In Between

di Izumi V
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Felicità residua ***
Capitolo 2: *** Lasciar andare ***



Capitolo 1
*** Felicità residua ***


Ciao a tutti! Questa fic è stata scritta per e ha partecipato all’evento “Happy Birthday Ben” indetto dal gruppo fb “Johnlock is the way… and Freebatch of course!
In realtà è leggermente diversa da quella inviata per l’occasione, ho aggiunto qualche passaggio e qualche dettaglio che la rendesse adatta a diventare il primo capitolo di una long, quale è.
Era davvero da tanto che non scrivevo, e questa è la prima storia che scrivo in questo fandom: inutile dire che senza il gruppo, e le persone meravigliose che ne fanno parte, questo non sarebbe successo.
Quindi, indipendentemente da tutto, grazie ragazze! Siete speciali.
Non mi resta cha augurarvi buona lettura, ricordandovi che ogni critica è sempre ben accetta!
 
 
  
In Between
 
 
Capitolo 1. Felicità residua
 
 
Il telefono vibra nella sua tasca. La fronte si corruga involontariamente, in uno spasmo fugace.
Non ha effettivamente idea di chi possa essere in quel momento.
Lancia una breve occhiata alla moglie, intenta a chiacchierare casualmente con la donna seduta di fianco a lei.
Sfila il cellulare dai pantaloni e il cuore fa un piccolo tuffo nel vuoto.
“Scusatemi.”
 
Se si è preso la briga di scusarsi, è solo perché ci tiene a mantenere una buona apparenza. Non si può certo dire che vada matto per quel genere di situazione. Oh beh, non che le cene con gli amici non gli piacciano. Ma che siano con i suoi amici. Quelli di Sophie non gli sono mai troppo piaciuti: stranamente, tutti quelli con cui lei lo trascina a cena fuori.
Guarda di nuovo il telefono, che ha smesso di vibrare, lasciando come unica traccia di quella chiamata mancata un nome che riempie lo schermo. Che gli riempie la testa.
“Accidenti,” impreca tra sé e sé ad alta voce, in un sospiro che sa di stanchezza e dolore e forse un briciolo di speranza.
Ben inspira forte, assaggiando nelle narici l’aria frizzantina della sera, su quella terrazza scarsamente illuminata in un’atmosfera che vuole essere romantica. Gli occhi color acquamarina, tinti di tristezza, si perdono in lontananza. Può leggere, come se li avesse davanti a sé, i titoli degli articoli online.
 
Chi è davvero patetico, adesso?
 
Perché no, non sono solo le frasette da scoop, quelle che tornano, e tornano, e ritornano ancora.
Sono i suoi occhi blu, che lo cerca(va)no sempre, trovandolo ogni benedetta singola volta.
Sono le sue mani poggiate con finta noncuranza sul suo braccio, sulla sua spalla, sulla sua gamba.
È l’intesa. Quella pazzesca, incredibile, chimica che avevano (avevano? hanno?) insieme. Quella che lo aveva spinto a mollare tutto, prendere un aereo e volare in Nuova Zelanda solo per poterci essere, quando lui avesse girato la sua ultima scena.
È ciò che si sono sempre detti, in faccia o nelle interviste, dichiarazioni che si confondono insieme a tutto il resto. Sottotraccia costante di ogni ricordo.
“Lo adoro.” Ancora quelle poche piccole parole prendono forma da sole, vive, sulle sue belle labbra a forma di cuore.

“Ci adoriamo.”
 
Si passa una mano sul viso, in un gesto stremato. Le lunghe dita affusolate accarezzano le rughe sulla fronte, ultimamente sempre molto (troppo) contratta. Sospira di nuovo.
 
“Soprattutto quando il lavoro mi è piaciuto, amo il momento in cui lo concludo.
Finché non arriva Ben come ragione per cui
non amarlo più.”
 
Sente la sua voce ripetere quella frase una, mille, innumerevoli volte. La dolcezza di quel momento lo travolge come un’onda, lo sommerge, lo fa annaspare.
Prende il telefono e digita il numero. È assurdo il modo in cui un cuore umano può aumentare il proprio ritmo così, in risposta a uno stimolo emotivo. Tu-tum, tu-tum, tu-tum. Lui, poi, è sempre stato emotivo… perché dovrebbe ancora stupirsene? Già. Ma con Martin è così, non puoi stare tranquillo un attimo.
Non fai in tempo a conoscerlo un pochino meglio, a fartelo amico, a scambiarci qualche chiacchiera in più davanti a un tè, mentre lui ti racconta della musica che ama piazzandoti in mezzo qualche battuta graffiante, che ci sei già finito dentro.
Immerso fino al collo.
 
“Pronto.”
“Martin.”
“Ciao Ben.”
“Ho visto la chiamata. Non me l’aspettavo.”
“Sì, già…” – una pausa – “Beh, anch’io non mi aspetto mai un sacco di cose.” E ridacchia, nervoso.
Ben manda giù. Non solo la saliva che ora fa fatica a scendere, non solo il groppo fermo in gola. Deve scacciare un vago, pervasivo, senso di mancanza.
Nostalgia.
“Perché hai chiamato?”
Martin esita, dall’altra parte. E Ben potrebbe (può) immaginarsi ogni frammento di espressione attraversare il suo volto. Sa che si sta passando più volte la lingua sulle labbra.
Oh, se ricorda bene.
“Ben, poss…dobbiamo vederci. Ti prendo solo dieci minuti.”
Non glieli sta chiedendo, quei minuti. Glieli prende e basta.
(Prendili, Martin, sono tuoi.)
“Tra quanto?”
Erano le dieci meno un quarto.
Nemmeno lui stesso si è reso conto che no, non ha neppure per un secondo pensato che quell’incontro non potesse avvenire quella sera stessa. Non ha chiesto “quando”, ma “tra quanto”. E un po’ in quel “quanto” ci affonderebbe. Si lascerebbe sprofondare, piano piano. Proprio come in quel momento, stringendo il telefono tra le dita quasi per paura che possa scappargli via.
“Tra due ore. Kensington?”
“Kensington.”
 
§
 
Riattacca. Sfinito come se avesse corso la maratona. Accidenti se gli è costata fatica, quella telefonata.
In realtà, non ha ben chiaro cosa diamine stia combinando. Che gli è saltato in mente?
E soprattutto, perché se lo sta chiedendo solo adesso, che la frittata è fatta?
È stato più forte di lui. Quel giorno… quel giorno non poteva non dirgli nulla. Non poteva non vederlo, guardare il suo viso pronunciando quelle due insignificanti (forse, ora, vuote) parole.
Si passa una mano nervosa sulla nuca, grattando via un prurito inesistente e, tuttavia, tenace.
Che idiozia. Che immensa, stupida, evitabile idiozia.
Potevano essere giunti a quel punto? Sì, potevano. Oh, se potevano. Si erano impegnati entrambi per arrivare a quello splendido risultato di merda.
“Fanculo,” sibila tra i denti, e “Se solo…” – inizia la solita tiritera nella testa. No. La lista dei “se solo” era fin troppo ampia. Scaccia via con la mano il residuo di pensiero, che torna a rintanarsi nel suo angolo di cervello, lontano dalla coscienza vigile.
Aveva ottenuto i suoi dieci minuti. Quelli si sarebbe fatto bastare.
Erano mesi che non si vedevano faccia a faccia, men che meno parlarsi. Tutte le parole volate tra loro negli ultimi tempi erano state filtrate da quelle fottutissime testate giornalistiche.
Sì, beh, se si vogliono chiamare giornali.
Aveva praticamente speso ogni sua energia per ritrattare quanto detto: per giunta, qualcosa che nemmeno aveva pronunciato. Ma no, la rivista aveva bisogno del suo titolone e – perché no – facciamo passare Mr. Freeman per uno stronzo.
In fondo, è così facile.
Martin è ancora nella stessa posizione tra venti minuti, immerso nelle proprie elucubrazioni.
Seduto al bordo del letto, i gomiti puntati sulle ginocchia, le spalle ricurve sotto il peso del non detto.
Non è mica stupido, sa benissimo come doveva essersi sentito Ben. Aveva reagito come si aspettava che facesse: da persona ferita che fatica a dare un freno alle proprie emozioni.
E a quel pensiero, in realtà, sorride.
Dio, se gli manca.
 
