Painkiller

di Kim WinterNight
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***



Capitolo 1
*** I ***


I
 
 
 
 
Scesi dall'auto con l'intento di recarmi subito al mercatino. Quel giorno volevo assolutamente comprare delle piante e almeno un libro. Ero ispirato, volevo qualcosa di nuovo che mi soddisfacesse e mi aiutasse a dimenticare il litigio che era avvenuto poco prima a casa mia.
Quel mostro immondo di mio padre non aveva fatto che gridare fin dalle prime ore dell'alba, facendomi sentire una merda come soltanto lui era in grado di fare. Era stato orribile soprattutto sentirlo ribadire che ero un fallito perché non avevo ancora messo incinta una femmina fertile.
Mi ero limitato a mandarlo al diavolo e mi ero precipitato in macchina, deciso ad andarmene di lì e a dedicarmi a uno dei miei adorati mercatini.
Cominciai a gironzolare, facendo lo slalom tra persone e bancarelle che non destavano il mio interesse.
Mi venne quasi da ridere nel ripensare al mostro che mi aveva messo al mondo. Se solo avesse saputo che le femmine fertili di cui parlava non mi interessavano più di tanto, se solo avesse saputo che preferivo gli uomini maturi e rassicuranti... ah, avrebbe dato di matto, quel folle!
Ero in cerca di un bel banco di piante rare e bellissime, quando notai una bancarella stracolma di cianfrusaglie. Non mi ci sarei mai soffermato, se dietro di esso non ci fosse stato un signore che straparlava con un sacco di clienti, quasi tutte donne e completamente catturare dalle sue ceramiche, dagli orologi da parete e da un sacco di altre chincaglierie.
Rimasi impalato a osservarlo, pur mantenendo una certa discrezione, con il risultato di ricevere imprecazioni e spintoni dalle persone a cui stavo intralciando il cammino.
Era bellissimo. Doveva avere almeno sessant'anni, portava i capelli brizzolati corti e teneva gli occhi marroni e vispi a scandagliare i vari avventori che si assiepavano attorno al suo banco.
Come preso da un istinto incontrollabile, mi accostai a mia volta e presi a osservare con poco interesse la merce esposta, lanciando continue e brevi occhiate al venditore che aveva destato il mio interesse.
«Quanto costa questa ciotola? Che bella!» strillò una signora, la sua voce acuta mi penetrò nelle orecchie, scombussolandomi.
«Venticinque» rispose lui gentilmente. Il suo timbro era caldo e non troppo profondo, mi fece rabbrividire e costrinse i miei occhi a posarsi ancora una volta su quel viso particolare e attraente.
«Me lo fa lo sconto?» gracchiò ancora la vecchietta, sistemandosi meglio il fazzoletto sulla testa.
«È un pezzo unico, ne approfitti, altrimenti lo compro io» intervenne una donna poco più giovane, esaminando attentamente la ciotola color tortora che ai miei occhi non aveva proprio niente di unico.
«La voglio io, giù le mani, maleducata!» si rivoltò la più anziana, stringendo l'oggetto sotto il braccio e portando fuori una banconota da venti euro. «Prendi questi» aggiunse.
«Ho detto venticinque, signora» le fece notare il venditore.
«Arrivederci!» La donna girò i tacchi e se ne andò in fretta, zoppicando leggermente.
Io rimasi basito. «La gente non ha più pudore» mi ritrovai a commentare senza accorgermene.
L'uomo dietro il banco spostò lo sguardo su di me e mi fissò per qualche istante. «Non importa, lasciamola perdere» ammiccò, mentre sul suo volto maturo si allargava un dolce sorriso.
Strinsi tra le dita le chiavi della macchina. Era difficile non osservarlo per me, ero caduto vittima di un colpo di fulmine capace di stordirmi e mandarmi in tilt.
Qualche altro cliente fece un acquisto, qualcun altro osservò gli oggetti e chiese informazioni sui prezzi, e nel frattempo io rimasi lì a godermi la compagnia di quello sconosciuto e a sorridere ogni tanto per il modo bizzarro e singolare con cui si rivolgeva agli avventori e con cui scherzava apertamente.
Io ero decisamente più timido di lui, non sarei mai stato capace di comportarmi in quel modo. Forse era proprio questo il motivo che mi dissuadeva dal portare i prodotti che coltivavo e producevo al mercato, sicuramente sarei stato incapace di attirare la clientela e di pormi nel modo giusto. Era un mestiere che richiedeva molta pazienza, ma anche un carattere solare, allegro e socievole.
Dopo un po' mi decisi ad andarmene, non era certo utile che io rimanessi lì impalato a fissare un uomo che aveva almeno trent'anni in più di me e che era decisamente fuori dalla mia portata.
Chinai il capo e mi voltai, pronto per cercare le mie piante e il mio libro.
Per tutto il tempo non feci che pensare a lui, era come se camminassi a un metro da terra. Poche volte in vita mia avevo sperimentato sensazioni del genere, non avevo la minima idea di come gestirle.
 
 
Cominciai a seguirlo in diversi mercatini, nonostante la sua merce risultasse piuttosto inutile e scadente ai miei occhi.
Un giorno faceva freddo e io mi ero coperto per bene, mettendo addosso la mia fidata sciarpa fucsia e avevo messo ai piedi i miei scarponcini preferiti. Mi ero perfino guardato allo specchio prima di uscire, tentando di dare un senso ai miei capelli un poco scombinati.
Lo trovai che contrattava per il prezzo di un orribile orologio da parete in ferro battuto, parlando animatamente con una donna di cinquant'anni che sembrava molto perplessa riguardo al valore dell'oggetto in questione.
Avevo pensato molto a un espediente per intavolare uno straccio di conversazione con lui, e avevo deciso che avrei finto interesse per uno dei suoi centrotavola in ceramica, affermando di dover comprare un regalo per mia madre. Forse ce l'avrei fatto, forse un poco avrebbe parlato con me.
Lasciai che finisse la sua vendita, godendomi il momento in cui convinse la tizia a sganciare ben ottanta euro per un orologio che forse ne valeva dieci. Era un bravo affarista, sapeva come comportarsi con le persone e per questo lo ammiravo.
Infine presi coraggio e mi piazzai proprio di fronte al banco, fingendo di esaminare con lo sguardo la merce. «Salve» lo salutai timidamente, tenendo le mani affondate nelle tasche del cappotto.
«Ciao. Come posso aiutarti?» replicò, dedicandomi la sua completa attenzione.
Non ebbi il coraggio di guardarlo, stavo letteralmente andando a fuoco e avevo paura che lui potesse scorgere il rossore sul mio viso. «Dovrei fare un regalo a mia madre» buttai lì. «Può aiutarmi?» aggiunsi.
«Certo! Ti piace qualcosa in particolare? Altrimenti ho degli altri articoli sul furgone.» La sua voce mi confortava, nascondeva una nota di dolcezza che mi scaldava il cuore.
Erano poche le cose capaci di scaldarmi il cuore, la mia vita era permeata da ben poco amore. Mio padre era un mostro e mia madre si interessava poco a me, capitava solo ogni tanto che mi facesse qualche regalo o che fosse d'accordo con me a riguardo di suo marito. La mia famiglia non esisteva più da tempo, probabilmente non era mai esistita, e io ero cresciuto in un ambiente insopportabile, costretto a lavorare come uno schiavo e incapace di ribellarmi. Del resto, dove sarei potuto andare? Cosa avrei potuto fare?
«Fa lo stesso, mi proponga qualcosa lei» gli comunicai, sbirciando nella sua direzione con la coda dell'occhio.
La sua mano afferrò una ciotola ovale, color sabbia, che recava un decoro color oro sui bordi. Non era male, ma certamente non l'avrei acquistata per me, se avessi potuto scegliere.
«Che te ne pare di questa? Ti faccio trenta.»
«Vorrei spendere meno, è solo un piccolo pensiero» gli dissi, alzando il capo e guardandolo in faccia.
Volevo cercare di capire se stesse provando a imbrogliarmi come aveva fatto con la signora di poco prima, ma tutte le mie buone intenzioni andarono a farsi benedire quando incrociai i suoi occhi color nocciola, caldi e profondi, fissi su di me. Certamente mi stavo illudendo, ma era come se mi stesse esaminando, forse per farsi un'idea di che tipo di cliente fossi.
«Com'è che ti chiami?» domandò d'improvviso. «Ti vedo spesso ai mercati.»
Il cuore mi sprofondò nel petto e mi sentii avvampare ancora di più. Mi sottrassi al suo sguardo penetrante e tornai a fissare le ciotole sul banco senza realmente vederle. «Cosimo» mormorai.
«Io sono Enea» si presentò in tono allegro. «Allora, Cosimo, cosa vuoi regalare a tua madre? Se vuoi spendere meno, ti posso proporre questa. Venti euro e te la cavi, fai pure una bella figura per via di questa placchetta in argento» blaterò, mostrandomi un altro centrotavola. Stavolta era di vetro colorato, dalla forma irregolare e portava una piccola placca in argento a forma di fiore applicata sul bordo.
Avrei comprato qualunque cosa, pur di sentirlo ancora pronunciare il mio nome. Ero rimasto incantato dal modo in cui la parola prendeva forma e si srotolava tra le sue labbra, prendendo una cadenza particolare per via dell'accento romagnolo che contraddistingueva la parlata dell'uomo.
«Mi va bene» accettai senza pensarci troppo, del resto non mi importava più di tanto di ciò che stavo acquistato. Lo avrei consegnato a mia madre e forse lei sarebbe stata felice.
«Bene.» Enea si chinò sotto il banco per recuperare una busta di carta, poi mi fissò e parve riflettere un attimo. «Non posso farti il pacco regalo, ci pensi tu?»
Annuii e feci un cenno noncurante con la mano. «Si figuri» farfugliai, cominciando a cercare i soldi all'interno del portafoglio.
L'uomo infilò il centrotavola dentro la busta e me la porse, tenendola per i manici. La afferrai e nel farlo sfiorai per un attimo la sua mano, sentendola incredibilmente liscia e morbida.
Un brivido mi investì senza che potessi controllarlo, così mi affrettai a salutare Enea e a lasciare il suo banco. Ero totalmente preda del mio stesso imbarazzo, non riuscivo più a stare fermo lì e a farmi penetrare dai suoi occhi.
Per quel giorno avevo dato abbastanza.
 
