and distinguished nothing except a green light

di iamnotgoodwithnames
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter One ***
Capitolo 2: *** Chapter II ***



Capitolo 1
*** Chapter One ***


and distinguished nothing

except a single green light

Il vento non fa distinzioni, scompiglia elaborate acconciature d’eleganti donne borghesi, fa svolazzare lembi di raffinati trench d’uomini d’affari, dal portafoglio gonfio di banconote, allo stesso modo in cui lambisce le logore giacche dei proletari e sferza gli scarni volti degli orfani; porta il freddo nelle pelli d’ogni classe sociale, incurante dei conti bancari o degli altisonanti cognomi.

Il vento di New York poi, negli inverni grigi, pare esser meno clemente di qualsiasi altra brezza rigida e soffia impietoso, graffia zigomi arrossati e labbra screpolate, gretta le dita e lascia ruvidi segni, indifferente al tremore di chi è troppo povero per poter possedere protezione ed è costretto ad usare quelle mani rovinate, per distribuire volantini che nessuno accetta mai.

Una volta Credence li ha sognati, guanti in nera pelle, imbottiti di morbida lana, a difenderlo dal vento newyorkese che lo schiaffeggia ogni giorno, sugli scalini della chiesa; l’invidia è un peccato, gli ha riecheggiato tirannica la voce della madre, e s’è pentito sino al punto da lasciare che il vento lo ferisse ancor di più.

Infondo è un dolore sopportabile, le frustrate dell’aria gelida non sono diverse da quelle della spessa cinta in cuoio che la madre usa, regolarmente, per punirlo degli errori, troppi, che commette anche quando non se ne accorge, anche quando non li compie.

È routine, quotidianità, questione di abitudine. Il corpo sa adattarsi a così tanto dolore che, a volte, Credence si chiede se, forse, non sia stato Dio stesso a volerlo, a volere che l’uomo si ferisse ripetutamente sino ad adeguarvisi.

Facevano male, quand’era bambino, le linee di sangue che la cinta disegnava, le cicatrici che si rimarginavano, le crepe nell’epidermide che si riaprivano ad ogni colpo inferto, facevano così male che persino le lacrime, dopo ore ed ore, s’esaurivano e quel che restava erano decrescenti grida dolenti d’una gola stanca.

Fanno male ancora, ma le lacrime sono finite, le grida sono divenute mute e le labbra tremano senza saper più pregare una pietà che Dio non concede. Per qualche ragione, ignota com’è ignota la vita, Dio guarda impassibile, nell’alto dei cieli, la sua schiena divenire pallida tela cremisi e le mani ricoprirsi di sgraziate linee rubino; a volte pecca Credence, dicendosi che è inutile pregare se nessuno lassù vuole ascoltarlo.

I volantini che stringe, nel tempo, hanno perso valore e significato, non sono più messaggi d’avvertimento, ma passivo lavorare per una causa che ha persino dimenticato. Allunga le braccia per inerzia, prova a consegnarli per istinto di sopravvivenza, non farlo equivarrebbe a sfiorare la morte e Credence, malgrado tutto, non vuole incontrare l’angelo dalle nere ali.

Cos’è poi che recitano quei fogli smossi dal vento?

A volte deve chinare lo sguardo e leggerli, per ricordarsi dell’assurdità.

Se le streghe esistessero, pecca poi pensando, non potrebbero essere né peggiori, né troppo diverse, da quel che sua madre è.

Vorrebbe potersi pentire dell’odio, ma ha smesso troppo tempo fa per poter riuscire a ricordare come si fa.

Non esiste la magia, dicono i ferventi credenti, non esiste destino, né fato, né fortuna, né sfortuna, esiste solamente il volere di Dio, così magnanimo da aver concesso all’uomo il più prezioso dei sentimenti, il più duraturo dei legami, sotto forma di quello che, per Credence, è sempre stata una magia rifiutata dalla chiesa e che, invece, per i fedeli è la prova tangibile dell’esistenza divina.

Una luce verde, intensa, più brillante dello smeraldo più puro, che avvolge ed irradia il corpo di chi racchiude la metà perfetta d’un cuore che combacia con il proprio.

Sua madre non gliel’ha mai spiegato, né s’è mai soffermata a raccontarglielo, l’ha imparato nelle interminabili ore della messa, nei libri segretamente nascosti sotto una trave removibile del parquet, negli occhi delle coppie passeggianti strette l’uno all’altra, a difendersi dal freddo e, senza riuscire a non vergognarsi degli impuri pensieri, le ha invidiate aggrappandosi alla speranza che lì, là fuori, da qualche parte, esista qualcuno che potrebbe riscaldarlo dal freddo che ne congela la pelle ed il sangue.

Le invidia anche ora, ritto in piedi al ciglio dello scalino, la schiena ingobbita ed il collo infossato nelle spalle, tutte quelle anime felici che gli passano accanto senza neppure accorgersi di lui; un invisibile, uno strano ragazzino di diciott’anni appena dal volto troppo emaciato e la pelle di cadaverico pallore.

Evita gli sguardi, i pochi che riceve, di donne disgustate dalla povertà ed uomini superficialmente raccapricciati dalle vesta di terza mano. Mantiene chino il capo, un’ennesima abitudine, appresa negli anni in cui gli venne insegnata l’assoluta reverenza, e gli unici colori che sa vedere sono il grigiore della città ed il nero dei soprabiti che l’oltrepassano senza curarsi di lui.

Il mondo, per Credence, è una distesa bianca e nera, le uniche sfumature che conosce sono il biondo spento dei capelli di Modesty, li accarezza a volte, quando la notte l’ascolta sfogare la tristezza, e lo scuro rossore del sangue che picchietta al pavimento, che macchia la cinghia in cuoio; non esistono, non sono mai esistite, né mai esisteranno altre eccezioni ed il verde, quel verde speranza, non gli verrà mai data la possibilità d’ammirarlo.

Di questo, come di poche altre cose, Credence ne è certo; più che certo ed inspira il gelido vento, stringendosi ancor di più nelle esili spalle.

Sobbalza e barcolla alla centesima spinta d’uomini indifferenti all’umana sofferenza, ha le gambe fragili di scheletrici digiuni, mantenere l’equilibrio è ardua impresa, i volantini minacciano di scivolargli dalle mani e, se cadessero, sua madre non mancherebbe di fargli notare l’errore; chiude gli occhi, issando il capo nell’istinto di bilanciare il corpo ed evitare il freddo scalino alle sue spalle, ma nel riaprirli è accecato da luce emersa dal nulla.

