo una grossa
difficoltà a
stare fermo e stavo per scappare a gambe levate. Era troppo per me,
tutte
quelle sensazioni ed emozioni erano troppo.
«Vuoi un po'
di
caffè?» propose Enea, prendendo tra le mani un
thermos verde. Mi sorrideva,
probabilmente gli facevo pena ed era per questo che continuava a
parlarmi e
sembrava poco incline a mandarmi via.
«No, mi
agita
troppo. Grazie» rifiutai, infilando le mani in tasca per
nascondere il loro
tremore.
Enea si
lasciò
sfuggire una risata e si versò un po' di liquido scuro nella
tazza di plastica
abbinata al thermos. Mi tornò in mente il momento in cui mio
padre mi aveva
ordinato di preparare il caffè per lui e il suo amico
stupido, così mi resi
conto che per Enea lo avrei fatto volentieri, visto che gli piaceva
tanto.
Chissà se era sua moglie a prepararglielo ogni mattina...
probabilmente lui la
obbligava come faceva il mostro con me.
Enea non poteva
essere davvero gentile e diverso.
«Sei stanco
per via
del lavoro?» chiese poi, dopo aver sorseggiato rapidamente
dalla tazza.
«In un certo
senso»
bofonchiai.
«Eh, ragazzo
mio...
sei giovane, sei forte, e già sei stanco?» mi
punzecchiò, ma nel suo tono di
voce non c'era cattiveria né malizia. Sembrava
più preoccupazione.
Mi bloccai con la
bocca semiaperta, riflettendo su quella consapevolezza. Certamente mi
stavo
sbagliando, ero totalmente fuori strada.
«Eh...
purtroppo...
ora devo andare, scusi» mi congedai, affrettandomi a lasciare
il suo banco. Ero
troppo imbarazzato, e certamente non potevo raccontargli i problemi che
avevo
con l'orco. Non era il caso, neanche lo conoscevo!
Feci in modo di non
passare più di fronte alla sua bancarella per quel giorno,
mi concentrai su
altri acquisti e decisi di non pensarci per un po'.
Come se fosse stato
facile...
Era mattina e io
stavo cominciando a preparare il pranzo, quando il telefono
squillò. Avevo le
mani sporche e non potevo andare a rispondere, così lasciai
perdere e continuai
ad affettare il sedano per il sugo.
Poco dopo lo
squillo cessò, e poco dopo riprese. Era stranamente
insistente e fastidioso.
Sospirai e mi lavai le mani con uno sbuffo, mandando mentalmente al
diavolo
chiunque mi stesse interrompendo.
Sollevai la
cornetta e me la portai all'orecchio. Stavo per rispondere, quando una
voce fin
troppo familiare mi fece gelare il sangue nelle vene.
«Pezzo di
merda,
che cosa stavi aspettando? Eh? Allora... portaci un tè, un
caffè...» strillò
mio padre, utilizzando un tono lamentoso che pareva quasi una cantilena.
Mi venne da ridere
e piangere insieme. Avrei dovuto aspettarmelo: non aveva neanche la
decenza di
venire a casa per chiedermi qualcosa, ormai si affidava al servizio a
domicilio
completamente ideato da lui. E io, ovviamente, ero il fattorino
nonché cuoco
della sua deplorevole azienda.
«Ma...»
tentai di
protestare.
«Un cazzo!
Muoviti,
che io e i miei amici abbiamo bisogno di energie per lavorare! Visto
che tu non
fai niente dalla mattina alla sera, questo è il
minimo!» gridò, per poi buttare
giù il telefono e lasciarmi a bocca aperta.
Questo era
veramente il colmo! Volevo strapparmi i capelli e morire, non riuscivo
più a
sopportarlo. Mi trattava come uno schiavo in tutti i sensi, e inoltre
mi
umiliava di fronte a tutti, diffamandomi e spargendo in giro notizie
fasulle
sul mio conto. Se solo lui avesse lavorato la metà di quanto
facevo io, forse
si sarebbe reso conto di ciò che realmente facevo per lui,
nonostante non lo
meritasse affatto.
Sospirai e mi diedi
da fare per preparare le ordinazioni per lui e i suoi amici dinosauri.
Mi venne in mente
che la scena aveva un che di comico, così mi ripromisi di
raccontarla alle mie
amiche quando ci fossimo sentiti per telefono. Forse avrebbero riso e
avrebbero
alleggerito un poco il peso della mia frustrazione.
Certamente se Enea
avesse saputo che ero un debole, un perdente, una nullità,
avrebbe smesso di
badare a me e avrebbe cominciato ad approfittarsi di me come facevano
tutti. Mi
sentivo veramente male, avrei preferito morire piuttosto che recarmi
nel
capannone in cui l'orco e i suoi amici starnazzavano e non facevano
assolutamente niente di concreto e utile.
Appoggiai il cibo e
le bevande su un bancone in legno vicino all'ingresso e mi dileguai
prima che
potessero vedermi e parlarmi.
Se fossi stato
più
coraggioso, avrei pensato di togliermi la vita. Ma ero un vigliacco
anche da
quel punto di vista, dovevo farmene una ragione.
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Capitolo 2 *** II ***
II
Avevo bisogno di
vederlo per risollevare un po' il morale, così quel sabato
mi recai al
mercatino e cominciai a cercare convulsamente la sua bancarella. Il
solo fatto
di poter posare gli occhi su di lui era diventato un anestetizzante per
le mie
pene, come una sorta di droga che non faceva male.
Durante il primo
giro di perlustrazione non lo trovai, e il cuore mi
sprofondò nel petto. Stavo
per lasciarmi affliggere dalla disperazione e da un profondo moto di
delusione,
quando lo avvistai in un angolo un po' nascosto rispetto al solito.
Tirai un sospiro di
sollievo e mi strinsi nel giubbotto, avviandomi a passo un po' troppo
svelto
nella sua direzione.
«Cosimo!»
esclamò
lui, mentre sul suo viso rotondetto si allargava un caloroso sorriso.
Si ricordava il mio
nome, si ricordava davvero di me! Ero così felice ed
emozionato che non fui
neanche in grado di ricambiare il saluto. Le mie guance erano in fiamme
e il
mio corpo pian piano si liquefaceva sotto il suo sguardo penetrante e
rassicurante.
