Frammenti di Vita di Sandie (/viewuser.php?uid=36902)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I - Ritorno a Nankatsu ***
Capitolo 2: *** Capitolo II - Ritrovarsi ***
Capitolo 3: *** Capitolo III - Senza paura ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV - I due mondi di Genzo ***
Capitolo 5: *** Capitolo V - Inizio di primavera ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI - Frammenti di passato ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII - Presa di coscienza ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII - Sogni e speranze ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX - Hanami ***
Capitolo 10: *** Capitolo X - Yozakura (Rivelazioni) ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI - La spiaggia di Miho ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII - Anima in conflitto ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII - Complicazioni ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV - Padri e figli ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV - Tra passato e futuro ***
Capitolo 16: *** Capitolo XVI - Ammissioni e scoperte ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVII - Una felicità incompleta ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVIII - Un nuovo inizio ***
Capitolo 19: *** Capitolo XIX - Il passato si arrende al presente ***
Capitolo 20: *** Capitolo XX - Soltanto un mese ***
Capitolo 21: *** Capitolo XXI - Dura realtà ***
Capitolo 22: *** Capitolo XXII - L'Olimpiade ***
Capitolo 23: *** Capitolo XXIII - A Madrid ***
Capitolo 24: *** Capitolo XXIV - La corsa verso il sogno ***
Capitolo 25: *** Capitolo XXV - Scontri e disillusioni ***
Capitolo 26: *** Capitolo XXVI - Vite che cambiano ***
Capitolo 27: *** Capitolo XXVII - Kintsugi ***
Capitolo 28: *** Capitolo XXVIII - Insieme ***
Capitolo 1 *** Capitolo I - Ritorno a Nankatsu ***
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Capitolo I
Ritorno a Nankatsu
“Tutto parte da un sogno. Che va curato, innaffiato e amato,
poi frammentato in passi concretizzabili,
“umanizzato” e spogliato della sua connotazione poetica
per diventare reale. Però resta SOGNO.”
L'aereo della Lufthansa, proveniente da Amburgo, era da poco atterrato su una delle piste
dell'Aeroporto Internazionale di Narita.
Hiroji, in piedi a braccia incrociate poco lontano dalle porte automatiche, cercava con lo sguardo la persona che, a
breve, sarebbe dovuta comparire tra la moltitudine di passeggeri scesi dagli aerei giunti nell’aeroporto giapponese e che avevano compiuto le procedure di controllo.
Non dovette attendere molto, perché dopo pochi minuti vide un ragazzo dai corti capelli neri, alto e
imponente, molto somigliante a lui, spiccare tra la folla di viaggiatori, trascinando un trolley di medie dimensioni.
Gli andò rapidamente incontro e quando fu abbastanza vicino da essere facilmente visibile, agitò una
mano.
Il giovane rispose al cenno con un sorriso e velocizzò il passo, felice di rincontrare quella persona a lui
molto cara.
«Genzo!» lo salutò Hiroji, mettendogli una mano sulla spalla, non appena lo ebbe raggiunto.
«Ciao.»
«Come ti senti?»
Genzo annuì lentamente «Bene.» Era una risposta sincera. Era spossato per via del lungo viaggio,
ma rimettere piede sul suolo giapponese lo faceva sentire quasi sollevato.
Hiroji sorrise. Sì, Genzo aveva un’aria abbastanza distesa, lo sguardo era stanco ma la gioia di essere
di nuovo in Giappone, di essere lontano da un’atmosfera che in Germania si era fatta insostenibile e di riabbracciare la sua famiglia, sembrava prevalere sulla delusione e sul nervosismo
accumulati in quell’autunno difficile. Anche se, un mese prima, gli aveva confidato di essere disposto a lasciare Amburgo pur di poter tornare in campo, ciò non aveva reso lo strappo
indolore.
Nel frattempo, un manipolo di persone armate di taccuini, penne, registratori, microfoni e telecamere si stava
dirigendo a passi rapidi verso di loro. Si trattava di un gruppo di giornalisti, cameraman e fotografi che dovevano aver appreso da colleghi tedeschi del ritorno in Giappone di Genzo Wakabayashi
che, non godendo più di alcuna considerazione da parte dell’allenatore della sua squadra di club, aveva deciso di mettersi a disposizione del c.t. Kozo Kira per il torneo asiatico che
si sarebbe disputato di lì a poche settimane, la cui vittoria garantiva la qualificazione ai successivi Giochi Olimpici.
I giornalisti e i commentatori giapponesi non vedevano l’ora di avere dichiarazioni da parte dello stesso
portiere, che confermassero oppure smentissero le voci che lo davano in procinto di lasciare la squadra amburghese, per trasferirsi in una delle importanti squadre europee che avevano mostrato
interesse nei suoi confronti, tra le quali la più accreditata a rilevarne il cartellino sembrava essere proprio il Bayern Monaco, la più forte e titolata squadra tedesca, in cui
giocava la stella della Nazionale Karl Heinz Schneider, al momento indiscussa capolista in Bundesliga con sei punti di vantaggio sulla prima inseguitrice.
Genzo non aveva nessuna intenzione di parlare di quell’argomento con la stampa e Hiroji appoggiava in pieno la
sua decisione.
Quest'ultimo alzò una mano, per far capire che non avrebbero ottenuto alcuna intervista, ma a quelli
sembrò non importare: uno di loro, giovane e decisamente intraprendente, si era già affiancato al calciatore piazzandogli il microfono sotto il mento, chiedendogli se il suo
repentino ritorno in Giappone significava un addio alla sua squadra.
«Parlerò quando sarà il momento.» fu la sua laconica risposta. Il cronista, per nulla
soddisfatto, stava per porgli un’altra domanda quando Hiroji si frappose tra i due.
«Mio fratello ha detto che parlerà, ma non oggi. Dovete rispettare la sua volontà. E ora, se
volete scusarci ...» disse calmo, ma con uno sguardo che aggiungeva ulteriore eloquenza alle sue parole.
Una mano si posò sulla spalla del giovane che stava cercando di intervistare Genzo. Si trattava di Nozaki, uno
dei cronisti di calcio più noti e apprezzati in Giappone. Con quel gesto, invitò il collega a farsi da parte e ad attendere con pazienza il giorno in cui Genzo avrebbe deciso di
parlare, perché l'avrebbe sicuramente fatto. In breve, tutti i giornalisti, sebbene riluttanti a farsi sfuggire il Super Great Goal Keeper, lasciarono passare i due fratelli.
«Grazie.» disse, non mancando di rivolgere un breve sguardo di gratitudine anche all'esperto
reporter.
«Non dirlo nemmeno. Ora hai bisogno soltanto di tranquillità.»
Sebbene fosse ancora inverno, la giornata era piacevole: il cielo era sereno, illuminato da
un pallido sole i cui raggi mitigavano l’aria gelida.
Raggiunsero la Lexus nera parcheggiata a poca distanza dall’aeroporto. Hiroji aprì il baule e Genzo vi
caricò il suo trolley.
«Ken aveva insistito così tanto per poter venire
anche lui che stava riuscendo a convincermi. Ma Annie non ha voluto sentire ragioni.» spiegò, mentre
prendevano posto sui sedili anteriori «Ha preso l'influenza due settimane fa e ora ha solo un po' di
raffreddore, ma lei teme una ricaduta e si ostina a tenerlo in casa.»
Kenichi, detto Ken, era il figlio di Hiroji, un vivace e affettuoso bambino di cinque anni con una
venerazione per lo zio da cui aveva ereditato la passione per il calcio, ispirandogli il sogno di diventare anche lui un fortissimo calciatore, nel ruolo di attaccante perché così
avrebbe potuto segnargli un gol. Tatsuo Mikami gli aveva spiegato che i portieri, solitamente, giocano a lungo e forse
Genzo sarebbe stato ancora tra i pali della Nazionale giapponese quando Kenichi fosse cresciuto abbastanza da poter giocare anche lui a un livello importante.
Annie era la moglie, una ragazza inglese conosciuta al King's College, dove entrambi studiavano. Si erano sposati sei
anni prima, dopo aver conseguito le rispettive lauree e un anno dopo era nato il loro primogenito.
Genzo ridacchiò «Sempre ansiosa quando si tratta dei bambini, eh?»
Hiroji fece una piccola smorfia divertita «Dice che finché lo sente starnutire, non si fida di lasciarlo
uscire di casa. Per fortuna i domestici la aiutano con lui e con Aiko. A proposito, è sempre più bella, la nostra piccola Aiko. Sembra una di quelle bambole di porcellana che
piacciono tanto alla mamma.»
Genzo sorrise, ricordando la sera di otto mesi prima in cui Hiroji, con la voce quasi irriconoscibile per la gioia
che stava provando, gli aveva telefonato per comunicargli la nascita della bambina. Quella notizia era stata la ciliegina sulla torta al termine di una serata splendida, in cui era tornato in campo
dopo il grave infortunio alle mani che lo aveva reso indisponibile per quasi tutta la stagione. L'Amburgo aveva sconfitto il Bayer Leverkusen e lui aveva dimostrato di essere tornato in piena
forma, grazie a due ottime parate.
Una piccola perla in un campionato modesto che aveva lasciato qualche rimpianto, ma anche un certo ottimismo per
l'annata seguente.
Il matttino dopo, Genzo aveva raggiunto a Londra la sua famiglia, tutta riunita ad eccezione del fratello mezzano
Keisuke, che si trovava negli Stati Uniti dove studiava al Massachusetts Institute of Technology e aveva fatto giungere le sue felicitazioni con una bellissima e-mail.
Sembrava fosse passato un secolo: nessuno poteva immaginare che solo pochi mesi dopo, lui nell’Amburgo
sarebbe diventato, di fatto, un separato in casa.
L'errore commesso nella partita contro il Bayern Monaco aveva aperto una frattura nel rapporto tra Genzo e
l'allenatore Zeeman, che si era progressivamente allargata fino a diventare insanabile.
Il torneo asiatico era l’occasione per prendersi la sua rivincita: avrebbe giocato, mantenuto il ritmo partita
in vista delle Olimpiadi e messo ulteriormente in mostra le sue capacità, tenendo vivo l’interesse delle squadre che già stavano sondando il terreno, pronte a fare
un’offerta qualora il portiere fosse stato messo sul mercato.
Per il momento, il presidente e i dirigenti dell’Amburgo non avevano preso nessuna decisione. Era tutto in
sospeso; ora, e per almeno sei mesi, Genzo Wakabayashi avrebbe dedicato le sue energie solo alla Nazionale giapponese Under 23. Ma si sapeva già che il suo futuro sarebbe stato altrove.
Il ragazzo sospirò, mentre gli eventi degli ultimi mesi invadevano di nuovo la sua mente, anche ora che si
trovava dall'altra parte dell'emisfero e stava guardando i paesaggi, le abitazioni e gli edifici del suo Paese d'origine che scorrevano veloci, con l'ampia distesa dell'Oceano Pacifico a fare da
splendido sfondo.
Per tutto il mese precedente, aveva fatto il massimo per cercare di convincere Zeeman a dargli almeno una
possibilità cercando, per l'ultima volta, di conciliare il sentimento con la ragione ma, per tutta risposta, non era stato schierato nemmeno nelle partite di Coppa di Germania. Schweitzer
era diventato, ormai, il titolare inamovibile.
Zeeman aveva messo in atto ciò che aveva già pensato di fare dopo la partita persa contro
il Bayern Monaco, per castigare quell'iniziativa personale che aveva originato il gol di Schneider. Allora erano stati i
compagni di squadra, Kaltz in testa, attribuitosi la responsabilità di aver, di fatto, messo la squadra in difficoltà con la sua espulsione, a prendere le sue difese e a convincere
anche il tecnico a non punirlo in modo così severo.
Genzo era stato così schierato in campo nelle gare successive e aveva protetto la porta della sua squadra
senza sbavature e con la consueta affidabilità. La situazione sembrava essere tornata alla normalità.
Zeeman aveva però continuato a far giocare la squadra con il solito atteggiamento passivo e rinunciatario.
Genzo risultava, quasi sempre, il migliore in campo, il che significava che la prestazione del resto della squadra non era stata certo brillante. Gli articoli dei cronisti sportivi parlavano di un
Wakabayashi sempre estremamente affidabile e di una difesa attenta ed efficace, ma anche di un gioco pressoché inesistente che produceva soltanto scialbi pareggi e vittorie
risicate.
Dopo poche giornate, gli avversari avevano imparato a prevedere e annientare sul nascere la tattica della squadra
amburghese, basata su una difesa solida e su azioni di contropiede nate da errori degli avversari, oppure da lunghi rinvii o lanci in avanti, alla ricerca del giocatore più avanzato e libero
da marcature.
I difetti erano evidenti e vennero messi definitivamente a nudo un freddo sabato pomeriggio a Gelsenkirchen. Uno
Schalke 04 ben diverso da quello sconfitto all'esordio per 5-1 dal Bayern, li aveva travolti per 3-0.
Genzo aveva deciso di affrontare il suo allenatore e di ribadirgli, con rispetto ma anche con fermezza, la sua
disapprovazione verso un modo di giocare che, ne era certo, avrebbe condotto la squadra verso una stagione incolore. L'Amburgo era già scivolato al quinto posto in classifica e la
qualificazione alla Champions League rischiava di diventare un'utopia.
«L’allenatore sono io, Wakabayashi.» aveva risposto perentorio
«Se volevi vincere i Meisterschalen e le coppe, potevi andare al Bayern Monaco. Erano disposti a sborsare una cifra enorme per averti. Schneider si era persino scomodato venendoti a parlare di persona pur di
convincerti, e tu hai deciso di rimanere ad Amburgo. Per me va bene Wakabayashi, ma non pretendere di aspirare a traguardi irraggiungibili. Non siamo attrezzati per vincere la Bundesliga né
per arrivare in Champions League, mettitelo in testa.»
Da allora, Genzo era sceso in campo senza entusiasmo e senza stimoli.
Le posizioni del portiere e dell’allenatore erano inconciliabili. Inoltre, Genzo era indubbiamente un giocatore
molto carismatico e i suoi compagni avevano in lui una fiducia incrollabile: difficilmente avrebbero ignorato o trasgredito le sue direttive, se avesse deciso di fare di testa sua. Aveva deciso,
così, di relegare il titolare in panchina e di schierare tra i pali quello che, fino a quel giorno, era stato la sua riserva. Jens Schweitzer era un tedesco suo coetaneo, non aveva certo il
suo talento ma svolgeva il suo compito diligentemente e stava sfruttando un'occasione in cui, con ogni probabilità, non aveva mai osato sperare.
Per Genzo era iniziato un periodo di frustrazione e di senso d'impotenza: soffriva doppiamente per essere costretto a
rimanere seduto in panchina per intere partite e assistere, ogni settimana, al gioco tutt'altro che propositivo ed esaltante della squadra.
Era riuscito a resistere grazie all'amicizia di Hermann: era stato sempre al suo fianco durante gli allenamenti e lo
aveva coinvolto nelle uscite serali, tenendolo su con il morale con il suo modo di fare scherzoso e allegro. Gli era grato di tutto questo. Tuttavia, l'unico modo per risolvere la situazione era
tornare a giocare.
Voleva le Olimpiadi, voleva partecipare al passo seguente verso la realizzazione di quel sogno iniziato dieci anni
prima.
Al ritorno dalle vacanze natalizie, si era messo nuovamente a disposizione, ma la situazione non era
cambiata. Stava per chiedere al direttore sportivo di essere ceduto, quando aveva ricevuto una telefonata di Kozo Kira, intenzionato a convocarlo per il torneo di qualificazione alle
Olimpiadi.
Aveva deciso così di accettare la mano tesagli dal commissario tecnico della Nazionale Under 23.
Alla scadenza della sessione invernale del calciomercato, il portiere aveva ottenuto dalla società il permesso di tornare in
Giappone per prendere parte al torneo asiatico.
Il giorno dopo si era recato al centro sportivo e aveva svuotato il suo armadietto. E poche ore più tardi, era salito
sull'aereo per Tokyo.
Dopo quasi tre ore di viaggio, Hiroji e Genzo giunsero a Nankatsu.
Il cancello automatico si aprì lentamente, e l’auto attraversò il vialetto di ghiaia che
conduceva davanti all’imponente villa Wakabayashi. Era la prima volta, dopo anni, che Genzo ci tornava per rimanere per un lungo periodo.
«Papà! Zio Genzo!» gridò felice un bimbo correndo incontro ai due uomini. Abbracciò
il padre, poi corse dietro la macchina, dove il portiere aveva appena scaricato il trolley.
«Ciao campioncino!» lo salutò, scompigliandogli i capelli.
«Kenichi!» una giovane donna castana, di media altezza e di costituzione snella anche se le
sue forme erano ora un po’ arrotondate per via della recente gravidanza, si affacciò all'ampia porta
d’ingresso della casa. Teneva in braccio una bambina molto piccola e aveva l’aria infuriata.
«Quella canaglia! È bastato che Hitomi si assentasse per un attimo e non appena ha sentito il rumore
dell’auto è scappato fuori.» protestò, uscendo sul portico.
«Non prendertela, Annie.» disse Hiroji posandole un bacio sulla fronte e sfiorando con una carezza una
guancia di Aiko, che sorrideva contenta di rivedere il papà «Non mi sembra che Ken stia poi così male.» aggiunse, indicandole il bimbo che girellava entusiasta attorno a
Genzo.
Anche il vecchio, fedele John, il cane di famiglia, si era
unito alla festa per il ritorno del suo padrone e gli scodinzolava attorno, abbaiando felice.
«Avrebbe potuto almeno mettersi il giubbotto!» sospirò Annie, mentre salutava con un cenno il
cognato che si stava avvicinando all’ingresso trascinando il trolley, seguito da Kenichi.
La bambina guardava Genzo con uno sguardo un po’ accigliato, quello che rivolgeva sempre a chi non vedeva molto
spesso. Hiroji aveva ragione: era una bellissima bambina, con il volto roseo, i ciuffi castani e dei bellissimi occhi verdi. Somigliava molto ad Annie, mentre i capelli, i lineamenti e lo sguardo
di Ken erano targati Wakabayashi senza possibilità di abbaglio.
«Guarda Aiko! Ecco lo zio Genzo.» disse, voltandosi leggermente perché il cognato potesse vederla
meglio.
Il giovane tese una mano verso il viso della bambina «Ciao, Aiko.» disse, sfiorandole una morbida guancia
con la punta delle dita.
La piccola emise un breve mugolio, per poi accoccolarsi nell’incavo della spalla della madre, stropicciando le
piccole labbra in quello che sembrava un buffo sorriso. Annie non trattenne una risata.
Anche Genzo si mostrò divertito, specialmente dopo che Aiko era riemersa dall’abbraccio della mamma ed
era tornata a fissarlo. Avrebbe avuto tempo e modo per abituarsi alla presenza costante del giovane zio.
Entrarono in casa, dove il calciatore ricevette il caloroso bentornato dai domestici, con in testa la governante
Hitomi, una donna minuta dal sorriso gentile e i modi garbati.
«Bentornato signore. Sono felice di rivederla
qui.» disse, dopo averlo salutato con un inchino. Lavorava per la famiglia Wakabayashi da poco prima della sua nascita, ed era sinceramente affezionata
al ragazzo che aveva visto crescere fino agli undici anni.
«Tra poco sarà servito il pranzo. Le ho preparato il katsudon.»
Genzo annuì con un sorriso. Era uno dei suoi piatti preferiti. Sostanzioso e saporito, era l'ideale per
recuperare energie e buonumore.
«E io ho fatto l'apple pie.» aggiunse Annie, con un
ammiccamento.
«Visto, Genzo? Hai due donne che ti viziano.» scherzò Hiroji, suscitando una risata generale.
Il giovane calciatore in particolare, rise di cuore, come non gli capitava da tempo. L'atmosfera di casa stava
già facendo un benefico effetto.
«Salgo in camera a sistemarmi.» avvisò, prima di cominciare a salire le scale.
La sua stanza era sempre stata arredata in modo semplice, ed era rimasta come l'aveva lasciata due anni prima.
Lasciò il trolley accanto al letto e camminò per qualche minuto, osservando le fotografie e i trofei disposti sulle mensole in un'ordinata linea retta, le medaglie, i gagliardetti e
gli attestati appesi alla parete, sopra l'ampia scrivania.
Si soffermò a guardare la foto del campionato di Yomiuri Land, quella del Mondiale Under 16 e quella del World
Youth, vinto proprio in Giappone, che lo ritraevano sorridente e fiero, con i suoi compagni e amici di sempre. Gli stessi con cui di lì a poco avrebbe condiviso la nuova tappa della strada
verso la realizzazione del sogno di portare il loro Paese al vertice del calcio mondiale.
*** Note ***
La citazione presente all'inizio del capitolo è tratta dal libro "Cosa ti manca per essere felice?" edito da Mondadori e scritto
da Simona Atzori, una ballerina e pittrice milanese che ha saputo realizzare i suoi sogni nonostante sia nata senza braccia.
Lexus: acronimo di Luxury EXportation United States,
è il marchio di lusso della Toyota. Creato in origine per il mercato statunitense, ha finito per imporsi anche in quello giapponese. Questo è il
modello LS460L.
King's College: è una
prestigiosa università londinese, situata in una posizione magnifica, a poca distanza dal London Eye, dal Big Ben, dal Palazzo di Westminster... nel cuore pulsante della capitale
britannica.
Die Deutsche
Meisterschale (o semplicemente Meisterschale) è l'equivalente dello scudetto, il titolo che spetta alla squadra
vincitrice del campionato. Letteralmente significa "il piatto dei campioni" e infatti questo trofeo consiste in un grande piatto d'argento impreziosito con gemme di tormalina e oro, che viene
assegnato ogni anno alla squadra vincitrice della Bundesliga. Ha un diametro di 59 centimetri e pesa 11 chilogrammi; vi sono incisi i nomi di tutte le squadre che hanno vinto il massimo campionato
tedesco dal 1903.
Fonte: dfl.de
Katsudon: pietanza tipica della cucina giapponese, è costituito da una cotoletta di maiale
impanata e fritta (tonkatsu), uova (il tuorlo e l'albume vengono mescolati e versati sul piatto da sbattuti e crudi e si cuociono grazie
al calore del piatto) e condimenti vari da versare sul riso caldo. Piatto molto sostanzioso, è spesso decorato con erba cipollina per aggiungere un tocco di verde.
Fonti: Wikipedia e romanzo "Kitchen" (1988) di Banana Yoshimoto.
Apple pie: torta tipica britannica,
preparata con mele (le Bramley sono considerate le più adatte), farina, burro, succo di limone, zucchero e, a scelta, cannella. Il latte viene usato per formare uno strato di glassa sulla
torta.
Fonte: TheSpruceEats.com
"Captain Tsubasa" © 1981
I personaggi di quest'opera appartengono a Yoichi Takahashi, che ne detiene tutti i diritti insieme alle case editrici che la pubblicano
in Giappone (Shueisha) e negli altri Paesi.
Buonasera a tutti i lettori.
Ho deciso di ripubblicare la storia dall'inizio perché vi ho apportato delle aggiunte che la cambiano rispetto
alla precedente versione. È stato un dispiacere cancellare le relative recensioni, che ho però salvato nel mio pc.
Ho inviato un messaggio alle autrici dei commenti rimasti senza risposta.
Sandie
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Capitolo 2 *** Capitolo II - Ritrovarsi ***
Untitled
Capitolo II
Ritrovarsi
Genzo aveva trascorso in famiglia la sua prima giornata a Nankatsu: dopo il pranzo, durante il quale aveva conversato con Hiroji e Annie e dopo aver convinto quest’ultima, non senza fatica, a lasciare uscire Kenichi per
un po', aveva trascorso il pomeriggio nel grande giardino della villa, giocando a calcio e a baseball con il bambino e con Hiroji, che ne aveva approfittato per godersi qualche ora di divertimento
e di relax, prima di rituffarsi in una nuova, intensa settimana lavorativa.
A metà pomeriggio, anche Annie era uscita sul portico per assistere all'improvvisata partita, declinando
gentilmente l'invito dei tre Wakabayashi a unirsi a loro.
Hiroji era tornato in Giappone all'inizio dell'anno, per assumere l'incarico di amministratore delegato della
Wakabayashi Electrics, l'azienda della famiglia fondata dal nonno. Dopo anni di conduzione senza difficoltà, a eccezione di un periodo di crisi vent'anni prima, la compagnia di produzione e
commercializzazione di componenti e dispositivi elettrici ed elettronici aveva cominciato a soffrire la concorrenza delle altre aziende sia sul mercato interno, sia su quello estero.
Yasuhiro, il padre, divenuto presidente e amministratore delegato dopo la morte del fondatore, aveva capito che
stavolta, si trattava di una recessione più seria rispetto a quella precedente, perché generata da cause diverse: il mondo e il mercato stavano cambiando e sarebbero servite una
mentalità e un’organizzazione nuove per riuscire a superarla. Per questo, in anticipo rispetto ai tempi previsti, aveva deciso di affidare la guida e l'amministrazione al figlio
maggiore, richiamandolo da Londra dove, dopo la laurea in Economia e Gestione Aziendale al King's College, aveva lavorato come responsabile del commercio per l'Europa nella filiale britannica.
Il signor Wakabayashi sarebbe rimasto nell'organigramma come presidente del consiglio d'amministrazione e avrebbe
gestito le azioni e le partecipazioni della famiglia come presidente della holding, permettendo a Hiroji di concentrarsi sulla loro principale attività commerciale: sperava che, grazie alla
preparazione e all'esperienza acquisite in Gran Bretagna, sarebbe riuscito a riorganizzare la società e a renderla più competitiva anche sulla scena internazionale.
Il neo-amministratore delegato aveva deciso di abitare a Nankatsu, nella villa di famiglia, lontano dal caos e dalla
frenesia di Tokyo, come avevano fatto i suoi genitori quando avevano scelto di trasferire, per necessità logistiche, la sede principale dell'azienda nella capitale. I bambini avrebbero
potuto crescere più tranquilli e sereni in una città non troppo urbanizzata e circondata da uno dei paesaggi più belli del Giappone.
Annie, nonostante avesse sempre vissuto a Londra, si era immediatamente mostrata disponibile a seguirlo in Giappone;
i bambini erano ancora piccoli e non avrebbero patito troppo il distacco da amici o parenti: per fortuna, erano affezionati ai nonni paterni quanto a quelli materni. Lei, pur dispiaciuta di
allontanarsi dai genitori e dalla sorella, era attratta dall’idea di vivere in un Paese così diverso dalla Gran Bretagna, dalla cultura particolare e affascinante, in cui aveva
trascorso, in precedenza, soltanto pochi, brevi periodi di vacanza.
Suo marito aveva di fronte una sfida delicata, decisiva per il futuro della sua carriera e della sua famiglia: non
gli avrebbe mai posto degli ostacoli. Sapeva quanto fosse importante, per lui, dimostrare di essere una guida all'altezza del nonno e del padre. Aveva perciò chiesto e ottenuto dal British
Council, per cui lavorava come insegnante ed esaminatrice, il trasferimento alla sede di Tokyo; avrebbe tenuto dei corsi nella prefettura di Shizuoka, per non privare i figli della sua presenza e
delle attenzioni di cui avevano bisogno.
Il mattino seguente, Genzo uscì a correre con John, come faceva da ragazzino.
Sentiva il bisogno di fare un giro per tutta la città: aveva sempre amato sfruttare le prime ore del mattino
per fare esercizio fisico e, soprattutto, avrebbe potuto aiutarlo a scacciare il senso di malinconia che di tanto in tanto tornava a tormentarlo per via delle circostanze che l’avevano
portato a terminare anzitempo la sua esperienza ad Amburgo.
L’Akita Inu mostrava un’agilità notevole per la sua età e lo affiancò senza fatica
per tutto il percorso. Non appena lo aveva visto uscire di casa vestito con tuta e scarpe da ginnastica e l’immancabile berretto in testa, aveva lasciato il suo giaciglio sul lato destro del
giardino e gli era lentamente andato incontro, affiancandosi a lui in prossimità del cancello.
Attraversarono la città quasi per intero, fino a giungere al parco Hikarigaoka, dove Genzo decise di fermarsi
per un po': si sedette su una panchina e John si accucciò sull’erba, ai suoi piedi.
Respirò l’aria fresca, godendosi la tranquillità che solo le prime ore del mattino potevano
offrire e il panorama visibile da quella posizione, che regalava una splendida vista dell'intera Nankatsu, in cui la sua villa spiccava - come dicevano, non a torto, i suoi amici - come una
reggia.
Era impossibile non lasciarsi trasportare dal flusso dei ricordi. Ogni strada, ogni edificio, ogni
angolo della sua città riportava alla mente episodi e immagini della sua infanzia: i suoi primi passi nel mondo del calcio, i giochi con i suoi fratelli e con John, le esercitazioni
quotidiane con Mikami, le partite con la Shutetsu, la sfida del nuovo arrivato Tsubasa, il primo tiro parato a Misaki mentre andava allo stadio della sua scuola per affrontare la Nankatsu, il
torneo di Yomiuri Land. A poco a poco quelle rievocazioni sostituirono quelle negative con le quali si era risvegliato e lo
rasserenarono.
Un guaito di John interruppe il flusso di pensieri che stava scorrendo spontaneo nella sua mente.
Guardò in basso, dove il suo cane lo stava fissando con uno sguardo implorante.
«Che c’è, John? Sei stanco?» diede uno sguardo all’orologio da polso: erano passate
ormai due ore e mezza, da quando era uscito di casa. Il parco cominciava a non essere più molto deserto. Si vedevano alcune coppie passeggiare tenendosi per mano o sottobraccio, signori
anziani che chiacchieravano seduti sulle panchine, mamme che portavano a spasso i loro bambini.
«Che dici, torniamo a casa? Devi essere affamato.» disse, grattando il suo amico a quattro zampe sotto il
mento, che mostrò di gradire molto quelle attenzioni.
Giunto in prossimità della sua casa, sentì delle urla e delle risate provenire dal giardino, e dei
colpi di calci dati a un pallone. Quando giunse davanti alla cancellata, vide il piccolo Ken mentre giocava con due ragazzi di cui aveva già riconosciuto le voci: Taro Misaki e Ryo
Ishizaki.
«Guarda un po’ con chi si sta allenando Ken!» disse ad alta voce, facendo voltare i tre nella sua
direzione.
«Ehilà Wakabayashi! Sei tornato finalmente!» Ryo fermò il pallone sotto il piede e
alzò un braccio in segno di saluto, mentre Genzo con John sempre al suo fianco, si dirigeva verso il terzetto.
«Allora, come va?» gli chiese Taro, con il suo consueto sorriso.
«Non c’è male. È da molto che siete qui?»
«No, saranno venti minuti. Sapevamo che saresti tornato a breve e così abbiamo deciso di ingannare il
tempo giocando con Ken.»
«Ma quanti anni ha il tuo cane, Wakabayashi?» chiese Ishizaki guardando l’Akita Inu che si stava
facendo coccolare dal bimbo «A volte penso che sia un robot fabbricato dagli operai della tua azienda.»
John scrutò il difensore dello Jubilo Iwata ed emise un brontolio.
«Lo senti Ishizaki? Ti sta dicendo che sei un po’ grandicello ormai, per dire certe stupidaggini.»
gli rispose Genzo in tono beffardo, facendo ridere Taro.
Il piccolo Ken, invece, aveva seguito lo scambio di battute con un’espressione seria e le sopracciglia
corrugate.
«Zio sei stato cattivo questa mattina non mi hai portato a correre con te e John!» si lamentò con
aria offesa. Incrociò le braccia e arricciò le labbra.
Genzo sorrise leggermente e gli si avvicinò. «Ma ci siamo andati molto presto Ken e tu ancora
dormivi.» si giustificò.
«Se mi chiamavi io venivo.» ribatté il bimbo continuando a tenergli il broncio.
«Va bene Ken, allora la prossima volta, se la tua mamma è d’accordo, verrai anche tu a correre con
me e John.» concesse alla fine il portiere dandogli un buffetto «È una promessa.» aggiunse e riuscì finalmente a strappargli un sorriso.
«Sai ho giocato a calcio con Taro e Ryo! Taro mi passava la palla e io facevo sempre gol.» gli
raccontò con entusiasmo e un notevole orgoglio.
«Non sempre.» puntualizzò Ishizaki fingendosi offeso «Comunque questo birbante ha stoffa
Wakabayashi, anche se secondo me funzionerebbe bene come difensore. Dì un po’, Ken, non ti piacerebbe fare il difensore? Proteggeresti la porta di tuo zio quando ormai sarà
vecchio e farà fatica a muoversi tra i pali.»
«Magari al posto di Ishizaki.» ribatté il Super Great Goal Keeper.
Ken scosse la testa «No. Io voglio giocare in attacco e allenarmi tirando allo zio e facendomi passare i
palloni da Taro.»
La conversazione venne interrotta da Annie, che nel frattempo era comparsa sul portico dell’entrata della casa
con in mano una ciotola piena di crocchette.
«Oh, sei tornato Genzo. Bene ragazzi, se volete rientrare, io e Hitomi vi abbiamo preparato uno spuntino. Per
te c’è la pappa, John.» disse scendendo i gradini, mentre il cane si dirigeva velocemente verso la sua cuccia.
«Spuntino? Arriviamo subito!» rispose Ishizaki, sempre particolarmente sensibile
all’argomento "cibo". Genzo e Taro si scambiarono un’occhiata divertita.
Hitomi entrò nella sala da pranzo portando un vassoio con tre tazze di tè e tre piattini su cui
facevano bella mostra di sé altrettanti budini al crème caramel, lo depose sul tavolo e distribuì i piattini, le tazze, i cucchiaini e la zuccheriera, ringraziata dai tre
ragazzi che si erano appena accomodati.
«Il crème caramel è la specialità della signora Wakabayashi. Spero sia di vostro
gradimento.» disse.
«Squisito.» commentò Misaki mostrando il pollice alzato, dopo il primo assaggio.
«Sublime! Non ce n’è ancora?» chiese senza ritegno Ishizaki.
«Sei sempre il solito ingordo Ishizaki.» lo riprese Genzo ridendo.
«Oh sì.» confermò Misaki «Ed è sempre il solito buffone. Non oso pensare se ci
fosse anche Urabe … pensa che a Iwata divido l’appartamento con questi due.»
«Non sei obbligato a starci.» Ryo incrociò le braccia con un’espressione scocciata,
provocando l’ilarità dei due amici.
Annie che nel frattempo era rientrata insieme a Ken e aveva messo Aiko nel passeggino, aveva assistito divertita allo
scambio di battute tra i tre amici e, compiaciuta del consenso riscosso dal suo budino, accontentò Ryo e gliene fece avere un’altra porzione. La scena non sfuggì agli occhi del
bambino.
«Mamma, posso mangiare anch’io il crème caramel insieme a loro?» chiese, cercando di
impietosirla sfoderando il più accattivante dei suoi sorrisi.
Ma Annie non si lasciò commuovere «Hai già avuto la torta per colazione! Su, vieni, la tua
sorellina ha voglia di fare un bel giretto per la città.» disse, mentre Aiko si stava trastullando con il suo orsacchiotto di gomma. «E poi, ora Genzo e i suoi amici devono
parlare dei fatti loro.» aggiunse, strizzando un occhio ai ragazzi.
Ken esitò un attimo pensieroso, poi sorrise «Va bene, mamma! Vengo» disse, richiudendosi la
cerniera del giubbotto «però mi compri un gelato!» disse con lo sguardo furbo che era il marchio di fabbrica della famiglia di cui era entrata a far parte.
Annie sgranò gli occhi e li alzò al cielo «E va bene signorino, per questa volta cedo al ricatto.
Ha proprio ragione la signora Mariko, quando mi dice che non è facile crescere un Wakabayashi.»
«In effetti, deve essere stata una gran faticaccia.» sghignazzò Ryo, mentre la donna si avviava
verso l’uscita spingendo il passeggino e con Ken al fianco.
«Beh Ishizaki, non credo che tua madre abbia faticato meno della mia … e lei di figli ne ha avuti
tre.» fu la sarcastica risposta di Genzo.
«Sei una serpe.» ribatté piccato il difensore, fendendo il crème caramel con il cucchiaino
e mettendosene in bocca un altro pezzo. Era così buffo che gli altri due ragazzi non poterono fare a meno di ridere di nuovo, seguiti dallo stesso Ishizaki.
«E così, a fine stagione te ne andrai dall'Amburgo.» disse Misaki, cominciando finalmente a
informarsi sullo stato d’animo del portiere.
«Di fatto me ne sono già andato, visto che questi mesi li dedicherò alle qualificazioni per le
Olimpiadi. Poi, da giugno, ascolterò le proposte delle squadre interessate a ingaggiarmi.»
«Pensi di rimanere in Bundesliga o vuoi tentare un'esperienza in un altro campionato?»
«Ho intenzione di rimanere in Europa, se in Germania o in un altro Paese ancora non lo so e per il momento
preferisco non pensarci.»
«Non faticherai a trovare un'altra squadra. Quello che è successo negli ultimi mesi non può
cancellare quanto di buono sei stato capace di fare in questi anni.»
Per fortuna il commissario tecnico Kira conosceva bene il valore di Wakabayashi e quanto accaduto in
Germania non gli aveva certo fatto cambiare idea, perché aveva già dimostrato di aver compreso il suo errore. E per quanto riguardava le vicende seguenti, era una questione
riguardante lui e Zeeman.
«Quest’anno l'Amburgo, senza di te, farà un campionato mediocre.» pronosticò Ishizaki
con un sorriso beffardo.
Genzo fece un mezzo sorriso amaro. Non era tipo da godere delle disgrazie altrui, e in fondo, nonostante
gli ultimi eventi, era dispiaciuto per quella che era pur sempre la squadra in cui era ancora tesserato, si era formato
come calciatore e aveva esordito come professionista, per i suoi compagni che non avevano smesso di incoraggiarlo e di sostenerlo anche e soprattutto quando tra lui e Zeeman era calato il gelo.
Aveva pensato spesso a quel rapporto sempre leale e rispettoso e a come si fosse deteriorato nel corso di poche settimane.
Zeeman gli aveva insegnato molto e aveva sempre riposto grande fiducia in lui, fino a quella maledetta partita.
Probabilmente, si era sentito tradito. Un giocatore che aveva contribuito a crescere e a rendere il più promettente tra i giovani portieri di tutto il mondo, aveva disobbedito alle sue
direttive nel momento cruciale di una gara fondamentale ed era, in seguito, divenuto un silenzioso contestatore del suo sistema di gioco.
In fondo, era venuto meno alla principale prerogativa di un portiere: essere l'ultimo baluardo della propria squadra, proteggerla dagli
attacchi degli avversari, evitare i gol. Lui invece era corso verso l'attaccante Boisler che si preparava a tirare la punizione, cogliendo tutti di sorpresa e lasciando di stucco Zeeman, incapace
anche solo di gridargli di tornare subito indietro. Era accaduto tutto in nemmeno un minuto: la lunga rincorsa di Wakabayashi, il tocco di Boisler, il tiro potente e preciso del portiere.
Sì, era preciso perché mirato all'angolo destro della porta di Drenner. Ma il centrocampista cinese Shunko Sho aveva previsto la traiettoria del pallone e aveva colpito a sua volta
con tutta la sua potenza, calciando un bolide e mettendo in movimento Schneider, che si era messo a correre, velocissimo, verso la porta lasciata incustodita.
Erano in palese disaccordo, le loro posizioni erano inconciliabili. Genzo non voleva portare avanti un progetto nel
quale non credeva più; Zeeman doveva affermare la sua autorità di allenatore.
Non aveva grossi rimpianti: riconosceva di aver commesso un grosso errore, ma era convinto che se fosse tornato
indietro avrebbe fatto la stessa cosa, perché quel giorno si sentiva imbattibile ed era convinto che il suo tiro avrebbe dato la vittoria all'Amburgo. Il modo migliore per dimostrare a
Schneider che aveva fatto la scelta giusta decidendo di rimanere.
Non provava rancore. Era solo amareggiato che una storia bella come quella che aveva vissuto con l’Amburgo
fosse finita in quel modo.
«Piuttosto» disse dopo aver posato la tazzina del tè «raccontatemi di voi, i nuovi campioni
del Giappone.»
Il secondo stage di J League si era concluso due mesi prima e aveva visto trionfare lo Jubilo Iwata.
Taro era ormai diventato la stella della squadra. Subito titolare, aveva preso in mano il comando del centrocampo e
dimostrato di essere un partner perfetto per gli attaccanti Nakayama e Takahara, diventando l’idolo della tifoseria. Anche Ryo e Hanji potevano ritenersi soddisfatti: pur se non sempre in
campo fin dal primo minuto, si erano fatti apprezzare per impegno e tenuta fisica, con i quali sopperivano alla tecnica non eccelsa, e avevano imparato molto dai colleghi di reparto più
esperti. Certo, Taro era un giocatore dal talento eccezionale ed era destinato a un campionato molto più competitivo di quello giapponese. Presto avrebbe raggiunto anche lui Tsubasa, Hyuga,
Wakabayashi e Aoi in Europa.
«Ehi Misaki, rischiamo di dimenticarci il motivo per cui siamo venuti qui!» esclamò Ryo.
«Giusto. Wakabayashi, noi e gli altri ex giocatori della Nankatsu ci siamo messi d'accordo per allenarci, ogni
pomeriggio, al campo di calcio comunale finché non inizieranno i raduni al J Village. Se ti unisci a noi, saremo al completo e avremo due portieri! Che ne dici?»
La risposta di Genzo arrivò all'istante «Non vedo l’ora di mettere piede in campo.»
L'aria era piuttosto fredda ma il cielo, attraversato da nubi tanto lievi da sembrare sfumate, era illuminato da un
sole pallido e blando.
Elena camminava stringendosi nel piumino nero, facendo oscillare la borsa sportiva a tracolla dello stesso colore. Si
ravviò con una mano le lunghe ciocche di capelli biondi, che il vento sembrava divertirsi a scompigliare e a gettarle davanti agli occhi.
Si trovava a Nankatsu da pochi giorni, ospite dello zio materno, un campione di kickboxing a fine carriera e
insegnante in un complesso sportivo della città, che viveva in una piccola casa a piano unico con Wilhelm, un Deutscher Jagd terrier di due anni.
Ripensò alla sera di fine dicembre, in cui Carlo, di passaggio a Roma per fare visita a lei e ai suoi genitori
e ad alcuni colleghi e amici, le aveva proposto di raggiungerlo in Giappone, per sostituire l'assistente, incinta e prossima al congedo, dell'insegnante di ginnastica artistica della palestra in
cui si allenava e insegnava.
La sua buona conoscenza del giapponese e l'ormai notevole dimestichezza dello zio con il Paese del Sol Levante, in
cui soggiornava, dapprima periodicamente poi in pianta stabile, da almeno quindici anni, le avevano permesso di accettare quella proposta insolita, senza pensare di stare facendo una follia.
Aveva iniziato quella giornata con un po' di apprensione perché, dopo i primi giorni in cui lo zio l'aveva
portata in giro a visitare la città, avrebbe cominciato ufficialmente la sua vita - almeno fino all'estate successiva - a Nankatsu.
Ripensò a quanto accaduto al mattino.
Era uscita di casa da poco e si stava recando all'Istituto Shutetsu per frequentare il corso di lingua e cultura
giapponese cui Carlo l'aveva iscritta, quando era stata superata da una ragazza in piena corsa. Dopo pochi metri, l'aveva vista inciampare e cadere a terra, ed era corsa subito verso di lei.
Si stava massaggiando un ginocchio, i denti che mordevano il labbro inferiore in una smorfia di dolore.
«Ti sei fatta male?» aveva chiesto, tendendole una mano per aiutarla a rialzarsi. Era di corporatura
minuta e non molto alta.
«No no, solo una botta.» aveva risposto, sorridendo e scrollandosi la polvere dal cappotto. Aveva una
parlata sciolta e veloce e vispi occhi castani.
«Non direi. Sta sanguinando.» le fece notare, indicando con gli occhi il rivolo rosso che stava scendendo dal ginocchio. Nel dirlo, si era accovacciata e
aveva estratto dal suo zainetto un batuffolo di cotone e un flaconcino di disinfettante.
«Ma no, non occorre che ti disturbi.» aveva protestato senza troppa convinzione, stringendo poi i denti per il lieve bruciore e guardando con apprensione l'orologio
da polso.
Elena nel frattempo aveva applicato un cerotto, dopo aver disinfettato la ferita.
«Ecco fatto.»
«Grazie.» aveva detto Kumi ricambiando il sorriso dell'altra ragazza e prendendo la cartella, rimasta
miracolosamente chiusa «E scusami! È che stamattina rischio di arrivare in ritardo!» aveva gridato, girandosi per riprendere la sua corsa.
«Kumi! Ti sei dimenticata il pranzo!» una donna castana, una versione adulta di Kumi - con ogni
probabilità, sua madre - era uscita sulla strada tenendo tra le mani un contenitore di metallo smaltato, a colori e disegni vivaci, che Elena aveva identificato subito come il tipico
bento.
«Mi chiedo dove tu abbia la testa, certe volte.» aveva sospirato dando la scatola alla figlia, che aveva
cacciato la lingua imbarazzata, prima di dileguarsi.
Elena si era ritrovata a ridacchiare tra sé e sé: quell'episodio aveva sciolto la tensione e le aveva
dato la tranquillità necessaria per affrontare la sua prima lezione di lingua giapponese. Un corso organizzato dall'istituto Shutetsu, per facilitare l'integrazione degli immigrati, cui
Carlo l'aveva iscritta per perfezionare la conoscenza della lingua parlata e per migliorare quella scritta, con cui aveva ancora difficoltà evidenti.
Entrò in un negozio di telefonia ed elettronica per acquistare un adattatore per poter ricaricare il suo
cellulare e un phon portatile.
Accanto a lei, mentre il negoziante le porgeva gli articoli scelti, una ragazza che brandiva una
confezione di auricolari stava armeggiando con il suo portafoglio per tirare fuori i soldi necessari per acquistarli. Mentre estraeva alcune monete, questo le cadde a terra, spargendole per tutto
il pavimento con un rumore assordante.
«Accidenti, che disastro!» recriminò la giovane, inginocchiandosi. Elena si chinò per
aiutarla a raccoglierle.
«Ecco qui. Dovrebbero esserci tutte.» disse, porgendole quelle che aveva recuperato.
«Grazie.» disse, celando l'imbarazzo con un sorriso.
«Tu sei la ragazza di stamattina?» chiese, dopo che furono uscite dal negozio.
Elena ripensò al loro insolito primo incontro «Sì.» disse, lasciandosi sfuggire un sorriso
divertito, lo stesso della giapponese.
«Beh, visto che è già la seconda volta che ci incontriamo e che abitiamo a poca distanza l'una
dall'altra, mi presento: sono Sugimoto Kumi, ma puoi chiamarmi per nome.» tese la mano, prontamente stretta.
«Rulli Elena. Vale anche per me.»
«Non sei giapponese.» disse l'altra, per avviare la conversazione.
«Da cosa l'hai capito?» chiese ironica, suscitando la risata della sua interlocutrice «Vengo
dall'Italia. Da Roma, per la precisione.»
«Che meraviglia!» esclamò Kumi «Non ci sono mai stata, ma deve essere stupenda.»
Elena diede un’alzata di spalle «Il mio giudizio è sicuramente di parte, però sì,
è bellissima.»
La giapponese chinò il capo, assumendo un'aria meditativa «Hai qualche impegno, ora?» chiese
poi.
Elena esitò un attimo. Mancavano ancora più di due ore all'inizio della sua lezione e non sapeva come
riempirle. Non le andava di tornare a casa, né di recarsi in palestra con eccessivo anticipo, rischiando di ritrovarsi lì senza sapere come rendersi utile.
«Per il momento no. Perché?»
«Ti piace il calcio?»
L'italiana impiegò qualche secondo a rispondere, un po' sorpresa da quella domanda e da quella che sembrava
essere la premessa di un invito. Ma la risposta poteva essere solo una.
«Fin da bambina.»
Il sorriso di Kumi si allargò «Io sto andando al campo comunale, alla periferia della città.
C'è una partita tra i miei attuali compagni di scuola e gli ex membri del club di calcio della Nankatsu, che ora giocano nella J League e nella Nazionale Under 23. Ti va di venire? Ti
assicuro che vale la pena vederli!»
Elena rifletté un momento, poi accettò. In fondo, una partita di calcio durava
solitamente circa un’ora e mezza e quella era sicuramente un’ottima soluzione per trascorrere quel periodo di
tempo senza rischiare di presentarsi in ritardo al lavoro. Inoltre, il calcio le era sempre piaciuto, fin da quando passava i pomeriggi al campetto del quartiere, a Roma, con gli amici della
squadretta del Sant'Angelo, di cui era la "presidentessa" - sorrise al ricordo, e provò una fitta di nostalgia.
Si sedettero su una delle panchine, a pochi passi dal campo. Elena si sentiva una spettatrice privilegiata, rispetto
agli altri astanti, per la maggior parte ragazzi, seduti sui gradini.
«Torno manager per un giorno.» ridacchiò Kumi «Qui ci sono le fette di limone con zucchero e
miele per far recuperare le energie a fine partita.» disse, indicando il cesto che aveva con sé.
«Mi raccomando, cercate di non farvi sommergere di gol!» gridò poi, rivolta ai suoi attuali
compagni di scuola, che stavano terminando il riscaldamento.
«Ehi manager, per chi ci hai preso? Non siamo mica degli incapaci! E comunque, giocheremo in squadre miste,
quindi saremo di pari livello.» ribatté piccato Teruyuki Monio, robusto difensore della squadra di calcio del liceo e, da qualche tempo, anche della Nazionale Under 19.
Kumi si girò verso Elena «Devo punzecchiarli se voglio evitare i timori reverenziali.» rise,
strizzando un occhio.
La partita cominciò ed era davvero piacevole come Kumi aveva garantito. Le due squadre si affrontavano a viso
aperto, creando azioni e occasioni a ripetizione.
La manager faceva un tifo chiassoso ed entusiasta, battendo le mani e incitando senza sosta i calciatori di entrambe
le squadre. A Elena ricordò molto com'era lei, ai tempi delle partite al campetto di periferia, di cui una in particolare, era rimasta indimenticabile.
«Sono in gamba, quei ragazzi.» commentò.
«Sì. Sono attuali ed ex studenti del liceo Nankatsu. Alcuni di loro giocano in J League e sono in
Nazionale.» disse, non celando un certo orgoglio «In più, c'è nientemeno che Genzo Wakabayashi.» indicò il ragazzo tra i pali, con un berretto grigio in
testa.
«Pensa» proseguì «che il c.t. della Nazionale Olimpica ha deciso di non convocare i
giocatori impegnati all'estero, ma lui ha avuto, ultimamente, dei problemi in Germania con il suo allenatore che non lo faceva giocare, quindi ha deciso di rendersi disponibile per la
Nazionale.»
Elena annuì. Wakabayashi era uno dei pochi calciatori giapponesi noti anche in Europa dov'era considerato, a
ragione, un vero prodigio. Aveva letto, su alcuni giornali, del dissidio tra il portiere e l’allenatore dell’Amburgo, il cui motivo non era mai stato spiegato con chiarezza ma era
cominciato, con ogni probabilità, dopo la clamorosa, per come era maturata, sconfitta contro il Bayern Monaco.
Il suo sguardo venne attirato da un giovane che aveva appena ricevuto un passaggio a metà campo ed era
riuscito a evitare abilmente l'intervento dell'avversario con una roulette perfetta. Agile ed elegante, continuò la sua corsa portandosi sulla fascia
sinistra e scartando altri due giocatori, per poi entrare nell'area di rigore, da cui lasciò partire un tiro che sembrava diretto verso il palo più lontano, ma curvò
improvvisamente, cambiando direzione verso quello più vicino. Wakabayashi, pur avendo seguito l'azione con la massima concentrazione, era stato tratto in inganno dalla traiettoria del
pallone e dovette ricorrere a un notevole colpo di reni per riuscire a pararlo.
Misaki era migliorato ulteriormente: i suoi tiri erano ora non solo ancora più precisi e puliti, ma anche
più potenti e imprevedibili.
«Bel tiro, Misaki.»
«Grazie. Hai fatto un'ottima parata.» replicò il centrocampista per poi girarsi e correre verso la
trequarti.
Genzo annuì e si sistemò il berretto sul capo. Rilanciò il pallone verso Takasugi, per impostare
una nuova azione di gioco.
«Kumi … chi è il giocatore che ha appena tirato?» chiese Elena, anche se dentro di sé conosceva già la risposta.
La ragazza sorrise «Oh, è Taro Misaki. È un centrocampista di grande talento. Dopo il World Youth
si è infortunato gravemente alla gamba sinistra, ma si è ripreso benissimo e a dicembre ha vinto la J League con lo Jubilo Iwata.» spiegò compiaciuta.
«È sempre bravissimo ….» mormorò con un tono dolce che lasciò Kumi
stupita.
Quei pochi secondi le erano bastati per rivedere in quel giocatore così talentuoso, un ragazzo che aveva
ripescato poco prima tra i suoi ricordi. Provò una sensazione di gioia che prevalse sullo stupore di apprendere che giocava nella J League e non in un campionato europeo. Seguì il
match con ancora più attenzione, entusiasmandosi ogni volta che prendeva possesso della palla e si avviava verso l’area avversaria. In più occasioni si era alzata in piedi a
incitarlo, con una mano messa accanto alla bocca a mo' di amplificatore, sotto gli occhi meravigliati di Kumi. E attendeva, con un misto di impazienza e di trepidazione, che la partitella finisse
per poterlo salutare di nuovo.
La partita terminò un quarto d'ora dopo.
Alcuni ragazzi si diressero verso la linea laterale per riposarsi e per assaporare le fette di limone che Kumi stava
distribuendo, mentre altri erano rimasti in campo, a palleggiare e a tirare. Tra questi c’era anche Misaki.
Taro aveva creato molte azioni pericolose e aveva fatto dei tiri che avrebbero messo in difficoltà qualsiasi
portiere, ma quel Wakabayashi era davvero eccezionale ed era riuscito a mantenere la sua porta inviolata. «Come volevasi dimostrare.»
pensò Elena, sorridendo divertita. Avrebbe dovuto attirare la sua attenzione, se voleva almeno salutarlo. Non le restava ancora molto tempo prima di recarsi alla palestra.
«Complimenti Taro! Hai giocato una partita stupenda, peccato non abbia segnato!»
gridò Elena entrando nel rettangolo di gioco, destando ancora una volta l'attenzione di Kumi. Lo aveva chiamato
… per nome?
Il centrocampista si voltò per ringraziare la persona che gli aveva parlato. Stava per aprire bocca, quando si
arrestò, fissandola per qualche secondo con aria interrogativa. Ma impiegò poco per capire chi fosse quella ragazza dal buon giapponese, caratterizzato da un accento di una parte di
mondo che conosceva bene.
«Elena?»
«Sì.» confermò, andandogli incontro.
«Sei proprio tu.» disse, identificando la ragazza dai capelli biondi e dagli occhi azzurri che aveva
conosciuto anni prima, in quella settimana straordinaria in cui l'aveva reclutato come allenatore di una squadra di ragazzini innamorati del calcio, ma che dovevano ancora imparare a giocare come
veri compagni.
«Come mai da queste parti?»
«Sono ospite di mio zio. Lavoro nella sua palestra. A proposito» disse, lanciando una rapida occhiata
all'orologio da polso «è meglio che vada, o rischio di arrivare tardi. Ci vediamo presto. Ciao!» disse, voltandosi per salire la gradinata, salutando anche Kumi e ringraziandola
per il piacevole pomeriggio che le aveva fatto passare.
«Ehi Misaki, chi era quella biondina?» chiese Ryo, che aveva osservato tutta la scena e si stava
avvicinando con Urabe, con il quale aveva cominciato a battibeccare su un intervento a vuoto su un passaggio che aveva rischiato di mandare in gol Shun Nitta.
Taro cercò di usare parole che non dessero spazio a fraintendimenti, anche se sapeva che sperare che Ishizaki
non facesse certe insinuazioni era da utopisti.
«Una ragazza che ho conosciuto anni fa durante un viaggio in Italia e che si è appena trasferita qui.»
«Avresti potuto presentarcela.» lo stuzzicò Urabe.
Misaki alzò le spalle «Aveva un impegno ed è dovuta scappare. Ma non vi preoccupate, la rivedrete
presto.»
«È davvero carina! Ma allora quando andavi in giro per il mondo, non ti divertivi solo a giocare a
calcio.» commentò Ryo, con un sogghigno.
«E io che mi ero illuso che, per una volta, non andassi a parare lì.» sospirò, alzando gli
occhi al cielo e rimpiangendo che Yukari fosse in quel momento ancora impegnata alla scuola materna.
«Beh, non ci sarebbe nulla di male!» insistette
Urabe, appoggiandosi con un braccio alla spalla del suo compagno di reparto. I due lo guardarono con il sorrisetto di chi la sapeva, o meglio pensava di saperla
lunga. Taro scosse la testa. Era incredibile come quei due approfittassero di ogni stupidaggine per fare scaricabarile, ma fossero sempre in sintonia totale quando si trattava di fare battute e
insinuazioni maliziose.
«Allora sono spiacente, ma devo deludervi. È solo un'amica.» ribadì sperando fosse
sufficiente per liquidare l'argomento una volta per tutte.
«Misaki» intervenne Kumi «Ho qui una bottiglia di
integratore, se vuoi.»
«Grazie, Sugimoto.» rispose prendendola dalla mano della ragazza che sfiorò appena, con uno dei
tipici sorrisi gentili che da qualche tempo avevano il potere di far accelerare i battiti del suo cuore.
Kumi riuscì soltanto ad annuire ricambiando il sorriso. L'intraprendenza di alcuni anni prima, quando era
Tsubasa a suscitare quelle emozioni, sembrava essersi dispersa. E ora c'era anche Elena che sembrava avere molta confidenza con lui ….
Dopo essersi dissetato, Taro si affrettò a tornare in campo dove Genzo, rimasto tra i pali della porta,
parò senza problemi un hayabusa shoot di Nitta, che fece il gesto di tirare un pugno, tra il disappunto e l'ammirazione.
Il portiere stava respirando, dopo tanto tempo, la gioia di stare in campo e di vivere il calcio nella sua forma più pura: un gioco meraviglioso che aveva caratterizzato tante splendide giornate della sua infanzia e
adolescenza. Dopo tanto tempo, finalmente si divertiva sul serio.
***Note***
Il personaggio di Elena Rulli appare nella puntata numero 89 della serie
Shin dell'anime, intitolata "Una lettera dall'Europa". Ecco tre immagini.
Il Deutscher Jagd terrier è una razza canina originaria della Germania,
poco nota al di fuori dell'Europa continentale. Di piccola taglia e di pelo duro dal colore scuro, si caratterizza per una grande agilità e resistenza. Testardo e reattivo, è adatto a
un padrone energico, poiché ha bisogno di molto esercizio.
Fonte: agraria.org
Ecco due immagini: cucciolo e adulto.
Teruyuki Monio: appare nel "Golden
23" ed è uno dei compagni di Takeshi Sawada nella Nazionale Under 19 che si qualifica alla nuova edizione del World Youth. È uno dei sei giocatori giapponesi scelti tra i migliori del
torneo di qualificazione. Nel manga non è specificata la sua squadra né la scuola frequentata, quindi l'ho collocato nella Nankatsu.
In Giappone le forme delle prese di corrente sono diverse da quelle italiane.
In Italia si utilizzano varie prese, dalla Schuko (quella tonda tedesca) a quella con tre piedini (larga e stretta),
mentre in Giappone si utilizza una presa con due piedini rettangolari, più di rado quella con tre piedini.
È necessario quindi avere con sé un adattatore.
Tra i due Paesi vi sono differenze anche nel voltaggio: in Italia si usa una corrente a 230 V ad una frequenza di 50
Hz, in Giappone si utilizzano invece i 100 V ad una frequenza di 50 Hz per la parte est del paese e di 60 Hz per la parte ovest.
Nel caso di elettrodomestici come il phon è addirittura consigliato comprarne uno sul posto o comunque averne
con sé uno dotato di commutatore.
Fonte: GiapponePerTutti
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Capitolo 3 *** Capitolo III - Senza paura ***
Untitled
Capitolo III
Senza paura
Elena premette il pulsante della sveglia prima che potesse suonare.
Scostò il piumone, scese dal letto e spalancò la finestra della sua stanza, facendo entrare la luce del
sole e riempiendosi i polmoni dell’aria del primo mattino; le ricordava quella di Bad Tölz, la cittadina della Baviera di cui era originario il ramo materno della sua famiglia e dove era
solita trascorrere parte delle vacanze estive.
La finestra dava sul giardino, e i suoi occhi si posarono sulla cuccia in cui ancora dormiva Wilhelm.
Era sola in casa. Carlo era uscito molto presto, perché aveva degli impegni a Tokyo che gli avrebbero
consentito di tornare a Nankatsu solo nel pomeriggio. Il tempo di riposare un paio d’ore e poi si sarebbe recato al dojo per allenarsi e tenere i suoi corsi.
Comunque sarebbe andata, gli era grata per l’aiuto concreto che le aveva offerto: la sua vita aveva preso un
corso completamente diverso da quello in cui sembrava essersi incanalata e lui l’aveva portata in Giappone per aiutarla a costruire nuove certezze, che sostituissero quelle che aveva perso
nella seconda metà dell’anno precedente. Ed era cominciata meglio di quello che si aspettava: aveva rincontrato Taro e aveva conosciuto Kumi, una ragazza gentile e amichevole che
l'aveva trattata subito con simpatia.
Quando Carlo aveva passato qualche giorno a Roma, durante le ultime vacanze natalizie, aveva trovato un’Elena
irriconoscibile rispetto a quella che ricordava: apatica, triste, svogliata, incapace di guardare avanti, di riprendersi dalla tragedia vissuta pochi mesi prima e costretta a non prendere, per il
momento, neppure in considerazione l’idea di iscriversi all’università. I soldi erano pochi ma con il suo diploma di perito aziendale corrispondente in lingue estere aveva
trovato un impiego come segretaria in una piccola ditta di import-export, per aiutare i suoi genitori e cercare di mettere da parte un po’ di denaro per sé stessa.
«Si piange addosso, Carlo. E quando torna dal lavoro, ha la faccia ancora più triste di quando esce la
mattina. Non so più che fare.» gli aveva detto sua sorella Clara, con gli occhi lucidi e la voce afflitta di una madre che vedeva la figlia spegnersi giorno dopo giorno, comportandosi
ormai più come un automa che come un essere umano, mentre suo cognato Valerio, seduto sul divano del salotto, sguardo basso e mani intrecciate sopra il ventre, stringeva le labbra.
«Se non avete nulla in contrario a farla venire in Giappone con me … ci penso io.» aveva risposto
l’atleta, dopo aver ascoltato in silenzio lo sfogo della sorella.
«Se servirà a farla tornare l’Elena che conoscevamo, quella che lei è veramente, sono
disposto a fartela portare anche in capo al mondo.» gli aveva risposto Valerio.
«E tu che dici?» aveva chiesto infine, rivolto alla nipote, che pur tenendo gli occhi bassi senza mai
intervenire, aveva ascoltato ogni parola della conversazione. «Ti va di riprendere in mano la tua vita, oppure preferisci andare avanti così?»
Elena aveva alzato lentamente la testa, a incontrare lo sguardo affettuoso, ma deciso, dell’uomo. Aveva
abbozzato un sorriso e annuito. «Va bene. Verrò in Giappone.»
Andare dall’altra parte del mondo in un Paese che l’aveva sempre affascinata, dedicarsi allo sport che
adorava più di tutti gli altri, conoscere gente nuova, prendere finalmente in mano le redini della sua vita. Carlo era convinto che sua nipote avrebbe tratto, da quell’esperienza,
tutto ciò di cui aveva un bisogno ormai capitale.
«Tanto se gli avessi detto di no ti ci avrei trascinata io all’aeroporto, e di peso.» aveva giurato
suo padre.
Era stato così che Elena già l’indomani aveva comunicato al direttore della ditta che si sarebbe
licenziata e aveva dedicato le settimane successive ai preparativi per la partenza.
I suoi genitori quasi non vedevano l’ora di vederla salire sull’aereo; ciò non gli aveva comunque
impedito di sprecarsi in mille raccomandazioni. Del resto, l’apprensione era una caratteristica insita nell’animo di tutti i genitori che avessero a cuore i propri figli. Nemmeno la
disperazione poteva sopprimerla.
«Hai l’occasione di cominciare a ricomporre la tua vita, Elena. Ora sta a te non sprecarla.» le
aveva detto Carlo, accogliendola al suo arrivo all’Aeroporto Internazionale di Narita. E la giovane aveva deciso che non avrebbe permesso al suo passato di impedirle di vivere appieno il
presente. Cancellarlo non era possibile, ma lo avrebbe stipato e costretto nel recesso del suo cuore.
Dopo aver fatto colazione, decise di uscire per fare una corsa. Indossò una tuta e prese con sé il
portafoglio.
Il pomeriggio sarebbe stato fitto di impegni: la aspettavano ben due lezioni, quella con le bambine e quella con le
allieve più grandi, in cui avrebbe coadiuvato l'insegnante della scuola di ginnastica artistica, la signorina Shiroyama.
La cosa non le pesava; sembrava anzi che quasi la angosciasse l'idea che nelle sue giornate ci fossero degli spazi
vuoti, per questo aveva portato con sé dei libri e delle vecchie riviste sulla ginnastica, nonostante le perplessità di sua madre.
L'aria era ancora pungente, ma il cielo era soleggiato e attraversato da poche candide nubi; sui rami di alcuni
alberi cominciavano a spuntare le prime, minuscole gemme.
Alcune persone in attesa alla fermata dell'autobus si spostarono educatamente, per lasciarla passare.
«Ciao Elena.» una voce maschile, piacevolmente conosciuta, la indusse a fermarsi.
Si girò e vide Taro che le stava sorridendo nel suo modo gentile e affabile. Anche lui indossava una tuta e
aveva con sé un borsello.
«Taro! Vedi? Te l'avevo detto che ci saremmo visti presto.» disse strizzando un occhio,
avvicinandosi.
«Già.»
Elena esitò. Non voleva andarsene subito come aveva dovuto fare al campo di calcio, quindi decise di fermarsi
a chiacchierare un po', finché non fosse arrivato l’autobus.
«Dove vai di bello, se non sono indiscreta?»
«A Gotenba, al centro di medicina sportiva Fuji. Devo ritirare i risultati delle mie analisi alla gamba
sinistra.»
«Analisi?»
«Sì, le faccio periodicamente, perché …» in quel momento, l'autobus era comparso
all'angolo della strada e si stava avvicinando alla fermata. Il ragazzo si strinse nelle spalle «Devo andare.»
Fu una decisione fulminea. In fondo, non aveva particolari scadenze quel mattino e la corsa era stata programmata per
impegnare quelle poche ore libere.
«Vengo anch'io, così mi racconti tutto.» disse, avviandosi insieme a lui e agli altri
passeggeri.
L'autobus li portò alla stazione ferroviaria, da cui presero il treno diretto a Gotenba. Durante il viaggio,
ebbero modo di raccontarsi quello che era successo dall’ultima volta che si erano rivisti, risalente a due anni prima.
Quella primavera, Taro stava compiendo un viaggio in diversi Paesi del mondo per osservare gli stili di gioco e
miscelarli per crearne uno personale, indipendente dalla combinazione con Tsubasa, come l'allora commissario tecnico dell'Under 19 Minato Gamo gli aveva imposto di fare quando lo aveva escluso
dalla selezione, ma lo scopo sottinteso era, soprattutto, recuperare la gioia pura di giocare a calcio e perdere l'ossessione per la vittoria che ne aveva preso il posto negli anni del liceo.
Ossessione legata anche al continuo raffronto tra lui e Tsubasa, mai fattogli pesare apertamente, ma che sapeva bene essere presente nella testa dei suoi compagni e dei suoi avversari, che pure non
avevano mai messo in dubbio il suo enorme talento.
Tra le sue tappe, c'era stata anche Roma. Sperava di rincontrare almeno alcuni dei ragazzi che aveva
conosciuto quattro anni prima, per sapere che ne era stato di loro e per recuperare l'entusiasmo e la voglia di imparare che aveva perso. Uno in particolare: Andrea, il ragazzino più
talentuoso di quella squadra, di cui aveva in un certo senso scoperto o meglio, valorizzato le abilità.
Aveva mantenuto una buona conoscenza della lingua italiana, imparata prima del viaggio fatto con suo padre. Ichiro lo
stava progettando da tempo e gli aveva chiesto di accompagnarlo, certo di ottenere una risposta positiva da parte del figlio, che certo non avrebbe disdegnato l'idea di visitare un Paese ricco di
storia, paesaggi e bellezze artistiche come l'Italia. Taro aveva accettato con gioia, e così suo padre iscrisse anche lui al corso di lingua italiana che aveva intenzione di frequentare. I
colleghi e amici di origine italiana che, insieme a lui, affollavano Montmartre, si erano offerti di insegnare le espressioni dialettali e gergali. Era stato meno difficile di quanto avesse
creduto, visto che aveva la stessa matrice linguistica del francese, che padroneggiava ormai con sicurezza. Del resto, era stato uno sforzo di gran lunga più difficile imparare il francese
partendo dal giapponese.
Grazie alle indicazioni di alcuni residenti, era riuscito a tornare nel quartiere periferico in cui si
trovava il campetto in cui aveva giocato con quei ragazzi. Vi si stava allenando un gruppo di ragazzini che dovevano avere all'incirca la stessa età dei suoi amici all'epoca. Uno di loro era
vicino di casa di Andrea e Taro aveva scoperto, con soddisfazione ma senza stupore, che il biondo, talentuoso attaccante era diventato uno dei punti di forza della Primavera della Roma.
Si era quindi nuovamente spostato, per andare ad assistere a un allenamento: nel gruppo di giovani promesse, aveva
riconosciuto lui e Martino. Andrea era diventato un po' più alto, il fisico esile ed elegante. Martino aveva sempre la solita espressione da simpatica canaglia e i capelli scarmigliati, era
più robusto e aveva uno stile di gioco piuttosto aggressivo, ma corretto.
I due ragazzi erano rimasti sbalorditi nel rivederlo, ma l'incredulità aveva lasciato subito il posto alla
gioia e al desiderio di rincontrare e giocare di nuovo con quel ragazzo che li aveva resi consapevoli delle loro potenzialità e verso cui provavano un'immensa gratitudine. Erano ansiosi e
impazienti, come due bambini entusiasti, di mostrargli tutti i progressi fatti in quei quattro anni in cui si erano impegnati a lavorare per trasformare il calcio da sogno a possibile
professione.
«Ora siete voi a dovermi far riscoprire il piacere di giocare a calcio.»
Andrea e Martino lo avevano guardato straniti. «Cosa? Ma sei stato proprio tu a insegnarcelo!» aveva
obiettato il biondo attaccante.
«È vero, ma a volte capita di disimparare ciò che si è cominciato a dare per scontato, per
rincorrere cose molto meno importanti.» aveva detto, stringendosi nelle spalle. Era vero. Non se n'era mai reso veramente conto, finché Gamo non gliel'aveva fatto notare, con quelle
parole dure, ma giuste.
Andrea aveva dimostrato un'abilità notevole nel palleggio. I suoi movimenti erano diventati più fluidi
ed eleganti. Non si era sbagliato su di lui: aveva una classe e un senso del gioco innati. In Martino rivide la caparbietà e la foga con cui riusciva a rubare e a recuperare palloni agli
avversari e a proteggerli fino al passaggio ai compagni di squadra. Doveva ammettere che lo avevano, in qualche occasione, messo in difficoltà: a fatica era riuscito a non farsi togliere il
pallone dai piedi.
Era certo che, se avessero mantenuto quello spirito, erano destinati a una carriera ricca di soddisfazioni.
Taro si era fermato per quattro giorni nella capitale italiana e aveva passato i pomeriggi
restanti a giocare con Andrea, Martino e i ragazzini incontrati al vecchio campetto. Era riuscito così a rivedere anche
Elena, nella palestra in cui praticava la ginnastica artistica, "l’unico sport che batte il calcio nel mio cuore" come gli aveva confidato quattro anni prima mentre raccoglievano gli
asciugamani e le bottigliette vuote di acqua e di integratori, lasciate sul campo dai calciatori in erba.
Aveva rivisto una ragazza molto carina e aggraziata, più pacata rispetto alla vivace e a tratti impetuosa
"presidentessa" del Sant'Angelo cui era bastato vedere un suo lancio da bordo campo per reclutarlo come allenatore; sempre innamorata della ginnastica artistica e ora, anche di un giovane talento
del kickboxing che si allenava nella sua stessa palestra.
«Tranquillo Taro, adesso Elena non ti salterà più addosso come quattro anni fa.» aveva
sogghignato Martino, beccandosi un pugno sul braccio e un "Sei sempre il solito scemo!" dall'amica, tra le risate generali.
«Ma perché fai periodicamente delle analisi alla
gamba sinistra? Sei stato infortunato?» chiese Elena, infine, tornando al presente.
Taro le raccontò, senza menzionarle i particolari, di aver subìto un grave incidente pochi giorni dopo
la vittoria del torneo asiatico e la qualificazione al World Youth, che l'aveva costretto a saltare quasi tutta la competizione, riuscendo a giocare gli ultimi trenta minuti della finale contro il
Brasile dopo un recupero miracoloso. Lo sforzo che il gol del vantaggio, segnato in combinazione con Tsubasa, gli era costato, aveva comportato un nuovo infortunio e un lungo periodo al centro di
medicina sportiva Fuji, tra cure e riabilitazione.
E dopo, erano arrivati l'ingaggio da parte dello Jubilo Iwata, l'esordio nella J League e l'agognato debutto nel
calcio professionistico. La volontà di recuperare il terreno perduto e potersi confrontare sul palcoscenico del calcio europeo e mondiale con i campioni più grandi e con i suoi
connazionali e amici Tsubasa, Wakabayashi, Aoi e Hyuga costituivano ora la spinta a impegnarsi al massimo delle sue potenzialità.
Elena osservò uno scorcio del bellissimo paesaggio della prefettura che scorreva davanti ai suoi occhi: era
davvero splendido come gliel'aveva descritto suo zio. La cima innevata del Monte Fuji sembrava incredibilmente vicina, si stagliava contro il cielo azzurro e il profilo del vulcano sembrava
abbracciare tutta la zona.
Evitarono entrambi le domande più personali, percependo l'uno nei confronti dell'altra la volontà di
non parlare del passato recente.
Dei brevi ricordi si erano affacciati alla loro mente.
Altre persone che non erano più lì con loro, si erano allontanate portando via con sé dei pezzi
della loro vita.
Fortunatamente erano giunti a destinazione.
Dopo essere scesi alla stazione di Gotenba, presero un autobus e giunsero al centro di medicina sportiva Fuji.
La segretaria conosceva bene Taro e gli disse che il dottor Shibazaki era nel suo studio e non stava ricevendo alcun
paziente. Il ragazzo bussò alla porta e alla risposta del medico entrò, seguito da Elena.
«Ah, ciao Misaki. Ti stavo aspettando.» disse il giovane medico, andandogli incontro.
«Buongiorno, dottore. Questa è Elena Rulli, una mia amica.»
I due si salutarono con un inchino.
Shibazaki si diresse alla sua scrivania e prese le immagini della radiografia della gamba sinistra del
centrocampista.
«I risultati sono molto buoni, Misaki. La tua gamba è in ottime condizioni e continua a sopportare bene
gli sforzi. Tuttavia, vale e varrà sempre quello che ti ho detto lo scorso settembre.» precisò.
Taro annuì. Elena guardò prima il dottore e poi l'amico, con aria interrogativa. A cosa si riferiva il
medico?
«Vieni, ti voglio mostrare una cosa. O meglio, qualcuno.» disse il dottore, facendogli cenno di seguirlo
fuori dallo studio. Elena uscì insieme a loro. Si diressero verso il retro della struttura, dove si trovava un grande campo di calcio, con attrezzature specificamente studiate per il
recupero e la riabilitazione dei pazienti.
«Quel ragazzo si chiama Norihisa Fukui, ha diciannove anni e gioca da centrocampista, come te. Si è
fratturato la tibia e il perone durante una partita di J League 2. Ha voluto curarsi qui proprio perché ha saputo che l'hai fatto anche tu: è un tuo grande fan e ora è
lì che tira punizioni tutti i giorni, proprio come te. Per ora i risultati, come vedi, lasciano a desiderare, ma riesce a calciare il pallone con una certa forza e questo significa che ormai
sta per avviarsi verso un pieno recupero.» spiegò il dottore incrociando le braccia, piuttosto soddisfatto.
Il ragazzo, uno sguardo concentrato che tradiva però una certa impazienza, posizionò il pallone, per
poi calciarlo di interno sinistro. La sfera colpì una sagoma, per poi uscire dallo specchio della porta. Strinse le labbra, reprimendo un moto di impazienza e prese un altro pallone.
Taro avanzò verso il campo da gioco, raggiungendo Norihisa nella trequarti.
«Non male, ma se vuoi far entrare il pallone nella rete, devi indirizzarlo meglio.» disse, facendo
sobbalzare il ragazzo, che si voltò di scatto e sgranò gli occhi.
«Tu sei... Taro Misaki?» chiese incredulo, vedendo il calciatore sorridente a pochi centimetri da lui,
che gli si accostò e attirò il pallone a sé con il piede sinistro.
«Se vuoi orientare meglio il tuo tiro, devi mettere il piede così.» disse, mostrandogli
l'inclinazione da tenere. «Prova.» disse, indietreggiando di pochi passi.
Norihisa mise da parte lo stupore e cercò di concentrarsi sulla posizione mostratagli da Misaki, scrutandolo a
ogni movimento, per essere sicuro di riprodurla perfettamente. Non poteva permettersi di fare una brutta figura proprio davanti al calciatore che aveva eletto suo modello.
Al cenno d'approvazione del centrocampista dello Jubilo Iwata, effettuò un tiro decisamente più pulito
di quello precedente, che scavalcò la barriera e uscì di poco a lato.
«Fantastico! Non ci è mancato molto!» disse, con un gran sorriso e gli occhi che brillavano,
mentre Taro annuiva. Norihisa gli prese le mani tra le sue. «Grazie Misaki! Spero di poter diventare bravo come te. Tu per me sei il migliore.»
«È sempre un ottimo allenatore.» commentò Elena, che aveva assistito alla scena da bordo
campo, accanto al dottore.
«Sì, credo anch'io che abbia una seconda carriera assicurata.» convenne Shibazaki «Spero
comunque di vederlo ancora per molto tempo come calciatore.» aggiunse voltandosi verso di lei, che non poté che annuire di rimando.
Ringraziarono e salutarono il dottore e lasciarono il complesso ospedaliero, dirigendosi poi verso una pensilina, in
attesa dell'autobus che portava alla stazione.
«E così, in quella struttura hai passato più di un anno. Deve essere stata dura.» gli disse
Elena.
«Se intendi dire che ho avuto dei momenti di sconforto, sì, ci sono stati. Ma poi mi dicevo sempre che se mi fossi fermato, mi sarei precluso ogni possibilità.»
Elena ripensò alle parole di Shibazaki. Era come se la carriera di Taro avesse una spada di Damocle a penderle
sopra. Forse erano cose riservate … ma doveva cercare di sapere.
«Taro … a cosa si
riferiva il dottore, quando ti ha dato i risultati?»
Misaki serrò le labbra «Vedi, l'infortunio che ho subito due anni fa è stato molto grave, ha
messo in pericolo la mia carriera. Se dovesse ricapitarmi un incidente simile, non potrò più giocare a livello agonistico.»
Elena mantenne lo sguardo fisso sull’amico, impressionata da quell’affermazione. Ma c'era una questione
che le ronzava in testa da quando le aveva raccontato dell'infortunio. Dei particolari che non afferrava.
«Ma com'è possibile procurarsi un infortunio
così grave soltanto calciando un pallone?»
Taro sospirò. Domanda logica, in fin dei conti.
«In effetti, l'incidente vero era capitato un mese prima.» ammise.
«E com'è avvenuto? Uno scontro di
gioco?»
«Non so se è il caso di raccontartelo ….» mormorò. Temeva che raccontare quello che
aveva subìto potesse impressionarla.
«Perché? È accaduto qualcosa di grave?» la domanda le venne spontanea. Sapeva che rischiava
di risultare importuna, ma la preoccupazione la portò a formularla quasi senza averla elaborata.
Taro strinse le labbra. Non aveva senso fare misteri su quanto accaduto.
«Ero a Sendai, a fare visita a mia madre, il suo secondo marito e la figlia avuta da lui. Quando li ho
lasciati, mia sorella ha percorso un tratto di strada insieme a me, poi mi ha salutato ed è corsa via in bicicletta. Dopo pochi metri è caduta. Ho visto lei stesa in mezzo alla strada
e un camion stava sopraggiungendo, proprio in quel momento. Io sono corso verso di lei e sono riuscito a prenderla in tempo e a portarla via da lì, ma non sono riuscito a evitare l'impatto
tra il camion e la mia gamba sinistra. Mi sono ritrovato steso sul marciapiede. La mia gamba era spezzata.»
Elena spalancò gli occhi e per alcuni minuti non seppe che dire. Un incidente ... Taro aveva rischiato la sua
vita, per evitare che avvenisse un'altra tragedia, la perdita di una sorella da poco ritrovata. E se non la vita, avrebbe potuto perdere l'uso delle gambe ... deglutì, ma reagì
immediatamente scuotendo la testa.
«Ma poi hai giocato la finale del World Youth.» riprese.
«Sì, un'amica mi ha dato l'indirizzo del dottor Shibazaki, e lui è riuscito a rimettermi in piedi
proprio pochi giorni prima della finale. Ovviamente mi aveva sconsigliato di giocare, ma il desiderio di dare il mio contributo alla vittoria del torneo era troppo forte. Così ho lasciato la
struttura di nascosto e mi sono presentato al Nagai Stadium.»
Taro fece un lieve sospiro. A Elena sembrò che i suoi occhi fossero diventati più lucidi.
«Ho tirato con tutte le mie forze, infortunandomi di nuovo. Ma segnai, insieme a Tsubasa. Sono stato nuovamente
operato e sono poi tornato al centro di medicina sportiva. Il resto lo sai.»
«Io … non sapevo ti fosse successa una cosa così terribile.» mormorò, con uno sguardo
turbato.
«Tutto sommato, poteva andare molto peggio.» disse, con tono calmo e sereno «E invece ho ancora la
mia vita … e ho ancora il calcio.»
Elena annuì, ritrovando il sorriso. Taro sapeva sempre reagire con serenità e ottimismo alle
avversità ... era sempre stata la sua forza.
«Ho deciso di continuare a giocare ogni partita» riprese «con la stessa voglia e la stessa grinta,
lottando su ogni pallone. È l'unico modo per non avere rimpianti. Io adoro il calcio e se anche dovessi smettere, mi resteranno comunque dei bellissimi ricordi. Non sopporterei di giocare al
di sotto delle mie potenzialità, solo per paura di subire un altro infortunio. Finché sarò in condizione, finché le mie gambe me lo permetteranno, continuerò a
giocare e a dare il massimo.» dichiarò, lo sguardo rivolto verso il sole, in quel momento velato da una lieve nuvola passeggera.
Il treno aveva ormai raggiunto la zona costiera della prefettura. Elena guardò l’orologio da polso e
sgranò gli occhi.
«Accidenti, è quasi mezzogiorno! Com’è volato il tempo!»
«Devi avvisare tuo zio?» le chiese Taro.
«No, per fortuna. È a Tokyo e pranzerà da alcuni suoi amici. È che non credevo fossimo
stati via così tanto. Dovrò passare al supermercato a comprare qualcosa.»
«Se vuoi, puoi venire a pranzo da me. C’è anche mio padre, sarebbe un’occasione per
rivederlo.»
«Mi piacerebbe molto.» rispose la ragazza. Aveva un bellissimo ricordo del signor Misaki, un uomo
tranquillo e affabile, proprio come il figlio. Ricordava i suoi racconti sui suoi studi d'arte e sui numerosi viaggi e spostamenti suoi e di Taro e, a sua richiesta, le aveva fatto anche un
ritratto che custodiva ancora a casa.
«Passo un attimo a casa. Non posso lasciare Wilhelm senza cibo.» avvertì Elena, quando furono
scesi alla stazione di Nankatsu.
«Wilhelm?»
«È il cane dello zio. Non è molto grande, ma ha l’appetito di un alano.»
ridacchiò.
«Eccoci arrivati» disse, mentre Wilhelm si avvicinava al cancello, scodinzolando. Notata la presenza di
Taro, cominciò ad abbaiare in sua direzione.
«Ciao Wilhelm!» lo salutò il ragazzo, in tono allegro, mentre varcava il portone appena
aperto.
Il cane si arrestò con la bocca socchiusa, osservandolo con un’espressione interrogativa.
Elena ridacchiò «Si starà chiedendo come fai a sapere il suo nome.»
disse, andando verso la porta di casa.
Taro si avvicinò a Wilhelm, permettendogli di annusarlo. Si accucciò e, lentamente, cominciò ad
accarezzarlo. Il cane capì che il ragazzo era un amico e prese a girargli intorno e ad annusarlo, scodinzolando.
Quando Elena tornò con il sacchetto delle crocchette, trovò il Deutscher Jagd Terrier disteso
sull’erba a pancia in su, mentre si faceva coccolare beatamente da Misaki. Alzò gli occhi al cielo.
Wilhelm non era un cane aggressivo di per sé, ma era anche vero che Taro era una delle persone
più socievoli che avesse mai conosciuto.
«Che razza di cascamorto.» commentò, con un tono di finta disapprovazione.
Taro alzò la testa e le sorrise, poi diede un colpetto sul
fianco del cane per farlo rialzare.
«Allora, andiamo?» chiese Elena, dopo aver versato il cibo nella ciotola di Wilhelm.
Il centrocampista annuì. «A presto, Wilhelm.» disse dandogli un’ultima carezza.
Elena chiuse il cancello alle sue spalle e si allontanò con Taro. Il cane abbaiò finché non li
vide sparire in fondo alla via.
Misaki abitava in una bella casa a due piani, non lontano dal centro della città.
«Mio padre non è in casa, ma dovrebbe tornare tra poco. Intanto, accomodati pure.» le disse,
facendole strada.
Lasciò le scarpe nel vestibolo e calzò un paio di ciabatte, tra quelle a disposizione degli ospiti.
Elena ammirò i quadri appesi alle pareti del salotto, ritraenti dei paesaggi giapponesi. Non tutti erano del padre
di Taro. C'erano anche delle antiche stampe giapponesi e delle fotografie che ritraevano padre e figlio nei tanti posti da loro visitati.
Dopo pochi minuti, i due ragazzi sentirono la porta aprirsi e videro Ichiro entrare nel vestibolo, cambiarsi le
calzature ed entrare nel salotto, tenendo il suo cavalletto sottobraccio.
«Ciao papà. Ti ricordi di Elena?» disse, indicandogli la ragazza con un gesto della mano.
I
«Elena …» la osservò brevemente inclinando il capo, per poi assentire «Sì certo,
mi ricordo di lei. La ragazzina di Roma che ti ha assunto come allenatore e che rincorreva gli amici che la facevano arrabbiare.»
«Già.» rise la giovane «Buongiorno, Misaki-san. Sono
contenta di rivederla.» disse, inchinandosi.
L’uomo annuì e sorrise, ricambiando il saluto. «Ti fermi a pranzo da noi? Cucina Taro. È
bravo a farlo quasi come a giocare a calcio.»
Elena si voltò verso l'amico, stupita «Sul serio?»
Il giovane sorrise, alzando le spalle «Diciamo che ormai ho una certa esperienza. Scommetto che non hai mai
mangiato il piatto che sto per preparare.»
Le donne tendevano ad avere pregiudizi nei confronti degli uomini in cucina e lei, doveva ammetterlo, non faceva
eccezione. Ma fu felice di riconsiderare la sua opinione assaggiando il pollo in salsa teriyaki, dopo aver già contemplato l'abilità e
sicurezza con cui l'aveva preparato.
Ricordava il giorno in cui aveva imparato a cucinare quella pietanza. Era stata lei a insegnarglielo.
Kinuyo ….
Mangiarono e parlarono degli anni passati a Parigi e di quelli più recenti a Nankatsu, dell’attuale
carriera di Taro allo Jubilo Iwata e di quella ormai bene avviata di Ichiro.
Dopo tanti anni di gavetta, di viaggi in giro per il Giappone prima e per il mondo poi, di tele
ritraenti i paesaggi più disparati, anche i critici più noti si erano finalmente accorti della bravura e
della versatilità di Ichiro Misaki e ormai molte erano le mostre, sia collettive sia personali, in cui erano state esposte le sue opere.
Fino a realizzare il sogno della sua vita: dipingere il Monte Fuji. Un risultato sofferto e inseguito da decenni, che
gli aveva fruttato la conquista di un premio prestigioso.
Elena raccontò dei suoi anni da ginnasta, in cui aveva raccolto molte soddisfazioni, ma che erano
stati interrotti da un grave infortunio al ginocchio che l’aveva costretta a stare ferma per diversi mesi, avvenuto a pochi giorni dal suo esordio in una gara di livello nazionale. Nonostante
il medico l’avesse dichiarata ormai guarita, non aveva più ricominciato stabilmente per insufficienza di tempo e soprattutto per paura di provare ancora lo stesso, lancinante dolore
che aveva sentito quando era caduta durante un esercizio alle parallele, il suo attrezzo preferito.
«Bene. Sarà meglio che vada.» disse dopo aver dato un’occhiata al suo orologio da polso
«Grazie del pranzo e della compagnia.»
«Non c’è di che. Torna pure a trovarci, quando ne hai voglia.» disse Ichiro.
«Lo farò più che volentieri. Arrivederci.» si congedò.
Taro la accompagnò fino al cancello. Prima di salutarla, le mise una mano sulla spalla.
«Elena … avere paura è normale. Anch’io ce l’ho, ogni volta che scendo in campo. Ma non
devi mai permetterle di bloccarti e di condizionare la tua vita, impedendoti di fare ciò che vorresti.»
Elena posò una mano su quella di Taro e gli rivolse uno sguardo
pieno di affetto. Era sempre così gentile ed empatico ....
«Hai ragione. Grazie.»
Taro fece un cenno con la testa, come per incoraggiarla ulteriormente.
Si sentì sollevata. Si era confidata con l’unica persona oltre a suo zio con cui avrebbe potuto farlo, lì a Nankatsu. Sapere che, in qualsiasi momento, avrebbe potuto contare su un amico come
lui, le dava serenità.
Elena infilò la giacca della tuta, lasciandola aperta sopra la maglietta azzurra. Uscì
dallo spogliatoio, in cui aveva fatto la doccia dopo aver terminato la sua lezione con le allieve più piccole e si recò nello spazio riservato
al dojo, da cui le giungevano le urla e i rumori dei movimenti dei ragazzi
impegnati negli allenamenti di kickboxing e di judo.
Il dojo fondato e diretto dal maestro Akinori Shiroyama era da tempo una scuola affermata e molto nota
anche fuori Nankatsu, ma il corso di ginnastica artistica era stato creato da pochi anni per il desiderio di sua figlia
Mayuko, ex ginnasta di buon livello che aveva fatto parte anche della Nazionale.
La scuola riuniva le migliori aspiranti ginnaste di Nankatsu e dei dintorni per evitare la dispersione nei vari club
scolastici, e aveva come modello di riferimento quelle russe, romene e statunitensi. La signorina Shiroyama era un’insegnante preparata e molto esigente, ma dotata della necessaria pazienza e
aveva saputo circondarsi di collaboratori di ottimo livello.
Elena aveva conosciuto tutte le allieve e le erano sembrate ragazze molto educate e appassionate allo sport che
praticavano. Loro erano molto incuriosite dall’avere un’insegnante straniera, dall’aspetto così poco orientale e le avevano fatto un’infinità di domande su di
lei e sul Paese da cui veniva e su come si trovava in Giappone. Dopo alcune esitazioni causate dal doversi ambientare in una realtà nuova, era riuscita a farsi accettare e apprezzare dalle
bambine, attingendo dalle sue precedenti esperienze nella sua vecchia palestra e dai suoi ricordi di piccola ginnasta in erba quando, un po’ impaurita nonostante la curiosità e la
fascinazione che quello sport suscitava in lei, si era presentata alla sua istruttrice, spinta in avanti da sua madre e da Gabriele, l'allora fidanzata di Carlo. Era stata quest’ultima a
farle scoprire la ginnastica artistica, proprio a discapito delle arti marziali cui sarebbe piaciuto avviarla suo zio.
Le bambine erano vivaci ma non indisciplinate: le bastavano pochi richiami per riportarle all’ordine e per le
più ribelli era sempre efficace la minaccia di una dose massiccia di addominali.
Carlo era ancora occupato in un combattimento con un ragazzo di altezza e corporatura simili, in cui riconobbe Genzo
Wakabayashi.
Decise di sedersi e di godersi lo spettacolo. Individuato un sedile
libero, si accomodò e posò il borsone su quello accanto. Poco lontano
da lei due ragazze, allieve della scuola di judo, stavano assistendo come lei allo sparring, anche se captava spesso
commenti entusiastici e audaci, non tutti inerenti alle gesta sportive dei due.
Alzò le spalle e fece una smorfia divertita. In fondo, era comprensibile: entrambi alti, possenti, agili.
L’uno, Wakabayashi, aveva capelli neri folti e scompigliati dall’attività fisica, dello stesso colore degli occhi; e suo zio, beh, a lei non era mai dispiaciuto sentirsi dire che
si somigliavano: capelli corti, di un biondo un po’ più scuro dei suoi e occhi azzurri come laghi di montagna. Un viso dai tratti non arcigni e segnato da qualche ruga, ma che
dimostrava meno dei suoi quarant’anni, al punto che fuori da un dojo o da un ring non sembrava un kickboxer.
Sì, erano obiettivamente un bel vedere.
Il portiere non aveva certo la preparazione di un kickboxer, ma se la cavava bene specie nella parte
pugilistica. Era meno abile nei calci, potenti ma non sempre ben mirati: Carlo lo stava mettendo in difficoltà con
continui colpi nel tentativo di fargli perdere l'equilibrio.
«Wakabayashi!» disse all'improvviso il maestro, fermandosi.
Genzo si arrestò un attimo, in attesa. Riuscì a scansarsi appena in tempo per evitare di essere colpito
dal pugno del suo avversario.
Elena sorrise: era uno dei trucchetti classici di suo zio, per mettere alla prova i riflessi dei suoi allievi.
«Mai fermarsi, Wakabayashi!» lo redarguì quest'ultimo.
Genzo aggrottò le sopracciglia e ricominciò a spostarsi ripetutamente per schivare gli
attacchi alle protezioni dei piedi ed Elena ravvisò che dopo quell'attimo di incertezza, stava dimostrando di essere
un allievo decisamente promettente.
«Bene. Per oggi basta così.» dichiarò il kickboxer, dandogli un buffetto sulla spalla e
sfilandosi i guantoni, imitato dal suo allievo.
«Bel match!» gridò Elena, battendo le mani e attirando l'attenzione dei due.
«Ah, eccoti qui. Wakabayashi, ti presento mia nipote.» disse, indicandola con un gesto della mano, mentre
la ragazza si avvicinava.
«Elena Rulli.» disse, tendendogli una mano. Genzo ricambiò la stretta, presentandosi a sua
volta.
L'aveva vista pochi giorni prima: era la ragazza che aveva salutato Misaki dopo la partitella al campo di calcio
comunale cui aveva assistito seduta accanto a Kumi Sugimoto.
«Tenete.» allungò con l'altro braccio un paio di asciugamani recuperati dalle panchine,
ringraziata dai due.
«Sei molto appassionata nel tifare per Misaki. Però finora non ha segnato nemmeno un gol.» sorrise di sbieco, con un
guizzo beffardo negli occhi.
Elena fu sorpresa per un attimo da quell'esternazione. Ma allora aveva notato la sua presenza! Decise però di rispondere sullo
stesso tono «Lo so, non per niente ti chiamano Super Great Goal Keeper. E poi, se è quasi riuscito a sorprendere te, immagino non avrà grossi problemi a segnare agli altri
portieri.»
«Di questo non dubito.» sorrise, osservandone i lineamenti e gli occhi molto simili a quelli di suo zio, anche se più
delicati.
«Comunque, te la cavi bene con i pugni.» commentò Elena per scacciare il lieve senso d'imbarazzo
che le suscitava quello sguardo prolungato, mentre Genzo si passava l'asciugamano sul viso e intorno al collo.
«Ho già praticato
la boxe.»
«Pensa che, grazie alla boxe, è riuscito a giocare quasi una competizione intera nonostante un
infortunio ai polsi.» aggiunse Carlo.
«Davvero?» chiese Elena stupita, voltandosi verso Wakabayashi.
«Ero un po' sorpreso anch'io, sinceramente. Ma a quanto pare, il suo allenatore in Nazionale la sa
lunga.»
Genzo sorrise, divertito. Era sicuro che fosse stato Kira a suggerire a Mikami quel metodo di
allenamento. Non gliel'avevano mai confermato, ma poteva immaginare che le cose fossero andate così. Del resto, l'ex allenatore del Meiwa era uno specialista nell'inventare metodi di
allenamento quantomeno insoliti, ma evidentemente fruttuosi.
«È accaduto due anni fa, al World Youth. Le mie dita erano integre, ma non erano ancora abbastanza forti
da trattenere il pallone. Così potevo parare soltanto colpendolo con i pugni, stando attento a non farlo finire sui piedi di un avversario. All'inizio ero scettico, temevo di peggiorare le
condizioni delle mie mani, ma ho provato, pur di tornare in campo. E alla fine, grazie ai miei compagni, siamo riusciti a vincere il torneo. Mi sono ritrovato con le mani e le braccia piene di
ferite e ho potuto riprendere l'attività agonistica solo alla fine del campionato scorso, ma ne è valsa la pena.» concluse, mentre Elena lo ascoltava ancora più
stupefatta.
«E pensare che quei due tiri ti avevano quasi distrutto entrambi i polsi.» disse Carlo. Elena non
faticò a capire che era un altro pungolo per cercare almeno di affrontare le sue paure.
Il World Youth ... lo stesso torneo cui aveva partecipato Taro.
Sia Taro, sia Wakabayashi avevano avuto degli infortuni gravi come e forse anche più del suo, eppure il loro
unico pensiero era stato recuperare la condizione fisica migliore e tornare più forti di prima.
A ogni partita, Taro entrava in campo con la paura che potesse essere l'ultima. Bastavano un fallo, un
movimento errato, uno sforzo eccessivo per rischiare di compromettere definitivamente la sua carriera, a soli vent'anni.
Eppure questo non lo aveva fermato, anzi gli aveva dato una carica incredibile, un’ulteriore motivazione a esprimere il massimo del suo potenziale.
E lo stesso era accaduto per Wakabayashi, che era ricorso a uno sport che aveva poco
a che fare con il calcio per superare i limiti postigli dai suoi problemi alle mani e non aveva neppure atteso la guarigione completa per difendere la porta della sua squadra. Aveva contribuito a
portarla alla vittoria del World Youth, a costo di infortunarsi ancora più gravemente e rimanere fuori dai campi di calcio per una stagione quasi intera. E poi era tornato di nuovo a giocare, più forte e motivato di prima.
Si sentì pervadere da una sensazione di vergogna e mortificazione. Il suo comportamento era stato da persona debole e vigliacca, al confronto con i due ragazzi.
Ma evitò di crogiolarsi in quel sentimento. Il senso di colpa andava riscattato, non alimentato ulteriormente
piangendosi addosso per gli errori commessi.
Quelli di Taro e di Wakabayashi erano due esempi … due esempi che erano riusciti a colpirla più di
tante, seppure sacrosante, parole.
Genzo uscì dal centro sportivo e si incamminò verso casa. Il sole era già sceso all'orizzonte e
le luci dei lampioni illuminavano le strade della città.
Si sentiva stanco ma soddisfatto. Fare kickboxing gli piaceva: gli era di grande aiuto anche per scaricare la
tensione e il nervosismo. Pochi giorni dopo il suo ritorno, aveva cominciato a seguire il programma di allenamento concordato con Mikami e Kira; poteva definirsi una versione più evoluta
dell'allenamento di pugilato affrontato due anni prima, dopo essersi infortunato nella partita contro la Cina, durante le qualificazioni per il World Youth. Il kickboxing prevedeva anche i calci e
un'attenzione e un'agilità ancora maggiori, perché i colpi non provenivano solo dalle mani, ma anche dalle gambe e dai piedi. I maestri Akinori Shiroyama, titolare del dojo, e Carlo
Nerlinger erano preparati e carismatici; soprattutto Carlo, un quarantenne che, nonostante i tanti anni di sport alle spalle, molti titoli vinti a livello tedesco e internazionale e un bagaglio di
esperienze ormai sterminato, dimostrava di essere ancora nel pieno delle forze e di non essere stanco di mettersi in gioco, tanto che aveva deciso di farsi allenare dal maestro Shiroyama, uno dei
più famosi e competenti in tutto il Giappone, per prendere parte al suo ennesimo incontro.
Non vedeva l'ora di testare i suoi miglioramenti sul campo di calcio, in una partita vera.
Giunto davanti al cancello della villa, notò la Lexus argentata parcheggiata a lato, un modello diverso
rispetto a quello del loro garage. I suoi genitori erano attesi per la mattinata seguente, ma evidentemente avevano deciso di anticipare il loro arrivo.
Non sapeva se esserne contento o meno: era sicuro che suo padre avrebbe riesumato una questione che, negli ultimi
tempi, aveva creato qualche attrito tra di loro.
Trovò Hitomi ad aprirgli la porta.
«Buonasera signore. I suoi genitori sono arrivati mezz'ora fa.» gli annunciò, prendendo il
cappotto che il giovane si era appena sfilato.
Entrò in salotto, dove Yasuhiro e Mariko erano seduti sui divani, intenti a conversare con Hiroji e Annie
seduti accanto a loro, e a vezzeggiare Kenichi e Aiko, che si trovava in braccio alla nonna.
«Nonni guardate, c'è lo zio Genzo!» esclamò Ken, il primo ad accorgersi della sua presenza,
indicandolo.
«Buonasera a tutti.»
Yasuhiro ricambiò il saluto con un sorriso e un cenno del capo «Sei stato al campo di calcio?»
chiese, notando la tenuta sportiva del figlio e il borsone che reggeva nella mano destra.
«No, in palestra. Seguo un allenamento speciale.» spiegò.
«Allenamento speciale?» ripeté Mariko.
«Sì, kickboxing. Per le qualificazioni alle Olimpiadi del prossimo mese».
«Ah.» commentò il signor Wakabayashi «Ci stai dando dentro.» disse, annuendo con un
sorriso.
Genzo inarcò mentalmente un sopracciglio, come aveva imparato a fare quando voleva celare i suoi reali
pensieri a suo padre.
Si limitò a dire che sarebbe andato a farsi una
doccia, avviandosi verso la scala.
Il tono di voce di Yasuhiro era inaspettatamente conciliante, troppo
per credere che fosse del tutto sincero. Lo aveva esortato troppe volte a non pensare soltanto al calcio e negli ultimi mesi avevano avuto discussioni aspre
sull'argomento; e sapeva bene che quel piccolo compromesso che stavano per raggiungere, sarebbe stato considerato soltanto un palliativo.
«Aspetta.» la voce di suo padre lo fermò al terzo gradino «Questo è per te.»
estrasse un biglietto dalla giacca e glielo tese.
«Attendo una risposta entro questa sera.»
*** Note ***
Gotenba: città situata nel nord-est della prefettura di Shizuoka, alle
pendici orientali del Monte Fuji. Vi si trova il Fuji Toranomon Orthopaedic Hospital: credo sia questa la struttura cui Yoichi Takahashi
si è ispirato per il centro di medicina sportiva Fuji, la vista sul Fuji-san è molto simile.
J League 2: secondo livello del campionato giapponese, l'equivalente della
Serie B italiana.
Gabriele in tedesco è un nome femminile.
Il termine teriyaki (composto dalle parole teri, che significa lucido o splendente, in riferimento al colore conferito dalla salsa, e yaki, che significa cotto su metallo,
come una griglia, una piastra o una padella) si riferisce alla salsa che ha questo nome (i cui ingredienti base sono il sake o il mirin - sorta di sake da cucina di colore dorato -, salsa di soia scura e zucchero), ai piatti cucinati con il suo impiego e alla
tecnica con cui vengono preparati. La salsa e i piatti correlati sono caratteristici della cucina giapponese tradizionale. Tra gli svariati alimenti cucinati con la salsa teriyaki vi sono pollo, manzo, pesce, frutti di mare, tofu. Secondo la tradizione giapponese, una pietanza teriyaki va consumata
con il riso al vapore e verdure come guarnitura.
Nell'immagine: pollo con salsa teriyaki.
Fonte: Wikipedia
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Capitolo 4 *** Capitolo IV - I due mondi di Genzo ***
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Capitolo IV
I due mondi di Genzo
Nel biglietto che Yasuhiro aveva dato a Genzo la sera
prima, era stampato un invito a una cena di beneficenza che si sarebbe svolta nella Grand
Ballroom dell’hotel Ritz Carlton, uno dei
più rinomati e lussuosi di Tokyo. Un evento organizzato dalla fondazione creata da Toshio Hosokoawa, presidente di una banca finanziatrice di molte aziende giapponesi tra cui quelle della
famiglia Wakabayashi.
Superando le sue perplessità, Genzo aveva deciso di accettare e a cena aveva dato la sua risposta positiva,
senza aspettare la domanda del genitore.
Da molto tempo non prendeva parte a feste dell’alta
società, non legate a promozioni di manifestazioni sportive o cui non fosse comunque invitato con la squadra di club o con la Nazionale. Dai tempi della sua infanzia: si era trasferito in
Germania appena undicenne e da allora era tornato in Giappone solo per occasioni come i matrimoni di Hiroji e Annie e di
Tsubasa e Sanae, per il World Youth e per una recente amichevole contro la Nigeria.
Ora che si ritrovava nel mezzo del salone, vestito con uno smoking nero, gli sembrava di vedere il sorriso lievemente
canzonatorio di Keisuke dirgli: "Adesso tocca a te, fratellino!".
Quella scenetta, soltanto immaginata, ma decisamente realistica visto il carattere scherzoso del secondogenito e la
loro comunicazione fatta abitualmente di dispetti da bambini e di punzecchiature una volta cresciuti, gli strappò un breve sorriso.
Cercò Hiroji con lo sguardo: si trovava dall'altro lato del
salone, intento a conversare con alcuni banchieri, imprenditori ed esponenti del mondo politico e sembrava decisamente a suo agio. Era l’erede
designato, ciò cui era destinato fin dalla nascita, ed era anche ciò che aveva voluto per sé stesso. Uno dei pochi esempi di ragazzo i cui sogni e obiettivi avevano coinciso
con quelli dei suoi genitori.
Questi ultimi si trovavano poco distante: anche loro erano impegnati in una conversazione con altri membri dell'alta
società nipponica. Avevano una splendida figura, nonostante l'età non più giovane. Yasuhiro era alto, imponente, eretto, i capelli ancora neri e i sottili baffi scuri. Mariko
era di piccola statura e di corporatura minuta, con i capelli castani raccolti in uno chignon e un elegantissimo abito color pesca.
Venne raggiunto da Annie, con un'espressione sofferente e quasi buffa.
«Odio questi tacchi alti.» si lamentò
In quel momento poco le importava se il lungo abito in taffetà color grigio perla la rendeva una delle donne
più attraenti della serata, e a dirglielo era stato proprio Hiroji quando erano entrati nel salone, prima di venire avvicinato dagli altri esponenti dell'élite nipponica.
«Dai, consolati. Sei molto ammirata questa sera. E non dirmi che non hai fatto neanche un sorriso quando ti sei
guardata allo specchio.»
La donna alzò le spalle e fece una smorfia. In fondo, Genzo aveva ragione. «Bah. Mi basterebbe avere
Hiroji per un po'. Da quando è alla guida dell'azienda, ci incrociamo pochi minuti il mattino presto e la sera tardi, e ora che potremmo stare un po’ insieme, lui dedica tutto il suo
tempo a quella pletora di pinguini.»
«Il mondo degli affari è anche questo.»
Annie fece un cenno d’assenso, rassegnata. Poi gli puntò uno sguardo ironico «Anche a te non
dispiacerebbe essere altrove, scommetto.»
Genzo annuì «Effettivamente … stasera c'erano alcune partite interessanti in tv.»
La donna alzò gli occhi al cielo «Se Hiroji pensa sempre agli affari, tu hai sempre in mente il
calcio.»
«A ciascuno il suo.» sogghignò «Scommetto che se ci fosse qualche artista o comunque
qualcuno che ha a che fare con il mondo della cultura, non saresti molto diversa da noi.» disse strizzando un occhio, come faceva solo verso persone con cui era in stretta confidenza.
Annie emise un leggero sospiro. «Magari, almeno conoscerei
qualcuno di interessante! Vostra madre avrebbe potuto farne invitare qualcuno.»
