Mortale bellezza

di BrainscanSF
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Forse ho un problema col gioco d'azzardo ***
Capitolo 2: *** Forse i miei problemi non si limitano al gioco d'azzardo ***
Capitolo 3: *** Scilla, duchessa di Cielombrato ***
Capitolo 4: *** Maledetti Arrow! ***



Capitolo 1
*** Forse ho un problema col gioco d'azzardo ***


Sono una brutta persona.
Lo dicono tutti – be', ovviamente stanno bene attenti a non dirmelo in faccia – quindi immagino che sia vero. Percepisco il nervosismo, la paura che attraversa lo sguardo di chi mi sta attorno. È come un tremito nell'aria. L'istinto li mette in allerta, da quel perfetto meccanismo di difesa che è, laddove il pregiudizio nei confronti di un ceffo enorme con tatuaggi su ogni centimetro di pelle disponibile non possa bastare. La lingua che va ad umettare il labbro superiore, le palpebre che si abbassano e si sollevano all'impazzata, gli occhi che saettano in ogni direzione possibile e immaginabile e... guarda un po', non è una goccia di sudore, quella appena spuntata all'attaccatura dei capelli?
Eppure ti ho solo chiesto un goccio di rhum. Avanti, so che applicandoti un po' ce la puoi fare.
Dicevamo?
Già. Una brutta persona. Non che mi dispiaccia, sia chiaro.
Sono "la cattiva compagnia", "l'esempio da non imitare", e ne vado fiero.
Potrei dire che nascere e crescere nei Bassifondi non offra molti spunti, ma a me va bene così.
Trascorro la maggior parte della mia giornata in qualche bettola di second'ordine, assieme ad altri perdigiorno della mia risma. Tra un bicchiere e l'altro, spenno il pollo di turno a poker, bevo fino a che non mi pesa troppo il culo e via, verso qualche altro ameno posticino. Prima di sera, mi faccio almeno tre o quattro locali, poi barcollo nel letto di qualche puttana, o della mia nuova fiamma del momento se è un periodo particolarmente fortunato.
Di buono c'è che i miei clienti abituali sanno sempre dove trovarmi. Vedete, per i buoni a nulla come me, tolta ogni prospettiva di trovare un lavoro rispettabile, le scelte si riducono drasticamente. Ma non me ne lamento. Non ho voglia di spaccarmi la schiena nei campi come fa il mio vecchio, ma tagliare gole... è tutta un'altra faccenda. Tagliare gole, allo stesso modo di spaccare nasi e spezzare ossa è pura arte. Lo schiocco secco di una spalla che si lussa è musica, e io sono il direttore d'orchestra. A volte capita che torni a casa con un occhio nero o senza un dente, ma mi sta bene anche questo. Fa parte del mestiere, capite. Capita di dover rompere qualche uovo, per fare una frittata. Loro mi dicono chi devo togliere di mezzo e io lo faccio. Gli scrupoli sono per i deboli.
Carlo, seduto accanto a me, mi tira una gomitata. Prima di decidere se si merita un pugno in bocca, mi giro con un grugnito.
«Ehi. Guarda quella!»
È una sua fissa, quella di rendermi partecipe delle donne che punta. Quando capirà che non me ne frega un cazzo sarà troppo tardi. Mi volto, già spazientito.
Questa volta ha preso di mira una biondina coi capelli corti seduta a qualche tavolo di distanza, una fighetta ricca seduta con la schiena dritta come se avesse un palo nel culo (o magari le piacerebbe averlo, non ne dubito), la classica figlia di papà che non vede l'ora di ripagare la prodigalità del genitore che le ha aperto un conto in banca da capogiro aprendo le gambe per farla annusare profusamente ad ogni bipede maschio del globo, salvo ritrarsi all'ultimo lasciandoti sbavante con tutto il sangue concentrato in un unico punto. È il tipo di donna che odio di più.
«Puzza da schifo di Linguadiragno» gli faccio notare, nel caso già la sua circolazione avesse iniziato ad abbandonare il cervello per emigrare altrove.
«Machissenefrega! Ma l'hai vista?»
Ora, Carlo sa perfettamente quello che penso della città dei nobili e di tutti quelli che ci abitano, dunque la sua insistenza non fa che rendermi ancora più fermo sulle mie decisioni.
«Carina» gli concedo, senza dargli la soddisfazione di una seconda occhiata.
E chi ne ha bisogno, poi? Ho riconosciuto il bocconcino a colpo d'occhio, e con la stessa immediatezza mi rendo conto che è del tutto fuori dalla portata del mio amico, che con quei denti ingrigiti dal fumo e il ciuffo leccato all'indietro col gel è la brutta copia di quei gangster che apparivano sui giornali trent'anni fa, almeno quanto il diploma di liceo da lui tanto auspicato. Ha faticato ad uscire dalle elementari, figurarsi. Se poi teniamo conto anche dei retroscena, del fatto che a ventisei anni viva in una bicocca fuori dal paese assieme alla madre che lo reputa un idiota, è facile intuire come ogni suo tentativo di adescare la Contessa Figa di Legno sia destinato a fallire miseramente.
«Non capisci, Ignis, è tempo di puntare in alto!»
Cosa? E da quando? Quand'è stato deciso che parcheggiare il cazzo nella figa di una prostituta sia più o meno degradante che farlo in quella di una che mangia croissant appena sfornati a colazione preparandosi ad una giornata in cui non farà assolutamente un cazzo? No, perché devo essermelo perso.
«Tu dici a me di mirare in alto?» domando, marcando ben bene per sottolineare il fatto che sua madre non abbia tutti i torti. Sbatto le palpebre, incredulo.
«Di baldracche puoi averne quante ne vuoi. Basta pagare. Ma quella è per palati fini.» Accenna col pollice alla bionda. «Non dirmi che non sei curioso di assaggiarla.»
Certo che lo sono, ma non mi va di sbattermi troppo per ottenere qualcosa per cui mi basta pagare. Cerco di farlo capire anche a lui, accompagnando il ragionamento con una vigorosa pacca sulla spalla, alla quale lui risponde con un sorriso furbesco che mette in mostra i dentacci alla nicotina. Di nuovo, indica freneticamente la bionda e il mucchio di valigie impilate lì accanto in un mucchio pericolante; se finisse col travolgerla, sento che la mia serata subirebbe una svolta positiva, visto che da un capo all'altro del tavolo, improvvisamente non si parla d'altro che di lei.
E poco importa che tutti insieme costituiscano una ricca varietà dei tipi umani meno appetibili di Gea, perché il branco ha adocchiato una preda solitaria lontana dal suo ambiente naturale, ed è pronto a risvegliare i suoi bassi istinti.
Non saprei spiegarne bene il motivo, ma provo un certo fastidio nel vederli così. Forse perché sbavano senza ritegno di fronte ad una persona che li tratterà come vermi. Forse l'uomo che è in me può accettare senza problemi di essere una cattiva persona, ma non di vedere il proprio orgoglio calpestato.
«E fatevela! Anche tutti insieme, per quello che mi frega! Sembra che non abbiate mai visto una donna! Ve ne state lì con l'uccello in mano come dei disperati, mi fate pena!» sbotto, senza accorgermi della quiete improvvisa che regna tutto attorno. «E per cosa, poi? Per una puttanella ricca come quella?» La mia voce sovrasta il brusio, alta e sprezzante. Molti si voltano a guardare. Sostengo il loro sguardo finché non tornano ad occuparsi degli affari loro.
Ma tra i tanti volti ce n'è uno che sostiene il mio sguardo, imperturbabile, la testa voltata ostinatamente nella mia direzione. Mi affascina e mi fa incazzare al tempo stesso, l'arroganza di quella stronza, e le cose non possono che peggiorare quando la vedo alzarsi e dirigersi verso di me tutta impettita. È uno scricciolo che tenta di apparire minaccioso. Uno scricciolo con un bel paio di tette.
«Oui, monsieur? Mi è sombrato di capire che vous avez un problème avec moi.» Allarga le braccia. «Je suis ici.» Batte inconsciamente il piedino a terra, come a voler sottolineare quel concetto. Porta un paio di scarpe alte, rosse, col tacco a stiletto e il cinturino avvolto attorno alle caviglie sottili. Nessuna donna che non sia una puttana porterebbe un paio di scarpe simili in pieno giorno, ma già, a Linguadiragno se ne sbattono allegramente di qualsiasi convenzione. «Potete ripetere quello che avete detto, s'il vous plaît?»
Ora il silenzio è completo. Tutti seguono la scena a bocca aperta, inorriditi. Lo sono anche io, in parte. Cosa ha appena detto?
Mi osserva dal basso (nonostante io sia rimasto seduto), con le mani sui fianchi. Mi sta sgridando?
«Senti un po', signorina, io non ho proprio niente contro di te.» Sollevo i palmi delle mani, mostrandoglieli (se continua a rompermi il cazzo potrei anche farglieli vedere più da vicino, non me ne frega un cazzo se è una donna). «È lui» indico Carlo, che nel frattempo scuote la testa, supplicante «che ha un problema.» Nessuna pietà. «Sì,» dico al suo faccino sospettoso, annuendo «Vuole chiederti di uscire, l'animale!»
La sua espressione basta a ripagarmi di ogni rottura di coglioni. Spalanca gli occhi, e la ripugnanza che traspare ad inquinare quei tratti da bambolina cancella in me ogni seppur minima traccia di esitazione. Ne approfitto per darle uno sguardo approfondito. A così breve distanza, la sua bellezza ha quasi un impatto stordente; è ingannevole nella sua struttura fragile e delicata, dietro cui si nasconde una volontà forte come l'acciaio.
«E non è abbastonsa uomo per dirmèlo lui?» torna all'attacco, ritrovando la sua spavalderia.
Gli uomini tutto attorno ridono, battendosi sulle cosce e sghignazzando, ma la bionda non demorde. Non lei. Lo vedo sul suo volto, l'orgoglio che si scontra con l'incertezza, in netta minoranza. Non intende darmela vinta: combatterà.
«Non devi essere troppo severa con lui. Può sembrare una testa di cazzo qualsiasi, ma ti assicuro che è un vero simpaticone.» Calo una manata tale sulla spalla di Carlo che mi pare di sentire le ossa scricchiolare. «E poi, ce l'hai un metro di paragone? Quanti uomini puoi aver conosciuto? Che io sappia quelle come te vengono tenute sotto chiave» sogghigno.
Ma ora lo ammetto, sono davvero curioso, a dispetto del mio tono noncurante; la principessina che ho davanti è proprio il tipo da risvegliare i più perversi istinti di un uomo, con quel corpo morbido, flessuoso e profumato, e quell'aria dolce, femminile. Almeno, questo è il mio caso. Sto riscoprendo il piacere della caccia, inebriato dalle possibilità. La voglio. Ho messo gli occhi su qualcosa che mi interessa. Vaffanculo, Carlo.
«Cosa dovrebbe significare questo?» pronuncia freddamente lei, guardandomi col disprezzo che riserverebbe a qualcosa di appena uscito da una fogna.
«Esci con me» dico, di slancio. «Così poi potrai giudicare. Ho... esagerato con le parole, prima. Ho parlato a sproposito.» Col cazzo, penso, mentre mi sforzo di assumere un aspetto contrito e al tempo stesso accattivante. «Mi comporterò bene. Prometto che ti divertirai.»
