Il cielo nei tuoi occhi

di Mara02
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Sotto il cielo di Parigi ***
Capitolo 3: *** 2. La remora del passato ***
Capitolo 4: *** 3. Preparativi ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Urla.
Urla spietate, di esaltazione, di eccitazione.
Urla che pretendono tutto e niente da te, urla che ti incitano a mostrare il meglio di te stesso.
Conosco oramai bene, quelle urla, poiché senza di esse, non sarei mai stata qui, in questo posto occultato al mondo intero, per mostrare, ancora una volta, il meglio di me.
L’adrenalina sale.
Lo sento nell’aspettativa delle loro voci, nell’agitazione che trasuda dai pori di tutti noi.
Sento le goccioline di sudore iniziare già a prendere forma lungo le mie tempie, il mio respiro farsi sempre più affannato, e le mie dita tremare per l’ansia che qualcosa andasse storto.
Come sempre, del resto, mi dico. C’è mai stata una volta, nella tua misera vita, in cui qualcosa sia andata per il verso giusto?
A distogliermi dal mio piccolo monologo interiore, però, fu il mio stesso nome: “Katarina”.
È stato Lysandro a chiamarmi, posso dirlo nell’immediatezza poiché è l’unico dei miei amici ad utilizzare il mio nome per intero, al contrario degli altri che usano qualsivoglia nomi per appellarmi.
Mi giro di scatto verso di lui e non posso fare a meno di sentirmi a disagio di fronte a tutta quella bellezza. Rimango d’incanto di fronte alla sua figura slanciata e a quel suo sorriso candido, mentre mi porge un microfono e mi augura un delicato “buona fortuna”, prima di dar l’okay ai collaboratori di spegnere le luci.
È in quei momenti che la tensione sale al massimo, perché devi fare i conti con l’apparente calma che si instaura dentro di te e l’aggressività che il pubblico pretende. Ma per me, questo, non è mai stato un gran problema: inspiegabilmente, piaccio alla gente in genere. Anche se cerco di allontanarmi da loro, anche se cerco di non avere alcun contatto, finisco sempre ed irrimediabilmente attorniata da gente.
Ma non è il momento di pensare questo, me lo fa anche notare Castiel, con le sue solite battutine di scherno: “Ehi, Kat, sei tra di noi, vero?” mi grida, cercando di sovrastare il trambusto creato dal pubblico impaziente. “Mi dispiace strapparti via dal tuo mondo di elfi e draghi, ma ci sarebbero un bel po’ di ragazze che mi aspettano là fuori e… sono vere!” mi sorride malandrino.
“Aspetta e spera: l’unico fan club esistente è quello di Lysandro. È più probabile che si crei prima quello della cameriera lì infondo, piuttosto che il tuo” lo punzecchio con un sorriso sornione.
Ogni volta tra di noi è così: se dobbiamo intraprendere una conversazione, deve essere piena di doppi sensi, frecciatine e provocazioni. Solo questo tipo di chiacchiere. Non ricordo di aver mai avuto una conversazione seria con quel bulletto.
“Che è anche carina” mi fa notare lui, con un sorriso di sfida.
“Bene, credo proprio di aver trovato il primo membro”
“Di cosa?” s’intromette una terza voce, timida.
È Nathaniel, che conciato e pettinato dietro le quinte, con un fermaglio tra i suoi capelli dorati, si aggiusta la maglia scura succinta che è stato costretto ad indossare.
“Ragazzi, in scena” ci richiama all’ordine Lysandro, appena comparso da dietro il biondo dove, insieme ai collaboratori, aveva regolato le luci e gli ultimi acciacchi degli altoparlanti.
Lo seguiamo in silenzio, ormai tutti sotto pressione, ma carichi e pronti a dare il meglio di noi in quell’esibizione.
Un ultimo fascio di luce ci acceca, prima che quel nome risuoni nella sala, investendola di adrenalina e compiacimento: il pubblico grida, alcuni in fondo si alzano persino. Stendono le braccia, battono le mani, saltano dall’eccitazione. Perché sul palco salgono i Thunder Blast.
“Ehi, cappuccetto rosso!” lo chiamo, prima che il pubblico faccia silenzio. Lui si gira, facendo roteare la chioma rossa che lo rende tanto ribelle. “Augurami buona fortuna”.
“Te ne servirà!” mi sento gridare di rimando da Castiel.
Poi mi giro di fronte a me, dove Nathaniel si siede davanti alla sua batteria e, mentre gli passo davanti, gli faccio un occhiolino e gli sussurro: “Ehi, andrà tutto bene, non preoccuparti!”
