Indiana Jones - Quell’estate del ‘57

di IndianaJones25
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: «Le loro impronte sono svanite» ***
Capitolo 2: *** Capitolo I - Amici come prima ***
Capitolo 3: *** Capitolo II - Marion rimugina ***
Capitolo 4: *** Capitolo III - Onça-pintada do Rio ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV - Notte sul fiume ***
Capitolo 6: *** Capitolo V - Verso casa ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI - Atterraggio ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII - I due generali ***
Capitolo 9: *** Capitolo VIII - Oxley si sente meglio ***
Capitolo 10: *** Capitolo IX - Primo interrogatorio ***
Capitolo 11: *** Capitolo X - Estate ‘47 ***
Capitolo 12: *** Capitolo XI - Prigionieri ***
Capitolo 13: *** Capitolo XII - Ross interviene ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIII - Mutt si ribella ***
Capitolo 15: *** Capitolo XIV - Di nuovo in libertà ***
Capitolo 16: *** Capitolo XV - Giugno '26 ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVI - Tutto come allora ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVII - Sul treno ***
Capitolo 19: *** Capitolo XVIII - Le strade si dividono ***
Capitolo 20: *** Capitolo XIX - Euforia della gioventù ***
Capitolo 21: *** Capitolo XX - Ancora in aspettativa ***
Capitolo 22: *** Capitolo XXI - Una vecchia fotografia ***
Capitolo 23: *** Capitolo XXII - Autunno ‘31 ***
Capitolo 24: *** Capitolo XXIII - La città del Blues ***
Capitolo 25: *** Capitolo XXIV - 210 North Dearborn Street ***
Capitolo 26: *** Capitolo XXV - Padre e figlio ***
Capitolo 27: *** Capitolo XXVI - Natale ‘50 ***
Capitolo 28: *** Capitolo XXVII - Cena per tre ***
Capitolo 29: *** Capitolo XXVIII - Notte per due ***
Capitolo 30: *** Capitolo XXIX - Jones ci pensa ***
Capitolo 31: *** Capitolo XXX - Marion e Lucinda ***
Capitolo 32: *** Capitolo XXXI - Accertamenti ***
Capitolo 33: *** Capitolo XXXII - Un abbraccio ***
Capitolo 34: *** Capitolo XXXIII - Secondo interrogatorio ***
Capitolo 35: *** Capitolo XXXIV - Henry ed Harold ***
Capitolo 36: *** Capitolo XXXV - Estate ‘25 ***
Capitolo 37: *** Capitolo XXXVI - Ritorno al Marshall College ***
Capitolo 38: *** Capitolo XXXVII - Rinviato a giudizio ***
Capitolo 39: *** Capitolo XXXVIII - Febbraio ‘39 ***
Capitolo 40: *** Capitolo XXXIX - Almeno provarci ***
Capitolo 41: *** Capitolo XL - Sparatoria nella giungla ***
Capitolo 42: *** Capitolo XLI - Buon compleanno ***
Capitolo 43: *** Capitolo XLII - Una settimana al mare ***
Capitolo 44: *** Capitolo XLIII - Fortuna e gloria ***
Capitolo 45: *** Capitolo XLIV - Ritorno a casa ***
Capitolo 46: *** Capitolo XLV - Il primo compleanno ***
Capitolo 47: *** Capitolo XLVI - Riunione in Università ***
Capitolo 48: *** Capitolo XLVII - Domanda... ***
Capitolo 49: *** Capitolo XLVIII - Autunno ‘37 ***
Capitolo 50: *** Capitolo XLIX - ...risposta ***
Capitolo 51: *** Capitolo L - Un avvertimento ***
Capitolo 52: *** Capitolo LI - Il giorno del processo ***
Capitolo 53: *** Capitolo LII - Il nuovo vicerettore ***
Capitolo 54: *** Capitolo LIII - Vita di coppia ***
Capitolo 55: *** Capitolo LIV - Quella calda estate ***
Capitolo 56: *** Capitolo LV - Parole d'agosto ***
Capitolo 57: *** Capitolo LVI - Fantasmi e ricordi ***
Capitolo 58: *** Capitolo LVII - Il sole d’ottobre ***
Capitolo 59: *** Epilogo: «Quanto della vita umana va perduto nell’attesa» ***



Capitolo 1
*** Prologo: «Le loro impronte sono svanite» ***


PROLOGO
«LE LORO IMPRONTE SONO SVANITE»

 
 
   Rovine di Akator, Foresta Amazzonica brasiliana, 1957

   Ci fu un ultimo lampo nel cielo, prima che le pietre che erano state sollevate nell’aria come se fossero state prive di peso ripiombassero al suolo. Al rombo del crollo si sovrappose quello delle acque del fiume che, con forza inaudita, ruppero gli argini e presero possesso della valle nascosta, sommergendo in questo modo per sempre ciò che restava di Akator, la mitica Eldorado che a lungo era stata sognata dai conquistadores e da schiere di esploratori e disperati e che, adesso, non sarebbe mai più stata ritrovata da nessuno. L’ultimo singulto di quella città leggendaria disparve per l’eternità sotto la corrente impetuosa, e impietosa, del Rio do Sono.
   Sbalordito da quello di cui era appena stato testimone, Indiana Jones rimase per un altro istante a contemplare quello sfacelo, prima che alle sua spalle si levasse la voce di Harold Oxley, una voce pacata e soddisfatta, di certo non rassegnata come si sarebbe potuto pensare. Eppure, Oxley aveva sognato a lungo di poter vedere da vicino e studiare Akator e adesso non ne avrebbe più avuto nessuna possibilità. Ma, forse, egli aveva già trovato tutto quello a cui aveva sempre aspirato e, adesso, non avrebbe avuto bisogno di niente altro.
   «Le loro impronte sono svanite.»
   Jones gli gettò solo un’occhiata, prima di continuare a guardare verso il punto dove, fino a pochi istanti prima, era sorta Akator. Ma non stava guardando esattamente lì, perché i suoi occhi erano adesso rivolti al cielo, dove avevano appena assistito al più incredibile dei fenomeni.
   «Dove saranno andati? Nello spazio?» domandò, non riuscendo più a trattenersi. A questo punto, si volse verso Oxley, quasi speranzoso che l’amico potesse offrirgli quella risposta di cui sentiva tanto il bisogno.
   Ed una risposta, in effetti, non tardò ad arrivare.
   «Non nello spazio» disse Oxley con aria enigmatica, guardando a sua volta verso il cielo. Sembrava un po’ più triste, adesso, ed il suo sguardo fu incredibilmente vecchio e saggio quando si abbassò ad incontrare quello di Indy. «Nello spazio fra gli spazi.»
   Rimasero qualche secondo in silenzio, ad osservare le acque brillare nel sole che calava, ormai prossimo al tramonto. Marion e Mutt si erano rialzati e, a loro volta, parevano ancor più pieni di domande di quando erano giunti lì. In ogni caso, adesso, erano finalmente stati sciolti dalla tensione e dalla paura che aveva avvolto i loro cuori fino a pochi minuti prima. La donna raggiunse Oxley e gli passò un braccio attorno alle spalle, lieta di aver finalmente ritrovato il vecchissimo amico che credeva ormai perduto per sempre, mentre il ragazzo si affiancò al padre, quel padre che non aveva mai saputo di avere e che aveva ritrovato a bordo di un camion sovietico nel bel mezzo della sterminata Amazzonia.
   «Io non capisco» borbottò, rompendo infine il mutismo che sembrava calato tra di loro. Guardò quel poco che ancora era visibile di Akator e ripensò a come l’avevano trovata al loro arrivo, soltanto poche ore prima, templi di pietra sbriciolata, già prossimi a cadere in rovina. «Perché la leggenda della città d’oro?»
   L’archeologo non seppe come, ma la sua risposta arrivò quasi contemporaneamente alla domanda, mentre ancora fissava, con gli occhi socchiusi per proteggerli dal sole sempre più basso, il lago che si era formato al posto di Akator, alimentato dalle acque del fiume che vi si riversavano dentro con delle fragorose cascate ovunque si volgesse lo sguardo.
   «La parola ugha per oro si traduce con tesoro.» Sorrise, nel prendere atto di quella consapevolezza nuova, anche se forse lo aveva sempre saputo. «Ma il loro tesoro era la conoscenza. Il sapere era il loro tesoro.»
   Alle loro spalle, Oxley annuì soddisfatto, mentre Mutt si voltò a guardare suo padre con occhi nuovi.
   A quel punto, i due archeologi, del tutto appagati di quanto appreso, e non più rattristati per la perdita fisica di quella mitica città, si misero a sedere sopra i resti del tempio e Jones si batté sopra una gamba guardando Marion con un sorriso. Lei rispose al sorriso e gli si accoccolò a fianco, chiudendo per un istante gli occhi e stringendolo in un abbraccio.
   Fu un abbraccio veloce, ma in quella stretta entrambi sentirono qualcosa, un calore che non avevano più avvertito da tantissimo - troppo - tempo. Sentimenti, emozioni, rabbia, litigi, passione, gelosie, sconforto e amore, un amore sconfinato che aveva resistito a molte più prove di quanto credessero, tutto ciò che avevano vissuto insieme si palesò in quel semplice abbraccio. Non sarebbe stato facile, avrebbero dovuto affrontare ancora parecchie prove, ma adesso che si erano infine ritrovati era come se già sapessero che non si sarebbero lasciati mai più, perché il fuoco che ardeva dentro i loro cuori non era mai riuscito a spegnersi, nonostante tutto, ed era anzi bastato un nuovo incontro per riattizzare quelle braci che ardevano in profondità e tramutarle in un falò alto e scoppiettante, che spandeva nuove scintille in tutte le direzioni.
   Mutt guardò i due uomini seduti e, soprattutto, guardò sua madre abbracciata al vecchio matusa. Va bene, lei gli aveva detto che quello era suo padre e lui era anche disposto ad accettarlo, perché, in fin dei conti, non era poi male, nelle risse ed in altre cose simili; ma che quei due mantenessero le distanze di sicurezza! Lei, in fondo, era sempre sua madre e non poteva certo abbracciare il primo venuto!
   «Ma che, restiamo seduti qui?» sbottò.
   Il vecchio lo guardò con quel suo ghigno che non si riusciva mai a capire davvero se fosse un sorriso sincero od uno sguardo canzonatorio, sempre con il braccio avvolto sulle spalle di Marion, che gli stava rannicchiata a fianco con un sorriso che Mutt non ricordava di averle mai visto, almeno non negli ultimi anni.
   «La notte scende in fretta nella giungla» gli spiegò. «Ti vuoi arrampicare sulla montagna al buio?»
   «Sì» rispose prontamente il ragazzo. Si voltò a guardare verso la scalinata che portava alla base del tempio. «Io ce la faccio. Chi viene con me?» Fece per avviarsi a passo deciso. «Andiamo.»
   Mosse due passi, sotto lo sguardo di tutti e tre, poi la voce del matusa lo costrinse a fermarsi.
   «Perché non rimani con noi, Junior?»
   Junior? Quel modo di rivolgersi a lui lo fece ridere. Si voltò all’indietro e chiese, con un sorrisetto: «Non lo so. Perché tu non sei rimasto, papà?»
   Jones e Marion sorrisero e sembrarono sul punto di scoppiare a ridere, probabilmente per non mettersi a piangere. Sapevano entrambi che, in quella domanda apparentemente semplice, era racchiusa una verità indiscutibile, ossia che, dopo tanto tempo trascorso a rinfacciare a suo padre di non aver mai pensato a lui e di essersi interessato solo a popoli morti da centinaia di anni, Indiana Jones si era comportato nello stesso identico modo, andandosene senza una scusa quando avrebbe potuto avere una famiglia con cui essere finalmente felice e sereno. Non che Marion Ravenwood fosse stata poi troppo diversa, in fondo, o non avesse commesso anche lei qualche errore, perché a guidarla nella sua ostinazione a non voler mai rivelare ad Indy di avere un figlio, almeno fino a quello stesso giorno, era stato il medesimo orgoglio che, per tutta la vita, aveva guidato le azioni di suo padre Abner, un orgoglio spesso dannoso e fuori luogo che lei aveva ereditato in pieno.
   Oxley, invece, non sapendo proprio nulla di tutta quella faccenda, dato che per lui il padre del ragazzo era sempre e solo stato Colin, si girò versò Mutt e disse, tra lo scettico ed il curioso: «Papà…» quindi, colto da un’improvvisa folgorazione, si voltò di scatto verso Jones e ripeté: «Papà?!»
   Il sorriso di Marion si fece dolcissimo ed Indy non seppe più trattenere una risata, mentre la stringeva a sé affettuosamente. Non ricordava di essere mai stato tanto contento e sollevato come adesso, pur seduti com’erano in cima ad un tempio in rovina, a miglia e miglia dal più vicino centro abitato. Sollevò gli occhi al cielo per un momento e commentò: «Da qualche parte, lassù, tuo nonno se la sta ridendo.»
   Ma non avrebbe saputo dire neppure lui con precisione quale nonno se la stesse effettivamente ghignando, in quello stesso istante. Sperò che lo stessero facendo tutti quanti e che, in fin dei conti, fossero felici per loro, esattamente come si sentivano loro stessi.
   Presto si sarebbero rimessi in cammino, ma per una volta Indiana Jones non se ne sarebbe tornato a casa a mani vuote, come gli succedeva di sovente quando si salvava per miracolo da una delle sue disastrose ricerche, bensì con un vecchio amico infine ritrovato e, soprattutto, con due preziosissimi tesori che non si sarebbe mai più lasciato sfuggire, qualsiasi cosa fossa accaduta.

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Capitolo 2
*** Capitolo I - Amici come prima ***


CAPITOLO I
AMICI COME PRIMA

   Andarsene da Akator, anche in pieno giorno, con i raggi del caldo sole tropicale che cadevano perpendicolari illuminando ogni dettaglio, non fu certo una passeggiata, dato che i sentieri che conducevano fin lì, e che Oxley già conosceva dal suo primo viaggio, erano stati praticamente cancellati dalla furia dei flutti.
   Nondimeno, un po’ sguazzando nell’acqua che arrivava fino alla vita, un po’ arrampicandosi, un po’ riuscendo a camminare diritti su terreni rialzati, verso mezzogiorno riuscirono a fare ritorno al punto in cui era rimasto parcheggiato l’ultimo camion abbandonato dai sovietici; a quel punto, erano tutti così stanchi che gridarono quasi al miracolo quando poterono salire a bordo e riprendere il viaggio standosene comodamente seduti nel cassone o sui sedili anteriori, con Indy alla guida.
   Percorsero a ritroso la strada che avevano seguito per giungere fin lì, facilmente rintracciabile essendo praticamente stata aperta nella foresta con un’opera di devastazione degna di nota, quindi, verso sera, fecero sosta nella radura dove sorgeva il campo base allestito dai russi, nel quale poterono trovare qualcosa da mettere sotto i denti. Il campo, che fino al giorno prima aveva udito risuonare la voce e i canti di decine di uomini, faceva quasi impressione, adesso, avvolto da un silenzio penetrante, rotto solo dai suoni cupi che si levavano dal fitto della boscaglia circostante.
   Mentre Mutt e Marion si riposavano sulle brande all’interno della tenda in cui, in precedenza, erano stati tenuti prigionieri la donna e l’archeologo inglese, Jones ed Oxley si avvicinarono a passi lenti ai resti bruciati del tendone in cui era stato allestito il laboratorio. Fino a quel momento, stanchi ed ancora tesi com’erano, nessuno di loro aveva parlato molto, più che conosci che avrebbero avuto parecchio tempo, dopo, per potersi dire tutto ciò che non si erano più detti in vent’anni di lontananza; ed Indy e Marion, lo sapevano bene entrambi, ne avevano davvero tantissime, di cose da raccontarsi.
   Adesso, però, anche i due vecchi compagni di università avrebbero dovuto affrontare qualche discorso, dopo che i loro rapporti si erano praticamente interrotti per due decenni.
   Così, mentre esaminavano adagio ciò che restava della tenda e del suo contenuto, smuovendo piano la cenere con i piedi - l’inglese non cercava nulla in particolare, mentre l’americano nutriva la segreta speranza di ritrovare intatto il suo vecchio diario che aveva con sé al momento in cui era stato imprigionato e che i sovietici gli avevano sottratto - Oxley, pur sentendosi leggermente a disagio, riuscì a dire: «Non ho ancora avuto modo di farlo, Henry, ma vorrei davvero ringraziarti per tutto ciò che hai fatto per me… e per Marion, e per Mutt. Ti siamo debitori della vita, perché se non fosse stato per te…»
   Jones fece un sorriso amaro. «Ho trascinato io il ragazzo in questa storia. Avrei dovuto lasciarlo fuori, come voleva sua madre. Ma per voi… non avrei mai potuto lasciarvi nei guai, Ox. Come si fa ad abbandonare un amico in difficoltà?»
   Oxley smise di esaminare la cenere e guardò diritto negli occhi Jones, esaminando il suo volto, molto più segnato che in passato e guardando quasi con tristezza i suoi capelli, che si erano fatti grigi; e sapeva fin troppo chiaramente che una simile trasformazione era avvenuta anche su se stesso. Erano tanto diversi dall’ultima volta che si erano visti, da quando le loro strade avevano preso direzioni differenti.
   «Siamo amici, Henry? Lo siamo ancora?» chiese, con voce rauca.
   Quella domanda colpì profondamente Indiana Jones.
   Potevano ancora considerarsi amici, loro due, dopo che non si erano praticamente visti né sentiti per vent’anni? Tanti anni prima, l’archeologo si era domandato da che cosa fosse dipeso quel brusco cambiamento di Oxley nei suoi confronti, ma non era riuscito a spiegarselo anche se, adesso che la conosceva, la risposta gli pareva davvero la più ovvia di tutte: Harold aveva sempre considerato Marion, la bambina di Abner, come una sorella minore, e non aveva potuto accettare che Jones l’avesse abbandonata una seconda volta, facendola soffrire atrocemente. Era la seconda volta che questo accadeva e, al contrario della prima, Oxley questa non gliel’aveva perdonata. Evidentemente, Marion aveva sempre tenuto nascosto anche allo stesso Harold che il vero padre di Mutt fosse Jones, probabilmente per evitare che l’inglese raggiungesse Indy e lo affrontasse, mettendolo di fronte alle proprie responsabilità, cosa che lei voleva evitare.
   E, naturalmente, questo poneva un altro quesito nella mente dell’archeologo: avrebbe potuto ricominciare da capo, con Marion? Dentro di sé, nonostante tutto, non aveva mai smesso di amarla, e nello stesso istante in cui l’aveva rivista, solo leggermente invecchiata, in ogni caso ancora più bella e dolce di come la ricordasse, si era sentito fremere tutto ed attorcigliare le budella, e quella tensione non era dovuta al pensiero che, da un momento all’altro, qualcuno avrebbe potuto sparargli. Ora, quindi, gli sarebbe tanto piaciuto avere un’ultima possibilità per rimediare ai suoi stupidissimi errori giovanili, dei quali non aveva mai smesso di pentirsi. Ma ci avrebbe pensato a tempo debito, questo era un argomento che avrebbe dovuto affrontare insieme, quando fossero stati pronti.
   Ora, invece, doveva pensare ad Oxley.
   «Certo» bofonchiò, distogliendo lo sguardo. «Certo che siamo amici.»
   «Ne sei certo, Henry?» lo incalzò l’inglese. «Ne sei proprio sicuro?»
   Nervoso, Jones si infilò le mani nelle tasche dei pantaloni e continuò a spostare la cenere, senza più cercare nulla in particolare, ma solo tentando di guadagnare tempo, non avendo la minima idea di che cosa sarebbe stato più corretto dire in quel momento.
   Tuttavia, come se in quelle piccole ed informi briciole grigie che gli imbiancavano le scarpe ed i pantaloni avesse trovato chissà quale ispirazione, cominciò a parlare senza quasi neppure rendersene conto.
   «Lo so che cosa è accaduto tra di noi, Ox. Lo so che non hai mai potuto perdonarmi per aver lasciato Marion, senza una sola parola, quando mancava una sola settimana al matrimonio. Forse ti sembrerò ridicolo a dirlo adesso, ma non mi sono mai perdonato neppure io. La verità, però, è che ho sempre avuto timore di fare quell’ultimo passo, di prendere quella decisione che mi avrebbe cambiato la vita. Non siamo tutti uguali, Ox. Per qualcuno, sposarsi ed avere una famiglia è quanto di più bello possa capitare. Ma io…? Ti sembro un uomo capace di fare qualcosa del genere? Fino a pochi anni fa ero sempre in giro per il mondo, alla ricerca di tesori perduti, oppure per scoprire che cosa diavolo stessero combinando i comunisti rossi. Ed è così facile, quando si rischia di morire costantemente, guardare negli occhi una ragazzina, dirle qualche parole di apprezzamento e poi portarsela a letto per qualche sera consecutiva, prima di scaricarla ed andarsene ognuno per i fatti suoi, e chi s’è visto s’è visto. Ma guardare negli occhi una moglie, amarla giorno dopo giorno, dimostrarle di star vivendo praticamente solo per lei, avere insieme dei figli e vederli crescere… io ho sempre avuto un folle terrore di tutto questo. Mandatemi nelle viscere della terra ad affrontare prove sovraumane, schieratemi di fronte un esercito in pieno assetto, gettatemi in una fossa di serpenti, se credete… ma non questo. Non una vita tranquilla tenendo per mano una sola donna, questo no. L’ho sempre saputo, lo sapeva Marion e, ne sono certo, lo sapevi anche tu, Ox. Con questo non voglio giustificare il mio comportamento, né voglio accusarti di non avermi capito. Credo, invece, che tu mi abbia capito fin troppo bene e che per questo te la sia presa tanto. Non so come fare per dirtelo, ma io amavo Marion, l’amavo anche se me ne stavo scappando via nella notte, come un criminale. L’amavo.»
   Avrebbe tanto voluto aggiungere che l’amava tuttora, ma forse sarebbe stato prematuro e, soprattutto, Oxley non lo avrebbe capito e, con ogni probabilità, si sarebbe fatto prendere dal sospetto che, dopo tutto quel tempo, Indiana Jones stesse ancora cercando il modo per possederla qualche giorno e poi andarsene un’altra volta.
   Dal canto suo, Oxley era rimasto fermo ad ascoltarlo, la mani raccolte dietro la schiena, il poncho lurido ed i capelli e la barba lunghi che lo rendevano molto più affascinante di quanto non fosse mai stato in vita sua, conferendogli quasi l’aspetto di un saggio eremita pronto a dispensare i migliori consigli. Non appena si fu reso conto che Jones aveva finito di parlare, un sopracciglio irsuto si sollevò sul suo volto.
   «Mi hai detto tante cose interessanti, Henry» disse, con un tono di voce totalmente neutro. «Ti sei perso a parlare di te stesso ma non hai risposto alla mia domanda. Siamo ancora amici, io e te?»
   Anche nel caldo torrido ed umido della foresta equatoriale, Jones provò una sorta di brivido. Questa volta, però, si costrinse a sollevare gli occhi per guardare il vecchio archeologo e gli si avvicinò, senza mai distogliere lo sguardo dal suo. Per la prima volta, anche lui parve accorgersi veramente del tempo che era scivolato loro addosso, impregnandoli di ricordi e di segni molto riconoscibili.
   Esitò un istante, poi la sua mano si sollevò e si posò sulla spalla di Oxley.
   «Siamo ancora amici, Ox, se tu lo vuoi. Perché è questo che io desidero.»
   L’altro restò fermo per qualche secondo, fissandolo in silenzio. Poi un sorriso sincero si allargò sotto la barba incanutita ed anche la sua mano andò ad appoggiarsi sopra la spalla dell’americano.
   «Allora io e te saremo amici per sempre, Henry. E grazie ancora per tutto quello che hai fatto. Soprattutto per Marion e per Mutt.»
   Si guardarono ancora per un momento, poi si lasciarono andare. La tensione era sparita e Jones riuscì addirittura a domandare: «Quando ti deciderai a chiamarmi Indy come fanno tutti?»
   Oxley gli fece l’occhiolino. «Di certo non oggi, Henry.»
   In quel momento, i raggi del sole ormai prossimo a scomparire colpirono qualcosa che si trovava sotto un mucchio di cenere, facendolo rilucere; entrambi si volsero in quella direzione e, dopo essersi consultati con una rapida occhiata, vi si avvicinarono.
   Si chinarono e, con le mani, spazzarono via la cenere che aveva ricoperto un oggetto tondeggiante di un tenue colore azzurro, un oggetto perfetto e che, per poco, non li fece urlare dallo stupore. Un teschio di cristallo.
   Nessuno dei due, ricordando fin troppo bene di che cosa fossero capaci quegli oggetti, ebbe il coraggio di toccarlo con le mani e si limitarono ad osservarlo da vicino, studiandone le caratteristiche; non era grande come quelli che avevano visto ad Akator, ed a prima vista pareva anche un po’ più rozzo. Nel complesso, comunque, era di una magnificenza indicibile, con quelle sue forme armoniose e la purezza cristallina della quarzite azzurrognola che lo componeva, un lavoro a cui nemmeno la maestria del più grande gioielliere del mondo sarebbe stata in grado di avvicinarsi.
   Fu Oxley a rompere il silenzio che era disceso tra loro.
   «Non capisco… da dove salta fuori questo nuovo teschio? Non dovremmo aver già restituito l’ultimo agli esseri intradimensionali?» sbottò. Sul suo volto si leggeva tutto lo sconcerto che gli nasceva da quella scoperta inaspettata.
   Jones, nelle ultime ore, aveva vissuto una tale caterva di emozioni e sorprese che molti particolari si erano nascosti nella sua mente e faticavano a riemergere, dovendo fare a spinta con tanti altri; tuttavia, come in un lampo, rivisse il proprio secondo incontro con il colonnello Irina Spalko, quel terribile frangente in cui si era ritrovato incatenato ad una sedia, con degli elettrodi attaccati al cranio ed il presentimento che stesse per accadere qualcosa di veramente spiacevole nell’aria.
   «Quando mi hanno catturato e portato fin qui dal Perù, i sovietici mi hanno mostrato un… uno di quegli strani esseri» disse. «Era un cadavere mummificato, il medesimo che hanno portato via dal Nevada qualche giorno fa. Si trattava, se non sbaglio, di un essere recuperato dalle squadre dell’aviazione a Roswell, in Nuovo Messico, dieci anni or sono; ovviamente, allora nessuno seppe spiegare di che cosa si trattasse, per cui venne rinchiuso in un hangar segreto, dove nessuno lo avrebbe mai ritrovato, o almeno così si credeva. Bene, la dottoressa Spalko mi ha detto lei stessa che lo scheletro di quell’affare era di cristallo puro. E, così, eccolo qui, almeno ciò che ne rimane dopo che il fuoco ha terminato di fare il suo lavoro.»
   Rimasero per qualche istante a fissare il teschio di cristallo, poi Indy si sentì in dovere di aggiungere: «Ti chiedo scusa, Ox.»
   Lui lo guardò senza capire. «E di che cosa, Henry? Credevo che, ormai, avessimo fatto chiarezza e risolto ogni problema che ci sia stato tra di noi in passato.»
   «Non si tratta di questo» replicò Jones, scuotendo la testa e atteggiando le labbra a un sorrisetto. «È per il resto… tutto il resto. È da quando avevamo vent’anni che non fai altro che ripetere le storie di Akator, dei teschi di cristallo, nonché degli esseri provenienti da il cielo sa dove che avrebbero edificato quella dannatissima città. Ci sfinivi tutti, con quelle chiacchiere, me, Abner, Marion, René… E io, dopo un po’, ho smesso di ascoltarti e non ho più creduto ad una sola parola, probabilmente perché l’unica volta che ti diedi davvero retta finii quasi morto di tifo. Ho sbagliato parecchio, ho preso la cantonata più grossa della mia esistenza e, quindi, voglio scusarmi per il mio atteggiamento che, ora me ne rendo conto, non aveva alcun senso.»
   Anche Oxley sorrise. Era più che abituato ad essere smentito dai colleghi, quando non addirittura deriso pubblicamente per quelle sue convinzioni ritenute assurde dai più, unico neo nel suo altrimenti impeccabile curriculum di esperto conoscitore di tutte le civiltà precolombiane - e la sua preparazione accademica era tale, peraltro, che quelle sue originali teorie gli venivano in ogni caso perdonate, al punto che tutte le accademie degli Stati Uniti se lo disputassero, sebbene lui, da anni, non avesse più abbandonato l’Università di Chicago, dove era ordinario di Storia, civiltà e archeologia dell’America precolombiana.
   Ora, finalmente, sapeva di aver sempre avuto ragione e di aver fatto più che bene a non arrendersi mai di fronte al disfattismo da cui era circondato; purtroppo, non avrebbe potuto in alcuna maniera dimostrarlo, ma la cosa lo importava relativamente poco, perché ciò che maggiormente contava, ai suoi occhi di accademico, era di aver aperto una nuova finestra sulla conoscenza del passato - e dell’universo - non certo la gloria che ne sarebbe derivata.
   Però, almeno con qualcuno, avrebbe potuto condividere quella sua grande scoperta, e quel qualcuno era nientemeno che il suo amico Henry, l’uomo più scettico ed ostinato che conoscesse; ma Henry era anche un uomo che, quando si trovava di fronte all’inspiegabile che diventava materia, sapeva accettarlo e riconoscere di essersi sbagliato, a negarlo.
   «Non c’è alcun bisogno che tu ti scusi con me, Henry» lo rassicurò. «Ma ti sono veramente grato per aver riconosciuto il valore che ho sempre dato al mio lavoro.»
   Detto questo, si alzò e si allontanò di qualche passo, verso una delle tende abbandonate, lasciandolo solo. Jones lo osservò mentre vi entrava e, poco dopo, ne usciva nuovamente, reggendo un sacco di iuta tra le mani.
   «Quella era la cucina» gli spiegò Oxley. «Ho vissuto per alcune settimane, in questo posto, e non è che fossi proprio completamente alienato, non so se mi spiego. Di qualcosa mi rendevo conto, compreso il fatto che, là dentro, si tenessero le provviste.»
   Jones prese il sacco che l’amico gli porgeva e vi fece scivolare dentro il teschio di cristallo. Si rialzò e chiuse i lembi della bocca, annodandoli con un cordino.
   «Almeno, domani mattina, sapremo dove andare per sgranocchiare qualcosa» commentò, restituendo il sacco ad Oxley. Era giusto che fosse lui a conservare il teschio, dopotutto.
   Si avviarono verso la tenda in cui riposavano Mutt e Marion e si fermarono all’entrata. I loro sguardi si posarono sulle due figure addormentate, distese sopra un paio di brandine che non parevano molto comode ma che, certamente, stanchi com’erano, avrebbero conciliato il sonno.
   «Sarà meglio riposarci anche noi» propose Oxley. «Domani ci aspetta un’altra giornataccia.»
   L’archeologo annuì. «Vai prima tu. Io rimango qui ancora un po’, non ho voglia di dormire.»
   Lo sguardo intelligente di Oxley fu attraversato dall’ombra fugace di un sospetto.
   «Non intendi andartene, vero?» gli chiese. «Intendi rimanere con noi, spero.» Lo disse cercando di farlo apparire come uno scherzo da niente, ma l’ilarità della sua voce apparve quantomeno forzata, se non addirittura falsa.
   Ma Indy lo tranquillizzò con un lieve cenno del capo. I suoi occhi vagarono verso Marion e si posarono sul suo volto, sereno e addormentato. Avrebbe avuto voglia di raggiungerla, chinarsi al suo fianco e posare le labbra sulle sue, dandole finalmente quel bacio che stava attendendo da due decenni. Ma non era il momento adatto, anche se, dentro di sé, sentiva che qualsiasi momento sarebbe stato quello giusto per loro.
   «No, Ox» rispose. «Non me ne vado da nessuna parte. Stavolta resto, te lo assicuro.»

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Capitolo 3
*** Capitolo II - Marion rimugina ***


CAPITOLO II
MARION RIMUGINA

   Si svegliarono al primo apparire della luce solare e, ancora intontiti dal sonno e con le gambe doloranti per le fatiche degli ultimi giorni, consumarono una magra colazione con dei non meglio precisati cibi in scatola prodotti nell’Unione Sovietica. Non parlarono molto, consapevoli che il viaggio sarebbe stato ancora molto lungo e che, quindi, per scambiarsi opinioni ci sarebbe stato tutto il tempo che avrebbero voluto.
   Tornarono a bordo del camion, dopo averne riempito il serbatoio con delle taniche di gasolio che riuscirono a reperire sotto un tendone ai margini dell’accampamento, quindi dissero per sempre addio a quel luogo, di cui non volevano più sapere nulla. Troppi ricordi spiacevoli, in quel campo ormai condannato ad essere nuovamente invaso dalla vegetazione ed a tornare a fare parte della foresta nel giro di poco meno di un mese.
   Eppure, mentre se ne stava seduta sul cassone e osservava di sottecchi l’ancora aitante archeologo alla guida, Marion non poté fare a meno di pensare che, tra i ricordi spiacevoli che permeavano quel luogo, ne sarebbero rimasti anche di ben più dolci e confortevoli. Come quello, le sovvenne mentre un sorriso le increspava le labbra, in cui aveva rivisto per la prima volta Indiana Jones, per la prima volta dopo quasi vent’anni. In quel momento, nel ritrovarselo di fronte ancora una volta, le era venuta una voglia matta di colpirlo al mento con uno dei suoi pugni micidiali, proprio come si meritava; e, se non fosse stato per i russi che li circondavano da ogni parte, avrebbe di sicuro ceduto a quella bellissima tentazione. Tuttavia, mentre osservava le spalle ed il cranio coperto dal cappello marrone di quell’uomo che non riusciva a capire se odiare con tutta l’anima od amare con tutto il cuore, promise a se stessa che, alla prima occasione buona, non avrebbe più esitato a cancellargli quell’aria strafottente dal volto con un destro ben assestato.
   A dire la verità, si sentiva confusa, più confusa di quanto non ricordasse di essere mai stata prima. Aveva creduto che, oramai, Indiana Jones fosse un capitolo della sua vita definitivamente concluso, riguardo al quale non ci sarebbe mai più stato nulla da dire; e, invece, ecco che la penna del destino aveva deciso di aggiungere ancora qualche riga a quelle ultime parole. Non che lei non c’entrasse, in tutto questo, visto che era stata lei stessa a scrivere a Mutt di rivolgersi a Jones perché venisse ad aiutare lei ed Oxley; ma, in quel momento, le era sembrata la cosa migliore e l’archeologo le era parso l’unico su cui potesse realmente fare affidamento. Non si era sbagliata, dopotutto, visto che stavano tornando in America sani e salvi. Solo che, però, non aveva pensato alle ulteriori conseguenze. Si erano abbracciati, erano stati più di una volta ad un passo dal baciarsi, come se il tempo non fosse mai trascorso, come se fossero rimasti gli stessi di sempre, sempre così innamorati da non potersi resistere…
   Che cosa le stava succedendo? Non poteva credere di aver voglia di ricominciare tutto da capo con quell’essere meschino e viscido che aveva sempre fatto di tutto per farla soffrire ed abbandonarla nel tormento. La prima volta era stata a Gerusalemme, quando l’aveva abbandonata in miseria insieme ad un padre malato; la seconda a New York, quando le aveva lasciato soldi ed una casa, d’accordo, ma le aveva spezzato il cuore nel momento in cui avrebbero potuto essere più felici che mai, in compagnia del loro bambino. Eppure, il suo cuore aveva battuto forte nel ritrovarselo davanti, quella stessa notte lo aveva sognato - ed era stato un sogno tutt’altro che casto, il suo - e adesso non riusciva a staccargli gli occhi di dosso.
   All’improvviso, ebbe una gran voglia di fumare. Era da quando aveva scoperto di essere incinta che non aveva più toccato neppure l’ombra di una sigaretta, ma ne ricordava ancora il sapore e sentiva che, ora come ora, averne una accesa in bocca non le avrebbe di certo fatto male.
   «Mamma, che succede?» le domandò Mutt.
   Lei volse il suo sguardo su di lui e sorrise. Il ragazzo era sveglio - in fondo, buon sangue non mente - e doveva aver intuito che qualcosa in lei fosse cambiato, rispetto al solito, che fosse profondamente turbata per qualcosa, forse ancor più di quando lui le aveva detto di non voler più andare a scuola e di volersela cavare semplicemente riparando motociclette, dato che era ciò che maggiormente desiderava fare nella vita.
   Se Marion Ravenwood non aveva mai voluto andare a cercare Indiana Jones - e non avrebbe avuto bisogno di mettere a soqquadro mezzo mondo, per trovarlo, dato che sapeva perfettamente dove insegnasse, al Barnett College di New York - era stato per loro figlio. Per molte persone, quella sarebbe stata una motivazione più che valida per trovarsi e parlarsi: mettere un uomo scapestrato di fronte alle proprie responsabilità di genitore. Per fare meglio ancora, avrebbe potuto addirittura coinvolgere il professor Henry Jones, Sr. che non avrebbe esitato a schiaffeggiare quell’incosciente del proprio erede fino a mettergli del sale in zucca. Ma lei non se l’era sentita, non aveva voluto coinvolgere quel piccolo innocente, che crescendo nel suo grembo e poi nascendo divenne la luce dei suoi occhi, nelle trame di due pazzi come loro; perché, dopotutto, sapeva bene di non avere neppure lei un carattere facile, sebbene non si incolpasse di nulla. Inoltre, aveva finito per convincersi che il piccolo - a cui aveva ugualmente dato il nome del padre, e questo ad inconscia dimostrazione di quanto lei amasse davvero Indy e di come sperasse di vederlo tornare sul serio, un giorno o l’altro - sarebbe cresciuto meglio stando lontano da quell’uomo.
   E Jones, nonostante le sue speranze, non era più tornato, almeno non fino ad oggi. Ora era di nuovo lì con lei - con loro - e non sarebbe stato facile prendere una decisione piuttosto che un’altra. Ma che cosa sarebbe successo, una volta rientrati negli Stati Uniti? Si sarebbero dati un bacio d’addio e poi ognuno per la sua strada? Oppure avrebbero ricominciato a frequentarsi? E lui sarebbe stato capace di onorarla, di trattarla come una donna merita, oppure avrebbe avuto il coraggio di farla soffrire per l’ennesima volta? Erano domande a cui non era capace di dare una risposta ed a cui, in fondo, neppure voleva darla, perlomeno non ancora, non finché fossero stati in mezzo a quella foresta, così lontani da casa.
   Si aggrappò al sedile per evitare di sobbalzare quando il camion saltellò sopra un’asperità del terreno ed il suo sorriso si fece ancora più ampio.
   «Nulla, Mutt, nulla» rispose, con un tono di voce dolcissimo. «Sono solo un po’ stanca. Sai, era da tanti anni che quel giramondo di tuo padre non mi coinvolgeva più in una della sue assurde imprese tra templi, nemici assetati di sangue e fughe precipitose. Non ero più abituata, capisci?»
   Il ragazzo la guardò come non l’aveva mai guardata prima. Aveva sempre pensato a sua madre come ad una donna perfettamente in grado di cavarsela da sola e molto tosta, ma non se l’era mai neppure lontanamente immaginata nei panni dell’avventuriera che si gettava a capofitto in mezzo a mille pericoli. Era una visione del tutto inedita, per lui.
   Non seppe dunque trattenersi dal domandare: «Accidenti, mamma, ma ne avete combinate tante, insieme? Di avventure, intendo.»
   Marion chiuse per un momento gli occhi, rivivendo nella frazione di un solo secondo il breve - ed allo stesso tempo lunghissimo - periodo che aveva trascorso insieme ad Indiana Jones. I loro incontri segreti quando lei era poco più che una bambina, a Gerusalemme, vere e proprie imprese eroiche per sfuggire al controllo costante e minaccioso del vecchio e coriaceo Abner; l’essersi ritrovati dopo dieci anni per prendere a calci nel posteriore le truppe naziste che volevano a tutti i costi impossessarsi dell’Arca dell’Alleanza; e poi l’anno e mezzo che avevano trascorso insieme, amandosi ed andandosene qua e là per il mondo, sempre sulle tracce di manufatti archeologici minacciati da pericolosi criminali, fino a quella promessa di matrimonio infranta. E, infine, quest’ultima avventura ad Akator, che avrebbe potuto essere la conclusione di tutto o, e questo sottosotto la spaventava parecchio, il nuovo inizio di qualcosa che neppure lei avrebbe saputo dire che cosa fosse di preciso.
   Riaprì gli occhi e, sul suo volto, senza neppure che lei se ne fosse resa conto, apparve un’espressione nuova, che le fece brillare gli occhi, l’espressione di una ragazzina completamente cotta per un giovanotto capace di stregarla con la sua sola presenza.
   «Oh, sì» assicurò, «ne abbiamo passate tantissime, insieme.»

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Capitolo 4
*** Capitolo III - Onça-pintada do Rio ***


CAPITOLO III
ONÇA-PINTADA DO RIO
 
Rio delle Amazzoni

   Giunsero al piccolo molo costruito sul greto del fiume verso mezzogiorno, quando la calura all’interno del veicolo cominciava a farsi decisamente insopportabile. Le acque verdi e torbide, che scorrevano placide tra la fittissima verzura che ne cingeva entrambe le sponde, di fatto cancellando ogni minima traccia di riva, sembravano rifulgere di mille bagliori sotto i raggi diretti del sole.
   Come avevano sperato, il battello fluviale a tre piani che li aveva condotti fin lì non si era mosso ed era rimasto ormeggiato ad attenderli. O, meglio, come sapevano fin troppo bene, era rimasto in attesa del ritorno degli agenti sovietici.
   «D’accordo, adesso sarà meglio che voi aspettiate qui» disse Jones, osservando con attenzione il battello da dietro il parabrezza sporco del camion. Era certo che non sarebbe stato affatto un problema convincere il comandante - un brasiliano dalla pelle nera e dai capelli grigi, parecchio robusto e dedito ad uno sfrenato tabagismo - a condurli fino a Macapá, alla foce del fiume, dove avrebbero trovato un mezzo più consono per fare rotta verso gli Stati Uniti; tuttavia, era più che certo che, quando lui e il ragazzo erano scesi a terra, almeno uno dei russi fosse stato lasciato a bordo, probabilmente per accertarsi che il capitano non li tradisse, abbandonandoli in mezzo alla foresta.
   «Perché dovremmo rimanere qui, Jones?» domandò subito Marion, guardandolo in tralice.
   L’archeologo espose i propri sospetti.
   «Be’, e se là sopra c’è davvero un comunista, perché dovresti affrontarlo tutto da solo?» lo imbeccò Mutt. «Ci siamo dentro tutti insieme, in questa faccenda, non devi per forza fare tu ogni cosa!»
   Prima che qualcuno avesse avuto il tempo di replicargli, sul ponte del battello comparve il capitano che cominciò a fare cenni all’indirizzo del camion; evidentemente, era convinto che i russi fossero di ritorno e li stava invitando a salire a bordo.
   «Va bene, andiamo tutti insieme, allora» borbottò Jones, contrariato.
   «Ma voi due restate dietro di noi» ordinò seccamente Oxley, dando prova di grande coraggio.
   L’americano imbracciò l’unico Kalashnikov che erano riusciti a recuperare, quindi aprì la portiera e smontò; Oxley fece lo stesso dal lato del passeggero, trasportando il fagotto in cui aveva nascosto il teschio di cristallo, mentre Marion e Mutt balzarono al suolo dal cassone posteriore e li raggiunsero subito.
   Camminando lentamente e guardandosi attorno con circospezione, percorsero il molo dondolante e dalle assi sconnesse fino a raggiungere il battello, di cui avrebbero potuto toccare la carena verniciata di bianco se solo avessero allungato una mano. Il capitano li osservò senza fiatare e, quando furono a portata di voce, cominciò a parlare in portoghese, lingua che Jones conosceva alla perfezione.
   «Io sono un tipo abituato a farmi i fatti miei. Quando ho portato qui i sovietici, tu e il ragazzo eravate legati e imbavagliati, mentre la donna ed il vecchio non c’erano. Ora ritornate in quattro, armati ed a bordo di uno dei mezzi dei russi. Non è difficile intuire cosa sia accaduto, ma non voglio fare domande, se non una: avete qualcosa per pagarvi il viaggio? Perché, altrimenti, potete anche cominciare ad incamminarvi per raggiungere a piedi le sponde dell’Atlantico.»
   Jones sogghignò, perché si era aspettato che l’unico problema, con quell’uomo, sarebbe stato relativo al prezzo. Quindi, sollevato con entrambe le mani l’Ak-47, stando bene attento a non puntarglielo contro, lo mostrò al capitano.
   «Che ne dici di questo?» domandò, parlando a sua volta in portoghese. «È un buon fucile, col pregio di non incepparsi mai. Posso darti questo adesso ed il caricatore quando saremo giunti a destinazione.»
   Sul volto segnato del brasiliano si allargò un sorriso famelico.
   «Prendi le tue precauzioni, eh, americano? Non ti fidi di me, forse?»
   L’archeologo scrollò le spalle. «Se sono arrivato all’età che ho, è solo perché non mi sono mai fidato troppo di nessuno, se proprio vuoi saperlo.»
   Il capitano non smise di sorridere. «Prenderò il fucile come caparra. Ma voglio anche qualcos’altro…»
   I suoi occhietti famelici si fissarono sul sacco riavvolto che Oxley si stringeva al petto e l’archeologo britannico, che a sua volta conosceva il portoghese, comprese immediatamente a che cosa intendesse alludere quell’uomo.
   «Ah, no!» sbottò. «Proprio no!»
   Jones si chinò su di lui e mormorò, in idioma maya, la prima lingua che gli venne in mente e che era certo che il comandante del battello non potesse affatto intendere: «Ox, non è il momento di tirare sul prezzo, mi pare.»
   Anche Oxley replicò in maya: «Questo è un reperto importantissimo, non intendo consegnarlo al primo venuto solo per elemosinare un passaggio.»
   «Cerca di ragionare» lo invitò l’amico. «Siamo in mano sua. Se non ci dà un passaggio lui, non torneremo più a casa, almeno non prima di parecchi mesi, sempre che riusciamo a trovare ed a mantenere la strada, in questo ammasso di vegetazione pullulante di bestie feroci.»
   Intanto, scambiandosi occhiate nervose, Mutt e Marion stavano cercando di capire che accidenti stessero dicendo i due uomini, parlando quel linguaggio per loro incomprensibile; ed anche il capitano, adesso, li osservava stralunato, pensando che fossero impazziti.
   «Mi avete capito?» grugnì, richiamando l’attenzione su di sé. «Voglio quello che c’è nel sacco!»
   Jones lo osservò per un momento, cercando di apparire divertito.
   «Ne sei sicuro?» chiese. «Non credo che la nostra biancheria sporca possa interessarti. Ma, se proprio ci tieni, ad indossare un paio di mutande bucate e sudate…»
   «Non prenderti gioco di me, americano!» replicò l’altro. «So riconoscere quando una cosa è interessante e quando non lo è. Ed in quel sacco, così pesante eppure così prezioso che il nonnetto se lo tiene incollato al petto come se fossero le ceneri di sua moglie, ci deve essere ben altro che i tuoi mutandoni macchiati di smegma!»
   «Smettila di chiamarmi nonnetto, impertinente che non sei altro!» si arrabbiò Oxley, stringendo ancora più stretto il sacco.
   «Io non mi prendo gioco di nessuno» disse invece Jones. «Voglio soltanto ricordarti che, quello che tengo tra le mani, è un fucile automatico veramente eccellente e…»
   «Credi di farmi paura?!» ululò il comandante, che era ingrigito in volto e si era istintivamente tirato all’indietro. «Vorresti mettere in pratica un atto di pirateria e sequestrare me e la mia nave?»
   Jones sorrise. «Questo lo dici tu, mica io.»
   «Ti andrebbe male, straniero, perché io so qualcosa che tu ignori completamente!»
   Il ghigno non scomparve dalla faccia di Indiana Jones.
   «So benissimo, invece, che a bordo è rimasto almeno un russo. A proposito, dov’è?»
   «Se non avrò quello che chiedo, la mia bocca rimarrà cucita, perlomeno fino a quando non mi metterò a gridare per richiamare l’attenzione del nostro comune amico» minacciò il capitano.
   A quelle parole, Oxley strinse ancora più forte il suo fardello, mentre Jones fece per replicare qualcos’altro. Però, Marion cominciava ad averne abbastanza di starsene immobile sotto il sole, con tutta quell’umidità che riusciva a togliere il respiro e le zanzare che parevano intenzionate ad assalirli a frotte, quindi li anticipò tutti e, fatto un passo avanti, strappò di mano ad Oxley il sacco e, sotto gli occhi stupefatti di ciascuno, lo lanciò al capitano, che lo afferrò al volo. La donna, infatti, masticava sufficiente portoghese per aver capito di che cosa stessero disputando.
   Mentre Oxley protestava a gran voce ed Indy guardava divertito verso Marion, il capitano aprì rapidamente il sacco e vi sbirciò dentro.
   «Altro che mutande!» esclamò, al limite dell’entusiasmo. «Con questo vi siete appena guadagnati tutti i passaggi che vorrete, da qui fino a quando questo vecchio affare cadrà arrugginito sul fondale! Salite a bordo, si parte tra pochissimo!»
   Rapidamente, obbedirono tutti e quattro e, mentre Oxley, guardando in cagnesco verso il comandante, andava a sedersi all’ombra della saletta interna in compagnia di Mutt, Marion ed Indy si avvicinarono al capitano. L’uomo fece il baciamano a lei, ostentando un’inaspettata galanteria, e strinse la mano a lui.
   «A proposito» disse, «sono il comandante Bauru, al vostro servizio. Benvenuti a bordo dell’Onça-pintada do Rio.»
   «Indiana Jones e Marion…» L’archeologo si interruppe, non sapendo con quale cognome presentarla, voltandosi a guardarla come per invitarla a continuare. Lei, però, si limitò ad un sorrisetto ed andò a sedersi in compagnia degli altri.
   «E il nostro amico sovietico?» chiese Jones, abbassando la voce.
   Bauru sollevò gli occhi al secondo piano del battello.
   «Cabina numero tre» sussurrò. «Stanotte ha dato fondo a tutta la vodka che gli rimaneva e, adesso, dorme della grossa. Credo che non sia abituato a questo clima torrido.»
   Jones annuì, quindi entrò nella saletta e, dopo aver fatto un cenno agli altri, si arrampicò lungo le traballanti scale di legno che conducevano al piano superiore; Marion e Mutt lo seguirono immediatamente, mentre Oxley rimase qualche istante fermo al proprio posto, ancora scosso per la perdita del teschio, prima di decidersi a seguirli.
   Tutti insieme, si avvicinarono alla porta incriminata e Jones vi appoggiò l’orecchio. Da dentro la stanza proveniva un sordo russare: come aveva preannunciato il capitano, l’agente sovietico rimasto di guardia dormiva beatamente, senza sospettare nulla di quanto accaduto ai suoi compagni e del pericolo che gli incombeva addosso.
   Jones aveva appena appoggiato la mano alla maniglia quando quella di Marion si posò sulla sua, fermandolo; quel tocco leggero e inaspettato lo fece rabbrividire e fu sufficiente a scatenargli nel cuore una ridda di emozioni differenti. Si volse verso di lei ed incontrò quegli occhi color del mare che non avevano mai smesso di incantarlo con la loro profonda ed unica bellezza.
   «Hai… hai intenzione di ucciderlo?» gli domandò lei, ricordando quanto Indy sapesse essere brutale e sbrigativo, quando qualcosa non andava per il verso giusto.
   Il coriaceo archeologo, tuttavia, le sorrise in modo rassicurante.
   «Non preoccuparti» rispose. «Non ho intenzione di uccidere proprio nessuno. Voglio solo assicurarmi che diventi, come dire, inoffensivo.»
   Perciò, distolto con una certa fatica lo sguardo dal suo, abbassò la maniglia e fece irruzione nella piccola cabina. Aveva creduto che il sovietico sarebbe balzato in piedi al minimo rumore ma, al contrario, non accadde proprio nulla, perché l’uomo disteso sopra il letto, con indosso soltanto un paio di pantaloni slacciati, seguitò a dormire come se nulla fosse. Del resto, con tutte le bottiglie sparse sul pavimento ed il puzzo di vodka che aleggiava un po’ ovunque, Jones intuì che il padrone di casa dovesse avere in corpo alcol sufficiente ad addormentare un intero reggimento dell’Armata Rossa.
   Mutt, pronto alla lotta, seguì immediatamente suo padre, e subito dopo anche gli altri due si stiparono nella piccola stanzetta.
   «Che cosa facciamo?» domandò Oxley. «Lo leghiamo e lo imbavagliamo?»
   Jones scrollò le spalle. «E a che servirebbe? Prendiamogli le armi, piuttosto, e gettiamole nel fiume. Perquisite tutto e trovate qualsiasi cosa che potrebbe servirgli contro di noi. Più tardi, provvederò a mettere sottosopra tutta questa dannata bagnarola per trovare qualsiasi cosa che possa assomigliare ad un’arma e farò in modo di renderla inutilizzabile.»
   Si misero quindi celermente all’opera, aprendo il piccolo armadietto della cabina, sfilando i cassetti dell’unico comodino e guardando sotto il letto e sotto il materasso; fecero parecchio chiasso, ma l’uomo era talmente addormentato che non si rese conto di nulla. Alla fine, portarono via dalla sua cabina un altro Kalashnikov, una pistola semiautomatica Madarosi e parecchie munizioni, che vennero gettati senza troppe cerimonie nel fiume dall’archeologo.
   Fatto questo, andarono a cercare il capitano Bauru e lo trovarono ancora sul ponte, dove stava parlottando con un uomo sui trent’anni che, a giudicare dall’aspetto e dalla somiglianza, doveva essere suo fratello.
   «Capitano, vorremmo salpare quanto prima» gli ricordò Jones.
   Il brasiliano annuì più volte, spandendo tutto attorno il fumo della sua sigaretta.
   «Stavo appunto dicendo a Nuno di mollare gli ormeggi» rispose il comandante. «Venite, venite. Vi mostrerò le vostre cabine, dopodiché ci metteremo in viaggio.»
   «Quanto ci vuole, per giungere alla foce?» domandò Oxley, che non vedeva l’ora di fare ritorno alla civiltà per darsi una sistemata e cambiare gi abiti laceri che indossava. Il suo tono era secco, segno che non si era ancora ripreso dall’idea di aver consegnato quell’ultimo teschio di cristallo nelle mani di un simile personaggio.
   «Siamo parecchi inoltrati nel fitto dell’Amazzonia» lo informò il capitano, «quasi al confine con il Perù. Ma, prima che lo chiediate, se vi portassi da quella parte, dovrei poi lasciarvi a metà strada, dato che oltre non potrei proseguire a causa del fondale basso. E vi toccherebbe valicare le montagne, il che non credo sia ciò che più desiderate. Invece, proseguendo da questa parte, saremo in più o meno cinque giorni in vista dell’Atlantico e, da lì, potrete andare dove più vi pare.»
   Ancora tre giorni tra le boscaglie e la calura della foresta equatoriale, ma anche tre giorni di silenzio e di pace, durante i quali Jones, lo sapeva bene, avrebbe dovuto cominciare ad affrontare con Marion - e con loro figlio - tutti quei discorsi che, fino a quel momento, era riuscito ad evitare e rimandare. Ed era più che sicuro che sbarazzarsi dei sovietici era stata poco più che una passeggiata, rispetto a quello che lo avrebbe aspettato adesso.

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Capitolo 5
*** Capitolo IV - Notte sul fiume ***


CAPITOLO IV
NOTTE SUL FIUME

   Navigarono per i successivi quattro giorni senza che accadesse nulla di troppo rilevante ma, soprattutto, senza che ci fosse - o si riuscisse a trovare - il tempo per sedersi tutti insieme a discutere di qualcosa, di qualsiasi cosa. Era quasi come se genitori e figlio tentassero di continuo di procrastinare il difficile momento di guardarsi negli occhi ed attaccare quell’argomento che, in fondo, stava a cuore a tutti e tre.
   Certo, non che le colpe fossero tutte loro: a bordo del battello, di cui il capitano Bauru e suo fratello Nuno erano gli unici membri dell’equipaggio, c’era stato parecchio da fare.
   Innanzitutto, vi era stata un’inspiegabile avaria al motore che, però, era stata prontamente riparata da Nuno e da Mutt, che di motori se ne intendeva davvero a meraviglia; e, dal canto suo, Jones aveva avuto il fondato sospetto che, a manomettere la caldaia, fosse stato il compagno Lavr, l’agente russo che avevano preso prigioniero e che, una volta ripresosi dalla sbornia, non si era affatto dimostrato felice di quella situazione. In ogni caso, non aveva avuto modo di interrogarlo, perché il sovietico, approfittando di quella loro sosta forzata, si era gettato nel fiume, lo aveva attraversato a nuoto, si era arrampicato sulla riva ed era scomparso tra il fogliame. Dopo una breve riunione, i passeggeri avevano convenuto di non inseguirlo, per non correre il rischio di perdersi irrimediabilmente nella fitta boscaglia e non riuscire più a tornare indietro.
   Poi, c’era stato l’incidente con Oxley che, in un vano tentativo di riprendersi il teschio di cristallo, aveva finito col farsi scoprire e col litigare col capitano, che aveva minacciato di sbarcarli tutti e di abbandonarli; era servita tutta l’astuzia di Indiana Jones - e qualche finta supplica ben imbastita da Marion - per convincerlo che un guaio del genere non si sarebbe mai più ripetuto. Dopodiché, entrambi si erano scagliati contro Oxley, imponendogli di non rimetterli nei guai un’altra volta.
   L’inglese era piuttosto risentito nei confronti di Marion, dato che era stata lei a consegnare il sacco con il teschio nelle mani di Bauru; ma, in fondo, le voleva troppo bene per potersi arrabbiare con lei, quindi aveva finito col promettere che non avrebbe più agito così male e non avrebbe tradito la loro fiducia. Aggiunse anche che, dopotutto, ne aveva avuto abbastanza, dei teschi di cristallo, e che non averne un altro tra le mani gli avrebbe fatto solamente bene.
   Marion, invece, si era volutamente assunta il compito di cucinare i pasti - dato che Nuno, solitamente addetto alla cambusa, non sapeva mettere insieme altro che fagioli, lardo e cipolle - e, per questo motivo, aveva trascorso quasi tutto il tempo nella piccola cucina del battello.
   E, a causa del caldo, dell’aria umida e delle zanzare che non concedevano mai neppure un attimo di tregua, si arrivava a sera così spossati che non restava altro da fare che andarsene a letto senza aggiungere una sola parola. Insomma, tutto quello che Jones avrebbe voluto dire, non ebbe alcuna occasione di farselo uscire di bocca.
   Però, quella sera, il comandante aveva annunciato che, la mattina seguente, sarebbero giunti a destinazione; e, quindi, se voleva approfittare di quegli ultimi momenti di completa intimità, non sapendo che cosa li avrebbe attesi dopo, Jones avrebbe dovuto farsi coraggio e parlare con Marion.
   Rimase parecchio sul ponte di prua, a guardare le acque nere del fiume che scorrevano placide sotto la chiglia, mentre nella foresta si accendevano gli occhi fosforescenti degli animali selvatici, che gettavano veloci occhiate a quello strano macchinario prima di scivolare via e lanciare nell’aria immobile i loro striduli o rochi richiami; rifletté a lungo su quello che era stato il suo rapporto con Marion, su come, ogni volta, fosse andata male per il semplice fatto che lui fosse totalmente incapace di gestire i propri sentimenti e di controllarsi, nonché di quanto avesse sempre sofferto all’idea di averla lasciata sola, sebbene questo non fosse mai stato sufficiente a farlo tornare da lei. Marion, a quei tempi, era una ragazza, una ragazza solamente bisognosa di amore ed affetto, di sentirsi protetta tra le braccia di qualcuno che l’amasse per come era e che non chiedeva niente altro all’infuori di ciò; e lui, però, che avrebbe potuto darle ciò che cercava - facendo la felicità assoluta di entrambi - glielo aveva volutamente negato, abbandonandola e gettandola via come un oggetto vecchio utilizzato ormai troppe volte. Era stato un verme e, da quel giorno in avanti, si era sempre sentito tale, dentro di sé, sebbene avesse mascherato quel suo senso di colpa dietro un carattere burrascoso e tra mille avventure che avevano più volte rasentato il rischio di condurlo alla morte.
   Restò fermo a riflettere fin quasi alle dieci e mezzo della sera; poi, finalmente, si decise a salire al piano in cui erano stati loro assegnati gli alloggi.
   La donna aveva una cabina tutta sua sul lato opposto del ponte rispetto a dove si trovava la sua, mentre in mezzo si trovavano quella di Oxley e quella di Mutt; a passo lento, cercando di non far rumore per non svegliare nessuno, l’archeologo si avvicinò alla cabina di Marion e vi si accostò, senza sapere bene che cosa fare. Bussare? Non voleva svegliarla, togliendole il riposo che si era tanto meritata. Andarsene di nuovo? Ma quante altre volte ancora intendeva fuggire di fronte a quella povera donna e, soprattutto, di fronte alle proprie responsabilità?
   Bussò, piano.
   «Chi è?» domandò dall’interno la dolce voce di Marion, che doveva essere stata sveglia.
   «Sono io…» rispose Jones, non sapendo che altro aggiungere. Sperò soltanto che lei non lo mandasse al diavolo dicendogli di lasciarla dormire qualche ora.
   «Entra, la porta è aperta» lo invitò invece Marion.
   Jones abbassò la maniglia e aprì la porta. La cabina quasi angusta era immersa nell’oscurità e la fioca luce della luna penetrava a fatica attraverso la piccola finestra spalancata e protetta da una zanzariera che, più o meno, impediva l’ingresso dei fastidiosi insetti. Marion era distesa a letto, la testa appoggiata ad un cuscino ed il resto del corpo avvolto da un lenzuolo che, oltre a lasciarle scoperte le spalle e le braccia, permetteva di indovinare le sue forme ancora attraenti, tanto che l’archeologo immaginò, con un piccolo brivido, che sotto la leggera coperta non indossasse proprio nulla; d’altra parte anche lui, in quelle notti, si era coricato per la notte completamente nudo, l’unico stratagemma per contrastare l’umida e asfissiante calura e non svegliarsi la mattina con abiti e biancheria del tutto inzuppati di sudore.
   «Disturbo?» domandò. «Dormivi?» aggiunse, ben consapevole che fosse così.
   Lei scosse il capo e sorrise.
   «Affatto» rispose. «Anzi, ti aspettavo.»
   Quella rivelazione lo lasciò di sasso. «Mi aspettavi? Davvero?»
   Il sorriso di Marion si fece più sbarazzino.
   «Be’, veramente, Jones, è da quando siamo saliti a bordo di questo trabiccolo che aspetto che tu venga a farmi una visitina notturna. Cominciavo a perdere le speranze, sai? Stavo appunto dicendomi che devi essere invecchiato davvero, se ti tieni così alla larga da me. O, forse, sono io che sono invecchiata?»
   L’archeologo faticò a comprendere se, in quelle parole, vi fosse rabbia, risentimento, nostalgia, derisione od altro ancora, oppure tutte quelle cose insieme. In ogni caso, in questo momento non gli importava di nulla, perché ormai il gioco era aperto e non si poteva più tornare indietro; e, di certo, lui non voleva più andarsene come se nulla fosse.
   Richiuse adagio la porta e mosse un passo verso di lei; dopo un istante di esitazione, si mise a sedere sul materasso, dandole le spalle ma volgendosi immediatamente a guardarla negli occhi. Quegli occhi… forse erano stati la prima parte di lei che avesse notato davvero, quegli occhi che lo aveva ammaliato con la loro divina e rara bellezza, quegli occhi che sapevano lanciare scintille di dolcezza ma, anche, fiamme di rabbia. Quegli occhi che non avrebbe mai scordato.
   «Marion, io ho sbagliato tutto con te» cominciò a dire, ma lei lo interruppe: «Senti, Jones, queste cose le sappiamo entrambi. Non c’è bisogno di ripeterle adesso. Non sarai mica venuto a dirmi questo, no?»
   Perché lei sapeva perfettamente che cosa volesse davvero da lei Indiana Jones e, se gliel’avesse chiesta quella notte, gliel’avrebbe anche data con tutta se stessa, con tutto l’ardore di cui fosse stata capace, ma sarebbe anche stata l’ultima volta, perché poi non avrebbe voluto rivederlo mai più.
   Ciò che Marion Ravenwood ignorava era che, però, Indiana Jones era invecchiato davvero e, a modo suo, aveva finito col mettere la testa a posto. Non è mai troppo tardi per farlo, del resto, neppure alla soglia dei sessant’anni di vita.
   «No, non sono venuto a dirti questo» rispose, con qualcosa di strano ed inedito nella voce. «Sono venuto a chiederti scusa. Davvero, ti chiedo scusa per tutto.»
   Detto questo, Jones si alzò bruscamente dal letto e si diresse verso la porta; non voleva che lei lo vedesse così, con le lacrime che gli stavano affiorando negli occhi, mentre il peso di tutto quello che aveva causato in passato cominciava a gravargli sulla coscienza come un macigno.
   «Indy» lo chiamò lei, quasi lo implorò, sollevandosi a sedere.
   Il lenzuolo le scivolò di dosso, scoprendole il petto, ma se lo risistemò alla meglio con la mano destra, mentre tendeva la sinistra verso di lui. L’archeologo si girò a guardarla e vide che le lacrime avevano iniziato a bagnare anche il volto di Marion. Ma lui voleva soltanto chiederle scusa, non lasciare che tutto finisse in un pianto.
   «Marion, non piangere, non ce n’è bisogno» mormorò, scuotendo appena la testa. «Davvero… non ce n’è proprio bisogno…»
   «E perché… tu piangi… allora?» replicò lei, tra i singhiozzi.
   Indy prese la sua mano e la strinse. Era sudata, ma non gli diede nessun fastidio, anzi avvertire il sudore di Marion passare sul proprio palmo lo fece sentire ancora più vicino a lei. Un momento dopo, senza quasi rendersene conto, le fu di nuovo accanto, stringendola in un abbraccio, mentre Marion gli si avvinghiava addosso come se non volesse mai più lasciarlo andare, con le lacrime che bagnavano i loro volti, mai stati così vicini da tantissimo tempo.
   Certe cose, evidentemente, non potevano essere dette a voce, ma andavano comunicate in un altro modo, con gli sguardi, con il tocco delle mani, con i corpi che si stringevano in un abbraccio che conteneva più di quanto le semplici parole non sarebbero mai state in grado di esprimere.
   Rimasero fermi così per parecchio, non seppero dire neppure loro quanto, fino a quando le lacrime si asciugarono e nei loro occhi brillanti e sui loro volti sereni rimasero solamente dolci sorrisi, oltre che molti rimpianti.
   «Marion…» mormorò Jones, accarezzandole la schiena nuda.
   Lei non rispose, continuando a mantenersi stretta contro il suo petto, intrecciandogli le dita nei capelli e ascoltandone il respiro lento e ritmato, in perfetta sintonia con il suo. Non voleva che quel legame si spezzasse, non intendeva lasciarlo fuggire un’altra volta.
   «Marion, devi riposarti, adesso» continuò a sussurrare Indy, senza smettere di accarezzarla. «Tesoro, ci terrei tanto a restare qui con te fino a domani, ma bisogna davvero che ce ne andiamo a dormire, tutti e due.»
   Lei lo lasciò andare quel tanto che bastò per poterlo guardare negli occhi.
   «Perché non dormi qui, con me, allora?» gli chiese, in un mormorio.
   Jones fremette, perché era quello che più avrebbe desiderato, ma sapeva anche che era prematuro, molto prematuro, restarsene per tutta una notte distesi nello stesso letto; gli sembrava già troppo essere così vicini e abbracciati, con lei vestita solamente di un lenzuolo bianco e così leggero da essere quasi trasparente. E, se davvero si erano ritrovati per stare insieme, come forse i loro cuori avrebbero voluto, ci sarebbe stato tutto il tempo per accorciare ogni distanza che fosse nata tra di loro, fino ad annullarla del tutto.
   «Marion, lo sai che non possiamo» le ricordò.
   Lei lo osservò con sguardo interrogativo, chiedendogli silenziosamente che cosa fosse a rendere impossibile quella loro vicinanza notturna; anche a Jones sarebbe tanto piaciuto saperlo, in verità. La sola risposta che avrebbe saputo dare era che c’era qualcosa, dentro di lui, nelle profondità dei suoi visceri, che gli gridava di non avere fretta, di non sprecare in una sola notte una vita intera. Ma come avrebbe potuto dirlo a Marion senza perdere la faccia? Lui, il rude Indiana Jones, non poteva certo confessarle di essere ancora pazzamente innamorato di lei, al punto da essere pronto anche a rinunciare ai suoi istinti più primordiali e animaleschi.
   «È per quello che hai detto poco fa» borbottò da sopra le sua spalla. «Per il fatto che io sia invecchiato… hai proprio ragione… il problema… il problema, semmai… è che tu non sei invecchiata affatto, amore mio.»
   Marion scoppiò a ridere ed anche Jones non poté fare a meno di abbandonarsi al riso, ritrovandosi presto a domandarsi quanto tempo fosse ormai trascorso dall’ultima volta che avevano riso assieme. Anni ed anni ed anni. Un momento dopo, le loro labbra si unirono in un bacio, un bacio piuttosto veloce, quasi rubato, ma sempre di un bacio si trattava. Poi, l’abbraccio si sciolse e Jones capì che lei lo stava congedando, permettendogli di andarsene a dormire, sempre che fosse ancora possibile prendere sonno, in quella notte magica.
   Prima di alzarsi dal letto e andarsene, però, l’archeologo ci tenne a rammentarle che, in fin dei conti, non era cambiato più di tanto, nonostante tutto. Allungate le braccia, le posò le mani sopra i seni avvolti dalla tela leggera e strinse con delicatezza e, insieme, con vigore.
   «No» constatò con un ghigno, mentre lei, fingendosi scandalizzata, mimava l’atto di volergli tirare un pugno. «Non sei affatto invecchiata.»
   «Già…» mormorò Marion, mordicchiandosi il labbro inferiore, dove era rimasto ancora il sapore di colui che era sempre stato il suo uomo, e socchiudendo gli occhi per godere meglio di quel tocco delicato sul suo seno, che la stava facendo sentire di nuovo giovane e le stava infondendo sensazioni che credeva di aver scordato per sempre. «Hai proprio ragione, Indy… sono sempre la stessa…»
   Riaprì gli occhi e lo fissò, ricambiando il suo sorrisetto. Subito dopo, il suo pugno, violento e inaspettato, partì sul serio e si abbatté con forza sulla mascella di Jones, che strabuzzò gli occhi e cadde dal letto, finendo disteso sul pavimento con un sordo grugnito.
   Brontolando qualcosa e imprecando per il dolore, l’archeologo si rialzò in piedi e guardò verso Marion, ancora leggermente intontito. Non era arrabbiato né stupefatto per quel gesto e, nonostante il male fortissimo, riuscì ugualmente a sorriderle, mentre l’ascoltava dire: «Ti perdono di tutto, Jones.»
   «Grazie» le rispose, facendole l’occhiolino e continuando a massaggiarsi la mascella dolorante. «Allora, dormi bene, mi raccomando.»
   Marion si rannicchiò bene sotto il lenzuolo e continuò a fissarlo, con uno sguardo che, adesso, sembrava perdutamente innamorato. Neppure con tutto il loro impegno sarebbero mai riusciti a scordarsi l’una dell’altro, era praticamente impossibile.
   «Ci vediamo domani, Indiana Jones» gli sussurrò da sotto le coperte.
   Jones le lanciò un’ultima occhiata, quindi riaprì la porta ed uscì nel corridoio.

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Capitolo 6
*** Capitolo V - Verso casa ***


CAPITOLO V
VERSO CASA
 
Macapá, Brasile

   Finalmente, ad una settimana esatta da quando avevano potuto ammirare la prodigiosa bellezza della perduta Akator, nonché la sua distruzione definitiva, la foresta in apparenza senza confini cedette il passo a rive pianeggianti e le acque dell’immenso Atlantico iniziarono a brillare in lontananza, oltre le ultime fangose lagune del Rio delle Amazzoni; l’aria, pur rimanendo umida, tornò a farsi respirabile e fu un vero sollievo, dopo tutti quei giorni a bordo del dondolante battello fluviale, tornare a posare i piedi sulla terraferma, anche se sarebbe stato solamente per poco.
   Il capitano Bauru e suo fratello si prodigarono in mille saluti, dicendo che sarebbero stati sempre a loro disposizione per un viaggio lungo il fiume; nondimeno, furono del tutto irremovibili quando Oxley si offrì di ricomprare il teschio di cristallo a peso d’oro.
   «Non se ne parla proprio» rispose il comandante, irremovibile. «Quell’affare è mio e tale resterà per sempre.»
   Jones tentò di convincere l’amico a lasciare perdere, ma fu Marion quella che riuscì davvero a fargli capire che un teschio di cristallo in più o in meno non avrebbe più fatto alcuna differenza, ormai.
   «Dai, Ox, non abbatterti» lo consolò. «Hai scoperto Akator, che altro vorresti? Hai dimostrato che tutto ciò su cui ti sei ostinato per tanto tempo era vero e che chi ti derideva era soltanto uno sciocco in errore. Quel piccolo teschio che tu e Indy avete trovato sotto la cenere sarebbe stato niente più che un souvenir, no? Inoltre, stando a quello che ha detto Indy, i sovietici lo hanno rubato da una base militare segreta, quindi è anche probabile che, al nostro rientro in America, ti sarebbe stato sequestrato e portato chissà dove. Io credo che, invece, sia molto meglio lasciarcelo alle spalle, per poter guardare avanti.»
   Oxley parve rifletterci qualche istante, poi annuì.
   «Hai ragione, Marion, ha perfettamente ragione. Credo che sia ora di cambiare strada. Scriverò un libro sulla scoperta di Akator, naturalmente, dopodiché potrò finalmente dedicarmi ad altro. Sai, immagino che conoscerai la leggenda di Cibola, vero? Una città perduta del Nord America. Io penso che…»
   «Non adesso, Oxley!» lo interruppe bruscamente Jones. «Per un po’ ne ho abbastanza di mitiche città perdute. Che ne dite se, invece, non scopriamo come fare ad andarcene da questo posto?»
   «A proposito, dov’è che ci troviamo, di preciso?» domandò Mutt, osservando la città che si estendeva oltre la banchina, una città parecchio grande e che stonava veramente tanto con la lussureggiante vegetazione che avevano appena lasciato.
   «Macapá, non lontano dal confine con la Guayana francese, almeno credo» borbottò Jones. Si rivolse a Bauru, che li aveva seguiti a terra, e parlottarono per alcuni momenti in portoghese. Dopodiché, il comandante si allontanò, andandosene per gli affari suoi.
   «Che vi siete detti?» chiese Marion.
   «Mi ha detto che, qui in città, c’è una piccola pista d’atterraggio, da dove qualche pilota potrebbe condurci a Fortaleza, a circa quattro ore di volo da qui. Laggiù si trova un vero aeroporto da dove, se siamo fortunati, potremo trovare un volo diretto per gli Stati Uniti, o almeno per Cuba. Venite, cerchiamo un tassista e chiediamogli di condurci alla pista. A soldi, come siamo messi?»
   Si volse verso suo figlio, a cui aveva affidato tutto il denaro che avevano con sé, ed il ragazzo si chinò per sfilarsi uno dei suoi stivali da motociclista. Da sotto la soletta, trasse alcune banconote ripiegate alla meglio.
   «Due pezzi da cento, alcuni deca e parecchi spiccioli» contò rapidamente.
   «Saranno più che sufficienti» replicò Jones. «Forse non sarà un viaggio comodissimo, ma almeno ci basteranno per tornare negli Stati Uniti.»
   «Prima dovremo fare tappa in Perù, a Nazca» disse Mutt.
   Tutti si voltarono a guardarlo, senza capire il motivo di quella sua inaspettata affermazione.
   «Perché vuoi andare a Nazca?» gli domandò sua madre. «Non ne hai ancora avuto abbastanza, dell’America latina? Per quel che mi riguarda, non voglio rimetterci mai più piede!»
   Lui chinò il capo, leggermente imbarazzato.
   «Be’, ho lasciato la moto in quel cimitero e…» borbottò.
   «Non pensarci nemmeno» non lo lasciò continuare Jones. «Non troveresti più nulla, laggiù. Se la sarà già presa qualche vagabondo di passaggio che l’avrà smontata per rivenderne i pezzi. Rassegnati, figliolo, la tua moto è perduta, ma magari, quando ti iscriverai a scuola, potrei regalartene una io…»
   «Non chiamarmi figliolo!» scattò subito il ragazzo, incollerito. «E qualsiasi altra cosa tu ti sia messo in testa, matusa, vedi di scordartela!»
   «E tu non chiamarmi matusa!» sbottò Jones, indispettito. «Io sono tuo padre e, come tale, pretendo di essere chiamato…»
   «Tu non sei mio padre! Mio padre era Colin Williams, ed è morto in guerra, da eroe!» si imputò il giovane.
   «Non ricominciare con questa storia, Mutt!» intervenne Marion, quasi esasperata. «Jones è tuo padre e mi pareva che lo avessimo già chiarito!»
   «Per me non è chiarito un accidenti!» gridò ancora il giovane, gettandole un’occhiata in cagnesco.
   «Non parlare con quel tono a tua madre!» lo redarguì l’archeologo.
   «Tu non provare a dirmi che cosa devo o non devo fare! No, eh!»
   Prima che qualcuno aggiungesse altro, il ragazzo si allontanò a grandi passi, le mani affondate nel giubbotto di pelle e lo sguardo inviperito rivolto alla città fluviale. Jones fece per seguirlo, ma una mano leggera gli si posò sulla spalla, fermandolo. Era Oxley.
   «Lascialo stare, lascialo stare» disse con saggezza. «È giovane e confuso. E chi non lo sarebbe, d’altronde, in una situazione simile? Anche per me è stato un colpo venire a conoscenza di tutto questo. Ci vuole tempo, prima che sappia accettare tutta la verità.»
   «Ox ha ragione, Indy» aggiunse dolcemente Marion, prendendogli una mano e stringendola tra le sue. «Mutt è molto impetuoso e in questo devo ammettere che ha preso tutto il peggio sia di me che di te. Ma ha un cuore d’oro e vedrai che, appena sarà pronto, tornerà ad affrontare questo discorso con tutta la calma e la serenità necessarie.»
   Jones, al tocco delicato di Marion ed a quello rassicurante e fraterno di Oxley, si era subitamente calmato.
   «Averi voluto parlargli, durante questi giorni sul fiume, ma non l’ho fatto, nonostante qualche occasione, di quando in quando, si sia presentata» ammise. «A pensarci bene, forse è meglio così. Prima devo capire bene io stesso che cosa dirgli.»
   «Se vuoi un consiglio» aggiunse Oxley, «non parlargli più né di moto né di scuola. Soprattutto di scuola.»
   «Io voglio che mio figlio…» cominciò Jones, ma Marion scoppiò a ridere così allegramente che le scesero dei goccioloni dagli occhi, lasciandolo di stucco.
   «Scusami, Indy, ma mi fai davvero divertire» sghignazzò, quando si fu finalmente calmata un poco. «Fino all’altro giorno neppure sapevi di averlo, un figlio, e ora ne parli come un genitore preoccupato.»
   «Be’, è una bella responsabilità e voglio onorarla, anche se in ritardo» le spiegò lui, con un certo disagio.
   Osservò i suoi occhi, resi ancora più brillanti del solito da quelle lacrime - tanto differenti da quelle che, entrambi, avevano copiosamente versato la notte precedente - e si sentì invadere dal solito calore che gli bruciava dentro quando se la trovava davanti. Era certo che tanto lei quanto Oxley avessero ragione, riguardo a lui ed a Mutt; e lui stesso, ovviamente, doveva imparare prima di tutto ad accettare l’idea di non essere più uno scapolo solo al mondo.
   Fino a pochi giorni prima, convinto di non avere più nulla da dare nella vita, né di poter ricevere qualcosa in cambio, aveva meditato sull’idea di lasciare tutto e ritirarsi a Lipsia, in Europa, dove il suo amico Heinrich avrebbe potuto trovargli con facilità un posto di insegnante nell’Università - un favore da nulla, oltretutto, rispetto a quanto Jones aveva fatto per lui. L’idea di finire i suoi giorni in una città della DDR non gli sorrideva più di tanto, d’accordo, ma trovava che sarebbe stato assai meglio che restarsene in un’America in preda all’isterismo e che non sarebbe più stata in grado di dargli nulla all’infuori di grossi dispiaceri, come quello di venire messo in aspettativa dal consiglio universitario del Marshall College essendo sospettato di essere un comunista filosovietico - proprio lui che, per anni, dopo la guerra, aveva contribuito a spiare le attività dei bolscevichi!
   Poi, però, ecco che era apparso dal nulla quel ragazzino che si celava dietro un’aria da bullo spaccone per farsi vedere grosso davanti agli altri e, nel giro di pochissimi giorni, la sua vita era radicalmente mutata, facendogli scordare per sempre la Germania e, al medesimo tempo, facendolo ringiovanire di almeno due decenni, come se la lancetta del tempo fosse improvvisamente ritornata all’autunno del 1937, quando tutto era sembrato finito e irrecuperabile.
   E, così, aveva ritrovato ciò che credeva ormai irrimediabilmente smarrito sotto la polvere degli anni sempre più lunghi. Aveva ritrovato un amico che credeva perduto, nello stesso istante in cui un altro amico lo aveva tradito e venduto ai loro nemici. Aveva ritrovato un figlio che non aveva mai neppure creduto di avere e che, per colpa sua, era cresciuto senza un padre. Aveva ritrovato la donna che mai, nemmeno per un istante, aveva smesso di amare con tutto se stesso e che, forse, a sua volta non lo aveva mai dimenticato. E, da ultimo, aveva ritrovato anche la propria voglia di mettersi in gioco e di affrontare la vita con un sorriso ironico sulle labbra.
   Si sentiva euforico, felice; ma anche, ne era consapevole, leggermente smarrito, perché dopo anni di niente gli era piombato tutto addosso in una volta sola, levandogli il fiato; e gli ci sarebbe voluto, ovviamente, un po’ di tempo per riuscire ad interiorizzare tutto e ad accettare in pieno quella nuova verità. Lui non era nell’età complicata di Mutt - o Junior, come già aveva cominciato a chiamarlo dentro di sé - ma non per questo non era in difficoltà tanto quanto lo era lui. Tuttavia, era certo che, insieme, sarebbero riusciti ad andare avanti e a costruire qualcosa di speciale e di duraturo.
   «Lo so bene, Indy» sospirò Marion, continuando a stringergli la mano. «E lo sa anche Oxley, visto che mi ha aiutato lui a crescere Mutt. Ma credo che tu potrai farcela, davvero.»
   Jones le sorrise e la fissò negli occhi, poi il suo sguardo corse ad Oxley e tornò in quello di lei. L’archeologo inglese capì immediatamente che voleva dirle qualche cosa in privato quindi, dimostrando il suo solito tatto, si discostò di qualche passo e andò ad affiancarsi a Mutt, ancora immusonito, intrattenendolo con la storia della colonizzazione del Brasile da parte dei portoghesi.
   Come furono soli, Indy prese subito la parola.
   «Marion, quando torneremo a casa, io avrò un figlio che prima non avevo. Ma spero anche che potrò avere al mio fianco un’altra persona che prima non c’era…»
   La donna fece un sorrisetto.
   «Non sarà semplice, Jones, te ne rendi conto, vero? Sono trascorsi due decenni dall’ultima volta che te ne sei andato. E trenta dalla prima. Non vorrei vederti sparire un’altra volta dalla mia vita…»
   L’archeologo non replicò. Aveva paura a farlo, perché non sapeva che cosa avrebbe potuto dirle esattamente. Confessarle di essere cambiato? Sarebbe sembrato ridicolo. Dirle che, questa volta, sarebbe stata al sicuro, con lui, per sempre? Con che faccia tosta avrebbe potuto farle una simile promessa, dopo tutte quelle che aveva già infranto in passato?
   Si limitò ad annuire, prima di borbottare: «Hai ragione, Marion. Non sarà semplice, come non lo è mai stato prima. Ma…» si interruppe e distolse lo sguardo, fissando il cielo.
   «Ma?» lo incitò a lei, che voleva sapere a che cosa volesse alludere, sebbene già lo avesse intuito.
   «Ma non lo sapremo mai, se prima non ci proveremo.»
   Marion sembrava non essere più in grado di smettere di sorridere. Gettò una rapida occhiata verso Oxley e Mutt, che volgevano loro le spalle - l’archeologo aveva teso un braccio e stava indicando chissà cosa, parlando a raffica - poi si alzò in punta di piedi e gli depose un bacio leggero sulle labbra.

   Raggiunsero la pista d’atterraggio a bordo di uno scalcagnato taxi, un’Auto Union F93 che, pur non essendo affatto vecchia, sembrava avesse attraversato mille battaglie - Mutt, seduto sul sedile anteriore, a fianco dell’autista, non disse una sola parola per tutto il viaggio e non degnò di una sola occhiata i suoi genitori - e lì trovarono un pilota che, per venti dollari, fu disposto a condurli fino a Fortaleza, una città sulla costa atlantica, a meno di quattro ore di volo da dove si trovavano. Nell’aeroporto della città di mare, riuscirono a barattare un volo su di un aereo carico di banane diretto in Florida, che sarebbe partito l’indomani e, sorvolando i Caraibi, li avrebbe portati a destinazione nel giro di una decina di ore.
   Molto presto, sarebbero tornati a respirare aria di casa.

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Capitolo 7
*** Capitolo VI - Atterraggio ***


CAPITOLO VI
ATTERRAGGIO
 
Miami, Florida

   Il sole cominciava lentamente ad abbassarsi verso l’orizzonte quando l’aereo carico di numerose casse di banane - in mezzo alle quali gli improvvisati passeggeri avevano trovato dei posti di fortuna dove sedere - cominciò ad effettuare le manovre per poter prendere terra sulla lunga pista dell’aeroporto internazionale. Il mare luccicava in lontananza, pronto ad accogliere frotte di turisti che, con l’approssimarsi dell’estate, di lì a poche settimane si sarebbero riversati sulle spiagge per godere del tepore e per portarsi a casa, a fine stagione, un indelebile ricordo stampato sulla pelle abbronzata, un ricordo destinato a svanire a mano a mano che l’autunno fosse avanzata. Tuttavia, per il momento, ancora doveva terminare la primavera e freddo e piogge sembravano quanto di più lontano potesse esistere.
   Ma per Jones quel luogo all’estremità meridionale degli Stati Uniti non significava soltanto sole, mare e spiagge, almeno non direttamente. La Florida gli rammentava, semmai, ben altri momenti della sua vita, dato che una ventina d’anni prima, quando ancora era felicemente fidanzato con Marion e ormai prossimo a domandarle di sposarlo, era stato proprio da lì che lui e il piccolo Short Round erano partiti per cercare - senza alcun esito, oltretutto - le vestigia della mitica Atlantide. Mitica neppure troppo, dato che lui stesso l’aveva ritrovata, pochi anni più tardi, quando però credeva che Marion, infine, fosse soltanto un ricordo lontano che non sarebbe mai più tornato ad affacciarsi alla sua vita.
   Be’, in quegli azzurri giorni remoti anche Marion era andata con lui alla ricerca di Atlantide, entusiasta da quell’impresa di cui, in fondo, sapeva poco o nulla, dato che lo stesso archeologo l’aveva più che altro improvvisata per poter trascorrere un po’ di tempo lontano da casa e soprattutto da Marcus Brody, che non mancava mai di indicargli qualche luogo esotico e remoto in cui cercare chissà quale astruso reperto; lui, però, voleva trascorrere del tempo da solo con Marion - e, naturalmente, con Shorty, che per lui era come un fratellino più piccolo - quindi aveva escogitato quel modo per andarsene al mare e rimanere qualche giorno distanti dalla frenesia della vita di ogni giorno.
   Avevano trovato alloggio in una pensioncina con vista sul mare, dove facevano rientro ogni sera, dopo un giorno intero di lunghe, estenuanti ed inutili ricerche, con la pelle sempre più scura, la stanchezza sulle spalle ed il sorriso indelebilmente tracciato sulle labbra. Jones condivideva la stanza con Shorty, mentre Marion ne aveva una propria; ma ogni notte, dopo che il suo amico si era addormentato, usciva furtivamente dalla camera e raggiungeva quella della ragazza, la cui porta era sempre aperta per lui. E, insieme, i due amanti si consolavano dell’infruttuoso lavoro a cui si stavano dedicando, con la tenacia e la passione della loro gioventù. Erano notti dolcissime, magiche, tutte per loro, durante le quali avevano più che mai imparato che cosa significasse realmente amare e sentirsi amati, in tutti i sensi. E, anche a distanza di anni, ripensare a quei momenti fu sufficiente per risvegliare in Indiana Jones qualcosa che non credeva ancora possibile.
   Stava quasi per voltarsi a cercare Marion con lo sguardo, per capire se anche lei stesse rivivendo quei giorni con gli occhi della memoria, quando un particolare sulla pista d’atterraggio attrasse la sua attenzione, un dettaglio che quei dolci ricordi gli avevano quasi fatto scappare ma che, comunque, non sfuggì ai suoi occhi d’aquila.
   La pista era sgombra di velivoli, tranne che per un furgone della polizia con alcuni agenti in divisa e due uomini in giacca e cravatta, che parevano molto interessati al loro aereo in avvicinamento; e non gli ci volle che un secondo per riconoscere in quei due damerini vestiti di nero, anche da lontano, Taylor e Smith, i due simpaticoni dell’FBI che lo avevano interrogato quando, per pura casualità, era riuscito a sopravvivere ad un’esplosione nucleare, evidentemente un reato severamente perseguibile, nell’ottica dei servizi segreti.
   Non provò neppure a domandarsi come quei due facessero a sapere che lui si trovava a bordo di quell’aereo: aveva servito come agente fisso nei servizi segreti fino a sette anni prima e non aveva mancato di farlo ancora qualche volta, quando si era reso necessario, in tempi molto più recenti, quindi era ben conscio che, quando la CIA o l’FBI volevano sapere qualche cosa, la scoprivano e basta, senza che servisse a qualcosa interrogarsi su come ci fossero riusciti. Né ebbe alcun dubbio riguardo al fatto che si trovassero lì proprio per lui e non per chiunque altro. Quello che più importava, adesso, era evitare spiacevoli inconvenienti che potessero rovinare l’atmosfera.
   «Marion, Ox» gridò in maniera concitata, schizzando via dal suo sedile e precipitandosi a raggiungerli come una furia. I due interpellati lo fissarono ed anche Mutt lo osservò senza capire a che cosa fosse dovuta la sua improvvisa frenesia.
   «Che succede, Henry?» chiese Oxley. Ricordando di come Jones avesse qualche dimestichezza di aeroplani, temette che si fosse accorto di un qualche problema. «Abbiamo qualche noia ai motori?»
   Mutt sbiancò visibilmente, nell’udire quella frase.
   «Mamma!» urlò, saltando in piedi per raggiungerla. «Stiamo per precipitare!»
   Anche Marion si spaventò e passò un braccio attorno alle spalle del figlio, senza riuscire a dire nulla per tranquillizzarlo o per calmare se stessa.
   In quanto all’archeologo, non seppe se scoppiare a ridere o mettersi a piangere.
   «Ma no… ma che dite… questo aereo va benissimo…!» farfugliò. «Insomma, lasciatemi finire di parlare, prima di immaginarvi chissà che cosa!»
   Si slacciò il cinturone con attaccata la fondina della pistola, staccò la frusta dal suo supporto e si sfilò la borsa che portava a tracolla.
   «Ecco» disse, passando tutto a Marion. «Fammi un favore… conservali tu per me…»
   Marion prese tutti quegli oggetti tra le mani senza capire.
   «Conservarli per te? Ma che significa?» chiese, lanciando occhiate a Oxley e Mutt in cerca di una risposta che loro non seppero darle.
   «Lo capirai tra pochissimo» replicò Jones, facendolo un sorriso per assicurarla che tutto sarebbe andato bene.
   Si rimise a sedere nell’esatto istante in cui, con qualche sobbalzo, l’aeroplano toccò terra e cominciò a rullare sulla pista, manovrando per potersi fermare, mentre i motori scendevano lentamente di giri. Con la coda dell’occhio, l’archeologo notò dal finestrino il furgone della polizia che accendeva i lampeggianti blu e seguiva da vicino il pesante mezzo.
   Non appena il mezzo fu fermo, i due piloti - unici membri del personale di bordo - si avvicinarono al portellone, per aprirlo, dato che da fuori vi era già stata accostata la scaletta; Jones, tuttavia, li precedette e provvide di persona ad abbassare il maniglione. Come immaginava, si trovò la strada sbarrata dai due uomini in abito scuro ed occhiali da sole.
   «Felici di rivederla, professor Jones» disse subito Taylor.
   «Speriamo che vorrà seguirci senza costringerci ad ammanettarla» aggiunse Smith, mostrando le manette che teneva nella mano destra.
   Jones ghignò. «Di che cosa sono accusato, questa volta?» domandò.
   Nessuno dei due uomini rispose, continuando a mantenere i loro sguardi freddi e impassibili fissi sull’archeologo, alle cui spalle arrivarono anche Oxley, Marion e Mutt.
   «Che storia sarebbe, questa?» domandò Oxley, che aveva sentito ogni cosa. «Perché diavolo vorreste…?»
   «Lei chi sarebbe?» chiese invece Smith.
   «Sono il professor Harold Oxley e…»
   «È un amico del professor Jones, dico bene?» continuò Taylor.
   «Io…» cominciò a dire Oxley, ma una gomitata all’indietro di Jones lo costrinse a tacere.
   «Queste persone hanno compiuto il viaggio insieme a me, ci siamo divisi le spese, ma non le ho mai viste prima d’ora» spiegò l’archeologo. «Presumo che, almeno questo, non sia un reato.»
   Taylor fece un sorrisetto. «Non si prenda gioco di noi, professore.»
   «Sappiamo perfettamente che il signor Williams è partito insieme a lei quando si è inspiegabilmente diretto in Sud America» sottolineò Smith. «E, dal suo fascicolo, risulta che il professor Oxley fu su compagno all’Università di Chicago, mentre la qui presente signora ebbe con lei dei rapporti, in passato…»
   «Ehi!» gridò Marion, scandalizzata, mentre cominciava a scaldarsi: non aveva la più pallida idea di chi fossero quei due uomini arroganti, ma le sembrarono antipatici fin dalla prima occhiata ed ebbe subito una gran voglia di prenderli a sberle. «Non vi permetto di frugare come vi pare nella mia vita! Chi accidenti siete, voi altri, e che cosa volete da noi?»
   Smith mostrò il proprio tesserino, che lo identificava come agente dell’FBI.
   «Loro non c’entrano nulla, con tutta questa faccenda» sibilò Jones. Un sopracciglio gli si sollevò sulla fronte, quando aggiunse: «Di qualunque faccenda si tratti, oltretutto.»
   Entrambi gli agenti fecero un sorrisetto compiaciuto.
   «Non finga con noi, professore» intimò Taylor.
   «Per questioni del genere si finisce dritti dritti sulla sedia elettrica, immagino lo sappia» soggiunse Smith, che pareva quasi smanioso di potercelo mandare lui stesso.
   Quella notizia lasciò di sasso Oxley, Marion e Mutt.
   «Sedia elettrica?!» ripeté il ragazzo, sbalordito. «Ma siete impazziti?!»
   «Questa cosa è inaudita!» urlò Oxley.
   In quanto a Marion, fece un minaccioso passo in avanti.
   «Dovrete passare sul mio cadavere se solo vorrete azzardarvi a…»
   Jones le posò una mano sul braccio per tranquillizzarla, quindi fulminò con lo sguardo i due uomini.
   «Non vestite panni che non vi competono, signori miei, perché questa decisione spetterà al giudice, non a voi» gli ricordò, con un tono calmissimo.
   «Dipenderà soprattutto da ciò che noi riferiremo al giudice» disse duramente Smith. «Ed ora venga con noi, svelto.»
   «Al vostro servizio» replicò Jones, incamminandosi dietro di lui giù per le scalette.
   Prima di seguirli, Taylor si rivolse ai tre rimasti sull’aereo, che stavano osservando l’intera scena a bocca spalancata.
   «Per il momento vi lasciamo liberi» spiegò. «Ma dovrete restare qui in città. Fissate una camera in un albergo e comunicatene nome e indirizzo alla più vicina centrale di polizia, che provvederà ad informarci. È molto probabile che dovremo interrogarvi tutti e vi ricordo che la vostra posizione è attualmente al vaglio e non è per nulla sicuro che non siate coinvolti anche voi in questa storia.»
   Oxley era allibito, mentre Marion e Mutt non avevano quasi più saliva in bocca per poter proferire alcuna frase. Infatti, fu l’archeologo che riuscì a sbottare: «Ma si può sapere di che storia stiate parlando?»
   Taylor si era già avviato alle spalle del collega e del professore, ma si volse brevemente per rispondere: «Anche lei, per favore, non faccia il finto tonto. Sa meglio di me che il professor Jones è una spia al servizio dell’Unione Sovietica. Altrimenti, come pensa di poter giustificare che sia andato in Sud America e si sia incontrato con la dottoressa Spalko ed il noto filosovietico McHale?»
   Oxley scosse il capo, borbottando un: «Questi devono essere fuori di cervello» mentre Marion tenne gli occhi fissi su Indy che, docilmente, si lasciava condurre a bordo del furgone cellulare. Aveva creduto, per un momento, che avrebbe menato le mani fino a convincere a suon di ceffoni quei due idioti della propria innocenza, ma non lo aveva fatto.
   Forse, le venne da pensare, Indiana Jones negli anni era veramente cambiato, più di quanto lui stesso fosse disposto ad ammettere, o magari più di quanto credesse; oppure, ed anche questa era una possibilità da considerare, era così felice di avere finalmente una famiglia da non voler distruggere tutto proprio adesso con qualche sciocca mossa azzardata. In ogni caso, lei era libera e non avrebbe lasciato nulla di intentato pur di vederlo scagionato da quelle stupide e infamanti accuse e di riaverlo con sé.
   Ciò che Marion non poteva sapere, era che Indiana Jones poteva contare non solo si di una fortuna sfacciata, ma anche su due angeli custodi in uniforme militare.