§
 
Ben si concede ancora un attimo. Un momento ancora per sé, ne ha bisogno.
Ascoltare di nuovo la voce di Martin, dritta nel proprio orecchio, solo per lui… l’ha rimestato dentro. Gli sembra di essere tornato all’adolescenza, tanto si sente stupido, ridicolo, e insieme felice, maledettamente felice.
Non ci erano voluti che pochi giorni, per perdonarlo nel proprio cuore; nonché per sentirsi in colpa per quanto aveva detto in risposta.
Una fitta gli attraversa lo stomaco, costringendolo ad appoggiarsi al parapetto della terrazza.
Assurda, totalmente assurda, la sensazione fisica della sua mancanza. In quel preciso istante, percepisce chiaramente che tutto il suo essere non vuole altro che abbracciarlo, stringerlo a sé, perdersi in quell’abbraccio e dimenticare tutto il resto.
Ma non è il momento giusto. Decisamente no.
Si raddrizza, rigido e all’erta come serve che lui sia. E torna dentro.
Sophie gli lancia un’occhiata tra l’interrogativo e l’irritato. Gli sembra forse questo il momento giusto per assentarsi?, sembrano dire le labbra serrate di sua moglie, dipinte da un rossetto bordeaux intenso e lussurioso. In quel momento quasi svanito nella linea sottile assunta dalla bocca innervosita.
Ben le sorride appena, guarda il resto del gruppo, allarga il sorriso, fa una battuta. Funziona, e lo sa. Perché funziona sempre.
Le risate generali danno il segnale di inizio all’ennesima commedia.
 
§
 
Kensington Gardens. Mezzanotte meno un quarto.
Non è stato semplice convincere Sophie della sua voglia di una passeggiata in solitaria. Arrivati a casa, ha dovuto giocare bene le sue carte per spingerla a tornare dai bambini, che l’aspettavano impazienti. Lui sarebbe rientrato presto.
Ben si siede con grazia sulla panchina vicino alla statua di Peter Pan, osservando il Tamigi scorrere sereno davanti a lui. Sono una meraviglia le luci riflesse sull’acqua, appena turbata da una leggera corrente. Ecco, così è perfetto. Così era tutto perfetto.
 
Ricorda bene quella volta che ci era venuto con Martin, tra una ripresa e l’altra.
Volevano bersi un caffè in santa pace. Non che il parco offrisse sempre un buon luogo di fuga, ma quel giorno pioveva. Immensi, infiniti nuvoloni grigio-perla coprivano il cielo, rovesciando una pioggia sottile che avvolgeva la città in un alone un po’ opaco.
Kensington era quasi deserto, e questo a loro andava bene.
Martin teneva l’ombrello, Ben aveva in mano i due bicchieroni di caffè. L’altro continuava a tirargli l’asticella sulla tempia, o a costringerlo ad abbassare la testa perché istintivamente adattava l’ombrello alla propria altezza, apparentemente dimentico dei centimetri di differenza tra i due. Ben aveva sopportato, anche intenerito, fino a che non si era deciso a dirgli qualcosa. Si era voltato verso di lui, sbuffando, impugnando i due caffè come un’arma. Solo allora aveva notato che Martin lo fissava con uno dei suoi sguardi – oh, quegli sguardi – un ghigno appena accennato a un angolo delle labbra. Lo stava facendo apposta. “Volevo vedere quanto ci avresti messo a incazzarti!”
E avevano riso, parecchio.
 
Ben, ora, non può fare a meno di sorridere al ricordo.
Un rumore di passi lo riscuote. E Martin arriva, col suo passo deciso e un po’ scanzonato. Lui scatta in piedi come una molla.
“Ehi.”
“Ehi!” – e si finge sorpreso – “Anche tu qui?”
È rincuorante scoprire come possa essere ancora un perfetto idiota. La sua mimica facciale è qualcosa di esageratamente esilarante.
Ed è strano vederlo in un contesto non formale. Le ultime volte erano state tutte situazioni ufficiali: lì è più facile ignorarsi, o almeno fingere.
Sono sempre troppo dannatamente coscienti l’uno dell’altro.
Martin si schiarisce la gola, prende tempo. Muove qualche passo verso la riva del fiume, ne osserva le acque tranquille. Con lo sguardo fisso in lontananza, mormora: “Come stai, Ben?”
E lui va in tilt, completamente.
Davvero, sono lì per parlare di quello? Perché se Martin gli sta chiedendo come sta, di certo non gli risponderà una cazzata. Quella che ha sempre pronta per le interviste.
Tuttavia, non crede nemmeno che quella sera abbiano tutto il tempo che servirebbe a rispondere alla domanda.
Forse non gli basterebbe una vita. Non finché le cose rimarranno così come sono.
Alla mancata risposta, Martin si volta verso di lui, e un po’ a lui si stringe il cuore.
Gli sembra così fragile, così solo. Alto e sottile si staglia sullo sfondo vegetale del parco.
È un bell’angolino, quello. Riparato, protetto. Per questo a loro piace(va) tanto.
“Non mi rispondi nemmeno?”
“Cosa vuoi che ti dica… bene?”
“No, cretino. Sai che sono stufo di ascoltare cazzate.”
Ma a quel punto Ben si irrita. Gli aveva chiesto di vederlo solo per versargli addosso un po’ di bile? No, grazie.
E com’è suo solito, se gli sale la rabbia non la trattiene. Non è mai stato capace di schermarsi davvero.
“Ma a quanto pare non di dirle,” risponde allora, senza riuscire a guardarlo in faccia.
Lo sente emettere uno sbuffo stanco, a metà tra l’irritato e il canzonatorio. Un po’ come a dirgli che le frecciatine non gli si addicono molto.
“Ancora con quella storia? Ben, cazzo, lo sai meglio di tutti che non avrei mai potuto dire quelle minchiate. ‘Sherlock non è più divertente per me.’ – ma andiamo! Io amo quel lavoro, tutti noi lo amiamo. E…”
Ben sente venirgli meno la sicurezza datagli dall’irritazione.
A sentirgliele dire di persona, senza i filtri e con tutte le imprecazioni tipiche di Martin, la cosa in effetti sembra ancora più ridicola.
E…?
“Serve che vada avanti?”
“Non so cosa tu voglia dire.”
E a quel punto Martin sorride, ed è sincero, e Ben lo osserva con la coda dell’occhio, mentre tenta di non sciogliersi troppo presto davanti a lui. Non può fare a meno di sentire con ogni fibra di sé che quello è il sorriso più bello del mondo.
Martin sorride. E Ben lo adora anche solo per questo.
“Sei davvero un bastardo capriccioso, lo sai vero?” gli domanda a mezza voce, senza riuscire a smettere di ghignare. Ma prosegue: “E… è ciò che ci ha fatti conoscere. Lavorare insieme. Condividere. E tutto quello che è passato nel mezzo.”
L’altro deglutisce una, due, tre volte; o per lo meno ci prova. Poi lo vede dare un’occhiata veloce all’orologio.
“In ogni caso, stasera non sono qui per questo.”
È consolante, per Ben, l’accento che pone su quel “stasera”: in quella sfumatura è racchiusa la promessa di un incontro futuro.
“Ok… dunque…”
È di fretta? Ha davvero tanta fretta di chiudere quel momento senza capo né coda?
Fino a quell’attimo, sono rimasti entrambi immobili nelle rispettive posizioni. Distanti. Martin tracciando linee immaginarie per terra col piede, Ben dondolandosi avanti e indietro sui talloni.
A vederli dall’esterno, probabilmente hanno un’aria molto comica.
Ma ora Martin si sta avvicinando e no, Ben non sa cosa debba fare. L’istinto di abbracciarlo è forte. Affondare il viso contro la sua spalla. Lasciarsi finalmente andare.
“Ben, questa sera non cambia nulla di quello che sta capitando, lo sappiamo entrambi. È tutto troppo complicato, ma… per adesso lasciamocelo alle spalle. Solo per qualche minuto. Solo un pochino.”
Martin si avvicina ancora, schiarendosi la voce; la lingua passa più volte sulle labbra.
Ben ne è incantato.
 