Il giovane cognato le sorrise, comprensivo. Quando l’aveva
conosciuta, otto anni prima, era rimasto subito impressionato favorevolmente da lei. Era una ragazza positiva: la
caratteristica più evidente era la curiosità per ogni argomento, soprattutto di genere letterario e artistico. Era stato il primo cui Hiroji l’aveva presentata, durante un breve
viaggio ad Amburgo.
Prima di trasferirsi a Londra, aveva iniziato una frequentazione con la figlia minore di un famoso avvocato di Tokyo
e nel suo ambiente si davano per scontate le future nozze, nonostante il loro non fosse ancora un legame ufficiale. L’allora studente universitario aveva conosciuto, tramite amici comuni,
quella ragazza inglese che frequentava il suo stesso ateneo e, dopo pochi mesi, avevano capito di essersi innamorati.
Hiroji si era trovato in una situazione imbarazzante: per la prima volta si era trovato a detestare certe convenzioni
della mentalità giapponese. Era considerato ormai impegnato con una ragazza che pur avendo molti meriti, non gli suscitava le emozioni provate con e per Annie. Aveva scoperto la differenza
tra essere attratti da una ragazza ed esserne innamorati, ma temeva che i suoi genitori non avrebbero capito.
Annie aveva chiesto a lui e a Kaltz di portarla a visitare quanti più luoghi possibile tra quelli di cui aveva
letto nella guida e aveva fatto loro molte domande. Il fatto che ci fosse una comunità inglese molto numerosa l'aveva resa ancora più entusiasta. Alla fine del viaggio, quasi ne
sapeva più lei su Amburgo che Genzo e Hermann stessi.
I due fidanzati erano tornati a Londra sapendo che avrebbero avuto un forte alleato su cui contare nel caso i signori
Wakabayashi si fossero opposti alla loro unione.
Timori che poi, fortunatamente, si erano rivelati fondati solo in parte. All’inizio c’era
stata riluttanza dovuta più che altro al timore di mancare di rispetto alla famiglia dell'avvocato, ma alla fine il
dissidio fu superato e Annie era stata pienamente accettata dai signori Wakabayashi e poi dall’alta società giapponese, nonostante le origini occidentali e l’assenza, nel suo
albero genealogico, di qualsiasi traccia di familiari o parenti nati nel Paese del Sol Levante. Per un ricco giapponese, avere una moglie straniera era considerato uno status symbol, e soprattutto anche Annie proveniva da un’ottima famiglia:
era, infatti, figlia di uno dei più apprezzati consulenti finanziari del Regno Unito e di un’insegnante della prestigiosa Latymer grammar school di Londra. La loro casa si trovava a Hampstead, una delle zone più eleganti e ricche della
capitale britannica. Annie aveva frequentato le migliori scuole e si era laureata al King’s College, sempre con il massimo dei voti: la sua reputazione non aveva nulla da invidiare a quella di una ragazza giapponese di ottima famiglia e con lo stesso livello d’istruzione.
Alla serata erano presenti molti ragazzi più o meno coetanei di Genzo, tutti rampolli delle personalità
più in vista dell’alta società giapponese. Erano laureati o comunque iscritti alle università più rinomate; alcuni di loro erano interessati alla sua inusuale
carriera calcistica e gli avevano posto molte domande cui aveva risposto con educazione, cercando di celare l’insofferenza quando diventavano troppo numerose o importune; altri, più
tradizionalisti, sembravano mostrare una curiosità più blanda, di circostanza. Di certo tutti lo consideravano un ragazzo particolare perché il calcio, nonostante gli indubbi
progressi registrati negli ultimi anni, non era ancora uno degli sport più popolari, ma Genzo aveva conseguito risultati straordinari: vincitore di due titoli mondiali con la Nazionale
giovanile e fino a pochi mesi prima titolare in una squadra del massimo campionato tedesco, in ogni caso considerato uno dei portieri più forti del mondo, che nonostante la giovane
età era ormai più di una promessa.
Yasuhiro, dieci anni prima, aveva appoggiato con convinzione la sua scelta di trasferirsi in Germania per allenarsi
in strutture di livello molto più avanzato rispetto a quelle giapponesi, dove il calcio era uno degli sport più amati e seguiti. Su un punto era stato categorico: il calcio non doveva
precedere i suoi doveri scolastici, e Genzo era stato irreprensibile. Aveva conciliato brillantemente lo studio e gli impegni sportivi e l’estate precedente si era diplomato al Gymnasium Heidberg con il massimo dei voti, seppure con un anno di ritardo a causa della sua partecipazione al World Youth.
Alla richiesta del padre di proseguire gli studi, il giovane aveva però preferito prendere tempo e gli aveva annunciato che per quell'anno si sarebbe concentrato unicamente sul calcio. Era da poco
rientrato nell'Amburgo e la stagione seguente sarebbe stata fondamentale per la sua carriera. Voleva essere il miglior portiere della Bundesliga e portare la sua squadra alla vittoria, rompendo la
supremazia del Bayern Monaco. Nell'estate successiva, ci sarebbero state le Olimpiadi e lui contava di giocarle da protagonista. Sentiva di essere entrato in un periodo cruciale della sua carriera
e non era sicuro di riuscire a dedicare agli studi il tempo necessario. Aveva scelto quindi di dare priorità alla carriera sportiva, per iniziare a dare il suo contributo permanente in
azienda di lì a qualche anno.
Quella decisione non era piaciuta a Yasuhiro. La Wakabayashi Electrics stava per cominciare una nuova fase della sua
storia ed era sicuro che, in futuro, ci sarebbe stato bisogno anche di Genzo. Hiroji aveva assunto la guida dell’azienda e di lì a non molto avrebbe potuto contare anche
sull’apporto di Keisuke, che entro pochi mesi si sarebbe laureato in Ingegneria Chimica e aveva già espresso il desiderio di ritornare in Giappone ed entrare a far parte del
dipartimento Ricerca e Sviluppo.
Dopo alcuni mesi di discussioni piuttosto accese, i due erano giunti a un accordo: Yasuhiro non gli avrebbe fatto
pesare la decisione di dare la precedenza al calcio, a patto che Genzo svolgesse in contemporanea alcuni incarichi che gli avrebbero permesso di prendere confidenza, in prima persona, con la
gestione delle attività familiari.
Mariko, che si occupava di promuovere iniziative educative e culturali nella Japan Foundation, aveva saputo suggerire
al marito la soluzione giusta: aveva proposto così al figlio di diventare un membro del consiglio direttivo dell’Istituto Shutetsu. Lui aveva accettato con piacere: era il punto di
partenza ideale ed era un ambiente che conosceva bene.
«Ehi, sembra che il colloquio sia finito.» disse Genzo, facendo un cenno con il mento verso gli uomini
con cui Hiroji stava parlando poco prima «Ti consiglio di approfittarne, prima che si faccia sotto qualcun altro.»
Annie vide il marito momentaneamente solo accanto a uno dei tavoli e non indugiò oltre.
«Recepito, vado!» disse, avviandosi a passo svelto.
Nuovamente solo, riprese a vagare per il salone. Non molto lontano da dove si trovava, c’era un
gruppetto di ragazze: erano tutte molto avvenenti ed eleganti e ogni tanto gli lanciavano delle occhiate, facendogli capire
che era lui l’argomento della loro conversazione. Alcune di loro erano senza accompagnatore e probabilmente speravano di essergli presentate.
Una di loro si staccò dal gruppo e si incamminò in sua direzione. Era un volto non inedito per lui e
man mano che si avvicinava, trovò tra i suoi ricordi il nome corrispondente.
Indossava un lungo abito di seta azzurra senza spalline, che valorizzava la figura snella e slanciata. I capelli
lisci e neri come la pece lunghi fino alle spalle, creavano un affascinante contrasto con la pelle nivea. Aveva un incedere sinuoso, elegante. Un viso piccolo e magro, dai tratti delicati, truccato
in modo sapiente ma non vistoso. Più indietro, vide i volti delle altre ragazze, da sorridenti e rilassati, farsi contratti e torvi.
«Ciao Genzo.»
«Asami.»
«Ormai ti sei stabilito in Germania e così non abbiamo mai occasione di vederci.» disse,
inclinando leggermente la testa e fissandolo con i suoi occhi nerissimi.
Genzo esitò un attimo. Un lieve sorriso curvò le sue labbra «È vero, ma due anni fa mi
sono fermato in Giappone per un po’… all’epoca eri tu a essere impegnata.»
Asami assunse un’espressione interdetta, poi sbuffò una risatina «Touché.» ammise «Ma da ora potremo vederci spesso, se ti va.» disse, allargando il suo sorriso nel vedere il portiere assentire.
I Wakabayashi e gli Ujimori guardavano con occhi deliziati i figli che chiacchieravano al centro del salone.
Asami Ujimori era la figlia di Tsutomu, proprietario della Ujimori Heavy Industries, compagnia leader
nell’industria metallurgica. Era stato compagno di università di Yasuhiro e i due erano, da allora, grandi amici, avevano collaborato spesso e le due
famiglie erano solite trascorrere insieme parte dei periodi di vacanza.
«A quanto pare, si sono già ritrovati.» sorrise Tsutomu.
«Già. Del resto, da che mi ricordo, Asami ha sempre avuto un debole per Genzo.» commentò
sua moglie Maeko, mentre ricambiava il cenno di saluto rivoltole dal ragazzo.
«Sei una delle attrazioni della serata.» commentò Asami.
«Devo sentirmene lusingato?» una vena di sarcasmo era percepibile nella voce di Genzo.
La ragazza sorrise. «Beh, è naturale che susciti curiosità. Sei uno degli eredi di una delle
famiglie più importanti del Giappone e un calciatore affermato. Non è una condizione molto comune, per un ragazzo giapponese della tua età.»
Le braccia distese e le mani intrecciate all’altezza del grembo, a sfiorare la stoffa azzurra
dell’abito.
Era bellissima, più di come la ricordava. Aveva un portamento elegante, sicuro di sé e consapevole
della sua avvenenza e dell’ammirazione che suscitava in chi la guardava. Un sorriso gentile e seducente, una voce pacata e chiara, piacevole da ascoltare. Erano caratteristiche che
l’avevano sempre distinta da che la conosceva, ma ora che era una giovane donna erano ancora più evidenti.
Parlarono dell’ultimo periodo di Genzo in Germania e Asami gli raccontò aneddoti sui suoi studi
universitari e sugli eventi cui aveva partecipato, sulla passione che coltivava tuttora per il tennis, sport che praticava con piacere e soddisfazione. Si interruppero solo quando vennero
richiamati dai rispettivi genitori: la cena stava per avere inizio.
Accomodatisi al tavolo riservato per le due famiglie, il portiere partecipò poi alla conversazione tra
Yasuhiro, Tsutomu e Hiroji, mentre Asami si unì a Mariko, Maeko e Annie.
Quello che Asami aveva detto a Genzo era sicuramente la spiegazione dell’interesse che suscitava, ma era anche
ciò che lei stessa pensava di lui; la affascinava perché era diverso dallo standard dei ragazzi del loro ceto sociale e non solo perché era un calciatore talentuoso e aveva
nella Germania una seconda patria.
Era schivo e riservato, apparentemente freddo e poco socievole, ma si dimostrava una persona estremamente
interessante con chi aveva la fortuna di conoscerlo in modo non superficiale. Aveva una mentalità diversa da quella di tanti suoi coetanei cresciuti in Giappone, altre cose da raccontare, a
differenza di altri ragazzi con cui le sembrava di ascoltare sempre lo stesso disco: università, attività di club, il posto nell’azienda, nella banca o nello studio legale del
padre o di un altro membro della famiglia.
Asami aveva avuto una relazione importante con il figlio di uno degli avvocati più noti del Paese, a sua volta
legale, ma quando aveva saputo che Wakabayashi sarebbe tornato in Giappone per prendere parte al torneo di qualificazione delle Olimpiadi e che avrebbe partecipato ad alcuni eventi mondani
organizzati dalle varie fondazioni, si era detta che non poteva rinunciare a quell’occasione che, nonostante i suoi vent’anni, poteva essere l’ultima.
Lo osservò mentre rispondeva a una battuta del signor Ujimori. Aveva un indiscutibile ascendente. Alto, forte,
imponente. Lo sguardo scuro, profondo, sicuro di sé.
Si rese conto che nella sua testa c’era sempre stato Genzo, da che l’aveva conosciuto, ma non aveva mai
avuto l’opportunità di frequentarlo più assiduamente. Sorrise. Il destino era stato magnanimo e l’aveva rimesso sulla sua strada.
Non ebbero più molte occasioni di rivolgersi la parola nel rimanente corso della serata, ma era implicito che
altri incontri sarebbero seguiti, a breve distanza. E si congedarono con questa certezza.
Elena indossò un paio di pantaloni neri con una riga bianca e una maglietta azzurra e raccolse i capelli per
poi legarli in una coda di cavallo.
Sistemò il suo borsone nello spogliatoio riservato alle insegnanti e si diede un'ultima occhiata allo
specchio.
Si avviò quindi verso la sua area di competenza, dove la stavano aspettando le sue piccole allieve.
Notò la presenza di un’adolescente esile, di bassa statura, con i lunghi capelli neri
raccolti in una coda e lo sguardo, altrettanto scuro, accigliato, con la schiena appoggiata alla trave, a poca distanza dalle bambine che ingannavano il tempo chiacchierando. Giunta a pochi passi da loro, udì una di loro
indicare la zona opposta della stanza e dire ingenuamente alla ragazza che le sue compagne si trovavano da quella parte.
«Lo so bene, non ho chiesto io di venire qua.» bofonchiò irritata.
«Io te l’ho solo detto.» rispose la bambina, sorpresa e intristita dalla reazione stizzita
dell’allieva più grande.
«E tu che ci fai qui?» chiese Elena.
«Chiedilo alla Shiroyama.» ribatté, in tono insolente.
«Ora smettila Arimi, altrimenti il prossimo passo sarà spedirti fuori dalla palestra.» intervenne
Mayuko, che nel frattempo le aveva raggiunte. Si rivolse a Elena.
«Lei è Arimi Shimokawa, una delle mie allieve. Fino a prima di infortunarsi era una delle migliori, ma
da quando è rientrata, sembra che abbia scordato quale deve essere il primo, vero obiettivo di una ginnasta. Così ho deciso di mandarla qui. Conto su di te per rispolverarle un
po’ la memoria.»
«Io non capisco perché non vuole farmi partecipare alla prossima gara.» protestò la
ragazzina.
«Sei appena rientrata Arimi, devi recuperare la piena forma e io non voglio forzarti. Comunque, tra tre
settimane, se ti impegnerai, avrai la tua occasione.» replicò Mayuko.
Arimi scosse la testa. «Sciocchezze. Io sono guarita, e sono pronta.»
La sua ostinazione fece adirare la donna. Si passò una mano tra
i corti capelli neri e le rispose con tutta la freddezza imparata in tanti anni di agonismo e di studio.
«Se la tua insegnante dice "sciocchezze", lo fa anche per il tuo bene. Oltre alla forma fisica, hai davvero
bisogno di recuperare anche qualcos’altro.» la fissò, severa. Arimi fu costretta ad abbassare lo sguardo, per evitare che la situazione peggiorasse ulteriormente.
«Questa è la mia nuova assistente, Elena Rulli» riprese «e da oggi sarà lei a
occuparsi del tuo reinserimento.»
La ragazzina si staccò lentamente dalla trave e
abbozzò un sorriso, ma sembrava piuttosto una smorfia fatta con un certo sforzo, così come il suo inchino sembrava dettato più dal rispetto
delle norme di cortesia che dalla spontaneità.
«Non darci peso.» le disse Mayuko «Ci si abituerà. Tu non farti problemi e rimettila al suo
posto se dovesse cominciare a fare di testa sua.»
Si recò poi dalle altre
allieve, alcune delle quali avevano assistito alla scena scambiandosi occhiate divertite ed emettendo qualche risolino. Arimi le fulminò con un’occhiataccia.
Elena invitò tutte le sue allieve a disporsi in fila e l'adolescente, pur controvoglia, obbedì.
Erano circa le sei e mezzo della sera quando Kumi, irruente ed entusiasta come al solito, entrò
nell'atrio in cui era situata la segreteria, salutando Elena e la signora Fumiyo Ukita, una delle segretarie, che
ricambiarono con un sorriso divertito. Proprio in quel momento, alcune delle allieve, tra cui Arimi, stavano attraversando la stanza.
«Ciao Arimi!» la salutò subito Kumi.
«Kumi!» rispose entusiasta, raggiungendola a grandi
passi «Come stai?» chiese, facendo un largo sorriso e posandole una mano su un braccio.
La ragazza annuì «Bene. Guarda cosa ti ho portato. In anteprima solo per te.» estrasse dalla borsa
che aveva con sé una serie di fogli da disegno uniti con una graffetta verde, su cui era raffigurato un fumetto.
Arimi prese i fogli e si illuminò nel guardarli.
«Wow, il nuovo episodio di "Uedake no kyōdai"! Lo
divorerò questa sera, prima di andare a letto.» commentò felice.
Elena assistette con sorpresa al repentino cambiamento d’umore della ragazzina, e il suo stupore
aumentò mentre sbirciava - in modo un po' indiscreto, se ne rendeva conto - la vivace conversazione tra lei e Kumi. La sua nuova amica sembrava non solo conoscere bene Arimi, ma anche avere un buon rapporto con lei. Forse da lei avrebbe potuto sapere qualcosa sulla sua scontrosa allieva. Era evidente che non si comportava sempre così.
«Kumi, hai un momento dopo? Vorrei chiederti una cosa.» disse, interrompendo suo malgrado le due
ragazze.
«Sì, certo!» fu la risposta, mentre Arimi, dopo aver rivolto uno sguardo scocciato alla bionda
insegnante, mormorò alcune parole di scusa e di saluto, attenuando solo in parte la sua espressione accigliata e lasciò la palestra.
Dopo un attimo di stupore, Kumi si volse verso Elena e allargò
le braccia, dispiaciuta. Poi si avvicinò al bancone cui era appoggiata l'italiana.
«Cos’era, un nuovo manga?» chiese Elena.
«Sì, l'ho disegnato io. È la storia di una famiglia giapponese, ambientata all'inizio del Novecento.»
«Sembra interessante!»
Kumi annuì «Ci lavoro da un po'. Ho cominciato alle elementari, e ora disegno ogni volta che ho un
momento libero. Oh scusa, come al solito ingrano con le chiacchiere e divento terribilmente noiosa.»
Così aveva conosciuto un’aspirante mangaka. Ecco il motivo per cui al campo di calcio l'aveva vista con
un blocchetto da disegno e una matita rosa contrassegnata dall’inconfondibile musetto di Hello Kitty.
Elena sorrise e scosse la testa «Non ti preoccupare, mi piace il tuo entusiasmo.» ristette un momento,
pensosa. Poi riprese «È contagioso: ha trasformato il broncio di Shimokawa in un sorriso.»
Kumi colse la sottintesa richiesta di qualche particolare riguardo la giovane ginnasta.
«Arimi è la sorella della mia migliore amica, la conosco da quando aveva tre anni. Siamo sempre andate
molto d’accordo, tanto che spesso parla più volentieri con me che con Madoka.» disse, stringendosi nelle spalle «Sarà che abbiamo un carattere simile.»
Elena non riuscì a trattenere una smorfia di stupore «Non si direbbe. La Shiroyama l'ha
mandata nel mio gruppo per via del suo comportamento, e ha tenuto il broncio per tutta la lezione. L'ho osservata mentre si avviava e usciva dagli spogliatoi, e non ha scambiato nemmeno
una parola con le sue compagne.»
Kumi strinse le labbra «Davvero? Con me non si è mai comportata così. Certo, so che
con i suoi genitori i rapporti non sono idilliaci, perché sono molto severi e hanno cercato di non farle riprendere la ginnastica artistica, che ritengono uno sport "inutile e pericoloso",
specie dopo che si è infortunata. Madoka ha provato a fare da paciere, ma è difficile per lei difendere le ragioni di sua sorella senza attirarsi i rimproveri dei suoi
genitori.» sospirò «Penso che dovresti parlare con lei, di questo, visto che sei la sua insegnante. Io e Madoka non riusciamo a farci dire
granché.»
Elena annuì. Sarebbe stato difficile convincerla a parlare, visto il suo atteggiamento di chiusura
pressoché totale. Tuttavia, era una situazione da affrontare il prima possibile: Arimi aveva già perso le gare della domenica successiva e i campionati nazionali juniores erano
previsti per la fine del mese di maggio.
«Sì, e mi sarebbe utile anche parlare con sua sorella.»
«Potresti conoscerla domani sera, se ti va di venire alla festa che Ishizaki dà a casa sua.»
Elena spalancò gli occhi, poi alzò le spalle. Ishizaki era uno degli amici di Taro, il giullare della
compagnia stando a quanto le aveva raccontato. «Dovrebbe essere lui a invitarmi … ma non ci conosciamo.»
Kumi fece spallucce e le strizzò un occhio «Non ti preoccupare, a lui non dispiacerà di certo
averti tra i suoi ospiti.»
Organizzata per festeggiare la fine del liceo dei kohai che davano vita, con
loro, alle partitelle al campo comunale, la festa che Ryo Ishizaki dava a casa sua era anche un modo per salutare e fare in bocca al lupo ai ragazzi che di lì a un paio di settimane
avrebbero iniziato, con i loro compagni della Nazionale Under 23, il loro percorso verso il grande sogno olimpico, e a quelli che avrebbero partecipato alla nuova edizione del World Youth e la cui
partenza per il ritiro era imminente.
Trovare la casa del difensore dello Jubilo Iwata non era stato difficile. Il bagno pubblico della famiglia Ishizaki
era l'unico della città ed Elena ci passava davanti ogni giorno per andare verso la palestra, e la loro abitazione si trovava proprio lì accanto.
Le stelle punteggiavano lo scuro cielo serale.
A pochi metri dal cancello di casa Ishizaki, Elena vide una figura conosciuta camminare pochi passi davanti a
lei.
«Taro!» chiamò, a voce sufficientemente alta perché potesse sentirla.
Il ragazzo si fermò, si voltò e la salutò con un sorriso.
«Stai andando anche tu alla festa di
Ishizaki?» gli chiese, dopo che lo ebbe raggiunto.
Il ragazzo fece un cenno d'assenso «Ti ha invitata Sugimoto?»
«Sì, è passata alla palestra. È stato gentile da parte sua, considerato che per ora
conosco solo lei, Wakabayashi e te.»
«Non ti preoccupare. I nostri amici sono persone estremamente simpatiche e socievoli. Ti faranno sentire subito
una di loro.» le assicurò, mentre suonava il citofono appeso al cancello.
La porta si aprì immediatamente e Ryo comparve con in mano un hamburger strafarcito.
«Ehilà Misaki!» sorrise quando notò la ragazza bionda accanto a lui «Bene, vedo che
hai portato la tua amica carina!»
«Scommetto che l'hai comprato al Seijo Ishii.» disse Taro quando
arrivò alla porta, scoccando un'occhiata perplessa al grosso panino con un voluminoso ripieno di cui faticava a distinguere i singoli ingredienti.
«Non è malaccio. Se vuoi ce ne sono altri sul tavolo, ma sbrigati perché sono in limited edition.»
Misaki alzò gli occhi al cielo ed entrò in casa, seguito da Elena che, divertita dallo scambio di
battute, salutò il padrone di casa con un inchino e gli si presentò. Quest'ultimo le sorrise entusiasta invitandola a chiacchierare e a mangiare quanto più le piaceva.
Elena scambiò un'occhiata con Taro. Un tipo un po' bizzarro il suo amico, ma gentile e ospitale.
Il salotto della casa era spazioso e arredato come si confaceva a una festicciola tra amici. C'era un grande tavolo
imbandito di ogni tipo di ghiottoneria tra panini, tartine e dolci, musica alta ma non invadente, e un televisore acceso dalla parte opposta.
Era presente la classe di Kumi e i membri del club di calcio e i nazionali al completo. Pochi metri più in
là c'era Wakabayashi, che salutò con un cenno del capo e un sorriso. Taro la presentò agli altri convitati, finché non incontrarono Kumi, fino a quel momento intenta a
parlare con alcune amiche. La ragazza comprese immediatamente che erano arrivati insieme poiché fino a pochi minuti prima nessuno dei due era presente, ma facendo di tutto per ignorare le
fitte di gelosia, riuscì a nascondere la sensazione di fastidio che l'aveva invasa e trascinò Elena verso le sue amiche e compagne di scuola. L'italiana conobbe in particolare Yukari,
la ex manager della Nankatsu e fidanzata di Ishizaki, che la accolse subito con simpatia e la ragazza che, dal giorno prima, era curiosa di incontrare.
«Io sono Madoka Shimokawa, sono nella stessa classe di Kumi.» si presentò. Era una ragazza piccola
di statura e di corporatura esile, con capelli neri a caschetto e occhi dello stesso colore.
«Fin dalle elementari.» precisò la ex manager.
«Tu devi essere la nuova assistente della Shiroyama.» riprese la ragazza dai capelli scuri.
L’impressione che dava di sé, era quella di una ragazza molto posata e matura. E Arimi era, quindi, la piccola
ribelle. Un cliché.
«Sì.» decise di affrontare l’argomento senza troppi preamboli «Ieri ho conosciuto tua
sorella Arimi.»
Madoka strinse le labbra «Ti ha già dato qualche grattacapo, vero?».
Elena diede un’alzata di spalle. «Diciamo che ha un bel caratterino. È arrabbiata perché la
signorina Shiroyama non le ha permesso di partecipare alle gare della prossima settimana, ma viene da un lungo infortunio e deve recuperare la piena forma fisica. La sua insegnante dice che ha un
grande futuro davanti a sé e vuole averla al massimo per i campionati juniores del prossimo maggio.»
Madoka assentì «Ha ragione. Arimi ha un talento non comune, lo vedrai non appena potrà allenarsi
con il suo gruppo.»
«Da tempo non abbiamo più un buon rapporto» continuò «e capitano giorni in cui ci
salutiamo a malapena. È anche colpa mia e dei nostri genitori, lo ammetto, ma ora che vorrei parlarle, si sottrae.»
Elena le assicurò che avrebbe parlato con Arimi e avrebbe cercato, con la dovuta discrezione, di indurla a
spiegarle perché il suo atteggiamento era così scostante.
«Spero che tu ci riesca. A questo punto sei l'unica che può farcela.»
«Arimi non è l’unica con cui devi chiarire qualcosa.» intervenne Kumi, rivolta a Madoka
«C’è anche un certo Shun Nitta con cui dovresti parlare. Guardalo lì. Dai, adesso è solo, approfittane no?» la incalzò, facendole una lieve pressione
su un braccio e indicandole il ragazzo che stava scrutando con sguardo ingolosito i manicaretti preparati da Yukari e dalla madre di Ryo.
«Adesso non mi sembra il caso.» rispose l’altra, mostrando di non avere la minima intenzione di
spostarsi.
Kumi sbuffò «E quando ti ricapiterà un’altra occasione, stasera?» stava per spingerla
verso l’attaccante del Reysol Kashiwa quando quest’ultimo, con una tartina in bocca e un’altra in mano, corse verso gli altri ragazzi, che avevano appena sintonizzato il
televisore su una partita di Premier League inglese.
«Ecco, lo sapevo!» sospirò Kumi puntandosi i pugni sui fianchi «Per stasera te lo
scordi.»
Madoka fece spallucce «Tanto non mi sarei messa a parlargli qui, sotto gli occhi di tutti.»
«Siete due fifoni.» replicò l’altra, incurante dell’occhiata maldisposta
dell’amica «Potreste parlarvi, ma non lo fate. Lui da una parte, tu da quest’altra. Vi sentite al sicuro. In fondo, perché rischiare, perché andare a scuotere una
situazione ancora in sospeso, non è così che la pensate?»
Madoka scosse la testa «Tra poco comincerà il torneo asiatico, credi che Nitta possa trovare anche solo
un attimo per me?»
«O sei tu che, tutta presa come sei dai tuoi studi, potresti non avere tempo per lui?» ribatté
Kumi. Madoka fece per rispondere qualcosa, ma non riuscì a trovare un valido argomento da opporle. Kumi aveva ragione e lei sentiva di avere una cospicua parte di colpa.
«E pensare che aveva tanto insistito perché venissi anche tu.»
Madoka inclinò la testa e inarcò un sopracciglio «Ma davvero? E allora perché mi ha
soltanto salutata?»
«Madoka, se lui non prende l'iniziativa, devi farlo tu. Comunque, se volete ve la sbrigate da soli. Non faccio
più da mediatrice.» concluse Kumi, esasperata da quel botta e risposta. Si voltò e raggiunse Yukari ed Elena, che nel frattempo erano state coinvolte in un’intensa
chiacchierata dalla signora Ishizaki.
Madoka non la seguì, preferendo unirsi al gruppo formato da altre ragazze presenti. Tuttavia, partecipò a
malapena alla conversazione, guardando spesso i ragazzi assiepati davanti alla tv, soprattutto Nitta, uno dei più coinvolti nel commento della gara trasmessa.
Si erano salutati, ma poi non avevano cercato né colto nessuna occasione per parlare da soli. Se lui non l'aveva
avvicinata, lei aveva rifiutato di prendere ogni iniziativa. Non era nemmeno riuscita a ricordare a Kumi che anche lei avrebbe dovuto tentare di avvicinarsi a Misaki, anziché limitarsi a
lanciargli qualche occhiata ammirata di tanto in tanto. Doveva essere stata scoraggiata dall'aver visto il centrocampista accompagnato da Elena. Ma da quel poco che aveva visto, il loro
comportamento le sembrava quello di due buoni amici e nulla più.
Pensò poi alla sua storia con Shun, a come era iniziata due anni prima, durante il periodo di preparazione al World
Youth: lei una ragazza che univa un ottimo rendimento scolastico a una brillante militanza nel club di pallavolo, lui un giovane centravanti che ogni giorno passava ore a fare tiri soltanto con la
gamba sinistra.
La sua mente riandò a quel pomeriggio di primavera di due anni prima.
«Ah, non ce la faccio più! Con questo caldo, fare le pulizie è ancora più seccante.»
sospirò Madoka, mentre passava la spugna insaponata sul ripiano di uno dei banchi della prima fila.
«Attenta Madoka, se qualche nostro professore passa di qui rischi di scioccarlo con questa tua uscita.»
ridacchiò Kumi.
L'altra fece spallucce «A quest'ora saranno tutti nella sala insegnanti.» sorrise. Lasciò la spugna
sul banco e si diresse verso la finestra, affacciandosi al davanzale per respirare un po' d'aria. La leggera brezza primaverile le donò un po' di refrigerio. A un tratto, la sua attenzione
venne attirata da una presenza sul campo di calcio sottostante.
«Ehi, guarda lì sotto, c'è uno che è persino più fissato di Tsubasa.»
Kumi si avvicinò alla finestra e vide il ragazzo che si stava allenando facendo ripetuti tiri con il piede
sinistro. «Nitta …» sussurrò, stupita. Che lei sapesse, aveva ritardato di un anno la conclusione del liceo per essere a disposizione del mister Mikami in vista del torneo
asiatico di qualificazione. Per quale motivo era lì, ad allenarsi da solo per giunta?
«Madoka, scendo per qualche minuto.» annunciò, staccandosi dalla finestra e avviandosi verso il
corridoio.
«Ehi, mi lasci qui a pulire l'aula da sola?» protestò, affacciandosi alla porta.
Kumi si voltò «Ma no, torno presto.» disse, camminando all'indietro «Come manager del club di
calcio devo sapere perché il capitano non è in ritiro con l'Under 19.» si voltò di nuovo e scomparve velocemente verso le scale.
Da quando Gamo lo aveva escluso dal ritiro della Nazionale Under 19, Shun si recava al campo d'allenamento e vi rimaneva ben oltre la
conclusione delle lezioni, per potenziare la gamba e il piede sinistro.
«Torno presto, eh?» bofonchiò scocciata, posando secchio e spazzolone. Alla fine le era toccato
davvero terminare le pulizie da sola.
Dopo aver rimesso a posto il secchio, le spugne e le scope, scese in cortile, dov'erano ancora Kumi e quel fissato ...
Nitta.
«Ehi Kumi, quel fanatico è ancora lì che tira? Avevi detto che tornavi subito, ma sei qui da
mezz'ora!»
Il ragazzo si stava detergendo il sudore con un asciugamano passatogli dalla manager.
«Non ti scaldare, Nitta ha appena finito. Capitano, ti presento la mia amica Madoka Shimokawa.» gli disse,
non riuscendo a trattenere una nota ironica.
Shun le sorrise «Grazie per il "fanatico", a dire la verità non sei l'unica che me lo dice.»
Madoka abbozzò un sorriso, imbarazzata suo malgrado.
«Credevamo fossi in ritiro con la Nazionale.» riuscì a rispondere, ricordandosi dell'ultima
conversazione con Kumi.
«Lo ero, ma purtroppo il signor Mikami ha un'appendicite ed è stato sostituito da un nuovo mister, che mi ha
momentaneamente escluso dalla squadra. Ha mandato via me, Misaki, Hyuga, i gemelli Tachibana, Soda e Jito.»
«Che? Anche Misaki e Hyuga?» chiese sgranando gli occhi, sconcertata. La rabbia ormai era svanita e anzi,
provava stranamente un certo interesse nell'ascoltare il giovane attaccante.
Shun assentì «Dice che il nostro modo di giocare non va bene per la sua idea di calcio e che se non
colmeremo le nostre lacune non saremo dei giocatori degni di partecipare al World Youth. Io, per esempio, mi sto allenando tutti i giorni per imparare a calciare anche con il sinistro. È
faticoso, ma devo riuscirci.»
Kumi lo guardò dapprima allibita al pari di Madoka da ciò che aveva appena ascoltato, poi assunse un'aria
perplessa «Non ce la farai mai da solo. Inoltre stai trascurando la squadra e questo è imperdonabile, soprattutto quando si è il capitano! Devi almeno farti aiutare dai ragazzi.
Il calcio è un gioco di squadra!»
Così, a partire dal giorno seguente, Shun tornò ad allenarsi con i suoi compagni, che effettuavano, uno
dopo l'altro, dei passaggi affinché lui colpisse il pallone con il piede sinistro, oltre a prendere parte agli allenamenti regolari. Perché aveva deciso di dare tutto sé stesso
anche per la vittoria del torneo della prefettura.
Nitta … aveva degli occhi molto belli, non solo per il colore ma anche per il taglio.
Era carino … un ragazzo molto determinato, ma anche gentile. Quando la vedeva e la salutava, si sentiva invasa da
un'emozione inspiegabile.
Da quel giorno cercò di andare spesso al campo di calcio, per vederlo allenarsi e giocare. Era un bravo capitano,
rispettato e stimato dai suoi compagni. E sperava sempre che si voltasse, almeno qualche volta, verso di lei, anche se incrociare gli occhi con i suoi la faceva sempre sentire accaldata dal collo
in su.
Kumi aveva notato questo suo inusuale comportamento e non aveva tardato a capire chi ne fosse la causa.
E pochi giorni dopo ebbe la conferma definitiva ai suoi sospetti.
Il torneo della prefettura era ormai imminente. La squadra stava svolgendo gli ultimi allenamenti prima della partenza
per il ritiro e Kumi aveva da poco terminato gli ultimi preparativi.
«Ehi, ormai ci siamo, eh?» disse Madoka, avvicinandosi.
«Già.» disse l'amica, passandosi il dorso di una mano sulla fronte sudata.
«Mister, qui è tutto pronto. Rimangono soltanto le divise da lavare e stirare.» annunciò poi,
rivolta al signor Furuoya.
Quest'ultimo si voltò a guardarla, distogliendo per un attimo l'attenzione dalla partitella in cui erano impegnati
i giocatori «Benissimo, Sugimoto. Hai svolto un gran lavoro, come al solito.»
«La ringrazio mister, ormai ci sono abituata.» si schermì, con un'alzata di spalle.
L'allenatore le rivolse uno sguardo d'approvazione, poi continuò a osservare i movimenti dei giocatori sul
campo.
«A proposito» ricominciò poco dopo «volevo chiederti se hai bisogno di qualcuno che venga ad
aiutarti. Sei l'unica manager e ti dovrai occupare della squadra per una settimana, non vorrei fosse troppo faticoso per te.»
La ragazza scosse la testa «Non si preoccupi signor Furuoya, l'ho già fatto, non ricorda? E grazie alle
senpai Nakazawa e Nishimoto sono diventata una brava manager.»
«Certo, ma … un'altra ragazza, oltre ad aiutarti, ti farebbe compagnia.»
Prima che la manager potesse aprire bocca, intervenne prontamente Madoka «Signor Furuoya, se non ha nulla in
contrario, vengo io insieme a Kumi.»
L'allenatore le sorrise con gratitudine «Per me non ci sono problemi, Shimokawa, ma ... tu non sei impegnata con la
squadra di pallavolo?»
«Due settimane fa mi sono slogata un polso e non sono ancora guarita completamente.» spiegò,
mostrandogli la parte dell'arto ancora fasciata.
«Bene, allora se per Sugimoto non ci sono problemi, ma immagino di no …» disse, guardando verso la
ragazza che scosse la testa con un sorriso « … allora sei dei nostri.»
«E così il "fanatico" ha fatto colpo su di te.» la stuzzicò più tardi Kumi, mentre
chiudeva l'armadietto dopo essersi cambiata.
«Lo faccio per riguardo verso una cara amica.» ribatté Madoka, un po' rigida «Avrai molto lavoro
da fare tutta sola, pensavo fossi contenta di avere qualcuno che ti aiutasse.»
«Certo che sono contenta, a maggior ragione se quella persona sei tu. Il punto è che a te non è mai
importato nulla di calcio, fino a poche settimane fa. Quindi il motivo non può essere che uno: ti sei presa una cotta per un giocatore della squadra. E credo anche di sapere chi
è.» le ultime parole vennero scandite incrociando le mani dietro la schiena e sporgendosi con il viso verso di lei, con un'espressione maliziosa.
Madoka spalancò gli occhi, poi sospirò e li alzò al cielo «E va bene, lo ammetto: Nitta mi
piace. Però lo faccio anche per te.» ribadì.
«D'accordo, ti ringrazio. Allora oltre che a me, fai un favore anche a te stessa: dichiarati. Lui è molto
concentrato sul calcio, quindi sei tu che devi farti notare.»
Madoka annuì, abbozzando un sorriso. Si chiedeva se avrebbe trovato il coraggio. Ma in fondo, Kumi aveva
confessato i suoi sentimenti a Tsubasa nonostante avesse già compreso di non avere possibilità con lui.
Lei, invece, qualche chance l'aveva: non c'erano prove che Nitta fosse già impegnato o che dividesse una speciale
intesa con un'altra ragazza. Se così fosse stato, i suoi compagni di squadra non avrebbero saputo tenere le loro lingue a freno, specialmente Urabe, Ishizaki o Taki.
Sdraiata nel suo futon nella stanza dell'albergo, stava fissando il soffitto in
penombra da almeno un'ora.
Kumi si era già addormentata. Avevano ragione lei e il signor Furuoya: il lavoro di manager era davvero molto
impegnativo e faceva spendere molte energie.
Andò accanto alla finestra: il cielo era sereno, punteggiato da tante stelle. Un'ombra si muoveva proprio nella
zona sotto la loro stanza. Evidentemente qualcun altro faticava ad addormentarsi … forse era il momento giusto per mantenere una certa promessa fatta prima della partenza.
Elena si avvicinò all'appendiabiti collocato accanto alla porta d'ingresso di casa Ishizaki e prese il suo
giubbotto.
Da tanto tempo non passava una serata così piacevole, in compagnia di ragazzi che formavano un
gruppo pervaso da un forte spirito cameratesco e l’avevano fatta sentire subito a suo agio. Aveva conosciuto persone interessanti e simpatiche, chiacchierato e riso come se fosse stata tra
vecchi amici. Era successo molte volte in passato, ma da mesi non ci era più abituata, così aveva cominciato
ad avvertire un forte mal di testa e a sentire il bisogno di una boccata d’ossigeno.
Uscì sulla ringhiera, scese gli scalini e si ritrovò nel piccolo cortile. Era immerso
nell’oscurità, a eccezione della pallida luce della luna. Vide un’ombra muoversi e voltarsi a braccia incrociate. Trasalì.
Era Wakabayashi.
Espirò, riprendendosi dallo spavento. Lui la riconobbe subito, perché era più alta rispetto alle
altre ragazze presenti e indossava un giubbotto bianco.
«Ti ho spaventata. Scusami.» disse il portiere, avvicinandosi.
Elena scosse la testa «Non fa niente. Credevo non ci fosse nessuno.» poi riprese, per scacciare il
rischio di un silenzio imbarazzante «Avevo voglia di respirare un po’ d’aria. Mi piace l’aria d’inverno.»
Genzo sorrise «Anche a me.»
«Sarà per via del nostro legame con la Germania.»
«È possibile.» convenne, assentendo di rimando. Rimasero così, a poca distanza, quasi
affiancati.
«Schdād»
commentò Elena a bassa voce, socchiudendo gli occhi. Genzo voltò la testa di
scatto. «Mh?»
«Schdād.» ripeté «È
rilassante.»
«Non è tedesco.»
Elena voltò il viso verso di lui «È bavarese.»
«Ammetto che non ci sarei mai arrivato.»
«Se la scorsa estate avessi accettato l'offerta del Bayern Monaco, forse sì.» si lasciò
sfuggire la ragazza.
Lui non replicò. Una leggera smorfia fu l’unica reazione che riuscì a esternare. Non sapeva quale
sentimento gli avesse suscitato quell'affermazione. Rimpianto? Amarezza? Quella partita ….
Elena non vi aveva assistito, ma ne aveva visto alcune immagini in un notiziario sportivo e la
rocambolesca azione del gol segnato da Schneider nel finale era stata proposta più volte, da ogni angolazione,
corredata da un’inquadratura tanto ravvicinata e prolungata, quanto impietosa, sul volto sudato e impietrito del SGGK.
Lo guardò dispiaciuta e contrasse le labbra: forse aveva parlato troppo.
Quella frase aveva innescato una riflessione nella mente di Genzo: se fosse passato ai bavaresi l’estate precedente oppure nel corso
della sessione invernale del calciomercato, ora sarebbe stato in lizza per il Meisterschale e per
la Champions League, in una squadra che stava dominando la Bundesliga, si era classificata al primo posto nella fase a gironi della massima competizione europea, praticava un calcio di grande
livello e giocava sempre per vincere. Una situazione stimolante che gli avrebbe portato comunque la convocazione alle Olimpiadi.
No: tornare in Giappone, comunque sarebbe andata, era stata la scelta giusta per il suo futuro
calcistico e anche per quello personale.
«Forse non dovevo nominare il Bayern. Scusami.» la voce dispiaciuta di Elena lo distolse dai suoi pensieri. Lei non aveva visto il leggero sorriso che gli aveva disteso le labbra.
Genzo scosse la testa «No, non ti preoccupare. Anzi, sono ancora più convinto di aver fatto bene a
tornare qui e a giocarmi la qualificazione alle Olimpiadi insieme ai miei compagni.» le assicurò, sorprendendola.
«E ora sarà
meglio rientrare, prima che Ishizaki rischi una denuncia per schiamazzi notturni.»
Elena annuì, divertita dall’immagine di uno sbraitante Ishizaki che chiedeva loro dove fossero finiti e
se per caso non gli piaceva la festa, e soprattutto sollevata dal capire che non aveva messo Wakabayashi di cattivo umore.
***Note***
Madoka Shimokawa è un personaggio creato da Takahashi, anche se ha una
piccola particina e ho inventato il suo nome e cognome di sana pianta. Fa parte del gruppetto delle amiche di Kumi (compaiono soltanto nel manga). È quella con i capelli neri a caschetto,
assomiglia un po' a Sanae e, come si vede in queste vignette, è l'unica che, anche dopo essersi ripresa
dallo shock di aver sentito Kumi proclamare di voler diventare la fidanzata di Tsubasa, ha una faccia quantomeno perplessa; poi però, decide di sostenerla. Da quel poco che ho potuto vedere
e interpretare di lei, credo abbia un legame un po' più stretto rispetto alle altre due, e sia la più adatta alle caratteristiche che ho voluto dare alla migliore amica di Kumi e
sorella maggiore di Arimi.
Grammar school: nel sistema scolastico britannico,
istituto frequentato da allievi dagli undici ai diciotto anni, cui si accede dopo esami molto selettivi. Alcuni istituti sono maschili o femminili, altri a classi miste. La Latymer grammar school, a classi miste, è tra i più rinomati del Regno Unito e si trova nella
zona nord di Londra.
Gymnasium: nel sistema scolastico tedesco, rappresenta la
forma di istruzione più elevata e dura nove anni. Al termine del ciclo di studi, si sostiene l'Abitur, il corrispettivo del nostro
esame di Stato, per conseguire l'Allgemeine Hochschulreife, il permesso di accedere all'università. Il Gymnasium Heidberg si trova ad Amburgo e vi si sono diplomati
numerosi atleti della polisportiva HSV (acronimo di Hamburger Sport-Verein).
Kohai: termine giapponese con cui si indicano i compagni
più giovani; contrapposto a senpai.
In Giappone, l’anno scolastico inizia ad aprile e finisce ai primi di marzo.
Seijo Ishii: catena di
supermercati in cui si trovano in vendita i più famosi prodotti della grande distribuzione italiana e internazionale. Pare che i giapponesi vadano
matti per tutto ciò che porta l'etichetta limited edition.
:-)
"Uedake no kyōdai" è un titolo che fa il verso a quello di un vecchio film del grande regista giapponese Yasujiro Ozu, "Todake no kyodai" (1941)
che in italiano è stato tradotto con il titolo "Fratelli e sorelle della famiglia Toda". Quindi il titolo del manga di Kumi sarebbe, se non ho commesso errori di grammatica giapponese,
"Fratelli e sorelle della famiglia Ueda".
In tedesco, "rilassante" si traduce con la parola "ruhig"
Ringrazio susieprice per le sue recensioni e tutti coloro che stanno leggendo e seguendo questa storia.
Sandie
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Capitolo 5 *** Capitolo V - Inizio di primavera ***
Untitled
Capitolo
V
Inizio di primavera
Il signor Kuroda, l'autista della famiglia Wakabayashi, fermò l'auto davanti al New National Theatre di Tokyo
in perfetto orario. Genzo lo ringraziò e scese.
Osservò l'insegna luminosa sulla facciata dello stabile, che indicava titolo e orario dello spettacolo
teatrale che si sarebbe rappresentato quella sera. Si prevedeva un'affluenza notevole, vista la quantità di persone presenti, tra quelle che stavano entrando, quelle raccolte davanti
all'entrata, e quelle che arrivavano.
Individuò Asami venirgli incontro, vestita con un lungo ed elegante cappotto bianco. Tra le mani, protette da
un paio di guanti dello stesso colore con decorazioni in argento, teneva una pochette turchese. Si sorrisero.
La sera stessa della cena di beneficenza al Ritz
Carlton, lo aveva invitato a vedere
una rappresentazione di "Yasha Ga Ike", una delle
pièce più popolari e che entrambi conoscevano bene
e amavano.
«Andiamo?» esordì lei, accostandoglisi.
Genzo annuì e le offrì il braccio. Si avviarono verso l'entrata dello stabile.
Asami era un’assidua frequentatrice del New National Theatre, fin da bambina. Sua madre Maeko amava molto il teatro e l'aveva sempre portata con sé, trasmettendole la sua passione; inoltre, era una grande appassionata
di musica classica e le aveva fatto studiare il pianoforte con uno dei migliori insegnanti privati, diventando, a detta di molti, una buona suonatrice.
Neppure a Genzo dispiaceva assistere a spettacoli teatrali. I suoi genitori erano entrambi grandi amanti della
cultura e avevano contribuito, attraverso la Japan Foundation e la loro fondazione, a organizzare e promuovere numerose iniziative.
Quella sera poi, quello svago gli era particolarmente gradito, visto che veniva da un confronto con suo padre nella
sede della Wakabayashi Corporation, dove si erano incontrati per parlare del pacchetto azionario che gli aveva affidato alcuni mesi prima, quando si trovava ancora in Germania. Come aveva fatto a
suo tempo con Hiroji e Keisuke, anche Genzo si era ritrovato, una volta preso il diploma, a doversi occupare di una piccola parte dell'impero economico della famiglia.
Perché non poteva confidare solamente nel calcio per il suo futuro ed era giusto che iniziasse ad assumersi
parte delle responsabilità che di certo gli sarebbero toccate negli anni successivi.
Alcuni avventori li riconobbero e si inchinarono in segno di saluto, guardandoli con ammirazione.
Lasciarono i loro cappotti a un'addetta e andarono a sedersi in una delle prime file.
Genzo guardò Asami. Indossava un abito bianco lungo fino alle caviglie, con uno spacco che iniziava poco sopra
il ginocchio sinistro. Le sottili spalline finivano in una lieve scollatura a punta.
La ragazza si voltò verso di lui e gli sorrise «Sta per cominciare.» annunciò a bassa voce.
Splendida e impeccabile, come sempre gli era apparsa tutte le volte che si erano incontrati.
Lo spettacolo era coinvolgente e ben rappresentato: dalle scenografie alla recitazione, dal canto alle coreografie,
tutto era curato nei minimi dettagli. Meritava i giudizi positivi degli spettatori e dei critici. A entrambi riportò in mente un ricordo d'infanzia legato alla leggenda della principessa che
avrebbe rinunciato a uccidere gli abitanti del villaggio in cui viveva in cambio dell'anima di una ragazza giovane e bellissima.
«Ti ricordi? Quando l'abbiamo vista la prima volta eravamo con le nostre famiglie.»
«Sì. Hitomi raccontava spesso questa storia a me e ai miei fratelli e così abbiamo tormentato i
nostri genitori perché ci portassero a vedere lo spettacolo.» replicò Genzo, divertito.
«È stata una bella serata.» commentò Asami, dopo che furono usciti dal ristorante in cui
avevano cenato dopo aver assistito alla rappresentazione «Sono stata bene.»
I suoi occhi brillavano.
Genzo annuì «Anch’io» rispose, guardandola con un sorriso.
Avevano chiacchierato piacevolmente tutta la sera, e si era spesso soffermato a osservare con ammirazione il
bellissimo volto dai lineamenti delicati e i gesti eleganti e signorili dell'amica, pensando di avere di fronte a sé quanto di meglio il Giappone poteva offrire, quanto a bellezza e
femminilità.
La accompagnò, con una mano che le sfiorava la schiena, verso la berlina bianca di proprietà degli
Ujimori.
L'autista aveva già aperto la portiera posteriore per permettere ad Asami di salire. Alcuni passanti,
perlopiù coppie o gruppi di amici, uomini d'affari e impiegati di rientro dal lavoro, camminavano sui marciapiedi e ogni tanto transitava qualche auto.
La ragazza sembrava esitare prima di entrare nella sua vettura. Era come se mancasse qualcosa. Non
voleva salutare Genzo senza fargli capire cosa significasse, per lei, poter passare del tempo insieme, avere finalmente l'opportunità di approfondire quel rapporto che pochi anni prima era sembrato in procinto di diventare qualcosa di più intimo e la cui crescita era stata interrotta dal corso e dagli
impegni delle rispettive vite.
Forse stava accelerando troppo i tempi? In fondo, non erano certo al primo incontro. Si conoscevano da
anni, da quando erano bambini. Ed era convinta che qualcosa fosse rimasto in sospeso tra
loro quattro anni prima, dopo alcune settimane passate a stretto contatto ad Amburgo, dove lei si era recata con alcune compagne per prendere parte a un
torneo internazionale di tennis con le migliori allieve selezionate dai club scolastici. Erano, all’epoca, entrambi diciassettenni.
Lei, quando non era impegnata con la preparazione e lo svolgimento dei suoi incontri, andava a vedere gli allenamenti
dell'Amburgo per poi aspettarlo al cancello d’uscita e passare insieme il tempo libero a disposizione. Genzo aveva anche assistito al suo match finale, conclusosi con un’onorevole
sconfitta contro una statunitense che si era rivelata di un livello superiore rispetto a tutte le altre partecipanti.
Si cercavano, si frequentavano. Erano attratti l’uno dall’altra. Ma quel periodo magico era durato poco:
la ragazza era dovuta ripartire per Tokyo e lui, ormai integratosi nella realtà europea, non se l'era sentita di iniziare un rapporto che richiedeva una stabilità che la distanza non
avrebbe reso possibile.
Non era il caso di portare avanti schermaglie classiche di chi si è appena conosciuto. Inoltre, conosceva
Genzo da troppo tempo per non sapere che difficilmente avrebbe preso l'iniziativa lì, in un luogo pubblico, una zona spesso affollata e trafficata. I lunghi anni vissuti in Germania non
avevano scalfito la sua riservatezza.
Si alzò sulle punte, e posò un bacio leggero sulle sue labbra. Gli dedicò un ultimo, sorridente
sguardo prima di entrare nell'auto, la cui portiera posteriore era ancora solertemente tenuta aperta dall'autista che, dopo aver assistito alla scena con stupore, non si trattenne dal rivolgere a
Genzo un sorriso eloquente mentre lo salutava con un cenno del capo, prima di mettersi al posto di guida.
Genzo sospirò. Si sentiva preso alla sprovvista, come quando il pallone cambiava improvvisamente traiettoria,
per l'effetto dato dall'autore del tiro e l’azione prendeva una piega diversa da quella prevista.
Doveva ammettere che la sensazione che stava provando in quel momento non era certo di disappunto, ma Asami lo aveva comunque disorientato.
Mise le mani nelle tasche della giacca e si avviò verso l'auto.
I dati riportati sui fogli del bilancio illustravano la situazione di un’azienda che aveva conseguito risultati
piuttosto deludenti, specie in alcuni settori in cui era stata nettamente superata dalla concorrenza di altre compagnie.
«Credo che per uscire da questa crisi e iniziare una fase di crescita, dovremo diversificare la produzione,
allargandola ad altri campi. Quindi fusioni e accordi di partnership.» commentò Hiroji, seduto alla scrivania del suo ufficio nella sede centrale della Wakabayashi Electrics, alzando
gli occhi dai fogli che teneva tra le mani.
«Per farlo però, occorre investire. Serve molto denaro, e noi non ne abbiamo
tantissimo da destinare a queste operazioni.» obiettò Hideyoshi Akajima, il direttore finanziario della Wakabayashi
Electrics, suo braccio destro, seduto sulla poltrona dall'altra parte della scrivania. Era un uomo magro, di media altezza, con i capelli grigi e dall’aspetto compito. Aveva la stessa
età di suo padre e aveva condiviso con lui gran parte del suo percorso lavorativo. Il settore dei conti era di sua competenza da più di vent'anni ed era stato stretto collaboratore
prima di Heizo e poi di Yasuhiro Wakabayashi: con quest'ultimo era nata una solida amicizia. Quanto a Heizo, lo aveva considerato come un padre: era stato lui ad assumerlo e ad affidargli poi la
gestione dei conti dell'azienda, incarico che aveva sempre svolto con zelo e massima correttezza.
Aveva conosciuto Hiroji quando era ancora molto piccolo e lo aveva incontrato molte volte finché aveva abitato
in Giappone, ma all’epoca era un ragazzo che si divideva tra lo studio e il club di baseball e osservava il lavoro del padre nei momenti liberi. Dopo la sua partenza per Londra, lo aveva
visto raramente e perlopiù in periodi di vacanza. In quell'ancora breve periodo di collaborazione aveva notato la propensione verso un deciso cambio di rotta e il ruolo di Akajima era
proprio quello di metterlo in guardia.
Hiroji abbassò la testa in segno di assenso. «Lo so bene. Dovremo abbandonare i settori non più
redditizi, vendere o accorpare alcune filiali, chiudere stabilimenti, se necessario.» concluse la frase con un impercettibile abbassamento di voce, come se gli costasse anche solo pensare a
quell'eventualità.
«Se potessimo evitare di licenziare dipendenti …» replicò Akajima.
«Farò di tutto affinché non accada.»
Akajima rimase in silenzio per un attimo, meditabondo, indeciso se
esternare o meno le sue obiezioni. Una delle prerogative della Wakabayashi Electrics era l'assoluta trasparenza e la fiducia reciproca, ed era giusto mettere
al corrente il nuovo amministratore delegato dei suoi dubbi. Era giovane, non aveva ancora compiuto trent'anni e aveva
trascorso gli ultimi dieci della sua vita quasi interamente all'estero. Anche se era sicuramente sempre stato in stretto contatto con il padre ed era informato sull'andamento degli affari, non
aveva vissuto la realtà all’interno, ogni giorno.
«Lei ha in mente un vero e proprio sconvolgimento, signor Wakabayashi. Non credo che rivoluzionare tutto sia la
soluzione; a mio parere rischieremmo troppo. Del resto l'azienda attraversa sì un momento non positivo, ma non è sull'orlo del fallimento: non dobbiamo distruggere la struttura
esistente.»
Hiroji socchiuse gli occhi e strinse le labbra. Come immaginava, era una sfida difficile quella che stava
affrontando: conciliare la necessità di rinnovamento con il rispetto per la storia e la tradizione.
Quando li riaprì, fissò uno sguardo determinato sul direttore finanziario. «Farò una serie
di viaggi in tutto il Giappone, per vedere la situazione con i miei occhi. Nel frattempo, mi terrà aggiornato e mi riferirà ogni novità.»
Akajima annuì, confortato da quella saggia risoluzione. «Sarà fatto.»
Il giovane amministratore delegato uscì dal suo ufficio e andò nel piazzale antistante alla sede
principale della Wakabayashi Electrics. Prese un pacchetto di sigarette prelevate da un distributore automatico, ne estrasse una, l'accese e aspirò una lunga boccata.
Guardò la larga nuvola di fumo che usciva dalla sua bocca e aleggiava perdendosi nell'aria, dissolvendosi nel
cielo sgombro, cercando di associarla alla tensione in procinto di abbandonarlo. Quell’immagine lo aveva confortato spesso in passato, ma non era mai stata così illusoria come in quel
periodo. Pensò all'apprensione che aveva, a suo tempo, preceduto i suoi esami universitari o i suoi primi incarichi nell'azienda. Sciocchezze, al confronto della vera e propria missione in
cui si era impegnato. Non percepiva alcun rilassamento nei suoi muscoli, la sua inquietudine sembrava anzi crescere.
«Magari è la volta buona che smetto.» pensò,
sorridendo mestamente. Ma tirò una nuova boccata.
Se Annie lo avesse visto in quel momento, gli avrebbe dato una lavata di capo memorabile: lei aveva
sempre odiato il fumo e non perdeva occasione per persuaderlo ad abbandonare le sigarette. Lui, alla fine, aveva optato per un compromesso: non avrebbe più fumato quando era con lei, i
famigliari e gli amici, ma avrebbe continuato nei luoghi in cui né lei né gli altri avrebbero potuto vederlo. Finora aveva
funzionato.
Solo Yasuhiro, anch’egli con un passato da fumatore accanito, era al corrente del suo segreto. Lo aveva
ammonito di non farsi mai beccare da sua moglie, che all'amarezza di vederlo ancora con una sigaretta in mano, avrebbe aggiunto la rabbia di essersi sentita raccontare una bugia per tanto
tempo.
Si sentiva in colpa: credeva di aver ormai imparato a gestire la tensione e le preoccupazioni, almeno quel tanto che
bastava per non avvertire il bisogno di recarsi a un distributore automatico e prelevare un pacchetto. Aveva persino provato con i chewing-gum, ma non avevano sortito lo stesso effetto.
L'incarico di amministratore delegato gli aveva dato un cumulo di responsabilità: ovviamente lo
sapeva prima di accettare, del resto aveva avuto l'esempio di suo padre sotto gli occhi per anni, ma le sue precedenti mansioni non lo avevano preparato a sufficienza. O era lui a non essere ancora
pronto o, peggio, a non essere la persona giusta? Suo padre gli aveva garantito la massima disponibilità a dargli consigli, ma non poteva ricorrere a lui ogni volta che aveva
un dubbio. E nelle ultime settimane era stato tentato fin troppe volte di raggiungerlo nella residenza di Tokyo o nel suo ufficio
alla Wakabayashi Corporation, la holding della famiglia.
Si stava ponendo troppe domande, e a nessuna di queste poteva dare una risposta immediata.
Come amavano dire Mikami e Genzo, ogni partita andava affrontata per volta, e così valeva per tutte le
questioni della vita. Avrebbe compiuto la serie di viaggi e di visite per formarsi un'idea personale, poi ne avrebbe discusso con suo padre, Akajima e gli altri membri del consiglio
d'amministrazione.
I suoi pensieri vennero interrotti dallo squillo del cellulare, che estrasse dalla tasca della giacca nera.
Annie.
Spense il mozzicone e lo gettò nel posacenere, prima di accettare la chiamata.
«Hiroji! Allora riesci a liberarti prima come mi hai promesso?» chiese la sua voce
squillante e vivace all’altro lato della linea.
Sospirò e alzò gli occhi al cielo, divertito. Annie temeva sempre che il suo lavoro, non privo di
imprevisti, lo costringesse a trattenersi a Tokyo. «Certo. Non prometto mai nulla se non sono convinto di mantenerlo, lo sai.»
Immaginò le labbra della moglie distendersi in un sorriso «Ti aspettiamo, ricordati che dobbiamo mettere
le bambole sulla piattaforma. Ken ha promesso che ci aiuterà!»
Hiroji sorrise. Come al solito, sua moglie si entusiasmava ogni volta che scopriva nuove usanze e
soprattutto il loro significato: da quell’anno, anche nella loro famiglia si sarebbe festeggiato lo Hina Matsuri. L’usanza prevedeva che fossero le bambine a disporre le bamboline, ma Aiko era ancora troppo piccola per poterlo fare e Annie aveva deciso che aveva comunque diritto
anche lei alla sua corte imperiale in miniatura. E gli aveva annunciato che lei e Hitomi avrebbero preparato anche
lo hishimochi, il dolce da lui mai assaggiato per il semplice
fatto che in casa Wakabayashi non c’erano bambine.
Quella sensazione che tanto aveva cercato si fece finalmente strada.
Già, persino preparare una corte imperiale di bamboline e, soprattutto, vedere lo sguardo entusiasta di Annie,
Aiko e Kenichi e quello intenerito di Hitomi poteva aiutarlo a cominciare il tour de force con la fiducia e l’ottimismo necessari.
«Bambine, ora basta giocare, e venite a darmi una
mano.» gridò Elena mentre faceva il suo ingresso nell’area di competenza, richiamando il gruppetto che stava giocando a rincorrersi e a
tirarsi addosso dei cubetti di spugna colorati.
Facendosi aiutare dalle sue piccole allieve, dispose gli attrezzi facilitanti preparati per l'insegnamento di alcuni
movimenti da eseguire alla trave.
Alla fine arrivò, puntuale, anche Arimi, che la salutò con un inchino ma senza accennare nemmeno una
parvenza di sorriso.
Elena non ne fu più di tanto contrariata. Sapeva di doverla avvicinare un poco alla volta, quindi si
limitò a ricambiare il saluto e a invitarla a disporsi in fila.
Non aveva senso farle seguire lo stesso programma delle bambine, così, dopo gli esercizi di riscaldamento, la
chiamò accanto a sé e le chiese di mostrare come si facevano gli esercizi che stava spiegando. Arimi in un primo momento accettò abbastanza di buon grado il ruolo di assistente
assegnatole da Elena e riuscì a collaborare, ma poi, rendendosi conto che in realtà non faceva altro che ripetere movimenti basilari senza fare alcun progresso personale, decise di
ribellarsi.
«Mi sono stancata. Io non vengo qui per far vedere cose imparate dieci anni fa.» sbottò, scendendo
dall'asse d'equilibrio. «Non ho bisogno di queste cose, e lei non dovrebbe tenermi qui a fare queste stupidaggini!» sbraitò indicando l'attrezzo.
Elena fu momentaneamente sorpresa da quella che sembrava una reazione improvvisa, ma non si fece impressionare.
«Secondo la signorina Shiroyama, sì.» replicò, con calma «E non ti richiamerà con sé finché non le avrai dimostrato di aver capito come
comportarti. Alla prima lezione con il gruppo ha visto che non sei pronta per lavorare con le tue compagne e ti ha mandata da me per recuperare la condizione.»
«Io sono in ottima forma, e molto più in gamba di tutte loro.» ribatté impertinente,
alzando il mento e puntandosi le mani sui fianchi.
Salì poi sulla trave posizionata lì accanto, e improvvisò un esercizio.
Era bravissima. Elena sapeva riconoscere con cognizione di causa le atlete più dotate e Arimi era molto
promettente.
Le bambine si incantarono a guardarla, ammirate. Guardavano ciò che sognavano di essere quando avrebbero
imparato a fare elementi più difficili. Il modo in cui Arimi riusciva a eseguire una ruota, un'enjambée, tre rovesciate all'indietro di fila
mantenendosi in equilibrio sui soli dieci centimetri di larghezza dell'asse in legno, attiravano su di lei sguardi sognanti e accesi d'entusiasmo.
Ma avevano una lezione da seguire. «Ora basta, Arimi. O scendi e vieni ad aiutarmi a fare lezione oppure puoi
andartene.» disse risoluta.
La ragazzina proseguì il suo esercizio, senza darle retta. Trasse un profondo respiro e prese una rincorsa per
poi saltare giù dalla trave con un salto in avanti teso con doppio avvitamento, atterrando sul tappetino senza sbavature. Con uno sguardo più ostile che di sfida alzò le
braccia nel classico gesto di saluto delle ginnaste al pubblico e ai giudici di gara, e si diresse poi a passo rapido verso gli spogliatoi.
Elena la guardò andare via e si mise le mani sui fianchi, stringendo le labbra.
Mentre se ne andava così sicura di sé, Arimi mostrava di non aver compreso il motivo per cui era stata
esclusa dal gruppo.
Le altre allieve erano migliorate molto durante il suo periodo di assenza, perché erano libere dai
condizionamenti che la compagna suscitava in loro. Era bravissima e lo avevano sempre riconosciuto: ma era anche arrogante, altezzosa e fin troppo consapevole delle sue straordinarie
qualità, che la portavano a prevaricare sulle altre e a considerarle inferiori.
Senza di lei, le altre ragazze si sentivano più tranquille, più serene, avevano ritrovato una componente
fondamentale come l'autostima e quindi la fiducia nelle proprie capacità. E il gruppo era diventato più coeso.
In un clima di maggiore serenità, avevano fatto tutte dei notevoli progressi individuali e avevano formato un
gruppo affiatato.
Eppure … Arimi, arrogante o no, era sicuramente la ginnasta più talentuosa della scuola, e Mayuko voleva
ottenere un ottimo risultato ai campionati regionali juniores: voleva che la Shiroyama Gymnastics Club fosse la scuola rivelazione della kermesse, e questo, nonostante i miglioramenti delle altre
allieve, sarebbe stato possibile solo se Arimi avesse fatto parte del gruppo. Se solo avesse mostrato desiderio di integrarvisi ….
Al momento, sembrava una missione proibitiva.
Alla fine, lasciò da parte la questione e riprese la lezione con le bambine, ripromettendosi di ripensarci una
volta tornata a casa, con la mente più distaccata e uno stato d'animo più rilassato.
Arimi sarebbe comunque tornata nei giorni seguenti, perché aveva compreso che stava cercando di spingerla a
suggerire alla Shiroyama di reinserirla nel suo gruppo, cosa che non avrebbe mai potuto fare prima di raggiungere l'obiettivo di renderla più umile e meno egoista.
«Finalmente si comincia a fare sul serio!»
commentò Ishizaki cercando di soffocare uno sbadiglio, riuscendoci solamente in parte. Erano le sette e mezza del mattino di una fresca e soleggiata giornata di inizio marzo. Il giorno del
primo raduno della Nazionale Under 23 in vista delle partite di qualificazione alle Olimpiadi era arrivato.
I ragazzi erano tutti riuniti sul binario 7 della stazione della città, in attesa del treno che li avrebbe
portati a Naraha, la città della prefettura di Fukushima in cui si trovava il J-Village, la sede del ritiro della Nazionale giapponese. I primi ad arrivare erano stati i ragazzi del
quartetto ex Shutetsu, poi alla spicciolata era arrivato il resto del gruppo, insieme a Yukari, Kumi ed Elena. Nitta scrutò queste ultime per vedere se insieme a loro era giunta anche
un’altra ragazza di sua conoscenza, ma il cenno di diniego di Kumi pose immediata fine alle sue speranze, almeno per quel giorno.
Persone che attendevano le rispettive partenze camminavano lungo i marciapiedi dei binari, perlopiù con passo
lento e l'aria assonnata, altri aspettavano seduti sulle panche, ingannando il tempo chiacchierando o giocando con il cellulare, ascoltando musica dagli auricolari oppure leggendo un quotidiano,
una rivista, un libro.
Soltanto Wakabayashi mancava ancora all'appello.
«Eppure ci aveva assicurato che sarebbe partito insieme a noi.» ricordò Morisaki.
«Magari, da perfetto snob qual è, si farà portare sulla sua Lexus fiammante con tanto di
autista.» commentò Ryo.
«A quanto pare, da perfetto snob quale sono, ho scelto di abbassarmi a prendere il treno come fate voi comuni
mortali. E sono persino venuto a piedi.» l'inconfondibile voce pacata, resa tagliente dal tono sarcastico del diretto interessato zittì il difensore e fece ridacchiare gli altri
ragazzi. Genzo, il giaccone sopra la tuta sportiva e il borsone saldamente retto nella mano destra, raggiunse il gruppo con un'espressione che era lo specchio perfetto delle parole appena
pronunciate, ma con un lampo di divertimento negli occhi. In fondo, quello era il modo di comunicare abituale tra lui e il difensore dello Jubilo Iwata, da che si conoscevano.
«Ma dai Ishizaki, ti pare che uno che inizia le sue giornate facendo una corsa come il capitano possa farsi
portare in macchina?» lo punzecchiò Kisugi.
«Ehi, a quanto pare sono arrivato in tempo!» un’allegra e stentorea voce maschile
spostò l’attenzione su di sé. Un uomo alto, dal fisico asciutto e atletico e i capelli scuri lisci e leggermente lunghi, si stava dirigendo verso il gruppo con le mani infilate nelle tasche della larga felpa bianca che indossava sopra i jeans.
«Guardate chi c'è! Gon Nakayama!» esclamò Ishizaki alzando un braccio in direzione
dell'attaccante dello Jubilo Iwata.
«Ciao ragazzi! Sono venuto a farvi un "in bocca al lupo" per le vostre partite. Mi raccomando,
dovete farcela.» disse, fermandosi a pochi centimetri dai suoi compagni di squadra Misaki, Urabe e
Ishizaki.
«Ci puoi contare! Vedrai, useremo tutto ciò che tu, il mister e gli altri compagni ci avete
insegnato!» affermò l'ex capitano della Ootomo battendosi un pugno all’altezza del petto «Ma anche voi dovete difendere il titolo.»
Nakayama annuì strizzando un occhio, poi si rivolse a Taro «Peccato non averti per il campionato,
Misaki. Per Ishizaki e Urabe ce ne faremo una ragione» disse lanciando un'occhiata scherzosamente beffarda ai due difensori «ma tu ci hai abituati troppo bene con i tuoi passaggi e la
tua classe. Sarà dura sostituirti.»
Il centrocampista scosse la testa «Possiamo farcela. Anche per questo stage abbiamo una rosa molto forte e i
nuovi acquisti sono molto validi.» replicò «Attento però a non criticare troppo i miei futuri compagni di stanza, altrimenti si offendono.» disse con un sorriso.
«Compagni di stanza?» chiese, sgranando gli occhi e sporgendo il viso leggermente in avanti
«Accidenti Misaki, neanche in Nazionale riesci a liberarti di quei due?»
«Nakayama potevi anche restartene a Iwata se sei venuto solo per fare queste battute da quattro soldi!»
ribatté uno stizzito Ishizaki facendo ridere tutti i presenti, compreso il suo interlocutore.
«Comunque non preoccuparti, Misaki farà un ottimo torneo, non deluderà i tifosi e non farà
una brutta figura davanti alla sua adorata Elena.» aggiunse indicando la ragazza bionda.
Il centrocampista alzò gli occhi al cielo e sospirò, con un'espressione seccata.
«Chi è quello delle battute da quattro soldi?» ribatté Nakayama, per smorzare il disagio
del compagno. Non sapeva che rapporto legasse Taro alla ragazza bionda dai tratti occidentali in piedi accanto a lui, ma ormai lo conosceva abbastanza bene per sapere che era molto riservato, pur
essendo affabile e comunicativo. E Ryo, pur essendo un bravo ragazzo, a volte mancava di tatto con le sue battute.
«Ishizaki, gioca con la stessa disinvoltura con cui dici sciocchezze e sarai titolare in tutte le
partite.» intervenne Elena, l’altra diretta interessata, anche lei infastidita dall’ironia allusiva di Ryo, incurante del fatto che in fondo si conoscevano da poco.
Gon approvò con un cenno del capo «Giusto. Non avrei saputo dargli un consiglio migliore.» poi si
diresse verso Genzo. «Wakabayashi, appena trovo una giornata libera vengo al J-Village e ti sfido.»
«Quando vuoi. Io sono sempre pronto.» replicò con il suo solito piglio sicuro, approvato da una
pacca sulla spalla dell'esperto attaccante.
Ormai mancava pochissimo tempo alla partenza. Per coloro che rimanevano, era giunto il momento di salutare i giovani
calciatori.
«In bocca al lupo ragazzi! Verremo ad assistere alle partite contro la Malesia e il Bahrein.»
assicurò Yukari.
«E faremo un tifo infernale!» aggiunse Kumi con i pugni stretti e gli occhi vispi e combattivi.
«Anego ha la sua erede.» rise Taki.
Il fischio e lo sferragliamento annunciarono l'imminente comparsa della locomotiva. Rallentò progressivamente,
fino ad arrestarsi poco più avanti rispetto al punto in cui si trovavano.
Dopo aver atteso con perfetta calma e serenità che tutti i passeggeri scendessero e che quelli
messisi in fila prima di loro salissero, i ragazzi varcarono la porta ordinatamente continuando a chiacchierare, ridere e scherzare, con il capotreno che vigilava. Elena sapeva benissimo che
funzionava così in Giappone ma quella scena, paragonata all'esagitazione e alle resse cui le era capitato di assistere e trovarsi coinvolta in Italia, le suscitava sempre un piacevole stupore.
Il treno si mise in marcia, lasciandosi dietro i volti sorridenti delle tre ragazze e di Nakayama che salutavano i
giocatori agitando le mani.
Shun si appoggiò con un gomito al bracciolo del sedile e adagiò il viso su una mano, apparentemente
interessato al paesaggio che scorreva rapido davanti ai suoi occhi.
Era stato un illuso a pensare che Madoka sarebbe venuta alla stazione per salutarlo, in un orario così
mattutino e soprattutto dopo che aveva mostrato di ignorarla per quasi tutta la durata della festa a casa di Ishizaki.
L'aveva salutata, ed era stato tutto. Non aveva avuto il coraggio di trarla in disparte per parlarle, né
l'aveva incoraggiata. E quando aveva trovato una distrazione nella partita da guardare con gli amici, vi si era abbandonato fino a che non era finita, per poi constatare che la ragazza era
già tornata a casa insieme a un paio di sue compagne.
Aveva perso quell'occasione, e ora si ritrovava a dover posticipare a dopo la conclusione del primo girone di
qualificazione. Se ne avesse avuto il coraggio: perché c'era qualcosa che lo tratteneva dal chiederle di riallacciare i rapporti, ossia il timore che, con l'inizio dell'anno accademico, lei
avrebbe ricominciato a prestare attenzione soltanto allo studio. E il fatto che la ragazza fosse stata ammessa alla Keio, ossia uno degli atenei più prestigiosi e selettivi, rafforzava
questo suo presentimento.
Era stato tutto diverso, due anni prima mentre andava a Tsumagoi per il ritiro della Nazionale Under 19, dopo il
periodo di "esilio" impostogli dal tecnico Gamo: stava guardando fuori del finestrino del treno, era una giornata soleggiata e tiepida, come in quel momento, ma nel suo cuore c'erano sensazioni di
ben altra natura.
Dopo aver constatato, dal loro respiro regolare, che tutti i suoi compagni si erano addormentati, scivolò fuori
dal suo futon senza fare rumore e, con passi lenti e felpati, uscì dalla stanza.
Non riusciva a prendere sonno, e aveva bisogno di respirare un po' di aria fresca per alleviare un senso
d'oppressione.
Attraversò la hall dell'albergo in cui alloggiava con la squadra e andò a passeggiare nel piazzale
antistante.
Avevano sbaragliato tutte le rivali e si erano ritrovati in finale contro la Shimizu, una squadra tornata a ottenere
grandi risultati, che aveva il suo principale punto di forza nel portiere Kawakami.
Ma Shun non lo riteneva in grado di parare un tiro come il suo. No, non era la finale a tenerlo sveglio, a farlo sentire
in ansia. Era la paura che tutti i suoi sforzi potessero essere inutili per la Nazionale.
I "sette del Giappone reale", i giocatori che Gamo aveva portato con sé e che minacciavano di distruggere i sogni
suoi e degli altri sei ragazzi allontanati dal ritiro. Uno di loro era Ryoma Hino, l'uruguayano di origini giapponesi: un attaccante potente e veloce che non aveva nulla da invidiare a Hyuga. E se
Gamo avesse deciso di selezionarlo al suo posto? In quelle settimane, si era impegnato anche per dimostrare di essere più bravo di lui.
La Tigre sarebbe certamente tornata in Nazionale, non c'erano dubbi, indipendentemente da Hino. E quei due insieme
potevano costituire una coppia d'attacco davvero formidabile … nulla vietava a Gamo di mantenere in squadra entrambi.
Era convinto di essere lui quello che doveva temere di vedersi soffiare il posto. E non lo poteva permettere …
aveva deciso di dedicare un anno intero al World Youth e non poteva lasciare che quel progetto andasse in fumo.
«Nitta.»
Si voltò di scatto, nell’udire la voce femminile che aveva spezzato quell'angoscioso flusso di pensieri.
«Shimokawa.» disse stupito, nel riconoscere la nuova manager.
«Sei teso per domani?» chiese, andandogli incontro.
«Un po', ma non tanto per la gara. Devo capire se sono veramente pronto per tornare in Nazionale.»
«Io penso che ce la farai: il tuo sinistro è diventato potente quasi quanto il destro. C'è una
panchina lì, perché non ci sediamo un po'? Se non ti disturbo.»
«Certo. Tranquilla, non mi disturbi. Anzi, sono contento di poter fare quattro chiacchiere.» sorrise, andando
a sedersi, seguito subito dopo dalla ragazza.
«Nemmeno tu riesci a dormire?»
La ragazza alzò le spalle «Non c'è un motivo in particolare. Rimanere sdraiata nel futon non mi aiuta, così ho deciso di uscire all'aria aperta.»
I capelli neri le sfioravano le spalle coperte dalla maglietta bianca. Era una ragazza dalla bellezza discreta, tutto
sommato riservata e più tranquilla rispetto a Kumi, ma i suoi modi pacati e gentili l'avevano resa bene accetta dai ragazzi.
Il suo interesse per il calcio doveva essere piuttosto recente. Non l'aveva mai vista spesso agli allenamenti della
squadra, sapeva che era nel club di pallavolo e a volte la scorgeva mentre parlava e scherzava con Kumi e altre ragazze. Ma non si erano mai incontrati, fino a quel pomeriggio nel cortile della
scuola.
Parlarono per un po' di quella settimana, e dei rispettivi sogni. Shun le aveva raccontato i suoi timori per il confronto
con i cosiddetti "sette del Giappone reale", i giocatori che avrebbero conteso al gruppo degli esclusi il posto tra i convocati per il World Youth.
«Se Gamo avesse voluto escludervi, lo avrebbe già
fatto. Lui vi ha dato l'opportunità di tornare più forti e maturati. Io sono convinta che domani farai una grande partita e che saprai anche farti riaccettare in
Nazionale.» gli assicurò, sorridendogli con un'espressione dolce che a Shun fece perdere un
battito.
Ricambiò timidamente il sorriso e distolse lo sguardo, per poi guardare a terra. Seguirono minuti di silenzio che
a entrambi sembrarono infiniti.
Madoka decise che quella era l'occasione da cogliere per confessargli i suoi sentimenti.
«Scusami se ti sembrerà troppo brusco e improvviso» cominciò, facendogli alzare la testa «non so nemmeno cosa ne penserai, ma tra non molto ti ripresenterai al ritiro della Nazionale e chissà quando avrò la possibilità di rivederti. Ma io
… volevo dirti che mi piaci, Shun.» pronunciò il suo nome «Fin da quel giorno nel cortile della scuola in cui ti ho definito "fanatico".»
Il ragazzo la guardava con gli occhi spalancati e la bocca dischiusa, come se stesse cercando di riprendere fiato dopo
averlo trattenuto troppo a lungo. Chiuse gli occhi, scosse la testa e tornò a guardare Madoka, con un sorriso.
Lei strinse le labbra e distolse lo sguardo, imbarazzata.
«Beh, torno nella mia stanza.» annunciò con un filo di voce, alzandosi.
«Madoka, aspetta.» disse, alzandosi a sua volta e afferrandole un braccio per trattenerla. Anche lui l'aveva
chiamata per nome.
«Non vuoi sapere cosa ne penso?» le chiese a voce bassa, avvicinandosi senza lasciarle il polso. I suoi occhi
scuri la guardavano con dolcezza.
I battiti del cuore di Madoka erano frenetici. Quando il volto di Shun fu a pochi centimetri dal suo, chiuse gli occhi. Avvertì
le labbra del ragazzo sfiorare le sue. Si mossero piano, in sintonia, poi quelle di Madoka si schiusero, permettendo a Shun di rendere più intimo il loro contatto, passandole le braccia
attorno alla schiena. Alzò un braccio e infilò le sue dita tra i capelli del giovane attaccante. Erano come fili di seta: così li aveva sempre immaginati, nelle fantasticherie
in cui indugiava spesso da quando aveva cominciato a conoscerlo.
Abbracciati, completamente isolati dall'ambiente circostante, sfiorati dalla brezza della notte, non potevano certo
accorgersi di Kumi che, dalla finestra della sua stanza, osservava la scena con un sorriso compiaciuto.
«Brava Madoka.» sussurrò, prima di infilarsi nuovamente nel futon per rimettersi a dormire.
Fu inutile perché, all'incirca mezz'ora dopo, l'amica entrò nella stanza e le scosse piano una spalla per
svegliarla. Era troppo eccitata per poter pensare di addormentarsi senza raccontare l'episodio alla sua amica fidata e soprattutto si sentiva grata a lei per averla incoraggiata a dichiararsi.
La loro storia era proseguita per tutto il rimanente anno scolastico e si era incrinata dopo la fine del liceo, quando
Nitta stava esaminando le proposte arrivategli da squadre di club della J League e aveva cominciato ad allenarsi al dojo di Ken Wakashimazu.
Madoka stava preparando gli esami di ammissione alle università che aveva scelto di frequentare, Shun era fin troppo
concentrato sugli allenamenti e sul suo futuro professionale e mancava spesso da casa. Così, a poco a poco, la loro relazione era finita, dopo reciproche accuse di pensare troppo a sé
stessi e non al loro rapporto di coppia.
Tornato a Nankatsu dopo la conclusione del secondo stage di J League, Shun aveva rincontrato spesso Madoka al caffè Ocean, uno dei
ritrovi preferiti dei giovani della città, entrambi con i rispettivi amici.
Si erano rivolti la parola con cordialità, anche se la conversazione non andava oltre i saluti e le domande di rito.
Ma c'era in Shun il desiderio di recuperare quel legame che gli aveva fatto vivere uno dei periodi più felici della sua vita. E a volte gli sembrava di vedere in Madoka l'analoga intenzione
di andare oltre i convenevoli che la facevano sentire come un'estranea agli occhi di un ragazzo per cui aveva provato, e forse ancora provava, un sentimento così forte.
Ma la paura, fin lì, aveva sempre prevalso.
«Ehi Nitta, tutto bene?» chiese Kishida, riscuotendolo dai suoi pensieri.
«Eh? Sì sì, ero solo soprappensiero.»
«Ehi, non startene troppo sulle tue. Ci servi in perfetta forma. Senza Hyuga sarai tu a guidare l'attacco della
Nazionale. Dovrai segnare tanti gol!» lo incalzò Urabe.
Hanji era sempre stato il trascinatore, ai tempi della Ootomo, e sapeva sempre come motivarlo.
Decise di abbandonare le sue preoccupazioni, almeno per quel periodo, e di partecipare alla partita a carte che Izawa stava
organizzando.
***Note***
Il J-Village non ospita più i ritiri e gli allenamenti
della Nazionale giapponese in seguito al terremoto e allo tsunami che hanno colpito il Giappone nel marzo 2011, ma l’ho mantenuto per una maggiore attinenza con il manga. A partire da
quest'anno verrà riaperto parzialmente e dovrebbe tornare completamente a disposizione dalla prossima primavera.
"Yasha Ga Ike": nota anche come "Demon Pond", è un'opera teatrale
kabuki di genere fantasy, scritta dal drammaturgo Kyoka Izumi nel 1913. Ne sono stati tratti due film, il primo nel 1979 e il remake nel 2005.
La trama, in breve, è questa:
"Anni '30 del Ventesimo secolo. Gakuen, un insegnante, sta cercando Akira, un suo amico scomparso nel nulla. Lungo il
percorso, arriva in un misterioso villaggio nei pressi di un laghetto colpito dalla siccità: lì incontra una giovane e bellissima donna, Yuri, e le chiede del cibo.
Gakuen scoprirà che Yuri è la moglie di Akira, che è anche il custode della campana del
villaggio.
Akira ha una grossa responsabilità: se la campana non viene suonata tre volte al giorno, la principessa
Shirayuki, uno spirito che vive nel laghetto da quando, secoli prima, era stata offerta in sacrificio in cambio della caduta della pioggia, provocherà l'inondazione della città e
l'uccisione di tutti i suoi abitanti.
Un giorno, la principessa Shirayuki riceve una proposta di matrimonio da parte di un principe: lei promette che
lascerà il laghetto in cambio del sacrificio di una vita umana, e Yuri è l'anima prescelta".
Ulteriori informazioni sono disponibili - in inglese - in questi due articoli:
https://www.japantimes.co.jp/culture/2013/06/21/stage/the-bell-tolls-on-demon-pond/
http://www.weirdwildrealm.com/f-demonpond.html
Hina Matsuri significa "festa delle bambole": si tiene
ogni anno il tre di marzo. È dedicata alle bambine che dispongono su una speciale piattaforma le bambole che rappresentano l'antica corte
imperiale.
In questo stesso giorno i famigliari delle bambine pregano affinché vengano concesse alle ragazze salute e
bellezza: si pensa infatti che le bambine in questo giorno trasferiscano tutta la sfortuna alle bambole, allontanandola da sé.
Lo hishimochi è il dolce che si prepara per
questa festa. È composto da tre strati di riso mochi: il verde simboleggia la terra su cui cresce l'erba, il bianco indica la neve e il rosa
rappresenta i fiori di pesco. Insieme questi tre simboli raffigurano l'inizio della primavera: quando si scioglie la neve inizia a crescere l'erba e germogliano i fiori di pesco.
Fonte: http://www.tradurreilgiappone.com/2017/03/03/hina-matsuri-festa-delle-bambine/
Gon Nakayama: è l’alter ego versione manga di Masashi "Gon"
Nakayama, attaccante dello Jubilo Iwata e del Consadole Sapporo. Ha avuto una carriera lunghissima: ha cominciato quando in Giappone non esisteva ancora un campionato professionistico e lo Jubilo
Iwata si chiamava Yamaha Motors; si è ritirato nel dicembre 2012 all’età di 45 anni, per via delle sue ginocchia ormai martoriate dagli infortuni.
È però ritornato all'attività agonistica nel 2015, anno in cui è approdato all'Azul Claro
Numazu, squadra della J League 3 in cui gioca tuttora alla bella età di 50 anni!
È l’autore del primo gol del Giappone a un Mondiale, quello di Francia 1998.
Il suo alter ego compare nel "Road to 2002" e nel "Golden 23" e anche in "Hungry Heart", altro manga calcistico di
Yoichi Takahashi, conosciuto in Italia come "La squadra del cuore".
In queste immagini: Gon nel "Road" con Taro, in "Hungry Heart" e il vero Masashi nel 2002.
Il New National Theatre
di Tokyo (NNTT), in giapponese Shin Kokuritsu Gekijō, è la più importante sala per spettacoli del Giappone: vi si rappresentano opere liriche, balletti, spettacoli di danza contemporanea, pièces di prosa. Inaugurato nel 1997 e situato nel quartiere di Shibuya, dal 2004 ospita i Japan Record
Awards.
Nelle immagini: il NNTT come si presenta all'esterno, e l'interno dell'Opera House.
La ginnastica artistica non è uno sport conosciuto e chiacchierato come il calcio: tutti sanno dire almeno a grandi linee
cos'è, ad esempio, un cross o un pallonetto, ma i numerosissimi elementi della ginnastica artistica sono spesso definibili con precisione solo da chi segue questo sport in modo non
superficiale. Ne esistono poi moltissimi che hanno preso il nome dal primo o dalla prima ginnasta che li ha eseguiti in un Campionato Mondiale o in un'Olimpiade.
In questo capitolo ne ho inseriti due tutto sommato semplici da spiegare e da visualizzare. Nell'esercizio eseguito da Arimi,
l'enjambée è un salto in spaccata. L'uscita è un salto in avanti a gambe tese, in cui la ginnasta ruota su sé
stessa per due volte.
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Capitolo 6 *** Capitolo VI - Frammenti di passato ***
Untitled
Capitolo
VI
Frammenti di passato
«Non tornare più, Elena. Noi non possiamo più stare
insieme.»
Lei scosse la testa e strinse la sua mano tra le sue dita «Non è vero.
Io ti starò vicina. Non ti lascio solo perché …»
Lui la interruppe «No, finirà comunque. Io non sarò più
lo stesso … e neanche tu.» le disse, fissandola con uno sguardo duro.
«Hai fatto presto a fartene una ragione, eh? Sei più tornata a trovarlo
in ospedale? Hai più chiesto sue notizie? Se ti chiedo come si sente, sai rispondermi? No! Lo hai abbandonato ….»
Non aveva mai visto
quello sguardo nei suoi occhi, da che la conosceva. Odio. No. Era disprezzo. Quel disprezzo che viene dalla delusione.
«Mi ha detto lui di non farmi più vedere. E io ho rispettato la sua
volontà. Non ce la facevo più a farmi trattare così.» replicò con voce incrinata, le lacrime stavano per sgorgare dai suoi occhi.
Era la verità. Perché la stava accusando?
«Cosa avrebbe dovuto fare, chiudersi in casa e farsi consumare dalla
disperazione?»
«No, ma avrebbe dovuto lottare insieme a lui.»
Fissò gli occhi
su di lei. Uno sguardo ostile, astioso.
Stentava a riconoscere
la sua compagna di squadra, la sua amica d'infanzia. E poi, parole che mai avrebbe immaginato, un giorno, di sentire pronunciare da lei.
«Sei una codarda, Elena.»
Questo era lei?
Una codarda.
Elena si svegliò di soprassalto e si ritrovò seduta sul letto. Cercò di calmare il suo respiro
spasmodico, con una mano sul petto. Chiuse gli occhi e si passò una mano sulla fronte, trovandola intrisa di sudore. Scostò una ciocca di capelli dal collo e rimase così per
almeno un minuto, prima di accendere la luce dell'abat-jour sul comodino e vedere l'ora indicata sul quadrante della sveglia.
Le sette. Non era ancora ora di alzarsi, ma era anche troppo tardi per sperare di potersi riaddormentare.
Fece per scostare il piumone e le lenzuola, ma vide che erano già stati spinti da una parte, nel sonno.
Sospirò. Si alzò dal letto e andò a spalancare la finestra, per respirare un po' d'aria e
alleviare il senso d'oppressione. Appoggiò le mani sul davanzale e rimase affacciata per qualche minuto, poi prese un asciugamano, i suoi vestiti e il phon, e si diresse verso il bagno.
Carlo si sarebbe alzato mezz'ora dopo: avrebbe approfittato di quel surplus di tempo per farsi una doccia. Visto
quanto aveva sudato, ne aveva decisamente bisogno.
Aveva fatto di nuovo quell'incubo. Quell'insieme di frasi che aveva pronunciato e che si era sentita dire, le voci
nitide delle persone che le avevano espresse costituivano la sua fonte d'angoscia per lunghi mesi, un'angoscia che da quando era arrivata in Giappone era riuscita a tenere a bada.
Era stato tutto reale. Era come se tutto ciò che era riuscita a tenere costretto dentro di sé fino ad
allora fosse esploso in quei pochi minuti, a ricordarle quello che aveva vissuto e ciò che aveva fatto. E che continuava a perseguitarla.
Il corridoio e le altre stanze della casa erano ancora deserte, rischiarate dalla luce del sole.
Entrò nel bagno, si spogliò ed entrò nella doccia, e aprì il getto. La sensazione di
sollievo le consentì di liberare il cervello da quelle parole, da quelle voci, da quelle immagini ancora troppo recenti e troppo nitide.
Rimase lì sotto a lungo. Era come se temesse che quell'incubo ritornasse, una volta uscita da quel flusso
d'acqua. Ma non poteva pretendere che il tempo fermasse il suo corso solo per lei. E, pensandoci bene, neppure voleva: aveva appena cominciato una nuova vita in Giappone, a migliaia di chilometri
di distanza dall'Italia e in una cultura molto diversa. Aveva trovato cose e persone con cui riempire la sua vita, dei motivi per cui sorridere, impegnarsi, andare avanti.
Fermò il getto e uscì dalla cabina. Mentre si asciugava, guardò l'orologio da polso appoggiato
sul mobiletto e constatò che erano passati quaranta minuti. Era davvero tanto, ma si sentiva meglio.
Uscita dal bagno, vide che la luce in cucina era accesa.
Trovò Carlo in piedi davanti al fornello, in procinto di scaldare un pentolino pieno di latte mentre Wilhelm
gli girava pigramente attorno, in attesa che gli desse qualcosa da mangiare.
«Ciao, zio.» lo salutò vivacemente, avvicinandosi al tavolo, e dando una carezza sulla testa del cagnolino che era corso verso di lei.
«Ah, ciao Elena. Come mai già in piedi?»
«Risveglio anticipato.» riuscì a sintetizzare. Poteva capitare, in fondo.
«Molto anticipato. Ho temuto che stessi male.» commentò Carlo, scrutandola.
Elena abbassò un attimo gli occhi, presa alla sprovvista. Non pensava che suo zio l'avesse sentita uscire dalla sua camera. Credeva di non aver fatto rumore oppure semplicemente, anche lui era
già sveglio.
«No, niente di grave. Me la sono solo presa un po' comoda.» ribatté con tono tranquillo.
Carlo annuì, posando un sacchetto di cereali sul tavolo. Elena si chiese se le avesse creduto, ma lui non le
fece altre domande. In fondo, sapeva già tutto: anche lui aveva vissuto parte del suo dramma, seppure in maniera indiretta.
«Vado un attimo in bagno. Lo prepari tu il caffè?» chiese, indicandole la moka e il barattolo
già sul ripiano.
«Certo.»
Wilhelm emise un guaito e riuscì finalmente ad attirare su di sé l'attenzione dei due.
«È da quando sono venuto qui che non fa che girarmi attorno e guardarmi con occhi supplicanti. Dagli una
barretta al manzo, è nella credenza.» sospirò Carlo, alzando gli occhi al cielo, prima di sparire nel corridoio.
Elena ridacchiò e accontentò la richiesta di suo zio, poi prese in braccio Wilhelm per coccolarlo, mentre la stanza si riempiva dell'aroma del caffè.
Nel pomeriggio sarebbe partita per Tokyo, per assistere alla prima partita del Giappone nel girone di qualificazione alle
Olimpiadi, contro la Malaysia, insieme a Kumi, Yukari e agli altri ragazzi del gruppo dei supporter.
Aveva accettato con gioia l'invito dei ragazzi a unirsi a loro e non vedeva l'ora di vedere i calciatori in una partita
vera. Aveva avuto modo di conoscere meglio tutti, in quel breve periodo: nei giorni successivi alla festa a casa di Ishizaki, era andata al campo di calcio comunale ad assistere agli allenamenti
dei ragazzi.
E ora sentiva la loro mancanza. Desiderava rivedere Taro, vedere come si sarebbe comportato in una partita ufficiale, in
cui gli avversari non gli avrebbero fatto sconti e avrebbero fatto tutto il possibile per neutralizzarlo. Era certamente uno dei giocatori chiave della squadra, e il suo ruolo sarebbe stato ancora
più determinante vista l'assenza del capitano Oozora. Sentire gli elogi di un giocatore affermato come Nakayama l'aveva riempita di gioia.
L'aveva incitato durante le partitelle, nella speranza di vederlo segnare un gol contro Wakabayashi. Aveva avuto
l'impressione che il SGGK, dopo ogni parata, rivolgesse il volto verso di lei con un sorriso sghembo, per poi rinviare la palla verso uno dei difensori. Lei sorrideva e ci scherzava sopra.
Le capitava spesso di conversare con lui dopo aver concluso gli sparring con Carlo o con gli altri allievi del dojo e avevano ormai una certa confidenza, anche se i loro dialoghi si limitavano a qualche scambio di opinione sul calcio o sul kickboxing.
La prospettiva di una giornata che si annunciava piena e ricca di emozioni placò l'angoscia avvertita fino a pochi
minuti prima, permettendole di mettere da parte pensieri e ricordi.
La ragazza si recò alla palestra Shiroyama per fare alcuni esercizi di ginnastica, come faceva quasi ogni
mattina e in alcuni pomeriggi, prima della lezione, per riprendere confidenza con la pratica del suo sport, al riparo da occhi indiscreti.
Era domenica, ma in quanto insegnante possedeva una copia delle chiavi della palestra.
Guardò le parallele: ancora non se la sentiva di riprenderle. Si limitò agli esercizi di riscaldamento
e al corpo libero, che le permetteva comunque di esprimersi e liberare la mente.
Si sentiva sempre più sicura: i movimenti diventavano sempre più fluidi, e il ginocchio non le aveva
dato problemi, a parte il normalissimo indolenzimento dovuto alla lunga inattività.
Quel pomeriggio non c'erano lezioni
in programma e ne avrebbe approfittato per esercitarsi. Poi sarebbe tornata a casa a prepararsi per la trasferta a Tokyo.
Pur con quella prospettiva, non riusciva a non pensare ad Arimi, che
aveva dimostrato di essere un'allieva molto difficile da gestire e aveva respinto regolarmente i suoi tentativi di coinvolgerla nelle lezioni.
Elena era convinta che alla fine, la signorina Shiroyama l'avrebbe
ripresa con sé per sfinimento, ma non voleva permetterlo, perché aveva ormai capito per quale motivo non era
stata reinserita subito nel gruppo e rischiava di bruciarsi nonostante le sue enormi potenzialità.
Si era ripromessa di trovare una soluzione, ma non era ancora riuscita nell'intento.
«Devo trovare un modo per farle cambiare atteggiamento … ma come posso fare?»
La questione non era facile da risolvere e si chiedeva se in realtà Mayuko, escludendola dalle gare di Numazu,
non le avesse sottratto un'occasione per cominciare a costruire un rapporto con le sue compagne.
«È sicura di fare la cosa giusta, signorina Shiroyama?» le aveva chiesto il giorno prima.
L'insegnante aveva assentito, sicura «Quella di Numazu è solo un'esibizione. La gara vera è
quella in programma ad inizio aprile, quando verranno decise le ultime qualificazioni al campionato nazionale. Parteciperanno soltanto le squadre e per allora voglio un gruppo unito e affiatato. Le
esibizioni sono individuali, ma il punteggio sarà di tutta la squadra.»
«Ma essere insieme alle sue compagne l'avrebbe aiutata a rendersi conto di quanto fosse sbagliato il suo
atteggiamento.» insistette la ragazza.
Ma Mayuko aveva scosso la testa «Tu sei qui da poco tempo Elena, e non la conosci come la conosciamo noi. No,
avrebbe pensato solo a sé stessa e a vincere la gara, come sempre, senza curarsi delle sue compagne. È per questo che ho affidato a te questo compito.»
Uscita dalla palestra, decise di approfittare della bella giornata andando a fare una passeggiata al parco
Hikarigaoka. I rami degli alberi stavano cominciando a riempirsi di foglie e presto avrebbe finalmente assistito di persona a uno degli eventi dell'anno in Giappone: la fioritura dei ciliegi. Fino
ad allora aveva solo ammirato delle splendide fotografie e immagini televisive: i suoi pochi viaggi precedenti erano sempre avvenuti a estate ormai inoltrata.
Giunse nella sua area preferita: il belvedere da cui si poteva osservare l'intera Nankatsu, o meglio "la villa di
Wakabayashi e poi tutto quello che c'è intorno" come diceva Carlo, ed effettivamente era inevitabile posare gli occhi su quell'enorme dimora.
Mise il borsone sulle cosce e chinò la testa per cercare il pacchetto in cui era rimasta l'ultima caramella
balsamica.
«Disturbiamo?» una voce femminile le fece alzare la testa di scatto. Si ritrovò a
fissare con aria interrogativa, la caramella in bocca e le mani ancora dentro la borsa, la giovane donna castana dai tratti
occidentali in piedi accanto alla panchina, con un passeggino in cui dormiva una bellissima bambina con un piumino bianco.
«Oh, sei una gaijin
anche tu!» esclamò notando i lineamenti occidentali e i capelli biondi della ragazza «Sorry. Can we sit here?» chiese passando all'inglese, pensando che la sua reazione fosse dovuta alla mancata comprensione della lingua locale.
«Certo.» rispose Elena in giapponese, con un sorriso, riponendo il pacchetto ormai vuoto nel borsone.
«Non si preoccupi, conosco bene il giapponese.»
«Ah, bene. Grazie.» sorrise a sua volta con un cenno d'approvazione e si sedette sulla parte di panchina
libera. Posò la borsa e avvicinò il passeggino. Indossava un elegante cappotto e aveva un portamento signorile, senza risultare affettato o sussiegoso. «Non è così
frequente incontrare altri stranieri in zone lontane dalle metropoli come questa.» commentò, mentre si sporgeva verso la bambina.
«Sono arrivata qui da poco.» replicò Elena dopo qualche secondo, non trovando nulla di meglio da
dire.
«Anch'io. Sono qui dall'inizio dell'anno e sono sposata con un giapponese. È tornato qui
per dirigere l'azienda della sua famiglia e io e i nostri figli lo abbiamo seguito.» spiegò e i suoi
occhi si posarono, istintivamente, sulla villa che spiccava nel panorama di fronte a loro. «Beh, a questo punto
mi presento. Mi chiamo Annie.» disse, volgendo nuovamente lo sguardo verso di lei e tendendole una mano.
Elena dopo un attimo di sorpresa, la strinse. «Io sono Elena.»
«Io sono inglese, di Londra. E tu?» proseguì Annie, che aveva notato la circospezione della
ragazza.
«Italiana. Vengo da Roma.» rispose l'altra, tentando di sembrare un po' più sciolta.
Annie rise. «Sembrano frasi da manuale di conversazione.»
«È vero!» rispose, unendosi alla risata e sentendosi finalmente più a suo agio.
«Cosa ha portato qui una gaijin come te?» continuò,
mantenendo il dialogo su un tono scherzoso che la sua interlocutrice sembrò apprezzare.
«Insegno ginnastica artistica in una palestra della città.» rispose, ormai libera dall'iniziale
impaccio.
Annie assentì. «Anch'io sono un'insegnante. Di inglese. Il prossimo mese torno al lavoro, dopo il
periodo di congedo per maternità.» disse, guardando con immensa dolcezza la figlia, ancora placidamente addormentata.
«Ha una bambina bellissima.» disse Elena, guardandola intenerita.
«Già.» sorrise l'altra, sfiorando una morbida guancia di Aiko con il dorso dell'indice
«Oltre a lei, ho un frugoletto di cinque anni, identico a suo padre. Devo dire che non ci danno molti problemi. Con due bambini così, è facile conciliare gli impegni.»
«Insegnare non è un mestiere semplice.» sospirò Elena, stupendosi poi di essersi lasciata
sfuggire quello sfogo. In fondo, conosceva quella donna da pochi minuti e lei aveva anche avuto un atteggiamento piuttosto rigido quando aveva attaccato discorso. Ma Annie le sorrise comprensiva,
trovandosi d'accordo con quanto aveva affermato.
«No, effettivamente. Può dare molta soddisfazione, ma anche innervosire. Succede quando si
ha a che fare con allievi particolarmente difficili. In quel caso, bisogna provare a parlare con loro e a mettersi nei loro panni, per quanto possibile.»
Elena sgranò gli occhi, come se fosse stata colpita da una rivelazione. Mettersi nei panni … le
considerazioni di Annie le avevano dato un'idea.
Le due continuarono a parlare per un po', soprattutto delle differenze tra la parte di mondo da cui provenivano e il
Giappone.
Aiko si svegliò in tempo per vedere per la prima volta il viso di Elena e farle un sorriso, prima che lei e la
sua giovane mamma si salutassero.
Il gruppo dei supporter della Nazionale partì con un pullman da Nankatsu. Elena, su insistenza di Kumi e Yukari, aveva accettato di unirsi a quei ragazzi e di assistere almeno alle partite al Tokyo National
Stadium e ora si trovava seduta in uno dei sedili anteriori insieme a Kumi, mentre Yukari sedeva in quelli dell'altra fila accanto a Manabu Okawa. Dietro di loro c'erano Kenichi Iwami, Koji Nishio, Masao Nakayama, altri ex giocatori della Nankatsu che avevano scelto di
intraprendere carriere diverse da quella sportiva e i due storici, irriducibili capotifosi Kazuchige Ichikawa e Koji
Nakano. Insieme a molte altre persone costituivano il nuovo gruppo dei supporter, fondato due anni prima da Sanae Nakazawa, che aveva esordito come meglio non si sarebbe potuto sperare in occasione
del World Youth.
Quando arrivarono a pochi metri dal National Stadium, il piazzale era colmo di tifosi entusiasti, quasi
tutti indossavano la maglia del loro giocatore preferito e chi non aveva quelle dell'Under 23 aveva sopperito con le casacche di calciatori della Nazionale maggiore. Ne aveva viste alcune con i
nomi di due ex giocatori di Serie A tra i più amati in patria, Nakata e Nakamura, e non mancavano quelle di Gon Nakayama. C'era anche un piccolo gruppo di tifosi malesi, anch'essi ridenti e gioiosi nonostante i pronostici
non molto generosi con la loro Nazionale.
Il gruppo si era sistemato nella zona centrale della curva riservata alla squadra di casa, nelle prime file.
Avrebbero avuto un'eccellente visuale della partita e i giocatori avrebbero di certo sentito i loro incitamenti e i loro cori.
Di lì a poco entrarono in campo le due formazioni, ai lati della terna arbitrale.
Si disposero in fila orizzontale, ordinati e composti durante l'esecuzione dei rispettivi inni nazionali.
Seguì lo scambio dei gagliardetti tra il capitano giapponese Matsuyama e quello malese, e il tiro a sorte che
assegnò il calcio d'inizio ai padroni di casa.
Gli spalti erano gremiti, colorati di blu, bianco e rosso come i colori della maglia e della bandiera nipponiche. Un folto
gruppo reggeva una gigantesca bandiera con l'inconfondibile simbolo del Sol Levante. Un'altra comitiva faceva un allegro baccano con trombette, tamburi e gridava slogan e cori, alcuni aiutandosi
con un megafono.
La luna splendeva nel cielo oltremare. L'aria era pungente, ma presto nessuno ci fece più caso:
la squadra allenata da Kozo Kira aveva imposto il suo gioco fin da subito e dopo pochi minuti era passata in vantaggio proprio con un bellissimo pallonetto di
Misaki, che fece esplodere la tifoseria in un primo, fragoroso boato.
L'entusiasmo dei tifosi contagiò presto anche Elena che si ritrovò a tifare insieme a loro, come se il
Giappone fosse stato anche la sua Nazionale.
Osservò ammirata il gioco dei giovani giapponesi: dinamico,
agile, propositivo. Molti di loro avevano davanti una potenziale carriera di prestigio: oltre a Wakabayashi e a Taro che erano alla pari dei migliori talenti mondiali, fu colpita dalla classe e
dalla visione di gioco di Jun Misugi, dalla grinta e dall'abilità nel possesso palla di Hikaru Matsuyama, dalla
combattività di Shun Nitta, che si avventava su ogni pallone che gli capitava proprio come un falco e anche dall'agilità e dalle doti acrobatiche del suo partner d'attacco, Ken
Wakashimazu il cui ruolo principale, le avevano raccontato i ragazzi, era quello di portiere e alle Olimpiadi, con la presenza di Hyuga, avrebbe probabilmente conteso la porta a
Wakabayashi.
Anche per questo Nitta si impegnava come un ossessionato: Kira avrebbe potuto decidere di confermare
Wakashimazu in attacco e affiancarlo alla Tigre, di cui aveva sentito parlare quando ancora si trovava in Italia. Aveva esordito in Serie A con la Juventus ma prima della chiusura della sessione
estiva di calciomercato era stato mandato in prestito alla Reggiana, per farsi le ossa, e come Oozora, Aoi e Akai non era stato convocato dal c.t.