E scivolano, dalle fragili mani crettate, alcuni volantini spinti dal vento all’asfalto, calpestati da scarpe di passanti distratti, dalla folla di persone che schermano la fonte di quella luce che continua a disorientarlo, al punto da costringerlo a poggiare la spalla destra al vicino lampione.

Verde.

Un faro, un fascio intenso di verde splendore che s’irradia dall’altro lato della strada, schermato dal nero di schiene fasciate in pesanti cappotti, eppure così luminoso da sovrastare il grigiore newyorkese.

È lì, da qualche parte, immobile, come se lo stesse attendendo, come se stesse aspettando d’esser scorto e Credence, senza pensare, senza soffermarsi a ragionare, lo cerca nella disperazione d’una speranza accesasi con quella luce impossibile da non riconoscere; quella luce che credeva impensabile.

Lo trova, dopo minuti d’insistenza, fermo al ciglio della strada, avvolto dal verde e dal nero d’un trench d’alta sartoria.

Lo trova pietrificato lì, al marciapiede, a guardarlo nella distanza di passi che paiono incolmabili, ed il peccato picchia il cuore di Credence più di quanto saprebbe fare la madre.

Un uomo, un distinto uomo indubbiamente d’agiata borghesia, un elegante uomo sicuramente più grande di lui, dall’aspetto raffinato e la schiena eretta di chi non subisce neppure il freddo.

Un uomo, un peccato inconfessabile, sacrilego, abominevole, inaccettabile.

Il panico guida lo sguardo all’asfalto, nella mente l’inquisizione di mille e più voci l’accusa di sodomia, e Credenze cade in una spirale d’eresia incolpando Dio stesso, all’altare d’un confessionale che esiste solamente dentro di sé, punta il dito contro quell’entità superiore che è causa, la vera causa, d’un peccato che non ha scelto di compiere; che sia una punizione?

Che il Divino Signore abbia scelto di punirlo per l’odio che ne annerisce l’animo, per l’assenza di cieca fede, per il miserabile blasfemo qual è?

Forse merita un simile destino amorale.

E quella luce verde, cercata negli anni, dimenticata nel tempo, ritrovata quando aveva cessato di sperarla reale, diviene l’orribile onta d’una vergogna inconfessabile; un disgustoso colore da far svanire.

Serra le palpebre, nel vano tentativo d’ignorare, di cancellare l’immagine di quell’estraneo, lì, ritto in piedi, al ciglio della strada, fasciato nel nero trench d’elegante raffinatezza, composto ed austero, ad osservarlo senza batter ciglia e senza lasciar trapelare segno di stupore alcuno.

Stringe a sé i volantini da consegnare, cercando di render muti pensieri impuri, sussurranti aggettivi che solamente ad una donna di casta moralità andrebbero rivolti, ma continuano a mormorargli inarrestabili constatazioni oggettive d’una bellezza sofistica, curata, ricercata eppure semplice, immediata, impossibile da trascurare.

Perde il conto del tempo, immerso in un isolamento forzato, e la madre lo trova così, infossato nelle spalle, ricurvo su di sé, poggiato al lampione

« non sai fare neppure questo? »

Sentenzia, arcigna, strappandogli i volantini dalle mani strette al petto, facendolo sussultare già impaurito dalle conseguenze. Le materne dita, come artigli d’arpia, gli stringono le spalle trascinandolo malamente, mantenendo tuttavia il contegno apparente che cela la reale crudeltà che poi, nel privato della dimora, gli riserverà.

Credence la segue senza osare parlare, temendo che persino i passi possano ingannarne gli ancora tormentati pensieri e non trova il coraggio d’assecondare una flebile curiosità, riecheggiante nella mente, a tentarlo come un demone peccaminoso, di volgere il capo e cercare, in quel fiume di persone impegnate nelle loro vite, se il verde faro sia ancora o lì o se, invece, se ne sia andato così come è arrivato; che fosse solamente una prova di resistenza, l’ennesima, cui Dio l'ha sottoposto?

Forse non c’è mai stata smeraldina luce dall’altro capo della strada, forse era una tentazione, un illusione escogitata dal Diavolo per macchiarne ancor più la già sporca anima.

E se così fosse, Credence, non saprebbe scegliere se gioirne o disperarsene; la speranza è una nemica difficile da sconfiggere e, infondo, lasciarsi illudere che quell’uomo, seppure inaccettabile sodomia, potesse proteggerlo dal freddo è stato, nell’intimo del confuso animo, piacevolmente confortante.


[you don't know me, 'cause I'm from a different age]
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[and you can't see me, 'cause I live in a different age]

Non era programmato, non era previsto, un inconveniente nel preciso schema della vita, una diramazione da ignorare, un segnale da sorpassare ed un bivio da evitare; ecco cos’è quell’aura verde per Percival.

Nulla di più e nulla di meno d’un simbolo, una manifestazione concreta del fato, un fato cui non ha mai concesso troppa importanza e, s’era convinto, che esso stesso si fosse arreso a lasciarlo nella statica quotidianità d’una vita dedita al lavoro, alla carriera, al personale prestigio ed all’onorare quel cognome che veste fiero.

In ventotto anni tante le storie che udì, innumerevoli i racconti che ascoltò ed altrettanto consistenti le testimonianze cui assistette, vi furono anni in cui chiunque lo circondasse pareva intenzionato a parlare unicamente di quello scintillante fascio di verde luce e di quanto felici fossero nell’averlo trovato; negli anni scolastici, in quelli dell’accademia, nel periodo d’addestramento.

Per tutti si trattava d’una benedizione, una gioia da gridare al mondo intero, da celebrare e glorificare. Una superficiale perdita di tempo, una distrazione inaccettabile, questo era per Percival che, d’amici e colleghi, ne vide troppi compiere grossolani errori a causa del tanto lodato e tanto cercato amore.

Persino la madre, nei ricordi di felice infanzia che possiede, non sprecò mai parole positive per quella luce verde così tanto bramata e, quando il padre decise che era giunto il tempo di spiegargli le ragioni, nascoste dietro quella materna ostilità nei confronti d’un sentimento desiderato da ogni cuore, comprese la verità che sfuggiva a molti; troppi.

La luce non dura in eterno e l’amore non è perfetto, alcuni fortunati posso vantare la felicità che altri, invece, sfiorano per esigui istanti di gioia, prima di precipitare in un baratro di sconforto, incastrati dal destino in una relazione malsana.

