Passi

di darkrin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Passi ***
Capitolo 2: *** Passi (secondo tempo) ***
Capitolo 3: *** Passi (terzo tempo) ***



Capitolo 1
*** Passi ***


So many Note, so little time:
- Ho iniziato questa storia a febbraio e l'ho ripresa e abbandonata innumerevoli volte. Tiene conto (ma solo parzialmente) degli eventi della s1 di TO e non tiene affatto conto della s2, soprattutto per quanto riguarda la storia di Hailey e solo parzialmente di quello che accade nella s6 di TVD perché non l'ho vista  la metà delle cose che ho letto a riguardo per me non hanno alcun senso e quindi non le considero.
- Nella storia cito un paio di opere d'arte: a)  Passi di Alfredo Pirri; è l'opera all'ingresso della Galleria Nazionale d'Arte Moderna e a cui Caroline fa riferimento in varie fasi della storia; b) La Gorgone e gli eroi è quella davanti alla quale Caroline si ferma e fa un incontro del terzo tipo; c) la leggenda sul Colosseo l'ho trovata qui; d) quelle sul Pantheon e su quello che ne diceva Michelangelo invece qui; e) i riferimenti alle commedie di Plauto invece sono frutto di un vago ricordo del liceo. 
- Questa storia è stata un parto ed è, per me,  la nemesi e l'immagine speculare di Là dove muoiono le speranze (andiamo). Le due, pur essendo assolutamente scollegate, rappresentano le due faccia di una stessa medaglia.
- Ringrazio Niglia per essersi letta gran parte (salvo qualche aggiunta dell'ultimo minuto) in anteprima e di essersi sorbita il mio livestream mentre scrivevo e tutti i miei: "Ma non sono sicura! Mi sembrano manchino dei passaggi logici tra quello che si dicono e quello che fanno e Klaustidoiosonoarrugginitaenonsopiùscrivereèunpolpettonenoiosoliodiooradefenestrotutto."
- Era tantissimo che non scrivevo una cosa così lunga su Klaus e Caroline e ho un'ansia da prestazione spaventosa.
- Segnalatemi sempre qualsiasi svista, errore, strafalcione.

Passi
(incontri del terzo tipo)
 
 
 
«But did you see the flares in the sky?
Were you blinded by the light?
Did you feel the smoke in your eyes, did you, did you?
Did you see the sparks, feel the hope?
You are not alone, cause someone's out there
Sending out flares»
(Flares, THE SCRIPT)
 
 
 
Li aveva visti davanti al Pantheon. Era stata la voce dell’uomo a tradirli e a farle voltare di scatto la testa, prima di potersi trattenere, di potersi fermare perché non aveva alcuna intenzione di farsi riconoscere e di essere costretta a parlarci. Era stata la sua voce, che un tempo le aveva fatto scorrere brividi lungo la schiena, solo accarezzando le sillabe del suo nome – Ca ro li ne –, e che in quel momento era intenta a raccontare a una ragazza dai capelli scuri e la pelle nivea di come Michelangelo considerasse quell’opera una creazione degli Angeli.
A farle distogliere lo sguardo più ancora della morbidezza con cui le parlava, erano stati il sorriso che gli piegava le labbra rosse e la luce con cui la guardava e tutto quell’amore che Caroline non aveva mai visto.
 
 
 
(Anni prima, Niklaus Mikaelson, ibrido originale e terrore di tutto il mondo soprannaturale, le aveva offerto il mondo intero, ma Caroline aveva ben presto scoperto che, a differenza di quanto tutti gli abitanti di Mystic Falls avevano creduto, non era stata un’offerta così unica, la sua. Era venuto fuori che, come sempre, Caroline Forbes non era poi così speciale.)
 
 
 
Li aveva incontrati di nuovo – perché Caroline Forbes oltre a non essere speciale non era neanche fortunata – alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna.
Era la prima domenica del mese e il museo era gremito di romani, attirati dalla possibilità di visitare le ampie sale della galleria senza dover spendere una lira. In mezzo alla folla, Caroline aveva intravisto la chioma castana della ragazza –avrebbe riconosciuto ovunque dei capelli così perfetti, indipendentemente dalla presenza di Klaus, davvero! – e si era lasciata trascinare dalla folla nella speranza di venir ingoiata da quella fiumana di persone, di sparire in mezzo a tutti quei volti e che per favore, per favore, Klaus non la vedesse, non la sentisse. E che, per favore, quel qualcosa, a cui Caroline si rifiutava di dare un nome, dentro di lei smettesse di sentirsi frantumato come il pavimento di vetro su cui aveva camminato entrando nel museo.
Una parte di lei le aveva sussurrato all’orecchio che come avrebbe fatto Klaus ad accorgersi di lei? Per farlo avrebbe dovuto distogliere lo sguardo dalla ragazza che lo accompagnava, cosa che non sembrava in grado di fare. Caroline non aveva sentito quel qualcosa spezzarsi a quella consapevolezza.
Si era morsa a sangue il labbro inferiore per distogliere la mente da quei pensieri e concentrarsi sul dipinto davanti a cui si trovava. Era una bell’opera, nel suo essere terribile, e Caroline aveva rimpianto le misere lezioni di Storia dell’Arte che aveva seguito al liceo d Mystic Falls, tra un dramma soprannaturale e l’altro.
Scrutando, la Gorgone che si stagliava in tutto il suo spaventoso splendore sui corpi degli eroi riversi ai suoi piedi, Caroline Forbes aveva sentito il desiderio di avere accanto qualcuno che le spiegasse, che le raccontasse l’arte dietro ogni pennellata e la storia dietro quei colori, dietro quella posa maestosa – e quel qualcuno non aveva il volto di Klaus né il suo accento.
Era ancora intenta a pensare che non avrebbe mai dovuto ricordare certe persone – certi visi, certe voci - , quando sentì qualcosa premerle contro la schiena all’altezza del cuore e una voce gelida sibilarle all’orecchio:
- Cosa vuoi? –
Caroline lanciò un’occhiata in tralice alla ragazza che le era comparsa accanto e che oltre ad i capelli aveva anche un volto perfetto, tutto occhi azzurri e labbra da baciare – che forse erano state appena baciate e no, Caroline, smettila.
- Ti ho fatto una domanda – la incalzò la ragazza, spingendo con maggior forza le dita – perché erano solo dita quelle che le premevano sul costato come a volerlo lacerare - contro la schiena di Caroline, tanto da costringerla a stringere le labbra per non esalare un gemito di dolore che sarebbe solo servito ad attirare su di loro l’attenzione degli altri visitatori e a metterli in pericolo.
Così, anche quella ragazza era un vampiro. Dalla forza che possedeva, Caroline dedusse che doveva essere anche più vecchia di lei. La ragazza si chiese, distrattamente e senza alcuna amarezza, se Klaus la conoscesse già quando era arrivato a Mystic Falls con le sue promesse e le sue moine a cui non stava pensando.
- Nell’immediato, ammirare questo quadro. Nel futuro, pensavo di spostarmi nella stanza successiva – ribatté la bionda, con una punta di acredine che non aveva nulla a che fare con il rapporto di quella ragazza con Klaus.
- Non cercare di prendermi in giro – sibilò l’altra donna, riducendo gli occhi a due fessure e tenendoli ostinatamente fissi sul corpo della fanciulla dipinta.
Caroline scosse le spalle.
- Non lo sto facendo. –
- È la seconda volta che ci incontriamo. –
- E immagino che tu sia solita aggredire tutti quelli che incontri due volte – la rimbrottò Caroline, piccata. – I tuoi vicini di casa devono essere decisamente sfortunati. -
La ragazza finalmente si degnò di voltarsi verso di lei.
- Non tutti quelli che incontro sono vampiri e non tutti riconoscono Niklaus – sputò.
Oh. E così per lei era Niklaus, non Klaus come per i suoi nemici o sottoposti, non Nik come per la sua famiglia; semplicemente Niklaus. Era stranamente intimo il modo in cui quella ragazza pronunciava il nome di una delle creature più antiche sulla faccia della terra. Come se lasciandolo scivolare tra le labbra e i denti sancisse anche il suo diritto su ogni frammento di quell’uomo, su tutto il male e tutto il bene che, anni prima, Caroline aveva intravisto oltre il sangue e la violenza; oltre tutte le morti.
Anni prima Caroline aveva pensato che un giorno sarebbe riuscita anche a toccarlo. Una Caroline diciottenne si era crogiolata nella certezza di avere una porta che sarebbe rimasta sempre aperta, di aver un luogo in cui recarsi, una volta pronta. Anni prima. Ora quel posto era stato occupato da una ragazza con i capelli scuri e il volto perfetto, intenta a minacciarla pur di proteggere un uomo che non poteva essere ucciso – che Caroline non era stata in grado di voler uccidere neanche quando aveva posseduto un’arma per farlo – e Caroline si sentiva come se le avessero strappato un pezzo dal petto, come se stesse per essere ingoiata dall’immenso vuoto di quella possibilità che le era stata promessa e strappata con la stessa violenza.
Caroline pensò distrattamente che quella ragazza doveva essere riuscita a toccarlo quel bene, che lei aveva solo visto, o non sarebbe stata così pronta ad intervenire pur di proteggere Klaus, e che Klaus doveva essere proprio accecato dall’amore che provava per quella donna per non essersi reso conto della sua presenza – ma forse non l’aveva fatto solo perché non gli importava più nulla di lei - ; né di essere stato lasciato solo.
- Tesor… -
Caroline chiuse gli occhi e serrò la mascella perché, ovviamente, quel maledetto ibrido doveva giungere subito a contraddire i suoi pensieri.
La voce dell’uomo si spense prima che potesse terminare la parola, quando Tesoro, si voltò a guardarlo insieme alla ragazza che le stava accanto e Klaus avrebbe riconosciuto ovunque quegli occhi azzurri e quei capelli biondi; per anni aveva sognato di vederla presentarsi alla sua porta e ora…
- Caroline – mormorò, senza riuscire a distogliere lo sguardo dal visto della vampira bionda.
- Klaus – lo salutò lei, con un leggero cenno del capo e un sorriso timido a piegarle le labbra.
 
L’anno prima, Caroline era stata in Grecia con Enzo e l’uomo, una sera, l’aveva trascinata a teatro a vedere un’opera di Plauto di cui la ragazza non aveva capito assolutamente nulla (perché era in greco, grazie tante!) salvo il fatto che le vicende di tutti i personaggi si intrecciassero fino a formare un groviglio di incomprensioni e fraintendimenti da cui non sembrava che il protagonista potesse salvarsi, almeno fino a quando non interveniva uno degli schiavi a sciogliere, progressivamente, tutti i nodi, fino al lieto fine.
Quando Tesoro si voltò di scatto a guardarla ed esalò, facendo un passo indietro: - Tu sei Caroline? -, la ragazza non poté fare a meno di sentirsi precipitata, a sua insaputa, dentro alla rappresentazione di una di quelle incomprensibili commedie.
Caroline inarcò un sopracciglio, lanciando un’occhiata interdetta a Klaus, che si portò una mano alla nuca e chiuse gli occhi per un attimo, prima di riposarli sulla sua compagna di viaggio – ed eccolo di nuovo lì, tutto quell’amore, che faceva stringere lo stomaco di Caroline in una morsa.
- Hope, ti presento Caroline Forbes e Caroline –
Caroline, ti presento la mia ragazza. O forse era moglie? Chissà se Klaus credeva nel matrimonio. No, forse, no, forse era solo…
- ti presento Hope. –
Forse era solo Hope, come lui era solo Niklaus per lei. Forse non c’era bisogno di aggiungere alcun titolo al suo nome perché la sua importanza era evidente agli occhi di tutti.
- Mia figlia. –
Sì, probabilmente era solo Ho…
Aspetta.
Cosa?
Caroline fu risvegliata dal suo stupore, dalla risata trillante di Tesor- Hope – si chiamava Hope -, che la osservava divertita, ogni ombra di minaccia scomparsa dagli occhi chiari e dalla posa rilassata del corpo.
- Papà, penso che dovrai darle qualche spiegazione più dettagliata. –
Papà?
Okay. Bene. Aveva davvero bisogno di una spiegazione. E di sedersi. Aveva davvero bisogno di sedersi per affrontare la sua stupidità e come aveva fatto a fraintendere in quel modo –
Lo sapeva, aveva sentito le voci sulla figlia di Klaus, eppure aveva pensato e si era comportata come una pazza e –
- Caroline. –
La voce di Klaus era spaventosamente vicina al suo orecchio e quando le si era accostato tanto? E quando una delle mani dell’uomo era scivolata a posarsi alla base della sua schiena?
Caroline inarcò un sopracciglio con fare inquisitorio e Klaus sollevò entrambe le mani in segno di resa, allontanandosi di qualche passo.
- Sembravi aver bisogno di sostegno – le offrì come unica giustificazione.
- Dubito di aver mai mostrato di aver bisogno del tuo sostegno – lo rimbrottò lei.
Klasu schioccò la lingua.
- Se non ricordo male, c’è stato un ballo in cui hai decisamente avuto bisogno del mio sostegno – ribatté lui, con un ghigno a piegargli le labbra.
Caroline non poté fare a meno di arrossire al ricordo di quella serata, di come fosse piombata a casa sua perché era stato la prima persona a cui avesse pensato quando la commessa del negozio l’aveva informata che non esisteva più alcun vestito a nome Caroline Forbes. Una Caroline diciassettenne aveva pensato che solo lui poteva salvarla da quella crisi e che, nonostante i suoi mille anni, Klaus non avrebbe riso dei suoi desideri; aveva pensato che lui, forse, li avrebbe compresi.
La ragazza incrociò le braccia davanti al petto e gli lanciò uno sguardo di sufficienza.
- Ho avuto bisogno dei cimeli di Rebekah – lo informò. – Mi serviva soltanto qualcuno che mi aprisse la porta. –
- Qualcuno che ti aprisse la porta? – inquisì lui.
- Esattamente. E devo dire che sei stato un usciere appena passabile – concluse lei, dandogli una leggera pacca sul petto e facendo esalare un verso di sdegnato divertimento all’uomo.
La replica dell’ibrido venne interrotta dalla risata squillante di Hope, che era rimasta ad osservarli in silenzio fino a quel momento. Caroline si ritrovò ad arrossire furiosamente, improvvisamente consapevole di essersi dimenticata della presenza dell’altra ragazza e di aver, fino a quel momento, flirtato con Klaus come se non fosse passato neanche un istante dall’ultima volta che si erano visti, come se Klaus non fosse mai stato suo nemico e non si ritrovassero davanti a sua figlia. Sua figlia. Cosa c’era di sbagliato in lei?
- Caroline, tesoro – Klaus richiamò la sua attenzione. – Perché non permetti a me ed Hope di offrirti un caffè? In onore dei vecchi tempi – aggiunse alla vista dell’espressione che si era dipinta sul volto della ragazza.
La ragazza inarcò un sopracciglio perché di quali vecchi tempi? Nei vecchi tempi avevano condiviso un bicchiere di champagne ed un ballo ed era sempre stato solo un inganno, salvo quando, improvvisamente, non lo era stato più.
Caroline sapeva che c’erano migliaia di motivi per cui avrebbe dovuto rifiutare quell’offerta: Klaus era pur sempre l’ibrido originale e lei doveva ancora capire e catalogare quella nuova realtà in cui le voci sulla figlia di Klaus non erano più solo voci e Hope sembrava sua coetanea e...
 