Il Giappone era forte in tutti i reparti: oltre a Wakabayashi e a Misugi, la difesa poteva contare su altri elementi
molto validi come l'altro difensore centrale Gakuto Igawa e i due terzini Soda e Ishizaki.
La popolarità del calcio in Giappone era cresciuta moltissimo negli ultimi anni e, se la Nazionale Olimpica
era davvero così forte da essere denominata “la Generazione d'Oro”, era destinata a raggiungere livelli che al momento era difficile immaginare. Un vero e proprio sogno, come lo
aveva sentito definire più volte dai ragazzi.
All'ennesimo gol, su colpo di testa di Igawa, Kumi afferrò le mani di Elena e si mise a saltellare,
coinvolgendola nella sua euforia. Yukari le osservò divertita.
Kumi era cresciuta, ma l'esuberanza era sempre la stessa e in fin dei conti era un aspetto del suo carattere che
apprezzava, da quando non era più soltanto espressione della sua predilezione-fissazione per Tsubasa.
Taro giocò senza risparmiarsi. Aveva sviluppato una grande capacità di anticipare ed evitare gli
interventi degli avversari, sfruttando al meglio ogni giocata. Insieme a Misugi e Matsuyama formava un formidabile trio tra difesa e centrocampo, non a caso battezzato "le tre M" da cronisti,
commentatori e tifosi.
Sul finire del match, un tentativo dell'attaccante della Nazionale
malese venne sventato senza difficoltà da Wakabayashi. Per lui fu una partita di relax quasi totale, ma seppe tenere alta la concentrazione.
L'arbitro soffiò per tre volte nel fischietto, decretando la fine della partita. La prova del Giappone era
stata a dir poco strepitosa. Certo, la Malaysia si era dimostrata un avversario molto debole, ma il punteggio finale di 6-0 era segno di un grosso divario tecnico tra le due squadre.
I ragazzi corsero sotto la curva, dove i tifosi li chiamavano e li acclamavano, sventolando le loro bandiere,
avvicinando i loro striscioni, stringendo e agitando i pugni e ostentando il segno di vittoria.
I giocatori nipponici giunsero nel piazzale fuori dallo stadio, chiacchierando in allegria, come al solito.
Elena andò verso Taro, non appena lo vide comparire tra gli altri ragazzi. Aveva seguito la sua gara con
entusiasmo ma anche apprensione per le condizioni della sua gamba e adesso non vedeva l'ora di fargli i complimenti.
«Sei stato grande.» gli disse semplicemente, con uno sguardo carico d'ammirazione.
«Grazie. Ed è solo l'inizio.» sorrise, complice.
Elena annuì. Ne era più che certa.
Misaki e Ishizaki le presentarono i giocatori che lei ancora non conosceva e che la guardavano incuriositi per via
della sua evidente familiarità con il centrocampista. Si complimentò in particolare con Misugi e Matsuyama, i giocatori che più l'avevano colpita insieme a Igawa e Wakashimazu,
e loro le introdussero le rispettive fidanzate, Yayoi e Yoshiko, e l'altra ex manager della Furano, Machiko.
Il c.t. Kira aveva deciso di concedere una mezza giornata di riposo ai suoi giocatori: alcuni sarebbero tornati
comunque in albergo per passare le loro ore di libertà in giro per Naraha e dintorni; altri, in gruppo oppure in dolce compagnia, sarebbero rimasti a Tokyo, per rientrare in tarda
mattinata.
«Ehi, dov'è finito Wakabayashi?» chiese Soda, guardandosi intorno.
«È già andato via, con la Ujimori.» rispose Takasugi.
«Ujimori? Come l'industriale dell'acciaio?» chiese Jito, che pur infortunato aveva seguito la partita
dagli spalti ed era sceso a salutare i suoi compagni.
«Sì, è sua figlia.» confermò il difensore dell'Hiroshima Sanfrecce.
«Io ho visto le sue foto sulle riviste della signora Saito. È una gran bella ragazza.»
commentò Sano e diversi giocatori annuirono.
«E Wakabayashi esce con lei?» chiese di nuovo Soda, complimentandosi mentalmente con il portiere per il
suo buon gusto.
Ryo annuì. «Si conoscono da bambini, perché i loro genitori sono amici di vecchia
data. Anni fa la vedevo spesso a casa sua, e a quanto pare sono sempre rimasti in contatto. È che al nostro portierone non piace parlare di queste cose, ma non pensate che non abbia una vita sentimentale!»
«Tu sei il "Friday" della squadra e non ci hai mai raccontato niente!
Non gli hai mai fatto neanche una battuta!» protestò Urabe.
Ryo fece spallucce «Perché non c'è gusto. Wakabayashi chiude gli occhi, accenna un sorriso e poi
ti risponde con quel tono serafico e pieno di sarcasmo che ti fa sentire un idiota.» ammise, quasi con riluttanza. «Le sue reazioni non sono spassose come quelle di Tsubasa o di
Matsuyama.»
« … o di Hyuga!» intervenne Soda «Vi ricordate quando ha rincorso Sawada per tutto
l'albergo?» rievocò suscitando una risata generale, come se la scena si stesse riproponendo davanti ai loro occhi.
«E chi se la scorda? Scommetto che a Takeshi vengono i sudori freddi ancora adesso!» affermò
Sorimachi passando un braccio attorno alle spalle dell'amico, che si limitò a sorridere imbarazzato.
«Visto che ormai siamo in argomento» continuò Izawa «secondo voi quei due …»
disse facendo cenno con un movimento del capo a Taro ed Elena, pochi metri più indietro rispetto al gruppo: erano in piedi davanti a un chiosco con una bibita in mano ciascuno, intenti a
conversare.
«Non so. Si conoscono già da sei anni, a quanto mi ha detto lui. Sembrano molto in confidenza. Io li
punzecchio proprio per vedere se si tradiscono, ma forse sono davvero solo amici come insistono ad affermare.» riconobbe Ishizaki.
«Eppure li vedo sempre vicini. Avete visto quando siamo arrivati qui, la prima cosa che ha fatto Elena è
stata andare da Misaki, e poi lo incitava sempre durante le nostre partitelle. Secondo me c'è qualcosa di più.» obiettò Taki.
Ryo sbatté gli occhi, perplesso. «Ho provato ad osservarli e a volte ho l'impressione che lei lo
consideri più come un confidente, una specie di fratello maggiore.»
«Chissà. Magari è la classica storia dei due amici che si scoprono innamorati l'uno
dell'altra.» ribatté Urabe, per nulla convinto e anzi, stupito dalla disamina priva dell'abituale malizia del suo compagno di reparto.
«Se così fosse, mi sa che qualcuno potrebbe
rimanerci molto male.» gli rispose con aria sorniona, rifiutando di aggiungere altro nonostante l'evidente curiosità dei compagni.
«Mamma mia quanto siete pettegoli! Peggio del salone della mia parrucchiera!»
li riprese Kumi, raggiungendo il gruppo insieme a Yukari e agli altri ragazzi del team dei supporter.
«Però ci hai ascoltati, visto che sai di cosa stavamo parlando!» ribatté Ryo.
«Per forza, parli a voce talmente alta che ti sentirebbero anche dentro lo stadio.»
ribatté mettendosi le mani sui fianchi e sporgendosi leggermente in avanti.
Ryo alzò le spalle «È soltanto un po' di sano e rilassante gossip. Tu quando ti decidi a darci un
po' di materiale?»
Nel frattempo, Elena e Taro avevano lasciato il chiosco e stavano raggiungendo il
gruppo, apparentemente ignari delle disquisizioni dei loro amici.
Kumi scosse la testa con un accenno di sorriso «Non credo vi darò questa soddisfazione.»
Ryo inclinò la testa e la guardò con aria saputa «Ne sei davvero così sicura?»
«Ragazzi, è arrivato il nostro autista!» l'annuncio di Manabu fu provvidenziale, perché
Kumi non avrebbe saputo cos'altro replicare.
«Andiamo a fare una bella mangiata?» propose Ryo «Questa partita mi ha fatto venire una
fame pazzesca.» disse, accarezzandosi la pancia con un movimento circolare.
«Tu non hai certo bisogno di giocare una partita per farti venire l'appetito.» lo canzonò
Yukari.
«Io non posso, domani ho la lezione di giapponese e il mio lavoro.» disse Elena, stringendosi nelle
spalle.
«E io aiuto mia madre nella cartolibreria.» aggiunse Kumi.
Yukari rimase a Tokyo con Ryo, mentre gli altri ragazzi del team tornarono a Nankatsu con Kumi ed Elena.
L'italiana si aspettava che la sua vicina di posto partecipasse alla conversazione in cui gli altri ragazzi,
instancabili, erano più che mai coinvolti, commentando con trasporto ed entusiasmo le innumerevoli azioni da gol e giocate che la squadra di Kira aveva regalato ai suoi sostenitori, ma con
sua sorpresa notò che aveva preso il suo iPod, aveva sistemato le cuffie nelle orecchie e aveva poi chiuso gli occhi, accomodandosi meglio sullo schienale. Evidentemente, doveva essere
stanca, inoltre anche lei doveva lavorare il giorno dopo e forse voleva guadagnare un po' di riposo. Comprensibile anche per una ragazza con l'argento vivo addosso come lei.
Asami era scesa nel parcheggio antistante il National Stadium, dopo aver assistito alla partita, in tribuna.
Genzo era stato uno dei primi a uscire e avevano lasciato insieme lo stadio, sull'auto di lei.
Dopo aver cenato in uno dei ristoranti più esclusivi di Shinjuku, aveva accettato l'invito della ragazza a
passare ancora un po' di tempo insieme nel suo appartamento, in cui lei si fermava per seguire più comodamente i corsi universitari.
Erano, ora, seduti sul divano rivestito in damasco del salotto. Lei aveva un braccio appoggiato alla spalliera e una
mano sotto il mento. Una tazza di amazake allo zenzero era appoggiata sul basso tavolino davanti a loro, l'altra era tra le mani di Genzo.
«È salito sul tavolo e ha cominciato a cantare canzoncine oscene e dimenarsi agitando due ventagli con
il Sol Levante, proprio come Ichinose, hai presente?» Genzo annuì e sogghignò immaginando la scena che aveva per protagonista il giovane e inappuntabile avvocato Hideaki
Miyamoto, con cui la ragazza aveva da poco troncato una relazione iniziata due anni prima.
Si chinò per posare la tazza ormai vuota sul tavolino, poi tornò a guardare Asami.
«Tutti ridevano a crepapelle, ma io mi sono sentita quasi sprofondare dalla vergogna. L'ho lasciato pochi
giorni dopo. Ti pare che io potessi stare con un tipo del genere?»
Genzo piegò leggermente le labbra «In questo tipo di feste può capitare di alzare il gomito e
lasciarsi un po' andare.» replicò diplomatico. «Mi hanno detto che è un bravo
avvocato.»
Asami fece una piccola smorfia «Sì … ma per il resto non è un tipo molto serio. Una notte
è
stato visto uscire da un love hotel seguito, pochi minuti dopo, da una donna.
E non ero io.»
Genzo la guardò con comprensione. «Se la situazione era questa, hai fatto bene a chiudere.»
«Si è fatto tardi?» chiese la ragazza, guardando l'ora sull'orologio appeso alla parete di fronte.
Erano quasi le due del mattino.
Genzo scosse la testa, sorridendo. Aveva colto la nota dispiaciuta nel tono della ragazza. «Per questa sera non
siamo obbligati a rientrare subito al J-Village. Kira ci ha lasciato libera tutta la mattinata di domani.»
«Davvero?» Asami sorrise «E dove passerai la notte?» il tono di voce si era fatto più
basso, sensuale. Gli occhi brillavano, con una punta ben visibile di malizia.
Senza aspettare una risposta, Asami si avvicinò e gli carezzò l’angolo destro della bocca con le
labbra, per poi spostarsi verso il centro. Lui rispose a quell’invito, muovendo le labbra contro quelle della ragazza. Fece una leggera pressione, alzando una mano a sfiorarle una guancia,
accarezzandole il viso, fino a raggiungere i suoi lunghi fili di seta.
Asami dischiuse le labbra, soddisfatta: sapeva che avrebbe dovuto solo toccare i tasti giusti, per convincere Genzo
che poteva lasciarsi andare.
Le afferrò i fianchi con delicatezza e la portò sopra di sé.
Asami mise le mani sulle spalle di Genzo, e lentamente si staccò.
Il suo sguardo comunicava dolcezza mista ad audacia. Si alzò e Genzo fece altrettanto, le loro
labbra entrarono nuovamente in contatto, dando vita a un bacio ancora più carico. Asami portò una mano sul collo di Genzo e infilò le dita dell’altra tra i suoi
capelli, mentre le grandi mani di lui le accarezzavano i i fianchi e si infilavano, lente, sotto il dolcevita azzurro, provocandole dei fremiti. La pelle
tremava di piacere sotto le dita del portiere, i loro corpi percepivano il reciproco desiderio.
Asami fece scivolare le sue mani sull'ampio e muscoloso petto di lui,
accarezzandolo piano.
Le mani della ragazza scesero sui bicipiti, fino a raggiungere le mani e stringerle.
Si staccarono un'ultima volta. Nei loro sguardi una richiesta, un'esortazione che non aveva bisogno di parole.
Si alzò senza fare rumore, per non svegliare Asami profondamente addormentata e con un’espressione
serena sul volto. Il pensiero di essere, con ogni probabilità, la causa di quello stato d’animo gli dava una sensazione molto bella, perché anche lui si era sentito bene come
non gli accadeva da tempo.
In fondo, l'aveva voluto quanto lei. Era stato felice di rincontrarla
quella sera al Ritz Carlton ed era rimasto subito affascinato dalla sua bellezza e dalla sua
grazia naturale, così come dalla sua dolcezza. Era una riscoperta, dopo tanti anni vissuti in Germania e i quattro trascorsi da quel periodo in cui era stato vicino a iniziare una storia con
lei.
Aveva sempre accettato i suoi inviti perché desiderava davvero vederla e passare del tempo con
lei. E sapeva quale piega avrebbe preso quella serata … soltanto, con lei non poteva permettersi un breve flirt, non
era una modella o aspirante star del mondo dello spettacolo con cui amoreggiare per pochi mesi; andare oltre con Asami, significava avviare una storia seria. E lui temeva di non essere
pronto, di non essere in grado di fare promesse che quei legami in genere comportano. Lei aveva capito e aveva saputo
convincerlo a provarci almeno.
Gli sembrava che tutto cominciasse ad andare alla perfezione. Le qualificazioni erano iniziate come meglio non si
poteva sperare, la presenza di Hiroji, Annie e dei suoi nipotini aveva portato a villa Wakabayashi un’allegria e vivacità che mancava da quando il suo fratello più grande si era
trasferito a Londra e anche i suoi genitori avevano cominciato a essere poco presenti, per via dei loro numerosi impegni.
Uscì dalla doccia, si asciugò e indossò un paio di jeans e una felpa nera, e tornò in
camera da letto.
«Te ne vai di già?»
Asami, distesa su un fianco, con il lenzuolo che la copriva fino all'attaccatura dei seni, doveva essersi svegliata
da poco: la sua voce era bassa e ancora lievemente assonnata.
Genzo annuì «Kira ci aspetta tutti per mezzogiorno.»
Asami si sollevò su un braccio e assentì, curvando un po’ le labbra «Peccato. Avrei voluto
rimanessi un altro po’.» aveva ancora addosso la sensazione delle mani e della bocca del portiere a percorrere tutto il suo corpo.
Genzo trattenne per un attimo il respiro. Era splendida ... dovette respingere la tentazione di spogliarsi e amarla di
nuovo.
Si avvicinò e si abbassò a baciarla, e quando si
staccarono, la piccola smorfia di delusione si era trasformata in un sorriso disteso e comprensivo.
«Ci vediamo.» le sussurrò, prima di lasciare la stanza.
Era ormai notte quando il pullman con i ragazzi del gruppo dei supporter giunse nella stazione degli autobus e delle
corriere di Nankatsu.
«Ciao ragazzi! Allora mi
raccomando, tra due settimane ancora qui per la partita contro il Bahrein.» disse Ichikawa, dopo che furono tutti scesi dall'autoveicolo. «Ah, e complimenti Elena, sei una vera tifosa
del Giappone!»
«È impossibile non appassionarsi con una squadra così.» replicò sorridendo.
Le due salutarono i loro compagni e si incamminarono verso le rispettive abitazioni. Avrebbero percorso la maggior parte del tratto di strada insieme.
«Ehi, ragazze!» sentirono chiamare da una potente voce maschile, emergente dalla quiete notturna.
Kumi mise una mano su un braccio di Elena e fece cenno con la testa verso un konbini lì vicino.
In piedi, appoggiato al muro della facciata c'era Carlo, con le mani nelle tasche della giacca e due sacchetti di
carta bianchi collocati sulla panchina accanto.
«Zio! Come mai qui?» chiese Elena sorpresa,
raggiungendolo. Kumi lo salutò con un leggero inchino.
«Ho pensato di accompagnarvi a casa, vista l'ora. E, pensando che aveste fame, vi ho preso qualcosa di gustoso
ma che non vi rimarrà sullo stomaco.» disse, prendendo i due involti e porgendoli alle due ragazze.
Lo sguardo di Kumi si illuminò al solo sentire l'odore del contenuto «Wow, onigiri!» squittì infilando una mano e mettendosene subito uno in bocca «Lei è un vero cavaliere, signor Nerlinger.»
«Beh, direi un samurai, visto che siamo in Giappone e con il lavoro che faccio.» rise.
«Sì, il “samurai dagli occhi di ghiaccio”. Non è così che ti chiamano i tuoi
fan nipponici?» intervenne Elena, dandogli di gomito, prima di prendere anche lei una polpetta dal suo sacchetto.
«Già.» ridacchiò «Sembra il titolo di un film con Bruce Lee. Però mi diverte
questo soprannome.»
«E poi le si addice.» disse Kumi, fissando i suoi occhi con ammirazione.
Elena sorrise divertita, scrutando suo zio che sorrideva con una punta d'imbarazzo. Ogni volta si stupiva di come si
schermisse quando riceveva apprezzamenti sul suo aspetto fisico, anche quando erano, appunto, complimenti e niente di più, come nel caso di Kumi e non certi commenti da bollino rosso che
sentiva quando faceva lo sparring con i suoi allievi o con Wakabayashi. Fin da piccola lo aveva visto reagire in quel modo, e non era mai cambiato negli anni. Contrastava con l'immagine del
guerriero determinato che mostrava sul ring e sui servizi fotografici, e in generale con lo spirito con cui affrontava ogni sfida, sportiva e non.
«Però dopo che avrai appeso i guantoni al chiodo, potresti veramente fare l'attore.»
riprese «Sei fotogenico e hai il physique du rôle. Potresti diventare il nuovo divo
del cinema d'azione, sulla scia di Jean-Claude Van Damme o Dolph Lundgren. Avresti una villa a Malibu o a Beverly Hills,
attico a New York, auto lussuose con autista personale, tappeti rossi e stuoli di donne adoranti ai tuoi piedi.» elencò con occhi sognanti, ma in realtà faticava a trattenere
una risata, così come Kumi.
Carlo infatti, stava già storcendo la bocca. «No grazie, non fa per me. Mi diverte guardare
quei film, ma non vi reciterei mai, mi sentirei ridicolo. Le arti marziali sono una cosa seria, non sarei capace di dar vita a combattimenti il cui esito è stato già stabilito in un
copione. E poi mi toccherebbe pure fare inseguimenti in auto, sparatorie e magari brandire spade e pugnali e tutto senza procurarmi neppure un graffio. No,
quando smetterò, rimarrò nel mondo del kickboxing come allenatore o istruttore, come già sto facendo.» concluse risoluto. Poi
consultò l'orologio al suo polso «Signorine, è meglio tornare a casa, altrimenti domattina sarete troppo stanche.»
«Hai ragione, sensei.» concesse Elena, sempre con il tono leggero
che aveva avuto per tutta la conversazione. Era evidentemente di buonumore e la cosa fece molto piacere a Carlo, che l'aveva vista seria e pensierosa al mattino, mentre facevano colazione, anche se
nelle poche frasi che si erano rivolti la ragazza aveva usato un tono spensierato. Gli era sembrato artificioso, così come era inconsueto da parte sua trascorrere tanto tempo in bagno. Ma
conosceva bene sua nipote … abbastanza da intuire il motivo di quel comportamento. Sperava solo che quegli eventi non cominciassero a verificarsi spesso.
«Senti com'è spiritosa, stasera. È stato vedere la partita che ti ha reso così
allegra?»
«Può darsi.» rispose guardando Kumi con aria complice. Quest'ultima, forse per la stanchezza,
rispose con un sorriso appena accennato.
Le due ragazze gettarono i sacchetti nel cestino della spazzatura e si incamminarono verso il loro quartiere, seguite
da Carlo.
***Note***
Gaijin: termine giapponese, significa letteralmente
"persona esterna al Giappone", quindi "straniero" usato per lo più in senso dispregiativo dagli indigeni, ma qui con ironia da Annie.
Esiste un termine ufficiale, più neutro, usato dai giapponesi per indicare gli stranieri, ovvero gaikokujin, che significa "persona di una terra esterna al Giappone".
"Sorry. Can we sit here?": "Scusami. Possiamo sederci
qui?"
"Friday" è un settimanale di gossip tra i
più letti in Giappone, quanto di più simile ai nostri "Novella 2000" o "Chi".
Amazake: bevanda dolce a bassa gradazione alcolica, ottenuta dalla fermentazione del riso.
Hanae Ichinose è un
personaggio del manga "Maison Ikkoku" (in Italia è stato intitolato "Cara dolce Kyoko") di Rumiko Takahashi,
pubblicato in Giappone a partire dal 1980, da cui è stato tratto un anime nel 1986.
Ichinose è solita ubriacarsi in compagnia degli altri inquilini del residence ed esibirsi in ridicoli balletti
agitando due ventagli con il simbolo del Sol Levante, per la disperazione di Kyoko, Godai e soprattutto del figlioletto Kentaro.
Love hotel: alberghi diffusi in tutte le città del
Giappone dove le coppie possono trascorrere ore di intimità con assoluto rispetto della privacy, in ambienti spesso arredati con gusto decisamente kitsch.
Konbini: abbreviazione del termine inglese convenience store; si tratta di supermercati aperti sette giorni su sette, 24 ore su 24, diffusissimi in Giappone.
Onigiri: riso
bollito preparato in bocconcini di forma sferica o triangolare, ripieni a scelta di prugne in salamoia, pezzetti di salmone o di tonno, e avvolti da una sfoglia di alghe o ricoperti di sesamo.
Jean-Claude Van Damme è un ex campione di kickboxing e attore belga di
film d'azione, in cui ha fatto sfoggio delle sue abilità nelle arti marziali. Uno dei suoi film più celebri si intitola proprio "Kickboxer" (1989).
Dolph Lundgren è un attore svedese interprete di molti film d'azione,
ma il suo ruolo più famoso è senz'altro quello del pugile sovietico Ivan Drago in "Rocky IV" (1985): celeberrima la frase "Io ti spiezzo in due" pronunciata prima di affrontare Rocky
Balboa sul ring.
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Capitolo 7 *** Capitolo VII - Presa di coscienza ***
Untitled
Capitolo
VII
Presa di coscienza
«Misaki?»
«Arrivo.» Taro finì di allacciarsi lo scarpino sinistro e raggiunse Jun Misugi, che
lo stava aspettando sulla porta dello spogliatoio. I due ragazzi raggiunsero rapidamente i loro compagni, già in fila di fianco alla squadra thailandese
e dietro alla terna arbitrale, pronti a entrare nel campo del Rajamangala National Stadium di Bangkok.
Temeva quella partita: un clima molto più caldo e umido di quello di Tokyo, una squadra ben
più esperta e competitiva di quella malese e un difensore come il capitano Bunnark, alto, robusto e potente, ulteriormente migliorato dopo le due stagioni di Liga spagnola. Lui lo affrontava
per la prima volta: lo aveva osservato in Thailandia prima del World Youth, quando era stato escluso da Gamo.
Aveva già avuto modo di confrontarsi con difensori molto forti come quelli danesi, nigeriani e paraguayani
nelle amichevoli disputate tra autunno e inverno, ma era certo che lo attendeva un confronto ancora più duro di quelli già superati.
Aveva guardato più volte le registrazioni delle sue partite e anche se cercava di mostrarsi
tranquillo, la sua tensione era evidente. Cosa che a Genzo non era sfuggita.
«Sei preoccupato?» gli aveva chiesto due giorni
prima durante il pranzo, sedendosi accanto a lui sulla sedia lasciata libera da Izawa.
Taro lo aveva guardato rassegnato. Non sarebbe servito a nulla mentire con Wakabayashi. «Un po'. Quel Bunnark
… temo i suoi interventi.» aveva ammesso.
Genzo gli aveva rivolto un sorriso canzonatorio «Se cominci ad avere paura adesso, non resisterai nemmeno un
tempo, quando sarai in Europa.»
«Hai ragione.» aveva riconosciuto «È che non esiterà a ricorrere a qualsiasi mezzo
pur di fermarmi … e la mia gamba sinistra è il mio punto debole.»
Genzo aveva taciuto per qualche secondo, poi si era rivolto verso Taro con uno sguardo risoluto. «Questo
è il tuo primo vero test, Misaki. Bunnark è un difensore che gioca in uno dei principali campionati d'Europa e affronta giocatori di livello mondiale. Se ti lasci fermare da lui,
significa che non sei degno neppure di sognare di confrontarti con loro. Come ben sai, gli infortuni, per quanto gravi siano stati, non sono un alibi.» aveva detto stringendo una mano a pugno
«Ora la tua gamba sinistra è sana: puoi usarla per correre, per calciare il pallone, per passare e per tirare. E per opporti ai tuoi avversari. Dipende da te.»
Non si era limitato a un incoraggiamento verbale: dopo il consueto allenamento diretto da Kira, l'aveva invitato a
trattenersi per un "supplemento speciale". Si era improvvisato difensore e con Morisaki in porta gli aveva mostrato possibili mosse che Bunnark, praticante di muay
thai, avrebbe utilizzato per contrastarlo. Al limite del regolamento, ma sicuramente efficaci, come ben sapeva Tsubasa.
Taro si tranquillizzò pensando a come aveva saputo opporsi a quegli interventi, e l'occhiata di sfida del capitano
thailandese incontrò uno sguardo sereno e per niente intimidito.
Il primo tempo fu equilibrato.
I fratelli Konsawatt si resero pericolosi in alcune occasioni, con le tecniche acrobatiche che i difensori giapponesi
faticavano a contrastare. Genzo riuscì a neutralizzare tutti i loro tentativi, uno particolarmente difficile con il prezioso aiuto dei Tachibana.
Nel secondo tempo, il Giappone decise di dominare la gara e Misaki di dare agli avversari un saggio di ciò di
cui era capace.
Il centrocampista ricevette il pallone da Soda e partì verso la porta avversaria, con i difensori che
tentavano inutilmente di fermarlo. Eluse con classe e con maestria un intervento dopo l'altro con degli splendidi dribbling, giungendo al limite dell'area di rigore. Calciò proprio con il
sinistro, anticipando Bunnark che stava entrando in scivolata.
Mandò così a vuoto l'intervento del capitano thailandese, mentre il pallone si infilava nell'angolo
destro, alle spalle del portiere.
Il secondo gol venne segnato con un'azione simile a quella dell'amichevole contro la Nigeria, con Wakabayashi che,
dopo aver parato un bolide di Faran Konsawatt, aveva effettuato un tiro potente in direzione di Misaki. Quest'ultimo lanciò poi verso Nitta che, a due passi dalla porta, spinse in rete.
Taro contrasse i bicipiti e strinse i pugni, il sudore colava da tutto il suo corpo. Era riuscito a superare la
prova, resistendo a un'afa opprimente. E aveva anche segnato un bellissimo gol. Bunnark era stato l'avversario vigoroso e tenace che si era aspettato, ma facendo appello a tutte le sue
capacità, era riuscito a vincere il loro personale duello. Si sentiva ancora più forte ed era consapevole che tale sarebbe stato reputato anche dai suoi compagni e dai suoi avversari.
Aveva salito un altro gradino verso il suo obiettivo: essere un giocatore di livello internazionale.
«Stanno giocando benissimo! Il gol è solo una questione di tempo.» affermò Kumi, euforica.
Aveva invitato Elena a seguire la partita a casa sua e così, dopo aver cenato con gli
squisiti kamaageudon preparati da sua madre Reiko, si erano sedute sul divano del soggiorno e
avevano guardato l'incontro quasi come se si fossero trovate allo stadio di Bangkok. Di certo, stavano tifando con eguale
intensità.
A pochi minuti dalla fine del primo tempo, il cordless appeso nel vestibolo cominciò a squillare e Reiko
andò a rispondere.
Ritornò nel soggiorno dopo pochi minuti.
«Era papà?» chiese Kumi, senza curiosità.
«Sì.» rispose sua madre «Ha detto che si ferma a dormire a Tokyo, perché
terminerà il lavoro molto tardi.»
«Che novità.» commentò sarcastica «Ormai può anche fare a meno di avvisare, a
casa non c'è praticamente mai.»
Reiko strinse le labbra. «Funziona così quando si lavora per una ditta importante, e lui ora è
caporeparto.» le ricordò.
«Già … è il destino ineluttabile di ogni giapponese con un minimo di senso della
realtà.» commentò senza abbandonare l'ironia amara con cui si era espressa in precedenza.
Reiko sospirò e sembrò cercare una risposta con cui ribattere, ma non le venne in mente nulla di
convincente. Da quando suo marito Shinji aveva scoperto che Kumi intendeva trasformare la sua passione per il disegno nella sua prima opzione per il futuro, i rapporti tra di loro si erano fatti
difficili, quasi ostili.
«Vi porto del tè matcha?» preferì chiedere. In
fondo, avevano un'ospite e non era giusto coinvolgerla nelle loro questioni.
«È fatto con foglie provenienti dalle piantagioni della prefettura: è una delle cose migliori che
esistano qui in Giappone.» disse Kumi rivolgendosi a Elena, ritrovando l'entusiasmo.
«Volentieri.» rispose, ricambiando il sorriso e rivolgendone uno altrettanto amabile a Reiko.
«Misaki ha fatto una partita strepitosa.» commentò Kumi, mentre il giornalista annunciava la
conclusione del breve notiziario sportivo trasmesso dopo la fine della partita.
«Davvero. Taro è un giocatore eccezionale. È un talento cristallino, fa cose splendide con la
massima naturalezza.» affermò Elena, con l'espressione colma di affetto che le vedeva ogni volta che era con o si parlava di Misaki.
«Lo conosci bene.» disse l'ex manager.
Elena esitò prima di rispondere, per trovare le parole giuste per definire il loro rapporto.
«Forse dire che lo conosco bene è eccessivo, perché abbiamo passato relativamente poco tempo
insieme. Il fatto è che Taro è un ragazzo così affabile e sensibile che mi viene naturale fidarmi di lui. È una sensazione rara, e devo dire che finora, a parte mio zio,
mi è capitata solo con lui.» fece una breve pausa. Poi decise di svelarle anche un piccolo segreto: in fondo si trattava ormai soltanto di un bel ricordo della sua adolescenza.
«Sai, quando l'ho conosciuto, mi sono presa una cotta per lui. Avevo tredici anni: fino ad allora non mi ero
mai interessata a nessun ragazzo ed era arrivato lui, così gentile, già allora bravissimo a giocare a calcio … e anche bello. È stato con me e i miei amici solo per una
settimana, ma ci ha lasciato più di quanto fanno persone conosciute per anni. Quando lui e suo padre ci hanno salutati e hanno lasciato Roma, ho sentito come un vuoto, mi chiedevo se l'avrei
mai rivisto.»
«Beh, il tuo desiderio si è avverato.» replicò Kumi accennando un sorriso.
«Sì, due anni fa è tornato a Roma, ha incontrato due miei amici del Sant'Angelo ed
è venuto a trovarmi nella palestra dove mi allenavo. Abbiamo trascorso una serata in pizzeria, tutti insieme e non sembrava ci ritrovassimo dopo quattro anni e una sola settimana di
frequentazione. Taro è un ragazzo speciale: aveva detto che si sarebbe sempre ricordato di noi ed è stato di parola, venendoci a cercare appositamente. E ora ho avuto la fortuna
di ritrovarlo qui.»
Kumi ristette pensierosa, con le gambe incrociate sui cuscini del divano e le mani appoggiate ciascuna su un
ginocchio.
Poco dopo, la voce di Elena la riscosse dai suoi pensieri e glieli fece momentaneamente accantonare, visto che la sua
domanda riguardava un argomento diverso da quello di cui avevano appena finito di parlare.
«Potresti raccontarmi qualcosa di Madoka? Non le cose più personali, ovviamente. Mi piacerebbe solo
sapere che rapporto ha con i suoi genitori, come va a scuola, cose del genere.»
«È per via di Arimi, vero?» era una considerazione, più che una domanda,
continuò infatti a parlare senza attendere la conferma di Elena. «Beh, Madoka è la classica studentessa modello. Al liceo aveva una media molto alta ed è stata ammessa alla Keio. Ha passato l'esame di ammissione con un punteggio altissimo.»
«Faceva parte di qualche club scolastico?»
«Sì, quello di pallavolo. Ottima alzatrice e ricevitrice.»
«Era capitano?»
Kumi annuì «L'ultimo anno. Al liceo, il nostro club di pallavolo ha vinto due tornei su tre.»
«I suoi genitori saranno orgogliosi di una figlia così.»
«Altroché. La adorano. E quando usciva con Nitta era una delle ragazze più popolari
della scuola. Erano un po' i nuovi Tsubasa e Sanae.» Kumi non trattenne un sorriso.
«Arimi invece?» chiese però Elena, finalmente arrivata al punto.
«Arimi è sempre stata più espansiva e chiacchierona. È educata e gentile, ma soffre
l'eccessiva disciplina e per questo è stata rimproverata spesso dai genitori. Mi ha sempre detto che adora la ginnastica artistica perché può fare tutto quello che non le
è concesso altrove. Correre, saltare, fare le capriole, danzare … immagino conosca bene anche tu quella sensazione.» disse, guardandola.
Elena assentì «Già.»
«Se potesse, Arimi vivrebbe di sola ginnastica.» riprese Kumi «Non l'ho mai vista interessata ad
altri sport o ad altri passatempi, e non l'ho mai vista neppure adocchiare un ragazzo. La ginnastica è la sua unica, vera passione. Sono contenta che legga i miei manga anche per questo,
così può staccare un po'. Ma credimi, se non è ossessionata poco ci manca.»
«Me ne ha già dato prova.» confermò Elena «Che rapporto c'è tra le due
sorelle?»
Kumi rifletté alcuni secondi prima di rispondere «Madoka ha sempre amato molto Arimi, ha un
atteggiamento protettivo nei suoi confronti. Ma lei in famiglia è molto chiusa, parla poco. Con me parla di più ma non mi fa molte confidenze, probabilmente perché teme
che io possa rivelarle a sua sorella.»
Elena strinse le labbra. Sarebbe stato difficile spingerla a confidarsi, a meno di non farla sentire toccata sul vivo.
Elena era tornata a casa da poco. Kumi, dopo averla accompagnata alla porta e salutata, era andata in camera sua. In
piedi accanto al letto, si stava preparando per andare a dormire. Libera di pensare alle sue preoccupazioni, le tornò in mente ciò che l'amica le aveva raccontato riguardo a
Misaki.
Strinse le labbra. Ripensò alla chiacchierata tra i giocatori della Nazionale, dopo la partita contro la
Malaysia. Lei si trovava a pochi metri di distanza con il suo gruppo e nonostante cercasse di partecipare alla conversazione non riusciva a fare a meno di ascoltare quello che si dicevano gli altri
ragazzi, ed era tentata di sbirciare più indietro, dove si trovavano Elena e Misaki. Mentre sentire il gruppetto degli Under 23 era stato inevitabile, visto che parlavano a voce alta, era
stato praticamente impossibile carpire qualcosa del dialogo tra l'insegnante e il centrocampista dello Jubilo Iwata.
In fondo, perché avrebbe dovuto interessarle? Aveva avuto modo anche lei di conoscere Misaki e di parlare
qualche volta con lui, ai tempi del liceo. Certo, non era cieca, aveva notato quanto fosse carino e anche per questo molto ammirato dalle ragazze, sempre molto gentile e anche spiritoso, quando
scherzava con i suoi compagni di squadra o con Sanae, con cui aveva più confidenza. Eppure non era mai andata al di là di quelle semplici considerazioni. Inoltre, i ragazzi lo
punzecchiavano spesso riguardo a una certa Azumi, una ragazza che doveva avere conosciuto quando viveva in Francia.
"Poverina, chissà come si starà struggendo senza di te là a Parigi, ma le scrivi ogni tanto?" e
analoghe domande da ficcanaso.
Lui negava che fosse la sua ragazza, ma l'espressione imbarazzata dimostrava che le cose non stavano esattamente
così. Forse sapere fin da subito che forse era già interessato a quella Azumi, oltre a spiegare il fatto che non uscisse con nessuna delle sue ammiratrici, aveva anche impedito a lei
di rimanere troppo affascinata dalle sue caratteristiche da principe azzurro.
Persino la sua amica Saya, la ragazza più bella e aggraziata che conosceva, quando aveva provato ad
avvicinarlo aveva ricevuto un cortese due di picche.
E del resto, c'era già Sanae che viveva una relazione a distanza, perché non avrebbe dovuto essere
così anche per Misaki? Inoltre, dopo le partite contro l'Olanda e la finale del World Youth aveva anche intravisto la famosa Azumi, e il loro affiatamento aveva fugato, ai suoi occhi, ogni
dubbio.
Era andata con Yukari, Ishizaki, Okawa e altri ragazzi della comitiva a far visita a Misaki al centro di medicina sportiva
Fuji, dove stava portando avanti il programma di riabilitazione sotto la supervisione del dottor Shibazaki.
Lo incontrarono nella sua stanza, dove era tornato dopo la seduta di fisioterapia. C'era già un'altra persona con
lui: Azumi.
Taro Misaki, era sempre lui: il sorriso determinato e sereno, la passione per il calcio intatta, il desiderio implacabile
di tornare sul campo di gioco.
Aveva scambiato qualche parola con lui e gli aveva fatto i complimenti per la determinazione e lo spirito di sacrificio che
avevano permesso alla Nazionale di vincere il World Youth.
Kumi aveva lasciato il complesso ospedaliero con una sensazione indefinibile nel cuore. La sua mente produceva solo
immagini di Misaki, il suo sorriso gentile, che esprimeva malinconia e speranza.
Non aveva mai smesso di pensare a lui, durante il viaggio di ritorno. Più volte Yukari l'aveva richiamata dicendole
che le sembrava stranamente pensierosa e taciturna, ma non aveva fatto nessuna allusione. Probabilmente ciò era dovuto alla presenza, accanto al centrocampista, di Azumi: le aveva messo
subito davanti agli occhi la realtà. Lì c'era un legame già esistente e a Kumi non rimaneva che spegnere la sua infatuazione sul nascere, non alimentarla oltre.
Del resto, quante ragazze si erano invaghite del bel centrocampista senza essere corrisposte? La vita era andata avanti per
tutte e così sarebbe stato anche per lei. Così Kumi aveva dedicato i mesi successivi a studiare per gli esami di ammissione al tanki-daigaku e
a disegnare i suoi manga e illustrazioni. E poi c'era anche il club di calcio, di cui era l'unica manager poiché molte ragazze si presentavano alle selezioni per potersi avvicinare ai loro
giocatori preferiti, ma poi si stancavano di compiere le mansioni previste: annotare risultati, pulire e rimettere in ordine i palloni, lavare e stirare le divise, distribuire asciugamani e
bottiglie di acqua e integratori, medicare le ferite e fare fasciature, una quantità di occupazioni da cui tutte finivano per desistere.
I suoi propositi erano stati raggiunti, al punto che aveva accettato l'invito a una festa cui avrebbe certamente
incontrato anche Misaki. Quest'ultimo si era rimesso dal lungo infortunio ed era stato ingaggiato dallo Jubilo Iwata. I suoi compagni di squadra Ishizaki e Urabe e gli altri ex giocatori della
Nankatsu gli avevano organizzato una serata in un ristorante per festeggiare la firma del suo primo contratto professionistico.
Era sinceramente curiosa di vederlo dopo che aveva finalmente recuperato la sua forma fisica.
Aveva provato una sensazione strana mentre lo vedeva entrare nel ristorante, indossando un paio di pantaloni scuri e
una camicia azzurra … quella stessa sensazione che pensava di aver domato.
E Azumi non era al suo fianco.
Al tavolo, erano casualmente seduti l'uno accanto all'altra e si erano rivolti spesso la parola durante la
conversazione con i loro amici: non era mai accaduto prima e non si era più ripetuto in seguito. Avrebbe voluto sapere se Azumi non era venuta perché trattenuta da impegni o da
problemi di salute oppure semplicemente perché non stavano più insieme, ma si era vergognata di averlo pensato e ovviamente non gli aveva fatto alcuna domanda; l'aveva sorpresa
però il fatto che nessuno dei ragazzi avesse tirato in ballo l'argomento.
Era tornata a casa felice di aver passato una serata così piacevole, ma anche con un senso d'inquietudine rendendosi conto che la sua mente continuava a concepire soltanto pensieri legati a Misaki.
Per carattere non era mai stata una persona che tratteneva tutto dentro di sé: aveva bisogno di confidarsi con
qualcuno e aveva deciso di raccontare tutto a Madoka due giorni dopo, mentre facevano le pulizie nell'aula della loro classe. Con la massima sincerità, le aveva parlato anche delle sue
sensazioni e le aveva chiesto una sua opinione.
«Quando ti interessa se un ragazzo ha la fidanzata, significa che vorresti esserlo tu.» le disse
Madoka, fissandola negli occhi con aria saputa, dopo aver ascoltato tutto con attenzione.
Kumi spalancò gli occhi e scosse la testa «Ti sbagli. A me Misaki non interessa in quel
senso.»
Madoka posò la spugna che stava passando sul ripiano di un banco «Sì, come no. La verità
è che finalmente ti sei svegliata, Kumi Sugimoto! Mi ero sempre chiesta come potesse rimanerti indifferente un ragazzo così, quando alle medie andavi matta per Tsubasa che, con tutto
il rispetto, è carino, ma non come Misaki e sembrava gli interessasse solo prendere a calci quel benedetto pallone! Ti assicuro che quando l'ho visto, ho pensato: "Accidenti, su questo qui
sì che ci farei un pensierino! Ma è proprio il tipo di ragazzo che farebbe perdere la testa a Kumi". Ti giuro, ne ero convinta.»
«E invece non ho mai pensato a lui. E poi aveva già Azumi.» disse, inginocchiandosi e immergendo
uno straccio dentro un secchio pieno d'acqua e detersivo per pavimenti.
«Forse, proprio per questo credevi non ti interessasse. E invece, quando l'hai visto arrivare
senza di lei, è come se fossi finalmente riuscita a vedere con chiarezza nel tuo cuore.»
Kumi scosse la testa: le sembrava un'analisi cervellotica. «Non credo, i sentimenti non si comandano.»
asserì, lasciando cadere lo straccio umido per terra.
«Ma si può cercare di ignorarli. E se ci si mette d'impegno, ci si riesce pure.» ribatté
Madoka, definitiva. «Tu avevi paura di soffrire come ti è successo con Tsubasa, temevi di rivivere quell'esperienza e questo ti ha portata a convincerti di considerare Misaki soltanto
un ragazzo carino e molto bravo a giocare a calcio.»
Kumi alzò un sopracciglio «Ti sbagli, io ho superato quella delusione e non ho paura di ammettere un
sentimento se lo provo veramente.» affermò, muovendo lo spazzolone con energia.
«E allora perché mi hai chiesto un parere, e perché ti ostini a contestare quello che ti dico?
La verità è che ti ho detto quello che non volevi sentire perché sì, hai paura di ammettere a te stessa che Misaki ti piace.» ribatté l'altra, scandendo le
ultime tre parole. «Ma se adesso lui è libero, nulla ti impedisce di provare.» concluse, riprendendo a strofinare la spugna sul banco.
Ma una settimana dopo era iniziato il secondo stage di J League, e il centrocampista era tornato a Iwata con Urabe e
Ishizaki per allenarsi e giocare le partite. E lei aveva ripreso a studiare con impegno per prepararsi all'esame di ammissione al tanki-daigaku e a fare la
manager del club di calcio.
Poco tempo dopo, nuove indiscrezioni erano giunte alle sue orecchie tramite Yukari, sulla presunta frequentazione con
una giovane cuoca di un izakaya di cui i suoi compagni di squadra erano clienti assidui.
Sembrava l'argomento di gossip preferito di tutti i giocatori dello Jubilo Iwata … e questo l'aveva convinta a
non soffermarsi più a pensare a lui. Aveva smesso di seguire le partite dello Jubilo Iwata, anche se ne sentiva il resoconto dalle chiacchiere dei suoi compagni di classe, con tanto di
giornale comprato all'edicola prima di arrivare a scuola. L'argomento più discusso erano ovviamente le gesta di Misaki.
Gol, assist decisivi e giocate da vero campione: il centrocampista era sempre determinante.
Ma Kumi era decisa a non soffrire ancora, ed era riuscita a non dare troppa attenzione alle conversazioni dei
ragazzi.
Aveva funzionato fino al ritorno a Nankatsu di tutti i reduci della J League. E fino al giorno in cui Yukari le aveva
confidato che tra Misaki e quella donna era finita.
Richiuse la cartellina in cui aveva inserito alcuni dei suoi ultimi schizzi e la posò sulla scrivania.
Madoka aveva colto nel segno e lei si ritrovava, dopo tanto tempo e soltanto rare e passeggere infatuazioni, a
sospirare nuovamente per un ragazzo, in una situazione che percepiva sempre più simile a quella di pochi anni prima.
Con il tempo, tra Elena e Taro avrebbe potuto nascere qualcosa, quel loro rapporto così stretto avrebbe potuto
evolvere in qualcosa di più profondo. E quella possibilità, per quanto cercasse di non considerarla inevitabile, la rendeva inquieta.
Elena si mise le mani sui fianchi e fece un profondo respiro. Stava per giocare la sua ultima carta. L'incontro con
Annie le aveva dato l'idea che le aveva impedito di presentarsi dalla Shiroyama e ammettere di aver fallito tutti i tentativi. Dopo, poteva dire di averle tentate davvero tutte.
Con Arimi, la situazione non aveva visto grandi novità. La ragazzina partecipava alle lezioni, eseguiva gli
esercizi proposti, ma non parlava molto né con lei, né con le sue piccole compagne. E non sorrideva mai. Ogni tanto la vedeva distrarsi e guardare verso il gruppo allenato dalla
signorina Shiroyama ed era costretta a richiamarla. Aveva deciso, come insegnante, di essere aperta, perché era fondamentale saper trasmettere l'amore per il proprio sport, ma anche
intransigente, perché la disciplina nella ginnastica artistica era un valore basilare.
«Se devi alzare la voce, fallo subito.» le aveva raccomandato Carlo «Le tue allieve devono capire
subito di che pasta sei fatta. Se lasci andare le cose una volta, hai già compromesso tutto.»
Lei aveva cercato di seguire quel consiglio, e pensava di esserci
riuscita. Era comprensiva e affabile, ma non troppo condiscendente.
Aveva già avuto delle esperienze da allenatrice delle allieve più piccole, aveva spesso dato consigli a
ginnaste più giovani, ma era la prima volta che le capitava un caso come quello della ragazza ritenuta l'allieva più promettente del corso.
Doveva ammettere che faticava a mettersi nei suoi panni.
Lei non era stata particolarmente dotata, non aveva il fisico ideale della ginnasta essendo alta e
avendo gambe lunghe, e aveva anche cominciato più tardi rispetto a molte sue coetanee: aveva già nove anni e non aveva praticato nessun altro sport prima di allora, a parte un corso
di nuoto di pochi mesi.
Aveva però amato profondamente la ginnastica artistica fin da
quando Gabriele, la ragazza che per molti anni era stata la fidanzata di Carlo, l'aveva portata in una palestra a mostrarle lo sport che aveva praticato da bambina e che, una volta adulta, aveva
cominciato a insegnare.
Ricordava chiaramente il giorno della sua prima lezione: aveva superato la timidezza iniziale grazie a Shiori, la
figlia minore di Alessandro, uno dei maestri di judo del complesso sportivo, grande amico di Carlo fin dall'adolescenza. In quel periodo, suo zio viveva a Roma e aveva rilevato la gestione della
palestra con lui.
Shiori era figlia di un maestro di judo italiano e di un'imprenditrice giapponese e aveva la stessa età di
Elena, ma aveva cominciato a praticare la ginnastica artistica a sei anni. Era un'ottima allieva e aveva preso la nuova arrivata sotto la sua ala, mostrandole il modo esatto di fare gli esercizi e
di correggere i movimenti e le posture assunte in modo sbagliato.
La sua passione e l'impegno profuso in ogni lezione le avevano in seguito permesso di ottenere risultati più
che soddisfacenti e dei piazzamenti di tutto rispetto nelle gare cui aveva partecipato.
Era cominciata così un'amicizia che sarebbe diventata ancora più forte durante la loro adolescenza e
che era durata fino a pochi mesi prima. Prima che ….
Spalancò gli occhi, poi li
serrò e scosse la testa. Non doveva permettere al passato di tornare a dominare i suoi pensieri. Se avesse ripreso ad abbandonarsi ai ricordi, il suo
stato mentale avrebbe avuto gravi ripercussioni sul suo lavoro e sulla sua nuova vita. Sì, perché la sua vita precedente non esisteva più; era stata distrutta, demolita e non
sarebbe tornato più nulla di quel periodo. Doveva solo guardare avanti e vivere appieno il suo presente.
Decise di approfittare della momentanea assenza della Shiroyama per andare a fare qualche domanda alle ragazze, in
quel momento impegnate a fare alcuni esercizi di riscaldamento.
Aveva coadiuvato Mayuko in diverse lezioni ormai, e le conosceva abbastanza da potersi permettere un po' di
confidenza.
«Cosa mi raccontate di Shimokawa?» chiese, dopo averle raggiunte e salutate.
«È bravissima e si allena tanto, ma non andiamo molto d'accordo con lei.» rispose Mitsuyo,
l'allieva considerata più in gamba dopo Arimi.
«È antipatica.» aggiunse senza mezzi termini Shinobu, un'altra ginnasta abbastanza
promettente.
«Ah sì? E perché?»
«L'ha vista.» sbottò ancora Mitsuyo, come se il motivo fosse più che ovvio
«È troppo presuntuosa. È la migliore tra noi e non ho
problemi ad ammetterlo, ma si ritiene talmente superiore da trattarci con sufficienza.» Le altre ragazze, lì intorno, annuirono.
«All'inizio la ammiravo veramente tanto.» intervenne Hanako, la più piccola del gruppo.
«Riesce a fare cose che io non imparerei neppure allenandomi per giornate intere. Lei però è sempre fredda e altezzosa, sembra che pensi solo a sé stessa e a essere la
più brava.»
«E quando è tornata dopo l'infortunio, la Shiroyama ha chiesto a Shinobu di fare un esercizio sulla
trave e Arimi è saltata su e ha detto che lo avrebbe fatto lei, perché era già pronta e non aveva bisogno di aspettare che un'altra le mostrasse come si fa.»
raccontò Mitsuyo, scimmiottando il tono arrogante usato dalla compagna.
«La signorina Shiroyama si è arrabbiata, l'ha fatta scendere dalla trave e l'ha mandata da lei.»
concluse Hanako.
Elena annuì. Aveva perso quella scena, forse perché era successo quando si trovava ancora negli
spogliatoi.
Il quadro nella sua testa si stava facendo sempre più chiaro. Le mancava una sola informazione per capire se
era ciò che immaginava.
«Sapete come va a scuola?»
«Abbastanza bene, ma nulla di eccezionale. Ha voti discreti in tutte le materie, ma non eccelle in
nessuna.» rispose Emi, compagna di classe di Arimi.
Ipotesi confermata. Forse Elena aveva capito il motivo che spingeva Arimi a comportarsi così.
La ginnastica non era solo una passione ostacolata dai suoi
genitori … era la sua vita.
«Arimi, puoi spiegare tu a Himeko come deve sollevare le braccia? Io devo andare a parlare un attimo con la
signorina Shiroyama.» spiegò Elena.
«Non sono qui per fare l'insegnante, sennò lei qui che ci sta a fare?» ribatté Arimi,
sprezzante. «Se va a parlare con la Shiroyama, le dica che sono stanca di questa sceneggiata e che è ora che riprenda ad allenarmi come facevo prima di infortunarmi. Senza di me questa
scuola non vincerà nulla ai prossimi campionati e la Shiroyama lo sa bene.» concluse, a braccia incrociate e con un sorriso insolente, mentre le bambine di fianco a lei la guardavano
stranite.
Elena inspirò e chiuse gli occhi, un attimo. Quando li riapri, puntò su di lei uno sguardo glaciale.
«Vedo che non è possibile collaborare. Va bene, puoi prendere le tue cose e andare a casa. Per quello che mi riguarda, sei fuori. Chiedi pure alla Shiroyama di riprenderti nel suo
gruppo, ma se dovesse rifiutare, cambia pure palestra. Con questo atteggiamento non sei di aiuto per nessuno.» aveva pronunciato quelle frasi con un tono freddo, ma nell'ultima era
percepibile una punta di irritazione. Una punta, solo perché aveva cercato di trattenersi. Non aveva mai visto tanta presunzione in una ragazzina.
Arimi inclinò la testa e fece una smorfia di stupore, poi annuì e si diresse verso gli spogliatoi.
Osservò la ragazza che si allontanava velocemente, con la coda che ondeggiava a ogni passo.
«Signorina Rulli, non va a parlare con la signorina Shiroyama?» chiese timidamente la piccola Himeko, riportando la sua attenzione sulle allieve.
La giovane insegnante sorrise con dolcezza «No, posso farlo anche dopo. Voglio che impari a sollevarti prima
che finisca la lezione. E anche voi ragazze, guardate bene.» aggiunse, rivolta alle altre allieve.
Elena, seduta sulla sua solita poltroncina,
appoggiò i gomiti sulle ginocchia, intrecciò le mani e si sporse in avanti. Fissò il punto della palestra in cui si stavano allenando gli allievi del kickboxing, senza vederlo
realmente. La sua mente era occupata da quanto era successo durante la lezione da poco conclusasi.
Ormai le sue risorse e soprattutto la sua pazienza si stavano esaurendo. A malincuore, avrebbe dovuto comunicare a
Mayuko che stava ormai per gettare la spugna.
«Tutto a posto?» la voce di Wakabayashi la fece sobbalzare. Il portiere era in piedi, a pochi passi da
lei. Aveva appena finito gli sparring con alcuni allievi della scuola e aveva l'asciugamano buttato attorno al collo. Dopo la vittoria interna contro il Bahrein, era tornato a Nankatsu per
riprendere il suo programma speciale, nei quattro giorni di pausa dati dal c.t. Kira prima di giocare le partite di ritorno.
«Ero soprappensiero e non mi sono accorta che eri qui.»
«Ho appena finito. Tuo zio è ancora impegnato con gli
esami di alcuni allievi e tarderà un po'. Come sta andando con la piccola insofferente?» durante le pause delle loro lezioni, Carlo gli aveva
parlato della complicata sfida che stava rischiando di logorare sua nipote. Capitava spesso di ritrovarsi insieme a chiacchierare, terminate le rispettive lezioni ed era ormai inevitabile toccare quell'argomento.
Elena si lasciò sfuggire uno sbuffo divertito per l'appellativo dato dal calciatore, ma assunse subito
un'espressione grave «Beh, finora le ho provate tutte e non ho cavato un ragno dal buco. Si mette a fare esercizi per conto suo e se le chiedo di aiutarmi, mi dice che ci sono già io a
fare l'insegnante e, sottinteso, devo arrangiarmi. Fa spaccate, rovesciate, ruote e capriole e mi guarda impertinente, come a dire: "Visto che sono già brava?". Le bambine rimangono
ovviamente impressionate e si distraggono spesso. Non ha ancora capito che la Shiroyama l'ha mandata nel mio gruppo non perché pensa che non sia abbastanza brava, ma perché manca
completamente di umiltà.» si era sfogata in un soffio e a voce alta, come se stesse cercando di espellere tutto il nervosismo accumulato di giorno in giorno.
Sospirò ancora e strinse le labbra. Genzo, intuendo che aveva ancora qualche sassolino da togliersi, non
intervenne.
«Ho cercato di coinvolgerla in tutti i modi, ma non fa altro che tirare la corda per
esasperarmi.» riprese, continuando a parlare con un ritmo concitato. «Mi dice sempre che tanto la Shiroyama la riprenderà con sé perché non può fare a meno
di lei, e credo che andrà proprio così. In questa scuola ci sono ragazze molto brave, ma Arimi è una spanna sopra tutte.»
Genzo assentì piano, sorridendo leggermente.
«Ha un ego smisurato.» sogghignò «Un po' come me quando giocavo nella Shutetsu.
Anch'io ero convinto di essere imbattibile. Poi però, arriva sempre la botta che ti fa tornare con i piedi per terra: incontrare un giocatore che mette in dubbio le tue capacità,
costringendoti a impegnarti più di quanto tu abbia fatto finora, lottando contro quella vocina che insinua che forse non sei così bravo come credevi. A me è successo quando
è arrivato Tsubasa, e poi con Misaki e Hyuga. Affrontando Schneider ho capito quanto avrei dovuto lavorare ancora per ritenermi in grado di giungere a un livello internazionale. Lo stesso accadrà ad Arimi: se parteciperà
alle Nazionali juniores, incontrerà altre ginnaste molto abili e lei dovrà tirare fuori tutte le sue risorse, soprattutto mentali, per dimostrare di essere davvero la
migliore.»
«Già. Io però non sono ancora riuscita a farglielo capire. Forse la Shiroyama non ha avuto una
buona idea a mandarla da me.»
Genzo scosse la testa e si sedette sulla poltroncina accanto.
«Non credo si tratti del classico tentativo della disperazione. Non solo, almeno. Evidentemente la Shiroyama ha
visto come ti sei ambientata e come hai saputo farti apprezzare dalle tue allieve e ha pensato che avresti saputo come prendere Arimi. Hai pochi anni più di lei e non hai pregiudizi. Il
fatto che non hai mai ceduto è positivo.»
«Sì, ma non basta. Tutto ciò che ottengo è farle abbandonare la lezione anzitempo.»
disse, avvilita «Mi dispiace perché la Shiroyama vuole che Arimi diventi una leader in grado di trascinare il gruppo, prima che una ginnasta bravissima e ambiziosa. Ma per questo deve
essere stimata dalle sue compagne, cosa al momento impossibile.»
«È la filosofia degli Shiroyama.» commentò Genzo «Suo fratello Tadashi era il mio
allenatore alla Nankatsu. Un vero martello: ha sempre insistito su impegno, umiltà e spirito di cooperazione e lo fa ancora oggi, con i ragazzini dell'attuale squadra. Soprattutto, voleva
che fossimo una vera squadra, unendo le nostre forze. Degli uomini, prima che dei giocatori.»
«Arimi invece è una ginnasta che pensa solo a sé stessa. È egocentrica. Ora come ora, non
farebbe altro che destabilizzare il gruppo.»
Mentre parlavano, Arimi varcò la porta d'entrata della palestra e attraversò l'atrio rivolgendo un
rapido cenno di saluto alla segretaria.
Era ritornata alla palestra di corsa, dopo averla lasciata con altrettanta fretta un'ora prima.
Appena entrata nello spogliatoio dopo aver abbandonato la lezione, si era chiusa in uno dei bagni e aveva pianto a lungo. Si sentiva svuotata, devastata, disperata e senza più energie, ma il pensiero che le sue compagne avrebbero potuto
rientrare e vederla in quelle condizioni le aveva provocato un sussulto d'orgoglio e spinta a reagire. Si era tolta i vestiti e aveva
fatto rapidamente la doccia, per poi infilarsi gli abiti di ricambio con altrettanta velocità e uscire da quella palestra quanto prima. Non voleva incontrare le sue compagne, non avrebbe
sopportato di sentire il loro chiacchiericcio e soprattutto di sentirle parlare delle esibizioni cui non avrebbe potuto partecipare. Ne aveva già persa una, e ne avrebbe saltata un'altra
ancora. Aprile si avvicinava e lei non aveva fatto alcun passo in avanti, per colpa dell'ostinazione di "quella tedesca" come la chiamava tra sé e sé.
Che fosse una brava istruttrice non c'erano dubbi, ma perché insisteva nel coinvolgerla nell'insegnare alle bambine quegli elementi semplicissimi? Le stava soltanto facendo perdere tempo.
Con quei pensieri, era andata al caffè Ocean e aveva bevuto una cioccolata calda, per poi accorgersi di aver
dimenticato il suo braccialetto negli spogliatoi.
Aveva dovuto così tornare indietro. Non trovare nessuno nello spogliatoio la fece sentire sollevata,
perché significava che le sue compagne avevano già lasciato la palestra. Ma non c'era alcuna traccia nemmeno del suo gioiello.
Sbuffò. Era costretta a chiedere proprio alla persona da cui meno avrebbe desiderato farsi vedere.
Si incamminò verso l'area dedicata al dojo, dove sapeva lavorava suo
zio.
La sua insegnante e Wakabayashi erano seduti l'uno accanto all'altra sulle poltroncine da cui si assisteva alle gare,
e non ebbe neppure il tempo di formulare pensieri maliziosi sui due, perché stavano parlando … di lei!
Si avvicinò piano, stando attenta a non farli accorgere della sua presenza.
«Arimi invece è una ginnasta che pensa solo a sé stessa. È egocentrica. Ora come ora, non
farebbe altro che destabilizzare il gruppo.»
Spalancò gli occhi e strinse i pugni.
Lei, destabilizzare il gruppo? Ma se era sempre stata la migliore, il fiore all'occhiello della scuola. La Shiroyama
non poteva fare a meno di lei, non poteva sperare di vincere senza i suoi esercizi.
«È bravissima, ho praticato e seguito la ginnastica per molti anni e raramente ho visto ragazze con le
sue capacità.» continuò Elena «Ma è troppo presuntuosa e fa pesare la sua superiorità a chi è meno bravo di lei.»
Arimi serrò i denti «Ora vado lì e …» sussurrò, ma si fermò quando
udì di nuovo la voce di Wakabayashi.
«Io non ho mai creduto molto alla storia del predestinato. O meglio» precisò «non ci credo
più da quando Tsubasa Oozora mi ha dimostrato che c'era qualcuno in grado di battermi e di giocare meglio di me. Mi sono sentito dare tante volte del "predestinato" da osservatori,
commentatori, giornalisti e anche allenatori e compagni di squadra, e questo è capitato anche a Tsubasa, a Misaki, a Schneider, a Juan Diaz e a molti altri giocatori che ho affrontato e con
cui ho avuto il piacere di giocare. Ho citato alcuni tra quelli che hanno sfondato o che sono sulla buona strada per farlo, ma ne ho conosciuti tanti altri cui è stato pronosticato un sicuro
avvenire e poi si sono persi per strada. I motivi possono essere diversi, ma la maggior parte di loro ha una carriera inferiore alle aspettative perché si sono cullati troppo sul loro
talento, pensando che rappresentasse, da solo, la garanzia di un posto da titolare; conosco invece molti calciatori non particolarmente dotati dal punto di vista tecnico, ma che grazie alla loro
passione e all'impegno messo in ogni allenamento e in ogni partita hanno raggiunto ottimi risultati, fino a conquistare la fiducia dei c.t. delle loro Nazionali. Ishizaki per esempio, ti assicuro
che quando l'ho conosciuto era la negazione del calcio!» sogghignò «Oppure Matsuyama: anche lui non ha molta tecnica, ma a forza di allenarsi persino sulla neve è
diventato uno dei migliori portatori di palla in circolazione. E ti assicuro che anche i più talentuosi come Tsubasa, Misaki, Misugi e Hyuga, se non avessero lavorato ogni giorno della loro
vita, per ore, sulle loro abilità, non sarebbero arrivati dove sono. E tutti - tutti - abbiamo avuto momenti di difficoltà, in cui siamo stati messi in discussione e abbiamo dovuto
dimostrare le nostre capacità e soprattutto la nostra forza mentale. Perché è quella a fare la differenza, è ciò che rende possibile ogni traguardo.» fece
una breve pausa. Un leggero sospiro, poi la considerazione finale, che suonava come una sentenza «Quindi credo che sì, si possa nascere predisposti per svolgere un mestiere o praticare
uno sport, ma che i mezzi che la natura dona a ognuno di noi siano strumenti speciali da usare e affinare ogni giorno, e non un'investitura divina. Questo vale non solo per il calcio, ma per
qualsiasi altro sport e in ogni ambito della vita.»
«E comunque, essere o considerarsi i soli a fare benissimo uno sport o un'attività alla lunga non
è così stimolante. Se fossi stato veramente l'unico fenomeno in un Paese che all'epoca credevo scarseggiasse di talenti, ora non starei vivendo questo sogno. Forse sarei andato lo
stesso in Germania e avrei magari accettato la naturalizzazione per giocare con la Nazionale tedesca, come mi hanno proposto più volte, ma non sarebbe stata la stessa cosa. Se vinci con una
potenza mondiale come la Germania compi comunque una grande impresa ma sei un nome in più in una lista già lunga. Vincere con il Giappone significa irrompere nella storia. E aprire
una nuova via. Non più solo Europa e Sudamerica, ma anche il Giappone. Non è meraviglioso?» concluse, guardandola. Negli occhi aveva un luccichio che, insieme al sorriso che
distendeva le sue labbra, conferiva un fervore quasi infantile ai suoi lineamenti di giovane uomo.
Elena gli sorrise e annuì. Lo aveva ascoltato
pendendo dalle sue labbra, trattenendo quasi il fiato. Aveva tradotto in parole tutto quello che lei aveva sempre pensato
sull'approccio con cui affrontare lo sport e più in generale la vita.
Se solo Arimi avesse potuto sentirlo ….
Il sogno di Wakabayashi, di Taro e dei loro amici era come quello di Mayuko: il Giappone, infatti, aveva ottenuto
splendidi risultati nella ginnastica artistica maschile, ma non si poteva dire altrettanto per quella femminile. Quante volte aveva insistito, durante le lezioni, su questo aspetto. Fare in modo
che anche la ginnastica artistica femminile fosse ai livelli delle migliori scuole del mondo … e quello era il primo passo.
«Scusate.» mormorò una ragazzina a pochi passi da loro, facendoli voltare. Era Arimi.
«Signorina Rulli, ha per caso visto il mio braccialetto?
Mi sono accorta di non averlo con me.» disse, tenendo gli occhi bassi.
«Certo. L'ha trovato Mitsuyo su una panchina. Eccolo qui.» disse con tono gentile, porgendoglielo.
«Grazie.» rispose afferrandolo e osando appena alzare lo sguardo. Senza aggiungere altro,
fece un inchino a lei e a Genzo e si incamminò velocemente verso l'uscita, con il borsone a tracolla, a passo svelto e testa china, il viso coperto
dai lunghi capelli neri lasciati sciolti.
«Che abbia sentito?» chiese Elena, gli occhi accesi dalla speranza.
«Credo di sì.» rispose Genzo, rivolgendole un sorriso d'intesa.
Mentre Elena si preparava per tornare a casa, si riaffacciarono alla sua mente ricordi di un periodo ormai lontano,
ma impresso in modo indelebile nel suo cuore: il primo snodo fondamentale del suo percorso di vita.
Era una delle prime lezioni. All'inizio aveva fatto soprattutto esercizi di riscaldamento, poi l'insegnante,
richiamata dai suoi colleghi, aveva diviso le allieve in due gruppi e aveva incaricato le migliori di aiutare le altre bambine a imparare i nuovi movimenti. Elena osservava le sue compagne, ma non
aveva il coraggio di accennare una mossa. Le sembravano tutte molto, troppo più brave, soprattutto Shiori.
Lei aveva appena cominciato e, sebbene amasse la ginnastica, si sentiva ancora impacciata e legnosa, aveva paura di
fare la figura dell'imbranata davanti agli occhi delle altre bambine. Quel salto del cosacco le sembrava difficile … avrebbe voluto unirsi al gruppo, ma continuava a guardare, voltandosi
ogni tanto verso l'istruttrice che stava conversando con alcuni collaboratori e non stava osservando le allieve. Del suo immobilismo si era però accorta proprio Shiori, che aveva interrotto
i suoi esercizi e si era avvicinata a lei.
«E tu? Perché stai lì ferma?»
La bambina bionda era trasalita, probabilmente era arrossita perché aveva avvertito del calore diffondersi
sulle guance e aveva cercato di calmarsi. «Io … temo di non saperlo fare.» aveva farfugliato.
I suoi occhi dal taglio orientale l'avevano guardata, comprensiva.
«Ho capito. Vieni, ti insegno io. Osservami bene e poi cerca di copiare i miei movimenti. Non ti preoccupare se
all'inizio non ti riesce bene, è normale. L'importante è non restartene lì impalata.» le aveva detto, prendendole una mano e portandola verso l'area di allenamento.
Le aveva mostrato come prendere la rincorsa e saltare con una gamba tesa in avanti e l'altra piegata. I primi
tentativi di Elena erano stati alquanto goffi, ma a forza di provare aveva imparato a farlo in modo almeno decente. Aveva rotto il ghiaccio e come sempre accadeva in quei casi, a forza di provare e
migliorare, avrebbe voluto continuare a oltranza.
Aveva gioito di ogni progresso e si era divertita, riuscendo a ridere anche dei movimenti più scoordinati e
delle cadute più comiche, e Shiori le aveva sempre rispiegato e mostrato di nuovo gli esercizi per permetterle di memorizzarli. Così era nata la loro amicizia.
Shiori aveva la stessa età di Elena, ma aveva cominciato la ginnastica artistica tre anni prima ed era una
delle allieve più brave del corso; nonostante questo, non si sentiva superiore a quella coetanea più alta e non molto sciolta nei movimenti, ma piena di forza di volontà.
L'aveva messa a suo agio e le aveva insegnato ciò che sapeva, mentre continuava a lavorare sulle sue abilità.
Ecco. Shiori era la più brava del corso come Arimi, ma c'era una differenza fondamentale: Arimi non era
disposta a condividere la sua passione, che per lei era anche uno strumento di riscatto. Amava la ginnastica esattamente come la amava Shiori e come la amava Elena stessa, ma in modo esclusivo.
Voleva essere la migliore, vincere le competizioni, essere ammirata. Il suo rapporto con le compagne non era idilliaco, ma non sembrava importarle granché. L'eccessiva ambizione andava
però a braccetto con l'egoismo e questo avrebbe finito per ritorcersi contro Arimi. Le esibizioni erano individuali, ma il punteggio era di tutta la squadra. L'amicizia, il sostegno delle
compagne e dell'insegnante, degli appassionati che seguivano le gare dagli spalti: tutte cose fondamentali che lei rischiava di non avere, se avesse continuato a comportarsi in quel modo.
Wakabayashi, con le sue parole, aveva dato una nuova speranza: Arimi era andata via in fretta, le era sembrata
impacciata e in imbarazzo. Se aveva sentito, forse … avrebbe avuto quantomeno di che riflettere.
Afferrò il borsone per il manico e si avviò verso l'uscita della palestra.
«Elena.» una voce femminile la costrinse a fermarsi.
«Signorina Shiroyama.» Mayuko giunse a pochi passi da lei, anche lei stava per lasciare lo stabile.
Posò il borsone ai suoi piedi. La guardava seria, costernata.
«Mi dispiace signorina Shiroyama, anche oggi Shimokawa ha lasciato la lezione.» la informò la sua
giovane assistente.
Mayuko le mise una mano su una spalla. «Tu hai fatto tutto quello che hai potuto Elena, ma dovrò fare di
necessità virtù. Arimi è la migliore ginnasta della scuola, non possiamo raggiungere i nostri obiettivi senza di lei. È un talento naturale ma ha uno spirito troppo
ribelle e individualistico, ha sempre pensato solo a essere una brava ginnasta, mai a instaurare un legame solido con le sue compagne. Ha sempre e solo lavorato per essere la migliore. Credo che
questo suo atteggiamento sia impossibile da cambiare.» sospirò, rassegnata.
«Forse no.» rispose Elena, ricordando le parole di Wakabayashi e l'effetto che forse avevano avuto sulla
ragazzina. «Mi lasci prima fare un altro tentativo, signorina Shiroyama. Non se ne pentirà.»
Mayuko la fissò negli occhi per qualche secondo e, convinta dalla risolutezza del suo sguardo, decise di dare
a lei, ad Arimi e anche a sé stessa, quella possibilità. «D'accordo. È l'ultima carta a tua disposizione.»
***Note***
Kamaageudon:
udon (pasta di farina di frumento in vario formato, il più usato è simile a grossi spaghetti) serviti con l'acqua di
cottura, che si intingono in una salsa tsukejiru, preparata con salsa di soia, acqua, spezie.
Matcha: è una varietà di tè verde
originaria della Cina, finemente lavorato, usato principalmente nella tradizionale cerimonia del tè. Le foglie vengono cotte al vapore, asciugate e ridotte in polvere finissima, tenuta al
riparo da fonti di luce e ossigeno.
Ha proprietà antiossidanti, stimola il metabolismo, aiuta la memoria e la concentrazione.
La prefettura di Shizuoka è ricca di piantagioni di questa varietà di tè.
Tanki-daigaku: sono istituti generalmente privati che offrono insegnamenti
(nel campo delle discipline umanistiche, delle scienze sociali, dell'insegnamento, dell'economia domestica e delle discipline mediche) in grado di agevolare l'ingresso nel mondo del lavoro.
Hanno durata biennale (triennale solo per infermieristica) e consentono, a chi lo desidera, di accedere al terzo o quarto anno dei corsi
universitari.
Il termine inglese usato per definirli è junior college.
Fonte: MangaForever
Izakaya: è un termine giapponese composto dalle parole i (sedersi), saka (sake) e ya
(negozio) e indica un tipico locale giapponese, dove si consumano bevande accompagnate da cibo.
Salto del cosacco: salto con una gamba tesa in avanti e l'altra piegata.
A proposito di ginnastica artistica: complimenti alle ragazze della Nazionale italiana juniores che hanno vinto ben sette medaglie
(quattro ori tra cui quello a squadre, due argenti e un bronzo) agli European Championships di Glasgow!
Splendido risultato che fa ben sperare per il futuro della ginnastica artistica femminile italiana.
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Capitolo 8 *** Capitolo VIII - Sogni e speranze ***
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Capitolo VIII
Sogni e speranze
Arimi spinse la porta d'ingresso del caffè "Ocean" ed entrò salutando i gestori del bar, che la
conoscevano per essere una cliente assidua. Individuò un tavolino appartato, che dava sulla strada, e vi si sedette. Per fortuna, a quell'ora del pomeriggio il locale non era affollato, ma i
suoi pensieri non le avrebbero permesso comunque di farci caso.
Ordinò una tazza di cioccolata e incrociò le dita sul ripiano in legno di noce, guardando
distrattamente l'esterno visibile dalla vetrina, il cielo che stava cominciando a tingersi di sfumature rosa e arancioni.
Non aveva il borsone con sé, ma aveva voluto comunque uscire di casa, per passare meno tempo possibile tra le
pareti di casa sua. Non si era recata alla palestra perché era ufficialmente esclusa dal gruppo, come le aveva detto la giovane insegnante.
Le parole di Elena e quelle di Wakabayashi riecheggiavano nella sua mente dalla sera prima … l'avevano colpita
come uno schiaffo poderoso.
Elena era da poco uscita dalla palestra e stava percorrendo la via di casa. Passando accanto al caffè "Ocean"
scorse Arimi attraverso la vetrina, seduta da sola a un tavolo mentre girava il cucchiaino in una tazza, apparentemente assorta.
Era un'ottima occasione per verificare se l'impressione sua e di Wakabayashi era corretta. Entrò e finse di
guardarsi intorno per cercare un posto libero.
«Ciao.» disse, avvicinandosi al tavolo e facendole un sorriso.
Arimi sobbalzò leggermente al suono della sua voce, e alzò lo sguardo.
«Buonasera.» ricambiò il saluto, con molto meno entusiasmo e senza sorridere, riabbassando subito
gli occhi sulla sua cioccolata.
«Ti dà fastidio se mi siedo qui?» proseguì Elena, per nulla scoraggiata dalla freddezza
della sua allieva.
«Faccia come vuole.» rispose sempre atona, ma rimanendo seduta «È venuta qui perché sente la mia mancanza?» domandò, sarcastica.
«Per darti un'altra possibilità.» replicò «E poi perché ieri,
quando ti ho detto che potevi andartene, speravo che ti dominassi e che decidessi di continuare la lezione.»
«Prende qualcosa, signorina?» le chiese una cameriera, che si era avvicinata nel frattempo.
«Solo un tè alla menta, grazie.»
«Sembri un po' giù.» disse poi, rivolgendosi
di nuovo ad Arimi, con un tono di voce più accomodante.
Arimi sollevò un'occhiata che voleva essere maldisposta, ma che riuscì a comunicare solo tristezza.
«Succede.»
«Ne vuoi parlare?» chiese, quel sorriso rassicurante sempre sulle sue labbra.
Arimi la guardò esitante, con un'espressione che sembrava contrariata ma che tradiva, in realtà, il
desiderio di confidarsi. In fondo, non aveva un motivo valido per avercela con Elena. Lei aveva sempre cercato di coinvolgerla nelle sue lezioni e aveva dimostrato di non volerla trattare come una
bambina. Era stata Arimi a mostrarsi sempre ostile e refrattaria, posizionandosi su un immaginario piedistallo.
«Le interessa davvero?»
«Beh, se riguarda la ginnastica artistica, direi che è addirittura consigliabile parlarne con me.»
rispose, strizzandole un occhio e ringraziando subito dopo la cameriera che le aveva appena servito il tè.
Arimi la guardò ancora. Quella ragazza le aveva sempre rivolto sguardi glaciali e contrariati,
come naturale conseguenza del suo costante rifiuto di collaborare. Ora aveva uno sguardo conciliante, benevolo, quasi materno. Le stava concedendo l'ennesima possibilità. La sua
conversazione con Wakabayashi si riproduceva nella sua testa dalla sera prima, come un filmato cui fosse stata abilitata la
ripetizione automatica.
«L'anno scorso mi sono fratturata il malleolo della caviglia destra. Ho subito un intervento chirurgico. Il
medico mi disse che non avrei potuto tornare ad allenarmi prima di quattro mesi. E non mi aveva assicurato una ripresa completa.»
Le rivolse un sorriso triste, appena accennato. Elena fece un cenno d'assenso, per incoraggiarla a continuare.
«Per me era come vivere un incubo. Ho cominciato la ginnastica artistica a sette anni. La mia
scuola elementare aveva appena istituito un club anche per quello sport, e io che sognavo di farlo da quando avevo visto alcune gare in tv, chiesi subito a mia madre di iscrivermi.
All'inizio non voleva, sosteneva che mi sarei solo fatta del male, e mio padre era della stessa opinione. Fu mia sorella, con Kumi a darle manforte, a convincerla. Loro sapevano bene quanto grande fosse il mio desiderio: lo hanno visto nascere.»
«Ah sì? Com'è successo?» le chiese Elena, certa che avrebbe suscitato delle sensazioni positive, alla rievocazione di quei ricordi e delle sensazioni
provate da bambina.
«Ero nel salotto di casa mia. Madoka e Kumi stavano guardando la tv, mentre io giocavo con le mie
bambole. A un certo punto avevano messo su un canale che stava trasmettendo gare di ginnastica artistica e le avevo sentite commentare sbalordite
le evoluzioni delle atlete. Mi ero avvicinata, incuriosita, e subito ero rimasta incantata a guardare lo schermo. Da quel giorno smisi di giocare con le bambole e cominciai a passare ogni momento libero a fare salti e capriole, cercando di imitare quelle ragazze
formidabili.»
«Ma mamma e papà non erano d'accordo, mi hai
detto.»
Arimi annuì, con un sorriso amaro «I miei genitori hanno sempre fatto paragoni tra me e mia
sorella. Lei è sempre stata più brava di me, in tutto. Studentessa modello, una delle migliori giocatrici del club di pallavolo, sempre educata, ordinata, impeccabile. Io invece sono
sempre stata più ribelle, non mi è mai piaciuto studiare, fatico a restare ferma e composta, non ricordo quante volte mi hanno sgridata perché avevo le guance arrossate dal
sudore e i capelli spettinati, o perché rischiavo di arrivare a scuola in ritardo.» sorrise brevemente, forse con un lieve imbarazzo per aver elencato i suoi difetti «Così
ho deciso che la ginnastica sarebbe diventata anche la mia arma di riscatto. Se avessi cominciato a vincere tornei sempre più importanti, nessuno avrebbe avuto più nulla da rimproverarmi e anzi, sarebbero stati orgogliosi anche di me. Così, mi concentravo solo su me stessa, sui miei
progressi. Le altre erano solo delle rivali di cui non avere alcuna compassione.»
Era come Elena aveva immaginato. Passione smisurata … e un desiderio disperato di riscatto.
«Verrai a vedere le tue compagne allora, a Numazu?»
Arimi sgranò gli occhi, stupita da quella domanda inaspettata e senza un legame apparente con quanto le aveva
appena rivelato «Non lo so. Non è detto che sia libera domenica.» rispose, sbrigativa, assumendo di nuovo un tono freddo e insolente.
Elena annuì facendo una piccola smorfia «A ogni modo, la partenza è fissata per le nove e un
quarto, davanti al complesso sportivo. Ma se non vuoi partire con noi, puoi venire a vedere la gara nel pomeriggio.» la informò spingendole sulla superficie del tavolo un biglietto,
prima di afferrare il manico del borsone e dirigersi verso il bancone.
Sedeva con un'espressione seria e pensierosa e sembrava che non si fosse nemmeno accorta delle scodelle con il pranzo, posate sul
tavolo.
«Cosa c'è che non va, Arimi?» chiese Madoka, mentre terminava con calma la sua porzione di riso.
«Nulla. Perché me lo chiedi?»
«Lo farebbe chiunque … sembri preoccupata, e non stai toccando cibo.» spiegò semplicemente.
«Non ho molta fame.» rispose, afferrando svogliatamente una ciotola e le hashi, per
ingerire almeno un po' di riso.
Non si era presentata davanti alla palestra quella mattina. L'idea di fare il viaggio in pullman con le sue compagne
la riempiva di disagio e di pena. Sentirle parlare con entusiasmo della gara cui avrebbero preso parte, mentre lei ne era esclusa! Sarebbe stato impossibile non sentirsi fuori posto. E poi sapeva
di non godere della loro simpatia, perché era egocentrica e presuntuosa, e pensava soltanto a sé stessa e a vincere le gare. Questo era il ritratto che Elena aveva fatto di lei. Ed
era certamente anche quello che pensavano le altre ragazze e la stessa Mayuko Shiroyama, sebbene l'avesse sempre lodata per il suo talento. In fin dei conti, doveva ammettere che non si poteva dire
che avessero torto, o che lei stessa non avrebbe avvertito le stesse sensazioni se avesse avuto a che fare con una ragazza dal comportamento simile al suo.
Era stata proprio la signorina Shiroyama a chiederle di entrare nella sua scuola due anni prima, dopo averla vista al
campionato scolastico di prima media, in cui lei faceva parte del club di ginnastica artistica della Nankatsu.
Il suo biglietto era ancora nella sua borsa … non aveva avuto la sfacciataggine di gettarlo.
«Se vai ora in stazione fai ancora in tempo a prendere il treno. Vuoi che ti accompagni?» la voce di sua sorella la
strappò al suo flusso di pensieri.
«No. Ho deciso che non ci vado.» disse, infine.
Madoka sospirò «Arimi, credo che sia un errore da parte tua.»
«Ma no … tanto non ci sarò io, in gara.» replicò, con un'alzata di spalle.
Stava per alzarsi dal tavolo, quando il campanello dell'ingresso suonò.
Madoka posò le ciotole che aveva preso dal tavolo per riportarle in cucina e andò alla porta.
Ciò che vide la riempì di stupore ma anche di sollievo allo stesso tempo.
«Chi è?» le chiese Arimi, vedendola sorridere senza dire una parola.
«È una persona che vedi spesso nella tua palestra.» le rispose sibillina, invitandola ad affacciarsi alla porta.
«Non mi dire che è …» sentiva un nodo in gola al pensiero che potesse essere la signorina Rulli venuta a
prenderla a casa, per poi rendersi conto dell'illogicità di quel pensiero. Ma provò sbigottimento nel vedere il ragazzo alto e imponente dai capelli neri, vestito con un paio di jeans
e una maglia grigia, appoggiato alla Lexus parcheggiata davanti al cancello.
«Wakabayashi-san? Ha per caso sbagliato abitazione?» chiese, senza malizia.
Genzo chiuse gli occhi e scosse piano la testa, con un lieve sorriso. «No, sono sicuro che questo è l'indirizzo
giusto.»
Le aprì la portiera dell'auto e la invitò a salire.
«Ma dove mi vuole portare?»
«Su non fare storie, entra.» le disse risoluto, avvicinandosi e afferrandole delicatamente un braccio, ignorando le sue
proteste.
La sua presa non le faceva male, ma era comunque salda. Non avrebbe potuto divincolarsi neppure se avesse impiegato tutta la sua
energia.
Arimi entrò nel vasto abitacolo della Lexus e si sedette sul sedile anteriore, accanto al posto di guida su cui si accomodò
Genzo.
«Non dimenticarti la borsa.» la richiamò Madoka mettendogliela sul grembo. Chiuse la portiera, salutando entrambi.
«Si può sapere dove mi vuole portare?» chiese di nuovo, stizzita.
«Se ricordi che giorno è oggi, la risposta dovrebbe essere automatica.» rispose Genzo, mettendo in moto.
«A Numazu? Ma io non ho intenzione di andarci … e non ho nemmeno il biglietto con me.» obiettò.
«Quella striscia di carta che sporge dalla tua borsa ha tutta l'aria di esserlo.» le rispose beffardo, ammutolendola.
«Scommetto che lei e la signorina Rulli avete architettato tutto questo.» diede infine voce ai suoi pensieri dopo alcuni
minuti di viaggio, non riuscendo a dissimulare la sua irritazione.
Genzo scosse la testa «No. Anch'io devo andare a Numazu, per altri motivi.»
«E come faceva a sapere che non ero già partita con le altre?»
«L'ho immaginato.» rispose, guardandola di sottecchi con un mezzo sorriso.
Arimi fece aderire la nuca all'appoggiatesta del sedile, sbuffando.
Il resto del viaggio proseguì con la sola autoradio a diffondere dei suoni all'interno dell'abitacolo.
Genzo guidava con espressione calma e concentrata, la stessa che aveva quando si posizionava tra i pali della porta, lasciandosi alle
spalle tratti del paesaggio costiero illuminato dal sole di inizio primavera.
Numazu era una delle più belle città della prefettura, rinomata per le sue stazioni termali e per le sue spiagge.
Arimi sospirò impercettibilmente, pensando che non ci stava andando né per rilassarsi, né tantomeno per
divertirsi.
Dopo un quarto d'ora, Genzo parcheggiò l'auto in una strada nelle vicinanze del palasport in cui era ospitata la kermesse.
Una volta entrati, consegnarono i biglietti e si sedettero sugli spalti, nei posti intermedi. Avrebbero avuto un'ottima visuale, senza
essere facilmente individuabili dalle ragazze.
Le ginnaste di tutte le squadre si stavano già preparando a eseguire le rispettive routine, e poco dopo la competizione ebbe
inizio.
«È dura starsene a guardare.» commentò Genzo, dopo che si erano svolti gli esercizi di alcune atlete.
Arimi si voltò di lato e lo guardò. Un lieve sorriso sul suo bel profilo.
«Cosa provi nel vedere le tue compagne in pedana?»
«Le invidio. Vorrei esserci anch'io.»
«Provi solo questo mentre le osservi?»
«Che altro dovrei sentire?»
Genzo strinse le labbra e distolse per un attimo lo sguardo dalla ragazzina, per poi tornare a guardarla con occhi gravi.
«Ecco il punto, Arimi. Tu pensi solo a te stessa.»
L'adolescente colse il rimprovero negli occhi del calciatore e abbassò gli occhi.
«Quando ti sentirai vulnerabile, quando attraverserai un periodo di forma non ottimale, se dovessi infortunarti, o sbagliare un
esercizio … avrai bisogno dell'amicizia e del conforto delle tue compagne.» le spiegò, con calma.
«Io … la ginnastica è il mio sogno. Amo infinitamente questo sport … non sopporto di restare fuori.»
«Ti capisco. Ma quello che la signorina Shiroyama ed Elena hanno voluto insegnarti è che i risultati non sono tutto e
soprattutto non potranno renderti felice se non c'è altro oltre alla legittima ambizione. Quello per la ginnastica è un amore da condividere Arimi, non da tenere per sé. Le tue
compagne la amano quanto te, gioiscono per ogni esercizio riuscito bene e soffrono per un errore o un infortunio. Il fatto che tu abbia più talento rispetto a loro non significa che abbiano
meno diritto di te a sognare di diventare delle campionesse. È un sogno, e non va precluso a nessuna. Anche se durante la routine sei sola, loro sono intorno a te. Loro, la signorina
Shiroyama, Elena.» affermò, mentre Arimi chinava leggermente la testa, nell'apprendere quelle verità che lei aveva ignorato per tanto tempo.
«Prova ad osservarle cercando di metterti nei loro panni. Immagina cosa provano mentre si riscaldano, mentre provano l'esercizio,
mentre si apprestano a eseguirlo.» le suggerì.
Sulla pedana, per l'esercizio a corpo libero, si stava presentando Shinobu.
L'inizio era stato molto buono. Poi però, commise un paio di errori di coordinazione, che le costarono delle penalità.
Non aveva calcolato bene i tempi di stacco tra un movimento e l'altro, ed era finita con i piedi fuori della pedana.
La ginnasta andò a sedersi accanto a Elena, che cercava di confortarla come poteva, dopo che ebbe ricevuto un abbraccio
consolatorio da Mayuko.
Arimi strinse le labbra. Si sentiva … dispiaciuta, costernata, delusa. Per una sua compagna.
Istintivamente voltò il viso verso Wakabayashi, che osservava la kermesse con occhi attenti.
Il suo insolito compagno di viaggio aveva ragione. Nel suo egoismo, non aveva mai considerato che Mitsuyo, Shinobu, Hanako, Emi e le
altre ragazze della scuola nutrivano una passione non inferiore alla sua, si allenavano con costanza e impegno, provavano ripetutamente i loro esercizi, cercavano di imparare nuovi elementi sempre
più difficili, mettendosi continuamente alla prova. Proprio come lei.
Nel corso della signorina Rulli erano tutte alla pari, bambine che avevano cominciato a praticare la ginnastica da poco tempo, all'inizio
del loro percorso. Non c'era spirito di competizione, ma solo tanta voglia di imparare, di aiutarsi e di essere amiche. E la loro insegnante stava bene attenta a far crescere questo spirito,
evitando la nascita di rivalità e acredini, creando un clima sereno.
Mitsuyo … era migliorata moltissimo. Alla trave, eseguì con scioltezza dei movimenti di notevole difficoltà: una
combinazione con una rondata, due flic-flac all'indietro e un Korbut alla perfezione. Poi fu la volta di un Arabian
raccolto con mezzo avvitamento.
Completò la routine con un doppio salto indietro carpiato.
Un ottimo esercizio, fluido e con poche oscillazioni.
Arimi si rese conto che forse una rivale temibile stava già crescendo nella sua stessa palestra.
Mitsuyo Minobe non aveva fatto progressi soltanto alla trave, ma anche negli altri tre attrezzi. I due salti al volteggio, che era sempre
stato il suo punto forte, vennero eseguiti perfettamente. Alle parallele, dimostrò di aver acquisito maggiore forza e stabilità. E al corpo libero, la sua eleganza e padronanza dei
movimenti entusiasmarono il pubblico e convinsero i giudici di gara.
E anche le altre compagne stavano progredendo, diminuendo il divario con lei.
Non provava fastidio, e questo quasi la stupì. No, era … adrenalina, persino eccitazione. Uno stimolo a migliorare
ulteriormente.
Forse era questo che intendeva Wakabayashi, nelle frasi conclusive del suo dialogo con la signorina Rulli?
"Essere o considerarsi i soli a fare benissimo uno sport o un'attività alla lunga non è così stimolante".
Erano sensazioni a lei sconosciute e che ora la stavano sopraffacendo.
Mitsuyo Minobe si classificò seconda, dietro a una ginnasta della prefettura di Yamanashi.
Stessa sorte per le rispettive scuole, con una graduatoria del concorso a squadre speculare a quella del concorso individuale.
«Sono state molto brave, non pensa anche lei, Wakabayashi-san?» commentò,
voltandosi verso Genzo.
Trasalì nel vedere il posto vuoto accanto al suo.
«Ma dov'è finit… ehi!» gridò, alzando gli occhi e vedendo che il ragazzo aveva appena sceso la
scalinata, circondato da molti altri spettatori che, alla spicciolata, stavano lasciando il palasport. Arimi balzò in piedi e si sporse leggermente sulla ringhiera.
«Ehi Wakabayashi-san!» gridò di nuovo, richiamando la sua attenzione e
inducendolo ad alzare la testa verso di lei «Non mi lasci qui. Come torno a casa?» protestò.
«Con il pullman della palestra, insieme alle tue compagne e alle tue insegnanti.» sorrise, prima di voltarsi e lasciare la
tribuna per avviarsi verso l'uscita.
«Ma …» cercò di replicare, ma Genzo era già sparito insieme a molti altri spettatori, oltre la
porta.
Sbuffò. Beh, non restava che andare dalle sue compagne e dalle insegnanti. Trasse un profondo respiro, scese le scalinate che si
stavano via via svuotando e, lentamente, si diresse verso la pedana dove Mitsuyo aveva ricevuto una medaglietta in argento con una piccola statuetta rappresentante una ginnasta nell'atto di fare
un'enjambée.
Le allieve della Shiroyama Gymnastics School si stavano per avviare verso gli spogliatoi, seguite dalle due insegnanti.
«Avete fatto tutte una bella gara.»
Si voltarono tutte quasi contemporaneamente, nell'udire quella voce conosciuta. Arimi era lì, vestita con una maglietta a maniche
lunghe e un paio di jeans, i capelli sciolti sulle spalle, e le guardava con un sorriso timido e le mani dietro la schiena.
«Complimenti Mitsuyo. Siete state tutte bravissime, ragazze.» aggiunse, a conferma di ciò che aveva appena affermato.
Non c'era nulla di forzato in quell'espressione, e lei sentì qualcosa sciogliersi, come se si fosse finalmente liberata di una zavorra che le impediva di vivere la ginnastica come una
passione, come qualcosa che la rendeva felice per il solo motivo di praticarla.
Le ragazze la guardavano un po' interdette, come se si stessero chiedendo se fosse veramente la boriosa e scostante Arimi, la ragazza che
stava parlando.
Non l'avevano mai vista così: sorridente e un po' impacciata.
Ma alla fine, dopo un'occhiata a Mayuko ed Elena, sorrisero di rimando e la ringraziarono, sotto lo sguardo meravigliato, ma anche
soffuso di gioia, delle due istruttrici.
Il viaggio di ritorno verso Nankatsu fu per Arimi meno terribile di quanto si fosse aspettata. Le ragazze non le
fecero pesare la mancata partecipazione e anzi, l'ascoltarono attente mentre riferiva con rispetto e franchezza le riflessioni fatte mentre guardava i loro esercizi e le relative considerazioni, e
rispondeva alle domande con naturalezza.
Le sue compagne si dimostrarono molto curiose anche riguardo al suo viaggio di andata.
«Sei venuta con Wakabayashi? Il portiere che si allena nel dojo?»
domandò Hanako.
Elena, seduta su uno dei sedili anteriori, si voltò.
«Sì, è passato a prendermi a casa.»
«Oh, che razza di fortuna! Ma che ci faceva lui qui?» le chiese subito Shinobu, la più sensibile a
quel tipo di argomento.
«Non lo so. Ha visto la gara con me e poi è andato via.»
«Ha assistito alla gara …?» le chiese Elena, con occhi sgranati per lo stupore.
La reazione della giovane insegnante non lasciava spazio al dubbio: non c'era stato alcun accordo tra loro, proprio
come le aveva detto il ragazzo.
Il pullman giunse sul piazzale antistante la palestra quando il sole cominciava la sua discesa verso l'orizzonte.
Dopo aver salutato tutte le ragazze e la signorina Shiroyama, Arimi afferrò leggermente un braccio di Elena,
accostandosi a lei.
Ripensò al dialogo tra lei e lo stesso Wakabayashi … a quel giudizio così duro, ma veritiero per come si era
comportata fino ad allora.
«Signorina Rulli» chiese «davvero rappresento soltanto un peso?»
Elena la fissò per alcuni secondi, poi scosse la testa piano, con un leggero sorriso «No, Arimi. Sei sempre un valore
aggiunto. Ma devi praticare la ginnastica con umiltà. Devi abbandonare quel piedistallo su cui tendi a posizionarti, e allora le tue compagne ti accetteranno nel gruppo e ti riconosceranno
come la loro leader. Saprai incoraggiarle e non intimidirle.»
Arimi fece una piccola smorfia, apparentemente confortata da quelle parole «Signorina Rulli … io voglio
provare a rientrare nel gruppo. Metterò da parte il mio … egocentrismo e la mia superbia.» proferì, usando quei termini con riluttanza ma senza ironia e lasciando la
presa.
Elena la guardò e fece un cenno d'assenso «Sei bentornata, Arimi. Però devi essere costante, non
ti basterà un solo giorno per convincere la Shiroyama. Lo sforzo iniziale è fondamentale, ma non varrà granché se non gli dai un seguito.» la avvertì.
«Lo so. Ma ho deciso, e lavorerò duro per
raggiungere questo obiettivo.» dichiarò con un tono di voce determinato quanto il suo sguardo.
Elena le diede una leggera, amichevole pacca sulle spalle «Allora comincia subito con l'andare a casa e
riposarti bene. Da domani ti aspetta una settimana intensa.»
Da una settimana Arimi si stava impegnando per aiutare Elena con le lezioni alle bambine e per convincere la
signorina Shiroyama, che osservava tutto in silenzio e ascoltava i resoconti della sua assistente.
Elena si passò una mano sulla fronte, asciugando uno strato di sudore. La giovanissima ginnasta era stata
inappuntabile, affiancandola negli allenamenti, dando consigli alle bambine, correggendone pazientemente postura e movimenti e persino suggerendo degli esercizi. Era certa che aveva assimilato la
lezione e fatta propria, e che non sarebbe passato altro tempo prima che la Shiroyama la reinserisse nel suo gruppo.
E non solo per il pieno ed efficiente spirito di collaborazione con cui la coadiuvava.
Aveva notato che dopo la lezione, Arimi andava negli spogliatoi senza alcuna remora e si fermava a chiacchierare con le sue
compagne, raccontando quello che aveva fatto. Ormai il suo rientro cominciava a essere richiesto dalle stesse ragazze e solo la fermezza impediva a Mayuko di rompere quel patto.
Le parallele erano forse l'attrezzo più difficile con cui si confrontavano le piccole allieve ed Elena aveva
già dedicato diverse lezioni perché imparassero a padroneggiarlo.
«Arimi, potresti aiutare Nami mentre io rispiego l'esercizio a Yu e a Himeko?»
«Certo.» rispose, andando subito dalla bambina.
Nami aveva impugnato lo staggio singolo e si era tirata su fino a toccarlo con le cosce, ma faticava a piegarsi e
fare la capriola. Le sue braccia tremavano per la paura.
«Aspetta. Non è questa la posizione giusta. Devi metterti così … ecco.» le
spiegò Arimi con calma, spingendole delicatamente sul fianco con le dita.
«Ti tengo io. Non temere, non cadrai.» la rassicurò, incrociando gli occhi intimoriti della
piccola.
Si spinse in giù, sempre sorretta da Arimi.
«Non lasciarmi.» la implorò, guardandola preoccupata.
«Stai tranquilla, la mia mano è qui e non la toglierò.» ribadì.
Nami spinse ancora, riuscendo finalmente a compiere un giro completo.
Ritornò nella posizione iniziale con un largo sorriso.
«Sì, ce l'hai fatta! Bravissima.» esclamò la giovane ginnasta, felice di aver assistito in
prima persona al primo successo della piccola allieva e di avervi contribuito.
Arimi si voltò verso Elena, con un sorriso felice che la giovane insegnante, in piedi a braccia conserte,
ricambiò, alzando poi il mento a suggerirle di dare un'occhiata alla sua sinistra.
Mayuko era lì accanto, in piedi con le mani sui fianchi, un sorriso sornione sul volto leggermente truccato.
Si rivolse a Elena.
«Ho bisogno di una nuova ginnasta da inserire nel mio gruppo, ma le tue allieve sono ancora un po' troppo
giovani. Credo che mi prenderò lei.» disse, indicando Arimi.
La ragazzina sorrise, ma non c'era nessuna espressione stile "Era ora" o, peggio, "Te l'avevo detto". Era un sorriso
dettato dalla felicità, dalla consapevolezza di aver imparato qualcosa che l'avrebbe resa una ginnasta diversa, senz'altro migliore, pronta per mettersi al servizio della squadra. Nuova,
come non a caso l'aveva definita Mayuko.
«Ragazzi, mi aiutate a portare dentro questo pacco? Lo mandano da Kashiwa ed è indirizzato
al signor Nitta!» annunciò la signora Saito, l'apprezzata cuoca del J-Village, una donna di mezza età
corpulenta e perennemente di buonumore, soprattutto quando aveva tanti giovani entusiasti della sua cucina attorno a sé. L'interessato lasciò subito il suo posto sul divano dove stava
guardando un film e corse verso la donna, seguito da alcuni compagni di squadra, tanto solerti quanto curiosi.
«Questo è un compleanno speciale, diventa maggiorenne.» commentò Taki, aiutandolo a posare
il pacco su un tavolo.
«Oh, guarda quante lettere ha ricevuto, il nostro falchetto.» disse Ishizaki, scorrendo alcune buste
«Sentite questa: "Nitta Shun, quando vedo i tuoi occhi non capisco più niente …"»
L'attaccante alzò di scatto lo sguardo dagli oggetti che stava passando in rassegna, perlopiù
pupazzetti ovviamente a forma di falco e disegni di suoi primi piani o nell'atto di calciare un hayabusa shoot.
Non mancavano le confezioni di cioccolatini, che fecero strappare una battuta a Soda: «Queste devono aver fatto
confusione con San Valentino.»
«Razza di ficcanaso! Non l'avrai mica aperta?» sbottò.
«Ehi, per chi mi hai preso?» replicò Ryo, offeso «È che questa è talmente
invasata che te l'ha scritto sulla busta, al posto del nome del mittente.» disse, lanciandogliela.
«Dammi le altre lettere.» voleva vedere se, tra tutti quei fan e ammiratrici, c'era una ragazza in
particolare che si era ricordata di lui.
Scorse con attenzione tutte le buste, aprendo quelle che non recavano il nome del mittente e leggendo l'incipit delle
lettere contenute all'interno. Poi rimise tutto dentro il pacco e lo richiuse, con uno sguardo amareggiato e contrariato.
«Signor Nitta!» gridò ancora la signora Saito, facendogli alzare la testa «È
arrivato un altro pacco, più piccolo. No ragazzi, questo ce la faccio a portarlo da sola!» esclamò giuliva, rivolta a Taki, Izawa e Urabe che si stavano avvicinando e appoggiando sul tavolo una bassa scatola rettangolare, avvolta da un incarto blu e
oro.
Shun lo scartò, circondato dai suoi compagni, scoprendo una scatola contenente una bellissima tuta composta da
pantaloni scuri e una maglia con cappuccio grigia.
Vide un cartoncino ripiegato rimasto sul fondo della scatola e lo prese. Era decorato da un disegno … fatto da
Kumi. Un biglietto d'auguri personalizzato: un falco pellegrino che volava verso il simbolo dei cinque cerchi olimpici, e una veduta dall'alto dello stadio "Santiago Bernabéu" sullo
sfondo.
Aprì il biglietto e lesse il messaggio scritto all'interno: "Scusala …
ma lo sai bene che a Madoka riesce tutto, tranne disegnare!".
Ridacchiò, ma provò un'emozione ancora più forte nel leggere le poche righe sottostanti.
"La tuta però, l'ho scelta io! Fatti valere. Madoka."
Urabe diede di gomito a Kishida, perfino Misaki non trattenne un sorriso nel vedere gli occhi scintillanti e le
guance leggermente arrossate per l'euforia del giovane attaccante.
«Ragazzi, mi è venuta voglia di andare a fare una
bella corsa. Ci vediamo dopo!» annunciò l'attaccante, afferrando l'ultimo regalo e dirigendosi,
completamente dimentico dello scatolone, verso le scale che portavano al piano superiore, dove si trovavano le stanze dei giocatori.
Kozo Kira dichiarò finita la seduta pomeridiana
di allenamento.
«Andate a lavarvi e a cambiarvi, ci vediamo dopo a cena.»
I ragazzi si avviarono ordinatamente verso gli spogliatoi.
Prima di raggiungere l'allenatore e i suoi compagni per la cena, Genzo salì nella stanza che
divideva con Shingo Takasugi, entrò e posò il borsone sul letto. Stava per posare il cellulare sul comodino
accanto quando cominciò a suonare. Non appena lesse il nome sul display, accettò subito la chiamata.
«Ti cerco alle ore diciotto e trentacinque.» esordì l'inconfondibile voce di Kaltz.
Genzo rise. «Trentasei.» ribatté, osservando il quadrante del suo orologio digitale, che aveva da
poco cambiato la cifra dei minuti.
«Tsk, sei sempre il solito precisino.» bofonchiò Hermann, con un tono fintamente irritato.
«Stavolta almeno, ho azzeccato il fuso.»
Da quando Genzo era tornato in Giappone, Kaltz aveva provato a telefonargli alcune volte ma non era mai riuscito a
mettersi in contatto con lui, e tutto perché si dimenticava che c'erano otto ore di differenza tra Amburgo e il Paese d'origine del portiere. E così a Genzo era capitato di accendere
il cellulare al mattino e ricevere la notifica di una chiamata effettuata alle tre di notte. Così il pomeriggio, quando trovava un po' di tempo libero, richiamava Hermann.
«Giro con la mappa dei fusi orari come se fosse la patente.» scherzò il giovane tedesco.
«I nostri solerti giornalisti ci tengono costantemente aggiornati su di te.» proseguì «Complimenti
per la tua conquista! Somiglia tantissimo a quella tua amica che era venuta qui anni fa con la sua squadra di tennis.»
«È lei.» confermò Genzo, senza aggiungere altro.
Il suo ormai ex compagno di squadra si limitò a un breve suono di approvazione. Sapeva benissimo
quanto poco amasse il portiere parlare delle sue vicende sentimentali e non gli fece altre domande, preferendo optare per un argomento su cui l'avrebbe trovato
senz'altro più loquace.
«State andando alla grande nelle qualificazioni.»
«Sì, stiamo disputando delle ottime gare. Sono contento, abbiamo una squadra forte che gioca per
vincere.»
Hermann colse una implicita frecciata al gioco della sua ormai ex squadra. Non si offese: sapeva che quella del portiere
era soprattutto una critica a Zeeman, e non aveva mai nascosto ai suoi compagni quello che pensava in proposito.
Gli raccontò di come stavano andando le cose ad Amburgo, senza
di lui. La squadra veleggiava ormai stabilmente pochi punti al di sotto della zona Europa League e aveva appena superato gli ottavi della Coppa di Germania, ma Kaltz non era molto ottimista per il
prosieguo.
«Indovina chi ci siamo beccati ai quarti? Il Bayern.»
«Non avete nulla da perdere.» gli ricordò Genzo «Giocate come abbiamo fatto all'Allianz
Arena e li metterete in difficoltà. Schweitzer è bravo, farà quanto possibile per fermare i tentativi dei loro attaccanti.»
«Stai scherzando?» obiettò Hermann «Sì, è bravo, ma conosco solo due portieri
in grado di bloccare i tiri di Schneider, Levin e Sho nella stessa partita: tu e Deuter Müller.»
Genzo sorrise a metà. Non per immodestia, ma il suo amico aveva detto la
verità: non per niente il Bayern Monaco aveva un ritmo inarrestabile in Bundesliga e aveva battuto nettamente il
Manchester United nella gara di andata dei quarti di Champions League, lasciando poche speranze alla squadra inglese di poter ribaltare il risultato. Ma non aveva mai senso arrendersi prima di
scendere in campo, e Jens aveva sempre messo una dose notevole di determinazione e buona volontà. In questo, gli ricordava Morisaki.
«Giocate al meglio delle vostre possibilità. È l'unico modo per non avere rimpianti.
