Ainadamar

di stormy
(/viewuser.php?uid=696)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno - Argento ***
Capitolo 2: *** Capitolo due - Porcellana ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre - Oro ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno - Argento ***


Questa storia nasce dopo un’ispirazione improvvisa, dovuta a una festa in pieno stile Middle-Earth con tanto di “lembas bread” & “ale”.

A dire il vero era da tempo che pensavo ad una storia del genere.

Il protagonista è Frodo, il personaggio che più adoro in assoluto.

Ho sempre ritenuto perfetto il finale scritto dal mio caro compaesano Tolkien, ma non nego che la curiosità sul destino del Portatore dell’Anello è rimasta.

Di fatto abbiamo poche certezze e si può solo immaginare quale sia stata la sua Eternità.

 È infine davvero guarito?

Oppure le ferite continuano ancora a tormentarlo?

Questo è un mio tentativo di risposta.

Perché poi una sudafricana scrive in una lingua non sua, su un sito italiano di ff? Ebbene è stato quando ho vissuto in Italia che sono passata dall’altro lato della barricata, non limitandomi più a leggere ma iniziando appunto a scrivere. Continuo su questa linea insomma.

È stato così che ho conosciuto delle persone speciali, come Silvia, alla quale dedico questa storia insieme a Sascha, colui che di fatto è il mio Sam.

Prima di lasciarvi sappiate che tutto quanto di nuovo troverete e soprattutto non conforme agli scritti del “maestro”, sono mie licenze poetiche. E abbiate pietà di me se c’è qualche strafalcione che non ho notato o che alle mie orecchie suonava invece bene…

 Vi lascio alla lettura

___________________________

  

How do you pick up the threads of an old life? How do you go on, when in your heart you begin to understand there is no going back? There are some things that time cannot mend. Some hurts that go too deep, that have taken hold…

 

 AINADAMAR

Capitolo uno

Argento

 
Passi leggeri riecheggiavano appena per il lungo patio.

Il pavimento rivestito da losanghe di marmo candido, scolpite finemente da motivi modulari.

 
Un giardino magnificamente tenuto.

Un mare di verde.

Un’intricata quanto perfettamente studiata trama di rami e foglie lussureggianti.

Siepi basse e curate dalle abili mani di giardinieri a fiancheggiare un brevissimo sentiero.

 
Una fontana seminascosta e imponente.

Il rumore discreto e musicale dell’acqua, ritmico nella sua melodia interiore e priva di spartito cartaceo, a fungere da sottofondo a quella notte altrimenti silenziosa.

 
Assenza di suono.

La logica conseguenza della fine del giorno che da qualche ora aveva ceduto alle lusinghe delle tenebre.

 
Quiete.

Il riflesso dell’anima di coloro i quali dimoravano in quelle Terre Imperiture e le cui vite erano rientrate nei binari della tranquillità.

Ora che la minaccia dell’Anello era stata sventata e la spirale impazzita di sangue scarlatto allontanata definitivamente.

 
Per tutti.

Per tutti…?

 
La Luna si stagliava contro la nera ardesia di una cupola eterea infinita e sgombra di nubi.

Signora della notte.

Maestosa.

Regale.

 Distante.

Una nota disarmonica.

A conferma di ciò, un tremito gelido attraversò la schiena della figura che percorreva lentamente lo spazio semicoperto.

 Il marmo sembrava riflettere e ridare all’esterno la freddezza di quella luce serica. Esattamente come accadeva di giorno, quando a essere assorbito era invece il calore dei raggi del Sole. Nelle ore nelle quali la canicola era maggiore, la pietra lattiginosa assumeva una tonalità di bianco insopportabile agli occhi. Quel candore feriva brutalmente le iridi e marchiava a fuoco le piante dei piedi di quanti si avventuravano per quei corridoi senza calzature.

Lui era uno di quelli.

Gli occhi, di un azzurro intenso, sembravano enormi su quel volto pallido. La fronte appena velata da gocce opalescenti di sudore freddo. L’andatura sicura, sebbene non esattamente vigorosa.

Si fermò.

Distolse lo sguardo dalla sua guida notturna.

La Luna.

Colei che gli aveva provocato quel senso di malessere.

Era raro in lui.

Era raro in qualsiasi creatura della sua specie.

Abituato alla vita a stretto contatto con la natura e gli elementi che la costituivano, dal più banale stelo d’erba coperto dalla rugiada del mattino sino ai più alti rappresentanti, quali erano gli Astri, aveva finito con lo stabilire loro dei legami di tipo quasi panico. Come li avesse personificati. Li rispettava come era solito fare con qualsiasi altro Hobbit, Elfo, Nano o rappresentante della Gente Alta che conoscesse. Aveva imparato a non temerli, piuttosto ad amarli.

Nel caso particolare della Luna poi, aveva sempre sorriso alle notti nelle quali, piena, era visibile in tutto il suo splendore, esattamente come soleva salutare le giornate ridenti di Sole, riscaldate dai raggi fecondi.

Poi qualcosa era cambiato.

Durante i mesi nei quali aveva vagato per la Terra di Mezzo.

In quell’occasione aveva smesso di guardare alla Luna positivamente. Aveva iniziato a non soffrirne più la presenza, a non trovare più in lei nessuna bellezza, nessuna traccia di maestà.

Solo un profondo senso di amarezza.

Era diventata l’icona di quella parte del giorno, inteso come entità di ventiquattro ore, che non riusciva più a considerare come ristoratrice o confortante.

Precisamente di notte tutti i pensieri funesti tornavano in superficie con maggiore prepotenza, rendendogli impossibile il riposo, penoso il trascorrere delle ore, lì a occhi spalancati aspettando il sorgere del Sole, ed insostenibile il peso del fardello che aveva finito per trascinare avanti sempre con maggiore fatica.

Un semplice cerchietto d’oro, contenente un potere negativo di incommensurabile proporzione ed effetto.

Un Anello che aveva deviato il tranquillo corso della sua esistenza.

Un Anello che si era impossessato a tratti della sua mente, smuovendo le acque della sua solitamente affabile natura, rendendolo scontroso, bramoso di un potere che non gli era mai interessato, rendendolo cieco di fronte all’evidenza, facendogli allontanare da sé il leale Samwise e dare invece ascolto alla volontà malata e infida di Gollum.

Gli occhi, allontanati dal disco argenteo notturno, si posarono sul marmo. Lo sguardo si focalizzò sull’ombra grigio chiaro che si stagliava longilinea sulla pietra cesellata ad arte e lucida di fronte a lui.

“Sam…”.

Un sorriso triste gli incurvò i lineamenti dolci del volto.

L’ovale sorridente e appena paffuto dell’amico gli riempì la memoria.

Fotogrammi della loro vita nella Contea, poi altri in viaggio per Terra di Mezzo, gli attimi di sconforto, le incomprensioni, le lacrime che avevano versato allo stremo delle forze, Sam che lo proteggeva da Gollum…

“Gollum…”. 

Gli occhi si chiusero, mentre il ricordo di quell’essere di difficile classificazione, il risultato della deformazione di colui che un tempo era stato lo Hobbit Sméagol, sostituiva quello malinconico, ma indubbiamente positivo e ricco di calore di Sam.

Una strana morsa gli contorse lo stomaco, mentre il corpo si irrigidiva dolorosamente e le mani si stringevano a pugno. Violentemente e in un gesto poco consono per lui. Respirò profondamente, cercando di allontanare quel disagio e quello strano sapore metallico che si stava impossessando del suo palato. Dovette passare qualche istante, prima di riaprire gli occhi e voltarsi dietro di sé.

Un riflesso incondizionato, che non aveva potuto evitare, le iridi che si muovevano guardinghe come a temere l’arrivo, tanto inaspettato quanto repentino, dell’essere che aveva cercato di ucciderlo.

Ancora rivedeva la schiena arcuata e attraversata da un’evidentissima spina dorsale a tendere il sottile strato di pelle grigio-rosa malsano di quel corpo semi-deformato, ma incredibilmente agile, dinoccolato e resistente. Poi quegli occhi spropositati ad occupare un buon settanta per cento del volto grinzoso di colui che era stato un membro della sua stessa specie.

E poi quella voce, sibilante e in grado di assumere più tonalità ingannevoli. Da quella spietata e avida di Gollum, a quella lamentosa e infantile di Sméagol.

… il mio tesoro…

Ma era stato Gollum a vincere in quella faida bipolare.

Quello stesso essere verso il quale aveva mostrato più volte pietà.

In maniera inspiegabile per Samwise.

In maniera del tutto logica per lui, invece.

Gollum, ai suoi occhi, non era mai stato troppo diverso dall’essere nel quale lui stesso era andato trasformandosi durante l’Avventura dell’Anello. Aveva rivisto in lui la sua stessa corruzione, sebbene ad un livello molto più avanzato.

L’ex Hobbit aveva, infatti, ceduto completamente alla brama effimera del potere dell’Unico Anello.

Lui no.

Aveva allontanato il torpore che aveva sopraffatto le sue membra esauste e la sua mente continuamente sottoposta all’invito mellifluo della voce di Sauron, proprio nell’attimo immediatamente precedente l’azione che aveva rischiato di compromettere l’esito positivo dell’Impresa.

Salvandosi.

Salvandosi…?

Sospirò ingiungendosi di calmarsi.

Gollum era morto.

La lava incandescente aveva liquefatto il suo essere, insieme all’Anello che si era impossessato della sua anima dannandola e degradandola.

Proprio dopo essersi appropriato di Lui.

Il tesoro così chiamato, l’aveva voluto per sempre con sé, in quel mare gorgogliante di bollicine sature di gas e zampillante di schizzi iridescenti, cangianti, dall’arancione più vivido al giallo più puro e rovente.

Uno scherzo del destino.

… il mio tesoro…

Spostò le iridi, che ora mostravano appena i residui di quello stato di agitazione, soffermandole sui contorni del paesaggio che lo circondava e poi sulla seconda ombra proiettata dalla Luna. Dietro di sé e appena più chiara di quella che si stagliava sul lato opposto.

Due ombre che prendevano vita dalla base dei suoi piedi, appena divaricati.

Piedi da Hobbit.

Non troppo piccoli, candidi e coperti da una curiosa peluria.

Due ombre lunghissime.

Sorrise impercettibilmente e per un attimo in maniera spontanea.

Per i suoi piedi buffi, per la sua ombra altissima.

Ironia.

Può uno Hobbit avere un’ombra così lunga?

Sì.

Scosse la testa, mentre muoveva il busto in avanti.

 
L’espressione del volto nuovamente assorta, come se quel sorriso fosse stato un accessorio stridente.

 
E forse era così.

 
Se nel vecchio Frodo della Contea la tristezza era una nota poco consona adesso, nel nuovo Frodo della Contea esiliato volontariamente a Valinor, nel Regno Eterno che si estendeva al di là dei Porti Grigi, era una caratteristica quasi comune e spesso mal celata.

I piedi si poggiarono con l’usuale leggerezza sugli ampi scalini che permettevano l’accesso al giardino. Imboccò deciso e senza saggiare ulteriormente con lo sguardo le silhouette delle piante maestose che conosceva ormai a menadito.

L’aspetto pregevole della fontana gli riempì le iridi. Come ipnotizzato dal rumore monotono dell’acqua limpida che scorreva incessante, si avvicinò presso la scultura ricavata da una nivea roccia calcarea. Il bordo della vasca inferiore gli arrivava all’altezza del petto, pur non essendo questa esageratamente elevata.

Alzò il mento e osservò il corpo centrale, dal quale sgorgava il flusso in tanti getti copiosi. Sollevandosi poi sulla punta dei piedi, poggiò le mani sull’estremità della vasca e sporse in avanti il volto, studiandone l’improvviso riflesso emerso sulla superficie dello specchio d’acqua, mosso qua e là dagli zampilli che vi si tuffavano dentro.

Il quadro che ne risultava era un primo piano tremolante e non perfettamente visibile a causa dell’ombra prodotta dalle fronde degli alberi più imponenti.

“Frodo Baggins…”.

La voce del piccolo Hobbit modulò il suono come assente e con un’intrinseca nota d’incertezza.

Quasi un volersi chiedere:

Sono davvero io?

O forse, più precisamente:

Sono ancora io?

“Frodo Baggins…”.

Di nuovo, a voce più alta, il giovane originario della Contea ripeté il proprio nome, cercando di coglierne l’essenza e sforzandosi di capire se quelle due parole lo rappresentassero ancora.

Non stentava a credere che molti avessero di lui un’immagine diversa. Memorie relative a un essere allegro, solare, gentile. Tutto parzialmente vero. Era rimasto cortese, questo sì, ma per il resto era cambiato.

L’aver distrutto l’Anello e l’aver ricondotto l’anima nera di Sauron laddove non poteva più nuocere, non aveva avuto come conseguenza scontata l’estinzione del fardello che gli aveva gravato sulle spalle.

Era rimasto un qualcosa.

Un residuo duro a morire.

Una sorta di demone che gli impediva di godere appieno della vita nell’accogliente Contea che gli aveva dato i natali, facendolo sentire fuori luogo, senza motivo apparente.

Peregrin Took, Meriadoc e Samwise erano riusciti a riadattarsi nuovamente alle loro routine precedenti la creazione della Compagnia.

Lui no.

Era un suo problema dunque.

Era un malessere al quale egli stesso non sapeva dare un appellativo, ma che avvertiva, inequivocabilmente.

Senza nome.

Un male oscuro.

Ma era lì.

Con lui.

Non lo aveva del tutto abbandonato.

Nemmeno in quel di Valinor.

Nella terra della letizia e della gioia imperiture.

Nella terra dei Luminosi per antonomasia che lo aveva accolto però ugualmente, insieme a Bilbo, nonostante la loro natura non elfica.

Una terra nella quale si era augurato di poter ricominciare, quasi sperando che la sua malinconia si dileguasse tra le acque azzurre del Mare, durante il lungo viaggio che li aveva fatti allontanare a Ovest della Terra di Mezzo.

Aveva sperato che tutto svanisse in maniera impalpabile, ma al tempo stesso decisa, come vedeva puntualmente fare alla densa bruma mattutina, quando cedeva il passo ai raggi tiepidi del Sole nascente a Est.

Ma lui stava ancora aspettando il suo Sole.

Chissà poi se sarebbe mai sorto.

Chissà se sarebbe mai giunto.

Chissà se lo avrebbe mai trovato.

Sarebbe mai riuscito di nuovo ad alzarsi al mattino serenamente, al colmo dell’aspettativa nei confronti del dì nascente?

E si sarebbe mai di nuovo coricato a letto la sera, soddisfatto della giornata appena trascorsa e desideroso quindi di concedersi un riposo ristoratore?

Sarebbe mai di nuovo riuscito a sedere a tavola e concedersi un pasto di quelli luculliani, tanto cari agli esseri della sua specie, e indice della sua ritrovata gioia di vivere?

Sarebbe tornato mai alla sua vecchia vita?

Nemmeno scrivere la storia nata da quei mesi di avventura, lo aveva aiutato.

Gli incubi che spesso gli rovinavano il sonno avevano come comune denominatore quella strana sensazione di fastidio, irrequietezza.

Perenne a quanto sembrava.

Eterna all’apparenza, come la Terra che adesso lo ospitava.

Non bastava avere accanto la presenza rassicurante di Bilbo o dell’accorto Gandalf, né quella discreta ma solidale degli Elfi. 

Nessuna parola gentile da loro, nessuna conversazione o gesto affettuoso potevano lenire quell’infelicità, quando tornava in superficie. E non c’era modo di prevederlo. Giungeva senza preavviso, guastando la sua permanenza in quel luogo deputato alla tranquillità e alla serenità per antonomasia.

