Liebe Freunde.

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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prolog. ***
Capitolo 2: *** Erstes Kapitel. ***



Capitolo 1
*** Prolog. ***


Liebe Freunde - Prolog.
 
 
Berlin, Deutschland – Agosto 1957.
 
Dicevano, in molti, che Berlino fosse una città tanto fredda, talvolta triste, spesso grigia. Le alte costruzioni che oscuravano il sole e coprivano le nuvole, la pioggia che anche d’estate si abbatteva sulle case e sui palazzi.
Il freddo e la nebbia che s’insediavano nelle membra dei nuovi e dei vecchi arrivati. C’era gran crisi lì a Berlino, da un po’ di anni. L’esodo degli abitanti della Berlino Est ad Ovest era diventato ingestibile e la Germania era in seria difficoltà su tutti i fronti, dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Quella giornata d’Agosto, però, era diversa dalle altre. C’era un bel sole e faceva quasi caldo, non pioveva da un paio di giorni e i berlinesi potevano, allegri, uscire dalle loro case in bicicletta, correre per le grandi strade.
La punta della torre del Fernsehturm splendeva più che mai, il prato del Reichstag era pieno di bambini che si divertivano a giocare a palla o a correre, di tanto in tanto si spostavano nel grande parco del Tiergarten e giocavano tra loro o con i propri genitori e fratelli.
Proprio in quel grande giardino, si sentivano gli schiamazzi dei piccoletti, le loro risate facevano splendere il cielo di Berlino più del Sole, quella mattina.
In particolare, quattro di quei bambini, erano stati ripresi diverse volte dai più grandi per il rumore che stavano facendo. Ma a loro mica importava! Era una bellissima giornata, volevano divertirsi il più possibile, dopotutto. Giorni come quelli, a Berlino, erano forse più unici che rari. La mamma di uno dei piccoli, di tanto in tanto, li controllava per accertarsi che fosse tutto a posto o che non si fossero fatti male, mentre dialogava con altre donne all’ombra di una panchina.
- Tana per John, tana per John! – esclamò una vocetta acuta e leggermente stridula. Un ragazzino, dai capelli castani e con un piccolo basco sulla testa uscì allo scoperto, con gli occhi verdi bassi e le braccia incrociate. Il bambino che saltellava, contento per aver trovato tutti i suoi quattro amici, era un piccoletto minuto e pallido, gli occhi erano grandi e azzurri, i capelli biondi, tipici dei bambini ariani, gli cadevano sulle spalle.
I due amici, il castano di sei anni, il biondo di otto, si avvicinarono agli altri due ragazzini che stavano giocando con loro, trovati già in precedenza dal più grande, che erano seduti sul prato a mangiare delle arachidi tostate.
- Non è giusto, però. Ha barato. – John, il ragazzino che era appena uscito dal suo nascondiglio, tirò un calcio ad una lattina di alluminio che era stata buttata sul prato. Il più alto, di dieci anni, che aveva i capelli ricci e un corpicino ossuto dalle ginocchia sporgenti, si chinò a prendere il rifiuto sospirando. Lo buttò in un cestino attaccato ad un pino. – Ma ci vuole così tanto ad avere un po’ di cura per l’ambiente?
- Brian, Roger ha barato! – insistette il bambino dagli occhi verdi, stringendo il braccio del suo amico dalla chioma riccia.
- Io non ho barato! – protestò il biondino, allargando le braccia.
- Sì, invece! Freddie ti suggeriva tutto!
- Non è colpa mia se Freddie non è un buon amico!
- Ehi, bada a come parli! – il quarto, il più grande con i suoi undici anni non ancora compiuti, si alzò dal prato su cui era seduto e puntò un ramoscello contro il petto del suo amico. – Io sono un buon amico! – sollevò le spalle. – Per questo ti ho suggerito dove fosse John.
- Visto? Sei un buon amico con lui, e non con me. – il più piccolo sbuffò, mentre Brian gli accarezzava i capelli castani, sorridendo.
- Non lo è nemmeno per me, dato che ora tu e Brian mi state guardando male perché per colpa sua ti ho trovato.
- Children! – la voce alta di una donna, Ruth May, giunse alle loro spalle, facendoli sussultare. Sapevano cosa significasse quella parola straniera. Voleva dire bambini, kinder. La famiglia di Brian non era tedesca, essendo loro degli immigrati inglesi. Anche Freddie era straniero, si era trasferito lì da Zanzibar.
La madre di Brian si alzò dalla panchina su cui era seduta, raggiungendoli. Aveva i capelli ricci come quelli di suo figlio, era graziosa nel suo vestito a fiori. – It’s time to go home.
I quattro ragazzini sbuffarono quando Brian tradusse la frase nella loro lingua. Il riccio si avvicinò alla donna, trascinandosi dietro John, ancora aggrappato al suo avambraccio.  – Non possiamo restare ancora un po’? E’ presto ed è una bella giornata!
Lei si abbassò, arrivando all’altezza del figlio e aggiustandogli il giacchetto marrone, scuotendo la testa. – No, Bri. Papà vi ha preparato il pranzo e siamo qui da stamattina.
- Signorina Ruth. – Roger si avvicinò alla donna, seguito da Freddie. Alzò le mani davanti a sé. – O forse dovrei dire Mrs. May?
La madre del suo amico sorrise. – Sì, Roger?
- Se ci fa restare qui ancora un po’, le giuro che non finirò più le vostre caramelle!
Brian alzò gli occhi al cielo. La donna accarezzò i capelli biondi del ragazzino. – Oh, Roger. – una risata cristallina e sincera le sfuggì. – Per me non è un problema se finisci le nostre caramelle!
Roger scrollò le spalle. – Allora, se ci fa rimanere, mangerò tutte le caramelle che vuole.
- Oh, dio! – esclamò Freddie, scuotendo la testa e facendo sorridere nuovamente Ruth May.
- E va bene. Ma solo per cinque minuti! Five minutes! – cedette la donna.
Il biondino sorrise. – Oh, ma chi se lo sarebbe mai aspettato! – si voltò verso i suoi amici, soddisfatto.
- Mia madre è semplicemente buona. – sospirò Brian.
- No, tua madre è semplicemente innamorata di me!
- Esatto! – si aggiunse Freddie, prendendo le guance di Roger e tirandole in avanti con le mani. – Come si fa a resistere a questi occhioni azzurri?
- Dumm! – strillò Roger, tirando un piccolo schiaffo sulle mani del maggiore. Freddie assottigliò lo sguardo. – Questa me la paghi.
