L'Uniforme Nera con la Svastica Rossa

di Moony16
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Jo ed Elly ***
Capitolo 2: *** Ebrea ***
Capitolo 3: *** Serva ***
Capitolo 4: *** Esseri umani ***
Capitolo 5: *** Panettiere ***
Capitolo 6: *** Cugini ***
Capitolo 7: *** Defunto ***
Capitolo 8: *** Amanti ***
Capitolo 9: *** Nemici ***
Capitolo 10: *** Sopravvissuti ***
Capitolo 11: *** Vecchi Amici ***
Capitolo 12: *** Puttana ***
Capitolo 13: *** Attori ***
Capitolo 14: *** abbandonato ***
Capitolo 15: *** Locomotiva ***
Capitolo 16: *** Lontano dagli occhi ***
Capitolo 17: *** Operazione Barbarossa ***
Capitolo 18: *** Coscritto ***
Capitolo 19: *** Avviso ***



Capitolo 1
*** Jo ed Elly ***


Prologo

Germania, Friburgo, 1924
Il cielo era luminoso quel giorno di Agosto, il sole rischiarava i tetti spioventi tipici della città e le foglie sembravano brillare. Era metà mattina, le strade erano animate di gente, il fiume Dreisam scorreva placido riflettendo la luce. Due bambini, dalle pendici del Schauinsland, proprio agli inizi della foresta nera, giocavano ridendo divertiti. Sembrava stessero facendo qualche strano gioco inventato da loro e il modo in cui si guardavano rapiti indicava che erano inconsapevoli del resto del mondo circostante. Erano come dentro una bolla di felicità e spensieratezza.
Joseph e Caroline erano vicini di casa e inseparabili. Entrambi figli unici, erano cresciuti insieme come fratelli, o forse  qualcosa in più. La madre di Joseph era morta di parto, mentre Caroline … beh i suoi semplicemente non erano più riusciti ad avere altri bambini. 
Joseph aveva sei anni, mentre Caroline appena quattro. Lui aveva i capelli biondissimi lisci e sottili, che portava sempre molto corti. I suoi lineamenti erano affilati, la pelle pallida e gli occhi di un azzurro chiarissimo, che d’inverno sembrava grigio. Si vedeva che sarebbe diventato alto ed era magro come un chiodo.
Se i suoi colori erano così tenui e delicati, quelli di Caroline erano tutto l’opposto. La bambina aveva ricci e vaporosi capelli, rossi come lingue di fuoco, e gli occhi uguali al colore delle foglie smeraldine accanto a loro. Il suo viso infantile era paffuto e aveva il naso all’insù spruzzato di efelidi. 
Da qualche parte nella foresta, doveva esserci il padre di Joseph. L’uomo, reduce di guerra, al suo miracoloso ritorno in patria aveva trovato la moglie morta e un bambino piccolo da accudire. Con il governo allo stremo e nessuno disposto ad assumerlo in un impiego fisso, aveva dovuto arrangiarsi. Così lavorava un po’ dappertutto, come spazzino, muratore, imbianchino, e un altro milione di lavori che aveva fatto per riuscire a mantenersi. Aveva imparato anche a distinguere i funghi velenosi, e così su quel monte andava a raccoglierli insieme a delle erbe che la farmacista non mancava mai di pagare con qualche spicciolo. Nelle giornate come quelle portava con sé il figlio nella speranza – inutile – che imparasse qualcosa. Il bambino era troppo piccolo e insisteva sempre per portarsi dietro la figlia del proprietario di quelle due piccole stanze che avevano in affitto e dove vivevano. 
Comunque, il signor Muller non poteva lamentarsi. I genitori della bambina, forse perché desideravano tanto un altro figlio senza riuscire ad averlo, forse stupiti dall’intelligenza del ragazzino o forse perché lui faceva felice loro figlia come nessuno, avevano preso a cuore il piccolo Joseph. E poiché erano straricchi, il bambino non rischiava mai di andare a letto senza cena, a differenza del padre. Lo avevano preso sotto la loro ala protettrice e, nonostante il padre avesse protestato molto, gli mantenevano persino gli studi. 
Il signor Muller si sentiva umiliato dalla situazione creatasi, ma se voleva che Joseph studiasse, quello era il prezzo, ed era disposto a pagarlo. Voleva che suo figlio potesse avere un futuro. Certo, i parenti della moglie erano benestanti, però non erano mai stati in buoni rapporti e lui preferiva l’elemosina di quei gentili signori rispetto al dover chiedere soldi per l’istruzione di suo figlio a loro.
I due bambini dunque erano con lui, ufficialmente per aiutarlo, praticamente per giocare e godersi il sole estivo. 
Ad un certo punto Caroline, sdraiata a pancia in su con lo sguardo verso il cielo, si era girata verso Joseph con le sopraciglia aggrottate.
«Joseph, dove è tuo padre?» aveva chiesto. Si era accorta che non sentiva più i passi del signor Muller e aveva avuto paura. Il bambino si era alzato e le aveva teso la mano, aiutandola a mettersi in piedi, poi si era guardato in torno. Aveva i calzoncini marroni sporchi di terra e la maglia bianca tutta stropicciata. Il vestitino di lei non era messo meglio. 
«non lo so, ma tornerà. Si sarà allontanato un po’ di più» disse ostentando una sicurezza che non aveva. Anche lui aveva avuto paura quando, guardandosi intorno, non aveva scorto la figura rassicurante del padre. 
«e se non torna?» chiese quella spaventata, gli occhi grandi spalancati dal terrore.
«torna, fidati di me. E anche se non tornasse, ci sono io»
«sapresti tornare a casa?» la bambina era scettica e Joseph rispose troppo velocemente
«si, certo» mentì. Non voleva spaventarla, doveva proteggerla. Anche solo da quel sentimento di paura che era nato in lei. Era suo dovere farlo: era la persona a cui voleva più bene oltre suo padre, era bellissima, e si fidava ciecamente di lui. Era la sorellina che non aveva mai avuto e da che ricordava aveva sempre provato l’istinto di difenderla da ogni cosa;  che si trattasse dei ragni che la spaventavano tanto o dei  tuoni durante i temporali.
«e poi con me non devi avere paura: io ti proteggerò sempre» disse sicuro.
«mano sul cuore?» lui aveva riso e aveva messo la mano destra sul cuore.
«mano sul cuore, Elly» lei si imbronciò
«non chiamarmi Elly! Altrimenti ti chiamo “Jo” e sembri una femmina!»
«Elly! Elly! Elly! Elly» cominciò a canzonarla mentre le facevano il solletico e lei si dimenava come una pazza sul terreno scuro della foresta. Cominciarono a rotolarsi e le loro risate riecheggiavano allegre per la foresta.
Gli alberi conservarono quella promessa, che lui avrebbe sempre rispettato e che lei avrebbe sempre ricordato, nonostante fossero solo bambini. 
Dopotutto, un giuramento è un giuramento.
Quando lei finalmente si arrese, la pancia dolorante per le troppe risa, non aveva potuto fare a meno di abbracciarlo e sussurrargli.
«ti voglio bene, Jo» innocente. E bene gliene voleva per davvero. 
Lo immaginava così, il principe di Cenerentola e Biancaneve e di tutte le altre fiabe che la madre le raccontava. Quei principi erano sempre belli come Jo e simpatici e buoni come lui. Se tutti gli altri maschi, anche gli amici stessi di Jo, la guardavano male perché era “femmina” e non giocavano con lei, lui la difendeva sempre, non le diceva mai di no, le offriva sempre la parte più buona del pane con la marmellata e qualche volta acconsentiva persino a giocare al dottore: lui era sempre il paziente.
Quindi gli voleva bene. Era suo fratello. Però, se avesse avuto un fratello, era sicura che non lo avrebbe considerato mai il suo principe. Quel posto nel suo piccolo cuoricino era riservato solo e soltanto a Jo.
***
Germania, Friburgo, 1929
Era Dicembre , la neve rendeva tutto gelido e in casa di Joseph non c’era neanche un pezzo di carbone per riscaldarsi. Tremando come una foglia, il ragazzino di quasi undici anni si guardava intorno spaesato. Era mezzanotte e il padre non era ancora tornato a casa. Era in ritardo di sei ore e fuori la tempesta infuriava, bestia implacabile e senza pietà.
Negli ultimi tempi le cose erano andate sempre peggio. Il padre faticava ogni giorno di più per trovare di che vivere, non pagavano l’affitto da tempo immemore e non avevano nulla con cui riscaldarsi. Non potevano neanche andare nella foresta, per cacciare qualcosa da mettere sotto i denti o raccogliere qualche frutto o fungo. Joseph aveva preso l’abitudine di pranzare a casa di Caroline e i genitori di lei lo guardavano compassionevoli, certi che fosse il suo unico pasto e senza sapere come fare per aiutarlo di più di come già facevano: Il signor Muller accettava ciò che davano al figlio, ma mai gli avrebbe permesso di fare di più. 
Joseph aveva cercato di aiutare il padre, svolgendo piccoli lavori che gli fruttavano quei pochi spiccioli di cui andava tanto fiero e che erano accolti sempre benevolmente dal padre. 
Quella sera però, al freddo e da solo, aveva davvero paura. Paura che fosse successa qualcosa a suo padre, di non sapere dove andare, cosa fare, a chi chiedere aiuto. Di botto, dopo ore passate immobile nella stessa posizione, era scoppiato in un pianto isterico. Senza suo padre, era solo. 
Ancora singhiozzando era uscito da casa sua per raggiungere la porta della casa di Caroline. Le due stanze che chiamava casa erano in realtà le cantine umide della casa di Caroline e per raggiungerla gli bastò salire quei gradini puliti ma consumati.
Dopo qualche minuto da che aveva bussato lo aveva accolto il padre della bambina, tutto tremante e singhiozzante, digiuno e disperato. L’uomo lo aveva guardato sospirando e lo aveva lasciato entrare, cercando di essergli d’aiuto come poteva.
Si era addormentato sfinito ore dopo, davanti al fuoco e sotto lo sguardo preoccupato di quei due signori a cui lui voleva tanto bene quanto lo si vuole a dei nonni o a degli zii affettuosi.
Il giorno dopo un signore con grandi baffi e un cappotto nero abbottonato fin sotto al mento, aveva bussato alla casa di Joseph.
Suo padre, aveva detto, era stato ritrovato quella mattina per strada. Morto disidratato. Di freddo o di fame? Non si sapeva e neanche importava. L’unica cosa che aveva importanza era il riconoscimento del cadavere, il funerale, l’affidamento del bambino e altre mille pratiche burocratiche che Joseph non aveva nessuna forza di ascoltare.
Di tutto si era occupato il padre di Caroline, comprese le lettere da mandare ai parenti rimasti del bambino, solo uno zio a Berlino e una zia zitella che abitava in campagna nella parte opposta del paese.
Caroline era stata la sua unica fonte di forza. Era grazie a lei se non era sprofondato nel torpore, se riusciva ancora a mandare giù qualche boccone di cibo o se riusciva a piegare la bocca in quello che avrebbe dovuto essere un sorriso. Lei gli stava vicino, cercando di capire nonostante avesse solo nove anni. Lo faceva commuovere con quei dolcetti, che Caroline diceva preparati da lei con l’aiuto della cuoca, quando lui sapeva che l’unica cosa che la bambina aveva fatto era impastare tutto. Con quei bacetti sulle guancie quando piangeva. Con quel suo peluche preferito, che un giorno Joseph aveva trovato sul cuscino, con la sola spiegazione che lo avrebbe rallegrato. Con quel suo sgattaiolare nel suo letto per dormire abbracciati, che gli risparmiava tanti incubi.
Una sera però, davanti al fuoco, Caroline aveva dovuto comunicargli la notizia che lo avrebbe cambiato per sempre, che lo avrebbe portato ad essere ciò che non si sarebbe mai aspettato, qualcosa che gli avrebbe sconvolto l’animo.
«Joseph … devo dirti una cosa» aveva esordito sedendosi sul tappeto accanto a lui. Erano ancora bambini ma l’affiatamento che avevano era raro. 
«non è una bella notizia, vero?» aveva detto Joseph con lo sguardo fisso sul fuoco. Il cambiamento aveva già iniziato a manifestarsi in lui ma era ancora ammorbidito dalla figura di Caroline, la parte più bella della sua infanzia che era in quel modo terminata di botto.
«dipende dai punti di vista. Per me, è la notizia peggiore che ci possa essere» aveva detto lei, guardando a sua volta il fuoco.
«vogliono mandarmi in qualche orfanotrofio? Non preoccuparti, anche se non saremo vicini di casa, non smetteremo di essere amici» si era sforzato anche di sorriderle prendendole una mano. Lei lo aveva guardato in viso e Joseph si era accorto che piangeva. E un campanello di allarme era suonato nella sua testa, perché Caroline era una bambina che non piangeva mai. Mai.
«Caroline, dove vogliono mandarmi?» si era allarmato.
«a Berlino, da quel tuo zio medico» aveva singhiozzando lei, affondando la faccia sul suo petto. Lui non aveva pianto. Si era stancato di versare lacrime. Aveva solo sentito qualcosa inclinarsi nel suo cuore. La rabbia lo travolse, per essere stato strappato da sua madre a causa delle pessime condizioni in cui era nato, durante la guerra; da suo padre, per colpa dell’inflazione e di tutti quei ricchi che abusavano del loro denaro, destinando ad una morte vergognosa altri esseri umani; separato dalla sua migliore amica, da sua sorella, l’unica persona che le era rimasta, a causa di quelle dannate leggi sbagliate. La rabbia, aveva iniziato a covare in lui, ceca, ringhiante, feroce e  senza perdono, come un cancro che piano avrebbe consumato tutto ciò che aveva intorno.
Aveva abbracciato quella bambina dolce e piena della stessa innocenza che stava scivolando via da lui veloce come l’olio.
Era dovuto salire in carrozza, guardando i suoi occhi verdi scuri di lacrime e gli sguardi compassionevoli di quei signori che tanto gli avevano dato. Prima però li aveva abbracciati forte, ringraziandoli mille volte della loro gentilezza. L’uomo era stato burbero come sempre, anche se Joseph aveva distinto gli occhi lucidi. La donna era semplicemente scoppiata in lacrime: si era abituata a considerarlo come un figlio e perderlo era devastante: avevano provato a farlo restare con loro, ma non era stato possibile. Poi si era avvicinato a Caroline e abbracciandola aveva suggellato la sua promessa.
«Tornerò Caroline. Ho promesso di proteggerti sempre, ricordi? In qualsiasi momento tu avrai bisogno, chiedimelo: per quanto potrò, io ti aiuterò» lei aveva annuito contro la sua spalla. Non voleva lasciarlo. Era ancorata alle sue spalle magre con tutta la forza che aveva in corpo e non voleva lasciarlo andare. Si rifiutava categoricamente di credere che non lo avrebbe più rivisto.
«tornerò Caroline, te lo giuro. E sarò ricco e coperto di gloria. Verrò qui e ti sposerò» disse con l’avventatezza dei bambini. Eppure era sicuro, nonostante avesse solo unidici anni, che se avesse mai voluto stare con una donna per sempre, era lei. Non  lo annoiava mai come le altre bambine, lo conosceva benissimo e poi era bellissima.
«mano sul cuore?» aveva detto lei, tra le lacrime.
«mano sul cuore, Elly» giurò senza riuscire più a trattenere le lacrime.
«arrivederci allora, Jo» lo aveva salutato lei. Poi si era finalmente staccata da lui, singhiozzando. 
Lui era salito nella carrozza tremando e si era affacciato. Mentre quella partiva aveva urlato anche lui il suo arrivederci. Non era un addio, non poteva neanche lontanamente considerare che si trattasse di una addio.
Ne sarebbe morto, altrimenti.
 

Capitolo 1: Ufficiale

Francia, Parigi, 1940
Joseph Müller, ventuno anni, giovane, bello e intelligente, guardava allo specchio il suo aspetto, un sorriso compiaciuto a increspargli le labbra sottili.
L’uniforme nera gli donava, ne era certo. Metteva in risalto il suo fisico e la sua carnagione, mentre i suoi occhi assumevano la tonalità del fumo. Lo stesso fumo che saliva dalla città fino a qualche giorno prima, a opera dei suoi fratelli tedeschi.
Era soddisfatto Joseph, nonostante la ferita da arma da fuoco al fianco gli procurasse dolore ad ogni movimento. Si era distinto in battaglia, aveva condotto magnificamente il suo reggimento, combattuto con valore e ridotto al minimo la perdita di uomini. Insomma la sua carriera da comandante nelle SS non avrebbe potuto cominciare meglio. La croce di ferro di secondo grado faceva bella mostra di sé nella divisa, ed era sicuro che tornato in patria le ragazze, guardandolo, gli sarebbero cadute ai piedi.
Durante la parata, svoltasi quello stesso giorno, aveva persino stretto la mano al Fhurer, cosa che lo aveva riempito di orgoglio e di autocompiacimento.
La carriera militare lo aveva arricchito e ricoperto di gloria. Era una ragazzino quando, nel 1933, Hitler aveva assunto il potere. Ma gli ideali del partito rispondevano alla sua rabbia, trovavano i colpevoli per le sue disgrazie, lo facevano sentire parte di qualcosa. Si era iscritto praticamente subito e da lì aveva intrapreso quella carriera che gli stava dando tanti onori.
A sedici anni infatti, grazie al suo ottimo rendimento scolastico, il suo aspetto da perfetto ariano e la sua prestanza fisica, era entrato nella NaPoLa più vicina a Berlino e si era diplomato con il massimo dei voti. Poco dopo aver compiuto i diciotto anni era entrato nella Waffen-SS. Aveva preso parte alla notte dei cristalli insieme ai suoi compagni, si era sentito dio sceso in terra camminando baldanzoso per le vie della città, mentre la gente abbassa lo sguardo al suo passaggio. Dall’anno precedente aveva  ottenuto vittorie su vittorie, era inarrestabile, una forza della natura. Stava finalmente facendo ciò per cui era stato addestrato e ne ricavava gioia e orgoglio. Eseguiva gli ordini in ogni caso, qualunque essi fossero, la sua coscienza, i suoi sentimenti erano dettagli irrilevanti di qualcosa di più grande e più importante. Qualcosa di cui era orgoglioso di fare parte.
Sorridendo si spogliò e si mise a letto, nella camera che gli era stata assegnata per quella notte, negli occhi, la Parigi conquistata e sottomessa del giorno prima.
L’indomani sarebbe partito per la Germania, per un breve periodo di permesso, concessogli a causa della ferita riportata. Non era però sua intenzione arrivare subito a Berlino: si sarebbe fermato prima, a Friburgo, sua città natale, che non vedeva da ben dieci anni. Dopotutto aveva fatto una promessa, aveva giurato che quello non sarebbe stato un addio. Non rivedeva Elly da quando era partito e lei aveva smesso di scrivergli quando l’aveva informata di essere entrato nella gioventù hitleriana. Ne aveva dedotto che non approvava, e questo era precisamente il motivo per cui non era sicuro di restare a lungo a Friburgo. L’unica ragione per cui vi ritornava era rivedere la sua vecchia amica, fedele alla promessa fatta quel giorno, quando le aveva giurato che quello non era un addio. 
E poi, era suo dovere trovare moglie, per continuare la stirpe ariana. Non amava però nessuna donna, non aveva mai avuto il tempo di occuparsene e neanche la voglia. Di solito i suoi rapporti con il gentil sesso erano limitati ad avventure di una notte e non avrebbe mai sposato una di quelle sgualdrine che si portava a letto. Così, se Elly fosse stata ancora libera, avrebbe potuto farci anche un pensierino. Dopotutto era sicuro che tra loro ci fosse almeno una solida base di affetto, lui era ormai ricco e lei anche. Sarebbero stati felici, più o meno. Dopotutto il suo scopo non era l’amore, ma la procreazione, una bella donna che gli facesse compagnia alle serate importanti e gli rendesse la casa tranquilla e accogliente. 
La ferita lo disturbava, pulsava e bruciava, gli impediva di dormire bene, facendolo rigirare nel letto, mentre i pensieri lo invadevano.
Era stato colpito proprio all’ultimo, qualche giorno prima, durante uno degli ultimi attacchi all’assedio di Parigi. Aveva sparato ad un uomo e credendolo morto, era passato avanti. Il bastardo però era ancora vivo, e prima di beccarsi una pallottola in testa dal suo sottotenente era riuscito a sparargli. Fortunatamente la pallottola lo aveva colpito in maniera superficiale, altrimenti si sarebbe trovato con qualche organo interno spappolato.
 Sapeva che quello squarcio che aveva sul fianco non era una cosa da prendere sottogamba e che doveva curarsi se non voleva beccarsi un’infezione. Ci avrebbe messo mesi a guarire del tutto e tornare in battaglia in quello stato, ne era sicuro, gli sarebbe costata la vita. Non che importasse: era pronto a morire per il suo paese senza esitare un solo istante. Però i suoi superiori erano d’accordo nel credere che sarebbe stato uno spreco e che avrebbe potuto riprendere a combattere quando si sarebbe rimesso del tutto. Nel frattempo quindi avrebbe svolto un lavoro da ufficio a Berlino
Era sicuro che la sconfitta della prima guerra mondiale, che aveva portato sua madre a morire di parto, e la crisi del dopoguerra, che aveva portato suo padre a morire di fame, fosse solo causa degli ebrei. Li odiava con tutto se stesso, senza nessuna pietà, istigato dalla propaganda del regime, infuocato dalla sua rabbia. Erano bestie, e come tali andavano trattati e ad ogni cattiveria verso il popolo ebraico sentiva di togliere un altro po’ del cancro che opprimeva il suo popolo, di estirpare quelle erbacce che minacciavano di soffocare la sua razza.
Si alzò dal letto sbuffando e guardò fuori dalla finestra. Gli Champs-Elysees erano bui, non un’anima camminava per quella famosa via, sempre in fermento prima della guerra.  L’intera città sembrava urlare “tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure”*. Parigi, dopotutto, era poetica anche in quello stato, pensò, sorridendo ironico. 
In piedi, il fianco faceva ancora più male, però non riusciva più a stare sdraiato con gli occhi chiari fissi sul soffitto. Sospirò esasperato, senza sapere che fare. Il giorno dopo, ne era sicuro, il viaggio in auto sarebbe stato un tormento, con le strade distrutte e la posizione scomodissima per la sua ferita.
Si sdraiò di nuovo, convinto a racimolare almeno un paio d’ore di sonno, mentre la notte era sempre più buia.
***
Friburgo apparve lontana e bellissima, rischiarata dalla luce del tramonto. Aveva impiegato un giorno intero a raggiungerla, partendo alle sei del mattino e riducendo le pause al minimo indispensabile. La sua auto militare, gentilmente concessagli dal generale, sembrava sbuffare arrancando per la strada. L’auto era piena di soldati, tutti nervosi e sfiniti dalla guerra e dal viaggio. Guidava Joseph, che nonostante la ferita al fianco era quello messo meglio. L’uomo che gli sedeva accanto si era ritrovato vicino ad una granata e aveva così perso un occhio, oltre ad essersi procurato innumerevoli ferite. Dietro c’erano due soldati, uno era stato ferito all’addome da un proiettile, fortunatamente era abbastanza lontano da non aver subito danni irreparabili. L’altro soldato ancora aveva perso il braccio in una esplosione. Ferite di guerra, che portavano fieramente, ma che facevano fremere Joseph di rabbia. I suoi fratelli, mutilati! Quando li guardava, un odio viscerale nasceva nei confronti degli sconfitti, che, a suo parere, meritavano la morte anche solo per quello.
Vedere la città illuminata dalla luce del sole morente, li riempì di gioia. Il viaggio era stato lungo, le ferite dolevano, erano a disagio e avevano tutti bisogno di una bella dormita. Joseph non sapeva dove avrebbe passato la notte. Pensava ad un albergo, o alla casa di Elly. Non sapeva se l’avrebbero ospitato ma non importava più di tanto. Il vecchio albergo infondo alla via in cui abitava da bambino sarebbe andato benissimo.
Fermò l’auto di fronte la caserma centrale della città. Registrarono il loro arrivo, quindi li congedarono.
Era smanioso di rivedere la sua vecchia amica, così si incamminò, pensieroso, per quelle strade tanto familiari quanto lontane nei ricordi.
Gli sembrava di essere tornato bambino e il suo cuore sarebbe stato certo molto più leggero, se non avesse avuto l’impressione di veder spuntare il padre da ogni angolo. Ma era morto e di lui restavano solo le ossa, a quel punto. Era sepolto nel cimitero della città, e ufficialmente era questo il motivo per cui stava andando lì. Ma a lui non importava del cimitero. La morte non può essere rappresentata da un corpo freddo e mangiato dai vermi, polvere, inutile spoglia senza vita. I morti, si era convinto, vivono nei ricordi dei vivi, non nelle effigi delle lapidi, in uno squallido cimitero. Forse però quella sua convinzione era solo una spiegazione che si era dato, per poter convincersi che non importava il fatto che non aveva mai potuto portare dei fiori sulla tomba del padre. Un modo per giustificarsi e per non impazzire al pensiero di avergli mancato di rispetto.
Percorse le strade velocemente, ma quando si trovò di fronte la casa in cui aveva abitato, la trovò grigia e con le finestre sbarrate. La porta era scrostata e le finestre erano coperte di polvere, il colore della facciata era sbiadito. Non ci abitava nessuno da anni, era palese. Ma allora dov’erano? Si guardò intorno spaesato, senza sapere che fare. Una signora dalla finestra della casa di fronte lo guardava curiosa, così lui la chiamò, ricordando che era la stessa signora che anni prima gli lanciava secchi di acqua gelata addosso, quando faceva troppi schiamazzi con i suoi amici. 
«signora Meyr!» chiamò a gran voce. Quella si ritrasse spaventata dalla finestra.
«signora Meyr non faccia la timida, si ricorda di me, no?» urlò di nuovo. Il silenzio più totale nella strada.
«sono Joseph Müller, signora Meyr. Vorrei solo parlarle» disse infine. Dopo qualche secondo lei si affacciò.
«non conosco nessun Joseph Müller!» lui sospirò.
«signora Meyr sono lo stesso ragazzino che anni fa abitava in questa casa. Si ricorda? Mi beccava sempre, con quei secchi d’acqua!» disse infastidito dalla ritrosia della signora. Avrebbe potuto essere più duro, però non era in veste di militare in quel luogo, nonostante l’uniforme. Non voleva essere sgarbato.
«senta, mi serve solo sapere che fine hanno fatto gli Huber»
«me lo dica e me ne andrò» aggiunse, dopo il silenzio della signora. Lei allora gli urlò un indirizzo e rientrò dentro casa. Lui si accigliò sentendo il nome della strada, in un dei quartieri più poveri della città. Il signor Huber doveva aver fallito, constatò. Se ne dispiacque, anche se era sicuro che la cosa fosse dovuta alla sua non-aderenza al partito. Dopotutto, era lo stesso motivo per cui Elly non gli aveva più scritto. Però erano gli Huber e non gli importava più di tanto, nonostante tutto. Era grazie a loro se era ancora vivo, se aveva potuto studiare, arrivando dove era in quel momento, se aveva conosciuto Elly, la bambina che aveva reso felice la sua infanzia. Avrebbe potuto giudicare chiunque, ma non loro. Guardò l’ora e sospirò. Erano ormai le dieci e mezza, sarebbe stato inopportuno presentarsi a casa di qualcuno a quell’ora. Così strascicando i piedi, si diresse all’albergo in fondo alla via, il disappunto stampato in viso, per non aver potuto soddisfare la sua curiosità.
Si, perché era anche curioso. Da bambino considerava Elly una bambina bellissima. Amava i suoi capelli, e aveva continuato ad amarli nonostante, secondo l’ideale di bellezza di quel momento, dovessero essere biondi. Bastavano i suoi, di quel colore. 
E poi aveva ricevuto delle foto, l’ultima era del suo dodicesimo compleanno. E gli sembrava che stesse cambiando in meglio. Però in quel momento la ragazza doveva avere diciannove anni, e lui non aveva idea di come fosse.
Arrivò in albergo in quello stato, urgendo un cambio di bende e un po’ di riposo. Prese una camera e la raggiunse borbottando. L’euforia era svanita, lasciando dietro di sé solo stanchezza e un dolore al fianco che sembrava aumentare ad ogni passo. Si spogliò cercando di muoversi il più lentamente possibile. Trovò la benda sporca di sangue e imprecò. Dai punti di sutura, molto tirati, stillavano goccioline di sangue e una sostanza bianchiccia che fece suonare i suoi campanellini d’allarme. La ferita si era infettata, tutto intorno era rosso e bruciava, mentre il solco, ricucito, sembrava scavato nella pelle. Se non fosse stato in guerra, probabilmente avrebbe vomitato. Mantenne invece la calma, pulendo la ferita come aveva detto di fare il medico, disinfettandola con quel prodotto che bruciava da morire, per poi richiuderla in bende candide e sterilizzate. Dopo un’ignizione di penicillina, per evitare le infezioni, si coricò stanco, addormentandosi quasi immediatamente.
Quella notte Joseph dormì bene. Forse perché era stanco morto, forse perché quel luogo gli dava pace e il letto era così morbido … comunque si svegliò alle otto e mezza, stupendosi di quel ritardo. Di solito, come minimo, la sveglia per lui suonava alle sei. Si alzò stiracchiandosi, soddisfatto dalla dormita e sollevato che il dolore al fianco fosse diminuito. Senza fretta, si lavò e indossò l’uniforme nera, non avendo con sé abiti civili. Erano le nove quando, con passo svelto, si incamminò verso l’indirizzo che aveva ottenuto il giorno prima dalla signora. Il luogo, come aveva immaginato, era una topaia, le strade strette e le case malmesse. Il numero a cui doveva bussare era la porta per una cantina. Si rattristò, vedendo quello squallore. La famiglia che ricordava non lo meritava affatto. Bussò alla porta rovinata e sporca con sicurezza, mentre il cuore cominciava a battergli all’impazzata. Dopo un paio di minuti questa si aprì, rivelando una figura femminile. Aveva i capelli rossi e ricci, acconciati in una crocchia disordinata. I vestiti sembravano corti e decisamente consumati, il viso magrissimo, su cui spiccavano come non mai i grandi occhi verdi. I polsi erano sottilissimi e lei così magra da fargli credere che, d’inverno, il vento dovesse trascinarla. Aveva un colorito malsano, grigiastro, e ogni tanto era scossa da attacchi violenti di tosse.
Non appena lo vide il suo viso si riempì di terrore, impallidì e lasciò cadere un panno che aveva in mano. Lui la guardò stupito, e credendola prossima ad uno svenimento, chiese cortesemente:
«posso entrare?» lei spalancò gli occhi e con l’aria di un condannato a morte, si fece da parte. Lui varcò la soglia, chiudendosi la porta alle spalle, poi rispettoso si tolse il cappello dalla testa, stringendolo in mano nervosamente.
«d-di cosa ha bisogno?» chiese balbettando un po’, con un tono così spaventato da innervosirlo.
«non mi riconosci?» chiese stupito. Lei lo guardò confusa.
«riconoscerlo? M-mi dispiace, io non l’ho mai visto prima» rispose, con gli occhi piantati sul pavimento.
«Elly, c’è solo una persona in questo mondo che ti chiama così. E quella persona sono sempre stata io» disse con dolcezza, avvicinandosi  un poco a lei. La consapevolezza la investì, sentendo il suo nome pronunciato in quel modo, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. Si impose di mantenere ferma la voce.
«l’unico a chiamarmi così era Joseph Müller, signore» disse lei, alzando lo sguardo sui suoi occhi di ghiaccio.
«lo so. Non chiamarmi signore è imbarazzante» disse guardandosi intorno, incerto su che comportamento assumere. Cominciava a pensare che quella non fosse stata una buona idea, ma sapeva che non avrebbe potuto fare altrimenti. Non si aspettava quell’accoglienza così fredda. Aveva immaginato milioni di volte il momento in cui l’avrebbe rivista. Aveva immaginato una ragazza simile a lei, ma sicuramente meno scheletrica, ben vestita, che gli correva incontro e lo abbracciava dopo dieci anni di separazione. Una ragazza pronta a spiegargli perché lo aveva ignorato, a riprendere la loro amicizia, felice di vederlo come se avesse ritrovato un fratello. Non si aspettava affatto di sentire un tono tanto freddo e distaccato. Era stato come ricevere un pugno in pieno petto. Se aveva conservato un briciolo di umanità, durante l’addestramento e poi nella guerra, era solo grazie alla dolcezza del suo ricordo. Lei, la cosa più bella della sua vita, che ormai da sei anni gli era scivolata dalle dita.
«sei uno di loro, come dovrei chiamarti?» singhiozzò alla fine lei. Tossì ancora, di petto, forte e senza riuscire a respirare bene. Si piegava su sé stessa, come a farsi piccola piccola. Appena finì, ricominciò con voce roca:
«non ci posso credere, sei uno di loro!» lui rimase fulminato.
«che vuoi dire?» lei alzò un attimo lo sguardo e incontrò i suoi occhi. 
«non lo ricordi vero? Oppure non lo hai mai saputo, in effetti è più probabile … »
«spiegati meglio» disse spazientito. La delusione gli scivolava inesorabile nel petto, amareggiandolo, rattristandolo. Si sentiva tradito: lui non l’avrebbe mai trattata in quel modo.
«Jo che ci fai qui?» chiese allora lei. Lui si addolcì un attimo a sentirla chiamare con il suo vecchio soprannome.
«avevo promesso che non era un addio» disse, leggermente in imbarazzo. Era una cosa da femminucce. Ma lui era sempre stato un uomo di parola. 
«Avrei preferito non vederti mai più, piuttosto che in questo modo!» urlò adirata.
«avevo smesso di scriverti, non ti rendi conto perché? Non puoi davvero essere così stupido da non averlo capito, il ragazzino che ricordo era molto più sveglio di così!» continuò, mentre lui la fissava sempre più sconvolto. Lo sforzo di gola però le costò caro, quindi si ritrovò di nuovo piegata dalla tosse.
«avrei preferito che fossi morto, Jo» sussurrò dopo qualche attimo di silenzio. Lui spalancò gli occhi, mentre il cuore gli diventava sempre più pesante, schiacciato dall’odio dell’unica persona di cui si era realmente fidato nella sua vita. L’unica ancora in vita, almeno.
«che stai dicendo? Sei impazzita per caso?» chiese, bianco come un cadavere.
«impazzita, io? E tu? Che vieni qui con quell’uniforme!»
«sono nelle SS e ne vado fiero» sibilò lui, allora. Pensava che lei non condividesse le decisioni del regime, e questo era intollerabile. Era solo grazie al Fhurer se lui aveva la possibilità di vendicare la morte dei genitori e avere un lavoro, solo grazie a lui se la loro nazione era rinata dalle ceneri di una guerra che aveva ridotto il paese sull’orlo del baratro.
«potrei farti arrestare per queste parole» aggiunse dopo, risentito.
«oh credimi, potresti farlo per molto meno» lui si accigliò, mentre la paura si impossessava di lui. E questo che vorrebbe dire? Pensò esasperato.
«che avete combinato? Perché vivete in questo luogo, e tu sembri uno scheletro?» chiese infine, temendo la risposta, che gli pendeva sul capo come una spada di Damocle. Non disse quanto gli risultasse preoccupante la tosse che la scuoteva di tanto in tanto.
Lei rimase in silenzio cercando le parole. Prese fiato, poi lo buttò fuori come avendo ripensato alle parole da pronunciare, quindi si sedette e lo fissò in viso.
«ricordi dove andavamo il venerdì sera?» lui si accigliò.
«no che non lo ricordo, non ne abbiamo mai parlato. So solo che tu ti annoiavi a morte» lei ridacchiò nervosa. 
«si beh … andare alla sinagoga era noioso» disse, gli occhi fissi sul pavimento. Lui la guardava senza capire.
«alla sinagoga? Ma lì vanno …» non finì la frase sperando di aver capito male, pregando che non fosse come la sua mente gli suggeriva.
«gli ebrei, lo so. Quelli come noi» Caroline si passò la mano sul viso, poi un altro attacco di tosse la colpì sotto lo sguardo perso di Joseph.

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Capitolo 2
*** Ebrea ***


Davanti a Joseph, Caroline aveva ancora le lacrime agli occhi e lo guardava, aspettando una reazione.
Lui continuava a fissare, pallido, un punto imprecisato della parete. Non provava niente. L’idea era troppo irreale, troppo assurda, impossibile. Aveva sempre considerato gli ebrei feccia, bestie da macello, esseri inferiori che minacciavano la sua razza. Ma Elly … lei era stata la parte migliore della sua infanzia. E i suoi genitori lo avevano accolto come un figlio, erano stati gentili, altruisti, attenti ai suoi bisogni, buoni con lui. L’idea che fossero ebrei non lo aveva minimamente sfiorato, mai, neanche quando lei aveva smesso di scrivergli, neanche quando aveva scoperto il loro fallimento.
Dopo una frazione imprecisata di tempo, finalmente lui alzò lo sguardo su di lei.
«perché non me lo hai detto?» riuscì solo a sibilare. Lei lo guardò confusa.
«per me era scontato … Dio, eravamo bambini! Che importanza poteva avere?»
«quando ti ho detto che ero entrato nella gioventù hitleriana! Perché, invece di smettere di scrivermi, non me lo hai detto?» urlò lui, adesso infuriato.
« ti ho mandato lettere su lettere, ho smesso di scriverti dopo due anni, e tu in tutto questo tempo non hai avuto le palle per dirmi che eri una schifo di ebrea!» scoppiò, adirato con sé stesso, che si era così umiliato, ma soprattutto con lei. Con lei, che era stata la parte migliore di lui, con lei che era ebrea.
Le si avvicinò, adesso arrossato dalla rabbia, strattonandola. Le strinse il polso, incurante del male che le provocava.
«Perché Caroline? Perché non me lo hai detto?!»  le urlò sul viso.
«perché tu mi avresti disprezzata! E io non avrei sopportato anche quello» singhiozzò infine, sebbene non fosse tutta la verità.
«volevo che tu ti ricordassi di come ero da bambina, con le guancie paffute e il sorriso sulle labbra, quella che adorava la marmellata! Guardami ora! Sono un fantasma, uno scheletro, è tanto se riesco a fare un pasto al giorno, non rido più, penso solo a come potrei fare per guadagnare qualcosa e non ci riesco! Avresti voluto questa immagine di me?» chiese lei, ora fremente di rabbia. Lui le lasciò il polso, come schifato.
«no, dopotutto anche io avrei preferito che fossi morta, piuttosto che vederti in questo modo» disse Joseph.
«non preoccuparti, lo sarò a breve, probabilmente»  lui trasalì. 
«sei malata?» chiese con durezza, nascondendo un’ansia improvvisa. Non avrebbe dovuto importargli, era ebrea, se moriva era solo meglio per loro razza. Il suo cuore però a quella notizia aveva perso un battito.
«non riesco a smettere di tossire. Vado avanti così da un mese ormai e la situazione peggiora soltanto. E poi, non riusciamo mai a mangiare abbastanza» era evidentemente spaventata. Non potevano permettersi un medico, quindi non sapeva se di trattasse di polmonite, bronchite o semplice influenza. Aveva pensato anche alla TBC ma non sputava sangue. O almeno, non ancora. 
Joseph prese un bel respiro, poi parlò, sforzandosi. Non sapeva che fare, però voleva vedere i suoi genitori. Voleva capire meglio.
«a che ora torna tuo padre?» 
«non lo so, ma stasera sarà di sicuro a casa» lui annuì.
«voglio parlargli. Verrò alle otto, quindi avvisali» disse minaccioso, per poi lasciare la casa il più velocemente possibile. Scappò via da quella realtà, troppo dolorosa e contraddittoria, assurda e inaspettata.
Che fare? Quelle persone gli avevano salvato la vita, doveva loro non solo gratitudine per gli studi o per la felicità. Doveva loro la vita. E anche tanti soldi. Facendo un calcolo pensò che due mesi del suo salario sarebbero bastati. Ma per la vita? Avrebbe abbandonato al loro destino persone che aveva amato e che lo avevano amato? Persone che lo avevano salvato? Si stupì, nel constatare che li aveva pensati come se fossero delle persone. Dovette ricordare a sé stesso che erano inferiori. Il suo cuore però, gli diceva l’opposto.
Contrariamente, avrebbe dovuto infrangere la legge. Rabbrividì al solo pensiero. Era un soldato, in tutto e per tutto, come avrebbe fatto a disobbedire così palesemente a ordini tanto espliciti? Il suo orgoglio, la sua ragione, si opponevano.
Avrebbe parlato con il signor Huger, ma non aveva idea di cosa avrebbe dovuto dirgli. Lui non era uno stupido, intuiva che presto le cose per gli ebrei si sarebbero messe davvero male. Dopotutto erano in guerra e lo sforzo bellico era notevole nonostante le vittorie. Se il Furer avesse dovuto scegliere chi sacrificare, non avrebbe avuto dubbi su chi fossero i primi della lista. Poteva certo mettergli in mano quella cospicua somma di denaro che gli doveva, esortandoli veementemente a lasciare il paese per andare in Svizzera. Quello poteva farlo. Le frontiere erano chiuse, ma con la giusta somma di denaro si aprono tutte le porte.
Ma Elly? Aveva visto come era ridotta e il piano di fuga non era assolutamente certo. Poteva capitare di tutto, potevano essere presi da altre SS, rifiutati dalla Svizzera, derubati e quindi impossibilitati a lasciare i confini tedeschi. Avrebbe potuto morire, non sopportando le condizioni di un simile viaggio. E quando avrebbe avuto bisogno, non ci sarebbe stato nessuno ad aiutarla. A proteggerla.
Come poteva permettere che affrontasse un viaggio così pericoloso? Come fare per non tradire il suo popolo, proteggerla e farla scappare? 
Entro un paio d’ore aveva un gran mal di testa, mentre la ferita, trascurata, pulsava come non mai.
Alla fine si arrese all’evidenza che non c’era altra soluzione. Lei doveva partire con i propri genitori, lui avrebbe fatto il possibile per aiutarli e si sarebbe liberato della faccenda molto presto, senza alcun senso di colpa verso nessuno e soddisfatto di come si era comportato. Certo, avrebbe detto addio ad Elly, ma a quel punto era la cosa migliore per tutti.
La sera si presentò puntuale alla catapecchia dove gli Huger abitavano. Lo accolsero con freddezza, forse avvertiti della sua uniforme e della sua reazione alla rivelazione della ragazza. Li salutò anche lui con un freddo cenno del capo e poi si ritrovarono nell’angusto salotto-camera da pranzo che probabilmente era anche la camera in cui dormiva Elly. 
«vi devo dei soldi e, mio malgrado, la vita» esordì accigliato. 
«non mi va di essere in debito con qualcuno, con degli ebrei specialmente» non mostrò quanto lo addolorasse sapere che erano ebrei e non poterli riabbracciare. Si era immaginato un altro tipo di accoglienza, aveva sperato di trovare nuovamente una famiglia in loro. 
Il signor Huber lo guardò negli occhi con durezza. I suoi capelli, una volta neri come l’inchiostro, erano quasi interamente bianchi, le rughe dimostravano un’età che non aveva e il suo volto era come svuotato. Era anche lui magrissimo, eppure una volta era stato un signore ben piantato. Se lo avesse visto per strada, probabilmente, Joseph non lo avrebbe riconosciuto.
«e cosa intendi fare?» Joseph sospirò.
«vi darò il denaro necessario per lasciare il paese. Farò in modo che siate trattati con ogni riguardo e che il compito di arrivare in Svizzera vi risulti più facile» disse in modo atono.
Il padre di Caroline rise amaramente.
«ti ricordavo più intelligente, ragazzo» affermò con un sorriso ironico privo di felicità. Era la seconda volta che sentiva una frase simile nella stessa giornata, e cominciava ad esserne infastidito.
«questo è il mio paese, non ho intenzione di abbandonarlo alla prima inconvenienza. Avevo i mezzi per andarmene, ho scelto di restare. E poi, sono un eroe nazionale, non possono farmi niente di così terribile»
«signor Huber questa non è un’inconvenienza. È un pericolo. Siamo in guerra. Se arriveranno a dover fare delle razioni con il cibo voi morireste di fame. Se servirebbero soldati per la prima linea manderanno voi, se servirà manodopera a basso costo verranno a cercare voi. È da stupidi non provare ad andarsene» disse infastidito.
«io non voglio lasciare il mio paese! Che uomo sarei, altrimenti? Un vile, un codardo, non degno di stima» Joseph si scaldò. Quell’uomo era cocciuto, parlava calmo come qualcuno che ha già preso una decisione. Una decisione che lui sapeva sbagliata. Continuarono a discutere in questi termini, mentre Joseph diventava sempre più nervoso e il signor Huber sempre più irritato. Alla fine il ragazzo sbottò:
«lei è uno sciocco! Voi non fate più parte di questa nazione, non avete neanche la cittadinanza, siete trattati alla stregue di bestie: che riguardi volete che abbiano di tutti voi?»
«non importa, Joseph. Affronterò il mio destino a testa alta, senza scappare» Joseph era livido.
«benissimo. La pensate così? Non avete idea di quanto rimpiangerete questa stupida e orgogliosa scelta» si voltò bruscamente, per rivolgersi a Caroline.
«non ho intenzione di vederti morta per le sciocchezze di tuo padre. Prepara la tua roba» ordinò con tono brusco. La ragazza strabuzzò gli occhi.
«che cosa?» urlò.
«ti procurerò dei documenti, non sarà difficile, prenderò l’atto di morte di qualche povera ragazza sola al mondo e ci metterò la tua faccia. Si chiama riciclo di identità. Domani verrò a prenderti» affermò deciso.
«papà tu non puoi …» si appellò al padre, per protestare contro quell’ordine così perentorio, che invece aveva assunto un’espressione interessata.
«la terrai al sicuro? Anche se è un’ebrea?» chiese speranzoso.
«ho giurato di proteggerla. E voi non ne siete in grado» disse altezzoso, mentre la ragione già cominciava a ribellarsi a quell’atto dettato solo dalla rabbia e dalla paura. Il padre si rivolse ad Elly.
«prepara la tua roba Caroline. Anche se credo, mio caro ragazzo, che per essere credibile le servano abiti nuovi. Noi non possiamo comprarli, quindi sarà meglio che lo faccia tu. Sembrerà che mandi un regalo alla fidanzata» Joseph annuì. Poi girò le spalle alla famiglia mentre Elly continuava a discutere circa il significato della scelta di quei due uomini, che non avevano tenuto affatto conto del suo parere.
In realtà, il destino della sua bambina era l’unica cosa che potesse dare al signor Huber un qualche rimpianto, poiché sia lui che la moglie erano decisi a restare dove erano. Non lo disse, Caroline non lo sapeva, ma la moglie era malata e un viaggio di quel genere l’avrebbe uccisa e probabilmente la stessa sorte avrebbe avuto Caroline, vista la tosse che aveva continuamente. E lui non sarebbe andato da nessuna parte senza loro due. Qualsiasi fosse il loro destino lo avrebbero affrontato insieme. Il signor Huber sapeva di essere stato sciocco a non andarsene quando avrebbe potuto, ma in quel momento era troppo tardi.
Lasciata la casa, Joseph si recò in albergo, riflettendo su come procurare dei documenti alla ragazza. Non sarebbe stato facile, però aveva buone probabilità di riuscita. 
E infatti entro la sera successiva aveva in mano una perfetta carta d’identità, autentica per giunta, che recava il nome di Emma Schuster, capelli rossi, occhi verdi ed età diciotto anni compiuti a marzo. Aveva persino la foto, ottenuta quella  stessa mattina dai signori Huber. Sotto braccio aveva tre vestiti, due paia di scarpe e un cardigan bianco, che sarebbero stati perfetti. Si incontrò con l’ebrea nella foresta, lì lei si cambiò sotterrando i suoi vecchi vestiti. Si era lavata e i capelli le ricadevano sul viso morbidi. I vestiti, scelti per non far trasparire la sua eccessiva magrezza, le davano un aspetto più sano. Il trucco leggero sul viso le diede un tocco di classe, facendola apparire molto più bella di quanto non fosse fino a pochi istanti prima. 
Joseph aveva già saldato il conto all’hotel ed era arrivato in quel luogo a bordo dell’auto concessagli dallo stato per tornare a Berlino. Passò dalla città, in modo che fosse evidente che portasse con sé una ragazza, seppur cercando di nascondere il volto dell’ebrea. Nessuno comunque la riconobbe e loro lasciarono presto la città, alla volta della capitale.
Partirono alle sei del pomeriggio ma già dopo un paio di ore Caroline era caduta in un sonno profondo, distesa nei sedili anteriori, sfinita dalle lacrime e dal dolore che le aveva provocato lasciare i suoi genitori, consapevole che non avrebbero potuto neanche scambiarsi una lettera. Joseph ogni tanto la guardava pensieroso. Non gli piaceva per niente quello che stava facendo. Avrebbe preferito mille volte mettere in mano a quella famiglia i soldi che gli doveva e lasciarsi alle spalle quella brutta faccenda. Ora invece doveva accollarsi il mantenimento di quella disgraziata, doveva cercare una scusa plausibile per cui una ragazza dovesse vivere con lui senza che fossero sposati e sperare che lei non si tradisse. Quando pensava che stava rischiando la vita per un’ebrea il sangue gli ribolliva nelle vene e aveva una voglia matta di scaricarla in mezzo alla strada. Poi però tirava avanti con un sospiro.  Guidò tutta la notte, con la ferita che gli doleva da impazzire e un silenzio assoluto che lo invogliava al sonno. Quando, alle sei del mattino, arrivarono in un paesino vicino Berlino, lui si fermò sfinito, per fare almeno colazione. Svegliò la ragazza e insieme si avviarono in un minuscolo bar deserto. Nella vetrina, accanto ai dolci, svettava l’insegna “vietato l’ingresso agli ebrei”. Caroline, guardando quella scritta esitò, poi entrò incerta, spinta dalla mano di Joseph piantatagli nella schiena.
Nel bar, lui comprò un caffè e si sedette in silenzio. Lei lo seguiva come un’ombra, imbronciata, insicura se essere grata o arrabbiata. Così si guardava intorno, cercando di nascondere la fame e di non fissare troppo la torta al cioccolato esposta nella vetrina.
Joseph si accorse del suo sguardo. 
«hai fame?» chiese brusco. Lei annuì impercettibilmente. Sarebbe stato dolce mangiare la torta preferita della ragazza sotto il suo sguardo deluso. Anche solo per poter prendersi la vendetta per tutto quello che avrebbe passato di lì a qualche ora. Ma si accorse che il cameriere li osservava. Con un sospirò ordinò due fette di torta e un cappuccino. 
Elly si sorprese. Avrebbe potuto lasciarla in macchina, avrebbe potuto evitare di comprarle la torta. Quella era la sua preferita e sembrava  che lui non lo avesse dimenticato. 
Mentre mangiava, si sforzava di non avere fretta. Le sembrava la cosa più buona che avesse mai assaggiato, e cercava di godersi ogni singola briciola. Non sapeva quando avrebbe potuto mangiarne di nuovo e lei ne era sempre stata golosissima. Lanciava in continuazione occhiate a Joseph, piene di gratitudine e stupore. Lui, sempre accigliato, guardava fuori la finestra, seccato da ogni cosa che la riguardasse.
In fondo Elly cominciava a credere che a lui importasse di lei, nonostante tutto, perché altrimenti non sarebbe stata lì, con una nuova identità, vestiti puliti e una torta al cioccolato davanti.
In quel momento, avrebbe davvero voluto abbracciarlo e si era pentita dell’accoglienza fredda che gli aveva riservato: in fondo, sembrava non se la fosse meritato.
Lui però continuava a tenere gli occhi di ghiaccio fuori dalla sua portata, come a scansare la sua gratitudine e a sottolineare che le sue azioni erano quasi necessarie per la loro copertura e che l’aveva portata con sé solo per lo spiccato senso dell’onore che lo aveva sempre caratterizzato. 
Così Elly continuava a mangiare, la pancia finalmente piena dopo troppo tempo, e la bocca sporca di cioccolato. Se Joseph si fosse fermato un attimo a guardarla, si sarebbe accorto del modo in cui splendeva in quel momento. Era stata assalita da un’ondata di positività, era certa che tutto sarebbe andato per il meglio. Credeva che la sua permanenza con Joseph sarebbe stata allegra, magari con qualche attimo di felicità e che prima o poi sarebbe riuscita a rivedere i suoi genitori. Già pensava ad andare in America o in Svizzera dopo la fine della guerra, lasciandosi dietro quel paese di ingiustizie in cui doveva avere un nome falso per poter entrare in un bar e mangiare un po’ di torta. Non gli importava cosa ne pensava suo padre, lei odiava la Germania e niente l’avrebbe resa più felice che lasciarla per sempre.
Erano quasi le otto quando Joseph, dopo aver consegnato l’auto militare, aveva girato la chiave nella serratura decisamente poco oleata della sua casa a Berlino. 
Si trattava di un appartamento in un palazzo residenziale nel quartiere del Wannesee. Quasi tutte le finestre avevano una vista sul lago e l’altezza –si trovava al terzo piano- permetteva di vedere un sprazzo dell’immensa città che aveva lasciato a bocca aperta Elly. Si vedevano i palazzi, simili a quelli dove si trovava l’appartamento, e, in lontananza, le case periferiche degli operai, qualche statua che ritraeva il Fhurer. A molte finestre erano appese, pulite e scintillanti nel sole del mattino, bandiere vermiglie con la svastica al centro. La strada da cui si entrava nel palazzo era larga e pulita, vi passeggiava gente distinta e vi si trovavano piccoli negozi adorabili, come bar, panetterie, fiorai e giornalai. Era un luogo elegante, seppur non del tutto signorile. Ma, anche se poteva permetterselo, Joseph non avrebbe saputo che farsene di un’enorme villa in cui vivere da solo. Se si fosse sposato, un giorno, allora avrebbe preso una casa più grande. Intanto il suo appartamento non era certo un buco: c’era uno studio spesso ingombro di carte, un salotto spazioso, una stanza da pranzo elegante con ben due tappeti, che ne ricoprivano quasi interamente il pavimento,  due camere da letto, una per lui e un’altra per eventuali ospiti, con tanto di bagno in camera, una cucina e, annessi ad essa, una stanzetta per la servitù e un piccolo bagno di servizio.  La porta d’ingresso dava su una stanzetta circolare, con la carta da parati argentata e decorata con ghirigori leggermente in rilievo, su cui c’era un appendiabiti , un piccolo sedile per le borse delle signore da un lato e un grande specchio impolverato dall’altro. Dava, tramite un ampio arco, su un corridoio decorato con la stessa carta da parati, su cui si trovavano eleganti tappeti e qualche quadro. Qui si aprivano varie porte. L’ultima era quella della cucina, e anche la stanza in cui Joseph si diresse con passo deciso, seguito timidamente da Elly.
La casa odorava di chiuso ed era ricoperta di polvere in ogni dove. Subito Joseph aprì tutte le finestre nella stanza, guardandosi intorno quasi spaesato dalla mole di lavoro che lo aspettava. Aveva urgente bisogno di una cameriera, se voleva che quel luogo tornasse a essere vivibile. Con un gesto brusco, scostò il lenzuolo poggiato sul tavolo rotondo, buttandolo di lato, poi cadde su una sedia, una mano sul viso, mentre il dolore al fianco e le preoccupazioni lo invadevano.
Elly si guardava intorno spaesata. Rispetto alla casa in cui aveva passato l’infanzia era piccola, ma in confronto alla topaia in cui aveva vissuto l’ultimo anno era una reggia. 
Ad un tratto Joseph, colto da un’illuminazione, alzò lo sguardo per fissarla.
«sai fare il bucato?» le chiese d’un tratto. Lei, presa alla sprovvista, aveva annuito. Per un periodo aveva anche lavorato, dopo che il padre aveva fallito, ma era stata licenziata da circa un anno.
«e spolverare? Cucinare? Insomma tutte le cose del genere … sai farle?»
«ho lavorato un paio d’anni come cameriera» disse secca, ricordando amaramente il modo in cui era trattata nella casa dei “signori” e la miseria con cui la pagavano.
«perfetto …» disse Joseph con un sospiro di sollievo. Aveva trovato la soluzione a buona parte dei problemi che lo avevano tormentato durante il viaggio. Perché non ci aveva pensato prima? Probabilmente nella sua mente era impossibile che Elly facesse simili lavori.
«allora comincia a lavare le lenzuola, sperando che entro stasera siano asciutte. A meno che non preferisci dormire in un letto che puzza di chiuso» disse lievemente sollevato alzandosi e cominciando a sbottonare la giacca.
«e già che ci sei lava anche un pigiama e qualche vestito civile» disse facendo scivolare la giacca dalle sue spalle larghe, per poi poggiarla sulla sedia.
«dopo apri le finestre nella mia camera e spolverala, se hai tempo lo fai anche nella tua, che ora ti mostro. Così arieggiano un po’, c’è una puzza che sono sicuro non sopravvivrei stanotte» aggiunse sfibbiando i polsini della camicia candida per poi alzarli, mostrando i muscoli delle braccia, sospirando per il sollievo dal caldo.
Elly era rimasta impalata a guardarlo, come se non riuscisse a credere alle sue parole.
«i-io non sono la tua cameriera! Capisco che non sai fare il bucato, ma il resto puoi benissimo farlo da solo» disse con un filo di voce. Lui la guardò tagliente.
«non sei la mia cameriera? E io come diamine dovrei assumere una cameriera con te che giri per casa? Ci vuoi entrambi morti per caso?» disse con un bisbiglio che le fece gelare il sangue nelle vene.
«ti sto salvando la vita, nel caso non te ne rendessi conto, mettendo a rischio la mia. Ti darò da mangiare, dei vestiti nuovi, un tetto sicuro sopra la testa. È il minimo che tu possa fare» aggiunse spavaldo.
«non è niente che i miei genitori non  abbiano già fatto con te: altrimenti mi avresti lasciata in quella topaia» disse fremente di rabbia Elly. Lui si alzò dalla sedia e le si avvicinò, sovrastandola dall’alto della sua altezza
«ma tu sei un’ebrea. Una schifosissima, repellente ebrea, che non ha nessuna speranza di vita se non fa esattamente ciò che io dico di fare. Quindi, o ti comporti da cameriera e fai la buona, oppure ti butto in mezzo alla strada e  assumo una cameriera vera, una donna ariana, che probabilmente merita questo posto di più di te» le rispose a tono lui, sconcertato.
«ti è chiara, adesso, la tua posizione?» chiese gelidamente un attimo dopo.
«hai detto a mio padre che mi avresti protetta. Hai dato la tua parola!» Elly si appellò all’ultima cosa che le veniva in mente per contrastare quella che considerava un’ingiustizia. Lui ghignò.
«ho detto che ti avrei protetta dal regime, non dalla tua stupidità» disse, sapendo che lei non avrebbe potuto ribattere. L’avrebbe tenuta al sicuro, ma alle sue condizioni. Si sarebbe preso la rivincita per le sciocchezze di suo padre, che lo aveva messo in una posizione tanto scomoda. Si allontanò e si girò a osservare fuori dalla finestra, tirando fuori la camicia dai pantaloni e trattenendo un gemito quando il panno sfregò sulla ferita.
«e quando finirai con la mia stanza da letto, pulirai anche il bagno» aggiunse come se non fosse mai stato interrotto. A Elly non rimase che guardare in basso, cercando di cacciare indietro le lacrime che già premevano per uscirle dagli occhi.