“Se lo dici tu, mi fido” mi sorride a sua volta, prima di abbassare la testa sui piatti.
Mi faccio forza e, sistemandomi nella mia postazione, davanti la mia piccola pianola elettrica, mi posiziono accanto a Lysandro, proprio di fronte al pubblico.
In prima fila riconosco subito il capelli argentei di Rosa, la mia migliore amica, che si sbraccia e grida il mio nome e quello di Lysandro come se fosse in uno stadio di calcio, piuttosto che in un night club. Accanto a lei fa capolino un’immancabile chioma azzurrina che, analizzando il mio look con aria da esperto, alza due pollicioni in su e fa uno di quei suoi sorrisi mozzafiato che solo il mio migliore amico può fare. Accanto a lui, il suo gemello non può fare a meno di farmi un occhiolino e poi gridare: “Vai Kat! Sei tutti noi!”,  seguito da un Kentin che mi mangia con gli occhi, come se fossi uno dei suoi deliziosi cookies al cioccolato.
Non posso fare a meno di pensare che adoro i miei amici. Adoro la mia vita solo perché ci sono loro con me. Devo tanto a loro, forse più di quanto io debba ai miei genitori per avermi messa al mondo.
Una volta, però, non era tutto così.
C’era un tempo, infatti, in cui odiavo il mondo attorno a me.
Poi, una persona saggia, la persona che poi sarebbe diventata il pilastro della mia vita, mi disse che quando odi il mondo, quando non puoi fare a meno di essere arrabbiato con qualsiasi essere vivente in questa Terra, probabilmente l’unica cosa che odi veramente, l’unica cosa che non sopporti, sei proprio tu. E aveva ragione, aveva esattamente ragione.
Chiudo gli occhi e lascio che il trambusto si allontani da me. Mi isolo in una dimensione a parte, dove esistiamo solo io e la mia band. Solo la mia pianola, la chitarra di Castiel, le percussioni di Nathaniel e la voce limpida di Lysandro. Ed è in quella dimensione che non posso fare a meno di essere me stessa. È la musica che mi rende ciò che sono. Io suono quelle note che fanno parte di me, che esprimono la vera me stessa. La ragazza che non dà nulla per scontato, la fredda Kat che non vuole far entrare nessuno nella sua vita... no, lei non esiste. È solo una maschera sociale, qualcosa di falso, un’armatura perfetta ed indistruttibile, un muro invalicabile che nessuno è mai riuscito a superare. Beh, quasi nessuno.
Sorrido e lascio che le mie guance si inciprino un po’ a causa della sensazione dolce e nuova in un tempo che mi fa saltare il cuore al pensiero di lui, mentre i ricordi m’invadono dolcemente la mente. Lui che allunga le sue mani verso di me in modo concitato. Il suo sguardo che ogni giorno cambia sempre un po’di più. La sua voce mentre mi dice: “Non ti sbarazzerai facilmente di me”.
Ed è in quei momenti che ho voglia di solcare un altro palco della mia vita. Quello che io chiamerei ingenuamente “passato”.
 

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Capitolo 2
*** 1. Sotto il cielo di Parigi ***


Mi è sempre piaciuto il cielo. Era la più grande prova dell’infinito. Per me ha sempre avuto un’anima, il cielo. Come se avesse vita propria, sta sopra le nostre teste senza interferire con le nostre esistenze, come se si divertisse a spiare la nostra quotidianità e a ridere delle nostre gioie o piangere per le nostre disgrazie. Così irraggiungibile, immenso e bellissimo proprio perché così pericolosamente lontano e distante.
Ironia della sorte, la sfida dell’uomo sin da tempo immemore, quella di solcarlo. Anch’io da bambina sognavo di toccare quella distesa azzurra. Nei miei sogni, mi bastava allungare un dito e mettermi in punta di piedi per toccarlo, soddisfatta.
Nella realtà, invece, mi bastava guardare negli occhi azzurri di un bambino, per toccare quel cielo. Ed io ero felice. Avevo il cielo tutto per me, mi beavo gli occhi di quel piccolo frammento di cielo che, gelosa, avevo solo io. Il mio piccolo ed ingenuo segreto.