- Uffa, di nuovo! – sospirò John, lasciando andare il braccio di Brian.
- Roger, tu sei un…
- Fred, se non la fai finita la mamma ci fa tornare a casa. E se la mamma ci fa tornare a casa, io ti picchio. – lo rimproverò Brian.
- Ma mi ha chiamato stupido!
- Uh, l’ho chiamato stupido! – ripeté Roger, puntellandosi le mani sui fianchi. – Certo che sono proprio un mostro!
- Guarda che lo dico a Winifred!
- Uh, lo dice a Wi… - il biondino sbatté un paio di volte le ciglia. – No!
- Sì. Lo dico a Winifred. – disse Freddie, deciso. – Così non ti farà più venire a casa mia e non potrai più mangiare l’Ugali di mia mamma.
Roger era sul punto di piangere. John alzò le spalle. – Perché non dovrebbe?
- Perché sono dei cretini, Deaky. – intervenne Brian. Il minore sorrise, prendendolo per mano. John e Brian si conoscevano da quando il ragazzino dai capelli ricci si era trasferito a Berlino, a quel tempo avevano rispettivamente due e sei anni. Abitavano entrambi nel quartiere di Charlottenburg e stavano crescendo insieme. Brian aveva insegnato a John molte parole in inglese e i genitori del più piccolo lo avevano aiutato tanto con la lingua tedesca, essendo anche loro di origine britannica. Brian andava spesso a mangiare da John, e John andava spesso a mangiare da Brian.
Roger e Freddie, invece, abitavano nello stesso modesto palazzo a Marzahn. Jer Bulsara, la mamma del più grande, era stata una delle prime a vedere il neonato tedesco. Si era avvicinata a Winifred, le aveva messo una mano sulla spalla e le aveva detto: “Lui e Freddie andranno tanto d’accordo, me lo sento!”
E così era stato. Tralasciando i lividi che si facevano a vicenda quando litigavano, ovviamente.
I quattro bambini avevano stretto amicizia due anni prima, quando si erano incontrati proprio lì, al Tiergarten, per caso. Si erano voluti tanto bene da subito, seppur fossero tutti tanto diversi e si passassero anni di età. Brian aveva portato un pesciolino rosso dentro a una boccia e mentre lui e John ci giocavano, dandogli del mangime e muovendo il contenitore di vetro, si erano avvicinati quei due buffi ragazzini, che ansimavano dopo una lunga corsa sul prato.
- Come si chiama? – aveva detto il bambino con gli occhi scuri. Aveva risposto John che, seduto su una panchina accanto a Brian, era saltato giù solo per afferrare una manica del ragazzino appena arrivato. – Theo.
- Io invece sono Roger! – una vocina acuta e sottile giunse alle spalle della panchina, facendo saltare il povero Brian. – E lui è Freddie.
Il ragazzino dalla pelle più scura sorrise, mentre John continuava a tirargli una manica. Aggrottò leggermente la fronte. – Ehi, ma che cosa fai?
- Io sono John.
- Io, invece, mi chiamo Brian.
Si erano conosciuti così, per caso, la loro amicizia era nata da un pesciolino ed era ancora unita e forte, sebbene per vedersi dovessero fare tanta strada. Non si arrivava subito, da una parte di Berlino all’altra. Ci volevano diversi chilometri da percorrere con la macchina e i mezzi, quindi il Tiergarten, sebbene fosse ad Ovest, era un buon compromesso.
- Specchio riflesso. – sbuffò Freddie. – E tu non ridere! – fece a John, vedendolo sghignazzare. Il piccoletto, dal canto suo, gli fece una pernacchia.
Il biondino strinse i pugni, dopo essere arrossito dall’imbarazzo per aver quasi iniziato a piangere davanti ai suoi amici. – Io non sono un cretino. Lui lo è.
- Ma che vuoi? Sei solo invidioso perché sono più grande di te.
- Bri, Freddie mi insulta.
- Ma che me ne importa? – rispose l’inglese.
- John, Freddie mi insulta.
John alzò le spalle, sorridendo. Freddie si abbassò e lo strinse forte. – Deaky mi vuole bene, voi invece no.
Il piccolo Deacon si sentì leggermente a disagio, ma non si ritrasse.
Roger mise il broncio. – Ricordati chi ti ha regalato la bicicletta al tuo compleanno!
- E’ ora, bambini! – la voce di Ruth giunse alle orecchie dei quattro, per la seconda volta. Roger lanciò un’occhiata a Brian, che sollevò le spalle.
Freddie prese il biondino per il braccio. – Puoi farle gli occhi dolci, di nuovo?
- Non funziona al secondo richiamo. Ci ha già provato. – sospirò Brian.
- Ma com’è possibile? Facciamolo fare a Deaky, allora!
- John non riesce a farlo, con mia madre.
- Ci tocca tornare domani. – disse John, rassegnato, prendendo Roger per mano. Il ragazzino biondo sollevò le spalle. – Sperando che non piova.
- Se piove restiamo a casa a fare i fortini sul divano di Brian. – propose Freddie.
- Papà deve vedere la TV, sul divano.
- E allora li facciamo sul tuo letto con i nostri sacchi. Oppure giochiamo a calcio nel vostro giardino.
- E se spacchiamo una finestra come l’ultima volta? – s’intromise Roger.
- Stai zitto, tu.
- Bri, Freddie mi ha zittito.
- Ma io cosa c’entro? – sbottò il riccio.
- John, Fred mi ha zittito.
- Ragazzi! – Ruth li aspettava davanti alla macchina a braccia incrociate. Roger storse il labbro e guardò Freddie. – Tanto a casa facciamo i conti.
- Nel senso che ti sbatto la testa sulla caldaia e poi non riesci più a contare?
- Brian, ma perché non mi difendi? – esclamò il biondino. Brian sospirò, avvicinandosi alla vecchia auto della madre, seguito da Freddie e da Roger, che teneva ancora per mano John.
Più la macchina andava avanti, più i bambini si rendevano conto che un Sole così, a Berlino, non lo avrebbero mai più visto. Roger sbuffò. – Uffa. Cosa dobbiamo fare a casa?
La donna alla guida gli sorrise dallo specchietto. – Potete fare i fortini sul divano.
Freddie guardò i tre, con un’espressione soddisfatta in volto.
- Oppure potete giocare a nascondino, abbiamo tante stanze. Potete scendere giù in cortile, potete guardare la TV, Harold può farne a meno, per una volta.
- Grazie, zia Ruth. – disse John, stretto tra Roger e Freddie, mentre Brian li guardava affacciato dal sedile accanto alla guida, in ginocchio e senza cintura.
- Figurati, Deaky. Bri, siediti come si deve. – lo rimproverò la donna.
- Ma così mi sento solo!
- Se non ti siedi rischi di cadere come una patata.
Freddie rise. – Un sacco di patate.
- Una fabbrica, direi. – continuò Roger.
Brian sbuffò, voltandosi e sedendosi composto sul sedile.
 