Questa storia è stata una sfida per me, che non avevo mai scritto un'orignale, a maggior ragione perché ha un'ambientazione storica. Ho cercato di essere il più accurata possibile, ma se notate qualche svista, per favore segnalatela! I primi capitoli sono già scritti quindi, salvo imprevisti, dovrei pubblicare ogni lunedì: nel frattempo scriverò il resto.

Grazie e alla prossima!

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Capitolo 3
*** Serva ***


Non fu facile quel giorno per Caroline svolgere i compiti che le erano stati affidati. Joseph era sparito subito dopo averle detto velocemente dove avrebbe potuto trovare le cose che le servivano, mentre lei non gli aveva prestato molta attenzione. Lavò le lenzuola, più per necessità che perché glielo aveva chiesto lui, stessa cosa per il piccolo bagno di servizio e la cucina. Non aveva spolverato la camera di Joseph, ma aveva semplicemente aperto le imposte per far girare l’aria, sentendosi persino magnanima. Non aveva mangiato nulla tutto il giorno e aveva passato il tempo che le era rimasto, parecchio effettivamente, per frugare in casa. Aveva trovato foto di Joseph durante un paio di compleanni, una del suo diploma, un paio con coppe di pugilato e una in uniforme, il giorno del suo giuramento. Ce n’era anche una con lei, sopra un plico di fogli che scoprì essere le sue lettere di quando era bambina. Inutile dire che le rilesse tutte, versando lacrime amare per un periodo della sua vita ormai così lontano.
Non prese sul serio le parole dure di Joseph, che inizialmente l’avevano fatta infuriare tanto. Non lo credeva cattivo, chissà perché pensava fosse diverso dagli altri soldati. Un uomo che conservava per tanti anni le sue lettere non poteva essere capace di farle del male solo perché non aveva ubbidito a degli orditi ringhiati come ad una serva. Aveva deciso che lo avrebbe aiutato in casa, le spettava, perché in fondo aveva ragione quando diceva che non poteva assumere una cameriera per colpa sua. Aveva persino acconsentito a stabilirsi nella stanzetta grigia destinata alla servitù, capendo che doveva rispettare i suoi spazi. Ma non avrebbe sopportato di essere trattata come feccia. Non si sentiva questo e pensava che quell’uomo, che l’aveva portata con lui rischiando la vita, procurato documenti, sistemata in casa propria e amata tanto teneramente quando erano solo bambini non poteva disprezzarla sul serio. Non poteva punto e basta, era impensabile, impossibile, incredibile. La tosse non accennava a diminuire, ma anzi si sentiva sempre peggio. Alla fine della giornata era stremata.
Joseph tornò a casa alle sei e mezza quella sera, portando dei panini e salsicce per la cena di entrambi e accompagnato da un signore alto e dall’aria intellettuale.  Lei osservò l’ospite con aria interrogativa quindi Joseph si affrettò a presentarlo.
«Lui è il dottor Wagner. È venuto qui per dare un’occhiata alla mia ferita e per cercare di capire a cosa è dovuta la tua tosse, che mi preoccupa un po’ a dire il vero» Elly annuì, sprizzando sollievo da tutti i pori.
Il dottore si occupò prima della ferita di Joseph, poi la chiamò nella camera dell’ufficiale, dove si dovette distendere nel letto. Le prese il battito, le fece qualche domando e poi ascoltò il suo respiro. Alla fine sospirò, sollevato.
«non è TBC, grazie a Dio. Hai liquido nei polmoni, ovvero polmonite. Non è ancora tanto grave, anche se credo che se non sarà curata bene peggiorerà molto velocemente. Non è infettiva, perché è dovuta alla scarsa qualità dell’aria. Ha lavorato in ambienti malsani ha detto, quindi è comprensibile. Basterà prendere degli antibiotici, ora glieli lascio, riposo, e non prendere freddo. Quando la tosse passerà, continuerà a prendere gli antibiotici, e le consiglio passeggiate nel parco qui vicino: l’aria buona aiuta molto»
Data la diagnosi, il dottore li lasciò, ricordandosi però di dargli quanto necessitava per la cura di entrambi. A quel punto però Caroline, digiuna dalla mattina, era di nuovo affamata.
«hai portato la cena? Dio, sto morendo di fame! Potevi evitare di lasciarmi qui a marcire tutto il giorno senza niente da mangiare» lui non commentò l’allegria di lei assolutamente ingiustificata, limitandosi a dirle di apparecchiare, mentre si guardava intorno accigliato.
«non ti avevo detto di pulire la cucina, o sbaglio?»
«no, non sbagli. Ma secondo me era meglio darle una sistemata» lui la osservò, mentre lei noncurante disponeva a tavola le posate e il pasto semplice che il ragazzo aveva portato. 
«e hai trovato il tempo di fare anche questo?» chiese lui stupito. Non capiva perché lei dovesse essere così allegra, dopo il modo con cui l’aveva trattata e aver lavorato come un mulo per tutto il giorno. Insomma, secondo i suoi conti avrebbe dovuto passare la mattina a lavare tovaglie e lenzuola, per poi pulire tutto quello che aveva detto di fare. E stava anche male.
«certo. Non sono mica la tua cameriera, io, mi sembrava di essere stata chiara. Non ti ho spolverato la camera, così come non mi sono messa a fare la bella lavandaia. Se hai bisogno di qualcosa a casa, capisco che dovrò occuparmene io, però tu non puoi darmi ordini. Non sono una serva, e poi so che per te conto qualcosa, non mi butteresti mai per strada» disse, ostentando sicurezza, mentre mangiava. Joseph si limitò a fissarla, senza battere ciglio, dandole l’impressione di averla avuta vinta. L’uomo finì silenziosamente di mangiare poi, mentre lei era ancora intenta finire la cena, si alzò dal tavolo e si lavò le mani, disinvolto e senza far trasparire le reali intenzioni sul viso, le andò dietro, poggiandole le mani sulle spalle. Lei si immobilizzò, stranita da quel gesto.
«Caroline mettiamo le cose in chiaro. Tu non conti niente per me dal momento in cui ho saputo cosa sei veramente» disse. La ragazza provò a divincolarsi, ma la presa era di ferro e fu costretta a restare in quella posizione.
«in questa casa, comando io. Se io ti dico di fare qualcosa, tu la fai. Non esistono piagnistei, lamenti o discussioni: io ordino, tu esegui. Ci arrivi a questo concetto?» chiese con cattiveria, mentre la presa diventava sempre più forte e la ragazza più terrorizzata.
«infine, hai davvero capito male. Tu qui non sei un’ospite. Non sei una cameriera, retribuita e che può essere licenziata. Sei una serva. Non posso sostituirti, quindi sai che faccio? Se non fai come ti viene ordinato, tu ne subisci le conseguenze, finché non comprendi che devi obbedirmi» 
«ci sono regole in questa casa, Caroline. Tu non parli se non ti si viene chiesto. Tu obbedisci agli ordini. Tu non tocchi nulla che non ti riguarda. In cambio mangi, dormi sotto un tetto, sei al sicuro da questa guerra a cui forse riuscirai a sopravvivere. Ora, se tu non rispetti queste regole, io non ho motivo di darti alcuna ricompensa» Caroline adesso tremava, ma non si arrese.
«allora perché mi hai portata con te? E perché, di grazia, ti interessa tanto della mia vita?»
«perché, Caroline, sono una persona che non ama avere debiti con nessuno: una vita, vale una vita. Ecco perché tu sei qui, adesso» 
Dopo questa risposta secca lui la prese per i capelli con una mano, costringendola ad alzarsi. Tirava forte e nonostante lei si divincolasse Joseph la trascinò senza alcuno sforzo vicino alla cassettiera. Frugò nel secondo cassetto con la mano sinistra, mentre Caroline si dibatteva furiosamente, finché non ne estrasse un paio di forbici. Lei, che non vedeva nulla di ciò che Joseph stava facendo, ad un certo punto sentì che lui l’aveva lasciata, avvertendo però una strana sensazione. Si girò con gli occhi sbarrati, senza capire poi molto di cosa era successo. E poi vide nella mano sinistra di Joseph un paio di forbici da cucina e in quella destra una massa di capelli rossi. D’improvviso capì che cosa c’era di strano: i suoi capelli non le erano ricaduti sulla schiena, ma erano rimasti nella mano dell’uomo che adesso la guardava con un ghigno sadico. L’unica cosa bella che le era rimasta, lui gliela aveva strappata via. I suo capelli, lunghi e di un caldo rosso, gli stessi che lui adorava quando era piccolo, gli stessi che lei non tagliava da quando aveva dieci anni, adesso erano nella mano di colui che aveva giurato di proteggerla. Gli occhi le si riempirono di lacrime, mentre il ghigno di lui si allargò.
«la prossima volta, cara Caroline, passo alle maniere forti» la minacciò. Davvero però Caroline avrebbe voluto sapere cosa c’era peggio di quello. Dopo un ultimo sguardo compiaciuto all’espressione disperata di Caroline lui se ne andò, lasciando cadere i capelli per terra e ringhiando di pulire tutto, mentre lei restava lì, in ginocchio a piangere. 
Lui sapeva cosa significavano per lei, eppure era proprio a quello che aveva puntato, era come se avesse voluto colpire dove sapeva che avrebbe fatto più male. 
A quel punto Caroline non fu più tanto sicura della sua bontà. Dopotutto pensò amaramente tra un singhiozzo e l’altro ha ricevuto lo stesso addestramento di tutti gli altri. 
Quella fu la prima volta che lo pensò uguale agli altri soldati, e che credé davvero che lui potesse farle del male. 
E lui di certo non si risparmiò. La settimana che seguì fu uno strazio per lei. Lui non faceva che disprezzarla e umiliarla. Ogni volta che lei rispondeva ai suoi ordini con qualcosa di acido, cioè praticamente sempre, lui le tirava un ceffone sul viso abbastanza forte da farle girare la testa. Ma nessuno dei due, dopo quella sera, si spingeva oltre un limite tracciato silenziosamente dall’odio. Odio di lui verso l’origine di lei, odio di lei verso l’uniforme di lui. Se si odiassero davvero però non lo sapevano neppure loro, e neanche se lo chiedevano. Odiavano tutto ciò che l’altro rappresentava e l’affetto che c’era stato una volta sembrava solo una bella favola. Lei continuava a restare in quella casa per soddisfare l’orgoglio di lui e i propri bisogni, tutto qui. Sapeva che appena non ci fosse stato più pericolo si sarebbe ritrovata fuori di casa con i soldi contati per lasciare l’Europa. A cosa le sarebbe accaduto dopo, era meglio non pensarci.
La polmonite andava regredendo. La lieve febbre, che ogni tanto compariva quando era stanca, era sparita, il dolore al petto diminuito, così come la tosse e si sentiva meno affaticata.
Ogni tanto Caroline, in cerca di conforto, rileggeva le lettere che aveva scritto tanti anni prima a Joseph. La scrittura era infantile e le lettere ingiallite dal tempo, però emanavano calore e soprattutto amore. Sentiva il vuoto dentro, in assenza anche solo del minimo calore umano, di un gesto gentile o di una parola di conforto. Conosceva le lettere ricevute da  Joseph a memoria, per quante volte le aveva lette, quindi rievocare un periodo in cui il loro atteggiamento era tanto diverso la faceva stare un po’ meglio. Temeva il giorno in cui lui le avrebbe buttate via, ricordando che il mittente di quelle lettere era la stessa ragazza che aveva in casa e che trattava come feccia, facendole perdere così anche l’ultimo suo contatto con il passato. 
Quel lunedì però Joseph, chissà perché rientrò prima di quanto lei non avesse previsto. Assorta nella lettura, non si accorse del rumore della serratura, né dei passi che si dirigevano verso la camera di Joseph. Quando la porta si spalancò, lei era seduta a terra davanti al comò, un bel po’ di lettere sparse intorno a lei. Caroline sussultò e alzò lo sguardo su di lui solo per un momento, per vederlo di sfuggita congelato sull’uscio della camera, per poi tornare a osservare il foglio che teneva in mano.
«perché non le hai buttate?» chiese allora lei amaramente, dando voce al suo più grande interrogativo.
«doveva essere la prima cosa che avresti dovuto fare una volta qui» lui non le rispose, ma le strappò dalle mani la carta ingiallita, con dita tremanti.
«tu non devi toccare le mie cose. Non devi entrare nella mia camera. E soprattutto non devi frugare nei miei cassetti» disse con voce rotta dalla rabbia. Lei lo fissò negli occhi.
«perché hai paura che scopra che anche tu sei umano?» 
«io sono umano. Sei tu che sei uno schifo di ebrea» disse senza nascondere il suo astio anche solo nei confronti della parola.
«ah si? E allora prendi quelle lettere e bruciale!» le urlò lei, ancora seduta tra le sue vecchie lettere. 
«tu non mi odi anche se  vorresti farlo, perché io sono l’unica persona che ti abbia mai capito veramente! Tua madre non l’hai neanche conosciuta, tuo padre era troppo impegnato a cercare – tra l’altro con scarsi risultati- di darti da mangiare per poter prestare attenzione a te, e per i tuoi zii … Dio eri solo una palla al piede! Quanto devono essere stati felici quando te ne sei andato! L’unica famiglia che tu abbia mai avuto sono io, ed è per questo che adesso sono qui, non per il tuo dannatissimo “senso dell’onore”. Perché sai una cosa? Se tu avessi anche solo un briciolo di senso dell’onore non mi tratteresti così» lui la guardava infuriato colpito da quelle parole che la sua mente continuava a registrare come false, ma che gli bruciavano tremendamente dentro. L’unica risposta che le diede, l’unica che potesse provare a lei, ma soprattutto a lui, quanto in realtà si sbagliasse, fu un calcio che la fece cadere per terra come un sacco di patate. La testa le girava vorticosamente, ma comunque si accorse che lui si stava avvicinando a lei. Le sferrò un altro calcio nello stomaco, poi uno ancora, e ancora, mentre lui si accaniva su di lei, che si accartocciava su se stessa, cercando di proteggersi da quell’attacco.  
Alla fine lui si allontanò con il fiatone, mentre lei restava immobile, dolorante e tremante, sperando che lui non le desse un nuovo calcio. Non riusciva a muoversi, neanche per piangere. Aveva male ovunque e temeva di essersi rotta qualcosa.
«alzati … e va via» sussurrò poi lui con gli occhi spiritati e i capelli stranamente in disordine. Aveva le labbra tirate in una smorfia e l’ira nello sguardo. Sembrava un animale.
«tanto lo so che ho ragione. Puoi picchiarmi quanto vuoi» pigolò lei, riuscendo a malapena a parlare. Poi svenne, incapace di sopportare anche un solo secondo di dolore in più.
Si risvegliò che era ora di cena. Era ancora a terra, e le veniva da vomitare. Si trovava nello stesso punto in cui era svenuta e lì rimase ancora a lungo, prima che riuscisse a trovare la forza anche solo per pensare di alzarsi dal pavimento. Le lettere erano sparite, anche se a quel punto non le interessava più che fine avessero fatto. Riuscì a malapena a tirarsi su, poi, senza neanche provare a mangiare qualcosa, si lasciò cadere nel suo lettino tremando. Non pianse però, era come se non riuscisse a fare niente tranne tenere gli occhi spalancati sul soffitto.
Non riusciva a dormire né ad alzarsi. Aspettava, neanche lei sapeva cosa … forse solo che quella dannata notte finisse. E dopo? Non sapeva cosa avrebbe dovuto fare. Doveva alzarsi da quel letto, si ripeteva. Nessuno l’avrebbe aiutata, doveva alzarsi e combattere. Ma in quel momento, proprio non ci riusciva. Dopo … dopo ci avrebbe pensato. Si diceva. Era distrutta, fisicamente ma soprattutto mentalmente.
Passò un’eternità, o almeno così le sembrò, quando sentì la porta d’ingresso aprirsi. Sentiva rumori strani, come risate di una ragazza. E rumore di tacchi. Rumore di tacchi? Si stupì e chissà perché si sentì ancora più ferita. A quanto ne sapeva lui, lei avrebbe potuto essere ancora svenuta lì, nel pavimento della sua camera. Ed era ovvio che stesse male, dopo tutti i calci che le aveva dato. E Joseph che faceva? Si portava a casa una sgualdrina. Aveva quasi sperato che lui al suo ritorno controllasse come stava. Che si preoccupasse anche solo minimamente di come stava dopo che l’aveva presa a calci. 
Ben presto però, poco dopo che sentì la camera di Joseph chiudersi, rimpianse parecchio le fastidiose risatine di quella. Se possibile, i suoi urletti eccitati erano anche peggio. Non sentiva l’uomo, sentiva solo lei, con la sua voce acuta e fastidiosa che scandiva il ritmo delle spinte che riceveva.
La nausea le aumentò, sentendo quei rumori, così palesemente sporchi e schifosi. Era sicura che non avrebbe mai più sentito niente di più disgustoso di una puttana che si faceva scopare da qualcuno.
Poi finì in un ultimo urlo, più acuto e prolungato degli altri. 
Lei era ancora lì a fissare il soffitto, nauseata, arrabbiata, triste, sconfitta, delusa. Avrebbe voluto urlare e piangere, avrebbe voluto avere qualcuno accanto che almeno l’abbracciasse. 
Sentì di nuovo rumore di tacchi nel corridoio, altre risatine, rumore di monete, e poi, finalmente, una porta che si chiudeva. E, dopo un po’, passi pesanti che si dirigevano in cucina. Passi strascicati e incerti. Rimase tremante nel letto, pregando che lui volesse solo un bicchiere d’acqua. Aveva paura adesso, che lui potesse ricominciare a picchiarla.
Ma la porticina si aprì e ne entrò un uomo che non sembrava affatto l’ufficiale che aveva iniziato a conoscere. Non portava l’uniforme, ma solo un paio di pantaloni civili blu scuro. Era a torso nudo, ma non fu su quello che l’attenzione di Caroline si concentrò. Aveva una benda bianca su un fianco, macchiata di sangue e pus giallo. Inspiegabilmente si chiese cosa gli fosse accaduto.
Insieme a lui entrò puzza di alcool e tabacco, mischiato ad un profumo femminile troppo dolce. 
«sei sveglia» disse strascicando le parole. Capì che era ubriaco, o quasi, dal modo in cui parlava.
«per poco ho creduto che ti avrei ammazzata» disse fissandola negli occhi, una mano sul muro per non cadere. Probabilmente si sentiva come sul ponte di una nave in tempesta.
«e quindi ti sei ubriacato e ti sei portato a casa una puttana» osservò lei con voce flebile, senza neanche sapere da dove le fosse uscita la forza per parlare.
«tu dovevi proteggermi. Lo hai giurato» disse, mentre finalmente una lacrima le solcava la guancia sinistra e comprendeva davvero quanto grande fosse la sua delusione.
«ci sto provando. Giuro, ce la sto mettendo tutta» disse lui, la voce simile a quella di un bambino.
«tu mi odi» lui la fissò negli occhi.
«si. Ma amo il tuo ricordo. Non mi perdonerei mai di uccidere Elly, così come non riesco a lasciare vivere Caroline» disse avvicinandosi a lei e guardandola negli occhi.
«io ti odio, ti odio così tanto, vorrei non vederti mai più. Ma avevi ragione: sei l’unica famiglia che io abbia mai avuto» disse con l’alito che puzzava di whiskey vicino al suo viso. Poi fece vagare lo sguardo sul suo corpo. Una scintilla nei suoi occhi, l’eco di un ricordo lontano, la fece sollevare. La guardava come se fosse una semplice ragazza coperta di lividi. Come se non le avesse appena detto che la odiava.
«credi di avere qualcosa di rotto?» chiese. E sembrava sinceramente preoccupato, come se non fosse stato lui a ridurla in quel modo. Come se fosse colpa di qualcun altro, come se dentro di lui albergassero due differenti persone, il ragazzino e il soldato. O forse, semplicemente, era lei a vederla in quel modo.
«no …» rispose suo malgrado. Era tutta intera, per fortuna, anche se le doleva ogni cosa. Lui annuì, quasi sollevato, e lasciò la stanza continuando a dondolare.
Caroline ascoltò il suo passò strascicato raggiungere la camera da letto. Poi chiuse gli occhi ed espirò forte. 
Non era un mistero che Joseph la odiasse a causa di quello che era. Ma sentirlo da lui le fece lo stesso male, il colpo più forte lo aveva dato al suo cuore. La più grande paura di quando era una ragazzina si era avverata, ma lei non poteva fare altro che continuare a guardare il soffitto. Forse, se gli avesse scritto la verità tanto tempo prima, ora non sarebbero stati a quel punto.
Ormai però non aveva importanza. Caroline si tirò le coperte sul viso, cercando di nascondere al mondo le lacrime che le rigavano le guancie. 
Quella notte di certo non avrebbe chiuso occhio.

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Capitolo 4
*** Esseri umani ***


La foresta nera, il luogo incantato della sua infanzia e pieno di tanti ricordi felici, lo circondava. Joseph si guardava intorno sentendosi come un bambino, felice di poter percorrere di nuovo quei sentieri tanto amati, eppure stupito di indossare la sua uniforme nera. Cominciò a vagabondare tra gli alberi, fermandosi per osservare i funghi che raccoglieva con suo padre, gli alberi, e certi angoli particolari che nonostante il tempo erano ancora chiarissimi nella sua mente. Ma la foresta era più grande di quanto non ricordasse e presto si ritrovò a correre cercando la strada per tornare a casa, da suo padre. Era notte, adesso, e lui non era mai stato nella foresta con quel buio e quel freddo. Non avrebbe mai immaginato che gli stessi alberi che gli apparivano come una casa, di giorno, di notte fossero l’incarnazione di tutti i suoi incubi. Voleva andare più veloce, voleva correre con tutto se stesso, ma le sue gambe erano pesanti, sembravano fatte di piombo, e gli alberi erano macchie verdi che gli passavano ai lati troppo lenti. E poi c’era acqua. Tantissima acqua, veniva dal cielo come pioggia, lo bagnava, ne sentiva il rumore scrosciante, come quello di un ruscello. No, non era pioggia, ma un fiumiciattolo illuminato dai raggi della luna. Sulla riva c’era suo padre, l’aspetto malnutrito di quando lo aveva visto l’ultima volta, le mani e il viso bruciati dai geloni, i vestiti troppo leggeri per quelle temperature. Nevicava lentamente, ma lui non aveva più freddo, mentre suo padre tremava vistosamente. Il ruscello dietro di lui era impetuoso. L’uomo lo guardò, poi scosse la testa, come deluso. Si spostò e Joseph vide il corpo di una bambina. Aveva i capelli rossi sparsi sulla neve che si confondevano con il sangue che le usciva da uno squarcio nel petto, gli occhi verdi e limpidi spalancati dal terrore. Lui teneva in mano la pistola, lui aveva sparato e la consapevolezza del suo gesto lo fece crollare a terra in ginocchio, accanto a lei. Prese Elly tra le braccia piangendo, in colpa con sé stesso, mentre sentiva il suo cuore distruggersi in mille pezzi. Poi alzò lo sguardo su suo padre, in cerca di perdono e conforto, ma lui non era più in piedi. Era riverso a terra, anche lui in una pozza di sangue che arrossava la neve candida. In piedi c’era un altro uomo,con lo sguardo assassino e un ghigno sadico in viso. 
«gli ordini sono ordini, ricordalo»
Quel viso. Quel viso era lo stesso che guardava ogni giorno davanti allo specchio. 
Era il suo.
La consapevolezza arrivò insieme alla pallottola, partita dalla sua stessa pistola
.
Si risvegliò completamente sudato e con gli occhi sbarrati dal terrore. Tremava. 
Con uno scatto si alzò, mentre il lenzuolo gli cadeva dal petto. La stanza era buia, quel poco di luce che c’era veniva da una finestra a destra che dava sul cielo notturno e riversava nella camera la luce di un lampione. Si passò la mano sui capelli scompigliati per il sonno, poi l’ancorò al letto, cercando la forza per alzarsi. La ferita gli doleva da morire, forse a causa di movimenti fatti durante l’incubo. Alla fine si alzò e si diresse con passi strascicati in cucina, passando a piedi scalzi per il corridoio buio pestando ora piastrelle fredde ora tappeti morbidi. In cucina accese la luce e aprì la finestra per fare entrare un po’ d’aria. Rabbrividì, ma non importava. Poi cercò un po’ di whiskey nel ripiano più in alto dello scaffale a sinistra: ne aveva sicuramente bisogno.  Cominciò a tastare alla cieca, tra bicchieri e bottiglie, con le mani tremanti, fino ad arrivare a quello che cercava. Se ne versò due dita in un bicchiere, poi si lasciò cadere su una sedia gemendo di dolore. Bevve il liquore tutto in un sorso, poi aprì la camicia con cui dormiva e osservò il cerotto sul suo fianco. Lentamente ne sollevò un lembo. Gli avevano già tolto i punti ma la ferita era tutt’altro che guarita. Sospirò guardandola. Gli stava dando un bel po’ di problemi: non poteva tossire o ridere, gli veniva difficile camminare, perché ad ogni passo era come se gli ficcassero le dita in quel buco osceno. E il proiettile lo aveva solo colpito di striscio. Non immaginava come sarebbe stato se la distanza fosse stata minore. Sollevò lo sguardo verso la porta che dava sulla camera di Elly e trovò la ragazza lì impalata che lo fissava, spaventata, da una fessura.
Forse fu il sogno, o il semplice bisogno umano di compagnia, ma si risistemò il cerotto, poi alzò il bicchiere verso di lei, a mo’ di invito.
«Whiskey?» lei uscì dalla sua camera, con la camicia da notte che la copriva dalla testa ai piedi ma abbastanza trasparente da far intravedere qualcosa, in controluce. Era ancora ammaccata per colpa della sfuriata che le aveva fatto circa quattro giorni prima. Il loro rapporto non era cambiato granché, tranne che adesso Elly lo guardava solo con disprezzo. Prima c’era anche la speranza, a volte una muta preghiera di trattarla meglio. Da quel giorno invece lo aveva guardato come se fosse uno scarafaggio. E lui aveva ricambiato con piacere.
«non bevo» disse, però si chiuse dietro la porta e gli si avvicinò.
«non ti farà male, per una volta» disse lui, impulsivo come lo era una volta, prima della NaPola e della scuola per ufficiali. Avevano rimodellato perfettamente il suo carattere, ma a volte in momenti come quello, in cui non pensava poi molto, il suo vecchio io tornava a galla. Come quando aveva detto che l’avrebbe presa con lui. E lei si accorse del cambiamento. Stupito, Joseph si accorse che lo guardava diversamente. Come se fossero ancora bambini.
«non reggo l’alcool» gli rispose semplicemente lei, riempiendosi un bicchiere d’acqua nel lavandino. Poi si girò per sorseggiarla, mentre lo osservava.
«mi hai spaventata. Hai fatto un rumore assurdo poco fa» lui alzò le spalle.
«non riuscivo a trovare quella» disse indicando col mento la bottiglia di whiskey sul tavolo.
«perché lo bevi? La tua vita è perfetta» osservò lei.
«e la tua fa schifo. Eppure non lo bevi»
«touchè» disse lei sorridendo. Lui si ritrovò a risponderle al sorriso. Poi lei sospirò
«io non sono un medico, ma ad occhio e croce credo che quel buco che hai nel fianco dovrebbe essere pulito»
«dovrebbe, infatti» disse lui atono. Lei lo guardò un attimo
«però tu odi gli ospedali e da solo sei una frana» osservò lei.
«esattamente»gli rispose Joseph, versandosi altro liquore e mandandolo giù in un sorso.
«se vuoi lo faccio io» disse con cautela. Non sapeva neanche perché lo stava proponendo, non aveva senso, eppure si era ritrovata a pronunciare quella frase.
«davvero?» lui spalancò gli occhi chiari su di lei, ora un po’ appannati. Lei annuì. 
«io … te ne sarei davvero grato» disse rivolgendosi a lei, finalmente, con civiltà. Lei lo guardò sconcertata un attimo, poi sussurrò un “ok” e andò in bagno per prendere del disinfettante, alcune garze e un cerotto pulito. Quando tornò nella cucina Joseph aveva mandato giù un altro bicchiere di whiskey. Lei posò l’occorrente sul tavolo e tolse il liquore dalla sua portata. 
«non  mi ubriaco per così poco» osservò lui con mezzo sorriso.
«meglio non correre il rischio» disse Caroline severa. Odiava gli uomini ubriachi, soprattutto quelli potenzialmente pericolosi come lui. Poi si inginocchiò davanti a lui per avere la ferita più vicina. Lentamente gli tolse il cerotto, frenando l’ondata di nausea che le venne nel guardare così da vicino i danni provocati da una pallottola. Lui la osservava in quella posizione e al suo cervello mezzo ubriaco arrivarono immagini a luci rosse che vennero bruscamente interrotte dal bruciore causato dal disinfettante. Imprecò, ma non si mosse, sapendo per esperienza che sarebbe stato peggio. Le sue mani erano delicate e precise, ci mise cura come se lui non l’avesse mai picchiata o ferita o insultata. Lo lasciò di sasso, con quel suo comportamento così umano e gentile. Gli fece venire voglia di implorare perdono, ma si trattenne.
Ci mise poco a pulire e fasciare la ferita. Sembrava esperta e lui se ne chiese il motivo: che lui sapesse non aveva mai fatto l’infermiera. Quando si rialzò lui la guardò un attimo, poi la sua voce pronunciò delle parole dannatamente sciocche, di cui si sarebbe pentito quasi immediatamente. Ma era ancora mezzo addormentato e stordito dal whiskey e dal dolore, quindi non si poteva proprio biasimare. 
«ti ho mentito, sai Caroline? Quando sono venuto a Friburgo, il mio scopo non era solo di rivederti. In fondo, speravo di sposarti. Insomma, da piccola eri la mia unica famiglia. Eri l’unica donna che sapevo avrei rispettato» lei rimase paralizzata davanti a lui. Lui alzò, come per brindare, il whiskey verso di lei, poi lo bevve.
«buona notte Caroline» posò il bicchiere vuoto sul tavolo e tornò barcollante nella sua stanza. Lei lo guardò uscire, ancora impalata nel punto in cui l’aveva lasciata. Poi si sedette nella sedia prima occupata da lui e, dopo un attimo di esitazione, si versò un po’ di liquore, cercando di trovare una risposta al proprio comportamento, impulsivo e privo di senso anche per lei. Sospirò piano, poi buttò giù tutto d’un sorso il liquido ambrato.
***
La mattina dopo si svegliò al solito orario. E, quando Joseph si alzò per reclamare il proprio caffè e la sua colazione, Elly capì con disappunto che niente era cambiato. La trattava con la solita fredda indifferenza, che sfociava a tratti in disgusto. Nessun accenno alla sera prima, nessun commento, neanche un minimo cambiamento sul modo di comportarsi: la ragazza quasi arrivò a credere di aver solo sognato.
Lui uscì presto, come sempre, e lasciò la lista di cose fare e il denaro che le servivano per gli acquisti. Lei fece sospirando quello che doveva. Non importava se quella notte uno sprazzo di umanità li aveva colpiti, erano tornati alla routine di sempre, fatta di sguardi carichi d’odio che duri ricoprivano la dolcezza dei loro ricordi. 
Quella notte era avvenuto un miracolo, ed Elly lo sapeva bene: il loro solido muro aveva lasciato intravedere un po’ di quell’antico affetto che li legava indissolubilmente e a doppio filo, rendendo chiaro ad entrambi che non era un capitolo chiuso del tutto. Fu con quella consapevolezza che passò il mese successivo. Lui scoprì di avere bisogno di lei per tenersi ancorato alla realtà, un’ancora che sembrava non facesse altro che portarlo in fondo all’oceano, ma che in ogni caso era qualcosa di concreto. Quella piccola ebrea, con i capelli rossi che le arrivavano appena sotto l’orecchio, era la cosa più vera della vita dell’ufficiale Joseph Muller, un’SS impiegato nell’ufficio di controllo della purezza della razza a Berlino, un ariano simile a quelli che le ragazze si passavano nelle figurine tra i banchi di scuola, un perfetto soldato. 
Oscillavano tra occhiate cariche di risentimento, parole urlate piene di rabbia, umiliazioni continue che ferivano l’orgoglio; e momenti di complicità, di sguardi persi tra i ricordi, piccole gentilezze che neanche si accorgevano di farsi a vicenda, di riscatti sul loro essere umani.
E così c’erano stati litigi, piccoli battibecchi che si concludevano spesso con qualche livido sul corpo di Caroline, piccole contusioni che guarivano ma restavano doloranti nel cuore, fino a che lo stesso che gliele aveva inflitte non dimostrava qualcosa. C’era stata quella volta che il giorno dopo averla schiaffeggiata le aveva fatto trovare una fetta di torta al cioccolato sul tavolo.
C’era stata quella volta che si era scorto allo specchio mentre stava per alzarle le mani e si era guardato pieno di vergogna, prima di lasciarla e rifugiarsi nel suo studio.
C’era stata quella volta che lei era quasi caduta dopo un suo spintone, se non fosse stato per la sua prontezza nell’afferrarla.
Era una vita fatta di equilibri precari e già inclinati dall’inizio, ma per un certo periodo proseguì senza intoppi o avvenimenti degni di nota. 
E poi arrivò quel dieci agosto, il diciannovesimo compleanno della ragazza, che lei stessa aveva quasi finito per dimenticare.
Caroline si alzò allo stesso orario di ogni mattina, gli preparò il caffè e la colazione, mentre lui non la degnava di uno sguardo. Non se la prese, si aspettava esattamente questo da lui, anzi le fu grata per la tranquillità con cui svolsero ognuno il suo ruolo. Quando però lui fu uscito di casa, Caroline vide un biglietto e dei soldi sul tavolo. Credendo di dovere sbrigare commissioni andò a leggerlo, per poi sorridere felice per un gesto tanto inaspettato. Nel minuscolo pezzo di carta, con la grafia sinuosa ed elegante di Joseph c’era scritto:
Quelli sono tuoi. Divertiti.
E buon compleanno.
Gli auguri erano stati scritti in uno spazio ristretto sotto la prima frase, ciò la portò a pensare che li avesse scritti dopo, in un momento di impulsività.
Saltellando e canticchiando allegra andò a vestirsi, poi prese i soldi, un borsetta che di solito utilizzava per la spesa, e uscì di casa felice come una pasqua.
Si dette alla pazza gioia. Prese l’autobus per andare nel centro città, dove avrebbe trovato i negozi più belli e forniti, orgogliosa delle piccola fortuna che aveva avuto l’accortezza di nascondere nel regipetto. Si guardava intorno estasiata, felice come non era da molto, gli occhi le brillavano. Passeggiò tutta la mattina osservando le vetrine curiosa e indecisa su cosa comprare. Alla fine prese un vestito estivo nuovo e bellissimo. Era verde con una fantasia a fiorellini, aveva uno scollo tondo che risaltava il suo seno senza però essere volgare e le maniche corte a palloncino. Si stringeva in vita, con un grazioso cinturino, e poi la gonna morbida arrivava sotto il ginocchio. Non aveva idea per cosa lo avrebbe indossato, sapeva solo che le stava da dio, ora che non era magra come un chiodo, e che quindi lo voleva nel suo armadio. Quello non fu il suo unico acquisto: comprò anche un altro vestito, più semplice però, da utilizzare ogni giorno, un paio di scarpe nere, una borsa nera, un cardigan morbidissimo bianco da abbinare al vestito e anche della biancheria. Concluse con uno splendido rossetto color corallo e un piegaciglia. Interruppe le sue spese solo per pranzare e si fermò solo quando non le restarono che pochi spiccioli. Erano circa le tre del pomeriggio. Ci avrebbe messo più o meno un’ora per tornare a casa, così decise di comprare un gelato al cioccolato e sedersi in un tavolino all’aperto, guardando soddisfatta la gente che passeggiava. Si stava proprio godendo il suo cono gigante, quando un ragazzo le rivolse la parola.
A occhio e croce doveva avere intorno ai venticinque anni, i capelli scuri e gli occhi scuri, anche se non ne distingueva bene il colore. Era bello in viso e portava abiti che indicavano uno stato sociale non elevato. Si rivolse a lei con cortesia, e lei lo adorò anche solo per questo.
«posso sedermi, signorina?» le chiese educatamente, indicando il posto di fronte a lei. Caroline rimase spiazzata. Nessun le aveva mai rivolto la parola con quel rispetto e con quel tono pacato. Lei tentennò un attimo, poi senza sapere bene che rispondere annuì disorientata. Lui parve accorgersi del suo smarrimento, così cercò di tranquillizzarla con un bel sorriso.
«ho visto che era sola, così ho pensato che, visto che sono solo anche io, potevamo farci compagnia» la sua voce era amichevole e per niente intimorita. Si capiva che non era un ragazzo timido e che sapeva mettere la gente a suo agio.
«mi sembra una splendida idea» si decise a dire lei, con un filo di voce e gli occhi bassi.
«il mio nome è Dimitri. Dimitri Kraus» disse porgendole la mano. Caroline per poco non si presentò con il suo vero nome e dovette fare un piccolo sforzo di memoria per ricordarsi quello che era scritto nel documento che portava con sé.
«Emma Schuster» rispose stringendogli la mano dopo una manciata di secondi.
 Che stupida devo essergli sembrata, una che non ricorda neanche il proprio nome pensò, non senza un pizzico di fastidio verso se stessa. Invece Dimitri non smetteva di sorridere.
«ma gli amici mi chiamano Elly» aggiunse di getto. Non voleva rischiare di non rispondere al suo nome, in quel modo invece non avrebbe corso rischi.
«Elly? Ma non c’entra nulla con Emma» disse lui senza smettere di sorridere rilassato.
«lo so, lo so. Non so neanche io perché mi chiamano così: non c’entra nulla col mio nome» disse sinceramente ridacchiando.
«e lei è qui da sola?» le chiese allora lui, continuando a mangiare placidamente il gelato.
«si … mi sono data alla pazza gioia» disse indicando il numero consistente di pacchetti che aveva intorno.
«Lo vedo! Deve essere stato una giornata interessante»
«eccome! Io non sono di Berlino, mi sono trasferita qui da poco, e sinceramente non immaginavo che ci potessero essere tanti negozi tutti insieme!» lui rise
«Parla come se aveste trovato una miniera d’oro»
«ma è così, in pratica. Mi sento come una bambina nella fabbrica di babbo natale» disse, poi si affrettò a chiedere.
«e lei invece, vive qui da molto?» 
«da tutta la vita. E amo questa città, sembra quasi magica. Non la lascerei per niente al mondo» lei gli sorrise.
«io invece vengo da Friburgo. Quella città è vicinissima alla foresta nera e ci sono delle case fatte di legno che si affacciano sul fiume e … -sospirò – mi manca molto» lui la guardò comprensivo.
«e allora perché è venuta a Berlino?» 
«per lavorare. Sono rimasta sola al mondo, e un ufficiale mi ha chiesto di fargli da cameriera» lui parve scioccato.
«io … mi dispiace» disse lui spiazzato. Lei rimase immobile un attimo.
«e lei? Come mai non è al fronte?» chiese lei ansiosa di cambiare argomento.
«io sono il più grande di dieci figli. Mia madre ha ottenuto la croce di ferro, ma in ogni caso non basta per sfamarli tutti, soprattutto dopo che mio padre è morto, due anni fa. Così il governo mi ha permesso di restare a lavorare: fino a che non ci sarà una situazione di grave crisi, io potrò restare a Berlino» lei annuì, non sapendo bene che rispondere.
«che c’è? Si è improvvisamente rattristata» disse lui con un sorriso gentile.
«è che … mi dispiace per suo padre» un’ombra gli passò negli occhi ma lui riprese presto il sorriso.
«è la vita» disse semplicemente.
Poi passarono ad argomenti più leggeri. Lui gli raccontò che era un panettiere e la divertì con le mille stranezze di cui erano capaci clienti, aveva una voce gradevole e parlava così bene che riusciva a coinvolgerla nella conversazione anche se si trattava solo di aneddoti divertenti. Lei più che altro ascoltava e se apriva bocca era solo per fare un qualche commento intelligente e spesso anche pungente, con uno spirito che neanche immaginava di avere. Finirono il gelato, ma non ci fecero neanche molto caso. A entrambi piaceva stare lì a chiacchierare e non fecero neppure attenzione al tempo che passava. 
Quando, in lontananza, Caroline sentì suonare le quattro, sobbalzò e lo guardò spaesata.
«Mio dio, sono le quattro!» disse, interrompendolo bruscamente. Lui parve disorientato quanto lei. Caroline si alzò di fretta e furia, mentre lui ancora restava lì.
«è stato un piacere, ora però … »
«aspetti, io volevo …»
«devo andare»
«se mi dà il tempo di …»
«spero di incontrarla un’altra volta, è stato proprio divertente ma …»
«dobbiamo ancora pagare il conto!» urlò infine lui.
«devo scapp …. ah» lei arrossì. 
«vado io» disse infine lui, mentre lei rimaneva di pietra.
«però non scappi, va bene?»
«io  … non c’è n’è bisogno. Affatto. Vado io» disse decisa. Era arrossita fino all’inverosimile, adesso la sua faccia era dello stesso colore dei suoi capelli.
«sai che sei arrossita?» le disse allora lui con tono divertito.
«io sono sicura che sia il caldo. E poi non le ho chiesto di darmi del tu!» lui rise.
«aspetti qua» disse, per poi superarla. In un attimo aveva pagato, e a lei non rimase che rimanere impalata a guardarlo. Un attimo prima era gentile, l’attimo dopo era diventato un burlone.
«allora, dove abita?» gli chiese lui dopo, avvicinandosi con le mani in tasca e l’espressione curiosa e malandrina.
«perché?» chiese allora lei. 
«per riaccompagnarla, no?» disse cominciando a uscire dal bar. Lei rimase nello stesso punto in cui lui l’aveva lasciata.
«non era in ritardo?» le chiese allora con le sopraciglia aggrottate.
«decisamente» disse, lei affrettandosi per trovare la fermata del bus.
«conosco bene questa città, se mi dice dove abita potremmo accorciare parecchia strada. Visto che è in ritardo» le spiegò allora lui camminando dietro di lei. Caroline si girò a guardarlo. Aveva il viso rivolto verso il sole, e così i suoi occhi sembravano …
«ma tu hai gli occhi blu!» disse allora stupita. La sua intenzione era quella di ringraziarlo, ma si era ritrovata a osservare quel particolare così … insolito. I suoi occhi avevano la profondità degli occhi scuri e la particolarità del blu. Sembrava di guardare la notte.
«ora chi è che è passata al linguaggio informale?» chiese lui raggiungendola. 
«comunque si, sono blu. Le piacciono?» lei aveva ripreso a camminare e a quella domanda era arrossita. Di nuovo. Perché, beh si, le piacevano. E tanto anche.
«sono insoliti» rispose, per togliersi dai pasticci. Lui rise.
«non le ho chiesto se ha mai visto occhi di questo colore. Le ho chiesto se le piacciono» la provocò lui, mentre una nuova ondata di calore le invadeva le guancie. Lui rise e lasciò perdere.
«le si potrebbero friggere delle uova, in faccia»
«è il caldo» si scusò di nuovo lei, facendosi aria con la mano, come a provare quello che diceva. Ottenne solo le risate del ragazzo.
 «si sta ripetendo, signorina. E il suo viso è così rosso da confondersi con i capelli»
«che ha contro i miei capelli?» disse lei, risentita da quella frase. A scuola, erano in molti a prenderla in giro per quel rosso così simile all’arancione. Lui la guardò stupito.
«assolutamente nulla. Mi piacciono. E non mi vergogno di dirlo,soprattutto»
«non sembrava così sfacciato quando si è seduto» osservò lei corrucciata, non sapendo ancora bene se quel suo modo di fare la infastidiva o la intrigava.
«beh, in realtà si. Non è sfacciato chiedere di sedersi con una signorina sconosciuta?» chiese lui.
«un po’» disse lei, non volendo dargliela vinta. Effettivamente era sfacciato, ma lui si era posto in maniera così gentile da indurla ad accettare come se fosse normale. 
Continuarono a chiacchierare per buona parte del tragitto, fianco a fianco, mentre una strana felicità si diffondeva dentro Caroline. Stava bene con lui, era gentile anche se adesso non si risparmiava le battute pungenti, la faceva ridere tanto. Quando arrivarono davanti il suo portone lei si fermò e Dimitri si guardò intorno.
«bel quartiere …» commento, lo sguardo perso tra i palazzi. Sembrava indeciso. Lei aprì la porta e fece per entrare. Lui la bloccò, prendendole gentilmente il braccio. Aveva la mano grande e callosa, calda contro il braccio della ragazza.
«aspetta» lei rimase immobile e lui la lasciò.
«io volevo chiederle … cioè spero che potrai, ma non voglio che fraintenda. Beh in effetti avrebbe ragione ma …»  Caroline non capì nulla, e lui guardandola si riscosse. Sospirò, come a prendere coraggio.
«non è che potremmo vederci, qualche volta?» disse. Questa volta le sue guancie si colorarono lievemente di rosso, e lei le rivolse un piccolo sorriso.
«chi è che arrossisce adesso?» chiese lei, cercando di prendere tempo.
«ah bhe … è il caldo» la imitò lui, poi risero entrambi.
«mi piacerebbe tanto, Dimitri. Ma non so se posso» lui annuì.
«sabato sera. Ti aspetto lì all’angolo alle sette e mezza. Torneremo prima del coprifuoco, lo prometto. Se non potrai, capirò» 
«no, hai frainteso. Davvero non so se potrò uscire. Mi piacerebbe. E tanto. Ma non lo so» disse con gli occhi bassi.  Lui la fissò per un istante.
«e se non ci sarai ti manderò una lettera. Va bene?» lei annuì.
«ci vediamo, allora» disse entrando nel palazzo. Lui annuì.
«ci vediamo» lei lo guardò per un altro istante e poi chiuse la porta. 
Il cuore le batteva a mille, mentre il blu dei suoi occhi era ancora ben limpido nella sua mente.

10 Agosto1930
Tanti auguri a te! Tanti auguri a te!
Tanti auguri  ad Elly!!!
Tanti auguri a te!
Almeno quest’anno non sentirai la mia voce stonata cantare questa canzoncina! Ora fai una cosa, prendi con la mano destro il tuo orecchio sinistro e comincia a contare fino a nove! 
Ti fa male l’orecchio? Pazienza … devi darmi almeno qualche soddisfazione! 
Sarai felice di sapere che per mandarti quel regalo ho risparmiato per due mesi i soldi! Due mesi senza caramelle, hai presente? Ma non sentirti in colpa, assolutamente, per desiderare cose tanto costose! 
Mi piacerebbe poterti fare gli auguri di presenza, o anche solo poter passare un pomeriggio insieme, come l’estate scorsa. Qui non so che fare. La scuola è finita e la maggior parte dei miei compagni andrà a stare in campagna. Sono solo in una città che neanche conosco e poi mi manca la foresta e i funghi che raccoglievamo insieme. 
Ok basta, la smetto. 
Però mi manchi. L’altro giorno, con i risparmi di due mesi in mano, ci è mancato poco che scappassi dai miei zii per venire a Friburgo, però non posso farlo. È una gran seccatura. Spero che il resto dell’estate passi meglio rispetto a questi giorni e di abituarmi, prima o poi.
Ancora auguri piccolina! 

Jo.