«Come va?
Ragazzo,
oggi ti vedo più triste del solito!»
proseguì.
Come riusciva
sempre a essere così allegro e spensierato? Come riusciva a
trasmettermi così
tanta serenità? Come riusciva a farsi adorare da me?
«Io... sto
bene...»
balbettai, torcendomi le dita delle mani.
«Non
mentire, si
vede che c'è qualcosa che non va. Sai cosa facciamo? Finisco
di lavorare e ti
porto a pranzo, così mi racconti» propose con
estrema semplicità. «Ormai sei
mio amico, vieni sempre a trovarmi!» aggiunse, forse notando
l'espressione
sbalordita che mi si era dipinta in viso.
«A pranzo...
non
posso» mi ritrovai a declinare, pensando che sarei dovuto
presto tornare a casa
per sfamare quella bestia e preparargli un pasto che avrebbe
probabilmente
rifiutato e criticato.
«Andiamo!
Allora
hai da fare con la fidanzata?»
Avvampai ancora di
più e scossi il capo. «No, no...»
«Quindi
possiamo
pranzare insieme? Offro io!» insistette.
Era un sogno, non
poteva essere vero. E io non potevo accettare, avevo troppa paura di
cosa sarebbe
successo una volta rientrato. Mio padre avrebbe dato di matto, mi
avrebbe
punito e mi avrebbe reso la vita un inferno. Se solo avessi trovato il
coraggio
per raccontarlo a Enea...
Scossi il capo.
«Mi
dispiace...»
Lui si fece
mortalmente serio e i suoi lineamenti marcati si contrassero.
«Hai paura di
me?» se ne uscì, senza più la minima
ombra di leggerezza nella voce.
Ammutolii ed ebbi
l'impulso di scappare.
«Se ti
spavento,
allora ti lascio in pace» concluse l'uomo, per poi abbassare
il capo. Prese a
sistemare meglio la sua merce, ignorando completamente la mia presenza.
Forse l'avevo
offeso, ero una frana. Ma come potevo spiegargli la verità?
Chiunque altro mi
avrebbe preso per pazzo, visto che avevo rifiutato di andare a pranzo
con
l'uomo che mi piaceva, ma nessuno poteva immaginare che cosa si celava
nella
mia miserabile vita.
Dovevo andarmene,
la testa e la ragione mi dicevano che quella sarebbe stata la scelta
migliore.
Eppure rimasi lì, cercando in tutti i modi il coraggio per
parlare ancora con
Enea. Forse ora toccava a me fare il primo passo.
Mi schiarii la gola
e feci un passo avanti. «Mi scusi, io... a casa mi aspettano,
non posso
lasciarli senza... senza pranzo» riuscii ad articolare,
sentendo l'imbarazzo
farsi ancora più palese.
Lui sbirciò
nella
mia direzione, senza smettere di riordinare la merce. «Ah,
sì?»
«Mio... mio
padre,
lui... è complicato» farfugliai.
Enea alzò
il capo e
cercò il mio sguardo. «È
malato?» chiese.
«No,
cioè... sì, è
un folle...»
«Un
folle?» ripeté
l'uomo, sembrava sconcertato dalle mie parole.
Le parole
cominciarono a fluire fuori dalle mie labbra come se qualcuno avesse
schiacciato un pulsante per aprire il mio cuore e svuotarlo
completamente.
Presi a raccontargli la mia situazione, infarcendola di aneddoti
raccapriccianti
e riportando tutte le orribili parole che mi sentivo dire ogni singolo
giorno
della mia vita da quando ero nato. Mi sentivo sempre meglio, mi stavo
liberando
di un peso enorme, ed era confortante farlo con lui.
Enea smise di
prestare attenzione ai clienti, lasciando che loro se ne andassero dopo
essere
stati ignorati. A un certo punto piazzò sul banco un
cartello con la scritta
CHIUSO e mi fece sedere con lui sul retro del furgone, dove potei
continuare a
dar sfogo al mio malessere.
Gli spiegai tutto,
perdendo la cognizione del tempo e dello spazio, non tralasciai alcun
dettaglio
e non seppi spiegarmi come ciò fosse possibile; mi stavo
confidando con uno
sconosciuto, gettandomi alle spalle l'imbarazzo e la timidezza che fino
a poco
prima mi avevano quasi serrato la gola.
Enea mi
ascoltò, lasciandosi sfuggire ogni
tanto imprecazioni ed esclamazioni infelici, finché non
allungò una mano verso
di me e la posò sulla mia spalla con l'intento di
confortarmi.
Quel tocco fu come
una scottatura, rimbalzò per tutto il mio corpo, dandomi
l'impressione che le
ossa presto si sarebbero frantumate. Era qualcosa di difficile da
definire, non
sapevo se facesse male o se fosse atrocemente piacevole.
«Cosimo,
ascoltami.» Enea era seduto accanto a me e teneva ancora le
sue dita sulla mia
spalla. «Tu non puoi andare avanti così, okay? Non
puoi. Io non lo permetterò.»
Sussultai
nell'udire quelle parole così decise e ferme.
«Cosa... cosa...» provai a
ribattere.
«Ti capisco
molto
bene, sai? Ho vissuto anche io qualcosa di simile. Mio padre se la
prendeva con
mio fratello perché lui era un po' più fragile,
un po' più debole... lo
maltrattava e non permetteva a nessuno di andargli contro. Alla fine,
quando
sono cresciuto, l'ho difeso. Mi sono messo in mezzo e ho fatto a botte
con mio
padre. Ma ormai era troppo tardi: Ruggero, nel frattempo, è
corso su per le
scale, ha raggiunto il terzo piano della nostra casa e si è
gettato di sotto.
Ancora non riesco a perdonarmi per averlo lasciato morire a causa di
quel
mostro. Da quel giorno sono scappato, ho preso in mano la mia vita e ho
chiuso
i ponti con la mia famiglia. Sono sopravvissuto, come vedi, anche se ho
perso
il mio povero fratello e mi porto appresso un grosso rimpianto.
Perciò, Cosimo,
puoi farcela anche tu.»