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Capitolo 8
*** Capitolo VII - I due generali ***


CAPITOLO VII
I DUE GENERALI
 
Langley, Virginia

   Il generale Robert Ross, lo sguardo pensieroso e corrucciato, uscì dall’ascensore che lo aveva rapidamente condotto all’ultimo piano della sede della CIA e si avvicinò a passo svelto alla porta che si trovava in fondo al corridoio. Esitò un momento, indeciso se entrare direttamente nell’ufficio o se bussare; alla fine, fece entrambe le cose: diede due colpi alla porta ed aprì senza attendere di essere stato invitato a farlo.
   Si ritrovò in un ufficio arioso e soleggiato, illuminato dalla grande vetrata che, in pratica, costituiva tutta la parete di fondo; e, dinnanzi a quella vetrata, le mani incrociate dietro la schiena, stava fermo un uomo corpulento, che gli voltava le spalle osservando il verde panorama della Virginia.
   «Entra pure, Bob» disse la voce ironica dell’uomo, che rimase immobile al proprio posto.
   «Scusa la fretta, Bill, ma ho appena saputo che…» cominciò Ross, mentre si richiudeva la porta alle spalle.
   Il generale William Eaton si volse verso di lui. Faceva un po’ strano vedere un fisico tanto grasso, quasi al limite dell’obesità, compresso in una severa uniforme carica di medaglie; eppure era un’impressione che svaniva non appena gli occhietti severi, indagatori e intelligenti dell’ufficiale si incontravano con quelli del proprio interlocutore. Il suo volto era paffuto, ma il curatissimo pizzetto brizzolato gli conferiva un’aria talmente marziale che nessuno avrebbe osato mettere in discussione un suo ordine. E persino Ross, per quanto fossero parigrado e colleghi da tanti anni, di quando in quando riusciva a sentirsi in soggezione dinnanzi a quell’uomo.
   «…che quel castigamatti di Jones è stato beccato dai ragazzi dell’FBI» completò Eaton per lui, senza avere bisogno di ulteriori conferme. Andò a sedere sulla propria poltrona - che, nonostante fosse dotata di rinforzi d’acciaio, scricchiolò non poco sotto il suo notevole peso - ed indicò al collega di accomodarsi di fronte a lui.
   Eaton era a capo di una sezione speciale della CIA, la medesima in cui Jones aveva servito durante gli anni del conflitto e dalla quale si era dimesso nel 1950; dopo di allora, l’archeologo aveva continuato a collaborare di sovente con loro, vista la sua innata capacità di uscire quasi indenne anche dalle situazioni più complesse. Anche Ross faceva parte dello stesso gruppo e ne era una sorta di vicecomandante, dato che, in ogni caso, tutte le decisioni più importanti facevano capo ad Eaton soltanto.
   «Già» bofonchiò Bob. «L’altra volta l’ho tirato facilmente fuori dai guai, dopo che si era chiuso in quell’accidenti di un frigorifero, anche se l’FBI non ha ceduto e ha messo a soqquadro il suo ufficio, pochi giorni più tardi, sospettandolo di chissà che cosa. In realtà le indagini sarebbero durate poco e non avrebbero trovato alcunché contro di lui, ma poi Indy è sparito.»
   «L’FBI ritiene che Jones sia un comunista» sbottò Eaton, con disgusto. «Sciocchezze.» Si accese la pipa che, fino a quel momento, era stata posata sulla sua scrivania e fece un sorrisetto, ripensando al suo primo incontro con Jones, quando lui stesso aveva sospettato che Abner Ravenwood potesse essere un nazista e il dottor Brody aveva tacciato alla medesima maniera quella teoria. «E non credano che pure McHale lo sia» aggiunse, con una punta di stizza. «Ho collaborato troppo a lungo anche con quell’inglese lì per sapere che è più capitalista di noi due messi insieme. Se ha fatto quello che ha fatto, è solo per i soldi. Da lui me lo sarei dovuto aspettare. Ma da parte di Jones…»
   «Non crederai mica che Indy si sia venduto ai sovietici!» esclamò Ross, stupefatto. «Sai meglio di me che non farebbe mai e poi una cosa del genere!»
   Eaton tirò una boccata dalla pipa, prima di rispondere.
   «Ma lo so. A lavorare per noi quei due sono diventati ricchi, poco da dire. E Jones, in questi ultimi anni, ha persino ricevuto due eredità che lo hanno sistemato praticamente fino a quando scamperà, dovesse vivere duecentoventi anni, quel tritacarne umano. Però, so anche che McHale ha le mani bucate e ha sperperato quasi tutto il suo patrimonio al gioco. Riguardo al suo tradimento non ho alcun dubbio.»
   Ross tirò un sospiro di sollievo. «Be’, allora, non vedo perché Jones debba venire arrestato…»
   «Perché quando è sparito è ricomparso in Perù, ecco perché» ruggì Eaton.
   Aprì il cassetto della scrivania e ne trasse un pacco di fotografie scattate con un teleobiettivo, che sbatté con malagrazia di fronte a Ross. Il generale le prese tra le mani e le fece scorrere: mostravano Jones in compagnia di un ragazzo e, a breve distanza da loro, McHale, con un cappello di Panama in testa; e non si riusciva affatto a comprendere se fosse in loro compagnia o se li stesse pedinando. Ross propese per la seconda ipotesi, ma Eaton non ne parve affatto convinto.
   «Per quel che ne sappiamo, quei tre potevano avere appuntamento laggiù per combinare chissà che cosa o per farsi pagare la ricompensa» brontolò il grosso militare. Mostrò l’ultima fotografia, che ritraeva McHale in compagnia di un uomo vestito da ufficiale sovietico. «Lo sai chi è questo?»
   «Posso immaginarlo…» borbottò Ross, a disagio.
   Dallo stesso cassetto, Eaton tolse un fascicolo e lo gettò con la medesima malacreanza di prima sulla scrivania. Prima ancora che l’altro avesse avuto il tempo di allungare la mano per prenderlo, grugnì: «Antonin Dovchenko, colonnello della Specnaz, il braccio operativo della nostra vecchia amica Spalko, la sua anima dannata, per così dire. Da quel che ne sappiamo, è il responsabile diretto dell’incursione all’Hangar 51 e dell’uccisione dei nostri che erano di guardia.»
   Bob scrollò le spalle. «Che lui e McHale siano pappa e ciccia ormai è assodato» disse. «Questo non significa nulla.»
   «No?» domandò duramente Eaton. «Questa foto è stata scattata in Perù, lo stesso giorno in cui Jones e il ragazzo vi sono atterrati. Curioso, non trovi?»
   «Quantomeno curioso, sì» si arrese Ross. «Quindi? Che cosa possiamo fare?»
   «Scoprire che cosa diavolo sia successo laggiù, in primo luogo. Ad un certo punto, le nostre spie hanno perso traccia di tutti, da Jones a McHale a Dovchenko. Bisogna capire perché il ragazzo abbia accompagnato Jones, dove siano finiti tutti quando ne abbiamo perso le tracce, da dove siano spuntati fuori il professor Oxley e la donna - perché le mie informazioni le ho prese e so che ci sono coinvolti anche loro, in questa faccenda - e, soprattutto, quale sia il ruolo di ciascuno in questa storia, di qualsiasi storia si tratti.» Eaton fece una pausa per una boccata dalla pipa. «Insomma, bisogna torchiare Jones fino a sapere ogni cosa per filo e per segno, perché questo è l’unico sistema per poterlo scagionare… o condannare definitivamente.»
   «Sono certo della sua innocenza» asserì il generale Ross fieramente.
   «E anche io» ammise Eaton. «Ma non possiamo dare nulla per scontato, non in un periodo di tensioni come questo. L’altra volta hai fatto un’improvvisata a Smith e Taylor e li hai colti alla sprovvista, ma non contare di sorprenderli un’altra volta. In ogni caso, non ne avrai di bisogno: ti rilascio un’autorizzazione per condurre personalmente le indagini e, se proveranno ad opporsi, dovranno vedersela con me, e giuro che due così io me li mangio vivi. Se parti adesso, in aereo dovresti essere in Florida entro sera.»
   Ross si alzò e prese con sé le fotografie, il fascicolo ed altri documenti che, nel frattempo, Eaton aveva continuato ad ammucchiare sulla scrivania e che gli sarebbero tornati utili per giungere alla verità.
   «C’è altro?» chiese, prima di lasciare l’ufficio.
   «Sì» gli rispose l’altro militare, alzandosi a sua volta e guardandolo dritto negli occhi con uno sguardo così penetrante che Ross ebbe quasi l’impressione che gli stesse leggendo nella mente. «So che Jones è tuo amico, ma se dovessi scoprire che è colpevole… non tenermelo nascosto, non servirebbe a niente. Ed in quel caso vorrò essere presente quando gli collegheranno gli elettrodi al cervello.»
   Ma il generale Ross era talmente convinto dell’innocenza del suo vecchio amico che trovò addirittura il coraggio di rispondere: «Se Indy è colpevole, abbasserò io stesso l’interruttore per dargli la scossa. Ma puoi scommetterci quello che vuoi che non accadrà mai e poi mai, una cosa del genere.»
   «Spero che tu abbia ragione, perché ho intenzione di scommetterci le palle, e non ho tutta questa voglia di perderle» replicò Eaton, con la sua solita leggendaria finezza, prima di rimettersi in bocca la pipa e tornare a voltarsi verso la vetrata.

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Capitolo 9
*** Capitolo VIII - Oxley si sente meglio ***


CAPITOLO VIII
OXLEY SI SENTE MEGLIO

   Oxley scomparve per quasi tutto il giorno, lasciando nella più nera disperazione Marion che, oltre ad aver rapidamente scoperto di non poter fare davvero nulla per Indy - non le era neppure stato comunicato dove mai lo avessero condotto quei maledetti pagliacci in giacca e cravatta - si convinse per alcune ore che anche il suo vecchio e caro Ox si fosse dileguato, lasciandola da sola.
   Mutt, ovviamente, si prodigò in ogni maniera per lei. Avevano preso alloggio in uno dei migliori alberghi della città - fortunatamente, non gli era stato proibito di passare in banca a prelevare dal proprio conto - e tentò in ogni modo di consolarla, assicurando che sarebbe andato tutto bene. In verità, il ragazzo non aveva la più pallida idea di che cosa stesse accadendo, né poteva comprendere perché il matusa fosse stato arrestato, visto e considerato che avevano corso dei bei rischi per fermare i sovietici che miravano a conquistare il mondo o cose del genere. Semmai, si sarebbe aspettato che sarebbero stati accolti in patria in maniera calorosa, con tanto di fanfara, come dei veri eroi, non con quella freddezza. Di certo, c’era qualcosa che non andava.
   In ogni caso, ora come ora, la sua preoccupazione maggiore era quella di vedere sua madre tornare in buone condizioni di salute. Fece preparare la tavola sulla terrazza panoramica che completava la suite all’ultimo piano che avevano preso in affitto e ordinò che vi fosse servito ogni ben di Dio, così si sarebbero potuti rifocillare degnamente dopo tutti quei giorni trascorsi mangiando quel poco che poteva offrire una visita nella foresta ed un viaggio a bordo di un battello fluviale.
   Purtroppo, quelle attenzioni non bastarono a far riprendere Marion, che toccò pochissimo cibo e, poi, non si mosse più dalla poltrona di vimini su cui il figlio l’aveva fatta accomodare, guardando verso l’orizzonte con sguardo triste e quasi rassegnato.
   La poveretta aveva appena ritrovato l’uomo che aveva sempre amato fin da quando era una giovanissima ragazzina, con la testa ancora piena di grilli, con cui aveva sognato di sposarsi e dal quale aveva pure avuto un figlio, soltanto per vederselo strappare dalle braccia ancora una volta, questa volta da agenti governativi che parlavano, neppure troppo velatamente, di condanna a morte.
   Ma condanna a morte perché? Cosa aveva fatto di male, il suo Indy, che si era fatto in quattro non solo per correre a salvare lei ed Oxley, ma anche per aiutare il proprio paese nella lotta contro l’oscurità dilagante del comunismo? E, inoltre, dov’era finito Harold? Possibile che, alla prima occasione buona, li avesse abbandonati a se stessi, preferendo dileguarsi piuttosto che affrontare nuovi pericoli? Non poteva crederlo possibile, eppure… Quell’insieme di pensieri negativi riuscirono ad annientare le sue barriere e, molto presto, si ritrovò in lacrime, incapace di trovare una qualsiasi soluzione valida.
   «Ti prego,mamma, non fare così!» la implorò Mutt, rendendosi conto che la donna aveva perso il controllo. Non aveva mai visto sua madre in quelle condizioni - avendolo cresciuto praticamente da sola, aiutata soltanto da Oxley che, però, non aveva mai ricoperto la figura di un padre, semmai quella di uno zio un po’ svanito, Marion si era sempre dovuta mostrare forte e decisa, sicura di sé in ogni momento ed in ogni circostanza - e non aveva intenzione di vederla così nemmeno adesso.
   Sperando che potesse bastare a calmarla, provò ad abbracciarla. Quel contatto servì, in effetti, a tranquillizzare Marion, che tirò su col naso e si asciugò gli occhi sulla manica della camicia.
   «Sai, Mutt, tuo padre non è mai stato capace di stare fermo un solo secondo» gli disse.
   Lui avrebbe tanto voluto gridare che suo padre era morto da eroe nella battaglia d’Inghilterra, ma si scoprì incapace di farlo; e poi, a dirla tutta, anche questo nuovo padre archeologo, dopotutto, era a suo modo un eroe, visto che li aveva salvati da mille diversi pericoli.
   «Sempre in giro per il mondo, alla ricerca di tesori perduti, palazzi sepolti o tombe dimenticate» continuò lei, a bassa voce. «La sua è una vera ossessione, per l’archeologia. E sono certa che, a trasmettergliela, sia stato mio padre, cioè nonno Abner, che tu purtroppo non hai mai conosciuto ma che, ne sono certa, ti sarebbe piaciuto.»
   Spaventato all’idea di doversi trovare ad affrontare chissà quale discorso riguardo a Jones, Mutt fu lesto a cambiare discorso.
   «Che tipo era, il nonno?» domandò.
   Marion sorrise. Aveva rinnegato per anni la memoria di suo padre, l’uomo che era riuscito a portarle via tutto con il proprio egoismo e la propria testardaggine, costringendola ad una vita di stenti e difficoltà, spesso insormontabili, durata per dieci anni; ma ormai quel sentimento era scomparso del tutto, lasciando il posto alla nostalgia ed a ricordi affettuosi, anche se, di quando in quando, ancora dolorosi.
   «Era un duro» affermò. «Oh, sì, era un vero duro. Ed anche un brontolone, testardo e persino irascibile. Eppure, a suo modo, mi voleva bene. Diceva sempre che ero la sua principessina, il suo tesoro più bello. Ma c’era anche un altro tesoro, nella sua vita, un tesoro che cercò sempre con affanno e disperazione e che, purtroppo, fu la sua rovina. La vita non è stata facile, col nonno, anche se all’inizio non si sarebbe detto: brillante archeologo, accademico di fama, amato e rispettato da colleghi e studenti. Jones ed Ox furono suoi allievi, è stato lì che li ho conosciuti. E Indy, anzi, era il suo preferito, anche se aveva un difetto per lui insormontabile: era innamorato di me ed io lo ero di lui.»
   Il monologo di sua madre stava prendendo una brutta piega e Mutt volle riportare l’attenzione sul binario principale.
   «Che cosa cercava di tanto importante, il nonno?»
   «L’Arca dell’Alleanza» replicò Marion, lasciandolo senza parole. «La mitica Arca in cui furono custoditi i frammenti delle Tavole dei Dieci Comandamenti. Era convintissimo di poterla ritrovare in un’antica città perduta chiamata Tanis - divenne una vera ossessione, in verità - ma aveva la straordinaria capacità di litigare brutalmente con tutti coloro che avrebbero potuto finanziarlo. Inoltre, quando sembrava ormai prossimo ad una svolta, si ammalò gravemente.»
   «L’Arca dell’Alleanza» ribatté Mutt, in tono quasi derisorio. «Mi spiace per il nonno, ma quando si dà la caccia al fumo si finisce per aggrapparsi al nulla e fare un bel ruzzolone.»
   Sua madre lo guardò male.
   «Guarda che l’Arca esiste, non devi parlare così di tuo nonno» lo rimproverò. «Per tua informazione, siamo stati io ed Indy a ritrovarla, basandoci sulle informazioni raccolte da Abner!»
   Ed ecco di nuovo Jones fare capolino nelle parole di sua madre. Sembrava proprio che non sapesse più pensare ad altro che a quell’uomo di cui, da quel che ne sapeva, non aveva mai fatto alcun accenno fino al giorno in cui gli aveva scritto quella lettera in cui gli chiedeva di cercarlo, sostenendo che fosse il solo a poterli aiutare.
   Stava cercando di riportare il discorso sul vecchio Ravenwood, quando la porta della loro suite fu spalancata ed un uomo entrò a passo svelto. Lì per lì, quasi quasi, non lo riconobbero nemmeno, ma dopo un momento di sorpresa si resero conto che, quello, era Harold Oxley. Solo che non era più l’Oxley malconcio, ed a tratti decisamente affascinante, che era tornato da Akator insieme a loro, bensì il solito, vecchio, assolutamente accademico professor Oxley: i capelli erano stati tagliati e perfettamente pettinati, gli occhi erano nuovamente riparati da un paio di occhiali dalla montatura dorata, la barba era completamente scomparsa e gli stracci luridi che aveva indossato fino a quel mattino avevano lasciato il posto ad un perfetto completo di lino bianco, con tanto di cravattino annodato attorno al colletto della camicia.
   Ecco spiegato il motivo della sua momentanea e stranissima scomparsa! Aveva trascorso quasi l’intera giornata a riacquistare il suo impeccabile ed anonimo aspetto, calandosi nuovamente nei panni in cui si sentiva più a suo agio, che certo non erano quelli del vagabondo delirante posseduto dal teschio di cristallo.
   Sorrise ai due amici e sedette con loro sulla terrazza, godendo del tepore del pomeriggio e, pur notando gli occhi arrossati dalle lacrime di Marion, non disse una sola parola in proposito. Invece, si scandalizzò non poco nel vedere che non si era ancora cambiata né lavata dal loro ritorno.
   «Marion, te l’ho sempre detto: il primo passo per affrontare le difficoltà è quello di essere sempre puliti e presentabili. Quindi, per favore, vai di là, infilati sotto la doccia e non uscirne più fino a che non sarai completamente linda e profumata. E scordati di rimetterti questi abiti così dimessi: quando ti sarai lavata e avrai indossato un accappatoio, telefona ad una sartoria e fatti recapitare un abito della tua taglia.»
   La donna, però, scosse il capo.
   «Io non ne ho voglia… voglio solo sapere dove sia Indy» mormorò, abbattuta.
   «Non sarà crogiolandoci nella sozzura e nel tedio che potremo fare qualcosa per lui» le ricordò l’archeologo. «Guarda me: mi sento benissimo, adesso. Sono perfettamente a mio agio, pronto ad affrontare un’intera schiera di agenti dell’FBI, se necessario. Prima, per come ero ridotto, mi sarei vergognato anche solo ad apparire di fronte a loro, ma ora è tutto diverso. Tu, invece… Mutt, diglielo anche tu che deve lavarsi. Ed anche tu, ragazzo mio, hai proprio bisogno di una bella ripulita. Dopo tua madre, anche tu farai una visita alla doccia.»
   Lei scosse il capo in maniera sconsolata, mentre Mutt proferì: «Io non…»
   Ma Oxley aveva sempre una risposta pronta per tutto.
   «Sentite un po’, io mi sono occupato di entrambi, quando eravate piccoli. Marion, forse non lo ricordi ma, a dieci anni, eri una discoletta che non voleva mai farsi il bagno e mi costringevi a tenderti trappole sempre più ingegnose per poterti catturare, spogliare e infilare in una vasca piena d’acqua calda. E tu, Mutt, non eri da meno, e quando tua madre non era a casa dovevo sudare sette camice per poterti acciuffare e buttare sotto il getto della doccia. Ora siete entrambi un po’ troppo cresciuti perché io possa pensare di sopraffarvi e costringervi a lavarvi, ma non mettetemi alla prova, per favore.»
   Insomma, Harold Oxley era davvero irremovibile e provare a insistere non sarebbe servito a nulla, lo conoscevano fin troppo bene. Inoltre, era probabile che avesse ragione e che l’acqua calda di una doccia avrebbe spazzato via non solo lo sporco, ma anche la tensione; e, magari, avrebbe portato qualche buona idea su cui riflettere.
   Finalmente, Marion si decise ad alzarsi, sotto lo sguardo compiaciuto di Oxley.
   «E va bene, come vuoi tu, mi lavo. Ma poi ci metteremo tutti all’opera per ritrovare Jones, siamo intesi?»
   «Non sono mai stato così d’accordo con te» le rispose amabilmente l’amico.
   Mentre avanzava a passi strascicati verso il bagno, cominciando già a slacciarsi la camicia azzurra che, ormai, si era quasi ingrigita per via della polvere e del sudore, ricacciò indietro nuove lacrime e si disse che, molto presto, lei ed Indy si sarebbero riabbracciati.

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Capitolo 10
*** Capitolo IX - Primo interrogatorio ***


CAPITOLO IX
PRIMO INTERROGATORIO

   Trascorsero due notti dal momento in cui era stato prelevato all’aeroporto prima che, finalmente, gli agenti dell’FBI si decidessero a rifarsi vivi, tirandolo fuori dalla cella in cui lo avevano rinchiuso per portarlo nella stanza degli interrogatori. Jones conosceva molto bene quella strategia, che consisteva nel lasciare completamente isolato il sospettato per far crollare tutte le sue difese e trovarlo più malleabile al momento di indurlo a confessare ogni cosa.
   Ma, se credevano che quella tecnica potesse rivelarsi efficace anche con un duro come lui, si sbagliavano di grosso. Prima di tutto, perché era abituato a ben altri trattamenti e privazioni; in secondo luogo, perché non aveva proprio nessun crimine da confessare e quei due non sarebbero riusciti a cavargli delle menzogne come avrebbero voluto.
   Grattandosi il mento coperto dalla barba ispida e arricciata di una decina di giorni, fissò con sguardo ironico l’agente Smith, che sedeva immobile all’altro capo del tavolo, le dita delle mani intrecciate in una posizione rigida, mentre ignorò completamente Taylor, che passeggiava avanti e indietro per la piccola e buia stanza, fumando uno sigaretta e sbuffandogli addosso il fumo ogni qualvolta gli passava accanto.
   «È inutile che atteggi il viso in quella maniera, dottor Jones» lo informò Smith.
   «Quale maniera?» domandò l’archeologo, innocentemente.
   «Lo sa bene, professore.»
   Jones scrollò le spalle. «Questa è la mia faccia. Lo so che è brutta, anche se la mia mamma e la mia fidanzata delle scuole elementari dicevano il contrario. Ma non posso farci proprio nulla.»
   «Non cerchi di fare il buffone con noi, professore» grugnì Taylor, alle sue spalle. «Anzi, la informo che mancarci di rispetto servirà solo ad aggravare la sua posizione.»
   Questa volta, Jones si volse all’indietro per poterlo guardare.
   «Mancarvi di rispetto?» ripeté, fingendosi sbalordito. «Ma quando mai vi ho mancato di rispetto?»
   «Lei…»
   «Se vi avessi presi a calci nei denti tutti e due, allora sì potrei dire di avervi mancato di rispetto» continuò Jones. «Ma non mi risulta di averlo fatto… ancora.»
   Smith si protese in avanti e lo afferrò per la spalla, costringendolo a voltarsi bruscamente verso di lui.
   «Ci sta minacciando, forse, professore?» sibilò, il viso contratto da una smorfia rabbiosa.
   «Non le conviene proprio, professor Jones» aggiunse Taylor, chinandosi su di lui. «Proprio no.»
   Detto questo, gli spense la sigaretta sulla manica della camicia, bucandola fino ad intaccargli la pelle del braccio. Il dolore fu ovviamente lancinante, ma Indiana Jones era avvezzo a molto altro e non fiatò, né sul suo volto si mosse un solo muscolo. Abbassò gli occhi e studiò per qualche istante la bruciatura con fare quasi incuriosito.
   «Ci tenevo a questa camicia» osservò, come se non fosse accaduto quasi nulla.
   Smith e Taylor si scambiarono una fugace occhiata. Erano abituati a trattare in quella maniera tutti i sospettati di essere spie dei russi, ma solitamente si trovavano di fronte a persone tremebonde, spaventate e confuse, terrorizzate dall’idea di essere spedite sulla sedia elettrica e pronte a barattare la propria vita in cambio di informazioni ed altri nomi, reali o meno che fossero. Ma questa volta era molto diverso, perché sembravano aver trovato un osso davvero duro da rodere, anche se, ovviamente, sapevano bene di aver a propria disposizione tutto il tempo necessario a far cantare anche quell’ostinato di un archeologo.
   Era il momento di cominciare.
   «In che rapporti si trova, lei, con George McHale?» chiese a bruciapelo Smith, ricomponendosi sulla sedia.
   Jones scosse il capo. «Lo sapete bene senza bisogno che ve lo ripeta. E, in ogni caso, non ho più alcun rapporto con lui, né lo avrà nessun altro, perché Mac è morto.» O, almeno, così pensava, ma non poteva esserne davvero sicuro, dato che George era stato aspirato all’interno di quel dannato portale - di qualsiasi cosa si trattasse realmente - e non poteva essere completamente certo di quale fosse stato il suo destino finale. Magari, in quello stesso momento, era tenuto prigioniero da strani esseri che lo stavano studiando attraverso astrusi e dolorosi esperimenti in chissà quali remoti laboratori, oppure era stato trionfalmente accolto come un eroe e se la stava spassando come un nababbo, visto che aveva contribuito a permettere che i fondatori di Akator facessero ritorno a casa loro, ovunque si trovasse. Nonostante tutto, gli piacque propendere per questa seconda ipotesi.
   Taylor e Smith, invece, parvero alquanto spiazzati da quella risposta.
   «Morto?» ribatté Taylor. «In che senso, morto?»
   Jones sollevò un sopracciglio. «Devo spiegarle che cosa significhi essere morto? Non ha presente? Lungo, disteso, freddo, rigido, immobile…»
   «Non è questo!» ruggì Smith, dando un pugno sul tavolo con violenza. «La smetta di prenderci in giro! Vogliamo sapere come sarebbe morto! Ci dica, lo avrebbe per caso ucciso lei?!»
   «Io?!» fece finta di scandalizzarsi l’archeologo. «Le paio un assassino, forse? Guardi che potrei anche offendermi, sa?»
   «E, allora, sentiamo» borbottò Taylor. «Come sarebbe morto McHale? Ucciso da qualcuno? Per un colpo improvviso? Un incidente? Suicida per i rimorsi? Ci illumini, professore, ci faccia partecipi di quello che lei sa e noi, invece, ignoriamo.»
   Jones si piegò in avanti e unì le mani, intrecciando le dita, in una perfetta imitazione dell’uomo che sedeva di fronte a lui. Smith, nel vederlo in quella posa, divenne livido per la rabbia, ma non cambiò posizione.
   «Il fatto è che se io vi dicessi come sia morto davvero Mac, è molto probabile che non mi credereste e vi mettereste a ridere» spiegò Jones, scuotendo la testa. «Anzi, con ogni probabilità, visto il vostro senso dell’umorismo praticamente inesistente, ricomincereste la manfrina sul fatto che io mi stia prendendo gioco di voi, dell’FBI e dell’intero governo degli Stati Uniti, il che vi assicuro che non è affatto mia intenzione.»
   «Questo lo lasci decidere a noi» puntualizzò Smith.
   L’archeologo pensò che girare attorno alla verità sarebbe stato del tutto inutile, quindi riferì esattamente quello che era accaduto, per filo e per segno.
   «Mac è stato risucchiato all’interno di un disco volante che si è levato in volo dalle rovine di un’antica città perduta dell’Amazzonia ed è poi sparito nello spazio.» O nello spazio fra gli spazi, gli sarebbe piaciuto aggiungere, richiamandosi ai soliti misteri di Oxley, ma non aveva la benché minima idea di che cosa potesse significare quella definizione.
   Nella stanza calò un silenzio gelido e colmo di tensione.
   I due agenti dell’FBI si guardarono negli occhi, domandandosi in silenzio se stessero avendo a che fare con un pazzo o se, invece, quella faccenda del disco volante centrasse in qualche maniera con il furto avvenuto all’Hangar 51 qualche settimana prima. Perché loro, in effetti, sapevano esattamente che cosa fosse stato trafugato e da dove e quando provenisse quella cosa, almeno lo sapevano per averlo letto in documenti e fascicoli.
   L’incidente avvenuto a Roswell nel luglio del ‘47 era stato messo facilmente a tacere attraverso la spiegazione della caduta a terra di un semplice pallone sonda per le ricerche meteorologiche; naturalmente, per qualche tempo, l’opinione pubblica aveva rumoreggiato, non convinta da quella frettolosa spiegazione, soprattutto dopo che, in un primo momento, stampa e militari avevano concordato che, a Roswell, fosse stato catturato un disco volante. Ma negli archivi segreti dell’FBI, della CIA e dell’aeronautica militare si sapeva che, quella del pallone, non era altro che la prima storiella che fosse stata più plausibile da inventare e mettere in giro.
   Entrambi concordarono con lo sguardo di non continuare riguardo a McHale, almeno non subito. Prima era necessario saperne di più, riguardo a Roswell ed a quello che ne era conseguito, e fortunatamente avevano lì con loro un testimone di quei giorni.
   «Professore» disse Smith, cercando di mantenere un tono neutrale. «Perché non ci parla di quello che accadde dieci anni fa?»
   Jones lo scrutò con fare piuttosto misterioso, poi chiuse per un momento gli occhi e rivisse nella memoria quei giorni d’estate del 1947.

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Capitolo 11
*** Capitolo X - Estate ‘47 ***


CAPITOLO X
ESTATE ‘47
 
Fairfield, New York

   Quel caldo pomeriggio di inizio luglio trascorse in maniera fantastica. Del resto, era sempre così quando Irene, la sua segretaria al Barnett College, veniva personalmente a casa sua a consegnargli qualche messaggio od a ritirare i compiti corretti da restituire agli studenti. In genere, parlavano di lavoro per una quindicina di minuti, poi prendevano qualcosa da bere insieme e, infine, si ritrovavano distesi e abbarbicati sul letto - oppure sul divano, come quella volta - senza indossare più nulla all’infuori della loro pelle.
   Quella relazione durava ormai da quando, nove anni prima, trasferitosi a insegnare a New York da circa sei mesi, la ventisettenne Irene Appleton, da poco laureatasi, gli era stata assegnata come assistente; a dire il vero, la loro non era proprio una relazione, almeno non nel vero senso della parola. Prima di tutto, Irene era felicemente sposata e, da circa un anno, aveva avuto il primo figlio; oltre a questo, Jones non voleva proprio saperne di una storia seria - non dopo aver fatto naufragare quella con Marion, almeno - e, oltre a lei, aveva parecchie altre donne che si alternavano dentro e fuori dalle sue lenzuola. Semplicemente, loro due si piacevano fisicamente e non trovavano nulla di strano nell’aggiungere anche un po’ di ginnastica di coppia al loro lavoro altrimenti fin troppo sedentario. L’unica differenza, semmai, era che, mentre con le altre donne Jones ci andava a letto per poco tempo, prima di stancarsene, con Irene la cosa durava da quasi un decennio e non sembrava affatto essere vicina ad un termine. Certo, in quel lasso di tempo c’era stata di mezzo la guerra, che li aveva tenuti separati a lungo, ma anche in pieno conflitto l’archeologo ogni tanto chiedeva una licenza per tornare a casa, per vedere come stesse suo padre e per sincerarsi che la segreteria - che in guerra aveva sia il marito sia l’amante - non patisse troppa nostalgia e solitudine.
   Entrambi esausti ed appagati dopo quasi tre ore di amplesso continuo ed a tratti fin quasi esagerato, si lasciarono andare sui soffici cuscini dell’ampio divano, che si trovava nel centro della piccola saletta ingombra di carte e manufatti; l’appartamento che aveva preso in affitto al numero 38 di Adler Avenue non era molto grande, ma ad uno scapolo impenitente come Indiana Jones, che ci trascorreva le sue giornate in solitudine - ovviamente fatta eccezione per le belle donne che non mancavano mai davanti alla sua porta almeno due volte a settimana - era più che sufficiente.
   «Mi sa che tra poco dovrò tornare a casa» disse Irene, accendendosi una sigaretta che aveva preso dal pacchetto appoggiato sul tavolino accanto al divano. «Altrimenti, mio marito potrebbe insospettirsi. Gli ho detto che avevamo un’importante riunione, in Università, ma credo che stia durando fin troppo, anche per gli standard del rettore.»
   Jones, che di donne non era mai veramente sazio, in tutta risposta si limitò a mordicchiarle un capezzolo turgido.
   «Dico sul serio, professor Jones, credo proprio che farei meglio ad andarmene.» Nonostante tutto, Irene continuava a chiamarlo in quella maniera anche in privato, persino in momenti come quello, ed a lui non dispiaceva affatto, perché, per qualche strano motivo, gli regalava sempre una maggiore eccitazione. E, nonostante la barba - che in quel periodo portava lunga - ed i capelli gli si stessero ormai ingrigendo sempre più, l’archeologo riusciva sempre ad eccitarsi come se avesse avuto ancora venticinque anni.
   «Dici…?» bofonchiò lui, passando da un capezzolo all’altro e godendo nel sentirla fremere ancora una volta.
   «Io…» mormorò Irene. «Professore… penso che…»
   La magia fu bruscamente interrotta da squilli ripetuti e prolungati provenienti dal campanello. Dietro la porta c’era qualcuno che voleva entrare a tutti i costi in quella casa.
   «Mio marito…» strillò la segretaria con la voce così acuta da risultare tagliente. «Mio marito…!»
   Terrorizzata, balzò in piedi e, nuda com’era, corse a rifugiarsi nella camera da letto di Jones, sbattendosi la porta alle spalle. Anche Jones era scattato in piedi e, senza sapere bene che cosa fare, stava quasi per correre alla porta ad aprire. Fortunatamente, si ricordò appena in tempo di essere completamente nudo e che, oltretutto, i vestiti e la biancheria di Irene - prova oltremodo compromettente - erano sparsi per tutta la stanza.
   «Fortuna che ho chiuso tutto le ante» bofonchiò l’archeologo, correndo qua e là a recuperare una camicetta color panna, una gonna rossa, mutandine di pizzo da donna, calze di seta chiara e scarpe con il tacco e domandandosi che cosa avrebbe potuto pensare qualcuno se, in quel momento, avesse deciso di sbirciare da una finestra per vedere se in casa ci fosse qualcuno.
   Aprì la porta della camera e gettò ogni cosa ad Irene, che le afferrò al volo e prese febbrilmente a vestirsi, poi tornò in salotto e, recuperata rapidamente la sua veste da casa, se la infilò e la chiuse sul davanti con il cordoncino, prima di precipitarsi verso la porta, il cui campanello continuava a squillare in maniera quasi frenetica.
   Aprì lo spioncino e guardò fuori, per vedere chi fosse. Sapeva che, se fosse stato davvero il marito di Irene, fingere di non essere in casa sarebbe stato del tutto inutile, perché quello sarebbe stato capace di appostarsi lì davanti fino al giorno successivo, se necessario, quindi l’eventualità di una scenata era praticamente impossibile da scongiurare. Trasse un profondo sospiro di sollievo quando, distorti dal piccolo forellino, vide che a suonare con quella foga il campanello erano due ufficiali con indosso la divisa blu dell’Air Force. Di qualsiasi cosa si trattasse, non poteva riguardare né Irene né suo marito, che aveva fatto la guerra in Europa nei marines e che, da quando era tornato in patria, faceva l’operaio in una fabbrica di scarpe e non poteva certo vantare conoscenze tanto altolocate.
   Dopo essersi dato un’ultima rassettata, Jones aprì la porta.
   «Buon pomeriggio, tenente colonnello» disse il più alto in grado dei due - un capitano - mentre entrambi scattavano sull’attenti.
   L’archeologo fece un rapido cenno del capo. «Mi cercavate?» chiese. Non ricordava di aver mai posto una domanda più retorica in vita sua.
   «Sì, tenente colonnello. Possiamo entrare?» rispose il capitano.
   Jones si gettò un’occhiata alle spalle, borbottò qualcosa di indistinto e si scostò per lasciarli passare.
   «Dovete scusarmi se non vi ho risposto immediatamente, ma ero impegnato…» brontolò.
   «Lo vedo» rispose il secondo dei due, un tenente, indugiando per qualche istante di troppo con lo sguardo sul reggiseno che pendeva come un trofeo da un gancio sopra il caminetto, dove si era posato quando Jones, strappatolo con foga di dosso a Irene, lo aveva lanciato via senza badare a dove finisse.
   Il suo superiore, invece, si tolse di tasca un foglio e lo consegnò a Jones.
   «Cos’è?» borbottò l’archeologo.
   «Abbiamo ricevuto l’ordine di prelevarla, tenente colonnello, e di condurla in un luogo segreto.»
   «Ordine?» sbottò Jones, stupito. «La guerra è finita e io non sono più in servizio.» Si trattava di una mezza bugia, considerato che lavorava ancora per i servizi segreti, ma quei due non potevano e non dovevano saperlo.
   «Signore, si tratta di una questione molto importante, ma non possiamo dirle di più perché non ne sappiamo altro noi stessi» quasi si scusò l’ufficiale. «Abbiamo ricevuto l’ordine scritto di prelevarla direttamente dal generale Eisenhower, se capisce.»
   Jones capiva, o meglio non capiva. Che accidenti poteva essere successo, se il capo di stato maggiore dell’esercito in persona si scomodava per ordinare di prenderlo e portarlo chissà dove?
   «Posso almeno sapere dove intendete portarmi e perché?» domandò, al limite dello sconcerto.
   L’ufficiale negò con un cenno del capo e, guardato l’orologio che portava al polso, disse solo: «L’attendiamo in strada, sulla macchina. Le bastano cinque minuti, per prepararsi? Siamo già un po’ in ritardo.»
   Detto questo, fece nuovamente il saluto militare ed uscì dalla casa. Il tenente rimase indietro, osservò ancora per un istante il reggiseno e commentò: «Mi dispiace molto averla dovuta disturbare così, signor tenente colonnello. Purtroppo la politica e l’esercito non sono affatto sensibili, su certi argomenti.»
   L’archeologo ghignò e gli sbatté la porta in faccia, poi recuperò il reggiseno e andò in camera, dove trovò Irene già vestita.
   «Ti manca qualcosa» le disse, passandole l’indumento.
   «Me n’ero accorta, professore» commentò lei, riponendolo nella borsetta. «Allora, non era Dick, vero?»
   «No» replicò Jones, sfilandosi la veste. «Erano due militari che non mi hanno neppure detto il loro nome. Pare che mi debbano portare chissà dove, anche se non ho capito il perché.»
   La segretaria lo osservò mentre pescava da un cassetto un paio di boxer e se li infilava.
   «La tratterranno molto?» domandò, un po’ preoccupata. «Che cosa vogliono, da lei, i militari?»
   «Sarà qualche questione burocratica» minimizzò lui. «E spero che non mi trattengano poi molto, perché domani ce l’ho davvero, una riunione con il rettore, e se faccio un’altra assenza finisce che non mi rinnova più il contratto per il prossimo anno.» Era una possibilità molto concreta dato che, dal giorno in cui era stato assunto al Barnett College, il professor Jones aveva totalizzato un numero record di assenze.
   Ovviamente, quell’idea lasciò alquanto turbata Irene.
   «Oh, no, professore, non possono licenziarla» disse, quasi disperata. «Come farei io, senza di lei?»
   L’archeologo, nel frattempo, si era infilato un paio di pantaloni neri e una camicia bianca e, adesso, se la stava abbottonando.
   «Be’, con qualcuno dovranno pur sostituirmi» le ricordò, sarcasticamente. «Altrimenti, il buon vecchio Dick dovrà cominciare a fare gli straordinari.»
   Indossò giacca e cappello grigi, controllò di avere il portafogli e le sorrise.
   «Vado» disse. «Rimani qui per un po’, e quando esci chiudi a chiave, mi riporterai le chiavi domani in ufficio.» Si avvicinò, la baciò sulla bocca e fece scendere le mani sopra i suoi glutei, stringendo adagio. «Ci vediamo presto.»
   Purtroppo per lui, quella fu molto più che una semplice questione burocratica.
   I militari lo condussero ad una base dell’aviazione, dove fu fatto salire sopra un aereo che decollò quasi immediatamente; alcune ore più tardi atterrarono da qualche parte nel Nuovo Messico e venne caricato a bordo di un pullman dai finestrini oscurati, dove trovò parecchie altre persone dall’aria decisamente spaesata, proprio come doveva apparire lui stesso in quel momento. A quel punto, salì a bordo un colonnello dell’aeronautica, che abbaiò un ordine dietro l’altro, intimando loro di non proferire parola e di non scambiarsi opinioni; inoltre, tutto quello che avrebbero visto e sentito da quel momento in avanti sarebbe stato altamente confidenziale e coperto da segreto di stato, per cui parlarne avrebbe significato alto tradimento.
   Poi, il colonnello se ne andò ed ebbe inizio un lungo viaggio nel cuore della notte, da qualche parte nel deserto. Non sapevano dove fossero diretti, perché i finestrini non restituivano altra immagine che quella dei loro visi perplessi e corrucciati; ed al termine di quel viaggio spossante, all’arrivo all’interno di un capannone che poteva sorgere chissà dove, furono mostrati loro, per pochissimi minuti, misteriosi rottami ed un involucro metallico al di sotto del quale si trovavano dei resti mutilati, probabilmente del pilota di quello strano veicolo.
   Gli uomini e le donne del gruppo si scambiarono occhiate smarrite, poi ad ognuno, in privato, furono rivolte alcune domande; a Jones, quando fu il suo turno, fu semplicemente chiesto se, nella sua esperienza di archeologo ed intenditore dell’occulto, avesse mai veduto nulla del genere. Ed ovviamente, lui non seppe che cosa rispondere, se non che avrebbe potuto dire qualcosa di più se avesse potuto osservare meglio quelle cose, di qualsiasi cosa si trattasse.
   «Grazie, professor Jones, il suo aiuto c’è stato prezioso» gli rispose invece, in tono del tutto neutrale, il colonnello che lo aveva interrogato, ed Indy ebbe la sensazione che, quella stessa replica, fosse stata data a tutti i membri della strana spedizione.
   Poche ore più tardi venne fatto ripartire con il pullman, riportato in aeroporto e, da lì, a New York. I militari lo congedarono con un saluto e con l’intimazione di dimenticare completamente l’accaduto.
   Tornò a casa con la mente piena di dubbi ma, ovviamente, non poté rientrare, dato che le chiavi lo stavano attendendo nel suo ufficio fin dalla mattina; solo che, ormai, era passato il tramonto e non sarebbe potuto rientrare al Barnett College. E, così, aveva pure mancato l’appuntamento con il rettore, un’altra volta.
   Non sapendo che cosa fare, trascorse la notte passeggiando avanti e indietro, finché giunse il nuovo mattino e tornò in Università. Trovò Irene che lo attendeva, con gli occhi arrossati di pianto e le mani tremanti che stringevano una lettera del rettore. Non ebbe neppure bisogno di leggerla per sapere che gli era stato dato il benservito.
   Con l’aiuto della segretaria raccolse tutte le sue cose - e quella fu l’ultima volta che si videro e fecero qualcosa insieme - poi se ne tornò nel suo appartamento, consapevole che lo avrebbe abbandonato di lì a breve. Fortunatamente, a Bedford aveva ancora parecchi amici - tra cui Marcus Brody - così a settembre poté non solo ritornare nella sua vecchia casa, che durante la sua assenza era stata data in affitto, ma poté anche riprendere il suo vecchio ruolo di insegnante di archeologia al Marshall College.
   Aveva perso il lavoro ed una delle migliori amanti che avesse mai avuto a causa dei militari, e se solo ne avesse parlato per lamentarsene con qualcuno sarebbe stato considerato un traditore della patria.

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Capitolo 12
*** Capitolo XI - Prigionieri ***


CAPITOLO XI
PRIGIONIERI

   Nonostante ci avessero riflettuto per tutto il pomeriggio precedente e per tutta la mattina - dopo una notte trascorsa quasi insonne a lambiccarsi il cervello - né Marion, né Mutt, né tantomeno Oxley riuscirono a trovare un sistema per poter riavere indietro Indy. D’altra parte, quella non era come le altre volte, in cui l’archeologo od i suoi amici venivano presi prigionieri da assassini agguerriti e l’unico modo per riunirsi sani e salvi era quello di menare le mani a destra e a manca. Stavolta, Indiana Jones era stato arrestato da agenti federali ed agire impropriamente contro di loro sarebbe stata ben più che una follia.
   Oltretutto, se anche avessero voluto procedere in quella maniera, avrebbero prima di tutto dovuto sapere dove si trovasse veramente il loro amico, e questo pareva essere un problema insormontabile: avevano telefonato al distretto di polizia ma, ovviamente, nessuno aveva saputo - o voluto - dire loro nulla. Urlare nella cornetta, e Marion non si era risparmiata certo le corde vocali, non aveva sortito alcun tipo di risultato, ed all’ennesima telefonata gli era stato passato un pezzo grosso che aveva intimato di non occupare più inutilmente le linee della polizia se non avessero voluto passare guai ancora più seri di quelli in cui già si trovavano. Proprio così, aveva affermato, e loro sapevano bene che, quella, era non solo una minaccia, ma anche una costatazione del loro attuale stato.
   Oxley si era spremuto le meningi, ma non ricordava di avere alcuna conoscenza, in città; all’improvviso, però, gli sovvenne di una persona che apparteneva al suo passato, una persona molto facoltosa che, da quel che ne sapeva, viveva da quelle parti e che, forse, avrebbe in qualche maniera potuto aiutarli.
   «È una proprietaria terriera» spiegò. «Molto ricca. Anni fa io ed Henry l’abbiamo aiutata a venir fuori da un grosso guaio e credo che non ci negherebbe un favore.»
   Marion lo soppesò con lo sguardo. «Ma come pensi che potrebbe fare? A meno che non sia un membro delle forze armate, non credo che abbia molte più possibilità di noi per riuscire in qualcosa.»
   «Be’, però, se abita qui in Florida da così tanto tempo, magari ha qualche conoscenza in più di noi, che potrebbe aiutarla.»
   La donna, comunque, continuava ad apparire titubante.
   «Non saprei, Ox» commentò. «Questa è una faccenda davvero delicata. Hanno accusato Indy di essere una spia dei comunisti - roba per cui si finisce facilmente sul patibolo, mica niente - e non mi va di coinvolgervi degli estranei. Magari questa signora conduce una vita tranquilla e non vorrei che, all’improvviso, arrivassimo noi a metterla in grossi guai. Io credo che dovremmo sbrigarcela da soli, senza tirare in ballo altra gente.»
   Mutt era seduto sopra un divanetto di vimini al loro fianco ed osservava il panorama. Aveva gli occhi cerchiati di nero ed il viso piuttosto pallido, segno che non aveva dormito molto nemmeno lui, quella notte; del resto, non poteva accettare il fatto di aver ritrovato un padre dopo così tanto tempo solo per vederselo strappare via subito dopo.
   «Sono d’accordo con mamma» intervenne. «È meglio tenere per noi, questa cosa. Facciamo un po’ il punto, che ne dite?»
   Oxley lo osservò con attenzione e annuì. Quella di rivolgersi alla signora era stata l’ultima trovata che gli fosse venuta in mente, ma riconobbe che era un’idea piuttosto debole ed alquanto pericolosa, se non per loro, almeno per la signora in questione, che già in passato ne aveva dovute subire di cotte e di crude e non sarebbe certo stato carino strapparla alla tranquillità che si era tanto faticosamente guadagnata. Era meglio scartarla.
   «Ti ascoltiamo» gli disse. «Ti prego, vai avanti.»
   «Bene» riprese il ragazzo. «Noi sappiamo che il matusa…»
   «Papà» lo corresse Marion, con un sorrisetto.
   «…che papà è stato arrestato con l’accusa di essere una spia dei sovietici. Il che ovviamente è ridicolo.»
   «Certo che lo è!» sottolineò Marion.
   Oxley unì le dita delle mani e le fissò con aria pensosa.
   «La loro accusa si basa sul fatto che, in Sud America, Henry si sia incontrato con la dottoressa Spalko e con quel McHale che ci ha effettivamente accompagnati per un bel pezzo» dichiarò. «Da quel che ne sappiamo, McHale era davvero al soldo dei russi, su questo non ci piove.»
   «Sì, certo, ma il matusa…»
   «Papà» ribatté Marion.
   «D’accordo, d’accordo, il papà!» sbottò Mutt, stringendo gli occhi nel tentativo di imprimersi a forza quel concetto nella mente. «Papà non si è certo risparmiato nel far secchi quei russi del cavolo. Insomma, li ha addirittura presi a colpi di bazooka, ad un certo punto! Ed ha impedito loro di impadronirsi di nuovo del teschio o di scoprire i segreti di Akator! E non scordiamo che McHale gli ha puntato addosso una pistola, nel tentativo di fermarlo.»
   «Insomma, noi sappiamo benissimo che Indy non solo non è un filosovietico, ma che ha addirittura messo a repentaglio la propria vita non solo per salvare noi, ma anche per fermare quei brutti porci rossi della malora» concluse Marion.
   Oxley sollevò lo sguardo e li fissò uno dopo l’altro.
   «Il problema è un altro» spiegò, con tranquillità. «Vedete, il fatto è che, queste cose, le sappiamo soltanto noi. Gli agenti dell’FBI non hanno idea di quello che è accaduto ad Akator.»
   «Be’, allora raccontiamoglielo!» disse Mutt, saltando in piedi. «Andiamo a cercarli e diciamogli che, se non fosse stato per l’uomo che hanno arrestato, a quest’ora i sovietici controllerebbero il potere dei teschi di cristallo!»
   L’archeologo inglese gli fece un cenno con la mano, invitandolo a calmarsi ed a frenare i propri bollenti spiriti.
   «E dove intenderesti dirigerti, di preciso, per dirglielo?» chiese.
   «Da qualche parte devono pur essere andati a finire ed io sono più che disposto a fare a pezzi questo schifo di città fino a che non li avrò trovati!» dichiarò il ragazzo, con il suo fare risoluto da bullo di strada.
   «Per quanto io ammiri la tua dedizione a tuo padre, non ti permetterò di andare da nessuna parte» lo bloccò Marion. «Non voglio che ti cacci nei guai un’altra volta. Tu te ne resterai qui buono…» Oxley sorrise, udendo quelle parole. «…mentre io ed Ox andremo a cercare dappertutto quegli uomini.» Il sorriso di Oxley si spense all’improvviso.
   «Marion, cerca di ragionare, non si può pensare di mettere a soqquadro una città sperando di…» cominciò.
   «Io e il matusa siamo partiti per il Perù con in mano niente altro che un indovinello scritto in ostrogoto per poterti ritrovare!» gli ricordò Mutt, con aria rabbiosa. «Mi sembra che sia venuto il momento di ricambiare il favore, Ox, non trovi?»
   Harold Oxley sospirò. Lui non era affatto un codardo e gli dispiaceva davvero tanto sapere che il suo amico, che nonostante non lo avesse più visto né sentito da vent’anni si era prodigato tanto per accorrere in suo aiuto, fosse nei guai. Avrebbe tentato l’impossibile, pur di aiutare Henry Jones, jr. a venire fuori da quella brutta storia. Ma, oltre a questo, era anche un realista - un realista a modo suo, del resto, dato che aveva trascorso la vita a dare la caccia ad una mitica città perduta costruita da esseri sovrannaturali - e sapeva che mettersi a cercare alla cieca tre uomini in una metropoli come Miami sarebbe stato un inutile spreco di tempo ed energie. Tuttavia, non venendogli in mente proprio null’altro e non volendo far la figura di un uomo disposto a tirarsi indietro e ad abbandonare gli amici, si alzò dalla sedia.
   «D’accordo, andrò a cercare Henry» affermò, tentando di assumere un’aria risoluta. «Farò il giro delle stazioni di polizia, per prima cosa, e farò abbastanza rumore da costringerli a farmelo finalmente incontrare. Voi, però, restatevene qui tutti e due, senza creare ulteriori problemi.» Fece per avviarsi poi, però, si volse di nuovo verso il ragazzo. «E, per tua informazione, non si trattava affatto di ostrogoto, bensì di coioma, una lingua precolombiana a base sillabica, ormai estinta!»
   Prima che Mutt e Marion avessero avuto il tempo di ribattere qualcosa, si diresse verso la porta. Stava per appoggiare la mano sulla maniglia quando, dall’esterno, qualcuno bussò. Oxley si volse all’indietro per un momento, guardando gli amici, poi aprì per vedere chi fosse arrivato.
   Si trovò di fronte un poliziotto in divisa, che consegnò una lettera.
   «Signori, signora, mi dispiace disturbarvi» annunciò l’agente. «Ma ho ricevuto l’ordine di avvisarvi di non lasciare questa stanza fino a nuovo ordine. Resterò qui di fuori, per qualsiasi evenienza e necessità.»
   Pur senza darlo a vedere, Oxley era furente.
   «Cosa?!» sbottò. «Siamo prigionieri qui dentro?!»
   «Non è giusto, non avete alcun diritto!» scattò Mutt, raggiungendoli, subito seguito da Marion.
   «Noi non abbiamo fatto nulla di male ed abbiamo dei diritti!» gridò lei.
   Il poliziotto, tuttavia, non si fece affatto intimidire.
   «Mi dispiace, ma gli ordini che ho ricevuto sono chiari.» Detto questo, richiuse personalmente la porta.
   Indispettiti, tutti e tre tornarono a sedersi sulla terrazza, brontolando parole incomprensibili e stringendo i pugni per la rabbia e l’indignazione.


 

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Capitolo 13
*** Capitolo XII - Ross interviene ***


CAPITOLO XII
ROSS INTERVIENE

   «Allora?» lo incalzò Smith, che cominciava a perdere la pazienza di fronte al suo improvviso mutismo.
   Riscossosi dai suoi pensieri, Jones gli gettò un’occhiata di sbieco e bofonchiò: «Allora cosa?»
   «Vuole dirci quello che sa riguardo ai fatti di dieci anni fa, o dobbiamo cavarglielo noi di bocca?» minacciò Taylor.
   Jones ridacchiò. «Quello era un segreto militare e di certo non sarò io a rivelarlo a dei civili.»
   «Lei non è nella posizione di…» cominciò Smith, ma l’archeologo non gli permise di continuare.
   «Inoltre, vi pregherei di non farmi perdere la pazienza. Ho malmenato gente più grossa di voi per molto meno, se vi interessa saperlo» constatò, quasi con un certo distacco.
   I due uomini si scambiarono occhiate veloci, cercando di trovare un modo rapido per venire fuori da quella situazione ed indurlo a raccontare ogni cosa avessero desiderato conoscere. Sapevano che Jones era un osso duro, forse il più duro che si fossero mai ritrovati a rodere, ma non per questo si sarebbero arresi. Anche a costo di attaccargli degli elettrodi ai testicoli fino a friggerglieli completamente - e non erano certo nuovi a trattamenti simili con i prigionieri più resistenti - sarebbero riusciti a strappargli di bocca qualsiasi cosa avessero voluto sapere. Prima di ricorrere ai metodi più efficaci, tuttavia, avrebbero tentato vie molto più diplomatiche.
   «Professore» disse quindi Smith, in tono conciliante. «Mi pare che qui ci sia un grosso malinteso. Lei ci guarda e ci parla come se fossimo suoi nemici. Ma non è vero. Tutti noi abbiamo a cuore una cosa soltanto, ossia il benessere totale degli Stati Uniti d’America e la loro sicurezza più completa. Perciò, se l’abbiamo portata qui e le rivogliamo queste domande, è soltanto perché abbiamo bisogno di un quadro totale della situazione.»
   «Ah, sì?» fece Jones, con un ghigno ironico, appoggiandosi con un braccio allo schiena della sedia. «Allora non crede che avremmo potuto parlarne comodamente seduti nel mio ufficio, magari bevendo un sorso di vino? Tanto sapete bene dove si trova, dato che lo avete messo a soqquadro.»
   Altre occhiate volarono tra i due agenti.
   «Professor Jones» intervenne Taylor, «lei si rende conto, dico bene, di quali accuse le siano state mosse? Insomma, è consapevole fino in fondo della sua reale posizione?»
   Il sorriso ironico dell’archeologo, se possibile, si fece ancora più pronunciato.
   «Forse» rispose, «più che altro, siete voi due che non avete ben compreso con chi stiate parlando veramente. Io…»
   Prima che potesse continuare, un violento manrovescio dell’agente lo colpì in pieno viso, rovesciandolo dalla sedia e facendolo finire lungo disteso sul pavimento. Prima che Jones avesse potuto riscuotersi, entrambi gli furono addosso e cominciarono a tempestarlo di calci al ventre e all’inguine. Poi Smith, che era il più grosso, lo afferrò per le braccia e, sollevatolo di peso, lo fece sbattere contro la superficie metallica del tavolo, premendovelo contro.
   «Se non la smette di minacciarci e non si decide una volta per tutte a confessare quello che ci interessa, le giuro che, questo, è un dolce trattamento che rimpiangerà, mi sono spiegato?» gli sibilò all’orecchio, mentre Taylor, per sottolineare meglio il concetto, gli sferrava due pugni nelle reni.
   In tutto ciò, Jones riuscì a non emettere nemmeno un gemito, ma sapeva che, molto presto, anche le sue barriere avrebbero ceduto. Insomma, era fatto di carne anche lui, non di ferro e acciaio, e il dolore lo provava al pari di chiunque altro. Tuttavia, pur con un filo di sangue che gli colava dal labbro, trovò ugualmente la forza per sorridere di nuovo.
   «Cos’altro pensate di farmi, si può sapere?» bofonchiò. «Sono proprio curioso di saperlo.»
   «Sarà accontentato» lo assicurò Smith, facendo un cenno d’intesa a Taylor.
   L’agente, senza una sola parola, aprì la porta e lasciò la stanza, per farvi ritorno immediatamente dopo portando una scatola di metallo, che appoggiò sopra il tavolo. Ne sollevò il coperchio e ne estrasse quella che, a prima vista, sembrava proprio una batteria d’automobile, dalla quale pendevano due cavi terminanti in altrettante piccole pinze.
   «Quello che è?» domandò Jones, con morbosa curiosità.
   «Lo scoprirà molto presto, professore» lo informò Smith.
   Gli diede una forte calcio negli stinchi, per impedirgli di muoversi, quindi si diede da fare attaccandogli le pinze all’indice ed al medio della mano sinistra. Lo lasciò andare e, immediatamente, Taylor abbassò una piccola leva che si trovava sulla batteria. Subito, una scossa elettrica colpì Jones, facendolo sobbalzare ed urlare per il dolore, mentre odore di carne bruciata si propagava per la stanza. Durò un secondo soltanto, poi l’agente dell’FBI spense il macchinario, ma fu sufficiente a provocargli bruciature sulle dita.
   «Allora, professore» disse Smith, passeggiando avanti e indietro per la stanza con le mani incrociate dietro la schiena. «Le abbiamo dato un assaggio di quello che potremmo farle. Dove preferisce che glieli attacchiamo, la prossima volta, quei due simpatici elettrodi? Ai capezzoli? Alla lingua? A qualche altra parte a cui tiene molto? Basta solo che ce lo dica e noi siamo qui, pronti ad obbedire ad ogni suo ordine.»
   Respirando a fatica e sudando abbondantemente, con la testa che girava, Jones provò a rimettersi dritto, ma una nuova scarica lo costrinse a restare fermo. Questa volta durò un paio di secondi e, dopo avergli dato le convulsioni, gli provocò un conato di vomito. Gridò per il dolore.
   «Ne ha tanto di fiato, professore» constatò Taylor, con amaro sarcasmo. «Perché, allora, non ci dice qualcosa di quello che le fu mostrato dieci anni or sono dai militari? Siamo molto curiosi di saperlo.»
   Jones si prese troppo tempo per rispondere e, questo, fece spazientire l’agente, che gli diede una terza scarica. Questa volta, l’archeologo scattò per un momento in piedi, prima di rovesciarsi sul pavimento, con un’emorragia al naso. Gli elettrodi si staccarono dalle sue dita ed egli rimase disteso e immobile, non fosse stato per il suo petto che si alzava e abbassava velocissimo nel tentativo di riprendere fiato.
   «Toglili i pantaloni e le mutande» sentì dire Taylor. «Vedrai, poi, come si divertirà.»
   Avvertì Smith che si abbassava su di lui e lo afferrava per la cintola. Consapevole che una nuova scarica, in qualsiasi parte del suo corpo, lo avrebbe molto probabilmente ucciso, Jones scattò. Con la forza della disperazione, si levò a sedere e, con il volto contratto da una smorfia di puro odio, si gettò contro l’agente dell’FBI, atterrandolo e strappandogli gli occhiali. Prima che il suo avversario avesse potuto fare qualsiasi cosa per difendersi, gli strinse le mani al collo e cominciò a premere sempre di più.
   All’improvviso, però, udì uno scatto metallico e qualcosa di freddo cominciò a premergli contro la tempia.
   «Lascialo andare» ringhiò Taylor, stringendo la pistola. «Lascialo andare o giuro che il tuo cervello schizzerà dall’altra parte della stanza.»
   Prima che uno di loro tre avesse potuto fare o aggiungere altro, però, la porta della stanza si spalancò di colpo ed il generale Ross fece irruzione, accompagnato da due militari.
   Gli occhi rabbiosi dell’ufficiale corsero rapidamente dai due agenti dell’FBI a Jones, per poi fermarsi un momento sull’arnese di tortura appoggiato sul tavolo e infine ritornare sul gruppetto di uomini. Il suo volto, solitamente affabile, si fece durissimo e parlò con un tono che non ammetteva repliche, mentre la sua mano correva alla fondina in cui teneva la sua Colt .45 d’ordinanza.
   «Metti via quella pistola prima che qualcuno si faccia male! E tu, Indy, santo cielo, smettila di strangolare quell’idiota!»
   Jones obbedì soltanto dopo che ebbe udito Taylor abbassare la pistola. Pur dispiaciuto, smise di stringere la gola di Smith, che si ritrasse immediatamente, tossendo e sputacchiando. In quanto al generale, si avvicinò all’archeologo e lo aiutò a rimettersi in piedi; gli fu sufficiente un’occhiata per rendersi conto che il suo amico era stato maltrattato.
   «Vieni, siediti» gli disse, aiutandolo a raggiungere la sedia. Poi si rivolse a uno dei due militari: «Caporale, vada a prendere un bicchiere d’acqua per il professore, la prego. In quanto a lei, tenente, perquisisca e disarmi questi due uomini.»
   «Lei non ha alcun diritto…» protestò Taylor, mentre il tenente gli portava via la pistola.
   «Ho tutti i diritti, invece» tagliò corto il generale. «Da questo preciso momento, l’intera operazione passa sotto il controllo della CIA ed assumo io stesso la direzione delle indagini. In quanto a voi due, siate certi che nel mio rapporto non mancherò di menzionare il fatto che abbiate fatto ricorso alla tortura per interrogare il professore.»
   Il caporale tornò in quel momento con il bicchiere d’acqua e lo consegnò a Jones, che ne bevve un piccolo sorso a labbra strette.
   «Indy, come ti senti?» gli chiese Ross con premura, facendo nel contempo un cenno al tenente perché portasse altrove le pistole che aveva sottratto ai due agenti dell’FBI.
   Jones, pur a fatica, riuscì a finire la sua acqua e a rispondere, in un borbottio quasi indistinto: «Ho avuto giorni peggiori, Bob.»
   «Lo immagino» replicò il militare. «Allora, te la senti di rispondere alle mie domande, oppure preferisci rimandare tutto ad un altro momento?»
   L’archeologo annuì. «Facciamola finita subito, Bob. Questa storia è durata anche troppo.»
   «Allora» cominciò il generale, mentre Taylor e Smith, mortificati, si mettevano in un angolo della stanza, con le braccia incrociate sul petto. «Ci risulta che tu sia partito all’improvviso per il Perù con…» fece per controllare l’incartamento che aveva portato con sé all’interno di una valigetta, ma Jones lo prevenne: «Con il signor Mutt Williams.»
   «Giusto. Il ragazzo» annuì Ross. «Be’, e poi? Le nostre spie vi hanno fotografati camminare per le strade di Nazca e, a poca distanza da voi, hanno visto McHale. Che significa?»
   Jones fece un leggero ghigno. «Significa che sono contento che tu sia qui, Bob, perché questa è una di quelle faccende che riguardano in pieno il nostro vecchio ufficio, se hai presente cosa intendo dire.»
   Il generale Ross lo aveva ovviamente perfettamente presente: lui ed Eaton, insieme ad un altro militare ormai ritiratosi dal servizio di nome Musgrove, erano a capo di un ufficio della CIA che si occupava di individuare e occultare - quando non addirittura distruggere - antichi e misteriosi manufatti che avrebbero potuto rivelarsi pericolosi nelle mani sbagliate. Di quello stesso ufficio, Jones e McHale avevano fatto parte fino a circa sette anni prima e avevano contribuito in più occasioni a portare a termine missioni pericolose ed al limite del credibile.
   «Ho capito» rispose. Gettò un’occhiata a Taylor e Smith, ma decise che, ascoltare quella storia, qualsiasi fosse, non gli avrebbe di certo fatto alcun male. «Vai pure avanti.»
   Jones tentò di mettersi comodo, ma aveva dolori ovunque. Non vedeva l’ora di potersi sdraiare da qualche parte e dormire per qualche ora, prima di potersene tornare finalmente dalla sua Marion, di cui sentiva già un’indicibile mancanza. Quindi, prima avrebbe raccontato tutto a Ross, prima se ne sarebbe potuto andare.
   «Allora, il ragazzo è venuto da me dicendomi che un nostro comune conoscente, il professor Harold Oxley, era stato rapito in Sud America mentre era alla ricerca di…»

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Capitolo 14
*** Capitolo XIII - Mutt si ribella ***


CAPITOLO XIII
MUTT SI RIBELLA

   L’alba trovò Oxley, Marion e Mutt ancora seduti sulla terrazza, infreddoliti e stanchi, ma non assonnati.
   Nessuno di loro, quella notte, era andato a letto, perché sapevano bene che, tanto, non sarebbero in ogni caso riusciti a prendere sonno: si sentivano insultati, ingiustamente privati di ogni diritto e di ogni libertà, e quasi rimpiangevano i giorni trascorsi in Sud America dove, almeno, avevano potuto tentare la sorte per poter sconfiggere i russi. Qui, invece, non avrebbero neppure potuto ribellarsi apertamente, perché ciò avrebbe significato sfidare la legge del proprio paese e trovarsi in grossi guai che non sarebbero mai terminati.
   Eppure, non si erano ancora arresi ed erano sicuri che, alla prima occasione buona, avrebbero in qualche maniera reagito; non potevano essere tenuti rinchiusi lì dentro per sempre, qualcuno sarebbe pur dovuto arrivare per dirgli qualcosa e, a quel punto, ne avrebbero tratto le dovute conseguenze.
   Ad un certo punto, quando ormai la luce del sole illuminava completamente la terrazza, Oxley si sollevò con uno sbadiglio e, stiracchiandosi le membra intorpidite, annunciò che sarebbe andato in bagno a farsi la barba, perché tutto poteva accettare all’infuori di apparire come un uomo trascurato.
   Mutt, nel guardarlo allontanarsi, sbuffò e scosse il capo.
   «Che c’è?» gli chiese sua madre, la voce stanca.
   «Mah, non so» sbottò lui, in risposta. «È che credevo che Ox avrebbe fatto qualcosa… invece, da quando siamo atterrati, pensa soltanto a mettersi in ghingheri ed a fare bella figura con chissà chi.»
   Marion fece un sorrisetto. «Lo sai che Ox è così. Non penserai mica di cambiarlo? Di’, lo preferivi forse in versione avventuriero, con la barba e il poncho?»
   Il ragazzo ricambiò il sorriso. «E tu no?»
   «Be’, devo ammettere che non lo avevo mai visto tanto affascinante. E lo conosco da quando ero alta così…»
   In quel momento, qualcuno bussò alla porta della stanza ed entrambi scattarono in piedi e corsero ad aprire, sperando che, finalmente, ci fosse qualche buona novità - od anche solo una novità qualsiasi - per loro. Invece, si trattava solamente di una cameriera che, spingendo un carrello, era venuta a portar loro la colazione.
   «Dato che non potete uscire, ho pensato di farvi portare da mangiare in camera» spiegò il poliziotto di guardia, che aveva profonde occhiaie sotto gli occhi e pareva ancor più stanco di loro; entrò insieme alla cameriera e guardò più volte l’orologio che portava al polso: evidentemente, non vedeva l’ora che arrivasse il momento di ricevere il cambio per potersene andare a dormire.
   Mutt pensò che, viste le sue condizioni, fosse il momento buono per sfidarlo.
   «Si può sapere quando finirà questa nostra detenzione?!» urlò.
   L’uomo scosse il capo. «Non dipende da me. Ma, prego, mangiate qualcosa» aggiunse, facendo un cenno al carrello, su cui si trovavano varie tazze, cucchiaini, coltelli e una zuccheriera, una teiera fumante di tè, un bricco di caffè bollente, diversi tipi di croissant, pane tagliato a fette, vasetti di marmellata ed un piattino con del burro, oltre ad un piatto con uova fritte e pancetta abbrustolita.
   «Voglio sapere quando potremo andarcene da qui!» lo ignorò il giovane, seguitando imperterrito ad urlare.
   Marion, dal canto suo, era stanca e affamata e si sarebbe volentieri seduta a mettere qualcosa nello stomaco, per poi poter ragionare meglio con la pancia piena; ma comprese anche che, se volevano farsi valere, dovevano approfittare del momento e della spossatezza dell’agente di polizia.
   Il quale, passatosi una mano sugli occhi arrossati, borbottò: «Io non so…»
   «Ci dica qualcosa! Lei saprà di certo perché dobbiamo restare qui dentro, dove abbiano portato Jones e quando potremo andarcene!» cominciò a gridare Marion.
   Sentendo tutta quella confusione, Oxley apparve sulla soglia del bagno, con metà faccia ancora coperta di schiuma da barba e il rasoio in mano, per vedere che cosa stesse accadendo; la cameriera, invece, capendo che non tirava una buona aria, si defilò con discrezione.
   «Non so, non so!» replicò l’agente, alzando la voce. «Non so neppure chi sia questo Jones di cui parlate! Io ho ricevuto gli ordini del mio superiore, il capitano McFarland, che mi ha detto di consegnarvi quel foglio e di impedirvi di andarvene! Tutto qui!»
   Mutt e Marion, ovviamente, avevano letto il breve messaggio consegnato dall’agente, ma vi era solamente scritto di non muoversi da lì fino a nuovo ordine, senza altri chiarimenti.
   «Non c’è scritto nulla, in quella dannata lettera!» sbraitò Mutt.
   «Questa detenzione è illegale! Vogliamo parlare con un giudice!» si accodò Marion.
   «Io…» tentennò il poliziotto, che non sapeva che cosa dire di preciso.
   A quel punto, Oxley considerò che fosse arrivato il momento di intervenire. Tuttavia, pur sentendosi rabbioso per quella loro prigionia, non volle reggere il gioco dei suoi amici.
   «Marion, Mutt, calmatevi» disse in tono conciliante, venendo avanti. «Cerchiamo di ragionare come si deve…»
   Il ragazzo, per tutta risposta, lo fulminò con lo sguardo.
   «Ox, quasi non ti riconosco più!» lo accusò. «Per caso l’aver trovato Akator ha spento ogni tuo entusiasmo, al punto di accettare qualsiasi insulto?»
   «Non dire sciocchezze, Mutt!» si indignò l’archeologo. «Io non ho perso alcun entusiasmo. Trovo solo che…»
   Ma il giovane non lo stava ascoltando. Con un rapido passo, gli fu subito accanto e gli strappò l’affilato rasoio a mano libera Wacker. Maneggiandolo come se fosse stato il suo coltello a serramanico, si volse verso il poliziotto, mentre Marion ed Oxley gridavano, all’unisono: «No!»
   «Metti giù quell’affare, ragazzo» intimò il poliziotto, con tono sicuro. «Qualcuno potrebbe rischiare di farsi male.» La sua mano scese rapida verso la fondina con il revolver.
   «Non ci provare, amico!» ringhiò Mutt, «non ci provare!»
   Ma la mano del poliziotto non si fermò. L’uomo indietreggiò di un passo, per portarsi abbastanza lontano dalla pericolosa lama, e la sua mano slacciò il bottone che teneva chiusa la fondina. In quel momento, però, Marion non ci vide più: quell’uomo aveva tutte le intenzioni di sparare contro suo figlio!
   Con un grido di rabbia, si lanciò verso il divanetto dell’attico e, prima che chiunque avesse potuto fare nulla, o che il poliziotto, paralizzato dallo stupore, fosse riuscito ad armarsi, ne buttò all’aria i cuscini ed afferrò ciò che vi aveva nascosto sotto: la frusta di Indy ed il suo cinturone con la pistola.
   Ovviamente, assistendo a quella scena, il poliziotto si rianimò e la sua mano strinse il calcio del suo revolver; ma, prima che avesse potuto estrarlo, quello di Jones gli era stato puntato contro, con il cane sollevato.
   «Fermo!» intimò Marion, con uno sguardo carico di rabbia e pieno di risolutezza. «Rimani immobile o te ne farò pentire amaramente!» A giudicare dalle scintille che i suoi occhi sembravano emanare, non si poteva dubitare che fosse più che pronta a mettere in atto quelle minacce.
   L’uomo non mosse un solo muscolo, mentre Mutt guardò sua madre con rinnovati stupore ed ammirazione; in quanto ad Oxley, pigolò qualcosa di indistinto a cui nessuno badò.
   «Signora, non scherziamo» tentò di dire l’agente. «Non dimentichi che io sono un pubblico funzionario. Perché non mettiamo via le armi e fingiamo che non sia accaduto nulla?»
   «Mi hai preso per una stupida?» sbottò Marion, con un tono sarcastico estremamente simile a quello di Jones. «Avanti, su le mani!» L’uomo, pur a malincuore, tolse la mano dall’impugnatura dell’arma e le sollevò entrambe all’altezza delle spalle. «Di più!» gridò la donna in tono minaccioso, mirando meglio alla sua testa. Al poliziotto non rimase che obbedire.
   «Mutt, disarmalo» disse a quel punto Marion. «Meglio andare sul sicuro.»
   «Con vero piacere» rispose il ragazzo.
   Girò attorno all’uomo, stando bene attento a non frapporsi tra lui e la canna della Webley maneggiata da sua madre, e gli tolse la pistola, un revolver Colt Single Action Army. Quando lo vide compiere quell’azione, Oxley piagnucolò nuovamente qualcosa di incomprensibile.
   «Insomma, cosa c’è?» gli domandò Marion con durezza.
   «Non… non è la maniera… migliore… di agire» bofonchiò l’inglese. «Se prima… eravamo nei… guai… ora…»
   «Ben detto, professore!» intervenne il poliziotto. «Dategli retta e…»
   «Zitto tu!» sbottò Mutt. «Mamma, che facciamo adesso?»
   Marion non lo sapeva bene neppure lei. Avevano agito di impulso, ma adesso? Scappare avrebbe significato mettersi in un mare di guai, perché tutte le pattuglie di Miami - e, forse, anche l’FBI - si sarebbero messe alle loro calcagna praticamente subito. Ma non potevano neppure accettare di essere trattati come dei delinquenti qualunque, proprio loro che, in fondo, pochi giorni prima avevano rischiato la vita per evitare che gli Stati Uniti - e, con essi, il mondo intero - finissero sotto il totale giogo del comunismo.
   «Io credo che sia meglio arrendersi finché siamo in tempo» intervenne Oxley. «Riconsegnare le armi e lasciare che…»
   «Oh, piantala una buona volta, Ox!» lo sgridò Marion. «Io penso che faremo meglio ad uscire da qui, trovare Indy e poi pensare a qualcosa insieme a lui…» Sì, ma che cosa? E dove avrebbero potuto trovarlo? Quel piano faceva acqua da tutte le parti, doveva riconoscerlo, ma era pur sempre qualcosa e, per il momento, li avrebbe tenuti occupati.
   «Mutt, apri la porta ed esci per primo» disse a quel punto la donna. «Poi andrà Ox.» Il professore tentò di protestare. «Sì, sì, anche tu, Ox! Senza fare storie! Io verrò per ultima. Chiuderemo a chiave la porta e ci dilegueremo prima che il nostro amico abbia potuto dare l’allarme. Forza!»
   Mutt annuì e si allontanò di qualche passo dall’uomo, avvicinandosi alla porta che era stata chiusa dalla cameriera quando se n’era andata. Senza perdere di vista l’agente di polizia, appoggiò la mano alla maniglia e l’abbassò, poi spinse.
   E a quel punto, con suo sommo stupore, gli si parò dinnanzi Indiana Jones in persona.

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Capitolo 15
*** Capitolo XIV - Di nuovo in libertà ***


CAPITOLO XIV
DI NUOVO IN LIBERTÀ

   «Salve, Junior!» esclamò l’archeologo, quasi con allegria. «Dove te ne vai in giro, armato fino ai denti?» aggiunse, notando il rasoio ed il revolver che gli occupavano le mani.
   Sbalordito, Mutt guardò suo padre. Era pallido e stanco ma, a parte quello, pareva stesse bene. Alle sue spalle, con un mezzo sorrisetto sul volto pulito, era fermo un militare che, a giudicare dai gradi sulle spalline e dalle numerose medaglie appuntate sul petto, doveva essere un generale.
   Entrambi gli uomini distolsero lo sguardo dal ragazzo e lo puntarono sull’interno della camera da letto, osservando con stupore il poliziotto con le braccia alzate, Marion che lo teneva sotto tiro e Oxley, sbarbato per metà con la schiuma che, ormai, gli gocciolava sulla camicia, che pareva atterrito.
   «Ma che accidenti succede, qui dentro?» sbottò Jones, venendo avanti.
   «Pare che ci siamo persi una bella festa, dopotutto» commentò Ross, con ironia.
   Nel vedere quei due uomini - ma, soprattutto, nel vedere il suo uomo - Marion lasciò perdere tutto e si dimenticò di ogni altra cosa.
   «Indy!» gridò, gettando via la pistola e correndo verso di lui, lanciandosi tra le sue braccia. Jones l’accolse e la tenne stretta a sé come se avesse avuto paura che anche il minimo soffio di vento avrebbe potuto portargliela via, appagandosi di quel contatto e beandosi del suo calore.
   L’agente di polizia, invece, fece per buttarsi in terra a raccogliere l’arma lasciata abbandonata, che era scivolata al capo opposto della stanza, ma il generale Ross scattò in avanti e gli posò una mano sulla spalla, scuotendo il capo e rassicurandolo con lo sguardo; e, in effetti, fu sufficiente la vista dell’alto militare - che non mancò nemmeno di mostrare il proprio distintivo che lo identificava come pezzo grosso della CIA - a calmare immediatamente l’agente, che trasse un sospiro di sollievo nel rendersi conto che, quella patata bollente, non era più sua. La cosa non gli dispiaceva affatto.
   «Tesoro» mormorò intanto Jones, senza smettere di tenere Marion abbracciata e quasi intenzionato a non lasciarla più andare, «ma cosa stavate combinando?»
   Lei sorrise. «Tentavamo una fuga per venire a salvarti.»
   Un sorriso dolce si allargò anche sulle labbra carnose dell’archeologo.
   «Non serve più» constatò. «Sono qui, adesso.»
   Ross, nel frattempo, si era fatto consegnare da Mutt pistola e rasoio e, dopo aver dato un’occhiata tutto attorno per accertarsi che nessuno si fosse fatto male, riconsegnò il revolver all’agente di polizia, che lo soppesò un momento, prima di rimetterlo al suo posto nella fondina.
   «Le sarei grato, agente, se lei si dimenticasse di tutta questa faccenda» propose il generale, affabilmente.
   «Be’, io… se lei mi assicura che è sotto il controllo della CIA, adesso…» borbottò il poliziotto, ancora incerto sul da farsi.
   Il tono rincuorante del generale parve calmarlo.
   «Lei è un bravo agente e ha compiuto bene il suo lavoro» disse. «Le domando solamente, quando redigerà il suo rapporto, di scordarsi di fare accenno a quanto accaduto.» Lanciò un’occhiata alla colazione abbandonata sul carrellino. «Dica che ha fatto portare da mangiare ai sorvegliati e che, poi, mentre loro sedevano tranquillamente, il generale Robert Ross è venuto a darle il cambio.»
   «Io…» biascicò il poliziotto. «Io… penso di poterlo fare, sì…»
   Ross annuì con soddisfazione. «Come si chiama, giovanotto?»
   «Joseph Phillips, signore» rispose prontamente l’agente.
   «E mi dica, Joe - posso chiamarla Joe, vero? - lei è sposato? Ha figli?» continuò Ross, mentre tutti, adesso, lo osservavano senza parlare.
   L’agente gettò uno sguardo scettico in direzione di Mutt, temendo che potesse approfittare dell’apparente assurdità di quel colloquio per fare qualche altra mossa imprevedibile, poi rispose: «Ho una fidanzata, signore.»
   Ross ammiccò. «E come si chiama? E… dica… è carina?»
   Il poliziotto parve avvampare. «Be’, sì, è carina. E si chiama Clare.»
   «E che lavoro fa, per curiosità?»
   Pur titubante di fronte a quelle strane richieste, Phillips non ebbe il coraggio di rifiutarsi di rispondere.
   «È insegnante in una scuola elementare.»
   Il generale fece un ampio sorrisone e poggiò la mano sulla spalla dell’agente.
   «Bene, Joe. Appena vedrà Clare, le porti i miei omaggi e le dica pure che, il mese prossimo, dopo la fine delle lezioni, anche lei stesso godrà di parecchie settimane di ferie pagate, durante le quali potrete approfittare di una bella vacanza in una località a vostra scelta a spese della CIA.»
   Il volto dell’agente di polizia si illuminò e parve dimenticare tutto il resto. Strinse freneticamente la mano che Ross gli stava tendendo e lo ringraziò così tante volte da rischiare di rimanere senza voce. Infine, dopo aver sorriso a Marion ed aver dato una pacca sulla spalla a Mutt - raccomandandogli di essere meno impulsivo, in futuro - si congedò e si chiuse la porta alle spalle.
   «Sei sicuro che non avremo grane da lui, Bob?» domandò Indy.
   «Sicurissimo. Scommetto che, con la misera paga che gli passa il governo, non ha mai potuto portare la sua ragazza da nessuna parte. Con l’idea di farle fare una vacanza senza tirare fuori nemmeno un soldo, il nostro amico si sarà già persino dimenticato della vostra esistenza.»
   Il generale si avvicinò al carrello con la colazione e si versò un po’ di caffè in una tazza.
   «Peccato che si sia raffreddato, ma va bene lo stesso» commentò. «E spero che in questi croissant ci sia il cioccolato.»
   Lo osservarono mangiare per alcuni minuti, senza sapere che cosa fare o che cosa dire.
   Jones, in verità, tenne gli occhi in fissi in quelli di Marion e non la lasciò andare neppure dopo essersi seduto sul divano, seguitando a tenerla stretta. In quanto ad Oxley e Mutt, finalmente si riscossero: il primo andò a sciacquarsi la faccia per togliere la schiuma - avrebbe finito di radersi più tardi, quello non gli pareva proprio il momento più adatto - mentre il secondo, dopo un attimo di incertezza, si ricordò di avere una fame da lupi ed afferrò a sua volta una brioche, che era proprio al cioccolato.
   «Ma» chiese, dopo un paio di morsi, «si può sapere che cosa sta succedendo?» Fissò prima suo padre, poi il generale, domandandosi chi diavolo potesse essere. Anche Marion ed Oxley, che nel frattempo era uscito dal bagno e si era accomodato sopra una poltroncina, parevano avere le medesime domande negli occhi.
   «Bob è un mio vecchio amico, abbiamo fatto la guerra insieme» spiegò Jones.
   «Purtroppo non posso dirvi troppo riguardo a quello che facevamo» aggiunse il militare, «ma vi basti sapere che eravamo in un reparto sufficientemente speciale da spingermi a credere a tutto ciò che mi ha raccontato Indy senza battere ciglio. Altri, probabilmente, non avrebbero prestato fede ad una sola parola, riguardo a quella strana faccenda del teschio di cristallo…»
   Oxley balzò in piedi. «Le do la mia parola d’onore che, qualsiasi cosa Henry le abbia riferito, è vera. Io sono stato il primo a giungere ad Akator, dopo aver ritrovato il teschio di cristallo che era stato celato nella cripta di Francisco de Orellana. Sfortunatamente, non riuscii ad aprire il Palazzo dell’Eternità, quindi pensai che sarebbe stato meglio tornare sui miei passi e contattare Marion Ravenwood, che mi aveva sempre aiutato ed aveva accumulato un certo numero di esperienze, in queste faccende. Tuttavia, quando giunsi in Perù, in un ultimo tentativo di scoprire qualcosa di più, fissai a lungo il teschio. Esso, in una qualche maniera, si impossessò di me: ero ancora padrone della mia volontà e mi rendevo conto di ciò che facevo, ma il teschio parlava attraverso di me. Coll’andare dei giorni, poi, la sua presa si fece sempre più salda, al punto che iniziai a sentirmi come… come se fossi stato un estraneo nel mio stesso corpo. L’ultima cosa che ricordo è che dei poliziotti mi portarono in un sanatorio, dopodiché mi sono risvegliato nella sala principale del tempio, di fronte ai troni degli esseri interdimensionali che costruirono Akator millenni or sono.»
   Ross non disse nulla, continuando a mangiare come se nulla fosse. In verità, era venuto lì proprio per ascoltare cosa gli avrebbero raccontato i compagni di avventura di Jones e quella prima confessione spontanea lo soddisfò pienamente, perché tutto combaciava con ciò che già sapeva. Si accorse che anche Marion stava per dire la sua, ma la fermò con un cenno.
   «Per quello che mi riguarda, la faccenda si chiuderebbe qui. Non ho alcun problema, come detto, ad accettare la vostra versione dei fatti. Se sapeste quante ne ho viste, in compagnia di questo vecchio e legnoso archeologo, mi credereste subito se vi dicessi che, quella di Akator, è forse la meno sorprendente. Purtroppo, si sono messi di mezzo quei due imbecilli dell’FBI e la storia andrà avanti. Ci sarà un processo, anche se molto discreto, vista la natura dei fatti, ed ognuno di voi dovrà deporre di fronte ad un giudice. Perciò, non voglio disturbarvi troppo, adesso. Vedo bene che siete stanchi, per cui vi lascerò riposare. Riceverete una convocazione quando sarà stata fissata la data dell’udienza. Fino ad allora, non dovrete preoccuparvi di nulla e sarete liberi di circolare a vostro piacere, anche se sarà bene che mi comunichiate le vostre intenzioni qualora decideste di andare all’estero.»
   Mutt ritrovò la parola. «Significa che siamo liberi di tornarcene a casa?»
   Il generale Ross annuì. «Quando vorrete. Però vi vedo parecchio stanchi, quindi, se voleste ascoltare il mio consiglio, vi direi di rimanere qui ancora per un giorno, prima di ripartire.»
   Tutti quanti si alzarono per stringergli la mano e Ross sorrise.
   «Bob, grazie di tutto» borbottò Jones. «Non so davvero come fare per sdebitarmi.»
   «Sdebitarti?!» quasi gridò Ross. «Non dirlo nemmeno per scherzo! Se non fosse stato per te e per queste persone, i russi avrebbero forse scoperto davvero come fare a controllare il potere del teschio e… non oso neppure pensarci. Mi dispiace solamente di dovervi dare anche questo fastidio del processo, ma vi assicuro che sarà una mera formalità, nulla di più. E l’FBI non vi darà più alcun disturbo, lo prometto, perché altrimenti dovranno vedersela con me.» Lanciò un’occhiata all’orologio che portava al polso. «È ora che io vada. Ho un aereo che mi aspetta per ricondurmi a Langley. Non preoccupatevi più di nulla, mi farò vivo io quando sarà il momento.»
   Strinse la mano di Marion e quella di Oxley. «Signora, professor Oxley, onorato di aver fatto la vostra conoscenza.» Si rivolse a Mutt. «Stammi bene, figliuolo. Hai dimostrato coraggio da leoni, in questa storia.» Infine diede una pacca sulla spalla di Jones. «Indy, se riesci, per un po’ non ficcarti nei guai.»
   L’archeologo ghignò in risposta, poi lo osservarono lasciare la stanza.
   Rimasti soli, non esitarono più ed iniziarono tutti quanti a mangiare. A Marion, in verità, non sfuggì il fatto che Jones fosse dolorante ed avesse due dita ustionate, ma lui la persuase con lo sguardo a non dire nulla e le fece capire che le avrebbe spiegato tutto più tardi, quando fossero rimasti soli; certo, avrebbe potuto parlare liberamente, ma non voleva che il ragazzo sentisse altre brutte storie, perché ne aveva già vissute a sufficienza, per adesso.
   Oxley, tuttavia, parve perplesso.
   «Non capisco» chiese. «Dove ti hanno tenuto tutte queste ore?»
   Lo sguardo di Mutt si fissò in quello del padre, bramoso di conoscere la risposta, che non tardò a farsi sentire, anche se Jones mutò parecchio ciò che era accaduto.
   «In galera» rispose. «Speravano che, così, sarei crollato ed avrei riferito tutto ciò che avrebbero desiderato sentirsi dire. Sfortunatamente per loro, prima ancora di cominciare è arrivato Bob ed ha pensato lui a tutto. A quei due non è rimasto che tornarsene a casa con le pive nel sacco.»
   Visto che pareva proprio che l’archeologo non avrebbe voluto aggiungere null’altro, nessuno parlò più, ma continuarono a mangiare quella loro colazione fredda ma comunque sostanziosa.

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Capitolo 16
*** Capitolo XV - Giugno '26 ***


CAPITOLO XV
GIUGNO ‘26
 
Gerusalemme, Palestina britannica

   Non erano state sufficienti tutte le rogne che lui e Sallah avevano già dovuto affrontare in Egitto, tra predoni sanguinari, templi malridotti e fughe precipitose da matrimoni rituali, solo per poter riportare al professor Ravenwood le informazioni di cui necessitava per ritrovare l’Arca - sperando che, almeno, fosse la volta buona e che, finalmente, quella ricerca lunghissima potesse avere termine. No, si era dovuto mettere pure di mezzo quel dannato portiere d’albergo, grosso e pesante come un macigno. Era riuscito a metterlo al tappeto, alla fine, ma Indiana Jones, dopo aver avuto a che fare con lui, si sentiva un po’ come se fosse appena passato sotto a una pressa.
   Fu quasi con distacco da tutto - stanco com’era, aveva solamente voglia di buttarsi sopra un materasso e sprofondare in un lungo sonno ristoratore, perlomeno fino all’indomani a mezzogiorno - che seguì Marion fino alla propria stanza e, quasi, neppure si rese conto che lei si fosse fermata lì con lui, almeno non fino al momento in cui lei cominciò a darsi da fare per aiutarlo a spogliarsi.
   Era innamorato perso di quella ragazza, se n’era reso conto in quelle ultime settimane trascorse a non fare quasi altro che pensare a lei, e forse fu proprio per questo che, in una simile situazione, anziché saltarle addosso come avrebbe fatto con qualsiasi altra donna, restò paralizzato e si sentì avvampare. Non poteva credere che fosse vero, non poteva quasi accettarlo, eppure lui era lì, nudo, in balia delle sue dolci carezze che gli restituivano vigore e vitalità dopo tutte le fatiche e la stanchezza accumulate in giorni di continua tensione.
   Una parte di lui avrebbe voluto dirle di smetterla, di andarsene pure a dormire, perché si sarebbero rivisti il giorno successivo; avrebbe dovuto semplicemente darle un bacio e accompagnarla alla porta. Ma un’altra parte di lui, invece, cominciava ad eccitarsi per quella situazione così insolita, e l’eccitamento cominciava a rendersi manifesto in un modo che non avrebbe potuto dare adito ad alcun dubbio e che, nelle sue condizioni, era praticamente impossibile da mascherare. Di certo, non sfuggì ai giovani occhi della ragazza.
   Quando, finalmente, ebbe concluso il suo lento massaggio e lo ebbe fatto immergere nell’acqua calda e insaponata della vasca della bagno, il giovane archeologo poté trarre un sospiro di sollievo, perché anche se, adesso, era ormai giunto al culmine della sua eccitazione, lei non avrebbe più potuto vederla, nascosta com’era dalla schiuma e dal vapore. Per il momento, poi, lei non parve troppo interessata a quello, come se non ci avesse fatto alcun caso, dato che si prodigò a lavargli prima i capelli ed il viso, poi il collo ed il busto. E sentire le sue dita sottili scivolargli sulla pelle, dietro le orecchie e sul petto, con infinita delicatezza e dolcezza, fu così meraviglioso da spingerlo più volte a sospirare ed a chiudere gli occhi, vinto dal desiderio.
   Ogni tanto, bagnandosi le braccia fin quasi alle spalle - ma senza darsene alcun pensiero - Marion si spingeva ancora più in basso, sul suo ventre e sull’inguine, fino a lambire, quasi per sbaglio, la sua erezione ormai incontenibile; ormai, però, lui stesso non se ne vergognava più, né si dava la pena di tenerla nascosta con la poca schiuma ancora rimasta sulla superficie dell’acqua, e perché avrebbe dovuto farlo, poi? Era perfettamente naturale, la risposta spontanea della sua carne a ciò che lei gli stava facendo, a quella situazione a lungo agognata ma giunta in maniera del tutto inaspettata; provare a dissimulare sarebbe stato un esercizio alquanto stupido, anzi sarebbe quasi sembrato voler far credere a Marion di non volerla, e non era affatto ciò che gli passava per la mente, in quel momento.
   La sua sorpresa, tuttavia, non fu tanto che lei lo avesse toccato in certi punti solitamente nascosti e inaccessibili; fosse stato solo per quello, avrebbe anche potuto accettarlo come un accadimento quasi inevitabile quando ci si prodiga per lavare un’altra persona. Piuttosto, rimase sconcertato nel rendersi conto che, ad un certo punto, anche lei cominciò a spogliarsi, sfilandosi prima il bell’abitino che aveva indossato credendo di dover andare a cena e, poi, anche il resto della biancheria.
   La bocca arida, il respiro corto, Jones la contemplò come se fosse stata una dea appena sorta di fronte a lui; era stato con decine di donne, da che ne aveva memoria, quasi tutte prosperose e completamente sviluppate, già più che consumate ai piaceri del corpo. Marion, al contrario, era ancora una ragazzina, con un fisico acerbo da adolescente non del tutto formata, eppure non riusciva a ricordare di aver mai visto una creatura più bella, desiderabile, aggraziata e divina di lei. Forse era perché era una situazione tanto strana o forse perché, al contrario che con tutte le altre, ne era follemente innamorato. E l’amore, si sa, trasforma le percezioni di un uomo, le trasforma in una maniera quasi inspiegabile.
   Marion era eccitata, proprio come lui, bastava guardarla per potersene rendere conto.
   Scivolò nella vasca, sopra di lui, le gambe divaricate e intrecciate attorno alle sue, le mani sul suo petto ad accarezzarlo come se avesse avuto paura di perderlo. E Jones, stringendola e toccandola in ogni punto che gli fosse possibile raggiungere - e non c’era un solo millimetro, di quel corpo fatato, che non riuscisse a farlo impazzire - pose le labbra sulle sue, in quel bacio troppo a lungo solamente sognato, finché le loro lingue si sfiorarono e i loro umori si mischiarono. E, infine, con una naturalezza quasi sconcertante, con una delicatezza di cui non sapeva neppure di poter essere capace, si fece accogliere dentro di lei ed i loro corpi si fusero insieme. Ma questa volta la sua non fu una ricerca costante e smaniosa del piacere, come troppe volte gli era successo, bensì un atto d’amore da condividere tra tutti e due, nella maniera più dolce che fosse possibile.
   E, da quel momento in avanti, nonostante tutte le difficoltà che la vita sarebbe stata capace di riservare loro, nonostante tutti gli anni difficili che avrebbero dovuto trascorrere lontani, appartennero l’uno all’altra per sempre.