 
Stavo dando da mangiare ai gatti quando l'orco arrivò al mio cospetto. Era in compagnia di uno dei suoi amici e stava portando fuori oscenità irripetibili.
«Guarda questa merda, guarda! Non ha nemmeno mai scopato con una femmina, che schifo! Non ti vergogni?» mi si rivolse, battendo il piede per terra con rabbia.
Il suo accompagnatore se la rideva, era immensamente stupido e insignificante. Mi facevano pena, erano totalmente senza cuore e non avevano neanche un briciolo di cervello.
«Che fallito... che fallito! E adesso, merda, vai a prendermi da bere e da mangiare. E anche per il mio amico. Due caffè e del pane farcito. Vai! Che cazzo aspetti?» sbraitava, guardandomi con odio e disprezzo.
Io chinai il capo. Non ne potevo più di sentirlo gridare, perciò era meglio andare a fare ciò che stava dicendo, altrimenti non avrei avuto tregua per il resto della giornata. Lasciai una piccola carezza sulla testa della gatta più grande, poi mi misi in piedi e, senza fiatare, mi diressi verso casa.
Ancora le grida animalesche di quei due rimbombavano nelle mie orecchie, procurandomi un acuto senso di nausea. Ero circondato da dinosauri, gente con il cervello fossilizzato fin dalla nascita, come potevo sperare che esistesse un uomo diverso? Come potevo illudermi che il venditore di ceramiche fosse diverso dal mostro che mi maltrattava e dai suoi amici stupidi?
Forse quando era al mercato a vendere si comportava bene con i clienti per preservare la sua reputazione, per mantenere la clientela; ma probabilmente anche lui era cattivo e insensibile con la sua famiglia, di sicuro aveva una moglie e dei figli che lo detestavano proprio come io odiavo la bestia che mi dava del fallito e mi denigrava di fronte alla feccia della società.
Avrei tanto voluto sputare nei loro caffè e metterci del veleno per topi, ma mi limitai a fare il mio lavoro e sperai che quella tortura finisse il prima possibile. Avevo un sacco da fare già per i fatti miei, non avevo alcuna voglia di stare appresso anche a quei due.
La mia unica speranza risiedeva nel pensiero che il giorno seguente avrei rivisto Enea; il solo posare gli occhi su di lui e sentirlo blaterare con i clienti mi bastava per essere un po' meno depresso e triste.
 
 
«A tua madre è piaciuto il regalo?»
Quella domanda giunse inaspettata e mi schiaffeggiò bruscamente, strappandomi all'anonimato in cui credevo di essermi immerso. Mi ero fermato a qualche metro dal banco di Enea e armeggiavo con il cellulare, scrivendo a delle amiche. Ero certo che lui non mi avrebbe notato, eppure fui costretto a ricredermi quando la sua voce raggiunse le mie orecchie.
Sollevai cautamente il capo e incrociai i suoi occhi caldi. «Ah... sì, sì, molto...» farfugliai, stringendo un po' di più le dita attorno allo smartphone.
«Non mi sembri molto convinto» proseguì Enea, sorridendomi apertamente.
«No, davvero. Le è piaciuto» ripetei, sperando di convincerlo e di non offenderlo. Non volevo dargli l'impressione di star mentendo, anche se in verità la reazione di mia madre non era stata particolarmente entusiasta quando le avevo consegnato il centrotavola.
«Meglio così.» Enea continuò a guardarmi. «Ragazzo, che hai?»
Sgranai gli occhi e non seppi cosa rispondere. Non avevo idea a cosa si stesse riferendo.
«Hai una faccia da funerale» spiegò l'uomo, facendomi cenno di accostarmi al suo banco.
Senza riflettere, feci qualche passo verso di lui e mi fermai solo quando fui abbastanza vicino da poterlo osservare in tutto il suo splendore. Non capivo perché stesse parlando con me e come mai gli importasse tanto del mio stato emotivo.
«Hai litigato con la morosa?» se ne uscì, inclinando il capo di lato.
Mi venne da ridere e non riuscii a trattenermi. «Macché...»
«No? E allora?»
Non sapevo cosa dirgli, anche se sapevo bene il motivo del mio stato d'animo. In quegli ultimi giorni mio padre mi aveva fatto impazzire, sfruttandomi come un servo della gleba e gridandomi contro gli insulti più brutti e cattivi che un essere umano potrebbe immaginare. Ero stremato, non ce la facevo più.
«Non si preoccupi, sono solo stanco» tagliai corto.
Una cliente si accostò al banco di Enea e lui fu costretto a dedicarle tutta la sua attenzione. Fui tentato di andarmene, ma non volevo porre fine a quella piccola illusione; in qualche modo quell'uomo sconosciuto si stava curando di me, e io non potevo permettermi di perdere quell'occasione d'oro.
La donna rimase a rompere per almeno un quarto d'ora, chiese il prezzo di ogni singolo oggetto esposto e alla fine non comprò nulla. Ero ammirato dalla pazienza che Enea possedeva.
L'uomo tornò a guardarmi. «Sei sicuro di stare bene?» domandò.
Annuii, mentre le mani mi tremavano e il mio viso diventava rosso. Avevo una grossa difficoltà a stare fermo e stavo per scappare a gambe levate. Era troppo per me, tutte quelle sensazioni ed emozioni erano troppo.
«Vuoi un po' di caffè?» propose Enea, prendendo tra le mani un thermos verde. Mi sorrideva, probabilmente gli facevo pena ed era per questo che continuava a parlarmi e sembrava poco incline a mandarmi via.
«No, mi agita troppo. Grazie» rifiutai, infilando le mani in tasca per nascondere il loro tremore.
Enea si lasciò sfuggire una risata e si versò un po' di liquido scuro nella tazza di plastica abbinata al thermos. Mi tornò in mente il momento in cui mio padre mi aveva ordinato di preparare il caffè per lui e il suo amico stupido, così mi resi conto che per Enea lo avrei fatto volentieri, visto che gli piaceva tanto. Chissà se era sua moglie a prepararglielo ogni mattina... probabilmente lui la obbligava come faceva il mostro con me.
Enea non poteva essere davvero gentile e diverso.
«Sei stanco per via del lavoro?» chiese poi, dopo aver sorseggiato rapidamente dalla tazza.
«In un certo senso» bofonchiai.
«Eh, ragazzo mio... sei giovane, sei forte, e già sei stanco?» mi punzecchiò, ma nel suo tono di voce non c'era cattiveria né malizia. Sembrava più preoccupazione.
Mi bloccai con la bocca semiaperta, riflettendo su quella consapevolezza. Certamente mi stavo sbagliando, ero totalmente fuori strada.
«Eh... purtroppo... ora devo andare, scusi» mi congedai, affrettandomi a lasciare il suo banco. Ero troppo imbarazzato, e certamente non potevo raccontargli i problemi che avevo con l'orco. Non era il caso, neanche lo conoscevo!
Feci in modo di non passare più di fronte alla sua bancarella per quel giorno, mi concentrai su altri acquisti e decisi di non pensarci per un po'.
Come se fosse stato facile...
 