L’Anello, in un modo o nell’altro, aveva segnato la vita del suo Portatore, e la purezza d’animo di colui che generosamente si era offerto per l’incarico, pur avendo resistito a lungo, aveva funto da terreno ideale per il Male, anziché essere un mezzo in più per sconfiggerlo del tutto, come sarebbe stato naturale pensare.

L’occhio nero di Sauron aveva avuto la sua piccola rivincita.

Il volto tremolante, sul quale adesso aveva fissato il proprio sguardo, non gli propose nulla di nuovo in un certo senso. Fisicamente era ancora lui.

“Frodo Baggins…”, formularono quasi come a se stesse le labbra dalla linea improvvisamente dura.

Lineamenti armoniosi ed espressivi.

Numerosi riccioli castani scendevano a mo’ di frangia su una fronte pallida e ancora imperlata di sudore, indice del suo disagio. L’aria era appena calda, una temperatura che difficilmente avrebbe fatto sudare se non unita a quell’inquietudine interiore. Alcune di quelle ciocche erano umide, più scure e incollate sulla pelle, quelle appena più lunghe invece gli facevano il solletico sulla base del collo.

Due orecchie dalla classica sagoma puntiforme facevano capolino da quelle trame color caffè. Il suo biglietto da visita più distintivo in un certo senso. Una delle caratteristiche più evidenti ad un occhio estraneo, grazie alla quale si comprendeva la sua natura non umana.

Anche gli Elfi avevano quel tipo di orecchi, ma la somiglianza con gli Hobbit si fermava lì. Nulla della leggiadria dei Signori della Terra che lo ospitava lo caratterizzava, né tanto meno la linea particolarmente aggraziata ed efebica del corpo, né il portamento regale ed innato. No. Suoi erano invece l’altezza non esaltante, il fisico appena tozzo sebbene snello e niente affatto grossolano nei movimenti, e in generale un sembiante che ispirava istintivamente simpatia e senso di protezione nelle creature delle altre stirpi.

Il suo aspetto lo faceva sembrare ancora un bambino per via dei tratti delicati e fanciulleschi che gli schizzavano la superficie ultimamente cerea del volto.

Gli occhi erano comunque senza dubbio il dettaglio di maggiore rilevanza.

Gli occhi di un saggio sul volto di un bambino.

Occhi screziati da lame argentee a farsi beffa, con la loro perfezione, della luce lunare e a rifletterla, contemporaneamente, in un inconsueto gioco di specchi.

L’iride di un azzurro intenso era per l’appunto arricchita da quella tempesta di acciaio splendente.

Una smorfia di sofferenza modificò quel quadro stabile. Le dita delle mani strinsero con maggiore determinazione il bordo della vasca, il corpo divenne all’improvviso pesantissimo e dovette poggiare interamente le piante dei piedi, ora incapaci di sopportare il suo pur discreto peso, a terra.

Subito, parte dell’immagine riflessa venne meno e la testa, come mozzata da un colpo preciso di spada, fu visibile solo dal naso in su.

Gli occhi.

Ancora una volta.

Il mezzo attraverso il quale denunciava il suo disagio.

Uno sguardo assorto nella maggior parte dei casi, mai interamente privo di quel grigio antracite paragonabile a delle nuvole cariche di pioggia in un cielo terso sull’immacolato verde della Contea.

Si passò una mano tremante sulla fronte, avvertendo sui polpastrelli ghiacciati, il sudore che imperlava in maniera malsana la pelle. Allontanò i capelli dal volto, come a cercare ristoro, ma il movimento gli risultò impacciato. Sentiva il tessuto della leggera camicia che indossava umido. Inspiegabilmente però aveva freddo.

E il dolore che lo aveva riscosso dalla contemplazione meccanica e spassionata del proprio volto, non accennava a diminuire. Era per quella stessa pena fisica che si era alzato di scatto e ritrovato a sedere sul soffice materasso della propria camera da letto, ormai alcune ore prima. Una fitta martellante e persistente all’altezza della spalla, laddove il più temibile dei Nazgûl, Witch-king, lo aveva pugnalato, inferendogli una ferita profonda. Era accaduto a Weathertop. Una scheggia della lama con cui era stato colpito si era fatta velocemente strada verso il cuore, ma non del tutto, grazie alle cure prodigategli da Elrond, Signore di Rivendell.

Una ferita dunque rimarginatasi tecnicamente dal punto di vista medico, ma che lo aveva tormentato durante tutta l’estensione del viaggio, soprattutto quando i poteri malvagi dell’Anello avevano cercato di avere la meglio sulla sua razionalità, oppure se si era trovato a distanza ravvicinata dalle creature totalmente schiave di quel cerchietto d’oro recante una, all’apparenza sibillina, iscrizione nella Lingua di Mordor.

Lo stesso fastidio, sebbene con minore frequenza, si palesava quando a svegliarsi era la seconda delle ferite che aveva riportato durante il viaggio. Quella dovuta al pungiglione dell’aracnide che aveva tentato di ucciderlo più volte e contro la quale aveva combattuto strenuamente prima di cedere.

Shelob…

Era questo il nome di quell’essere innaturalmente enorme e in grado di produrre una ragnatela tanto spessa quanto viscosa che lo aveva impedito nei movimenti, rendendogli estremamente difficile la fuga.

Era andato a letto relativamente tardi, dopo una cena consumata in compagnia della cerchia di Elfi cortigiani della Dama Galadriel e del suo consorte Celeborn, presso la dimora che era stata loro destinata a Valinor.

Non erano rare riunioni del genere a dire il vero. Come non era inusuale imbattersi in gruppi più o meno numerosi, costituiti dai protagonisti dell’Avventura dell’Anello, passeggiare sulla sabbia finissima della spiaggia che costituiva il limite orientale di Valinor. Solitamente appena dopo il levarsi del Sole, oppure nel tardo pomeriggio, quando le colorazioni dai toni più disparati iniziavano a tinteggiare il cielo all’orizzonte, preparando un testimone ideale per la notte. Rosa, sfumature inconsuete di lilla, nuvole topazio, soffici e corpose come panna montata, a dipingere l’etere.

Frodo aveva goduto di quell’atmosfera serena e al tempo stesso gioiosa, sebbene assolutamente parca in espressioni colorite o sollevamenti di gomito. Si sorprendeva sempre per come quelle creature immortali sapessero dosare positivamente le emozioni, negative o positive che fossero, distillandole. Tutt’altra cosa accadeva invece tra gli Hobbit e i Nani, ma anche tra gli Uomini, lo sapeva bene. Abbandonati i cerimoniali ampollosi, anche quest’ultimi erano dalla natura decisamente solare e godereccia.

Era stato lieto di vedere che Dama Galadriel si era del tutto ripresa da un paio di settimane che l’avevano vista non in perfetta forma dal punto di vista fisico. La sua ospite aveva rallegrato il convivio cantando delle melodie particolarmente belle e questo l’aveva resa ancora di più la Regina incontrastata della serata, come a rivendicare l’essersi riappropriata di quell’aura luminosa e splendente che la circondava sempre e che l’aveva abbandonata solo per qualche giorno nefasto.

La notizia del suo misterioso malore aveva francamente sorpreso tutti e per quindici giorni era stato impossibile vederla. Frodo si era recato a palazzo più di una volta e si era informato delle sue condizioni rivolgendo domande a Sire Celeborn, il quale non aveva però rilevato cosa avesse causato il malessere.

Qualche pomeriggio prima, di fronte alla notizia di una ripresa della Dama, si era allontanato più sollevato dalla dimora elfica, osservando a lungo le finestre delle stanze che sapeva ospitavano Galadriel e le aveva augurato una completa guarigione, per poi congedarsi con un inchino.

Tornato a casa, aveva trovato Bilbo in piena fase creativa, intento a scribacchiare versi su versi, seduto nel loro studiolo e assolutamente concentrato sul suo lavoro. Nonostante avesse provato a chiamarlo, per palesare così almeno il suo rientro dopo un intero pomeriggio fuori casa, non aveva ricevuto nessun cenno particolare da parte del cugino e lo aveva visto di nuovo conscio della realtà che lo circondava, solo quando nella cucina si respiravano ormai i profumi di quella che era una tipica cena Hobbit. Ricca come sempre.

Zuppa di funghi, stufato di carne, bruschette dorate e condite con un filo d’olio e salse appetitose, l’immancabile birra e poi una crostata rustica con marmellata di mirtilli e frutti di bosco. Sebbene non mangiasse più con l’appetito di un tempo, amava cucinare e continuava a farlo soprattutto per Bilbo, per quel suo formidabile appetito che non accennava a diminuire.

Lo Hobbit più anziano lo aveva salutato con un: “Salve Frodo! Sei qui da molto, ragazzo mio? Direi di sì visto che hai avuto il tempo di cucinare tutte queste pietanze”, aveva esordito autorispondendosi, per poi dare un morso deciso ad un crostino e masticarlo con gusto, annuendo ad indirizzo del più giovane cugino che, non potendo trattenere un sorriso di fronte a tanta genuinità, si apprestava a servire la zuppa in alcune terrine d’argilla bruna smaltata.

Durante la cena avevano conversato del più e del meno e Frodo aveva poi accennato alla sua visita a palazzo.

Bilbo aveva finito di sgranocchiare la sua terza fetta di dolce, mandandola giù con un abbondante sorso di tè nero con aggiunta di fiori di melissa, complimentandosi ancora per l’ottima cena e aveva poi parlato: “Mi fa piacere sapere che la Dama stia meglio. Vuol dire che dovrò sbrigarmi. Spero comunque che ne venga fuori qualcosa di ugualmente decente”.

Frodo aveva preso a sparecchiare il tavolo nel frattempo e, fermandosi per guardare interrogativamente il suo coinquilino, aveva esternato il proprio dubbio: “Di cosa stai parlando? Devi affrettarti a fare cosa?” aveva, infatti, inquisito, iniziando a riempire una bacinella con dell’acqua tiepida e pronto a lavare i piatti.

“Questo può aspettare, ragazzo mio”, gli aveva sorriso affettuosamente Bilbo, riferendosi alle stoviglie da insaponare e appoggiandogli delicatamente una mano sulla spalla che sapeva essere stata ferita. “Aspettami fuori sotto il portico. Ti raggiungo tra un minuto”.

Scuotendo la testa di fronte a quell’ennesima bizzarria, Frodo si era asciugato le mani con un canovaccio di lino appeso presso il lavello ed era uscito di casa. L’aria della notte profumava intensamente di elanor e niphredil. Un angolo del loro giardino era appunto coperto interamente da un cuscino latteo di niphredil e uno contiguo, ma dorato, di bellissimi quanto piccoli e delicati elanor. Un regalo di Galadriel, la quale aveva portato con sé da Lothlórien due vasetti, colmi rispettivamente delle due specie floreali nel bel mezzo della loro fioritura primaverile. Un ricordo del suo Regno Dorato nella Terra di Mezzo.

 Bilbo si era affacciato poco dopo portando con sé dei fogli scribacchiati, quelli ai quali stava lavorando in precedenza, aveva intuito Frodo fumando un po’ di erba pipa. Mansione che faceva spesso dopo cena, nelle serate nelle quali si sentiva più sereno del solito.L’odore acre ma al tempo stesso piacevole delle foglie di Vecchio Tobia che bruciavano lentamente si era così unito a quello più dolce dei fiori e, osservando ancora le azioni dell’altro Hobbit, che era nuovamente piombato in casa per poi uscirne con in mano un calamaio colmo di inchiostro nero e un pennino creato appositamente per lui dagli Elfi,  aveva aspettato che quest'ultimo si appunto spiegasse.

 Cosa che era avvenuta appena un istante dopo. La bella voce baritonale di Bilbo aveva, infatti, preso a echeggiare intorno a loro, fluttuando sotto il portico ligneo e facendo disegnare sul volto di Frodo l’ennesimo, e raro, sorriso della serata.

 "Che te ne pare?”, aveva infine chiesto, gli occhi vivacissimi per via della lettura ad alta voce dei versi che aveva appena concluso.

“Mi sembra un’idea bellissima. Credo che la Dama lo apprezzerà molto”, aveva risposto Frodo, ripassando mentalmente le strofe che aveva appena udito e saggiandone così le rime. Anche lui come il suo genitore adottivo, aveva sempre nutrito un interesse particolare per la letteratura e le arti in generale ed aveva quindi un ottimo orecchio e un ottimo gusto in fatto di canzoni e poesie, eventualmente musicate.

“Davvero, Frodo? Non lo dici solo per farmi piacere?”.

Di fronte a quel dubbio così profondamente sentito, il giovane Hobbit aveva negato con la testa e rassicurato l’altro con la sincerità che gli era propria. “Niente affatto. Non sono solito mentire, lo sai bene. E men che meno a te. Quello che hai scritto è un canto eccellente, un augurio di pronta guarigione che descrive perfettamente le qualità della Signora del Bosco d’Oro. È uno dei tuoi lavori migliori, mio caro Bilbo". 

"Oh, beh. Grazie allora, mio piccolo Frodo", aveva scherzato Bilbo ricalcando il tono paternale con il quale l’altro aveva concluso il suo discorso, in un chiaro intento di imitare il finto burbero, distratto e assolutamente affettuoso Gandalf. "Ho seguito un'improvvisa ispirazione, sai? Oggi pomeriggio, poco dopo che tu eri uscito, stavo fumando proprio come te ora, qui seduto su questi stessi scalini e mentre osservavo il mare ho spostato lo sguardo verso la dimora della Dama. I versi si sono susseguiti nella mia mente in maniera fluida, credo di poter dire, e questo è il risultato”.

Frodo aveva annuito, come sempre colpito dall'entusiasmo infantile e contagioso di Bilbo quando si trattava di nuove composizioni poetiche. Gli era sempre piaciuta quella freschezza in lui e sapere che lo avrebbe accompagnato per l'eternità lo rendeva felice.

"Queste sono le note che ho buttato giù. Sono solo una specie di spartito abbozzato, si capisce”, aveva ripreso lo Hobbit ultracentenario porgendo un paio di fogli al suo interlocutore che aveva smesso di fumare la pipa e preso invece a scorrere con occhi interessati la serie di note che erano neonate in quel pomeriggio di calma benedetta dai Valar, come sempre lì nelle Terre Imperiture.

"Hai pensato proprio a tutto, eh?”, aveva sorriso genuinamente lo Hobbit dalla morbida e riccioluta capigliatura castana, colpito positivamente dall'armonia delle note. Un degno accompagnamento per quei versi così melodici già di per se stessi.

"Beh", aveva sorriso a sua volta Bilbo, una smorfia sorniona e soddisfatta sul volto che aveva recuperato l'aspetto che lo aveva caratterizzato fino a quando aveva posseduto l'Anello. Di fatto la sua vecchiaia era scomparsa una volta messo piede a Valinor. "Credo che cantare i miei versi senza accompagnamento musicale sarebbe stato in un certo senso... incompleto", aveva spiegato con lo stesso ghigno furbo ad illuminargli il volto.

"Decisamente...", gli aveva allora fatto eco Frodo, tenendogli il gioco.Una serata come tante in un certo senso.

Una serata come quelle che avevano vissuto innumerevoli volte nella Contea, prima della Quest che aveva modificato le loro esistenze.

Un velo di nostalgia aveva oscurato per un attimo i loro volti, prima di essere cacciato di nuovo via, in favore dell'argomento che aveva dato origine a quell'atmosfera rilassata e serena."Vorresti aiutarmi a comporre la strofa finale, Frodo?", aveva allora ripreso a parlare Bilbo.

"Ne sarei onorato", aveva risposto serio lo Hobbit più giovane, alzandosi e sedendosi sui soffici cuscini della panca che ospitava già il cugino. Capo chino sui fogli, la luce viva e appena tremolante del lampadario in ferro battuto, alimentato da una quantità appropriata di olio, ad accompagnarli nel resto di quella serata, il rumore appena udibile del pennino che tracciava segni grafici eleganti su quella carta appena ruvida, e quindi perfetta per assorbire subito l’inchiostro, man mano che il canto veniva completato e modificato qua e là.