Lei mi guarda, e ora ad imporsi sul suo viso è lo stupore, spazzando via ogni altra emozione. Per un momento – folle, lo riconosco – penso di avere la vittoria in tasca, che lei mi dirà di sì. Fisso le sue labbra, immaginandole in posti proibiti – quelle che fanno le schizzinose sono sempre quelle più fameliche – poi vedo il diavolo danzare con un guizzo nei suoi occhi, e finalmente colgo l'antifona.
«Uscire con toi?» ripete lei, con una risatina da smorfiosa. È quella a ferirmi più di ogni altra cosa. Mi sembra di sentirla penetrare sotto pelle, con la facilità di una lama di rasoio. E il finto compatimento con cui mi guarda. «Non siate sciocco. Comme je puovais sortir con uno come voi? Solo l'idée è talmonte ridicule!»
Avrei dovuto immaginarlo. Non sono nemmeno lontanamente ricco a sufficienza da poterla corteggiare, appartiene ad un mondo che mi è tristemente precluso, ma il fatto che lei lo sottolinei con letale condiscendenza mi è intollerabile. Mi pento all'istante della mia impulsività. Nel frattempo, sotto alla cocente delusione in cui affogano quei pochi pensieri mortificanti che riesco a formulare, inizia a ribollire una rabbia sana e liberatoria, che mi fa tirare il fiato.
Eppure, nemmeno in quella posso trovare sollievo. Maledetta, mi ha spogliato di ogni arma. Se ora lascio fluire quello che provo, urlando e sbraitando, le darò solo la soddisfazione di esserci rimasto male, a lei e ai miei amici che seguono morbosamente lo scontro.
Devo trovare un modo per ritirarmi con classe, senza fare la figura dello stronzo disperato.
«Come vuoi» faccio spallucce, cercando in tutti i modi di non apparire amareggiato. «Hai tutto da perdere.» Le mie mani si contraggono in due pugni serrati senza che io lo voglia, nonostante tutti i propositi. Il mio orgoglio maschile è in rivolta, sta gridando. Questa calma di ripiego gli fa più schifo che a me. Come diavolo si permette di rifiutare me? «Che aspetti, allora? Levati dal cazzo. Torna dai tuoi damerini incipriati, quelli non saprebbero trovarsi il culo nemmeno con una cartina e tutte e due le mani a disposizione. Vai! Sparisci!»
Sono una brutta persona: questo non significa che non abbia sentimenti, implica solo che se mi rompi le palle ti spacco il culo.
«Come pensavo... nemèno tu sei un vero uomo.»
Cosa?
«Che cazzo stai dicendo?»
«Ponso seulement che voi non siote alla mia altezza» ribatte, stringendosi nelle spalle e spedendomi un'occhiata maliziosa di cui non l'avrei mai ritenuta capace.
Emetto un verso sprezzante. Esiste qualcuno che lo sia?
«Basta così poco per rimettere al vostro posto persone del vostro jenere... Scommetto che dietro quell'aria da duro, sei solo un cusciolo spavontato
Salto sulla sedia, prima ancora che riesca a terminare la frase. È qualcosa che ho sentito, una parolina che per me è irresistibile, quanto può esserla una dose di morfamina per un drogato. La agguanto prima che possa solo provare ad allontanarsi, affondando le dita nelle sue spalle; sono come ossa di uccellino, nella mia presa.
«COSA CAZZO HAI DETTO?» le ringhio in faccia. «RIPETILO!». Una gocciolina di saliva le atterra sul naso.
Lei non si scompone. Ci pensa su. «...cusciolo spavontato
«PRIMA!».
«Ho detto... Ho detto... non me lo ricordo!» protesta, tentando di liberarsi. È così vicina che riesco a contare ognuna di quelle stupefacenti ciglia scure che le orlano gli occhi, ma al momento il fatto che sia una bellezza stratosferica è del tutto ininfluente per me. Quasi la sollevo da terra, mentre la trascino ancora più vicina.
«Vuoi scommettere con me? Eh? Vuoi scommettere?» domando, febbrile. Libero una mano, la sbatto sul tavolo con una forza tale da incrinare il piano di legno. Anche il cameriere, giunto in soccorso della ragazza e rimasto poi immobile, incapace di intervenire, sobbalza. «E VA BENE! SCOMMETTIAMO!»
Deve esserci un'espressione orribile, sulla mia faccia, perché tutti si tirano indietro. Non me ne rendo conto: so che sto sorridendo, che le guance quasi mi fanno male a causa della tensione a cui le sottopongo, ma non mi spiego l'ondata di timore collettiva. Comunque, non ha alcuna importanza.
Magari è convinta di poterla spuntare. L'arroganza tipica di chi è cresciuto col culo al caldo, servito e riverito da uno stuolo di servi le fa credere di essere immortale. Ma non oggi. Non qui.
«Ora tu mi tirerai un calcio nelle palle. Voglio che miri per bene lo scroto, capito? Devi metterci tutta la tua forza.»
Smette all'istante di contorcersi, ma in compenso mi guarda con sospetto, come se fossi una specie di maniaco. «Pourqoui?»
«Perché? Perché ora vedremo se il sottoscritto è un vero uomo oppure no! Non eri impaziente di provarlo? Allora avanti, fammi gridare! Fammi desiderare di essere morto!». Di nuovo, colpisco il tavolo, per dimostrarle che sono serio.
«E se sci riesco?». Vedo una luce avida nel suo sguardo, anche questa decisamente inappropriata per una come lei, ma sono troppo lanciato verso il mio inarrestabile declino per accorgermene.
«Se ci riesci, potrai chiedermi qualsiasi cosa! Ma se vinco io...» Lascio la frase in sospeso, lasciando che una grassa, cavernosa risata prepari il campo per quello che sto per dire. «Usciremo insieme. Mi dedicherai una serata intera, sette ore del tuo tempo. E ti piacerà» scandisco, minaccioso ed esaltato al tempo stesso.
Per qualche secondo sono convinto che rinuncerà, che si tirerà indietro, rassegnandosi a chinare la testa. Rimane in silenzio, con gli occhi bassi. Esitante. Ho bisogno di pensare che stia vagliando tutte le possibilità che ha di levarsi da questo impaccio nella maniera più dignitosa possibile: quale gratificazione rappresenterebbe per il mio ego, mettere a tacere una volta per tutte questa smorfiosa!
«Se vinscerò io, sarai il mio schiavo tout la prochaine semaine. Sette jorni della tua vita. Mi sombra onesto, no?»
Cos...?
Stava riflettendo su cosa chiedermi, in cambio della sua verginità anale. La stronza.
A questo punto, nemmeno io posso essere da meno, mi pare ovvio.
«Bene.» Mi sono alzato, soddisfatto della differenza d'altezza che mi consenta di svettare su di lei. La mia ombra la avvolge. Respiro pesantemente, pregustando il mio trionfo. Come potrebbe essere diversamente, dopotutto? Peserà cinquanta chili da bagnata, questo boccoloso concentrato di spocchia. Già mi vedo ad esibirla in lungo e in largo, mentre vengo additato come una leggenda.
Ebbene sì, ragazzi, sto uscendo con una di Linguadiragno. Una nobile. Una coi quarti nobiliari. Si dice così, poi? Be', i suoi quarti non sono niente male, in ogni caso.
«Avanti, procedi.»
Annuisce, seria. Attorno a noi è sceso il silenzio. Tutti che guardano col fiato sospeso.
Oh, la piccola non sa in cosa è andata a cacciarsi. Ho la vittoria in tasca.

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Capitolo 2
*** Forse i miei problemi non si limitano al gioco d'azzardo ***


La tensione si taglia col coltello. Improvvisamente siamo i protagonisti della serata. Sarei un ipocrita se dicessi che la cosa mi dispiace. Voglio che l'umiliazione pubblica di questa donna sia totale, cocente e assoluta, in modo che tutti loro, dal primo all'ultimo, capiscano chi è che comanda. Questa sera si gioca Fondo degli Ultimi contro Linguadiragno: nessuno sconto.
Ci misuriamo a vicenda, fermi uno di fronte all'altra.
Lei guarda in su, verso di me, deve tenere la testa reclinata all'indietro per farlo. Ed è buffo che una cosa del genere mi passi per la testa proprio ora, ma non avevo ancora notato il colore delle sue iridi, e vederlo ora, con questa intensità, mi lascia un po' stranito. Violetto. Un suggerimento, un timido suggerimento, “color pervinca”, si affaccia nella mia mente annebbiata, e sì, posso affermare che i suoi occhi replichino proprio quella precisa sfumatura di viola, più scuri attorno alla pupilla, per poi sfumare al lilla al confine con la sclera.
Color pervinca. È un fiore, giusto? La pervinca è un fiore.
È come se il cervello mi nuotasse nella scatola cranica, e all'improvviso l'idea di darmi un pugno sulle palle mi sembra un'ottima idea. Ma certo, perché non ci ho pensato prima? Ora mi colpirò le palle, piazzerò un bel destro che mi faccia strabuzzare gli occhi e... Già pregusto l’istante in cui tutta l'aria nei polmoni se ne uscirà sotto forma di sbuffo improvviso, lasciando il campo ad un poderoso urlo in cui trovi scampo il dolore lancinante che sto per infliggermi.
Tutto giusto. Questo è il piano. Ah! Quella splendida fanciulla dovrà rinunciare a quel sorrisetto, glielo cancellerò dalla faccia una volta per tutte!
No, non era così. Riproviamo. Quella splendida fanciulla avrà quello che si merita: una vittoria schiacciante. Sì, ecco, bene. Sarebbe così bello essere il suo schiavo. Non riesco ad immaginare nulla di meglio. Io voglio essere il suo schiavo. È la mia vocazione, l'unica cosa che conta davvero.
Forse la mia idea iniziale era un'altra, d'accordo, ma questa mi sembra nettamente migliore sotto ogni aspetto. Anzi, sento che posso anche spingermi oltre. Non solo posso, ma devo. Perché io per lei farei di tutto. Mi strapperei il cuore dal petto e lo arrostirei a fuoco lento solo per servirlo a questa diafana bellezza.
È il momento. Faccio dondolare il pugno per imprimere più forza al colpo, e infine libero tutta la forza accumulata in un’unica, fluida distensione, lasciandomi andare persino anche ad un verso soddisfatto. Devo aver calcolato male le distanze, però, o forse qualcuno nel muro di folla alle mie spalle mie spalle mi ha spintonato all'ultimo momento, o entrambe le cose, perché malgrado le mie buone intenzioni (e con mio grande disappunto) l'assalto va a vuoto. Il pugno sfreccia a poca distanza dalla patta e dal suo prezioso contenuto, e per un attimo la mia mente si riempie del più profondo disgusto per me stesso: non sono altro che un verme strisciante, un indegno parassita.
Come se non bastasse, l'energia messa in quel tentativo mi sbilancia miseramente in avanti, facendomi finire lungo disteso prima che possa provare a stendere le braccia per fermare la caduta.  
Si sente un tonfo da far tremare le pareti. Il mio cervello esplode di pensieri incoerenti, furiosi.