 
Era mattina e io stavo cominciando a preparare il pranzo, quando il telefono squillò. Avevo le mani sporche e non potevo andare a rispondere, così lasciai perdere e continuai ad affettare il sedano per il sugo.
Poco dopo lo squillo cessò, e poco dopo riprese. Era stranamente insistente e fastidioso. Sospirai e mi lavai le mani con uno sbuffo, mandando mentalmente al diavolo chiunque mi stesse interrompendo.
Sollevai la cornetta e me la portai all'orecchio. Stavo per rispondere, quando una voce fin troppo familiare mi fece gelare il sangue nelle vene.
«Pezzo di merda, che cosa stavi aspettando? Eh? Allora... portaci un tè, un caffè...» strillò mio padre, utilizzando un tono lamentoso che pareva quasi una cantilena.
Mi venne da ridere e piangere insieme. Avrei dovuto aspettarmelo: non aveva neanche la decenza di venire a casa per chiedermi qualcosa, ormai si affidava al servizio a domicilio completamente ideato da lui. E io, ovviamente, ero il fattorino nonché cuoco della sua deplorevole azienda.
«Ma...» tentai di protestare.
«Un cazzo! Muoviti, che io e i miei amici abbiamo bisogno di energie per lavorare! Visto che tu non fai niente dalla mattina alla sera, questo è il minimo!» gridò, per poi buttare giù il telefono e lasciarmi a bocca aperta.
Questo era veramente il colmo! Volevo strapparmi i capelli e morire, non riuscivo più a sopportarlo. Mi trattava come uno schiavo in tutti i sensi, e inoltre mi umiliava di fronte a tutti, diffamandomi e spargendo in giro notizie fasulle sul mio conto. Se solo lui avesse lavorato la metà di quanto facevo io, forse si sarebbe reso conto di ciò che realmente facevo per lui, nonostante non lo meritasse affatto.
Sospirai e mi diedi da fare per preparare le ordinazioni per lui e i suoi amici dinosauri.
Mi venne in mente che la scena aveva un che di comico, così mi ripromisi di raccontarla alle mie amiche quando ci fossimo sentiti per telefono. Forse avrebbero riso e avrebbero alleggerito un poco il peso della mia frustrazione.
Certamente se Enea avesse saputo che ero un debole, un perdente, una nullità, avrebbe smesso di badare a me e avrebbe cominciato ad approfittarsi di me come facevano tutti. Mi sentivo veramente male, avrei preferito morire piuttosto che recarmi nel capannone in cui l'orco e i suoi amici starnazzavano e non facevano assolutamente niente di concreto e utile.
Appoggiai il cibo e le bevande su un bancone in legno vicino all'ingresso e mi dileguai prima che potessero vedermi e parlarmi.
Se fossi stato più coraggioso, avrei pensato di togliermi la vita. Ma ero un vigliacco anche da quel punto di vista, dovevo farmene una ragione.