Lo guarda. Lo guarda come se fosse l’ultimo minuto a disposizione della sua vita per guardarlo in quel mondo, ancora una volta. E Martin fa l’errore (meraviglioso errore) di alzare lo sguardo.
È come tra due magneti di polo opposto, e non potrebbe essere altrimenti. Due magneti di polo opposto non possono fare altro che attrarsi a vicenda.
 
Mantieni le distanze, mantieni le distanze.
Pochi centimetri valgono ancora, come distanza?
Ci aveva provato, davvero, a fermarsi prima. Eppure avrebbe giurato che il terreno si fosse inclinato per lasciarlo scivolare pian piano verso di lui. Centro convergente del (suo) mondo.
“Ben,” comincia a dire Martin, osservando, contando, le lunghe ciglia a contornare i suoi occhi color acquamarina, con quella piccola macchiolina dorata nell’occhio destro. Sembra un piccolo satellite del pianeta oscuro che è la sua pupilla.
Oh, cazzo.
 
Ben sente la pressione della sua mano sulla spalla, proprio lì dove voleva che fosse, dove gli mancava che stesse. Come la sua stessa spalla fosse modellata apposta per quella mano.
Si abbassa appena, è un istinto. Così come è un istinto permettere che il proprio sguardo vada a convergere sugli occhi blu che gli stanno scandagliando l’anima. Lo sa che, come sempre, sta guardando la sua macchiolina dorata nell’occhio destro.
E, accidenti, sorride.
 
Non lo fare, non sorridere. Non in quel modo. È il nuovo mantra nella testa di Martin, che sente l’improvvisa urgente necessità di toccare quelle meravigliose labbra.
No, toccare? Voleva dire chiudere, chiudere quella stupida situazione.
Fallo e basta.
La pressione della sua mano aumenta appena, avvicinandoselo ancora di più. La sua voce è poco più di un sussurro all’orecchio dell’altro, che può sentire sul proprio collo l’eco del suo respiro.
Le labbra di Martin sono vicine, tanto da sfiorargli la carne sensibile del lobo.
“Tanti auguri, Ben,” gli sente mormorare.
E trema, dentro trema, per quella voce dolce che ora sta sussurrando tre piccole parole dritte dentro di lui. Ricorda bene la sensazione di quel suono nel petto. Lo aveva accolto nello stesso modo quella volta alla fine delle riprese de Lo Hobbit. Poi si erano raggiunti e abbracciati.
Quella sensazione di pienezza, così vera e così bella, la custodisce ancora nel proprio cuore. Ogni tanto vi si culla, ci si avvolge come in una coperta.
Per questo ora vorrebbe potersi nutrire di quelle parole per sempre, ingoiandole una per una, bevendole direttamente dalle sue labbra. E ogni volta ricominciare da capo.
“Non ci avevo pensato.”
Non mente, è vero. Nelle ultime ore gli era completamente uscito di testa, sebbene ogni suo altro parente e conoscente si stesse impegnando al massimo da tutto il giorno per ricordarglielo ogni benedetto minuto (“Domani è il tuo compleanno! Ci sono cose da preparare, feste da organizzare, persone da invitare” – Fantastico).
Era andato a cena con Sophie e i suoi amici che era ancora il 18 luglio.
Ora era a Kensington Gardens, con Martin, ed era il 19 luglio.
“Grazie, Martin.”
Risponde semplicemente, la voce già profonda si è abbassata quasi di un tono.
Lui è ancora lì, quasi non avesse la forza di allontanarlo di nuovo. Sposta un poco il viso, le labbra non sono più vicine all’orecchio. Ben ne segue il movimento, ipnotizzato.
Ne traccia il contorno con lo sguardo, sono così vicine.
Così.
Vicine.
Sente la presa della mano dell’altro farsi più intensa sulla propria spalla. Vi si sta aggrappando quasi temesse di affondare in acque troppo profonde. Non si rende conto fino all’ultimo che la mano sinistra si è sollevata ad accarezzargli la nuca, insinuandosi appena tra i corti capelli castani che sfiorano il collo. Le dita stringono appena una ciocca sottile.
Intenso il profumo virile di Martin gli pervade le narici, amplificato dagli occhi che si sono chiusi automaticamente. Le proprie dita, eleganti e affusolate, vanno ad aggrapparsi ai suoi fianchi, stringendo forte la stoffa della giacca.
Il respiro di entrambi si fa insistente, si fonde, si perde. A un cenno di avvicinamento da parte di uno, l’altro si allontana. E persistono in questa danza lenta, tutta giocata nello spazio di pochi centimetri. Martin indugia sulle sue labbra; vorrebbe baciarle, leccarle, morderle. Vorrebbe farle sue.
E Ben, anche Ben vorrebbe tante cose. Attende impotente, schiacciato dal desiderio che lo divora.
Entrambi sanno che non succederà. Non quella sera.
La consapevolezza si fa strada piano piano nel loro cuore e nella loro testa, lasciando spazio alla frustrazione. Uno tra i due deve trovare la forza di spezzare quel momento. Martin affonda maggiormente la mano tra i capelli dell’altro, sposta appena la testa di lato, tempia contro tempia.
Si preme forte contro di lui, stringendo i denti.
Si può udire il cuore di entrambi battere all’impazzata.
Ben ascolta, gli occhi ancora sigillati, e sente che anche lì – in quel battito furioso e irregolare – è racchiusa una scintilla di vita, una promessa che vuole essere mantenuta.
Si riscuote a fatica, giusto in tempo per vedere sull’altro la stessa espressione frastornata.
Tuttavia, Martin è più veloce a riprendersi. Si scosta, accenna un sorriso (dolce? amaro? forse entrambe le cose), gli batte piano la mano sulla spalla – sì, è ancora lì, la sua mano – con un movimento leggero, avvolgente e caldo in modo disarmante.
Si schiarisce la gola, la crisi è passata. “Ricordati di esprimere un desiderio, quando soffierai sulle candeline.”
“Perché, funziona?” gli chiede serio, mentre lo osserva voltarsi e allontanarsi, silenzioso come Martin raramente è. Inutile pensare che vorrebbe rincorrerlo e tenerlo lì ancora per un po’.
“Chi può dirlo,” risponde lui, infilando una mano in tasca, senza più girarsi. “Passa una bella giornata, domani,” aggiunge, sollevano la sinistra a mo’ di saluto.
E Ben non può vederlo, quel minuscolo, bellissimo sorriso, che si traccia fugace sul viso segnato dell’altro.
Attende che il suono dei passi si attenui pian piano, come un’eco. Si risiede ancora, sospira. La mano destra si sfrega involontariamente sulla coscia, in un gesto meccanico acquisito per caso, osservando qualcun altro. Per un secondo si chiede se quanto appena successo sia accaduto davvero. Poi di nuovo sorride a se stesso, scosso da nuove scariche di energia. Successo, non successo. Ben alza gli occhi verso Peter Pan, l’eterno fanciullo, come a chiedergli: l’isola-che-non-c’è esiste o non esiste?
Non è importante. Non quella sera.
 