Eravamo inseparabili, io e il mio piccolo cielo. Due anime complementari e candide destinate e stare insieme per l’eternità. Che ingenua, che ero. Una piccola bimba innocente che credeva nel “per sempre felici e contenti”. Peccato che a quella fiaba, non sarebbe mai stato dato un lieto fine. Come il cielo e la terra sono obbligati a fissarsi in eterno, senza mai amarsi e potersi toccare per davvero, eravamo io e quel piccolo bambino.
Potevo vederlo, certo, ma lui ormai non poteva vedere me.
È sotto la terra ora.
Certo che non può vedermi.
Il suo visino posso incontrarlo solo nei sogni, tra i mille giochi e le risate di due compagni d’avventura che oramai si sono persi di vista.
Per sempre.
“Mitchell” una voce autorevole, ma lontana.
“Signorina Mitchell!” mi destai dai miei pensieri solo al secondo richiamo del mio professore di chimica che, abbastanza irritato, mi fissava torvo accanto alla lavagna.
“Interessante il paesaggio?” le rughe sulla fronte si accentuarono molto sulla pelle rosea del professor Felix quando guardò la finestra accanto al mio banco, attraverso cui fissavo il bellissimo cielo azzurro, ignorando la sua lezione. Non mancarono, naturalmente, le risatine dei miei compagni e qualche commento poco consono tipo: “Se vedi qualche folletto sbucare dal negozio di Zia Meggy, avvertici, eh!”.
La Zia Meggy era il negozio vip proprio sotto la scuola, dove tutti gli adolescenti dei dintorni si riunivano per fumare o spettegolare su chiunque. Non frequentavo certi posti e non m’importava nemmeno minimamente di quel negozio; li ignorai, non senza però poter trattenere una smorfia disgustata: Murcia mi aveva stufato. Era una città davvero noiosa, non aveva niente a che vedere con Boston o con Dublino. Per fortuna che mancavano solo due giorni alla fine di quel “lungo” soggiorno in Spagna.
Tre mesi.
Mi bastavano tre mesi a Murcia, anzi, per me erano già troppo. Fortunatamente, mio padre aveva prenotato una vacanza per lui e sua moglie in Nuova Zelanda, ed io sarei stata mandata dalla sorella di mia madre, la mia adorabile zia, residente a Parigi. La cosa mi eccitava e spaventava ad un tempo: da una parte, volevo assolutamente scappare da Murcia e visitare la città in cui era nata e vissuta mia madre, dall’altra però, sarei dovuta rimanere lì per altri sei mesi. Non avevo un buon presentimento a riguardo.
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2 giorni dopo…
Mi svegliai sulle dolci note di Stand By Me, una canzone vecchissima, ma dalle parole molto toccanti, che aveva fatto da colonna sonora al mio videogioco preferito: Final Fantasy XV.
Aprii le palpebre lentamente -quasi fossero macigni- per trovarmi di fronte un’immensa distesa di blu sotto gli occhi, quel blu così intenso che sembra quasi bruciarti le iridi.
Ero in volo da più di due ore ormai, mi sembrava comprensibile che dopo una nottata intensa fra valige, ripasso appena ultimato di letteratura di francese, (materia che mi ritrovavo a studiare solamente per quel breve “soggiorno”), e gli ultimi livelli di God of War II, fossi crollata in modo poco dignitoso sulla seduta dell’aereo.
“Oh, si è svegliata la signorina?” mi fece una voce tirata accanto a me. Era Eckbert, il segretario tedesco di mio padre. Un bell’uomo sulla trentina: alto, robusto, dai colori e dai lineamenti chiari. Mio “tutore” e caro amico di mio padre da tempo immemore. Seduto sul sedile in pelle accanto al mio, mi guardava con aria sarcastica, sistemandosi accuratamente il maglione verde petrolio sgualcito dal tempo.
Lo ignorai, sbadigliando e girandomi subito verso il finestrino. Conoscevo quello sguardo. Sapevo già cosa mi aspettava, una volta scesa da quell’aereo. E non era per niente divertente.
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Parigi era magnifica. Fredda, sì, ma magnifica. Un interseco di mille strade in un’atmosfera di pace e di sfizio, quello sfizio che provi solamente quando vedi per la prima volta una cosa nuova.
Sì, ero sorpresa. Avevo visto tante volte Parigi in tv, nelle cartoline o sui libri, ma mai avrei immaginato che potesse essere così viva, ma allo stesso tempo così sfiziosamente calma. Forse perché erano solo le sei del mattino, o forse perché Eckbert si inoltrava in vie poco trafficate, non so dirlo, ma quella città era calma. Forse, quasi malinconica.