Passano dieci secondi prima di rendermi conto di essere finito addosso a quella splendida creatura ultraterrena, e altri dieci per iniziare a percepire la fitta al torace.
Se non altro quella ha il potere di strapparmi potentemente all'oblio. Sento qualcosa allentare la presa, uno strappo dalle parti del cervello, e il filtro pastello che mi è sceso sugli occhi si dissolve. Tutto ritorna al consueto schifo, gli odori del pub (birra e piscio su tutto) tornano a invadermi il naso, e ora posso sentire distintamente la fiamma che mi consuma il torace.
«Aah... Brutta puttana...» esalo, rotolando su un fianco.
Ammettilo, Ignis, la spada non l'avevi proprio prevista.
«Ah... AARRGH!» Stringo i denti, la estraggo con un colpo solo e la getto via. Disegna un semi-cerchio scuro sul pavimento, e io non posso credere a quello che vedo: il mio sangue mi imbratta le dita, rosso e viscoso. Quella ricca stronza mi ha trapassato col suo stuzzicadente.
Il mio sgomento muta repentinamente in furia cieca quando noto la salva di braccia che si stende per rimetterla in piedi, spolverandole la gonna con gesti affettati e adoranti. La mascella mi sprofonda ulteriormente verso il basso quando vedo che nel nutrito gruppo che si prodiga per portarle un bicchiere d'acqua e farla accomodare ci sono anche i miei compari, Carlo in testa a tutti.
Voglio dire... Carlo! Proprio quello che passa le giornate ad aspettare che la vicina sessantacinquenne diabetica e patologicamente obesa metta i reggiseni sullo stendino; lo stesso che nel tempo libero spara ai piccioni con la fionda o preannuncia ogni scorreggia con un roboante "Ecco la vendetta di Surgatanus!". Proprio lui.
Non che gli altri abbiano giustificazione, chiaro. Quello che si prodiga tanto a sbracciarsi per far aria alla principessa, Oscar, l'ho visto con i miei occhi staccare la testa di un serpente coi denti e masticarla tutto soddisfatto. Tanto per dire.
E ora eccoli tutti presi in quella coreografia ridicola, mentre l'oggetto del loro desiderio allontana le mani con aria infastidita, beve a labbra strette, storna il viso schifata facendo mulinare vezzosamente i riccioli biondi.
«Cielo, è stato oribìle» esala il fulcro di quelle attenzioni, posandosi la manina bianca sulla fronte. «Ho ponsato di morire sotto ad un jigantesco bruto sonsa alcun senso pour la mode.»
Senza senso della moda? Istintivamente, prima che possa impedirmelo, abbasso lo sguardo sulla mia tenuta in pelle, ed è lì che lei mi coglie, il nasino aristocratico arricciato per la disapprovazione.
«Ignis. Come hai potuto?»
«Ma vaffanculo, Carlo! Sto sanguinando, cazzo! Vi sta masturbando il cervello con qualche potere ipnotico.»
Sollevo cautamente la mano dal buco prodotto da quel dannato fioretto, e il sangue riprende a sgorgare. Alla fine il trucchetto si palesa in tutta la sua semplicità. Nel caso mi servisse qualche altra motivazione per odiarla, eccola qui: normalmente nemmeno i nobili sono autorizzati a servirsi dei Doni su altri esseri umani, ma è evidente che per lei siamo alla stregua di animali su cui affilare gli artigli. Non ha esitato a scatenarsi a piena potenza, e la sua presenza invade la stanza. Il risultato è qualcosa a metà tra il tragico e l'esilarante, una visione che mi accompagnerà per molto tempo.
La Signora delle Camelie si avvicina con degnazione, ondeggiando sui tacchi.
Alle sue spalle lascia occhi sconvolti, teste che si girano smarrite, bocche semi-aperte di chi sta cercando di raccapezzarsi su quello che è accaduto negli ultimi minuti. Rimasti improvvisamente orfani della loro divinità, gli avventori del pub si guardano attorno boccheggianti, ma lei non presta loro la minima attenzione, veleggiando verso di me come se stesse fluttuando nell'aria.
«Imajino di dovermi occupare di voi, ora» sospira, con una smorfia.
«Cosa diavolo intendi dire?»
Per un secondo (è più forte di me) la vedo china al mio capezzale con una cortissima divisa da infermiera che mette in mostra la biancheria di lusso. Poi ricordo la scintilla di malizia che ho colto nei suoi occhi, la noncuranza con cui si è rivolta a noi dal suo piedistallo dorato, e ogni illusione svanisce. Non la speranza, però. Perché a dispetto della sua raccapricciante personalità, il suo aspetto esteriore continua a farmi un certo effetto.
Emette una risatina affettata. «Che divertonte» gorgoglia nel suo accento ostentato delle classi alte. «Anche come perdente non avete smarrito quel vostro spirito così... agreste.»
«Nonono, aspetta, frena un attimo, bella! Chi ha detto che ho perso? Chi l'ha deciso?»
«Ma io l'ho desciso, sciocchino!» ride. «Avete chiaramente gridato. Vi abbiamo sontito tutti distintamente.» E a conferma delle sue parole, alle sue spalle si scatenano applausi educati, flemmatici, da platea di ottuagenari ad una partita di croquet («Una superba vittoria, signorina» si complimenta Carlo).
«Cosa... Aspetta. COSA?» Ora sì che urlo, incurante del flusso di sangue che aumenta a vista d'occhio, imbrattandomi i pantaloni. «MA SE NON MI HAI NEMMENO COLPITO!»
Non mi dà nemmeno la soddisfazione di sobbalzare, ripagandomi per la copiosa perdita di sangue che la mia protesta ha innescato. Se ne sta lì con la testa piegata di lato, le labbra piegate in un sorrisino di compatimento, a guardare mentre mi prosciugo.
«Suvvia, non preoccupatevi. Oserei dire che questa scommessa è stata oltremodo amusant. Imajino sarete impasionte di prendere servisio
«ASSOLUTAMENTE NO!»
«Un piccolo appunto, prego.» Il sorriso le si è congelato, i suoi occhi brillano improvvisamente in una maniera che non mi piace. «Non amo che mi si dica di no.» Butta fuori il labbro inferiore in un incantevole broncetto.
«MA CHI SE NE IMPORTA DI QUELLO CHE...» Vengo interrotto da un potente accesso di tosse che mi mozza il fiato. Sento di stare vivendo l'episodio più surreale della mia intera esistenza.
«Vi prego di considerare la cosa sotto un'altra lusce. Pour esompio...» Di nuovo, la sua versione “porno-soft ospedaliero” torna a stuzzicare la mia immaginazione. La caccio via debolmente, con riluttanza. «Potrei pagarvi le spese mediche. Scibo, allojo, dei vestiti descionti» elenca. «Je me sens magnanime. Non dovete preoccuparvi minimamente per essere caduto sulla mia spada» mi rassicura, conciliante. «Non sono in collera con voi.»
«Ah. Ma pensa. Che culo» riesco a dire, debolmente, prima che il pavimento mi attragga inesorabilmente verso di sé.
Tutto viene avvolto dalla nebbia dell'incoscienza e io ci piombo attraverso con un carpiato liberatorio. Non voglio più sentire nulla. Abbraccio le tenebre ed esco di scena.
 
La prima cosa che vedo quando apro gli occhi è un viso dal candore lunare, con grandi occhi violetti che mi scrutano da sotto una cuffietta bianca. Un profumo delicato mi riempie il naso. La ragazza-sogno è qui, china su di me in un tripudio di tende candide gonfiate dal vento, e dalla divisa sbottonata fa capolino il pizzo del reggiseno. La sua sagoma pare quasi brillare nella luce del mattino.
«Come state, mio caro?» cinguetta, arrotando le erre. «Posso fare qualcosa per farvi sentire melio
«Be', pensandoci bene... qualcosa c'è.» Azzardo una sbirciata alla sua espressione, aspettandomi di vederla cambiare da un momento all'altro, chiudendosi come un cielo all'arrivo di un temporale, ma lei continua a sorridere amorevole.
Gli posa l'indice sulle labbra. «Credo di avere capito» dichiara, con un sorriso birichino. Senza esitazione, senza pudore, mi prende la mano e la guida sulla sua schiena, fino all'orlo della gonna. Quando raggiungo la morbidezza delle natiche vorrei piangere. Ci indugio il tempo necessario a seguire il nastro di raso del reggicalze che affonda nella carne, estasiato.
Sento come dei piccoli scoppi alle tempie, boati di fuochi pirotecnici lontani. Si può morire col cuore gonfio di felicità? In questo momento tutto mi sembra possibile.
«Voi avete un dono.»
«E non hai ancora visto niente, tesoro.»
«No, voi avete un Dono» ribadisce lei, tagliente.
Vengo strappato brutalmente al sogno e ributtato brutalmente nello stesso letto, sullo stesso cuscino. La scena è simile a quella che la mia mente ha ricostruito mentre ero in stato di semi-incoscienza, salvo che per l’atmosfera che vi si respira. La Valchiria è sì china su di me, ma la sua biancheria mi è preclusa dallo strato di organza di una camicetta e la mano che le ho posato sulla gonna viene schiaffeggiata, respinta. Anche il dolore al torace torna a reclamare i suoi diritti, pulsando da sotto la fasciatura.
Lo scricciolo mi pianta le unghie nel collo, parlando ad un centimetro dal mio naso.
«Comme c'est possible... Solo i nobili lo possiedono, e se sc'è una cosa di cui sono sicura è che non avete nemmeno una stilla di sangue nobiliare» sibila.
Come? La bambolina è arrabbiata?
Improvvisamente mi darei una pacca sulla spalla, congratulandomi con me stesso per essere riuscito ad incrinare quella sua maschera perfetta, anche se tutto quello che ho fatto, da che io ricordi, è stato dormire. Non è solo arrabbiata, è furiosa.
«Dono? Non capisco di cosa tu stia parlando.»
«Non fate l'innoscente» mi accusa. «Mi avete ingannata!»
«No, ma chère» ribatto, con la mia orrenda pronuncia nasale. Le tocco la punta del naso con l'indice. «Si dice "Tu m'as trompé".»
Il verso di frustrazione che le sfugge la strappa per un momento alla sua essenza divina, ma solo per un attimo. Quando si volta verso di me è di nuovo capace di trafiggere l'aria solo spostando una ciocca dietro l'orecchio.
«Comunque hai ragione. Non sono un nobile» confermo, calmo. «Sia lode a Falaride. Altrimenti sarei costretto ad atteggiarmi come te.»
«E allora come fate?» sbotta lei, impaziente.
«A fare cosa?»
«Lo sapete benissimo!»
«No, non lo so» ghigno dal mio cuscino, godendomela nella sua versione furente, con le guance arrossate.
«La mia spada vi ha trafitto in prossimità della milza» accusa lei, quasi che mi fossi lanciato appositamente sulla sua lama. «Ma contro ogni leje fisica, l'ha evitata.» Brandisce quella che sembra la mia cartella medica, sfogliandola con tanta foga da rischiare di strappare le pagine. «Nemmeno il dottore è in grado di spiegarlo! Ma io so» scandisce «che siete un bujardo
«Ehi, vacci piano, zuccherino, ok? Non sono stato io ad auto-eleggermi vincitore della nostra scommessa. Quindi non fare tanto la santarellina.»