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Capitolo 2
*** II ***


II






Avevo bisogno di vederlo per risollevare un po' il morale, così quel sabato mi recai al mercatino e cominciai a cercare convulsamente la sua bancarella. Il solo fatto di poter posare gli occhi su di lui era diventato un anestetizzante per le mie pene, come una sorta di droga che non faceva male.
Durante il primo giro di perlustrazione non lo trovai, e il cuore mi sprofondò nel petto. Stavo per lasciarmi affliggere dalla disperazione e da un profondo moto di delusione, quando lo avvistai in un angolo un po' nascosto rispetto al solito.
Tirai un sospiro di sollievo e mi strinsi nel giubbotto, avviandomi a passo un po' troppo svelto nella sua direzione.
«Cosimo!» esclamò lui, mentre sul suo viso rotondetto si allargava un caloroso sorriso.
Si ricordava il mio nome, si ricordava davvero di me! Ero così felice ed emozionato che non fui neanche in grado di ricambiare il saluto. Le mie guance erano in fiamme e il mio corpo pian piano si liquefaceva sotto il suo sguardo penetrante e rassicurante.
«Come va? Ragazzo, oggi ti vedo più triste del solito!» proseguì.
Come riusciva sempre a essere così allegro e spensierato? Come riusciva a trasmettermi così tanta serenità? Come riusciva a farsi adorare da me?
«Io... sto bene...» balbettai, torcendomi le dita delle mani.
«Non mentire, si vede che c'è qualcosa che non va. Sai cosa facciamo? Finisco di lavorare e ti porto a pranzo, così mi racconti» propose con estrema semplicità. «Ormai sei mio amico, vieni sempre a trovarmi!» aggiunse, forse notando l'espressione sbalordita che mi si era dipinta in viso.
«A pranzo... non posso» mi ritrovai a declinare, pensando che sarei dovuto presto tornare a casa per sfamare quella bestia e preparargli un pasto che avrebbe probabilmente rifiutato e criticato.
«Andiamo! Allora hai da fare con la fidanzata?»
Avvampai ancora di più e scossi il capo. «No, no...»
«Quindi possiamo pranzare insieme? Offro io!» insistette.
Era un sogno, non poteva essere vero. E io non potevo accettare, avevo troppa paura di cosa sarebbe successo una volta rientrato. Mio padre avrebbe dato di matto, mi avrebbe punito e mi avrebbe reso la vita un inferno. Se solo avessi trovato il coraggio per raccontarlo a Enea...
Scossi il capo. «Mi dispiace...»
Lui si fece mortalmente serio e i suoi lineamenti marcati si contrassero. «Hai paura di me?» se ne uscì, senza più la minima ombra di leggerezza nella voce.
Ammutolii ed ebbi l'impulso di scappare.
«Se ti spavento, allora ti lascio in pace» concluse l'uomo, per poi abbassare il capo. Prese a sistemare meglio la sua merce, ignorando completamente la mia presenza.
Forse l'avevo offeso, ero una frana. Ma come potevo spiegargli la verità? Chiunque altro mi avrebbe preso per pazzo, visto che avevo rifiutato di andare a pranzo con l'uomo che mi piaceva, ma nessuno poteva immaginare che cosa si celava nella mia miserabile vita.
Dovevo andarmene, la testa e la ragione mi dicevano che quella sarebbe stata la scelta migliore. Eppure rimasi lì, cercando in tutti i modi il coraggio per parlare ancora con Enea. Forse ora toccava a me fare il primo passo.
Mi schiarii la gola e feci un passo avanti. «Mi scusi, io... a casa mi aspettano, non posso lasciarli senza... senza pranzo» riuscii ad articolare, sentendo l'imbarazzo farsi ancora più palese.
Lui sbirciò nella mia direzione, senza smettere di riordinare la merce. «Ah, sì?»
«Mio... mio padre, lui... è complicato» farfugliai.
Enea alzò il capo e cercò il mio sguardo. «È malato?» chiese.
«No, cioè... sì, è un folle...»
«Un folle?» ripeté l'uomo, sembrava sconcertato dalle mie parole.
Le parole cominciarono a fluire fuori dalle mie labbra come se qualcuno avesse schiacciato un pulsante per aprire il mio cuore e svuotarlo completamente. Presi a raccontargli la mia situazione, infarcendola di aneddoti raccapriccianti e riportando tutte le orribili parole che mi sentivo dire ogni singolo giorno della mia vita da quando ero nato. Mi sentivo sempre meglio, mi stavo liberando di un peso enorme, ed era confortante farlo con lui.
Enea smise di prestare attenzione ai clienti, lasciando che loro se ne andassero dopo essere stati ignorati. A un certo punto piazzò sul banco un cartello con la scritta CHIUSO e mi fece sedere con lui sul retro del furgone, dove potei continuare a dar sfogo al mio malessere.
Gli spiegai tutto, perdendo la cognizione del tempo e dello spazio, non tralasciai alcun dettaglio e non seppi spiegarmi come ciò fosse possibile; mi stavo confidando con uno sconosciuto, gettandomi alle spalle l'imbarazzo e la timidezza che fino a poco prima mi avevano quasi serrato la gola.
Enea mi ascoltò, lasciandosi sfuggire ogni tanto imprecazioni ed esclamazioni infelici, finché non allungò una mano verso di me e la posò sulla mia spalla con l'intento di confortarmi.
Quel tocco fu come una scottatura, rimbalzò per tutto il mio corpo, dandomi l'impressione che le ossa presto si sarebbero frantumate. Era qualcosa di difficile da definire, non sapevo se facesse male o se fosse atrocemente piacevole.
«Cosimo, ascoltami.» Enea era seduto accanto a me e teneva ancora le sue dita sulla mia spalla. «Tu non puoi andare avanti così, okay? Non puoi. Io non lo permetterò.»
Sussultai nell'udire quelle parole così decise e ferme. «Cosa... cosa...» provai a ribattere.
«Ti capisco molto bene, sai? Ho vissuto anche io qualcosa di simile. Mio padre se la prendeva con mio fratello perché lui era un po' più fragile, un po' più debole... lo maltrattava e non permetteva a nessuno di andargli contro. Alla fine, quando sono cresciuto, l'ho difeso. Mi sono messo in mezzo e ho fatto a botte con mio padre. Ma ormai era troppo tardi: Ruggero, nel frattempo, è corso su per le scale, ha raggiunto il terzo piano della nostra casa e si è gettato di sotto. Ancora non riesco a perdonarmi per averlo lasciato morire a causa di quel mostro. Da quel giorno sono scappato, ho preso in mano la mia vita e ho chiuso i ponti con la mia famiglia. Sono sopravvissuto, come vedi, anche se ho perso il mio povero fratello e mi porto appresso un grosso rimpianto. Perciò, Cosimo, puoi farcela anche tu.»
Ero rimasto molto colpito dalla sua storia, tanto che avevo cominciato a tremare e a sentirmi totalmente inadeguato e stupido al suo cospetto. Non era cattivo? Non era un mostro? Era soltanto un uomo ferito che sapeva di cosa stavo parlando?
«Non permetterò che anche tu faccia la fine di Ruggero. Sai, un po' me lo ricordi, anche lui era timido e fragile come te...» Enea fece scorrere le dita tra i miei capelli e io mi sentii morire sotto quel tocco incredibilmente morbido e delicato.
«Io... devo andare, lui mi ammazza se non trova il pranzo pronto.»
Enea rise e si accostò a me. Mi afferrò per le spalle e mi costrinse a guardarlo negli occhi. «Tu non vai da nessuna parte, chiaro?»
Solo in quell'istante mi resi conto che stavo piangendo, e a quel punto mi sentii un vero e proprio schifo. Se l'orco mi avesse visto in quel momento, mi avrebbe certamente deriso e insultato, facendomi notare che un uomo non deve mai piangere e che io non ero altro che un frocio inutile e senza palle.
L'uomo che mi stava di fronte invece non sembrava intenzionato a giudicarmi. Senza preavviso, mi prese tra le braccia e mi strinse forte al petto, facendomi posare il capo sulla sua spalla. Sentivo il suo respiro tra i capelli e le sue mani sulla schiena, sentivo il suo corpo caldo e morbido contro il mio, sentivo il suo profumo pungente che sapeva di muschio e caffè.
E mi sentivo così fragile e piccolo, nonostante la mia corporatura imponente e il mio metro e settantacinque di altezza. In quell'abbraccio mi stavo semplicemente sgretolando, e non riuscivo più a controllare i singhiozzi né le mie mani che si artigliavano alla giacca di quell'uomo e la tenevano stretta.
Non avevo mai ricevuto un abbraccio, non avevo mai provato tante sensazioni tutte insieme. Era la prima volta che qualcuno mi stava così vicino, avevo vissuto quasi trent'anni di vita senza mai essere toccato, senza mai essere confortato o semplicemente coccolato.
«Se lui mi vedesse ora, se lui mi... lui mi direbbe che...» mi lamentai, affondando il viso nel tessuto ruvido della sua giacca a vento.
«Shh, non importa» mi rassicurò Enea, cullandomi ancora e accarezzandomi piano sul capo.
«Mi direbbe che sono un frocio schifoso che non sa neanche... neanche ingravidare una femmina fertile...» proseguii, sempre più preda della mia stessa disperazione. Tremavo come una foglia e le mie parole erano quasi incomprensibili.
Sentii Enea sospirare e intensificare maggiormente la stretta. «Lasciaglielo credere. Non importa, Cosimo, non importa» ripeteva, senza smettere di cullarmi e accarezzarmi. «Tu sei solo un ragazzo speciale, lui non ha il diritto di trattarti così.»
«Anche le mie amiche me lo dicono» mormorai, riuscendo a placare un po' i singhiozzi. «Mi dicono che merito amore, che devo pensare a me stesso. Ma io... io non...» Scoppiai nuovamente a piangere e mi aggrappai con più forza a lui.
«Le tue amiche dove sono?» volle sapere.
«Lontane. Non abitano qui» risposi, tirando su con il naso.
«Cosimo, sta' tranquillo. Io sono qui. Sono disposto ad aiutarti» mi confessò, facendomi scostare da lui e cercando i miei occhi con i suoi.
Rimasi a fissarlo in silenzio, continuando a tremare e a lasciar rotolare calde lacrime sulle mie guance.
«Troviamo una soluzione, te lo giuro. Ma adesso andiamo a pranzo insieme, abbiamo bisogno entrambi di mettere qualcosa sotto i denti per ragionare meglio, eh?» mi propose, lasciandomi un tenero buffetto sulla guancia.
Mi ritrovai ad annuire senza nemmeno rifletterci su. Ormai era tardi, mio padre si era sicuramente accorto che non ero tornato ed era già infuriato. Tanto valeva ritardare maggiormente il momento in cui sarei dovuto tornare a casa per affrontarlo.
«Così mi piaci» disse Enea in tono allegro, per poi mettersi in piedi. «Stai qui, io intanto ritiro il banco» aggiunse.
«La aiuto» mi proposi, facendo per alzarmi.
Lui poggiò con decisione le mani sulle mie spalle. «No, stai qui e cerca di tranquillizzarti. E, Cosimo, non darmi del lei. Siamo amici.»
Avvampai e rimasi in silenzio, riflettendo su ciò che era appena successo. Osservavo i movimenti esperti e veloci di Enea mentre raccoglieva le sue cose e mi passava accanto per rimetterle sul furgone, mentre mi rendevo lentamente conto di essere appena stato tra le sue braccia. Lo avevo desiderato fin dal primo istante in cui lo avevo visto, e mai avevo osato sperare che ciò accadesse. Mi ero limitato a vedere quell'opportunità come uno stupido miraggio, crogiolandomi nell'attesa di poterlo rivedere.
E ora ero lì, seduto sul retro del suo furgone, dopo aver ricevuto il primo, vero abbraccio della mia intera esistenza. Stentavo a crederci, ma era successo e io mi ero sentito davvero strano, mi ero sentito ancora più fragile e debole, come se lui e le sue braccia avessero annientato l'ultimo briciolo d'integrità che ancora mi restava.
Enea finì di ritirare tutto e tornò da me. «Andiamo, sali davanti» mi incoraggiò con un sorriso.
Mi alzai e feci come mi diceva, decidendo di riprendere più tardi la mia auto. In quel momento non mi importava, volevo soltanto godermi i momenti che mi restavano da condividere con lui.
Tanto già sapevo che tutto sarebbe finito, io sarei tornato all'inferno e avrei sicuramente smesso di vederlo per paura di soffrire e di commettere ancora degli errori come quello. Non mi era permesso di avere una vita, io dovevo trascorrere le mie giornate a sgobbare per mio padre e a rendermi disponibile per mia madre quando lui se ne lavava le mani.
Non potevo abbandonare la mia famiglia.


