Mutazione

di WhiteLight Girl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dietro quella porta ***
Capitolo 2: *** Chi non muore si rivede ***
Capitolo 3: *** Acque torbide ***
Capitolo 4: *** Aspettare mentre la vita passa ***
Capitolo 5: *** Tutto ciò che potrò fare ***
Capitolo 6: *** Se fossimo ragazzi normali... ***
Capitolo 7: *** Gli amici non ti abbandonano ***
Capitolo 8: *** La differenza tra volere e potere ***
Capitolo 9: *** Dalla parte opposta ***
Capitolo 10: *** Sotto la superficile ***
Capitolo 11: *** Non puoi sfuggire all’alba in eterno ***
Capitolo 12: *** Dove porta l'ascensore (p.1) ***
Capitolo 13: *** Dove porta l'ascensore (p.2) ***
Capitolo 14: *** Incoscienza ***
Capitolo 15: *** Annaspando ***
Capitolo 16: *** Senza fiato ***
Capitolo 17: *** La strada da percorrere ***
Capitolo 18: *** Dirottamento ***



Capitolo 1
*** Dietro quella porta ***


CAPITOLO 1
Dietro quella porta


SHIBUYA

Izumi rallentò per selezionare i diversi tipi di caramelle che aveva sul palmo della mano, Takuya pensò che temporeggiare nel mezzo del corridoio del centro commerciale nell’ora di punta non fosse una buona idea, ma si riguardò bene dal dirlo.

«È come se Natale fosse arrivato in anticipo.» gli disse Kouji all’orecchio.

Takuya non lo aveva sentito arrivare, ma anche prima di voltarsi sapeva che Kouichi era al suo fianco. Sorrise ad entrambi, poi fece loro un cenno di saluto, mentre Izumi divideva le caramelle tra Tomoki e Junpei secondo i loro gusti personali. Poi la ragazza passò quelle che le rimanevano sul palmo agli amici appena arrivati, facendo un cenno con la testa alla busta ancora mezza piena che le spuntava da uno dei sacchetti che portava appeso al polso.

«Tenete, tanto per me sono comunque troppe.» disse.

Takuya fece schioccare la lingua, strizzò gli occhi e la fissò, pronto a lamentarsi del fatto che a lui non fossero state offerte, ma proprio in quel momento Izumi fece scivolare la mano sotto il suo naso per assicurarsi che ne prendesse anche lui. Accettò di buon grado la caramella e, dopo averla scartata, la infilò in bocca e lasciò che essa si sciogliesse sulla lingua dopo averla spostata prima contro una guancia e poi contro l’altra.

Kouichi infilò in tasca la caramella che aveva scelto, Takuya era sicuro che se la sarebbe dimenticata e l’avrebbe ritrovata la settimana successiva, decidendo di passarla a qualcun altro. Probabilmente Junpei non vedeva l’ora che succedesse, così da potersi offrire di prenderla perché non andasse sprecata.

«Di chi è il turno di decidere cosa fare?» domandò il ragazzo.

Takuya avrebbe preferito che non l’avesse fatto, che si fosse limitato a riempirsi la bocca e a far finta di nulla come avevano fatto tutti fin da quando erano arrivati, perché il far finta di nulla quando scegliere cosa fare era il turno di Izumi era una tradizione ben oliata come lo stesso appuntamento settimanale al Magazzino 109. Fino a quel momento tutto era andato bene ma ora, dopo la fatidica domanda, Izumi aveva gli occhi che luccicavano; già pregustava una noiosa sessione di shopping, l’inconcepibile quantità di negozi in cui andare, le cose da comprare, i giri da fare. Niente a che vedere con le proposte dei ragazzi, che di solito viravano dal cinema, al negozio dei videogiochi o alla sala giochi. Izumi amava usarli come portaborse e, in quei momenti, loro sentivano di amare un po’ meno lei.

«Dunque...» iniziò, premendo un dito contro la guancia e spingendo le labbra in fuori in un’adorabile espressione forzatamente pensierosa. Come se quella suspense fosse divertente, come se non sapessero già cosa avrebbe detto. «Ci sarebbe quel negozietto di scarpe al secondo piano che l’altra volta non abbiamo fatto in tempo a visitare...»

Takuya chinò il capo, perfino Junpei, che avrebbe seguito Izumi in capo al mondo, doveva sforzarsi di non dimostrarsi troppo infastidito. Tomoki si era fatto furbo, aveva preso l’abitudine di portarsi sempre dietro i suoi videogiochi, per cui se la cavava sedendosi in un angolo a giocare, mentre Kouji reggeva scatole, pacchi e vestiti facendo la guardia al camerino, con le gote rosse dall’imbarazzo e gli occhi serrati come per autoconvincersi di non essere davvero lì. Forse, pensò Takuya, Kouichi in fondo sperava che la ragazza proponesse un’altra volta un cambio di look per tutti loro, doveva ammettere che quando era successo, settimane prima, si era divertito anche lui.

«Allora forza» esclamò Izumi saltellando. «chi arriva ultimo al secondo piano mi offre il biglietto per il prossimo film al cinema.»
Tomoki le corse dietro, Kouichi si accigliò. «Questo avrebbe senso se per arrivarci non dovessimo prendere tutti lo stesso ascensore contemporaneamente.»

Takuya, Kouji e Junpei si scambiarono un’occhiata, Takuya si domandò se anche loro si stessero chiedendo se pagare un biglietto del cinema a una ragazza, anche se in seguito ad aver perso una sfida, sarebbe potuto essere considerato come un appuntamento. Si riscossero tutti e tre contemporaneamente, apprestandosi con uno scatto a raggiungere gli amici, Izumi attese che l’ascensore si svuotasse, poi si infilò dentro e fece loro la linguaccia.

«Ehi! Aspettaci!» le disse Junpei.

Tomoki si era fermato a metà strada, le dava le spalle, probabilmente certo che non sarebbe andata avanti se prima non l’avessero raggiunta, ma non fu così. Le porte dell’ascensore si chiusero, Izumi sgranò gli occhi e si mosse in avanti per bloccarle, ma non fece in tempo. Davanti allo sguardo spalancato di Takuya, il contatore dei piani iniziò a contare a ritroso, passò dal piano terra al parcheggio, al seminterrato, poi passò dallo zero e scese all’infinito, tanto rapido da impedire loro di leggerne i numeri, ammesso che stesse ancora segnando quelli.

Takuya sgranò gli occhi, raggiunse le porte, vi premette le mani sopra, cercò di infilare le dita nell’apertura per costringerle a dischiudersi, con gli amici al suo fianco.

«Credete sia il Digital World?» domandò Tomoki. «Che abbia di nuovo bisogno di noi?»

«Se è così allora perché ha portato giù solo Izumi?» domandò Kouji.

Takuya si fermò a rifletterci, sorrise ad un’anziana signora che si era fermata ad osservarli, preoccupata da tutto il trambusto che stavano facendo.

«Se è il Digital World tornerà a prenderci, o ci farà una telefonata.» disse, ma premette comunque il tasto per richiamare l’ascensore.

Rimasero in attesa, in silenzio, per alcuni minuti. Takuya pensò che avrebbe quasi preferito fare un altro giro nel negozio di cosmetici al terzo piano, piuttosto che rimanere lì come un idiota a domandarsi dove fosse Izumi. Quando fosse tornata, si disse, l’avrebbe accompagnata in tutti i centri commerciali in cui sarebbe voluta andare, a meno che non fosse solo uno scherzo di cattivo gusto. Ma quello degli scherzi idioti era Junpei, Izumi non avrebbe mai fatto una cosa simile a nessuno di loro.

Guardò l’orologio, desideroso di aver tenuto conto di quando l’ascensore era partito per poter capire quanto tempo era passato, ma non era stato abbastanza lungimirante.

Alla fine, quando i talloni cominciarono a fargli male e Tomoki si era arreso a sedersi per terra con la schiena appoggiata al muro, l’ascensore si riaprì. Tomoki scattò in piedi, tutti e cinque si sporsero per vedere chi ne sarebbe uscito, dietro di loro si era raggruppato un piccolo drappello di persone in attesa del loro turno.

Una piccola ondata d’acqua si riversò sul corridoio, Takuya la seguì con lo sguardo mentre raggiungendo le sue scarpe, sollevò il viso per incrociare gli occhi di Izumi, che era rimasta immobile al centro dell’ascensore. Il suo sguardo era vacuo, li fissava ma non li vedeva davvero, Junpei fu il primo ad avere il coraggio di parlarle.

«Izumi? Stai bene?» le domandò, ma lei non rispose.

Nell’incertezza del momento, solo Kouichi ebbe il coraggio di avvicinarsi. «Izumi.» disse, allungando una mano per raggiungerla.

La gente attorno a loro bisbigliava, si domandava cosa fosse successo, ma la domanda che si poneva Takuya era ben più specifica.

«Era il Digital World?»

Izumi non rispose, fece un passo verso Kouichi, tese le bracca e premette i palmi contro le sue guance per trattenerlo, poi spinse il viso contro il suo e, inaspettatamente, lo baciò.

O almeno fu ciò che tutti in quel momento pensarono.

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Capitolo 2
*** Chi non muore si rivede ***


CAPITOLO 2
Chi non muore si rivede


SHINJUKU

Takato sistemò il piatto con i sandwich sul vassoio e lo accostò ai bicchieri ed alla brocca colma di succo di frutta, poi richiuse con un piede il frigorifero alle sue spalle e sorrise a sua madre.

«Per essere in ritardo sulla tabella di marcia non stiamo andando male.» la rassicurò.

La sentì sospirare, ma lei rimase intenta a lavare le posate.

«L’importante è che tu passi questo compito in classe con un voto decente, se non vuoi dormire all’addiaccio per una settimana.» gli ricordò.

Takato deglutì, conscio che la minaccia non era a vuoto. «Sì, mamma.»

Prese il vassoio e aprì la porta che dava sul corridoio con una spallata, il succo ondeggiò nella brocca a ogni passo rischiando di strabordare. Salì per le scale in penombra e quasi inciampò sull’ultimo gradino; la porta della sua camera era chiusa, per cui non gli restò che sporgere il gomito ed usarlo per tirare giù la maniglia. Il movimento fece tremare il succo, il piatto scivolò contro i bicchieri con un tintinnio e Takato trattenne il fiato mentre spingeva la porta con il piede.

Hirokazu e Kenta erano esattamente dove li aveva lasciati, il fatto che avessero ignorato la possibilità di poterlo aiutare lo infastidì, ma non disse nulla. Hirokazu si sollevò da letto tendendo il collo, i palmi premuti contro il materasso, solo per dire: «Era ora, pensavo che ci avessi lasciati qui a morire di fame.»

Kenta gli lanciò un’occhiata e si corrucciò, gli occhiali gli scesero verso la punta del naso e la matita che aveva incastrato dietro l’orecchio si mosse, rischiando di scivolargli sulla spalla.

Takato guardò il televisore acceso, il volume era assente ed il telecomando abbandonato in cima ai libri che aveva ammucchiato in un angolo del tavolo prima di scendere al piano inferiore; Hirokazu aveva insistito per tenere d’occhio l’intervista di un nuovo gruppo di idol nonostante sapesse che questo li avrebbe deconcentrati, ma non c’era stato verso di farlo ragionare.

«Ho perso tempo a mescolare il cianuro con la maionese del tuo panino.» gli disse Takato, convinto che fosse già tornato ad ignorarlo.

Invece Hirokazu lo guardò e affilò gli occhi, poggiando i piedi per terra ed alzandosi mentre Kenta faceva spazio tra i quaderni per il vassoio. «Davvero gentile.» disse il ragazzo. Ma Takato si limitò a ridere e raggiungere la scrivania.

Hirokazu afferrò il suo sandwich prima ancora che Takato riuscisse a poggiare tutto, urtando i bicchieri e facendoli rotolare giù dal vassoio e sul libro di matematica.

Kenta sussultò e si tese per impedire che rotolassero verso il pavimento, allora li dispose uno accanto all’altro. «Piano.» disse. Chiuse il libro usando l’evidenziatore per non perdere la pagina e lo spinse di lato, muovendosi sulla sedia per fare spazio a Takato, che si risedette al suo fianco.

Hirokazu addentò il suo panino «Questa pausa ci voleva proprio.» esclamò a bocca piena, spargendo briciole sulla maglia e sul pavimento.

Kenta fece roteare gli occhi al soffitto e si tirò su gli occhiali con l’indice «Come se tu non ti fossi appisolato per tutto il tempo in cui noi abbiamo studiato.» sospirò. «Io non ti suggerirò nulla, dopodomani. Mi rifiuto.»

Takato rigirò i bicchieri e li riempì, Hirokazu ingoiò il boccone e si pulì la bocca con la manica.

«Stavo ripensando a quello che mi è successo l’altro giorno.» iniziò l’amico.

Takato lasciò cadere le spalle e bevve un sorso, offrendo il succo agli altri due.

«Ecco che ci risiamo.» disse Kenta. Prese un pezzo del proprio sandwich e lo portò alla bocca, lasciando il resto all’interno del piatto.

«Non me lo sono sognato.» chiarì Hirokazu seccato, infilò in bocca il dito coperto di maionese e lo riestrasse pulito e umido.

Takato arricciò il naso, invece Kenta afferrò un tovagliolo e glielo lanciò contro, quello fece un paio di giri su sé stesso e svolazzò verso il suolo. Hirokazu lo afferrò al volo prima che toccasse terra, e lo strofinò su una macchia unta che si era allargata sull’orlo della manica, poi lo usò per asciugarsi il dito. «Sono serio, credete che potrei inventarmi una cosa simile?»

Takato sollevò le braccia «No, certo che no.» disse. «Solo che è un po’ strano, non puoi negarlo»

Hirokazu si sporse tra i due e prese un altro tovagliolo. «Lo ammetto, è strano, ma questo non vuol dire che sia impossibile. Ne abbiamo viste di peggio, no?»

Takato sorrise, scolò tutto il contenuto del bicchiere e si concentrò sul proprio panino, Kenta si limitò a scrollare le spalle.

Hirokazu prese al volo il suo bicchiere e si risedette sul letto. «Sul serio, era un bicchiere d’acqua perfettamente limpida, prima di iniziare a puzzare come una latrina.»

Osservò il succo, lo fece ondeggiare nel bicchiere, lo annusò e solo dopo mandò giù un gran sorso.

«Che schifo.» disse, poi avvicinò la mano al petto con uno scatto ed il succo di frutta gli schizzò sul collo e sulla maglia.

«Perché finisco sempre per essere io quello che fa la figura del cafone maleducato che insozza qualunque cosa?» domandò Hirokazu.

DA QUALCHE ALTRA PARTE

La pressione costrinse il petto di Kouichi a spingere l’aria fuori dai suoi polmoni fino a vuotarli, le bolle risalirono in fretta mentre il dolore portato dall’acqua che lo avvolgeva pulsava, pungendogli le orecchie fin quasi ad assordarlo.

Il gorgoglio e il brivido gelido del rivolo di corrente che gli sfiorava i polsi lo riportarono alla realtà, spingendolo a riaprire gli occhi e ad agitare le braccia per ritrovare la superficie. Non un solo raggio di luce lo raggiungeva, facendogli temere di essere troppo in profondità. Si sbracciò, agitò le gambe nell’acqua e si spinse verso l’alto più in fretta che poté. I polmoni vuoti bruciavano, le orecchie dolevano come se qualcosa stesse per esplodere al loro interno e, per quanto riuscisse a risalire, non era ancora in grado di vedere la luce. I vestiti, pesanti e ondeggianti attorno a lui, gli sfioravano la pelle come una trappola, le scarpe gli impedivano di prendere velocità.

I pensieri gli si annebbiarono, il peso che lo opprimeva iniziò a diminuire proprio mentre anche la sua testa si svuotava. Respirò e l’acqua inondò i suoi polmoni prima che potesse fermarla.

Riemerse subito dopo, sputando e tossendo dalla gola bruciante mentre si teneva a galla con le sue ultime forze. Sollevò le gambe dolenti, spalancò le braccia, abbandonò la testa all’indietro e si lasciò galleggiare a pelo d’acqua tremando contro l’aria fredda.

Gli occhi attraversarono l’oscurità, abituandosi lentamente fino a permettergli di distinguere la cupola immensa che lo sovrastava, rilucendo di un verde malato riflesso da chissà dove.

L’acqua gli lambiva le orecchie, la maglia gli premeva fastidiosamente addosso e le scarpe gonfie d’acqua premevano contro le sue dita strette nei calzini zuppi. Kouichi inspirò forte, espirò ed agirò le dita della mano contro la superficie, voltò la testa e percorse con lo sguardo la semioscurità.

Ora che si era abituato all’assenza di luce riusciva ad intravedere la superficie rocciosa che risaliva ripida verso l’alto tra le venature scintillanti. Doveva essere finito in una grotta sotterranea, pensò, e non aveva idea di come ci era arrivato né di come uscirne.

Rimase a fissare le pareti per talmente tanto tempo che l’acqua sulle sue guance si asciugò e le ciocche di capelli posate sulla sua fronte divennero quasi intrecci di paglia crespa.

Da qualche parte, poco distante, ci doveva essere un foro da cui altra acqua scivolava nel lago sotterraneo, il suono ritmico di quelle gocce che infrangevano la superficie gli martellò in testa forse per ore senza dar segno di potersi fermare. Quando ebbe l’impressione che quel rumore l’avrebbe fatto impazzire, Kouichi sentì l’acqua gorgheggiare sotto di lui, il braccio scivolò contro qualcosa di viscido e lui sollevò il busto con un sussulto. Si aspettava di andare a fondo, di dover nuotare per restare a galla, invece scoprì che era finito su uno scoglio muschioso e che la corrente l’aveva trascinato a riva. Dietro di lui c’era quella che sembrava una spiaggetta di ciottoli e pochi metri verso l’interno una sagoma giaceva immobile, raggomitolata e mogia contro il terreno.

Kouichi sentì il cuore fermarglisi nel petto. Si voltò, ignorò il dolore delle ginocchia che urtavano contro le rocce, si arrampico tra i sassi e gattonò fino a raggiungere la figura supina.

La afferrò per le spalle, la voltò e le scostò i capelli dal viso. La riconobbe all’istante, ma Izumi rimase immobile davanti a lui.

Si chinò su di lei, terrorizzato dall’idea che fosse morta, quasi smise di respirare, il mondo attorno svanì per alcuni istanti e lui si piegò ed appoggiò l’orecchio sul suo petto.

Non sei morta. Non sei morta, si ripeté, come se questo potesse aiutarla.

Nonostante la pelle gelida, gli occhi chiusi ed il pallore messo in risalto dalla luce che li circondava, Izumi respirava ancora, il cuore le batteva placidamente nel petto e poi, nel momento in cui Kouichi si cominciò a chiedersi cosa fare, si mosse, tossì, sussultò e si aggrappò a lui spaventata.

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Capitolo 3
*** Acque torbide ***


CAPITOLO 3
Acque torbide

Nel Digital World la notte calò improvvisa, gettando la sua ombra sul deserto e sulle foreste un settore dopo l’altro. Nell’instante esatto in cui fu buio, il lago si ricoprì in fretta di uno spesso strato limaccioso che impediva a Renamon di scorgerne il fondo; le alghe che emergevano scivolavano sulla superficie accompagnate da bolle che esplodevano a pelo d’acqua riempiendo l’aria di puzza di marcio.

Il Digimon rimase appollaiato tra i rami di un grande albero sulla riva a osservare il fenomeno, cercando di comprendere cosa stesse succedendo dalla sicurezza del suo riparo. Restando a pochi metri dall’acqua, aveva una visuale perfetta del luccichio malato delle alghe che si accumulavano lungo la riva trascinandosi dietro filamenti di schiuma verdastra e densa.

Si aggrappò al tronco dell’albero e si sporse ancora, La puzza si era fatta tanto insopportabile che anche trattenendo il respiro riusciva a sentirne il retrogusto in gola, ma non si mosse.