 
 
Caroline chiuse gli occhi, per un istante, accecata dalla luce che rifletteva sulla tovaglia bianca che ricopriva l’elegante tavolino del Caffè delle Arti. Hope non riuscì a trattenere un risolino a quella vista e Caroline pensò che, per essere la figlia di un uomo che aveva attraversato secoli e continenti massacrando villaggi e città per aprirsi la strada, sorrideva davvero un sacco. Molto più di quanto non avesse fatto la Caroline Forbes che era cresciuta a Mystic Falls sotto le cure di una madre lavoratrice e di un padre che aveva preferito un’altra famiglia alla sua.
I tavolini erano stipati su una terrazza circondata da vasi di piante e riparata dalla leggera brezza che frusciava tra le foglie degli alberi e dal sole da una tenda bianca, che sventolava debolmente nell’aria profumata di quel primo pomeriggio di primavera.
- Dunque – iniziò Hope, prima di mordersi le labbra piegate in un sorriso e lanciare un’occhiata a suo padre, che si stava accomodando accanto a lei e, di conseguenza, accanto a Caroline. Maledizione a chi aveva inventato i tavolini rotondi e aveva ritenuto appropriato metterli in un locale di tutto rispetto.
- Dunque – ripeté Caroline.
C’era qualcosa nella consapevolezza che Hope sapeva di lei che la metteva in soggezione. Quali storie poteva averle raccontato Klaus? Le aveva raccontato di come avevano tentato di ucciderlo? Di come l’aveva tradito? Caroline non si era mai sentita in colpa per averlo fatto fino ad ora, davanti allo sguardo azzurro di quella ragazza che aveva l’aspetto di una sua coetanea e sembrava immensamente più giovane e che non sarebbe mai nata se i loro piani fossero andati a buon fine.
C’era qualcosa nell’essere a Roma con Klaus senza esserci venuta con lui che la agitava, come se fosse stata scoperta nell’infrangere delle regole tacite, ma condivise. C’era qualcosa, nel rivedere Klaus, che risvegliava cose che una Caroline diciottenne era convinta di aver sepolto insieme ai frammenti di un vecchio disegno e che, invece, sembravano essersi solo assopite per il tempo necessario a ritrovarlo.
- Cosa prendete? – chiese Klaus con un sorriso da gentiluomo d’altri tempi.
- Un cornetto – cinguettò Hope.
- È l’una – le fece notare l’uomo, con un sopracciglio inarcato.
La ragazza si limitò a scuotere le spalle con totale noncuranza.
Caroline non poté fare a meno di rabbrividire all’assurda normalità di quella scena, in cui un padre immortale si preoccupava delle abitudini alimentari della figlia, incurante del fatto che non sarebbe stata certo la sua alimentazione sregolata a poterla uccidere. C’era stato un tempo in cui anche suo padre aveva fatto la stesso (- Carebear, non mangiare quei biscotti o ti rovinerai l’appetito per la cena - ), ma aveva smesso ben prima che lei diventasse immortale, ben prima che lei fosse in grado di decidere da sola se poteva o meno mangiare delle patatine alle undici di sera. C’era qualcosa che la faceva sentire come un’intrusa, come se non avesse nessun diritto di essere lì, con loro, a spiare nella loro intimità.
- Siamo in Italia – ribatté la ragazza scuotendo le spalle, come se potesse essere una giustificazione.
- Caroline? – la richiamò lui, con una gentilezza, che chiunque altro si sarebbe sorpreso di trovare nella voce dell’ibrido originale, e negli occhi quella stessa luce con cui l’aveva guardata anni prima e di cui Caroline non voleva parlare.
- Un caffè andrà bene – borbottò.
Klaus inarcò un sopracciglio per la richiesta o per il tono con cui l’aveva pronunciata, ma si limitò ad annuire e richiamare il cameriere con un gesto elegante della mano.
 
 
 
Hope aveva sentito parlare di Caroline Forbes - ovviamente l’aveva fatto -, ma non era mai stato suo padre a nominarla, non all’inizio almeno. All’inizio erano state battute taglienti sibilate da sua zia nel cuore della notte e della villa che avevano conquistato insieme a New Orleans; erano stati ritratti, ritrovati tra i cassetti e la polvere in vecchi studi abbandonati, di cui solo ora Hope poteva riconoscere la spaventosa somiglianza degli occhi e della piega delle labbra, dei capelli e dell’ovale del volto con quelli dell’originale.
All’inizio Hope non aveva capito che Caroline Forbes fosse il nome di qualcuno d’importante, qualcuno di reale e non un personaggio con cui zia Bekah si divertiva ad irritare suo padre. Quando aveva chiesto per la prima volta chi fosse la bionda cheerleader di cui Rebekah parlava sempre, suo padre aveva digrignato i denti così forte, che una Hope tredicenne si era chiesta, con preoccupazione, se gli ibridi potessero scheggiarsi le zanne, e sua zia era scoppiata a ridere tanto da piangere.
- Guarda cosa hai fatto – aveva sibilato Klaus.
Rebekah non l’aveva degnato di uno sguardo e si era chinata per guardare la nipote negli occhi.
- Solo una sciocca ragazzina che hai rischiato di avere come matrigna. Come se questa famiglia non fosse già abbastanza complicata e non avesse già abbastanza legami con la feccia – aveva aggiunto, storcendo il naso in un’espressione che Hope associava immancabilmente a sua zia.
Quando aveva chiesto delucidazioni ad Elijah, suo zio aveva inarcato un sopracciglio e aveva affermato:
- Era un’amica della doppelganger che tuo padre ha usato per spezzare la sua maledizione, ma perché Rebekah si ostini a darle tanta importanza è anche per me fonte di grande mistero. -
Hope aveva corrugato la fronte ed era rimasta con la stessa espressione, fino a quando sua madre non l’aveva presa da parte con un sospiro e aveva affermato.
- Era una ragazza che non sopportavo – le aveva spiegato e Hope aveva pensato di interromperla e chiederle quale fosse la parte importante di tutto ciò. – Ma tuo padre… -- Hailey si era interrotta per umettarsi le labbra, come se fosse incerta se avesse il diritto di andare avanti, poi aveva scosso il capo come a scacciare tutte quelle incertezze e aveva ripreso a parlare. –Tuo padre ha sempre avuto un debole per lei. Tua zia Rebekah è convinta che ne fosse innamorato. –
- Ed è morta? – aveva inquisito Hope, con un pigolio, perché se suo padre ne era innamorato, lei sarebbe dovuta essere lì con loro, no? A meno che non fosse morta.
- Quando tuo padre è venuto a New Orleans, Caroline non ha voluto seguirlo – aveva risposto la donna. Anni prima avrebbe aggiunto una qualche battuta amara su come avesse fatto bene a tenersi lontana da Klaus o su come fosse stata un’idiota per aver tenuto a lui, abbastanza da avere il dubbio di seguirlo, ma gli anni passati in compagnia dei Mikaelson e di Hope l’avevano ammorbidita. O forse si era solo rassegnata ad accettare i commilitoni che le aveva assegnato la sorte bastarda che le era toccata alla nascita.
– A volte penso che la sua amicizia con Camille sia dovuta solo al fatto che lei gli ricordi Caroline – si limitò ad aggiungere, come sovrappensiero.
Negli anni successivi, Hope aveva raccolto altre notizie, altri stralci di discorsi e d’informazioni su quella donna che, sua zia Rebekah, era convinta suo padre avesse amato al punto da essere disposto ad aspettarla per sempre - suo padre che non era in grado neanche di aspettare che il bollitore del tè suonasse senza iniziare corrugare la fronte in quel modo che, fosse stato umano, gli avrebbe fatto venire rughe d’espressione -, e aveva ricostruito un collage di quella che, ben presto, aveva perso i confini di carne di una vampira ed era diventata una creatura mitologica come l’Idra di Lerna con tre teste e sei paia d’occhi per incantare gli uomini.
Era stato suo zio Kol a mostrarle i ritratti di Caroline, ma era ormai troppo tardi: Hope l’aveva immaginata con tutte le caratteristiche della sua donna ideale e quel volto da ragazzina, disegnato su innumerevoli fogli bianchi, era ben presto finito nel dimenticatoio.
 
 
 
Hope inclinò leggermente il capo, osservando Caroline Forbes – la vera, unica, Caroline Forbes, che aveva rubato il cuore a suo padre e che per anni lei aveva immaginato – e suo padre, il suo sorriso e il modo in cui la ragazza lo guardava, inclinava leggermente il capo e cercava di trattenere i sorrisi che sembravano fiorirle spontaneamente sulle labbra. Quello non era il volto di chi non aveva voluto seguirlo.
- Posso fare una domanda – chiese, con un boccone di cornetto a riempirle le guance e a farla somigliare a un criceto castano.
- Hope – la redarguì suo padre e la ragazza si limitò a fare spallucce, senza distogliere gli occhi azzurri da Caroline, che arrossì e balbettò un assenso.
Hope ingoiò il cornetto e corrugò la fronte in un’espressione di pura concentrazione, prima di decidere che forse non sarebbe stato saggio chiedere a Caroline: perché non sei mai venuta a New Orleans? e che avrebbe solo finito con il farla scappare a gambe levate fino all’aeroporto più vicino.
- No, ci ho ripensato – affermò, quindi, scuotendo leggermente le spalle.
- Hope –la richiamò, nuovamente, suo padre, passandosi una mano sugli occhi, come se fosse già stanco e…
- È imbarazzante? – gli chiese subito. – Averci qui tutte e due, dico. Se volete posso andare a fare un giro. –
A quelle parole, suo padre abbassò subito la mano e le lanciò un’occhiata tagliente.
- Così potrai andare a cercare il ragazzo che ci ha seguito per tre sale, prima che io riuscissi a seminarlo? Non credo proprio, Hope – sibilò l’uomo.
La ragazza fece spallucce.
- Valeva la pena di tentare – rispose con un sorriso smagliante. - È sempre così – aggiunse di fronte allo sguardo interdetto di Caroline.
- Oh, no, io… posso immaginare – balbettò la vampira bionda e Hope le sorrise, di nuovo.
- Era così anche con te? – inquisì, allungandosi sul tavolo con fare cospiratorio, accompagnata dal suono di uno sbuffo di suo padre.
Caroline lanciò una rapida occhiata a Klaus, alla ricerca di aiuto. Ed era ridicolo che dovesse chiedere aiuto a lui, ma era sua figlia e lei non aveva assolutamente idea di cosa fare. Doveva dirle la verità? Dirle di come avesse minacciato Tyler e lei e di come l’avesse morsa e di come avesse mostrato clemenza, per lei?
Improvvisamente le sembrava tutto così distante e così faticoso e c’era una parte di lei che voleva solo arrendersi e smettere di scappare –
per anni non aveva fatto altro che viaggiare e visitare paesi che non le ricordassero le promesse di quell’uomo e quella porta sempre aperta, ma lui era sempre lì, ad ogni angolo di strada, ad ogni svolta e ad ogni piazza; la sua voce era lì ad accompagnarla di fronte alla scoperta di ogni nuova meraviglia che il mondo avesse da offrirle, ogni paesaggio che le ricordasse che sua madre non c’era più, ma che c’era ancora vita, c’era ancora qualcosa per cui valesse la pena
- da quell’uomo che le aveva promesso la vita e l’eternità.
- Hope, lasciala in pace – Klaus intervenne di nuovo, posando una mano sulla spalla della figlia e costringendola a sedersi nuovamente composta.
Caroline gli sorrise, timidamente, grata per quell’intervento.
- Da quanto siete qui? –
Caroline decise, infine, di prendere il controllo di quella conversazione e della situazione e della sua vita, perché era Caroline Forbes e non bastavano due ibridi a farle dubitare di sé stessa e trasformarla in una bambina balbettante.
- Qui? In questo caffè? Da dieci minuti, come te. A Roma da una settimana – rispose Hope con un sogghigno divertito, che le fece guadagnare un’altra occhiataccia da suo padre.
- Pensavamo di fermarci ancora – aggiunse Klaus.
- Nessuna tragedia soprannaturale a richiamarti da qualche altra parte? – domandò Caroline, con un sorriso malizioso.
Klaus scosse il capo.
- Non da qualche anno a questa parte – affermò. – Non ci sono più i gruppi di ragazzini di una volta – aggiunse con un sogghigno, che gli fece guadagnare un’occhiataccia dalla vampira bionda che gli sedeva accanto.
E, oh, gli era mancata e l’aveva sempre saputo, ma non aveva realizzato quanto gli fosse mancata, fino a quando non l’aveva avuta nuovamente di fronte ad i suoi occhi con i capelli biondi e le guance arrossate. Klaus aveva sentito in il desiderio di ritrarla ancora – e ancora e ancora - per tentare di intrappolare quella luce che Caroline si portava dietro ovunque andasse.
Negli anni, Klaus l’aveva fatta seguire e aveva tenuto tabelle sui suoi spostamenti: aveva saputo della morte di Liz Forbes e della relazione con Stefan (e, per l’ennesima volta, si era pentito di non avergli strappato il cuore dal petto la prima volta che ne aveva avuto l’occasione), ma c’era una guerra a New Orleans e non aveva potuto far altro che ingoiare la bile che quelle informazioni gli avevano fatto montare in gola. Quando Caroline aveva lasciato gli Stati Uniti, Klaus aveva seguito tutti i suoi spostamenti con assoluta fascinazione. Era stato con immensa soddisfazione che aveva realizzato quali città Caroline si ostinasse ad evitare nei suoi spostamenti.
Il pensiero di Caroline – di cosa facesse, di cosa stesse guardando, in quel momento, se vedesse quello che lui le avrebbe mostrato – non aveva mai lasciato la sua mente, ma c’era Hope e c’era New Orleans ed il pensiero della cheerleader bionda di Mystic Falls era, progressivamente, passato in secondo piano nella sua mente. Era passato in quella parte del suo inconscio dedicato all’attesa ed ai piani ben congegnati.
 
 
 