Male che vada, potrete essere fieri del fatto di avere messo il Bayern in difficoltà, di avergli fatto sudare la qualificazione.» era una frase forse inflazionata e banale, ma era
stata una delle prime cose che aveva imparato sul calcio ed era ben consapevole che, detta da lui, avrebbe avuto un effetto positivo sull'autostima dei suoi
compagni. Gli sembrava ancora così strano, essere ormai estraneo alle vicende della squadra di cui aveva fatto parte per dieci anni … ma
sperava di far giungere comunque il suo sostegno fino all'altra parte dell'emisfero.
Hermann tacque per un attimo, poi Genzo poté udire un leggero sospiro «Sembro uno di quegli innamorati
svenevoli da soap opera, ma ci manchi, Gen.»
«Wakabayashi c'è una chiamata per te, da Nankatsu.» gli annunciò Kisugi mentre metteva
piede a pianoterra, indicando la signora Saito che gli sorrideva tenendo in mano la cornetta del telefono pubblico. Già, sorrideva: perlomeno, non doveva trattarsi di nulla di grave o di
allarmante.
«Sarà la piccola peste di suo nipote!» ridacchiò Ishizaki, mentre Genzo andava a
rispondere.
«È una ragazza.» gli sussurrò la cuoca con un gran sorriso, passandogli la cornetta.
Genzo ricambiò il sorriso, cercando di non assumere un'espressione ironica. Era una donna simpatica e alla
mano, ma fin troppo appassionata di cronaca rosa e pettegolezzi, come dimostravano le riviste patinate che traboccavano dal portagiornali collocato in un angolo della cucina.
Rispose pensando si trattasse di Annie, si stupì invece
nel sentire la voce di Elena. Probabilmente aveva provato a chiamarlo mentre parlava con Hermann, ma non ottenendo risposta aveva deciso di chiamare alla sede del ritiro.
«Ciao Wakabayashi. Volevo ringraziarti. Ieri Arimi è rientrata nel gruppo della
Shiroyama.» gli annunciò, con un tono calmo ma che tradiva la soddisfazione per quel felice epilogo.
«Ce l'ha fatta, alla fine.» commentò, sinceramente
lieto di apprendere quella notizia.
«Sì ed è merito tuo. Ha ascoltato la nostra conversazione e quello che hai detto l'ha fatta riflettere e le ha fatto capire dove stava sbagliando.» disse con
convinzione.
«Ne sono contento. Ma gli insegnamenti vanno messi in pratica e quelli li hai impartiti tu. Devi ringraziare te
stessa, non me.»
Elena sentì una piacevole sensazione di calore pervaderle il cuore. Wakabayashi le stava riconoscendo dei meriti, ma
lui aveva avuto un ruolo fondamentale. Ce l'avrebbero fatta senza il suo distillato di esperienza e di saggezza non comune, in un ragazzo di soli vent'anni? Non ne era per niente sicura, e comunque
era impossibile giudicare inutili le sue parole.
«No, non ti permetto di sminuire i tuoi meriti.» replicò, con tono deciso «Io stavo per mollare e tu ci hai dato
questa possibilità.»
«D'accordo, accetto di prendermi il merito per avervi spronate, ma il resto lo avete fatto tutto
voi.» insistette.
«Sì, hai ragione.» rise Elena. Rideva di gioia per quella prima impresa andata a buon fine e per
il tono involontariamente burbero con cui Wakabayashi aveva accolto la sua gratitudine e aveva poi comunque attribuito a lei e Arimi il ruolo primario.
La telefonata si concluse con un'esortazione di Genzo a continuare su quella strada. Scostò la cornetta
dall'orecchio e l'appoggiò sulla forcella, chiudendo la comunicazione. Con uno sguardo di sottecchi vide la signora Saito guardare verso di lui, mentre stava preparando uno dei piatti che
avrebbe servito per la cena, per poi chinare rapidamente la testa sulle verdure che stava affettando.
Chiuse gli occhi, sorrise e tornò nella sala comune.
La telefonata di Elena lo aveva stupito ma gli aveva indubbiamente fatto piacere. Era contento di aver contribuito a farle vincere quella prima sfida professionale e di sentirla così raggiante e allegra dopo averla vista abbattuta e rassegnata pochi giorni
prima. Era convinto di aver trattenuto il respiro dopo che l'aveva invitato a non svalutare i propri meriti, con un tono così determinato da rasentare il rimprovero.
Il giorno dopo era prevista la partenza per Naraha, stavano per cominciare le gare di ritorno del primo girone.
Si era fermato al palasport con l'intenzione di seguire solo l'inizio della gara, per assicurarsi che Arimi non
decidesse di sgattaiolare via, per poi andare magari a fare una corsa su una delle bellissime spiagge del posto. Quel rischio era stato presto scongiurato dopo il loro scambio di battute, e poi era
stato lui a rimanere lì a seguire tutta la gara. Aveva visto tutte le emozioni alternarsi sul volto di Elena durante gli esercizi delle allieve, perché era a lei che aveva prestato
gran parte della sua attenzione.
L'aveva osservata molto, ammirato da come incoraggiava le ragazze prima che salissero sulla pedana, da come le assisteva mentre
eseguivano i loro esercizi. I suoi sorrisi di soddisfazione ed esultanza e le smorfie di preoccupazione e di delusione quando commettevano degli errori l'avevano coinvolto più della gara
stessa.
E al termine della competizione, si era accorto di aver passato nel palasport tutto il tempo che aveva progettato di
dedicare al suo allenamento.
Si era alzato e se n'era andato prima che la ragazza potesse vederlo.
Aveva sorriso della cosa, mentre tornava a casa. Evidentemente, a forza di parlarne con lei, aveva finito per
prendersi a cuore quella questione, ma Arimi doveva iniziare a riconciliarsi con le sue compagne e con la signorina Shiroyama. Lui poteva rappresentare soltanto un buon aiuto esterno.
«Chi era, Wakabayashi?» gli chiese Izawa.
«Era il dojo Shiroyama, mi sono accordato per i prossimi
allenamenti.» mentì, riprendendo il suo posto sul divano.
Il sole illuminava l'oceano punteggiandolo di tanti cristalli dorati. Dal punto di vista meteorologico il mese di
marzo si preparava a concludersi nel modo migliore.
Hiroji sperava di poter dire la stessa cosa anche per quanto riguardava un'altra questione ben più importante,
che lo aveva tenuto impegnato per intere giornate e a volte anche per notti insonni, al punto da preoccupare Annie. Lui le accarezzava il viso, le dava un bacio sulla fronte e la pregava di avere
pazienza almeno fino alla fatidica data del primo consiglio d'amministrazione.
Da quando era tornato in Giappone, aveva quasi sempre guidato lui l'auto, come aveva fatto quando viveva a Londra.
Ormai Kuroda lavorava più per i suoi genitori che per lui. Adorava guidare, gli permetteva di scaricare la tensione e di far evadere la sua mente dai pensieri che lo rendevano così
teso. Lo faceva sentire come nei primi anni della sua lunga permanenza in Gran Bretagna, quando aveva cominciato a essere Hiroji Wakabayashi e non più solo il figlio primogenito di un ricco
e stimato imprenditore.
Quel giorno segnava per lui un nuovo inizio: era la prima riunione del consiglio d'amministrazione nel nuovo anno
fiscale e doveva presentare il suo progetto per una nuova era nella storia della Wakabayashi Electrics.
Era tempo di approvare il bilancio dell'ultimo trimestre, stava per iniziare il nuovo anno fiscale e c'erano le prime
decisioni importanti da prendere. Durante l'attesa riunione del consiglio d'amministrazione, avrebbe presentato il suo programma di riorganizzazione e rilancio dell'azienda.
Ne aveva parlato con Genzo alcune mattine prima, a colazione, tra un morso a una fetta di cheesecake ai frutti di bosco e un sorso di caffè. Suo fratello gli aveva risposto con la solita razionalità, facendo un paragone che aveva trovato
calzante.
«È un po' come in una partita di calcio, anche se la riorganizzazione di un'azienda si svolge in tempi
molto più diluiti. Devi rischiare in prima persona, ma anche essere pronto a correre ai ripari se la strategia non dovesse avere successo. Non capirai se stai facendo la cosa giusta
finché non vedrai i primi risultati. Un po' come quando un allenatore arriva in una squadra di calcio: lui porta le sue idee e il suo metodo di gioco, ma solo dopo alcune partite si
può capire se funzionano.»
Aveva passato il periodo iniziale del suo mandato a lavorare nel suo nuovo ufficio nel quartier generale
dell'azienda, facendo conoscenza con i dipendenti e con i membri del consiglio d'amministrazione. Yasuhiro gli aveva lasciato tutto esattamente com'era fino al suo ultimo giorno da amministratore
delegato e gli aveva assicurato carta bianca: nessuno, lì dentro, godeva di una protezione tale da renderlo inamovibile.
Si spostò sulla corsia si sorpasso e superò un'auto che procedeva ad andatura lenta.
Pensò ancora alle settimane precedenti, come in un riepilogo mentale.
Aveva passato l'intero mese a viaggiare per il Giappone, in visita agli stabilimenti e alle filiali nazionali
della Wakabayashi Electrics. Aveva avuto molte risposte e aveva fatto molti incontri interessanti. Aveva conosciuto impiegati, tecnici e operai molto in gamba; tra loro c'erano dei potenziali
ottimi collaboratori e aveva deciso di tenerli d'occhio: erano preparati, brillanti e alcuni di loro avevano anche fatto delle esperienze all'estero.
Aveva fatto molte domande e aveva ascoltato con attenzione tutto ciò che operai, impiegati e capi degli
stabilimenti gli avevano raccontato, aveva seguito interi processi di lavorazione. Quelle persone che prima lo conoscevano più che altro di nome, erano state favorevolmente colpite dalla
solerzia, dall'energia e dall'attenzione a ogni minimo dettaglio del loro nuovo principale.
Avevano letto sui giornali e sui siti Internet specializzati delle modifiche che Hiroji intendeva apportare
all'assetto della società, erano prospettati accordi con altre aziende, forse anche straniere, per poter investire in nuovi settori. E, ovviamente, era stato ventilato anche lo spettro del
licenziamento di un buon numero di dipendenti: anche per questo il giovane dirigente aveva deciso di visitare tutti gli stabilimenti e incontrare i lavoratori, per rassicurarli dalle informazioni
prive di fondamento riportate da alcuni giornalisti che avevano evidentemente distorto le dichiarazioni rilasciate nelle interviste. Gli erano state poste numerose domande cui aveva risposto con
chiarezza e senza annunciare provvedimenti di cui non aveva ancora verificato la necessità, ma alcuni sedicenti esperti di economia si erano spinti a formulare commenti e ipotesi del tutto
personali.
«Wakabayashi dovrà fare questo, Wakabayashi dovrà decidere così … ma se sono
così bravi a dire quello che devo fare, papà, perché non hai chiamato uno di loro?» aveva chiesto ironicamente a Yasuhiro, durante una delle sue visite al suo ufficio
nella holding.
Poi si concesse un altro ricordo, ben più dolce e recentissimo. Aveva pensato di dormire a Tokyo per arrivare ancora
più preparato, ma Annie si era opposta a quell'idea.
«Saresti ancora più teso e agitato e non chiuderesti occhio. No, hai bisogno di arrivare con la maggior
tranquillità possibile e questo lo puoi fare solo se dormi nel letto della tua stanza, con me accanto.»
Così era rimasto a Nankatsu. Ed era stata decisamente la scelta giusta: aveva fatto l'amore con Annie, aveva dormito
tenendola tra le sue braccia.
Poche ore dopo, stava chiudendo i polsini della camicia quando la moglie era comparsa, in vestaglia, sul vano della
porta.
«Sei nervoso?» gli chiese, con un tono dolce e uno sguardo rassicurante, ma su cui risaltava un sorriso
sornione che la rendeva così sensuale, ai suoi occhi.
«Non più del normale, spero.»
«Potresti metterti a ballare come Hugh Grant in "Love Actually", è utile per scaricare la tensione.»
scherzò, strizzandogli un occhio.
Hiroji sogghignò nella maniera tipica dei Wakabayashi «Non credo di saper dimenare i fianchi in quel
modo.»
«Eppure pagherei per vedertelo fare.» replicò, ridendo piano per non svegliare i bambini che dormivano
nelle stanze vicine.
"Love Actually" era stato il primo film che lui e Annie avevano visto insieme al cinema. La trama era composta da dieci
storie d'amore e la loro avrebbe potuto benissimo essere l'undicesima.
Le sue labbra si piegarono spontaneamente in un sorriso.
Aveva una moglie generosa e piena di premure che lo sosteneva, lo capiva, ascoltava i suoi sfoghi e sapeva fargli vedere le
cose nella prospettiva giusta quando i dubbi e le preoccupazioni lo gettavano nello sconforto e nell'insicurezza, proprio come sua madre faceva con suo padre.
Quando voleva sentirsi più sereno nei momenti di maggiore apprensione, gli bastava pensare alla sua donna, ai suoi
bambini e alla sua famiglia.
Arrivato nella sede del quartier generale della Wakabayashi Electrics, un alto e largo immobile nel quartiere speciale di Minato, Hiroji sistemò la sua vettura nell'ampio parcheggio antistante. Fu felice di notare
che in quel momento la sola auto già presente era quella di Akajima. Yasuhiro doveva essere arrivato condotto dal loro autista.
Salutò il custode, gli inservienti e i segretari, fece chiamare Akajima e si recò nel suo ufficio per
rivedere i suoi fascicoli.
Aveva riempito il suo tablet di dati e annotazioni, che aveva usato per redigere, con la collaborazione
del suo direttore finanziario, il suo piano di rilancio, resistendo a ogni tentazione di consultare il padre. Tutto per una
questione anche di orgoglio, per dimostrare che era capace di assumersi tutta la responsabilità richiesta dall'incarico e dal progetto che si apprestava a sottoporre agli altri membri del consiglio d'amministrazione. La loro approvazione o rifiuto e soprattutto i loro commenti, positivi e negativi, lo
avrebbero aiutato a scegliere se confermare oppure licenziare alcuni dirigenti non disposti o privi della necessaria convinzione a prendere parte alla nuova fase.
«Ci siamo.» disse Hiroji, cercando di dissimulare la sua tensione, che leggeva però
anche negli occhi di Akajima.
«È qualcosa di insolito rispetto agli anni precedenti» ammise il suo braccio destro «forse non sono abituato a programmi di questo tipo.»
«Qualcosa bisogna rischiare, Akajima.» gli ricordò Hiroji «Ma è vero anche che
dobbiamo essere pronti a rimediare se un investimento non andasse bene. Inoltre» aggiunse «se è ancora qui e mi ha aiutato a redigere questi fogli» disse, impugnandoli e
agitandoglieli sotto il naso «significa che non è poi così scettico.»
Il direttore finanziario non poté che ricambiare quello sguardo d'intesa così simile a quello del suo
vecchio amico Yasuhiro.
Gli otto membri del consiglio d'amministrazione erano seduti attorno a un tavolo ovale, con Yasuhiro nel ruolo di
presidente. Guardava suo figlio, in piedi tra lui e Akajima, mentre si apprestava a parlare.
«Prima di illustrarvi il mio progetto, vorrei mettere in chiaro fin da subito quali sono le mie idee di
gestione di un'impresa.» fu la sua introduzione, che catturò la massima attenzione dei dirigenti.
«Quando si parla di licenziamenti, si pensa sia una questione riguardante soltanto gli operai, considerati
l'anello debole della catena, mentre in realtà, senza il loro lavoro nemmeno noi saremmo qui e la Wakabayashi Electrics avrebbe chiuso da tempo.» affermò, passando in rassegna
con lo sguardo i volti dei membri del consiglio d'amministrazione «Beh, voglio dirvelo senza mezzi termini: gli alti dirigenti non godono dell'immunità. Nessuno gode di diritti
acquisiti. Chi lavora male se ne va, qualunque incarico ricopra. Lo farò anch'io, se dovessi dimostrarmi inadeguato al progetto.»
I dirigenti lo guardavano con un'espressione scettica. I loro occhi si spostarono su suo padre, al suo
posto di presidente del consiglio d'amministrazione. Yasuhiro mantenne uno sguardo imperturbabile, segno che non avrebbe
posto ostacoli alle decisioni del figlio.
Quest'ultimo illustrò la strategia con cui intendeva riportare
l'azienda al suo ruolo di leader nel mercato della componentistica e della produzione di dispositivi e annunciò la possibilità di ingressi di dirigenti stranieri e di accordi con altre società. I volti
degli altri membri non avevano avuto mutamenti d'espressione, ma Hiroji sapeva bene che difficilmente tutti si sarebbero trovati d'accordo con i suoi propositi.
I dirigenti si guardarono tra di loro, indecisi su come reagire. Dire di sì avrebbe significato accettare la
scommessa di rinnovare l'azienda, aprire un nuovo corso in cui loro però non sarebbero più stati considerati intoccabili come prima e della cui riuscita non erano sicuri. Le cose
erano rimaste sostanzialmente invariate per anni, ma alla lunga la Wakabayashi Electrics aveva pagato il suo immobilismo, il troppo affidamento su una modalità di gestione ormai collaudata
ma che con il passare del tempo e, soprattutto, con gli importanti cambiamenti degli ultimi anni, si era rivelata obsoleta.
Il giovane primogenito di Yasuhiro stava cominciando fin da subito a mostrare di che pasta era fatto e aveva messo da
parte ogni riguardo.
Kumi osservò il foglio su cui aveva appena terminato uno dei disegni che componevano il suo manga.
«Sì, direi che va bene.» mormorò a sé stessa, posandolo sul tavolo. Guardò il
cestino lì accanto, pieno di fogli appallottolati che non erano altro che le versioni scartate dell'ultimo disegno e di quelli precedenti.
Sospirò, pensando a quanto fosse difficile disegnare un buon manga. Eppure, nulla le piaceva di
più.
Ci lavorava da mesi, ormai: a casa, nella sua camera da letto, ma anche a scuola - costringendo, alcune volte, Madoka
a coprirla - e ora nel negozio di cartolibreria in cui stava sostituendo sua madre, approfittando della momentanea assenza di clienti.
Mancavano ormai soltanto quindici giorni al termine ultimo per la consegna del suo manga alla commissione
esaminatrice della casa editrice Shogakukan. Si trattava di un concorso per giovani esordienti: Kumi era convinta di avere in mano la storia giusta e voleva
partecipare a tutti i costi. Anche se non avesse vinto, il suo lavoro poteva comunque essere notato da uno dei membri della commissione e ricevere una menzione speciale e poi chissà, magari
qualche mangaka famoso l'avrebbe voluta come sua assistente ….
«Sugimoto?»
Kumi alzò la testa di scatto e vide Misaki in piedi di fronte al bancone. Si era così immedesimata nel
suo viaggio mentale che non aveva sentito neppure suonare il campanello dell'ingresso.
«Oh, ciao Misaki. Scusami, non ti avevo sentito.» disse, alzandosi e chinando per un attimo la testa per
dissimulare il suo imbarazzo e assumere un minimo di disinvoltura. «Di cosa hai bisogno?» chiese, sorridente.
«Sono venuto a comprare degli album da disegno per mio padre, di quelli per fare gli schizzi.»
«Certo.» andò nel magazzino del negozio, dove erano riposti gli articoli arrivati da poco e non ancora collocati sugli scaffali.
Mentre Taro aspettava, il suo sguardo venne attirato dai disegni sparsi su un tavolino accostato
all'estremità del bancone. Si avvicinò per sbirciarli. Alzò un attimo lo sguardo: Kumi era ancora nel retro. Prese in mano uno dei fogli e guardò le vignette con
attenzione e con occhio esperto. Erano ben fatti, avevano un tratto agile, pulito. I personaggi e le ambientazioni erano tratteggiati in modo realistico, senza eccessi e nelle giuste proporzioni.
La ricostruzione storica - riconobbe l'ambientazione in un'era del passato - era precisa e credibile. Il suo stile gli ricordava quello di Riyoko Ikeda e di Rumiko
Takahashi. Sorrise, piuttosto stupito: aveva sentito dire che disegnava, ma non sapeva avesse un talento di tale portata.
Lo rimise in fretta sul tavolino quando sentì i suoi
passi rapidi avvicinarsi.
«Ecco qui.» disse, posando album di varie dimensioni e tipi sul bancone e mostrandoglieli. Taro scelse il
tipo di album richiestogli da suo padre e pagò la cifra necessaria.
«Quei disegni sono tuoi?» chiese poi, non riuscendo a trattenere la sua curiosità.
Kumi sbiancò «Sì …» rispose, sentendo i battiti del suo cuore farsi più
rapidi.
«Sono molto belli. Davvero.»
«Ti ringrazio.» replicò, sperando che le sue guance non si fossero imporporate in modo evidente
«Sono per un concorso indetto dalla Shogakukan cui vorrei partecipare. Mi piacerebbe davvero tanto diventare una mangaka.» ammise.
Taro annuì «Mio padre disegna sempre i suoi soggetti prima di dipingerli, quindi un po' d'occhio ce
l'ho. Non conosco la trama del tuo manga, ma le scene sono ben rappresentate e i personaggi sono ben disegnati. Il mio parere è positivo, per quel che può valere.»
«Oh, per me vale molto.» mormorò. Spalancò gli occhi, rendendosi conto di aver abbassato e
soprattutto addolcito fin troppo il tono della sua voce «Cioè sì, tuo padre è un bravissimo pittore, hai viaggiato insieme a lui per tanti anni e quindi non ho dubbi che
te ne intendi.» si affrettò a precisare, nel tentativo di evitare che Misaki la fraintendesse.
Vedere che il ragazzo non aveva cambiato espressione né atteggiamento fu un sollievo.
«Il tuo apprezzamento mi dà un po' di fiducia. A volte ho la sensazione di non essere abbastanza brava per
inviare un mio lavoro.» riprese, desiderosa di cogliere quell'occasione per parlargli, per stabilire un contatto.
Taro scosse piano la testa. «Se non tenti, non lo saprai mai. E anche se non dovessi vincere, non sarà la fine
di tutto. Potrai continuare a disegnare e proporre i tuoi lavori a delle case editrici più piccole ma anche più disposte a lanciare nuovi talenti. Percorrerai una strada più
lunga, ma ti costruirai un solido bagaglio di esperienze che ti aiuteranno a gestire con assennatezza il tuo successo, quando arriverà.»
Kumi lo guardò, sentendosi confortata dalle sue parole.
«Mio padre ha viaggiato e lavorato per anni prima di avere riscontri decisivi. Non è facile farsi strada nella
vita, per gli artisti forse è ancora più difficile.»
«In fondo anche tu ne sai qualcosa, Artista del campo.» replicò con uno sguardo vispo e un sorriso da
bimba, ritrovando per un attimo l'abituale disinvoltura.
Taro sorrise e stava per replicare quando entrò una coppia di
signori di mezza età e la loro conversazione dovette, per forza di cose, finire.
«Provaci! In bocca al lupo.» disse però prima di salutarla.
«Crepi.» disse a voce bassa, tanto da non essere sicura che l'avesse
sentita, e per qualche istante rimase a guardare, come incantata, la porta da cui era uscito.
Era stato liberatorio parlare con lui: le aveva dato una grossa iniezione di fiducia, al punto da renderle quasi attraente
persino la prospettiva di non vincere il concorso ma lavorare per una piccola casa editrice e nel frattempo portare avanti i suoi studi.
Tuttavia .... sentiva una forte sensazione di disappunto verso sé stessa. Che le succedeva? Aveva rischiato di
scoprirsi come un'ingenua, dopo mesi passati a cercare semmai di nascondere i suoi sentimenti, anche perché non era ancora riuscita a capire che tipo di rapporto lo legasse a Elena e quindi
non sapeva come comportarsi. Si sentiva la scolaretta timida e facile all'imbarazzo che non era mai stata. Cosa avrebbe pensato Misaki di lei?
Eppure … era davvero sbagliato cercare di instaurare un rapporto con lui, che andasse al di là dei saluti e di
qualche banale domanda?
Fu costretta a mettere subito da parte quegli interrogativi, per non fare una brutta figura anche con i suoi attuali
clienti.
***Note***
Nel sistema scolastico giapponese, le scuole elementari durano sei anni (dai 7 ai 12), le medie tre (dai 13 ai 15),
così come il liceo (dai 16 ai 18).
Hashi: bacchette che i giapponesi usano per afferrare e
portare il cibo alla bocca.
-san: è il suffisso onorifico giapponese più comune ed è
un titolo di rispetto usato praticamente fra persone di tutte le età. La traduzione più vicina è "signore" o "signora". Qui la quindicenne Arimi lo usa per rivolgersi al
ventenne Genzo.
Kashiwa: città del Giappone, situata nella prefettura di Chiba, a
sud-est di Tokyo. Vi ha sede la squadra di calcio del Reysol Kashiwa.
In Giappone, la maggiore età si raggiunge per legge a vent'anni.
"Love Actually - L'amore davvero" (Gran Bretagna, 2003)
è una commedia romantica ambientata nella Londra contemporanea, nel periodo natalizio.
Questa è la divertente scena del
balletto del primo ministro britannico, interpretato da Hugh Grant, sulle note di "Jump! (For My Love)" delle Pointer Sisters.
Riyoko Ikeda e Rumiko Takahashi sono due tra le più celebri mangaka giapponesi. La prima è l'autrice di "Berusaiyu no Bara" ("Lady Oscar"), la seconda,
già citata nel sesto capitolo, ha creato, tra gli altri "Lamù", "Maison Ikkoku", "Inuyasha", "Ranma 1/2".
Piccolo dizionario di ginnastica artistica:
Flic-flac: detto anche
ribaltata, è in effetti un ribaltamento (in avanti o all'indietro) sul piano sagittale composto da due fasi: l'una prima della posa delle mani (dalla stazione eretta alla verticale) e
l'altra prima dell'arrivo dei piedi (dalla verticale alla posizione eretta).
Fonte: GinnasticaKinesRoma
Lo sa fare anche Juan Diaz (e ovviamente Tsubasa :-D).
Korbut: un salto all'indietro con arrivo a gambe separate sulla
trave. La sovietica Olga Korbut lo eseguì alle Olimpiadi di Monaco di Baviera nel 1972. In questo filmato lo si vede da 00:47 a
00:51.
Arabian: salto raccolto. Consiste in una spinta all'indietro con
un mezzo avvitamento che si conclude con l'arrivo in piedi sulla trave, in posizione opposta rispetto a quella di partenza. Lo si può vedere in questo filmato.
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Capitolo 9 *** Capitolo IX - Hanami ***
Capitolo IX
Capitolo IX
Hanami
Genzo
osservò lo
splendido giardino che circondava villa Ujimori, attraverso la grande
portafinestra, per poi varcare la soglia e uscire sul portico,
lasciando che la
brezza primaverile e i raggi del sole gli accarezzassero il viso e i
capelli
neri.
I suoi
occhi
ammirarono l'erba verde perfettamente tagliata e curata, le rocce
rotonde disposte con
precisione a formare un sentiero che permetteva di spostarsi da una
parte
all'altra della casa, gli alti nespoli e i rododendri.
Stava
trascorrendo la
settimana di libertà lasciata da Kira a tutti i suoi giocatori dopo la
conclusione del primo girone di
qualificazione, in cui il Giappone si era classificato al primo posto
vincendo
tutte le partite. I suoi compagni di
squadra avevano segnato molte reti, e lui aveva mantenuto la porta
inviolata.
I genitori
di Asami
erano a Singapore in viaggio d'affari e lei gli aveva proposto di
passare la notte nella villa di
famiglia.
La
ragazza, appena scesa
dal piano superiore, si avvicinò in punta di piedi, perché non si
accorgesse
della sua presenza.
Lo
abbracciò da
dietro, passandogli le braccia attorno al busto e posando le mani sul
suo
torace, in una languida carezza. Appoggiò la testa sulla sua ampia
schiena.
«Buongiorno.»
sussurrò.
Genzo
sorrise al
delicato, gradevole contatto e si voltò di lato per guardarla in viso,
mostrandole il suo bel profilo.
«Buongiorno.»
rispose
di rimando, voltandosi completamente e ritrovandosi di fronte a lei.
Indossava
ancora la
sua vestaglia di seta bianca.
«Così
parti già oggi
pomeriggio?»
Genzo
annuì «Domani
mattina mi aspetta una riunione del consiglio direttivo dell'Istituto
Shutetsu.
Devo essere a Nankatsu entro stasera.»
Asami gli
si fece
ancora più vicina, posando il capo sulla sua spalla. I suoi lunghi e
setosi
capelli neri gli lambivano il tessuto della camicia bianca. Lui le
passò un
braccio attorno alla schiena sottile, permettendole di accoccolarsi sul
suo
ampio petto.
Accarezzò
ammirata i
pettorali di lui, delineandone i contorni con le dita, attraverso la
stoffa
della camicia.
Era bella,
intelligente e molto dolce. Stava bene con lei.
Fermarsi
nel suo
appartamento oppure nella villa della famiglia Ujimori, ogni volta che
andava a
Tokyo, era diventata ormai una piacevole consuetudine.
«È meglio
cominciare a
prepararsi, per non arrivare tardi al pranzo con Hiroji e Annie.»
mormorò.
La ragazza
sollevò la
testa «A proposito di Hiroji, sai cosa mi ha detto? Che hai cominciato
a
praticare anche il pugilato e il kickboxing per migliorare come
portiere.»
Lui
assentì «A Nankatsu il maestro
Akinori Shiroyama è affiancato da un campione di arti marziali tedesco:
Carlo
Nerlinger. È uno dei migliori in circolazione, animato da una passione
inesauribile. Ha un'esperienza sterminata eppure crede di avere sempre
qualcosa
da imparare. E probabilmente anche questo ha contribuito a farmi
migliorare.»
Asami
sorrise «Non sei
cambiato per niente. Hai sempre la stessa passione per il calcio.» gli
sussurrò, mentre si alzava in punta di piedi per ricevere un nuovo
bacio.
«Così
rischiamo di
farli aspettare.» sussurrò non troppo convinto, dopo che si furono
staccati, mantenendo le labbra a pochi
centimetri da quelle della ragazza.
«Forse. Ma
… prima voglio un
piccolo supplemento. Dopo sarà già tanto se riuscirò a darti un bacio,
prima
della tua partenza.» mormorò, passandogli le braccia attorno al collo e
guardandolo con le belle labbra piegate in un piccolo broncio.
Genzo
sorrise, mentre
si chinava sul suo viso e la stringeva nuovamente a sé.
Una Lexus
si fermò nel parcheggio del ristorante davanti al quale erano arrivati
da poco, e ne uscirono Hiroji e Annie che, notata la presenza di Genzo
e
Asami, sorrisero e si incamminarono verso di loro.
Si erano
dati
appuntamento a Nakameguro, una zona poco lontana
dal quartiere speciale di Shinagawa, dove si trovava villa Ujimori. E
poi
sarebbero andati a vedere i ciliegi in fiore.
«Ci sono
novità dal
consiglio d'amministrazione?» chiese Genzo, quando i camerieri ebbero
servito
tutte le pietanze ordinate.
Hiroji
assentì «Se ne
andranno in tre. Non mi fa piacere, ma me l'aspettavo. Già dopo la
prima
riunione mi avevano detto di non condividere il mio progetto.»
«Ora
dovrai
sostituirli.» commentò, sorseggiando un po' di vino dal suo bicchiere.
«Ho già
individuato
dei profili che fanno al caso nostro. Li sto contattando, da alcuni di
loro ho
già ricevuto la disponibilità a parlare del piano di riorganizzazione.»
«E papà,
continua a
insistere?» chiese poi, lanciando al fratello un'occhiata tra il
divertito e il
comprensivo.
Genzo posò
il
bicchiere e sorrise «L'ho convinto a lasciarmi in pace almeno fino al
termine
delle Olimpiadi.»
«Se ci
andrete.»
intervenne Annie, seduta accanto al marito, lanciandogli uno sguardo
birichino
e un sorriso sornione. Era chiaro che voleva soltanto punzecchiarlo con
intenti
scherzosi, e il cognato stette al gioco.
«Hai
qualche dubbio?»
«Certo che
ci
andranno. Il Giappone è fortissimo e Genzo non ha subìto nemmeno un
gol.»
affermò Asami, guardando teneramente il suo fidanzato e accarezzandogli
una
spalla.
Hiroji e
Annie
guardarono con un sorriso di approvazione la giovane coppia. Erano
stati felici
di apprendere del legame da poco nato tra i due, che dopo anni di
amicizia era
sfociato in una relazione amorosa.
Erano
bellissimi
insieme e Asami era chiaramente innamorata di Genzo.
L'unico
dubbio era la
capacità di quest'ultimo di mantenere una relazione stabile, specie
dopo il suo
ritorno in Europa. Perché, anche se era in rotta con l'Amburgo, il
portiere
avrebbe sicuramente continuato la sua carriera calcistica in un'altra
squadra
del Vecchio Continente, dove si giocavano i campionati più prestigiosi
e il
calcio più competitivo.
Hiroji
sapeva che
l'amore non era mai stato una priorità nei progetti di vita del
fratello: ad
Amburgo non aveva mai avuto una ragazza fissa, ma solo brevi avventure.
Sapeva
anche che quattro anni prima aveva rinunciato a iniziare una relazione
proprio
con Asami, benché ne fosse fortemente attratto, a causa della distanza
che
separava Germania e Giappone.
Chissà …
forse in
quegli anni Genzo aveva rimpianto quella scelta. Oppure semplicemente,
aveva
ritrovato Asami in un momento in cui era più propenso a iniziare una
storia. In
fondo, era stata l'unica ragazza a instaurare con lui un rapporto
duraturo di confidenza
e di amicizia; certamente Genzo non si sarebbe legato a lei senza avere
nei
suoi confronti intenzioni più che serie.
I signori
Wakabayashi
avevano accolto con la massima soddisfazione la notizia della
frequentazione
tra il loro ultimogenito e Asami Ujimori. I genitori dei due ragazzi
avevano
auspicato già molto tempo prima, quando erano bambini, un'unione tra i
loro figli
e ora finalmente vedevano realizzato quel vecchio desiderio e, cosa
ancora più
gratificante, senza forzature da parte loro.
La loro
unione avrebbe
portato benefici anche dal punto di vista degli affari, grazie a una
collaborazione esistente da lunga data. Gli Ujimori non avevano altri
figli
oltre Asami, quindi speravano in un buon matrimonio per poter passare
la guida
dell'azienda al futuro genero. E Genzo Wakabayashi era certamente un
ragazzo
posato e coscienzioso, con la testa sulle spalle, che avrebbe saputo
farsi
valere, in un futuro magari non lontano, anche come imprenditore. Già
la sola
parentela con una famiglia così influente garantiva ad Asami un futuro
più che
roseo.
«Ieri ho
sentito
Keisuke. Tornerà in Giappone in autunno.» annunciò Hiroji.
«Se non
ricordo male,
studia Ingegneria chimica.» intervenne Asami.
Genzo fece
un cenno
d'assenso «È proprio la materia adatta a lui. Da piccolo rompeva
qualsiasi
oggetto gli capitasse a tiro per vedere com'era fatto dentro.»
«Già, ti
ricordi
quando ha praticamente smembrato il tuo GameBoy
per vedere come funzionavano i meccanismi all'interno e di quali
materiali
erano fatti?» rise Hiroji.
Il
portiere sogghignò
«E come potrei dimenticarlo? È stata la prima volta in cui ho pensato
seriamente di ammazzare qualcuno.»
«Ragazze,
era una
furia! Ha rincorso Keisuke fino al cancello di casa. Lui ha cercato di
arrampicarsi ma Genzo è riuscito ad afferrargli le gambe e a tirarlo
giù. Poi
gli ha strappato gli occhiali, ha spaccato la montatura e li ha gettati
per
terra. "Ecco, così non guarderai più
niente!" gli ha gridato.» raccontò il giovane dirigente,
imitando
la voce furibonda del fratello più piccolo e faticando a contenere
l'ilarità
che quel ricordo gli suscitava, contagiando anche gli altri.
Genzo
scosse la testa
«Papà ci fece una ramanzina indimenticabile. Costrinse Keisuke ad
accompagnarmi a comprare un'altra console, mentre io dovetti
accompagnare lui a
scegliere un nuovo paio d'occhiali.»
«Obbligando
te a saltare l'allenamento di calcio e Keisuke quello di basket.»
aggiunse
Hiroji.
Annie e
Asami risero
di gusto, la prima tenendosi la pancia, l'altra con una mano davanti
alla
bocca.
Il pranzo
proseguì
piacevolmente, tra aneddoti e risate.
Nel
pomeriggio, le due
coppie andarono a Nakameguro, come voluto da Asami, per poi dividersi
durante
il percorso.
Era
passato tanto
tempo dall'ultima volta in cui aveva ammirato i ciliegi, in Giappone.
Le fronde
cariche di
petali bianchi e rosa si aggrovigliavano creando un tunnel che
sovrastava il
fiume Megurogawa, che si stava tingendo, di giorno in giorno, di quei
colori. I
raggi del sole filtravano attraverso gli spazi lasciati da
quell'intreccio, riflettendosi
sull'acqua e punteggiandola di piccoli cristalli dorati.
Asami
prese Genzo
sottobraccio e gli appoggiò la testa su una spalla.
«È sempre
meraviglioso.» affermò, con occhi estasiati «È uno spettacolo stupendo
… non
finirà mai di stupirmi.»
«È proprio
questo
l'aspetto più fantastico di questo evento. Si ripete sempre uguale ogni
anno,
eppure suscita ogni volta un'emozione incredibile, che non si attenua
mai.»
«Sei
sicuro di non
volerti fermare ancora un po'?» gli chiese, mettendosi di fronte a lui
dopo
alcuni minuti passati a passeggiare contemplando quella stupenda
manifestazione della natura e parlando dei loro impegni futuri.
«No,
purtroppo i tempi
sono stretti, e a me piace organizzare tutto per bene.»
La ragazza
annuì, con
un lieve sorriso.
«Lo so. È
che quando
siamo insieme, vorrei che il tempo si fermasse. O almeno, che vivessi a
Tokyo
anche tu.» mormorò.
Le
accarezzò i lunghi
capelli, seta nera tra le sue dita, intenerito dal suo sguardo dolce e
devoto.
Gli si
strinse, e lui
le circondò la schiena con le braccia.
Si
salutarono nel
parcheggio in cui Hiroji aveva lasciato l'auto. Genzo sarebbe tornato a
Nankatsu insieme al fratello e a Annie. I più giovani si scambiarono un
lieve
bacio, mentre giungeva il taxi che Asami aveva chiamato per farsi
riportare a
casa.
Kumi e
Madoka
pedalavano con il vento che accarezzava la pelle del viso e delle
braccia e
faceva danzare i loro capelli, percorrendo le strade costeggiate da
ciliegi nel
pieno del loro rigoglio, che emanavano il loro inconfondibile profumo.
Chiunque
stesse
passando per di lì, avrebbe potuto udire le loro voci argentine e le
loro
risate.
Stavano
passando gli
ultimi giorni di vacanza prima di cominciare una nuova fase del loro
percorso: avrebbero iniziato il
nuovo ciclo di studi, Madoka a Tokyo all'università Keio, Kumi a Fuji,
dove si
trovava il tanki-daigaku. Una
città
distante pochi chilometri da Nankatsu e facilmente raggiungibile con
l'autobus.
«Guarda
laggiù.» disse
Kumi, indicando all'amica il campo di calcio comunale «Ci sono i
ragazzi.
Proprio non riescono a stare lontani un singolo giorno da un pallone.»
ridacchiò, rallentando progressivamente il ritmo della pedalata, fino a
frenare.
«Già.»
concordò
Madoka, frenando anch'ella poco più avanti. Si fermarono a osservarli e
ad
ascoltare le loro grida, talvolta di esultanza, altre di disappunto.
Poi si
scambiarono un'occhiata.
«Che dici,
andiamo a
tifare un po'?»
Madoka
esitò un
attimo, poi sorrise «Perché no?»
Lasciarono
le
biciclette sull'erba, poco lontano dal ciglio della strada, dopo averle
legate
con l'apposita catena. Scesero i gradini e si avvicinarono a una delle
panche
collocate a bordocampo.
«Ehi, ciao
ragazze!»
le salutò Ishizaki, che era stato il primo ad accorgersi del loro
arrivo.
«Nitta non
c'è?»
chiese Madoka, guardandosi intorno e riconoscendo tutti gli altri
giocatori ex
Nankatsu, senza individuare l'attaccante.
«È andato
sui monti
Hida insieme a Ken Wakashimazu e ad alcuni allievi del suo dojo, per forgiare un nuovo tiro da
usare
nella seconda fase delle qualificazioni.» le rispose Kishida.
«Sui monti
Hida?»
ripeté la ragazza, stupita e delusa. Aveva atteso con trepidazione
quella
settimana perché sperava di rivederlo, dopo la conclusione del primo
girone, e
invece … sempre il calcio, sempre le lezioni di karate con quel
Wakashimazu!
«Sì. Lo
avevano
progettato già un mese fa. Ma la bella notizia è che domani o al
massimo
dopodomani tornerà a Nankatsu e al matsuri
sicuramente ci sarà.» la informò, strizzandole un occhio.
Gli occhi
di Madoka si
illuminarono «Oh, bene.» riuscì a rispondere, improvvisamente sollevata.
Kumi si
sedette sulla
panca con un sorrisetto malizioso.
«Quindi
tra un paio di
giorni avremo la resa dei conti.» la punzecchiò, quando la raggiunse.
Madoka
cacciò la
lingua «E piantala di prendermi in giro! Io almeno ho deciso di darmi
una
mossa, mentre tu continui a tergiversare.» la rimbrottò, posando gli
occhi su
Taro Misaki, che si preparava a ricevere un cross da Izawa. Era un vero
e
proprio invito a segnare, rapido e preciso, e il centrocampista saltò
per
colpirlo di testa.
Il pallone
entrò in
rete, ma Morisaki nel raccoglierlo, si accorse che sul cuoio bianco e
nero
c'era, oltre alle macchie marroni e verdi lasciate dal terreno e
dall'erba, una
chiazza rossa … sangue.
«Misaki,
ti sei rotto
il sopracciglio.» lo avvisò il portiere.
Taro,
inginocchiato,
si passò una mano sull'orbita dolorante dell'occhio destro e avvertì il
lungo
taglio sulla pelle e il fluido sanguigno, rimastogli sulle dita.
«Ragazze,
abbiamo
bisogno di voi!» gridò Yuzo, rivolto alle due ex manager.
«Coraggio!
Dove non
agisci tu ci pensa il destino, a quanto pare.» insinuò Madoka.
Kumi la
guardò
stranita «Il destino? Ma che dici …»
«Su, vai!»
la esortò,
dandole una spinta.
«Misaki,
vieni in
infermeria, ti disinfetto la ferita.» disse, avvicinandosi a Taro e
facendogli
segno di seguirla.
Il ragazzo
la guardò,
poi annuì e si alzò. Nel frattempo, i ragazzi ricominciarono a
palleggiare tra
di loro.
Si sedette
su una
vecchia sedia imbottita mentre Kumi tirava fuori da un armadietto gli
oggetti
necessari alla medicazione e li posava su un tavolo accanto.
Gli passò
il cotone
imbevuto di disinfettante sul sopracciglio ferito, tamponando con
delicatezza,
sfiorandogli i capelli sulla tempia. Arrossì leggermente e strinse le
labbra
per cercare di reprimere l'imbarazzo datole dal sorgere di pensieri
piacevoli ma
inopportuni.
Taro
attese in
silenzio la fine della medicazione, avvertendo il tocco rinfrescante
sulla sua
arcata orbitale.
I suoi
occhi si
posarono all'altezza del petto e dei fianchi di Kumi. Li volse altrove
con un
lieve imbarazzo, non potendo muovere la testa.
La ragazza
applicò una
garza che coprì la ferita per tutta la lunghezza, e la fissò con un
cerotto.
«Certo che
ne hai
prese di botte in testa, sul campo da gioco.» disse, dirigendosi verso
l'armadietto per riporvi i medicamenti.
Taro
ridacchiò «Già.»
«Come va
la gamba
sinistra?»
Il
giovane,
nell'ultima partita a Kuala Lumpur, aveva giocato soltanto il primo
tempo
perché sul finire di questo aveva subìto un intervento scomposto da
parte di un
difensore malese, che lo aveva costretto a uscire dal campo zoppicando
e a
rimanere negli spogliatoi.
Il ragazzo
sorrise,
rassicurante «È stato di più lo spavento. Kira ha preferito non farmi
rientrare
per precauzione, ma il giorno dopo la mia caviglia si era già
sgonfiata.»
Kumi fece
un cenno
d'assenso.
«Hai poi
inviato il
tuo lavoro alla Shogakukan?»
le chiese
poi, ricordandosi della loro conversazione alla cartolibreria, poche
settimane
prima.
La ragazza
strinse le
labbra «No … devo ridisegnare l'ultima tavola.»
«Non ti
convince il
finale?»
«Già. È
difficile …»
sospirò, appoggiando una mano sul tavolo e portandosi l'altra su un
fianco «…
ogni volta penso di disegnare e scrivere delle sciocchezze o di
sviluppare la
trama in modo poco credibile o poco avvincente.»
Taro
annuì,
comprensivo «È molto comune. Succede anche davanti a una tela e spesso
anche
con un pallone tra i piedi. L'unica differenza è che sul campo di
calcio le
decisioni vanno prese in un secondo. Pittori e fumettisti possono
prendersela
con più comodo.» ridacchiò.
Kumi
ricambiò
divertita, poi si fece nuovamente seria «Ho litigato con papà proprio
per
questo. "Chi te lo fa fare di lambiccarti il cervello e di perdere
giornate intere a disegnare cose inutili come i manga?".» riferì,
imitando
il tono autoritario e sprezzante di Shinji Sugimoto.
Il
centrocampista
scosse la testa «Quando hai un sogno, è un dovere fare tutto il
possibile per
realizzarlo. Non avrai nulla da rimproverarti, comunque andrà a finire.»
«Grazie
Misaki. Il tuo
sostegno mi sta facendo bene.» disse, rivolgendogli un sorriso amabile
e
riconoscente.
Si
guardarono per
alcuni secondi, senza parlare. Poi lui si alzò.
«Grazie a
te per la
medicazione. Adesso posso tornare in campo.»
«Fai più
attenzione.»
si raccomandò, con un sorriso e una voce calda, quasi materna.
Il ragazzo
spalancò
per un attimo gli occhi, poi le rivolse un amichevole cenno del capo,
si voltò
e uscì dall'infermeria, tornando nel terreno di gioco.
Elena
guardò il
quadrante dell'orologio al suo polso e sbuffò, seccata.
«Accidenti,
eppure
credevo di aver fatto bene i calcoli.» borbottò, mentre accelerava la
sua
andatura. Per fortuna aveva con sé soltanto una borsa capiente ma non troppo carica.
Aveva
passato un paio
d'ore ad allenarsi in palestra, poi negli spogliatoi aveva fatto una
doccia
rapidissima e si era infilata in fretta e furia una maglietta verde e
un paio
di jeans.
Rischiava
di arrivare
in ritardo alla lezione di giapponese, e il professor Nobuo Tokugawa
mal
tollerava il mancato rispetto degli orari. Era un insegnante molto
preparato,
ma anche severo.
Fortunatamente
gli
orari dei corsi per gli immigrati non coincidevano con quelli delle
altre
lezioni ed Elena non si trovò a dover
farsi largo tra la moltitudine di studenti dell'Istituto Shutetsu.
Un uomo
alto ed
elegantemente vestito, che era appena entrato nell'edificio, le tenne
aperta la
grossa porta a vetri, permettendole di passare.
«Grazie.»
mormorò
senza guardarlo in viso e si diresse verso l'aula destinata al corso di
giapponese, la cui porta era fortunatamente ancora aperta.
Si fermò
alcuni
secondi prima di entrare, per riprendere fiato e per cercare di
riportare le
guance arrossate dalla corsa, al loro consueto colorito.
«Eccomi.
Chiedo scusa,
Tokugawa-sensei.» esordì, con
un
profondo inchino.
L'anziano
insegnante
si limitò ad annuire una volta con un cenno del capo, con uno sguardo
impassibile e a invitarla a prendere posto con un gesto della mano.
Salutò i
suoi compagni
di corso con un inchino e andò a sedersi accanto all'unica ragazza con
cui
aveva instaurato un rapporto che andasse al di là dei saluti formali e
dei
convenevoli.
Si
chiamava Paula ed
era una studentessa di Medicina iscritta a un corso di
specializzazione, dopo
aver compiuto gli studi nel suo Paese d'origine. Aveva un corpo dalle
forme
piuttosto generose, un viso grazioso incorniciato da boccoli castani e
occhi vivaci dello stesso colore, la tipica
brasiliana dal carattere estroverso e brioso. Le ricordava molto Kumi,
tranne
che per una maggiore disinvoltura nel parlare di ragazzi.
«Wakabayashi
si è
comportato da vero cavaliere, tenendoti la porta aperta. Si vede che
vive da
anni in Europa.» le sussurrò, mentre Elena metteva sul banco il libro
di testo
e il quaderno.
«Intendi
Genzo
Wakabayashi?»
«Sì,
proprio lui! È
qui per una riunione del consiglio direttivo. È stato nominato al posto
di sua
madre.»
«È così
affascinante
in giacca e cravatta. Con un ritardo così, sai che me ne importerebbe
delle
occhiatacce di Tokugawa!» sospirò poi, con un'aria sognante che le
avrebbe
strappato una risata, se non avesse pensato a quanto era stata -
seppure
involontariamente - maleducata nel non salutare Genzo.
«Accidenti!
Era
Wakabayashi … che figura.» mormorò, stringendo le labbra ed estraendo
lentamente una penna nera dal suo astuccio.
«Non te la
prendere,
mica ti butterà fuori dalla scuola!» rise.
«Non è
questo … è che
ci conosciamo da un po' di tempo e io mi sono limitata a dirgli
"Grazie" senza nemmeno guardarlo in faccia.»
Paula
incuriosita,
fece per chiederle qualcosa riguardo a come si erano incontrati, ma
proprio in
quel momento il professor Tokugawa invitò tutti i suoi allievi a
prestare
attenzione all'argomento che si accingeva a spiegare.
Camminavano
facendosi
strada tra la folla degli allievi che avevano invaso l'atrio al cambio
dell'ora.
Nell'ala
opposta a
quella in cui si trovavano, studenti euforici e studentesse adoranti
avevano
circondato il portiere, chiedendogli autografi, strette di mano e
fotografie.
Elena vide
Paula sfrecciare
in avanti e dirigersi, con il suo taccuino aperto su una pagina intonsa
e una
penna, proprio verso Genzo. Il giovane le fece un autografo e ricevette
un
lieve bacio sulla guancia dalla ragazza, che si voltò poi verso di lei
e la salutò
agitando la mano con un sorriso trionfante, prima di uscire dalla
scuola.
Quel gesto
fece sì che
Genzo notasse la presenza della giovane insegnante, che gli si stava
avvicinando con un'espressione ridente che indugiava sulle sue labbra.
«Saluto
affettuoso
quello di Paula, eh?» scherzò.
«Un po'
esuberante,
specie per gli standard giapponesi.» convenne, anch'egli divertito.
«È una mia
compagna di
corso. È molto simpatica ed è anche una tua fan.» gli spiegò.
«Me ne
sono accorto.»
replicò, rivolgendole un altro dei suoi tipici sorrisi obliqui.
«A
proposito … volevo
chiederti scusa per non averti salutato prima. Andavo di fretta e non
mi sono
accorta che sei stato tu a tenermi la porta aperta.»
«Non
preoccuparti, ho
visto che eri di corsa. Tokugawa ti ha rimproverata?»
Elena si
strinse nelle
spalle, con un lieve sorriso «A parole, no. Ma con lo sguardo, credo di
sì.»
rispose roteando gli occhi, ricordando l'espressione severa con cui
l'aveva fissata quando era
entrata nella classe, ansante e con le guance arrossate per la corsa
fatta.
«È un
ottimo
insegnante, ma è anche molto rigoroso.»
«Sei stato
un suo
allievo?»
«No,
perché ho
lasciato il Giappone prima di iniziare la scuola media. Ma è stato il
professore di giapponese dei miei due fratelli. Eccolo che arriva.»
disse, alzando il mento.
«Buongiorno,
Tokugawa-sensei.» lo salutò,
facendo un inchino.
«Buongiorno,
signor
Wakabayashi.» rispose, rivolgendogli un sorriso che lo rese quasi
irriconoscibile agli occhi di Elena «Porga i miei saluti a suo fratello
Hiroji
e gli dica che mi farebbe piacere se mi venisse a trovare, quando
potrà.»
«Per ora è
molto
impegnato con la riorganizzazione dell'azienda, ma non mancherò di
riferirlo.»
«La
ringrazio.» disse,
con un inchino, per poi dirigersi verso la sala degli insegnanti.
«Hai due
fratelli?»
gli chiese, dopo essersi congedati dal professore.
«Sì, più
grandi. Il
maggiore è tornato da Londra all'inizio dell'anno, l'altro studia negli
Stati
Uniti e dovrebbe ritornare dopo l'estate. È prossimo alla laurea.»
«Ah … hai
detto che il
più grande è tornato da Londra?»
«Sì. Ma …
perché me lo
chiedi?» domandò, corrugando le sopracciglia.
«Scusami.»
mormorò
Elena, rendendosi conto di essergli sembrata indiscreta «Soltanto, un
mese e
mezzo fa ho conosciuto una giovane donna molto bella, che proviene
proprio da
Londra e si è trasferita qui con il marito dirigente di un'azienda.
Aveva una bellissima
bambina con sé e mi ha detto di avere anche un figlio di cinque anni.»
Genzo
annuì con un
mezzo sorriso «Annie, la moglie di mio fratello Hiroji.»
«E vivono
qui a
Nankatsu?»
«Sì, nella
nostra
villa. Nankatsu è un ambiente più sereno e a misura d'uomo rispetto a
Tokyo.»
Elena fece
un cenno
d'assenso, e decise di lasciar cadere l'argomento, un po' perché fargli
altre
domande sarebbe sembrato inopportuno, e poi perché c'era un'altra
questione che
le ronzava in mente dal giorno della gara di Numazu.
«È
possibile qui
salire sul tetto?» chiese Elena.
«Sì,
almeno quando i
miei fratelli studiavano qui lo era.»
«So che
sembra
sciocco, ma mi piacerebbe andare fin lassù. Nella mia scuola non era
concesso.»
«Questa
scalinata
porta verso il tetto. Andiamo.» disse Genzo, facendole cenno.
Poco dopo,
i due
ragazzi si ritrovarono sull'ampia terrazza, da cui era possibile vedere
non
solo l'intero cortile della scuola, in cui alcuni ragazzi stavano
giocando a
pallavolo e altri stavano facendo dei giri di corsa attorno al
perimetro del
campo, ma anche parte della città che si estendeva intorno.
Poche
candide nuvole
passeggere spezzavano la monocromia del cielo azzurro, illuminato dal
sole.
Elena si
schermò gli
occhi con una mano, poi si voltò, appoggiandosi con la schiena alla
balaustrata.
Genzo
guardava il
panorama con le mani nelle tasche e la giacca sostenuta
dall'avambraccio.
All'interno
dell'istituto funzionava un impianto di ventilazione, ma all'esterno
faceva
caldo … così, oltre a togliersi la giacca, aveva allentato il nodo
della
cravatta.
«Perché a
Numazu sei
andato via senza venire a salutarci?»
«Volevo
che Arimi vi
incontrasse da sola.»
Elena
assentì, con un
sorriso. Si aspettava quella risposta, ma la domanda le era servita per
introdurre l'argomento. L'aveva stupita, sapere che era andato a
prendere Arimi
a casa sua e l'aveva poi accompagnata al palasport, seguendo poi tutta
la gara.
«Comunque,
rimango
convinta che senza il tuo aiuto non sarebbe stato possibile farle
capire i suoi
errori.»
«Forse
perché mi sono
rivisto un po' in lei. Quando ero bambino, ero anch'io così:
presuntuoso, non
sopportavo di perdere e pensavo solo a me stesso.»
Elena
appoggiò i
gomiti sul parapetto. Il blando vento primaverile agitava i suoi lunghi
capelli
biondi, sciolti sulle spalle. Le stavano bene così … solitamente erano
legati
in una coda o in uno chignon.
«Quando ti
sei reso
conto che stavi tenendo un atteggiamento sbagliato?»
«Durante
la partita
finale del campionato delle elementari, dieci anni fa. Quando ero
capitano
della Shutetsu, decisi di abbandonare la squadra dopo il primo tempo,
perché
avevo perso la sfida con Tsubasa. Lui doveva segnarmi un gol … e lo
fece. Mi
sentivo umiliato. Lasciai il campo, dicendo ai miei compagni di
cavarsela da
soli. Mentre mi apprestavo ad andarmene con il mio borsone, comparve
davanti a
me il mio allenatore personale e mi assestò uno schiaffo che mi stordì,
sbattendomi per terra. Se ci ripenso, avverto ancora l'impatto sulla
guancia e
quello della caduta.» sorrise.
«Ti fece
bene. Però un
pochino di boria ti è rimasta.» lo stuzzicò, con una piccola smorfia da
monella.
Genzo
sollevò un
sopracciglio, ma poi chiuse gli occhi con un sorriso ironico,
accettando di
buon grado lo scherzo.
«Taro
aveva ragione.»
riprese, mettendosi le mani sulle ginocchia «Già nei giorni in cui ci
siamo
conosciuti, mi aveva parlato di un suo amico portiere che giocava in
Germania e
che era convinto sarebbe diventato un campione … e quando ti ho visto
per la
prima volta tra i pali dell'Amburgo, ho capito che eri tu.»
Il ragazzo
ricambiò lo
sguardo e il sorriso che gli venivano rivolti.
«C'è una
cosa che mi
piacerebbe mostrarti: è il posto in cui io, Tsubasa e Misaki ci siamo
affrontati per la prima volta.» disse, invitandola a seguirlo.
«Questo è
lo stadio
della Shutetsu. È rimasto più o meno lo stesso di dieci anni fa.»
commentò,
abbracciando gli spalti e il campo con lo sguardo, con una mano su in
fianco e
l'altra a reggere la giacca che pendeva sulla schiena.
Il sole
era alto in
cielo e illuminava il campo di calcio in cui Genzo aveva mosso i primi
passi
della sua carriera di calciatore.
Elena
osservò e cercò
di immaginare i tre piccoli campioni di Nankatsu sfidarsi in quello
stadio,
Wakabayashi concentrato tra i pali con le mani protese in avanti, le
ginocchia
leggermente piegate e in testa l'immancabile cappellino, mentre
scrutava Taro e
Oozora avanzare verso di lui, passandosi il pallone.
Sul
rettangolo di
gioco, era presente un gruppo di bambini che vestivano la maglia verde
e i
pantaloncini rossi del club, intenti ad ascoltare le indicazioni del
loro
allenatore, un ragazzo di media altezza dai corti capelli neri, vestito
con una
tuta. Non dimostrava più di vent'anni.
«Ma io
quello lo
conosco.» esclamò Genzo, cominciando a scendere la gradinata che
portava al
campo di calcio. Si voltò verso Elena, rimasta alcuni gradini più
indietro.
«Vieni, ti
presento
uno dei miei primi compagni di squadra.»
Elena
sorrise e gli
obbedì incuriosita, coprendo la distanza che li separava.
«Nakamoto?»
gridò,
raggiunto il bordo del campo.
Il ragazzo
alzò la
testa e spalancò gli occhi, rivolgendogli dapprima un'espressione
interrogativa
per poi mutarla in un sorriso pregno di stupore ed entusiasmo.
«Capitano!
Questa sì
che è una sorpresa! Da quanto tempo non ci si vede?» chiese andandogli
incontro, mentre il suo gruppo di piccoli calciatori rimaneva indietro,
scambiandosi bisbigli e tenendo lo sguardo fisso sui due nuovi venuti.
«Da quando
mi sono
trasferito in Germania. E non chiamarmi "capitano", non lo sono più
da un pezzo ormai.»
«Lo so, ma
mi viene
spontaneo chiamarti così. Ai tempi della Shutetsu, nessuno ti chiamava
per cognome. Per noi eri semplicemente "capitano". Si vedeva già
allora che saresti diventato uno dei portieri più forti del mondo.»
«Vedo che
dalla
Germania non sei tornato da solo.» disse poi con un ghigno malizioso,
posando
gli occhi su Elena.
«Lei è
un'amica. Si
chiama Elena Rulli ed è italiana.» precisò, un po' rigido.
«Italiana?
Con quei
capelli biondi e quegli occhi azzurri, avrei giurato che fossi
tedesca.» disse,
salutandola con un inchino.
«In
effetti, non hai
sbagliato del tutto: mia madre è nata in Germania.» replicò,
inchinandosi a sua
volta.
Il ragazzo
assentì con
un sorriso «Io sono Nakamoto Tetsuya e giocavo come difensore nella
Shutetsu,
proprio davanti al capitano.»
«E così
ora alleni le
piccole promesse.» riprese Genzo.
«Sì.
Studio Scienze
Motorie e quando non sono impegnato all'università vengo qui ad
allenare questi
bambini.»
«Anch'io
sono un'allenatrice. Le mie
bambine però fanno ginnastica artistica.» intervenne Elena.
«Ah, delle
piccole
acrobate!» ridacchiò Tetsuya.
«Ehi, ma
quello è
Genzo Wakabayashi!» gridò un bambino, richiamando l'attenzione dei tre.
«Wakabayashi?
Il
portiere?» fece eco un altro.
«Sì, è lui
che sta
parlando con il mister!»
In breve
tutti i
bambini corsero verso il bordocampo e si fecero intorno ai tre ragazzi.
Il loro
obiettivo era naturalmente il portiere, che venne letteralmente
subissato da
richieste di autografi e di strette di mano.
«Wakabayashi-san, mi fa un autografo sui guanti?
Vorrei che
ci scrivesse anche SGGK.» gli chiese il piccolo portiere della squadra.
«Sì, così
cominci
subito a crederti chissà chi.» obiettò Nakamoto, mettendosi le mani sui
fianchi.
«Ma è per
essere
ancora più motivato, mister!» ribatté il bimbo.
Genzo gli
rivolse uno
sguardo d'approvazione «Sono d'accordo.» asserì, prendendo i guanti e
il
pennarello dalle mani del bambino.
«Voglio
diventare
bravo come lei, Wakabayashi-san!
Come fa
a essere così forte?»
«Devi
allenarti
seriamente tutti i giorni, e obbligare i tuoi compagni a farti quanti
più tiri
possibile.» gli disse, porgendogli i guanti dopo averli vergati con i
kanji del
suo nome e cognome e con le lettere dell'acronimo che era ormai
diventato una specie
di marchio.
Il bimbo
sorrise
«Quando divento un po' più grande vado anch'io in Germania, così
divento forte
come lei e trovo anche una fidanzata bella come la sua.» dichiarò
guardando
Elena, la quale arrossì imbarazzata.
«Ma
veramente …»
mormorò, senza riuscire a completare la frase.
«Guardatela,
è
diventata rossa!» gridò il bambino, indicandola e scoppiando a ridere,
seguito
a ruota dai suoi compagni.
Genzo,
vedendo
l'imbarazzo crescente sul viso della giovane, decise che era meglio
intervenire.
«Nakamoto
ti lascio
riprendere gli allenamenti, ti abbiamo già rubato tanto tempo e i tuoi
piccoli
calciatori si sono riposati e divertiti abbastanza.»
Tetsuya
annuì con un
sorriso d'approvazione «D'accordo capitano. Torna a trovarmi, e magari
alla
prossima riunione chiedi se ci forniscono delle nuove attrezzature.»
«Non
preoccuparti,
l'ho già fatto presente.» gli comunicò, con un cenno del capo.
Salutarono
il giovane
allenatore e i suoi piccoli calciatori, e si avviarono verso il
cancello
d'uscita dell'istituto.
«Mi
dispiace per
l'imbarazzo che ti ha creato il mio piccolo emulo.» disse Genzo, quando
furono
sulla strada.
«Oh, non
fa niente.
A quell'età si salta presto alle conclusioni.» replicò, con un sorriso
e
un'alzata di spalle.
Camminarono
insieme
per un altro tratto di strada, superati da qualche bicicletta e da
poche auto.
Stavano
per
oltrepassare un famiresu,
quando Genzo
vi si fermò davanti.
«L'hanno
aperto da
poco e ho sentito dire da Ishizaki che si mangia bene. Lui è un pozzo
senza
fondo, ma di solito il suo giudizio è affidabile. Ti va di provare?»
chiese,
colto da un'ispirazione improvvisa.
Elena
rifletté un
momento. Solitamente suo zio l'aspettava per pranzo, ma le sarebbe
bastato
avvisarlo con una telefonata. «Perché no? E poi è di fronte al parco
Hikarigaoka e voglio andare a vedere i ciliegi finché è possibile.»
affermò,
mentre rivolgeva i suoi brillanti occhi azzurri verso il giardino
pubblico.
Era un
locale non
molto grande, ma ospitale, con le pareti color crema su cui erano
appese
numerose stampe giapponesi, e una grande vetrina lo rendeva ben
illuminato.
Individuato,
con
l'aiuto di una cameriera, un tavolo tra i pochi ancora liberi, vi si
sedettero
e ordinarono un piatto di yakisoba
ai
frutti di mare ciascuno.
«E così
sta per
iniziare il secondo girone di qualificazione.»
Il primo
girone era
terminato in modo perfetto per il Giappone, tutte le partite erano
state vinte
con un'eccellente media gol e nessuna rete subìta. Una grande
soddisfazione per
Genzo.
«Abbiamo
ancora pochi
giorni di riposo, per poi tornare ad allenarci al J-Village.» rispose
il
portiere, mentre la cameriera li serviva.
«Come
procede con la
squadra di ginnastica artistica?»
«Tra venti
giorni ci
sarà una gara a livello regionale, l'ultima prima delle Nazionali
juniores. Per
Arimi è l'unica occasione per qualificarsi.»
«Arimi.
Quella
ragazzina è sempre nei tuoi pensieri.» la punzecchiò bonariamente.
Elena fece
una
risatina, poi affermò, con convinzione «Ha tutto per diventare una
campionessa.
E il suo rapporto con le altre ragazze migliora di giorno in giorno.»
«Tuo zio
mi ha detto
che fino a un anno fa anche tu eri una ginnasta.»
L'espressione
fin lì
allegra di Elena mutò in un sorriso triste. Rimestò gli spaghetti un
paio di
volte, prima di annuire una volta.
Un anno fa ….
«Sì, ma ho
dovuto
smettere a causa di un infortunio al ginocchio. Ora sto cercando di
riprendere,
un poco alla volta, esercitandomi per conto mio quando ho un po' di
tempo
libero. Ma gli impegni stanno aumentando, con la preparazione delle
gare e del
saggio per le bambine.» l'ultima frase era stata detta con un tono di
voce che
aveva ripreso la consueta vitalità.
Genzo
assentì. Quel
momentaneo cambiamento d'espressione e di intonazione non gli era
sfuggito e si ritrovò a
pensare ancora una volta a ciò che aveva già avuto modo di notare da
diverso
tempo, praticamente dai giorni in cui aveva cominciato a conoscerla: le
sue
giornate erano piene di impegni e sembrava che lei stessa cercasse di
tenersi
costantemente occupata, allenandosi e tenendo corsi per le sue allieve,
per poi
assistere agli sparring tra gli atleti del dojo,
e studiare il giapponese.
E magari
la sera,
crollare sul letto addormentata.
Era come
se non
volesse lasciare nessuno spazio vuoto nella sua vita. Quegli spazi che
di
solito vengono presi d'assalto da pensieri tormentosi, probabilmente
scaturiti da ricordi infelici.
«Fino a
quando starai
in Giappone?» chiese, dopo una pausa.
«Mi
fermerò fino alla
fine di giugno, poi si vedrà.»
Poi
aggiunse, parlando per la prima volta dei
suoi progetti per il futuro «Vorrei frequentare l'università. A Monaco
di
Baviera ho una cugina che mi ha detto che c'è una stanza pronta per me
nel suo
appartamento, se decido di andarci. Ma d'altra parte non so se me la
sento di
lasciare Roma e i miei genitori.»
«Dipende
da quali
obiettivi vuoi raggiungere.» le disse, e lei annuì.
«Già. Mi
sono concessa
un altro mese per decidere. Magari affronto l'esame sia alla
Ludwig-Maximilian
Universität sia alla Sapienza, per poi sceglierne una se dovessi
superarli
entrambi.»
Terminato
con
soddisfazione il loro pasto, pagarono e uscirono dal famiresu e, attraversata la strada,
raggiunsero il parco
Hikarigaoka.
Elena si
guardava
intorno con gli occhi vivaci e pieni di stupore come quelli di una
bambina.
I petali
di ciliegio
creavano delle gigantesche, morbide, fiabesche nuvole rosa.
«È la
prima volta che
vedo dal vivo questo spettacolo. È … è incredibile. Esiste un Hanami anche a Roma, al Parco del
lago
dell'Eur, ma per quanto incantevole non potrà mai eguagliare quello
originale.»
«È una
delle cose che
mancano di più a un giapponese quando si trova all'estero.» commentò il
portiere, guardando alternatamente i grandi alberi baciati dai raggi
del sole e
gli occhi luminosi della ragazza accanto a lui.
«Grazie
Wakabayashi.
Mi sono davvero divertita.»
«Grazie a
te. E
chiamami pure Genzo. Ormai vivo in Europa da anni e sono abituato alle
vostre
usanze.»
«D'accordo
… Genzo.
Allora ci si rivede.» si congedò, dirigendosi verso la strada che
portava alla
casa di suo zio. Quasi senza accorgersene, dopo alcuni passi si voltò.
Indugiò nell'osservare
l'ampia schiena e il passo sciolto del ragazzo che si stava
progressivamente
allontanando.
Aveva
passato una delle giornate più piacevoli da quando era
arrivata in Giappone … e il fatto che fosse inaspettato l'aveva resa
ancora
migliore.
Ignorava
che Genzo,
poco prima, aveva pensato la stessa cosa, nel guardarla allontanarsi.
***Note***
Hanami:
significa “osservare i fiori”
(da hana -
"fiori"
e mi - "vedere") ed è il tradizionale
evento
giapponese che consiste nel celebrare e godere della bellezza dei
fiori,
soprattutto i fiori di ciliegio (Sakura),
osservandone il loro fiorire nelle belle giornate di primavera.
L’Hanami consiste in una festa
all’aperto sotto
gli alberi di ciliegio che dura una o due settimane. Da metà gennaio ad
inizio
di maggio i Sakura fioriscono
in tutto
il Giappone e ad aprile in piena fioritura comincia questo magnifico
evento.
Fonte: SakuraMagazine
L’Hanami viene festeggiato ogni anno
da
tantissime persone anche in Italia, al laghetto dell'Eur di Roma, dove
si possono ammirare i
1000 Sakura donati dal primo
ministro Nobusuke Kishi durante la sua visita
ufficiale in Italia avvenuta nel 1959, che formano la Passeggiata del
Giappone.
Fonte: GreenMe
Nakameguro: zona di Tokyo con molti
ristoranti e negozi
rinomati, situata nel quartiere speciale di Meguro. Vi scorre il fiume
Megurogawa; lungo le sue sponde, per circa 3,8
chilometri, si stagliano gli ottocento alberi di ciliegio che fanno di
questo
luogo uno dei più belli a Tokyo in cui ammirare la fioritura. I ciliegi
in fiore formano un
lungo arco di petali rosa che si specchia sull'acqua creando un
panorama che
molti passanti si fermano ad ammirare e fotografare.
Fonte: GoTokyo
Tetsuya Nakamoto è un personaggio di
Takahashi,
ed è uno dei due difensori della Shutetsu (l'altro è Shimada) cui Genzo
assegna
la marcatura di Tsubasa all'inizio della gara contro la Nankatsu.
Compito che
non può assumere perché il futuro capitano viene schierato in posizione
di
libero. :-)
Il nome
"Tetsuya" gliel'ho assegnato io arbitrariamente poiché nel manga
viene sempre chiamato solo con il suo cognome.
In queste due immagini
è il ragazzino a destra e indossa la maglia numero 4.
Famiresu: contrazione
del
termine inglese family
restaurant. Presenti in tutto il Giappone, sono ristoranti in
cui
vengono serviti piatti di ogni tipo, sia della cucina giapponese sia di
quella occidentale, a prezzi
economici.
Tra le
catene di famiresu più
famose ci sono Gusto, Saizeriya,
Joyfull e Denny’s.
Yakisoba: sono gli spaghetti saltati (dovrebbero essere
quelli giapponesi di grano saraceno come indicato dal termine soba, in
realtà vengono
utilizzati i noodles cinesi solitamente impiegati anche nella ricetta del ramen).
I noodles vengono saltati nel teppan (una grande piastra
riscaldata). È un
piatto dalla cottura molto veloce, di cui esiste un'ampia varietà di
ricette.
Fonte: TradurreIlGiappone
GameBoy: è
una console
portatile prodotta e commercializzata da Nintendo tra il 1989 ed il
2003.
Negli anni
'90 era uno
dei giochi preferiti da bambini e ragazzi.
I monti Hida o Alpi
Settentrionali sono una catena montuosa giapponese, parte delle
cosiddette Alpi giapponesi, che si estende attraverso le prefetture di
Nagano,
Toyama e Gifu. Una piccola porzione dei monti arriva anche nella
prefettura di
Niigata.
Fonte:
Wikipedia
Mi scuso con tutti coloro che stanno
leggendo questa
storia, per il lieve ritardo.
Mi sono presa una breve vacanza.
Il prossimo capitolo segnerà una svolta
decisiva.
Alla prossima!
Sandie
|
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Capitolo 10 *** Capitolo X - Yozakura (Rivelazioni) ***
Untitled
Capitolo X
Yozakura
(Rivelazioni)
Pounding like a drum inside my brain
I feel it
I feel it if it doesn't stop
I'll go insane
Elena entrò nel salotto di casa e trovò Carlo semisdraiato sul divano, intento a fare un annoiato zapping.
«Hai rinunciato a un piatto di lasagne ai funghi porcini per pranzare in un famiresu.» la accolse.
«Davvero? Peccato. Però in quel ristorante fanno ottimi yakisoba. Devi venirci un
giorno.» rispose, in tono allegro.
«E quell'amico … è quel calciatore che hai conosciuto a Roma? Come si chiama … Taro?» chiese,
guardandola attentamente.
Elena sorrise, ma scosse leggermente la testa «No, è Genzo Wakabayashi.»
Carlo sgranò gli occhi «Wakabayashi?»
Elena annuì «L'ho incontrato stamattina all'Istituto Shutetsu. Mi ha mostrato lo stadio in cui giocava da bambino e mentre
eravamo sulla via di casa ha visto questo famiresu aperto da poco e, visto che ne aveva sentito parlare bene, mi ha chiesto se mi andava di pranzare
lì.» spiegò con semplicità. «E poi, visto che di fronte c'è il parco Hikarigaoka, siamo andati a vedere i ciliegi.»
«I ciliegi?»
«Sì. La fioritura, hai presente? Mi guardi come se ti avessi detto di aver visto dei pony alati.» lo
canzonò.
«Oppure dei topi dai piedi enormi come quelli con cui hai riempito la tua stanza.» ribatté, rivolgendole un sorriso di
sbieco mentre si alzava dal divano.
«Diddl non si tocca!» gli gridò, mentre andava nella sua camera.
Carlo sorrise. Elena stava affrontando la sua esperienza in Giappone nel migliore dei modi. Aveva stretto nuove amicizie, anche al di
fuori del contesto lavorativo, e la sua vita era decisamente piena e ricca di stimoli.
E a quanto pare, stava familiarizzando sempre più con Wakabayashi. Aveva tenuto per sé ogni allusione, sicuro che non
avrebbe gradito e, mettendosi nei suoi panni, la capiva perfettamente.
Ma non da quel momento, si era accesa una speranza che, in cuor suo, non si sentiva di frustrare.
Elena appoggiò la sua borsa sul letto, poi si sedette alla scrivania e accese il computer portatile.
Scrisse e inviò un'e-mail ai suoi genitori, allegando le fotografie scattate in palestra con Mayuko e le allieve e quelle della
kermesse di Numazu. Non dimenticò una cartolina festiva trovata navigando sul web: era la prima Pasqua che passava lontana da casa.
Sorrise, pensando a quando aveva insegnato a suo padre ad accedere a Internet e aprire una casella di posta elettronica, lui
completamente digiuno di informatica e tecnologia.
Dopo aver spento il computer, prese il quaderno del corso di giapponese e ripassò gli appunti della lezione, poi decise di uscire
di nuovo.
Avvertiva una strana sensazione di ansia, e uscire all'aria aperta l'avrebbe rasserenata.
Infilò la tuta, la maglietta, i pantaloncini e tutto l'occorrente per la palestra nel suo borsone, ma prima sarebbe andata al
campo comunale, perché era quasi certa che i ragazzi si fossero dati appuntamento là.
Giunse nel quartiere in cui abitava Kumi, e vide proprio la ragazza nel giardino di casa sua.
La salutò, e lei rispose con la consueta allegria.
«Lo sai che dopodomani c'è il matsuri? Ne approfittiamo per salutare e fare in bocca
al lupo ai ragazzi per il nuovo girone di qualificazione.» le annunciò.
«Davvero? Verrò volentieri.» rispose, con un sorriso.
«Sei stata fortunata a venire in Giappone quest'anno, perché la festa coincide con lo Yozakura … vedrai che meraviglia!» cinguettò «Le donne indossano un kimono o un furisode, per questa
occasione. Tu ce l'hai?»
Elena rispose con un cenno di diniego.
«Io ho un furisode molto bello, so che ami l'azzurro quindi dovrebbe piacerti. Vieni,
così puoi vederlo e provarlo!» disse, facendole cenno di avvicinarsi.
Era vero. L'azzurro era, da sempre, prevalente nel guardaroba di Elena. Era il colore del cielo e del mare: due elementi che associava
all'infinito. Aveva sempre amato guardare l'orizzonte in cui cielo e mare sembravano toccarsi.
Mise da parte la sorpresa e la seguì.
Appena entrata, fu accolta da Reiko che la invitò ad accomodarsi in salotto e, dopo un breve dialogo con la figlia, andò in
un'altra stanza, probabilmente la sua camera da letto, per tornare poco dopo con una scatola color panna adornata da motivi floreali. La posò sul tavolo, mentre Elena e Kumi si
avvicinavano.
Reiko afferrò il coperchio e lo sollevò delicatamente, lo mise da parte e scostò la carta protettiva.
Gli occhi di Elena si spalancarono, mentre Kumi la guardava di sottecchi con un leggero sorriso.
Era splendido. Un morbido tessuto azzurro in pura seta, con fiori di ciliegio e peonie che sembravano rilucere su uno sfondo azzurro,
attraverso la stoffa.
Reiko lo prese dalla scatola e lo spiegò lentamente, prima di tenderlo a Elena.
«Prova a indossarlo.»
Elena lo afferrò con la stessa delicatezza con cui la madre di Kumi lo aveva tirato fuori dalla confezione, lo rimirò prima
di cominciare a infilarlo sopra i jeans e la maglietta.
Il furisode si chiudeva con una obi decorata con un
motivo a fiori di ciliegio.
«Ora guardati.» disse Kumi, facendole strada verso la sua camera, dove c'era un armadio la cui anta era coperta da un grande
specchio.
«Sapevo che era adatto a te.» commentò. Elena la vide sorridere dietro di lei, mentre si voltava ora da una parte, ora
dall'altra per esaminare il furisode e come stava su di lei.
«Sì, ti sta molto bene.» intervenne Reiko, con un cenno d'approvazione «Se ti piace, puoi tenerlo. È
tuo.»
Il giorno del matsuri arrivò.
La serata era splendida. Il cielo era sereno, di un blu oltremare privo di nuvole. L'aria era tiepida e i ciliegi, ovunque si trovassero,
erano illuminati da tante lanterne, come voleva la tradizione dello Yozakura.
Elena si incamminò, in attesa di incontrare Kumi e gli altri amici durante il percorso.
Si ritrovò presto immersa nella folla che aveva riempito, di ora in ora, le strade della città.
Osservò i carri sfilare sulle strade, i gruppi di figuranti eseguire le danze tradizionali e suonare strumenti a percussione.
Le file di bancarelle sembravano interminabili, vi si alternavano le specialità della cucina giapponese e i giochi tipici di
quelle occasioni.
Bambini, ragazzi e adulti si accalcavano davanti alle bancarelle della cattura dei pesci rossi, degli yo-yo e dei piccoli giocattoli, del
lancio degli anelli, del tiro a segno.
Il giorno prima aveva incontrato Kumi e Madoka, con cui aveva parlato dei progressi di Arimi nel corso di ginnastica.
Quest'ultima le aveva detto che anche lei sarebbe venuta al matsuri, insieme ad alcune sue
compagne.
La notizia le aveva fatto immensamente piacere. Il gruppo stava diventando sempre più unito e questo la stava rendendo sempre
più fiduciosa in un buon risultato alle Nazionali juniores.
Avvertì qualcosa urtare contro la sua gamba e abbassò lo sguardo.
Era un bambino di cinque o sei anni, inginocchiato con le mani poggiate a terra.
«Ehi piccolo, attento. Ti sei fatto male?» chiese, abbassandosi per aiutarlo a rialzarsi.
Ma il bambino dai corti capelli neri si tirò su prontamente e le sorrise con uno sguardo furbo, per poi continuare a correre.
Elena fu colpita da una sensazione di déjà vu … aveva già visto quel bimbo oppure le ricordava qualcuno.
«Kenichi!» gridò una voce conosciuta, pochi passi dietro a lei. Elena si voltò e vide Genzo venirle
incontro.
«Ciao.» le sorrise. Ma certo … quel bambino gli somigliava come una goccia d'acqua. Stesso sguardo, stessi capelli
neri.
«Stai cercando qualcuno?»
«Sì, mio nipote. Si è messo a correre ed è sparito tra la folla.»
«Poco fa è inciampato sul mio furisode.» sorrise «È andato di
là.» affermò, indicando alcune bancarelle poco più avanti.
Genzo la guardò. Aveva i capelli raccolti nella tradizionale acconciatura giapponese, e il furisode che indossava … sembrava fosse stato creato appositamente per lei. La seta azzurra, i fiori di ciliegio e le peonie: simboleggiavano un nuovo inizio,
oltre alla bellezza, l'onore e la buona sorte.
Era bella ….
«Qualcosa non va?» chiese, vedendo che Genzo non accennava a muoversi e aveva mantenuto lo sguardo su di lei.
Il ragazzo ebbe un sussulto. Si riscosse, come se fosse appena stato ridestato.
«No … sarà andato alla bancarella del tiro a segno. Vado a recuperarlo, Annie lo sta cercando.» riuscì a
rispondere, nascondendo l'imbarazzo.
Si era incantato a fissarla come un ragazzino. Voltò lo sguardo e si ritrovò a incrociare gli occhi della cognata, che lo
guardavano attenti.
«Oh, guarda chi si rivede! Ciao.» esclamò la donna, rivolgendosi a Elena.
«Buonasera.» rispose la ragazza, ricambiando il sorriso.
«Oh, per favore dammi del tu, altrimenti mi fai sentire vecchia.» ribatté, strizzandole un occhio.
«D'accordo.» rise.
«Il tuo furisode è bellissimo.» le disse poi, dando un'occhiata di sottecchi
al cognato.
«Penso la stessa cosa del tuo kimono.» replicò Elena, guardando l'abito blu decorato con disegni di crisantemi
indossato da Annie.
Genzo andò avanti, facendosi strada tra la folla, per andare a cercare Kenichi, ma non dovette allontanarsi molto. Il bambino
stava, infatti, correndo verso di lui con un'espressione entusiasta.
«Mamma, zio Genzo, guardate! Ho vinto cinque trottole!» gridò, reggendole tra le due manine, pieno d'orgoglio.
«Bravo, Ken!» rispose il ragazzo, battendogli una mano su una spalla «Dove le hai vinte?»
«Alla bancarella del lancio degli anelli.»
«Non c'era bisogno di scappare, ti ci avremmo accompagnato noi.» lo rimproverò Annie.
«Ho visto che c'era solo un bambino prima di me e ci sono andato.» spiegò con un'alzata di spalle, come se fosse la
cosa più logica del mondo.
Elena fece una smorfia, divertita. Così piccolo, e ragionava già come un ometto. Anche se non aveva conosciuto Genzo fin da
bambino, non c'era da dubitare che anche lui fosse così, a quell'età.
«Dai, andiamo avanti. Ho voglia di assaggiare un po' di prelibatezze giapponesi.» disse Annie, facendo cenno al figlio e ai
due ragazzi di seguirla.
Elena e Genzo si ritrovarono così a camminare affiancati, dietro alla cognata e al nipote di lui.
Si fermarono a una bancarella dove si cucinavano e vendevano piatti tipici della cucina nipponica, quando lo sguardo di Elena venne
attirato dalla bancarella accanto, che si caratterizzava per una gamma variegata di premi esposti sullo sfondo e da un bersaglio per il tiro a segno.
«Non sapevo che tra i giochi ci fossero anche le freccette.» notò «Voglio provare.» disse,
spostandosi.
Attese qualche minuto prima che giungesse il suo turno, poi il gestore le consegnò alcune freccette.
Genzo si avvicinò, e sorrise leggermente nel constatare che l'ex ginnasta era dotata di una mira alquanto scarsa.
I tentativi fallivano uno dopo l'altro e le freccette nella sua mano diminuivano, fino a che non ne rimase una soltanto.
«Qualche difficoltà?»
Elena sospirò «Proprio non mi riesce di avvicinarmi al bersaglio. Mi sono arrugginita.» disse, in tono rassegnato.
«Vuoi che provi io?»
«Visto che non credo possa riuscirmi un miracolo … accomodati. Hai una sola possibilità.» lo
avvertì.
«Mi basterà.» rispose con un sorriso, tendendo la mano per farsi dare l'oggetto.
Genzo prese la mira ed effettuò un lancio che mandò la freccetta a conficcarsi proprio al centro del bersaglio.
Elena spalancò gli occhi e lanciò un'esclamazione di meraviglia e di ammirazione.
«Quando hai imparato a tirare così?»
«Ho cominciato a giocare a cinque anni. Il mio maestro è stato mio nonno.» spiegò «Diceva che mi sarebbe
stato utile per allenare la concentrazione. Aveva ragione.»
Elena fece un cenno d'assenso.
«Che premio vuoi?» chiese poi il ragazzo.
«Il maneki neko, quello viola.»
Genzo ripeté la richiesta al gestore della bancarella, che glielo consegnò. Il portiere lo porse poi a Elena, prontamente
ringraziato.
«Ne avevo comprato uno tre anni fa, durante un viaggio a Tokyo con mio zio, la sua fidanzata di allora e mia cugina. Lo dimenticai
nell'appartamento, prima di partire. Quello però era bianco.» raccontò «È stato bello averlo così.» disse, abbassando la testa e guardandolo, con
l'espressione felice di una bimba cui era appena stata regalata la bambola desiderata da tempo. Genzo non poté trattenere un sorriso.
«Si dice che il viola aiuti nella realizzazione dei propri sogni.» continuò la ragazza «Io ancora non so di
preciso quali sono i miei, ma spero che si realizzino.»
«Beh, si potrebbe dire che, nell'immediato, desideri che la tua squadra vinca le Nazionali juniores e magari, che la nostra Under
23 vinca le Olimpiadi.» le suggerì.
Elena ridacchiò.
«Scherzi a parte, Elena … fai ciò che ti soddisfa di più, per cui ti senti più portata. Tu ami la
ginnastica artistica e riesci bene nelle lingue straniere, quindi potresti trovare lì ciò che cerchi.»
Elena assentì piano, con espressione dubbiosa. In fondo Genzo aveva ragione … seguire le proprie passioni e attitudini, per
non ritrovarsi a vivere una vita vuota e costellata di rimpianti.
Hanji, sotto gli occhi di alcuni suoi compagni di squadra, giocava a spaventare i bambini, tra cui il piccolo Daichi Oozora, indossando
una maschera di Godzilla, ottenendo però come unico effetto dei risolini divertiti. Alla fine sfilò la maschera dal viso, rincorrendo ora l'uno ora l'altro.
«Urabe, sai una cosa? Eri più carino con la maschera addosso.» lo punzecchiò Hajime, incrementando
l'ilarità dei bambini.
Hanji sollevò un sopracciglio, squadrando l’amico da capo a piedi «Ha parlato mister “più bello del
Giappone”! E voi che avete da ridere, marmocchi? Se vi prendo …!» gridò, facendo uno scatto in avanti e inseguendo il fratellino di Tsubasa e i suoi amici che scapparono
sulla strada, senza smettere di ridere.
Anche Shun e Taro trovarono quella scenetta decisamente divertente.
Il giovane attaccante era uscito di casa piuttosto agitato, ma stare con i suoi amici l'aveva fatto rilassare e, per alcuni momenti, era
riuscito a non pensare alla promessa che aveva fatto a Kumi e che avrebbe dovuto mantenere quella sera.
Avvicinare Madoka, e chiederle di concedersi un'altra possibilità. Non avrebbe potuto cincischiare ancora a lungo, nella speranza
di guadagnare - o forse perdere, alla fin fine - altro tempo.
La vide alla bancarella di fronte. Stava osservando gli oggetti esposti, perlopiù collane, braccialetti e altri tipi di gioielli,
commentandone alcuni insieme a Kumi e ad altre amiche.
Kumi, con la coda dell'occhio, si accorse della sua presenza dietro di loro, si voltò e gli fece cenno di avvicinarsi.
Un attimo dopo, sussurrò qualcosa alle altre ragazze e si allontanò con loro.
Madoka non ebbe neppure il tempo di chiedere dove stessero andando, che Shun si era già accostato a lei.
Stavolta sapeva perfettamente da dove poteva iniziare, e rivolgerle una frase cui avrebbe dovuto per forza rispondere.
«Grazie per la tuta che mi hai regalato.»
Madoka si voltò e gli sorrise «Prego.»
«Com'è andato l'allenamento sui monti Hida?»
«Bene, sono tornato due giorni fa. Sono riuscito a imparare quel tiro!» esultò, stringendo una mano a pugno e
rivolgendole un sorriso da bimbo felice. Sì, le stava parlando ancora di calcio, ma il suo cuore accelerò i battiti nel vedere quegli occhi così luminosi. Gli stessi che
l'avevano incantata, quel giorno di due anni prima.
«Ne sono felice.» replicò con sincerità.
«Mi sono impegnato con tutto me stesso. Avevo promesso che non sarei tornato indietro finché non l'avessi
completato.»
Madoka annuì. Sentiva la mente vuota, non sapeva cosa dirgli … le venne in aiuto la bancarella opposta.
«Oh, guarda … la pesca dei pesci rossi!» esclamò, dirigendosi verso di essa «Voglio provare a catturarne
uno. Ci credi se ti dico che non ci sono mai riuscita?»
«Beh, qualcosa sfuggirà anche all'infallibile Madoka.»
«Spiritoso. Dai, questa volta devo farcela!» cinguettò, inginocchiandosi davanti alla vasca e prendendo un retino.
Shun le si mise accanto e guardò divertito i suoi numerosi tentativi, che terminavano invariabilmente con il pesciolino riluttante a lasciarsi catturare.
«Che dici? Ci riproviamo?» si decise a chiederle.
Madoka sbuffò «Io mi sono stancata di provare a pescare pesci rossi senza prenderne nemmeno uno.»
«Io non parlavo di pesci rossi.» replicò, avvicinando il viso al suo e sorridendole con una punta di malizia,
ottenendo come effetto l'imporporarsi delle gote della ragazza.
«Che ne diresti di fare una passeggiata nel parco?» le chiese poi, prendendole una mano.
Madoka chiuse gli occhi e tese un angolo della bocca, ma non lasciò la mano del ragazzo, in un muto assenso.
Sembrava che tutta Nankatsu si fosse data appuntamento per quella sera.
«Ehi, chi si vede! Ciao, Wakabayashi.»
Genzo si voltò e riconobbe Natsuko, la madre di Tsubasa.
«Buonasera, signora Oozora.»
«Tsubasa e Sanae ti hanno dato la bella notizia?» il viso di Natsuko, segnato da qualche ruga, era illuminato da occhi
esultanti.
Genzo annuì, con un sorriso.
«Il mio nipotino dovrebbe nascere ad agosto.» lo informò entusiasta.
«Festeggeremo la sua nascita con la medaglia d'oro.»
«Questa ragazza ti ha seguito dalla Germania?» gli chiese indicando Elena.
«No, ci siamo conosciuti qui in Giappone. È la nipote del mio maestro di kickboxing.» le spiegò.
Elena arrossì, ma rimediò in fretta, presentandosi «Mi chiamo Elena Rulli, vengo dall'Italia, anche se
effettivamente, mia madre è tedesca.» disse con disinvoltura.
«Io sono Natsuko Oozora, la madre di Tsubasa. Lui e Wakabayashi sono amici fin da bambini.»
Elena annuì «Lo so, Genzo e Taro mi parlano spesso di lui. È un grandissimo giocatore.»
Natsuko fece un cenno d'assenso, indubbiamente lusingata da quel complimento. Poi spalancò gli occhi, come se si fosse ricordata
all'improvviso di qualcosa.
«Sarà meglio che vada a recuperare Daichi. L'ho visto allontanarsi con Ishizaki, scommetto che l'ha portato ad
abbuffarsi!»
«Stia tranquilla signora Oozora, c'è Nishimoto con lui, i bambini sono al sicuro.»
«Lo spero proprio. Comunque, meglio che non lo lasci in giro troppo a lungo.»
«Ciao, ragazzi!» li salutò Kumi, poco dopo che la signora Oozora se ne fu andata «Avete già provato i
sakuramochi? Venite, li preparano in quella bancarella. Dovete assolutamente assaggiarli!»
Elena si lasciò trascinare dall'entusiasmo dell'amica. Kumi trovava motivo di allegria ed eccitazione in tutto, anche nelle cose
più semplici, e ammirava molto questa sua caratteristica.
Anche il suo furisode era meraviglioso: rosso, raffigurava un motivo di ventagli con figure
tipiche della tradizione giapponese come campanule e peonie con fiori e di pruno e di ciliegio. Alcune gru, delle foglie d'acero e delle canne di bambù campeggiavano sullo sfondo di un
ruscello.
A chiuderlo una obi decorata con un motivo di ventagli luminoso e cangiante.
Poco dopo arrivò anche Taro, che aveva preferito defilarsi non appena aveva visto Nitta avvicinarsi a Madoka.
«Me l'aveva promesso. Del resto, gli ho detto che gliel'avrei fatta pagare cara se non avesse mantenuto la parola.» disse
Kumi, con un'espressione fintamente minacciosa che strappò una risata a Misaki, la quale provocò a sua volta un'accelerazione dei battiti in lei.
«Ragazzi, propongo di spostarci verso il parco Hikarigaoka. Tra poco inizieranno i fuochi d'artificio.» annunciò poi
il centrocampista.
I suoi amici annuirono e tutti insieme si avviarono verso il parco, verso cui si stavano dirigendo anche molti altri abitanti di Nankatsu
e dei dintorni accorsi alla festa.
Lo spettacolo dei ciliegi illuminati trovava il suo massimo splendore nel parco, proprio come durante il giorno.
Il mite vento che faceva oscillare appena i rami degli alberi, dava ad Elena la sensazione di trovarsi in un'atmosfera perfetta.
Con una simile disposizione d'animo, l'impatto con la realtà e con ricordi ancora troppo recenti e penosi per non provocare
dolore, risultò ancora più devastante.
I suoi occhi si posarono su un uomo che stava spingendo una sedia a rotelle, su cui era seduto un ragazzo che poteva avere sui vent'anni.
Si guardava intorno e sorrideva chiedendo al suo accompagnatore - probabilmente il padre - quanto mancava all'inizio dello spettacolo pirotecnico.
Elena si sentì trafiggere il cuore. La sua mente tornò indietro a quasi un anno prima …
Una carrozzina … l'unico mezzo che gli sarebbe rimasto per muoversi.
Rimase ferma, nel tentativo di arrestare le lacrime che stavano spingendo per uscire dai suoi occhi. Ci era sempre riuscita, ce l'avrebbe
fatta anche quella volta.
No.
Le sentì scendere, rigandole il viso. Prima una. Poi un'altra … e un'altra ancora….
No, quella volta non sarebbe riuscita a ricacciare indietro il suo dolore. E allora … doveva sfogarlo, lontano da tutti. Era solo
suo, nessuno doveva sapere.
Si voltò e corse via. Il furisode non le permetteva molta libertà di movimento e
non poteva mantenere una velocità sostenuta.
«Elena, dove vai?» gridò Taro mettendosi a correre. Istintivamente, anche Genzo e Kumi lo seguirono.
In quel momento, i primi fuochi d'artificio cominciarono a riempire il cielo notturno dei loro suoni, luci e colori.
La trovarono seduta su una panchina, intenta a dare sfogo alle sue lacrime e ai suoi singhiozzi. La sua schiena sussultava, scossa dai
singulti. Il maneki neko era appoggiato accanto a lei.
«Elena … che succede?» le chiese Taro, avvicinandosi piano. Spostò la piccola scultura e si sedette accanto a
lei. Le mise una mano sulla schiena, attirandola leggermente a sé. Lei alzò la testa e quando lo vide, sollevò un braccio, lasciando che la abbracciasse.
Kumi, in piedi accanto a Genzo, abbassò istintivamente la testa, mentre il portiere osservava la scena provando una strana
sensazione … il desiderio di essere seduto su quella panchina, al posto di Misaki.
Abbracciare Elena, mormorarle parole di conforto, chiederle cosa la faceva soffrire.
Ma dovette riconoscere che era Taro a conoscerla meglio, e da più tempo.
«Posso allontanarmi, se preferisci confidarti solo con Misaki.» disse Genzo in tono conciliante, pur avvertendo dentro di
sé un senso di contrarietà.
Elena alzò la testa dalla spalla di Taro e lo guardò «No, resta.» mormorò. Desiderava che anche
Wakabayashi, così come Kumi, ascoltasse la sua storia.
Era convinto che il suo cuore avesse mancato un battito, quando gli aveva rivolto quelle due semplici parole.
Voleva renderlo partecipe della sua esperienza, dei suoi timori, della sua angoscia e dell'incapacità di scrollarsi di dosso quei
fantasmi.
«Avevo un ragazzo, prima di venire qui in Giappone.» cominciò «L’anno scorso, alla fine dell’estate,
ha avuto un grave incidente in moto. È sopravvissuto, ma è rimasto paralizzato dal tronco in giù. E ha perso anche l’uso delle braccia.»
«Avevo appena trovato un lavoro in una ditta di import-export, come segretaria. Dopo il lavoro, andavo in ospedale a trovarlo.
Spesso gli facevo assistenza per permettere a sua madre e a sua sorella di riposarsi. Poi un giorno ...» deglutì, non sopportando più il groppo in gola che le si era formato
mentre raccontava «… mi ha detto di andarmene e di non tornare più a trovarlo. Mi ha detto che stavo rimanendo con lui per compassione e per senso del dovere e che in
realtà stavo solo aspettando il momento giusto per lasciarlo. "Tanto fanno tutti così, prima o poi", le sue parole.»
Il flusso dei ricordi cominciò a scorrere nella mente e dalle labbra di Elena, dapprima con riluttanza, poi con spontaneità
crescente.
Gianluca aveva perso il controllo della sua moto ed era volato fuori strada, andando a finire in un fosso.
Il passaggio di un automobilista che aveva assistito a quella scena tremenda aveva permesso l'arrivo dei soccorsi in un breve arco di
tempo.
L'impatto del corpo del ragazzo con il terreno era però stato devastante.
Elena si era precipitata in ospedale subito dopo aver ricevuto la telefonata della madre di Gianluca.
Piangeva al punto da non essere più capace di parlare, ed era stato il padre del ragazzo a darle la notizia.
Non avrebbe più dimenticato le parole pronunciate dal medico.
«Il paziente ha riportato una lesione completa del midollo spinale, all'altezza della quarta vertebra cervicale.»
Lesione completa.
Funzionalità compromesse.
Perdita dell'uso dei bicipiti e delle braccia.
Paralisi totale dal tronco in giù.
Lesione completa.
Erano passate tre settimane dall'incidente.
Elena entrò nella stanza salutandolo nel suo solito tono allegro, ma non ricevette alcuna risposta. Gianluca non aveva nemmeno
girato la testa.
Elena ripeté il suo saluto, ma nuovamente, nessuna reazione.
La ragazza attraversò la stanza e raggiunse lentamente la sedia accanto al letto, quando la voce di lui paralizzò i suoi
movimenti, facendole spalancare gli occhi.
«Vai via, Elena.»
«Cosa?» gli domandò con un sorriso, credendo di aver capito male.
«Vai via.» ripeté, con un tono glaciale e gli occhi ora fissi su di lei.
«Ma se sono appena arrivata.» cercò di usare un tono scanzonato, per cercare di farlo rilassare.
Ma Gianluca non aveva accennato nemmeno una smorfia di distensione.
«Elena, non sto scherzando. Non voglio più che tu venga qui.»
«E … potresti spiegarmi il perché?» deglutì. Avvertì un senso di nausea, il suo petto
attraversato da delle fitte, come se il suo cuore fosse stato trapassato da una raffica di lame.
«Non fingere di non capire!» sbottò, incapace di trattenere oltre la rabbia e la frustrazione «Mi vedi? Sono
ridotto a un rottame! Non potrò più camminare. Non riesco a muovere le braccia, ho bisogno di essere aiutato dagli altri per qualsiasi cosa abbia bisogno, non ho più il
controllo nemmeno delle mie funzioni corporali! Per quanto tempo sopporterai di rimanere con uno come me?»
L'espressione di Elena era stranita «Che domande sono, Gianluca? Io sono qui con te.»
Il ragazzo scosse piano la testa, con un sorriso amaro «Quando ti renderai conto di quanto è grave la mia situazione, mi
lascerai. Non riuscirai a passare ogni giorno della tua vita così, con un mezzo uomo come me. Uno che non può avere un lavoro, non può praticare sport, non può offrirti
un futuro felice.»
Elena mosse le labbra per protestare, ma lui la interruppe.
«Sono la compassione e il senso del dovere a farti venire qui. Quei tuoi sguardi pietosi … non riesco più a
sopportarli.»
Elena, per alcuni minuti, non riuscì a parlare. Deglutì più volte, nel tentativo di sciogliere quel nodo in gola
che sembrava ingrossarsi, man mano che avvertiva le lacrime pungerle gli occhi.
«Gianluca, non mi importa se pensi che io sia qui solo perché mi fai pena, come insinui tu. Io non ti lascio.»
riuscì infine a dire, con la voce incrinata.
«Io invece, ti chiedo di farlo. Voglio troncare la nostra relazione. Io non sarò mai più lo stesso di prima, e
nemmeno tu sarai l'Elena che conoscevo.»
«Ero sconvolta, ma il giorno dopo sono tornata comunque in ospedale. Sono stata fermata da un'infermiera che diceva di aver avuto
l'ordine di non fare passare né me né qualsiasi altro membro della mia famiglia. Era sinceramente dispiaciuta, ma si diceva costretta a eseguire le disposizioni dei pazienti, se anche
il medico era d'accordo. Avevo cominciato a passare le giornate in casa. Uscivo soltanto per andare in ufficio, non avevo più una vita sociale. Il mio cellulare era acceso solo quando ero
fuori casa.»
Guardò in basso, sbatté alcune volte le palpebre, poi tirò su leggermente con il naso e scosse la testa.
«È stata messa in giro la voce che ho troncato io la relazione, perché non volevo passare la mia vita a fare da
infermiera a un invalido. E così ogni volta che uscivo, sentivo addosso gli occhi della gente e i loro mormorii. E la cosa peggiore è che non reagivo più, perché mi ero
convinta che in fondo avessero ragione, visto che avevo ubbidito alla richiesta di Gianluca e non mi ero più fatta vedere. Poi, una sera in un locale ho incontrato una mia amica e compagna
di palestra ...»
Taro, Genzo e Kumi ascoltavano senza intervenire, non ponevano domande durante le sue pause.
«Una sera Martino» proseguì guardando Taro, che fece un cenno d'assenso nel sentire il nome del loro comune amico
«mi ha invitata a uscire, per distrarmi. Io ho accettato. Siamo andati al cinema e poi in un locale a bere qualcosa. Nel corso della serata, ho visto Shiori entrare insieme ad alcuni amici.
Non ci sentivamo da qualche tempo, e quando mi ha vista mi ha rivolto uno sguardo carico di astio e di rabbia. È venuta verso di me e mi ha rinfacciato il fatto che io me la spassassi mentre
il mio ragazzo era ricoverato in un reparto di terapia intensiva e trascorreva le sue giornate nell'immobilità quasi totale. Ha accusato anche Martino: pensava stesse cercando di
approfittarsi della situazione, ma siamo sempre stati solo amici, e comunque non si sarebbe mai comportato in un modo così cinico e disonesto. Mi aveva semplicemente offerto il suo sostegno
da amico d'infanzia.»
Sospirò.
«Da allora non ho più sentito Shiori. Ma non riesco a biasimarla per quello che mi ha detto. Io gli ho fatto mancare il mio
supporto. Lui sta affrontando delle prove tremende e io sono qui a migliaia di chilometri di distanza, dall'altra parte del mondo a divertirmi con la ginnastica artistica e a
seguire il calcio. Avrei dovuto insistere, forse lui mi avrebbe rivoluta con sé.»
Taro scosse la testa «Lui ha voluto allontanarti. Ricorda che ha persino detto alle infermiere di non lasciarti più passare.
Non devi sentirti in colpa per aver voluto riprenderti la tua vita.»
«Misaki ha ragione, Elena.» disse Genzo «Lui ha scelto. Ora devi pensare a vivere la tua vita. Hai un lavoro da portare
a termine, la responsabilità di due gruppi di ragazze che sognano di diventare delle campionesse, e tu stessa hai degli studi da compiere. Non devi più guardarti indietro né
sentirti in torto.»
«E se dovessi avere dei momenti di sconforto, puoi parlare con noi.» aggiunse Kumi, con un sorriso.
Elena li guardò, uno per uno. Taro, Genzo, Kumi … il suo amico e le due persone con cui aveva legato di più, dal suo
arrivo a Nankatsu. E ora, le tre cui aveva appena rivelato quel segreto che portava con sé.
Credeva, sperava che sarebbe riuscita a tenere tutto nascosto. Aveva fatto di tutto per evitare che il suo passato non la travolgesse
anche lì, per non ritrovarsi a parlare di ciò che l'aveva ferita. Temeva quello che avrebbe potuto pensare chiunque l'avesse ascoltata. E invece … proprio come suo zio, le
avevano offerto comprensione, consolazione ed esortazione a non farsi lacerare dai sensi di colpa e a pensare a costruire il proprio futuro, la sua nuova vita.
«Mi dispiace … per colpa mia avete perso lo spettacolo dei fuochi d'artificio.» mormorò.
Taro scosse la testa «Non ti preoccupare. Ti sei appena liberata di un fardello che ti portavi dentro da mesi.»
«E puoi stare certa che non lo racconteremo a nessuno.» aggiunse Kumi, strizzandole un occhio.
Genzo alzò le spalle «Avremo tempo per vedere altri fuochi d'artificio. Più importanti di questi.» disse con
uno sguardo complice, un invito implicito a guardare avanti.
Elena li guardò, alternatamente. Le labbra si tesero in un timido sorriso.
«Penso sia ora di tornare a casa.» disse.
«Sì. Credo sia ora per tutti. Annie e Kenichi si staranno chiedendo dove sono finito.» scherzò Genzo,
suscitando delle risate in Taro e Kumi e un altro sorriso, un po' più disteso, in Elena, che si alzò dalla panchina, imitata da Misaki. I quattro ragazzi si avviarono verso l'uscita
del parco, dove stavano sciamando molte altre persone.
Genzo incontrò Annie e Kenichi al cancello e si incamminò con loro, mentre Kumi rimase con Taro ed Elena finché non
giunse davanti alla porta di casa. Misaki proseguì insieme alla giovane insegnante. Sempre in silenzio.
Kumi rincasò con una sensazione che oscillava tra sollievo e preoccupazione. Erano ormai diverse occasioni che riusciva sempre a
scambiare qualche parola con Misaki, ma era come se entrambi si stessero tenendo a distanza. Le sembrava di cogliere un certo interesse in lui, ma poi … c'era stata la crisi di Elena.
Sentiva una normale gelosia verso di lei, ma non avrebbe mai cercato di ostacolare un'eventuale relazione tra lei e Misaki. Era una
ragazza gentile, assennata e generosa. La sua tragica esperienza lo dimostrava ulteriormente … non era da tutte rimanere accanto al proprio ragazzo dopo un incidente simile. Aveva ascoltato
storie simili, e nella maggior parte dei casi si concludevano con una rottura. Erano situazioni talmente gravi e penose che nessuno poteva dire con certezza come avrebbe reagito.
Taro l'aveva abbracciata, l'aveva fatta confidare con lui. Avevano un rapporto stretto. Certo, non c'era un sentimento più
profondo a legarli, almeno non da parte di Elena: lei continuava a pensare a quel ragazzo e a una relazione che non era finita per sua volontà …. Non immaginava nascondesse un tale
segreto. L'averlo condiviso soprattutto con lui, anche se lei e Wakabayashi erano lì con loro… poteva averli avvicinati.
«Va meglio?» chiese Taro, quando furono arrivati davanti all'abitazione della ragazza.