La cena di quella sera appena conclusasi, era stata appunto l'occasione per omaggiare Galadriel con il loro presente. Timidamente Bilbo aveva chiesto a Celeborn e alla Dama se era possibile per lui e Frodo onorare quel banchetto con una loro canzone. Il permesso era stato accordato immediatamente, suscitando esclamazioni di piacere. Gli Elfi amavano moltissimo i canti e Bilbo e Frodo erano noti per la loro bravura.  Tutti si erano aspettati evidentemente una canzone Hobbit per così dire, un componimento già noto alle loro orecchie e pronunciato nella Lingua della Contea, per questo grande stupore aveva causato l'ascoltare quel melodioso sovrapporsi di voci maschili cantare nell'Elfico propriamente di Lothlórien. Un Elfo aveva ricevuto da Bilbo una copia dello spartito e con dita veloci ed abili, aveva pizzicato l'arpa durante tutta la durata del canto, fungendo da accompagnamento musicale.

Tutti gli occhi dei commensali erano rimasti incollati sui due Hobbit che avevano appunto espresso la loro gioia per la guarigione di Galadriel in quel modo così speciale. Quando l'ultima nota si era oramai dispersa tra le pareti del salone che li ospitava, volti sorridenti e un applauso entusiasta avevano salutato l'esibizione dei due abitanti della Contea. Dama Galadriel li aveva ringraziati con un breve, ma sentito discorso e illuminati letteralmente con uno dei suoi sorrisi più splendenti.

Quella sera poi a Frodo aveva fatto particolarmente bene conversare con Gandalf, seduto accanto ad Elrond. Aveva intuito che fossero a conoscenza del suo malessere. Tutti lo erano a Valinor. E tutti erano preoccupati per la sua salute. Il suo stato di Portatore dell’Anello, lo aveva reso personaggio notissimo e benvoluto. Se prima era spesse volte appellato come Amico degli Elfi, adesso era molto di più.

Era comprensibile che i suoi amici poi fossero turbati dalla sua infelicità. E ugualmente comprensibile era la loro impotenza di fronte quella situazione. Se era in qualche modo lecito non aspettarsi un’esternazione dei propri dubbi da Elrond, vista la sua natura discreta, poco ipotizzabile era invece che lo stesso Bilbo, così energico e vicino a lui grazie ad un legame che andava molto più in là della mera genetica, si sentisse inibito e preferisse quasi glissare sull’argomento.

Frodo aveva avvertito su di sé gli sguardi dissimulati, ma vigili dei commensali.

Gandalf, Elrond e la stessa signora di Lothlórien erano tutt’altro che ciechi o stolti. Sapevano leggere tra righe ed era chiaro che avessero cognizione della sua sofferenza e con quelle riunioni regolari non facevano altro che ripetergli silenziosamente che era circondato da persone che tenevano molto a lui.

Nessuno gli aveva mai chiesto direttamente il motivo di tale infelicità, anacronistica in un certo senso, ora che la minaccia di Sauron era stata allontanata.

Non era necessario chiedere.

Loro già sapevano. 

Sapevano che il suo disagio sì proveniva da quelle cicatrici fisiche che interrompevano la tessitura liscia e perfetta del suo corpo, ma soprattutto, ed era questo il punto focale, era a livello psicologico e interiore che si poteva parlare chiaramente di segni fino a quel momento indelebili. 

Tutto proveniva da lì.

Da quel senso di spossatezza ed esaurimento delle energie fisiche e morali, come avesse perduto la propria anima, vendendola effettivamente a Sauron.

Era la conseguenza del viaggio e sarebbe stata lì per l’eternità ormai, accompagnandolo come un velo trasparente, ma dal riflesso opaco, grigiastro, a coprire come una patina quanto vedeva e viveva e a minare dunque la freschezza e l’essenza più limpida di quegli istanti.

Attimi che diventavano così pesantemente uno simile all’altro, senza distinzione, né differenza sensibile.

Una cortina pesante, su spalle provate da un’esperienza tanto fuori dal comune quanto distruttiva. 

Si era congedato cortesemente, rispettando la sua natura intrinseca di Gentilhobbit ed era rincasato con Bilbo, particolarmente rinvigorito da quei convivi ed entusiasta per la conversazione che aveva avuto con l’ospitale Elrond e ovviamente per il buon esito della loro esibizione. Pur essendo rimasti in silenzio, mentre percorrevano il sentiero che permetteva l’accesso alla loro abitazione, Frodo aveva percepito l’entusiasmo dell’anziano cugino in maniera palpabile. Sinceramente contento per Bilbo aveva girato la piccola chiave d’argento che apriva il portone principale della casa. 

Volendola guardare dall’esterno avrebbe sicuramente ricordato Bag End di Hobbiton. E la somiglianza non era affatto casuale. Con loro grande sorpresa, non appena messo piede sul suolo sacro di Valinor, Frodo e Bilbo erano stati condotti in quella che era una casetta Hobbit sotto tutti i punti di vista. Un tentativo per farli sentire a proprio agio da subito. 

Situata verso Nord, con tipiche porte e finestre circolari, ad un solo piano e all’interno con dei soffitti a misura di Mezzuomo. Il giardino che la circondava poi era un tripudio di piante in fiore. Un lavoro accurato, degno del più laborioso dei Samwise Gamgee, tale era la cura nei dettagli e l’evidente armonia dei colori di quella flora perfettamente miscelata.

Una cascata di edera dalle foglie verde cadmio con delle ridenti sfumature verde bottiglia si arrampicava sulla parete frontale della casa, costituendo una trama bella e ridente. Il prato era stato tagliato di recente e nell’aria si respirava ancora l’odore caratteristico dell’erba recisa. Siepi di rododendri in fiore delimitavano il perimetro del giardino in tutta la sua lunghezza. I fiorellini di un rosso vivace interrompevano la superficie verde scuro che dava loro vita. L’aiuola di niphredil candidi si armonizzava con altrettante aiuole di camelie purpuree, violacee e rosate, nonché gli elanor già citati. Non mancavano infine delicate dalie dalle sfumature calde del giallo, rosso e arancio, con tutte le nuance intermedie. 

Anche l’interno ricordava Bag End con tanto di studio nel quale ambo i cugini avevano trascorso molto del loro tempo.

Accompagnato Bilbo alla sua porta, gli aveva augurato la buonanotte, per poi recarsi nella sua stanza. Una volta svestitosi si era gettato sul letto psicologicamente esausto e, contrariamente ad ogni aspettativa, era crollato in un sonno pesantissimo e all’apparenza senza sogni.

Svegliandosi di soprassalto aveva avuto l’impressione che le pareti gialline della camera da letto lo stessero soffocando. Portatosi le mani intorno al collo, aveva sentito pulsare una vena selvaggiamente. Costretto da una necessità violenta poi, aveva spostato le proprie dita sulla spalla, stringendola convulsamente e premendo sulla cicatrice della pugnalata, come a voler sedare quell’improvviso risvegliarsi delle carni. L’aveva sentita martellare contro il palmo della mano, in sintonia con il proprio cuore che batteva senza tregua, la gola secca, le labbra doloranti e screpolate come non bevesse da tempo immemorabile e paradossalmente il torace e il volto a ricoprirsi di quell’insano strato di sudore gelido.

 Poi, così come era venuto, il tamburellare impazzito di quello spirito fosco che era rimasto intrappolato nelle sue carni dal giorno triste dello scontro contro il più temibile di Neri Sovrani, era scemato, lasciandolo però provato, lo sguardo incupito e una reazione furiosa contro se stesso, per quella debolezza che lo coglieva e contro la quale poco poteva o, per meglio dire, nulla poteva.
 
Si era alzato di scatto, scorgendo di sfuggita il riflesso del proprio corpo snello e parzialmente nudo riflesso dalla parete limpida dello specchio, la luce crepuscolare data dalle fiamme tremolanti delle candele accese con le quali dormiva da quando era ritornato ad Hobbiton, l’odore della cera che fondeva man mano che lo stoppino bruciava. 

I suoi occhi avevano colto solo il segno scarlatto che le proprie dita, strette come una morsa, avevano lasciato intorno alla spalla, poi aveva afferrato velocemente una camicia e un paio di pantaloni abbandonati su una sedia di fianco al letto ed era uscito dalla stanza, richiudendosi la porta alle spalle ed iniziando a percorrere lo smial silenzioso ed immerso nella penombra. 

Quasi senza accorgersene, aveva aperto il cancelletto che aveva cigolato impercettibilmente e, dopo averlo richiuso alle sue spalle, si era incamminato come posseduto da una qualche entità sovrannaturale, sebbene non esattamente un Valar protettore.

Aveva dormito pochissimo, si era accorto osservando la posizione della Luna. Forse un paio di ore e di nuovo si trovava a percorrere il sentiero verso il Castello di Galadriel.

Difficile dire perché.

Però era lì.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo due - Porcellana ***


AINADAMAR

Capitolo due

Porcellana

 

Frodo aveva incrociato delle quasi invisibili quanto attente Guardie Elfo notturne che, riconoscendolo, avevano chinato la testa biondo oro, in maniera elegante e quasi impercettibile, volendolo così salutare e riprendere poi a mimetizzarsi con la quiete notturna. Si era fermato, poco sorpreso dalla loro mansione, sebbene lì a Valinor fosse forse superfluo quel tipo di accorgimento difensivo, dalla loro presenza e dal fatto che l’avessero palesata in quel modo così tipicamente cortese. 

Aveva ricambiato il gesto, accennando un sorriso, per poi proseguire indisturbato. Nessuno gli avrebbe mai chiesto il perché di quella visita notturna non ufficiale, a distanza di una immediatamente precedente e sì regolata dai crismi del cerimoniale. 

Le gambe lo avevano condotto presso i piani inferiori, rallentando di fronte quella che sapeva essere la stanza che ospitava Gandalf.

Lo aveva immaginato sveglio, seduto sull’ampio davanzale di una delle enormi finestre che davano sui numerosi giardini della dimora, immerso nella contemplazione della notte, assorto nelle sue riflessioni, le folte sopracciglia corrugate dal cruccio, la pipa tra le mani, intento ad assaporare con voluttà il tabacco che bruciava lentamente e sperimentando nuove forme nelle quali far confluire lo sbuffo di fumo azzurrino. 

Durante la cena lo aveva ringraziato dell’attenzione nei suoi confronti, affidandosi ad uno sguardo di gratitudine, piuttosto che a gesti o parole. Forse per non guastare quello che era il protocollo elfico, forse perché a parole non sarebbe riuscito ad esprimere nemmeno un terzo di quanto i suoi occhi affranti, ma incredibilmente belli e sinceri in quel frangente, avevano lasciato trasparire, simili a due gemme dall’indubbia purezza. 

Aveva lasciato vagare lo sguardo sul legno immacolato della porta che separava la stanza di Mithrandir dal resto del Castello, accarezzandola virtualmente e mandandogli un messaggio in codice, un ulteriore segno di riconoscenza che sapeva sarebbe stato colto, senza indugio, da quella creatura incredibilmente solidale ed accorta nei suoi confronti. 

“Frodo…”. 

Lo guardo profondo del Maiar, infatti, aveva captato in contemporanea l’avvicinarsi e la sosta brevissima del piccolo Hobbit di fronte la parete lignea che li divideva. Aveva concentrato il suo udito finissimo sui passi felpati all’esterno della propria stanza. Da una sfumatura appena accennata aveva compreso che, nonostante la leggerezza, non era un Elfo a percorrere solitario i corridoi, ma uno Hobbit. 

Chi altri se non Frodo? 

Aveva avvertito la sua presenza, sorpreso per quel tornare sui propri passi. Era un dettaglio che lo aveva portato ad intuirne, ancora di più, se possibile, i pensieri amareggiati e recidivi, difficili da ordinare coerentemente, ma non si era mosso dalla finestra presso la quale aveva passato buona parte della nottata a fumare ed osservare il bosco rigoglioso che cingeva il lato Ovest della nuova dimora di Galadriel, andando a terminare in un declivio sabbioso che si gettava quasi direttamente nel Mare cristallino di Valinor. 

Si era reso conto del fatto che non poteva fare nulla di più per Frodo, se non fargli intendere, di nuovo, che ricambiava pienamente il suo affetto. 

“Non è abbastanza…”, aveva mormorato tra sé e sé, mentre una ruga più decisa delle altre aveva deturpato la superficie dell’alta fronte. Lo sguardo si era incupito dalla preoccupazione e la sofferenza, per quell’impossibilità di agire - i suoi poteri non avrebbero risolto nulla in quel caso, infatti - al punto da rendere impossibile distinguere il nero della pupilla dal blu notte dell’iride solitamente luminosa. 

Non è abbastanza… 

Tutti coloro che avevano partecipato all’Avventura dell’Anello e che adesso dimoravano al di là dei Porti Grigi, avevano espresso così la loro frustrazione nei confronti della situazione di Frodo ed egli stesso non poteva fare altro che annuire in quel senso. Elrond lo aveva ribadito ulteriormente, mentre si congedava dai suoi ospiti, una mezz’ora dopo l’uscita di scena di Frodo e Bilbo. Il vederlo cantare serenamente per alcuni istanti, non li aveva ingannati e solo parzialmente rincuorati. 

Il Signore di Gran Burrone si era così guadagnato un’occhiata grave, ma colma di assenso da parte di Galadriel, cosa che lo aveva rammaricato. L’ammirazione profonda che aveva sempre nutrito nei confronti della Signora dei Galadhrim, madre di Celebrían, sua sposa ritrovata, lo aveva fatto dispiacere. Il momento di impasse era stato superato grazie ai cenni di assenso da parte dei convitati che si erano trattenuti più a lungo e, confortato della stretta di mano di Celebrían, si era con lei eclissato nella quiete della notte, per raggiungere la propria dimora imperitura. 

Vedendo le due figure regali e luminose allontanarsi dal Castello, Gandalf aveva riflettuto sul fatto che quella comunanza di idee non lo faceva sentire meglio. Era ingiusto che il piccolo Hobbit avesse dovuto sopportare da solo, dapprima il fardello dell’Anello e adesso, le conseguenze di quell’insieme di circostanze che si erano intrecciate in maniera così inestricabile con la sua vita, al punto da continuare a segnarla. 

That wound will never fully heal. He will carry it for the rest of his life… 

Lo aveva predetto moltissimo tempo prima con il Signore di Rivendell, ma ora comprendeva appieno il significato di quella frase e desiderava fortemente di aver avuto torto.

Si chiese allora fino a che punto fosse stato positivo l’aver condotto Frodo al di là dei Porti Grigi. L’averlo condannato all’infelicità eterna lo faceva sentire enormemente colpevole. Non era questo che si era augurato per quello Hobbit che tanto amava. 

Queste erano state le riflessioni di Gandalf, mentre Frodo aveva proseguito il suo cammino notturno, fino a raggiungere il patio marmoreo e deviare poi in direzione della fontana dalle acque zampillanti. 

Ora avvertiva scemare poco alla volta il dolore alla spalla che era tornato a tormentarlo anche lì fuori, e se prima, nella sua stanza, aveva avuto forse senso uscire per cercare un qualche conforto nella vastità dello spazio aperto, adesso sarebbe risultato assolutamente incongruo allontanarsi ulteriormente o, peggio, tornare indietro, accalappiato e pressato da mura opprimenti. 

Rimase dunque lì.

Solo dopo aver preso quella decisione inconscia, ma determinata, sembrò rendersi conto della meta finale del suo vagabondaggio notturno.

Era tornato di nuovo nel Castello della Dama di Lothlórien. 