- Quindi, perché non ci racconti cosa hai visto in questi giorni? – chiese Hope con un sorriso malizioso.
Caroline arrossì e si morse il labbro. Non voleva dire a Klaus – Klaus, tra tutte le persone dell’universo – di aver visto il Colosseo e passeggiato per i Fori con un vestito bianco, mangiando un gelato e sentendosi come una star di un qualche film romantico in bianco e nero; di aver ammirato San Pietro, dall’ombra gettata dal suo immenso colonnato. Non voleva dirgli che, le uniche cose che aveva visto, di una delle città che lui le aveva promesso, erano stati luoghi che avrebbe potuto trovare in qualsiasi cartolina, che qualsiasi adolescente americano avrebbe visitato. O forse non voleva citargli tutte le cose che aveva visto senza di lui.
- Il Colosseo – cedette, alla fine, sotto il peso degli sguardi dell’uomo e di sua figlia.
La bocca di Klaus si piegò in un sogghigno e l’uomo dovette mordersi il labbro per non lasciarsi sfuggire una risata perché era così ovvio e così Caroline.
- Smettila – esclamò, la ragazza bionda che gli era seduta a fianco, prima che lui potesse dire qualsiasi. – Smettila immediatamente di ridere di me – continuò, minacciandolo con il suo cucchiaino macchiato di caffè.
Klaus levò le mani in gesto di resa.
- Non oserei mai – affermò, tentando, vanamente, di rimanere serio.
-Non tutti possiamo essere esperti di arte come te o aver già visto tutto! – continuò imperterrita, come se l’uomo non l’avesse mai interrotta, gesticolando furiosamente. - E non m’interessa se pensi che il Colosseo sia scontato o sopravvalutato, non è scontato per chi non l’ha mai visto e per giudicare una cosa bisogna vederla almeno una volta e… -
- Caroline, non avevo alcuna intenzione di criticare la tua scelta – la interruppe lui.
- Oh – esalò la ragazza, che arrossì e parve sgonfiarsi, una volta privata dell’impeto con cui stava difendendo le sue posizioni. – Bene, allora. –
- Ho, anzi, avuto sempre una particolare ammirazione per il Colosseo e trovo che sia un luogo particolarmente adatto alle creature come noi. Una delle leggende che vi girano intorno vuole che esso rappresenti la porta d’ingresso per gli inferi e che, all’imbrunire, le anime dei trapassati errino alle sue radici alla ricerca della pace eterna. Piuttosto adatto alla nostra situazione, non trovi, tesoro? – concluse con un sorriso, volto a smorzare l’amarezza delle sue parole.
La voce, la sua voce, e il modo in cui si piegava e si avvolgeva sui nomignoli che le dedicava. Caroline sentì un brivido correrle lungo la schiena, come decenni prima, come se non fosse passato neanche un giorno.
- Se non ti conoscessi, saresti quasi riuscito a convincermi che davvero desideri la pace eterna – soffiò, sagace.
- Dipende tutto da cosa si intenda per pace eterna. La morta è un concetto che non mi affascina affatto, tesoro, lo sai bene. –
Caroline si lasciò sfuggire uno sbuffo incredulo perché alla faccia del minimizzare. Klaus riprese a parlare con un leggero sorriso ad aleggiargli sulle labbra rosse.
- Ma la pace eterna intesa come felicità… Neanche io sono del tutto immune al fascino di quest’idea.-  
Mentre parlava e la guardava, Klaus aveva negli occhi quella luce e Caroline era quasi certa che lei facesse parte della sua idea di felicità.
Fu quello il momento – quello in cui lei e Klaus non facevano altro che guardarsi, che non distoglievano lo sguardo pur di non doversi arrendere e dover dire: Ho perso, o peggio: mi importa ancora – che il cellulare di Hope scelse per iniziare a squillare, sulle note dell’ultimo successo di Miley Cyrus e Caroline aveva avuto diciassette anni abbastanza a lungo da conoscere quel trucco. Dio solo sapeva quante volte lei si era ritrovata all’altro capo della linea, Dio solo sapeva quante volte aveva chiamato Elena e Bonnie per salvarle da un appuntamento sgradevole e da un ragazzo imbarazzante. Non si era mai trovata nella posizione di Hope, però, non era mai stata quella chiamata all’inizio perché era così grata che un ragazzo volesse uscire con lei e dopo perché, improvvisamente, non aveva più alcun bisogno di aiuto – e non aveva neanche amici che avessero tempo d’aiutarla ché c’era sempre qualcosa di peggiore di un ragazzino sgradevole di cui occuparsi.
Caroline conosceva quel trucco e, dalla smorfia che si dipinse sulle labbra di Klaus, l’uomo non doveva apprezzare minimamente quella canzone. E le venne un po’ da ridere ad immaginarli, Klaus e Hope, a condividere una casa immensa, riempita del suono della musica di Hope e degli sbuffi del padre. Le venne un po’ da ridere in quel modo che la commuoveva e le apriva il cuore, che le ricordava di come, quando aveva diciassette anni, Klaus fosse in grado di toccarla come nessun altro.
Forse, pensò, quando Hope rispose e la voce di Elijah, leggermente ovattata dalla distanza, raggiunse anche le sue orecchie, forse, pensò Caroline, la smorfia di Klaus era dovuta a quello. Si chiese in quale fase del loro rapporto si trovassero, lui e Elijah. Volevano uccidersi o erano di nuovo alleati? O fingevano solo di esserlo per tramare alle spalle l’uno dell’altro? Ed era stata quella stessa curiosità a fregarla una volta, ma Caroline non riusciva a resistere. A lui, a quell’umanità che indossava, sotto tutto il sangue, al modo in cui la guardava.
Era una battaglia persa la sua, pensò, mentre Hope si alzava con un sorriso e una scusa poco convinta e Klaus borbottava sottovoce e malediceva suo fratello e quella maledetta lupa e di chi stava parlando? – e Caroline si sentì cedere come quel pavimento frantumato sotto ai suoi piedi, all’ingresso della Galleria. Quel pavimento su cui aveva abbassato gli occhi per osservare una miriade di frammenti del suo volto e aveva pensato: è così, è così che sono e aveva pensato al pezzo di sé che era morto con sua madre, a quello che Stefan aveva spezzato, con la sua malagrazia e la sua indecisione, a quello che avrebbe riposato per sempre con Bonnie ed Elena – ché nonostante le innumerevoli volte che si erano scagliate l’una contro l’altra, nonostante le maledizioni e gli incantesimi che avevano portato via Elena, almeno per un po’, erano sempre state loro tre contro il mondo. Pensò a quello che aveva seguito Klaus nelle città che si era proibita di visitare e a quello che rideva, accanto ad Enzo.
Pensò che non si era mai sentita così sé stessa e completa come in quel momento, sotto il sole primaverile di Roma, con Klaus accanto che la guardava e si mordeva il labbro, come se indeciso, per poi scuotere il capo e mormorare, così piano che solo loro potessero sentire.
- Mi dispiace per tua madre. –
L’aria le riempì i polmoni con un udibile wooosh e Caroline si morse la lingua per non parlare, per non insultarlo per la malagrazia con cui l’aveva tirata fuori, per osar citarla.
- Quando ho saputo… Ho contattato i migliori medici che conoscessi, ma non esisteva cura ad esclusione di quella che tua madre non desiderava. Ammetto di aver accarezzato l’idea di tornare a Mystic Falls, ma eravamo in guerra, all’epoca, e non era quello che tu avresti voluto – continuò.
Caroline scosse il capo.
- Non è ver… -
- Caroline, non c’è bisogno di mentire. -
C’era solo una punta di sconfitta a tingere la morbidezza eccessiva della voce dell’uomo, solo una punta di resa nel modo in cui distolse lo sguardo per posarlo su Hope, che passeggiava a pochi passi dal locale e rideva, stringendo il telefono tra le dita bianche.
- Non era neanche quello di cui avresti avuto bisogno – aggiunse, sottovoce.
Caroline non riuscì a trattenere uno sbuffo sardonico.
- Nulla di quello che è accaduto in quel periodo è qualcosa di cui avessi bisogno – mormorò, con le guance perché parlare di quello con Klaus era l’ultima cosa che potesse desiderare. Non perché temesse per la vita di Stefan – era quasi certa che Klaus sapesse ogni e che se avesse voluto il più giovane dei Salvatore morto, l’avrebbe già ucciso -, ma perché Klaus era sempre stato attratto da tutto quello che Caroline, in quel momento, non aveva dimostrato di essere.
A volte pensava ancora a quello che aveva fatto, a quello che aveva detto, a come si era arresa a come sua madre avrebbe voluto altro da lei, per lei e sentiva montarla dentro la stessa onta di sempre, ma era diventata brava a controllarla, a metterla in ordine, come i post-it sulla sua scrivania, come le penne colorate in tutti gli astucci della sua infanzia, come i pensieri nella sua mente.
Un angolo della bocca di Klaus si piegò leggermente verso l’alto e, quando si voltò nuovamente a guardarla, l’uomo aveva un’espressione divertita dipinta sul volto.
- Non la vedrai più così tra qualche secolo. –
La ragazza alzò gli occhi al cielo e scosse il capo, in un gesto di pura esasperazione.
- Smetterai mai di vantarti della tua età? –
- Le persone non cambiano, tesoro, quindi direi di no. –
- Soprattutto non raggiunta la tua età – soffiò, con un sorriso sardonico a piegarle le labbra.
Klaus chiuse gli occhi e abbassò il capo in un segno di assenso.
- Per quel che vale, non ho mai visto nessun vampiro avere tanto controllo di sé dopo aver spento la propria umanità –
Caroline sentì la gola stringersi in una morsa e gli occhi tornare a pizzicarle, come quando gli aveva riaperti per la prima volta, dopo essere tornata in sé e aveva realizzato quello che aveva fatto, quello che…
- Non… -
Klaus alzò una mano in una muta richiesta di farlo finire.
- Tesoro, devi capire che se anche non fosse accaduto per la morte di tua madre, prima o poi avresti sentito l’irrefrenabile impulso di spegnere la tua umanità e l’avresti fatto. Tutti finiscono con il farlo almeno una volta, quando realizzano davvero quale sia il peso dell’immortalità, quale sia lo scotto da pagare. Nessuno resiste per sempre al fascino dell’ignoto a questa promessa di pace da qualsiasi sofferenza, ma sei riuscita a controllarti. Avresti potuto sterminare e radere al suolo l’intera Mystic Falls, avresti potuto tentare di uccidere la tua migliore amica e non l’hai fatto. Ancora una volta hai dimostrato di essere un vampiro eccezionale. –
Caroline si lascò sfuggire una risata tremula e colma di autoaccusa.
- Sarah Salvatore… - mormorò sottovoce quel nome che ancora pesava come un macigno sulla sua coscienza.
L’uomo scosse il capo.
- Era poco più di una sconosciuta e di una pedina. -
- Dovrebbe farmi sentire meglio? – domandò con acredine.
- No, quello che può farti sentire meglio è la consapevolezza che ora che sai cosa significhi spegnere la tua umanità, non sarai più così propensa a farlo, qualora si ripresentasse l’occasione in cui ti sentirai tentata. E che tua madre non se la sarebbe presa per quello che hai fatto, non se la sarebbe presa perché hai sofferto per lei. –
Caroline si morse il labbro e scosse il capo.
- Non la conoscevi neanche – mormorò e c’era quel pavimento, fatto di lastre di vetro frantumate, nella sua voce.
L’uomo scosse leggermente le spalle.
- Mille anni finiscono con l’insegnare due o tre cose sulle persone, tesoro. -
Caroline avrebbe voluto ribattere, avrebbe voluto dirgli che non sapeva nulla che non… ma era così falso ed erano passati così tanti anni da quando Klaus era giunto a Mystic Falls, così tanti anni da quando Elena le aveva sorriso l’ultima volta, da quando Elena aveva baciato Damon – Damon, fra tutti! – per l’ultima volta e Stefan e Damon e Bonnie avevano una nuova vita da qualche parte, nel mondo, e Caroline era stanca di portare avanti una guerra che non era mai stata sua.
- Anche venti – ammise, con un soffio.
Klaus le sorrise in quel modo che dedicava solo a lei ogni volta che faceva qualcosa che era così completamente Caroline  e– non era incredibile solo a pensarlo? – per quello seducente. L’uomo allungò una mano, come per toccarla, come per…
E Hope si risedette accanto a loro.
Caroline decise che la ragazzina era specializzata nell’avere un pessimo tempismo e non osava neanche immaginare cosa questo potesse rappresentare per la figlia immortale dell’ibrido originale sul lungo periodo, ma ecco, sì, pessimo tempismo.
- Ho interrotto qualcosa? – domandò Hope, con il sorriso da iena di chi conosceva alla perfezione l’ultimo modello di tutti gli articoli che potevi acquistare in un sexy shop e che sapeva esattamente cos’aveva appena fatto.
Klaus ringhiò qualcosa e Caroline scosse la testa, cercando di nascondere le guance rosse tra i capelli. Come da lontano, come da duemila miglia sotto il mare, sentì Hope riferire, con ampi gesti delle mani e locuzioni colorite – ed era così piena di vita - al padre le notizie raccontatele da Elijah e da sua madre – che era la compagna di Elijah?! E, uuugh, ma gli Originali non si stancavano mai di essere la famiglia più complicata sulla faccia della terra? Come da lontano, perché Klaus le aveva sfiorato la gamba nuda con la mano, come per errore, come per confortarla, e Caroline non riusciva a concentrarsi su altro che sul calore che si dipartiva dalla sua coscia nuda e sull’immagine di quel pavimento frantumato e la sensazione di pienezza che le riempiva i polmoni.
Era strano ed alienante, stare lì, seduta con le due creature più potenti sulla faccia della terra e sentirli parlare di Elijah e della madre di Hope, sentirli citare una casa, lontana migliaia di kilometri e una cucina e quella volta che Hope l’aveva fatta esplodere per preparare dei biscotti (- Ti ricordi? La mamma continua a cogliere ogni occasione per rinfacciarmelo, anche se sono passati anni! - - Hope, è accaduto solo il mese scorso, - ); sentirli battibeccare e ridere come la famiglia (madre, padre e due bambini biondissimi) che Caroline aveva incrociato il giorno prima sul tram. Era strano ed alienante sentire montarle sulle labbra un sorriso che non riusciva a trattenere e, nel petto, il desiderio di sentirli e vederli ancora e il terrore, il terrore di lasciarsi trascinare in qualcosa per cui non era pronta.
C’era ancora una porta, una possibilità, lasciata aperta per lei, da qualche parte nel mondo e per quanto Caroline fosse grata, per quanto ne fosse rassicurata da essa, non riusciva a togliersi dalla mente l’idea che, una volta varcata quella soglia, non sarebbe più potuta tornare indietro e che non era pronta a compiere quel passo. Che forse non sarebbe mai stata pronta a Klaus e a quello che aveva da offrirle.
Fu quel timore a spingerla ad allontanare, impercettibilmente, la sedia dal tavolino, la sua persona da Klaus e Hope.
Klaus riportò gli occhi su di lei, osservando con uno sguardo tagliente quello spazio che prima non li separava e l’espressione che si era dipinta sul volto di Caroline. Chiuse gli occhi, per un istante, di fronte alla delusione perché aveva sperato… ma era ovvio che fosse troppo presto, che Caroline non fosse pronta.
- Devi andare – e non era una domanda.
Caroline piegò le labbra in un sorriso di scuse. Odiava quel lampo di amarezza che gli era passato negli occhi e odiava l’idea di esserne la causa, ma non era pronta. Annuì e Klaus lasciò sfuggire dalle labbra socchiuse un sospiro amaro.
- Molto bene, lasciami almeno pagare il conto, così possiamo accompagnarti fino alle scale, prima di tornare a visitare la Galleria. -
Hope osservò lo scambio con occhio critico, tamburellando le dita sul tavolino. Così non andava bene, non andava affatto bene: Caroline si era improvvisamente spaventata senza alcun motivo (neanche le avessero sgozzato un branco di lupi davanti al naso!) e suo padre, invece di mostrarle che si stava spaventando per tutte le ragioni sbagliate, aveva deciso di lasciarla andare, di lasciare che continuasse a scappare. Erano due idioti e non andava affatto bene.
La ragazza decise che era giunto il momento di prendere la situazione nelle sue mani: doveva convincere Caroline a rivederli, senza farla sentire costretta o imprigionata e se le storie su Caroline, sulla sua lealtà ed empatia e meravigliosità erano vere, Hope era certa di avere appena avuto l’idea perfetta. Se poi, lei ci avesse ricavato un qualche beneficio alternativo, beh, sarebbe stato giustamente guadagnato!
 
 
 
- Caroline – la richiamò Hope, quando già una decina di scalini le separavano. La ragazzina superò con una breve corsa i pochi passi, che aveva calcolato scientificamente, in modo che Caroline fosse abbastanza lontana da Klaus da non sentirsi più sopraffatta da cose che erano solo dentro di lei, ma non troppo.
– Visto che hai intenzione di rimanere a Roma, per le prossime settimane, e che lo faremo anche noi – si voltò per un istante verso Klaus, che le fece un cenno di incoraggiamento con il capo, a cui Hope rispose con un sorriso. – Potresti venire a visitare la città con noi. Voglio dire, non potresti trovare da nessuna parte una guida più preparata di mio padre e se vieni con noi – proseguì chinandosi leggermente verso la ragazza per mormorare, in tono cospiratorio. – Mio padre avrà qualcun altro su cui concentrare le sue attenzioni e smetterà di terrorizzare tutti i ragazzi che mi si avvicinano. Ti prego, sono italiani! Hai sentito la fama degli uomini latini? Siamo in Italia da due settimane e prima siamo stati in Spagna e non ho mai potuto accertarmi che la loro fama fosse meritata perché papà li terrorizza tutti prima che possano dirmi anche solo la prima sillaba del loro nome! – esclamò.
Caroline lanciò un’occhiata oltre le spalle della ragazza, a Klaus e alla sua espressione rabbuiata.
- Sai che ha sentito ogni parola, vero? – domandò, divertita.
Hope fece spallucce.
- Se sono riuscita a convincerti a venire con noi, mi dovrà un favore e dovrà chiudere un occhio – affermò. – Possibilmente – aggiunse, dopo aver lanciato uno sguardo al padre. - Quello che non avrà perennemente puntato su di te. -
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** Passi (secondo tempo) ***


Note: - Passi doveva essere un parto autoconclusivo, faticoso come sputare fuori due gemelli, ma concluso e conclusivo e invece 'sta ceppa. Questa seconda parte è breve e frammentata e fatta più d'immagini che di altro ed è felice e leggera.Ambientata poco tempo dopo la prima parte e in un periodo di luna di miele in cui le radici di futuri problemi sono già presenti, ma non sembrano ancora così importanti da meritare di essere affrontare. A questa farà seguito una terza parte (ed è tutta colpa di ludo22 che mi tenta) che dovrebbe essere più lunga e più seria e leggermente più calata in un contesto di "vita reale".
- Non fosse stato per Niglia che si è gentilmente prodigata nel darmi un titolo, questo capitolo non avrebbe mai visto la luce di efp. 