Elena annuì debolmente.
«Ora vai a riposarti. Domani hai una giornata impegnativa.» le ricordò, con un sorriso.
Elena distese leggermente le labbra. Taro era sempre così rassicurante ….
La accompagnò fino alla porta.
«Zio, sono a casa.» disse, senza riuscire ad alzare molto la voce. Avrebbe capito subito che c'era qualcosa che non andava, e
infatti poco dopo Carlo comparve, serio in volto.
Si trovò davanti la faccia ancora sporca di trucco della nipote, nonostante Kumi l'avesse pulita alla bell'e meglio, con una
salvietta. Gli occhi erano lucidi e arrossati.
Gli bastò per capire cosa doveva essere successo … i ricordi erano riaffiorati, e stavolta non era riuscita a confinarli
nel limbo della notte.
«Buonasera signore. Sono Taro Misaki, un amico di Elena.»
Carlo sorrise, tendendogli una mano «Mia nipote mi ha parlato di te. Vi siete conosciuti in Italia.»
Taro annuì, stringendogli la mano.
«Di solito, quando arriva a casa, grida "Tadaima!", per scherzo. Stasera non l'ha fatto,
per questo ho capito che c'era qualcosa che non andava.» spiegò «Grazie per averla accompagnata.»
Taro fece un inchino, prima di sussurrare qualcosa a Elena e darle una carezza su una spalla.
«Sono stanca, zio.» mormorò dopo che l'amico se ne fu andato, e una volta entrata in casa «Voglio farmi una
doccia e andare a letto.»
«Certo, Elena. Vuoi che ti prepari qualcosa? Una camomilla, del latte con il miele ….»
La ragazza scosse la testa e gli augurò la buonanotte, dandogli un buffetto su un braccio.
Andò nella sua camera e posò il maneki neko sul comodino.
Quando vi ritornò, dopo essere stata a lungo sotto il getto d'acqua, lo accarezzò piano, prima di sdraiarsi nel letto e
prendere finalmente sonno.
Durante il ritorno a villa Wakabayashi, Annie lanciò a Genzo, di tanto in tanto, delle occhiate incuriosite, di cui lui sembrava
non accorgersi. Sembrava assorto in chissà quali pensieri. Kenichi non lo notò, solo perché stava passando in rassegna alcune figurine vinte in un'altra bancarella.
A nessuno dei due però era sfuggita l'assenza del ragazzo durante i fuochi pirotecnici. Non erano riusciti a scorgerlo da nessuna
parte, e Annie aveva concluso che aveva assistito allo spettacolo in un'altra zona del parco, con i suoi amici.
«Così conoscevi già quella ragazza … Elena.» disse Annie mentre, seduta sul divano del salotto, sfilava
le forcine dai capelli.
«Sì. Era inevitabile, visto che lavora alla palestra Shiroyama.»
«Già … stava molto bene con quel furisode azzurro, non trovi?» gli
chiese a bruciapelo, con uno sguardo indagatore.
Genzo colse il senso di quella domanda e si limitò ad annuire.
«Rimarrò a Nankatsu ancora un giorno, domani sera parto per Tokyo. Vedrò i miei genitori e Asami, e credo che
andrò al J-Village direttamente da lì.» le annunciò senza che lei gli avesse posto alcuna domanda a proposito, come se volesse mettere a tacere eventuali pensieri
insinuanti.
Annie lo guardò salire le scale e sparire lungo il corridoio, poi abbassò la testa sulle sue mani che giocherellavano con
un fermaglio, le labbra distese in un leggero sorriso.
Genzo non riusciva a provare comprensione per il comportamento del fidanzato di Elena.
Poteva solo immaginare lo stato d'animo in cui doveva essere piombato quel ragazzo. Lui stesso faticava a immaginare una situazione del
genere. Essere privato del movimento degli arti … non poter più camminare, non poter più giocare a calcio, non essere più autosufficiente! "Disperazione" era l'unica
parola che gli veniva in mente per descrivere una simile condizione. Ma …
Aveva allontanato da sé una ragazza che si stava prendendo cura di lui ed era decisa a rimanergli vicino, e che non l'aveva
lasciato un solo attimo, accusandola di agire soltanto per compassione. Aveva fatto ancora più male a sé stesso, e aveva gettato Elena nella depressione … per fortuna Carlo le
aveva offerto il suo aiuto e l'aveva convinta a cominciare una nuova vita, in Giappone.
Le sue congetture si erano dunque rivelate corrette. Elena stava cercando di tenere soffocati i ricordi e il dolore che le provocavano.
Finché l'immagine di quel ragazzo in carrozzina non aveva scatenato tutto il tormento che si portava dentro.
Quello sfogo non avrebbe certo cancellato né i ricordi né il dolore, ma da quel momento avrebbe potuto vivere un po'
più serenamente. Così sperava.
Il pensiero di una giovane donna bionda che indossava un furisode azzurro con ciliegi e peonie,
dominò la sua mente ancora per molto tempo, prima che riuscisse ad addormentarsi.
***Note***
Buongiorno a tutti.
Innanzitutto, spero di non aver trattato in modo superficiale il tema della tetraplegia e relative conseguenze.
Ho raccolto e visionato molte informazioni, visto video e letto testimonianze sui forum dedicati.
Anche la storia di Elena e Gianluca è ispirata a un fatto avvenuto realmente, cioè una ragazza allontanata dal fidanzato
disabile. Più avanti la storia tratterà ancora questa vicenda.
Le strofe citate all'inizio del capitolo sono tratte dalla canzone "State of
Mind" della cantante australiana Merril Bainbridge, contenuta nell'album "The Garden" del 1995. È il brano che fa da colonna sonora a uno dei tanti film sulla ginnastica artistica da me
visti, "Perfect Body" (USA 1997, realizzato per la televisione e trasmesso in Italia con il titolo "Per un corpo perfetto").
Yozakura: nelle ore buie, Hanami
cambia nome in Yozakura, che vuol dire appunto "la notte del ciliegio", e i sakura vengono illuminati e adornati con
delle caratteristiche e scenografiche lanterne di carta.
Fonte: Skyscanner
Sakuramochi: dolci tradizionali
giapponesi a base di riso e pasta dolcificata azuki (fagioli rossi giapponesi), avvolti in una foglia salata di ciliegio. Sono apprezzati per il loro gusto
particolare, derivato dall'unire insieme due sensazioni opposte: il dolce della pasta azuki e il salato che ricopre la foglia di ciliegio.
Fonte: StraneStorieDiViaggi
Maneki neko: letteralmente significa “gatto che ti chiama” o “gatto della fortuna"; è una diffusissima scultura giapponese, fatta di
porcellana, vetro, plastica o ceramica, che appunto si pensa porti fortuna. Raffigura un gatto che chiama o saluta con il cenno di una zampa alzata.
In Giappone la si può trovare anche esposta fuori nei negozi, nei ristoranti o in altre attività commerciali.
Il colore standard, che è anche quello più diffuso, è il bianco, ma oggi si
trova in una vasta gamma di colori, ognuno con il suo significato, a seconda dei desideri e delle aspirazioni.
Nero: si dice che porti fortuna e tenga lontano gli influssi negativi.
Rosso: è un colore protettivo che per la sua vivacità tiene lontani gli influssi e
spiriti maligni.
Oro: è associato alla ricchezza e al benessere economico.
Rosa: non è un colore che fa parte della tradizione ed è stato introdotto di
recente; è associato ai sentimenti e all’amore.
Verde: è di buon augurio nel conseguimento di obiettivi importanti, specie nello studio e
riconoscimenti accademici.
Viola: è di buon augurio per la realizzazione dei propri sogni.
Azzurro: propizia e aiuta nella crescita interiore e sicurezza personale.
Fonte: Sakuramagazine
Questi sono i bellissimi furisode indossati da Elena e
Kumi. Entrambi sono della tarda epoca Showa (associata all'epoca dell'imperatore Hirohito (1926-1989), quindi dovrebbero essere stati realizzati negli anni
'70-'80).
Questo è il kimono di Annie, appartenente anch'esso al tardo periodo Showa.
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Capitolo 11 *** Capitolo XI - La spiaggia di Miho ***
Untitled
Capitolo XI
La spiaggia di Miho
Il suono della sveglia si diffuse nella stanza, parzialmente schiarita da sottili lembi di luce.
Elena si sollevò dal letto e schiacciò il pulsante, mettendosi a sedere.
I suoi occhi si posarono sul maneki neko appoggiato sul comodino e istintivamente sorrise.
Avvertì, ovattati, i rumori dell'acciottolio dei piatti e delle tazze che Carlo stava prendendo dalla credenza.
Scostò la coperta leggera e scivolò sul bordo del letto, per poi alzarsi e uscire dalla stanza.
«Come va?» le chiese suo zio, quando entrò in cucina.
Elena abbozzò un sorriso «Meglio.»
Carlo fece un cenno d'assenso, posando il bricco del latte sul tavolo, invitandola così a fare colazione.
«Comunque Elena … se hai voglia di sfogarti, di parlare, io sono sempre pronto ad ascoltarti.» le disse, mentre
entrambi si sedevano.
«Lo so.» fu dapprima la sua laconica risposta, poi tacque per qualche minuto, come se non avesse desiderio di toccare
quell'argomento. Poi però, espresse la sensazione che la accompagnava ogni giorno, nel recesso del cuore.
«È come se una parte di me non volesse dimenticare. Gianluca è tetraplegico e io mi sono trasferita a migliaia di
chilometri di distanza … ho conosciuto tante persone, mi diverto, rido e sto bene. Ma quando la mia mente è libera i miei pensieri vanno a lui, che passa le sue giornate in un letto,
senza potersi muovere forse per il resto della sua vita. Mi sento in colpa e vorrei potergli essere accanto, sapere come sta, se sta lottando.»
Carlo la guardò, comprensivo «Sono certo che prima o poi troverà la forza di combattere, come faceva quando praticava
il kickboxing. Ma tu non devi sentirti in colpa, è stato lui a volerti allontanare. Ha sbagliato, ma lui ha ritenuto opportuno fare quella scelta. E se era così convinto che fossi
rimasta con lui per compassione, non avresti potuto fare granché per aiutarlo. La volontà di reagire in modo positivo deve nascere dentro di noi, e dobbiamo avere fiducia in chi ha
sempre mostrato di volerci bene. Lui è convinto di non valere più nulla e di conseguenza crede che tu pensi la stessa cosa.»
«Ma non è vero. Pensavo di avergli dimostrato quanto lo amassi.»
«E io ti credo. Tuttavia, è lui quello costretto a rimanere immobile in un letto, senza poter muovere né gambe
né braccia, e dipende in tutto e per tutto dagli altri. Gli ci vorrà molto tempo per accettarlo, se mai riuscirà a farlo del tutto. Io sarei disperato, e credo lo sarebbe
chiunque.»
Elena annuì, non sapendo che altro aggiungere. Sentiva un pizzicore agli angoli degli occhi.
«È dura fare a meno del sostegno di una compagna» continuò Carlo «ma credo abbia pensato all'ulteriore
colpo che avrebbe potuto subire se tu avessi deciso di lasciarlo. Sei giovanissima, bella, con la possibilità di scegliere tra molte strade, devi solo decidere quale ti dà le
motivazioni più grandi.»
«Io non ho voluto liberarmi di lui.» replicò, la voce incrinata.
Carlo le mise una mano su un braccio «Tormentarti così non serve a nulla, Elena. Può darsi che lasciarti andare lo
abbia reso un po' più sereno, perché non teme più che tu possa lasciarlo.» le suggerì. Poi, dopo una breve pausa, aggiunse «Vivi serenamente questi mesi. Lui
ha comunque accanto i suoi famigliari, i suoi amici. Poi, una volta tornata in Italia, si vedrà.» le mise una mano su una spalla, e lei assentì, strizzando gli occhi per cercare
di stroncare sul nascere quell'ennesimo pianto.
«Così oggi passerai la giornata al mare.» disse Carlo, per virare su un argomento più felice e proiettato
nell'immediato futuro.
«Già.» sussurrò, prendendo dell'orzo in polvere da un barattolo con un cucchiaio e versandolo nel latte.
Una settimana prima, la Shiroyama le aveva proposto di portare le ragazze a Miho no Matsubara per farle esercitare sulla spiaggia e in
acqua e perché trascorressero una giornata all'aperto. Era uno speciale allenamento pensato e pianificato per rinforzare e migliorare l'elasticità dei muscoli delle ginnaste, e per
far loro respirare un po' di sana aria di mare, visto che passavano gran parte delle loro giornate al chiuso della palestra.
«Vedrai, ti piacerà. La spiaggia di Miho è una delle più belle del Giappone. È circondata da una
bellissima pineta e godrai di una vista meravigliosa del Fuji-san.»
Elena abbozzò un sorriso e riuscì a terminare la colazione abbastanza tranquillamente.
Si alzò dal tavolo e si diresse verso il bagno. Mezz'ora dopo doveva arrivare alla palestra Shiroyama per radunare le sue allieve
e partire per Miho.
Genzo si congedò con un inchino dagli altri membri del consiglio direttivo dell'Istituto Shutetsu e lasciò la sala delle
riunioni. L'atrio era fortunatamente vuoto, segno che insegnanti e allievi si trovavano tutti nelle aule a fare lezione.
Varcato il cancello d'uscita dell'edificio scolastico, si avviò verso casa. Dopo alcuni metri, scorse Taro Misaki camminare in sua
direzione, con un borsone caricato su una spalla.
«Ehi, Misaki!» lo chiamò, alzando una mano.
Taro sollevò il viso e, riconosciuto l'amico, alzò il mento e accelerò il passo.
«Wakabayashi! Come siamo eleganti.» scherzò, riferendosi alla tenuta in giacca e cravatta - quest'ultima
opportunamente allentata - del portiere.
Genzo sorrise «Ho appena finito una riunione del consiglio direttivo della Shutetsu. Non vedo l'ora di andare a casa e togliermi
questa roba di dosso.»
Così dicendo, estrasse il cellulare da una tasca dei pantaloni, e vide che sul display erano segnalate tre chiamate perse, tutte
di Günther Hoffmann, il suo procuratore da quattro anni; tra i suoi assistiti vi erano numerosi giocatori della Bundesliga, tra cui Karl Heinz Schneider.
Sapeva cosa aspettarsi da un colloquio - seppur soltanto telefonico - con Günther, che di certo non lo stava cercando solo per
chiedergli come se la stava passando in Giappone.
Decise di richiamarlo. Meglio esaurire la questione il prima possibile, tanto che il giorno dopo doveva presentarsi al J-Village per
l'inizio del ritiro.
«Genzo, finalmente! Ma dov'eri finito?» esordì la voce aspra e gutturale del suo agente.
«Ero in riunione.» rispose, laconico.
«Beh, se non altro sono riuscito a rintracciarti. Hai visto la partita ieri?» chiese, con un tono più disteso.
Come sempre, Herr Hoffmann introduceva l'argomento prendendolo alla larga: il giorno prima, il Bayern Monaco era stato eliminato nei
quarti di finale della Champions League dal Real Madrid. Schneider aveva dato ai campioni di Germania la vittoria per 1-0, che non era però stata sufficiente per ribaltare il pesante 3-0
subìto all'andata sul campo del "Santiago Bernabéu".
«Sì. Il Bayern ha giocato bene, ma il Real Madrid è troppo forte e ha dovuto soltanto amministrare la
gara.»
«Analisi perfetta, come al solito. E hai sentito cos'ha detto Karl?»
«Sì» alzò gli occhi al cielo, decisamente annoiato «il Bayern ha tentato tutto il possibile ma ha bisogno
di rinforzi per poter vincere la Champions League. Niente di clamoroso.»
«Ma non sai quello che ha detto a telecamere e microfoni spenti, a suo padre e a me. Vuole assolutamente che tu sia il prossimo
portiere del Bayern Monaco; è convinto che sia tu il tassello mancante per costruire una squadra capace di vincere anche in Europa, ed è deciso a tornare alla carica.»
«Anche qui niente di nuovo … ma io gli risponderò che il mio unico pensiero, adesso, sono le Olimpiadi.»
Il procuratore sbuffò «Devi cominciare a pensare già ora al tuo futuro, Genzo.»
«Te l'ho già detto, Günther. Non voglio parlare di nessuna possibile trattativa almeno fino al termine del torneo
asiatico.»
Ma il tedesco sembrava non volere dargli retta «Le più importanti squadre europee sono interessate a te, Genzo. In Germania
c'è il Bayern che non molla, come ben sai. In Inghilterra ci sono il Manchester United, il Manchester City e il Chelsea. In Italia, il Milan e la Roma. In Francia, il Paris Saint Germain e
in Spagna potrebbe inserirsi il Barcellona. Sarebbe una bella sfida, Wakabayashi contro Callusias!» concluse, decisamente entusiasta. Di certo pregustava la quantità di denaro che
avrebbe guadagnato grazie al suo assistito.
«Non credo andrò al Barcellona.» asserì, raffreddando in parte il suo entusiasmo.
«Ma avrai pure una destinazione che ti è congeniale.»
«Sì. Madrid.»
Poté sentire Herr Hoffmann sospirare attraverso il ricevitore «Ma devi decidere il tuo futuro, dopo. La firma del contratto, la presentazione alla stampa, il ritiro …..»
«Non preoccuparti, non rischio di non cominciare la nuova stagione.» lo rassicurò con un sorriso consapevole.
«Ah, ho capito … tu sai già dove andare ma non me lo vuoi dire! Non è così? Magari hai già un
accordo sulla parola!» replicò, non reprimendo una nota di fastidio nella voce.
«Niente di tutto questo, sai bene che non mi accorderei mai con una squadra senza parlarne con te … dico solo che è
improbabile che io non trovi un buon ingaggio.»
«Ah va bene, ho capito. Ogni cosa a suo tempo.»
Genzo assentì con il capo «Bravo.»
«Sei testardo come un mulo. In ogni caso, prima della fine delle qualificazioni sarò da te in Giappone. Il tuo futuro dopo
le Olimpiadi è comunque un argomento di cui dobbiamo discutere.»
«D'accordo.» borbottò infine, alzando ancora una volta gli occhi al cielo «Ora però dammi tregua almeno
fino all'ultima partita, e magari occupati di qualcun altro dei tuoi numerosi assistiti. Da quel che leggo su Internet hai un bel po' di lavoro da svolgere.»
«Va bene. Ma a tempo debito non potrai sfuggirmi, ricordatelo.» lo avvisò, con un tono tra il minaccioso e lo
scherzoso.
Genzo lo salutò con una battuta e terminò la chiamata. Rimise lo smartphone in tasca con un lieve sospiro.
«Così questo è il famoso procuratore Günther Hoffmann.» commentò Taro, divertito.
«È un ottimo agente, ma quando fiuta un affare non ti molla un attimo. Mi ha già rotto le scatole la scorsa estate
quando ho deciso di rimanere ad Amburgo e ora che il mio trasferimento è inevitabile, è convinto di poter concludere l'affare del secolo.»
«Dal suo punto di vista è comprensibile. Chi vorrà ingaggiarti sborserà una grossa cifra.»
«Lo so, ma ora non penso ad altro che alle Olimpiadi.»
«Ma davvero?» lo prese in giro il centrocampista, prendendosi un leggero pugno su una spalla.
«Piuttosto, stai andando ad allenarti?» chiese Genzo, facendo cenno con gli occhi al suo borsone.
«Sì, vedendo questo sole mi è venuta voglia di andare alla spiaggia di Miho, a correre e fare una nuotata.»
«A Miho …» mormorò, pensoso.
«Sai che ti dico?» la voce del centrocampista lo riscosse «Andiamoci insieme, così possiamo passarci il pallone
e posso farti qualche tiro.»
«Ottima idea. Prima però devo passare a casa a cambiarmi e prendere un costume.»
«Naturalmente.» sorrise Taro.
Circa mezz'ora dopo, i due ragazzi scesero dall'autobus e si diressero verso la spiaggia.
«Forse incontriamo Elena. Doveva venire qui con la signorina Shiroyama e le sue allieve.» ricordò Genzo.
Taro annuì «Sono sicuro che è qui. Ieri sera prima di lasciarla, le ho detto che oggi avrebbe avuto una giornata
impegnativa, e lei ha fatto "sì" con la testa e mi ha sorriso. Ha un carattere forte e adora la ginnastica artistica, non è il tipo che rimane distesa su un letto a piangersi
addosso.»
«E anche se lo facesse, ci penserebbe suo zio a scuoterla.» affermò il portiere.
Taro ridacchiò «Già.»
«Forza ragazze! Uno - due! Uno - due! Faito!» gridò Elena, dando il cambio a
Mayuko, mentre le ragazze della squadra juniores dello Shiroyama Gymnastics Club seguivano a breve distanza, correndo a cadenza ritmata, con un'andatura regolare, sulla sabbia nera.
Suo zio aveva avuto, ancora una volta, ragione: Miho no Matsubara era un luogo meraviglioso. Il cielo era attraversato soltanto da poche,
blande nuvole passeggere e il Monte Fuji si stagliava all'orizzonte, in tutta la sua maestosità e fierezza. Ricordò di aver visto proprio un paesaggio simile a quello che aveva
davanti ai suoi occhi sulle pareti del salotto di casa Misaki. Sorrise. Era ovvio, non poteva mancare tra i soggetti ritratti da un fine paesaggista come Ichiro.
Da quando era uscita di casa per recarsi al complesso sportivo, era riuscita a non pensare al passato e a ciò che era capitato la
sera prima, quando non aveva saputo trattenere le lacrime.
Non le era mai capitato alla palestra o davanti a Mayuko e alle loro allieve. Ed era certa che difficilmente sarebbe successo: la
ginnastica artistica assorbiva ogni sua energia; ogni suo pensiero e azione erano riservati allo sport che amava più di ogni altro e che le aveva insegnato una regola fondamentale nella
vita: dopo ogni caduta, ci si deve sempre rialzare.
Le ragazze stavano riposando nella loro stanza dopo il pranzo, per recuperare le energie ad affrontare gli allenamenti del
pomeriggio.
Elena allungò le gambe su un futon, intenta a immergersi nella lettura di un romanzo.
La sua mente sembrava però non voler obbedire ai suoi desideri.
Il mare … le riportava alla mente ricordi dolci nel passato, ma che avevano un gusto amaro nel presente.
Una moto e due caschi lasciati fuori dalla recinzione.
Due ragazzi che, mano nella mano, si immergevano lentamente nelle acque del Mar Tirreno.
Le loro labbra che si univano in un bacio ….
Scosse la testa, chiuse il libro e lo posò sul pavimento.
Si alzò e lasciò la stanza.
Uscì sulla spiaggia, nella speranza che l'aria salmastra riuscisse a liberare il cervello da quei ricordi.
Adesso era in Giappone ….
Per fortuna era soltanto aprile, in quella stagione anche se le ore erano le più calde della giornata, la sabbia non scottava.
Raggiunse il bagnasciuga, lasciando che il mare, a intervalli regolari, lambisse le sue caviglie.
Scorse due figure maschili in lontananza, correre nella direzione opposta rispetto a quella in cui stava camminando lei. Uno di loro era
poco più alto di lei, l'altro superava il metro e ottanta ed era più robusto e possente. Indossavano entrambi un paio di bermuda ed erano a torso nudo. I loro corpi erano tonici,
atletici, prestanti, evidentemente modellati da anni di attività sportiva.
Man mano che si avvicinavano, le due figure si facevano sempre più conosciute … Taro e Genzo.
«Ehi, ragazzi!» gridò Elena, agitando una mano in loro direzione.
I due alzarono anch'essi un braccio, e aumentarono leggermente la loro andatura, fino a raggiungerla.
«Ti stai rilassando in riva al mare?» chiese Taro, piegandosi e mettendosi le mani sulle ginocchia, mentre Genzo le mise sui
fianchi.
«Sì. Le ragazze stanno riposando, l'allenamento riprenderà tra un'ora e mezza.»
«Allora potremmo fare una corsa fino alla fine della pineta.» propose Genzo, indicando il punto d'arrivo.
«Sì, mi sembra una distanza ragionevole.» concordò Taro.
«Siamo tutti e tre allenati, non sarà difficile andarci e tornare in meno di un'ora.»
L'idea fu approvata.
Elena constatò con soddisfazione che non stava faticando a tenere il ritmo di corsa dei due calciatori. Non sapeva se fosse
perché la sua resistenza era alla pari o perché i ragazzi avevano rallentato la loro andatura di proposito, ma di certo non si sentiva stanca.
A metà del percorso, Taro recuperò il suo pallone, e cominciò a fare dei passaggi con Genzo. I due a turno, di tanto
in tanto, calciavano all'improvviso verso Elena, e tutti e tre risero dei maldestri tentativi della ragazza di mantenere il controllo della sfera, seguìti da delle finte proteste.
Arrivarono a destinazione ansanti, ma più per il divertimento e le risate che per la fatica della corsa.
Elena si buttò a sedere sul bagnasciuga, imitata dai suoi amici, a riprendere fiato ammirando la superficie del mare, lambita dai
raggi del sole.
«Ragazzi, che ne dite di fare una partitella di simil-pallavolo?» propose Taro un quarto d'ora dopo, sollevando il pallone
con il piede, per poi palleggiarlo con il ginocchio e farlo finire su una mano.
«Sono pronta.» disse Elena, posizionandosi tra i due ragazzi.
Genzo si mise in posizione di ricezione, aspettando che Taro lanciasse il pallone.
«Eh no, Wakabayashi! Sai com'è la regola: prima le signore!» scherzò quest'ultimo, battendo verso Elena.
L'ex ginnasta allungò il passo per raggiungere il pallone che Taro aveva lanciato un po’ troppo avanti.
Tese le braccia e riuscì a rinviarlo verso il centrocampista, ma nello slancio andò a finire contro Genzo. La ragazza si
ritrovò con le braccia attorno al collo del portiere che, istintivamente per non farla cadere, le aveva cinto la schiena.
Sarebbe dovuto finire in una risata e con la ripresa del gioco. I due ragazzi invece, rimasero a guardarsi con un’espressione seria
e Genzo tardava a scostare Elena da sé, così come la ragazza aveva fatto scivolare le mani sul petto del portiere, senza però staccarsi.
Misaki li osservò dapprima stupito, poi sorrise sornione, con il pallone sotto un braccio.
«Ehi ragazzi, posso allontanarmi se preferite.» scherzò, prima di rendersi conto dell'inopportunità di quella
battuta.
Elena infatti, si scostò bruscamente da Genzo, mormorando una parola di scusa.
«Va bene ragazzi, ora è meglio che torni dalla signorina Shiroyama, tra poco devo riprendere gli allenamenti.» disse,
dirigendosi verso la spiaggia.
«Che ti è saltato in mente di dire quella frase, Misaki?»
«Hai ragione, ho detto una sciocchezza. L'ho fatto senza riflettere.»
Genzo sospirò e gli batté una mano su una spalla. I due imitarono Elena e uscirono dall'acqua, raggiungendola.
«Elena, scusami per prima. Volevo fare una battuta, ma ….»
La ragazza scosse la testa e gli sorrise «Non preoccuparti Taro, l'avevo capito. Va tutto bene, state tranquilli.» aggiunse,
rivolgendosi anche a Genzo «Vi ringrazio per l'ora piacevole che mi avete fatto passare.»
Giunsero quando le ragazze avevano cominciato il riscaldamento da almeno venti minuti, constatò Elena consultando il suo orologio
da polso.
«Elena! Dov'eri finita?» le chiese Mayuko, fermandosi e mantenendo le mani sui fianchi, con un'espressione severa.
«Sono venuta in spiaggia e ho incontrato i miei amici.» disse, indicando Taro e Genzo che si stavano avvicinando
«Chiedo scusa per il ritardo.» aggiunse, inchinandosi.
«Non la sgridi, signorina Shiroyama. Siamo stati noi a proporle di fare una corsa fino al termine della pineta.» intervenne
il portiere.
«E poi abbiamo fatto una nuotata. Il tempo è volato.» aggiunse Taro.
Difesero Elena sfoderando i loro migliori sorrisi, che riuscirono ad ammorbidire persino Mayuko che, per quanto inflessibile e rigorosa,
era pur sempre una donna.
I due ragazzi non si accorsero - o forse, stavano facendo finta di niente - degli sguardi estasiati delle ragazzine, che nel frattempo
avevano interrotto gli esercizi.
Mayuko fece un cenno d'assenso e consentì a Elena di riposarsi e andarsi a cambiare. La ragazza salutò i suoi amici
strizzando loro un occhio in segno di ringraziamento, prima di incamminarsi verso l'hotel.
La titolare del corso di ginnastica si voltò verso le sue allieve e sgranò gli occhi.
«E voi che fate lì imbambolate? Riprendete subito a fare gli esercizi!»
Taro e Genzo si scambiarono un'occhiata divertita, salutarono il gruppo e si avviarono verso il punto in cui avevano lasciato i loro
vestiti e i borsoni.
«La signorina Rulli è fortunata! Mentre noi ci riposavamo in albergo, lei è andata a correre sulla spiaggia con quei
due fusti.» commentò Hanako, mentre faceva alcune torsioni.
«Sono Misaki e Wakabayashi della Nazionale di calcio.» precisò Mitsuyo.
«Si conoscono da tempo, sono amici.» intervenne Arimi.
«Certo che se fossi io, con due così … altro che amici!» sospirò Shinobu.
«Shinobu! Piantala, anzi piantatela tutte di dire sciocchezze e riprendete ad allenarvi!» le richiamò Mayuko, con
espressione irritata.
«E comunque tu non ci combineresti un bel niente! Siamo troppo piccole per loro.» la punzecchiò Arimi, con un sorriso
impertinente.
«Sei la solita guastafeste.» bofonchiò Shinobu.
«La festa ve la guasto io, se non vi mettete a lavorare seriamente! Tu Arimi, come caposquadra devi dare l'esempio.»
intervenne nuovamente Mayuko.
La ragazzina fece una smorfia, mettendosi a eseguire dei piegamenti come indicato dall'insegnante, evitando di guardare verso Shinobu
anche se era convinta le avesse fatto una linguaccia.
Elena infilò un paio di pantaloncini e una canottiera sopra il costume e legò i capelli in una coda, e uscì
dall’hotel. Per tutto quel tempo, non aveva fatto che pensare a quello che era successo con Genzo. Contrariamente a quanto aveva potuto sembrare, non era stata la pur infelice spiritosaggine
di Taro a farle avere quella reazione brusca, ma ciò che aveva sentito in quei secondi in cui era stata abbracciata a Genzo. Come se non avesse realmente voluto liberarsi da quella stretta.
Aveva percepito calore, sicurezza, protezione. E anche un'altra sensazione … un fremito … sensualità ….
Che sarebbe accaduto se fossero stati soli, se non ci fosse stato Taro lì con loro?
Dio … le era bastato così poco? Nemmeno ventiquattr'ore prima stava piangendo come una disperata mentre ricordava e
raccontava l'incidente capitato a Gianluca e le terribili conseguenze, quel mattino stesso aveva confidato a suo zio quanto ancora pensasse a lui e come il suo senso di colpa non la abbandonasse, e
poi si sentiva turbata da un altro ragazzo, che l'aveva tenuta tra le braccia, anche se in modo del tutto accidentale?
Genzo era bello, aveva un corpo imponente e atletico, uno sguardo così scuro e intenso, difficile da reggere a lungo senza avere
nessun tipo di reazione. Aveva avuto un momento di fascinazione e di incanto, tutto qui.
Una reazione fisiologica, nient'altro. Magari se anziché Genzo fosse finita addosso a Taro, si sarebbe sentita allo stesso
modo.
Sì, era sicuramente così.
Corse verso la spiaggia, dove Mayuko aveva appena annunciato la ripresa degli esercizi.
«Forza ragazze! Facciamo una bella nuotata!» propose, incontrando il cenno d'approvazione dell'istruttrice.
«Emi, ti sei portata il salvagente?» chiese Shinobu, in tono ironico.
«Non ne ho bisogno!» rispose piccata l'altra, facendole una linguaccia.
«Benissimo Emi, ma ora per favore non mettetevi a litigare.» le riprese ancora una volta Mayuko sottolineando il "per favore"
con uno sguardo che implicava non una supplica, quanto un'intimazione.
In pochi secondi, allieve e insegnanti si ritrovarono tutte a sguazzare nell'acqua, tra nuotate, risate e piccoli scherzi.
Genzo osservò il cielo color turchese, il sole rosso che stava ormai per sparire all'orizzonte e che stava progressivamente
cedendo la scena a una piccola, bianca falce di luna.
Durante il viaggio sullo Shinkansen aveva ricevuto una telefonata da parte di Asami, che l'aveva
invitato a cena nel suo appartamento.
All'uscita della stazione, chiamò un taxi.
Arrivato a casa della ragazza, lei gli aprì la porta vestita con un corto ed elegante abito blu e i capelli raccolti in uno
chignon.
«Finalmente sei qui.» lo accolse, abbracciandolo, stordendolo con il suo profumo di camelie. Lui la baciò tenendola
stretta, lasciandola poi andare con riluttanza.
Gli fece strada in salotto, dove si trovava il tavolo apparecchiato per due con la cena preparata dalla governante.
Alcune ore dopo, mentre giaceva sul letto della camera di Asami, con la ragazza che dormiva abbracciata a lui e con la testa posata sul
suo petto, la sua mente gli ripresentò quell'altro corpo, da lui stretto quel mattino. Esile, ma non privo di quelle morbide forme tipicamente femminili. Le gocce d'acqua che scorrevano
sulla sua pelle, i lunghi capelli biondi bagnati che, illuminati dal sole, brillavano come l'oro, gli occhi azzurri che lo guardavano comunicandogli qualcosa che lui aveva decifrato come
desiderio, o era stata la sua immaginazione a ingannarlo, facendogli vedere ciò che lui avrebbe voluto?
No, non poteva essere … non poteva avere già dimenticato lui.
Eppure era arrossita quando aveva tolto bruscamente le mani dal suo petto.
Come si sarebbero comportati se Misaki non fosse stato lì con loro?
Voltò la testa da un lato e chiuse gli occhi, cercando di vincere la tentazione di indulgere in quel pensiero e per impedire al
suo cervello di formulare una risposta che poteva metterlo in una situazione complicata da gestire, sia in relazione ai suoi sentimenti, sia nel rapporto con Asami ed Elena, e con la sua famiglia e
i suoi amici.
L'autobus rallentò in prossimità della fermata. Taro si alzò dal sedile, reggendo il borsone in una mano, e
afferrò un palo di sostegno con l'altra. Si avviò verso la porta d'uscita anteriore, davanti alla quale si erano posizionati un uomo anziano e una ragazza snella e di bassa statura,
con una cartella in mano. Una ragazza che gli sembrava di conoscere.
Dopo che furono scesi, lei voltò parzialmente il viso, confermando la sua impressione.
«Sugimoto! Non sapevo fossi qui.» disse, facendole avere un moto di stupore.
«Misaki!» rispose, allegra «Beh, devi essere salito qualche fermata dopo di me. Io vengo da Fuji, è stato il mio
primo giorno al tanki-daigaku.» spiegò, cercando di riportare alla regolarità i battiti del cuore che al solito, aveva cominciato a
galoppare.
«Com'è andata?» chiese, l'espressione sinceramente interessata.
«Bene. C'è stata la cerimonia d'apertura, sono stati presentati i corsi che frequenteremo. Ho conosciuto le mie future
compagne e penso che mi troverò bene.»
«Mi fa piacere.» rispose Taro «E il manga? Sei riuscita a terminarlo?»
«Sì, sto disegnando le ultime tavole. Per la fine del mese lo consegnerò.»
Dopo pochi minuti in cui avevano camminato affiancati, in silenzio, Kumi riprese la conversazione con una nuova domanda «Tu che hai
fatto di bello oggi? Sei abbronzato, profumi di salsedine. Sei stato al mare?»
«Indovinato.» sorrise «Ho incontrato Elena, era con la signorina Shiroyama e le sue allieve della scuola di ginnastica
artistica. Sta bene.»
«Sì? Sono contenta.» rispose, da un lato sinceramente sollevata dal sapere che l'amica si era ripresa, dall'altro
cercando di ignorare la sensazione di fastidio provocatale dal fatto che Misaki l'avesse incontrata. Lei con ogni probabilità, indossava un costume da bagno. Alta e bionda, con un corpo
snello e flessuoso, modellato da anni di ginnastica. Così doveva averla vista.
Chiuse gli occhi, imponendosi di non pensarci. In ogni caso, lei era impegnata con gli allenamenti, non poteva essere successo nulla tra
loro. E poi, Elena pensava ancora al suo ex fidanzato.
Non doveva rovinare così le poche occasioni che aveva per parlare con Misaki e non voleva nemmeno provare sentimenti negativi
verso la giovane italiana. Decise così di raccontargli quello che aveva fatto e visto durante quella giornata.
Taro sembrava interessato al suo racconto e aveva riso quando si era soffermata su alcuni episodi divertenti.
La compagnia di Kumi era davvero gradevole e non era nemmeno la prima volta che si soffermava a considerarlo. Raramente avevano
interagito quando si erano conosciuti nell'ultimo anno, per lui, di liceo, in cui lei era entrata nel gruppo delle manager.
Solo in quei mesi avevano cominciato a entrare, seppur lentamente, in confidenza. Sentiva il desiderio di parlare ancora con lei e di
conoscerla meglio. Invitarla a mangiare un okonomiyaki poteva essere una buona idea.
«Sugimoto …»
«Sì?»
«Kumi, sei arrivata? Dai, raccontami tutto!» la voce squillante di una bella donna dai capelli castani affacciata alla
finestra, molto somigliante alla ragazza, impedì a Taro di aprir bocca. Misaki scoprì così di essere giunto davanti a casa di Kumi.
«Ciao mamma. Arrivo subito.» poi si voltò verso Taro, ricordandosi che lui l'aveva chiamata.
«Cosa mi stavi dicendo, prima?»
«Scusami?»
«Stavi per dirmi qualcosa, prima che la mamma mi chiamasse.» gli spiegò, con un'espressione un po' perplessa.
«Beh …» mormorò preso alla sprovvista, facendo vagare lo sguardo ovunque tranne che su Kumi, stupita dal canto
suo da quella reazione «Spero di vederti allo stadio con gli altri ragazzi, a tifare per noi.» riuscì infine a trarsi d'impaccio.
Kumi strizzò gli occhi e sorrise «Non c'è dubbio su questo! Saremo sempre al vostro fianco!» affermò
varcando il cancello del suo giardino e una volta entrata, lo salutò agitando una mano.
Taro sorrise e alzò un braccio, e si incamminò verso casa.
***Note***
Miho no Matsubara: chiamata anche
semplicemente Miho, è una località balneare della prefettura di Shizuoka. Si trova sulla parte occidentale della baia di Suruga, a poca
distanza dalla città capoluogo e a circa cinquanta miglia dal Monte Fuji. Da questa spiaggia, lunga sette chilometri e circondata da una pineta, è possibile godere di una
suggestiva vista del vulcano simbolo del Giappone.
Faito!: è la pronuncia giapponese dell'esortazione inglese Fight!, molto usata nell'ambiente sportivo, durante gli allenamenti e le gare. È un incitamento a fare del proprio meglio ed è analogo al giapponese
Ganbatte!.
Fonte: jref.com
Okonomiyaki: composto dalle parole
okonomi (ciò che vuoi) e yaki (alla griglia), è un piatto agro-dolce giapponese che ricorda nella forma
il pancake americano. Vi sono diverse varianti di questa specialità, fra le quali è popolare quella cucinata nella regione del Kansai. L'origine di questa pietanza è contesa
tra la città di Osaka e quella di Hiroshima.
L'impasto comprende, tra i vari ingredienti, fettine di foglie di verza, acqua, farina di grano e uova. Vengono aggiunti, a seconda dei
gusti, carne, seppie, gamberetti, e altro. Solitamente viene cucinato negli appositi ristoranti su una piastra calda chiamata teppan.
Fonte: Wikipedia
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Capitolo 12 *** Capitolo XII - Anima in conflitto ***
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Capitolo XII
Anima in conflitto
Kumi camminava in direzione del complesso sportivo Shiroyama con passo spedito.
Era appena uscita dall'agenzia viaggi dove aveva acquistato i biglietti per la trasferta che lei e Yukari stavano progettando da qualche
settimana, all'insaputa di Elena, allo scopo di non lasciarle alcuna possibilità di rifiutare.
Quando entrò nella palestra, vide l'italiana in piedi su una trave, dove si stava apprestando a eseguire un elemento acrobatico.
Compì due rovesciate all'indietro e un salto del cosacco, per poi eseguire alcuni elementi coreografici, seguiti da una breve rincorsa e un'enjambée, con la quale raggiunse
l'altra estremità dell'attrezzo. Si voltò, inspirò e prese un'altra rincorsa, al termine della quale eseguì un salto in avanti raccolto, con il quale concluse
l'esercizio, atterrando sul tappetino con un passetto di troppo.
Fece una smorfia. Le uscite erano sempre state il suo punto debole. Avrebbe dovuto lavorarci ancora per eliminare le sbavature.
«Ehi, bell'esercizio!» gridò Kumi, battendo le mani.
Elena, che nel frattempo aveva cominciato a togliersi i polsini, sollevò la testa e le sorrise. «Grazie Kumi, troppo buona.
In realtà c’è molto da migliorare.»
L’ex manager alzò le spalle «Io riesco a malapena a fare le capriole.» ridacchiò e anche Elena lo fece,
di rimando.
L’italiana si esercitava ogni mattina nella palestra, dopo le lezioni di giapponese. Il suo obiettivo era riprendere le parallele,
e aveva fatto i primi timidi tentativi.
«Questo è per te.» disse, tendendole un cartoncino rettangolare.
«Un biglietto per Sydney?» chiese stupita rigirandolo tra le mani, dopo aver visto il nome della città australiana
stampato sopra.
«Esatto! E con noi partirà anche Yukari. Andremo a vedere Australia-Giappone. È una gara decisiva, contro una squadra
ostica, e i ragazzi avranno bisogno di tutto il sostegno dei loro tifosi. Coincide con la Golden Week, quindi saremo libere da impegni scolastici e di
lavoro. Non hai scuse!»
Elena scosse la testa «Qui alla palestra Shiroyama si lavora tutti i giorni.»
Kumi sbuffò e puntò i pugni sui fianchi «Uffa! Sempre lavoro e ginnastica. Non pensi e non parli d'altro, ma come fai
a non stancarti? Hai bisogno di una pausa, te lo dico io. Un breve soggiorno nella calda Australia e una partita della nostra amata Nazionale di calcio.» disse, con un tono che le ricordava
gli speaker dei programmi dedicati a suggestive mete turistiche e che la divertì.
«Prima devo parlarne con la signorina Shiroyama. Siamo in piena preparazione, non so se è un bene che io mi prenda una
vacanza proprio adesso.» ribadì, ma con un tono meno convinto di prima.
Kumi liquidò quell’obiezione con un gesto «Sono certa che non si opporrà. Smettila di fare il sergente e
presentati alla fermata del bus dopodomani mattina! Guarda che ci conto! Ciao! E porta con te un costume da bagno e un abito per la sera!» cinguettò infine, uscendo dalla palestra.
Elena guardò il vano della porta da cui era sparita la sua amica, con occhi spalancati «Sergente? Ma sentila …»
borbottò, dando un'altra occhiata al biglietto. Alzò le spalle, divertita suo malgrado, e lo depose nel suo borsone, prima di iniziare un'altra serie di esercizi.
Erano passati venti giorni dall’ultima volta in cui aveva visto i ragazzi.
Il Giappone aveva cominciato con un mezzo passo falso, pareggiando contro l'Arabia Saudita del fortissimo libero Al Owairan per 1-1 a
causa di una sciagurata autorete di Ishizaki, ma poi aveva vinto agevolmente la gara contro il Vietnam e ora si apprestava a concludere le partite di andata affrontando la principale contendente al
primo posto: l'Australia. Una squadra forte, composta in gran parte da calciatori militanti nei principali campionati europei, e guidata da un c.t. di grande esperienza internazionale come Giis
Coleman.
Le atlete dello Shiroyama Gymnastics Club si erano classificate al primo posto alle regionali, qualificandosi così per le
Nazionali juniores.
Come previsto e auspicato, Arimi si era rivelata il valore aggiunto della squadra, incantando i giudici ed entusiasmando il pubblico,
tanto che i quotidiani della prefettura le avevano dedicato diversi articoli.
E ora avevano poco più di un mese davanti a sé per allenarsi.
«Non preoccuparti Elena. Non ho obiezioni.» le assicurò Mayuko.
«Ma dobbiamo preparare le Nazionali juniores …»
L'istruttrice scosse la testa «Per tre giorni non sarà certo la rovina della preparazione! Anzi, una breve pausa farà
bene a tutte, tanto che anch'io ho deciso di dare due giorni di libertà alle nostre ragazze. E l'ultimo giorno, mi aiuterà Satoru. Tu parti pure per Sydney e tifa per i nostri
calciatori.» disse, strizzandole un occhio.
«Mayuko era fin troppo rilassata. Sembrava sapesse già tutto.» confidò Elena a suo zio, una volta a casa,
mentre prendeva degli spaghetti al pomodoro da una terrina e li passava sul suo piatto.
«Le ho parlato io.» le disse Carlo, mettendole una mano su una spalla.
«Ah, ora si spiega tutto.» replicò, mettendo un finto broncio «Pensi che sia il caso?» gli chiese, ancora
dubbiosa.
«Ma certo. Anzi, un diversivo ti farà bene. Sei troppo presa da questi campionati e potresti arrivare a trasmettere ansia
alle ragazze, anziché motivarle. Tre giorni di distacco faranno bene a tutti.»
Elena rifletté un attimo, pensando all’appellativo di “sergente” scherzosamente affibbiatole da Kumi e alla
considerazione di Mayuko sull’opportunità di prendersi una pausa. Non avevano tutti i torti, effettivamente.
«E tu, come ti senti? Tra poco tocca a te.»
Carlo piegò le braccia e mostrò i pugni, nel classico gesto di vittoria dei pugili «Io mi sento in piena forma, sono
motivato come ai tempi delle prime gare.»
«Ma pensi andrà tutto bene contro un kickboxer di venticinque anni, campione in carica?»
Carlo annuì con convinzione «Mi sto allenando con il massimo impegno, posso ancora dare del filo da torcere a
chiunque.»
Elena annuì e sorrise. Suo zio era davvero lo stesso appassionato combattente di sempre. «Sarò da poco tornata in
Giappone e immagino che il lavoro riprenderà. Guarderò il tuo match in tv.»
«E io tra tre giorni parto per Tokyo. Vedrai che non sfigurerò.»
Genzo uscì dal bagno della stanza dell'albergo in cui alloggiava con la Nazionale da un paio di giorni, sfregandosi i capelli
appena lavati con un piccolo asciugamano.
La sua relazione con Asami andava avanti: si frequentavano, uscivano insieme, andavano al cinema o a teatro, o in qualche locale a
ballare. E poi a casa di lei. Trascorrevano la notte insieme, parlavano dei rispettivi progetti per il futuro. Asami aveva le idee molto chiare: entro il marzo dell'anno successivo si sarebbe
laureata in Lettere e Filosofia e avrebbe svolto un lavoro coerente con il titolo di studio conseguito. Non gliel'aveva ancora confidato apertamente, ma aveva fantasticato spesso su quanto sarebbe
stato bello trasferirsi con lui in Germania o in Inghilterra o in qualsiasi altro Paese avesse deciso di giocare. Vivere stabilmente con lui, accompagnarlo nelle occasioni ufficiali … era la
vita che sognava.
Genzo invece, si era reso conto che i suoi pensieri sul futuro avevano per protagonista sé stesso, ma non prevedevano
necessariamente la presenza di Asami.
Stava bene tra le sue braccia, a contatto con il suo bellissimo corpo, i suoi lunghi capelli di seta, il suo profumo. Ma … sentiva
che nulla stava realmente progredendo tra di loro, dalla prima notte trascorsa insieme. E lui non sapeva se voleva un futuro con lei, se era davvero la donna che voleva accanto a sé.
Il pensiero di Elena si affacciava di tanto in tanto alla sua mente. Non l'aveva più vista dal loro ultimo incontro a Miho no
Matsubara e non l'aveva nemmeno più sentita al telefono.
Aveva salvato nella memoria del suo smartphone l'articolo del quotidiano sportivo che Carlo gli aveva inviato. Era la notizia della
vittoria dello Shiroyama Gymnastics Club alle regionali di Hamamatsu, con Arimi che aveva ottenuto i punteggi più alti nell'all-around, alla trave e al corpo libero, mentre il volteggio e le
parallele erano state vinte da Mitsuyo, con ottimi piazzamenti per Shinobu, Emi e Hanako.
Il pezzo era corredato da una foto che ritraeva le cinque vincitrici, con Mayuko, Elena e Satoru Tanisaka, uno dei collaboratori, dietro
di loro. Le loro espressioni erano piene di orgoglio ed euforia.
L'aveva chiamata più volte per complimentarsi, ma non aveva ricevuto risposta. E questo l'aveva contrariato più di quanto
avrebbe voluto ammettere.
L'aereo della Japan Airlines atterrò all’Aeroporto Internazionale “Kingsford Smith” in una mattinata soleggiata
e calda.
Dopo aver scaricato i bagagli e compiuto le procedure di sbarco, le tre ragazze salirono su un taxi, che le portò all'albergo in
cui avevano prenotato una stanza.
«Che ne direste di farci un giro per la città? C'è tanto da vedere e manca ancora molto tempo all'ora di pranzo. Ci
conviene cominciare subito!» propose Yukari dopo che tutte si furono sistemate, incontrando il consenso delle due amiche.
A bordo di un autobus, attraversarono l'Harbour Bridge e visitarono il quartiere antico di The Rocks e Sydney Cove.
In Australia era autunno, ma la giornata era soleggiata e abbastanza calda da consentire di indossare un paio di pantaloni di cotone e
una maglietta leggera.
Pranzarono in un ristorante della zona, per poi trascorrere il pomeriggio a Bondi Beach, ripromettendosi di osservare più da
vicino l'Opera House il giorno dopo.
Le tre ragazze persero il conto delle foto che avevano scattato insieme, in tutti i posti che avevano visitato.
Elena scorse le immagini memorizzate nella card della sua fotocamera. Nuove bellissime immagini da inviare e che avrebbero riempito il
cuore dei suoi genitori.
«È questo il locale che ha nominato Kira?» chiese Nitta, indicando il grosso stabile di fronte a loro e l'insegna a
sgargianti luci colorate intermittenti che mostrava la scritta "Aussie Nihon". La temperatura era mite e miriadi di stelle punteggiavano il cielo blu cobalto. Sembrava una serata di tarda
primavera.
«Sì. Non so come faccia a conoscerlo, ma deve essere proprio questo.» rispose Wakashimazu.
La comitiva della Nazionale giapponese Under 23 era al completo. Persino Gakuto Igawa aveva accettato di unirsi al gruppo, comunque
impossibilitato a trascorrere la serata con la sua amata figlioletta Lisa, rimasta in Giappone con lo zio Hayato e la sua famiglia.
I ragazzi entrarono nel locale, trovando una folla consistente e cominciarono pazientemente a farsi strada.
«Voi siete i calciatori della Nazionale Under 23!» li approcciò un corpulento uomo di mezzo età alto e con i
capelli neri, ma con inequivocabili lineamenti orientali.
«Ah, ci conosce?» chiese Soda, con un largo sorriso.
«Certo! Seguo il calcio e inoltre ho l'onore di conoscere personalmente il vostro c.t.»
«Ecco perché ci ha segnalato questa discoteca.» disse Sorimachi.
«Proprio così. Mi presento: sono Jotaro Wright, il proprietario e gestore, ma potete chiamarmi semplicemente Joe, come fanno
tutti.»
Genzo fece un mezzo sorriso. Il nome denotava un'origine giapponese dalla parte materna.
I suoi genitori dovevano aver fatto come Hiroji e Annie: lui deciso a dare al loro primogenito un nome giapponese, lei propensa verso uno
inglese, alla fine avevano optato per "Kenichi", in modo da poterlo abbreviare con "Ken".
«Lo conosce da molto tempo?» chiese Matsuyama.
Jotaro annuì «Mio padre è un suo vecchio amico, e anch'io lo sono. Ogni tanto torno in Giappone a far visita ai miei
nonni ormai ultracentenari, e incontro anche lui. È grazie a mio padre che Kozo ha scoperto l'amore per il calcio. A proposito, perché non è qui con voi? Lui adora il sake, e
quello del mio pub è ottimo.»
«Forse è proprio questo il motivo: ha promesso che si asterrà dal bere qualsiasi bevanda alcolica fino al termine
delle Olimpiadi.» spiegò Wakashimazu.
«E ci ha detto che se torniamo all'albergo ubriachi ci prenderà a bastonate sul sedere.» soggiunse Sawada.
Joe scoppiò a ridere «Tipico di Kozo.» poi si ricompose «Tranquilli, posso servirvi anche ottime bibite a
ridotto tasso d'alcool. Non avete che da ordinare ciò che più vi piace.»
Poco distante, Yukari, Elena e Kumi, ignare dell'arrivo dei ragazzi, stavano chiacchierando davanti alle loro birre appena servite.
Era stato Ryo a segnalare a Yukari quel locale, per far sì che i due gruppi potessero incontrarsi. Quest'ultima aveva raccontato
di aver scelto spontaneamente dopo aver letto una recensione su Internet, per vedere come le due amiche avrebbero reagito nel vedere arrivare i giocatori della Nazionale. Lei e Ryo si erano infatti
convinti che entrambe nutrissero una particolare simpatia per due di loro in particolare.
Elena posò il piccolo boccale sul ripiano del banco, dopo averne bevuto un sorso.
Quella birra era migliore di quanto si era aspettata.
Erano mesi che non metteva piede in una discoteca: dalla sera in cui Shiori l'aveva affrontata e accusata. Da allora il loro rapporto si
era definitivamente interrotto e lei aveva praticamente smesso di uscire.
In quel momento una canzone terminò, e dopo una breve pausa ne iniziò un'altra.
Attacco inconfondibile.
«Questa canzone non la sento da secoli.» disse, alzandosi dallo sgabello «Io vado in pista.»
«Io rimango qui, magari vengo dopo.» declinò Yukari «Tu vai pure, Kumi.» disse, strizzandole un
occhio.
La ragazza esitò, poi decise di seguire Elena. Aveva una gran voglia di scatenarsi. E poi erano in un Paese straniero, nessuno le
conosceva.
«Ehi Ishizaki, che ti prende? Hai il torcicollo?» lo canzonò Masao Tachibana, vedendo che il difensore stava
allungando il collo in tutte le direzioni.
«Macché, sto cercando Yukari. Le ho detto che saremmo venuti qui. Spero non si sia messa a ballare con qualche
bellimbusto.» disse, rivolgendo frequenti occhiate ai numerosi ragazzi che affollavano il locale, alcuni dei quali fin troppo bellocci e muscolosi per i suoi gusti.
«Magari è appoggiata al bancone.» suggerì Morisaki.
«Lo spero per lei e per il tizio, chiunque sia.» replicò Ryo, provocando dei risolini divertiti nei suoi compagni,
invero più interessati ad adocchiare qualche bella australiana che non avrebbero disdegnato di approcciare.
Dopo essersi fatti strada tra una folla di avventori intenti a danzare o a bere, raggiunsero la zona del bancone e, dopo un po',
riuscirono a individuare Yukari, seduta su uno sgabello, con una bibita appoggiata sul ripiano e mentre osservava con un'espressione divertita la pista da ballo, dondolando la testa al ritmo della
musica.
«Come mai sei qui tutta sola soletta?» esordì Ryo, sedendosi accanto a lei.
Dopo un attimo di sorpresa, Yukari si appoggiò al bancone, guardandolo con occhi ridotti a due fessure «Forse perché
aspettavo il tuo arrivo, scioccone.»
«Sei sempre così dolce.» replicò il difensore, alzando gli occhi al cielo.
«Dai vieni, che ci scateniamo!» disse poi, afferrandole un braccio e trascinandola sulla pista.
«Ehi, ma quelle non sono le nostre due capotifose?» chiese Kisugi, facendo cenno con il mento alle due ragazze che stavano
ballando al centro della pista.
Genzo e Taro si voltarono nello stesso momento e rimasero di stucco.
Elena e Kumi stavano ballando … ed erano scatenate!
Sembrava stessero facendo a gara a chi si muoveva di più. Ogni tanto si scambiavano sguardi d'intesa e avevano l'aria di
divertirsi un mondo.
Genzo non staccava gli occhi da quella massa di capelli biondi che dondolava al ritmo incontenibile, ma dai movimenti aggraziati di quel
corpo esile e flessuoso. Gli occhi chiusi, l'espressione di gioia e vivacità. Anche Kumi lo stupì. L'aveva sempre considerata una ragazza vivace ed espansiva, ma non l'aveva mai vista
scatenarsi in un ballo. Guardò Taro, e appurò che anche lui stentava a distogliere gli occhi da quella zona della pista.
Si chiese se i suoi pensieri fossero simili ai suoi e su quale delle due ragazze era puntata la sua attenzione.
La canzone terminò. Elena smise di ballare e si passò una mano sui capelli. Posò l'altra sul petto, per cercare di
calmare i battiti frenetici. Anche Kumi aveva una mano sul petto, e gli ansiti e la gola secca le impedivano quasi di parlare.
«Vado … a bere …qualcosa …» biascicò, tra un ansito e l'altro.
«Vengo con te.» disse Elena che, maggiormente abituata allo sforzo fisico, aveva quasi ripreso il suo tono di voce normale.
Raggiunsero insieme il bancone, che nel frattempo si era riempito di loro conoscenze.
«Ehi Taro! Ciao!» gridò, alzando un braccio verso il centrocampista «Che combinazione!»
«Pare che il proprietario del locale sia un grande amico di Kira. E così eccoci qua.»
La ragazza assentì e si accomodò accanto a lui, mentre Kumi, dopo averlo salutato, si fermò sull'altro lato. Taro si
trovò così seduto tra le due. Osservò l’ex manager con ammirato stupore. Indossava un corto abito azzurro smanicato, con scollatura a barchetta. Era un vestito che
valorizzava la sua bellezza ancora acerba, ma evidente grazie anche ai suoi capelli, sciolti sulle spalle.
Elena si sedette proprio sullo sgabello accanto al quale era appoggiato Genzo, che si era spostato poco prima, proprio per lasciarle
libero quel posto. Lei, euforica e intenta a parlare con Taro, non aveva ancora notato la sua presenza.
La osservò, prima di rivolgerle la parola. I capelli erano leggermente arruffati per via della danza sfrenata, e le guance erano
arrossate. Indossava una maglietta viola con una scollatura che lasciava intravedere le clavicole, sopra una corta gonna nera, che scopriva le gambe lunghe e snelle.
«Ciao.»
Se lo ritrovò davanti, senza aspettarselo minimamente. La sua giacca nera lasciava intravedere una maglietta grigia sotto cui
erano visibili le linee dei pettorali. Sorrideva, facendole capire che l'aveva vista mentre ballava. Avvertì il cuore batterle più forte.
«Genzo … ciao.» ricambiò il saluto, riprendendosi «Non mi aspettavo di trovarti qui.»
«Il coprifuoco scatta da domani.» replicò con ironia.
«Ti avevo telefonato per farti i complimenti, ma non hai mai risposto.» aggiunse, appoggiandosi di lato, per guardarla meglio
in viso. Il suo atteggiamento era lo stesso di sempre, ma il suo sguardo … le sembrava diverso … penetrante, quasi indagatore.
«Sì … avevo visto le notifiche ma poi mi sono dimenticata di richiamare. È stato un periodo denso. Ti
ringrazio adesso.» rispose, cercando di ignorare quell'inspiegabile senso di agitazione che avvertiva.
Genzo fece un cenno d'assenso.
In quel momento cominciarono a diffondersi le note di un brano strumentale. Un lento.
«Ti piace soltanto scatenarti, o balli anche i lenti?»
«Che cos'è, un invito?»
Lui annuì «Se ti va.»
Elena fece un cenno d'assenso, scivolò dallo sgabello e gli porse la mano, che lui imprigionò nella sua, conducendola poi
sulla pista.
Genzo le mise una mano dietro la schiena, e le prese la mano destra con l'altra.
Lei gli passò un braccio attorno al fianco, posando la sua mano sinistra all'altezza della scapola. Posò il mento su una
sua spalla e chiuse gli occhi. Era una bella sensazione. Il suo profumo, l'essere stretta al suo corpo solido e imponente. Sì, una bella sensazione … come quella provata alla spiaggia
di Miho.
«Il Bayern Monaco è pronto a offrire non ricordo quanti milioni di euro per averti dalla prossima stagione.» gli
disse, per scacciare i pensieri pericolosi che si stavano affacciando alla sua mente.
«Sai che non ne parlo.»
«D'accordo … però mi piacerebbe vederti giocare nel Bayern. E sarei curiosa di vederti nei giorni dell'Oktoberfest, vestito con il classico costume bavarese.»
A Genzo balenò in mente l'immagine di Karl Heinz Schneider e Shunko Sho vestiti con il famoso Lederhosen e accennò una risata «Attenta. Rischi di darmi un motivo per non andarci.» rispose, facendo ridere anche lei.
Il suo respiro le sfiorava la tempia e l'orecchio. Elena avvertì dei brividi lungo la schiena. E nessuna voglia di staccarsi da
quel ragazzo. Erano sensazioni che non aveva più provato da mesi, e che Genzo le stava facendo riscoprire.
«Qual è il progetto che ti intriga di più?»
«Al momento non lo so. Saranno diversi fattori a determinare la decisione.»
«Competitività della squadra, ingaggio, modo di giocare dell'allenatore …» cominciò a elencare
Elena.
«Certo, ma non solo. Si valuta la situazione della squadra, ma ha un peso anche la città in cui si andrà ad
abitare.»
«Io posso parlare per Monaco e Roma. Sono due città bellissime, non ti annoieresti a visitarle e a scoprirle. E la gente
è generalmente cordiale e amichevole.»
«I tifosi del Bayern dovresti conoscerli bene.» aggiunse poi, con un sorriso «Quelli della Roma sono molto aperti,
calorosi. Amano la squadra in modo viscerale, al punto che molti lo considerano perfino eccessivo. Ti accoglierebbero in pompa magna, come un eroe. Ma credo che il tuo arrivo sarebbe gradito
ovunque.»
«E tu dove ti vedi, tra qualche mese?» le chiese lui, cambiando apparentemente discorso.
L’aveva leggermente scostata da sé e ora la stava guardando, attento.
Si sentì accaldata dal collo in su, e combattuta. Avrebbe voluto che Genzo non la guardasse così, ma allo stesso tempo
trovava piacevoli quei brividi, provocati da quei due pozzi neri cui si sentiva avvinta.
«Sono tentata dall'andare a studiare a Monaco. Ma Roma è la città in cui vivo.» mormorò.
Lui non disse nulla, ma sembrava voler leggere dentro quelle iridi azzurre.
Elena deglutì. Erano troppo vicini al livello di guardia ….
Si affrettò a distogliere lo sguardo e posò la testa sulla sua spalla, gli occhi leggermente umidi e un cuore che sembrava
impegnato in una lotta ardente contro la ragione e contro i suoi ricordi.
Genzo chiuse gli occhi.
Nel suo petto, si agitava una tempesta alla quale non era minimamente preparato.
Taro e Kumi osservavano le danze, e i loro occhi cadevano inevitabilmente, per motivi diversi, sulla coppia formata da Genzo ed
Elena.
Misaki aveva un'aria perplessa e preoccupata. Wakabayashi stava giocando con il fuoco. Aveva notato da diverso tempo l'inclinazione che
il portiere sembrava avere verso Elena. Gli sguardi che le lanciava durante le partitelle al campo comunale che nessuno sembrava aver notato ma che a lui non erano sfuggiti, le attenzioni che ogni
tanto le dedicava e che era così facile mascherare da atti di generosità e semplici manifestazioni d'amicizia, il modo in cui l'aveva guardata quando se l'era ritrovata tra le braccia
alla spiaggia di Miho e mentre si scatenava con Kumi.
Era evidente, ai suoi occhi, che Genzo provava una forte attrazione verso Elena.
Non ci avrebbe visto nulla di strano né di indesiderabile, se non fosse stato per la particolare situazione di entrambi. Elena
usciva da una storia che lei ancora non considerava conclusa, Genzo frequentava ufficialmente la figlia di una delle famiglie più in vista del Giappone.
Ben tre persone rischiavano di soffrire, sicuramente almeno una di loro ne avrebbe fatto le spese. E sia Wakabayashi sia Elena avrebbero
dovuto presto affrontare i loro sentimenti e fare chiarezza nei loro cuori.
Nel frattempo, un bel ragazzo alto e robusto, dai corti capelli scuri, si avvicinò a Kumi e le chiese di ballare.
La ragazza, dopo un attimo di esitazione, accettò e si lasciò condurre sulla pista da ballo.
«Come hai detto che ti chiami?» le chiese il giovane, mentre cominciavano a muoversi al ritmo della musica.
«Non te l’ho ancora detto. Comunque, mi chiamo Kumi.»
«Kumi ... è un bel nome. Semplice e dal suono gradevole.»
«Grazie.» rispose, guardandolo con un sorriso. Era davvero un bel ragazzo. I lineamenti erano decisi, ma privi di asprezza, e
aveva un sorriso amabile. «E tu come ti chiami?»
«Steven.»
«Anche il tuo è un bel nome.» mormorò, posandogli la testa sul petto.
Continuarono a muoversi in sintonia con la musica. Poi accadde qualcosa di stonato … come se all'improvviso la sinfonia si stesse
tramutando in una progressione di suoni aspri e cacofonici.
Kumi avvertì la mano di Steven, fino a quel momento posata sulla sua schiena, cominciare a scendere piano, sfiorandole il
fondoschiena.
Trasalì e spalancò gli occhi.
«Sai Kumi … sei veramente carina … piccolina, ma con uno splendido corpo.» le sussurrò con le labbra
vicine all'orecchio, mentre la mano passava ad accarezzarle un fianco, per poi scendere di nuovo fino a infilarsi sotto il vestito, nel tentativo di toccare una coscia.
«No» disse, scostando la sua mano dalla gamba «Così non va bene.»
«Andiamo, piccola. Voglio solo divertirmi un po’. Pensavo di piacerti.»
«Prima di cominciare a toccarmi e dire queste cose, sì.» ribatté, cercando di divincolarsi «Ma
così mi fa schifo.» lo fissò, dura.
Ma Steven non aveva nessuna intenzione di lasciarla andare. Rise, in un modo che le fece spalancare gli occhi e rabbrividire per
l'orrore.
«Non fare la preziosa, adesso. Che ti aspettavi, di incontrare il principe azzurro?» sibilò, afferrandole i polsi in
una presa salda.
«Lasciami! Voglio tornare dai miei amici.» sbraitò, strattonando con tutte le sue forze, ma lui la sovrastava
fisicamente. Non sarebbe mai riuscita a liberarsi.
«Lasciami andare!» gridò più forte, con voce rotta.
I pensieri di Taro vennero interrotti da un urlo disperato proveniente dalla zona vicina alle toilette, che lo fece voltare.
Kumi, tenuta per un braccio dal ragazzo che l’aveva invitata a ballare, cercava disperatamente di divincolarsi.
«Ehi!» gridò, correndo verso di loro. Steven si voltò di scatto.
Il cuore di Kumi perse un battito. Spalancò gli occhi, incredula. Qualcuno era corso ad aiutarla … ed era Misaki!
«Lasciala. E subito.» gli intimò, con occhi torvi, le braccia tese lungo il corpo, le mani strette a pugno.
«Oh, ecco che arriva l'eroe. Ma sei un po’ troppo smilzo per me, giapponesino.» lo sbeffeggiò, squadrandolo.
«Ti consiglio di non sottovalutarmi.» sibilò il centrocampista, avanzando verso di lui.
Steven ridacchiò, sprezzante «Ti stenderò in un attimo.» disse, lasciando il braccio di Kumi. Si lanciò
verso Taro, con il braccio teso, pronto a sferrare un pugno.
Il ragazzo riuscì a schivarlo e Steven si fermò giusto in tempo per non andare a sbattere contro la parete.
Imprecò e prese nuovamente la rincorsa.
Prima che potesse colpirlo, Taro gli sferrò un calcio su uno stinco, facendolo cadere con uno strido di dolore.
Steven rimase a terra e imprecò digrignando i denti e tenendosi la gamba.
Il calciatore si voltò e vide Kumi addossata alla parete, da cui aveva assistito allo scontro, tremante, con occhi pieni di
spavento e di apprensione.
Le si avvicinò.
«Sugimoto, tutto bene?»
«Sì … adesso sì.» sussurrò, con un lieve sorriso.
Lui le si avvicinò ancora, con uno sguardo pieno di dolcezza e di empatia.
«Maledetto bastardo ... » bofonchiò una voce, dietro di loro.
«Attento!» gridò Kumi, vedendo Steven che stava tornando alla carica, cogliendo Taro impreparato.
Ma la sua corsa venne fermata da un diretto in piena faccia che lo spedì a terra, tramortito.
«Speravo di non dovermene servire per occasioni come questa.» disse Genzo, scrollando la mano, mentre Elena corse verso Kumi
e le mise le mani sulle spalle, mormorandole alcune parole di conforto, per poi abbracciarla.
Taro espirò dopo aver trattenuto a lungo il fiato, guardando Steven a terra, esanime. «Giusto in tempo,
Wakabayashi.»
«Io ed Elena abbiamo sentito le grida di Sugimoto e siamo corsi a vedere cosa succedeva.» spiegò, mentre guardava le
due ragazze, ancora abbracciate.
Nel frattempo si era formato un capannello di ragazzi, attirati dalle grida e dal successivo scontro.
Arrivò anche Joe, facendosi spazio.
«Che sta succedendo qui?» chiese, guardando il ragazzo a terra, poi Taro, Genzo e infine Kumi ed Elena. Il gruppo venne
raggiunto da Yukari, che mormorò qualcosa a Kumi e le passò un braccio attorno alla schiena, accarezzandola per darle sostegno.
«Quel verme» iniziò Taro, additando con disprezzo Steven «stava molestando questa ragazza.» spiegò,
indicando Kumi «L’ha palpeggiata e ha cercato di trascinarla con sé nei bagni.»
Jotaro, dopo aver ascoltato inorridito e pieno di sdegno, si avvicinò a Steven, lo afferrò per la collottola della
maglietta sollevandolo da terra, e poi per il colletto, guardandolo con una furia omicida.
«Cosa credevi di fare, delinquente?» gli fiatò addosso «Ti denuncio! Feccia come te non deve mettere piede nel
mio locale! Portatelo via.» disse, rivolto a due addetti alla sicurezza, che afferrarono il ragazzo ognuno per un braccio e lo trascinarono verso l'uscita del locale.
«Signorina, sono desolato per quello che le è successo.» disse poi, rivolto a Kumi.
«Anch’io, signore. All'inizio, sembrava un tipo a posto.» mormorò.
Joe si mise le mani sui fianchi e sospirò.
«Episodi come questo accadono raramente nel mio locale. Purtroppo c'è sempre qualche lupo che gira travestito da
agnello.»
«Era gentile. Poi ha improvvisamente cominciato a fare discorsi allusivi e a mettermi le mani addosso. Sembrava una trasformazione
da Jekyll a Hyde.»
Elena fece una smorfia «Fanno sempre così, è la loro tattica.»
«Già, per adescare la loro preda.» commentò Ishizaki, con un'espressione disgustata.
«Tutto bene, Kumi?» fu la domanda che si sentì rivolgere dagli altri ragazzi che le si fecero attorno sinceramente
preoccupati, soprattutto quelli del gruppo di Nankatsu.
Le fece piacere la partecipazione dei ragazzi, anche se in quel momento, più di tutto avrebbe voluto le attenzioni di uno di loro
in particolare. Quel ragazzo che l’aveva guardata pieno di premura e che forse l'avrebbe rincuorata con un abbraccio.
Come se le avesse letto nel pensiero, Taro le fu di nuovo accanto «Forse un po’ di colpa ce l’ho anch'io. Se ti avessi
chiesto di ballare ...»
Kumi alzò la testa e lo guardò, con un sorriso.
«Mi sarebbe piaciuto.» gli rispose, quasi senza rendersene conto. Taro la guardò, con un lieve sorriso.
«Ehi ragazzi, è quasi mezzanotte! Meglio se torniamo in albergo.» li avvisò Wakashimazu, picchiettando con un
dito sull'orologio da polso.
«A domani allora.» disse nuovamente Kumi.
Taro annuì e dopo aver salutato Elena e Yukari, si avviò fuori dal locale, con i suoi compagni.
«Elena … Wakabayashi ci sta salutando con la mano.» disse Yukari, notando che l’amica non aveva più
alzato la testa verso i ragazzi, apparentemente concentrata su Kumi, che aveva ricambiato il gesto del portiere.
La giovane sollevò lo sguardo solo dopo alcuni secondi, puntandolo in avanti, dove i ragazzi erano tutti di spalle, ormai nei
pressi dell’uscita, poi lo abbassò di nuovo, senza parlare né cambiare espressione.
***Note***
Golden Week: detta anche Ōgata renkyū o Ōgon shūkan, è un'espressione giapponese che
definisce il periodo in cui cadono le seguenti festività pubbliche:
29 aprile, Shōwa Day (Showa No Hi), compleanno
dell'Imperatore Hirohito, istituita dal 2007
3 maggio, Festa della Costituzione (Kenpo Kinenbi)
4 maggio, Festa del verde (Midori No Hi) celebrata dal 2007
5 maggio, Festa dei bambini (Kodomo No Hi), detta anche Festa dei ragazzi (Tango No Sekku).
La canzone ballata da Elena e Kumi è "Hard to Beat" degli Hard-Fi, contenuta nell'album "Stars of CCTV" (2005). Questo è il
video, particolare nella sua semplicità. :-)
L'Oktoberfest (Festa d'ottobre, in
bavarese Wiesn) è un festival popolare che si tiene ogni anno a Monaco di Baviera negli ultimi due fine settimana di settembre e il primo di
ottobre.
È l'evento più famoso ospitato in città, nonché la più grande fiera del mondo, e vede ogni anno la
partecipazione dei giocatori, dell'allenatore e dei dirigenti del Bayern Monaco, spesso accompagnati dalle loro mogli e fidanzate, comunque tutti vestiti con i costumi tradizionali bavaresi: il
Dirndl (per le donne) e il Lederhosen (per gli uomini).
In questa foto, il difensore della squadra bavarese Mats Hummels con la moglie Cathy
all'ultimo Oktoberfest.
Fonti: Wikipedia e Oktoberfest.it
Eccoci … nel mezzo del cammin di questa storia. :-) Sì, perché i capitoli saranno
in totale 25 più l'epilogo, e salvo imprevisti verranno pubblicati con cadenza settimanale.
Ringrazio tutti coloro che seguono questa fanfiction … nonostante le apparenze, siete
tanti!
Chiunque voglia esprimermi la propria opinione, critiche costruttive comprese, anche in privato,
è il benvenuto.
Auguri a tutti di Buon Natale!
Sandie
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Capitolo 13 *** Capitolo XIII - Complicazioni ***
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Capitolo XIII
Complicazioni
Yukari guardò Kumi ed Elena, sedute accanto a lei sul sedile posteriore del taxi che le stava
portando allo stadio di Sydney.
Entrambe sembravano con la testa altrove.
La prima era ancora scombussolata dalla brutta esperienza vissuta la sera precedente, cui
solo l’intervento di Misaki aveva impedito di diventare qualcosa di ben peggiore.
Già, Misaki … non le era sfuggito il fatto che i due si erano ultimamente avvicinati.
Certamente il giovane centrocampista avrebbe affrontato quel bruto anche se a esserne in
balìa fosse stata un'altra ragazza, ma il modo in cui aveva guardato Kumi, prima di andarsene
dalla discoteca, tradiva molto di più rispetto a una mera sollecitudine.
La seconda probabilmente pensava a Wakabayashi. Avevano ballato insieme tutta la sera,
senza pause, ma aveva evitato di salutarlo, quando lui se n'era andato dal locale con i suoi
compagni di squadra.
Doveva essere accaduto qualcosa tra i due … o forse stava nascendo.
Tutti nella squadra erano al corrente della relazione tra il portiere e la giovane ereditiera Asami
Ujimori, figlia di amici di lunga data e spesso soci in affari dei Wakabayashi, tuttavia era noto
anche il fatto che il portiere prendeva lezioni di kickboxing dallo zio di Elena e quest'ultima
lavorava nello stesso complesso sportivo, e si era instaurata una certa confidenza, facilitata
anche dallo stretto legame con la Germania, una seconda patria per entrambi.
La giovane maestra d’asilo sorrise sorniona, guardando il sole che elargiva le ultime ore di luce
a quella giornata: erano mesi interessanti quelli in arrivo, e non solo perché erano in
programma le Olimpiadi.
Kumi sembrava essere rimasta, con la mente, alla sera prima.
Ogni tanto si massaggiava delicatamente le braccia, ancora doloranti per le pressioni e gli
strattoni di quel verme. Così l’aveva definito Misaki, con la sua voce carica di rabbia e di
disprezzo.
Misaki ...
Provava disgusto e angoscia nel ricordare le mani di quel molestatore percorrere
impudentemente il suo corpo, ma poi indugiava sul momento in cui il centrocampista era
intervenuto per difenderla, la determinazione e il coraggio con cui aveva affrontato
quell’energumeno che era più grosso di lui.
L’espressione dolce e preoccupata con cui si era sincerato delle sue condizioni continuava a
occupare i suoi pensieri. Si trastullava nel formulare ipotesi su cosa sarebbe accaduto se quel
bastardo fosse rimasto a terra anziché rimettersi in piedi e cercare nuovamente di colpirlo.
L'avrebbe abbracciata? Si sarebbe limitato a sfiorarle una spalla, per poi invitarla a tornare al
bancone?
Più di tutto, non si toglieva dalla testa il sorriso che le aveva rivolto dopo che lei, in uno slancio
di audacia che aveva sorpreso anche sé stessa, gli aveva confessato che avrebbe voluto
essere invitata a ballare da lui.
E ora aspettava con trepidazione di incontrarlo di nuovo: cosa si sarebbero detti, come
l’avrebbe guardata? Nemmeno con Tsubasa si era sentita così: perché la situazione era
diversa.
All’epoca della sua cotta per il capitano sapeva, dentro di sé, di non avere possibilità.
Con Misaki, aveva colto dei segnali che potevano indurla a sperare di aver suscitato qualcosa
in lui.
Ma non voleva forzare: preferiva lasciare che le cose seguissero il loro corso.
Diversi e molto più contrastanti erano i pensieri di Elena.
Si era addormentata associando la sensazione del lenzuolo che la copriva fino alla schiena
con quella che aveva provato quando le braccia di Genzo l'avevano circondata. E quando
aveva chiuso gli occhi, il nero non era quello del buio, ma quello dello sguardo del portiere.
Era attratta da Genzo. Si sentiva in colpa per Gianluca. Oppure, amava ancora Gianluca ma le
mancavano le attenzioni di un ragazzo? Il suo cuore era un vortice di sentimenti confusi, che
non riusciva a isolare e a definire. E forse ad ammettere.
Elena, Kumi e Yukari raggiunsero i ragazzi del gruppo dei supporter nei pressi del "Sydney
Football Stadium", per poi entrare nello stadio e prendere posto insieme a loro nella curva
riservata ai tifosi della squadra ospite. Si ritrovarono proprio alle spalle di una delle porte.
Le squadre entrarono in campo, e i giocatori e la terna arbitrale si disposero in fila, a formare
una linea orizzontale, preceduta da un'altra linea formata dai bambini entrati in campo con loro.
Il lancio della moneta diede al capitano Matsuyama la possibilità di scegliere il lato del campo.
Nel secondo tempo, Wakabayashi sarebbe stato davanti alla curva giapponese.
Le due formazioni si dispersero sul campo, e i giocatori andarono a prendere posizione.
Il Giappone impose subito il suo gioco. Tuttavia, la difesa australiana era bene organizzata,
composta da calciatori dal fisico robusto e forti nei contrasti.
Alla mezz'ora, i ragazzi allenati da Kozo Kira riuscirono finalmente a raccogliere i frutti del loro
atteggiamento propositivo.
Soda corse velocissimo sulla fascia ed effettuò uno dei suoi cross a effetto.
Misaki evitò con uno splendido dribbling gli interventi dei difensori australiani, corse incontro
all’ottima palla lanciata dal difensore e saltò colpendola con il piede sinistro, scatenando la
gioia incontenibile dei tifosi.
Kumi fece un salto e mise un braccio attorno alle spalle di Yukari e l’altro attorno a quelle di
Elena, facendole quasi cadere, tra esultanze e risate.
Il primo tempo si concluse con il Giappone in vantaggio.
«Se segnassero subito, l'Australia si scoraggerebbe e a quel punto avremmo la partita in
pugno.» considerò Manabu, entusiasmato dall'ottima prestazione dei samurai.
Ma i padroni di casa, com'era prevedibile, cominciarono con una maggiore aggressività
rispetto alla prima frazione di gioco.
Per i ragazzi di Kira divenne più complicato impadronirsi del pallone e costruire nuove azioni.
A pochi minuti dall'inizio del secondo tempo, accadde qualcosa di grave nell'area di rigore del
Giappone.
Un giocatore australiano si avvicinò a Igawa e gli disse qualcosa. Doveva trattarsi di frasi
provocatorie perché il difensore nipponico, che già in precedenza aveva dato segni di
nervosismo, assestò una gomitata all'avversario, che cadde a terra. I compagni di reparto e
Genzo scattarono verso di lui, ma era troppo tardi.
L'arbitro aveva visto la scena. Si diresse verso Igawa e gli mostrò il cartellino rosso.
Il difensore dovette così uscire dal campo.
Il c.t. Kira, per tentare di bilanciare le forze in campo, richiamò Wakashimazu in panchina,
inserendo al suo posto Izawa.
Ma il peggio doveva ancora accadere.
Al ventesimo del secondo tempo, l'arbitro fischiò un calcio di punizione per l'Australia, per un
fallo di Soda su Konwell. Lo stesso Konwell si incaricò di battere, e disegnò un tiro angolato
che Genzo parò con sicurezza, ma non era riuscito a evitare Duviga che, corso in avanti per
cercare di deviare il pallone in rete, finì per spingere Wakabayashi verso il palo della porta.
L'impatto fu tremendo: il portiere andò a sbattere il viso nella zona dell'occhio sinistro.
Il maxischermo proiettò le immagini dell'azione in cui Genzo, aggrovigliato all'attaccante
australiano, aveva sbattuto la testa contro il palo. Elena sgranò gli occhi, scattò in piedi e si
portò una mano alla bocca.
«Genzo …» mormorò, spaventata.
Il portiere rimase a terra, e per alcuni minuti che sembrarono eterni non si mosse.
I suoi compagni di squadra lo attorniarono, preoccupati.
«Wakabayashi, mi senti?» chiese Matsuyama, accosciatosi accanto a lui.
Genzo strinse i denti, per il dolore. Un dolore lancinante all'occhio sinistro. Sotto il suo viso,
l'erba si stava macchiando di rosso.
«Sta perdendo sangue! Presto, fate venire il medico!» gridò Misugi, facendo segno alla
panchina e all’arbitro, che autorizzò l’ingresso dello staff medico.
I medici corsero in campo, portando una valigetta con l'occorrente per prestare cure
immediate e una barella.
Genzo fu aiutato ad alzarsi in piedi. Il suo viso era coperto per metà di sangue.
I tifosi giapponesi assunsero un'espressione sconvolta, alcuni di loro, soprattutto donne, si
coprirono il viso.
«Oh mio Dio …» esclamò Elena, giungendo le dita delle mani all'altezza del mento, sotto il
labbro inferiore. Il bel volto di Genzo sembrava una maschera macabra.
«Non mi serve la barella.» protestò il portiere.
«A ogni modo Wakabayashi, non puoi continuare. Il tuo occhio sanguina e sicuramente hai una
ferita orbitale. Devi lasciare il campo e consentire al c.t. di sostituirti.» gli disse perentorio il
dottor Takeda, il capo dello staff medico della Nazionale, pulendogli il viso e mettendogli in
mano una borsa piena di ghiaccio, che Genzo premette sull'occhio.
Il numero 1 nipponico uscì dal campo accompagnato dai medici e dagli assistenti che
trasportavano la barella da lui rifiutata, tra gli applausi dei suoi connazionali.
Batté una mano sulla spalla di Morisaki, esortandolo a proteggere quel risultato così prezioso.
Rimase in piedi accanto alla panchina, continuando a tenere la borsa premuta sull'occhio.
«Wakabayashi, è meglio se vai all'ospedale per gli accertamenti.» insistette il medico.
«Mancano venticinque minuti. Voglio restare qui fino alla fine della gara.» replicò, risoluto.
«Ma Wakabayashi, la palpebra è chiusa e tumefatta, l'occhio è gonfio. Se aspetti, rischi di
causare seri danni alla tua vista.»
«Non sento dolore. Voglio vedere la parte finale di questa gara.» ribadì, senza alcuna
intenzione di lasciarsi persuadere.
Alla fine, il dottor Takeda sospirò e annuì con una smorfia «E va bene, Wakabayashi. Ma dopo
il fischio finale, andremo subito all'ospedale.» replicò con tono fermo e ammonitorio, incontrando
stavolta il cenno d'assenso del giocatore.
Elena non aveva perso un attimo di quella scena, pur non potendo ascoltare il dialogo tra i due.
Kumi le prese una mano, per infonderle coraggio. Rabbrividì nel sentirla gelata.
Anche a gioco ripreso, i suoi occhi si spostavano dallo svolgimento della gara a Genzo in piedi
accanto alla panchina. Aveva deciso di rimanere vicino ai suoi compagni. Spesso lo sentiva
gridare frasi di incoraggiamento.
«Tenete duro, ragazzi. Mancano cinque minuti!»
Ma anche Elena sapeva bene che cinque minuti, nel calcio, potevano essere un'eternità. Il
risultato poteva rimanere invariato, come cambiare. E sperava che lo scorrere del tempo
smentisse quel brutto presentimento che era nato in lei già dopo l’espulsione di Igawa.
Morisaki riuscì a parare un bellissimo tiro di Konwell, mandando il pallone in calcio d'angolo. Lo
stesso talentuoso australiano andò a batterlo. Duviga si eresse in tutta la sua statura e
imponenza, e neppure Izawa riuscì a contrastarlo.
Il gol del pareggio galvanizzò l'Australia che passò in vantaggio dopo tre minuti, grazie a un
potente tiro ancora di Konwell.
Misugi riuscì a togliere il pallone a Shooker e lo calciò in avanti verso Matsuyama, che avanzò
palla al piede evitando gli avversari e tirando poi verso Nitta, che effettuò uno dei suoi hayabusa
shoot.
Calciò con tutta la potenza di cui era capace, supportata dalla forza della disperazione.
Il portiere riuscì a pararlo, ma soltanto deviandolo fuori campo.
Il Giappone ottenne così un calcio d'angolo, strappato con i denti.
Taro si incaricò del tiro.
«Non posso sbagliare … se perdiamo questa partita, la nostra strada verso Madrid potrebbe
essere compromessa ….» bisbigliò a sé stesso, mentre posizionava il pallone e indietreggiava
per prendere la rincorsa.
Poteva tentare il tiro direttamente in porta. In J League aveva segnato più volte in quel modo.
Ma c'era anche un ottimo colpitore di testa come Izawa, e Morisaki che aveva lasciato la porta
per prendere parte a quell'ultima occasione.
I tifosi giapponesi incitarono i loro giocatori con tutto l’ardore di cui erano capaci, sperando di
farsi sentire nonostante l’inferiorità numerica e la distanza dalla porta australiana.
Alla fine, Taro scelse di provare a sorprendere i Socceroos con un tiro a effetto: il pallone
era
diretto verso l'angolo più lontano, dove Morisaki e Izawa stavano accorrendo per deviarlo in
rete. L'azione era stata però seguita da Duviga che anticipò i due giapponesi e colpì di testa
con una potenza tale che il pallone raggiunse il centrocampista Shooker il quale, libero da
marcature, calciò forte verso la porta giapponese, rimasta incustodita.
Ishizaki fu il primo a reagire e corse disperatamente verso il pallone che stava rimbalzando
verso la rete. Troppo velocemente. Un altro rimbalzo e avrebbe varcato la linea.
Ryo si tuffò, ma non riuscì a raggiungerlo. Ricadde a terra nello stesso momento in cui il
pallone concludeva la sua corsa andando a finire in fondo alla rete.
L'Australia aveva battuto il Giappone per 3-1.
I padroni di casa rinsaldarono la loro posizione in testa a punteggio pieno, mentre i nipponici
rimasero a quattro punti, insidiati da una scomoda contendente come l'Arabia Saudita.
La strada verso Madrid assunse, nelle menti di Kira e dei suoi ragazzi, l'immagine di una salita
ripida e proibitiva.
Genzo guardò i giocatori australiani e il loro c.t. Coleman esultare mentre i suoi compagni
rimasero fermi sul campo, con la testa bassa e le mani sui fianchi oppure a terra, delusi e
sfiniti dalla fatica.
Era come pietrificato, e la sua mano allentò la presa sulla borsa del ghiaccio.
«Andiamo, Wakabayashi.» lo esortò il dottor Takeda, mettendogli una mano sulla schiena.
«Rimarrà qui per una settimana, poi sarà operato. Non potrà giocare per il resto del girone.» gli
aveva annunciato cinque giorni prima il dottor Ikebe, il primario del reparto di chirurgia maxillo-facciale della clinica in cui
Genzo era stato trasferito dopo essere rimasto in osservazione per due giorni in un ospedale
di Sydney.
Era stato sottoposto a un esame clinico e a una tomografia computerizzata sia a Sydney sia a
Tokyo, e l'ultimo esame oculistico aveva escluso lesioni dirette all'occhio.
Fortunatamente il quadro clinico era molto meno preoccupante di quanto temuto dal dottor
Takeda.
Un intervento chirurgico era però necessario per evitare il verificarsi di asimmetrie del viso e
disturbi della visione.
Sdraiato nel suo letto con la parte sinistra del viso quasi completamente coperta dalla
fasciatura, strinse i pugni e digrignò i denti. Una lacrima uscì dall'occhio destro, rigandogli la
guancia.
Per lui non c'era notizia peggiore di quella di non poter giocare.
Aveva puntato tutto su quelle partite. Voleva concludere entrambi i gironi senza subire reti, e
ora si stava mettendo in forse la sua partecipazione ai Giochi Olimpici.
E la qualificazione si stava allontanando.
«Quest’anno sta andando male tutto … non credo al brutto karma o agli anni sfortunati, ma
ogni cosa che tocco si dissolve come cenere.» pensò.
Strinse i pugni. Più di tutte le sensazioni, odiava quella di impotenza.
Ma c'era anche un'altra cosa che lo angustiava, e mai avrebbe pensato che un sentimento di
tale natura avrebbe potuto tormentarlo come la prospettiva di una mancata qualificazione.
Elena ….
L'aveva ignorato quando aveva salutato lei e le altre ragazze, prima di andarsene dal locale.
Era come se volesse tenerlo a distanza, dopo aver lasciato che la stringesse per il tempo di un
ballo, dopo che i loro occhi si erano incatenati in un lungo sguardo.
Lo attraeva, era inutile negarlo. E anche lei sentiva la stessa cosa, ne era certo.
Entrambi avevano un motivo per non avvicinarsi troppo l'uno all'altra.
Non erano liberi.
Lui aveva un legame presente con Asami, una ragazza che aveva saputo capirlo e affascinarlo
come non aveva mai fatto nessuna, prima di conoscere la bionda insegnante, con cui aveva in
comune una vita passata di cui erano rimaste macerie.
Elena … lei stava cercando di rinascere dopo una storia finita non per suo volere, e soltanto
per una tragica circostanza. Non sapeva se erano i ricordi o un sentimento ancora presente a
tenerla legata a Gianluca.
Di una cosa era sicuro: una volta uscito dall’ospedale, l’avrebbe cercata. Non le avrebbe
permesso di sparire dalla sua vita prima di capire cosa provassero veramente l’uno per l’altra.
I suoi genitori erano passati il giorno prima, così come Mikami.
Keisuke gli aveva telefonato da Miami, dove si trovava per una breve vacanza.
Aveva ricevuto delle chiamate anche dalla Germania: Kaltz, Schneider e naturalmente
Günther Hoffmann.
Poi erano stati da lui alcuni compagni di squadra e aveva ricevuto un'altra chiamata da
Tsubasa, preoccupato dopo aver visto la gara contro i Socceroos.
L’infermiera gli annunciò la visita di suo fratello Hiroji, che subito dopo entrò con Annie e
Kenichi.
«Mica tanto dorata, questa settimana.» esordì il dirigente.
Genzo abbozzò un sorriso, amareggiato «Degna continuazione della mia stagione in
Bundesliga.»
«Su, ora non fare il pessimista! Non ti si confà.» lo ammonì Annie «Abbiamo appeso i koinobori
sopra la casa. Ce n’è uno anche per te.»
«Grazie.» disse, sorridendo dell’entusiasmo da bimba che la cognata sempre mostrava per le
tradizioni nipponiche.
«Abbiamo pensato fosse di buon auspicio, visto che ti trovi ad affrontare una situazione
difficile. La corrente si è fatta ostile.» spiegò Hiroji.
«Zio, mi dispiace che non sei tornato per le vacanze. Mi avevi promesso di aiutarmi a far volare
l’aquilone.» gli disse Kenichi, con un’espressione un po' crucciata.
Genzo tirò le labbra da entrambi i lati, dispiaciuto «Lo so, Ken. Purtroppo è successo questo
incidente.»
«E il tuo occhio come sta?»
Il giovane sorrise «Sta bene. Tra un paio di giorni verrà operato, poi rimarrà bendato e ben
protetto per qualche giorno, e poi metterò una maschera. Tra due mesi, o forse meno, sarà
come nuovo.»
«Una maschera? Come quella di Zorro?» chiese il bimbo, spalancando gli occhi.
«Più o meno.» fu la divertita risposta, data scambiando ridenti occhiate con il fratello e la
cognata.
«Ma giocherai alle Olimpiadi?»
«Certo. Farò l'impossibile pur di esserci.»
Hiroji fece una smorfia «Più che il tuo occhio, mi preoccupa il Giappone. All'Australia basta un
pari, e le vostre avversarie sono squadre tutto sommato deboli.»
Genzo contrasse la mascella «Non c'è ancora nulla di deciso. Il Giappone vincerà contro
l'Arabia Saudita e il Vietnam, e intanto speriamo in un errore degli australiani. Il Vietnam è la
cenerentola del girone, ma l'Arabia Saudita ha un paio di giocatori di ottimo livello come Vulkan
e soprattutto Al Owairan. Daranno del filo da torcere come hanno fatto con noi.»
«Sì … è giusto aggrapparsi a questa speranza. Finché c'è.» concordò il
fratello.
«Ti abbiamo portato una vaschetta di kashiwamochi, così potrai addolcire un
po’ queste
giornate.» disse Annie, posandola sul comodino di fianco al letto.
Genzo la ringraziò. Scambiarono ancora qualche parola, poi i suoi tre famigliari si
congedarono.
Appena usciti, si imbatterono in una ragazza bionda che veniva dalla direzione opposta alla
loro.
Elena si fermò, guardandoli. Annie e il piccolo Kenichi erano appena usciti dalla stanza in cui
era ricoverato Genzo, seguiti da un uomo bellissimo, alto e dal fisico imponente, con capelli e
occhi neri come la pece. Non c’erano dubbi che si trattasse del fratello maggiore del portiere.
«Ciao.» sorrise Kenichi quando la riconobbe, agitando una mano.
Elena rispose al saluto, estendendolo a Annie.
«Ciao Elena.» rispose la donna «Non conosci mio marito, vero? Questo è Hiroji.» disse, con
un gesto della mano.
«Lei è Elena, lavora alla palestra Shiroyama.» aggiunse poi, rivolta al giovane imprenditore.
«Molto lieta, Wakabayashi-san.» disse la giovane, con un inchino.
Hiroji sorrise e si inchinò a sua volta.
«Ti lasciamo andare da Genzo. A presto, Elena.» si accomiatò, per poi avviarsi con il marito e
il figlio verso le scale che portavano al piano terra.
Genzo riadagiò la testa contro il cuscino e sospirò.
La stanza era di nuovo vuota, e il suo cervello tornò preda di pensieri negativi e quasi
autolesionisti.
L'infermiera si affacciò alla porta e gli annunciò che c'era una nuova visita per lui.
La porta si aprì ed entrò Elena.
Genzo spalancò l'occhio destro per la sorpresa, ma lo stupore venne sostituito da un sorriso.
Quel momento di massimo scoramento gli sembrò a un tratto lontano, come se un raggio di
luce avesse appena squarciato una spessa coltre di nuvole.
«Ciao.»
«Ciao Genzo.» rispose la ragazza, fermandosi accanto al letto «Come stai?»
«È una frattura orbito-zigomatica dell'occhio sinistro. Tra due giorni mi opereranno, poi rimarrò
bendato per qualche tempo.» disse, recitando quasi a memoria la diagnosi pronunciata dal
medico.
«Ho pensato di portarti qualcosa che potrebbe aiutarti a farti un po' di coraggio. Avevo pensato
a un omamori, ma questo forse è più adatto a tenerti compagnia.»
Da dietro la sua schiena, fece comparire un maneki neko delle stesse dimensioni che lui le
aveva fatto vincere la sera dello Yozakura e glielo mise tra le mani.
«Rosso ….» sorrise Genzo, rigirandolo.
«Già. Il più adatto alla situazione.»
«Non solo questa. Se è efficace, i miei infortuni nel prosieguo della carriera dovrebbero
diminuire.» sogghignò, strappando un sorriso divertito alla ragazza.
Posò la scultura sul letto. «Grazie.» disse con un tono di voce basso e caldo, afferrandole una
mano.
Elena spalancò gli occhi, sentendo il suo cuore battere più forte e le guance accaldarsi «Di
nulla.» mormorò, dopo alcuni, lunghissimi secondi. «Sai, non mi aspettavo di vederti.» replicò.
Genzo la vide arrossire e avvertì le sue pulsazioni farsi più rapide. Allentò la presa e lei ritirò la
mano, evitando di incrociare quell’occhio che, ne era certa, stava cercando di scrutare la sua
anima.
In quel momento, l’infermiera annunciò la visita di due signore, e poco dopo fecero il loro
ingresso Maeko Ujimori e la figlia Asami.
Elena si voltò, e incrociò subito lo sguardo della donna più giovane.
Una ragazza bellissima, di media altezza, con lunghi, lisci e lucidi capelli neri e occhi dello
stesso colore. Un viso privo di difetti, un portamento impeccabile. Una perfetta rappresentante
della bellezza femminile giapponese, una donna capace di suscitare ammirazione immediata
in chi la guardava. Intuì subito di avere davanti a sé Asami Ujimori, la fidanzata di Genzo.
Rimasero a guardarsi per alcuni secondi, in cui Elena ebbe l’impressione di sentirsi chiedere
«E tu chi sei?» da quei profondi occhi neri.
«Bene, allora vado, Wakabayashi-san. Spero di rivederti presto in campo.» disse,
congedandosi con un inchino. Genzo la guardò dapprima stupito. Wakabayashi-san?
Poi capì. Aveva finto una conoscenza superficiale, aveva usato il suffisso onorifico per non
creargli problemi con quella che aveva intuito essere la sua ragazza, anche se non c'erano
state presentazioni.
Elena rivolse un altro inchino ad Asami e alla madre e uscì dalla stanza, seguita dallo sguardo
di entrambe.
Quella ragazza aveva il tipico aspetto nordico. Era bella, senza dubbio, anche se aveva un'aria
semplice, perfino un po' dimessa con quella maglietta un po' larga e quei jeans scoloriti. Forse
era tedesca … ma non aveva chiamato Genzo per nome, segno che tra di loro non doveva
esserci molta confidenza. Eppure era andata a fargli visita.
«Carina quella ragazza.» sorrise Maeko, con il tono affabile di chi sapeva che non poteva
comunque eguagliare il fascino di sua figlia, e che a Genzo provocò un fremito di fastidio.
«È la nipote del mio maestro di kickboxing, lavora anche lei nella palestra dove mi alleno.»
replicò, riuscendo a non farlo trasparire dalla voce.
Asami annuì «È vero, mi avevi detto che il maestro Nerlinger ha una nipote. Dev’essere
l’insegnante di ginnastica artistica, se non ricordo male.»
Genzo assentì, e Asami decise che quell’argomento aveva esaurito tutto il suo interesse.
Proseguì informandosi sulle sue condizioni, e raccontandogli, con la collaborazione della
madre, ciò che le era accaduto nei giorni in cui lui era in Australia.
Quasi non l'ascoltò. I suoi pensieri vagavano fuori da quella stanza e da quell'edificio, da cui lei
doveva essere ormai uscita.
Elena scese dal taxi e attraversò le strade del quartiere speciale di Meguro con aria assente,
immersa tra la folla brulicante come un formicaio, mentre dirigeva i suoi passi verso la
struttura in cui era ospitato Carlo con il suo staff.
Un senso di scoramento si era fatto strada in lei, dopo aver incrociato Asami Ujimori.
Quella giovane e sofisticata ereditiera era bellissima, con un'eleganza naturale e un portamento
che emanava classe e raffinatezza.
Non sapeva se si sentiva a disagio per il fatto di sentirsi attratta da un ragazzo già impegnato o
per il dubbio che lui si stesse soltanto divertendo a flirtare con due ragazze, o se era dovuto al
paragone che stava facendo tra lei e sé stessa.
Aveva deciso di andare a Tokyo per sfuggire a una domenica fatta di stanco e annoiato
girovagare. La compagnia di un cagnolino vivace e affettuoso come Wilhelm non era
abbastanza per dimenticare, seppure per poco, le sue preoccupazioni. Era così andata a
trovare suo zio, impegnato negli allenamenti per il suo incontro, e poi si era recata al tempio.
Lì aveva pensato a Genzo, Taro e alla Nazionale, al sogno che rischiava di infrangersi contro la
barriera australiana.
Vedere Wakabayashi sbattere la testa contro il palo della porta le aveva provocato fremiti di
paura che ancora la facevano rabbrividire, al ripensarci. E aveva temuto che l'occhio del
portiere avesse subìto un danno tale da compromettere la sua carriera.
Sapeva che sarebbe stato meglio mantenere le distanze, ma non voleva perdere la sua
amicizia e dimostrarsi ingrata per le volte in cui l'aveva aiutata e ascoltata.
Aveva deciso così di fargli visita e di portargli un talismano che potesse scacciare i cattivi
presagi. In un primo momento aveva pensato di comprargli un omamori, poi le era venuto in
mente quel maneki neko su cui ogni mattina si aprivano i suoi occhi e che le suscitava sempre
un sorriso, e un inevitabile pensiero anche a chi le aveva reso possibile ottenerlo.
Ebbe un fremito nel rendersi conto che avrebbe potuto accadergli la stessa cosa.
Si affrettò verso il dojo che Carlo aveva scelto come sede dei suoi allenamenti.
L'atmosfera sembrò essere tornata, almeno per quella calda e luminosa domenica di maggio,
simile a quella degli anni delle medie e del liceo, pensò Kumi, seduta a un tavolo del "Caffè
Ocean" con due amiche del suo gruppetto storico, davanti a una tazza di tè e a una fetta di
torta.
«Così Madoka sta trascorrendo un romantico week-end con Nitta?» le chiese Saya mentre svuotava una bustina di zucchero nella sua tazza. I suoi gesti, qualunque cosa facesse, denotavano sempre una grazia naturale.
«Sì.» rispose, prendendo un sorso del suo tè «Sono andati alle terme.»
sussurrò poi, con aria
misteriosa.
«Oh, stanno recuperando alla grande, quei due.» commentò Ikuko, una ragazza con un viso
un po' paffuto incorniciato da due lunghe trecce rosse, con una risata.
«E tu, con Misaki? Passi avanti?» chiese ancora Saya, ravviandosi una ciocca dei suoi lunghi capelli castani.
Kumi fece una piccola smorfia, giocherellando con il cucchiaino «Forse.»
Raccontò, con un po' di riluttanza e disagio, quanto accaduto nella discoteca di Sydney,
rianimandosi nella parte in cui Taro era arrivato ad affrontare il suo quasi aguzzino.
Le due amiche si profusero in espressioni contrite e sdegnate per quello che aveva subìto, ma
sospirarono con occhi sognanti nell'immaginare Misaki nelle vesti di coraggioso cavaliere che
interveniva a salvarla.
«Oh Kumi, secondo me sei sulla buona strada. Misaki è il ragazzo dei sogni, devi cercare di
incontrarlo e di fargli capire che ti piace!» la esortò poi Saya.
La ragazza scosse la testa «Ora sarà difficile. Il Giappone ha perso l'ultima partita e deve
vincere le prossime tre. I giocatori sono rientrati subito al J-Village e solo dopo Kira ha
concesso due giorni di pausa.»
«E lui non è tornato a Nankatsu?»
«No. A quel che mi ha detto Yukari, è andato a Sendai dalla famiglia di sua madre, e a quanto
sembra è rimasto a dormire da loro. In fondo, non aveva alcun motivo per tornare qui: suo
padre sta facendo un viaggio in Corea del Sud.» si strinse nelle spalle.
«Già, nessun motivo …»
«Beh, sei nel gruppo dei supporter, no? E allora, la prossima partita che giocheranno in casa,
placcalo subito non appena esce dallo stadio!» gridò quasi Ikuko, battendosi un pugno sul
palmo dell'altra mano, facendo girare verso di sé altri avventori e guadagnandosi un'occhiata
assassina da parte dell'amica.
«Prima che lo faccia la biondina.» aggiunse Saya con un tono più sommesso, facendole
l'occhiolino.
Kumi sorrise, perplessa.
«Sapete … da quel che ho visto a Sydney, non sono più così sicura che a Elena interessi
Misaki.»
«Davvero? Questa è una splendida notizia!» esclamò Saya, giungendo le mani «Se è
così, hai
la strada libera da rivali. Però …» continuò, come colpita da un'illuminazione «Se pensi
che
non le interessi Misaki, allora significa che l'hai vista flirtare con qualcun altro!»
Kumi non trattenne un tremolio delle labbra.
«Ah, ho colto nel segno! Chi è?»
«Dai Kumi, diccelo! È un altro giocatore della Nazionale?» insistette Ikuko, sporgendosi verso
di lei, con le mani sul tavolo.
«Non mettetevi a gridare …» le ammonì, con uno sguardo minaccioso al quale fecero un
cenno d'assenso « … Wakabayashi.»
Entrambe repressero a malapena un gridolino «Wakabayashi! Certo che ha gusti raffinati, la
biondina. Ma pensandoci bene, è naturale che si butti su di lui. È alto, tedesco d'adozione …
peccato che sia fidanzato con l'ereditiera.» ricordò Ikuko, con un ammicco.
Kumi si rese conto di aver parlato troppo. Per esprimere una sua speranza e poi per non
tradire la confidenza fatta da Elena la sera dello Yozakura, aveva esposto lei e il
SGGK a dei
pettegolezzi.
Era stato indelicato attribuire già un interesse per un altro, a una ragazza che soltanto un mese
prima confessava tutto il suo dolore e senso di colpa per l'ex fidanzato, cui non aveva mai
smesso di pensare. Ma era l'impressione che aveva avuto in Australia guardando
Wakabayashi ed Elena insieme, e che le aveva dato anche la reazione della ragazza dopo
l'infortunio del portiere.
In fondo, non era così impossibile. Erano passati molti mesi da quell'incidente, e la giovane
insegnante si era liberata di un peso confidandosi.
Inoltre, Wakabayashi era dotato di un fascino e di un carisma non comuni in un ragazzo della
sua età. Aveva la capacità di risvegliare certe sensazioni in una ragazza che era rimasta
legata a un ricordo e che inconsciamente aveva deciso che non avrebbe più potuto esserci
nessun altro, per lei.
Pensò a quanto quei due fossero simili: entrambi erano tornati in Giappone per costruire un
nuovo punto di partenza per la loro vita, entrambi avevano visto, seppure per motivi diversi, i
loro mondi disgregarsi nel giro di pochissimo tempo. Sarebbe stato bello se avessero potuto
proseguire il loro percorso insieme ….
«Proprio per questo … vi prego di non parlarne in giro. È solo un'impressione che ho avuto
vedendoli insieme. In Europa la gente è abituata a comportarsi più apertamente, può darsi che
io esageri.»
«D'accordo. Però speriamo per te che sia veramente così. In ogni caso, con Misaki fai come ti
abbiamo detto, braccalo! Come farebbe la vecchia Kumi.» la esortò Saya, con un altro,
significativo ammicco.
Alcune ore dopo, seduta alla sua scrivania, Kumi ripercorse mentalmente la sua giornata,
soffermandosi sulla conversazione con Ikuko e Saya.
Le avevano consigliato di agire come la vecchia Kumi, quella intraprendente, che cercava di
sfruttare ogni occasione per interagire con il ragazzo che le piaceva.
Ripensò soprattutto al suo primo anno di scuola media, quando cercava di farsi notare da
Tsubasa.