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Capitolo 5
*** Panettiere ***


 Joseph la guardava ridendo sotto i baffi, mentre lei canticchiava allegra sistemando la cucina. Avevano appena finito di cenare e lei sembrava felice come una pasqua, non aveva smesso un attimo di sorridere e gli aveva mostrato tutti i suoi acquisti senza smettere di parlare un attimo. Lui l’aveva lasciata fare, divertito da quel suo modo di essere così frizzante che gli ricordava quando era una bambina. Sinceramente, non capiva il motivo dell’acquisto di quel vestito così bello, del rossetto e del piegaciglia. Insomma, per cosa voleva usarli, per andare al mercato? Ma lei sembrava felice e soddisfatta e alla fine i soldi erano il suo regalo di compleanno, quindi spettava a lei scegliere come spenderli. 
Osservandola bene, Joseph si accorse che adesso le sue forme erano più tonde, meno spigolose, e che il vestito che indossava, prima largo, adesso le calzava a pennello. I suoi capelli, anche se corti, erano più luminosi, e le guancie più colorite. Non aveva più l’aspetto malaticcio di quando era arrivata lì e sapendo che il merito era suo provava uno strano sentimento, come di soddisfazione. 
Quando lei finì di pulire la cucina si girò a guardare lui, smettendo di canticchiare.
«devo dirti una cosa …» esordì lei con un mezzo sorriso. Lui si stupì non poco. Aveva la faccia di una ragazzina che deve chiedere qualcosa di difficile a suo padre, ma Joseph non aveva proprio idea di cosa avrebbe voluto chiedergli. Che avesse combinato qualche danno? Che qualcuno l’avesse riconosciuta? Subito, si accigliò, mentre la serenità di qualche secondo prima svaniva.
«devo preoccuparmi?» chiese con tono freddo, cercando di non far trasparire il timore che provava. Lei scosse energicamente la testa.
«no, no è una cosa bella, almeno per me» lui si accigliò ancora di più.
«sai oggi, prima di tornare a casa mi sono fermata per mangiare un gelato …»
«e allora?» chiese lui impaziente.
«e allora niente, si è seduto con me un ragazzo e abbiamo incominciato a parlare e …» si fece rossa in viso.
«mi ha riaccompagnata qui a casa e mi a chiesto se potevo fare una passeggiata con lui, sabato» disse esitante, mentre la sua faccia aveva assunto la stessa tonalità dei capelli.
«un ragazzo?» chiese Joseph, ancora stordito.
«devi uscire con un ragazzo?» ripeté, e lei annuì energicamente.
«e io dovrei lasciartelo fare?» lei si indignò.
«è solo una passeggiata, e comunque tornerei prima del copri fuoco» lui ghignò.
«e tu questo tipo lo conosci così bene da poter dire che non stava mentendo?» 
«non mentiva. Perché avrebbe dovuto farlo?» Joseph alzò gli occhi al cielo. Era indispettito che qualcuno si fosse dimostrato così interessato ad Elly. 
«è un uomo. Tu probabilmente neanche sai cosa vogliono gli uomini dalle donne, soprattutto se sono cameriere sole al mondo che nessuno può difendere» disse malevolo.
«io forse non so cosa vogliono i soldati dalle donne. Ma lui era un ragazzo semplice, allegro, che mi ha fatto passare le due ore più belle da molti anni a questa parte, e che mi si è seduto accanto senza sapere nulla su di me»
«e pensi che se sapesse il tuo vero nome, non ti venderebbe allo stato?»
«non lo so, e in questo momento non lo voglio sapere» lui rise.
«la risposta la conosci bene Caroline. Vuoi andare con lui? Và. Ma non ti rischiare a mettere in mezzo me e la mia carriera dicendo chi sei, perché giuro su dio che altrimenti ti mando all’inferno» la minacciò per poi alzarsi e dirigersi nel suo studio. 
Era nervoso da morire. Si diceva che la causa fosse la paura di qualche sciocchezza fatta dalla ragazza, che avrebbe avuto ripercussioni anche su di lui. La verità invece, stava probabilmente in quell’allegria contagiosa di Caroline. Lui aveva ingenuamente pensato di averla provocata, lui credeva di essere stato il motivo dei suoi sorrisi. E anche se si diceva che non gli importava, era una balla che raccontava a se stesso. Si era sentito bene, vedendola sorridere. Ma sapere che quel sorriso non era per lui, perché era chiaro che Caroline stava andando dritta dritta verso una cotta con i fiocchi, gli aveva fatto male. Chissà perché poi, ma gli aveva fatto male. 
Joseph si sedette sulla sua scrivania, il buon umore totalmente scomparso, un senso di impotenza che gli corrodeva l’animo. Con gesti nervosi allentò il nodo della sua cravatta, di quell’uniforme che sentiva ogni giorno più pesante. La gettò di lato e aprì i primi bottoni della camicia rigorosamente bianca, come per prendere aria. Gettò a terra la giacca, con tutte le sue mostrine e medaglie, con la fascia rossa e la svastica nel braccio destro e i teschi nel colletto. Sfibbiò i polsini e li arrotolò lungo le braccia, poi scombinò i capelli fino a quel momento perfettamente pettinati all’indietro.
Quando era solo un ragazzino adorava portarli in quel modo e fare impazzire i suoi odiosi zii. Amava il modo in cui gli cadevano sugli occhi, il colore biondo chiarissimo reso più evidente, il modo in cui gli incorniciavano il viso che lo rendeva decisamente ribelle. Di quel ragazzo era rimasto ben poco, ma chissà perché in quel momento si ritrovò a volergli somigliare un po’ di più.
C’era davvero rimasto male, per quell’appuntamento. Si sentiva tradito, ma razionalmente sapeva che non era tutto un gran controsenso. Avrebbe potuto dire che non poteva andare, accaparrare scuse su quanto conoscere quel tipo per lei sarebbe potuto essere pericoloso, ma ai propri occhi sarebbe significato ammettere di essere preoccupato per lei. E lui non doveva esserlo. O meglio, doveva rimanere convinto di non esserlo.
Stava cercando di calmarsi, quando lei bussò gentilmente alla porta, e lui le grugnì qualcosa in risposta, che neppure lui sapeva bene se fosse un assenso o un diniego. Comunque lei aprì ed entrò guardandolo stranita.
«possiamo parlare?» chiese quasi timidamente. Quasi. 
Lui gli indicò la sedia e lei si trovò di fronte a lui, che in quello stato sembrava un uomo normalissimo. Un uomo normalissimo parecchio attraente.
«stai … bene, così» le uscì spontaneo. Lui sorrise con l’angolo della bocca, ma lei se ne accorse comunque.
«una delle poche ragazze che lo pensa, di solito basta un’uniforme per farvi sognare» disse con un ghigno divertito. Avrebbe voluto metterla a disagio con quella battuta, ma ottenne solo uno sguardo duro da lei.
«già, finché non sono ebree» lui si riscosse e distolse lo sguardo dai suoi occhi.
«giusto, a te non piacciono i soldati. Sei più per … com’è che lo hai chiamato? “un ragazzo semplice e allegro”» lei arrossì ma non si scompose.
«non pensavo che ti avrebbe dato così tanto fastidio. Quale è il problema? Se ti preoccupi che io possa dirgli tutto, vuol dire che non mi conosci: ci tengo alla pelle. E mi risulta difficile credere che tu tema per la mia incolumità fisica» disse con molta ironia. Quei giorni con lui l’avevano inacidita. Era vero che il loro rapporto era migliorato, ma vivevano di parole taglienti come spade e in una solitudine resa più acuta dalla presenza dell’altro.
Joseph sopportò abbastanza stoicamente lo schiaffo morale che gli aveva dato. Mai come in quel preciso istante gli era parsa donna. Una donna, offesa, che gli stava rinfacciando i suoi sbagli.
«non l’ho presa male, Caroline. Credo solo che non sia una buona idea»
«e perché? Se mi violenta e mi getta in un pozzo, a te farà solo un favore. Se non lo fa, farà un favore a me, dandomi un briciolo di umanità, che lo sa dio quanto mi manca» altro schiaffo morale, che questa volta bruciò di più, se possibile.
«io sono un essere umano» disse lui lievemente smarrito. Lei lo guardò per un lungo istante. Poi fissò la sua giacca nera e scosse la testa.
«non sempre» lui annuì a quella risposta, poi alzandosi in piedi le si avvicinò, sovrastandola, mentre lei restava seduta su quella sedia, cercando di non dare a vedere quanto in quel momento la spaventassero i suoi occhi di ghiaccio.
«allora fa quello che vuoi» disse con tono straordinariamente calmo.
«hai tre condizioni, però Caroline. Primo, devi rispettare la legge: niente luoghi proibiti, rientri dopo il coprifuoco o cose del genere: vivi pur sempre in casa mia» fece una pausa per vedere che affetto avrebbero fatto alla ragazza le sue parole. Lei sbuffò e poi annuì, accondiscendente, così Joseph continuò. 
«Secondo, io non devo vedere questo tizio neanche di sfuggita. Terzo, non tornare qui incinta, perché butto fuori te e la cosa che ti dovrebbe crescere dentro» 
Aveva parlato indossando una maschera di pura freddezza e indifferenza. Lei lo guardò con uno sguardo altrettanto distaccato.
«va bene, signore» poi lasciò la stanza con atteggiamento imperioso.
***
Caroline si osservava soddisfatta al piccolo specchio presente in bagno. Aveva il vestito nuovo che sembrava esserle stato cucito addosso, tanto le stava bene. Il verde si abbinava perfettamente con i suoi occhi e i suoi capelli che, lavati qualche ora prima, erano morbidi al tatto e le arrivavano poco sotto le orecchie. Quel rossetto rosso aveva reso le sue labbra decisamente più seducenti. Uscì dal bagno soddisfatta, nonostante quella giornata fosse stata sfiancante. Joseph le aveva lasciato una lista infinita di cose da fare, e lei aveva dovuto correre tutto il giorno senza fermarsi neanche per pranzare. Tutta la settimana erano stati scontrosi, lui non le aveva alzato le mani ma era stato freddo e distante, l’aveva trattata come il peggiore insetto. E non gli erano serviti i calci e i pugni per umiliarla quella volta.
Aveva preteso di aver lustrate le scarpe. Di essere servito a tavola. Di non mangiare più in sua compagnia. Aveva preteso che lo chiamasse signore e gli desse del lei, mentre lui gli urlava i peggiori insulti. L’aveva fatta sentire come una bambina impotente, e lei lo odiava per questo. 
In quel momento era fermo sull’uscio della cucina, stava palesemente aspettando che lei tornasse dal bagno. Caroline pregò che la lasciasse andare, perché aveva davvero bisogno di qualcuno con cui parlare. Magari non avrebbe potuto raccontare niente a quel bellissimo ragazzo con gli occhi blu come la notte, ma avrebbe riso con lui, avrebbe potuto passare qualche momento di pace, avrebbe potuto sentirsi una normale ragazza alle prese con la propria prima cotta. Lui la osservò per un lungo istante, squadrandola da capo a piedi. 
«non direi mai che sei ebrea vedendoti per strada» disse. E quello era la cosa più simile ad un complimento che Caroline avrebbe potuto sentire da lui. Indecisa se sentirsi offesa o lusingata, preferì rimanere in silenzio, aspettando che lui la facesse passare o le dicesse qualcosa. Lui si appoggiò allo stipite.
«e quindi vai?» chiese con voce atona. 
«si, e sono anche in ritardo signore» sputò l’ultima parola con acidità, facendola suonare come un insulto, ma lui non ci fece caso.
«mi raccomando, comportati da puttanella, così lo farai felice» disse velenoso, prima di spostarsi sul corridoio e lasciarla lì, fumante di rabbia. Sbuffando, Caroline prese il suo cardigan, indossò le scarpe, afferrò la borsa e poi uscì di casa, con il cuore che le batteva a mille dentro al petto. Si sentiva lo stomaco in subbuglio, sentiva rimbombare i battiti cardiaci nelle orecchie e non si calmò fino a che non vide Dimitri appoggiato al muro mentre fumava una sigaretta. Allora il cuore le si fermò. Dio, se era bello. Aveva una camicia bianca arrotolata sulle maniche con pantaloni e giacca neri. La cravatta era blu scuro, che s’intonava benissimo con il suo viso. Si vedeva che il vestito non era nuovissimo, ma comunque era in buone condizioni. Caroline si chiese cosa avrebbero indossato la prossima volta che si sarebbero visti, considerando che quelli erano molto probabilmente i loro unici vestiti buoni. 
Quando lui la vide si aprì in un sorriso poi staccandosi dal muro indossò la giacca e le venne incontro.
«sapevo che saresti scappata dalla finestra, pur di passare un paio d’ore con me» disse lui con un sorriso che gli andava da un orecchio ad un altro, quando erano ancora ad un paio di metri di distanza.
«oppure, non avevo niente di meglio da fare»
«solo perché niente è meglio di me» disse lui, mentre le faceva un bacia-mano degno di uno di quei spettacoli che trasmettevano al cinematografo e che andava a vedere quando era più piccola con suo padre. Lei rimase in silenzio, imbarazzata, non sapendo bene cosa dire, così prese lui la parola, offrendole il braccio.
«ti avevo promesso una passeggiata, e una passeggiata avrai» disse con aria buffamente solenne.
«che uomo di parola!» lui rise, poi la prese a braccetto con fare disinvolto, fingendo di non vedere il rossore che cospargeva le guancie della ragazza. 
Passeggiarono così vicini per le vie illuminate della città, il profumo dell’estate in una notte con poche stelle nel cielo che portava pioggia. La luce dei lampioni gettava lunghe ombre sui passanti, l’odore degli alberi era pungente e il venticello leggero la faceva stringere nel suo cardigan senza però smettere mai di sorridere. Era un sogno quello, ne era sicura. Solo qualche mese prima era una ragazza pelle ossa, spaventata come un topolino che si rifugia da un enorme gattone nero. Adesso era libera di passeggiare tranquillamente per le strade senza ricevere occhiate malevole dalla gente, che invece adesso la guardava insieme a Dimitri in modo sognante, presi dall’invidia o dal ricordo per quel loro palese primo amore. Accanto a lei adesso aveva un uomo, che la guardava con quel suo sorriso da buffone come se fosse una cosa preziosissima e la teneva stretta a sé, la faceva ridere con le sue battute sui passanti e con quella sua malizia appena accennata che la faceva puntualmente arrossire. 
Si sedettero ad un tavolino di un bar non molto distante e non molto affollato. Nell’ingresso spiccava la scritta “vietato l’ingresso agli ebrei e ai cani”. Non che ne fossero rimasti molti, di ebrei, in giro. Lei lo osservò per un lungo istante, poi si affrettò a seguire le spalle ampie del ragazzo. 
«gelato?» chiese lui allegro, mentre lei si costrinse a sorridere.
«certo. Vediamo se ricordi che gusto» disse con aria di sfida.
«mi sottovaluti Elly. Cioccolato. Al latte però» le rispose compiaciuto. Lei ridacchiò.
«tutta fortuna, Dimitri» lui le sorrise.
«non direi, mia cara. Sono una persona attenta io»
«certo, certo. Non lo metterei mai in dubbio» disse lei lievemente ironica. Lui scosse la testa ridendo, quando arrivò la cameriera a cui ordinarono due bei gelati. Mentre lui parlava, lei spostò lo sguardo verso l’ingresso, dove spiccava quel cartello. Con una stretta allo stomaco ripensò a chi era fino a qualche mese prima, ai suoi genitori e a Joseph. Era grazie a lui se adesso stava bene, grazie a lui se era lì in quel momento, con quel vestito e con un viso finalmente in salute. Merito suo e basta. 
Per quanto fosse stato crudele con lei, si chiese come aveva fatto a dimenticarsene …
«Elly?» lei sussultò quando Dimitri la chiamò. 
«ti sei incantata» disse con un sorriso bonario.
«io … si scusami. Che stavi dicendo?» disse un po’ frastornata.
«niente di importante. A che pensavi?»
«niente in particolare … solo, sono felice di essere qui» affermò, prima di rendersi conto di quello che aveva detto e arrossire. Lui si aprì in un sorriso che gli arrivò agli occhi in maniera del tutto palese.
«anche io lo sono, Elly»
«davvero? Cioè non sono troppo acida a volte?» chiese lei. Era una sua reale preoccupazione, quella. Aveva paura che con il suo sarcasmo lo avrebbe fatto scappare via.
«sei divertente, non acida. E poi neanche io sono un santo» disse ridendo. Caroline lo seguì a ruota e non pensò più a niente, tranne che al bel ragazzo che le stava di fronte.
Quando uscirono dal bar era quasi scattato il coprifuoco, e stava piovigginando. Camminarono velocemente verso casa, mentre la pioggerellina si trasformava in un diluvio con i fiocchi. In un impeto lui si levò la giacca, tra le proteste di lei, cercando di coprirla. Corsero sotto la pioggia, il gelo che gli arrivava nelle ossa ma senza riuscire a trattenere le risate per quella corsa così infantile. Lui le aveva preso la mano, e correva trascinandola. Caroline non riusciva a capire come faceva quella mano grande e callosa ad essere calda. La sua camicia bianca era zuppa e gli si appiccicava addosso, lasciando intravedere i muscoli delle spalle e la canottiera che indossava sotto. Lei lo guardava affascinata e incespicava nei propri piedi. Poi si riprometteva di guardare dove metteva i piedi, ma il suo sguardo era puntualmente attratto dalla linee maschili del ragazzo di fronte a lei. Era affascinata da quel corpo in maniera decisamente imbarazzante. Si fermarono solo quando furono quasi sotto casa sua, più o meno riparati da un balcone che sporgeva. Avevano il fiatone e il respiro spezzato dalle troppe risate. Ci misero un po’ a calmarsi. Caroline si accorse che era ancora imbacuccata nella sua giacca e il senso di colpa la invase. Subito si affrettò a toglierla, nonostante il suo calore e il profumo di lui, gli rendessero il gesto un po’ difficile. Non se ne sarebbe liberata mai. Lui la indossò tremando leggermente mentre lei si strofinava le braccia infreddolita. 
«non doveva finire così» disse lui ridendo.
«ah no? io credevo che avessi programmato la pioggia» disse lei ridendo.
«e comunque è stato bello lo stesso. Anzi, non credo sarebbe potuta andare meglio» lui le si avvicinò.
«lo pensi sul serio o lo dici solo per farmi felice?» disse con un mezzo sorriso. Aveva i capelli resi più scuri dalla pioggia appiccicati alle tempie e gli occhi blu che sembravano neri. 
«lo dico perché non mi divertivo così tanto da … beh neanche me lo ricordo più, da quanto» disse lei con un lieve sorriso. Lo guardò con uno strano luccichio negli occhi, poi gli posò un fugace bacio sulla guancia.
«e quindi grazie, Dimitri» fu il suo turno di arrossire, come dimostrazione che, per quanto facesse il buffone, aveva il cuore tenero.
«è stato un piacere, Elly» disse con un filo di voce. Lei gli sorrise per un’ultima volta, poi corse sotto la pioggia e suonò il campanello, inzuppandosi di più di quanto già non fosse. Aspettò impaziente che Joseph si decidesse ad aprire, sicura che la stesse facendo aspettare giù per dispetto, mentre la pioggia la bagnava completamente. Quando finalmente aprì, fece un ultimo cenno con la mano a Dimitri. Lui, da lontano la guardava con sguardo trasognato.
Caroline salì le scale di fretta, infreddolita. Joseph la stava aspettando davanti la porta di casa aperta e sbarrò gli occhi di fronte alla ragazza, bagnata come un pulcino.
«sei caduta nel fiume, per caso?» disse chiudendo la porta dietro di loro.
«non bagnare i tappeti, che valgono più di te» aggiunse dopo con aria tagliente. Lei sbuffò.
«non preoccuparti, non ho nessuna intenzione di sporcare, visto che poi pulisco io» disse mentre si toglieva scarpe e calzette. Lui non riuscì a non guardarle le gambe scoperte, distogliendo subito dopo lo sguardo. È da troppo tempo che non sto con una donna. Pensò contrariato, seguendola lungo il corridoio, fino alla cucina. Non era del tutto vero.
«e il tuo fantastico ragazzo non ha avuto neanche l’accortezza di portarsi dietro un ombrello? O magari di darti la giacca?» disse lui con ironia.
«me l’aveva data la giacca, solo che poi qualcuno mi ha fatto aspettare tre ore sotto casa e mi sono inzuppata tutta» disse con aria di accusa.
«ah quindi adesso la colpa è mia. Giusto. Perché adesso sono io a dover correre per aprire alla mia cameriera. Sai che ero indeciso sul lasciarti fuori?» lei sbuffò
«e come mai non lo hai fatto?» chiese acida. Lui fece spallucce.
«qualcuno avrebbe potuto saperlo, visto che con te c’era il tuo simpatico amichetto. E non volevo che si attirasse l’attenzione su di te»
«molto gentile da parte tua, allora. Grazie infinite» il sarcasmo grondava dalle sue parole come l’acqua dalle finestre fuori di loro. Poi gli diede le spalle, e presi dei vestiti puliti, si chiuse in bagno per asciugarsi e mettere addosso qualcosa di asciutto. I capelli li asciugò alla meno peggio, ma restarono ovviamente bagnati. Poi, incapace di stare ancora a sentire l’ufficiale di malumore che girovagava per casa se ne andò a letto, con un sorriso che non le scivolava via dal viso malgrado tutto. 

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Capitolo 6
*** Cugini ***


Caroline sorrideva quella mattina. Fuori c’era una leggera pioggerellina mentre la radio trasmetteva una canzone allegra, le note si spargevano per la casa rendendola più colorata. Lei svolgeva i suoi compiti senza neppure pensarci, la testa per aria, canticchiando di tanto in tanto, attraversando le stanze come un fiume in piena, senza fermarsi, i piedi leggeri come piume.
Tra i seni, nascosta agli occhi di Joseph che la guardava stupito, si nascondeva una lettera. Lettera, che aveva trovato quel mercoledì mattina sotto la porta di ingresso del palazzo e che per miracolo non era stata presa da nessuno. 
Cara Elly
Come stai? Ho avuto paura che dopo tutta quella pioggia ti fossi buscata una febbre.
Mi dispiace non aver pensato a prendere un ombrello, ma devi giustificarmi: ero emozionato. La verità è che aspettavo quella sera con ansia, e di solito quando sono ansioso tendo a combinare guai: devo dire che, in linea di massima, ci è andata bene.
Non faccio che pensarti, Elly, penso e ripenso alla ragazza dall’amore sconfinato per il gelato al cioccolato e il vestito verde come i suoi occhi. Penso e ripenso a quella sera, a quello che ci siamo detti, alle tue risate, e non me ne stanco mai.
Non vedo l’ora di rivederti, ma già questa lettera è un punto interrogativo. Non so se la riceverai, e al pensiero che potresti non vederla mi viene da impazzire. Ma che posso farci? Questo ci spetta. 
Sono stato tentato più volte di venire a bussare a casa tua, sperando di poter fare due passi: non l’ho fatto perché non volevo metterti nei guai, visto la severità di quell’ufficiale. 
Comunque se riesci a ritagliare un piccolo spazio di tempo per me sarebbe fantastico: mi bastano anche solo dieci minuti. Che dici?
Spero di ricevere una tua risposta, altrimenti beh … credo che scriverò un’altra lettera. 
Con affetto 
Dimitri.

Caroline a quel punto aspettava solo che l’ufficiale si togliesse di torno per poter scrivere la risposta in santa pace, ma quella mattina Joseph era rimasto a casa. 
Non aveva neppure indossato l’uniforme, e se ne stava seduto nel suo ufficio con la porta aperta, lo sguardo smarrito che si soffermava su di lei ogni volta che passava davanti la porta. Caroline avrebbe tanto voluto sapere cosa c’era scritto sulla lettera che aveva ricevuto lui quella mattina, ma sospettava che il contenuto non fosse piacevole quanto quello della sua lettera.
Era metà mattina quando lui finalmente la chiamò, e lei curiosa come non mai si precipitò nel suo studio. Quando fu di fronte a lui, Joseph la fissò un attimo, poi disse con la sua solita aria imperiosa.
«devi venire in un posto con me, quindi lascia perdere le pulizie e và a lavarti» disse guardandola con aria critica. La ragazza era consapevole che il suo aspetto non fosse dei migliori, ma non capiva come la cosa potesse importare a lui.
Dopo un attimo di esitazione, Joseph aggiunse
«metti il vestito verde … e il rossetto» lei spalancò gli occhi e non seppe trattenersi dal chiedere:
«perché? Dove dobbiamo andare?» lui fece un sospiro stanco, e neanche si sforzò per darle fastidio, come suo solito.
«andiamo a comprarti un vestito nero adatto a un funerale» disse atono.
«un funerale?»
«hai presente quando la gente muore e poi si seppellisce? Ecco quello. Un funerale» disse lui infastidito, per poi guardare l’orologio.
«allora ti sbrighi? Non abbiamo tutto il giorno» lei annuì e corse via. Non avrebbe dovuto essere felice per un funerale e avrebbe dovuto essere più curiosa di capire chi fosse morto, ma la verità era che era eccitata. Non avrebbe passato la giornata dentro casa a pulire, aveva ricevuto una lettera da Dimitri e avrebbe passato il resto della mattina in giro per negozi. L’unica nota stonata in quel quadretto era Joseph, ma cercò di ignorarlo: non poteva farle niente mentre erano per strada.
Fece come gli aveva detto: si immerse in un bagno profumato, lavò i capelli e li tirò indietro con un fazzoletto, poi indossò il suo vestito verde che tanto adorava. Mise il rossetto e usò il piegaciglia. Quando uscì dalla sua stanza pronta Joseph la stava aspettando in cucina vestito con abiti civili. Aveva una camicia bianca, dei pantaloni beige e una giacca estiva abbinata. Non portava la cravatta e aveva in mano un cappello di feltro. Quando la vide si alzò e indossò il cappello, poi afferrò l’ombrello e la precedette in corridoio senza dire una parola. Lei lo seguì, afferrando il suo fedele cardigan per coprirsi dalla pioggia. 
«posso almeno sapere di chi è il funerale?» chiese lei quando furono in strada. Lui teneva l’ombrello per entrambi e lei fu costretta ad aggrapparsi al suo braccio: sembravano una coppietta felice. La cosa un po’ la disgustava e un po’ la stupiva. Quel comportamento non era da Joseph, era sconvolto, ma lei non capiva per cosa.
«mio cugino …» disse lui guardando dritto davanti a sé. 
«quello che …»
«quello che mi picchiava a sangue, si. Quello che una volta mi ha chiuso in uno sgabuzzino per un giorno intero e che mi a rotto il naso con un calcio. Quello che odiavo con tutto me stesso» disse lui gli occhi chiari ancora travolti da uno strano sentimento che non capiva. Era dispiacere o soddisfazione? Senso di colpa o indifferenza? 
«non pensavo che avreste mai legato» disse lei sinceramente stupita.
«no, infatti» disse, grattandosi il mento a disagio. Era rigido come un pezzo di legno e Caroline ce la stava mettendo tutta per capire cosa gli fosse preso.
«perché sei così sconvolto allora?» disse lei sollevando lo sguardo su di lui. Era troppo alto per poterlo guardare in faccia senza sentirsi una bambina e il suo profumo di dopobarba era così forte da farle bruciare il naso. Voleva capire: era una persona troppo curiosa per lasciare perdere. Lui sbuffò.
«potresti frenare questa tua fastidiosissima curiosità? Ho bisogno di un’accompagnatrice per il funerale di quel bastardo di mio cugino, e non mi va di portarmi una ragazza che poi crederà per questo che io la sposerò, e che mi assillerà per i prossimi due anni. Chiaro?» lei aggrottò le sopraciglia, stringendosi a lui sotto l’ombrello. La pioggia era aumentata e iniziava a sentire freddo.
«cioè vuoi che io mi finga la tua fidanzata?» lui fece un sorriso strano
«fidanzata, amante … quello che vuoi» lei arrossì fino alla punto dei capelli e si fermò di scatto.
«ti conviene prepararti un anello, perché non verrò a fare la parte della donna dai facili costumi con i tuoi parenti solo per saziare il tuo orgoglio» lui la ignorò e la trascinò lungo la strada.
«ne parliamo dopo, adesso pensiamo al vestito, piuttosto» 
«no, Joseph ne parliamo ora!» lui si fermò e la guardò in faccia, palesemente arrabbiato.
«senti, se non lo hai ancora capito, allora te lo spiego io: non è giornata. Tu verrai con me, che ti piaccia o no, ed eventuali discussioni, che serviranno a ben poco, le facciamo a casa. Tutto chiaro?» lei lo guardò arrabbiata. Non voleva rispondere e continuava a fissarlo negli occhi.
«ho detto, è chiaro, Caroline?» ripeté lui sempre più arrabbiato. Lei lo ignorò ancora e lui borbottando incazzato le sussurrò all’orecchio:
«se non fai come ti dico giuro che appena arriviamo a casa te ne faccio pentire. E tu sai di cosa sono capace»
«si, so chi sei Joseph. Andiamo?» disse mettendo tutto il disprezzo possibile in quelle parole. Ma che altro avrebbe potuto fare? Le scenate in pubblico sarebbero costate di sicuro più a lei che a lui e una volta a casa era in suo potere. Non aveva alternative. Lui annuì soddisfatto e continuò a camminare.
Arrivarono in un negozietto piccolo ma accogliente, con la vetrina piena di bei abiti alla moda e dietro il bancone una ragazza bionda che aveva di sicuro meno di trent’anni ed era in stato interessante.
«salve, come posso aiutarvi?» disse tutta sorriso. 
«le serve un vestito nero. Sa, per un funerale» disse duro e rigido indicando Caroline. Lei li guardò, poi le si spense il sorriso.
«oh … mi dispiace» disse, cercando di essere gentile. Nessuno dei due si prese la briga di risponderle, così dopo un attimo di esitazione indicò loro una stanzetta con un camerino aperto. Sorrise di nuovo a Caroline, che ricambiò la gentilezza. La gravidanza le addolciva i lineamenti e i capelli biondi le andavano da tutte le parti: era palese che fosse felice. 
«prego, da questa parte» 
Dopo essersi sistemata nel camerino,Caroline provò parecchi vestiti, tutti prontamente bocciati da Joseph.  Qualcuno le piaceva, ma lui li scartava con un deciso segno del capo e un’espressione elegantemente schifata. 
«certo che è un tipo molto esigente, vostro marito» sbuffò la commessa all’ennesimo vestito, stanca più di lei. Caroline non si prese la briga di correggerla e confermò la sua tesi con un sospiro esausto.
Alla fine riuscirono a prendere un vestito nero, che Caroline odiava ma che a Joseph inspiegabilmente piaceva. Non era nel suo stile, ma probabilmente l’uomo credeva fosse il più adatto alla cerimonia che li aspettava il giorno dopo, quindi Caroline non protestò.
Uscirono da lì con il vestito, le calze, i guanti e persino un cappello nero. 
Joseph non parlò al ritorno, la teneva a braccetto e con l’altra mano reggeva i pacchi come un perfetto gentiluomo. Caroline apprezzava molto di più quel lato di lui, quello che ignorava la sua origine e la trattava con dignità. Anche se era solo finzione, la faceva stare un po’ meglio. 
«tu ricordi le cose che ti dicevo su mio cugino nelle lettere?» chiese lui ad un tratto, quando erano quasi arrivati a casa.
«si, certo … lo odiavo, tuo cugino, senza averlo mai visto» rifletté lei.
«tu non avevi nessun motivo reale per odiarlo …» disse lui guardandola un attimo, per poi continuare a fissare la strada.
«tu eri una delle persone più importanti per me, avrei fatto di tutto per vederti ridere, anche se ero solo una bambina» Caroline si guardò i piedi, a disagio. 
«Quel ragazzino invece ti faceva stare male, e a me tanto bastava per odiarlo. Io avrei pagato oro per stare con te anche solo per un minuto» disse senza guardarlo in faccia, ricordando il bene che voleva a Joseph anni prima. Le sembrava impossibile che fosse la stessa persona che ora gli camminava accanto. Joseph rimase in silenzio, incerto su cosa dire, poi puntò lo sguardo su un piccolo ristorantino. Era vicino casa loro, ma lui sapeva che il cibo era buonissimo.
«ti va di mangiare lì?» chiese quindi, visto che era ora di pranzo e lei non aveva avuto il tempo di preparare nulla. Caroline guardò lui, poi il ristorante e sorrise.
«certo! Non mangio in un ristorante da troppo tempo» disse eccitata, dirigendosi a passo svelto verso il locale con Joseph dietro di lei che non riusciva a fare a meno di ridere.
Si rese conto di star sorridendo troppo tardi. Lei riusciva a farlo stare bene senza neanche rendersene conto, era sempre stato così e Joseph non aveva idea se questa cosa fosse positiva o negativa. Come l’avrebbe lasciata andare dopo che la Germania avrebbe vinto la guerra? Scacciò quel pensiero. 
Lei era ebrea, sarebbe stato un sollievo liberarsene. Le andò dietro e si sedettero in un tavolino a due posti.
Quel pranzo fu allegro. Nonostante tutto, risero insieme. Lei sembrava non farci caso, era felice e si vedeva, trasmetteva allegria a chiunque la guardasse e lui non poté che esserne contagiato. 
Prendeva in giro chiunque, dal cameriere impacciato al signore col parrucchino di lato a loro, dalla signora ossessionata dal proprio barboncino ad una ragazza che, provando a fumare, si era affogata. 
Lui rideva e, dopo un iniziale tentennamento, le dava manforte. Chissà perché poi lei scherzava con lui in quel momento, Joseph sapeva di non meritarlo. È lei che non si merita tutto questo, non io si ricordava ogni volta che la sua coscienza gli faceva brutti scherzi. Eppure Joseph era ogni giorno più accondiscendente.
All’inizio, si arrabbiava anche solo se non lo chiamava signore, adesso, anche perché lei si ostinava ad assumere certi comportamenti, aveva rinunciato a certe formalità. Ogni tanto, quando si fermava a pensarci, si dava dello stupido. Ma Caroline era più cocciuta di un mulo, e le formalità non valevano tante energie. Si scontravano già abbastanza, e lui, anche se non lo avrebbe ammesso neanche con se stesso, odiava doversi comportare in quel modo con lei. In quel momento poi, davanti a sé Joseph vedeva una donna, e non poteva fare altrimenti. Era un corpo di donna, una voce di donna, un’anima di donna davanti a lui. Non uno scheletro spaventato, come era all’inizio. Non una figura senza volto come quelle che condannava senza remore alla morte, come quelle che aveva ucciso e violato. Era una donna. E il suo corpo ne era dannatamente consapevole. Cercava di non guardarla, di renderla solo un’ombra in casa sua, ma lei era così sgargiante che il compito gli risultava spesso impossibile. Le ombre erano nere e grigie, si allungavano nel buio della notte e dell’attesa. Lei invece, con quei suoi capelli rossi e la voce cristallina, era come una fresca giornata di primavera. Era riuscita a tirarlo su in un momento difficile per lui. Sentimenti contrastanti lo animavano in quel momento per ciò che era accaduto a quel suo cugino tanto odiato, un turbinio che lui a stento riusciva a gestire ma che lei aveva fatto sparire quasi del tutto.
Lasciarono il ristorantino con la pancia piena e i fianchi doloranti per le troppe risate trattenute. Lei rideva ancora, quando uscirono a braccetto sotto l’ombrello, diretti a casa. 
Fra di loro però scese il silenzio. Quante cose può dire un silenzio! Nelle strade il tram sfrecciava rumoroso, c’erano macchine sbuffanti e cavalli, gente che si affrettava a raggiungere un posto più riparato, il rumore ticchettante della pioggia. Eppure … il silenzio tra loro sembrava più assordante della cacofonia di Berlino.
Arrivarono a casa un po’ bagnati. Joseph aveva di nuovo la mascella contratta per la tensione, la barba stranamente sfatta di un giorno che gli ricopriva le guancie, lo sguardo fisso sul suo vestito nero. La magia era finita e lei lo guardava con un pizzico di nostalgia. Era quello il Joseph che ricordava, e lasciarlo andare le lasciava l’amaro in bocca. Per questo, cercando di recuperare quel filo invisibile che li aveva legati durante il pranzo gli si avvicinò. 
«ti va di dirmi perché questa notizia ti ha sconvolto tanto?» lui era seduto su una sedia della cucina e la guardava smarrito. Non lo aveva mai visto così vulnerabile.
«io lo odiavo e … un giorno, circa un anno fa, un ufficiale mi disse allegro che un mio cugino era stato arruolato» fece un sospiro e distolse per un attimo gli occhi dai suoi, come per raccogliere le idee.
«fece il suo nome. Disse che, poiché eravamo dello stesso sangue si aspettava grandi cose da lui, proprio come grandi cose avevo fatto io. Lo paragonò a me» un lampo di rabbia passò dai suoi occhi chiari ma il senso di colpa lo soffocò subito dopo.
«io, che avevo sputato sangue per avere quello che avevo. Lui invece arrivava così e si ritrovava grazie al mio buon nome, in un reparto speciale. Lui che aveva tanto criticato la mia aderenza al partito, prendendomi in giro, dicendomi che ero un esaltato. Lui che ogni volta che ne aveva avuto l’occasione mi aveva riempito di botte e che aveva smesso solo perché dopo la NaPola, se solo si fosse rischiato, lo avrei fatto a pezzi» Joseph prese un respiro.
«così lo dissi a quell’ufficiale, non seppi trattenermi. Risi delle sue parole e gli risposi che mio cugino era un buono a nulla, che aveva aspramente criticato il fhurer e il partito prima che questo prendesse il potere, che mi aveva dato più volte dell'idiota per la mia aderenza al partito, che era un codardo incapace di affrontare le sfide della vita» Joseph fece un sorriso amaro davanti la faccia sconvolta di Elly.
«lo mandarono in Africa con l’ Afrikakorps, il fronte fin’ora più pericoloso. E adesso lui è morto» finì il suo racconto bruscamente e si prese la testa fra le mani.
«ma era pur sempre mio cugino … uno dei pochi legami con la mia famiglia» era sconfortato. Lei si abbassò sulle ginocchia per guardarlo in faccia. 
«non devi sentirti in colpa, secondo me. Qualcuno doveva pur andarci in Africa, no? meglio lui che qualche uomo onesto. E poi, mica era detto che sarebbe morto» disse sinceramente lei.
«è come se lo avessi ucciso io» lei si rialzò, spazientita.
«non sarebbe il primo, ma sicuramente quello che lo meritava di più» lui scosse la testa 
«non è la stessa cosa, in guerra o uccidi o muori» spiegò lui. Ma lei aveva assunto una faccia di pietra. 
Joseph si faceva tanti problemi per aver dato ad un uomo spregevole il destino che meritava e poi … poi chissà quanti ebrei aveva ucciso senza neanche pensarci. A volte lo dimenticava, chi era. A volte nei momenti come quella mattina dimenticava quello che lui aveva fatto, e continuava a fare. Caroline aveva visto abbastanza ebrei freddati da soldati con motivazioni più che futili per non pensare quello di lui. I lineamenti le si indurirono.
«non parlavo di quello, infatti» disse quindi senza staccargli gli occhi di dosso. Lui fecce uno sguardo confuso, come se non sapesse di cosa lei stesse parlando, così Caroline, ancora più arrabbiata, si girò, prese l’abito e si diresse nella sua stanzetta minuscola a rimuginare su quanto fosse stata stupida a divertirsi con lui. Non poteva giocare col fuoco, sarebbe morta bruciata altrimenti.
Joseph invece fissava il punto in cui lei era sparita, chiedendosi perché. Perché lei non poteva essere ariana? Sarebbe stato tutto molto più semplice.
 

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Capitolo 7
*** Defunto ***


Joseph era stato intrattabile in quei giorni, eppure, in qualche modo, più umano. Aveva avuto tre giorni liberi per il lutto e li aveva trascorsi girando per la casa come un’anima in pena o a ubriacarsi in qualche taverna. Per due volte era tornato ubriaco e per due volte Caroline era stata costretta a pulire il suo vomito sparso per tutta la casa e a reggerlo fino a farlo cascare nel letto. Non sopportava gli uomini ubriachi, gli uomini violenti, i nazisti e i soldati. E guarda caso, Joseph era tutte queste cose. Joseph! Se glielo avessero detto quando era una bambina, non ci avrebbe mai creduto. Il suo Joseph, uno dei migliori bambini che avesse mai conosciuto, un uomo della peggiore specie. 
Quella mattina, in cui il sole aveva ripreso a splendere sul cielo di Berlino, l’ufficiale era uscito per chissà quale meta, urlandole che sarebbe tornato entro un’ora e di cucinargli qualcosa per il pranzo. Lei quindi, era sgattaiolata nel suo ufficio per scrivere la risposta a Dimitri, finalmente libera di tirare un sospiro di sollievo.
Caro Dimitri
Solo ora riesco a rispondere alla tua lettera, mi dispiace di non essere riuscita a scrivere prima, ma attualmente l’ufficiale per cui lavoro è sempre in giro, e tu avrai capito che la carta l’ho “presa in prestito” dal suo ufficio. 
Fortunatamente sto benone, siamo stati due avventati a uscire di casa quella sera senza neanche un ombrello o un cappello. Mi viene da ridere a pensare come eravamo ridotti, due pulcini bagnati, ecco cosa eravamo! Tu invece? Mi auguro che non starai male per colpa mia, non me lo perdonerei.
Credo, e non sto esagerando, che quella trascorsa insieme sia la più bella serata degli ultimi anni. Come avrai capito non ho passato dei bei momenti ultimamente, e tu … Dimitri, tu mi hai ridato per una sera il sorriso. 
Voglio rivederti, passeggiare lungo la Sprea, e magari mangiare un gelato al cioccolato.
Non so quando sarà possibile, per ora l'ufficiale mi tiene parecchio impegnata: pensa, mi toccherà fingermi la sua fidanzata al funerale del cugino, roba da non crederci.
È una persona sola, Joseph, non ha mai avuto molto affetto, e non capisce che con il suo comportamento non fa che allontanare di più la gente …
Ma non parliamo di queste cose!
Hai fatto bene a non bussare, ma già da venerdì tornerò alla routine di sempre: se avrai tempo, io di solito la mattina vado al mercato intorno alle 11, potremmo incontrarci lì anche solo per qualche minuto
Con affetto
Elly

Caroline tremante teneva la lettera in mano: era quasi ora di pranzo. Come spedirla? Non aveva francobolli e arrivare fino all’indirizzo da lui indicato era impensabile. Però lui non lavorava molto distante, un quarto d’ora di strada a piedi, aveva detto. Uscì di casa e scese le scale, affacciandosi fuori per cercare qualche bambino scapestrato a cui affidare la sua lettera, qualche spicciolo in tasca da dare come ricompensa. 
Con il muso fuori dalla porta, nei suoi abiti da cameriera, la gente che passava la guardava stupita, ma lei non ci faceva caso. Poi finalmente un gruppo di ragazzini di circa nove anni passò di là, le cartelle sulle spalle e l’aria libera di chi è appena uscito da scuola. Li chiamò, aprendo di più la porta e loro si voltarono a guardarla incuriositi.
«chi di voi vuole guadagnarsi qualche spicciolo per le caramelle?» uno, con i capelli neri, fu più svelto degli altri.
«io signorina! Che deve comprare?» lei scosse la testa.
«conosci la panetteria dei Kraus?» il bambino annuì confuso.
«puoi consegnare questa lettera a quel ragazzo che lavora lì? È alto, con i capelli scuri e si chiama Dimitri» gli porse la lettera e lui soppesò l’offerta.
«cinquanta centesimi?» lei lo guardò scandalizzata.
«dieci!» lui scosse la testa.
«sono troppo pochi dieci, non mi conviene fare tardi a casa per così poco»
«te ne do al massimo venti, ragazzino. E al ritorno. Ti aspetto qui, devi portarmi … una risposta di Dimitri» lui la guardò scandalizzato.
«per questo il prezzo aumenta!» lei alzò gli occhi al cielo, poi scese a patti.
«venticinque o non se ne fa più niente» lui annuì e corse via con la lettera, lasciandola lì ad aspettare fremente: aveva paura che Joseph tornasse prima di lui.
La risposta arrivò meno di un quarto d'ora venti dopo, probabilmente il ragazzo aveva corso come non mai per fare il prima possibile, le porse un fazzoletto maschile con le iniziali di Dimitri, prese i soldi, poi corse via con il fiato corto. Lei sorrise scuotendo la testa: cosa non si farebbe, per delle caramelle!
Si rigirò il fazzoletto tra le mani, affrettandosi a rientrare in casa.
Joseph arrivò poco dopo, e lei ringraziò il cielo che il ragazzino avesse tanta fretta: sarebbe stato un disastro, altrimenti. Elly stava cucinando fischiettando e saltò in aria quando l’uomo, con addosso degli abiti civili, aveva aperto la porta di scatto.
«Joseph! Mi hai fatto spaventare!» lui l’aveva ignorata.
«che c’è per pranzo?» chiese invece avvicinandosi ai fornelli e allungando il collo per vedere meglio. Si avvicinò a lei e, nel farlo, lei sentì un forte odore di alcol. 
«hai bevuto? Di nuovo? Non puoi andarci ubriaco al funerale, lo sai vero?» disse lei spazientita.
«non sono affari tuoi quello che faccio io, e di sicuro non sei nelle condizioni di darmi ordini» lei sbuffò davanti la sua aria impettita e arrogante.
«allora fai pure! Presentati ubriaco ad un funerale, di sicuro i tuoi superiori saranno estasiati di vederti indossare l’uniforme da ufficiale mentre fai puzza di alcol e barcolli» lui strinse gli occhi.
«non sono ubriaco. E comunque, a te che importa, se mi degradano?» lei si stupì. Già, che le importava? 
«niente, non mi importa niente. Era solo un consiglio …» disse, per poi distogliere lo sguardo e riportare l’attenzione alla zuppa di cavoli che cuoceva sul fuoco.
«Elly … a te che importa?» il suo tono era cambiato, sembrava quasi … disperato. Lei sussultò sentendosi chiamare in quel modo e rispose, cercando di trovare le parole giuste.
«te l’ho detto …» disse ferma in quella posizione, immobile, le spalle rivolte verso di lui.
«e se morissi? Se mi mandassero al fronte, a te, importerebbe?» lei si stupì di quelle parole, ma non si girò.
«no, Joseph. Non mi importa nulla di te» mentì. Certo, non era un brav’uomo, ma doveva a lui la vita, era affezionata al suo ricordo di infanzia. Non lo voleva morto, anche se non le sarebbe dispiaciuto non doverlo vedere mai più.
Lui non rispose, ma si allontanò e si sedette sul tavolo. Caroline non ebbe il coraggio di girarsi a guardarlo, ma presto le arrivò alle narici l’odore di nicotina: stava fumando.
«da quando fumi?» disse dopo un po’, quando mise in tavola il pranzo e si sedette di fronte a lui per mangiare. Lui sembrava assorto, fissava la zuppa senza vederla davvero, mentre con la mano reggeva una sigaretta.
«ne vuoi un tiro?» chiese, ignorando la domanda. Caroline scosse vigorosamente la testa: non le piaceva il fumo.
«Perché no, Elly? Siamo due estranei che si avvelenano la vita a vicenda, perché non appestare anche l’aria e il nostro stesso corpo?» tirò una sospirata che si dissolse nell’aria già pregna dell’odore acre di fumo.
«Se in tutto il mondo non c'è nessuno a cui importa di te, esisti davvero?»* lei lo guardò stupita espirare la sigaretta e le si strinse il cuore.
«oppure dici che se qualcuno mi odia è lo stesso? Alla fine, dicono che odio e amore siano le stesse facce di una stessa medaglia» la zuppa si stava raffreddando nei loro piatti, ma Caroline era ipnotizzata.
Ipnotizzata dalle sue labbra che lentamente aspiravano il fumo e lo lasciavano andare per poi muoversi e parlare di cose così … affascinanti. Era la parola giusta quella, Joseph in quel momento era affascinante. Sembrava preso da sé stesso come fino a quel momento non lo aveva visto. Capì che era quello il motivo per cui fumava e beveva tanto in quel periodo, non era la morte del cugino. Era qualcosa che aveva smosso la sua anima rattrappita, forse la coscienza risvegliata, che gli urlava qualcosa. Evidentemente però, Joseph non voleva ascoltare quella voce così dolorosa per lui e cercava di soffocarla in tutti i modi possibili.
«tu mi odi?» chiese quindi, alzando finalmente lo sguardo su di lei. Caroline sospirò.
«mi hai salvato la vita …» disse solo, non sapendo rispondere. Lo odiava? L’aveva strappata dai suoi genitori, l’aveva umiliata, picchiata, insultata … eppure era viva e in salute solo grazie a lui. Lo odiava? Non ne aveva idea.
«quindi non lo sai o semplicemente ti senti in colpa a dirmelo?» lei scrollò le spalle, sotto gli occhi grigi e attenti dell’uomo che aveva davanti.
«che importa Joseph? Che importa se ti odio, se ti voglio bene, se piangessi la tua morte o se invece ballerei? A te, che importa?» chiese ritorcendogli contro la sua stessa domanda.
«niente, non mi importa niente» disse lui guardandola negli occhi. La sua stessa risposta, la sua stessa bugia.
«allora perché ne stiamo discutendo?» lui non rispose, ma lasciò fermo il suo sguardo su Caroline per un secondo di troppo. Poi spense la sigaretta, prese il cucchiaio e lo immerse nella zuppa.
***
Joseph si guardava intorno, spaesato. La chiesa era piena fino a scoppiare di gente vestita rigorosamente di nero, uno sfondo sinistro su cui spiccava il rosso della bandiera nazista avvolta nella bara, posta al centro dell’altare. Erano anni che non entrava in quella chiesa, i suoi zii lo avevano salutato con un rigido segno del capo, pallidi ed evidentemente addolorati come mai prima. Probabilmente, anni prima, Joseph avrebbe gioito nel vederli così pallidi e smunti. Stessa cosa dicasi per sua cugina, che non faceva che piangere stringendo a sé il più piccolo dei suoi figli, ancora in fasce.
In quel momento però Joseph, con Caroline arpionata al suo braccio, si sentiva smarrito. Avrebbe dovuto ringraziare la ragazza, perché in tutto quel vorticare di gente in nero e fasce rosse, il suo piccolo braccio era l’unica cosa che sembrava legarlo alla realtà. 
Suo cugino era una persona orribile. Picchiava i bambini quando era piccolo, era egoista di natura, pensava più ai soldi che ad altro, non aveva un minimo di amor di patria ed era morto con un proiettile vagante senza nessun onore. Eppure … quella chiesa era strapiena. Aveva i suoi genitori e i suoi zii disperati, i suoi cugini, sua sorella e i suoi nipoti, sua moglie e i suoi figli che sembravano inconsolabili. E poi i vicini, dei clienti del suo vecchio mestiere, qualche soldato ferito che era stato suo compagno di battaglione, amici di infanzia, vecchi compagni di scuola, parenti di sua moglie … la chiesa era strapiena, eppure il morto era una persona orribile.
Come era possibile che lo amassero in tanti? Joseph non riusciva a spiegarselo, e forse nemmeno la giovane ebrea che gli camminava accanto. Ebrea. Che amara consapevolezza, quella. Dopo mesi, ancora non riusciva a farsene una ragione, era una delle verità che lo avevano ferito di più. Ebrea. L’unica persona in quell’universo per cui avrebbe potuto provare dell’affetto sincero era ebrea. Rabbrividì e cercò di pensare ad altro.
«ma non avevi detto che era odioso?» chiese lei stupita dall’aria sinceramente afflitta della gente.
«lo era … la gente tende a dimenticare certe cose quando ha davanti un cadavere» lei non sembrò convinta, ma non ribatté. Era splendida in quel vestito nero, i capelli rossi corti creavano un netto contrasto, la sua carnagione risaltava. Sapeva che quel vestito non era nel suo stile, ma gli piaceva come le stava, risaltava sui punti giusti, la faceva sembrare una donna desiderabile.
Una donna, che lui non aveva il diritto di desiderare, anche se … no, non doveva pensarci. Lei era ebrea, non la persona più importante di tutta la sua infanzia, era ebrea, non una bella donna, era ebrea, non una ragazza intelligente e caparbia. 
Si guardò di nuovo intorno nella grande chiesa. Erano giorni che pensava a come sarebbe stato il suo funerale, se fosse morto in guerra. Erano giorni che ci pensava, senza riuscire a darsi pace. Non aveva amici di infanzia con cui era rimasto in contatto, di Friburgo si era sentito solo con Elly, e lei era ebrea e aveva messo in chiaro quanto poco le interessasse. I suoi genitori erano morti e non aveva parenti eccetto quei zii che tenevano a lui davvero molto, molto poco. Non aveva fratelli o sorelle, veri amici se non qualche altro ufficiale con cui era più in confidenza. Non aveva moglie e figli, non aveva clienti, con i suoi vicini era stato sempre freddo e scostante, senza contare il fatto che era stato lontano da casa per più di un anno. Non aveva nulla di tutto quello che vedeva intorno a lui per un uomo di gran lunga inferiore a sé stesso. E non riusciva a spiegarsi perché. Nessuno lo amava, e lui non amava nessuno. Non aveva nessun genere di rapporto umano, i suoi sentimenti erano quasi tutti repressi dentro di lui, soffocati. Tutti eccetto la rabbia e l’odio.
Caroline gli stava accanto, la messa scivolava lentamente verso la fine e lui non vedeva l’ora di tornare a casa, togliere l’uniforme che con quel caldo pareva soffocarlo e mettersi davanti un bicchierino di whiskey, magari due. La testa gli scoppiava, la mano di Caroline sul suo braccio era l’unica cosa che riusciva a sentire per davvero. Lei ogni tanto si girava a guardarlo preoccupata. Lui faceva finta di niente, o almeno ci provava.
«tutto bene?» chiese lei infine, mentre erano seduti. Avrebbe solo voluto poggiare la testa sulle sue gambe e dormire …
«mi fa un po’ male la testa» bisbigliò invece lui. 
«l’odore di incenso e questo caldo poi non aiutano»
«la ferita?» chiese invece lei, andando a toccare un nervo scoperto.
«è quasi del tutto rimarginata» tagliò corto lui, senza riuscire a non pensare che per una che diceva che poteva anche morire era fin troppo apprensiva. Non riuscì a mascherare un sorriso, quando lei gli porse un po’ d’acqua che teneva nella borsa. Lui bevve avidamente.
«grazie …» disse solo, ridandole la borraccia e ottenendo un piccolo sorriso in cambio. 
Tornarono a casa a piedi e lui propose una deviazione, dicendo che dovevano comprare il pane per la cena e lì vicino c’era un panificio. Lei sembrava nervosa, agitata, ma lui non ne comprendeva il motivo: in fondo, dovevano solo comprare del pane. Non erano molto distanti da casa, lui aveva la testa in fiamme e nessuna voglia di decifrare il comportamento strano della ragazza. Arrivarono quindi davanti il panificio dei Kraus e lei si staccò dal suo braccio, per poi entrare sospinta dalla sua mano sulla schiena. Joseph era stupito da quel suo comportamento, che trovava assurdo, fino a che il ragazzo che lavorava lì, vedendo la sua cameriera, non si era illuminato.
«Elly?» aveva chiesto senza degnarlo di uno sguardo nonostante l’uniforme. Il locale era piccolo ma accogliente, il profumo del pane appena sfornato impregnava l’aria e faceva ancora più caldo a causa dei forni accesi nel locale adiacente. 
«ciao Dimitri» aveva pigolato lei con lo sguardo basso e le guancie rosse. Il panettiere aveva quindi – finalmente – rivolto a lui gli occhi.
«posso fare qualcosa per lei?» lui non aveva risposto alla domanda, ma li aveva guardati con sospetto.
«sei tu il ragazzo con cui è uscita sabato sera?» aveva invece chiesto, facendo diventare bordeaux Elly e arrossire lui, mentre la signora anziana che stava alla cassa alzava gli occhi sulla scena incuriosita.
«io … si, abbiamo preso un gelato. C’è qualche problema?» aveva detto con voce ferma, nonostante il palese disagio. Joseph indugiò un attimo, una rabbia cocente dentro. Non voleva che lei uscisse con un uomo, lo infastidiva, era una cosa che non sopportava. Ma nonostante questo, cosa mai avrebbe potuto dire a quel ragazzo? 
«no, semplice curiosità. Lei » e indicò Elly con gli occhi.
«non arrossisce spesso» aveva spiegato, fingendo indifferenza e distaccato. Poi aveva ordinato il pane, mentre quei due non facevano che mandarsi occhiate di sfuggita. Poi, nel momento stesso i cui Joseph stava girando i tacchi per andarsene, il ragazzo aveva preso coraggio.
«domani sera, possiamo uscire?» aveva chiesto a Elly, nonostante lui sapesse che la domanda era più per lui. La ragazza aveva guardato disorientata verso l’ufficiale, balbettando che non lo sapeva.
«no, domani deve stare a casa, mi dispiace. Sarà per la prossima volta» aveva risposto lui gelido, per poi trascinare via la cameriera.
«perché domani no? Cosa cambia?» aveva subito reagito lei, mentre l’irritazione prendeva il posto dell’imbarazzo. La sua reazione, se possibile, lo fece imbestialire ancora di più. 
«domani sera verrà a cena un mio amico, dobbiamo discutere di alcune cose. E io ho bisogno di una cameriera nel caso te lo fossi dimenticata» mentì spudoratamente.
«non è mai venuto a cena nessuno, e dovrebbe venire questo fantomatico amico domani? Non prendermi in giro, Joseph. Tu non hai amici, neanche tra i tuoi simili» aveva detto con disprezzo. Lui l’aveva ignorata, mentre la realtà di quelle parole gli affondava nell’anima. 
Avrebbe fatto di tutto per impedirle di vedere quell’uomo, a qualsiasi costo.