- OPERE CITATE:  
- La caratterizzazione di Hope mi è probabilmente sfuggita di mano in questa parte. OPS.
- Inizialmente ero indecisa se pubblicare questa storia come seguito di Passi - incontri del terzo tipo e non pubblicarla come one-shot, segnalando che era il seguito di P. perché i tempi verbali sono diversi!!121 E questa parte è molto più corta!!2!, ma poi ho deciso di mettere da parte i problemi mentali e metterle insieme. 
- NO BETA quindi segnalatemi qualsiasi cosa. 

Passi
(secondo tempo)
 
 
 
Non si incontrano a Parigi.
 
 
*
 
 
Caroline al mattino si sveglia lentamente, cercando di inseguire gli ultimi strascichi di sonno, gli ultimi barlumi di un sogno che ha fatto e in cui era felice e… Il materasso affonda leggermente, sotto un nuovo peso, e Caroline sente lo sbuffo della risata dell’uomo contro la pelle, quando si china a baciarle la spalla nuda.
La ragazza esala un grugnito infastidito e cerca di allontanarlo debolmente con una mano, mentre si rigira nel letto per nascondere il volto contro il cuscino e avvolgersi maggiormente in un bozzolo di coperto. Le gioie del non respirare, pensa distrattamente, in quel posto ovattato che si trova tra il sonno e la veglia, mentre la mano dell’uomo risale ad accarezzarle i capelli e Caroline immagina di essere un gatto, di fare le fusa e pensa di star ancora sognando, pensa di potersi riaddormentare e –
- Caroline, dobbiamo andare – mormora l’uomo, afferrando con un gesto fulmineo le lenzuola e dando loro uno strattone.
Non è abbastanza forte per strappargliele di dosso - potrebbe, ma sa che Caroline non lo perdonerebbe per il resto della giornata e niente perdono vuol dire niente sesso per un giorno e quella ed è una cosa che non è pronto a sacrificare – ma abbastanza da strapparle un gemito infastidito.
- Tesoro, dobbiamo andare. Hope sta già minacciando di distruggere la stanza. –
- ‘sciala ‘are – borbotta la ragazza, contro il cuscino.
L’uomo si china a baciarle il collo, all’incavo della spalla, in quel punto che le strappa sempre un fremito e una risata.
- Volevi vederlo anche tu, lo sai – continua l’uomo.
- ‘on ‘iù. –
- Caroline – la chiama ancora, con un sospiro affranto. – Non costringermi a ricorrere a certi metodi. –
La ragazza esala un verso interrogativo, che si trasforma ben presto in uno squittio sorpreso, quando l’uomo la solleva insieme al suo bozzolo di coperte e al cuscino che aveva spiaccicato sulla faccia, e attraversa la stanza con poche, ampie, falcate. Lo squittio si trasforma in un grido oltraggiato, che riverbera tra le pareti del lussuoso bagno, accompagnato dall’ampio scrosciare dell’acqua della doccia.
Quando, infine, ogni rumore viene sostituito da un gemito sottile, Hope si infila le cuffie nelle orecchie e alza il volume al massimo perché vuole bene a suo padre, davvero, ma di certe cose non vuole sapere nulla. Non prima di colazione. Non dopo.
 
 
*
 
 
Sono a Parigi da solo una settimana – solo, afferma Klaus perché un mese non sarebbe sufficiente per vedere neanche un decimo della città, neanche per conoscere un millesimo dei suoi segreti, per assaporare un milionesimo delle sue delizie.
Vi sono venuti dopo Roma, Londra e un’infinità di altre città che Klaus non le aveva promesso, ma Siamo in Europa le ha detto l’uomo una mattina, Siamo in Europa e c’è un luogo che vorrei mostrarti, se me lo permetterai e Caroline ha annuito, senza porgli domande. Senza porsi domande. Un sorriso spaventosamente sincero e lusingato - spaventosamente sorpreso - gli ha piegato le labbra.
La mattina dopo hanno attraversato la manica (- Mi manca l’aria. - - Caroline, tesoro, non respiri. - - Siamo sotto il mare e non è naturale! - - Caroli… - - Perché il tunnel non è trasparente? Voglio vedere i pesci! Come all’acquario! -) per emergere in territorio francese. Ad accoglierli è stato un cielo coperto di nuvole; Caroline l’ha trovato comunque incantevole.
 
 
*
 
 
Al mattino fanno colazioni diverse: Caroline mangia un pain au chocolat, accompagnato da una cioccolata calda e un’ampia sacca di sangue, Klaus beve un caffè nero (- Come la tua anima – chiosa Hope, con tono lugubre e un sorriso sulle labbra sporche di marmellata) e Hope sorseggia un tè, come le ha insegnato sua zia, mentre sbocconcella un intero pacco di fette biscottate per provare tutte le confiture posate sul tavolo.
Mentre Caroline finisce di prepararsi, padre e figlia escono a terminare la colazione altrove. Non uccidono per nutrirsi e Caroline non vuole sapere altro.
 
 
*
 
 
- Quanto manca? – domanda Hope, mentre sono in fila davanti alle porte dell’ampio museo, la cui visita hanno stabilito sarà la missione della giornata.
- Quanto? –
- Quanto manca? –
- Manca ancora tanto? –
Non demorde neanche dopo che un bambino di quattro anni comincia a farle eco. Quando Klaus esala un grugnito, la ragazza si limita a mandare uno sguardo di sconsolata comprensione al bimbo, che viene sgridato dalla madre.
Caroline tenta di nascondere una risata dietro un colpo di tosse.
Klaus non sorride solo perché ha una reputazione da far rispettare.
 
 
*
 
 
Il Musée D’Orsay è pieno di turisti rumorosi e ignoranti e fosse stato per lui, l’avrebbero visitato di notte, quando è vuoto e le sale appaiono ancor più maestose, ma Caroline ha insistito perché la loro fosse un’esperienza più mondana possibile e Hope ha subito approvato la proposta con tutto l’entusiasmo che le è proprio.
Klaus vorrebbe non pensare che è perché di giorno ci sono molti più ragazzi, ma non ci riesce, e il pensiero gli fa digrignare i denti.
- Stai rimuginando troppo – mormora Caroline, così piano che solo lui può udirla.
Hope è corsa via tempo fa per andare ad ammirare le statue, dopo aver borbottato una battuta sulla la loro prestanza fisica e la baguette dei francesi che gli ha fatto riempire la gola di bile e ha fatto esalare una risata alla vampira bionda che ora gli sta accanto e neanche lo guarda, ma sa che c’è qualcosa che non va.
Sono in piedi davanti ad un quadro di un qualche artista minore. Il pittore ha rappresentato una scena banale: l’oceano, di notte, con un riva frastagliata da ombre e due figure, abbracciate, che ballano nel centro della tela. È un’opera senza nessuna vera importanza, ma Caroline non è riuscita a distoglierne lo sguardo e quando le si è avvicinato, gli ha stretto le dita intorno alla mano come se avesse bisogno di lui – di sostegno, della sua presenza.
A volte ancora si sorprende di fronte alla realtà che lei sia lì, con lui. Ancora si sorprende che gli sia concesso svegliarla al mattino, vederla borbottare improperi contro la luce del sole e vederla incantarsi di fronte alla bellezza del mondo.
Potrebbe rimanere una vita a guardarla con gli occhi lucidi e le guance arrossate dall’emozione di quel mare che si riempie di ombre e di luci e di quelle figure che ballano.
Forse ci restano una vita intera.
 
 
*
 
 
- Rappresenta la Giovane Repubblica – spiega, con dita che seguono, quasi inconsciamente, il tratto del pennello e del rosso che domina sulla tela. – Ha il corpo di una fanciulla, ma il volto severo e vedi la posa… -
- Sembra smarrita. -
L’uomo si volta a guardarla, con un sopracciglio inarcato e l’accenno di un ghigno a piegargli le labbra. Caroline arrossisce perché non sa davvero nulla di arte e magari si sbaglia e non avrebbe dovuto interromperlo.
- Caroline – la richiama morbidamente e Caroline raddrizza la schiena ed esala con uno sbuffo tutta l’aria che le aveva inutilmente riempito i polmoni.
- Voglio dire – inizia, gesticolando furiosamente.
Klaus deve prenderle una mano tra le sue, perché rischia di urtare la teca vicina e Caroline gli lancia un sorriso di imbarazzato ringraziamento.
- Il volto è in parte in ombra e non si vede bene, quindi magari mi sbaglio, ma… sembra smarrita. E la posa. Sembra quasi arrendersi, sembra voler chiedere cosa dovrebbe fare, cosa… -
Le parole si perdono da qualche parte tra lo sterno e le sue labbra, quando volta leggermente il capo per guardarlo e lo trova intento ad osservare il quadro con assoluta serietà. Come se lo stesse vedendo per la prima volta, come se lo stesse studiando da capo.
Caroline ama un po’ il fatto che la prenda sempre sul serio.
 
 
*
 
 
- Sono in piedi sopra Parigi – grida Hope, con un ghigno, in piedi su una lastra di vetro che ricopre una maquette della città.
- Ha un debole per le cose minute, per i dettagli – le spiega Klaus, all’orecchio.
Caroline storce il naso.
- Io li odio, mi fanno rabbrividire. Solo il pensiero mi fa impazzire – borbotta con un brivido, prima di trascinarlo via da quella sala piena di precisione e di minuzie.
La risata roca dell’uomo li segue nell’aria.
 
 
*
 
 
- Ho voglia di churros – annuncia Hope a mezzogiorno.
Sulla lingua ha ancora il sapore del sangue della turista cinese che ha attaccato nei bagni delle donne e pensa che il sapore zuccherino dei dolci spagnoli e del loro impasto si intonerebbe alla perfezione.
- Siamo in Francia – nota suo padre con un’espressione di puro disgusto sul volto degna del peggiore dei puristi.
La ragazza scuote le spalle.
- Li vendono – afferma.
- Non dentro al museo. –
- Potrei uscire e tornare qui nel giro di due minuti. –
- Non puoi mangiare dentro. –
- L’ho appena fatto – afferma, inarcando un sopracciglio.
Il ghigno vittorioso che le piega le labbra gli ricorda fastidiosamente quello di Hailey.
 
 
*
 
 
Hope finisce i suoi churros davanti all’Olympia di Manet. Ha il capo inclinato leggermente di lato e le guance talmente piene da sembrare quelle di un criceto.
È cresciuta circondata da dipinti e schizzi, dal rumore del pennello che scorre lento e minuzioso sulla tela, dall’odore dei colori e sa distinguere i capolavori dalle imitazioni, le opere d’arte da lavori privi di qualsiasi merito, ma c’è qualcosa nella freddezza del marmo, nelle forme morbide e sinuose che riesce ad acquisire, che le fa preferire la statuaria all’arte pittorica.
Fa una pernacchia al quadro che non è riuscito a farle cambiare idea, sotto lo sguardo attonito di una coppia di turisti.
 
 
*
 
 
- Se fossi umana mi farebbero male i piedi – afferma Caroline, lasciandosi cadere su una delle panchine che sono disseminate per il museo.
- Ma non lo sei – nota Klaus, inarcando un sopracciglio.
La ragazza scuote leggermente la testa, appoggiandosi all’indietro sui gomiti.
- Non lo sono – conferma. – Ma è una delle cose che preferivo delle gite ai musei: sedermi, guardare le persone e commentarne i vestiti e i gesti con… - la voce le si ferma in gola e abbassa leggermente il capo.
- Con Elena – conclude Klaus.
- E Bonnie – aggiunge, con voce minuta.
L’uomo annuisce, sedendosi accanto a lei e incrociando le gambe. Ci sono le cose che le mancheranno sempre, anche se con i secoli il dolore e la sensazione di avere un pezzo di vuoto, nel petto si faranno meno brucianti, meno pressanti. Diventeranno quasi il ricordo di una ferita, di un’assenza. Di un’amica che era il centro del suo mondo, al liceo, ma che ha perso di vista da anni e a volte ancora le manca, ma è così che va la vita.
- Non ho intenzione di prestarmi a certi giochi – afferma l’uomo e Caroline si raddrizza come se le avesse dato uno schiaffo.
- Non intendevo dire che… - comincia subito, ma Klaus la interrompe.
- Ma da secoli desidero studiare il quadro di Madame Guatreau. Potrei farne uno schizzo, mentre mi descrivi l’aspetto dei turisti. –
Il sorriso che le si apre sul volto di Caroline, gli appare un’opera d’arte ben più magnifica di quelle racchiuse tra le mura del museo e Klaus si sente come un’artista di fronte al suo capolavoro.
 
Lo studio del quadro di Gustavo Courtois finisce ben presto abbandonato e nel taccuino di Klaus finisce con l’aggiungersi l’ennesimo schizzo di Caroline. In questo, la ragazza ha il volto illuminato dal divertimento e le labbra sollevate in un ghigno, mentre deride una donna con un ampio cappello nero e un abito multicolore, che s’intravede, leggermente abbozzata, sullo sfondo.
 
 
*
 
 
- Il museo sta chiudendo – annuncia Hope, rispuntandogli accanto dal nulla in cui era scomparsa.
- Manca mezz’ora – quasi ringhia suo padre.
La ragazza inarca un sopracciglio.
- Ma agli altoparlanti hanno detto… -
- Ho sentito cos’hanno detto. Ma manca mezz’ora all’orario di chiusura – sbotta l’uomo, prima di voltarsi sui suoi passi e andarsene ad ammirare chissà quale altra opera, borbottando, sottovoce, improperi contro quegli infimi mortali e la loro arroganza e quella malsana idea di visitare il museo rispettando le regole.
Hope lo osserva, schioccando la lingua.
- Lascia perdere – afferma Caroline, scuotendo le spalle e tornando ad ammirare la Morte di Santa Cecilia.
 
 
*
 
 
Sono le sei meno cinque, quando escono, accompagnati dal borbottio e dalle incessanti minacce che Klaus rivolge ai custodi. Caroline è costretta a frapporsi più volte tra lui e gli uomini e a intervenire a più riprese per impedirgli di usare la compulsione (- Abbiamo visto quasi tutto quello che c’era da vedere e possiamo tornare domani. Non è necessario… Ti sembra un motivo valido per usare la compulsione? -).
A volte le sembra di avere a che fare con un bambino, a volte teme che un giorno le staccherà la testa per aver osato andargli contro, ma non c’è comunque altro posto in cui vorrebbe trovarsi.
Fuori l’aria si è fatta più fredda e una leggera coltre di nubi ha coperto il cielo. Il clima di Parigi, ha imparato ben presto Caroline, è più simile a quello di Londra di quanto le leggende e le cartoline vorrebbero far credere ed è dominato, per la maggior parte del tempo, dalle nuvole e da una pioggerellina che è diventata la peggior nemica dei suoi capelli e contro cui la donna ha ben presto giurato odio eterno.
- Ho fame – annuncia Hope con tono allegro, mentre piroetta loro accanto con le braccia tese dietro la schiena e un sorriso sulle labbra.
 
 
*
 
 
Ogni giorno che passa, Caroline si sente un po’ meno simile alla Giovane Repubblica, un po’ meno simile alla Caroline che ha lasciato Mystic Falls e che per mesi ha fuggito la tomba di sua madre e il ricordo di Elena. Un po’ meno smarrita in un mondo di cui non sa cosa fare.
 
 
*
 
 
Non si incontrano a Parigi. Non è necessario. 

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Capitolo 3
*** Passi (terzo tempo) ***


Note: 
- Ho iniziato questo capitolo tipo ere geologiche fa e ora lo odio dopo aver tentato invano di farlo uscire meglio, mi sono arresa alla dura verità: che questo è il meglio possibile e addio. 