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Capitolo 17
*** Capitolo XVI - Tutto come allora ***


CAPITOLO XVI
TUTTO COME ALLORA

   Restarono insieme per il resto della mattinata, che tutti trascorsero dormicchiando, dato che durante la notte non avevano praticamente chiuso occhio. Jones, in verità, avrebbe avuto tanto bisogno di una doccia e di cambiarsi i vestiti mal ridotti, ma la spossatezza ebbe il sopravvento su di lui e restò disteso sul divano, in uno stato di sonnolento dormiveglia, fin quasi all’una di pomeriggio, quando tutti e quattro scesero nel ristorante dell’albergo per poter mangiare qualcosa.
   Dopo il pranzo, Mutt asserì che ne aveva piene le tasche di quel luogo e che sarebbe uscito a fari un giro per Miami, approfittandone per visitarla, dato che non l’aveva mai vista prima, mentre Jones borbottò che sarebbe tornato in camera a darsi una ripulita ed a riposare ancora per qualche ora, dato che cominciava anche ad accusare una leggera ma fastidiosa emicrania. Oxley, in un primo momento, parve intenzionato a tenergli compagnia - non vedeva l’ora di discutere in tutta calma con lui a proposito delle meraviglie che avevano visto e scoperto ad Akator - ma un’occhiataccia di Marion gli fece capire che avrebbe fatto molto meglio a dileguarsi fino a sera anche lui, così annunciò che sarebbe andato all’archivio cittadino a fare qualche ricerca inerente Juan Ponce de Leon, lo scopritore di quelle terre, riguardo al quale avrebbe desiderato scrivere un libro.
   Così, tutti si alzarono da tavola e ciascuno andò per la propria strada.
   In quel caldo pomeriggio di inizio giugno, nella precoce estate della Florida meridionale, l’afa cominciava già a farsi sentire e, infatti, quando giunse alla loro camera, sbuffando per tutte le rampe di scale che aveva dovuto percorrere, Jones stava grondando di sudore. Fu con un certo sollievo che si sbottonò la camicia e se la sfilò, buttandola sul pavimento; a quel punto, annunciata da un tocco delicato sulla sua schiena, Marion gli fece capire di essere lì con lui. Lo aveva seguito in silenzio, senza che si rendesse conto di nulla.
   «Marion…» mormorò Jones, voltandosi verso di lei. Era sorpreso di vederla lì - pensava che fosse andata a passeggio con il ragazzo - ma ne fu anche felice. I suoi occhi color del mare - gli stessi occhi che non era mai riuscito a togliersi dal cuore - sorrisero prima ancora che lo facessero le sue labbra.
   «Ti ricordi la prima volta che siamo stati insieme?» gli domandò a bassa voce.
   «E come potrei scordarmela?» rimarcò lui. Era come se lei gli avesse letto nel pensiero, dato che aveva ripercorso quel momento dolcissimo e radicato nella sua memoria proprio quella stessa mattina, sdraiato a riflettere sul divano senza riuscire ad addormentarsi.
   Lei gli toccò le dita ustionate e gli osservò i numerosi lividi che aveva sul corpo. Alcuni erano antichi, frammenti di avventure passate, altri ricordi degli scontri con i russi, ma altri ancora, più arrossati, erano recentissimi. Non ebbe bisogno di chiedere nulla per essere certa che gli uomini dell’FBI lo avessero in qualche maniera torturato e che, se non fosse stato per l’intervento tempestivo del generale Ross, probabilmente lo avrebbero ridotto anche peggio di così.
   «Anche allora eri messo abbastanza male» rammentò lei, perdendosi nel vortice delle sue memorie, senza smettere di sorridere, «ed io ti aiutai a lavarti, perché non ti reggevi più in piedi…»
   «Già…»
   Senza rendersene conto, la sua mano strinse quella di Marion e lei lo guidò verso la porta del bagno.
   Jones deglutì, perché era proprio come se tutto si stesse ripetendo identico a trent’anni addietro, come se neppure un giorno fosse passato da allora, come se lui l’avesse semplicemente salutata una settimana prima, in procinto di partire in missione per contro di suo padre, e le avesse promesso che sarebbe ritornato soltanto per lei. Eppure erano passati tre decenni, tre decenni nel corso dei quali si erano ritrovati e lasciati di nuovo, e durante i quali avevano avuto un figlio. Ma anche tre decenni che ognuno aveva dedicato a costruire una vita separata dall’altro, con altri amori ed altre esperienze, senza però riuscirci davvero. Avevano miseramente fallito quei loro tentativi, perché era come se un fuoco mai sopito avesse continuato ad ardere dentro di loro, continuando a chiamarli l’uno verso l’altra, dapprima come una flebile eco, poi con voce sempre più forte e potente, finché entrambi avevano dovuto cessare di fingere di non udirla.
   E la prova, di quel loro fallimento, era lampante, soprattutto adesso che Marion, senza mai perdere quel suo tocco da brava ragazza che si improvvisava sempre una buona infermiera per il suo burbero amico che finiva troppo spesso per mettersi nei guai, terminava di spogliarlo e lo spingeva sotto il getto caldo della doccia, versandosi il sapone direttamente sulle mani per poi passargliele sulla schiena, sul petto, sulle braccia e sulle gambe.
   In ogni centimetro di pelle, in ogni cicatrice, persino nei muscoli che non erano più tonici come un tempo, Marion si rendeva conto di quanto tempo fosse trascorso davvero; sebbene non ci fosse nulla in lui che non le piacesse tanto quanto le era piaciuta la prima volta, e sebbene non desiderasse altro che di poter stare con lui, si rendeva conto che Indy era inesorabilmente invecchiato. E, con un moto di spavento, si domandò se anche lui, trovandola invecchiata, l’avrebbe voluta ancora, oppure l’avrebbe rifiutata, non riuscendo più a soddisfare le sue voglie e le sue fantasie.
   In quanto a Jones, se un tempo si era profondamente vergognato nel ricevere un simile trattamento da parte della ragazzina di cui era innamorato, ora non riusciva a non sentirsi al culmine della gioia nel venire toccato alla stessa maniera dalla donna che amava. Non riusciva a staccarle gli occhi di dosso, osservava le sue mani massaggiarlo con delicatezza e allo stesso tempo con vigore, ritemprandolo e donandogli vigore, e vedeva le gocce d’acqua bagnarle i capelli e la camicia senza che lei se ne facesse alcun problema, proprio come, quella volta, si era bagnata il suo unico abito elegante senza badarci minimamente.
   Era così incantevole, lì davanti a lui, anzi così amorevole, che non seppe più resistere e d’impulso l’abbracciò. Sentì le forme del suo corpo, da sotto il leggero tessuto degli abiti, aderire perfettamente contro il suo. Pur non avendola direttamente sotto gli occhi, gli bastò quello per accorgersi che era cambiata, rispetto a come la ricordava. I fianchi più larghi, il seno più abbondante, il ventre più molle… gli parve di amarla anche solo per questo, ma provò un profondo ed improvviso rimpianto a non averla più vista per tanto tempo, a non essere maturati fianco a fianco. Però, la vita sarebbe stata ancora lunga ed era certo che, adesso, avrebbero avuto tutto il tempo per recuperare, se solo avessero voluto.
   Marion scoppiò a ridere.
   «Indy… io mi ero già lavata!» disse allegramente, con gli abiti ormai inondati d’acqua.
   Per tutta risposta, lui la trascinò sotto il getto dell’acqua. In quel momento, si sentirono proprio come due ragazzini innamorati che si ritrovano a giocare insieme sperando che quel loro gioco innocente possa essere l’inizio di qualcosa di lungo e di folle, destinato a non finire mai. Rimasero abbracciati, guardandosi negli occhi e scambiandosi piccoli baci, quasi come se avessero paura di andare oltre.
   «E adesso?» mormorò Marion, dopo cinque minuti abbondanti. «Ho l’acqua fin nelle mutande, Jones!»
   Lui ghignò. «Dovresti fare come me, che me le tolgo, prima di fare una doccia.»
   Con la mano, cercando a tentoni, richiuse il rubinetto, ma rimasero ancora fermi in quella posizione per qualche istante, gocciolando e ridendo insieme con allegria. Infine, si decisero ad uscire dal vano della doccia e si diedero da fare per asciugarsi: Jones si avvolse in un ampio asciugamano, mentre Marion fu costretta a spogliarsi completamente. Lo fece con spontaneità, senza provare alcun tipo di vergogna a mostrarsi in quello stato dinnanzi ad un uomo che, in fondo, non l’aveva più vista da almeno vent’anni. Ovviamente, l’archeologo non smise di contemplarla per un solo istante, beandosi di quella vista e trovandola più bella che mai. Poi, non appena fu rimasta del tutto nuda, afferrò lui stesso un accappatoio e, dimostrando una galanteria quasi inedita, glielo infilò personalmente, chiudendolo sul davanti e stringendo un nodo alla cintura.
   «Eccoti pronta, lavata e profumata» commentò, dandola una piccola pacca sul didietro.
   «Sì, e gli unici abiti puliti che avevo sembrano appena usciti dalla lavatrice» aggiunse lei, fingendosi stizzita.
   A Jones, ormai, tanto la stanchezza quanto il mal di testa erano scomparsi del tutto. Era stata sufficiente la presenza della sua Marion a far scomparire qualsiasi tipo di malanno ed a restituirgli ogni vigore.
   Tenendosi per mano come due piccioncini, andarono a coricarsi sul letto. Jones quasi affondò nei due guanciali, mentre Marion gli si accoccolò addosso, appoggiandogli la testa sul petto come faceva sempre in passato; in ogni gesto, in ogni occhiata, sembrava veramente che non si fossero più visti soltanto da un giorno, non da una vita intera.
   Mentre le accarezzava con dolcezza i capelli umidi, l’archeologo provò a pensare a qualcosa che sarebbe stato carino dire, ma non riuscì a farsi venire in mente proprio nulla che valesse la pena di essere detto; alle volte, era molto meglio rimarsene in silenzio, ad ascoltare i propri respiri senza bisogno di spendere troppe parole in maniera inutile.
   Fu lei, invece, ad intavolare un discorso.
   «Credi che avrai delle rogne?» gli domandò. «Con quella storia del processo, intendo.»
   Jones rifletté un istante, ritraendo adagio la mano ed osservano le proprie dita ricomparire un poco per volta dai folti capelli di Marion, prima di affondarvela nuovamente.
   «Non troppe» disse, infine. «Quel generale che hai conosciuto stamattina… Bob… è vero che io e lui abbiamo lavorato insieme, durante la guerra. Servizio segreto.»
   «Sei diventato un pezzo grosso, allora?»
   «Be’, qualcuno ha avuto il coraggio di farmi persino colonnello» affermò lui, sghignazzando. «Non sono più in servizio attivo, a dire la verità, ma qualche volta io e… insomma…» il suo tono divenne un po’ più serio, «ogni tanto faccio ancora il mio dovere, se proprio serve.»
   A Marion, ovviamente, non era sfuggita quell’esitazione nel tono della voce di Indy. In un primo istante, sentendosi gelosa, pensò che lui si stesse riferendo a qualche avvenente spia bionda o qualcosa del genere; poi, però, capì che, quella, non era per nulla una faccenda di donne.
   «Era un tuo amico?»
   Jones trasse un sospiro. «La prima volta che l’ho conosciuto, Mac mi ha salvato la vita. E, da quel giorno in poi, siamo stati insieme un po’ ovunque, in Europa, nel Pacifico, anche in Asia. Fin da subito, ho capito che non sarebbe mai stato un semplice collega, ma qualcosa di più. Un vero amico, uno dei pochi su cui potessi contare davvero. E sono certo che, se ha deciso di vendersi ai sovietici, è stato solo per disperazione nera. Era nei guai con gli strozzini, pieno di debiti fino al collo e quella… quella gli sarà sembrata la soluzione più adatta, immagino.» Gli sarebbe piaciuto poter dire che, perlomeno, alla fine Mac si fosse riscattato, ma ciò non era successo: il suo tradimento nei suoi confronti era stato totale, ed era durato fino all’ultimo istante, fino a quando era stato risucchiato dentro quel dannato coso, nonostante i suoi disperati tentativi per riuscire a salvarlo.
   «In ogni caso, tornando al discorso di prima, penso proprio che dal processo ne uscirò pulitissimo. Anzi, a dirla tutta, credo che l’intera faccenda verrà messa a tacere e non se ne parlerà mai più. Mi dispiace solo che siate coinvolti anche tu, il ragazzo ed Oxley… vi toccherà avere ancora a che fare con me, che vi piaccia o meno.»
   Jones sorrideva, ma smise subito quando Marion gli alzò in viso uno sguardo estremamente serio.
   «Non ho capito bene a cosa intendi alludere, Jones» gli disse, in tono improvvisamente freddo.
   «Io…»
   Gli occhi di Marion si raddolcirono. «Perché, se non lo hai capito, io voglio, anzi pretendo, di avere a che fare con te il più a lungo possibile. Senza storie, stavolta.»
   Gli solleticò il petto nudo e si chinò su di lui, fino a quando le loro labbra si trovarono. Questa volta, si abbandonarono ad un bacio lunghissimo e appassionato, un bacio pieno di calore e che avrebbe dovuto compensare tutti quelli che non erano riusciti a scambiarsi fino a quell’istante.
   Dopo che si furono lasciati andare, restarono ancora per alcuni minuti senza parlare, fissando la parete di fronte, tenuta in penombra dai pesanti tendaggi che coprivano le finestre ed impedivano alla forte luce pomeridiana di entrare in pieno nella stanza, finché fu Jones a riprendere la parola.
   «Posso farti una domanda?»
   Marion annuì appena, senza prendersi la briga di rispondere.
   «Com’è avere un figlio?»
   Lei si agitò un poco, prima di guardarlo di nuovo, con il medesimo sguardo serio che aveva sfoggiato prima.
   «Questa, Indiana Jones, è una cosa che dovrai scoprire da solo. Ma, se ti ci metti d’impegno, credo che ci riuscirai.»
   Avrebbe voluto rivolgerle tante altre domande, oltre a quella. Per esempio, gli sarebbe piaciuto chiedere come mai si fosse sposata proprio con Colin Williams; e come avesse fatto a tenere celata allo stesso Mutt la sua vera identità; e perché anche Oxley, pur vivendo con loro, non ne avesse mai saputo nulla. Ma era sicuro che, quelle cose, sarebbero emerse un poco alla volta, nei giorni, nelle settimane e nei mesi successivi, in maniera del tutto spontanea.
   Così, si limitò a dire: «Sai, fa un po’ caldo, qui dentro.»
   Marion fece un sorrisetto complice. «Vorresti dire che dovremmo spogliarci, dico bene?»
   Jones scosse il capo. «Anche se vederti nuda è la cosa che ogni uomo sano di mente desidererebbe di più al mondo, volevo solo proporre di andarci a sedere un po’ sul terrazzo, per goderci un po’ di aria e di sole, che in una giornata come questa non posso che farci bene.»
   «Affare fatto» ridacchiò lei.
   Dopo avergli dato un ultimo bacio, scivolò giù dal letto, diretta sul balcone, e lui la seguì.

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Capitolo 18
*** Capitolo XVII - Sul treno ***


CAPITOLO XVII
SUL TRENO

   La mattina seguente, con i pochi bagagli che avevano con sé - Jones stringeva in mano una borsa di pelle con dentro il suo equipaggiamento ed i suoi abiti da lavoro, mentre indosso portava, oltre al suo inseparabile cappello, un completo chiaro che si era fatto recapitare dalla stessa sartoria in cui si era fornito Oxley - raggiunsero la stazione ferroviaria di Miami, dove presero un treno che li avrebbe condotti verso nord, a New York. Sapevano perfettamente che, con un volo in aereo, avrebbero impiegato molto meno tempo, mentre così li avrebbe attesi uno spossante viaggio di quasi ventiquattro ore, ma fecero quella scelta per avere più tempo a disposizione per poter rimanere insieme.
   Lo scalo ferroviario era davvero immenso ed il lento convoglio a gasolio impiegò quasi un’ora prima di uscirne completamente. Treni lunghissimi e lucenti sfilavano in tutte le direzioni, diretti in altri punti della Florida da dove, poi, avrebbero continuato la loro corsa verso le più disparate regioni degli Stati Uniti.
   Quando erano giunti nella stazione, gremita soprattutto di immigrati dall’America latina pronti a scegliere qualsiasi destinazione pur di trovare un posto di lavoro, si erano sentiti come se fossero stati nuovamente nei luoghi da cui si erano appena allontanati; la loro momentanea serenità, tuttavia, venne bruscamente interrotta dall’avvicinarsi di Taylor e di Smith.
   «Ancora voi due!» li apostrofò Marion, guardandoli in cagnesco.
   Jones le toccò piano il fianco, per invitarla a stare tranquilla, e fece un passo in avanti.
   «Spero non siate di nuovo qui per fermarci» disse seccamente. «Perché, questa volta, il generale Ross non la prenderebbe troppo bene.»
   Smith sollevò un sopracciglio.
   «Non cerchi di spaventarci tirando in ballo i suoi amici altolocati, Jones» sbottò. «Con noi certi discorsi non attaccano!»
   «Non ho bisogno di loro, effettivamente, per mettervi in corpo stizza a sufficienza da indurvi alla più rapida delle ritirate» replicò l’archeologo, caricando di una minaccia neppure troppo velata la propria voce.
   I due uomini si scambiarono una veloce occhiata, quindi Taylor disse: «In ogni caso, siamo solamente venuti a dirle che non abbiamo ancora finito, con lei, e che quindi, se anche adesso le è concesso di partire, continueremo a tenerla d’occhio.»
   «E non si illuda, professore» rimarcò Smith. «Al primo passo falso, le saremo addosso.»
   Jones sghignazzò e si rivolse ai suoi compagni.
   «Ora fanno di nuovo i duri, ma avreste dovuto vedere che agnellini, che sono diventati, quando Bob è arrivato a strigliarli.»
   Entrambi divennero cinerei.
   «Attento a come parla, Jones!» urlò Taylor.
   «Non dimentichi che noi siamo funzionari governativi nel pieno del nostro dovere!» aggiunse Smith.
   «Sì, sì» sbottò l’archeologo, con l’aria di non esserne per nulla interessato. Pose il braccio sulle spalle di Marion e, senza più degnare di una sola occhiata i due agenti, guidò lei, Mutt ed Oxley verso il treno, ormai prossimo alla partenza.
   Così, finalmente, ricominciarono il viaggio, diretti verso la loro destinazione finale. Comodamente seduti in uno scompartimento tutto loro, non fecero più nessun accenno all’FBI ed ai problemi che gli stava riservando, ma si persero in una lunga discussione su Akator. Certo, avrebbero potuto parlare di molte altre cose - una su tutte, che cosa sarebbe stato di loro, adesso che si erano ritrovati ma che, ancora, non potevano considerarsi come una vera famiglia - ma per prima cosa preferirono tornare ancora un po’ sulla loro scoperta, forse perché sapevano che, altrimenti, non ne avrebbero più parlato in maniera troppo dettagliata.
   Ovviamente, a tenere banco fu Oxley, che narrò di come, a seguito di lunghe ricerche durate più di vent’anni, fosse giunto a scoprire la tomba di Francisco de Orellana e dei suoi compagni, nel vecchio cimitero; a suo dire, i conquistadores, dopo aver effettivamente trovato Akator ed averne trafugato il teschio di cristallo, finirono coll’essere posseduti dal potere del teschio, che li spinse ad ammazzarsi a vicenda. Furono poi i nativi a raccogliere i loro resti, a fasciarli ed a inumarli, insieme allo stesso teschio ed a tutto il ricco bottino che erano riusciti a portare via da quella che loro chiamarono Eldorado.
   Tuttavia, ciò che più a Mutt interessò maggiormente sapere fu chi fossero realmente, gli uomini dello spazio, da dove provenissero e dove fossero diretti. Ancora una volta, Oxley spiegò che quelli non erano uomini dello spazio, almeno non nel vero senso della parola.
   «Essi si trovano da qualche parte in questo stesso nostro universo, non ho dubbi» asserì. «Tuttavia, non si spostano attraverso lo spazio fisico, come siamo soliti fare noi, perché altrimenti sarebbe impossibile percorrere le infinite distese siderali che ci separano gli uni dagli altri. Essi viaggiano, invece, nello spazio tra gli spazi, ed è questo che permette loro di muoversi tanto velocemente ed attraverso così vaste immensità, senza che il tempo conti davvero.»
   Jones sbuffò. «Io ancora non ho capito, però, che cosa accidenti sia questo spazio tra gli spazi.»
   «È un’altra dimensione, Henry» lo informò prontamente Oxley. «Anzi, per meglio dire, è la dimensione immateriale che si trova in mezzo a tutte le altre, quella che prevede l’uscita dal proprio corpo per poter essere raggiunta, una capacità che noi, purtroppo, non possediamo. Per questo motivo essi apparivano ai nostri occhi come scheletri, sebbene fossero vivi a tutti gli effetti, come me e come te. È un mondo che si trova al di là del mondo che noi conosciamo e che possiamo vivere. È un po’ come… come un orizzonte, ecco, un orizzonte lunghissimo le cui estremità, ad un certo punto, cominciassero a ripiegarsi, fino a toccarsi formando un cerchio perfetto. Le dimensioni sono infinte, sia nella grandezza sia nel numero, solo che noi non possiamo rendercene conto, perché possiamo attraversarne una ed una soltanto, essendo esseri fisici legati al qui ed ora. È chiaro, no?»
   Padre e figlio si guardarono di sottecchi: no, non era chiaro per nulla. Jones lanciò poi uno sguardo a Marion, che osservava distrattamente il panorama fuori dal finestrino, apparentemente disinteressata ai loro discorsi; per quello che lo riguardava, c’era una sola dimensione, in cui voleva stare, ed era la medesima in cui si trovava la sua Marion. Tuttavia, dalle parole di Oxley, emerse un dettaglio che non gli sfuggì.
   «Un momento… Hai detto che noi possiamo restare solo in questa dimensione, è così?» domandò.
   «L’ho detto e lo ribadisco, Henry.»
   «Però, McHale, il mio vecchio amico, è stato risucchiato in quel vortice, all’interno del… del disco volante. Come è stato possibile? Credi che sia morto?»
   Oxley trasse un profondo sospiro ed intrecciò le dita.
   «Questo non lo so» ammise, con aria pensierosa. «Ma potrebbe darsi che sia ancora in vita, dopotutto. Tuttavia, se lo incontrassimo adesso, non potremmo riconoscerlo, con ogni probabilità. È possibile, infatti, che nello stesso istante in cui è stato attratto all’interno del portale interdimensionale, abbia dovuto abbandonare il proprio corpo fisico, come ti dicevo un attimo fa, per poter diventare parte integrante di quel nuovo mondo. Personalmente, non penso affatto che sia morto, anzi credo proprio che abbia raggiunto uno stadio superiore, che gli consentirà di sopravvivere in eterno, perché egli stesso è adesso parte dell’eternità.»
   Quella spiegazione fece venire i brividi ad Indiana Jones e si pentì amaramente di aver intavolato quel discorso con Harold Oxley che, quando voleva, sapeva essere veramente inquietante, con quelle sue teorie da stregone che non si riusciva mai a comprendere se fossero serie e scientifiche o, al contrario, frutto di una fantasia fin troppo fervida e a tratti decisamente sorprendente. Pensò che fosse molto meglio cambiare argomento, ed al più presto.
   «Ora che abbiamo trovato Akator, che cosa farai?» gli chiese.
   Oxley scrollò le spalle. «Be’, immagino che continuerò ad insegnare a Chicago, come ho fatto finora, anche se, forse... Poi, come ti dicevo qualche giorno fa, potrei provare ad interessarmi dell’altra Eldorado americana, la mitica Cibola.»
   «Cibola…» ripeté Jones, sconcertato. «Credi davvero che possa esistere anche quella?»
   L’inglese sorrise leggermente. «Il tuo scetticismo non finirà mai di sorprendermi, Henry. Sei reduce dalla scoperta di una mitica città, e già metti in dubbio che possa esisterne un’altra.»
   L’archeologo si strinse nelle spalle. «Da bambino, scoprii la storia di Cibola in una biblioteca. Era andato alla sua ricerca un altro conquistador, di nome Coronado. Ed aveva con sé una croce…»
   «La conosco bene» replicò Oxley. «Sono stato al museo nazionale del Marshall College ed ho potuto ammirarla. Un ottimo recupero, Henry, complimenti.»
   «Tu sei stato… hai visto…» sbottò Jones, stupito. Possibile che il suo vecchio amico fosse venuto in visita a Bedford e non lo avesse cercato?
   «Sì, ci sono stato» ammise Oxley. «Cinque anni fa, per la precisione. Ho incontrato anche Marcus Brody, quella volta, perché, nonostante fosse in pensione, ancora non riusciva a separarsi dai suoi reperti.» Poi, come se gli avesse letto nel pensiero, aggiunse: «Ma non ti ho cercato, Henry. Non volevo incontrarti.»
   Jones rimase in silenzio. Effettivamente, capiva bene il comportamento di Harold Oxley e non poteva certo biasimarlo: lui aveva tradito la fiducia di Marion, e di conseguenza anche la sua, e per questo ne aveva rinnegato l’amicizia per vent’anni. Quindi, era più che comprensibile che, pur venendo nella sua città e nella sua Università, non fosse corso ad incontrarlo.
   «Già» disse poi. «Hai fatto bene. Anche perché hai incontrato Marcus per l’ultima volta, dato che è morto proprio cinque anni fa.»
   «Lo so» rispose Oxley, annuendo dolorosamente.
   In quanto a Mutt, pensò che quella discussione tra i due vecchi compagni di studi stesse durando un po’ troppo.
   «Be’, io per un po’ ne ho davvero abbastanza, di città perdute» intervenne. «Se proprio ci tenete, a trovare questa Cibola, fate pure. Io neppure tra cento anni vorrò metterci piede. Piuttosto, non vedo l’ora di tornare a casa per rimettermi al lavoro sulle mie motociclette.»
   Jones lo fulminò con lo sguardo.
   «Oh, no, no, no e ancora no!» ruggì, in un tono che non ammetteva repliche. «Tu torni a scuola e finisci gli studi, altro che motociclette!»
   «Io non mi faccio dire da nessuno quello che devo fare!» s’intestardì il ragazzo. «No, eh!»
   «Io non sono “nessuno”» sottolineò l’archeologo. «Io sono tuo padre! E come tale…»
   «Se volevi dirmi cosa dovevo fare, dovevi farti vivo prima, paparino!» urlò il ragazzo. «Non quando sto per compiere diciannove anni!»
   Marion, a quel punto, non poté più fingere che non stesse accadendo nulla.
   «Non ricominciare con questa faccenda, Mutt!» strillò. «Prima di tutto, devi portare rispetto a tuo padre! In secondo luogo, devi andare a scuola, punto e basta!»
   Il giovane si volse verso Oxley, che aveva rapidamente tolto di tasca un libro che aveva acquistato prima di partire da Miami e lo aveva aperto a casaccio, fingendo di non sentire quella discussione che non lo riguardava.
   «Visto? Fanno comunella contro di me! Ma ti pare possibile, Ox?!»
   L’inglese si limitò a bofonchiare qualcosa di incomprensibile.
   «Non stiamo facendo comunella!» sbraitò Jones. «Semplicemente, è necessario che tu…»
   «Non è necessario niente!» urlò Mutt, ancora più forte. «Anzi, a dirla tutta, è necessario solo che, quando volete parlare con me, ve ne stiate un po’ zitti!»
   Marion sembrò sul punto di volerlo schiaffeggiare, ma poi si trattenne. Voleva troppo bene a suo figlio per fare una cosa del genere, ma gli pareva che il suo sangue fosse fin troppo irrequieto e temeva che, se non si fosse dato una regolata al più presto, avrebbe finito col mettersi nei guai, una volta o l’altra. Purtroppo, stava accadendo esattamente ciò che aveva sempre temuto: incontrare Indiana Jones gli stava facendo un effetto decisamente pessimo.
   In quanto a Jones, dovette fare appello a tutta la sua capacità di autocontrollo per non afferrarlo per il collo e lanciarlo fuori dal finestrino del terno in corsa; non sapeva bene ancora che cosa volesse dire essere genitore ma, se quelle erano le premesse, non gli piaceva affatto.
   Prima che uno dei due avesse avuto il tempo di dire qualcosa, Mutt balzò in piedi e disse che doveva andare in bagno. Di fatto, non lo rividero per le successive due ore e, quando finalmente fece ritorno, si giustificò dicendo che c’era coda.
   Oxley, appena il ragazzo fu scomparso, cercò di placarne i genitori.
   «Ha sempre avuto un carattere burrascoso» spiegò, «e, per di più, sta attraversando una fase piuttosto complicata della vita. L’adolescenza è sempre difficile, ci siamo passati tutti. Oltre a questo, ha appena fatto una scoperta che gli ha praticato cambiato l’esistenza e, quindi, è giustificabile che si stia comportando in questa maniera.»
   «Scoperta?» sbottò Jones, incredulo. «Che scoperta? Se ti riferisci ad Akator, io penso che a lui non ne sia mai importato più di tanto e…»
   «Ma no, Indy» sussurrò Marion con dolcezza, posandogli una mano sulla sua per calmarlo. «Oxley intende alludere a te. Non sapeva nulla di te e questo lo sta quasi facendo impazzire. È più che comprensibile.»
   Jones si sentì smarrito e chinò il capo. Non ce l’aveva con Marion per avergli tenuto tutto nascosto, ma ce l’aveva con se stesso per non essere riuscito a capire quale fosse il momento di fermarsi un po’ a riflettere. Ora non sapeva più dare torto ad Abner Ravenwood, quando lo definiva uno spostato. Aveva perfettamente ragione.
   «Io non so che cosa fare» bofonchiò.
   «Devi imparare ad avere pazienza con lui» disse Oxley. «Devi imparare ad ascoltarlo ed a parlare con lui. Non essere solo un genitore che dà ordini, perché altrimenti non ti guadagnerai mai il suo rispetto. Sii te stesso e andrà tutto bene.»
   Marion ridacchiò. «Certo, sii te stesso, Indy. Ma senza esagerare, perché altrimenti mi troverò anche con un figlio avventuriero capace di sparire di casa praticamente ogni giorno per andare a finire chissà dove.»
   Quelle parole fecero sorridere di nuovo l’archeologo, che strinse la mano di Marion e cominciò a preparasi ad affrontare difficoltà che sarebbero andate ben oltre un semplice processo per spionaggio.

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Capitolo 19
*** Capitolo XVIII - Le strade si dividono ***


CAPITOLO XVIII
LE STRADE SI DIVIDONO
 
New York City, New York

   Giunsero alla stazione centrale della grande metropoli che era quasi mezzogiorno fatto, dopo un viaggio in treno, a tratti veramente spossante ed interrotto per tre volte per effettuare dei cambi, durato quasi un giorno intero.
   Dopo un viaggio tanto lungo, si sentivano tutti e quattro piuttosto doloranti e decisamente poco propensi a parlare; inoltre, la tensione tra genitori e figlio era ancora decisamente palpabile, quindi la situazione non poteva essere certo considerata delle migliori. In ogni caso, parevano aver raggiunto una tregua, anche se tutti sapevano bene che era solamente momentanea e che, presto o tardi, si sarebbe dovuti tornare ad affrontare l’argomento della scuola.
   Fermi sul binario, si guardarono negli occhi.
   «Credo che, per un po’, le nostre strade dovranno dividersi» annunciò Oxley. «Devo tornare a Chicago al più presto, per farmi vedere in Università. Non vorrei che si spaventassero, per questa mia prolungata assenza.»
   «Anche io e Mutt dobbiamo tornare a Chicago» replicò Marion. In risposta ad uno sguardo interrogativo di Jones, aggiunse: «Eh, sì, mi sono trasferita a vivere di nuovo laggiù. Avrei voluto ricomprare la vecchia casa appartenuta a mio padre, ma non ci sono riuscita perché il nuovo proprietario ci si trova davvero bene… comunque, mi sono trovata un appartamentino bello e luminoso.»
   «Con garage» sottolineò Mutt, facendo capire che era quella, la sua officina.
   Jones annuì. «Sai, ho sempre creduto che fossi rimasta a vivere qui a New York, nell’appartamento…»
   Nell’appartamento che acquistammo insieme e che ti intestai quando fuggii come un ladro codardo, gli sarebbe piaciuto aggiungere, ma lo trovò sconveniente e non disse altro. In verità, la sua era una pura e semplice supposizione, dato che, in tutti quegli anni, non aveva mai trovato il coraggio di andare a verificare di persona dove Marion vivesse.
   «Ci ho vissuto per un po’» ammise Marion, prima di aggiungere, con una punta di malizia: «Assieme a Colin. Poi, però, quando lui è andato in guerra, in Inghilterra, ho voluto tornare con Mutt nella mia città natale. Ma quell’appartamento è ancora mio e, se volete, possiamo starci per oggi, prima di ripartire domani.»
   Jones diede un’occhiata al tabellone con gli orari dei treni, che si trovava attaccato ad uno dei pilastri del binario.
   «Mi piacerebbe fermarmi davvero per un po’» ammise. «Ma ho la coincidenza per Bedford tra un quarto d’ora. Devo proprio andare, ho urgente bisogno di parlare con il rettore della mia Università. In ogni caso, ci rivedremo appena possibile.»
   «Sì, come no» commentò sarcasticamente Mutt. «Mi sa che, la prossima volta che ti vedrò, sarà quando compirò quarant’anni.»
   «Mutt, non dire così» lo rimproverò Oxley.
   Marion e Indy, invece, non seppero che cosa dire. Non avevano rivolto alcun pensiero al momento di separarsi, ma fin da quando erano salpati a bordo del battello lungo il Rio delle Amazzoni avevano saputo che, prima o dopo, sarebbe arrivato per entrambi. Avevano vite separate, con impegni differenti, che li chiamavano in luoghi lontani e diversi. Ma le distanze, in fondo, sono fatte apposta per essere annullate.
   Con un sorriso sfolgorante, la donna fermò un ferroviere di passaggio e gli domandò gentilmente in prestito una penna ed un foglietto, sul quale scribacchiò un indirizzo ed un numero di telefono.
   «Ecco» disse poi, dopo aver restituito la penna, porgendo il biglietto a Indy. «Quando vorrai venire a trovarmi, sai dove devi andare.»
   L’archeologo sorrise e, dopo aver ripiegato con cura il pezzetto di carta, lo infilò con ogni cautela nel portafogli, come se fosse stato un prezioso tesoro.
   «Verrò da voi» garantì. «Promesso.»
   Avendo amici e conoscenti sparsi un po’ in tutto il mondo, era più che abituato a saluti che potevano quasi assomigliare ad addii; ma, questa volta, fece davvero fatica a separarsi da quelle tre persone. Per prima cosa strinse la mano di Oxley, che parve quasi intenzionato a non volergliela più mollare; poi, si rivolse a Mutt, posandogli una mano sulla spalla.
   «Sono orgoglioso che tu sia mio figlio» riuscì a dire, sperando di non risultare banale.
   Nonostante il malumore, il ragazzo lo fissò negli occhi e chiese: «Mi giuri che ci rivedremo?»
   «Al più presto» replicò Jones. «Anzi, prima di quanto tu creda.»
   Finalmente, anche Mutt sorrise. «Sono felice di averti conosciuto… papà.»
   «E tu non sai quanto lo sia io, Junior.»
   Lasciato andare il ragazzo, l’archeologo si volse verso Marion. Era semplicemente stanca - e per questo i suoi occhi erano arrossati - oppure si stava commuovendo? Non ebbe il cuore di domandarglielo. In verità, non riuscì a dire proprio nulla. Si limitò a stringerla in un abbraccio, che durò così a lungo che, a momenti, si dimenticò di dover andare a prendere il treno. Fu solamente quando dall’altoparlante fu annunciato che il convoglio per il Connecticut era in partenza dal binario numero dodici che si riscosse e la lasciò andare.
   «Arrivederci, Indy» lo salutò lei.
   «Questa volta tornerò per davvero» rispose lui.
   Afferrò la propria valigia, fece un ultimo cenno di saluto a tutti e tre e si allontanò, scomparendo in mezzo alla folla. Rimasero a guardarlo fino a quando anche la punta del suo cappello divenne invisibile in mezzo alla calca.
   A quel punto, Oxley sospirò.
   «Lo rivedremo, secondo voi?» chiese, con voce atona. «O quello è il solito, vecchio Indiana Jones, che va e viene come vuole, sparendo all’improvviso e ricomparendo quando meno te lo aspetti?»
   Marion era più che sicura della risposta.
   «Lo rivedremo, ne sono sicura» disse.
   Non sapeva bene neppure lei da dove le derivasse quella certezza. Lo sapeva e basta. Forse era perché aveva letto qualcosa di nuovo, negli occhi di Indiana Jones, perché lo aveva visto comportarsi in maniera tanto differente dal passato. Aveva avuto almeno due occasioni buone per fare l’amore con lei, in quegli ultimi giorni, e non lo aveva fatto, anzi non glielo aveva neppure domandato, eppure lei lo aveva visto nudo ed era più che certa che il suo organismo funzionasse ancora perfettamente, quindi non era certo stato quello a frenarlo. Ma, evidentemente, col trascorrere degli anni e con la presa di consapevolezza di come funzionasse davvero il mondo, Indy aveva smesso di ascoltare solamente il proprio corpo ed aveva imparato a dare retta alla voce della sua mente, dei suoi sentimenti e della sua coscienza. Era lo stesso uomo che lei aveva amato fin da quando era una piccola ragazzina sognatrice ma, oltre a questo, era anche un uomo nuovo, differente da quello che era stato un tempo.
   Ecco perché, allora, sarebbe ritornato da lei, ecco perché, questa volta, non sarebbe scomparso nella notte, ma sarebbe tornato in piena luce, per rimanere con lei e con loro figlio. Si commosse al pensiero che avrebbero potuto essere una famiglia. Ecco, forse questo pensiero era un po’ esagerato, forse Indy non era cambiato proprio fino a questo punto, ma sognare un po’, esattamente come quando aveva diciassette anni, non sarebbe certo stato un male.
   «Che vogliamo fare?» chiese, ritornando nel presente. «Ripartire subito? Per Chicago, in treno, è almeno un altro giorno di marcia. Io mi fermerei un po’ qui, almeno fino a domani, così posso approfittarne per vedere se l’appartamento è ancora messo bene.»
   Mutt, che era decisamente stanco, non trovò alcunché da obiettare; qualche ora di riposo nel suo vecchio letto non sarebbe certo stata una cattiva idea. Anche Oxley fu d’accordo: era già sufficientemente affaticato e, in fondo, gli sarebbe bastato compiere una telefonata per avvertire l’Università del proprio imminente rientro, dopo quella lunga assenza.
   Quindi, si avviarono a passo lento verso l’uscita della stazione, smaniosi di concedersi una lunga e rinfrancante dormita.

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Capitolo 20
*** Capitolo XIX - Euforia della gioventù ***


CAPITOLO XIX
EUFORIA DELLA GIOVENTÙ
 
Bedford, Connecticut

   Jones si svegliò di buon’ora, completamente riposato e pronto ad affrontare le nuove rogne che il giorno gli avrebbe riservato. E, chissà perché, sentiva che non sarebbero state meno impegnative di quelle che aveva dovuto fronteggiare fino a quel momento; anzi, in confronto, prendere a legnate i russi poteva forse essere considerato come una sorta di divertente passatempo.
   Dopo essere ripartito in treno da New York, il giorno prima, era rientrato a Bedford, la sua città, nel tardo pomeriggio, quando il sole cominciava a calare per cedere il posto alla sera. Gli era parso strano fare ritorno in quei luoghi, dopo aver creduto di doverli abbandonare per sempre per trasferirsi in Germania; eppure eccolo di nuovo lì, a camminare a passo lento sul binario - lo stesso dove, per la prima volta, qualche settimana addietro, aveva visto il ragazzino seguirlo a bordo di una motocicletta -  una mano stretta sulla valigia e l’altra affondata nella tasca dei pantaloni.
   Uscito dalla stazione, si era incamminato con passo quasi indolente lungo il marciapiede, osservando luoghi ed in certi casi anche volti familiari, mentre la tiepida aria della tarda primavera - era partito da lì, insieme a Mutt, prima della metà di maggio e, ormai, mancavano poche ore al cinque di giugno, con l’estate sempre più prossima - gli solleticava le narici e il palato, rammentandogli che, oltre che essere stanco, era pure affamato.
   Essendo quel suo languorino fin troppo fastidioso ed insistente, decise di fare una deviazione fino all’Arnie’s Diner per mangiare qualcosa. Quindi, anziché proseguire lungo la strada che lo avrebbe riportato a casa, svoltò a sinistra e proseguì per un paio di chilometri.
   Gli donava sempre una sensazione inspiegabile, dopo aver visitato luoghi esotici ed aver affrontato la natura selvaggia, ritrovarsi a camminare sopra marciapiedi di cemento perfettamente levigato, abbelliti a distanza regolare da tigli e platani ben potati - che spandevano nell’aria un profumo delicato e soave - ed affiancati da giardini curati e variopinti, ai margini dei quali sorgevano casette singole, di legno o di mattoni, dove abitava gente perbene e di estrazione borghese, che mai avrebbe avuto a che fare, in vita propria, con ciò a cui era abituato lui.
   E, in effetti, nonostante gli ultimi anni fossero stati abbastanza magri, dal punto di vista delle imprese da scavezzacollo a cui era abituato, l’ultimo mese pareva averlo riassorbito completamente nelle sue solite avventure, da cui riusciva sempre a cavarsela solo grazie ad una buona dose di fortuna sfacciata. E, infine, aveva ritrovato Marion, e con lei una nuova ragione di vita: per un po’ aveva meditato di andare in pensione, di diventare un pantofolaio come chiunque altro, ma adesso… gli pareva davvero di essere tornato ad avere vent’anni!
   Perso nei suoi pensieri, senza quasi vedere ciò che gli stava attorno, seppe di essere ormai arrivato da Arnie’s prima ancora di svoltare l’angolo e trovarselo di fronte; furono il vociare dei suoi giovani frequentatori - tra cui, ovviamente, parecchi suoi studenti - e la musica che si levava così alta dall’impianto di amplificazione montato all’interno della struttura da giungere fino in strada, a dirgli che era destinazione. Non conosceva la canzone che stava suonando in quel momento, ma dal ritmo e dalla voce del cantante si rese subito conto che si trattava di Elvis Presley.
   Sorrise tra sé: non lo avrebbe mai confessato a nessuno, ma quell’ex camionista così pieno di vitalità gli piaceva da matti e la sua mano si allungava sempre sulla manopola per alzare il volume, quando veniva passato alla radio; se, poi, gli accadeva di ascoltarlo stando alla guida, le sue dita cominciavano a tamburellare sul volante tenendo il ritmo, in maniera quasi incontrollabile, e se non avesse avuto da rispettare una dignità tutta sua, si sarebbe anche messo a cantare a squarciagola. Peccato solo, però, che la sua Dodge Coronet, su cui aveva anche fatto installare il più recente modello di autoradio, fosse rimasta parcheggiata a New Orleans e non avesse più avuto occasione di andarsela a riprendere. Ma, alla prima occasione buona, si sarebbe senza dubbio recato anche laggiù, dato che aveva speso troppi soldi, per quella macchina, per non recuperarla più.
   Entrò nel locale - che era stato risistemato, dopo essere stato sconvolto dalla rissa che avevano provocato lui e Junior per sfuggire agli uomini del KGB - e si mise a sedere ad un tavolino, ordinando un sandwich e una birra ad una cameriera di passaggio. Non era un granché, come cena, ma se la sarebbe fatta andare più che bene, tanto che era abituato a pietanze ben peggiori di quella.
   Mentre aspettava di essere servito, si perse a osservare i ragazzi e le ragazze che sedevano in tutto il locale, a quell’ora sempre gremito, ridendo e scherzando e dandosi appuntamento in qualche altro locale cittadino per più tardi oppure per l’indomani in Università. Sospirò, mentre ricordava a se stesso che, nonostante ciò che si sentiva dentro, lui vent’anni non li aveva e non li avrebbe riavuti più. Eppure, gli venne da riflettere, non si sentiva molto differente da loro, e negli sguardi innamorati di una coppietta che sedeva poco lontana bisbigliando parole romantiche, notò la medesima passione che aveva letto in quello di Marion e che, di certo, lei doveva aver visto nel suo. Forse, dopotutto, l’età non contava nulla, era semplicemente un concetto facilmente trascurabile.
   Consumò in silenzio la sua cena - ed il sandwich caldo con pancetta croccante, formaggio fuso, pomodoro a fette ed una generosa dose di ketchup e senape gli parve veramente buonissimo - beandosi di tutta quella gioventù e prestando segretamente orecchio alle canzoni di Elvis; e, dopo aver finito la birra, trovò persino il coraggio di ordinare un frappé al cioccolato. Erano decenni, che non ne beveva uno, reputandolo un intruglio per bambinetti o poco più; eppure, la sorridente cameriera dai capelli riccioli e castani - che non aveva smesso per un solo istante di ruminare una gomma da masticare che, a giudicare dal profumo che la circondava, doveva essere al gusto di fragola - non trovò alcunché da obiettare riguardo il servire una simile bevanda a quello che doveva essere a tutti gli effetti un professore del Marshall College.
   Jones assaporò il frappé e gli venne un poco di malinconia al pensiero che, l’ultima volta che ne aveva bevuto uno, alla frutta e non al cioccolato, era stato in compagnia di suo padre, tantissimi anni prima; era stata un’uscita per tentare di riconciliarsi, dopo anni di lontananza e incomprensioni, ma non avevano saputo neppure che cosa dirsi, tanto che l’unica cosa che ne era conseguita erano stati ancora più anni di distacco. Questo, inevitabilmente, gli riportò alla mente anche altro. Aveva rinfacciato a suo padre di averlo sempre trascurato, ma lui aveva fatto addirittura di peggio, abbandonando a sé stessi la donna che amava ed il figlio che ancora doveva nascergli… ma non doveva pensarci adesso, perché gli era stata offerta la possibilità di rimediare e ci sarebbe riuscito.
   Ora, però, scacciata quella momentanea tristezza, sorrise nel bere a piccoli sorsi quel fresco e dolce elisir di gioventù, che sembrava quasi volerlo far rinascere. All’improvviso, non fu più stanco ed ebbe come la certezza di avere davvero di nuovo vent’anni. E, andasse come andasse, qualsiasi cosa succedesse, avrebbe continuato ad avere quella stessa età per il resto dei suoi giorni.
   Svuotato il lungo bicchiere e pulitosi la bocca col dorso della mano, balzò in piedi e fece un cenno alla cameriera che lo aveva servito di avvicinarsi. Prima che lei avesse avuto il tempo di domandargli se si fosse trovato bene o se avesse desiderato prendere qualcos’altro, le infilò nel taschino della divisa bordeaux una banconota da cinquanta dollari - tutto ciò che gli era rimasto nel portafogli -  e le disse allegramente di tenere il resto come mancia. Poi, senza quasi prestare orecchio ai suoi ringraziamenti increduli, afferrò la valigia ed uscì a passo di corsa dal locale.
   Si sentiva dentro un’euforia nuova. Nel giro di pochissimo, era diventato padre, era ringiovanito di trent’anni e, soprattutto, era di nuovo innamorato, come non ricordava di essere mai stato. Lo sapeva già da parecchi giorni, ma fino a quel momento erano state più che altro delle sensazioni, dei pensieri confusi che faticavano a prendere forma nella sua mente. Era stato quel frappé a trasformare tutto in certezze più che concrete.
   Non riuscendo più a resistere, scoppiò allegramente a ridere, facendo voltare verso di sé gli sguardi sorpresi di alcuni giovanotti col giubbotto di pelle appoggiati al muro, che stavano fumando e pavoneggiandosi nel tentativo poco riuscito di attirare su di sé l’attenzione di un gruppetto di ragazze. Ovviamente, i ragazzi pensarono subito che quel vecchio matusa stesse ridendo di loro, ma prima che avessero potuto muovere un solo passo minaccioso verso di lui, Jones era partito di corsa sul marciapiede, con una vitalità straordinaria ed inimmaginabile.
   Ovviamente, l’archeologo non stava fuggendo da una rissa. A dire la verità, non si era neppure accorto di loro. Stava correndo solo perché gli andava di farlo, perché gli piaceva, perché voleva dimostrare a se stesso di non avere vent’anni solo nel cervello, ma anche nelle gambe.
   Corse, corse e corse, passandosi di continuo da una mano all’altra la valigia e facendo convergere su di sé gli sguardi stupiti, ed in certi casi indignati, dei propri concittadini; ad un certo punto, gli parve addirittura di essere sfrecciato di gran carriera accanto ad uno dei consiglieri universitari, uscito a passeggiare con una fanciulla un po’ troppo giovane per essere sua moglie, ma non gliene importò un accidente ed allungò ulteriormente il passo, senza mai smettere di ridere. Se era questo essere genitori ed amare con tutto il cuore una donna, allora si diede dell’idiota per non averci pensato prima. Ma non è mai troppo tardi e se ne rendeva perfettamente conto.
   Finalmente, sbuffante, ansante e sudato dalla testa ai piedi, con il sangue carico di adrenalina che gli pulsava nelle tempie e il cuore in gola, si fermò davanti alla porta di casa sua. Aprì la valigia, vi frugò dentro alla ricerca del mazzo di chiavi ed entrò.
   Ormai era scesa la notte, ma dalle finestre e dalla vetrata del salotto penetrava il chiarore dei lampioni che illuminavano la strada, quindi non ebbe neppure bisogno di far scattare l’interruttore. Si limitò a gettare da parte la valigia ed a spogliarsi completamente, prima di andare in bagno a darsi una sommaria risciacquata. Non riusciva a stare fermo, era euforico ed era certo che, se in quel momento Marion fosse stata lì con lui, non sarebbe più riuscito a trattenersi, ma l’avrebbe trascinata senza pensarci due volte sul primo posto comodo a disposizione, fosse anche il tappeto, e le avrebbe donato tutto il proprio ardore fino all’alba.
   Ma lei non era lì, non ancora, e gironzolare nudo per casa sperando di vederla comparire all’improvviso non sarebbe servito proprio a nulla; per un momento, osservando l’apparecchio del telefono, gli venne la tentazione di farle una chiamata, giusto per dirle che la pensava e che avrebbe mantenuto la promessa di tornare al più presto da lei, ma immaginò che non fosse ancora arrivata a Chicago o che, comunque, in quel momento stesse dormendo.
   Così, sebbene il sonno fosse scomparso completamente dal suo corpo, disfò il letto e ci si buttò sopra, coprendosi alla meglio col lenzuolo ed una coperta leggera da mezza stagione; era più che abituato a dormire da solo, ma improvvisamente gli parve il luogo più freddo del mondo, quello, e bramò il momento in cui Marion lo avrebbe scaldato con la propria presenza. Perché, senza sapere neppure da dove gli fosse sorto quel pensiero, era ciò che desiderava: non averla una volta sola, ma sempre, per tutta la vita. Voleva chiederle di sposarlo e, questa volta, lo avrebbe fatto con serietà, senza ripensarci all’ultimo minuto
   Ma avrebbe trovato il coraggio di fare un passo del genere? Sarebbe stato in grado di chiederle una cosa simile, dopo che già una volta lo aveva fatto senza poi mantenere quel proprio giuramento? Dal canto proprio, era certo di volere quello e soltanto quello, ormai. Ma lei? In quei giorni erano stati in intimità, d’accordo, ma lo avrebbe voluto come marito? Non poteva esserne certo, ma di sicuro non lo sarebbe stato finché non glielo avesse domandato.
   Forse era prematuro pensarci proprio adesso, dato che si erano ritrovati da pochissimo, ma allora quando avrebbero dovuto pensarci? Non voleva perdere altro tempo, voleva invece rimediare a tutti i propri errori e, soprattutto, voleva stare il più possibile vicino alla donna che amava più della propria vita. Si voltò su una parte più fresca del letto, sistemando meglio il cuscino e, con quei pensieri nella mente, finalmente si addormentò.
   Prevedibilmente sognò Marion - alcuni sogni casti ed altri decisamente meno - e, al mattino, al risveglio, si ritrovò col sorriso sulle labbra ed addosso un’eccitazione spontanea che non gli era più capitata da tanto tempo.
   Aveva dormito fino alle nove passate - esattamente come un ragazzino - e se non fosse stato per un automobile che passò rombando forte in strada e strombazzò per avvertire qualche incauto pedone, avrebbe continuato a restare immerso nei sogni almeno fino a mezzogiorno. Con un ghigno, sperò che sarebbe stata sufficiente una doccia fredda per risvegliarsi completamente e per mandare via quella sua eccitazione quasi dolorosa, perché quella mattina avrebbe dovuto scordarsi per qualche ora di Marion ed affrontare le brutte rogne che, di certo, lo avrebbero atteso in Università.

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Capitolo 21
*** Capitolo XX - Ancora in aspettativa ***


CAPITOLO XX
ANCORA IN ASPETTATIVA

   Il Marshall College era la struttura più austera ed antica di tutta Bedford; fondato nella seconda metà del ‘700, la città gli era effettivamente sorta tutt’attorno nel corso degli anni, e ne era quindi considerato il simbolo più celebre, nonché il cuore pulsante.
   Superata l’ampia sala d’ingresso, Jones si avvicinò alla portineria.
   «Buongiorno, professore» lo salutò la bionda segretaria, una studentessa dell’ultimo anno, rivolgendogli un sorrisetto che parve quasi un ammiccamento.
   L’archeologo ripensò per un momento ai vecchi tempi, quando sedurre le segretarie, sempre giovani e carine, era uno dei suoi sport preferiti, poi disse: «Buongiorno a lei. Vorrei parlare con il rettore, se possibile.»
   La ragazza annuì e controllò un fascicolo.
   «Oggi il professor Stanforth è nel suo ufficio» lo informò.
   Charlie era in ufficio… allora, che fosse ancora lui, il rettore? Lo avrebbe scoperto presto.
   «La ringrazio» replicò distrattamente, allontanandosi.
   Si avviò lungo i familiari corridoi e percorse le solite scalinate, transitando sotto l’occhio vigile ed indagatore dei più celebri docenti e dei rettori del passato, che lo osservavano immobili dalle tele in cui erano stati immortalati; quei dipinti erano sempre riusciti a metterlo in soggezione, perché gli ricordavano una sfilata di cadaveri, e lo prendeva sempre un moto di ribrezzo al pensiero che, un giorno molto brutto, anche lui avrebbe potuto correre il rischio di entrare a far parte di quella cupa e funerea collezione.
   Raggiunta la porta dell’ufficio del rettore, si fermò e bussò adagio. Dall’interno, rispose una voce che conosceva bene, che gli disse di venire avanti.
   Charles Stanforth, alto, corpulento e stempiato, gli occhi ingranditi da un paio di spessi occhiali, abbigliato col suo solito completo di lana cotta marrone scuro, sedeva dietro la sua scrivania, intento ad esaminare alcuni documenti. Come ebbe visto l’amico entrare nel suo ufficio, però, lasciò perdere tutto e balzò in piedi per andargli incontro.
   «Indy! Vecchio pazzo!» esclamò. «Ma dove ti eri cacciato?»
   Jones sorrise. «Ti ho detto che sarei partito per New York.»
   «Mi hai anche detto che mi avresti fatto una chiamata e mi avresti mandato un telegramma, invece più niente. Sei sparito, come inghiottito dalla nebbia… e, adesso, eccoti qui, come se niente fosse!»
   L’archeologo si mise a sedere sopra una delle due sedie davanti alla scrivania ed il rettore tornò al proprio posto.
   «Ho avuto un po’ di problemi, Charlie» spiegò.
   «Ancora l’FBI, eh?» azzardò Stanforth.
   «Anche. Ma, soprattutto, con dei russi figli di buona donna che mi hanno dato del vero filo da torcere…»
   «Avanti, dimmi tutto» lo incitò l’altro e Jones, senza farsi pregare, gli narrò tutto quello che era accaduto dal momento in cui era salito sul treno in partenza per New York.
   Quando ebbe concluso, Stanforth era quasi senza fiato, ma per nulla incredulo. Conosceva fin troppo bene il vecchio amico per poter dubitare anche solo lontanamente delle sue parole, e sapeva anche che, in molte occasioni, si era trovato ad avere a che fare con antichi manufatti capaci di sprigionare strani poteri. Ora, però, toccava a lui rispondere a qualche domanda.
   «Ma tu che ci fai ancora qui?» gli chiese Jones. «Avevo capito che ti eri dimesso.»
   Charles annuì. «Hai perfettamente ragione. Per riuscire a farti pagare lo stipendio anche nel periodo dell’aspettativa, ho dovuto rassegnare le dimissioni. Ha funzionato, dato che il consiglio direttivo ha accettato senza fiatare di continuare a versartelo. Dopo tre giorni, inoltre, mi hanno convocato d’urgenza per dirmi che le mie dimissioni erano state respinte. Dicono che ho lavorato bene, come rettore, e desiderano che continui a ricoprire la carica. Così, eccomi qua.»
   «Ed io?» domandò Jones, che non vedeva l’ora di sapere quale sarebbe stato il suo destino all’interno dell’Università. Non aveva più la minima intenzione di partire per trasferirsi ad insegnare in Europa, questo era ovvio, ma desiderava almeno sapere che cosa lo avrebbe atteso per il futuro. Anche perché, in effetti, se non lo avessero più voluto all’interno del Marshall College, aveva già una mezza idea riguardo al luogo in cui gli sarebbe piaciuto trasferirsi. «Sono ancora in aspettativa?» continuò.
   Stanforth abbassò lo sguardo.
   «Per il momento, la tua situazione è ancora al vaglio» confermò. «Ma sono certo che, dopo gli ultimi avvenimenti…»
   «Ti ricordo che l’FBI mi sta ancora indagando e che dovrò affrontare un processo.»
   «Dal quale uscirai completamente assolto e pulito, anzi sarà strano se non ti daranno anche una medaglia per quello che hai fatto» profetizzò il rettore, con ottimismo. «E, a quel punto, il consiglio non potrà fare altro che porti le sue scuse e richiamarti al lavoro, stendendoti un tappeto rosso davanti ai piedi.»
   Chissà perché, quando sentiva nominare il consiglio direttivo del Marshall College, a Jones montava sempre il sangue alla testa. Dovette fare un sommo sforzo di volontà per mantenersi calmo.
   «Insomma, sono ancora licenziato» sbottò.
   «In aspettativa, Indy, in aspettativa!» lo corresse Stanforth, cercando di apparire convincente.
   «In una parola, disoccupato» continuò imperterrito Jones. «E senza alcuna certezza che, quando quel benedetto processo sarà stato finalmente celebrato, io venga comunque ripreso qui dentro. Ecco, allora, perché ho deciso di inoltrare domanda per trasferirmi all’Università di Chicago.»
   Quell’informazione lasciò veramente basito il rettore.
   «Chicago?» ripeté. «Ma perché proprio Chicago?»
   A Jones sarebbe tanto piaciuto rispondere che era giunto a quella decisione, presa nel giro di soltanto poche ore, perché, ormai, tutti i suoi più cari affetti si trovavano in quella città e lui voleva starvi il più vicino che fosse possibile. Tuttavia, riuscì a dire: «Perché, in fondo, è lì che sono diventato archeologo, con Ravenwood. Non sarebbe una cattiva idea pensare di concludere la mia carriera nel luogo stesso in cui ha avuto inizio, non trovi?»
   Stanforth era spaesato. Aveva creduto che non avrebbe rivisto mai più l’amico, perso ad insegnare in qualche antica città europea, e invece se l’era visto ricomparire davanti all’improvviso, ma solo per sentirlo dire che intendeva trasferirsi a millecinquecento chilometri da lì.
   «Naturalmente devi scegliere ciò che più desideri» borbottò, preso alla sprovvista, «ma lascia almeno che, fino all’ultimo, io continui a sollecitare il consiglio per poterti riprendere. Poi, quando sarà il momento, potrai valutare tu stesso quale offerta potrà sembrarti migliore.»
   Jones sorrise. «Sei un vero amico» disse. «E non smetterò mai di esserti grato di tutto ciò che hai sempre fatto per me, fin dal primo giorno che sono entrato qui dentro» Fece una pausa, poi riprese: «Sai, quando sono arrivato qui, stamattina, ero pronto ad affrontare chissà quali grane. Ero convinto che il consiglio ti avesse subito sostituito con qualche cagnaccio del calibro di Bedini, o di Fellows, o di Keeler, tutta gente che non avrebbe esitato un solo istante a buttarmi fuori a calci al solo vedermi riapparire.»
   Il rettore ridacchiò.
   «E, invece, alla guida di tutta la baracca ci sono ancora io, dopotutto» sottolineò. «E ti assicuro che farò l’impossibile, pur di averti ancora qui con noi. Questa Università ti deve tantissimo, Indy. Il nostro museo, che è uno dei più ricchi di tutti gli Stati Uniti, non è diventato tale solo grazie a Marshall, a Brody od alla dottoressa Ferguson, ma anche a te ed a tutti i tuoi recuperi archeologici. E il tuo prestigio, come archeologo ed esperto di antichità, è tale che decine e decine di altre istituzioni si venderebbero l’anima, pur di averti con loro.»
   «Tu esageri sempre» lo interruppe Jones, quasi imbarazzato.
   «Non esagero affatto» seguitò Charlie, imperterrito. «Purtroppo, è anche fin troppo vero che chi ha denti non ha pane e chi ha pane non ha denti. Ma te lo ripeto adesso, toglierti da questa stupida aspettativa e riammetterti in pieno nel tuo ruolo sarà il mio obiettivo primario.»
   Jones sorrise ed allungò una mano per stringere quella del rettore in segno di ringraziamento. Gli amici veri, lo sapeva fin troppo bene, nella vita sono estremamente pochi, una manciata o poco più, e nel suo caso in parecchi se n’erano già andati e non sarebbero ritornati mai più. Ma alcuni rimanevano e, uno di essi, lo aveva di fronte a sé in questo preciso momento.
   «Farò ugualmente domanda per Chicago» lo informò per correttezza. «Ma terrò conto dei tuoi sforzi, al momento opportuno.»
   Stanforth sorrise a sua volta. Se fosse riuscito a giocarsi bene tutte le proprie carte ed a convincere il consiglio, di certo Jones non se ne sarebbe andato, ma sarebbe rimasto in quel luogo che, bene o male, era stato la sua casa per tantissimi anni. Non voleva vedersi sgusciare via dalle dita un uomo tanto straordinario.
   Entrambi si alzarono.
   «Goditi questi giorni di pausa pagata, Indy» gli disse. «In fondo, te li sei meritati.»
   Jones annuì. «Hai proprio ragione. Un po’ di ferie non mi faranno male, dopotutto. Mi avete tolto la rogna di dover fare gli esami estivi, alla fine, e spero proprio che chi dovrà occuparsene al mio posto non venga a seccarmi con richieste inerenti il programma.»
   In quanto a lui, sapeva esattamente quale sarebbe stato il modo migliore per poter trascorrere quei giorni, senza più preoccuparsi del lavoro, dell’FBI, del processo o di qualsiasi altra cosa. All’improvviso, l’ufficio del rettore gli parve tetro e soffocante. Non vedeva l’ora di tornare all’aria aperta.
   «Ci sentiamo, allora» promise. «Ti terrò informato sull’esito delle indagini e del processo.»
   «E io non mancherò di farti saperti come vanno i miei progressi col consiglio» replicò Stanforth.
   Indiana Jones fece un ultimo cenno di saluto, poi voltò le spalle e lasciò la stanza.

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Capitolo 22
*** Capitolo XXI - Una vecchia fotografia ***


CAPITOLO XXI
UNA VECCHIA FOTOGRAFIA
 
Chicago, Illinois

   Marion era in piedi di fronte allo specchio e contemplava la propria immagine, con un’attenzione che non aveva più riservato al proprio corpo da parecchi anni. Aveva quarantotto anni e, sebbene si fosse sempre mantenuta il più possibile giovanile e in forma, l’età cominciava a farsi sentire pure per lei, non aveva alcun dubbio.
   Per alcuni anni, dopo la morte in guerra di Colin, aveva sperato di poter trovare l’uomo giusto con cui ricostruire una famiglia; ma, dopo aver avuto al proprio fianco due persone a loro modo straordinarie come Jones e Williams, era diventato praticamente impossibile sperare di trovarne una terza. Solitamente, le sue frequentazioni maschili duravano una o due settimane, non di più, dopodiché dava il benservito all’amante di turno e riprendeva la sua solita vita di madre scapola.
   Alla fine, si era arresa all’evidenza dei fatti: non avrebbe mai più trovato un uomo adatto a lei. Così, facendosi aiutare dal sempre presente Oxley - che, però, per lei era sempre stato come un fratello maggiore, se non addirittura un padre, di certo non altro - aveva riversato tutte le attenzioni sul figlio, provvedendo a farlo crescere bene ed a fargli avere tutto ciò che a lei era sempre mancato in gioventù.
   Fortunatamente, i soldi, che erano sempre stati il suo più grande problema, ormai non le mancavano più; quando l’aveva abbandonata ad una settimana esatta dalla data del matrimonio, Indiana Jones si era quantomeno premurato di non lasciarla un’altra volta in miseria e le aveva intestato un appartamento in centro a New York ed un conto in banca in cui, ad occhio e croce, doveva aver versato quasi tutti i propri risparmi. Lei non ne aveva voluto sapere, inizialmente, perché ciò che voleva, da parte di quell’idiota di un archeologo, era un semplice e puro amore, non del denaro. Lei si manteneva con il suo lavoro di giornalista - scriveva per qualsiasi testata fosse interessata a pagarla per i suoi articoli - e non credeva di aver bisogno di altro, all’infuori di una persona che la sapesse confortare in ogni momento e che le dimostrasse di amarla in maniera incondizionata. Però, ormai, quei soldi li aveva e le erano tornati utili, doveva riconoscerlo.
   Poi era arrivato Colin, che non si era fatto alcun tipo di problema a stare con una donna che aveva avuto un figlio da un’altra relazione; si era innamorato follemente di lei fin dal primo giorno in cui l’aveva vista, insieme a Jones, ma non si era mai fatto avanti perché sapeva bene che lei era fidanzata con uno dei più cari amici del suo socio in affari, Jock Lindsey. Ma quando la sua storia con Jones si era conclusa, non aveva più esitato oltre. Marion non era veramente sicura di aver davvero amato Colin; lo aveva sposato, certo, e gli si era data con tutto il proprio ardore, ma era più che certa che, ciò che aveva provato per lui, fosse solamente amicizia, un’amicizia parecchio profonda e colma di affetto, non vero amore. Certo, se magari fossero rimasti insieme più a lungo, sarebbe riuscita davvero ad innamorarsi di lui, ma dopo pochi mesi dal loro matrimonio era scoppiata la guerra e Colin si era arruolato nella RAF; da quel giorno non lo aveva più rivisto e, quando le era stato riferito che il marito aveva perduto la vita in combattimento, non era riuscita a trattenere cocenti lacrime di dolore.
   Sembrava proprio che la vita volesse accanirsi contro di lei, privandola di ogni momento di conforto.
   Prima era stata condannata a seguire un padre vagabondo che, per soddisfare il proprio sogno di ritrovare un antico manufatto, aveva ridotto entrambi in estrema miseria, fino al punto da costringerla a prendere la devastante decisione - di cui Abner, ovviamente, non aveva mai saputo nulla -  di vendere persino se stessa per racimolare qualche soldo con cui poter mangiare. Poi, quando il vecchio era morto, aveva creduto di dover restare per sempre imprigionata in quella bettola sui monti del Nepal, in cui non sapeva bene neppure lei come avesse fatto a finire.
   Poi, senza alcun preavviso, ecco ricomparire nella sua vita Indiana Jones, l’uomo che l’aveva illusa quando era ancora una ragazzina innamorata della vita, l’uomo che le aveva fatto credere di amarla prima di abbandonarla a se stessa, l’uomo che lei aveva odiato con tutto il cuore per quasi dieci anni. Lui l’aveva salvata da quella vita miserevole, l’aveva riportata alla civiltà, l’aveva aiutata a trasformare la sua passione per la scrittura in un lavoro vero e, soprattutto, le aveva confessato di amarla. Non era una menzogna, ne era sicura, perché aveva imparato a leggere in quegli occhi irrequieti e sapeva bene quando stessero mentendo e quando fossero sinceri. E non ricordava di essere mai stata così felice come quella sera di settembre in cui, passeggiando lungo una strada che costeggiava il fiume Hudson, lui le aveva domandato di sposarla. Aveva pianto, pianto per la felicità, e naturalmente aveva detto sì.
   Vivevano insieme, a quel tempo, e sposandosi avrebbero semplicemente formalizzato ciò che, per loro, era già una solida realtà; eppure, l’emozione di stringersi la mano, di scambiarsi gli anelli, di giurarsi eterna fedeltà davanti ad un ministro di Dio… era qualcosa di così toccante da essere del tutto indescrivibile. Poi, però, era venuta quella sera, una settimana esatta prima del matrimonio, che si sarebbe dovuto celebrare il diciotto di ottobre. Era stata una tiepida giornata e Marion l’aveva trascorsa al parco, a scrivere un articolo molto drammatico sul recente massacro di migliaia di haitiani - il massacro del prezzemolo, come già lo si chiamava - ordinato nella Repubblica Dominicana dal sanguinario dittatore Rafael Trujillo. Indy, invece, era stato via tutto il giorno, neppure lei sapeva di preciso dove.
   Quando era tornata a casa, lui era appena arrivato. Lo aveva trovato con una strana luce negli occhi, una luce che non avrebbe saputo come decifrare; ma non ci aveva badato, perché l’archeologo le aveva preparato una cenetta a lume di candela, dimostrando un romanticismo quasi inedito. E, dopo, avevano fatto l’amore, con una passione immensa, per buona parte della notte, fino a che Marion, stremata dalla stanchezza, sconvolta da tutte le sensazioni fisiche che aveva provato, ma soprattutto più felice che mai, si era addormentata tra le sue braccia, sognando i tanti giorni e notti come quelli che sarebbero arrivati.
   Al mattino, quando si era svegliata, Indiana Jones non c’era più. Non era uscito prima del solito, come ogni tanto faceva, perché con lui erano spariti anche una valigia e gli abiti che teneva nell’armadio. Non una lettera, non un solo biglietto per spiegarle quell’assenza. Solamente quell’atto notarile con cui la rendeva ricca, abbandonato sopra il tavolo, in bella vista perché lei lo vedesse con ogni sicurezza.
   Disperata, Marion aveva urlato, aveva pianto, aveva preso a calci e pugni tutto ciò che le era capitato sotto tiro, ma non aveva saputo trovare una risposta. Si era sentita illusa e angosciata, ma anche umiliata e presa in giro. Non meritava tutto questo. E, per di più, poche settimane dopo, aveva persino scoperto che, quella notte, avevano concepito un figlio. Era stato in quel momento che, prossima ad un esaurimento nervoso, aveva smesso di cercare Jones e si era confidata con Oxley, l’unico che avrebbe potuto darle un po’ di conforto, senza tuttavia rivelargli di essere incinta; Ox, infatti, non aveva mai saputo che Mutt fosse figlio di Indy, non fino a quando lo aveva scoperto, proprio come Jones, tra le foreste dell’Amazzonia.
   E, poi, naturalmente, era arrivato Colin. La prima volta che erano usciti insieme, Mutt aveva già tre mesi, e lei aveva capito che, forse, avrebbe avuto ancora qualche possibilità per ricostruirsi una vita normale. Quasi negli stessi giorni, le era stata recapitata una lettera di Indiana Jones, una lettera che lei aveva nascosto in un cassetto senza mai trovare il coraggio di aprirla. Forse, Indy aveva il diritto di sapere di essere diventato genitore, ma a che cosa sarebbe servito, dopotutto? A procurarle solo nuovo dolore e nuove angosce, niente altro.
   Che, comunque, non erano mancate ugualmente, perché la guerra si era portava via anche suo marito, troppo presto perché lei potesse credere di averlo amato per davvero.
   Come detto, in un primo tempo si era mantenuta bella e giovane, sperando ancora di trovare qualcuno che sapesse amarla e confortarla; ma, alla fine, aveva lasciato perdere tutto e si era concentrata solamente sul figlio, grazie all’aiuto di Oxley. Avevano lasciato New York ed erano ritornati a Chicago, abbastanza lontana dai luoghi in cui aveva avuto l’illusione di poter vivere una vita normale con a fianco l’uomo di cui era innamorata.
   Adesso, forse, credeva di aver sbagliato anche con Mutt, di aver quantomeno esagerato, perché nel tentativo di fargli avere la migliore istruzione possibile, di non fargli mancare mai nulla, di provvedere ad ogni sua minima necessità, nel non dirgli mai di no, lo aveva reso il ribelle che era diventato. D’altronde, molti altri ragazzi della sua età condividevano quei pensieri e quei modi di fare, quindi non aveva poi troppo di cui preoccuparsi, ed era certa che lui le avrebbe voluto sempre bene, nonostante i continui litigi che li contrapponevano.
   Ora, però, fissando il proprio riflesso nudo nello specchio, dimenticò le preoccupazioni inerenti il figlio e si concentrò per un momento soltanto su se stessa. Il tempo era stato clemente, con lei, questo doveva senza dubbio riconoscerlo, forse perché, quando aveva avuto l’unico parto, a ventinove anni, il suo corpo era ancora sufficientemente flessibile da non averne subito troppi danni.
   Ovviamente, il suo occhio femminile vedeva anche tutti quei segni dell’età che, probabilmente, un uomo non avrebbe notato, se non in maniera abbastanza superficiale. E non le era poi così difficile fare un paragone con il passato, perché in un album di fotografie che teneva nascosto nel punto più profondo del suo armadio ne conservava anche una che non aveva mai mostrato a nessuno, un’immagine in bianco e nero che la ritraeva completamente nuda ed in una posa alquanto provocatoria, inginocchiata sulla sabbia con il mare alle spalle, il volto raddolcito da un bellissimo sorriso rivolto all’obiettivo. Era stato Indy a volerle scattare quell’istantanea, in un momento di vera fantasia erotica; erano usciti a passeggiare sulla spiaggia, al mattino presto, ed approfittando del fatto che non ci fosse in giro anima viva, a parte loro, l’aveva indotta a spogliarsi e a mettersi in posa. In un primo momento, Marion aveva rifiutato categoricamente, vergognandosi tantissimo al solo pensiero di denudarsi in un luogo pubblico e di mostrare le proprie grazie ad uno strumento meccanico e freddo come la macchina fotografica, ed era stato solo di fronte alle tante - e parecchio divertenti - insistenze del suo innamorato che aveva ceduto. E, a più di vent’anni da quel giorno, tuttavia, era più che mai soddisfatta di aver infine accettato, perché in questo modo aveva potuto conservare un più che vivido ricordo della sua bellezza giovanile. Del resto, quella era lei stessa e doveva andarne fiera, non certo vergognarsene.
   Quella mattina, risvegliatasi nel suo letto - avevano fatto rientro a Chicago da New York la sera prima - aveva sentito il bisogno di studiare il proprio corpo come non aveva più fatto da tanto, troppo tempo. Così, presa dall’album quella sua fotografia, l’aveva incastrata nella cornice dello specchio e si era spogliata per fare un confronto.
   A prima vista, pareva proprio che la ragazza della foto e la donna nello specchio fossero due estranee, legate forse da qualche lontana linea di parentela, non di più. La giovane dai capelli quasi neri era magra, con braccia e gambe sottili, il seno piccolo e così sodo da mantenersi alto da solo, il ventre dritto ed il pube coperto da una peluria leggera e curatissima. La donna più matura e dai capelli più chiari, invece, aveva arti più grossi, una pancia un po’ più gonfia, un seno molto più pesante ed il sesso quasi interamente celato da un pelo nero e fitto.
   Eppure, Marion era certa che Indy, quando l’aveva guardata spogliarsi, con quegli occhi colmi d’amore e desiderio che non le erano certo sfuggiti, aveva visto in lei la stessa identica ragazzina della vecchia fotografia, come se non fosse trascorso un solo giorno da allora. Forse non aveva neppure smesso un solo momento d’amarla, da quando se n’era andato, forse l’amava ancora.
   Eppure, già due volte, l’amore non gli aveva impedito di allontanarsi bruscamente da lei, lasciandola sola e in preda al rancore. Questa volta sarebbe stato capace di dimostrare i propri sentimenti fino in fondo, oppure sarebbe fuggito ancora di fronte alla prospettiva di stare con lei? Ma, poi, lui voleva davvero stare con lei - con la donna che era diventata - o voleva soltanto mantenere vivo il ricordo della ragazza della foto?
   Voleva credere il contrario, ma non riusciva a farlo. All’improvviso, con le lacrime agli occhi, le sovvenne un ricordo di suo padre, risalente a tanto tempo addietro - quando ancora giravano il mondo con mezzi di fortuna, qualche anno prima che partissero per la loro ultima meta, il Nepal, dove il vecchio, vinto dalla malattia e dallo sconforto, aveva rapidamente esalato il suo ultimo respiro - l’unica volta in cui avessero parlato insieme di Indiana Jones dopo che lui era repentinamente uscito dalle loro vite.

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Capitolo 23
*** Capitolo XXII - Autunno ‘31 ***


CAPITOLO XXII
AUTUNNO ‘31
 
Città del Capo, Sudafrica

   Erano giunti fino all’estrema propaggine del continente africano dopo un viaggio a tratti pazzesco ed a tratti indimenticabile, realizzato ricorrendo ai più svariati ed impensabili mezzi, dai vagoni merci di alcuni lunghissimi e lenti treni fino alle groppe degli elefanti. Nonostante le condizioni disagiate in cui si trovavano a vivere giorno dopo giorno, Marion non poteva negare di essersi anche in qualche maniera divertita, a compiere quel pazzesco itinerario.
   Ciò che non riusciva davvero a spiegarsi, però, era come potesse fare suo padre a sopportare tutto questo.
   Oltre che il cuore malandato, il vecchio e decrepito archeologo, ridotto quasi ad uno scheletro, praticamente calvo e dai baffi bianchi ed afflosciati - ormai solo l’ombra del possente ed affascinante uomo che un tempo era stato - aveva cominciato a soffrire anche di artrosi, che gli stava lentamente intaccando tutte le articolazioni, costringendolo ad usare un bastone per potersi sorreggere e muovere. Eppure, nei suoi occhi sbiancati dalla cataratta che era troppo povero per potersi permettere di far curare, la figlia riusciva ancora a leggere l’antica e dirompente vitalità, la medesima determinazione di sempre, che pareva essere ormai l’unica forza in grado di mantenerlo in piedi.
   Il motivo della loro venuta in Sudafrica era il solito: la ricerca di un finanziatore per gli studi di Abner. Del resto, dopo il disastroso crollo di Wall Street e lo scoppio della crisi economica, trovare gente facoltosa e disposta a spendere tanto denaro per un’impresa apparentemente assurda era divenuta una vera difficoltà. Non che i ricchi mancassero, dato che Stati Uniti ed Europa ne straripavano ancora; ma quella gente era divenuta più prudente e la mania dell’antichità, che era stata tanto forte nel decennio precedente, grazie anche alle scoperte straordinarie effettuate da Carter in Egitto, era stata adesso accantonata in favore di altro. Chi aveva i soldi, ormai, preferiva goderseli in altre maniere, dando party, facendo feste ed altre amenità simili, oppure investendo nel cinema, divenuto la forma di intrattenimento del secolo, tutte cose che padre e figlia potevano solamente sognare da tanti anni.
   Avevano compiuto una sosta di quasi un anno in Etiopia, perché Abner aveva ostinatamente voluto dimostrare che l’Arca dell’Alleanza che si diceva fosse custodita in uno dei tanti santuari sulle montagne di quell’arida regione fosse solamente un falso storico, essendo egli più che convinto che l’univa vera Arca si trovasse a Tanis; ed in quel periodo, Marion aveva dovuto arrangiarsi in ogni modo - anche in quelli che più la ripugnavano - per poter tirare avanti. Infine, erano ripartiti ed erano arrivati a Città del Capo, dove il vecchio e testardo Ravenwood sperava di riuscire a convincere qualche commerciante di diamanti a diventare il suo nuovo finanziatore.
   Per il momento, tuttavia, avevano trovato solo l’ennesima stanzetta sporca e malandata in cui poter abitare qualche giorno, perlomeno fino a quando il proprietario, resosi conto che non potevano pagarne la locazione, non li avesse scacciati. Di solito, quando accadevano quel genere di cose, Marion riusciva a racimolare qualche giorno in più offrendo al loro creditore persino se stessa, ma farlo la ripugnava sempre e le lasciava addosso la peggiore delle sensazioni; e, inoltre, ciò che più la amareggiava era il fatto che suo padre sembrasse non accorgersi di nulla, tirando avanti con quella vita come se nulla fosse. Alle volte, si domandava anche se, per caso, Abner non fosse ormai completamente impazzito e, di conseguenza, totalmente esiliato dalla realtà quotidiana.
   Quella mattina, il vecchio era uscito a fare una passeggiata, asserendo che sarebbe stata molto fruttuosa, perché questo, almeno, era stato ciò che gli aveva suggerito un sogno la notte precedente. La ragazza aveva sospirato senza aggiungere alcun commento. Era poi rientrato verso mezzogiorno, stanco e sudato, con in tasca niente altro che una copia del Daily Dispatch che, a giudicare dalla consunzione in cui versava, doveva aver raccattato lungo la strada.
   La prima cosa che Abner fece, fu fiutare l’aria come un segugio, cercando di indovinare che cosa Marion gli avesse preparato per pranzo. Sperava sempre di trovare una tavola imbandita con tutto ciò che gli piaceva di più, a cominciare da una grossa bistecca di manzo circondata da patatine fritte; ma bistecche e patate se l’era scordate già da parecchio e, come altre volte, tutto ciò che trovò nel piatto furono poche verdure lessate ed insipide.
   «Sempre la stessa cosa!» brontolò, appoggiando il bastone ad una parete e gettando il giornale sul tavolo, prima di sedersi e cominciare a mangiare.
   Marion lo ignorò. Non si mise a sedere insieme a lui, non tanto perché non avesse fame o fosse stanca di mangiare sempre le stesse cose, ma perché quel poco che era riuscita a mettere insieme era stato sufficiente solo per suo padre. Cercò di scacciare le lacrime che le stavano affiorando agli occhi al pensiero di quello che sarebbe stata costretta a fare quel pomeriggio, per sperare di portare in tavola una cena, ed afferrò il giornale. Magari, vi avrebbe trovato qualche interessante annuncio di lavoro, e qualsiasi cosa le sarebbe andata bene, persino trovare impiego come sguattera in una qualche dimora.
   Sfogliò distrattamente le prime pagine, decisa a raggiungere subito il fondo, dove in genere si trovavano le offerte di lavoro, ma una fotografia attrasse la sua attenzione e la fece tornare indietro. Dispiegò per bene il giornale sulla tavola e, per poco, non mandò un grido di sconcerto: al di sopra di un breve articolo, capeggiava la fotografia di quello che era, senza alcuna possibilità di sbagliarsi, Indiana Jones.
   Guardare quel ritratto un po’ sfocato, oltre a farla trasalire, le causò un connubio di sensazioni indescrivibili.
   Erano più di cinque anni che non vedeva l’uomo che aveva amato alla follia e che adesso credeva di odiare sopra ogni altra cosa; e, in cinque anni, non ne aveva mai più nemmeno parlato, limitandosi a pensare a lui quando voleva farsi del male, quando desiderava sentire una rabbia così profonda da sembrare provenire dall’inferno scorrerle nelle vene.
   Certe volte, tuttavia, in alcuni dei rari momenti di intimità che riusciva a trovare per sé e durante i quali si accarezzava delicatamente fantasticando sulla possibilità di essere sposata ad un uomo straordinario che le dedicasse tutte le attenzioni di cui sentiva il bisogno, l’immagine di Jones prendeva prepotentemente forma davanti ai suoi occhi e faticava parecchio a scacciarla, convincendosi che non fosse quello il momento di pensare a lui; le servivano spesso parecchi sforzi ma, alla fine, riusciva sempre a mandarlo via, ripetendosi per l’ennesima volta che lei non avrebbe avuto alcun bisogno di un uomo che era stato capace soltanto di farle del male.
   Eppure, adesso che se lo rivedeva di fronte, fosse solo anche in fotografia, non riusciva a provare davvero odio. Sentiva qualcosa, nel profondo delle proprie viscere, ma non avrebbe saputo spiegare che cosa fosse di preciso.
   Osservò il titolo che capeggiava sopra la foto, che recitava: Noto archeologo americano espulso a vita dal Madagascar.
   Suo malgrado, Marion non riuscì a trattenere un sorrisetto divertito. A quanto pare, Indy era sempre Indy e, ovunque si recasse, per quanto gli anni passassero, non riusciva ad esimersi dal mettersi seriamente nei guai. Molto probabilmente, non sarebbe cambiato mai e poi mai.
   Incuriosita, decise di leggere il breve trafiletto per saperne di più.

   

   «Il professor Henry Jones, eminente studioso di antichità noto a livello internazionale, non potrà mai più rientrare nei possedimenti di Hamada Andrianantenaina Rabemananjara I, sultano e governatore del Madagascar in nome della Repubblica di Francia. La decisione, risalente allo scorso giugno, è stata resa nota dall’intendente del monarca soltanto nelle ultime ore.
   Jones si era recato in Madagascar, su richiesta dello stesso Hamada, per provvedere alla ricerca di un’antica pietra preziosa, appartenente alla Corona, smarrita ormai da secoli. Secondo le notizie, il professore sarebbe riuscito nell’impresa, ma avrebbe poi “profondamente offeso in maniera insanabile ed irrimediabile” - tali le parole dell’intendente - la dignità dell’intera famiglia reale. L’archeologo è stato quindi espulso dal Paese, con l’ammonizione a non farvi mai più rientro, pena la decapitazione.

   Raggiunto telefonicamente, il dottor Jones si è limitato a commentare che si sarebbe trattato niente altro che “di un equivoco”.»

   A quel punto, non riuscendo più a trattenersi, la ragazza scoppiò a ridere. Davvero, Indiana Jones non era affatto cambiato, specie nel cercare sempre una giustificazione anche ai suoi errori più madornali.
   Abner, impegnato a districarsi con una radice particolarmente dura e impegnativa da masticare, la guardò senza comprendere il motivo di tutta quell’ilarità; e lei, accortasi di quello sguardo interrogativo, spinse nella sua direzione il giornale.
   Il vecchio fissò per un momento l’immagine di Jones, con uno sguardo furente negli occhi, poi, senza neppure perdere tempo a leggere, appallottolò il quotidiano e lo scagliò lontano con disgusto.
   «Via! Non voglio vedere nemmeno la foto, di quell’aborto, in casa mia!» sbraitò.
   Marion fece volgere un’occhiata scettica tutto attorno, osservando la piccola e malmessa baracca di legno e vergognandosi al solo pensiero che quella potesse essere considerata la loro casa.
   «C’è scritto che è stato espulso dal Madagascar e che, se dovesse farvi rientro, gli taglierebbero la testa» spiegò.
   «Peccato non gliel’abbiano tagliata direttamente, avrebbero fatto un vero favore al mondo!» dichiarò Ravenwood, stizzito. Poi, fissando la figlia dritta negli occhi, sbottò in tono tagliente: «E non guardarmi così, per Dio! Ricordati che, se siamo ridotti come siamo, è stata tutta colpa di quell’abominio umano! Non fosse stato per lui, saremmo già i ricchi e celebri scopritori dell’Arca!»
   Marion ebbe voglia di ribattere qualcosa di altrettanto sferzante, ma non lo fece. Asserire che, dopotutto, la colpa di quella loro condizione miserevole fosse imputabile soltanto ad Indiana Jones le dava sempre forza, forza per andare avanti spinta da un odio viscerale. Ammettere che non fosse così, che in realtà a dettare la loro povertà fossero soltanto l’egoismo, l’orgoglio e la pazzesca mania di suo padre sarebbe stata una sconfitta troppo grossa da accettare. Si portò una mano sotto la logora camicetta che indossava e la strinse con forza attorno al medaglione che le aveva regalato Abner, l’unico orpello che ancora portasse, nonché l’unica vera e concreta prova che la ricerca dell’Arca dell’Alleanza non fosse un’inutile chimera.
   Era Indiana Jones l’uomo da odiare, era Indiana Jones colui su cui scaricare tutta la rabbia, la frustrazione, la disperazione ed il rancore. Perché l’offesa che lui aveva fatto loro, proprio come quella nei riguardi della famiglia reale del Madagascar, era davvero insanabile ed irrimediabile.
   Più tardi, tuttavia, quando Abner si fu addormentato per il riposino pomeridiano, la ragazza raccolse il giornale accartocciato e, ritrovata la fotografia di Indy, la staccò insieme a tutto il resto dell’articolo e, dopo averla lisciata e ripiegata con cura, la infilò in tasca, un altro piccolo tesoro segreto da custodire gelosamente e da guardare nei momenti più tristi. Perché, in fondo, lei non avrebbe mai smesso di sperare che, un giorno o l’altro, Indiana Jones sarebbe tornato da lei, ricomparendo come un cavaliere leggendario per salvarla da quella vita di miseria e di disperazione in cui era finita a capofitto, come in un maelstrom di orrore e d’angoscia.

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Capitolo 24
*** Capitolo XXIII - La città del Blues ***


CAPITOLO XXIII
LA CITTÀ DEL BLUES

   Tornare nella città in cui aveva avuto inizio la sua formazione da archeologo fu l’ennesimo bagno di giovinezza di quei giorni, per Indiana Jones.
   Nonostante fossero trascorsi quasi quarant’anni, e nel mezzo fossero accadute situazioni e circostanze che un libro intero non sarebbe stato sufficiente a raccontare in maniera puntuale, gli pareva soltanto ieri di essere rientrato negli Stati Uniti dalla guerra - dove aveva servito prima come soldato nell’esercito belga, poi come agente dei servizi segreti delle potenze dell’Intesa, infine come osservatore alla conferenza di pace di Parigi - ed essersi iscritto all’Università di Chicago con l’intenzione di divenire archeologo.
   Suo padre, che già ce l’aveva con lui per essere fuggito di casa ed essersi arruolato in segreto, era stato quasi colto da una sincope, quando aveva appreso quella notizia sconcertante, dato che aveva a lungo sognato che suo figlio potesse diventare un affermato linguista, che lo avrebbe di certo potuto affiancare nella decifrazione degli antichi codici che gli avrebbero spalancato le porte verso la fine della sua ricerca sul Graal. Da Princeton, dove Senior viveva, era arrivata una vera marea di lettere, in cui cercava di far rinsavire il figlio, tentando di convincerlo che il lavoro dello spalatore di fango non sarebbe stato degno dell’unico erede dell’illustre professor Jones.
   Ovviamente, il giovane Indy non aveva voluto saperne di dargli retta. Prima di tutto, perché non voleva piegarsi a fare ciò che il vecchio comandava soltanto per non rischiare di rovinargli la ferrea reputazione accademica; in secondo luogo perché, per l’archeologia, si sentiva bruciare dentro una passione reale e concreta. Era un amore che gli era nato quando, con i genitori, aveva intrapreso un lungo viaggio intorno al mondo - Henry aveva scritto un libro di grande successo, che per suo figlio era invece un mattone pesantissimo ed illeggibile, ed era stato chiamato a tenere lezioni e conferenze in tutte le più prestigiose università, accademie e corti d’Europa, Asia e Africa - e che si era fermamente incarnato in lui quando, appena adolescente, aveva ritrovato una croce d’oro nascosta nel deserto dell’Utah. Be’, non è che l’avesse proprio trovata lui; semmai, l’aveva sottratta a coloro che la stavano trafugando…
   In ogni caso, da quel giorno aveva sognato ardentemente il momento di poter diventare archeologo. E, finalmente, dopo mille avventure, sul finire del 1919 era riuscito a compilare il modulo per iscriversi all’Università, dove avrebbe studiato con il professor Ravenwood che, stando a quello che gli era stato riferito, era il migliore esperto d’antichità di tutta l’America.
   Adesso, invece, era tornato a Chicago per la figlia del vecchio Abner. Lo aveva promesso e, infatti, eccolo lì. Era rimasto a Bedford appena quattro giorni, giusto il tempo di inoltrare la sua domanda di trasferimento e di sistemare qualche faccenda di poco conto. Poi, però, non aveva più resistito alla lontananza ed era partito in treno, arrivando a destinazione in quel tiepido pomeriggio del nove giugno.
   Volendole fare una sorpresa, non aveva avvisato Marion del proprio arrivo, così, prima di andare da lei, si sarebbe potuto prendere qualche ora tutta per sé per ripercorrere le strade e rivedere i luoghi che aveva conosciuto in gioventù. Erano parecchi anni che non ritornava laggiù - effettivamente, dopo essersi laureato nel 1925, vi aveva fatto rientro soltanto una volta, e di sfuggita. Ora, con la consapevolezza dell’età e la dolce previsione di trascorrere giornate bellissime con la donna che amava e con loro figlio, uscì dal Bel Air Hotel e cominciò a passeggiare con tranquillità, guardandosi attorno con curiosità e nostalgia, ritrovando riferimenti familiari, rimasti uguali al passato, e sentendosi un poco smarrito di fronte ai cambiamenti che il tempo aveva portato con sé.
   Uno dei primi luoghi che andò a visitare fu il ristorante di Jim Colosimo, il locale in cui aveva lavorato come cameriere per potersi pagare gli studi; ricordava benissimo quelle serate. Faceva la spola tra la cucina e la sala, trasportando piatti colmi di ottime vivande e facendo ritorno con pile di piatti sporchi che, poi, più tardi, gli toccava pure lavare. Era un lavoro abbastanza stressante, ma il signor Colosimo, oltre che passargli un più che buono stipendio, lo intratteneva sempre con i suoi divertenti racconti: suo padre Luigi, gli diceva spesso, si era arruolato volontario nei Mille di Garibaldi durante la spedizione che, nel 1860, aveva portato all’annessione del Regno delle Due Sicilie a quello che, ancora, si chiamava Regno di Sardegna ma che, molto presto, si sarebbe chiamata Italia; e le storie di Jim erano talmente appassionanti che pareva proprio averle vissute lui stesso in prima persona. Dopo l’Unità, però, in Italia si era creata una crisi economica tale che il giovane Giacomo, seguendo i consigli del genitore, aveva deciso di emigrare negli Stati Uniti, e lì con mille sacrifici - che non mancava mai di enumerare ad uno ad uno - era riuscito ad aprire il proprio ristorante.
   Oltre ai racconti di Colosimo, in quel ristorante il giovane Indy si era appassionato anche alla musica jazz e blues, che spesso vi veniva suonata da Sidney Bechet e dalla sua orchestra; quella musica gli entrava nelle vene, gli scorreva nel sangue e gli faceva pulsare il cuore e lo studente di archeologia avrebbe tanto voluto poterla eseguire a propria volta. Poi, un giorno, si era fatto coraggio, aveva afferrato un sassofono ed era salito sul palco, iniziando a suonare con innata ed incredula maestria insieme a Bechet. Da quel giorno, erano rimasti amici e, ogni tanto, si scambiavano ancora qualche cartolina.
   Purtroppo, quelli erano anche anni difficili, gli anni del Proibizionismo e degli scontri tra bande armate di mafiosi che cercavano in ogni modo di contendersi il controllo delle strade e dei locali; e Colosimo, come tanti altri, ne era stato una delle numerose e più celebri vittime. Una sera, mentre abbassava la saracinesca del ristorante, era stato raggiunto da numerosi colpi di arma da fuoco, sparati da un sicario chiaramente prezzolato da qualcuno. Indy ricordava ancora oggi il grande dolore che gli era stato cagionato da quella perdita improvvisa, avvenuta proprio quando, ormai, credeva che gli orrori che aveva vissuto durante il conflitto mondiale non si sarebbero potuti mai più ripresentare. Solo in seguito, in effetti, aveva scoperto che il bonario Jim Colosimo che gli aveva dato lavoro e raccontato storielle altri non era che il pericoloso capo mafioso Big Jim, leader della Chicago Outfit - di cui, in seguito, era divenuto comandante il famigerato Al Capone - sfruttatore della prostituzione e del gioco d’azzardo, nonché uno degli uomini più temuti di tutta la città. Sotto questa luce, la sua esecuzione diveniva molto più chiara. E l’archeologo, da quando aveva fatto quella scoperta, si era ripromesso di controllare sempre nel miglior modo possibile per chi stesse prestando servizio, anche se, in tal senso, di errori ne aveva commessi parecchi ugualmente, in seguito.
   Dopo tanti anni, dove un tempo il ristorante di Colosimo aveva allietato le notti di Chicago, non c’era più nulla, all’infuori di un grosso ed anonimo palazzo adibito ad uffici che, a giudicare dall’aspetto, doveva essere di recentissima costruzione. Quello, era un pezzo della sua gioventù che se n’era andato per sempre e non sarebbe mai più ritornato.
   Lo sorprese, invece, che fosse ancora presenta ed attiva la pizzeria Gino’s, segnalata da un’insegna luminosa ad intermittenza che capeggiava al di sopra di uno stilizzato Pulcinella dipinto sulla facciata; era un edificio solitario nel mezzo di un incrocio, ad un solo piano, dipinto di un marroncino sbiadito e circondato da un plateatico colmo di piante in vaso che lo separavano dal traffico cittadino. Lui, Ox e René Belloq - che all’Università formavano un trio indivisibile - erano soliti andarci a mangiare insieme ogni martedì sera, e non mancavano mai di provare a corteggiare scherzosamente Audrey, la bella figlia dei proprietari, che aveva mantenuto intatto tutto il fascino mediterraneo ereditato dai genitori. Ciò che gli amici non avevano mai saputo, però, era che una volta Indy era entrato in pizzeria anche di mercoledì, da solo, e si era dato piuttosto da fare con Audrey, al punto che lei gli aveva dato appuntamento per mezzanotte, dopo il lavoro; avevano bevuto qualcosa insieme in un locale notturno fino quasi alle due, poi avevano fatto una romantica passeggiatina fin quasi alle tre e, per concludere al meglio, erano finiti a letto insieme fino al mezzogiorno successivo. Dopo di allora, avevano ripetuto quei loro incontri per tre o quattro volte, ma sapevano benissimo che non sarebbero continuati più di tanto e che la breve passione nata tra di loro si sarebbe raffreddata piuttosto in fretta.
   Adesso, il locale era chiuso, ma una targhetta infissa sopra la porta a vetri annunciava che avrebbe riaperto alle sei e mezza del pomeriggio; immaginò che Gino e sua moglie non lo gestissero più - visti gli anni trascorsi, era più che facile pensare che non fossero neppure più in vita - ma ebbe la sensazione che, adesso, la pizzeria fosse condotta da Audrey e da suo marito, che magari si chiamava a propria volta Gino, o qualcosa di simile. Non volle fermarsi per scoprirlo. Quel suo tuffo nel passato doveva essere fatto in silenzio ed in solitudine, senza ritrovare vecchi amici o antiche fiamme - a parte una, in realtà.
   Continuando a passeggiare, l’archeologo raggiunse il verde parco al cui interno sorgevano gli edifici in stile neogotico dell’Università; era lì, ovviamente, che si intersecavano i suoi maggiori ricordi.
   Transitò al di sotto del dormitorio che era stato la sua casa per quasi sei anni e, per un momento, guardando la sua vecchia finestra - e domandandosi chi occupasse adesso quella stanza - provò a fare un conto mentale di quante ragazze, e donne decisamente più mature, si fosse portato là dentro.
   Non riuscì a tirare una somma esatta, perché in parecchi casi la memoria non gli permetteva di collegare nomi a visi e viceversa; però, ricordò benissimo l’occasione in cui si era dovuto dare ad una rocambolesca fuga - senza nulla addosso - fuggendo dalla medesima finestra, per evitare le ire di un fidanzato - o, forse, di un marito, non gli sovvenne con esattezza - che lo aveva sorpreso indaffarato tra le lenzuola con la propria ragazza. All’epoca aveva provato un vero e proprio terrore, dato che quell’uomo si era presentato all’improvviso in camera sua con in mano un micidiale revolver, ma ora il rammentarsi di quell’episodio lo fece scoppiare a ridere, soprattutto se ripensava al fatto che, nudo com’era, non aveva saputo trovare altro rifugio che le docce dello spogliatoio della palestra femminile, dove pochi minuti più tardi un nugolo di ignare atlete era confluito per darsi una rinfrescata dopo la ginnastica. Era servita davvero tutta l’influenza di Ravenwood, quella volta, per evitargli di essere espulso senza troppe cerimonie, e comunque non era bastata ad evitargli un mese di punizione a pulire i gabinetti dell’istituto. In quanto all’uomo che lo aveva aggredito, negava di averlo anche solo mai visto, e la sua ragazza o moglie che fosse lo appoggiava in tutto, testimoniando che quel giorno loro si trovavano insieme e da tutt’altra parte.
   Superato quel primo palazzo, si fermò nuovamente poco dopo, osservando con un mezzo ghigno dipinto sul volto rugoso una sorta di piccola cappella di mattoni che, se fosse stata collocata in un cimitero, e non ai margini di un campus universitario, si sarebbe facilmente potuta scambiare per una tomba di famiglia; ma non era affatto una cappella od una tomba, bensì la sede di una delle tante confraternite studentesche, la Alpha Sigma Chi, di cui lui stesso aveva tentato di far parte, agli inizi, salvo poi tirarsene rapidamente fuori non appena aveva scoperto che, una delle regole basilari della confraternita, era il rispetto di una sana monogamia per tutto il tempo in cui se ne fosse stati membri. Ed il giovane Indy, in quegli anni turbolenti, i ruggenti anni Venti, poteva considerarsi tutto fuorché monogamo.
   Continuando a camminare, raggiunse l’ingresso del palazzo in cui si tenevano le lezioni. Curioso di tornare a respirare quella vecchia atmosfera, e pensando che non sarebbe stato affatto male fare un po’ di mente locale, che gli sarebbe stata utile nel caso fosse stata accettata la sua richiesta di poter insegnare lì, provò ad entrare, ma trovò la porta sbarrata. Del resto, essendo domenica, era più che comprensibile.
   Per cui, lasciato perdere quel progetto, cominciò a gironzolare attorno all’edificio, osservando gruppetti di studenti che sedevano sui prati godendosi il tepore primaverile, chi con libri aperti sulle ginocchia, chi chiacchierando con gli amici e chi rispondendo con un ammiccamento agli occhi dolci di qualche ragazza dalla lunga gonna e dal maglioncino di cotone. Anche quelle immagini, ovviamente, contribuirono a riportarlo indietro nel tempo, quando lui stesso, giovane e spensierato studente che non aveva idea di che cosa ne sarebbe stato della sua vita di lì a cinque anni, si aggirava con dei libri sottobraccio su quei prati.
   Il primo anno di Università, aveva addirittura avuto una fidanzata fissa, che si chiamava Sandy Rosenthal. Con fidanzata fissa intendeva semplicemente dire che tornava da lei dopo ogni scappatella con altri esponenti del genere femminile. In verità, il loro era un rapporto molto strano: parlavano tantissimo, a volte per ore intere, filosofando su vari argomenti, dalla recente guerra agli sviluppi politici dell’Europa, dal ruolo della storia a quello della letteratura. Naturalmente, non mancavano di discorrere anche dei tanti problemi che contraddistinguevano la loro città, a cominciare dalla mafia, fino a parlare di qualche frivolezza. Di fare l’amore, invece, non ci pensavano proprio; o, meglio, Indy ci avrebbe pensato volentieri, ma lei non voleva quasi saperne. Le uniche volte che cedeva alle sue continue richieste, la ragazza si limitava a togliersi la gonna ed a domandargli di fare in fretta, senza metterci la minima enfasi o passione, senza neppure fargli capire se stesse sentendo qualcosa o no. Così, alla fine, si erano inevitabilmente lasciati, senza troppi malumori; e, dopo qualche anno, Jones aveva scoperto che Sandy si era fatta suora, il che aveva spiegato la sua totale assenza di attrazione per un qualsivoglia rapporto fisico.
   Ma certo, anche quando stavano insieme, non aveva avuto alcun problema a supplire a quella mancanza. A dire il vero, la seduzione di qualsiasi tipo di donna era quello che, a quel tempo, considerava il suo passatempo preferito. Oggi, ripensandoci, si vergognava parecchio all’idea di aver usato così tante ragazze come oggetti, ma a quell’epoca non ci pensava affatto e, se anche a volte ci rifletteva un poco, finiva molto presto per non badarci.
   Tra le conquiste di cui era andato più fiero, vi era stata anche un’austera e insensibile professoressa di Storia dell’Arte antica, di almeno cinquantacinque anni, una donna sposata che doveva essersi concessa al proprio marito soltanto la prima notte di nozze, quando avevano concepito l’unico figlio; era una donnona parecchio grassa e decisamente disarmonica, per non dire addirittura brutta, e correva voce, tra gli studenti più maligni, che fosse così frigida da indossare volontariamente una cintura di castità. Ed Indy, quindi, si era messo in testa di scoprire se fosse vero o no. Aveva cominciato chiedendole un appuntamento nel suo studio, poi un altro ed un altro ancora… alla fine, la professoressa aveva ceduto alle sue continue lusinghe e gli aveva dimostrato che quella della cintura era tutta una diceria priva di qualsiasi fondamento. Purtroppo, in qualche maniera, quello che era accaduto si era saputo quasi subito, lo studente era divenuto quasi una celebrità ma la poveretta era stata costretta a dimettersi dal proprio ruolo. Ripensandoci oggi, a distanza di tanti anni, si sentiva parecchio in colpa per ciò che aveva fatto, uno dei suoi tanti errori a cui, purtroppo, non avrebbe mai più potuto porre rimedio.
   Riportare a galla tutte quelle memorie, effettivamente, non lo faceva sentire troppo fiero di sé. Forse, tornare all’Università di Chicago, quel pomeriggio, non era stata propria una buona idea. Magari, avrebbe fatto di gran lunga meglio a fare una capatina a casa di Marion per salutare lei ed il ragazzo.
   Tolto di tasca il portafoglio, ne estrasse il bigliettino su cui l’elegante grafia della donna aveva scritto 210 North Dearborn Street.