Mentre guidavo verso casa, ripensavo a Enea e al nostro pranzo insieme. Era stato capace di mettermi a mio agio, di farmi aprire ancora un po' con lui, ma soprattutto mi aveva parlato molto di sé. La sua vita non era stata facile, nonostante potesse sembrare un uomo forte e allegro; dopo aver perso suo fratello, per lui era stato difficile andare avanti, ma non per questo aveva smesso di provarci e di lottare. Si era impegnato, aveva avviato un'attività e aveva cercato di costruirsi il suo piccolo spazio nell'universo.
Lo ammiravo molto, perché lui era riuscito a uscire dalla sua prigione, si era ribellato e aveva fatto tutto ciò che io non sarei mai stato in grado di pensare. Per questo stavo tornando, da bravo schiavo, nella tana del leone. Avevo trasgredito abbastanza, erano già le tre del pomeriggio e sapevo cosa mi avrebbe aspettato al mio arrivo.
L'unico pensiero in grado di anestetizzare un poco il mio terrore era quello di Enea, del suo modo vivace di gesticolare, del suo atteggiamento rude quando si tuffava sul cibo, ma soprattutto del suo abbraccio caldo, delicato, infinito. Potevo ancora sentire le sensazioni che avevo provato tra le sue braccia, non avrei mai creduto che proprio io sarei finito a farmi consolare da un uomo sconosciuto che aveva molti anni in più di me, un uomo che mi piaceva da impazzire e a cui non sarei mai interessato da quel punto di vista.
Parcheggiai l'auto e avvertii le mani che tremavano leggermente. Non avevo neanche il coraggio di scendere, sapevo che presto avrei dovuto affrontare l'orco. Forse potevo concedermi qualche attimo per respirare e calmarmi, il danno ormai era fatto, qualche minuto in più di ritardo non avrebbe fatto alcuna differenza.
Lui mi raggiunse prima ancora che mettessi il naso fuori dalla macchina. Come c'era da aspettarsi, era furibondo: urlava come un pazzo, si agitava, imprecava, bestemmiava, mi insultava.
«Pezzo di merda, dove cazzo eri finito? Dov'eri finito, eh? Sei un essere inutile, un fallito, uno schifo! Vieni qui, pezzente!»
Spalancò la portiera con tanta forza che io credetti che l'avrebbe scardinata; mi afferrò per un braccio e mi tirò giù dall'auto, poi cominciò a urlare a pochi centimetri dal mio viso. Mi stava facendo venire la nausea, non riuscivo neanche a guardarlo, tant'era il disgusto che provavo nel sentire le sue luride mani su di me. Neanche gli abiti pesanti che indossavo erano in grado di proteggermi dalle orribili sensazioni che stavo provando.
«Dovevi prepararmi il pranzo, cazzo! Non ho mangiato per colpa di una merda come te, dove cazzo eri?» proseguì a sproloquiare.
Io tacevo, se avessi aperto bocca avrei vomitato, ne ero certo. Sentivo il buon cibo che avevo assaporato in compagnia di Enea fare a pugni per risalire lungo la mia gola e riversarsi su quel mostro che mi stava di fronte. Cercai di trattenermi e lo lasciai dire, incapace di ribellarmi e di spingerlo via. Mi sentivo un vero codardo, ma allo stesso tempo volevo evitare a tutti i costi di farlo arrabbiare ancora di più. Detestavo gli scontri fisici, non volevo dargli il pretesto per alzare le mani su di me.
«Non hai niente da dire, testa di cazzo? Non hai niente da dire? Eh? Dove cazzo eri? Ah, non è che finalmente ti sei deciso a ingravidare una femmina? Ma no, figurati... uno come te, uno come te queste cose non le sa fare... non sai neanche usarlo, eh? Credi davvero che serva solo per pisciare, coglione? Questa me la paghi, me la paghi! Ti metto io a lavorare, devi recuperare quello che non hai fatto oggi!»
Mi lasciò andare di botto e cominciò a girarmi intorno come un pazzo, continuando a strillare come un ossesso. Mi teneva sotto tiro, come se io fossi una preda braccata che ormai non aveva più vie di scampo. Io continuavo a tacere e cercavo di non ascoltarlo, ma la sua voce stridula mi perforava i timpani e affondava nella mia anima come un pugnale affilato.
Trattenni le lacrime, non gli avrei mai dato la soddisfazione di vedermi piangere a causa sua. Lo lasciai fare finché non fu stanco e decise di andarsene, continuando a bestemmiare e a chiedere a gran voce perché una disgrazia simile fosse capitata proprio a un brav'uomo come lui.
Anche quella volta mi ero lasciato trattare come una bambola di pezza, non avevo reagito in alcun modo e gli avevo permesso di insultarmi senza ritegno. Chiusi con cura l'auto e feci per entrare in casa, quando lo vidi tornare indietro.
Ormai urlava frasi sconclusionate, non riuscivo neanche più a capire ciò che diceva. Come una furia, si scagliò contro la mia auto e cominciò a prenderla a calci e pugni, producendo dei versi animaleschi che mi fecero venire i brividi.
Quando ne ebbe abbastanza, mi sorrise maligno e affermò: «Così non andrai più da nessuna parte, merda schifosa!».
Mi diressi verso casa e, una volta nell'ingresso, ignorai il saluto di mia madre e mi precipitai in camera mia. Chiusi la porta e mi lasciai andare a un pianto silenzioso e disperato, rannicchiandomi di fronte all'uscio e stringendomi le braccia attorno al corpo.
Quanto avrei voluto rifugiarmi nell'abbraccio di Enea, lui avrebbe saputo come calmarmi e rassicurarmi. Oh, se mi avesse visto in quel momento, sarebbe stato mortalmente deluso di me, avrebbe capito che ero senza speranze e che non meritavo le sue attenzioni.
Quella vita mi stava uccidendo giorno dopo giorno, ma ormai ne facevo parte, ne ero inghiottito e non c'era un modo per uscirne e risollevarsi.
Era troppo tardi.