*citazione di Cassandra Clare -Le Origini

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Capitolo 8
*** Amanti ***


La guerra? Cosa era quel mostro che avanzava ogni notte nei sogni di Joseph e che l’uomo placava a colpi di whiskey e tabacco? 
Caroline, non lo sapeva di certo. Immaginava fosse brutta, ne aveva paura, ne era terrorizzata in realtà, ma non la conosceva. La sua vita era stata felice fino al 1932 o giù di lì, quando il movimento nazionalsocialista aveva preso piede e dopo era andata solo a peggiorare, ma di certo pur avendo vissuto la fame e la miseria, le umiliazioni e la paura, non aveva sperimentato la guerra. In quella calda estate del 1940 infatti a Berlino la guerra era solo un eco di gloria lontana, che faceva stringere al petto delle donne le foto di soldati, con paura e orgoglio, con la speranza che il fidanzato, il marito o il figlio tornassero presto a casa.
Caroline era estasiata, durante quei giorni. 
Il primo amore, che acceca tutto ciò che sta intorno e rende anche la vita più amara dolce aveva bussato alla sua porta con prepotenza e lei era stata più che felice di accoglierlo. 
Joseph? Era solo un uomo troppo solo con un serio bisogno di aiuto e non la riguardava. Che andassero al diavolo lui, le sue feste e i suoi ricevimenti, la sua aria imperiosa e i suoi bellissimi occhi grigi. Che andassero al diavolo anche i loro ricordi: quel bambino era morto, Caroline finalmente lo aveva capito: era il momento di smetterla di cercare negli occhi del bel soldato uno sprazzo del ragazzo che aveva conosciuto. 
La mente della ragazza, durante quei due mesi che avevano messo un punto all’estate, si era concentrata invece su un altro uomo, dagli occhi blu e i capelli scuri, dalle braccia forti e il sorriso facile. 
Dimitri non avrebbe potuto renderla più felice, di questo Caroline era consapevole. Si sentiva in colpa, lo aveva riempito di bugie e nonostate odiasse farl, ma sapeva che era necessario: se non per la propria sicurezza, almeno per quella di lui. A volte, quando pensava al pericolo cui lo esponeva, si sentiva dannatamente in colpa: ma non poteva farne a meno. Dimitri era la sua personale droga, l’unica cosa che l’aiutava ad andare avanti in un mondo altrimenti grigio; lui era quel fuoco sotto la cenere, la speranza che le cose effettivamente sarebbero andate meglio. Non riusciva a rinunciarci. 
Come poteva vivere senza il suo sorriso e i suoi sguardi pieni di ammirazione? Come, senza le sue battutacce, le sue mani callose che cercavano di sfiorarla ogni quando ce n’era l’occasione e le sue storielle divertenti? 
Caroline era fermamente convinta di meritare un po’ di felicità.
I due si vedevano spesso e per poco tempo. Di solito, lui la aspettava in un angolo a metà strada tra il suo panificio e il mercato in cui lei era diretta, alle dieci in punto. Quindi la accompagnava con le mani in tasca, sporco di farina dalla testa ai piedi e con un inconfondibile odore di pane sfornato, che da quel momento in poi Caroline avrebbe sempre riassociato a lui. Le buste con gli acquisti poi finivano sempre nelle sue mani che, biricchine, ogni tanto rubacchiavano un po’ di frutta tra le risate della ragazza. Poi si fermavano alle panchine nel parco lì vicino, si sedevano accanto e parlavano di tutto e di più … Caroline cercava di dire più verità possibile, quando parlava della sua famiglia e dei suoi sentimenti su di loro. Quando era arrivata a Berlino la mancanza le scavava una voragine nel petto e parlarne con lui era come mettere un balsamo su un’ustione. 
Ogni tanto la sera, quando Joseph usciva e lei intuiva non sarebbe tornato presto, scendeva e andava a trovarlo al panificio. Così cenavano per strada insieme, con il pane che restava e qualcosa che Elly recuperava da casa, ridacchiando come ragazzini, parlando con la bocca piena.
Poi andavano al cinematografo o a fare una passeggiata. 
Lo stesso fecero quella sera di inizio ottobre, mentre una pioggerellina leggera e incostante annaffiava i parchi e puliva le strade. Si erano rifugiati in un piccolo cinema, che dava un film d’amore. I due non avevano neppure visto che film fosse, perché si erano fiondati dentro ridendo per evitare l’acqua, poi Dimitri aveva pagato distratto i due biglietti. Si erano accoccolati accanto nell’ultima fila e avevano continuato a ridere fino a che nella sala non si erano spente le luci ed era cominciato il film.
Spalla contro spalla, Caroline avvertiva una tensione forte come mai prima. Il ragazzo aveva fatto passare il braccio dietro la sua schiena e l’aveva attirata verso di sé con un movimento deciso, seppur gentile. L’aveva avvicinata, invitandola con i gesti a posare la testa nella sua spalla, mentre la sua mano stringeva delicatamente il braccio di Elly. La ragazza, sorpresa, non si era opposta ma aveva fatto come lui implicitamente le chiedeva, mentre sentiva una felicità sconosciuta ed eccitante scoppiettare nello stomaco. Non erano mai stati così vicini, in nessun’altra occasione. Certo, lei gli aveva regalato qualche bacio nella guancia, veloce e delicata come una farfalla, ma mai si era avvicinata tanto. Baci, i suoi, che provocavano nel giovane una stretta allo stomaco e che gli facevano desiderare di più … Dimitri non voleva altro, non pensava ad altro che a lei, con i suoi capelli rossi e le sue lentiggini. 
Caroline durante il film era troppo concentrata sulla mano del giovane, che sul suo braccio si muoveva quasi impercettibilmente in disegni circolari, per prestare attenzione allo schermo. Voleva di più, desiderava almeno stringere una delle sue mani, sentiva quel desiderio crescerle dentro e fremeva per esaudirlo. Le mani di Dimitri la facevano impazzire. Non si sarebbe mai stancata di guardarle, quelle mani grandi e virili, piene di calli e con le unghia tonde e  corte. Quelle mani che odoravano di pane e che erano allo stesso tempo forti e gentili. Avrebbe voluto baciarle, ma quello sarebbe stato veramente troppo. 
Così si accontentò di afferrare l’altra mano del ragazzo e intrecciare le sue dita con quelle di lui: la sua mano in confronto spariva. Dimitri la guardò per un lungo istante, prima di districarsi dalla stretta delle sue dita e fare quello che lei non aveva avuto il coraggio di osare. Sollevò la sua mano e le baciò il palmo caldo, mentre una scarica elettrica sembrava pervadere il corpo della ragazza che lo guardava ipnotizzata. Ma lui non si fermò a guardare lo sguardo di Elly, fece invece scivolare le sue labbra sul suo polso, baciando proprio sopra quelle vene blu messe in bella mostra a causa della pelle chiara. Elly sentiva il suo cuore aumentare i battiti mentre le labbra di lui, così dannatamente morbide e leggermente umide, si posavano un’altra volta sulla sua mano, questa volta sul dorso. A quel punto la ragazza non poté non avvicinare la mano al viso di lui, sentendo sui polpastrelli ancora tremanti la barba corta e pungente di Dimitri, scura come i suoi capelli. Lui la guardava con un’intensità che non aveva mai visto prima, mentre i suoi occhi blu indugiavano sulle labbra rosse di rossetto di lei. Si avvicinò al suo viso, abbassandosi un poco e lasciando cadere il braccio dalle spalle della ragazza fino alla sua vita, per avvicinarla ancora di più a lui.
Che cosa sta succedendo? Chiedeva l’ultima parte del cervello di Elly rimasta attiva, senza però riuscire a dare una risposta. 
Poi però la luce si accese e loro fecero un salto indietro di un metro, rossi in viso come peperoni e tremendamente imbarazzati.
La gente cominciò a fluire fuori dalla sala, guardandoli ridacchiando, mentre loro non sapevano bene come comportarsi. Alla fine, la prima a riscuotersi fu Elly, mentre le ultime persone lasciavano la sala.
«io …» si schiarì la voce, con fare incerto.
«io dovrei andare a casa» disse alla fine con gli occhi bassi.
«certo … andiamo, ti accompagno» disse lui, per poi alzarsi con riluttanza. Lei lo seguì a ruota e lasciarono il cinema silenziosi e imbarazzati. Dimitri non faceva che maledire mentalmente quelle luci, mentre Elly si dava della stupida. Stava per baciarlo! Certo, lo desiderava, ed era ovvio che il ragazzo aveva nei suoi confronti quel genere di interesse, ma … lei non avrebbe mai potuto dargli nient’altro che amicizia. Come si sarebbe comportata quando lui avrebbe cominciato a parlare di matrimonio? Dimitri era un bravo ragazzo, aveva intenzioni serie con lei, Caroline ne era consapevole. Lei però, per quanto lo desiderasse, non poteva. Scacciò quel pensiero come si fa con un mosca fastidiosa. Quando quella guerra sarebbe finita, avrebbe potuto dirgli la verità, e allora forse … no, era una prospettiva troppo lontana per occuparsene. Doveva vivere alla giornata, senza andare troppo avanti con la testa. 
«ti ho spaventata?» Dimitri interruppe il flusso dei suoi pensieri con quella domanda timorosa.
«spaventata? No …» disse lei con sincerità.
«e allora perché sei così silenziosa?» chiese con un’espressione tra il colpevole e lo stranito. Lei fece un respiro profondo e in quel secondo prese una decisione drastica. Lo guardò piena di nostalgia.
«non voglio illuderti, Dimitri» lui strabuzzò gli occhi a quella risposta. 
«illudermi? Ma di che cosa stai parlando?» il ragazzo sembrava essere stato punto nel vivo e lei lo guardava affranta. Lei meritava la felicità, ma lui non meritava un’ingiustizia del genere. D’un tratto, si rese conto di quanto fosse stata egoista.
«sono un’egoista, ti prego di perdonarmi. Perché io ho sempre saputo che non possiamo stare insieme, eppure ho continuato a vederti perché …» finalmente trovò il coraggio di guardarlo negli occhi, che in quel momento erano sbarrati.
«perché sei la cosa più bella della mia vita. Dalla prima volta che ti ho visto, sei stato la cosa più bella che mi sia capitata da molti anni a questa parte, e non riuscivo a lasciarti andare. Sono un’egoista …» lui le si avvicinò.
«perché dovresti lasciarmi andare? Io non voglio. Io … so che sembra assurdo visto che ci conosciamo da così poco ma io … io mi sono innamorato di te» disse guardandola fissa negli occhi, mentre lei piangeva lacrime amare.
«non dovevi farlo Dimitri» disse, nonostante il suo cuore avesse perso un battito a quella notizia.
«perché no?» sembrava disperato. Lei si guardò intorno.
«andiamo in un posto più appartato» sussurrò con le lacrime agli occhi, così lui la trascinò in un vicolo buio, deserto.
«Dimitri, è pericoloso. Non posso dirti di più, ma questo paese per me è una trappola infernale e non appena la guerra finirà e apriranno le frontiere scapperò via. Non posso stare qui, capisci? Per questo non dovevi innamorarti di me» sussurrò nel suo orecchio, pregando che nessuno li vedesse.
«chi sei Elly?» chiese allora lui con il respiro affannoso.
«Dimitri, non chiedermelo, ti prego. La maggior parte delle cose che ti ho detto è vera ma a volte è meglio ignorare certi particolari. Pensa alla tua famiglia, loro hanno bisogno di te» sussurrò lei di rimando.
«io mi sono innamorato di te» ripeté lui spingendola contro il muro, furioso e distrutto.
«non mi importa chi sei, non dirmelo se non vuoi, ma resta con me» sussurrò ormai ad un palmo delle sue labbra.
«Dimitri è pericoloso» 
«io non so niente. So che sei la cameriera di un ufficiale, chi dovrebbe mai obiettare questo? Io non so niente» aggiunse lui, per rinforzare il concetto. Lei scosse la testa, così aggiunse:
«ascolta Elly, io sono una persona che usa la testa. E poi, avevo un fratello … diverso.Era autistico» sospirò con dolore. Non le aveva mai parlato di quel particolare, ed era chiaro quanto le costasse pronunciare quelle parole
«me lo hanno portato via. Non mi importa chi sei»* disse guardandola negli occhi verdi. A quel punto, fu lei a baciargli le labbra piene, mentre lui la spingeva ancora di più contro il muro assaporando la sua bocca salata per le lacrime.
***
Joseph girava intorno nella cucina, una birra in mano e l’espressione furiosa. Quella sera aveva finito prima alla riunione ed aspettava già da una mezz’ora buona quella disgraziata ebrea. Nervosamente, bevve un altro sorso del liquido ambrato. Dove diavolo si era cacciata? Non lo avrebbe mai ammesso, ma era preoccupato. Non gli era mai capitato di non trovarla a casa rientrando da lavoro e adesso che non c’era … la casa era troppo silenziosa. Quando aveva suonato e nessuno aveva aperto si era prima arrabbiato, poi aveva pensato che fosse successo qualcosa, che qualcuno l’avesse scoperta e catturata. Prima della paura per sé stesso, l’immagine della ragazza in mano ad altri soldati gli aveva offuscato la vista. 
Le sensazioni benevole nei suoi confronti, comunque, erano sparite non appena si era reso conto che non c’era traccia di lei nell’appartamento. Inoltre era quasi scattato il coprifuoco e lei non era ancora rientrata. Non aveva idea di dove si fosse cacciata, e il pensiero che potesse essere con Dimitri non lo sfiorò nemmeno, così convinto che lei avesse ubbidito al suo ordine di non vederlo più. 
Chiunque si sarebbe accorto che qualcosa era cambiato in lei, ma lui era stato troppo impegnato per rendersi conto dell’aria sognante della cameriera negli ultimi tempi. La morte del cugino lo aveva scosso nell’anima, gli aveva spiattellato in faccia la sua solitudine e la troppa mancanza di amore nella sua vita. Aveva bisogno di amici, di una donna fissa, di mettere su famiglia. Per la prima volta in vita sua, aveva il desiderio di diventare padre. Sentiva dentro sé un bisogno cocente di amore, che gli era stato negato quando era fin troppo giovane, e che, da bravo soldato, aveva finito per disprezzare. Ma ora tutto era cambiato. Lui sentiva che la sua non poteva essere chiamata vita, che l’alcool avrebbe solo finito per farlo ammalare, che le puttane erano solo dei piaceri momentanei e che al mondo non aveva un solo amico di cui potersi fidare. 
Così aveva deciso di darsi da fare, nonostante un occhio attento avrebbe facilmente capito che nelle compagnie che aveva deciso di frequentare avrebbe trovato serpi, piuttosto che amici, arrampicatrici sociali come mogli e, più in generale, persone con lo stesso ghiaccio nel cuore di quello che lui stava provando a sciogliere. Così partecipava a banchetti, la sera, aperti solo agli ufficiali, che aveva sempre snobbato a favore di una sana dormita. Aveva anche scoperto di divertirsi, giocando a poker con quei signori eleganti, fumando sigarette e bevendo champagne. Sapeva, in cuor suo, che il ghiaccio non se ne sarebbe andato, ma si illudeva che quella fosse un’ottima soluzione. Adorava sedersi al tavolo da gioco e scommettere, era bravo e brillante e spesso riusciva a vincere. Il modo in cui parlavano quei signori placava tutti i dubbi che gli erano sorti vivendo a stretto contatto con quell’ebrea. Il fhurer non aveva torto, era impensabile, e a lui … come era mai potuto venirgli in mente una cosa simile? Certo, Elly era una bella ragazza, ma aveva capito anche il perché: tutto faceva parte dei piani di conquista degli ebrei del mondo. Lo scopo di quella ragazza era tentarlo, per poter corrompere la sua razza con un essere inferiore, per distruggere l’umanità. Ebrei, marxisti, il cancro della società. Era rassicurante sentirlo ripetere in quelle serate, gli permetteva di non impazzire, di mostrarsi duro con lei quanto meritava, di non cedere ai propri istinti, che si facevano sentire prepotenti ogni qual volta la guardava. Era solo un dannatissimo espediente giudaico! Ora, ne era sicuro. 
E le donne che incontrava in quei posti! Ah le donne … erano angeli usciti dall’inferno, con abiti lunghi e argentati e spacchi troppo profondi che mostravano le cosce e che lo facevano fremere. I rossetti rossi che lasciavano impronte nei bicchieri, le labbra che aspiravano il fumo da sigarette sottili . Erano scintillanti predatrici e lui si divertiva un mondo nel vederle all’opera. Con i loro capelli biondi, la pelle di porcellana per il trucco e le maniere eleganti, mostravano chiaramente il divario tra una vera donna ariana e la zotica che invece aveva in casa.
A volte aveva persino dato qualche ricevimento nel suo appartamento, niente di maestoso, perché la mancanza di spazi e servitù non gli permetteva più di una ventina di invitati. Era comunque stato un modo per integrarsi meglio in quell’ambiente di squali in cui si sentiva tanto a suo agio. Elly in quelle occasioni aveva dovuto sgobbare per giorni interi, tra pulizie e cucina, per poi correre avanti e indietro per accontentare i suoi ospiti. 
Joseph sapeva che quelle persone la spaventavano, faceva di tutto per passare inosservata, senza rendersi conto che la gente non la guardava neanche per sbaglio. Ma Joseph sapeva che lei aveva la consapevolezza che tutti in quella stanza, se avessero saputo la sua vera identità, non avrebbero esitato un momento prima di premere il grilletto. E così era ancora più divertente, perché godeva della tortura che le infliggeva, come prezzo da pagare per il tormento che invece lei arrecava a lui. Era un prezzo piuttosto basso in effetti, ma Joseph non avrebbe saputo fare di più: era lei l’essere malefico, non lui. 
L’essere malefico in questione, comunque, quella sera gli stava dando fin troppa ansia. Non si era neppure spogliato del tutto, doveva sapere dove diamine era stata e perché non gli aveva chiesto il permesso. Si affacciò alla finestra, aspettando il suo ritorno, sentendosi ridicolo, ma consapevole che c’era qualcosa che puzzava di marcio.
Spuntò poco dopo, quella testa rossa, ma quello che stupì di più il soldato fu il ragazzo che gli stava accanto. Camminavano fianco a fianco, forse un po’ imbarazzati e quando quello disse qualcosa, forse una battuta, lei alzò lo sguardo al cielo ridendo e lo vide. Lui le sorrise sadico, le mani incrociate sotto il mento e un luccichio negli occhi che, se lei lo avesse visto, le avrebbe messo paura. Caroline si paralizzò e il ragazzo seguì il suo sguardo fino a lui, poi lo riportò su di lei. Le disse qualcosa, ma lei scosse la testa, poi lo salutò con un breve bacio sulla guancia e si affrettò verso la porta di casa. Joseph aveva guardato la scena con gelo, mentre sentiva indistintamente la voglia di scendere giù e fare a pezzi quel bel faccino.
È un pericolo. Si ripeteva. Doveva stare lontano da loro, senza contare che lei, da ebrea quale era, non poteva contaminare la sua razza. Non poteva stare con un ariano: Joseph si rifiutava categoricamente di essere complice dei complotti di quegli esseri immondi. Per quanto non riuscisse a lasciarla andare, lei era ebrea, uguale ma diversa rispetto a tutti gli altri. Diversa, ma solo per lui. Joseph si staccò dal davanzale per aprire la porta, poi si piazzò sull’uscio aspettando l’arrivo della ragazza. Quando Caroline lo guardò, bianca come un cencio e tremante provò debolmente a scusarsi.
«Joseph io …» lui la interruppe, spostandosi dall’uscio.
«entra» ordinò con tono perentorio e lei non poté fare altro che deglutire e seguirlo dentro. La porta si chiuse con un tonfo e lui si diresse in cucina lungo quel corridoio che mai le era sembrato più lungo. Una volta entrati, Joseph chiuse anche quella porta poi la guardò.
«siediti» lei ubbidì tremante. Non voleva peggiorare la situazione ed era tremendamente spaventata. Joseph prese una sedia, la girò e si sedette con le gambe aperte davanti a lei, appoggiandosi con le braccia allo schienale.
«ti avevo detto che non dovevi vederlo più?» chiese lui con voce pacata, assaporando la paura nel suo sguardo così come si fa con un vino pregiato.
«si» rispose lei con voce flebile.
«ti avevo dato il permesso di uscire?» chiese quindi stringendo gli occhi. Lei scosse la testa con rassegnazione.
«abbiamo appurato che tu qui non sei in villeggiatura e che mi appartieni?» le si arrossarono le guancie, forse per la rabbia.
«no, questo no. Io non appartengo che a me stessa» disse, seppur spaventata in un moto di orgoglio.
«lo sai, vero, che questa è una bugia? Questa casa, è mia. Il cibo che mangi, i vestiti, persino l’acqua. È tutto mio. E finché vorrai stare qui, con questi documenti falsi che ti permettono di scorrazzare in giro e di inquinare la mia razza, sarai mia e farai come dico io, Caroline. È un concetto che avevamo già chiarito» lei non rispose e lui si alzò.
«ora capisco che sei un po’ tarda, ma la legge non ammette ignoranza, neanche in questa casa. Convieni che ti meriti una punizione?» chiese malevolo. Lei non rispose, consapevole che ogni cosa che avrebbe potuto dire le si sarebbe ritorta contro. Joseph le si avvicinò e le afferrò il viso, stringendola in una morsa ferrea e tutt’altro che gentile.
«convieni?» chiese quindi, mentre già gli occhi di Caroline si riempivano di lacrime. Annuì, per compiacerlo, sperando che la cosa sarebbe stata meno terribile allora. Lui si allontanò da lei di poco con un sorriso sadico in volto. 
«siamo d’accordo allora. Spogliati» lei strabuzzò gli occhi alle sue parole, credendo di aver capito male.
«c-come?» balbettò incerta.
«spogliati. Togliti i vestiti. Oh, non temere: non voglio vederti nuda. Solo in intimo» sorrise di nuovo, mentre lei sentiva le gambe farsi gelatina.
«Joseph, ti prego …» uno schiaffo le arrivò in pieno viso, facendole girare la faccia.
«non chiamarmi Joseph. E ti avverto, se non fai come ti dico, sarà peggio. Ti ho fatta svenire una volta, non vedo perché non dovrei farlo di nuovo» le disse. La rabbia lo stava mangiando vivo e non c’era nessun modo migliore di quello per scaricarla. In realtà, le avrebbe fatto male, ma non come le volte precedenti. Questa volta, aveva deciso, basta calci e schiaffi. L’avrebbe umiliata, le avrebbe fatto capire, magari per una volta per tutte, che lei lì dentro aveva pari diritti di una formica. Si tolse la cinta dai pantaloni mentre la ragazza tremante sbottonava la camicetta che indossava.
Lasciò scivolare la gonna sulle gambe, guardandolo, nella speranza che lui cambiasse idea. Caroline aveva gli occhi pieni di lacrime quando infine si ritrovò seminuda con il suo sguardo bramoso addosso. Lui la osservava in silenzio, cercando di contrastare l’eccitazione crescente. Era bella, Dio se lo era. E lui l’avrebbe punita. Per un istante però, guardando quella figura cercare di farsi piccola piccola, per il freddo e la paura, con gli occhi pieni di lacrime e i bei capelli tranciati da lui qualche tempo prima, ebbe pietà. Pensò che davvero quello fosse abbastanza per una persona, che dopotutto l’aveva umiliata fin troppo. Poi però il suo sguardo cadde sul corpo scoperto di lei, e il suo corpo si riscaldo in modo tanto improvviso e prepotente che fu costretto a girarsi, dirigersi verso il lavandino e mettere la cinta sotto l’acqua corrente. Sentiva il suo sguardo timoroso su di sé, e non sapeva se sentirsene compiaciuto o indifferente. 
«metti le mani sulla sedia» gli andò dietro e parlò alitando sul suo collo scoperto.
«ti prego …» pigolò, provando a impietosirlo un’ultima volta.
«ho detto, metti le mani sulla sedia. E conta» singhiozzando, fece come gli diceva.
La sua cinta la colpì sulle natiche, facendola urlare.
«conta, ho detto» singhiozzando riuscì a malapena a scandire il primo numero, e allora arrivò il secondo.
La carne bruciava, ma mai quanto l’orgoglio rattrappito che si portava dentro. Si sentiva svuotata sempre di più, a ogni nuova cinghiata, ad ogni altra ondata di dolore, ad ogni altro numero pronunciato tra le lacrime.
E poi arrivò a venti.
Non c’era sangue ma Joseph poteva vedere bene quanto era arrossata la sua pelle. Si fermò soddisfatto, arrotolando la cinghia in una mano senza smettere di guardarla mentre in quella posizione umiliante piangeva lacrime amare.
«puoi alzarti, ora» lei fece come diceva, poi a passi piccoli e senza guardarlo, andò nella cameretta e si chiuse dentro. Dalla cucina, si sentiva il suono del suo pianto. Joseph guardò la sedia, mentre le immagini di ciò che aveva fatto gli scorrevano davanti agli occhi.
Era giusto comportarsi così, era il suo dovere.
Allora perché diavolo si sentiva così male?

*Lo fecero davvero anche se non è tra i crimini più famosi compiuti dai nazisti. Il programma si chiamava Aktion T4 e mirava ad eliminare le "vite non degne di essere vissute", perchè costavano troppo allo Stato

Sono stata dannatamente indecisa su questo capitolo... non sapevo se fosse meglio tagliare l'ultima parte o lasciarlo così com'è ... ma è in questo modo che l'avevo immaginato ed è così che deve essere anche se per me è stato dannatamente imbarazzante da scrivere, più di una qualsiasi scena di sesso. 
Spero lo apprezziate :)

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Capitolo 9
*** Nemici ***


Alzarsi e servire la colazione a Joseph quella mattina per Elly non fu affatto facile. Era ancora un po’ dolorante, ma quello che bruciava davvero era qualcosa di più intimo, più intrinseco nel suo animo. Si sentiva lacerata, soprafatta, umiliata e soprattutto impotente. E lo odiava. Odiava dovergli la vita, dipendere da lui, dovergli obbedire, sottostare a quello che lui diceva. Ogni volta che pensava a quel viso, a quella voce, a qualsiasi cosa gli ricordasse Joseph, un conato di nausea la investiva, odio bollente e profondo. Desiderava più di ogni altra cosa alzarsi di notte, afferrare un coltello e piantarglielo nel petto. Ma poi? Se anche avesse preso i falsi documenti, troppe persone ormai sapevano che era la sua cameriera: l’avrebbero presa e uccisa. E in ogni caso, dopo non avrebbe avuto dove andare, neanche rubando tutti i suoi soldi. No, era costretta a restare lì se voleva vivere, se voleva continuare a vedere Dimitri, se voleva restare al sicuro. 
Il prezzo da pagare però, era altissimo per lei.
Quella mattina non lo guardò in faccia, mentre gli serviva una colazione mezza cruda e per poco non gli versava addosso il caffè. Lui non commentò, la seguiva con lo sguardo in cerca di qualche reazione che non tardò ad arrivare. Caroline non riusciva più ad ignorarlo come aveva fatto negli ultimi tempi, doveva in qualche modo espellere quel sentimento bruciante verso l’ufficiale. 
«la colazione è di vostro gradimento signore?» disse con aria di sfida e sputando quel “signore” come se fosse un insulto. Lui la guardò senza ribattere, turbato dagli avvenimenti recenti. Si rendeva conto che la sera prima aveva esagerato, che aveva perso il controllo, nonostante agli occhi di lei era parso calmo e gelido.
La verità era che si era preoccupato per lei, e vederla tornare con quel ragazzo con cui le aveva espressamente proibito di stare, gli aveva dato alla testa. 
Il suo corpo poi, coperto solo dalla biancheria intima, lo aveva infiammato tanto che lui stentava ad ammetterlo persino con sé stesso. 
Quella notte Joseph non aveva chiuso occhio, tormentato dalla colpa e dal desiderio. Alla fine, aveva ceduto all’istinto di pensare a lei in un modo che fino a quel momento si era proibito a causa delle sue convinzioni. Immaginò di poter toccare quella pelle bianca, di posare le sue labbra in quel corpo e di privarlo di ogni qualsiasi altro lembo di stoffa. Immaginò come sarebbero potuto essere ascoltare i suoi gemiti, e le piccole mani di Caroline sul proprio corpo, tra i suoi capelli, nel suo collo e poi … la mano di Joseph era scesa quasi di volontà proprio lì dove pulsava forte il suo desiderio, prova di un peccato non consumato, l’evidenza che il suo corpo la desiderava. Non pensò neppure per un momento al fatto che lei fosse ebrea, mentre faceva scivolare la sua mano in un movimento familiare ma a cui non era più avvezzo da tempo, immaginando fosse la mano di lei a farlo, il suo fiato quel soffio di vento freddo che gli aveva solleticato la faccia e gli occhi chiusi, il suo corpo le lenzuola che lo avvolgevano.
Lo aveva desiderato così tanto, che quando alla fine il suo seme si era riversato su di lui e sulle lenzuola, era stato deluso di non trovarla lì.
 Joseph quasi era arrossito come un ragazzino quando l’aveva vista quella mattina, ripensando alla notte precedente e al modo in cui l’aveva pensata. 
Quando poi lei era stata sgarbata con lui, gli aveva servito una colazione improponibile, e lo aveva velatamente insultato, aveva deciso di lasciare correre, nonostante fosse evidente che cercava lo scontro.
«ho finito qui, o devo pure lustrarle le scarpe?» aveva chiesto, prima di sparire in bagno senza neppure ascoltare un’eventuale risposta.
«questa divisa è l’emblema della sua grandezza signore» aveva detto con finta ammirazione. E lui sapeva che la considerazione che Caroline aveva dei soldati era al di sotto dello sterco di cavallo.
«mi raccomando svolga bene il suo utilissimo lavoro. Sono sicura che se rovinerà un altro paio di famiglie, il mondo sarà un posto migliore» aveva detto infine prima che lui uscisse di casa con pungente ironia. 
Joseph aveva lasciato perdere, nonostante una parte remota del suo essere gli dicesse che un’ebrea non avesse alcun diritto di sentirsi offesa per una punizione più che legittima. E poi, non le aveva fatto neanche così male, anche se aveva intenzionalmente colpito il suo orgoglio.
Per lo meno così non dovrebbe vedere più quel bell’imbusto, pensò scoraggiato. Sapeva di aver esagerato, ma si diceva che c’era un motivo alle sue azioni e che lei doveva smetterla di fare di testa propria.
Caroline invece quella mattina sfogò tutta la sua rabbia nella casa che apparteneva a lui, e a lui soltanto. Rovesciò sedie, ruppe due bicchieri e un piatto, tirò posate. Poi andò nella stanza di Joseph e come una furia spalancò il cassetto in cui c’erano le sue lettere e le sue foto. Non c’era più andata da quando lui l’aveva scoperta, da allora aveva smesso di guardarlo come una persona con qualche speranza di redenzione. Con rabbia prese tutte le lettere che gli aveva scritto e le portò in cucina. Le buttò dentro una pentola, poi prese la scatola dei fiammiferi. Si muoveva in fretta, con gesti a scatti, arrabbiata come un animale ferito, calpestando incurante i cocci di vetro e porcellana. Ruppe due fiammiferi per la fretta, poi finalmente riuscì ad accenderne uno. La fiammella folgorò prima rossa, e rimase a galleggiare nella sua mano per un attimo che parve infinito. Poi cadde nella carta ingiallita dal tempo, mentre l’inchiostro scritto con tanto amore si scioglieva nell’odio dell’età adulta. Così Caroline cancellava il candore della loro infanzia, i loro giochi, il loro essere affiatati. Jo non era solo morto, non era mai esistito. All’immagine del bambino si sovrappose quella del soldato, mentre le fiamme mangiavano l’ultimo residuo di affetto che le rimaneva per lui.
Nella pentola rimase solo cenere, e l’angolo bruciacchiato di una sua foto. E Caroline la lasciò al centro del tavolo, come un re su un trono, nelle desolazione di quella cucina. Poi prese il cardigan, sistemò i capelli con le mani e uscì dall’appartamento. 
Doveva vedere Dimitri, e subito.
Lo aspettò al loro solito angolo, impaziente, la faccia stravolta e un gran desiderio di mettersi a piangere come una bambina. Era scombussolata come mai le era capitato prima. Essere stata umiliata in quel modo, per una ragione tanto banale, dall’uomo che aveva giurato di proteggerla, l’aveva fatta crollare. Aveva sopportato mille angherie da quando il nazionalsocialismo aveva preso il potere, si era ritrovata a fare la cameriera, dove l’avevano sempre trattata come un’appestata, dei soldati le avevano alzato le mani, era stata costretta a mangiare le cose peggiori e ad abbassare gli occhi quando qualcuno la scherniva. Ma niente, niente era stato mai paragonabile all’umiliazione della sera prima. Lo aveva pregato di non farlo, lui l’aveva ignorata. L’aveva costretta a contare i colpi di cinghia che riceveva, le aveva dimostrato che lei era assolutamente niente. 
Dimitri sbucò dalla stradina con passo svelto e un’espressione preoccupata. Aveva capito che lei avrebbe passato i guai quella sera, ma non immaginava fino a che punto. Il ragazzo non era stupido, aveva capito che in qualche modo lei era considerata una nemica dello stato. Poteva essere un’ebrea, una comunista, figlia di un traditore, o mille altre cose. Non gli importava granché, non condivideva gli ideali del partito e se era rimasto buono era solo per la propria famiglia. Quello che però non riusciva a capire era cosa c’entrasse quell’ufficiale con lei. Che non sapesse nulla, era impensabile. Dimitri aveva capito che in realtà, in qualche modo contorto, lui la proteggeva: dopotutto, la cameriera di un ufficiale era insospettabile.
Dimitri arrivò davanti a lei con quei pensieri in testa, ma non ebbe nessun modo di esprimerli, perché la ragazza gli buttò le braccia al collo e iniziò a piangere a dirotto.
Le gente li osservava stupita, così lui si affrettò a trovare un posto in cui sedersi e farla calmare. Lo trovò nel parco in cui andavano sempre dopo il mercato, su una panchina un po’ isolata.
La trascinò fino a lì imbarazzato dallo spettacolo che stavano dando e sempre più arrabbiato con quell’uomo. Che le aveva fatto? Perché non la smetteva di piangere e sembrava tanto disperata? Che l’avesse picchiata? Violentata? Umiliata? Non ne aveva idea, e il terrore che le avesse fatto qualcosa di terribile lo invase mentre guardava i capelli rossi della ragazza che aveva il viso aggrappato al suo petto. La teneva stretta, accarezzandole la schiena e i capelli nella speranza che si calmasse. 
Smise di singhiozzare dopo un po’ ma rimase in quella posizione, accoccolata nel suo petto, al sicuro tra le sue braccia, tra quell’odore di pane che lo caratterizzava e le carezze lievi che l’avevano rilassata.
Poi, parlò.
«non ne posso più, Dimitri. Non ne posso più» disse solo, ancora in quella posizione. 
«che ti ha fatto?» chiese lui rigido, trattenendo il respiro. Lei tentennò un attimo. Non voleva dirgli cosa le aveva fatto in realtà, la imbarazzava troppo, non voleva ripeterlo e poi gli avrebbe fatto capire che lei non era solo una cameriera in quella casa.
«mi ha umiliata … in tutti i modi possibili» disse solo mentre altre lacrime le scendevano dal viso.
Io non piangevo mai, guarda come mi ha ridotta, pensò in un moto di rabbia. Così fece un respiro profondo e cercò di smetterla con quelle lacrime. 
«ti ha … toccata?» chiese lui con voce tremante. Lei aggrottò le sopraciglia.
«che intendi per toccata?» chiese, senza guardarlo negli occhi.
«lui …lui … Dio Caroline ti ha forzata a fare cose che non volevi fare? Ha provato a … a … insomma dai, hai capito» chiese lui, rosso e imbarazzato, ma comunque tremante per la risposta. Lei scosse la testa lentamente, con un sorriso amaro: Joseph non l’avrebbe mai toccata in quel modo, almeno di questo era sicura: aveva troppa paura di contaminare la sua purissima razza ariana.
«ti ha picchiata?» chiese quindi Dimitri, sollevato da quella notizia, ma ancora parecchio su di giri. Lei annuì lentamente, gli occhi di nuovo lucidi.
«non vuole che ci vediamo. Non chiedermi perché, non riesco a capirlo, ma non vuole» 
«Elly … se non vuoi più stare con lui, se ti alza le mani, ti umilia e ti rende la vita così impossibile, perché non ti licenzi?» lei lo guardò negli occhi e scosse la testa.
«non posso licenziarmi, non posso andarmene …» disse con una nota di disperazione nella voce.
«devo restare lì almeno fino a che la guerra non finirà … poi lascerò questo paese» disse in un sussurro a malapena udibile da Dimitri, le labbra nascoste nel suo petto. Lui mise la faccia nei suo capelli.
«lui sa?» chiese anche lui sussurrando, intuendo già la risposta. Lei annuì, impercettibilmente.
«ti ricatta?»
«più o meno. Ma gli devo la vita. Ti prego, non chiedermi di più» Dimitri sospirò a quella risposta così enigmatica e le si allontanò.
«Dimitri, stare con me è pericoloso. Non credo che arriverebbe a minacciarti però … sarebbe meglio se lasciassi perdere» disse spaventata. Alzò il viso, per guardarlo negli occhi. Lui la guardò scuotendo la testa.
«vuol dire che ci vedremo solo così … non se ne accorgerà» disse apparentemente calmo.
«Dimitri, io non voglio avere te e la tua famiglia sulla coscienza»
«infatti non ci avrai. Mi hai detto come stanno le cose, più o meno. Ho fatto la mia scelta, Elly: voglio stare con te» lei lo guardò quasi con disperazione.
«è una cosa senza futuro»
«voglio stare con te»
«se sapesse che tu sai queste cose, ti ucciderebbe» esagerò.
«voglio stare con te» lei scosse la testa.
«sempre se tu lo vuoi, Elly. Sei disposta a subirne le conseguenze?» 
«qui l’unico che subirebbe le conseguenze sei tu. Lui, per un motivo o per un altro mi tratterà sempre così,  ma non mi farebbe mai del male seriamente. Io sono relativamente al sicuro. Sei tu che rischi tutto» disse lei con una nota di panico nella voce. Lui le baciò la fronte, in un gesto spontaneo che la fece trasalire.
«siamo d’accordo, allora» disse con un sorriso, gli occhi blu fissi sul suo viso. Lei lo abbracciò di nuovo, e rimasero lì ancora un po’. Stavano in silenzio ma non c’era imbarazzo, era più un angolo di paradiso, di pace, in cui non c’erano bisogno di parole. 
Quando tornò a casa Caroline si guardò intorno sospirando. La cucina era un disastro, strapieno di cocci di vetro e porcellana, cenere e puzza di bruciato. Rassegnata, risistemò il caos nel pavimento, spazzando via i piatti rotti e i bicchieri frantumati. Rimise al loro posto le cose ancora intere, ma non toccò la pentola con i residui delle sue lettere sul tavolo. Non fece altro, non pranzò, non risistemò nulla, non ascoltò la radio, né prese in mano qualcuno dei libri di Joseph. Stette a letto, le ginocchia al petto e un sonno disturbato che si interrompeva spesso. Quella notte non aveva chiuso occhio e voleva recuperare un po’, anche se con scarsi risultati. Aveva la nausea per il nervosismo, era preoccupata per Dimitri e sperava che qualche carrozza o auto mettesse sotto Joseph, facendolo fuori una volta e per tutte. 
Ma lui tornò a casa, puntuale come un orologio svizzero, senza avere la più pallida idea di cosa lo aspettasse. Trovò la casa silenziosa e buia come una tomba, e per poco ebbe paura che lei se ne fosse andata. Sarebbe stata una mossa stupida, ma non improbabile. Dopotutto, aveva i documenti che le servivano per non essere arrestata, in casa c’era qualche spicciolo e non era improbabile che preferisse l’ignoto a lui. Gli mancò il respiro pensando a quell’eventualità.
«Caroline?» chiamò incerto. Nessuna risposta. Avanzò nel corridoio a grandi falcate.
«Caroline?» chiamò, alzando il tono. La cucina era buia come il resto della casa, le tende della finestra tirate. C’era una pentola sul tavolo. La guardò aggrottando le sopraciglia e gli si avvicinò. Dentro c’era cenere di carta. 
«Caroline?» disse, guardando meglio dentro la pentola, cercando di capire di cosa fosse. C’era un angolo ancora intero. Era una foto.
Una foto? Afferrò quel lembo di carta bruciacchiato e con sguardo inorridito si rese conto di cosa si trattava. Era la foto che lei gli aveva spedito quando aveva compiuto dieci anni, insieme alla lettera con cui lo ringraziava per il regalo che aveva ricevuto. 
Le lettere.
Guardò quella cenere scioccato, immobile. Sono le sue lettere.
Un pugno nello stomaco avrebbe fatto meno male. Le aveva conservate per così tanto tempo … erano le prove che qualcuno gli aveva voluto bene, che lui aveva ricambiato. Che anche lui una volta era stato una persona normale, che aveva provato sentimenti. La sua umanità, la parte migliore di sé stesso, era in quelle lettere bruciate davanti ai suoi occhi.
«Caroline!» urlò spazientito.  Lei non rispose, ma adesso Joseph era sicuro che fosse in casa. Un gesto di rabbia simile poteva essere dettato solo dall’impotenza. Se fosse scappata, non avrebbe nemmeno pensato a fare una cosa del genere.
Guardò tremante un’ultima volta la carta bruciata, poi si diresse verso la porta della stanzetta in cui dormiva e la spalancò con furia. La ragazza era rannicchiata nel letto con i capelli sparsi ovunque e il viso nascosto nelle braccia e coperto dal lenzuolo. A guardarla così, si sentì un mostro, mentre tutta la sua rabbia veniva spazzata via.
«Caroline …» addolcì la voce. Un singhiozzo scappò da sotto il lenzuolo.
«vattene Joseph. Và via» gli disse. Aveva la voce rauca e ovattata per il lenzuolo che si teneva ostinatamente addosso. Lui rimase immobile davanti la porta, incerto su come comportarsi.
«se tu mi avessi ascoltato non sarebbe successo niente di tutto questo» disse alla fine quasi con un tono di scusa, guardandosi i piedi. Lei non rispose, ma si rannicchiò di più su sé stessa.
«vattene Joseph» lui sospirò e si sedette sul letto. La rabbia per le foto bruciate era stata sostituita dal senso di colpa. Aveva superato il limite di sopportazione della ragazza, se ne rendeva conto.
«hai bruciate le lettere» disse. Non aveva la voce arrabbiata, solo stanca. Sembrava stanco della vita stessa, di sé stesso, di quella situazione. Sembrava volesse solo sparire nel nulla, essere inghiottito dall’universo e smettere d’esistere. Lei uscì la testa dalle lenzuola e lo guardò con gli occhi rossi gonfi di lacrime e d’odio.
«le avevo scritte per un ragazzino che non esiste più. Non erano per te, non ti spettavano, non le meritavi. Erano le mie lettere, e decido io dove devono stare» lui la fissò per un secondo, poi abbassò lo sguardo.
«no, non è vero. Volevi solo ferirmi in qualche modo» osservò lui con amarezza.
«se ti ho ferito, felice di averlo fatto. Ma non era per quello. Non erano tue, erano mie. Forse, le uniche cose davvero mie in questa casa» poi, guardandolo negli occhi, continuò il suo monologo.
«Una volta mi hai chiesto se ti odiavo e io non ti ho risposto: mi avevi salvato la vita, mi sentivo un’ingrata a dirti la verità. Ma sai Joseph? Io ti odio, come odio quel Fhurer che tanto decanti. Quando ti guardo è come se guardassi il diavolo. Io vorrei solo ucciderti, cancellarti da questa terra, che senza di te sarebbe un posto migliore! Ma non preoccuparti, non lo farò, continuerò a piangere e a odiarti, perché purtroppo ho bisogno di te per sopravvivere. E odio anche questo!»  lui barcollò un po’ di fronte a parole così dure. Lei aveva gli occhi rossi di pianto spalancati e sembrava sul punto di una crisi di nervi. 
Joseph non riuscì a sostenere il suo sguardo, così lo punto sulla vecchia coperta stesa sul letto.
«non dovevi disobbedirmi» disse solo, quasi in preda al panico.
«Io ho dovuto lasciare la mia famiglia per venire a stare con te, che non fai altro che disprezzarmi, darmi ordini e punizioni … e poi, quando trovo una cosa bella, un motivo per sorridere, tu vuoi portarmelo via! Credevi davvero che ci sarei stata lontana solo perché tu me lo avevi ordinato? Credevi che avrei rinunciato all’unica cosa bella della mia vita solo per un tuo capriccio?» lui sollevò lo sguardo sui suoi occhi.
«dovevi farlo, Caroline. Non puoi vederlo, diamine, non è tanto difficile da capire! Non è solo pericoloso, è proibito dalla legge! Io non aiuterò un’ebrea a contaminare la mia razza!» lei spalancò gli occhi.
«a contaminare la tua razza? Pericoloso? Guarda che non sono tutti pazzi come te, Joseph! È una persona con cui sto bene, e lui sta bene con me!»
Joseph dovette trattenersi dal lanciarle uno schiaffo e andò per ribattere, ma lei lo interruppe.
«cosa c’è vuoi alzarmi le mani? Da quando è un problema? Sei un uomo senza onore, questo lo so già»
«Caroline, non passare il limite» l’avvertì.
«tu lo hai già passato! Hai passato il mio limite di sopportazione alle tue stronzate, ai tuoi cambi d’umore, ai tuoi capricci! Io voglio andarmene»
«non te ne andrai» rispose lui tranquillo con un ghigno.
«cosa? Si che lo farò!»
«non lo farai. L’unica cosa che ti è rimasta, è il desiderio di sopravvivere. Fai tutto in funzione di quello, e il modo migliore per farlo è stare con me» disse amaramente. Caroline era fuori di sé dalla rabbia, ma lui continuò a parlare, carico di amarezza, rabbia, delusione e anche un bel po’ di senso di colpa: qualsiasi cosa facesse era sbagliata.
«lo hai detto pure tu, poco fa. Non te ne andrai» aggiunse sicuro. Lei si alzò dal letto e lo guardò con occhi spiritati.
«fuori di qui, Joseph» urlò. Lui ghignò alzandosi.
«che compro per cena? Perché dipendi da me anche per quello»
«fuori ho detto!»
«ah non vuoi nulla? Beh peggio per te, mia cara. Quando vorrai qualcosa, dovrai chiedermela. E siamo sempre punto e a capo: non ti lascerai morire di fame, prima o poi cederai. Il tempo di leccarti le ferite»
«Joseph, esci» lui la guardò un’ultima volta, poi uscì e si chiuse la porta alle spalle. Arrabbiato, recuperò la chiave della stanza da un cassetto nella propria camera, poi a passo di marcia raggiunse la porta di quella stanzetta, infilò la chiave e girò due volte, per poi lasciarla nella toppa.
«Joseph! Cosa hai fatto?» urlò lei in preda al panico.
«vuoi uscire? Basta chiedere Caroline» ringhiò da dietro la porta.
«ti odio!»
«sentimento ricambiato. Solo che a differenza tua, io vivo molto meglio senza di te!» detto questo si allontanò dalla porta.
Mentre le emozioni gli vorticavano dentro, tirò fuori la sua bottiglia di Whiskey e si chiuse nel proprio ufficio invaso di carte che non aveva mai il tempo di guardare. Buttò tutto a terra spazzando i fogli con un colpo secco del braccio e appoggiò la bottiglia sulla scrivania, poi con gesti arrabbiati fece cadere tutto intorno i pezzi della propria uniforme rimanendo in camicia e pantaloni. Tolse anche gli anfibi, poi si sedette sulla poltrona, i piedi sulla scrivania e il liquore in mano. Beveva il liquido ambrato direttamente dalla bottiglia, senza curarsi di sgocciolare per terra e sulla camicia che poi Caroline avrebbe dovuto sbiancare.  
Voleva solo stordirsi quella sera, dimenticare tutto. Si sentiva come in una tragedia greca, in cui ogni sua azione sarebbe stata giudicata sbagliata, senza vie di scampo. 
Bevve un altro sorso.
Stava infrangendo la legge, e in onore di quella legge che non rispettava la puniva in continuazione.
Bevve un altro sorso.
Forse avrebbe dovuto espiare lui i propri peccati, non quella povera disperata nella camera accanto.
Bevve un altro sorso.
Era tutta colpa di quella schifosa ebrea. Gli stava avvelenando la vita. Prima di lei era tutto dannatamente facile, non doveva mettere in discussione ogni sua scelta, aveva una lista di cose giuste e una di cose sbagliate. Non c’erano mezze misure. Ora invece era nel caos più assoluto.
Bevve un altro sorso.
Forse aveva ragione Caroline quando diceva che soffriva di bipolarismo.
Gli girava la testa, forse aveva bevuto troppo. Guardò la bottiglia e si rese conto che ne mancava più di quanto avrebbe dovuto. Stava esagerando con l’alcool, si sentiva sul ponte di una nave in tempesta. Posò con malagrazia la bottiglia sulla scrivania.
Si alzò appoggiandosi ai muri per non cadere. Dovette trattenersi dal raggiungere la sua camera per dirle che no lui non la odiava, e non l’avrebbe mai uccisa. E che la sua vita, per quanto fosse incasina, era più viva da quando c’era lei lì. C’erano più colori … 
Scacciando via quel pensiero si buttò a letto ancora vestito.
Si addormentò quasi subito, ubriaco. 
Doveva smettere di bere così tanto.
08/09/1933
Cara Elly
So che non vuoi parlare di politica e altre cose che tu giudichi noiose nelle nostre lettere, ma questa volta credo che dovrò fare un’eccezione. 
Sai come la penso sul nazionalsocialismo, no? Credo di aver capito che voi non ne condividiate le idee, anche se non ne capisco il motivo, ma per quanto mi riguarda sono felice che finalmente Hitler sia cancelliere, ora. Sai cosa ha fatto questo paese alla mia famiglia, sai che se sono lontano da te è per colpa di queste leggi assurde che non hanno permesso ai tuoi genitori di ottenere l’affidamento. Mia madre è morta per una guerra inutile, Elly, che abbiamo perso per colpa dei dannati comunisti. E chi tira le loro file? Gli ebrei. Dio mio, sono felice che ci sia qualcuno che finalmente abbia capito qualcosa in questo marasma, perché io voglio, anzi pretendo, la mia vendetta. So che non è una cosa bella da dire, so che disapproverai, tu che sei sempre stata così buona. Ma non hai passato quello che invece io ho dovuto subire. Questo paese, che non è stato capace di risollevarsi dopo la guerra, ha ucciso mio padre. Mio padre, l’unica persona che mi era rimasta in questo mondo è morto per strada, da solo come una cane, per il freddo e per la fame. Capirai perché voglio che loro soffrano come ho fatto io. Capirai perché, finalmente che c’è un uomo che propone la grandezza di questa nazione distrutta e che ha trovato le cause di tutti i nostri mali (e ha il coraggio di provare a eliminarle), io voglio appoggiarlo. È per questo che mi sono iscritto alla gioventù hitleriana. Ti prego, capiscimi. 
Tu sarai sempre la persona a me più cara in questo mondo che mi ha tolto tutto, te compresa. Sarai sempre la persona a cui penserò quando avrò bisogno di sorridere e l’unica con cui mai parlerei di certe cose, nonostante la distanza e il tempo che corre, nonostante non possa vederti da anni. Sei la cosa più bella della mia vita Elly, quindi per favore non tagliarmi fuori per una scelta che non condividi. È una cosa mia, cerca di capirmi.
Ti voglio bene
Jo

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Capitolo 10
*** Sopravvissuti ***