L’uomo, un purosangue di buona famiglia, cui la madre era predestinata non sapeva né amare, né apprezzare l’amore che gli veniva donato, si vestiva d’egoismo e sfoggiava ghigni menefreghisti, la saccente bocca non sapeva tacere ed il denaro era l’unica lingua che conosceva, furono anni di sofferente , tacita, tristezza. A lungo la madre si chiese per quale motivo il destino avesse scelto, per lei, una metà così spigolosa da collidere faticosamente con la propria e, alla fine, si disse che nessuno, neppure il fato, aveva diritto di scegliere per lei; decise di meritare la felicità e della predestinata luce dimenticò persino il colore.

L’amore, per sua madre, è una questione di scelta e Pervical crebbe nell’ombra d’una convinzione materna, assimilandola al punto da renderla propria.

A volte, quand’ancora il mondo non gli era chiaro, quand’ancora la vita racchiudeva in sé domande d’ingenua curiosità, si chiedeva se, forse, lui, nato privo della benedizione del fatto, possedesse un difetto nell’anima; crescendo poi si disse che, forse, il suo era un cuore raro che il destino non aveva potuto legare a nessuno.

Forse solo chi nasceva sotto l’influsso della verde luce poteva riceverla a sua volta, come la magia.

Se ne convinse al punto da non allarmarsene e non dispiacersene mai, neppure per un singolo fulmineo istante, dell’assenza che percepiva negli anni scolastici in cui gli amici scoprivano, inaspettatamente, l’eterno amore tra i banchi.

Eppure, gli suggerì la logica poi, nell’età ultima dell’adolescenza, non poteva essere l’unico figlio nato senza il benestare del destino, della verde luce, dovevano esistere casi simili, una questione di statistica e, allora, si disse che forse il fato aveva già scelto qualcuno anche per lui, che era nato sotto una stella incolore.

Pensarlo, tuttavia, non lo rese più disponibile, né ben accetto, ma anzi parve persino accrescerne la volontà di rifiutare l’eventualità e s’aggrappo alle cose materiali che avevano tangibile valore, che potevano essere toccate, si legò a tutto ciò cui aveva scelta, tutto quel che poteva modificare e decidere; divenne la rigida, impassibile, precisa quanto ligia al dovere, persona che è.

Ed andava bene, davvero, era tutto perfetto. L’accademia superata a pieni voti, l’addestramento per auror ultimato col massimo dei meriti, il lavoro al MACUSA ottenuto senza difficoltà alcuna, la vita era esattamente come Percival l’aveva sempre voluta; ogni pezzo aveva un ordine stabilito nella scacchiera e non cercava quell’unico che mancava, né tanto meno s’aspettava di trovarlo in una strada percorsa decine e decine di volte.

Eppure c’erano sempre state quelle assurde orde di ferventi fedeli, ammassati ai gradini della chiesa, a gridare e sventolare cartelloni, a predicare il male della stregoneria, a professarsi messaggeri di Dio, nella classica paura dei no-mag per tutto quel che a loro è ignoto, incomprensibile e Percival non ha neppure mai sprecato tempo a posarvi lo sguardo, infondo può persino sforzarsi di capirli, del resto chiunque teme la diversità, l’inusuale che sfugge alla ragione della logica; e, forse, proprio perché non l’ha sfiorati d’una singola fugace occhiata non l’ha notato prima, l’evidente fascio di verde luce che vede ora.

Impossibile, nulla gli sfugge, ha occhi abituati a captare ogni più minimo mutamento e reattiva mente predisposta al cogliere ogni singola incongruenza nella normalità; è parte del suo lavoro, è parte di sé.

Se non l’ha notata prima è solamente perché non c’era e, con essa, non v’era neanche quel corpo pallido, ingobbito, slanciato, fasciato in vestiti di terza mano, curati al punto da non risultare poveri, ma egualmente impossibili da credere borghesi; un operaio o, più probabilmente, figlio di proletari.

L’ha analizzato, spinto da una genuina curiosità, istinto da osservatore l’ha corretto la mente, meglio conoscere il volto da rifuggire s’è giustificato.

Giovane, troppo giovane, è stato il primo aggettivo con cui l’ha identificato. Pallido, troppo pallido, e magro, troppo magro; troppo in ogni dettaglio.

Dal volto eccessivamente scarno, alle guance infossate a render ancor più evidenti gli spigolosi lineamenti, dagli zigomi pronunciati, all’elevata satura che ne sottolinea maggiormente la sproporzionata magrezza, sino ai corti capelli corvini, discutibilmente acconciati, rimarcanti lo scavato viso.

Un viso che, se non fosse così palesemente emaciato, risulterebbe oggettivamente gradevole, dotato d’una bellezza particolare, racchiusa nei dettagli d’un insieme singolarmente affascinante; è un’ovvietà che non può evitarsi di pensare, per quanto la scacci poi accorgendosene.

L’etica lavorativa, la dedizione riposta nella carriera e nella carriera soltanto, gli imporrebbe d’allontanarsi soddisfatto d’aver mentalmente fotografato il volto da evitare per il resto dei suoi giorni, ma una curiosità che oltrepassa la necessaria osservazione, un umano interesse, ne mantiene ancorate al cemento le suole delle laccate scarpe nere.

E allora la guarda, quella luce intensa, perché non può fare altro, perché ha bisogno di trovare un motivo, uno valido, a giustificare l’inopportuna reazione ed il fatto che via sia un uomo nella verde luce non basta, è superflu; che sarebbe stato un uomo Percival l’ha sempre saputo.

Ma quel che guarda non è un uomo, è un ragazzino, forse maggiorenne o quasi e forse è questo il problema che lo tiene saldo al marciapiede.

O magari è lo scarno volto, la sgarbata maleducazione dei passanti che non si curano di lui, che ne fanno vacillare l’equilibrio, forse è l’educazione che lo vorrebbe in prima linea, ad aiutarlo a non cadere; ma non si muove e la smeraldina aura traballa, inciampa, si sorregge al lampione e Percival pensa che, forse, potrebbe oltrepassare l’esigua distanza, attraversare quell’asfalto che sembra un oceano immenso, e comportarsi quale la civile persona che i genitori gli hanno insegnato ad essere.

Però il respiro s’è bloccato da qualche parte, nel processo, e la memoria gli ricorda il fugace istante in cui ha incontrato le lontane iridi, dall’altro capo della strada; l’ha notato, quel ragazzino pallido, l’ha guardato per una frazione di secondo o forse più, non ha contato il tempo o forse l’ha fatto e non se n’è accorto.

Che importanza ha? Anche se fosse, anche se l’abbia scorto, non significa che abbia visto la medesima luce che ha visto lui; la statistica dovrebbe dire anche questo, non tutti i verdi fari sono destinati ad illuminarsi reciprocamente, o almeno questo vuole credere.