La superficie dell’acqua si contrasse con un guizzo, un piccolo mulinello si formò nel centro e poi si richiuse ondeggiando su sé stesso. Renamon sollevò il capo, cercando di osservare meglio cosa stesse accadendo. L’acqua gorgogliò ancora ed una serie di piccole onde concentriche spinsero altre alghe verso la riva; continuavano ad emergere accumulandosi e celando il fondo luminescente.

Un’altra serie di bolle risalì dalle profondità scoppiettando e schizzando, poi il mulinello si placò, l’acqua iniziò a risalire dal fondo come avrebbe fatto da uno scarico intasato smuovendo il limaccio.

Per ultime arrivarono le due figure e mentre emergevano le alghe scivolarono loro addosso e piombarono di nuovo in acqua.

Renamon non aveva mai incontrato due Digimon di quel tipo, prima di allora, quindi li studiò in silenzio. Dalle ali spiegate della fata comprese che il suo elemento dovesse essere l’aria, mentre dell’altro poté solo osservare l’accenno di criniera e domandarsi se facesse parte della linea evolutiva di Leomon.

Rimase nascosta tra le fronde, li osservò guardarsi attorno e per un momento non fu sicura di come agire, se dovesse farsi avanti ed accogliersi in qualche modo.

Il Digimon con l’armatura scura raccolse un mucchio di alghe tra le dita e le strinse fino a disintegrarle, i loro dati scivolarono verso di lui che li assorbì, poi ne offrì un’altra manciata alla fata, che fece lo stesso.

Renamon cercò di ricordare se avesse visto qualche Digimon assorbire dati che non fossero di un altro Digimon, ma le vennero in mente solo le sfere di dati fluttuanti che popolavano da sempre il settore deserto e non riusciva a spiegarsi a cosa potessero servire loro.

Sperò semplicemente che le alghe bastassero ai due, ma poi la fata si voltò, tese le braccia e lanciò dei piccoli tornado contro una macchia d’alberi, distruggendoli ed assorbendo anche i loro dati. Renamon saltò fuori dalla sua copertura di fronde, balzando di ramo in ramo lungo i confini del lago per girare loro attorno, si mosse silenziosa fino a raggiungere loro punto cieco, ma la fata la sentì arrivare, spalancò le ali e si voltò verso di lei; aveva gli occhi coperti da una sorta di fascia di metallo, ma il suo ghigno era ben in vista.

Persa nello slancio per arrivarle alle spalle, Renamon non fu in grado di scostarsi. Il calcio la colpì in pieno petto, rispingendola indietro con forza e facendola atterrare contro un mucchio di rami che si spezzarono a causa dell’impatto.

Solo l’ultimo, più spesso e vicino al corpo principale dell’albero, frenò il suo slancio, strappandole un rantolo di dolore, e quando sollevò lo sguardo Renamon scoprì che la fata le stava volando incontro.

Si acquattò in attesa dell’impatto, contrasse gli artigli pronta a contrattaccare ma, invece di arrivarle addosso, la fata ruotò su sé stessa e le scagliò contro un vortice d’aria tanto potente da farla scivolare dal ramo e mandarla a sbattere contro il tronco dell’albero alle sue spalle.

C’era qualcosa nell’aria che la destabilizzava, impedendole di ragionare lucidamente e contrattaccare come avrebbe voluto, ma Renamon si rialzò comunque, anche se non c’era una sola idea nella sua testa che le desse una possibilità di avere un vantaggio. «Chi sei?» domandò, ma non ebbe alcuna risposta.

La fata sembrava aver già perso interesse per lei, tornò dal cavaliere in armatura e, con la mano guantata, carezzò la sua guancia. Il modo in cui lui inclinò il capo in segno di devozione stranì Renamon, poiché non aveva mai visto una cosa simile in un Digimon. Fu come se con quel singolo gesto avesse comunicato al cavaliere tutto ciò che lei desiderava che facesse, perché subito dopo lui tornò al centro del lago.

Qualunque cosa avesse fatto gorgogliare l’acqua fino a poco prima sembrava essersi fermata, se non fosse stato per le lievi folate di vento che la facevano increspare ora la superficie sarebbe stata immobile; le alghe ammucchiate lungo la riva ondeggiavano impigliandosi le une alle altre come una fitta rete di lerciume.

Renamon pensò che entrambi i Digimon sarebbero tornati a dedicarsi al lago, invece il cavaliere la raggiunse, le si avvicinò e sollevò una mano per scostare una felce che pendeva tra loro. I suoi occhi erano vacui e rossi, tanto che Renamon si domandò se stesse davvero guardando ciò che stava facendo.

La selce si frantumò contro la sua nocca, il cavaliere ne assorbì i dati come se fossero il pasto più succulento e, improvvisamente consapevole che non gli sarebbe bastato, Renamon sollevò il muso e reagì.

Lo colpì con un calcio e lo spinse indietro per mettere tra loro tutta la distanza che poteva, ma sapeva che se fosse tornato a fluttuare sul lago sarebbe stata in svantaggio.

La fata rimase in disparte, quasi come se non si preoccupasse del suo compagno e della sua sorte; forse pensava che non ne avesse motivo, forse semplicemente non le importava.

Renamon tese le orecchie, sentì le zampe che si muovevano sulle selci ed i respiri dal centro della foresta; qualcuno stava correndo verso di loro ed anche se non riusciva a sentire il loro odore a causa della puzza poteva permettersi di pensare che fossero i suoi amici.

«Che razza di Digimon siete, voi due?» domandò ai due che aveva davanti.

Non si aspettava una risposta, quindi non si stupì quando quella non arrivò, i due oscillavano tra l’ignorarla ed il distruggere ciò che avevano attorno con una rapidità tale che pensò che la considerassero solo una mosca fastidiosa di cui non doversi preoccupare se non quando provava a disturbarli.

La fata generò numerosi altri tornado, distrusse molti alberi ed assorbì i loro dati prima che essi si disperdessero, il cavaliere fece lo stesso con le rocce, le alghe e addirittura piccole porzioni di terreno. I piccoli crateri formatisi a ridosso del lago si colmarono con l’acqua portata da ogni onda, disegnando bizzarre forme lungo la riva.

Renamon ebbe in qualche modo la conferma che volessero solo assorbire dati, era sollevata che si soffermassero su cose che non fossero altri Digimon.

Poi i rami poco distante si aprirono, le fronde tutte attorno ondeggiarono al passaggio di Guilmon, Terriermon e numerosi altri Digimon. I loro sguardi indugiarono sulla fata ed il cavaliere, sui dati che scintillavano contro il cielo nero prima di essere assorbiti da loro.

La individuarono pochi istanti dopo, negli occhi una domanda che non osarono pronunciare.

«Vogliono distruggere tutto!» gridò Renamon, fu allora che coloro che erano appena arrivati li attaccarono, decisi a proteggere il loro mondo.

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Capitolo 4
*** Aspettare mentre la vita passa ***


CAPITOLO 4
Aspettare mentre la vita passa

SHINJUKU

Ruki premette il tasto di chiamata e portò il telefono all’orecchio, il vento che sferzava contro l’ingresso del cinema la faceva rabbrividire, ma lei limitò a spingere i capelli scompigliati dietro l’orecchio ed a sbuffare.

Il suo fiato caldo formò una nuvoletta contro il cielo scuro, rilucendo attraverso la luce del lampione sotto cui la ragazza si era appostata. La strada davanti a lei era trafficata, le auto passavano senza rallentare e proiettavano la luce dei loro fari sull’asfalto, facevano scintillare a tratti le pozzanghere sui marciapiedi e schizzavano la loro acqua addosso ai passanti senza neanche provare a rallentare.

Il telefono squillò per diversi minuti, ma nessuno rispose. Ruki riagganciò e strinse gli occhi per scrutare tra la folla che le passava davanti senza riuscire ad individuare la persona che cercava.

Juri le arrivò alle spalle, risvegliandola con un tocco leggero sulla spalla. Le sorrise, vedendola indicare gli altri che aspettavano appena oltre l’ingresso del cinema.

«Vieni dentro.» le disse la ragazza. «Se Ryou ti trova qui fuori potrebbe pensare che sei preoccupata.»

Ruki sospirò. «Si illuderebbe e basta.» dichiarò.

Juri scosse la testa e sorrise. «Non è la prima volta che è in ritardo.»

«Però è la prima volta che non avvisa.» rispose Ruki.

Poco distante Hirokazu diede una gomitata a Kenta ridendo, lanciandole occhiate di sbieco e ammiccando all’amico.

Juri le sorrise. «Se resti qui c’è il rischio che loro pensino che sei preoccupata.»

Ruki alzò gli occhi al cielo, sbirciò il display del telefono e poi lo lasciò scivolare sul fondo della borsa. «Andiamo.» disse.

Takato, Jenrya, Hirokazu e Kenta li aspettavano in coda, il tepore era maggiore che all’esterno, ma non bastava a scaldare la punta gelida ed intorpidita delle dita, quindi immerse le mani nelle tasche della giacca e si accostò ai ragazzi assieme all’amica.

«Ryou non risponde.» disse la ragazza.

Ruki la lasciò fare, ben felice di passare oltre.

Takato portò una mano al mento per riflettere. «Allora... Possiamo aspettarlo o scegliere il film e prendere il biglietto anche per lui per lo spettacolo delle diciannove.»

«Oppure possiamo prendere il biglietto per noi e lasciarlo fuori.» propose invece Ruki. «Magari così la prossima volta arriverà in orario.» sorrise, sollevando le spalle all’occhiata degli amici.

«Arriverà.» disse Hirokazu; la sua convinzione era quasi ammirevole. «Manca mezz’ora al prossimo spettacolo e so che vorrebbe vedere l’horror.»

Juri s’imbronciò, si voltò verso Takato e sbatté gli occhi. «Niente film romantico, quindi?»

«Per carità, no!» esclamò Kenta.

«Senza offesa,» le disse Ruki «ma sei l’unica a cui interessa.»

Juri sorrise, intrecciò le mani e si voltò a guardare Takato. «Hai promesso che avremmo visto un film romantico insieme.» gli ricordò.

Takato trattenne un rantolo ed arrossì. «Lo faremo la prossima volta, quando saremo ad un appuntamento solo io e te.»

Soddisfatta, Juri sorrise da orecchio ad orecchio, si sporse verso di lui e gli baciò la guancia. «Va bene, allora.»

Ruki fece scorrere lo sguardo sul tabellone appeso alla parete e studiò l’elenco dei film in programma. Il freddo sfiorava il piccolo lembo di pelle che restava scoperto tra la manica e la tasca, il peso della borsa rimasta troppo ferma sulla stessa spalla iniziava a darle fastidio.

Il telefono le vibrò nella borsa all’improvviso, Ruki frugò tra le sue cose fino a trovarlo, ma nel momento in cui riuscì a tirarlo fuori sapeva già qual era il contenuto del messaggio appena arrivato prima ancora di aprirlo.

“Non posso venire, non aspettatemi” «Ci ha dato buca un’altra volta.» Concluse con un cipiglio. Le espressioni da cuccioli bastonati di Hirokazu e Kenta non la toccarono affatto.

Ryou rimase a fissarne la laccatura della porta dell’ufficio di Yamaki per qualche istante, prima di bussare. Ai tonfi secchi delle sue nocche contro il legno seguirono alcuni minuti di silenzio, poi Yamaki lo invitò ad entrare e lui spalancò la porta, entrando ed accennando un inchino.

«Buongiorno, signor Yamaki.» disse, richiudendo la porta e studiando l’uomo.

Yamaki stringeva tra le mani un fascicolo.

«Siediti.» disse.

E solo quando Ryou si fu accomodato sollevò gli occhi dai fogli e li lasciò scivolare sulla scrivania proprio sotto al suo naso.

«Questo è un rapporto appena arrivato dal Digital World; due giorni fa un intero settore si è dissolto nel nulla a seguito della comparsa di due misteriosi Digimon, c’è stato uno scontro con i Digimon di voi domatori e sembra che i nostri abbiano avuto la peggio.»

Ryou trattenne il fiato, la mente in subbuglio ed il cuore che batteva forte nel petto. Yamaki gli fece un cenno prima che potesse balzare in piedi ed aggredirlo per capire cosa fosse successo.

«Stanno tutti bene, ma sarebbe meglio che tu andassi a controllare di persona, soprattutto per scoprire la ragione per cui al momento dell’attacco ogni collegamento possibile con il Mondo Digitale sia stato interrotto. Siamo riusciti a riconnetterci solo questa mattina.»

Ryou annuì, raccolse il fascicolo e lo sfogliò distrattamente. Lasciò che lo sguardo indugiasse solo per pochi secondi su ogni schema, frase e diagramma. Finse che gli fosse tutto chiaro, quando invece aveva già dimenticato molti dei disegni che aveva visto tra quelle pagine. In ogni caso preferiva lavorare a modo suo, direttamente sul campo e senza affidarsi ad informazioni di seconda mano.

«Per quanto riguarda Jenrya e gli altri?» Domandò.

Yamaki poggiò i gomiti sulla scrivania e congiunse le mani, nascondendo parte del volto dietro esse.

«Qualunque cosa abbiano fatto i due Digimon comparsi un intero settore è andato distrutto.» ribadì l’uomo. «I vostri Digimon stanno bene, ma lo stesso non si può dire per molti degli abitanti del posto.»

Ryou strinse i pugni, il cuore gli si strinse nel petto al pensiero della risposta che avrebbe ricevuto, ma doveva sentirglielo dire.

«Sono morti?» chiese.

«Dissolti nel nulla. Comprendi perché sia meglio lasciare gli altri all’oscuro di questo, almeno fin quando non avremo fatto chiarezza su un paio di punti?»

Annuì. «Avete già trovato un Digivarco?»

«Un’auto ti porterà lì appena sarai pronto.» gli rispose Yamaki.

Ryou si alzò, abbandonò il fascicolo sul tavolo e si diresse alla porta.

«Avverto l’autista di aspettarti nel garage.» gli disse Yamaki prima che lui si allontanasse lungo il corridoio.

Ryou sapeva che l’unico posto in cui avrebbe trovato le risposte che cercava sarebbe stato il Digital World, avrebbe solo dovuto pazientare abbastanza da arrivarci.

Schiacciò più volte il bottone per l’ascensore e continuò a premerlo finché quello non si spalancò davanti ai suoi occhi con un trillo. Mentre scendeva fino al piano più basso, rimase a capo chino e rigirò il telefono tra le mani tormentato dal dubbio di dover chiamare gli altri nonostante ciò che aveva detto Yamaki fosse la verità.

Avrebbe sopportato la responsabilità che qualcuno di loro potesse farsi male per via della sua lealtà nei loro confronti?

Lo spogliatoio in cui lui e gli altri tenevano le cose utili ad un improvviso viaggio nel Digital World era deserto, spalancò il suo armadietto e lo stivale che ci aveva lanciato dentro malamente l’ultima volta che era stato lì gli cadde addosso. Lo afferrò al volo bloccandolo contro il petto, poi lo abbandonò ai piedi della panca che aveva alle spalle e sfilò la giacca dalla gruccia con uno strattone.

Lasciò le scarpe da ginnastica su un mucchio di vestiti sporchi di fango incrostato e recuperò il localizzatore da sotto una pila di appunti inutili, agganciandolo al polso prima di richiudere tutto. Controllò con una mano che il Digivice fosse al suo posto, agganciato come sempre alla cintura e ben nascosto sotto il maglione e raggiunse il garage.

L’auto lo aspettava nel solito parcheggio, la raggiunse di corsa e saltò a bordo lanciando la giacca sul sedile posteriore.

«Andiamo.» disse all’autista. Passò l’intero viaggio con la guancia premuta contro il palmo, gli occhi persi tra l’asfalto che sfrecciava sotto le ruote ed i lampioni che cominciavano ad accendersi sul ciglio della strada. Il sole scivolò rapidamente dietro i grattacieli e quel poco di orizzonte che Ryou riusciva a vedere tra gli edifici iniziava a tingersi di azzurro e rosa.

Il viaggio fu silenzioso e si concluse davanti ad un vecchio tempio nel centro della città; Ryou non si era preoccupato di prestare attenzione al paesaggio mentre lo raggiungevano, tuttavia si soffermò un minuto ad ammirare l’architettura classica ed il rosso acceso dell’arco d’ingresso.

Il giardino era gremito di agenti di Hypnos, che lo fecero passare senza degnarlo di un’occhiata. Per un attimo Ryou pensò che il varco fosse nella sala principale dell’edificio, ma lo scintillio della luce del passaggio era concentrato in un angolo del boschetto adiacente.

I tronchi degli alberi parevano ondeggiare e sciogliersi per via del gioco di luce del varco, il sottobosco appariva come un angolo magico fuggito da una fiaba, soltanto l’uomo vestito di scuro che era lì di guardia ne rovinava l’atmosfera ricordandogli la realtà delle cose. L’uomo stringeva tra le mani il telecomando per chiudere il varco, l’aggeggio che avrebbe spinto i dati a scindersi per poi ricompattarsi e sigillarsi era abbandonato tra due cespugli, e lo guardava con l’orologio stretto in mano.

«Quanto tempo ho?» gli domandò Ryou.

«Due ore.» gli rispose lui.

Il ragazzo sfilò il cellulare dalla tasca. «Dammi un momento.» disse.

Scorse i numeri della rubrica del telefono, leggendo i nomi dei pochi amici che aveva, trovò Ruki e, con un sospiro, le scrisse che non li avrebbe raggiunti al cinema. Rimise il telefono al suo posto e sollevò il polso con l’orologio.

«Due ore a partire da adesso.» affermò, ed impostò il conto alla rovescia mentre l’altro faceva lo stesso.

Poi si lanciò nel varco senza guardarsi indietro.

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Capitolo 5
*** Tutto ciò che potrò fare ***


CAPITOLO 5
Tutto ciò che potrò fare

Lo sciame di Kuwagamon sorvolò Ryou, sparendo verso l’orizzonte, lui li seguì con lo sguardo, ma continuò a camminare nella direzione da cui provenivano. Aveva percorso la strada per il piccolo accampamento per una buona mezz’ora, muovendosi tra polvere e terra, prima di essere certo di quello che aveva davanti. Digimon di ogni tipo e dimensione si avvicendavano e sgambettavano trasportando oggetti e agglomerati di dati luccicanti da una parte all’altra dell’accampamento, si muovevano all’interno del perimetro segnato dalle tende più esterne, non fecero caso a lui mentre si avvicinava. Cybedramon sembrava essere a guardia di quello che pareva un ingresso alla cittadella, non gli andò incontro, ma Ryou non se la prese.

«Cyberdramon.» disse, appena fu a pochi centimetri da lui. Anche se era cresciuto, Ryou doveva ancora alzare gli occhi per guardarlo in faccia. Il Digimon era rimasto esattamente com’era, tranne che per un, seppur minimo, maggior controllo di sé stesso che aveva maturato nel corso degli anni.

«Sei qui.» osservò lui, ricambiando il suo sguardo.

Ryou gli accennò un sorriso e strizzò l’occhio. «Posso mai mancare, quando i guai colpiscono il Digital World?» fece per dargli una gomitata, una mossa scherzosa a cui l’altro non reagì, ma ancora i Digimon si agitavano attorno a loro, ansiosi e indaffarati, ed il sorriso gli si spense. Mosse il capo verso il campo. «Cosa è successo?» domandò.

Cyberdramon gli fece cenno di seguirlo e si voltò, gli fece strada tra le tende e lo condusse verso una di esse; era identica alle altre, all’apparenza. Scivolò dentro per primo, Ryou lo seguì subito dopo. Ciò che si ritrovò davanti gli provocò un fremito e per un momento gli fermò il cuore.

Renamon, era assopita su una coperta stropicciata, la pelliccia arruffata e sporca di sangue, gli occhi chiusi. Un Floramon la assisteva, cercando di ripulirla come meglio poteva, mentre altri attorno a loro dispiegavano stringhe di dati e gliele avvicinavano perché lei le assorbisse e recuperasse le forze.

«Ho quasi finito.» sospirò Floramon.