La stanza era buia e silenziosa, se qualcuno ci fosse entrato avrebbe sentito solo il leggero respiro dei bambini addormentati, che erano crollati sfiniti dopo una lunga serata di giochi, risate e, ovviamente, un po’ di botte.
Il primo ad addormentarsi era stato Roger, seguito da Brian e infine da Freddie. John aveva fatto difficoltà, a chiudere occhio. Aveva dormito tante volte a casa di Brian, vivevano praticamente l’uno a casa dell’altro, ma quella sera proprio non riusciva a prendere sonno in alcun modo. Il bambino era inginocchiato sul sacco a pelo, guardando la città fuori dalla finestra. Da lì poteva vedere tutto, persino Berlino Est. Riconosceva l’altissima torre della televisione, illuminata anche di sera. Vedeva le macchine correre per le strade, le persone passeggiare, nonostante fosse notte, per i viali e per le enormi vie berlinesi.
John aveva sentito parlare Ruth e Harold. Gli era parso di capire che a Berlino le cose non andassero bene, che i cittadini fossero arrabbiati per qualcosa. C’era qualcosa che divideva Berlino Est da Berlino Ovest, ma lui non riusciva a capire il perché. Dopotutto, era Berlino. Berlino era una sola.
Aveva sentito che sempre più gente che abitava ad Est stesse migrando ad Ovest per la ricchezza di quest’ultima e per le sue comodità.
E allora?
Cos’aveva, Berlino Est, meno di Berlino Ovest? Cos’avevano Roger e Freddie, meno di loro?
Lanciò un’occhiata ai suoi amici. Brian era accucciato sotto le coperte del suo letto, John poteva vedere solo i suoi capelli ricci emergere dalle coperte. Roger dormiva con le labbra semiaperte e un braccio sotto al cuscino e Freddie, steso nel sacco a pelo accanto al suo, era rivolto verso di lui. John voleva molto bene a Freddie. Era la sua voce, quello che lo difendeva sempre in ogni occasione, infatti il fatto che lo avesse fatto perdere a nascondino lo aveva fatto rimanere un po’ male. Però Freddie gli aveva permesso di combattere la sua timidezza, incoraggiandolo ogni giorno di più. John sospirò, appoggiando una mano sulla spalla del più grande e la scosse leggermente. Freddie aprì gli occhi, sbattendo le palpebre e mormorando qualcosa che il bambino tedesco non capì.
Il maggiore richiuse gli occhi. – Stai morendo?
John aggrottò la fronte. – No.
- Brian sta morendo?
- No.
- Roger sta morendo?
- No.
- Ci avevo sperato, per un momento. Sta andando a fuoco la casa?
- No!
- E allora lasciami dormire. – Freddie chiuse nuovamente gli occhi che aveva aperto, facendo sospirare il piccolo John. – Fred.
- Dimmi. 
- Non riesco a dormire.
Freddie schiuse le palpebre, sbattendo le ciglia scure. – Perché no? E’ scomodo il sacco a pelo?
- No, solo… - puntò gli occhi in quelli del maggiore, afferrandogli l’indice. – Tu e Roger resterete sempre nostri amici?
L’altro aggrottò la fronte. – Perché mi fai domande così stupide?
- Non sono stupide.
- Certo che rimarremo vostri amici. Perché non dovremmo?
John tirò su col naso. – Perché l’Ovest odia l’Est
- E quindi? Io sono l’Est e tu sei l’Ovest, solo perché abitiamo in luoghi differenti? E secondo le tue parole, dovreste essere tu e Brian ad odiare me e Roger.
- No, no! Noi non vi odiamo!
- Lo so, John. E lo sa anche Roger. – Freddie scompigliò leggermente i capelli di John, gli sorrise. – Adesso dormi. Domani faremo così tanto baccano da farci girare la testa.
- Fred.
- Mhmh?
- Io ti vorrò sempre tanto bene.
 