“Allora signorina, ripetiamo per l’ultima volta…” mi faceva lui mentre sterzava a destra con modo alquanto nervoso (beh, sarebbe dovuto tornare da mio padre a Murcia in meno di 12 ore, certo che era nervoso!).
Odiavo quando mi faceva quel tipo di discorsi. Sembrava una nonnina che raccomandava alla nipotina di sei anni di comportarsi bene a scuola.
“Sì, sì, lo so: devo studiare, non devo far arrabbiare la zia, se devo spendere un gran quantitativo di denaro devo chiedere a Dave…”
Il mio tutore si zittì un attimo. Non era ancora abituato a sentirmi chiamare mio padre per nome, e non “papà” come facevo una volta.
Poi riprese subito, dopo quel secondo di più totale silenzio: “E non dimenticare di condurre una buona dieta. È fondamen-”
“Sì, sì, Eck, lo so, non sono una bambina! Ho sedici anni!” lo interruppi, stufa.
Scesi dalla macchina, che aveva appena accostato davanti un’alta palazzina, con un broncio.
Salii tre gradini bianchi, mi posizionai davanti al grosso portone in legno e suonai il campanello.
“E.. signorina!” mi richiamò Eck, abbassando il finestrino.
Nel frattempo, una voce brillante e vivace strillava da dietro la porta, agitata: “Arrivo!”. Sentivo il rumore dei tacchi frettolosi di zia Agatha sul parquet venire sempre più vicini.
Mi girai appena verso il mio tutore, la valigia in mano e lo zaino nero in spalla, con aria stanca. Naturalmente, stanca delle sue mille raccomandazioni.
“Per favore, cerca di trovare qualcuno con cui passare le serate, invece di sprecare il tempo con le console!” mi guardò rammaricato, come se fosse davvero una cosa importante avere degli “amici” quando sai già che non potrà mai funzionare.
“Sì, certo! E tu, invece, trovati una ragazza, così hai qualcosa da fare, invece di pensare alle figlie altrui!” Gli gridai di rimando con un sorriso sornione, salutandolo appena con il palmo della mano. Mi sorrise, divertito dal mio solito carattere acido, e poi, prima che la porta di casa si aprisse, mise in moto e partì a velocità scandalosa.
Sulla soglia di casa, una donna formosa sulla trentina con una lunga treccia rosa scuro mi attendeva, impaziente di abbracciarmi.
“Kat!” gridò con un acuto così alto da far rigirare nella tomba anche Pavarotti.
Mi saltò addosso, stritolandomi nella sua morsa mortale, e poi mi invitò ad entrare con aria di chi sta per avviare un pigiama party con le amiche.
“Oh, quanto sei cresciuta! L’ultima volta che ti ho vista eri molto più piccola!”
“Zia, l’ultima volta che ci siamo viste era il Natale scorso…” le feci notare.
“Oh, sì, vero! Ma come corre in fretta il tempo!” mi sorrise a trentadue denti, iperattiva come al solito.
L’iperattività di mia zia non era diminuita per niente. Era sempre così: esuberante,  giocosa e vivace, sin da quando sono nata. Non ho mai capito da dove prendesse tutta questa voglia di vivere: insomma, non aveva un marito, né dei figli, non faceva un lavoro prestigioso, (lavorava come commessa in un negozio di vestiti), e tutto il resto della sua famiglia si faceva sentire a malapena per gli auguri di compleanno. Ma nonostante tutto, sembrava una delle persone più felici del mondo.
Mah… pensai, mentre lei mi faceva strada tra le numerose camere della casa, indicandomi poi una porta a sinistra del piano di sopra che sarebbe stata la mia camera. Mi avviai di corsa verso quella porta bianca come Maometto in viaggio verso la Mecca. Quella porta sarebbe stata tutta la mia vita per un po’ di tempo.
Entrai, prima guardinga, poi impaziente. Impaziente di sistemare tutto e di far diventare quella stanza veramente mia. Io lo chiamavo “processo di adattamento”, quello. Era quasi un rito, per me: la prima cosa che facevo appena arrivata in un’abitazione in cui avrei trascorso uno dei miei tanti “soggiorni”, come li definiva mio padre, era sistemare la mia stanza. Era quasi una questione di vita o di morte, perché in ambienti in cui non mi trovo a mio agio, io rifiuto di starci.