- Capitolo scritto per la M2 della quarta settimana del COWT di Lande di Fandom, prompt: Perdere qualcosa e ritrovarla.
- Il libro che legge Klaus a un certo punto è "L'amante" di Marguerite Duras; la canzone della strega invece è "At Last" di Etta James. 
- Shangai pare sia stata costruita su vecchie risaie e quindi ingegneri mi dicono che sta lentamente sprofondando a causa dei nuovi grattacieli e delle nuove linee di metro, ma poi boh, mal che vada prendetela come una licenza poetica. /o\

- "Il Gyokuro, un tè giapponese fra i più preziosi, quello delle grandi occasioni, chiamato anche "rugiada preziosa": è un tè ricco di clorofilla, grazie alla lavorazione, dall'inconfondibile colore verde brillante e dal sapore dolciastro.Il Genmaicha è il tè tipico delle colazioni giapponesi, miscelato con riso integrale tostato e chicchi di riso soffiati, molto gustoso e dal colore marrone chiaro." fonte qualche pagina internet che avevo trovato anni fa e ormai perso da secoli. 
- La rhumeria di Parigi esiste davvero e si trova dietro Bastille e, almeno da fuori, sembra una giungla.

- NO BETA quindi ogni errore è colpa mia, segnalatemelo pure. 


 
Passi
(Terzo Tempo)
                                                                                                                                                             
 
 
But I kept running
And then I ran some more
Because each time you run you kick back into you
I realized
Walking away from fairytales
And video games
And dreams and monsters
Is not walking away from yourself
 […]
I just want to be here and listen to piano music in my living room on a Sunday afternoon and think of the man I kicked back into
With love
And more love
While I was running.
(Iona Cristina Capasu)
 
 
 
È a Shangai che tutto finisce.
La città cinese è andata incontro, negli ultimi anni, a una crescita esponenziale: le vecchie abitazioni di lamiere, separate da buie strade di fango sono state soppiantate da immensi e pesanti grattacieli; le linee della metro si sono moltiplicate come piccole gallerie scavate da talpe laboriose; spessi cavi della luce si attorcigliano intorno ai rami degli alberi e la città, costruita su un’antica risaia sta lentamente sprofondando nel disinteresse generale. Si continuano ad aprire cantieri e a progettare linee di trasporti su un suolo che non può sostenerli e Caroline pensa che è una fottuta metafora.
A Shangai, Klaus se ne va, sbattendosi la porta alle spalle con un ringhio. Caroline rimane ad osservare la porta divelta ed i cardini che rimangono come penzolante testimonianza di quello che era ed ora non è più – di qualcosa che aveva e ora ha perso.
Da qualche parte, uomini continuano a svuotare le fondamenta della città e Caroline li sente come se le stessero scavando nel petto, come se tutta quella terra e quel fango glielo stessero strappando dalla cassa toracica.
 
 
Visita Tokyo da sola.
Compra una cartina all’aeroporto e mentre lascia cadere monete sconosciute sul bancone pensa a tutte quelle città per le cui strade ha girato senza nessun bisogno di leggere o informarsi o fare ricerche. Pensa che la Caroline che è cresciuta a Mystic Falls che era sempre preparata su tutto non l’avrebbe mai perdonata, che ci sono un sacco di cose che non le avrebbe perdonato. Pensa che a volte le manca, a volte si manca.
 
 
Le cose iniziano a finire, quando Hope li saluta, alla stazione di San Pietroburgo, e la bolla che hanno così faticosamente costruito comincia a perdere i suoi confini: ché se le persone possono andarsene, se possono alzarsi una mattina e decidere che devono raggiungere una madre, uno zio, un vecchio amico dimenticato, una tomba, sepolta da qualche parte, vuol dire che c’è un mondo fuori. Che esiste altro oltre le opere d’arte e i magnifici paesaggi, oltre al peso del braccio di Klaus intorno alla sua vita e al sorriso di Hope al mattino.
Klaus si volta a guardarla, mentre il treno si allontana e l’odore di Hope sparisce nell’aria, e per un attimo non sembra sapere cosa dire, ora che non c’è sua figlia a riempire i loro vuoti, a colmare le distanze. Caroline gli sorride e gli tende una mano e l’uomo esala un sospiro, prima di stringere le dita intorno alle sue e farsi trascinare per le strade della città.
San Pietroburgo è piena di colori, ma l’aria è spaventosamente fredda e Caroline sente quel gelo risalirle nelle vene e cristallizzarsi nei suoi polmoni quando osserva Klaus usare la compulsione su una ragazzina poco più piccola di Hope per divorarla in una stradina buia. Distoglie lo sguardo, ma non è abbastanza per nascondere i gemiti di dolore e l’odore del sangue che sembra risalirle nelle narici e incastrarvisi come un cancro.
Le ricorda un’altra scena, un’altra ragazza, capelli biondi contro il muro di una stradina adiacente al Mystic Grills e non è la stessa cosa, non è la stessa violenza, ma – Caroline si manca, si chiede se, da qualche parte, si è persa.
Dalle labbra della ragazza si leva ancora un gorgoglio indistinto, quando Klaus si volta a guardarla da sopra la spalla, con il mento sporco di sangue e gli occhi dorati e la trova intenta ad osservare con spaventosa attenzione la parete di mattoni davanti a loro. Un ringhio ferino gli sfugge dalle labbra perché non riesce neanche a sopportare di guardarlo e Caroline si volta, con gli occhi grandi come vecchie biglie di vetro. Per un istante non fanno altro che fissarsi, finché Klaus tende una mano versa di lei e non c’è sangue sulle sue dita perché ha fatto attenzione per lei, ma lascia cadere il cadavere della ragazzina – che era la figlia di qualcuno, la sorella, l’amica, l’amore della vita di… - a terra con la stessa noncuranza che presterebbe a una camicia, a una borsa, a qualcosa che non sia una fottuta persona e Caroline non riesce a distogliere lo sguardo da quel cadavere ai loro piedi. Quel cadavere che li separa.
Spera che Klaus non abbia visto il leggero tremito - l’esitazione - che le ha scosso le dita, spera che non si accorga di come, mentre si dirigono verso l’albero che li accoglie, gli cammini più distante del solito.
Quella notte Caroline si sveglia in un bagno di sudore e terrore, con l’immagine degli occhi di Klaus – dorati e pieni di tutto il sangue del mondo – impressa nella mente. Le mani dell’uomo corrono subito ad accarezzarle i capelli e la schiena nuda e Caroline trattiene a stento l’istinto di sobbalzare e allontanarsi – e singhiozzare perché le si spezza il cuore, le si spezza, le si…
- Caroline, tesoro, va tutto bene, era solo un incubo, era solo… -
Mormora all’infinito tra i suoi capelli e a Caroline sembra di sentire una punta di senso di colpa nella sua voce e si chiede se il suo incubo sia davvero finito.  
 
 
Il problema è: quella ragazzina le ricorda una Caroline passata e non le importa poi così tanto che sia morta, divorata da un mostro. Una parte di lei sempre più grande si ritrova a pensare, mentre osserva il cadavere davanti a lei macchiare la neve sporca di San Pietroburgo che è triste, ma normale, è così che va, è la catena alimentare. Caroline si deve ricordare – deve fare uno sforzo, capite? - che quella che ha di fronte è una persona che aveva una famiglia, degli amici, un amore, forse o forse non ne aveva mai avuto e avrebbe meritato una possibilità, del tempo.
Caroline ripensa a sua madre, a quanto poco è passato da quando era ancora umana anche lei e non si sente pronta a guardare il mondo con quegli occhi.
 
 
Tokyo, spiega la guida, è una città in continua evoluzione. È una capitale cosmopolita in cui coesistono panorami futuristici dominati da grattacieli, showroom delle più importati industrie di prodotti tecnologi, treni che Caroline teme siano in grado di andare più veloci anche di un vampiro, e quartieri popolari in cui ancora si respira l’aria di secoli passati. È un’immensa contraddizione, ma questo sembra solo renderla più maestosa. Ancor più facile da amare e terribile da dimenticare.
Da qualche parte, le sembra di sentire una galleria riprendere a pulsarle nel petto.
 
 
La prima volta che indossa un kimono per partecipare ad una cerimonia del tè al The Koomon, si sente di nuovo una principiante. Si sente come quella vola che, da bambina, è sgattaiolata in camera di sua madre per provare i ben pochi trucchi e le collane di Liz Forbes e quando aveva fatto una piroetta su sé stessa, con una risata tintinnante sulle labbra, aveva trovato sua madre ad osservarla sulla porta. Caroline era arrossita furiosamente, ma sua madre aveva solo scosso la testa e le aveva accarezzato i capelli con un sorriso.
- Stanno meglio a te che a me – aveva mormorato con la voce piena di affetto.
Come quella volta fa una piroetta su sé stessa, ma ad accoglierla c’è solo lo sguardo critico della donna che l’ha aiutata a vestirsi e che la scruta con espressione impenetrabile prima di dare la sua approvazione con un secco e asettico cenno del capo.
Caroline rimane sola, senza nessuno con cui condividere, nessuno che la guardi, che…
Una parte di lei si chiede se fosse questo che cercava in Klaus: qualcuno che la guardasse con quell’amore cieco che solo sua madre era stata in grado di rivolgerle, si chiede se il suo fosse solo un tentativo di scappare dalla solitudine che ora sembra volerla divorare.
C’è una galleria da qualche parte nel suo petto che le dice che non sarebbe scesa a compromessi con tutto quello che Klaus è e tutto il sangue dei suoi amici che gli macchia le mani solo per sentirsi amata, solo per riempire il vuoto che Liz Forbes ha lasciato, ma non riesce a prestarle ascolto.
Caroline si guarda allo specchio – ha i capelli biondi raccolti e l’obi le stringe la vita - e non si riconosce.
Qualunque cosa fosse quello che la legava a Klaus, si dice, scuotendo il capo e raddrizzando le spalle come un reginetta di bellezza, non ne resta che terra e fango.
 
Alcune foglie sono scivolate nella sua tazza, Caroline le osserva vorticare nel tè giallo chiaro, mentre stringe la tazzina di ceramica tra le dita e si bea del calore che le risveglia i polpastrelli. Si lascia sfuggire un sospiro, mentre poggia le labbra sul bordo e lascia che un po’ di quel liquido caldo le scivoli nella gola: ha un sapore dolciastro, con un lieve aroma di riso al forno e Caroline può immaginare migliaia di persone, di contadini nelle loro case che si preparano ad affrontare la loro giornate, decine di generazioni, bere questo tè del popolo e immagina che Klaus non le avrebbe concesso di assaggiarlo, pensa che l’avrebbe costretta ad assaporare il Gyokuro, affermando che null’altro fosse alla sua altezza.
Pensa che un tempo sarebbe stata lusingata da quell’ennesima attenzione, da quel riconoscimento della sua importanza, ma ora il pensiero le fa venire la nausea.
Il sapore del tè le scalda la gola e Caroline si sente parte di qualcosa – di umano, di vivo, di meraviglioso.
 
 
Passa una giornata intera a Shibuya, senza bisogno di mangiare o di bere. Di giorno osserva giovani coppie, studenti, gruppi di amiche incontrarsi e sorridersi e cerca di immaginare cosa si stiano dicendo, per cosa quella ragazza stia sorridendo e gesticolando a quel modo, cosa riempia i loro sacchetti, le loro borse, la loro vita. Alla sera osserva tutte le luci dell’incrocio diventare rosse, il traffico interrompersi e passanti comparire da ogni luogo, come sputati dalla terra stessa, per riempire lo spazio lasciato libero dalle autovetture.
Segue una coppia per le strade illuminate dalle insegne fino ad un albergo ad ore e li guarda sparire dietro la porta già avvolti l’uno nell’altra e si sente come una divinità misericordiosa che osserva dall’alto le creature a cui ha dato origine mentre queste approfittano della loro libertà, del loro essere vivi. Si sente come una madre che osserva i suoi bambini crescere e diventare indipendenti. Si sente vecchia e altro da quel mondo pieno di vita che vede scorrerle davanti nelle strade trafficate di Tokyo.
Si sente così poco umana e si chiede da quanto questa sia la vita di Klaus. Si chieda cosa voglia dire sentirsi così per secoli: vedere il mondo scorrere, le persone care morire, smettere di avere amici e amori e non essere parte di nulla, essere come una roccia lentamente erosa dal tempo. Si chiede cosa sarebbe rimasto di lei – della figlia di Liz Forbes, della capo cheerleader di Mystic Falls, dell’amica di Elena e di Bonnie, della ragazza che si era fatta ingannare da Damon Salvatore solo per un briciolo di attenzioni e una parvenza d’amore – se avesse l’età di Klaus. Si chiede cosa rimarrà di lei e non vuole, non vuole, non vuole scoprirlo. Non è pronta. Non sa se lo sarà mai, non sa se ha ancora tempo per prepararsi o se di lei non resta già nient’altro che un film dell’orrore.
 
 
Quella notte squarcia decine di sacche di sangue e le trangugia insieme alle sue stesse lacrime, il gusto salato delle sue secrezioni si mischia a quello del plasma e il sapore quasi le dà la nausea. Si chiede perché non dovrebbe bere sangue umano, perché dovrebbe trattenersi, perché se gli uomini mangiano conigli, agnelli, cani, gatti e lei non è mai stata vegetariana, non ha mai voluto esserlo, è solo parte della catena alimentare e…
Al mattino viene accolta da un paesaggio di mobili frantumati e pareti macchiate di sangue B negativo – lo riconosce dall’odore, che si mischia a quello acre delle lacrime.
Usa la compulsione su un’inserviente perché pulisca tutto e dimentichi ogni cosa e cambia albergo, cambia incrocio, cambia strada. Vorrebbe cambiare città, paese, scappare, nascondersi, ma c’è qualcosa che la trattiene ancorata a quel luogo.
 
 
Visita un cimitero pieno di tombe di sconosciuti e si inginocchia davanti a ideogrammi misteriosi per pregare e ricordare i suoi morti. Per chiedere loro perdono per essere diventata così diversa da quello che aveva promesso di essere. Per desiderare altro da quello che aveva promesso, che aveva scritto sul diario quando aveva sedici anni e un cuore che le batteva ancora nel petto.
C’è un ramo di ciliegio, posto in un vaso davanti alla tomba, e Caroline ne osserva i fiori chiari, mentre racconta a sua madre ogni colpa, ogni scelta.
- Mamma – mormora con voce già spezzata. – Mamma – e vorrebbe che Liz fosse lì, che potesse accarezzale i capelli, risponderle e dirle che va tutto bene, che non importa, che è fiera di lei, che vuole solo che lei sia felice, che la autorizza ad essere felice, a scendere a compromessi, ad accettare tutta l’oscurità e la morte che si porta dietro, che si porta dentro. Tutto il desiderio di rivedere Klaus, nonostante il tradimento e la delusione che ancora le bruciano le ossa.
 
 
La prima volta che lo chiama è assolutamente sobria, ma è tardi e Klaus non risponde. Caroline lancia il cellulare sul materasso con uno sbuffo e uno sguardo di puro odio, come se fosse colpa dell’oggetto.
La seconda, Klaus riattacca e Caroline quasi grida d’oltraggio nella sua stanza d’albergo.
Dopo la terza, Klaus le manda un messaggio in cui le ingiunge di smettere di chiamarlo da ubriaca.
Alla quarta, la sterile voce dell’operatore le comunica che: il numero da lei selezionato non esiste.
Caroline decide che ne ha abbastanza.
Non è così difficile rintracciare una strega, non dopo aver vissuto per anni con Bonnie e aver viaggiato per mesi con due dei Mikaelson. Più difficile è convincerla a lavorare per lei nel rintracciare l’Ibrido Originale.
 