Ero rimasto molto
colpito
dalla sua storia, tanto che avevo cominciato a tremare e a sentirmi
totalmente
inadeguato e stupido al suo cospetto. Non era cattivo? Non era un
mostro? Era
soltanto un uomo ferito che sapeva di cosa stavo parlando?
«Non
permetterò che
anche tu faccia la fine di Ruggero. Sai, un po' me lo ricordi, anche
lui era
timido e fragile come te...» Enea fece scorrere le dita tra i
miei capelli e io
mi sentii morire sotto quel tocco incredibilmente morbido e delicato.
«Io... devo
andare,
lui mi ammazza se non trova il pranzo pronto.»
Enea rise e si
accostò a me. Mi afferrò per le spalle e mi
costrinse a guardarlo negli occhi.
«Tu non vai da nessuna parte, chiaro?»
Solo in
quell'istante mi resi conto che stavo piangendo, e a quel punto mi
sentii un
vero e proprio schifo. Se l'orco mi avesse visto in quel momento, mi
avrebbe
certamente deriso e insultato, facendomi notare che un uomo non deve
mai
piangere e che io non ero altro che un frocio inutile e senza palle.
L'uomo che mi stava
di fronte invece non sembrava intenzionato a giudicarmi. Senza
preavviso, mi
prese tra le braccia e mi strinse forte al petto, facendomi posare il
capo
sulla sua spalla. Sentivo il suo respiro tra i capelli e le sue mani
sulla
schiena, sentivo il suo corpo caldo e morbido contro il mio, sentivo il
suo
profumo pungente che sapeva di muschio e caffè.
E mi sentivo
così
fragile e piccolo, nonostante la mia corporatura imponente e il mio
metro e
settantacinque di altezza. In quell'abbraccio mi stavo semplicemente
sgretolando, e non riuscivo più a controllare i singhiozzi
né le mie mani che
si artigliavano alla giacca di quell'uomo e la tenevano stretta.
Non avevo mai
ricevuto un abbraccio, non avevo mai provato tante sensazioni tutte
insieme.
Era la prima volta che qualcuno mi stava così vicino, avevo
vissuto quasi
trent'anni di vita senza mai essere toccato, senza mai essere
confortato o
semplicemente coccolato.
«Se lui mi
vedesse
ora, se lui mi... lui mi direbbe che...» mi lamentai,
affondando il viso nel
tessuto ruvido della sua giacca a vento.
«Shh, non
importa»
mi rassicurò Enea, cullandomi ancora e accarezzandomi piano
sul capo.
«Mi direbbe
che
sono un frocio schifoso che non sa neanche... neanche ingravidare una
femmina
fertile...» proseguii, sempre più preda della mia
stessa disperazione. Tremavo
come una foglia e le mie parole erano quasi incomprensibili.
Sentii Enea
sospirare e intensificare maggiormente la stretta.
«Lasciaglielo credere. Non
importa, Cosimo, non importa» ripeteva, senza smettere di
cullarmi e
accarezzarmi. «Tu sei solo un ragazzo speciale, lui non ha il
diritto di
trattarti così.»
«Anche le
mie
amiche me lo dicono» mormorai, riuscendo a placare un po' i
singhiozzi. «Mi
dicono che merito amore, che devo pensare a me stesso. Ma io... io
non...»
Scoppiai nuovamente a piangere e mi aggrappai con più forza
a lui.
«Le tue
amiche dove
sono?» volle sapere.
«Lontane.
Non
abitano qui» risposi, tirando su con il naso.
«Cosimo,
sta'
tranquillo. Io sono qui. Sono disposto ad aiutarti» mi
confessò, facendomi
scostare da lui e cercando i miei occhi con i suoi.
Rimasi a fissarlo
in silenzio, continuando a tremare e a lasciar rotolare calde lacrime
sulle mie
guance.
«Troviamo
una
soluzione, te lo giuro. Ma adesso andiamo a pranzo insieme, abbiamo
bisogno
entrambi di mettere qualcosa sotto i denti per ragionare meglio,
eh?» mi
propose, lasciandomi un tenero buffetto sulla guancia.
Mi ritrovai ad
annuire senza nemmeno rifletterci su. Ormai era tardi, mio padre si era
sicuramente accorto che non ero tornato ed era già
infuriato. Tanto valeva
ritardare maggiormente il momento in cui sarei dovuto tornare a casa
per
affrontarlo.
«Così
mi piaci»
disse Enea in tono allegro, per poi mettersi in piedi. «Stai
qui, io intanto
ritiro il banco» aggiunse.
«La
aiuto» mi
proposi, facendo per alzarmi.
Lui poggiò
con
decisione le mani sulle mie spalle. «No, stai qui e cerca di
tranquillizzarti.
E, Cosimo, non darmi del lei. Siamo amici.»
Avvampai e rimasi
in silenzio, riflettendo su ciò che era appena successo.
Osservavo i movimenti
esperti e veloci di Enea mentre raccoglieva le sue cose e mi passava
accanto
per rimetterle sul furgone, mentre mi rendevo lentamente conto di
essere appena
stato tra le sue braccia. Lo avevo desiderato fin dal primo istante in
cui lo
avevo visto, e mai avevo osato sperare che ciò accadesse. Mi
ero limitato a
vedere quell'opportunità come uno stupido miraggio,
crogiolandomi nell'attesa
di poterlo rivedere.
E ora ero
lì,
seduto sul retro del suo furgone, dopo aver ricevuto il primo, vero
abbraccio
della mia intera esistenza. Stentavo a crederci, ma era successo e io
mi ero
sentito davvero strano, mi ero sentito ancora più fragile e
debole, come se lui
e le sue braccia avessero annientato l'ultimo briciolo
d'integrità che ancora
mi restava.
Enea finì
di
ritirare tutto e tornò da me. «Andiamo, sali
davanti» mi incoraggiò con un
sorriso.
Mi alzai e feci
come mi diceva, decidendo di riprendere più tardi la mia
auto. In quel momento
non mi importava, volevo soltanto godermi i momenti che mi restavano da
condividere con lui.