 
  
Let me apologize to begin with
Let me apologize for what I’m about to say
But trying to be genuine was harder than it seemed
And somehow I got caught up in between…
Let me apologize to begin with
Let me apologize for what I’m about to say
But trying to be someone else was harder than it seemed
And somehow I got caught up in between…
Between my pride and my promise
Between my lies and how the truth gets in the way
The things I wanna say to you get lost before they come
The only thing that’s worse than one is none
(In Between, Linkin Park)
 
To be continued
 
 
Note
Grazie per essere arrivati fin qui con la lettura, non posso che esserne onorata.
Qui di seguito la traduzione italiana dello stralcio della canzone:
 
Permettimi di scusarmi, per iniziare
Permettimi di scusarmi per quello che sto per dire
Ma cercare di essere me stesso è stato più difficile di quanto sembrasse
E in qualche modo son rimasto incastrato nel mezzo
Permettimi di scusarmi, per iniziare
Permettimi di scusarmi per quello che sto per dire
Ma cercare di essere qualcun altro è stato più difficile di quanto sembrasse
E in qualche modo son rimasto incastrato nel mezzo
Tra il mio orgoglio e la mia promessa
Tra le mie bugie e come la verità ci si infiltra
Le cose che voglio dirti si perdono prima di arrivare
L’unica cosa peggiore di uno è nessuno
 
 
Alla prossima!
Izumi


 

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Capitolo 2
*** Lasciar andare ***


Ciao! Ben ritrovati qui (:
Chiedo perdono per i tempi biblici di attesa, ma in questo periodo va così.
Disclaimer dovuto: naturalmente, nulla di quanto scritto qui sotto rispecchia fatti realmente accaduti. È tutto frutto – purtroppo – della mia fervida immaginazione (forse).
Piccola nota: la dedica di questo capitolo va a Susy. A fine capitolo capirà il perché!
 
Buona lettura!
 
  
 
In Between
 
 
Capitolo 2. Lasciar andare
 
 
La vibrazione del telefono interrompe improvvisamente l’assoluto silenzio che riempie la stanza dell’appartamento.
L’uomo sdraiato a pancia in giù, avvolto nelle coperte, affonda ancora di più col viso nel cuscino.
Deve farsi la barba, è il suo primo pensiero.
La vibrazione persiste un altro po’, lui grugnisce in tutta risposta, soffocando l’irritazione nel cotone della federa. Poi, sollevando appena la testa, dà libero sfogo a uno sbuffo.
Ovviamente, non appena tende la mano per afferrare il telefono, quello tace.
“Fanculo,” si lamenta, ricadendo sul cuscino, e “Chi cazzo è?” borbotta.
Cercando di mettere a fuoco e combattendo la luce del sole che filtra dalla finestra, osserva lo schermo per un minuto buono. Poi intravede un “Josh Horowitz” come mittente.
Adesso la sua curiosità è del tutto risvegliata. Non fa in tempo a realizzarlo che proprio dallo stesso gli arriva un messaggio.
 
“Nemmeno mio nonno dorme fino a quest’ora la mattina.”
 
“Fossi tuo nonno anch’io mi alzerei presto per venire a prenderti a calci.”
 
Emoji che ride. Poi un cuore.
Josh ha sempre avuto la passione per le emoticons su whatsapp. A lui non vanno particolarmente a genio, ma può tollerarle. Soprattutto da Horowitz. Almeno compensa in simpatia.
 
“La prossima volta che ti invito da me in radio parliamo dei problemi della terza età, ok?”
 
“La prossima volta che mi inviti da te in radio declinerò gentilmente l’invito.”
 
“Lei è proprio un lord, Mister Freeman.”
 
A quel punto però Martin si stufa di chattare. Va bene un messaggio, va bene due, ma così sarebbero andati avanti tutto il giorno. Josh per lo meno ne era capace. Digita il numero alla velocità della luce e lo chiama. Ascoltando gli squilli, si rigira a pancia in su. Ok, così va meglio.
“Pronto!”
“Josh.”
“Ma che piacere, milord!”
“Guarda che riattacco e non rispondo più ai messaggi.”
Dall’altro capo del telefono, il ragazzo ride di gusto.
“Peccato che hai interrotto la nostra chat, ero già pronto all’invito romantico… ah no scusa, quello lo riservi per qualcun altro.”
“Va bene, riattacco.”
Ridendo, l’altro lo frena implorando perdono.
“Giuro che la smetto! Ma…”
A quel “ma” Martin già teme. Sente il suo tono complottista avere il sopravvento.
“…giusto a proposito di lui…”
Martin sospira. Probabilmente resiste solo perché si tratta di Horowitz. Dopo tutto, gli vuole bene. Ma non è possibile che tutte le volte che parlano tiri in ballo… lui.
“Senti Josh, non è il momento.”
“Perché, lo è mai? Anzi scusa, lo è mai stato negli ultimi tre anni?”
Dall’altra parte nessuna risposta.
“Ehi, mi hai attaccato?”
“Ma secondo te ti ho attaccato? Sono ancora qui!”
Un’altra risata.
“Ecco, bravo. Stavo dicendo… a proposito di Ben. Hai visto l’ultima intervista a RadioTimes?”
“Sapevo che doveva avere un’intervista, sì.”
“E l’hai già vista?”
Oddio, Josh sembra la reginetta del gossip del liceo. E davvero Martin non capisce perché gli dia sempre corda. Sospira di nuovo. Non gli darà quella soddisfazione.
“No.”
“Bene, ti mando il link. Enjoy!” E riattacca.
Eh?!
Martin rimane un attimo interdetto. Fissa il telefono come se non lo avesse mai visto.
Quel ragazzo è pazzo.
Nuovo messaggio: “Ovviamente non l’ho bevuta nemmeno per un secondo. So che l’hai vista, nonnetto!”
Ok, Josh Horowitz è decisamente pazzo.
Però il link gliel’ha mandato davvero. L’intervista – recentissima – di Ben a RadioTimes, in occasione dell’uscita del Grinch.
Osserva le lettere dell’URL. Le legge. Le conta. Le rilegge. “Naughty-or-nice-list”: sa benissimo cosa ha detto Ben, ma dopo averla ascoltata una prima volta non ha avuto il coraggio di rifarlo.
Il pollice oscilla sullo schermo, indeciso se poggiarsi o meno sulla scritta azzurra.
“Fanculo,” si dice, e il dito si preme sul link.
 
The Watson to your Holmes, Mr Martin Freeman!
 
Definitely on the naughty list.
 
“…Martin couldn’t abide being on a nice list.”
 
Martin chiude gli occhi, li strizza in realtà, dopo aver rivisto di nuovo quell’intervista.
La voce di Ben gli si è impressa nel cervello. Il modo in cui scende appena parla di lui. La dolcezza che la vela quando dice che Martin non potrebbe sopportare di stare sulla lista dei buoni. La confidenza che la riempie. Quelle cose ci sono ancora tutte.
Perché doveva essere tutto così dannatamente complicato?
Come se non fosse abbastanza, gli torna in mente il loro ultimo incontro, avvenuto in assoluta segretezza nel loro angolo protetto al parco di Kensington. Era il compleanno di Ben.
Si sfiora con due dita una tempia, là dove si era premuta quella dell’altro.
Avrebbe voluto dimenticare, ammette con amarezza. Eliminare completamente quei ricordi. Ma per farlo, avrebbe dovuto rimuovere interi pezzi del suo cervello.
I suoi occhi vagano per la stanza, un cenno involontario del capo, le labbra che si curvano all’ingiù al solo pensiero.
Una bella lobotomia, ecco cosa.
“Uff…” sbuffa, esausto. Finalmente decide di darsi una mossa, si alza e va a farsi una doccia.
“Stupido Horowitz,” borbotta.
 