Già … cos'avrebbe fatto la vecchia Kumi, in una situazione del genere?
Al netto dei comportamenti un po' invadenti e immaturi della tredicenne che era, avrebbe
cercato almeno di mettersi in contatto.
Scorse la rubrica del cellulare, alla ricerca di quel numero che aveva memorizzato due anni
prima, quando era manager, per poi accordarsi con Sanae e Yukari su quali giocatori sarebbe
spettato a ognuna di loro chiamare per le comunicazioni improvvise legate agli allenamenti e
ad altri impegni del club.
Chissà se era ancora quello … premette il tasto di avvio della chiamata, con un po' di
inquietudine.
«Sugimoto?» la ragazza trasalì nel sentire la voce limpida e gentile di Taro. Aveva conservato
anche lui il suo numero? O forse … si mise una mano sul petto.
«Calmati, Kumi.»
«Ehm … sì.» rispose schiarendosi la voce e maledicendo la sua insospettata timidezza.
«Ciao
Misaki. Volevo solo augurarti buon compleanno.»
«Grazie.» rispose il ragazzo, sorpreso ma anche felice del fatto che Kumi lo avesse chiamato.
«E tu come stai?» chiese poi, desiderando poter recuperare per telefono almeno parte di
quella conversazione che non era stata possibile dopo la gara.
«Ora abbastanza bene.»
«Bene …» replicò Taro sedendosi sul letto, senza sapere che altro dire.
«Sei ancora a Sendai?» chiese però Kumi, togliendolo dall'impaccio.
Quella sera aveva festeggiato il suo ventunesimo compleanno in un ristorante della città, con
Yumiko, Yoshiko e Taisho. La famiglia Yamaoka non aveva badato a spese e gli aveva offerto
una cena da principe. Era da poco rientrato a casa, e ora era in camera da letto, in procinto di
cambiarsi d'abito. Aveva appena finito di sbottonarsi la camicia quando aveva sentito suonare
lo smartphone.
Con stupore aveva letto il nome della mittente e aveva tenuto gli occhi fissi sullo schermo per
alcuni secondi, prima di riscuotersi e accettare la chiamata.
«Sì, ho festeggiato con la mamma, con mia sorella e il signor Yamaoka. Ci tenevano a stare
con me almeno una volta, in un giorno come questo.»
«Hai fatto bene. Sono contenta che abbiate recuperato il vostro rapporto.»
«Sì, anch'io sono felice di poter dire che ho una mamma e una famiglia che mi sostengono,
oltre a papà.» disse, e a Kumi si strinse il cuore.
«Domani riparto, vado direttamente al J-Village. Ci aspettano tre partite dure, e non sappiamo
nemmeno se ci basterà vincerle tutte.» le confidò poi.
«È inutile chiederselo. Vanno vinte e basta. E poi … si può soltanto sperare.»
«Già … hai ragione.»
Kumi guardò l'orologio. Era tardi. Avrebbe voluto dirgli ancora tante cose, anche solo per
continuare a sentire la sua voce.
«Allora, alla prossima partita, con l'Arabia Saudita.» riuscì a dirgli, infine.
«Sì … vedrai, la vinceremo.» disse, con un tono caloroso e rassicurante che sorprese ed
emozionò entrambi.
Taro chiuse la chiamata e appoggiò lo smartphone sul comodino, senza spegnerlo, e si sdraiò
sul letto.
Aveva pensato spesso a Kumi. Non ricordava di averle mai lasciato il suo numero, né di avere
lui il suo. Dovevano averlo scambiato ai tempi del club di calcio, non c’era altra spiegazione.
Non era riuscito a rivederla, dopo la partita: lui e gli altri giocatori non avevano potuto incontrare
i tifosi fuori dallo stadio, poiché Kira aveva deciso di ripartire subito per il Giappone, così erano
defluiti da un'uscita secondaria.
Gli era parsa così fragile … e bella. Avrebbe voluto prenderla tra le braccia e dirle di non
tremare più, che era al sicuro. E forse l'avrebbe fatto, se quel bastardo non avesse cercato di
colpirlo di nuovo.
Le sue labbra si tesero in un sorriso, mentre con il cervello cercava di ricreare quel contatto
mancato, e scivolò in un sonno sereno.
***Note***
Omamori: amuleti giapponesi dedicati sia a particolari
divinità Shinto, che a icone buddiste. La
parola giapponese mamori significa protezione, mentre il prefisso onorifico
o- dà alla parola un
significato movente verso l'esterno, andando a significare "Tua protezione".
La copertura dell'amuleto è fatta solitamente con stoffa e racchiude al suo interno una
preghiera scritta su un foglio di carta o un pezzo di legno.
In quest'immagine, un
omamori contro gli spiriti maligni, detto yakuyoke. È anche uno dei più
richiesti.
Come già spiegato nelle note al capitolo IX, il rosso è un colore protettivo che per la sua
vivacità tiene lontani gli influssi e spiriti maligni.
Socceroos: è il soprannome dei calciatori australiani,
nato da una fusione tra i termini soccer
("calcio") e kangaroos ("canguri", che com’è noto sono gli animali
simbolo dell'Australia).
Kodomo No Hi: la "festa dei bambini", l'ultima nell'ambito della
Golden Week, si celebra il 5
maggio ed è un’occasione per esprimere gratitudine per la crescita in salute dei ragazzi e di
preghiera e per preservarli dalle malattie e dalle influenze negative.
Tradizioni di questa festività sono l’esposizione di bambole di guerrieri, i kabuto ningyo,
equipaggiate con elmo e armatura, e il famoso koinobori, le
carpe di carta appese a dei
pennoni che si fanno ondeggiare nel cielo.
La carpa è considerato uno dei pesci più virtuosi per la sua capacità di risalire i torrenti ed
è
simbolo di tenacia (secondo una leggenda cinese, la carpa che nuota controcorrente si
trasforma in drago). Così come le carpe nuotano controcorrente, allo stesso modo i koinobori
“nuotano” controvento, e costituiscono un augurio per i
bambini, affinché crescano tenaci e
robusti come le carpe.
Come tradizione, si usa preparare i kashiwamochi, cioè
dolci di riso farciti con marmellata di
fagioli azuki avvolti in foglie di quercia, che poi vengono distribuiti tra amici e
vicini, e i chimaki
(dolcetti di riso avvolti in foglie di bambù), che invece vengono mangiati in famiglia.
Fonte: TradurreIlGiappone
Ikuko e Saya (quest'ultima, citata anche nel
capitolo VII) sono le altre due amiche del gruppo di
Kumi comparse nel manga.
Anche i loro nomi come quello di Madoka, sono stati attribuiti da me, poiché nelle tavole del
Taka non vengono mai menzionati.
Lo stesso discorso vale per Taisho, il signor Yamaoka.
Auguro a tutti un Buon Anno Nuovo e una buona Epifania!
Sandie
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Capitolo 14 *** Capitolo XIV - Padri e figli ***
Capitolo XIV
Capitolo XIV
L'autobus
proveniente da Fuji rallentò in prossimità della
fermata e accostò.
Kumi
era
appena scesa, quando sentì una piccola goccia di pioggia
caderle sul viso.
Poi
ne
seguirono altre, che costrinsero lei e altre persone che camminavano
sulla
strada ad accelerare il passo e infine a correre, sollevando la
cartella sopra
la sua testa.
Una
volta
davanti alla porta di casa, sbuffò seccata, ma si
rasserenò nel riscontrare che
si era trattato soltanto del dispetto di una nuvola passeggera, e il
sole aveva
ripreso la sua preminenza in cielo.
«Sono
qui.» gridò, entrando nel salotto dopo essersi
cambiata le calzature nel
vestibolo. «Ciao papà.» disse poi, in
tono più calmo, vedendolo seduto al
tavolo, intento a leggere un quotidiano.
«Ciao
Kumi.» rispose l'uomo alzando gli occhi giusto per l'attimo
necessario a
guardarla in viso, per poi tornare alla sua lettura.
La
ragazza
fece un mezzo sorriso, per nulla stupita.
«Ciao
Kumi! Questa mattina hai ricevuto questo.» le
annunciò Reiko, posando una busta
bianca sul tavolo.
Kumi
la
prese tra le mani e avvertì un colpo al cuore quando lesse
l'indirizzo stampato
sul retro.
Con
gli
occhi sgranati e le labbra socchiuse, sollevò l'ala
superiore della busta e ne
estrasse un foglio su cui era scritto un breve comunicato: poche frasi,
ma che
le mozzarono il fiato.
Le
avevano
risposto più rapidamente di quanto si fosse aspettata
…
Venti
giorni prima Umeko, una sua compagna di classe conosciuta al tanki-daigaku e
come lei appassionata di
manga, le aveva prestato una rivista pubblicata da una piccola casa
editrice,
la cui sede si trovava proprio a Fuji.
«È
stata
fondata pochi anni fa.» le aveva detto la ragazza
«Al momento produce due
riviste, molto piacevoli da leggere. A quanto ne so, vendono bene.
Chissà,
potrebbe espandersi!»
Kumi
era
rimasta colpita favorevolmente da quel giornalino, le cui pagine
ospitavano
manga interessanti e, memore dei suggerimenti di Misaki, aveva inviato
alcuni
suoi disegni all'indirizzo stampato sull'ultima pagina.
«Ho
ricevuto una lettera dalla casa editrice Uchiyama
Shoten. Sono interessati ai miei lavori.»
«Che
casa
editrice è? Non l'ho mai sentita.» chiese Shinji,
inarcando un sopracciglio.
«È
stata
fondata da pochi anni, ha sede a Fuji. Sta cercando nuovi
autori.» spiegò Kumi.
«Credevo
fossi andata a Fuji per studiare.» replicò
sarcastico.
La
giovane
sospirò «Certo. Ma nel contempo, non rinuncio ai
miei sogni.» ribatté.
Shinji
tirò le labbra da un lato «Alla tua età
non avevo questi grilli per la testa.»
«Eppure
è
anche grazie a te se ho cominciato a disegnare.»
affermò Kumi, con un mezzo
sorriso di sfida.
«A
me?»
chiese, con un tono tra lo stupito e l'ironico.
«Sì,
a te.
Perché eri tu quello che fin da piccola mi faceva vedere i
film dei nostri
grandi cineasti, e che mi raccontava antiche leggende. Le stesse storie
che
ispirano i miei disegni.» dichiarò con tono
beffardo, incrociando le braccia e
sporgendosi verso di lui.
Shinji
sembrò esitare, poi aggrottò le sopracciglia
«Non ho mai desiderato che tu
facessi la mangaka. È un lavoro che non dà
nessuna certezza, è troppo legato ai
gusti del pubblico, che cambiano come il soffio del vento.»
«Ci
sono
artisti che hanno saputo attraversare le generazioni.»
«Ah
sì?
Beh, le Rumiko Takahashi e le Naoko Takeuchi si contano sulle dita di
una
mano.»
«Ma
esistono. Voglio sognare, finché
potrò.» ribatté ancora, imperterrita
«Questa
lettera è la dimostrazione che ci sono persone, in quel
settore che vedono in
me del talento e che sono intenzionate a darmi una
possibilità. Sarei stupida a
rinunciare proprio adesso.» insistette, mettendogliela
davanti al naso perché
la leggesse.
Ma
Shinji
sbuffò e allargò le braccia, in una posa teatrale
«Certo, e fuggire così dalla
vita reale. Il club di calcio, i manga … Sai una cosa, Kumi?
È proprio vero,
sei tutta strampalata. Proprio come tua nonna.»
La
ragazza
si alzò di scatto spingendo indietro la sedia
«Lascia in pace mia nonna! Lei è
una sensitiva. È una sua dote naturale, e non l'ha
soffocata.» gridò quasi, con
gli occhi contratti per la rabbia.
«Io
mi
preoccupo per te Kumi, come fanno tutti i genitori per l'avvenire dei
loro
figli!» ribatté Shinji, alzando anch'egli la voce.
«Continuerò
a studiare al tanki-daigaku,
se temi che
io possa lasciare la scuola. Ma cercherò anche di realizzare
il mio sogno. Non
voglio avere il rimpianto di non averci mai provato.» disse,
in tono
definitivo. Prima che suo padre potesse replicare, si alzò
dal tavolo e uscì
dalla porta di casa.
«Kumi!
Dove stai andando?» gridò, ma Reiko gli mise una
mano su un braccio.
«Smettila
di trattarla come una bambina irresponsabile.»
«È
lei che
si comporta così. È mio dovere farle tenere i
piedi per terra.»
«Lei
ce li
ha già, i piedi per terra. Solo che ogni tanto le piace
passare qualche ora in
mezzo alle nuvole. L'importante è che si ricordi di scendere
quando serve. E
finora l'ha fatto.» replicò la donna, con un
ammicco.
Shinji scosse la testa, con una
smorfia divertita, suo
malgrado «Kumi somiglia a te e a tua madre, da me ha preso
poco o nulla.»
affermò, guardando il bel viso di sua moglie, ancora
giovanile nonostante fosse
vicina a compiere quarant'anni. Si erano sposati appena maggiorenni,
quando
Reiko era già incinta di Kumi.
Era
stata
una gravidanza difficile … la donna era stata costretta a
passare gran parte di
quel periodo a letto, per non perdere la bambina. Ricordava ancora con
nitidezza l'angoscia patita in quei mesi che sembravano non dover
terminare mai
…
Era ancora bella, i lunghi capelli
castani e gli occhi di
un colore poco più chiaro di quelli di Kumi. E anche se a
vederla ora sembrava strano
da credere, anche Sakamae, la nonna, aveva avuto quell'aspetto, da
giovane.
Erano tutte e tre donne vivaci, entusiaste, curiose.
Lui,
che
era un sarariman
anche nell'aspetto con
i suoi corti capelli neri sempre in ordine e il suo impeccabile
completo in
giacca e cravatta, aveva trovato in Reiko una compagna allegra e con un
atteggiamento sempre positivo, un antidoto alla noia e al grigiore che
avrebbero altrimenti ammorbato la sua vita.
«Non
è
esatto. La cocciutaggine è tale e quale.» lo
punzecchiò «E anche se non ci
credi, è una ragazza con la testa sulle spalle. Non ha mai
saltato un giorno di
scuola, ha sempre avuto bei voti, sta studiando con impegno anche al tanki-daigaku.
Sarebbe onesto
riconoscerglielo, da parte tua.»
Shinji
strinse le labbra «Avrebbe avuto voti più alti, se
non avesse perso tempo con
il club di calcio e con i manga. Come la figlia degli Shimokawa, che
studia in
uno degli atenei più prestigiosi del Giappone.»
«Madoka
è
naturalmente portata per lo studio e ha altre aspirazioni.»
puntualizzò Reiko
«Comunque non devi preoccuparti. Kumi non si
perderà per strada. Sei tu
piuttosto, che devi fare attenzione. Hai sempre criticato le sue
passioni, i
suoi hobby, i suoi sogni. Continuando così,
finirà per odiarti e tu perderai
tua figlia.»
Shinji
sospirò e incrociò le braccia, stringendo ancora
le labbra.
Reiko
si
sedette di fronte a lui e si sporse sorridente, appoggiandogli una mano
su un
braccio.
«Non
è
così difficile, sai? Trova un compromesso, proprio come sta
facendo lei.»
I tifosi giapponesi, per la maggior
parte in piedi sugli
spalti del National Stadium di Tokyo, trattennero il respiro nel vedere
il tiro
potente e preciso di Mark Al Owairan dirigersi verso la porta del
Giappone.
Mancavano
pochi minuti al termine della partita e la Nazionale del Sol Levante
stava
vincendo per 1-0. Un risultato fondamentale con cui i calciatori
nipponici
stavano per togliere di mezzo la diretta rivale per la qualificazione
al
secondo posto del girone.
Ishizaki
respinse con la faccia il pallone lanciato dal capitano saudita.
I
supporter locali esultarono come se il difensore avesse segnato un gol.
Izawa
recuperò la sfera e ingannò gli avversari
fingendo un disimpegno.
Effettuò
invece un passaggio verso l'accorrente Misaki, che a sua volta
eseguì uno
splendido lancio in direzione di Nitta, che stava correndo velocissimo
verso la
porta, in posizione regolare. L'attaccante si trovò solo
davanti al portiere e
lo spiazzò con il suo potente tiro di destro.
Dopo
pochi
minuti, l’arbitro fischiò per tre volte nel
fischietto, decretando la fine
della partita tra Giappone e Arabia Saudita.
I
calciatori dell’Under 23 giapponese levarono le braccia al
cielo e strinsero i
pugni, esultando compostamente.
Il
primo
tassello era stato posto.
Mark
Al
Owairan, il giovane capitano saudita, si passò una mano sul
viso per asciugare
il sudore misto a qualche silenziosa lacrima e si diresse verso Taro
Misaki,
che aveva appena dato una pacca sulla spalla al portiere Morisaki che
non aveva
fatto passare un solo tiro, nemmeno quelli più insidiosi,
come se lo spirito di
Wakabayashi si fosse in parte trasferito dentro di lui.
«Complimenti,
Misaki. Diventi più forte di partita in partita.»
sorrise, tendendogli una
mano.
«Grazie.
Anche tu e i tuoi compagni vi siete fatti onore.»
replicò, stringendogliela.
Mark
assentì con il capo.
«Il
sogno
olimpico per noi finisce qui, Misaki. Ma come membro della famiglia
reale e
giocatore della Nazionale saudita, onorerò questa maglia
anche contro
l'Australia e giocherò con il massimo impegno.»
«Grazie
Mark. Ho fiducia nelle tue parole.»
Taro
scese
dall'autobus che dalla stazione di Tokyo lo aveva portato a Nankatsu.
Kira
aveva
concesso un paio di giorni di riposo, prima delle partite con Vietnam e
Australia, tra le quali non ci sarebbero state pause, e lui aveva
deciso di
approfittarne per trascorrere un po' di tempo con suo padre, che non
vedeva da
settimane per via del suo soggiorno in Corea del Sud.
Giunto
in
prossimità della sua abitazione, i suoi occhi vennero
attirati da qualcosa di
insolito.
La
Toyota
Yaris parcheggiata davanti all'entrata di casa, con i fanali rivolti
verso
l'esterno, testimoniava la presenza di ospiti. Si chiese chi potesse
essere
arrivato.
Attraversò
il vialetto lastricato che portava all'ingresso dell'abitazione e
aprì la
porta.
Incontrò
subito suo padre nel vestibolo. Stava per rientrare in salotto, ma si
era
voltato nel sentire la maniglia della porta abbassata.
«Sei
solo
in casa?» chiese, guardandosi intorno alla ricerca di altre
persone.
«Certo.
Chi altro dovrebbe esserci?»
«C'è
un'auto lì fuori. Credevo fosse venuto qualcuno.»
«Ah,
quell'auto?» disse in tono di apparente noncuranza,
dirigendosi verso la porta
e invitandolo a uscire con lui.
Nel
giardino, Ichiro guardò la Toyota e poi si voltò
verso Taro, con un sorriso.
«Papà
…»
mormorò il ragazzo, dopo aver trattenuto il fiato.
Ichiro
annuì e gli afferrò le spalle «Buon
compleanno, figlio mio.»
Taro
guidava lungo una
strada poco trafficata, diretto a Fuji, il luogo scelto dal padre come
soggetto
del suo nuovo quadro.
Perché
non poteva
tralasciare proprio la città omonima del vulcano per cui
provava da sempre un
misto di venerazione e soggezione, anche dopo aver realizzato l'opera
che gli
era valsa un premio prestigioso.
Gli
occhi
di Ichiro erano fissi sul paesaggio costiero che scorreva davanti ai
loro
occhi, deciso a coglierne nuovi particolari.
Era
tornato dal suo breve soggiorno in Corea del Sud portando con
sé nuove tele, in
cui aveva ritratto paesaggi suggestivi, come sempre lontani dal caos,
dalla
frenesia, dal sovraffollamento cittadino. Campagne, periferie,
località in riva
al mare. Quei paesaggi di cui troppo spesso ci si dimenticava
l’esistenza o cui
non veniva data adeguata considerazione.
E
ora
aveva ripreso a dedicarsi al suo amato Giappone, e soprattutto al Monte
Fuji
cui aveva intenzione di dedicare una serie di quadri come aveva fatto
Hokusai
con le sue "Trentasei vedute".
Gli
occhi
di Ichiro erano piccoli, ma sapevano cogliere dettagli che ad altri
sfuggivano.
La
contemplazione dei paesaggi e della natura era ciò che
l’aveva affascinato e
appassionato fin da bambino, al punto da voler passare la sua vita a
imprimere
ognuna di quelle manifestazioni su una tela, quando aveva scoperto che
esisteva
un mestiere bellissimo: quello del pittore.
Abbassò
la
testa sulla fotocamera, scorrendo le immagini che Taro aveva scattato
nella sua
breve permanenza a Sendai. Taro abbracciato a Yumiko e con le mani
sulle spalle
della sorella Yoshiko, e altre foto che lo ritraevano con la famiglia
Yamaoka
al completo, un'altra ancora in cui era seduto al tavolo con Taisho, la
sera
della cena organizzata per festeggiare i suoi ventun anni.
«Sai
papà
… ora che ho un ottimo rapporto anche con la famiglia della
mamma, mi
piacerebbe festeggiare un compleanno in cui siamo tutti
insieme.» gli confidò
Taro dopo quei minuti di silenzio, come se avesse captato i suoi
pensieri.
Ichiro
annuì, con aria assorta «Sì, sarebbe
bello.»
Una
volta a Fuji, Taro
parcheggiò di fronte a un bar-ristorante, a poca distanza da
una radura da cui
il grandioso vulcano offriva una vista a dir poco emozionante.
Sembrava
così grande e
così vicino …
Ichiro
si diresse
verso quel luogo, riempiendosi gli occhi di ogni elemento di quello
scenario.
Vagò
per il terreno,
quasi misurando i passi, poi appoggiò il cavalletto sul
punto da lui scelto.
Posizionò la tela e il secchio, prese la tavolozza, il
pennello e cominciò a
mischiare i colori, osservando il paesaggio davanti a sé.
«Sai
Taro» disse
voltandosi verso il figlio, in piedi qualche passo dietro di lui
«Ho sempre
visto in te qualcosa di tua madre. I lineamenti del viso, il taglio e
il colore
degli occhi, li hai presi da lei. E anche la riservatezza, quella
straordinaria
emotività che ha rischiato di distruggerla.»
«Non
si è
fatta sentire per dieci anni … le ho chiesto il
perché e mi ha risposto che
temeva di non essere una buona madre, per me … che aveva
dovuto ricostruire sé
stessa, e mi ha lasciato con te perché sapeva che mi avresti
cresciuto con
amore e con attenzione. Poi mi ha guardato come per pregarmi di non
chiederle
altro.»
Ichiro
chinò
leggermente la testa, con un sorriso triste «Vedi Taro,
quando stavamo insieme,
io mi spostavo spesso per il mio lavoro, e Yumiko mi
seguiva.» si interruppe ed
emise un sospiro impercettibile. Stava per rivelare a Taro un periodo
doloroso
e penoso della loro vita, e aveva scelto di tacerlo per non
instillargli l'idea
sbagliata che lui ne fosse stato la causa. Ma adesso suo figlio era un
uomo, ed
era giusto che conoscesse tutto di un passato che riguardava anche lui.
«Quando
rimase incinta di te, lasciò momentaneamente gli studi e mi
seguì finché il suo
fisico glielo permise. Poi ci stabilimmo a Kobe, la sua
città natale. Poche
settimane dopo la tua nascita, a tua nonna, la madre di Yumiko, venne
diagnosticato un tumore al pancreas. Era già in fase
avanzata e i medici da
subito non avevano dato speranze di guarigione. Tuttavia, Yumiko non si
perse
d'animo: accompagnava sua madre alle sedute di chemioterapia, le
comprava e le
somministrava le medicine, le stava accanto nei momenti peggiori,
quando
vomitava tutto quello che mangiava e beveva …»
raccontò, con un lieve
abbassamento della voce, mentre gli occhi di Taro divenivano sempre
più
sconvolti.
Sua
madre
non gli aveva mai raccontato nulla … sapeva che la sua nonna
materna era morta
pochi mesi dopo la sua nascita, ma aveva sempre ignorato tutti i
particolari
che Ichiro gli stava raccontando.
«Io
rimanevo a casa ad occuparmi di te, lei quando poteva tornava e ti dava
da
mangiare, mi aiutava a cambiarti il pannolino, a farti giocare
… ti cantava la
ninnananna.» ricordò ancora Ichiro, con un sorriso
triste «Non ti ha
trascurato. Cercava di dare la giusta attenzione a te e a tua nonna. Ti
abbiamo
desiderato entrambi, Taro. Purtroppo la situazione della madre di
Yumiko era
compromessa e lei era l'unica che poteva starle costantemente accanto e
aiutare
suo padre, perché sua sorella viveva a Okinawa con la sua
famiglia, e raramente
veniva a Kobe.»
Guardò
ancora Taro, che lo stava ascoltando attentamente e con gli occhi lo
esortò a
continuare. Ichiro trasse un altro profondo respiro e
raccontò infine l'ultima
parte di quella storia, quella più angosciosa per quella che
era stata la
famiglia Misaki … una famiglia sfaldatasi poco dopo essersi
formata …
«Tua
nonna
morì pochi mesi dopo. Yumiko ebbe un esaurimento nervoso e
cadde in
depressione. Non riprese gli studi come era sua intenzione.
Cominciò a soffrire
di disturbi alimentari, diventò aggressiva verso gli altri,
anche verso di te.
Una notte, tu cominciasti a piangere e lei si alzò di scatto
e ti sollevò dalla
culla. Credevo ti avesse preso in braccio per cercare di
tranquillizzarti,
invece iniziò a gridare, a scuoterti … mi fiondai
su di lei e ti strappai
letteralmente dalle sue mani. Non si poteva più andare
avanti così … e la
convinsi a ricoverarsi in una clinica. Io nel frattempo, per motivi di
lavoro
dovetti lasciare Kobe e ti portai con me. Il padre di Yumiko non fece
nulla per
trattenermi, anzi mi invitò a non farmi più
vedere finché sua figlia non fosse
completamente guarita … non aveva mai visto di buon occhio
la mia relazione con
lei… non ero il classico impiegato, con un posto di lavoro e
uno stipendio
fisso. E ovviamente ha dato la colpa a me, di quello che le era
capitato.»
Taro
strinse le labbra. Non aveva mai conosciuto suo nonno, sapeva solo che
era
anziano e viveva ancora a Kobe. Yumiko non ne parlava spesso, e quello
che gli
aveva raccontato suo padre eliminò ogni briciolo di
desiderio di conoscerlo.
«La
mamma
non me ne ha mai parlato …» mormorò.
«È
normale, Taro. Tutti tendiamo a vergognarci del male che facciamo agli
altri e
a noi stessi, quando ce ne rendiamo conto. E non parlarne è
un po' come fingere
che non sia accaduto e minimizzarne le conseguenze.»
Il
ragazzo
abbassò la testa e strinse le labbra. Agli angoli degli
occhi erano comparse
due piccole lacrime.
«Sono
passati tanti anni senza vederci … lei nella mia infanzia
non c'è mai stata …
ma ora abbiamo un buon rapporto, e non ci voglio rinunciare.»
Ichiro
annuì e gli mise una mano su una spalla «Se
accetti un consiglio, Taro … quando
ti legherai a una donna … amala, proteggila, ma non
permetterle di dipendere da
te. Deve avere una sua personalità,
un'individualità, dei sogni suoi.
Altrimenti finirete per soffrire entrambi.»
Taro
attraversò la strada e si recò al bar-ristorante
di fronte al parcheggio in cui
aveva lasciato la sua nuova auto. Ichiro stava dipingendo
ininterrottamente da
quasi un'ora e il giovane calciatore aveva deciso di andare a
prendergli un
caffè e qualcosa da mettere sotto i denti.
Si
trovava
da poco davanti al bancone in attesa di essere servito, quando si
sentì
chiamare da una squillante voce femminile. Una voce che ormai conosceva
bene …
Si
voltò e
vide Kumi che agitava una mano, seduta a un tavolo con un'altra ragazza
dai
corti capelli castani che lo guardava incuriosita.
«Sugimoto!»
rispose con un sorriso, e si avvicinò. L'altra ragazza stava
di fronte a lei,
probabilmente una sua compagna di scuola. Kumi gli presentò
Umeko e i due si
salutarono con un cenno del capo.
«Hai
terminato i corsi?» chiese poi all'ex manager.
«Quelli
del mattino, ma tra non molto iniziano quelli pomeridiani.»
In
quel
momento sentirono il rumore di una sedia spostata all'indietro.
«Kumi,
io
vado avanti. Ci vediamo dopo, a scuola.» le
annunciò Umeko strizzandole un
occhio e salutando nuovamente Taro, il quale andò a sedersi
sulla sedia
imbottita lasciata libera.
«Sai»
disse Kumi «Un paio di settimane fa ho inviato alcuni miei
disegni alla Uchiyama
Shoten, una casa editrice di questa
città.» si interruppe e lo guardò,
attendendo la sua reazione.
«Hai
fatto
bene.» rispose, con un cenno di approvazione «Hai
già ricevuto una risposta?»
Kumi
annuì, con gli occhi che brillavano come quelli di una bimba
«Sì. Ieri mi è
arrivata una loro lettera, e sono interessati. Vogliono che li chiami
per
fissare un appuntamento e presentarmi alla sede con altri miei
lavori.»
«Ma
è
splendido!» esclamò Taro, esprimendo un entusiasmo
quasi pari a quello
dell'amica.
Kumi
sollevò le labbra, scoprendo i denti in un sorriso pieno di
gioia. La gioia di
aver ricevuto una così bella notizia, aggiunta a quella di
vedere il ragazzo
che amava parteciparvi sinceramente …
«È
merito
tuo se ho preso questa decisione. Mi sono ricordata di quello che mi
hai detto
due mesi e mezzo fa, alla cartolibreria.» disse.
Taro
avvertì un intenso calore invadere il suo petto, a quelle
parole. «Hai
intenzione di accettare?»
«Credo
di
sì, indipendentemente dall'esito del concorso. In fondo,
vincerlo significa
fare uno stage alla Shogakukan,
certo
sarebbe un'esperienza fantastica ma non è detto che poi mi
assumano.»
«E
tuo
padre lo sa?» le chiese Taro, ricordandosi di quello che gli
aveva raccontato
sulla ferrea opposizione del signor Sugimoto a quel progetto.
Kumi
smise
di sorridere e tirò le labbra da entrambi i lati
«Sì … ero seduta a tavola con
lui quando la mamma mi ha dato la lettera. Non l'ha presa bene. I
soliti
discorsi: devo pensare a studiare, disegnare non mi darà un
futuro stabile,
sono un'illusa … e altre amenità.»
concluse, appoggiando il mento su una mano e
abbozzando un sorriso amaro.
«È
una
convinzione radicata nella società, Sugimoto …
molti faticano a metterla in
discussione.»
«So
che in
fondo lui si preoccupa per me. Ma questa mancanza non dico di
approvazione, ma
di comprensione … me lo rende lontano. E questo mi
dispiace.» disse, stringendo
le labbra, e mostrandogli per la prima volta degli occhi malinconici e
sofferenti.
«Pensare
che quando ero bambina» riprese poi, giocherellando con gli
angoli di un
tovagliolo «mi faceva vedere i classici del cinema
d'animazione e i film dei
grandi registi. Quando ero piccola, di ritorno dal lavoro mi portava
sempre
qualche rivista piena di fumetti o dei libri illustrati. In un certo
senso, è
stato lui a far nascere dentro di me questa passione. E ora che vorrei
farne un
lavoro, cerca di convincermi che non ne vale la pena.»
«Sono
sicuro che con tuo padre le cose si sistemeranno, prima o poi. Intanto,
hai già
delle persone che ti sostengono: tua madre, le tue amiche, e anche io
ed Elena
apprezziamo molto i tuoi disegni.»
Kumi
sorrise e assentì con il capo «Grazie Misaki. Le
tue parole mi fanno capire che
non sono sola.»
«No,
Sugimoto. Non sei sola.» ribadì lui, guardandola
con un sorriso teso a
confortarla e incoraggiarla.
I
due
tennero lo sguardo l'uno sull'altra per alcuni secondi, poi lei
sgranò gli
occhi e alzò il braccio per controllare il suo orologio da
polso.
«Devo
andare. Tra pochissimo comincia la lezione. Arriverò
sicuramente in ritardo.»
esclamò, alzandosi e prendendo la sua cartella posata per
terra.
«Non
perdi
mai il vizio, eh?» la punzecchiò Taro, con bonomia.
Kumi
lo
guardò stupita, e Taro fece una smorfia, imbarazzato.
«Scusami.
È che mi sono ricordato di quando arrivavi di corsa a scuola
e ti fiondavi in
fretta nella tua classe.»
La
giovane
chinò la testa e ridacchiò
«Già. Dovevo essere proprio buffa.»
Taro
rise
di rimando «Comunque ho l'auto parcheggiata qui fuori. Se
vuoi ti do uno
strappo fino al tanki-daigaku.
Non so se
servirà a evitarti il ritardo, ma almeno guadagnerai qualche
minuto.»
«Va
… va
bene.» rispose stupita. Era tutto così
… bello, così inaspettato da sembrarle
irreale.
Taro
comprò due filoni di pane e due lattine di caffè,
Kumi pagò il conto del suo
pranzo, e i due ragazzi uscirono nel piazzale antistante il locale.
Il
sole
dominava nel cielo azzurro, solo poche nuvole scorrevano lente, senza
attenuarne lo splendore. Un vento lieve giocava con i capelli di Kumi.
Il
calciatore aprì cavallerescamente la portiera del lato
passeggero della sua
auto, permettendole di prendere posto e accomodarsi. Poi,
andò a mettersi alla
guida.
Dopo
pochi
minuti arrivarono davanti al cancello ancora aperto della scuola.
Kumi
guardò ancora una volta il suo orologio e lanciò
un gridolino di gioia «Sono
puntuale! La lezione inizia tra tre minuti!»
cinguettò, suscitando in Taro una
smorfia divertita. Recuperò la sua cartella, scese e si
chinò leggermente, per
ringraziarlo attraverso il finestrino abbassato.
Il
ragazzo
fece un cenno del capo e la salutò, prima che lei si
voltasse e si mettesse a
correre verso l'entrata.
Mantenne
gli occhi su di lei finché non la vide aprire la porta e
sparire all'interno
dell'edificio.
Rimise
in
moto e si diresse verso la radura dove suo padre stava ancora
dipingendo.
«Papà,
che ne dici di
fermarti e fare una pausa? A pancia piena si dipinge meglio.»
«Aspetta
…
l’ispirazione non va interrotta.» rispose Ichiro,
sfumando la chioma di un
albero con il pennello.
Taro
accennò una
risata «È sempre così quando lavori a
un quadro … perdi la cognizione del tempo
e ti dimentichi perfino di mangiare.»
Il
pittore alzò la
testa, tenendo il pennello stretto tra le dita e si voltò
verso il figlio, con
un’espressione di bonario rimprovero «E tu
dimentichi tutte le volte che sei
arrivato in ritardo per la cena, perché eri rimasto al campo
di calcio?»
Taro
alzò le spalle «Touché.»
«A
ogni modo hai
ragione, è meglio fare una pausa.» disse,
riponendo il pennello e la tavolozza
e prendendo la lattina di caffè che il figlio gli stava
porgendo.
Poi
Taro stese una
tovaglia sul prato.
Ichiro
lasciò
momentaneamente il suo lavoro e si sedette, prendendo un filone di pane.
«Con
ogni probabilità,
sarà una delle ultime giornate che potremo passare
così, Taro.» disse,
spezzandolo in due parti.
Sentiva
che dopo
quell’estate, avrebbe preso il volo. Anche con la
qualificazione alle Olimpiadi
in bilico, Taro aveva attirato l’interesse di importanti
squadre europee:
l’Atlético Madrid, il Siviglia, il Borussia
Dortmund, l’Arsenal e quel Paris
Saint Germain che era stato a un passo dall’ingaggiarlo,
prima che quel
maledetto infortunio facesse sfumare tutto.
Lui,
lo aveva già
deciso, sarebbe rimasto in Giappone.
Le
immagini di suo
figlio comparivano con sempre maggiore frequenza sui quotidiani e
riviste
specializzati, la sua maglietta dello Jubilo Iwata era ancora la
più venduta, e
le sue giocate, le movenze con cui aveva superato avversari forti e con
maggiore esperienza internazionale erano spesso proposte dalle
trasmissioni
sportive.
Era
considerato già
uno dei centrocampisti più promettenti della nuova
generazione che avrebbe dato
lustro al calcio internazionale nel decennio successivo.
Genzo
si
arrestò davanti al complesso sportivo Shiroyama. Rimase
fermo per qualche
minuto davanti all'entrata, riprendendo fiato.
Era
stato
operato e ora doveva osservare un periodo di convalescenza.
Il
dottor
Ikebe gli aveva detto che c'erano ottime probabilità di un
recupero più rapido
rispetto ai tempi previsti.
Le
sue
lezioni di kickboxing erano finite anzitempo, e incapace di starsene a
casa a
vagare per il grande giardino, aveva indossato una tuta ed era andato a
fare
una corsa per la città.
Spinse
la
porta, salutò la segretaria e si diresse verso la palestra
in cui si insegnava
ginnastica artistica. Non vi si stava svolgendo nessuna lezione
… ma c'era lei.
Era
accanto a una vaschetta e si stava cospargendo le mani di polvere di
magnesio.
Si
apprestava a eseguire un esercizio alle parallele …
quell'attrezzo che per
tanto tempo non era riuscita ad affrontare.
Con
un
salto afferrò lo staggio inferiore e fece una prima,
semplice capovolta.
Eseguì
alcuni volteggi, saltando con scioltezza da uno staggio all'altro.
Poi
tentò
alcune combinazioni più difficili.
Una
verticale a gambe unite e tese, per poi fare una capovolta e darsi una
spinta
al termine della quale si ritrovò nella medesima posizione,
per poi lasciare la
presa sullo staggio inferiore e cercare di afferrare quello superiore.
Era
uno Shaposhnikova,
come gli aveva detto Arimi
quando l'aveva visto alla kermesse di Numazu.
Forse
era
stato allora che si era reso conto di quanto Elena lo affascinasse.
Il
modo in
cui incitava, incoraggiava, riprendeva e consolava le sue ragazze lo
aveva
coinvolto e colmato d'ammirazione, e aveva alimentato il desiderio di
conoscere
ancora di più, su di lei.
Un
errore
della ragazza lo fece sussultare.
Elena
mancò di poco la presa e ricadde sul materassino. Rimase con
le ginocchia
piegate e portò le mani sulle cosce. Inspirò
profondamente, e rilasciò un lento
sospiro.
Era
il
primo esercizio che stava cercando di svolgere per intero, dopotutto. E
aveva
provato un elemento difficile, forse troppo per lei che aveva ripreso
dopo un
anno.
«Ti
sei
fatta male?» le chiese Genzo, avvicinandosi a passo rapido.
La
ragazza
trasalì e alzò la testa, guardando dapprima
davanti a sé, per poi voltare il
viso verso di lui. Era a pochi passi dal materasso, nello spazio tra le
due
parallele.
«No,
non
mi sono fatta niente. Capita spesso di cadere dalle
parallele.» spiegò, con un
leggero sorriso.
Genzo
fece
un cenno d'assenso con il capo, e le tese una mano.
Lei
scosse
la testa, facendo dondolare la coda in cui aveva legato i suoi capelli
«Una
ginnasta deve sapersi rialzare da sola.» disse con voce
pacata, e con una
spinta si sollevò sulle gambe segnate da alcuni lividi,
parzialmente coperti
dalla polvere di magnesio che era sparsa anche sulla canottiera e i
pantaloncini che indossava.
Soffiò
sui
palmi delle mani, dove la pelle era screpolata.
«Ti
fanno
male?»
Elena
fece
una piccola smorfia «Vesciche … non ci sono
più abituata.» sorrise ancora.
I
suoi
occhi brillavano. Era la stessa luce che vedeva negli occhi dei suoi
compagni
quando giocavano a calcio e che di certo aveva anche lui stesso.
Ma
il suo
tono sembrava più … freddo, rispetto ai loro
precedenti incontri.
Si
stava
ritraendo di nuovo nel suo guscio.
«Vedo
però
che non hai intenzione di fermarti.» continuò lui,
senza lasciarsi scoraggiare.
Elena
annuì «La grande Nadia dice che l’unico
modo per sconfiggere le proprie paure è
correre verso di loro e calpestarle sotto i piedi.»
Genzo
fece
un sorriso d'approvazione.
Le
si
avvicinò e le prese le mani. I palmi avevano delle
sbucciature, contornate da
altra polvere di magnesio, di cui alcuni granelli si erano depositati
anche sui
ciuffi di capelli sfuggiti all'elastico.
«Le
mani
sono importanti anche per una ginnasta.» mormorò,
sfiorandole piano, con una
delicatezza impensabile per quelle mani così grandi,
disegnandone i contorni
con lievi tocchi delle dita.
Elena
ne
osservò i movimenti e quella stretta ormai familiare quando
si trovava accanto
a lui, quel calore che si irradiava dal petto, la invase.
La
ginnastica artistica era un mondo in cui le sue preoccupazioni e i suoi
turbamenti non esistevano. Quando si allenava o si apprestava a fare un
esercizio, dimenticava tutto. I pensieri, le preoccupazioni, le angosce
… si
dissolvevano. Era come entrare in un'altra dimensione.
E
Genzo
stava irrompendo anche lì … non poteva
permetterlo.
«Genzo
…
non invadere il mio mondo … l’unico in cui mi
sento al sicuro.» gli disse,
sfilando le mani dalle sue dita.
Lui
la
guardò. Quegli occhi azzurri sembravano diventati due gemme
dure.
«Al
sicuro? Elena … parli come se avessi paura di me
…» replicò, guardandola dritto
negli occhi. Le sue iridi, nonostante fossero contornate dalla maschera
protettiva, sembravano più larghe … la ragazza
sentì che si sarebbe persa, se
le avesse guardate un secondo di più.
Arrossì
e
distolse lo sguardo.
Genzo
strinse le labbra e si allontanò di pochi passi.
«Vado.»
disse «Stasera sarò al Tokyo Dome a vedere il
match di Carlo.» le annunciò, per
poi voltarsi e avviarsi verso l'uscita della palestra.
Elena
era
rimasta nella stessa posizione e si riscosse solo quando udì
la porta
chiudersi.
I
suoi
occhi erano umidi. Il cuore batteva sempre forte, più forte
di quanto volesse …
Nei
primi
mesi successivi all'allontanamento di Gianluca, si addormentava
desiderando di
risvegliarsi in un giorno qualsiasi purché fosse precedente
a quello
dell'incidente.
Ma
ogni
giorno riapriva gli occhi, rendendosi conto inevitabilmente che era
sempre un
nuovo domani, anche se le sue giornate avevano preso a susseguirsi
tutte
uguali.
Pensava
al
futuro senza slancio, senza stimoli. Vedeva soltanto il vuoto
… poi le vacanze
natalizie avevano portato Carlo a Roma, dove le aveva proposto di
passare un
periodo in Giappone.
E
lì aveva
trovato più di quanto si fosse aspettata … forse
persino più di quanto avesse
sperato e voluto.
Aveva
riscoperto la sua passione per la ginnastica artistica, aveva fatto
nuove
amicizie, aveva rincontrato Taro e conosciuto una ragazza piena di
energia ed
entusiasmo come Kumi. E poi … aveva conosciuto anche Genzo.
Un ragazzo dal
carattere forte e determinato, ma anche sensibile e generoso. Un vero
amico. Ma
negli ultimi tempi l'ammirazione e l'affetto verso di lui erano
progressivamente cresciuti, e ora aveva paura di dire fino a che punto.
Sì
… aveva
paura dei suoi sentimenti. Sentiva che non doveva stargli accanto
troppo a
lungo, perché anche quando pensava di aver eretto una
barriera, lui riusciva
sempre a indebolire, pian piano, le sue difese. Anche solo guardandola
e
pronunciando il suo nome … con lui, ormai, era come
camminare su un filo
sottile.
Era
affascinata e temeva che uno sguardo o un gesto in più da
parte di lui
avrebbero potuto causare qualcosa che le avrebbe procurato un senso di
colpa
indelebile.
Anche
perché ormai riteneva di conoscerlo abbastanza bene per
essere certa che non
stava fingendo, non si stava divertendo a darle attenzioni di cui
sentiva la
mancanza.
Ma
ogni
volta che Genzo si avvicinava a lei, ogni volta che la guardava, il
pensiero di
Gianluca bloccato in un letto, incapace di muoversi, la faceva sentire
meschina
per sentirsi attratta da un ragazzo che era la personificazione della
salute e
della forza fisica e interiore.
Era
quasi
felice che il fidanzamento con quella bellissima ereditiera costituisse
un
ostacolo che il portiere evidentemente ancora non voleva o non poteva
rimuovere.
Anche
se i
suoi sentimenti per lui non erano più quelli dei suoi primi
mesi in Giappone.
Chiuse
gli
occhi, sentendosi improvvisamente più fiduciosa.
In
fondo …
avrebbe dovuto tenere duro soltanto poco più di un mese,
ossia quanto mancava
alla fine dell'esperienza alla palestra Shiroyama e al ritorno in
Italia.
Ce
l'avrebbe fatta.
Cominciò
a
camminare a passo più svelto già a pochi metri di
distanza dalla palestra, per
poi riprendere gradualmente il ritmo di corsa.
Che
si
aspettava? Elena pensava ancora al suo ex ragazzo, e lui frequentava
Asami.
Asami
…
l'avrebbe vista anche quella sera, perché sarebbe andato a
cena con lei e poi
insieme, a vedere il match.
Già,
finito l'incontro avrebbe presentato a Carlo quella che era ormai
considerata
la sua fidanzata ufficiale.
E
poi
l'avrebbe accompagnata a casa e lì avrebbe fatto l'amore con
lei, come sempre.
Anche
se
il giorno dopo aveva un esame.
Tutto
questo mentre Elena sarebbe rimasta a casa perché in quel
periodo alla palestra
il lavoro era raddoppiato e ormai la teneva impegnata anche al mattino.
Mancava
poco più di un mese, poi lei sarebbe tornata in Italia
… doveva capire cosa
voleva davvero, prima che uscisse dalla sua vita, lasciandogli soltanto
domande
cui non avrebbe mai potuto dare una risposta.
Accolti
dagli applausi e dalle grida di incitamento degli spettatori che
avevano
riempito il Tokyo Dome, in una scenografia con sfondo scuro illuminata
dai
riflettori e dai flash dei fotografi, i due contendenti, il tedesco di
origini
per metà italiane Carlo Nerlinger e il giovane astro
nascente, il serbo Dragan
Iljanovic fecero il loro ingresso sul ring, accompagnati dai rispettivi
allenatori e secondi uomini, introdotti da un'entusiastica
presentazione in
stile americano.
Dopo
le
rituali spiegazioni delle regole da parte dell'arbitro, il match ebbe
inizio.
Carlo
fece
subito valere la sua esperienza attaccando Iljanovic con una
combinazione di
calci e pugni che lo disorientarono.
Poi
il
giovane serbo riuscì a recuperare terreno e fu il suo turno
di sferrare calci e
pugni dalla potenza micidiale, alle gambe, ai fianchi, alla testa.
Carlo
resistette eroicamente in piedi, fino al termine del primo round.
All'inizio
del secondo round, dopo pochi minuti passati dal gong, Dragan
trovò la
combinazione risolutiva.
Il
giovane
serbo colpì Carlo con un calcio al fianco sinistro, e con i
pugni riuscì a
sfondare la sua difesa. Lo colpì di nuovo, stavolta dal lato
sinistro, con un
calcio alla testa che lo fece cadere a terra.
I
dieci
secondi della conta dell'arbitro passarono tutti, senza che Carlo
riuscisse a
rialzarsi. Dragan corse verso uno degli angoli del ring, e
sollevò braccia e
pugni, esultando mostrando un sorriso da bambino felice, coperto dal
paradenti.
L'arbitro
alzò il braccio del nuovo campione, mentre Carlo, rialzatosi
con l'aiuto di
Akinori Shiroyama e del suo secondo, il suo allievo Ieshige Honda,
sorrideva
orgoglioso, come sempre, e dopo la proclamazione andò ad
abbracciare il suo
erede.
Genzo
applaudì, dispiaciuto per la sconfitta del suo maestro, che
usciva comunque dal
ring a testa alta, ma convinto che avesse perduto contro un degno
avversario.
Asami
applaudiva e sorrideva accanto a lui.
«È
stato
davvero un bell'incontro. Breve, ma emozionante.»
commentò, alzando leggermente
la voce per farsi sentire in mezzo alla salva di applausi e grida
d'incitamento.
Genzo
fece
un cenno d'assenso. Un pensiero si fece strada nella sua mente, e per
un attimo
lo spiazzò. Si chiese se Elena si sarebbe limitata a un
commento tutto sommato
banale come quello appena espresso dalla sua ragazza.
Si
affrettò a scacciarlo, alzandosi in piedi e tendendole una
mano.
«Vieni,
ti
faccio conoscere il maestro Nerlinger.»
Lei
abbassò la testa in segno d'assenso e intrecciò
le dita con le sue, per poi
alzarsi a sua volta.
Avevano
quasi percorso tutta la fila delle poltrone su cui erano stati seduti
quando
furono raggiunti da uno Ieshige sudato e agitato.
«Honda,
che succede?» chiese Genzo, esprimendo nella sua voce
l'angoscia mostrata dal
giovane allievo.
«È
terribile, Wakabayashi!» rispose, con voce rotta
«Il maestro Nerlinger … io e
il maestro Shiroyama lo abbiamo trovato nello spogliatoio, disteso per
terra …
svenuto! Respira, ma non risponde … non si sveglia! Abbiamo
chiamato i
sanitari. Stanno per portarlo in ospedale.» spiegò
concitato, davanti
all'espressione sempre più inorridita di Genzo e al viso
preoccupato di Asami,
che strinse le mani attorno al braccio del fidanzato.
«Io
e il
maestro Shiroyama adesso andiamo con lui allo Juntendo
Hospital.»
«Va
bene,
Honda. Io vi raggiungerò più tardi.»
disse, dandogli una leggera pacca sulla
spalla per infondergli coraggio.
«Devo
chiamarla.» mormorò, dopo che Ieshige se ne fu
andato.
Asami
lo
guardò, senza dire nulla. Sapeva di chi si trattava: la
nipote di Nerlinger, la
ragazza che aveva incontrato in ospedale quando Genzo era stato
ricoverato.
«Elena?
Sì, è finito.» sorrise debolmente,
accennando una risata forzata «Sì, ha perso
davvero con onore. Credo anch'io che non mollerà tanto
facilmente. Senti, devo
dirti una cosa …» sospirò, cercando di
metterla al corrente della situazione
senza allarmarla più del dovuto «Tuo zio si
è sentito male negli spogliatoi.
L'hanno appena portato allo Juntendo Hospital. Io sto andando
lì … ti chiamo un
taxi che ti porti alla stazione di Nankatsu. Poi, a Tokyo, troverai
Kuroda ad
aspettarti. Sì, me ne occupo io. Ti chiamerò se
ci saranno delle novità.»
Ripose
il
cellulare nella tasca e si rivolse alla ragazza accanto a lui.
«Asami,
ti
accompagno a casa e poi vado in ospedale.»
«Lo
Juntendo Hospital è più vicino rispetto a casa
mia. Ti faccio accompagnare lì.»
Genzo
annuì e i due si incamminarono verso l'uscita del Tokyo Dome.
La
berlina
della famiglia Ujimori giunse nel piazzale davanti all'ospedale in cui
era
stato portato Carlo.
«Vengo
con
te?» chiese Asami.
Genzo
scosse piano la testa «Non so a che ora tornerò.
Tu hai un esame importante,
domani.» le disse, sfiorandole una spalla con le dita
«Hai bisogno di
riposare.»
La
ragazza
piegò il capo, in segno d'assenso «Va bene. Fammi
sapere. So che gli sei
affezionato, è anche grazie a lui se sei migliorato ancora
in questo periodo.»
Genzo
annuì. Le posò un lieve bacio sulle labbra e
scese. L'autista degli Ujimori
rimise l'auto in moto e si avviò verso l'appartamento in cui
abitava la giovane ereditiera.
«Ma
com'è
possibile … è sceso dal ring, sorrideva, era lo
stesso di sempre.» obiettò,
incredula.
«Sì
è
sentito male nello spogliatoio ed è svenuto. È
stato soccorso dai sanitari, che
lo hanno intubato e lo hanno portato in ospedale con
un'ambulanza.» le spiegò
Genzo.
Elena
rimase zitta per alcuni secondi, il suo cervello faticava a
razionalizzare ciò
che l'amico le aveva appena detto, a credere a ciò che le
aveva succintamente
raccontato.
«Ti faccio
chiamare un taxi, tra poco sarà da te. Poi, arrivata alla
stazione di Tokyo,
troverai Kuroda ad aspettarti. Ti porterà davanti alla
clinica. Anch'io sto
andando lì.»
«Elena,
mi
hai sentito?» chiese, non sentendo giungere alcuna risposta.
«Sì
…»
mormorò. Poi, in un tono più deciso
«Sì, scusami. Grazie. A più tardi,
allora.»
Chiuse
la
chiamata e lasciò la presa sul cellulare, che cadde sul
cuscino del divano.
Ristette
in piedi, senza altro pensiero che recarsi all'ospedale e rivedere suo
zio.
Poi
iniziò
a muoversi, confusa e agitata, il televisore ancora sintonizzato sul
canale che
aveva trasmesso il match tra suo zio e Dragan Iljanovic, cercando di
mantenere
almeno la lucidità necessaria a mettere nella sua borsa lo
stretto necessario
per una notte da passare nella sala d'attesa di un ospedale.
La
telefonata di Genzo l'aveva dapprima sorpresa, poi sconvolta e gettata
nell'angoscia totale.
Aveva
potuto seguire il match solo alla televisione, perché il
mattino seguente
doveva andare in palestra per coadiuvare Mayuko nella direzione degli
allenamenti delle loro ginnaste.
Avvertì
un
tuffo al cuore quando sentì Wilhelm abbaiare. Si
avvicinò a una delle finestre
della facciata della casa e vide un'auto bianca rallentare e fermarsi
davanti
al cancello.
Era
tutto
vero … stava accadendo realmente …
Prese
la
sua borsa, ci infilò il cellulare e uscì nel
giardino.
«Buono,
Wilhelm.» mormorò, chinandosi ad accarezzargli la
testa «Vado dallo zio … che
non sta bene.» disse a voce bassa. Il cane sembrò
percepire la preoccupazione
nell'espressione e nel tono di voce della ragazza, perché
abbassò le orecchie e
si accucciò, incassando il muso tra le zampe anteriori.
Elena
aprì
e varcò il cancello e salì sul taxi.
Nel
cielo
nero in cui occhieggiavano le stelle, la luna piena e luminosa sembrava
vegliare sul suo percorso, ma in quel momento non vedeva nulla attorno
a sé.
Soltanto
l'immagine di Carlo, combattente indomito che ora stava lottando per la
sua
vita.
Ogni
tanto
guardava lo schermo del cellulare. Non c'erano simboli di chiamate
perse o di
messaggi ricevuti. Riusciva soltanto a rimanere seduta, guardando fuori
dal
finestrino dello Shinkansen
che la stava
portando a Tokyo.
Non
percepiva né rumori né voci attorno a
sé, se non sotto forma di brusio.
Era
passata la mezzanotte quando arrivò all'ospedale.
Salì
le
scale che portavano al primo piano, dove si trovava la stanza assegnata
a suo
zio, come recitavano le indicazioni datele da Genzo in una seconda
telefonata,
in cui le aveva annunciato che il primario aveva disposto una delicata
operazione alla testa.
Si
ritrovò
ancora una volta ad attraversare quei corridoi bianchi e asettici. Il
forte
odore di disinfettante le penetrò nelle narici. Sperava di
non mettere piede in
un luogo come quello, almeno lì in Giappone. E invece c'era
stato l'infortunio
di Genzo, e ora suo zio …
Vide
Genzo
seduto all'estremità più lontana di una serie di
poltroncine e velocizzò i
passi, al punto che lui sollevò la testa e si
girò verso di lei, alzandosi
subito in piedi e andandole incontro.
Dietro
di
lui vide Ieshige Honda, seduto con le spalle ricurve, la gambe
allungate
davanti a sé e le mani intrecciate sulle ginocchia, che
alzò appena la testa
per rivolgerle un cenno di saluto. Si stava letteralmente consumando
dalla
preoccupazione, e non era un'immagine incoraggiante. Genzo, invece, era
imperscrutabile.
Oppure
semplicemente, stava aspettando di conoscere l'esito dell'intervento,
senza
esternare la sua apprensione.
«Genzo.
Come sta lo zio?»
«È
ancora
in sala operatoria.»
Elena
annuì, ma dentro di sé avvertì la
morsa stringere ancora di più il suo petto.
Stava
andando per le lunghe …
«Il
maestro Shiroyama è qui?»
«È
andato
via poco fa. Deve essere a Nankatsu per sottoporre degli allievi a
degli esami
per l'assegnazione delle nuove cinture. Honda rimarrà qui
fino al termine
dell'operazione.» disse, guardando il ragazzo, che continuava
a guardare per
terra, incapace di uscire dalla bolla fatta di paura e inquietudine.
Elena
emise un lieve sospiro «È meglio che chiami i
miei, prima che lo leggano su
Internet o che lo sentano da qualche giornalista sportivo su un canale
tematico.» affermò, selezionando il numero di sua
madre dal registro delle
chiamate sul cellulare.
In
Italia
erano passate le sedici, doveva aver già terminato il suo
turno al
supermercato.
Comunicò
la notizia senza giri di parole, cercando di sembrare tranquilla. Non
voleva
nascondere nulla, ma nemmeno allarmare oltremodo i suoi genitori.
«Vi
terrò
aggiornati. Ah mamma, papà come sta? Almeno lui …
sì, ci sentiamo domani.»
riattaccò, facendo una piccola smorfia.
«Le
ho
chiesto come sta papà …» disse poi, con
un sorriso amaro «sembra che agli
uomini che mi stanno accanto debba sempre accadere qualcosa di brutto
…»
mormorò, volgendo gli occhi verso il basso.
Chiuse
gli
occhi e cercò di fare un respiro profondo, per cercare di
calmarsi, ma questo
si spezzò.
Le
sue
guance cominciarono a rigarsi di lacrime, il suo petto venne scosso dai
singhiozzi.
Genzo
le
andò incontro e le mise le sue grandi mani sulle spalle. La
trasse lentamente a
sé, e lei non oppose alcuna resistenza.
Pianse
con
il viso sepolto sul suo petto, mentre lui le cingeva la schiena con un
braccio
e le accarezzava piano i capelli con l'altra mano, senza dire niente.
Senza
chiederle se tra gli uomini di cui parlava c'era anche lui.
«Carlo
è
un lottatore nato. Ce la farà.» le disse soltanto,
con voce pacata e
rassicurante.
Il
suo
respiro le sfiorava i capelli, poteva sentire il calore delle sue
parole
irradiarsi dal petto e avvolgere anche lei.
Gli
si
accostò ancora di più, abbandonandosi alla
sensazione di sicurezza che le
donava. L'unica cosa che desiderava, dopo il risveglio di suo zio, era
che
Genzo continuasse a tenerla stretta, trasmettendole la convinzione che
nulla di
brutto sarebbe potuto succedere.
Un
uomo di
mezza età, magro e non molto alto, comparve sul corridoio.
Indossava
un camice e una mascherina pendeva dal collo. Fece un cenno verso
Genzo, che
scambiò un'occhiata con Elena e si avvicinò
insieme a lei e a Honda.
«Lei
è una
parente?» le chiese il dottore.
«Sì,
sono
Elena Rulli, la nipote del signor Nerlinger.»
L'uomo
fece un cenno d'assenso.
«Signorina,
suo zio ha riportato un trauma cranico dovuto ai colpi ricevuti durante
l'incontro. È stato sottoposto a un intervento chirurgico
per la riduzione di
un ematoma, fortunatamente non molto esteso. È in prognosi
riservata, ma la
situazione è sotto controllo.»
«Quindi
non è in pericolo di vita …?» chiese
Elena, con occhi spalancati che
imploravano una risposta affermativa.
Il
medico
le sorrise e scosse la testa «No, signorina. Si
riprenderà.»
Elena
espirò, chiuse gli occhi e sorrise, e si mise una mano sul
petto «Grazie.»
Il
dottore
assentì con il capo e tornò nella sala operatoria.
Ieshige
guardò verso l'alto e strinse i pugni in silenzio, Genzo
chiuse gli occhi e
sorrise, manifestando compostamente il suo sollievo.
Pochi
minuti dopo, nel corridoio comparve il letto su cui era sdraiato Carlo,
spinto
da due infermiere. Era addormentato.
Elena
e
Ieshige lo seguirono con lo sguardo finché non venne
sistemato nella stanza, il
fiato trattenuto e gli occhi lucidi, mentre Genzo guardava
alternatamente il
suo maestro e poi la ragazza.
La
ragazza
strinse la mano a Honda, poi guardò Genzo e gli sorrise. I
suoi occhi
brillavano di nuove lacrime, questa volta di sollievo e di
felicità. Lui
avrebbe voluto stringerla di nuovo tra le sue braccia, ma si
limitò a
ricambiare il sorriso e a chiederle se avesse bisogno di qualcosa.
Elena
scosse la testa «Rimarrò qui, voglio esserci
quando lo zio si risveglierà.»
«Ora
sono
più tranquillo.» intervenne finalmente Ieshige
«Devo tornare a Nankatsu per gli
esami degli allievi. In assenza del maestro Nerlinger, lo sostituisco
io.
Tornerò a trovarlo domani sera.»
annunciò, incontrando il cenno d'assenso di
entrambi i ragazzi.
Non
sapeva
da quanti minuti avesse lo sguardo su di lei, come a vegliarla.
Rassicurata
dalle parole del medico sulle condizioni di suo zio, Elena si era
addormentata
su una poltroncina accanto a quella dov’era seduto lui. Si
era seduta di
traverso, con le gambe appoggiate su un bracciolo e la testa sullo
schienale,
il busto leggermente ricurvo.
I
suoi
lunghi capelli gli celavano il viso. Avrebbe voluto alzarsi,
avvicinarsi a lei
e sfiorarglieli con una mano, ma rimase fermo dov'era.
Un
gesto
di troppo avrebbe potuto rovinare tutto …
Una
giovane infermiera comparve sul corridoio, fermandosi davanti a lui.
«C'è
un
divanetto nella sala d'attesa accanto, ed è
libero.» lo informò.
Genzo
annuì e la ringraziò, poi guardò
Elena. Se l'avesse svegliata, avrebbe
rischiato di spaventarla, ma non poteva nemmeno lasciare che dormisse
in quella
posizione scomoda.
Si
alzò e
si avvicinò a lei. Si chinò, le mise un braccio
attorno alla schiena e fece
passare l'altro sotto le sue gambe, sollevandola e prendendola in
braccio.
Percorse qualche passo verso la saletta accanto e, con la massima
delicatezza,
la stese sul divanetto.
Le
scostò
alcuni capelli rimasti sul viso, sfiorandole inavvertitamente una
guancia.
Rimase
a
contemplarla, per alcuni istanti. I lineamenti del viso rilassati, la
bocca
leggermente dischiusa … era bella. Sentì un
calore ormai consueto nascere e
irradiarsi nel suo petto.
Chiuse
gli
occhi ed emise un leggero sospiro.
Doveva
accontentarsi di questo, per il momento …
Poi
si
voltò, per tornare nel corridoio.
L'infermiera
aveva assistito alla scena e lo guardò con un sorriso, ma
non era malizioso né
insinuante. Era dolce e quasi commosso, tanto che Genzo lo
ricambiò d'istinto,
prima di tornare a sedersi sulla poltroncina e chiudere gli occhi,
cedendo
infine anch'egli alla stanchezza prodotta dalla mancanza di sonno e
dalle
emozioni susseguitesi nel corso di quella giornata.
«Elena.»
Le
scosse
una spalla con quanta più delicatezza possibile, ma
abbastanza forte da
riuscire a svegliarla.
La
ragazza
fece una smorfia e aprì lentamente gli occhi, sbattendo
più volte le palpebre
per abituarli alla luce del sole che filtrava dalle persiane abbassate.
Poi
mise a
fuoco il volto di Genzo che le sorrideva con dolcezza, infondendole
subito
quella calma che le faceva capire che era stata una notte serena, non
c'erano
state brutte sorprese e nella migliore delle ipotesi suo zio dormiva
tranquillo
dietro la porta della stanza in cui era stato ricoverato.
«Che
ore
sono?» chiese, la voce ancora flebile per il sonno, mentre si
rendeva conto di
essere sdraiata su un divanetto.
«Quasi
le
nove.» rispose Genzo.
Elena
si mise a
sedere, i capelli biondi le ricaddero sulle spalle e ne
scostò alcune ciocche
finite davanti al viso.
«Non
mi
sono addormentata qui, stanotte.» disse, alzando gli occhi sul
portiere.
«No,
infatti. Un'infermiera mi ha avvisato che quel divanetto era libero e
io ti ho
sollevata e ti ci ho sdraiata.» spiegò
semplicemente, senza alcuna nota di
malizia.
Elena
assentì
«Grazie.»
Genzo
le sorrise e le
tese una mano per aiutarla a rialzarsi, come aveva fatto il giorno
prima.
Stavolta
Elena la
accettò, e riuscì a reggersi in equilibrio sulle
ginocchia indolenzite.
«E
tu sei rimasto qui
tutta la notte …?»
Genzo
annuì. La
maschera celava le occhiaie, ma non i capillari che attraversavano le
sclere
dei suoi occhi e che testimoniavano le poche ore di sonno.
«Non
dovevi …» mormorò
commossa, dandogli una lieve carezza su una guancia.
Genzo
avvertì la pelle
bruciare lì dove Elena l'aveva toccato.
Lei
gli sorrise, con
dolcezza e gratitudine.
Quei
gesti lo stavano
sconvolgendo più di quanto gli accadeva facendo l'amore con
Asami …
Fortunatamente
fu la
sua stessa sollecitudine a venirgli in aiuto, facendogli recuperare il
contegno.
«Vuoi
mangiare
qualcosa? Posso andarti a prendere un caffè al bar qui
sotto.»
Elena
lo guardò
ancora, riconoscente per la sua premura che sembrava infinita
…
«Sì,
grazie … mi
prenderesti anche un croissant alla fragola? Io intanto, vado a darmi
una
sistemata.» disse, passandosi una mano sui capelli spettinati.
Lui
annuì, distendendo
le labbra in un sorriso aperto.
Un
quarto d'ora dopo,
Genzo ritornò al primo piano e trovò Elena seduta
su una delle poltroncine. Il
ragazzo si accomodò accanto a lei e le porse il cornetto
ancora caldo e
fragrante e la tazza di caffè, prontamente ringraziato.
Era
strano, e
sicuramente non sarebbe stato possibile se suo zio fosse stato ancora
in
pericolo di vita, ma Elena provava una sensazione di benessere e
serenità.
La
bontà e la dolcezza
di quella colazione, sapere che Genzo aveva vegliato su di lei per
tutta la
notte e si stava prendendo cura di lei, in un certo senso. Come un
amico.
Le
sarebbe mancato,
una volta tornata in Italia, e i pensieri che aveva fatto quel mattino
in
merito non le sembrarono più così confortanti.
«Signori,
se volete
vedere il signor Nerlinger, si è svegliato.» la
voce dell'infermiera li
riscosse e li fece voltare. Si alzarono quasi contemporaneamente e si
diressero
verso la donna, che fece loro cenno di entrare.
Appena
varcata la
soglia, Elena corse verso il letto su cui era sdraiato Carlo, che le
sorrise
non appena la vide, la parte superiore della testa completamente
fasciata.
«Zio
… come stai?» gli
chiese, chinandosi su di lui e circondandogli il collo con le braccia,
in un
buffo abbraccio.
«Ho
la testa dura.»
rispose, toccandosi leggermente la fasciatura e, nel contempo,
sollevando
l'altro braccio per scambiare una forte stretta di mano con Genzo.
«Ci
scherzi sempre su
… ma io ho avuto paura di perderti.»
confessò, sollevandosi e guardandolo con
un piccolo broncio di rimprovero.
«Sì,
questa volta me
la sono vista brutta, effettivamente.» ammise infine, con un
tono di voce
fattosi serio «Ma credo sia stato il mio ultimo incontro. I
medici mi hanno
sconsigliato di riprendere l'attività agonistica.»
rivelò, guardando i due
ragazzi con le labbra tirate ai due lati.
I
suoi occhi azzurri
sembravano ancora più chiari, e si affrettò a
stringerli per impedire alle
lacrime di scendere lungo il viso e manifestare la loro presenza.
Genzo
vide in quel
gesto un comportamento che era caratteristico anche di Elena
… non mostrare la
propria sofferenza.
«Puoi
essere fiero
della tua carriera zio, e dell'esempio che hai saputo dare, facendo
sempre le
tue scelte in autonomia. E comunque puoi continuare a insegnare, hai
dimostrato
di saper trasmettere le tue conoscenze e soprattutto la tua passione.
Genzo può
testimoniarlo.»
Il
portiere assentì,
di rimando.
Carlo
sorrise, con una smorfia che sapeva di rassegnazione
«Sarà difficile … nel
codice del guerriero non esiste la resa. E anche quando il corpo dice
"Basta", lo spirito grida "Mai".» affermò,
risoluto. Poi
ammise, con un tono di voce più sommesso «Ma
stavolta ho davvero temuto di non
svegliarmi mai più.»
L'infermiera
annunciò una nuova visita, e lasciò entrare un
uomo alto, con un corpo
massiccio, corti capelli castani e un volto squadrato dai tratti
decisi,
segnato da un paio di cicatrici testimoni di una carriera di kickboxer
conclusa
da alcuni anni.
«Frank!»
lo salutò Elena, andandogli incontro.
«Sei
Elena, vero?» esclamò l'uomo, stringendole la mano
con entrambe le sue, grandi
e ruvide «Sì, lei è la tua nipotina
bionda, quella mora si chiama Angelina, se
non ricordo male.» disse guardando verso Carlo, che
assentì con il capo. «Da
quanto tempo non ti vedo?» chiese, rivolgendosi nuovamente a
Elena «Eri alta la
metà di adesso e io ero ancora un aitante ragazzone che si
divertiva a far
penare tuo zio sul ring!»
«Veramente
quello che ti faceva sputare sangue ero io.»
ribatté Carlo, sporgendosi verso
di lui con un tono tra il provocatorio e lo scherzoso.
«Eccoli
che cominciano …» ridacchiò Elena,
voltandosi verso Genzo «Ti presento Frank
O'Malley, ex kickboxer statunitense, uno dei suoi rivali più
agguerriti.»
«Chi
vinceva più gare?» chiese il portiere, con un
sogghigno, aspettandosi già la
risposta.
«Io!»
gridarono infatti entrambi gli atleti, per poi scoppiare a ridere.
«Diciamo
che ce le davamo di santa ragione. Però sempre nel rispetto
delle regole, e
fuori dal ring siamo sempre stati ottimi amici.» rispose
Carlo.
«Se
non
sbaglio, lui è il portiere che stai allenando.»
disse Frank, guardando Genzo.
Il
ragazzo
fece un cenno d'assenso.
«Viaggio
molto per lavoro e ho visto spesso la tua foto sui quotidiani sportivi.
Complimenti, sei uno forte.» gli disse, stringendogli la mano
e dandogli una
pacca sulla spalla.
«Lui
ha
capito da un pezzo quando è saggio fermarsi.»
commentò Carlo, facendo cenno con
il mento al suo antico compagno di battaglie.
«Ero
completamente suonato. Non ho mai avuto la tua resistenza.»
obiettò Frank.
«Hai
preferito tenerti tua moglie e farci dei figli, mentre io non ho voluto
lasciare il kickboxing. E così ho detto addio alla donna che
mi è stata accanto
per quindici anni.» replicò Carlo, con un lampo di
disappunto negli occhi.
«Su
coraggio, ormai ci sono uomini che si sposano e fanno figli a
sessant'anni, tu
sei ancora un ragazzino.»
Carlo
scosse la testa «Mi sa che i miei nipoti diventeranno
genitori prima di me.»
ribatté guardando Elena di sottecchi.
Lei
pensò
ad Angelina che aveva sentito per telefono il giorno prima e le aveva
nuovamente chiesto dove intendeva frequentare l'università.
In fin dei conti,
era maggio ormai, ed era tempo di prendere una decisione.
«Che
ora
è, ragazzi?» chiese Carlo, dopo che Frank se ne fu
andato.
Fu
Genzo a
rispondergli, dopo un'occhiata al suo orologio da polso «Le
undici.»
«Le
undici? Elena, che ci fai ancora qui? Devi tornare a Nankatsu, a
preparare le
Nazionali juniores!» la rimproverò Carlo.
Elena
spalancò gli occhi, poi aggrottò le sopracciglia
e si mise una mano su un
fianco «Come potevo andarmene senza sapere se ti saresti
ripreso?»
«Beh,
sei
qui da ore ormai, e adesso sto bene. Rimarrò qui ancora per
diversi giorni, ma
mi riprenderò in tempo per venire ad assistere alle gare,
quindi devi
rimetterti al lavoro.»
Elena
chiuse gli occhi e sorrise «Va bene, vado in stazione a
prendere il treno.»
«È
un
peccato che tu sia costretto qui, Carlo. Avrei voluto invitarvi a cena
insieme
a Mikami, la sera della partita contro il Vietnam.» disse
Genzo, volgendo lo
sguardo anche alla ragazza.
«Beh,
io
non potrò esserci per ovvi motivi, ma … tu Elena,
ci puoi andare.» le disse,
con un ammicco.
«Io
…»
esitò, presa alla sprovvista « … certo,
perché no?» concesse poi, guardando
Genzo con un sorriso. In fondo, l'aveva aiutata e le era stato vicino,
ancora
una volta. E non aveva ragione di avere paura di lui, quali che fossero
i suoi
sentimenti. Non si sarebbe mai comportato in modo sleale, non l'avrebbe
mai
forzata a fare qualcosa che lei non avesse voluto. E poi, non sarebbero
stati
soli, visto che era ospite anche il suo allenatore e mentore.
Mandò
un
sms a Mayuko. Sarebbe tornata alla palestra quel pomeriggio stesso.
«Genzo,
puoi accompagnarla se vuoi.» gli propose Carlo, strizzandogli
un occhio.
Erano
da
poco giunti al pianoterra quando incrociarono il giovane campione
serbo, Dragan
Iljanovic.
Sul
viso
erano ancora visibili i lividi e le escoriazioni retaggio dei colpi
ricevuti
durante il match.
«Scusate.
Volevo sapere come sta il maestro Nerlinger.» disse in un
inglese dall'accento
slavo.
Elena
fece
un cenno d'assenso con la testa «Sta bene. Ha riportato un
trauma cerebrale, ma
si riprenderà.»
Dragan
annuì, sollevato «Mi dispiace averti fatto
prendere questo spavento. Purtroppo
nel nostro sport si danno e si ricevono colpi molto duri e a volte
questo può
arrivare a costarci la vita.»
«Lo
so. Ma
è la vostra passione.» replicò,
mostrando di comprendere perfettamente di cosa
stava parlando e i sentimenti che provava.
Dragan
sorrise «Carlo è uno dei miei idoli, fin da
bambino. Posso andare a fargli
visita?»
«Certo.
È
ricoverato al primo piano, stanza 31.»
Il
giovane
la ringraziò e si diresse verso le scale.
Uscirono
dal piazzale dell'ospedale e si ritrovarono sul marciapiede della
strada
antistante, nuovamente immersi nella luce del sole e nei rumori della
città. Un
primo ritorno alla vita di tutti i giorni.
Elena
si
portò dietro le orecchie le ciocche di capelli mosse da un
vento un po' più
forte rispetto agli altri giorni.
«Vieni
anche tu alla stazione?» chiese, volgendosi verso Genzo.
Stava
per
risponderle quando sentì un trillo ovattato provenire dalla
tasca dei suoi
pantaloni.
Estrasse
il cellulare e il simbolo e la scritta sul display gli comunicavano che
aveva
appena ricevuto un messaggio.
Ho passato l'esame. Massimo dei
voti. Pranziamo
insieme?
Genzo
sospirò.
«No.
Ho un
impegno.» disse con voce monocorde, digitando qualcosa sul
cellulare e
riponendolo nella tasca, stringendo le labbra.
In
quel
momento, un taxi rallentò e accostò nel punto in
cui si trovavano.
«D'accordo.
Ci vediamo la sera della partita allora. Grazie ancora, di
tutto.» replicò
Elena con serenità, per poi aprire la portiera del taxi e
infilarsi dentro.
Mentre
l'auto spariva nel traffico, Genzo rimase a vagare per alcuni minuti su
quel
tratto di marciapiede, per poi fermare anche lui un taxi e farsi
portare alla
residenza della sua famiglia, lì in città.
***Note***
Come
suggerisce il titolo, in questo capitolo ha molta importanza il
rapporto che
lega tre dei quattro protagonisti di questa storia ai loro padri o
comunque
parenti che possono essere considerati una sorta di figura paterna
(come nel
caso di Carlo con Elena).
Ichiro,
padre che ha sempre incoraggiato Taro a inseguire i suoi sogni e a
prendere in
autonomia anche le decisioni più importanti, persino quelle
solitamente
ritenute premature; Shinji, padre che tende invece a dissuadere Kumi
dall'intraprendere un percorso che lui non approva poiché
non lo ritiene
"sicuro" per il suo avvenire.
Carlo
non
è il papà di Elena, ma lo si può
considerare una seconda figura paterna per
lei. L'ha avviata al mondo dello sport, l'ha chiamata con sé
in Giappone, le
sta vicino e la consiglia come se fosse un genitore.
Shoten è
un termine
giapponese che significa "libreria". Viene usato molto dagli editori
che decidono di dare il loro cognome alle case editrici da loro fondate.
Sarariman:
pronuncia
giapponese del termine inglese salaryman,
significa letteralmente "lavoratore salariato" e indica un lavoratore
dipendente impiegato nel settore terziario, in particolare presso
aziende, con
un reddito fisso.
La
descrizione dell'azione del gol di Shun Nitta e il dialogo tra Mark Al
Owairan
e Taro Misaki sono tratti dal capitolo 82 del "Golden 23".
Hokusai, nome d'arte
di Katsuhika Sori
(1760-1849) è stato un pittore e xilografo giapponese,
autore appunto della
serie "Trentasei vedute del Monte Fuji", di cui fa parte la
celeberrima opera "La grande onda di Kanagawa".
Qui la sua biografia.
Il
Tokyo Dome è
uno stadio situato nel quartiere
speciale di Bunkyo, dove si trova, tra l'altro, l'Università
di Tokyo (Todai).
Inaugurato nel 1988, ospita moltissimi eventi di vario genere, dalle
gare
sportive (football, boxe, arti marziali) ai concerti degli artisti
più famosi a
livello mondiale. Lo Juntendo
Hospital esiste
realmente e si trova sempre nel quartiere speciale di Bunkyo, a poca
distanza
dal Tokyo Dome.
Le parole di Carlo e il breve dialogo
tra Dragan ed Elena
sono ispirate dalla canzone "Burning
Heart" dei Survivor,
che fa parte della colonna sonora di
"Rocky IV" (1985).
In
particolare, questa parte di testo:
In the warrior's code
There's no surrender
Though his body says, "Stop"
His spirit cries, "Never"
Deep in our soul
A quiet ember
Knows it's you against you
It's the paradox that drives us
on
It's a battle of wills
In the heat of attack
It's the passion that kills
The victory is yours alone
Questa
è
la traduzione:
[Nel codice del guerriero
Non esiste la resa
Se il suo corpo dice "Basta"
Il suo spirito grida "Mai"
Nel profondo della nostra anima
Una quieta brace
Sa che sei tu contro te stesso
È il paradosso che ci
guida
È una battaglia di
volontà
Nel fervore dell'attacco
È la passione che
uccide
La vittoria è solo
tua]
Piccolo dizionario di ginnastica
artistica:
La "grande Nadia" è Nadia
Comaneci, leggendaria
ginnasta romena, la prima a ottenere un "10 perfetto" ai Giochi
Olimpici di Montréal 1976 (gliene vennero assegnati sette in
tutto). È rimasto
nella storia e nell'immaginario collettivo degli amanti di questo sport
il suo
esercizio alle parallele asimmetriche (qui il video).
Sua
la
frase: "Non scappo da
una sfida perché ho
paura. Piuttosto corro verso di lei, perché l'unico modo per
sfuggire alla
paura è calpestarla sotto i piedi" citata da
Elena.
Una
curiosità: il secondo nome della Comaneci è
proprio Elena.
A
proposito di curiose coincidenze, esiste un'ex ginnasta che ai tempi in
cui
gareggiava era la sosia in carne e ossa proprio della nostra
protagonista.
Si
chiama
Olga Mostepanova e nella prima metà degli anni '80 ha fatto
parte della
fortissima Nazionale sovietica. Era una ginnasta dall'eleganza e dal
talento
sbalorditivi, ma a causa del boicottaggio deciso dal governo dell'URSS
non poté
partecipare alle Olimpiadi di Los Angeles 1984.
Ecco due immagini. La
somiglianza con Elena è notevole!
Lo Shaposhnikova, chiamato familiarmente "Shaposh"
è un elemento
delle parallele asimmetriche presentato da Natalia Shaposhnikova, una
delle
ginnaste di punta della Nazionale sovietica a cavallo tra gli anni '70
e '80.
Qui un video che mostra le evoluzioni di questo
elemento, ripreso e
arricchito nel corso degli anni da altre ginnaste, con combinazioni
sempre più
difficili.
Ecco il XIV capitolo
… riesco finalmente a postarlo
dopo un mese infernale -_-
Chiedo scusa per il ritardo.
Grazie ancora a chi continua a
leggere questa storia!
:-*
Sandie
|
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Capitolo 15 *** Capitolo XV - Tra passato e futuro ***
Capitolo XV
Tra passato e futuro
Taro
terminò di vestirsi, prese una giacca, il portafoglio e un borsone, e
uscì dalla sua stanza.
«Papà,
io
vado.» disse, affacciandosi al vano della porta della cucina,
dove Ichiro era
intento a prepararsi del riso al curry.
«Va
bene,
Taro. Ci vediamo domani, divertiti!»
D'accordo
con Urabe e Ishizaki, sarebbe andato a prenderli davanti al piccolo
supermercato dell'ex capitano della Ootomo, che da negozio in cui si
vendeva
prevalentemente tofu
aveva allargato la
sua attività, proponendo un vasto assortimento di prodotti
alimentari.
Avevano
deciso di andare a vedere la partita tra lo Jubilo Iwata e il Vissel
Kobe.
La
loro squadra seguiva
a due punti di distanza l'Urawa Red Diamonds e una vittoria era
fondamentale
per rimanere nella scia.
«Così
ti
diverti a fare lo spaccone con la macchina nuova, eh?» lo
punzecchiò Hanji.
«No,
è
solo che me la voglio godere il più possibile.»
sorrise, invitando i due amici
a salire con un gesto della mano.
Dei
flash,
dei frammenti dei mesi vissuti a Iwata si susseguirono nella sua mente.
Come
in
una rassegna, gli tornò alla mente il suo primo giorno da
giocatore dello
Jubilo, in cui aveva ritrovato i suoi amici dai tempi della Nankatsu e
aveva
conosciuto Gon Nakayama.
Era
da
poco arrivato allo Yamaha Stadium, dove lo Jubilo Iwata stava ultimando
la
preparazione alla partita d'esordio nel secondo stage di J League.
Ishizaki
e Urabe stavano correndo alle spalle dell'attaccante e colonna della
squadra,
Gon Nakayama, che si stava rapidamente dirigendo verso il pallone da
lui appena
calciato.
«Se
raggiungete il pallone prima di me, vi offrirò un gigantesco
yakiniku
per cena!»
«Yakiniku?!»
gridarono all'unisono i due
difensori, increduli.
«Proprio
così! E ora provate a impedirmi di segnare, se ci
riuscite!» gridò, correndo
nel contempo velocissimo verso la porta.
Non
capivano dove Nakayama trovasse tutto quel fiato, per correre e per
parlare
contemporaneamente.
L'attaccante
arrivò per primo sul pallone e calciò. La sfera
tuttavia, non finì dentro la
rete, perché un piede fermò la sua corsa.
Taro
Misaki si chinò per raccoglierla con una mano e stringerla
al petto, guardando
i tre calciatori con un sorriso accennato e un lampo determinato negli
occhi
nocciola.
«Misaki
… sei proprio tu?» disse Ryo, incredulo, correndo
verso di lui, seguito da
Hanji.
«Significa
che giocherai nello Jubilo Iwata?»
Taro
annuì con un cenno del capo, incontrando lo sguardo
compiaciuto di Gon
Nakayama.
«Perché
non stasera?» protestò Hanji.
«Perché
stasera ho già un impegno.» rispose prontamente
Gon, come se si trattasse della
cosa più ovvia del mondo.
Avevano
appena terminato di vestirsi e l'attaccante aveva messo la mano sulla
maniglia
dello spogliatoio.
«Ma
avevi detto che ci offrivi lo stesso la cena!» intervenne Ryo, in
supporto all'amico.
Gon
sogghignò «Sì, ma non ho detto che ve
l'avrei offerta questa
sera. Quindi dovrete pazientare un paio di
giorni.» disse
voltandosi e salutandoli con un gesto della mano, prima di uscire e
avviarsi
verso il garage dov'era parcheggiata la sua macchina.
«Comincio
a odiarlo.» sibilò Ishizaki, con Urabe che
annuiva, altrettanto contrariato.
«Signor
Mizuno, la sua cucina è semplicemente
superlativa!» Ryo diede ulteriore
eloquenza al suo elogio riempiendosi per la terza volta il piatto di
carne.
Alla
fine, dopo due giorni Gon, prima di lasciare il centro sportivo dopo un
altro
estenuante allenamento, aveva dato appuntamento ai tre nuovi acquisti
all'izakaya gestito
da Danjuro Mizuno, un uomo
segaligno dalla statura poco superiore alla media, e soprattutto un
vero mago
ai fornelli. Mizuno-san.
«Grazie
ragazzi, ma il merito va diviso con la mia splendida aiutante, Kinuyo
Harada.»
disse, indicando con un gesto della mano la giovane donna che stava
raggiungendo il loro tavolo.
I
ragazzi si voltarono verso di lei, e quando la sua figura sottile si
fermò
accanto a Danjuro, i loro volti si illuminarono per l'ammirazione.
«Ero
curiosa di conoscere i tre nuovi calciatori del nostro amato Jubilo.
Molto
piacere, ragazzi.» esordì. Aveva i capelli neri
raccolti in una coda, a far
risaltare il bellissimo viso dalla pelle candida e liscia. Due
brillanti occhi
neri spiccavano in quell'incarnato di porcellana.
Taro
la
guardò come incantato, al punto che anche i suoi compagni se
ne accorsero.
«Hai
già
conquistato il nostro nuovo campione, Kinuyo.»
sghignazzò Gon, seguito dalle
risate di Hanji e Ryo, che davano di gomito al povero Taro, che
arrossì come un
pomodoro ma si guadagnò l'interesse della donna, che ne fece
il principale
destinatario delle sue domande.
Kinuyo
partecipò alla conversazione tra i giocatori della squadra,
rispondendo con
puntuta ironia alle battute di Nakayama e intervenendo con
considerazioni
pertinenti sulle partite dello Jubilo e sulla J League.
Taro
si
ritrovò spesso a guardare verso di lei, e i suoi sguardi
furono altrettanto
spesso ricambiati.
Quella
scena si ripeté altre volte, nelle settimane successive.
Finché
una sera, il centrocampista decise che non era più capace di
accontentarsi di
quegli sguardi e di brevi dialoghi scambiati sempre nell'ambito di una
conversazione generale.
Voleva
vederla da solo … si vestì con cura nella sua
camera da letto, arrivando
persino a spruzzarsi del profumo di muschio bianco.
«Io
esco.» annunciò, infilandosi una leggera giacca di
jeans.
«D'accordo,
Misaki.» gli rispose Urabe, spaparanzato sul divano con le
braccia allungate
sullo schienale.
Come
immaginava e sperava, né Ryo né Hanji lo
avrebbero seguito. Quando c'era il
loro programma preferito in tv, nulla poteva smuoverli.
Uscì
dal
palazzo e diresse i suoi passi verso l'izakaya,
sulla strada illuminata dalle luci dei lampioni. Ogni tanto transitava
qualche
auto, incrociò poche persone, perlopiù impiegati
di ritorno dal lavoro o coppie
e gruppi di amici che rientravano a casa.
C'erano
poche luci accese e nessuna voce proveniva dall'interno, segno che
l'orario di
apertura era terminato.
Entrò e si sedette.
Sentì dei rumori provenire dalla cucina.
Acqua
che scorreva, acciottolio di piatti, bicchieri, recipienti e utensili
vari.
Poco
dopo, il rumore cessò e venne sostituito da quello dei passi
leggeri di Kinuyo.
«Ehi,
ciao!» esordì lei con vivacità,
comparendo sul vano della porta, asciugandosi
le mani con uno strofinaccio.
«Ciao.»
replicò lui, con il suo sorriso gentile.
«Kirin Ichiban, come
al solito?»
Taro
annuì.
Kinuyo
sparì per pochi istanti in cucina, per poi ricomparire con
due bottiglie di
birra.
Le
appoggiò sul bancone e tolse il tappo a entrambe con uno
sturabottiglie.
Ne
afferrò una, nello stesso momento in cui Taro prendeva in
mano l'altra.
Fecero
cozzare le due bottiglie, prima di bere parte del contenuto,
guardandosi negli
occhi.
«Scusami
se ti sembrerò indiscreto, ma per caso Nakayama è
innamorato di te?» chiese
lui, all'improvviso, con una curiosità che suonava insolita
perfino a sé
stesso.
Kinuyo
sgranò gli occhi, poi scoppiò a ridere,
mettendosi una mano davanti alla bocca.
«Innamorato
di me, Gon? Figurati, siamo come un fratellone con la sua sorellina. E
poi lui
è felicemente sposato con una cugina di Danjuro.»
«Sul
serio? Non credevo. Ecco perché è così
legato a questo posto.» rispose Taro, un
po' stupito.
Passarono
almeno un'ora a chiacchierare, al punto che le birre erano diventate
più che
tiepide e si erano nuovamente messi a ridere.
Kinuyo
sfilò dai suoi capelli il fermaglio che li tratteneva e si
passò una mano sul
viso per ravviare alcune ciocche.
«Avevo
proprio bisogno di una pausa. Ora sarà meglio che torni a
casa.»
«Posso
accompagnarti?»
«Certo.»
Lei
aprì
la porta, entrò e mantenne la mano sulla maniglia,
ricambiando il suo sguardo.
Rimase
fermo ad aspettare sulla soglia, senza staccarle gli occhi di dosso.
Al
suo
cenno, Taro avanzò, entrando in casa.
Kinuyo
gli chiuse la porta alle spalle.
Il
centrocampista fu sicuro di aver avvertito una scossa elettrica, quando
la
giovane donna gli si avvicinò, accarezzandogli il viso
glabro e posando le
labbra sulle sue.
Fece
scivolare la giacca dalle sue spalle e gli passò le braccia
attorno al collo,
mentre dischiudeva le labbra, invitandolo ad approfondire il contatto.
Gli
prese le mani e le posò sui suoi fianchi,
affinché le facesse scorrere sul suo
corpo.
Taro
non
aveva mai provato un simile grado di eccitazione. Si rese conto che
fino ad
allora non aveva saputo cosa significasse toccare una donna con ardore,
baciarla con passione.
Dopo
alcuni momenti di iniziale impaccio, il desiderio e l'istinto presero
il
sopravvento, e presto si ritrovarono nudi e avvolti nelle lenzuola del
letto di
lei, a riempire la stanza dei loro gemiti e sospiri.
«Sei
un
ragazzo speciale, Taro. Mi sei piaciuto subito, fin dal primo
momento.»
mormorò, adagiando la testa sul suo petto nudo e
sfiorandogli l'addome con
delle lievi carezze.
Lui,
troppo inebriato per poterle rispondere, le passò le dita
tra i capelli di seta
e sulla schiena.
Erano
stati mesi favolosi.
Lui,
sempre presente in campo con lo Jubilo Iwata, stava trascinando la
squadra
verso la conquista del secondo stage, e si stava imponendo e facendo
notare
anche all'estero per la bellezza dei suoi gol e per la precisione dei
suoi
passaggi. Prestazioni che confermava anche nelle amichevoli con la
Nazionale
Under 23, contro due selezioni più collaudate a livello
internazionale come la
Danimarca e la Nigeria.
Kinuyo
assisteva sempre alle partite giocate nello Yamaha o nell'Ecopa
Stadium, e
seguiva in tv tutte le trasferte, facendo un'eccezione se queste erano
previste
nella prefettura di Shizuoka.
Taro
disertava sempre più spesso l'appartamento preso in affitto
con Ishizaki e
Urabe, per passare le notti e a volte anche le giornate a casa di
Kinuyo.
Lei
gli
insegnò a cucinare alcune pietanze tipiche della cucina
giapponese, e finivano
sempre per punzecchiarsi e ridere, tra un'effusione e l'altra.
Era
troppo bello … sembrava una favola. Di più, un
sogno.
E
infatti, si era interrotto bruscamente.
Pochi
giorni dopo l'amichevole vittoriosa contro il Paraguay, Kinuyo gli
aveva
sbattuto in faccia quella rivelazione, e nel momento peggiore: dopo
aver fatto
l'amore.
«Ho
incontrato un uomo, Taro. Ha ventotto anni, lavora da cinque come
assicuratore
per la Nomura, ha una carriera ben avviata. È serio e
gentile. Ci ha presentati
mio zio e …»
«Un
omiai?»
chiese Taro, un'espressione
indecifrabile sul volto.
«Taro,
io ho già ventisei anni. Tutto quello che desidero
è un matrimonio stabile e
costruire una famiglia. Con te ora è tutto meraviglioso, ma
chi ci dice che
durerà? Hai solo vent'anni, dei sogni che ti porteranno
lontano dal Giappone e
io non voglio chiederti cose che non puoi o non ti senti di
darmi.»
«Puoi
sempre venire con me.» replicò, con un'espressione
che sembrava chiederle quale
fosse il problema.
«Io
qui
ho un lavoro, i miei genitori, la mia vita. Non potrei mai
lasciarli.»
«Ma
tu
non ami quell'uomo.»
«Lo
stimo e lo rispetto. So che mi renderà felice, che mi
darà un futuro sereno e
senza problemi.»
«Io
invece non sono in grado di darti garanzie, non è
così?» aveva alzato la voce,
al colmo dell'incredulità e della delusione.
Kinuyo
lo guardò con un sorriso triste «Rimarrai uno
splendido ricordo, che porterò
sempre con me. Certe storie sono belle e intense ma non sono fatte per
durare.
E tu hai bisogno di una ragazza disposta a condividere con te il tuo
sogno. Io
non ci riesco.»
Taro
non
rispose nulla. Chiuse gli occhi, si alzò dal letto e si
rivestì, senza neppure
andare in bagno. Prese i suoi pochi effetti personali e uscì
dall'appartamento,
per non tornarci più.
Arrivarono
allo Yamaha Stadium e presero posto in zona centrale.
Alcuni
tifosi li riconobbero e li circondarono, alla ricerca di autografi,
strette di
mano e fotografie.
La
loro
presenza venne salutata dall’entusiasmo dei
supporter e sottolineata
dai cronisti.
Lo
Jubilo
Iwata batté il Vissel Kobe per 2-0, con una doppietta di
Nakayama.
E
una
notizia splendida arrivò da Saitama, dove grazie ai brasiliani Pepe e
Leo, il Kashima Antlers a
sorpresa aveva battuto in casa la capolista Urawa Red Diamonds.
Risultato
fondamentale perché valse il sorpasso dello Jubilo, che ora
si trovava in
vetta.
«Fantastico!»
Ryo era in visibilio «Speriamo succeda qualcosa di simile
anche a noi tra
qualche giorno!»
«E
ora,
tutti a festeggiare da Mizuno-san!»
gridò Gon, da poco uscito dallo stadio, nel piazzale dove,
insieme ad altri
giocatori, lo avevano atteso i suoi tre giovani compagni di squadra.
«Volentieri!»
esultò Ishizaki «Ho proprio voglia di mangiare la
famosa grigliata di Danjuro!»
«Misaki,
te la senti di venirci?» chiese poi, guardando attentamente
l'amico.
«Certo,
perché non dovrei?» rispose con aria affabile,
anche se dentro di sé provava
una leggera apprensione … l'avrebbe rivista dopo cinque
mesi. Come avrebbe
reagito?
Era
curioso e inquieto allo stesso momento.
Il
primo
sentimento prevalse, così come i ricordi felici delle serate
passate in quel
locale con gli amici e i compagni di squadra.
All'interno
dell'izakaya,
Danjuro accolse tutti con
l'entusiasmo di sempre e si illuminò quando si accorse della
presenza della
nuova stella dello Jubilo.
«Ehi,
guarda chi si rivede! Misaki! Da quanto tempo non venivi qui?»
«Da
gennaio, poco dopo i festeggiamenti per la vittoria del secondo
stage.»
«Certo,
e
come dimenticare? Una festa per i nostri campioni … ora sono
tutti impegnati
con il campionato e dopo aver superato l'Urawa Red Diamonds in
classifica,
speriamo di poterci confermare in questo stage.»
«Lo
spero
anch'io. Tiferò sempre per lo Jubilo!»
Il
gestore
aggrottò le sopracciglia «Che significa? Non mi
starai dicendo che ci lasci?»
Taro
sorrise «Per ora no, ma se dovessi disputare una buona
Olimpiade, non
disdegnerò l'interessamento delle squadre europee.»
Danjuro
alzò le spalle «Beh, del resto tu sei un grande
giocatore. Non ho mai visto
fare ad altri giocatori qui in Giappone quello che hai fatto
tu.»
Stavano
mangiando, chiacchierando e ridendo da mezz'ora quando Danjuro
raggiunse
nuovamente il loro tavolo.
«Ragazzi,
siete venuti appena in tempo per salutare Kinuyo. Tra un mese si
sposerà e
andrà a vivere a Osaka.» annunciò.
Urabe
e
Ishizaki si girarono istintivamente verso Taro, che mantenne
un'espressione
impassibile. Entrambi sapevano che non significava nulla in
sé … Misaki era
sempre stato bravo a nascondere i suoi sentimenti, quando non voleva
lasciarli
trasparire.
Dopo
pochi
minuti, la donna comparve nella sala da pranzo con altri piatti pieni
di carne
da arrostire, salutata dagli applausi e dalle grida dei clienti.
«Ehilà,
ragazzi! Sono felice di rivedervi, mi siete mancati!»
esclamò entusiasta, non
appena riconobbe i tre giocatori ex Nankatsu.
«Ciao,
Kinuyo! Allora è vero che ti sposi e te ne vai?»
le chiese subito Urabe.
La
ragazza
annuì.
Incrociò
gli occhi di Taro, che la guardava con un leggero sorriso, senza
parlare.
«Ciao
Taro. Ti ho visto alle qualificazioni, sei sempre più
bravo.»
«Grazie,
Kinuyo.» rispose il centrocampista, afferrando il suo boccale
di birra e
bevendone alcuni sorsi.
La
serata
passò in goliardia, tra battute, scherzi, risate, aneddoti
dei mesi passati
tutti insieme a Iwata e racconti del periodo più recente, il
primo stage della
nuova stagione per chi stava ancora giocando in J League, le partite
delle
qualificazioni per i tre nazionali.
All'uscita
del locale, ignorando lo sguardo di rimprovero di Gon, Kinuyo si
avvicinò a
Taro, quasi furtiva e gli sfiorò una spalla.
«Ti
va di
accompagnarmi a casa?» sussurrò.
Il
suo
respiro gli sfiorò il lobo dell'orecchio provocandogli un
brivido, suo
malgrado.
Qualche
nuvola rischiarava il blu oltremare del cielo, velando di tanto in
tanto la
luna e le stelle.
«Sono
in
auto con Ishizaki e Urabe.» obiettò.
«Non
ti
preoccupare, Misaki.» intervenne Hanji, addirittura prima che
potesse terminare
la frase. «Possiamo anche tornare a piedi, vero
Ishizaki?» disse, dando di
gomito al compagno.
«Sì,
certo. Dopo questa mangiata, fare quattro passi e prendere una boccata
d'aria
fresca è quello che ci vuole.»
«Va
bene,
ti accompagno.» rispose allora Taro, incontrando
l'espressione lieta di lei.
Lasciò
l'auto a pochi passi dal palazzo in cui abitava Kinuyo.
Dopo
aver
percorso pochi gradini di scale, la seguì nel suo piccolo
appartamento, che si
trovava al primo piano.
Quell'abitazione
adatta a una donna single, sarebbe presto rimasta vuota e data in
affitto ad
altri inquilini.
«Ti
rimane
poco tempo per vivere qui.» disse, tanto per rompere il
silenzio caduto tra
loro quando erano entrati.
«Già.
Sai,
un po' mi dispiace. Mi ero affezionata a questa casetta. La prima in
cui ho
vissuto da donna indipendente.»
Taro
sorrise, con lieve ironia.
«La
tua
relazione con l'assicuratore della Nomura va bene, allora.»
La
ragazza
gli si avvicinò. Giunse a pochi centimetri da lui e gli
diede un lieve bacio
sulle labbra «Lui non è come te, Taro
…» mormorò, guardandolo con un mesto
sorriso.
«Hai
fatto
la tua scelta, Kinuyo …» rispose lui.
«Lo
so.»
disse, guardandolo con occhi malinconici «Prima era diverso.
Quando lo
frequentavo, sapevo che poi qui c'eri tu. Ma ora
…» continuò languida, posando
le mani sul suo petto.
Per
un
momento, Taro fremette a quel contatto. Non aveva dimenticato la sua
relazione
con lei, quello che c'era stato fra loro.
Conosceva
bene il suo corpo. Lo aveva esplorato tante volte, senza stancarsi, nei
mesi in
cui aveva vissuto e giocato a Iwata.
Ricordava
ogni momento del loro primo incontro, della loro prima notte insieme.
Era
stata
la prima donna con cui si era lasciato andare completamente, con cui
aveva
fatto l'amore, mettendo da parte ogni inibizione. L'aveva amata, in
modo totale
e forse ingenuo da ventenne, ma si era sentito pronto a costruire un
futuro,
con lei.
Taro
chiuse gli occhi ed espirò, con un mezzo sorriso.
«Cosa
vorresti dirmi, ora? Che sei pentita, che non lo ami veramente, che ti
sono
mancato?» chiese, in tono beffardo.
Lei
trasalì, non aspettandosi di udire tanta durezza nella sua
voce. Così tanta da
sembrare, in lui, innaturale.
«Fammi
sognare un'ultima volta, Taro …» lo
abbracciò, certa di ispirargli ancora quei
sentimenti che li avevano legati mesi prima, e gli afferrò i
polsi per fargli
posare le mani sui suoi fianchi. Aveva fatto così la loro
prima volta insieme …
aveva guidato le sue mani lungo tutto il suo corpo, per poi lasciare
che
seguisse il suo istinto.
Taro
strinse i denti dietro le labbra serrate, avvertendo l'eccitazione
crescere,
suo malgrado.
Fu
tentato
di stringerla, spogliarla, accarezzarla in tutti i modi possibili, su
tutto il
corpo, e possederla con tutta la passione e la veemenza con cui sempre
lo aveva
implorato di fare, per alimentare in lei i rimpianti, per renderla
consapevole
una volta di più quello che stava perdendo.
Per
orgoglio personale. Perché era stato messo da parte,
declassato a eccitante
avventura in quanto senza laurea e senza un lavoro stabile, quindi
incapace di
offrirle garanzie per il futuro. Perché non lo amava al
punto da condividere i
suoi sogni, le sue aspirazioni, i suoi traguardi e le sue speranze.
Al
contatto con le labbra della giovane donna, le separò con la
lingua, esplorando
la sua bocca. Poi percorse quei centimetri di pelle che lei gli aveva
offerto,
reclinando la testa all'indietro. Ascoltò i suoi ansiti,
sentì la carotide
pulsare convulsamente sotto la pelle serica e contro le sue labbra.
Con
le
mani aveva preso ad accarezzarle le spalle, i seni, i fianchi,
strappandole
altri sospiri.
«Taro
...»
Il
gemito
della donna ruppe quell'incantesimo.
Sollevò
la
testa e la fissò dritto negli occhi.
Lei
lo
guardò, stupita e delusa dall’interruzione di quel
contatto prolungato che la
stava mandando in estasi, come quando stavano insieme.
Taro
sorrise.
No,
non
era più come prima.
L'aveva
illusa, come lei aveva fatto con lui, trattandolo come un giocattolo e
dando
per scontato che le sarebbe bastato ricomparire sulla sua strada, per
avere di
nuovo il dominio sui suoi sentimenti.
E
soprattutto, aveva scorto un barlume di chiarezza nel suo cuore.
Un
sentimento nuovo, all'orizzonte. E il volto di una ragazza dai vivaci e
brillanti occhi castani. Una per cui valeva la pena lasciarsi il
passato alle
spalle.
«Le
cose
cambiano, Kinuyo …» sibilò, scostandosi
da lei e voltandosi verso l'uscio.
Aprì
la
porta e scese i pochi scalini che portavano all'atrio del palazzo.
Gli
parve
di sentire un pianto sommesso, provenire dall'interno dell'appartamento.
Uscì
e
dopo pochi passi fu di nuovo sulla strada.
Rientrato
nel suo appartamento, trovò Urabe ancora seduto sul divano,
con una bottiglia
di birra vuota e l'altra piena per metà sul tavolino.
«Ehi
Misaki! Come mai già qui? Eravamo convinti che ti avremmo
rivisto domattina.»
disse, strizzandogli un occhio.
«Non
consolo le spose infelici.» replicò il giovane con
sarcasmo, passando dietro il
divano e dirigendosi verso la sua stanza.
Hanji
alzò
le spalle e bevve un altro sorso di birra. Poi sogghignò.
«Vuoi
vedere che quei due pettegoli di Ishizaki e Nishimoto hanno ragione
…»
Elena
si
guardò a lungo allo specchio, indecisa su come vestirsi.
Genzo non era certo
uno snob né un fanatico dell'etichetta, anzi non ostentava
per nulla la sua
ricchezza.
Ma
viveva
comunque in una villa enorme e lussuosa. Non poteva certo presentarsi
in jeans
e maglietta.
Indossò
così un lupetto smanicato azzurro e una gonna nera.
Infilò dei collant un po'
più scuri per coprire i lividi sulle gambe e ai piedi un
paio di sandali. Sul
viso, mise un ombretto color oro e un gloss rosa perlato.
Le
rimaneva da decidere come pettinarsi. Raccogliere i capelli nel
consueto
chignon, oppure lasciarli sciolti?
Alla
fine,
optò per una via di mezzo: afferrò due ciocche,
le portò all'indietro e le
fissò con un fermaglio.
Un
look
semplice ed elegante, con cui sperava di non far storcere il naso ai
domestici
della villa e agli ospiti di Genzo.
Arrivò
davanti all'alto cancello di villa Wakabayashi quando il sole
cominciava a
tingere il cielo di sfumature rosse. Suonò il citofono e
pronunciò il suo nome
quando sentì una melodiosa e garbata voce femminile
risponderle.
Il
cancello iniziò ad aprirsi ed Elena attraversò il
vialetto di ghiaia,
osservando l'enorme giardino che si estendeva ai lati. Le file di alti
sempreverdi, il prato all'inglese curatissimo, adornato da splendidi
fiori.
E
infine,
la facciata della villa, che sembrava ancora più ampia e
torreggiante, ora che
la guardava dal basso, a pochi metri di distanza.
Un
cane
bianco sbucò dal retro della villa e le corse incontro,
abbaiando.
Elena
sussultò, ma continuò a camminare senza fretta e
quando l'animale le si
avvicinò, tese una mano, per permettergli di annusarla.
Iniziò
poi
ad accarezzargli prudentemente la testa e il cane la lasciò
fare, continuando a
fissarla guardingo.
«Vedo
che
stai cominciando a fare amicizia con John.»
Elena
alzò
la testa e vide Genzo, a pochi passi da lei e dal suo amico a quattro
zampe.
Gli
sorrise, con una delle sue tipiche smorfie da monella.
«E
così
sei tu il famoso John.» disse poi rivolta al cane, che si
mostrò un po' più
espansivo, come se aspettasse una sorta di "nulla osta" da parte del
suo padrone.
«È
con noi
da quando avevo nove anni. È un vecchietto un po'
diffidente, ma pare che tu
gli stia andando a genio.» scherzò il portiere.
«Entriamo?»
le domandò poi.
Elena
annuì «Sono curiosa di vedere com'è
l'interno di una villa giapponese.»
Aveva
fatto bene a scegliere un abbigliamento più elegante. Genzo
era vestito con dei
pantaloni neri e una camicia bianca, i capelli leggermente arruffati.