Tanto già
sapevo
che tutto sarebbe finito, io sarei tornato all'inferno e avrei
sicuramente
smesso di vederlo per paura di soffrire e di commettere ancora degli
errori
come quello. Non mi era permesso di avere una vita, io dovevo
trascorrere le
mie giornate a sgobbare per mio padre e a rendermi disponibile per mia
madre
quando lui se ne lavava le mani.
Non potevo
abbandonare la mia famiglia.
Mentre guidavo
verso casa, ripensavo a Enea e al nostro pranzo insieme. Era stato
capace di
mettermi a mio agio, di farmi aprire ancora un po' con lui, ma
soprattutto mi
aveva parlato molto di sé. La sua vita non era stata facile,
nonostante potesse
sembrare un uomo forte e allegro; dopo aver perso suo fratello, per lui
era
stato difficile andare avanti, ma non per questo aveva smesso di
provarci e di
lottare. Si era impegnato, aveva avviato un'attività e aveva
cercato di
costruirsi il suo piccolo spazio nell'universo.
Lo ammiravo molto,
perché lui era riuscito a uscire dalla sua prigione, si era
ribellato e aveva
fatto tutto ciò che io non sarei mai stato in grado di
pensare. Per questo
stavo tornando, da bravo schiavo, nella tana del leone. Avevo
trasgredito
abbastanza, erano già le tre del pomeriggio e sapevo cosa mi
avrebbe aspettato
al mio arrivo.
L'unico pensiero in
grado di anestetizzare un poco il mio terrore era quello di Enea, del
suo modo
vivace di gesticolare, del suo atteggiamento rude quando si tuffava sul
cibo,
ma soprattutto del suo abbraccio caldo, delicato, infinito. Potevo
ancora
sentire le sensazioni che avevo provato tra le sue braccia, non avrei
mai
creduto che proprio io sarei finito a farmi consolare da un uomo
sconosciuto
che aveva molti anni in più di me, un uomo che mi piaceva da
impazzire e a cui
non sarei mai interessato da quel punto di vista.
Parcheggiai l'auto
e avvertii le mani che tremavano leggermente. Non avevo neanche il
coraggio di
scendere, sapevo che presto avrei dovuto affrontare l'orco. Forse
potevo
concedermi qualche attimo per respirare e calmarmi, il danno ormai era
fatto,
qualche minuto in più di ritardo non avrebbe fatto alcuna
differenza.
Lui mi raggiunse
prima ancora che mettessi il naso fuori dalla macchina. Come c'era da
aspettarsi, era furibondo: urlava come un pazzo, si agitava, imprecava,
bestemmiava, mi insultava.
«Pezzo di
merda,
dove cazzo eri finito? Dov'eri finito, eh? Sei un essere inutile, un
fallito,
uno schifo! Vieni qui, pezzente!»
Spalancò la
portiera con tanta forza che io credetti che l'avrebbe scardinata; mi
afferrò
per un braccio e mi tirò giù dall'auto, poi
cominciò a urlare a pochi
centimetri dal mio viso. Mi stava facendo venire la nausea, non
riuscivo
neanche a guardarlo, tant'era il disgusto che provavo nel sentire le
sue luride
mani su di me. Neanche gli abiti pesanti che indossavo erano in grado
di proteggermi
dalle orribili sensazioni che stavo provando.
«Dovevi
prepararmi
il pranzo, cazzo! Non ho mangiato per colpa di una merda come te, dove
cazzo
eri?» proseguì a sproloquiare.
Io tacevo, se
avessi aperto bocca avrei vomitato, ne ero certo. Sentivo il buon cibo
che
avevo assaporato in compagnia di Enea fare a pugni per risalire lungo
la mia
gola e riversarsi su quel mostro che mi stava di fronte. Cercai di
trattenermi
e lo lasciai dire, incapace di ribellarmi e di spingerlo via. Mi
sentivo un
vero codardo, ma allo stesso tempo volevo evitare a tutti i costi di
farlo
arrabbiare ancora di più. Detestavo gli scontri fisici, non
volevo dargli il
pretesto per alzare le mani su di me.
«Non hai
niente da
dire, testa di cazzo? Non hai niente da dire? Eh? Dove cazzo eri? Ah,
non è che
finalmente ti sei deciso a ingravidare una femmina? Ma no, figurati...
uno come
te, uno come te queste cose non le sa fare... non sai neanche usarlo,
eh? Credi
davvero che serva solo per pisciare, coglione? Questa me la paghi, me
la paghi!
Ti metto io a lavorare, devi recuperare quello che non hai fatto
oggi!»
Mi lasciò
andare di
botto e cominciò a girarmi intorno come un pazzo,
continuando a strillare come
un ossesso. Mi teneva sotto tiro, come se io fossi una preda braccata
che ormai
non aveva più vie di scampo. Io continuavo a tacere e
cercavo di non
ascoltarlo, ma la sua voce stridula mi perforava i timpani e affondava
nella
mia anima come un pugnale affilato.
Trattenni le
lacrime, non gli avrei mai dato la soddisfazione di vedermi piangere a
causa
sua. Lo lasciai fare finché non fu stanco e decise di
andarsene, continuando a
bestemmiare e a chiedere a gran voce perché una disgrazia
simile fosse capitata
proprio a un brav'uomo come lui.
Anche quella volta
mi ero lasciato trattare come una bambola di pezza, non avevo reagito
in alcun
modo e gli avevo permesso di insultarmi senza ritegno. Chiusi con cura
l'auto e
feci per entrare in casa, quando lo vidi tornare indietro.
Ormai urlava frasi
sconclusionate, non riuscivo neanche più a capire
ciò che diceva. Come una
furia, si scagliò contro la mia auto e cominciò a
prenderla a calci e pugni,
producendo dei versi animaleschi che mi fecero venire i brividi.
Quando ne ebbe
abbastanza, mi sorrise maligno e affermò:
«Così non andrai più da nessuna
parte, merda schifosa!».
Mi diressi verso
casa e, una volta nell'ingresso, ignorai il saluto di mia madre e mi
precipitai
in camera mia. Chiusi la porta e mi lasciai andare a un pianto
silenzioso e
disperato, rannicchiandomi di fronte all'uscio e stringendomi le
braccia
attorno al corpo.