«Mais il est impossibile! Il mio Dono non può fallire!»
Sollevo le spalle, con aria innocente. «Fortuna?»
Non capisco perché sia tanto alterata. Dopotutto il mio Dono è solo una traccia impalpabile rispetto alla sua emanazione psichica. Forse questa tenera cerbiatta non ha mai provato l'ebbrezza di venire sfidata apertamente, fatto sta che è divertente vederla dimenarsi come una bambina capricciosa.
«Voi non avete idea di chi state sfidando.»
«Già, già, a proposito, tu saresti...?»
Lei prende fiato, ma non riesco a prevedere la sequela di nomi che si prepara a rovesciarmi addosso fino a che questa non mi travolge con tutta la sua spocchia.
«Je suis Priscilla Arabella Clairedelune de Noireforêt-Ravasse, duchesse de Cielsombre.»
«Quindi sei un pezzo grosso, lassù...»
«È esattamonte così.»
«E che ci fai quaggiù tutta sola?»
Per la prima volta sembra vacillare, per poi riprendersi alla velocità della luce. «Non che siano affari vostri, ma stavo... valutando delle proprietà immobiliari» risponde, con la dignità di una gran dama.
«Proprietà? Qui?»
«Per l'appunto.»
Approfitto del momento di quiete per riflettere. Ho l'impressione che mi stia nascondendo qualcosa, ma ci sarà tempo per indagare. La sua giustificazione zoppica, e non poco: se a Linguadiragno possono evitare la fatica di grattarsi il culo si può star certi che incaricheranno qualche lacchè che lo faccia al posto loro; per questo non ho creduto nemmeno per un secondo alla storiella sulle proprietà immobiliari. Quello che maggiormente mi colpisce, però, è la semplicità con cui ha rivelato la sua identità, che lascia trasparire tutta l'arroganza tipica dei nobili. Gli aristocratici che vivono lassù, nei loro giardini avvolti dalla Notte Perenne, sono convinti che il loro titolo possa salvarli da qualsiasi cosa. Ma qui siamo al Fondo degli Ultimi, dove è la sopravvivenza a dettare le regole della partita.
Tutto ciò è molto interessante. Noireforêt-Ravasse di Cielombrato: ho sentito parlare di loro, non proprio in termini lusinghieri.
Ma ecco il piano: sono un brutto ceffo, e ho a disposizione la figlia di un riccone. Vedete come le due cose si incastrano alla perfezione? Lo sentite il "click" dei due pezzi che vanno ad occupare il loro posto?
Mettiamo il caso che faccia arrivare al padre di questa fanciulla un certo messaggio che suona pressappoco così: "Se vuoi rivedere intatta la tua dolce creatura (e con intatta intendo sia dal punto di vista psico/fisico nonchè per quanto riguarda la sua preziosa virtù), fatti trovare al Molo Gitano venerdì notte con seicento pezzi d'oro. Non provare a coinvolgere la Gendarmeria, o a farne le spese sarà la ragazza." Ecco, se facessi una cosa simile, potrei star sicuro che quei pezzi d'oro verrebbero sganciati senza se e senza ma, in cambio della salvezza della preziosa erede.
Ora che ci penso, meglio fare ottocento. Anzi, ottocentocinquanta. Per loro non è nulla, rispetto al sollievo che proveranno quando potranno riabbracciare l’adorabile Prillabella o come diavolo si chiama. Magari non sembra, ma amo le storie a lieto fine. Sono solo uno qualunque a cui è capitato di trovare una fortuna in dobloni d’oro mentre piantava bulbi di tulipano in giardino, tutto qui.
«Io sono...»
«Temo che questo non abbia alcuna rilevonsa.» La mia sirena pone ancora una volta l’accento sulla sua amabile personalità.
«Senti, signorina...»
«Potete chiamarmi Scilla» concede, con l'aria della sovrana che faccia una concessione al suo suddito preferito. «E darmi del voi, come si confà alla mia posizione.»
«Credo che dovremmo rivedere i termini della scommessa. Scilla.»
«E perché mai?»
Ora attento, Ignis. Cerca di prenderla con le buone. Fattela amica.
«Be', perché se sei... se siete scappata di casa come penso, avrete bisogno di un amico, più che di uno schiavo.»
«Amico?» ripete, incredula. «Per gli Oscuri, siete davvero presuntuoso! Sapete con chi state parlando, almeno?»
Presuntuoso io?
«Io sì, e tu?»
Il silenzio si dilata tra noi. Spero che lo usi per riflettere sulla disparità fisica che c'è tra noi, e che tragga le sue conclusioni. Se mi rende suo nemico, dovrà accettarne le conseguenze.
«No, e non mi interessa» dice invece, altezzosa.
A quel punto mi muovo. Scendo dal letto con uno scatto, il lenzuolo che si deposita lentamente alle mie spalle. Quel che lei non sa è che ho saggiato le mie reazioni fisiche per tutto questo tempo, mentre parlavamo, e ora sarei pronto ad acchiapparla anche se provasse a fuggire. Sono allenato, e ho le gambe lunghe.
«State indietro. O ve ne pentirete.»
No, Scilla, questa volta non andrà come vuoi tu.
«Non ho motivo di farti del male.»
I suoi occhi si spostano rapidamente, da me alla porta, dalla porta a me. Sta cercando di calcolare tempi e distanze, ma nell'equazione la mia reattività costituisce un'incognita. Quanto al fioretto, giace ai piedi del letto, dove lei stessa l'ha lasciato. Non può prenderlo senza arrivare alla mia portata.
Arretra di un passo.
«Siete impazzito? Verrete impiccato se osate toccarmi con quelle sudisce mani! Vi ordino di fermarvi.»
«Nessuno sa che sei qui.»
«E di voi lo sanno, invesce
Non raccolgo la provocazione. Invece, afferro la sua spadina, lo stuzzicadente col quale mi ha pugnalato. «Ti riporterò a casa, che ti piaccia o no. E nel frattempo mi tratterai civilmente. Come un essere umano.»
A quel punto, accade qualcosa che non avevo previsto. Il suo minuscolo corpo viene percorso da un tremito, le braccia risalgono intrecciandosi attorno al busto e d'un tratto la mia bambolina scoppia in un pianto a dirotto, mentre le spalle delicate sussultano al ritmo dei singhiozzi.
Persino in un momento come questo è da togliere il fiato, al punto che arrivo ad un passo dal cedere, proponendole un piano alternativo talmente folle che basta il pensiero a farmi diventare le orecchie bollenti. Mi vedo ad intascare il riscatto e a fuggire con lei da qualche parte, lontano dall'ombra incombente della capitale, obblighi nobiliari e qualsiasi altra cosa. Se mi sforzo posso persino visualizzare dei bambini, sani, biondissimi, con la pelle color caffelatte.
Ma, ecco, già è difficile dover dire una cosa del genere, e di sicuro le sue lacrime non aiutano.
«Senti, Scilla...»
«Non posso tornare a casa» mi interrompe lei, il trucco che le si scioglie sulle guance.
«Non...»
«Sono stata diseredata.»
Oh. Questo è un duro colpo per le mie speranze, devo ammetterlo.
«Se torno mi uscideranno. Non ho più alcun titolo nobiliare. Non mi rimane nulla.»
Mi sono avvicinato a lei senza nemmeno rendermene conto, mentre i nostri figli immaginari salutano agitando le manine paffute, prima di svanire del tutto.
«Come potrai intuire, non ho alcun valore. Questa casa» compie un cenno in direzione della camera piena di sole, al centro della quale il mio senso di colpa emerge come sotto l'occhio di un riflettore «l'ho pagata col denaro del mio fondo fidusciario. L'ho prelevato poco prima che venisse conjelato
Alla fine piega le gambe affusolate, lasciandosi cadere sul pavimento in una posa struggente.
È ingiusto che sia così bella, che le sue lacrime mi tocchino così profondamente. Il suo dolore mi scava dentro una voragine che poco a poco va a riempirsi di indignazione.
A situazioni invertite, lei si sentirebbe altrettanto coinvolta? Non lo so, e a dirla tutta nemmeno mi interessa.
Per la prima volta sono consapevole di avere due braccia lunghe, ingombranti. Non so bene dove metterle. Se le tengo lungo i fianchi sembrerò un idiota, ma se provo a toccarla, solo per solidarietà, temo che lei possa ritrarsi.
Alla fine depongo il fioretto sul comodino, prendo un fazzoletto dalla scatola lì accanto e mi avvicino per porgerglielo, senza toccarla.
«M-merci» mormora, prendendolo. Mentre si tampona le palpebre è l'immagine stessa dell'infelicità, e io sono ormai pronto per dare la scalata a Linguadiragno con un coltello tra i denti, per farla pagare a tutti i suoi parenti.
Lentamente, con esitazione, la sua mano si fa avanti per stringermi il polso. È piccola e morbida, la mano di chi non ha fatto nulla di più faticoso nella vita che reggere il ventaglio. La guardo attonito, senza parole.
«Non ve ne andate» supplica lei.
No. Non me ne vado. Non l’avrei fatto comunque, con ogni probabilità, ma quella richiesta supplicante mi ha incollato al pavimento, legandomi a doppio filo alla sua stessa sorte. Mi rendo conto che dovrebbero far saltare in aria il pavimento sotto i miei piedi per indurmi a muovermi, e forse non basterebbe in ogni caso.
Non possiamo sapere quando la nostra vita prenderà una piega imprevista. Possiamo provare a prevederlo, tutto qui. Ma io so che la fortuna è imprevedibile, viceversa per i suoi tragici rovesci. Non so come definire lei. Non so definire noi.
Non possiamo sapere quando la nostra vita prenderà una piega imprevista, è vero, ma possiamo scegliere di scappare o di affrontare di petto l'ignoto. Io lo so. Mi è appena successo.
Cosa ho scelto? Be'...

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Capitolo 3
*** Scilla, duchessa di Cielombrato ***


Iniziamo dagli aspetti positivi. Lei paga tutto, ogni spesa. Allenta i cordoni della borsa senza fare una piega, nemmeno una domanda. Non esistono conti da saldare che in grado di destabilizzarla, malgrado i nostri fondi non siano illimitati, tanto che a volte mi spinge a chiedermi se davvero abbia consapevolezza della situazione.
Note dolenti: convivo con una stupenda creatura dal colorito lunare e un accento capace di risvegliare un morto, ma conduco una vita quasi monastica: pasti regolari, a letto presto, nessun eccesso.
Non solo non posso avere lei, ma non posso avere nessun’altra. Be’, tecnicamente potrei, ma vivendo gomito a gomito con Scilla sono pochi i momenti che posso dedicare alla caccia. Non ne ho nemmeno troppa voglia, ad essere sincero. Coltivo il superstizioso timore che una volta varcata la soglia di casa, anche la più sbalorditiva bellezza si trasformerebbe in una cosetta mediocre nella luce emanata dalla mia algida protetta.
Mi dicono che sono cambiato, che sono diventato serio. Forse hanno ragione.
O magari la presenza di Scilla mi ricorda che esiste un mondo, sopra le nostre teste, in cui tutto è diverso e sfavillante.