Dimitri girò l’impasto con forza, facendo volare una nuvoletta di farina tutto intorno a lui. Con le mani impastava il pane, esperto e pensieroso. Il locale era vuoto e silenzioso, dietro di lui il forno nel fuoco rendeva l’ambiente tanto caldo da fargli appiccicare i capelli scuri alle tempie per il sudore. Era a maniche corte, ricoperto di farina e l’espressione corrucciata.
Girò di nuovo l’impasto, sfogandosi su di lui come se fosse la causa di tutti i suoi mali.
Elly. 
Quella ragazza lo avrebbe fatto uscire di senno, prima o poi. Sapeva di starsi cacciando in un bel guaio, lei gli aveva più volte ripetuto di starle lontano, ma lui non voleva darle ascolto. 
Era uno dei pochi rimasti a pensare che Hitler non stesse facendo bene, che c’era qualcosa di terribilmente malato in quella società, che molti conti non tornavano. Suo fratello era autistico e nonostante gli evidenti problemi che aveva comportato, gli voleva bene. Gliene aveva sempre voluto e adesso da quasi un anno non aveva più sue notizie. Lo avevano preso una mattina e lui non aveva potuto fare altro che guardarlo portare via, senza  poter fare nulla. E poi, il silenzio.
Dimitri rigirò l’impasto con forza, poi si spostò con il braccio un ciuffo ribelle dagli occhi.
Non ci voleva un genio per capire che lo avevano fatto fuori, tutta quella propaganda aveva convinto moltissima gente, ma non lui. La vita di suo fratello aveva avuto un valore, lui l’aveva visto. Rideva, amava, piangeva e, a modo suo, comunicava. E loro lo avevano portato via.
Dimitri serbava dentro sé rancore verso il partito e aveva sempre saputo che per Elly era lo stesso. Per questo non si era stupito quando lei gli aveva fatto quella mezza confessione, sapeva che anche lei in qualche modo aveva visto oltre la patina di ricchezza e splendore del nazismo. E questa era una di quelle caratteristiche che lo aveva colpito di più, insieme con la sua aria da bambina sognante. 
Dimitri divise l’impasto in panetti più piccoli, con movimenti veloci e decisi, disponendoli ordinatamente sul bancone. 
Era preoccupato per Elly, non la vedeva da due giorni: era andato al mercato, ma lei non era arrivata. Aveva paura che l’ufficiale fosse venuto a conoscenza del loro incontro dopo quella dannata sera e che le avesse fatto di nuovo del male. La cosa che però temeva di più, perché più probabile, era che quel dannato soldato le avesse fatto il lavaggio del cervello e lei si fosse convinta che non vedersi più fosse una buona idea. 
Dimitri amava passare il tempo con quella ragazza. Si sentiva libero dai mille obblighi che aveva durante tutto il resto del tempo, che lo opprimevano e lo facevano sentire molto più grande di quanto non fosse in realtà. Poco più di vent’anni e un’intera famiglia sulle spalle. Sua madre, sua nonna, e i suoi otto fratelli dipendevano da lui per mangiare, e lui era l’unico in grado di utilizzare il forno. Era stanco Dimitri, mentalmente e fisicamente. Far quadrare i conti era più facile che in passato, ma restava sempre un’impresa ardua. E poi, da quando suo cognato era partito per il fronte, sua sorella era tornata a casa loro con al seguito due marmocchi. Li adorava i suoi nipotini, ma era pur vero che casa sua era più affollata che mai. 
Aveva tre sorelle, arrivate tutte dopo di lui, e l’unica sposata era Anne, la più grande. Lei era stata come una mamma per tutti gli altri e adesso era madre di due bambini adorabili quanto pestiferi. Se lui aveva ventiquattro anni, Anne ne aveva ventidue. Poi c’erano Lou e Mary, diciannove e diciotto anni di risolini e sguardi languidi ai soldati che passavano impettiti con l’uniforme. Dopo di loro era nato Mark: era lui che i soldati avevano portato via, quando aveva solo quindici anni. Poi c’erano Karl, Anton e Rolf, che avevano dodici, dieci e otto anni, infine i gemelli di soli cinque anni, Fred e George. 
Le sue sorelle lavoravano con la nonna al bancone, servendo i clienti, ma il grosso del lavoro spettava a lui, aiutato qualche volta da Karl e Anton. Era una faticaccia tirare avanti una famiglia così grande e viveva nel terrore di essere spedito al fronte e di lasciare tutti a morire di fame. Stava cercando di insegnare alle sue sorelle a impastare e a Karl ad usare il forno, ma era difficile. Lui per impararlo bene aveva passato anni lì dentro insieme a suo padre, e anche così all’inizio bruciava così tanto pane che avevano rischiato di rimetterci. Poi aveva imparato, ma sapeva che in tempi di guerra i suoi fratelli non avrebbero potuto permettersi di sbagliare. 
Finito di dividere il pane, lo coprì con un panno umido, per farlo lievitare bene, poi si girò e si diede da fare per controllare le pagnotte nel forno.
Sperò che almeno quel giorno Elly si facesse viva, perché gli mancava terribilmente. Aveva bisogno di lei per staccare la spina e godersi un po’ la sua giovane età che gli stava scivolando dalle mani come l’acqua.
***
Caroline guardò la porta chiusa con odio. Quello era il terzo giorno che stava lì, completamente digiuna. La fortuna aveva voluto che avesse una brocca d’acqua in camera quando Lui l’aveva chiusa, ma era finita quasi subito e adesso aveva la gola secca, inoltre i morsi della fame si facevano sentire. Odiava dovergli dare ragione: non sarebbe rimasta lì dentro fino a farsi morire, l’unico suo scopo dopo aver perso i genitori e ogni suo diritto era sopravvivere. Ricercava quelle cose che la facevano stare meglio, scappava da quelle che invece le procuravano dolore. Ma il suo orgoglio era ancora lì, presente e ingombrante, anche se probabilmente avrebbe vissuto meglio senza. 
Sarebbe stato facile uscire, lo sentiva armeggiare in cucina, probabilmente incapace anche di friggersi un uovo ma troppo orgoglioso per farla uscire da lì. Le girava la testa, si sentiva sopra una barca, ma si ostinava a stare zitta. Sapeva che se non lo chiamava entro quella sera avrebbe dovuto aspettare fino all’indomani, ma proprio non ci riusciva. Non voleva chiamarlo. 
Forse sarebbe davvero meglio morire pensò guardando il soffitto, mentre l’odore della carne cucinata entrava dagli spifferi della porta e le faceva venire da vomitare. Doveva chiamarlo, ma non voleva. Doveva alzarsi, ma non le andava. Voleva  solo essere lasciata in pace, addormentarsi in quel letto e sparire, come se non fosse mai esistita. Era stanca Elly. Non era un eroina, né una santa. Non perdonava facilmente, era orgogliosa, testarda, egoista a volte. Si portava dentro una rabbia difficilmente descrivibile, aveva perso la fede in dio e la fiducia negli uomini. Si sentiva l’ombra di sé stessa, per questo, in quel momento, si chiedeva che senso avesse continuare a lottare. 
E poi Joseph bussò alla porta.
«Caroline sei ancora viva?» chiese ironicamente, nascondendo la preoccupazione. Quel giorno non aveva fatto altro che pensarla, era tornato il prima possibile e non riusciva a togliersi dalla testa l'idea che lei stesse male. Aveva paura di aver esagerato, ma allo stesso tempo non voleva fare un passo indietro.
Lei non rispose, continuando a guardare il soffitto. Forse quella volta sarebbe morta davvero.
«Caroline? Lo so che mi senti» disse, ma la voce tradiva la paura. Bussò ancora un po’, poi sbraitò di nuovo.
«sto aprendo, ma giuro che se mi stai ignorando me la paghi» disse, per poi armeggiare con la chiave imprecando. Lei lo ignorò, chiudendo gli occhi, per sprofondare in un buio consolatore.
«Caroline …» sentiva che le si avvicinava. La guardò per un lungo attimo, sentiva i suoi occhi su di sé, ma non aprì le palpebre e non si mosse.
Le prese un polso e ascoltò il suo battito, Caroline sentiva le sue mani tremare come animate di volontà propria, quindi con un sospirò sollevato la tirò su: a quel punto lei aprì gli occhi, trovandolo fin troppo vicino. E lui, vedendola viva, con un sospiro di sollievo ben percepibile, la strinse con foga, dimenticando tutto, ricordando solo la paura che aveva avuto al pensiero che lei fosse morta. Durò un attimo, e lei non si mosse, scioccata, mentre il soffitto vorticava sulla sua testa. 
Lui si staccò quasi subito, rosso in viso e mortificato.
«eri sveglia?» lei lo guardò con occhi vitrei senza rispondere, poi dopo un’ultima occhiata sdegnata si coricò di nuovo, ignorandolo. Lo stomaco le doleva, così come la testa. Non voleva guardarlo, il suo odore, la sua vista, lui che la toccava, erano tutte cose che le davano la nausea. Si rannicchiò su sé stessa e chiuse di nuovo gli occhi. Lui la guardava sconcertato.
«Caroline devi mangiare. So quello che ho detto, ma non pensi sia stupido lasciarsi morire di fame per orgoglio?» lei lo ignorò e lui si guardò intorno disperato.
«cosa direbbero i tuoi genitori se ti vedessero così?» disse pungendola sul vivo.
«non osare nominare i miei genitori» la sua voce era gracchiante e flebile, ma era già qualcosa.
«perché altrimenti che fai?» chiese con tono canzonatorio. Poteva anche essere cresciuta, ma quando era in situazioni come quella l’unico modo per farla parlare era stuzzicarla. E lui era sempre stato un professionista.
«a te che importa se mi lascio morire di fame? Che c’è non vuoi occultare il cadavere?» continuò imperterrita.
«ho giurato di proteggerti»
«si lo hai fatto … hai giurato di proteggermi da quelli come te. Hai dimenticato te stesso dalla lista però» lui scosse la testa.
«tu non hai idea Caroline. Mi odi, ma non hai idea di cosa significhi per me tutto questo. Mi disprezzi senza capire che io ti ho salvato da un destino terribile»
«questo è un destino terribile per me Joseph! Questo!» e finalmente si alzò, urlando quelle parole e rischiando di cadere per i giramenti di testa.
«e che ti manca, Caroline?» chiese lui con aria stanca. Caroline si soffermò a guardarlo un attimo, notando le occhiaie e il viso più pallido del solito: sembrava che neanche lui se la passasse bene.
«mi manca un essere umano vicino» lui sospirò senza guardarla negli occhi.
«e pensi che dove ti avrebbero mandata avresti calore umano? Pensi che ti darebbero da mangiare e qualcosa per coprirti dal freddo? Credi che ti farebbero regali di compleanno e ti assicurerebbero che, per quanto possa essere dura, tu sopravvivrai?»
Lei lo guardò incredula. 
«io non voglio sopravvivere, ho finalmente le possibilità di vivere e voglio farlo! Perché non me lo permetti? A te che cambia se io sto bene o no? Perché devi per forza rendermi la vita un inferno?»
«perché?! Perché tu tecnicamente non lo meriti, sei ebrea cazzo! Ebrea! Ogni volta che ci penso mi viene di buttarti fuori, o di prenderti a calci, o di tirarti un colpo in testa ed eliminare un altro parassita dalla società e lasciare questo mondo un posto migliore. Poi però penso a chi sei, penso che se sono qui è merito tuo e dei tuoi genitori, penso che sei l’unica persona in vita che mi abbia mai voluto bene sul serio … sei l’unica persona ancora in vita a cui io abbia mai voluto bene sul serio! E penso che non potrei toglierti la vita neanche se significherebbe perdere la mia, mai. Sai che vuol dire vivere così, Caroline? Vuol dire che mi sto fottendo il fegato a forza di bere per non pensarci, che non riesco a vivere, che è tutto un enorme punto interrogativo. E se io non vivo, perché tu dovresti farlo?» si sfogò su di lei con rabbia.
«ora smettila di dire cazzate alzati e mangia qualcosa. Ti riscaldo un po’ di latte» disse seccato, mentre lei lo guardava con occhi sgranati.
«Joseph … » lui si era girato a guardarla notevolmente scocciato. Caroline lo guardava con gli occhi sgranati, incredula.
«che c’è?» 
«davvero daresti la tua vita per me? Un’ebrea che disprezzi e che tratti come feccia?» lei si era bloccata a quelle parole, il resto quasi non lo aveva sentito, ne era rimasta sconvolta e adesso voleva capire se era solo una frase fatta o lo pensava sul serio. Lui aveva guardato per terra, prima di risponderle con voce flebile.
«Altrimenti pensi che mi sarei comportato così? Tu lo giudichi impossibile, ma io sono in pericolo ogni giorno, tenendoti al sicuro. Se qualcuno lo venisse a sapere sarei giudicato dalla corte marziale e sinceramente non so quanto sarebbero clementi» poi aveva alzato lo sguardo su di lei
«Io … so di aver esagerato, ma non mi scuserò con te. Stando con quell’uomo tu metti in pericolo sia me e te, che lui. Se tieni a quell’uomo anche solo un minimo, dovresti smetterla di vederlo» aveva detto con tono assorto. 
«ora alzati e vieni a mangiare qualcosa» poi le aveva dato le spalle, dando per scontato che lei lo avrebbe seguito. E Caroline lo aveva fatto, imbambolata, camminando barcollante fino alla prima sedia.
 Lui le aveva messo dell’acqua davanti, che Caroline aveva bevuto avidamente, nel frattempo le aveva riscaldato il latte. Lo guardava mentre in silenzio faceva tutte quelle cose che di solito compiva lei per lui e sentiva un po’ del ghiaccio che aveva dentro al petto sciogliersi. Non bastava una cosa così perché lei lo perdonasse, però … era sufficiente, forse, per non odiarlo. Perché, a modo suo e controvoglia, lui si stava prendendo cura di lei come non avrebbe mai potuto fare nessuno.
***
Caroline evitò Dimitri nelle settimane successive, aveva ignorato le lettere che lui gli aveva lasciato e si era sforzata di non vederlo più. Quello che le aveva detto Joseph le aveva fatto capire che non poteva esporre tutti loro ad un così grande pericolo solo per un suo capriccio, che non voleva sulla coscienza quell’uomo tanto buono. Che le mancasse come l’ossigeno, però, non lo aveva messo in conto. Che dovesse reggere il peso di tutta quella situazione senza poter appoggiarsi a nessuno, non lo aveva considerato.  La mancanza di Dimitri era un rumore sordo in fondo all’anima, qualcosa che le faceva terribilmente male e di cui non poteva liberarsi. Aveva provato tante volte a scrivergli almeno una lettera, poi però si rendeva conto che non poteva spiegare il motivo per cui aveva smesso di vederlo senza incorrere a pericoli. Non poteva scrivere nulla sulla loro posizione, neanche rivolto a Dimitri: la lettera avrebbe potuto perdersi e finire nelle mani sbagliate. Così aveva accartocciato tutti i tentativi e aveva evitato il suo panificio e il mercato negli orari in cui lei sapeva avrebbe potuto lasciare il negozio per cercarla. Praticamente non usciva più di casa e la sua sola compagnia era un soldato burbero e perennemente arrabbiato.
Joseph era tornato quello di sempre, la lasciava sola a casa e quando lo rivedeva, la sera, di solito puzzava di birra e le sbraitava ordini. Ogni tanto invitava a casa signori impomatati e signore raffinate e , mentre loro giravano per casa con fare disinvolto, lei continuava a guardarli con terrore, stupendosi di come Joseph cambiasse radicalmente atteggiamento in loro presenza. Diventava anche lui un uomo raffinato , dai modi sottili e le parole taglienti, dalla risata sempre controllata. Non sapeva dove aveva imparato a districarsi in quell’ambiente di squali, ma era chiaro anche a lei che era bravissimo nel farlo: la gente pendeva dalle sue labbra, le donne lo guardavano come farebbe un gatto davanti ad una preda succulenta. Sembrava nel suo elemento naturale e, se Elly non lo avesse conosciuto da bambino, avrebbe probabilmente scommesso che fosse il figlio di qualche ricco proprietario terriero o banchiere. 
Vivere con lui non era mai stato semplice, ma quando aveva trovato Dimitri, qualcuno con cui dividere quel pesante fardello, tutto era diventato più facile per Elly e ora gli sembrava di star sprofondando nell’abisso. 
Caroline comunque aveva creduto che Dimitri, capita l’antifona, avesse rinunciato a vederla, e il fatto che non avesse neanche provato a farle cambiare idea da un lato la sollevava, dall’altro la mandava nello sconforto più totale. Mangiava poco e sorrideva ancora meno, la notte si svegliava spesso a causa di certi sogni: le sembrava sempre di cadere nel vuoto. Joseph notò il suo malumore, ma non le disse nulla. Sperava superasse la cosa il più velocemente possibile. Lei invece voleva solo vedere quel giovane uomo capace di farla ridere anche solo per un ultima volta, ma tutte le volte che cedeva e quasi si fiondava nel suo negozio, ripensava alle parole di Joseph, quindi con un sospiro ritornava ai suoi saggi propositi.
Dimitri però un giorno fece una cosa decisamente inaspettata e avventata, stupida per certi versi, ma che la rese tremendamente felice. 
Era ormai novembre, il freddo cominciava a farsi pungente e spesso la pioggia cadeva fitta dal cielo, rispecchiando l’umore di Caroline. Quel lunedì mattina si era alzata al solito orario e aveva sbrigato le solite faccende, evitando, come sempre da quando non vedeva Dimitri, di scendere al mercato troppo tardi. Erano le dieci di mattina e lei era appena ritornata, stava risistemando la spesa, quando suonarono al campanello.
Quando rispose e riconobbe la voce di Dimitri quasi morì di infarto e lo fece entrare più per paura che qualcuno lo vedesse che per altro. Lui si fiondò dentro l’appartamento il più velocemente possibile e si chiuse la porta alle spalle. Caroline lo guardava con gli occhi lucidi, profondamente scossa e incapace di proferire parola. Lui era bello come ricordava, ma il suo sguardo era furente, non più gentile come era sempre stato nei suoi confronti.
«Ciao Emma» Caroline sussultò sentendo il nome finto che gli aveva detto.
«anche se probabilmente questo non è neanche il tuo nome» osservò lui subito dopo con tono amaro. Lei abbassò gli occhi a terra, preoccupata che lui vi leggesse la verità. Lui si guardò intorno, poi il suo sguardo si posò sulla figura mortificata di Caroline e, con un sospiro, fece un passo avanti e la strinse forte a sé. Caroline non poté fare a meno di abbandonarsi a quell’abbraccio, di stringere tra le mani la sua maglia e affondare il viso sul suo petto, mentre lacrime calde e inaspettate gli inondavano il viso. Lui le accarezzava i capelli con mani tremanti e sembrava che la rabbia mostrata poco prima si fosse dissolta insieme alla determinazione di Caroline di non vederlo più.
«non dovresti essere qui» riuscì a dirgli tra i singhiozzi dopo un po’.
«se per caso lo sapesse, io …» lui la interruppe.
«lo so, ma dovevo vederti. Mi devi almeno delle spiegazioni, non credi?» la sua voce era dolce all’inizio, ma si era via via fatta più amara. A quelle parole lei era riuscita finalmente a staccarsi e con voce tremante gli aveva risposto.
«vieni in cucina, ti offro qualcosa» lui l’aveva seguita sbuffando e guardandosi intorno.
«mi offri qualcosa? Non voglio niente che appartenga a Lui, e in questa casa pare che tutto sia di sua proprietà, te compresa» lei si era sentita mancare il fiato. Non voleva farlo stare male, si era comportata in quel modo per il suo bene, eppure sentire quella voce così risentita la feriva. Non gli rispose ma si sedette su una sedia aspettando che lui facesse lo stesso, ma lui restò in piedi, camminando avanti e indietro, incerto su cosa dire.
«voglio sapere solo perché. Poi ti lascerò in pace, non ti denuncerò, non dirò niente. Ma tu mi devi dire perché diamine sei sparita così» il suo era il tono di un uomo disperato, il suo viso era sfatto, gli occhi infossati e rossi. Lei lo aveva guardato un attimo, ma poi puntò i suoi occhi nelle scarpe consumate di lui: non aveva la forza di guardarlo in faccia.
«non ti voglio sulla coscienza» aveva detto quasi in un sussurro.
«tengo troppo a te per vederti fare una brutta fine per colpa mia, e già so che dirai che non importa. Però a me importa … tu vedi tutto così, sfumato, solo idee, niente di davvero preoccupante. Ma se a te succedesse qualcosa, chi darebbe da mangiare alla tua famiglia? Chi pagherebbe la scuola ai tuoi fratelli e la dote alle tue sorelle, chi si prenderebbe cura di tua madre e tua nonna?»
«ne avevamo già parlato, io … non dico che non mi importa della mia famiglia, sai che darei di tutto per loro, ma io non sono realmente in pericolo solo stando con te!»
«ah no? e tu conosci così bene tutta la situazione da esserne sicuro?» alzò un po’ la voce lei.
«lui mi ha minacciato?» lei sbarrò gli occhi.
«cosa?»
«il tuo ufficiale … ha minacciato di farmi del male?» lei lo aveva guardato intontita per un attimo, poi aveva risposto amara.
«Joseph non farebbe mai del male ad un tedesco come te, a meno che non gli fosse ordinato di farlo. Si è arrabbiato così tanto con me anche perché dice che frequentandoti ho messo tutti quanti in pericolo» 
«ma non è vero Elly …» lui le si era avvicinato.
«Dimitri, lasciami perdere. Io non posso darti un futuro, non posso sposarti o darti dei figli legittimi … ascolta una persona che vuole solo il tuo bene, lasciami perdere» lui le si era avvicinato ancora di più, poi si era abbassato al suo livello e aveva sussurrato con voce disperata.
«ci ho provato, ma non ci riesco. Elly ti ho detto di essermi innamorato di te, dammi una possibilità» lei quasi aveva pianto di gioia sentendo quella frase, ma non si mosse, così lui continuò a parlare.
«mi sei entrata nella pelle, non posso semplicemente girarti le spalle. Io voglio stare con te, con tutto ciò che questo significa, voglio amarti come non mi era mai capitato prima, e se poi questo sarà per un giorno, o per sempre, che importa? Avremo il nostro attimo almeno» aveva detto sempre più vicino al suo viso. Sentiva il suo alito sul viso mentre era così vicino da poter sentire il profumo.
E lei, piangendo, non era riuscita a fare altro che baciarlo con slancio. 
Le sue labbra erano morbide come l’ultima volta, ed esprimevano felicità, una contentezza che trasmetteva a lei: sembrava quasi che sorridesse mentre la baciava. Senza neppure staccarsi l’aveva fatta alzare e, sedendosi lui sulla sedia, l’aveva messa su di lui con le gambe intorno alla propria vita. Lei non si era neanche resa conto della posizione compromettente e delle mani troppo ardite di lui, che le accarezzavano tutta la schiena, dalla nuca fino in fondo. Aveva sentito la sua lingua farsi strada all’interno della propria bocca e stuzzicare la propria in un ballo di cui lei non conosceva le regole. Aveva cominciato a muoversi con lui seguendo un istinto animalesco, mentre sentiva tutto il corpo riscaldarsi e la tensione accumularsi proprio sulla sua femminilità. Non conosceva praticamente nulla di quel mondo, ma sapeva che quello che stava facendo era terribilmente sconveniente e poco adatto ad una ragazza di buona famiglia, ma la verità era che era troppo presa dalle sue mani, dalla sua lingua che le esplorava la bocca, da quel calore sconosciuto eppure così benvoluto, per poter fare caso ad altro. Quando si staccarono per prendere fiato, con una mano lui le tiro indietro la testa, poi con la bocca scese sul mento baciandolo, lasciando una piccola scia di morsi lungo tutto il collo, per poi arrivare alla spalla. Lei si sentiva respirare forte, affannosamente, mentre con una mano sui suoi capelli scuri lo incoraggiava a continuare e con l’altra si aggrappava alle sue spalle ampie. Lui risalì con una scia di baci sempre più casti fino alla sua bocca, poi le diede un ultimo bacio a stampo guardandola negli occhi. Solo in quel momento Caroline si rese conto della loro posizione, del fiato corto di entrambi, di qualcosa che premeva sotto di lei che proprio non capiva cosa fosse. Ingenuamente guardò in basso, senza però capire poi molto, quindi si mosse a disagio.
Dimitri gemette quando lei provò ad alzarsi, quindi rimase ferma dov’era.
«ti ho … fatto male?» chiese cercando di capire cosa diamine stava succedendo. Era frastornata, sentiva il suo corpo reagire in maniera quasi estranea, e Dimitri la guardava con uno sguardo famelico che non gli aveva mai visto. 
«non preoccuparti Elly … » le aveva risposto però, aiutandola ad alzarsi, ma restando seduto. 
«non ti alzi?» lui scosse la testa, arrossendo come mai prima.
«meglio di no …»
«perché  non …» lui la interruppe cambiando bruscamente argomento.
«come ti chiami, in realtà? Muoio dal desiderio di saperlo, è ovvio che Elly non sia il diminuitivo di Emma» le aveva chiesto, dando voce a uno di quei dubbi che lo teneva sveglio la notte. Lei si era seduta di nuovo sulle sue ginocchia, in modo più innocente però, e aveva sussurrato 
«Caroline. Il mio vero nome è Caroline, ma non ti dirò il cognome»  lui le aveva stampato un altro bacio sulle labbra e le aveva sorriso.
«domani verrai al mercato Caroline?» lei abbassò lo sguardo.
«non lo so, Dimitri, sai come la penso»
«io non vorrei per nessun motivo al mondo rinunciare a te, però, se domani non verrai, capirò. Ti lascerò in pace» lei aveva provato a parlare ma lui l’aveva interrotta.
«però ripensa a questa mattina, quando sceglierai. Ripensa a come ti senti con me, a quello che provi, e rispondi a te stessa: vuoi davvero rinunciare ad una cosa così bella?» lei era rimasta in silenzio, così lui l’aveva fatta alzare.
«devo andare … ti aspetto domani alle dieci al solito punto» aveva detto guardandola intensamente negli occhi. Poi con un sospriro deciso le aveva dato le spalle, lasciandola lì imbambolata a guardarlo allontanarsi. 
Aveva aperto la porta ed era sparito. 

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Capitolo 11
*** Vecchi Amici ***


Erano le nove e cinquantotto minuti e Caroline guardava l’orologio angosciata.
Non aveva dormito quella notte, era stata distratta tutto il giorno prima e quella mattina aveva versato il caffè su Joseph invece che sulla tazza. Lui aveva imprecato tanto forte che molto probabilmente aveva svegliato mezzo vicinato, poi era uscito di casa furioso. Lei aveva risistemato la cucina e i letti, poi si era vestita. In quel momento era seduta e guardava l’orologio con angoscia.
Ti aspetto domani mattina alle dieci al solito punto. Se non verrai capirò …
Le parole di Dimitri le rimbombavano nelle orecchie mentre lei non sapeva ancora cosa fare. Ripensò al giorno prima, in quella cucina, seduti sopra quella sedia, e avvampò. Aveva rimuginato sulle sensazioni che aveva provato in quel momento, in un cui la sua lucidità era andata via insieme al suo buonsenso, alla pelle d’oca quando le sue labbra si erano poggiate sul proprio corpo, alle sue mani che vagavano sulla propria schiena e al suo profumo così buono tanto vicino. Poteva rinunciare a tutte quelle cose? Poteva rinunciare alle chiacchierate, ai baci, ai suoi occhi blu? Erano stati lontani per un periodo e le era mancato terribilmente. Aveva bisogno di lui per stare bene, per sentirsi viva, amata e donna. Lui la faceva sentire sé stessa. Ma il gioco valeva la candela?
Erano le nove e cinquantanove minuti. 
Sentiva lo stomaco in subbuglio, una miscela insopportabile di sentimenti. Lo avrebbe messo in pericolo?
Perché doveva essere lei quella giudiziosa tra i due? E perché Joseph aveva dovuto metterle in testa pensieri tanto angosciosi e logoranti? 
Sospirò Caroline, mentre si alzava e si stringeva alla sua sciarpa. 
Ci aveva provato, dopotutto, no? Aveva provato a stargli lontano, lui aveva insistito. Aveva provato a comportarsi in modo ragionevole, lui l’aveva sconvolta. Sconvolta, il verbo adatto: non si era mai sentita in quel modo, non aveva mai provato sensazioni simili. L’aveva sedotta, e adesso lei lo rivoleva. 
Erano le dieci in punto.
Caroline guardò con un ultimo sguardo l’orologio, poi mettendo da parte l’esitazione e il tremore che le procurava la consapevolezza di star facendo qualcosa di sbagliato, si fiondò nel corridoio, fece le scale di corsa e con passo svelto si affrettò per raggiungere il solito punto in quell’angolo che era partecipe di quasi tutti i loro incontri, in ritardo di neanche cinque minuti. Si sentiva come Eva che coglie la mela sotto invito del serpente, incapace di resistere alla tentazione, di dire di no pur sapendo di sbagliare. Nella sua mente si giustificava con mille modi con scuse che sembravano patetiche anche a lei, dicendosi che aveva fatto la sua parte, che lui sapeva a cosa andava in contro (anche se in realtà non ne aveva la più pallida idea), che Joseph non lo avrebbe scoperto, che aveva il diritto di stare bene anche lei. Mentre il sorriso vittorioso nel viso di Dimitri l’accoglieva e le sue braccia la stringevano in un abbraccio sollevato, Caroline pensò che si, quella era di sicuro la scelta migliore anche se non la più giusta.
Dimitri sapeva che lei sarebbe venuta, forse un po’ in ritardo, titubante probabilmente, ma aveva la certezza che sarebbe arrivata. 
Il giorno prima l’aveva sconvolta, ne era consapevole, e non gli dispiaceva affatto. Dopotutto, in guerra e in amore tutto è concesso, e lui voleva continuare a vederla. Non aveva nessuna intenzione di rinunciare a lei, aveva già perso troppo e avrebbe fatto di tutto pur di conservarla accanto a sé. Non importava cosa sarebbe accaduto, non importava se non avevano futuro, lui voleva avere la possibilità di stringerla come in quel momento anche solo un’altra volta. E se per avere questo avrebbe dovuto fare leva sulla sua scarsa esperienza e sulla propria capacità di baciare una donna e di farle perdere la ragione, beh lo avrebbe fatto. Dimitri sapeva che lei non aveva chiuso occhio quella notte, ripensando a come aveva sfregato le sue mani e la sua bocca su di lei, ritornando alle sensazioni dei denti e della lingua sulla carne sensibile del suo collo. L’aveva guardata arrivare quasi di corsa, impaurita che lui si fosse stancato di aspettare, senza sapere che lui avrebbe potuto attendere un suo si per tutta la vita, per poi abbracciarla sotto lo sguardo dei passanti. Non l’aveva baciata, prolungando l’attesa e il desiderio della ragazza: sapeva che, con i sentimenti che li animavano, sarebbe stato un bacio decisamente sconveniente in un luogo tanto trafficato. Con un sorriso le aveva preso la mano e Caroline non aveva capito che, se fino a quel momento era stata lei a reggere il gioco, adesso era passato nelle mani forti e callose di Dimitri. 
***
Come era arrivato, l’autunno passò, in un girotondo di foglie rosse e secche, che cadevano sospinte dal vento. Il cielo era sempre più spesso occupato da nuvoloni neri, la pioggia era fredda e incessante, il vento gelido. Le giornate si accorciarono sempre di più e ormai Joseph tornava a casa quando il cielo era scuro.
Si vedevano già gli addobbi natalizi, le luci sfavillanti intorno le vetrine, gli alberi di natale decorati con lucine e palline colorate, i genitori che tenevano per mano pacchi con i regali per i loro figli, i dolci di pan di zenzero nelle vetrine. Tutto emanava aria di festa quel diciotto Dicembre e non sembrava neanche che il loro paese fosse in guerra. 
Quella mattina Caroline si era svegliata allegra anche se infreddolita. Nella sua camera non c’era la stufa e lei, nonostante gli strati di coperte sempre più numerosi, sentiva sempre freddo. Aveva indossato la sua vestaglia di lana, verde e abbastanza grande da avvolgerla due volte, poi sopra i due paia di calzettoni aveva messo le sue ciabatte pelose e morbide. Vestaglia e ciabatte erano state un inaspettato regalo di Joseph che, vedendola tremare ogni mattina, la settimana prima era tornato a casa con quei due pacchetti. Caroline si era stupita quando, tirandoli fuori glieli aveva lanciati quasi in faccia dicendo “ e smettila di lamentarti per il freddo, una buona volta!”. Aveva cercato di essere sgarbato, ma la ragazza non aveva potuto fare a meno di notare che le pantofole erano tremendamente simili a quelle che amava mettere quando era bambina mentre la vestaglia era del suo colore preferito. Lo aveva ringraziato cucinando una torta di melassa il giorno dopo, la preferita del ragazzo, dicendo che ogni tanto una buona merenda andava anche a lei. Joseph aveva capito e riso sotto i baffi, ma non le diede la soddisfazione di ammettere quanto gli piacesse. Probabilmente il Natale rendeva davvero tutti più buoni, altrimenti quel comportamento sarebbe stato inspiegabile e dannatamente fuori luogo. 
Caroline continuava a vedere Dimitri, ed era riuscita perfino a comprare della lana (a Joseph aveva detto che le serviva per farsi dei guanti, cosa per altro vera) e a confezionargli un cappellino blu. Era una cosa stupida, ma non avrebbe potuto fare di meglio, e poi era convinta che i cappelli, in quel periodo dell’anno, non fossero mai troppi. 
Quella notte era venuta giù la prima nevicata e lei non vedeva l’ora che arrivassero le dieci per poter scendere e godersela insieme a Dimitri. Aveva cominciato a cucinare la colazione per il soldato canticchiando una canzone natalizia e ciabattando per tutta la cucina con aria allegra.
«non sei molto intonata, lo sai?» aveva esordito Joseph, anche lui in vestaglia e con un piccolo sorriso divertito a increspargli le labbra. Non si era svegliato bene quella mattina, ma sentirla canticchiare in cucina l’aveva un po’ rincuorato. Lei non si era girata e aveva continuato con la sua canzoncina armeggiando davanti i fornelli.
«è per la neve che sei così allegra?» aveva chiesto, mentre si sedeva al suo posto e accendeva la radio.
«certo! E poi tra qualche giorno è Natale! Lo sai quanto lo amo, no? A proposito, devi assolutamente comprare delle decorazioni e un albero per questa casa, al resto poi ci penso io» aveva detto finalmente girandosi verso di lui.
«si ci avevo già pensato, avevo intenzione di andare oggi. Il diciotto dicembre non sono mai in vena di lavorare, quindi ho preso un giorno di permesso. E poi devi comprarti un vestito elegante» lei era rimasta a interdetta a quelle parole, poi si era girata di nuovo verso la colazione.
«un vestito? Perché?» aveva chiesto,  mettendogli davanti le uova fumanti, il caffelatte caldo e del pane. Poi prese la marmellata e si sedette a tavola con lui: lei si accontentava di pane, marmellata e di una tazza di tè. Joseph non aveva risposto, aspettando che lei si sedesse, poi con l’aria più disinvolta che riuscì a trovare le spiegò.
«c’è una festa, un galà, organizzato per gli ufficiali delle SS, e mi hanno invitato» lei lo aveva guardato ridendo sotto i baffi.
«e dovrai pure ballare?» chiese, mettendo l'accento su quell'ultima parola. Joseph abbassò lo sguardo sul suo piatto nascondendo un po’ di imbarazzo. Non voleva chiederle aiuto, ma era esattamente ciò che stava per fare.
«beh è un galà …» aveva risposto con nonchalance. La risatina di Caroline divenne ridarella, nel guardare la sua faccia. Il fatto era che Joseph era un pessimo ballerino, lo era sempre stato e Caroline sapeva che la cosa non sarebbe mai potuta cambiare, neanche con mille lezioni di danza. Lo sapeva perché quando era piccola, a sette o otto anni, aveva preso lezioni di ballo e di danza classica: dopotutto all’epoca faceva parte della parte più ricca e rispettabile della società. Aveva più volte provato a insegnargli qualcosa, anche quando erano un po’ più grandi, nella speranza di trovare qualcuno con cui esercitarsi ma lui era tremendamente scoordinato, rigido come un palo e non azzeccava neanche un tempo. 
«va bene, quindi tu dovrai ballare davanti tutti gli ufficiali e le loro signore. E io che c’entro?» aveva chiesto intuendo la risposta, ma non volendo rendergli le cose più semplici: se voleva il suo aiuto, come minimo doveva chiederlo. Non che lo meritasse, d’altra parte però non aveva molta scelta.
«tu verrai con me. Così nel caso dovessi ballare, avrei qualcuno a cui pestare i piedi senza fare figuracce» lei lo aveva guardato con un sorriso sadico, sventolandogli la mano sinistra davanti.
«mi servirà un anello, allora: non accetteranno niente di meno che la tua fidanzata ufficiale, in un posto del genere» in realtà, sperava di dissuaderlo. Magari capendo che avrebbe speso un patrimonio solo per un galà avrebbe desistito, ma lui la sorprese.
«lo so. Indosserai quello di mia madre» aveva detto fissandola negli occhi. E Caroline seppe di non aver nessuna chance di fargli cambiare idea. Non credeva però che le avrebbe affidato mai un oggetto così prezioso, suo padre era morto di fame piuttosto che vendere quell’anello e probabilmente era l’unico oggetto che legava Joseph a sua madre.
«e non capiranno che la tua fidanzata è anche la tua cameriera? Alcuni di quelli sicuramente sono stati qui» disse incrociando le dita. Joseph sbuffò.
«i camerieri per questo tipo di gente sono come la tappezzeria, Caroline. Non ti guardano neanche, non fanno caso a te, e anche se per un momento il loro sguardo si posa su di te, nessuno potrebbe mai ricollegare la sciatta cameriera con la donna che si presenterà al galà, in tiro e con un anello al dito. L’unica cosa che avrebbe potuto tradirti sono i capelli, per questo ho insistito tanto per farti mettere l’uniforme e quindi la cuffietta» lei rimase in silenzio per un attimo.
«avevi programmato tutto?»
«no, volevo renderti il più anonima possibile. E mi sta tornando utile, a quanto pare» rispose lui con mezzo sorriso. A quel punto, Caroline si arrese. Aveva esaurito le argomentazioni, non aveva idea di come ribattere, quindi abbassò gli occhi sul proprio pane con la marmellata d’arance.
«sappi che sceglierò il vestito più costoso possibile» disse risentita, prima di ricominciare a mangiare. Joseph accennò un sorriso, e si concentrò anche lui sulla propria colazione.
Le  strade innevate erano uno spettacolo e Caroline non riusciva a smettere di sorridere. Joseph non sembrava condividere la sua allegria e stava qualche passo indietro, la faccia calata nel cappotto elegante che indossava e un cappello a coprirgli la testa bionda: sembrava che ad ogni passo si aggiungesse tristezza al suo viso. 
Dopo l’ennesima volta che Caroline si era ritrovata avanti da sola, lo aveva affiancato sbuffando.
«insomma, ma si può sapere che cos’hai oggi?» lui la fissò un attimo negli occhi, raddrizzandosi.
«cosa ho?» le aveva risposto con gli occhi più tristi che Caroline gli aveva visto negli ultimi mesi. Lo fissò per un attimo, cercando di capire. Cosa aveva? Era legato al passato, questo era ovvio, nella vita di quel nuovo Joseph non c’era spazio per la tristezza. E lei faceva sempre più fatica ad accostare quel viso a quello del suo Jo. Poi però, come colpita da un fulmine, ricordò. 
«Joseph, io l’avevo dimenticato» disse con una vocina pentita. Lui scrollò le spalle.
«questo era ovvio …» disse distogliendo gli occhi e superandola. Lei lo affiancò.
«sai gli ho portato i fiori tutti gli anni … anche quando avevo smesso di scriverti. L’ho fatto fino all’anno scorso. Io … non so perché l’ho dimenticato. Non l’ho mai fatto, forse perché mi ricordava il momento in cui te ne sei andato» gli disse, afferrandolo per un braccio. Lui spalancò gli occhi grigi a quella scoperta.
«hai portato dei fiori alla tomba di mio padre per tutti questi anni? Anche quando non potevi permetterli?» lei abbassò gli occhi imbarazzata.
«beh, pulivo la lapide e gli lasciavo un mazzo di fiori. Quando non potevo comprarlo lo rubavo di nascosto dalle tombe con più fiori … so che è di cattivo gusto, ma che alternative avevo?» disse imbarazzata.
«ma non è questo il punto. Io volevo farlo perché tuo padre era una brava persona, un uomo senza pregiudizi che amava la vita e che avrebbe dato qualsiasi cosa per te. E io gli volevo bene» concluse la ragazza.
Lui l’aveva fissata per un lungo attimo con aria stupita, poi aveva distolto lo sguardo.
«grazie» disse secco ma visibilmente sincero. 
«non me lo aspettavo, credevo avessi cominciato ad odiarmi già dopo il 1933» aveva aggiunto con un mezzo sorriso amaro.
«odiarti? No, quello solo dopo essere venuta in questa città con te» aveva detto lei senza guardarlo in faccia. Lo odiava? Ne era stata sicura per un periodo senza però detestarlo sul serio, poi era arrivata a desiderarne la morte, adesso invece era tornata allo stato iniziale, solo che adesso sapeva bene di non odiarlo. 
«questo si che mi rincuora» aveva detto con voce divertita, mentre riprendevano a camminare nell’aria fredda di Berlino. Lei aveva riso per sdrammatizzare, poi aveva cambiato repentinamente argomento.
«allora, io dico di cominciare dal vestito, perché già so che fare acquisti con te è sfiancante, dopo però compriamo gli addobbi!» lui aveva annuito, accontentandola, così si erano diretti verso la boutique dove lei aveva comprato già l’abito per il funerale del cugino di Joseph, mesi prima. 
«come lo vorresti questo vestito?» le aveva chiesto Joseph, stupendola.
«quindi lo sceglierò davvero io?» lui aveva fatto spallucce.
«credo che voi donne sappiate meglio come valorizzare voi stesse» lei aveva annuito pensierosa.
«intanto devo sembrare una gran signora, quindi sarà meglio indossare dei guanti, così non mi si vedranno le mani» constatò, ottenendo subito l’approvazione dell’uomo.
«e poi a me stanno bene il verde, l’azzurro, il blu … insomma l’abito dovrà essere di uno di questi colori, magari non troppo scollato, e stretto in vita con un cinturino» Joseph annuì sovrappensiero. 
«starai benissimo. E poi, è impossibile negarlo, hai un bel portamento» lei si era tutta inorgoglita a quel complimento, raddrizzando la schiena.
«lo so. Fino a qualche anno fa ero abbastanza ricca, è normale che sia così» disse imperiosa. E Joseph ricordò chi effettivamente fosse, le lezioni di ballo, le feste a casa dei suoi genitori, i vestiti raffinati e i giocattoli costosi. Lei era stata ricca come lui difficilmente sarebbe arrivato ad essere. 
Li accolse la stessa ragazza bionda, questa volta però con un bambino in braccio che fece andare Caroline in brodo di giuggiole. Joseph aspettò pazientemente che le due donne smettessero di fare faccine e versi strani al bambino, poi finalmente riuscì a ricordare a Caroline il motivo per cui erano lì.
«Elly, ricordi del vestito che devi comprare, no?» aveva detto, cercando di non suonare acido, in una breve pausa tra le chiacchiere delle due. La proprietaria era arrossita e aveva cercato di ricomporsi.
«davvero, mi scusi, mi sono persa in chiacchiere. Allora, cosa le serve?» Caroline le aveva descritto l’abito che aveva in mente, così la donna sparì nel camerino. Dopo qualche minuto riapparve con un vestito lungo e verde scuro, con dei guanti coordinati. Diversamente da come aveva chiesto la ragazza aveva lo scollo abbastanza profondo e manichette di velo , il corpetto ricoperto di strass  che dal cinturino in giù si facevano sempre più radi. Era elegantissimo, così come i guanti che le arrivavano fin sopra i gomiti, a metà braccio. Caroline lo aveva guardato stupita e, quando lo aveva provato, se n’era tremendamente innamorata. Era uscita dal camerino in trepidante attesa, e sia Joseph che la commessa l’avevano osservata per qualche secondo, prima di esprimersi. Sembrava aver subito una trasformazione, stava divinamente, sembrava fosse nata per indossare quel vestito. Joseph non aveva detto niente, si era solo girato a guardare la commessa dicendo : «lo prendiamo. Però ci servirà un cappotto, una borsa e delle scarpe» aveva detto, intontito da quella visione. Con quell’abito addosso, Caroline sembrava una ninfa, una donna di classe. Era stata una pessima idea, decidere di portarla con lui quella sera.
Erano usciti dal negozio con due espressioni dimetricamente opposte: lui imbronciato e pensieroso, lei raggiante. Avevano abbinato degli accessori marroni, che probabilmente Caroline non avrebbe messo mai più ma di cui andava pazza. 
Il resto della mattina lo avevano passato comprando addobbi di ogni tipo. Joseph non aveva mai avuto né il tempo né tanto meno la voglia di addobbare la casa per il Natale, ma adesso era tutto diverso.
Pranzarono in un ristorantino vicino casa, sommersi dalle borse con gli acquisti. Gli avrebbero portato l’albero di Natale nel primo pomeriggio e Caroline era raggiante. Con la sua allegria lo aveva un po’ contagiato e adesso mangiava la sua zuppa calda con un lieve sorriso nel viso, mentre lei continuava a sproloquiare su dove avrebbero messo gli addobbi, sul vischio nella porta di casa, sulle lucine nelle finestre e sulle altre mille cianfrusaglie che avevano comprato. 
Joseph di certo però non si sarebbe aspettato di divertirsi ad addobbare la casa fino allo stremo. Non c’era un angolo dell’appartamento in cui non ci fosse un addobbo natalizio, Caroline cantava stonata canzoncine di natale, seguita a ruota da lui, mentre si arrampicavano sulla scala per arrivare persino ai lampadari.
Quella sera avevano cenato insieme continuando a ridere come se non ci fosse un domani. Caroline aveva sparecchiato con naturalezza e lui non aveva sentito il bisogno di bere whiskey prima di andare a dormire, ma anzi erano rimasti a chiacchierare insieme come vecchi amici. Joseph si sentiva felice come raramente gli accadeva, mente Caroline … beh quello era il suo Jo non c’era cosa che non avrebbe dato perché lui fosse sempre così, perché quando toglieva la maschera da SS lui era semplicemente fantastico. Ma non si illudeva più la ragazza, sapeva che il giorno dopo tutto sarebbe tornato come prima e che quella era solo un’allegra parentesi della vita che le avevano rubato. 


19/12/1929
Caro Jo
È il primo Natale qui senza di te. Mamma oggi ha tirato fuori le palline e gli addobbi per l’albero e per la casa e io mi sono sentita dannatamente triste pensando che questa volta non ci saresti stato tu ad addobbare la parte più alta dell’albero, quella a cui non arrivo. Casa nostra è piena di lucine e io ho insistito per mettere una ghirlanda di vischio sulla tua porta, perché davvero, vederla spoglia in quel modo mi faceva venire un groppo allo stomaco. 
Ieri sono andata al cimitero. Ho messo un mazzo di fiori sulla lapide dei tuoi genitori e ho lasciato lì quel biglietto senza aprirlo, come avevi chiesto. Però, davvero, secondo me non dovresti sentirti in colpa, se non puoi andare a trovarli (non provare a negarlo, lo so che è così). So di non poterti capire, però io credo che le persone che non ci sono più vivano più nel ricordo dei vivi che nelle tombe fredde e nelle lapidi dei cimiteri. Tua madre e tuo padre vivono e vedono attraverso i tuoi occhi, e non saranno dei fiori sul marmo a cambiare le cose. 
Ti ho pensato tanto ultimamente, forse perché si avvicina l’anniversario della tua partenza. È quasi un anno che non ci vediamo e a me sembra sia passato un’infinità di tempo, ma allo stesso tempo mi sembra ieri che sei andato via. Se chiudo gli occhi sento ancora te che mi abbracci e il tuo solito odore nelle narici. Strano che ho dimenticato la tua voce ma non il tuo odore.
Mamma dice che nelle mie lettere con te dovrei essere allegra e che con tutto quello che stai passando dovrei provare a farti fare due risate, e di solito lo faccio, ma non oggi, non posso, non ci riesco. Ci sono troppe cose tristi di cui parlare oggi, troppe mancanze e desideri. Ho provato a convincere i miei a venire a Berlino, ma non possono, e so già che i tuoi zii non mi ospiterebbero mai, anche solo per farti un dispetto. E io vorrei solo rivederti un’altra volta. 
Sei un uomo di parola Jo, per questo credo che prima o poi ci rivedremo: me lo hai promesso, ricordi? Non vedo l’ora che questo accada, di sentirmi chiamare Elly da te (nonostante lo abbia sempre odiato) e scherzare sul fatto che sei diventato altissimo (perché non ho bisogno di foto per sapere che diventerai un gigante da grande, mentre io probabilmente resterò minuscola) e battibeccare su quale colore dei nostri occhi sia più bello. Non vedo l’ora di poterti abbracciare e sentire di nuovo il tuo odore, perché da quando te ne sei andato mi sembra di non riuscire più a essere me stessa al cento per cento.
Con amore
Elly