No, deve esserne certo, ha ventott’anni ed un intera carriera dinnanzi, ha appena cominciato e l’arrampicata ai piani alti è ancora ardua e scoscesa, necessita di concentrazione ed acuta attenzione, non ha spazio per distrazioni, non importa di che natura siano.

E poi, oltre l’asfalto, v'è un ragazzino che di vita, davanti a sé, ne ha ancor più di quanta ne ha lui e d’esperienze deve ancora compierne chissà quante, probabilmente ha ancora l’ingenuità dei giovani addosso; sarebbe un crimine privargliene.

Intercetta qualsiasi sia la provenienza d’una vocina sottile, che tenta di sovrastarne i razionali pensieri, e l’azzitta nella testarda decisione di lasciare che svanisca, che si dissolva nella coltre di persone indaffarate a vivere le rispettive esistenze e s’appunta un promemoria di massima importanza : cancellare quel volto, quella sagoma tremolante, infossata su se stessa come se tentasse di nascondersi dal mondo intero, per sempre.

Se lo segna nella bacheca dell’ordinata mente, concedendosi il lusso di rimirarne il mnemonico ritratto per qualche minuto ancora; non potrà certo condizionarlo troppo, il tenerselo tra i pensieri, nel consueto tragitto mattutino.

[and you could hurt me, but you wouldn't know what to say]
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[but you should believe me, our dreams are all the same]

Ha cercato, Credence, nei giorni a seguire, di dimenticare l’inaspettata, quanto inattesa, rivelazione; ma quel che nessun prete e nessun libro ha detto mai è l’impossibilità nel riuscirvi.

Da quando l’ha trovato, da quando l’ha visto, lo sguardo ne pare magnetizzato e, in più d’un occasione, s’è trovato costretto a concentrare l’attenzione ai volantini stretti nelle crettate mani, al fine di ignorare l’evidente fascio di verde luce muoversi in lontananza, raggiungere il lato opposto della strada, fermarsi per qualche istante ed allontanarsi poi nuovamente. In un mattutino rituale che, ormai, dopo settimane, ha memorizzato al punto da esser preparato ancor prima che accada.

Più d’una volta il demone tentatore ha cercato di fargli sollevare il capo, di fargli incontrare nuovamente quegli occhi lontani, d'accorciare le distanze e scoprire, conoscere, avere un nome da attribuire alla smeraldina aura; ma più della punizione divina quel che, Credence, teme è la materna ira.

Se lo scoprisse, se lo trovasse lì, dall’altra parte della strada, a parlare con un estraneo, un uomo per giunta, lo costringerebbe ad inginocchiarsi ed implorare perdono per tutti i peccati che non ha ancora commesso, per la sodomia di cui la mente s’è macchiata, senza concedergli scelta, e lo costringerebbe a sottostare all’eco di frustrate a lacerarne l’epidermide, a spezzarne la colonna vertebrale.

Perché Dio l’ha condannato ad un simile crudele destino? Quanti errori ha commesso, di quanti non s’è accorto, per meritare una simile tortura?

Doveva essere una donna, una giovane fanciulla di modesta estrazione sociale, pia e devota, casta ed immacolata, ad irradiare la verde luce dell’amore eterno; la diversità è depravazione, è scempio ed abominio.

Eppure, se questo è il volere di Dio, se è questo quel che il destino gli riserba, forse può significare che, l’onnipotente Signore, che tutto vede e tutto sa, non ripudia le perversioni della carne, ma anzi non le considera tali, perché l’amore non può essere sbagliato e non può nascere dal Diavolo; gli sussurra una filosofica giustificazione, sorta da qualche parte nella mente.

È inutile, Credence non l’ascolta, non può, gli insulti materni, le prediche del pastore, i cori della chiesa, la minaccia dell’eterna dannazione hanno un suono più forte, una voce più imperativa che sovrasta quel flebile spiraglio di speranza che, incontrollato ed inconscio, tenta di manifestarsi ogni giorno.

Se soltanto potesse, se soltanto gli fosse concesso, Credence l’attraverserebbe ad occhi chiusi quell’oceano asfaltato, s’aggrapperebbe all’altra riva, approderebbe nell’opposta sponda e, come un naufrago bisognoso d’aiuto, si lascerebbe accogliere dalle braccia che il destino gli ha predetto.

Non ha importanza chi sia quell’uomo, né che nome abbia, né tanto meno che sia un uomo, tutto quel che conta, tutto quel che Credenze necessità, è qualcuno che possa portarlo lontano dall’annegare, dal soffocare in un mare nero in perenne tempesta.

Tutto quello di cui ha bisogno è la speranza, la salvezza, qualcuno che l’accarezzi nelle notti inquiete, che lo stringa riscaldandone le fredde ossa, qualcuno che ne asciughi le gocce salsedine dal bordo degli occhi e ne disinfetti l’anima ferita; qualcuno che lo curi da sé, dalla condanna della vita.

Che gli insegni, l’accompagni, lo istruisca, a trovare una ragione per svegliarsi senza tremare ogni mattina.

Ed è lì, davanti a sé, è racchiusa in quella luce verde che brilla al di là della strada, la speranza, la salvezza, è lì e non può sfiorarla, non può averla; gli è preclusa, è l’ennesima punizione che dovrà imparare ad accettare, sino a convincersi di meritarla.

[but a love without life, well, that just happens every day]
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[and I wish I could change, but I'll probably stay the same]

Ha dimenticato di dimenticare, Percival, e quell’immagina che avrebbe dovuto cancellare gli è rimasta incastrata, tenacemente incollata, ai pensieri sino a divenire parte d’un rituale quotidiano.

Il problema è che, anche volendo, l’occhio non sa schivare gli invadenti verdi raggi. Li nota già nella distanza di metri e metri, li intercetta ancor prima che possa giungere nell’ormai noto punto in cui, sempre, non importa quanto freddo faccia, né l’orario, si ferma ad osservare quel gracile ragazzino dall’aspetto malaticcio e denutrito.

Il perché lo faccia è un mistero che preferirebbe non scoprire, testardamente convintosi nell’impossibilità d’un incontro ed altrettanto certo dell’infattibilità d’una conoscenza e dell'inaffidabilità della verde luce, potrebbe cambiare tragitto, potrebbe persino sfruttare la tanto cara magia, potrebbe evitarlo in cento e più modi; se lo ripete da settimane, ma mai riesce a farlo.