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Capitolo 25
*** Capitolo XXIV - 210 North Dearborn Street ***


CAPITOLO XXIV
210 NORTH DEARBORN STREET

   Era un’elegante strada, con immensi e moderni palazzi, che costeggiava per un buon tratto il Washington Park e che non si trovava a troppa distanza dalla costa del lago Michigan. A giudicare dalle facciate dei condomini e dalle auto di grossa cilindrata che transitavano lungo la strada, era un quartiere della borghesia medio - alta, e questo non dispiacque affatto a Jones. Non tanto perché fosse interessato ai soldi, bensì perché gli faceva piacere sapere che, dopotutto, in quegli anni Marion si era sempre trovata bene, almeno dal punto di vista economico.
   Raggiunse la porta del palazzo, un alto grattacielo di almeno trenta piani, ed entrò nell’ampio salone d’ingresso, ornato da piante in vaso e tirato così a lucido che pareva quasi di star camminando sopra uno specchio. Le suole delle sue scarpe, sebbene consumate, scricchiolarono come se fossero state nuove, al contatto di quella superficie perfettamente linda.
   Il portiere, seduto nella guardiola e vestito elegantemente in giacca e cravatta, gli spiegò che l’appartamento che cercava si trovava all’ultimo piano, nell’attico, e che per raggiungerlo avrebbe potuto comodamente utilizzare l’ascensore; tuttavia, per dimostrare a se stesso di essere ancora un giovanotto pieno di vitalità, Indy preferì salire fino in cima a piedi, se possibile a passo di corsa.
   Per i primi dieci piani, in effetti, non andò male; all’undicesimo, tuttavia, cominciò a sudare sempre più copiosamente, tanto che al successivo fu costretto a sfilarsi la giacca. Verso il quindicesimo piano, cioè a metà strada, iniziò ad avere il fiato corto, e non molto dopo prese a sbuffare sempre più forte. Attorno al venticinquesimo, ebbe quasi la tentazione di chiamare l’ascensore, ma si afferrò al corrimano e si fece forza per continuare. Al ventottesimo piano, quando il cuore pareva ormai intenzionato a schizzargli fuori dalla gola, un pensiero maligno gli suggerì che, forse, in casa non c’era nessuno e che si era sorbito tutta quella sfacchinata praticamente per nulla. Lo ignorò, stringendo i denti, e continuò a salire.
   Finalmente fu davanti alla porta che si apriva sul pianerottolo che, al posto delle pareti, aveva degli spessi pannelli di vetro, che offrivano un panorama mozzafiato sulla città e sul lago che brillava sotto la luce del sole, attraversato da imbarcazioni che, da quella posizione, parevano minuscoli e lenti modellini silenziosi. Suonò il campanello e se ne rimase fermo, cercando disperatamente di riprendere fiato.
   Quando Marion aprì la porta e se lo trovò di fronte, ansante e sudato, con le gambe che tremavano, ebbe per un momento paura che stesse avendo un qualche tipo di colpo; subito dopo, tuttavia, intuendo ciò che aveva fatto, scoppiò allegramente a ridere.
   «Jones! Non dirmi che te la sei fatta tutta a piedi!» riuscì a dire, tra le risate.
   L’archeologo non poté fare a meno di sorridere, nel vedere tutta quella gioia negli occhi della donna.
   «Di corsa» borbottò, cercando di mandare via la raucedine. «Di corsa, me la sono fatta…»
   «Hanno inventato apposta gli ascensori!» gli ricordò Marion, divertita. Subito dopo, gli saltò al collo abbracciandolo stretto. «È meraviglioso che tu sia qui! Non me l’aspettavo!»
   Quel contatto fece immediatamente scomparire la stanchezza dalle membra di Jones.
   «Io, invece, non aspettavo altro che di poterti rivedere» le confessò, affondando le mani nei suoi capelli ed immaginando di baciarla. Cosa che, effettivamente, su iniziativa di Marion, avvenne subito dopo.
   «Ma vieni, entra» gli disse poi lei, staccandosi dalle sue labbra. «Non restiamocene qui.»
   Presolo per la mano, gli fece strada nell’ampio salotto d’ingresso dell’appartamento, luminosissimo per via delle finestre che lo circondavano pressappoco su ogni lato. Jones ne restò quasi abbagliato, ma non fu sorpreso di notare di come l’arredamento fosse ultramoderno; al contrario di suo padre e dell’uomo di cui era sempre stata innamorata, infatti, Marion privilegiava uno stile moderno, tutto il contrario dell’antiquariato che piaceva a loro, con sempre un occhio di riguardo per il futuro e le innovazioni tecnologiche. Anche in questo, era una donna davvero capace di sorprenderlo sempre.
   «Vuoi bere qualcosa?» gli domandò mentre, con gentilezza, gli faceva cenno di sedersi sul divano in pelle bianca e rossa e gli appendeva giacca e cappello ad un elaboratissimo attaccapanni, in metallo grigio e costituito da lunghi tubi trasversali di varie misure e angolazioni, che si trovava accanto alla porta. Jones fantasticò per un momento su cosa avrebbe pensato, un archeologo del futuro, nel rinvenire sottoterra un oggetto del genere; probabilmente, sarebbe stata una grande fatica riuscire ad attribuirgli un uso sicuro e preciso e si divertì all’idea che ne sarebbero nate numerose dispute tra gli studiosi.
   «Qualcosa di fresco mi farebbe bene» borbottò poi, passandosi una mano sul collo madido di sudore. «Devo aver versato tutti i miei liquidi a salire per quella dannata scala.»
   «Allora ci penso io» rispose lei, andando verso la cucina. «Tu, intanto, se vuoi darti una rinfrescata, usa pure il bagno. È quella porta lì, immette nel corridoio, poi la prima che ti trovi di fronte è il bagno.»
   «Grazie» rispose Jones, alzandosi e seguendo le indicazioni che lei gli aveva dato.
   Si lavò mani e faccia e poi, mentre si asciugava alla meglio, gridò: «Il ragazzo non c’è?»
   «È di sotto, nel garage» urlò di rimando la voce di Marion, proveniente dalla cucina. «Deve sistemare delle motociclette. Sta dando i numeri, in questi giorni, al pensiero di non avere più la sua.»
   Jones sorrise. Si sentiva un po’ in colpa, per quella mancanza, sebbene quando fossero partiti per il Perù avesse più volte consigliato al ragazzo di lasciare la moto a Bedford, al sicuro nella sua rimessa, da dove avrebbe potuto riprenderla al loro ritorno. Solo che lui non ne aveva voluto proprio sapere.
   Risistemato l’asciugamano, uscì dal bagno e si guardò attorno. Sul corridoio si aprivano altre tre stanze, tutte con le porte chiuse. Su quella di fondo era stata appesa una targhetta che diceva: «Stanza di Mutt. Vietato l’ingresso alle persone non autorizzate.»
   Pur sentendo di far parte di quella schiera di “persone non autorizzate” - anzi, ritenendo, probabilmente a ragione, di essere proprio al primissimo posto della lista - Jones non riuscì a resistere alla tentazione di andare a dare una sbirciatina. Quindi, con il suo passo più leggero, si avvicinò alla porta ed abbassò la maniglia.
   La stanza era esattamente come se l’era immaginata: caotica e confusa, il letto sfatto, biancheria e abiti abbandonati sul pavimento, le pareti interamente ricoperte di poster che ritraevano icone del cinema degli ultimi anni come Marlon Brando, James Dean, Ava Gardner e Marilyn Monroe; vi erano pure alcuni ritratti di ragazze in abiti succinti o in bikini, quando non direttamente completamente svestite, che parevano essere stati estratti da qualche copia di Playboy. Accanto al letto, sopra un comodino, vi era però anche una fotografia che ritraeva Marion e Colin nel giorno del loro matrimonio e, accanto, un ritratto di Williams in uniforme, probabilmente gli unici ricordi che Mutt possedesse del suo genitore adottivo. Sopra uno scaffale, invece, individuò una collezione di fumetti sgualciti di Flash Gordon e di Superman, nonché alcuni di quei libri che, come il ragazzo stesso gli aveva raccontato, ora poteva scegliersi da solo: Cuore di tenebra di Conrad, Il richiamo della foresta di London, La città e la metropoli di Kerouac, Comus di Milton ed una raccolta di tutte le poesie di T. S. Eliot. Perlomeno, non poteva negare che suo figlio avesse buongusto, in fatto di letture, sebbene lo scocciasse un po’ che, tra tutti quei titoli, non ve ne fosse neppure mezzo che avesse in qualche maniera a che fare con la storia e, soprattutto, con l’archeologia. Un tavolinetto, invece, ospitava un piccolo giradischi, accanto al quale era impilata una nutrita torre di dischi a 45 giri, tutti di rock’n’roll.
   La sua ispezione fu breve e, subito dopo, uscì dalla camera e richiuse la porta. All’improvviso, però, ebbe voglia di vedere dove dormisse Marion. Era uscito da così tanto tempo dalla vita di quella persona che, adesso, sognava di poter recuperare quanto prima ogni possibile informazione su di lei.
   Si avvicinò alla seconda porta e la socchiuse, spiando all’interno. Capì immediatamente che, quella, doveva essere nata come stanza per gli ospiti - a questo, almeno, doveva servire il letto che vi si trovava nel mezzo - ma che doveva poi essere stata convertita a ripostiglio, visto che vi erano stipati secchi, scope, flaconi di detersivo nonché tutti i viveri che non avevano trovato posto in cucina. Non era quella la camera che stava cercando.
   Con un sospiro, raggiunse l’ultima porta, dal lato opposto rispetto a quella di Mutt, ed abbassò la maniglia per guardare dentro. La camera di Marion, al contrario del resto della casa, aveva un arredamento molto più retrò: un letto matrimoniale, un ampio armadio in legno di noce, un cassettone - il cui pianale era colmo di vasetti, lozioni e diverse boccette di profumo - dello stesso materiale ed uno specchio. La sua attenzione fu attratta da una fotografia in bianco e nero fissata nella cornice dorata dello specchio.
   Con mano tremante, l’afferrò e la studiò con attenzione. Era Marion, giovane e nuda. Come in un flash, si rivide mentre, con la stupidità di quell’epoca, la convinceva a spogliarsi sulla spiaggia deserta ed a mettersi in posa per lui. Non riusciva a credere che lei avesse conservato quell’istantanea e la guardasse ancora, eppure era proprio così.
   «Ero bella, vero?» mormorò la voce della donna alle sue spalle, facendole trasalire. Marion, non vedendolo più tornare dal bagno, lo aveva seguito in silenzio.
   Si voltò a guadarla, temendo che fosse arrabbiata per quella violazione, ma le sue paure scemarono non appena si fu reso conto che stava sorridendo, tanto con le labbra quanto con gli occhi.
   «Tu sei ancora bellissima, amore» le confessò. «La più bella donna che ci sia al mondo.»
   «Se lo dici tu» rispose lei. Gli prese la fotografia dalle mani e la rimirò. «Eppure, alle volte, provo un po’ di nostalgia per quella che ero e che non sarò mai più. Lo so che non bisogna compiangersi e che bisogna piacersi per come si è, ma se penso a che ragazzina che ero…»
   Aprì un portagioie sul cassettone e vi infilò la foto, poi gli disse: «Dai, vieni, avevo della Coca-Cola in frigo, sono certa che ti farà passare la sete.»
   Si avviò verso il salotto e Jones la seguì.


 

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Capitolo 26
*** Capitolo XXV - Padre e figlio ***


CAPITOLO XXV
PADRE E FIGLIO

   Trascorsero un lieto pomeriggio, chiacchierando del più e del meno e rivivendo insieme i ricordi della loro giovinezza. Parlarono parecchio dei loro primi incontri, emozionandosi al ricordo delle avventure che avevano vissuto in compagnia, degli scontri con i tedeschi e di quelli più recenti con i russi, e ridendo di tutti gli incidenti che erano riusciti a provocare con la loro irruenza. Invece, si dissero molto meno riguardo ai due decenni di separazione, che quasi non nominarono, se non quando Marion domandò informazioni su Sallah e Short Round. Sapeva, infatti, che Brody ed il padre di Indy, che lei aveva conosciuto, ormai non c’erano più, quindi preferì non nominarli.
   Sallah, le spiegò l’archeologo, era stato nominato curatore del Museo Egizio del Cairo; finalmente, dopo anni, le sue abilità e capacità erano state riconosciute e premiate. Era stato re Faruq in persona a conferirgli quell’incarico di prestigio e responsabilità, poi riconfermato dopo il colpo di stato che aveva portato alla formazione del governo militare di Nasser. Era anche direttore di molti scavi e si era più volte alacremente battuto per la conservazione dell’immenso patrimonio artistico e culturale egiziano, troppo spesso messo a rischio dall’incuria, ed attualmente stava conducendo indagini per provare ad individuare la tomba di Cleopatra e Marco Antonio.
   Shorty, invece, era divenuto assistente di un maestro d’arti marziali e, in qualche occasione, era stato inviato in Cina dal governo americano per controllare che cosa combinassero Mao ed i suoi accoliti; tuttavia, vivendo a stretto contatto con il dottor Jones, la sua prima passione erano rimaste le antichità, e non di rado intraprendeva qualche spericolato viaggio per cimentarsi in recuperi archeologici spesso abbastanza rocamboleschi. In questo, non era per nulla differente dal suo amico.
   «È sempre alla ricerca dell’Occhio del Pavone, il diamante» aggiunse Indy, con un sogghigno. «Io, ormai, ci ho quasi rinunciato, ma Shorty è fermamente convinto che, prima o dopo, riusciremo a trovarlo davvero. È proprio come me quando ero più giovane…» Quel pensiero ne fece nascere un altro nella mente dell’archeologo. «E il ragazzo?» domandò.
   Marion sospirò. «Ti è così difficile chiamarlo Mutt?»
   «Perché dovrei chiamarlo Mutt, se si chiama Henry? Al massimo, posso chiamarlo Junior…» si impuntò Jones.
   Marion alzò per un momento gli occhi al cielo, ma non volle fare alcun commento in proposito, perché sapeva che, tanto, sarebbe stato tutto fiato sprecato.
   «In ogni caso, dovrebbe arrivare tra poco» gli disse invece. «L’amministratore del condominio gli ha concesso di adoperare il garage come officina, ma solo fino ad una certa ora. E, naturalmente, non ha mancato di farmi sapere che sarebbe molto meglio se Mutt si aprisse una sua officina da qualche altra parte, in un luogo più consono.»
   «E perché non lo fa?»
   La donna sospirò nuovamente.
   «Sono io a non avere voluto» ammise, dopo un momento di incertezza. «Forse sbaglio, ma… cos’avrei dovuto fare? Io vorrei che, almeno, finisse gli studi e prendesse un diploma. Dopo di questo, potrà decidere di fare ciò che meglio crederà, no? Ma, prima, è necessario che porti a termine i suoi studi…»
   «Sono d’accordo» approvò Jones, seriamente. «La cosa fondamentale, per adesso, è il diploma. Per la laurea, ci penserà a suo tempo, nessuno ovviamente lo obbligherà a scegliere una facoltà piuttosto che un’altra, anche se non mi dispiacerebbe affatto che mio figlio seguisse le mie stesse orme, diventando archeologo.»
   Marion ridacchiò. «Dubito molto che Mutt riesca a sopportare ancora esami e studio, dopo aver conseguito il diploma.»
   Jones la studiò attentamente. Era accoccolata sul divano, con le gambe raccolte e i piedi nudi, così vicini alla sua gamba che gli sarebbe stato sufficiente spostare leggermente la mano per poterli toccare ed accarezzare. Resistendo a quella pazza tentazione, si limitò a borbottare: «Va be’, vedremo. Comunque, vorrei evitare di parlargliene proprio oggi… ho paura che potremmo metterci a litigare di nuovo…»
   «Non succederà» lo rassicurò Marion.
   In quel preciso istante, come se lo avessero evocato con quel loro discorso, sentirono girare la serratura della porta, che venne aperta da Mutt. Il ragazzo, con indosso una tuta da meccanico blu sporca di olio di motore, entrò in casa e non si accorse immediatamente dell’uomo seduto sul divano in compagnia di sua madre.
   «Ciao, ragazzo» lo salutò Jones.
   Il giovane si volse di scatto e parve veramente stupito di vederlo lì. Evidentemente, non aveva creduto neppure per un momento al fatto che Indiana Jones sarebbe ritornato da loro e doveva essersi già rassegnato all’idea di non rivedere mai più quel padre che era sbucato dal nulla.
   «Ciao, matusa» disse. «Allora, ce l’hai fatta a venire.»
   «Ho preso il treno, sì» replicò Indy.
   «Ti dispiacerebbe smettere di chiamarlo matusa?» lo imbeccò Marion. «Più che altro, perché fai sentire vecchia pure me, e grazie tante ma non ci tengo affatto!»
   «E come dovrei chiamarlo, secondo te?» sbottò seccamente Mutt, come se l’oggetto della loro conversazione non fosse lì a pochi centimetri ad ascoltare ogni singola parola.
   «Come pensi di doverlo chiamare?» si scaldò la donna. «È tuo padre!»
   Jones sollevò una mano in tono conciliatorio, cercando di riportare la pace prima che scoppiasse l’ennesimo litigio che, da quel che poteva intuire, in quella casa erano più frequenti dei pranzi in comune.
   «Non ti scaldare, Marion» la invitò. «E anche tu… Mutt… chiamami come meglio preferisci.»
   Il fatto che il vecchio, per una volta, avesse pronunciato il suo nome senza utilizzare un tono canzonatorio, fece immediatamente calmare il giovane; probabilmente, se si fosse ostinato ancora una volta a rivolgersi a lui con l’appellativo di “ragazzo”, si sarebbe davvero surriscaldato e sarebbe esploso. Ma non era riuscito a non cogliere un tocco di dolcezza, nella pronuncia di quel nome.
   «Va bene… papà» rispose di rimando. «Io devo andare a farmi una doccia, farò alla svelta. Tu che fai? Ti fermi a cena con noi?»
   Jones guardò per un momento Marion, che parve davvero imbarazzata per quella richiesta a cui, tutta presa dai racconti che lei e Indy si erano scambiati, non aveva posto alcun tipo di pensiero, quindi replicò: «Stasera non penso. Sai, è stato un bel viaggio, per arrivare fin qui dal Connecticut, e alla mia età ho bisogno di riposare… poi devo sistemare i bagagli in albergo… ma, se domani sera siete liberi, vi porto a cena fuori.»
   Marion si rilassò e Mutt annuì.
   «D’accordo, allora… io vado a lavarmi. Ma tu aspetta ancora un po’, prima di andartene, voglio venirti a salutare.»
   Non appena il ragazzo fu sparito in bagno, Marion appoggiò la mano sul dorso di quella di Indy.
   «Grazie davvero… mi hai risparmiato una figuraccia, perché avrei avuto da offriti solo gli avanzi di oggi.» Il suo sguardo si illuminò. «Comunque, hai sentito? Ti ha chiamato papà!»
   «L’ho sentito» annuì l’archeologo. «E mi ha veramente fatto molto piacere. Vedrai che, col tempo, riuscirà ad abituarsi… perché, ecco, io…»
   Si interruppe e la fissò negli occhi con un respiro profondo, non sapendo che altro aggiungere. Questo li aveva condotti ad una questione che, fino a quel momento, non avevano minimamente affrontato ma che, adesso, veniva fuori con un’intensità quasi esorbitante: quella del futuro. Cosa ne sarebbe stato di loro? Si sarebbero persi di vista oppure…? Entrambi sapevano che avrebbero dovuto parlarne, prima o poi, ma in questo istante non ci riuscirono proprio. Aprirono ambedue la bocca per provare a dire qualcosa di più, ma non riuscirono a modulare alcun suono e preferirono richiuderla, guardandosi in faccia con un sorrisetto imbarazzato.
   In verità, Indiana Jones aveva già riflettuto e sapeva perfettamente che cosa avrebbe voluto proporre a Marion. Tuttavia, si rese fin troppo bene conto che era molto più semplice gettarsi da un veicolo in corsa ad un altro, affrontando a mani nude schiere di uomini dell’Armata Rossa armati di mitragliatori, piuttosto che starsene comodamente seduto sopra un morbido divano e domandare alla donna che amava di unirsi a lui in matrimonio.
   Non seppero dire se la doccia di Mutt fosse stata velocissima o se, più semplicemente, fossero rimasti imbambolati a guardarsi negli occhi così a lungo da perdere la cognizione del tempo, sta di fatto che il ragazzo fece ritorno prima ancora che uno dei due avesse fatto anche un solo movimento, al punto che la mano di Marion era ancora appoggiata sopra quella di Indy.
   Vedendo suo figlio con i capelli spettinati e umidi e con indosso solamente un asciugamano legato in vita, Jones ghignò e ritrovò finalmente la favella.
   «Ti lascio pure il tempo per asciugarti e vestirti, se vuoi.»
   «Non importa» borbottò Mutt, sedendosi sopra una delle due poltrone che si trovavano obliquamente di fronte al divano e gettando un’occhiataccia storta alla mano di sua madre, che Marion pensò con prudenza di ritrarre il più in fretta possibile.
   Tanto per provare a fare conversazione, Jones disse: «Ho visto che hai dei bei libri, in camera. Hai buon gusto, in fatto di letture, dovresti proprio prestarmene qualcuno.»
   Mutt fulminò prima il padre poi la madre con lo sguardo.
   «Gli hai permesso di entrare in camera mia?!» sbottò, imbestialito.
   «Ha fatto tutto da solo!» si affrettò a spiegare Marion. «Io ero in cucina, a versargli da bere!»
   «Tua madre ha ragione» soggiunse Jones. «Sono io che non so mai stare fermo.»
   «E non sai neppure leggere» sbottò il giovane, freddamente, «perché altrimenti avresti visto che l’ingresso è espressamente vietato a chiunque non ne sia stato autorizzato. Il che significa, se proprio devo dirtelo, qualsiasi persona a parte me!»
   L’archeologo ammiccò compiaciuto ma, prima che avesse fatto in tempo a dire qualcosa, Mutt aggiunse: «Ora immagino che vorrai farmi un predicozzo dei tuoi dicendomi che non devo tenere tutte quelle fotografie sconce alle pareti e cose del genere, dico bene?»
   «No, no» si affrettò a rispondere suo padre. «Al contrario. Anzi, a dirla tutta, ti invidio molto: magari, ai miei tempi, fossero stati in circolazione poster del genere! Pensa che, se volevo riuscire ad appendere in camera mia la fotografia di una ragazza nuda, dovevo prima chiederle di posare per me. E nessuna ha mai accettato… tranne una. Solo che, poi, la foto se l’è tenuta tutta per sé.» Senza che il giovane se ne accorgesse, fece un rapido occhiolino a Marion, che fu costretta a portarsi una mano davanti alla bocca per poter soffocare una risata.
   Il ragazzo, invece, parve profondamente turbato da quell’esternazione, perché si affrettò a cambiare discorso.
   «In ogni caso, se vuoi leggere uno di quei libri, te lo presto volentieri. Non quelli di poesia, però, perché sono di Ox, me li ha dati tempo fa e continuo a dimenticarmi di restituirglieli, nonostante i suoi solleciti siano abbastanza insistenti.»
   «Oh, non importa, preferisco leggere opere in prosa» ammise Jones.
   «E tu, papà, hai mai scritto qualche libro?» chiese ancora il giovane.
   L’archeologo e Marion si scambiarono un’occhiata.
   «Io? No! Perché me lo chiedi?»
   Mutt scrollò le spalle. «Così. So che, in genere, i professoroni come te passano le loro giornate a scrivere volumi lunghissimi che poi solamente i loro studenti leggono, essendone praticamente costretti.»
   Jones fece una risata. «No, non ho mai avuto né il tempo né, tantomeno, la voglia di sedermi ad una scrivania a riempire fogli e fogli di frasi lunghissime e grammaticalmente corrette. Ci ho provato, una volta, ma dopo aver raccolto un po’ di informazioni mi sono arreso, non sapendo neppure come cominciare. Non ho la minima idea di come si faccia a scrivere un libro, in verità, mi è sempre parsa un’impresa epica e titanica, e mi viene il mal di mano al solo pensiero di maneggiare una penna per tutte quelle ore. A lezione uso il buon vecchio Michaelson, che non delude mai.» Fece una breve pausa, poi riprese: «Lo scrittore era mio padre… tuo nonno. Lui sì, che ne ha scritti parecchi. Titoli come La Cerca di Galvano e Analisi critica del Medioevo europeo, oppure Vite di Santi nelle leggende popolari medievali e Il ciclo bretone e la realtà storica del XII Secolo o, ancora, La ricerca del Santo Graal, per non parlare di una pesantissima e davvero lagnosa Storia completa delle Crociate in cinque volumi, oltre che un’illeggibile Guida alle armi del Medioevo. Questi sono solo alcuni di quelli che mi vengono in mente adesso, a casa ho la raccolta completa di tutte le sue opere ma, ad essere sincero… non sono mai riuscito a leggerne nemmeno una per intero, a parte gli ultimi due, che sono dei romanzi. Quelli li ho trovati divertenti pure io, anche se a tratti decisamente esagerati e con passaggi fin troppo filosofeggiati. Sono Il viaggio del signor Henry e di suo figlio alla scoperta del Santo Graal ed il suo seguito, Il viaggio del signor Henry e di suo figlio alla scoperta della Lancia del Destino. Avrebbe voluto scriverne un terzo, intitolato Il viaggio del signor Henry e di suo figlio alla scoperta di Excalibur, il materiale lo aveva tutto, ma gliene è mancato il tempo.» Si interruppe, strinse le labbra, sollevò le sopracciglia e fece un gesto con la mano, come a dire “così è la vita”.
   «Mi farebbe piacere leggerli, questi ultimi due» ammise Marion.
   «Anche a me» mormorò il ragazzo, con una nota di tristezza nella voce. «Non ho mai avuto né un nonno né una nonna, e magari questo potrebbe essere il modo per poter finalmente fare la conoscenza con uno di loro.»
   Jones distolse lo sguardo, sentendosi una volta di più colpevole. Non solo aveva impedito al piccolo Mutt di poter sedere sulle ginocchia di un anziano nonno ed ascoltarne i racconti, ma aveva anche fatto sì che suo padre se ne andasse per sempre con il rimpianto di non aver avuto nipotini da quell’unico e scriteriato figlio che, in vita sua, gli aveva procurato più dolori che altro. Con un rimpianto, rivide nella propria mente un ricordo che non avrebbe voluto evocare, ma che, invece, tornò fulgido e vivo come se appartenesse al giorno prima, quello dell’ultimo Natale che lui e suo padre avevano trascorso insieme.

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Capitolo 27
*** Capitolo XXVI - Natale ‘50 ***


CAPITOLO XXVI
NATALE ‘50
Ferndale, New York

   Durante la notte aveva nevicato copiosamente e, al mattino, l’intera città era ricoperta da un candido e quasi etereo manto, che aveva trasformato tutte le cose, uniformandole e rendendole compatte; il cielo grigio e l’aria gelida, inoltre, sembravano preannunciare nuove ed abbondanti nevicate, che si sarebbero quasi certamente fatte vive prima del pomeriggio. I suoni erano smorzati, ma le campane squillanti diffusero ugualmente nell’aria il loro suono al termine della messa.
   Uscendo dalla chiesa del quartiere insieme all’amico Marcus, che era arrivato da qualche giorno per poter trascorrere in compagnia le festività natalizie, il professor Henry Jones respirò a fondo l’aria fredda di fine dicembre, prima di sollevarsi il bavero del cappotto davanti alla bocca. Incespicò per un momento sui gradini, inumiditi dalla neve disciolta dal passaggio dei fedeli, ma si aggrappò al braccio di Brody e fece presa sul suo bastone da passeggio per evitare di perdere l’equilibrio.
   Nonostante fosse Natale, si sentiva estremamente malinconico. Non a causa della vecchiaia sempre più incipiente, che da qualche mese a quella parte lo aveva anche costretto a camminare con l’aiuto di quel bastone dall’impugnatura d’ottone a forma di testa d’anatra, un oggetto senza dubbio elegante ma di cui avrebbe fatto volentieri a meno; non era invecchiare, il problema, perché era parte naturale della vita e, ormai, cominciava a sentirsi sufficientemente stanco per non desiderare di restare ancora troppo a lungo in questo mondo che cambiava fin troppo alla svelta e che stava diventando troppo brutto per lui. Era terminata da pochi anni una guerra terribile, ma dentro di sé temeva che ne sarebbe potuta scoppiare un’altra, anche peggiore, da un momento all’altro, a causa di quei maledetti comunisti senza Dio che, per parte sua, odiava fin nel profondo, e non voleva vederne con i propri occhi le catastrofiche conseguenze. Ma non era neppure questo a farlo sentire a disagio, in quel momento.
   Ciò che rattristava il suo vecchio cuore, semmai, era l’ennesima assenza del figlio. Era quasi un anno che non lo vedeva - quel giramondo non era quasi mai a casa, l’ultima volta che lo aveva sentito era stato quando gli aveva comunicato di aver ricevuto una medaglia dal Presidente per la sua lotta contro i comunisti e di essere in procinto di partire per la Cina per chissà quale tipo di lavoro - e ne sentiva profondamente la mancanza. Ormai, i suoi rapporti con Junior erano tornati buoni, quelli che dovrebbero sempre esistere tra un genitore e un figlio, ma non per questo si vedevano abitualmente. Il fatto era che Junior si sentiva sempre giovane e, di conseguenza, pensava che anche per gli altri fosse lo stesso; suo figlio non prendeva minimamente in considerazione l’idea che, i giorni del vecchio Jones, stessero diminuendo con rapidità e fossero ormai prossimi al tramonto. Così, credendo che avrebbero avuto sempre tutto il tempo del mondo per restare insieme, continuava a mantenersi distante, troppo impegnato nelle sue avventure o con le sue amanti per fare visita a suo padre.
   Un altro pensiero che turbava grandemente Henry era il fatto che Junior non avesse mai messo la testa sufficientemente a posto per crearsi una famiglia; eppure lui glielo aveva ripetuto mille volte, così come pure gli aveva fatto comprendere che sarebbe stato più che felice di diventare nonno di un nipotino o di una nipotina. C’era stata una volta - quando ancora era in corso la ricerca del Graal e le rare volte che si incontravano si parlavano quasi a monosillabi - in cui era sembrato che Junior si sarebbe sposato con quella ragazzina dall’aria dolce ed allo stesso tempo sveglia; ma, poi, non se n’era più fatto nulla. E quando Senior provava ad accennargli qualcosa sul fatto di sposarsi e mettere su famiglia, Junior - dimenticando in un battito di ciglia le sue solite convinzioni inerenti l’infinitezza della propria esistenza - gli rispondeva che la vita era troppo corta per sprecarla dietro le sottane di una sola donna.
   «Henry, tutto bene?» gli domandò Marcus, preoccupato, avendolo sentito prima inciampare e, poi, esitare.
   «Sì, sì, è tutto a posto» rispose lui, muovendo un passo in avanti. «Sono solo le gambe che provano a giocarmi brutti scherzi. È sempre così, quando c’è questo freddo. Non vedo l’ora che sia di nuovo primavera…»
   Brody sorrise e, sempre tenendolo sottobraccio, lo aiutò ad andare avanti, avanzando verso casa. Sapeva che il suo vecchio amico aveva il fisico piuttosto malandato - non che lui stesso fosse messo molto meglio: gli ultimi esami medici erano stati abbastanza disastrosi, ma aveva facilmente ovviato al problema gettando la cartella clinica nel caminetto acceso e non rivolgendovi più alcun pensiero - ma era anche consapevole che a turbarlo era soprattutto l’assenza di Indy. Quando era partito da Bedford per raggiungere Ferndale, una settimana prima, non era riuscito a parlargli, perché non lo aveva trovato né in ufficio né in casa; e alla segreteria dell’Università, tanto per cambiare, non erano stati in grado di dirgli dove si trovasse.
   «Ho una fame da lupi» gli comunicò, tanto per fare un po’ di conversazione, «e non vedo l’ora di mettermi a tavola.»
   «Ho chiesto a Seona di preparare un pranzo di Natale nella migliore delle tradizioni scozzesi» rispose Henry, riferendosi alla sua cuoca, che aveva assunto facendola venire apposta dalla Scozia. «Spero che il tuo stomaco sia ancora forte come un tempo, Marcus, o ti ci vorrà ben più di un bicchierino di whisky per riuscire a digerire.»
   «Non ti preoccupare, vecchio mio» replicò l’altro. «Lo stomaco, per il momento, mi funziona ancora.»
   Si fermarono per un momento, guardandosi negli occhi. Entrambi erano rimasti con ben pochi capelli in testa - e, se non avessero avuto il cappello per ripararsi dal freddo, si sarebbe potuto benissimo vedere che quei pochi erano candidi come la neve che li circondava, esattamente come la barba di Henry - ed i loro volti erano solcati da rughe profonde che denotavano chiaramente la loro età. Gli acciacchi erano così numerosi da essere un pane quotidiano e i giorni, ogni anno, in cui si sentivano benissimo si potevano contare sul palmo di una mano. Erano diventati vecchi e lo sapevano. Ma non dissero nulla, al riguardo, e dopo essersi studiati per qualche secondo in silenzio, ripresero a camminare, attenti a non scivolare sulla neve che copriva il marciapiedi e che nessuno aveva ancora provveduto a spalare.
   Finalmente, pur avanzando con passo lento e irregolare, furono davanti alla casa di Henry, al numero 25 di Pine Road, dove il professore si era trasferito a vivere tanti anni prima, quando aveva lasciato definitivamente Princeton. Il prato delimitato dalla staccionata bianca era ricoperto di neve ancora intatta, così come i rami degli alberi, alcuni dei quali spogli; ed essendo la casa a sua volta dipinta di bianco, l’unica nota di colore era data dal fumo nero che si dipartiva in lente spirali da uno dei comignoli.
   «Non vedo l’ora di sedermi davanti al fuoco» rabbrividì Marcus. «Ho i piedi che sembrano due pezzi di ghiaccio.»
   «A chi lo dici» gli fece eco Henry.
   Percorsero il vialetto e passarono sotto la veranda ma, quando suonarono il campanello, ad aprire la porta non fu la domestica, bensì…
   «Junior!» esclamò Senior, nel vedersi comparire di fronte la figura del figlio. I suoi occhi stanchi sembrarono palpitare ed emanare scintille da dietro le lenti degli occhiali per l’emozione che gli aveva cagionato quell’incontro a lungo sognato ma tanto inaspettato.
   Indiana Jones sorrise.
   «Buon Natale, papà» disse. «Ed anche a te, Marcus. Sono riuscito a liberarmi in tempo ed ho pensato di fare una capatina. Ho visto che c’è da mangiare a sufficienza per sfamare un reggimento, quindi non credo proprio che la mia improvvisata possa mettervi in imbarazzo…»
   Il padre, commosso, sembrò sul punto di volerlo abbracciare. Poi, però, rammentandosi di essere il più temuto professore di Letteratura medievale che avesse mai messo piede in tutti gli Stati Uniti, si dette un contegno e si limitò a distendere la mano per scambiarsi una stretta.
   «Buon Natale anche a te, Junior» rispose. «È meraviglioso vederti. Ma entriamo, non restiamo qui sulla soglia a prendere tutto questo freddo.»
   Indy si scansò per lasciarli passare e osservò i due vecchi aiutarsi a sfilarsi a vicenda i cappotti.
   «Lascia, dai a me» disse gentilmente Marcus, prendendo il cappotto ed il cappello di Henry ed appendendoli con i propri all’attaccapanni accanto all’ingresso. Poi, entrambi presero posto su due comodissime poltrone davanti al caminetto scoppiettante, allungando i piedi infreddoliti verso le fiamme, mentre a Junior non restò che sedersi sopra una sedia in mezzo al loro. Nella stanza, la tavola era già stata apparecchiata e decorata con una tovaglia a motivi scozzesi, come voleva la tradizione, e dalla cucina proveniva un invitante profumo che fece contrarre lo stomaco a tutti.
   «Allora, Junior, ti trovo in forma» disse Henry, pulendo con un fazzoletto gli occhiali che si erano appannati. «Ma mi dispiace che tu abbia tagliato la barba. Ti donava molto e, inoltre, portarla è una tradizione di famiglia, dovresti saperlo.»
   Indy gettò una fuggevole occhiata al dipinto ad olio appeso sopra il caminetto, ritraente l’ammiraglio scozzese Walton Jones IV, suo nonno - che, nella primissima gioventù, aveva gloriosamente combattuto nelle file dell’esercito britannico per sedare l’ammutinamento indiano del 1857 - il quale sfoggiava, oltre ad un’aria austera e severa, una candida barba lunga fino al petto, quindi borbottò: «Mi infastidiva parecchio e mi faceva prurito alle guance. Ho preferito disfarmene, alla fine.» Non disse che, in realtà, se l’era tagliata solamente perché, ogni volta che si guardava in uno specchio, gli pareva di vedere proprio suo padre.
   «Ho capito» disse Henry, senza aggiungere altro.
   «Sono contento che tu sia qui» intervenne Marcus, «temevo che fossi impegnato in qualche missione attorno al mondo e non riuscissi a venire.»
   «Come vi ho detto, mi sono sbarazzato di tutti gli impegni che mi affliggevano» replicò Indy. «Sono stato in Cina con Shorty e Mac, abbiamo scavato sotto una montagna per svelare i misteri della tomba di Xu Fu, l’uomo che il primo imperatore cinese inviò alla ricerca delle leggendaria Penglai. E quella dannata tomba ci ha riservato più grane e rogne di quanto possiate immaginare…»
   «È sempre così» constatò Marcus.
   «Ma spero che, adesso, ti fermerai per un po’» aggiunse Henry.
   «Oh, sì, per un po’ sarò in pausa, che mi piaccia o no» confermò Junior che, però, mancò di dire che ultimamente i lavori scarseggiavano, come se il mondo fosse divenuto all’improvviso un luogo fin troppo piccolo e conosciuto, sempre più privo di antichi enigmi da svelare. E, dentro di sé, Indiana Jones cominciava a temere che, molto presto, si sarebbe dovuto accontentare di essere niente altro che un anziano professore di archeologia, più prossimo che mai ad un pensionamento in cui lo avrebbe atteso una fredda vecchiaia come quella ben rappresentata dai due uomini che gli sedevano ai fianchi, relitti morenti di un’epoca tramontata. Gli sarebbe piaciuto negare a se stesso questa verità, ma non poteva non notare i capelli sempre più grigi che gli coronavano il capo, come un monito crescente; eppure, non l’accettava e continuava a considerarsi giovane, in ogni senso.
   «Potresti approfittarne per cominciare a guardarti attorno» suggerì Henry.
   «Guardarmi attorno?» ripeté Indy, senza capire a cosa stesse alludendo.
   «Sì, per trovarti una bella compagna da sposare.» A quelle parole, Junior alzò gli occhi al cielo e sbuffò, ma suo padre continuò, imperterrito: «Non è ancora troppo tardi per costruirti una famiglia, ragazzo. Non sei così vecchio e…»
   «Lo so bene, che non sono vecchio!» replicò l’altro, quasi offeso. Aveva trascorso l’intera vigilia di Natale con una bellissima ed atletica insegnante di educazione fisica del liceo, e lei gli aveva più che confermato che lui era tutto fuorché vecchio. Non c’era certo necessità che intervenisse suo padre, a ricordarglielo!
   «E, allora, datti da fare!» insistette Henry. «Non lasciare che tutto finisca con te… ora non te ne rendi ancora conto, d’accordo, ma tra qualche anno potresti amaramente pentirtene!»
   Per l’ennesima volta, Junior ebbe la tentazione di alzare la voce con suo padre; chissà perché, anche se si erano ormai riappacificati da tempo, finivano sempre ugualmente per litigare. Però, si fece forza, ricordandosi che fosse il giorno di Natale e che era andato lì per stare in tranquillità, non per discutere. Gli sarebbe stato sufficiente sopportare ancora per qualche ora quei discorsi assillanti ed inquisitori, poi non si sarebbero rivisti per altri cinque o sei mesi.
   «Hai ragione» si sforzò di dire e annuendo per compiacerlo. «Sì, hai perfettamente ragione. Cercherò di… riuscirci.»
   «Bravo, ragazzo» si complimentò Henry, pur sapendo perfettamente che il figlio non avrebbe fatto proprio alcunché.
   In ogni caso, per il resto della giornata, non parlarono più del futuro, ma trascorsero un buon Natale, gustando i manicaretti preparati da Seona e discorrendo del più e del meno, dai problemi del mondo alle loro imprese del passato. Infine, a sera, venne il momento di separarsi.
   «Sei proprio sicuro di non volerti fermare un altro po’?» domandò Henry. «Di camere per gli ospiti ne ho due e ti potrei far preparare quella libera…»
   «Mi dispiace, ma non posso» rispose Indy, infilando il lungo cappotto grigio. «Ho del lavoro in arretrato, in Università, e non posso caricare tutto sulle spalle della mia segretaria, non in questo periodo.» In verità, il lavoro arretrato consisteva proprio nel far fare straordinari non previsti alla segretaria, ed a giudicare dallo sguardo di Henry, il vecchio lo sapeva benissimo. Junior si coprì il capo col cappello. «Arrivederci, papà, e buon anno. Passa un buon Capodanno con Marcus. Io cercherò di tornare a trovarti il prima possibile.»
   Henry gli afferrò la mano e gliela strinse forte, cercando di mettere in quella stretta molto più di quanto le parole avrebbero potuto comunicare. «Buon anno anche a te, Junior. E, mi raccomando, torna a trovarmi. Ci conto tanto!»
   Junior annuì, poi si incamminò nella notte, sotto la neve che aveva ripreso a scendere fittamente già da alcune ore. Senior rimase a lungo a guardarlo dalla soglia, le lacrime agli occhi, chiedendosi quando suo figlio avrebbe davvero capito l’importanza di avere una famiglia e qualcuno su cui poter contare. Ma quella domanda non avrebbe mai trovato una risposta, né si sarebbero mai più incontrati, nonostante tutte le speranza che animavano la mente del vecchio.

   Poco più di un mese più tardi, ai primi di febbraio, Indiana Jones ricevette una telefonata dalla domestica di suo padre, che lo avvisava che Henry, rientrando dalla biblioteca, aveva perso l’equilibrio sulla porta di casa ed era caduto. Era stato ricoverato in ospedale ed aveva insistentemente chiesto di poter vedere il figlio.
   Ma Jones aveva frainteso. Non aveva dato alcuna importanza ad una semplice caduta, con tutte le botte che aveva sempre preso lui. Aveva risposto senza troppa convinzione alla domestica, quindi, che sarebbe arrivato quanto prima, poi era tornato ad occuparsi di una giovanissima studentessa - che avrebbe potuto benissimo essere sua figlia, avendo solo vent’anni - che era la sua amante della settimana.
   Solo dopo quattro o cinque giorni, quando si era infine stancato di quella ragazzina, aveva deciso di fare una capatina dalle parti di New York per vedere come stesse suo padre, ma quando era arrivato aveva scoperto che il vecchio era appena spirato. Sconvolto da quella rivelazione, non aveva voluto crederci, ma aveva dovuto farci i conti quando aveva visto suo padre, freddo e sereno, più elegante che mai nel suo abito scuro, disteso in una cassa da morto, già vegliato dall’onnipresente Marcus, che piangeva in silenzio in un angolo della camera mortuaria.
   E, dopo il funerale, sulla tomba che ne aveva accolto per sempre i resti, a Princeton, accanto a quella dell’amata e troppo presto perduta consorte, Jones aveva promesso al suo defunto genitore che avrebbe smesso, con quella vita. Basta amanti, basta avventure di una notte, basta ragazzine da istruire ai piaceri della carne. Da quel momento in avanti, si sarebbe dato un contegno, pur consapevole che non avrebbe mai e poi mai potuto pensare di costruire una famiglia.
   Si era portato a casa tutti i libri di suo padre, nonché il bastone che aveva utilizzato per camminare negli ultimi mesi di vita, ripromettendosi che, quando fosse stato necessario, lo avrebbe utilizzato pure lui, ed aveva posato una sua fotografia sulla scrivania, per poterlo vedere di continuo.
   Ma il dolore per non aver dato a suo padre il conforto di incontrarlo nei suoi ultimi istanti di vita continuò a gravargli addosso molto a lungo, e ad alleviarlo non bastò neppure la vicinanza di Marcus Brody, ormai rimasto l’unico vero legame con il suo passato. E, infine, quando un anno e mezzo più tardi anche Marcus se ne andò per sempre, si sentì sconvolgere e gli parve di essere davvero divenuto vecchio, di dover infine accettare di non essere più l’eterno giovane che aveva sempre pensato di essere.
   Da quel momento, la sua vita mutò. Certo, di quando in quando partiva ancora per qualche avventura in luoghi lontani o spiava i comunisti insieme a Mac per conto del generale Eaton, ma sempre più di rado. Era più facile vederlo seduto nel suo studio, a studiare, piuttosto che indaffarato con frusta e cappello per recuperare qualche antico manufatto.
   E, dentro di sé, aveva finito col convincersi che quello sarebbe stato il futuro e che non sarebbe mai più ritornato l’uomo che era stato un tempo.

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Capitolo 28
*** Capitolo XXVII - Cena per tre ***


CAPITOLO XXVII
CENA PER TRE

   Ma adesso, a cinque anni di distanza, si stava ricredendo. Aver ritrovato Marion ed aver scoperto di essere padre lo aveva come fatto rinascere, cancellandogli dalla coscienza quegli ultimi vent’anni. In qualche maniera cominciava a sentirsi persino in pace con se stesso e con Senior, anche se sentiva che mancava un ultimo e fondamentale tassello per riuscirci davvero. Perché essere nuovamente in contatto con Marion non sarebbe bastato, ora avrebbe dovuto fare un passo in più per dimostrarle di amarla davvero, un passo che avrebbe richiesto tutto il suo coraggio.
   Trascorse il giorno seguente a gironzolare per Chicago, senza una vera e propria meta; preferì non tornare a visitare l’Università, perché non voleva correre il rischio di risvegliare ricordi del passato proprio adesso che ciò di cui gli importava maggiormente era tutto davanti a lui, però trovò una libreria aperta e vi si cacciò dentro, senza sapere bene che cosa stesse cercando. Era un negozio dal pavimento a scacchi bianchi e neri ricoperto da file e file di interminabili scaffali colmi all’inverosimile di libri nuovi ed usati; ci si sarebbe potuti perdere per ore, lì dentro, senza nulla da cercare ma sicuri che, alla fine, ne si sarebbe fuoriusciti stringendo tra le mani almeno un tesoro.
   Colto da un’improvvisa intuizione, si avvicinò allo scaffale in cui erano riposti gli autori che iniziavano per “J” e fece scorrere il dito sui dorsi dei libri, finché trovò ciò che stava cercando, uno dei due romanzi di suo padre. In verità, non si aspettava davvero di trovarlo, ma ne fu felice e, dopo averlo rapidamente sfogliato, lo portò alla cassa e lo pagò due dollari. Spiegò al commesso - un vecchio dalle folte sopracciglia grigie - che gli sarebbe piaciuto leggere anche l’altro romanzo dello stesso autore, ma che non era riuscito a trovarlo.
   Dimostrando una professionalità degna di nota, il libraio trasse da sotto il banco un immenso registro in cui, a quel che pareva, aveva segnato tutte le copie dei libri presenti in negozio; constatato che non c’era ciò che l’archeologo stava cercando, gli domandò di pazientare cinque minuti e, afferrata la cornetta, fece un giro di telefonate. Alla fine, gli comunicò che il libro che cercava si trovava in un’altra libreria, di cui gli fornì l’indirizzo e le indicazioni necessarie per riuscire a raggiungerla.
   Jones lo ringraziò calorosamente, lasciandogli una banconota da cinque dollari per il disturbo, e si avviò. Così, nel pomeriggio, quando tornò in albergo a darsi una rinfrescata e a cambiarsi d’abito, aveva sotto braccio un pacchetto con entrambi i libri scritti da Senior, ovviamente per poterli regalare a Junior.
   Finalmente pronto per la serata, fece arrivare un taxi e passò a prendere Marion e il ragazzo a casa. Lei aveva indossato un abito da sera azzurro, senza maniche, che si sposava perfettamente con il colore dei suoi occhi, mentre Mutt non aveva mutato di una sola virgola il proprio solito abbigliamento.
   «Allora, dove ci porti di bello?» chiese Marion, sedendosi accanto a lui sul sedile posteriore e sporgendosi per depositargli un rapido bacetto sulla guancia, mentre il ragazzo preferì accomodarsi su quello anteriore.
   «Avevo pensato ad un sacco di ristoranti di lusso» spiegò Jones, che ghignò nel vedere la faccia disgustata del figlio riflettersi nello specchietto retrovisore, «ma poi mi è venuto in mente che, magari, avreste preferito una bella pizza.»
   Dopo di questo, non aggiunse null’altro, lasciando che il tassista li conducesse fino al luogo che già gli aveva comunicato. Quando l’auto si fermò davanti alla veranda fiorita di Gino’s, Marion parve un po’ perplessa di fronte a quel luogo, mentre Mutt sorrise di soddisfazione: in qualche maniera, il matusa era riuscito a trovare un ristorantino che, per una strana casualità, pareva essere stato trasportato a Chicago da qualche cittadina di provincia dell’Italia, dove certo non ci sarebbe stato bisogno di quei modi raffinati e di quelle cerimonie stucchevoli che bisognava sempre osservare in quei postacci di lusso che lui odiava tanto.
   Smontarono dall’auto e si avvicinarono all’ingresso del locale, passando sotto il pergolato circondato da piante in vaso e sul quale si era abbarbicato un vecchio glicine - Jones ricordava che era già lì quando lui frequentava la pizzeria, in gioventù - i cui grappoli di fiori violetti e profumati pendevano verso terra, diffondendo un aroma soave.
   «Questo è un posto speciale e mi sorprende che voi non lo conosciate» spiegò Indy. «Io, Ox e…» non riuscì a pronunciare il nome di René Belloq, «…venivamo sempre qui a mangiare, il martedì sera. Era la nostra immancabile tradizione dei tempi dell’Università.»
   «Ox non ne ha mai parlato» spiegò Marion, annusando il profumo delicato del glicine che si spandeva nell’aria tiepida. «Ma, a dire il vero, non ha proprio più parlato di te da… insomma, non lo ha fatto per tantissimi anni.»
   Jones preferì non ribattere e spalancò la porta a vetri, tenendola aperta per farli passare. Ad accoglierli, per prima cosa, furono il profumo della pizza ed il tepore del forno a legna; poi, immancabilmente, anche i ricordi cominciarono a farsi avanti, a confluire vorticosamente nella memoria, ma l’archeologo fu lesto a relegarli di nuovo nel loro angolino. Con un po’ di commozione, si guardò attorno.
   In tre decenni e oltre, la pizzeria non era cambiata più di tanto. C’erano sempre le stesse tovaglie a quadri bianchi e rossi sopra i tavolini, identiche alle tende che ornavano le finestre; e, alle pareti, erano sempre appese stampe a colori raffiguranti le maschere della Commedia dell’Arte, da Arlecchino a Pulcinella, da Pantalone a Brighella, senza naturalmente dimenticare Gioppino, Re Gnocco, il Capitano, Stenterello, Pierrot e così via. La novità più evidente era, invece, una gigantografia in bianco e nero del Vesuvio che, a giudicare dal pennacchio di fumo che si levava dalla cima e dalla colonna di mezzi militari che vi si dirigeva, doveva essere stata scattata durante l’ultima guerra, prima dell’eruzione.
   Un cameriere fu lesto a muovere loro incontro e, senza perdersi in troppe moine, li fece accomodare ad uno dei tavolini. Portò loro tre menù e si era appena allontanato quando, attraverso il locale, risuonò una squillante voce femminile.
   «Indiana Jones! Che sorpresa!»
   All’unisono, Jones, Marion e Mutt si volsero verso la robusta donna di mezza età dall’aria gioviale e dal viso dolce che era appena emersa dalla porta della cucina e che stava muovendo loro incontro ad ampie falcate, pulendosi le mani sul grembiule che portava legato in vita. All’archeologo non servì che un istante per riconoscerla.
   «Audrey!» disse, saltando in piedi. «Quanto tempo!»
   Con l’irruenza che aveva ereditato dai genitori, la donna lo baciò su entrambe le guance, prima di fare un ampio sorriso. «Che piacere rivederti!» urlò, con voce così alta che, probabilmente, la poterono udire fin sulla sponda opposta del lago Michigan. Poi, voltatasi verso Marion e Mutt, disse: «Buongiorno, signora, io sono Audrey! Ero amica di suo marito, quando era ancora studente qui!»
   Marion si alzò, ricambiando il sorriso e senza provare a smentire quel suo legame con Indy. Mormorando il proprio nome, allungò la mano per stringerla alla cuoca, ma lei non glielo permise, dato che le si avvicinò con la velocità di un fulmine e baciò pure lei sulle guance. Mutt, prudentemente, pensò bene di rimanere seduto.
   «Allora, vi godete una bella serata in famiglia, eh?» strepitò Audrey.
   «Be’, sì, loro sono…» cominciò a dire Jones, ma la vecchia amica non lo lasciò continuare, gridando: «Devo proprio presentarvi a mio marito! Checco! Checco! Checco, muoviti!»
   Dalla stessa porta da cui era emersa lei, si affacciò un omone rubizzo, con folti baffi che gli coprivano interamente la bocca e dai capelli così neri e lucidi che dovevano essere tinti; non era molto alto, ma il suo ventre era così prominente, sotto il bianco grembiule macchiato di olio e di pomodoro, che anche un tipo alto come l’archeologo avrebbe senza dubbio faticato ad abbracciarlo completamente.
   «Che c’è?!» schiamazzò l’uomo, pulendosi sui pantaloni le mani piene di farina bagnata.
   «Non fare il musone e vieni qui, muoviti!» gridò Audrey in risposta.
   Con lo stesso passo rapido ed ampio della moglie, l’uomo si avvicinò, sfoggiando un ampio sorriso sul volto perfettamente rasato, non fosse stato per quegli enormi baffi.
   «Buonasera» salutò con cordialità.
   «Non limitarti alle buonasere, Checco!» lo sgridò Audrey. «Questi sono il mio vecchio amico Indiana Jones e la sua famiglia!»
   Il volto dell’uomo si illuminò.
   «Jones?!» ripeté, sbalordito. «Quell’Indiana Jones?! Il colonnello Jones?!»
   L’archeologo ammiccò. «Colonnello a riposo, però.»
   «È un grande onore per me conoscerla, colonnello!» urlò l’uomo, afferrandogli la mano e scrollandogliela più e più volte. Poi, ricordando i vecchi metodi, lo lasciò andare e scattò sull’attenti, sporgendo in avanti la panciona traballante e portandosi la mano alla fronte in segno di saluto. «Caporale Francesco Craparo, Quinta Armata, al suo servizio, colonnello! In pace, preparati per la guerra
   Jones, per un momento, restò basito. Poi, però, sorridendo, disse: «Riposo, caporale. E mi chiami pure Indy.»
   L’uomo, con un moto di sollievo, rilassò lo stomaco, rispondendo: «E lei mi chiami pure Checco, colonnello Indy.»
   «Lei è italiano, signor Checco?» domandò Marion.
   «Io e Checco siamo nati qui, in America» spiegò Audrey. «Ma i nostri genitori emigrarono tanti anni fa dall’Italia in cerca di lavoro.»
   «È stato Gino, il padre di Audrey, ad aprire questa pizzeria» soggiunse Jones. «Dico bene?»
   «Dici bene» confermò Audrey, sempre con quel suo tono di voce da far vibrare i vetri alle finestre. «Lui e mamma l’hanno gestita finché sono riusciti a reggere il vassoio. Poi, l’hanno passata a me e Checco, dopo il nostro matrimonio.»
   «Ci siamo sposati prima che mi spedissero a combattere in Europa» aggiunse Checco, deciso a parlare ancora più forte della consorte. «Speravo che mi mandassero ad Agrigento, dove nacquero i miei, invece niente. Però, ho fatto lo sbarco di Salerno e quella» accennò col capo alla grande fotografia del Vesuvio «l’ho scattata io stesso, nel ‘43, quando abbiamo cominciato a salire verso Nord. A quell’epoca ero un po’ più filiforme!» terminò con una risata, dandosi una manata sull’ampio ventre.
   «Ma non disturbiamo troppo i nostri ospiti!» strepitò Audrey. «Lasciamoli un po’ in pace, via! Prendete pure quello che volete, stasera offre la casa!»
   «Oh, no, non possiamo accettare!» si lamentò Marion, «non è giusto…»
   «Marion ha ragione» si aggiunse Indy, «semmai siamo noi che…»
   «Non una parola di più, Indiana Jones, perché potrei offendermi!» sbraitò Audrey. «Vi auguro una piacevole serata! Forza, Checco! In cucina!» Quindi, spingendo via il marito, si allontanò.
   Marion e Indy, ridacchiando, si rimisero a sedere e Jones scosse il capo con aria divertita.
   «È proprio come me la ricordavo. Irruenta e spontanea. E sono contento che si sia trovata un marito che praticamente è tale quale a lei» commentò.
   Marion non disse nulla, per non aprire spiacevoli parentesi di fronte a Mutt, che nel frattempo aveva continuato a passare in rivista il menu, ma dall’occhiata che gettò ad Indy si capì che stava provando a capire se, in passato, lui e la spontanea ed irruenta Audrey fossero stati coinvolti in qualcosa di più intimo di una semplice chiacchierata attorno a un tavolo di studenti. E, da come lui distolse il proprio con aria colpevole, non ci volle poi molto a capire la verità.
   Ma era acqua passata, lo sapevano entrambi, perché ciò che contava, adesso, era il presente. Quindi, senza più pensare ad Audrey - almeno provandoci a non pensarla, dato che tornò più e più volte al loro tavolo, per chiedere se le pizze fossero buone e abbastanza calde, se desiderassero mangiare altro, se volessero altro vino, se di dolce preferissero la cassata siciliana, la meringata oppure qualche altra torta ancora, se gli andasse un goccio di limoncello come digestivo e pure se li avesse infastiditi il fatto che avesse fatto partire il giradischi da cui Carlo Buti intonava la malinconica nenia di Violino tzigano - trascorsero una bella serata in compagnia, parlando del più e del meno.
   Jones consegnò al figlio i libri che aveva acquistato per lui e rimase volentieri ad ascoltarlo mentre gli raccontava di tutte le soddisfazioni che gli venivano tanto dal leggere ciò che gli piaceva e dal lavorare alle motociclette; si sentiva completo e soddisfatto, raccontò, e non credeva che gli occorresse proprio altro per poter essere felice.
   Anche Marion parlò parecchio di sé; aveva abbandonato da tempo la professione di giornalista e, pur non avendo problemi economici, non le piaceva starsene con le mani in mano, quindi ogni tanto lavorava stagionalmente per qualche bar. Adorava osservare l’andirivieni dei clienti, leggere nei loro sguardi infinte storie ed immaginare le situazioni di vita vissuta che ciascuno portava con sé.
   Quando fu il suo turno, Jones glissò su parecchi punti. Non era abituato a esternare se stesso di fronte agli altri, non era mai stata una sua abitudine e gli risultava sempre parecchio difficile. Non disse assolutamente nulla della tristezza che gli aveva cagionato la perdita di suo padre, né il rimpianto che provava a non aver pensato prima a stare con la sua famiglia; non riuscì neppure a far loro capire che, sottosotto, gli dispiaceva essere stato sempre un uomo sopra le righe. Si limitò a raccontare di avere ancora parecchi anni di insegnamento, di fronte a sé, e di aver fatto domanda per potersi trasferire all’Università di Chicago.
   «Qui a Chicago?» domandò Mutt, strabiliato. «E perché?»
   «Be’, perché…» borbottò l’archeologo, guardando di sottecchi Marion.
   Lei rispose al suo sguardo e comprese perfettamente quello che lui avrebbe voluto dire, ossia che le distanze, per quanto possano essere stimolanti, a volte è bene annullarle definitivamente. Ma Jones non era capace di esprimere i propri sentimenti, non così su due piedi, comunque, perciò continuò: «…perché è un’Università prestigiosa e passano uno stipendio superiore a quello che mi rifila il mio amico Charlie.»
   Era una bugia così grossa che nessuno, nemmeno Mutt, ci pose la minima considerazione. Era chiaro che Jones stesse tentando di rimediare a quello che avevano perduto, a partire da quella cena che, dopotutto, era quasi una sorta di prova di quello che avrebbe potuto essere il futuro. Ma fin dove si sarebbe spinto Indiana Jones?

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Capitolo 29
*** Capitolo XXVIII - Notte per due ***


CAPITOLO XXVIII
NOTTE PER DUE

   Riuscire a liberarsi da Audrey e Checco fu un’impresa quasi titanica, perché i due coniugi parevano proprio intenzionati a non volerli più mollare; e non si poté assolutamente parlare di saldare il conto. Jones fu quasi costretto a mettersi ad urlare per convincere Audrey ad accettare almeno una banconota da cinquanta dollari, da dare ai due camerieri perché se la spartissero come mancia. Alla fine, promettendo e giurando che sarebbero ritornati ancora a mangiare la loro formidabile pizza ed i loro fantastici dolci, riuscirono finalmente ad uscire all’aria aperta.
   «Chiamo un taxi?» domandò Jones, titubante. «O preferite fare quattro passi?»
   «Una passeggiata mi andrebbe volentieri» ammise Marion, sorridente.
   «Dovrete andare da soli» intervenne Mutt, «perché io ho appuntamento con alcuni amici.»
   L’archeologo lo guardò ed ammiccò in maniera complice.
   «Spero che, tra questi amici, ci sia anche qualche amica…»
   Mutt non si rispose, ma infilò le mani nelle tasche del giubbotto e si limitò ad un’alzata di spalle.
   «Grazie per la serata, matu… papà» borbottò poi, incamminandosi lungo il marciapiede.
   I genitori rimasero per qualche istante a guardarlo mentre si allontanava nella notte, passando dal cono di luce dei lampioni all’oscurità dei punti non illuminati, poi Marion fece scivolare il braccio sotto quello di Indy e gli si strinse contro.
   «Allora?» domandò. «Vogliamo andare?»
   Si sentivano entrambi un po’ brilli, come dimostrava perfettamente anche il loro passo quasi incerto; forse non era stata proprio una buona idea, quella di accettare quei due bicchierini di moscato dopo aver già bevuto il limoncello.
   Dopo aver attraversato l’incrocio, passeggiarono in silenzio per alcuni minuti, osservando il lento fluire delle automobili rombanti lungo la strada o lanciando sguardi un po’ distratti alla vetrine illuminate dei negozi; dal cielo notturno, sopra di loro, soltanto poche stelle, le più grandi ed iridescenti, riuscivano a penetrare la luminosa cortina che sembrava circondare l’immensa metropoli.
   Fu Marion la prima a rompere quel mutismo improvvisamente disceso tra di loro.
   «Ti ricordi l’ultima volta che abbiamo fatto una passeggiata insieme?»
   Jones fece un lieve cenno affermativo con il capo. Lo ricordava perfettamente, come se fosse accaduto il giorno prima, forse perché, in quegli anni, aveva indugiato parecchie volte su quel pensiero, nonostante gli infondesse più dolore che altro.
   Era stato un paio di giorni prima che lui uscisse di nascosto dalla vita della ragazza. Impegnati com’erano con i rispettivi lavori, di rado in quel periodo riuscivano a trovare anche il tempo per concedersi una passeggiata; di solito, le ore che trascorrevano insieme erano solitamente quelle notturne, ed Indy, nonostante tutti i suoi timori, aveva scoperto quanto fosse dolce e confortante addormentarsi con negli occhi l’immagine della donna che amava e risvegliarsi al mattino trovandosela accanto, con il suo profumo sulla pelle ed il tepore del suo corpo a dargli calore.
   Comunque, quella volta avevano finalmente avuto un pomeriggio tutto per loro e ne avevano approfittato per fare quattro passi per il centro di New York. Ad Indy, quella grande città non era mai piaciuta troppo, ma da quando aveva scoperto che a Marion, invece, faceva impazzire, vi si era trasferito senza indugi e, inoltre, aveva imparato ad apprezzarla; anzi, per lei aveva persino chiesto di potersi trasferire al Barnett College, ed era stato dopo che la sua domanda era stata accettata che le aveva proposto di sposarlo.
   Erano andati a Central Park e, tra i vialetti circondati da alberi, Jones aveva più volte tentato di affrontare insieme a lei il discorso del matrimonio, provando ad esternarle i propri dubbi ed a farle capire che si sentiva turbato da qualcosa che nemmeno lui sarebbe stato in grado di spiegare. L’amava follemente, questo lei doveva saperlo, e avrebbe desiderato trascorrere ogni momento insieme a lei, ma aveva paura a fare quell’ultimo importantissimo passo, una paura irrazionale e inspiegabile. Non era la paura di stare con lei - come detto, era ciò a cui più ambiva - era semmai la paura di ufficializzare tutto con un contratto. E se poi non fosse andata bene? Se non sarebbe potuta durare? Se avessero scoperto, troppo tardi, di essere incompatibili? Certo, ormai era quasi un anno e mezzo che convivevano e non sembrava esserci proprio nulla che non andasse, tra di loro, eppure… chi avrebbe potuto saperlo?
   Sarebbe stato di certo un bel discorso, ben più importante e prezioso di tutti gli antichi tesori che avrebbe mai potuto ritrovare in vita sua, e lei avrebbe saputo senza dubbio rispondergli per le rime, fugando ogni suo dubbio e facendogli capire che, unendosi in matrimonio, sarebbero stati felici per sempre. Ma Indiana Jones, che era capace di gettarsi a capofitto in trappole mortali o di affrontare schiere di nemici sanguinari, non ebbe il coraggio sufficiente neppure per cominciarlo.
   Ora, a tanti anni di distanza, stavano ancora passeggiando e Jones aveva in mente una richiesta da fare a Marion, una soltanto: «Vorresti che ci riprovassimo?» ma, ancora una volta, la bocca gli si inaridì e le parole gli morirono in gola, come sabbia inerte dispersa da raffiche impetuose di vento. Si limitò a stringerla ancora di più a sé, beandosi di quel dolce contatto che gli invocava ricordi lontani e sogni vicini.
   Non dissero più nulla, proseguendo nel loro cammino; forse restarono in silenzio perché, ormai, il tempo delle parole era passato da un pezzo oppure, e questa era una dolce speranza, perché in verità doveva ancora arrivare.
   Fu solamente quando si fermarono davanti al portone del palazzo di Marion, dopo quasi un’ora di passeggiata, che si decisero a dire qualcosa. Del resto, era venuto il momento di congedarsi, di darsi appuntamento all’indomani.
   «Allora, ti auguro la buonanotte, Marion» borbottò Jones, chiedendosi se avrebbe potuto darle un bacio.
   Lei sorrise. «Te ne vai così? Non vuoi salire a bere qualcosa? Ti confesso che, a me, quella pizza ha messo una sete tremenda. Erano anni che non ne mangiavo una e non ricordavo che avesse questo effetto…»
   Indy si leccò le labbra. «In effetti hai ragione, la pizza ha questo spiacevole effetto collaterale, specialmente quando chi dovrebbe prepararla sbaglia tutte le dosi degli ingredienti perché è troppo impegnato a raccontarti per filo e per segno la sua vita.»
   Scoppiarono a ridere entrambi, poi Marion sussurrò: «Allora, sali?»
   Una parte di Indiana Jones, la più antica e originale di lui, avrebbe voluto urlare di sì, ma un’altra - quella decisamente più recente - lo avrebbe invece spinto a declinare quell’invito in maniera cortese ma ferma. Più che mai indeciso, si limitò ad un: «Non credo che sia il caso…»
   Le labbra di Marion si atteggiarono ad un ampio sorriso.
   «Non credi sia il caso? Non credi sia il caso?!» rise ancora. «Jones, guarda che ti ho solo chiesto di venire a bere qualcosa. Non pensare che voglia altro, anche perché tra poco Mutt sarà senz’altro a casa!»
   L’archeologo si sentì sollevato e rilassato, profondamente. Se il ragazzo fosse tornato di lì a breve, loro non avrebbero di certo avuto il tempo materiale di fare qualcosa di cui poi si sarebbero potuti pentire. A dire il vero, non riusciva ad immaginare di che cosa si sarebbero dovuti pentire, alla loro età, poi; ma, forse, temeva che, se avessero accelerato troppo i tempi, si sarebbe potuto guastare quel fragile rapporto che stavano delicatamente ricostruendo.
   «D’accordo, una Coca-Cola me la prendo volentieri» accettò, alla fine, con un ghigno. «Ma, questa volta, saliamo in ascensore. Le tue scale me le sono già fatte a piedi una volta e devo ammettere che mi è bastata.»
   E, così, salirono. L’appartamento era immerso nell’oscurità, ma bastò accendere una lampada sul mobile vicino all’ingresso perché riacquistasse una calda luminosità, quasi romantica, almeno tale apparve agli occhi di Indy. Marion disse a Jones di andare pure in cucina e servirsi da bere, mentre lei sarebbe andata per un momento in bagno.
   L’archeologo fece come gli era stato detto ma, dopo aver gettato un’occhiata titubante al frigorifero, che gli ricordava ancora esperienze fin troppo vicine e preferibilmente scordabili, si limitò a riempirsi un bicchiere con l’acqua del rubinetto. Aveva appena finito di trangugiarlo e stava per prenderne un secondo sperando che bastasse a schiarirgli le idee, ancora confuse dai liquori, quando Marion ricomparve. Solo che, adesso, indossava una vestaglia leggera e quasi trasparente, che lasciava intravedere fin troppo bene le curve del suo corpo e la sua pelle.
   Jones rimase imbambolato a contemplarla come se fosse stata una dea, senza dire nulla e senza nemmeno riuscire a muoversi, ma Marion non parve farci caso e, aperto lo sportello del frigorifero, commentò: «Non ne potevo più di quell’abito da sera, cominciavo a credere che sarei scoppiata dal caldo.» Poi, notando ciò che Jones aveva appena bevuto, aggiunse con un sorrisetto: «Guarda che ho qualcosa di meglio, delle forniture dell’acquedotto, per toglierti la sete!»
   Prese una bottiglietta in vetro di Coca-Cola, la stappò con un cavatappi e ne versò metà nel bicchiere di Indy, tenendo il resto per sé e bevendolo direttamente a canna, senza mai staccare gli occhi di dosso all’archeologo, ancora mezzo intontito da quella vista. Fu a quel punto che Jones si riprese e riuscì a bere un sorso di bibita, prima di porgere il bicchiere a Marion: «Prego, finiscila pure tu, io sono già a posto.»
   «Be’, come vuoi» accettò Marion, prendendo il bicchiere e portandoselo alle labbra.
   Vedere la bocca della donna posarsi nell’esatto punto in cui, un istante prima, si era appoggiata la sua, donò a Jones uno strano fremito di eccitazione, come se lei lo stesse in qualche modo baciando. Cominciò a non farcela più ed a perdere l’autocontrollo che si era voluto imporre. Ormai, stava diventando più forte di lui e doveva ammettere che Marion, che pareva intenzionata a non staccare più neppure per un attimo gli occhi dai suoi, stava rendendo le cose ancora più difficili del previsto.
   Come l’ebbe vista rimettere bicchiere e bottiglietta vuoti sul pianale del fornello, Indy le si avvicinò e, strette le mani sulle sue braccia, avvicinò il viso al suo. Ma fu lei la prima a farsi avanti, offrendogli un bacio così inaspettato e passionale che Jones si sentì ritorcere le budella e avvertì il proprio cuore cominciare a pompare sangue all’impazzata. Restarono uniti per le labbra per un tempo indefinito, prima che anche i loro corpi si legassero in un lungo e bramoso abbraccio.
   Poi, senza dire una sola parola, Marion trascinò Indy per la mano, guidandolo verso il divano; nel frattempo, con la mano libera lo sbarazzò della giacca e cominciò a sbottonargli la camicia, che lui fu lesto a lasciar cadere sul pavimento.
   A quel punto, però, un pensiero fugace attraversò la mente dell’archeologo.
   «Marion, non possiamo… e se il ragazzo tornasse proprio adesso?»
   Un sorriso malizioso le si dipinse sul viso.
   «Prima ti ho raccontato una bugia, Indy. Quando è fuori con gli amici, non rincasa mai prima dell’alba…»
   Parlare ancora non sarebbe servito. Non appena ebbero raggiunto il divano, Marion vi si lasciò cadere e Jones fu su di lei, senza smettere neppure per un momento di baciarla. Dalla bocca passò al suo collo, mentre con le mani iniziava a ritrovare confidenza con il corpo di quella donna che mai, neppure per un momento, aveva smesso di essere sua, esattamente come lui era sempre appartenuto a lei, nonostante tutto. La accarezzò sul seno, sui fianchi, fin sulle gambe, lasciate nude dalla vestaglia che le si era arrotolata fino all’ombelico.
   Gemendo piano per quei tocchi allo stesso tempo decisi e delicati e accarezzandolo a sua volta sul petto, Marion riuscì a farfugliare: «Non sono più la bella ragazzina della fotografia…»
   Jones trovò la forza di staccare per un momento le labbra dalla sua pelle e di sollevarsi a fissarla negli occhi.
   «Mi farai impazzire per sempre, tesoro» le confessò, prima di riprendere quella dolce attività.
   Abbassata una spallina della vestaglia di Marion, le liberò il seno, che iniziò subito a suggere quasi con avidità, mentre con la mano destra le violò la tela degli slip, trovando il suo punto più sensibile e segreto ed iniziando ad accarezzarlo con sempre maggior vigore, ritrovando immediatamente la capacità di mettere in pratica quei tocchi di cui non aveva mai scordato le tecniche misteriose e riconoscendo sotto i polpastrelli un luogo già profondamente conosciuto. Quello era un trattamento che aveva sempre e solo riservato a lei, che non aveva mai usato con tutte le sue numerose amanti, con le quali si era ogni volta dimostrato più diretto e animalesco. Ma con lei non c’era mai riuscito, con lei aveva sempre voluto prendersela comoda, anche a costo di rinunciare a trovare il piacere per sé stesso, perché il vero piacere, per lui, era sempre stata la consapevolezza e la soddisfazione di averle fatto dono di sensazioni di cui soltanto loro erano i depositari. Ed anche in questo caso, infatti, udire i mugolii ed i gemiti di Marion, rimasti gli stessi di allora, fu musica celestiale, per le sue orecchie.
   In quanto a lei, però, nonostante fosse quasi paralizzata da ciò che stava vivendo, non riuscì a rimanersene ferma. Pur a fatica, riuscì a slacciare la cintura di Indy e ad abbassargli i pantaloni, fino a lasciarlo con indosso solo i boxer, al cui interno, senza esitazione, si infilò la sua mano. Un sorrisetto le addolcì il viso quando il suo tocco - la visuale le era del tutto impossibile, anche perché aveva chiuso gli occhi - l’avvertì che, pur essendo trascorsi parecchi anni dall’ultima volta, Jones non aveva perso per niente la sua capacità di accendersi per lei. Quindi, cominciò praticamente subito a restituirgli la cortesia.
   Eccitato com’era, ed anche un po’ fuori allenamento, a lui furono sufficienti pochi minuti per giungere al culmine, di cui Marion si rese immediatamente conto nell’udire un suo rantolo soffocato e nell’avvertire qualcosa di caldo e leggermente appiccicoso scorrerle sulle dita. Ma Jones non si fermò, anzi parve continuare con ancora più passione di prima, ricominciando a depositarle languidi e umidi baci su ogni punto del suo corpo che fosse in grado di raggiungere da quella posizione e senza mai interrompere la folle danza che le sue dita stavano ballando ormai dentro di lei.
   Il respiro affannoso che le fece sollevare e abbassare il petto a velocità folle ed i gemiti, quasi grida, che le uscirono dalla gola, fecero capire che anche Marion, infine, riuscì a raggiungere l’apice. E quella consapevolezza, quel sentirla arrossata e affannosa sotto di sé, regalò a Jones un’emozione ancora più intensa di quella che aveva raggiunto con il suo semplice orgasmo di qualche minuto prima. Anzi, a dire il vero, fu la consapevolezza di essere stato lui, che lei avesse mugolato a quel modo solo per lui, a farlo sentire davvero bene. Perché, proprio come in passato, il loro rapporto non era già più basato sulle semplici e passeggere sensazioni fisiche.
   Restarono in quella posizione per ancora qualche minuto, con il fiato corto, continuando ad accarezzarsi e a toccarsi come se non volessero più smettere, poi la consapevolezza di quello che era appena accaduto si fece largo nei loro animi. Anche se non avevano consumato un vero e proprio atto sessuale, avevano appena fatto l’amore, non c’era alcun dubbio, lo avevano fatto per la prima volta dopo due decenni e, accidenti, gli era piaciuto come sempre, come se non fosse trascorso nemmeno un giorno da quando le loro strade si erano divise.
   Infine, si misero a sedere, guardandosi negli occhi e sorridendosi. Con galanteria, Jones prese dai suoi pantaloni, abbandonati sul tappeto ai piedi del divano, un fazzoletto di lino e lo utilizzò prima per asciugare il sudore e le lacrime che imperlavano il volto di Marion, poi per pulirle la mano ancora umida degli umori che lui vi aveva riversato sopra. Ma, quando lei parve intenzionata a fare lo stesso, utilizzando un lembo della vestaglia per asciugargli le dita, lui glielo impedì e, passatosi la mano sul petto per asciugarla alla meglio, la strinse in un lungo e affettuoso abbraccio, mormorando: «Ti amo, Marion. Non ho mai smesso un solo giorno di amarti.»
   Marion sospirò e, inoltre, parve singhiozzare per un istante. Ma la sua voce era carica di dolcezza quando rispose, in un bisbiglio quasi impercettibile: «Anch’io ti amo, Indy.»
   Una voce cominciò a parlare nella coscienza di Indiana Jones.
   «Domandaglielo adesso, svelto. Chiedile di sposarti. Promettile che starai con lei per tutta la vita, falle capire che è solo questo che desideri.»
   Ma, per l’ennesima volta, Indiana Jones fu troppo spaventato da se stesso e dalle conseguenze per riuscire a fare quel passo. Si limitò a tenerla stretta a sé, ascoltando il suo lieve respiro e beandosi della fragranza che emanavano la sua pelle sudata e i suoi capelli, un profumo che non era cambiato per nulla, in tutto quel tempo, e che lui non aveva mai scordato, al punto che, più di una volta, si era svegliato nel cuore della notte, sentendoselo nelle narici - o, più precisamente, nella memoria - e domandandosi che cosa fosse. Ora, finalmente, lo sapeva, ricordava tutto, e non avrebbe più voluto dimenticare.
   Però, gli mancò il coraggio sufficiente. Sperò solo che in quell’abbraccio ed in quei nuovi baci che le diede sul collo, prima di riconquistare le sue labbra, lei capisse che ciò che lui cercava da lei era molto più di una semplice relazione fisica. E Marion lo capì benissimo, sebbene neppure lei avesse il coraggio di ammetterlo e di dire quelle poche parole che avrebbero potuto cambiare per sempre le loro vite.

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Capitolo 30
*** Capitolo XXIX - Jones ci pensa ***


CAPITOLO XXIX
JONES CI PENSA

   L’archeologo trascorse quasi tutta la giornata successiva a dormicchiare in albergo, dove era rientrato poco prima del sorgere del sole, stanco ma felice. In realtà prendeva sonno, sognava Marion, si svegliava pensando a lei e, poi, si addormentava di nuovo, sempre per tornare a sognarla. Erano sogni strani, dalle ambientazioni assurde e dalle trame incomprensibili - come sono spesso i sogni, d’altra parte - ma avevano tutti l’invariabile costante della presenza di Marion.
   Fu solo nel tardo pomeriggio, col capo pesante e la mente annebbiata, che si svegliò, si concesse una doccia e, dopo averle fatto una telefonata per salutarla e chiederle se andasse tutto bene, uscì a passeggiare. Rientrò in albergo per cena, poi tornò in camera e le telefonò di nuovo. Avevano convenuto, infatti, di non vedersi per almeno un paio di giorni, per poterci pensare sopra; ma non vedersi non significava non potersi almeno parlare per telefono.
   La notte, ovviamente, avendo sonnecchiato tutto il giorno, faticò parecchio a prendere sonno. Si addormentò solo verso le tre, per poi svegliarsi alle sette. Parendogli troppo presto per disturbare Marion con una nuova telefonata, pensò di fare colazione ed uscire a fare un’altra camminata.
   Si erano presi due giorni per pensare, d’accordo, ma a cosa avrebbe dovuto pensare, in verità? Non riusciva a togliersela dalla mente, continuava a vedersela dinnanzi agli occhi e gli era sufficiente richiamare quei pensieri per avere un tuffo al cuore. Di certo, quello non era il modo migliore per riflettere su qualcosa.
   Camminò finché non fu sulla banchina che delimitava la città dall’immenso lago Michigan, che si stendeva di fronte a lui come un mare interno di cui fosse impossibile discernere con precisione i confini; era una bella giornata ed i raggi del sole facevano sfavillare come diamanti le acque leggermente increspate dalla brezza, che portava fino a lui odore di salmastro misto a quello del gasolio dei pescherecci. Per un momento, ricordò ancora i giorni della sua gioventù, quando adorava farsi una nuotata in quelle acque sempre fredde dopo una lezione, ma poi il suo pensiero tornò a focalizzarsi su di lei. Su Marion…
   Provò, per un folle istante, ad immaginare come sarebbe cambiata la sua vita se si fossero sposati. Non sarebbe più stato solo, al risveglio, né sarebbe potuto andare subito in bagno a lavarsi, come era solito fare, bensì avrebbe dovuto attendere che finisse lei; e, però, non avrebbe più consumato tutti i pasti in solitudine, e non sarebbe per forza dovuto uscire di casa o attaccarsi alla cornetta per poter parlare con qualcuno. Piccole cose che, tuttavia, avrebbero trasformato la sua esistenza in meglio, molto meglio… Inoltre, ci sarebbe anche stato Junior, a gironzolare per casa, e magari anche altri bambini, perché certo, qualche anno sulle spalle cominciavano ad averlo, ma forse sarebbero stati ancora in tempo…
   Quei pensieri, tuttavia, lo mettevano a disagio, perché erano quelli che avrebbe potuto concedersi una persona giovane, non un vecchio come lui. Si sforzava a più riprese di dirsi ancora nel fiore degli anni, di credersi un ragazzino sempre nel pieno delle forze, eppure lo spauracchio dell’età continuava a tornare a fargli visita, per nulla intenzionato a lasciarlo definitivamente andare. Del resto, non poteva fingere di essere ciò che non era. Quindi, come poteva ancora sperare di sposarsi e di crearsi una famiglia un uomo della sua età? Lo avrebbero preso tutti quanti in giro, deridendole malignamente per quel proposito, ed avrebbero fatto più che bene. Probabilmente, anche Marion si sarebbe messa a ridere, se lui si fosse azzardato a proporle qualcosa del genere, e con la sua solita sagace schiettezza gli avrebbe detto di tornarsene sulla terra e di cominciare ad essere realista.
   E realismo, alla sua età, significava pensare al pensionamento, e magari anche a procurasi un loculo al cimitero, non certo al matrimonio. Era nato nel 1899, il che significava, in parole povere, che di lì a meno di un mese avrebbe compiuto i cinquantotto anni, non certo una bazzecola; e, in oltre mezzo secolo, di occasioni ne aveva avute tantissime, doveva riconoscerlo, come pure doveva riconoscere di averle sprecate praticamente tutte. Quando avrebbe potuto chiedere aiuto a qualcuno si era sempre rifiutato di farlo, credendosi invincibile, ed ora che ne avrebbe avuto più che mai bisogno non sapeva più a chi potersi rivolgere.
   Suo padre era morto, dopo averlo inutilmente implorato per anni di costruirsi una famiglia, cosa che lui non aveva mai voluto fare perché non voleva correre il rischio di diventare come il vecchio Senior, un uomo più interessato alle antichità che ai propri affetti. Alla fine, suo malgrado, era riuscito a compiere gli stessi identici errori del suo vecchio, né più, né meno. Ridicolo pensare di poterli tamponare proprio adesso, come se nulla fosse. Anche Marcus Brody, l’unico uomo che sarebbe stato in grado di dargli un consiglio a cui, forse, avrebbe potuto dare ascolto, se n’era ormai andato. E Mac, la persona che più gli era stata vicina in quel periodo, lo aveva tradito per avidità e ne aveva pagato le più tragiche conseguenze.
   Chi altro gli restava? Di certo, non Charles Stanforth. Charlie era un buon amico, certo, che aveva spesso fatto molto per lui, ma non sarebbe stato capace di consigliargli che cosa fare o no, in quella situazione.
   Sallah, forse? Si conoscevano in pratica da sempre, era il suo migliore amico ed era sempre stato capace di tirarlo su di morale, in qualsiasi situazione; ma in quel momento si trovava praticamente dall’altra parte del mondo e, oltretutto, Jones poteva immaginare che cosa gli avrebbe potuto dire: «Sposala, falle fare tutti i figli che puoi e non lasciarla più.» Sallah, sposato in pratica da quando era adolescente e padre di una prole così numerosa da averne perso lui stesso il conto, gli aveva sempre detto di compiere quel passo decisivo, con qualsiasi donna avesse voluto; ma la situazione, lo sapeva, non era proprio così semplice.
   Certo, poi c’era Oxley, l’amico perduto e infine ritrovato. Forse, essendo stato tanto vicino a Marion in quegli ultimi anni, e conoscendola meglio di chiunque altro, sarebbe stato l’unico in grado di dirgli che cosa fare. Ma Jones non voleva rivolgersi a lui, aveva paura delle conseguenze, delle reazioni, visto e considerato che Oxley gli aveva tolto il saluto proprio per aver piantato in asso la ragazza quando avrebbe dovuto sposarla. Ora, non poteva certo andare da lui e domandargli che cosa ne pensasse di un’eventuale nuova proposta di matrimonio.
   No, decisamente, era solo in quella storia e doveva risolverla a proprio modo, senza contare sull’aiuto di nessuno. Doveva prendere in mano la propria vita e decidere che cosa fare, tutto qui. Del resto, chiedere a Marion che cosa ne pensasse di sposarsi con lui non significava avere la certezza che lei avrebbe accettato. Anzi, era più che probabile, come già gli era saltato in mente, che lo avrebbe schernito. Perché un conto era alzare un po’ troppo il gomito a tavola e, dopo, finire lunghi distesi su un divano a baciarsi ed a toccarsi a vicenda, un altro era credere di desiderare di vivere insieme fino alla fine dei loro giorni. Lei non lo avrebbe mai accettato, mai.
   Però, lui lo avrebbe desiderato, ecco tutto. E, forse, per poter dare vita a quel desiderio avrebbe dovuto parlargliene. Che poi si realizzasse sul serio era un’altra faccenda, ma non poteva continuare a fingere che non fosse ciò che voleva, a trovare scuse - come quella della sua vecchiaia più o meno incipiente - solo per lasciar perdere tutto. Con una mossa azzardata, aveva fatto domanda di trasferimento a Chicago, ma a che cosa gli sarebbe servito ottenere quel posto se non fosse riuscito ad esprimere il vero motivo per cui l’aveva chiesto?
   Le sue dita si strinsero sulla ringhiera del molo, mentre si protendeva verso l’acqua a guardare il proprio riflesso. Lì, sulle piccole e scure increspature in continua trasformazione, non sembrava neppure così vecchio, ed i suoi capelli grigi parevano ritornati di colpo castani. Sorrise e, per una volta, poté vedere realmente quanto fosse beffardo quel suo ghigno. Si domandò se anche i sorrisi che aveva sempre rivolto a Marion fossero stati tali o se, in sua presenza, fosse riuscito a produrre qualcosa di un po’ più decente di quella sorta di smorfia.
   Lasciata andare la ringhiera, affondò le mani nelle tasche dei pantaloni e si incamminò lungo la banchina, scalciando di quando in quando un sassolino e guardandolo distrattamente venire inghiottito dalle acque.
   Nella mente gli vorticavano mille sfumature di idee, ma nessuna di esse pareva intenzionata a fermarsi per diventare qualcosa di concreto e di fattibile; forse era la sua natura a rendere tutto così difficile. Non aveva quasi mai pianificato nulla, aveva sempre agito più che altro per istinto, cogliendo la palla al balzo ed affidandosi ad una dose di fortuna certe volte fin troppo sfacciata; di conseguenza, elaborare nei dettagli un efficace piano strategico non sarebbe servito proprio a nulla.
   Decise che, per adesso, avrebbe aspettato, cercando di vedere come si sarebbero evolute le cose tra lui e Marion; fosse stato solo sesso - ma sperava vivamente che così non fosse - avrebbe lasciato perdere tutto. Ma se si fosse reso conto che, oltre quel loro crollo fisico, ci sarebbe stato anche qualcosa di più profondo, emotivo e romantico, allora avrebbe fatto la sua proposta, in barba alle convenzioni, alle paure ed al rischio di esporsi al ridicolo.


 

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Capitolo 31
*** Capitolo XXX - Marion e Lucinda ***


CAPITOLO XXX
MARION E LUCINDA

   Nel pomeriggio, Marion si incontrò al pub Marge’s Still - uno degli storici locali della città, che aveva continuato a servire clandestinamente alcolici anche nel periodo del proibizionismo - con Lucinda, una ragazza di qualche anno più giovane di lei, che aveva conosciuto lavorando stagionalmente in un ristorante e con la quale era rimasta in ottimi rapporti.
   Dopo essersi salutate, le due donne sedettero insieme ad uno dei tavolini ed ordinarono da bere due bicchieri di Rossini, un cocktail composto da vino spumante bianco e succo di fragole. Fecero tintinnare i flûte in un piccolo brindisi ed assaggiarono un goccio di drink, che sapeva d’estate e di freschezza.
   «Allora, di che cosa volevi parlarmi?» domandò Lucinda, guardandola da dietro le spesse lenti degli occhiali. «Per telefono mi hai detto che era una cosa davvero seria…»
   Marion trasse un lungo sospiro, bevve un altro sorso dal bicchiere, poi cominciò rapidamente a raccontare all’amica tutto il suo rapporto con Indiana Jones, partendo dall’inizio per poi arrivare al giorno in cui l’aveva lasciata, fino a giungere ai giorni attuali in cui si erano ritrovati.
   «Ora è tanto gentile e carino, con me, e pare proprio che sia di nuovo innamorato» concluse. «Solo che non so che cosa pensare sul serio… vorrei capire le sue reali intenzioni, ecco tutto.»
   «Be’» disse a quel punto Lucida, facendo cenno ad un cameriere perché le portasse un nuovo drink, dato che il primo lo aveva terminato mentre ascoltava l’appassionato resoconto della vita sentimentale dell’amico, «credo che la sua galanteria possa essere una spia ben precisa su quello che gli passa per la mente, no?»
   «Non saprei» scosse il capo Marion, confusa. «Vedi, per capire quell’uomo bisogna conoscerlo a fondo, ed anche così, in verità, serve molto a poco… perché lui, con me, è sempre stato cortese e galante, eppure questo non gli ha impedito di piantarmi in asso per ben due volte. Non vorrei che questo ritorno di fiamma fosse, in realtà, solo un insulso fuoco di paglia, che fa solo fumo.»
   Lucinda sollevò le sopracciglia. «Stando così le cose, ti direi di non cedere subito e di sondare in profondità le sue intenzioni. Se credi che abbia in mente qualcosa di serio, allora vai fino in fondo, ma se ti pare che gli interessi solo una cosa, allora lascialo perdere.»
   Marion non riuscì a trattenere un sorrisetto colpevole.
   «Il fatto è che, vedi…» mormorò, abbassando gli occhi al bicchiere per poi tornare a guardarla, «…abbiamo già ceduto. L’altra sera, dopo che siamo usciti a cena, l’ho invitato a bere qualcosa e, alla fine, ci siamo ritrovati sul divano, come due ragazzini.»
   «Ah» sbottò Lucinda, facendo un cenno con la testa. «E brava la mia Marion. E lui?»
   «Devo dire che non ha perso per nulla il suo tocco, anzi…»
   Quelle parole fecero arrossire Lucinda fino alla punta dei capelli, conferendole il medesimo colore del suo secondo drink, da cui si affrettò a bere una sorsata per dissimulare il proprio imbarazzo.
   «Non è esattamente questo che volevo sapere…» disse poi, non sapendo se scoppiare a ridere o altro. «Volevo dire, lui che cosa ha fatto, dopo? Se n’è andato?»
   «Oh, no, no» replicò Marion, ammiccando leggermente. «Al contrario. Mi ha tenuta abbracciata a sé, per tutta la notte, coccolandomi come se… e, insomma, io mi sono addormentata tra le sue braccia! Mi pareva davvero di avere di nuovo vent’anni, in quel momento.» Sorrise, nel perdersi in chissà quali sogni.
   «E ieri vi siete visti? Od oggi?»
   «No. Abbiamo convenuto che fosse meglio non vederci per un paio di giorni, diciamo per riflettere su quello che è accaduto. Ieri, però, mi ha telefonato due volte, poi mi ha fatto un’altra chiamata oggi a mezzogiorno e sono più che pronta a scommettere che il telefono squillerà anche stasera.»
   Marion bevve un sorso del suo drink e Lucinda la studiò con attenzione. Da come brillavano gli occhi della sua amica, era sicura che fosse davvero innamorata di quell’uomo sbucato fuori dal suo passato e che avrebbe voluto da lui qualcosa di molto più speciale e duraturo che una semplice notte d’amore. Ma bisognava prima di tutto capire se lei stessa lo avesse ben compreso.
   «Insomma, siete ancora molto legati, quantomeno» riassunse. «Però, oltre ad avere questa certezza, vorresti altro da lui?»
   «Mi sento sola» ammise Marion, dopo un minuto di esitazione. «Mi sento sola e vorrei qualcuno, nella mia vita, qualcuno che sappia come fare a rendere speciali tutte le mie giornate, con cui poter condividere ogni cosa. Ho provato a lungo a cercare questo qualcuno, ad un certo punto ho persino creduto di averlo trovato, ma la verità che non ho mai voluto ammettere neppure con me stessa è che quel qualcuno sia proprio lui, Jones. A volte mi ripeto che sono ridicola, che alla mia età devo pensare ad altro, ma…»
   «Capisco» borbottò Lucinda, assaporando lentamente e con aria meditabonda il Rossini. «In pratica, tu hai bisogno di lui. E non azzardarti a dire proprio nulla, riguardo la tua età. Ricordati che l’età è solo un dato anagrafico, un numero privo di significato stampato sopra calendari o documenti. Ma lui, invece, ha bisogno di te? Ne ha davvero bisogno?»
   Per quanto fosse felice di star parlando con un’amica che sapesse ascoltarla e capirla, Marion apparve alquanto turbata da quell’ultima considerazione.
   «Non lo so» confessò, con un triste sospiro. «Davvero, non lo so. È da quando l’ho rivisto, in mezzo a quella giungla, che non riesco a togliermelo dalla testa, e vorrei tanto andare da lui e domandargli di sposarmi, dato che nulla potrebbe farmi più felice. Non mi interessa quello che c’è stato tra di noi, prima, perché sento che adesso è un uomo diverso.»
   «Addirittura sposarti!» commentò Lucinda, guardandola di sottecchi. «Questa, proprio, non me la sarei mai aspettata. È un passo veramente importante.»
   «Che penso dovrò fare» replicò tenacemente l’altra. «Non ho alcuna intenzione di giocare per sempre a tiramolla con Indiana Jones.»
   «Potrebbe essere doloroso.»
   Marion annuì e, con un’ultima sorsata, terminò il proprio drink. Guardò per un momento il cameriere dietro il banco, indecisa se chiederne un altro, ma poi lasciò perdere.
   «Ci ho pensato e so che cosa intendi» disse, appoggiando il bicchiere vuoto sulla superficie del tavolo e girandolo lentamente con le dita. «Potrebbe dirmi di no. O, peggio ancora, potrebbe dirmi di sì e poi abbandonarmi un’altra volta. Però, voglio provarci lo stesso e, inoltre, sento che adesso è tutto diverso e so che non lo farebbe mai.»
   «Gli uomini cambiano, a volte, ma molto più spesso restano gli stessi» filosofeggiò Lucinda.
   «Ci sono aspetti di Indy che non cambieranno mai e poi mai, lo so» ammise Marion, con un sorrisetto. «Per esempio, il suo straordinario talento di cacciarsi in guai ben più grossi di lui. Prima o poi, con quella sua mania di andare a scoperchiare degli autentici vasi di Pandora, finirà davvero per farsi ammazzare. Ma, per altri aspetti, voglio davvero credere che sia cambiato.»
   Lucinda unì le lunghe dita delle mani e se le osservò.
   «Be’, Marion mia, stammi a sentire. Non credo che dovresti compiere mosse azzardate, né agire con troppa fretta. Non dico che non debba essere tu a proporgli il matrimonio, se non fosse lui a farlo - se la montagna non viene a Maometto, Maometto va alla montagna - dico solo che non devi prendere questa decisione in maniera azzardata, prima del tempo. Sondalo, invece, e cerca di capire che cosa voglia realmente da te. Ora, siete già finiti su quel divano e posso immaginare che cosa abbiate fatto ma, per qualche tempo, cerca di non ripetere l’esperienza. Sii gentile con lui, dimostragli in ogni modo che sei interessata e innamorata, ma negagli ogni coinvolgimento che vada oltre un rapporto mentale. In base a come reagirà, potrai capire quali siano le sue reali intenzioni verso di te: se, poco a poco, lo vedrai allontanarsi, vorrà dire che gli importa solo di quello e, nel momento che tu glielo neghi, capisce che è il momento di ritirarsi; se, invece, lo vedrai restare lo stesso ugualmente, e magari avvicinarsi sempre di più a te mano a mano che i giorni passano, allora significa che è realmente innamorato di te e che, quindi, la prospettiva di un matrimonio potrebbe non essere così assurda.»
   Marion annuì. Sapeva bene che non sarebbe stato facile restare vicino a Indy senza mai andare più in là di un piccolo e casto bacio, e non tanto perché lui fosse un uomo pretenzioso o insistente, bensì perché aveva quella rara ed irresistibile capacità di farle toccare il paradiso, quando le dedicava ogni attenzione; ma si sarebbe fatta forza ed avrebbe misurato i propri impulsi a cedere, perché capì che Lucinda aveva ragione e che qui non c’era in ballo solo un po’ di fugace e momentaneo piacere carnale, bensì tutto il resto delle loro esistenze, che avrebbero dovuto decidere se trascorrere insieme o definitivamente lontani.