Nell'ampio
vestibolo, li aspettava una donna di mezza età di bassa
statura e corporatura
minuta, con il volto delicato e segnato da poche rughe incorniciato da
corti
capelli neri tagliati a caschetto.
«Buonasera,
signorina Rulli. Cambi pure qui le sue calzature, queste devono essere
della
sua misura.»
«Lei
è
Hitomi Sakai, da vent'anni è la nostra governante.»
«Vent'anni?»
«Sì,
fui
assunta poco prima della sua nascita.» confermò
Hitomi.
«L'ha
visto crescere, quindi.» considerò, colpita subito
dopo dal pensiero che
avrebbe voluto farsi raccontare qualche aneddoto
sull’infanzia del portiere …
di certo quella donna ne conosceva moltissimi.
Hitomi
annuì e a Elena parve che stesse per dirle qualcosa, quando
Genzo si rivolse a
lei.
«Sei
la
prima. Mikami non è ancora arrivato.»
«Sei
solo?»
«Sì.
Hiroji e Annie, come ogni finesettimana, sono andati a Tokyo dai miei
genitori
e hanno portato con sé i bambini.»
«Sai
… ero
curiosa di vedere la piccola Aiko.»
«Sta
imparando a camminare, un po' alla volta.»
«Quella
bambina è deliziosa.» disse Hitomi, intenerita,
congedandosi dalla stanza per
ultimare i preparativi della cena.
Pochi
minuti dopo arrivò Tatsuo Mikami.
Elena
l'aveva intravisto durante le partite al National Stadium, accanto al
dirigente
più giovane con lunghi capelli scuri, Munemasa Katagiri, ma
non si erano mai
incontrati.
Genzo
li
presentò ed Elena fu sorpresa quando le disse che aveva
già sentito parlare di
lei.
«Sono
stato l'allenatore personale di Genzo qui in Giappone e, per un breve
periodo,
anche in Germania, prima che entrasse a far parte del settore giovanile
dell'Amburgo. So che Genzo si allena nella palestra dove
lavori.»
«È
più
corretto dire che mi allenavo …»
precisò il portiere, incrociando le braccia.
«Quando
il
tuo occhio sarà guarito completamente, potrai tornare a
farlo.» gli ricordò
Tatsuo.
Mikami
…
l'uomo che per primo aveva intuito il talento di Genzo.
Anche
lui
lo conosceva benissimo e chissà quanti episodi poteva
raccontarle, soprattutto
sui suoi primi anni in Germania, costretto a confrontarsi con una
lingua e una
cultura così diverse da quelle del suo Paese d'origine.
Una
voce
stentorea e gutturale riecheggiò nel vestibolo, in un
giapponese dalla
pronuncia un po' stentata.
Genzo
spalancò gli occhi, poi sbuffò, seccato.
Günther
Hoffmann aveva deciso di comparire al momento più opportuno
per sé stesso, ma
meno adeguato per lui.
«Buonasera,
signora Sakai. Le ho portato un mazzo di peonie, so che lei gradisce
moltissimo
questi fiori.» le disse in un tono talmente gentile da
rasentare lo svenevole.
Hitomi
lo
avrebbe trovato imbarazzante se non fosse stato un uomo di mezza
età, dal
fisico da granatiere e gli occhi azzurri che creavano un attraente
contrasto
con i capelli castano scuro un po' ingrigiti sulle tempie.
«Signor
Hoffmann, sono meravigliosi. Non sapevo fosse stato invitato anche
lei.»
«Anche?
Perché, ci sono altri ospiti?»
«Sì,
il
signor Mikami e la signorina Rulli.»
«Rulli?
Ma
non si chiamava Ujimori?» chiese, sorpreso.
«Asami
non
è qui. La signorina Elena Rulli è una mia amica,
la nipote del mio maestro di
kickboxing. Sarebbe dovuto essere anche lui qui stasera, ma
è ancora
convalescente dopo un intervento alla testa.» intervenne
Genzo, entrando nel
vestibolo togliendo così d'impaccio la governante, senza
preoccuparsi di
nascondere un'espressione contrariata.
«Buonasera
Herr Hoffmann. Lieta di conoscerla.» si fece avanti la
giovane.
«Buonasera
signorina. Il suo nome è italiano, ma dal suo aspetto e
dalla sua pronuncia
perfetta si direbbe che scorre anche sangue teutonico nelle sue
vene.»
«Non
sbaglia. La famiglia di mia madre vive in Germania.»
«In
quale
zona?»
«La
Baviera, non lontano da Monaco.»
«Bene
… io
vengo da Augsburg.»
Poi
si
rivolse al suo assistito.
«Che
si
tratti di fidanzate o amiche, caro Genzo, dimostri sempre un ottimo
gusto.» si
complimentò ammiccando, mentre Elena fece un blando sorriso
all’udire quelle
parole.
Il
ragazzo
alzò gli occhi al cielo e fece cenno a Hitomi di far servire
la cena il più
presto possibile.
Una
volta
seduti a tavola, il procuratore non perse tempo e riesumò
subito l'argomento
che in realtà più di tutti gli premeva trattare.
«Ti
avevo
detto che avremmo parlato del mio trasferimento soltanto dopo le
qualificazioni, Günther.» gli disse Genzo, senza
nascondere la sua irritazione.
«Certo,
e
se non ti fossi infortunato, avrei rispettato questa scadenza. Ma ora
la tua
prossima partita la giocherai alle Olimpiadi, se il Giappone si
qualificherà,
quindi preferisco portarmi avanti. Anche perché per
l'appunto, ora come ora
rischiate di non andarci, a Madrid.» disse, senza ironia.
Genzo
sospirò. La sola idea gli faceva gelare il sangue nelle
vene, ma Günther aveva
ragione: l'esclusione del Giappone dai Giochi era una minaccia concreta.
«Il
Bayern
ti vuole, è disposto a sborsare qualsiasi cifra. Li hai
letti i giornali? Sei
il portiere più seguito, per te spasimano tutti i grandi
club.»
«Lo
faccio
ogni giorno. Non mi hai detto nulla di nuovo.»
ribatté, in tono annoiato.
«Quello
che non sai, è che Zeeman molto probabilmente
andrà via dall'Amburgo, a fine
stagione. È richiesto dalla Dinamo Dresda, che sta per
essere promossa in
Bundesliga. Ed è stato contattato anche dal Rapid Vienna e
dal Losanna.»
«No,
non
lo sapevo, ma non mi stupisce. I risultati delle ultime due stagioni
sono stati
mediocri e comunque al di sotto delle aspettative.»
«Ma
tu
torneresti ad Amburgo se Zeeman andasse via?» lo
incalzò Günther.
Per
lo
spazio di un attimo, quella notizia colpì Genzo come se si
fosse aperta,
improvvisamente, una breccia. Ma preferì non sbilanciarsi.
«I
miei
rapporti si sono incrinati con lui, non ho avuto problemi né
con i miei
compagni, né con i dirigenti, né con gli altri
membri dello staff tecnico.»
Günther
sogghignò «Beh, non ti rivorranno comunque. Il
club ha grossi problemi
finanziari, fa fatica a mantenere i conti in pareggio e ha bisogno di
fare
cassa. E tu sei il pezzo più pregiato.»
Genzo
lo
guardò. Un lampo di disillusione passò nei suoi
occhi. Günther gli sorrise con
comprensione.
«Questa
storia dell'esclusione dall'undici titolare per fare posto ad altri tre
extracomunitari, tecnicamente non eccelsi per inciso, è
stata tutta una
pantomima, Genzo. Il direttore sportivo dell'Amburgo era convinto che
avresti
accettato il trasferimento al Bayern, invece sei rimasto e hai fatto
saltare un
affare che avrebbe rimpinguato le casse del club. E così
hanno aspettato
l'occasione giusta per portarti alla rottura. Senza saperlo, gliel'hai
servita
su un piatto d'argento.»
«Io
mantengo il mio proposito. Ci penserò solo dopo le
qualificazioni.» ribadì.
Günther
annuì, ma non rinunciò al suo ennesimo tentativo
di persuasione.
«Se
rimani
in Germania, hai il vantaggio di conoscere già la lingua,
così come se dovessi
andare in Inghilterra. L'unico inconveniente, chiamiamolo
così, di un
trasferimento al Bayern è che i tuoi attuali tifosi ti
bollerebbero come un
"traditore", specie dopo il tuo "assist" dell'andata.»
Genzo
lo
fulminò con lo sguardo, ma Hoffmann lo ignorò.
«Però,
e
questa è la cosa più importante, riempiresti
l'ultimo tassello che manca al
Bayern per poter prevalere sulle migliori d'Europa. E cominceresti
finalmente a
vincere, anche a livello di club, i titoli e i trofei che un portiere
del tuo
calibro merita di conquistare.» concluse serio.
«Non
vogliono semplicemente un portiere forte, vogliono te.»
Elena
aveva seguito con enorme interesse, al pari di Mikami, la conversazione
tra
Genzo e il suo procuratore.
Per
un
attimo le era balenata in testa l'idea che se il portiere si fosse
trasferito
al Bayern Monaco e lei fosse stata accettata alla Ludwig-Maximilian
Universität, avrebbero potuto rivedersi ancora, anche in
Germania. Non riuscì a
negare di considerarla una prospettiva tutt'altro che spiacevole.
Al
Mỹ Ðinh
National Stadium di Hanoi, i giocatori giapponesi arrivarono quasi
sempre al
tiro, trasformando presto la partita in un assedio per i loro avversari.
La
partita
si mise sul binario giusto dopo dieci minuti, grazie a uno splendido
destro di
Jun Misugi, che univa tecnica e potenza.
Al
venticinquesimo, Matsuyama segnò con uno dei suoi insidiosi
tiri rasoterra.
Al
trentesimo del secondo tempo, un potente tiro di sinistro di Misaki si
infilò
alle spalle del portiere vietnamita, senza che questi avesse mosso un
muscolo.
«Avevo
ragione a non essere preoccupato per la partita contro il Vietnam, la
stiamo
vincendo senza difficoltà. È il risultato di
Arabia Saudita-Australia che temo
… si può soltanto sperare che Al Owairan e Vulkan
abbiano giocato la loro
miglior partita, trascinando i loro compagni.»
«Certo,
non hanno più grandi motivazioni visto che sono
già eliminati.» obiettò Mikami.
«Ma
giocano in casa. Vorranno congedarsi dal loro pubblico con una
prestazione
dignitosa.» insistette Genzo.
Ripensò
a
quello che Misaki gli aveva detto al telefono, quando si erano sentiti
in
mattinata.
«Ho
parlato con Al Owairan al termine della partita contro l'Arabia Saudita
… mi ha
promesso che darà il massimo contro l'Australia. A noi, non
resta che vincere e
sperare in un risultato positivo per noi, a Riyad.»
Mancavano
pochi minuti al termine della partita e l'Australia stava conducendo
per 1-0.
Ma
Mark Al
Owairan ancora non si dava per vinto.
Era
sempre
stato convinto che nel calcio, con sufficiente tempo a disposizione,
poteva
accadere qualsiasi cosa e molte volte i fatti gli avevano dato ragione.
E
in tre
minuti l'Arabia Saudita avrebbe potuto pareggiare e forse anche vincere.
Aveva
fatto una promessa a Misaki ed era determinato a onorarla fino in
fondo.
Avrebbe tentato, tentato fino al fischio finale dell'arbitro.
Ide
Tamotsu raggiunse il campo in lacrime.
I
giocatori in campo e in panchina, Kira e il suo staff si voltarono
verso di
lui.
L’assistente
tecnico si fermò e si mise le mani sulle ginocchia, ansando
e continuando a
piangere.
«Ragazzi
…
a Riyad è finita … 1-1! Gol di Al Owairan al
quarantaquattresimo!» gridò,
alzando i pugni e liberando finalmente tutta la sua gioia.
Tutti
i
giapponesi, in campo, in panchina e sugli spalti dello stadio,
esultarono.
Il
boato
si diffuse in metà stadio.
I
giocatori levarono le braccia al cielo, si abbracciarono, saltellarono
sul
terreno in preda all'euforia.
Taro
strinse i pugni e si deterse il sudore dalla fronte e le lacrime di
felicità
dagli occhi.
Mark
aveva
mantenuto la sua promessa.
Schizzarono
tutti in piedi, saltando e alzando i pugni.
Elena
gettò le braccia al collo di Genzo, gridando felice.
«Oh
Genzo
è meraviglioso! Abbiamo di nuovo la qualificazione nelle
nostre mani!»
Sgranò
gli
occhi quando si accorse degli sguardi tra lo sconcertato e l'ironico di
Mikami
e Hoffmann, puntati su di lei. Genzo aveva un'aria sorpresa, mista a un
luccichio di gioia.
Si
slacciò
dal ragazzo e si ricompose.
«Oh,
scusami. Scusate. Ero … in preda all'entusiasmo.»
si giustificò, rivolta prima
al portiere e poi volgendosi verso l'allenatore e l'agente, i quali
risero
sotto i baffi nel vedere il suo volto in fiamme.
Approfittando
della momentanea assenza di Genzo, che si era trattenuto sulla porta di
casa a
parlare con Mikami appena congedatosi, Elena salì le scale e
percorse il
corridoio, con la sola intenzione di dare un’occhiata ai
quadri appesi alle
pareti, alcuni dei quali erano ritratti di membri della famiglia
Wakabayashi.
Giunse
davanti a una porta semiaperta, da cui si intravedevano fotografie,
trofei e
gagliardetti.
Doveva
essere la stanza di Genzo.
Si
guardò
intorno esitante, poi la curiosità ebbe la meglio ed
entrò.
Günther
Hoffmann se n'era andato da poco e nella villa, a eccezione dei
domestici,
erano rimasti soltanto loro.
Si
trovava
lì da pochi minuti, quando la voce del portiere la fece
sobbalzare.
«Ah,
eri
qui.»
Lei
si voltò e lo vide
fermo accanto a uno stipite della porta, le braccia incrociate ma il
suo tipico
sorriso sghembo sul viso.
«Scusami
…
è che la porta era aperta e ho intravisto le foto sulla
parete … e mi sono
incuriosita. Non ho toccato nulla.»
Genzo
scosse la testa «Non ti preoccupare. Sono legato a quelle
immagini, più che a
tutte le altre.» le confidò, entrando nella stanza
e affiancandosi a lei.
Le
mostrò
le fotografie e le descrisse gli eventi cui si riferivano, le
raccontò dei
tornei di Yomiuri Land, soprattutto quello vinto con la Nankatsu.
«Questa
è
stata scattata nella nostra villa di Londra, dopo la vittoria al
Mondiale Under
16 a Parigi.» continuò a elencare.
«E
questo
è il mio primo trofeo vinto nel campionato della prefettura,
con la Shutetsu.
L'uomo accanto a me è mio nonno.» le
spiegò, indicandole l'alto signore dai
capelli bianchi che gli teneva orgogliosamente una mano su una spalla.
Occhi
neri come l'ebano e sguardo fiero, lo stesso del nipote.
Elena
sorrise, intenerita.
«So
che
solitamente glissi su questo argomento, ma posso fartela una
domanda?»
«Dimmi.»
«Davvero
non hai nessuna idea di dove ti piacerebbe andare a giocare? Una
squadra
preferita, una situazione più stimolante rispetto alle altre
…»
Genzo
fece
un sorriso triste e diede un'alzata di spalle «È
difficile lasciare una città
in cui si è vissuto per tanti anni. Io credevo sarei rimasto
ad Amburgo per
tutta la carriera …» le confidò.
«Le
bandiere nel calcio sono sempre più rare. Le ultime si
stanno ammainando ed è
difficile che ci sia qualcuno pronto a raccogliere il
testimone.» replicò la
giovane «I club oggi preferiscono vendere i loro pezzi
migliori e incassare
quanti più soldi possibile, per far quadrare i conti e
acquistare altri
giocatori. Lo stanno facendo anche con te: come ha detto Herr Hoffmann,
la
vicenda con Zeeman è stata strumentalizzata e in
realtà cercavano soltanto una
scusa per cederti.»
Genzo
piegò le labbra da un lato «Forse ero soltanto
presuntuoso. Pensavo che solo
con le mie parate, l'Amburgo potesse vincere la Bundesliga. Ci siamo
andati
vicini tante volte, ma poi arriva sempre primo qualcun altro.»
«È
qualche
anno ormai, che arriva primo sempre il Bayern.»
ribatté Elena, strizzandogli un
occhio.
Genzo
sorrise di rimando, poi replicò, serio in volto
«Come ha detto Günther, se
andassi a Monaco, specie dopo quanto accaduto a settembre, i tifosi
amburghesi
mi vedrebbero come un traditore, uno che è cresciuto nella
loro squadra per poi
andare a cercare vittorie e titoli con i loro rivali.»
Elena
scosse la testa «Non sei un traditore, ma un professionista.
Tra Amburgo e
Bayern ci sarà una rivalità storica, ma da anni
sono su due piani diversi,
quanto a competitività e obiettivi da raggiungere. Credo tu
sia abbastanza
onesto da ammetterlo.»
Genzo
la
guardò, poi abbozzò un sorriso e
assentì con il capo.
«Ho
passato un periodo fondamentale della mia formazione umana e calcistica
in
Germania.» affermò «Non so se limitarmi
a cambiare città, o se trasferirmi in
un Paese diverso addirittura e fare un'esperienza in un altro
campionato.»
«Come
ti
ho già detto, a me piacerebbe davvero vederti difendere la
porta del Bayern
Monaco.» ammise, con un leggero sorriso.
Genzo
la
guardò ancora. Un pensiero gli attraversò la
mente: se lei avesse scelto di
studiare a Monaco, lui avrebbe davvero potuto accettare l'offerta dei
bavaresi
… ma preferì non dire nulla. Era di nuovo vicina,
ma ancora non poteva
toccarla, e allora doveva evitare che si allontanasse.
«Ti
va di
bere qualcosa? Ho delle birre e altre bevande in frigo.»
«Una
birra
andrà benissimo.»
«Io
sono
giapponese fino al midollo, ma devo riconoscere che preferisco quella
tedesca.»
affermò, afferrando due bottiglie e posandole sul tavolo
della cucina, cui lei
si era seduta.
Hitomi
si
era già ritirata nella sua stanza.
Rimasero
lì fino a tardi, a parlare delle loro vite, a ridere, a
raccontarsi episodi
della loro adolescenza.
Genzo
non
aveva mai parlato di sé stesso con tanta
spontaneità a una ragazza.
Con
Elena,
sentiva di poter discorrere di qualsiasi argomento senza sentirselo
liquidare
con risposte banali. E alle sue battute, sapeva ribattere con
altrettanto
spirito.
Durante
la
partita, aveva sorpreso Mikami e Hoffmann con le sue osservazioni e
commenti
puntuali e appropriati sulle azioni e sulle caratteristiche dei
giocatori.
Gli
dispiacque e gli sembrò di risvegliarsi da un bel sogno,
quando lei si scostò
piano all'indietro, con la sedia.
«Si
è
fatto tardi. È meglio tornare a casa. Domani devo essere in
palestra.»
«Ti
accompagno.»
«Non
ce
n'è bisogno, non disturbarti a fare tutta la
strada.» obiettò.
Genzo
scosse la testa «Come hai detto tu, è tardi, e sei
anche un po' brilla.» le
fece notare.
«Brilla?»
ripeté, corrugando le sopracciglia, con un buffo broncio.
Genzo
ridacchiò e confermò la parola usata con un mezzo
sorriso «Esatto.»
Effettivamente,
non aveva certo perduto la lucidità, ma l'alcool e la
spensieratezza di quella
serata l'avevano un po' alterata. Si sentiva più leggera e
rilassata.
Si
affacciò alla finestra e osservò il cielo ormai
scuro.
«Mi
sono
dimenticata di portare una giacca con me.»
«Aspetta.»
Uscì
dalla
cucina e salì le scale, per poi tornare poco dopo con una
morbida giacca bianca
di cotone.
«Puoi
mettere questa. È di mia madre.» disse, aprendola
e adagiandogliela sulle
spalle, mantenendo per pochi attimi il contatto delle sue mani, divise
dalla
pelle nuda soltanto da quel leggero strato di stoffa.
Elena
si
voltò e incontrò il suo sguardo, premuroso come
al solito.
Non
poté
fare altro che sorridergli, in un muto ringraziamento.
Kumi
entrò
nel locale seguita da Madoka, Ikuko e Saya, e individuò
subito un tavolo
situato proprio dirimpetto al grande televisore fissato al soffitto
della
stanza.
Yukari
era
a Hanoi insieme ai supporter, mentre lei era rimasta in Giappone,
perché voleva
passare il finesettimana con il suo gruppo di amiche, cosa che non
accadeva da
molti mesi.
Aveva
invitato anche Elena, per dare la possibilità soprattutto a
Ikuko e Saya di
conoscerla meglio, ma l'insegnante aveva rifiutato, adducendo un
impegno già
preso in precedenza, senza specificare di cosa si trattasse.
Le
quattro
ragazze passarono così la serata in un famiresu,
a seguire la partita sul grande schermo, tifando ed esultando ai gol
della
Nazionale giapponese.
Persino
Ikuko e Saya si entusiasmarono, trascinate da Kumi e Madoka, e
impazzirono
letteralmente di gioia quando appresero del pareggio tra Arabia Saudita
e
Australia.
Al
termine
del match, le quattro ragazze lasciarono il locale tutte insieme e,
dopo aver
percorso un tratto di strada tra chiacchiere e risate, il gruppo si
divise a
metà.
Madoka
e
Kumi proseguirono verso l'abitazione dell'ex manager.
«Sai,
Shun
mi ha promesso che al termine delle qualificazioni andremo a Kyushu per
una
breve vacanza. Indipendentemente dal risultato.»
«È
molto
bello da parte sua … non vuole farti pesare un'eventuale
eliminazione.»
«Già
… è
presto per dirlo, ma forse la nostra storia può davvero
funzionare. Siamo
ripartiti con il piede giusto e io, giorno dopo giorno, mi sento sempre
più
innamorata.» affermò, con aria sognante.
Kumi
la
guardò con tenerezza e anche con un po' di invidia.
«A
proposito … che mi dici di Misaki? Vi siete
rincontrati?» Madoka sembrava
averle letto nel pensiero.
Lo
sguardo
di Kumi si illuminò «Sì.» e
le raccontò del loro breve incontro a Fuji.
La
sua
amica, dopo aver ascoltato con attenzione, annuì con
approvazione.
«Devi
cominciare a farglielo capire, Kumi. I segnali favorevoli ci sono
tutti.»
«Non
so se
li coglierebbe, ora come ora. Siamo nel momento della verità
… sta pensando
soltanto alle qualificazioni.»
Madoka
strinse le labbra «Già … anche Shun
ultimamente non parla d'altro. I Giochi
Olimpici sono una vetrina internazionale, non parteciparvi sarebbe
un'occasione
persa e una possibilità in meno per la loro
carriera.»
«E
le
Olimpiadi capitano una volta sola nella vita. Perché per
loro non è solo
questione di essere notati da squadre europee e affermarsi in
campionati
prestigiosi, è anche il raggiungimento di una nuova tappa
verso la
realizzazione del sogno di portare il Giappone sul tetto del
mondo.» spiegò
Kumi.
Voltarono
l'angolo e Madoka notò due figure conosciute camminare nella
direzione opposta
alla loro.
«Ehi
Kumi!
Guarda.» le sussurrò, dandole di gomito e
attirandola dietro una cancellata.
La
ragazza
la guardò dapprima con aria interrogativa, poi diresse il
suo sguardo verso le
due persone e spalancò gli occhi.
Man
mano
che si avvicinarono, le due amiche distinsero anche le loro voci e
parte di ciò
che si stavano dicendo.
Wakabayashi
stava accompagnando Elena a casa e si erano fermati davanti al
cancello, uno di
fronte all'altra.
«Ti
restituisco la giacca.»
«Puoi
tenerla. Me la ridarai un'altra volta.»
«Ma
non è
giusto … e se tua madre volesse metterla?»
«Non
viene
spesso a Nankatsu. Lei e papà passano più tempo
nella loro casa di Tokyo, dove
c'è la sede della nostra holding.»
Genzo
riuscì, in tono divertito per quel buffo scambio di battute,
a convincerla.
«E
va
bene.» disse infatti, alzando gli occhi al cielo.
Prima
di
aprire il cancello, si voltò verso il ragazzo.
«È
stata
una bella serata, Genzo. Grazie.»
«Lo
è
stata anche per me, Elena.» rispose con una voce bassa e
calda, che le spedì
l'ennesimo brivido lungo la schiena.
Si
guardarono per un lungo attimo.
Lui
si
avvicinò e le sfiorò le braccia con le mani.
I
suoi
palpiti erano così frenetici che le sembrava di sentir
pulsare anche la testa.
I
loro
visi erano distanti ormai pochi centimetri … poteva sentire
il suo respiro.
Era
sempre
riuscita a distogliere in tempo lo sguardo dall'incredibile
intensità dei suoi
occhi.
Non
quella
volta.
Ipnotizzata
da quelle due iridi nere come l'ossidiana, chiuse gli occhi …
I
due
ragazzi sobbalzarono e si guardarono con un'espressione interdetta.
Wilhelm
abbaiava e saltava sulle sbarre del cancello, reclamando attenzione.
Elena
emise uno sbuffo e si voltò.
«Buono,
Wilhelm! Sveglierai tutti quanti!» lo rimproverò
severa, e il cane si acquietò,
emettendo un timido guaito.
«Ti
presento Wilhelm, il cane dello zio.» disse poi con un tono
più calmo, cercando
di recuperare un po' di scioltezza.
Genzo
assentì, con un mezzo sorriso.
«Beh
… ci
vediamo, allora.» proferì, incontrando il cenno
d'assenso di Elena.
Si
salutarono, e lui prese la strada di casa.
Nel
suo
animo si alternavano sentimenti di varia natura. Era contrariato
perché quel
cane aveva rovinato il loro momento, e lui desiderava ormai
più di ogni altra
cosa il contatto delle labbra di Elena, ma doveva ammettere che un
osservatore
esterno avrebbe trovato la cosa divertente. C'era però
un'altra sensazione … ed
era di speranza.
Perché
Elena aveva chiuso gli occhi … non l'avrebbe respinto.
Era
una
conferma di ciò che aveva sempre pensato: anche lei era
attratta, e i suoi
tentativi di tenersi a distanza non erano dovuti a un rifiuto nei suoi
confronti, ma ai sensi di colpa che nutriva nei confronti del suo ex
fidanzato.
Ma
prima
di chiedere a lei di provare a guardare avanti, doveva essere lui a
chiudere
una storia che ormai non lo coinvolgeva più. Non sapeva come
avrebbe fatto ad
affrontare Asami e a dirle che non se la sentiva di continuare la loro
relazione, ma non poteva nemmeno andare avanti così. Stare
con lei e pensare a
un'altra, era comunque una forma di tradimento. E lui provava rispetto
per
Asami e le voleva bene.
Doveva
affrontare un probabile scontro con la
sua famiglia, pur di evitare a lei e a sé stesso un futuro
infelice.
«Hai visto, Kumi?» sussurrò
Madoka, trattenendo a stento una risata.
«Sì …» rispose l'ex
manager. Allora le sue impressioni erano corrette: stava nascendo
qualcosa tra
Elena e Wakabayashi … non c'erano più dubbi,
almeno per quanto riguardava la
giovane italiana. Si chiese se Misaki sapeva o immaginava quello che
stava
accadendo tra i suoi due amici, e come l'avrebbe presa.
Era
l'unico dubbio che le rimaneva, prima di provare a fare il passo
decisivo.
Elena
sfilò il fermaglio dai capelli e si gettò a
sedere sul divano, per poi
reclinare la testa sullo schienale.
Stava
per
baciare Genzo …
Non
aveva
provato sollievo, ma disappunto quando Wilhelm aveva abbaiato,
spaventandoli e
interrompendo irrimediabilmente quel momento.
Dovette
ammetterlo.
Genzo
le
piaceva, si sentiva felice quando era accanto a lui e avvertiva un
senso di
vuoto quando se ne andava, dopo aver trascorso del tempo insieme.
Ma
nulla
sarebbe stato possibile tra loro, finché non si fossero
decisi a recidere i
loro legami già esistenti. E lei ancora non era disposta a
buttarsi alle spalle
il suo, senza sentirsi colpevole.
Per
tutta
la notte fu incapace di prendere sonno. Si rigirò nel letto,
alla ricerca della
posizione più favorevole, ma quei pensieri e dubbi non la
abbandonarono.
***Note***
Yakiniku: termine con cui
in Giappone si indica
una varietà di piatti a base di carne alla griglia. Prevede
che gli
ingredienti, diversi tagli di carne di manzo marinata (ma anche di
maiale,
cavallo o pollo) e verdure, vengano serviti crudi e poi cotti dai
commensali su
una griglia in comune posta in mezzo al tavolo. Carne e verdure vengono
poi
mangiati accompagnati da alcune salse tra le quali la più
famosa, chiamata tare, è
fatta con una base di salsa di soia, mirin, sake, zucchero, sesamo
e aglio.
Fonte: Ohayo.it
La birra Kirin Ichiban è una delle preferite dai
giapponesi. Viene prodotta
seguendo il metodo Ichiban
Shibori (tutti
gli ingredienti vengono
pressati una sola volta) e utilizzando solo malto della più
alta qualità
Viene
servita fredda, direttamente dal frigorifero.
Fonte: JapanCentre
Il
miai
o omiai
(nella sua forma
onorifica) è un'usanza tradizionale giapponese che consiste
nel far incontrare
due persone libere da legami sentimentali affinché prendano
in considerazione
la possibilità di sposarsi. Letteralmente significa
"guardarsi reciprocamente"
ma è traducibile come "colloquio formale a scopo
matrimoniale", per
questo non è corretto definirlo, come spesso avviene,
"matrimonio
combinato".
Una
figura
frequente, ma non indispensabile nell'organizzazione di un omiai è
il nakodo
("sensale di matrimoni") che svolge il ruolo di intermediario tra le
famiglie; solitamente viene scelto tra i componenti o gli amici di una
delle
famiglie oppure ci si affida a un professionista.
Fonte:
Wikipedia
|
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Capitolo 16 *** Capitolo XVI - Ammissioni e scoperte ***
Capitolo XVI
Ammissioni e scoperte
Genzo
correva a ritmo sostenuto per le strade di Nankatsu, rischiarate e
scaldate da
un sole ormai quasi estivo.
Passò
davanti al campo di calcio oggetto di tante contese e rivendicazioni
con i suoi
rivali della prima Nankatsu, dove stavano giocando dei bambini che avevano la
loro
stessa età dell'epoca.
In
parte
li invidiava: a dieci anni era tutto più semplice, i
turbamenti sentimentali
erano al di là dal venire e lui era anche riuscito a tenerli
lontani per più
tempo rispetto a molti suoi coetanei.
Si
era
svegliato con in mente il bacio sfiorato la sera prima, tra lui ed
Elena.
Il
freddo,
granitico Genzo Wakabayashi non aveva più saputo resistere,
alla fine.
In
quel
momento c'era solo Elena davanti a sé, nella mente e nei
sensi, aveva
dimenticato completamente la sua situazione e ogni altro legame.
Sentiva
ancora il suo profumo dolce e discreto, vedeva ancora gli occhi azzurri
fissi
nei suoi, per poi chiudersi mentre i loro visi si avvicinavano.
Era
andato
a correre non solo per sua abitudine quotidiana, ma anche per evitare
di
crogiolarsi troppo in quel pensiero.
Tornato
a
casa, si infilò sotto la doccia, con l'intenzione di
dedicare la solita ora
alla navigazione su Internet, controllando la casella di posta
elettronica e
leggendo le notizie delle varie testate giornalistiche.
Ma
un
fuori programma lo costrinse a rinunciare a quella consuetudine.
Dalle
finestre della sua camera da letto vide infatti, il previsto arrivo di
Hiroji,
Annie e i bambini. Ciò che non aveva immaginato, era di
vedere anche la Lexus
della famiglia Ujimori percorrere il vialetto di ghiaia che dal lungo e
pesante
cancello conduceva alla villa. A scenderne però fu soltanto
Asami.
Genzo
lasciò la sua stanza alcuni minuti dopo, quando tutti erano
riuniti nel
salotto.
Non
appena
comparì, la sua ragazza si alzò e andò
ad abbracciarlo, sotto gli occhi
benevoli di Hiroji e quelli indecifrabili di Annie.
«Era
da
tanto tempo che non venivo qui.» disse Asami, seduta sul
divano a dondolo del
salotto all'aperto nel giardino di villa Wakabayashi, dove lei e Genzo
si erano
spostati dopo il pranzo.
Respirò
l'aria salmastra proveniente dalla baia di Suruga, da cui la
città di
Nankatsu distava pochissimi chilometri.
La
ragazza
aveva sempre amato quella zona del Giappone, scenario di tante giornate
felici
della sua infanzia. Il Monte Fuji che a Tokyo le sembrava
così lontano, era
sempre sullo sfondo, a dominare un paesaggio che manteneva intatte
molte delle
sue caratteristiche naturali, non ancora fagocitate da selve di edifici
e
grattacieli.
Genzo
era
in piedi a pochi passi da lei. Contemplò, ammirata come
sempre, la sua figura
statuaria. Indossava dei pantaloni neri e la maglietta bianca si
tendeva sopra
le sue ampie spalle.
«Vieni
a
sederti qui.» lo invitò quasi sussurrando,
sorridendogli con fare suadente.
Lui
si
voltò verso di lei. Fino a non molto tempo prima, quel tono
di voce e
quell'atteggiamento lo avrebbero attirato come il canto di una sirena.
Ma
da un
po' di tempo ormai non era più così.
Il
pensiero di Elena si era fatto sempre più frequente e doveva
fare grossi sforzi
su sé stesso per non concedersi dei momenti in cui chiudere
gli occhi e
lasciare che l'immaginazione corresse a briglie sciolte.
La
chiamata di Kozo Kira era arrivata provvidenziale. Il c.t. gli aveva
comunicato
la convocazione per l'ultima partita contro l'Australia e lui sarebbe
partito
l'indomani, per raggiungere il J-Village.
Era
ormai
completamente guarito dalla frattura allo zigomo, e la maschera
protettiva era
una sorta di precauzione di cui avrebbe fatto definitivamente a meno di
lì a un
paio di settimane.
Era
da
considerarsi un giocatore recuperato e idoneo a difendere i pali se ce
ne fosse
stato bisogno, ma Kira lo aveva chiamato soprattutto per essere di
sostegno ai
suoi compagni.
Il
suo
carisma, la sua forza di carattere, la sua voglia di vincere avrebbero
trasmesso agli altri ragazzi la fiducia indispensabile a battere
l'Australia.
Sapeva
già
quindi che avrebbe visto la gara dalla panchina, ma era felice di poter
condividere quei giorni con i suoi compagni e di avere un'altra
importante
questione cui pensare.
Ciononostante,
sorrise ad Asami di rimando e si sedette accanto a lei.
La
ragazza
sospirò di piacere e gli si accostò, posandogli
la testa su una spalla e la
mano sul petto, accarezzandolo piano con le sue dita sottili.
«Sai
… mi
ricordo ancora benissimo di quando venivo qui a passare le vacanze. Tu
ti
allenavi ogni pomeriggio con il signor Mikami e poi facevamo merenda
insieme,
seduti proprio lì.» disse, indicando il tavolo in
legno bianco poco distante,
attorniato da alcune sedie di vimini.
«Ricordo
un giorno in cui eri arrabbiato perché eri stato sfidato da
un ragazzino appena
arrivato in città e Mikami dovette sgridarti per
costringerti a interrompere
l'allenamento.» aggiunse, non udendo una risposta da parte di
Genzo.
«Già,
Tsubasa … immagino tu sappia che si è sposato con
Anego e aspettano un
bambino.» replicò, infine.
«Anego?
Ah, quel maschiaccio!» rise Asami.
Genzo
annuì con un mezzo sorriso, ricordando la dirompente
capotifosa delle
elementari.
«Crescendo,
è cambiata. È diventata molto femminile. E vuole
essere chiamata Sanae,
altrimenti si arrabbia.»
«Non
l'ho
più vista da allora. E non mi sono più
interessata al calcio, dopo che sei
partito per la Germania. Tranne che per le notizie che Mikami o Hiroji
e i tuoi
genitori ci portavano su di te.» gli confidò,
alzando la testa e guardandolo
con un sorriso, che lui ricambiò, di nuovo senza replicare.
Il
suo bel
viso assunse un'espressione perplessa «Oggi sei
così taciturno … sei
preoccupato per la partita?»
Scosse
piano la testa «Lo ero di più prima, quando
dovevamo sperare in un loro passo
falso. Ora dipende da noi, anche se abbiamo il vincolo dei tre gol da
segnare.»
«Vorrei
tanto venire allo stadio, ma parto per Kyoto proprio domani.»
disse,
stringendosi nelle spalle.
«Per
Kyoto?» chiese il ragazzo, aggrottando le sopracciglia.
«Sì,
te ne
avevo parlato una settimana fa, non ricordi? È un viaggio di
alcuni giorni con
compagni e professori d'università. Visiteremo monumenti,
musei e biblioteche.
Mi servirà per scrivere la mia tesi di laurea.»
rispose, perplessa e un po'
delusa.
Genzo
assentì «Certo, ora ricordo. Scusami, è
che sono settimane particolari.»
La
ragazza
fece un cenno di diniego «Non ti preoccupare. So quanto
queste Olimpiadi siano
importanti per te.»
Lui
abbozzò un sorriso.
«In
bocca
al lupo, Genzo.» gli sussurrò, avvicinandosi e
posandogli un bacio sulle
labbra.
Genzo
aprì
la porta di casa e trovò davanti a sé proprio
l'unica persona che mai si
sarebbe aspettato di vedere in quel momento.
«Elena.»
disse, l'espressione stupita e una scintilla negli occhi neri che le
fece
trattenere il fiato.
«Ciao
Genzo.» rispose lei dal canto suo, gli occhi azzurri che lo
guardavano
leggermente spalancati.
Trasalì,
fortunatamente senza darlo a vedere, quando vide Asami comparire dietro
il
ragazzo e fissarla con la stessa espressione di quando l'aveva
incontrata nella
stanza in cui era stato ricoverato.
La
salutò
facendo un inchino.
L'ereditiera
ricambiò con un cenno del capo e un lieve sorriso.
«Ho
appena
riportato la giacca di tua madre.» disse poi a Genzo,
volgendosi leggermente
verso Hitomi che teneva tra le mani l'indumento perfettamente stirato e
ripiegato.
Il
ragazzo
fece un cenno d'assenso e la ringraziò.
«Vado
… le
mie allieve mi aspettano in palestra.»
Genzo
la
salutò, voltandosi poi a guardarla mentre si avviava verso
il cancello.
Asami
lo
osservò.
Sembrava
essersi rianimato nei pochi minuti in cui aveva visto quella
ragazza.
I
suoi
occhi erano più accesi e sembravano voler trattenere la sua
immagine quanto più a lungo
possibile.
Aveva
alternato lo sguardo dall'uno all'altra durante quel breve dialogo e
aveva
visto una muta complicità che le aveva fatto avvertire un
tuffo al cuore e un
senso d'inquietudine.
Asami
si
congedò da villa Wakabayashi nel tardo pomeriggio, salutando
con un breve
abbraccio e un piccolo bacio Kenichi e Aiko, e dando poi una carezza su
una
guancia a Genzo.
Salita
in
auto, ordinò al suo autista di fermarsi davanti al complesso
sportivo
Shiroyama.
Una
volta
entrata, salutò cortesemente la segretaria, che rispose con
un sorriso
altrettanto cordiale.
«La
signorina Rulli è qui?»
«Sì,
sta
facendo lezione.»
Asami
la
ringraziò e si diresse verso l’area in cui si
tenevano gli allenamenti di
ginnastica artistica.
Elena stava supervisionando e
dando
consigli e indicazioni alle giovanissime atlete, tutte impegnate nella
preparazione alle Nazionali juniores, mostrando la postura da tenere
durante
gli esercizi e correggendo le imperfezioni dei movimenti.
Indossava
dei pantaloncini e una canottiera come le ginnaste, i capelli legati in
una
coda.
Era
bella,
socievole, dal modo di fare deciso come avevano fama di essere le
ragazze di
origine tedesca.
Strinse
le
labbra e ripensò all’incontro tra lei e Genzo.
Doveva
averla vista praticamente ogni giorno, quando si trovava a Nankatsu.
Si
conoscevano abbastanza da chiamarsi per nome, cosa che, lo
ricordava
benissimo, non avevano fatto quel giorno all’ospedale.
Ma
poi
c’era stata quella notte che Genzo aveva ammesso di aver
trascorso per intero
allo Juntendo Hospital, quando lo zio di lei era stato ricoverato per
trauma
cerebrale.
Con
lei …
Girò
sui
tacchi e si incamminò verso l’uscita del centro
sportivo, per poi risalire
sull'auto.
Il
suo
autista ripartì dopo averle lanciato un'occhiata attenta
dallo specchietto
retrovisore, che gli rimandò l'immagine di una ragazza
dall'espressione
turbata.
Era
passata circa un’ora da quando Asami era andata via.
Dopo
essere rimasto seduto sul divano a giocare alla PlayStation con
Hiroji, Genzo
si alzò e andò nella sua stanza per prendere una
giacca.
Il
mattino
dopo avrebbe dovuto alzarsi presto per arrivare al J-Village in tempo.
Troppo
presto … e lui doveva rivederla prima.
Mentre
usciva dalla sua camera, Annie era sul corridoio e lo guardava, attenta.
«Genzo,
hai finito di leggere quel romanzo?»
«No
… mi
mancano gli ultimi capitoli.»
«Sbrigati
a leggerli. Lo dico per te, non per me.» gli disse, con un
lampo esortativo nei
suoi occhi verdi «E poi Genzo … se vuoi parlare,
io sono sempre disposta ad
ascoltarti.» aggiunse.
«Lo
so.
Grazie, Annie.»
La
cognata
gli strizzò un occhio e si diresse verso le scale.
Prima
di
partire per Naraha, avrebbe infilato nel suo trolley anche quel libro
con la
copertina dagli angoli un po' consunti che gli aveva prestato una
settimana
prima.
Elena
alzò
lo sguardo e vide Genzo sulla soglia della porta d'entrata della
palestra e
avvertì un nodo alla gola.
Aveva
pensato spesso alla sera precedente e aveva reagito mettendo ancora
più impegno
nel suo lavoro di quanto non fosse già solita fare.
Mayuko
era
a Tokyo per via di un incontro con i vertici della Federazione
giapponese di
ginnastica artistica e aveva quindi avuto gioco facile nel far credere
alle
ragazze che ciò fosse dovuto alla necessità di
ovviare all'assenza della sua
datrice di lavoro.
Il
ragazzo
sembrava quasi aver pianificato con cura il momento in cui comparire,
visto che avvenne durante una breve pausa concessa alle ragazze da pochi minuti.
Le
fece un
cenno di saluto con la mano, cui rispose di rimando.
Si
avvicinò. Indossava una giacca sopra la maglietta e un paio
di jeans scuri.
Attirò, come al solito, gli sguardi ammirati delle allieve,
cui si aggiunse
presto la curiosità.
«Come
mai
qui?» gli chiese, notando che non aveva il consueto borsone
con sé.
«Sono
solo
passato a salutarvi … domani parto presto. Torno al
J-Village.»
Elena
spalancò gli occhi, piacevolmente sorpresa.
«Giochi
contro l'Australia?»
«No,
andrò
in panchina, pronto a entrare se ce ne sarà bisogno. Il
titolare sarà ancora
Morisaki e io mi fido di lui.»
«Sì,
ha
fatto molto bene nelle ultime due partite.»
«Come
hai
detto tu, la qualificazione è nuovamente nelle nostre
mani.» le ricordò,
sorridendo di sbieco.
«Già
…»
mormorò la giovane, visibilmente imbarazzata per l'allusione
a quella sera e al
gesto che aveva accompagnato quelle parole.
Tacquero
per un momento. Elena sembrava aver assunto di nuovo un atteggiamento
riservato. Genzo maledisse la sua incapacità di evitare
quella provocazione.
«Ormai
manca poco anche per voi.» le disse quindi, cercando di
rimediare.
«Già
…
sono un po' emozionata.» ammise.
«Le
ragazze si stanno allenando con impegno, e con due allenatrici come te
e la
signorina Shiroyama, questa squadra raggiungerà ottimi
risultati. E io sarò
allo Yoyogi Stadium a vedervi.» concluse, con un tono di voce
più affettuoso.
«Grazie,
Genzo.»
I
suoi
occhi si accesero e le labbra si distesero in un sorriso.
Era
nuovamente riuscito a farle abbassare le difese … e proprio
lì dove si sentiva
pressoché invulnerabile.
Rimasero
a
guardarsi.
Come
al
solito, avvertivano la sensazione che altre parole aleggiassero in
sospeso tra
di loro, ma non riuscirono a dirsi nient'altro.
Inoltre
c'erano le ragazze che li fissavano con fin troppo interesse.
«Buongiorno,
Wakabayashi-san!»
Arimi comparve dietro
Elena, agile come un folletto.
«Ciao
Arimi! Sei pronta?»
«Mi
sto
allenando come una matta tutti i giorni, da mesi.» rispose,
con un sorriso
fiero e le mani dietro la schiena.
«Allora
ci
vediamo allo Yoyogi Stadium. Fatevi valere.» rispose prima di
salutarle, stando
bene attento a rivolgere a Elena l'ultimo e il migliore dei suoi
sorrisi,
facendole mancare un battito, per l'ennesima volta.
«Che
gentile Wakabayashi a venire a trovarci!» sorrise Mitsuyo.
«Io
credo
sia venuto soprattutto per la signorina Rulli.»
insinuò Shinobu «Avete visto
come la guarda?» chiese poi, abbassando la voce con occhi
maliziosi.
«Se
è
così, beata lei!» sospirò Hanako.
«Ehi,
ragazze! La pausa è finita. Le chiacchiere non
fanno
vincere medaglie!» gridò Elena battendo le mani
con un'espressione temibile sul
viso, inducendo le sue ginnaste a rimettersi immediatamente al lavoro.
L'unica
che continuava a sorridere era Arimi, al pensiero che forse aveva
agito,
seppure inconsapevolmente, da Cupido.
Quando
Elena uscì dalla palestra, i suoi pensieri tornarono
nuovamente a Genzo.
Estrasse
il cellulare dalla tasca dei jeans e selezionò il nominativo
di Taro dalla
rubrica.
Le
rispose
dopo un paio di squilli … fortunatamente non era impegnato
con l'allenamento.
Il
ragazzo
stava scendendo le scale che portavano all'atrio dell'albergo quando il
suo
cellulare squillò.
Guardò
con
aria interrogativa il nome di Elena campeggiare sullo schermo, per poi
accettare la chiamata.
«Ciao
Elena. Dimmi.»
«Taro
…
dopo la partita ho bisogno di parlarti.» replicò.
«Hai
bisogno … c'è qualche problema?»
«Sì.
Cioè,
non proprio … non so come definirlo. So solo che non
è una cosa di cui
discutere per telefono.» rispose un po' impacciata,
pronunciando l'ultima
frase con un po' di concitazione.
Taro
corrugò le sopracciglia, sempre più perplesso
«Va bene, Elena. Quando esco
dallo stadio mi dirai tutto.» concesse infine, rassicurato
dal fatto che non
era successo nulla di preoccupante.
Dopo
la
cena, i ragazzi si radunarono davanti al televisore per vedere un
film.
Genzo
lo
trovò noioso per i suoi gusti e lanciando un'occhiata a
Misaki, constatò che il
centrocampista doveva essere d'accordo con lui dal momento che
smanettava sul
suo smartphone senza mai alzare gli occhi sulle scene che si susseguivano sul largo schermo.
Si
alzò
così dal suo posto, gli scosse leggermente la spalla con una
mano e gli
bisbigliò qualcosa, in seguito al quale anche Taro si
alzò e lo seguì fuori
dall'albergo.
«Ti
va di
farmi qualche tiro?» gli chiese, ottenendo un cenno d'assenso
dal
centrocampista.
Si
recarono nel campo di calcio pochi metri più avanti.
Accesero i riflettori e presero dei palloni, dopodiché Genzo
si
mise in porta.
Taro
arrivò portando il pallone con il piede, lo
posizionò e poi indietreggiò di
alcuni passi. Dopo una breve rincorsa, calciò con forza, di
sinistro.
Genzo
si
spostò con agilità e tolse il pallone
dall'incrocio dei pali.
Il
portiere aveva dovuto attendere prima di buttarsi, perché il
tiro di Misaki era
ad effetto.
«Bel
tiro,
Misaki.»
«Non
ancora abbastanza da segnare contro di te, Wakabayashi.»
«Renderesti
felice una ragazza di nostra conoscenza.» ironizzò
il portiere, con apparente
noncuranza.
«Non
ne
sono così sicuro.» replicò l'amico, con
un sorriso sornione che gli fece alzare
un sopracciglio.
Si
sedettero sulla panchina.
«Con
Asami? Tutto bene?»
Genzo
strinse le labbra e abbozzò un sorriso.
«Dalla
tua
espressione, non sembrerebbe un sì.»
«Non
mi
sento più coinvolto come all'inizio della nostra
storia.» ammise.
«È
perché
ti sei innamorato di un'altra ragazza di nostra conoscenza?»
insinuò, ripetendo
volutamente le parole usate poco prima dal portiere.
Genzo
spalancò gli occhi, poi li chiuse, con un sorriso obliquo,
come se ancora
faticasse a credere che fosse capitato proprio a lui che fino a quel
periodo
aveva sempre avuto relazioni di scarsa importanza.
«L'ho
notato da un po', sai.»
«È
così
evidente?»
«Sei
un
ragazzo generoso e ti fai in quattro per aiutare gli amici, ma certe
tue
attenzioni per Elena mi sembravano andare oltre il semplice desiderio
di
aiutarla. E quel pomeriggio a Miho …»
«
… ti ha
rivelato tutto.»
Taro
sorrise. Genzo sospirò.
«È
innegabilmente bella, ma non è solo questo. Con lei posso
essere me stesso e
parlare di qualsiasi argomento, ma soprattutto, mi sento attratto dal
suo
entusiasmo, dalla sua determinazione, dalla voglia di riuscire in
quello che
fa, dalla passione che mostra nell'insegnare ciò che sa alle
sue allieve.»
tacque per alcuni secondi. I suoi occhi si erano illuminati
nell'elencare
quelle qualità che tanto apprezzava nell'ex ginnasta. Era
un'espressione che
Taro non aveva mai visto nell'amico, pur conoscendolo da tanti anni.
«Asami
è
una ragazza intelligente, gentile, raffinata. Però
è come … è come se vivesse
soltanto nel suo mondo dorato e non volesse uscirne. Con lei frequento
solo
ristoranti alla moda, compagnie altolocate, discoteche in cui il prezzo
dell'ingresso è così alto che alla fine ci si
ritrova solo la jeunesse
dorée giapponese. E io, forse perché
sono un calciatore e mi sono trasferito in Germania da ragazzino, mi
sento un
estraneo in mezzo a quella gente, sebbene faccia parte del mio ceto
sociale.»
riprese, lo sguardo fattosi serio.
Taro
annuì, mostrando di comprendere.
«E
con
Elena?»
«È
reciproco, Misaki. La sera della partita contro il Vietnam, l'ho
accompagnata a
casa. Non sono riuscito a resistere e mi sono avvicinato per baciarla
… e lei
non si è tirata indietro.»
Taro
lo
guardò, aspettando che fosse lui a proseguire.
«Purtroppo,
il cane del maestro Nerlinger ha abbaiato proprio mentre stava per
succedere.»
confidò, con una smorfia tra il contrariato e il divertito
che fece ridere
Taro.
«Lei
continua a sentirsi in colpa per il suo ex fidanzato.»
riprese, dopo il breve
attimo di ilarità «Se cedesse, penserebbe che in
fondo quello che le aveva
detto era vero, che lei gli era rimasta accanto per compassione e non
perché ne
era innamorata. Teme di essere una persona meschina, invece
è una ragazza
splendida. Vorrei farglielo capire …» disse, con
un tono di voce appassionato
che Taro gli aveva sentito solo quando parlava dei traguardi da
raggiungere
nella sua carriera di calciatore. Un tono che tradiva anche sofferenza,
data
dalla sensazione di dover sconfiggere qualcosa di più
potente di lui.
«Elena
potrebbe anche essere trattenuta dalla tua relazione con Asami. Prima
dovresti
spiegare la situazione a quella che è ancora la tua ragazza,
Wakabayashi. Poi
sarai libero di dichiararti.»
Genzo
strinse le labbra «Credevo che Asami potesse essere la donna
giusta. La conosco
da tanti anni ed era l'unica con cui potevo scambiare più
delle solite frasi.
Finché non ho cominciato a conoscere meglio Elena. E ora mi
ritrovo in questa
situazione … sarebbe bastato aspettare un po'. Vorrei
evitare di farla
soffrire.»
«Purtroppo
è inevitabile.» replicò Taro,
guardandolo con comprensione «Hai seguito i tuoi
sentimenti, Wakabayashi. Proprio perché in quel periodo eri
convinto che Asami
fosse quella giusta, hai cominciato una storia che lei per prima ha
voluto. E
poi …» gli strizzò un occhio
« … è una ragazza talmente bella e
raffinata che
nessuno oserebbe biasimarti per averle ceduto.»
Genzo
abbozzò un sorriso. Taro riprese il filo del discorso.
«A
me è
successo con Azumi … avevamo iniziato una storia che
è finita non appena io mi
sono ripreso dall'infortunio e lei è andata
all'università. Credo che siamo
rimasti tutti un po' suggestionati dalla storia tra Tsubasa e Sanae.
Anche
Misugi e Matsuyama hanno trovato presto la donna della loro vita, e noi
abbiamo
cercato la nostra Sanae, Yayoi o Yoshiko nella ragazza che abbiamo
avuto vicino
da ragazzini. E così io mi sono infatuato di Azumi come tu
di Asami. Per poi
incontrare due donne che hanno scompaginato tutto.»
«Mi
avevi
detto che con Kinuyo è finita … »
«Non
sto
parlando di Kinuyo … cioè, sì, con lei
ho vissuto una storia che è durata poco,
ma è stata molto intensa. Avevo perso la testa per lei
… ma ho finito per
scottarmi.» emise un breve sospiro «In questi mesi
ho conosciuto meglio una
ragazza che è il suo opposto: ha un sogno e si sta
impegnando con tutte le sue
forze e tutto il suo talento per realizzarlo, a costo di litigare con
suo
padre. Non ha la malizia e le sottili arti seduttive di Kinuyo, ma mi
ha
colpito per la sua vivacità e il suo entusiasmo.»
«Stai
parlando di Sugimoto?» chiese Genzo, dando voce a una sua
intuizione.
Taro
annuì.
Genzo
fece
un mezzo sorriso «È un bel peperino.»
commentò, divertito «Hai già fatto la
prima mossa?»
Taro
scosse la testa con un leggero sorriso «Non ancora.»
«Beh,
che
aspetti?»
«Ho
voluto
frequentarla un po', prima. Chissà, forse temo di ricevere
un'altra delusione
come con Kinuyo. Voglio essere sicuro di interessarle sul
serio.»
«Ti
capisco, Misaki. Però bisogna rischiare. Non conosco molto
Sugimoto, ma mi
sembra una ragazza sincera. Non credo ti illuderà,
né giocherà con i tuoi
sentimenti.»
«Siamo
in
due allora, a dover rischiare.» disse, con un'occhiata
significativa.
«Già
… tra
poche settimane Elena tornerà a casa, Misaki. Il pensiero
che potrei non
rivederla più mi tormenta. E passeranno altre settimane,
forse mesi, prima che
possa incontrarla di nuovo. Prima di allora … voglio essere
sicuro che non
uscirà dalla mia vita.»
Il
sole al
tramonto tingeva il cielo di striature color pesca. Su Tokyo spirava
una brezza
calda, rendendo il clima molto simile a quello di un mese prima, a
Sydney.
Il
Giappone era chiamato a ribaltare quel risultato.
I
tifosi
giapponesi avevano gremito il National Stadium di Tokyo, trasformandolo
in una
bolgia come Kozo Kira li aveva esortati a fare nelle sue dichiarazioni
in
conferenza stampa.
Il
c.t.
aveva promesso di lasciare il mondo del calcio in caso di mancata
qualificazione.
Memore
del
3-1 subìto a Sydney contro una squadra che schierava tutti i
giocatori
tesserati per importanti club europei, aveva contattato Tsubasa Oozora
e Kojiro
Hyuga, per richiedere la loro disponibilità a tornare in
Nazionale per la
partita contro l'Australia, cedendo alle pressioni dei mass media e
dell'opinione pubblica e venendo meno al suo stesso proposito, ma
incontrando
il rifiuto dei due campioni.
Tsubasa
e
Kojiro avevano rigettato la convocazione di Kira, riponendo piena
fiducia nei
compagni che fin lì avevano disputato il torneo.
Affidavano
le sorti della Nazionale Under 23 ai giocatori che l'avevano portata a
quello
che era a tutti gli effetti uno spareggio.
Avevano
saputo riprendere il destino nelle loro mani nelle gare precedenti,
potevano
farcela a battere gli australiani con tre gol di scarto.
Elena
si
sentiva tesa, ma nello stesso tempo avvertiva un senso di malinconia,
di
precoce nostalgia.
Era
l'ultima partita della Nazionale che avrebbe visto, almeno in Giappone.
Aveva
seguito il percorso di quei ragazzi, con alcuni dei quali aveva stretto
un
rapporto d'amicizia, con coinvolgimento e passione. E ora voleva
vederli
conquistare la qualificazione.
Prese
posto tra Yukari e Kumi, che quella sera aveva accanto a sé
Madoka, ormai
stabilitasi nella capitale per motivi di studio, che rimase
inizialmente
stupita e delusa per la mancata presenza in campo di Shun, lasciato in
panchina
da Kira.
Non
poteva
credere che, proprio la sera in cui il Giappone doveva vincere con tre
gol di
scarto, il c.t. avesse rinunciato a schierare fin dal primo minuto
proprio
l'attaccante che aveva segnato in quasi tutte le partite fin lì
disputate.
«Misaki,
lei c'è?»
Taro
guardò verso gli spalti, approfittandone per cercare
un'altra presenza che gli
premeva vedere. Individuò entrambe e alzò una
mano in segno di saluto.
«Sì,
Wakabayashi.»
Genzo
annuì e andò a sedersi in panchina, tra Takasugi
e Wakashimazu.
Il
calcio
d'inizio venne assegnato all'Australia.
I
giocatori della squadra ospite stavano semplicemente passandosi il
pallone, con
tutta calma, prendendo tempo. L'obiettivo era preservare le energie per
il
secondo tempo e prevalere così sugli avversari,
innervosendoli nel frattempo
con una avvilente melina.
Elena
strinse le labbra. Sapeva bene chi era Giis Coleman: un allenatore
molto
celebre in Europa, un olandese giramondo, una vecchia volpe.
La
strategia stava dando i suoi frutti. I giocatori nipponici sembravano
essere
caduti nella trappola.
Ma
il selezionatore dell'Australia non aveva fatto i conti con la sagacia di Kozo Kira e con
lo
straordinario spirito di sacrificio dei gemelli Tachibana, che con la
collaborazione di un lancio alto e preciso da parte di Misaki,
permisero al
Giappone di passare in vantaggio.
Lo
sforzo
impiegato nell'esecuzione della loro ultima "catapulta infernale" li
costrinsero a uscire dal campo in barella, sofferenti ma fieri e
orgogliosi del
proposito raggiunto.
Il
Giappone era in vantaggio, a pochi minuti dall'inizio della partita.
Nitta
e
Wakashimazu entrarono al loro posto.
Madoka,
che si era da poco seduta, schizzò nuovamente in piedi, fremente d'entusiasmo.
Taro
ritornò di corsa a centrocampo, con il pallone sotto il
braccio.
Voleva
che
il gioco riprendesse il più rapidamente possibile,
perché mancavano altri due
gol da segnare, che in una partita del genere erano tantissimi; la
difesa dei Socceroos,
composta da calciatori alti e
prestanti, era difficile da superare ed era indispensabile siglare il
secondo
gol entro la mezz'ora.
In
caso
contrario, il sacrificio dei Tachibana sarebbe stato inutile.
I
giocatori australiani ricevettero da Coleman l'ordine di giocare in
modo più
aggressivo, per contrastare il rinnovato vigore giapponese.
Ishizaki
passò a Misaki, che si era portato sulla fascia destra dopo
aver scambiato la
posizione con Misugi.
Avanzò,
saltando due difensori australiani con un salto poderoso, mantenendo il
pallone
incollato al piede.
Si
mise in
posizione di tiro. Il possente difensore Alo Phard cercò di
fermarlo
opponendogli tutto il corpo, ma Taro lo saltò trattenendo il
pallone tra i
piedi e lo lanciò di tacco verso Wakashimazu, che stava
correndo verso la
porta, seguito da Nitta.
Affrontato
da due difensori alti e robusti quanto lui, Ken tirò in
rovesciata verso Shun.
L'attaccante
eseguì un hayabusa
shoot di una
potenza inaudita, che si infilò in rete con un Malic rimasto
immobile, senza
nemmeno aver visto la palla.
Madoka
saltò in piedi e si mise a saltare coinvolgendo Kumi nella
sua gioia sfrenata.
«È
quello
… è il tiro che ha preparato insieme a
Wakashimazu quando sono andati sui Monti
Hida!» spiegò con voce ansante, dopo essersi
ricomposta a fatica.
Elena
e
Yukari batterono le mani, guardandosi divertite.
Dopo
che
un potente rasoterra di Matsuyama era finito fuori sfiorando l'esterno
della
porta, il portiere australiano riuscì a parare il kamisori
shoot di Soda e a togliere dall'incrocio dei pali il flying drive shoot
di Misugi.
Subito
dopo arrivò il duplice fischio dell'arbitro, che
consentì ai Socceroos
di tornare negli spogliatoi senza
subire il terzo gol.
Kira
lasciò la panchina estremamente fiducioso per il secondo
tempo: era certo che
il Giappone avrebbe segnato il gol della vittoria, quello che l'avrebbe
portato
alle Olimpiadi.
I
tifosi
sugli spalti, non erano da meno. L'euforia aleggiava in tutta la larga
frangia
dei supporter nipponici, che pregustavano la gioia della
qualificazione, come
se fosse stata soltanto questione di tempo.
«Siamo
già
avanti di due gol! Dai che ce la facciamo!»
gongolò Manabu.
«Attenzione
però … se segnano un gol tocca farne uno in
più.» avvertì Nishio.
«Non
fare
il gufo!» lo riprese Iwami «Hai visto che facce
avevano i nostri avversari
mentre si avviavano fuori dal campo?»
«Io
ho
visto quella di Coleman ed era sorridente. Quello è un
volpone, sono sicuro che
caricherà i suoi giocatori a dovere.»
replicò l'ex difensore della Ootomo.
Elena
dovette concordare con quest'ultimo. Certo, aver già segnato
due gol era
sicuramente un ottimo viatico per il prosieguo della gara.
Taro
era
stato decisivo in entrambe le reti, con i suoi assist.
La
sua
presenza era stata fondamentale in tutto il torneo … sarebbe
stato bello se
avesse segnato lui il gol risolutivo.
Ma
un'Australia che schierava tutti i giocatori militanti in prestigiose
squadre
europee e quindi mettendo in campo tutto il suo potenziale, avrebbe
certamente
fatto di tutto per non essere battuta da un Giappone che aveva
rinunciato ai
suoi campioni impegnati in Europa.
Alla
mezz'ora del secondo tempo, la qualificazione tornò in
bilico.
Taro
tentò
un'iniziativa personale, cercando con un salto di evitare l'intervento
in
contemporanea di due avversari, ma uno di questi, il centrocampista
Shooker, lo
colpì con i tacchetti sulla caviglia destra e si
impossessò del pallone.
Il
numero
undici cadde a terra con uno strido di dolore, tenendosi la gamba
ferita.
L'arbitro
lasciò proseguire l'azione, lasciando esterrefatti i
giocatori giapponesi che
per un momento rimasero inerti, permettendo così al forte
australiano di
avanzare e ingannare i difensori fingendo un tiro che
trasformò in un passaggio
di tacco a Konwell.
Il
tiro di
quest'ultimo venne deviato in rete dall'inserimento di Duviga.
I
giocatori giapponesi contestarono inutilmente la decisione
dell'arbitro, che
non aveva ritenuto falloso l'intervento del difensore australiano.
Mancava
un
quarto d'ora … e i gol da segnare erano diventati due,
contro una squadra che
aveva ripreso coraggio.
Misaki
infortunato, uscì dal campo per ricevere le cure mediche.
«Non
hai
nessuna distorsione, Misaki. Mi basterà farti una
fasciatura.» gli disse il
giovane infermiere dello staff medico, dopo avergli tastato la caviglia.
«Bene
… ma
per favore, fai in fretta!» lo esortò, con un tono
quasi aggressivo che
solitamente non gli apparteneva, ma la qualificazione stava ora
sfuggendo di
mano, e lui non era in campo a combattere con i suoi compagni.
Genzo
tremò dalla rabbia. I suoi compagni si stavano
demoralizzando, dopo aver
incassato il gol dell'Australia.
Ma
mancava
ancora un quarto d'ora… dovevano segnare due gol invece di
uno.
Quindici
minuti… due gol. Non poteva accettare che finisse
così, senza nemmeno lottare e
sputare sangue se necessario, fino all'ultimo secondo!
Scattò
in
piedi, fino a ritrovarsi poco dietro la linea di bordocampo.
Elena
trattenne il fiato.
Un
ragazzo
con la tuta bianca e blu della Nazionale e un berretto bianco in testa
era
spuntato da sotto la tettoia della panchina.
Genzo
era
in piedi, poco dietro la linea di bordocampo e stava suonando la carica
ai
dieci ragazzi rimasti sul rettangolo di gioco.
«Morisaki,
reagisci! Tocca a te incoraggiare i tuoi compagni! Ragazzi, non
arrendetevi! La
vera partita comincia ora, ORA!» gridò, i pugni
stretti e le gambe divaricate,
il berretto bianco calcato in testa.
Quelle
frasi carpite da quella striscia di campo ebbero in lei l'effetto di
una
scarica di adrenalina.
Serrò
i
pugni e si voltò verso gli altri supporter.
«Genzo
ha
ragione, ragazzi! È in momenti come questo che dobbiamo
farci sentire di più e
tifare per i nostri ragazzi, fino a perdere la voce!»
gridò, incurante di aver
chiamato il portiere per nome davanti a tutti, i pugni ancora
più stretti e
incassando un ulteriore grido di approvazione, per poi riprendere a
incitare la
Nazionale Under 23 con una foga ancora maggiore.
Gli
incitamenti di Wakabayashi sembrarono sortire il loro effetto su
Morisaki, che
compì una parata difficile su un tiro di Shooker.
Il
pallone
rotolò oltre la linea, permettendo a Taro, di nuovo in piedi
dopo la
medicazione, di riprendere la gara.
Il
centrocampista rientrò in campo con fiducia ed energia
rinnovate.
Superò
almeno metà squadra avversaria con una stupenda serie di
dribbling e finte, per
poi lanciare verso Igawa, che con la coda dell'occhio aveva visto
correre lungo
la fascia, spiazzando così i due difensori in stretta
marcatura su Wakashimazu
e Nitta.
Il
difensore segnò in tuffo, di testa il gol del 3-1,
riscattando definitivamente
l'espulsione subita a Sydney.
Mancavano
sette minuti … la speranza era tornata tra i tifosi
giapponesi, ancora più
forte.
E
Il
National Stadium tornò a essere una bolgia.
Coleman
cambiò modulo e schema di gioco e rinforzò la
difesa, lasciando Duviga in
avanti come unica punta e assegnando a Macbeth la marcatura su Misaki.
Kira
rispose alla mossa del collega sostituendo Sawada con Mitsuru Sano, per
avere
una nuova fonte di gioco.
Il
fantasista venne bloccato subito dai giocatori australiani che diedero
vita a
un contropiede cui Ishizaki impedì la rete del 3-2 che
avrebbe stroncato il
loro sogno.
Di
nuovo
in possesso del pallone, Sano attirò su di sé tre
avversari, stordendoli con i
suoi dribbling. Poi passò a Misaki, che a sua volta
lanciò verso Nitta.
Il
tiro
dell'attaccante del Reysol Kashiwa venne respinto con il petto da un
difensore,
ma la sfera tornò verso Misaki, che saltò per
evitare l'intervento del portiere
ed eseguì una splendida rovesciata, segnando il gol del 4-1.
Kumi
e
Madoka si abbracciarono così forte da rischiare di
stritolarsi a vicenda, ma
tutti erano troppo stravolti dalla gioia e impegnati a saltare, urlare
e a
sventolare bandiere per farci caso.
Il
Giappone difese con fermezza e tenacia il risultato per i minuti
restanti e a
nulla valsero gli strenui tentativi della selezione australiana.
Coleman
riconobbe la sconfitta e il valore dell'avversario e si
complimentò con il suo
collega, esortando la sua squadra a vincere una medaglia.
I
giocatori giapponesi festeggiarono inondandosi a vicenda con bottiglie
d'acqua.
Jito,
sceso in campo dalla tribuna con la piccola Lisa Igawa, e Wakashimazu
afferrarono il loro c.t. e con l'aiuto degli altri ragazzi lo
sollevarono e lo
lanciarono più volte in aria, tra grida di esultanza e
risate.
Poi
corsero tutti sotto la curva giapponese, formando una linea quanto
più larga
possibile.
Madoka,
Kumi, Elena e Yukari batterono le mani felici, ognuna con lo sguardo
rivolto
verso un giocatore in particolare, tra legami già ufficiali
e altri che
attendevano la svolta che ne avrebbe sancito la nascita.
«E
così
pur tra mille peripezie ragazzi, alla fine ce l'abbiamo
fatta!» gridò euforico
Makoto Soda, accolto dal boato dei suoi compagni.
La
Nazionale Under 23 al completo stava festeggiando la qualificazione in
una
rinomata pasticceria del quartiere di Shibuya, con una torta gigantesca
e fiumi
di bevande assortite.
Kira
non
era con loro, ligio più che mai alla sua parola d'ordine
"Astinenza"
e aveva preferito una più tranquilla cena con Tatsuo Mikami,
Munemasa Katagiri,
Minato Gamo e gli altri membri del suo staff.
Elena
mise
una mano su un braccio di Taro e gli lanciò un'occhiata
significativa.
Il
centrocampista annuì e si diresse con lei verso l'uscita del
ristorante,
seguiti dai mormorii maliziosi di alcuni tra i ragazzi.
La
scena
non era sfuggita né a Genzo né a Kumi, che li
avevano cercati con gli occhi per
tutto il tempo.
Kumi
non
seppe cosa pensare. Genzo era perplesso.
Entrambi
non riuscirono a trascorrere quella serata di festa con la
spensieratezza
immaginata e voluta.
Si
sedettero nell'unico tavolo rimasto libero nella gelateria, da poco
inaugurata,
che si trovava a pochi metri dalla pasticceria.
Elena
ordinò un'enorme coppa di gelato alla panna e frutti di
bosco, Taro fece
altrettanto con crema pasticcera e cioccolato.
«Hanno
messo anche le amarene … mi fanno impazzire.»
commentò entusiasta l'insegnante
quando il gelato fu finalmente davanti a lei, prima di tuffare il
cucchiaio e
gustarne il primo boccone.
Taro
sorrise e la imitò, poi decise di entrare in argomento.
«Allora,
di cosa devi parlarmi?»
Esitò
un
attimo, indecisa su come cominciare, poi scelse di lasciar perdere i
preamboli.
«Si
tratta
di Genzo.»
Taro
annuì
una volta, con un leggero sorriso.
«Ti
sei
innamorata di lui.»
Elena
per
poco non si strozzò con la panna, provocando una leggera
risata nell'amico.
«La
metti
già in questi termini?» chiese, il viso paonazzo e
la voce indispettita.
«E
che
altro dovrei dire?» ribatté lui tranquillamente.
La
ragazza
strinse le labbra e volse gli occhi verso il basso «Io non so
cosa provo per
lui.»
«Ho
guardato la partita contro il Vietnam a casa sua. Mi ha invitata a
cena, con
noi c'erano anche il signor Mikami e il signor Hoffmann. Alla fine
della
serata, mi ha accompagnata a casa e …» emise un
leggero sospiro «… stavamo per
baciarci. Ma Wilhelm ha abbaiato e ha interrotto tutto.»
disse, divertita suo
malgrado.
Taro
ridacchiò, ricordando quello stesso episodio raccontatogli
da Genzo la sera
prima.
«Lì
per lì
mi ha dato fastidio.» ammise «Poi, a mente fredda,
ho pensato che è stato
meglio così, avevo ceduto a un momento di debolezza di cui
poi mi sarei
pentita. Ma quattro giorni fa l'ho rivisto in palestra e … ormai
succede sempre
così, con lui. Sento il cuore battere più forte,
vederlo mi rende felice.»
«Vedi
che
non sono lontano dalla verità.»
Elena
abbassò gli occhi e fece un lieve sorriso «Lui mi
piace, Taro. È affascinante,
sicuro di sé, determinato … e generoso. Ma
… non è passato neppure un anno e io
mi sento già attratta da un altro uomo. Mi sembra una cosa
… sbagliata, ecco.»
«Diventare
una persona arida e incapace di amare è sbagliato,
Elena.»
Lei
lo
guardò, stringendo le labbra.
«Ho
anche
un altro dubbio … il suo procuratore gli ha detto che ha
sempre ottimi gusti in
fatto di donne, come a dire che ne ha avute tante a scaldargli il
letto. Io non
voglio allungare la sua lista.»
«Wakabayashi
non ti tratterebbe mai come un trofeo di caccia. Ha stima e rispetto
per te,
non sta giocando con i tuoi sentimenti. Posso garantire su
questo.»
Elena
gli
rivolse un'espressione scettica. «Passo parte delle mie
vacanze in Germania e mi
è capitato ogni tanto di sfogliare qualche rivista di gossip
… ho trovato
spesso fotografie di Genzo in compagnia di una bella ragazza, mai la
stessa.
Titoli tipo "Lo charme giapponese del SGGK fa un'altra vittima" e
commenti come "Ad appena vent'anni il SGGK vanta già un
curriculum anche
sentimentale di tutto rispetto" e così via. Non è
che succederà anche con
me? Dopo pochi mesi potrebbe conoscere una ragazza che lo
attrarrà di più e lui
mi metterà da parte.»
«Allora
non ti limitavi a guardare le foto, li leggevi anche gli articoli su
Wakabayashi.» la punzecchiò, e lei per tutta
risposta scosse la testa
sorridendo.
«Comunque
quelli erano dei flirt, Elena. Ragazze più che disponibili,
conosciute e
frequentate nello spazio di poche settimane che poi si vantano di
essere state
a letto con il grande portiere. Wakabayashi si è innamorato
di te proprio
perché ti ha conosciuta e ha capito che non sei come
quelle.»
«Davvero
pensi che sia addirittura innamorato?»
Taro
la
guardò divertito. Aveva sgranato gli occhi, come se
faticasse a rendersi conto
di ciò che era avvenuto in quei mesi … qualcosa
che lei avrebbe certamente
escluso nei suoi primi mesi di permanenza in Giappone.
«Di
certo
è molto preso da te. Non l'ho mai visto
così.»
«E
come
spieghi il fatto che stava per baciarmi, pur essendo legato a un'altra
donna?
Questo denota la sua incostanza!»
A
quel
punto, Taro fu costretto a rivelarle la conversazione avuta con il
portiere al
J-Village. E ciò che Genzo aveva detto di lei, l'ammissione
dei suoi sentimenti
e quando si era reso conto di provarli.
Elena
avvertì una morsa stringerle il petto sempre più,
man mano che Taro le riferiva
quanto confidatogli dall'amico, al punto che smise di mangiare. La
parte finale
del gelato si era sciolta e ora, nella sua coppa, era rimasta soltanto
una
crema bianca striata da rivoli di sciroppo rosso.
Non
poteva
credere che Genzo avesse parlato di lei in termini così
appassionati.
Si
sentiva
orgogliosa di aver suscitato in lui un sentimento tanto fervido, ma nel
contempo era sempre più confusa e combattuta, tra il
desiderio di ricambiarlo e
la difficoltà di andare oltre i suoi sensi di colpa.
«Taro
…
non so, forse sto sbagliando, ma io ancora non riesco a non pensare a
Gianluca
e a quello che gli è accaduto. Non riesco a sentirmi in pace
con la mia
coscienza, è più forte di me. E comunque Genzo
è ancora fidanzato con la
Ujimori. Pochi giorni fa lei era a Nankatsu. Li ho visti
insieme.»
Il
ragazzo
fece un lieve cenno del capo. Sarebbe stato facile dirle che
innamorarsi di
Wakabayashi o di qualcun altro non l'avrebbe certo resa una persona di
poco
valore, ma l'esperienza che Elena aveva vissuto era stata talmente
traumatica
che era impossibile giudicare senza averne sperimentato gli effetti
sulla
propria pelle.
Inoltre
era comprensibile da parte sua l'intenzione di non accettare le
attenzioni del
portiere che evidentemente faticava a troncare la sua relazione,
finché non
sarebbe stato libero.
«Aspetterò.
Tornata in Italia, starò per un po' di tempo senza vedere
Genzo, e allora
vedremo se la mia è solo un'infatuazione o se è
qualcosa di più importante.»
Quella
decisione non avrebbe fatto piacere al suo amico, ma Taro non riusciva a
criticarla,
nonostante il dubbio che Elena, con la scusa di voler fare chiarezza
nel suo
cuore, stesse in realtà cercando di fuggire dai suoi
sentimenti.
Fecero
ritorno al locale con aria rilassata e divertita.
«Ah,
rieccovi! Dove vi eravate nascosti?» li accolse Taki, con un
bicchiere di sake
in una mano e una fetta di torta
nell'altra.
«Siamo
andati nella gelateria qui vicino. Ne avevamo sentito parlare bene ed
eravamo
curiosi.» replicò prontamente Taro.
«E
ne
avete approfittato per un romantico tête à
tête.»
insinuò Ryo con aria maliziosa.
«Hai
poca
fantasia, Ishizaki.» lo liquidò Elena.
«Beh,
siete sgattaiolati via quasi subito, quasi prima che iniziassimo a
festeggiare!» insistette il difensore.
Elena
alzò
gli occhi al cielo, seccata.
Sentiva
gli occhi di Genzo su di sé, ma evitò di
incrociarli.
Ignorando
la parte di torta rimasta sul grande tavolo, si diresse verso il bagno.
Chiuse
il
rubinetto e schiacciò il grosso pulsante dell'erogatore di
aria calda,
stendendo poi le mani sotto il diffusore.
Si
sentì
picchiettare sulla spalla e quando si voltò, si
ritrovò davanti Kumi che la
fissava, seria.
«Elena,
devo chiederti una cosa.» le disse, rispondendo alla sua
occhiata
interrogativa.
«Tu
e
Misaki … che rapporto vi lega veramente?»
L'italiana
aggrottò le sopracciglia, invitando l'amica a spiegarsi meglio.
«Io
e
Madoka ti abbiamo vista tornare a casa con Wakabayashi, la sera della
partita
con il Vietnam.» continuò l'ex manager, senza
badare all'espressione sempre più
stranita dell'amica «Abbiamo anche visto che stavate per
baciarvi. Ma stasera
sei uscita con Misaki, mentre il resto della squadra festeggiava la
qualificazione … non puoi giocare con i sentimenti di due
ragazzi.»
Elena
sgranò gli occhi, poi sorrise e scosse la testa, desiderosa
di chiarire subito
quell'equivoco.
«Taro
è un
mio caro amico … gli ho chiesto come mi devo comportare con
Genzo.»
Kumi
sentì
la tensione in mezzo al petto abbandonarla.
«Sei
innamorata di Wakabayashi?» le chiese, con
spontaneità.
«Non
lo
so. Mi piace molto, questo sì. Ma tu, perché ci
tenevi tanto a sapere di me e
Taro? Non sarà che …»
Kumi
abbassò la testa con un lieve sorriso, un po' impacciata.
«Sì,
ho
una cotta per Misaki. Da qualche mese, ormai. Ma poi sei arrivata tu e
ho visto
che avevate molta confidenza, e ho voluto capire cosa ci fosse
esattamente tra
voi …»
«Quindi
tu, per tutto questo tempo …» replicò
Elena, stupita di come tante cose le
fossero sfuggite e nel rendersi conto di come in quei mesi si fosse
concentrata
quasi esclusivamente su sé stessa.
Scosse
la
testa, con uno sguardo rassicurante «No, siamo soltanto buoni
amici. E lui
conosce da tempo sia me sia Genzo, quindi era il più adatto
a darmi un
consiglio.»
«Bene.
Quindi ora posso confessargli i miei sentimenti … sai, io
sono convinta che
quando una persona ti piace, l'unica cosa da fare è
dirglielo.»
«Hai
ragione, Kumi. Mi piacerebbe vedere Taro con una ragazza come te, credo
che
potreste stare bene insieme.»
Elena
le
sorrise ancora, con affetto.
Sì,
a
ripensarci, c'erano stati dei particolari rivelatori. L'entusiasmo
più
accentuato quando a segnare era il numero undici, lo scambio di sguardi
quella
sera a Sydney, dopo la tentata violenza di quel mascalzone …
che tradivano
qualcosa di più della naturale predisposizione di Taro a
preoccuparsi per gli
altri e ad aiutarli.
Lì
per lì
non ci aveva fatto molto caso, concentrata com'era sul suo lavoro alla
palestra, sulla necessità di tenere a bada i ricordi, la sua
stessa mancanza
d'interesse per la possibilità di innamorarsi di nuovo
… anzi, non l'aveva
minimamente considerata. Finché non aveva cominciato a
conoscere meglio Genzo.
Lui
era
stato la sorpresa, l’imprevisto, la variabile impazzita. Per
lui, era successo
ciò che lei dava per scontato non sarebbe più
potuto avvenire.
«E
tu,
dirai a Wakabayashi quello che provi?» la voce di Kumi
interruppe le sue
congetture.
Elena
alzò
le spalle, dubbiosa «La nostra situazione non è
così semplice. Lui è ancora
impegnato … e io non mi sento pronta per avere una nuova
storia.»
Kumi
increspò le labbra «Rischiate di perdervi,
così. Tu gli piaci sul serio, Elena.
Dopo averti vista uscire con Misaki, è stato di pessimo
umore per tutta la
sera. Era accigliato e ha parlato pochissimo.»
L'italiana
avvertì l'ennesima stretta al cuore. Ma rimaneva sempre un
fatto
incontrovertibile …
«Lui
ancora non lascia la sua ragazza.»
«Se
ti
vuole davvero, lo farà. E tu … amare qualcuno non
può essere una colpa. Non
rinunciarci.»
Un saluto a chi è su questa pagina!
Questo capitolo è un
po' di transizione, con più
dialoghi e introspezione psicologica che azione e fa da preludio al
prossimo,
in cui tutti i protagonisti della storia saranno chiamati ad affrontare
i loro
sentimenti.
Grazie a tutti coloro che stanno
seguendo le vicende
di Genzo, Taro, Elena e Kumi! :-*
Sandie
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Capitolo 17 *** Capitolo XVII - Una felicità incompleta ***
Capitolo XVII
Una felicità incompleta
Elena
guardava la pioggia cadere rapida e copiosa dal cielo di Tokyo.
Le gocce avevano ormai bagnato
completamente i vetri delle
finestre e ogni tanto i lampi illuminavano il cielo, seguiti da tuoni
fragorosi, in quella che sembrava un’anticipazione della
stagione delle piogge.
La
passeggiata
programmata per il pomeriggio nei quartieri di Ginza e Akihabara era
saltata.
Lei,
Mayuko e Satoru
Tanisaka erano arrivati nella capitale giapponese tre giorni prima,
insieme
alle cinque allieve che avrebbero partecipato alle Nazionali juniores.
Erano
riusciti a
prenotare alcune stanze in un albergo non lontano dallo Yoyogi Stadium,
dove si
sarebbe svolta la competizione.
Le
ragazze si erano
sedute sul divano del salotto e sbuffavano annoiate, cercando di
ingannare il
tempo ascoltando musica dai loro iPod o facendo giochi di cui presto si
stancavano.
Elena
andò nella sua
stanza. Frugò brevemente nel suo piccolo trolley, per
tirarne fuori una
custodia colorata contenente il dvd con l’edizione giapponese
di “Stick It”,
acquistato in un centro commerciale della capitale, in uno dei suoi
recenti
viaggi.
Aveva
fatto bene a
portarlo con sé: era certa che prima o poi le sarebbe stato
utile.
«Ragazze,
forse ho
trovato il modo di rimediare. Non sarà come visitare il
centro di Tokyo, ma con
me e le mie compagne ha sempre funzionato.»
annunciò al suo ritorno.
Inserì
il dvd
nell'apposito lettore.
In
breve la sala si
riempì dapprima dei commenti incuriositi e poi delle risate
delle giovanissime
atlete, ravvivando un pomeriggio altrimenti tedioso.
«Signorina Rulli, la signorina
Ujimori Asami la sta
aspettando nella hall.»
la avvertì
l'addetto alla reception dell'albergo.
«Ujimori
Asami?»
replicò, con uno sguardo stupito.
«Sì,
ha chiesto
espressamente di lei.» rispose l'uomo, stringendosi nelle
spalle.
Elena
mantenne
un'espressione perplessa, ma poi si rese conto che c'era un solo motivo
per cui
Asami volesse parlare con lei. «Va bene, le dica che
arriverò a momenti.»
Andò
nel bagno a darsi
una breve sistemata ai capelli, poi si diresse verso la hall, tra gli
sguardi
curiosi delle ragazze e anche di Mayuko.
Era
ormai tardo
pomeriggio, e il sole era tornato a dominare il cielo dopo il temporale.
La
vide accanto a una
parete della grande sala, intenta a osservare i quadri che vi erano
appesi.
Indossava
una maglia
azzurra e una corta gonna bianca, a sottolineare le gambe perfette.
Si
voltò proprio nel
momento in cui Elena arrivò dietro di lei. Doveva averlo
fatto alcune volte, da
quando il receptionist era andato a chiamarla.
Dopo
aver scambiato i
convenevoli, Elena invitò Asami a sedersi sulle poltrone
lì accanto.
La
giovane ereditiera
fece un cenno di diniego.
«Non
starò qui per
molto.» la scrutava con un'espressione gelida che le
provocò un senso di
disagio, che tuttavia si sforzò di non dare a vedere.
Sostenne lo sguardo e
attese ciò che la giovane ereditiera aveva da dirle.
«Non
farti illusioni su Genzo. Ci sarò anch'io con lui, a vedere
la gara delle tue
allieve. Mi ha invitata.» precisò, con un
sorriso «Tra noi c'è
un legame solido e di lunga data, che solo a causa della lontananza non
si è
trasformato prima in qualcosa di più profondo. E non
potrà certo venire
spezzato da una ragazzina spuntata dal nulla.»
I
suoi occhi neri
sembravano mandare lampi, il suo tono di voce era freddo e risoluto.
Elena
continuava a
sentirsi infastidita, ma fu altrettanto ostinata a non abbassare lo
sguardo.
Se
pensava di
umiliarla facendole pesare la condizione sociale inferiore alla sua, si
sbagliava di grosso. Per fortuna nella sua famiglia le avevano
insegnato a non
vergognarsi mai né di sé stessa né
delle sue origini.
«Non accetto di essere definita
"una che spunta
dal nulla" solo perché non sono figlia di un ricco
industriale. Il denaro
me lo sto guadagnando con il lavoro e non cercando di sedurre un ricco
rampollo, come evidentemente insinui.»
replicò, con fermezza.
«Allora
Genzo non ti
interessa?» chiese l'altra, lì per lì
colpita dalla reazione della ragazza
italiana ma abile a mantenere un'espressione imperturbabile.
Fu il
turno di Elena di subire il colpo ma rimediare con altrettanta
prontezza «Cosa
ti fa pensare che io abbia delle mire su di lui?»
Asami
fece un altro
sorriso, come se ritenesse ovvia la risposta «Sai, Genzo
è un personaggio
pubblico, un calciatore famoso in Giappone ma soprattutto in Europa. E
naturalmente è uno degli eredi di una famiglia tra le
più importanti del Paese.
So che siete diventati amici in questi mesi e io non ho nulla in
contrario, ma
non aspettarti nulla di più.» la
scrutò, cercando di cogliere segni
dell'effetto delle sue parole «Lo conosco da molto
più tempo di te e lo amo sul
serio, è l'uomo con cui voglio sposarmi e creare una
famiglia.»
«Se
anche Genzo la
pensa così, non hai nulla da temere.»
ribatté Elena, con un sorriso sereno.
Ma
Asami notò che gli
occhi della sua rivale erano più lucidi.
Allora
non era stata
una sua impressione … provava davvero qualcosa per Genzo,
anche se doveva
ammettere che stava cercando di dissimulare in maniera quasi ammirevole.
Doveva
affondare il
colpo di grazia.
Chiuse
gli occhi e
scosse la testa con un sorriso di scherno, come se avesse di fronte a
sé una
bambina che si era appena resa conto che il mondo reale non
è come quello
raccontato nelle fiabe.
«Dopo
la gara, andremo
a cena e magari brinderemo anche alla tua vittoria. E poi concluderemo
la
serata nel mio appartamento, come sempre.» la
informò con un sorriso beffardo,
per poi avviarsi verso l'uscita dell'albergo.
Si
voltò brevemente
prima di uscire e vide Elena di spalle, ancora lì ferma.
Avvertì
la sensazione
di una lama gelida e affilata perforarle il cuore.
In
fondo era vero,
Asami conosceva Genzo da tanto tempo e lei da soli cinque mesi.
Con
Asami aveva una
relazione stabile, mentre con lei non erano mai andati al di
là di un bacio
sfiorato in un'atmosfera particolare. Un bacio di cui aveva forse
rischiato di
pentirsi.
E
allora perché quelle
parole la ferivano così tanto?
«Signorina
Rulli, cosa
voleva quella donna?» chiese Shinobu, la più
curiosa del gruppo, non appena
vide la sua insegnante tornare nel salotto.
Elena
scosse la testa
con un sorriso, cercando di ignorare il nodo che le stava serrando
progressivamente la gola, ma si affrettò a guadagnare le
scale.
«Vado a fare una doccia, tra non
molto sarà ora di
cena.»
Chiusa
la porta dietro
di sé vi si appoggiò, reclinando la testa.
Sentì
le lacrime
scendere lente dai suoi occhi e rigarle il viso.
Strinse
le labbra,
avvertendone comunque il sapore amaro.
Era
stato
l'atteggiamento di sufficienza da parte di Asami o sapere che Genzo
nonostante
tutto, la amava ancora?
Tutti
quei gesti …
quelle premure … il suo modo di guardarla, il calore con cui
le aveva stretto la
mano in ospedale e quel bacio quasi avvenuto davanti a casa di suo zio.
Possibile
che avesse
sempre finto?
E
Taro … poteva averle
mentito?
Le
sembrava assurdo.
Non
poteva credere che
Genzo e Taro si fossero presi gioco di lei. Di certo non il suo vecchio
amico.
Eppure
i giorni
seguenti alla partita sembravano confermare le parole di Asami.
Aveva
visto Genzo un paio di volte e sempre in palestra, ma si erano
scambiati poche
frasi irrilevanti, come se il loro bacio sfiorato e
l’incontro del giorno dopo,
con sguardi carichi di sottintesi, non fossero esistiti.
Le
loro
conversazioni somigliavano a quelle avute all'inizio della loro
conoscenza.
Lo
osservava mentre faceva gli sparring, e si chiedeva perché
tutto a un tratto si
stesse comportando come se lei fosse stata poco più di una
conoscente.
Ma
in
fondo, l’aveva a dir poco ignorato la sera della partita
finale contro
l’Australia.
Si
era
stancato del suo atteggiamento, che prima sembrava quasi incoraggiarlo
per poi
intimargli di non oltrepassare la linea?
Forse
anche lui stava aspettando che se ne andasse, per essere sicuro che non
si
trattasse soltanto di un’infatuazione passeggera.
Poteva
capitare di
prendere una sbandata per poi rendersi conto di quanto fosse importante
il
legame con la propria ragazza, e forse Genzo temporeggiava
perché si stava
rendendo conto di non poter rinunciare ad Asami con leggerezza.
E
lei
forse l’aveva affascinato, ma non aveva suscitato in lui un
sentimento
addirittura superiore a quello che provava per la sua ragazza.
Da
quando
erano venute a conoscenza dei rispettivi sentimenti per Taro e per
Genzo, Kumi
era diventata la sua confidente.
La
mangaka
sembrava tifare per un suo futuro fidanzamento con il portiere, e non
glielo
nascondeva. Ma soprattutto, era contraria al suo ritorno in Italia
senza prima
aver parlato con lui.
«Quello
che provi non può essere un'infatuazione come quella per un
ragazzo conosciuto
durante una vacanza al mare o a una festa. È un sentimento
che è nato quasi
senza che te ne accorgessi, anzi in un certo senso persino contro la
tua
volontà, e che è cresciuto con il passare del
tempo. Se posso permettermi
Elena, io non credo che tu abbia bisogno di capire, ma di
ammettere.» le aveva
detto, con la schiettezza che aveva imparato a conoscere e apprezzare
in quei
mesi.
«Io dirò a Misaki
quello che provo prima della partenza per
il Messico. L'incertezza è la cosa peggiore, Elena. Ti
illude di essere al
riparo da ogni delusione e sofferenza, in realtà ti logora e
potrebbe farti
perdere l'occasione giusta senza che tu te ne accorga.»
Ma
ora le sembravano
frasi prive di senso.
Non
c'era che dire …
se Genzo l'aveva ingannata, era riuscito a farlo talmente bene da far
prendere
un granchio anche a Kumi e a Taro.
Si
passò le mani sulle
guance e sugli occhi quasi con rabbia, asciugandosi le lacrime: se
Genzo
l'aveva presa in giro, se non sapeva decidersi o aveva delle
difficoltà a
distinguere i suoi sentimenti in fatto di donne, non sarebbe stata lei
a
pagarne le conseguenze.
Guardò
il maneki neko.
Lo aveva portato con sé, sperando
che i presunti influssi positivi fossero reali e non solo una delle
tante
leggende giapponesi.
Lo
accarezzò per l'ennesima volta.
Il
suo
primo desiderio, nell'immediato: vedere mesi di lavoro duro e
appassionato
coronati almeno da un ottimo piazzamento.
«E sapere cosa
c'è davvero nel cuore di Genzo … e nel
mio.»
La
ginnastica artistica non era uno sport molto considerato dal punto di
vista
mediatico, con l'eccezione dei pochi campioni affermatisi nelle
competizioni
internazionali, ma i palasport erano quasi sempre pieni e lo Yoyogi
Stadium era
gremito di spettatori entusiasti, tra cui tanti bambini e ragazzi.
Al
torneo
partecipavano squadre provenienti da tutto il Giappone. Favoriti erano
sempre i
club come Asahi e Konami, che oltre a formare le atlete più
forti disponevano
anche di grandi risorse economiche e contavano sull’appoggio
e la
sponsorizzazione di ricchi imprenditori e importanti
società.
Elena
e Mayuko
raggiunsero la postazione assegnata allo Shiroyama Gymnastics Club e la
loro
panca si riempì di giacche, borse e zainetti colorati.
Le
ragazze
cominciarono i loro esercizi di riscaldamento, intervallati da brevi
battute e
piccoli scherzi allo scopo di allentare la tensione.
Erano
tutte in lizza.
Il giorno prima erano riuscite a superare la fase eliminatoria, con
ottimi
punteggi e in alcuni casi avendo la meglio anche su ginnaste di scuole
più
blasonate.
«Mayuko
Shiroyama?»
Una
squillante voce
femminile fece voltare le due allenatrici.
«Miho
Shinoda!»
esclamò la titolare della scuola, voltandosi e ritrovandosi
di fronte la donna
che l'aveva chiamata, stringendola subito nel suo abbraccio.
Era una donna non molto alta e di corporatura minuta come Mayuko, ma si faceva notare per una chioma biondo platino.
«Quanto
tempo! Ho
visto le ultime regionali e anche le gare di ieri. Complimenti, hai
messo su
una squadra davvero valida. E quella Shimokawa ha la stoffa della
campionessa.»
«Grazie,
ma il vero
banco di prova è questa sera, con i titoli in
palio.» rispose Mayuko.
«Ti
presento Elena
Rulli, la mia vice.» disse poi, mostrandole la ragazza con un
gesto della mano.
Elena
sorrise
d'orgoglio nell'apprendere che la sua datrice di lavoro non la
considerava una
semplice collaboratrice e assistente, ma un'allenatrice in seconda a
tutti gli
effetti.
«Molto
lieta, signora
Shinoda.»
«Piacere
mio. Ero una
compagna di squadra di Mayuko in Nazionale, più o meno
quando tu eri in fasce.»
le disse, con un sorriso divertito.
Elena
annuì «Ho visto
molti vostri filmati su Internet.»
«E
ovviamente eravamo
bravissime, vero?» replicò Miho, strizzandole un
occhio.
«Naturalmente.»
confermò, con un sorriso sincero.
«Di
certo più che a
cantare.» intervenne Mayuko, roteando gli occhi con un
sorriso birichino.
«Ah,
sentila che
insolente! E io che volevo regalarti il nuovo disco delle T&C
Bomber, in
caso di vittoria!» esclamò, passandole un braccio
attorno al collo, fingendo di
volerla strozzare.
«Beh,
facciamo così,
se hai inciso una canzone carina la userò per la prossima
routine a corpo
libero di una mia allieva.» concesse, stando allo
scherzo.
Sugli
spalti si
sbracciarono e si fecero notare, chiamandola forte, anche Kumi, Shun e
Madoka.
E accanto a loro, c’era anche Taro.
Elena
li salutò
agitando un braccio.
Poi
fece scorrere lo
sguardo su altri settori, ma non le parve di scorgere Genzo.
Forse
non era ancora
arrivato … o forse Asami era riuscita a convincerlo
addirittura a non andare?
«Allora,
sei
emozionata?» la voce di Carlo, comparso dietro alle sue
spalle, la fece
sobbalzare e le fece mettere momentaneamente da parte le sue congetture.
«Quasi come ai tempi delle mie
gare.» ammise.
«Non preoccuparti. Io ti ho vista
quasi tutti i
giorni, alla palestra. Tu e Mayuko le avete allenate bene, quelle
ragazze.
Vedrai che non deluderanno.»
Suo
zio era stato,
come sempre, di parola. Era stato dimesso dallo Juntendo Hospital
proprio lo
stesso giorno della sua partenza, ed Elena, appena saltata
giù dallo Shinkansen
aveva affidato il suo piccolo
bagaglio a Satoru, tenendo con sé soltanto lo zainetto e
aveva chiamato un taxi
per farsi portare al complesso ospedaliero.
Avevano
trascorso
insieme la mattinata prima di recarsi all'albergo scelto per la
permanenza
nella capitale.
Era
ormai
perfettamente guarito, il suo passo era tornato agile e i movimenti
sciolti
come erano sempre stati. Sembrava quasi che quell'incidente non fosse
mai
accaduto, ma il medico, prima di congedarlo, era stato molto chiaro,
ribadendo
la necessità di interrompere l'attività
agonistica.
«Ma
niente
e nessuno potrà mai impedirmi di fare
l'allenatore.» aveva dichiarato con
fermezza.
E
prima di tornare a
Nankatsu, le aveva assicurato che sarebbe stato in prima fila ad
assistere al
suo primo trionfo come allenatrice.
Lui
aveva mantenuto la
sua promessa, ora toccava alle sue cinque combattenti mostrare di
essere pronte
a competere con le pari età di tutto il Paese.
«Allora
ragazze,
tenetelo presente oggi più che mai. Quando entrate in
pedana, siete solo voi e
il vostro esercizio. Tutto attorno a voi sparisce. Portate in gara
tutto
l'impegno che avete messo nella preparazione, proprio come avete fatto
nelle
eliminatorie.» le esortò Mayuko.
«Mi
tremano un po’ le
gambe ...» ammise Hanako.
«Se
le lasci tremare,
perdi e mandi all’aria tutti gli sforzi fatti
finora.» ribatté Arimi,
puntandole due occhi decisi, quasi minacciosi.
«Ha ragione Arimi.» intervenne Elena «Vi siete
allenate per mesi, avete lavorato con impegno tutti i giorni e non
c'è stato un
allenamento in cui non vi abbia visto acquisire qualcosa in
più rispetto a
quello precedente. Ora dovete mettere a frutto i risultati dei vostri
allenamenti: avete seminato tanto, è tempo di
raccogliere.»
Durante
la gara, le
ginnaste dimostrarono di aver recepito perfettamente le istruzioni
delle loro
allenatrici.
Davanti
a loro
rimasero la pedana e gli attrezzi.
La
concentrazione le
isolò dal contesto circostante, le grida del pubblico
divennero un fievole
brusio, per poi non essere più percepite se non al termine
dell'esercizio.
E
quasi sempre furono
applausi misti a urla di incitamento e ammirazione.
Mitsuyo
si confermò un
vero talento alle parallele e al volteggio, in cui aveva dimostrato di
saper
compiere con precisione anche elementi di notevole
difficoltà. Nelle stesse
specialità Shinobu e Hanako riuscirono a giungere in finale,
mentre Emi venne eliminata
in semifinale alle parallele a causa di una presa mancata durante un Tkatchev e
conseguente caduta che le causò una
penalità.
Tutte
avevano
dimostrato di possedere un grande senso dell’orientamento,
davano l’impressione
di compiere gli esercizi senza alcuno sforzo e di vivere la ginnastica
con il
sorriso sulle labbra, come la loro grande passione.
Arimi
in particolare,
si dimostrò la vera rivelazione della competizione,
risultando indiscussa
vincitrice al corpo libero e alla trave e infine anche nell'all-around,
in cui
superò di poco la giovane campionessa in carica, in forza
alla Konami.
La
sua routine al
corpo libero era una sequenza perfettamente combinata di elementi
acrobatici e
coreografici. Le diagonali formate da serie di rovesciate all'indietro
con una
mano e di salti mortali si concludevano con atterraggi perfetti agli
angoli della
pedana, e vennero sottolineate ogni volta da boati entusiasti e
applausi
calorosi.
La
stessa cosa avvenne
per il suo esercizio alla trave, dove mostrò di
padroneggiare con eleganza e
freddezza un ampio repertorio di elementi. Si trattasse di rovesciate,
di enjambée
o di movimenti più complicati,
sembrava che, tranne per una brevissima oscillazione, muoversi su una
pedana o
su un ripiano largo dieci centimetri non facesse differenza.
E
sempre con
un'espressione sicura di sé e rilassata che dava quasi
l'impressione di un
esercizio improvvisato sul momento e non provato e riprovato per mesi,
con
fatica, sudore, perseveranza e anche momenti in cui stava per esplodere
di
rabbia e impazienza.
Il
suo ritorno al
mondo circostante venne salutato da un'ovazione e da una salva di
applausi,
mentre le giudici si consultavano sui punteggi da assegnare
all'esercizio.
Scesa
dalla pedana,
andò ad abbracciare le sue allenatrici, ricevendo pacche
sulle spalle dalle sue
compagne e strette di mano dalle sue avversarie.
Aveva
ripetuto il
risultato delle regionali, ma stavolta il suo nome balzò
all’attenzione degli
appassionati, allenatori e commentatori di tutto il Paese. Questi
ultimi non
tardarono a indicarla subito come il nuovo astro spuntato nel
firmamento della
ginnastica nipponica.
Dopo
la cerimonia di
premiazione, i giornalisti le si fecero attorno, come api attorno a un
alveare.
Poi fu il turno delle altre ragazze di ricevere la loro parte di
attenzione,
seppure minore, e i microfoni e gli obiettivi delle telecamere
raggiunsero anche
Mayuko e la stessa Elena che, completamente spiazzata, lì
per lì non seppe cosa
dichiarare.
Poi
pensò all'amore
che nutriva per quello sport, la dedizione con cui lo insegnava e lo
praticava
tutti i giorni, il fatto che, nonostante l'infortunio e i sogni
infranti di un
anno prima, le avesse restituito le gioie che le erano state negate,
seppure in
un altro ruolo, e riuscì a evitare una sconcertante scena
muta.
Madoka,
sugli spalti,
applaudì con le lacrime agli occhi, accanto a Shun, Kumi e
Taro e si precipitò
di corsa dalle scale per andare a condividere la sua gioia con la
sorella.
«Congratulazioni.»
trasalì al suono di quella profonda voce maschile.
Aveva
ormai imparato a
conoscerla … e ad amarla.
Si
voltò e sorrise.
«Grazie,
Genzo.»
Il
giovane si guardò
intorno, con un sorriso compiaciuto. Sugli spalti il pubblico
applaudiva e
gridava entusiasta dello spettacolo offerto dalle scuole partecipanti.
«Avete
fatto una gara
splendida. Arimi ha sbaragliato tutte le rivali, e anche le altre
ragazze sono
state bravissime.» commentò.
«Sì, sono state tutte
meravigliose. Sono fiera di
averle allenate.»
«E
loro sono fortunate
ad avere due allenatrici come te e la signorina Shiroyama.»
replicò lui.
«Grazie.
Ma, almeno
per quanto riguarda Arimi … non so se sarebbe andata
così, senza il tuo aiuto.»
gli confidò, con uno sguardo che dava a quella frase un
significato più
profondo di quanto esprimesse di per sé.
«Complimenti
anche da
parte mia.» la voce flautata di Asami li fece trasalire e
sciolse l'incanto.
Genzo
si rese conto di
essersi completamente dimenticato della presenza della sua fidanzata,
accanto a
sé … come se tutto si fosse circoscritto a lui ed
Elena soltanto.
«Le
ragazze della
vostra squadra sono bravissime. Shimokawa è una vera
campionessa. Hai
intenzione di fare l'allenatrice?» chiese con tono gentile e
amichevole.
Stentava
a riconoscere
in quella ragazza così educata e cortese quella che pochi
giorni prima l'aveva
affrontata, decisa a sminuirla e intimidirla.
«Non
lo so. Di certo,
mi piacerebbe rimanere in questo campo. Quando ti innamori di questo
sport, non
lo lasci più.» disse, con spontaneità,
apparentemente dimentica di quanto
accaduto, mostrando un entusiasmo simile a quello che animava Genzo
quando parlava
di calcio.
Il
ragazzo accentuò il
suo sorriso e continuò a tenere il suo sguardo su Elena, al
punto che Asami non
poté non accorgersene.
L'aveva
visto seguire
la gara con entusiasmo e con apprensione, stringere i pugni, applaudire
con
calore e partecipazione. Non poteva essere un semplice interesse per lo
sport.
Chi
avevano guardato i
suoi occhi? Le ginnaste che si alternavano sulla pedana, o la bionda
allenatrice che, vestita con una tuta bianca e rossa, le incitava?
«Genzo, che dici, andiamo a cena?» gli chiese,
infilando un braccio sotto il suo.
Il
portiere assentì
con un cenno del capo.
«Allora
… buon
proseguimento di serata.» disse Elena, con un sorriso e uno
sguardo in cui
Genzo credette di leggere un'ironia amara.
«Grazie.
Faremo un
brindisi anche per voi.» rispose Asami, ribadendo volutamente
la frase
pronunciata quel pomeriggio.
Elena
annuì con un
altro sorriso e si voltò, ritornando da Mayuko, Satoru e le
altre ragazze che
erano state raggiunte nel frattempo dal loro gruppo di amici e parenti.
Carlo
la abbracciò
forte, riempiendola di complimenti.
La
loro scommessa era
stata vinta. La vittoria delle Nazionali juniores era stata la conferma
della
bontà della sua decisione di farle passare quel periodo in
Giappone ed Elena,
qualunque fosse stato il suo futuro, aveva ripreso in mano le redini
della sua
vita.
E
così era andato
tutto come le aveva annunciato Asami … ma non avvertiva quel
senso di
disperazione che l'aveva invasa pochi giorni prima. Era preparata a
quell'eventualità.
Sorrise
suo malgrado.
Forse
era stato meglio
così. Non era stata colta di sorpresa e non avrebbe
rischiato di mettersi a
piangere alla festa, magari in mezzo a tutti com'era successo allo Yozakura.
Lo
Yozakura
… le tornò in mente lo sguardo con
cui Genzo aveva indugiato su di lei e sul suo furisode,
il maneki neko
che le aveva messo tra le
mani e su cui apriva gli occhi al mattino e li chiudeva la notte, la
comprensione con cui l'aveva ascoltata esortandola poi a guardare
avanti.
E
ora doveva farlo …
guardare avanti, forse anche oltre lui.
«E
ora andiamo tutti
quanti a festeggiare!» gridò Shun, seguito da urla
di approvazione.
La
sala al primo piano
del locale scelto si riempì con i parenti e gli amici
arrivati a Tokyo per
assistere alle gare.
Solo
Carlo era tornato
subito a Nankatsu per presenziare agli allenamenti del giorno dopo.
Una
festa con una
grande torta, bibite rigorosamente analcoliche per le giovani
campionesse e
musica che risuonava per tutta la sala, trasformandola così
in una piccola
discoteca.
Si
trovavano lì da
circa un'ora.