Guardai con attenzione le mura bianche, l’armadio turchese e un letto spoglio alla mia sinistra, e un comò con una piccola televisione sulla destra e poi, l’immancabile grande finestra sulla parete parallela alla porta. Non aveva un davanzale abbastanza ampio da sedercisi, ma a me bastava poter guardare il cielo, osservare le linee di Parigi dall’alto e la grande Tour Eiffel che si stagliava in lontananza. Sotto la finestra, una modesta scrivania in legno un po’ maltrattata dal tempo, ma mi potevo accontentare di quella per soli sei mesi.
Mi sedetti sulla sedia adiacente alla scrivania e iniziai a guardare il cielo colorarsi pian piano dei colori dell’inverno, come se tutto quell’azzurro avesse potuto darmi una risposta, un motivo della mia esistenza.
Col senno di poi, posso dire di aver trovato un motivo per esistere. Un motivo per andare avanti: quella stessa città, Parigi.

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Capitolo 3
*** 2. La remora del passato ***


Verde.
Una grande distesa verde riempiva il mio spazio visivo. Rendeva tutto così allegro, così vivo.
Mi sedetti su quel praticello morbido, mi sentivo un po’ Heidi: piccola, ma forte, in un’immensa campagna solo per me. Correvo felice, libera da quella costrizione che era per me la vita adulta. Alzavo lo sguardo al cielo e mi beavo della sua immensità. Facevo giravolte, saltavo e rotolavo sulle colline.
Ma non ero sola.
Lo sapevo, e ogni volta mi voltavo indietro, fino ad incontrare la sua figura.
Era quella piccola chiometta corvina che saliva su da una collina in lontananza e correva ridendo verso di me. Era felice. Era felice di vedermi.
Mi alzai di scatto e iniziai a correre a perdifiato in quella prateria, innocente, con i capelli rossi brizzolati al vento, un piccolo fuocherello che incorniciava il mio visino da bambina.
Correvo, correvo e correvo. Volevo andare da lui, raggiungerlo, dirgli che mi mancava e mi mancherà sempre. Ma come ogni volta in quello stupido sogno, le mie gambe diventavano stanche, ma non m’importava: correvo dritto davanti a me, dove c’era lui che… si era fermato.
Il vento continuava a soffiare contro di me, rendendomi tutto più difficile. Ma io non mollavo, continuavo imperterrita. Avrei sempre continuato per lui. Ci avrei riprovato all’infinito.
Era vicinissimo. Nemmeno due metri ci separavano. Allungai una mano, chiamai il suo nome: “Alec!”.
Ma come ogni maledettissima volta, mi accorgevo troppo tardi che tra di noi, proprio nel punto in cui il mio migliore amico si era fermato, c’era una spaccatura nel terreno, e cadevo, nel buio infinito, piangendo e urlando il suo nome.
 
“Alec!” mi svegliai di soprassalto, il cuore in gola e il respiro affannato.
Feci appena in tempo ad asciugarmi le lacrime dal viso, che subito mia zia si precipitò in camera con aria preoccupata. Solo la luna le illuminava i contorni del viso, quindi non riuscivo bene a decifrare la sua espressione, ma ero abbastanza sicura che stesse facendo una faccia compassionevole.
Non la guardare, Katarina, mi ripetevo. Non la guardare.
Ma irrimediabilmente i miei occhi si concentrarono su quella fotografia sul comò. Mostrava due bambini di spalle sulla spiaggia che si tenevano per mano, ai polsi i braccialetti che si erano fatti l’uno per l’altra con le conchiglie quello stesso giorno.
“Ancora quegli incubi?” mi sussurrò piano, dolcemente, ma anche con una certa aria di segretezza, come se avesse potuto sentirlo qualcun altro  ­­-peccato che in quella casa ci fossimo solamente io e lei.
Si sedette sul materasso, lo sguardo pieno di quella cosa che io odiavo tanto: la compassione.
Ignorai nettamente la sua domanda e mi alzai, guardando il nero del cielo diventare un po’ più chiaro verso le alte palazzine in lontananza. Sospirai pesantemente. Sentivo lo sguardo di mia zia su di me, bruciava tra le mie scapole e mi faceva più nervosa di quello che ero in realtà. Sospirai nuovamente, cercando di scaricare la tensione che si raggomitolava tutta sotto il mio sterno, ma servì a ben poco.
“Per favore, non guardarmi in quel modo” sentenziai infine, insopportabilmente consapevole dei suoi occhi rosei su di me.
“Scusa” disse flebilmente lei, guardando la stanza che fino a poche ore fa era bianca e spoglia, ed ora era invece piena di video games e libri dappertutto.