Non si voltò a guardarli, ma Ryou non se la prese, consapevole che la salute di Renamon fosse più importante dei convenevoli. E poi c’era Culumon, che fino ad allora era rimasto per tutto il tempo in silenzio al fianco di Renamon, invisibile agli occhi di Ryou. Solo dopo alcuni secondi il piccolo Digimon si accorse del suo arrivo e gli saltò incontro, spalancando le orecchie per planare dritto verso di lui.

Ryou lo afferrò e lo strinse al petto, ma non distolse gli occhi da Renamon. «Starà bene!» esclamò Culumon.

Ma Ryou non ci badò, continuò a guardare Renamon e poi Floramon.

«Che cosa le è successo?» chiese.

Culumon chinò il capo, si strinse alla sua maglia si corrucciò.

Floramon premette le zampe sul terreno accanto al giaciglio.

«Sono stati due Digimon, sono venuti dal nulla.» spiegò. La voce gli tremò sull’ultima parola, facendola scemare in un rantolo preoccupato. «Hanno usato un varco. Non sappiamo da dove venissero o come siano arrivati. Sono tornati ogni notte per tre notti, Renamon ed altri li hanno combattuti, ma loro sembrano essere troppo potenti.»

Ryou si avvicinò, in attesa di sapere qualcosa di più. Rimase in silenzio per permetterle di continuare, ma lei aggiunse solo:

«Li stiamo aspettando.»

«Credete che torneranno?» le chiese. Una domanda stupida, si rese conto subito, la cui risposta era palese.

«Saremo pronti a riceverli.» ribatté lei.

Ryou sentì Culumon districarsi, scivolò via dalla sua presa e tornò ad adagiarsi al fianco di Renamon, lo osservò un istante e poi tornò a dedicarsi a Floramon e gli altri.

«Sappiamo cosa vogliono?» domandò.

«Non hanno fatto altro che distruggere quello che si sono trovati avanti per assorbirne i dati.» rispose CyberDramon. «Hanno assorbito i Digimon?» domandò Ryou.

Lui annuì. «Non solo loro, ma qualunque cosa gli capitasse a tiro.»

Il silenzio che ne seguì fu eloquente e pesante, lo sguardo di Floramon si spense e si spostò su Renamon, che ora aveva gli occhi aperti.

«Dove sono Ruki e gli altri?» gli chiese.

Ryou si costrinse a sorriderle. «Sulla terra, al sicuro. Sono felice che tu stia bene.»

Cyberdramon grugnì, mentre Floramon gli passava accanto per uscire dalla tenda.

«Vado a controllare fuori.» disse loro prima di sparire.

Passarono pochi istanti, prima che tornasse indietro, arrancando e con il fiato corto.

«Ci siamo quasi.» li avvertì.

Ryou deglutì, non gli sfuggi lo sguardo che gli era stato rivolto, riconobbe la sensazione di essere quello su cui tutti contavano. Sospirò.

Vediamo come se la cavano contro una biodigievoluzione, pensò. Tornò all’esterno.

Numerosi Digimon si stavano riunendo tra le tende, fianco a fianco; tutti guardavano in un’unica direzione, ma lui non riusciva a scorgere nulla se non l’ombra della notte che li raggiungeva.

Rimanere al buio all’improvviso lo rese cieco per un istante, poi i suoi occhi vi si abituarono e riuscì a scorgere le sagome attorno a sé, ma nessun segno dei loro nemici né in cielo, né in terra. Non gli rimase che aspettare, fiducioso che i Digimon che aveva attorno sapessero ciò che dicevano.

Cyberdramon era al suo fianco, questo lo faceva sentire a casa più di quanto non ci si fosse sentito dal suo ultimo viaggio nel Digital World. I minuti passarono in fretta nonostante non accadesse nulla, Ryou si distrasse quel tanto che bastava per rendersi conto che Renamon li aveva raggiunti. Non sembrava stare bene, nonostante ciò che aveva detto il Floramon, ma immaginò che convincerla a restare in disparte se lei non l’avesse voluto sarebbe stato impossibile quanto convincere la sua domatrice a fare lo stesso. Accennò un sorriso, domandandosi perché continuasse a trovare queste situazioni esaltanti.

Forse, pensò, le sue lunghe avventure nel Digital World avevano distrutto il suo buonsenso, lasciando spazio solo all’incoscienza ed alla voglia di avventura che prima o poi l’avrebbero portato a farsi uccidere, ma non poté fare altro che domandarsi quanto ci avrebbero impiegato.

Quando i Digimon si mossero all’unisono, Ryou abbandonò il suo grumo di pensieri cupi e guardò a destra con tutti loro, il cielo rimase terso per molti secondi, con il solo baluginio del riflesso della terra sospeso sopra le loro teste ed i fasci di luce rosa che sferzavano la valle poco distante da loro. Poi le scie di dati iniziarono ad avvilupparsi risalendo in quella che sembrava una versione in miniatura della via lattea. La fonte doveva essere distante solo pochi chilometri, abbastanza da raggiungerla in tempo per opporre resistenza. Non doveva essere l’unico a pensarla così.

Cyberdramon poggiò una mano sulla sua spalla, un incitamento silenzioso ad andare, fianco a fianco come sempre, e Ryou strinse in mano il Digivice e le carte, pronto a seguirlo.

Il Digimon si piegò per permettere a Ryou di aggrapparsi a lui, così il ragazzo si arrampicò e strinse le braccia attorno al suo collo, così che potesse iniziare a camminare assieme agli altri e poi, con loro, iniziare a correre.

Ryou si tenne stretto per non rischiare di scivolare via ad ogni scossone e, metro dopo metro, lasciarono l’accampamento per avventurarsi in pieno deserto. La scia di dati fluttuanti che riuscì a scorgere davanti a loro gli indicava la strada da percorrere e si fece sempre più vicina, anche se Ryou era certo che, al contrario di lui, i Digimon non avessero bisogno di vederla per individuare la direzione da percorrere.

Quando raggiunsero la fata ed il cavaliere, Ryou realizzò che fino ad allora la sua immaginazione non aveva reso giustizia alla visione del Digital World che andava in pezzi.

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Capitolo 6
*** Se fossimo ragazzi normali... ***


CAPITOLO 6
Se fossimo ragazzi normali...

Fu la sensazione di precipitare che riportò Takato alla realtà, l’oscurità totale lo avvolgeva stringendolo in una morsa che all’inizio non fu in grado di contrastare. Non riusciva ad avere percezione di sé, a sentire i propri arti e ciò che lo circondava. Poi arrivò il calore del lenzuolo stropicciato che si era impigliato attorno ai piedi scoperti ed alle sue mani, mentre qualcuno lo scuoteva per svegliarlo.

La voce di Hirokazu lo raggiunse in quel momento, fu prima un ronzio indistinto ed ovattato, poi le sue parole riecheggiarono nella testa di Takato e lo colpirono con la forza di un cannone.

«Takato! Svegliati!»

Le palpebre pesanti gli impedirono di spalancare gli occhi, l’intorpidimento di muoversi, gli sfuggì solo un mugugno infastidito e sperò che questo bastasse a far capire all’amico che non ne aveva alcuna voglia, ma Hirokazu lo scosse ed un altro paio di mani si aggiunsero per strattonarlo e costringerlo a mettersi a sedere.

Takato si fece forza, dischiudendo un occhio a fatica ed agitando un braccio per scrollarseli di dosso. «Che c’è? Non c’è scuola, oggi.»

Smisero di scuoterlo, ma ancora lo tiravano verso il bordo del letto. La voce di Kenta era ansiosa, quando gli parlò. «Non importa, Ryou è scomparso.»

Takato afferrò il lembo della coperta e cercò di portarlo fin sopra la testa, la notizia non gli era nuova, non era la prima volta che accadeva. «Starà bene, se la sa cavare.» affermò.

Il silenzio dei due gli permise quasi di riaddormentarsi, il cuscino morbido gli parve riavvolgerlo in un abbraccio ed invitarlo di nuovo nel mondo dei sogni, dimenticò quasi la presenza degli amici fino a quando Kenta sbuffò impaziente. A Takato parve di vederlo scuotere il capo attraverso l’occhio socchiuso.

«Ho chiamato suo padre, che ha parlato con Yamaki e sai lui cosa gli ha detto?» gli domandò l’amico.

Fecero una pausa, forse per dargli il tempo di riflettere sulle opzioni, ma lui si sentiva ancora troppo intontito anche solo per provare a pensarci. «Uhm?»

«Gli ha detto che è tutto sotto controllo!» sbotto Hirokazu.

Takato strinse le braccia attorno al cuscino, le parole che gli ronzavano in testa ancora prive di significato. «Eh?»

«Sai cosa significa quando Yamaki dice che è tutto sotto controllo.» concluse Kenta.

Takato ebbe un sussulto e si sentì all’improvviso sveglio, una scarica di adrenalina gli diede la forza per rimettersi a sedere, così sbatté il cuscino contro la parete e sbarrò gli occhi solo per richiuderli un istante dopo a causa della luce. «Che sta succedendo qualcosa di cui ha perso il controllo. Maledizione.»

Passò una mano sul volto e strofinò le palpebre con le dita. «Avete provato a chiedere agli altri?» domandò con un sospiro.

Hirokazu lo colpì sulla nuca. «Mi chiamo Scemo, per caso?» gli chiese.

Takato lo spinse di lato e si alzò, scivolando verso l’armadio ed afferrando i vestiti. «Scusa, è l’abitudine.»

Kenta sbuffò ed incrociò le braccia, aspettandolo affianco alla porta della stanza. «Sono tutti per strada, hanno detto che ci aspetteranno ad Hypnos.»

Takato recuperò la biancheria pulita, il pensiero di Ryou da solo non l’aveva mai spaventato, sapeva che aveva passato molto più tempo di lui nel Digital World, sapeva che ne conosceva ogni zona meglio di chiunque altro e che non perdeva occasione per tornarci, ma sapeva anche che quando partiva Yamaki non aveva alcun problema a riferirglielo, nel caso glielo avessero chiesto. Quella volta, a quanto pare, non l’aveva fatto.

«Se Yamaki non vuole che sappiamo qualcosa allora è qualcosa che dobbiamo assolutamente sapere.» disse.


NEL DIGITAL WORLD

Justimon incassò l’ennesimo colpo con un gemito mal trattenuto; quella si stava rivelando la notte più faticosa della sua vita.

La fata ed il cavaliere sarebbero potuti sembrare quasi normali Digimon, se non fosse stato per il loro instancabile ed inspiegabile desiderio di divorare tutto ciò che li circondava.

Justimon aveva visto decine di Digimon dissolversi in dati e venire assorbiti, nelle ultime ore. Aveva cercato di salvarne molti e con qualcuno c’era anche riuscito, mentre altri gli erano scivolati tra le dita lasciandogli una dolorosa sensazione di inutilità nel petto. Si premette una mano sullo stomaco, là dove il cavaliere gli aveva tirato il calcio, gambe e braccia gli dolevano. Iniziava a chiedersi se i suoi nemici fossero imbottiti di steroidi, se sarebbero riusciti a combatterlo ininterrottamente fino a riuscire ad ucciderlo, senza pause e senza riposo. Quasi si pentiva di non aver avvertito gli amici del suo viaggio, un po’ di aiuto gli avrebbe fatto comodo; se avesse avuto Takato, Jenrya e Ruki a guardargli le spalle sarebbe stato tutto più facile, pensò, anche se muoversi tra i fossi lasciati dalle zone che si erano dissolte sarebbe stato comunque difficile, anche se avrebbe significato che anche loro sarebbero stati con lui in quell’impresa, stanchi ed affamati dopo una battaglia durata una nottata intera.

Tornò a guardare la fata, le ali ferme dietro la schiena nonostante lei fosse sospesa a mezz’aria, il corpo sinuoso coperto dal costume attillato, gli occhi coperti. Ripensò a Sakuyamon, al fatto che l’avrebbe affrontata volentieri anche lei per proteggere il Digital World ed i suoi abitanti, e sorrise tra sé.

La vide muoversi con gli occhi appannati per la stanchezza, generare un tornado e spedirlo dritto contro un capannello di Digimon svenuti, decine di Agumon ed Ogremon vennero annientati davanti ai suoi occhi senza che lui riuscisse a fare nulla per impedirlo.

La rabbia di CyberDramon si riversò nell’oscurità in cui Ryou era immerso e si mescolò al suo rammarico, fondendosi ad essa in una furia disperata che portò Justimon a sollevare il braccio e richiamare il suo attacco.

«Lama cosmica!» gridò.

Ma perfino la voce faceva fatica ad uscirgli dalla gola. Calò il braccio, ma il cavaliere lo deviò con un colpo del polso. Justimon cercò di girargli attorno, di raggiungere la fata per impedirle di uccidere ancora e colpirla mentre era distratta ad assorbire gli ultimi dati degli Agumon e degli Ogremon, ma il cavaliere lo colpì agli stinchi e lo atterrò.

In quel poco tempo che aveva avuto a disposizione durante il combattimento, quando erano stati gli altri Digimon ad attaccare i nemici e lui era riuscito a pensare, Justimon aveva realizzato che era e sarebbe rimasto uno scontro impari. Per quanto potessero indebolirli, per quanto potessero attaccarli, metterli alle strette e colpirli, la fata ed il cavaliere continuavano ad assorbire dati, a recuperare le forze, a ricaricarsi.

Per avere un vero vantaggio Justimon avrebbe dovuto impedire loro di ricaricarsi oppure fare lo stesso, sentiva che le forze lo stavano abbandonando ed ormai neanche l’adrenalina che gli pompava in corpo sembrava servire più a tenerlo in piedi.

Inspirò forte, cercando di tenere a bada le fitte allo stomaco, e sollevò il capo aspettandosi un secondo colpo che non arrivò mail.

La fata ed il cavaliere stavano guardando l’orizzonte, ignorando lui e gli altri Digimon come avevano fatto tante volte quella notte. Rimasero in attesa per alcuni istanti, poi presero il volo entrambi, muovendosi nello stesso momento ed iniziando a correre. Justimon non ebbe la forza di seguirli, cadde in ginocchio tra gli altri Digimon sopravvissuti allo scontro e si abbandonò contro il terreno freddo. Le poche energie che gli erano rimaste lo abbandonarono in fretta, lasciandolo troppo stanco per poter muovere anche un solo muscolo. Chiuse gli occhi mentre il familiare brivido della biodigievoluzione che si scioglieva percorreva tutto il suo corpo. Sentì MonoDramon respirare al suo fianco e dischiuse le palpebre per riuscire a vederlo ed assicurarsi di come stesse. Mise a fuoco il suo muso appena in tempo per vedere la luce del giorno scivolare rapida su di lui, portando con sé il nuovo mattino.

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Capitolo 7
*** Gli amici non ti abbandonano ***


CAPITOLO 7
Gli amici non ti abbandonano

L’ingresso di Hypnos era immerso nella penombra, la segretaria fece loro un cenno del capo senza sollevare lo sguardo dalla pila di carte che aveva davanti.

Takato fu il primo ad avvicinarsi, seguito dai due amici. «Buongiorno.» le disse, superandola. Precedette Hirokazu e Kenta lungo il corridoio, dritto verso il punto in cui quello si apriva in un piccolo atrio quadrato e gli altri li stavano aspettando. Jenrya era chino sullo sportellino del distributore automatico, estrasse il bicchiere e gli sorrise mentre Ruki, al suo fianco, già sorseggiava il suo caffè. Takato ne sentì l’aroma ancor prima di fermarsi davanti a lei.

«Mio padre sta parlando con Yamaki.» disse Jenrya prima che potesse chiedergli qualunque cosa. «Ma pare che non considerino la cosa di nostra competenza.»

Ruki lanciò il bicchiere vuoto nel secchio della spazzatura poco distante. «Come se non fosse qualcosa che potremmo gestire. Ci trattano come se fossimo ancora dei bambini.» si lamentò.

Takato chinò il capo e strofinò la suola della scarpa sul pavimento lucido. «Tecnicamente lo siamo, almeno per loro.» rifletté. Non aveva voglia di litigare né di metter su una ribellione, ma se si fosse rivelato necessario sarebbe stato pronto a barricarsi dentro l’edificio fino a quando non si fossero decisi a rivelargli l’ubicazione di ogni singolo varco in città.

Ruki sembrava del suo stesso parere, si appoggiò contro il distributore ed incrociò le braccia, colpendone ripetutamente un lato con il fianco del piede per stemperare la tensione. «Siamo di sicuro più competenti di loro, nel risolvere situazioni come queste.»

Jenrya le lanciò un’occhiata. «Ruki.» le disse.

«No. Niente Ruki. Hai già dimenticato cosa è successo l’ultima volta?» ribatté lei.

Il pensiero di ciò che era accaduto con il D-Reaper fece venire i brividi a Takato. «Non ha tutti i torti, però.»

I cinque rimasero a fissarsi per alcuni secondi, le preoccupazioni si affollavano nella testa di Takato, che si morse il labbro e rifletté su come agire.

Jenrya sembrò arrivare alla soluzione prima di lui: «Sentite, diremo a Yamaki che qualunque cosa sia successa noi possiamo fare qualcosa.» disse il ragazzo. Mandò giù la sua cioccolata calda mentre Ruki lo guardava storto.

«E credi che servirà?» gli chiese scettica. Takato osservò il suo sopracciglio inarcarsi e sollevarsi per esprimere al meglio tutta la sua contrarietà.

«Lo costringeremo a lasciarci fare qualcosa.» tagliò corto Jenrya.

«Come?» domandò lei.

Takato esitò, chinò il capo e si grattò la nuca evitando il suo sguardo e quello degli altri. Cercò una risposta, ma qualunque giustificazione gli venisse in mente appariva come una scusa vuota. «Io… Non lo so.» ammise.

Rimasero fermi nell’atrio vuoto, sotto la luce dei neon incerti e vicino a una bocchetta di aria calda che soffiava proprio addosso a loro. Si riusciva quasi a percepire il rumore dell’aria smossa, fino a quando quello dei passi provenienti dal corridoio adiacente aumentò fino a coprirlo. Yamaki emerse da dietro l’angolo con lo sguardo truce di qualcuno che sapeva che avrebbe trovato delle seccature, Takato lo capì nonostante i suoi occhi fossero coperti dagli occhiali da sole, poiché l’uomo aveva la mascella serrata ed i pugni stretti lungo il fianco, le braccia immobili contro il vestito scuro ed il fedele accendino di metallo stretto in mano. La signorina Reika era pochi metri dietro di lui e portava una serie di fascicoli dall’aria sospetta.

Takato aspettò che li raggiungessero e così fecero anche gli altri, in silenzio e Yamaki gli parlò solo dopo essersi fermato proprio davanti a loro, domandando senza preamboli:

«Cosa ci fate voi qui?»

Takato fece per rispondere, ma esitò un momento di troppo ed Hirokazu lo precedette. «Dov’è Ryou?»

Yamaki sollevò la mano e si premette il polpastrello contro la tempia quasi a cercare di attenuare un qualche dolore alla testa. O forse stava solo cercando di mettere insieme le parole giuste per tenerli buoni.

«Akiyama? È impegnato a risolvere una questione importante, ma vi assicuro che è tutto assolutamente sotto controllo.» disse, il tono piatto, quasi forzatamente tranquillo.

Takato non gli credette neanche per un secondo. «Non ci credo neanche se me lo dice Ryou in persona.» ribatté.

L’uomo sospirò e si sfilò gli occhiali, le spalle cadenti e finalmente una parvenza di umanità e preoccupazione trapelarono dallo scudo distaccato e professionale che si era costruito attorno. «Ascoltatemi, ragazzi, dovete credermi se vi dico che non c’è nulla che voi possiate fare in questo momento.» disse loro. Appese gli occhiali al taschino e li fissò a turno, sperando forse che le sue occhiate riuscissero a convincerli.

Ruki fu la prima a riscuotersi ed a rispondere. «Io non ne sarei così sicura.» gli disse.

Takato la guardò e la trovò ferma al suo fianco a braccia incrociate, sosteneva lo sguardo di Yamaki con risolutezza e non sembrava intenzionata a lasciarsi convincere dalle belle parole; la capiva perfettamente.