La gola gli parve incredibilmente riarsa ed una sete improvvisa prese a torturargli il palato, dal quale, da qualche minuto, il retrogusto, tanto familiare quanto detestato, del metallo della paura era scomparso. Facendo leva sulle braccia e sollevandosi così un po’ dal terreno, immerse la testa quasi completamente nell’acqua deliziosamente fresca e bevve sorsate lunghe e ravvicinate. Quando riemerse, una sequela di gocce simultanee gli cadeva sul volto, scendendo dai capelli grondanti come tante lacrime copiose. Vi passò allora le mani strizzandoli grosso modo, per poi chiudere per un attimo gli occhi, godere di quella sensazione di sazietà e pulito, come se l’acqua avesse mondato parte dell’umore melanconico che avvertiva costantemente, ed infine riaprirli, le ciglia brune imperlate da piccole gemme trasparenti, fissandoli sulle proprie mani adesso immerse a loro volta nell’acqua. 

Illuminate da quella luce notturna e complice la trasparenza del liquido vitale, apparivano quasi opalescenti, di un bianco-rosato difficilmente riscontrabile in natura. Forse solo alcuni marmi riuscivano a rendere l’idea oppure la carnagione sana sapientemente tinteggiata dai Valar, sul volto di qualche creatura particolarmente fortunata da questo punto di vista. 

Ormai avrebbe dovuto esservi abituato, ma non era ancora così. Non totalmente almeno. Ritrovarsi di fronte agli occhi nove dita anziché dieci, non poteva essere considerato normale. Non era una caratteristica degli Hobbit quella. Pippin, Merry, Sam, Bilbo e perfino quell’antipatica di Lobelia avevano dieci dita. A lui ne rimanevano invece nove, e a causa dello scontro più brutale e dell’attacco più selvaggio che avesse mai subito da Gollum.

Gli si erano stampati a fuoco nella memoria gli attimi di quel delirio finale, la bramosia dello Hobbit mutato in mostro senza razionalità, che era andato ben oltre la semplice volontà di strozzarlo, come era accaduto prima dell’attacco decisivo di Shelob oppure successivamente, quando era con Sam sul sentiero che avrebbe loro permesso l’accesso presso Mount Doom. 

L’attimo di incertezza che lo aveva colto, quando avrebbe dovuto invece gettare senza ripensamenti l’Anello, era stato fatale perché aveva permesso il ritorno di un Gollum inferocito, che gli si era aggrappato addosso nonostante il suo essere invisibile e gli aveva così strappato l’Anello dal dito, mordendoglielo con un odio spropositato e finendo con il recidergli nettamente una buona parte del medio. 

Il mio tesoro!

Il dolore era stato insopportabile. Sul momento però, aveva percepito solo il fluire del sangue dall’odore dolciastro e ferroso e reagito istintivamente, scagliandosi contro Gollum, facendolo finire nella lava. 

Deglutendo malamente al ricordo di quell’attacco cattivo e onestamente feroce contro la sua persona, sentì  tutta l’angoscia investirlo di nuovo, come se si fosse trovato in balia di un fiume in piena, ingrossato da piogge torrenziali. 

Sebbene il dolore fisico fosse adesso un ricordo e la ferita rimarginata, quel moncherino gli sbatteva continuamente sotto gli occhi che lui non era più quel Frodo Baggins. 

Ecco dunque a risposta alla domanda: 

Sono ancora io? 

No. 

Se lo era a questo punto solo formalmente di nome*, non poetava più esserlo di fatto. 

Frodo Baggins della Contea avrebbe abbracciato spontaneamente Gandalf o chiunque altro esprimendo gratitudine.

Frodo Baggins esiliato dalla Contea no. 

Si rivide solo, una volta fatto ritorno nel verde lussureggiante di Hobbiton, a Casa Baggins, i giorni che passavano, il tentativo di rimettere ordine nella sua vita normale, le ore trascorse a scrivere il suo manoscritto da aggiungere a quello dello stesso Bilbo, le stanze forse troppo silenziose nonostante la presenza di Sam, Rosie e della piccola Elanor, la casa all’improvviso troppo grande ed estranea, il malessere latente che diveniva sempre più palese, la decisione di abbandonare la Contea e usufruire così del posto vacante, sulla nave diretta a Valinor, che un tempo era stato assegnato ad Arwen Undómiel. 

I suoi ricordi vennero interrotti bruscamente da un rumore di sottofondo. L’eco intrecciata di centinaia di voci lamentose e piangenti. Sforzandosi di capire da dove venissero, ebbe come l’impressione che fossero le acque della fontana a produrle. Gli parve di riconoscervi anche dei singhiozzi a lui noti, sebbene non poté dare loro un nome concreto. 

Un po’ spaesato da quelle grida silenziose e forse frutto della sua mente non del tutto serena, percepì il frusciare appena percettibile, eppure inconfondibile, di lunghe gonne femminili. 

Prima di averla accanto, la riconobbe per via del profumo delicato di essenze di fiori di niphredil e miele che ne avvolgeva costantemente la persona regale. Voltandosi allora lentamente, ne scorse l’immagine per intero. 

Galadriel, Signora della Luce Sempiterna, sostava a meno di tre metri dal piccolo Hobbit. Magnificamente vestita con un lungo abito bianco di tessuto impalpabile e iridescente, stretto appena intorno alla vita sottile da una morbida fascia, con scollo quadrato e ampie maniche a sbuffo, ricamate con lo stesso tulle prezioso che adornava anche l’orlo della gonna e della sottogonna, si stagliava, come la creatura eterea che era, su quello scenario naturale e di innegabile effetto visivo. 

I lunghissimi capelli biondo platino le incorniciavano il volto dalla bellezza non comune e ricercata, seppur niente affatto costruita, scendendo come tante onde appena mosse nei pressi delle punte, perfettamente sfumate in una tonalità di oro purissimo. 

Il capo era privo di coroncine preziose o altri ornamenti e lo stesso manto setoso dei capelli era stato liberato dalle forcine che di giorno ne mettevano invece ordine e con un’arte particolarmente squisita. 

Il volto era esattamente di quell’incarnato che Frodo aveva ricordato qualche attimo prima, le guance lisce e ravvivate da una sfumatura pesca appena percepibile. 

Gli occhi, leggermente allungati nella forma, erano di un cupo blu oltremare, profondi, in grado di comprendere appieno e forse ancora di vaticinare, esattamente come lo specchio omonimo che le apparteneva, e frangiati da ciglia naturalmente lunghe e curve. 

Una silhouette alta, aggraziata e dalle tipiche orecchie a punta, ad indicare la sua natura elfica. 

I suoi lineamenti assunsero un’espressione particolarmente dolce osservando la figuretta tenera ed un po’ smarrita del piccolo Halfling. Sorrise incrociandone lo sguardo serio che aveva in quel momento un misto tra l’innocenza del bambino, la saggezza di un novantenne mortale e paradossalmente la grazia di un Elfo. 

Era una descrizione che corrispondeva perfettamente alla natura sfaccettata di Frodo e aveva avuto modo di pensarlo in più di un’occasione. 

Lo aveva amato da subito, sorprendendosi lei stessa per prima, di un amore puro, fatto di affetto profondo, empatia istintiva e qualcosa di simile alla cura materna o al desiderio di proteggerlo. Un sentimento dunque al quale era difficile dare un nome standardizzato, ma che ben stava sotto la categoria Amore, appunto, nella sua accezione più ampia. E questo di per sé era un fatto eccezionale, essendo lei un Elfo e quindi poco propensa alla manifestazione esplicita dei propri sentimenti, men che meno nei confronti di sconosciuti. 

Dopo aver superato la tentazione dell’Anello, in occasione del loro primo in contro in quel di Lothlórien, aveva deciso di sostenerlo con ogni mezzo possibile, avendo chiaro il quadro delle appena posteriori difficoltà della Compagnia che si sarebbe, infatti, di lì a poco divisa. 

Gli aveva donato la fiala vitrea contenente la stella di Eärendil affinché la utilizzasse nei momenti difficili, ma non lo aveva aiutato solo così. Era entrata nei suoi sogni, cercando di confortarlo con quel legame onirico, dandogli letteralmente la mano in alcune circostanze. Sperava di esservi in parte riuscita ed aveva accolto con gioia la notizia della sua traversata del sulla nave per Valinor. Lo aveva aspettato lì sull’imbarcadero, con Elrond e Gandalf e anche in quell’occasione lo aveva salutato con un sorriso rassicurante e pieno di calore, dispiacendosi di averlo trovato così provato e ancora molto coinvolto dall’eredità di quell’esperienza così deleteria per lui. 

E nessuno meglio di lei poteva capire cosa volesse dire solitudine, per via di una grande responsabilità.

Lei stessa era la Custode di uno dei Tre Anelli Elfici. 

Ne aveva ancora chiara l’immagine sul molo, intento a salutare commosso e diviso in due da più voci prive di comunanza di idee, gli Hobbit suoi amici. Poi c’era stata la voce di Gandalf a richiamarlo e a farlo salire sull’imbarcazione che lentamente aveva preso a solcare le acque limpide e di un verde dalle molteplici sfumature. 

Li ricordava appunto così gli Hobbit. Piccoli nella statura, ma dalla grandezza morale indiscutibile e dotati di una resistenza fisica che avrebbe fatto invidia al più grande degli Uomini. E relativamente a Frodo, lo vedeva ancora così: piccino, vicino la fontana; comprensibilmente sorpreso nel vederla lì, almeno quanto era sorpreso di trovarsi di nuovo nella sua dimora regale; confuso, perché colto nel bel mezzo di riflessioni che lo avevano estraniato dalla realtà circostante. 

Ore prima, dopo aver salutato due silenziosi Elrond e Celebrían, la figlia che aveva infine riabbracciato, e un pensieroso Gandalf, aveva raggiunto i pieni superiori del Castello. Accompagnata da un rassicurante e protettivo Celeborn, si era congedata da quest’ultimo con un’occhiata che aveva parlato per lei.

Voleva stare sola. 

Il Signore dei Galadhrim aveva sostenuto il suo sguardo ceruleo e, chinando appena di lato il bel capo color dell’oro più luminoso, le aveva sorriso comprensivo. Prendendole delicatamente una mano tra le sue, ne aveva baciato poi il palmo, augurandole così la buonanotte, e proseguito verso le sue stanze, situate appena qualche decina di metri più in là. 

Aveva aspettato che la figura reale e armoniosa di Celeborn scomparisse dietro la porta candida dell’appartamento, prima di entrare silenziosamente nei suoi locali. Subito, l’ancella deputata al suo servizio personale, l’aveva accolta andandole incontro con un bel sorriso ad illuminare i lineamenti giovani del viso sbarazzino. Nel giro di pochissimo, un’altra ancella le aveva preparato un bagno caldo. Sulla superficie dell’acqua fumante galleggiavano fiori di niphredil essiccati e dal profumo intenso. 

Improvvisamente più scoraggiata che stanca, aveva lasciato che le due giovani si prendessero cura di lei, godendo anche del massaggio che le dita abili di Miriel, la più anziana, stavano portando avanti, aiutate da un olio essenziale. Dopo aver indossato la sua veste da notte, le aveva congedate, sentendosi augurare la buonanotte e vedendole scomparire silenziose dai locali illuminati dalla luce soffusa di diverse candele aromatiche e dalla forma panciuta. 

Di fronte lo specchio ovale, che faceva bella presenza sulla toilette di legno intarsiato poco lontana da una delle numerose finestre, aveva preso a spazzolarsi i capelli, appena umidi per il vapore del bagno, sciogliendo così abilmente i nodi che si erano formati e rilassandosi con quell’operazione che amava tanto fare. 

Appoggiando la spazzola d’argento sul ripiano di alabastro del mobile-toilette, aveva avvertito la fragranza inequivocabile della vegetazione che nasceva poco lontana dal Mare. Ne aveva dedotto che spirava una brezza appena accennata da Est. Piacevolmente presa da quell’odore così salmastro, ma al tempo stesso attenuato dalla nota più dolciastra delle gardenie che facevano orgogliosamente mostra di sé, sottoforma di cuscino vellutato e bellissimo a vedersi, nel giardino sottostante, avanzò lentamente verso la finestra. 

Uno lembo consistente di spiaggia e Mare erano visibili da quell’angolatura.

Il riflesso argentato di Ithil tracciava una scia luccicante sulle tranquille acque salmastre.

La sabbia invece appariva bianchissima per via del riflesso lunare. 

Bianchissima come le gardenie che stava appunto fissando dall’alto del suo appartamento, orgogliosa di tanta perfezione.

Bianchissima come la stoffa della camicia indossata dalla piccola figurina che sostava nei pressi della fontana. 

“Frodo…”, aveva mormorato a voce bassissima, stupendosi di vederlo di nuovo lì. Sembrava quasi che la sua mente lo avesse chiamato, facendogli abbandonare la nuova Bag End di Valinor in favore di quel Castello così simile, eppure così diverso, dalla sua dimora di Lórien, forse ancora più incantato e bello se possibile, data l’aura di regalità che sembrava caratterizzare ogni singolo essere, elemento o cosa nelle Terre al di là dei Porti Grigi.

Lo aveva osservato a lungo, non vista, dalla finestra della camera nuziale. A cena invece, ne aveva annotato, dissimulando, le espressioni del volto, i gesti e la conversazione all’apparenza distesa con Gandalf. Nonostante la serenità ostentata, nonostante il sorriso che aveva aleggiato su quel volto fanciullesco durante il canto dolce che avevano composto in suo onore, nonostante il rossore che aveva ridato vita a quelle guance altrimenti pallide durante l’applauso dei commensali tutti, non si era lasciata ingannare da quelle apparenze e aveva notato a malincuore la sua sostanziale insofferenza, al punto da darne per scontato il sonno intermittente, forse agitato. La conferma era stata lo scorgerne la silhouette infantile, emersa pochi attimi prima dal patio inferiore e direttasi verso la Fontana, incantata a suo modo e lattea sotto la luce di una Luna che sapeva per lui di poco conforto. 

La decisione di scendere e fargli compagnia era stata logica quanto naturale. 

Frodo aveva spalancato gli occhi arrossati dalla stanchezza e a questo punto ombreggiati da tracce violacee, avendo conferma che l’ambasciatrice che era stata annunciata dalla delicata fragranza che le sue narici ancora avvertivano, si trovasse esattamente lì, in carne e ossa. 

I lamenti sembravano essersi volatilizzati come una bolla di sapone nell’aria. 

Deglutendo con difficoltà, riuscì a spiccicare parola, salutandola. 

“Mia Signora…”. 

La vide avanzare verso di sé, dopo avergli sorriso nell’esatto momento in cui i loro occhi si erano incontrati. Un sorriso che non era riuscito a ricambiare e che invece spesse volte gli era stato rivolto dall’Elfo. 

La Dama lo aveva raggiunto dopo aver reso nulla la distanza tra loro due con la sua tipica andatura forgiata nell’eleganza più pura e naturale che potesse mai esserci.

Vedendola praticamente a suo lato, chinò rispettosamente il capo bruno ancora umido e poi sollevò lo sguardo ad incrociarne il volto sereno. Allora accennò un sorriso, spontaneo per quanto non esente dall’usuale malinconia. 

“Frodo…”, modulò la voce melodiosa e senza tempo di Galadriel, toccata dal rispetto insito nel gesto di saluto. 

“Non riuscivate a dormire, Mia Signora?”, chiese lo Hobbit, scrutando tracce di difficoltà o pallore innaturale sul viso invece assolutamente privo di cruccio della sua ospite. Si era immediatamente preoccupato per il suo stato di salute, pregando che non fosse stato un malessere a turbare il suo sonno. Solo un attimo dopo si rese conto che non si era minimamente scusato per quella sua visita così poco rispettosa del protocollo. “Scusate, Dama Galadriel…”, rimediò allora, profondamente contrito per quel suo atteggiamento irrispettoso e poco consono alla sua natura di Gentilhobbit. “Non era mia intenzione disturbare il vostro riposo, presentandomi di nuovo al Castello senza preavviso…”, cercò di spiegare, rendendosi però conto che, affermare di non essersi recato lì in propria coscienza, ma come un sonnambulo poco consapevole di quanto lo circondava, avrebbe voluto dire ammettere pubblicamente i suoi problemi di insonnia. 