Linguadiragno riesce benissimo nella sua intenzione di dimenticarsi di noi. La base della città-torre è come un termitaio ribollente di criminalità, dove le baracche si affollano l’una sull’altra in un labirinto di cunicoli, porte e scale che non conducono da nessuna parte, ma lassù, nel cielo nero, vivono quelli che reggono tra le mani le sorti di Malaluna, i veri padroni del mondo.
Sono abituato alla loro noncuranza, ma mi fa imbestialire che abbiano adottato lo stesso atteggiamento con Scilla, voltandole le spalle senza nemmeno una spiegazione.
Vorrei dirle: “Hai visto? Hai visto quanto i tuoi amici tengono a te? Nemmeno una parola, da quando sei qui”, ma sarebbe ingiusto da parte mia. Voglio dire, sarebbe sacrosanto spiattellarle la verità per impedirle di farsi troppe illusioni, soprattutto quando assume certe pose odiose, ma non mi va di rigirare il coltello nella piaga. Forse se ne accorgerà da sola, col tempo. E si rassegnerà.
In parte sono felice che lei sia qui. È egoista da parte mia, ma non mi importa. Sono tante le cose di cui non mi importa più nulla.
È come se avessi trovato un raro frammento di stella cadente, e ora me ne sento responsabile.
A differenza di Linguadiragno, dove è sempre notte, nei territori circostanti regna la penombra, uno stato di eclissi appena rischiarato a occidente da una sottilissima linea di luce lontana. La seguo con lo sguardo mentre indugio sulla via di casa, nel Dedalo dei Saltimbanchi. A lei piace dormire fino a tardi, quindi sono io a occuparmi di fare la spesa e… anche tutto il resto. Il che non mi dispiace troppo, se considero l’alternativa di lei che gironzola per i bassifondi come una succulenta bistecca con le gambe.
Me la cavo anche in cucina. A volte lei mi accusa con aria melodrammatica di “rimpinsorla di grassi saturi”, ma da quando ho finto di andarmene i suoi giudizi taglienti hanno subito un drastico ridimensionamento.
È come osservare uno splendido animale esotico fuori dal suo habitat. Credo – no, ne sono sicuro – che senza di me non saprebbe nemmeno fare un uovo al tegamino senza dar fuoco alla cucina. Sono rimasto affascinato dalla sua visione delle cose, quando me l’ha spiegata: il cibo esce dalle cucine, le viene posto davanti e lei mangia. Fine.
Applicate questa consequenzialità a qualsiasi altro aspetto della sua vita – vestirsi, pettinarsi, fare il bagno – e capirete in parte perché ho accettato di tirarmela dietro come un anatroccolo. Allacciarle il corsetto ripaga, almeno in parte, le sue lagne. Che poi non lo capisco il suo masochismo di volersi infilare a tutti i costi dentro strutture rigide, sottogonne e bustini di stecche di balena, ma finché il mio compito è quello di tenerla per i fianchi mentre sbuffa e impreca tra i denti non mi lamento troppo.  Quanto all’infilarle dentro la mia struttura rigida, be’, ci sto lavorando, non pensate che mi stia rammollendo.
A pochi isolati di distanza, mi imbatto nelle prime avvisaglie di pericolo.
Una folla che pare composta dall’intero vicinato – più diverse facce che non ho mai visto prima – è assiepata nella via, a riempire ogni spazio disponibile. L’inquietudine cede il passo alla rabbia quando realizzo che tutte le teste sono voltate in direzione del nostro vialetto. C’è persino chi si è portato i marmocchi, e ora li solleva sulle spalle per fargli vedere meglio l’enorme carrozza parcheggiata davanti alla nostra porta.
Accelero il passo, precipitandomi dentro a rotta di collo. Nel farlo, investo quasi il vicino di casa settantenne, appostato accanto all’entrata con la sua sedia pieghevole. Probabilmente non ha mai visto nulla di simile in tutta la sua vita, e nemmeno io, fino ad oggi.
L’ingresso è affollato di giubbe blu e argento, ma il punto focale è il minuscolo salotto, dove Scilla siede in compagnia di un damerino pallido e insipido.
«Ignìs!» Solleva lo sguardo dalla tazza di thè, e il suo sorriso mi scalda istantaneamente. Sta bene. «Stavo appunto parlando di voi al barone Leroux, di quanto siete stato jontile» gorgheggia, affilando l’accento come un gatto che si faccia le unghie sul dorso di una poltrona.
«Sì, sì, niente di che» minimizzo, agitando una mano. Quello che mi interessa maggiormente è il modo in cui gli occhi del barone bevono avidamente ogni dettaglio di Scilla, dal modo in cui le labbra disegnano sorrisi fino al gesto con cui si sistema una ciocca dietro l’orecchio.
Lurido figlio di puttana. È tutto quello che riesco a pensare.
Da parte sua, Scilla appare pienamente consapevole del suo interesse, lo capisco da come sbatte le ciglia, dall’entusiasmo con cui ascolta il resoconto delle ultime feste a cui non ha potuto partecipare. Quando si sporge in avanti, sfiorandogli “inavvertitamente” il braccio, una patina rossa scende sulla mia visuale.
«Così siete voi il famoso benefattore» dice il barone.
Lo vedo soppesarmi con una certa apprensione, studiandomi in lungo e in largo. Sorrido, feroce. Sto immaginando le mie dita che si stringono attorno alla sua gola, quindi impiego un secondo di troppo per rispondere.
«Non sapevo di essere noto in questi termini, ma direi di sì.»
«Quando mi è stato riferito che Priscilla viveva con un uomo del volgo qui nei bassifondi non potevo credersci. Mi sono detto, deve essersci sons’altro un errore. Magari quest’uomo la trattiene contro la sua volontà per chiedere un riscatto.»
Rido istericamente. «Quale mente perversa farebbe una cosa del genere?»
«Infatti. Così ho ponsato di verificare di persona.»
Mi costringo a sollevare gli angoli della bocca in una piega cordiale. «Potrà sembrarvi strano, barone, ma anche qui nei bassifondi si trovano persone disinteressate.»
«Vedo, vedo.»
«Scilla è libera di andarsene in qualsiasi momento. Ma data la delicatezza della situazione ho pensato potesse servirle una guardia del corpo.»
«Davvero premuroso da parte vostra. Sono davvero colpito.»
E aspetta di vedere quando a colpirti sarò io.
«Ad ogni modo, vi renderete conto che questa sistemazione non si addisce al rango della fansciulla» prosegue il barone, una luce metallica in fondo allo sguardo. «Una giovane nobile non può convivere con un uomo della vostra estrazione sociale. È disdiscevole. Non fraintendetemi, riconosco la vostra buona fede, so che non volete altro che il bene di Priscilla, e vi ringrazio dal profondo del cuore per esservi preso cura di lei…»
Sta davvero dicendo quello che penso? Pensa davvero di rincoglionirmi di belle parole mentre mi soffia Scilla, da sotto il naso?
«Sarà molto meglio per lei tornare ai Quartieri Alti. Mi occuperò personalmente della sua protezione.»
Sposto l’attenzione su Scilla: lei cosa ne pensa? Come può restarsene in silenzio mentre questo idiota decide per la sua vita? Ci rimarrebbe male se ora, diciamo in questo momento, facessi partire un pugno contro il bel volto del barone?
Non mi importa nemmeno se succede sotto gli occhi delle guardie. Sento il bisogno fisico di rompere i denti a questo damerino. Voglio bearmi della sensazione delle mie nocche che gli spappolano le labbra, e non importa se mi costerà la libertà o la vita.  
Mi basta un cenno da parte sua, e sono pronto a vedere la mia faccia sulla bacheca delle taglie. 
Per questo motivo rimango deluso quando la vedo tentennare.
Non so bene cosa mi aspettassi da lei. Non le piace stare qui, relegata in una casupola, ma il tempo che abbiamo passato insieme è poco a poco mutato in routine senza che me ne accorgessi, facendomi illudere che potesse durare anche per anni, per sempre. 
Stupido. Cosa pensavi? Che si sarebbe aggrappata alla tua gamba supplicandoti di salvarla? Questo non è il suo posto. Quaggiù non può reggere il confronto con Lassù.
Improvvisamente mi assale l’amarezza: me ne sto qui in piedi come un disperato, aspettando di aggrapparmi all’approvazione di una donna che non potrà mai prendermi in considerazione. Ma che vadano tutti al diavolo! Questa è l’opportunità per liberarmi di queste inutili zavorre aristocratiche e tornare alla mia vecchia vita povera di stimoli.
«Barone Leroux.»
Ci voltiamo entrambi, io e il gradasso impomatato, come se le nostre teste siano manovrate da un filo invisibile.
«Vi seguirò senz’altro a Biancastella» prosegue Scilla. Il suo stuzzicadente questa volta non c’entra: il dolore che mi infilza il petto questa volta non ha nulla a che vedere con una lama. «Ad una condizione. Ignìs resterà con me in qualità di aiutonte. Noi due abiamo un contratto, e non ho rajone di scioglierlo.» Inclina la testa di lato con fare sbarazzino.
Non so tra i due chi sia più sbigottito, se io o il barone.
Sono felice che Scilla tenga a me in qualche modo, ma… io a Linguadiragno, circondato da nobili?
«Mais… Priscilla, siate rajonevole. La servitù non mi manca di scerto. Se sci tenete vi affiderò uno dei miei migliori assistenti, a vostra scelta. Li troverete molto mansueti, abituati a rapportarsi con una giovane del vostro rango. Questo… signore… non è mai stato a corte. Portarlo là equivarrebbe a gettarlo in pasto ad un branco di lupi.»
«Ignìs sarà più che adatto.» Con un sorriso smagliante Scilla respinge le proteste dell’altro, lasciandolo visibilmente allibito.
«Non ha un aspetto… come dire, consono all’ambiente.»
«Barone, queste sono le mie condizioni. Se non è disposto ad ascetarle posso benissimo rimanere qui.»
Sempre più trasecolato, la vedo portarsi alla bocca la tazza per sorseggiare il thè. Nessuno fiata, siamo tutti annichiliti. Non avrei mai pensato di essere così importante per lei, ma mio malgrado mi ritrovo ad essere d’accordo con Leroux: io a corte, circondato da nobili?
Il mondo attorno a me sta subendo una brusca accelerata attorno al suo asse, pretendendo che mi adegui al ritmo. E io lo faccio. Prendo l’aeronave al volo, come si dice. Cos’ho da perdere? Non ho alcun progetto di vita, nessuna prospettiva. Se rimango sarà sempre tutto uguale. Ho sprecato troppe occasioni per non riconoscerne una.
«Ma certo che verrò con te, Scilla.»
Leroux arriccia il naso, oltraggiato da tutta questa familiarità, ma Scilla appare radiosa.
«Bene!» cinguetta, congiungendo i palmi delle mani. «Dunque è desciso
«Purché il vostro aiutante si conformi alle nostre maniere» puntualizza il barone, la sconfitta dipinta sul volto, mentre cerca di arraffare tutta la dignità che gli resta. Arranca, tenta di assecondare l’entusiasmo di Scilla, ma ogni tanto lo sorprendo a fissarmi con un’aria che non mi piace. Dovrò guardarmi le spalle.
Avviene tutto in poche ore. I bagagli di Scilla trovano posto sul tetto della vettura sotto forma di un’alta piramide pericolante. Butto un ricambio in una borsa da viaggio, aiuto i valletti a recuperare l’ultimo paio di calze da sotto il letto e sono pronto.