«Ci ascolti, Yamaki, siamo davvero sicuri che qualunque cosa sia successa noi potremo fare qualcosa, tenerci all’oscuro non è la cosa giusta e sono certo che nel profondo anche lei lo sa.» provò a dire, sperando di riuscire a farlo ragionare, ad apparire affidabile ed in qualche modo indispensabile. Se Yamaki avesse pensato di aver bisogno di loro sarebbe stato costretto a rivelargli tutto, ad aprire loro ogni singola porta ed a rivelargli ogni singolo segreto.

La signorina Reika era ancora al fianco dell’uomo, attendendo in silenzio. Takato si era dimenticato di lei, del peso dei fascicoli che lei stringeva, Yamaki li sfilò dalla sua presa e glieli porse. Nel momento in cui li ebbe tra le mani, il peso nello stomaco di Takato si fece più pressante, sapeva anche senza guardarli che anche gli altri stavano trattenendo il fiato.

«Questi sono gli ultimi dati raccolti dalla scansione del Digital World, un autista vi scorterà fino al varco più vicino.» spiegò loro Yamaki. Rimise gli occhiali da sole, le mani tradivano la sua ansia ed i suoi dubbi persistenti. «Spero di non dovermene pentire.» ammise.

Takato gli sorrise, strinse al petto i fascicoli ed ignorò lo sguardo mesto di Reika. «Grazie infinite.» disse ad entrambi, poi si voltò verso l’ascensore, con gli altri pronti a correre dietro di lui, ma Yamaki li chiamò prima che potessero fare più di due passi.

«Aspettate.» disse, indicò Kenta ed Hirokazu. «Voi due no.»

I due ribatterono immediatamente, si misero sull’attenti spingendo il petto in fuori e trattenendo il fiato come se avessero davanti un colonnello a cui apparire all’altezza: «Siamo Tamers anche noi.» Yamaki sospirò, per niente colpito. «Non offendetevi, ragazzi, ma Takato, Jenrya e Ruki hanno più esperienza.» spiegò.

«Possiamo essere utili quanto loro.» insisté Hirokazu.

Ma Yamaki non voleva sentir ragioni. «Un’altra parola e non andranno neanche loro.» minacciò, ed allora i due si rassegnarono, facendo a Takato ed agli altri cenno di andare.

Il ragazzo sorrise loro grato, Ruki aveva già chiamato l’ascensore, il resto sarebbe venuto da sé nel giusto momento.

Quando, pochi minuti dopo, salirono nell’auto, né lui né gli amici sapevano quanto ci sarebbe voluto per raggiungere il varco, Jenrya scorse rapidamente i fascicoli semplificando e riassumendo tutto a Takato e Ruki: c’erano stati livelli sbalzati di energia, diversi collassi di alcuni settori per ragioni sconosciute che avevano causato la disconnessione temporanea tra Hypnos ed il Mondo Digitale e Ryou che era partito il giorno prima sarebbe dovuto tornare entro due ore ed invece era stato via tutta la notte.

Non era raro che Ryou non rispettasse il coprifuoco imposto da Hypnos, ma questa volta si trattava di un’apparente situazione di emergenza e, dato il rapporto scritto, Takato non poteva evitare di essere preoccupato per lui.

Quando l’autista del furgone rallentò davanti al tempio, se quello non fosse stato circondato da sottoposti di Yamaki, probabilmente avrebbero pensato che li stavano prendendo in giro. Seguirono la loro guida su per le scale e dentro il boschetto, immergersi tra gli sfavillii di luce fu tanto strano quanto familiare, scivolare nel Digital World come precipitare in un sogno, rallentare all’ultimo secondo prima di schiantarsi come svegliarsi in un altro ancora.

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Capitolo 8
*** La differenza tra volere e potere ***


CAPITOLO 8
La differenza tra volere e potere


Quando Takato riaprì gli occhi qualcosa gli solleticava la caviglia e Ruki, china su di lui, riempiva quasi completamente il suo campo visivo. La luce oltre la corona d’oro che erano diventati i capelli della ragazza era tanto intensa da essere insopportabile. Serrò le palpebre, proteggendole con un braccio, e si mise a sedere con uno scatto. Ruki si alzò e lo guardò dall’alto, poi si voltò verso Jenrya, di cui Takato riusciva a scorgere la figura sfocata non troppo distante.

«Biancaneve si è svegliato, possiamo andare» gli disse.

Takato sbuffò, la cosa che solleticava la sua caviglia non era altri che un Wormmon che era scivolato nel cratere impresso dal suo corpo piovuto dal cielo, gli tolse di dosso la gamba e lo strinse tra le mani per rimetterlo in piedi.

«Scusami» gli disse, osservandolo strisciare via in tutta fretta. Il Digimon si lasciò dietro una scia di ciottoli e terra che ruzzolarono verso il punto più profondo della buca, accumulandosi attorno alle gambe ed alle scarpe di Takato.

Ruki tese una mano verso di lui, incitandolo con un cenno ad afferrarla perché potesse tirarlo in piedi.

«Hai intenzione di stare lì tutto il giorno?» gli domandò, quando vide che lui non la stringeva.

Takato sollevò il braccio e, finalmente, si decise a farsi tirare su, spingendo il palmo dell’altra mano sulla roccia per darsi lo slancio. Una volta in piedi si ripulì il retro dei pantaloni con alcune manate e passò le dita tra capelli.

«Cosa mi sono perso?» chiese.

Erano insieme nella stessa buca, Jenrya vi si sporse dentro ed afferrò la mano di Ruki per tirarla fuori, una volta che fu uscita la ragazza premette le dita sulla tasca posteriore per assicurarsi che il telefono fosse al proprio posto e sparì oltre la limitata visuale di Takato.

Intenzionato a non restare indietro, Takato arretrò premendosi contro la parete di fondo della buca, prese la rincorsa e, con un salto, si aggrappò ad un cumulo di rocce malamente disposte sul bordo esterno. Una di esse scivolò verso di lui rotolando sul fondo, ma lui riuscì comunque ad issarsi su, sollevò una gamba e la tirò fuori, premendo il piede per terra e strisciando fuori. Stava quasi per ruzzolare di nuovo sul fondo, quando Jenrya lo afferrò per la maglietta e lo tirò verso di sé. Takato si sedette per terra per prendere fiato.

«Grazie» disse. Pulì le mani una contro l’altra e si guardò meglio attorno, la luce scintillava tra le fronde degli alberi ed attraverso le foglie stesse, poiché ogni singolo ramo e bocciolo era formato da un materiale simile al cristallo che rendeva l’intero sottobosco un tripudio di riflessi ed arcobaleni.

Era uno spettacolo tanto magico che Takato faticava a distogliere lo sguardo e, viste le loro espressioni ed i volti sollevati, gli parve che che anche Ruki e Jenrya la pensassero allo stesso modo. Continuarono a vagare nel sottobosco non avevano una direzione precisa da seguire né di punti di riferimento, non avevano idea di quale direzione dovessero percorrere per uscirne, né da quale parte andare per trovare Ryou.

Takato lasciò che Jenrya camminasse in testa al gruppo, lo osservò distrattamente mentre prendeva il localizzatore e lo usava inutilmente per cercare la strada.

Intanto osservò il bosco; gli alberi ed i fiori di ghiaccio spuntavano direttamente dal terreno, svettando verso il cielo, per terra però c’erano semplici ciottoli e fango. Raggiunsero quello che sembrava un sentiero tra gli alberi, le fronde e la disposizione dei rami formavano quasi un vero tetto sopra di esso. Era quasi impossibile tenere gli occhi sollevati per più di qualche frazione di secondo per via dei raggi di luce riflessa e gli arcobaleni erano talmente tanto numerosi da intrecciarsi gli uni agli altri.

«Com’è che non siamo mai finiti qui, prima?» domandò Takato.

Si fermarono ad un bivio, Jenrya osservò le due direzioni in cui la strada si separava. «Il Digital World è grande,» spiegò «non abbiamo ancora avuto l’occasione di visitarne neanche la metà.» «Scommetto» disse Takato «che Ryou l’ha visto tutto.»

Jenrya svoltò verso destra, Takato e Ruki lo seguirono senza protestare. Camminarono per ore, finché le radici si fecero rade là dove le due file di alberi che circondavano il viale iniziavano ad essere sempre più distanti. Si affiancarono, arrivando tutti allo stesso passo tranquillo che diede loro quasi l’impressione che fosse una semplice, allegra scampagnata nel Mondo Digitale. Ne avevano fatte parecchie, in passato, dopo che gli scienziati di Hypnos erano riusciti a ricostruire un varco per permettere loro di andare e venire a loro piacimento; negli anni erano diventati quasi i custodi di quel mondo.

Le loro scarpe smuovevano la terra della stradella sconnessa e gli alberi di ghiaccio, così come le loro foglie, iniziarono a diventare quasi opachi ed a perdere la brillantezza che aveva colpito Takato al loro arrivo. Il ragazzo si chiese se fosse a causa di qualche scherzo che gli giocavano gli occhi, qualche gioco di luce o se ci fosse un’altra ragione. Dal modo in cui Jenrya li scrutava a sua volta, mentre teneva il naso rivolto ai rami sopra di loro, intuì che anche lui probabilmente si stava domandando più o meno le stesse cose. Lo osservò, fissandolo mentre sollevava la mano per sfiorare una foglia cristallizzata, ma si bloccò prima di arrivare a toccarla e si girò verso la boscaglia.

Qualcosa li stava seguendo e, dalla direzione da cui erano arrivati, li aveva quasi raggiunti, poi udirono un rumore attutito di vetri infranti e Takato, con il cuore che gli batteva all’impazzata, non potè fare a meno di essere terrorizzato all’idea di scoprire di cosa si trattasse. Lui, Jenrya e Ruki rimasero fermi a guardare, ma tra la luce ed il cristallo non riuscivano a scorgere nulla.

Il rumore si fece più forte, l’aria iniziò a muoversi attorno a loro. Qualcosa si avvicinava, ma solo quando la prima foglia di cristallo si dissolse a pochi metri da loro Takato capì. Poi a quella foglia se ne aggiunsero molte altre.

Ramo dopo ramo, foglia dopo foglia, fiore dopo fiore finirono in polvere davanti ai loro occhi, la terra si alzava in volo e scivolava verso il cielo, ben presto non avrebbero più avuto un punto di appoggio sotto i loro piedi.

«Correte!» disse Takato agli amici.

Jenrya e Ruki si voltarono con lui ed iniziarono a scappare, mentre il settore si dissolveva dietro di loro. Corsero veloce, senza fermarsi e senza voltarsi indietro a meno che non fosse strettamente necessario, giusto per assicurarsi che il grande burrone che si stava formando dietro di loro non fosse abbastanza vicino da ingoiarli. Uscirono dal sentiero e passarono tra gli alberi, filando dritto senza meta sperando che fosse la direzione giusta. Takato si piegò per evitare i rami più bassi, saltò le radici più piccole ed aggirò le più sporgenti con gli amici sempre alle calcagna, tirò dritto con il cuore in gola, il fiato corto, il cuore che rimbombava nelle orecchie coprendo ogni altro rumore.

A quel punto il cielo divenne chiaro sopra di loro, la copertura dei rami si esaurì e le suole delle loro scarpe cozzarono su una serie di rocce compatte dai colori spenti che non avevano nulla a che vedere con il bosco di cristallo. Il fruscio dei dati alle loro spalle scemò, il loro solletico sulla pelle nuda delle mani del ragazzo si esaurì e, solo allora, Takato si costrinse a fermarsi ed a voltarsi indietro. La grande fossa che la scomparsa del settore aveva lasciato al posto di quell’incantevole bosco era talmente grande che non se ne riusciva a vedere la fine ad occhio nudo, ma ora non si allargava più e gli ultimi dati si dissolsero sul vuoto, mentre lui ed i suoi amici riprendevano fiato, increduli e con il cuore che batteva tanto forte da fare male.

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Capitolo 9
*** Dalla parte opposta ***


CAPITOLO 9
Dalla parte opposta


Una volta tornato al campo, Ryou era crollato addormentato assieme agli altri, Culumon era riuscito a svegliarlo solo nel tardo pomeriggio per convincerlo a mangiare qualcosa per rimettersi in forze, solo allora il ragazzo aveva smesso di ignorare i morsi della fame. All’inizio Ryou aveva rifiutato, conscio del fatto che in quel mondo le varie funzioni fisiologiche fossero annullate, poi si era arreso al profumo del pane appena sfornato che una vecchia Babamon gli aveva offerto e aveva passato il tempo che rimaneva fino alla notte ad assaporarlo lentamente.

Aveva sentito per ore le spalle e le gambe dolergli, la pesantezza ai fianchi gli aveva fatto pensare che se solo avesse provato ad alzarsi in piedi sarebbe ricaduto a terra all’istante privo di forze. Il timore che il buio arrivasse inaspettato l’aveva portato a guardare fisso l’orizzonte, non che questo avrebbe potuto cambiare qualcosa, e quando la notte arrivò portò con sé un silenzio carico di timore e aspettativa.

«MonoDramon.» disse Ryou.

Il Digimon gli si avvicinò, intrecciò la zampa alla sua mano ed il ragazzo la strinse, conscio che un po’ di conforto non avrebbe fatto male nessuno dei due.



Quella notte la fata ed il cavaliere comparvero ancora più lontano rispetto alla precedente, Justimon e l’esercito che lo accompagnava dovettero correre per ore per riuscire a raggiungerli. Come l’altra volta i due sembrarono non notarli, allora Justimon sollevò il braccio e lo tramutò nella sua lama di luce, provò ad attaccare la fata alle spalle, riuscì ad avvicinarsi più di quanto avrebbe mai potuto immaginare e quasi le ferì l’ala, ma all’ultimo secondo lei sollevò la gamba e la ruotò per tirargli un calcio. Justimon incassò il colpo con un rimbalzo, il dolore andò a sommarsi a quello dei colpi della notte precedente, tanto che fece fatica a rialzarsi e rimase a prendere fiato per alcuni secondi. «Sento che siamo maledettamente fuori allenamento.» disse Ryou a MonoDramon.

Lo sentì sbuffare nella sua testa e sospirò, se gli avessero chiesto una previsione sullo scontro avrebbe sicuramente detto qualcosa di negativo e poco incoraggiante, ma poi vide il cavaliere sollevare Guilmon da terra e stringere le dita attorno alla sua gola nel tentativo di spezzargliela, quindi corse in avanti, attaccandolo al braccio e tentò di costringerlo a mollare la prese. Quando il Digimon allentò la presa Justimon poté tirare un sospiro di sollievo mentre Guilmon rotolava sulle rocce del deserto del settore principale e sbatteva gli occhi nel tentativo di riprendere fiato, ma la distrazione gli costò un colpo alla spalla che lo spedì dritto accanto al Digimon dell’amico.

Con un gemito, Justimon scambiò un’occhiata con Guilmon. Senza bisogno di parole, Ryou seppe che entrambi avrebbero dovuto rialzarsi alla svelta. Rotolarono di lato, appena in tempo per evitare uno dei tornado della fata scagliato sul terreno che gli fece finire addosso ciottoli e sabbia.

Le poche decine di Digimon attorno a loro, almeno quelli che non avevano partecipato agli scontri della notte precedente e non erano ancora troppo stanchi per farlo, saltarono addosso alla fata per dar loro il tempo di riprendersi. Si aggrapparono alle sue ali, tentarono di graffiarle, forse di strapparle via, gli Elecmon puntavano gli artigli contro i suoi fianchi, i Gazimon le stringevano il collo esile, i Palmon ed i Vegiemon cercavano di trattenere le sue braccia con le liane e le lunghe braccia.

Il cavaliere, che fino ad allora si era diviso tra il difendersi dagli attacchi singoli più disparati e l’assorbire tutto ciò che gli capitava davanti, per la prima volta diede cenno di vederli come una minaccia. Si voltò verso la fata, si sporse per percorrere i pochi metri che li separavano e correre in suo soccorso, ma Justimon glielo impedì, tirandosi in piedi a forza ed arrancando fino a raggiungerlo.

Sollevò la lama del suo braccio, calandola perché lui si rendesse conto di essere attaccato e si distraesse per difendersi, il cavaliere la schivò appena in tempo, si voltò verso di lui e la strinse tra le mani, premendola tra i palmi come in una preghiera silenziosa. Justimon rimase immobile, faccia a faccia con lui, incapace di ritirare il braccio o di spingerlo in avanti per colpirlo, piegò il ginocchio e gli tirò un calcio per spingerlo via. Il movimento, avendo ancora il braccio bloccato, lo costrinse a piegare malamente il gomito fino a percepire una fitta che lo fece urlare dal dolore, una volta libero il braccio gli ricadde contro il fianco, qualunque tentativo di muoverlo gli faceva provare tanto dolore da fargli girare la testa.

All’interno del vuoto della digievoluzione, Ryou si tenne il polso vicino al petto per evitare che l’arto oscillasse.

«Ryou...» gli disse MonoDramon.

«Lo so.» rispose, prima che lui potesse dirgli qualunque altra cosa.

Justimon si scansò per evitare il probabile attacco che ne sarebbe seguito, ma il cavaliere svanì e, prima che potesse capire cosa fosse successo, sentì il suo piede contro la schiena e crollò in ginocchio. Di lì in poi le cose si fecero confuse, il dolore pulsante rese la sua vista offuscata, i movimenti per difendersi dalle lame appena comparse tra le mani del suo avversario meccanici ed intuitivi. Fu come essere presente solo per metà, mentre il suo corpo si muoveva da solo per parare ed attaccare, per non perdere terreno e non lasciarsi sopraffare dall’altro. Ma non vedeva davvero, né sapeva cosa stava facendo, quando si trovò disteso sulle rocce strizzò gli occhi e dovette sforzarsi di riaprirli per poter vedere cosa gli accadeva attorno.

Rotolò di lato ancora una volta, la lama del cavaliere calò proprio nel solco lasciato dal suo corpo, la sciarpa di Justimon scivolò sul terreno ed il Digimon svanì di nuovo. Dopo una seconda giravolta per terra, Justimon urtò contro i piedi del cavaliere ritrovandosi la strada bloccata. Il calcio lo raggiunse alla spalla, scatenando un altro brivido di dolore al braccio che gli impedì di reagire, il secondo calcio lo fece scivolare indietro.

Ryou aprì gli occhi, sentì i ciottoli premergli direttamente contro la guancia, la coda di MonoDramon gli sfiorava il polso. Non aveva più fiato, il corpo era tutto un dolore, non fu in grado neanche di sollevarsi per mettersi in ginocchio.

Il cavaliere si avvicinò a passo lento, dietro di lui la fata riuscì a liberarsi dalle liane e dalle braccia dei Vegiemon che la intrappolavano. Terriermon, che le era salito sulla testa e si era aggrappato ai suoi capelli, venne sbalzato via, ma Ryou non aveva occhi che per l’altro Digimon, incapace di distogliere lo sguardo dalle sue braccia che sollevavano le spade per dare a lui e MonoDramon il colpo di grazia. Aveva sempre saputo che prima o poi qualcuno l’avrebbe atterrato e probabilmente ucciso sul campo di battaglia, se avesse continuato a cercare guai, ma aveva sperato che quando sarebbe successo sarebbe stato in grado di portare l’avversario con sé.

Non chiuse gli occhi, quando capì che il colpo di grazia stava per arrivare.

Una pirosfera colpì il cavaliere al petto davanti ai suoi occhi, le scintille gli piovvero sui capelli, sulla pelle e sui vestiti, trasse un sospiro di sollievo nel vedere il Digimon che si dimenticava di lui un’altra volta. La spossatezza lo colpì all’improvviso, come se lo scontro fosse finito e non ci fosse altro da fare, come se finalmente potesse riposare mentre Guilmon attirava il cavaliere lontano da lui.

Quando una mano si posò sul suo capo, Ryou sussultò. Il cuore sobbalzò forte nel suo petto per lo spavento, ma si calmò quando vide la sagoma di Ruki china su di lui. Non riusciva a mettere a fuoco il suo viso, ma era certo che fosse lei.

«Ehi.» le disse.

«Ehi.» gli rispose la ragazza.

«Ho pensato davvero che questa volta sarei morto.» ammise, mentre lei gli scuoteva i capelli per liberarli dalla sabbia. Sentiva Takato e Jenrya gridare in lontananza, ma non riusciva a distinguere le loro parole.