Quanto avrei voluto
rifugiarmi nell'abbraccio di Enea, lui avrebbe saputo come calmarmi e
rassicurarmi. Oh, se mi avesse visto in quel momento, sarebbe stato
mortalmente
deluso di me, avrebbe capito che ero senza speranze e che non meritavo
le sue
attenzioni.
Quella vita mi
stava uccidendo giorno dopo giorno, ma ormai ne facevo parte, ne ero
inghiottito e non c'era un modo per uscirne e risollevarsi.
Era troppo tardi.
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Capitolo 3 *** III ***
III
Trascorsi la settimana
a lavorare per il mostro, distruggendomi le ossa e
la dignità. Trascorsi ore infinite con lui, sentendomi
appellare in modi
orribili, sentendomi umiliare in ogni momento e senza alcun pudore.
La sua voce era
diventata come un cancro per me, la udivo anche nei rari
istanti in cui non ce l'avevo attorno, e mi perseguitava anche durante
la
notte. Dormivo poco e il mio sonno era tormentato e ben poco
ristoratore.
L'orco mi aveva
promesso che me l'avrebbe fatta pagare, e lui manteneva
sempre le sue orribili promesse. Era un uomo di parola, dopotutto.
Quando il sabato
arrivò, uscii molto presto di casa, prendendo la mia
auto ammaccata e raggiungendo in fretta il luogo del mercatino.
Mi accostai a Enea
quando ancora c'era poca gente, erano appena le sette
e mezza e lui era impegnato a sistemare con minuzia la sua merce sul
banco.
Quando mi vide, prima
sorrise calorosamente, poi i suoi occhi si
rabbuiarono. Aveva capito subito che non stavo affatto bene, si notava
dalla
mia espressione sfinita e dalle mie mani graffiate e tagliate. Inoltre,
non
facevo che tossire e avvertivo un bruciante e fastidioso mal di gola.
«Cosimo...»
articolò, lasciando cadere un lembo del telo che stava
sistemando sul tavolo. «Cosa ti è
successo?»
Non aprii bocca, mi
limitai ad arrossire. Certamente non potevo
raccontargli la verità, mi vergognavo e sapevo che avrebbe
cambiato idea su di
me, ma ero anche conscio che mi avrebbe convinto a parlare. Lui
riusciva a
tirarmi fuori la verità, lui riusciva a capirmi al volo e
voleva conoscere la
causa dei miei mali.
«Cosimo, mi
dici che succede?» ripeté, accostandosi a me e
posandomi una
mano sulla spalla.
Io evitai
accuratamente di incrociare il suo sguardo, mi sentivo
veramente inadeguato di fronte a quell'uomo, lui che aveva superato
tante
difficoltà e non si era lasciato abbattere come me.
«Dai, mi fai
preoccupare... Cosimo, guardami» mi incoraggiò,
sfiorandomi
appena il mento con le dita.
Mi sentii il viso
andare in fiamme e sollevai piano gli occhi, posandoli
sui suoi. Erano caldi, bellissimi, pieni di preoccupazione e
apprensione per
me. Qualcosa si contorse e si sciolse all'interno del mio cuore, forse
la
consapevolezza di quanto Enea tenesse a me e detestasse vedermi
così affranto.
«Io...»
fu tutto ciò che riuscii a farfugliare.
«Cristo, ma
che ti hanno fatto? Se è stato tuo padre, giuro che stavolta
mi incazzo! Cosimo, senti un po'...» Mi afferrò
saldamente per le spalle e mi
fissò con determinazione. «Adesso basta. Non puoi
andare avanti così. Devi
reagire, io non sopporto queste ingiustizie, chiaro? E non sopporto che
qualcuno tratti male i miei amici» affermò senza
alcuna esitazione.
Lo guardai incredulo.
Davvero l'aveva detto? Dovevo aver udito male, non
poteva avermi incluso nella lista dei suoi amici.
Poi i suoi occhi si
fecero ancora più intensi. «E non sopporto chi
tratta
male te» aggiunse con sicurezza.
Il cuore mi
sprofondò all'interno del petto, le gambe presero a tremare
e
la pelle del mio corpo andò completamente a fuoco. Avevo
capito male, dovevo
essere talmente frastornato che anche la mia integrità
mentale aveva deciso di
abbandonarmi.
«Cosimo,
raccontami cosa è successo» mi ordinò,
ma il suo modo di parlare
fu dolce e premuroso, non c'era traccia di violenza nella sua voce
calda e apprensiva.
Mi portai una mano fra
i capelli e sospirai, per poi cominciare a
rimettere insieme i pezzi della settimana che avevo appena trascorso.
Vuotai
completamente il sacco, gli raccontai ogni singola cosa e subito mi
accorsi che
mi sentivo meglio. Era liberatorio parlare con quell'uomo, era una cura
per la
carcassa ansante della mia anima distrutta. Potevo quasi illudermi che
le cose
sarebbero andate bene.
Enea mi
afferrò per un braccio, mi condusse sul retro del suo
furgone e
mi fece sedere com'era successo una settimana prima. Si
accomodò al mio fianco
e, senza pensarci due volte, mi prese tra le braccia e mi strinse forte
a sé,
cullandomi con tanta delicatezza e dolcezza, che quasi stentai ad
associare al
suo aspetto rude e al suo atteggiamento sicuro e determinato. Non
piansi
com'era successo la volta precedente, mi limitai ad aggrapparmi al suo
corpo in
silenzio, ricambiando l'abbraccio e affondando il viso sulla sua spalla.
«Cosimo,
ascolta. Sei un ragazzo speciale, mica devi farti trattare
così... tu meriti di meglio, tu meriti tanta
felicità e tanto amore»
sussurrava, e nel frattempo mi carezzava piano i capelli e la schiena.
Io tremavo e
rabbrividivo sotto il suo tocco, rendendomi conto per la
prima volta di quanto mi fosse mancato durante la settimana appena
trascorsa,
di quanto ormai fossi dipendente da quel contatto bizzarro e
mortalmente
sbagliato. Fui consapevole di quante lacune e mancanze affettive mi
portassi
dietro e di quanto mi sentissi solo al mondo. Tutto questo spariva
soltanto quando
Enea mi stringeva a sé e mi parlava con dolcezza, come se
non volesse lasciarmi
tornare alla mia misera e deplorevole vita.