È una forza superiore, un ordine imposto da incorpora entità, a spingerlo sempre e solamente in quella strada, a cementificarlo al marciapiede per minuti e minuti, a rimirare e studiare quel ragazzino ingobbito, che pare volersi nascondere dal mondo e da lui.

La sente, persino nella distanza, la paura che emana. È così evidente da fargli desiderare, per impercettibili istanti di inspiegabile pazzia, d’attraversare l’asfalto, divincolarsi tra l’umana marea, e raggiungere quelle spalle infossate, poggiarvi le mani e donargli la sicurezza, la serenità, che è certo meriti.

A volte si scopre curioso di conoscerne il nome, la forma del sorriso che mai gli vede affiorare alle carnose labbra, di saperne dettagli personali che solamente ad un interesse andrebbero rivolti; e non è questo, non può essere questo, non deve esser questo.

La verde luce non è legge, la verde luce può sbagliare, la verde luce non dev’esser sempre assecondata.

Se lo ribadisce come un mantra, ogni singolo giorno, sperando di convincersene al punto da riuscire a cambiare percorso, lasciare quel volto emaciato nel fondo delle memorie, farlo svanire, cancellarlo per sempre; riuscire in quel che la magia non può fare, ininfluente nelle questioni di predestinazione.

È la rigidità d’una testarda convinzione ad impedirgli di navigare quell’oceano nero ed approdare in nuove terre, esplorarle, farsi accogliere come un marinaio giunto da lontano e lasciarsi coinvolgere nella conoscenza di nuova vita che il destino gli ha presentato.

Se soltanto non fosse un ragazzino, così giovane, se soltanto non avesse la certezza d’un eccessiva differenza d’età, forse, potrebbe concedersi la possibilità di scoprirlo, di valutare l’offerta che la verde luce gli ha mostrato e scegliere cosa pensarne.

Forse, gli suggerisce una rigido ragionare, è proprio l’impossibilità d’avere quel lieto fine che fa sospirare tante bocche e batter tanti cuori, quel che il destino voleva fargli provare, la conferma che sin da giovane credeva di sapere già; chi nasce senza la benedizione della smeraldina aura è predestinato a non poterne mai realmente conoscerne l’essenza.

E lì, dinnanzi a sé, nella distanza di pochi passi, al di là della strada, racchiusa in quel volto scarno, di triste pallore, risiede l’amara consapevolezza che ne blocca i passi, nella contemplazione di quel che mai potrà avere, e ne muove poi le gambe, nella rigida rassegnazione, allontanandolo da quel che, si finge di credere, non necessità d’avere nozione.

[you can't hear me 'cause I sing to a different age]

Alla fine, dopo lungo meditare, ho deciso di tentare ad approdare anche in questo fandom (ultimamente mi va di disturbare) e provare a postare questa roba qua; probabilmente noiosa e sicuramente troppo lunga. 

Il problema è che la mia mente ha deciso di creare un progetto, inutile, basato su vari spunti di Soulmates AU trovati in giro e, tra le ships scelte, c'è rientrata anche questa coppia qui. 

Ho lasciato la magia ed un po' di contesto noto a tutti, ma ho deciso di rielaborare il concetto di Soulmates AU miscelandolo alla trama del Grande Gatsby e, inevitabilmente, i personaggi hanno subito dei cambiamenti; per necessità di narrazione. 

Ad ogni modo spero che possa piacere ed interessare qualcuno e ringrazio tutti coloro che vorranno leggere, così come ringrazio già tutti coloro che sono arrivati fin qua. 

Grazie e al prossimo capitolo, se vorrete. 

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Capitolo 2
*** Chapter II ***


and distinguished nothing

except a single green light

Febbraio è il mese peggiore, corto o lungo che sia, il freddo diviene pungente nelle ore mattutine per poi decrescere, concedendo spazio ad una temperatura meno congelante, ma nell’incostanza di statico clima rigido le mani risentono del tenue sbalzo e divengono ancor più ruvide, ferite ancor di più dai graffi del vento.
I passanti poi paiono peggiorare con il passar delle stagioni, d’inverno molti si limitano a sguardi disgustati, ad occhiate raccapricciate o ad insulti fugaci, ma con l’avvicinarsi della primavera non si limitano a rifiutare i volantini, li stracciano, li gettano a terra, senza cura alcuna spingono via il gracile corpo di Credenze e l’equilibrio vacilla, al punto da costringerlo a sorreggersi al lampione.
Oggi, come tante altre mattinate interminabili, s’è stretto nelle spalle, infossando il collo come una tartaruga spaventata, riducendosi a giunco sottile accostato alle scalinate della chiesa, allungando le braccia quel tanto che basta per far notare i volantini; ed ha cercato di non pensare all’assenza, prolungata, della verde luce che non è più stato in grado di captare neppure con la coda dell’occhio, neppure lontano.

Che sia svanita? Che non sia mai realmente esistita?

Era solamente un’illusione, un inganno architettato dal Diavolo in persona?

Vuol forse significare che ha superato la prova, che Dio l’ha perdonato?

O significa, forse, che quell’uomo l’ha rifiutato, sdegnato d’esser stato predestinato ad un miserabile come lui?

No, deve lasciar perire la speranza, come aveva fatto anni fa, non può continuare a peccare, deve imprigionare gli impuri pensieri nel profondo dell’animo; sa farlo, può farlo, deve farlo.

La distratta mente, immersa nella confusione di una psiche che non sa aiutarsi e non riesce a trovare esterno aiuto, lo fa muovere per inerzia d’abitudine e gli impedisce di notare un uomo, tarchiato e dall’aspetto borioso, strappargli bruscamente il volantino dalle tremule dita ed irriderlo; le spalle collidono e nello scontro è Credence a cadere, troppo deboli le magre gambe di digiuni forzati.
Il cemento duole al coccige e la schiena, le vecchie cicatrici e le nuove ancora fresche, gridano silenziose nello scontrarsi al freddo lampione, stringe i denti, forzando le ginocchia al marciapiede, chinandosi ed allungandosi nella fretta di raccogliere i caduti volantini.
Nella foga di rimediare ad un imperdonabile errore,  prima che la madre possa vederlo, prima che Dio possa punirlo, non coglie lo spostamento d’aria che gli s’infrange al volto e non percepisce una presenza aiutarlo a raccogliere gli sparpagliati fogli; se ne accorge solamente quando raffinate dita sfiorano le proprie.
Istintivo si ritrae, stringendo i pochi volanti recuperati, lo sguardo vorrebbe sollevarsi ad osservare quel magnanimo passante, ma la nuca non trova il coraggio necessario e tutto quel che Credence riesce a vedere sono le maniche d’un trench nero, impeccabilmente rifinito, cui si scorgono i polsini della camicia avorio, i grigi bottoni lucidi comunicano eleganza e la verde luce l'acceca.