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Capitolo 3
*** III ***


III 
 


 
 
 
Trascorsi la settimana a lavorare per il mostro, distruggendomi le ossa e la dignità. Trascorsi ore infinite con lui, sentendomi appellare in modi orribili, sentendomi umiliare in ogni momento e senza alcun pudore.
La sua voce era diventata come un cancro per me, la udivo anche nei rari istanti in cui non ce l'avevo attorno, e mi perseguitava anche durante la notte. Dormivo poco e il mio sonno era tormentato e ben poco ristoratore.
L'orco mi aveva promesso che me l'avrebbe fatta pagare, e lui manteneva sempre le sue orribili promesse. Era un uomo di parola, dopotutto.
Quando il sabato arrivò, uscii molto presto di casa, prendendo la mia auto ammaccata e raggiungendo in fretta il luogo del mercatino.
Mi accostai a Enea quando ancora c'era poca gente, erano appena le sette e mezza e lui era impegnato a sistemare con minuzia la sua merce sul banco.
Quando mi vide, prima sorrise calorosamente, poi i suoi occhi si rabbuiarono. Aveva capito subito che non stavo affatto bene, si notava dalla mia espressione sfinita e dalle mie mani graffiate e tagliate. Inoltre, non facevo che tossire e avvertivo un bruciante e fastidioso mal di gola.
«Cosimo...» articolò, lasciando cadere un lembo del telo che stava sistemando sul tavolo. «Cosa ti è successo?»
Non aprii bocca, mi limitai ad arrossire. Certamente non potevo raccontargli la verità, mi vergognavo e sapevo che avrebbe cambiato idea su di me, ma ero anche conscio che mi avrebbe convinto a parlare. Lui riusciva a tirarmi fuori la verità, lui riusciva a capirmi al volo e voleva conoscere la causa dei miei mali.
«Cosimo, mi dici che succede?» ripeté, accostandosi a me e posandomi una mano sulla spalla.
Io evitai accuratamente di incrociare il suo sguardo, mi sentivo veramente inadeguato di fronte a quell'uomo, lui che aveva superato tante difficoltà e non si era lasciato abbattere come me.
«Dai, mi fai preoccupare... Cosimo, guardami» mi incoraggiò, sfiorandomi appena il mento con le dita.
Mi sentii il viso andare in fiamme e sollevai piano gli occhi, posandoli sui suoi. Erano caldi, bellissimi, pieni di preoccupazione e apprensione per me. Qualcosa si contorse e si sciolse all'interno del mio cuore, forse la consapevolezza di quanto Enea tenesse a me e detestasse vedermi così affranto.
«Io...» fu tutto ciò che riuscii a farfugliare.
«Cristo, ma che ti hanno fatto? Se è stato tuo padre, giuro che stavolta mi incazzo! Cosimo, senti un po'...» Mi afferrò saldamente per le spalle e mi fissò con determinazione. «Adesso basta. Non puoi andare avanti così. Devi reagire, io non sopporto queste ingiustizie, chiaro? E non sopporto che qualcuno tratti male i miei amici» affermò senza alcuna esitazione.
Lo guardai incredulo. Davvero l'aveva detto? Dovevo aver udito male, non poteva avermi incluso nella lista dei suoi amici.
Poi i suoi occhi si fecero ancora più intensi. «E non sopporto chi tratta male te» aggiunse con sicurezza.
Il cuore mi sprofondò all'interno del petto, le gambe presero a tremare e la pelle del mio corpo andò completamente a fuoco. Avevo capito male, dovevo essere talmente frastornato che anche la mia integrità mentale aveva deciso di abbandonarmi.
«Cosimo, raccontami cosa è successo» mi ordinò, ma il suo modo di parlare fu dolce e premuroso, non c'era traccia di violenza nella sua voce calda e apprensiva.
Mi portai una mano fra i capelli e sospirai, per poi cominciare a rimettere insieme i pezzi della settimana che avevo appena trascorso. Vuotai completamente il sacco, gli raccontai ogni singola cosa e subito mi accorsi che mi sentivo meglio. Era liberatorio parlare con quell'uomo, era una cura per la carcassa ansante della mia anima distrutta. Potevo quasi illudermi che le cose sarebbero andate bene.
Enea mi afferrò per un braccio, mi condusse sul retro del suo furgone e mi fece sedere com'era successo una settimana prima. Si accomodò al mio fianco e, senza pensarci due volte, mi prese tra le braccia e mi strinse forte a sé, cullandomi con tanta delicatezza e dolcezza, che quasi stentai ad associare al suo aspetto rude e al suo atteggiamento sicuro e determinato. Non piansi com'era successo la volta precedente, mi limitai ad aggrapparmi al suo corpo in silenzio, ricambiando l'abbraccio e affondando il viso sulla sua spalla.
«Cosimo, ascolta. Sei un ragazzo speciale, mica devi farti trattare così... tu meriti di meglio, tu meriti tanta felicità e tanto amore» sussurrava, e nel frattempo mi carezzava piano i capelli e la schiena.
Io tremavo e rabbrividivo sotto il suo tocco, rendendomi conto per la prima volta di quanto mi fosse mancato durante la settimana appena trascorsa, di quanto ormai fossi dipendente da quel contatto bizzarro e mortalmente sbagliato. Fui consapevole di quante lacune e mancanze affettive mi portassi dietro e di quanto mi sentissi solo al mondo. Tutto questo spariva soltanto quando Enea mi stringeva a sé e mi parlava con dolcezza, come se non volesse lasciarmi tornare alla mia misera e deplorevole vita.
«Ho un piano, ascoltami.» Enea mi fece scostare da sé e mi guardò negli occhi, senza spostare le mani dalle mie braccia. «Devi assolutamente andare via di lì, ti porterò via da quell'inferno.»
Mi lasciai sfuggire un rantolo strozzato, improvvisamente invaso dal terrore. «No! Lui non lo permetterà mai, verrà a cercarmi, farà del male a entrambi e... e... non posso lasciare i miei animali e le mie piante, lui distruggerà e ucciderà tutto! Grazie, ma...»
«Non può impedirti di andare a lavorare, Cosimo.»
Lo fissai confuso e attesi che mi spiegasse meglio.
«Vorrei che tu venissi a lavorare con me. Durante la settimana c'è da fare in negozio, e nel weekend ce ne andiamo per mercatini. In questo modo starai poco e niente a casa, e non dovrai lasciare le tue piante e i tuoi animali» disse con semplicità.
«Ma... ma... chi baderà a loro? Chi preparerà il pranzo? Mia madre non... io non posso. Non mi è stata concessa la possibilità di scegliere, non posso avere una vita normale» gli feci notare, abbassando il capo.
Enea mi costrinse a sollevare il mento, stavolta afferrandolo con decisione in modo che non potessi sfuggirgli. «Si arrangeranno, chiaro? Tu non sei di loro proprietà, tu non sei di nessuno. Sei una persona, non un oggetto o uno schiavo!» disse con fervore, gli occhi fiammeggianti a dimostrare che credeva davvero in quelle parole. «Se non sono in grado di cucinare e pulire casa, possono assumere qualcuno. Lo pagano e via. Questi non sono problemi tuoi, Cosimo. Per quanto riguarda i tuoi animali e le tue piante... puoi dedicarti a loro nel tempo libero, e nel frattempo possiamo trovare una persona che le curi quando sei al lavoro. Ho già in mente qualcuno, tu non devi preoccuparti.» Fece una pausa e le sue dita lasciarono andare il mio mento, scivolando piano sulla mia guancia. «Voglio solo che tu stia lontano da lì il più possibile. E se non basterò, ti porterò via da lì. Hai capito?»
Ero sconvolto, non riuscivo più a protestare né a respirare. Sentivo le sue carezze sul viso, sentivo le sue parole apprensive fare breccia tra i cocci del mio cuore, sentivo la sua vicinanza confortarmi e rendermi un poco più forte. Tutto insieme a lui sembrava possibile, semplice, risolvibile.
«Io non... sei gentile, davvero, ma... non so se...»
Enea sospirò e prese il mio viso tra le mani, scrutandomi attentamente. «Cosimo, cosa devo fare per farti capire che sei speciale e che io non posso sopportare che qualcuno ti faccia del male? Senti, so che sono veramente inadeguato, ma ti assicuro che tengo moltissimo a te. Le cose tra noi non possono funzionare, mi sento proprio un pervertito a dirtelo, ma mi piaci. Mi sento legato a te, c'è un sentimento che non so spiegarmi... ma so, ragazzo mio, so che tu sei giovane e non puoi sprecare la tua vita con uno come me. Però voglio fare tutto il possibile perché tu stia bene, perché prima di tutto siamo amici. E gli amici si aiutano sempre, si sostengono, danno l'uno la vita per l'altro. Capisci?»