Mi fermo solo un momento, poco prima di chiudere la porta. Sono stato felice, tra queste quattro mura, ho scoperto un lato di me di cui ignoravo l’esistenza: un Ignis compassionevole, capace di prendersi cura di qualcun altro.
Faccio roteare una moneta di rame tra le dita, da una nocca all’altra, poi con un movimento secco del pollice la faccio schizzare su verso il soffitto, come se stessi tirando a sorte con un interlocutore invisibile. Bisogna tenersi buoni gli spiriti della casa.
«Uscirà croce» dichiaro, alla stanza deserta. Lascio che la moneta cada a terra e rotoli via nel buio. Non ho bisogno di guardarla, per sapere che il mio pronostico si è avverato. Chiudo la porta a doppia mandata e mi volto verso i miei compagni di viaggio. Hanno seguito i miei gesti con la divertita condiscendenza dell’umanità evoluta che ammira un rito primitivo, ma tengo troppo alla mia buona sorte per badarci.
Scambio un’occhiata con Scilla, seduta dietro i vetri della carrozza. Mi sembra già irraggiungibile quanto la luna. Indosso il casco e monto in sella, ignorando il servitore che tenta di attirare la mia attenzione sulle redini che mi sta porgendo. C’è una cosa sulla quale non transigo, ed è il modo in cui arriverò a Linguadiragno: non su uno di quei trabiccoli a quattro zampe, ma sulla mia bambina, la mia lucente due ruote. In questi anni l’unica cosa che mi ha frenato dal giocarmela a carte è la totale devozione che provo per lei.
L’immensa mole della carrozza riprende la strada sotto gli sguardi stupefatti dei vicini ancora appostati fuori. Mi chiedo come possano non trovarla così ridicolmente barocca, tanto grande da occupare interamente il vicolo, lasciando solo una manciata di centimetri da una parte e dall’altra. Io che coi nobili ho avuto a che fare in prima persona la trovo solo un inutile sfoggio di superiorità, ma posso capirli. Parte della loro curiosità è rivolta a me: si chiedono perché io non sia ai ceppi. Qualcosa devo aver combinato per generare tutto questo scompiglio. Una piccola parte di me si sta facendo la stessa domanda.
Non ho tempo per interrogarmi sull’aver compiuto o meno la scelta giusta: il corteo prende a muoversi, e io non posso far altro che dare gas per immettermi nel flusso della scorta.
 
Per tutta la prima giornata di viaggio Scilla rimane solo una sagoma indistinta dietro i vetri. Accanto a noi sfilano i quartieri poveri, dal Fondo degli Ultimi si passa allo Strato del Volgo, su per i Quartieri Dimenticati. La strada si avviluppa in una monotona spirale, attraversando mercati e viuzze con le case direttamente affacciate sulla via. Più volte ci troviamo costretti a cambiare tragitto, perché in alcuni tratti le costruzioni sorgono ad un ritmo talmente soffocante da comporre una sorta di tunnel di pietra attorno al corpo squadrato della carrozza.
Eppure, malgrado la lentezza, Scilla è irraggiungibile. Questo non l’avevo previsto. Sembra che il mondo stia complottando per far sì che non ci incrociamo. Ogni volta che provo ad avvicinarla vengo bloccato. Non riesco nemmeno a rivolgerle la parola. Tra loro le guardie parlano solo la lingua dei nobili, ma in una versione ancora diversa, che mescola termini del volgo con la pronuncia strascicata dei padroni. 
Ogni due ore c’è una pausa ad interrompere la salita estenuante, ma le cose non cambiano. C’è sempre una ruota incrinata da sostituire, un percorso da sgombrare, una spedizione per accertarsi che un ponte non sia troppo basso. Cercate di visualizzarlo, coraggio; io con un’asta graduata in mano che misuro l’altezza di un ponte. Ah, ah, ah, da crepare dal ridere.
Si finisce sempre con io che la rincorro prima di venire bloccato dai tirapiedi di Leroux. Non la lascia sola nemmeno un attimo quel bastardo, ogni secondo che passa tiene a ribadire la natura promiscua di sua madre.
Alla prossima sosta, mi dico. Alla prossima sosta.
La sosta seguente va come le precedenti. Io che cerco di avvicinarmi a Scilla, la solita muraglia di damerini che si frappone tra me e lei. Se non fosse che questa volta ho davvero le palle girate.
«Monsieur, devo chiedervi per l’ennesima volta di non disturbare il barone…» comincia il comandante, tutto impettito. Il mio palmo gli cala sulla faccia, inghiottendola. Lo sposto di lato senza fatica. Faccio per scavalcarlo, ma in un secondo mi sono tutti addosso.
Oltre le teste delle guardie vedo Leroux e Scilla, entrambi sbigottiti.
La prima a ritrovare il controllo è ovviamente lei.
Un brivido collettivo attraversa le guardie mentre si avvicina a passettini rapidi da cui traspare tutta la sua collera. Gli occhi viola, socchiusi, emanano lampi.
Gli uomini si spostano precipitosamente al suo passaggio, cadendo in ginocchio così bruscamente da farsi scricchiolare le ossa. Tento di resistere, sulle prime, ma la pressione sul cervello è intollerabile.
Sento un amore furioso, per questa creatura. È una sensazione lacerante che minaccia di strapparmi il cuore. 
«Ignìs» mi rimprovera, fredda. «Si può sapere che diavolo stai fascendo? Mi stai mettendo in imbarazzo col barone.»
Faccio per risponderle per le rime, ma la mia mascella è come incollata. Come potrei rivolgere parole brusche all’oggetto del mio amore sfrenato, al fulcro del mio universo? Merita solo la mia infinita adorazione. Merita… solo… calci nel culo. Maledetta marmocchia viziata. Prova a controllarmi sta gran ceppa di…
«Ignìs, smettila subito!» tenta di protestare.
«Fuori. Dalla. Mia. Testa» scandisco, a denti stretti, affondando i pollici nelle tempie.
«Esigo che ti scusi col barone per aver danejato una sua proprietà.»
Ci fronteggiamo, entrambi restii a cedere.
«Ti facevo un jocatore miliore» dice lei, in tono talmente basso da risultare quasi impercettibile. La frase seguente è ancora più criptica, pronunciata a fior di labbra. Due parole: «Questa notte.»
Un attimo dopo, ecco far capolino il barone e il suo immancabile sorrisetto incorniciato dai baffi sottili.
«Me lo dovete conscedere, miss, i miei dubbi al riguardo erano fondati. Quest’uomo è inadatto a prestar servizio in un ambiente scivile. Mi meraviglia che sappia esprimersi a parole, e non tramite grugniti. Riconosco la vostra bontà d’animo, ma devo nuovamente consigliarvi di lasciarlo qui. Un lupo non è un animaletto domestico. Potrebbe rivoltarsi verso di voi.»
«Barone.» Il tono di Scilla è talmente stucchevole che si direbbe ogni sillaba sia avvolta in un doppio strato di melassa. «Se conosce quel che si disce della mia familia, sa anche che non esistono belve, per noi Noireforêt-Ravasse, che non possano essere addomesticate, con le buone o con le cattive.»
«Ma scerto, è assolutamente come dite voi.» Leroux fa una rapida retromarcia. «Nutro una grandissima stima per la vostra famiglia. Tuttavia, è mio dovere di jentiluomo dissuadervi dal…»
La mano bianca della duchessa si alza con un gesto repentino, imponendo il silenzio. Osservandolo trasalire, non posso fare a meno di chiedermi chi sia in realtà Scilla, se per caso non ci sia qualcosa che mi è sfuggito nel momento in cui l’ho considerata semplicemente una dei tanti nobili della capitale.
«Ora Ignìs si scuserà con voi per avervi arrecato danno» annuncia, imperturbabile. «Inscidonti del jenere non si ripeteranno più, ha la mia parola.»
La sua manifestazione psichica serra la presa su di me, facendomi boccheggiare, sopraffatto dalla forza di un’infatuazione fasulla. Provo a resistere, ma con poca convinzione.
Decido di stare al gioco di Scilla.
«Vi chiedo perdono. Barone» mi sento pronunciare, apatico. Non posso fare di meglio. Mi rifiuto di produrmi in ulteriori salamelecchi: non voglio che il gusto dell’umiliazione mi rimanga incollato alla lingua.
Fortunatamente Scilla pare soddisfatta. E vorrei ben vedere, è come se mi avesse tagliato le palle per servirmele a colazione su una fetta di pane tostato.
Sì, sì, lo so, devo fidarmi di lei. Siamo sulla stessa barca. Ma non è facile farlo mentre mi strizza al massimo della potenza. Però il suo tono cospiratorio mi ha intrigato, glielo concedo. Al solito, la mia fantasia è rapida a districarsi dal gioco del Dono per lanciarsi in una vivida fantasia a occhi aperti, spedendomi nel cranio immagini ai limiti della decenza.
Scilla arretra di un passo, deconcentrata quel tanto che basta per perdere la presa.
Quando diventa evidente che non aggiungerò altro, anche Leroux si decide a prender parte alla farsa. Le sue doti attoriali questa volta non gli vengono in soccorso. Da come storce la bocca si direbbe che gli stiano ficcando in bocca una cucchiaiata bella corposa di estratto d’umiltà. L’ho assaggiato anch’io, e posso confermare che fa schifo, ma io ci sono abituato.
«Accetto le vostre scuse» scandisce, controvoglia. «Chiudiamo qui la faccenda.»
Si allontana a passi rigidi, sconfitto su tutta la linea. Non faccio tempo ad esultare, che Scilla piomba come un falco. «Ci rimettiamo in marscia» annuncia, voltandomi le spalle con uno scatto stizzoso. Ritira le sue spire, liberando le guardie dalla loro paresi.
Finalmente posso rialzarmi, riprendere possesso della mia mole.
C’è un lato positivo, in tutta questa messa in scena: dubito che qualcuno oserà ancora rompermi i coglioni.
Stanotte, ha detto. Mi farò trovare pronto.

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Capitolo 4
*** Maledetti Arrow! ***


Ho aspettato, mi sono impegnato affinché ogni fibra del mio corpo evitasse di dare in escandescenze ogni volta che Leroux allungava i suoi tentacoli viscidi verso la mia protetta, deciso a riabilitare la propria immagine.
Scilla si è nuovamente trincerata dietro la sua perfetta maschera da nobildonna sdegnosa, accetta i complimenti con aria da smorfiosa, dispensa sorrisi col contagocce e nel complesso si dimostra capricciosa e intrattabile. La conosco abbastanza da sapere che si sta solo divertendo a tenere Leroux sulle spine. Questa è la sua vera natura. Bella da togliere il fiato fuori, crudele come un ragno nell’indole. Ma anche i ragni hanno il diritto di vivere, in fin dei conti, e questa sua dualità non fa che renderla ancora più interessante e desiderabile.
A riprova del suo umore tempestoso, prima di sera si è impuntata a tutti i costi: davanti all’ennesima strettoia ha preteso che allargassimo l’apertura smantellando le facciate delle baracche per permettere alla carrozza di passare.
«Mademoiselle, un po’ di pazienza. Queste strade non sono affatto pratiche.»