Galadriel si sforzò di mantenere l’espressione serena, simulandola però evidentemente in quel caso. Era preoccupata, ma temeva che esternarlo non avrebbe aiutato. Piuttosto, rimase colpita dalla preoccupazione di Frodo nei confronti della sua salute. Le era stato riferito che durante la sua convalescenza, le aveva fatto visita ogni giorno, domandando alle sue ancelle oppure a Celeborn notizie sui suoi miglioramenti. Era un essere incredibilmente buono d’animo e generoso e la riprova era che aveva subito messo da parte i propri pensieri per interessarsi di cosa le avesse fatto abbandonare il proprio letto a quell’ora poco consona. 

Era stata poco bene, era vero, ma nessun malore propriamente fisico le aveva fatto lasciare il proprio appartamento quella notte. I suoi occhi cerulei si soffermarono sulla massa di riccioli bruni e lucidi del Mezzuomo, prima di rispondergli. 

“Non c‘è bisogno di scusarsi. La mia casa è sempre aperta per te”, lo tranquillizzò vedendolo inquieto e capendo che si era mentalmente rimproverato per il fatto di essersi ritrovato lì, senza poter fare nulla per evitarlo. “No”, aggiunse poi, rispondendo così cripticamente alla domanda postale. 

Era la verità.

Non era di fatto riuscita a prendere sonno. 

“Mi dispiace…”, considerò Frodo, la sincerità negli occhi che ne palesavano il rammarico. “Posso fare qualcosa per Voi?”, s’informò poi volendola aiutare.

“No, piccolo Hobbit”, negò di nuovo Galadriel, con una sfumatura affettuosa palese nella voce ed un sorriso ora mesto sul volto, mentre notava le gocce trasparenti che comparivano qua e là su quel bel volto tormentato. “No”, disse ancora accompagnando con un movimento della testa il diniego. “Mi chiedevo però se potessi fare io qualcosa per te. Se così fosse anche il mio cruccio scomparirebbe”, concluse seria in volto. L’apparente tranquillità abbandonata. 

Frodo abbassò lo sguardo, comprendendo immediatamente l’allusione. 

“Non era mia intenzione quella di… farvi preoccupare per me”, si scusò, tornando a focalizzare il volto dell’Elfo. “Non voglio che nessuno si preoccupi per me. Né Voi, né Gandalf, né nessun altro”, continuò sentendosi a disagio ed in qualche modo in colpa per aver creato motivi di dispiacere in quelle persone che stimava e amava moltissimo allo stesso tempo. 

“Non devi preoccuparti per noi”, scandì dolcemente la Dama del Bosco d’Oro, scossa da un moto puro di partecipazione. “Il peso che ti sta schiacciando è unicamente sulle tue spalle. Il nostro dispiacere per non poterti aiutare è poca cosa se paragonato alle memorie difficili con le quali convivi”. 

Frodo tacque, riflettendo su quell’analisi stringata ma precisa.

“È il risultato della convivenza forzata con l’Anello…”, parlò brevemente, esternando così la sua non troppa voglia di affrontare l’argomento. Nessuna nota lamentosa o di avvilimento aveva accompagnato quel discorso essenziale. 

La Signora di Lothlórien sedette allora sul bordo della vasca della fontana, i piedi sollevati un palmo da terra, in una posa curiosamente poco regale trattandosi di lei, il piccolo Hobbit silenzioso al suo fianco, con lo sguardo fisso davanti a sé. 

Era vero, annuì mentalmente. L’Halfling era l’erede primario di quel periodo incredibilmente colmo di sventure, sofferenza, morte e influssi violenti e negativi, contro tutta Middle-Earth e contro la sua stessa persona nonché il suo carattere fiducioso e privo di cattiveria. 

Sebbene ne fosse già a conoscenza, sentirselo dire in quella maniera così diretta e priva di autocommiserazione, le fece un certo effetto. Poteva essere piccolo di statura, ma sulla levatura morale pochi avrebbero potuto concorrere con lui, si disse ancora una volta. 

Even the smallest person can change the course of the future… 

Questo era quanto aveva avuto modo di dirgli a Lórien, presso il mallorn.

Parole profetiche, in un certo senso. 

“Non avrei mai voluto che anche le conseguenze di quanto hai dovuto portare avanti da solo, fossero, ancora una volta, tutte per te…”.

Frodo si strinse nelle spalle.

Facendo poi leva sulle braccia e sollevandosi con una certa fatica, sedette a sua volta sulla fontana, i piedi ad almeno cinque palmi dal terreno.

“È l’Anello”, ripeté monocorde. “L’influsso negativo più considerevole è stato assorbito da me in quanto Portatore. Lo stesso vale per le conseguenze. È una conclusione logica, immagino”. 

Logica…”, ripeté Galadriel lentamente, come saggiando il senso intrinseco di quella parola. “Immagino anch’io che lo sia”, aggiunse poi, senza che la sua proverbiale retorica elfica le venisse incontro in quel frangente. “Ma non sono completamente certa che sia anche giusta”, parlò sentendo all’improvviso un malessere profondo coglierla di fronte all’inutilità di quel ragionamento, che esprimeva però indubbiamente il suo coinvolgimento. “Avremmo dovuto impedirlo… impedire che fossi tu il Portatore dell’Unico Anello”. 

Strano che fosse lei a dirlo.

Lei che aveva saputo prima di chiunque altro cosa sarebbe accaduto. 

Frodo parve comprendere ugualmente perché, contravvenendo ogni legge, sfiorò appena la mano bianca della Dama, dalle lunghe dita sulle quali spiccavano unghie di media lunghezza curatissime, appoggiata sul marmo della fontana. “Non si può cambiare…”, mormorò in un soffio, semplicemente, esprimendo una considerazione assolutamente obiettiva e volendo quasi consolare la sua ospite con quel gesto impercettibile. 

L’Elfo sentì un groppo in gola ascoltando quella sentenza inequivocabile e percependo all’improvviso la gravità e il peso dell’angoscia del piccolo Hobbit, intrisa di disillusione. Si concentrò istintivamente sul gesto gentile e appena timido che aveva fatto e ne osservò la mano a un centimetro dalla sua. Una mano piccola davanti ai suoi occhi, in grado di vedere andando ben oltre la semplice apparenza. Una mano candida, sulla quale non era possibile non scorgere l’assenza del medio, deturpato selvaggiamente da quella creatura che corrispondeva al nome di Gollum. 

Le venne da chiudere gli occhi, agghiacciata di fronte a tutto quello che Frodo aveva vissuto con la sola compagnia di Sam, ma si trattenne. Non era stata lei ad aver vissuto quell’orrore, non aveva il diritto di mostrarsi scioccata se Frodo affrontava invece tutto con quella maturità coadiuvata da una nota di dignità solenne, che lo rendeva così diverso da un qualsiasi altro abitante della Contea. 

Un modo di rapportarsi agli eventi quasi cerebrale.

Contro natura?

Questo era quanto traspariva in quegli istanti.

Capacità quasi meccanica di affrontare quanto accadeva ed era accaduto.

Contando semplicemente sulle proprie forze.

Non poteva però credere che la fiamma insita in ogni spirito, anche in quello del più miserabile degli Orchi, fosse del tutto spenta nello Hobbit.

Non poteva essere.

L’idea era atroce.

Frodo non poteva essersi trasformato in un fantasma privo di umanità e totalmente svuotato di volontà o sentimenti.

Era certa del fatto che soffrisse terribilmente, dunque questo avrebbe dovuto polverizzare i suoi dubbi, ma quell’accettazione così matura e appunto disillusa, le trasmetteva un senso di oppressione ed angoscia che la spaventava. 

L’aspetto era ancora quello dolcissimo di sempre, ma all’improvviso le parve come sottilissimo, fatto di materiale impalpabile, uno spettro contornato da un’aura opaca che veniva così a macchiarne l’usuale candore e bellezza. 

Mossa da un’ondata pura di amore, unito a quella specie di malessere che la impauriva contraddittoriamente, nei confronti di quell’esserino straordinario, alle prese con quella gravosa lotta interiore che lo stava sfinendo, gli strinse gentilmente la mano menomata e, con un gesto premuroso, se la portò alle labbra, stampando un bacio tenero sul palmo morbido ed incrociando uno sguardo stupito, quanto all’improvviso lucido, su un volto ora tornato concreto davanti alle sue iridi. 

“Ti ammiro, mellon nîn**”, sussurrò osservandolo spalancare gli occhi, enormi in quel momento. 

“Mia signora…”, mormorò in maniera appena udibile Frodo, abbassando lo sguardo sfocato dalle tracce salate trattenute caparbiamente, sulla mano che iniziava a scaldarsi perdendo parte della rigidità che la caratterizzava e tenuta ancora dalla stretta affettuosa dell’Elfo. 

Si rese conto all’improvviso di come sentisse la necessità di un qualche conforto altrui, di sentirsi dire in maniera infantile e semplicistica che sarebbe andato tutto bene.

Un piccolo autoinganno. 

Aveva bisogno di un qualche contatto fisico, per quanto non intimo. Non era di quest’ultimo che necessitava, ma di un calore diverso, che arrivava comunque diritto in fondo all’anima. Realizzò che ne era stato privato troppo a lungo, e per scelta personale e per incapacità, visto il suo malessere costante e per l’ambiente per lo più elfico e formale nel quale viveva. 

Galadriel, dopo il primo impatto immediato a Lothlórien, che lo aveva onestamente turbato, aveva avuto un effetto rassicurante su di lui. Lo aveva preso sotto la sua ala protettrice, riempito di un calore che non poteva definire come sincero. E adesso era lì. In carne ed ossa. Non il prodotto onirico della sua mente in difficoltà. E anche il suo calore era reale. Poteva percepire l’aura di positività che la circondava e rendeva particolarmente luminosa e bella la sua figura. 

“Ammiro il tuo coraggio…”, confermò lei specchiandosi nelle iridi cristalline dello Hobbit che scuoteva la testa come a voler dire non mi sento coraggioso. “Vorrei che ognuno di noi, coinvolto nella vicenda dell’Anello, portasse con sé parte della pena che stai trascinando da solo… se così fosse, le singole percentuali sarebbero così piccole da non incidere negativamente su nessuno… ma così non è, e tanto meno esiste un incantesimo che possa cambiarlo…”. Galadriel fece una pausa prima di continuare. “Non negare di possedere una straordinaria forza d’animo. È evidente a noi tutti. Nessuno escluso”, lo invitò quindi.

Il volto di Frodo si contrasse allora repentinamente in una smorfia incredula e al tempo stesso derisoria, a suo stesso indirizzo, negando con la testa. “Non è corretto. Senza Sam al mio fianco, non sarei riuscito a distruggere l’Anello, né avrei raggiunto il Monte Fato…Senza Aragorn, Legolas, Gimli, Gandalf, Merry, Pippin e tutti coloro che hanno lottato di pari passo al mio viaggio con Sam, i miei sforzi non sarebbero valsi a nulla. Sarei un altro Gollum, adesso. Non sono coraggioso, Mia Signora. Ho rischiato più volte di soccombere all’invito dell’Anello e forse in fin dei conti è stato così. Non so nemmeno adesso se mi sia scagliato contro Gollum per gettarlo nel Monte Fato oppure se l’abbia fatto solo per cercare di riprendermi l’Anello… se ho visto in lui un rivale, esattamente come ero io per lui… Ho avuto paura. Tantissime volte. E continuo ad averla. Io sono solo uno Hobbit, non sono un eroe”, scandì in maniera chiara, lenta ed udibile. 

Arrabbiato con se stesso e per quell’apprezzamento, che a suo giudizio non meritava pienamente.

Lui aveva fallito.

Perché altrimenti continuava a vivere quegli incubi? 

La risposta dell’Elfo non si fece attendere. Una punta di amarezza e anche sorpresa nel tono di voce, man mano che il suo pensiero veniva espresso. Di certo non si era aspettata una reazione negativa per via di quel suo commento, che aveva avuto come intento un obiettivo diametralmente opposto a quel risultato. 

“Quello che dici è vero... Compi però lo sbaglio di sminuire il tuo ruolo. Il tuo elogio nei confronti dei Membri della Compagnia e degli Eserciti di Rohan e Gondor è legittimo, ma dare loro il giusto merito non vuol dire pensare alla tua impresa personale come ad un fallimento. È una questione di giusto mezzo. Tutti hanno avuto la loro parte attiva nell’Avventura. Samwise the Brave, come tu stesso lo hai ribattezzato, primo tra tutti. È stato un lavoro di squadra. Cementato dai legami fortissimi di amicizia e rispetto reciproco che vi hanno unito, nonché dalla comunanza di ideali. Ma non posso non valutare positivamente quello che tu hai fatto in prima persona. Quello che stai vivendo, Frodo, dovrebbe farti capire il tuo ruolo eccezionale. Lo intendo in maniera etimologica.

Chi sta soffrendo le conseguenze di quell’Azione contro il Male di Mordor?

Tu, piccolo Hobbit della Contea.

Tu solo.

L’aiuto degli altri è stato di inestimabile valore, ma perché credi sia stata creata la Compagnia?

Nessuno si aspettava che ce la facessi da solo.

L’oscuro potere dell’Anello ha irretito me stessa; Mithrandir; ha plagiato un saggio come Saruman… chiunque lo avvicinasse. Non devi sentirti di aver sbagliato, solo perché anche tu sei stato tentato. Guarda oltre questo, Frodo. Tu hai resistito e hai distrutto l’Unico Anello, scagliandoti contro Gollum e rischiando di cadere nella fornace di magma del Monte Fato. Come puoi non definirti coraggioso? Tu sei uno Hobbit, è vero, ma anche un eroe a mio avviso. E non perché non hai avuto paura, ma perché hai portato a termine la tua impresa, investendo tutto te stesso, rischiando di vedere distrutti per sempre e da un giorno all’altro, la tua purezza e il tuo mondo”. 

“Ho sempre creduto di aver fallito… ho sempre ritenuto il mio malore un sintomo del mio fallimento, non della mia vittoria su Sauron”. Le parole erano state accompagnate da un diniego del capo ed una voce che aveva perso ogni nota d’asprezza, finendo in una specie di sussurro inintelligibile. 

“Tu non hai fallito”, rimarcò fermamente Galadriel. “Le mie parole sono sincere, ma devi considerarle tali anche tu. Non sono un tentativo sterile di rassicurazione. A sostegno di quanto ti dico ho tra le mani un’oggettività che tu non puoi avere adesso, in quanto coinvolto in prima persona e ancora succube delle memorie. Credimi, Frodo. Cerca di sfare uno sforzo in questa direzione… Capisci cosa voglio dire?”, concluse  in un soffio, all’improvviso sconfortata davanti il muro di amarezza e disinganno che aveva di fronte e che le sembrò incorruttibile, nel suo impianto saldo e rinforzato da un punto di vista manifestamente erroneo, a suo avviso, eppure contro il quale non era certa di poter lottare alla pari. Inoltre, iniziava a temere una seconda reazione ostile e neanche questo rientrava nei suoi obiettivi. Il ritardo poi di una risposta che invece sperava, contribuiva ancora di più a farle preventivare l’idea di un fallimento.

Tutto intorno a loro era immutato ed ugualmente privo di suono, tranne l’instancabile flusso acquatico alle loro spalle. Frodo rimase immobile per qualche istante, totalmente immerso in quella cornice sibillina e lunare, facendo proprie quelle parole, per infine parlare ancora. 