«Così impari ad andare avanti da solo.» ribatté Ruki. Strinse le dita attorno ai suoi capelli e li tirò come per punirlo, provocandogli un dolore pungente sulla nuca. «Ti colpirei per darti una lezione, ma ho l’impressione che messo come sei ti romperei.»

Ryou tentò di ridere, ma finì per tossire con tanto impeto che Ruki dovette sorreggerlo perché non si soffocasse con la sua stessa saliva. Quando ricadde indietro, Ryou trovò il braccio di lei a sorreggerlo.

«Togliamoci di qui.» gli disse.

Qualcosa di umido gli atterrò sul braccio e per un attimo pensò che la ragazza stesse piangendo, poi realizzò che si trattava solo di pioggia. L’acqua iniziò a cadere dal cielo scrosciante poco dopo portandosi dietro una forte puzza di acido.

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Capitolo 10
*** Sotto la superficile ***


10
Sotto la superficie


La pioggia scrosciò sulle loro teste annebbiando loro la vista, l’acqua si accumulo sulle ciglia, grondando giù dai capelli quasi come se tutti loro fossero sotto una cascata scrosciante. Ruki si sporse sulla testa di Ryou, riparandolo con le braccia per quanto poteva, lui gemette contro il suo petto e trattenne il fiato, pochi secondi dopo il diluvio si fermò con la rapidità con cui era incominciato, lasciandoli chini sul fango e zuppi come pulcini.

Come Takato, Jenrya e Guilmon, anche i due strani Digimon si erano fermati, forse sbalorditi quanto loro dal cambio di tempo improvviso.

Ruki ne approfittò per cercare con lo sguardo altri Digimon conosciuti, Renamon correva verso di loro, mentre Terriermon zampettava in direzione di Jenrya. Passò una mano sul muso di Monodramon, le cui zampe posteriori erano premute sulla sua coscia, e solo dopo aver percepito il suo fiato caldo contro la pelle tornò a guardare Ryou.

Lui strinse il suo polso e si mise in ginocchio per alzarsi, i pantaloni immersi nell’acqua, ma incespicò e Ruki lo afferrò appena in tempo per impedirgli di ricadere faccia a terra. Contro ogni aspettativa, il ragazzo si aggrappò a lei senza fare storie.

«Non vedo l’ora di fare una dormita di due settimane.» lo sentì sussurrare.

Renamon li raggiunse in quel momento, schizzando loro addosso il fango quando inchiodò per non investirli in pieno. «Sono accorsa appena ti ho sentita vicina.» le disse.

Ruki le sorrise, ma il sollievo di averla rivista era soffocato dalla preoccupazione per quei Digimon, che erano riusciti a ridurre Ryou in quel modo. La fata ed il cavaliere parvero riscuotersi, si scambiarono un’occhiata ed il cavaliere sguainò le spade puntando a Takato, che sgranò gli occhi nel vederselo arrivare addosso.

«Takato!» gridò Jenrya.

Il ragazzo si scostò appena in tempo ed il Digimon finì per urtare contro il terreno con violenza, schizzandolo in faccia e sporcandogli i vestiti.

«Devo dare una mano.» disse Ruki, consapevole che gli amici stavano dimostrando troppa incertezza.

«Se si ricaricano recuperano le forze in fretta, non permetterglielo.» le disse Ryou, poggiandosi a MonoDramon e lasciandola andare.

Ruki si chiese cosa volesse dire. La risposta le fu palese subito dopo, quando la terra attorno al cavaliere divenne un cratere ed il Digimon assorbì quello che si era dissolto in dati. Poi rialzò come se non avesse risentito affatto dell’impatto. Takato gli era ancora troppo vicino.

«Renamon!» chiamò Ruki.

Lei le fu accanto in un battito di ciglia, biodigievolsero e solo nel momento in cui Ruki fu immersa nella luce all’interno della mente di Sakuyamon si sentì finalmente al suo posto.

Sakuyamon sfrecciò contro i due, afferrò Takato tra le braccia e lo trascinò via, per depositarlo accanto a Guilmon. «Sarebbe utile che smetteste di tergiversare.», disse ad entrambi, lasciandoli indietro per cercare di rispingere il cavaliere verso la fata. Fece ondeggiare il bastone verso di lui, ad ogni suo passo il Digimon si scostò un poco.

Non vide gli amici biodigievolvere, non aveva occhi che per i due nemici e per i loro riflessi nell’acqua opaca e melmosa, pensò che la prima bolla che spuntò sulla superficie ed esplose fosse frutto della sua immaginazione, ma ne arrivarono una seconda ed una terza e non poté che sorprendersi e restare a fissarle un istante di troppo. Il tornado la colpì in pieno petto, scagliandola indietro per diversi metri e spiazzandola.

Dukemon la coprì, impedendo alla fata di attaccarla ancora, mentre MegaGargomon teneva impegnato il cavaliere in modo che i due rimanessero l’uno lontano dall’altro.

«Era ora.» si disse Ruki.

Una volta assicuratasi con uno sguardo che gli amici se la cavassero, cercò di individuare le bolle che aveva visto poco prima. Se l’aria risaliva in superficie, di certo qualcosa stava sprofondando sotto la superficie, forse una bolla d’aria sotto la sabbia si era rotta...

Come temeva, il mulinello li sorprese pochi istanti dopo, smosse il fango, schiumò in circolo e gloglottò, ribollì in superficie e schizzò un po’ ovunque. Non era visibile alcun fondale, non si riusciva a percepire la profondità della fanghiglia accumulata, ma quel gorgo improvviso stava per trascinare a fondo tutti coloro che fossero ancora a terra.

Guardò in giro, cercando di individuare tutti coloro che avrebbero potuto essere in pericolo, molti si aggrappavano alle rocce, si trattenevano a vicenda per non essere trasportati via, come MonoDramon, che spinse Ryou su per un masso quasi con violenza e saltò dietro di lui subito dopo.

Il movimento attirò ancora l’attenzione di Sakuyamon, le ombre sotto il pelo d’acqua si agitarono e si fecero sempre più nitide, le figure presero forma e colore fino ad emergere. Con il cuore improvvisamente fermo nel petto, Ruki realizzò che a breve si sarebbero trovati di nuovo in minoranza. Quando i quattro Digimon emersero, non perse tempo e sfrecciò verso quello che le era più vicino, scoprendo solo quando gli fu addosso che era ben più piccolo di come si sarebbe aspettata. Fu la parete di roccia a fermarli, ciottoli e sabbia piovvero loro addosso dalla sua sommità, mentre loro combattevano avviluppati l’uno all’altro. Ma il piccolo Digimon non attaccò, si limitò ad agitarsi ed a cercare di spingerla via, a dibattersi, come se fosse stato colto di sorpresa e non riuscisse a comprendere quell’attacco improvviso. Qualcuno afferrò Sakuyamon alle spalle, la distrazione che le aveva provocato la nuova realizzazione lo aveva reso facile. Si voltò per affrontarlo, ma lui le fermò il braccio e la fulminò con una scarica elettrica che le provocò una fitta di dolore. Strinse gli occhi e gemette, sentì le grida confuse, intravide qualcuno che si muoveva nel suo campo visivo ma non riuscì a capire chi fosse, poi comprese le parole.

«Fermi! Vi prego! Fermi!»

Si costrinse ad ascoltarli, a fare ciò che chiedevano a lei ed agli altri, e finalmente riuscì a guardarli bene. Erano in quattro, anche loro avvolti nelle loro scintillanti armature digitali come il cavaliere e la fata, ma sembravano restii ad iniziare un combattimento.

«Vogliamo solo recuperare i nostri amici.» disse uno di loro. Vestiva di rosso, il fango gocciolava dalla sua lunga criniera e ripioveva nella pozza d’acqua sotto di loro, ora di nuovo calma.

Sakuyamon non sapeva se fidarsi.

La fata ed il cavaliere si voltarono, pareva quasi che avessero riconosciuto i nuovi quattro Digimon e volessero andarsene al più presto, i loro movimenti si mascheravano con le ombre mentre spiccavano il volo per allontanarsi.

Il Digimon con l’armatura argentata, però, corse loro dietro, i movimenti che agitavano l’acqua che ricopriva il terreno. Raggiunse la fata, la strinse a sé, le bloccò prima le ali contro il proprio petto e poi le braccia contro il fianco. Lei si dibatté, ma il Digimon con la criniera accorse a dare man forte al compagno. Anche gli altri due, lasciata indietro Sakuyamon, si unirono all’inseguimento, cercarono di raggiungere il cavaliere, ma lui aveva già diverse decine di metri di vantaggio. Presto sparirono tutti e tre in direzione della linea dell’orizzonte.

Sakuyamon e gli altri rimasero a guardare, Ruki non sapeva cosa pensare.

Pochi minuti dopo il giorno raggiunse la vallata e la fata si arrese ai due Digimon. Confusa, Sakuyamon la vide rimpicciolirsi e perdere quella forma per svenire tra le braccia del Digimon con l’armatura argentata.

Era solo una ragazza.

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Capitolo 11
*** Non puoi sfuggire all’alba in eterno ***


11
Non puoi sfuggire all’alba in eterno


Jenrya era abituato all’idea che gli umani si unissero ai Digimon e Digievolvessero insieme, ma anche mentre guidava il ragazzo senza Digimon lungo i corridoi di Hypnos faceva fatica a credere che degli umani potessero digievolvere da soli. In un altro momento avrebbe indagato, ma ora lo preoccupava più capire cosa fosse preso alla ragazza ora inerme tra le braccia di lui – il ragazzo non gli aveva neanche detto quale fosse il suo nome.

Era felice che Terriermon fosse con lui, così come MonoDramon era con Ryou e lo affiancava nel suo passo traballante. Ad Hypnos erano state riservate loro alcune stanze, così che potessero riposare ed essere controllati ogni volta che fossero tornati da una delle loro occasionali gite nel Digital World, e quando raggiunsero la più attrezzata di esse alcuni medici li stavano già aspettando all’interno.

Si fermò sulla soglia e si fece da parte per permettere al ragazzo di precederlo; fino a quel momento aveva osservato lui e la ragazza solo distrattamente, ma ora poteva constatare che si trattava di due coetanei. Si domandò se lo fossero anche gli altri Digimon, ma sapeva che Sakuyamon e Dukemon, che con loro erano partiti all’inseguimento del cavaliere, lo avrebbero scoperto prima di lui.

Lasciò che il ragazzo posasse l’amica sul lettino e si dedicò a Ryou, che pericolosamente tremolante si sorreggeva allo stipite della porta.

«Di’, hai intenzione di svenire qui?» gli domandò.

Lui scosse il capo. «Ho solo bisogno di una lunga dormita.»

Jenrya gli indicò con un cenno del capo la porta di fronte. «Vai.» gli disse.

E si preparò ad insistere ed a cercare di convincerlo in chissà quale modo, ma non ce ne fu bisogno, perché Ryou annuì ed andò via, chiudendosi la porta alle spalle.

Jenrya poté tornare a preoccuparsi della ragazza svenuta, ora non riusciva a capacitarsi di come avesse potuto essere così violenta ed aggressiva e continuava a domandarsi cosa le fosse successo. Il modo in cui si era mossa, in cui li aveva ignorati per proseguire nella sua inspiegabile missione, lo tormentava, ma non poteva farci nulla.

Il dottore le controllò la pressione, il battito cardiaco e chissà cos’altro; Jenrya si distrasse presto ad osservare il ragazzo che fissava a terra con sguardo perso. Gli si avvicinò, cercando le parole per domandargli cosa fosse successo, ma non ebbe bisogno di dire nulla.

«È successo all’improvviso, non sappiamo come; qualcosa ha infettato Izumi e lei ha contagiato Kouichi.» spiegò il ragazzo. «Prima che potessimo rendercene conto li avevamo persi entrambi.»

Jenrya accennò un sorriso.

«I segni vitali sono buoni.» disse il dottore.

Nessuno osava distogliere lo sguardo dal viso pallido di lei, i capelli biondi arruffati erano sparpagliati sul cuscino, i vestiti macchiati e strappati e le occhiaie scure sotto le ciglia chiare.

Quando Yamaki li raggiunse si tolse gli occhiali da sole e li fissò a turno, la sua espressione rendeva palese ogni singola domanda che aveva in testa ed erano talmente tante che Jenrya si domandò quale risposta dovesse essere la prima.

«La signorina...» iniziò, lasciando in sospeso la domanda.

«Orimoto. Si chiama Izumi Orimoto.» gli disse il ragazzo.

«La signorina Orimoto sta bene?» concluse.

Il dottore annuì. «Fisicamente sembrerebbe che sia così.»

Jenrya ne dubitava, lo vedeva negli occhi scavati e in tutto il resto, ma il dottore ne doveva certo sapere più di lui, quindi rimase in silenzio. Ripensò alle poche parole che aveva detto il ragazzo su ciò che era successo, a come si sarebbe sentito se fosse successo ad uno dei suoi amici, a quello che avrebbe fatto per ritrovarli e riportarli indietro e allora arrivarono anche le altre domande. Perché non avevano mai sentito parlare di esseri umani che digievolvessero in Digimon da soli? Perché non li avevano mai incontrati fino ad allora? Da dove erano sbucati? Avrebbe continuato a tormentarsi con questi dubbi, se il dottore non l’avesse distratto, sobbalzando con un sussulto ed allontanandosi con un piccolo salto dal lettino su cui Izumi riposava

Yamaki lo guardò truce, facendo un passo verso di lui.

«Sono desolato,» disse il dottore. «mi è parso per un istante di vedere qualcosa muoversi sotto la maglietta, ma sono certo di aver visto male.»

Eppure sollevò un lembo di stoffa, forse per assicurarsi di esserselo immaginato per davvero, forse per dimostrare di non essere pazzo, e fu allora che lo videro tutti.

Era un movimento lieve, sottopelle, proprio all’altezza dell’ombelico. Qualcosa creò un piccolo bozzo e si mosse leggermente verso il petto per poi ritirarsi e svanire.

Neanche un minuto dopo Yamaki pretese una tac completa, così poco dopo ebbero le immagini chiare. La creatura era grande quanto un dito, riluceva nelle lastre nella sua forma incerta, sempre sbiadita e dai contorni sfocati. Il dottore spiegò che per avere un’immagine chiara di cosa fosse avrebbero dovuto fare in modo che restasse ferma.

Jenrya si domandò se la creatura fosse la causa di tutto ciò che era successo oppure solo un ospite indesiderato.

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Capitolo 12
*** Dove porta l'ascensore (p.1) ***


12
Dove porta l’ascensore (P.1)






Gli occhi di Izumi si aprirono verso un soffitto bianco e candido, la luce la abbagliò e lei scattò a sedere, incapace di sopportarne l’intensità, per dare le spalle alla finestra e nascondere il volto nel cuscino. Con quel movimento rapido aveva esaurito tutta la poca forza che le era rimasta, allora rimase a faccia in giù, ad occhi chiusi e pugni stretti, incapace di muoversi o anche solo di concentrarsi sui rumori presenti con lei nella stanza.

La luce si affievolì, accompagnata da un rumore confuso che Izumi ci mise un po’ a riconoscere: una tapparella che si abbassava.

«Stai bene?» le domandò qualcuno. La voce la raggiunse leggera, incerta, e solo dopo che ebbe fatto presa nella sua testa Izumi la riconobbe.

Voltò il capo, Takuya era solo una sagoma sfocata di cui non si sforzò di distinguere i contorni, il volto pallido e ombre scure sotto gli occhi. Serrò le palpebre, la presenza dell’amico ed il suo respiro bastarono a rassicurarla.

«Ora meglio, grazie.» gli rispose.

Avrebbe voluto chiedergli cosa fosse successo, come li avessero trovati e cosa avrebbero fatto adesso, ma era ancora troppo assonnata per parlare quanto avrebbe voluto.

Sentì la mano di Takuya che le sfiorava un braccio e rabbrividì per quel contatto e per il freddo, lui sollevò il lenzuolo per coprirla.

Ma il freddo che sentiva Izumi non era quello che si prova quando la temperatura è bassa, perché ogni brivido che avvertiva lungo la schiena era l’eco di quelli che aveva provato nella grotta assieme a Kouichi. Ripensò a lui, al modo in cui si erano stretti l’uno all’altra per scaldarsi, all’oscurità in cui per giorni erano rimasti immersi, soli e senza sapere dove fossero e cosa stesse accadendo loro. Aveva lo stomaco in subbuglio e l’incavo del braccio, dove le avevano infilato la flebo, prudeva, ma aveva anche fame, così tanta che era sicura che si sarebbe mangiata un pollo intero.

Takuya si sedette al suo fianco, le mani intrecciate in grembo, silenzioso come era stato poche altre volte nella sua vita. Pareva non riuscire a distogliere lo sguardo da lei, cosa che probabilmente in un altro momento le avrebbe fatto piacere, ma Izumi si sentiva pesante, affamata e così sporca che era certa che non ci fosse un solo lembo di pelle del suo solito colore, su di lei. Perfino la testa le prudeva, tanta era la voglia di fare la doccia, e lì nella penombra bramava l’acqua - e del sapone - come non le era mai successo prima.

Apparentemente era la giornata delle prime volte, anche se non aveva idea di che ore fossero, né di dove si trovasse lei. Si domandò dove fossero finiti tutti; Junpei, Tomoki, Kouji, i suoi genitori, che come ogni altro genitore avrebbero di sicuro voluto essere lì con lei, dopo averla persa per così tanto tempo.

«Kouichi sta bene?» chiese a Takuya.

E la voce le graffiò la gola.

Lui sospirò e tentò di sorridere, ma ne risultò una smorfia.

«Non siamo ancora riusciti a salvarlo, mi dispiace.» le disse, la voce in un sussurro, quasi come se fosse preoccupato che anche le sue parole potessero farle male. «Ma lo stanno cercando.»

Allungò il braccio verso di lei, le dita tese per raggiungerla, ma tentennò e Izumi, che non vedeva l’ora di avere un po’ di calore umano, gli strinse la mano per prima.

Sentire la pelle di lui contro la propria le diede un tipo diverso di brivido, più piacevole, rassicurante, fu come se solo quel contatto potesse spazzare via almeno un po’ del freddo e della paura che aveva avuto ed a cui, solo in quel momento, poteva reagire senza che essa la soffocasse.

Takuya le carezzò il dorso della mano con il pollice, lo sguardo perso nonostante fosse puntato dritto contro di lei, distratto da qualche preoccupazione che Izumi non era certa di voler conoscere.

«Cosa è successo?» gli domandò.

E Takuya iniziò a raccontare ciò che era accaduto dal momento in cui l’ascensore l’aveva portata via, di quando era tornata, aveva baciato Kouichi e l’aveva in qualche modo incantato, quasi fosse la sua sirena. Raccontò delle occhiatacce delle persone, dei commenti che avevano attirato prima che tutto diventasse ancora più bizzarro.

Il terremoto che era arrivato subito dopo, raccontò Takuya, era stato inaspettato ed aveva provocato singulti strozzati nella maggior parte delle persone. Qualcuno aveva strillato, qualcun altro era corso in direzione delle scale, ma i più avevano mantenuto il contegno e si erano aggrappati alle pareti ed al proprio accompagnatore.

Non si soffermò su quello che era successo dopo, ma tagliò corto dichiarando che:

«Siete digievoluti, non so come abbiate fatto, nel mondo reale, e poi siete scomparsi insieme ed il terremoto era finito.» dopo un sospiro aggiunse anche: «Prendendo l’ascensore siamo riusciti ad arrivare nel Digital World, ma non riuscivamo a trovarvi.»

E poi Takuya spiegò, in breve, di come avevano scoperto che si trovavano in un universo parallelo e di come fossero stati costretti a cercare i Supremi per poterli raggiungere.

Del resto non disse nulla, e Izumi pensò che avrebbe chiesto spiegazioni a qualcun altro, quando ne avrebbe avuto la possibilità.

Il dito di Takuya ancora la accarezzava, la pelle d’oca sul suo braccio andava calmandosi, ma il lenzuolo non le infondeva ancora abbastanza calore. E poi aveva fame.