“Hai fatto un buon lavoro” sorrise nella penombra della stanza, gentile, sicuramente riferendosi allo stravolgimento a cui avevo sottoposto quella camera: il letto (prima bianco, ora di un verde acqua acceso) lo avevo spostato a destra e al suo posto avevo messo il comò e il televisore, posizionandoli in modo tale da poter giocare alla Play Station 4 comodamente seduta sul materasso. Le ante dell’armadio, ora al fianco del comò, erano cosparse di post-it con su scritte le citazioni dei miei libri e film preferiti, mentre sulle pareti erano in bella mostra poster di video-games, anime e gruppi metal. Nessun cambiamento alla scrivania, ma sul davanzale al di sotto della finestra avevo deciso di sfoggiare tutti i pezzi forti della mia collezione: le mie action figures [N.A: per gli ignoranti che non sapessero cosa sono, sono dei modellini u.u] di Final Fantasy e Gintama, il mio anime preferito, più una serie infinita di libri fantasy.
Sorrisi. “Beh… non avevo niente da fare” mi giustificai, in imbarazzo.
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Quando zia Agatha decise finalmente di uscire dalla mia camera, erano le tre del mattino. Era ancora buio pesto ma, non avendo la minima voglia di chiudere occhio, decisi di iniziare a prepararmi per il mio primo giorno di scuola a Parigi. Era la parte dei miei “soggiorni” che mi piaceva di meno, perché i primi giorni sono quelli che di solito tendono a metterti ansia, e in più la gente è curiosa perché non ti conosce e vorrebbe fare amicizia, quindi, ogni maledettissima volta, devo mostrare loro che non sono interessata per niente alle loro faccende adolescenziali, né ai loro discorsi insensati sui ragazzi e sulle ragazze carine dell’istituto.  A proposito, com’è che si chiamava il mio? Ah, sì Dolce Amoris. È lì che avrei dovuto studiare per sei mesi.
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Uscii di casa con una mezzoretta buona di anticipo.
L’aria fresca m’investì il viso, sorprendendomi impreparata a quel clima un po’ più freddo rispetto a quello di Murcia. La prossima volta dovrò mettere una giacca, mi raccomandai. Non indossavo un out-fit vistoso: felpa nera con un piccolo pac-man giallo raffigurato sulla strinistra, jeans, e un paio di converse del medesimo colore della felpa. Facevo di tutto pur di non farmi notare dagli altri. A volte, avrei preferito essere invisibile, piuttosto che andare in giro con questi ridicoli capelli rossi e questi banalissimi occhi castani. Ma, purtroppo, mio padre non mi permetteva di tingere i capelli, “Cose ridicole da fare alla tua età” precisava sempre. Ed il risultato era sempre il contrario di quello sperato da me: o la gente mi prendeva in giro per i miei capelli, oppure mi notava e voleva fare amicizia proprio per il medesimo motivo.
Mi distolse dai miei pensieri il secco rumore del mio cellulare: un sms.
Da: Zia Agatha
Ehi ciao tesorooo! <3 Volevo dirti che oggi dovrai tornare a casa da sola, mi dispiace, ma stasera vengono ospiti a casa e devo preparare la cena! In bocca a lupo per oggi e sta’ attenta per strada ;)
Fissai inorridita quel cuoricino per qualche secondo, poi, rimisi il cellulare in tasca e continuai a camminare, non mi degnandomi nemmeno di rispondere.
Sicuramente con “ospiti” intendeva sue amiche amanti della moda come lei, ed io avrei dovuto passare obbligatoriamente la serata con delle over 30 pazze per le nuove scarpe nel negozio più in della città. Naturalmente, avrei potuto benissimo starmene bella tranquilla nella mia stanza a leggere gli ultimi due capitoli di Shadowhunters: Città di Ossa, ma ovviamente no. Conoscevo bene mia zia e, a volte, era così esuberante da diventare fastidiosamente appiccicosa.
Per non parlare del fatto che quella mattina le avesse telefonato Eck dicendole che doveva tenermi d’occhio perché tendevo a “combinare guai”. Sapevo perché Eck le aveva detto questo, e sicuramente non perché ho la tendenza a cercarmi rogne, cosa che potrebbe anche essere vera, (ma io sostegno che siano le rogne a cercare me, e non il contrario!), ma perché conosce l’indole iperattiva di mia zia e avrebbe voluto che mi coinvolgesse di più nella sua vita. Tenendomi d’occhio era sicuramente un buon metodo per farlo.
E bravo il mio Sherlock, mi complimentai con lui mentalmente.