“Hannon le***”.
 
Le parole sussurrate in un elfico dall’accento quasi inesistente, si resero udibili timidamente, colme di emozione frammista ad assenso. Frodo appariva incredibilmente indifeso in momento, nonostante lo sguardo fosse mortalmente serio e brillasse di fredda luce adamantina, senza recare più traccia alcuna di lacrime represse. Come a rallentatore, e seguendo un qualche istinto dettato dalla frustrazione e dalla solitudine interiore che lo stavano soffocando, abbassò il capo bruno, avvicinandosi a Galadriel. La cinse con il braccio libero all’altezza della vita e poi, lasciando che la stretta delle loro mani si sciogliesse, permise anche all’altro arto di scivolarle delicatamente dietro schiena. Si ritrovò così accoccolato contro il suo corpo diafano. Caldo come un furetto rannicchiato su se stesso, la stringeva forte, la fronte contro il suo seno, il volto affondato nel suo ventre, esercitando una pressione appena percepibile e non invadente. 

La Signora del Bosco d’Oro rimase per un attimo ferma, trattenendo quasi il respiro, colta da un’emozione fortissima, paragonabile solo a quella che provava quando erano Celebrían oppure Arwen a stringerla in quella maniera così intima e speciale, come a voler rimarcare quella sorta di legame tellurico che aveva stabilito anche con Frodo e del quale adesso ne stava avendo ulteriore conferma, per poi chinarsi sulla chioma castana e morbida che si stagliava contro il candore della sua veste da notte e circondargli a sua volta, con le sue braccia flessuose, le spalle esili. 

Lo Hobbit si era quasi del tutto rilassato, adesso che il calore della Dama di Lórien lo avvolgeva completamente. Tranquillizzato dal fatto che lei avesse ricambiato semplicemente il gesto, senza sentirsi offesa per quello slancio forse poco riguardoso, rimase quasi scioccato dallo stupore, quando percepì la pressione del capo regale di lei chino sul suo e poi la dolcezza di un bacio stampato sui suoi capelli, mentre mani gentili gli accarezzavano la schiena, come tempo addietro aveva fatto sua madre Primula, per consolarlo di un qualche cruccio o delusione infantile.

Seppe allora con certezza che il suo inconscio lo aveva guidato sin lì per un motivo ben preciso.

Come se nella Dama dei Galadhrim risiedesse parte della chiave di volta della sua situazione.

Era davvero possibile?

C’era davvero una chiave di volta, se non miracolosa, almeno in grado di fargli squarciare il velo opaco che minava l’effettiva fondatezza delle sue percezioni e allontanava ogni speranza positiva per l’Eternità?

 _______________

 
* “Frodo” in Old English significa “peaceful”.

** “Amico mio”. Inserisco questa nota per i non LotR dipendenti.

*** “Grazie”.  Ibidem 

_______________

 
Grazie per i commenti graditissimi! Ho trovato splendide le vostre metafore.

Un abbraccio speciale va a Lothiriel. :) Non mi aspettavo minimamente che qualcuno mettesse la storia nel topic dei consigli (anzi ne ignoravo proprio l’esistenza, eh!).

Rispondo ora alla domanda sul titolo, più che lecita. Mea culpa – ho dimenticato di inserire una nota nel primo capitolo. Dunque, “Ainadamar” è una parola araba e vuol dire “Fontana delle Lacrime”.

Cosa c’entra con Tolkien e Frodo a Valinor? Apparentemente nulla, sennonché è stato leggendo “Poeta en Nuova York” di F.G. Lorca che mi sono decisa a scrivere. È una delle mie raccolte poetiche preferite, dai toni surrealisti, piuttosto cupi. È rileggendo le note sulla sua morte che l’occhio mi è caduto sul luogo della fucilazione, appunto Ainadamar oppure Fuente Grande in spagnolo, nei pressi di Granada.

È una parola suggestiva, che mi comunica una grande tristezza, insita ad un male di vivere che mi taglia un po’ le gambe ogni volta che la ricollego a quelle poesie. Mi è sembrato un titolo adatto in qualche modo. In merito alla pronuncia, l’accento va sull’ultima /a/.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo tre - Oro ***


Ancora un grazie a tutte, ragazze. I vostri commenti significano moltissimo per me, specie perché sto cercando di cimentarmi in un genere che non è propriamente il mio, descrivendo personaggi che sono tutt’altro che inclini al mio “normale” modo di vedere le cose, come qualcuno ha fatto giustamente  notare ().
 
Questo capitolo è l’ultimo di “Ainadamar”, storia prologo a una prossima alla quale sto lavorando e che dovrebbe chiamarsi: “This thing of darkness I acknowledge mine”, citazione da “La Tempesta” di W. Shakespeare e che vorrebbe dire “Questa creatura dell’oscurità che riconosco simile a me” o varianti affini.

Cosa c’entra con LotR?

Cercherò di spiegarvelo prossimamente… 

Buona lettura.

*

AINADAMAR

Capitolo tre
Oro

 

Lo sguardo affettuoso di Gandalf, di un cobalto intenso e ombreggiato da sopracciglia candide e cespugliose, incrociò quello colmo di tristezza di Galadriel. 

Silenzioso, il Maiar aveva abbandonato le sue stanze per parlare infine con Frodo. Senza indugiare ulteriormente si era diretto nel giardino dabbasso, un luogo che lui stesso amava, in particolar modo quella fontana, simbolo dell’eterno ciclo della vita, con il suo flusso appunto senza fine e in grado di tradurre in realtà i pensieri più cupi di quanti decidevano di sostarvi presso, immersi nelle proprie riflessioni. Stimando che Frodo si sarebbe sentito a disagio, torturato dall’eco feroce dei suoi incubi peggiori, non era più riuscito a rimanere confinato nel suo appartamento. 

Un luogo idoneo alla riflessione durante le nottate insonni.

Un luogo positivo e negativo allo stesso tempo, giacché da quel confronto crudo e diretto con le proprie memorie, si poteva uscire sia vincitori che definitivamente sconfitti. 

La seconda opzione lo aveva fatto rabbrividire e pregare i Valar, affinché l’amico dimostrasse ancora una volta la sua incredibile capacità di resistere e fronteggiare le situazioni difficili. 

Ma qualcuno lo aveva preceduto. 

Avanzando con leggerezza e senza produrre alcun rumore, si era fermato sugli scalini d’accesso al giardino e scorto così l’immagine da un lato insolita, dall’altro innegabilmente dolce, di Galadriel e lo Hobbit. 

Accennò un sorriso alla sua ospite, speculare a quello che lei gli fece di rimando. Un miscuglio non ben distinto di mestizia e sollievo. Rimase fermo sui gradini, la tunica nivea che indossava a creare una macchia di colore lunare, visti i raggi dell’astro che ne valorizzavano la trama della stoffa immacolata. Gli occhi si abbassarono sino a focalizzarsi su un’aiuola colma di iris bianchissimi. Socchiuse allora le palpebre, sospirando appena percettibilmente e avvertendo lo spirare di una brezza tiepida dal Mare poco lontano, a Oriente, per poi tornare ad osservare quella scena singolare. 

Che la Signora del Castello fosse riuscita a scalfire il muro di simulazione che Frodo aveva costruito intorno a sé per non farli preoccupare e che lui, Mithrandir, per primo, non aveva avuto il coraggio di provare a scalfire? 

Che Frodo aveva ammesso il suo disagio sinceramente e non solo a se stesso? 

Riflettendo su questi interrogativi, chinò appena il capo canuto, congedandosi da Galadriel e tornando silenziosamente nella sua stanza da letto, invisibile e discreto come era comparso solo alcuni istanti prima. Avrebbe rimandato il suo discorso con il piccolo abitante della Contea e, in cuor suo, sperava avvenisse quanto prima. Desiderava scambiare di nuovo quattro chiacchiere con lo Hobbit, vederlo sorridere di fronte alle sue trovate bizzarre, godere dello spettacolo di quegli occhi incredibilmente azzurri spalancarsi dallo stupore, ascoltare la sua voce musicale fare domande e dare risposte. Desiderò come non mai che Frodo Baggins tornasse se stesso. 

Così innocente e sincero da far male il solo pensarci. 

E proprio costui, ignaro di quanto gli stesse accadendo intorno, si allontanò gentilmente dall’Elfo del Bosco d’Oro, sciogliendo così l’abbraccio che li legava. Uno sguardo riconoscente colmò i suoi occhi azzurro cupo e, senza cambiare posizione, continuò ad osservare il volto luminoso della Signora dei Galadhrim.

Uno sguardo il suo che oltre ad esprimere riconoscenza, comunicava però anche attesa. 

Galadriel lo comprese immediatamente, senza stupirsi troppo. Frodo era in grado di cogliere le sfumature come il più perspicace degli Elfi e gli anni trascorsi in compagnia dei Luminosi, non avevano fatto altro che rafforzare questa caratteristica latente in lui, prima di venire così positivamente affinata. 

Sorridendogli con il volto privo di ombre meste, appoggiò i piedi a terra. Il fruscio delle vesti accompagnò quel movimento e anche sul volto di Frodo si dipinse un sorriso. Rinfrancata da quello sguardo sereno, concentrò la propria attenzione su quei lineamenti ora distesi.

 Il vecchio Frodo della Contea non doveva poi essere diverso dall’essere con gli occhi scintillanti di attesa e speranza come quello che sostava ancora seduto ad un passo da lei.

Un’immagine bellissima che testimoniava una purezza e un’onestà difficili da esprimersi a parole. 

Porgendogli la mano, lo invitò a scendere dalla fontana e quindi a seguirla. 

Frodo osservò la mano che Galadriel gli aveva porto, comprendendo che la sua aspettativa stava per essere soddisfatta e tutti i suoi interrogativi forse chiariti, per afferrarla senza aspettare un attimo di più e, silenzioso, camminarle accanto. 

Percorsero diversi metri prima di deviare sulla destra del giardino e ritrovarsi quindi di fronte la parete di pietra calcarea, verde di edera e candida di gardenie, che Galadriel aveva osservato in precedenza, dall’alto della sua stanza. Il profumo dei fiori era quasi stordente e a Frodo balenò dinanzi l’immagine del giardino di Bag End curato ad arte dalle mani laboriose di Sam. 

Scesero una decina di scalini, coperti qua e là di muschio vellutato ed accedettero infine al piano inferiore del parco. Un cantuccio seminascosto e cinto da un boschetto di mellyrn. Quest’ala del parco era un piccolo angolo di Lothlórien trasferito al di là del Mare. Se il resto del castello poteva in qualche modo ricordare Gran Burrone o forse addirittura Minas Tirith, per via del candore immacolato delle mura e delle pareti, qui le cose cambiavano. 

Il boschetto di mellyrn risplendeva come oro brunito. Sia la corteccia degli alberi, sia le loro foglie erano splendenti di riverberi gialli e luminosi. Sollevando lo sguardo sulle cime dei mellyrn, Frodo poté intravedere i tipici flet, i miniappartamenti che aveva conosciuto a Lórien e sui quali aveva dormito durante il suo soggiorno in quella Terra. In un certo senso non era stupito da quella scoperta, né da quell’improvviso salto nel passato.
 
Galadriel era la regina dei Galadhrim, la Gente degli Alberi per l’appunto, era impossibile che lì a Valinor avesse dimenticato la sua vera natura. A completare quel quadro di oro splendente concorreva un intero prato di elanor, dai tipici fiorellini a stella e dai petali appuntiti, risplendente come non mai per via di quel rifrangersi intrecciato di riflessi. 

Un cambiamento improvviso, ma ugualmente mozzafiato rispetto al candore perlaceo che invece caratterizzava il piano superiore del giardino.

Un ricordo ulteriore prese forma nella sua mente. Ancora di più quando vide, sulla destra dell’ellisse che li ospitava, quello che conosceva con il nome di Specchio di Galadriel. La bassa e poco profonda vasca d’argento incassata nella pietra che, colmata d'acqua, era in grado di rivelare immagini del passato, del presente e del futuro, risplendeva, infatti, nella penombra, come la stella lucente di Eärendil. 

Voltò la testa in segno di domanda e Galadriel gli rivolse un’espressione enigmatica che lo fece irrigidire. Stava accadendo tutto come nel loro incontro a Lórien, quando il vaticinio improvviso della Dama lo aveva più spaventato che rassicurato. La mano calda dell’Elfo però continuava a stringere la sua premurosamente e ciò lo rese ancora più confuso. 

Galadriel percepì quell’improvvisa titubanza da parte della piccola creaturina, ritrovandosi lei stessa immersa nel déjà-vu del loro primo incontro. Chiuse, infatti, gli occhi per un attimo, e tornò quindi a guardarlo per accarezzargli lievemente una guancia. 

“Non hai nulla da temere”, lo rassicurò con voce affettuosa. 

“Lo Specchio…”, articolò Frodo. “Non ho dei bei ricordi…”, spiegò, mentre un intrecciarsi di voci si rincorrevano nella sua testa. 

Will you look into the mirror?

>>What will I see?

Not even the wisest can say, for the mirror shows many things. Things that are, things that were, and some things that have not yet come to pass.

>>I cannot do this alone.

You are a Ring-bearer, Frodo. To bear a ring of power is to be alone. This task was appointed to you, and if you do not find a way, no one will.

>>Then, I know what I must do. It's just I am afraid to do it.  

“Avevo visto immagini di Legolas, Merry e Pippin, Sam quindi… Gandalf con le sue nuove vesti. La Contea così come l’avevo lasciata, poi devastata, piena di Orchi, come avrei scoperto al mio ritorno. Sam in catene… infine l’Occhio e l’Anello che diventava sempre più pesante, come avesse voluto tuffarsi nelle acque dello Specchio”, elencò ricordando adesso chiaramente quanto la superficie riflettente aveva profetizzato e portandosi istintivamente le mani al collo, come a cercare la catenina con il cerchietto dorato. 

Non trovandolo però sollevò di nuovo lo sguardo smarrito su Galadriel.
 
“Ricordo la tua visione, Frodo”, annuì costei, spiacendosi di vederlo di nuovo confuso e sofferente, a cercare quell’Anello che sembrava essere diventato una sorta di appendice mai dimenticata, data quella reazione immediata. Le sue stesse parole, colme di notizie nefaste, si facevano spazio negli scomparti della sua memoria...
 

I know what it is you have seen, for it is also in my mind…

The Fellowship is breaking.

Already it has begun.

He will try to take the Ring.

You know of whom I speak.

One by one, it will destroy them all.

“…ma appartiene al passato”, continuò tornando in sé. “Se siamo qui, non è per rivangare le cose che sono state”.
 
Frodo sospirò pesantemente, facendo scivolare via la sua mano da quella di Galadriel per avvicinarsi ancora di più presso lo Specchio. “Per un attimo mi è sembrato di trovarmi ancora lì… ho quasi percepito la presenza fisica dell’Anello”. 

L’Elfo era rimasto invece qualche metro più in là, osservando la figuretta dello Hobbit e ascoltando attentamente le sue parole. “È il passato, Frodo”, ribadì con l’usuale tono melodico della voce, ma con, allo stesso tempo, una determinazione che forse strideva con la sua aura solitamente quasi fragile. “Dovresti darti una possibilità… guardare al futuro”, aggiunse sibillina. 

“Guardare al futuro?”, chiese Frodo abbassando lo sguardo e fissandolo per un attimo su un punto indefinito tra sé e Galadriel. “Quale futuro?”, domandò poi con voce incredula. “Verso quale futuro dovrei guardare, Mia Signora? Ho davanti l’Eternità e, contrariamente a quello che credevo, non c’è nulla di cui essere lieti…”. 