***
 
 “Vedi di non fare altri danni, intesi? Interviste del genere non le voglio più vedere.”
“Faccio il cavolo che mi pare nelle interviste.”
“Non credo proprio!”
“Vieni qui a dirmelo allora. Ah no scusa, sei bloccata a Londra con i bambini…”
“Sei tanto bravo a fare il brillante quando sei lontano da qui.”
“Mentre tu sei una strega sia da vicino che da lontano, non preoccuparti.”
E mette giù prima che Sophie possa avere il tempo di ribattere.
La morsa che lo prende allo stomaco, come tutte le volte in cui è costretto a vederla o a parlarci, si allenta un pochino al pensiero che il suo soggiorno negli States durerà ancora per qualche giorno.
Accidenti, se si sente bene lì. È come rinato.
Ben apre il frigo in un improvviso moto di generosità verso se stesso e si prepara un frullato di verdure. Non è ancora del tutto certo che questa dieta vegana sia il massimo della vita: ma il principio è buono, e aver conosciuto altri attori che la pensano allo stesso modo lo ha convinto un po’ di più.
Certo, essere pescetariani sarebbe peggio…
E ridacchia da solo. Un sorriso luminoso, genuino, si dipinge sulle belle labbra in quel periodo sovrastate da un paio di baffi non troppo affascinanti.
Solo pensare a Martin gli procura un misto di sensazioni assurde. Contraddittorie e assuefacenti.
Con il labbro inferiore va a lambirsi i baffetti: chissà se l’ha visto, chissà cosa ne pensa di questo look orribile. Già immagina i commenti.
E soprattutto, chissà se ha visto l’intervista…
Drrr Drrr
Il telefono vibra per un paio di secondi.
“Se è ancora quella lì…” impreca a bassa voce, afferrando il telefono.
Il frullato gli va di traverso non appena vede il mittente del messaggio. Ci mette qualche minuto a elaborare l’informazione. Gli è bastato pensare a lui per…
E solo allora realizza che – “Coglione!” – dopo avergli promesso che l’avrebbe richiamato per il compleanno, non si era più fatto sentire.
 
Sì, lo scorso 8 settembre, forte di come era andato il loro ultimo breve incontro, Ben aveva provato a telefonargli per fargli gli auguri a voce. Pessima idea. Ascoltando il cellulare squillare, si era ricordato che in quel momento Martin era probabilmente con la sua fiamma del momento. Aveva attaccato in preda all’irritazione.
“Dice tanto di me, e poi si va a mettere con una tipa del genere…”
Non poteva dire di conoscerla, per carità. Ma lo vedeva, era interessata solo alla fama di Martin. E che cazzo.
Quindi che fare? Non farsi sentire non era un’opzione.
 
“Martin. Happy birthday, man. Il tempo passa e sembri sempre lo stesso. Eterno quindicenne. Ti chiamo uno dei prossimi giorni.”
 
Poteva funzionare.
Chissà se avrebbe colto quel “eterno quindicenne”. Ma una vocina nel suo cuore gli suggeriva la certezza che alla testa mancava.
La risposta di Martin, a distanza di qualche ora, gli aveva dato la conferma definitiva:
 
“Grazie, Ben. Fai attenzione ai draghi negli US. Aspetto la tua telefonata.”
 
Il suo cuore aveva ballato a un ritmo selvaggio, leggendolo. In occasioni del genere, gli pareva davvero che fossero a tanto così da tornare indietro. A com’era prima.
Era ancora possibile?
Ma la realtà si infiltrava di continuo nei suoi sogni ad occhi aperti. Sfondava le porte dei ricordi e distruggeva tutto, senza chiedere il permesso. L’entusiasmo non era durato abbastanza, spazzato via da una delle solite telefonate acide della moglie.
E il coraggio di richiamare Martin non era mai arrivato.
 
La pena per la sua codardia non aveva tardato ad abbattersi su di lui: adesso è lì, a farsi andare di traverso un frullato, perché gli è appena arrivato un messaggio niente meno che da Martin stesso.
Quell’irritante bastardo adorabile uomo.
Non è nemmeno più abituato a sentirlo così spesso. Per lo meno per gli standard recenti. Ma quell’incontro in occasione del proprio compleanno sembrava aver smosso qualcosa. Non voleva nemmeno cantare vittoria troppo presto, ma non era sicuro che con quella instagrammer da strapazzo sarebbe durata molto.
Ben, cazzo, ma ti ascolti da solo?” si rimprovera con un sospiro affranto, finendo di bere dal bicchierone. Il telefono è a pochi centimetri dalla sua mano. Muove di poco un mignolo, sfiorandolo.
“Forza. È solo un messaggio.”
Solo.
Con Martin non è mai solo un messaggio. Con Martin diventa un tutto. Tutto ciò che può avere di lui in quel momento.
Deglutisce sonoramente, e si decide a leggere.
 
“E così sarei un bambino cattivo, eh?”
 
Un ghigno divertito si dipinge spontaneamente sulle labbra di Ben. Un pizzicorino familiare alla pelle lo percorre per tutto il corpo.
 
“Non ho forse ragione?”
 
“Io sarò anche cattivo, ma tu con quei baffi sei decisamente brutto.”
 
Ben si morde un labbro. Digita una frase velocissimo, per poi stare a fissarla un minuto buono prima di inviare.
 
“Allora tu non guardarmi.”
 
Il cuore comincia a martellargli in petto. Ogni secondo in attesa di una risposta gli sembra durare decenni. Come attendere che la spada di Damocle si abbatta sulla propria testa.
“Avanti…” si trova a pensare, impaziente. Ha esagerato? Sembra disperato?
Il telefono vibra, per poco non gli vola nel lavandino.
 
“Sai che non ci riesco.”
 
Sente il cuore accelerare ancora, in una corsa impazzita. Fa per sorridere, forse lo fa davvero, ma prima che possa rendersene conto le lacrime cominciano a inondargli gli occhi. Scoppia a piangere senza ritegno. Il cellulare viene lasciato scivolare sul tavolo e una mano va al viso, i singhiozzi che riempiono l’appartamento.
Non risponde a quell’ultimo messaggio, non ne ha la forza.
Martin, solo a casa propria, percepisce quel silenzio come una lama dentro il petto. “Hai scelto tu, Ben…” mormora al vuoto. “Hai scelto per entrambi.”
E sospira, gonfiando al massimo i polmoni e rilasciando tutta l’aria di cui dispone.
Si gratta distratto l’addome ancora scoperto dopo la doccia, indeciso sul da farsi. Quello scambio telefonico lo ha lasciato senza energie, senza pensieri coerenti in testa. Tutto d’un tratto, non ha la più pallida idea di cosa fare della propria giornata.
“Cazzo… ‘fanculo…”
Se lo sentisse Horowitz non perderebbe occasione di parlare della sua finezza. Ma lui non era certo l’unico a rompergli le scatole per il suo uso eccessivo dell’imprecazione.
 
“Lo sai, Martin, che a letto dici un sacco di parolacce?”
“Ben, io dico sempre un sacco di parolacce.”
“Sì, ma…”
“La differenza quando siamo a letto è che le dico solo per te e per come mi mandi fuori di testa.”
Ben era diventato di un bel rosso pomodoro, rannicchiandosi contro di lui. Poi aveva sorriso: uno di quei suoi sorrisi bellissimi, timidi ma pieni. E Martin se lo era tirato addosso, baciandolo con tenerezza e avidità.
 