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Capitolo 32
*** Capitolo XXXI - Accertamenti ***


CAPITOLO XXXI
ACCERTAMENTI

   La mattina, calda e soleggiata, pareva rispecchiare in pieno l’umore di Indy: quel pomeriggio lui e Marion si sarebbero finalmente rivisti per una passeggiata insieme e lui non avrebbe potuto chiedere nulla di meglio. Insomma, a partire dal colore del cielo e dalla dolce temperatura dell’aria, quella che si preparava sembrava proprio preannunciarsi come una splendida giornata.
   Si erano dati appuntamento per telefono, la sera prima, e proprio come un adolescente innamorato Jones non era quasi riuscito a chiudere occhio per tutta la notte, pensando a quel prossimo incontro, al punto che ad un certo momento, per non rimanere a soffrire troppo sotto le coperte, in mille scomode posizioni, si era visto costretto a riaccendere la luce ed a finire di leggere il libro che aveva portato con sé da casa, un romanzo di fantascienza intitolato Fahrenheit 451. Non era mai stato troppo appassionato di quel genere letterario, ma lo aveva parecchio incuriosito il titolo, quando lo aveva visto in una libreria, e quindi lo aveva acquistato. Ora, però, non aveva più nulla da leggere, e se gli fossero toccate altre notti come quella si sarebbe visto costretto a domandare a Junior di prestargli qualcuno dei libri che teneva in camera.
   Dormì solo un paio d’ore, ma gli furono più che sufficienti. Quando aprì gli occhi, sebbene fosse trascorsa da pochissimo l’alba, il sole era già alto ed il canto degli uccelli che entrava dalla finestra socchiusa si mischiava a quello del traffico cittadino. Dopo essersi dato una rapida rinfrescata al volto, si vestì e stava giusto per afferrare la maniglia della porta quando qualcuno bussò.
   Interdetto, rimase bloccato con la mano a mezz’aria, poi si decise ad aprire per vedere chi potesse essere interessato a parlare con lui ad un orario tanto insolito. Ciò che vide tramutò la sua espressione serena in una smorfia di profondo disgusto.
   «Buongiorno, professor Jones» lo salutò cordialmente l’agente Taylor, come se fossero vecchi amici.
   «Ci fa entrare?» chiese l’immancabile Smith, guardandolo storto. Da quell’espressione, Jones comprese che i due avevano sperato di trovarlo ancora a letto ed intontito dal sonno, per potergli fare dire esattamente ciò che avrebbero voluto ascoltare. In ogni caso, non si sarebbe fatto mettere in difficoltà e, qualsiasi cosa fossero venuti a fare, sarebbe stato lui a farli penare.
   «La camera è in disordine» si scusò l’archeologo. «Che ne dite se, invece, scendiamo da basso? L’albergo ha una saletta riservata dove poter parlare in tutta tranquillità.»
   Dagli sguardi che si scambiarono, parve proprio che i due agenti del FBI fossero decisamente contrariati da quella richiesta; erano loro, di solito, a dettare le condizioni, non gli altri. Tuttavia, non riuscirono a trovare alcunché da ribattere, quindi fecero un cenno perché Jones li precedesse e li guidasse.
   In tutta calma, Indy uscì dalla stanza e camminò adagio davanti a loro, fino all’ascensore; schiacciò il pulsante per chiamarlo e, quando le porte scorrevoli si aprirono, vi entrò insieme ai due uomini. Però, un momento prima che l’ingresso si richiudesse, sgusciò fuori, dicendo: «Scusate, ho dimenticato il fazzoletto! Non esco mai senza! Voi aspettatemi pure giù, arrivo subito!»
   Si voltò solo un istante, a guardare i volti furiosi dei due agenti speciali che lo scrutavano impotenti attraverso l’ultima fessura rimasta nella porta, prima che si chiudesse del tutto, poi prese un veloce slancio e tornò di corsa verso la propria stanza. Sapeva di non avere molto tempo a disposizione, prima che tornassero indietro a riprenderlo, quindi doveva agire il più in fretta possibile.
   Riguadagnata la propria camera, si fiondò verso il telefono e, sollevata la cornetta, domandò al centralino di metterlo in comunicazione con un numero che conosceva a memoria. Dopo alcuni lunghissimi secondi, che gli parvero un tempo interminabile, all’altro capo del filo rispose una voce ancora impastata di sonno: «Generale Ross.»
   «Bob, sono io, Indy…»
   «Indy!» ripeté la voce del generale, adesso leggermente allarmata. «Che succede?»
   «Senti, Bob, non ho molto tempo. Sono in un albergo a Chicago e, poco fa, mi sono piombati addosso quei due dannati impiccioni dell’FBI. Mi sono liberato per chiamarti, ma saranno qui a momenti. Ne sai niente?»
   «Niente» ammise il generale, «ma questa storia non mi piace. Stanno cercando di combinarne una delle loro senza coinvolgermi, il che significa che sperano ancora di incastrarti. Ascolta, fai così: cerca di trattenerli lì in albergo e, mi raccomando, non dire nulla che non sappiano già. Tempo un quarto d’ora e sarai fuori dai guai. Per fortuna ho uno dei nostri proprio lì, a Chicago. Dimmi in che albergo ti trovi…»
   Jones lo comunicò subito, insieme all’indirizzo, quindi, udendo passi affrettati e sempre più vicini lungo il corridoio, borbottò un: «Devo andare» e chiuse la comunicazione. Fece appena in tempo a prendere in mano un fazzoletto che aveva appoggiato dentro il cassetto con la biancheria, che i due uomini irruppero in camera.
   «Professore, che storia è mai questa?» sbottò Taylor, guardandolo in cagnesco.
   «È la storia che vi ho raccontato» replicò l’archeologo, con aria innocente, mostrando il fazzoletto che teneva in una mano, prima di infilarselo nella tasca dei pantaloni. «Vogliamo andare?»
   «Andiamo» sbottò Smith. «Ma, questa volta, niente scherzi.» E sottolineò meglio il concetto sollevando il lembo della giacca per mostrare la fondina con la pistola che vi portava sotto.
   «Non ho mai fatto un solo scherzo in vita mia» si schermì Jones. «Ma sapete com’è, in questo periodo girano un sacco di allergie, ed io le ho praticamente tutte, quindi uscire sprovvisto di fazzoletto sarebbe per me un gravissimo errore.»
   Nessuno dei due replicò alcunché - avevano fatto una ricerca su Jones, basandosi anche sui dati che erano stati raccolti negli archivi del governo durante la sua permanenza nell’esercito, e sapevano più che bene che non soffrisse proprio di nulla - ma si limitarono a stargli alle costole, tallonandolo da vicinissimo. Quando giunsero all’ascensore, lo costrinsero ad entrare ed a schiacciarsi sul fondo, in maniera da non tentare nuovi colpi bassi.
   Arrivati nell’atrio, si fecero indicare la saletta privata e fecero cenno al portiere per fargli intendere che non volevano essere disturbati in nessuna maniera; a giudicare da come l’uomo si affrettò ad annuire, dovevano già avergli mostrato i loro distintivi al momento dell’arrivo.
   Rimasti soli, fecero sedere Jones sopra una poltroncina e Smith gli si accomodò di fronte, mentre Taylor, richiusa la porta, cominciò a passeggiare avanti e indietro come una tigre sul punto di scattare contro la preda. Entrambi fissarono in silenzio l’archeologo, sperando forse di poterlo turbare; ma lui si limitò a rispondere alle loro occhiate con sguardi ironici ed a tratta quasi divertiti.
   Dato che nessuno sembrava volersi decidere ad aprire bocca, dopo alcuni minuti di quella pantomima Jones provò a dire: «Scusate, io non ho ancora fatto colazione, quindi se credete di…»
   «Silenzio!» intimò improvvisamente Smith. «Silenzio, professore! Parli solo se interrogato.»
   «Allora interrogatemi, porca miseria, o lasciatemi andare!» si scaldò Indy. «Non avete alcun diritto di tenermi rinchiuso qui dentro!»
   Una smorfia attraversò il volto di Smith, mentre fu Taylor ad intervenire.
   «Ci dica, allora, che cosa è venuto a fare qui, a Chicago.»
   Jones sollevò gli occhi per sfidarlo con lo sguardo.
   «Gli affari miei» sbottò.
   «Facendo così non ci aiuta e, soprattutto, non aiuta se stesso» lo ammonì Smith.
   «Noi siamo convinti che lei si trovi qui per incontrarsi con una delle cellule filosovietiche che operano in città. Abbiamo motivo di credere, inoltre, che lei stia avendo contatti con la malavita locale.»
   Jones scosse il capo e sibilò: «Scemenze.»
   «Nega, forse, di aver lavorato, in passato, per lo spietato capomafia noto come Big Jim Colosimo?»
   Pur sapendo bene di non dover rispondere a nessuna domanda, l’archeologo non riuscì a trattenersi oltre.
   «Ho servito come cameriere part-time nel suo locale quand’ero studente» borbottò. «Che diavolo ne sapevo, io, di quel che faceva Colosimo nella sua vita?»
   «Forse lo sapeva fin troppo bene, professor Jones. Noi crediamo che…»
   In quel preciso istante, qualcuno bussò discretamente alla porta.
   «Non vogliamo essere disturbati!» sbraitò Smith, furente.
   «Me ne occupo io» ruggì Taylor, andando alla porta.
   La spalancò con baldanza, ma impallidì vistosamente non appena si fu trovato di fronte un uomo con indosso uno sgualcito completo marrone, dall’aria depressa e dagli occhi simili a quelli di un cane bastonato. Il nuovo venuto fece un cenno di saluto e, senza essere stato invitato a farlo, entrò nella stanza. Smith si volse all’indietro per vedere chi fosse tanto impudente da fare una cosa del genere, ma anche lui si fece cinereo nel riconoscere l’uomo.
   «Joe Edmonds!» sbottò. «Com’è possibile…?»
   «Il generale Ross mi ha detto che, se fossi venuto a fare un giro da queste parti, mi sarei divertito parecchio» rispose con tono piatto il nuovo arrivato, scrollando le spalle. «Immagino non serva che io vi rammenti che, essendo l’indagine sotto il suo controllo, questo vostro ulteriore abuso sarà menzionato in ogni relazione. Allora, vedo che state interrogando il professor Jones. Continuate pure. Vi ascolto.»
   «Noi… noi abbiamo concluso» brontolò Smith, alzandosi.
   «Ma domani dobbiamo sentire gli altri testimoni, assolutamente» sottolineò Taylor.
   «Il generale Ross lo sa e mi prega gentilmente di informarvi che, nonostante tutte le indicazioni errate che avete fornito nel rapporto sui tempi dell’interrogatorio, sarà presente sin dall’inizio.»
   Nessuno dei due agenti dell’FBI sembrò avere niente altro da aggiungere, dato che lasciarono la saletta in fretta e furia, senza dire una sola parola in più o senza nemmeno accennare l’ombra di un saluto.
   In quanto a Joe Edmonds, si volse verso Jones e sorrise.
   «Indy, è un vero piacere rivederti!» esclamò.
   «Joe» fece Jones cupamente, rialzandosi. I due uomini avevano servito insieme nella stessa sezione speciale dei servizi segreti, durante e dopo l’ultima guerra, sotto il comando del generale Ross e del generale Eaton, ed in un’occasione pazzesca l’archeologo aveva messo seriamente a rischio la propria vita per salvare quella di Edmonds che, quindi, gli era più che devoto. Adesso, però, pur essendo contento di aver rivisto il vecchio amico e di essere stato tolto dai guai, Indy si sentiva incupito da ciò che aveva appena ascoltato. «Che cosa intendevano, quelle due piattole? Che testimoni devono ascoltare, domani?»
   «La signora Ravenwood, suo figlio ed il professor Oxley» spiegò Joe. «Devono rendere conto della propria testimonianza e, per come la spera il generale, confermare in pieno le tue parole.»
   Quella rivelazione fece spaventare parecchio l’archeologo.
   «Quei due sono pazzi!» sbraitò. «L’altra volta, per farmi parlare, mi hanno torturato con l’elettricità! Se soltanto osano torcere un solo capello a Marion, o al ragazzo, o ad Ox, be’… giuro che non ci sarà buco infernale abbastanza profondo in cui potranno andare a cacciarsi per sfuggirmi! Li farò a pezzi!» La furia si fece evidente sul suo viso, contratto dalla rabbia.
   Joe gli pose una mano sulla spalla.
   «Calmati» lo pregò. «È vero che i tre testimoni, per il momento, non sanno ancora nulla, riguardo l’interrogatorio di domani. Il generale ha voluto agire in questo modo per non alimentare in Taylor e Smith la folle convinzione che le loro risposte possano essere pilotate. Ma tu non devi preoccuparti di nulla, perché anche io e Bob saremo presenti, anzi sarà proprio il generale a condurre la verifica, mentre quei due idioti saranno presenti solo come ascoltatori.»
   «Al diavolo!» ruggì Jones. «E se decidessero di anticipare un po’ per farsi qualche idea preliminare? Ormai, ho capito bene come ragionano quei due!»
   Edmonds fece un sorriso rassicurante.
   «Ti ho detto che devi stare calmo. Non preoccuparti di nulla. Ti pare un caso, forse, che io mi trovi qui? Il generale, previdente, ha messo i tuoi amici sotto sorveglianza, anche se non ha pensato di far controllare anche te. Taylor e Smith, evidentemente, dopo non essere riusciti ad approcciare ieri sera il professor Oxley - pensiamo che volessero indurlo a confessare chissà che cosa per inguaiarti, ma mi sono calato nei panni di un tassista e gli ho praticamente impedito anche solo di vederlo da lontano - hanno pensato di venire da te ed incastrarti con chissà quali nuove frottole.»
   Jones scosse il capo, interdetto.
   «Non riesco a capire perché ce l’abbiano così tanto con me» brontolò.
   Joe scrollò le spalle, disgustato. «Lavorano per quella frangia del governo che vede comunisti ovunque e sarebbe pronta a qualsiasi cosa, pur di fermarli. È una vera ossessione, la loro. Anche se, ormai, quella vecchia mummia di McCarthy è svolazzata all’inferno da un mesetto, temo che questa faccenda della caccia alle streghe proseguirà ancora per qualche tempo. In ogni caso, tu non hai nulla da temere: il generale Ross ed il generale Eaton sono dalla tua parte, e pure il senatore Kennedy - che è stato incaricato di condurre il processo a capo della commissione d’inchiesta - dopo aver letto i primi fascicoli, ha privatamente espresso l’opinione che tutte le accuse mosse contro di te siano ridicole e che, per quello che hai fatto, meriteresti più che altro una medaglia.»
   L’archeologo trasse un respiro di sollievo e si portò una mano allo stomaco, che cominciava a brontolare.
   «Be’, se non c’è altro, io me ne andrei a fare colazione, finalmente. Ti unisci a me?»
   «Preferisco andare subito a fare rapporto al generale» si scusò Joe. «Ero appostato fuori dalla porta già da un paio di minuti, quando ho bussato, così ho potuto ascoltare le accuse ridicole che ti hanno fatto, sulla mafia e tutto il resto. Bob si farà una grossa risata e aggiungerà parecchie righe al suo rapporto. Vedrai che, quando questa storia sarà finita, quei due avranno ben poco da stare allegri.»
   I due uomini si strinsero la mano in segno di saluto, poi Joe andò per la sua strada, defilandosi rapidamente, e l’archeologo si diresse verso il ristorante, solamente un po’ turbato all’idea che, il giorno successivo, Marion, Oxley ed il ragazzo sarebbero stati sottoposti ad interrogatorio. Gli pareva veramente assurdo che, eroi come loro, dovessero subire un tale trattamento, ma se quelle erano le conseguenze per aver salvato il mondo, avrebbero dovuto trarre un profondo sospiro e accettarle.

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Capitolo 33
*** Capitolo XXXII - Un abbraccio ***


CAPITOLO XXXII
UN ABBRACCIO

   Marion uscì con il suo passo leggero dall’atrio del grattacielo e, vistolo fermo sul marciapiede, gli rivolse un caldo sorriso. L’aria della sera era immobile, eppure a Jones parve di udire delle vibrazioni attraversarla completamente fino a penetrargli dentro il petto, dando una folle accelerazione al già rapido battito del suo cuore. Le mosse incontro, senza riuscire a staccarle gli occhi di dosso mentre scendeva i gradini, e si incontrarono a metà strada.
   Di primo acchito, ebbe una voglia matta di abbracciarla e di cominciare a baciarla come se tutto dipendesse da quello, senza badare ai passanti che si affrettavano in tutte le direzioni e che, di sicuro, avrebbero avuto ben più di qualcosa da ridire se avessero visto due persone della loro età perdersi in effusioni degne di adolescenti debosciati. Non gliene sarebbe importato proprio nulla. Però, riuscendo a controllare i propri istinti primari, si limitò a prenderle la mano ed a portarsela alle labbra con inaspettata galanteria.
   «Indy, sai sempre come fare a sorprendermi» mormorò Marion, le cui guance si erano imporporate.
   «Tesoro, sei tu che mi spingi a cose inimmaginabili» le confessò.
   Le offrì il braccio e lei vi passò sotto il suo, mentre cominciavano a passeggiare lentamente. Non avevano una meta precisa, anzi non avevano la benché minima idea di dove fossero diretti, erano solamente felici di stare insieme e di camminare stando tanto vicini. Era come se ci fossero solo due, se il marciapiede, le vetrine dei negozi, la gente frettolosa, la strada con le automobili che correvano via, tutto fosse un qualcosa di intangibile e decisamente separato da loro.
   «Come sono andati questi due giorni?» chiese lei, ad un certo punto.
   «Ti ho pensata» ammise Jones. «Ti ho pensata in ogni momento. E a te?»
   Marion sorrise ancora. «Anche io ti ho pensato. Non credevo si potesse pensare tanto a qualcuno, eppure…»
   Entrambi avrebbero potuto - e voluto - chiedere a che cosa avessero condotto quei pensieri, ma non lo fecero. Forse, già il fatto di essere così vicini e di star passeggiando insieme, completamente alienati rispetto al resto del mondo, era già di per sé una risposta a qualsiasi domanda.
   Dopo un attimo di silenzio, Jones borbottò: «Ho sempre adorato camminare in tua compagnia.»
   Marion lo scrutò, rivivendo con gli occhi della memoria le tante passeggiate che si erano concessi insieme, sin dai loro primi incontri, tanti anni prima. Ma c’erano anche stati tantissimi anni di vuoto, senza più potersi vedere, di certo senza camminare insieme, e sottosotto le sarebbe piaciuto chiedergliene conto, domandargli che cosa lo avesse spinto ad uscire in silenzio dalla sua vita. Di sicuro, se avessero voluto procedere fino in fondo, se lei avesse trovato il coraggio di fargli quella proposta che le girava nella mente come un vortice di foglie trasportate da una brezza di primavera, avrebbero di sicuro dovuto affrontare anche quell’argomento scottante, per mettere in chiaro ogni cosa una volta per sempre e non ricadere nei medesimi errori del passato. Adesso, però, era presto, e non aveva desiderio di rompere la bella atmosfera del momento con discorsi precoci che, ancora, avrebbero potuto apparire fuori luogo. Ne avrebbero parlato a suo tempo, sperando, ovvio, che quel tempo non fosse poi così remoto nel futuro.
   «Anche a me piaceva passeggiare con te» gli rispose, invece. «Io ero così piccolina e mi sembrava di avere a fianco un gigante, sempre pronto a proteggermi. In realtà, l’ho capito dopo, non c’era proprio nulla, da cui tu avresti dovuto proteggermi, eppure crederlo era bellissimo.»
   Jones non rispose, limitandosi ad un sorriso che, però, fu più amaro di quello che avrebbe voluto. Era fin troppo consapevole che, negli anni trascorsi insieme ad Abner, dopo aver lasciato Gerusalemme, Marion non aveva più avuto alcun bisogno di protezione per il semplice motivo che aveva imparato a proteggersi da sola, diventando una donna dura e disillusa per poter tirare avanti e campare di giorno in giorno. Aveva solo una vaga idea di che cosa fosse stata costretta a fare e di che cosa avesse dovuto sopportare, in quegli anni duri, ma preferiva non pensarci perché, in fondo, se ne sentiva pienamente colpevole e responsabile. E, quando aveva finalmente avuto la propria occasione di riscatto, donandole quella pace e quella serenità che avrebbe meritato molto prima, se n’era fuggito, sottraendosi non solo alle proprie responsabilità, bensì anche al proprio amore, un amore vero che non aveva mai cessato di esistere.
   Ora, per rimediare, avrebbe potuto fare una cosa ben precisa, ossia portarla ad un altare e sposarla. Non gli erano mai piaciute le cerimonie, non aveva mai sopportato di mettersi in mostra dinnanzi a tutti, e non gli era mai neppure interessato di entrare in una chiesa a pregare, dato che non credeva a nulla che non fosse terreno e spiegabile razionalmente. Ma, per lei, sarebbe stato pronto a tutto questo: le avrebbe giurato amore eterno e fedeltà non dinnanzi a Dio, come a tutti sarebbe potuto parere ovvio osservando la scena, bensì davanti a lei stessa, guardandola negli occhi. Era a lei che avrebbe voluto promettere tutto questo, di onorarla, di amarla, di restare per sempre insieme.
   Per compiere un passo del genere, tuttavia, ci sarebbe voluto quel coraggio che, ancora, non sapeva decidersi a trovare. Aveva un’immensa paura di perderla, proprio lui che aveva praticamente trascorso la vita a fuggire da lei. Gli piaceva sentirla accanto a sé, il contatto del suo braccio contro il fianco, il passo cadenzato con il suo, i respiri vicini ed uguali; ma temeva che se avesse detto la parola sbagliata tutto sarebbe potuto finire di nuovo, questa volta per sempre.
   Inoltre, c’era quella dannata questione con l’FBI a tormentarlo. Il suo vecchio collega dei servizi segreti gli aveva praticamente giurato che tutto si sarebbe risolto per il meglio e che ogni stupidissima accusa montata contro di lui sarebbe stata fatta cadere. Non avrebbe dovuto preoccuparsi di nulla. E, però, non era Joe Edmonds quello che rischiava di essere condannato a sedere sulla sedia elettrica, era lui. Se la prima udienza con quel senatore Kennedy non fosse andata come previsto, lo avrebbero sbattuto in un carcere, prima di trascinarlo davanti ad una corte di giustizia che, con ogni probabilità, si sarebbe lasciata persuadere a riconoscerlo come colpevole di tradimento ed a dargli il massimo della pena. Molta gente più importante di lui, per sfuggire a simili deliri di onnipotenza da parte dei nuovi inquisitori, si era messa al riparo nella ben più civile e libera Europa, ma lui non voleva più saperne, non ora che aveva ritrovato Marion, il ragazzo, persino Oxley e, in poche parole, se stesso.
   Erano pensieri cupi, tutto frutto della sua immaginazione turbata, certamente. Ma ciò non toglieva che non ci fosse un’ombra oscura, nel suo prossimo futuro, e questo significava prima di tutto non potersi permettere troppi impegni che avrebbe anche potuto essere impossibilitato a rispettare. Però, se tutto fosse andato per il meglio, se ogni cosa si fosse aggiustata, allora…
   «Perché non ci sediamo?» domandò Marion, distogliendolo dalle sue considerazioni.
   Erano giunti nei pressi di uno dei tanti parchi cittadini, pieno di alberi profumati ed aiuole variopinte, che smorzavano parecchio il puzzo delle automobili, ed i cui vialetti di ghiaia erano circondati da comode panchine di metallo dipinto di un verde scuro. Jones approvò e, individuata una panchina più intima delle altre, nascosta tra due altissimi faggi dall’ampio fogliame e posta ai margini di un laghetto popolato da anatre, vi guidò Marion e le si sedette accanto, le ginocchia appoggiate alle sue e le mani che, istintivamente, si cercarono e si unirono, le dita intrecciate.
   Ancora una volta, fu il silenzio a farla da padrone. Forse, in certi casi troppe parole non servivano a nulla, ed era sufficiente starsene vicini e guardarsi negli occhi per ovviare a mille discorsi ritorti e pieni di eufemismi; nondimeno, certe cose andavano dette per forza, ed ora entrambi avrebbero voluto farlo. E, in effetti, pensarono bene di prendere la parola nel medesimo momento.
   «Indy…»
   «Marion…»
   Ammutolirono di nuovo, guardandosi in faccia, poi scoppiarono a ridere allegramente.
   «Prima tu» la invitò lui.
   Ma Marion scosse il capo. «No, no, professore. Prima voglio sentire cos’ha da dirmi lei.»
   Forse, vista la situazione, Marion si sarebbe aspettata qualcosa di romantico e Jones fu abbastanza rattristato dal fatto di doverla deludere, però sapeva di doverle dire quella cosa e, essendo ormai quasi sera, era conscio che non ci sarebbe più stato molto tempo.
   «Ho saputo che, domani, quelli dei servizi segreti intendono sottoporre ad interrogatorio te, il ragazzo ed Ox.»
   Quella notizia fece sbiancare Marion. «In... interrogatorio?» balbettò, sconcertata. «Ma che significa…? Che accidenti vogliono, da noi…?»
   Jones fece un sorrisetto sarcastico. «Be’, penso che due di loro apprezzerebbero moltissimo se voi gli diceste che io sono una spia russa, in combutta con i sovietici, ed altre delizie simili.»
   «Ma che stupidata!» sbottò lei. «Con tutto quello che hai fatto per fermarli, come possono pensare una balordaggine simile? Non ha senso!»
   «Viviamo in un’epoca strana. Il mondo, per certa gente, si divide ormai seccamente tra buoni e cattivi. E certi personaggi sarebbero alquanto smaniosi di inserirmi tra i cattivi e di trattarmi come tale.»
   «Se solo ci provano, dovranno vedersela con me!» ululò Marion. «Li faccio neri! Li ammazzo e li riduco in brandelli con queste stesse mani!»
   Non resistendo oltre, Jones le si fece più vicino e la strinse in un abbraccio. Quel tocco, quella vicinanza dei loro corpi, quel calore che li avvolse, fu sufficiente a cancellare ogni traccia di turbamento dalla mente di lui e di ira da quella di lei.
   «Ti sono infinitamente grato per il tuo sostegno, amore, e pure per i tuoi intenti sanguinari, ma ti assicuro che non servirà arrivare a tanto» le sussurrò nell’orecchio, senza smettere di tenerla stretta a sé. «È sufficiente che, con calma, tu, il ragazzo ed Ox raccontiate per filo e per segno che cosa sia accaduto. Ci sarà presente il mio amico Ross, quel generale che mi ha accompagnato in albergo, e non avrete nessuna noia.»
   Marion, sentendosi bene tra le sue braccia, non smise neppure per un momento di stargli così attaccata, accarezzandogli lentamente i capelli; quando anche lui prese a fare lo stesso con i suoi, chiuse gli occhi ed emise un leggero sospiro.
   «Credevo che il tuo amico generale avesse detto che saremmo stati chiamati a deporre di fronte al giudice, senza altri problemi» disse, dopo un poco.
   Jones affondò il viso in quei folti capelli bruni, beandosi della fragranza che emanavano e che avrebbe riconosciuto anche dopo mille anni ed in mezzo ad una folla.
   «È vero, ma quei due imbecilli dell’FBI hanno tentato di fare i furbi, così ora avrete anche questa seccatura in più» borbottò. «Mi dispiace di avervi procurato tante grane…»
   «Ma quali grane, Jones!» esclamò Marion. «Hai attraversato mezzo mondo per venirci a salvare…»
   Indy continuò a stringerla, come se avesse paura che, se l’avesse lasciata andare, sarebbe potuta scomparire.
   «Sai, io non potevo sapere che eri tu la madre del ragazzo… lui mi disse di essere figlio di Mary Williams, e io non ricordavo di aver mai conosciuto nessuno, con questo nome. Eppure, nei suoi occhi vidi fin da subito qualcosa che mi turbò… poi, mi mostrò la lettera che tu gli scrivesti dicendo di venire a cercarmi, non potei leggerla, perché non ne ebbi il tempo, ma quella calligrafia mi ricordò qualcosa… qualcosa che non riuscivo ad afferrare, senza senso… ma ogni cosa è andata al proprio posto quando ti ho rivista in mezzo a quella foresta, nell’accampamento…»
   Marion fece un altro respiro profondo.
   «L’ho sempre saputo che saresti corso a salvarci» mormorò. «Anche se te ne eri andato, anche se mi avevi lasciata sola, ero certa che non mi avresti abbandonata in tutte quelle difficoltà. Ma non potevo sapere che era una trappola, e che io ero l’esca… se l’avessi saputo…»
   Jones avvertì qualcosa di caldo contro il proprio collo. Marion stava piangendo. Con delicatezza si staccò da lei quel tanto che bastò per poterla guardare dritto negli occhi inumiditi.
   «Amore, mi getterei in mezzo alle più mortali delle trappole senza pensarci due volte, per venire ad aiutarti.»
   Quindi, non resistendo oltre, la trasse a sé e la baciò, fondendo le labbra con le sue e perdendosi nell’estasi di quel momento magico.

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Capitolo 34
*** Capitolo XXXIII - Secondo interrogatorio ***


CAPITOLO XXXIII
SECONDO INTERROGATORIO

   La mattina successiva, senza preavviso - ma, in realtà, più che consapevoli che ciò sarebbe successo, essendone stati preventivamente informati da Jones - Marion e Mutt vennero prelevati dalla loro casa da due uomini in completo nero e portati, a bordo di un’anonima berlina, ad un edificio del centro cittadino, in apparenza un qualsiasi palazzo di uffici. Furono scortati attraverso un atrio fino ad una disadorna saletta, dove trovarono Oxley. Il professore, le mani in tasca ed il volto sereno, era tranquillo, tanto che fischiettava tra sé, e pareva soltanto appena un po’ scocciato da quell’imprevisto.
   «Proprio oggi che mi apprestavo a scrivere uno dei capitoli più importanti del mio libro su Akator, doveva arrivare questa seccatura» si lamentò, a mo di saluto. «Spero che si sbrighino in fretta, non ho tempo da perdere.»
   «È molto che sei qui?» chiese Mutt.
   «No, sono arrivato cinque minuti prima di voi e mi hanno detto di aspettare» rispose. Abbassò la voce. «Per fortuna che Henry mi ha telefonato, ieri pomeriggio, altrimenti penso che mi sarei spaventato davvero.»
   «Volevano farci un interrogatorio a sorpresa, ma gli è andata male» rincarò la dose Marion. «Comunque, se questo serve a togliere dai guai Indy, sono più che felice di essere qui.»
   «Anche io» replicò Oxley. «Se sono stati così ottusi da non credere alle sue parole, dovranno per forza prestare fede ai nostri racconti. Io…»
   In quel momento, una porta grigia sul fondo della saletta venne aperta e vi si affacciò un militare.
   «Professor Harold Oxley? Può venire?» domandò l’uomo, in un tono così cordiale che, per un attimo, a tutti e tre non parve di essere prossimi ad un interrogatorio, bensì di trovarsi nella sala d’attesa dello studio di un medico, in cui ciascuno venga convocato al proprio turno.
   Oxley fece un sorriso rassicurante a Mutt e Marion, poi raggiunse il militare. La porta gli venne chiusa alle spalle.
   Passarono circa tre quarti d’ora, poi anche Marion venne convocata; Oxley fu fatto uscire da un’altra parte, quindi non poté dire loro nulla. Più tardi, venne anche il turno di Mutt, che cominciava a perdere la pazienza ed aveva una gran voglia di buttare tutto all’aria. Tuttavia, sapendo che si trovava lì per aiutare il matusa, riuscì a farsi forza ed a resistere.
   Entrò in una stanzetta parecchio brutta, illuminata da una flebile luce al neon, all’interno della quale si trovavano solamente quattro sedie - di cui tre già occupate dal generale Ross e dai due agenti dell’FBI che aveva già visto in aeroporto a Miami - ed una scrivania. Il militare che lo aveva convocato si immobilizzò accanto alla porta, mentre il generale, con un cenno cordiale, lo fece sedere di fronte a sé.
   «Allora, signor Williams» disse Ross, accendendo un piccolo registratore a nastro appoggiato sopra la scrivania, «le dispiacerebbe raccontarci tutto quello che le è accaduto dal giorno in cui sua madre partì per il Perù alla ricerca del professor Oxley?»
   Mutt non si fece pregare e parlò, parlò fino a quando non ebbe la gola così secca che Ross fu costretto a fargli portare da bere. Il generale fu alquanto gentile, nei suoi confronti, non provò mai a metterlo in difficoltà, né lo incalzò in alcun modo, limitandosi a porre qualche domanda di quando in quando per approfondire qualcosa. Seduti ai suoi lati, leggermente arretrati ed evidentemente costretti al silenzio, Taylor e Smith parevano poco persuasi da quel trattamento, ma nessuno di loro ebbe sufficiente coraggio per interporsi.
   «Bene» disse alla fine Ross, «credo che sia tutto. Signor Williams, la ringrazio per la sua testimonianza, posso assicurarle che ci è stata davvero preziosa. Ora, prego, segua pure il tenente, provvederà lui stesso a ricondurla a casa.»
   Mutt, che cominciava a sentire le gambe intorpidite, bloccato com’era su quella scomodissima sedia, non si fece certo pregare per alzarsi. Prima di andarsene, tuttavia, riuscì a trovare il coraggio per domandare: «E mio padre? Lo lascerete in pace, adesso?»
   Il generale non volle sbilanciarsi troppo, perlomeno non in presenza dei due agenti dell’FBI.
   «Abbiamo raccolto tutto ciò che ci interessava sapere» lo informò. Poi, alzatosi a sua volta, fece un gesto con la mano. «Prego, vada con il tenente. La ringrazio per la sua pazienza e le auguro buona giornata.»
   Non appena il ragazzo fu uscito, Ross spense il registratore e si rivolse ai due uomini che erano con lui.
   «Molto bene» annunciò. «Penso che abbiamo raccolte prove a sufficienza. Le parole dei tre testimoni confermano in pieno ciò che ci ha raccontato il professor Jones. Lui non ha agito per conto dell’Unione Sovietica, bensì contro di essa, nel pieno interesse del popolo americano. Direi proprio che, stando così le cose, il caso possa considerarsi chiuso. L’udienza, a questo punto, dovrà avere luogo, ma solo per reintegrare completamente Jones.»
   Smith sghignazzò. «Non si aspetterà che crediamo a questo mare di frottole, vero?»
   Ross lo guardò con aria corrucciata, ma non replicò nulla.
   «Tutte sciocchezze, dalla prima all’ultima parola» aggiunse Taylor. «Prive di significato. Non è vero niente, non può essere vero: esseri da altri mondi, dischi volanti, poteri occulti… stiamo scherzando, per caso?»
   Il generale fece un sorrisetto. «Sapete bene di che cosa si occupa la sezione che io ed Eaton comandiamo. E sapete perfettamente anche quale fosse il campo di ricerca della dottoressa Spalko. Tutto ciò che per le persone comuni può essere considerato paranormale, per noi è perfettamente plausibile. Sono propenso a credere ad ogni singola parola di quello che ho sentito e sono certo che, in questo stesso momento, anche nell’Unione Sovietica ci sia qualche pezzo grosso intento a fare un ragionamento simile. Avete presente quel militare che, stando ai racconti di tutti e tre, si è dato alla fuga dal battello fluviale? Se è riuscito a venir fuori vivo dalla foresta - e, chissà perché, sento che ce l’ha fatta - sarà subito volato a Mosca ad informare chi di dovere. Anzi, per quel che posso immaginare, i russi non perderanno tempo ed invieranno una spedizione in Brasile, per far scomparire ogni singola traccia del loro passaggio. Ecco, dunque, perché intendo a mia volta spedire immediatamente laggiù due dei miei uomini per documentare il più possibile ogni singola prova a sostegno delle parole dei nostri tre testimoni.»
   «Questa storia è pazzesca» si impuntò Taylor.
   «Ma potrebbe anche essere vera» si arrese Smith.
   Ross fece una smorfia sorpresa. «Toh, non dirmi che sto riuscendo a convincervi?»
   «Diciamo che, per quel che mi riguarda, non sono più tanto titubante» concesse Smith.
   «Ciò non toglie che vorremo essere spediti in Sud America con i suoi uomini, per vedere noi stessi tutto quello che ci sia da vedere» aggiunse Taylor.
   Ross scoppiò a ridere.
   «Non vorrete sporcarvi le mani di persona, vero? Guardate che non è una passeggiata, quella che vi aspetta. La Foresta Amazzonica non sono i giardinetti pubblici.»
   I due agenti lo sfidarono con gli occhi, prima che Smith sbottasse: «Mi dispiace, generale, ma è un rischio che dobbiamo correre. Non occorre certo ricordarle che, in questa faccenda, uno dei suoi uomini è sospettato ed un altro, McHale, è un traditore completo. Non possiamo permetterci nessun tipo di errore.»
   Punto sul vivo ed offeso da quelle parole, il generale sembrò sul punto di replicare piccato, ma poi pensò bene che non ne sarebbe valsa la pena.
   «D’accordo, allora. Non appena avrò contattato i due agenti che intendo mandare in Sud America - uno di loro, Edmonds, so che avete avuto il piacere di conoscerlo giusto ieri mattina - vi informerò e vi darò ogni indicazione affinché possiate partire con loro.» Preso il registratore ed infilatolo nella propria valigetta, fece atto di voler lasciare l’ufficio, poi però ci ripensò ed aggiunse, con un sorrisetto sarcastico: «Per andare laggiù, però, vi consiglierei un abbigliamento più appropriato: giacca e cravatta nere non si adattano molto ad un ambiente tropicale, sapete?»

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Capitolo 35
*** Capitolo XXXIV - Henry ed Harold ***


CAPITOLO XXXIV
HENRY ED HAROLD

   La sera, come a volersi sdebitare per il tempo che avevano perduto a causa sua, Jones invitò nuovamente a cena fuori Marion e Mutt, anche se, questa volta, li portò in un ristorante cinese; avendo viaggiato in tutto il mondo, aveva imparato ad apprezzare ogni tipo possibile ed immaginabile di cucina, comprese le più assurde ed improbabili, e voleva trasmettere tali capacità di saper assaggiare di tutto e di riuscire ad adattarsi agli usi e costumi di qualsiasi cultura anche al figlio - con Marion, avendo anche lei viaggiato in lungo ed in largo per buona parte della prima giovinezza, sapeva che non ce n’era affatto bisogno.
   Dopo una complicata cena a base di riso bollito ed involtini di verdura da mangiare solo con l’aiuto di un paio di bastoncini, si incamminarono, proprio come la prima volta, verso la casa di Marion e, ancora una volta, il ragazzo li lasciò soli; Indy era ovviamente più che pronto a soddisfare qualsiasi richiesta particolare che lei avesse voluto rivolgergli, ma quando furono giunti sul portone la donna, dopo aver mormorato qualcosa a proposito della stanchezza, si limitò ad augurargli la buonanotte ed a fargli promettere di tornare ancora da lei. Per tutta risposta, l’archeologo appoggiò le labbra sulle sue in un lungo bacio, poi restò fermo a guardarla finché non l’ebbe vista scomparire all’interno del palazzo.
   Il mattino successivo, invece, decise di andare a cercare Oxley, per poterlo ringraziare e scusarsi di tutte le rogne che gli aveva procurato.
   Non avendo idea di dove potesse abitare ed avendo scordato di domandarne l’indirizzo a Marion, pensò bene di recarsi in Università per chiedere informazioni in merito; una volta lì, un giovanotto alto e dai capelli rossicci gli comunicò che il professor Oxley si trovava in ufficio ed avrebbe potuto incontrarlo lì. Così, Indiana Jones si ritrovò a camminare adagio lungo quei corridoi che, ancora a distanza di tanti anni, gli erano parecchio familiari, scrutando i volti degli studenti di passaggio e sbirciando all’interno delle aule dove, ormai, si tenevano le ultime lezioni del trimestre.
   Come ricordava bene, gli studi dei docenti si trovavano all’ultimo piano di un edifico di mattoni rossicci in stile vittoriano, il cui interno era piuttosto cupo, anche a causa dei pannelli di legno scuro e dei dipinti ad olio che ne adornavano le pareti. I suoi passi lo condussero di fronte ad una consunta e pesante porta, che immetteva in un locale che, lui, conosceva benissimo, essendo stato lo studio del professor Ravenwood fintanto che aveva insegnato a Chicago; quante ore aveva trascorso lì dentro, a discutere dell’Arca dell’Alleanza e delle sue possibili ubicazioni. Per questo motivo, non fu molto sorpreso di scoprire che, adesso, sulla porta capeggiava una targhetta di ottone leggermente macchiato di ossido che indicava il nome di Oxley.
   Esitò un momento, poi bussò.
   «Avanti» rispose una voce distratta dall’interno.
   Jones aprì la porta e, ancora una volta, il mare dei ricordi rischiò di soffocarlo. Gli parve quasi di rivedere il vecchio e gigantesco Abner in piedi davanti alla finestra, la pipa in bocca e lo sguardo corrucciato mentre rifletteva sulla prossima mossa da compiere per poter giungere di almeno un passo più vicino all’Arca. Molte cose, in effetti, erano rimaste intatte, come se non fosse trascorso un solo giorno: l’atmosfera buia, quasi rarefatta, era la medesima che in passato, e la lampada verde da lettura sulla scrivania di rovere era praticamente la stessa. Anche la grande carta geografica dell’Egitto e del Vicino Oriente antichi, appesa sulla parete alle spalle della scrivania, non era stata toccata, sebbene adesso le fosse stata affiancata una carta del Messico precolombiano. Gli scaffali, colmi di libri, non erano stati rimossi dalla loro posizione originaria, ma sarebbe stato sufficiente avvicinarsi e dare un’occhiata ai titoli stampati sul dorso per rendersi conto che i volumi inerenti l’antico bacino del Mediterraneo fossero stati sostituiti con un’ampia raccolta di opere riguardanti la storia delle popolazioni native dell’America, prima e dopo la scoperta di Cristoforo Colombo. E, naturalmente, anziché Abner con la sua pipa, alla scrivania ingombra di carte geografiche, di libri aperti e di fogli colmi d’appunti era seduto Oxley, chino sopra alcune pagine che, ancora, non aveva terminato di scrivere con la penna stilografica dal pennino d’oro che stringeva nella mano destra.
   Sollevati gli occhi dalle sue fatiche, Oxley sorrise nel vedere il vecchio amico e, raddrizzatosi, gli indicò una delle sedie al capo opposto della scrivania.
   «Henry, che gradita sorpresa… accomodati, accomodati!»
   «Ox, il piacere è tutto mio» ammise Jones, sedendosi.
   «Posso offrirti qualcosa? Un tè?» propose Oxley, indicando un bollitore elettrico che aveva appoggiato sopra uno degli scaffali. «Passo talmente tante ore, qui dentro, che ho dovuto escogitare qualche piccolo trucco per non morire di fame o di sete» spiegò.
   «Ti ringrazio, ma ho appena fatto colazione» rispose l’archeologo.
   «Colazione?» si sorprese Oxley. «Vuoi dirmi che è già mattina…?» Frugò in mezzo alle carte sparpagliate sulla scrivania finché non ebbe ritrovato l’orologio da tasca che si era tolto. «Perdiana! Sono già le nove e mezza! È da quando sono rientrato ieri, verso mezzogiorno, che non faccio altro che scrivere! Come vola il tempo, quando ci si diverte, eh?»
   Il bizzarro inglese si alzò ed accese il bollitore e, aperta un’antina del medesimo scaffale su cui lo teneva, prese un pacco di biscotti, una zuccheriera, un cucchiaio, tazza e piattino e, ovviamente, la scatolina di metallo in cui conservava la sua miscela dei più pregiati tè indiani.
   «Sicuro…?» domandò a Jones, mostrandogli una seconda tazza.
   «Sicurissimo» replicò l’archeologo che, oltretutto, se poteva farne a meno non beveva mai il tè.
   Oxley tornò a sedersi e lo fissò con sguardo interrogativo. Da come le sue mani tormentavano la penna stilografica, era chiaro che non vedeva l’ora di rimettersi all’opera sul suo libro; per questo motivo, l’amico decise di venire subito al sodo.
   «Ox, sono passato soltanto per scusarmi e per dirmi che mi dispiace davvero tanto di averti fatto subire tante noie» gli disse. «Se avessi saputo prima che Ross avrebbe voluto interrogarti, avrei fatto in maniera di trovare ben altre soluzioni…»
   Oxley sollevò una mano.
   «Non scherzare, Henry. Considerato tutto ciò che hai fatto per me, e per Mutt, e per Marion, sono stato davvero felice di averti potuto aiutare e sono pronto a farlo in qualsiasi altro momento.»
   «Io…»
   «Se non fosse stato per te» non lo lasciò continuare Oxley, «a quest’ora sarei quasi certamente morto. Non sarei mai riuscito a liberarmi dell’influenza che il teschio di cristallo esercitava sulla mia mente e, alla lunga, sono certo che quei russi avrebbero perso la pazienza e mi avrebbero liquidato alla svelta con un colpo ben piazzato nel cranio. In alternativa, presumo che mi avrebbero segretamente condotto in Unione Sovietica per potermi studiare a loro piacimento, sottoponendomi a chissà quali spaventosi ed abominevoli esperimenti medici… mi viene freddo al solo pensiero.»
   Jones sospirò. Tutta quella faccenda era davvero ingarbugliata. I sovietici avevano utilizzato Marion come esca per attirarlo in un tranello, ma lui non ne sapeva nulla, del fatto che lei fosse coinvolta, anche se il suo cuore glielo aveva suggerito fin dal primo istante; lui era partito davvero per poter salvare Oxley, ma non solo. La verità era che, dopo tanti anni, il teschio di cristallo ed Akator, per i quali aveva rischiato di perdere la vita in gioventù, erano riusciti ancora una volta ad esercitare un grande fascino sopra di lui. Ora, sapeva di aver fatto bene a rincorrere quell’affascinante richiamo, perché non solo gli aveva permesso di scoprire una grande città perduta e di trovarsi quasi faccia a faccia con esseri provenienti da altri mondi, ma soprattutto gli aveva permesso di ritrovare tutta quella parte di se stesso che, ormai, credeva di aver definitivamente perduto.
   Guardandosi attorno, per un momento soltanto, gli parve davvero di essere ritornato un giovane archeologo fresco di laurea, con la testa ancora piena di sogni e di speranze, non ancora disilluso dalla fugacità della vita e dalle fosche bugie che potevano celarsi dietro un’amicizia apparentemente solida.

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Capitolo 36
*** Capitolo XXXV - Estate ‘25 ***


CAPITOLO XXXV
ESTATE ‘25

   «Allora, ne siete proprio certi?» domandò Ravenwood, togliendosi di bocca la pipa ancora fumante ed appoggiandola sul ripiano della scrivania.
   I tre ragazzi annuirono quasi all’unisono. Erano i suoi migliori studenti, laureati in pieni voti in archeologia, già parecchio esperti della materia nonché sufficientemente ambiziosi per riuscire a non fermarsi di fronte a nessuna difficoltà nel cercare di conseguire il proprio obiettivo. Peccato solo che, quell’obiettivo, divergesse parecchio dal suo.
   «Certissimi» confermò Jones, seduto di fronte a lui e guardandolo con quello sguardo ironico e strafottente che Abner aveva sempre tollerato a fatica, e solo perché lui era in pratica il suo preferito; se fosse stato un qualsiasi altro studente, ad avere la faccia tosta di rivolgergli occhiate simili, lo avrebbe sbattuto fuori dall’Università senza pensarci due volte.
   «Gli indizi che abbiamo raccolto sono più che sufficienti a farci credere di essere nel giusto» aggiunse Oxley, che gli sedeva accanto. Questo giovane inglese dall’aria timida era molto più rassicurante e dimostrava maggiore devozione, ma non era il tipo di persona su cui Abner avrebbe fatto completo affidamento, specie per i compiti più difficili; ecco perché, dunque, quando partivano per qualche spedizione archeologica, gli affidava più che altro il compito di pensare ad accudire Marion.
   «Ovviamente, ora è necessario compiere dei sopralluoghi sufficientemente accurati per fare sì che quegli indizi diventino prove concrete» rincarò la dose Jones.
   «E, per farlo, dobbiamo partire alla volta del Sud America» sottolineò il terzo studente che, fino a quel momento, era rimasto di spalle in disparte, voltato a studiare i titoli dei libri stipati sulle mensole. Si girò ed atteggiò il volto angelico in un sorriso serafico. «E, laggiù, troveremo Akator, o almeno quello che ne rimane.»
   Il professore si grattò i folti baffi, nel guardarlo. Per quel che poteva trasparire ad un primo esame, René Belloq sarebbe potuto essere il suo miglior allievo, un discepolo da cui aspettarsi grandi cose, molto più di chiunque altro. Non era indisponente come Jones, né impacciato come Oxley; in compenso, aveva la medesima arroganza del primo e la grande intelligenza del secondo, probabilmente persino amplificate. Ed era furbo e scaltro, glielo si leggeva nello sguardo con estrema facilità. Ma c’era anche qualcosa di sinistro, in quegli occhi, qualcosa che aveva turbato Ravenwood così profondamente da indurlo a non coinvolgere anche quel ragazzo francese nella ricerca dell’Arca, di cui, al contrario, Jones ed Oxley erano pienamente al corrente. Certo, qualcosa ne sapeva anche lui, lo aveva portato con sé in qualche ricerca, ma non era stato messo al corrente dei più minuti dettagli come gli altri due, che avevano dovuto giurare di mantenere in silenzio.
   Ovviamente, poteva credere di essersi sbagliato. La sua era tutta immaginazione ed era quasi sicuro che, se solo si fosse deciso a vincere una volta per tutte quelle sue paure irrazionali, quell’irragionevole diffidenza, Belloq avrebbe potuto condurre un importante apporto alla ricerca. Ma, considerato che quei tre si apprestavano a lasciare il paese per andare a vagabondare tra le foreste del Brasile nella speranza - a suo dire completamente insensata, nonché oltremodo ridicola - di trovarvi la mitica città di Eldorado, non era ancora il caso di parlarne anche con lui. Magari, lo avrebbe potuto fare quando fossero rientrati, sconfitti ed amareggiati e pronti a gettarsi in una nuova impresa di cui, invece, le basi erano molto più solide.
   «Naturalmente avrete tutto il mio appoggio» disse. «Vi sostengo in questo progetto e vi auguro di riuscire a mettere a segno un bel colpo, che sappia portare lustro tanto a voi quanto a tutta l’Università. Credo che una scoperta di tale portata, se si verificasse, costringerebbe gli storici a rivedere tutte le pregresse conoscenze inerenti l’America. E se, come sostenete voi, i teschi di cristallo che sono stati rinvenuti in numerosa copia tra il Messico ed il Perù provengono realmente da Eldorado - scusate, intendevo dire da Akator - significa che ci troviamo di fronte ad una scoperta sensazionale, oserei dire epocale, in quanto ci permetterebbe di confrontarci con una civiltà raffinata ed in grado di produrre, già in un lontano passato, artefatti per noi impossibili ed impensabili fino a pochissimi decenni or sono.»
   Nelle parole del docente risuonò un amaro sarcasmo che non sfuggì alle orecchie dei tre giovani; tuttavia, per il momento, si guardarono bene dal fare commenti, ma non appena furono stati congedati e si furono ritrovati a camminare per i corridoi della struttura, non riuscirono a trattenersi.
   «Ci sostiene a parole, quello, ma guai se pensa di cacciare fuori anche un solo centesimo per coprire qualche spesa» sbottò Belloq, le mani affondate nelle tasche e lo sguardo corrucciato.
   Se possibile, Jones pareva ancora più incollerito di lui.
   «Si è perso in tutte quelle moine solo per non dirci chiaro e tondo che, per lui, stiamo perdendo tempo dietro ad una vuota sciocchezza, mentre sarebbe molto meglio se sprecassimo le nostre giornate ad aiutarlo a cercare quella sua Arca della malora» grugnì, sollevando gli occhi al soffitto verso il punto in cui, più o meno, si trovava lo studio di Ravenwood. «Come se a qualcuno, poi, interessasse veramente qualcosa di un vecchio scatolone di legno dorato!»
   Come al solito, Oxley fu quello che riuscì a controllarsi maggiormente.
   «Il professore crede in noi» rammentò loro. «Dice sempre che siamo i suoi migliori allievi e ci ha coinvolti pienamente nella ricerca dell’Arca dell’Alleanza, il che…»
   «Vi ha coinvolti» sottolineò René, freddamente e quasi offeso. «Se non fosse stato per quello che mi avete raccontato, io di questa faccenda non ne sarei quasi neppure al corrente. Quel vecchio collerico non si fida di me, lo sento.»
   «Non dire così» provò a tranquillizzarlo Harold. «Probabilmente, è solo un po’ diffidente perché sei… come dire… di origine mediterranea. Lasciagli un po’ di tempo per rifletterci.»
   «Grazie tante» grugnì Belloq. «E, comunque, di tempo ne ha avuto più che a sufficienza, in tutti questi anni. Ormai, la laurea l’ho presa e non ho alcuna intenzione di restarmene qui dentro ad ammuffire in attesa che a Ravenwood passino le fisime sulle mie origini.»
   «E poi» aggiunse Indy, con ironia, lanciandogli un’occhiata divertita, «non è che abbia dato poi così tanta fiducia anche a te, Ox. Più che altro, ti ha assunto come balia per Marianne. Gli serviva una bambinaia e pare proprio che sia riuscito a trovarne una che, oltretutto, lavora gratuitamente. Il lavoro sporco, fino ad ora, l’ha fatto fare tutto e solo a me.»
   Oxley divenne paonazzo.
   «Io mi prendo cura della figlia di Ravenwood quando serve» ribatté. «Del resto, non si può abbandonarla a se stessa, povera creatura. D’accordo, ormai comincia a farsi grande e può arrangiarsi da sola in molte cose, ma i primi tempi che l’ho conosciuta era ancora una bambina, senza madre e con un padre che si ricordava della sua esistenza un giorno sì e due no. E, comunque, per tua informazione, si chiama Marion.»
   «Marion, Marianne, si chiamasse pure come le pare, la cosa non mi tocca minimamente, dato che non ho mai avuto e mai vorrò averci nulla a che fare» tagliò corto Jones. «Le faccende da baby-sitter te le lascio tutte a te, se ti piacciono così tanto.»
   Erano ormai fuori dall’Università e decisero di andare tutti insieme in pizzeria, da Gino’s, a mangiare un boccone. Di lì a pochi giorni sarebbero partiti per il Sud America, verso la loro grande avventura, anche se Jones avrebbe dovuto fare attenzione a far combaciare bene i tempi per non perdere i suoi primi giorni di lezione al Marshall College, dove era stato assunto grazie alla collaborazione di Marcus Brody, il vecchio amico di suo padre.
   Ancora non sapevano che Oxley, all’ultimo momento, avrebbe deciso di non partire e che Indy e René, nelle foreste del Brasile, avrebbero trovato qualcosa di molto differente da ciò che stavano cercando, qualcosa che li avrebbe tenuti separati per sempre, facendoli diventare nemici giurati per il resto delle loro esistenze.

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Capitolo 37
*** Capitolo XXXVI - Ritorno al Marshall College ***


CAPITOLO XXXVI
RITORNO AL MARSHALL COLLEGE

   «Henry, sei ancora con me?» domandò Oxley, vedendolo assente.
   Jones si riscosse d’improvviso dai propri pensieri, riponendo nuovamente quelle memorie nel cassetto dei ricordi e tornando a concentrarsi sul presente.
   «Ci sono, ci sono, mi era solo venuto in mente il tempo in cui, questo, era lo studio di Abner.»
   L’inglese fece un sorrisetto. «Me lo sono fatto assegnare apposta, quando sono venuto qui ad insegnare. Ravenwood aveva portato via tutte le sue cose, tranne quella» si volse ad osservare per un momento la carta geografica ingiallita che raffigurava l’Egitto ed il Vicino Oriente, «e non me la sono sentita di toglierla. In effetti, quando qualche studente o qualche visitatore entra qui dentro, rimane un po’ interdetto nel vedere una mappa simile, accanto a quella del Messico. Però, non potrei farne a meno, perché - oltre, naturalmente, a quelli che mi resteranno per sempre impressi nella memoria - non ho conservato altri ricordi del professore.»
   Anche Jones osservò la carta, dove si potevano ancora notare i segni a matita, ormai quasi del tutto sbiaditi, tracciati tanti anni prima dal docente: cerchi che indicavano le zone in cui, secondo lui, sarebbe stata collocata l’Arca nel corso dei millenni, frecce a segnalare diverse direzioni e piccole croci per eliminare aree già prese in considerazione, esplorate ed ormai prive di interesse. Per un momento, indugiò con gli occhi sul piccolo quadrato nero accanto a cui era segnato il nome di Gerusalemme, la città in cui il suo amore per Marion era sbocciato quasi improvvisamente, ma anche quella in cui aveva avuto definitivamente termine il suo sodalizio con il vecchio Ravenwood. Si erano separati in odio - e lui non aveva fatto nulla per controllarsi, pur sapendo della grave malattia che aveva colpito il suo mentore - e non si erano mai più rivisti. Quando, finalmente, era andato a cercarlo, Abner era già morto da un paio d’anni, povero, solo e dimenticato, assistito solamente da una figlia che, a sua volta, pur restandogli sempre vicina, aveva cominciato ad odiarlo fino alla disperazione.
   «Non potrò mai dimenticare le lunghe serate trascorse qui dentro a discutere delle ultime innovazioni in campo archeologico e, ovviamente, dei progressi nella ricerca dell’Arca» continuò Oxley. «Ne era davvero ossessionato, se ricordi.»
   «Sì» mormorò Jones. «Sì, lo ricordo.»
   «Be’, non che noi fossimo da meno. Ricordi quanto tempo trascorrevamo a parlare di Akator e della possibilità di poterla ritrovare? Be’, considerato come sono andate le cose, direi che già allora non eravamo neppure troppo lontani da fare centro.» Oxley si alzò per togliere l’acqua dal bollitore e versarla nella tazza, a cui aggiunse il tè. Tornò a sedersi e, poggiata la tazza fumante davanti a sé, riprese: «Sai, in tutto questo tempo non ho mai abbandonato l’idea di poterla trovare, anche se devo confessarti che ci sono state almeno un paio di occasioni in cui mi sono lasciato prendere dallo sconforto. Però, alla fine, posso proprio dire di aver fatto bene a non demordere, e che la mia tenacia, alla fine, ha pagato.» Tamburellò con le dita sopra le carte sparse.
   «Complimenti, Ox» disse Indy. «Alla fine ce l’hai fatta.»
   «Non ci sarei mai riuscito, se non fosse stato per te» sottolineò l’inglese.
   Ma Jones non era affatto d’accordo e fece un gesto di diniego con la testa.
   «Non dire sciocchezze, Ox. Io ho semplicemente seguito le tue precise indicazioni e ti ho dato una mano a sbarazzarti di quei balordi di russi, ma il lavoro te lo sei sobbarcato tutto tu, per trent’anni. Ci saresti riuscito perfettamente anche senza di me, lo sappiamo entrambi.»
   Oxley non replicò, prendendosi un po’ di tempo per aggiungere un paio di cucchiaini di zucchero al suo tè e per mescolarlo. Infine, disse: «E, però, adesso nei guai con la legge ci sei tu, non io. Che sciocchezza inaudita! Quegli agenti dell’FBI mi fanno venir da ridere, con le loro inchieste farlocche. Questo paese sta diventando sempre più simile ad un letamaio, per come la vedo io.»
   Jones allungò una mano e gli batté sul braccio.
   «Non prendertela, non serve a nulla. Ti posso assicurare che sono tranquillo e che non ho proprio nulla da temere; sono più che certo che, alla fine, non potranno farmi assolutamente nulla. Anzi, proprio per questo, ho deciso di fare richiesta per potermi trasferire ad insegnare qui a Chicago.»
   Quella notizia lasciò di stucco Oxley, che ne fu veramente sorpreso. Gettò uno sguardo al vecchio amico, spiandolo quasi con sospetto, e sbottò in maniera fin troppo rude: «Intendi lasciare il Marshall College? E perché mai?»
   Anche Jones rimase basito di fronte all’improvvisa freddezza di Oxley. Non riusciva a capire a che cosa potesse essere dovuto quell’improvviso cambio d’umore.
   «Be’, ci sono varie motivazioni che mi hanno spinto a questa decisione» rispose. «Una su tutte, è che voglio restare vicino a mio figlio» si guardò bene dall’accennare a Marion, dato che non voleva scoprirsi troppo con Oxley, che non aveva mai visto di buon occhio la sua relazione con la figlia di Abner. «Insomma, ora sono diventato genitore e voglio recuperare tutto il tempo che ho perduto.»
   «Questa cosa ti fa onore» rispose Oxley, «Mutt è un ragazzo molto in gamba e sono certo che avrete molte cose da imparare, l’uno dall’altro. Quindi è questo, che ti conduce a Chicago? Sei davvero pronto a rinunciare al Marshall College, dove insegni da anni e dove godi di ottima fama per averne ampiamente costruito le collezioni museali?»
   Jones annuì. «Questo è il motivo più importante ma, come ti ho detto, non è il solo. Vedi, ho trovato davvero intollerabile che, alla prima avvisaglia di un possibile sospetto su di me, i consiglieri abbiano deciso senza pensarci troppo di darmi il benservito. Mi avrebbero licenziato in tronco, ma Stanforth si è messo in mezzo ed è riuscito, come dice lui, a farmi mettere in aspettativa. Per me non c’è alcuna differenza, tra le due cose. Mi hanno buttato fuori.»
   «Però, come dici tu, le cose con l’FBI si risolveranno completamente e, di conseguenza, non avranno alcun motivo per non riprenderti.»
   Indy scosse il capo. «Bah! Non contarci troppo. Quelli mi hanno sempre tollerato a malapena e, se non mi hanno licenziato prima, è stato solo perché Brody mi teneva sotto la sua ala protettiva, e la sua influenza nell’ambito dell’Università era praticamente illimitata. Ma, ora che Marcus non c’è più, non ho molti alleati lì dentro e, soprattutto, non sono poi così di grande aiuto.»
   «Suvvia!» lo redarguì Oxley. «Il rettore è dalla tua parte, lo sai bene.»
   «Charlie è un vecchio amico, ma deve anche pensare a se stesso. Ha una moglie e due figli, non dimenticarlo. Non potrà rischiare di esporsi ancora una volta, perché si metterebbe in un mare di guai e, questa volta, faticherebbe parecchio a tirarsene fuori. No, non mi resta che sperare che accettino la mia domanda qui. In fondo, non sarebbe poi così male concludere la mia carriera qui, dove tutto ha avuto inizio. E averti come collega sarà una gioia immensa, te lo assicuro. Magari, se tu ci mettessi una buona parola, potrebbe essere tutto più semplice…»
   Oxley non riuscì a trattenersi dallo scoppiare a ridere.
   «Che cosa c’è, di tanto comico?» brontolò Jones, guardandolo storto. «Guarda che dico sul serio…»
   «Lo so, lo so» replicò l’inglese. «E, proprio per questo, mi auguro davvero che non ti assumano qui.»
   «Cosa?!» quasi gridò l’archeologo, interdetto.
   Oxley si piegò in avanti. «Mi sono dimesso, Henry. Io… ero talmente contento di averti ritrovato che, quando ancora eravamo a Miami, ho mandato una richiesta al Marshall College per poter essere assunto come docente di storia precolombiana.» Osservò la meraviglia dipingersi sul volto dell’amico e sorrise. «Che vuoi che ti dica? Mi sembrava giusto terminare la mia carriera al tuo fianco, dopo tutto quello che hai fatto per me. Be’, la mia fama mi precede, a quanto pare, perché in pochi giorni è arrivata una risposta positiva. Ho già rassegnato le mie dimissioni dall’Università di Chicago, resterò qui fino alla fine dell’estate per terminare le sessioni di esami e sistemare le ultime cose, dopodiché mi trasferirò a Bedford. Certo, però, se tu ora te ne vai, pare proprio che abbia combinato un bel pasticcio…»
   Jones lo fissò per un istante, senza sapere che cosa dire. Poi, all’improvviso, si lasciò andare in una risata talmente fragorosa che dovette portarsi una mano al petto per timore di essere sul punto di soffocarsi.
   «Io… tu… non posso crederci!» riuscì a blaterare.
   «Avrei voluto farti una sorpresa, invece la sorpresa l’hai fatta tu a me» disse Oxley, dopo aver bevuto una sorsata di tè. «E il ragionamento, più o meno, è il medesimo. Tu torni qui a terminare la carriera nel luogo in cui ti sei laureato, mentre io voglio farlo nel primo posto in cui ho insegnato.»
   L’archeologo si asciugò con il dorso della mano le lacrime che gli colavano dagli occhi a causa delle risate.
   «Siamo due perfetti vecchi idioti» commentò. «Non ci siamo parlati per così tanto tempo che, in pratica, abbiamo scordato che cosa voglia dire la comunicazione, così va a finire che ciascuno di noi fa le cose senza dire niente.» Improvvisamente, come colpito da un’inaspettata illuminazione superiore, Jones seppe di potersi fidare completamente di Harold Oxley. Abbassò la voce. «Ox, devo confessarti una cosa.»
   Oxley sollevò le sopracciglia. Che altro c’era, adesso?
   «Sono qui, Henry, ti ascolto.»
   «Io… ho ritrovato Marion…»
   «Sì, e hai fatto tantissimo per lei. Te ne sono infinitamente grato, Henry. Sai, non mi aveva mai detto che Mutt fosse figlio tu, forse temeva che, altrimenti, sarei venuto a cercarti per farti tornare indietro.»
   «E sarebbe stata la cosa migliore del mondo» grugnì Jones. «Io dovevo tornare molto prima, Ox. Perché la amo, non ho mai smesso di amarla per un solo istante. Eppure… ho avuto paura di ciò che questo avrebbe potuto comportare. Per tutta la vita sono stato un codardo, un fifone della peggior specie, ed ho nascosto questa mia vigliaccheria dietro l’apparenza di un rude uomo fatto e finito, sempre pronto a menare pugni per risolvere ogni situazione. Ma la verità è che mi sento un verme, mi sento di valere meno di nulla, uno zero totale. Non ho mai avuto il coraggio di rimanere insieme a lei, come avremmo tanto desiderato entrambi.»
   Si sarebbe aspettato una reprimenda da parte di Oxley - si infervorava sempre, quando un discorso andava a toccare la sua piccola Marion, la sua dolcissima sorellina - oppure che lui gli dicesse di dimenticarsi per sempre di lei e non crogiolarsi troppo nell’autocommiserazione che non avrebbe mai potuto porre rimedio a ciò che era accaduto in passato. Invece, l’amico si limitò a rivolgergli una domanda semplicissima.
   «E ora, questo coraggio, pensi di averlo finalmente trovato?» chiese, con aria distaccata. «Intendo dire, il coraggio di passare la vita con lei?»
   Jones abbassò lo sguardo.
   «Vorrei chiederle di sposarmi» ammise, sorprendendo anche se stesso. «Ti sembrerà una sciocchezza, dico bene? A questa età, poi…»
   «Niente affatto. E ricordati, poi, che per certe cose non è mai troppo tardi» lo rimproverò Oxley. «Specie per il matrimonio, che è la più seria di tutte le istituzioni che l’essere umano abbia mia concepito nella sua infinita genialità; attraverso di esso, ha dato forma e concretezza alla propria più intima capacità di provare sentimenti autentici e genuini, il che è qualcosa di straordinario, se ci si riflette. Più che altro, bisogna chiedersi: colui che vorrebbe sposarsi, è veramente sicuro e pronto ad andarci fino in fondo, in tutto questo, o crede di essere titubante al punto da abbandonare all’altare - di nuovo - la donna che sostiene di amare?»
   Oxley aveva parlato con il suo solito tono calmo, ma ogni singola parola era stata come una pugnalata nel petto, per Jones. All’improvviso, gli parve che nello studio mancasse l’aria e facesse fin troppo caldo ed ebbe una gran voglia di andarsene. Si alzò in piedi quasi di scatto.
   «Mi sono ricordato soltanto adesso di avere un impegno urgentissimo e inderogabile, un appuntamento con Ross per la faccenda dell’indagine, per via di alcuni punti da rivedere meglio» mentì. «Ci vediamo presto e non preoccuparti troppo per la storia delle Università, sono certo che la risolveremo nel migliore dei modi. In ogni caso, congratulazioni per il tuo ritorno al Marshall College, è una notizia davvero ottima.»
   Oxley comprese che il suo amico Henry stava fuggendo un’altra volta davanti alle proprie responsabilità, il che lo fece ardentemente sperare che si dimenticasse al più presto di quella folle idea del matrimonio e non tentasse di portarla avanti, perché sarebbe di certo stata fonte di ulteriori dolori e patimenti per la povera Marion, che ne aveva già dovuti patire fin troppi a causa di quell’uomo indeciso e spaventato dalla serietà della vita.
   Tuttavia, quasi con sorpresa, si scoprì a dire: «Rifletti bene su ciò che ti ho detto, Henry, mi raccomando. Pensaci a sufficienza e con serenità, prima di fare un passo tanto importante. Ci sono in gioco moltissime cose, se intendi.»
   Indy era già alla porta. Si fermò e si volse a guardarlo.
   «Lo farò» promise.
   Poi uscì.

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Capitolo 38
*** Capitolo XXXVII - Rinviato a giudizio ***


CAPITOLO XXXVII
RINVIATO A GIUDIZIO

   Il giorno dopo aver parlato con Oxley, Jones ricevette una telefonata da Ross, che lo informava che, il giorno seguente ancora, sarebbe dovuto comparire davanti alla commissione d’inchiesta per l’udienza preliminare.
   Nonostante tutto il suo sangue freddo e l’assoluta certezza - peraltro pienamente condivisa da Bob - della propria totale innocenza ed estraneità ai fatti contestatigli, l’archeologo quella notte non riuscì a chiudere occhio, funestato dai più terribili pensieri. Sapeva fin troppo bene in quale clima fosse precipitato il paese, attanagliato dall’insana paura del pericolo rosso, che aveva portato a compilazioni di vere e proprie liste di proscrizione, ma non avrebbe mai potuto credere - almeno, fino a poche settimane prima - che, una volta o l’altra, pure lui, che era sempre stato un fervente patriota, potesse venire coinvolto in simili faccende.
   La mattina, quindi, fu costretto a farsi una doccia fredda ed a bere una doppia dose di caffè per poter sperare di apparire presentabile all’udienza. In base agli accordi presi, un’automobile nera venne a prelevarlo davanti all’albergo alla sette precise e lo condusse a destinazione, nel medesimo palazzo in cui erano state ascoltate le testimonianze di Marion, Mutt ed Oxley. In questo caso, tuttavia, non fu il piccolo ed anonimo ufficio ad accogliere Jones, bensì un’ampia aula piena di sedie.
   «Indy» lo salutò sbrigativamente Ross, venendogli incontro e porgendogli la mano. «La commissione sta per entrare, seguimi.»
   Lo condusse ad uno dei banchi in prima fila e gli si sedette accanto; pochi minuti più tardi, una porta sul fondo dell’aula si aprì e ne entrarono sei persone dall’aria composta - quattro uomini e due donne - che si misero a sedere nei banchi rivolti verso Jones e Ross che, in pratica, costituivano tutto l’auditorio. Un uomo alto ma dall’aria malaticcia, con i capelli castani pettinati di lato, venne avanti e si issò quasi con una certa fatica sullo scranno più alto, cominciando subito a leggere ad alta voce un foglio dattiloscritto che aveva portato con sé.
   «Comincia l’udienza preliminare, fissata per la data di oggi, 17 giugno 1957, inerente le presunte attività sovversive imputate al colonnello Henry Jones, Jr., nato il primo luglio del 1899, professore ordinario di archeologia presso il Marshall College, già membro dei servizi di intelligence durante la prima guerra mondiale, dell’OSS durante la seconda guerra mondiale e della CIA nel periodo dal 1947 al 1950. Presiede il senatore Kennedy, rappresentante dello stato del Massachusetts ed incaricato di condurre l’inchiesta.» Fece una pausa per schiarirsi la voce. «Al professor Jones sono stati imputati i seguenti capi: complicità nell’azione di agenti del KGB infiltrati su suolo americano, spionaggio ed altri comportamenti sovvertitori volti a minare la sicurezza degli Stati Uniti d’America. Cedo la parola al generale Robert Ross, che ha raccolto le testimonianze per la difesa.»
   Ross si alzò e, dopo aver ringraziato il senatore, cominciò a parlare, senza aver praticamente mai bisogno di controllare i fogli d’appunti che aveva appoggiato sul tavolo davanti a sé. Per prima cosa, narrò di come Jones, mentre si trovava nello Yucatan per compiere alcuni sondaggi di tipo archeologico, fosse stato rapito da alcuni inviati sovietici, grazie alla complicità di George McHale, a sua volta ex agente dei servizi segreti che aveva tradito i propri ideali a causa delle gravissime condizioni finanziare in cui si trovava.
   «In base alle nostre indagini, abbiamo scoperto che, il giorno stesso del rapimento, su un conto svizzero intestato a McHale è stato versato un totale di cinquecentomila dollari. La banca non ha ovviamente voluto fornire alcun dato in proposito, ma le nostre spie hanno fatto risalire la provenienza del denaro ad una società con sede a Stalingrado, quasi certamente un semplice prestanome per il KGB.»
   «Quindi, se ne deduce che George McHale si è senza dubbio venduto ai russi» riassunse Kennedy. Lanciò un’occhiata ad un documento. «In effetti, qui risulta che avesse contratto numerosi debiti a partire dal 1955, debiti ormai divenuti per lui insostenibili, e che avesse pertanto urgente necessità di denaro. Vada pure avanti, generale.»
   Ross annuì e riprese a parlare, narrando di come gli agenti sovietici si fossero infiltrati nella zona militare in cui sorgeva l’Hangar 51, obbligando Jones ad aiutarli nella loro ricerca.
   «Il colonnello non poteva sapere che cosa, effettivamente, i russi stessero cercando dentro quell’installazione segreta, e credo che abbia agito nell’unico modo possibile: assecondandoli, anziché opporsi inutilmente, dato che questo lo avrebbe certamente condotto alla morte.»
   «Morire per la patria è un onore, generale» gli ricordò uno dei membri della commissione, con tono severo.
   «Non c’è dubbio» rispose Ross, freddamente. «Ma, in certe occasioni, è assai preferibile restare vivi, concorderete con me. Se il dottor Jones si fosse rifiutato di collaborare, infatti, avrebbe ottenuto solamente di farsi uccidere e potete stare certi che, anche senza il suo aiuto, i russi avrebbero comunque finito per mettere le mani su quello che stavano cercando. Agendo in questa maniera, il professore ha invece permesso che noi venissimo a conoscenza della presenza del KGB all’interno dei nostri confini. Vedete, io e Jones abbiamo fatto la guerra, e so che anche molti tra i presenti hanno prestato servizio; e presumo che, tra di voi, non ci sia nessuno che, in molte occasioni, non abbia scelto di restare vivo, e così continuare a servire fedelmente la propria nazione, anziché sacrificarsi, eroicamente certo, ma ottenendo soltanto di non poter più combattere.»
   Kennedy abbassò di nuovo gli occhi alle proprie carte.
   «Sappiamo che, al comando del gruppo di infiltrati russi, vi era la dottoressa Irina Spalko. Che cosa può dirci, di più, riguardo a questa donna?»
   Ross fece un sorrisetto. «Innanzitutto, che la dottoressa Spalko è morta.» Un brusio si levò nella sala. «In ogni caso, è un soggetto che conoscevamo molto bene. I suoi studi sulla parapsicologia, effettuati sotto la guida di molti maestri di yoga, la portarono ad approfondire il campo dell’occulto, al punto che fu anche affiliata alla Società Teosofica; in un mondo ateo e materialista come quello sovietico, ne convengo, rappresentava una vera mosca bianca, eppure questo, anziché ostacolarla, l’ha favorita nella sua scalata al potere. Ha ricevuto tre volte l’Ordine di Lenin, nonché la medaglia di Eroe del Lavoro Socialista. Nonostante la giovane età, durante la guerra si è battuta valorosamente tra le fila dell’Armata Rossa, guadagnandosi sul campo il grado di ufficiale. Stalin la favoriva, al punto da regalarle una promozione dietro l’altra e, nonostante voci maligne di rivali delusi asseriscano che la sua scalata al potere sia stata determinata soprattutto dall’aver concesso i propri favori sessuali al dittatore, è indubbio che il colonnello Spalko possedesse doti davvero eccezionali. Il suo campo di ricerca preferito era la possibilità di applicare energie psichiche in campo bellico, creando nuovi tipi di armi, come dire, non convenzionali.»
   Il senatore alzò un sopracciglio, perplesso. «Ed a questo si doveva la sua presenza in America?»
   «A questo ed agli studi del professor Harold Oxley.»
   «Uno dei testimoni per la difesa, se non erro.»
   Il generale annuì. «Esattamente. Il professor Oxley ha praticamente trascorso l’intera vita compiendo ricerche inerenti Akator - una città perduta dell’Amazzonia, meglio nota a livello popolare come Eldorado - e i tredici teschi di cristallo che, stando alle leggende, una volta riuniti innescherebbero un potere senza pari.»
   Jones, a disagio, si agitò un poco sul suo scomodissimo sedile. Ecco, erano arrivati al capolinea: ora Bob avrebbe cominciato a sciorinare storie di città perdute, teschi di cristallo, poteri psichici, esseri intradimensionali, forse anche spazio tra gli spazi ed altre cose simili e quel Kennedy, se fosse riuscito a trattenere le risate, gli avrebbe certamente ordinato di piantarla di prenderlo in giro, sempre che non ne avesse richiesta l’immediata interdizione psichiatrica. Non avrebbe creduto ad una sola parola, avrebbe condannato lui come traditore - spedendolo sul patibolo, nel migliore dei casi - e, probabilmente, avrebbe anche fatto rinchiudere Ross in un manicomio per aver prestato fede ad una simile faccenda.
   Invece, incredibilmente, Kennedy annuì.
   «Sì, conosco la leggenda. E, stando a quello che mi ha fatto sapere ieri sera per telefono il generale Eaton, pare proprio che non si tratti poi solamente di una leggenda.»
   Ross non si fece pregare e, in breve, riassunse tutto quello che sapeva, dall’incidente di Roswell - di cui, guarda caso, tutti i membri della commissione erano perfettamente al corrente - al furto della cassa con i resti mutilati dell’alieno; poi, passò ad illustrare le scoperte di Oxley, nonché il fatto che, dopo lunghe ricerche, riuscì non solo a trovare il teschio, ma anche a scoprire la vera ubicazione di Eldorado. Purtroppo per lui, era giunto ad effettuare queste mirabolanti scoperte proprio quando la dottoressa Spalko aveva cominciato ad interessarsi a sua volta a quella ricerca e, di conseguenza, a lui, il più informato esperto in merito.
   «Oxley, alla fine, raggiunse Akator, ma non riuscì in alcun modo a penetrare nel tempio dove, stando ai suoi calcoli, avrebbe potuto restituire il teschio di cristallo, liberando nuovamente l’antica conoscenza dei fondatori della città. Per questo motivo, dunque, ritornò sui suoi passi e raggiunse il Perù, intenzionato a fare qualcosa per risolvere quel rompicapo. Ma, ormai, era completamente assuefatto al potere dell’idolo e l’unica cosa che gli riuscì fu di scrivere una lettera ad una sua conoscente, Marion Williams, nata Ravenwood, affinché lo aiutasse a portare a termine quella che, per lui, era divenuta una vera e propria missione. Fu l’ultimo suo atto libero, dopodiché la polizia, credendolo un povero pazzo, lo rinchiuse in un sanatorio. La signora Williams, però, non capì nulla della lettera - un indovinello scritto in una lingua morta - e partì a sua volta per l’America latina per vedere che cosa fosse accaduto al professore. Nel frattempo, tuttavia, i sovietici erano già entrati in azione, rapendo Oxley nella speranza che li aiutasse, ma senza riuscire a cavarne nulla, nemmeno l’ubicazione del luogo in cui aveva nuovamente celato il teschio. Non appena ebbero saputo dell’arrivo a Nazca della signora Williams, pensarono di prendere anche lei, ma per la seconda volta non ottennero nulla. Una notte, tuttavia, sentirono Oxley e la signora discutere - o, meglio, solamente lei parlava, mentre il professore se ne rimaneva chiuso nel suo alienato mutismo - e scoprirono che un vecchio amico di entrambi era anche una loro conoscenza, un uomo che avrebbe forse potuto fare al caso loro: il professor Jones. Pertanto, segretamente, favorirono la fuga della signora Williams, facendo sì che portasse con sé l’indecifrabile lettera di Oxley; come avevano previsto, ella la spedì a Chicago, al proprio figlio, e vi accluse una lettera scritta di proprio pugno in cui gli domandava di rivolgersi a Jones, l’unico che sarebbe stato in grado di aiutarli. La signora riuscì anche a fare una rapida telefonata al figlio, per avvertirlo di parlare con Jones ma di non farsi coinvolgere minimamente nella faccenda, prima che i sovietici la catturassero nuovamente. Il signor Williams ricevette la lettera e, dopo aver inutilmente provato a leggerla, la portò con sé fino a Bedford, nel Connecticut, per consegnarla al professor Jones come gli era stato richiesto; ciò che non poteva affatto sapere, però, era che i russi, prevedendo questo appuntamento, stavano già tenendo sotto stretta sorveglianza sia lui sia Jones, in attesa del loro incontro. Tuttavia, qualcosa andò storto ed entrambi - tanto il professor Jones quanto il signor Williams, intendo dire - si rivelarono ossi parecchio duri da rodere, al punto che riuscirono a sottrarsi alla cattura da parte del KGB - che, in sostanza, pretendeva che Jones decifrasse la lettera di Oxley, per poi togliersi di torno una volta per sempre - ed a partire a loro volta per il Perù.»
   Ross fece una pausa per bere un bicchiere d’acqua con cui rinfrescarsi la gola, quindi andò avanti con tutto il resoconto, dal ritrovamento del teschio alla cattura di Jones e del giovane Williams, fino alla loro fuga insieme a Marion ed al professor Oxley, per arrivare, da ultimo, alla scoperta del modo di raggiungere Akator, dove infine il potere dei tredici teschi era stato liberato e la dottoressa Spalko ed i suoi uomini, compreso McHale, avevano trovato la morte.
   «Insomma» concluse, «come potete ben capire, tanto il professor Jones quanto i suoi amici si sono trovati, come dire, ad essere burattini nelle mani dei nostri avversari russi; e, ciò nonostante, anziché assecondare quei loro burattinai, hanno voluto con grande sprezzo del pericolo tagliare quei fili che li tenevano vincolati a loro ed adoperarsi in ogni modo per impedire che il nemico entrasse in possesso di un’arma dal potere probabilmente illimitato. Non dimentichiamo, infatti, che dopo aver riconquistato la propria libertà, queste quattro persone, anziché prendere la strada di casa come chiunque altro avrebbe fatto se si fosse trovato al loro posto, hanno voluto andare fino in fondo in quella faccenda intricata e sommamente pericolosa.»
   Tutti i membri della commissione restarono in silenzio per quasi un minuto. Infine, Kennedy riuscì a ritrovare la parola.
   «Ci sono prove per suffragare tutto questo, generale?» domandò.
   «Non siamo ancora stati in grado di produrle, effettivamente» ammise Ross, senza lasciarsi scoraggiare. «Tuttavia, in questo preciso momento, due dei miei uomini più fidati, accompagnati dai due agenti dell’FBI che hanno sollevato il caso, si trovano in Amazzonia proprio per questo motivo. Ho dato loro la massima priorità, in quanto abbiamo motivo di credere che i russi tenteranno di cancellare al più presto ogni singola traccia del loro passaggio.»
   Il senatore e gli altri membri della commissione si scambiarono occhiate frettolose ma cariche di convinzione. Nel vedere quegli sguardi determinati, Jones non seppe se essere felice o se avere paura: quale sarebbe stato il loro verdetto? La risposta non tardò ad arrivare.
   «In attesa che le prove siano prodotte, la sentenza definitiva è rinviata» disse alla fine Kennedy. «Il professor Jones, per il momento, potrà rimanere in stato di libertà e muoversi a suo piacimento, purché non lasci il suolo degli Stati Uniti, in quanto ciò non provocherà alcun inquinamento delle prove stesse. La seduta è tolta.»
   Ross si mise a sedere accanto all’amico.
   «È andata bene, dai» gli disse. «Ormai, sei praticamente libero, Indy.»
   «Non direi» replicò l’archeologo, incupito, guardando i pezzi grossi che uscivano dall’aula parlottando tra loro. «Se le prove non dovessero trovarsi…»
   «Non ti preoccupare» lo rassicurò Bob. «Ho inviato in Sud America Joe Edmonds e Sophia Hapgood. Li conosci bene e sai che, per te, sarebbero disposti a fare qualsiasi cosa.»
   Quella notizia confortò enormemente Jones. Sapeva di potersi fidare ciecamente di quelle due persone e, finalmente, si sentì davvero liberato da un grande peso.

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Capitolo 39
*** Capitolo XXXVIII - Febbraio ‘39 ***


CAPITOLO XXXVIII
FEBBRAIO ‘39
 
Montecarlo, Principato di Monaco

   La ricerca di Atlantide sembrava davvero giunta ad una svolta. Se glielo avessero detto soltanto un paio di mesi prima, Indiana Jones si sarebbe di certo messo a ridere ed avrebbe risposto al suo interlocutore di non prendersi gioco di lui e della sua preparazione accademica in quella maniera. Poteva accettare di aver ritrovato l’Arca dell’Alleanza o il Santo Graal, poteva anche ammettere di aver assistito a fenomeni inspiegabili e davvero miracolosi, ma non avrebbe mai creduto che l’antico continente di Atlantide potesse essere realmente esistito. A tutto, in fondo, doveva esserci un limite.
   E, invece, su ordine dei servizi segreti, eccolo lì, a fianco della collega Sophia Hapgood, impegnato nella ricerca dell’ingresso della mitica isola scomparsa, in un’agguerrita competizione contro i nazisti che, a quanto pareva, miravano al medesimo scopo per poter ottenere ingenti quantità di oricalco, un minerale sconosciuto e capace di sprigionare un’energia senza pari.
   Da quasi due mesi, quindi, fin dall’inizio di gennaio, erano indaffarati in un lungo giro del mondo, nella lunga ricerca di indizi e tasselli utili a ricostituire il quadro che, una volta completo, avrebbe dovuto condurli alla meta; due mesi lunghi ed estenuanti, durante i quali avevano affrontato pericoli di ogni sorta, visitato le più disparate ed esotiche località, nonché dormito all’addiaccio oppure alloggiato in alberghi e pensioni di volta in volta pessimi, mediocri o lussuosi. Questa volta, avevano avuto la fortuna di poter essere ospitati in un appartamento che i servizi segreti possedevano nella splendida località sulla Costa Azzurra, dove erano arrivati per incontrarsi con un anziano docente di origine greca che, a quanto pare, era entrato in possesso della parte mancante del Crizia di Platone, quella che avrebbe potuto rivelare le più sconvolgenti delle verità inerenti le antiche conoscenze da tempo credute perdute.
   L’appartamento, davvero grande e ben ammobiliato, offriva ai due archeologi comode stanze in cui poter dormire in tutta tranquillità, ognuno per conto proprio; ma, come accadeva da ormai diverse settimane, a sera, quando smisero di lavorare, raggiunsero la medesima stanza, si spogliarono e si coricarono insieme nello stesso letto. Senza una sola parola, Sophia stimolò con le mani il corpo di Jones, poi gli salì a cavalcioni sulle gambe e si dettero l’una all’altro senza la minima passione, senza una sola briciola di amore, senza quasi neppure guardarsi negli occhi. Era un’azione, quasi meccanica e priva di significato, che ripetevano praticamente ogni sera, rapidamente, considerandola necessaria come farsi una doccia o lavarsi i denti, e che li aiutava a rinfrancarsi di tutte le energie bruciate nel corso della giornata. Tuttavia, per Indiana Jones era anche una piccola soddisfazione personale perché, nonostante i primi capelli grigi cominciassero ad apparirgli in capo, riusciva a far gemere di piacere l’amica praticamente sempre.
   Non appena il loro rapido accoppiamento fu terminato, Sophia gli scivolò a fianco e si sistemò il cuscino dietro la schiena, allacciandosi le braccia dietro la testa.
   «Credo che siamo ad un buon punto» commentò, senza più rivolgere un solo pensiero a quanto appena fatto, ma tornando ad immergersi immediatamente in ciò che più la interessava: erano anni interi, ormai, che andava alla ricerca di Atlantide, e l’idea di essere sempre più vicina al traguardo le stava facendo dimenticare tutto il resto.
   Jones, che invece su certi aspetti della vita umana era decisamente più sensibile, non riuscì a trattenersi dal dare almeno un’occhiata al pesante seno della donna, leggermente arrossato e reso lucido da qualche gocciolina di sudore. Tuttavia, dopo quel veloce esame, tornò a sua volta in argomento.
   «Se il professor Esfratios ha veramente ritrovato la parte mancante del Crizia, siamo a cavallo» disse. «Si è sempre supposto che Platone lo avesse semplicemente abbandonato per dedicarsi alla scrittura delle Leggi ma, a quanto pare, gli studiosi si sono sempre sbagliati. A quanto pare, per millenni ne è stata tramandata l’unica parte conosciuta, senza sapere che il resto era celato da qualche parte.»
   «Non vedo l’ora di avere quelle pagine tra le mani» riprese Sophia, con tono quasi avido. «E, proprio, non capisco perché non abbia voluto incontrarci questa stessa sera. Ho paura che i nazisti possano arrivare prima di noi.»
   «Se non sono già qui, stai sicura che si faranno comunque vivi molto presto» profetizzò Jones, con una punta di sarcasmo nel tono della voce. «In ogni caso, quell’Esfratios deve essere un furbone, lo sento. Non se ne andrà certo in giro con il dialogo in tasca, su questo puoi stare tranquilla. Se ci ha fatti venire proprio qui, un motivo deve esserci, altrimenti avrebbe potuto chiederci di incontrarlo ad Atene o che so io. Scommetto che il manoscritto è celato in qualche caveau inaccessibile e soltanto quando avrà ottenuto la giusta ricompensa acconsentirà a mostrarcelo; per fortuna, abbiamo le spalle ben coperte, per quanto riguarda i soldi. Lo sapranno anche i nostri amici tedeschi e, per questo motivo, non rischieranno di sciupare Esfratios con il rischio di perdere per sempre il dialogo e la possibilità di localizzare Atlantide. I veri guai, semmai, cominceranno quando lo avremo avuto tra le mani, il che ci costringerà ad una fuga precipitosa, per cui sarà meglio goderci per bene questo comodissimo letto, dato che da domani con ogni probabilità dovremo dirgli addio.»
   «Capisco» mormorò Sophia, «e penso che tu abbia ragione…»
   Si voltò e si sdraiò sulla pancia, mostrandogli la schiena. Con malizia, si inarcò leggermente verso l’alto.
   «Questa volta, allora, voglio provare qualche cosa di differente dal solito…»
   Jones non si fece certo pregare e l’accontentò immediatamente.

   Come avevano previsto, il giorno dopo - con il dialogo al sicuro nella tasca interna di una giacca - dovettero lasciare rapidamente Montecarlo, sfuggendo per il rotto della cuffia ai terribili sicari inviati sulle loro tracce dagli agenti del Terzo Reich. Quella, però, fu la svolta definitiva, che portò molto più vicino al traguardo. La ricerca di Atlantide continuò ancora a lungo e li tenne impegnati fin quasi alla fine della primavera ma, nonostante tutte le difficoltà, andò a buon fine, ed entrambi riuscirono ad uscirne vivi dopo aver sconfitto gli agenti tedeschi. La loro collaborazione lavorativa, a quel punto, parve potersi considerare conclusa. Tuttavia, quello non fu un addio, tra Indiana Jones e Sophia Hapgood, ma un semplice arrivederci, dato che, molto presto, si ritrovarono entrambi a servire gli Stati Uniti come agenti speciali agli ordini di Musgrove, Eaton e Ross, rimanendo fianco a fianco per tutta la durata della seconda guerra mondiale.
   Fu in quello stesso frangente che Indy fece la conoscenza non solo di George McHale, che rimase uno dei suoi più cari amici fino al giorno in cui lo tradì miseramente per ricavarne qualche soldo, ma anche di Joe Edmonds, agente temerario che l’archeologo, con sommo sprezzo del pericolo e disobbedendo ad una miriade di ordini, riuscì a salvare, proprio sul filo del rasoio, da una morte orribile, guadagnandosene così la lealtà per il resto dei suoi giorni.
   Poter contare, adesso, proprio su Sophia Hapgood e Joe Edmonds, dunque, gli restituì ogni speranza e cancellò la paura dal suo cuore, facendogli credere senza più alcuna ombra di dubbio che, ogni cosa, si sarebbe potuta risolvere facilmente, andando a buon fine.