 
Berlin, Deutschland – Ottobre 1960.
 
- E la trottola di Brian May vince per la quarta volta. – sorrise il ragazzino, ormai di tredici anni, sistemando le trottole colorate nella scatola che si erano portati da casa. John sospirò e sollevò le spalle. – E’ tutta fortuna.
- Secondo me l’ha manomessa. – fece Freddie. – Nessuno mi batte con le trottole.
- Non si può manomettere una trottola, Fred. E poi, perché essere sleale, se in palio non c’è nulla? – Brian si alzò sorridendo, rimettendo la scatola nello zaino che aveva portato. I quattro ragazzini, dato il tempo pessimo che non permetteva loro di giocare all’aperto, si erano ritrovati in una biblioteca del Kurfurstendamm, un affollato quartiere di Berlino Ovest dove si concentravano la maggior parte della ricchezza e della vita della città. Vi erano caffè, negozi, costose gioiellerie e lussuosi ristoranti. I berlinesi amavano fare lunghe passeggiate in quel viale e si divertivano ad acquistare nei negozi e a gustare qualcosa dopo i loro vari giri per la città e per il quartiere.
- Almeno, questa volta la mia trottola è stata la seconda a girare di più. – sospirò il maggiore dei quattro. Brian si voltò verso i suoi amici e si accorse, per l’ennesima volta in quella mattinata, che Roger si comportava in modo strano. Era taciturno, cosa più unica che rara, e se ne stava per i fatti suoi, a braccia incrociate e con lo sguardo basso e leggermente contrariato. Aveva giocato con loro, ma non sembrava essersi divertito più di tanto. Gli era parso sovrappensiero, deconcentrato e nervoso.
- Sono le dodici. Winifred ha detto che viene a prenderci verso le due, giusto? – chiese al ragazzino tedesco, che annuì semplicemente, senza proferir parola. Brian vide Freddie molestare la fronte del più piccolo del gruppo e aggrottò la fronte. Si girò nuovamente verso Roger. – Abbiamo ancora due ore. Facciamo una passeggiata?
- Mamma ha detto che devo restare al chiuso. Non vuole che mi ammali, domani c’è il matrimonio di mia cugina. – quella fu la prima frase che Brian sentì pronunciare da Roger quel giorno. John tirò uno schiaffo sulla mano di Freddie, che continuava a giocare con la sua faccia. – Rog, per favore! Mi annoio a restare fermo qui.
- Ti arrangi.
Brian tirò fuori dallo zaino una sciarpa color verde scuro e la avvolse attorno al collo del ragazzino dagli occhi blu. Poi prese un cappello grigio coi paraorecchie e glielo mise sulla testa. – Ora sei protetto abbastanza da poter uscire senza prenderti la bronchite.
Roger sbatté un paio di volte le palpebre, vedendo poi Brian sorridergli.
Una volta usciti dalla biblioteca, il tredicenne chiese a Freddie e John di camminare davanti a loro, in modo che potesse parlare un po’ con il ragazzino biondo.
Si era avvicinato a Roger e gli aveva appoggiato una mano sulla spalla, sentendo il contatto della pelle infreddolita con il caldo cappotto del suo amico. – Tutto bene, Rog?
L’undicenne si soffiò soffiato il naso, alzando le spalle. – Sì. Perché?
- Non hai parlato molto, oggi.
- Oh, be’… - gli occhi azzurri di Roger si puntarono in quelli del più grande. – Stavo solo pensando.
- A cosa?
Il ragazzino sospirò, buttando il fazzoletto che aveva usato nel cestino più vicino. – Se Berlino venisse davvero divisa, dove andremmo a finire, noi? Saremmo io e Freddie, e sareste tu e John. – gli occhi azzurri si fecero leggermente lucidi. Scosse la testa. – Ma non è così. Noi siamo e dobbiamo essere Roger, Brian, Freddie e John. Non Roger e Freddie da una parte e Brian e John dall’altra.
Il cuore dell’inglese sprofondò. In effetti, la situazione a Berlino era diventata ingestibile, era peggiore ogni giorno che passava. Sebbene fosse permesso di girare liberamente, chiunque avesse cercato di traferirsi da una parte all’altra della città sarebbe stato arrestato e non si parlava d’altro nei giornali e telegiornali. La causa era la drastica emorragia che da anni Berlino Est stava subendo, dati i numerosi spostamenti della maggior parte dei “cervelli” della parte orientale della città.
Si parlava di un muro. Un muro che avrebbe letteralmente diviso le due fazioni. Brian puntò gli occhi castani sul pavimento. – Lo so, Roger. Ho tanta paura anche io.
- Voi continuerete a volerci bene, Bri?
Il più grande puntò gli occhi in quelli azzurri di Roger. Il ragazzino era insicuro su tantissime cose. Su come sarebbe andata la sua vita, su cosa avrebbe fatto da grande. Però, se c’era una cosa di cui era certo, quella era che niente e nessuno li avrebbe mai divisi. Né fisicamente, né mentalmente. Sarebbero rimasti una cosa sola, sempre.
- Io propongo di darci un nome. – aveva detto John un giorno, mentre giocavano con la neve. Roger aveva aggrottato la fronte. – Un nome? Cosa intendi?
- Ma sì, come le tribù o le band. O i capi di Stato.
Brian rise. – I capi di Stato?
- Sì. Non lo sapevi? – il più piccolo vide una palla di neve volare sulla faccia di Roger e quando si voltò vide Freddie ridere tanto da tenersi lo stomaco. – Mamma dice che i capi di Stato sono stronzi. E’ un nome.
Il riccio spalancò gli occhi. – John, non si dice questa parola!
- Davvero?
- Sì!
- Perché?
- Perché è una parolaccia!
John portò le mani alle labbra. – Non lo sapevo!
- Io direi di chiamarci Queen! Brian dice che vuol dire “Regina” – aveva esclamato Freddie, in piedi su un tavolino di legno, alzando il pugno al cielo.
- Queen? E’ da femmine. – Roger si tolse un po’ di neve che gli si era impigliata tra le ciglia.
- Non è da femmine. E’ regale ed è oltraggioso. Come noi, che siamo amici pur vivendo in differenti parti di Berlino.
Brian sorrise. – Come la Regina d’Inghilterra.
- Ma che idea ridicola. Non ha senso! – aveva sbuffato Roger.
- Tu non hai senso. – Freddie scese dal tavolo, sbattendogli la mano aperte sulla fronte.
- Non mi picchiare.
- Io faccio quello che voglio.
Non si accorsero nemmeno del fatto che John, chinato per terra, aveva scritto la parola “Queen” in grande, con le dita, sulla neve.
Da quel giorno avevano iniziato a scrivere quella parola dappertutto. Erano i Queen, sarebbero rimasti i Queen. A qualsiasi condizione.
Brian avvicinò la mano a quella di Roger, stringendogliela lievemente. - Io continuerò sempre a cercarvi.
 