Inspira forte, Martin, ricordando tutto. Ogni singolo secondo, minuto, ora, giorno, trascorso insieme a lui. E la sua mano, che fino a poco prima accarezzava lo stomaco, scende un po’ più in basso. Supera l’ostacolo dell’asciugamano legato in vita, che con un fruscio silenzioso scivola a terra.
In quel momento, il telefono vibra di nuovo. Altra imprecazione, questa volta parecchio volgare.
“Adesso mi avete proprio rotto i cogl– Oh, merda.
Risponde alla chiamata: “Tu sei peggio di una donna, lo sai, sì?”
Ben, dall’altro capo del telefono, fatica a interpretare il tono. Coglie una nota irritata, ma anche una vibrazione nella voce che sa di tutt’altro. Ha deciso di richiamarlo nel preciso istante in cui è riuscito a smettere di piangere, ma ora, in realtà, non sa nemmeno cosa voglia dirgli.
“Uno dei miei tanti pregi,” e sorride.
“Che hai stamattina?”
“Guarda che hai iniziato tu!”
“Sì, beh… colpa di Josh,” borbotta.
“Come?”
“Niente, lascia stare. Beh, che volevi dirmi?”
“Uhm… mah, nulla di particolare. Cioè, sai, non ti avevo più chiamato, da quando…”
“Sì, l’avevo notato.”
“Eh, hai ragione. Ma, ecco… ehm…”
“Con parole tue, per piacere!”
“…P-potremmo vederci,” riesce finalmente a balbettare Ben.
Martin ci resta di sasso. “Ma sei in America.”
“Già, e scommetto che a breve lo sarai anche tu…”
“Non tirare in ballo Jeanne proprio ora.”
“Perché no? Non stai forse per raggiungerla a LA?”
“Può darsi, ma non sono affari tuoi.”
Dall’altro capo, un silenzio esitante.
“Forse non più, no.”
Martin strizza gli occhi, serrando le labbra. Che fatica. Che fatica.
“Non lo so, Ben. Non mi sembra una grande idea, comunque.”
“Perché?”
Perché, perché, perché.
Martin ne avrebbe un centinaio, di perché. E invece Ben continua a chiedere, chiedere, chiedere. Fingendo di non sapere la risposta. Pretendendo di poter fare finta di nulla. Tanto tempo prima, in tempi non sospetti, lui gli aveva chiesto una cosa. E Ben non aveva mai risposto. Se solo lo avesse fatto, forse ora sarebbe stato tutto diverso.
Magari è il momento di tirarla fuori di nuovo, giusto per ricordargli perché no, non sia il caso di incontrarsi in America.
“Te lo dico io, Ben, il perché. Te lo dico se rispondi a ciò che ti ho chiesto tempo fa.”
Non c’è bisogno che specifichi ulteriormente, sanno bene entrambi di cosa si sta parlando.
“Martin…”
“No, Ben, basta giocare.”
Martin sente le proprie nocche diventare bianche, nello sforzo di stringere il telefono. Sente la tensione montare dentro di lui, l’istinto prepotente di gettare via il telefono prima di udire la risposta. E l’esitazione dell’altro comincia a diventare eloquente. È come se si trovasse di fronte a lui in quel momento.
Non lo fare, Ben.
Lo sente, ancora una volta, barricarsi dietro quella stupida, inutile bugia. Perché Freeman lo sa, che quella è una bugia. La più grande, la peggiore. Ed è tutta per lui.
“Sto aspettando.”
“Martin…”
“Dillo e basta. Sarà meglio così.”
Silenzio. Il battito del cuore rimane l’unico suono udibile per entrambi.
“No. Non ti amo.”
E Martin chiude la telefonata.
 
***
 
Trascorrono settimane. Si portano via man mano l’Avvento e il Natale. Passa il Capodanno.
Il profilo instagram di Jeanne Jo vomita una foto di coppia dietro l’altra.
Benedict Cumberbatch vede tutto e tace, logorandosi dentro. Non gli resta altro da fare.
Poi arriva gennaio, e con esso la nuova intervista di Martin al The Guardian.
Non ci mette molto ad arrivare sotto gli occhi acquamarina dell’attore britannico, ora tornato a Londra per girare il nuovo film.
La legge tutta senza nemmeno prender fiato, senza riuscire a scollare gli occhi dallo schermo per un dannato secondo.
L’ansia gli procura un nodo a metà della gola. Legge e rilegge, non vuole credere ad alcune di quelle risposte.
E poi c’è anche quella maledetta frase. Crudele e distruttiva nella sua concisione. C’è anche Ben in quella intervista: la sua codardia, la sua bugia.
Fa male.
Tutto fa male. Sapere di avergli causato quella delusione, di aver rovinato tutto. Ricordare com’era un tempo, e la nostalgia ingestibile che ne deriva. La gabbia in cui è tuttora rinchiuso. La propria incapacità di venirne fuori, e di accettare aiuto. Tutto fa tremendamente male.
Lobotomia. Martin ha parlato di lobotomia. Questa parola comincia a rimbalzargli da una parte all’altra del cervello, senza coerenza. Non riesce a gestirla, gli fa troppa paura. Martin lo avrebbe cancellato dal proprio cervello, se avesse potuto. Lo avrebbe fatto?
Non ha nessuna certezza che si riferisse a lui e al loro passato insieme. Eppure, allo stesso tempo, non gli serve alcuna garanzia. Lo sa, se lo sente. Tanto quanto sente di…
Il cuore fa un tuffo.
L’ha pensato.
L’ha pensato davvero.
Dopo tutto quel tempo…
 
Tanto quanto sente di amarlo.
 
 
***
 
I giorni passano, gennaio finisce, comincia febbraio. Non si sono più sentiti, non per questo non si sono pensati. Ma Martin è anche stanco di soffrire.
Per di più, con Jeanne non va affatto bene.
Le ultime settimane, dopo un Capodanno per nulla negativo, sono state rivelatrici di un meccanismo inceppato. A breve sarà al Pinter per The Dumb Waiter e intorno a lui è tutto un casino.
Perché finire una relazione con Jeanne non significa solo non avere più qualcuno con cui condividere la quotidianità e il letto. I suoi figli si erano affezionati a lei, accidenti.
Tutta colpa sua, non era stato cauto. L’aveva introdotta in famiglia troppo presto, le aveva permesso di prendersi spazi per i quali, probabilmente, sarebbe stato meglio aspettare.
E, di nuovo, si trova in mezzo a un vero disastro senza sapere come tirarsene fuori.
Finisce per gestirla nel modo peggiore possibile, ponendo fine anticipata al suo soggiorno negli States. Non è con lei a San Valentino, le ultime discussioni avvengono per telefono.
Non che gli interessino particolarmente le conseguenze a livello mediatico: sa che lei è costantemente sui social – per un po’, suo malgrado, vi si è lasciato trascinare – ma a lui non importa e non è mai importato nulla. Gli affari suoi sono suoi, la gente può farsi l’idea che gli pare.
Solo un volto gli balena in mente, gli fa domandare quale sarà la reazione.
“Concentrati Martin, a breve sarai in scena,” si ripete allo specchio.
 
È il 22 febbraio, intorno alle sei di sera.
Ben è a casa, a Londra. Sophie fuori coi bambini. Un po’ di pace.
Continua a fissare il calendario, ripercorrendo avanti e indietro i giorni da fine gennaio a fine febbraio: le date di Martin al Pinter. Freme per lui, si chiede come sarà la sua performance questa volta – “Straordinaria, come sempre, cosa te lo chiedi a fare…” – e se Jeanne sarà lì coi bambini. In realtà di lei non sa nulla, ma dello spettacolo, ovviamente, ha sentito parlare… anche parecchio bene, com’era prevedibile. Perfino Graham l’ha contattato, dopo tanto tempo che non si vedevano al suo programma, per chiedergli se fosse andato.
 
“Ma con che coraggio?” gli aveva risposto.
“Tiralo fuori, il coraggio che ti serve,” aveva ribattuto il conduttore, da tempo anche un grande amico.
 