«Ma io volio passare da qui.»
«Temo sia impossibile, ma chère.»
«Be’, allora rendetelo possibile, o non mi muoverò da qui.»
Una tenera creatura, la mia Scilla. Non ho visto tanta implacabile freddezza dai tempi di Jacques lo Scuoiatore, un serial-killer che una decina di anni fa imperversava nei bassifondi. E comunque lui uccideva subito le sue vittime con un colpo alla testa, Scilla si sta dimostrando un vero talento nel cuocere le sue vittime a fuoco lento. Siamo tutti in suo potere, che ci piaccia o no e a prescindere dalla nostra posizione sociale.
Tutta questa tolleranza nei suoi confronti mi dà da pensare che in realtà non so nulla di lei. Mentre passavo il pomeriggio a demolire la parete della cucina di qualche malcapitato non ho fatto altro che pensarci: al momento, il vantaggio di Leroux è dovuto alla sua conoscenza del valore della merce. Devo rimediare.
Come Scilla aveva previsto, siamo stati costretti ad accamparci per la notte. Fortunatamente le temperature primaverili fanno sì che anche noi comuni mortali accampati all’esterno della carrozza possiamo goderci un meritato riposo.
Mentre aspettavo un segno da parte sua, ho analizzato i miei colleghi senza farmi notare. Non hanno dimostrato la minima simpatia nei miei riguardi, ma questo non conta. Ogni gruppo ha il suo anello debole, devo solo trovarlo. Quel giovane paggio, per esempio, quel giovanotto con l’aria da coniglio spaventato. Posso spaventarlo facilmente per farlo cantare.
No, Ignis, usa la testa: devi crearti degli alleati, non dei nuovi nemici.
Proprio mentre riflettevo su come approcciare il ragazzo senza farlo scappare a gambe levate, ho colto un movimento dietro al finestrino della carrozza, un fremito della tenda, l’apparizione di un ovale candido che subito scompare. La portiera si è aperta di uno spiraglio e Scilla è scivolata a terra, vestita di tutto punto.
Il Comandante Grandier si è mosso subito per intercettarla.
«Dovreste riposare, duchessa. È tardi.»
Scilla non si volta nemmeno, gli passa accanto come se fosse parte dello scenario, tipo un albero o un lampione. «Ho bisogno di fare due passi. Tornerò tra qualche minuto.»
«In tal caso, vi accompagno.»
«Mi trovo a dover declinare. Ignìs sarà più che suffiscionte per scortarmi» replica, vedendomi arrivare.
La mia ombra si proietta su Grandier. Lo vedo impallidire, ma senza abbandonare la posizione, e questo gli fa onore.
«Duchessa, ho ricevuto ordini molto precisi in merito. Devo compiere il mio dovere.»
Di nuovo, la bocca di Scilla prende una piega pericolosa, morbida e seducente.
Scilla si volta, lanciandogli strali incandescenti dagli occhi ridotti a fessure. «Provate a seguirmi, Grandier, e scoprirete il motivo per cui la mia famiglia si è meritata la sua fama» sibila, la lingua foderata di fiele.
«Vi prego di essere comprensiva. Ci sono interessi diplomatici in ballo.»
Qualcosa di grande e invisibile mi sfiora passandomi accanto.
Il cipiglio duro del comandante si scioglie all’istante, conferendo ai suoi tratti un’aria inaspettatamente giovanile.
«Mi amate?» domanda zuccherosa Scilla.
«Sì» esclama di slancio Grandier, con un entusiasmo che dubito abbia mai avuto. Nei suoi occhi leggo una strana disperazione, un’urgenza che conosco bene: è la sua coscienza che lotta per liberarsi dalle catene che la opprimono. È dolorosamente consapevole di quello che sta per succedere. «Sìsìsì! Vi amo più della mia stessa vita!»
«Molto bene. Allora siate jontile, aspettatemi qui. Fate in modo che nessuno sci segua.»
Grandier annuisce con tanto entusiasmo da farmi temere che la testa gli si possa staccare dal collo. Ce lo lasciamo alle spalle, a struggersi inutilmente.
Scilla mi precede fino ad una piazzetta ottogonale, si guarda attorno. «Qui va bene» stabilisce. «Se allento il legame su Grandier potrebbe dare l’allarme.» Si siede sul bordo del pozzo. Al buio la sua pelle emana la lucentezza opalescente di una perla.
«Sei una donna terribile.»
«Dovrai diventare come me, se vuoi sopravvivere nella capitale.»
«Ehi, bimba, ti informo che sono in grado di badare a me stesso.»
«Come oggi?»
«Cosa vorresti dire? La situazione era sotto controllo. Niente che non potessi gestire.»
«Se il tuo scopo era quello di farti uscidere, direi che sci sei andato viscino.» I suoi occhi viola mi passano in rassegna, seri. «Le regole sono cambiate, Ignìs, nel momento stesso in cui hai ascetato di seguirmi. Fai conto di essere nel bel mezzo di una partita a pokèr. Non hai nessuna garanzia che gli altri jocheranno pulito, se ne avranno l’occasione stai scerto che faranno di tutto per barare. Nel migliore dei casi hanno tecnica ed esperienza superiori alle tue.»
«Ora sì che mi sento meglio.»
«Andrà tutto bene. Sei con me. E il tuo Dono è perfetto per far fronte a questo jenere di situazioni.»
Improvvisamente la realtà dei fatti mi precipita addosso con la forza di una pioggia di massi. Ho le spalle larghe, ma quella rivelazione fa comunque i suoi danni.
«Quindi è questo il motivo per cui mi hai voluto con te. Per via del Dono. E io che mi sono lasciato incantare dalle tue lacrime. Oh, Ignìs, non lasciarmi sola!» la imito, in un ridicolo falsetto. «Tu hai iniziato a barare prima ancora di sederti al tavolo!»
Non riesco ad arginare il disgusto che provo per me stesso. Sono stato un idiota a credere di contare qualcosa per lei, che fossimo complici in questa missione.
Furente, aspetto che dica qualcosa, schiacciandola sotto il peso del mio sguardo.
«Ignìs, non voglio più scappare» sospira lei, inaspettatamente. «Nascondermi nei bassifondi non fa per me.»
Spiazzato da quella affermazione, non posso fare altro che borbottare, poco convinto: «Avresti finito con l’abituarti, prima o poi.» Ancora prima di finire la frase so che la mia è l’illusione di un ingenuo. Seguendo la stessa logica, neppure io, un prodotto dei bassifondi, dovrei fare per lei.
Scilla scuote la testa, lentamente. «La mia vita è diversa, lassù. Volio svegliarmi tardi al mattino, partescipare ai balli, spondere denaro in viaji e vestiti, farmi cortejare, spezzare cuori con la stessa semplicità con cui si spezzano i croissant a colazione. Forse mi troverai superfisciale, ma è così che voglio vivere. Non conosco altri modi. Ora posso solo pensare che tutto questo mi è stato portato via, e non è justo.» Distoglie lo sguardo, puntandolo verso l’alto come se potesse attraversare i piani che ci separano dalla sommità della torre per immergersi nelle luci soffuse di Linguadiragno. «Se vorrai tornare indietro non te lo impedirò. So che i nobili non ti piasciono, e che ti sto chiedendo tanto, ma tutto quello che posso prometterti è che sarai ricompensato quando tutto sarà finito.»
Questa volta sono io a tenerla sulle spine. Se all’inizio ero convinto che avrebbe potuto rimpiazzarmi facilmente, ora non ne sono più tanto sicuro. Comunque, non resisto a lungo.
«Sai che non posso lasciarti in balia di quell’idiota di Leroux.» Infilo le mani in tasca per impedirmi di schiaffeggiarmi per la mia debolezza. «Anche lui fa parte del piano?»
«Il barone è una personalità molto in vista. Finché godrò della sua protezione potrò considerarmi al sicuro.»
«E lo stesso vale per me.»
Il mio angelo annuisce gravemente. «Non dobbiamo essere amisci di tutti, solo delle persone juste
«Ha delle mire nei tuoi riguardi.»
«E sarà molto melio per noi che le mantenga. Non sarà l’unico, se la situazione è quella che penso.»
Sono frastornato. Ogni minuto che passa Scilla rivela nuovi lati della sua personalità. Questo suo essere fragile e forte assieme mi affascina; un attimo prima piange con le lacrime che tremano appese alle ciglia, quello dopo minaccia un uomo col doppio dei suoi anni. I suoi cambi repentini mi lasciano sempre un passo indietro.
«Ma a cosa ti servo, esattamente? Sembri cavartela alla grande.» La domanda mi esce spontanea, senza che riesca a frenarmi. 
Inaspettatamente, la sua espressione si apre in un sorriso e io vengo investito da un fascio di luce lunare che mi lascia attonito e spaesato. 
«Sei l’unico con cui non ho bisogno di finjere» dice semplicemente.
Questo è un colpo basso; una lama nello stomaco farebbe meno danni. Con questa frase mi ha appena legato a sé per il prossimo futuro.
Mi tornano in mente le parole di Carlo: «Ormai ti tiene per le palle, amico. Ma non è così male essere tenuti per le palle da una donna come quella. Cioè, quando mai ti ricapita, con la brutta faccia che ti ritrovi?»
Ha espresso un concetto giusto: la congiunzione astrale che ha portato i nostri cammini ad incrociarsi è più unica che rara… ma non sono sicuro che sia un buon motivo per lanciarmi in una simile impresa. Un cuore infranto può essere guarito da una tasca gonfia, spero.
«Va bene. Sono con te» sospiro. Vorrei essere in grado di tenere alta la tensione drammatica, ma se Scilla è forte dell’addestramento ricevuto dalla nascita, io posso definirmi al massimo un guitto da strada. «Dovremmo usare la forza per farci strada nel caso la diplomazia fallisca, immagino.»
«Per gli Oscuri, non siamo dei barbari!»
La fisso, poco convinto, sostenendo il suo sguardo fino a che non cede con uno sbuffo impaziente.
«D’accordo, potrebe suscedere.» si arrende, battendo un piedino a terra. «Ma non dimeneremo le spade come dei volgari mercenari, ci comporteremo con la classe che ci contraddistingue. Ma sono sicura che non sarà nescesario
«Mh-mh» faccio, poco convinto.
«Una volta arrivati a Mezzocielo manderò un messaggio alle mie cugine. Normalmente preferirebbero bollirmi viva e manjarmi gli occhi, ma sono certa di riuscire a trovare un accordo.»
Il pensiero che da qualche parte possano esistere delle fanciulle simili a Scilla viene offuscato dalla seconda parte della frase.
«Ma che razza di famiglia siete?» sbotto per effetto di quello che mi pare a tutti gli effetti legittimo sconcerto.
«La vita nella Capitale è spietata.»
«Non scrollare le spalle a quel modo! Posso sapere perché ti hanno cacciata, poi?»
«Scerto, ma in un altro momento. Grandier sta per liberarsi. Dobbiamo tornare.»
È saltata giù dal bordo di pietra del pozzo e io le sono andato dietro, mettendo in scena quella che è diventata la nostra consuetudine.
Mi chiedo se tra tutte le nobili personalità che hanno degli interessi nei suoi riguardi abbia compreso anche me, se stia già architettando un modo per “tenermi buono” o se invece sono troppo insignificante per rappresentare una minaccia. È solo l’ennesima domanda che vorrei farle, invece mi limito a seguirla in silenzio. Ho parecchio materiale su cui riflettere.