«Ho un
piano, ascoltami.» Enea mi fece scostare da sé e
mi guardò negli
occhi, senza spostare le mani dalle mie braccia. «Devi
assolutamente andare via
di lì, ti porterò via da quell'inferno.»
Mi lasciai sfuggire un
rantolo strozzato, improvvisamente invaso dal
terrore. «No! Lui non lo permetterà mai,
verrà a cercarmi, farà del male a
entrambi e... e... non posso lasciare i miei animali e le mie piante,
lui
distruggerà e ucciderà tutto! Grazie,
ma...»
«Non
può impedirti di andare a lavorare, Cosimo.»
Lo fissai confuso e
attesi che mi spiegasse meglio.
«Vorrei che
tu venissi a lavorare con me. Durante la settimana c'è da
fare in negozio, e nel weekend ce ne andiamo per mercatini. In questo
modo
starai poco e niente a casa, e non dovrai lasciare le tue piante e i
tuoi
animali» disse con semplicità.
«Ma... ma...
chi baderà a loro? Chi preparerà il pranzo? Mia
madre non...
io non posso. Non mi è stata concessa la
possibilità di scegliere, non posso
avere una vita normale» gli feci notare, abbassando il capo.
Enea mi costrinse a
sollevare il mento, stavolta afferrandolo con
decisione in modo che non potessi sfuggirgli. «Si
arrangeranno, chiaro? Tu non
sei di loro proprietà, tu non sei di nessuno. Sei una
persona, non un oggetto o
uno schiavo!» disse con fervore, gli occhi fiammeggianti a
dimostrare che
credeva davvero in quelle parole. «Se non sono in grado di
cucinare e pulire
casa, possono assumere qualcuno. Lo pagano e via. Questi non sono
problemi
tuoi, Cosimo. Per quanto riguarda i tuoi animali e le tue piante...
puoi
dedicarti a loro nel tempo libero, e nel frattempo possiamo trovare una
persona
che le curi quando sei al lavoro. Ho già in mente qualcuno,
tu non devi
preoccuparti.» Fece una pausa e le sue dita lasciarono andare
il mio mento,
scivolando piano sulla mia guancia. «Voglio solo che tu stia
lontano da lì il
più possibile. E se non basterò, ti
porterò via da lì. Hai capito?»
Ero sconvolto, non
riuscivo più a protestare né a respirare. Sentivo
le
sue carezze sul viso, sentivo le sue parole apprensive fare breccia tra
i cocci
del mio cuore, sentivo la sua vicinanza confortarmi e rendermi un poco
più
forte. Tutto insieme a lui sembrava possibile, semplice, risolvibile.
«Io non...
sei gentile, davvero, ma... non so se...»
Enea
sospirò e prese il mio viso tra le mani, scrutandomi
attentamente.
«Cosimo, cosa devo fare per farti capire che sei speciale e
che io non posso
sopportare che qualcuno ti faccia del male? Senti, so che sono
veramente
inadeguato, ma ti assicuro che tengo moltissimo a te. Le cose tra noi
non
possono funzionare, mi sento proprio un pervertito a dirtelo, ma mi
piaci. Mi
sento legato a te, c'è un sentimento che non so spiegarmi...
ma so, ragazzo
mio, so che tu sei giovane e non puoi sprecare la tua vita con uno come
me.
Però voglio fare tutto il possibile perché tu
stia bene, perché prima di tutto
siamo amici. E gli amici si aiutano sempre, si sostengono, danno l'uno
la vita
per l'altro. Capisci?»
Sbattevo ripetutamente
le palpebre. Gli piacevo? Chi, io? Ma stava
impazzendo? Anche lui era diventato folle come il mio orco? Non poteva
essere
così. Forse quel mostro di mio padre mi aveva drogato e ora
stavo avendo un'allucinazione
molto forte, sì, doveva essere questa la verità.
Altrimenti non avrei saputo
come spiegarmelo.
Ma le sue mani su di
me, la sua voce, il suo respiro, tutto era troppo
reale per far parte di un'allucinazione.
«Hai capito?
Non ti lascerò a marcire lì dentro, Cosimo. Di
questo non
dubitare» concluse, per poi lasciarmi un breve bacio sulla
fronte.
Il contatto con le sue
labbra fu fugace, quasi impercettibile, ma le
avvertii chiaramente: così morbide, calde, rassicuranti. Era
quasi impossibile
che gli appartenessero, a vederlo così non si sarebbe mai
detto.
Non sapevo cosa
rispondere, così non lo feci. Rimasi fermo, in silenzio,
con il viso e il corpo in fiamme. Avrei dovuto dirgli qualcosa, fare
qualcosa,
ma io non ero capace di amare, non ero capace di dimostrare affetto,
non sapevo
come ci si comportava in una situazione del genere.
«Ti ho
spaventato?» sussurrò Enea.
Scossi il capo.
«Io volevo...» provai a dire, ma subito mi fermai.
Sollevai il capo e lo guardai con fare smarrito, senza sapere
assolutamente
dove sbattere la testa. Osservai attentamente la sua pelle chiara e un
poco
segnata dagli anni, gli occhi scuri e penetranti, i lineamenti marcati
nascosti
da un po' di barba, le labbra sottili e i capelli brizzolati che gli
donavano
divinamente. Non riuscivo più a staccare lo sguardo da lui,
era immensamente
perfetto, era tutto ciò che avevo sempre desiderato. Ed era
lì, di fronte a me,
a sorridermi appena e con le mani ancora sul mio viso.
Lui parve leggermi nel
pensiero, mi attirò un po' più vicino a
sé e mi
abbracciò forte, con fare protettivo. «Ti proteggo
io, ragazzo mio» mi
assicurò, tornando a insinuare le dita tra i miei capelli.
Nonostante non
trovassi il coraggio per dirglielo, avevo deciso di
accettare la sua proposta. Il solo fatto di sapere che lui provava
qualcosa per
me mi dava sollievo, mi faceva capire che forse anche io meritavo un
briciolo
di rispetto e affetto.