Rimisi gli occhi sulla strada, ma… qualcosa non tornava. Non riuscivo a riconoscere quel luogo. Anche se era da pochi secondi che camminavo senza fare molta attenzione al percorso che stavo intraprendendo, non era possibile che mi fossi già persa.
Non era possibile che in nemmeno 20 secondi di cammino mi fossi già persa!
Mi guardai nuovamente attorno, in modo quasi spasmodico, cercando un punto di riferimento che mi potesse ricondurre alla mia meta, ossia la mia nuova scuola, ma niente, non riuscivo ad identificare nulla.
Complimenti, Kat! Sei un caso disperato!
Lanciai piano un’imprecazione: non era la prima volta che mi perdevo in una città nuova, ma stavolta non c’era il mio tutore a mia disposizione 24 ore su 24 che potesse venirmi a prendere, quindi dovevo cavarmela da sola. Cosa estremamente difficile, contando che ricordavo a malapena la strada per tornare a casa della zia e che quest’ultima al momento era occupata a lavoro.
Merda! E ora che faccio?
Mi guardavo attorno, impalata come una statua, cercando di spremere le meningi più che potevo per cercare di metabolizzare qualcosa, quando…
“Ehi, ciao, sei nuova da queste parti?”
Mi girai verso la fonte di quella voce melliflua, preparando già un tono acido e una risposta poco educata, ma…
Un fascio di azzurro candido si mi parò davanti quando incontrai lo sguardo del mio interlocutore.
“Alec?” sussurrai, immobile, gelata sul posto dal terrore.
“Come, scusa?” il ragazzo, più alto di me di un palmo, mi sorrise, come se avesse rivissuto quella scena migliaia di volte. “No, Alexy è mio fratello” mi disse con tono allegro.
“Ehm… no, io…” balbettai, in preda al panico: bianca come un cencio, il cuore che mi batteva a mille.
“Va tutto bene?” mi fece con tono gentile, mentre gli angoli delle sue candide labbra s’incurvavano in un’espressione preoccupata.
“No, no… cioè sì! Sì, va tutto bene!” scattai sul posto, rossa in viso per quella magra figura.
Lui rise, di una risata quasi angelica, più che di scherno, che mi piacque molto. Attenzione, precisiamo una cosa: non è che mi piacesse il modo in cui rideva, ma piuttosto la tonalità allegra di quella risata, come se non gli importasse davvero il motivo per cui ridesse, ma la risata in sé. Una filosofia della vita del tutto inusuale, che non avevo mai visto adottare a nessun altro.
Rimasi lì, ferma sul posto, ancora in imbarazzo.
 “Beh, comunque, io sono Armin, piacere” si presentò lui con un grande sorriso.
Era un ragazzo carino: carnagione lattea, labbra carnose, una bizzarra pettinatura di un nero pece e due magnifici occhi blu cielo. Era maledettamente simile a lui.
Quale scherzo del destino era mai questo?
“Ti sei persa?” mi fece, in imbarazzo dal mio silenzio che stava iniziando, a quanto pare, a pesargli.
“Ehm… già” risposi, evidentemente a disagio.
Ridacchiò, una mano dietro il collo; come facevano i ragazzi carini negli anime shojo. A dir la verità, iniziava ad innervosirmi quel sorrisetto perenne sulle sue labbra, ma non gli dissi nulla, solamente perché quel ragazzo era la mia unica ancora di salvezza per arrivare a scuola.
Ma hai appena detto che ti piaceva la sua ristata!
Ma guarda un po’, erano almeno due paragrafi che non ti facevi sentire, coscienza, iniziavo a preoccuparmi!
 “Beh… dove stavi andando? Magari posso indicarti la strada”
“A-al liceo Dolce Amoris, sai come posso arrivarci?” risposi, speranzosa.
“Ah, beh, certo! È il liceo che frequento io! Vieni, allora, facciamo la strada insieme!” spiegò tutto contento.
Ah bene, ma guarda un po’ che fortuna: mister sorriso va nella tua stessa scuola!
Cercai di non sbuffare sonoramente, così mi concentrai sul tragitto.
Iniziammo a camminare verso sinistra.
E tu che eri quasi sicura di andare a destra.
Cercai di zittire la mia coscienza in fretta, prima che iniziassi a fare brutte figure.
“Ehm… allora…” era palesemente a disagio. Probabilmente non intraprendeva conversazioni con le ragazze così facilmente, cosa che si poteva intuire dal semplice fatto che non mi guardava nel gli occhi neanche un momento.