Un alito di vento mi sfiora, leggero come un presagio. Non riesco a definire la sensazione, ma improvvisamente vorrei afferrare Scilla e gettarmi in una delle tante viuzze che si aprono su tutti i lati, correre fino a rimanere senza fiato.
Eppure l’accampamento è immerso nel silenzio. Grandier è dove lo abbiamo lasciato, in piedi, immobile, con la luce del falò che accende i contorni della sua sagoma di una luce arancione. 
Devo avvicinarmi per notare la lama di pugnale che gli spunta alla base del collo, dove il colletto della divisa è completamente nero di sangue.
Da sopra la sua spalla fa capolino una testa piumata, un lungo becco ricurvo simile ad un rostro. E capisco, finalmente, lasciando che l’adrenalina mi scorra dentro in un’ondata prodigiosa.
L’assassino, che in realtà è un uomo con un elmo dalle sembianze di un rapace, sfila il pugnale e lascia cadere Grandier a terra. Misura lo spazio a lenti passi attorno al cadavere, scrutandomi dall’ombra del cimiero, e mi sembra di scorgere un’ombra di scherno nel modo in cui inclina la testa, privo di paura.
«Scilla, raggiungi il centro dello schieramento e sveglia i soldati. Lascia che ti proteggano.» Parlo rapidamente, non ho tempo per discutere con lei.
«Ma...»
«Ascoltami, per una volta!» sbotto, esasperato. «Trovati un posto sicuro e restaci!»
Riluttante, Scilla obbedisce. Mentre i soldati si risvegliano, imbracciando le armi, lei scatta verso i loro ranghi come un fantasma nella notte.
Il mio avversario protende la sua spada corta, e mi faccio sotto. Detesto la sua indolenza, quell’aria sicura con cui mi sta davanti, a gambe larghe e postura rilassata.
Lo carico come un toro inferocito, agguanto al volo una mazza dal cumulo degli attrezzi che abbiamo utilizzato per la demolizione e lo sollevo, pronto a calarglielo sulla testa. All’ultimo istante il rapace svanisce, proiettandosi verso l’alto con un prodigioso balzo. Il suo mantello mi sfiora la sommità della testa, poi più nulla.
Mi volto frenetico, cercandolo. Così facendo ho l’occasione di vedere il nostro accampamento, ora trasformato in una mischia di persone che corrono, calpestandosi a vicenda mentre vengono incalzati da altri assalitori piumati. Sono vestiti tutti alla stessa maniera, con mantelli simili ad ali e lunghe lance. E si muovono come se effettivamente cavalcassero le correnti, rapidi e letali calano dal cielo, sciamando in gran numero. Non ho mai visto nulla di simile, se non nei racconti popolari.
La scorta si ricompone attorno alla carrozza, incalzata su due fronti.
Vedo anche Leroux, pallido e determinato, atterrare al volo uno dei banditi volanti; entrambi finiscono a terra in un groviglio di arti, tra le gambe dei soldati, continuando a lottare.
Finalmente le forze di Linguadiragno riescono ad organizzare una barriera difensiva di blu e argento, e le loro spade mietono le prime vittime. Muovo in quella direzione, mulinando il martello per farmi largo nella mischia, guadando un fiume di lame.
Centro in pieno volto un nemico, mandandolo lungo disteso, ne butto a terra un altro e infierisco fino a che non vedo il sangue impregnare il lastricato. Una freccia mi si conficca nel bicipite, ma non ci faccio caso, impegnato a distribuire botte a destra e a manca.
Proprio quando sembra che Linguadiragno abbia conquistato abbastanza respiro da poter preparare una controffensiva, la vedo.
Oltre le teste incappucciate brilla quella di Scilla; i suoi riccioli tremano mentre viene spinta avanti, le braccia bloccate dietro la schiena.
«Ce l’ho! L’ho presa!»
Un verso prolungato, modulato come il richiamo di un uccello, si fa sentire sopra di noi. Una sorta di segnale che decreta la riuscita della missione. Immediatamente gli assalitori rinunciano all’assalto, sparendo con la stessa rapidità con cui sono apparsi. Molti sono rimasti a terra, ma tutti quelli in grado di muoversi saltano su come gatti, correndo in verticale sulle facciate delle abitazioni.
Avrei dovuto capirlo. L’obbiettivo era Scilla.
Travolgo gli uomini attorno a me nel tentativo di avvicinarmi al rapitore. Il modo in cui Scilla tiene la testa all’indietro, offrendo il collo bianco e indifeso, innesca in me una frenesia tale da annebbiarmi la vista. Giuro che a quel mentecatto gli faccio male ad un livello talmente profondo che i suoi discendenti nasceranno con le ossa sbriciolate, tutti piegati in strane angolazioni. Questo e altri pensieri simili rubano il campo al raziocinio che mi resta.
A testa bassa, incurante delle ferite o di quello che sta succedendo attorno a me, arrivo ad un passo dal biancore emanato da lei. Devo portarla in salvo.
Il tale che la stringe assiste con crescente preoccupazione alla mia avanzata, trafficando con una serie di funi.
Allora, interviene nuovamente l’assassino di Grandier. Lo riconosco dai segni rossastri sull’armatura, oltre che dalla posa scanzonata. Piomba fuori dal nulla, la sua spada disegna un arco brillante e qualcosa di caldo mi cola sulla schiena. Me lo scrollo di dosso centrandolo con una gomitata e vengo premiato da un lamento soffocato che però registro a malapena. Di nuovo libero, riprendo a muovermi, inesorabile.
«Scilla!» Mi allungo verso di lei, ma un istante prima che riesca a raggiungerla viene catapultata verso l’alto dallo stesso meccanismo che permette al resto del gruppo di compiere spostamenti tanto veloci a mezz’aria. Con la punta delle dita sfioro la sua pelliccia, ma è tutto quello che mi rimane di lei è il singulto di sorpresa che lancia prima di sparire.
Ovunque si rincorre il medesimo grido: Arrow, i pirati dei cieli. Una leggenda che prende vita solo per venirci a rompere i coglioni.
Avendo ottenuto quello che volevano, anche gli ultimi pirati si ritirano, trainati dalle imbragature, lasciandosi dietro espressioni confuse e un accampamento in preda al caos.
In alto, dietro alla cortina di nubi che copre la Terza Luna vedo ammiccare debolmente i fari di un’aeronave in movimento; transita tranquilla sopra alle nostre teste come un grosso cetaceo, indisturbata nella vastità del cielo.
Avere a che fare con tante leggende viventi nel giro di così poco tempo sarebbe troppo per chiunque: prima un’invasione di nobili, poi gli Arrow cantati dalle leggende. Ed è passato… quanto? Un mese? Un mese e mezzo? Riguardo a questi ultimi mi dico che avrei dovuto prestare maggiore attenzione, farmi trovare pronto. Credevo che le minacce maggiori sarebbero arrivate dal Fondo, non dal cielo. Non che sia una giustificazione. Non esistono giustificazioni, in questo caso.
Devo inseguirli. Faccio per comunicare le mie intenzioni, ma vengo raggiunto da un poderoso colpo di lancia sul retro del ginocchio che mi costringe a piegarmi. Una seconda botta, diretta al braccio ferito, mi riporta finalmente a sbattere la faccia con un nuovo problema… che guarda caso ha le sembianze del barone Leroux.
Il suo sorriso smagliante dice più di quanto non possa esprimere a parole: ci leggo tutto il disprezzo che una persona del mio rango gli suscita, una sorta di selvaggia rivalsa nel vedermi provato e sanguinante. Ora comprendo il senso del discorso di Scilla sulla necessità di tenere giù la testa… anche se ho idea che sia troppo tardi.
«Bene, bene» esordisce il barone, lisciandosi i baffi con estrema, rivoltante soddisfazione. «Credo sia nescesario immobilizzare anche il nostro monsieur Ignìs, almeno fino a che non avremo chiarito la sua posizione in merito ai fatti di questa notte.»
Senza osar credere alle mie orecchie, tento di far ragionare quella schiera di damerini che mi si affolla attorno. «Dobbiamo inseguirli o li perderemo.»
«Quanta fretta! Ma noi non abbiamo bisogno di lanciarci all’inseguimento, per ora.» Mentre parla, rendendo noto al mondo intero il piacere che trae nell’ascoltare la propria voce, alle sue spalle l’uomo con l’armatura rossa da rapace viene condotto via dalle guardie (prima di sparire ha il tempo per mostrarmi furtivamente il dito medio alzato). «Abbiamo per le mani uno dei loro. E forse persino una talpa
Quest’ultima frase la dice fissandomi intensamente, ma impiego comunque qualche secondo per capire dove voglia andare a parare. È talmente assurdo che mi sembra di essere precipitato dentro una commedia teatrale. Letteralmente: come se fossi caduto sfondando il tetto di un teatro e mi fossi trovato a prendere parte alla rappresentazione. Non penso importi a qualcuno, però. È Leroux a pagare gli stipendi, qui.
«Tutte stronzate» replico. «Mi ci vedi ad andare in giro conciato in quel modo?»
«Questo sarà appurato in fase di interrogatorio. Via, monsieur, siete ferito. Prendetelo come un riposo forzato. Una volta che avremmo accertato la vostra estraneità ai fatti sarete nuovamente libero. È solo una misura cautelare.»
«Già, una misura cautelare… quella che tua madre avrebbe dovuto prendere quando ha aperto le cosce.»
Ho appena il tempo di godermi l’espressione che passa sul viso del nobile, che dietro di me qualcuno mi colpisce alla tempia con l’elsa della spada, scatenandomi una danza di piccole luci dietro alle palpebre. Mi giro bruscamente, facendo partire un gancio col braccio sano. Il colpevole, colto di sorpresa, viene letteralmente sollevato e scagliato a terra un metro più in là. Nel giro di poco mi sono tutti addosso, mi schiacciano a terra per immobilizzarmi, punzecchiandomi con la punta delle spade. Ne mordo un paio prima che riescano a costringermi a terra, e quel che ottengo è una spessa museruola di cuoio, senza tener conto dei braccialetti che mi regalano: puro acciaio nero di Galohr, talmente lucido da potercisi specchiare.  
«Vi consiglio di non aggravare la vostra posizione» gongola Leroux. «È già abbastanza compromessa senza bisogno che vi comportiate come un cane rabbioso.» Si rivolge ai suoi uomini con un cenno imperioso. «Portatelo via. Per questa notte istituiremo dei turni di guardia.»
Mentre mi tirano per la catena, mi capita di alzare lo sguardo verso l’affollamento di balconi che si accavallano sulle facciate delle baracche. Tra i tanti volti che hanno assistito in silenzio all’attacco riconosco quello di un marmocchio in particolare; solo poche ore prima abbiamo smantellato la parete del suo soggiorno per far passare la carrozza. Avrà appena tre o quattro anni, ma ha già lo sguardo serio e vigile di chi è abituato a destreggiarsi  qua sotto.
Non verrà nessun aiuto da parte loro, hanno tutte le ragioni per negarmelo.
Rivolgo un cenno alla famigliola, prima di proseguire per la mia strada.

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