 
Berlin, Deutschland – Agosto 1961.
 
- Secondo te, riusciremo mai a sorpassare il filo spinato? – la voce di Roger era spezzata, incrinata e fragile. Il ragazzino, alla finestra, con le braccia incrociate sul davanzale, guardava oltre quella barriera alta e terribile che gli faceva male al cuore e alla mente, che pur essendo lontana chilometri era la prima cosa che appariva davanti ai suoi occhi blu.
Il ragazzo dalla pelle appena più scura che era affianco a lui alzò le spalle. – Certo che ce la faremo. I Queen sono in grado di fare qualsiasi cosa.
Roger abbassò lo sguardo e lo puntò sul pavimento del palazzo. – Non siamo i Queen se non ci sono Brian e John.
- Io sono sicuro che anche loro ci stanno pensando.
- Mi mancano, Fred.
- Lo so. Anche a me. 






Note dell'autrice. 
Ciao a tutti! Sono nuova su questo sito e questa è la prima fanfiction che pubblico. Ho voluto unire, in un certo senso, il mio amore per Berlino e per la sua storia con quello per i Queen. Come avrete già capito, i ragazzi sono purtroppo divisi nelle due fazioni, Brian e John ad Ovest e Roger e Freddie ad Est. Come ho scritto nelle note, i pairing saranno Mercury/Deacon (Deacury) e May/Taylor (Maylor). Spero di aver suscitato la vostra curiosità e che questo piccolo prologo vi abbia interessato, fatemelo sapere!
Auf Wiedersehen, 
- Springtime.


 

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Capitolo 2
*** Erstes Kapitel. ***


Liebe Freunde – Erstes kapitel

 
 