Il mio cuore batteva
all'impazzata mentre un'idea malsana si faceva largo
nei miei pensieri, divenendo man mano più prepotente e
pressante: avrei voluto
che mi baciasse, ma non avevo la minima idea di come si facesse, di
come avrei
dovuto agire e pormi nei suoi confronti. Aveva detto che tra noi non
avrebbe
funzionato, forse era convinto che io non provassi lo stesso per lui,
che
desiderassi farmi una vita e una famiglia come tanti altri uomini, che
sognassi
di avere al mio fianco una bella donna. Ma non era così, non
lo era affatto.
Tutto ciò
che mi serviva per stare bene era lui, ma non riuscivo a
trovare il coraggio per farglielo capire.
«Allora?
Accetti la mia offerta di lavoro?» mi chiese dopo un po'.
Mi allontanai da lui
per poterlo guardare in faccia. Annuii piano.
«Grazie» mormorai, poi venni scosso da un accesso
di tosse.
«Ma prima
devi andare da un dottore e rimetterti in forze. Me lo
prometti?»
Annuii ancora e
lasciai che mi accarezzasse le tempie e le guance. Il
fatto che non mi sottraessi alle sue attenzioni avrebbe dovuto fargli
capire
che ricambiavo i suoi sentimenti, che anche lui mi piaceva e che volevo
di più.
Anche se mi sentivo inadeguato e incapace, anche se ero inesperto e del
tutto
estraneo a certe cose.
Io tenevo le mani
poggiate sul ripiano su cui eravamo seduti, non
riuscivo a rendermi audace e sollevarle. Forse avrei dovuto, mi rendevo
conto
di essere un vero disastro, ma certe situazioni erano troppo
imbarazzanti per
me, non potevo farci niente.
Enea fece scorrere un
dito sul mio mento, poi tracciò il profilo delle
mie labbra e io sussultai, ritraendomi improvvisamente. Non mi
aspettavo quel
gesto, non ero pronto ad affrontarlo.
Lui tenne la mano a
mezz'aria, fissandomi con aria preoccupata. «Scusami,
hai ragione. Devo mantenere la calma, Cosimo.»
Mi ritrovai a scuotere
il capo energicamente, non volevo allontanarlo,
ero soltanto rimasto scosso da quell'azzardo.
Lui mi
osservò e si sciolse in un caldo sorriso. Prese le mie mani
tra le
sue e le strinse forte, tenendo il viso a pochi centimetri dal mio.
«Cosimo?»
mi chiamò.
Rimasi in attesa che
parlasse.
«Posso
baciarti?» domandò. Era così, lui:
diretto, schietto, senza peli
sulla lingua. Eravamo due opposti.
Annuii
impercettibilmente, ma mi sentii in dovere di spiegargli qualcosa.
«Io non ho... non so cosa fare, mi dispiace
tanto...» farfugliai in completo
imbarazzo.
Enea si
lasciò scappare una breve risata, poi replicò:
«Baciami e basta».
Detto questo, mi
trascinò contro di sé e premette delicatamente le
sue
labbra sulle mie, mentre guidava le mie mani sul suo petto e mi
circondava con
le braccia. Mi lasciò alcuni leggeri baci a fior di labbra,
poi si fermò e mi
guardò ancora negli occhi. Il suo sguardo era caldo e
liquido, mi faceva
fremere da capo a piedi.
Non sapevo spiegare
cosa stessi provando, sapevo soltanto che volevo
farlo ancora. Enea portò la mano destra tra i miei capelli,
sulla mia nuca, e
si accostò nuovamente al mio viso, invitandomi a stargli
ancora più vicino.
Quando sentii la sua
lingua carezzare piano le mie labbra, fremetti come
non mi era mai successo e, di riflesso, aprii la bocca e subito lui la
invase,
senza lasciarmi il tempo di comprendere cosa stesse succedendo.
Non avrei mai creduto
che l'avrei provato davvero, che avrei saputo cosa
significasse baciare qualcuno, e ora che stava accadendo, mi sentivo
talmente
elettrizzato e strano... non potei fare altro che lasciarmi guidare dai
suoi
movimenti esperti, finché non capii come funzionava. A quel
punto cominciai a
prenderci gusto e divenni un poco più audace, circondandogli
le spalle con le
braccia e premendomi più forte a lui.
Era magnifico,
incredibile, bellissimo. Sarei stato a baciarlo così per
sempre, avrei voluto non dovermi mai più sottrarre a
quell'abbraccio e alle sue
labbra pazzesche, capaci di farmi dimenticare tutti gli orrori che
avevo dovuto
sopportare fino a quel momento.
Ci separammo soltanto
quando sentimmo la necessità di riprendere fiato.
Enea continuava a carezzarmi i capelli e il viso con la mano destra,
mentre con
la sinistra premeva sulla mia schiena per tenermi stretto a
sé. Mi contemplava
con ammirazione e dolcezza, senza lasciare mai che i suoi occhi si
scostassero
dal mio viso.
«Per noi non
c'è futuro, Cosimo. Io voglio che tu trovi la
felicità con
qualcuno più giovane di me, che tu abbia la vita che meriti.
Sei troppo giovane
e bello per me» mormorò.
Scossi forte il capo,
mordendomi piano il labbro inferiore. Sentivo
ancora in bocca il sapore inconfondibile del caffè che tanto
amava sorseggiare.
«No» mi limitai a replicare.
«Andiamo,
ragazzo. È stato bello per entrambi questo bacio, ma non
posso
davvero costringerti a stare con uno come me. Quando morirò,
tu sarai ancora
giovane e ti renderai conto di aver sprecato gli anni più
belli della tua vita»
proseguì.
«Gli ho
già sprecati» gli feci notare, acquistando un poco
di sicurezza.
«Ho già trent'anni» aggiunsi.
«Hai tutto
da vivere, tutto da fare, da scoprire...»
«No!»
esclamai con impeto, sorprendendomi di quanto fossi divenuto
improvvisamente serio e fermo nelle mie decisioni.
Enea mi
scrutò per un po', poi si lasciò sfuggire un
lieve sorriso.
«Allora sai essere anche testardo quando vuoi.»
«Sì»
confermai.