Avrebbe mandato Takuya a prendere qualcosa da mangiare, ma non voleva che lui si allontanasse. Fu il suo stomaco a parlare per lei, brontolando e ruggendo così forte da fare sgranare gli occhi al ragazzo.

«Ti porto qualcosa.» le disse. E si alzò per occuparsene.

Izumi strinse la presa sulla sua mano, lui rimbalzò indietro e, solo per un momento, esitò.

«Torno subito.» promise.

Allora lo lasciò andare.

Quando lui uscì, Izumi rimase sola con i suoi pensieri e con i ricordi di ciò che era accaduto quando le porte dell’ascensore si erano riaperte davanti a lei.


«Dunque, ci sarebbe quel negozietto di scarpe al secondo piano che l’altra volta non abbiamo fatto in tempo a visitare...» aveva detto saltellando. «Allora forza, chi arriva ultimo al secondo piano mi offre il biglietto per il prossimo film al cinema.»

Tomoki era stato il primo a correrle dietro, l’esitazione degli altri l’aveva divertita come sempre.

Era entrata nell’ascensore e si era voltata, pronta a bloccare le porte dell’ascensore quando si fossero richiuse.

Junpei si era riscosso poco dopo. «Ehi! Aspettaci!»

Ma Izumi non era stata abbastanza rapida; quando le porte dell’ascensore avevano rombato e si erano chiuse aveva avuto un attimo di smarrimento, teso una mano per passarla davanti al sensore ed impedirlo, ma quelle non avevano percepito la sua presenza.

L’ascensore aveva tremato, avuto uno scatto ed era partito, il contatore dei piani aveva iniziato a scorrere e raggiunto in fretta lo zero, ma non si era fermato quando aveva raggiunto il parcheggio. I numeri dei piani avevano continuato a susseguirsi, ricominciando ad aumentare e, dopo diversi minuti, Izumi aveva pensato che non si sarebbero mai fermati.

La frenata aveva provato un leggero scossone all’ascensore, il tintinnio familiare preannunciato l’apertura delle porte e, quando queste si erano dischiuse, un fiotto d’acqua si era riversato dentro gorgogliando verso di lei, scivolando attorno alle suole delle sue scarpe e precipitando scrosciante nella fessura che la separava dal resto dell’edificio.

«Ma che diavolo...» si era lamentata, appoggiando una mano allo specchio e sollevando i piedi a turno per evitare che l’acqua le inzuppasse anche i calzini.

Aveva sbuffato, premendo ripetutamente il bottone per risalire, ma l’ascensore non si era mosso e le porte non si erano richiuse, lasciandola bloccata davanti a quella che, lo aveva notato solo in quel momento, le era parsa una semplice piccola sala d’aspetto abbandonata di una qualche stazione. La prima cosa che aveva pensato era che non si trovava più nel Magazzino 109.

Si era poggiata contro il corrimano e affacciata, conscia di essere almeno temporaneamente bloccata su quell’assurdo piano, i suoi passi all’interno della saletta allagata avevano risuonato sinistramente, riecheggiando contro le nude pareti grigie e scrostate.

Come se non sapessi che non è una buona idea uscire dall’ascensore, aveva pensato. Aveva incrociato le braccia per ripararsi da una folata di vento freddo proveniente dalla porta socchiusa che aveva davanti. Si era guardata attorno, prima verso l’ascensore, per assicurarsi che non ripartisse senza di lei, poi lungo le pareti in cerca di un indizio su dove si trovasse. Aveva cercato qualcosa come una mappa per le evacuazioni che segnasse la sua posizione, o la porta di un bagno da cui potesse provenire tutta quell’acqua.

Le uniche uscite, però, erano state la porta socchiusa e l’ascensore con cui era arrivata, le finestre che circondavano la parte superiore della camera, appena sotto al soffitto ammuffito, erano disposte troppo in alto per poter vedere cosa ci fosse all’esterno. Izumi Aveva aggirato la fila di poltrone dismesse e strappate in mezzo alla stanza e si era avviata all’ingresso. Guardando il gradino bagnato che l’avrebbe condotta all’esterno si era resa conto che l’acqua proveniva da qualunque cosa ci fosse oltre la porta. Aveva afferrato la maniglia e l’aveva spinta, si era ritrovata davanti ad una banchina deserta e pallida che si stagliava contro uno sconfinato oceano dai toni grigiastri. Le era parso che il mare ingoiasse ogni singolo raggio di luce, si perdeva oltre l’orizzonte, divenendo più scuro là dove confinava con la linea del cielo, mentre le onde scivolavano ritmicamente sul bagnasciuga poco distante.

«Non è il mare a essere grigio, rispecchia solo le nuvole in cielo.» si era detta Izumi, ad alta voce, perché poterci credere di più.

Ma qualunque cosa aveva provato a dirsi, o anche urlarsi nella testa, non aveva potuto fare a meno di ricordare che a Shibuya non c’era traccia di mare e dietro di lei, dove avrebbe dovuto esserci l’edificio da cui era scesa, c’era solo una stanzetta diroccata dal tetto fatiscente. I binari che si era ritrovata davanti erano arrugginiti, ma guardandoli non aveva potuto che ripensare agli eventi di alcuni anni prima, così apparentemente irreali e tuttavia vividamente impressi nella sua memoria.

Aveva sorriso, ripensando al Digital World ed ai suoi abitanti, poi aveva sentito il sangue defluire dal volto e le gambe tremare nel constatare la differenza tra i paesaggi che ricordava di aver lasciato e la poltiglia incolore che stava guardando.

Si era leccata le labbra, mentre il vento le scuoteva i capelli i lembi della giacca. Il suo sguardo si era perso contro l’orizzonte, mentre la sabbia mulinava sulla spiaggia davanti a lei.

Probabilmente l’acqua è entrata con l’alta marea, aveva riflettuto, osservando un punto poco distante in cui le onde arrivavano a lambire una parte della banchina e schizzavano la loro schiuma sui mattoni consumati e ricoperti di alghe scure. Vi si era avvicinata, sporgendosi e specchiandosi sull’acqua gorgogliante e tetra, in cerca di segni di vita, ma il vento e l’oceano erano stati gli unici rumori di quel mondo, mescolati con il suo respiro trattenuto.

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Capitolo 13
*** Dove porta l'ascensore (p.2) ***


13
Dove porta l’ascensore (P.2)






Le era parso che il mare ingoiasse ogni possibile colore per risputare il suo corrispondente nella scala dei grigi, quasi fosse un film in bianco e nero. Aveva sollevato i palmi delle mani per guardarle e scoperto che probabilmente non era solo l’acqua ad assorbire i colori.

Aveva inspirato forte l’odore del mare, stantio e pesante al punto da pizzicarle le narici e farle storcere il naso, strizzato e sbattuto gli occhi per cancellare quella sensazione. Quando li aveva riaperti aveva scorto un’ombra muoversi in lontananza. Si era voltata verso quella sagoma, sussultando nel vederla sparire dietro un mucchio di scogli con una velocità tale da farle pensare che si fosse trattata solo di un’allucinazione.

«Chi è là?» aveva domandato. Quando non aveva ottenuto risposta era saltata giù dalla banchina, costeggiando il bagnasciuga e tenendosi a distanza dall’acqua quel tanto che bastava perché le onde non la raggiungessero. Solo avvicinandosi era riuscita a distinguere le impronte sulla sabbia bagnata; alcune erano state cancellate oppure si erano sovrapposte ad altre più o meno profonde. Erano orme troppo grandi per essere umane.

Una mano palmata era scivolata sullo scoglio davanti a lei, aggrappandovisi mentre la creatura sporgeva il capo per fissarla con due enormi occhi tristi, il muso schiacciato, umido e spento le aveva ricordato quasi una rana. Izumi le aveva sorriso, tendendo una mano verso di lei e fermandola a mezz’aria per non spaventarla.

«Non aver paura, non voglio farti del male.» aveva detto. Aveva fatto un passo verso di lei e, quando lo aveva visto arretrare, si era fermata e morsa il labbro ritirando la mano e abbandonandola contro il fianco. «Stai tranquillo, sono un’amica.»

Il fragore dell’acqua si era intensificato, allora, e dozzine di altre ombre erano scivolate fuori dagli scogli, emerse dall’oceano schizzando e strisciando sulla sabbia alle sue spalle. Izumi aveva trattenuto un grido, trovandosi circondata, aveva fatto un giro su sé stessa, cercando con lo sguardo un punto attraverso cui passare per poter raggiungere di corsa la stazione.

Aveva stretto i pugni, con il cuore in gola ed il respiro trattenuto mentre loro si avvicinavano chiudendo il cerchio. Quello di loro che aveva seguito era uscita dal suo nascondiglio, scivolata in acqua fino alle caviglie rinsecchita e muovendosi incerta verso di lei. Aveva avuto un andamento ondeggiante, quasi come se le sue gambe non avessero la forza di sostenerla fuori dall’acqua. «Perdonaci.» le aveva detto «Non avremmo voluto spaventarti.»

Si era fermata a pochi passi da lei, forse preoccupata dall’idea che lei potesse correre via. Izumi aveva premuto i palmi sul petto, tentando di rallentare con profondi respiri i battiti del suo cuore in corsa.

«Cosa volete?» gli aveva chiesto, e aveva fatto scattare la testa verso gli altri, il senso d’oppressione che quell’accerchiamento le stava provocando le aveva impedito di mantener ferma la voce. Il modo in cui loro quasi si fondevano con il paesaggio le aveva fatto nascere spontanea un’altra domanda. «Cosa è successo qui?»

«Abbiamo bisogno del tuo aiuto.» era stata la risposta all’unisono al primo quesito. Il secondo era rimasta ignorata.

«Ti prego, aiutaci.» aveva ribadito la creatura davanti a lei, sollevando una mano nella sua supplica.

«Per cosa?» aveva chiesto Izumi.

L’avevano ignorata ancora.

«Ti prego.»

Un coro di suppliche si era levato attorno a lei; voci gorgoglianti, rauche, sommesse e incerte che le avevano ricordato quasi il rumore dell’acqua agitata nel silenzio di una grotta per metà sommersa.

«In che modo?» aveva chiesto Izumi alla fine, con un sospiro. Come ad un segnale, la mano umida della creatura si era stretta attorno al suo polso, mentre altre l’avevano raggiunta e spinta verso di lei.

Ciò che era venuto dopo era stata un’oscurità confusa, il dolore, la sensazione di soffocare e la luce malata dei cristalli nella grotta in cui si era svegliata con Kouichi.



Essere in quella stanza, avvolta nella coperta profumata ed in compagnia di Takuya l’aveva fatta sentire al sicuro almeno per un po’, ma il pensiero che gli altri fossero ancora là fuori la tormentava, così come la consapevolezza che Kouichi si fosse di nuovo risvegliato in quella grotta umida, questa volta da solo. Sperò che fossero riusciti a raggiungerlo, ad intrappolarlo in qualche modo, e di vederlo al più presto per poter smettere di sentirsi in colpa per essere stata salvata per prima.

La luce aveva smesso di darle fastidio, anche perché Takuya aveva lasciato la tendina abbassata in modo che lei potesse riposare, ma ogni volta che chiudeva gli occhi Izumi aveva paura di riaprirli e ritrovarsi ancora nell’oscurità, quindi rimase ostinatamente a fissare la finestra oltre cui il sole scendeva dietro i grattacieli.

Forse, una volta che il giorno avesse definitivamente lasciato il posto alla notte, sarebbe riuscita a guardare fuori ed a vedere la città, ma fino ad allora non le restava che osservare l’impronta di quel poco di luce che riusciva a sopportare.

Il sole era appena sparito oltre il profilo del monte Fuji, quando il dolore la colse allo stomaco costringendola a piegarsi in due. Izumi premette la mano sulla pancia nel tentativo di calmarlo, incapace di fiatare o chiedere aiuto. Le lacrime le riempirono gli occhi, al pensiero di ciò che questo significava, al pensiero di ciò che era successo subito dopo tutte le altre volte che era accaduto.

Combatté finché poté per non perdere il controllo un’altra volta, ma alla fine cedette.

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Capitolo 14
*** Incoscienza ***


14
incoscienza


Juri era in corridoio, la tazza di tè ancora piena stretta tra le dita, quando Ruki, Takato, Renamon e Guilmon tornarono. Con loro c'erano anche tre ragazzi sconosciuti, i volti cupi, gli occhi bassi, l'aria di chi si sente sconfitto in ogni modo possibile. Avevano occhiaie scure sotto gli occhi, i vestiti sporchi e tanto sudati da rendere palese il fatto che non si cambiavano da giorni.

Incrociò i loro sguardi un solo istante, prima che loro proseguissero oltre, solo per fermarsi in attesa quando intuirono che Takato le si era avvicinato.

Lui stirò le labbra in un sorriso forzato, le sfiorò un braccio e Juri senti fremere il lembo della pelle su cui il suo polpastrello ancora premeva. La sensazione le diede una leggera scossa, risvegliando per un momento le familiari farfalle all'interno del suo stomaco.

Sentiva che in quel tocco avrebbe dovuto esserci un qualche messaggio nascosto, un "dobbiamo parlare", forse, oppure significava soltanto che era felice di rivederla. Non era importante, ora che lui era a casa e che in qualche modo tutto poteva andare bene.

Era sempre così, quando lui era con lei; ogni segno di razionalità veniva cancellata e nulla era più impossibile.

«Dove sono gli altri?» le domandò il ragazzo.

«In infermeria.» gli rispose Juri, tendendo un braccio e sollevando la mano per scostargli la frangia da sugli occhi.

Non aveva ricevuto informazioni sull’accaduto, oltre al fatto che non era davvero chiaro ciò che fosse accaduto, ma neanche in quel momento, quando sembrava che fosse successo qualcos'altro di brutto, o forse nulla, in realtà, non fece domande. Nessuno aveva avanzato proposte per liberare Izumi Orimoto dal suo ospite, forse non le avevano neanche detto della sua esistenza e Juri non poteva fare a meno di pensare che, se fosse stata al suo posto, forse non avrebbe voluto sapere.

Si fece da parte e li lasciò passare, li osservò sparire oltre l'angolo e sospirò, immaginando quanto potessero essere spiazzati e smarriti. Poi si accorse che Ruki e Renamon erano rimaste lì con lei e pensò che forse, finalmente, avrebbe potuto avere una conversazione decente con qualcuno che non pensasse di doverla proteggere ad ogni costo e da qualunque cosa, anche se questo qualcosa era fisicamente lontano da lei.

«Avete trovato il Digimon che cercavate?» le domandò, ma in fondo conosceva già la risposta.

«L’abbiamo seguito fino ad un buco nel terreno, ma lì sotto è un labirinto di gallerie, sarebbe stata un’impresa impossibile.» spiegò Ruki.

Aveva i capelli sciolti, forse ad un certo punto aveva perso l'elastico ed in qualche modo doveva essere finita all'interno di un tornado, perché non c'era più una sola ciocca che fosse al suo posto, facendola apparire quasi con una selvaggia. Lei non sembrava preoccuparsene neppure un po'.

Juri comprese le espressioni cupe che aveva visto; dover fare marcia indietro dopo essere arrivati così vicini doveva essere stato difficile, forse qualcuno aveva addirittura fatto resistenza.

Si era quasi persa nei suoi pensieri, quando Ruki le domandò: «Dove sono Ryou e MonoDramon?»

Le sorrise, pensando che in fondo avrebbe dovuto aspettarsi quella domanda dal momento in cui era entrata in quel corridoio.

Ripensò a come Ryou, per l'ennesima volta, fosse riuscito a sparire dalla loro vista e rischiare la vita da solo nonostante avesse la possibilità di chiedere aiuto a uno qualunque di loro. Forse l’inseguimento del Digimon non era l’unica cosa che aveva ridotto Ruki così; era ben più probabile che le occhiaie e l'espressione contrariata fossero dovute alle evidenti pessime scelte di vita e d'azione del ragazzo.

«È in camera a dormire, lo trovi nel solito letto.» le disse.

Tutti loro conoscevano bene le abitudini di Ryou, che sembrava aver montato le tende sul primo materasso che aveva trovato il giorno in cui avevano proposto loro di usare le stanze per riposare. Da allora, nessuno oltre lui aveva usato il letto vicino la porta e chiunque cercasse Ryou, sapendolo stanco o semplicemente annoiato, aveva saputo subito dove cercarlo, ammesso che avesse il coraggio di svegliarlo. Juri sorrise, pensando a come Ruki sembrasse divertirsi a farlo.

Scosse il capo, essere rimasta nel Real World l’aveva fatta sentire inutile, ma ora era certa di esserlo davvero e non c’entrava il fatto che non avesse un Digimon con cui combattere o biodigievolvere. Se avesse deciso di andare a casa non avrebbe fatto alcuna differenza, ma il fatto che anche chi aveva un Digimon non fosse riuscito ad ottenere molto la consolava, facendola sentire infinitamente in colpa per quel pensiero.

Se anche Takato aveva, per il momento, fallito, come avrebbe potuto pretendere lei di poter aiutare?

Lasciò che Ruki raggiungesse Ryou da sola, per niente interessata alla sfuriata che a breve sarebbe piovuta addosso al ragazzo, e decise che se ne sarebbe allontanata il più possibile per non doverne sentire neppure l'eco.

Non sapeva per quanto tempo Takato sarebbe stato impegnato e non voleva dargli altro a cui pensare, decise che sarebbe potuta scendere ai piani inferiori a raccogliere i vestiti sporchi rimasti negli armadietti, per andare a fare un bucato veloce alla lavanderia a gettoni all’angolo della strada.

Chiamò l’ascensore, ma il cigolio della porta di servizio la fece esitare. Rimase in attesa, cercando chi potesse avere bisogno di usare le scale d'emergenza e per quale ragione, considerando quanti piani lì separavano dal piano terra, e stette ferma e attenta fino a quando le porte dell'ascensore si richiusero e quello riscese, vuoto, perché chiamato da qualcun altro.

L’uscita di sicurezza si poteva aprire solo dall’interno, pensò, quindi se qualcuno fosse rimasto chiuso fuori per riuscire a rientrare sarebbe dovuto scendere una ventina di piani a piedi, uscire nel vicolo dietro Hypnos e fare il giro completo per poi passare dalla porta di ingresso. Sospirò, raggiunse la porta, premette le mani sull’asta e la spinse giù, spalancandola, poi strizzò gli occhi per mettere a fuoco la figura in penombra.

Considerato la scarsità di ragazze nel gruppo ed escludendo Ruki, che era di certo già arrivata da Ryou senza voltarsi indietro, l’unica altra persona era la ragazza arrivata con Jenrya e Terriermon, ma Juri non si spiegava la ragione per cui fosse finita lì.

«Tutto bene?» le domandò, avvicinandosi a passo lento. La ragazza rimase in silenzio, le dava le spalle, immobile davanti alla ringhiera e con le braccia abbandonate contro i fianchi. Forse era sovrappensiero, forse solo distratta a fissare il vuoto.

«Sono certa che i tuoi amici siano preoccupati per te, ti staranno cercando.» aggiunse Juri.

Forse, pensò, era lì proprio per questo; magari aveva bisogno di stare un po'da sola.

La raggiunse, tenendo aperta la porta con una mano e tendendo l'altra verso di lei per sfiorarle il braccio con esitazione. Temeva di spaventarla, quasi si aspettò un suo sobbalzo, ma quando premette i suoi polpastrelli appena sotto il suo gomito la ragazza si voltò a guardarla, gli occhi fissi e sbiaditi nella semioscurità.

Juri avrebbe voluto chiederle cosa fosse successo, perché si trovasse lì, ma quando dischiuse le labbra per farlo Izumi si sporse verso di lei e piantò la bocca contro la sua.

Nella più totale confusione, Juri si rese conto di ciò che stava accadendo solo quando sentì qualcosa scivolare giù per la propria gola.


Junpei entro nella camera subito dietro Kouji, ma, a parte Takuya che dormiva con la guancia permuta sul materasso e le braccia incrociate sotto il collo, la luce era spenta e dall'esterno filtravano solo poche tra luci della città, non c’era nessun altro.