Westberlin, Deutschland – Novembre 1971
 
“Dieci anni dalla costruzione del muro di Berlino, divisore delle due Germanie. Nessun ripensamento da parte del governo.”
Brian lesse il titolo in prima pagina, sospirò dal naso e portò il cucchiaio con la zuppa calda alle labbra, bruciandosi la lingua quando il liquido gliela sfiorò. Gemette, sbuffò e appoggiò il giornale sul tavolo, bevendo un bicchiere d’acqua. Dieci anni. Erano dieci anni che non vedeva Roger e Freddie. Quasi non ci credeva, gli era praticamente impossibile anche solo pensarci e realizzare. Afferrò il giornale e si alzò dalla sedia, si diresse verso il cestino della spazzatura, gettò i fogli di carta sbuffando e, tornando a sedersi, si prese la testa tra le mani. Né lui né John sapevano come i loro amici fossero diventati. Non riuscivano neanche ad immaginare come potesse essere il loro aspetto fisico, né quello caratteriale.
Gli era impossibile pensare che Freddie avesse venticinque anni e Roger ventidue. Ogni giorno si ritrovava a chiedersi se i due ragazzi fossero ancora legati, se fossero innamorati, se avessero una ragazza, se stessero studiando. Ogni giorno si chiedeva se Freddie fosse sempre il ragazzo eccentrico e sicuro di sé (anche troppo) che era da bambino, se avesse realizzato il suo desiderio di incontrare Aretha Franklin. Ogni giorno si chiedeva se Roger avesse ancora quella luce nei grandi occhi azzurri, quell’entusiasmo da bambino e quell’energia. Si chiedeva se fosse diventato finalmente un batterista.
Roger gli mancava da togliergli il fiato. Soffriva terribilmente anche l’assenza di Freddie, ovviamente, ma lui aveva sempre saputo, da quando aveva appena dodici anni e se n’era accorto per la prima volta, che il rapporto che aveva con il ragazzo ariano fosse qualcosa di molto più forte. E si odiava, per tutto ciò. Solo che più riceveva lettere da parte di Roger, più i suoi dubbi aumentavano e più sentiva la sua mancanza.
Roger.
- Bri. – la voce di John gli giunse alle spalle e lui si voltò verso l’amico, che era in pigiama.
- Sì?
Vide il ragazzo più giovane porgergli una busta da lettera che lo fece scattare in piedi e gli fece illuminare gli occhi. – Sono Fred e Roger?
- Sì. E’ arrivata ieri. Tu eri in laboratorio, non l’ho voluta aprire da solo. Perciò ti ho aspettato.
Brian sentì il cuore sciogliersi. Sorrise, grato all’amico. - Grazie, Deaks.
- Figurati. – il ragazzo si sedette accanto a lui. – Che aspetti ad aprirla?
Le mani di Brian tremavano. Non ricevevano lettere da parte loro da mesi e stavano iniziando a credere che avessero gettato la spugna, dopo nove anni passati a scriversi senza sentirsi né vedersi. Con il cuore che batteva forte il ragazzo strappò la busta, tirando fuori ciò che ne era all’interno.
Guardò John, che gli si era avvicinato e aveva preso la lettera tra le mani. La grafia di Freddie era impossibile da confondere, disordinata e tondeggiante.
“Liebe Freunde,
Ci perdonerete per il ritardo, spero! Chiediamo umilmente venia, ma quell’essere idiota chiamato Roger Taylor ha sempre qualche ragazza con cui farsela e non trova mai tempo per dei buoni e vecchi amici!”
A Brian venne da ridere e allo stesso tempo sentì una punta di amarezza fargli un po’ male.
“Ad ogni modo, vogliamo farvi sapere che siamo sempre qui. Mica spariamo, che pensate? Abbiamo ricevuto le vostre lettere sdolcinate e smielate, amori miei. Vi voglio bene, per questo!
Roger ha appena urlato: - Anche io voglio bene a loro, cretino! Non prenderti tutti i meriti!
Ho scritto la frase che mi ha detto e ha strillato di nuovo. Questa volta ha detto: - Non scrivere così, idiota! – insulti annessi.
Per raccontarvi cosa sia successo in questi due mesi, abbiamo avuto molto da fare! Roger è molto occupato con gli studi di biologia e con la sua band ed io sto mettendo su piccoli concerti con un gruppo Gospel qui e là per Berlino Est. Mi faccio chiamare Freddie Mercury, ora.
- Sei pieno di te! – mi ha gridato Roger.
- Stai zitto! – gli ho detto io.
Roger dice che vi vuole bene. E ve ne voglio anch’io!
- Fred e Roger.”
A John scappò un sorriso sincero. Quelle lettere gli erano mancate, sebbene non le avessero ricevute per poco tempo. Era un modo per ingannare la mancanza soffocante che li legava, che staccava tutti e quattro. Era incredibile come la loro amicizia fosse rimasta così unita nonostante quel muro che li separava e al più piccolo del gruppo ciò scaldava il cuore.
Solo che John avrebbe voluto sentire di nuovo Freddie cantare. Tempo prima, quando ancora Berlino era unita, senza divisioni di alcun tipo, lui ricordava che quando non riusciva a dormire Freddie gli cantava le ninna nanne, canzoni che sarebbero dovute essere Rock ‘n Roll assumevano una melodia dolce e rasserenante, che portava John al sonno e gli permetteva di riposare tranquillo.
La voce di Freddie era la più bella che avesse mai sentito, anche se ancora bambina e acerba. Avrebbe voluto sentire un concerto del ragazzo.
Vide Brian piegare la lettera e metterla nel cofanetto in cui tenevano tutte le altre. Lo vide tirare su col naso e scrollare le spalle. Gli accarezzò un braccio. – Tutto bene, Bri?
- Sì.
- Ti va se scriviamo qualcosa anche noi? – propose il minore. L’inglese arricciò le labbra e puntò lo sguardo sul muro. – Non credo sia tanto il momento.
- Perché no?
- Perché ho bisogno di riflettere.
 
 
Ostberlin.
 