“Sbagli, Frodo”, ribatté invece l’Elfo incamminandosi con passi lenti verso la vasca argentata. “L’Eternità non sarà interamente grama con te, come adesso temi”, aggiunse voltandosi di nuovo verso lo Hobbit e ritrovandosi così di fronte a lui. 

“L’Eternità non sarà interamente grama con me, come adesso temo…? Non capisco”. 

“Guarda al futuro”. 

All’ennesimo invito di Galadriel, Frodo diresse lo sguardo, in quel frangente plumbeo come un cielo autunnale, verso il bagliore argenteo che nasceva sulla superficie della vasca, grazie al riflesso della Luna. 

Guarda al futuro…

“Lo Specchio?”, domandò allora fissando la Dama di Lothlórien. 

Galadriel annuì, prima di afferrare la brocca brunita adagiata sul terreno, riempirla con le acque limpide della sorgente che sgorgava presso uno degli alberi dalle grandi foglie dorate e versarne il contenuto trasparente nello Specchio. “È pronta, Frodo”, comunicò subito dopo. Il suo volto era ermetico in quel momento, quasi grave. 

A causa di questo, Frodo non si sentì affatto rassicurato. L’atteggiamento e le parole della sua ospite erano più che contraddittori ai suoi occhi. Non riusciva a comprendere da quanto si erano detti cosa lo avrebbe aspettato. Incerto, si voltò comunque verso lo specchio d’acqua che sembrava aspettarlo. Sapeva che l’Elfo conosceva già l’esito del vaticinio e il fatto che continuasse a guardarlo così cripticamente non lo stava aiutando. 

Doveva esserci però un motivo per il quale era stato condotto lì.

Un motivo perché era stato invitato a guardare nello Specchio.

Un motivo per il quale Galadriel gli aveva detto che la sua esistenza a Valinor non sarebbe stata per sempre così travagliata. 

L’Eternità non sarà interamente grama con te, come adesso temi … 

Guarda al futuro… 

Appoggiando le mani sul bordo della vasca, chiuse per un attimo gli occhi. Sentiva lo sguardo dell’Elfo su di sé, il silenzio della notte, quell’odore fortissimo di fiori che lo circondavano, la luce dorata che rendeva tutto ulteriormente irreale nonché simile ad un sogno e, concentrandosi sul pulsare del suo cuore che avvertiva forsennato, si disse che era giunto il momento. 

Galadriel era rimasta al suo fianco e da lì ne osservò il volto, quando infine prese a fissare l’acqua cristallina che riempiva lo Specchio Incantato. Lo vide spalancare gli occhi, mentre le immagini si susseguivano una dietro l’altra e la profezia del suo futuro sfilava repentina davanti al suo sguardo.

L’aria tutt’intorno sembrava essersi all’improvviso come immobilizzata, poi era diventata densa in maniera insopportabile, l’eco assordante di pianti, grida e gemiti si era resa all’improvviso udibile ed assordante, facendo impallidire sgomenta la Dama, infine tutto era tornato di nuovo sereno. 

Frodo era rimasto a lungo con lo sguardo incollato allo Specchio, stordito da quanto aveva visto e ascoltato, poi si era voltato lentamente verso Galadriel. 

L’Elfo gli apparve all’improvviso luminoso come una stella e l’impressione venne confermata dallo sguardo di lei, tornato limpido e di un blu intenso. Un sorriso rassicurante le incurvava le labbra. L’immagine divenne all’improvviso sfocata e poi indistinta. Rimase davanti ai suoi occhi come una macchia candida con i contorni sfumati da un pittore poco attento. Lo stesso valeva per il giardino che li ospitava. Tutto era diventato simile ad un quadro di verde, giallo oro e nero amalgamati arbitrariamente. 

Lacrime calde e salate gli rigavano le guance adesso rosate dall’emozione. Gli occhi erano splendenti, un azzurro intenso, come ravvivato dalla componente salina del pianto. 

Galadriel gli si avvicinò, sorridendo ora dolcemente, felice di vederlo così emozionato e finalmente in grado di esprimere quello che provava. Da Elfo la aveva sempre stupita la semplicità degli Hobbit. Quell’esternare le passioni, positive o negative che fossero. Era rimasta però senza parole quando si era resa conto che Frodo aveva perso quella capacità, trascinando avanti i suoi giorni fortemente inibito ed evidentemente infelice. 

Gli sfiorò il viso asciugandogli le tracce umide che ancora scendevano e, sempre sorridendo, lo riprese per mano e condusse al piano superiore, tornando così di nuovo a sedersi sulla fontana presso la quale si erano incontrati. 

Il rumore dell’acqua zampillante sembrava essersi quasi attutito, come a fungere da colonna sonora appena accennata al dialogo che di lì a poco avrebbe avuto luogo.

L’acqua adesso cadeva giù goccia a goccia.

Stilla dopo stilla.

Lacrima dopo lacrima, accompagnando lo sfogo silenzioso dello Hobbit. 

Frodo soffermò lo sguardo sull’ambiente che lo circondava. Scorse, al di là del bordo della balaustra, le acque del Mare appena illuminate dalla fioca luce dell’alba.

Il sorgere del Sole era vicino. 

“Ho visto la Contea …”, iniziò voltandosi a guardare l’Elfo quieto e regale seduto a suo lato che lo invitò a continuare con un cenno della testa. “Gondor…”, proseguì. “… i Porti Grigi”. 

Galadriel annuì ancora, confermandogli così il fatto che già sapesse.

“Merry e Pippin si sono sposati…”, considerò lo Hobbit, con una nota di meraviglia palpabile nel tono di voce. 

“Conosci le loro spose?”. 

“Non sono sicuro… Merry potrebbe aver sposato la sorella di Fatty, ma non l’ho riconosciuta chiaramente”. 

Di fronte ai quei dubbi, Galadriel parlò. Era lieta di spiegare i punti oscuri di quanto Frodo aveva visto. Molte cose erano successe nella Terra di Mezzo da quando l’avevano lasciata. 

Anche lei le aveva apprese grazie al suo Specchio Incantato. 

Diversi giorni prima aveva deciso di interrogare l’oracolo acquatico. Quella decisione era scaturita dopo settimane di ripensamenti e congetture che l’avevano vista però sconfitta. Assolutamente incapace di allontanare l’immagine mesta dello Hobbit dalla propria mente e di giorno e ancor peggio di notte, aveva abbandonato il proprio letto nuziale come in trance, bloccata all’ultimo momento dalla presa gentile, ma decisa della mano di Celeborn intorno al suo braccio nudo.

 Come risvegliatasi da qualche brutto sogno aveva allora osservato il volto grave del consorte, la fronte dai riverberi madreperlacei segnata da una ruga interrogativa e nello sguardo di un blu cupo esplicita una domanda, per quanto muta. 

Facendo una smorfia di impotenza, vista la momentanea incapacità di spiegarsi e riassumere coerentemente tutti i dubbi che l’avevano accompagnata negli ultimi giorni, aveva sospirato affranta e, di fronte all’occhiata colma di dolcezza e sostegno di Celeborn, accennato un sorriso, accarezzandogli una guancia con mano tremante e ceduto a quell’invito tacito che le consigliava di confidarsi con lui. 

“Voglio interrogare lo Specchio”, aveva dichiarato con voce ferma, soffermando nuovamente il proprio sguardo sul bel volto di Celeborn, per coglierne ogni singola sfumatura di fronte a quella che sapeva essere una pazzia. 

“È per Frodo, sbaglio forse?”. 

“No… anche se è mia intenzione cercare di veder chiaro nel mio futuro e intuire forse qualcosa del suo…come conseguenza…”, aveva cercato di spiegarsi. 

“Sapevo che lo avresti fatto prima o poi”, aveva parlato Celeborn, accennando un sorriso mesto. 

“Tu… sapevi?”. 

“Sono giorni che deambuli tra queste mura senza sollievo. Inoltre la preoccupazione nei tuoi occhi è palese, Mia Signora”, aveva chiarito l’Elfo, indossando con gesti abili un lungo abito bianco, corredandolo con un mantello azzurro cielo. 

“Cosa stai facendo?”, aveva domandato Galadriel osservando i movimenti del compagno e sentendosi arrossire sotto quello sguardo acuto ed intelligente. 

“Ti accompagno”, aveva risposto lui con un mezzo sorriso, porgendole a sua volta una veste immacolata e aiutandola ad indossarla, senza aggiungere nessun’altra parola.

Silente anch’essa, la Dama lo aveva seguito presso quell’angolo di giardino che ospitava lo Specchio Incantato. 

Era rimasta a lungo di fronte la vasca brunita, eretta e fiera nel suo mantello candido, come in contemplazione. Prima di riempirla aveva cercato ancora una volta il sostegno negli occhi del Signore dei Galadhrim che rimaneva a una certa distanza. 

Rassicurata da un impercettibile cenno affermativo di quella testa regale, aveva compiuto quel gesto così usuale per lei, versando il liquido trasparente della brocca nello Specchio. 

Si era concentrata con tutta se stessa, gli occhi chiusi, completamente distaccata da quanto la circondava, ma nulla era accaduto. La superficie acquatica era rimasta immobile e nessun vaticinio era stato leggibile. 

Di fronte a quell’iniziale fallimento, non aveva desistito, ma ancora per due, tre volte nulla era avvenuto.

Era risuonata allora nell’aria l’eco beffarda di quanto aveva detto un tempo a Frodo, dopo aver superato la prova a cui l’aveva sottoposta l’Unico Anello. 

I passed the test.

I will diminish, and go into the West, and remain Galadriel… 

I will diminish…

I will diminish…

I will diminish… 

“Perderò i miei poteri…”, aveva ripetuto allora a voce alta, mentre il coro scoraggiante e stridulo provocato dalla natura incantata delle acque, che alimentavano anche la fontana superiore, si estingueva. “Ciò è quanto dissi a Frodo… è così… ho perso i miei poteri”, aveva continuato, sentendo la disperazione sopraffarla e delle lacrime inaspettate bruciarle gli angoli degli occhi, ora colmi di delusione. 

Celeborn aveva tratto un profondo sospiro, intimamente lacerato di fronte a quell’immagine estremamente fragile della sua sposa. In cuor suo si era aspettato un epilogo del genere, non per questo però ne gioiva. Si era illuso in qualche modo con lei che le capacità divinatorie sarebbero tornate all’improvviso. Osservando lo Specchio e le sue acque assolutamente immobili, gli era parso mesto oltre ogni dire, ma aveva sollevato di nuovo lo sguardo sul volto di una Galadriel indecisa sul da farsi come mai l’aveva vista.

“Prova ancora…”, l’aveva invitata. “Se è davvero questo l’unico modo per cercare di aiutare Frodo, non devi arrenderti dopo alcuni primissimi tentativi. Sei stata una veggente per la maggior parte della tua esistenza. Parte di quel potere positivo deve essere rimasto in te anche qui a Valinor, come è accaduto al piccolo Hobbit, sebbene alle prese con una forza diametralmente opposta alla tua”. 

Udendo quel messaggio di speranza scandito da quella bella voce virile, colma di sostegno, la Dama aveva cercato di liberare la propria mente dai residui di quell’eco doloroso che ribadiva la sua sconfitta e che non aveva risparmiato nemmeno lei. Aveva ricacciato indietro l’afflizione ed era tornata a concentrarsi. 

Nulla di notevole si era verificato inizialmente, ma poi le acque dello Specchio avevano iniziato a muoversi, dapprima impercettibilmente, in seguito sempre di più, infine una luce luminosa ne era scaturita e immagini variegate e complete si erano invece susseguite sulla superficie liquida in movimento. Passato, presente e futuro della Terra di Mezzo e di Valinor si erano intrecciati, facendole avere un quadro generale molto più ampio di quello che si era immaginata. E quanto aveva avuto modo di conoscere, l’aveva di molto sollevata. Soprattutto per Frodo. Nella fattispecie aveva visto esattamente parte del futuro del piccolo Hobbit, richiedendo al suo fisico ed alla sua mente uno sforzo grandissimo, che l’aveva fatta sentire all’improvviso come svuotata e crollare a terra, piegandosi sulle proprie ginocchia prive di forze. 

Celeborn le era stato subito accanto, chiamandola allarmato e trovandola semicosciente. Le aveva allora accarezzato il volto pallido, ma tiepido come sempre e aveva sentito le mani nobili dalle dita sottili, stringere le sue e mormorare un flebile: “Ho visto…”. 

“Lo so…”, le aveva risposto sollevato, invitandola a non sforzarsi ulteriormente e, sollevandola da terra, l’aveva presa in braccio e ricondotta nelle proprie stanze, liquidando con un gesto rassicurante e imperioso della mano le ancelle che erano loro accorse incontro, vedendo lo stato di sofferenza nel quale sembrava immersa la propria signora. 

Era stato lui a occuparsi di lei, accorto e gentile. Le aveva tolto le lunghe vesti, appena macchiate di verde alla base per via del contatto con il prato del giardino e ricoperte qua e là di foglioline e rametti, per farla distendere sul letto, coprirla amorevolmente e vegliarla per tutta la notte e nei successivi quindici giorni.
 
Tale era stato il tempo della degenza e nulla rimaneva adesso di quel malessere.

Era guarita.

Il suo organismo aveva recuperato gradualmente forza, così come la sua mente aveva riacquistato immagini, ricordi e capacità di intendere, momentaneamente venuti meno.

Forse adesso aveva davvero perso i propri poteri.

Definitivamente.

Tuttavia era stato per Frodo e non c’era null’altro da aggiungere. 

“Il Signore della Terra di Buck ha sposato Estella Bolger, sorella di Fredegar, come hai intuito. Il Conte Peregrin invece ha preso in sposa Diamante di Lungo Squarcio”, rispose, focalizzandosi di nuovo sul suo ansioso interlocutore. 

Frodo sorrise udendo i titoli onorifici con i quali si era riferita ai due cugini. 

L’espressione affettuosa dipinta sul suo volto intenerì l’Elfo. Il legame che legava agli Hobbit sarebbe davvero durato per l’Eternità, a prescindere dalla loro presenza o non presenza a Valinor.

“Hanno ricevuto la giusta onorificenza per quanto hanno portato avanti”, sorrise serena, ricordando il volto allegro dei due Hobbit della Terra di Buck. 

“Sono felice per loro”, annuì Frodo sincero. “Li ho conosciuti giovani e spensierati. Li ho rivisti avanti negli anni e più maturi, ma per me rimarranno Merry e Pippin per sempre”, aggiunse a voce appena più bassa, velata da un impercettibile nota malinconica. “C’era un matrimonio…”, si riprese subito dopo, curioso di chiarire i numerosi punti oscuri insiti in ciò che aveva visto per degli attimi brevissimi. 

“Faramir…”, rispose la Dama di Lórien. “Il figlio di Diamante e Peregrin. Sposerà Goldilocks… Gamgee”. 

“Gamgee?”, chiese Frodo genuinamente sorpreso. “Sam e Pip con-suoceri?”, rise spontaneamente, non riuscendo a pensare a nulla di più improbabile in un certo senso. “Ce n’è per riempire più di un albero genealogico”, considerò poi riferendosi alla passione Hobbit per eccellenza. 

 “È così…”, confermò l’Elfo sorridendo con lui. 

“Arwen Undómiel ed Elassar…”. 

“Vivono felici a Gondor, Frodo. Regnano su quelle terre con saggezza. La Terra di Mezzo sta conoscendo una nuova era. Estremamente prolifica e indubbiamente pacifica”. 

“Esattamente come quando l’abbiamo lasciata”, disse Frodo, mentre, ad occhi chiusi, rivedeva i volti sereni sebbene un po’ invecchiati della Stella del Vespro e di Aragorn. L’età non li aveva però imbruttiti, piuttosto aveva loro conferito una sorte di luce. Il riflesso della loro felicità interiore, considerò tra sé, riaprendo gli occhi e rivolgendosi di nuovo a Galadriel. 