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Capitolo 40
*** Capitolo XXXIX - Almeno provarci ***


CAPITOLO XXXIX
ALMENO PROVARCI

   Avere finalmente la certezza che le cose sarebbero volte al meglio senza possibilità di ulteriori ricadute, tolse un grosso peso dal cuore di Indy che, finalmente, si ritrovò a respirare liberamente ed a pensare a come sarebbe potuto essere roseo il futuro. Ed in quel futuro, ormai, non vedeva più soltanto se stesso da solo, ma anche Marion.
   Dopo l’udienza, girovagò a lungo per Chicago, osservando ogni palazzo, ogni strada ed ogni automobile di passaggio sotto una luce nuova, che lo faceva sentire giovane e sano come mai si era sentito prima. Era tutto così bello, pulito e sereno, adesso. Magari, di quando in quando, una leggera stilla di inquietudine ancora arrivava per impossessarsi di lui, essendo comunque la faccenda del processo ancora in sospeso, ma gli era sufficiente passare dall’ombra di un grattacielo ad una via inondata della calda luce di giugno per sentirsi improvvisamente meglio.
   Quella notte, nella sua camera d’albergo, dormì come un sasso ed il mattino successivo, come prima cosa, corse verso casa di Marion, deciso a raccontarle tutto ed a farle sapere che, nel volgere di poche settimane, ogni singolo sospetto sul suo conto sarebbe stato definitivamente accantonato, il che lo avrebbe reso nuovamente il solito uomo libero di sempre.
   «Libero, Indy» approvò Marion, quando lui le ebbe finito di raccontare quanto udito il giorno precedente e le sue convinzioni inerenti il futuro. «Libero come sempre sei stato, sì. Libero di andartene in giro per il mondo, esplorando i luoghi più strani, libero di cacciarti nei guai e, soprattutto, libero di dimenticarti di tutto il resto.»
   Quelle parole furono come una stilettata che colpì l’archeologo in pieno petto, mozzandogli il respiro.
   Erano seduti sopra il divano dell’appartamento di Marion e parlavano a bassa voce perché, nella sua stanza, Mutt dormiva ancora, essendo rientrato all’alba dopo una notte a bighellonare in giro. Jones, pur non approvando minimamente una simile condotta che lo faceva pensare fin troppo ai tanti giovani spericolati di cui, ogni mattina, si leggeva sui giornali per essere rimasti uccisi in disastrosi incidenti avvenuti mentre sfrecciavano a folle velocità o per essere stati accoltellati in risse provocate per questioni irrisorie, non aveva voluto fare alcun commento in merito ed aveva ubbidito a Marion quando gli aveva domandato di non fare troppo rumore.
   Ora tuttavia, non riuscì ad esimersi dall’esclamare: «Non è questo che intendo dire con libero!»
   «Ssst!» sibilò Marion, facendogli segno di abbassare la voce. «Mutt dorme.»
   «Scusa» sussurrò Jones. «Comunque, non voglio affatto dimenticarmi di nulla. Specialmente, non voglio dimenticarmi di voi… e di te.» Non riuscendo più a resistere oltre, afferrò le mani della donna tra le sue. Lei parve davvero sorpresa, per quel contatto, ma non provò a ritirarsi, limitandosi a guardarlo con occhi pieni di interrogativi a cui lui, per una volta, avrebbe dovuto dare una risposta sicura.
   «Marion, io…» borbottò. Non sapeva neppure da dove cominciare per poterle dire ciò che aveva in mente.
   «Sì?» lo incitò lei, fissandolo con un sorrisetto così dolce che gli fece rimescolare completamente il sangue nelle vene. Non si poteva più tornare indietro, ormai.
   «Marion, lo so che te l’ho detto un milione di volte e poi, ogni volta, ho dimostrato l’esatto contrario» riprese Indy, facendosi coraggio. «Ma io ti amo. Ti amo e, proprio per questo, vorrei chiederti di ricominciare tutto da capo, almeno di provarci. Lo so che non sono mai stato un granché, che sono sempre stato incapace di esprimere i miei veri sentimenti, ma tu devi capire che molti, tra di noi, sono fatti così. A parole non siamo capaci di fare nulla. Ma ti assicuro che ciò che sento dentro di me, quando ti penso - e ti penso in ogni momento della giornata - è autentico, e so benissimo di che cosa si tratta.»
   Marion non rispose immediatamente, limitandosi ad un lungo sospiro. Perlomeno, continuò a fissarlo negli occhi, senza distogliere lo sguardo neppure per un singolo istante, e le sue dita si strinsero un po’ di più attorno a quelle di Indy, il che parve comunque un segno di speranza, una speranza che non era mai morta, nonostante i decenni vi si fossero accaniti addosso con l’inaudita ferocia del tempo fuggente.
   «Jones, tu lo sai bene, vero, che io non sono più la ragazzina focosa che ti saltava addosso appena poteva? Hai visto che sono invecchiata, che non sono più snella come tu mi ricordavi, che probabilmente ingrasserò ancora e che la mia pelle, nonostante ogni sera lo copra di creme e pomate, si sta riempiendo di macchie e smagliature…»
   Quel discorso lo lasciò interdetto.
   «Ma sul serio pensi che a me interessino queste cose?» grugnì. «Io amo te, Marion, non il modo in cui sei fatta di fuori. Tu, per me, resterai per sempre la dolce ragazzina di cui mi sono perdutamente innamorato tanti anni fa e che, nonostante ogni mio sforzo, non se n’è più andata dal mio cuore. Perché una cosa l’ho imparata con certezza: quando l’amore è vero, autentico, non te ne liberi più, campassi mille anni…»
   Inaspettatamente, Marion liberò le mani e gli gettò le braccia al collo e, prima che avesse fatto in tempo ad aggiungere altro, lo baciò con quella passione indimenticabile che soltanto lei era in grado di trasfondere in quei momenti, mentre il viso si infiammava ad entrambi ed i loro corpi cominciavano a fremere di un’emozione autentica e genuina. Dopo tanto tempo, era come se finalmente avessero compreso per davvero di essere nuovamente insieme, non più due estranei intenti alle loro vite affaccendate e separate, ma due amanti uniti da un legame che pareva realmente inscindibile.
   «Proviamoci, Indy» mormorò Marion, a fior di labbra. «Proviamoci, almeno, e vediamo che cosa succede.»
   Non volle neppure pensare a che cosa sarebbe potuto succedere. Non trovò il coraggio di far convolare i propri pensieri verso ciò a cui davvero aspirava, quello di cui aveva parlato con Lucinda meno di una settimana prima, l’idea di potersi sposare con Jones e trascorrere insieme il resto delle loro vite, fossero tanti o pochi gli anni che gli sarebbero rimasti. Non ci pensò perché ebbe il timore che, se solo lo avesse fatto, quel sogno si sarebbe potuto infrangere, come un’onda contro la scogliera, lanciata verso chissà quali conquiste ma inevitabilmente fermata da una parete rocciosa troppo grande e potente per poter essere scalfita. In quel momento erano entrambi in balia di un’onda, ne era certa, e sarebbe bastato pochissimo per poter raggiungere la riva, e camminare insieme tenendosi per mano, oppure affondare per sempre nelle acque oscure e fredde che li avrebbero avvolti spegnendo in una sola volta ogni stilla di vitalità. Erano in bilico, sul bilico delle loro esistenze, e non ci si poteva permettere passi falsi - neppure mentali - perché senza alcuna ombra di dubbio sarebbero stati fatali ed irreparabili.
   Restarono abbracciati, riprendendo a baciarsi di quando in quando, per un tempo interminabile, anche se a loro parve fatto solamente di pochissimi minuti; e si decisero a lasciarsi finalmente andare soltanto quando udirono dei rumori provenire dalla camera di Mutt.
   Si ricomposero in fretta e Marion, alzatasi dal divano, corse in cucina a preparare del caffè, mentre Jones rimase al proprio posto, a giocherellare nervosamente con il nodo della cravatta.
   Il ragazzo apparve poco dopo, con già indosso jeans e maglietta, pronto ad una nuova giornata ad occuparsi di motociclette. Non parve troppo sorpreso di trovare lì suo padre o, in ogni caso, non fece alcun commento, limitandosi a mettersi a sedere dove fino a poco prima era accoccolata Marion ed iniziando subito un discorso inerente le moto.
   «Sai, io ho escogitato un modo semplice ma efficace per renderle molto più sicure» ammise, evidentemente desideroso di dimostrare al matusa che, pur avendo abbandonato gli studi, non era un asino fino in fondo come forse credeva lui. «Chi mi porta la moto, può stare certo che avrà molti meno incidenti.»
   «Vale a dire?» domandò l’archeologo, a suo modo incuriosito.
   Il giovane ammiccò.
   «Freni a disco» rivelò, a bassa voce, come se quello fosse un segreto importantissimo. «Nessuno ci ha ancora pensato, ma sulle moto sono decisamente più efficaci rispetto ai normali freni a tamburo. La frenata risulta molto più fluida e indiscutibilmente più rapida e sicura, ne converrai con me. In pratica, però, a parte che sulle automobili, non vengono impiegati su nessun mezzo. Allora io, con pazienza, smonto i freni a tamburo delle motociclette che mi vengono portate e ci monto quelli a disco. È un’innovazione geniale, che nessun altro ha ancora considerato, ed i miei amici ne sono tutti pienamente soddisfatti. Li avevo sistemati anche sulla mia, quella che è rimasta in Perù…»
   Jones annuì. «Tu hai del potenziale, certo, ma non credo che dovresti trascorrere la tua intera vita facendo solo il meccanico» disse. «Secondo me, faresti molto meglio a riprendere al più presto gli studi e cercare almeno di…»
   Si pentì immediatamente di quanto appena detto, perché il ragazzo, dopo averlo fulminato con lo sguardo, scattò in piedi come una molla e fece per allontanarsi senza aggiungere una sola parola. Tuttavia, parve ripensarci e, voltatosi all’indietro, ruggì: «Non è solo studiando che si conquista l’intelligenza o che si capisce quale sia il modo migliore per stare al mondo, ricordatelo bene!» quindi scomparve nella cucina, da dove proveniva l’invitante aroma del caffè.
   L’archeologo restò fermo in silenzio, riflettendo su quanto il ragazzo gli aveva appena detto. Non poteva certo dargli torto, almeno non in tutti i sensi: nel corso della sua vita, aveva conosciuto persone profondamente sagge che, magari, non avevano avuto accesso nemmeno ai più minimi livelli dell’istruzione. Di contro, gli era più volte capitato di imbattersi in uomini e donne che, pur potendo contare su roboanti titoli accademici, si erano dimostrati avidi predoni animati solamente dalle più malvagie intenzioni. E lui stesso, pur essendo laureato, pur avendo un sapere sconfinato e pur conoscendo decine e decine di lingue - grazie alle quali, peraltro, aveva meglio concepito e conosciute culture lontanissime - in realtà non era mai stato un granché, come uomo, anzi si era rivelato essere un penoso fallimento che soltanto adesso, ben oltre il giro di boa della vita, stava disperatamente cercando di trovare un sistema per farsi perdonare.
   Per quanto difficile fosse ammetterlo, il ragazzino gli aveva appena dato una sonora lezione di cui non si sarebbe mai più scordato e chissà che, magari, questo non sarebbe potuto bastare a lasciarlo in pace, per ciò che riguardava le sue scelte. Di certo, non avrebbe mai rinunciato del tutto a tentare di indurlo a terminare gli studi, almeno per poter conseguire un diploma, ma non avrebbe mai insistito troppo né avrebbe cercato di dirgli che, se non lo avesse fatto, la sua vita sarebbe stata inevitabilmente rovinata.

   Quelli che seguirono, furono i giorni più romantici di cui Indy e Marion avessero memoria, perlomeno i più romantici da tantissimi, troppi, anni. Spesso si davano appuntamento per passeggiare, tenendosi sottobraccio, lungo le vie di Chicago, nelle ore più tiepide del pomeriggio od in quelle dolcissime della sera, e queste passeggiate li conducevano spesso verso i parchi cittadini oppure fino alle rive del grande lago, le cui coste sfumavano nell’azzurro intenso come quelle di un immenso mare interno. In alcune occasioni, salirono anche a bordo di un battello che li condusse al largo, dove gli unici suoni che potevano ancora udirsi, oltre al fragore delle pale spinte dai potenti motori diesel, erano le grida dei gabbiani ed il suono della risacca. Non di rado, poi, quando erano a terra, entravano in qualche locale per bere o mangiare qualcosa insieme, come due ragazzini innamorati, e non mancava mai occasione per salire nell’appartamento di Marion e stendersi da qualche parte a scambiarsi baci e carezze.
   L’amore, tra loro, stava sbocciando di nuovo con una forza prorompente ed implacabile e, anche se ancora non avrebbero saputo dire dove ciò li avrebbe potuti condurre con esattezza, di qualcosa erano ormai più che certi, ossia che tutti gli anni trascorsi lontani l’uno dall’altra erano stati uno spreco totale, che aveva reso più acerbe e molto meno luminose le loro vite.
   Non c’erano più difficoltà, adesso, tra di loro, non c’erano più incomprensioni od incertezze, perché tutto apparteneva ad un passato sempre più lontano, ed il presente doveva servire solamente a recuperare il tempo perduto e sprecato, in previsione di un futuro che non pareva mai essere stato tanto vicino.

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Capitolo 41
*** Capitolo XL - Sparatoria nella giungla ***


CAPITOLO XL
SPARATORIA NELLA GIUNGLA

   Mentre Indy e Marion, piano a piano, riscoprivano le gioie dell’amare e dell’essere amati, a migliaia di chilometri di distanza dall’Illinois la situazione stava cominciando a farsi decisamente pesante e ben poco felice.
   Dopo aver camminato per giorni nella boscaglia intricata, facendosi aiutare da una guida indigena che parlava solamente qualche parola di portoghese, Hapgood, Edmonds, Smith e Taylor giunsero infine in vista di quello che era stato l’accampamento dei sovietici.
   Effettivamente, quello non era stato il loro primo ed autentico risultato: seguendo le indicazioni fornite tanto da Jones quanto dal professor Oxley, erano riusciti a rintracciare il comandante Bauru che, per fortuna, non aveva ancora smerciato il teschio di cristallo che gli era stato fornito in pegno per il passaggio lungo il fiume. Bauru si era certamente reso conto del potenziale economico di quell’oggetto ed aveva repentinamente cambiato idea riguardo il fatto di conservarlo per sempre per sé, ma non gli era ancora riuscito di ottenere un’offerta particolarmente allettante. Gli uomini della CIA e dell’FBI, quindi, ebbero gioco facile nell’acquistarlo, dandogli in cambio una tale cifra che sarebbe stata più che sufficiente a sistemare lui e suo fratello per il resto dei loro giorni. E già entrare in possesso di quel preziosissimo teschio di cristallo - subito opportunamente imballato e spedito negli Stati Uniti a bordo in una nave della marina militare - era stato un risultato straordinario e più che soddisfacente, in quanto da solo era bastato a confermare una buona parte del racconto fornito dai testimoni.
   Nondimeno, su insistenza di Smith e Taylor, avevano dovuto proseguire nel fitto della giungla, fino a raggiungere l’accampamento dei sovietici. Quindi, fermato in tempo il capitano Bauru, che intendeva dare fuoco alla sua nave fluviale, essendo intenzionato a vivere per sempre di sola rendita, gli avevano fornito un’ulteriore somma di denaro affinché li conducesse al punto in cui si era fermato nel corso del suo precedente viaggio e li riportasse indietro una volta effettuate tutte le verifiche ed i sopralluoghi necessari.
   Lasciato il battello al fiume, con l’aiuto della guida si erano immessi nella foresta e, dopo giorni di dura marcia - non sapendo quale strada seguire, avevano dovuto vagare un po’ a caso - erano giunti in vista del campo. Ma lì, come detto, erano cominciati i guai.
   Nascosti dietro un cespuglio, la donna e i tre colleghi osservarono l’andirivieni di quelli che, a tutti gli effetti, parevano proprio essere agenti del KGB intenzionati a far scomparire ogni singola prova del loro passaggio. Effettivamente, non gliene si poteva dare torto: fallita la missione condotta dal colonnello Spalko, era necessario cancellare qualsiasi traccia per evitare di doversi vedere costretti a rispondere al governo americano di un comportamento che sarebbe stato quantomeno imbarazzante, specialmente in un momento delicato come quello, con il rischio di una guerra nucleare sempre pronto dietro l’angolo.
   «Stanno portando via tutto» sussurrò Sophia, interdetta. «Ci hanno preceduti e, adesso, addio prove.»
   Sdraiato al suo fianco, Edmonds fece un mezzo sorriso.
   «Anche il fatto che si stiano dando così da fare, comunque, costituisce una prova del fatto che il racconto che ci è stato riferito corrisponda al vero» disse, togliendo dallo zaino che si era sfilato una macchina fotografica Canon L1. Vi montò un lungo teleobiettivo e, dopo aver regolato la messa a fuoco e l’apertura del diaframma, lo puntò contro l’accampamento e cominciò a scattare fotografie ai russi indaffarati.
   Un’istantanea dopo l’altra, gli agenti sovietici furono immortalati nell’atto di smontare tende, radunare attrezzature, distruggere documenti e, in pratica, celare per sempre il fatto che in quel luogo fosse mai passato un solo essere umano. Certo, non potevano eliminare anche la radura, ottenuta abbattendo alberi ed arbusti, ma riguardo a questo non c’era alcun pericolo perché, di lì a nemmeno un mese, la vegetazione si sarebbe quasi certamente riappropriata di tutto. Entro sei mesi, chiunque fosse passato di lì avrebbe notato niente altro che un intrico di verzura come in qualsiasi altro punto.
   «Questo, però, non significa assolutamente nulla» si intestardì Smith, sdraiato a fianco di Joe Edmonds.
   «Esattamente» gli diede corda Taylor, che si trovava all’altro lato di Sophia. «Il fatto che questi russi stiano distruggendo tutto, non significa affatto che Jones non fosse uno di loro, esattamente come McHale.»
   La donna lo guardò inviperita, quasi vogliosa di prenderlo per il collo e strangolarlo, mentre Edmonds, senza smettere neppure per un istante di puntare l’obiettivo in ogni direzione e scattare fotografie, borbottò: «Queste sono sciocchezze. Sappiamo bene che Indy non si venderebbe mai a questi dannatissimi russi.»
   «Voi dite così perché era un vostro collega!» ruggì Smith.
   «Faccia piano» intimò Sophia, ma era troppo tardi: i sovietici, udite le voci, avevano rapidamente messo mano ai fucili automatici che portavano a tracolla ed avevano cominciato a guardarsi attorno con aria diffidente, pronti a sparare al minimo movimento sospetto.
   Nessuno dei quattro americani parlò, anzi ciascuno di loro provò addirittura a trattenere il fiato, temendo che anche quello sarebbe stato sufficiente a farli scoprire. Furono momenti di tensione pura - anche perché sapevano che, armati com’erano di semplici pistole, non avrebbero potuto ottenere più di tanto contro agenti del KGB bene addestrati ad uccidere - tensione che raggiunse il suo massimo livello quando uno dei sovietici mosse nella loro direzione.
   All’improvviso, tuttavia, un rumore di frasche spostate, nella direzione opposta, attrasse l’attenzione dei russi - e degli americani - che corsero a vedere che cosa stesse succedendo. Dal folto della foresta, comparve la guida indigena dei quattro agenti, che alzò le mani con aria atterrita quando si vide puntare contro le armi.
   «Chi sei? Che cosa fai qui?!» abbaiò uno dei sovietici, in un portoghese dal forte accento ucraino.
   L’uomo, fingendosi inorridito, rispose: «Io uscito per cacciare! Io non volere disturbare!»
   «Sparisci! Qui non c’è nulla da cacciare!» ruggì il sovietico e l’uomo, senza farselo ripetere due volte, si diede ad una rapida fuga. Dietro di lui, per mettergli addosso ancora più paura ed indurlo a non venire più a ficcanasare, risuonò una raffica di mitra, dopodiché i russi, finalmente acquietati, si rimisero all’opera.
   E, così, grazie all’intraprendenza della guida, che aveva subodorato il pericolo ed aveva deciso di intervenire prima che qualcuno si facesse male per davvero, quella fu l’unica sparatoria che risuonò in quella parte della giungla, quel giorno - dopo che, nelle settimane precedenti, vi erano stati esplosi così tanti colpi - e non vi fu alcuno spargimento di sangue.
   Da quel momento, né Smith né Taylor, che avevano ricevuto la loro dose di strizza, non provarono neppure più ad aprire la bocca ed Edmonds poté continuare a fotografare gli uomini del KGB che, indisturbati e persuasi di essere soli, terminarono la loro opera in maniera completa, per poi andarsene trasportando tutto quello che avevano recuperato.
   «Abbiamo materiale sufficiente a suffragare le parole di Jones e dei testimoni» disse, infine, Edmonds, riponendo la macchina fotografica nello zaino.
   «Già» ammise Smith, quasi controvoglia. «Pare proprio che sia così, alla fine.»
   «Finalmente Indy potrà essere assolto da tutte le stupide accuse che gli sono state rivolte» confermò Sophia, pienamente soddisfatta dei risultati ottenuti.
   Ormai certi che i russi fossero lontani, i quattro poterono rialzarsi e sgranchirsi le membra intorpidite dalle ore trascorse all’addiaccio. Si incamminarono e, poco più in là, trovarono la loro guida, rimasta per tutto il tempo ad attenderli e che, ovviamente, ricevette tantissimi ringraziamenti per averli salvati, con sprezzo del pericolo, da una situazione che, altrimenti, li avrebbe visti finire in grosse difficoltà.
   Poi, tutti insieme, si rimisero in marcia verso il battello che li attendeva ancorato nel fiume.

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Capitolo 42
*** Capitolo XLI - Buon compleanno ***


CAPITOLO XLI
BUON COMPLEANNO

   Quella sera, Marion insistette davvero moltissimo perché Indy andasse a cena da lei.
   Ormai, era estate inoltrata e, con il primo sopraggiungere di luglio, anche l’afa aveva cominciato a farsi sentire in tutta la sua feroce ed umida potenza, trasformando in nere e puzzolenti distese di catrame le strade rimaste mezze deserte a causa della partenza per il mare della maggior parte degli abitanti di Chicago. Jones non aveva compreso davvero il motivo per cui Marion ardesse tanto per averlo a cena, ma la cosa ovviamente non poté che fargli un grande piacere, dato che qualsiasi pretesto gli pareva più che perfetto per poter trascorrere del tempo insieme a lei.
   Lui, in un primo momento, aveva cercato di invitarla in un qualche ristorante, per sgravarla dal doversi mettere ai fornelli per cucinare, ma Marion aveva insistito col dire che, invece, quella sera avrebbero dovuta trascorrerla ad ogni costo a casa sua. Anzi, l’aveva definita come una sera speciale, sebbene a Jones sfuggisse il motivo preciso per una tale definizione. E, più ci pensava, e meno riusciva a comprendere il perché di tutta quell’insistenza.
   Pur facendo molto caldo, anche di sera, Jones adorava essere impeccabile, in quelle situazioni, per cui prima di avviarsi rimase alcuni minuti fermo davanti allo specchio della sua camera d’albergo, per controllare che tutto fosse perfettamente a posto. I capelli grigi erano accuratamente pettinati con la scriminatura laterale, l’abito chiaro impeccabile e privo di qualsiasi piega ed il nodo alla cravatta abilmente riuscito. Se c’era qualcosa che lo infastidiva, nel suo aspetto, qualcosa a cui non poteva proprio sperare di porre rimedio, erano semmai le rughe che gli avevano a poco a poco trasformato il viso, conferendogli un aspetto legnoso e coriaceo. Del resto, quelle erano il segno dell’eterno e tangibile scorrere del tempo e, in fondo, a lui avrebbero dovuto andare più che bene, perché il suo stesso lavoro consisteva nell’avere costantemente a che fare con il tempo, e se non fosse stato per il tempo lui sarebbe stato del tutto disoccupato.
   Già, il tempo… ma il tempo che interessava a lui era quello relativo ai secoli, se non addirittura ai millenni, quello in cui erano nate, si erano sviluppate ed erano morte intere e straordinarie civiltà, non certo quello degli anni che, poco alla volta, con maligna ed esasperante lentezza, lo stavano consumando, facendolo diventare sempre più avvizzito e vicino al potersi considerare come il suo stesso padre, una cosa che al solo pensarci gli dava i brividi, caldo o meno che facesse.
   All’improvviso ebbe una folgorazione e, sollevato il polso, controllò la data indicata dal suo orologio automatico Lorenz: segnava il giorno 31, ma giugno ne aveva solamente trenta, anche se lui, la sera prima, si era dimenticato di regolarlo. Significava che, questa, era la sera del primo luglio: era trascorso quasi per intero il suo compleanno senza che lui, preso com’era dal vortice di emozioni che gli suscitavano i suoi incontri con Marion, se ne fosse reso minimamente conto!
   Non che avesse mai prestato molta attenzione alla data del suo compleanno, anzi poteva asserire con certezza che fossero ormai trascorsi vent’anni, dall’ultima volta che lo aveva festeggiato; ne era più che certo perché era stata proprio Marion ad organizzargli una festa a sorpresa, quell’estate di tanti anni prima. Se non fosse stato per lei, non ci avrebbe pensato neppure allora. D’altra parte, non aveva mai amato dare feste, né tantomeno parteciparvi, perché era sempre stato piuttosto restio di fronte alla possibilità di mettersi troppo in mostra di fronte agli altri, e non gli era mai neppure piaciuto troppo mostrarsi nell’atto di divertirsi o fare altre cose del genere. Aveva sempre decisamente preferito le festicciole private, tra pochissimi amici o, perché no, quelle a cui partecipavano solamente lui ed una qualche fascinosa ragazza pronta a ballare insieme a lui danze che non avevano alcun bisogno di musica.
   Ormai, inoltre, stava diventando così vecchio che, più che da festeggiare, ci sarebbe stato da mettersi a piangere, in occasioni del genere. Perché mai qualcuno sano di mente avrebbe dovuto voler celebrare l’aver inesorabilmente compiuto un ulteriore passo verso la morte?
   Incupito, si scostò dallo specchio e, accertatosi di aver con sé cappello e portafoglio, uscì dalla camera e discese le scale che conducevano alla hall. Consegnò le chiavi al portiere, che lo salutò cordialmente, quindi si incamminò fuori dall’hotel, le mani incrociate dietro la schiena e l’aria calda e intrisa di vari odori della sera che gli penetrava nelle narici, mentre la luce dorata e rossiccia del tramonto tingeva ogni cosa delle proprie tenui tonalità, mano a mano che il giorno volgeva al desio.
   Un altro giorno che se ne andava, un altro giorno che volava via per andarsi a sommare ai miliardi di altri giorni già trascorsi e che non sarebbero ritornati mai più, pieni com’erano di amare delusioni, tristezza ed occasioni sprecate e irrecuperabili. Pensare al tempo che se ne fuggiva via come sabbia tra le dita, una volta tanto, anziché emozionarlo ed accendergli la sua grande passione per l’antichità, lo aveva reso tetro e immusonito. Dinnanzi a sé vedeva solamente tombe, feretri e scheletri, e si vedeva ricomparire di fronte i volti di persone che avevano parlato, amato, sognato, respirato e camminato sulla terra e che, ormai, andatesene in fretta e furia come ombre nella notte, non avrebbero mai più fatto ritorno. Persone che erano rimaste morte per millenni, che un giorno per caso erano nate ed avevano vissuto e che, adesso, sarebbero rimaste nuovamente morte per tutta l’eternità. Un destino beffardo e comune a tutti gli esseri umani, dai più ricchi e potenti ai più poveri e insignificanti. Nessuno poteva esimersi da quella sorte collettiva, nessuno, nemmeno lui.
   Fintanto che gli anni che gli si erano accumulati addosso erano stati relativamente pochi, aveva scherzato più volte con e sulla morte, accettandola come un qualcosa di vago e indistinto che sì, certo, esisteva nel mondo, ma di cui, però, poteva sinceramente infischiarsi, dato che non lo interessava più di tanto. Era qualcosa che spettava sempre e solo agli altri, non a lui. Ma gli anni erano aumentati sempre di più e, infine, trascorso da fin troppo tempo il mezzo secolo, aveva compreso che la morte non era più nulla su cui poter scherzare troppo, perché quello che era sempre stato un dato di fatto per gli altri cominciava ad esserlo sempre più anche per lui.
   Poteva, ovviamente, pensare che molti già lo avevano preceduto - spesso, peraltro, aiutati da lui stesso a compiere il grande passo - e che, quindi, non sarebbe mai stato solo, nella morte, ma non poteva neppure negare a se stesso che, quella, fosse una ben magra consolazione, rispetto a tutto ciò che si sarebbe dovuto lasciare alle spalle. La luce del sole, il calore sulla pelle, il tocco del vento, il suono delle voci, il canto degli uccelli, la meraviglia di fronte ad una nuova scoperta, il sapore di una buona pietanza, un bicchiere d’acqua per placare la sete, le emozioni, i sentimenti, la bellezza ed il piacere… tutto sarebbe caduto inesorabilmente nell’oblio.
   Cercò di cacciare via quei cupi presagi con il pensiero di Marion. Adesso era lei il suo presente, il suo bellissimo presente e, se solo ci fossero riusciti, sarebbe anche stata il suo futuro. Trascorrere il resto dei suoi giorni accanto a lei, beandosi della sua vista e condividendo ogni singolo istante, che cosa poteva esserci di più dolce e desiderabile? Con una tale prospettiva di fronte, anche l’idea della morte che lo aspettava al varco, ovunque fosse posizionato quel meschino traguardo, diventava accettabile e, perché no, persino risibile.

   Come già altre volte, salì a piedi le scale che conducevano all’appartamento, al quale giunse affannato e con la camicia ormai madida di sudore. Dopo aver ripreso un momento il fiato, suonò il campanello di casa ed attese che qualcuno venisse ad aprirgli.
   Dopo un minuto, la porta fu aperta da una mano invisibile, a causa del fatto che l’intera casa fosse avvolta nell’oscurità. Interdetto da quell’insolita atmosfera, fece un passo in avanti, insicuro su che cosa fare di preciso.
   «È permesso?» domandò. «Marion…?»
   Improvvisamente, tutte le luci di casa si accesero ed un coro di voci lo assalì da tutte le parti, facendolo quasi trasalire, prima che lo stupore si trasformasse in un’irrefrenabile gioia che, finalmente, riuscì a cacciare del tutto i lugubri pensieri che lo avevano invaso fino a pochi minuti addietro.
   La sala era stata addobbata con dei festoni colorati e, attorno ad un tavolo imbandito con salatini, pasticcini, bottiglie e numerosi bicchieri, erano riuniti Marion, Mutt, Oxley, Charlie, Audrey, Checco, Shorty, Jock Lindsey, Bob ed altre persone che Jones non ricordava di aver mai visto ma che, pure, adesso lo applaudivano con il sorriso sulle labbra e gli auguravano buon compleanno.
   «Ma…» borbottò l’archeologo, interdetto, senza sapere che cosa dire di preciso.
   «Auguri, Indy!» gridò Marion, alzando la voce e facendosi più vicina per poterlo guardare negli occhi.
   Non sapendo come fare a comportarsi o come esprimere la propria gioia per quell’accoglienza calorosa ed inaspettata - le sorprese avevano sempre avuto il difetto di metterlo in imbarazzo - Jones si limitò a fare un ampio sorriso, sperando di trasmetterle con i soli occhi tutta la felicità che si sentiva dentro in quel momento. Dovette esserci riuscito, comunque, perché lo sguardo della donna parve mandare bagliori di allegria.
   «Dato che tu parevi essertene dimenticato, ho pensato di organizzarti questa piccola festicciola» spiegò Marion, accennando con la mano a tutti i presenti. «Sono stati più che felici di raggiungerci!»
   Pur sentendosi quasi a disagio - il che, in fondo, era davvero strano, essendo un uomo capace di compiere imprese straordinarie - Jones fece vagare lo sguardo su tutte quelle persone e, finalmente, si decise a parlare.
   «Grazie» borbottò. «Io non so davvero come fare per ringraziarvi…»
   «E che bisogno c’è mai, di ringraziarci?» chiese Oxley, allegramente. «Siamo noi ad essere felicissimi di essere qui, Henry!»
   Notando che Indy, nonostante tutto, continuava a mantenersi un po’ titubante e incapace di fare altro se non di borbottare frasi sconnesse - e, all’improvviso, le venne immancabilmente da domandarsi quanto tempo fosse trascorso dall’ultima volta che, quell’uomo, avesse festeggiato qualcosa - Marion decise di stemperare la situazione proponendo un brindisi.
   Effettivamente, fu una mossa molto saggia, perché bastò che entrasse in circolo un poco di champagne per cancellare ogni minima traccia di tensione e fare sì che tutti cominciassero a chiacchierare tra di loro, bevendo e mangiando in allegria.
   Dopo aver trascinato per un solo momento Marion in un’altra stanza per ringraziarla con un bacio sulle labbra senza che nessuno li vedesse, Jones cominciò a fare il giro di tutti gli invitati per poterli salutare ad uno ad uno. In questo modo, fece la conoscenza anche di Lucinda e di altri amici di Marion che non aveva mai visto prima ma che, se avessero continuato a frequentarsi come speravano entrambi, sarebbero di certo divenuti amici comuni.
   Dopo essersi sottratto alla chiacchiere infinite di Audrey e Checco, Jones andò a salutare Jock, il suo vecchio amico pilota che, si scoprì in quell’occasione, aveva sempre saputo del matrimonio tra Marion e Williams - suo ex socio in affari - ma, su richiesta di entrambi, non ne aveva mai fatto alcun cenno con l’archeologo.
   «Ti sei tenuto dentro un bel segreto, per tutti questi anni» si complimentò Jones, un po’ troppo duramente.
   «Spero che non me ne avrai, per questo, ma è stata la richiesta di un vecchio amico che, dopo pochi mesi, morì in guerra precipitando col suo aereo» si giustificò Jock, a mo’ di scusa. «Non volevo tradire la sua fiducia, pace all’anima sua.»
   L’archeologo gli batté fraternamente una mano sulla spalla, per fargli capire che non gliene portava alcun rancore, quindi, dopo aver salutato Charlie - arrivato apposta dal Connecticut, ma senza che nessuno dei due facesse alcun accenno al probabile trasferimento di Indy a Chicago - raggiunse Short Round, uno dei suoi amici più cari, che lui stesso aveva quasi sempre considerato come un fratellino più piccolo. Quando lo aveva conosciuto, o meglio quando lo aveva acchiappato a Shanghai mentre cercava di rubargli il portafogli, Shorty era un orfanello di nove anni, mentre adesso era un aitante trentenne, campione di arti marziali e appassionato di archeologia. Pur sentendosi spesso per lettera, erano adesso quasi due anni che non si incontravano e, per questo motivo, si strinsero in un abbraccio che avrebbe saputo stritolare un pachiderma.
   «Dottor Jones, che piacere rivederla!» esclamò il giovane, con quell’accento orientale che non aveva mai perduto, quando si furono lasciati andare. «Le auguro un buonissimo compleanno! Quando ho ricevuto la telefonata della signora Marion, tre giorni fa, quasi non volevo crederci, ma ho lasciato tutto quello che stavo facendo e sono partito immediatamente dalla California per poterla venire qui a festeggiare.»
   Da qualche tempo, infatti, Shorty lavorava come assistente di un maestro d’arti marziali in una palestra di Chinatown, a San Francisco. Ciò non toglieva, comunque, che fosse spesso in giro per il mondo sulle orme di tesori archeologici o, meglio, di importanti reperti appartenenti al popolo cinese che erano stati sottratti al suo paese. In questo, effettivamente, doveva aver appreso parecchio da Indy.
   «Sempre alle prese con le vostre risse tra cinesi, in palestra?» si informò Jones, facendolo scoppiare a ridere.
   «Eh, sì, dottore, ma non solo» rispose il ragazzo. Abbassò la voce e, dopo essersi guardato attorno, confidò: «Ho fatto una scoperta davvero importante inerente l’Occhio del Pavone.»
   Quell’informazione accese la fantasia di Indiana Jones. Era da quando era un adolescente che inseguiva il sogno di poter recuperare il favoloso diamante noto come Occhio del Pavone, ma l’ultima volta che lo aveva visto - nonché l’unica volta che aveva potuto tenerlo in mano, anche se solamente per pochi istanti - era stato proprio in Cina, nel 1935. Da quel giorno, non ne aveva più saputo nulla, sebbene avesse continuato a nutrire il sogno di poterci, un giorno o l’altro, mettere sopra le mani. Quella stessa passione, inoltre, era stata trasmessa a Shorty, che pareva proprio aver voluto assumere il testimone di Indy, continuando nella ricerca al suo posto.
   «Dimmi» sussurrò Jones, che non vedeva l’ora di saperne di più.
   «Allora, per prima cosa ho saputo che Lao Che è morto» spiegò il giovane. «Dopo la presa del potere da parte di Mao, come lei ben sa, il vecchio gangster è riuscito a mettersi al riparo a Taiwan, dove ha continuato a fare il bello ed il cattivo tempo come sempre.»
   Jones, che riguardo a queste notizie era già informato da tempo, annuì, facendogli segno di continuare.
   «Il buon Lao è morto un paio di anni fa, probabilmente avvelenato da uno dei suoi eredi, che non ne poteva più di attendere per prenderne il posto. Se ricorda bene, erano tutti piuttosto esperti, nel campo dei veleni» aggiunse Shorty, ammiccando, mentre Indy ripensava con un leggero brivido ai folli istanti in cui aveva disperatamente cercato di impossessarsi dell’antidoto che gli avrebbe evitato di fare un gran brutta fine, recuperandolo all’ultimo momento dalla scollatura dell’abito a perline e paillettes di una famosa cantante. «Naturalmente, l’erede principale sarebbe dovuto essere suo figlio Kao Kan, che lei conosce bene, dottore.»
   L’archeologo, che non aveva mai scordato neppure il folle figlio di Lao Che, che lo aveva preso a mitragliate mentre fuggiva dal Club Obi Wan riparato dietro un gong rotolante, annuì nuovamente.
   «Immagino che, però, qualcuno non fosse d’accordo.»
   «Direi. Oltre a quello che lei ha tolto di mezzo - e, di questo, credo che Kao Kan gliene sia sempre stato infinitamente riconoscente, dato che gli ha praticamente spianato la strada - Lao aveva un terzo figlio, di cui adesso mi sfugge il nome. Be’, come potrà immaginare, alla morte del padre, tra i due figli rimasti è scoppiata una vera e propria faida, diciamo pure una guerra. Alla fine, ci hanno rimesso entrambi: non sono arrivati ad uccidersi a vicenda, d’accordo, ma prima di trovare un accordo di pace hanno sperperato intere ricchezze. E, tra queste, l’Occhio del Pavone, che da quel che ho saputo è finito nelle mani di un ricchissimo proprietario di hotel che vive alle Hawaii. Un uomo, tra l’altro, con cui si può trattare senza per forza dover mettere mano alla pistola… credo.»
   Quella notizia colpì veramente in profondità Indiana Jones. L’Occhio del Pavone, uno degli oggetti di cui cercava accanitamente di impossessarsi da tutta una vita, lo splendido diamante che aveva ornato il collo di gloriosi monarchi, splendide principesse e chissà quanta altra potentissima gente ancora… Fino a pochi mesi prima, non avrebbe esitato un solo istante a lasciare tutto ciò che stava facendo per mettersi la frusta alla cintura e correre a recuperarlo. Ma, adesso…
   Si voltò verso Marion, elegantissima nel suo abito blu, il sorriso perennemente stampato sulle labbra, che in quel momento stava amabilmente conversando con Charlie, che annuiva bonariamente tra un sorso e l’altro dal suo calice. No, non sarebbe andato a cercare nuovi tesori, non adesso che il vero tesoro era lì, a pochi metri da lui. Tornò a guardare verso Shorty e sorrise.
   «Mi fa piacere che tu abbia scoperto tutto questo» approvò, con un tono profondo che pareva voler chiudere per sempre la questione. «Spero che riuscirai davvero a farcela, questa volta. Ti auguro buona fortuna.»
   Il giovane lo guardò interdetto. Mentre raccontava della sua scoperta, era stato più che certo che Indy gli avrebbe domandato di partire il prima possibile insieme per le Hawaii, per procedere una volta per tutte al tanto agognato recupero. Tuttavia, colto da un barlume di folgorazione, guardò anche lui verso Marion e comprese ciò che davvero dominava il cuore del suo vecchio amico, in quel momento. Da bambino, aveva già conosciuto quella donna straordinaria, quando era ancora una giovane ragazza che sognava di sposarsi con l’uomo che amava, e sapeva quanto loro due fossero stati legati da un amore senza confini. Poi, però, si erano lasciati, ma in fondo non è mai troppo tardi per tornare sui propri passi. Del resto, come diceva il saggio, il segreto per mantenere l’amore di una donna è darle tutto se stesso, ma poco alla volta; ed Indy aveva inteso quel poco alla volta davvero alla lettera, impiegandoci decenni interi.
   «Spero che ce le farà anche lei, dottore» approvò. «Lo spero davvero.»
   Shorty si spostò per andare a prendere qualcosa da mangiare dal tavolo e Jones raggiunse il generale Ross.
   «Bob» lo salutò. «Non avrei mai creduto di trovarti qui.»
   Il generale sorrise con fare complice. «Indy, vecchio mio, ho un regalo magnifico per te e quale occasione migliore del tuo compleanno per dartelo?» domandò.
   L’archeologo fece vagare lo sguardo dubbioso sulle mani di Bob, che però erano del tutto vuote, esattamente come dovevano esserlo le tasche della sua giacca verde. In effetti, a Jones fece quasi uno strano effetto, per una volta, vederlo senza la sua solita divisa dell’esercito.
   «Non ce l’ho qui» ammise Bob. «Il regalo è di là, in corridoio.»
   Senza che nessuno badasse a loro, gli fece strada verso la porta che immetteva nel corridoio su cui si aprivano le camere da letto. Il generale si chiuse la porta alle spalle poi, come ulteriore accorgimento, fece cenno a Indy perché lo seguisse nella stanza che Marion utilizzava come sgabuzzino. A Jones parve assai strano, quell’atteggiamento carbonaro, ma non fece alcun commento e si limitò ad andargli dietro. Come furono rinchiusi all’interno della stanza, Ross si decise finalmente a spiegarsi.
   «Scusami, per queste precauzioni, ma non conosco tutte le persone che ci sono di là, quindi non potevo parlartene davanti a tutti» sussurrò. «Effettivamente, non dovrei parlarne nemmeno a te, ma sei un amico e te lo meriti. Vedi, ho ricevuto un rapporto da Edmonds, giusto ieri mattina.»
   Quindi, gli narrò per filo e segno tutto ciò che i suoi uomini e gli agenti dell’FBI avevano scoperto in Amazzonia, nonché del recupero dell’ultimo teschio di cristallo.
   «Ne ho parlato con Kennedy» disse, infine. «Ovviamente, vuole avere le fotografie tra le mani e aspetta che i nostri quattro comuni amici gli riferiscano di persona tutto ciò che hanno visto, ma in via confidenziale mi ha detto che, stando così le cose, ormai la tua assoluzione è certa.»
   Jones era rimasto in silenzio per tutto il tempo, senza dire nulla. Soltanto adesso volle provare a fare un commento.
   «Sicuro di non star correndo un po’ troppo?»
   «Più che sicuro» ammise Ross. «Conosco benissimo il senatore e ti posso assicurare che è un uomo leale e tutto d’un pezzo e, quando promette una cosa, la mantiene.»
   L’archeologo fu piacevolmente sorpreso da quella notizia, sebbene avesse già ricominciato a dormire sonni tranquilli sin da quando aveva saputo che, ad occuparsi di tutto, sarebbero stati Joe Edmonds e Sophia Hapgood. A quel punto, dopo aver stretto la mano di Bob ed avergli rivolto un accorato ringraziamento, tornarono di là insieme agli altri, che stavano cominciando a domandarsi dove fossero spariti i due uomini.
   La piccola ma allegra festa proseguì fin quasi all’una del mattino, poi tutti cominciarono ad andarsene. I primi a congedarsi furono Charlie ed Oxley, il primo perché doveva prendere un treno molto presto per tornare a casa, il secondo perché, non abituato a fare le ore piccole, cominciava a cascare dal sonno. Poi, poco alla volta, dopo aver salutato ancora sia il festeggiato sia la padrona di casa, anche gli altri se ne andarono.
   Era stata una serata davvero bellissima e Indy era certo che non se la sarebbe mai scordata e che sarebbe stato per sempre grato a Marion per averla organizzata così bene ed in così poco tempo, facendo sì che lui non sospettasse proprio di nulla.
   Non appena, in casa, furono rimasti solo Jones, Marion e loro figlio, tutti e tre cominciarono a darsi da fare per portare in cucina le stoviglie da lavare e per dare una rassettata in giro. Ovviamente, Marion provò a insistere che Indy non si disturbasse, che avrebbero potuto cavarsela benissimo da soli, ma lui non ne volle affatto sapere, anche perché non aveva affatto voglia di tornarsene in albergo a dormire.
   «Mi hai fatto davvero un bellissimo regalo, con questa festa, Marion» le confidò, mentre l’aiutava ad asciugare ed a riporre nella credenza i piatti, i bicchieri e le posate lavati. «Come posso sdebitarmi?»
   Lei fece un largo e dolce sorriso. «Non devi proprio sdebitarti, Jones. L’ho fatto perché mi andava e ne sono stata felicissima.»
   «Be’» borbottò Indy, «io un modo per potermi sdebitare al meglio penso proprio di conoscerlo…»
   Marion, arrossita, si volse a guardarlo con un’espressione stupefatta. Possibile che Jones volesse proporle proprio quella cosa? Non che non le andasse bene, anzi le piaceva sempre, ma, insomma, lì in cucina insieme a loro, ad ascoltare i loro discorsi, c’era anche Mutt che, infatti, sollevò gli occhi dal pavimento, che stava finendo di spazzare, e fissò entrambi con crescente imbarazzo.
   Ma Jones, per nulla turbato da quella reazione di cui neppure si rese conto - in quel momento era voltato per ordinare bene i piatti sul loro ripiano - continuò, sorprendendoli entrambi.
   «Sapete, comincia a fare un po’ troppo caldo, qui a Chicago. Allora, ho pensato che potrei portarvi tutti e due al mare, per una settimana. Respireremmo aria fresca e buona, ci divertiremmo ed avremmo del tempo solo per noi. Se per voi va bene, ci sarebbe un bel posticino che conosco, dalle parti di New Orleans…»
   Estasiata, Marion esclamò immediatamente un: «Sì!», mentre Mutt, inorridito alla sola idea, sbottò: «Non ci penso nemmeno! E, poi, nei prossimi giorni ci sarà un importante raduno di biker, qui in città, e non intendo perdermelo per nulla al mondo!»
   Jones si voltò a guardarlo e allargò le braccia.
   «Come non detto» bofonchiò, con un mezzo sorriso. «La mia era solo una proposta.»
   Mutt, però, ebbe una fugace visione di se stesso, finalmente libero di fare ciò che voleva e di far entrare in casa chi desiderava per un’intera settimana, senza avere di continuo sua madre a tenergli il fiato sul collo, e si affrettò ad aggiungere: «Ma perché non andate voi, invece? Sono certo che vi divertireste e poi, mamma, andartene qualche giorno da Chicago per motivi differenti dall’andare a cacciarti nei guai non potrebbe che farti bene, no?»
   La donna, tuttavia, apparve titubante.
   «Ma… e tu? Come te la caverai, da solo?»
   Prima che Mutt avesse avuto il tempo di rispondere, Jones intervenne. L’idea di trascorrere un’intera settimana di solitudine insieme alla sua Marion lo stava surriscaldando molto più della calura, che non si attenuava neppure di notte, e del troppo vino che aveva bevuto quella sera.
   «Suvvia, Marion, ormai Junior è abbastanza grande e penso che se la sappia cavare da solo. Io, alla sua età…»
   «Ah, non cominciare, Jones!» lo interruppe lei, aspramente. «Se solo ci provasse, a fare quello che facevi tu quando avevi diciotto anni…»
   «Diciannove, mamma» la corresse Mutt, piccato.
   «Tra due settimane!» gli ricordò sua madre.
   «Giorno più, giorno meno, non penso proprio che succederà un disastro» intervenne l’archeologo. «E, inoltre, saremo di ritorno in tempo per il suo compleanno.» Non aggiunse altro, ma provò un forte imbarazzo nel rendersi conto di non sapere neppure in quale giorno preciso fosse nato suo figlio. Era un’altra delle tante cose che avrebbe dovuto recuperare al più presto.
   Marion sospirò, finendo di asciugare un calice di cristallo parecchio delicato. Il pensiero di passare dei giorni da sola con Indy non le dispiaceva affatto, anzi le sorrideva parecchio, ed inoltre doveva riconoscere che Mutt, ormai, era abbastanza cresciuto per potersi arrangiare per qualche tempo senza combinare disastri. Oltretutto, sarebbe bastato telefonargli tutti i giorni per assicurarsi che tutto andasse bene e non avesse bisogno di nulla.
   «E va bene» approvò. «Andiamo al mare. In fondo, sarà divertente. È talmente tanto, che non ci vado, che penso che prendere un po’ di sole e respirare un poco di salsedine non potrà che farmi bene.»
   Padre e figlio sorrisero, un sorriso estremamente simile ad un ghigno soddisfatto, ciascuno per i propri più reconditi motivi. Per entrambi, si stava preparando una settimana indimenticabile, ne erano più che certi.

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Capitolo 43
*** Capitolo XLII - Una settimana al mare ***


CAPITOLO XLII
UNA SETTIMANA AL MARE
 
New Orleans, Louisiana

   Lungo l’immensa spiaggia, una striscia dorata che si fondeva con l’azzurro delicato del mare, che all’orizzonte si tramutava in un blu dall’intensa tonalità, si innalzavano enormi palazzi, brutture architettoniche che snaturavano il paesaggio e che avevano il solo scopo di ospitare frotte di chiassosi vacanzieri provenienti da ogni angolo dell’Unione per trascorrervi i giorni delle ferie estive.
   Ma il luogo prescelto da Indiana Jones per passarvi la sua settimana di solitudine insieme a Marion era assai differente dalle mete solitamente prescelte dai turisti. Era, infatti, una tranquilla casetta a due piani e con poche stanze, tinteggiata di un bianco lucente, con ante, porte ed infissi di un azzurro tenue, in faccia al mare e fiancheggiata a poca distanza da un canale, nel quale erano ormeggiate un paio di barchette che avrebbero permesso di visitare le swamps, l’intrico di affascinanti e misteriose paludi che circondavano per intero la grande città.
   A Marion, quella piccola pensioncina - dalla cui porta di ingresso pendevano delle cordicelle a cui erano attaccate tante piccole conchiglie, che tintinnavano ad ogni passaggio o quando erano smosse dalla brezza che soffiava verso il litorale - piacque fin dal primo momento e fu veramente grata ad Indy di avercela portata. Anche la stanza che era stata loro assegnata era davvero incantevole e luminosa, ammobiliata con un comodissimo letto a due piazze, un armadio ed un tavolino che riprendevano i colori lievi e riposanti del resto dell’abitazione; inoltre, orientata com’era verso il mare, bastava spalancare le finestre perché le tende di lino bianco sventolassero come bandiere quando del vento più forte tirava in quella direzione.
   Avevano brevemente discusso se affittare due camere separate od una soltanto, ma alla fine avevano convenuto che non sarebbe servito proprio a nulla fingere di non essere attratti l’uno dall’altra e di voler dormire in letti separati per mantenere le inutili apparenze. Chiaramente, il gestore del locale - un uomo dai capelli riccioli e grigi sulla sessantina d’anni, che raccontò di essere rimasto vedovo e di aver quindi voluto trasformare in un albergo la casa in cui aveva vissuto con la moglie per non sentirsi solo fino alla fine dei suoi giorni - sapeva bene che, quelle due persone di una certa età, non erano sposate, ma si guardò bene dal fare commenti in merito, limitandosi ad augurare loro un buon soggiorno e mettendosi a disposizione per qualsiasi evenienza.
   Erano giunti in città in aeroplano, dopo essere partiti in volo da Chicago, e per prima cosa - bagagli al seguito - si erano diretti al garage in cui Jones aveva lasciato parcheggiata la sua Dodge Coronet, quando si era diretto a compiere degli scavi in Messico insieme al suo amico Mac, due mesi prima, senza più avere l’occasione per poterla recuperare, visti tutti gli eventi successivi. Fu felicissimo di rimettersi al volante, questa volta con Marion al proprio fianco, per immettersi nel traffico cittadino, fino ad uscire dai sobborghi della città e seguire la litoranea dai magnifici paesaggi per raggiungere la zona tranquilla, silenziosa e profumata di salmastro del loro piccolo hotel.
   I primi problemi, però, sorsero non appena si trattò di decidere come trascorrere il tempo.
   A Marion sarebbe tanto piaciuto andare a sdraiarsi sulla spiaggia, per farsi scaldare lentamente dai raggi del sole prima di tuffarsi in mare e fare una lunga nuotata tonificante, senza alcun altro pensiero per la mente; ma ad Indy, quella soluzione, non piaceva proprio per nulla. Per quello che lo riguardava, la vita da spiaggia non faceva per lui, ed avrebbe semmai preferito prendere la barca ed andare a compiere qualche escursione nelle paludi.
   «Toglitelo dalla testa, Jones!» lo aveva immediatamente ammonito Marion, con fare severo.
   «Guarda che le paludi offrono uno spettacolo incantevole e mozzafiato, valgono veramente una visita, ti assicuro che la gente arriva da molto lontano pur di…» tentennò l’archeologo, cercando di convincerla con un sorriso sincero.
   «Come no» sbuffò Marion. «Conoscendoti, saresti capace di metterti alla ricerca del tesoro del capitano Kidd, così addio vacanza!»
   Jones, a quelle parole, non poté fare a meno di ridacchiare.
   «Che c’è?» gli domandò la donna, guardandolo con una smorfia a metà tra l’arrabbiato e il divertito.
   Lui scosse il capo. «Mi fa sorridere il fatto che siamo appena arrivati in questo bel posticino e già stiamo litigando come una vecchia coppia sposata da anni…»
   Anche Marion rise, ma la sua risata durò davvero poco. Per un momento, le era balenata dinnanzi agli occhi l’immagine di lei e di Jones di fronte ad un altare, intenti a pronunciare i voti ed a scambiarsi gli anelli, dichiarandosi amore eterno, finché la morte non li avesse separati e, magari, anche ben oltre quel giorno. Scrutò il volto di Indy e si domandò se anche lui, qualche volta, pensasse a qualcosa del genere. Se l’amava come diceva, perché non avrebbero dovuto sposarsi? Ma lei non aveva intenzione di fare da sola quel passo così importante, non voleva correre il rischio di incappare in una nuova delusione che, lo sapeva, questa volta le sarebbe stata davvero fatale, un boccone troppo amaro per poter essere mandato giù.
   E, naturalmente, ancora non avrebbe saputo dire se Indiana Jones fosse cambiato o meno. Certo, negli ultimi giorni trascorsi insieme si era dimostrato premuroso e pieno d’attenzioni per lei, ma in fondo questo che cosa significava? Non aveva mai dimenticato le prime volte che lui l’aveva corteggiata, tanti anni prima a Gerusalemme, sfoggiando una galanteria ed una timidezza che, a ripensarci adesso, parevano quantomeno incredibili; eppure, tutto questo non gli aveva impedito di abbandonarla, dopo averla tradita con un’altra donna. Dieci anni più tardi, quando si erano ritrovati, lui era decisamente cambiato: abituato a prendere tutto ciò che desiderava senza bisogno di chiedere nulla, si era dimostrato un uomo molto più rude e meno sognatore, anche se, naturalmente, pure in quell’occasione non erano mancati episodi di raffinata ed inedita eleganza e gentilezza. Adesso, invece, con quei suoi modi cortesi, gli abiti sempre impeccabili, il sorriso sulle labbra e gli occhi che gli si illuminavano al solo guardarla, e quel suo essere quasi restio non tanto a baciarla - perché non si faceva scappare una sola occasione per poter sfiorare, anche solo per un breve istante, le sue labbra con le proprie - ma perlomeno a toccarla, al punto che era già tanto se acconsentiva ad abbracciarla o ad accarezzarla quando se ne stavano insieme sopra un divano, pareva davvero un uomo differente, nuovo, una sorta di somma dei pregi di entrambi gli esseri tanto differenti che aveva incarnato in gioventù.
   Lei, seguendo il consiglio di Lucinda, non si era più voluta spingere troppo oltre, dopo quella prima volta in cui, peraltro, si erano limitati a toccarsi con le dita senza esagerare; e lui, incredibilmente, non le aveva chiesto nulla, come se fosse spaventato all’idea di lasciarsi troppo andare. Ed ovviamente, questo fatto poteva aprire ad almeno due considerazioni: significava, forse, che Jones non voleva accelerare troppo i tempi e desiderava che tutto accadesse gradualmente, mano a mano che ricominciavano da capo? Oppure, aveva paura a farsi coinvolgere troppo, ben conscio che qualsiasi cosa, tra loro due, non sarebbe potuta comunque durare molto  lungo?
   Questa seconda possibilità la spaventava parecchio perché, per quello che la riguardava, lei si sentiva già pienamente coinvolta, ed Indy avrebbe potuto domandarle qualsiasi cosa senza che lei si rifiutasse. Ma, questa volta, al contrario di quella notte sul fiume verso la fine di maggio, quando lui era entrato nella sua cabina e lei si era predisposta a fare l’amore, certa che dopo non gli avrebbe mai più rivolto la parola, e invece si erano inaspettatamente ritrovati a stringersi piangendo, senza che accadesse null’altro - a parte quel pesante pugno con cui lei lo aveva definitivamente perdonato di tutto - non gli si sarebbe concessa una volta sola, ma due, tre, mille, per tutta la vita insomma, perché ormai era certa che l’amore fosse davvero rinato, tra loro. Ma un uomo come Indiana Jones, che non aveva mai onorato una sola promessa in vita sua, sarebbe davvero stato capace di amarla per sempre?
   Non capendo a che cosa fosse dovuto l’improvviso mutismo della donna, e credendo che si fosse offesa per il suo rifiuto di andare con lei in spiaggia, Jones provò immediatamente a rimediare.
   «Scusami, piccola, in fondo hai ragione tu… siamo venuti al mare per andare al mare, non per ficcarci in una fetida palude popolata di serpenti schifosi e miasmi velenosi.»
   Quindi, appoggiata la valigia sul letto, l’aprì e cominciò a frugarvi un po’ alla rinfusa per cercare il costume da bagno che si era acquistato apposta per l’occasione, un paio di slip neri che il commesso del negozio a cui si era rivolto gli aveva assicurato che fossero all’ultima moda. Trovato quello che stava cercando, lo gettò sul letto insieme ad una camicia di cotone a maniche corte. Nel frattempo, con molta più cura e più ordine di lui, Marion aveva cominciato ad estrarre tutti i propri indumenti dalle borse per sistemarli con cura negli armadi e nei cassetti. Pure lei si era comprata un costume da bagno di ultimo modello, un bikini blu elettrico che fece fremere il sangue nelle vene a Jones al solo vederlo.
   Dimostrando un tatto ed un pudore che neppure loro sapevano da dove provenisse, utilizzarono a turno il bagno per potersi cambiare; quindi, con Jones con indosso la sua camicia e Marion avvolta in un prendisole dalla fantasia floreale ed un ampio ed elegante cappellone di paglia in testa, gli asciugamani sotto braccio ed un sorriso leggermente imbarazzato mentre si contemplavano a vicenda in quello stato inedito, furono pronti a scendere in spiaggia.

   Dopotutto, non fu affatto male trascorrere quella prima giornata al mare, standosene distesi sulla sabbia calda ad ascoltare la voce della risacca che non smetteva mai di cantare la sua canzone, che pareva portare ricordi di grandi imprese eroiche ed arrembaggi pirateschi, nonché echi di lontani mondi sottomarini.
   Il sole caldo di luglio faceva rilucere e sudare le loro pelli, ma in certi momenti cominciava a scottare parecchio, al punto che dovevano continuamente spalmarsi di crema solare per non rischiare di ustionarsi. A Jones non era mai piaciuto avere quella robaccia oleosa e puzzolente sulla pelle, specialmente in virtù del fatto che si considerasse troppo duro e coriaceo per averne bisogno; ciò nonostante, dovette riconoscere che non fosse affatto male sdraiarsi e lasciare che le mani leggere e delicate di Marion gliela spalmassero sulla schiena, sulle spalle, sul petto e sulle gambe. In quei momenti, chiudeva gli occhi e si perdeva in un vortice di emozioni inafferrabili, che non avrebbe saputo neppure lui come qualificare. E dopo, naturalmente, arrivava il turno della donna, e lui non si faceva certo scappare quell’occasione per poterla toccare, sfiorando quelle parti del suo corpo che, pur conoscendo così bene, non facevano che risvegliare in lui un mai sopito desiderio. Ogni tanto, poi, la tela del bikini si scostava un po’ troppo, rivelando quello che vi era celato sotto, ma Indy con garbo la rimetteva a posto, spiando gli occhi di Marion e sorridendole quando si rendeva conto che anche lei lo stava guardando.
   Nel tardo pomeriggio, infine stanchi di starsene sulla spiaggia e dichiarandosi fin troppo cotti, decisero di fare un bagno nel mare azzurro, nuotando, schizzandosi acqua, afferrandosi e ridendo come due ragazzini, senza fare alcun caso agli altri bagnanti che, tutt’attorno, guardavano con severità due persone della loro età comportarsi alla stregua di adolescenti privi di qualsiasi educazione. Da più di un lato si udì mormorare che, se due del genere avessero avuto dei figli, sarebbero di certo stati dei teppisti, se non dei veri e propri criminali.
   Ma a loro due, come detto, delle chiacchiere degli altri villeggianti non importava proprio nulla. A dire il vero, per Indy e Marion era come se la spiaggia fosse totalmente deserta, un paradiso incantato destinato a loro due soltanto. Era quasi come se il sole, stimolando chissà quali parti dei loro cervelli, avesse risvegliato dentro di loro un’infantile felicità, che li faceva scoppiare a ridere per ogni bava di vento, per ogni onda che gli arrivava addosso, per i granchi che si spostavano lentamente vicino alla riva, cercando di pizzicargli i piedi quando li sfioravano, e per le conchiglie che la marea sospingeva sulla battigia, facendole rotolare qua e là come magici coriandoli di una festa senza fine. O, magari, a risvegliare in loro tutta questa allegria, era la semplice consapevolezza di essere vicini e di volersi bene, di amarsi, una consapevolezza che, in fondo, non li aveva mai abbandonati, sebbene l’avessero tenuta celata per due decenni dietro il muro della loro rabbia e del loro orgoglio. Ma tutto quello che era stato in passato, ormai, era cancellato e dimenticato, perlomeno per quanto riguardava le cose brutte - quelle belle, avrebbero popolato i loro animi per tutta l’eternità. Adesso ciò che contava era soltanto il presente, quel presente in cui c’erano loro che si rincorrevano tra le onde, scambiandosi rapidi baci e prendendosi bonariamente in giro per qualsiasi cosa.
   Alla fine, spossati e svuotati di qualsiasi residuo di energia, se ne tornarono in albergo per lavarsi, cambiarsi e cenare sotto la pergola profumata che si stendeva a fianco della struttura. Fu una cena a base dei piatti tipici dei creoli della Louisiana, soprattutto con pesci e crostacei, manicaretti che gustarono con parecchio appetito, mangiando molto e parlando relativamente poco.
   Più tardi, pensarono di concedersi una passeggiata sulla spiaggia, godendosi il chiarore delle stelle che brillavano a milioni, testimoni luminosi del passato, vere e proprie viaggiatrici del tempo che, da distanze siderali, ardevano per insegnare agli uomini che, in fondo, la potenza degli anni, dei secoli e dei millenni non conta proprio nulla, di fronte all’infinitezza del cosmo. Era sempre piaciuto ad entrambi fermarsi ad osservare quei fantastici puntini luminosi ma, quella notte, si sentivano entrambi troppo stanchi e doloranti per pensare di rimanere troppo a lungo con gli occhi sollevati verso il cielo.
   Il caldo del sole preso durante il giorno cominciava a scaldare la loro carne, mentre i muscoli iniziavano a chiedere un poco di riposo per i crampi provocati dalla lunga nuotata. Camminando a piccoli passi sulla sabbia fredda che si smuoveva sotto i loro piedi, tenendosi sottobraccio, si avviarono lentamente verso il loro accogliente hotel.
   Sentendo che Jones arrancava un poco, Marion ridacchiò.
   «Non sei più l’uomo che ricordavo» commentò bonariamente. «Una volta, avresti percorso decine di miglia senza fermarti e senza nemmeno un gemito.»
   Anche Jones rise. «Non sono i chilometri, amore. Sono gli anni…»
   Rientrarono nella loro stanza e cominciarono a prepararsi per la notte, dopo aver disfatto il letto. Fu a quel punto, effettivamente, che tra loro scese non tanto dell’imbarazzo, bensì un leggero rimpianto, perché era trascorso davvero tantissimo tempo dall’ultima volta che si erano semplicemente sdraiati insieme in un letto per dormirvi, certi di ritrovarsi ancora fianco a fianco la mattina seguente.
   Jones, abituato a dormire senza pigiama, sperò che Marion non avesse alcunché da ridire in proposito; ma, non appena si fu accorto che lei si sarebbe sdraiata con addosso soltanto una succinta vestaglia, le cui spalline scivolavano di continuo, poté mettere da parte ogni timore. La contemplò per un momento che gli parve interminabile, apprezzandone l’incantevole bellezza che, a suo parere, era rimasta sempre intatta, poi si sdraiò accanto a lei e coprì entrambi con il leggero lenzuolo che profumava di bucato.
   Si guardarono negli occhi, senza parlare, chiedendosi che cosa sarebbe accaduto adesso. Forse i loro cuori avrebbero tanto desiderato che accadesse qualcosa di speciale, ma i loro corpi stanchi ed i loro occhi arrossati e affaticati domandavano solamente di poter riposare fino all’alba. Marion spense la lampada sul comodino e Jones fece lo stesso con la propria, lasciando che a illuminare la stanza fosse solamente la luce azzurrina della luna che, nel frattempo, era sorta, specchiandosi nel mare e riflettendosi fino a loro.
   «Buonanotte, Indy» sussurrò Marion, accoccolandosi su un fianco e facendogli una carezza sul petto.
   «Buonanotte» mormorò in risposta Jones, allungandosi per poterla baciare sulle labbra.
   E, così, tenendosi abbracciati e vicini, con i respiri che si fondevano insieme, si addormentarono.

   Quella magica settimana trascorse in un lampo, tra giochi, divertimenti da ragazzini - ragazzini di una certa età, peraltro - e amore che rinasceva poco a poco, facendosi via via così potente da diventare ormai indelebile.
   Inoltre, non si limitarono a trascorrere le giornate in spiaggia. Per fare finalmente contento Jones, Marion accettò di seguirlo nella sua escursione nelle paludi, a bordo di una barchetta; e, quando furono immersi nella vegetazione selvaggia e lussureggiante, circondati da cedri imponenti, mangrovie che parevano decise a conquistarsi ogni spazio disponibile, cipressi svettanti come colonne ed altre piante gigantesche che affondavano le loro radici ritorte direttamente nelle acque verdi, popolate da piccoli ed agili caimani, con i canti di migliaia di uccelli che allietavano l’udito piovendo loro addosso da ogni direzione, dovette per forza ricredersi ed ammettere che l’archeologo non aveva avuto nessun torto, nel voler visitare a tutti i costi gli swamps; e, fortunatamente, non si fece neppure il minimo cenno a tesori sepolti da vecchi pirati.
   Comunque, per farsi perdonare, un altro giorno Jones portò Marion a passeggio per le pittoresche vie di New Orleans, specialmente quelle del celebre quartiere francese, tra palazzi di mattoni, case coloratissime ed edifici con ringhiere in ferro battuto che davano davvero l’impressione di trovarsi non più in America, ma in qualche centro storico della vecchia Europa.
   Per riposarsi e bere qualcosa, decisero di entrare in un locale chiamato Maison Bourbon, un bar a due piani, con le pareti di mattoni non pitturate ma ricoperte di cartelli e manifesti che acclamavano i cantanti di musica jazz e dal pavimento rivestito di pannelli di legno, uguali a quelli che ricoprivano il bancone. Vicino all’ingresso, davanti alla vetrata, era montato un piccolo palco, su cui si trovavano un pianoforte, una batteria, chitarre ed amplificatori, per il momento ancora inutilizzati. Anche in quel bar, come nel resto della città, si respirava un’atmosfera differente, quasi esotica.
   Jones e Marion sedettero ad uno tavolini deserti - era ancora pomeriggio e la maggior parte dei clienti si sarebbe di certo fatta vedere più tardi, dopo il calar del sole, quando sarebbe certamente iniziato uno dei concerti di jazz che avevano reso famoso quel luogo - ed una bella ed elegantissima donna, che dimostrava all’incirca cinquant’anni, dopo essersi data una rapida sistemata ai capelli biondi e riccioli raccolti in una crocchia sopra la testa, uscì subito da dietro il banco per venire a prendere le loro ordinazioni.
   Ancheggiando, l’affascinante signora li raggiunse e, per un momento, il suo sguardo si incrociò con quello di Indy. Tornarono immediatamente a guardarsi, studiandosi a vicenda con somma curiosità, cercando di comprendere che cosa fosse appena scattato, dove si fossero già visti, in quale occasione si fossero conosciuti. All’improvviso, l’archeologo si ricordò.
   «Willie! Willie Scott!» esclamò, scattando in piedi. «Sei proprio tu?! Che bella sorpresa!»
   «Indiana Jones!» urlò di rimando la donna. «Accidenti! Quanto tempo!»
   Il vecchio professore le fece un galante baciamano, poi toccò con dolcezza la spalla di Marion e spiegò: «Marion, questa è Willie Scott. È una famosa cantante che ho conosciuto in Cina tanti anni fa…»
   La donna si alzò, stringendo la mano delicata della bionda e facendo un lieve cenno di saluto. Ovviamente, come sempre quando Indy le presentava una sua passata conoscenza femminile, le nacque immediatamente un sospetto inerente quello che poteva esserci stato, tra questa antica bellezza e l’impenitente archeologo rubacuori, ma la parte più razionale della sua mente le suggerì che sarebbe stato meglio non indagare e lasciare il passato al passato.
   «Troppi anni fa» sottolineò Willie, con un certo rimpianto. «Non sono neppure più una famosa cantante, oltretutto. Ah, e adesso, se volete, potete chiamarmi Madame Wilhelmina. Insieme a mio marito, sono comproprietaria di questo locale.» Il tono dell’ex cantante non era triste, ma vi si poteva certamente intuire una nota di rammarico, quasi una sorta di malinconia, come se si fosse dispiaciuta troppo tardi di non aver impiegato al meglio le proprie grandi doti. Il suo volto tornò a sorridere amabilmente. «Signora Marion, lei è per caso la moglie del professor Jones?»
   Anche Marion sorrise. «Be’, è un po’ complicata da spiegare, ma…»
   «Diciamo che ci stiamo provando» intervenne Indy.
   Willie li guardò entrambi, continuando a sorridere, non solo con le labbra, ma anche con gli occhi. Sembrava davvero felice per quelle due persone appena entrate nel suo locale che, in fondo, per lei erano come due perfetti estranei. Certo, ricordava ancora le avventure terrificanti vissute a fianco di Indiana Jones, le medesime che l’avevano indotta a tornarsene in America da sola, dopo essersi separata da lui e dal ragazzino in India. Da quel giorno, non si erano mai più rivisti, almeno fino ad oggi.
   «Posso offrirvi qualcosa da bere?» domandò cortesemente. «Abbiamo il miglior bourbon di tutti gli stati del Sud.»
   «Volentieri» accettò Marion, mentre lei ed Indy tornavano a sedersi.
   «E, se magari non fa irruzione qualche pazzo indiano urlante pronto a strapparci il cuore dal petto, potrei cantarvi qualcosa» propose, dimostrando una certa ironia. «Non ho mai smesso di cantare, anche se non lo faccio più per lavoro, ed ogni tanto mi piace ancora intrattenere i miei ospiti.»
   «Ti ascolteremo con piacere» approvò l’archeologo.
   Willie portò al loro tavolo due bicchieri colmi di ottimo whiskey, poi si diresse verso il palco; mentre la guardavano sollevare il coperchio della tastiera del pianoforte e sedersi sullo sgabello, Marion sussurrò: «Che cosa intendeva dire, con quella faccenda dell’indiano?»
   Jones ghignò. «È una storia lunga, stasera te la racconto…»
   Dopo un momento di esitazione, le dita di Willie calarono sui tasti ed iniziarono a diffondere per il locale una dolce melodia, a cui subito si accompagnò la sua voce, riuscita a mantenersi divina e straordinaria nonostante l’età si stesse ormai cominciando a far sentire anche per lei. Ascoltandola, mentre si portava lentamente alla bocca il bicchiere, assaporando piano il liquore che gli bruciava la gola, Jones non poté che dirsi davvero fortunato per aver potuto incontrare, nel corso della sua vita, tante persone singolari e sorprendenti, ciascuna delle quali capace di aprire uno spiraglio nuovo nella sua anima per lasciarvi impresso qualcosa di indelebile.
   Willie Scott era stata una famosa cantante degli anni ‘30 e la sua fama era declinata con il mutare delle mode, ma anche adesso continuava a mantenersi una grande artista, capace di interpretare un repertorio ormai antiquato eppure ancora in grado di penetrare nei cuori di chi la stava ascoltando. Al risuonare delle dolci parole d’amore della sua canzone, le mani di Indy e Marion si cercarono sotto il tavolo e si strinsero affettuosamente, mentre a tutti e due - anzi, a tutti e tre - pareva di compiere un viaggio all’indietro nel tempo, come se tutti quegli anni non fossero mai davvero trascorsi per nessuno.

   Quella sera, distesi nel loro letto, Jones raccontò a Marion del suo incontro con Willie, agli inizi dell’autunno del 1935, nonché di tutte le disavventure che ne erano seguite, dalla fuga precipitosa da Shanghai all’atterraggio di fortuna in India, dove si erano dovuti scontrare con la pericolosa setta dei Thug, uomini sanguinari che veneravano la loro dea Kalì tramite spietati sacrifici umani. Ovviamente, l’archeologo tacque del suo coinvolgimento passionale con Willie - coinvolgimento che, da un primo bacio, si era evoluto in ben altro - ma Marion intuì che qualcosa del genere dovesse essere per forza accaduto, dato che lo conosceva fin troppo bene. Tuttavia, non fece alcun tipo di domanda in merito, anche perché quando seppe che Indy aveva messo a repentaglio la propria vita, pur di aiutare dei bambini innocenti che erano stati resi schiavi, non resistette oltre e, salitagli quasi di peso sul petto, cominciò a baciarlo con passione e sentimento.
   Aveva sempre creduto che Jones, negli anni in cui erano stati separati, si fosse comportato da vero egoista, un uomo dal cuore arido che pensava soltanto al proprio tornaconto personale; e, forse, lui stesso lo aveva sempre pensato. Eppure, con quel racconto di una vicenda risalente a tanti anni prima, le aveva appena dimostrato che, al di sotto di quella scorza dura e impassibile, aveva sempre vissuto un animo buono e compassionevole, pronto a tutto pur di aiutare chi si fosse trovato in difficoltà. Le apparenze ingannano e, a volte, riescono ad ingannare persino se stessi, sebbene la verità sia sempre lì, nel cuore di ciascuno. Abner si era sempre sbagliato, nel giudicarlo, e persino lei si era costruita, in quel periodo, un’immagine di Indiana Jones basata solamente sulla sua parte esterna, nonché su ciò che lei desiderava che fosse davvero - un mostro da odiare con ogni stilla del proprio sangue - ma che non coincideva minimamente con quello che vi stava dietro.
   Smettendo per un momento di baciarlo, mormorò: «Sei sempre stato un brav’uomo, Indiana Jones. Solo che non te ne rendevi conto nemmeno tu…»
   L’archeologo chinò leggermente il capo, quasi con vergogna. «Andavo in cerca di fortuna e gloria, tesoro. Volevo diventare ricco, famoso e, perché no, anche potente. Avevo perso tutto ciò che mi era stato caro… avevo perso te… e allora mi importava solamente del mio guadagno e di niente altro.»
   Ma Marion gli posò un dito sulle labbra.
   «Non è vero» sussurrò con dolcezza. «Hai salvato quei bambini, li hai restituiti alle loro famiglie, hai ridato la speranza a chi l’aveva perduta. Ed hai rinunciato volontariamente alla ricchezza ed alla fama - alla fortuna e gloria - che ti sarebbero derivate dall’aver ritrovato quella pietra di Sankara… non si fa tutto questo soltanto per il proprio guadagno, non trovi?»
   Si guardarono negli occhi, vicinissimi, poi come spinti da un irresistibile richiamo, ripresero a baciarsi con foga e passione, ed andarono avanti fino a quando il sonno non li colse, facendoli sprofondare nell’oblio mentre ancora si tenevano abbracciati.

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Capitolo 44
*** Capitolo XLIII - Fortuna e gloria ***


CAPITOLO XLIII
FORTUNA E GLORIA

   Come detto, quella settimana trascorse in un lampo, così velocemente che, quando infine giunse il momento di preparare i bagagli, ad entrambi pareva in verità di averli appena disfatti. Ciò nonostante, pur essendo i giorni volati via come foglie nel vento, entrambi poterono dire che, quell’esperienza, avesse contribuito ad insegnare loro quanto fosse dolce e confortevole poter stare insieme, semplicemente, non come due pazzi avventurieri sempre pronti a gettarsi a capofitto nei pericoli, bensì come due innamorati, come due persone normalissime che si sentivano ormai indissolubilmente legate.
   Dopo aver cenato per l’ultima volta sotto il pergolato dell’albergo, assaporando l’ennesima portata a base di aragosta ed ostriche, uscirono a passeggiare, per trascorrere ancora qualche ora su quelle spiagge che avevano assistito alla rinascita definitiva, e questa volta speravano duratura, del loro grande amore.
   Le stelle rilucevano sopra il lido deserto e silenzioso, tanto differente dal luogo turistico che era durante il giorno, quando era attraversato da frotte di bambini schiamazzanti e di madri urlanti che li incitavano a fare attenzione ed a non infastidire gli altri bagnanti. E quando un astro cadente attraversò per intero la volta del cielo, lasciando dietro di sé un’effimera scia luminosa, Marion si strinse a Jones e sospirò.
   «Dove pensi che siano andati, gli esseri che costruirono Akator?» domandò.
   Indy tutto si sarebbe aspettato, in quel momento, meno che una curiosità simile. Del resto, avevano assistito a qualcosa di realmente straordinario, ed era chiaro che, prima o dopo, sarebbero dovuti tornare a parlarne ancora.
   «Ox ha detto che…»
   «Lo so cos’ha detto Ox» lo interruppe lei. «Quella storia dello spazio tra gli spazi… ma, sinceramente, non ci ho capito un accidente. E tu?»
   «Nemmeno io» ammise Jones, ridendo.
   Tenendosi abbracciati, ripresero a camminare lungo la spiaggia. Avevano lasciato le scarpe all’ingresso dell’albergo, per poter avanzare scalzi sulla sabbia fredda, ed era realmente incantevole sentire quella materia inerte, così simile ad un liquido, scorrere tra le loro dita ed accarezzare la loro pelle.
   «Sai, quasi quasi mi dispiace di non aver portato con me la macchina fotografica» ammise Jones. «Questi paesaggi sono davvero meravigliosi e non avrebbero certo sfigurato, in un qualche album… penso proprio, allora, che dovremo tornarci di nuovo, l’anno prossimo, perché voglio proprio immortalarli.»
   «Non avrei mai detto che tu amassi così tanto la fotografia» mormorò Marion.
   Jones fece un profondo sospiro.
   «La fotografia è una magia, Marion, una magia straordinaria. È la capacità di cogliere un istante, un istante unico ed irripetibile, fissarlo nel tempo e consegnarlo intatto all’eternità. Un qualcosa che non tornerà mai più ma che, pure, resterà lì per sempre, sotto gli occhi di tutti coloro che verranno dopo. È la straordinaria possibilità di rendere immortale la storia, di donarla ai posteri senza che loro debbano per forza imbracciare una pala e scavare a fondo nel terreno per scoprirla. Immagina come potrà essere questo nostro mondo, tra mille o duemila anni… sarà tutto differente da come lo conosciamo. Eppure, gli archeologi del futuro non avranno nessun incomodo, non dovranno fare buchi nella terra e sporcarsi di fango fino ai gomiti per ricostruire i nostri modi di vita, per scoprire la planimetria delle nostre città, per immaginare come fosse fatta un’automobile, perché sarà loro sufficiente entrare in un archivio fotografico ed esaminare dei documenti standosene comodamente seduti. La fotografia è l’archeologia di domani, ne sono persuaso.»
   La donna sorrise, ripensando alla foto che lui le aveva scattato tanti anni prima, quella che la ritraeva completamente nuda su una spiaggia come quella e che lei conservava ancora gelosamente tra i ricordi più cari.
   «Solo per questo, Indy? Solo per lasciare un’immagine di noi ai nostri lontani discendenti? Non per altro?» chiese.
   «C’è anche altro, sì…» ammise Jones. «È per mantenere vivi i nostri ricordi, le nostre memorie… memorie che sono comunque indelebili, certo, ma che ogni tanto è bene andare a rivedere direttamente, per rinfrescarci un poco la mente e, perché no, per far rivivere in noi quel pizzico di nostalgica malinconia che non guasta mai…»
   Il sorriso di Marion si fece ancora più largo ed i suoi occhi brillarono di gioia alla luce delle stelle. Non riusciva a credere che, oltre a tutto il resto, il maturo archeologo che le stava accanto fosse divenuto anche un poeta, eppure era proprio così; o, più semplicemente, quel suo animo era sempre stato lì, ma come per tutte le altre cose aveva impiegato decenni per riuscire ad emergere ed a mostrarsi. Si guardò attorno e notò che si trovavano, ormai, parecchio lontani dal loro albergo, in una zona parecchio buia dove, oltre ai loro respiri, non risuonavano altro che i suoni lenti e profondi della risacca. Si fermò all’improvviso ed Indy si volse a scrutarla per capire che cosa fosse successo.
   «Posso farti una domanda?» gli chiese.
   «Certo.»
   Marion indugiò un secondo, poi continuò: «L’altra sera mi parlavi di quando andavi alla ricerca di fortuna e gloria… ma, adesso? Vorresti ancora andare alla ricerca di fortuna e gloria, oppure intendi fermarti?»
   L’archeologo sorrise mestamente. «Forse mi fermerò o, forse, non lo farò mai, perché io, di certo, non riuscirò ad accontentarmi di guardare una semplice fotografia. La verità, però, è un’altra.» Il suo sorriso si fece sincero e pieno di speranza. «La verità è che sei tu, la mia fortuna e gloria. Sei tu, Marion, che vedo nei miei sogni, che ho sempre cercato in ogni angolo del pianeta, senza sapere che eri così vicina, che ciò a cui più anelavo era proprio lì, dentro il mio cuore…»
   Quelle parole le fecero fare un sussulto allo stomaco, dandole l’impressione che il terreno le si fosse staccato da sotto i piedi e che, adesso, stesse precipitando da una folle altezza, con lui come sola ancora a cui potersi aggrappare per trovare la salvezza.
   «Prendimi…» lo pregò, sentendosi montare dentro un’eccitazione mista a panico. «Prendimi qui, adesso… è anni che aspetto e ti voglio ora, dentro di me…»
   Quella richiesta fece gelare il sangue nelle vene di Jones. Le si fece ancora più vicino e, posatele le mani sui fianchi, la fissò dritta negli occhi.
   «Sei sicura?» domandò. «Non hai paura che, facendolo adesso, potremmo ridurre tutto ad una volta sola…»
   «Una volta e per sempre» non gli permise di continuare lei. «Una volta e per sempre, Indy.»
   Lentamente, mentre si sentiva il fiato corto faticare a portargli ossigeno al cervello, le mani di Jones risalirono lungo il corpo della donna, sfiorandolo con delicatezza e riprendendone possesso a poco a poco. Quando le ebbe stretto le spalle in una morsa dolcissima, l’attrasse verso di sé e le loro labbra dischiuse si unirono in un bacio che parve più potente del mare o delle stelle stesse che li vegliavano come testimoni silenti e discreti del loro amore.
   Quando il lungo abito di tela leggera di Marion cadde sulla sabbia, Jones l’aiutò a sdraiarsi sulla battigia ancora tiepida, che parve divenire bollente a quel contatto. Senza staccarle un solo momento gli occhi di dosso, terminò di spogliarsi e le si coricò a fianco, cingendola e attirandola a sé, mentre la marea che si alzava col crescere della luna li lambiva quasi con verginale riserbo, come se non ardisse disturbare il loro atto d’amore che si consumava con la soavità di un leggero battito d’ali.


 

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Capitolo 45
*** Capitolo XLIV - Ritorno a casa ***


CAPITOLO XLIV
RITORNO A CASA

   Il giorno seguente, seppure solo momentaneamente, le strade di Indy e Marion dovettero separarsi: dall’aeroporto di Chicago, Jones l’accompagnò fino a casa in taxi, aiutandola a scaricare i bagagli ed a portarli nell’appartamento, dopodiché dovette ripartire verso la stazione ferroviaria. Si fermò giusto il tempo di assicurarsi che alla donna non servisse nulla e per sincerarsi che Mutt, in quei giorni, non si fosse cacciato nei guai, come entrambi avevano leggermente temuto, sebbene non ci avessero mai pensato troppo, durante la loro bellissima vacanza. Per fortuna, non trovarono l’appartamento devastato - come, invece, Marion si era immaginata - ed il ragazzo apparve più in forma che mai, nonché euforico per le tante motociclette che aveva potuto ammirare al raduno dei biker, dal quale, peraltro, era riuscito a ricavare una bella somma di denaro prestando la propria opera di manutentore.
   «È stato fantastico!» esclamò, ancora al colmo dell’entusiasmo. «Ho visto moto bellissime, avreste dovuto sentire l’aria impregnata di odore di olio e di benzina, e non potreste mai immaginarvi come rombavano, rompendo il silenzio come un’orchestra sinfonica… non vedo l’ora di aver raggiunto la somma necessaria per potermene acquistare una nuova!»
   L’archeologo provò a dire che, con quei soldi, si sarebbe piuttosto potuto finanziare degli studi, ma un’occhiata molto eloquente ed esplicita di Marion lo persuase a non tornare per l’ennesima volta su quell’argomento spinoso, del quale si era già discusso fin troppo e su cui, magari, si sarebbe potuti riprovare a parlare quando le temperature fossero divenute un po’ più miti, rendendo più facili i ragionamenti e meno probabili le sfuriate per i surriscaldamenti degli animi.
   Dopo quel veloce incontro, Jones dovette ripartire per la stazione, da dove raggiunse Bedford. Mancava da un po’ da casa e doveva controllare che tutto fosse ancora a posto ed in ordine e, inoltre, per mezzo di Oxley, che lo aveva contatto in albergo, aveva saputo che Charlie lo stava cercando per comunicarli qualche cosa d’urgente e molto importante. Ovviamente, egli sperava che si trattasse della risposta positiva giunta proprio da Chicago per la sua richiesta di trasferimento.
   Tornare a casa a riposarsi, a seguito di una grande avventura, gli era sempre piaciuto, sebbene ogni volta si sentisse un po’ disorientato nel riprendere una vita quotidiana e fatta di panorami e strade conosciute dopo aver visto luoghi esotici e misteriosi ed aver sperimentato emozioni al limite delle sue possibilità; e, naturalmente, ogni volta non poteva fare a meno che anelare, dopo un poco di quella vita monotona, abitudinaria e normale, a nuove ed eccezionali imprese. Ma quella volta in particolare, dopo aver vissuto la più grande delle avventure, quella del suo amore per Marion, rientrare a Bedford dopo aver lasciato Chicago fu davvero arduo, la vicenda più complicata che ricordasse di aver mai affrontato.
   Poteva aver sfidato pericoli d’ogni sorta, vissuto le più disparate vicissitudini, affrontato le più complesse ed assurde peripezie, ma non ricordava che ci fosse nulla di anche solo lontanamente paragonabile a quegli ultimi giorni trascorsi in compagnia di Marion, la donna che amava. Per quanto strano ed assurdo potesse sembrare, l’amore era quanto di più coinvolgente potesse esistere al mondo, e non c’era audace avventura che fosse anche solo minimamente paragonabile ad esso; e lo stava sperimentando alla perfezione proprio in questi giorni, sulla sua stessa pelle, con il cuore pulsante ed il sorriso che gli appariva sulle labbra ogni volta che pensava a lei e, naturalmente, a loro figlio. Il suo amore era suddiviso alla pari per entrambi e questo gli donava una felicità mai provata prima.
   In effetti, oltre all’amore per una donna - e non era più stato veramente innamorato di nessuna donna da almeno vent’anni, ossia da quando la sua strada si era separata da quella di Marion - adesso stava sperimentando un nuovo tipo di amore, quello paterno, qualcosa di inedito e completamente nuovo per lui. Sapeva che non sarebbe stato semplice, specialmente in considerazione del fatto che quel figlio appena ritrovato avesse quasi diciannove anni. Diciannove anni in cui lui non lo aveva conosciuto, durante i quali non aveva neppure saputo della sua esistenza, senza neppure sospettarne minimamente.
   Mentre il treno sbuffante vapore si approssimava sempre più alla stazione, i suoi occhi erano posati sul verde paesaggio del Connecticut, che si delineava al di là delle volute di fumo, senza però vederlo davvero, immerso com’era nelle sue riflessioni; fece due rapidi calcoli mentali, tentando di ricordare che cosa avesse fatto, lui, durante il tempo in cui suo figlio era nato, cresciuto e divenuto l’adolescente un po’ ribelle, ma in fondo dal cuore d’oro, che era adesso.
   Be’, più o meno negli stessi giorni in cui Marion aveva partorito, lui era andato alla ricerca del Santo Graal, ricerca da cui non era ritornato stringendo tra le mani un semplice artefatto, bensì insieme a suo padre, quell’uomo che credeva di aver dimenticato per sempre. Era come se il Graal avesse compiuto un miracolo, riunendo padre e figlio, per fargli comprendere quanto fosse importante e speciale questo tipo di legame e, quindi, per indurlo a tornare indietro, dalla donna che aveva abbandonato e che portava in grembo la loro prole; ma lui aveva compreso soltanto la prima parte di quel messaggio, non la seconda. A sua discolpa, poteva anche provare ad ammettere che fosse un poco anche colpa di Marion, che gli aveva tenuto tutto nascosto; se lei lo avesse cercato per dirgli di essere incinta, di aspettare un bambino da lui, di certo sarebbe ritornato per non andarsene mai più, soprattutto in quel momento in cui aveva scoperto l’importanza dell’amore paterno e filiale. Ma Marion, in fondo, che colpa ne aveva? Se c’era da incolpare qualcuno, questo era lui, che se n’era andato, defilandosi nel buio della notte e sparendo come un fantasma opalescente che si dissolva nella luce.
   E, così, mano a mano che il bimbo cresceva, ignaro delle proprie reali origini, lui aveva continuato la sua vita da scapolo incallito - sempre alle prese con una schiera di amanti, che si avvicendavano dentro e fuori dal suo letto con la medesima frequenza con cui si cambierebbe la biancheria - e di avventuriero scavezzacollo, senza neppure immaginarsi che, da qualche parte nel mondo, potessero esserci per lui persone molto più importanti e preziose di qualsiasi tesoro avesse mai creduto di poter trovare.
   L’anno successivo alla nascita del piccolo, lui lo aveva trascorso prima compiendo lunghe indagini per poter giungere nel cuore della perduta Atlantide - forse una delle sue imprese più straordinarie - e, poi, partendo alla ricerca del mitico Bastone dei Re appartenuto al patriarca Mosè, l’ennesima arma micidiale che sarebbe potuta essere utilizzata al peggio se fosse caduta nelle mani sbagliate.
   E poi, ovviamente, era venuta la guerra, quella tremenda carneficina durante la quale aveva servito nei servizi segreti, trovando e annientando antichi artefatti che avrebbero potuto piegare e sbilanciare le sorti del conflitto; oltre a questo, non aveva certo mancato di compiere imprese militari degne di nota, come quando aveva comandato un reparto durante lo sbarco in Normandia. Per non parlare, infine, delle missioni quasi suicide in Germania e nel Pacifico - dove, preso prigioniero dai giapponesi, aveva assistito a raccapriccianti e sommarie esecuzioni ed aveva a sua volta rischiato di essere fatto a pezzi per soddisfare il gusto sadico di qualche ufficiale sanguinario - sempre con il fidato e coraggioso Mac al proprio fianco.
   Con la fine della seconda guerra mondiale, non erano certo finite le sue peripezie, in quanto i servizi segreti, subodorando che al pericolo nazista si sarebbe sostituita rapidamente la minaccia rossa, lo avevano mantenuto in forza, comandandogli vari tipi di imprese. Il suo primo scontro con gli ex alleati sovietici era avvenuto quasi dieci anni prima, nel ‘47, quando gli era stato ordinato di trovare una potentissima arma antidiluviana nascosta in quella che le cronache bibliche chiamarono Torre di Babele.
   Intanto, mentre lui era continuamente impegnato nelle sue avventure, dalle quali ogni volta ritornava vivo quasi per uno scherzo del destino e nulla di più, cercando di non badare ai capelli che gli diventavano sempre più grigi, il mondo attorno a lui aveva continuato a mutare ed a trasformarsi ad una velocità sempre più incredibile.
   Sebbene, in qualche modo, fosse riuscito ad accettare quel nuovo stato delle cose, non era riuscito ad adattarvisi del tutto. Maggiori velocità, ansia, frenesia… e, poi, il dilagare incontrollato del capitalismo e del consumismo più sfrenati, con i loro fast-food, i cinema all’aperto, gli elettrodomestici ormai indispensabili, i nuovi modi di vestire e di intendere la vita, la pubblicità sempre più invadente e incalzante, urlata a squarciagola nelle televisioni e reclamizzata sui cartelli che, come foreste morte e colorate, contornavano le strade su cui file interminabili di automobili correvano veloci attraverso interi e modernissimi quartieri che sorgevano quasi dal nulla, facendo scomparire ettari ed ettari di territorio fino a quel momento incontaminato; e, ovviamente, di contro a questa brillante ed illusoria facciata, si stagliavano le famiglie che rischiavano di impoverirsi per soddisfare inutili capricci, il degrado sempre più incalzate delle periferie e la folle caccia alle streghe messa in atto per trovare e fermare i nemici presenti in patria. Era come se il mondo, e gli Stati Uniti in particolare, stesse cercando di farsi scudo contro l’ombra incalzante e sempre più tetra della guerra nucleare tramite un progresso sregolato, senza limiti ed a tratti decisamente pauroso. E per un archeologo come lui, abituato a studiare il lento evolversi della civiltà umana nel corso di secoli, se non addirittura di interi millenni, assistere a simili e profondi cambiamenti tutto in una volta, senza alcun tipo di paletto o di transizione nel mezzo, sembrava quasi voler dire assistere alla fine della storia.
   Ora, però, riconosceva che quel mondo nuovo e complicato era il mondo di suo figlio e che, quindi, lui per forza avrebbe dovuto farne parte, perché quel ragazzo - insieme a Marion, naturalmente - sembrava essere riemerso dalle nebbie del suo passato per regalargli una nuova opportunità di riscatto nell’esatto momento in cui si era sentito pronto a dichiararsi sconfitto, solo al mondo - ormai privo com’era di qualsivoglia legame ed affetto familiare - e fin troppo vecchio per sperare di gettarsi ancora in qualche nuova impresa come quelle del suo passato.
   Quando il treno si fermò alla stazione di Bedford, il maturo professore tornò a sorridere.
   Lui, per quanto a volte gli fosse ancora difficile crederlo, non era più un uomo solo, perché poco a poco stava ricostruendosi una famiglia, insieme ad una donna che amava profondamente, e che riusciva ancora a ricambiarlo, nonostante tutto il male che le aveva cagionato in passato, e ad un ragazzo ribelle, così simile a lui, che in fondo cominciava già a volergli bene, perdonandolo per non essere mai stato con lui. Si sentiva esattamente come un uomo che, dopo un anno intero di lavoro, ritorni finalmente a casa propria per godere di qualche giorno di ferie in compagnia delle persone care. Ma quella a cui lui stava ritornando non era una casa fisica, non era la sua abitazione di Bedford o l’appartamento di Marion a Chicago, perché non era un luogo che si potesse vedere o toccare; era, semmai, quel focolare che gli ardeva nel cuore e che avrebbe continuato allegramente a scoppiettare finché ne avesse avuto il tempo, soprattutto perché lui sarebbe stato più che felice di alimentarlo per sempre, senza più prendersi neppure l’ombra di una brevissima pausa.
   Sì, dopo anni di solitudine, dopo aver a lungo vagato per luoghi selvaggi in solitudine, senza una meta, camminando ininterrottamente e con il fiato sempre più corto, vicino allo sfinimento eppure senza sapere come fare per ritrovare la strada, Indiana Jones poteva finalmente ammettere di essere tornato a casa.
   E non si era mai sentito così allegro di averlo fatto.

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Capitolo 46
*** Capitolo XLV - Il primo compleanno ***


CAPITOLO XLV
IL PRIMO COMPLEANNO

   La notizia che Charlie comunicò ad Indy non fu affatto quella che si aspettava.
   Il rettore, dopo averlo accolto nel suo ufficio ed avergli chiesto come si sentisse, gli rivelò che, da Chicago, non era giunta ancora nessuna novità ma che, almeno, ce n’era una proveniente dal Marshall College, quella di cui avrebbe voluto riferirgli: dopo averne parlato a lungo con Stanforth, che su questo punto si era mantenuto irremovibile ed aveva insistito fino allo sfinimento, il consiglio direttivo aveva accettato di riunirsi in seduta plenaria di lì a una settimana, per discutere della posizione del professor Jones e vagliare la possibilità di reintegrarlo nel suo ruolo. Molti dei consiglieri, inoltre, avevano chiesto che lo stesso archeologo fosse presente, in quanto volevano rivolgergli alcune domande.
   «Ho già un processo in corso, non ho per nulla voglia di dovermene sorbire un secondo» commentò Jones, contrariato, distogliendo lo sguardo e guardando fuori dalla finestra dell’ufficio, quasi desiderasse trovarsi all’aria aperta.
    «Cerca di venirmi incontro» lo implorò Charles, assumendo un’espressione esasperata. «Sto facendo l’impossibile, per riuscire a far loro cambiare idea, ma se non mi dai una mano continuerò a trovarmi di fronte ad un muro insormontabile.» Vedendo che l’amico stava per aprire bocca e ribattere qualcosa, Stanforth continuò, prevenendolo: «Lo so che cosa vorresti dirmi. Hai fatto domanda di trasferimento e non te ne importa più un accidente di quello che i consiglieri pensano di te e che, se solo dipendesse da te, li manderesti volentieri tutti a quel paese a suon di calci nel posteriore.»
   «Non sono esattamente le parole che avrei usato io, ma il ragionamento fila» approvò Indy, con un ghigno sarcastico, continuando a scrutare il cortile oltre i vetri.
   Stanforth lo ignorò. «Ma prova a ragionare: credi che a Chicago sarebbero felici di accettare di assumere un docente che, pur avendo alle spalle una lunga e brillante carriera, si sia fatto licenziare per non aver voluto dare ascolto agli organi direttivi della sua università? Guarda che, quello che sto facendo, non serve a me, ma a te, e lo sto facendo perché sei un mio caro amico e credo ancora nella giustizia. Dovresti saperlo.»
   Jones distolse lo sguardo dalla finestra e, dopo un attimo di esitazione, tornò a guardare il volto paffuto e bonario di Charlie, uno dei pochi volti su cui potesse ancora contare e fare affidamento, perlomeno tra quelli degli abitanti di quella città e degli impiegati dell’Università.
   «Ti chiedo scusa» bofonchiò, infine. «È solo che ho avuto tante di quelle cose a cui pensare, ultimamente, che la mia posizione nel Marshall College era ormai l’ultimo dei miei pensieri.»
   «Lo so bene» ammise il rettore. Gli fece l’occhiolino e soggiunse, con fare complice: «E spero che, questa, sia la volta buona.»
   «Lo spero anch’io» approvò Indy. «Lo spero anch’io.»