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Capitolo 12
*** Puttana ***


Le guance chiare di Dimitri erano arrossate per il freddo invernale che li circondava. Tutto era ammantato da una patina bianca di neve, caduta in quegli ultimi giorni. Gli occhi del ragazzo invece erano tremendamente blu, risaltati dal rossore del viso e dai capelli scuri coperti da un berretto blu, appena estratto dalla carta regalo improvvisata. Era il ventitré dicembre, e lui passeggiava con Elly per le strade gelate di Berlino. Caroline accanto a lui non smetteva di sorridere rigirandosi tra le mani il ciondolo a forma di cuore che le aveva regalato, appeso ad una collana lunga e sottile. Era stata una bella idea, la sua, e Caroline si sentiva lusingata per un gesto del genere. Dentro il ciondolo infatti c’era una loro foto, appena fatta, che li ritraeva l’uno vicino all’altra. 
“Volevo regalarti qualcosa che ti ricordasse di me” le aveva spiegato il ragazzo prima di trascinarla in uno studio fotografico. Lui aveva conservato nel portafogli una copia più grande della foto e messo il berretto in testa con espressione soddisfatta. Sapeva che le finanze della ragazza erano quasi inesistenti, ogni suo acquisto era ben controllato da Joseph e quindi anche qualcosa di così semplice significava tanto per lui. 
«che farai per Natale, quindi?» le chiese curioso, camminandole vicino. Era tremendamente bassa in confronto a lui. La ragazza alzò le spalle.
«domani è la vigilia, e Joseph ha invitato a casa qualche “amico” dei suoi. Passerò la vigilia di Natale correndo avanti e indietro per rendere tutto perfetto e servire gli ospiti. Non so se è peggio questo, o la solitudine» Dimitri la guardò pensieroso.
«probabilmente la solitudine. Almeno, avrai qualcosa da fare» osservò lui con saggezza.
«forse hai ragione. Il venticinque poi andrò a messa di mattina, con Joseph» il ragazzo inarcò un sopraciglio.
«e non sarà strano vederlo con la sua cameriera?» Caroline deglutì. Non gli aveva ancora detto di quello che avrebbe fatto a capodanno, e sapeva che al ragazzo non avrebbe fatto piacere. Cercò quindi di assumere un’aria disinvolta e scherzosa pur sapendo che quella era una questione fin troppo spinosa.
«ma tu non sai che io ho un’identità segreta» scherzò lei. Dimitri non capì, quindi si affrettò a spiegare.
«Joseph ha bisogno di una donna che faccia da sua fidanzata ufficiale. Sai come sono fissati con il matrimonio, ma lui non ne vuole sapere, un po’ perché gli secca, un po’ perché sarebbe difficile convivere con me e un’altra donna» lui la guardò serio per un attimo.
«ma tu non sei la sua amante!» Caroline diventò bordeux per l’imbarazzo.
«certo che no! Dormo nella camera della servitù! È solo che ci sarebbero della cose difficili da spiegare, e prima o poi anche un’idiota capirebbe che c’è qualcosa che non va e lui non vuole correre il rischio. Quindi mi fingerò la sua fidanzata, così da evitargli un fidanzamento vero e da mettere a tacere i suoi superiori» era vero, in parte. Joseph sapeva che la sua prossima promozione passava per il matrimonio, ma preferiva non pensarci. Sapeva che era suo dovere dare alla patria dei figli, bambini ariani che avrebbero rappresentato la massima espressione della sua razza, ma non era qualcosa che era disposto a fare tanto a cuor leggero. Non voleva una donna vicino, tanto più che ciò avrebbe messo a rischio la vita sua e di Caroline.
«e non ti riconoscerà nessuno?» osservò quindi il ragazzo scettico. Caroline rispose con le medesime parole di Joseph, dovendo riconoscerne, suo malgrado, la veridicità.
«le cameriere sono come la tappezzeria per quella gente, in più indosso sempre una cuffia … nessuno vede i miei capelli rossi, che sono l’unica cosa che potrebbe tradirmi, e io cerco sempre di farmi notare il meno possibile. Nessuno riconoscerebbe in me la donna che si presenterà al fianco di Joseph» disse con un sorriso tirato.
«che vuoi dire?»
«che mi tirerò a lucido. Sai, abiti costosi, trucco, aria sicura e portamento … cose del genere, che per ovvi motivi non mi sognerei mai di tirare fuori vestita da cameriera» lui la guardò un attimo.
«hai preso lezione di portamento?» lei annuì.
«quando ero più piccola. Di portamento, di danza, di musica … so fare un paio di cose» ammise con un sorriso timido.
«e ora fai la cameriera a quello lì …» Caroline sospirò.
«non credere … mi è andata meglio di quanto tu non possa immaginare. Joseph è impulsivo, è vero, ma mi protegge come nessuno potrebbe fare»
«e se ti chiederà di sposarti?» lei lo guardò per un attimo sconcertata.
«non accadrà» disse sicura.
«si, ma se accadesse?» insistette lui, fermandola in mezzo alla strada per guardarla negli occhi.
«non accadrà Dimitri. E comunque, non posso fare di testa mia. Ho bisogno di lui, qualsiasi cosa mi chiedesse, dovrei farla» gli fece notare lei. Il ragazzo si infiammò.
«anche andarci a letto?» il veleno di quelle parole penetrò in fondo a Caroline, che nonostante questo rimase impassibile.
«Dimitri, mi stai dando della puttana?» chiese con una freddezza che non si immaginava di avere. Lui le lasciò il braccio come scottato.
«no, sto solo facendo un’ipotesi! Tu sei una bella donna e se lui … se lui ti volesse …»
«io e Joseph siamo cresciuti insieme. Lui è diventato quello che è, ma ti assicuro che mai, mai, potrebbe fare una cosa del genere a me» lo interruppe lei, prima che il ragazzo finisse la frase. E malgrado tutto, ne era davvero sicura, anche se non solo per i motivi che stava esponendo in quel momento. Joseph non l’avrebbe mai toccata perché era ebrea, e mai si sarebbe unito con qualcuno come lei.
«nutri molta fiducia in lui» rispose amaro allora.
«ma tu vuoi proprio litigare oggi! Mi ha salvato la vita, e che mi piaccia o no devo stare alle sue condizioni. Questo è quanto Dimitri e tu lo sapevi quando abbiamo cominciato questa … questa cosa. Io tengo a te, Dio se tengo a te, ma noi non siamo fidanzati, noi non siamo niente, mentre Joseph è la mia assicurazione alla vita. Chiamami spietata, ma ho perso troppo per rimetterci anche la pelle solo per saziare il tuo ego!» era stata dura, mentre ancora stringeva tra le sue mani il regalo del ragazzo. Non avrebbe voluto rispondergli in quel modo, in strada, ma sentiva già da un po’ di dover mettere in chiaro le cose. Dimitri non poteva essere geloso di Joseph, come invece si era dimostrato negli ultimi tempi, lei non aveva la forza di sopportare tutto quello.
«hai ragione … scusami» aveva risposto il ragazzo dopo qualche attimo di sbandamento, abbassando gli occhi. Caroline gli si avvicinò, lasciandogli una leggere carezza sulla guancia ispida di barba scura.
«se ti avessi conosciuto in un’altra occasione sarei felice della tua gelosia e probabilmente ti chiederei di portarmi via con te. Scriverei il mio nome accostato al tuo cognome con aria sognante e non ti parlerei mai, per nessuna ragione, così. Cucinerei dolci a forma di cuore per te, come sognavo di fare da bambina e andrei a comprare il pane al tuo panificio due volte al giorno pur di vederti di nascosto dai miei genitori, che si farebbero prendere bonariamente in giro da me. Ma non siamo in un’altra situazione e io non voglio che né io né tu rimaniamo delusi da qualcosa che non può essere» disse in un sussurro appena udibile dal giovane.
Lui le catturò la mano e posò un bacio leggero sul suo dorso.
«lo so, Elly. E Dio sa quanto vorrei che tutto ciò fosse possibile. Così tanto, che a volte dimentico che sono solo fantasie» le disse per poi intrecciare le loro mani.
«Andiamo, ti riaccompagno» lei gli sorrise e lo seguì, con un peso nel petto che sapeva troppo di senso di colpa. 
A casa Caroline si ritrovò a lucidare l’argenteria per tutto il resto del giorno. Aveva pulito a fondo tutto, la casa risplendeva e l’indomani mattina avrebbe dovuto dare solo gli ultimi faticosi ritocchi e cucinare. Aveva pensato e ripensato alla discussione di quella mattina, un peso nel cuore.
Si stava davvero affezionando a quel ragazzo dagli enormi occhi blu, ma non voleva innamorarsi. Cercava di non pensarci, ma quando lo faceva si rendeva conto che le possibilità di stare insieme per loro erano pressoché vicine allo zero. Se la Germania avesse vinto, per lei non ci sarebbe stato posto in nessun luogo d’Europa, sarebbe dovuta partire per l’America con pochi spiccioli e un nome falso: di certo Dimitri non avrebbe potuto seguirla e lasciare la propria famiglia per lei. Se invece la Germania avesse perso, magari c’era qualche remota possibilità che lei potesse restare, anche se trovava l’idea abbastanza nauseante, ma Dimitri sarebbe finito di sicuro al fronte. E al fronte gli uomini muoiono. 
Joseph arrivò allegro quella sera, affamato e con una gran voglia di chiacchierare. Lei invece non era dell’umore adatto per dargli corda, sebbene avesse un carattere solare che raramente la portava a tenere il broncio. Aveva apparecchiato il tavolo e servito pane, formaggio e salame. Non aveva avuto né il tempo né la voglia di cucinare, così era scesa di casa per cinque minuti esatti a comprare quella roba prima che chiudessero tutti i negozi. Joseph aveva guardato il tutto contrariato, ormai abituato a una migliore accoglienza.
«perché non hai cucinato?» aveva esordito quando, si era seduto a tavola con lei, sistemandosi meglio sulla sedia.
«perché non ne ho avuto il tempo. Non so se hai presente cosa ho dovuto fare negli ultimi due giorni» aveva detto risentita lei, stanca per tutto quel lavoro. E ancora non aveva finito: doveva rassettare la cucina e preparare il bagno al principino, che di certo non poteva riempire da solo una vasca di acqua calda e sapone!
«ma non ci sarebbe voluto niente a preparare … che ne so, una Schnitzel!» aveva detto, incurante del malumore che gravitava intorno alla ragazza.
«e fattela tu, allora!» aveva detto prima di addentare il pane farcito. Lui era rimasto stupito.
«Dio mio Caroline quante storie per fare un po’ di pulizia! Neanche se avessi una reggia!» aveva commentato allora lui burbero. E lei non lo aveva mandato a quel paese solo perché aveva la bocca piena.
«sbrigati a mangiare, che devo sistemare qui. Vado a prepararti il bagno, se fai tardi poi si raffredda l’acqua» aveva detto dopo aver trangugiato la cena. Joseph era interdetto, ma fece come diceva perché non ci teneva a fare il bagno nell’acqua gelata. 
Quando uscì dalla sua camera profumato e rilassato Caroline era già nella propria stanzetta fredda, la cucina luccicava e la casa era buia e silenziosa. E pensare che erano appena le otto! 
Fu indeciso se bussare o meno sulla porta della ragazza. Aveva voglia di compagnia quella sera, voleva parlare, ridere … fissò quindi la porta con insistenza, sperando che Caroline uscisse per qualche ragione, senza però riuscire a trovare una buona motivazione per cui lui avrebbe dovuto parlare con lei, un’ebrea che gli faceva da cameriera. Così, dopo qualche minuto, sbuffando tornò in camera. Guardandosi in torno, si accorse di non avere voglia né di dormire, né di leggere, né di ascoltare la radio. Voleva compagnia. Così si liberò del pigiama e della vestaglia che aveva indossato, per sostituirli con un pantalone di velluto marrone e un maglione blu. Sopra gli abiti indossò un cappotto di feltro lungo fino alle caviglie, ben abbottonato, una sciarpa e un cappello intonato al cappotto. Quindi, lasciò la casa silenziosa in cerca di un qualche divertimento. Era lunedì, quindi molti bar erano chiusi, così dovette camminare a lungo, il vento gelido e la neve che gli bagnava le scarpe. 
Il bar in cui alla fine arrivò era più una bettola, una squallida birreria in cui si riunivano tutti gli ubriaconi del quartiere e che non chiudeva neppure la domenica. Il puzzo di alcool e di fumo lo investì in pieno non appena mise piede nel locale, insieme col calore dovuto alla presenza di troppi esseri umani in uno spazio esiguo. Il luogo infatti era strapieno come al solito, le cameriere non avevano un attimo di pace e sgambettavano attraverso i tavoli, scivolando come anguille negli spazi troppo stretti. Le prostituzione era condannata dal governo, ma c’erano luoghi, che pagavano consistenti mazzette agli ufficiali più in alto nella scala sociale, in cui era ancora abbastanza tollerata. Quello era uno di quei posti. La verità era che anche agli uomini dell’esercito, fedeli al duce, piaceva trastullarsi tra le gonne di quelle donne prive di pudore e di amor proprio, o semplicemente tanto disperate da non avere altra scelta. Il prezzo del loro silenzio erano servizi gratuiti, qualora si imbattevano in qualche soldato. Le donne li odiavano, perché non le pagavano e perché a volte le costringevano alle peggiori depravazioni, ma quello era il prezzo, e lo sopportavano con uno scintillante sorriso sulle labbra. 
Non tutte le cameriere comunque erano prostitute. C’erano certe ragazze che non si erano mai vendute, sebbene già il fatto che lavorassero in quel postaccio le aveva procurato una cattiva fama. C’erano anche quelle che si, si erano vendute, ma non lo facevano con assiduità ma piuttosto quando si ritrovavano costrette dalla necessità a concedere le proprie grazie. C’erano poi altre donne, che avevano il compito di tenere compagnia ai signori che si sedevano nei tavoli, e non facevano nient’altro, se non seguirli nelle camere al primo cenno di assenso. Joseph c’era già stato parecchie volte, prima, quando era solo un ragazzino con gli ormoni a mille e aveva pagato un occhio della testa, e dopo, da soldato temuto. Era abbastanza bello e le donne all’inizio se lo contendevano: una bella differenza a paragone di certi vecchi bavosi. Quando però si era sparsa la voce che fosse un soldato, e che quindi spesso e volentieri non pagasse, la proprietaria mandava a “fargli compagnia” le peggiori ragazze, quelle un po’ più vecchie e meno richieste. Lui però preferiva quelle cameriere più bisognose, che si concedevano sempre con uno sguardo di sconforto e una rassegnazione che lo accendeva, che lo faceva sentire potente. Se riusciva ad accaparrarsi una di quelle ragazze di solito le lasciava anche qualche spicciolo, se si divertiva particolarmente era capace di darle persino di più di quanto loro stesse non avrebbero chiesto. Non aveva problemi finanziari, e si sentiva un uomo giusto disposto a pagare i propri debiti, così agiva di conseguenza. 
Quella sera si era seduto in un angolo e aveva ordinato un bel boccale di birra da mezzo litro. Era quindi arrivata una donna sui quaranta, con un abito troppo scollato che le metteva volgarmente in mostra il seno provato dal tempo e un trucco appariscente che aveva lo scopo di nascondere le rughe, ma che non ci riusciva poi granché. La vita doveva essere stata dura con quella donna, era invecchiata male e di lì a qualche anno non avrebbe più avuto come mangiare. Gli fece un po’ pena per la verità, così rimase a parlare con lei di argomenti futili, tracannando una birra dietro l’altra e stringendole i fianchi mentre lei poco convinta lo invitava in una delle camere del piano di sopra. Non tutti potevano permettersi una camera, molti si limitavano ad usare lo stanzino dietro il bancone o il cortile nel retro del locale, che odorava di sperma e profumo, ma agli uomini come lui spettavano certi lussi. 
«ascolta, senza offesa, ma vorrei sapere se qualche cameriera è disponibile per … un’extra, a fine turno» lei lo guardò pensierosa, per niente offesa ma anzi sollevata.
«dimmi, chi ti interessa?» aveva chiesto con curiosità sincera. Joseph, mezzo brillo, aveva indicato una cameriera a due tavoli di distanza. Un uomo le stava palpeggiando il sedere e lei era in evidente imbarazzo, nonostante non si sottraesse da quelle sgradite attenzioni. Aveva i capelli rossi e lunghi e un viso di bambina cresciuta troppo in fretta. La donna la guardò per un attimo.
«Rose … » quasi sospirò la donna. Poi senza guardarlo negli occhi continuò
«lei non fa quasi mai questo genere di cose, e tu sei un soldato. Sarebbe ingiusto, non ti pare?» provò a difenderla. Lui ignorò il commento e continuò.
«quanti anni ha? Sembra giovane, e io non sono il solo ad averla notata» le donna sorrise amara.
«ha appena diciassette anni» Joseph annuì, silenzioso.
«racconta, quale storia disastrata si nasconde dietro di lei?» la donna esitò un attimo, così lui fece un gesto di impazienza con la mano.
«potresti anche impietosirmi, sai? Potrei aiutarla, se la storia mi facesse abbastanza pena» aveva detto, per poi scolarsi un altro lungo sorso di birra.
«e va bene, se la metti così. Il padre è morto da qualche anno, e da quando il fratello è stato chiamato in guerra la situazione è precipitata. In casa deve mantenere una madre malata e due bambini piccoli» Joseph si accigliò.
«perché il fratello è in guerra, se era l’unico mezzo di sostentamento della famiglia? Facendo domanda, avrebbe potuto evitare ancora per un po’ la leva» la donna alzò le spalle.
«non ne ho idea. Sospetto che la domanda sia stata rifiutata per qualche motivo, forse il padre era un dissidente, o qualcosa del genere» lui annuì, poi finì la birra. 
«dille che l’aspetto in una stanza, chieda a Dora il numero, dipende da quale è libera. Sai che non può rifiutarsi, ma non preoccuparti: ho anche io un cuore, se farà la brava la pagherò» disse con un ghigno sadico. La donna rimase in silenzio. Beh almeno gli ha fatto abbastanza pena da pagarla pensò amaramente. 
Joseph  si diresse quindi al bancone, la testa leggera ma non abbastanza da farlo barcollare: teneva bene l’alcool. Pagò a Dora tutta la birra che le doveva poi continuò.
«prendo una stanza, la meno sporca che hai libera» la donna lo guardo con un sorriso finto.
«la numero tre, ti accompagna Jenny?» aveva chiesto sperando in una risposta positiva.
«no, voglio Rose. Mandamela il prima possibile, vorrei non aspettare tutta la notte» aveva detto lui con sguardo annoiato. La donna invece aveva trattenuto un sospiro.
«ha quasi finito il turno, credo che in un quarto d’ora possa essere da te» lui annuì, poi aggiunse.
«dille di darsi una rinfrescata, non mi piacciono le donne che puzzano» aveva detto con cattiveria, e la donna aveva stretto le labbra con rabbia. Joseph amava irritarla, per questo quando accettava le peggiori donne che gli mandava per un lavoretto di bocca non le pagava mai e sempre per questo la trattava con quell’aria di sufficienza. Comunque sia lui che la donna convenivano che c’erano uomini peggiori con l’uniforme. Joseph salì per la scaletta angusta e ripida, poi voltò a destra e trovò la stanza. C’era tanfo di tabacco e l’ambiente era freddo perché il camino era spento. In compenso non era ancora stata usata quella sera, quindi non c’era quell’odore tipico di sesso che facevano sempre quelle camere. L’ambiente era piccolo, con un letto al centro dal copriletto rosa rovinato dal tempo. Di fronte al letto c’era uno specchio che rifletteva quasi tutta la camera, spoglia se non per un tavolino contenente una brocca con dell'acqua. Le pareti erano di un rosa pallido e sporco, alonato dal fumo del tabacco, franato in qualche punto. 
La ragazza arrivò dopo venti minuti buoni e lo trovò seduto sul materasso a fumare una sigaretta. Aveva fatto accendere il fuoco, così adesso la piccola stanza era più calda e rischiarata dalla luce calda del fuoco, che le dava un’aria a malapena più accogliente. La ragazza, vedendolo, era arrossita furiosamente. Aveva gli occhi azzurri ed era meno bella di Caroline ma probabilmente, si ritrovò a pensare Joseph, da dietro sarebbe andata bene. Effettivamente le due ragazze avevano lo stesso pallore, capelli rossi, lentiggini ovunque e una corporatura simile. 
Le sorrise e le fece segno di sedersi accanto a lui. Lei ubbidì rigida, e lui se ne stupì.
«Rose, giusto?» lei aveva annuito, così lui aveva continuato.
«il mio nome è Joseph. Immagino ti avranno avvisato che sono un soldato» chiese Joseph, guardandola intensamente. Lei abbassò lo sguardo e annuì di nuovo.
«ti faccio paura?» chiese quindi con disinvoltura. La ragazza si irrigidì.
«è vero che non sono capitata poi tante volte in questa situazione, ma voi siete l’unico tra tutti quelli che ho conosciuto che sta cercando di mettermi a mio agio. Certo, non mi pagherete neanche, però di certo non mi fate paura» aveva detto sempre con lo sguardo basso.
«e chi ha detto che non ti pagherò?» Rose tentennò.
«Dora mi ha detto così» lui annuì, poi frugò in tasca e ne uscì del denaro. Tanto, troppo, per quello che avrebbe dovuto pagare. Glielo porse, e lei lo prese con gli occhi fuori dalle orbita.
«Jenny mi ha raccontato la tua storia» spiegò. Lei strinse il denaro nella mano, poi alzò gli occhi su di lui.
«grazie» disse sinceramente, intascando l’inaspettato compenso.
«mi hai colpito sai? Con i tuoi capelli … la mia migliore amica, li aveva così» disse con un sorriso.
«siamo cresciuti insieme, eravamo inseparabili … sembravamo fratelli»
«cosa le è successo?» chiese allora la ragazza. Joseph stette in silenzio per un attimo, indeciso.
«è morta, nel 1933. Ma quand’ero piccolo ero convinto che l’avrei sposata» rise brevemente.
«lo dicevo sempre a mio padre: da grande sposerò Elly. Poi si mise in mezzo la vita. Però mi è rimasta la fissazione con i capelli rossi» la ragazza ora lo guardava con uno sguardo strano.
«mi dispiace che le sia accaduto questo. Deve essere stato un legame tanto forte, per portarvi a cercarla nelle altre donne dopo tanto tempo» Joseph annuì.
«lei era la parte migliore di me e lo sapevo anche se eravamo entrambi solo dei bambini» Rose annuì. Era affascinata da quell’uomo. Non sembrava un soldato, sembrava un uomo forte, sicuro di sé e che provava sentimenti profondi, ma anche tanto solo. Non era uno dei soliti uomini che si trovavano in quel tugurio, era bello, evidentemente ricco, con una buona posizione nell’esercito. Non avrebbe faticato a trovarsi una donna senza bisogno di pagarla e Rose si ritrovò, suo malgrado, a inorgoglirsi per essere stata scelta da un uomo simile.
«perché cercate compagnia qui, se posso chiedere? Molte donne meno disperate di me sarebbero felici di accontentarvi senza neppure il bisogno che voi le paghiate» aveva quindi osservato lei. Joseph l’aveva studiata per un attimo, mentre lei nervosa giocherellava con le ciocche rosse di capelli. Poi aveva dato la sua risposta.
«Vedi Rose … avere una donna fuori di qui significa intanto dover uscire spesso … e a me raramente va di farlo, come questa sera. Significa poi dover corteggiare la suddetta donna, trovare un pretesto per fare in modo che questa salga a casa tua da sola, far sparire la cameriera dalla circolazione e dopo, forse, arrivare al dunque. Non ho problemi di denaro, quindi preferisco ampiamente la seconda opzione. Meno fatica» disse con un mezzo sorriso. Rose, stranamente, aveva ricambiato.
«la soluzione più efficiente e veloce, insomma» Joseph aveva annuito, poi aveva uscito una fiaschetta dal cappotto e ne aveva bevuto un sorso, per poi porgerlo alla ragazza, che ne aveva tracannato un bel po’. Quindi, riposto il whiskey al suo posto si era alzato e aveva appeso il proprio cappotto, poi aveva fatto scivolare via le scarpe e anche il maglione. Era rimasto in pantaloni e camicia, sotto lo sguardo incantato della ragazza. Era bello, era stato gentile e l’aveva sottratta a un’altra ora di turno sfiancante, tra vecchi ubriachi che la palpeggiavano. Infatti, Dora aveva mentito: il suo turno era tutt’altro che finito, solo che la vecchia signora non vedeva l’ora di togliersi di torno il soldato. Rose quindi non si stupì quando istintivamente si ritrovò a sorridergli. Joseph le diede le schiena, avvicinandosi al camino per riscaldarsi, lasciando la ragazza ad ammirare la linea perfetta delle spalle, larghe e muscolose al punto giusto, che si concludevano nel suo sedere perfettamente fasciato dal pantalone. Sarebbe bello stringersi ad un corpo tanto perfetto si ritrovò a pensare la ragazza
«Dimmi Rose, io stasera avrei davvero bisogno di compagnia. Sei disposta a concedermela?» Rose per tutta risposta si alzò andandogli vicino. Dopotutto non era così ingenua e forse per la prima volta avrebbe tratto lei stessa un po’ di piacere da quel mestiere ingrato. 
«sono qui per questo, Joseph»
***
La vigilia di Natale passò esattamente come Caroline aveva prospettato e cioè terribilmente. La casa era piena di gente che non faceva altro che parlare di politica, di quanto fosse magnifico il Fhurer e di quanto fossero indegni di vivere ebrei, comunisti, ritardati, zingari e così via. Lei invece passò dalle cinque del pomeriggio all'una di notte a fare avanti e indietro dalla cucina al salotto, piena d'ansia e cercando di fare ogni cosa il più in fretta possibile. Aveva odiato ogni singolo istante e alla fine si era ritrovata i piedi gonfi e doloranti, per non parlare del mal di testa. Fu felice quando si ritrovò finalmente da sola nella sua cameretta, per quanto la cosa potesse essere assai triste. Non c’erano regali per lei, familiari o amici che le facessero gli auguri, bambini che la rallegrassero. C’era solo Dimitri, che in quel momento le pareva lontano anni luce. Aveva finalmente messo la sua camicia da notte, ma il freddo l’aveva portata a indossare anche la vestaglia per dormire, e in quel momento stava rannicchiata con le ginocchia al petto cercando di non piangere ma di dormire, sotto innumerevoli strati di coperte di lana. Era stato in quel momento che Joseph aveva lievemente bussato alla porta, per poi fare capolinea dalla porta, un oggetto in mano che Caroline non riusciva bene a distinguere. La guardò per un attimo, poi si schiarì la voce.
«volevo dartelo domani mattina, ma credo sia più utile ora. Non sapevo se farti un regalo, quindi alla fine stamattina ho comprato questa stufa per la stanza. So che soffri il freddo …» disse lievemente imbarazzato.
«mi hai comprato una stufa?» lui aveva annuito, sedendosi sul letto, e lei si era alzata, finendogli vicino.
«si, è di seconda mano, ma deve durare per questo inverno, il prossimo massimo, non so dove mi manderanno dopo, quindi non …» Caroline non lo fece finire di parlare, che si ritrovò ad abbracciarlo, mentre lui impacciato cercava di allontanarla.
«grazie, davvero, davvero grazie. Non dormivo con una stufa in camera da troppo tempo, credimi» lui aveva accennato un sorriso, mentre lei guardava la stufa malmessa come se fosse il più prezioso tra i tesori
«beh vediamo di farla funzionare, allora!»
Era una vecchia stufa a legna, di ferro, in cui bastava accendere il fuoco dentro per rendere la stanza più accogliente. Quindi ci misero poco per farla funzionare, nonostante fosse un po’ traballante e arrugginita in qualche punto. Joseph rimase ad attizzare il fuoco fino a che la stanza non fu discretamente calda, mentre Caroline lo guardava in silenzio, cercando di imparare come fare. 
«dico che va bene adesso, tu che dici?» aveva chiesto infine il ragazzo, che aveva iniziato a sudare per l’eccessiva vicinanza al fuoco.
«si, credo che possa andare bene» aveva risposto lei allegra. Joseph si era quindi alzato e le aveva raccomandato come si fa con i bambini.
«Allora, non toccarla perché è tutta di ferro e ti scotteresti, non poggiarci niente sopra sennò prende fuoco, e soprattutto non provare ad accenderla se non ci sono io: so che tu non hai idea da dove cominciare per accendere un fuoco»
«va bene, non preoccuparti. Buona notte … e grazie» Joseph, già sull'uscio, aveva alzato le spalle come a scrollarsi di dosso la sua gratitudine, poi si era chiuso la porta dietro.
25/12/1929
Caro Jo
Buon Natale! 
È la seconda lettera nel giro di pochi giorni, ma non ho saputo trattenermi: insomma come potevo non farti gli auguri di Natale? Papà dice che spendiamo un patrimonio in francobolli, ma tanto lo so che scherza. Stamattina ho accompagnato mamma in Chiesa, poi abbiamo mangiato un sacco per pranzo, stavo per scoppiare! 
Ma tu sai che il mio momento preferito è scartare i regali. Mamma mi ha regalato una bambola di porcellana, finalmente! Ha detto che sono abbastanza grande adesso, e che se la rompo non me ne comprerà più, e io sono strafelice, perché finalmente Mary e Jane smetteranno di prendermi in giro per le mie bambole di pezza.
Il nonno invece non ti immaginerai mai cosa mi ha portato … tieniti forte Jo, perché finalmente ho un gatto! Un gatto tutto mio, che in questo momento mi sta in braccio godendosi le carezze! Sono così felice che non riesco a trattenere l’euforia, quindi ti ho scritto: dovevi saperlo per forza. 
E poi, ti ho spedito il regalo di Natale che sarebbe dovuto arrivare oggi. Devo stare zitta, perché se non ti è ancora stato recapitato rischio di rovinarti la sorpresa, però sono sicura al cento per cento che ti piacerà: ti conosco troppo bene per sbagliare. 
Un bacio
Elly
PS: voglio sapere come hai passato tu il Natale e che ne pensi del regalo, quindi non ti rischiare a non rispondere SUBITO a questa lettera. Aspetterò con ansia.

 

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Capitolo 13
*** Attori ***


Caroline si rigirava nel letto, sollevata che finalmente tutto il trambusto di quei giorni fosse finito. Era nella sua camera, ora illuminata in maniera quasi romantica dalla stufa nell’angolo più lontano dal letto. Era stato gentile Joseph, facendole quel regalo del tutto inaspettato, l’aveva piacevolmente sorpresa e adesso non riusciva più a guardare la sua camera senza pensare a quanto dolce fosse stato quella sera. Certo la cosa la infastidiva parecchio, perché non bastava una stufa per farle dimenticare il modo indegno con cui era capace di trattarla. La ragazza di certo non aveva idea del tormento che aveva dato all’anima assopita dell’ufficiale, così abituato a lasciare che fossero gli altri a pensare al posto suo.  Joseph si era ritrovato a dover fare delle scelte difficili, che lo avevano messo in crisi, che avevano risvegliato in lui vecchie paure e verso cui provava sentimenti contrastanti. Caroline non riusciva a vedere il suo dilemma, anche se sapeva che in quell’uomo albergavano come due persone diverse. Ma non aveva idea di essere stata lei a scatenare quella furiosa guerra interiore che non dava pace all’anima di Joseph.
Caroline piuttosto pensava, nel tepore confortante della sua cameretta, a cosa era significato per lei il Natale quell’anno in confronto a come invece lo aveva vissuto per tutta la sua vita. Probabilmente se fosse rimasta a casa non avrebbero potuto permettersi neanche una cena degna di quel nome, ma il Natale era da sempre la sua festa preferita, quello era il periodo dell’anno che preferiva e le sembrava che quella volta nulla fosse andato come avrebbe dovuto. Non aveva passato la giornata con le persone che più amava, non aveva guardato le espressioni stupite davanti ai suoi regali e non aveva cucinato il pan di zenzero con sua madre. 
Anche se era ebrea infatti il Natale per lei era sacro: la situazione dal punto di vista religioso a casa sua era più complicata e confusa di quanto non sembrasse. Infatti sebbene il padre di Caroline fosse ebreo, la madre della ragazza era figlia di un’ebrea e di un cattolico. La nonna di Caroline si era convertita al cattolicesimo in vista del proprio matrimonio, così la figlia era stata educata da cristiana e non ne aveva mai voluto sapere di lasciare la propria religione. Caroline era quindi cresciuta in quello strano connubio tra le due fedi e da sempre aveva cercato un modo per unirle. Il Natale nello specifico era la sua festa per eccellenza: da bambina infatti lo vedeva come il momento in cui le sue due religioni si erano unite. E poi amava le cioccolate calde accanto la stufa, i dolci di pan di zenzero, le zuppe calde, le vacanze di Natale, la prima neve dell’anno … la maggior parte delle cose che le avevano fatto amare il Natale nel corso degli anni erano sparite, però il suo amore era rimasto, anche quando quel periodo la faceva pensare alla partenza di Joseph. 
Quell’anno invece non aveva avuto il tempo di godersi nulla, era stata sballottata da un posto all’altro da Joseph che aveva voluto presentarla come sua fidanzata prima del galà di capodanno, mentre il giorno prima tutto quel trambusto per gli amici dell’ufficiale l’aveva stremata. 
Era così stanca da non riuscire a dormire. Per questo ad un certo punto si alzò in piedi con uno sbuffo, indossò pantofole e vestaglia e uscì dalla sua camera per prepararsi una cioccolata. Joseph era nella sua stanza, e poi non c’era nulla di male, anche se non aveva il permesso, nel cucinare una cioccolata. Prese il cacao e il cioccolato fondente, poi il latte. Recuperò un pentolino facendo un po’ di trambusto ma senza curarsene più di tanto, quindi mise a scaldare il latte, osservandolo soddisfatta.
«non ti pare maleducato fare la cioccolata senza invitarmi?» aveva chiesto Joseph dietro di lei, facendole fare un salto di un metro per lo spavento. Lui aveva riso in modo quasi infantile vedendola spaventarsi a quel modo.
«Joseph!» lui aveva ignorato il suo tono oltraggiato e aveva aggiunto il latte necessario per un’altra tazza nel pentolino.
«falla anche a me» aveva detto, per poi accendere la luce e sedersi al tavolo della cucina osservandola.
«ma tu non stavi dormendo?» aveva quindi chiesto stizzita. Era abbastanza arrabbiata con lui per tutto il lavoro che le aveva appioppato negli ultimi giorni.
«potrei farti la stessa domanda» osservò lui, così Caroline lasciò perdere. Fece sciogliere il cioccolato fondente nel latte, aggiunse il cacao e l’amido di mais per farla addensare. Ne vennero fuori due tazze di cioccolata calda fumante dense e dall’aspetto più che appetitoso. Joseph guardava la sua tazza felice come una pasqua, mentre aggiungeva lo zucchero, e Caroline osservava divertita la scena.
«la cioccolata calda era la tua specialità anche a nove anni, ma chissà come sei riuscita a migliorare» aveva commentato lui non appena ne aveva assaggiato un po’. Era divina. Caroline alzò le spalle.
«probabilmente sei tu che non hai bevuto molte buone cioccolate calde da allora. La ricetta è sempre quella» Joseph ridacchiò.
«forse hai ragione» disse, per poi restare in silenzio a godersi il sapore del cioccolato. La guardava da dietro la tazza, osservandole i capelli corti sparati ovunque e gli occhi verdi arrrossati dal sonno. Dio, quanto era bella.
Aveva i baffi di cioccolata ma sembrava non farci caso, continuando a bere concentrata. Per una volta, una sola, Joseph avrebbe voluto placare quel dannato fuoco che gli stava mangiando l’anima. Più passava il tempo, più si rendeva conto di desiderarla al di sopra di ogni altra donna.
«ti manca quel tipo … come si chiamava, il panettiere? Ti manca ancora?» aveva fatto quella domanda senza pensarci due volte, forse per gelosia, forse per curiosità. Caroline per poco non si era affogata.
«perché lo chiedi?» Joseph aveva scrollato le spalle, ed aveva abbassato gli occhi sulla propria tazza.
«so che non deve essere stato facile per te all’inizio vivere qui con me … però credo che ormai vada meglio, no?» Caroline gli sorrise.
«si, va meglio. Va decisamente meglio, però … provo qualcosa per quel ragazzo, e tu me l’hai strappato via» aveva detto un po’ dura, sperando di riuscire ad ottenere il permesso di vedere Dimitri alla luce del sole.
«provi … quindi ti manca» aveva osservato Joseph con più amarezza di quanto non avrebbe voluto.
«tu non ci sei mai … e quelle volte che ci sei devo stare attenta e capire in fretta se sei il dottor Jekill o Mr. Hyde. Non ho nessuno con cui parlare, non ho amici, mentre per Dimitri avevo iniziato a provare qualcosa. Certo che mi manca» Joseph non aveva risposto, guardando con attenzione la sua tazza. Lei non gli aveva mai parlato così schiettamente.
«io non sono volubile come mi fai apparire Caroline» aveva detto alla fine un po’ risentito.
«ah no? perché invece ci sediamo qui tutte le sere a chiacchierare e a bere cioccolata. Di solito la sera non ringhi ordini a destra e a manca prima di chiuderti nel tuo ufficio» aveva osservato lei con un pizzico di veleno.
«perché tu vorresti stare qui a parlare con me ogni sera?» aveva rivoltato la frittata lui.
«dipende»
«dipende da che cosa? Siamo così diversi che è già tanto se troviamo argomenti di conversazione di tanto in tanto, abbiamo idee dimetricamente opposte su tutto e non dovremmo neanche essere qui a parlarne, se io avessi seguito la legge» disse Joseph, scaldandosi.
«eravamo fratelli una volta …» Joseph sorrise amaro per quel commento a suo avviso del tutto inappropriato.
«tu non avresti fatto tutto questo per me. Sono io che mi sono aggrappato al tuo ricordo per sopravvivere all’inferno che ho passato, per te sono solo un vecchio amico di infanzia» Caroline incassò quelle parole, con stupore. Dopo quello che aveva vissuto da quando gli aveva smesso di scrivere aveva lasciato il suo ricordo in secondo piano, troppo impegnata a sopravvivere per pensare ad altro, però non aveva mai smesso di volergli bene. Semplicemente c’erano state questioni più urgenti da sbrigare perché lei si struggesse al suo ricordo e si eccitasse alla vista, dieci anni dopo, di un giovane ufficiale delle SS, che avrebbe avuto il potere di spararle seduta stante, solo perché portava il suo nome. Però le sembrò giusto, dopo tanti anni, dargli delle spiegazioni per il suo famoso silenzio stampa, dopo che lui le aveva scritto della sua decisione di entrare nella gioventù hitleriana.
«Joseph io ti volevo così tanto bene che avrei dato qualsiasi cosa per vederti felice. Quando mi hai detto che eri entrato nella gioventù hitleriana io non ti ho rifiutato come probabilmente hai sempre pensato. Ti avrei perdonato qualsiasi cosa ... ti ho perdonato qualsiasi cosa» Fece una pausa, pensando attentamente a cosa dire, mentre gli occhi di Joseph la fissavano quasi voraci, con un'intensità tale da farle distorcere lo sguardo, imbarazzata.
 «Io e mia madre abbiamo pensato tanto a come comportarci, sai? Tu eri solo a Berlino, ed era chiaro che finalmente avevi acquisito un po’ di felicità grazie a loro. Chi ero io per privartene? Chi ero io per impedirti di vivere con un minimo di gioia la tua vita? Volevo solo renderti felice, ma non potevo farlo a distanza, così come non potevo continuare a scriverti: non avrei mai voluto dirti delle bugie, perché non avrebbero retto, e non potevo dirti che sono ebrea perché con tutta probabilità avresti lasciato il gruppo» Joseph la guardò con una luce nuova.
«probabilmente l’avrei lasciato, hai ragione» Caroline annuì.
«e che avresti fatto a quel punto? Avresti continuato a farti picchiare da tuo cugino e dai suoi amici? No, ho preferito sparire di scena. Saresti stato felice e non mi avresti odiata. Saresti diventato un’altra persona, e io mi sono convinta a pensare che tu fossi morto, piuttosto che immaginarti fare le cose crudeli che vedevo fare agli altri soldati» Joseph la osservò finire il suo discorso e riprendere in mano la cioccolata. Poi ridacchiò stupito.
«se non è destino questo … se mi avessi scritto, non avrei mai avuto il potere di portarti via» anche Caroline sorrise, per poi incupirsi. Quel discorso le aveva fatto pensare ai suoi genitori.
«mia madre e mio padre … chissà dove sono e se stanno bene» Joseph sospirò.
«io ci ho provato a salvarli. Ho provato anche a fornirgli dei documenti falsi ma loro non hanno accettato nulla. Non so che fine abbiano fatto» non voleva dirle quello che sapeva, voleva darle un minimo di speranza. Ma lei lo anticipò.
«sono morti. Mia madre era malata, me n’ero accorta, non sono stupida. E mio padre senza di lei non so quanto possa essere andato avanti» aveva detto senza versare una lacrima.
«Caroline io ci ho provato. Ho provato persino a rintracciarli, ma non so se li hanno portati da qualche parte. Forse sono in qualche ghetto … » 
«hai provato a rintracciarli?» Joseph quasi arrossì.
«Inizialmente lo facevo quasi inconsapevolmente,  poi mi sono arreso all’evidenza: voglio sapere che fine hanno fatto. Gli devo così tanto …» sospirò, bevendo l’ultimo sorso di cioccolata.
«prima o poi troverò qualche registro in cui spuntano i loro nomi, stanne certa» aveva lo sguardo determinato e questo infuse in lei una speranza che non nutriva da tanto tempo. Era convinta che non avrebbe mai più rivisto i suoi genitori, aveva pianto lacrime amare per loro, adesso invece sembrava che Joseph le aprisse un piccolo spiraglio di luce.
«se saprai qualcosa, me la dirai?» chiese con speranza.
«certo, è scontato» mentì lui. C’erano cose che non le avrebbe mai potuto e voluto dire, però era anche vero che se avesse saputo che erano morti lei lo avrebbe saputo.
 «Andiamo a dormire, ora?» disse con uno sbadiglio, osservando la tazza vuota della ragazza. Lei annuì, così si alzò, mise le tazze nel lavandino, gli augurò la buona notte e si chiuse la porta della cameretta alle spalle, un sentimento nuovo, più benevole nei confronti dell’ufficiale a scaldarle il petto.
Il giorno dopo il buonumore l’accompagnò durante tutto il giorno. Dopo la cioccolata aveva dormito un sonno senza sogni e profondo. Non aveva sentito la sveglia, ma Joseph non si era lamentato e non l’aveva chiamata, così era rimasta a letto fino a tardi, prendendosi una meritatissima pausa. Sul tavolo Joseph le aveva lasciato un biglietto:
Credo che non ti sveglieresti neanche se bombardassero la città. Prenditi un giorno libero, a quanto pare ne hai bisogno, ma ricordati di preparare almeno la cena. Prendi i soldi che ti servono.
Come sempre ogni qual volta faceva qualcosa di gentile lui provava a dissimularla, ma Caroline apprezzò comunque il gesto. Di mattina si vide con Dimitri, che le era mancato tanto durante gli ultimi due giorni, e si erano trattenuti più a lungo fuori rispetto al solito. Poi lui era tornato a lavoro mentre lei si era seduta in un piccolo ristorantino per pranzare con una zuppa calda, per poi dirigersi in un negozio di dischi. Joseph aveva un grammofono in casa, ma era più un pezzo d’arredamento che altro visto quanto poco era usato e gli scarsi dischi disponibili. Caroline era decisa a non sfigurare durante il galà di capodanno e per quello ci sarebbe voluta un po’ di pratica, soprattutto da parte dell’ufficiale. Così comprò un disco con canzoni da ballare, in cui c’era più o meno tutto e con cui avrebbe torturato Joseph quella sera.
Tornò a casa tutta contenta del suo acquisto e si affrettò a creare una piccola pista nel salotto di Joseph, spostando tutti i mobili rasenti alle pareti. Poi mise il disco in posizione e lo provò, scoprendo che funzionava perfettamente, quindi lasciò tutto in quella posizione, le note della musica che si spargevano in casa e lei che cucinava a passi di danza.
Joseph tornò qualche ora dopo, e scoprì la propria casa piena di musica e dell’odore di torta alla melassa. Si dipinse un sorriso sul suo viso quando vide cosa quel tornado rosso avesse combinato in un solo giorno di libertà. Tutte le porte erano aperte, la cucina era piena di dolci appena sfornati e lei ballava davanti al forno. Non riuscì a non scoppiare a ridere davanti a tutta quell’allegria.
«casa mia si è trasformata in una pasticceria?» chiese divertito quando finalmente lei si accorse della sua presenza.
«no! c’è anche una zuppa, lì, che cuoce … sarà pronta presto. Ho solo pensato che ti servisse un piccolo incentivo per quello che ti aspetta» aveva un sorriso quasi sadico stampato sul viso.
«perché, che mi aspetta?» aveva chiesto lui, senza sospettare nulla ma anzi tutto allegro per quel buon profumo che sentiva aleggiare per casa.
«la senti questa musica?» aveva chiesto lei, mentre lui annuiva.
«è un valzer» disse, mentre Joseph con una mano provava a rubare un biscotto al cioccolato. Si beccò un colpo di cucchiaio di legno sulle dita, che ritrasse immusonito.
«ok, è un valzer. E allora?» chiese quasi risentito, guardando verso i biscotti con desiderio.
«E allora, tu non andrai a dormire fino a che non lo ballerei almeno in maniera decente» aveva detto sorridendo angelica, senza smettere però di tenerlo d’occhio, sicura che avrebbe approfittato della sua minima distrazione per fregarsi un biscotto.
«e domani faremo lo stesso con la Mazurca. E dopodomani con la Polca. E c’è anche un Tango in questo disco, se riesco a ricordarmelo bene, facciamo anche quello» 
«cosa è questa, una vendetta?» aveva chiesto lui, vagamente sconcertato.
«io non voglio fare una figuraccia né tantomeno tornare a casa con i piedi distrutti da te. Quindi a meno che non ci tieni a stare in un angolino tutta la notte di capodanno queste sere dovrai darti da fare, almeno per imparare i passi principali» Joseph si era sentito cadere le braccia a terra. Odiava ballare e un pezzo di legno si sarebbe mosso meglio di lui.
«devo proprio?» lei alzò le spalle.
«puoi sempre annullare tutto» disse con un sorriso angelico.
«se potessi, lo farei» aveva sbuffato lui. Beh almeno aveva cucinato la torta alla melassa, si consolò nella sua mente. E i biscotti. E anche il pan di zenzero! Si sarebbe fatto venire la carie, considerando quanto amava ogni qualsiasi forma di dolciume. Caroline si girò per dare un’occhiata alla zuppa di pomodoro, così lui si allungò fino a prendere un biscotto, per poi svignarsela dalla cucina il più velocemente possibile.
«ti ho visto!» gli urlò dietro lei, quando era ormai tardi. Lui neanche le rispose, la bocca troppo piena per parlare.
Il ballo fu tragico come si erano aspettati. Joseph sbagliava continuamente il piede da cui iniziare, i suoi passi erano o troppo grandi per essere eleganti o troppo piccoli per muoversi. Stava rigido come un bastone, gli sudavano le mani e continuava a guardare in basso per osservarsi i piedi. Azzeccare un tempo per lui sarebbe stata pura utopia, e Caroline si ritrovò a sperare che fosse costretto a ballare con qualcun’altra, giusto per godersi lo spettacolino che avrebbe dato. 
Alla fine comunque, riuscì a ricordare l’ordine dei passi e a capire come seguire il corpo di Caroline. Per lo meno non le pestava più i piedi, e riuscirono a ballare due canzoni intere senza interruzioni, così che, distrutta, Caroline poté finalmente dire basta.
Erano le undici passate e Joseph voleva solo infilarsi il pigiama e andare a letto.
Le lezioni successive furono meno disastrose, perché ormai Joseph aveva capito come funzionava: doveva imparare i passi base, guardare Caroline negli occhi e seguire quello che il corpo di lei gli diceva. Non gli veniva difficile capire cosa gli volesse dire, se lo tirava lievemente da una parte o se guardava in un punto per consigliargli cosa fare, la conosceva bene e da piccoli erano anche molto affiatati. 
Alla fine la sera del galà arrivò, tra l’ansia di Joseph e la paura di Caroline. Voleva essere stupenda, così cominciò a prepararsi alle quattro del pomeriggio, benché l’inizio del galà era previsto per le sei. Si lavò il corpo e i capelli, lasciandoli poi asciugare vicino la stufa spazzolandoli continuamente. Poi usò i ferri caldi per dargli la forma che preferiva, così che venissero perfettamente ondulati ad incorniciarle il viso. La cipria bianca come la sua pelle coprì le numerose efelidi, donandole un incarnato uniforme e quasi perlaceo, mentre il fard le diede un po’ di colore al viso. Il piegaciglia e il mascara le allungarono le ciglia in maniera seducente, mentre il rossetto rosso fu l’ultimo tocco per donarle un aspetto quasi regale. 
Joseph quando la vide pronta quasi non la riconobbe. Il verde del vestito, così aderente eppure non volgare, spiccava sul pallore della sua pelle, in contrasto con il rosso dei suoi capelli. Il cinturino con gli strass le risaltava la vita stretta mentre lo scollo profondo le dava un aria da femme fatale. I guanti poi erano un tocco di eleganza.
«andiamo?» dovette chiedere lei, per far sbloccare Joseph dai suoi pensieri. Si sentiva quasi in imbarazzo ad essere guardata da lui in quel modo, dopotutto era abituata ad essere trattata decisamente peggio.
Andarono in auto e Joseph si comportò da perfetto gentiluomo persino mentre scendevano le scale. Le apriva la porta, le porgeva il braccio, le sorrideva ed era dannatamente impeccabile in ogni suo movimento. Secondo la scenetta che avevano organizzato, lei era rimasta sola dopo la prematura dipartita dei genitori e non avendo altro luogo in cui andare ma conservando parecchi averi era andata a vivere a Berlino, in una delle sue proprietà. Essendo una vecchia amica di Joseph si erano incontrati per caso un pomeriggio e avevano iniziato a frequentarsi. Tutto era stato architettato in modo magistrale, non c’erano falle, mentre il loro racconto si avvicinava il più possibile alla realtà, cambiando solo quei particolari che dovevano essere taciuti.
Il ballo si teneva in un palazzo sfarzosissimo, con lampadari di cristallo e flute ricolmi di champagne, arrivato direttamente dalla Francia, in ogni angolo. Le donne erano impeccabili, gli uomini impomatati e rigidi, e tutti recitavano la propria parte con minuziosità. Caroline si ritrovò catapultata in quel mondo senza però dare a nessuno idea di quanto grande fosse la sua paura e il suo smarrimento. Abbandonò completamente la sua pelle, per andare ad interpretare quella di Emma, una ragazza discretamente ricca, rimasta sola troppo giovane, fidanzata dell’ufficiale Joseph Müller e molto raffinata. Le altre donne fingevano di essere felici di incontrare la fidanzata di quell’ufficiale così promettente, mentre lei fingeva di credere alle loro parole. Joseph fingeva di essere innamorato di lei, e lei fingeva di ricambiarlo, mentre fingeva anche di essere lusingata dai complimenti che gli altri uomini in divisa le facevano, invece che disgustata. I suoi veri sentimenti, quelli di Caroline, erano stati seppelliti nel trucco e nel vestito elegante, e lei se ne sarebbe resa conto solo quando sarebbe finito quel teatro, alla cui regia stava il Fhurer che veniva ricordato continuamente con quei fastidiosi “Heil Hitler”, cui era obbligata a partecipare. Ballò tanto quella sera, Joseph non fece figuracce esagerate anche se era palese quanto poco fosse portato per la danza. Ballò molto con un ragazzo, di cui Joseph finse di essere geloso, figlio del proprietario della tenuta, che diceva di salvarla da quel “ottimo soldato, ma pessimo ballerino” quale era il suo fidanzato. Aveva persino brindato all’anno nuovo, salutato Hitler per l’ennesima volta, e dato un bacio a stampo sulle labbra di Joseph senza neanche pensarci. Era quello che si ci aspettava da una coppia di fidanzati, era quello che avevano fatto tutti. 
Caroline si rese conto che erano entrambi abbastanza brilli solo quando l’autista li lasciò sotto casa loro e Joseph le prese il braccio accompagnandola con galanteria. Barcollavano leggermente e il freddo non sembrava neanche tanto pungente, nonostante le nuvolette di condensa che uscivano dai loro nasi e la neve ammucchiata ai lati delle strade. Il rossetto ormai era solo un lontano ricordo, e adesso le guance di entrambi erano rosse come pomodori maturi. Salirono le scale ridacchiando, poi Joseph chiuse la porta di casa e vi si appoggiò, Caroline ancora appoggiata su di lui che continuava a ridere. 
«non è stato tanto male alla fine no? Io mi sono divertito» sostenne lui.
«e l’autista avrà pensato malissimo di me, vedendomi tornare a casa tua» le rispose lei facendosi strada verso la cucina e sfilandosi le scarpe. Sospirò di sollievo quando i piedi nudi toccarono il pavimento freddo.
«io credo che fosse più concentrato ad invidiarmi che a pensare alla tua reputazione» lei ridacchiò.
«certo, non è bello passare la notte di capodanno in auto» le rispose lei sempre dandogli le spalle mentre apriva la porta della cucina. Ma lui la colse di sorpresa, impedendole di varcare la soglia: la afferrò per un braccio e la fece voltare, facendole bruscamente sbattere le spalle contro il muro, aiutato anche dallo scarso equilibrio causatole dallo champagne.  
«non per quello, Caroline. Sei bellissima stasera» disse lui, troppo vicino, guardandola intensamente. Lei non riuscì a sostenere il suo sguardo, così commentò fissando il pavimento:
«la magia del trucco e di un bell’abito» si schernì. Aveva paura di quello che stava facendo. Quella sera, dopo la mezzanotte, dopo aver poggiato le sue labbra su quelle di lui con tanta leggerezza, aveva sentito che qualcosa era cambiato, come se avesse risvegliato una bestia dormiente. 
«la magia dei tuoi occhi. Avevi ragione da bambina, sono più belli dei miei. Sono più belli di qualsiasi altri occhi io abbia mai visto» disse continuando a tenerla per un braccio. Non che lei avrebbe avuto la forza di staccarsi.
«Joseph, tu sei ubriaco» disse, senza però neanche pensare ad allontanarsi. Si sentiva ancora un po’ Emma, e forse quella ragazza … quella ragazza era lei, se fosse rimasta ricca, se Hitler non le avesse distrutto la vita. Emma era la ragazza che sarebbe stata se non avesse dovuto soffrire tanto. Ed Emma era immensamente affascinata da Joseph, dalle sue labbra, dalla sua voce …  Joseph dal canto suo guardava quella donna quasi disperato. Lei era la donna che voleva per se stesso, così bella, forte e fragile allo stesso tempo, nobile nei gesti e nelle parole, una donna che lo conosceva come le proprie tasche e che era capace di comunicare con lui anche solo con uno sguardo. Quella era la sua donna. Peccato che fosse tutta una finzione ben congegnata, e domattina Emma sarebbe stata solo un fantasma dentro quel bel vestito vuoto appeso nell’armadio.
La lasciò andare, aspettandosi che lei si rintanasse nella sua cameretta e tornasse ad essere Caroline, ma lei lo stupì. Alzò gli occhi su di lui, con un sorriso amaro, prendendo coraggio. 
«noi due, Joseph, staremmo insieme se la vita non si fosse messa in mezzo» aveva affermato con sicurezza. Al ché Joseph le rispose, con altrettanta sicurezza
«e saremmo perfetti insieme» poi calò su di lei e la baciò, stringendola a sé stesso come a volersi fondere con lei.
Caroline si stupì di se stessa, ricambiandolo senza neppure esitare un attimo, come se avesse sempre saputo che sarebbe finita in quel modo, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Le spalle del soldanto, a cui si era disperatamente aggrappata, erano giuste nelle sue mani, così come il suo sapore, il suo odore, il suo modo di fare … era quello che il suo corpo voleva, che richiedeva, e non le dispiacque per neanche un secondo. La sua lingua le aggredì la bocca, ma lei non fu da meno, mentre il tempo e lo spazio si fermavano e restava solo il corpo di Joseph che reagiva con il suo come se fossero nati per quello. Joseph era bollente, era duro, era implacabile e lei, lei era semplicemente in paradiso. Le mani di lui erano calde attraverso la stoffa, nelle sue spalle e poi più giù, nel suo sedere, e la stringevano facendola fremere per qualcosa che non riusciva a capire né tantomeno a placare. Sentiva un calore nel basso ventre che non riusciva in nessun modo a contenere, che la portava a strusciarsi su di lui, lui che con prepotenza aveva messo un ginocchio tra le sue gambe alzando il vestito, e gemeva su di lei ad ogni movimento del suo bacino. La sua lingua, che faceva di tutto per dominarla, i suoi denti che la mordevano, le sue labbra che succhiavano via il dolore dei morsi dalla sua bocca.
Perché loro erano così, o tutto o niente. E in quel momento volevano tutto, e se lo sarebbero anche presi se, mentre lui le divorava il seno non avrebbe stretto troppo i denti, facendole aprire gli occhi. 
Se glielo avessero chiesto, non avrebbe saputo mai rispondere come, ma in qualche modo era arrivata nella camera di Joseph, sul suo letto. Era come se il cervello le fosse andato in tilt, e ora si ritrovava invischiata in qualcosa di più troppo grande, con un uomo a cui non voleva più concedersi, eccitato e sopra di lei. Avevano le gambe intrecciate e la sua gonna era completamente arrotolata nella vita, mente il corpetto era abbassato e Joseph stava lì, con la sua bocca, nella sua pelle nuda. In un secondo si tirò indietro e si ricoprì il seno guardandosi intorno confusa.
«cosa … cosa stai facendo?» le chiese lui, stupito, ma senza traccia di rabbia nella sua voce. 
«Joseph … come ci siamo finiti qui dentro?» sembrava essersi svegliata da un incubo, e improvvisamente tutta l’eccitazione che lui aveva provato fino a quel momento svanì guardando la sua espressione terrorizzata.
«Joseph cosa stiamo facendo?» chiese con voce più acuta. Lui non seppe trovare una risposta. Cosa stavano facendo? Stavano per andare a letto insieme? 
Caroline cominciò a tremare e lui non poté fare a meno di avvicinarsi a lei e abbracciarla. Per assurdo, lei si aggrappò a lui e così,dopo poco, si addormentò, cullata dallo stesso odore e dallo stesso corpo che qualche minuto prima le aveva dato alla testa. 
Joseph restò a lungo fermo a guardarla. 
La guardava dormire con la disperazione nel petto, che gli strisciava nell'anima come una pianta velenosa, soffocandolo. Che stava per fare? E d'altronde come avrebbe potuto evitarlo? Dopo che le sue labbra avevano toccato quelle di Carolie a mezzanotte non aveva più pensato ad altro se non ad un modo per farle nuovamente sue. Sapeva che sarebbe successo prima o poi, lo desideravano troppo entrambi, non per questo però si biasimava di meno. Stava per arrivare ad un punto di non ritorno e, si promise, non sarebbe dovuto accadere mai più. Lei era ebrea. Non era una cosa possibile …
Intanto però i primi germogli di dubbio nascevano in lui: dopotutto nessuno si era accorto di cosa fosse. 