« la stregoneria è un abominio  »

la voce gli risuona nei timpani, rauca quel tanto che basta a conferirgli un suono serioso e maturo, la dizione così impeccabile da non lasciar trapelare neppure l’accenno d’un accento che ne possa indicare le esatte origini, Credence si vergogna come fosse un miserabile vagabondo nel sentirlo leggere quel che, i volantini, riportano

« la furia divina s’abbatterà sugli eretici pagani - non lo irride, né lo insulta, non agisce come gli uomini che ormai s’è abituato a sopportare, ma anzi gli porge il foglio - sei un credente »

Non lo domanda, l’afferma o meglio lo deduce, e Credence vorrebbe potergli dire che non lo sa, non sa più se esiste davvero un Dio o se, invece, è solamente una finzione nata da menti spaventate dal peso d’una vita che non sa concedere spiegazioni alle più aberranti situazioni, ai dolori lancinanti dell’animo, come quello che, adesso, lo sta spezzando più di quanto riuscirebbe a fare la cinta in cuoio della madre.

È lui, l’uomo che gli è dinnanzi, chino alla sua altezza, l’uomo che non ha il coraggio di guardare, è la luce verde che vide giorni e giorni fa.

Gli è davanti e Credence teme che sia questa la reale punizione di Dio o l’ultima tentazione del Diavolo, che si tratti d’una prova da superare o d’una punizione per essersi macchiato d’impuri pensieri, in quei mesi di confusione emotiva.

« stai bene? »

Perché continua a parlargli? Perché non se ne va disprezzandolo come chiunque altri? Perché non lo lascia lì, al suolo, tra volantini ancora sparsi a terra e la vergogna ad infiammargli il cuore?

Se cessasse di parlare, forse, Credence potrebbe alzarsi prima che la madre torni, prima che possa cedere ai bisbigli del demone tentare e sollevare il capo a guardare quegli occhi che, nella distanza d’un oceano d’insicurezza, cercò inconsciamente ogni giorni; chiedendosi che colore avessero.

Il verde fascio luminoso non s’allontana e non scompare, resta lì, ad accecarlo, e gli tende la mano, quella stessa mano che l’ha aiutato poc’anzi, in una tacita gentilezza.

Annuisce Credence, è l’unica cosa che riesce a fare, le labbra dischiuse, la gola essiccatasi e la mente invasa da pensieri urlanti, desideri si scontrano coi dettami appresi nell’infanzia

« sto bene, signore - riesce ad articolare, un balbettare incerto, un soffio appena percettibile - la ringrazio »

« non ringraziarmi, non ve n’è bisogno - è impostata, formale, l’intonazione, ma c’è una genuina bontà a musicarne le parole - permettimi di aiutarti, temo tu abbia avuto un calo di zuccheri »

Zuccheri.

Non sa neppure cosa siano, tutto quel che è dolce è proibito; peccato di gola, condannabile con l’eterna dannazione.

Credence lo zucchero non l’ha mai assaggiato, non sa attribuirgli neanche una forma, né un colore, né tanto meno sapore, tutto quel che lo stomaco ha conosciuto sono briciole di pane secco, porzioni microscopiche di legumi galleggianti in acqua bollente e scarne verdure dall’aspetto inconsistente.

« la ringrazio, signore - ripete, balbuziente, meccanico, come un burattino manovrato da mani esterne - ma non voglio arrecarle maggior disturbo »

« non arrecheresti alcun disturbo, permettimi di aiutarti »

Aiutare.

Da quanto tempo sogna di poter udire tali parole?

Troppi per poter credere che, finalmente, siano divenute reali.

Troppi per potersi illudere che provengano dalla verde luce, da raggi di impura immoralità.

Deve rifiutare, deve mantenere il volto chino, deve chiudere gli occhi, deve impedirsi di guardare lo smeraldino sole; deve fuggire dalle tentazioni demoniache, ma è già tardi.

Si specchia già in iridi scure, un nocciola così intenso, sfumate venature chiare ne contornano la pupilla, lo inghiotte in un turbine confuso di caotiche emozioni disordinate.

Quanti colori esistono al mondo? Quanti occhi? E quante tinte conosce l’iride umana?

Eppure, malgrado la vastità cromatica, malgrado la sconfinata quantità, a Credence sembrano tutte inutili, ignorabili, se confrontate alla sincera genuinità che albera negli occhi dinnanzi a sé.

Sbatte le palpebre, così velocemente da vedere solamente bagliori di forme e sagome, e mormora una preghiera che nessun umano orecchio può udire, ma che solo Dio può sentire; invocando perdono per l’errore commesso, per esser caduto nel tranello del Diavolo, per aver ceduto alla peccaminosa curiosità ed aver avuto impuri pensieri per occhi estranei.

« potresti rischiare di svenire nuovamente, lascia che ti aiuti »

Svanisce l’ultimo briciolo di forza rimastagli per negarsi una possibilità così luminosa, forse è Credence stesso a non voler più protestare, ad accettare i sussurri del demone tentatore e cedere, far collidere il tremulo palmo ruvido alla liscia mano sfilata, solamente ora lo nota, dal nero guanto; v’è ancora il calore dell’imbottitura interna impresso nella morbida pelle.

Se sua madre lo vedesse, proprio ora, ergersi con fatica, tentando di deglutire l’imbarazzo, la vergogna, la paura che quel contatto gli suscita, cercando di non sentirne il gradevole pizzicore, una tenue scossa elettrica, che lo sfiorarsi delle epidermidi ha generato, provando ad ignorare l’accentuarsi della verde luce, divenuta un faro così splendente da far temere che possa esser visibile a chiunque, lo trascinerebbe bruscamente via dal peccato che sente già di compiere; lo costringerebbe ad implorare, ad un Dio che forse non ascolta neppure, perdono.

Le labbra screpolate s’incollano tra di loro, la gola è un’arida distesa e le corde vocali vorrebbero formare parole che non sanno pronunciare.

Chiederebbe, Credence, se riuscisse ad articolare sillabe di senso compiuto, quale nome possa attribuire ad una visione che, ad occhi spaventati dalla vita, somiglia a quegli angeli cui la Bibbia narra.