   Jones si trattenne a Bedford per tre giorni, giusto il tempo di aggirarsi tra negozi e uffici per saldare qualche conto in arretrato e di compiere qualche altra commissione, dopodiché decise di ripartire per Chicago, dopo aver promesso a Charlie che sarebbe stato di ritorno, puntualissimo, per il diciotto, il giorno in cui era prevista la riunione del consiglio universitario. Ma ciò che lo premeva di più, adesso, era di giungere puntuale a casa di Marion e di Mutt per festeggiare insieme il compleanno del ragazzo, che sarebbe avvenuto il sedici luglio.
   Si sentiva quasi tremare i polsi dall’emozione al pensiero che, per lui, quello sarebbe stato il primo compleanno di suo figlio. Eppure, quel primo compleanno era già il diciannovesimo, e questo lo fece sentire, in fondo, anche parecchio vecchio; oltretutto, gli riportò per la milionesima volta a galla la sensazione tremenda di aver sprecato tantissime opportunità e di aver abbandonato la propria famiglia per rincorrere di continuo la sua ossessione per i tesori archeologici e per le avventure al limite dell’estremo.
   Ma, in fondo, non doveva pensarci adesso. Quel che era stato era stato, tanto valeva scordarsi del passato e cercare di vivere al meglio il presente, facendo sì che durasse il più a lungo possibile, anzi magari per sempre. Continuare a crogiolarsi nel dolore e nei sensi di colpa per tutte le occasioni sciupate e gettate via non sarebbe servito a nulla e, inoltre, sarebbe pure stato fuori luogo, soprattutto adesso che poteva finalmente ammettere di aver cominciato a ricostruire la sua famiglia, mattone dopo mattone. Era un’edificazione che stava andando molto per le lunghe, come un cantiere abbandonato e poi riaperto dopo tantissimi anni, con parecchie cose da aggiustare e sistemare prima di ricominciare i lavori veri e propri, ma ora che vi si era rimesso all’opera non intendeva più fermarsi fino a quando anche l’ultimo strato di malta fosse stato steso e l’ultimo mattone posato.
   Prima di ripartire per Chicago, però, Jones per prima cosa decise di acquistare un regalo per suo figlio. Anche questo pensiero lo faceva sentire strano, perché lui non aveva quasi mai fatto regali a nessuno, men che meno al proprio unico erede. In realtà, in passato, aveva fatto dei doni alle sue tante amanti, ma si trattava sempre e soltanto di abili strategie per invogliarle a finire a letto con lui il prima possibile, nulla di più. Probabilmente, l’unica che potesse asserire di aver ricevuto da lui dei regali sinceri, provenienti dal cuore, era Marion, che però forse non se li ricordava neppure più, considerati i tanti anni trascorsi.
   Sperò che un regalo potesse essere un primo e piccolo passo per farsi perdonare la propria assenza e, soprattutto, che nel suo orgoglio - quel maledettissimo orgoglio che aveva ereditato in pieno da genitori e nonni, doveva ammetterlo, sebbene a malincuore - Mutt non lo interpretasse come un tentativo di comprare la sua fiducia. Non voleva che fosse questo il pensiero prevalente del ragazzo, quindi scartò immediatamente il primo regalo a cui aveva pensato, ossia una motocicletta, dato che la considerò troppo ingombrante e impegnativa. Ci voleva qualcosa di importante e, allo stesso tempo, di poco costoso, in maniera che Junior capisse che suo padre non stava cercando di farsi accettare da lui grazie alla capienza del proprio portafoglio.
   Tuttavia, che cosa avrebbe potuto fare al caso suo? All’improvviso, nel guardare il ritratto di suo padre che teneva sulla scrivania, ebbe una folgorazione.
   Balzato in piedi, attraversò rapidamente il suo studio e si avvicinò ad un armadietto impolverato, che non apriva da almeno cinque anni; afferrata la maniglia dello sportello, lo aprì, rivelando quattro ripiani completamente stipati di vecchie fotografie che non guardava da lungo tempo. A manciate, le trasportò tutte sul suo tavolo da lavoro e cominciò ad esaminarle una ad una alla luce calda del pomeriggio che pioveva dalla vetrata alle sue spalle.
   Erano immagini di luoghi che aveva visitato in passato, certo, ma c’erano anche tantissime altre fotografie che avevano immortalato la sua vita e quella delle persone a lui vicine: ritratti di suo padre e di sua madre nel giorno del loro matrimonio, di lui da bambino insieme al suo enorme cane Indiana o in braccio al giovane Marcus Brody… e poi, naturalmente, foto di lui vicino a Marion, che erano la maggior parte. Dopo aver posato un’istantanea che ritraeva lui ed Oxley insieme ad Abner, fuori dall’Università di Chicago nel giorno in cui avevano conseguito la laurea, prese tra le mani il ritratto che lui e Marion, abbracciati e sorridenti, si erano fatti scattare da un fotografo di strada vicino alla Spianata delle Moschee di Gerusalemme, nel giorno stesso in cui avevano compreso di amarsi e di essere destinati a stare insieme per tutta la vita, nonostante un fato avverso avesse più volte messo lo zampino in queste loro decisioni.
   Quella piccola immagine scatenò in lui una ridda di ricordi piacevoli e spiacevoli: gioia, nostalgia, dolcezza e rimpianto. Non la guardava da tantissimo tempo - anzi, a dire il vero, fino ad un istante prima non si ricordava neppure della sua esistenza - ma adesso gli pareva proprio di essere di nuovo a Gerusalemme, respirando l’aria secca e carica di profumi speziati dell’antica città, come se lui e la sua ragazza avessero fatto quella passeggiata non trent’anni, ma soltanto il giorno prima.
   Sospirando, ripose la fotografia e si alzò nuovamente per tornare verso lo scaffale. Come sapeva, lì dentro c’era anche un album dalla copertina di pelle, acquistato anni prima per raccogliere le fotografie scattate durante alcuni scavi archeologici e, poi, mai utilizzato, quasi sapesse che un giorno gli sarebbe servito per qualcosa di molto più importante. Quindi, con pazienza, cominciò ad inserire le migliori istantanee tra quelle pagine, componendo poco a poco il suo personale regalo per Junior.

   Infine, venne il giorno in cui un emozionatissimo Indy si presentò alla porta di Marion per festeggiare insieme il compleanno di loro figlio; sarebbe stata una festicciola senza troppe pretese, un pranzo di mezzogiorno con loro tre ed Oxley, a cui avrebbe fatto seguito una bella torta decorata, anche perché il ragazzo aveva fatto chiaramente capire che la sera si sarebbe ritrovato in un locale con degli amici e non aveva alcuna intenzione di portarsi dietro anche i vecchi.
   In ogni caso, nonostante la sua aria da duro, fu decisamente felice di poter trascorrere un paio d’ore con la sua famiglia, e si rivelò ance parecchio entusiasta dei doni che ricevette. Oxley, senza smentirsi, gli regalò un libro scritto da lui stesso sulla ricerca di Akator nel corso dei secoli, che dopo una prima sfogliata si rivelò molto più avvincente di quanto ci si sarebbe potuti aspettare a giudicare dalla copertina e dall’autore; sua madre, invece, gli fece dono di un nuovo giubbotto di pelle, dato che il suo si era irrimediabilmente rovinato durante le disavventure in Sud America. Però, la sua emozione fu decisamente maggiore quando, aprendo la carta da pacchi che avvolgeva il regalo di suo padre, scoprì l’album di fotografie.
   «È davvero bellissimo» mormorò, incantato, girando lentamente le pagine ed ammirando i ritratti dei suoi nonni, dei suoi genitori e dei loro amici da giovani. Sua madre e suo padre gli parvero decisamente cambiati, nel corso di quegli anni, ed i nonni gli apparvero esattamente come se li era sempre immaginati. Dalla foto in cui compariva, invece, risultò che Oxley era rimasto sempre lo stesso, come se non fosse invecchiato o, per peggio dire, come se fosse stato vecchio fin da giovane.
   Leggendo quell’espressione incantata sul volto di suo figlio, Indy si sentì veramente sollevato. Quello era il primo compleanno di Junior che festeggiava ma, perlomeno, aveva in qualche modo potuto ovviare a tutte le occasioni mancate ricostruendo il passato con le immagini che ne erano sopravvissute fin nel presente. Per questo, non ebbe neppure un minimo di timore quando il ragazzo, giunto all’ultima pagina, vi trovò anche una busta bianca contenente due banconote da cinquanta dollari l’una.
   «Il mio contributo per la tua motocicletta» spiegò Jones, rispondendo allo sguardo interrogativo del figlio. «In fondo, è anche colpa mia se la tua hai dovuta abbandonarla in quel cimitero, quindi mi sembrava giusto poter in qualche modo rifonderti dei danni subiti.»
   Detta così, poteva essere accettata molto bene e, infatti, anche il ragazzo non trovò alcunché da obiettare, anzi fu lesto ad infilare il denaro in tasca, asserendo che, in questo modo, presto avrebbe potuto davvero acquistarsi una motocicletta nuova fiammante, con cui avrebbe rombato per le strade di tutto lo stato.
   Trascorsero, dunque, un paio d’ore di allegria, gustando i manicaretti che Marion aveva preparato con la sua insuperabile abilità e discorrendo del più e del meno; fecero anche numerosi brindisi, tanto che, quando fu il momento di alzarsi da tavola, si trovarono tutti più o meno alticci. Il vino ed il cibo avevano reso pesanti le palpebre di tutti, quindi Oxley, dopo aver salutato, ringraziato e augurato nuovamente buon compleanno a Mutt, si congedò, dicendo che sarebbe tornato a casa, dove aveva alcune pagine da revisionare; ovviamente, nessuno dubitò che se ne sarebbe andato a letto per almeno un paio d’ore. In quanto al ragazzo, asserì di avere del lavoro da fare in garage e, dopo essersi cambiato per indossare la sua tuta da lavoro, salutò ancora i genitori e ripeté i suoi ringraziamenti.
   Così, Indy e Marion restarono da soli, a sparecchiare ed a lavare i piatti come due coniugi ormai consumati ed abituati a ripetere quelle azioni meccaniche di ogni singolo giorno.
   «Mutt ha apprezzato molto il tuo regalo» ammise Marion. «E anche io» soggiunse, dopo un momento di esitazione. «Rivedere quelle fotografie mi ha riportato indietro nel tempo.»
   «Non è successo solo a te» borbottò Jones, leggermente a disagio. «Quando mi sono trovato davanti la fotografia di Gerusalemme, la prima che ci siamo scattati insieme… be’, quasi quasi stavo per commuovermi davvero.»
   La donna lo guardò con un dolcissimo sorriso.
   «Sono felice che tu sia tornato per Mutt» rivelò.
   «Non me lo sarei perso per nulla al mondo» confessò l’archeologo. «Purtroppo, non potrò fermarmi a lungo come desidererei. Se potessi rimarrei con voi per sempre, ma devo tornare di nuovo a Bedford, per una riunione importante in Università. Una riunione in cui l’ordine del giorno sarà discutere del mio futuro di accademico…»
   «È una cosa molto importante, è giusto che tu non te la perda!»
   Indy terminò di asciugare un piatto e si voltò per guardarla dritta negli occhi, con quella sua specie di ghigno quasi ironico che, però, in questo momento era carico di una sincerità quasi sconcertante.
   «Tu sei molto importante, Marion, e sei la sola che non voglia mai più perdere. Tu e Junior siete tutto quello che ho, ormai, ma non potrei desiderare niente di più, perché ad aver trovato voi mi sembra di aver ricevuto la luna e le stelle. Il resto non ha valore.»
   Anche Marion smise di occuparsi di pentole e stoviglie.
   «Ci sono molte cose importanti nella vita, Indy, ma non per questo il resto è privo di valore» sussurrò, facendosi più vicina. «L’importante è come si vivono i momenti più belli…»
   Erano ormai vicinissimi e, prima che potessero rendersene conto, i loro corpi si strinsero l’uno addosso all’altro e le loro labbra si unirono con la passione di sempre, mentre i piatti ormai dimenticati continuarono a giacere nel lavabo.


 

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Capitolo 47
*** Capitolo XLVI - Riunione in Università ***


CAPITOLO XLVI
RIUNIONE IN UNIVERSITÀ

   «Dichiaro aperta la riunione numero venticinque del diciotto luglio, atta a valutare le responsabilità del professor Jones ed a valutare la possibilità di una sua reintegrazione nel ruolo di docente di archeologia.»
   L’anziano professor Bedini, con indosso il suo solito completo nero che faceva risaltare ancora di più la lunga barba grigia che gli cadeva fino al petto, dandogli l’aspetto di un antico filosofo greco, in qualità di presidente del Consiglio Universitario si era alzato in piedi per parlare, ed ora si rimise a sedere nel suo posto centrale, accanto al rettore.
   L’aula magna era già afosa e soffocante, sebbene fosse mattino presto, e tutti i docenti presenti sudavano abbondantemente nei loro impeccabili completi; Bedini, Stanforth ed altri pezzi grossi sedevano sopra alcune poltroncine che erano state sistemate sulla pedana rialzata, gli occhi rivolti ai restanti componenti del consiglio che, invece, si erano accomodati in platea. In quanto a Jones, rigidamente installato sopra il più scomodo scranno che gli fosse mai capitato di provare, al centro della sala come un animale raro da controllare di continuo, non vedeva l’ora che si dessero una mossa e la finissero con quella pagliacciata, perché anelava di poter tornare quanto prima in libertà, a respirare l’aria aperta e pura di quel giorno d’estate, senza curarsi minimamente di quale sarebbe stato il verdetto finale di quelle sottospecie di avvoltoi vestiti a festa, di quei becchini imbalsamati che non avrebbero certo sfigurato in un qualche mausoleo dimenticato.
   Uno dei consiglieri, il professor Begum, si alzò e chiese di poter parlare. Con voce stentorea, come se stesse indirizzando una filippica od una catilinaria, ricordò in quali tempi difficili stessero vivendo, costantemente minacciati dallo scoppio di una guerra nucleare che avrebbe potuto annientare l’intera umanità in una sola notte o, peggio ancora, dalla concreta possibilità di vedere il diabolico spettro del comunismo dilagare persino in America, la patria per eccellenza del liberalismo, dell’iniziativa privata e della fede totale in Dio. Dopodiché, dopo aver rammentato di come il Marshall College fosse sempre stato un faro luminoso nella notte per chiunque avesse voluto sfuggire alle ingiustizie sociali - per fortuna, presenti nel resto del mondo ma non certo lì, negli Stati Uniti - passò a domandarsi se potesse essere opportuno continuare a mantenere nel corpo docenti un uomo macchiatosi di crimini tali che avrebbero senza dubbio gettato eterno fango sull’Università.
   «Insomma» concluse, tralasciando di guardare Indy, come se non fosse neppure presente, calandosi in una parodia neppure troppo ben riuscita di Cicerone, «fino a che punto noi, uomini onesti che si sono sempre battuti nel nome del sapere, della giustizia e della libertà, dovremo sopportare la presenza in questo santo luogo del professor Jones, pronto a vendersi al miglior offerente e, così, a tradire la propria patria, che gli ha dato tutto? Fino a che punto, dunque, egli continuerà ad abusare della nostra pazienza?»
   L’archeologo contò mentalmente fino a dieci per non cedere alla tentazione di alzarsi subito a prenderlo a ceffoni; quando ebbe finito, dovette ricominciare, questa volta arrivando almeno fino a cento.
   In quel momento, alzò la mano la dottoressa Ferguson, che era divenuta curatrice del museo universitario dopo la promozione a rettore di Marcus Brody, di cui era stata segretaria per circa trent’anni e che l’aveva designata personalmente come proprio successore. Per via delle antiche e inviolabili regole del Marshall College, che permettevano ai soli uomini di far parte del consiglio direttivo, la dottoressa Ferguson non rientrava nella schiera dei consiglieri ma, in via del tutto straordinaria, le era stato comunque concesso di partecipare alla seduta per via della sua vecchia amicizia con Brody, di cui Jones era sempre stato uno dei favoriti.
   «Prego, dottoressa» la invitò a parlare il professor Bedini, con un lieve cenno del capo.
   La donna non si fece certo pregare e, con grande foga, cominciò immediatamente ad elencare tutti i preziosi reperti recuperati dall’archeologo ed ora custoditi nelle teche del museo, museo che era il vanto nonché il fiore all’occhiello dell’Università, essendo uno dei più importanti a livello nazionale. Con precisione, ci tenne anche a ricordare di come Jones si fosse più volte battuto contro coloro che avrebbero voluto impossessarsi di antichi manufatti per scopi malvagi, che avrebbero certo nuociuto agli Stati Uniti.
   «Definire il professor Jones un traditore della patria, quindi, mi sembra una sciocchezza immane e fuori da ogni minima logica» concluse, ancora infervorata, «e credo proprio che chi abbia osato anche solo pensarlo dovrebbe vergognarsene profondamente e scusarsi immantinente.»
   Indy ringraziò mentalmente la donna per la sua presenza di spirito e per la sua lealtà nei suoi confronti, che aveva ereditato stilla a stilla da Marcus Brody. Con la mente, rivide se stesso ai propri primi anni di insegnamento, quando aveva tentato, vanamente, di sedurre anche la giovanissima signorina Ferguson che, però, gli era resistita. Da quel che ne sapeva, la segretaria di Brody era stata l’unica donna che non avesse ceduto alle sue lusinghe, ma questo non aveva certo intaccato i loro rapporti, anzi aveva contribuito a mantenerli buoni e cordiali per tutti quegli anni. Questi ricordi della sua debosciata gioventù non poterono evitargli l’apparire di un sorrisetto sulla labbra.
   A quel punto, chiese di poter parlare il professor McFynn, l’ordinario di storia medievale. Tra lui ed Indy non era mai corso proprio buon sangue, quindi Jones si preparò ad essere amabilmente mitragliato; invece, l’archeologo dovette ricredersi con una certa sorpresa, nel scoprire di ciò che il collega aveva in serbo per lui.
   «Come sapete, ho fatto la guerra. Sono stato nel Pacifico, dove ho visto compiere atti mostruosi, specialmente quando fui fatto prigioniero dai nipponici. Ho visto i miei commilitoni venire estratti a sorte per essere uccisi con un colpo alla testa, quando non fatti in mille pezzi per il semplice divertimento dei nostri aguzzini. Ogni giorno sapevo che poteva essere l’ultimo, ed il solo modo che ho trovato per non impazzire in quell’inferno è stato quello di ripetermi di continuo nella mente la storia dell’umanità. Poi, un giorno, tra i prigionieri vidi una persona che conoscevo: il professor Jones. Non potei avvicinarmi a lui, non potei fare nulla di nulla e, quando non lo vidi più, mi convinsi che fosse stato ucciso a sua volta. Invece no. Era riuscito a fuggire, aveva trovato il modo per eclissarsi in segreto, senza che nessuno se ne rendesse conto, nemmeno i giapponesi. Ma pensò a mettersi in salvo? No, non da solo, almeno, perché personalmente organizzò un folle piano per assalire il campo e liberare tutti noi. Ci riuscì. Non so bene come, ma ci riuscì. Se io e moltissimi altri siamo potuti tornare qui, nelle nostre case, dalle nostre famiglie, è stato solo merito del professor Jones. Ed io, adesso, dovrei forse credere che un simile eroe, un uomo che ha messo a repentaglio la propria vita per salvare quella di moltissimi americani, senza chiedere nulla in cambio, si sia venduto ai sovietici? Ma fatemi il favore! Io, a questa storia, non ci ho creduto, non ci credo e non ci crederò mai, quindi, come già ho avuto modo di dire nelle precedenti riunioni, chiedo che il professor Jones sia reintegrato al proprio posto immediatamente e con le scuse più sentite di tutto il Marshall College.»
   Quelle parole furono accolte da un silenzio imbarazzato, perché evidentemente non erano certo pochi, tra i membri del consiglio, ad essere a conoscenza delle imprese belliche di Jones, nonché delle sue lotte contro il nazismo, prima, e contro il comunismo, poi. Potevano davvero, quindi, appellarsi a quelle che sapevano essere soltanto delle fandonie solo per non correre il rischio di infangare il buon nome della loro prestigiosa istituzione?
   Prima che qualcuno potesse aggiungere altro, fu il rettore stesso ad alzarsi in piedi.
   «Col vostro permesso, signori consiglieri, ci terrei molto a concedere la parola ad una persona che non dovrebbe figurare tra i partecipanti a questa riunione. Si tratta, tuttavia, di una figura di spicco della nostra Università, un uomo che già in passato insegnò qui e che, proprio in queste settimane, ha fatto richiesta di poter essere riammesso al Marshall College come docente di storia precolombiana: il professor Harold Oxley.»
   Si levò un mormorio indistinto, perché Oxley era un uomo di chiara fama che tutte le maggiori università d’America ed Europa si contendevano, sebbene da anni non avesse più lasciato quella di Chicago; il fatto che volesse tornare lì, a Bedford, era una notizia da togliere veramente il fiato.
   Anche Indy, pieno di stupore, si voltò a guardare verso le ultime file, dove l’amico era rimasto fino a quel momento, silenzioso e quasi invisibile come sempre; ora, però, come un prestigiatore in un circo, Oxley si alzò in piedi e cominciò ad avanzare verso di loro, catalizzando su di sé l’attenzione di tutti.
   Salì sulla pedana, strinse le mani di Stanforth e di Bedini e poi, rivolto all’assemblea, parlò.
   «Ci sono cose che, ancora, non mi è permesso di rivelare, poiché come sapete è in atto un processo ed io sono vincolato al segreto istruttorio. Forse, vista la gravità di quanto accaduto, mi sarà persino chiesto di non parlarne mai ad anima viva. Nondimeno, non credo di fare alcunché di sbagliato nel dirvi che, se non fosse stato per l’intervento del professor Jones, in questo momento tutti noi staremmo correndo un serio e gravissimo pericolo, trovandoci in totale balia dell’Unione Sovietica. Ma, se così non è stato, bisogna davvero ringraziare, ve lo ripeto, il professor Jones.»
   Un discorso breve, di poche parole, ma che fu sufficiente a scuotere le coscienze, ancora di più di quanto avesse già fatto quello di McFynn. Dopo essersi consultato con lo sguardo con il rettore, il professor Bedini si alzò in piedi e chiese ad Oxley, Jones ed alla signorina Ferguson di lasciare l’aula, in quanto il consiglio avrebbe deliberato.
   Ovviamente, l’archeologo non se lo fece ripetere due volte e fu lesto ad alzarsi da quella sedia infernale per sgusciare fuori, nel cortile profumato e soleggiato, dove attese di essere raggiunto da Oxley.
   «Non credevo che saresti intervenuto anche tu, Ox» ammise Indy. «Li hai spiazzati tutti. Grazie.»
   Oxley sorrise. «E di che cosa, Henry? Ho solo detto le cose come stanno. Inoltre, sarei dovuto venire qui lo stesso, perché Stanforth mi ha fatto firmare il contratto. Ora, faccio ufficialmente parte del Marshall College, di nuovo!»
   Il ghigno di Indy fu quasi spietato.
   «Ed io, invece, sono ancora in attesa di scoprire che cosa ne sarà di me… resterò? Mi assumeranno a Chicago? Mistero!»

   Dopo circa un’ora, Stanforth apparve con un largo e sincero sorriso sulle labbra. Il consiglio era terminato e, dal suo atteggiamento, si poteva intuire che tutto fosse andato tutto liscio, come meglio non si sarebbe potuto sperare.
   «Sei stato reintegrato completamente, Indy» rivelò, sprizzando gioia da tutti i pori. «Tutti insieme, vinta ogni residua titubanza, hanno convenuto che la storia imbastita contro di te dall’FBI non regge e, inoltre, hanno deciso che il fatto che i federali abbiano messo sottosopra il tuo ufficio, a maggio, non significa proprio nulla, né che questo possa mutare il prestigio del Marshall College. Ovviamente, si sono riservati la facoltà di cambiare idea nel caso il processo contro di te dovesse terminare con una condanna, ma non disperiamo! Ormai sei qui e, quindi, da questo momento puoi considerarti non più in aspettativa, bensì semplicemente in ferie fino al prossimo settembre.»

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Capitolo 48
*** Capitolo XLVII - Domanda... ***


CAPITOLO XLVII
DOMANDA…

   Quella notizia, giunta quasi inaspettata, riempì di gioia il cuore di Indiana Jones, anche se cercò di non darlo a vedere. Nonostante tutti i suoi sforzi, però, non gli riuscì proprio di trattenere un larghissimo sorriso che gli andò quasi da un lato all’altro del volto. D’accordo, poteva anche provare a fingere che non gliene importasse proprio nulla, ma sapere che i suoi colleghi del Marshall College non lo reputassero un traditore, complice del KGB o di chissà quale altra banda di fanatici comunistoidi, lo fece sentire enormemente sollevato.
   Quella sera, per sdebitarsi di quello che avevano fatto per lui, invitò a cena in uno dei migliori ristornati della cittadina Oxley e Stanforth; in verità, tentò anche di coinvolgere la dottoressa Ferguson, la quale, però, dopo essersi detta molto lusingata di aver potuto contribuire ad aiutarlo, declinò l’offerta, asserendo di avere moltissimo lavoro in arretrato da sbrigare per il museo. Come sapevano tutti più che bene, in realtà, la curatrice era una donna estremamente puntuale, che non lasciava mai indietro nulla, ma che pure era così affezionata alle sue collezioni museali da non abbandonarle neppure la notte.
   Il ristorante si trovava dall’altra parte della strada rispetto alla chiesa di St. Martin, a non molta distanza da dove sorgeva l’Università, ed era un luogo che Indy conosceva più che bene perché era lì che, solitamente, Marcus Brody gli offriva una cena con abbondante champagne, quando ritornava da una qualche missione archeologica intorno al mondo. E, in effetti, quella sera i tre uomini mangiarono come se, al tavolo insieme a loro, fosse stato presente anche l’amico ormai scomparso, venuto a congratularsi per il modo in cui erano riusciti a far terminare i guai di Indy.
   Ovviamente, lo spauracchio del processo continuava ad incombere sulla testa dell’archeologo come una spada di Damocle; ma le rassicurazioni di Bob erano state tali che, anche da quel punto di vista, si poteva ormai ritenere del tutto tranquillo. Proprio quella mattina, difatti, Jones aveva ricevuto una raccomandata urgente, che lo invitava a presentarsi in tribunale di lì a sette giorni, quando sarebbe stato celebrato il processo vero e proprio, ed il fatto che quella notizia gli fosse stata data così, per lettera, senza che nessuno pensasse di prelevarlo per condurlo in aula, gli fece credere che tutto si stesse infine aggiustando.
   Insomma, la sua vita stava tornando alla normalità. Ma, per quello che lo riguardava, non voleva che ogni cosa tornasse normale, almeno non normale nel senso in cui lui lo aveva inteso fino a quel giorno. Per lui, la normalità era sempre stata quella di calcarsi il cappello in testa e legarsi la frusta alla cintura per partire verso mete sconosciute in una continua sfida con se stesso, mettendosi di continuo alla prova e scherzando con la morte come se nulla fosse.
   A questo punto, invece, desiderava un cambiamento, un cambiamento così importante che, come un domino, avrebbe cambiato ogni sua singola giornata, da lì fino a quando avesse avuto fiato in corpo. Si sentiva pronto ad affrontare quel cambiamento, a compiere quel passo che, in passato, aveva pensato di tentare ma senza mai riuscirci veramente, spaventato di quello che ne sarebbe potuto derivare. Adesso, però, era differente, ora poteva considerarsi finalmente un uomo maturo - era riuscito ad esserlo alla soglia dei sessant’anni ma, in fondo, non è mai troppo tardi - e sapeva benissimo che cosa volesse ed era pronto ad affrontare tutto ciò che questo avrebbe significato, sotto ogni punto di vista. Era giunto il momento di darsi una mossa e dimostrare a chiunque, ma prima di tutto a se stesso, di essere veramente un uomo coraggioso, e non un fifone pronto sempre a battere in ritirata di fronte al pericolo; e quel pericolo non era rappresentato da nemici sanguinari, animali feroci, precipizi insidiosi o altre trappole mortali - tutte cose con cui, per inciso, era capace di scontrarsi sempre con quel suo sorriso sarcastico sulle labbra. No, questa volta si trattava di andare incontro ai propri sentimenti, quegli stessi sentimenti che, per tutta la vita, aveva tenuto nascosti sotto una scorza in apparenza dura e distaccata, e non sarebbe stato per nulla semplice; eppure, doveva farcela, perché quella era l’ultima occasione di riscatto che la vita gli avrebbe presentato, ne era più che certo, e se non fosse stato in grado di coglierla il conto sarebbe stato dei più salati.
   Così, il giorno seguente, prima ancora che i primi raggi del sole avessero fatto capolino all’orizzonte, dopo una notte insonne trascorsa a rimuginare quei pensieri complicati, raggiunse la stazione ferroviaria e saltò sul primo treno in partenza verso l’occidente. Ormai, aveva percorso talmente tante volte quella lunga tratta, negli ultimi tempi, che avrebbe potuto benissimo calarsi il cappello sugli occhi e dormire tranquillamente, certo che si sarebbe puntualmente svegliato qualche istante prima di giungere a destinazione. Ma si sentiva talmente eccitato, ed allo stesso tempo scombussolato, che non sarebbe riuscito a prendere sonno neppure se si fosse fatto iniettare un calmante nella vena. Anzi, era risultata tale la sua voglia di partire che, nonostante l’avesse preparata accuratamente con tutto il necessario come suo solito, la sua valigia era rimasta desolatamente abbandonata accanto alla porta del salotto di casa sua, del tutto dimenticata; del resto, l’unica cosa che gli fosse interessato portare con sé, quel giorno, era molto piccola e si trovava al sicuro nella tasca interna della sua giacca di lino grigio, e gli premeva leggermente contro il fianco, a ricordargli di continuo, quasi con una certa discrezione, quale fosse il reale scopo di quel suo ennesimo viaggio verso Chicago.
   Insomma, questa volta non sarebbe più potuto tornare indietro, anche se, naturalmente, restava ancora un piccolo dubbio, un’idea che gli si era insinuata in testa già da parecchie ore, l’idea che in fondo a quella strada che stava percorrendo avrebbe potuto esserci null’altro che un rifiuto, il che non sarebbe stato neppure troppo strano, visti tutti i precedenti. Ma era un rischio che doveva correre e non avrebbe più potuto continuare a fingere soltanto per paura che, alla sua domanda, la risposta sarebbe potuto essere un netto, categorico e sonoro «no

   Marion fu davvero sorpresa di vedere sbucar fuori Indy tanto presto ma, ovviamente, ne fu davvero felice, perché ormai si sentiva irrimediabilmente legata a lui, di nuovo, e non faceva che soffrire, nel saperlo lontano, anche perché nutriva sempre la segreta paura che sarebbe potuto scomparire di nuovo, attirato chissà dove dalla lusinga di qualche antico artefatto o, magari, dalla seduzione e dal fascino di qualche svolazzante gonnella molto più giovane e attraente di lei. Vederselo ricomparire di fronte, con quella strana luce negli occhi, l’aveva davvero fatta sperare che, questa volta, non se ne sarebbe mai più andato. Ma come poteva sperare una cosa del genere? La sua era pura illusione, lo sapeva bene: prima o dopo, Indiana Jones si sarebbe stancato un’altra volta di lei e se ne sarebbe andato davvero, abbandonandola per sempre con le proprie sofferenze e con le proprie cocenti disillusioni.
   Certe notti, non riuscendo a dormire, si alzava dal letto per osservare le stelle, così vicine al suo appartamento che sarebbe quasi bastato allungare una mano per poterle afferrare tra le dita, e si ripeteva di essere stata una stupida, di aver sempre amato l’uomo sbagliato, un uomo che non era mai riuscito ad onorarla come avrebbe meritato per il semplice motivo che non ne era capace. Eppure, dentro di sé, sentiva una voce ripeterle che amare non è mai sbagliato, che donare il proprio cuore a qualcuno è forse l’azione più bella e più dolce che si possa compiere in una vita intera, e che non bisogna per questo pentirsene, né ci si deve lasciar catturare dallo sconforto se gli altri non ricambiano questi doni, se non sono in grado di coglierli, perché l’amore che si dona sarà sempre più forte e più duraturo di un rapido ed arido rifiuto.
   Aveva amato Indiana Jones sin dal primo giorno in cui lo aveva incontrato, quando lei era ancora una bambina e lui un adolescente con la testa piena di grilli, appena ritornato dalla guerra ed ancora deciso a spaccare il mondo intero pur di farsi largo tra una folla di anonimi personaggi e di diventare qualcuno; aveva continuato ad amarlo anche se lui non la guardava nemmeno, oppure se le rivolgeva soltanto uno di quegli sguardi colmi di paterno affetto che si riservano a quei bambini troppo pedanti che non si tolgono mai di torno, neppure quando sarebbe il momento di farlo. E, alla fine, quel suo continuo amarlo con tutta se stessa aveva pagato, perché lui si era accorto di lei e l’aveva cercata, corteggiata, finché i loro cuori e le loro anime non si erano irrimediabilmente fusi per il resto dei loro giorni. Giorni che, però, lo sapeva bene, si erano tramutati in lunghi anni difficili, fatti di un continuo rincorrersi e fingere di odiarsi quando, invece, quello era solo un altro modo per dimostrarsi di non essersi mai scordati l’una dell’altro ed aver continuato ad amarsi come la prima volta.
   Infine, come sospinti dal vento del destino, quel vento impetuoso che pare sempre cambiare direzione e che, invece, finisce per soffiare sempre e solo in un verso, si erano ritrovati e pareva proprio che non fosse passato neppure un giorno, che quella ragazzina adolescente e sognatrice e quel ragazzotto ancora incerto del proprio futuro non fossero mai cresciuti né invecchiati, e fossero sempre loro, uguali e identici a come avevano sempre pensato di essere.
   Ma, adesso che stavano passeggiando insieme, tenendosi sottobraccio, Marion si sentiva di nuovo turbata e spaventata. Perché Indy pareva ammutolito? Perché sembrava quasi voler evitare di guardarla negli occhi, e che cos’era quella strana ed ambigua espressione che lei gli vedeva in volto ogni volta che, con un certo sforzo, riusciva ad incrociare il suo sguardo, anche solo per pochi secondi? Ed era solo una sua impressione, oppure l’uomo stava tremando, come se avesse ricevuto una scarica di adrenalina nel sangue od avesse paura di qualcosa? Quello strano atteggiamento la stava agitando parecchio, le stava facendo voglia di bloccare Jones ed affrontarlo a viso aperto, chiedendogli conto di quel suo comportamento. Tuttavia, vedendo che Indy stava lentamente dirigendo i loro passi verso il parco cittadino in cui, più di una volta, erano giunti nelle loro passeggiate, preferì non dire nulla, intuendo che la risposta a tutti i suoi amletici interrogativi sarebbe giunta quanto prima.
   E, infatti, come previsto, Jones la condusse verso quella che, ormai, era diventata la loro panchina, nascosta tra i faggi e di spalle al laghetto. Si misero a sedere e, dopo aver sospirato un paio di volte, come se stesse facendo fatica a respirare o, più semplicemente, non trovasse il coraggio per dire quello che aveva in mente, Indy riuscì finalmente a proferire parola.
   «Io ho pensato a noi due, in questi giorni, anzi in tutte queste settimane…» cominciò, farfugliando un poco, fissando gli occhi verso i vialetti del parco inondati della dorata luce pomeridiana, quasi temesse che si sarebbe potuto ferire se, invece, avesse guardato lei. «Ci ho pensato molto.»
   A Marion, quel preambolo, piacque e non piacque. Le piacque perché la lusingava il fatto che lui l’avesse sempre nei suoi pensieri e, allo stesso tempo, non le piacque perché c’era quella sensazione di allontanamento che pareva l’inizio di qualcosa di molto difficile da accettare. Che cosa stava cercando di dirle, insomma?
   «Indy» disse, in maniera risoluta. Gli afferrò una mano e, sollevata l’altra al suo viso, lo obbligò con dolcezza, ma anche con fermezza, a decidersi a guardarla. Fu una sua impressione, o l’uomo che aveva davanti era quasi paralizzato dalla paura, proprio lui che aveva affrontato armi in pugni fior di nemici ed aveva fatto crollare interi palazzi pur di poterle salvare la vita? «Indy, che cosa stai cercando di dirmi? Pensi che forse dovremmo smetterla, con questa storia? Credi che siamo diventati tutti e due troppo vecchi per poterla portare avanti?»
   Quella domanda spaventò parecchio Jones, lo spaventò al punto che, paradossalmente, gli fece scomparire tutta la paura che gli si era accumulata in corpo fin dal momento in cui si era presentato davanti alla porta di Marion per domandarle di fare una passeggiata insieme.
   «No!» sbottò. Scoprì che la sua voce si era fatta talmente roca da apparire come un basso ed incomprensibile ruggito, tanto che dovette schiarirsi due volte la gola, prima di poter continuare. «No, Marion! Non è affatto così… io…» Ma come dirlo? Ma perché era così semplice distruggere avversari più grossi di lui nelle risse, a suon di cazzotti e di calci, ed era così difficile confessare alla donna che amava di voler trascorrere tutto il resto della sua vita al suo fianco? All’improvviso, come se un una scossa elettrica lo avesse colpito, facendogli rizzare tutti i peli del corpo, parlò a raffica, quasi senza pensare a ciò che stava dicendo, perché aveva ormai compreso che, se ci avesse riflettuto troppo, sarebbe stato capace solamente di darsela a gambe, un’altra volta.
   «Marion, io lo so che non sono mai stato un granché e che ti ho illusa fin troppe volte… non c’è bisogno di dirmi che sono stato una carogna e tutto il resto, perché lo so fin troppo bene… non ho mai capito che quello che contava realmente era altro, almeno non fino a…»
   Nonostante tutta la sua buona volontà, non poté continuare, perché Marion gli pose un dito sulle labbra per interromperlo.
   «Indiana Jones, se mi hai portata fin qui per piangerti addosso, hai sbagliato di grosso. Te l’ho già detto una volta, tutti gli errori che abbiamo commesso in passato ormai appartengono proprio al passato, appunto, e non ho alcuna voglia di rivangarli come se dovessimo continuamente riviverli. E, siccome non intendo ripetermi una terza volta…» si alzò di scatto dalla panchina e fece segno di volersene andare, come se tutto fosse ormai irrimediabilmente concluso, «…forse è meglio interrompere qui questo discorso.»
   Jones assistette a quella scena con un terrore montante, sentendosi perduto. Lei non aveva capito e lui non era stato capace di spiegarsi. Con orrore, la vide allontanarsi da lui sempre di più, sparire per sempre dalla sua vita, sebbene, in verità, si fosse limitata ad alzarsi e non avesse ancora mosso un solo passo. Eppure, quel gesto gli parve davvero creare nuovamente quella distanza che era sembrata colmarsi, nelle ultime settimane, e sentì di avere una sola ed ultima possibilità per rimediare, prima che ritornasse ad essere immensa e, questa volta, senza fine.
   Come punto da un insetto, balzò in piedi, si portò la mano alla tasca e ne estrasse quello che conteneva, la scatolina con quel piccolo ma elegante anello che era andato a comprare per lei proprio il giorno prima, subito dopo quella soffocante e liberatrice riunione. La aprì e, presa la mano di Marion, gliela posò sopra.
   «Marion, vorresti sposarmi?» sussurrò, senza più riuscire a distogliere lo sguardo dai suoi occhi color del mare.
   Le gambe della donna si fecero d’improvviso così molli che, se non si fosse prontamente afferrata al suo braccio, sarebbe senza dubbio caduta sul ghiaietto; sul suo volto, fattosi rosso ed ardente, apparvero mille emozioni contrastanti, mentre la sua mente confusa volò verso ricordi lontanissimi ed indelebili, come se quella domanda l’avesse condotta davvero indietro nel tempo. E gli stessi suoi ricordi sembrarono scorrere davanti agli occhi di Jones, come il tragico film della loro vita.

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Capitolo 49
*** Capitolo XLVIII - Autunno ‘37 ***


CAPITOLO XLVIII
AUTUNNO ‘37

   Quella notte, Indy fece davvero in modo che Marion potesse toccare il paradiso. Era sempre stato un grande amatore ed aveva sempre cercato di indurle più piacere di quanto lei stessa potesse credere fosse possibile, ma, quella volta, si adoperò per lei in una maniera del tutto nuova, dedicandole ogni stilla del proprio ardore e della propria passione.
   Utilizzò tutto ciò che aveva a disposizione per condurla fino al limite più estremo, tanto che, quando finalmente decise di mettere fine a quella dolce agonia entrando dentro di lei, i suoi sospiri ed il suo respiro affannoso si trasformarono in grida così alte ed acute che Jones fu certo che l’intero palazzo sarebbe stato risvegliato dal sonno.
   Quando ebbero finito, dopo ore di quel duello amoroso che non aveva mai avuto eguali, il petto della ragazza si alzava e si abbassava così in fretta che pareva proprio essere appena riemersa da una lunghissima apnea. Jones era riuscito a spossarla, proprio lei che non si stancava mai, soprattutto di certe cose. L’aveva guidata lungo sentieri mai percorsi ed ora, finalmente, si sarebbe potuta riposare dalle fatiche, sognando le tante notti come quella che sarebbero arrivate dopo il loro matrimonio, di lì ad una settimana. Vinta dalla stanchezza, Marion si addormentò tra le sue braccia e Jones la cullò ancora per un po’, stringendola a sé e beandosi del calore del suo corpo e della morbidezza della sua pelle.
   Era divorato da angosciosi dubbi che non gli davano pace, come se fosse giunto dinnanzi ad un bivio e non sapesse quale strada scegliere, ben consapevole che, in un caso o nell’altro, non avrebbe più potuto fare marcia indietro per ritentare la sorte. Una volta intrapresa la strada, quella sarebbe stata, per sempre. Non era una scelta semplice e, proprio per questo, non aveva fatto altro che pensarci e ripensarci da giorni e giorni.
   «Puoi ancora fermarti» gli suggerì la sua mente. «Non è tardi. Puoi ancora rimanere con lei.»
   Lei, già, lei… Marion. Marion che lo amava con tutto se stessa, che in pratica viveva per lui, che aveva riposto in Indiana Jones tutta la sua fiducia. Ma lui si meritava quella fiducia? Si meritava di essere amato in quel modo, lui stesso che, pur essendo pronto a sposarsi con colei per cui davvero sentiva di essere nato, non aveva rinunciato a degli incontri galanti con qualche bella studentessa? Proprio lui, che si preparava a fuggire nella notte come il codardo che era sempre stato…?
   Che cosa doveva fare, insomma? Rinunciare a tutto, alle sue avventure, ai suoi sogni, alla sua vita, per rimanere con la donna che, dentro di sé, sapeva di amare? O, d’altro canto, era meglio dirle addio per sempre, e con lei seppellire definitivamente in una fosse profondissima ogni tipo di sentimento, per poter continuare ad essere colui che era sempre stato, l’avventuriero scavezzacollo, attratto da tutte e da nessuna donna? Sarebbe riuscito a sopravvivere con quel peso addosso, oppure avrebbe finito col soccombervi, fino a morirne? E se, al contrario, fosse rimasto? Che cosa ci avrebbe guadagnato? Una meravigliosa donna con cui trascorrere le giornate, certo, forse anche dei figli, ma anche una vita tranquilla ed abitudinaria, così differente da quella a cui aveva fatto il callo.
   I suoi occhi si abbassarono sul volto di Marion, sereno e pacifico nel sonno, illuminato dalla luce della luna d’ottobre che filtrava attraverso i vetri del loro appartamento arredato in stile ultramoderno, unica fonte luminosa rimasta a dissolvere l’oscurità che, poco a poco, si stava impadronendo del suo cuore, separandoli sempre di più. Gli sarebbe bastato poco per convincersi a rimanere con lei, avrebbe avuto bisogno soltanto di un poco di coraggio.
   Ma Indiana Jones, l’uomo che si era sempre vantato di non aver mai avuto paura di nulla in vita sua, in verità era il peggiore dei codardi, un fifone fatto e finito, incapace persino di svegliare la ragazza che lo amava - e che lui stesso amava, con tutto il proprio cuore - per esternarle i propri dubbi e le proprie preoccupazioni. Sapeva bene che, in una qualsiasi disputa dialettica, lei avrebbe finito per spuntarla e vincere, convincendolo a fare tutto ciò che desiderava. Era sempre stato così, ed in fondo era anche logico, perché era lei la giornalista, abituata a volgere le parole a proprio favore. No, non poteva permettersi di parlarle, perché non avrebbe ottenuto altro che di rimanere ancora bloccato; doveva seguire la propria coscienza, invece, il proprio istinto, come sempre aveva fatto.
   Ed il suo istinto gli stava suggerendo che l’amore, la famiglia, l’essere legati a qualcuno… erano tutte delle sciocche falsità, in cui solo gli ingenui potevano credere. Ripensò a suo padre, l’uomo che si era sposato solo per avere un erede a cui trasmettere il proprio nome, e che non si era mai curato del proprio unico figlio, impegnato com’era in ben altre incombenze, per lui più importanti e più urgenti. Che cosa credeva, di poter essere migliore di quel vecchio ipocrita? Che non si raccontasse fandonie, via, né che Marion si illudesse: se avessero avuto un figlio insieme, lui non sarebbe stato capace di crescerlo, esattamente come il vecchio Jones non era stato in grado di occuparsi di lui. Sposarsi, allora, avrebbe semplicemente significato generare nuovi dolori e nuovi scontri generazionali, null’altro, e lui non voleva essere responsabile di errori del genere.
   Ormai era deciso. Si alzò dal letto e, muovendosi a tentoni, trovò biancheria e abiti, vestendosi in silenzio. I bagagli lo aspettavano già pronti in un angolo, preparati fin dal pomeriggio. Aveva fatto in maniera che Marion non potesse vederli, rientrando dal lavoro: le aveva fatto una sorpresa, preparandole una cena a lume di candela e, dopo, trascinandola nel letto senza accendere neppure una lampada. Lei, in un primo momento, aveva cercato di protestare, ma quando Indy le aveva allargato le gambe e vi aveva affondato la lingua era andata in estasi e non aveva più pensato a nulla.
   Povera Marion, che non sapeva che la vera sorpresa l’avrebbe avuta di lì a poche ore, scoprendosi sola e abbandonata da quell’uomo che, meno di un mese prima, portandola a passeggio lungo le strade di New York, le aveva infilato un anello al dito chiedendole di sposarlo e di trascorrere tutta la vita insieme a lui, nel bene e nel male. Lui le aveva giurato amore eterno e lei, dalla gioia, si era sciolta in lacrime, perché non ricordava di essere mai stata tanto felice in vita sua. Eppure, quell’amore che sarebbe dovuto durare in eterno stava già per finire, concluso così, senza una parola, senza un vero e valido motivo, dopo una notte di passione sfrenata.
   Stringendo le mani sulle valige, Jones raggiunse il salotto e mise in bella vista sul tavolo un contratto, l’atto notarile con cui donava a Marion non solo quell’appartamento in cui si trovavano adesso, ma anche buona parte del patrimonio che aveva accumulato negli ultimi anni, una somma veramente notevole che le avrebbe permesso di vivere tra agi e ricchezze per tantissimo tempo. Almeno questo, credeva di doverglielo: già una volta l’aveva abbandonata in miseria, condannandola a dieci anni di stenti e patimenti, e non voleva essere così crudele da ripetere nuovamente quel gesto. Forse, lei lo avrebbe odiato di meno, sapendo quanto avesse provveduto a lei.
   Si diresse alla porta ma, quando fu il momento di stringere le dita sulla maniglia, avvertì un nodo alla gola, un groppo così stretto che rischiò di mozzargli il respiro. Come spinto da una forza misteriosa, tornò sui suoi passi e raggiunse la camera da letto.
   Marion era ancora lì, profondamente addormentata, nuda, bellissima e ignara di tutto, serena come non mai, ancora illuminata dai raggi della luna che, nel frattempo, si era levata ancora più alta nel cielo. Indy non ricordava di aver mai contemplato nulla di così amabile, in vita sua, ed all’improvviso ebbe voglia di buttare all’aria tutto, di dare un calcio ai suoi sciocchi pensieri, di mandare al diavolo quei suoi stupidi proponimenti da inutile pagliaccio e di tornare insieme a lei tra le lenzuola, abbracciandola e coccolandola come meritava, rinnovando la sua promessa d’amore e chiedendole perdono per tutto quello che gli era passato per la mente. E, grazie a quel caldo abbraccio, avrebbe capito che il suo posto era lì, insieme a lei, e ci sarebbe dovuto restare per tutta la vita, senza un se e senza un ma.
   Invece, non riuscì a fare null’altro che rimanere lì, fermo ed immobile, a guardarla dormire placidamente, per almeno un quarto d’ora, un tempo che gli parve lunghissimo ma che, se avesse potuto, avrebbe prolungato volentieri per tutta l’eternità. Un suono proveniente dalla strada, il rumore del tubo di scappamento di un’automobile, però, lo riscosse e lo risvegliò dal suo torpore. Mosse un passo verso di lei, ma solo per scoprirsi a chinarsi sul suo volto ed a depositarle un ultimo bacio sulle labbra morbide e carnose. Marion sospirò e mugolò qualcosa di indistinto, ma non cessò di dormire.
   In quanto a lui, si rizzò di nuovo e, volgendole le spalle per non guardarla più - perché era certo che, se solo si fosse azzardato ad ammirarla anche solo per un altro secondo, la voglia immensa di rimanere avrebbe preso definitivamente il sopravvento - uscì dalla camera e tornò in sala. La porta di casa era davanti a lui, come il varco del destino, un passo fondamentale che avrebbe segnato la sua vita da quel momento in avanti. Indugiò per un ultimo istante di indecisione, poi prese le valige e si decise. Uscì sul pianerottolo e, senza pensare a quello che stava facendo, richiuse l’uscio dietro di sé. Adesso, non sarebbe più potuto tornare indietro, neppure volendo.
   Quando udì la serratura automatica scattare, gli parve quasi che fosse quella del suo cuore, sigillato per sempre e, ormai, irrevocabilmente separato da lui, come se fosse rimasto chiuso là dentro, insieme a Marion. Ancora una volta, gli parve di soffocare e, appoggiata la schiena contro la parete, vi scivolò addosso fino quasi a sfiorare il freddo pavimento, singhiozzando amaramente.
   Ma che cosa stava facendo? Stava piangendo, lui? Davvero si stava disperando soltanto perché aveva abbandonato l’ennesima donna? Aveva perso il conto di tutte quelle che si era portato a letto e si ritrovava a piangere per una sola di loro, per un numero tra i numeri? Però, lei non era un numero, non era una delle tante, non lo sarebbe mai stata, perché era Marion, la sua Marion…
   Scosse il capo, sperando di poter scacciare quei pensieri, e si rialzò alla svelta. Riprese nelle mani le sue borse, cominciò a scendere il più velocemente possibile le scale; doveva prendere una nave, di cui aveva già il biglietto in tasca, che lo avrebbe portato a mille miglia da lì, insieme ad una ragazzina che, magari, avrebbe saputo fargli scordare il suo dolore. Raggiunse il pianoterra, spinse con un piede la porta a vetri per poterla aprire e, dopo aver rabbrividito per un momento nella frescura della notte autunnale, si incamminò lungo la strada rettilinea, da cui si levavano gli alti ed arditi grattacieli, certo che, molto presto, Marion sarebbe stata solamente un ricordo e nulla più.
   Non poteva certo immaginare che, per i successivi vent’anni, non avrebbe trascorso una sola notte senza rivolgerle almeno un fugace pensiero, continuando a rimpiangere ciò che aveva perduto nel rinunciare a lei ed al loro amore, odiandosi profondamente per la propria codardia, fino a quando non sarebbe arrivato il momento inaspettato di incontrarsi di nuovo.

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Capitolo 50
*** Capitolo XLIX - ...risposta ***


CAPITOLO XLIX
…RISPOSTA

   Restarono fermi a guardarsi, ciascuno perso nei propri tristi ricordi e consapevoli che, nella mente di entrambi, si stessero rincorrendo le memorie di quella notte di due decenni prima, quando quel loro voto, quella promessa di amore eterno era stata infranta senza motivi apparenti o spiegazioni, senza avere il coraggio di parlarne, come se tutto quello che era accaduto tra loro fino a quel momento non avesse avuto alcun senso.
   Sapevano di avere entrambi delle colpe. Lui di essere fuggito come il codardo che era sempre stato, lei di essere stata troppo orgogliosa per cercarlo e chiedergli conto del suo comportamento, od anche solo per dirgli la verità, ossia che da quel loro amore - perché di amore si era trattato davvero - era nata un’altra vita, un figlio che avrebbe potuto cambiare la vita di entrambi e renderli felici come mai avrebbero potuto credere.
   Ma avevano preferito, invece, continuare ad assecondare quelle loro colpe, finché rabbia e disillusione non si erano tramutati in un amaro rimpianto, mai veramente sopito, come se il tempo che era scorso addosso a tutti e due non fosse affatto riuscito a cancellare l’uno dalla mente dell’altra. Quante volte, in segreto, si erano pensati ed invocati? Ed in quante occasioni si erano incontrati di nuovo, nei sogni oppure lungo le strade, nei volti di sconosciuti che, in qualche modo, parevano richiamare un’immagine, una sensazione, soltanto un piccolo frammento di reminiscenza? E quante lacrime amare avevano versato, senza che nessuno ne sapesse nulla, senza che neppure loro fossero capaci di ammetterlo?
   Avevano trascorso una vita intera, separati e lontani, eppure non avevano mai davvero abbandonato l’intima convinzione che, un giorno o l’altro, si sarebbero potuti incontrare di nuovo e spiegare. Alla fine quel giorno era giunto, era passato, un giorno tra i tanti giorni trascorsi inesorabilmente, ed era arrivato anche quest’altro momento, in cui erano in piedi in quel parco, vicinissimi, con quella domanda in sospeso tra di loro, quella domanda la cui risposta avrebbe cambiato per sempre, e questa volta senza più poter tornare indietro, il senso delle loro esistenze. Era come se tutto, se ogni cosa, se ogni singola azione, avesse teso verso quel pomeriggio di luglio, verso quel parco cittadino di Chicago, verso gli abiti che indossavano, verso quella scatolina che lei reggeva in mano, verso i loro occhi quasi spaventati che sembravano ormai incapaci di lasciarsi andare, esattamente come pochissimi istanti prima sembravano non essere stati in grado di incrociarsi, per timore di ciò che avrebbero potuto leggervi.
   Indy non aggiunse altro, perché lui la sua domanda l’aveva posta, naturalmente speranzoso che Marion si rendesse conto che, in quei vent’anni, qualcosa era davvero mutato, che lui non era più il ragazzo timoroso e immaturo di quei tempi, bensì un uomo ormai fatto e finito, capace di riconoscere i propri doveri e di andare fino in fondo quando si assumeva un impegno, qualsiasi esso fosse; e, con quella domanda, si era appena preso il più grosso impegno di tutta la sua vita, ne era più che consapevole. Adesso, spettava a lei dare una risposta e, qualsiasi essa fosse stata, lui l’avrebbe accettata con un sorriso, perché era per questo che era lì.
   Marion sospirò, mentre osservava l’anello ancora all’interno della sua scatolina. Era un sottile cerchietto d’argento, con incastonato uno smeraldo verde che, entrambi lo sapevano bene, rifletteva la luce con la stessa tonalità degli occhi di lei, quegli stessi occhi che si stavano inesorabilmente riempiendo di lacrime. Ma perché, dura e tosta com’era, in simili circostanze doveva sempre trasformarsi in una fontana impossibile da contenere?
   Con un gesto quasi vago, la donna porse nuovamente la scatolina a Jones, che si sentì raggelare. Si era appena finito di dire pronto ad essere rifiutato, ma ricevere sul serio un rifiuto, in verità, lo gettò in una tale mestizia che si sentì come se le fondamenta della terra gli si fossero appena frantumate sotto i piedi, facendolo sprofondare nell’oscurità più totale. Tuttavia, Marion finalmente riuscì a parlare, con un dolce sussurro che sembrava davvero risalirle dal cuore.
   «Non darmi la scatola, Jones… mettimelo al dito, no?» E, nel dirlo, gli mostrò la mano sinistra, in attesa.
   La lingua di Indy si era fatta talmente arida che non fu neppure in grado di replicare. Con le mani che tremavano, riprese il piccolo cofanetto e tentò di estrarne l’anello, ma dovette fermarsi un momento per non rischiare che, a causa di quel tremito convulso, gli scappasse, cadendo tra la ghiaia. Poteva anche avere raggiunto e superato l’età della ragione, eppure in quel momento si sentiva emozionato esattamente come un adolescente che si ritrovi per la prima volta a baciare una coetanea. Ma che cosa gli stava succedendo?
   Infine, con qualche sforzo, e dopo aver sbagliato mira almeno una volta, riuscì a prendere l’anellino tra le dita ed a farlo scivolare all’anulare di Marion, che sorrise in maniera abbagliante, un sorriso reso ancora più luminoso dai lucciconi che le brillavano negli occhi color del mare.
   A quel punto, Indy pensò di dover riformulare la sua domanda, ripetere quella richiesta che aveva quasi gridato, ma lei non gliene lasciò neppure il tempo, perché gli si fece ancora più vicina e, raggiunto il suo orecchio, sussurrò: «Sì…»
   Fu come un fiume che, dopo un’alluvione, rompa gli argini e spazzi via ogni cosa lungo il suo corso tumultuoso, travolgendo ogni ostacolo con la propria dirompente energia. Ad entrambi parve davvero di sentirsi così mentre, senza neppure rendersi conto con precisione dei propri movimenti, si abbracciavano stretti ed iniziavano a tempestarsi di baci appassionati, del tutto incuranti degli sguardi dei passanti che, però, non parevano turbati o colmi di rimprovero nell’assistere ad un simile spettacolo, bensì sembravano quasi voler partecipare alla loro felicità, approvando quel comportamento tanto spontaneo e fanciullesco che significava solamente una cosa, ossia che, dopo due decenni, l’amore aveva finalmente preso il sopravvento ed aveva avuto ragione di quei due orgogliosi e presuntuosi attaccabrighe, sempre stati così pieni di sé da non riuscire a dare il giusto valore a quel legame che, per tanto tempo, si era sforzato in ogni modo di attrarli l’uno verso l’altra, di saldarli insieme come il destino stesso sembrava aver stabilito fin dal momento in cui erano venuti al mondo.
   Quando, finalmente, furono riusciti a riprendersi ed a darsi una controllata, Marion riuscì a parlare di nuovo.
   «Sì, Indy, sì… sposiamoci… è quello che abbiamo sempre voluto fare, nonostante tutto…»
   Jones le appoggiò le mani sui fianchi, tenendola stretta a sé.
   «Sono stato un pessimo fidanzato, lo so, e non arrabbiarti se lo ripeto ancora… perché è così che è andata. Ti ho solo illusa e fatta soffrire, non sono stato capace di fare altro…» Fece una pausa, poi riprese: «Ma ora ti prometto che sarò un buon marito, Marion. Te lo prometto perché è ciò che più desidero al mondo, poter rimanere con te fino alla fine dei miei giorni…»
   Continuarono a stringersi, a rimanere a contatto, più vicini di quanto non fossero mai stati in vita loro, perché adesso finalmente sapevano che, questa volta, sarebbero rimasti insieme per davvero, e che niente e nessuno avrebbe più potuto dividerli, qualsiasi cosa fosse successa. Forse, se avessero dato ascolto alle loro menti, si sarebbero soltanto lasciati e detti addio, proseguendo ciascuno per la propria strada, come sempre avevano fatto, ma quella volta, forse per la prima volta, ascoltarono solamente la voce del proprio cuore, ed il cuore, con il suo battito incessante, fu molto più convincente e potente della semplice e, in qualche caso, irragionevole ragione.

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Capitolo 51
*** Capitolo L - Un avvertimento ***


CAPITOLO L
UN AVVERTIMENTO

   I giorni che seguirono volarono quasi come se il tempo avesse cominciato ad accelerare in maniera anomala, scorrendo così rapidamente che tanto Jones quanto Marion arrivarono a chiedersi se, per caso, non si stessero trovando in un sogno non sottoposto alle regole della fisica.
   Ma quella era la realtà e quella loro sensazione di straniamento era dovuta a null’altro che alla consapevolezza nuova di se stessi, che li portava a guardarsi con aria differente, come se si fossero appena conosciuti, eppure restando al medesimo tempo ben consci di essere stati amanti da tutta la vita. Si sentivano felici e leggeri, tutti e due, come se un grosso peso si fosse dissolto dalle loro coscienze per lasciare posto alla pura e semplice armonia.
   Ovviamente, il primo a cui avevano comunicato la notizia era stato Mutt, quella sera stessa, durante la cena. Il ragazzo, in un primo momento, era parso alquanto turbato da quell’inaspettata novità ma, dopo averci riflettuto per un momento, si era lasciato andare ad un larghissimo sorriso. Soltanto dopo qualche momento sembrava essere stato invaso da qualche dubbio, più che altro di natura logistica.
   «Ma, quindi, verrai a vivere qui con noi?» aveva domandato, osservando il padre, che sedeva a tavola proprio di fronte a lui.
   I promessi sposi si erano scambiati un’occhiata fugace. Sapevano perfettamente che uno dei fondamenti del matrimonio era la convivenza, ma non avevano certo rivolto un solo pensiero al luogo in cui sarebbero andati a vivere. Lì a Chicago? Oppure a Bedford? Od in qualche altro posto ancora?
   «Ancora non lo abbiamo stabilito» precisò quindi Marion. «Ma, ovunque sarà, ne saremo felici, vedrai.»
   «Io avrei fatto domanda di trasferimento per venire ad insegnare qui a Chicago» rivelò Jones. «L’avevo fatta per potervi stare vicino, quando ancora non pensavo che io e Marion avremmo potuto… comunque, non ho ancora ricevuto nessuna risposta, e questo, devo dirlo, mi preoccupa un po’.»
   «Sai, non mi dispiacerebbe cambiare aria» ammise Marion. «Ho girovagato talmente tanto per il mondo, da ragazza, che adesso mi sembra quasi strano rimanere sempre fissa nello stesso luogo. Se dovessimo trasferirci a vivere insieme nel Connecticut ne sarei anche contenta.»
   Il ragazzo fu sul punto di ribattere che, per quello che lo riguardava, non aveva nessuna intenzione di lasciare una metropoli come quella per trasferirsi in una sonnacchiosa cittadina sperduta in mezzo alle campagne della East Coast. Tuttavia, riuscì a trattenersi nel momento stesso in cui una riflessione si fece largo nel suo cervello: se sua madre fosse andata a vivere via con il vecchio, lui avrebbe potuto tenersi la casa, finalmente libero di fare tutto quello che voleva, organizzare serate con gli amici, portarsi a casa qualche ragazza, ascoltare musica a tutto volume nel suo giradischi, insomma divertirsi come mai avrebbe potuto sperare. Insomma, ormai aveva diciannove anni ed aveva pure dei buoni guadagni grazie alle riparazioni che faceva alle motociclette, poteva perlomeno provare il brivido di vivere da solo e di arrangiarsi in tutto senza sempre dover dipendere dalla mamma. Comunque, pensò bene di tenere per sé quelle riflessioni, certo che avrebbe trovato più avanti il momento migliore per esternarle.
   Quindi, per cambiare argomento, domandò, con distacco, osservando la tovaglia bianca e coperta di briciole che copriva la tavola: «E avete già stabilito la data per sposarvi?»
   Ancora una volta, gli occhi di Marion e di Indy si incontrarono. Non avevano pensato neppure a quello - del resto, la proposta era arrivata solo poche ore prima - ma, in fondo, considerata anche la loro età, non credevano che sarebbe servito a qualcosa aspettare troppo a lungo e, oltretutto, c’era una data che entrambi conoscevano e ricordavano benissimo, la data in cui avevano stabilito di sposarsi la prima volta, senza poi riuscirci. Forse, adesso, a distanza di vent’anni, quella data che una volta era stata cagione di tanto dolore - perché entrambi, quel giorno, sapendosi lontani quando avrebbero dovuto stare in piedi di fronte ad un altare a scambiarsi voti e promesse reciproche, avevano versato parecchie lacrime - si sarebbe potuta veramente trasformare in una data lieta, che avrebbero ricordato per sempre con gioia e non più con penoso rimpianto.
   Si fissarono e non ebbero neppure bisogno di chiedersi conferma, perché entrambi parlarono nello stesso momento, rivelando quella data, ben consapevoli che non sarebbe potuto essere altrimenti.
   «Il diciotto di ottobre» dissero insieme, prima di sorridersi quasi imbarazzati.
   Per Mutt, quella, era invece una data come un’altra, il solito segno senza significato sul calendario. Portò la forchetta con il boccone alla bocca e, mentre masticava, borbottò: «In autunno? Buona idea, almeno non farà così caldo.»
   Continuarono a cenare, parlando del più e del meno, senza più tornare sull’argomento. A dire il vero, fu Mutt a condurre la conversazione, perdendosi nella descrizione della nuova motocicletta dei suoi sogni, la Harley-Davidson Panhead, che gli sarebbe veramente piaciuto acquistare. Ogni tanto, suo padre gli rivolgeva qualche domanda in proposito, ma quella sera la sua attenzione era tutta per Marion che, a sua volta, sembrava essersi scordata di mangiare, persa com’era a contemplare ogni suo singolo movimento.
   Tuttavia, quando Marion si alzò per andare a prendere qualcosa in cucina, Jones si piegò immediatamente verso il figlio con fare furtivo.
   «Senti, Junior…» cominciò, ma lui lo interruppe.
   «Insomma, matusa, una volta per tutte, vuoi deciderti a chiamarmi Mutt come tutti gli altri? Anche la mamma lo fa! Da dove lo avrai tirato fuori, poi, questo Junior, davvero non riesco a spiegarmelo…»
   «E tu vuoi metterti in testa che io sono papà, non matusa?» ribatté Indy, con tono quasi aspro.
   Immediatamente dopo, tuttavia, entrambi scoppiarono a ridere ed avrebbero continuato a farlo per parecchio, se Jones non avesse avuto urgenza di chiedergli una cosa.
   «Allora… Mutt. Per sposarmi avrò bisogno di un testimone. Vuoi essere tu a farlo?»
   Il ragazzo parve alquanto perplesso. Che si sposassero gli andava anche bene, ma perché lui doveva mettersi in mostra di fronte a tutti?
   «Non puoi chiederlo ad Ox?» sbottò, anziché dare una risposta.
   «Non lo sto domandando ad Ox, lo sto domandando a te» ribatté suo padre, con una certa ironia, tornando a raddrizzarsi. Lo soppesò con lo sguardo, con una certa ironia, e lo incitò. «Dunque?»
   Il ragazzo notò che sua madre stava tornando e, credendo chissà perché che quello dovesse rimanere un segreto tra lui ed il vecchio, si limitò a borbottare: «Vedremo. Ci devo pensare.»
   «A che cosa, ci devi pensare?» indagò Marion, rimettendosi a sedere.
   «A niente, niente» minimizzò Jones, ma il ragazzo pensò bene di cogliere la palla al balzo.
   «Papà dice che, per il vostro matrimonio, vorrebbe regalarmi lui la Harley» spiegò, con un sorriso sarcastico che lo fece assomigliare dannatamente ad Indy. «Per me, però, è un regalo un po’ esagerato.»
   «Be’, anche per me, in effetti…» tentennò Marion.
   Jones, invece, scrollò le spalle ed assunse a sua volta un’espressione piena di sarcasmo.
   «Sì, di solito i regali più belli gli sposi li fanno ai loro testimoni» ammise, quasi con noncuranza. «Però, vedremo… anche io ci devo pensare.»
   Tornò a guardare con quell’aria ironica il figlio, che lo ricambiò con altrettanta ironia e con una luce di comprensione negli occhi. Forse, mettersi in mostra per fargli da testimone non sarebbe stata poi una cattiva idea…

   Ovviamente, la seconda persona che venne informata del fatto fu Oxley, che era praticamente uno di famiglia.
   Indy e Marion lo andarono a trovare insieme a casa sua, un piccolo appartamento alla periferia di Chicago, stipato all’inverosimile di libri, documenti e vari incartamenti sulla storia precolombiana, e lo trovarono chino su dei fogli scritti a mano che stava revisionando e che si rivelarono essere la sua dettagliatissima relazione inerente la scoperta di Akator. Ai lati di quelle che stava leggendo, torreggiava un’altissima pila di altre carte sul medesimo argomento e, ripensando ai concitati momenti che li avevano portati a scoprire la verità sui teschi di cristallo e sulla mitica Eldorado, Jones si trovò a domandarsi da dove l’amico avesse potuto attingere per trovare particolari tali da riempire un numero tanto spropositato di pagine; tuttavia, conoscendo fin troppo bene la celeberrima - e pure soporifera - logorrea di Oxley, non ritenne opportuno chiedere chiarimenti.
   Come suo solito, offrì loro un tè ma, per una volta, avendo cominciando ad avvertire persino lui la prolungata ed opprimente calura estiva, compì una variazione rispetto al suo solito, portando in tavola tre bicchieri ed una brocca di tè freddo al limone, che aveva preparato qualche ora prima ed aveva poi allungato con del ghiaccio.
   «Da quando ho acquistato il mio nuovo frigorifero King Cool, ho sempre degli ottimi cubetti di ghiaccio» spiegò l’inglese, entusiasta di quell’investimento. «Ho ricevuto un volantino per posta e, siccome c’era addirittura scritto che è un frigorifero a prova di bomba, me lo sono preso.»
   Jones ghignò, ripensando agli eventi recenti.
   «Mai pubblicità fu più azzeccata e sincera» si trovò ad ammettere.
   Bevvero tutti e tre una sorsata di quel liquido tonificante, poi Oxley domandò che cosa li avesse spinti fino a lì, nella periferia meridionale della città, così lontana dai quartieri in cui Marion era solita bazzicare, specialmente in una giornata torrida come quella.
   Dopo un momento di esitazione, vedendo che Jones non riusciva a trovare le parole adatte per cominciare, probabilmente sentendosi ancora in qualche modo in soggezione dinnanzi al vecchio amico, Marion rispose: «Io e Indy abbiamo deciso di sposarci, Ox.»
   Quella notizia non parve turbare più di tanto Oxley, che restò immobile ed impassibile, fissandoli entrambi; purtroppo, Jones sapeva bene che lo studioso riusciva quasi sempre a non esprimere le sue emozioni, sia che fosse felice sia che fosse arrabbiato per qualcosa, dissimulando tutto dietro uno sguardo distaccato, quindi non seppe proprio che cosa doversi aspettare. Dopo circa un minuto, tuttavia, il volto serio e compassato dell’archeologo inglese parve quasi illuminarsi e le sue labbra, solitamente serrate in una linea diritta, si dischiusero in un largo sorriso.
   «Sono davvero felice per voi!» esclamò. «Credo che non avreste potuto prendere una decisione migliore!»
   Tanto Jones quanto Marion si sentirono parecchio sollevati, di fronte a quella benedizione, perché parve loro che, attraverso Oxley, fosse stato Abner Ravenwood stesso ad approvare la loro prossima unione. Sorridendo a loro volta, osservarono l’amico che si alzava dalla sedia e si dirigeva verso un armadietto.
   «Qui ci vuole un brindisi, con qualcosa di un po’ più decente del mio tè freddo slavato!»
   Dopo un momento, tornò indietro trasportando tre bicchierini ed una bottiglia di whisky scozzese Chivas Regal invecchiato dodici anni, un liquore che Indiana Jones conosceva più che bene, essendo il preferito di Marcus Brody, che ne consumava a iosa e gliene aveva lasciate in eredità un tale numero di bottiglie da dissetare lui ed i suoi eredi per parecchie generazioni.
   Quasi gli avesse letto nel pensiero, Oxley rivelò: «Questa bottiglia mi è stata regalata da Brody, l’ultima volta che ci siamo visti. Mi disse di conservarla per le occasioni speciali, ed in effetti volevo stapparla il giorno in cui avessi finalmente pubblicato il mio ultimo libro su Akator, ma credo proprio che questa occasione sia molto più meritevole di qualsiasi altra per poter essere considerata speciale.»
   Rotto il sigillo, svitò il tappo e, dopo aver annusato per un momento l’aroma del whisky attraverso il collo della bottiglia, riempì i tre bicchierini, tenendone uno per sé e passando gli altri agli amici. Li sollevarono e si guardarono negli occhi.
   «Allora a Henry e Marion» disse. «Che questo matrimonio possa essere per voi portatore di gioia e di felicità!»
   Fecero tintinnare i piccoli calici e li portarono alla bocca. Il liquore, dopo il fresco del tè, parve quasi un fuoco liquido che scivolò nelle loro gole, ma lo bevvero senza lamentarsi e, anzi, sentendosi pienamente appagati da quella sensazione, che sembrò suggellare come un marchio indelebile quelle promesse che si erano scambiati.
   «Grazie infinite, Ox» rispose Marion, dopo che ebbe terminato di bere. «Tu non puoi neppure immaginare quanto per noi sia importante questo momento. Io e Indy ci speravamo proprio, nella tua benedizione…»
   L’inglese la guardò con un sorriso e, in fondo, anche con un po’ di rimpianto. Marion, per lui, era sempre stata la bambina di Abner, la sorellina più piccola di cui prendersi cura, e non era mai riuscito ad accettare pienamente di saperla ormai cresciuta, sebbene l’avesse già vista una volta sposarsi e, addirittura, partorire un figlio. Eppure, questa volta, sentì come se le stesse dicendo davvero addio, come se quel momento a lungo rimandato fosse infine giunto sul serio, ormai impossibile da evitare. Marion, per lui, sarebbe rimasta semplicemente una cara amica, a cui andare a fare visita ogni volta che fosse stato possibile, ma quello stretto legame che li aveva uniti per tutti quegli anni, ormai, si sarebbe certamente dissolto. Del resto, che cosa poteva farci? Così era la vita. Non lo preoccupava questo, no di certo. Semmai, a cagionargli qualche dubbio, era l’uomo con cui la sua amica intendeva sposarsi. Jones. Era davvero cambiato, come tutto sembrava fare credere, oppure era rimasto quello di sempre? Perché, se fosse davvero stato ancora l’avventuriero di un tempo, lui avrebbe fatto certamente l’impossibile per evitare quel matrimonio che, altrimenti, avrebbe potuto rivelarsi funesto, sempre che Henry fosse davvero disposto ad affrontarlo, senza darsi alla fuga prima ancora di celebrarlo.
   Harold Oxley desiderava una cosa soltanto, ormai, ed era la felicità di Marion Ravenwood. Sperò tanto che anche Indiana Jones desiderasse solamente la medesima cosa.
   Più tardi, quindi, quando i suoi amici annunciarono che sarebbero andati, per permettergli di rimettersi al lavoro, Ox pensò che fosse giunto il momento di agire.
   Attese che entrambi avessero sceso un paio di rampe di scale, poi si affacciò al pianerottolo e li fermò con una scusa qualunque.
   «Henry, scusami!» gridò. «Ti dispiacerebbe tornare su, un momento? Ho dimenticato di chiederti un chiarimento riguardo il Palazzo dell’Eternità, si tratta di una faccenda rapidissima…»
   Ovviamente, Jones intuì immediatamente che Oxley non voleva affatto parlargli del tempio attraverso cui erano riusciti a penetrare nei sotterranei di Akator, ben sapendo che fosse egli stesso il massimo esperto di quelle costruzioni e che, quindi, non avesse certo bisogno di chiedere precisazioni a chicchessia, a tale riguardo. Immaginò che l’amico volesse invece dirgli qualcosa di molto più importante per cui, pur sentendosi alquanto impensierito da quel che Harold avrebbe potuto riversargli addosso, chiese a Marion di attenderlo un istante e risalì le scale quasi a passo di corsa.
   Entrarono di nuovo nell’appartamento ed Indy non fu affatto sorpreso di vedere Oxley chiudere la porta dietro di sé.
   «Henry, non è per il Palazzo che ti ho chiamato indietro…» cominciò a dire l’inglese.
   «Lo so perfettamente» replicò l’americano. «Parla, ti ascolto.»
   Notando un lieve tremito nella voce del vecchio amico, che pure cercava di mantenere un aspetto sereno, Oxley decise di non indugiare oltre e di dire tutto ciò che aveva in mente.
   «Henry, ricordi che cosa ti ho detto, un mese fa, quando sei venuto a trovarmi nel mio ufficio e mi hai parlato del tuo sogno di poterti sposare con Marion? Ti dissi di rifletterci bene e di provare a ragionare sul fatto di sentirti davvero pronto per tutto questo, oppure se per te non sarebbe stato qualcosa di talmente inusuale da fare da spingerti a tagliare nuovamente la corda all’ultimo istante.»
   Jones fece per aprire bocca, ma l’amico lo invitò a tacere con un cenno della mano e continuò a parlare imperterrito.
   «Io spero che tu lo abbia fatto, che tu abbia seguito per davvero il mio consiglio, perché ormai il dado è stato tratto e tu non puoi più tornare indietro, adesso. Lo sai che cosa succederebbe, se ci ripensassi proprio ora? Per Marion sarebbe un colpo insopportabile! Già per due volte le hai spezzato il cuore, facendola soffrire nella maniera più atroce, quindi mi auguro veramente che tu non voglia ripetere di nuovo quel tuo brutto giochetto. C’è un vecchio detto che sostiene che non ci sia due senza tre ma, una volta tanto, spero proprio che la saggezza popolare possa essersi sbagliata. Perché, se così non fosse, se tu ancora una volta decidessi di tradirla e abbandonarla all’ultimo minuto…» adesso, l’aspetto solitamente calmo ed impassibile di Harold Oxley era scomparso completamente, lasciando posto a qualcosa di così indefinito, ma al medesimo tempo terribile, che Jones non poté fare a meno di evitare di averne paura, «…be’, se tu lo facessi di nuovo, ti avverto: non ci sarebbe alcun posto abbastanza sicuro in cui poterti nascondere da me.»
   Solitamente, se un omino del genere avesse mosso una qualsiasi minaccia ad Indiana Jones, l’archeologo si sarebbe di certo messo a ridere e gli avrebbe consigliato di ritentare una seconda volta, che magari avrebbe avuto maggiore fortuna; questa volta, però, Indy provò un moto di terrore così profondo che, per un momento, fu scosso da un tremito irresistibile, che di sicuro non aveva nulla a che fare con il clima di luglio.
   «Ox…» balbettò, non appena fu riuscito a riprendersi da quel momento di smarrimento. «Ti giuro che, questa volta, sono sicuro di ciò che sto facendo. Io voglio davvero sposarmi con lei. Lo devo a Marion, lo devo a Junior, lo devo anche ad Abner e a mio padre. E pure a te.»
   Un sopracciglio si sollevò alto sulla fronte di Oxley.
   «E… d’accordo» continuò Jones, quasi titubante. «Lo devo anche a me. Ho preso in giro un sacco di gente, nella mia vita, a partire da me stesso. Ho sempre cercato di essere chi non ero davvero. Non ho mai voluto ficcarmi in testa che la felicità non la danno i viaggi, i luoghi esotici, le imprese al limite dell’impossibile, la sfida con se stessi, bensì il poter condividere ogni più piccolo gesto con le persone che si amano. Ma, finalmente, sono arrivato a capirlo persino io e, proprio per questo, voglio stare con Marion, per tutta la vita che mi rimane, perché senza di lei mi sentirei di nuovo perso e solo, come sempre sono stato. Ma non voglio più esserlo, voglio solo poterla amare esattamente come lei ama me.»
   Harold Oxley tutto si sarebbe potuto aspettare da Henry Jones, meno che un discorso del genere. Forse, con gli anni, il suo vecchio amico era davvero mutato. Per un caso forse voluto dalla sorte, Ox era stato presente in ogni momento della relazione di quelli che, in fondo, reputava i suoi migliori amici: era stato il primo a cui Marion avesse confidato di essere innamorata di Henry, aveva favorito e coperto i loro primi incontri, aveva raccolto l’amara confessione di Jones quando il loro rapporto si era interrotto bruscamente, ovviamente a causa di suo gravissimo errore; e, poi, era stato presente quando si erano ritrovati, aveva assistito alla rinascita del loro amore ed era persino stato designato come testimone delle loro nozze poi miseramente naufragate. Adesso, il destino lo aveva posto nuovamente di fronte a quei due innamorati ma, questa volta, non vedeva più alcun tipo di arroganza nello sguardo di Henry, bensì soltanto sincero pentimento per tutto ciò di cui era stato causa e desiderio di potersi riscattare, in ogni modo.
   L’aria tremenda di Ox svanì all’istante, facendolo ritornare il professore pacato ed affabile, con la testa qualche volta un po’ troppo tra le nuvole, di sempre. Il suo volto tornò a sorridere ed una mano fraterna si pose sulla spalla dell’amico.
   «Se tu la ami, sono certo che saprai come fare a dimostrarglielo, in ogni momento delle vostre vite. Non pensare più al passato, Henry, perché tutti abbiamo commesso degli errori. Piangerci sopra non servirebbe a nulla. Ora, vai da lei, che ti sta aspettando.»
   Jones annuì, battendo a sua volta un colpo sulla spalla dell’inglese. Pochi mesi prima aveva perduto un falso amico come McHale, ma ne aveva ritrovato uno vero come Oxley, e doveva ammettere che, da quel cambio, ci aveva solamente guadagnato. Ora, in ogni istante che gli fosse stato concesso di continuare a respirare ed a camminare, avrebbe dovuto dimostrare di essersi veramente meritato tutto quello che aveva ritrovato.

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Capitolo 52
*** Capitolo LI - Il giorno del processo ***


CAPITOLO LI
IL GIORNO DEL PROCESSO

   A turbare quei giorni colmi di spontanea felicità, che Indy e Marion vissero davvero come se fossero improvvisamente ringiovaniti e non avessero mai avuto alcuna ombra fosca nel loro passato, ci fu però la consapevolezza del processo imminente, che avrebbe determinato per davvero il loro futuro. Non vi avevano rivolto alcun pensiero, fingendo quasi che tutto stesse procedendo liscio e normale come sempre, ma nessuno - né i due innamorati, né loro figlio, né tantomeno Oxley - riuscì davvero a prendere sonno, la notte che precedette quell’evento a un tempo atteso ed odiato.
   Quando Jones, come sempre affiancato dal generale Ross, si presentò in aula, quel mattino, appariva teso e stanco, e le rassicurazioni dell’amico non valsero a farlo stare più tranquillo. Non era tanto il timore di una sentenza a lui sfavorevole, a farlo sentire in quello stato, bensì la semplice presa di coscienza di essere stato trascinato in quella storia senza centrarvi minimamente nulla, come se tutto ciò che aveva fatto - e, in fondo, continuava ancora a fare - per il proprio paese non avesse avuto alcuna importanza, agli occhi di alcune persone.
   In realtà, fu un processo decisamente discreto, a porte chiuse, senza stampa o giornalisti, e fu addirittura organizzato nel bunker sotterraneo di una base militare, come se proprio nessuno dovesse saperne alcunché. Il giudice entrò in aula passando da una porticina laterale e, dopo aver confabulato qualche minuto con il senatore Kennedy, salì sul proprio scranno e lesse rapidamente i capi d’accusa imputati ad Indy. Dopodiché, chiese che fossero ascoltati i testimoni.
   Ancora una volta, quindi, Marion, Mutt ed Oxley furono costretti a ripetere la propria versione dei fatti; dopo di loro, furono chiamati a deporre Taylor e Smith, che motivarono la loro decisione di arrestare Jones portando avanti argomenti più o meno labili; infine, furono chiamati a testimoniare anche Sophia Hapgood e Joe Edmonds, che mostrarono tutte le prove che erano riusciti a raccogliere durante il loro sopralluogo in Amazzonia, compreso il teschio di cristallo che avevano recuperato dal capitano Bauru. Quando vide il teschio appoggiato sopra il tavolo, Oxley si agitò tutto e cominciò a scalpitare, ma un’occhiataccia da parte del giudice lo convinse a restarsene in silenzio. Anche il senatore Kennedy rilasciò una dichiarazione, per ultimo, asserendo che tutto ciò che era stato dichiarato dai testimoni corrispondeva parola per parola ai risultati dei primi interrogatori e dell’udienza preliminare.
   Infine, dopo aver ascoltato le scarse motivazioni portate avanti dall’accusa, in qualità di avvocato difensore, Ross fu chiamato a tenere la propria arringa, e lo fece con un tale fervore - partendo dal patriottismo che Jones aveva sempre dimostrato, per poi arrivare alla sua lunga militanza nei servizi segreti ed a tutte le volte che aveva messo a repentaglio la propria stessa esistenza pur di correre in aiuto di amici e commilitoni in difficoltà - che, quando ebbe terminato, tutti apparvero quasi commossi.
   Il giudice, insieme alla giuria, scomparve quindi in camera di consiglio, riemergendone però dopo pochissimi minuti.
   «L’imputato si alzi» ordinò, riordinando i propri fogli con scarsa cura. Poi, parlando rapidamente, quasi che avesse fretta pure lui di lasciare quella soffocante e claustrofobica stanza sotterranea, proclamò: «Sentiti i testimoni e accettato il parere della giuria, dichiaro il professor Henry Jones, Jr. prosciolto da ogni accusa. Visto il caso particolare di questo processo, ordino altresì che tutti gli atti vengano archiviati come materiale sensibile sottoposto a segreto di stato ed ordino pure che tutti i presenti a questa riunione rispettino il silenzio affinché nulla di quanto è stato detto e sentito oggi trapeli presso l’opinione pubblica. La seduta è tolta.»
   Così, con quelle poche e sbrigative parole, Indiana Jones poté finalmente considerarsi completamente libero. Non fece neppure in tempo a voltarsi per stringere la mano di Ross, che lo guardava con il viso disteso in un grande sorriso, che si ritrovò subito stretto tra le braccia di Marion, che gli si era catapultata addosso come una furia.
   Finalmente erano liberi, liberi di stare insieme, di fare tutto quello che più desideravano, di amarsi e di sposarsi senza più doversi sentire turbati per alcunché. Stretti in quell’abbraccio, non badarono minimamente a tutti i presenti che li stavano guardando e si lasciarono andare ad un bacio liberatorio e pieno di dolci speranze per l’avvenire.
   Tuttavia, non poterono continuare a baciarsi troppo a lungo, perché Oxley e Mutt vollero correre a stringere la mano di Indy, esattamente come fecero Sophia e Joe, entrambi al settimo cielo per aver contribuito a dimostrare l’innocenza del loro vecchio compagno d’armi. E lo stesso Jones, quando se li ritrovò tutti e due davanti, non riuscì più a trattenersi e li stritolò in un abbraccio colmo di sincero affetto.
   «Grazie» mormorò loro, commosso. «Grazie davvero.»
   «Siamo noi che dobbiamo ringraziare te» replicò Sophia. «Te e i tuoi amici. Forse quei due idioti dell’FBI ancora non se ne rendono conto ma, se non fosse stato per voi quattro, a quest’ora forse ci troveremmo tutti in un grandissimo pericolo.»
   Quelle parole ricordarono ad Indy di avere un conto in sospeso con Taylor e Smith. Si volse per cercarli con lo sguardo e li notò al capo opposto della sala, che lo osservavano in cagnesco e pieni di disgusto, decisamente contrariati per quella sentenza ormai inappellabile. Era come se lo stessero sfidando con lo sguardo ad avvicinarsi e a malmenarli per tutto quello che gli avevano fatto in quei mesi, ed Indy riconobbe che, fino a poco tempo prima, non avrebbe esitato un solo istante ad alzare le mani per vendicare l’onta subita. Ma, ormai, era un uomo davvero nuovo, del tutto diverso rispetto a quello che era stato, e valutò che non avrebbe ottenuto proprio nulla nel cambiare loro i connotati a suon di pugni, se non di rovinarsi le nocche e di finire un’altra volta nei guai, questa volta molto più seriamente. Quindi, con un sorriso ironico, sollevò la mano in un conciliante gesto di saluto ed i due uomini, capita l’antifona, se ne andarono con le pive nel sacco. Da quel giorno in poi, Indiana Jones non ebbe mai più alcuna loro notizia e poté tranquillamente dimenticarsene.
   Stava quasi per passare le braccia attorno alle spalle di Marion e di Junior per condurli via, quando il senatore Kennedy si avvicinò con il suo passo un po’ barcollante di uomo decisamente poco in salute.
   «Senatore, devo ringraziare anche lei» disse Indy, stringendogli la mano.
   «Non lo dica neppure per scherzo, professore» replicò Kennedy. «Anzi, già sapendo quale sarebbe stato lo scontatissimo esito di questo processo farsa, che purtroppo non abbiamo potuto esimerci dal celebrare ugualmente, ho ricevuto dal Presidente in persona l’incarico di conferire a lei, al professor Oxley, alla signora Ravenwood ed al signor Williams la Medaglia Presidenziale della Libertà per tutto ciò che avete fatto per gli Stati Uniti. Purtroppo, come avete sentito, tutta questa storia deve essere messa a tacere e, come tale, non ci sarà una cerimonia ufficiale alla Casa Bianca, ma il Presidente ci tiene a farvi sapere che tutti e quattro sarete ricordati come degli eroi.»
   Detto questo, fece un cenno ad un suo accompagnatore, che si avvicinò trasportando quattro sottili scatole di legno lucido che, una volta aperte, rivelarono il proprio contenuto, ossia altrettante medaglie a forma di stelle smaltate di bianco e incastonate in un bordo d’oro. I quattro destinatari di quell’altissima onorificenza, probabilmente la più alta che fosse concessa in America, rimasero interdetti ed in un primo momento non seppero che cosa replicare, ma furono anche felici di sapere che, pur non potendo mai più parlare con chicchessia di quanto avessero visto o vissuto durante la loro esperienza ad Akator, perlomeno i loro meriti fossero stati riconosciuti appieno. Per Indy, poi, poter guardare quei piccoli pezzi di metallo fu molto più appagante che l’aver pensato di mettere le mani addosso ai due uomini dell’FBI. Adesso sì, che era veramente finita, e quindi non gli restava che essere felice insieme a Marion, a Mutt ed ai suoi amici.
   Fu Oxley, infine, a parlare a nome di tutti.
   «Siamo davvero commossi per questo riconoscimento, che nessuno di noi si aspettava» disse. «Ringrazi il Presidente da parte nostra. Oltretutto, ci tengo a sottolineare di aver avuto la mia parte di responsabilità, in tutta questa storia poiché, senza i miei lunghi studi, i sovietici non avrebbero mai avuto alcuna possibilità di giungere ad Akator.»
   «Studiare non è mai un male, è semmai l’uso che si fa di questi studi che può essere giusto o sbagliato» sentenziò il senatore. «Per fortuna, ci sono studiosi, come lei ed il professor Jones, che sanno distinguere perfettamente tra il giusto e il sbagliato. E, purtroppo, ci sono uomini che vedono il male ovunque.»
   «Se intende riferirsi ai nostri amici dell’FBI» intervenne Ross, «posso assicurare che non la passeranno liscia. Forse credono di potersela cavare così, ma so benissimo che hanno torturato Indy e…»
   «Bob, ti prego, lascia perdere» lo implorò Indy. «Se dovessi metterli sotto accusa, ci sarebbe un altro processo ed io non ho alcuna voglia di venire coinvolto un’altra volta in storie simili. Ho cose molto più importanti a cui pensare, adesso.» Sottolineò l’ultima parola passando le braccia attorno alle spalle di Marion e di Mutt.
   Tutti sorrisero, soprattutto Bob, Sophia e Joe, che di certo non avrebbero mai creduto che il loro spericolato compagno di azione, quello con il quale avevano condiviso i momenti più emozionanti - e pericolosi - delle loro esistenze, un giorno sarebbe potuto diventare un buon padre di famiglia. Ma, del resto, proprio come il mondo attorno a loro, anche le persone cambiavano ed Indiana Jones, in questo momento, ne era la prova vivente.
   Si trattennero ancora per alcuni minuti, continuando a ringraziare Kennedy, Ross e tutti quelli che si erano prodigati tanto per loro e poi, finalmente, lasciarono l’aula e tornarono a respirare l’aria pura della libertà tanto meritata.
   Quando fu all’esterno, osservando il cielo azzurro di luglio, Indy poté trarre un sospiro di sollievo; un’altra pagina della sua vita si era definitivamente chiusa, ma ora poteva voltare a quella successiva, che sarebbe stata anche più incredibile ed appassionante di tutte quelle che l’avevano preceduta.

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Capitolo 53
*** Capitolo LII - Il nuovo vicerettore ***


CAPITOLO LII
IL NUOVO VICERETTORE

   Indy e Marion non poterono trascorrere troppo tempo da soli, come invece avevano pensato di fare adesso che, infine, ogni problema era stato risolto, perché da Bedford arrivò una telefonata perentoria da parte di Charlie, che chiese all’amico di raggiungerlo il prima possibile. Non volle rivelare alcunché, riguardo il motivo di quella convocazione improvvisa, ma il suo tono urgente fece nuovamente impensierire parecchio Jones che, così, si vide costretto ad acquistare l’ennesimo biglietto ferroviario per tornare a casa. Viste le innumerevoli volte che aveva percorso quella tratta, negli ultimi giorni, cominciò a pensare che, forse, sarebbe stato più opportuno sottoscrivere un abbonamento.
   In ogni caso, ebbe la gradita sorpresa di apprendere che, non avendo proprio nulla da fare in una Chicago sempre più calda e spopolata, Marion lo avrebbe accompagnato in quel viaggio inaspettato, per poter rimanere insieme; disse che le avrebbe fatto piacere, dopo tanti anni, rivedere la cittadina in cui, seppure per un periodo brevissimo, prima di trasferirsi a New York, avevano convissuto.
   Così, si rimisero in viaggio e raggiunsero la città in cui l’archeologo trascorreva le sue giornate quando non era impegnato in qualche spericolato viaggio intorno al mondo o, come in quel periodo, quando non si trovava a Chicago per poter stare insieme alle persone che amava. A dire il vero, Jones cominciava ad avvertire il peso di quei continui spostamenti ed anche questo, nella sua mente, fu un nuovo campanellino d’allarme risuonato per avvisarlo che gli anni stessero passando anche per lui; ma sapere di star partendo insieme alla sua Marion contribuì immantinente a cancellare ogni residuo di spossatezza dal suo fisico.
   Prima di recarsi da Charlie, dunque, Indy ne approfittò per far visitare il luogo a Marion, che ne aveva conservato indelebili ricordi e che si divertì parecchio a riconoscere angoli che già conosceva, oppure a scoprire posti nuovi, che all’epoca del suo primo soggiorno ancora non esistevano od erano profondamente differenti.
   Quindi, la portò per prima cosa a visitare il parco cittadino, un vastissimo appezzamento erboso piantumato con diverse specie di alberi, tra i quali si perdevano alcuni sentieri; come quasi ogni altra cosa, in città, il parco era nato e cresciuto attorno al Marshall College, di cui costituiva una delle tante estensioni. Con un certo rimpianto, quando giunsero nei pressi della biblioteca, Indy mostrò a Marion la statua di bronzo dedicata a Marcus Brody, che lui stesso aveva fortemente voluto e fatto impiantare nel parco.
   «Bella…» commentò la donna, ammirandola con qualche leggero dubbio. «Ma non le manca qualcosa…?»
   Jones osservò con una certa mestizia la statua decapitata dell’amico, domandandosi dove i russi potessero averne buttato la testa; in ogni caso, adesso che finalmente aveva risolto le sue grane, avrebbe insistito affinché il monumento fosse riparato il più in fretta possibile.
   Non avendo ancora voglia di entrare nell’edificio che ospitava aule ed uffici che, particolarmente in quel periodo dell’anno, gli sembrava sempre tetro e freddo, nonché oltremodo soffocante, decisero di continuare la loro passeggiata; perciò, superato un laghetto in cui nuotavano in maniera pacifica alcune anatre, transitarono accanto alla chiesa di St. Martin, la cappella dell’Università, e tornarono sulla strada. Dall’altro capo, ovviamente, svettava il famoso ristorante in cui mangiavano sempre lui e Marcus, ma non vi si fermarono e proseguirono.
   Bedford, in fondo, non era molto cambiata, rispetto agli anni ‘30. Certo, erano nati nuovi negozi ed il traffico lungo le strade era decisamente aumentato, e pure i giovani che affollavano i marciapiedi erano molto meno compassati dei loro predecessori, ma sostanzialmente le case di mattoni o dalla facciate dipinte di vari colori erano rimaste sempre le stesse e pure l’atmosfera sembrava non essere mutata più di molto.
   Dopo aver imboccato una via esclusivamente residenziale, i cui marciapiedi confinavano con i giardini ordinati di tante belle casette, Jones spiegò che le avrebbe mostrato la sua casa.
   «Sai, mi ha fatto piacere tornare qui, dopo aver lasciato il Barnett College di New York» disse, mentre camminavano. «Lasciato… a dire il vero, ci sarei anche rimasto, ma mi hanno licenziato. Però, in fondo, sono stato molto contento di fare ritorno in questa casa.»
   Dopo aver superato un paio di isolati, si fermarono di fronte ad un elegantissimo edificio di mattoni, circondato da un giardino oltremodo curato. Di fronte a quella vista, Marion non poté non sorridere, rivivendo con la mente i dolci momenti che vi avevano trascorso insieme.
   «È ancora più bella di come la ricordassi» confessò, con la voce quasi rotta.
   «Be’, sì… un paio d’anni fa le ho fatto fare una ristrutturazione completa» spiegò Indy. «Ci ho investito parecchio, ma ne è valsa la pena, praticamene adesso sembra un’altra casa.»
   Camminando adagio, risalirono il giardino e, aperta la porta, entrarono all’interno. L’ambiente era quello accogliente e caratteristico di sempre, totalmente ingombro di libri, carte e, soprattutto, di curiosi oggetti di vario tipo, provenienti da vari angoli del pianeta, raccolti e collezionati da Indy nel corso della sua vita. Mentre Jones l’ammirava con sguardo sognante, Marion girovagò a passo leggero per il soggiorno, osservando un po’ tutto e soffermandosi di sovente sulle fotografie incorniciate che occupavano gli spazi più diversi e disparati.
   «Non mi dispiacerebbe affatto venire a vivere qui» gli confessò dopo un momento, sollevando gli occhi per guardarlo. «Dopo esserci sposati, intendo dire…»
   Jones ne fu alquanto sorpreso.
   «Davvero lasceresti il tuo appartamento ultramoderno di Chicago per venire a stare qui, praticamente in provincia, in una casa che potrebbe sembrare un museo?» domandò.
   Lei gli si avvicinò e lo abbracciò.
   «Con te starei ovunque, Indy» mormorò. «Non mi importa dove… e, poi, questa casa è talmente bella, così piena di ricordi…»
   Entrambi chiusero gli occhi, ripensando ai primi giorni che si erano trasferiti a vivere lì, insieme, dopo essere tornati a casa dall’Europa portando con sé l’Arca dell’Alleanza; erano stati giorni straordinari, in cui ciascuno di loro si era trovato ad affrontare un modo di vivere totalmente nuovo, quello di coppia. Non era stato semplice, certo, ma era stato anche divertente, ed avrebbero tanto voluto ricominciare al più presto, questa volta, però, con la consapevolezza che, quella convivenza, non avrebbe mai più avuto termine, se non quello imposto dalla natura.
   «Purtroppo, ho fatto domanda per trasferirmi a Chicago» le rammentò, «e non penso proprio che sarà rifiutata. Certo, potrei sempre annullarla, però…»
   Marion lo strinse ancora più forte e Jones la ricambiò, tenendola stretta a sé, più appagato che mai per quel dolcissimo contatto.
   «Te l’ho detto, non ha alcuna importanza dove andremo» gli sussurrò all’orecchio. «Qui, o a Chicago, od in qualsiasi altro posto… purché siamo felici insieme.»
   «Lo saremo, Marion» rispose lui. «Te lo prometto.»