“Parlatemi di Sam, Mia Signora”. 

“Anch’egli è molto felice, Frodo. Il suo matrimonio con Rosie è benedetto dai Valar. Hanno avuto una famiglia numerosa. Tu hai avuto modo di conoscere solo Elanor, ma sono nati altri piccoli. Il secondogenito, Frodo-lad, porta il tuo stesso nome. Poi sono arrivati Rose, Merry, Pippin, Goldilocks, Hamfast, Daisy, Primrose, Bilbo, Ruby, Robin e Tolman. Sam è un padre giusto e molto amato”. 

Frodo rimase in silenzio trovando però conferma alle sue supposizioni. Aveva visto con i suoi stessi occhi la nascita dell’unione tra Rosie e Sam e adesso aveva la conferma che fosse di fatto indistruttibile. L’immagine di una Bag End pullulante di esserini dalle orecchie a punta con il capo colmo di riccioli biondi e dallo sguardo dolce lo fece sorridere e sospirare di malinconia al tempo stesso. Una morsa lo strinse forte all’altezza del cuore, mentre sentiva gli occhi farsi di nuovo umidi. 

“Mi mancano…”, mormorò fiocamente, come riflettendo ad alta voce. 

“Ti manca la Contea?”, inquisì Galadriel accortasi del repentino cambio di umore nella creatura bruna che adesso teneva ambo le mani strettamente chiuse intorno al bordo della vasca sulla quale erano seduti. 

“Sì… mi manca la mia vita lì… ho nostalgia di tutto… soprattutto delle persone”. 

“Perché hai deciso di attraversare il Mare, Frodo?”, azzardò allora la Dama. 

“Non so se si possa parlare di una vera e propria decisione… non riuscivo più a… vivere, a riprendere il filo della mia esistenza dopo la distruzione dell’Anello e la liberazione della Contea. Era come se non appartenessi più a quei luoghi...”, iniziò a spiegare il giovane, la mente rivolta agli ultimi mesi nella Terra di Mezzo. “Inoltre mi ero reso conto che la mia presenza amareggiava in qualche modo l’esistenza di tutti coloro che mi erano vicini. Io non avevo più nulla da vivere, né da scrivere. Per questo me ne sono andato. Ho consegnato il Libro Rosso a Sam, perché era giusto che fosse lui a tenerlo e a continuare a riempire quelle pagine. Non era invece tale che continuassi a farlo preoccupare. Ho fatto la scelta migliore andandomene, ma credo di essere stato allo stesso tempo… egoista. Ho pensato… solo a me. L’ho visto, Mia Signora… ho visto Sam, mentre versava milioni di lacrime a causa mia, dopo la mia partenza. Forse ancora di più di quelle che versava quando stavo male, ma condividevamo ancora lo stesso tetto. Ho sentito la sua voce… qui, la voce di tutti gli altri, prima che voi arrivaste e poi presso lo Specchio… Credevo di risolvere tutto allontanandomi dalla Contea, ma i Valar non erano dello stesso parere…”. Il discorso era stato lungo, articolato su delle lunghe pause e acceso nel finale. La voce salita di qualche tono, a testimoniare il dispiacere profondo che quelle immagini avevano originato. 

“Non è stato egoismo, Frodo… Samwise e tutti gli altri hanno sofferto molto per la tua partenza, sentono ancora la tua mancanza, ma cercano di vivere al meglio la loro esistenza. Non hanno reso vani i tuoi sforzi. Non hanno vanificato l’esito dell’Avventura dell’Anello, lasciandosi abbattere dalla sofferenza”, parlò Galadriel osservandolo adesso distante, le iridi cupe. “Perché tu stai vanificando i loro sforzi invece? Perché stai permettendo all’Anello di avere la meglio sulla tua natura? Questa è stata certamente modificata durante il corso della Quest, Frodo, ma non distrutta. Hai conosciuto la corruzione, hai convissuto con lei a lungo, ma continuando a sentirti più legato a lei che ai tuoi affetti e alla tua vita non riuscirai ad allontanarla da te”. 

Frodo sentì le lacrime scorrergli di nuovo sul volto, mentre rivedeva davanti a sé alcuni flashback del passato, e il tono privo dell’usuale amabilità, seppure non irato o acuto, di Galadriel scudisciava i suoi nervi già fortemente provati. 

Quanti avevano perso la vita lottando contro Sauron?

Quante volte Sam lo aveva protetto?

Quanto audaci erano stati Merry e Pip a dispetto della loro natura pacifica?

Quanto coraggiosi ed abili in battaglia erano stati Aragorn, Legolas, Gimli, Éomer, Dama Éowyn e tutti gli eserciti che con loro avevano combattuto?

Stava davvero vanificando tutto, lasciandosi amareggiare dal suo personale rapporto con l’Anello?

A cosa era servito lottare allora se adesso, a distanza di un tempo che iniziava ad essere cospicuo, lui soccombeva a quelle vecchie ferite e a quegli incubi notturni?

L’obiettivo della Ricerca era stato quello di riportare la serenità nella Terra di Mezzo, perché allora si era tagliato fuori da quell’atmosfera gioiosa ritrovata, annullando gli sforzi altrui? 

Ignorando le lacrime che continuavano a scendere e cercando di trattenere i singhiozzi che avvertiva in gola, riprese a parlare. “Rosie morirà…”, mormorò, rivedendo l’immagine dell’ormai anziana Hobbit circondata da fiori rosa e adagiata in una bara candida. Uno Hobbit che, dalla vivacità dello sguardo, aveva riconosciuto subito come Sam, nonostante l’aspetto fisico notevolmente diverso, i capelli ormai bianchi e il volto che esprimeva una sofferenza profonda per la morte di colei che era stata una compagna di vita per moltissimi anni. 

Rispettando la decisione dello Hobbit nel cambiare parzialmente argomento, Galadriel rispose: “Accadrà nel FO 61… compiuti i 98 anni”. 

“Ho visto uno Hobbit con in mano il Libro Rosso di Bilbo, sul molo… presso Grey Havens. Guardava verso Ovest… i capelli biondi mossi dal vento… poco distante da lei un altro Hobbit con in braccio un piccolo di qualche anno…”, descrisse Frodo, guardando la Dama della Luce. “Elanor…?”, azzardò quindi, dando voce al suo dubbio. 

“Sì… con suo marito, Fastred di Verdolmo, e il piccolo Elfstan…”. 

Lo Hobbit allora si lasciò sfuggire un mormorio di sorpresa, necessitando di qualche istante per riprendersi. “È strano… per me, pensarla madre… quando ho lasciato la Terra di Mezzo era una bambina…”, spiegò incredulo e come cosciente solo adesso che nella Terra di Mezzo il tempo avesse davvero continuato la sua corsa. “Amava le mie storie… passavamo molte sere seduti sui gradini del portico di Bag End, respirando il profumo dei fiori del giardino, bevendo limonata e mangiando dolci…”. 

“È molto graziosa, Frodo. È stata spesse volte scambiata per un Elfo e si è guadagnata appunto il soprannome di Elanor la Bella. È una delle dame di Arwen”, spiegò Galadriel sorridendo al ricordo della nipote. 

“Perché una Fontana delle Lacrime è qui? Valinor non è il regno della gioia?”, chiese lo Hobbit improvvisamente, assorbendo quelle informazioni, conscio del fatto che lui non aveva vissuto quei cambiamenti. “No…”, si rispose da solo. “Almeno, non per tutti allo stesso modo…”. 

La Dama annuì. “Questa fontana è alimentata dalla sorgente che hai visto dabbasso. Avendo vissuto il vaticinio per via di questa stessa acqua, hai avuto modo di sentire il pianto di Sam e di tutti coloro che hanno perso la vita nella Terra di Mezzo a causa dell’Anello. Sono le tue memorie, Frodo. La fontana ha dato loro voce, ma non ha inventato nulla. Sei stato tu a fornirle quel materiale. È tutto nella tua testa, racchiuso nel tuo cuore e nella tua anima. È però uno strumento dalla doppia faccia, può aiutare o condannare definitivamente. E Valinor non è immune dal male. Qui penetra con minore vigore, ma vi penetra. Prima della vicenda dell’Anello, ne era completamente privo e le acque della sorgente non avevano nessun potere… Non devi però temerle. Non più almeno. Hai superato la prova…”. 

Come ho fatto io… aggiunse poi silenziosamente tra se e sé. 

Frodo rimase per un po’ in silenzio, assimilando quelle nozioni e cercando di capire cosa volesse dire hai superato la prova. Prese così a parlare, illustrando l’ultima immagine che aveva visto.

“Tutto quello che ho scorto, è destinato ad avverarsi, Mia Signora?”. 

“Abbiamo avuto modo di appurare in più di un’occasione che i vaticini dello Specchio sono indiscutibili”. 

Lo Hobbit spalancò allora gli occhi, avendo conferma dell’impossibile solo a pensarsi appena qualche ora prima.

“Dunque Sam verrà qui… dopo la morte di Rose… dopo aver consegnato il Libro Rosso ad Elanor?”, espresse infine, sentendo la voce tremargli e sentendosi all’improvviso soffocare. 

“Ti piacerebbe rivederlo, Frodo? Passare l’Eternità accanto al tuo migliore amico?”. 

“Ho pensato spesse volte a come sarebbe stato se avessimo avuto l’opportunità di rivederci, ma essendo un qualcosa legato ad una sua traversata verso Ovest, mi sono sempre detto che era impossibile… che io e Bilbo eravamo qui perché ci era stato accordato un permesso speciale… cosa che Sam e tutti gli altri componenti della Compagnia meriterebbero… ma che non hanno avuto”. 

“Alcuni di loro lo avranno…”, intervenne Galadriel. “Gimli e Legolas… dopo Samwise”, disse infine l’Elfo, sorridendo dolcemente. 

L’inconsueta coppia formata dal concreto Mastro Nano e dall’etereo Principe di Mirkwood, fece sorridere di stupore Frodo, ma quel sorriso divenne qualcosa di più avendo conferma del fatto che Sam e così parte della Contea lo avrebbero raggiunto. 

Quasi stordito dall’energia che sentì attraversargli il corpo senza preavviso e sentendosi di riflesso, vivo come non lo era da secoli, sostenne lo sguardo amorevole della Signora di Lóthlorien, ora conscio di cosa volesse dire aver superato la prova. Aveva archiviato parte di quelle memorie, non aver ceduto di nuovo al loro carico di disperazione e malinconia pur avendole risentite grazie al potere di quell’acqua incantata, ecco cosa voleva dire. 

Migliore amico… rimbombarono quelle due all’apparenza semplici parole nella sua testa, riscaldandogli l’anima. 

Padron Frodo…

Signor Frodo…

 Gli appellativi che Sam era solito rivolgergli si palesarono allo stesso modo nella sua memoria, ma fecero male. Una fitta improvvisa e contro la quale si era trovato impreparato. La precedente sicurezza veniva repentinamente meno. 

E se Sam non lo considerasse il suo migliore amico invece?

Se si sentisse legato a lui solo da un legame servo-padrone?

Era riuscito a fargli capire che in realtà per lui non era mai stato un servitore, bensì un pari?

Sam sarebbe davvero giunto a Valinor per stare con lui spontaneamente o semplicemente avrebbe seguito il suo grandissimo senso del dovere, ritrovandosi così a seguire il suo padrone anche nell’Eternità? 

Erano pensieri crudi questi, che gli procuravamo un dolore quasi più sordo di quello della lama avvelenata di Morgul.

Ma qualcosa nel più profondo gli diceva che non poteva essersi sbagliato fino a quel punto.

Sam non poteva considerarlo solo come il suo padrone.

Era un’amicizia profonda e speciale la loro, rinsaldata dagli avvenimenti che avevano avuto modo di vivere insieme, si ripeté caparbiamente, percependo parte del calore precedente l’intromissione di quei pensieri scomodi, tornare.

Galadriel osservò il volto rosato del piccolo abitante della Contea. Il pallore sembrava scomparso, le guance erano accese, la voglia di vivere sembrava circolare di nuovo in quel corpo provato da quei lunghi anni di sofferenza. Vedendolo riflettere senza esternare i suoi pensieri rimase anch’essa in silenzio, sebbene avesse sentito forte l’istinto di chiedergli qualcosa di più. Il suo aspetto raggiante però soddisfece in qualche modo la curiosità, esprimendo molto più quanto avrebbero fatto mille parole. 

La luce alabastrina dell’alba squarciava il cielo all’orizzonte. Uno spettacolo come sempre mozzafiato quello della nascita del giorno. L’Elfo immerse una mano nell’acqua fresca della fontana, che aveva ripreso a essere alimentata da getti copiosi, ma quello che avvertì non fu angoscia, piuttosto un senso di tranquillità, forse ritrovata. 

Prova superata.

I will not say, do not weep, for not all tears are an evil. 

Il pianto non è sempre sintomo di sofferenza.

Felicità.

Speranza.

Ciò era quanto veniva esternato in quel frangente. 

Frodo lasciò che le tracce salate uscissero ancora a lungo dai suoi occhi. Non si accorse dello sguardo ceruleo di Celeborn né di quello blu di Gandalf il Bianco che osservavano la scena da prospettive diverse, ma entrambe nascoste. Lo stesso sorriso disteso ed enigmatico aleggiava però sui loro volti, mentre un ringraziamento telepatico giungeva in contemporanea alla mente di Galadriel. 

Costei avvertì immediatamente le presenze dissimulate del consorte e del Maiar e li salutò, splendente come il mattino nascente che li circondava.

Un sorriso gioioso sul bel volto regale, grata loro per quel supporto. 

Osservò poi Frodo voltarsi verso l’acqua che riempiva la vasca alle loro spalle e fissò anch’essa il riflesso di quel volto gentile, appena tremante per via dei getti acquatici provenienti dall’alto. Un’ultima lacrima solitaria scivolò giù per la guancia un tempo paffuta, ma ora non più cerea. La sfumatura rosata dell’emozione la faceva apparire meno scarna di quanto in realtà non fosse, così come il fisico minuto sembrava rinvigorito dalle ultime scoperte e gli occhi simili a due turchesi che scintillavano come il diamante più prezioso. 

Frodo immerse ambo le mani nell’acqua per poi passarsele sul volto e così rinfrescarsi. Le guance scottavano al tatto, ma non era la solita febbriciattola a renderle roventi. Avvertire di nuovo l’entusiasmo pulsargli dentro dopo quella che sembrava davvero un’eternità. Ecco la causa. 

Con il volto ancora umido scese dalla fontana, invitando silenziosamente Galadriel a seguirlo. 

Dopo pochi passi, si fermò nei pressi della balaustra che si estendeva a sinistra del muro ricoperto dall’edera e dal cuscino di morbide gardenie. Anch’essa nivea, la ringhiera sembrava risplendere grazie al riflesso della luce mattutina. Da quel punto il Mare in lontananza era uno spettacolo di bellezza unica. 

Ovviando l’altezza del muro altrimenti per lui proibitiva, si sollevò sulle punte dei piedi e appoggiò le braccia sul marmo del davanzale. Il vento leggero gli solleticava il volto disteso, asciugando le ultime gocce d’acqua. 

“Ti darai una possibilità?”

Dimenticherai il passato? 

La mano di Galadriel si era posata sulla sua spalla, mentre le labbra rosee formulavano dolcemente quella domanda. Annuì allora con un silenzioso cenno del capo, mentre guardava avidamente il Mare che risplendeva cristallino davanti ai suoi occhi luminosi, ringraziando mentalmente l’alba che stava cedendo il posto a un mattino, dopo molto tempo, portatore di speranza. 

Il suo Sole sembrava essere finalmente giunto.

La nebbia argentea della sua esistenza iniziava parzialmente a dileguarsi.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=35950