***
 
L’abitazione della strega si trova in una stradina leggermente in salita. Dall’esterno appare uguale alle case bianche ed ordinate che la circondano, ma basta aprire la porta per avere l’impressione di essere stati trasportati in una giungla tropicale. Il pavimento è spaccato da radici e zolle di terra da cui spuntano piante dalle foglie ampie e rigogliose; i rami si intrecciano tra di loro e si spingono fino a raggiungere il soffitto, dove volano sciami di piccoli insetti.
L’aria della casa è carica di umidità e Caroline non soffre più il caldo, ma la sente pesarle addosso come un macigno.
- È permesso? – chiede al silenzio della stanza che la accoglie, quando la porta si apre, sola, al suo arrivo.
È un vampiro e non ha intenzione di andarsene fino a quando non avrà ottenuto quello di cui ha bisogno anche a costo di non muoversi dall’uscio per mesi, ma sua madre l’ha cresciuta perché fosse una bambina educata. E lo è ancora. Una persona educata, non una bambina, anche se Klaus ha espresso un’opinione diversa a riguardo l’ultima volta che si sono visti, quando l’uomo se ne è andato sbattendosi la porta alle spalle e promettendole silenziosamente di non cercarla mai più, di non farsi vedere, di lasciarla sola per l’eternità e Caroline non sa se voleva essere una vendetta o un atto di compassione - per lei.
Caroline scuote la testa: non è il momento per pensare a certe cose. A Klaus o a come quella casa le ricordi una rhumeria in cui Hope li aveva trascinati una sera, mentre erano ancora a Parigi, e Caroline ancora pensava di non aver bisogno di altro. Che le sarebbe bastato farsi trasportare dall’entusiasmo di Hope o dal desiderio di Klaus per essere felice. E forse aveva ragione Klaus, forse è davvero ancora solo una bambina
Scuote di nuovo la testa, con più veemenza per scacciare quei pensieri e gli insetti che sono discesi a ronzarle intorno al volto. Sembrano grossi, grassi e rigogliosi come le piante che li circondano.
- Non mi sorprende che tu non sia in grado di apprezzarle – afferma una voce, tra le fronde.
Caroline non sobbalza solo perché è troppo orgogliosa per farlo.
La donna che emerge dalle felci le arriva poco più in alto della vita e indossa un tradizionale kimono scuro, con disegni di foglie che ne ornano il bordo inferiore. Ha i capelli stretti in una crocchia, un volto che sembro privo di età, gli occhi severi fissi su di lei e sembra assolutamente fuori posto in mezzo a quel tropicale giardino dell’Eden in miniatura.
- Cosa? – domanda Caroline, resistendo alla tentazione di scacciare gli insetti con una mano.
- Le piante – afferma la donna e Caroline è quasi certa che si sia trattenuta a stento dal roteare gli occhi.
Parla un inglese stentato e ha una voce leggermente gracchiante, come se avesse fumato per anni e questo le avesse rovinato la gola. Caroline si chiede se non siano stati gli effluvi tossici di quella foresta in cui vive.
- Producono ossigeno e tu non ne hai bisogno – continua la donna con tono di rimprovero. – E voi tendete sempre a non apprezzare quello che non vi è utile. –
- Noi? –
Questa volta la donna non si trattiene dal roteare gli occhi.
- Quelli come te. La tua razza. I vampiri. –
Anni, mesi, una settimana prima Caroline si sarebbe offesa e avrebbe esclamato, oltraggiata, che no, non è vero, che lei è un vampiro, ma non è come tutti gli appartenenti alla sua specie e avrebbe preteso che la strega lo capisse. Gli altri vampiri uccidevano, lei no. Gli altri mostri, quelli che le streghe odiano tanto, ammazzano per divertimento e non danno alcun valore alla vita umana e le generalizzazioni sono sbagliate. Tumblr non ti ha insegnato niente?
Ora invece si limita a guardarla, senza distogliere gli occhi, fino a quando la donna non sbuffa.
- Allora? – domanda la strega.
- Allora? – le fa eco Caroline e nota con tristezza che non sta certo dando la migliore impressione di sé.
- Perché sei qui? –
Oh, quella è una risposta facile.
- Voglio trovare una persona. –
La strega inarca un sopracciglio. Caroline può quasi sentire la muta esasperazione e la richiesta di avere altre informazioni, se no come può la giovane americana pretendere che lei trovi chiunque?
- Un uomo. - inizia.
Quella è la parte difficile. Fosse chiunque altro, Caroline non ha dubbi che la strega non si porrebbe alcun problema a trovarlo, ma è Klaus e trovare l’Ibrido Originale quando lui vuole rimanere nascosto non può essere facile e deve essere pericoloso. E perché mai una strega dovrebbe essere disposta a correre un rischio del genere per una giovane vampira senza alcun potere?
- Un vampiro – sopperisce la donna al suo posto.
- Più o meno. -
La donna si limita, nuovamente, a guardarla e Caroline si trova costretta ad ammirare come l’educazione giapponese permetta loro di essere sempre splendidamente cortesi e, al contempo, farti sentire pesantemente insultato.
- Un ibrido – afferma, infine.
- Un? –
- L’ibrido – ammette controvoglia, con un sospiro.
- L’ibrido? –
- L’ibrido originale. Niklaus Mikaelson – sbotta, alla fine.
La donna non contorce il volto in un’espressione spaventata o inorridita - non che il suo viso sembri in grado di mostrare davvero una qualche emozione: i lineamenti sono come scolpiti nel legno di uno dei tronchi che le circondano – e Caroline non può impedirsi di provare un moto d’ammirazione.
La donna continua a scrutarla, ma per la prima volta non sembra guardarla per chiederle qualche altra ovvia informazione in più, ma solo per studiarla. E pensare.
- Devo riflettere – le annuncia, alla fine, prima di voltarsi e sparire tra le immense foglie.
Caroline rimane immobile davanti al portone d’ingresso della casa della strega, con un nugolo di moscerini che le ronza intorno alla testa – e non vuole neanche sapere in quanti si siano già suicidati tra i suoi capelli -, circondata da piante immense e un’aria piena di umidità e di ossigeno. La strega non ha risposto alla sua richiesta con un secco no, non sono folle e non l’ha neanche cacciata dalla sua abitazione, eppure Caroline non è certa che le cose potessero andare peggio di così.
 
 
La mattina dopo, Caroline ritorna dalla strega – forse dovrebbe almeno scoprirne il nome, se vuole portare avanti la pretesa di essere educata - portando, sotto braccio, un sacchetto di cookies e due caffè perché se c’è una cosa che ha imparato nei suoi anni da capo comitato a Mystic Falls è che se desideri una cosa devi insistere fino a quando non la otterrai. E se sei cortese le persone sono più propense ad accettare le tue richieste.
Quando varca la porta, la strega si trova in piedi sulla soglia che separa il salotto dal minuscolo cucinino, in cui si intravedono spessi tralicci carichi di frutti. Stringe una tazza di ceramica bianca tra le dita e, quando la vede, si limita ad alzare gli occhi al cielo e borbottare qualcosa sugli impazienti americani seguito da quello che, Caroline è quasi certa, sia un insulto masticato tra i denti.
La strega si fa strada con sorprendente facilità tra le radici che percorrono il suolo e si inginocchia compostamente davanti al basso tavolino che si trova al centro della stanza.
- Devo riflettere – ripete.
La voce le si riempie d’accento e di altre vecchie sfumature, quando usa quel tono brusco e Caroline si ritrova ad annuire prima ancora di rendersene conto.
La donna fa un secco cenno di assenso, posa le mani sul legno del tavolo, china gli occhi sul tè chiaro che riempie la tazza e da cui si leva ancora un filo di vapore e smette di muoversi. Se non fosse per il lento sollevarsi e abbassarsi del suo petto al ritmo del suo respiro e per l’eco del battito del suo cuore che riempie la stanza, Caroline potrebbe quasi pensare che la donna sia morta.
E non è orribile che il primo pensiero che la coglie all’idea sia solo che sarebbe una immensa seccatura dover rintracciare un’altra strega con lo stesso potere? Non la rende una persona orribile? Non la rende spaventosamente simile a tutto quello che, in Klaus e in Damon, ha sempre criticato? Resta ancora, in lei, qualcosa che la renda una persona?
Un sospiro tremulo le sfugge dalle labbra, mentre si lascia scivolare a sedere tra le spesse radici e porta la tazza di caffè alle labbra e si sente, di nuovo, terribilmente sola. Il suo sorseggiare sembra essere l’unico rumore che riempie la stanza, insieme al lento frusciare delle fronde e il basso ronzio dei moscerini.
 
 
Regge due ore prima di iniziare a parlare a vanvera solo per riempire quel silenzio pesante come l’aria gravida di umidità della stanza. Ha imparato a non parlare – e a riflettere prima di farlo. Ha dovuto, per poter sopravvivere alla sua solitaria esplorazione del mondo, ma non è mai stata brava a tollerare i pensieri che le si affollano nella mente e pretendono attenzioni, quando intorno a lei tutto tace.
Il mondo è piena di meraviglie, ma le Piramidi perdono gran parte del loro fascino quando non hai nessuno a cui confidare che nonostante la tua immortalità, non ti sei mai sentito così piccolo; il museo di Amsterdam diventa quasi noioso quando non hai nessuno che sorrida del tuo sentirti svenire davanti a un quadro di Van Gogh.
Le torna alla mente l’orrendo sospetto di aver accettato la proposta di Hope solo per non sentirsi più così completamente sola e teme che l’abbia pensato anche Klaus. Che abbia pensato che era disposta ad accettare la mano tesa di chiunque.
Una parte di lei, quella che osa guardare la verità che Caroline tenta di nascondersi, sa che non è vero: Stefan le ha proposto di vedersi, Enzo ha una porta sempre aperta per lei e se fosse stato solo un desiderio di compagnia a muoverla, Caroline avrebbe avuto altre strade più semplici da seguire.
Inizia a parlare e le racconta di quello che ha visto di Tokyo, di quello che si aspettava, di come non riesca a smettere di pensare alle gallerie di Shangai, ai grattacieli costruiti sul vuoto di un terreno scavato. Le cita interi brani di un libro e le mente dicendole che è l’ultimo che ha letto, non le dice che Klaus le ha recitato ogni frase, mentre lasciava scie di baci sulla sua pelle, mentre beveva il suo sangue e le accarezzava i capelli. “La conosco da sempre. Tutti dicono che da giovane lei era bella, sono venuto a dirle che la trovo più bella ora, preferisco il suo volto devastato a quello che aveva da giovane” ha mormorato, depositando baci e morsi leggeri sulla sua schiena, mentre, con una mano, scivolava ad accarezzarla tra le gambe, dove era già di nuovo bagnata per lui.
Cita frasi che Caroline non sa ancora dire se siano d’amore e le parla delle mancanza di fondamenta di Shanghai perché è più semplice che fermare a concentrarsi su quelle che mancano a lei. Che mancavano a loro.
La strega non dà mai nessun cenno di sentirla ed è così facile parlare con il vuoto di una stanza piena di piante e moscerini e di sé stessa. E dei capelli che, a causa dell’umidità, le si arricciano e formano una massa informe intorno alla testa, nonostante si ostini ad usare solo le migliori maschere sul mercato.
- Klaus se n’è andato – afferma, una mattina.
Ha le ginocchia strette intorno al petto e il volto nascosto contro le gambe, i capelli le ricadono come una tenda informe intorno al viso e la voce esce come un borbottio confuso da quella tana di pelle e ossa in cui si è nascosta. È così abituata all’immobilità della donna che non solleva neanche il capo per vedere se questa confessione sia riuscita a smuoverla.
- Perché io gli ho detto che l’avrei fatto. –
 
 
- Mi spaventa – mormora. – Mi spavento – aggiunge.
Non è colpa di Klaus, ma Klaus è un continuo promemoria di quella ragazza che si è lasciata alle spalle e di quello che rimarrà di lei e a volte non sopporta di guardarlo e di guardarsi. Di chiedersi se la amerà ancora, quando il tempo avrà smesso di logorarla. Se si amerà ancora.
È tutto solo un terribile gioco di specchi, in fondo.
Non sopporta di essersi fermata, sotto il soffitto di una discoteca di Shangai, ed essere stata costretta a chiedersi: mi ama? Mi ha mai amata? O ero solo anche io un gioco di potere?
Rialza il capo e sbatte la testa contro il tronco alle sue spalle. Rimane ferma e solleva lo sguardo sul soffitto ricoperto di foglie.
- Non volevo davvero andarmene -  afferma. – Volevo… Non lo so. Non volevo che se ne andasse. Non davvero. Non per sempre. –
Ma con Klaus è sempre stata una questione di per sempre.
A volte pensa che avrebbe avuto bisogno di più tempo. Che sarebbe stato più facile, se avesse potuto decidere quando raggiungerlo, se avesse potuto controllare il luogo e scegliere il momento perfetto, se non fosse stata trascinata da Hope in una storia in cui non era pronta.
Una parte di lei, che sembra ronzare come i moscerini che vivono in quella casa, si chiede se lo sarebbe mai stata davvero.
 
 
Senza la voce di Hope e con solo il profumo di Klaus e il calore del corpo dell’ibrido a cullarla, la notte, Caroline aveva sentito la sua mente ricominciare a lavorare incessantemente, a porsi domande, a chiedersi se è davvero quello che vuole, se…
Di giorno, aveva iniziato a farsi sempre più distante, a schernirsi davanti alle parole di devozione dell’uomo e ai suoi sorrisi e Klaus se n’era accorto perché non puoi sopravvivere per mille anni a un padre psicopatico se ti fai distrarre dal paesaggio.
Aveva iniziato a stringerla più saldamente contro di sé, quando uscivano in pubblico, a ringhiare sottovoce ad ogni singola attenzione che Caroline non gli rivolgeva, a sbatterla con più violenza contro la parete della stanza, quando rientravano alla sera. Non tanto da ricordarle Damon, ma abbastanza da lasciare per un istante segni sulla sua pelle candida, da ricordarle esattamente con chi stesse viaggiando. Aveva iniziato a morderla più spesso, mentre la fotteva negli immensi letti delle suite che dividevano, e a costringerla a morderlo perché il sangue lega.
Se fosse stata meno presa da sé stessa e dalla paura che la coglieva al solo guardarsi allo specchio, Caroline avrebbe notato i segni, avrebbe visto l’inquietudine negli occhi dell’uomo – il dolore che si agitava sotto la pelle - quando si allontanava da lui.
Avrebbe notato i sintomi che avevano preceduto Shangai e tutte le volte che Klaus aveva tentato di allontanarla. Tutte le volte che l’aveva messa alla prova per vedere quanto era disposta a reggere per lui. Per loro.
Shangai con le sue gallerie e i suoi grattacieli e l’eco della porta che sbatte, quando Klaus la ascolta e se ne va.
 
***
 
C’è una parte di Caroline che si è sempre chiesta fino a quando sarebbe potuto durare quello stato di grazia tra lei e Klaus. Fino a quando avrebbero potuto continuare a viaggiare e a fingere di non vedere tutte le ombre, tutte le parole ingoiate come piccoli sassi.
Ci sono dei sassi, tra le radici degli alberi che crescono nella casa della strega. Caroline li guarda e pensa ai locali di Shangai, alla sera in cui Klaus l’ha presa per mano e le ha chiesto:
- Tesoro, vuoi andare a ballare? –
Pensa al brivido che le era corso lungo alla schiena, alla premonizione di qualcosa.
Qualcuno le ha detto che quando le bombe vengono scagliate sulle città, ne senti il fischio e il peso nell’aria, prima che cadano e c’è quell’istante – quell’eterno, infinito istante – in cui sai che stai per sentire il boato di quartieri interi che crollano come castelli di carte. Caroline si era sentita come un palazzo, sotto un cielo bombardato, mentre si umettava le labbra prima di rispondere:
- Certo. –
Ed era parsa più una domanda, più un’incertezza, ma Klaus aveva sorriso e l’aveva baciata, passandole un braccio intorno alla vita e Caroline aveva cercato di convincersi che si era sbagliata, che non c’era nulla di strano nel fatto che Klaus volesse andare in una discoteca anche se ne odiava l’odore e la calca e la plebe, che volesse vederla felice, che non era Stefan, che era stata una volta sola e Damon non l’avrebbe più fatto, che suo padre l’amava, che avrebbe capito e avrebbe accettato, che  –
È brava a convincersi di qualsiasi cosa, fino a quando i denti di Damon non le perforano la giugulare o il sole non le brucia la schiena o Shangai non esplode come una città bombardata.
 