   Nel pomeriggio, fecero ritorno in Università, per scoprire che cosa ci fosse di tanto urgente da aver indotto Stanforth a chiamarlo lì. Dentro di sé, Jones sperò vivamente che non si trattasse di qualche ennesimo viaggio per recuperare preziosi manufatti, perché non ne aveva affatto voglia, perlomeno non adesso. Lasciò Marion al museo, in compagnia della dottoressa Ferguson, che cominciò a farle visitare le ampie collezioni, e raggiunse l’ufficio del rettore.
   «Accomodati, Indy» lo invitò Charlie, nel vederlo entrare, facendogli cenno verso una sedia davanti alla sua scrivania.
   A Jones, quel luogo, era sempre parso il più tetro di tutto il Marshall College: con le pareti rivestite di pannelli di legno scuro e ornate dai dipinti ritraenti tutti i rettori, dal primo a quello attualmente in carica, il tutto ammorbato da un vago odore di stantio, gli aveva sempre dato l’impressione di trovarsi all’interno di una cassa da morto. Sperò, quindi, che Charles si sbrigasse a dirgli tutto quello che voleva, per poi tornarsene nuovamente da Marion a respirare l’aria pura che sapeva di vita.
   «Ho ricevuto una notizia confidenziale da parte del generale Ross riguardo al buon esito del processo, ed ho avuto l’autorizzazione ad informarne discretamente il consiglio, che manterrà il riserbo come richiesto dagli atti» gli comunicò il rettore. «Da questo momento, dunque, non c’è più assolutamente nulla che possa inficiare la tua completa riammissione nell’organico universitario.»
   Indy si accigliò. «Tutto qui? Mi hai fatto correre da Chicago solo per dirmi questo…?»
   Ma Charlie alzò una mano e scosse la testa per rallentarlo.
   «Aspetta. Non è solo per questo. Un paio di giorni fa, ho ricevuto questa lettera.» Mostrò una busta che teneva sul tavolo. «È la risposta da parte di Chicago. Hanno accolto la tua domanda e sono pronti ad assegnarti il posto lasciato vacante dal professor Oxley. Diventeresti docente di archeologia dell’America precolombiana, un campo in cui, d’altra parte, ultimamente hai accumulato una certa esperienza, ne convengo.»
   Quella notizia tanto attesa non suscitò in Indiana Jones l’entusiasmo che si sarebbe aspettato. Anzi, a dire il vero, provò un profondo ed intimo moto di tristezza e non poté fingere con se stesso di non aver sperato che, quella risposta, non giungesse mai. Tuttavia, facendosi forza, riuscì a ribattere, con la voce roca: «Perfetto. Esattamente ciò che desideravo sapere…»
   «Già, già» annuì mestamente Charlie. «Ormai sei libero e puoi fare tutto ciò che desideri, come è giusto che sia. Però…» s’interruppe, non sapendo come continuare, sebbene i suoi occhi esprimessero benissimo tutta la profonda tristezza che quella notizia gli aveva suscitato nel cuore.
   «Però?» lo sollecitò Jones, desideroso di sapere che cosa avesse in mente Charlie pur di non farlo andare via dal Marshall; perché era per questo, ne era sicuro, che lo aveva fatto venire fin lì.
   Charlie appoggiò di nuovo la busta e, dopo un momento di esitazione, aprì un cassetto della scrivania e ne estrasse alcuni fogli dattiloscritti, che appoggiò in bell’ordine davanti a sé. Da quel che Indy poté intuire, vedendo le scritte alla rovescia, si trattava di un contratto.
   «Però» riprese Stanforth, che parve ritrovare energia davanti a quei fogli, «prima che tu te ne vada, vorrei almeno tentare di farti un’interessante controproposta per indurti a rimanere qui con noi. In fondo, ti sei sempre - o quasi sempre - trovato bene, no? Ed è qui che hai avuto le più grandi soddisfazioni della tua carriera, è qui che hai lavorato gomito a gomito con Brody ed è qui, dopotutto, che sei sempre tornato dopo ogni tuo lungo viaggio.»
   «Non posso negarlo» ammise Indy. «Continua» lo esortò poi.
   «Bene, in completo accordo con il consiglio direttivo, ho pensato di farti una proposta. Se tu decidessi di rimanere al Marshall College, ti offrirei l’incarico di vicerettore.» Tamburellò con le dita sopra i fogli. «Il contratto è già pronto, dovresti solo firmarlo.»
   Jones lo guardò con tanto d’occhi. Vicerettore? Lui?! Charlie doveva veramente essere impazzito, forse a causa del troppo caldo di quell’estate afosa. Tuttavia, prevenendo le sue obiezioni, il rettore continuò: «Se sono gli aspetti amministrativi della faccenda, a spaventarti, non devi assolutamente preoccuparti di nulla. In qualità di vicerettore, faresti le mie veci solo in caso di mia assenza e, come sai, io non manco praticamente mai. In sostanza, per te non cambierebbe nulla, dato che continueresti ad insegnare archeologia come sempre, e significherebbe esclusivamente uno stipendio più alto di quello che ricevi attualmente ed orari maggiormente flessibili, oltre naturalmente al grande prestigio di poterti considerare una carica di spicco all’interno di un’Università celebre e di antica fondazione come la nostra.»
   Effettivamente, quella proposta parve alquanto allettante, per Indiana Jones, perché gli offriva una più che valida scusa per rimanere senza dover per forza fare la figura del vecchio nostalgico troppo attaccato ai luoghi del proprio passato. Prima di dare una risposta, però, avrebbe avuto bisogno di rifletterci in tutta calma, valutando i pro ed i contro; e, oltretutto, avrebbe voluto soprattutto parlarne con Marion e decidere insieme sul da farsi.
   «Io ti sono molto grato per questa tua proposta che non mi sarei mai neppure aspettato di poter ricevere, specialmente non dopo aver rischiato di essere sbattuto fuori senza troppi complimenti» ammise, dunque. «Ma non posso darti una risposta in questo momento. Mi lasci tempo, diciamo, fino a domattina? Voglio pensarci un po’ sopra.»
   Stanforth sorrise, comprendendo di essere almeno riuscito ad aprire una breccia nell’animo del vecchio amico.
   «Prenditi tutto il tempo che ti occorre» gli concesse. «Il contratto, se lo vorrai accettare e firmare, resterà ad aspettarti qui nel mio cassetto, e posso anche fartene avere subito una copia per potertelo leggere in tutta tranquillità.»
   «Ci sto» rispose Jones. «E ti prometto che, domani mattina, saprai se il mio è un sì od un no.»

   Dopo aver salvato Marion dalle grinfie della dottoressa Ferguson, che aveva cominciato a spiegarle fin troppo nei dettagli la pregevole fattura di alcune terrecotte risalenti al Mesolitico, Indy la condusse con sé al parco, fermandosi ad un piccolo chiosco per acquistare due coni gelato alla frutta. Mentre passeggiavano lentamente assaporando il fresco dolce, la mise al corrente di tutto, dall’accettazione della sua domanda di trasferimento a Chicago alla contromisura di Charlie per provare ad indurlo a non andarsene.
   «Tu che cosa pensi che dovrei fare?» le domandò, quando ebbe finito di riassumere tutto.
   Marion fece spallucce. «Devi decidere tu ciò che ritieni più giusto. In fondo, si tratta della tua vita…»
   Ma l’archeologo, fermatosi, esclamò con decisione: «No! Questa non è più la mia sola vita. Non c’è stato un solo giorno senza che io prendessi una decisione da solo, senza consultarmi con nessuno, pensando soltanto a ciò che ritenessi più opportuno per me. Adesso, però, è diverso. Siamo in due, Marion, anzi con Junior siamo in tre, e questa è la nostra vita. Certe decisioni, ormai, bisogna che le prendiamo insieme, so che può sembrare difficile, ma dobbiamo abituarci a farlo.»
   Anche lei si fermò, volgendosi all’indietro per guardarlo bene. Sapeva quanto Indy fosse legato a questo luogo, a questa Università, eppure nei suoi occhi poté leggere la sua risoluzione ad andarsene via, forse per sempre, se solo lei avesse voluto così. Ma lei voleva davvero così? In fondo, Bedford era una cittadina tanto tranquilla, molto diversa da Chicago o da New York. Quelli erano i luoghi della sua gioventù, ma adesso che era lei stessa maturata cominciava a comprendere la magia di un luogo sereno ed accogliente come quello. Sarebbe stato davvero un bel posto per ricominciare da capo la sua vita accanto ad Indiana Jones e, perché no, per costruire insieme una nuova famiglia. Quella parola, famiglia, le provocò un fremito, ma sapeva che non sarebbe stato impossibile perché, pur avendo ormai una certa età, non era ancora giunto, per lei, il momento di rinunciare per sempre all’idea di mettere al mondo altri figli. Forse questo non era il momento più adatto per pensarci, intenta com’era a discutere del lavoro di Indy, mentre il gelato si scioglieva nel cono appiccandogli le dita, eppure mai pensiero le parve più adeguato.
   «Accetta, allora» sussurrò, così piano che Jones fu costretto ad avvicinarsi per sentire che cosa stesse dicendo. «Io adoro questo posto, la tua casa… oltre che te. Accetta la proposta di Charlie e rimaniamo qui, insieme.»
   Indiana Jones, udendo quelle parole, si sentì quasi commosso. Non aveva voluto forzare la mano, non aveva voluto che Marion scegliesse pensando solo a lui e non a se stessa, eppure non poté negare di essere davvero sollevato al pensiero che, forse, non avrebbe lasciato Bedford.
   «Ne sei sicura?» domandò. «Dovresti rinunciare ai luoghi che ti sono stati cari fino ad oggi…»
   Marion ridacchiò. «Quando ci si sposa, bisogna pure compiere una scelta, Jones. E io l’ho compiuta. Inoltre, credo proprio che l’appartamento di Chicago dovrò comunque tenermelo, perché non penso proprio che Mutt rinuncerà molto volentieri ad andarsene in maniera definitiva. Ma, ormai, è grande abbastanza da potersela cavare da solo, non trovi?»
   Ormai, la mano di Marion era completamente infradiciata di gelato alla fragola. Indy, che aveva già finito il suo, gliela prese e, con un paio di baci, gliela pulì.
   «Ti amo» le sussurrò.
   «Lo so» replicò lei, con un sorrisetto.

   Quella sera, appena fatto rientro a casa dopo aver cenato con hamburger e patatine da Arnie’s, mentre Marion si dava una rinfrescata in bagno, Jones sollevò la cornetta del telefono e chiamò a casa di Charlie. Il rettore era uscito per andare a compiere delle commissioni per la parrocchia e fu sua moglie Deirdre a rispondere.
   «Vuoi che gli dica di chiamarti quando rientra?» domandò la donna, dopo aver salutato Jones ed avergli detto della momentanea assenza del marito.
   «Non ce n’è bisogno. Digli solo di preparare la stilografica più preziosa che abbia, ché domani mattina passo a firmare.»
   La donna parve interdetta ma, conoscendo le stranezze di Indiana Jones, non fece alcun tipo di domanda, certa che, poi, il marito le avrebbe spiegato ogni cosa.
   «D’accordo, riferirò.»
   «Mi raccomando, parola per parola, è molto importante» si raccomandò Jones, prima di riattaccare.
   Era fatta. Non avrebbe più lasciato il Marshall College e, anzi, vi sarebbe rientrato quasi da trionfatore, con un incarico davvero prestigioso. Ancora una volta, quella vita che sembrava fosse intenzionata a prendersi ogni cosa sembrava volergli dimostrare che, invece, non è mai troppo tardi per poter ricevere dei doni inaspettati. Mai abbattersi, sembrava volergli dire, perché la novità è sempre dietro l’angolo, anche nei momenti più inaspettati. Pensò a suo padre, che gli aveva sempre raccomandato di mettere la testa a posto, ad Abner, che aveva creduto in lui pur restandone deluso, ed a Marcus Brody, che aveva sempre sperato che, un giorno, si sarebbe fatto valere per quello che era davvero. Pensò a loro e si augurò che, in quel momento, fossero tutti e tre orgogliosi di lui, lo scapestrato avventuriero ormai prossimo a crearsi una vera famiglia e con un lavoro prestigioso ad attenderlo.
   Sentì Marion che usciva dal bagno e si dirigeva verso la camera da letto e la seguì, sicuro che, quella notte, non avrebbero dormito più di tanto.

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Capitolo 54
*** Capitolo LIII - Vita di coppia ***


CAPITOLO LIII
VITA DI COPPIA

   Dato che si trovavano a Bedford, decisero di rimanervi ancora per qualche giorno, in solitudine, come se quella fosse una sorta di prova generale della loro ormai prossima vita di coppia. Stando insieme, a stretto contatto, in una realtà casalinga, molto differente da quella che già avevano provato durante il loro soggiorno in Louisiana, avrebbero davvero capito quale fosse la differenza tra vivere insieme a qualcuno e vivere da soli.
   Chi aveva più da imparare, da una simile esperienza, era ovviamente Jones. Marion, sebbene il suo matrimonio fosse durato soltanto pochi mesi, subito spezzato dal furore insensibile della guerra, aveva già una vasta conoscenza in quel campo: prima aveva convissuto con suo padre, poi con Colin e Mutt, infine solo con il figlio; il tempo che poteva dire di aver trascorso in completa solitudine, in effetti, era veramente poco, e risaliva ai due anni che lei aveva trascorso in Nepal, dopo la morte di Abner, prima che quel folle di un archeologo spuntasse nuovamente fuori per trascinarla in un’avventura ai limiti dell’incredibile, per poi riportarla in America. Per Indy, invece, le cose erano sempre state molto differenti.
   Scapolo incallito e impenitente, non aveva mai convissuto con una donna, ad esclusione dell’anno e mezzo che lui e Marion avevano condiviso dopo essersi ritrovati, vent’anni prima; ma, a parte quello, ed a parte le rare volte in cui una delle sue amanti si intratteneva in casa sua per più di tre giorni, comunque mai per oltre una settimana, aveva sempre vissuto da solo, stabilendo autonomamente i propri orari ed i propri modi di fare. Per lui, non c’era mai stato un orario preciso per alzarsi la mattina, non c’era mai stato alcun rituale di colazione, pranzo e cena condivisi, non vi erano mai stati obblighi di rientrare ad una data ora, non c’era mai stato neppure bisogno di attendere che il bagno si liberasse per poterlo adoperare a propria volta.
   A dire il vero, da che ne avesse memoria, era sempre stato solo. Certo, durante l’infanzia aveva avuto sua madre Anna ad occuparsi di lui con amorevole affetto, nonché la sua tutrice, la signora Seymour, ma erano due figure che erano sempre state piuttosto nebulose, perché suo padre li aveva trascinati tutti in quel lunghissimo viaggio attorno al mondo, che gli aveva certo dato la possibilità di conoscere fin da piccolo culture nuove e persone straordinarie, ma che lo aveva obbligato anche a restare per lunghi giorni, a volte intere settimane, separato dalla sua famiglia. E, poi, ad un certo punto, la signora Seymour era andata in pensione e sua madre era morta, proprio nel momento in cui ne avrebbe più che mai sentito il bisogno. Era stato un durissimo colpo, per il piccolo Indy, ma ancor più duro era stato rendersi conto che lui, per suo padre, non contava praticamente nulla.
   Il professor Jones, troppo occupato con i suoi studi e con le sue ricerche, non aveva mai dedicato neppure un minuto di attenzione al figlio, anche se, naturalmente, non aveva mai mancato di muovergli aspri rimproveri quando veniva a sapere che i testi di letteratura medievale che gli aveva procurato giacevano, abbandonati e polverosi, sullo scaffale. Il vecchio si era sempre e solo lamentato di quel figlio che non lo aveva mai ascoltato, ma la verità era un’altra, ossia che era stato lui stesso a non dirgli mai niente. Mai, non si erano mai parlati e, proprio per questo, ad un certo punto Indy non ce l’aveva più fatta ed era fuggito, prima in Messico, dove si era unito ai rivoluzionari di Pancho Villa, poi in Europa, dove aveva vissuto in prima persona gli orrori indicibili delle trincee della prima guerra mondiale.
   Erano state quelle dure prove e quelle mancanze della sua infanzia ed adolescenza ad indurire il cuore di Indiana Jones, a persuaderlo che una famiglia non facesse per lui e che l’unico sistema per potersi dire davvero felice fosse quello di rinunciare a tutto ed a tutti, conducendo una vita solitaria, come quella di un orso ferito, che esca dalla sua tana soltanto di quando in quando, per potersi congiungere con qualche femmina e soddisfare così le proprie voglie. In tanti anni, solamente una persona era riuscita ad addolcire quel suo cuore arido - eppure, allo stesso tempo, così capace di amare da essere sempre pronto a spingerlo a battersi in difesa dei più deboli e dei bisognosi, gli piacesse o meno - e quella persona era stata Marion Ravenwood; eppure, ogni volta, si era sforzato di fingere di non voler cedere all’amore, allontanandosi da lei per poter continuare a seguire le proprie idee.
   Adesso, però, si erano ritrovati, erano di nuovo insieme e, finalmente, pareva proprio che il gelo del suo cuore si fosse sciolto per sempre. Senza volerlo, aveva commesso i medesimi errori di suo padre, si era comportato alla sua stessa stregua, se non in maniera peggiore, e ciò che desiderava era porvi un rimedio, anche per poter dimostrare a se stesso che, sebbene ne portasse il medesimo nome, lui non era fatto della stessa pasta di Henry Jones, ma era un uomo diverso, migliore. Non poteva veramente accettare di perdere ogni singola cosa bella che la vita fosse stata in grado di donargli solo per non correre il rischio di diventare come suo padre.

   Fin da subito, apparve chiaro che, convivere, non sarebbe certo stata una passeggiata. Non che ci fossero incomprensioni, tra di loro, né litigi, semmai divergenze di vedute che avrebbero dovuto in qualche modo riuscire a far coincidere.
   Come Indy aveva previsto, la prima notte non chiusero occhio perché, in preda alla passione, ingaggiarono un duello amoroso a più riprese, che durò parecchie ore, tanto che si addormentarono solamente quando già nel cielo cominciava ad apparire l’aurora. Per come la vedeva lui, avrebbero potuto restarsene a letto a dormire della grossa per tutta la mattina, tanto il contratto era già pronto ed a Charlie non sarebbe cambiato proprio nulla se lui si fosse presentato per firmarlo a pomeriggio inoltrato. Ma Marion la pensava molto diversamente e, mattiniera com’era, lo scosse per svegliarlo alle otto precise.
   Jones aprì gli occhi arrossati di sonno e, convinto di aver finito di fare l’amore da soltanto pochi minuti, fu alquanto sorpreso di vederla, con lo sguardo ancora appannato dai sogni, già in piedi, vestita ed attiva. Ancora più sorprendente fu annusare l’aroma di caffè forte e di pancetta sfrigolante che proveniva dalla cucina.
   «Ma a che ora ti saresti alzata?» le domandò con voce impastata, cercando di riordinare le idee.
   «È solo un’ora che sono in piedi, in effetti questa mattina me la sono presa più comoda del solito» esclamò lei, con vivacità. «Ti ho lasciato dormire ancora un po’ perché ho visto che eri abbastanza stanco, dopo stanotte… ma non dimenticarti che hai un importante appuntamento in Università.»
   Indy grugnì qualcosa e tornò ad affondare nel cuscino, richiudendo gli occhi. Immediatamente, nuovi sogni cominciarono a fluirgli nella mente, trasportandolo altrove. Ma una voce, molto più alta, si levò di nuovo.
   «Jones, allora, vieni o no?!»
   Era Marion, che lo chiamava dalla cucina. L’archeologo guardò la sveglia sul comodino e scoprì di aver dormito per un’altra mezz’ora, che non era comunque bastata a rimetterlo in sesto. La voglia di addormentarsi un’altra volta era tanta, ma sapeva che, se avesse tardato altri cinque minuti, Marion sarebbe arrivata a buttarlo letteralmente giù dal letto, lenzuola e tutto. Con un ghigno, pensando a quella scena, si alzò e corse a rinfrescarsi la faccia in bagno.

   Anche il primo pranzo che fecero insieme fu un’esperienza alquanto insolita.
   Quando era a casa, Indy era abituato a mangiare soltanto qualcosa al volo, giusto per recuperare le energie, perché non aveva certo voglia di mettersi a cucinare, specialmente quando rientrava da una mattina di lezioni. Di solito si preparava un panino, oppure della verdura condita un po’ a casaccio, magari apriva una scatoletta di qualcosa; se proprio voleva esagerare con i lussi, buttava una bistecca in padella e la faceva cuocere al sangue. Ma, quella volta, tornato dopo aver apposto la sua firma su quel contratto che, di fatto, lo avrebbe legato in maniera definitiva, per tutto il resto della sua carriera, al Marshall College, trovò ad attenderlo un insieme di manicaretti che non si sarebbe mai davvero aspettato di poter vedere sulla propria tavola.
   Effettivamente, mentre mangiavano, Marion gli raccontò di aver sviluppato una vera e propria venerazione per la buona cucina; girando per il mondo con suo padre, infatti, aveva appreso tantissime e gustose ricette che, però, in quegli anni difficili, non aveva mai potuto mettere in pratica, non disponendo mai del necessario. Però, le aveva tenute tutte da parte, certa che, prima o dopo, sarebbe riuscita a farle fruttare al meglio. Così, quando finalmente si era ritrovata ad avere da parte abbastanza soldi da non doversi più preoccupare di nulla, specialmente della dispensa, aveva cominciato ad applicarsi con passione alla sottile arte del cucinare.
   «Sai, anche se non l’ho mai messo in pratica, il mio sogno sarebbe quello di aprire un locale, un bar che faccia anche da tavola calda» gli confessò, tra un boccone e l’altro. «Non una bettola schifosa come quella che io e Abner avevamo a Patan, ma un bel locale moderno e pulito, dove i clienti sarebbero felici di entrare.»
   Jones ci rifletté sopra un momento.
   «Be’, dopo che ci saremo sposati potresti pensarci seriamente» le disse. «D’accordo, qui non siamo né a Chicago né a New York, ma questa è una città universitaria, piena di studenti che potrebbero essere attratti dal tuo bar. Inoltre, da quando quattro anni fa è stata aperta la nuova autostrada, il traffico è aumentato notevolmente, specie quello dei camion, quindi non mancherebbe mai neppure gente che si fermerebbe a mangiare qualcosa alla tua tavola calda.»
   Marion sorrise. «Un bel locale con ampio parcheggio, credi che si possa fare?»
   «Conosco qualche punto strategico che, magari, potrebbe fare al caso tuo.»
   Continuarono a mangiare ed a discutere con sempre maggiore entusiasmo, sicuri che anche quel sogno si sarebbe potuto realizzare, un giorno o l’altro.
   Indy, in un primo momento, pensò che Marion avesse preparato quel pranzo speciale per festeggiare il suo nuovo incarico, ma nei giorni successivi, vedendo che la cosa si ripeteva di continuo, comprese che quella sarebbe divenuta la norma, e cominciò ad abituarsi a sentire le stanze della casa intrise degli aromi di frittura, arrosti, sughi, verdure al vapore o qualsiasi altra novità lei avesse deciso di preparare; non era affatto male, in effetti, poter finalmente gustare buone pietanze, anche se, di contro, dovette cominciare a stringere un po’ meno la cintura. Qualche volta tentò anche di darle una mano, ma apparve fin da subito chiaro che le loro vedute, in tema di fornelli, fossero fin troppo differenti, così i suoi unici incarichi si limitarono a quello di sistemare la casa - perché Marion non sopportava il disordine e, quindi, che Jones si scordasse fin da subito di lasciare abiti in giro e cianfrusaglie dappertutto - e di fare la spesa, ovviamente seguendo passo per passo la lista che lei aveva accuratamente stilato.

   Pure i pomeriggi dovettero cambiare radicalmente.
   Di solito, quando l’archeologo non era impegnato in qualcuna delle sue imprese attorno al mondo - e, negli ultimi tempi, tali eventi erano diventati sempre più rari - trascorreva i pomeriggi a preparare la prossima lezione o, se non ce n’era bisogno, chino su pesanti tomi e ampi mappali, ad allargare le sue già vastissime conoscenze. Ma con Marion in casa, dovette cambiare radicalmente anche quelle abitudini.
   Nelle prime ore del pomeriggio, in verità, non cambiò praticamente nulla, perché Marion era solito rimanere a letto per almeno un paio d’ore, dopo pranzo, giustificando in questo modo il suo scarso bisogno di sonno notturno; ed in quelle due ore, Indy poté continuare a dedicarsi come sempre ai suoi studi. Però, come si alzava, tutto cambiava.
   Per prima cosa, lo chiamava in cucina, a bere un caffè d’orzo in compagnia; prima che lei arrivasse a sconvolgere così dolcemente la sua vita, Jones non aveva mai neppure sospettato dell’esistenza del caffè d’orzo. Poi, ignorando il caldo, si andavano a sedere in giardino, sopra una sedia a dondolo all’ombra di una folta catalpa, conversando amabilmente oppure leggendo ciascuno per i fatti propri. Ogni tanto, Marion si alzava e spariva per qualche istante in casa, riemergendone con un vassoio su cui aveva appoggiato due bicchieri ed una brocca di limonata fresca. Jones, per galanteria, provò una sola volta a preparare lui stesso da bere, ma utilizzò troppa acqua e troppo poco limone, dimenticandosi del tutto di aggiungere lo zucchero e di mettere il ghiaccio, guadagnandosi così un affettuoso rimprovero da parte di lei.
   «Indy, davvero, sei un vero eroe quando si tratta di salvare qualcuno dai guai e penso che ci sarebbe la fila di donne, desiderose di sposarsi con te» gli disse, con un sorriso che andava da una parte all’altra del viso, stringendo il bicchiere con affetto, come se il solo pensiero che quella fosse opera sua, e preparata pensando a lei, la stesse facendo sentire al settimo cielo. «Però, sul serio, quando si tratta di fare da mangiare… lascia perdere.»
   Nelle ore più fresche, invece, quando il sole cominciava ad essere meno alto sull’orizzonte, uscivano a passeggiare per le vie della città e, sebbene i luoghi fossero sempre gli stessi, di volta in volta sembrava di trovarsi in un mondo pieno zeppo di novità, anche se, con ogni probabilità, la novità vera, e più dolce di qualsiasi altra, era quella di essere insieme e di vivere giorno per giorno fianco a fianco, come non erano mai riusciti a fare prima.

   Ovviamente, anche la routine serale dovette subire un mutamento repentino.
   Innanzitutto, Marion impose che si cenasse ogni sera allo stesso orario, alle diciannove e trenta precise. Jones, che anche in quel versante non era mai stato per nulla un abitudinario, dovette imparare a sedere in veranda, dove li attendeva il tavolo di vimini perfettamente apparecchiato, e ad apprezzare gli ennesimi manicaretti che, però, erano sempre più leggeri e meno abbondanti di quelli del mezzogiorno. In genere, dopo mangiato, si aiutavano a vicenda a sparecchiare ed a lavare i piatti, dopodiché tornavano a sedersi sotto il porticato e vi restavano fino a tarda ora a parlottare tra di loro, illuminati solamente da una candela accesa nel mezzo della tavola, attorno alla quale vorticava qualche moscerino ronzante che non procurava mai alcun tipo di fastidio.
   Altre volte, invece, potevano decidere di andarsene al cinema, a vedere la replica di un qualche film, ormai proiettato così tante volte che la pellicola appariva del tutto rovinata; a Jones, quasi per una sorta di deformazione professionale, piacevano soprattutto i film a tema avventuroso, ma in quel periodo andavano di moda soprattutto quelli di fantascienza, e non riusciva mai a non ridacchiare nel vedere in quale maniera quasi comica venissero rappresentati marziani e dischi volanti: magari, fino a pochi mesi, avrebbe saputo apprezzare pure quel genere di prodotto, ma dopo l’indimenticabile - e, per molti versi, inspiegabile - esperienza di Akator era tutto un altro paio di maniche e non riusciva proprio più a prenderli sul serio.
   Di solito, sia che stessero in veranda, sia che andassero al cinema, sia che uscissero per un qualsiasi altro motivo, facevano sempre in maniera di essere pronti ad andare a letto attorno alla mezzanotte. Visti i diversi tempi necessari ai preparativi, il primo ad utilizzare il bagno era sempre Indy, che se la sbrigava in pochi minuti, mentre Marion aveva bisogno di molto più tempo per togliersi il trucco - che, seppure leggero, amava mettere sempre, anche quando non si muovevano di casa - spazzolarsi i capelli, rinfrescarsi, spalmarsi viso e mani di qualche crema dal misterioso effetto, indossare la sua vestaglia da notte e, finalmente, essere pronta ad andare a letto.
   E lì, nonostante fossero rimasti insieme per tutta la giornata, trovavano ancora parecchie cose da raccontarsi, prima di scambiarsi un bacio e darsi la buonanotte; certe volte si addormentavano così, tenendosi per mano e guardandosi negli occhi, altre venivano invece invasi dalla passione e si amavano, con foga e dolcezza al medesimo tempo, decisi più che mai a dimostrarsi reciprocamente di essere davvero fatti per stare insieme e recuperare tutto ciò che avevano scioccamente perduto nel corso degli anni.

   Queste loro prove generali di matrimonio occuparono, in pratica, gli ultimi giorni di luglio e buona parte di agosto, fino alla metà; la calda estate determinò il risveglio totale dei loro sensi e li portò veramente a rimpiangere tutto il tempo che avevano trascorso stando lontani e separati, fingendo di essere indifferenti l’uno all’altra o, peggio ancora, odiandosi. Ma, ormai, tutto quello era un qualcosa che apparteneva al passato e, nel presente, e più ancora per il futuro, volevano semplicemente essere felici insieme, senza più rivolgere tristi pensieri a ciò che avevano sprecato.
   Insieme, capirono quanto fosse lieve la convivenza tra due persone perdutamente innamorate e quanto potesse essere dolce e romantico scoprire poco per volta le abitudini, i difetti e le stranezze dell’altro. Un poco alla volta, lo sapevano, sarebbero riusciti a costruire tutto e, molto presto, anche le ultime difficoltà sarebbero scomparse, lasciando posto ad un’armonia che non avevano mai provato ma che, in fondo, avevano agognato e cercato per tutta la vita.

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Capitolo 55
*** Capitolo LIV - Quella calda estate ***


CAPITOLO LIV
QUELLA CALDA ESTATE

   Mutt non si fece vedere fino alla metà del mese di agosto, limitandosi a rispondere alle telefonate giornaliere di sua madre per rassicurarla che se la stesse passando bene e che non avesse bisogno proprio di nulla; a dire la verità, il ragazzo, pur potendosi godere quelle settimane di completa libertà, si ritrovò a dover ammettere di sentire la mancanza sia di Marion sia, incredibilmente, del matusa, per cui approfittò della proposta di Oxley di accompagnarlo a Bedford, dove avrebbe cercato un appartamento in cui trasferirsi in vista del nuovo semestre, per andare a trovarli.
   Ovviamente, entrambi i genitori furono più che felici di vedere arrivare il figlio e Jones si prodigò immediatamente per mostrargli la casa, che nel corso della sua prima visita, dopo essere sfuggiti agli agenti del KGB che li inseguivano, il ragazzo non aveva certo avuto il tempo di esplorare.
   «E questa» gli disse infine, aprendo la porta di una vasta e luminosa stanza da letto sul retro della casa, che sarebbe stata del tutto disadorna se non fosse stato per i pochi mobili coperti da teli bianchi, «potrebbe diventare la tua camera, se decidessi di trasferirti qui. Non ho mai avuto occasione di utilizzare questa stanza» ovviamente, tacque il fatto che, in un primo momento, fosse stata prevista e riservata per persone venute in visita e fermatesi per la notte ma che, avendo praticamente sempre avuto solo ospiti femminili, esse avessero ogni volta trovato un ben più comodo giaciglio nel suo stesso letto, «e credo che ti ci troveresti bene. Come vedi, c’è tutto il posto che vuoi per le tue cose e pure per ricoprire il muro di quelle fotografie di attrici…»
   Mutt sorrise. In effetti, non gli sarebbe affatto dispiaciuto trasferirsi a vivere lì, insieme a loro, dato che, ormai, aveva più che capito che l’intenzione di entrambi era proprio quella di accasarsi lì, dopo che fosse stato celebrato il matrimonio. Solamente una cosa, tuttavia, lo bloccò.
   «Tutti i miei amici, però, sono a Chicago, e là ho pure il mio lavoro di meccanico…» si interruppe, guardando di sottecchi il vecchio per vedere se avesse qualcosa da ridire in proposito sulla sua professione e sul fatto che avrebbe fatto meglio a riprendere gli studi, ma Jones rimase impassibile, quindi riprese: «Ecco, devo dire che, un po’, mi dispiacerebbe dir loro addio per sempre. Non è una scelta facile.»
   L’archeologo fece un sorrisetto.
   «Una soluzione, forse, ci sarebbe» gli suggerì. «Tua madre, parlandomene, mi ha detto di non voler mettere in vendita l’appartamento di Chicago. In fondo è comprensibile, è stata la sua casa per molti anni ed ora, anche se è contenta di venire a stare qui, le dispiacerebbe dirle addio per sempre. Quindi, se anche tu venissi a stare qui con noi, avresti sempre un posto dove tornare per poter vedere i tuoi amici, magari ogni finesettimana.» Jones ritenne più che buona quella soluzione, dato che non lo avrebbe affatto addolorato l’idea di poter godere, ogni settimana, di due o tre giorni da passare in completa solitudine con Marion. «Per quanto riguarda il tuo lavoro…»
   «Ecco ci siamo» pensò il ragazzo, pronto ad affrontare le dolenti note. «Ora mi dirà che devo scordarmene al più presto e ricominciare a studiare come un bravo e diligente bambino
   «…be’, ne girano parecchie anche qui, di motociclette, ti ricorderai quante ce n’erano parcheggiate fuori da Arnie’s. Sono sicuro che non tarderesti affatto a farti una clientela» lo sorprese invece suo padre. «Per il momento, potresti provare ad utilizzare il garage, come officina, e se le cose andassero bene, più avanti potresti anche pensare di aprirne una vera.»
   Mutt non poté che essere sorpreso di fronte a quella resa incondizionata di suo padre, che pareva essersi completamente scordato di avergli ordinato di tornare a scuola senza un se e senza un ma. Probabilmente, rifletté, si trattava soltanto di una tregua momentanea e, prima o dopo, tanto il matusa tanto sua madre sarebbero tornati di nuovo al contrattacco, magari cercando di coglierlo in fallo in un momento di difficoltà, ma per il momento andava benissimo così.
   «È una bella proposta» ammise, dunque. «Credo proprio che ci farò un pensierino.»

   Approfittando delle belle giornate estive e del fatto di essere riuniti, tutti e tre pensarono di compiere alcuni brevi viaggi in automobile per trascorrere del tempo insieme e conoscersi un po’ meglio. In quei giorni, quindi, a bordo della Dodge di Indy, raggiunsero numerose mete del più o meno vicino circondario, tra cui Boston, New York, Long Island ed altre ancora. Indimenticabile fu, però, l’escursione che compirono nella splendida cornice della Green Mountain National Forest.
   Lasciatisi alle spalle città, traffico e rumori, si ritrovarono immersi nel silenzio e nella pace della foresta, abbelliti dal canto festoso degli uccelli e dal lieve fragore dei numerosi corsi d’acqua che solcavano quei boschi in cui prosperavano migliaia di magnifici alberi, con fiumi che, gettandosi dall’alto di pareti rocciose con salti incredibilmente incantevoli, formavano fantastici laghetti ornati dalle foglie e dai fiori delle piante acquatiche.
   Ai paesaggi mozzafiato, che si spingevano ben oltre il limite a cui l’occhio potesse tendere, si sostituivano, dietro ogni svolta dei sentieri, altissimi alberi frondosi e profondi crepacci, che potevano essere agevolmente attraversati grazie ai solidi ponti che li travalicavano. E poi c’era quel profumo che permeava l’aria, quella fragranza di purezza e di pulito che soltanto in luoghi naturali come quello potevano essere odorati, aromi ormai estranei ai luoghi civilizzati dall’essere umano che, per fortuna, non era ancora stato in grado di arrivare ovunque e, con ogni speranza, non lo sarebbe stato mai.
   In qualche modo, sembrava quasi che fossero ritornati in quell’ambiente selvaggio in cui avevano scoperto Akator; eppure, adesso, con loro c’era solamente l’allegria, mentre erano del tutto scomparsi l’ansia di raggiungere al più presto la meta e la paura di vedere ricomparire i sovietici da un momento all’altro, pronti a far loro la pelle. Non c’era più neppure quel fascino incredibile dell’ignoto e dell’inesplorato, in effetti, perché i ponti, i sentieri ben tracciati ed i cartelli di legno che indicavano che, quell’area, era gestita dal Dipartimento dell’agricoltura e delle foreste, raccontavano tutt’altra storia. Ma c’erano comunque quella purezza, quel cielo azzurro ed infinito che si estendeva sopra di loro, quel silenzio inenarrabile e quell’aria fresca e pungente, che si può trovare solamente in montagna, a rendere tutto più magico, come se, per il momento, fossero loro soli i padroni di quei luoghi.
   «Indy, grazie per averci condotti qui» sussurrò Marion, appoggiando la testa alla sua spalla quando sedettero sopra un masso per riposare qualche minuto, mentre Mutt si avventurava in avanti da solo. «Ne ho visti tanti, di luoghi belli e pieni di fascino, eppure certe volte basta davvero allontanarsi per poche ore di strada da casa propria per scoprire posti della cui esistenza non avresti mai sospettato.»
   «Sono felice che ti piaccia» rispose Jones, con un sorriso. «Era tanto di quel tempo, che non venivo qui… ricordo che, la prima volta, fu quando avrò avuto sì e no cinque anni. Venni qui a fare un pic-nic con i miei genitori, forse per il lunedì di Pasqua, non ricordo con esattezza. Arrivammo da Princeton a bordo di una carrozza trainata da quattro cavalli, un viaggio scomodissimo e che non finiva più. Ma quando fui qui… dimenticai tutto quello che avevo patito per arrivarci e cominciai ad esplorare ogni anfratto, ad ammirare ogni albero, ogni singola pietra, facendomi rapire dalla bellezza dei laghetti e delle cascate. E con me, ovviamente, c’era il mio migliore amico di quei giorni, il mio fedele cane Indiana, che mi accompagnava in ogni avventura e, con il suo abbaiare insistente, mi obbligava a fermarmi quando stavo per ficcarmi in un guaio troppo grosso.» Gli occhi di Jones, pieni di malinconia, sembravano persi nel mondo lontano dei suoi ricordi d’infanzia. «Mia madre aveva steso un telo e ci sedemmo sopra per mangiare quello che aveva preparato e portato da casa in un cestino: uova sode, panini imbottiti, verdure sott’olio e, naturalmente, la sua torta di mele, che mi faceva davvero impazzire. Mio padre… be’, lui era un po’ distratto, a dire il vero. Aveva portato con sé un seggiolino portatile ed un piccolo tavolinetto e vi rimase seduto tutto il tempo, intento a scrivere e scrivere chissà che cosa su quel suo taccuino da cui non si separava mai. Però, quando fu il momento di pranzare, venne a sedersi con noi sulla coperta e, forse, bevve un bicchiere di vino di troppo, perché divenne euforico e, più tardi, mi insegnò il modo migliore per arrampicarmi sugli alberi! È l’immagine più divertente che me ne sia rimasta, lui che, senza giacca e le maniche della camicia arrotolate fino al gomito, si arrampica come una scimmia su un abete come quelli che ci circondano adesso, sotto il mio sguardo divertito e quello impaurito di mia madre, che continua a raccomandargli di fare attenzione e di tornare giù, mentre Indiana abbaia e scodinzola per la gioia!»
   Marion si accoccolò ancora di più contro la spalla di Indy, lasciando che lui l’avvolgesse in un abbraccio. Da quel che ne sapeva, quello era uno dei pochi ricordi davvero felici che lui avesse conservato della propria famiglia, di cui non raccontava quasi mai nulla. Sì, ogni tanto le aveva nominato sua madre, ma di suo padre non amava molto parlarne, se non per accennare al fatto che, alla fine, fossero riusciti a superare le loro divisioni ed a riconciliarsi.
   Le sarebbe tanto piaciuto poter dire lo stesso di sé. Ma sua madre era morta quando lei era troppo piccola perché potesse averne un ricordo definito, e non ne esisteva neppure una fotografia, nulla di nulla che potesse rammentargliela. Ed Abner non le aveva quasi mai detto niente di lei, forse perché il dolore di averla perduta era stato così terribile da sopportare che aveva preferito dimenticarsene, piuttosto che farla rivivere con le parole e ritrovarsi a soffrire ancora. Purtroppo, al contrario di Indy, lei aveva avuto un pessimo rapporto con suo padre, negli ultimi anni in cui era vissuto, al punto da aver finito praticamente per odiarlo; quando era morto, in quel gelido avamposto del Nepal, non aveva versato una sola lacrima e soltanto negli ultimi tempi era riuscita a perdonarlo per quello che l’aveva costretta a subire; ma era stato un perdono postumo e non poteva essere sicura che lui lo avesse ricevuto davvero.
   Però, adesso non era proprio il caso di perdersi in quei brutti ricordi. Lei ora era felice, insieme ai due uomini della sua vita, coloro che amava anche più di se stessa: Indy, che l’abbracciava teneramente, e Mutt, che adesso stava tornando verso di loro e pareva alquanto imbarazzato - e, forse, anche un po’ contrariato - nel trovarli in una tale intimità. Era felice con loro, adesso, e questa era ormai l’unica cosa veramente importante.

   Tra le altre cose che animarono quelle giornate di agosto, ci fu la ricerca di una casa per Oxley, che li coinvolse appieno.
   Il professore aveva già vissuto a Bedford, tanti anni prima, quando aveva insegnato al Marshall College, ma a quel tempo aveva abitato in un piccolo e soffocante appartamento all’interno di uno stabile risalente al secolo precedente che, ormai, era stato completamente raso al suolo per far posto al nuovo svincolo dell’autostrada. Dato che non avrebbe potuto tornare lì, ed avendo ormai messo da parte cifre sufficienti a potersi definire ricco, pensò di acquistare una casa bella e grande come quella del suo amico Henry, che avrebbe rapidamente trasformato in un vero e proprio tempio del sapere, riempiendola di tutti i libri che possedeva, parecchi dei quali, oltretutto, scritti da lui stesso.
   Non fu facile, però, riuscire a trovare un’abitazione che lo convincesse appieno. Con la sua mania per l’ordine e per la perfezione, Oxley riusciva sempre a trovare un difetto, anche il più minimo, in tutte le case che visitavano: alcune non avevano le pareti sufficientemente diritte, altre non erano abbastanza insonorizzate, altre ancora si trovavano in una zona non di suo gradimento. Una, in particolare, gli piacque davvero molto, tanto che l’affare parve quasi concluso; tuttavia, provò subito una certa e misteriosa diffidenza per il proprietario della casa di fronte - in verità, un vecchietto dall’aria innocua - per cui lasciò perdere.
   Infine, dopo lunghe ricerche, lo convinsero ad acquistare un’ampia ed ariosa villetta singola, tinteggiata di bianco, che non si trovava a troppa distanza dal luogo in cui viveva Charles Stanforth, circondata da un bel giardino in cui il professore avrebbe potuto respirare un po’ d’aria durante le pause dai suoi studi continui e quasi ossessivi. Era stata quasi un’impresa ma, alla fine, poterono assistere tutti con un sospiro di sollievo al momento della firma sul rogito notarile.
   «È fatta, Henry» disse, rivolto ad Indy, dopo aver abbassato la penna. «Ora siamo di nuovo tutti qui, come ai vecchi tempi.»
   Per festeggiare le nomine del nuovo docente e del nuovo vicerettore, una sera venne organizzata una festa al Marshall College, a cui furono invitati professori, consiglieri e studenti, e che si trasformò ben presto nell’occasione per poter riappacificare definitivamente il professor Jones con tutti quei colleghi che, troppo prevenuti nei suoi confronti, ne avevano frettolosamente richiesto il licenziamento, salvo poi pentirsene quando si erano resi conto di aver commesso un clamoroso e madornale errore.
   Insomma, un poco per volta tutto era tornato a farsi luminoso e bello, come se un sole prossimo al tramonto ci avesse ripensato e si fosse spostato al capo opposto dell’orizzonte, per sorgere nuovamente ed illuminare un altro e lunghissimo giorno con una nuova e radiosa alba che, per quel che era dato sapere, non avrebbe più smesso di splendere.
   Indiana Jones, quasi, non ci voleva nemmeno credere, perché gli sembrava tutto troppo bello per essere vero, ed aveva quasi paura di risvegliarsi da quel sogno meraviglioso; ma non era un sogno, proprio no. Finalmente, dopo anni, poteva ammettere di essere tornato a casa per davvero, insieme ad una famiglia che non aveva mai saputo di avere avuto e ad un amico che credeva irrimediabilmente perduto.
   Aveva vissuto moltissime estati, fino a quel giorno, aveva visto il sole sorgere e calare all’orizzonte migliaia di volte, aveva conosciuto e perso centinaia di persone, ma nulla, ormai, poteva paragonarsi a quest’estate meravigliosa, così nuova, così differente da tutte le altre di cui era stato testimone. In vita sua aveva scoperto palazzi sepolti, città perdute e ritrovato preziosissimi manufatti, ma mai, neppure nel più profondo del suo cuore, avrebbe potuto sperare di rinvenire un tesoro raro e prezioso come quello che quell’estate gli stava offrendo poco per volta, facendoglielo gustare appieno.
   Per una volta, però, il suo tesoro, recuperato tra mille sfide e con sommi sforzi, forse i più ardui e complessi che gli fosse mai capitato di affrontare, non sarebbe andato ad arricchire le teche di un museo, ma sarebbe rimasto lì con lui, fino alla fine.

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Capitolo 56
*** Capitolo LV - Parole d'agosto ***


CAPITOLO LV
PAROLE D’AGOSTO

   Attorno al venticinque di agosto, Oxley annunciò che sarebbe ritornato a Chicago per cominciare a riporre tutte le sue cose negli scatoloni ed organizzare il trasloco - voleva sovrintendere di persona all’intera faccenda, timoroso che qualcuno dei suoi preziosi libri andasse perduto od anche semplicemente danneggiato - e Mutt si offrì volontario per andare con lui a dargli una mano. Anche Marion, in verità, sarebbe dovuta tornare a casa - la data del matrimonio non era più così lontana, oramai, e c’erano infinite cose da organizzare in proposito - ma decise di fermarsi ancora un paio di giorni con Indy, per potersi godere ancora un po’ di quella straordinaria solitudine che avevano sperimentato insieme.
   Ritrovarsi in casa senza Mutt, inizialmente, fu quasi strano, perché si erano ormai abituati a sentire di continuo il giradischi che, dalla sua stanza, diffondeva a tutto volume le note del rock’n’roll, con le canzoni urlate a tutto spiano da Elvis - canzoni che, in gran segreto, Jones approvava pienamente - e, soprattutto, perché avevano imparato praticamente subito a vederlo comparire sempre al loro fianco quando meno se lo aspettavano, quasi che il ragazzo temesse di concedere loro fin troppa intimità, con una prolungata assenza. Adesso, però, loro figlio era partito e non avrebbero più avuto alcunché da temere nel lasciarsi andare come avevano ormai imparato a fare.
   In verità, in un primo momento continuarono a comportarsi come se lui fosse ancora presente: le giornate erano le solite, con tutte quelle consuetudini e manie dell’altro che avevano imparato a riscoprire e ad apprezzare, ma carezze, baci e frasi troppo romantiche sembrarono restare abolite. Però, poi, quando fu il momento di andarsene a dormire ed ebbero realizzato di essere completamente soli in casa, tornarono a sentirsi come due adolescenti e si abbandonarono senza più alcun filtro alla loro più sfrenata passione.
   Quando, infine, stanchi e appagati, si lasciarono andare sui cuscini, si resero conto di non avere affatto sonno, ma in compenso di avere parecchie cose in mente che avrebbero tanto voluto dirsi. Alla luce fioca dell’abat-jour rimasta accesa sul comodino, si scambiarono un’occhiata e si sorrisero.
   «Vuoi dormire?» domandò Indy, sollevando il cuscino sotto la schiena per appoggiarvisi meglio e passandosi un braccio dietro la testa. Aveva visto gli occhi di Marion svegli e vigili, del tutto privi di ogni traccia di stanchezza, ma aveva ugualmente voluto chiederglielo.
   Anche lei si mise in una posizione molto simile alla sua, quasi a voler sottolineare la scontatissima risposta.
   «No. E tu?»
   «Nemmeno io. Stanotte, proprio, non ho voglia di mettermi giù e chiudere gli occhi, perché tanto so che non riuscirei ad addormentarmi.»
   Marion sorrise. «A che cosa stai pensando?»
   Jones la guardò un istante, poi volse lo sguardo alla stanza avvolta dalle ombre, prima di gettarle un’altra occhiata.
   «A noi» ammise, quasi con titubanza. Per un istante parve incapace di continuare, come se ciò che aveva in mente e che gli turbinava nella girandola dei suoi pensieri faticasse a prendere forma ed a trasformarsi in parole, ma poi le frasi cominciarono ad uscirgli dalla bocca, in maniera quasi spontanea, come se le avesse sempre avute lì, senza neppure bisogno di formularle. «Sai, per quasi tutta la vita ti ho pensata, sarebbe sciocco negarlo. Sei sempre stata nei miei pensieri, che mi piacesse o no. Ma ho sempre pensato a me ed a te. Non c’era mai un noi, in queste mie riflessioni. Non so se riesco a spiegarmi… mi domandavo dove fossi in quel momento, che cosa stessi facendo, se ti ricordassi ancora di me, se mi avessi in qualche modo perdonato. E, dopo, pensavo a me, a dove mi trovavo, a quel che ero intenzionato a fare, a che cosa mi avrebbe atteso dietro l’angolo. Ti pensavo e, ovviamente, pensavo a me stesso, ma erano pensieri separati, come separate erano le nostre esistenze, che sembravano procedere su binari paralleli, destinati solo di quando in quando ad incontrare uno scambio, uno scambio da affrontare però troppo in fretta, con troppa violenza, correndo il rischio di un deragliamento. C’eri tu e, poi, c’ero io, dalla parte opposta, quasi che ci guardassimo dalla cima di due montagne contrapposte. Non sono mai davvero riuscito a concentrarmi su un noi due insieme. Ora, però, è veramente cambiato tutto…» fece una pausa, grattandosi distrattamente il petto con la mano sinistra, senza fare caso all’altra che, ancora ferma dietro la testa, gli si stava lentamente intorpidendo. «Adesso, se ci penso, vedo sempre e solo noi, noi due. Siamo sempre insieme, nei miei pensieri, e se devo prendere una decisione - una qualsiasi decisione, anche la più banale, come l’acquisto di un prodotto piuttosto che un altro al supermercato - mi chiedo non solo se potrebbe andare bene per me, ma anche per te. Insomma, per noi. Non riesco più a pensare a me stesso senza saperti al mio fianco. È esattamente come se, ormai, ogni mia singola azione dipendesse da entrambi.»
   Quella confessione, così spontanea ed insieme inaspettata, fece palpitare il cuore di Marion a tal punto che non sarebbe stata affatto sorpresa se lo avesse visto schizzare fuori dal proprio petto per mettersi a fare capriole e salti carpiati nella stanza. C’erano state persone - Indy per primo - che le avevano detto di essere innamorate di lei, di amarla con tutte se stesse, eppure mai nessuna frase era riuscita a scaldarla fin nel profondo come era appena riuscito a fare lui. E non era solo per le parole, ma era anche per il tono della voce, per quel movimento nervoso delle mani che non sapevano neppure dove appoggiarsi di preciso e pure per quegli sguardi quasi imbarazzati che le aveva lanciato e che si sarebbe forse creduto di poter trovare solamente sul volto di un ragazzino tredicenne che, per la prima volta, si sia reso conto che le sue compagne di classe si stanno trasformando in donne.
   In un solo istante, qualsiasi ombra di fugace dubbio fosse sopravvissuta nella mente di Marion Ravenwood fino a quel giorno disparve per sempre: lui apparteneva a lei esattamente come lei apparteneva a lui ed ormai nulla, né la paura, né l’angoscia, né l’incertezza, nulla di nulla insomma, avrebbe più potuto tenerli divisi. Quelli che erano appena trascorsi erano stati mesi, settimane e giorni di pura felicità e di gioia, in aumento minuto dopo minuto, ma nulla sarebbe riuscito ad eguagliare l’indefinibile sensazione che, adesso, le stava rivoltando la mente, scendendo fino alle sue viscere quasi per volerle strizzare e attorcigliare, mettendole in disordine ed in subbuglio.
   Con un gesto che sarebbe anche potuto sembrare seducente, ma che, invece, ad entrambi, parve pieno di affetto quasi materno, prese nella sua la mano di Indy e se la portò sul seno nudo, affondandovela dentro, come se intendesse scaldare e tenere al sicuro il suo uomo, il più possibile vicino a se stessa.
   «Io ti ho odiato, Indy» rivelò, perché le pareva che, quello, fosse veramente il momento delle dichiarazioni impulsive, durante il quale si sarebbero potuti parlare in libertà, senza più peli sulla lingua. Lo sentì agitarsi un poco, per quelle parole, ma non provò ad allontanarsi e lei mantenne saldamente stretta a sé la sua mano. «Ti odiavo per quello che mi avevi fatto, per come mi avevi trattata, per come ti eri preso gioco di me. Ti ho imputato ogni singola disgrazia mi sia accaduta… e, quando te ne sei andato via di nuovo, credevo di dover ricominciare ad odiarti. Quella volta, però, non ci sono riuscita, perché ormai avevo compreso che eri fatto così, che non sarebbe stato fingendo di odiarti con tutte le mie forze che ti avrei visto ritornare. E, poi, anche se non avrei voluto, ti rivedevo ogni giorno nello sguardo di Mutt, sentivo il tuo sangue pulsare nelle sue vene, ritrovavo persino la tua sfrontatezza quando si ostinava a disobbedirmi. Non ho mai potuto sperare di vederti tornare da me, questo no, ma il mio non era più odio, era semmai una dolorosa rassegnazione… ma, quando ti ho rivisto, ho capito.»
   Si interruppe con un sospiro, fissando la parete buia della stanza di fronte a sé. Indy, sentendo quel respiro profondo, la cercò con gli occhi, aspettando che andasse avanti, ma siccome le parole sembravano non voler più arrivare, la sollecitò.
   «Che cosa, Marion? Che cos’hai capito?»
   Un leggero sorriso le si allargò sul volto. Non credeva di aver bisogno di continuare, credeva che tutto fosse chiaro e lampante, ma doveva ricordarsi che, in fondo, quello era un uomo e gli uomini, fin troppo di sovente, non riescono ad interpretare come dovrebbero gli eloquenti silenzi di chi gli sta a fianco; per gli uomini ci vuole sempre quella spintarella in più che possa indirizzarli sulla strada giusta da seguire. E, probabilmente, per un uomo concreto e fisico come Indiana Jones, quella che per altri avrebbe potuto essere una semplice spintarella sarebbe dovuta essere una pedata chiara e sonora.
   «Di averti sempre amato, Jones, che altro?» mormorò quindi, senza guardarlo.
   Lui non disse nulla. A volte, sapeva benissimo persino quel vecchio e burbero archeologo quando fosse il momento di rimanere chiuso in un mutismo migliore di milioni di vuote parole. Si limitò a voltarsi ed a stringerla in un tenerissimo abbraccio, tenendola contro di sé per ascoltare il dolce ritmo del suo cuore, per sentire il suo respiro leggero e regolare, per bearsi del suo calore e per emozionarsi nel sfiorare la sua pelle sudata eppure sempre profumata, di quel profumo che conosceva soltanto lui e che avrebbe riconosciuto in mezzo a mille altri.
   Anche per Marion quell’abbraccio valse più di ogni qualsiasi altra cosa si sarebbero potuti dire o raccontare, ed in quel contatto umano avvertì pulsare un legame ormai inscindibile, che nulla e nessuno sarebbe più stato in grado di recidere. Era un legame che avevano stabilito e costruito insieme tantissimi anni prima e, sebbene soltanto adesso avessero avuto il coraggio di riconoscerlo e rivelarlo, si sentì davvero come se fossero già stati insieme da tutta la vita, nell’attesa di trascorrere vicini anche il resto dei loro giorni.
   Stando così abbracciati, con i loro corpi che parevano aderire perfettamente uno contro l’altro, sentirono infine la stanchezza invaderli, ma non si lasciarono vincere dal sonno prima di essersi scambiati un ultimo ed appassionato bacio, che parve quasi sollevarli nel cielo fino a far loro toccare le più alte vette dell’empireo. Poi, furono i sogni, differenti eppure condivisi.

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Capitolo 57
*** Capitolo LVI - Fantasmi e ricordi ***


CAPITOLO LVI
FANTASMI E RICORDI

 
   Princeton, New Jersey

   Il sole abbagliante del pomeriggio faceva quasi rilucere come diamanti la distesa di lapidi e cippi commemorativi che ricoprivano il vasto prato deserto, ombreggiato qua e là da piante ad alto fusto che sembravano quasi essere poste di sentinella per allietare, con l’incessante frusciare delle loro fronde smosse dalla brezza, il sonno eterno delle migliaia di persone che, in quel luogo di pace, avevano trovato la loro ultima dimora. Tutto era avvolto nel silenzio più assoluto, con la sola eccezione di quel tenue stormire, come se anche gli uccelli, vinti dal calore pomeridiano, si fossero ritirati a riposare.
   Sudando abbondantemente per il caldo, Jones avanzò in mezzo a quei ricordi di tante vite passate e perdute, seguendo un itinerario che, ormai, conosceva talmente bene che avrebbe anche potuto percorrerlo ad occhi chiusi. Da archeologo, aveva sempre avuto uno strano rapporto con la morte: per uno che faceva il suo mestiere, più gente era morta ed era stata inumata da qualche parte, magari con un ricco corredo, più ci sarebbero stati dati sufficienti per poter ricostruire nuovi dettagli del passato. Eppure, da qualche tempo, la morte non gli sembrava più solamente una faccenda inerente i tempi remoti, bensì qualcosa di molto più personale ed intimo, quasi tangibile, che prima o dopo chiunque sarebbe stato costretto ad affrontare, con la giusta serenità e disposizione d’animo.
   Erano ormai sei anni che, ogni tre di settembre, andava a fare visita alle tombe dei suoi genitori, lì nel cimitero di Princeton, dove suo padre aveva desiderato essere sepolto, proprio accanto al punto che aveva accolto il feretro della sua defunta moglie. Aveva scelto quella data perché era l’anniversario del loro matrimonio e gli era parso giusto dedicarsi a loro proprio in un momento tanto speciale, in una ricorrenza così importante e profonda.
   Come di consueto, quando riconobbe il cippo raffigurante un piccolo cannone - sotto il quale, aveva scoperto, dormiva il sonno dei giusti un valoroso colonnello della guerra di Secessione - seppe di essere arrivato. Si spostò di soltanto pochi passi, infatti, e si fermò proprio sopra due semplicissime pietre tombali, affiancate l’una all’altra e depositate senza alcun orpello nel mezzo del prato erboso. Le guardò con sguardo indecifrabile, leggendo le poche parole che vi erano incise sopra e che, ormai, avrebbe saputo ripetere a memoria.

 
   Anna Mary Jones
   March 17, 1878
 May 16, 1912
In Loving Memory

   Henry Walton Jones, Sr.
December 12, 1872
February 8, 1951
Qui bibit aquam Domini

   Sospirò profondamente, poi si chinò per strappare alcune erbacce che erano cresciute vicine e si erano allungate un po’ troppo sulla tomba di sua madre e per grattare via con l’unghia un poco di muschio secco che, dopo qualche acquazzone, aveva tentato di impadronirsi di entrambe le pietre. Mentre procedeva a quelle operazioni che, una volta all’anno, erano divenute un’abitudine imprescindibile, si chiese ancora, come gli capitava di sovente negli ultimi giorni, se stesse veramente facendo la scelta giusta, nel sposarsi con Marion o se, forse, non si fosse fatto trasportare un po’ troppo dalle emozioni, senza riflettere bene su quanto stava davvero facendo e su tutto ciò che ne sarebbe per forza di cose conseguito.
   «Ancora questi dubbi, Junior?» domandò una voce profonda ed ironica, dal forte accento scozzese, proveniente da qualche parte dietro di lui.
   Spaventato e colto alla sorpresa, Indy balzò in piedi e si guardò attorno, per vedere chi avesse parlato. Il cimitero, a quell’ora così calda del giorno, era praticamente deserto, c’erano solo lui ed i defunti. Eppure, era sicuro di averla sentita, non poteva essersela immaginata. Quella voce, quella voce che non aveva più udito dal Natale di sette anni prima…
   «Qui, Junior, sono qui, all’ombra.»
   Stavolta individuò facilmente la provenienza della voce. Si spostò di qualche passo dalle due tombe e si avvicinò di soppiatto ad un’alta e contorta quercia lì nei pressi, dall’altro lato della quale, lo sapeva, si trovava una panchina di pietra. Seppur impaurito da quello che vi avrebbe potuto vedere - sentiva chiaramente le vene martellargli impazzite nelle tempie, come se stessero per esplodere - non riuscì a fermarsi fino a quando non fu arrivato. Ed il suo cuore, prevedibilmente, perse un battito.
   Lì, comodamente seduto sulla panchina, gli occhiali che riflettevano la luce ed un sorriso sarcastico sotto la barba bianca, c’era suo padre, il professor Henry Jones. Non era affatto come ricordava di averlo visto l’ultima volta, anziano e stanco, bensì come quando lo aveva ritrovato in quel castello in Austria, un uomo maturo ma ancora nel fiore degli anni, pronto ad attraversare mezzo mondo insieme a suo figlio pur di impedire che la coppa di Cristo cadesse nelle mani dei malvagi seguaci dell’Anticristo. Addirittura, indossava gli stessi abiti di allora ed aveva persino la valigia con l’ombrello appoggiata sulle ginocchia, come se si fosse solamente fermato a fare una sosta lungo un viaggio che lo avrebbe condotto chissà dove.
   «Papà…» borbottò Indy, incerto. Lo sapeva, era andato lì troppo presto, sotto il micidiale solleone del primo pomeriggio, e questo gli aveva provocato qualche strano problema al cervello.
   «Oh, hai una testa troppo dura per pensare che un po’ di sole possa farti male, Junior» lo rimproverò bonariamente Senior, come se gli avesse letto nel pensiero, cosa che, effettivamente, poteva anche essere vera, per quanto assurda. «In ogni caso, puoi sederti qui con me. All’ombra non si sta affatto male.»
   A Junior non restò che obbedire. In effetti, era andato in quel cimitero per fare visita ai genitori e, pur avendone trovato in casa uno solo, non poteva inventarsi una scusa per togliere subito il disturbo, anche perché sapeva che quel vecchio volpone non ci sarebbe di certo cascato. Si mise a sedere ed osservò suo padre, più concreto e vivo che mai.
   «Ma… ma tu… tu sei…» tentò di borbottare, prima di interrompersi, incapace di continuare.
   «Morto?» completò per lui Senior, con ilarità. «Lo so, Junior, e non è affatto male come invece sembrerebbe, sai? E non c’è nulla di cui vergognarsi, alla fin fine.»
   «No, credo proprio di no, ma…»
   «Ma ti stai chiedendo che cosa ci faccia qui, in questo caldo pomeriggio, quando in verità dovrei essere altrove. Si suda, vero? C’è un caldo da scoppiare, dico bene? Non sembra nemmeno settembre, sembra quasi di essere ancora in pieno luglio, quest’anno l’estate sta tirando per le lunghe. Ma meglio così, in fondo. Ho sempre preferito il caldo, al freddo, mi piaceva tanto passeggiare sotto il sole, ascoltando il canto degli uccellini e riflettendo sulle prossime righe che avrei voluto scrivere. E ci sarebbero state tante altre cose, che mi sarebbe piaciuto scrivere, ma non me ne è stato lasciato il tempo. Un vero peccato.» Lo sguardo di Senior si perse chissà dove, mentre anche Junior rifletteva su tali parole.
   Dopo un momento di esitazione, però, provò a chiedere: «Allora, è per questo che sei venuto qui, oggi?»
   «No di certo, Junior! Non ho più bisogno di prendere la borsa e mettermi a sedere su questa vecchia panchina per godermi il calore del sole, ormai. E non sono venuto neppure per terminare qualche libro lasciato in sospeso, se è questo che intendevi. Posso dirtelo, ho smesso definitivamente, con la scrittura… e nemmeno ne sento la mancanza, stranamente.» Lo sguardo divertito e sereno di Senior si puntò in quello del figlio, che fu costretto a distogliere il proprio con timore. «Sono qui per te, invece, Junior!»
   Malgrado tutto, Indy si aspettava che la risposta sarebbe stata esattamente quella, tanto che non ebbe bisogno di chiedere ulteriori conferme, ma si limitò ad un cenno del capo per invitarlo a proseguire.
   «Fintanto che ero vivo, non mi hai mai voluto dare ascolto, nemmeno una volta! Fino alla fine, almeno alla mia fine, sei stato sempre il solito. Neppure quando ti ho chiesto di venirmi a trovare lo hai fatto, mi hai lasciato solo in quel letto d’ospedale che puzzava di disinfettante per spassartela con una ragazzina…»
   Junior sollevò un sopracciglio. «Non sarai mica tornato per farmi una predica, spero!»
   Ma Senior, per fortuna, sorrideva. «Certo che no, ragazzo, certo che no. Anche io avrei fatto lo stesso, cosa credi? Se avessi dovuto scegliere tra il dare l’estrema unzione ad un vecchio brontolone rimbambito ed insegnare l’ars amandi ad una fresca donzella con un fisico simile, non avrei esitato un solo istante sulla scelta migliore… Però» e qui il suo volto si fece un poco più serio, «spero tanto che, almeno adesso che sono morto, potrai prestarmi un po’ d’attenzione.»
   Junior avrebbe potuto anche farlo, dopotutto. Che cosa  gli costava? Doveva soltanto dare retta ai propri pensieri, perché non aveva alcun dubbio che, tutto quello che stava vedendo ed ascoltando, fosse semplicemente il frutto della sua mente un po’ troppo surriscaldata…
   «Il solito incredulo!» lo sgridò Senior, scuotendo il capo. «Il solito ateo razionalistico che crede solo in ciò che può vedere e toccare! Ci saresti stato davvero bene, tu, in Unione Sovietica!»
   «Ssst! Parla piano!» si trovò, suo malgrado, ad implorarlo il figlio. «L’ho appena scampata bella, con quel dannato processo, non vorrei ritrovarmi un’altra volta addosso l’FBI, Cristo santo!»
   Lo scappellotto di suo padre lo colpì in pieno viso con uno schiocco sonoro che nulla aveva di immateriale, facendolo sussultare.
   «Ti basta, questa prova?» lo inquisì severamente, sollevando un dito verso di lui con fare minaccioso. «Avevo dimenticato quanto tu fossi persino dedito alla bestemmia, oltre a tutti gli altri peccati. Povero me, che cos’avrò mai fatto di male, nella vita, per meritarmi un figlio simile e dover scontare un tale castigo?»
   Junior non rispose, intento com’era a massaggiarsi la guancia su cui aveva chiaramente sentito la sberla del vecchio. Ma che cosa stava succedendo, insomma?
   In quanto a Senior, tornato a ritrovare la calma ieratica e sovrannaturale di poco prima, riprese il suo discorso.
   «Ma, a dirla tutta, questa pena me la sono cercata e meritata. Di male ne ho fatto, ed anche tanto, è inutile cercare di negarlo… ma è proprio per questo che sono qui oggi, Junior!»
   Il figlio non poté continuare a restarsene muto. Alzati di nuovo gli occhi, fissò la figura di Senior.
   «Che cosa intendi dire, papà? Non riesco a comprenderti…»
   Il vecchio fece un sorrisetto e trasse un profondo sospiro, stringendosi leggermente nelle spalle.
   «Nulla di strano, in questo, Junior. Abbiamo passato una vita intera a non comprenderci. Forse, è vero, negli ultimi anni ci siamo ritrovati e siamo riusciti ad aprirci un po’ di più l’uno all’altro, e questo ci ha aiutati entrambi, ma è innegabile che continuavamo a faticare a capirci. D’altra parte, non si può pretendere di ricucire una ferita tanto profonda da un giorno all’altro, senza averne gli strumenti adeguati o senza conoscere a fondo l’arte medica. Ma» e qui il suo sorriso scomparve di nuovo, lasciando posto a quella severità che ostentava sempre quando il piccolo Junior disobbediva, o non obbediva prontamente, a qualche sua direttiva, «certe volte quella possibilità ci è data sul serio e, attraverso di essa, possiamo rimediare non solo ai nostri errori, ma anche a quelli commessi da coloro che sono venuti prima di noi.»
   Junior non capiva o, forse, capiva fin troppo bene, ma aveva veramente paura di quello che il vecchio stava cercando di dirgli. Perché, se aveva veramente compreso, lui gli stava comunicando che doveva fugare quanto prima ogni singolo dubbio che, ancora, riusciva a svegliarlo di notte, facendogli chiedere se avesse fatto la scelta giusta. E quei dubbi erano diventati molto più insistenti da quando Marion, qualche giorno prima, era tornata a Chicago per organizzarsi. Non ebbe bisogno di domandare se intendesse riferirsi proprio a quello, perché il vecchio parlò ancora, dando un’altra volta l’impressione di avergli scrutato nella mente.
   «Vedo che cominciamo ad intenderci, Junior. Io lo so di aver sbagliato tutto, con te. Mi sono sempre interessato a popoli morti secoli fa dall’altra parte del pianeta e tu, in fondo, avevi ben donde di rinfacciarmelo. Di avere un figlio non mi importava quasi nulla, perché ero convinto che ci fossero cose ben più importanti e preziose di quella. Sbagliavo completamente. Me ne sono reso conto troppo tardi, lo so, ma non è troppo tardi per te, Junior. Tu puoi ancora farcela, puoi ancora riscattarti appieno. So che ti sei guardato dentro e ti sei reso conto di non essere stato molto differente da me ma, al contrario di me, tu hai ancora tempo ed occasioni per ricominciare tutto da capo. Sono loro la tua vita, adesso, non l’archeologia o i viaggi avventurosi attorno al mondo. Non sprecare questa occasione che ti viene concessa, non gettarla al vento come avrei fatto io.»
   Prima che Indy avesse potuto rispondere, un’ombra si allungò verso di loro, un’ombra che doveva appartenere ad una figura veramente possente che, però, si muoveva senza fare alcun rumore, in maniera quasi eterea. Sorpreso da quel nuovo prodigio, Jones sollevò lo sguardo per vedere che cos’altro stesse succedendo e, ancora una volta, il suo cuore rallentò di colpo, prima di ricominciare a battere all’impazzata.
   Altissimo, pesante come un macigno, i baffoni bianchi che incorniciavano un volto severo ed arcigno, avvolto nell’antiquata palandrana che indossava sempre a lezione, Abner Ravenwood era appena sbucato da dietro un cippo e veniva verso di loro ad ampie falcate; ed il sole, alle sue spalle, proiettava quell’ombra che aveva attratto l’attenzione di Indy. Ma questo era veramente troppo!
   «Felice di rivederti, Jones, razza di spostato che non sei altro!» tuonò il vecchio professore, con quel tono perennemente burbero che il suo allievo non aveva mai scordato, guardandolo in cagnesco. «Ho sentito dire che hai quasi messo la testa a posto! Incredibile! Quando me l’hanno detto, quasi quasi non volevo crederci neppure io!»
   Prima che l’archeologo avesse potuto fare alcunché, il suo antico mentore gli si sedette accanto con un grugnito, così vicino che Indy poté chiaramente percepire l’odore pungente di naftalina che emanava il suo palamidone; ora, con un brivido malcelato, pensò di essere schiacciato tra due fantasmi, o spiriti, o quello che accidenti erano. Sì, probabilmente il modo migliore per definirli poteva essere quello di frutto della sua mente malata.
   «Non sei pazzo!» gli ricordò Senior.
   «Almeno non del tutto!» rincarò la dose Abner, con sarcasmo. «E non siamo neppure venuti qui per perseguitarti a causa delle tue malefatte, anche se non nego che te lo meriteresti.»
   I due vecchi uomini si scambiarono un’occhiata, pallida e triste, prima che Ravenwood continuasse: «Ma tuo padre ha ragione. Le tue cattive azioni non sono nulla, rispetto alle nostre. Entrambi siamo riusciti a spingere i nostri unici eredi, sangue del nostro sangue, ad esserci del tutto indifferenti, quando non a odiarci apertamente. E questa è la peggior catena che un uomo possa mettersi volontariamente addosso, Jones. Ma tu… tu hai la possibilità di sciogliere questo pesante vincolo, ragazzo mio, tu puoi porvi un rimedio. La vita ti ha dato tutto quando credevi che non ti avrebbe più dato alcunché e ti assicuro che è un dono veramente raro, di cui pochi possono vantarsi. Ti ha dato una donna che ti ama ed un figlio che già ti vuole bene, nonostante siate stati due estranei per quasi due decenni. Ed altri figli te li darà, posso assicurartelo.»
   Indy lo fissò strabiliato. «Io…» provò a dire, ma Abner fece un cenno secco col testone.
   «Non interrompermi quando parlo, Jones! Quante diavolo di volte te l’ho dovuta ripetere, questa frase?!» lo rimproverò, seccato, come se non si trovassero seduti in un cimitero, a quasi venticinque anni dalla sua dipartita, bensì ancora in aula. «Evidentemente, non abbastanza, dato che non hai ancora imparato a tenere chiusa quella tua dannata boccaccia quando parlano gli altri!»
   Era tutto davvero incredibile! Non poteva proprio credere di essere arrivato in quel cimitero, in un pomeriggio caldo come quello, per sentirsi fare la paternale dal suo vecchio professore morto da oltre vent’anni. Questo era veramente il limite dell’accettabile.
   «No!» lo disapprovò ancora Abner. «Il limite dell’accettabile è che tu, nonostante tutto, abbia ancora dei dubbi su ciò che sia giusto e ciò che non lo sia!» Il suo tono, all’improvviso, si fece più calmo e l’intera figura parve farsi piccola e debole. «Ti prego, Jones… onora mia figlia. Amala come io non ho saputo amarla, rispettala come merita, non farle mancare nulla di ciò che io le ho sempre negato. Lo so che cos’ha sofferto e patito, so che cos’ha dovuto fare a causa mia… e non potrò mai perdonarmelo. Mai. Lei è buona, non meritava un simile trattamento, eppure gliel’ho voluto ugualmente riservare, nella maniera più egoistica possibile, pensando solo a me…»
   Anziché rispondere al suo professore, Junior si volse di nuovo verso Senior, che aveva sollevata una mano e gliel’aveva posata con aria paterna sulla spalla. Era la prima volta, da che ne aveva memoria, che vedeva suo padre fare qualcosa di simile, con la sola esclusione di quando lo aveva stretto in un abbraccio, in quel deserto, quando aveva creduto di averlo perduto per sempre. Quel tocco fu caldo e confortante.
   «Avete ragione» bofonchiò, incerto di star parlando davvero con quei due uomini, oppure con se stesso, o magari solo al venticello leggero, fissando gli occhi verso un punto indistinto di fronte a sé, «avete ragione. Tutti e tre abbiamo sbagliato, ma posso ancora sistemare questi sbagli, per me… e per voi. Amerò Marion nella maniera più assoluta e darò a Junior, ed a qualsiasi altro figlio che ci nascerà, tutto quello che avrei sempre desiderato per me. Amore e affetto, perché altro non serve a formare una famiglia.»
   Li sentì muoversi piano al suo fianco e fu certo che, sui loro volti anziani e segnati dalle rughe, fossero spuntati due larghissimi sorrisi. Henry Jones ed Abner Ravenwood erano stati grandi e coraggiosi uomini, ma non erano riusciti a compiere fino in fondo la loro parte di genitori, parte che avevano fallito. E lui, Indiana Jones, erede di entrambi, non era stato per nulla diverso, perché aveva corso il rischio di apparire tale e quale a loro, fino all’ultimo respiro. Ma c’era stata quella svolta inaspettata e lui, dimostrando più coraggio di quanto ne avessero mai avuto loro in tutta la loro vita, l’aveva imboccata, ed ora era disposto più che mai a non abbandonarla mai più. In questo, poteva davvero dire di essere differente da suo padre e dal suo maestro: anche se con un po’ in ritardo, aveva assunto su di sé il meglio di entrambi, ma era riuscito, con un colpo di reni ben deciso, a sbarazzarsi del peggio. Erano dovuti tornare entrambi da chissà dove, per farglielo capire o, meglio, per farglielo semplicemente ammettere, dato che quella era una verità che aveva già interiorizzato da tempo.
   Prima di dedicarsi per sempre a quella nuova vita, però, c’era solo un’ultima cosa che gli premeva di sapere.
   «Ma è un sogno?» borbottò. «O un colpo di sole? Oppure…?» non riuscì a completare la frase.
   «Tu che ne pensi, Junior?» replicò la voce ironica di suo padre. «Forse che la vita non è già, di per sé, tutto un sogno?»
   «Sei tu, Jones, che hai passato la vita a cercare risposte» aggiunse Abner, ritrovando il suo tono burbero e profondo. «Per una volta, limitati alle domande.»
   Indy fece per cercarli con lo sguardo, per capire che cosa volessero dire ma, quando alzò gli occhi, un raggio di sole lo abbagliò, costringendolo a voltare immediatamente la testa per non accecarsi. Quando, dopo qualche minuto, stelle e puntini di mille colori furono scomparsi dalla sua retina e poté guardarsi attorno, si rese conto che sulla panchina sedeva soltanto lui, come del resto era prevedibile. Il cimitero era afoso e silente, un deserto nella canicola pomeridiana, esattamente come quando era arrivato.
   Con un sospiro, si alzò in piedi e s’incamminò a passo lento da dove era venuto, dopo aver rivolto un ultimo sorriso alle tombe dei suoi genitori. Prima di guadagnare l’uscita, tuttavia, un’improvvisa ispirazione lo indusse a voltarsi all’indietro. Fu solo la sua immaginazione o, viceversa, là in fondo, all’ombra della grande quercia, tra gli effetti del calore che faceva ondeggiare ogni cosa, due figure indistinte e quasi opalescenti gli rivolsero davvero un cenno di saluto, prima di scomparire chissà dove?
   Con un mezzo sorriso, infilò le mani nella tasche dei pantaloni e varcò il grande cancello in ferro battuto, tornando nel mondo dei vivi.

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Capitolo 58
*** Capitolo LVII - Il sole d’ottobre ***


CAPITOLO LVII
IL SOLE D’OTTOBRE

   La metà di settembre portò con sé ampi nuvoloni grigi che, sciogliendosi in pioggia, rinfrescarono l’aria, ponendo così fine a quella lunghissima ed afosa estate, probabilmente la più calda - ed al contempo indimenticabile - che Indiana Jones e Marion Ravenwood avessero mai vissuto in tutta la loro esistenza. Eppure, lo sapevano, l’arrivo dell’autunno non avrebbe significato l’autunno anche per loro, perché da quel momento sarebbe stata un’eterna primavera, che non avrebbe mai avuto termine. Questo avevano deciso e questo sarebbe stato, qualsiasi cosa fosse successa.
   In quei giorni frenetici, compressi com’erano tra l’organizzazione del matrimonio, il trasporto delle cose di Marion da Chicago a Bedford e la ripresa delle lezioni - che assorbirono parecchio Indy, anche se non al punto da fargli scordare il resto - non ebbero molto tempo da dedicare l’uno all’altra; eppure, di quando in quando, specialmente la notte, quando rimanevano soli nella casa avvolta dal silenzio, riuscivano con vero piacere a ritagliarsi un momento di intimità tutta per loro, sognando insieme che cosa avrebbero desiderato fare una volta sposati e, magari, fantasticare su dove avrebbero potuto compiere il loro viaggio di nozze - che, però, avrebbe dovuto attendere la primavera successiva, perché avevano entrambi convenuto che fosse ben poco opportuno che l’archeologo si assentasse dall’Università con i corsi appena iniziati, come troppo di sovente gli era capitato di fare in passato. Molto meglio aspettare e non correre il rischio di contrariare un’altra volta i fin troppo suscettibili consiglieri.
   Di quando in quando, l’ombra fugace di un piccolissimo dubbio affiorava ancora nella mente di Jones, ma in quel momento, allora, gli riapparivano davanti agli occhi le immagini di Senior e di Abner, che lo ammonivano a non compiere i loro stessi errori e, se possibile, a porvi rimedio, cosa di cui gli era stata data facoltà. Ancora non aveva saputo spiegarsi che cosa fosse accaduto realmente, in quel cimitero, e probabilmente non ci sarebbe riuscito mai. L’unica soluzione razionale che fosse in qualche modo riuscito a trovare era quella per cui doveva essersi addormentato, dopo essersi seduto su quella panchina, ed aver sognato tutto. Eppure… Ma che si fosse trattato di un sogno oppure di una qualche strana realtà, aveva colto quel messaggio e non aveva alcuna intenzione di non ascoltarlo o di infrangere le proprie promesse.
   A fugare ulteriormente ogni suo dubbio, poi, era sufficiente la vicinanza di Marion, che riposava placida al suo fianco. In quegli istanti, difatti, gli era sufficiente cingerla in un abbraccio confortante, avvertirne il corpo a contatto con il suo, rinsaldare il legame delle proprie anime e perdersi nella dolce speranza di restare insieme per sempre. Non poteva abbandonarla, ormai, perché farlo avrebbe significato prima di tutto sferrare una pugnalata, ma non solo al cuore di Marion, bensì anche al proprio. Amarla ogni giorno di più, rimanere insieme, aiutarsi e sostenersi a vicenda, invece, sarebbe stato come accarezzarsi dolcemente per far ripartire il fluire del sangue, sangue che avrebbero condiviso finché ne avessero avuto la forza, fino all’ultimo dei loro respiri e, magari, anche oltre.

   L’ultima volta che la diabolica tentazione di alzarsi dal letto ed andarsene di nuovo verso quei lidi sconosciuti e quei misteri del mondo che non avevano mai smesso, neppure per un istante, di stuzzicare la sua fantasia e di invocare la sua presenza, fu a due giorni soltanto dalla data fissata per il matrimonio. Fu l’ultima volta, perché poi Indiana Jones non ebbe mai più alcun dubbio che la sua vita dipendesse a doppio filo da quella di Marion.
   Quella notte dormirono insieme, l’ultima notte che avrebbero trascorso insieme senza essere sposati. Il giorno dopo, infatti, Marion sarebbe rimasta lì in casa, con la sua amica Lucinda, per potersi preparare al meglio alla cerimonia, mentre Indy sarebbe andato a dormire a casa di Oxley insieme a Mutt - che, infine, con un sorriso a trentadue denti, aveva accettato di fargli da testimone - ed i due promessi sposi si sarebbero incontrati di nuovo soltanto di fronte all’altare, dove avrebbero pronunciato i voti che avrebbero sancito per sempre quell’unione che, in fondo, già esisteva ed era saldissima.
   Avrebbero tanto voluto dormire soltanto, quella volta, senza dire o fare nulla, per rimandare qualsiasi altra cosa alla loro prima notte di nozze ma, alla fine, la passione ebbe come sempre il sopravvento e fecero l’amore, con foga e delicatezza al medesimo tempo, ripetendo quel loro rituale di cui, pur praticandolo da così tanto tempo, ancora non avevano svelato ogni segreto, perché ogni volta era sempre una nuova e gioiosa scoperta.
   Infine, stanchi ma esauditi, si lasciarono andare sul letto. Marion si accoccolò adagio contro il suo petto e fu mentre le accarezzava con dolcezza i folti capelli che Jones ebbe l’ennesima tentazione di aspettare che si addormentasse per poi partire verso chissà dove. Si sentiva quasi come se un diavolo tentatore fosse giunto nella loro camera per indurlo a quell’ultimo delitto e, lo sapeva fin troppo bene, questa volta suo padre ed Abner non sarebbero comparsi per farlo ragionare. Doveva vincere da solo quel suo efferato proposito, facendosi forza, ricorrendo a tutto il potere della propria volontà.
   Perché fuggire di nuovo dalla donna che amava? Forse perché lui era sempre stato un grande avventuriero, un intrepido cacciatore di tesori, ma quell’ultima avventura, al cui termine era nascosto il più prezioso di tutti i tesori che avrebbe potuto ritrovare, lo spaventava da morire. Forse non era pronto, forse non lo era mai stato e non lo sarebbe stato mai, oppure già lo era e, semplicemente, non voleva ammetterlo con se stesso. Ma andarsene ed abbandonare Marion, che cosa avrebbe significato? Morte, lo sapeva. Morte per lei e morte per lui stesso e, poi, morte per Mutt e per Oxley, nonché una seconda morte per sua madre Anna, per Marcus, per Abner, per Senior e per tutti coloro che avevano creduto ed ancora credevano in lui. Non poteva dimostrarsi così codardo, non di nuovo. Lui era cambiato, non era più lo stupido ragazzotto di un tempo, quello incapace di capire quali fossero le responsabilità di un uomo… e adesso, finalmente, comprendeva davvero ciò che, ad una cena a Vienna di tanti anni prima, gli era stato detto da Sigmund Freud in persona: «Non fuggire mai di fronte all’amore, Henry. Negare il tuo amore per qualcuno è pericoloso, pericoloso sia per te sia per la persona che ami. Grida forte il tuo amore. Gridalo.» Gli era servito mezzo secolo, eppure… eppure finalmente si sentiva davvero pronto per gridare.
   Sospirando, smise di accarezzare i capelli di Marion e fece scorrere le mani lungo tutto il suo corpo, toccandola, sentendola sotto i polpastrelli, comprendendo che lei era sua, era tutta per lui, esattamente come lui doveva appartenere a lei ed a lei soltanto, proprio come i loro cuori erano sempre stati uniti in maniera inscindibile, anche quando era lontanissimi, separati da migliaia di chilometri lastricati di quello che credevano puro odio e, invece, era sempre stato amore, null’altro che amore, la più potente delle forze, che avrebbe saputo farli ritrovare anche se si fossero trovati ai due estremi di una sconfinata galassia, anche se a dividerli fosse stato quel misterioso ed arcano spazio tra gli spazi.
   Ma non c’era più nessuna distanza, ormai. Erano lì, insieme, potevano toccarsi a vicenda, avvertire le loro pelli che si sfioravano, le loro mani che si intrecciavano, le loro bocche che si univano ed i loro corpi fondersi insieme fino a divenire un unico corpo. Che cosa poteva volere di più? Cos’altro avrebbe potuto desiderare, se non di restare insieme a lei?
   Eppure… eppure non sarebbe stato neppure così difficile alzarsi dal letto, vestirsi in silenzio, prendere con sé lo stretto necessario e scomparire nella notte…
   Quasi che quelle sue riflessioni non le avesse concepite nella mente, ma le avesse gridate a gran voce, Marion mormorò: «Mmm… Indy… resterai con me, vero?»
   Jones fu sorpreso di sentirla parlare, perché era davvero convinto che si fosse addormentata. Senza smettere un solo istante di accarezzarla in ogni punto del suo corpo, rispose, più persuaso che mai: «Per sempre, Marion.»
   Lei si voltò a guardarlo ed i suoi occhi color del mare, anche nell’oscurità che avvolgeva la stanza, parvero brillare come le più rare e sfavillanti tra tutte le pietre preziose. Mai, in tutta la sua carriera, Indiana Jones ricordava di aver veduto qualcosa di più bello e desiderabile.
   «Sono incinta, Indy» gli rivelò. «Aspetto un bambino, un bambino tuo.»
   Sebbene fosse notte fonda, all’improvviso il sole parve sorgere di nuovo, quel tiepido sole d’ottobre che riesce sempre a scaldare con i propri raggi e ad inondare strade, alberi e campi con una luce accesa e magnifica, che nulla deve invidiare a quella dell’estate o della primavera. Quella luce ancora forte e capace di scacciare le tenebre ed i rigori dell’inverno, ancora ridotto ad un ricordo lontano.
   Lui non disse nulla, perché altro da dire non ci sarebbe stato, in quel momento, e poi perché certe volte restare chiusi nel mutismo poteva avere più senso di tante inutili e colorite frasi. Si limitò a stringerla ancora di più a sé ed a ricominciare a baciarla, baciarla come mai aveva fatto, donandogli attraverso quel bacio tutta la propria essenza, trasmettendole la propria gioia e la propria felicità, il sogno di costruire insieme a lei tutto quello che, per colpa o per destino, non erano riusciti ad avere da giovani.
   Ora c’erano loro, c’era Junior e ci sarebbe anche stato questo nuovo piccolo cucciolo, il frutto del loro amore mai sopito, ad allietare le loro giornate, a far capire la bellezza della vita e la gioia dell’amore, dell’essere insieme, di formare veramente una famiglia. Non ci sarebbe potuto essere nulla di più desiderabile di quello, nulla di più raro e prezioso.
   Finalmente, viaggi verso luoghi esotici e tesori perduti disparvero del tutto dalla mente di Indiana Jones. Avrebbe rinunciato per sempre a quella vita? Probabilmente no, non poteva riuscirci, ma adesso, ogni volta che fosse partito per una nuova impresa, lo avrebbe fatto con una consapevolezza nuova, quella di dover restare vivo per poter tornare verso una casa dove ci sarebbe stato sempre qualcuno ad aspettarlo, qualcuno da amare con tutto se stesso, a cui donare tutto il proprio cuore.

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Capitolo 59
*** Epilogo: «Quanto della vita umana va perduto nell’attesa» ***


EPILOGO
«QUANTO DELLA VITA UMANA VA PERDUTO NELL’ATTESA»

   Charlie era in ritardo. Proprio quella mattina la sua macchina aveva dovuto decidere di fare i capricci, costringendolo ad arrivare in Università a piedi! Ma non avrebbero mai potuto svolgere la cerimonia senza utilizzare quel libro, il messale che era appartenuto a Marcus Brody e che lui conservava come un cimelio nel cassetto della sua scrivania: il vecchio curatore del museo ci sarebbe rimasto troppo male.
   Ansando e sbuffando, mentre correva attraverso i corridoi con il cappello in mano, diede un’occhiata all’orologio che portava al polso: ancora pochi minuti e la sposa sarebbe arrivata. Doveva sbrigarsi senza perdere altro tempo. Tuttavia, nel passare davanti all’ufficio di Indy, non poté non fermarsi per ammirare il lavoro che uno dei tecnici del personale universitario stava terminando di compiere: sulla porta a vetri, adesso, in lettere maiuscole ben scritte a vernice a piombo, capeggiava la scritta «Professor Henry Jones, Jr. - Associate Dean». Del resto, al nuovo vicerettore era stato assegnato un nuovo ufficio, più arioso e spazioso del precedente, gli era parsa la cosa più giusta ed appropriata al suo ruolo.
   «Meraviglioso! Perfetto!» esclamò in preda all’entusiasmo, dando una pacca sulla spalla dell’uomo, a cui scivolò il pennello, facendo sbavare proprio l’ultima lettera. «Rifaccia le lettere più grandi, molto più grandi!»
   Al poveraccio non restò che fare una faccia paziente e trattenere un sospiro di rassegnazione, mentre il rettore schizzava di nuovo via, facendo risuonare i suoi passi pesanti nel corridoio.

«Henry Jones Junior e Marion Ravenwood» lesse il prete, tenendo tra le mani il libro che uno Stanforth accaldato ma compiaciuto gli aveva portato appena in tempo, osservando le due persone in piedi davanti a sé, che si guardavano con sguardi innamorati e persi. «Poiché voi avete acconsentito a vivere insieme nel santo matrimonio e vi siete promessi amore reciproco con questi voti…»
   Il sorriso si allargò sulle labbra di Marion, trasformandosi quasi in un riso e anche Mutt, in piedi alle spalle di suo padre con le mani incrociate dietro la schiena, non riuscì quasi a trattenere una risata.
   «…avete congiunto le mani e vi siete scambiati gli anelli, ora io vi dichiaro marito e moglie.»
   Marion sorrise di nuovo, bloccando a stento una nuova risata di gioia, che pareva risalirle direttamente dal cuore. Ed anche Indy, di fronte a lei, sorrise, con uno di quei soliti ghigni sghembi; solo che, questa volta, non c’era alcuna traccia della solita ironia in quel gesto, ma solo sincera felicità. In quel preciso momento, anni di lotte, di litigi, di fraintendimenti e di divisioni cessarono in un solo istante, vennero meno per sempre, cedendo il posto a quella dolce armonia di cui soltanto il misterioso ed inspiegabile sentimento dell’amore sa farsi portavoce.
   «Che nessuno osi dividere coloro che Dio ha unito.»
   Seduto accanto a Stanforth, che assieme alla moglie Deirdre guardava con un sorriso pieno di soddisfazione i due sposi, Oxley gongolò dalla felicità. Chi avrebbe mai pensato che, un giorno o l’altro, avrebbe assistito ad una scena del genere? Quella mattina, per l’eccitazione, si era persino dimenticato di radersi, tanto che adesso un’ombra scura di barba gli copriva il mento. Ma non ci aveva fatto alcun caso, perché quello era un giorno speciale, probabilmente il più speciale della sua vita, proprio come lo era per i suoi grandi amici di sempre: finalmente, la sua piccola sorellina Marion ed il suo miglior amico Indy erano convolati a nozze, come avrebbero dovuto fare tantissimi anni prima. Ora, avrebbero di certo dovuto darsi ampiamente da fare per recuperare tutto il tempo che avevano perduto, in ogni senso.
   Non riuscendo a trattenersi, mormorò, rivolto a Charlie: «Quanto della vita umana va perduto nell’attesa.»
   Il rettore si volse verso di lui ed annuì, prima di tornare a guardare di nuovo verso i due neosposi, sentendosi quasi commosso.
   «Congratulazioni!» disse, intanto, il baffuto sacerdote, rivolgendosi verso Marion. Poi, spostato lo sguardo ammiccante su Indy, soggiunse: «Ora può baciare la sposa.»
   Marion non se lo fece di certo ripetere due volte. Liberatasi in fretta del bouquet di fiori che stringeva tra le mani - e che finì tra quelle stupefatte del prete - si avventò su Indy e vi si avvinghiò come una cozza al palo, tra le risate generali di tutti i presenti.
   Tra le grida di auguri e di felicità, e sotto lo sguardo a metà tra l’indispettito ed il divertito di Mutt, tutti gli invitati si alzarono in piedi, applaudendo festosi; ed i due sposi, terminato quel bacio appassionato, si volsero verso di loro, tenendosi sotto braccio. Il ragazzo, come sempre, avrebbe preferito di gran lunga defilarsi alla svelta - non vedeva l’ora di andarsene, dato che fuori dalla chiesa di St. Martin lo attendeva la sua motocicletta nuova fiammante, che i genitori gli avevano regalato per l’occasione e che lui era stato talmente gongolante nel ricevere da spingersi addirittura a promettere che avrebbe riflettuto seriamente sull’idea di tornare a scuola per prendere almeno un diploma - ma suo padre non gliene diede la possibilità: afferratolo per il braccio, lo trascinò verso di sé e lo costrinse a scendere insieme a loro dall’altare.
   «Ben fatto, Henry!» si congratulò Harold, ormai quasi commosso proprio come Charlie.
   «Grazie, Oxley» rispose all’unisono padre e figlio, prima di guardarsi e scoppiare di nuovo a ridere. Jones diede una pacca affettuosa sulla nuca del figlio, poi si voltò per stringere le mani a tutti gli amici che venivano a salutare i due nuovi sposi e ad augurare loro tanta serenità per l’avvenire.
   Il ragazzo si allontanò un poco dal gruppo, per scattare alcune fotografie, ma in quel momento un colpo di vento improvviso fece spalancare le porte della chiesa e staccò il cappello di suo padre dall’attaccapanni su cui era stato appoggiato, gettandoglielo ai piedi. Con aria assente, dopo aver appoggiato di nuovo la macchina fotografica sopra la panca, si chinò a raccogliere il copricapo, guardandolo con indecisione. Chissà che cosa sarebbe successo se avesse provato ad indossarlo? Il matusa lo portava sempre, nelle risse ed in quelle altre cose lì, magari gli avrebbe trasmesso un poco della sua energia…
   Stava per posarselo sulla testa, quando se lo sentì strappare di mano. Interdetto, si vide passare davanti sua madre e suo padre, che lo guardavano divertiti; il vecchio si era ripreso il cappello e, adesso, mentre se lo rimetteva, sembrava quasi sfidarlo con quell’accento ironico che era nuovamente ritornato nel suo sguardo. Del resto, Indiana Jones aveva affrontato tutte le sue avventure tenendo il capo coperto con quel vecchio cappello di feltro marrone e non poteva certo permettersi di affrontare questa ennesima e straordinaria impresa senza di esso: si sarebbe sentito praticamente nudo. In quanto a Junior, avrebbe dovuto aspettare che venisse il momento giusto, per poterselo mettere a propria volta. Forse quel momento sarebbe arrivato presto, forse più tardi, magari proprio mai, chi avrebbe potuto dirlo? In fondo, per ogni grande avventura che finisce, ce n’è sempre una ancora più straordinaria pronta per cominciare.
   Mutt sorrise di rimando a mamma e papà che uscivano dalla chiesa, seguiti a ruota dal sempre presente Oxley, da Charlie e da Deirdre, che camminavano abbracciati come due sposini, e da tutti gli altri ospiti; per ultimo, venne anche il prete, che in effetti cominciava ad avere un certo languorino e non vedeva l’ora di scoprire che cosa prevedesse il pranzo.
   Rimasto solo, si diede una pettinata ai capelli, poi afferrò il suo giubbotto di pelle - scordandosi, però, la macchina fotografica, che rimase abbandonata sul pianale della panca - se lo gettò sulla spalla e, infilata una mano in tasca in un gesto che ricordava immensamente quello che faceva sempre Indiana Jones, si avviò a sua volta a grandi passi verso quella nuova e strana avventura.


 [scritto: dicembre 2018 - aprile 2019]

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