Non ha il coraggio di guardarlo, non apertamente, ma lo spia rimpicciolendosi nelle spalle, ingobbendosi sino a sembrare più basso di quanto in realtà non è, rispetto a quell’uomo, sicuramente più adulto di lui, da cui non lo dividono che ignorabili millimetri; forse un centimetro, approssimando per eccesso.
In quel fascio smeraldino è racchiusa la sagoma elegante d’un uomo dal roseo ovale e Credence ne ricalca, segretamente, le linee delineate della mandibola, convergenti nel mento squadrato, conferenti una fisionomia matura, dura, ma tutt’altro che aspra o spigolosa; accentuata da sottili filamenti corvini, sfioranti gli scuri occhi, discesi dalla folta capigliatura.
E lo segue, lo segue a copo chino e passi tremuli, non guarda neppure dove lo stia concudendo, si ridesta solamente quando ne sente la voce richiamarlo

« prego, dopo di te »

L’educata voce interrompe il peccaminoso fantasticare, esplorando inconfessabilmente quel viso che lo reclama, come magnete incontrastabile.

Sussulta impercettibilmente al lieve tocco della mano destra, di quell’estraneo che pare eppur già familiare, che gli sfiora le scapole invitandolo garbatamente a varcare la soglia d’un locale ristretto, ma confortevole. Aromi mai annusati prima solleticano l’olfatto di Credence, una gradevole festa d’odori sconosciuti risale le narici e le labbra si dischiudo istintive; aspettandosi di poterne assaporare il materiale gusto.
Incerto, le gambe ancora instabili e la mente intrappolata in vertigini di pensieri confusi, contrastanti, di peccati e speranze, di volontà e divieti, Credence imita le movenze dell’uomo, sistemandosi goffamente alla sedia in legno di ciliegia; ritraendosi involontario all’arrivo d’una giovane donna, dall’arricciata chioma bionda ed un sorriso smagliante.
Il menù che gli porge, Credence, non è neppure in grado di decifrarlo, tutti quei nomi, quei frutti e quelle diciture, non le ha mai lette; ogni cosa è un peccato, dalla cioccolata calda alla pasta sfoglia ripiena di marmellata.

Tutto è un peccato, dal dolce sino al volto di quell’uomo che lo guarda, così intensamente e così attentamente da farlo sentire un'interessante formica schiacciata dal peso d’una lente d’ingrandimento e deglutisce Credence, infossandosi ancor di più nelle già ricurve spalle.

don't believe what you've been told, people lie
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people love, people go, but beauty lies in every soul


Dovrebbe cessare di fissarlo come fosse una curiosa creatura meritevole d’ogni attenzione, dovrebbe posare lo sguardo altrove, magari al menù che Queenie gli ha gentilmente portato; come se non fosse già consapevole dell’usuale ordinazione.

Deve averlo imbarazzato, quel ragazzino introverso, al punto da spaventarlo, forse è stato troppo insistente, forse s’è importunatamene imposto, ma cos’altro avrebbe potuto fare Percival?

Lasciarlo lì, al suolo, tremante come una foglia troppo secca distaccatasi dal ramo più alto d’un albero?

No, non ci sarebbe riuscito, neppure se avesse realmente tentato d’opporsi all’istintiva volontà d’azzerare quella distanza che, nei passati giorni, s’era più volte ripetuto impercorribile.
Per alcune settimane era persino riuscito a resiste all'impulso, un'inspiegabile tentazione, di tornare a percorre quell'usuale strada e s'era trovato un modo diverso, differente e lontano, per poter evitare d'intravedere il verde fascio; ma riusciva a sentirlo anche nella distanza, oltre i tetti delle case ed i lampioni.
Resistette per quel che gli sembrarono un'eternità e, infine, cedette dicendosi forte abbastanza per contrastare ogni sconsigliabile, irrazionale, volontà; ma poi lo vide cadere spinto da incivili uomini, convinti di possedere permessi concessi dalle banconote nelle tasche.

L’ha visto rivestirsi di timore nel raccogliere i volantini, quei ridicoli volantini pieni di menzogne ed errate sentenze, e la verde luce l’ha trascinato come onde attratte, per naturale processo, dagli scogli.

Quegli zigomi pronunciati, quei lineamenti affilati, quel volto emaciato, le guance infossate, sgraziatamente accentuate dalla capigliatura eccessivamente corta, somigliano realmente a scogli contro cui Percival s’è ormai scontrato e v’è rimasto, contro ogni volere, incastrato a cercare di scorgere il colore d’un mare nascosto nelle iridi costantemente chine al suolo.

Nella ravvicinata distanza d’un tavolo rotondeggiante il pallore della pelle, così diafana da sembrare lunare raggio, pare ancor più fragile di quanto non sembrasse dall’altro lato della strada; e l’altezza ne fa risultare ancor più evidente la magrezza, a Percival sembra di poter scorgere i sintomi di un’insana alimentazione.
Probabilmente è per questo, solo per questo, che non è riuscito ad impedirsi di portarlo nel luogo che, dopo anni ed anni, ha etichettato come il più confortevole dopo la propria casa o, forse, si sta solamente vendendo scuse poco credibili nell’inutile tentativo di non comprendere la verità.

« pronti per ordinare? »

Non ha mai ringraziato d’udire la voce di Queenie come adesso, si costringe a riportare equilibrio nei pensieri, che corrono lungo una pericolosa ferrovia, incontrollata, e tenta d’articolare parole che, la donna, gli precede 

« il solito – sorride, consapevole – e per te, caro? »

Il ragazzino si ritrae ancor di più al legnoso schienale, dalla postura che ha assunto, sin dal primo istante, Percival non può impedirsi di chiedersi se non vi sia ben altra spiegazione della normale timidezza, una spiegazione sgradevole che lo fa sospettare possa esser riconducibile a violenze subite; e difficilmente sbaglia, l’intuito è una qualità innata che ha imparato ad affinare ancor di più negli anni accademici

« se sei indeciso – interviene, gentile e cortese, professionale come sempre, Queenie – posso proporti la specialità della casa, ti assicuro che è deliziosa »

Percival è mediamente certo che, quell’esile ragazzino, non abbia neppure letto il menù e che, probabilmente, non ha neanche realmente ponderato l’idea di scegliere e nel vederlo annuire impacciato, come se fosse una vergogna lasciarsi servire un dolce qualsiasi, inevitabilmente non può che confermare il sospetto non appena gli viene posto dinnanzi il piatto.
Cerca di concentrare l’attenzione alla tazzina di caffè, scuro ed amaro, che gli è stata portata assieme ad un singolo biscotto rettangolare, rivestito di cioccolato fondente, i sapori troppo dolci non sono mai riusciti a piacergli; quella ciambella, la specialità della casa, faticò a digerirla la prima volta che fu costretto ad assaggiarla.
Il ragazzino la guarda, pare studiarla, come se non avesse mai visto la concentrica forma rigonfia d’una ciambella priva di buco, rivestita di bianco zucchero e tentennano le dita, sfiorando il soffice impasto