 
Le discoteche, a Mystic Falls, erano una leggenda mitologica e incredibile quasi quanto il mostro di Lochness. Gli unici posti in cui si potessero organizzare feste in quella minuscola cittadina della Virginia erano i boschi che la circondavano o le case dei fortunati che avevano genitori abbastanza ricchi e abbastanza lontani per il week end – e la cui madre non era lo Sceriffo della città. Crescendo, Caroline si era inebriata dei racconti di quei fortunati che partivano per le vacanze e delle raccomandazioni di sua madre che descrivevano quei luoghi come centri di perdizione e perversione in cui perfetti sconosciuti approfittavano degli angoli bui per fare sesso o drogarsi.
Quando a sedici anni, aveva approfittato di un documento finto e di una vacanza da Steven e suo padre per sgattaiolare in uno di quei luoghi, Caroline non aveva notato nulla di simile. Aveva sentito la musica rimbombarle nel cranio e le urla della folla levarsi al richiamo del deejay e si era divertita prima di passare la giornata successiva a letto ripetendo un’infinità di volte a Steven che no, non aveva bevuto nulla quando era uscita con Amy, doveva aver preso un colpo di freddo.
Quando vi era tornata, dopo la trasformazione, la prima cosa che l’aveva colpita come quasi al punto da farla ripiegare su sé stessa per il disgusto era stato l’odore di sudore, sesso e alcool che riempiva l’aria. Poi era venuta la musica e la sensazione che qualcuno le stesse prendendo i timpani a martellate. Non era stata un’esperienza piacevole, ma era stata un’esperienza in cui perdersi con l’umanità spenta e il cuore nascosto da qualche parte.
 
 
Un boato.
Non le ci vuole tanto a capire che Klaus aveva un piano in cui lei interpretava solo il ruolo della biondissima distrazione. Ci sono delle faccende, in quella città, che l’Ibrido Originale deve risolvere e giochi di potere, con vampiri antichi come le fondamenta stessa di quella terra, che Caroline non vuole capire, vuole solo tornare a casa e togliersi di dosso quel vestito che sa di fumo e sangue e mani e sguardi diversi da quelli per cui era stato previsto.
Vuole chiudersi la porta della stanza alle spalle e ingoiare le lacrime che le pizzicano gli angoli degli occhi e non mostrargli in quale modo perfetto e assoluto sia riuscito a mandarla in pezzi.
 
 
L’impatto.
- Ti aveva toccato – ringhia l’uomo e a Caroline viene quasi da ridere a quanto sia oltraggiato il suo tono. A quanto sembri convincente.
- Non fingere che non fosse esattamente quello che volevi. Una scusa per farli a pezzi – grida e non riesce a trattenere la risata amara che le zampilla dalle labbra come sangue da una ferita.
Non riesce a non scuotere la testa di fronte a quella follia che è stata fidarsi di lui, credere che fosse diverso, che…
Klaus si tira indietro, come se l’avesse schiaffeggiato.
- Non capisci – afferma.
- No – gli dice e si sente improvvisamente lontana anni luce da quella stanza, da lui, da tutto quel dolore. Si sente come le macerie ormai spente di un palazzo crollato. È così meravigliosamente distrutta e nulla ha più importanza. – No e non voglio capire. Non sono neanche sicura che dovrei restare – aggiunge come sovrappensiero. Come se non fosse, poi, una cosa che la riguarda così tanto restare o andarsene.
L’uomo indietreggia come se gli avesse piantato un paletto di quercia bianca nel petto e Caroline scoppia di nuovo a ridere perché come può reagire a quel modo dopo quella sera? Come può darle solo ora tanta importanza.
- Le cose stanno così, allora – conclude l’uomo.
La furia che lo animava sembra essersi improvvisamente spenta e qualcosa gli è calato sugli occhi e Caroline pensa che dovrebbe importarle di quell’improvvisa freddezza, del gelo che sembra avere riempito la loro stanza distrutta, ma è lontana anni luce e lo guarda e non riesce a vedere niente oltre al modo in cui l’ha usata, senza dirle nulla, in cui non si è fidato e non riesce a convincersi che non lo rifarà di nuovo, che, di nuovo, ci sarà sempre un qualche gioco di potere più importante di lei.
- Sì – mormora e le lettere non hanno ancora finito di staccarsi dalle sue labbra che la porta della stanza sbatte e trema sui cardini e di Klaus non rimane che l’odore che riempie la stanza.
 
 
Macerie.
Un sospiro tremulo le scivola fuori dai polmoni schiacciati e improvvisamente Caroline si ritrova rannicchiata sul pavimento, squassata da singhiozzi e frammenti di legno e lenzuola e lo odia e vuole che torni, che le dica che si è sbagliato, che sbaglieranno ancora, che non la terrà più all’oscuro, non la userà più come se non avesse alcun valore, che –
Vuole che torni e la rassicuri che la ama.
Voleva che scegliesse lei.
 
 
Klaus non torna e Caroline non si rende conto che c’era ancora una parte di lei che era rimasta in piedi fino a quando non realizza: Klaus non tornerà.
 
 
Non è facile: alzarsi, uscire dalla stanza, mangiare, dormire, ripetere. Caroline non realizza quanti bisogni abbia il corpo di un vampiro fino a quando compiere ognuno di essi non diventa uno sforzo pari a quello di portare il mondo sulle spalle. Ripensa al mito di Atlante, alla voce di Klaus che le accarezzava l’orecchio, mentre gliene parlava di fronte al Partenone e pensa che non aveva mai compreso l’immensità della sua fatica fino ad ora.
Un giorno si lascia cadere con un sospiro contro la porta della stanza e pensa a quanto sia faticoso e inutile raggiungere il letto, pensa che potrebbe dormire lì, che non rischia più di svegliarsi con il mal di schiena perché è morta e vecchia. Guarda gli stivali neri che indossa e la fatica necessaria a sollevarli e li odia e si odia.
- Basta – mormora. – Basta – ripete, alla stanza vuota.
Basta.
Klaus non è tornato e l’ha usata, ma c’è quella parte del suo petto che continua ad appartenergli, a sentirsi a casa solo quando si addormenta con il capo sul cuscino dell’uomo e Caroline non ha più diciassette anni – è vecchia – e non ha alcuna intenzione di rimanere sepolta nell’assenza dell’uomo.
 
***
 
Anni fa ha preso la sua terza laurea in psicologia e, al terzo anno, un vecchio professore passa l’intera lezione a spiegar loro quanto la vita sia una disgrazia terribile e chiaro segno dell’assenza di un dio misericordioso e che, proprio per questo, ognuno di loro debba trovare, come compito a casa, un gruppo di persone di cui circondarsi. Persone che vi facciano felici, aveva detto, che siano presenti nei momenti del bisogno e che voi sentiate di voler aiutare quando si trovano in difficoltà.
All’epoca, Caroline cominciava a sentirsi tanto vecchia e tanto immobile in un corpo da ragazzina che era rimasta sorpresa da come le parole di un uomo poco più grande di lei potessero colpirla a quel modo. Farla riflettere a quel modo.
- Solo che – confida alla strega. – A volte è spaventoso, quello che ci rende felici. –
- Mia madre non avrebbe mai approvato. Non avrebbe capito e… non voglio deluderla – continua. – Non voglio deludere nessuno di loro, ma a volte mi alzo al mattino e mi dimentico perché dovrebbe importarmi, perché... Perché dovrei vergognarmi se quella sera non volevo neanche delle scuse. Volevo solo che Klaus mi ricordasse che non importava di quanto tempo avrebbe avuto bisogno per fidarsi di me, di quanti secoli e quante prove, ero comunque la sua prima scelta. E che si sarebbe fidato, un giorno. -
Ha imparato che il momento perfetto – quello in cui si è pronti e sicuri e ogni cosa va al suo posto – non esiste davvero, non nella sua vita almeno, e non sa se si perdonerà mai per averlo fatto, se i suoi amici la perdoneranno mai, ma ha perdonato Klaus decenni fa e non c’è altro luogo, ora, dove lei voglia essere se non accanto a lui. L’ha accettato, mentre misurava le distanze tra i monumenti di Tokyo con il metro della sua assenza e non è pronta ad ammetterlo ad altri che a sé stessa, ma…
 
 
La donna rialza il capo e non c’è un sorriso sulle sue labbra – Caroline non è certa che il volto della strega sia stato fatto per accoglierne uno -, ma un’espressione quasi morbida le piega i lineamenti, quando posa i suoi occhi scuri sulla vampira bionda che si è accampata sotto il suo albero prediletto.
- Ho deciso – annuncia e la sua voce non sembra neanche un po’ colpita dallo scarso uso.
Caroline raddrizza la schiena e si irrigidisce come se fosse in attesa di un giudizio o di un attacco.
- Mi chiamo Kimiko – afferma la donna.
E alza gli occhi al cielo, di fronte allo sguardo interdetto di Caroline, prima di aggiunge:
- Pensavo dovessi sapere come mi chiamo se dobbiamo lavorare insieme, Caroline Forbes. -
 
Mentre prepara gli ingredienti necessari all’incantesimo di localizzazione, Kimiko fa partire un vecchio giradischi: il vinile è rovinato e gracchia leggermente, ma le parole della canzone e la melodia su cui si stendono come bambini su un prato sono ancora riconoscibili: At last / My love has come along / My lonely days are over / And life is like a song.
Caroline digrigna i denti, stringe i pugni fino a farsi sbiancare le nocche e cerca di convincersi che sia una scelta casuale.
 
***
 
È un po’ delusa e un po’ ferita, quando scopre che Klaus non è a Tokyo: una parte di lei sperava che fosse rimasto a controllarla in quel suo modo assolutamente inquietante e invadente. Che non l’avesse ascoltata e non se ne fosse andato del tutto.
Ma l’ha fatto e, quando Caroline si imbarca per Kyoto, è un po’ ferita e un po’ felicemente sorpresa che abbia rispettato la sua volontà.
Kyoto è una cittadina incantevole, Caroline immagina, e piena di luoghi memorabili e eleganti. Sarà questo che racconterà ad Enzo: Kyoto era incantevole, c’era questo posto in cui ho bevuto un tè meraviglioso ed erano tutti così eleganti, ma la verità è che non vede nulla della città che attraversa. Ha un indirizzo che le brucia nella tasca del cappotto e l’urgenza di arrivare prima che Klaus sparisca di nuovo nel nulla.
 
 
Per un istante Caroline rimane ad osservare l’ombra che il suo pugno disegna sul legno scuro della porta chiusa che la separa da Klaus: immagina il suono che faranno le sue nocche contro la superficie liscia, si chiede se Klaus sia in casa, lo immagina muoversi; si domanda se sobbalzerà o se la attende. Si chiede se sia la cosa giusta da fare.
Ripensa a Kimiko e al suo volto privo di espressione, al modo in cui le ha ingiunto di dimenticarsi di lei:
- Non voglio più vedere te o altri vampiri – aveva affermato, alzandosi lentamente in piedi. Le ginocchia avevano scricchiolato piano sotto il peso dell’immobilità e della vecchiaia e Caroline si era avvicinata per aiutarla, ma la donna l’aveva scacciata con un gesto seccato della mano e aveva afferrato una liana che pendeva dal soffitto. – Non ho bisogno del tuo aiuto. Ho le mie piante e devo prendermi cura di loro – aveva affermato, prima di voltarsi nuovamente a guardarla e Caroline aveva sentito un brivido correrle lungo la schiena sotto l’esame di quegli occhi neri come biglie. – Hai l’indirizzo che cercavi – le ha detto. – Ma sei sicura di volerlo ritrovare? –
Caroline non aveva risposto, allora. Si era limitata a guardarla e a scuotere leggermente il capo più per rifiuto della domanda che in risposta ad essa, ma ora si trova di fronte a questa porta e non ha esitato neanche un istante a cercarla – a cercarlo – e lo sapeva anche allora che la risposta era sì. Era sempre stata sì.
Da quando si sono incontrati a Roma, da quando Hope li ha lasciati, da quando hanno navigato per le strade di Parigi come due giovani amanti e quelle di Mystic Falls come due nemici, la risposta è sempre stata sì.
Tra un anno o un secolo.
Sì.
Busserai alla mia porta.
Sì.
Dimmi la verità, Splendore, sei già perdutamente innamorata di lui?
Sì.
Il rumore delle nocche che si scontrano contro il legno della porta è quasi assordante nel silenzio che regna nel corridoio vuoto. Caroline trattiene un fiato di cui non ha bisogno e resiste a stento dall’incrociare le dita come la ragazzina che non è più da decenni.
Dall’altra parte della soglia la accoglie solo un silenzio assoluto, totale, travolgente e Caroline sente già un groppo in gola formarsi alla prospettiva che Klaus non sia in casa, che forse non sia neanche più a Kyoto, che dovrà inseguirlo per anni, quando, improvvisamente, sente un sospiro affranto, frustrato, sorpreso scontrarsi contro le tavole e infine la porta aprirsi sul volto di Klaus Mikaelson.
L’uomo indossa un paio di jeans e una maglietta nera con le maniche arrotolate a scoprire le braccia. Il volto sembra scolpito nella pietra e solo gli occhi che seguono, guardinghi, ogni suo agitato movimento sembrano tradire una qualche emozione.
- Cosa ci fai qui? – domanda non appena apre la porta della lussuosa suite che occupa da giorni.
Caroline si aspettava un ringhio, qualcosa che le ricordasse che è un uomo pericoloso e che dovrebbe temerlo perché è quello che fa Klaus, ma la voce dell’uomo è fredda e distante e la cosa fa ancora più male. C’era calore negli occhi dell’uomo ogni volta che la guardava – anche quando era furioso con lei, anche quando voleva solo strozzarla o baciarla -, ma ora non c’è più alcuna luce nel suo sguardo. Caroline potrebbe essere una perfetta sconosciuta, un’ombra sul selciato su cui cammina.
- Ho provato a chiamare – risponde, piccata. – Ma non rispondevi. –
Klaus scuote le spalle, un braccio mollemente poggiato contro lo stipite della porta. La posa sembra casuale e rilassata, ma Caroline può scorgere la tensione che gli irrigidisce i muscoli e come faccia attenzione a non offrirle neanche un millimetro di spazio attraverso cui infilarsi. Nella stanza o nella sua vita.
- Le chiamate da ubriaca non mi affascinano affatto. –
- Non… - Caroline alza le mani al cielo ed esala un ringhio frustrato. – Non ero ubriaca ed è molto maleducato dare per scontato che lo fossi – sbotta.
Per un attimo, un’espressione sorpresa gli attraversa il volto - le spezza il cuore che ancora Klaus non riesca a credere che sì, lo chiamerebbe anche da sobria, che sì, vorrebbe davvero stare con lui, se lui smettesse di essere un’idiota e glielo concedesse, grazie tante -, ma rapidamente com’era apparsa scompare e lei si ritrova nuovamente a fronteggiare un Klaus che non è mai stato così distante.
- Non c’era altro da aggiungere, Caroline. –
È il tono con cui lo dice, è l’espressione che non ha sul volto, che le ricorda la strega da cui ha passato giorni interi per trovarlo, è il leggero movimento delle spalle, il leggero voltarsi come per mettere fine a quella conversazione, a lei, a loro, che le spezza il cuore e le parole da dire – tutti i discorsi e le mille possibili repliche che ha preparato sull’aereo - le si affollano in bocca.
Lo schiaffo rimbomba secco nel silenzio del corridoio. Caroline è la prima a rimanere paralizzata con lo sguardo fisso sulla sua mano e sul volto di Klaus, spostato di lato più dalla sorpresa che dalla forza del colpo.
- Caroline – ringhia l’uomo.
Un lampo di giallo gli attraversa lo sguardo e Caroline sente una risata isterica risalirle nella gola. Non ha paura di lui – ha smesso di averla così tanti anni prima –, ma le spezza il cuore vederlo così con lei. E riconoscere l’ira e i chilometri che ha frapposto fra di loro.
 