«Magari le scappava la pipì.» disse davanti alle espressioni confuse dei due amici. Loro sospirarono contrariati, Takuya dischiuse gli occhi e sbatté le palpebre stordito, le braccia che si allungano sul letto alla ricerca di Izumi. «Ok, vado a cercare qualcosa da mangiare per tutti noi.»

Non voleva assistere al momento in cui la sua mente di Takuya si sarebbe svegliata all'improvviso e lui avrebbe realizzato che Izumi non c'era, né vederlo esprimere la sua preoccupazione come se fosse l'unico a cui fosse concessa. Sentiva la pancia brontolare, aveva talmente tanta fame che sarebbe stato pronto anche a smantellare un distributore automatico, pur di mandar giù un paio di pacchi di patatine, e voleva preoccuparsi solo di quello. Ma il cenno della testa del ragazzo che aveva detto di chiamarsi Takato gli fece capire, con sollievo, che non ce ne sarebbe stato bisogno.

«Possiamo ordinare qualcosa da asporto, se per voi va bene.» propose. Era rimasto fermo sull'uscio, talmente silenzioso che aveva quasi dimenticato che fosse lì, ma Junpei decise senza esitazione che avrebbe potuto essere il suo nuovo migliore amico.

«Io ho lo stomaco chiuso.» gli disse Kouji, ma Junpei sapeva che digiunare non l’avrebbe aiutato e che prima o poi avrebbe ceduto, quindi si ripromise di procurargli una doppia porzione.

«Controllo un secondo come sta il mio amico e ti raggiungo, puoi aspettarmi nell’atrio.» disse Takato, annuendo.

Tornando indietro, Junpei incrociò la ragazza dai capelli rossi, che al contrario di Takato non si era presentata. Lei sembrò quasi non vederlo, mentre lo aggirava e passava oltre.

Junpei non se ne curò, raggiunse l’ascensore ringraziando il cielo che qualcuno l'avesse inventato, ma esitò quando vide la porta di emergenza aperta e, spinto dalla curiosità, non resistette alla tentazione di sbirciarvi oltre.



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Ma vi rendete conto che ogni volta che una ragazza sparisce e un ragazzo commenta "magari è andata a fare la pipì c'è da preoccuparsi davvero per la ragazza in questione?
Volevo dedicare questo capitolo a Enxhi un po'per farla sentire in colpa per aver smesso di recensire e un po' perché c'è tanta Juri. Prima della revisione, poi, il capitolo contava 900 parole, dopo essa oltre 1500; sono così contenta di ciò!
Mi piacerebbe tanto sapere cosa state immaginando ora, cosa pensate sia accadendo, cosa sospettare accadrà e così via. Attendo ipotesi con impazienza. E poi volevo chiedere a chi ha letto la prima versione, anche se i cambiamenti sono abissali, secondo voi è meglio quella o questa? Secondo me, sarebbe strano il contrario, questa!

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Capitolo 15
*** Annaspando ***


15
Annaspando


Takato finì di contare gli spicci nel borsellino e guardò l’orologio con un sospiro. Pensò che non avrebbe dovuto lasciare Junpei da solo in giro per Hypnos, poiché si sarebbe potuto perdere. Se Yamaki lo avesse trovato a zonzo da solo, dopo che gli era stato affidato, gli avrebbe fatto una bella ramanzina. Forse avrebbe approfittato della sua posizione per punirlo, impedendogli di andare nel Digital World per qualche settimana.

Poi, però, Takato ricordò che data la situazione questa volta non avrebbe potuto farlo, quindi sorrise tra sé e decise che solo se il ragazzo dell’altro universo non fosse arrivato entro cinque minuti sarebbe tornato indietro a cercarlo. In quel momento aveva altro a cui pensare, c’era qualcosa, nell’ingresso della sede di Hypnos, che gli impediva di sentirsi al sicuro o rilassarsi; ogni volta che si trovava lì passava il tempo a scrutare oltre la vetrata, controllando che i suoi amici arrivassero.

Questa volta, però, quando Juri passò lì davanti e fu illuminata dalla luce del lampione del marciapiede, non ci fu nessuno scambio di sguardi. La ragazza proseguì dritta per la sua strada. Takato prese il cellulare per controllare se gli avesse mandato un sms per avvertirlo che stava andando a casa, ma non ne trovò traccia. Nel tempo che ci impiegò per decidere di fermarla e chiederle se avrebbe cenato con loro o no e nei pochi secondi che trascorsero prima che si affacciasse per chiamarla, Juri era già sparita tra la folla. Takato rimase un istante in bilico sull’uscio, con il busto proteso verso la strada e gli occhi strizzati in un ultimo tentativo di individuarla, poi si decise a tirare fuori il cellulare per telefonarle, ma il quello di lei squillò a vuoto.

Si arrese, pensando a cosa avrebbe potuto dirle il giorno successivo, e decise che anche se voleva lasciare in pace Junpei sarebbe tornato indietro comunque. Lo avrebbe fatto, se non avesse sentito lo stridore della frenata ed il rimbombo dell’urto in strada.



Takuya si stropicciò gli occhi per l’ennesima volta e si mosse sulla sedia, era ancora troppo intontito per controllare chi fosse entrato, ma quando gli amici gli parlarono questo bastò per riconoscere le loro voci.

«Dov’è Izumi?» domandò Tomoki.

Takuya sobbalzò e si sollevò, sporgendosi verso il letto vuoto. Anche attraverso gli occhi socchiusi ed assonnati poté vedere che lei non c’era. Ebbe un colpo al cuore e trattenne il fiato, nel realizzare che non aveva vegliato su di lei con l’attenzione con cui avrebbe voluto farlo. Il viaggio inter dimensionale doveva averlo stancato più di quanto immaginava.

Scattò in piedi, sporgendosi oltre il lettino come per controllare se la ragazza fosse caduta dall’altra parte, ma di lei non c’era traccia.

«Magari le scappava la pipì.» disse dopo alcuni secondi di esitazione. Si rese conto che non aveva idea di quanto avesse mangiato e bevuto Izumi nei giorni in cui era scomparsa, se avesse avuto un bagno o qualcosa che vi somigliasse in caso di necessità.

Ripensò a Kouichi, che probabilmente era stato con lei per tutto il tempo, e realizzò che lui non era con Tomoki e Kouji.

«Dov’è Kouichi?» domandò.

Tomoki distolse lo sguardo, gli occhi umidi per le lacrime trattenute. Anche Kouji rimase in silenzio, lasciando sospesa tra loro l’indesiderata risposta, e poi si sedette per terra con la schiena contro la parete, proprio accanto alla porta d’ingresso.

Rimasero in silenzio nella penombra, in attesa che qualcuno, chiunque, li raggiungesse e si unisse a loro solo nella speranza che un estraneo potesse infrangere quel clima gelido di tormentata rassegnazione che serpeggiava tra loro. Takuya non si domandò che fine avesse fatto Junpei, poiché immaginava che qualunque sua sparizione avrebbe avuto probabilmente a che vedere con qualche spuntino. Anche Takuya aveva fame, non poteva negarlo, quindi si limitò a sperare che l’amico pensasse anche a loro, come capitava spesso.

Non aveva idea di cosa poter dire a Kouji per consolarlo, poteva solo immaginare l’intensità della sua preoccupazione e la mole del suo smarrimento. Si sentiva sempre più inutile.

Passò una mano tra i capelli per tirare indietro il ciuffo, finalmente si era abituato alla luce proveniente dal corridoio e non aveva più bisogno di strizzare gli occhi, ma si lasciò comunque andare contro la spalliera della sedia, rabbrividendo per il freddo che si era fatto strada nella stanza. Pensò che forse avrebbe potuto riassopirsi, che quando Junpei li avrebbe raggiunti ed Izumi fosse tornata si sarebbe svegliato in qualche modo, ma nonostante il sonno non riuscì ad addormentarsi. Rimase lì fermo con le palpebre serrate ad ascoltare i respiri degli amici, le braccia abbandonate sui braccioli della sedia e la schiena dolorante per essere stato per chissà quante ore in quella posizione scomoda. Nonostante i brividi, sentiva i piedi caldi; le scarpe da ginnastica sembravano una specie di forno attorno ai suoi piedi ed avrebbe tanto voluto toglierle, ma non poteva.

Aveva la gola secca, ma nessuna voglia di alzarsi ed uscire di lì per andare a recuperare una bottiglietta d’acqua, era già un miracolo che non avesse anche la vescica piena.

Quando Junpei e Izumi entrarono nella stanza non bussarono, Takuya si accorse del loro arrivo solo per via del lettino che scricchiolava – dopo che era entrato Tomoki vi si era seduto sopra ed ora era saltato giù nel vedere gli amici – ed aprì gli occhi di scatto.

«Come stai?» domandò ad Izumi.

Junpei era tornato a mani vuote, ma non c’era neanche traccia del fatto che avesse mangiato senza di loro. Takuya si alzò per raggiungere lui ed Izumi, confuso dal loro silenzio e dal loro restare immobili sull’uscio con la schiena rivolta verso la luce, il volto in ombra e l’espressione indecifrabile. Si sarebbe aspettato di vedere negli occhi dell’amica stanchezza, confusione e chissà cos’altro, invece essi erano vacui e quasi privi di riflessi. Ripensò alla cosa che si era mossa sotto la pelle di lei, si chiese dove fosse ora e cosa stesse facendo, non ripensare al film Alien gli era pressoché impossibile e gli dava la nausea. Si morse la lingua per evitarsi di dirle qualcosa al riguardo e si trattenne dallo sfiorarle un braccio per riscuoterla.

Izumi fece un passo indietro per evitare la sua presa, Junpei indietreggiò con lei, Takuya inclinò la testa con uno sbuffo e si corrucciò per chiederle cosa le fosse preso, poi ripensò a quello che le era accaduto, a come probabilmente risentisse ancora e non a torto, di tutto, a Kouichi ancora disperso, solo da qualche parte.

Non vide Izumi sollevare il braccio finché la sua mano non gli sfiorò il mento, allora incrociò il suo sguardo, vide il suo viso che si sporgeva verso di lui, le labbra dischiuse mentre si sollevava in punta di piedi. Le posò una mano sulla spalla per tenerla a distanza, impedendole di baciarlo.

«Oh, Izumi!» esclamò. Arrossì, sentendosi gli occhi di tutti addosso. «Non che non sia... Sono lusingato, ma non mi pare proprio il momento.»

Lanciò un’occhiata a Kouji, che si alzò in piedi a pugni stretti ed a capo chino, pensando che forse avrebbe dovuto dirgli qualcosa, scusarsi anche se in fondo lui non aveva fatto proprio nulla. Non si aspettava che Junpei lo avrebbe afferrato per un braccio, né che l’avrebbe costretto a voltarsi e che gli avrebbe premuto il braccio contro il collo per immobilizzarlo. Izumi si sporse ancora verso di lui, che sentì il sangue defluirsi dal viso nel realizzare che qualcosa non quadrava. Sarebbe stato davvero utopistico, in effetti, pensare che la situazione di fosse risolta così, che Izumi fosse salva e sarebbe bastato semplicemente estrarre quella cosa da dentro di lei per sistemare tutto.

Afferrò il polso di Junpei, stringendolo e cercando di allontanarlo da sé, agitò le spalle per allentare la sua presa, ma quella era ferrea e salda. Kouji accorse in suo aiuto, aggrappandosi al ragazzo e trascinandolo indietro, Tomoki si parò tra loro ed Izumi, tenendola lontana con un braccio teso, ma i due si rifiutavano di arrendersi.

«Chiama i dottori!» disse Kouji a Tomoki spostandosi tra Takuya e Izumi.

Tomoki corse via immediatamente.



Takato guardò il gruppo di auto che si erano tamponate a vicenda con le sopracciglia sollevate, non sembravano esserci andati di mezzo pedoni, ma il solo sapere che Juri era appena passata di lì e poteva essere rimasta coinvolta era bastato a far partire i battiti del suo cuore a mille. La cercò tra la folla, tra i volti di coloro che dal marciapiede assistevano alla scena in strada, ma non la vide.

«Mi dispiace, è comparsa dal nulla.» disse uno dei conducenti.

Qualcun altro gli urlò una parolaccia, una donna uscì dalla portiera del passeggero arrancando sui tacchi alti.

«È colpa della ragazza, lo giuro.» disse ancora l’uomo, indicando l’ingresso del parco.

Takato si voltò con lui, allora vide Juri sparire nell’oscurità del boschetto ed un moto d’ansia gli si gonfiò nel petto, portando con sé la sensazione che qualcosa stesse per andare terribilmente storto. Approfittò delle auto che rallentavano per aggirare l’incidente senza venirne coinvolto, zigzagò tra loro mentre avanzavano lente in fila lungo la corsia, qualcuno suonò il clacson per fermarlo, qualcun altro imprecò e gli gridò contro, ma lui non si fermò. Raggiunse l’altro lato della strada, s’immerse nell’oscurità portata dagli alberi e si guardò attorno per trovare la fidanzata.

«Juri!» gridò, ma lei non rispose.

Attraversò il boschetto, spuntò dall’altra parte e si fermò sul viale per cercare meglio alla luce dei lampioni. Alcuni ragazzi lì attorno lo fissarono, forse chiedendosi cosa gli fosse preso, altri lo aggirarono per evitarlo. Scorse Juri in prossimità del laghetto, già distante. Corse per raggiungerla, evitando un paio di coppiette che arrivavano nella sua direzione, e quasi la perse di vista. La ritrovò lungo la riva, l’acqua davanti a lei riluceva, l’aria era pesante e gli pizzicava le narici. Juri fece un passo ed immerse un piede, una bolla esplosa a pelo d’acqua riscosse Takato, che si sporse in avanti per percorrere gli ultimi metri e raggiungere la ragazza, ma il muro d’acqua si sollevò tra loro prima che potesse afferrarla, si richiuse sulla ragazza e poi lei scomparve.

L’acqua tornò calma e scura subito dopo, di Juri non c’era più traccia.

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Capitolo 16
*** Senza fiato ***


16
Senza fiato


Dopo aver impedito ad Izumi di avvicinarsi a Takuya, i dottori e Yamaki spinsero da parte lei e Junpei sotto gli occhi spalancati di Jenrya. Il ragazzo non capiva, fino a poco prima sembrava che tutto potesse andare per il meglio, invece aveva sentito le urla di Tomoki ed era accorso trovandosi davanti quella scena.

Takuya aveva i capelli in disordine, la camicia sgualcita ed il viso arrossato, solo a guardarlo si percepiva il suo nervosismo, gli altri erano più che altro sbigottiti, le bocche spalancate dallo stupore.

Izumi non sbatteva gli occhi, ma teneva le palpebre socchiuse e si protendeva verso chiunque le fosse accanto, se avesse spalancato la bocca sarebbe potuta sembrare uno zombie pronto a mordere un sopravvissuto.

«Richiudeteli da qualche parte; una camera o uno stanzino, non importa. Immobilizzateli.» disse Yamaki ai medici.

Loro li trascinarono fuori, Jenrya non potè fare a meno di restare immobile a guardare la scena, incapace di reagire, pensare o dire qualunque cosa. Takuya e gli altri sembravano essere più o meno nelle stesse condizioni.

Quando rimasero da soli in camera nessuno parlò; qualcuno aveva acceso la luce, ma Jenrya se ne accorse solo in quel momento.

«Cos’è andato storto?» domandò Tomoki.

Kouji strizzò gli occhi. «Avevi detto che stava bene, quello non è stare bene... è folle!» esclamò.

Takuya si riscosse, ebbe un sussulto, scosse la testa come per riprendersi e li guardò tutti a turno. Aveva ancora gli occhi fissi, strabuzzati, persi in chissà quale pensiero confuso, o forse alla ricerca degli ultimi pensieri perduti. Era evidente che non sapesse cosa dire.

Jenrya ripensò alla domanda fatta da Tomoki, sentiva ancora i passi dei dottori, di Yamaki e dei ragazzi che percorrevano il corridoio. Non aveva idea di dove li stessero portando, non gli veniva in mente una sola stanza di Hypnos che fosse adatta a quella situazione, né riusciva a capire come mai ora anche Junpei si comportasse in modo strano.

Sentiva le rotelle che giravano nella propria testa, ma era come se fossero inceppate e stridessero scivolando le une contro le altre; non riusciva neanche a capire cosa pensare.

Forse, pensò, Ryou avrebbe intuito qualcosa in più di lui e, per quanto gli dispiacesse, non aveva scelta che svegliarlo per consultarlo.

Fece un cenno ai suoi nuovi amici, loro esitarono un istante prima di decidersi a seguirlo fuori dalla porta.

A volte Yamaki permetteva ai ragazzi di usare una delle sale riunioni per chiacchierare o per organizzare le gite nel Digital World, una volta Jenrya aveva dimenticato un blocco di post-it sul tavolo e lui sperava che fosse ancora lì. Li trovò nel cassetto, li poggiò sul tavolo ed inviò un sms a Takato e Ruki per chiedere loro di raggiungerlo. Si domandò per un istante se contattare anche Hirokazu, Kenta e Juri, ma era certo che se fossero stati ancora nei paraggi si sarebbero presentati lì già da un bel pezzo.

Non aspettò che gli altri li raggiungessero per di prendere la penna in mano, iniziò subito a scrivere tutto ciò che sapeva.

Mentre Izumi dormiva aveva avuto modo di farsi raccontare da Takuya ciò che era successo, il ragazzo aveva parlato di un ascensore, di acqua corrente e di un bacio che c’era stato tra Izumi e l’altro ragazzo che aveva perso il controllo. Non aveva visto cosa fosse successo con Junpei, ma aveva ancora in mente il modo in cui la ragazza si protendeva verso Takuya o chiunque altro per raggiungerli. Si chiese se il suo intento fosse davvero quello di morderli, oppure se volesse semplicemente fare ciò che aveva già fatto a Kouichi. Forse li aveva sedotti o incantati con un bacio ed in qualche modo ora erano entrambi in suo potere, ma questo non spiegava il perché si fosse risvegliata all’improvviso per poi tornare ad essere la posseduta che era stata prima. Cosa poteva aver influito su questo?

Scrisse le parole chiave sui post-it e li dispose sul tavolo davanti a sé, poi rimase ad osservarle assieme agli altri.

«”Fuori controllo”, “Bacio”, “Acqua”, “Settori distrutti”, “ascensore”.» lesse Tomoki distrattamente. Aveva le occhiaie piuttosto marcate, per essere così giovane; Junpei si chiese da quanto tempo lui e gli altri non avessero fatto una buon sonno e stava quasi per domandarglielo, quando Takato spalancò la porta e si precipitò nella stanza incespicando e quasi ruzzolando a terra.

«Juri... L’incidente... Il lago...» ansimò, cercando di prendere fiato.

Rimase chino verso il pavimento, le mani sui gomiti e le gote arrossate per la corsa.

Jenrya e gli altri rimasero in attesa, dandogli tempo, ma lui scosse il capo e sollevò un dito, cercando di dire quello che doveva al più presto.

«Juri ha qualcosa che non va,» riuscì a dire dopo una manciata di secondi. «È andata al parco ed è sparita nel laghetto.»

Jenrya inarcò le sopracciglia, notò i pantaloni e le scarpe bagnate dell’amico ed intuì che Takato probabilmente si era buttato in acqua subito dopo di lei.

«Sta bene?» domandò.

Takato sollevò le braccia in un gesto teatrale. «Una parete d’acqua l’ha trascinata via!» esclamò.

Jenrya dischiuse le labbra, avrebbe voluto scusarsi per la propria insensibilità, ma la fatica dell’ultimo giorno e mezzo trascorso a cercare, combattere e camminare lo stava raggiungendo, quindi si limitò a tendere il braccio verso il post-it con sopra scritta la parola “acqua” ed a metterlo in cima a tutti gli altri.

«La ritroveremo.» disse a Takato con sicurezza. Non era il momento di perdere l’ottimismo.


In un altro momento, con una situazione simile e meno gente assonnata, i ragazzi avrebbero passato la notte ad Hypnos, invece andarono a casa, anche se controvoglia, in modo da lasciare la maggior parte dei letti ai loro ospiti. Rimase solo Ryou.