«Ah, cazzo,
ma che mi hai fatto?» se ne uscì, utilizzando un
tono di voce
un po' troppo melodrammatico. Rise e mi strinse nuovamente a
sé, tornando a
baciarmi.
Ormai avevo capito
come comportarmi, così risposi immediatamente e mi
strinsi forte a lui, senza lasciarmi più sfuggire
l'occasione di averlo
accanto. Non mi importava ciò che mi aveva detto, lui mi
piaceva davvero e non
potevo lasciarmelo scappare. Non ora che avevo la certezza che lui mi
volesse
come io volevo lui.
Solo quando stavo al
suo fianco riuscivo a trovare la forza per reagire,
per guardare la mia misera vita da un'altra prospettiva, per trovare e
attuare
le soluzioni che fino a quel momento mi ero rifiutato di prendere in
considerazione.
E andavo pazzo per i
suoi baci e per le sue carezze, andavo pazzo per
tutto ciò che lo riguardava e mi sentivo finalmente amato e
rispettato come
qualunque altro essere umano.
«Comincio a
lavorare.»
In cucina si
udì il rumore delle posate che cozzavano sui piatti, quando
i miei genitori le misero giù e mi fissarono.
Mia madre era confusa
e parve cadere completamente dalle nuvole, mentre
il mostro era inorridito e quasi divertito da ciò che avevo
appena detto.
«Ah. E
dove?» se ne uscì mia madre, per poi riprendere a
mangiare la
pasta al ragù che avevo cucinato.
«In un
negozio di articoli da regalo. E nel fine settimana vado con il
proprietario a esporre ai mercatini» spiegai in tono piatto.
Non mi importava
più cosa avrebbero pensato, avevo preso la mia decisione
e a questo punto non potevo più tornare indietro. L'ultima
cosa che volevo era
deludere Enea con il rischio di perderlo. Piuttosto mi sarei fatto
uccidere da
mio padre.
Quest'ultimo
scoppiò a ridere e allontanò il piatto con
stizza, ma prima
vi sputò dentro con disgusto. «Pensa un po', la
merda che va al lavoro? Che
notizia!»
«Già»
replicai risoluto.
«Ma Cosimo,
io come farò?» si lamentò mia madre.
«Chi verrà a prendermi
al lavoro? Chi baderà alla casa?»
Mi strinsi nelle
spalle. «Non lo so. Però devo guadagnarmi da
vivere,
avrò una buona paga e non peserò su di
te» le dissi, ignorando completamente i
grugniti del dinosauro che stava seduto di fronte a me.
«Cristo
santo...» sussurrò lei, portandosi le mani in
testa.
«Assumi
qualcuno perché ti aiuti, mamma. Abbi pazienza.
Lavorerò a tempo
pieno e non potrò tornare per pranzo. Qualche volta
potrò pensare alla cena, ma
non sempre. Dipende da che ora finisco in negozio. E nel fine settimana
sarà
praticamente impossibile. Verrà un uomo qui a badare ad
animali e piante, a
questo ho già pensato.»
L'orco si mise in
piedi e diede un calcio alla sedia, poi afferrò il
bicchiere in vetro e lo scagliò sul pavimento.
Lo fissai con
disprezzo. «Bene, ora tocca a voi pulire, io devo andare.
Comincio questo pomeriggio» annunciai, per poi alzarmi.
Vederlo sputare sul
cibo che avevo preparato mi aveva fatto passare la
fame.
Andai in camera mia,
presi la giacca, il cellulare e le chiavi della
macchina, richiusi a chiave la porta e mi avviai fuori di casa.
Erano trascorsi due
giorni da quando Enea mi aveva proposto di lavorare
con lui, e da allora non lo vedevo.
Salii a bordo e guidai
con calma verso il paese in cui si trovava il suo
negozio. Ci misi un po' per arrivare, ma quando finalmente giunsi a
destinazione ero euforico e felice.
L'uomo mi accolse con
un caloroso sorriso e mi abbracciò dolcemente,
lasciandomi un breve bacio a fior di labbra.
«L'hai detto
ai tuoi?» volle sapere.
Gli raccontai
com'erano andate le cose, e la scena parve divertirlo
parecchio poiché scoppiò a ridere e mi
scompigliò affettuosamente i capelli.
«Sono
orgoglioso di te» ammise poi, facendosi nuovamente serio.
Mi sentii avvampare,
rendendomi conto che mai nessuno mi aveva detto
delle parole così belle e sincere. Ero sempre stato
insultato e trattato con
disprezzo, forse non mi sarei mai abituato alla dolcezza del mio Enea.
«E ora
mettiamoci al lavoro, hai tanto da imparare!»
esclamò con
entusiasmo.
Da quel momento in poi
sarebbe cominciata la mia nuova vita e io avrei
fatto di tutto per tenermela stretta, lottando con tutte le mie forze
per meritare
il posto che Enea mi aveva concesso al suo fianco.
Come lavoratore e come
compagno di vita.
♣
♣ ♣ ♣
Eccoci
arrivati alla
fine di questa piccola avventura, cari lettori!
Questa
storia è nata con
l’intento di incoraggiare chi non crede nella vita, nel
cambiamento e nella
lotta per qualcosa di meglio!
Ho
voluto soltanto
portare un po’ di positività, ho voluto dare al
racconto un lieto fine e spero
che questo vi sia piaciuto e non sia risultato troppo banale o scontato!
Se
così fosse, be’,
scusatemi, ma non mi andava di lasciare Cosimo in una situazione tanto
tragica
e insostenibile… ^^
Ci
tengo moltissimo a
ringraziare chi mi ha sostenuto in questo breve racconto, in
particolare alessandroago_94,
yonoi e Soul_Shine:
grazie di cuore per avermi dato
dei consigli, per essere stati sinceri e gentili, e per aver dedicato
un po’
del vostro prezioso tempo a leggere questa mia ennesima folle idea :3
Un
grazie va anche a chi
arriverà qui in futuro, a chi ha letto in silenzio e a chi
è capitato qui per
caso… è tutto importante per uno scrittore, anche
riuscire a raggiungere un
piccolo frammento del cuore di una singola persona!
Alla
prossima ♥
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