Quando Roger tornò a casa verso l’una stringendo la chitarra acustica sulla spalla, cercando di fare meno rumore possibile per non svegliare sua madre, Clare e suo padre. Entrò quasi in punta di piedi, era stanchissimo e stava cercando in tutti i modi di restare in equilibrio per non collassare per terra dal sonno. Accese la luce nel corridoio per riuscire a vedere qualcosa, e quando si voltò verso la cucina, che era appena alla sua destra, per poco non gli venne un infarto.
- Alla buon’ora, Roger.
Freddie era seduto a braccia incrociate davanti al tavolo della stanza, aveva un occhio mezzo chiuso e lo fissava nella fioca luce risultando leggermente inquietante agli occhi del povero Roger.
- Fred, ma sei impazzito? – sussurrò, accendendo la luce in cucina e chiudendo la porta. – Che cazzo ci fai in casa mia, a quest’ora?
- Sono entrato dalla finestra.
- Tu sei fulminato.
- Io sono il tuo migliore amico, ti ho visto nascere. Entro ed esco quando mi pare. Non sai cosa ho dovuto fare per riuscire a entrare! – iniziò a gesticolare. – Prima mi sono svegliato, verso mezzanotte. Era tutto buio e sono caduto dal letto a castello, ho svegliato mio padre e Kash e ho battuto la schiena. Ho anche sbattuto l’occhio contro lo spigolo del comodino! Mio padre è venuto da me e mi ha detto “Farrokh, tu sei da ricovero!”, e come dargli torto! – fece una pausa per respirare. – Poi è tornato a letto e mi è parso di sentire mia sorella bestemmiare. Sta di fatto che quando si sono addormentati ho spalancato la finestra. Faceva un freddo! Menomale che abito a piano terra, altrimenti sarei morto. Mentre cercavo di salire da te sono caduto e mi sono slogato una caviglia.
Roger lo stava guardando come si guarda un cane che ha appena iniziato a parlare. – Come hai fatto ad entrare?
Il bruno alzò le spalle. – Mi ha aperto tua madre, alla fine. Dalla finestra, però mi ha aperto lei.
- Ma tu non stai bene. – il tono del tedesco era praticamente disperato.
- Cioè, vorresti dirmi che dopo che mi sono quasi ucciso per venire a farti una sorpresina, tu mi insulti anche?
- Non è una sorpresina se quando dopo un concerto entro in casa e ti vedo nella mia fottuta cucina!
- C’è chi darebbe oro per stare nella stessa stanza con Freddie Mercury.  
Roger respirò profondamente. – Punto primo: tu non ti chiami Mercury. Secondo, ricordami perché sono tuo amico.
- Perché mi vuoi bene.
- Ma non essere ridicolo. Mi dici perché sei qui?
- Perché so che tu hai la mia chitarra.
Il giovane Taylor spalancò gli occhi e nascose la chitarra il più possibile dietro alla schiena. – No, non è vero.
Freddie aggrottò la fronte. – Ma sei coglione? Guarda che ti ho visto entrare con quella cosa.
- Tu sei entrato in casa mia!
- E tu mi hai rubato la chitarra, tesoro.
- Non è colpa mia se hai la testa tra le nuvole.
- Dammi la chitarra.
- Non ti darò la chitarra.
- Bene, allora non mi lasci scelta. – Freddie si alzò, camminò fino ad uscire dalla cucina e filò nella stanza di Roger, che spalancò gli occhi quando lo vide sparire. – Farrokh! – l’urlo sussurrato nemmeno giunse alle orecchie del maggiore.
- Che cazzo fai?! – sussurrò di nuovo il povero Roger, seguendolo. Lo vide rannicchiato nel suo letto, sotto le coperte. Sospirò dal naso. – E questo che significherebbe?
- Significa che finché non mi ridarai la chitarra, io resterò qui.
- Ascolta, francamente non ho nessuna volta di picchiarti, al momento. Quindi vedi di levarti dai coglioni o sveglio mia madre.
Freddie alzò le spalle. – E quindi? Quel tesoro di Winnie mi ama.
- Non se ti infili in casa mia all’una di notte!
- Devo ricordarti chi mi ha fatto entrare?
A Roger venne da piangere. – Oh Signore. Tu e quella donna mi detestate.
- Secondo te, è arrivata la lettera?
Il tedesco sospirò dal naso e scrollò le spalle, si sedette accanto all’amico e si prese la testa tra le mani. – Considerando che l’abbiamo spedita praticamente un mese fa, spero di sì.
Freddie sorrise, fece spazio a Roger che s’infilò nel letto accanto a lui. – Ricordi quando giocavamo al fiume?
- Non tirare di nuovo fuori la storia della rana.
Al più grande scappò una risatina. Quando Roger aveva nove anni e lui dodici, erano andati con Brian e John a fare una passeggiata lungo la Spree, il fiume vicino al Reichstag. Ad un certo punto si erano fermati e si erano seduti con le gambe a ciondoloni per mangiare i panini che avevano portato. Brian aveva preso in mano una ranocchia che saltellava per il marciapiede, aveva sorriso e le aveva fatto una piccola carezza sulla testa con l’indice. Freddie aveva storto il labbro, disgustato, mentre John si allungava per guardare la rana. Sebbene a Freddie l’animaletto non stesse esattamente simpatico, si era contenuto al meglio. Roger, d’altra parte, era scattato in piedi e si era allontanato. E, ovviamente, Brian se n’era accorto. Il riccio aveva sorriso sornione, prima di alzarsi e avvicinarsi con il piccolo rettile tra le mani al povero ragazzino tedesco. Roger, dal canto suo, aveva iniziato ad urlare e indietreggiare. E poi era successo l’inevitabile.
La ranocchia aveva fatto un bel salto, gli era finita sul viso facendolo cadere in acqua. Il ragazzino era tornato a casa bagnato fradicio, non avendo altri vestiti e di conseguenza un modo per cambiarsi. Freddie e John se la ridevano di gusto mentre Brian si sentiva terribilmente in colpa.
- No, macché. Mica ti ricorderò di quell’esperienza imbarazzante successa tredici anni fa in cui sembrava ti fossi fatto una doccia coi vestiti e tutti ti guardavano male. – disse Freddie, facendo alzare a Roger gli occhi al cielo. – Sei così esilarante che mi verrebbe voglia di dar fuoco alle mie cellule nervose.
- Questa non l’avevo mai sentita.
- Brian era proprio una testa di cazzo quando era piccolo. – gli scappò un sorriso.
- Secondo me lo è tutt’ora.
Roger storse il labbro. – Ho i miei dubbi. In ogni lettera che spedisce non fa altro che parlare di quanto lui stia studiando.
- Non è vero.
- Sì, lo è.
- Perché mi contraddici solo per il gusto di farlo?
- Perché è divertente.
- Vedrai come riderai quando ti prenderò a sberle.
- Fred.
- Sì?
- Esci da casa mia.
Roger non ricevette risposta. Si girò verso l’amico e vide i suoi occhi chiusi. Sbuffò pesantemente. – Fred, e che cazzo!
- Zitto, non vedi che sto dormendo?
Il biondo strinse i denti e ringhiò, girandosi dall’altro lato e coprendosi fino alla fronte con la trapunta. – Me la pagherai.
- Buonanotte, Roggie caro.
 
 
Westberlin.
 