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Capitolo 14
*** abbandonato ***


Quando Caroline si svegliò quella mattina, si stupì della comodità e del calore del letto. Insomma non le era mai capitato in quella casa di svegliarsi con un tale tepore tra le coperte, nonostante sentisse le sue gambe nude. La camicia da notte le si era arrotolata in vita? E poi c’era quell’odore strano tra le lenzuola, un misto tra alcool e il tipico odore di Joseph.
Questi pensieri le passarono in mente mentre era ancora con gli occhi chiusi, la testa svuotata e dolente a causa del troppo champagne, la bocca asciutta e impastata. Quando aprì gli occhi però fu sconvolta da quello che vide. Joseph dormiva accanto a lei, dandogli le spalle e il suo corpo era interamente coperto dal piumone pesante: riusciva a vedere solo l’inconfondibile testa bionda. La camera poi era nel caos: c’erano vestiti e gioielli sparsi ovunque. Lei invece, costatò guardandosi, indossava ancora il vestito della sera prima, stropicciato e arrotolato in vita. Inorridì al pensiero di averlo rovinato e si alzò lentamente, ricordando sempre più stupita gli avvenimenti della sera prima. Sperò con tutto il cuore che l’uomo non si svegliasse e che fosse stato abbastanza ubriaco da pensare, al risveglio, che quello fosse solo un brutto sogno. 
In punta di piedi raccolse le calze sfilate, i gioielli, la pelliccia e le scarpe sparse lungo stanza e il corridoio, per poi chiudersi in camera sua. Si cambiò di fretta e furia, si sciacquò il viso e cercò di riprendersi dall’intontimento. Poi, presa dal nervosismo, si sedette nel tavolo della cucina e iniziò a mangiare quanti più biscotti riusciva a trovare. 
Joseph si era svegliato molto prima di lei, trovandosi avvinghiato alla ragazza e con una sbarra di ferro tra le gambe. Inorridito si era staccato di botto e le aveva dato le spalle, senza sapere che fare se non aspettare che lei si svegliasse, e allo stesso tempo impaurito da quella eventualità. Comunque non dovette rimanere nell’attesa troppo a lungo, probabilmente il suo movimento brusco aveva turbato il sonno della ragazza, così poco dopo lei si mosse tra le lenzuola. La sentì trattenere il respiro alla vista di quello che avevano combinato, e poi sgattaiolare via come una ladra. Lui rimase immobile, troppo inorridito, turbato, desideroso del suo corpo e stanco di quella battaglia interiore. Non si mosse di un millimetro e impiegò almeno mezz’ora per riuscire a trovare la forza di staccarsi dal letto e andare in bagno. Il suo corpo pareva non rispondere più a lui, gli sembrava di essere tornato un ragazzino alle prese con gli ormoni, e questo non gli piaceva per niente. Per l’ennesima volta si infuocò al pensiero delle sue mani su quella carne candida e a quel punto decise che o si sfogava o sarebbe finita male per entrambi. 
Non ci mise molto e uscì dal bagno poco dopo, un po’ più sollevato di come vi era entrato ma ugualmente turbato. Trovò Caroline notevolmente ansiosa che mangiava biscotti meccanicamente, la radio che suonava in un angolo e lo sguardo terrorizzato rivolto al suo indirizzo. 
«buongiorno …» mugolò con la voce stanca. Lei gli rispose pigolando così lui riprese a parlare sedendole davanti.
«ieri sera … » non sapeva come continuare il discorso che voleva fare. La guardò e vide che era sbiancata, così decise che per il momento avrebbe anche potuto scegliere la via più facile, tanto che era meglio per tutti.
«come siamo tornati a casa? Non ricordo granché da dopo il brindisi» disse con la faccia più sofferente che riuscì a mettere su.
«con l’autista … eravamo entrambi piuttosto alticci, credo. Tu avrai bevuto molto più di me, visto il tempo che io ho passato a ballare» gli rispose lei, evidentemente sollevata.
«non ci hanno scoperti vero?» lei negò decisa con la testa.
«erano tutti lì a fare i complimenti a entrambi. È stato strano, come se …  come se stessi recitando la parte di me stessa in un mondo in cui io non sono ebrea» aveva detto lei, pentendosene un secondo dopo, ma convinta che Joseph non ne avesse colto in pieno il significato. E invece lui aveva capito benissimo, e ora la guardava pensieroso, affascinato da quella realtà.
Immaginò come sarebbero andate le cose se lei non fosse stata ebrea … perché sapeva, in fondo all’anima, che se avesse lasciato a briglia sciolta il suo cuore lui se ne sarebbe innamorato proprio come l’amava da bambino, ma in un modo tutto nuovo. Se le non fosse stata ebrea non avrebbero mai smesso di scriversi e alla prima occasione sarebbe andato a trovarla, molto prima di partire per la guerra. Lo avrebbero accolto come un figlio ritrovato, come aveva sempre sognato che facessero, suo padre con dei bei baffoni ingrigiti dal tempo e la pancia prorompente, sua madre con i suoi modi gentili e i sorrisi che le arrivavano sempre agli occhi verdi come quelli di Caroline. Lei invece, lei sarebbe stata la più felice delle ragazze di Friburgo, rivedendolo dopo anni. Gli sarebbe corsa in contro ridendo e lui l’avrebbe sollevata, stupito di trovarla tanto cresciuta, bella e donna, e si sarebbe ritrovato a trattenere le lacrime come si addice ad un vero uomo, mentre lei invece gli bagnava tutta la giacca di felicità salata, gli occhi più chiari che mai per le lacrime. L’avrebbe corteggiata come si farebbe con una regina, le avrebbe dato tutto se stesso e anche di più, avrebbero festeggiato insieme il suo ingresso nell’esercito e il diploma che lei avrebbe sicuramente conseguito, e anche tutti i compleanni, si sarebbero visti quanto più spesso potevano e magari chissà, si sarebbero anche sposati.
«Joseph, a che stavi pensando?» 
L’uomo si riscosse dalle sue fantasie e guardò in faccia la realtà, con quella Caroline che lo disprezzava e con quel soldato che vedeva allo specchio ma che non riconosceva più. La fissò spaesato per un momento, un groppo in gola per quel brusco ritorno al presente, poi abbassò gli occhi.
«a niente di importante …» sussurrò, sapendo di mentire. Lei lo guardò preoccupata, fece per dire qualcosa, ma ci ripensò e tacque. 
«che vuoi per colazione?» disse invece, cercando di evitare il suo sguardo, come se si vergognasse.
«solo caffè … tanto che tra poco sarà ora di pranzo, e poi ho lo stomaco chiuso» lei annuì sovrappensiero e iniziò ad armeggiare ai fornelli.
«per pranzo che vorresti fare, piuttosto?» chiese così, di punto in bianco. Lei si girò a guardarlo stupita.
«credevo che volessi andare a mangiare con qualche tuo amico …» lui la osservò per un attimo, mentre lei stupita lo guardava. Era vero, sarebbe dovuto andare a mangiare con dei suoi colleghi, ma non gli andava più di tanto di lasciarla sola con i suoi pensieri, dopo quello che era successo. 
«tu resteresti sola» lei fece spallucce.
«non darti pensieri per me, io me la passo anche meglio» disse più acida di quanto non volesse. Joseph si sentì per un attimo spaesato e non rispose. Si sentì rifiutato e si arrabbiò, ma cercò di non darlo a vedere. 
«perfetto allora, sarà meglio così» disse mentre lei gli metteva davanti una tazza di caffè.
«vai a prepararmi la vasca, ho bisogno di un bagno» ringhiò quindi, mentre lei sbuffava e faceva come gli veniva chiesto. 
Inginocchiata davanti la vasca di Joseph, Caroline si accorse di desiderare ardentemente che quel bagno fosse per lei. Si sentiva sporca, insozzata, più che esteriormente interiormente. Tutte quelle persone disgustose con cui aveva avuto a che fare la sera prima, che l’avevano toccata, con cui aveva ballato e mangiato, con cui aveva brindato. Si sentiva una traditrice, una puttana, soprattutto per come aveva baciato Joseph. La sua testa non faceva che ritornare al modo in cui lui l’aveva presa tra le braccia senza nessuna delicatezza, come Dimitri non si sarebbe mai sognato di fare e a quanto le era dannatamente piaciuto: lei avrebbe voluto perdesi tra le sue braccia, fondersi con lui e dimenticare tutto il resto. Ricordò a sé stessa le umiliazioni che le aveva dato, le percosse, gli insulti, quella semi-reclusione forzata, e si chiedeva perché. Lei lo disprezzava la maggior parte del tempo. Lei odiava quello che rappresentava, la persona che era diventato, le scelte che aveva compiuto … lei odiava quello che faceva! Lui si occupava di perseguitare quelli come lei, lui non si faceva problemi a uccidere i nemici e gli ebrei erano considerati nemici. Lui era un assassino sadico, indottrinato dal partito e spezzato dalla vita. Con quel bacio aveva tradito non solo Dimitri, ma tutta la sua stirpe, tutte le persone che lui aveva tiranneggiato, tutti i francesi uccisi per una guerra che non avevano voluto. Lei aveva tradito sé stessa baciandolo.
E lui … lui perché l’aveva baciata? 
Probabilmente era solo troppo ubriaco per fare caso al fatto che fossi io e aveva bisogno di infilarsi tra le gambe di qualche donna. Pensò amara. Non c’era altra spiegazione. 
La stufa nell’angolo riempiva l’aria di calore, che si immischiava con il vapore che usciva dall’acqua bollente. La vasca era quasi piena, così aggiunse un po’ di acqua fredda giusto per renderla accessibile agli esseri umani. Anche se avrebbe voluto farlo bollito, non era il caso di farlo arrabbiare. Non quella mattina, in cui la confusione regnava sovrana nella testa dolorante di Caroline. Si rese conto con stupore che le mani le tremavano, mentre chiudeva le manovelle dell’acqua. Le veniva da vomitare. Come aveva potuto fare una cosa del genere? 
Quando Joseph la vide arrivare, alzando lo sguardo dal suo caffè, capì perché aveva rifiutato di andare a pranzo con lui. Era pallida come un cadavere e sembrava dovesse rimettere da un momento all’altro.
«Caroline, stai bene?» lei annuì.
«il bagno è pronto. Io … credo che andrò a stendermi» disse, per poi rintanarsi nella sua cameretta. Il letto era freddo e intatto, la stufa spenta e la camera gelata. Joseph lo sapeva, lei aveva dormito con lui, era ovvio, però non si arrischiò ad entrare lì dentro. 
Piuttosto si spogliò e si lavò. Strofinò via quello che  era accaduto la sera prima, ripetendosi che era sbagliato, che non doveva pensare più a nulla del genere, che lui era un soldato che credeva in quello che faceva. Aveva persino ottenuto una promozione: non sarebbe più dovuto andare in guerra, ma presto l’avrebbero trasferito a Varsavia, anche se i dettagli dovevano ancora essergli comunicati. A fare che, ancora non lo sapeva bene, ma lo immaginava. Il prima possibile avrebbe dovuto dare la notizia a Caroline, anche se non sapeva come.
L’acqua calda lo cullava. Non sapeva dove andare, aveva dato per scontato di passare la giornata con Caroline, e adesso che lei lo aveva rifiutato tanto chiaramente non sapeva proprio cosa fare. 
Gli tornò in mente la puttana con i capelli rossi … com’è che si chiamava? Rose. Nome azzeccato, per una come lei. Peccato che quella bettola aprisse solo dopo il tramonto, gli sarebbe piaciuto passare del tempo con quella ragazza, ed era quasi sicuro che neanche a lei sarebbe dispiaciuto più di tanto. E poi, aveva bisogno di uno sfogo, di nuovo. In guerra si era abituato a reprimere quel genere di impulsi, ma con Caroline a ronzargli intorno e nessun nemico a distrarlo si sentiva tornato all’adolescenza, un’erezione sempre pronta a scattare su e pensieri sconci il novanta percento del tempo. E non era una bella sensazione. Cercò di evitarlo, ma la mente gli tornò alla sera prima, ai seni bianchi di Caroline, ai suoi baci lungo la mascella, alle sue mani nella spalle, e si ritrovò ad eccitarsi irrimediabilmente. Imprecò sottovoce. Non ne poteva più.
Quando uscì dal bagno, vestito di tutto punto, decise di scoprire le carte in tavola. Bussò alla camera di Caroline ed entrò senza aspettare la sua risposta. Lei era rannicchiata nel letto, sotto le coperte.
«Caroline, stai bene?» lei negò con la testa ed emise qualche mugugno poco convincente e lui si ritrovò a sospirare guardando la sua testa rossa spuntare dalla montagna di coperte sotto il quale era rintanata.
«ti accendo la stufa» propose quindi, visto il gelo che c’era nella stanza. Non riusciva davvero a capire come potesse essere tanto fredda quella parte della casa. Lei non commentò, ma mentre lui si affaccendava per accendere il fuoco si era girata sulla pancia, guardandolo da dietro il piumone con sguardo riconoscente. 
«vuoi preparato un bagno?» chiese quindi Joseph, sentendo i suoi occhi su di sé e girandosi verso di lei. Caroline si sollevò e si mise a sedere per guardarlo in viso. Era stupita da tanta gentilezza, non era da lui
«lo faresti sul serio?» Lui cercò di fuggire il suo sguardo, mentre tornava a sistemare la stufa di ferro.
«non te lo avrei chiesto altrimenti»
«sarebbe fantastico» gli rispose quindi dopo un momento di esitazione, senza riuscire a nascondere il tono grato e il sollievo che le aveva procurato quella proposta.
«prima però devo parlarti» lei si sistemò sul letto e gli fece cenno di sedersi accanto a lei.
«ti ascolto» disse con tono neutro mentre lui si accomodava accanto a lei.
«io non ho bevuto così tanto ieri, lo sai vero?» lei arrossì di botto e abbassò lo sguardo.
«era troppo bello per essere vero …» commentò la ragazza immobile. Joseph sospirò.
«dovevo dirtelo, è giusto così, anche se scommetto che avresti preferito non saperlo»
«avrei preferito che non fosse mai accaduto nulla, a partire da quel maledetto galà in cui mi hai trascinata» sbottò lei, incapace di trattenersi.
«io … mi dispiace di averti trascinata in quella situazione e baciata. Mi dispiace di averti gettato tutta quella confusione che sicuramente avrai in testa, una confusione che io ho da mesi, ma che giuro non avrei mai voluto che tu provassi. Mi dispiace di aver quasi rubato la tua prima volta … mi dispiace soprattutto di vederti così, ora, per colpa mia. È capitato che volessi ferirti, che volessi farti arrabbiare, ma mai così» disse lui fissandola. Lei lentamente aveva alzato gli occhi sul soldato pentito che le stava davanti. Joseph che le chiedeva scusa, non se lo sarebbe mai immaginata. 
Lei, fissandolo, era solo riuscita a scoppiare in lacrime.
«perché Joseph? Perché?» lui l’abbracciò senza riuscire a capire il senso di quello che voleva dire.
“perché sei diventato questo? Perché indossi quell’uniforme?”  voleva dire, ma lui non poteva sapere. Lei sembrava quasi impazzita e non smetteva di piangere. Lui la stringeva cercando di calmarla, e dentro di sé si chiedeva se ne valesse davvero la pena di continuare quella guerra. Chi era più importante, il soldato o il ragazzino? Forse era arrivato il momento di mettere un punto e decidere chi essere. Lui, chi era? 
Si rese conto che non lo sapeva. Mentre stringeva la stessa ragazza che fino alla sera prima aveva baciato con disperazione, che aveva picchiato, che aveva amato con disarmante tenerezza, capì che doveva compiere una scelta e non guardarsi più indietro.
Si, ma quale?
***
Dimitri camminava avanti e indietro per il luogo dove si incontrava sempre con Caroline. Era il due gennaio e lei era in ritardo di mezz’ora. Non poteva rischiare di andare a casa sua, magari l’ufficiale era ancora in congedo e lei non era andata per questo. Aveva voglia di vederla però, una voglia che gli infiammava le viscere. Lei, con i suoi capelli rossi e il suo viso ridente era diventata il centro di ogni suo sogno o pensiero. La voleva, in tutti i sensi possibili, voleva farla sua in tutti i modi possibili e non gliene era permesso neanche uno. Eppure, pazientava. Avrebbe aspettato all’infinito pur di farla sua, un’eternità sarebbe valsa la pena di un’ora con lei. In quel momento però, era irrequieto come un toro prima della corrida. 
Alla fine dovette tornare in negozio, intrattabile e immusonito.
Lei non si fece viva per tre giorni, lui era sempre più arrabbiato e preoccupato, quando finalmente, al quarto giorno, la vide nell’angolo imbacuccata nel suo cappotto. La neve inondava le strade e l’aria era gelida, ma lui si sentì infuocare alla sua vista.
«Caroline!» le urlò da lontano e lei si girò guardandolo. Solo che non sorrideva e non gli andò in contro.
«Caroline, tutto bene?» le chiese quando furono finalmente vicini. Lei annuì e lo abbracciò per un attimo di paradiso.
«devo parlarti» disse lei con fare urgente. Poi guardandolo bene sospirò.
«Dio quanto mi sei mancato Dima!» lui le sorrise.
«come mi hai chiamato?»
«Dima … non ti piace?» 
«è fantastico Caroline. Mi piace da impazzire» le disse sorridendo. Lei lo fissava. Era un bravo ragazzo, un po’ ingenuo e dannatamente intelligente. Non si meritava i guai che gli stava facendo passare. Non si meritava di essere tradito a quel modo, e a quel pensiero Caroline si ritrovò-di nuovo- ad arrossire. Si incamminarono per il mercato, fianco a fianco, Caroline che cercava le parole adatte. Pensò a quello che aveva da dirgli e il cuore le si strinse.
Qualche ora dopo, lo stesso giorno di capodanno, Joseph era stato convocato da un suo superiore. Era uscito baldanzoso con l’alta uniforme ed era tornato felice come una pasqua meno di un’ora dopo. Al vederla, mentre cucinava, non era riuscito a trattenersi.
«Caroline mi hanno assegnato al prossimo incarico. Partiamo tra un mese» era eccitato. Gli erano sempre piaciute le avventure e adorava viaggiare, anche se non aveva mai avuto il tempo e la possibilità di farlo molto. Ma i suoi libri preferiti erano ancora di Jules Verne. 
«che farai?» chiese lei, cercando di risuonare il meno acida possibile. Lui era stato gentile con lei quel giorno e poi non voleva rovinargli l’umore.
«mi hanno trasferito a Varsavia. Partiamo il venticinque, abbiamo meno di un mese per fare le valigie» 
Caroline era rimasta pietrificata
.
«dove sei sparita in questi giorni?» chiese lui mentre camminavano. Lei non ebbe la forza di guardarlo negli occhi. Fissando la strada, gli rispose.
«non ho avuto il coraggio di venire … mi dispiace» lui rimase interdetto.
«allora qualcosa è effettivamente successo» lei annuì senza riuscire ad alzare gli occhi su di lui.
«hai intenzione di dirmelo?»  chiese lui fermandola per un braccio e sollevandole il viso dal mento. Non poteva sottrarsi ai suoi occhi, così chiari e sinceri. Fu costretta a sganciare la bomba.
«Joseph ha ricevuto una promozione. Adesso lavorerà a Varsavia, in Polonia» lui continuò a fissarla.
«ci trasferiamo il mese prossimo» disse, mentre vedeva gli occhi di Dimitri dilatarsi per la sorpresa.
«lui si trasferisce in Polonia?» chiese sperando di aver capito male, pregando di essersi sbagliato.
«io e lui, ci trasferiamo in Polonia. Sai che sono legata a lui. Dima lo sai» lui era pietrificato.
«stai per partire via con lui, quindi?» lei annuì. Dimitri si allontanò da lei e si passò una mano sul viso cercando di contenere il dolore che gli traboccava dagli occhi. Se Caroline avesse saputo come fare, avrebbe bevuto tutto il suo dolore, avrebbe fatto qualsiasi cosa per vedere il suo sguardo spensierato come la prima volta che lo aveva visto, con il suo gelato in mano e gli occhi blu limpidi. Ma no, ormai l’aveva capito, lei lo aveva avvelenato, non sarebbe tornato quel ragazzo. Si era innamorato e adesso lei gli stava spezzando il cuore. Oh non gli avrebbe detto di quello che aveva fatto con Joseph. Che senso aveva? Era praticamente tutto finito, era inutile ferirlo ancora di più. 
«ti prego, dimmi che è uno scherzo» disse infine, il cappello caduto di lato e le mani giunte davanti al viso, come a pregare. Lei aveva scosso la testa e trattenne le lacrime. Aveva pianto fin troppo negli ultimi giorni.
«sto per trasferirmi in Polonia e non so se tornerò mai qui a Berlino. Dimitri, ti avevo avvertito»
Si è vero avrebbe voluto urlare lui mi avevi avvertito, ma chi mai avrebbe potuto avvertirmi che avrebbe fatto tanto male? Si sentiva andare in pezzi.
«quindi è finita? È per questo che non venivi? Non volevi dirmi che dopo avermi usato, mi avresti abbandonato qui al mio destino?»
«hai sempre saputo che non c’era lieto fine per noi. Io l’ho sempre saputo e ti avevo avvisato. Perché te la stai prendendo con me? Non ti ho forse detto come stavano le cose? Non ho cercato di evitarti tutto ciò? Tu mi hai detto “meglio poco tempo che niente” e io ti ho risposta “va bene Dimitri”. Ma adesso il tempo è finito» una lacrima sfuggì al suo controllo.
«tu non hai mai voluto guardare in faccia la realtà, pensavi che tutto questo fosse un’ipotesi lontana. Mi dispiace, ho provato a fartelo capire, ma tu non mi hai voluto dare retta»
«tu invece ti sei guardata bene dal lasciarti andare con me» aveva commentato lui.
«Dimitri non rendere tutto più difficile, ti prego. Lo sapevi» lui la fissò per un istante. Lei sembrava più piccola che mai mentre si torturava le mani e cercava di darsi un tono. Si sentì un verme. Tutto quello che lei stava cercando di dire era vero. Perché allora se la stava prendendo tanto? Forse, aveva sperato che fosse lui il primo a partire, per il fronte. Invece la lettera dell’esercito non era arrivata, per fortuna. E lei stava per prendere un treno. Si accasciò contro un muro.
«scusami … è che non posso crederci. Vieni qui» la invitò tra le sue braccia, e lei non si fece pregare. Le annusava i capelli mentre lei ascoltava il battito irregolare del suo cuore.
«che giorno parti?»
«tra venti giorni» sussurrò. Lui annuì prima di baciarle la fronte.
«ti scriverò. Dovrai ritirare le lettere alla posta, non metto l’indirizzo ma solo la città. Così lui non lo scopre» lei annuì, ancora col viso sul petto di lui. Dimitri era fantastico, odorava sempre di buono ed era l’uomo più dolce che avesse mai conosciuto. Strusciò il viso contro il suo petto e posò le labbra all’altezza del suo cuore palpitante.
«il mio cuore non mi appartiene più. È tuo ormai, Caroline. Fanne ciò che vuoi, ma non ridarmelo indietro» aveva detto con voce flebile sui suoi capelli.
«Ti amo Caroline»
Lei fu percorsa da un brivido e lo strinse più forte.
Ma per chissà quale motivo non riuscì a replicare.  

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Capitolo 15
*** Locomotiva ***


Caroline, man mano che le settimane scorrevano, si sentiva sempre più triste alla notizia di dover lasciare Berlino. Non se n’era neppure resa conto ma in quei mesi si era affezionata alle vie affollate, alla sua stanzetta troppo fredda, al fiume che scorreva placido fuori la finestra. Si era sentita accolta e rinata in quella città così frizzante e piena di vita. E poi aveva conosciuto un sentimento nuovo, durante quell’estate fatta di gelati e passeggiate, di baci sotto la pioggia. Sentiva una fitta al petto ogni volta che ripensava a Dimitri, il ragazzo con gli occhi blu che l’aveva incantata con la sua sfacciata dolcezza. Si sentiva terribilmente in colpa per tutto quello che gli stava facendo, eppure non riusciva ad allontanarsene. Ogni volta che ripensava a capodanno stava male fisicamente, per questo aveva provato a rinnegare il fattaccio, ma non ci riusciva. Non riusciva a non sentirsi una donna della peggiore specie quando lui la baciava quasi con riverenza. Lei che lo metteva in pericolo in maniera così plateale e poi lo tradiva con un ufficiale nazista. 
Stava male ogni volta che guardava Joseph. Non voleva più vederlo, non voleva più avere nulla a che fare con lui, voleva solo un po’ di pace e sapeva che non gliela avrebbe mai concessa. Sentiva di essere arrivata al limite della sua sopportazione. Joseph era un’altalena emotiva, sempre pronto a ferirla in qualche modo, con uno schiaffo o con un bacio. Aveva provato a giustificare sé stessa, ripetendosi che era ubriaca, che si era lasciata trasportare dalla loro recita, che da bambina aveva avuto qualcosa di molto simile ad una cotta per lui. Ma sapeva che erano scuse, solo scuse, dannate stupidaggini. Lei aveva voluto quel bacio, chissà come e chissà perché, lo aveva desiderato. E si odiava per questo.
Sapeva che Joseph probabilmente stava passando un inferno simile al suo, ma lei faceva finta di non capire. Le bastavano i suoi scheletri, non voleva sopportare anche quelli di lui.
Caroline, con questi sentimenti, aveva imballato la maggior parte delle cose di Joseph ma aveva fatto ben poco con le proprie. Non poteva andarsene, non voleva, il suo unico desiderio era rimanere in quella casa e ogni qual volta sarebbe stato possibile vedere Dimitri. Immaginava come sarebbe stato bello passare le fredde sere di Febbraio con una cioccolata e Dimitri accanto a lei nel divano del salotto che non le era permesso usare. Avrebbero ascoltato i vinili e lei gli avrebbe insegnato a ballare, e poi si sarebbero baciati. L’avrebbe baciata con la bocca che ancora sapeva di cioccolata e toccata con le grandi mani callose per il lavoro che svolgeva. 
Ma sapeva che erano fantasie. Come avrebbe fatto a convincere Joseph a lasciarla andare?
La risposta l’aveva ottenuta una mattina bianca di neve da Dimitri. Si erano visti e come ogni volta da quando avevano saputo del trasferimento non facevano che toccarsi. Non riuscivano a non mantenere un contatto fisico, con le mani, con le labbra, anche solo con un lieve sfregamento della caviglia di lei nella gamba di Dimitri, mentre erano seduti. Parlavano poco e si fissavano continuamente, incerti su cosa dire ora che il loro tempo era finito. Ma quella mattina Dimitri era radioso e i suoi occhi sembravano molto più chiari del solito. Non fece che parlare e parlare, stordendola con le sue chiacchiere e donandole un buon umore che ormai da qualche settimana aveva perso quasi del tutto.
«Elly ho pensato ad una soluzione» aveva detto infine sotto un pino carico di neve, in un angolo del parco, e Caroline capì il perché dell’allegria e delle chiacchiere: era allegro perché pensava di aver trovato una soluzione e parlava tanto perché sapeva che non avrebbe potuto dire in un luogo meno isolato quello che invece aveva bisogno di esprimere. Lei però non aveva molte speranze.
«sai com’è Joseph, Dima» lui annuì raggiante.
«si, lo so. È per questo che abboccherà. Ascoltami» e poi cominciò a spiegare la sua idea, e man mano che parlava il sorriso sulle labbra di Caroline si allargava. Alla fine lui la guardava negli occhi con aria soddisfatta e lei non riuscì a non trattenersi dal saltargli al collo e baciarlo, facendolo ridere tra le sue labbra. 
***
Joseph era sempre più preoccupato con il passare del tempo. Caroline era la sua fidanzata ufficiale per tutti, la donna che avrebbe dovuto sposare e il modo con cui aveva ottenuto la promozione. Non poteva presentarla come la cameriera e non aveva scuse per portarla con sé come sua fidanzata a meno che lei non abitasse in una casa diversa dalla sua. E la cosa era fin troppo complicata e dispendiosa. Pensava a questo mentre tornava a casa, così rimase quasi stordito dall’odore di ottimo cibo che proveniva da casa sua e che lo strappò dai suoi pensieri, facendogli brontolare lo stomaco.
Quella sera del venti gennaio, circa tre giorni dopo aver fatto quella chiacchierata illuminante con Dimitri, Caroline aveva preparato lo stinco di maiale arrosto e patate alla bavarese, il tutto accompagnato dal vin brulé. Si era superata e la cena era stata ottima, anche se lei aveva a malapena assaggiato il vino: non le piaceva l’effetto che l’alcool aveva sul suo corpo. La ragazza aveva guardato il soldato mangiare soddisfatto e silenzioso, mentre ogni tanto le lanciava qualche occhiata sorpresa tra un boccone e l’altro. Quando alla fine aveva uscito la torta alla melassa per dolce lui non era riuscito a trattenere un’esclamazione sorpresa.
«Tu stai cercando di prendermi per la gola Caroline. Ammettilo» aveva detto poi davanti un’enorme fetta della sua torta preferita, ben sazio e soddisfatto, le guance arrossate dal vino. Lei aveva ammesso con un sorrisetto colpevole e lui non aveva potuto fare a meno di ridere.
«E ci sei anche riuscita … non mangiavo tanto bene da tantissimo tempo. Chi ti ha insegnato a cucinare così?» lei aveva fatto spallucce.
«Sai che sono sempre stata brava in cucina. Quando lavoravo come cameriera in quella famiglia facevo un po’ di tutto, e così ho imparato» lui aveva annuito.
«Ma a fare questa te lo ha insegnato tua madre, vero?» aveva chiesto con un sorriso indicando la torta. Lei era rimasta in silenzio per un attimo.
«Questa si. Ma non la farò mai buona come lei» aveva un velo di nostalgia palpabile nella voce.
«La fai buonissima, fidati» e, per ribadire il concetto, ne aveva preso un grosso boccone strappandole un sorriso.
«Allora … hai intenzione di dirmi il motivo per cui stai cercando di stendermi con una cena degna di un re?» aveva chiesto sorridendo.
«Joseph … » aveva iniziato incerto, per poi acquisire più sicurezza.
«Io ho bisogno di sapere cosa ne farai di me una volta arrivata a Varsavia. Non puoi certo presentarmi sia come tua fidanzata che cameriera, sarebbe ridicolo e prima o poi qualcuno lo scoprirebbe. E non ci sarebbe un altro modo per vivere insieme, a meno che tu non voglia affittare una casa per me» lui l’aveva fissata stordito. Era esattamente quello che si ripeteva da giorni.
«lo so … sto cercando di trovare una soluzione» aveva infatti risposto senza nascondere più la preoccupazione, come aveva fatto nelle ultime settimane. Ma mancavano solo cinque giorni alla partenza e lui era in alto mare.
«Beh io ho un’idea» aveva detto lei con un sorriso che le andava da un orecchio all’altro. Un sorriso che a Joseph non piacque per nulla.
«Tu andrai a Varsavia e io farò la fidanzatina innamorata che aspetta che tu prendi un congedo per sposarla. Qui a Berlino. In questa casa. Diremo a tutti che aspettiamo un tuo congedo per sposarci e prenderci una vacanza da passare in luna di miele e che nel frattempo io devo organizzare il matrimonio» aveva detto, gli occhi che le brillavano per un’idea che considerava magnifica e che Dimitri aveva avuto la brillantezza di escogitare.
«Questa guerra, se continua così, finirà prima che tu possa tornare a Berlino. E io sarò libera di sparire dalla circolazione»  lui era stato in silenzio per tutto il tempo. Sapeva che lei aveva ragione, ma non voleva ammetterlo.
«E cosa diremo quando chiederanno perché non ci siamo sposati prima?»
«quello che abbiamo detto fin’ora: il lutto dei miei genitori era troppo fresco. Cosa per’altro vera. E poi tu hai dovuto occuparti della partenza, non potevi pensare anche ad un matrimonio» aveva detto lei tutto d’un fiato. Sembrava avesse programmato tutto alla perfezione, ed effettivamente era quello che aveva fatto, sotto proposta di Dimitri. Lui, che l’aveva implorata di convincerlo a tutti i costi. Joseph aveva finito la sua torta silenzioso, riflettendo bene su tutte le implicazioni di una simile scelta. Non voleva separarsi da lei, ma effettivamente sarebbe stato il modo migliore di fare chiarezza nella sua mente sconvolta dalla sua vicinanza, per tenerla al sicuro e smettere di sentirsi in colpa, per continuare la sua vita come aveva fatto prima di portarla con sé. Una vocina gli diceva che niente sarebbe potuto essere come prima, ma l’ignorò. Se sarebbe servito a fare un po’ di chiarezza sarebbe andata bene, senza contare che anche lei probabilmente ne aveva un gran bisogno. Dalla notte di capodanno non lo guardava quasi più in faccia, sfuggiva sempre a fare qualcos’altro quando lui era nei paraggi, lo evitava come la peste. Aveva notato che lavorava senza sosta, come se non volesse pensare a qualcosa di terribile. Era anche dimagrita un po’.
«Resterai qui a due condizioni, altrimenti troveremo un altro modo» lei si era messa sull’attenti, le orecchie tese.
«T iscriverai al partito e frequenterai le riunioni. Se sei la mia fidanzata è quello che ci si aspetta da te, qualcuno potrebbe insospettirsi altrimenti» lei aveva annuito, abbattuta ma consapevole che fosse necessario.
«Se torno a Berlino prima della fine della guerra, ci sposiamo. Tu organizzerai davvero un matrimonio, ti farai fare l’abito e tutte quelle stupidaggini lì» lei era rimasta paralizzata.
«Stai scherzando spero» aveva detto oltraggiata. Questo non era assolutamente in programma.
«E sentiamo, che scusa useresti se tu abitassi qui a casa mia per preparare il nostro matrimonio, e poi non avresti neanche l’abito? E se, una volta qui, io non ti sposassi?» lei boccheggiò.
«Ma tu non vorresti mai sposare un’ebrea» lui fece un gesto noncurante con la mano.
«Io non vorrei sposarmi punto e basta. Ma voglio fare carriera e per questo ho bisogno di un matrimonio. Non avremo figli, ma nessuno dovrà sapere che non abbiamo consumato, può capitare che non si riescano ad avere figli in un matrimonio»
«E quando per avanzare di carriera mi chiederai dei figli? E se, quando lasciassi questo paese non potrei sposarmi con nessuno perché l’ho già fatto con te?» aveva detto lei in panico. Lui aveva sollevato gli occhi al cielo, scocciato.
«Sarà Emma a sposarmi, non tu. Quando riprenderai il tuo vecchio nome non risulterai sposata con nessuno. E poi non consumeremmo, quindi non sarebbe neanche valido, senza contare che è solo un’ipotesi. Accetti?» Caroline pensava solo a come avrebbe dovuto dire una cosa del genere a Dimitri.
Cerca di restare qui ancora un po’, qualsiasi sia il costo. Non si era aspettata una cosa del genere, eppure … sapeva che Joseph aveva ragione.
«Accetto» affermò controvoglia.
«Dai non fare quella faccia. Un buon compromesso non lascia contento nessuno, e tu ci guadagni certo più di me: sarai libera di scorrazzare per Berlino come meglio ti pare. Ti farò avere dei soldi alla posta e ovviamente sarebbe opportuno se ogni tanto mi scrivessi. Sai, per salvare le apparenze e dirmi che ci fai con i miei soldi» aveva detto in tono scherzoso, sebbene pensasse quello che diceva.
«Ti scriverei a prescindere …» disse, ed era sincera. 
«Allora non è del tutto vero che mi odi» commentò lui, sempre con tono scherzoso.
«Ma neanche tu mi odi» lui si era bloccato un attimo.
«io non l’ho mai pensato, né mai detto. Odio quello che sei, non te, è una cosa completamente diversa» aveva affermato solenne, prima di accendersi una sigaretta. Lei non seppe come ribattere, così rimase in silenzio, incerta su come continuare la conversazione. 
«Fumi sempre di più. Non avevi questo vizio prima, è diventata routine» si lamentò lei, cambiando discorso.
«Tu hai mai fumato?» chiese lui, curioso. 
«No, mai. Non mi piace l’odore che fa» aveva risposto lei orgogliosa. 
«Vieni qui» ordinò allora Joseph, con voce calma e carezzevole. Sembrava più un invito. Lei gli si accostò insicura.
«Cosa c’è?» gli chiese in imbarazzo in piedi davanti a lui, imperioso nella sua vestaglia blu. Le fece segno di sedersi sulle sua ginocchia con un sorriso sincero sul viso. Sembrava rilassato, quindi decise di assecondarlo. Dopotutto, non c’era niente di male. Lui le strinse la vita con la mano sinistra, mentre i loro visi erano a pochi centri menti di distanza e Caroline si ritrovò a tremare. Ricordò per un attimo cosa aveva provato quando aveva avuto quelle mani e quelle labbra su di sé, poi però strinse le palpebre per scacciare via i ricordi e le sensazioni dolceamare che ne derivavano. Joseph la fissava, sempre con il suo sorriso rilassato, che aveva il potere di ammaliarla, sebbene lei non volesse ammetterlo neppure a sé stessa.
«Il fumo rilassa i muscoli. Il sapore mi piace, anche se all’inizio ti brucia la gola. Prova» aveva parlato con un tono carezzevole, poi le portò la sigaretta all’altezza delle labbra. Lei la fissò incerta, ma anche curiosa.
«Devi aspirare come se ti prendessi uno spavento. Dritto nei polmoni. Prova» la guardava divertito. Così Caroline accostò le labbra alla sigaretta e fece come le era stato detto, ritrovandosi piegata in due a tossire, gli occhi lucidi e la bocca impregnata di un sapore strano, amaro. Lui rideva, continuando a tenerla stretta per il fianco.
«Come fai a fumare questa cosa?» chiese con la voce ancora gracchiante, mentre lui continuava a sghignazzare.
«E smettila di ridere, non c’è niente di divertente» commentò offesa. Lui diede un altro tiro alla sigaretta e le soffiò il fumo in viso. Lei riprese a tossire e si alzò dalle sue gambe guardandolo oltraggiata.
«Tieni quella cosa lontana da me!» lui non smetteva di ridere per la sua reazione, mentre lei si era diretta verso il lavandino per sciacquarsi il viso.
Joseph aveva ripreso a fumare il suo tabacco continuando a ridere di tanto in tanto.
«Dai, non puoi dire che non fosse una scena comica» aveva detto sempre ridendo e alla fine aveva contagiato anche lei con la sua ridarella.
E poi, un’altra sera era passata.
***
La stazione era gremita di gente che correva in tutte le direzioni e Caroline, che in quel momento non si staccava da Joseph neanche di un centimetro, non aveva proprio idea di come avrebbe dovuto fare per tornare a casa una volta che lui fosse partito. Era vestita con abiti scuri e pesanti e un cappello di feltro sulla testa per ripararla dalla neve.
Joseph la teneva per mano e lei sentiva il suo calore irradiare attraverso i guanti nella sua mano gelata. Il ragazzo era in alta uniforme, il nero in contrasto con il colorito pallido e gli occhi grigi lo facevano sembrare ancora più bello e le ragazze lo fissavano sfacciate al suo passare, ma Caroline sapeva che in maniche di camicia e con i capelli spettinati rendeva di più. La stazione era piena di militari di rango più o meno elevato, con le famiglie, la fidanzata o gli amici a salutarli. Era un vociare triste quello che si sentiva man mano che ci si avvicinava al treno che avrebbe portato Joseph a Varsavia. C’erano donne che piangevano, bambini che si rincorrevano incuranti di tutto, voci gravi di uomini. Caroline non riuscì a fare a meno di stringere a sé il braccio forte del soldato, a cui era aggrappata con tutte le sue forze. Lei aveva insistito per accompagnarlo, sostenendo che era quello che una brava fidanzata avrebbe fatto, ma non era solo per quello e lui aveva capito. Era la seconda volta che si lasciavano davanti ad un treno, e forse quella volta, se i piani fossero andati in porto, sarebbe anche stata l’ultima. La prima volta lui aveva dovuto ringraziare la famiglia della ragazza se era ancora in vita, adesso invece i ruoli si erano invertiti. Joseph provava una strana sensazione di deja-vù di cui avrebbe volentieri fatto a meno. Sapeva che gli sarebbe mancata e, anche se non lo avrebbe confessato neppure sotto tortura, in fondo era felice di averla aggrappata al suo braccio e di poterla vedere un’ultima volta dal finestrino del treno che lo avrebbe condotto lontano da casa per un tempo indefinito. Casa però è dove ci sono le persone che si amano e Joseph sentiva di non averne più una. Aveva definito casa Friburgo, mai Berlino tranne che negli ultimi mesi. E adesso a Varsavia sapeva che avrebbe incominciato da capo.
Arrivarono con un quarto d’ora d’anticipo, il biglietto in tasca. Joseph aveva Caroline spalmata sul suo braccio sinistro, mentre un’enorme sacca militare stava rischiando di fargli cadere il braccio destro per il troppo peso. Davanti al treno aveva posato la sacca a terra, poi si era concentrato sulla ragazza che aveva davanti. Ed era così strano trovarsi entrambi nudi, senza maschere, tra tutta quella gente, il vapore dei treni che li avvolgeva. Caroline, si rese conto troppo tardi, aveva gli occhi lucidi.
«Non merito che tu pianga per me, Caroline. Non farlo» aveva detto, avvicinandosi di più a lei, sussurrando.
Caroline quella mattina si era svegliata con un magone allo stomaco. Era dalla sera prima che ripensava all’addio che stava per dare, e non riusciva a darsi pace, non riusciva davvero a credere che non lo avrebbe mai visto di nuovo. Che lui avrebbe continuato in quella strada di atrocità e di odio, di rabbia e rancore come se non fosse mai successo niente. Non riusciva a convincersi che quello fosse il suo Jo, adesso che stava per lasciarlo. Aveva passato quel tempo con lui quasi dimenticando chi fosse in realtà, accecata da quello che lui era e da ciò che le faceva, ma in quel momento si sentiva esattamente come la bambina che aveva dovuto dire addio al suo migliore amico e che non sapeva se l’avrebbe mai più rivisto.
«Tu mi hai salvato la vita, Jo. Forse, per un po’, l’ho dimenticato. Ma non ora: non so come sarei andata avanti in quelle condizioni» gli rispose, con gli occhi pieni di lacrime. Joseph le stringeva la vita con le mani grandi e costatava che si, era effettivamente dimagrita da quando l’aveva stretta a sé quasi un mese prima. Avevano gli occhi incatenati e Joseph a quelle parole si sciolse come neve al sole. Dopo tutto quello che le aveva fatto, lei era lì, a dirgli grazie.
«E io a volte ti ho trattata come non avrei dovuto. Mi dispiace, Elly, lo sa dio quanto me ne pento ogni giorno. Anche io avevo dimenticato, o non volevo vedere, ma ci sono momenti come questi in cui non posso fare finta di niente. Non potrò mai dimenticare chi sei» si era portato la mano al cuore, come a giurare qualcosa, e lei lo aveva osservato in quel momento che le sembrava tanto solenne quanto fuori luogo. Ma non importava, se era l’ultima volta che si vedevano avrebbero anche potuto smettere di fingere e guardarsi chiaramente in viso.
«Perché nonostante quello che ho fatto, io ti porto qui, dentro di me» aveva detto indicandosi il cuore. Poi ripresosi si era allontanato da lei, come scosso dalla sua stessa rivelazione. Si era girato a guardare il treno che fischiava. Era ora di salire in carrozza, ma non ne aveva nessuna voglia. Lei gli aveva tirato la manica e lui si era voltato trovandola a pochi centimetri. Si torturava il vestito con la mano libera. Voleva dirgli qualcosa, ma non sapeva come dirla. Alla fine prese un grosso respiro e iniziò.
«Volevo solo augurarti buon viaggio, soldato. Forse andrà tutto a rotoli, e ci ritroveremo davanti un altare. Forse ci rincontreremo in un’altra vita. Lascia però che ti dica una cosa, come amica, come la sorella che ero un tempo. Che uomo vuoi essere? Rispondi a questa domanda e in base alla tua risposta, orienta la tua vita. Puoi scegliere di essere un uomo di successo, ricco, senza scrupoli … o un uomo giusto. Scegli Joseph, e non voltarti indietro» lui era rimasto immobile alle sue parole. Caroline lo fissava negli occhi vacillanti, come aspettando una sua risposta, che non sarebbe arrivata. Che uomo voleva essere? Si stupì nel costatare che non lo sapeva. Lei capì e distolse lo sguardo.
«Era da tanto che volevo dirtelo ma non credo che mi avresti presa sul serio in un altro momento. Mi ricordo di com’eri Joseph, e il bambino che ricordo io era uno dei più buoni che abbia mai conosciuto. Eri adorabile» lei sorrise ripensando per un attimo a com’era.
«Sapevi sempre qual’era la cosa giusta da fare, non importava quanto ci rimettessi. Ti ho trovato tanto cambiato da non poter non pensare: stai riflettendo su chi sei diventato?» Joseph aveva gli occhi bassi. Lei non aveva aggiunto più nulla e su di loro era calato un silenzio imbarazzato, nonostante la stazione tremendamente rumorosa. 
«Scrivimi, Caroline. Voglio sapere come starai» disse guardandola, senza però essere in grado di risponderle altro.
«Lo farò» aveva promesso con un mezzo sorriso, intuendo il suo imbarazzo.
«Devi andare adesso, il treno non aspetta» aveva aggiunto senza convinzione. Lui aveva annuito, poi senza alcun preavviso, si era abbassato e prendendole il viso tra le mani l’aveva baciata, trattenendola sulle sue labbra per un secondo di troppo. Lei lo lasciò fare, senza neanche sapere perché, la morbidezza di quella bocca a stordirle i sensi. 
«Tu invece ricordati di questo, quando vedrai il fornaio che ti aspetta allegro sotto casa» aggiunse, facendo trasparire l’evidente gelosia. 
Si era trattenuto nelle ultime settimane, capendo che c’era poco da fare se si vedevano ancora e che era inutile fare scenate ora che stavano per partire. E adesso che lei sarebbe rimasta lì a Berlino non osava immaginare cosa avrebbe combinato.
«Vi ho visti» aggiunse dopo, cercando di mantenere una voce neutrale. Lei boccheggiò senza sapere che dire.
«Non è stato molto tempo fa, ma ho capito che non avete mai smesso di vedervi. E se quello che ho detto e fatto non vi hanno tenuti lontano, speravo che almeno Varsavia ci sarebbe riuscita. E poi, ho dovuto lasciarti qui» lui abbassò gli occhi. 
Si era sentito semplicemente stanco di tutto. E lei sembrava così felice, mentre quando era in casa era grigia e triste. Non era riuscito a dire niente, non aveva avuto la forza di alzare le mani su una persona così evidentemente tormentata da qualcosa. E sebbene fosse stato immensamente geloso sul momento, poi aveva scoperto di non voler approfondire la questione, di non voler sapere niente. Aveva lasciato perdere, per il quieto vivere.
«Joseph ...» aveva iniziato lei, ma lui l’aveva interrotta.
«Non farmi passare per cornuto, o non potrò più aiutarti. Ricordati che dovremo sposarci se la guerra non finirà presto» Caroline aveva deglutito.
«Lo so» Joseph annuì.
«Bene. Allora arrivederci» aveva detto senza riuscire a sorridere.
«Arrivederci» aveva risposto lei. E poi le aveva dato le spalle, salendo sul vagone sovraffollato e facendosi strada fino al numero che c’era scritto sul suo biglietto. Nel cuore aveva una tempesta, ma l’ignorò. Dal finestrino la poteva vedere mentre osservava spaesata la locomotiva. Avrebbe potuto affacciarsi, ma non lo fece, preferendo guardare senza essere visto. 
Lei rimase lì, con le lacrime a rigarle il viso, fino a quando la locomotiva non partì e si lasciò dietro una scia densa di vapore. 

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Capitolo 16
*** Lontano dagli occhi ***


Caroline si diresse verso casa mogia mogia, senza sapere bene cosa era appena accaduto, senza avere la minima idea di cosa significasse quello che Joseph le aveva detto. Erano stati mesi e mesi a trattarsi male, a urlarsi cattiverie, mesi a prendersi per il collo come cani rabbiosi.

E poi, lui era partito.

Che fossero tutte maschere le sue? Ma per nascondere cosa?

Non capiva quell'uomo, non riusciva a interpretare i segnali contrastanti che le aveva lanciato, non sapeva mai come prenderlo e la cosa la faceva impazzire.

Aveva camminato a lungo, i pensieri a invaderle la testa, con passo lento e strascicato, per cui era passato parecchio tempo prima che giungesse sotto il portone di casa sua. Ma non si era fermata, l'aveva superato quasi senza accorgersene.

Come un automa si ritrovò davanti il panificio di Dimitri, insicura su cosa dire, confusa e triste.

Come si sarebbero dovuti comportare da quel momento?

Cercava conforto, ma come spiegargli il motivo per cui voleva essere abbracciata e consolata? Come spiegargli il vuoto che aveva preso possesso del suo cuore?

Quando entrò nella piccola bottega calda, Dimitri le andò subito in contro con un sorriso che sembrava illuminargli il viso, per poi trascinarla fuori impaziente.

La baciò con urgenza appena fuori dal panificio, velocemente ma intensamente, premette le labbra sulle sue con felicità, quelle labbra così piene e morbide, che sapevano di farina e di lui. Caroline sospirò di sollievo, quando lui si scostò e la guardò negli occhi, a pochi centrimetri di distanza. Sapeva sempre come dissolvere i suoi dubbi e le sue paure, come tranquillizzarla: anche in quella occasione, le sue labbra e i suoi occhi ridenti erano stati come un balsamo per il suo animo, anche se Dimitri ne era del tutto incosapevole.

«Allora, è partito?» chiese impaziente.

Lei annuì, e gli sorrise. E poi riuscì a malapena a vedere il suo sguardo luccicante, prima che calasse di nuovo sulle sue labbra, affamato di felicità.

***

La guerra andava avanti.

Berlino era già stata colpita da qualche bombardamento sporadico, avvenimenti iniziati quell'estate a cui Caroline aveva prestato poca attenzione. La radio non faceva che dire quanto la vittoria fosse vicina. Ma vicina quanto? L'Inghilterra non aveva ancora firmato la resa.

Nel frattempo la guerra si era allargata nel mondo come una macchia d'olio nera, restavano pochi i territori ancora non colpiti.

L'America rimaneva fuori dal conflitto mondiale, mentre Caroline guardava a quell'enorme e nuovo paese come ad una terra promessa. Aspettava solo l'armistizio dell'Inghilterra e la riapertura dei porti per poter correre via, il più lontano possibile da quel paese, da Dimitri e da Joseph, da qualsiasi cosa o persone che avesse mai amato.

Eppure, man mano che il tempo passava, le lettere di Joseph ingiallivano e i suoi baci con Dimitri si facevano più caldi, la radio parlava sempre meno di una resa Inglese.

Passarono veloci Febbraio e Marzo, poi anche Aprile. La radio parlava di vittorie in Jugoslavia, Bulgaria Romania e Austria, di resa dell'Albania e della Grecia, di occupazioni di paesi stranieri. E in quel mare di paesi sottomessi alla Germania, Caroline pregava. Non sapeva più neanche chi pregare, a quale Dio avrebbe dovuto rivolgersi, quale Dio avrebbe mai permesso una tale follia.

La Germania sembrava inarrestabile, e lo era davvero, ma allora perchè la radio non parlava più di resa Inglese? Quando quel mare di sangue che stava inzuppando l'Europa e il mondo sarebbe finito?

Se quell'estate la guerra le sembrava dannatamente lontana, nonostante i bombardamenti, adesso Caroline sentiva come un sottofondo di marcio in ogni cosa. Non sapeva cosa fosse cambiato, sapeva solo che avvertiva come una tragedia imminente, che pendeva sulle teste di tutti quanti loro, senza che nessuno se ne rendesse conto.

Tutto stava andando secondo i piani, eccetto quel piccolo inconveniente della guerra che non ne voleva sapere di finire.

Con Dimitri usciva ancora, ma di meno, evitando i posti affollati in cui avrebbe potuto incontrare qualche conoscenza, e più che altro durante il mercato, dove sarebbe stato facile dissimulare la loro compagnia. Ormai infatti Dimitri passava moltissimo tempo a casa con lei. Si divertivano un mondo insieme, malgrado tutto.

Giocavano a carte, ballavano, stavano seduti sul divano a scherzare oppure, molto più spesso, si perdevano l'uno nelle braccia dell'altro.

Dimitri sapeva cosa avrebbe rischiato lei in caso di gravidanza, sapeva che sarebbe stato un guaio a cui non avrebbero trovato una soluzione, per questo, nonostante i baci appassionati non si era mai spinto troppo oltre. Era un ragazzo con la testa sulle spalle, ed era per questo che aveva trovato modi alternativi di darsi piacere a vicenda senza correre rischi. E per quanto non fosse altrettanto soddisfacente, beh... ne valeva della vita di Caroline.

Quella sera di fine Aprile erano distesi l'uno accanto all'altra, nel letto di Caroline. Non avevano fatto nulla, erano semplicemente accanto, e lei fissava il soffitto con un'espressione tormentata negli occhi. Dimitri aspettava pazientemente che lei si decidesse a parlare, perché era evidentemente turbata da qualcosa. La verità era che Caroline non ne poteva più di tenersi quel magone dentro, quei pensieri di marciume che le stavano rodendo l'anima

«La guerra non finirà tanto presto come credeva Joseph» disse infine, senza guardarlo in faccia. Lui la fissò stranito.

«E' questo che ti preoccupa tanto?» Lei conntinuò a rifugire il suo sguardo e annuì.

«Ma prima finirà la guerra, prima te ne andrai» osservò lui, come se fosse una cosa positiva se quel conflitto si protraeva ancora. Come se non sapesse dei rischi che correva. Lei si decise a guardarlo.

«Prima finirà la guera, meno probabilità ci sono che mi ritroverò davanti a un prete con Joseph. Prima finirà la guerra, prima sarò al sicuro. Dio Dimitri, non puoi pensare solo a quello» lui sospirò

«Hai ragione ... Però magari se passasse un po' di tempo in più potrei seguirti in America. Sto insegando ai ragazzi a usare il forno, se loro impareranno potrò andarmene» lei scosse la testa.

«Dima ti ascolti quando parli? Vorresti lasciare la tua famiglia per sempre? Lasciare due ragazzini a lavorare tutto il giorno in quel panificio, abbandonare tua madre, per venire con me?» Lui abbassò lo sguardo sulle sue mani.

«A volte ho l'impressione che tu neanche ci provi a trovare una soluzione. Due persone che si amano lo trovano il modo di stare insieme, a qualsiasi costo» Caroline scosse la testa, prendendo tra le sue le grandi mani di Dimitri.

«Hai detto bene: a qualsiasi costo. Il punto è che in ogni caso sei tu che paghi quel costo, e io non voglio essere il motivo della tua infelicità. Non dopo tutto quello che hai fatto per me»

«Caroline tu sei arresa in partenza, non ci provi neanche. Io so di dire cazzate, ma è perchè ancora ci spero, almeno un po'. Tu invece... sei decisa a lasciarti tutto alle spalle, anzi non vedi l'ora di farlo. Tu mi usi Caroline, mi usi per stare almeno un po' meglio, per poi alla prima occasione di fuga mollarmi qui come un coglione, senza guardarti indietro» Caroline era congelata. Si scostò da lui e gli diede le spalle, tremando appena.

«Caroline ...-» provò a chiamarla lui.

«Caroline un corno, Dimitri! Smetterò di fare la persona ragionevole, te lo giuro. Alimenterò le tue pazzie, e se vorrai venire con me, va bene! Pensi che a me potrebbe dispiacere? Certo, deve essere terribile arrivare in un posto sconosciuto con l'uomo che ami piuttosto che da sola. Ruba i soldi necessari alla tua famiglia e poi abbandonala, che tanto non hanno bisogno di te. Lascia i tuoi fratelli di dodici e dieci anni a lavorare nel forno, se la caveranno» Era dannatamente sarcastica. Dimitri le accerezzò un fianco con aria conciliante.

«So che è stupido come progetto, Elly. Lasciami sognare ogni tanto» avvicinò il viso ai suoi capelli, respirandone l'odore a pieni polmoni. Lei era immobile.

Dimitri le scostò una ciocca dal collo, lasciando la pelle nivea libera, per poi baciare quella porzione di spazio fra l'orecchio e la nuca, lentamente, sfiorandola prima con il naso, pizzicandola con la barba di due giorni che aveva sul viso.

Caroline non seppe trattenersi dal sospirare, per quanto fosse ancora arrabbiata, quando lui cominciò a stuzzicarla con i denti e con la lingua, senza smettere di accarezzarle il fianco, con movimenti lenti, studiati per farle desiderare di più.

«Non ci provare. Mi hai detto cose orribili» provò Caroline, suonando poco convincente amche alle proprie orecchie.

«Fammi chiedere scusa a modo mio, allora» disse lui, prima di scendere con la sua mano ad accarezzarle il fondoschiena, per poi superarlo e raggiungere l'orlo della gonna e risalire per le sue cosce chiuse e strette.

«Dima ...» provò a protestare, prima che lui la baciasse con trasporto.

E a quel punto si abbandonò a lui, alle sue mani che ormai sapevano come muoversi per darle piacere, alla sua lingua che scendeva sempre più giù fino al suo seno scoprendole il petto. Lei sosprirò e Dimitri si avventò su di lei succhiandole i capezzoli come un bambino ingordo, mordendoli e poi leccando via il dolore. Si dedicava a entrambi, con dovizia, premurandosi di massaggiare l'altro mentre con la bocca ne torturava uno. Quando Caroline divenne chiaramente impaziente, Dimitri scese più giù con la bocca, baciandole la pancia candida mentre le sollevava la gonna e tirava giù la biancheria di cotone bianco.

Quella posizione la imbarazzava sempre, si sentiva troppo esposta, ma a Dimitri piaceva guardarla in quel modo, completamente nuda sotto di lui e bisognosa di attenzioni. Le prese le gambe, portandosele sulle spalle, poi la baciò ... E Caroline sentì una scossa tanto forte al basso ventre, come se avesse preso la corrente, da provare a richiudere istintivamente le gambe. Dimitri non glielo permise e mentre la guardava bramoso, iniziò a baciarla
esattamente nel centro pulsante del suo piacere, usando le mani per stimolarla ancora di più, toccandola con decisione e passione a stento trattenuta. Non desiderava nient'altro che affondare in lei, in quel momento, divenire un'unica cosa con la donna che amava, fondersi in un unico corpo alla ricerca di un piacere che bramava oltre ogni dire. Si ripeteva però come un mantra che non era possibile, per questo cavalcò l'orgasmo di Caroline con la bocca e con le mani, mentre lei gemeva di piacere, senza fare ormai più caso al suo sguardo vorace che la guardava con tanto insistente amore e desiderio.

***

Joseph era ubriaco. Di nuovo.

Si sarebbe spappolato il fegato se avesse continuato ancora per molto a quel ritmo, ma proprio non vedeva via d'uscita a quella situazione.

Fai la tua scelta. Ma cosa avrebbe mai potuto scegliere? Non poteva congedarsi, neanche volendo, ne andava della sua vita e di quella di Caroline. Erano in guerra per dio, non poteva fare i bagagli e dire adios all'esercito.

Quindi beveva.

Neanche sapeva se effettivamente lui volesse lasciare l'esercito. Per cosa avrebbe dovuto lasciarlo, alla fin fine? Era stato la sua vita per tanti anni, credeva in quello che faceva, sapeva di star costruendo un mondo migliore per le generazioni future, perché nessun bambino patisse mai quello che aveva invece sofferto lui durante la sua travagliata infanzia. Avrebbe dovuto lasciare tutto per una ragazza, ebrea per giunta, che nei suoi confronti provava solo odio?

Sei stato tu a spingerla a destestarti con il tuo comportamento. E nonostante tutto non ti ha mai odiato, anche se a volte l'avresti meritato gli ricordò la sua coscienza. Joseph imprecò sotto voce, senza attirare l'attenzione del barista.

Il locale in cui andava a bere praticamente ogni sera era a gestione familiare. Vi lavoravano un uomo sulla cinquantina e le sue tre figlie più piccole, tutte intorno ai venti, venticinque anni. I figli in realtà dovevano essere cinque, ma i due fratelli maggiori erano morti combattendo per il loro paese. E inutilmente anche.

Era questo il motivo per cui Joseph andava lì, perchè lo odiavano e non gli avrebbero mai negato un altro bicchierino maledoicendo il veleno che gli vendevano e sperando che lo uccidesse, una volta tanto. Era un sollievo sentire odio e non paura. Odio e non adulazione. Odio sincero, senza remore, senza sensi di colpa o ripensamenti. Lo odiavano tutti lì dentro, e se lo tenevano buono solo perchè se lo avessero ammazzato l'avrebbero pagata cara, visto che era un ufficiale. E anche perché pagava sempre tutto l'alcool che si scolava, che non era poco.

Con il passare dei mesi, oltre all'odio era sopraggiunto il rispetto. E a Joseph piaceva anche per quello, perchè sentiva di esserselo sudato quel rispetto, come un sentimento riconosciuto di malavoglia e per puro senso di giustizia.

Lui non aveva mai palpeggiato nessuna delle figlie del proprietario, pagava sempre, non faceva schiamazzi e salutava sempre prima di entrare o di uscire dal locale. Pian piano quel soldato seduto all'angolo più buio della stanza, a rovinarsi il fegato per chissà quale ragione, aveva assunto dei connotati quasi positivi per la famiglia che gestiva il locale. Quasi, perchè rappresentava sempre il nemico. Ma un nemico che portava loro rispetto, e che in qualche modo era apprezzato per questo.

Era Maggio ormai e la primavera era al massimo del suo splendore, anche se Joseph era sempre più stanco, più provato, più esausto. Voleva solo non pensare.

Tante volte era stato tentato di provare, solo per rimettersi un po' in senso, quel Pervitin che il medico militare insisteva tanto per fargli assumere. L'aveva già provato al fronte, ovviamente. Ma aveva istinto per certe cose e aveva notato come chi assumesse quella porcheria ne chiedesse sempre di più e di più ... per quanto stesse finendo nello stesso giro con l'alcool non gli andava giù di dipendere da qualcosa che non capiva e non sapeva dove andare a pescare, se non nelle farmacie tedesche. L'alcool era dappertutto, il tabacco anche. Il pervitin no. E poi, gli era sempre piaciuto farcela con le proprie forze. Il pervitin invece, quelle rare volte che l'aveva provato, l'aveva reso entusiasta, euforico, pieno di forza ed energia, lasciandolo poi spompato quando il suo effetto svaniva. E per quanto fosse piacevole, la sensazione era quella di non essere stato se stesso.

Sospirando Joseph si issò in piedi, traballando. Si appoggiò al tavolo contando i bicchieri, mettendoci un po' di più del solito, visto che li vedeva quasi doppi. Poi prese i soldi che doveva pagare, compresa un po' di mancia, e li lasciò sul tavolo. Afferrò la giacca della divisa, e uscì sembre dondolando, diretto verso casa.