« la offre il locale – gli sfugge istintivo dalle labbra, se ne pente nell’immediato istante successivo, ma è tardi per correggersi – è una tradizione, la prima volta che venni qui la fecero assaggiare anche a me, non fu di mio gradimento ed ordinai altro »

Non sa perché, poi, ha scelto di raccontargli quel singolo aneddoto, forse perché la psicologia non è mai stato suo settore di competenza, carente della necessaria empatia, ma con quel fascio verde dinnanzi a sé sente di dover tentare, vuole tentare, e vederlo indugiare lo innervosisce; rende troppo rumorosa la voce della razionalità che gli ricorda d’aver ceduto ad un errore.
Il giovane non sembra neppure averlo ascoltato, ma addenta timidamente il soffice impasto, e le palpebre si spalancano come finestre che s’aprono per la prima volta, l’iride si dilata al punto da renderne evidente il colore persino a capo chino.

Nocciola, così intensi da sembrare neri, gli occhi che spiccano nella luce smeraldina.

Un nero in cui Percival si perde, un nero che lo inghiotte, magnetico ed incantevole, ruba il respiro e lo sostituisce con ammonimenti personali, di rigida mente combattuta tra l’inspiegabile istinto e la razionale schematicità.

« mi pare di intuire sia di tuo gradimento »

Azzarda, forse perché adesso vorrebbe anche concedersi il lusso di rubargli un sorriso, prima di costringersi a separarsene nuovamente e, questa volta, definitivamente; ma il ragazzo sembra intrappolato in un ciclo di pensieri confusionari.
Il dolce ricade al piatto e le labbra si bloccano nel sospiro d’un colpevole, ha l’intensità del respiro d’un condannato e Percival odia dover confutare le ipotesi che già aveva

« è…molto buono – balbetta, ha un suono così fragile la sussurrata voce – e le sono grato, signore, ma…non posso...restare »

Le iridi sembrano cercare qualcuno, ma c’è terrore in quelle distese nere e la schiena s’irrigidisce, è un fascio di nervi tesi e scatta come una molla storta, deformata da pesi, pendente e ricurva su se stessa

« aspt… »

« mi perdoni per il disturbo arrecatole – è così eccessivamente formale, somiglia ad una marionetta malconcia guidata da invisibili dita sempre presenti – buona giornata, signore »

Quel suo ribadire, sottolineare, quell’appellativo troppo specifico gli ricorda quanto infattibile sia il tentare, il concedersi un lusso che credeva riservato a pochi, che riteneva di non volere, e mentre la mente gli impone di tace ed immobilizzarsi alla sedia, le gambe prendono autonome decisioni e si muovono a seguire la scia di piedi trascinati pesantemente al suolo.
Non può afferrarla, la tentazione d’una verde luce che deve negarsi, che deve fingere di non aver mai veduto, che è obbligato da ferra moralità ed impegni ben più importanti, o almeno così si ripete, ad ignorare; ma può sfiorarla, per un istante, un effimero, fugace, istante di pace

« come ti chiami? – rotolano dalle labbra le parole, un desiderio che deve realizzare, prima di venirne schiacciato un’altra volta ancora – concedimi solo questo »

Risponde alle mute domande della carnosa bocca, le crepe nei labbri sono così secche che paiono poter sanguinare ad ogni parola, negli occhi gli legge la paura, l’incertezza e l’impossibilità, un’impossibilità che riconosce, che è la medesima che vede in sé.
Scivola, lo sguardo del giovane, a cogliere le dita debolmente cintesi attorno al candido polso e deglutisce qualcosa, qualcosa che non conosce, qualcosa che Percival non può capire, boccheggiando parole che faticano ad emergere; combattute 

« Credence – un soffio sottile, così flebile e sfuggente, lo deve raccogliere e conservare prima che possa volare via – Barebone »

Credence.

Credence Barebone.

La verde luce, la sua verde luce, ha un nome ed un volto, ora può lasciarla andare, può separarsene per sempre e lasciarla vivere lontana da sé; ma una volontà superiore, che surclassa la ragione e la logica, che inganna il cervello e da ordini alle corde vocali, gli muove la lingua

“Percival Graves”

Non glielo ha chiesto, il giovane, Credence, non gli ha chiesto nulla e, forse, non l’avrebbe fatto, ma l’incosciente subconscio ha voluto ferire Percival e l’ha spinto a rivelarsi, a concedergli il lusso d’un illusione passeggiera e se ne pente, se ne pente come fosse il peggiore degli errori mai commessi, non appena libera il pallido polso e guarda le ingobbite spalle tentennare, vacillare e traballare prima di allontanarsi; se ne pente, si pente di lasciarlo andare così come si pente d’essersi permesso di sfiorarlo.

Percival lo sa, non è un ingenuo, sa che quel giovane, Credence, Credence Barebone, non ha tutte le esperienze, la crescita serena, le possibilità che gli aveva dipinto addosso la prima volta che lo vide, ora sa che quel che attende il giovane è una paura costante del mondo, del presente e del futuro, eppure non può permettersi l’arroganza di professarsi aiutante; deve credere di sbagliare, deve dirsi d’aver sbagliato sin da principio e deve tornare a percorrere la strada più lontana, distante dagli occhi e dalla verde luce.
Deve farlo adesso, anche dopo aver sfiorato la quiete d’una pace che non può concedersi, che non può permettersi, la logica gli ripete che ha troppo da conquistare ancora e la razionalità gli ricorda che non è un cuore la vetta cui deve ambire; ma le dita, i polpastrelli, il formicolio che persiste sin da quando ha sfiorato la candida pelle, gli sussurra involontari desideri.
Le renderà muti, si dice mentre le ricurve spalle svaniscono all’orizzonte e quel che resta è un raggio smeraldino ancora troppo vivido.


I wrestled by the sea, a dream of you and me

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I let it go from me, it washed up at my feet


Grazie a tutti coloro che hanno letto e recensito, davvero, grazie!
Mi sono dimenticata di dire che, in questa "linea temporale" Credence ha intorno ai diciotto anni, più o meno come nel film, ma Percival ha, circa, trent'anni; quindi ci sono solo (si fa per dire) dodici anni di differenza.
Comunque grazie ancora, alla prossima, se vorrete.

 


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