Il giorno dopo, Jenrya, Takato e Ruki si incontrarono nell’atrio subito dopo aver fatto colazione, avevano dormito profondamente per tutta la notte nonostante le preoccupazioni e non trovarono nessuno ad aspettarli. Kenta ed Hirokazu entrarono dalla porta poco dopo, freschi come rose e con un leggero accenno di un sorriso. Jenrya si chiese se qualcuno avesse pensato di informarli di ciò che era accaduto a Juri, ma lo sguardo perso di Takato gli fece capire che lui non ci aveva pensato e Ruki era tanto pensierosa da non aver fatto neanche caso all’arrivo degli amici.

Jenrya premette due dita alla base del naso. Certo, aveva dormito tutta la notte, ma sembrava non essere bastato e questo gli stava provocando un lieve mal di testa appena dietro l’orecchio destro.

Reika gli andò incontro, dalla sua espressione vuota non si riusciva ad intuire se portasse buone o cattive notizie, per cui quando li vide e si fermò le bastò un cenno perché tutti e cinque si affrettassero a seguirla dentro l’ascensore.

«Si sono svegliati.» disse loro quando le porte si furono chiuse dietro di loro.

L’ascensore partì con uno scatto che fece tremare le gambe a Jenrya, che non poté fare a meno di domandarsi se, a questo punto, non fosse meglio iniziare ad usare le scale.

Trovarono Ryou già in piedi, con MonoDramon al suo fianco, che fissava pensieroso le due teche in cui erano stati rinchiusi Izumi e Junpei.

«Credo che sia la luce del sole.» gli disse l’amico appena gli si avvicinò.

Qualcuno aveva attaccato dei vecchi giornali alle finestre per impedire alla luce di entrare, ma Izumi e Junpei ancora evitavano di voltarsi verso esse.

«Pensateci.» disse ancora Ryou alzandosi in piedi «Compaiono al tramonto e spariscono all’alba, loro non sopportano la luce, poi c’è quella cosa nel corpo della ragazza.»

Izumi ebbe un sussulto, Jenrya la guardò e la vide sbiancare, Tomoki si intromise e colpì Ryou ad un braccio.

«Non glielo avevamo ancora detto.» disse.

Ryou chinò il capo. «Ah, mi dispiace, non lo sapevo.» disse. Poi abbassò la voce. «Ma credo che sarebbe meglio controllare che non ce ne sia una anche nel corpo dell’altro ragazzo.»

Jenrya guardò Junpei, stava seduto sul fondo della teca e dava la schiena al vetro, sembrava smarrito e stanco, ma tutto sommato tranquillo. Invece Izumi iniziava ad agitarsi, batté due volte sul vetro per richiamare la loro attenzione ed alzò la voce per farsi sentire.

«Ragazzi, di cosa stavate parlando?» domandò.

Kouji, che era appena oltre il vetro, distolse lo sguardo, invece Takuya le si avvicinò e le sorrise. «Risolveremo tutto, te lo prometto.» le disse. E lei parve crederci, oppure sforzarsi di provare a farlo, perché sorrise e tornò a sedere.

«Vado a parlare con Yamaki per fare un’altra tac.» concluse, allontanandosi per uscire dalla stanza.


***

Juri aveva freddo, i vestiti bagnati le stavano appiccicati al corpo e le provocavano i brividi più intensi che l’avessero mai scossa. Aprì gli occhi e non vide nulla; restare a fissare quella oscurità, immobile ed annichilita dalla paura fu l’unica cosa che riuscì a fare. L’acqua le lambiva i fianchi, gelida e scrosciante, e quando gli occhi si abituarono riuscì a scorgere l’intreccio di rami che la circondava. Era in una buca, tutto attorno a lei ricordava un ammasso di radici, ma non c’erano alberi e la luminescenza di quelle sorte di artiglli attorcigliati le faceva pensare che non si trattasse di un tipo di pianta a lei familiare. Guardò in alto; non c’era uscita, era come se quella cosa che non era un albero avesse voluto intrappolarla richiudendosi sopra di lei.

Sfiorò con le dita ciò che aveva attorno, scoprendo che irradiava calore e che, poco a poco, esso aumentava assieme alla luminescenza emanata.

Il silenzio fu interrotto dal suono di una serie di strappi provenienti dall’esterno, il cuore le balzò in gola, nel sentirli. Qualcuno là fuori ansimava, forse a causa della fatica, ma lei non sapeva dire chi o cosa fosse né cosa volesse. Guardò in alto, sperando che Takato o Ruki fossero già arrivati da lei per portarla via, ma anche se i rumori continuarono a lungo sembrava che il suo possibile soccorritore non arrivasse mai.

L’ennesimo strappo, il cui suono la raggiunse più forte degli altri, le fece realizzare che non c’era nessuno sopra di lei. Il rumore veniva da dietro di lei e quando si girò poté vedere la mano che spuntava da alcuni viticci. Quando il ragazzo riuscì ad aprirsi un varco e Juri poté finalmente vederlo ebbe un tremito; non era Takato.

«Ti tiro fuori.» le disse lui.

Aveva il viso sporco di fango ed i capelli umidi, l’espressione tesa. Juri esitò.

«Andiamo, siamo nella stessa situazione, non ti farò del male.» insisté lui. «Mi chiamo Kouichi Kimura.»

Juri si fece forza e tese la mano verso di lui.

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Capitolo 17
*** La strada da percorrere ***


17
La strada da percorrere


Col senno di poi, Juri penso che sarebbe dovuta restare nel bozzolo; almeno non avrebbe visto il resto dell’enorme grotta in cui era finita, le centinaia di uova luminescenti di cui le pareti erano tappezzate, e non avrebbe provato quella soffocante sensazione di sconforto e smarrimento che seguì.

L’ultima volta che si era sentita così, era stato quando era rimasta intrappolata nel D-Reaper, ormai diversi anni prima, ma ora non aveva alcuna intenzione di lasciare che quei sentimenti la sopraffacessero lasciandola inerme fino all’arrivo dei soccorsi.

«Dobbiamo trovare il modo di uscire di qui.» disse a Kouichi.

Lui chinò il capo. «Ci abbiamo provato tanto, credimi. Non c’è uscita alla nostra portata.»

Juri si rifiutò di accettarlo, si morse il labbro e rimuginò sulle parole del ragazzo.

«Abbiamo?» domandò, quando si rese conto che lui aveva parlato al plurale.

«Io ed Izumi, non ho idea di dove sia finita.» si grattò il braccio, in difficoltà «Dovrei cercarla, ma non so da dove cominciare.»

Juri gli sorrise. «Lei è al sicuro.» gli disse. «I miei amici l’hanno trovata e vedrai che troveranno anche noi.»

Voleva crederci davvero, voleva poterne essere certa e sapere per certo quando questo sarebbe successo, ma quell’oscurità oltre la luminescenze di ciò che avevano attorno sembrava divorare ogni minimo cenno di positività.

***

Ryou lanciò per l’ennesima volta la pallina contro il muro, quella rimbalzò e tornò indietro, la afferrò e la lanciò ancora contro la parete. Il rumore degli urti sui mattoni e sul pavimento lo aiutavano a rilassarsi ed ormai il movimento era diventato meccanico al punto che l’unica cosa a cui pensava erano i dubbi che gli avevano invaso il cervello.

Aveva girato il Digital World in lungo ed in largo, tra la sua permanenza fissa di alcuni anni prima ed i viaggi sporadici degli ultimi periodi, ed ora avrebbe potuto disegnarne una mappa ad occhi chiusi. Ora non riusciva a smettere di pensare al posto da cui potevano essere venute le creature che si erano infilate nei corpi di Izumi e Junpei ed a dove avrebbe potuto nascondersi l’altro ragazzo di cui non ricordava il nome.

Il suo primo pensiero era stato il settore in bianco e nero, dove la luce era scarsa anche di giorno, ma la descrizione di Izumi del posto in cui si era svegliata non vi corrispondeva e le scansioni di Hypnos non avevano captato nulla. Ryou si domandava se ci fossero ancora molti settori che non aveva esplorato. Se li avesse conosciuti tutti, se fosse stato più tempo nel Digital World, forse avrebbe saputo anche dove cercare.

Gli avanzi del pranzo erano abbandonati sul tavolo davanti a lui, unica nota stonata della sala conferenze altrimenti perfettamente in ordine e vuota, a parte lui e MonoDramon che aveva già finito la sua porzione.

Il pasto era stato abbondante, dopo la lunga dormita era l’unica cosa che gli era mancata per rimettersi in forze e prepararsi al prossimo attacco. Aveva saputo da Yamaki che la notte precedente nel Digital World non era accaduto nulla, il cavaliere non si era fatto vivo e nessun settore era stato distrutto. A Ryou venne da pensare che, a questo punto, muovere le fila spettasse ad Izumi e che gli avvenimenti fossero conseguenze di ciò che le era successo. A quanto gli avevano detto era partito tutto da lei; lei aveva infettato l’altro ragazzo e Junpei e non poteva escludere che non fosse anche la causa della scomparsa di Juri.

Forse, pensò, avrebbe dovuto lasciare questo mistero nelle mani degli altri ed andare a cercare l’amica; sarebbe stato quello tra loro che avrebbe avuto più possibilità di trovarla, grazie alle sue conoscenze ed il suo istinto, ma nulla gli assicurava che lei fosse nel Digital World come pensava, nonostante il fatto che fosse sparita nel punto esatto in cui erano bioemersi tornando nel mondo reale l’anno in cui aveva conosciuto gli altri Tamers.

Lanciò ancora una volta la pallina e la vide urtare contro la parete e poi a terra, ma qualcuno aprì la porta a cui dava le spalle e non la riprese dopo il rimbalzo, lasciandola finire addosso a chiunque fosse entrato.

«Hai intenzione di rimanere qui ad autocommiserarti oppure vuoi renderti utile?» gli domandò Ruki.

Ryou non rispose alla provocazione, si mise composto e si sporse verso il tavolo. Scrutò un istante i chicchi di riso rimasti nel suo vassoio e sospirò.

«Mi sto rendendo utile, credimi.» disse alla fine.

Ruki rimase in silenzio, fu allora che Ryou si voltò a guardarla, trovandola ferma sulla porta con accanto Renamon.

«Stavo pensando a dove cercare.» aggiunse.

La invitò ad avvicinarsi con un cenno della mano e spinse verso di lei il mucchio di fogli coperti di appunti su cui aveva lavorato. Aveva catalogato i settori del Digital World secondo i fattori ambientali che li caratterizzavano ed il tipo di luce che ricevevano, in modo da restringere il campo di ricerca, poi si era reso conto che, probabilmente, se tutto fosse partito da un settore del Digital World probabilmente esso sarebbe stato il primo a venire distrutto.

Era certo che il suo ragionamento, seppur potesse avere una sua valenza, avesse qualche falla.

Vide Ruki studiare i fogli distrattamente, un sopracciglio sollevato forse nel tentativo di interpretare i suoi appunti sbilenchi, e Renamon piegare la testa per fare lo stesso.

Dopo appena un paio di secondi, la ragazza lasciò i fogli e sospirò. «Riassumi.»

Ryou si passò una mano tra i capelli, esporre un’idea che aveva scartato gli pareva una perdita di tempo.

«Credo che dovremmo parlare con i Supremi.» disse allora.

Non aveva pensato a cosa potersi aspettare da Ruki dopo quell’affermazione, ma lei si limitò ad annuire.

***

Ruki non era certa che la visita a Zuquiaomon avrebbe portato a qualcosa, ma Ryou ne era convinto e, per quanto le dolesse ammetterlo, ne sapeva ben più di lei. Non le era ben chiaro il perché fosse sempre lei a doverlo accompagnare, ma gli altri ormai lo davano per scontato e non chiedevano neanche più se le andasse bene, quindi poche ore dopo lei, Renamon, Ryou e Monodramon si ritrovarono ad arrancare per la landa desolata del Digital World.

Il cielo rosso emanava i suoi bagliori infuocati sopra le loro teste, Ruki gonfiò le guance ringraziando il cielo che Ryou non iniziasse discorsi idioti come la maggior parte degli altri. Le sarebbe piaciuto riuscire a capire se la sua compagnia lo disturbasse, ma la verità è che a volte lui sembrava quasi non vederla.

Quando videro Zuquiaomon in lontananza, Ruki esitò un istante, mentre Ryou, MonoDramon e Renamon la precedevano sul sentiero. Controllò che il comunicatore che le avevano affidato fosse ancora al suo posto nella borsa che portava a tracolla; il suo peso era la garanzia di poter dare una risposta a chi era rimasto nel mondo reale.

Il supremo era imponente come lo ricordava, le sue piume risplendevano come fiamme e l’aria era calda e pesante, Ruki passò una mano sulla guancia per ripulirla dal sudore e dalla terra che le si erano appiccicati addosso e si domandò se anche Renamon stesse soffrendo sotto tutta quella pelliccia. Monodramon sembrava tranquillo, forse in qualche modo essere un drago lo avvantaggiava nei climi afosi, mentre Ryou procedeva dritto senza fiatare nonostante il sudore che gli scivolava giù per il collo.

Si fermarono davanti a Zuquiaomon, lui rimase a fissarli, ma Ruki non era certa che fosse per curiosità o perché stava semplicemente attendendo che loro parlassero. Annoiata, lasciò fare a Ryou.

«Sai dei Digimon che hanno iniziato a distruggere il Digital World alcune notti fa, quelli che spariscono quando arriva il giorno?»

Il Digimon annuì, non pareva essere indispettito per il fatto che Ryou avesse posto la domanda senza prima salutare.

«Avete catturato uno di loro.» disse Zuquiaomon.

Ryou annuì. «La fata del vento; si sono rivelati essere persone - Digiprescelti - contagiati da strani vermi che si assopiscono durante il giorno.»

Ruki attese un commento da parte del supremo o che Ryou continuasse, ma il ragazzo si limitò a sollevare un sopracciglio e Zuquiaomon rimase in silenzio.

Guardò Renamon, che era concentrata sul discorso come MonoDramon e non se ne accorse.

«Vogliamo sapere come liberarci di loro.» disse allora. Ripensare a Juri dispersa chissà dove non le dava pace, sapere che se fosse rimasta con lei invece di andare a cercare Ryou forse sarebbe stata al sicuro a casa la faceva sentire tremendamente in colpa e non poteva farci nulla. Se avesse avuto un indizio su dove lei fosse finita avrebbe di certo mollato Ryou e MonoDramon lì e sarebbe corsa a cercarla, lasciando che il ragazzo si occupasse delle creature e di tutto il resto. Era certa che lui avrebbe capito e che l’avrebbe appoggiata, ma anche che avrebbe insistito per accompagnarla e forse glielo avrebbe anche permesso, se non ci fossero state cose più importanti a cui pensare.

«La luce è un deterrente, come avete detto.» disse il supremo.

MonoDramon si sedette, impaziente di trovare qualcosa di più interessante da fare; Ruki aveva notato la differenza di carattere da quello stadio a quello di CyberDramon, ma Ryou non le aveva mai spiegato perché accadesse ed era quasi certa che non lo avesse spiegato neanche agli altri.

Il ragazzo aprì la bocca per parlare, ma lo precedette. «Sono sotto la pelle, non possiamo aprirli e puntargli contro una lampadina.»

«In realtà possiamo.» rispose Ryou. Lo guardò storto. «Certo, se prima troviamo il modo di immobilizzarli e farli star fermi in un punto, poi si potrebbe fare un intervento chirurgico per estrarli e poi li fulminiamo.»

«E se per caso cercando di mettere fuori gioco le creature fai fuori gli ospiti?» gli domandò.

Ryou rimase un istante in silenzio e sollevò gli occhi come a pensarci, poi incrociò le braccia. «Non devo farlo io, ma dottori e chirurghi specializzati.»

Ruki sbuffò, poi tornò a pensare al Supremo. Renamon pose la domanda esatta che le stava passando per la testa.

«Da dove vengono?»

«Da un universo parallelo.» rispose Zuquiaomon, semplicemente. Ryou si rizzò sul posto, improvvisamente sull’attenti. «Un universo parallelo?»

Ruki ripensò a Takuya e i suoi amici, si chiese perché Ryou ne fosse così stupito, se avesse dormito così tanto da perdersi la notizia.

«Non sarebbero le prime cose che arrivano da così lontano.» gli disse il supremo.

Ryou scrollò le spalle. «Lungi da me criticare quelli che viaggiano tra i mondi, ma se lo fanno per distruggerli e conquistarli non riesco proprio ad essere clemente.»

Zuquiaomon lo scrutò con un’intensità che fece sentire Ruki di troppo, il silenzio tra i due sembrava carico di una marea di sottintesi che la ragazza non riusciva a leggere e questo la innervosiva oltremodo, ma non lo diede a vedere.

«Passo il messaggio.» si limitò a dire, e si allontanò sfilando dalla tracolla il comunicatore. Sarebbe bastata una frase breve e concisa, poi avrebbe potuto dedicarsi alla ricerca di Juri senza sentire di aver fatto un torto agli altri. Premette ogni lettera alla svelta, l’abitudine le permise di essere veloce e non fare errori nella digitazione, mentre Ryou diceva a bassa voce al supremo qualcosa che non riuscì a sentire. Renamon, però, lo fissava, evidentemente ben attenta al discorso.

«Cosa vuole fare?» le domandò Ruki dopo aver premuto invio.

Renamon le fece cenno di fare silenzio, Ruki aguzzò l’orecchio ma non si voltò, in modo che non sembrasse che stesse ascoltando.

«Qualunque cosa.» sentì dire a Ryou. «È quello che faccio sempre, no? Qualunque sia il prezzo da pagare.»

Ruki sollevò il capo si girò a fissarlo, lui non l’aveva notato; qualunque cosa avesse in mente era certa che non le sarebbe piaciuto, soprattutto visto che non sembrava intenzionato a condividerlo con lei.

Quando Ryou la raggiunse, con MonoDramon che trotterellava al suo fianco, si fece trovare a braccia conserte ad attenderlo.

«Qual è il punto?» gli domandò.

Non credeva che gli avrebbe risposto, invece lui lo fece senza esitazione.

«C’è da chiudere il varco da cui sono passati, mi ha dato la chiave e qualcos’altro.» spiegò, sollevando una sorta di pietra rombica che riluceva tra le sue mani ed una specie di gancio d’argento.

«Quanto è pericoloso?» chiese Ruki.

Ryou le sorrise. «Poco, se tu e Renamon ci guarderete le spalle.»

Le porse il gancio, ad un’estremità c’era una sorta di anello che Ruki provò a tirare, scoprendo che tra i due si allungava una corda dall’aria resistente.

«Justimon si troverà per un po’ sospeso tra il Digital World ed il qualunque cosa ci sia dall’altra parte, ci serve qualcuno che ci tenga da questa parte perché possiamo ritrovare la strada per tornare indietro, oppure potremmo finire chissà dove.»

Ruki strinse il gancio tra le dita, improvvisamente esso pesava più di un macigno. Avrebbe voluto chiedere perché lei e Renamon, ma una parte di lei temeva di sentirsi dire che era stata una scelta casuale, mentre l’altra era ancora più spaventata dall’idea di scoprire che fosse la sua prima scelta.

«Allora ti conviene non farmi arrabbiare o potrei mollare la presa e lasciarti andare.» ribatté, strappandogli un sorriso.

«Sarà meglio per me, sì.» le rispose lui.

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Capitolo 18
*** Dirottamento ***


Buongiorno, volevo solo avvisare che il capitolo venti e l'epilogo non verranno, almeno per ora, postati su questo sito. Vi lascio il link per trovare gli stessi su Wattpad (che mi risparmia l'inserimento dell'html - io lo faccio manualmente).
Spero possiate comprendere, per questa fanfiction siete pochi lettori (che spero di non perdere) silenziosi e non voglio lasciarvi senza il finale; postare su Wattpad mi è più immediato.

Capitolo 18 - Bagliori su Wattpad


Capitolo 19 - Il destino di un eroe su Wattpad


Capitolo 20 - Buco Nero su Wattpad


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