- Riflettere su cosa? – domandò John, appoggiandosi alla porta. Brian scosse la testa. – Nulla d’importante.
- Se non è nulla d’importante, allora sarai completamente capace di scrivere una lettera, giusto?
- Potremmo, solo, non parlarne? – sospirò il più grande. Il ragazzo dagli occhi verdi alzò le spalle. – Io mi preoccupo per te come tu lo fai per me, Bri. Siamo amici. Siamo quasi fratelli. Viviamo nella stessa casa e ci siamo sempre detti tutto.
- Ma io non ho nulla da dire.
- Sì, certo. Guarda che ti conosco, fai così solo quando qualcosa ti turba o quando qualcuno ti mette della carne sotto al naso.
- John, è solo che… Ho tanta paura. – Brian lasciò sfuggire quelle parole e buttò giù le spalle. Il più piccolo abbassò gli occhi ed espirò. Incrociò le braccia al petto. – Il motivo è lo stesso di sempre?
- Roger sarà il primo a gettare la spugna. Forse l’ha già fatto.
John aggrottò la fronte. – Ma che stai dicendo?
- E’ evidente, Deaky. – sospirò il maggiore. – Si nota anche dalle lettere.
- Quella lettera non aveva nulla di strano.
- Oh, ma andiamo. – Brian si passò una mano sulla fronte. – Avrà suggerito due parole.
- E’ sempre stato fatto così, Bri. Anche da bambino.
- Prima scriveva tante di quelle lettere.
- Sta frequentando l’Università.
- Anche io la sto frequentando. Anche tu, anche Freddie.
John sbuffò. – Vuoi piantarla di essere così paranoico, per una volta? Roger si starà facendo i cazzi suoi. La sua situazione non è delle migliori e lo sai meglio di me. Non è come noi ragazzetti viziati che vivono ad Ovest, che pensano che tutto sia dovuto. Si fa il culo ogni giorno per portare avanti la sua famiglia e se stesso.
Brian deglutì. John aveva ragione. Si sentiva un egoista, ma che poteva farci? Nulla. Forse voleva solo avere delle certezze, forse aveva semplicemente bisogno di sentire vicino Roger, almeno con la mente e col cuore. Sospirò. – Scusami, John.
- Perché ti stai scusando?
- Ti dimostro ogni giorno di più quanto io sia immaturo e stupido.
John non ce la faceva più. Il suo amico era solito ad autocommiserarsi e fare considerazioni su se stesso di quel tipo. E a lui la cosa dava abbastanza sui nervi.
- La vuoi finire o no? – sbuffò.
- Deaky, io penso mi piaccia.
- Chi?
- Roger.
- E la novità sarebbe…?
Brian batté un paio di volte le ciglia. Non glielo aveva mai detto, nemmeno minimamente accennato. Aveva sempre avuto paura di quella che sarebbe potuta essere la reazione del suo amico, si era fatto tante di quelle paranoie che non gli avevano permesso nemmeno di essere sincero con John. Quella risposta lo aveva spiazzato tanto da non fargli trovare le parole. – Lo sapevi?
John alzò le sopracciglia. – Tu ti rendi conto del fatto che parli in continuazione di Roger? E del fatto che quando lo fai ti mangi le unghie?
Brian si guardò le dita della mano. – Io... Non credevo che…
- L’unica cosa che mi chiedo. – lo interruppe John. – E’ perché tu non me lo abbia mai detto.
- Credevo mi avresti mandato via.
- Sì, e con chi è che divido l’affitto? Con il basso?
Brian trattenne il respiro. – Cosa?
John alzò gli occhi al cielo. – Bri, tu sei tanto intelligente, ma certe volte sei veramente lento di comprendonio. Stavo scherzando. E tu sei un cretino a pensare che ti avrei cacciato. Non siamo mica nell’ottocento.
- Sì, ma…
- Ho cercato più volte di farti capire che ti avrei accettato. – il ragazzo sospirò e chiuse una mano di Brian nella sua. – Solo che tu non hai mai capito. Forse non hai voluto capire.
- Sono davanti ad un muro. In ogni senso.
- Cosa intendi?
- In quale dei sensi vuoi saperlo?
John roteò gli occhi nelle orbite. – Non in quello letterale.
- Nel senso che… - sospirò. – Andiamo, John. E’ etero. E’ lontanissimo e non sento la sua voce da anni. Non l’ho visto crescere e non so come possa essere diventato, lo capisci?
Brian immaginava molto spesso l’aspetto del ragazzo biondo. Da bambino era bellissimo, con gli occhi grandi e azzurri, i capelli biondi. E probabilmente era ancora più bello, ora che era un giovane uomo.
Lo immaginava alto e forte, dai capelli biondi sistemati in un taglio corto e i lineamenti definiti e decisi.
Non poteva certo immaginarsi il ragazzo magrolino dagli occhi da bambino e i lunghi capelli che gli arrivavano alle spalle che era realmente diventato Roger.
Ma qualsiasi aspetto avesse avuto, Brian avrebbe continuato a provare emozioni talmente forti da fargli battere velocemente il cuore. Dopotutto, se quelle sensazioni le provava anche senza vederlo, sicuramente non sarebbero state da meno se avesse avuto l’occasione di guardarlo.
- Mi spiace per aver dubitato di te. – sospirò il più grande. John alzò le spalle. – Capisco le tue preoccupazioni. Però promettimi che appena avrai qualcosa per la testa me ne parlerai.
Brian sorrise. – Sicuro. 





Note dell'autrice:
Ciao a tutti! Voglio ringraziarvi per le recensioni che mi avete lasciato sotto al prologo, mi scuso se non sono riuscita a rispondere a tutti. Spero che questo primo capitolo vi sia piaciuto, se avete bisogno di chiarimenti chiedetemeli pure nelle recensioni. Lasciatemene qualcuna, se vi va!
Auf Wiedersehen,
- Springtime.


 

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