Poverino, ma guardalo! Ma sciogliti una volta, è così carino da accompagnarti a scuola e tu fai l’apatica, come sempre!
Odio la mia coscienza.
“Sei del primo anno? Non ti ho mai vista qui in giro” era una domanda abbastanza innocente, glielo leggevo nello sguardo. Era una cosa che ero abbastanza brava a fare: leggere l’intenzione della gente solo guardando dentro i loro occhi. La parte più divertente, però, veniva quando ci riuscivo e mi sentivo un po’ un’eroina degli anime, con un qualche tipo di raro superpotere.
Ma poi mi girai subito dall’altra parte. I suoi occhi erano così azzurri… che mi facevano male all’anima.
Mi precipitai comunque a dargli una risposta: “Ehm, no… mi sono trasferita ieri qui a Parigi…” risposi con un filo di voce.
“Ah, davvero? Sei straniera, allora! Dove vivevi prima?”
Non risposi. Non mi andava per niente di parlare dei miei tanti viaggi fuori casa, o della mia patria. L’America. Dove io ero nata e cresciuta e dove avrei voluto vivere per sempre tutta la vita. Ma in quel momento era l’ultimo luogo che avrei voluto ricordare. L’ultimo luogo sulla Terra in cui avrei voluto ritornare.
Lui stava per dire qualcosa, quando una campanella risuonò squillante, destandomi ancora una volta dal mio mondo interiore.
“Oh… beh… eccoci arrivati!” esclamò allora con tanto di sorriso a trentadue denti.
Ho già detto che quel sorriso è irritante?
Davanti ai miei occhi si ergeva un enorme istituto dai colori freddi: le pareti andavano sul violaceo, mentre il tetto era di un colore tra l’indaco e il violetto, un colore delicato e che non mi dispiaceva. Era diviso in due istituti differenti: il primo, con tanto di scale di marmo all’ingresso, era quello principale, dove i ragazzi facevano regolarmente lezione, e il secondo, stando alle descrizioni sul sito ufficiale della scuola, era la palestra.
“Oh, cavolo!”
Ritornai al presente solo dopo l’imprecazione del ragazzo accanto a me, Armin, che cercava nervosamente nelle tasche dei pantaloni qualcosa che sembrava importante.
Era pallido in viso, e pensavo stesse succedendo qualcosa di drammatico, vista la sua faccia diafana e la sua espressione. Così chiesi un “che succede?” in tono anche abbastanza allarmato.
“Ho dimenticato il carica batterie della console a casa!” nei suoi occhi leggevo disperazione pura.
Console? Quindi lui era un geek?! O peggio ancora, un nerd?!
Dovevo assolutamente allontanarmi da lui, anche prima che avesse potuto pronunciare anche solo il minimo accenno di frase, o c’era una buona probabilità che avrebbe scoperto che anch’io ero una geek e, di conseguenza, lo avrei illuso, cedendogli una piccola luce di speranza che saremmo potuti diventare amici.
Lo so, sembrerò quasi paranoica, ma non ci tenevo ad illudere la gente. Sono stata illusa molte volte dalla vita, io, e non augurerei a nessuno di rivivere le mie stesse esperienze. Soprattutto lui, un ragazzo così allegro e gentile, non meritava assolutamente una compagnia come la mia. È per questo che lo feci. È per questo che gli dissi: “Ah, povero nerd sfigato!” con tanto di risatina da snob annessa. Odiavo le snob, quindi, in quel momento, stavo odiando me stessa.
Che novità!
Lo vidi guardarmi stupito, le sue pupille dilatate e la bocca schiusa, come se mi guardasse per la prima volta solamente ora.
Bravo, guardami ora, ma non farlo mai più.
Avrei voluto che sentisse quelle parole, anzi, avrei voluto non averlo mai fatto. Mi faceva troppo male, era quasi come se Alec fosse tornato per me ed io lo avessi respinto in quel modo subdolo. Beh… ero ancora in tempo…forse, chissà, magari saremmo davvero potuti diventare amici…
No, Kat, no!
Non doveva accadere.
Mi girai di scatto, prima che potesse vedere i miei occhi lucidi, e camminai dritto davanti a me, come se avessi un obbiettivo ben preciso. In verità, non sapevo nemmeno io dove stavo andando, ma qualsiasi luogo andava bene per me, purché fosse stato lontano da quei due frammenti di cielo.
Fu così che iniziò il mio primo giorno di scuola.

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Capitolo 4
*** 3. Preparativi ***


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