Sbattevo ripetutamente le palpebre. Gli piacevo? Chi, io? Ma stava impazzendo? Anche lui era diventato folle come il mio orco? Non poteva essere così. Forse quel mostro di mio padre mi aveva drogato e ora stavo avendo un'allucinazione molto forte, sì, doveva essere questa la verità. Altrimenti non avrei saputo come spiegarmelo.
Ma le sue mani su di me, la sua voce, il suo respiro, tutto era troppo reale per far parte di un'allucinazione.
«Hai capito? Non ti lascerò a marcire lì dentro, Cosimo. Di questo non dubitare» concluse, per poi lasciarmi un breve bacio sulla fronte.
Il contatto con le sue labbra fu fugace, quasi impercettibile, ma le avvertii chiaramente: così morbide, calde, rassicuranti. Era quasi impossibile che gli appartenessero, a vederlo così non si sarebbe mai detto.
Non sapevo cosa rispondere, così non lo feci. Rimasi fermo, in silenzio, con il viso e il corpo in fiamme. Avrei dovuto dirgli qualcosa, fare qualcosa, ma io non ero capace di amare, non ero capace di dimostrare affetto, non sapevo come ci si comportava in una situazione del genere.
«Ti ho spaventato?» sussurrò Enea.
Scossi il capo. «Io volevo...» provai a dire, ma subito mi fermai. Sollevai il capo e lo guardai con fare smarrito, senza sapere assolutamente dove sbattere la testa. Osservai attentamente la sua pelle chiara e un poco segnata dagli anni, gli occhi scuri e penetranti, i lineamenti marcati nascosti da un po' di barba, le labbra sottili e i capelli brizzolati che gli donavano divinamente. Non riuscivo più a staccare lo sguardo da lui, era immensamente perfetto, era tutto ciò che avevo sempre desiderato. Ed era lì, di fronte a me, a sorridermi appena e con le mani ancora sul mio viso.
Lui parve leggermi nel pensiero, mi attirò un po' più vicino a sé e mi abbracciò forte, con fare protettivo. «Ti proteggo io, ragazzo mio» mi assicurò, tornando a insinuare le dita tra i miei capelli.
Nonostante non trovassi il coraggio per dirglielo, avevo deciso di accettare la sua proposta. Il solo fatto di sapere che lui provava qualcosa per me mi dava sollievo, mi faceva capire che forse anche io meritavo un briciolo di rispetto e affetto.
Il mio cuore batteva all'impazzata mentre un'idea malsana si faceva largo nei miei pensieri, divenendo man mano più prepotente e pressante: avrei voluto che mi baciasse, ma non avevo la minima idea di come si facesse, di come avrei dovuto agire e pormi nei suoi confronti. Aveva detto che tra noi non avrebbe funzionato, forse era convinto che io non provassi lo stesso per lui, che desiderassi farmi una vita e una famiglia come tanti altri uomini, che sognassi di avere al mio fianco una bella donna. Ma non era così, non lo era affatto.
Tutto ciò che mi serviva per stare bene era lui, ma non riuscivo a trovare il coraggio per farglielo capire.
«Allora? Accetti la mia offerta di lavoro?» mi chiese dopo un po'.
Mi allontanai da lui per poterlo guardare in faccia. Annuii piano. «Grazie» mormorai, poi venni scosso da un accesso di tosse.
«Ma prima devi andare da un dottore e rimetterti in forze. Me lo prometti?»
Annuii ancora e lasciai che mi accarezzasse le tempie e le guance. Il fatto che non mi sottraessi alle sue attenzioni avrebbe dovuto fargli capire che ricambiavo i suoi sentimenti, che anche lui mi piaceva e che volevo di più. Anche se mi sentivo inadeguato e incapace, anche se ero inesperto e del tutto estraneo a certe cose.
Io tenevo le mani poggiate sul ripiano su cui eravamo seduti, non riuscivo a rendermi audace e sollevarle. Forse avrei dovuto, mi rendevo conto di essere un vero disastro, ma certe situazioni erano troppo imbarazzanti per me, non potevo farci niente.
Enea fece scorrere un dito sul mio mento, poi tracciò il profilo delle mie labbra e io sussultai, ritraendomi improvvisamente. Non mi aspettavo quel gesto, non ero pronto ad affrontarlo.
Lui tenne la mano a mezz'aria, fissandomi con aria preoccupata. «Scusami, hai ragione. Devo mantenere la calma, Cosimo.»
Mi ritrovai a scuotere il capo energicamente, non volevo allontanarlo, ero soltanto rimasto scosso da quell'azzardo.
Lui mi osservò e si sciolse in un caldo sorriso. Prese le mie mani tra le sue e le strinse forte, tenendo il viso a pochi centimetri dal mio. «Cosimo?» mi chiamò.
Rimasi in attesa che parlasse.
«Posso baciarti?» domandò. Era così, lui: diretto, schietto, senza peli sulla lingua. Eravamo due opposti.
Annuii impercettibilmente, ma mi sentii in dovere di spiegargli qualcosa. «Io non ho... non so cosa fare, mi dispiace tanto...» farfugliai in completo imbarazzo.
Enea si lasciò scappare una breve risata, poi replicò: «Baciami e basta».
Detto questo, mi trascinò contro di sé e premette delicatamente le sue labbra sulle mie, mentre guidava le mie mani sul suo petto e mi circondava con le braccia. Mi lasciò alcuni leggeri baci a fior di labbra, poi si fermò e mi guardò ancora negli occhi. Il suo sguardo era caldo e liquido, mi faceva fremere da capo a piedi.
Non sapevo spiegare cosa stessi provando, sapevo soltanto che volevo farlo ancora. Enea portò la mano destra tra i miei capelli, sulla mia nuca, e si accostò nuovamente al mio viso, invitandomi a stargli ancora più vicino.
Quando sentii la sua lingua carezzare piano le mie labbra, fremetti come non mi era mai successo e, di riflesso, aprii la bocca e subito lui la invase, senza lasciarmi il tempo di comprendere cosa stesse succedendo.
Non avrei mai creduto che l'avrei provato davvero, che avrei saputo cosa significasse baciare qualcuno, e ora che stava accadendo, mi sentivo talmente elettrizzato e strano... non potei fare altro che lasciarmi guidare dai suoi movimenti esperti, finché non capii come funzionava. A quel punto cominciai a prenderci gusto e divenni un poco più audace, circondandogli le spalle con le braccia e premendomi più forte a lui.
Era magnifico, incredibile, bellissimo. Sarei stato a baciarlo così per sempre, avrei voluto non dovermi mai più sottrarre a quell'abbraccio e alle sue labbra pazzesche, capaci di farmi dimenticare tutti gli orrori che avevo dovuto sopportare fino a quel momento.
Ci separammo soltanto quando sentimmo la necessità di riprendere fiato. Enea continuava a carezzarmi i capelli e il viso con la mano destra, mentre con la sinistra premeva sulla mia schiena per tenermi stretto a sé. Mi contemplava con ammirazione e dolcezza, senza lasciare mai che i suoi occhi si scostassero dal mio viso.
«Per noi non c'è futuro, Cosimo. Io voglio che tu trovi la felicità con qualcuno più giovane di me, che tu abbia la vita che meriti. Sei troppo giovane e bello per me» mormorò.
Scossi forte il capo, mordendomi piano il labbro inferiore. Sentivo ancora in bocca il sapore inconfondibile del caffè che tanto amava sorseggiare. «No» mi limitai a replicare.
«Andiamo, ragazzo. È stato bello per entrambi questo bacio, ma non posso davvero costringerti a stare con uno come me. Quando morirò, tu sarai ancora giovane e ti renderai conto di aver sprecato gli anni più belli della tua vita» proseguì.
«Gli ho già sprecati» gli feci notare, acquistando un poco di sicurezza. «Ho già trent'anni» aggiunsi.
«Hai tutto da vivere, tutto da fare, da scoprire...»
«No!» esclamai con impeto, sorprendendomi di quanto fossi divenuto improvvisamente serio e fermo nelle mie decisioni.
Enea mi scrutò per un po', poi si lasciò sfuggire un lieve sorriso. «Allora sai essere anche testardo quando vuoi.»
«Sì» confermai.
«Ah, cazzo, ma che mi hai fatto?» se ne uscì, utilizzando un tono di voce un po' troppo melodrammatico. Rise e mi strinse nuovamente a sé, tornando a baciarmi.
Ormai avevo capito come comportarmi, così risposi immediatamente e mi strinsi forte a lui, senza lasciarmi più sfuggire l'occasione di averlo accanto. Non mi importava ciò che mi aveva detto, lui mi piaceva davvero e non potevo lasciarmelo scappare. Non ora che avevo la certezza che lui mi volesse come io volevo lui.
Solo quando stavo al suo fianco riuscivo a trovare la forza per reagire, per guardare la mia misera vita da un'altra prospettiva, per trovare e attuare le soluzioni che fino a quel momento mi ero rifiutato di prendere in considerazione.
E andavo pazzo per i suoi baci e per le sue carezze, andavo pazzo per tutto ciò che lo riguardava e mi sentivo finalmente amato e rispettato come qualunque altro essere umano.
 