Essendo un ufficiale gli avevano dato una stanza privata all'interno di una casa che probabilmente prima apparteneva ad una ricca famiglia ebrea. Era un bell'appartamento e lo divideva con altri due ufficiali, cosa che lo faceva sentire sollevato di non essersi portato dietro Caroline. Chi si porterebbe dietro la cameriera -o la fidanzata- durante un'occupazione?

Però gli mancava. Gli mancava terribilmente, si sentiva come se il suo cuore fosse stretto in una morsa di ghiaccio, che si scioglieva un po' solo quando leggeva la sua lettera settimanale. Non gli aveva mai parlato di Dimitri, anche se lui immaginava quello che probabilmente stavano combinando e quando anche solo lo sfiorava l'idea di quel ragazzo che la toccava, che la baciava, che la faceva ridere, si sentiva morto dentro. Aveva sperato invano di smettere di desiderarla in tutti i modi possibili, di smettere di sognarla, di desiderare di essere qualcun'altro o che almeno lei non fosse ciò che invece disgraziatamente era.

Ma la lontananza non aveva fatto altro che peggiorare le cose, gli aveva ingarbugliato i pensieri, rendendolo confuso più di quanto non fosse prima di partire. E poi, c'era il lavoro che svolgeva, che lo tormentava almeno quanto il pensiero di Caroline. Non riusciva più a mangiare in modo regolare, perchè il suo stomaco, colpito da una dannatissima gastrite nervosa, non faceva che bruciare e rimettere tutto ciò che gli arrivava. E l'alcool non lo aiutava per niente.

Il punto era che lui era uno dei responsabili del ghetto di Varsavia. Era il ghetto più grande d'Europa e si divideva in due parti, il ghetto grande e il ghetto piccolo, collegati da un ponte per non permettere agli ebrei di mescolarsi con la popolazione. Joseph non riusciva a smettere di pensare che quel ghetto era una minima parte della città, dove viveva la metà della popolazione di Varsavia. Immaginava continuamente Caroline in quell'inferno, con sua madre e suo padre, stipati come animali in mezzo a tanta altra gente, a morire per le malattie, per il tifo, che si contraevano inevitabilmente in quell'ammasso di corpi umani sporchi infreddoliti e affamati, a morire per strada semplicemente cadendo esattamente come era accaduto a suo padre. Lui mangiava e beveva senza alcun problema e gli ebrei lì dentro non assumevano neppure 200 calorie al giorno, e chiunque avrebbe capito che l'unico vero motivo per tanto poco cibo non era solo la mancanza di viveri ma quello di farne sopravvivere il meno possibile, eliminare tanta quanta più feccia ebraica possibile.

Era lui a prendere nota delle entrate e delle uscite dal ghetto. Sapeva esattamente quanta gente vi entrava e quanta invece ne usciva solo dentro una bara improvvisata. Ed erano circa duemila anime al mese che morivano di stenti dentro quell'inferno.

Lui però, per quanto la sua fervida immaginazione aveva ritratto i peggiori scenari possibili, non vi era mai entrato. Il ghetto si gestiva da solo. Loro legiferavano su cosa e su chi dovesse entrare e uscire da quel quadrato di città, che per il resto era autonoma, con le sue forze di polizia, il suo tram e tutto ciò di cui aveva bisogno.

Joseph si occupava di registrare le persone all'entrata e all'uscita, di assegnare i permessi ai lavoratori, ai quali era concesso un po' di cibo in più. Aveva visto tante persone cadere sfinite, aveva visto i visi di chi lui stesso aveva fatto entrare farsi ogni giorno più smunti e disperati, trascinandosi a lavoro nella speranza di un pezzo di pane. E ne aveva visti tanti non presentarsi più.

Una mattina aveva assistito ad una scena che probabilmente l'avrebbe perseguitato per il resto dei suoi giorni, che non avrebbe mai dimenticato neppure volendo.

Una donna aveva provato a nascondere la figlia in una carriola che doveva portare con sè al lavoro. La bambina non doveva avere neanche un anno e sfortunatamente aveva iniziato a piangere poco dopo aver sorpassato i soldati che registravano chi usciva. Aveva iniziato a piangere e un soldato avendola sentita si era fiondato sulla carriola cercando la cosa che emetteva quel rumore.

L'aveva sollevata per un piede, la bimba in lacrime, la madre che provava a riprenderla, disperata. E poi dopo due colpi di pistola, la madre e la figlia erano di nuovo insieme, sull'asfalto, coprendolo di rosso vermglio.

Joseph aveva distolto lo sguardo, continuando il suo lavoro.

Probabilmente si sarebbe dovuto abituare, si diceva. Perchè non si abituava? Non ci riusciva.

Gli altri soldati non erano toccati, almeno non dopo il primo mese, da quello che vedevano ogni giorno, perchè invece lui stava in quel modo? Non che lo desse a vedere, se avesse mostrato anche solo il minimo segno di debolezza sarebbe stata la fine, lui però notava la differenza. I soldati arrivavano, il primo mese circa erano taciturni e spalancavano gli occhi a certe scene, mascherando poi il tutto con una sigaretta. Poi si scioglievano, e riprendevano la loro personalità, abituandosi a quella nuova routine. Lui invece aveva avuto dall'inizio una poker face invidiabile, ma non si era mai sciolto. Non si era mai abituato. I suoi superiori, vedendo la mancanza di reazioni all'inizio, pensavano si trattasse semplicemente del suo carattere.

Joseph non faceva che pensarci, eppure sapeva, in fondo, perché non si abituava. Per lui non erano bestie, per quanto si sforzasse di imaginarseli inferiori e terribili nella sua mente c'era sempre Caroline, i suoi genitori che lo accudivano, lei che lo baciava con trasporto. Come avrebbe mai potuto far finta di niente? Ad abituarsi?

Semplicemente non poteva.

Se lo ripeteva in continuazione, e quel mantra rimbombava ancora nella sua testa, mentre arrivava a casa, si spogliava nella sua stanza e poi cadeva finalmente addormentato nel suo letto, la testa finalmente vuota dai pensieri che non smettevano di dargli tregua.


 

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Capitolo 17
*** Operazione Barbarossa ***


Caroline sorrise annuendo alla ragazza poco più grande di lei che aveva di fronte, stando ben attenta a non farsi beccare mentre prendevano in giro un importante ufficiale presente nella sala, che camminava impettito come pavone.

Se con Dimitri le cose andavano a gonfie vele, aveva anche dovuto rispettare una promessa, in quei mesi: partecipare attivamente alla vita del partito. Capiva la richiesta di Joseph, sapeva che era necessario farsi vedere ogni tanto in quel covo di serpenti.

All'inizio ne era stata solo dannatamente spaventata, poi aveva capito che loro non avrebbero mai immaginato che un'ebrea avesse la faccia tosta di presentarsi a quelle riunioni, così era sopraggiunta la rabbia, la disapprovazione e un odio incondizionato verso pressocchè la totalità dei partecipanti, che però dissimulava abbastanza bene.

La ragazza con i capelli biondi, anche se Caroline sospettava fossero tinti, era tra le peggiori arpie che avesse conosciuto lì dentro e si chiamava Hannah. Non era sposata e aveva la stessa età di Joseph, così aveva pensato di accalappiare il giovane ufficiale prima che si presentasse quella sciaquetta con i capelli orribili. Caroline sospettava che lei si fosse tanto “gentilmente“ offerta volontaria per aiutarla ad organizzare il matrimonio solo per mandarlo all'aria. Poi però avevano passato tanto tempo insieme, così aveva finito in qualche modo per affezzionarsi l'una all'altra. Era stato incredibile, giorno dopo giorno quella che era una farsa era diventata quasi realtà. Quasi, perché Hannah non aveva idea della vera identità di Caroline, e mai avrebbe dovuto scoprirlo.

Però passavano interi pomeriggi ridendo, alla riunioni erano sempre insieme, scherzavano su ogni cosa fosse permesso scherzare. Era la cosa più vicino a un'amica che Caroline avesse avuto da tanto tempo e, anche se continuava a ripetersi che Hannah l'avrebbe denunciata se avesse conosciuto le sue origini, non poteva fare a meno di volerle bene.

Era stata decisa la Chiesa dove si sarebbe svolto il matrimonio e Caroline aveva spiegato al pastore la situazione difficile: l'uomo le aveva assicurato, con un sorriso bonario sul volto pasciuto, che non appena Joseph sarebbe sceso dal treno avrebbero potuto sposarsi. Lei aveva però convenuto con il diretto interessato che sarebbe stato meglio se il giorno dell'arrivo lui avesse dormito in un hotel non troppo lontano da dove abitava, giusto per avere il tempo di una dormita e di un bagno ristoratore.

Era stato deciso anche il luogo in cui fare il rinfresco, un ristorante vicino lo zoo veramente carino anche se non troppo sfarzoso. La moglie del proprietario era un'amica di Hannah, per cui le aveva dato la disponibilità nel farle avere una sala libera, con un massimo di trenta persone e con un preavviso minimo di una settimana.

Caroline aveva quindi scelto il menù, molto abbondante anche se non avrebbe potuto essere ricercato come Joseph avrebbe voluto; gli addobbi, che erano ammassati nella sua vecchia stanzetta, i fiori da usare in base ai mesi dell'anno in cui sarebbe potuto tornare.

Caroline aveva iniziato, ed era anche a buon punto, a darsi da fare per il corredo, che prevedeva una buona dose di lenzuola, vestaglie, camicie da notte, tovaglie e altre mille cose che le erano costate un occhio della testa, e tutte da ricamare per giunta.

Aveva chiesto ad Hannah di farle da testimone un pomeriggio uggioso e lei era saltata dalla poltrona nel salotto della casa di Joseph per abbracciarla e ringraziarla di quell'onore. Prese dall'allegria, Caroline aveva messo il suo disco sul grammofono e avevano passato un paio d'ore spensierate ridendo e ballando.

Non sapeva a chi lo avrebbe chiesto Joseph, anche se le era parso di capire che per quanto non fosse molto amico con nessuno, lo conoscevano più o meno tutti.

Così adesso erano andate dalla sarta, ed Hannah era decisamente in fermento per quell'ulteriore passo. Avevano ordinato il suo vestito da sposa, anche se sarebbero stati necessari dei ritocchi in base alla stagione, stessa cosa dicasi per l'abito di Hannah. Tutta la mattina non aveva fatto altro che decantare i pregi del raso e della seta, a lamentarsi perchè essendo in guerra costavano quasi quanto l'oro, o parlare di quanto era bello il suo anello di fidanzamento, e a sparlare una ragazza, che frequentava il loro stesso circolo e che si era sposata da poco. Nonostante non fossero i suoi argomenti preferiti, Caroline doveva ammettere che l'amica aveva decisamente buon gusto e poi, quando entrava in confidenza, aveva un'ironia pungente niente affatto noiosa e abbastanza divertente.

Era ormai Maggio inoltrato e presto sarebbero stati quattro mesi che Joseph mancava. Era troppo poco perché ottenesse un permesso, considerando che ci volevano due giorni di treno per fare Berlino-Varsavia, però lei era sempre più convinta che non sarebbe riuscita a scappare via prima che lui tornasse.

Sorrise di nuovo ad Hannah, chiedendosi per l'ennesima volta cosa avrebbe fatto lei se avesse saputo la sua vera identità. Era quasi sicura che l'avrebbe denunciata.

***

Domenica, 22 Giugno 1941

Joseph quella domenica mattina era libero. Si era detto che per un sabato sarebbe anche potuto uscire con gli altri ufficiali, così si era ritrovato in un pub dove era evidente che i suoi compagni andassero spesso. Si chiamava La Caserma ed aveva attirato da subito l'attenzione degli ufficiali per il suo nome e per la vicinanza alla caserma dove dormivano la maggior parte dei soldati. Presto era diventato appannaggio esclusivo degli ufficiali, cosa che non andava per niente giù al proprietario polacco. Nel locale, oltre che ottima birra, c'erano anche ottime donne. Le prostitute erano belle e luccicanti lì come da nessuna altra parte in città, la maggior parte delle quali aveva perso tutto in quella guerra e adesso stava provando a risollevare le proprie finanze. E quale modo migliore di farlo, se non scendendo a patti con il nemico? Sorridevano lascive portando altra birra, ridacchiando davanti agli occhi azzurri dei soldati tedeschi.

Così quella notte Joseph, dopo aver passato delle ore tutto sommato piacevoli con quei ragazzi giocando a carte, era tornato a casa accompagnato da una bella rossa, tra le risate dei suoi compagni perchè era evidente che avesse un debole per quel colore. Discretamente ubriaco, anche se meno del solito, aveva passato la notte a trastullarsi tra le coscie e i seni della donna, al punto che se n'era andata quando ormai era l'alba.

Così si era svegliato dannatamente tardi, alle nove e trenta. Probabilmente avrebbe continuato a dormire però, sazio di sesso e alcool, se non fosse stato per il caos che regnava in quella casa. Si era alzato assonnato cercando di capire che diamine fosse successo.

I due ufficiali con i quali condideva la casa erano seduti in cucina, con le uniformi indosso e un sorriso vittorioso a increspargli i visi. La radio era accanto a loro, ma Joseph non distingueva le parole che ne uscivano da quella distanza. Un flebile alito di speranza per Caroline lo invase, insieme alla consapevolezza che se era come credeva lui non si sarebbero mai più rivisti.

«Cosa è successo? L'ghilterra si è arresa?» chiese, con tono piatto ma evidentemente curioso.

Il Maggiore Fischer, il più anziano lì dentro, lo guardò con una mezza risata.

«No, abbiamo invaso la Russia» disse con un ghigno stampato sul viso. L'altro, Capitano come lui, gli diede man forte.

«Stalin non ha speranze contro il nostro esercito, saremo a Mosca prima che venga l'Inverno. E spazzeremo via dalla nostra terra quegli schifosi slavi comunisti» aveva detto con un sorriso vittorioso. Joseph aveva aggrottato le sopraciglia.

Era quello che aveva fatto carriera più velocemente lì dentro, e questo perchè aveva un buon istinto per le strategie e i colpi di mano. E quell'attacco gli sembrava tutto fuorché intelligente.

Si chiese che diamine avessero in testa i generali per fare un attacco tanto sconsiderato. L'esercito tedesco era inarrestabile, vero, ma avevano un patto di non alleanza contro la Russia, perché romperlo? Sarebbe stato più intelligente concentrarsi per far arrendere l'Inghilterra, stipulare un trattato di pace non troppo sconveniente per gli Inglesi così da non inimicarseli e aspettare qualche anno per invadere la Russia, giusto il tempo di rinfoltire l'esercito. Ma in quel modo ... l'esercito tedesco era sparso per mezza europa fino alla Grecia, persino in Africa e adesso anche in Russia. Senza contare l'avventatezza della mossa: se non fossero arrivati a Mosca entro novembre sarebbe stata la fine: i soldati tedeschi non avrebbero avuto bisogno dell'artiglieria nemica, per morire, sarebbe bastato l'inverno.

Scosse la testa senza esternare i suoi pensieri. Sarebbe stato pericoloso.

«Questo, non me lo aspettavo» disse solo, sorpreso.

Il Maggiore lo guardò con un ghigno.

«Capitano, era solo questione di tempo prima che il nostro Fhurer attaccasse quelle merde comuniste» Joseph annuì pensieroso.

Con espressioni di giubilio brindarono al Fhurer, poi lui si ritirò nella sua stanza, prese carta e penna e iniziò a scrivere. Aveva già spedito la sua lettera settimanale a Caroline, ma quello era un caso speciale, doveva parlarle.

22 Giugno 1941

Caroline

La Germania ha attaccato la Russia.

Probabilmente a quest'ora lo saprai già, ma avevo bisogno di scriverti. Non so se sai quali saranno le conseguenze di questa mossa a mio parare azzardata: la guerra non finirà tanto presto. Se c'è una cosa che so però, è che nonostante il nostro esercito sia nettamente superiore, la Russia non si ritirerà senza combattere. Ci sarà uno spargimento di sangue e spero di non ritrovarmi lì quando giungerà l'inverno. Se la Germania non conquisterà Mosca entro novembre non immagino cosa accadrà, ma so una cosa: fin'ora nessun esercito è mai riuscito a sopravvivere all'inverno russo.

So che non dovrei dubitare così del Fhurer, ma sono preoccupato, per te, per noi. Non so quando avrò un congedo, ma mi sembra ormai chiaro che i nostri piani siano finiti in fumo. Mi dispiace di averti trascinata in questa storia, so che avresti preferito tenertene fuori.

Ho bisogno di parlare con qualcuno Caroline ... ci sono così tante cose che non sai, che non ti racconto, perché ho paura del tuo giudizio, perché non voglio angustiarti, perché non potrei dirti nulla comunque. Alla fine avevi ragione tu. Hai sempre avuto ragione tu.

Che persona sono diventata, mi hai chiesto. Chi voglio essere?

E ora io ti rispondo che non so più chi sono. Non so più niente, ormai.

Jhosep

Finì di scrivere e, senza neanche rileggere cosa aveva scritto, sigillò la busta. Non voleva pensare quanto di sè aveva messo in quella lettera, perché odiava sentirsi debole e quella lettera racchiudeva tutte le sue debolezze in poche, coincise, frasi, che si mischiavano tra loro confusamente. Pensare avrebbe solo peggiorato le cose.

Si vestì in fretta e senza neanche tentare di mandare giù qualcosa a parte del caffè si recò all'ufficio postale per spedire la lettera. Sperò che Caroline capisse. Sperò che avesse parole di conforto per lui, aveva bisogno che lei lo confortasse, che gli dicesse che sarebbe andato tutto bene.

Come faceva quando era solo un bambino disperato, che vedeva il padre in ogni angolo.

Ci sono io con te Jo, dormi. Non preoccuparti, ci sono io. E lui si addormentava, perché di lei si fidava come di nessun altro.

Rivoleva la sua infanzia. Rivoleva la sua vita. E voleva lei, come non l'aveva mai avuta.

***

Dimitri, quando quasi un mese prima aveva saputo dell'assedio in Russia, si era sentito congelare dentro per la paura e la disperazione. Lo avrebbero chiamato alle armi, questo era poco ma sicuro, e adesso, mentre Caroline era sempre più presa da eventi mondani con le sue nuove amiche, lui si faceva in quattro cercando di rendere autonomi i suoi fratelli. La madre lo guardava con il dolore negli occhi e lui cercava di sfuggire il suo sguardo, senza riuscire a sopportare anche la sua pena. I fratelli non capivano. Perché era così irascibile? Perchè finalmente ora che era finita la scuola dovevano lavorare invece che divertirsi come i loro coetani? E lui lì a urlargli di crescere.

“Stai calmo con i bambini” gli diceva sua sorella Lou, la terzogenita, ammonendolo con cipiglio severo. Neanche lei aveva capito, come i bambini, e lui preferiva farsi rimproverare piuttosto che scaricarle addosso quel fardello. Sua madre sospirava, e voltava lo sguardo, come sua sorella Anne, a cui invece la situazione era fin troppo chiara.

“Lou dannazione, quante volte ti ho detto di farti i fatti tuoi? Devono imparare” ripeteva allora lui, prima di continuare a sgridare quei due monelli. Sua sorella sbuffava e i bambini, compreso che non avrebbero avuto l'aiuto sperato, chinavano il capo e riprendevano a lavorare.

Prima svolgeva buona parte del lavoro da solo, ma sapeva che senza di lui tutti avrebbero dovuto lavorare. Le sue due sorelle impastavano già molto pane, ma se lui non ci fosse stato avrebbero dovuto fare tutto loro e non avrebbero potuto pensare anche al forno, considerando che servivano anche i clienti. Sua sorella Anne e sua madre dovevano badare ai bambini e poi probabilmente avrebbero aiutato le altre due sorelle a impastare. Rolf, Fred e George erano troppo piccoli per lavorare, per cui gli unici a cui poteva insegnare qualcosa erano Karl e Anton, che però si rifiutavano di collaborare.

Una mattina però quella bomba a orologeria era inevitabilmente esplosa. Dimitri aveva preso per la collottola Anton, ben deciso a dargli una bella sculacciata per essersi distratto e aver fatto bruciare il pane, quando Lou era intervenuta come una furia.

«Metti giù le mani Dimitri! Lascialo stare! Ma cosa credi? Ha unidici anni, per dio, sei impazzito? Non ti riconosco più, e non capisco com'è che ancora nostra madre ti asseconda, anche se ho sempre saputo che sei il suo preferito non ho mai pensato che sarebbe arrivata a tanto» disse amareggiata. Dimitri si congelò. Non sapeva che fare. Sua sorella aveva sempre avuto una bella lingua lunga, e sapeva come fare male quando voleva, sopratutto quando credeva di avere di fronte una bella ingiustizia.

Sua madre, che per chissà quale ragione era giù al forno con loro, fissò la figlia per un lungo istante, poi guardò Dimitri e sospirò sconfitta.

«Lou cosa faremmo se tuo fratello fosse chiamato in guerra? Moriremmo di fame, te lo dico io» disse con voce piatta.

Lou andò per lamentarsi, ma sua madre la fermò.

«No, adesso parlo io. Basta. Sono settimane che ricopri tuo fratello di insulti senza capire che il primo a stare male è lui. Perchè pensi che abbiamo ritirato i bambini da scuola? Perché ci andava? Sai che siamo entrati in guerra anche contro la Russia» fece una pausa e sospirò. La decisione di non rinnovare l'iscrizione a scuola per l'anno dopo ai due ragazzini era stata sofferta ma necessaria.

«Non sappiamo come andrà, ma quello che sappiamo è che al nostro paese servono soldati. E tuo fratello è un forte e sano ragazzo di quasi venticinque anni, non sposato, senza figli a carico. Quanto pensi che reggerà la scusa che è l'unica fonte di sostentamento per la nostra famiglia?» Lou tacque, guardando con occhi nuovi suo fratello.

Dimitri distolse lo sguardo.

«Dimitri io ...» cominciò sua sorella, ma Dimitri la interruppe.

«Lascia stare Lou, lo capisco. Sono stato scorbutico in questi giorni, è vero» Lei scosse la testa e abbracciò il fratello, venendo presto accolta dalle sue braccia familiari e confortevoli.

«Mi dispiace, fratellone» lui la strinse più forte, baciandole la fronte. Lou era sempre stata la più combattiva delle sue sorelle. Nata dopo Anne, che era dannatamente calma e gentile, lei era sempre stata più propensa a rotolarsi nel fango con lui, a fare a botte e a prendere per le trecce chiunque prendesse in giro la dolce Anne. Loro tre erano cresciuti insieme, erano i più grandi e avevano sempre dovuto spalleggiarsi. Dimitri davvero capiva il comportamento di sua sorella, probabilmente avrebbe fatto lo stesso al suo posto, per questo non era affatto arrabbiato con lei, ma solo molto intenerito.

Lei si staccò dopo qualche attimo e lo guardò in viso, angosciata, poi si allontanò tornando al suo lavoro, con le gambe che tremavano per quell'improvvisa notizia. Niente era certo, ma adesso capiva perché sembravano tutti in continua attesa. E avrebbe preferito non saperlo.

***

Dimitri bussò alla porta di Caroline con impazienza. Aveva voglia di passare un po' di tempo con lei, ed erano tre giorni che non si vedevano, tra gli impegni di lui, che lievitavano come il pane, e quelli di lei, a cui ormai però si erano abituati. Era Luglio e nella brezza leggera c'era odore d'estate, la stagione preferita del giovane. Quanto avrebbe voluto tornare all'anno prima! A quell'estate in cui il suo amore per Caroline era sbocciato come una rosa di Maggio, ed erano entrambi così presi da quel sentimento nuovo da non fare caso a tutto il resto. Presto sarebbe venuto Agosto, e con esso il compleanno di Caroline. Presto sarebbe stato un anno da che si conoscevano.

Era di buon umore quel giorno: finalmente aveva chiarito con sua sorella e adesso si sentiva come se gli avessero tolto un peso dal petto. E poi era una fantastica mattinata di sole e lui non avrebbe potuto essere più allegro di così. Aveva due gelati in mano, incartati, che si sarebbero sciolti completamente se Caroline non si fosse sbrigata ad aprire.

Quando finalmente la porta si spalancò, Dimitri si fiondò su per le scale, per poi superare l'uscio davanti ad una Caroline decisamente stupita di quella sua fretta.

«Ho portato il gelato!» disse entusiasta, mentre si dirigeva in cucina e cominciava a scartare l'involucro.

«Cioccolato al latte per lei, signorina. Ma prima voglio un bacio» le disse, porgendole il cono che si andava sciogliendo sulla sua mano. Caroline ridendo gli diede un bacio fugace sulla guancia e afferrò il cono a tradimento.

«Ehi! Io intendevo un bacio vero, non questo» disse fintamente offeso, osservando la ragazza impasticciarsi allegra con il suo gelato, mentre lo guardava con sguardo biricchino.

«Se stavo a sentire a te, facevamo diventare il gelato acqua» disse con finta aria solenne, facendolo ridere di cuore mentre anche lui si dava da fare con il suo gelato.

«Touché. Però dai, me lo meritavo un bel bacio» le disse appoggiandosi con eleganza al tavolo della cucina, mentre lei lo osservava dalla sedia divertita.

«Non ci vediamo da tre giorni, ti porto il gelato, e tu neanche mi saluti come si deve» disse mettendo su un broncio adorabile e facendo risaltare in modo incredibile i suoi occhioni blu. Caroline scoppiò a ridere, poi si alzò dalla sedia e gli depositò un bacio leggero sulle labbra, mentre lui rimaneva immobile.

«Va meglio, ora?» Lui la guardò con occhi luccicanti.

«Puoi fare di meglio» Lei scosse la testa, poi leccò il gelato con aria seducente.

«Prima devo finire il gelato» disse ostinata, mentre lui scuoteva la testa. Se solo avesse saputo cosa avrebbe voluto farle con quel gelato!

«Allora cosa hai fatto in questi giorni?» chiese quindi, cambiando argomento. Lui scrollò le spalle.

«Il solito ... Anton e Karl che non vogliono lavorare, mia madre che mi guarda come se avessi un piede nella fossa, i bambini che fanno i capricci ... devo continuare?» elencò guardando in alto. Lei sospirò.

«E con Lou?» Caroline sapeva quanto filo da torcere gli stava dando sua sorella, e del motivo per cui preferiva lasciarla nella sua beata ignoranza.

«Mia madre ha cantato, davanti a Karl, Anton e Mary. Fosse stato per me non le avrei detto niente, sopratutto non davanti a tutti, però devo ammettere che adesso va molto meglio. Per lo meno, riesco a fare il mio lavoro» lei annuì pensierosa.

«Mi piacerebbe conoscerli ...» disse quasi sovrappensiero. La sua famiglia era andata perduta, e anche nei momenti migliori lei era figlia unica. Le si strinse lo stomaco pensado a Joseph: anche lui era stato parte della sua famiglia. E suo malgrado lo era ancora.

Dimitri la fissava concentrato.

«Hai sempre detto che non è possibile» osservò. Gli sarebbe piaciuto presentarla alla sua famiglia, su cui ruotava buona parte della sua vita. Gli sarebbe piaciuto che sua nonna la smettesse di cercare di convincerlo a presentarla, perché aveva capito che aveva un “tresca” con qualcuna. Ma presentare una ragazza a casa sarebbe significato avere intenzioni serie mentre Caroline stava organizzando un matrimonio con un altro uomo. Più specificamente, con un Capitano delle SS.

«Infatti non lo è. Ma non significa che non mi piacerebbe» disse sospirando. Aveva ancora il gelato in mano, così si affrettò a leccarlo per evitare che colasse. Dimitri le si avvicinò di soppiatto.

«Andrà tutto bene Caroline. Andrà tutto bene» disse, sollevandole il viso per guardarla in faccia. Lei lo baciò sulle labbra, che sapevano di gelato alla vaniglia, lentamente, godendosi la pressione morbida, calda e fredda allo stesso tempo per via del gelato. Quando si staccò Dimitri la guardava tanto intensamente che Caroline si stupì di non essersi sciolta come i loro gelati.

«Sai stavo pensando ... Hai presente quando ci siamo conosciuti?» chiese, osservandolo curiosa. Era da un po' che voleva chiedergli questa cosa, ma chissà perché il discorso non era mai venuto fuori. E in quel momento, mangiando il gelato, le era venuto in mente il giorno del loro primo incontro.

«Certo che l'ho presente. Eri seduta in un tavolinetto di una gelateria del centro. Avevi i capelli molto più corti di ora, al vento. Guardavi il nulla sorridendo, come se non desiderassi altro che stare lì, sotto il sole tiepido di Berlino, a mangiare un gelato» fece una pausa, per riordinare i pensieri.

«Mi sei sembrata una visione. Nel caos della città, in tutto quel movimento, tu eri ferma. E per un attimo ho pensato che ci fossi tu al centro di quel movimento» le sorrise schiarendosi la voce.

«Sono entrato e ho comprato un gelato. Avevo mille cose da fare, ero di fretta e a casa mi aspettavano, ma non pensai a niente di tutto questo. E poi come un impertitente mi sono seduto accanto a te, senza neanche sapere come ti chiamavi»
Caroline aveva gli occhi lucidi di commozione

«Dimitri io ...» lei aveva gli occhi bassi e le gote arrossate. Ormai non capitava spesso che si imbarazzasse, ma non le aveva mai parlato in quel modo.

«E' stata la scelta avventata più bella della mia vita» aggiunse, interrompendola. E in quel momento Caroline non poté fare altro che chiedersi cosa aveva fatto per meritare un uomo simile. Dimitri in quel momento era di una bellezza disarmante, con la camicia bianca a mezze maniche a mostrare le braccia possenti, gli occhi blu accesi da un sentimento che faticava ormai a contenere, le gote arrossate e i capelli neri sparsi dappertutto. Era un angelo, venuto per lei, per salvare la sua anima dalla perdizione. Era suo.

Caroline lasciò perdere il gelato, per concedersi invece la bocca carnosa e invitante di Dimitri, che sapeva ancora di gelato ma che adesso era bollente, in un bacio appassionato ma dolce come le parole che le aveva appena rivolto. Aveva risposto alla sua domanda senza che lei avesse avuto bisogno di porla. “Che ci facevi lì? Perchè ti sei seduto accanto a me?” Avrebbe voluto chiedergli. Ma lui l'aveva anticipata.

Mentre lo baciava non riusciva a non far scorrere le sue mani piccole sulle sue spalle, larghe e modellate dal lavoro che faceva, sulle sue braccia forti a stento contenute nella camicia, sui suoi zigomi disegnati ruvidi per la barba ...

Dimitri sospirò di piacere quando gli baciò il collo e il pomo d'adamo, sccendendo poi sul primo bottone della camicia. Boccheggiò.

Dannazione non aveva tempo

«Caroline ...» borbottò, anche se dalle sue labbra uscì più un gemito strozzato. Lei lo ignorò, scendendo sempre più giù, vogliosa di sentirlo gemere per lei.

«Caroline non ho il tempo» si sforzò di dire. Lei si staccò stupita, mentre lui con le mani che tremavano abbassava lo sguardo.

«Sono già in ritardo» sospirò guardando l'orologio.

«Ma non ci vediamo da tre giorni» protestò lei, sorpresa. Di solito era lui che la rincorreva, non il contrario, ma durante quel mese erano cambiate tante cose. Lui si passò una mano sul viso, stanco.

«Lo so» disse, cercando di mantenere la voce stabile.

«E dopodomani farai il compleanno» aggiunse lei corrucciata. Già, il tempo era volato e presto il diciotto Luglio sarebbe arrivato, e lui avrebbe compiuto venticinque anni. Non voleva pensarci, si sentiva già terribilemente vecchio. Avrò mai qualcosa di mio in questa vita? Pensava continuamente. Era come se non fosse stato capace di costruire niente: persino la ragazza di cui si era innamorato non gli avrebbe potuto dare niente. Pensare al suo compleanno lo rattristava parecchio, gli ricordava che il tempo passa e lui avrebbe voluto invece che quella parentesi della sua vita durasse in eterno.Sospirò di nuovo e si mise dritto, sistemandosi la camicia e cercando un modo per nascondere l'evidente e imbarazzante gonfiore sotto la cintura.

«Ci vedremo. Non preoccuparti, domani dovrei riuscire a passare. E dovrei avere più tempo» Le sorrise malizioso, e lei si sciolse.

«Beh me lo auguro» disse, facendolo ridere. Le diede un bacio in fronte con dolcezza.

«Ci vediamo domani Caroline» lei annuì e lui sparì nel corridoio, con passo svelto.

E Caroline rimase lì, ad osservarlo sparire dall'uscio.

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Capitolo 18
*** Coscritto ***


Caroline sbuffava come un treno a vapore seduta sulla sua sedia in cucina, osservando ormai priva di appetito la cena fredda che le stava davanti. Aveva aspettato Dimitri tutto il giorno, invano. Le aveva detto che sarebbe passato così lei si era data da fare per cucinare qualcosa di veramente buono per festeggiare il suo compleanno, gli aveva comprato un regalo, gli aveva persino cucinato una torta con crema alla vaniglia come piaceva a lui. E lui non si era fatto vivo, non aveva mandato un biglietto, niente. Guardava le salsicce, le patate fritte e la birra che aveva comprato e invece che appetito lo stomaco le bruciava di delusione. Sapeva che era molto impegnato. Ma almeno un biglietto ...
Erano le nove di sera quando finalmente si arrese e andò a prepararsi un bagno caldo, senza neanche sparecchiare la tavola. Voleva immergersi nell'acqua bollente e lasciarsi cullare dal sapone: sarebbe stata meno arrabbiata dopo, troppo rilassata per pensare ad altro. Così sempre sbuffando si diresse in bagno per riempire la vasca. 
Spogliandosi, si guardò allo specchio. Non era una cosa che faceva spesso, più per abitudine che per altro: negli ultimi anni con i suoi genitori aveva preferito non scorgere il proprio riflesso: troppo sciupata, magra, malandata e malaticcia. Non era riuscita a specchiarsi per tanto tempo. E poi non era vanitosa, non amava rimirarsi, per questo guardandosi allo specchio del bagno, si stupì. Non riconosceva la ragazza che le restituiva lo sguardo confuso. Era piena nelle coscie ma le gambe erano ben delineate, la pancia solo lievemente accennata, il seno gonfio. Era ingrassata parecchio nell'ultimo anno, ma le stavano bene quei chili in più. Aveva un'aria sana, i capelli ormai le arrivavano alle spalle, lucidi e ardenti. Aveva lentiggini sparse in tutto il corpo altrimenti candido come la neve, piedi piccoli e la bocca imbronciata. Si guardò ancora un attimo, stupendosi di essere diventata così: si guardava e si sentiva bella. Ed era una sensazione magnifica sentirsi in pace con il proprio corpo. 
Poi si immerse nell'acqua calda, da cui si alzavano volute di vapore che rendevano appannato l'ambiente. Sospirò, lasciandosi cullare dall'acqua e dall'odore di rosa che tanto le piaceva, sospirando di piacere. Era così beatamente immersa, quando sentì bussare alla porta. Era un ticchettare urgente, e lei si stupì perché era già passata l'ora del coprifuoco. In fretta si alzò e si avvolse nell'accappatoio, rischiando di scivolare mentre correva ad aprire la porta. Quando la spalancò trovò Dimitri davanti a lei, negli occhi una disperazione che non gli aveva mai visto. Entrò, con un foglio in mano e la faccia di chi vede tutti i propri sogni andare in frantumi. Lei si affrettò a chiudere la porta, poi lo guardò addolorata. Non ci fu bisogno di spiegazioni, aveva già capito. 
Dimitri era stato chiamato in guerra.
***
Quello stesso giorno, a chilometri di distanza, Joseph si rigirava tra le mani le fotografie che aveva chiesto a Caroline di spedirgli. Le aveva detto che sarebbe sembrato strano il fatto che un fidanzato non avesse neppure una foto della sua promessa sposa, anche se non sapeva se lei avesse creduto o meno a quella stupidaggine. La verità era che voleva vederla e una foto avrebbe più o meno saziato quel desiderio ogni giorno più urgente. Comunque lei gli aveva mandato ben due foto con la lettera della settimana dopo, che gli era arrivata il giorno prima. Erano belle fotografie, non troppo grandi e con i bordi tagliati in modo elegante, a piccole onde. Lei sorrideva spensierata in entrambe, i capelli decisamente più lunghi rispetto a come erano quando lui era partito. Era più paffuta, le guance erano piene e piegate in un bel sorriso. Non si vedevano i suoi colori, ma lui conosceva  la sfumatura di rosso tiziano che avevano i suoi capelli e il verde cristallino dei suoi occhi ed era così che la vedeva. Indossava il vestito a fiori verdi che aveva comprato l'anno prima per il suo compleanno, quello che le donava molto. Joseph guardadola aveva sospettato che ormai le andasse un po' stretto, sopratutto sul petto. La prima foto era un primo piano, in cui si riusciva a scorgere persino qualche lentiggine, nella seconda invece si vedeva lei seduta su una sedia e con le gambe accavallate, in una posa incosapevolmente sensuale.  
Joseph ne fissava prima una, poi l'altra, rigirandosele tra le dita, pensieroso. Era giusto avere nel portafogli le foto di una ragazza ebrea? No che non lo era, ovviamente. Così come non era giusto procurarle documenti falsi, nasconderla in casa sua e farne la sua fidanzata. Ah e sposarla, ovviamente. Perché l'avrebbe sposata, ormai ne era certo, anche se con un nome falso e solo per avere una promozione. 
Una promozione ... gli sembrava così stupido, ora! Ma erano in ballo e dovevano ballare ormai. Anche se ogni giorno di più sentiva la vita scorrere via dal suo corpo, anche se si era ridotto come l'ombra del soldato che era. Se n'era accorto persino un suo superiore, il Maggiore Stein. Gli aveva chiesto cosa avesse, perché aveva proprio delle brutte occhiaie ed era diventato troppo magro: la divisa gli stava larga ed ormai era evidente a tutti. Joseph si sforzava di mangiare, ma il suo stomaco si rifiutava in modo più che categorico. Il Maggiore gli aveva consigliato il Pervitin, poi aveva osservato che probabilmente ci sarebbe voluta una licenza. Erano entrati piuttosto in confidenza nell'ultimo mese, tra lo stupore di Joseph. Ma quel Maggiore, che avrebbe potuto essere suo padre quanto ad età, era esattamente quello di cui aveva bisogno: un ottimo compagno di bevute, rigido sul lavoro ma cordiale, non gli piaceva discutere di politica finito il turno di lavoro e sopratutto rispettava i silenzi altrui. 
«Beh effettivamente aspetto una licenza per potermi sposare. La mia fidanzata mi aspetta a Berlino» Il Maggiore era scoppiato a ridere, infastidendo Joseph, che però cercò di non darlo a vedere.
«Ecco spiegato il malessere del capitano più giovane di Varsavia! Pene d'amore. Scusami, ma non ho saputo trattenermi: avevo immaginato qualcosa di più grave. Purtoppo qui c'è troppo da fare e dovrai aspettare ancora qualche settimana» disse con ancora un luccichio di divertimento negli occhi.
«Ti assicuro però che alla prima occasione ti darò una bella licenza di tre settimane. Dopotutto sono mesi che non ti prendi una vera pausa... » Aveva riflettuto lui. Joseph lavorava praticamente tutti i giorni, spesso anche la domenica e anche se il suo incarico era principalmente quello di controllare le entrate e le uscite dal ghetto, aveva svolto anche operazioni di controllo della città, organizzandole lui stesso oppure sotto il comando del Maggiore Stein. 
«Sarebbe fantastico signore» Per quanto fossero amici nell'esercito non bisognava mai dimenticare le gerarchie, per questo continuava a chiamarlo signore. E anche se il maggiore protestava, Joseph sapeva quanto in realtà apprezzasse.
Questo era accaduto cinque giorni prima e Joseph ancora non si era deciso a dare la notizia a Caroline. Certo non c'era niente di sicuro, ma Joseph aveva iniziato a covare un'idea, che non sapeva se le sarebbe piaciuta, ma che avrebbe forse potuto migliorare i loro rapporti.  
Visto che avrebbero dovuto fare la coppia di sposini felici nessuno ci avrebbe visto niente di male se in quelle settimane di licenza avessero fatto un bel viaggetto. Niente di particolare comunque, voleva solo prendere una casa in campagna, magari vicino un lago in cui poter fare il bagno nei giorni più caldi e in cui poter pescare in santa pace. Aveva in mente un luogo in particolare, un piccolo lago nella foresta nera, a pochi chilometri da dove erano cresciuti. Si chiamava lago Titisee, ed era uno specchio d'acqua circondato da piccole alture ricoperte di fitta vegetazione. Sulle sponda nord orientale poi c'era un piccolissimo centro turistico. Se avesse avuto la licenza prima della fine di settembre avrebbero potuto divertirsi lì. E poi, d'inverno il lago gelava e si poteva pattinare nel ghiaccio. Entrambi c'erano già stati grazie ai genitori di Caroline e Joseph pensava che non ci fosse un luogo migliore per ritrovare sè stesso. E poi avrebbe potuto sapere qualcosa in più sugli Huger così vicino a Friburgo e la cosa avrebbe sicuramente messo Caroline sull'attenti.
Sospirando guardò il foglio bianco. Da dove iniziare? 
Cara Caroline
Finalmente a breve avrò una licenza
Ho parlato con un mio superiore e lui è venuto a sapere di te, così mi ha promesso che il più presto possibile avrò una licenza. Non vedo l'ora di tornare a casa avere un po' di pace, sto lavorando troppo e ho decisamente bisogno di qualche giorno per riprendermi. Sono qui già da quasi sette mesi e avrò avuto si e no quattro, cinque giorni liberi. 
So che non volevi finesse così  
Ho l'impressione che questa licenza arriverà a breve, perché sono molto in confidenza con il maggiore che potrebbe autorizzarmi il congedo, per cui sicuramente penserà di farmi un favore. 
Questa settimana mi è pesata come un macigno. Sono stato sballattato di qua e di là a fare mille cose che neanche sarebbero di competenza mia. Ma pace, non si può dire no ai generali. Quel maggiore insopportabile che abitava con me è stato trasferito e questa è di sicuro la notizia migliore della settimana. Lui che era così entusiasta della campagna in Russia, si è ritrovato sul fronte orientale. Chissà quanto rimpiangerà di aver fatto il gradasso in quel modo, perché sai è stato lui a chiedere di essere spedito lì!
Spero solo che la notizia che ti ho dato non ti abbia mandata in panico. Ho pensato che potremmo prenderci una vacanza vera, lontano da Berlino, dal lavoro, dalle preoccupazioni ... Io ne ho davvero bisogno, non so tu, anche se dalle foto non si direbbe: sei una pagnottella! Stai decisamente  meglio rispetto a quando me ne sono andato. 
Spero solo di non essere io la causa del tuo malessere, perché mi dispiacerebbe vederti di nuovo sciupata. 
Io comunque ho già in mente un luogo in cui potremmo andare: il lago Titisee. Se hai in mente qualcos'altro fammi sapere, altrimenti potresti prenotare una casetta lì. Non dovrebbe venirti molto difficile, anche se capisco che non sapendo quando avrò il congedo  può diventare un problema. Io però ci terrei davvero tanto.
Sperando che tu stia bene
Joseph

L'ufficiale guardò la lettera dubbioso. Man mano che passava il tempo la sua corrispondenza con Caroline si era fatta via via più sciolta, come se parlarsi attraverso un foglio di carta riuscisse più facile ad entrambi. Nel giro di pochi mesi era passata da fredda e circostanziale ad aperta e amichevole, anche se, nonostante questo, c'erano sempre cose che lui preferiva evitare di scrivere, per quanto l'istinto fosse di metterle nero su bianco. Con aria rassegnata imbustò la lettera e uscì di casa, per consegnarla alla corriera. Consegnò la lettera con disinvoltura, prima di girarsi e trovarsi davanti il maggiore Stein che lo fissava con aria divertita.
«Buon giorno signore» disse senza nessuna inflessione particolare nella voce. Aveva avuto un paio d'ore libere, perché quella notte avrebbe dovuto coordinare i pattugliamenti della città, ma invece di usarle per dormire, cose che non sarebbe riuscito a fare in ogni caso, le aveva usate per fissare le foto di Caroline, scrivere quella lettera e imbucarla. Da come lo fissava si sarebbe detto che il maggiore avesse intuito tutto, così sorrideva sotto i baffi.
«Buon giorno capitano. Scrivi alla fidanzata?» chiese con aria leggermente maliziosa. Joseph rise.
«Mi ha scoperto, maggiore» l'altro scosse la testa, bonario. 
«Andiamo a pranzare, don giovanni. Fra mezz'ora comincia il turno» Joseph fissò l'orologio contrariato. Non aveva fame ma effettivamente era già l'una e mezza.
«Ho già mangiato, però posso accompagnarvi» disse. Il maggiore lo guardò stranito, ma non disse niente.
«A casa avevo qualcosa» aggiunse Joseph, cercando di risultare convincente. Il maggiore lo fissò, poi scrollò le spalle, decidendo probabilmente che non erano affari suoi.
«Allora non ti rubo altro tempo» disse gioviale, per poi aggiungere.
«Oggi discuteremo dei turni, quindi se domani passi dal mio ufficio ti farò sapere quando potrai avere la licenza» Joseph annuì.
«Grazie signore e buon pranzo» disse, con un sorriso sul viso. Il maggiore annuì poi lo salutò con un cenno della testa e uscì dall'ufficio postale, borbottando qualcosa su quanto fosse bella la gioventù.
***
Erano passati gue giorni da quando Dimitri aveva ricevuto la lettera che lo chiamava al fronte. Avrebbe ricevuto un mese di addestramento lì in Germania, a partire dal lunedì successivo. Ed era mercoledì. Sarebbe partito quella domenica, con chissà quanti altri come lui. 
Domenica 24 Luglio, ore quattordici, binario due, stazione Alexanderplatz. Ripeteva quelle informazioni ossessionato, erano il suo punto di arrivo.
Ore quattordici, binario due, Alexanderplatz. Avrebbe voluto non arrivarci mai.
L'intenzione iniziale era quella di trascorre il più tempo possibile con la propria famiglia, ma quella sera aveva ceduto. Non ne poteva più di lacrime e di addii, non riusciva più a sopportare i pianti delle sorelle e lo sguardo sconsolato della madre, non riusciva più a tollerare i bambini che lo assalivano continuamente di domande. Era nervoso, irritabile, intrattabile, eppure sembrava che gli perdonassero tutto. Aveva voglia di litigare, di spaccare il muro, di urlare la sua rabbia al mondo. Aveva voglia di fare l'amore con Caroline, voleva prendere a pugni l'ufficiale di cui lei presto sarebbe diventata moglie, voleva prendere un fucile e spararsi ad un piede, oppure scappare il più lontano possibile e nascondersi fra le montagne fino a che non sarebbe tutto finito. Aveva paura. Paura di uccidere, di essere ucciso, mutilato, catturato. Aveva paura di soffrire. 
La cosa che però lo teneva sveglio la notte, che non gli dava tregua, che lo tormentava, che gli scavava le pieghe dell'anima come un cancro, come un tarlo che mangia il legno senza fermarsi, fino a fare cadere giù le travi della sua ragione, era il terrore di perdere Caroline per sempre. Non l'avrebbe rivista mai più? Lei avrebbe sposato un altro uomo, e non importava quanto lei dicesse che era una farsa, lui sapeva, per Dio che c'era qualcosa di più profondo che la legava a quell'ufficiale, che l'avrebbe portata via da lui, lo sapeva, lo sentiva sotto la pelle, lo sentiva quando ne parlava, lo vedeva nelle lettere che si scambiava con quel grandissimo pezzo di merda che a lui non era permesso leggere. Avrebbe voluto scuoterla fino a farle confessare la verità, o meglio, avrebbe voluto non saperne niente, avrebbe voluto scavarsi la fossa e addormentarsi per sempre.
Per questo stava bussando alla porta della ragazza come se ne valesse della propria vita, come se non fosse piena notte e non ci fosse il coprifuoco, come se lui avesse il diritto di essere lì, ubriaco come non lo era mai stato, per chiederle spiegazioni. Come se non sapesse che lei apparteneva ad un altro. Avrebbe bussato fino a farsi scorticare le nocche della mano, fino a rompersi il polso, fino a sanguinare lì, davanti quella porta, per chiederle di essere sua, di prenderlo come si farebbe con un randagio, di accoglierlo. Si sarebbe inginocchiato a lei, avrebbe preteso che lei facesse lo stesso con lui, le avrebbe fatto urlare il suo nome e poi avrebbe voluto gemere tra le sue labbra, gli occhi chiusi dal piacere.
Caroline gli aprì, in camicia da notte, bianca e impalpabile, trasparente: le copriva appena il corpo ormai formoso, caldo, morbido.
«Caroline» disse solo. Ma forse bastava, forse i suoi occhi dicevano quello che lo stava tormentando, forse aveva gli occhi di un pazzo. E pazzo lo era, di lei, di paura, di rabbia, di amore. Lei si scostò dall'uscio, facendolo entrare silenziosamete, poi si richiuse la porta alle spalle.
«Dimitri devi stare attento, non puoi girovagare la notte, e poi bussare così sull'uscio ...»  non completò la frase, perché lui era già sulle sue labbra. La baciò con furore, come forse non aveva ancora fatto, senza paura di romperla, ma anzi con la voglia di ditruggere tutto, sperando che una vampa di fuoco inghiottisse entrambi per sempre. La spinse contro il muro dell'ingresso, bloccandola con tutto il suo corpo, metre lei si spalmava addosso a lui, gli si plasmava intorno, accoglieva ogni suo angolo e ogni sua curva, si scontrava e si modellava su misura. Le sue mani erano impresse a fuoco sul suo petto come a volerlo allontanare, oppure per stringerlo più forte possibile. Non lo sapeva Dimitri, non sapeva più niente. La sua lingua le esplorava la bocca, i suoi denti la divoravano, le mani grandi e callose del giovane non riuscivano più a essere gentili e le strattonavano i vestiti, le scombinavano i capelli, si insinuavano sotto la gonna per toccarla in mezzo alle gambe, lì dove era così calda e pulsante, bagnandosi le dita di lei. Lei gemette e tirò indietro la testa, rischiando di sbatterla contro il muro: non se ne curarono. Lui spingeva su di lei con le dita, senza darle quello che voleva, fermandosi al margine della sua sopportazione, tirandole giù la camicia da notte per scoprire il suo seno gonfio. La morse e succhiò la pelle candida, unì con la lingua i suoi nei, per formare un disegno che solo lui conosceva, mentre il suo pollice ancora le accarezzava quel piccolo lembo di pelle che continuava a pulsargli contro le dita, sempre più forte, sempre più gonfio, sempre più bagnato.
Si staccò da lei ad un passo dal piacere. Lei, nuda sotto le sue mani, lo guardava senza capire, guardava lui che aveva ancora addosso i suoi pantaloni e aveva solo la camicia sbottonata.
«Caroline» disse di nuovo. La sua voce adesso era roca, ma più disperata di prima. Le sue mani ora tremavano. 
E poi, scoppiò in lacrime. 
Come un bambino, crollando su sè stesso e appoggiandosi solo a lei, che adesso lo reggeva come se avesse sulle spalle il peso del cielo. Senza parlare lo trascinò nella sua camera e insieme si stesero a letto. Le bagnò i capelli e i seni delle sue lacrime salate, lacrime che non avrebbe potuto, nè voluto, versare davanti a nessun altro, lacrime trattenute di quello che presto sarebbe diventato un soldato, contro la sua stessa volontà, contro i suoi principi, contro ciò in cui credeva. Lacrime di un uomo che avrebbe uscciso, e alla fine -perché no?- sarebbe anche morto, senza sapere perchè o per chi. Per chi avrebbe dato la vita? Non per la sua famiglia, non per la donna che amava, non per i figli che non avrebbe avuto, nè per un suo desiderio di gloria e successo. Lui, che avrebbe passato la vita a sfornare pane e a sfamare la gente, adesso avrebbe ucciso, pena la morte. Bagnò di lacrime il cuscino, mentre lei lo teneva stretto senza fiatare, pianse fino a sciogliere tutta la rabbia, la paura, l'odio e l'amore, fino a perdere i sensi, fino a cadere addormentato sul suo petto nudo, il corpo di entrambi insoddisfatto ma l'anima appagata.
Caroline rimase sveglia, a vegliarlo, tenendolo stretto. Con una mano gli accarezzava i capelli scuri, folti, gli occhi lo divoravano. Fissava la sua bocca leggermente aperta, le sue ciglia lunghe, la forma degli occhi che nascondevano quel blu profondo. Gli fissava la curva sensuale delle spalle, il naso elegante, gli zigomi alti, le orecchie forse troppo grandi. Fissava la sua mano poggiata sul suo petto, come se fosse un bambino. Fissava quel neo solitario che aveva sulla guancia destra, divorava i particolari, li imprimeva nella sua memoria, senza sapere quando, ma sopratutto se, dopo quei cinque giorni, lo avrebbe rivisto. L'alba la colse così, i raggi del sole che trasparivano dalla finestra illuminarono meglio i lineamenti che aveva osservato tutta la notte. Fu a quel punto che Caroline si divincolò e si alzò dal letto. Non aveva sonno, non aveva fame, non sapeva che fare. Raccattò la sua camicia estiva dall'ingresso e la indossò, poi si diresse verso la cucina, irrequieta. Bevve un po' d'acqua, poi si chiese se fosse il caso di cucinare la colazione. Si disse che era troppo presto, per cui continuò a vagare come un anima in pena, le mani che smaniavano per fare qualcosa, ma senza sapere cosa. 
E poi, l'illuminazione. Aveva ricevuto un telegramma il giorno prima, nel tardo pomeriggio. Era siglato come urgente, ma lei, sospettando fosse di Joseph e temendo il suo contenuto, non aveva avuto il coraggio di leggerlo subito. Adesso però, la curiosità la mangiava viva. Corse quasi nell'ufficio di Joseph, dove teneva la corrispondenza e aprì il cassetto con gesti meccanici dettati dalla fretta. Svelta afferrò la busta ancora sigillata e la aprì strappandola, senza la sua consueta attenzione. Sollevò il fogliò e quasi si sentì mancare.
Per Domenica sarò a Berlino.Prepara tutto.Lunedì ci sposiamo
Joseph 

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Capitolo 19
*** Avviso ***


AVVISO Questa storia è importante per me, ci tengo e ci ho sempre tenuto, ma non mi piace scrivere se nessuno legge quello che pubblico. Mi dispiace, e ammetto che la colpa è anche mia: aggiornare con così poca frequenza di sicuro non ha aiutato e questa piattaforma è fatta per scrivere e pubblicare da un computer, che io ormai uso davvero poco -problemi con il pc preistorico che mi ritrovo a parte-. Per questo, e anche perchè la storia è ormai vecchia, la ripubblicherò revisionandola su wattpad. La completerò anche, lo prometto a quei pochi che magari volevano un finale e non ci sperano neanche più. Aggiusterò qualche buco di trama, sistemerò le ambientazioni, cercherò di renderla un po' più interessante, magari. Quindi per il momento non pubblicherò più qui, ma presto, se volete ancora leggere di Jo ed Elly, troverete la storia su Wattpad al mio nickname, che lì è Moony_97. Se vi va di passare, e siete fan di HP ho anche un'altra ff quasi finita lì. Vi abbraccio Moony

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