L’affetto reciproco che nutrono per entrambi è risaputo: Ben è probabilmente uno degli ospiti più acclamati al Graham Norton Show. Non tanti sanno però che Graham gli era stato confidente in più di un’occasione, soprattutto riguardo a Martin. Già durante le serate del programma ogni tanto si era lasciato andare a qualche battuta, qualche sketch che li vedesse in qualche modo associati. Ben sa bene che tutta quella storia della lontra e del riccio si sarebbe diffusa la metà, se non fosse stato per Graham. E, nonostante tutto, non riesce a non sorriderne.
Coraggio. “Tiralo fuori, il coraggio che ti serve.” E da dove?
Ben chiude gli occhi, e tutto ciò che vede è Martin. Gli torna in mente quel pomeriggio sul set, in North Gower Street a girare una scena davanti allo Speedy’s.
Martin gli si era avvicinato e, con finta nonchalance, gli aveva tolto col dito qualcosa dal colletto della camicia. Ben aveva tentato di non reagire, ma il rossore sulle guance era stato inevitabile. Quel semplice tocco sapeva di intimo, ed entrambi ne erano consci. Se solo avesse potuto lo avrebbe baciato lì, davanti a tutti. E invece aveva dovuto aspettare che venisse sera e tutti lasciassero il set. In quel momento si erano limitati a scherzare, e ridere, e recitare, e bere il tè tra un ciak e l’altro. Quella, per Ben, era vita. Era la vita che sognava.
Riapre gli occhi, afferra il telefono. Solo un messaggio, e con quello si giocava tutto.
 
Il 22 febbraio, un venerdì, Martin Freeman aveva deciso di passare a salutare i fan allo stage door, dopo lo spettacolo. Quell’anno in realtà si era dato come regola di fare solo i primi giorni della settimana: arrivava a fine settimana troppo stanco, troppo stressato. In più, temeva una comparsata di Jeanne in cerca di visibilità, e il fine settimana era probabilmente il momento migliore per lei. Quel giorno, tuttavia, aveva in mente di fare un’eccezione. Con questo pensiero si era svegliato la mattina.
Poi erano arrivate le sei di sera.
Già al Pinter, pronto a calarsi nuovamente nei panni di Gus, Freeman riceve un messaggio.
“Ma che diavolo…?”
Un minuto dopo, sta avvisando il suo bodyguard che quel giorno lo stage door non ci sarà. Gli altri ragazzi della sicurezza, sentendolo, alzano gli occhi al cielo: già le sentono, le fan inferocite o deluse…
“Se posso, Martin, ma come mai?”
“Un impegno improvviso, molto urgente. Mi dispiace.”
 
“Stai proprio facendo una cazzata, amico,” diceva a se stesso Martin, salendo sulla macchina nera che lo attendeva, pronta a partire, davanti all’entrata principale del teatro. Gli dispiaceva anche per la folla che già sapeva assembrata fuori dalla stage door, ma d’altronde…
 
“Martin, so di aver fatto una cazzata. Anzi, so di averne fatte tante, e tu hai ragione: basta così. Ma ho bisogno di te… ho sempre avuto bisogno di te. Sophie è fuori coi bambini fino a tardi stasera, puoi passare da me dopo lo spettacolo? Non me lo merito, lo so. Se mi dirai di no, capirò.”
 
Stronzo. Ben e il suo vittimismo, Ben e il suo irrimediabile senso di inferiorità.
Ben e tutto ciò che ama di lui.
 
“Verrò.”
 
Arrivati nei pressi di Hampstead, Martin si fa lasciare a un angolo poco frequentato e non troppo vicino a casa dell’altro. Si tira su il cappuccio della grossa giacca pesante che indossa e si aggiusta gli occhiali sul naso. “Forza,” sospira, infilando le mani stretta a pugno nelle tasche alte.
Giunge davanti a casa di Ben. Il cuore gli batte furiosamente nel petto: cosa deve aspettarsi? Come dovrà comportarsi? Ma soprattutto, perché è lì? Preferisce lasciar perdere tutte le eventuali risposte, che probabilmente non lo porterebbero che a girare i tacchi e tornarsene a casa.
Sospira, e bussa piano.
 
Dall’altra parte della porta, Ben è dritto come un fuso, appoggiato al muro. Teso.
Lo hai visto arrivare dalla finestra, e ancora non gli sembra vero. Sa cosa è davvero giusto, il suo cuore lo sa da sempre. Ma quella maledetta testa, così presa dai suoi ragionamenti materiali sul successo, la carriera, le strategie pubblicitarie – lei ostacola tutto.
Liberati da tutto, Ben, lascia andare,” mormora a se stesso, tenendosi forte le tempie.
Il suono delle nocche contro la porta lo fa sobbalzare.
Guarda le proprie dita, tremanti, chiudersi intorno alla maniglia. Tira un bel respiro, e apre.
È davvero lì. Bellissimo e strafottente, con le piccole mani nascoste nelle tasche e il colore stupendo dei suoi occhi coperto dalle lenti colorate.
“Ehi,” lo saluta lui, con un cenno del capo e un mezzo sorriso.
“M-Martin… Entra.”
 