 
«Comincio a lavorare.»
In cucina si udì il rumore delle posate che cozzavano sui piatti, quando i miei genitori le misero giù e mi fissarono.
Mia madre era confusa e parve cadere completamente dalle nuvole, mentre il mostro era inorridito e quasi divertito da ciò che avevo appena detto.
«Ah. E dove?» se ne uscì mia madre, per poi riprendere a mangiare la pasta al ragù che avevo cucinato.
«In un negozio di articoli da regalo. E nel fine settimana vado con il proprietario a esporre ai mercatini» spiegai in tono piatto.
Non mi importava più cosa avrebbero pensato, avevo preso la mia decisione e a questo punto non potevo più tornare indietro. L'ultima cosa che volevo era deludere Enea con il rischio di perderlo. Piuttosto mi sarei fatto uccidere da mio padre.
Quest'ultimo scoppiò a ridere e allontanò il piatto con stizza, ma prima vi sputò dentro con disgusto. «Pensa un po', la merda che va al lavoro? Che notizia!»
«Già» replicai risoluto.
«Ma Cosimo, io come farò?» si lamentò mia madre. «Chi verrà a prendermi al lavoro? Chi baderà alla casa?»
Mi strinsi nelle spalle. «Non lo so. Però devo guadagnarmi da vivere, avrò una buona paga e non peserò su di te» le dissi, ignorando completamente i grugniti del dinosauro che stava seduto di fronte a me.
«Cristo santo...» sussurrò lei, portandosi le mani in testa.
«Assumi qualcuno perché ti aiuti, mamma. Abbi pazienza. Lavorerò a tempo pieno e non potrò tornare per pranzo. Qualche volta potrò pensare alla cena, ma non sempre. Dipende da che ora finisco in negozio. E nel fine settimana sarà praticamente impossibile. Verrà un uomo qui a badare ad animali e piante, a questo ho già pensato.»
L'orco si mise in piedi e diede un calcio alla sedia, poi afferrò il bicchiere in vetro e lo scagliò sul pavimento.
Lo fissai con disprezzo. «Bene, ora tocca a voi pulire, io devo andare. Comincio questo pomeriggio» annunciai, per poi alzarmi.
Vederlo sputare sul cibo che avevo preparato mi aveva fatto passare la fame.
Andai in camera mia, presi la giacca, il cellulare e le chiavi della macchina, richiusi a chiave la porta e mi avviai fuori di casa.
Erano trascorsi due giorni da quando Enea mi aveva proposto di lavorare con lui, e da allora non lo vedevo.
Salii a bordo e guidai con calma verso il paese in cui si trovava il suo negozio. Ci misi un po' per arrivare, ma quando finalmente giunsi a destinazione ero euforico e felice.
L'uomo mi accolse con un caloroso sorriso e mi abbracciò dolcemente, lasciandomi un breve bacio a fior di labbra.
«L'hai detto ai tuoi?» volle sapere.
Gli raccontai com'erano andate le cose, e la scena parve divertirlo parecchio poiché scoppiò a ridere e mi scompigliò affettuosamente i capelli.
«Sono orgoglioso di te» ammise poi, facendosi nuovamente serio.
Mi sentii avvampare, rendendomi conto che mai nessuno mi aveva detto delle parole così belle e sincere. Ero sempre stato insultato e trattato con disprezzo, forse non mi sarei mai abituato alla dolcezza del mio Enea.
«E ora mettiamoci al lavoro, hai tanto da imparare!» esclamò con entusiasmo.
Da quel momento in poi sarebbe cominciata la mia nuova vita e io avrei fatto di tutto per tenermela stretta, lottando con tutte le mie forze per meritare il posto che Enea mi aveva concesso al suo fianco.
Come lavoratore e come compagno di vita.
 
 
 
 
 
 
♣ ♣ ♣ ♣
 
Eccoci arrivati alla fine di questa piccola avventura, cari lettori!
Questa storia è nata con l’intento di incoraggiare chi non crede nella vita, nel cambiamento e nella lotta per qualcosa di meglio!
Ho voluto soltanto portare un po’ di positività, ho voluto dare al racconto un lieto fine e spero che questo vi sia piaciuto e non sia risultato troppo banale o scontato!
Se così fosse, be’, scusatemi, ma non mi andava di lasciare Cosimo in una situazione tanto tragica e insostenibile… ^^
Ci tengo moltissimo a ringraziare chi mi ha sostenuto in questo breve racconto, in particolare alessandroago_94, yonoi e Soul_Shine: grazie di cuore per avermi dato dei consigli, per essere stati sinceri e gentili, e per aver dedicato un po’ del vostro prezioso tempo a leggere questa mia ennesima folle idea :3
Un grazie va anche a chi arriverà qui in futuro, a chi ha letto in silenzio e a chi è capitato qui per caso… è tutto importante per uno scrittore, anche riuscire a raggiungere un piccolo frammento del cuore di una singola persona!
Alla prossima ♥

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