Quando Klaus se ne è andato, a Shangai, l’ha fatto perché ha sentito l’aria mancargli, ha visto la risoluzione negli occhi di Caroline e ha capito che era la fine, che Caroline se ne sarebbe andata e lo sapeva che non sarebbe rimasta per sempre. Come avrebbe potuto sopportare di stare con lui per sempre? Con lui che ha torturato e perseguitato i suoi amici, che ha sterminato innocenti e massacrato intere contee. Klaus aveva sentito i pugni serrarsi e il desiderio di strapparle il cuore – che non lo avesse nessuno, se non poteva averlo lui - o di dissanguarla e costringerla a rimanere bruciargli le vene.
Aveva serrato i pugni e aveva costretto i suoi piedi a muoversi, ad andarsene prima di fare qualcosa di cui si sarebbe pentito per l’eternità. O prima che fosse lei ad andarsene.
Ora che Caroline è di nuovo di fronte a lui, con i capelli biondi e quella luce che lo fa sentire come un assetato in mezzo al deserto, Klaus sente di nuovo il desiderio di farla a pezzi o imprigionarla e non permetterle mai più di lasciarlo, andarsene, sparire. Stringe lo stipite della porta tra le dita fino a frantumare il legno. Minuscole schegge cadono ai suoi piedi e gli si infilano nella carne e Klaus accoglie il fastidio che provocano come una benedizione.
Caroline si umetta le labbra, guarda sconcertata la mano con cui l’ha colpito, prima di rialzare lo sguardo su di lui.
- Dobbiamo parlare – afferma, con un sospiro.
No, non dobbiamo vorrebbe ringhiare.
- Parla – la invita invece, con un sorriso per nulla piacevole a piegargli le labbra.
Caroline sbuffa, sbatte un piede per terra, incrocia le braccia davanti al petto. Sembra una bambina e Dio, quanto la ama.
- Non penso sia una conversazione da avere nel corridoio di un albergo – ribatte, piccata.
Klaus scuote il capo, noncurante.
Caroline sapeva che non sarebbe stato facile, farlo ragionare e fargli capire che aveva ragione lei, grazie tante, ma in nessuno dei suoi peggiori incubi sarebbe stata in grado di immaginare con tanta precisione l’immensità della frustrazione che la riempie, mentre cerca di discutere e Klaus sembra volersi comportare come un fottuto. Muro. Di. Gomma. Vorrebbe urlare che non dovrebbe essere lei l’adulta tra loro due e allo stesso tempo sa che sarebbe inutile, che non c’è altro modo.
- Klaus – afferma e lascia filtrare nella voce un po’ della stanchezza che le rende doloranti le ossa.
L’uomo la guarda, osserva i suoi occhi chiari, i capelli che le incorniciano il volto, la piega ferrea della bocca, il tremore che le scuote le labbra rosse. È lo stesso volto che disegnato per giorni, da quando ha lasciato Shangai, da quando si è sradicato dalla sua vita perché Caroline se ne sarebbe andata, Caroline se ne stava andando e non poteva sopportare di essere quello che rimaneva, di vedere la sua schiena e di sapere che era stata colpa sua. Di averla avuta solo per perderla.
Per giorni ha pensato che sarebbe stato meglio vivere in eterno in attesa di un suo arrivo piuttosto che doverla lasciare andare. Per giorni ha pensato di averle fatto un favore; per giorni ha cercato di strappare ogni brandello di pensiero e di mancanza e desiderio e nasconderlo tra i tratti scuri del carboncino con cui ha delineato i lineamenti di Caroline sulla carta.
Con un sospiro, si fa da parte e la lascia entrare nella sua stanza. Si ripete che quella concessione non ha nessun significato.
 
- Mi hai usata – afferma.
Caroline aveva preparato un discorso, tra le radici delle piante di Kimiko e lungo le rotaie che l’hanno portata fino alla stanza di Klaus. Un discorso lungo e articolato in cui avrebbe spiegato a Klaus ogni cosa e che non iniziava così.
Si morde la lingua e si maledice, ma è troppo tardi per tornare indietro.
- Mi hai usata – ripete con più forza, con più rabbia. – Non mi importava che avessi degli affari o dei vampiri da uccidere. Sei Klaus Mikaelson, hai sempre delle persone da uccidere o torturare o terrorizzare, ma mi hai usato come esca.
Come facevano Damon, Stefan, Elena, resta in sospeso fra di loro.
- E non hai avuto neanche il coraggio di dirmelo. E sai la cosa peggiore? È che ti avrei aiutato, se me l’avessi chiesto. Se ti fossi fidato di me. -
Caroline aveva preparato un discorso. Era articolato e meraviglioso, ma l’unica cosa importante è quella che le lascia le labbra con un singhiozzo:
- Fallo un’altra volta e non mi vedrai mai più. -
Klaus non le corre incontro, non l’abbraccia, non le promette tra i capelli ogni cosa che desidera perché è Klaus ed è impegnato a guardarla con una tenue e terrorizzata speranza negli occhi, con i pugni serrati e i denti che vogliono trasformarsi in zanne, con un lupo appena nascosto sotto la pelle che vorrebbe ululare e invece chiede:
- Cosa vuol dire? –
Una risata strozzata le lascia le labbra, zampilla come sangue rosso e limpido da una ferita finalmente pulita dall’infezione che la stava divorando.
Caroline prende un respiro, trattiene nei polmoni dell’aria che non le serve più a nulla se non a ricordarle gli esercizi che una ragazza di diciassette anni aveva imparato a fare per tentare di calmarsi quando le sembrava di non riuscire a controllare più nulla.
- Non dovevi andartene – dice ai muscoli serrati della mascella dell’uomo, ai capelli che gli ricadono sulla fronte, alle collane che porta al collo. – Ero furiosa e avevo bisogno di spazio, di tempo per capire e smaltire, ma non che te ne andassi – continua e spera che Klaus capisca la differenza. Caroline alza le spalle, le scuote, le lascia ricadere sconfitta.
- Te ne stavi già andando. Erano mesi che te ne stavi andando – ringhia l’uomo.
Caroline quasi sobbalza di colpevolezza perché ci sono cose che può negare, ma non quella. Solleva le spalle, in un gesto di pura impotenza.
- Da me. Me ne stavo andando da me, non da te – afferma. – Guardami. Sto diventando sempre più simile a te e… -
- E questo ti disgusta così tanto? –
- Cos…? No – quasi urla - Ma mi spaventa. Meno di cinquant’anni fa ero viva, Klaus. Respiravo e volevo soltanto diventare la reginetta della scuola e ora guardo gli esseri umani e non mi importa più così tanto vederli morire e non è facile cambiare – sbotta, levando le mani al cielo. – Non per me, almeno – aggiunge con la voce che somiglia ad un pigolio. – Mi ci vuole tempo, mi ci vorrà tempo – si corregge – per imparare ad accettare la mia immagine allo specchio, a non sentirmi sul punto di perdermi per sempre, ma non eri tu il problema – mormora. – Almeno fino a Shangai e… anche lì non volevo che te ne andassi davvero. Volevo, non lo so, che chiedessi scusa, che supplicassi per avere il mio perdono – afferma, esasperata. - Non potrà mai funzionare, se continuerai a rimanere con un piede sulla soglia, ad aspettare che me ne vada, per andartene prima – sbotta, abbassando le braccia in un gesto stizzito.
Quando tace, un silenzio vischioso cala su di loro. Caroline si guarda intorno pur di non impazzire o peggio, riprendere a parlare a vanvera pur di sentire qualcosa. La stanza era elegante, seppur dai toni troppo scuri e barocchi per i suoi gusti. Lo si riesce a capire anche ora che sembra sepolta sotto schegge di legno di quelli che un tempo erano mobili, sotto gli strati di piume liberate dai cuscini squartati e dai divani sventrati, sotto gli strati di fogli e pittura nera che ricoprono ogni superficie ancora intatta.
- Volevo ucciderti – ringhia l’uomo d’improvviso ed è come uno sparo nella quiete della stanza.
Gli occhi di Caroline tornano a posarsi sul volto di Klaus, che ha la mascella serrata e gli occhi gialli come certi inferni.
- Volevo strapparti il cuore dal petto purché nessun altro potesse averlo – prosegue, facendo un passo verso di lei.
Ha i pugni serrati, lungo i fianchi ed è così minaccioso. Caroline non riesce a trattenere uno sbuffo.
- Oh per favore – sbotta, allargando le braccia. – Come se fosse stata la prima volta.
- Caroline… -
- E non l’hai fatto – continua, imperterrita, senza lasciarlo parlare.
- Perché me ne sono andato. –
- Non l’avresti fatto lo stesso. Non ci sei riuscito quando avresti avuto ogni motivo per farlo. -
- Non puoi saperlo! –
Il volto, rosso di rabbia, di Klaus è improvvisamente vicinissimo al suo e basterebbe così poco per baciarlo, ma è troppo presto, ci sono armadi da svuotare e scheletri da ricomporre, prima.
- Lo so perché mi fido di te – ribatte, più calma. – Ma il problema è che tu non ti fidi di me o di te – osserva, sconfitta.
- Caroline. –
L’uomo solleva una mano fino a sfiorarle il volto senza toccarla, ma limitandosi ad accarezzare il vuoto che ancora li separa.
- Non so come fare – mormora, alla fine.
Caroline china il capo e quanto vorrebbe poterlo poggiare contro la spalla dell’uomo e lasciarsi andare, lasciarsi respirare contro la sua pelle. Rialza la testa, torna a guardarlo negli occhi.
- Neanche io – ammette, scuotendo le spalle. – Forse è una cosa che va imparata. Con il tempo. E che… possiamo imparare? –
L’ultima frase assume, contro la sua volontà, la forma di una domanda, di un vecchio accusato in attesa di verdetto sul patibolo, ma quando Caroline se ne accorge è troppo tardi per tornare indietro: le parole sono già lì nell’aria tra loro, con quell’inclinazione finale.
Klaus esala un sospiro, quasi contro la sua pelle.
- Non lo so – ammette.
Caroline schiocca la lingua e risponde più bruscamente di quanto vorrebbe per nascondere la delusione, le lacrime che le stringono la gola:
- Non era davvero una domanda -
Klaus esala lo sbuffo di una risata. Caroline lo sente solleticarle i capelli che le ricadono scomposti intorno al viso.
È lei a chiudere la distanza tra la mano dell’uomo e la sua guancia in una carezza all’incontrario, è lei a mormorare un: per favore Klaus, è qui che voglio stare, cos’è che vuoi tu?, che sembra svuotarlo di ogni energia, sembra risucchiare tutta la violenza che riempie la stanza.
Resta il vuoto, la mano di Klaus sulla sua guancia, il sospiro dell’uomo contro le sue labbra quando si china a baciarla e non hanno risolto niente, non davvero, ma forse basta così. Forse è un inizio.
Resta uno spazio per ricostruire qualcosa.
 
***
 
Klaus non le dice di quando Davina e Aya sono riuscite a spezzare il suo legame con la sua stirpe, non le dice del fuoco che gli ha riempito le vene e del dolore e della solitudine che aveva fatto seguito. Non le dice di non averne mai provato una così grande sofferenza neanche nei mille anni che aveva passato a camminare sulla terra con la convinzione che non esistesse nessun altra creatura simile a lui, sulla faccia del mondo – e che per questo lui fosse un bastardo, maledetto, Niklaus.
Un giorno lo farà e Caroline non avrà alcuna frase di conforto da offrirgli perché non esistono parole abbastanza grandi, abbastanza morbide per avvolgerlo come merita e si limiterà a stringerglisi addosso nella speranza che capisca e lui sospirerà contro la sua pelle perché la conosce e anche se non riesce ancora a fidarsi del tutto, Caroline Forbes è comunque la persona a cui lui creda di più al mondo.
Un giorno. Non oggi che ci sono ancora ferite così fresche da leccare. Oggi si limita a stendersi accanto a lei tra i resti dell’immenso letto (- Non riesco a credere che tu davvero non l’avessi lasciato intatto di proposito. Era l’unico mobile in piedi in tutta la stanza. - - Che ti posso dire, tesoro, mi piace dormire comodo. -) che hanno distrutto e a nascondere il volto tra le ciocche bionde che profumano di lei e di sangue e a soffocare un singhiozzo contro la sua pelle. Caroline gli circonda la vita con un braccio e gli accarezza i capelli con la mano libera.
Ci sono macerie tutt’intorno a loro, ma è un inizio.
 
Un giorno, i telegiornali di tutto il mondo saranno aperti da un servizio di immagini di pura devastazione. Shanghai è crollata nella notte, intitoleranno i quotidiani, sotto il peso dei grattacieli e la leggerezza del vuoto su cui sono costruiti e ci saranno macerie e sangue e ossa spezzate e così tanti morti, ma il suolo sarà finalmente pieno e solido e ci saranno macerie, ma è un inizio.
 
***
 
Quando, giorno dopo, lasciano Tokyo con una mano stringe quella di Klaus, mentre nell’altra tiene un bicchiere di Starbucks ripieno di sangue. Una improvvisa folata di vento le fa finire una ciocca di capelli tra le labbra e Caroline scuote la testa e sputacchia nel vano tentativo di liberarsene. Prima che possa decidere se deve lasciare il bicchiere o le dita di Klaus, l’uomo al suo fianco interviene e le scosta i capelli dal volto.
- Grazie – borbotta, con le gote leggermente arrossate.
C’è il sole sull’aeroporto di Tokyo e Caroline sente nell’aria un leggero profumo di fiori di ciliegio, come quello che circondava la tomba che non apparteneva a Liz Forbes. Uno degli ideogrammi del nome dell’aeroporto sembra farle l’occhiolino e Caroline sorride, nascondendo la fronte contro la spalla di Klaus.
- Tesoro? – domanda l’uomo e sembra una scena così mondana, così umana, così.
Una coppia di anziani si volta a guardarli: la donna sorride con condiscendenza, prima di voltarsi verso il marito e mormorargli all’orecchio qualcosa in una lingua che Caroline non comprende e che lo spinge a voltarsi e a guardarli con un sorriso così simile a quello della moglie, che per un istante sembrano quasi avere gli stessi lineamenti, ma è solo la familiarità. Sono solo gli anni passati insieme a guardarsi, respirarsi e, inconsciamente, imitarsi. Ed è spaventoso ed esilarante realizzare che potrebbe accadere anche a lei – che sta già accadendo. Che accetta che le accada. Che accetta di crescere e di farlo accanto ad un uomo che ha distrutto intere città, che ha causato genocidi, che ha ucciso e manipolato i suoi migliori amici. Che lo accetta e lo perdona e lo ama– Dio è così spaventoso – e si perdona nonostante tutto. Per tutto.
Che non teme più così tanto di finire con l’assomigliargli. Con lo scoprire cosa rimarrà di lei dopo secoli e millenni.
Non è certa di essersi ancora ritrovata del tutto, ma almeno ha recuperato il filo di Arianna da seguire e ha tutto il tempo del mondo per scovarsi.
- Tesoro? – domanda ancora Klaus al suo fianco, stringendole leggermente la mano. - È maleducato fissare le persone a questo modo – le mormora all’orecchio, solleticandole il lobo con le labbra.
Caroline scuote le testa.
- Mi ero incantata – borbotta, scuotendo la testa a mo’ di scuse.
- L’ho notato – osserva, lasciandole le dita e scivolando a posarle la mano sulla schiena, per guidarla oltre la soglia dell’aeroporto. – Ma dobbiamo andare. –
Caroline inarca un sopracciglio.
- Non pensavo che il tuo aereo privato avesse orari – afferma.
Klaus scuote le spalle, con un sorriso. Non le dice che le crede, che sa che resterà, che non sarà facile, forse, ma che sa che non ha intenzione di andare da nessuna parte se non con lui; non le dice che le crede, ma che ha comunque ogni intenzione di lasciare quel maledetto continente il prima possibile e non rimetterci piede per i prossimi cinque secoli.
Non dice nulla, ma Caroline gli avvolge un braccio intorno alla vita e gli si stringe addosso come se sapesse.
 
A chi li osserva passare sembrano solo un’altra felice coppia di giovani americani. C’è chi si chiede se si siano fidanzati o se non sia ancora nulla di ufficiale, se fosse un viaggio preparato da mesi e sognato tra le mura delle loro stanze al college. Una signora esala un sospiro commosso e ringrazia che, nonostante la tecnologia, le chat e la rapidità con cui il mondo moderno sembra in grado di soddisfare qualsiasi desiderio, ci siano ancora giovani in grado di guardarsi a quel modo, di amarsi a quel modo.
 

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