Imbarazzo. L’imbarazzo tra loro, in quel momento, regna sovrano. Come se entrambi percepissero che sono a un punto di svolta, che da quello non si torna indietro. È la resa dei conti.
“Ehm… vuoi qualcosa da bere? Gin, whiskey, vino…”
Martin ghigna. “Già sai.”
“Un bel tè caldo?” ammicca Ben, sentendo già il nodo allo stomaco allentarsi di un poco.
“Proprio quello,” risponde lui, guardandosi in giro.
“Ah, la giacca buttala pure sul divano!”
“Quindi sei… da solo?”
“Stasera sì, Sophie è dai suoi coi bambini. Probabilmente faranno tardi.”
“E tu? Non sei stato invitato?”
“Sai, avevo un terribile mal di testa e…” – finge una brutta tosse – “…credo di starmi ammalando, sai com’è.”
“Beh, malato sembri malato,” afferma Martin, squadrandolo. Negli occhi un misto di scetticismo e preoccupazione. Ben scorge quest’ultima e il suo cuore fa un piccolo tuffo.
“Sì, uhm… sai, con questa dieta vegana e…”
“…e una vita di merda…” continua l’altro per lui. Serissimo.
Ben non risponde, mentre si dirige in cucina per preparare il tè. Si limita a sospirare.
Martin lo segue, fermandosi dall’altra parte del tavolo posto al centro della stanza. Ma a quel gioco del silenzio non ci sta.
E lui a provocare è bravissimo.
“Che fai, non rispondi?”
“Cosa vuoi che ti dica, Martin. Uhm?” domanda lui, mettendo due bustine di tè nelle rispettive tazze.
“Che ho fottutamente ragione. Ultimamente non ti si vede manco più in giro. Un fantasma. Quasi quanto tua moglie. Per non parlare della tua comparsata misteriosa ai Bafta.”
Ben si volta con aria aggressiva. “Non tirare in ballo Sophie. Io la tua amichetta non l’ho nominata… e avrei potuto, visto quanto vi divertite a postare selfie su instagram.”
Martin finge una risata che di divertita non ha nulla. “A-Ah. Indovina chi stalkera Jeanne su instagram, adesso.”
“Oh, ma piantala. Fai tanto l’ironico, ma qui quello incoerente sei tu.” – sbatte i palmi sul tavolo, guardandolo dritto negli occhi – “Eri tanto fissato sulla privacy tua e dei bambini, e adesso me li trovo pure nei video musicali di Weller.”
Colto sul vivo. L’altro tira su col naso e sbuffa, per prender tempo. Su questo Ben non ha tutti i torti. Lo sa anche lui, sa bene di aver sbagliato. È che… vorrebbe dirglielo, ma apparirebbe sulla difensiva e non vuole. Quella è una vera e propria battaglia, non può scoprire così le proprie falle.
Tuttavia, si conoscono troppo bene, perché Ben non capisca di aver colto nel segno. Martin aveva fatto della propria privacy un baluardo per tutta la vita, per poi mandare tutto a puttane negli ultimi mesi. Quanto meno vorrebbe una spiegazione. Ne approfitta per incalzare ulteriormente.
“E poi quell’intervista al The Guardian, Martin… che cazzo vuol dire, eh?” – alza la voce, la tristezza e la rabbia si mischiano rinforzandosi a vicenda – “Una lobotomia. Ma sei impazzito? Di cosa stavi parlando? Devo saperlo.”
“Non sta a te giudicare, Ben. Impazzito? Forse. Di certo in quel caso asportarmi un po’ di cervello non potrebbe farmi che bene, no? Ma soprattutto… a te cosa importa?” Gli punta un dito contro, abbassando la voce a un ringhio cupo.
“C-Cosa importa a me?” Non riesce a credere che gli stia davvero facendo quella domanda. La frustrazione lo fa esplodere, fino a farlo gridare: “Importa tutto, Cristo santo!”
“Oh no. No no no.” Martin scuote la testa, sulle labbra un sorriso deluso. “A te non importa un cazzo di niente, se non della tua fottuta carriera. Altrimenti perché avresti mandato quel ‘tutto’ a puttane così, eh?”
Ben deglutisce. Accidenti, non si era immaginato che andasse così, quella sera. E invece stava venendo fuori ogni cosa.
“N-non ho fatto niente che non sarebbe accaduto da sé. Era destino. Ci avrebbe distrutti.”
“No, Ben. Sei tu che hai distrutto tutto. Vuoi rendertene conto?”
Martin sospira, affranto. No, non sta andando come avrebbe sperato. È diventato un gioco di rinfacciamento reciproco. E con tutto quello che era successo tra loro, sarebbero potuti andare avanti tutta la notte. Meglio rinunciare.
Fa un passo verso di lui, cercando di convincersi che è tempo di chiudere la conversazione e levare le tende. “Hai distrutto ogni cosa,” mormora, e nella voce adesso c’è tristezza, “e per cosa? Uno stupido Oscar? Andiamo, Ben… tu non sei l’uomo che…”
Ben alza gli occhi dal tavolo. Nota che Martin si è avvicinato, eppure lo sente solo più lontano di prima, in fuga. Martin vuole andarsene.
Lo vedi? Lo vedi che sei un cretino? E dire che con questa sera volevi rimediare a tutto…” parte la vocina nella sua testa. Senza rendersene davvero conto, costeggia il tavolo e fa un passo anch’egli verso l’altro.
“L’uomo che…?” alza gli occhi, incrociando i suoi. La propria espressione tradisce una speranza che davvero non vuole morire, e continua a sopravvivere sotto ogni colpo inferto. Un velo di lacrima brilla alla luce artificiale della cucina.
Martin risponde al suo sguardo, incapace di spezzarlo. Lo guarda bene, e sotto la maschera che ha imparato a portare, scorge ancora l’uomo di cui si era innamorato tanto tempo prima.
“Ben…” mormora, facendo un altro passo verso di lui. Il mento alto, la sfida e la voglia di riscatto si accendono nel blu scuro delle sue iridi. “Non hai bisogno di queste stronzate nella tua vita.”
L’altro inspira silenzioso. Manda giù il groppo in gola, ricaccia indietro le lacrime. E la risposta gli arriva da chissà dove, forse da un passato insieme che non si può cancellare.
“No, è vero. Di stronzo nella mia vita basti tu.”
E a quel punto Martin, finalmente, sorride. Sorride come sorrise John Watson a quel “Sherlock’s actually a girl’s name.”
Volta il viso nuovamente verso di lui. Il sorriso si spegne per un attimo. Ed è già troppo tardi.
Ben lo afferra per il colletto della camicia e se tira addosso, baciandolo con l’urgenza di un uomo che sta affogando e ha disperatamente bisogno di tornare a respirare.
Martin non aspettava che questo.
Risponde affamato al bacio, mordendogli con foga il labbro inferiore, così pieno e godibile, prima di far scivolare la propria lingua nella bocca dell’altro. Ben gli lascia il comando, come sempre tra loro. Si abbandona totalmente in quella lotta che vuole perdere, e perdere, e perdere.
“M-Martin…” annaspa, incapace di interrompere il contatto ma bisognoso di sentire quel nome sulle proprie labbra.
E l’altro risponde con un ghigno basso, roco, virile. Un “Ben” che a fatica si distingue, mentre lo spinge contro lo spigolo del tavolo e, afferrandogli con prepotenza i glutei, lo solleva con facilità per farcelo sedere sopra.
“Mmh… sei troppo magro,” mormora a occhi chiusi, leccandogli piano le labbra e accarezzando con avidità il sedere e le cosce.
“Rimedieremo,” risponde lui, con quella voce eccitata e profonda che lo fa letteralmente impazzire. Ben gli stringe le gambe intorno alla vita, mentre Martin a sua volta si spinge maggiormente contro di lui.
E tornano a baciarsi con più forza.
Ciascuno sente il proprio corpo risvegliarsi a ogni tocco dell’altro, in un modo così intenso che nemmeno ricordavano di aver provato, e che gli era mancato come l’aria.
Martin sente vibrare lungo la propria schiena ogni gemito che Ben gli soffoca tra le labbra, e comincia a perdere il controllo. Con una mano gli solleva una coscia per avere maggiore accesso tra le sue gambe. Lo spinge di più sul tavolo, si struscia contro di lui fino a farlo impazzire. Fino a perdere lui stesso la ragione.
 
“Cazzo.”
L’imprecazione di Martin sembra riportarli entrambi, bruscamente, alla realtà.
Senza smettere di attaccargli il collo con morsi e baci, questi borbotta: “Ben… staranno tornando. Che ore sono?”
L’altro fatica a riconnettere le sinapsi. “Merda… non lo so.”
Si separano con estrema fatica. Mentre Ben va a cercare il telefono, abbandonato chissà dove, Martin respira forte, cercando di calmarsi. Si passa più volte le mani sul viso e tra i capelli, con scarsi risultati.
“Accidenti. 4 chiamate perse. Temo stiano tornando,” dice l’altro, tornando in cucina col telefono in mano.
“Forse… per stasera meglio così. N-non potevamo mica…” Martin si schiarisce la voce, lascia la frase in sospeso.
“Già…”
“E adesso?”
“Adesso…” mormora Ben, riavvicinandosi a lui e stringendolo tra le braccia. Soffia ogni parola sulle labbra dell’altro, dolcemente. “Adesso tu torni a casa e finisci questo tour de force al Pinter.”
“E tu?”
“Io… farò quello che devo fare. Sarà un periodaccio, Martin. Non so nemmeno da dove cominciare…”
“Dalla verità.” Afferma l’altro, serissimo. “Dille la verità, e agisci di conseguenza. Senza più mezze misure, senza più gabbie, né bugie, né maschere. Fallo per te. Fallo per noi.”
Ben annuisce piano, affogando i propri occhi affilati in quelli grandi di Martin.
Si abbracciano, e premendo il viso sulla sua spalla, Ben sente che è possibile.
La sua rinascita comincia da lì.
 
 
 
Let me apologize to begin with
Let me apologize for what I’m about to say
But trying to regain your trust was harder than it seemed
And somehow I got caught up in between
Between my pride and my promise
Between my lies and how the truth gets in the way
The things I wanna say to you get lost before they come
The only thing that’s worse than one is none
(In Between, Linkin Park)
 
 
The End
 
Contrariamente all’idea iniziale, questo secondo capitolo sarà l’ultimo. Non posso che ringraziarvi per essere arrivati fino a qui.
A presto,
Izu
 
 

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