Era
stato meno
difficile di quanto avesse creduto, mostrare che la felicità
per la vittoria
ottenuta le aveva riempito completamente il cuore.
Aveva
brindato,
ballato, chiacchierato con tutti e mangiato addirittura due fette di
torta con
gusto, grazie alla sua passione per i frutti di bosco e all'attenzione
con cui
Mayuko aveva tenuto conto dei suoi gusti.
Ma
ogni volta che
posava gli occhi sulle lancette dell'orologio, pensava inevitabilmente
a uno
scenario che da un ristorante di lusso doveva essersi spostato a un
appartamento di Shinjuku, e ogni volta scuoteva la testa e stringeva le
labbra.
Cercò
Taro con lo
sguardo, ma non riusciva a scorgerlo da nessuna parte.
Decise
così di uscire
sul terrazzo, per prendere almeno una boccata d'aria.
«Ah,
ecco dov’eri
finito!» esclamò, vedendolo seduto sul parapetto,
e andandosi a mettere accanto
a lui.
«Bella
festa, no?»
rispose lui, con un sorriso.
«Già
…»
«Peccato
che manchi
qualcuno.»
Elena lo
guardò, poi chinò il capo e abbozzò un
sorriso.
«È andato a
cena con la Ujimori. Forse, a conti fatti, preferisce stare con lei.
Posso
capirlo, in fondo. È bellissima, ricca, elegante, istruita,
stravede per lui e
lo segue ovunque. Cosa potrebbe pretendere di più da una
donna?» considerò,
senza ironia. Anzi, a pensarci era un ragionamento di una
logicità cristallina,
tanto che si chiese come potesse avere creduto che Genzo la preferisse
a lei.
Era
stata
incredibilmente ingenua. Un'illusa.
Eppure
i suoi gesti …
ma la donna che lo accompagnava a ogni sua uscita e con cui condivideva
anche i
momenti più intimi era Asami.
«Genzo
adesso starà
facendo l'amore con lei …» mormorò a
occhi bassi, quasi senza rendersene conto.
Taro
strinse le
labbra. Non poteva dirle niente, non era in grado di rassicurarla.
Gli
sembrava
impossibile che il portiere, dopo tutto quello che gli aveva confidato
al
J-Village, pensasse davvero di trascinare quella relazione, ma nel
contempo il
fatto che avesse assistito alla gara e lasciato lo Yoyogi Stadium con
la sua
fidanzata, gli impediva di manifestarle il suo scetticismo.
«Io posso solo assicurarti che
non mi sono inventato
nulla, Elena, riguardo a ciò che mi ha detto al J-Village.»
«Taro, sai che cosa ha fatto la
Ujimori? Pochi giorni fa è
venuta addirittura all'hotel dove alloggiavo con la squadra, per dirmi
di non
illudermi e che il loro rapporto è troppo solido e profondo
per poter essere
messo in pericolo da una "ragazzina spuntata dal nulla".» gli riferì,
indicando sé stessa, e imitando il tono altezzoso
dell'ereditiera.
«Davvero? E se è
così, perché ha sentito il bisogno di
venire a dirtelo?»
«Non lo so. Ma evidentemente ha
ragione.»
Taro
la guardò,
perplesso. Effettivamente il comportamento di Wakabayashi sembrava
incoerente
con quanto confidatogli più di una settimana prima.
A
meno che …
Kumi
si diresse verso
il terrazzo con un po' di apprensione.
Stringeva
tra le dita
della mano destra il ritratto disegnato nei mesi precedenti, dopo prove
su
prove.
Era
un disegno che
ritraeva Misaki con la divisa della Nazionale: la riproduzione a
pastelli di
una foto scattata sei anni prima, ai tempi del Mondiale Under 16, e
pubblicata
in un numero speciale di "Soccer Eleven" dedicato alla vittoria dei
ragazzi
giapponesi. All'epoca non aveva tenuto in grande considerazione
quell'immagine,
poiché l'aveva acquistato per le numerose fotografie di
Tsubasa.
Poi,
quando aveva
cominciato a nutrire interesse per l'altro componente della Golden Combi, aveva
ritrovato quella vecchia
rivista nel suo armadio e aveva guardato, questa volta con l'attenzione
che
meritavano, le immagini che lo raffiguravano.
E
quella le era
rimasta impressa più di tutte. L'idea di riprodurla sotto
forma di ritratto le
era venuta in mente dopo il loro incontro alla cartolibreria. Sentiva
che
avevano rotto il ghiaccio, in qualche maniera, e quella sera stessa
aveva
cominciato a lavorare a quel progetto, per poi metterlo in un cassetto
in
attesa del momento giusto.
Dopo
la partita contro
l'Australia, Taro era tornato a Sendai per fare visita a sua madre
prima di
partire per il ritiro di Toluca e poi aveva accompagnato suo padre a
Osaka,
dove si era svolta una mostra collettiva che comprendeva una selezione
di sue opere.
E
lei, tra gli impegni
scolastici e la collaborazione con la rivista della Uchiyama Shoten,
con cui aveva concordato la pubblicazione di
una serie di manga autoconclusivi, non era riuscita ad avvicinare
Misaki.
Ora
mancava poco alla
partenza della Nazionale e lei doveva sbrigarsi … era
nervosa ma non voleva più
aspettare oltre. Due mesi in più non avrebbero cambiato
nulla, se non in
peggio, condannandola a un'attesa logorante.
Aprì
una delle ante
della portafinestra e trasalì nel vedere Taro ed Elena
seduti l'una accanto
all'altra, sul parapetto.
«Ah,
scusate.»
«Figurati,
Kumi.
Abbiamo giusto concluso una chiacchierata amichevole. Io devo tornare
dentro,
ma sono certa che Taro non ha nulla in contrario a rimanere qui a farti
compagnia, giusto?» disse, staccandosi dalla balaustra e
facendo un occhiolino
all'amico, che rimase stupito. Possibile che anche lei sapesse
…?
Rivolse
un sorriso
eloquente anche a Kumi, prima di rientrare.
La
giovane mangaka
sorrise timidamente, avvicinandosi e andandosi ad appoggiare dove era
stata
l'amica fino a poco prima.
«È
stata una serata
trionfale per Elena.» commentò, cercando di
rompere subito il ghiaccio.
«Già.
È pienamente
meritato. Hanno lavorato tutte duramente, per mesi.»
Kumi
assentì.
«E
con la Uchiyama Shoten,
come va?» chiese, desiderando
portare il discorso su di lei.
«Ho
consegnato un paio
di storie disegnate un anno fa. Le ho risistemate e se tutto va bene
saranno
pubblicate in uno dei prossimi numeri della loro principale
rivista.»
«È
splendido.»
Kumi
annuì con un
sorriso.
«Se
anche avessi vinto
il concorso della Shogakukan,
mi sarei
dovuta trasferire a Tokyo. Invece così posso continuare i
miei studi a Fuji e
nel contempo concentrarmi con serenità sul mio lavoro di
mangaka, senza
l'assillo di dover sfondare presto e a tutti i costi, piegandomi ai
diktat
commerciali.»
Seguì
un momento di
silenzio.
«Coraggio,
Kumi. L'incertezza è la cosa peggiore.»
«Misaki,
volevo darti
questo.» riprese, alzando il braccio e ponendo quindi alla
sua attenzione il
disegno.
«L’idea
mi è venuta
vedendo la tua foto in una vecchia rivista.»
spiegò «Mi piaceva: avevi solo
quindici anni, ma uno sguardo che sembra guardare lontano …
così ho pensato che
poteva essere un regalo gradito.» disse, tendendoglielo.
Taro
lo prese e lo
contemplò, tenendolo delicatamente tra le mani.
«È
bellissimo Kumi …
grazie.» disse, sinceramente emozionato e impressionato dalla
somiglianza.
La
ragazza spalancò
gli occhi. L'aveva chiamata … per nome.
Alzò
lo sguardo e vide
che Taro aveva avuto la stessa reazione.
«Scusami
… è che …»
La
ragazza scosse la
testa e gli sorrise. Gli occhi brillavano al punto da sembrare
più chiari.
«Non
devi scusarti. Da
tempo sognavo di sentirmi chiamare per nome da te.» disse in
un fiato,
addolcendo il tono della sua voce e confessando in una sola frase e in
modo del
tutto imprevisto, i suoi sentimenti.
Taro
la guardò. Aveva
gli occhi puntati sui suoi, come se stesse aspettando una sua parola o
un suo
gesto.
Si
staccò dalla
balaustra e le si avvicinò lentamente.
Alzò
una mano, a
sfiorarle una guancia.
Il
cuore di Kumi
batteva all'impazzata, al punto da sentirlo pulsare anche nella testa.
Si
sollevò sulle
punte, e chiuse gli occhi nel momento in cui Taro posò le
labbra sulle sue.
Le
sfiorò, saggiandone
la morbidezza, poi esercitò una lieve pressione, per
invitare Kumi a
dischiuderle.
La
ragazza avvertì il
calore della bocca di lui.
Fu
un contatto lento e
delicato. Taro la esplorava senza fretta …
Si
staccarono piano, e
Kumi gli si appoggiò addosso, quasi senza fiato.
Era
troppo bello … le
sembrava quasi impossibile che fosse reale.
Sollevò
una mano sul
viso di Taro e lo accarezzò, come per sincerarsi che fosse
accaduto davvero.
Lui le sorrise e mise una mano sulla sua.
«Kumi
… tra pochi
giorni dovrò partire per il Messico, con la squadra
… voglio rivederti ancora,
prima di quella data.»
«Anch'io
… Taro.»
sorrise, con occhi ancora inebriati, che lo spinsero a cercare ancora
la sua
bocca.
***Note***
Miho Shinoda è
un'ex ginnasta che ha fatto
parte della Nazionale giapponese tra la fine degli anni '80 e i primi
anni '90,
partecipando alle Olimpiadi di Seul 1988.
In
seguito
ha fatto l'allenatrice e la commentatrice, e per alcuni anni anche la
cantante
nel gruppo pop Taiyo to Ciscomoon, poi rinominato T&C Bomber.
Nella
fanfiction, ho immaginato che lei e Mayuko fossero state compagne di
squadra.
Fonte:
Wikipedia
Arimi
è
ispirata a Catalina Ponor, ginnasta romena che ha gareggiato nella
Nazionale
dal 2004 al 2007 per poi tornare (e con successo) all'agonismo nel
2011.
Elegantissima e con una tecnica sopraffina, e molto espressiva.
Ho scelto di attribuire ad Arimi le
sue due routine al corpo
libero e alla trave con cui ha vinto altrettante medaglie
d'oro alle Olimpiadi
di Atene 2004 (dando un forte contributo alla conquista del titolo a
squadre).
Cliccate sui nomi delle due specialità per aprire i relativi
video, in cui
troverete anche le didascalie con i nomi dei vari movimenti
così come sono
indicati nel codice dei punteggi (alcuni prendono il nome dalle
ginnaste che
per prime li hanno eseguiti a un Mondiale o a un'Olimpiade).
Nel capitolo è citato un
elemento delle parallele
asimmetriche, il Tkatchev, che potete vedere qui da 00:53 a 00:57.
"Stick It" (USA
2006) è un film che
ha per protagonista Haley Graham (interpretata dall'attrice canadese
Missy
Peregrym), una ragazza ex promessa della ginnastica artistica dal
passato
difficile e che ha problemi con la giustizia.
Proprio
il
ritorno alla ginnastica rappresenterà il suo riscatto,
grazie al burbero ma
generoso allenatore Burt Vickerman (Jeff Bridges).
In questa
scena, Haley spiega
a modo suo (ovvero con una spiccata e
pungente ironia) cos'è per lei la ginnastica artistica.
Citare
"Stick It" in questa fanfiction era inevitabile perché per
le amanti
della ginnastica e per le ginnaste stesse rappresenta un vero e proprio
cult.
:-)
Un saluto a tutti!
Lo so, è passato
quasi un mese dall'ultimo
aggiornamento, ma sono state settimane burrascose e frenetiche.
Ora il clima è
finalmente un po' più sereno e conto
di ridurre i tempi di pubblicazione tra i prossimi capitoli, rendendoli
più
ravvicinati.
Anche perché stiamo
entrando in una fase decisiva,
soprattutto per la definizione del rapporto tra Genzo ed Elena, che
stanno
penando un po' rispetto alla loro neonata coppia di amici. ;-)
Buona Pasqua e Lunedì
dell'Angelo!
Sandie
|
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Capitolo 18 *** Capitolo XVIII - Un nuovo inizio ***
Capitolo XVIII
Un nuovo inizio
Genzo
si alzò dal
letto e si infilò la camicia adagiata sullo schienale di una
sedia.
Si
chinò sul minibar e prelevò una lattina di birra.
Si
avvicinò all'ampia
vetrata panoramica e vi rimase affacciato.
Grattacieli
e palazzi
si stagliavano nel panorama notturno di Tokyo, sovrastato da una luna
luminosa.
In
lontananza,
spiccava il profilo dorato della Tokyo Tower.
Per
via di un
colloquio con suo padre alla Wakabayashi Corporation riguardante il suo
pacchetto di azioni, aveva alloggiato in quella stanza al Park Hotel
anche nei
due giorni precedenti, senza dire nulla ad Asami che di certo gli
avrebbe
chiesto di stare presso di lei.
Aveva
evitato di
incontrare Elena prima delle Nazionali juniores, sebbene si trovasse
anche lei
a Tokyo.
Averla
vicino era un
rischio … ormai rappresentava per lui una tentazione
continua.
Ogni
volta che la
vedeva, l’istinto era quello di prenderla tra le braccia, ma
non poteva farlo
finché era legato ad Asami. Aveva già rischiato
una volta e sarebbe bastato
solo un gesto o uno sguardo perché si ripetesse.
E
anche se non avesse
potuto avere Elena … doveva chiudere la sua storia con la
giovane ereditiera.
Non la amava veramente, in ogni caso non provava più per lei
ciò che aveva
sentito nei mesi precedenti. Ne era rimasto affascinato, in un momento
in cui stava
pensando a ricostruire la sua vita dopo Amburgo. Come Elena, aveva
cercato di
riempire i suoi giorni per non ripensare a un passato così
importante … un
pezzo fondamentale della sua vita.
Questo
aveva pensato
quando era arrivato nella capitale.
Mentre
sorseggiava la
birra dalla lattina, ripercorse mentalmente quanto accaduto poche ore
prima.
Nel
parcheggio dello
Yoyogi Stadium, trovarono l’autista della famiglia Ujimori ad
attenderli.
Cenarono
nel loro
ristorante preferito a Shinjuku, per poi dirigersi verso
l’appartamento di
Asami.
L'aveva
assecondata
nella conversazione, mostrando interesse per i suoi racconti, sebbene i
suoi
pensieri vagassero altrove.
Quando
era andato a
complimentarsi con Elena, avrebbe voluto in realtà
stringerla tra le sue
braccia come aveva visto fare a Carlo, quando si era voltato un'ultima
volta
prima di uscire dallo Yoyogi Stadium.
Ma
alla fine aveva
seguito Asami, deciso a evitare di rivivere una situazione come quella,
e aveva
accettato di non partecipare alla festa per la vittoria dello Shiroyama
Gymnastics Club e passare il resto della serata da solo con la sua
ragazza.
Ancora per poco,
pensò mentre uscivano
dall’ascensore del palazzo in cui viveva Asami e percorrevano
i pochi passi che
li dividevano dal suo appartamento.
Lui
la seguì
all’interno e chiuse la porta.
«Fino
a poco tempo
fa non facevamo in tempo a varcare la soglia che eravamo già
l'una nelle
braccia dell'altro …» mormorò la
ragazza, accarezzandogli il petto con le mani
e passandogli poi le braccia attorno al collo.
Avrebbe
potuto
lasciarla continuare, e lui rispondere ai suoi baci e alle sue carezze
immaginando Elena al suo posto.
Ma
non poteva farle
una bassezza del genere.
Né
era giusto tacere
oltre.
La
scostò piano da
sé e confessò, tutto d'un fiato e senza giri di
parole.
«Asami
… io non mi
sento più coinvolto.»
Non
era
completamente inaspettata. Tuttavia, la staffilata arrivò
dolorosa.
L'immaginazione,
anche quando riguardava un evento temuto, era accompagnata sempre da un
filo,
per quanto esiguo, di speranza.
Che
fosse stata
un'eccessiva quanto ingiustificata gelosia a metterla in allarme.
Che
il pericolo
venisse solo da quella ragazza e che sarebbe bastato metterla fuori dai
giochi
spiegandole quanto fosse inadeguata per un Wakabayashi, contando sulla
convinzione che, in fondo, anche Genzo la pensasse allo stesso modo.
La
realtà invece,
non dava via di scampo e decretava la morte di ogni illusione.
Rimase
di fronte a
lui, imponendosi di guardarlo negli occhi.
«C'è
un'altra?»
Genzo
la guardò in
silenzio, poi fece un cenno d'assenso con il capo.
«È
quell'insegnante
… la nipote di Nerlinger?»
Chiuse
gli occhi e
fece un altro cenno.
«Sì.»
Asami
strinse le
palpebre nel tentativo di ricacciare indietro le lacrime che si
preparavano ad
uscire dai suoi occhi.
«Avete
fatto …»
«No.»
affermò,
risoluto «Ti rispetto, Asami. Non avrei mai potuto farti una
cosa del genere.»
«Perché?»
chiese,
senza sapere cosa pensare, come stordita «Cos'ha lei
più di me?»
Già
… cos'avrebbe
potuto dirle?
Genzo
fece un
profondo respiro, nel tentativo di tradurre con parole adatte
ciò che sentiva.
«Non
è questione di
essere migliore o peggiore. Soltanto, conoscendola, ho cominciato a
provare
un'ammirazione che si è trasformata in qualcosa di
più forte … un sentimento
tale da non poter essere più ignorato né
soffocato.»
Asami
serrò le
labbra e si passò una mano tra i lunghi capelli neri,
cercando di mantenere la
calma.
«Lei
prova la stessa
cosa per te?»
«Non
ne sono sicuro,
ma ho buone ragioni per pensarlo.»
«Genzo
… potrebbe
volerti solo per i soldi e per la popolarità, al pari di
tante altre. Sei
bello, ricco e famoso. Non lasciarti ingannare dalle sue
moine.»
«È
proprio qui che
ti sbagli, Asami. Lei non ha fatto nulla per attirarmi verso di
sé. È stato un
avvicinamento avvenuto in modo del tutto spontaneo.»
La
ragazza abbassò
gli occhi e deglutì. I suoi occhi neri sembravano gemme
traslucide.
Genzo
la guardò
costernato. Sapeva di averle inferto una ferita straziante e si
sentì in pena,
ma era il prezzo da pagare per essere onesto verso sé stesso
e verso di lei, e
per permettere a entrambi di guardare avanti.
D'altro
canto, non
era certo del consenso di Elena. Lei di lì a poco sarebbe
tornata in Italia …
avrebbe potuto anche salutarlo per poi sparire dalla sua vita, visto
che in
certi frangenti il suo atteggiamento sembrava volto ad allontanarlo.
A
maggior ragione,
non avrebbe fatto di Asami un ripiego.
«Pensaci,
Genzo.
Rischi di mettere in difficoltà i rapporti tra le nostre
famiglie.» lo avvertì,
in una sorta di tentativo estremo di riportarlo alla ragione.
«Mi
dispiace, Asami.
Posso dirti che non ho mai finto con te, in questi mesi. Ma meriti un
uomo che
ti ami sul serio e che ti consideri la prima e l'unica. E non uno che
mentre è
con te si chiede come sarebbe la sua vita con un'altra.»
La
ragazza strinse
le labbra e chinò la testa, con le lacrime che avevano preso
a scenderle dagli
occhi.
Ogni
altra parola,
ogni altro gesto sarebbero stati fuori luogo.
Genzo
si voltò, aprì
la porta e uscì, senza guardare indietro.
Aveva
fatto tutto come
previsto.
Aveva
compiuto il
fatidico passo, e ora avvertiva una sensazione strana.
Si
sentiva più libero
ma provava anche un senso d'inquietudine dato da una situazione
completamente
nuova.
Teoricamente,
nulla lo
divideva da Elena. Ma lei, era pronta a ricambiare i suoi sentimenti?
E
su una cosa Asami
aveva ragione: avrebbe dovuto affrontare i suoi genitori che di certo
non
avrebbero capito una scelta del genere.
Per
il momento,
comunque fosse andata, non avrebbe parlato a nessuno di Elena. Non
voleva
esporla alle sicure critiche dei suoi genitori e forse di Hiroji, dato
che non
sapeva nemmeno se il suo futuro sentimentale sarebbe stato con lei.
Annie
no, gli aveva
tacitamente fatto capire di essere dalla sua parte, raccomandandogli di
leggere
"L'età dell'innocenza".
Aveva
capito tutto,
come sempre, ed era l'unica al corrente della situazione.
Perspicace
e
coraggiosa, perché anche lei rischiava di avere dei
dissapori con il marito e
con i suoceri.
Spinto
a confidarsi
con lei dopo averle restituito il libro, le aveva infine rivelato i
suoi
sentimenti per la giovane insegnante, senza però raccontarle
il dramma vissuto
dalla ragazza.
Pensò
alle scene che
più lo avevano colpito di quel romanzo americano.
La
seconda parte in
particolare, sembrava contenere la descrizione dei sentimenti che
avrebbe
rischiato di provare, se avesse continuato la sua storia con Asami
rinunciando
così a Elena.
Era
sicuro che Annie
gliel'avesse prestato per quel motivo: la cognata aveva una
capacità di
penetrazione non comune, che a volte lo sconcertava.
Non
voleva finire come
Newland Archer, il protagonista maschile.
Mentre
leggeva alcune
scene di quel libro, immaginava sé stesso al posto del
giovane e brillante
avvocato newyorkese, sposato con una bella ed elegante ragazza della
buona
società ma innamorato della cugina di lei, la contessa Ellen
Olenska reduce dal
fallimento del suo matrimonio con un aristocratico polacco. Elena in
comune con
quest'ultima non aveva nulla se non il nome di battesimo e il carattere
schietto, né vi erano parentele con Asami, ma i sentimenti
in gioco erano del
tutto simili.
Desideri
mai
trasformati in azioni concrete, incontri clandestini, promesse
impossibili da
mantenere, menzogne e sotterfugi.
Non
voleva una vita
reale dalla quale fuggire con la mente appena possibile, fatta di
periodi
ipotetici, episodi creati dalla sua immaginazione e domande destinate a
rimanere per sempre senza una risposta. Lui era abituato a realizzare i
suoi
sogni e non a perpetuarli in fantasticherie consolatorie sul momento,
ma il cui
effetto finale era frustrante, come una droga che dona un'illusoria
sensazione
di benessere per poi lasciare con l'animo e la mente devastati.
E
tutto solo per
compiacere la sua famiglia e adeguarsi a convenzioni tipiche della
mentalità
giapponese e più in generale della buona società.
E
comunque, lui ormai non amava più Asami. Non poteva vivere un
rapporto basato su
una finzione.
A
tempo debito,
avrebbe affrontato anche quella questione.
Ora
doveva tornare a
Nankatsu e parlare con Elena …
In
ogni caso, la sua
vita stava cambiando … doveva solo capire se i loro percorsi
erano destinati a
unirsi o a proseguire distinti dopo essersi incrociati.
La
luce del sole
invase la stanza, colpendogli il viso e facendolo destare sulla
poltrona su cui
si era addormentato.
Accese
il cellulare e
vide che gli erano arrivate tre notifiche, tutte con il nome di Misaki.
Tre
chiamate, l'ultima
mezz'ora prima.
Selezionò
l'opzione di
richiamata e attese.
«Wakabayashi?
Finalmente ti sei fatto vivo! Sei ancora a Tokyo?»
«Sì
… cosa devi
dirmi?»
«Visto
che anch'io
sono a Tokyo, è meglio se te ne parlo di persona. Possiamo
incontrarci questa
mattina?»
«Certo.
Vieni al Park
Hotel nel quartiere di Minato, se non hai ancora fatto colazione offro
io.»
«Ok,
sono anch'io nel
quartiere di Minato … sarò lì tra non
molto.»
Venti
minuti dopo, nel
grande bar-caffetteria dell'hotel, tra il viavai di camerieri,
avventori,
imprenditori e manager, medici arrivati a Tokyo per un convegno e
turisti, vide
finalmente comparire Misaki … ma non era solo. Al suo fianco
c'era Kumi. Alzò
un sopracciglio e fece un sorriso sghembo.
«Devo
essermi perso
qualche puntata …»
«Soltanto
quella di
ieri sera.» ribatté prontamente l'ex manager.
Li
guardò. Stavano
bene insieme e non solo perché erano entrambi di
bell'aspetto. Lui pacato e
riflessivo, lei vivace e brillante: erano tratti caratteriali che si
compensavano e che facevano ben presagire per il loro futuro come
coppia.
Kumi
si guardò attorno
un po' spaesata. Quello era un albergo di lusso e, con la sua maglietta
fantasia e i suoi jeans, si sentiva fuori posto in quel locale
affollato da
tanta gente facoltosa e vestita con abiti firmati.
Ma
vedendo le bacheche
piene di frutta fresca di stagione, dolci e prodotti da forno di ogni
tipo
riprese presto il suo consueto brio.
«Taro
mi ha detto che
offri tu … posso ordinare quello che voglio?»
chiese, congiungendo le mani e
sfregandole tra di loro.
Genzo
assentì,
scambiando un’occhiata divertita con Taro.
Pochi
minuti dopo
erano seduti davanti a tazze di caffè e cappuccino e vassoi
di frutta e
croissant ripieni di crema al cioccolato e crostatine farcite con
confettura di
albicocca e di ciliegia.
«Avremo
una wag in
più in Spagna, allora.» scherzò Genzo.
«Ci
sarei stata
comunque, con il gruppo dei supporter. Però … da wag
è ancora meglio. E poi, se non sbaglio, wag
è anche l'acronimo in inglese di "ginnastica artistica
femminile".»
replicò Kumi, con una punta di malizia.
Genzo
scambiò
un'occhiata con Taro, poi chiuse gli occhi e sorrise dell'arguzia con
cui la
ragazza gli aveva ritorto contro la sua battuta.
«Così
la notte l'hai
passata qui?» chiese il centrocampista.
Il
portiere annuì,
mentre faceva roteare il cucchiaino nel suo caffè.
«Pensavamo
fossi dalla
Ujimori. Ieri hai visto le Nazionali juniores con lei e poi siete
andati via
insieme.»
«Sì
… siamo andati a
cena al solito ristorante, poi a casa sua.»
Taro
e Kumi lo
fissarono, con aria grave.
«L'ho
lasciata.»
«Fantastico!»
cinguettò Kumi, battendo le mani entusiasta e strappando un
sorriso sia a Genzo
sia a Taro, che ritenne però opportuno mostrare
un'approvazione più contenuta.
«Bene.
Allora presumo
che il prossimo passo sarà parlare con Elena.»
«Devi
farlo al più
presto. Aveva un'aria demoralizzata, è convinta che tu abbia
passato la notte
con Asami. Credo stia cominciando a credere che tu ti stia prendendo
gioco di
lei.» lo ammonì Kumi.
Genzo
spalancò gli
occhi.
«Ti
ricordi la sera
dell'ultima partita contro l'Australia, quando io e lei siamo andati in
quella
gelateria?» proseguì Taro «Lo abbiamo
fatto perché lei me lo ha chiesto …
voleva parlarmi di te.»
Il
suo amico lo
guardava sempre più stupito.
«Voleva
sapere come
comportarsi. È attratta da te, ma i suoi sensi di colpa per
il suo ex fidanzato
e la tua storia con Asami l'hanno sempre trattenuta dal lasciarsi
andare a
questo sentimento. Mi ha detto che vuole tornare in Italia e capire se
è solo un'infatuazione.
Io penso che tu debba muoverti, Wakabayashi e dichiararti.»
«Mettila
in condizione
di dover fare una scelta.» intervenne Kumi «Tornare
in Italia senza dirti nulla
è soltanto un modo per evitare di affrontare i suoi
sentimenti. So che la sua
situazione psicologica è difficile e io non posso e non
voglio giudicarla, ma
penso che soltanto uno scossone possa farla risolvere in un modo o
nell'altro.
Altrimenti continuerà a vivere in un limbo che le
farà solamente altro male. E
farà male anche a te.»
Genzo
la guardò. Kumi
aveva colto nel segno.
Elena
avrebbe potuto
riscuotersi solo sentendosi dire chiaramente quello che sentiva per
lei. Ora
era tutto astratto, passi in avanti seguiti da altrettanti passi
indietro,
continui dubbi ed esitazioni che stavano tormentando entrambi. E lei
poteva
considerare più conveniente e soprattutto rassicurante
evitare di esporsi e
lasciar così passare le ultime settimane del suo soggiorno
in Giappone e
tornare a casa con un bel ricordo della sua esperienza e della loro
amicizia.
Cosa
di cui lui non
era disposto ad accontentarsi.
«Io
non le dirò nulla
della nostra conversazione. Dovrete essere voi a parlarvi e a
chiarirvi.»
affermò infine Taro.
Continuarono
la
colazione parlando di altri argomenti di minore importanza, poi si
alzarono
dalle sedie.
Genzo
si diresse verso
il bancone per pagare il conto, mentre Kumi e Taro si avviarono verso
l'uscita
del bar, dove rimasero ad attenderlo.
Una
volta raggiunti, i
due ragazzi lo salutarono.
«Dobbiamo
andare alla
stazione a prendere il treno per Nankatsu.» disse Kumi.
«Io
resterò a Tokyo
ancora per qualche ora, ho un altro impegno.»
«Va
bene, allora ci
vediamo.» replicò Taro, dandogli una lieve pacca
sulla spalla.
«E
mi raccomando
Wakabayashi, parla al più presto con Elena. Ora non hai
più scuse.» lo esortò
ancora la giovane mangaka.
Genzo
rispose con un
cenno del capo e mentre i suoi amici si incamminavano verso l'uscita
dell'hotel, lui si diresse verso la reception per pagare il conto
dell'intera
permanenza. Poi chiamò un taxi.
Aveva
davvero
un'ultima cosa da fare prima di lasciare Tokyo, con il pensiero a una
ragazza
che in quel momento si trovava in un treno, a pochi chilometri dalla
prefettura
di Shizuoka.
Stava
osservando le
varie specie di fiore presenti in quel negozio non molto grande, ma
piuttosto
fornito, da una decina di minuti ormai.
Non
ne aveva mai
regalati di sua spontanea iniziativa, a parte a sua madre e Annie, e
una volta
anche ad Asami … e sempre delle rose, per andare sul sicuro.
Ma
questa volta,
sentiva che era una scelta troppo facile e scontata.
Una
ragazza con gli
occhiali dalla vistosa montatura verde e con i capelli scuri raccolti
in due
codini gli si avvicinò, con le mani dietro la schiena.
Indossava una salopette
in jeans e aveva un'aria sveglia e un sorriso ampio e luminoso.
«Buongiorno,
signore.
Sta cercando dei fiori da regalare?»
«Sì
… pensavo a delle
rose, ma poi ho visto quelle piante …» rispose,
indicando un gruppo di fiori di
diverso colore poco lontano dal bancone.
«È
per la sua
ragazza?»
Genzo
esitò un
momento, poi assentì con il capo.
«Ho
capito! È per la
ragazza che le piace, ma ancora non state insieme.»
affermò la giovane,
facendogli sgranare gli occhi.
Lei
annuì con aria
saputa, poi si avvicinò alla pianta indicata da Genzo.
«È
un'Amaryllis belladonna.
È un fiore bellissimo …
simboleggia la bellezza splendente, la finezza e l'eleganza. E ha un
profumo
delicato.» descrisse, prendendone una e accostandogli i fiori
per farglieli
annusare.
«È
perfetta. Mi
prepari un mazzo di
Amaryllis rosse con
striature bianche.»
La
giovanissima
fioraia annuì soddisfatta.
Mentre
preparava i
fiori, Genzo scrisse un breve messaggio d'accompagnamento su un
cartoncino.
Infilò
il biglietto in
una busta, su cui scrisse il nome della destinataria, trattenendo la
penna per
scrivere qualcos'altro su un secondo cartoncino.
La
ragazza si illuminò
quando lesse il nome.
«Si
chiama Elena! Che
bel nome … deriva dal greco e significa "splendente". Ha
fatto
proprio la scelta giusta!» cinguettò, mentre univa
il tutto all'involucro
trasparente con una pinzatrice.
Genzo
sorrise.
«Glieli
faccia avere
per questo pomeriggio, a questo indirizzo.» disse,
lasciandole un altro
biglietto.
«Arriveranno
puntuali
a destinazione.» replicò lei, ammiccando.
«Sicura
che sia una
buona idea, Arimi?» chiese Mitsuyo, da poco giunta con
l'amica e le loro tre
compagne di squadra davanti al grande cancello di villa Wakabayashi.
Era
ormai giugno. Si
stavano susseguendo bellissime giornate assolate.
I
refoli di aria
fresca attenuavano il caldo che avrebbe certamente caratterizzato
l'intera
giornata.
«È
l'unica strada
percorribile.»
«Speriamo
almeno che
Wakabayashi-san
sia in casa.» sospirò
Emi, mentre la neocampionessa nazionale premeva il pulsante del
citofono.
«Rispondo
io, Hitomi!»
gridò Annie, strofinando le mani sul grembiule, mentre
usciva dalla cucina e si
avvicinava al ricevitore.
«Chi
è?»
«Buongiorno.
Siamo
Shimokawa Arimi, Minobe Mitsuyo, Otsuka Shinobu, Suzumura Hanako e
Sakurai Emi,
le ginnaste dello Shiroyama Gymnastics Club. Il signor Wakabayashi
Genzo è in
casa?» chiese Arimi, a nome di tutte.
«Sì,
certo. Vi apro il
cancello.» rispose, premendo il pulsante che azionava il
meccanismo.
Le
ragazze
attraversarono il vialetto guardandosi intorno e scambiandosi commenti
di
ammirazione per la bellezza ed estensione del giardino, mentre Annie le
attendeva sorridente sotto il portico, con ancora addosso il grembiule
sporco
di farina e crema al cioccolato.
Accanto
alla cuccia
era seduto John, che le scrutò per poi sdraiarsi e
appoggiare il muso sul prato
non appena vide la donna accogliere le ragazze con
affabilità, per poi
invitarle a entrare nel vestibolo.
«Ciao
ragazze. Io sono
Annie Crawford Wakabayashi, la cognata di Genzo. È tornato
da poco dalla sua
corsa mattutina e ora è sotto la doccia, ma sarà
qui tra non molto.» disse,
mentre cambiavano le calzature.
«Sotto
la doccia?»
ripeté Shinobu con uno scintillio negli occhi che Arimi
ritenne opportuno
smorzare con una gomitata.
Annie
accennò una
risata e le invitò ad accomodarsi, prima di tornare in
cucina.
«Ehi,
sei impazzita?»
protestò a denti stretti, massaggiandosi il braccio colpito.
«Devi
imparare a
tenere i tuoi ormoni sotto controllo, soprattutto se sei ospite di una
famiglia
come i Wakabayashi.» replicò, mentre tutte
prendevano posto ridacchiando sul
divano dell'ampio salotto.
Genzo
comparve dopo
una decina di minuti e assunse un'espressione interrogativa quando le
vide, ma
poi le salutò con gentilezza.
Le
cinque ragazze si
alzarono in piedi quasi simultaneamente e lo salutarono con un inchino.
«Buongiorno,
Wakabayashi-san.»
«Ciao
ragazze. Come
mai qui?» chiese, facendo loro cenno di risedersi e prendendo
posto di fronte a
loro, sull'altro divano.
«Vorremmo
chiederle un
favore, visto che è nel consiglio direttivo dell'Istituto
Shutetsu e la sua
famiglia è molto influente.»
Genzo
alzò un
sopracciglio, ma fece un cenno con il capo, invitando Arimi a
continuare.
«Vede,
noi vorremmo
preparare un breve esercizio collettivo come omaggio alla signorina
Rulli.» il
lampo passato negli occhi del giovane per il riferimento a Elena non le
sfuggì.
«Vorremmo chiederle di lasciarci libera la palestra
dell'Istituto Shutetsu per
provarlo e inserirlo, ovviamente con il permesso degli insegnanti e del
direttore, nello spettacolo che si terrà nell'auditorium
della scuola.»
«Farlo
alla palestra
Shiroyama sarebbe troppo scontato e soprattutto comprometterebbe
l'effetto
sorpresa. E noi vogliamo che sia totalmente inaspettato.»
aggiunse Hanako.
Genzo
increspò un
angolo delle labbra, poi si sporse in avanti intrecciando le dita delle
mani.
«Non è una richiesta semplice … vi si
allena sempre almeno un club sportivo.»
«Lo
sappiamo,
Wakabayashi-san.»
intervenne Mitsuyo,
che con Hanako frequentava proprio l'Istituto Shutetsu «Ma
sarebbe solo per
pochi pomeriggi poiché al mattino frequentiamo le lezioni
… e poi pensi a
quanto si emozionerà la signorina Rulli.»
«Le
è affezionato,
no?» riprese la parola Arimi, facendogli un occhiolino.
«Molto
affezionato.»
rincarò Shinobu, con un largo sorriso malizioso.
Genzo
alzò un
sopracciglio, poi sogghignò, sentendosi leggermente in
imbarazzo per la
simpatica impertinenza di quelle ragazzine.
«Va
bene. Non vi
prometto niente, ma vi garantisco che farò tutto il
possibile.»
Il
tavolo della cucina
era disseminato di ciotole, sacchetti di farina e zucchero, barattoli
di miele
e vari utensili da cucina.
«Se
non avessi dovuto
ancora infornare i biscotti, ne avrei volentieri offerti un po' a
quelle
ragazze.» disse Annie, stringendosi nelle spalle.
«Magari
glieli farò
avere io nei prossimi giorni … visto che probabilmente si
alleneranno nella
palestra della Shutetsu.» rispose Genzo, che l'aveva
raggiunta dopo che le
ginnaste se n'erano andate.
«Ho
sentito … allora
cosa farai, parlerai con Elena?»
«Sì,
lo farò dopo lo
spettacolo.»
Annie
assentì, con un
deciso cenno di approvazione.
«Forse
sto
contribuendo a metterti nei guai con i tuoi genitori … ma
sono convinta che in
una relazione debba esserci un amore forte e autentico. E reciproco.
Comunque
andrà a finire, io sono dalla tua parte, Genzo.»
Gli
rivolse un sorriso
quasi materno. Il ragazzo ricambiò con una lieve carezza su
una guancia.
«Hai
appena fatto la
crema al cioccolato … ti dispiace se la assaggio?»
chiese poi abbassando gli
occhi verso una larga ciotola, prelevandone una ditata e portandosela
alla
bocca.
«Ehi,
giù le mani! Ah,
Genzo! Sei peggio di Kenichi!» gridò, fingendo di
volerlo colpire con lo
sbattitore.
Era tarda
mattinata quando arrivò in prossimità
della casa in cui abitavano Carlo
ed Elena.
Il
cielo era limpido e
sgombro, il caldo reso meno soffocante da una lieve brezza.
Lei
era nel giardino,
con un cesto di plastica contenente del bucato posato per terra, mentre
stava
stendendo dei vestiti, con Wilhelm che le girava attorno.
Indossava
un
prendisole color giallo dorato e aveva i capelli raccolti in uno
chignon.
«Wilhelm,
togliti da
lì!» lo rimproverò Elena, dandogli uno
scappellotto sulla schiena e facendolo
allontanare con un mugolio.
Cominciò
ad abbaiare
quando notò la sua presenza.
Elena
si accorse così
dell'imponente figura del portiere, ferma davanti al cancello.
«Ciao,
Genzo.» disse,
avvicinandosi.
«Ciao,
Elena.» sollevò
lievemente la visiera del berretto.
«Entra
pure. Mio zio è
ancora in palestra, ma tornerà tra non molto.»
disse aprendo il cancello e
facendolo passare.
«In
realtà sono venuto
per parlare con te, ma continua pure quello che stai facendo.»
La
ragazza si sentì
invasa da un senso di agitazione al pensiero che fosse lì di
proposito e non
perché ci passava per caso, ma fece un cenno d'assenso e una
volta richiuso il
cancello, riprese la sua mansione.
Genzo
si accosciò e si
mise ad accarezzare Wilhelm, che lo annusava con insistenza avvertendo
l'odore
di John.
«Se
me lo tieni
occupato, riesco a finire di stendere questi vestiti. Cerca sempre di
afferrarli e di portarli via.»
«Allora
ti piace
proprio fare i dispetti, eh Wilhelm?» scherzò,
alzando subito il viso su Elena,
che per un attimo si era fermata trattenendo tra le dita i lembi della
maglietta che stava stendendo.
Continuò
a dargli le
spalle finché non ebbe terminato, consapevole del fatto che
lui la stava
guardando.
Genzo
la osservò
mentre tirava fuori un fazzoletto e lo passava sulla pelle, per
asciugare le
gocce di sudore che le imperlavano la fronte, il petto, le spalle e la
schiena.
Il
suo sguardo seguiva
i suoi movimenti, facendolo scorrere così sul corpo della
ragazza.
Era
bella e sensuale,
da togliergli il fiato.
I
loro occhi si
incrociarono ed Elena arrossì.
«Oggi
fa davvero
caldo.» affermò, cercando di sembrare
più spigliata e lo invitò a entrare in
casa.
Appena
varcata la
soglia, vide subito, con sua soddisfazione, i fiori di Amaryllis in un
vaso al centro del tavolo.
«Sei
stato gentile a
regalarmeli. Grazie.»
Lui
fece un cenno
d'assenso, sorridendo.
Gli
aveva scritto
qualcosa di simile in un sms quella sera stessa, poche ore dopo averli
ricevuti.
Non
gli aveva scritto
l'emozione provata quando il fattorino le aveva consegnato quel mazzo e
il
batticuore con cui aveva letto il biglietto d'accompagnamento
…
Per non aver festeggiato con te
ieri sera.
Un
profumo di mele,
cannella e uva passa impregnava ancora la cucina e il piccolo salotto.
Sul
ripiano accanto al
fornello, faceva splendida mostra di sé uno strüdel
che doveva essere stato
sfornato da poco.
«Ne
vuoi una fetta?»
gli propose, indicandolo.
«No
grazie, tra poco
sarà ora di pranzo.»
«Allora
te ne taglio
un po', così potrai farlo assaggiare anche a Annie, a tuo
fratello e ai
bambini. E anche alla signora Sakai!» disse, prendendo un
grosso coltello dalla
lama seghettata da un cassetto e cominciando a tagliare metà
dolce.
«Non
me ne stai dando
troppo? L'avevi appena fatto …» obiettò
lui, mettendosi di fianco.
Elena
diede un'alzata
di spalle.
«Qui
siamo solo io e
mio zio, questo ci basterà e comunque posso sempre farne un
altro. Ormai mi
viene in automatico. È una ricetta tradizionale che le donne
della mia famiglia
si tramandano di generazione in generazione.»
Genzo
sorrise
«D'accordo, allora.»
Elena
sorrise di
rimando e prese un contenitore di plastica, in cui adagiò la
porzione di dolce
e lo ricoprì con un coperchio.
«Ecco
qui.»
Lui
ringraziò e
afferrò il contenitore, ma lo rimise subito sul ripiano.
«Devo
chiederti una
cosa.»
Lei
annuì, inducendolo
a continuare.
«Venerdì
sera ci sarà
uno spettacolo all'auditorium dell'Istituto Shutetsu. Una serie di
balletti e
di canzoni cantate e suonate dai ragazzi del club di musica. Mi
piacerebbe se vi assistessi anche tu.»
«Oh
… la Ujimori non
può?» chiese lei, con un tono di voce fattosi
improvvisamente più rigido.
Genzo
mantenne uno
sguardo e un tono di voce impassibili.
«No,
lei non ci sarà.»
«Capisco.»
disse,
piuttosto sorpresa ma immaginando che la sua assenza poteva essere
dovuta a
impegni già presi.
«Non
so se posso
accettare il tuo invito, comunque. Ho molte cose da fare, il saggio
delle
bambine è tra pochi giorni e ho anche le ultime lezioni di
giapponese e i
preparativi prima della partenza.» elencò
freddamente, staccandosi dal ripiano
e facendo alcuni passi in avanti.
Genzo
le andò dietro,
le afferrò un braccio e la costrinse a voltarsi.
«Elena,
per favore. È
importante che ci sia anche tu.» affermò con
risolutezza.
In
fondo ai suoi
occhi, le parve di scorgere persino una supplica.
«E
va bene, verrò.
Basta che la smetta di stringere.» concesse infine,
distogliendo lo sguardo.
«Scusami.»
mormorò
dispiaciuto, allentando subito la presa e dandole istintivamente una
carezza
che la fece tremare.
Lei
continuò a
guardare da un'altra parte.
Ormai
Genzo sapeva
interpretare il suo comportamento. Faceva così quando
sentiva che avrebbe
potuto cedere, se solo lui avesse fatto un gesto in più.
Poteva
già confessarle
tutto … perché aspettare? Erano l'uno di fronte
all'altra ed erano soli … e lui
cominciava a essere stanco di quella situazione.
«Elena
…» sussurrò,
sollevandole delicatamente il volto con una mano, per costringerla a
guardarlo.
Lei
si ritrovò a
incrociare le sue iridi che le parvero, ancora una volta,
così grandi e accese
…
Avvertì
il cuore
palpitare con frenesia e il volto accaldarsi sotto il tocco delle sue
dita.
«Genzo!
Che sorpresa,
come mai qui?» la voce di Carlo li fece trasalire. Non
l'avevano sentito
entrare, non avevano nemmeno udito la porta aprirsi.
I
due si affrettarono
a spostarsi e a salutarlo.
Genzo
si sincerò delle
sue condizioni di forma.
«Gli
ho dato metà del
nostro strüdel, visto che non l'ha mai mangiato.»
spiegò Elena, desiderosa più
che altro di scongiurare subito qualsiasi tipo di insinuazione.
«Hai
fatto benissimo.»
commentò, dirigendosi verso la sua stanza per depositarvi il borsone.
«L'ho
invitata a
vedere uno spettacolo all'auditorium dell'Istituto Shutetsu.»
Carlo
fece un cenno
d'approvazione.
«Tu
hai accettato,
vero Elena?»
«Sì
…» rispose
abbozzando un sorriso, sperando che non avesse notato nulla.
«Ti
fermi a pranzo con
noi, Genzo?» propose poi Carlo, facendo perdere un altro
battito alla nipote.
Ma
il ragazzo scosse
la testa «No, sono già atteso a casa mia. Vi
ringrazio, sarà per un'altra
volta.» disse riprendendo in mano il contenitore e il
berretto posato sul
tavolo, prima di congedarsi.
Elena
tirò un sospiro
di sollievo, dentro di sé. Sarebbe stato difficile celare il
suo turbamento se
Genzo fosse rimasto lì con loro, dopo quello che era
accaduto … e che forse
stava per accadere e cui Carlo aveva probabilmente almeno in parte
assistito,
nonostante l'atteggiamento volto a fare finta di niente.
E
anche in quel caso,
non sapeva se rimpiangere o rallegrarsi.
Una
cosa era certa:
quell'altalena che sia lei sia Genzo avevano alimentato la stava
logorando … e
un chiarimento si era ormai reso ineludibile.
***Note***
Park Hotel:
è una catena di alberghi di lusso.
Quello in cui alloggia Genzo è ubicato nel quartiere
speciale di Minato.
Questo è il
sito ufficiale con molte fotografie.
"L'età dell'innocenza"
è un romanzo
della scrittrice americana Edith Wharton, pubblicato nel 1920 e da cui
è stato
tratto un film prodotto nel 1993, diretto da Martin Scorsese e
interpretato da
Daniel Day-Lewis, Michelle Pfeiffer e Winona Ryder.
L'Amaryllis
belladonna è una
pianta originaria del Sudafrica, dalle foglie di color verde vivace e
fiori
molto profumati che a seconda della qualità possono essere
di diversi colori:
bianco, rosso, rosa con striature giallo chiaro e così via.
Potete trovare informazioni
più dettagliate qui.
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Capitolo 19 *** Capitolo XIX - Il passato si arrende al presente ***
Capitolo XIX
Il passato si arrende al presente
Taro
ricevette il pallone da Izawa a metà campo, sulla fascia
sinistra.
Cominciò
subito a correre, evitando l'intervento di due avversari e saltando
l'energico
tackle di Takasugi.
Entrato
in
area di rigore, avanzò fino a trovarsi a tu per tu con Genzo.
Contrariamente
alle attese, Taro non effettuò un tiro, ma un passaggio alla
sua destra verso
Kisugi che stava arrivando velocissimo.
Il
portiere, sebbene sorpreso, riuscì comunque a cambiare
direzione in tempo per
fermare il potente destro dell'attaccante del Cerezo Osaka.
«Wakabayashi
è davvero imbattibile.» commentò Izawa,
mentre Genzo si rialzava con il pallone
in un braccio, mentre con l'altra mano si sistemava il berretto.
«Puoi
dirlo forte.» disse Teppei, detergendosi il sudore dalla
fronte con una mano
«Neppure con un assist di Misaki all'ultimo secondo e a due
passi dalla porta
riesco a fargli gol.»
«I
suoi
riflessi erano già eccellenti prima, ma ora sono
ulteriormente migliorati.» gli
fece eco Taki.
«Credo
sia
merito anche dei suoi allenamenti di pugilato e kickboxing. In quegli
sport i
riflessi sono tutto.» intervenne Takasugi.
«Alle
Olimpiadi avremo una delle migliori difese del torneo, poco ma
sicuro.» disse
Taro rivolgendo il suo sguardo a un Genzo più silenzioso del
solito,
dirigendosi con gli altri ragazzi verso gli spogliatoi.
Mancavano
ormai soltanto quattro giorni al loro ritorno al J-Village, per il
raduno cui
sarebbe seguita la partenza per Toluca, la sede scelta per il ritiro
preolimpico.
I
ragazzi
di Nankatsu, ad eccezione di Shun ancora in vacanza a Kyushu con
Madoka,
avevano deciso di incontrarsi per un'ultima partitella al campo di
calcio
comunale, sotto il caldo sole mattutino di una primavera ormai quasi al
termine.
«Tra
pochi
giorni ci siamo, ragazzi. E io non vedo l'ora di iniziare! Ho
già i brividi.»
esclamò Ryo, entrando nello stanzino comune dello
spogliatoio, dove gli altri
ragazzi avevano già cominciato a rivestirsi dopo la doccia.
«I
brividi
rischiano di venirmi se Kira schiererà te titolare,
Ishizaki.» intervenne
Genzo, con un sorriso sardonico.
«Ehi,
guarda che ho già giocato da titolare e, a parte qualche
errore, me la sono
sempre cavata e qualche volta ho anche salvato il risultato!»
protestò il
difensore, incrociando le braccia, stizzito.
«Ma
lo
sappiamo bene, Ishizaki. Non hai ancora capito che ti provochiamo solo
perché è
troppo divertente vederti perdere le staffe?»
ribatté Taki, tra i sorrisi e le
risate degli altri ragazzi, che finirono per coinvolgere lo stesso
difensore.
«Avrei
voluto incontrare Tsubasa prima di partire per il Messico, ma a quanto
pare
arriverà in Giappone dopo che ce ne saremo
andati.» disse poi Ryo.
«A
proposito ragazzi, avete visto le ultime foto che ci ha mandato da
Barcellona?
Sanae ha un pancione enorme!» commentò Urabe.
«Sfido,
sono due gemelli!»
«E
così a
ventun anni diventeranno genitori di due figli in un colpo solo. Sono
felice
per loro, ma non li invidio!»
«Non
ti
preoccupare Urabe, tanto non ti sposa nessuna!»
scherzò Kishida, che schivò per
un pelo l'asciugamano che Hanji gli aveva scagliato.
«Ehi,
ti
ci metti pure tu? Non mi posso più fidare nemmeno dei miei
vecchi amici!» si
lamentò indispettito, tra le risate di tutti.
«Quello
che non mi aspettavo era Misaki con Kumi. Non avevo mai notato nulla,
convinto
com'ero che ci fosse del tenero tra lui ed Elena.» disse
Teppei, guardando il
centrocampista.
«Io
vi
avevo detto che eravamo solo amici, ma non mi avete mai
creduto.» rispose,
alzando le spalle.
«Per
forza, dopo ogni partita vi allontanavate insieme! E poi ti incitava
nelle
partitelle, veniva spontaneo pensare che avesse un debole per
te.»
«Ad
averlo
saputo, un pensierino su di lei lo avrei fatto.» ammise
Mamoru, con un sorriso
timido.
Genzo,
che
stava piegando un asciugamano, rimase per un attimo fermo e
corrugò le
sopracciglia. Taro, l'unico a guardare subito verso di lui e ad
accorgersene,
sorrise divertito.
«Scusa
ma
quell'estetista di Yokohama … Chiyoko. Che fine ha
fatto?» lo punzecchiò Taki.
«Non
ci
sentiamo più. Non è mai stato niente di serio,
comunque.» rispose il
centrocampista, facendo spallucce.
«Elena
se
ne va tra poco più di una settimana, se non ho capito
male.» disse Urabe,
tornando all'argomento precedente.
Taro
assentì.
«Sono
contento di averla conosciuta. Si è inserita perfettamente
nel nostro gruppo,
ve la ricordate alla festa a casa di Ishizaki? Dopo poche battute
sembrava già
di chiacchierare come vecchi amici.» commentò
Morisaki.
«Già
e
quando veniva a vedere le partite tifava come se fosse anche lei
giapponese!»
concordò Takasugi, incrociando le braccia.
«Sarebbe bello rivederla alle
Olimpiadi. In fondo da Roma alla Spagna ci si mette poco, in aereo.» considerò
Kishida.
«Beh, non è detto
che non la rincontriamo, in futuro. Io la
conosco da tempo e poi lei, Kumi e Yukari sono diventate amiche, quindi
rimarremo in contatto.» affermò Taro «E
se arriviamo in finale, credo proprio
che a Madrid ci sarà anche lei.»
Dopo
aver
lasciato il campo, il gruppo condivise un tratto del percorso, per poi
disperdersi verso le rispettive abitazioni.
Taro
e
Genzo si ritrovarono così a fare l'ultimo pezzo di strada da
soli.
«Mi
devi
un favore, Wakabayashi. Se Izawa non avesse creduto che Elena stesse
con me, te
lo saresti ritrovato come rivale in amore.»
scherzò il centrocampista.
Il
portiere fece spallucce «Non credo avesse intenzioni
serie.» disse, lapidario.
«Questa
sera le parlerai?»
Genzo
fece
un cenno d'assenso. «Sai … sono un po'
nervoso.» ammise.
«Me
ne
sono accorto. Stamattina non hai quasi spiccicato parola. Non che tu
sia un
chiacchierone, ma a parte la battuta su Ishizaki la tua voce non si
è mai
sentita.»
Genzo
fece un lieve
sorriso.
«È
che non
ho mai dovuto dichiararmi a una ragazza. Non ho mai dovuto confessare i
miei
sentimenti, né sono mai stato incerto sull'esito di una mia
iniziativa. Con
Elena è diverso … lei è
diversa.»
Taro
annuì. Capiva perfettamente quello che intendeva l'amico con
quell'ultima
frase. Se ne rendeva conto ogni volta che pensava a Kumi …
nessuna ragazza lo
faceva sentire a suo agio come lei.
Da
quando
erano tornati a Nankatsu, si erano incontrati praticamente ogni giorno
e
qualche volta era anche andato a prenderla con l'auto all'uscita dal tanki-daigaku.
Stavano
vivendo l'inizio della loro storia con l'entusiasmo della loro giovane
età ma
giorno per giorno.
Già
in
quei mesi si era reso conto che Kumi era una ragazza radiosa, di indole
ottimista ma capace anche di rimanere con i piedi per terra, come
testimoniavano le sue scelte scolastiche e lavorative.
Sarebbe
trascorso almeno un mese prima che si potessero rincontrare in Spagna e
voleva
passare quanto più tempo possibile con lei, per farle capire
quanto tenesse al
loro rapporto.
Era
sicuro
che l'influsso di Kumi avrebbe avuto effetti positivi anche su Elena.
Le
due
ragazze si erano incontrate spesso nelle ultime settimane e il loro
rapporto di
amicizia si era fatto ancora più stretto e confidenziale.
La
sua
amica italiana ormai non negava più i suoi sentimenti per
Genzo.
Kumi
stava
cercando di convincerla a non rinunciare a viverli.
Elena
guardò la sua immagine riflessa nel grande specchio della
sua camera da letto,
contemplando con aria critica la sua figura fasciata in un tubino blu
lungo
fino a poco sopra il ginocchio, con un leggero spacco a lasciare liberi
i
movimenti delle sue gambe.
Era
un
abito che aveva acquistato in una boutique di Sydney, su pressione di
Kumi e
Yukari che avevano sottolineato quanto fosse perfetto addosso a lei.
Aveva
pensato di indossarlo per la serata in discoteca, ma poi l'aveva
ritenuto
troppo elegante e aveva optato per un'altra mise.
Vi
ripensò
con un sospiro. Quella era stata la serata in cui il suo rapporto con
Genzo era
definitivamente passato dall'amicizia all'attrazione reciproca.
Si
rese
conto che stava scegliendo abbigliamento, acconciatura e trucco non
solo in
funzione della serata, ma pensando anche all'impressione che avrebbe
avuto su
lui.
Raccolse
due ciocche laterali e le fissò con un fermaglio.
Poi
abbassò le mani e si guardò i palmi, sbuffando
leggermente nel vedere le
piccole vesciche che li deturpavano.
Tre
giorni
senza parallele non erano bastati a farle scomparire del tutto,
nonostante le
medicazioni.
Pensò
a
quando Genzo le aveva delicatamente prese tra le sue mani,
accarezzandone i
contorni.
Chiuse gli occhi con un altro sospiro.
Ormai qualsiasi cosa
le faceva venire in mente quel ragazzo.
Aveva
anche passato una notte in bianco e pianto, per lui.
Il
confronto con Asami, la serata della finale delle Nazionali juniores e
vederlo
andarsene con la giovane ereditiera le avevano fatto capire che si era
innamorata. O meglio, l'avevano costretta ad ammetterlo.
Il
dubbio
non era più sui sentimenti che provava per Genzo, ma se si
sentiva pronta a
lasciarsi alle spalle definitivamente la sua relazione con Gianluca,
non
facendosi più bloccare dai suoi sensi di colpa.
Il
suo
proposito di aspettare il ritorno in Italia per capire cosa provava per
lui
stava andando in fumo, perché Kumi si era comportata da
perfetto grillo
parlante dicendole che lei in realtà sapeva benissimo quali
fossero i suoi
sentimenti per il portiere, soltanto non aveva ancora trovato il
coraggio di
riconoscerli.
Ma
a che
sarebbe servito tutto questo, se lui non aveva ancora posto fine alla
relazione
con Asami?
Incrociò
lo sguardo di Kumi, seduta sul letto dietro di lei, che la guardava con
un
sorriso d'approvazione.
«Sei
stupenda, Elena. Devi mettere quell'abito! Mi immagino la faccia che
farà
Wakabayashi quando ti vedrà.» disse, ammiccando.
L'insegnante
sorrise leggermente e raggiunse l'amica.
«Oh,
magari si comporterà da cavaliere. Ma domani è
sabato, e se non sbaglio inizia
la due-giorni da dedicare alla sua fidanzata.»
affermò sprezzante, spingendosi
con il busto leggermente all'indietro e poggiando le mani sul lenzuolo
che
copriva il materasso.
Kumi
sgranò gli occhi e increspò le labbra, stupita e
un po' seccata.
«Volevo
aspettare che fosse lui a dirtelo, ma sentendoti parlare
così non posso più
tacere.»
Elena
si
voltò verso di lei, con aria interrogativa.
«Wakabayashi
ha sì lasciato lo Yoyogi Stadium con la Ujimori per andare a
cena con lei e poi
a casa sua.» rivelò, mentre Elena abbassava lo
sguardo e faceva un breve
respiro.
«Ci
è
andato per dirle che la lasciava. L'ha lasciata, Elena, e poi
è andato a
dormire in una stanza al Park Hotel, sempre a Tokyo.»
spiegò, osservandola
mentre la sua bocca si dischiudeva e i suoi occhi si spalancavano.
Poté vedere
la gioia impregnare i suoi occhi azzurri.
«Lui
non
me l'ha detto …» mormorò, pensando a
pochi giorni prima «O forse … era ciò
che
lui stava per dirmi prima che arrivasse mio zio …»
Kumi
annuì.
«Fidati,
è andata così. Il mattino dopo le Nazionali io e
Taro
abbiamo fatto colazione con lui proprio al Park Hotel. Quando gli
abbiamo detto
che tu credevi avesse passato la notte con Asami, era molto rammaricato
e mi è
sembrato anche irritato con sé stesso.» le
afferrò un
braccio, sporgendosi verso di lei «Ora dipende
davvero
tutto da voi.» la esortò, guardandola negli occhi.
Elena
fece
un leggero sorriso, poi chinò leggermente il capo
«Ho paura, Kumi.» ammise,
semplicemente.
La
giapponese la guardò, poi scosse la testa ed emise uno
sbuffo.
«"Ho
paura", "Mi sento in colpa", "Mi piace, ma".» le fece
il verso, stizzita «Basta! Io capisco che tu possa avere
delle remore, ma non
puoi andare avanti così per tutta la vita.»
«Non
è
semplice, Kumi.» replicò, aggrottando le
sopracciglia e assumendo un tono un
po' infastidito.
«Lo
so! Ma
rinunciare a una persona di cui sei innamorata per mantenere un legame
con un
passato che non c'è più, è
deleterio.» ribatté prontamente.
«Tu
e
Wakabayashi non potrete mai più essere soltanto amici. I
vostri sentimenti sono
andati troppo oltre e non potete tornare indietro.» aggiunse
perentoria, mentre
Elena stringeva le labbra e deglutiva, senza sapere cosa rispondere.
«Tu
pensi
solo a quello che succederebbe se gli dicessi di sì,
accettando di amarlo e
lasciarti amare da lui. Prova a pensare a come ti sentiresti se invece
decidessi di rinunciare: lo faresti perché ti senti in
dovere e non perché è la
cosa migliore. Immagina il rimpianto che proverai ogni volta che lo
vedrai
apparire in tv o su qualche articolo … perché lui
è un calciatore famoso e
inevitabilmente ti capiterà di vederlo apparire su uno
schermo o sulle pagine
di qualche giornale. E oltretutto, mica penserai di rompere i contatti
anche
con me e Taro. Perché io ti scriverò, e non ci
sarà un'e-mail o un messaggio in
cui non ti nominerò Genzo Wakabayashi.» la
ammonì con un dito alzato e aria
minacciosa.
Elena
spalancò gli occhi «Ehi, questo è
terrorismo psicologico!» obiettò, pur
divertita dal piglio dell'amica.
Kumi
scosse la testa e le passò un braccio attorno alle spalle
«No, cerco soltanto
di farti capire che hai la felicità a portata di mano e per
questo non devi
scusarti con nessuno.»
L'auditorium
dell'Istituto Shutetsu era ampio e fornito delle più moderne
attrezzature per
le luci e il suono. Il palco era esteso e adatto a ospitare esibizioni
di ogni
genere, dalla recita teatrale al concerto al numero di danza.
«È
già
pieno, ragazzi.» disse Taro, mentre si faceva spazio tra la
folla, seguito da
Kumi ed Elena.
«Dove
stai
andando, Taro?» gli chiese Kumi, notando che il suo ragazzo
non smetteva di
avanzare.
«Sto
cercando dei posti in prima fila.»
«Ammesso
che ce ne siano ancora, non è più corretto
lasciarli ai genitori e parenti
degli allievi?» obiettò Elena.
Taro
socchiuse le labbra per risponderle, ma poi, aiutato anche da un lieve
pizzicotto di Kumi su un braccio, si ricordò del patto
concordato con
Wakabayashi e si limitò a strizzarle un occhio, senza
smettere di dirigersi
verso le prime poltrone.
Un
uomo di
mezza età, probabilmente un segretario, si fermò
davanti a loro.
«Lei
è la
signorina Rulli?» chiese, rivolto alla giovane italiana.
«Prego, si sieda
qui.» le disse al suo cenno affermativo,
indicandole uno dei posti in prima fila, proprio di fronte al palco.
«E
voi
siete il signor Misaki e la signorina Sugimoto, se non erro. Sedetevi
pure
qui.» aggiunse, indicando i due posti accanto, prima di
andarsene.
Elena
lo
guardò con aria interrogativa, poi sedette, stupita.
Si
voltò
verso Taro e Kumi, che però sembravano soprattutto contenti
di potersi godere
lo spettacolo da una postazione privilegiata.
Si
guardò
intorno, perplessa, cercando con lo sguardo l'uomo che aveva tanto
insistito
perché si trovasse lì.
Dopo
pochi
minuti lo vide.
Entrò
accompagnato da uomini e donne tutti più vecchi di lui,
tranne un ragazzo che
doveva avere all'incirca la sua età e con cui sembrava avere
molta confidenza.
Dovevano essere gli altri membri del consiglio direttivo.
Era
vestito con un elegante completo in giacca e cravatta scuri, che
evidenziavano
il suo portamento e il suo fascino.
I
loro
sguardi si incrociarono e lui si arrestò un istante, lo
sguardo tra lo stupito
e l'ammirato, poi la salutò con un cenno del capo e un
sorriso.
Indossava
un elegante abito blu lungo fino a poco sotto il ginocchio, leggermente
scollato e un paio di décolleté dello stesso
colore ai piedi. Donava ulteriore
eleganza alla sua figura e risaltava il suo aspetto nordico.
Era
bellissima … se non fosse stato per il suo accordo con le
ragazze, le avrebbe
chiesto di venire via da lì e di passare la serata soltanto
con lui.
Elena
avvertì un piacevole turbamento, misto a timore che quello
sguardo potesse
vanificare l'effetto delle gocce di ansiolitico che aveva inghiottito
prima di
uscire.
Ma
durò
poco, perché tutti gli spettatori vennero invitati a sedersi.
Le
luci
vennero abbassate e lo spettacolo cominciò.
In
entrambi albergava il rimpianto per non essere seduti l'uno accanto
all'altra,
ma d'altro canto, la lontananza non li avrebbe distratti da quanto
stava per
svolgersi sul palcoscenico.
Lo
spettacolo era piacevole, ben concepito e realizzato.
Numeri
di
danza si alternavano a esibizioni di canto, a volte fondendosi.
Tutti i giovanissimi allievi, guidati
dai loro insegnanti,
si dimostrarono dotati di talento e capaci di trasmettere le loro
emozioni al
pubblico.
Nel
corso
di un intervallo tra un numero e l'altro che sembrava protrarsi
più a lungo
rispetto ai precedenti, Elena consultò il programma che le
era stato consegnato
dopo aver preso posto.
Mancavano
poche esibizioni al termine dello spettacolo.
Le
luci si
attenuarono gradualmente, fino a creare una penombra.
Iniziò
una
canzone che Elena conosceva, ma che non era indicata nel programma.
"Reach"
di Gloria Estefan … una delle sue preferite, che ascoltava
sempre prima di ogni
gara.
Si
trattava del disco originale e non di una versione cantata da
un'allieva
dell'Istituto.
Le
luci si
alzarono lentamente, rivelando cinque figure femminili che si
affiancarono
l'una all'altra per poi avanzare insieme sul palco, su cui
notò che erano state
disposte delle parallele asimmetriche e una trave.
Elena
sgranò gli occhi, il fiato le si spezzò.
Erano
Arimi, Mitsuyo, Shinobu, Hanako ed Emi …
Le
cinque
ginnaste si fermarono e alzarono le braccia, nel tipico gesto di saluto
precedente ogni routine.
Istintivamente
si voltò verso Genzo, che però era parzialmente
coperto da altre persone sedute
in mezzo a loro, che sembravano avere l'espressione attenta ma non
troppo
stupita.
Si
sentì
afferrare una mano e vide Kumi che le faceva l'occhiolino con un
sorriso
complice, lo stesso con cui la guardò anche Taro.
A
turno,
le ragazze eseguirono delle routine di corpo libero, parallele
asimmetriche e trave.
Le
serie
di rovesciate ed enjambée,
di
combinazioni di salti raccolti, carpiati e avvitati catturarono presto
l'attenzione e l'ammirazione degli spettatori.
Erano
tutto ciò che lei e Mayuko avevano insegnato in quei mesi.
I
loro
sorrisi e la scioltezza e coordinazione dei loro movimenti davano
l'impressione
che tutto fosse eseguito con facilità e leggerezza, doti che
da sempre
distinguevano le migliori ginnaste.
Elena
sorrise, fiera di loro.
Se
fosse
stata una gara vera, avrebbero ricevuto come valutazione un "dieci
perfetto" o lo avrebbero quantomeno sfiorato.
Genzo
si
sporse leggermente, per cercare di vedere il viso di Elena.
I
suoi
occhi sembravano più larghi e brillanti, le sue labbra erano
un poco dischiuse:
stava assistendo con un misto di stupore e di ammirazione e orgoglio
per la
coreografia che le cinque ginnaste stavano realizzando con i loro
movimenti e
combinazioni.
Sorrise
e
tornò a guardare l'esibizione.
Alla
conclusione, le ragazze vennero premiate con uno scroscio di applausi
entusiasti.
Si
presero
per mano e, con Arimi al centro, avanzarono quasi fino al limite del
palco e
fecero un inchino.
Quando
il
pubblico smise a poco a poco di battere le mani, la giovanissima
campionessa
prese la parola.
«Sono
Arimi Shimokawa, ginnasta dello Shiroyama Gymnastics Club. Grazie. Il
vostro
entusiasmo ci dimostra che abbiamo fatto un buon lavoro con questo
numero
collettivo. È stata un'idea nata quasi all'improvviso e con
la quale abbiamo
voluto fare una sorpresa a lei.» disse, indicando con una
mano Elena, seduta
proprio di fronte a dove si trovavano loro.
«La
signorina Elena Rulli, una delle nostre insegnanti. Grazie a lei e alla
signorina Mayuko Shiroyama siamo migliorate tantissimo, fino a
classificarci al
primo posto agli ultimi campionati Nazionali juniores. La loro
competenza e la
loro passione ci hanno fatto amare il nostro sport e portato ad essere
tra le
migliori ginnaste del Giappone.» proseguì, mentre
Elena assisteva con aria
incredula e commossa.
«La
signorina Rulli tornerà in Italia tra poco più di
una settimana. Abbiamo voluto
salutarla a modo nostro, per ringraziarla di tutto quello che ci ha
insegnato e
per dirle che non ci dimenticheremo mai di lei!» aggiunse
Mitsuyo.
«Signorina
Rulli, venga sul palco con noi!» gridò Arimi,
saltando giù e afferrandole le
mani.
Elena
tentò una debole protesta, ma alla fine si lasciò
convincere, grazie anche a
una leggera spinta di Kumi.
Salì
sul
palco, dove si posizionò tra Arimi e Shinobu, che le aveva
afferrato l'altra
mano. Si inchinò, con un sorriso commosso e le lacrime agli
angoli degli occhi,
mentre il pubblico ricominciava ad applaudire.
I
suoi
occhi incrociarono quelli di Genzo, che batteva le mani con un sorriso
aperto,
carico di affetto. Era così raro vederlo sorridere in quel
modo … e i suoi
occhi la guardavano con tenerezza e persino con orgoglio.
Un
calore
le si irradiò all'interno del petto: ecco perché
le aveva detto che la sua
presenza era importante. Aveva proposto lui l'inserimento del numero
collettivo
nello spettacolo … e l'aveva fatto per lei.
Lo
spettacolo era terminato da circa mezz'ora e Kumi, Taro, Elena e Genzo
avevano
da poco lasciato l'Istituto Shutetsu.
Era
una
stupenda serata di fine primavera. L'aria era mite, il cielo nero era
illuminato dalla luna piena e dalle stelle.
«Che
meraviglia l'esibizione delle ragazze! E vi giuro che quando hanno
ringraziato
pubblicamente Elena e l'hanno chiamata sul palco, stavo per mettermi a
piangere.» commentò Kumi.
«Senza nulla togliere agli
allievi dell'Istituto, la loro performance è stata quella
che mi ha emozionato
di più. Loro sono bravissime e tu e la signorina Shiroyama
le avete allenate
davvero bene, Elena.» concordò Taro.
«Hanno
creato una coreografia splendida.» ammise l'ex ginnasta,
guardando Genzo che
rispose con un sorriso.
«Volete
andare da qualche parte, ragazzi? Al bar, alla gelateria
…» propose poi Taro.
«Io
preferisco andare a casa.» rispose Elena «Sono un
po' stanca …»
Il
ragazzo
annuì, comprensivo.
«Posso
immaginarlo. Allora noi andiamo al bar, che ne dici Kumi?»
«Tu
che
fai, Wakabayashi?» chiese la mangaka, sapendo già
quale risposta aspettarsi.
«Credo
che
andrò anch'io a casa. Sono ore che ho addosso questo
completo.» disse,
allentandosi la cravatta.
«D'accordo,
allora ci vediamo!» li salutò con un lieve
ammicco, mettendo le sue mani
attorno al braccio di Taro e avviandosi con lui, lasciando Genzo ed
Elena soli.
«Tu
e le
ragazze mi avete fatto una bellissima sorpresa.»
cominciò lei, dopo aver
percorso alcuni metri.
«Sono
venute a casa mia a chiedermi di lasciar loro libera la palestra
dell'Istituto
Shutetsu e di inserire il loro esercizio nello spettacolo. La vittoria
alle
Nazionali juniores ha avuto risonanza anche nella nostra scuola, per
via della
presenza di Mitsuyo e Hanako, e io sono riuscito a convincere i membri
del
consiglio direttivo e gli insegnanti di alcuni club sportivi a spostare
gli
allenamenti in altre strutture, sempre collegate alla scuola.»
Elena
annuì. «Avrò un altro splendido
ricordo. Ho passato mesi bellissimi con queste
ragazze … sentirò la loro mancanza. È
stata un'esperienza più importante e
bella di quanto avrei immaginato.»
«Anche
tu
lascerai un bel ricordo. Ho sentito che Mayuko ha cercato di
convincerti a
rimanere.»
«Già.
Ma
io ho deciso quale direzione voglio dare alla mia vita. Voglio studiare
e
vivere in Italia o in Germania, e magari insegnare ginnastica in
un'altra
palestra per pagarmi gli studi. Mia madre mi ha chiamato ieri e mi ha
detto di
aver avviato l'Anerkennung
per la
domanda d'iscrizione alla LMU.»
Genzo
fece
un cenno d'assenso.
«Sei
sicura di voler andare subito a casa?» chiese, dopo alcuni
attimi di silenzio.
Elena
assentì.
«Allora
ti
accompagno. Vorrei passare ancora un po' di tempo con te.»
ammise.
Lei
indugiò su di lui con lo sguardo, poi sorrise. Le spalle le
tremarono.
«Hai
freddo?»
«No
…
guarda, la casa dello zio è lì a pochi
passi.» rispose, facendogli cenno con il
mento.
«Se
vuoi,
puoi entrare a bere qualcosa.» gli disse, quando furono
giunti davanti al
cancello.
Genzo
assentì e la seguì nel cortile.
Voleva
passare ancora del tempo con lei … e soprattutto, doveva
parlarle. Lo avrebbe
fatto, qualunque cosa fosse accaduta. Tra di loro non doveva rimanere
nulla in
sospeso.
«Spero
di
non disturbare Carlo.»
Elena
scosse la testa «No … lo zio è andato a
Kyoto per assistere a un match e
tornerà domani.»
Genzo
trasse un respiro profondo.
Quello
era
il luogo e il momento. L'unico in cui potevano guardarsi negli occhi
senza
filtri né penombre, con la certezza che nessuno li avrebbe
interrotti né
disturbati.
Fortunately you have got
Someone who relies on you
We started out as friends
But the thought of you just
caves me in
the symptoms are so deep
It is much too late to turn away
We started out as friends
Accarezzò
brevemente Wilhelm, che gli si era avvicinato festoso, e
seguì Elena in casa.
«Birra
o
Bacardi Breezer?» gli chiese, dopo che ebbe chiuso la porta -
e Wilhelm - alle
loro spalle.
«Meglio
non esagerare con l'alcool … Bacardi Breezer.»
«Sono
d'accordo.» sorrise la giovane, dirigendosi verso la cucina.
Prese
due
bicchieri e li riempì con una lattina di gusto limone della
famosa bevanda.
Lui
seguì
i suoi movimenti rapidi e flessuosi, retaggio di anni di
attività sportiva.
«È
stato
meraviglioso vedere le ragazze che facevano quell'esercizio, progettato
con
cura e realizzato senza sbavature. Hanno scelto gli elementi su cui
abbiamo
lavorato di più in questi mesi.» disse lei dopo
che fu tornata nel salotto,
porgendogli un bicchiere.
«Sì,
è
stato bello assistere alla bravura di quelle ragazze e all'entusiasmo
del
pubblico.» concordò «Ma è
stato bello anche vederti così felice.»
Gli
occhi
di Elena si allargarono, in un misto tra stupore e piacere.
«Ed
è
proprio per questo, che ho fatto di tutto per convincere gli
organizzatori
dello spettacolo a inserire quel numero.»
«Sei
gentile.» mormorò, abbassando lo sguardo e
arrossendo leggermente.
Lui
si
mise davanti a lei e le sfiorò il mento con un dito,
facendole sollevare il
viso e incrociare i suoi occhi e le sue labbra piegate in un sorriso
affettuoso.
Anche
Elena sorrise, ma sarcasticamente, nonostante il piacere che le
provocava quel
tocco.
Kumi
non
aveva lasciato spazio a dubbi quel pomeriggio … ma
finché non fosse stato lui a
dirle come stavano realmente le cose, non sarebbe riuscita a crederci
completamente.
«Se
la
Ujimori ci vedesse in questo momento avrebbe seri dubbi sulla
solidità del
vostro rapporto …» disse, scostando il dito di
Genzo dal suo viso.
Il
giovane
alzò un sopracciglio, dapprima stupito dal suo improvviso
cambio di
atteggiamento, ma mantenne il suo contegno: lui si trovava
lì proprio per
parlarle anche di quanto accaduto quella sera.
«Mi
sembra
di cogliere una nota di gelosia in quello che dici, o
sbaglio?» la provocò,
mentre le restituiva il bicchiere ormai vuoto.
Elena
si
voltò di lato, per poi tornare a dargli rapidamente le
spalle. Mise i bicchieri
nel lavandino della cucina, poi tornò nel salotto e si
accostò al tavolo,
accanto al vaso degli Amaryllis.
«Ti
sei
scusato per non aver festeggiato con me, ma avevi un'ottima ragione per
non
venire, no?»
Genzo
strinse la mascella, leggermente infastidito da quel tono ostile. Ma
replicò
con calma, rendendosi conto che ora sapeva perfettamente quali erano le
parole
con cui esprimerle i suoi sentimenti.
«Sì,
effettivamente avevo un buon motivo per non venire alla vostra
festa.» iniziò.
«Dovevo andare a casa di Asami. Per dirle che intendevo
chiudere la nostra
storia.» proseguì, mettendosi di fianco a lei per
guardarla in viso.
«L'ho
lasciata, Elena.»
La
ragazza
strinse le mani attorno al legno del tavolo.
Le
lacrime
le stavano salendo agli occhi e il cuore sembrava volerle uscire dal
petto.
Ma
continuò a tenere gli occhi bassi.
Aveva
bisogno di un'altra conferma.
«Elena
per
favore, voltati. E guardami.» la sollecitò,
mettendole le mani sulle spalle ed
esercitando una lieve pressione, per spingerla a girarsi.
Si
trovarono di nuovo l'uno di fronte all'altra, lei tra il tavolo e Genzo.
«Asami
è
venuta all'hotel dove alloggiavo, pochi giorni prima della finale. Mi
ha detto
che tra voi c'è un legame troppo forte e solido
perché potesse essere spezzato.
E che non dovevo farmi illusioni su di te.» gli
svelò, e stavolta fu lei a
puntargli addosso uno sguardo penetrante e quasi inquisitorio.
Genzo
spalancò gli occhi, sorpreso. Non sapeva nulla di
quell'incontro. Ma non le
chiese altri particolari. Qualunque cosa le avesse detto, in quel
momento non
aveva importanza.
«Ho
parlato con lei e le ho detto tutto. Che non ero più
coinvolto, che non aveva
più senso continuare la nostra relazione. E che da tempo
ormai penso a un'altra
donna … la splendida ragazza che è qui di fronte
a me.» le confessò, mentre i
suoi occhi si spalancavano «Non so se hai superato i tuoi
sensi di colpa,
Elena. Ma non potevo continuare a stare con lei quando pensavo sempre
più a te.
E non potevo nemmeno lasciarti andare senza dirti quello che
provo.»
Elena
avvertì un colpo al cuore. Era vero … quello che
le aveva detto Kumi … era
tutto vero …
Lui
la
guardò.
I
suoi
occhi erano lucidi, luminosi, le labbra leggermente dischiuse. Era
commozione …
Lei
chiuse
gli occhi, stringendoli e sorrise.
Avrebbe
voluto rispondere qualcosa … ma non riusciva a trovare le
parole adatte a
esprimere le sue emozioni. Erano troppo forti, troppo intense, troppo
inaspettate …
Genzo
sollevò una mano, a portarle una ciocca di capelli dietro un
orecchio e la fece
scorrere piano sulla guancia.
Poteva
scostarsi e dirgli di smettere, gliene stava dando tutto il tempo.
Ma
non lo
fece. Continuava a guardarlo, in attesa. Le labbra tremavano
leggermente, così
come il suo corpo.
«Ho
paura
di fare una cosa sbagliata, Genzo …»
mormorò.
Il
ragazzo
le sorrise dolcemente.
«Tu
cosa
vuoi?» le chiese, mettendole di nuovo le mani sulle braccia,
sfiorandole in una
carezza.
Chinò
il
viso sul suo, e lei chiuse gli occhi.
Un
istante
dopo, ogni distanza venne annullata.
Genzo
mosse lentamente le labbra contro quelle di Elena, come se volesse
farle
riprendere confidenza con un approccio e un'emozione cui non era
più abituata.
Erano
morbide … così come la sua pelle.
La
sua
mano risalì e raggiunse il fermaglio con cui aveva raccolto
i capelli e lo
sfilò delicatamente, lasciandolo cadere sul tavolo.
Affondò
le
dita tra quei lunghi e ondulati fili di seta, continuando ad
accarezzarle le
labbra, in modo sempre più audace.
Si
scostò
per poterla guardare. I suoi occhi azzurri sembravano risplendere
…
Aveva
aspettato quel momento per tanto tempo, voleva che lei se ne rendesse
conto.
Entrarono
in contatto di nuovo e stavolta Elena dischiuse le labbra, lasciando
che una
sensazione di calore e di voluttà la invadesse.
Avvertì
le
ginocchia tremare …
Lui
le
passò le braccia attorno alla schiena, per sostenerla e per
stringerla a sé,
man mano che il loro bacio si approfondiva.
Lei
sollevò le braccia, mettendogliele attorno al collo.
Si
ritrovò
così avvolta nel suo abbraccio, e persa nel fervore dei suoi
baci.
Fece
scorrere le sue dita sottili verso l'alto, fino a raggiungere e
stringersi
attorno ai suoi capelli, dietro la nuca.
Il
corpo
di Genzo fremette …
Ora
Elena
stava rispondendo, con una passione pari alla sua.
Avrebbero
voluto prolungare quel momento all'infinito …
Si
staccarono con riluttanza.
Elena
accostò la fronte al mento di Genzo, riprendendo fiato e
accorgendosi che anche
il respiro del ragazzo era leggermente affannoso.
Gli
posò
una mano sul petto e avvertì i battiti accelerati del suo
cuore.
Chiuse
gli
occhi e sorrise, mentre lui le sfiorava la fronte e la tempia con le
labbra.
Si
rese
conto che era quello che aveva desiderato per settimane, forse mesi,
senza
trovare il coraggio di confessarlo a sé stessa.
Genzo
continuò a tenerla stretta. Contemplò il suo
volto leggermente arrossato, gli
occhi trasognati e lucidi.
Si
sentiva
inebriato, quasi stordito. Non aveva mai baciato una ragazza con tanto
trasporto.
Erano
sensazioni nuove, di un'intensità a lui fino ad allora
sconosciuta.
«Elena
…
lunedì parto per il raduno al J-Village e poi
andrò in Messico con la squadra.
Voglio passare questo finesettimana con te. Andiamo a cena, al mare, al
cinema
… dove vuoi. Purché possa rivederti.»
La
ragazza
si scostò leggermente e lo guardò, poi sorrise.
Le
loro
labbra si toccarono ancora e lei gli si abbandonò di nuovo,
come se non avesse
potuto esserci vita fuori dalle braccia e dalla bocca di Genzo.
***Note***
Questo è il tubino indossato da Elena, così
come lo immagino. :-)
Anerkennung: termine
tedesco
che significa "riconoscimento".
I
titoli
conseguiti in Italia o in un altro Paese estero devono essere validati
e
riconosciuti in Germania attraverso una procedura chiamata per
l'appunto Anerkennung.
Per
immatricolarsi a un corso di laurea in Germania sono necessari
principalmente
due requisiti:
un
titolo
di studio di scuola media superiore o equivalente;
conoscenza
della lingua tedesca, generalmente tra un livello B2 del Quadro
Europeo, ad
esempio per i corsi di laurea in lingua inglese, e un livello C2, come
nel caso
di corsi di laurea in traduzione e interpretariato.
Se
si è
diplomati presso un istituto estero, come ad esempio in Italia, si
dovrà quindi
lasciar tradurre il proprio attestato da un traduttore giurato e farlo
riconoscere attraverso questa pratica.
Fonte: MadreinItaly.info
"Reach", la canzone di Gloria Estefan
scelta
dalle cinque ginnaste dello Shiroyama Gymnastics Club per il loro
esercizio, è
il tema ufficiale delle Olimpiadi di Atlanta 1996. Potete ascoltarla qui.
Le strofe inserite nel capitolo
appartengono alla stupenda
canzone "Sign
Your Name" di
Terence Trent D'Arby (oggi si
fa chiamare Sananda Maitreya) contenuta nell'album "Introducing the
Hardline According to Terence Trent D'Arby" del 1987.
Questa
è
la traduzione:
Per fortuna hai qualcuno
che ha fiducia in te.
Abbiamo cominciato da amici
ma il pensiero di te mi preme
dentro
i sintomi sono tanto profondi
(ma) è troppo tardi
per tornare indietro
Abbiamo cominciato da amici.
Altre
parti del testo verranno inserite nei prossimi capitoli,
perché lo trovo
praticamente perfetto per la storia di Genzo ed Elena.
Grazie a tutti coloro che stanno
leggendo questa
storia!
Sandie
|
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Capitolo 20 *** Capitolo XX - Soltanto un mese ***
Capitolo XX
Soltanto un mese
«Pensi
che
questo sia più adatto a illustrare la leggenda di Tanabata?»
Taro
inforcò gli occhiali ed esaminò il disegno che
Kumi gli aveva appena passato.
Era uno degli ultimi che, seduti sul
letto di lui, stavano
scorrendo per scegliere quali versioni proporre per il nuovo numero
della
rivista con cui la ragazza aveva iniziato a collaborare.
Era
stato abituato a
essere obiettivo fin dalla più tenera età, con
suo padre che gli aveva
insegnato a non temere di criticare i suoi quadri e a indicargli
schiettamente
quello che non lo convinceva.
Il
suo parere era
imparziale ma non vincolante e alla fine Kumi decideva sempre in
completa
autonomia, anche se più di una volta i consigli del suo
ragazzo si erano
rivelati preziosi.
Lei
lo osservò, per
cercare di intuire cosa ne pensava, certo … ma anche
perché quella montatura
gli dava un'aria da giovane professore che avrebbe fatto breccia in
molte
studentesse, se avesse intrapreso quella strada anziché
quella calcistica.
«Secondo
me, il più
rappresentativo è questo, ma quest'altro» disse,
riprendendone in mano uno
passato in rassegna poco prima «è più
di impatto.»
Kumi
prese i disegni
dalle sue mani e li confrontò, un po' indecisa.
«A
me questo piace di
più ...» commentò infine, increspando
un po' le labbra.
«Sono
belli entrambi,
Kumi. Tu porta a Fuji questi due e magari ne discuterai con i redattori
e con
il direttore.» le suggerì. «Potrebbe
pure succedere che te li scelgano tutti e
due.» ammiccò.
«Non
sono la loro
unica illustratrice.» rise, seppur compiaciuta.
Posò
i fogli sul
letto, afferrando poi un altro disegno.
«Questo
voglio
regalarlo a Elena. Che ne dici?» gli chiese, mostrandogli un
ritratto della
bionda insegnante in un'elegante posa ginnica.
«Dico
che ne sarà
felice.»
«Sai
… stamattina mi
ha telefonato. Lei e Wakabayashi si sono dichiarati e si sono anche
baciati. E
passeranno gran parte di questi due giorni insieme.» disse,
con un sorriso
raggiante.
«Sì,
anche Wakabayashi
me l'ha raccontato, addirittura ieri sera. Era appena tornato a casa.
Quel
ragazzo è riservato e sembra un blocco di granito tra i pali
di una porta, ma
quando prova dei sentimenti è come la lava di un
vulcano.»
«Sono
felice per loro.
Sembra quasi voluto dal destino. Entrambi sono venuti qui dopo che il
mondo era
crollato loro addosso, e ora possono cominciare la loro nuova vita,
insieme.»
Taro
sorrise,
perfettamente concorde.
«Posso
provare i tuoi
occhiali?» gli chiese dopo alcuni attimi di silenzio,
tendendo le mani.
«Va
bene.» rispose,
togliendoli e dandoli alla ragazza che li prese con cautela e li
indossò.
«Ah,
non vedo niente!
Ma quante diottrie ti mancano, Misaki?» rise, guardandosi
intorno tenendo le
dita premute sulle stanghette della montatura.
«Ma
smettila,
ragazzina insolente che non sei altro!» esclamò,
afferrandole i fianchi e
buttandola di peso sul letto, facendole emettere un gridolino divertito.
Si
ritrovò sopra di
lei, le mani appoggiate sul materasso.
Rimasero
a guardarsi.
Il
respiro di Kumi era
accelerato, come dimostrava il rapido alzarsi e abbassarsi del suo
petto.
Le
sfilò gli occhiali
dal viso e li posò sul comodino accanto.
Lei
allungò una mano
ad accarezzargli una guancia, raggiungendo l'attaccatura dei capelli.
Taro
la guardò. Era
sempre più bella … aveva lasciato crescere ancora
i suoi capelli, che ora
superavano di poco le spalle e la luce del sole vespertino si
riverberava sui
suoi occhi attraverso la finestra aperta, rendendoli di un bellissimo
colore
ambrato.
Si
chinò e lambì piano
le sue labbra, facendo una lieve pressione per indurla a schiuderle.
Lei
sollevò le braccia
e gliele mise attorno al collo, lasciando che il ragazzo si stendesse
su di lei
e rendesse più intimo il loro contatto, tenero dapprima, poi
sempre più
intenso.
Sussultò
quando
avvertì le mani di lui scendere lentamente e infilarsi sotto
la sua maglietta,
accarezzandole i fianchi. Quasi contemporaneamente le sue labbra
lasciarono la
bocca di Kumi e scesero sulla morbida pelle del collo, facendola
sospirare e
socchiudere gli occhi.
Con
una mano intanto
prese ad accarezzarle una gamba e risalendo sfiorò
l'inguine, e lei si lasciò
sfuggire un gemito.
«Taro
… io non …»
mormorò.
Lui
seppure
riluttante, sollevò la testa, sorrise e le
accarezzò il viso. La desiderava, ma
ancor di più la rispettava. Non l'avrebbe mai forzata a fare
un passo per cui
non si sentiva pronta.
«Non
ti preoccupare.
Aspetterò … l'importante è che non sia
per colpa di quel bastardo.» aggiunse,
guardandola attento.
Kumi
sgranò gli occhi,
poi scosse la testa sorridendo.
«No,
assolutamente.
Non potrei mai confonderti con quel tipo.»
Lui
si sollevò e lei
si mise a sedere raccogliendo le gambe tra le braccia.
«Sai,
qualche mese fa
mentre guardavamo in tv la partita contro la Thailandia, Elena mi disse
che eri
un ragazzo sensibile e le veniva naturale fidarsi di te. Aveva
ragione.»
Taro
sorrise.
«Mi
ha anche detto che
quando vi siete conosciuti, si è presa una cotta per
te.»
Il
giovane increspò le
labbra in una smorfia divertita. «L'avevo sospettato. Certo
lei era molto
carina e simpatica, e aveva molta grinta. Era una via di mezzo tra te e
Sanae
ai tempi in cui era capotifosa della Nankatsu. Una "Anego"
più femminile.
Ma aveva solo tredici anni e io stavo per tornare in Francia. E poi la
consideravo un'amica.»
«L'hai
sempre
considerata solo un'amica? Anche quando l'hai vista anni
dopo?»
«Sì.
Ma perché tanta
curiosità? Pensavi anche tu che fossi innamorato di
lei?»
Kumi
sorrise e
assentì.
«Eri
sempre così
premuroso nei suoi confronti. Dopo le partite chiacchieravate sempre
insieme,
sembrava quasi che vi deste appuntamento.»
«Erano
semplici scambi
di parole tra amici.»
«Sai
… io ero gelosa.»
Taro
spalancò gli
occhi. «Già allora?»
La
ragazza fece un
cenno d'assenso, arrossendo leggermente. «Da quando sono
venuta a trovarti con
gli altri ragazzi al Centro di Medicina Sportiva, a Gotenba. Stavi
affrontando
una riabilitazione durissima dopo due gravi infortuni e tu eri
così sereno e determinato.
Mi è scattato qualcosa dentro e da allora non ho
più potuto pensare a te come
facevo prima.»
«Non
mi hai mai fatto
sospettare niente …» replicò, stupito.
Kumi
allargò le
braccia «Perché avevi sempre qualcun'altra.
All'epoca stavi con Hayakawa, poi
sei andato a Iwata e ti sei messo con quella giovane cuoca. E in questi
mesi ho
frainteso il tuo rapporto con Elena. Ho cercato di farmela passare, per
non
soffrire. Poi la nostra passione in comune ci ha fatti avvicinare e
proprio a
Sydney, ho capito che forse avevo delle
possibilità.»
Taro
strinse le
labbra. «Quella sera ero irritato con me stesso, per non
averti invitata prima
di quello schifoso. E non solo per quello che ha cercato di
farti.»
«Oh,
ma allora ero
riuscita a farti ingelosire!» gioì come se quella
scoperta avesse avuto il
potere di lenire almeno in parte la pena di quel ricordo, avvicinandosi
a lui e
assumendo una posa da gattina maliziosa.
Taro
ridacchiò
«Mettiti composta, Sugimoto. Quella è una
posizione pericolosa.»
«Guarda
che voler aspettare un po' prima di concedersi non significa essere
frigide.»
ribatté lei imperturbabile, avvicinandosi con un tono da
tentatrice, cui
rispose abbrancandola e baciandola di nuovo, mentre i pochi fogli
rimasti sul
letto caddero sparsi sul tappeto.
Elena
uscì dalla sua
stanza con passo lento e lievemente ciondolante.
Non
aveva neppure
sentito il suono della sveglia ed era stata la voce di Carlo a destarla.
Si
sentiva
piacevolmente frastornata.
Genzo
…
Avvertiva
ancora il
suo sapore in bocca e la sensazione delle sue grandi mani che l'avevano
accarezzata, le braccia forti che l'avevano cinta e fatto aderire il
suo corpo
a quello di lui, i suoi occhi neri che la guardavano, fervidi.
Si
erano baciati a
lungo, ancora, prima di darsi appuntamento per la tarda mattinata.
«È
stato qui Genzo,
ieri sera?» esordì Carlo quando lei
entrò in cucina. Una frase che suonava più
come un'affermazione che come una domanda.
«Cosa
te lo fa
pensare?» chiese, in tono di finta noncuranza.
«Hai
lasciato due
bicchieri nel lavandino e il tuo fermaglio sul tavolo.»
rispose l'uomo, con un
sorriso malizioso.
Elena
non rispose e si
diresse verso il tavolo.
«Hai
anche
un'espressione da "Kiss me Licia".» insistette, decisamente
divertito.
«Non
è vero.» reagì
infine, arrossendo e voltandosi.
Carlo
rise. Le si
avvicinò e le afferrò le spalle.
«Guarda
che io sono
felice per te, Elena. Anzi, ero preoccupato dal fatto che sembravi
ammettere
solo il lavoro e gli amici nella tua vita. Mi chiedevo se avresti detto
di no a
tutti gli uomini che ti avessero corteggiata. Perché ce ne
saranno Elena, non
credere. Ma pare che Genzo sia riuscito a scalfire quella barriera che
avevi
eretto intorno al tuo cuore.»
Elena
sospirò e si
voltò verso di lui. «Come hai fatto a
capire?»
«Beh,
pochi giorni fa,
quando sono entrato in casa e voi vi siete spostati così in
fretta, mi è
sembrato chiaro che avevo interrotto qualcosa …
così quando è venuto in
palestra per allenarsi, l'ho pungolato un po'. Quel ragazzo
è innamorato di te.
Sapevo che ieri sera vi sareste rincontrati, così ho deciso
di rimanere a Kyoto
anche per la notte.»
«Vi
siete
messi d'accordo?» chiese, incredula.
«No,
lui
non sapeva nulla. Diciamo che ho voluto fare in modo che aveste un
luogo in cui
stare da soli.»
Elena
lo
guardò. I suoi occhi, così simili ai suoi, erano
illuminati da un'espressione
colma di affetto paterno.
«Io
sarei
felice se tra voi nascesse qualcosa di importante. Certo, è
presto per
parlarne, ma mi sento di dire che Genzo è un ottimo ragazzo
e con te intende
fare sul serio. Non farti bloccare dai sensi di colpa o dalla paura di
amare,
Elena.»
La
ragazza
abbassò un attimo gli occhi, facendo un breve sospiro
seguito da un lieve
sorriso.
«Sai
zio,
proprio adesso che ho deciso di buttarmi in una nuova storia, lui sta
per
andarsene.»
Carlo alzò le spalle.
«Viviamo in tempi in cui è possibile mettersi
in contatto in ogni momento e perfino vedersi mentre ci si telefona.
Una volta
al massimo ci si telefonava ogni tanto o ci si scrivevano lettere che
potevano
impiegare settimane o addirittura mesi prima di giungere a
destinazione. Ma i
legami autentici resistono alla prova del tempo.»
«Non
è come stare
faccia a faccia, non si può avere contatto fisico
… e siamo solo agli inizi,
non abbiamo ancora messo radici.» replicò.
«Avete
ancora questi
due giorni. Il mio consiglio non richiesto è di comportarti
come se non lo
fossero. Dovete divertirvi, passare ore spensierate, porre le basi
della vostra
relazione. È stata la tua spontaneità a
conquistarlo, Elena. Sei stata te stessa,
non avevi intenzione di sedurlo e così l'hai ammaliato senza
nemmeno
accorgertene.» ridacchiò, suscitandole un altro
sorriso lievemente imbarazzato.
«E in quanto alla mancanza di radici, non sono d'accordo. Il
vostro non è stato
un colpo di fulmine, ma un rapporto che si è evoluto nel
corso dei mesi.
Rendigli questi giorni indimenticabili e vedrai che quando vi
rincontrerete in
Spagna, non starà nella pelle dalla voglia di
riabbracciarti.»
Elena
gli accarezzò un
braccio. «Grazie zio. Farò come dici, a patto che
tu non racconti niente a
mamma e papà, e nemmeno ai nonni, agli zii o ad
Angelina.»
«Promesso.
E ora
forza, facciamo colazione che tra non molto dovrebbe arrivare Genzo, o
sbaglio?» rispose, facendole l'occhiolino.
Dopo
circa un'ora, la
Lexus con Genzo alla guida si fermò davanti al cancello.
Elena
aprì la porta di
casa e lo salutò con sorriso, e lasciò che
afferrasse la maniglia della sua
borsa da viaggio per caricarla nel baule.
Carlo
li salutò
rimanendo sul vano della porta, rivolgendo al portiere uno sguardo a
metà tra
l'approvazione e la raccomandazione.
Genzo
parcheggiò non
lontano dal grande parco pubblico del Castello Sunpu
a Shizuoka, una delle città dove Elena gli aveva chiesto di
portarla.
Aprì
il baule e
scaricò la sua borsa, mentre la ragazza scendeva dall'auto.
Si
guardò brevemente
attorno, poi la attirò a sé.
«Voglio
verificare se
ieri è stato soltanto un bellissimo sogno o se è
stato tutto vero …» le
sussurrò, cingendole un fianco con una mano.
«Stanotte
ho dovuto
prendere un tranquillante per riuscire a dormire … ti
basta?» chiese in un tono
malizioso che aveva dimenticato potesse appartenerle.
Un
lampo di
soddisfazione attraversò gli occhi del giovane.
«No.»
rispose, prima
di posare le labbra sulle sue.
Passarono
la mattinata e il primo pomeriggio nel capoluogo della prefettura, dove
visitarono l'area in cui sorgeva la fortezza voluta da Tokugawa Ieyasu,
il
fondatore dell'omonimo shogunato nel Seicento, e di cui era rimasto
solo
l'antico fossato.
Fecero
poi
una lunga passeggiata nel Momijiyama
Japanese
Garden, dove Elena si incantò a osservare la
riproduzione di alcuni dei
luoghi più suggestivi della prefettura.
Visitando
alcuni dei numerosi negozi della zona, si innamorò
letteralmente dei manufatti
e degli oggetti realizzati in legno e in bambù, e dei
portamonete, portafogli e
borsette fatte a mano con tessuto kuzufu,
e fece incetta di souvenir per i suoi familiari che ormai contavano i
giorni
che mancavano al momento in cui l'avrebbero riabbracciata.
Genzo
la
canzonò sul fatto che avrebbe dovuto procurarsi una valigia
solo per stiparvi i
numerosi ninnoli che aveva acquistato.
«Questo
lo
prendo per la mamma.» disse, prelevandoli dagli scaffali
l'uno dopo l'altro e
mettendoli con cura in un cesto «E quest'altro per Angelina.
E questi due li
regalo alla nonna e alla zia Inge. Poi devo prendere anche un regalo
per papà,
per il nonno e per mio cugino Sebastian.»
Genzo
la
guardò, sorridendo al pensiero di quanto gli sarebbe
piaciuto, in un futuro non
lontano, incontrare quelle persone che costituivano la famiglia di
Elena e fare
in modo che i loro rispettivi mondi si armonizzassero, anche se al
momento era
una strada in salita che ancora non voleva percorrere, desiderando
tenere la
ragazza per sé e proteggerla dalla probabile disapprovazione
dei suoi genitori.
Nella
seconda parte del pomeriggio si spostarono a Yaizu, altra bellissima
città che
si affacciava sul mare.
Trascorsero
la serata cenando in un ristorante sul porto e guardando al cinema uno
dei film
più pubblicizzati del periodo. Nulla di memorabile di per
sé, ma loro lo
avrebbero sempre ricordato come il primo film visto insieme.
Il
giorno
dopo, il cielo era illuminato dal sole ma attraversato da numerose nubi
e la
temperatura era più fredda di quanto ci si potesse aspettare.
Decisero
così non spingersi fino alla penisola di Izu e di andare a
Miho no Matsubara.
Dove tutto era cominciato …
Dovettero
rinunciare al costume da bagno e indossare lui una maglietta e un paio
di
pantaloni scuri, e lei una camicetta bianca e dei jeans.
Solo
poche
persone passeggiavano sulla spiaggia e nessuno faceva caso a loro.
Stavano
camminando affiancati a pochi metri dal bagnasciuga quando gli occhi di
Elena
individuarono un grosso e scuro tronco d'albero adagiato sulla sabbia.
Lo
raggiunse dopo una breve corsa, seguita da Genzo che si
fermò a pochi passi.
La
ragazza
si voltò verso di lui e alzò le braccia nel gesto
di saluto delle ginnaste,
strappandogli un sorriso divertito.
Poi
salì
sul tronco e cominciò a improvvisare un esercizio, muovendo
con grazia le
braccia e le mani, e compiendo alcuni movimenti coreografici con le
gambe.
Si appoggiò con le mani ed
eseguì una rovesciata in avanti.
Nel seguente tentativo di fare una piroetta, perse l'equilibrio e
scivolò, ma
venne prontamente afferrata da Genzo, che le cinse subito la schiena.
«Non
vale!» protestò, con un tono indispettito
più simulato che reale, mettendogli
le mani sulle spalle.
«Quel
tronco non è una trave e la sabbia non è una
pedana. Avresti potuto farti molto
male.» replicò lui, senza lasciarla.
Elena
gli
posò le mani sul petto e assunse un'aria imbronciata.
«Questa me la segno. Sei
saccente e paternalistico.»
Genzo
sollevò un sopracciglio e sorrise.
«"Paternalistico" non me l'aveva
mai detto nessuno.»
Elena
alzò
il mento e gli rivolse un sorriso da monella. «Sei incorso in
una penalità.»
«Credevo
fosse la ginnasta a perdere il punto.» ribatté,
mantenendo lo stesso tono.
La
ragazza
fece una piccola smorfia. «Ah, ma è possibile che
tu voglia avere sempre
l'ultima parola? E allora prova a prendermi, se ci riesci!»
disse, liberandosi
dalla sua presa, che lui aveva nel frattempo allentato.
Si
mise a
correre, ma Genzo non impiegò molto a raggiungerla e
imprigionarla tra le sue
braccia.
«Ah,
e io
che pensavo che i portieri fossero più lenti degli altri
calciatori!» gridò
ridendo, mentre lui la faceva voltare verso di sé e le
scostava quelle fluenti
onde dorate che il vento le gettava davanti al viso.
Si guardarono, nero ardente contro
l'azzurro del mare e del
cielo.
Le
loro
labbra si toccarono e si unirono in un bacio lungo, tenero e
appassionato al
tempo stesso.
Quell'aria
un po' fredda l'aveva fatta rabbrividire, all'inizio.
Ma
ora
sentiva soltanto il calore della bocca di Genzo, che stava incendiando
ogni
fibra del suo corpo. E lei rispose con un fervore che fino a due sere
prima
aveva dimenticato di possedere, decisa a fargli provare le stesse
sensazioni.
Le
scostò
i capelli dal collo e dopo pochi istanti le sue labbra lasciarono
quelle delle
ragazza e andarono a posarsi su quella pelle serica, facendogli udire
per la
prima volta il suono dei suoi sospiri.
«Mi
stai
facendo il solletico.» mormorò, con un lieve
tremolio nella voce.
«È
una
protesta?» la stuzzicò.
Lei
accennò una risata, poi gli prese il viso tra le mani e
posò di nuovo le labbra
sulle sue.
Gli
accarezzò le spalle, il petto e le braccia, come a voler
imprimere nella mente
i contorni delle sue fattezze.
E
fargli
capire cosa fosse stato capace di fare risvegliando emozioni e
sentimenti che
credeva non sarebbe più riuscita a sentire.
Genzo
le
passò un braccio attorno alla schiena e la attirò
a sé.
Elena
gli
posò la testa su una spalla.
Lo
sciabordio delle onde che si rincorrevano sotto il sole pallido faceva
da
sottofondo, mentre il solenne Monte Fuji sembrava vegliare su quello
scorcio di
prefettura.
Chiuse
gli
occhi.
Gli
sarebbe mancato da impazzire.
Pensò
a
quanto avesse esitato anche dopo essersi resa conto dei suoi veri
sentimenti.
Era stata ricalcitrante e aveva rinunciato così a vivere
più momenti come
quello.
Aveva
persino pianificato di tornare in Italia senza dirgli nulla, rischiando
di
perderlo.
Non
voleva
sentirsi una di quelle eroine tragiche di certi romanzi rosa e soap
opera, ma
il pensiero di non vedere Genzo per tutto quel tempo le provocava delle
fitte
nello stomaco.
"Non
parte mica per la guerra!" avrebbe sbottato sua nonna Heike, che pure
di
quelle storie strappalacrime non se ne perdeva una, con un braccio
piegato e la
mano aperta a mezz'aria.
Tuttavia,
quell'attesa si annunciava lunga …
Non
si
poteva fermare il tempo e allora dovevano cercare di far durare quei
momenti il
più possibile.
Quella
splendida domenica stava per volgere al termine ed era arrivato il
momento di
tornare …
Elena
si
soffermò a osservare il profilo del ragazzo concentrato alla
guida.
Gli
occhi
attenti sulla strada, le grandi mani salde sul volante, le sue belle
labbra
distese in un'espressione identica a quella con cui si piazzava tra i
pali di
una porta.
Lui
le
lanciò una breve occhiata con la coda dell'occhio, piegando
le labbra in un
sorriso, facendole capire che si era accorto del suo sguardo prolungato.
Elena
sorrise di rimando e arrossì leggermente.
«Genzo
…
quando è cominciata? A Miho, o prima?» gli chiese
allora, facendogli per un
attimo spalancare gli occhi.
Si
concesse alcuni secondi prima di rispondere, per riordinare i suoi
pensieri e
richiamare alla mente i suoi ricordi dopo quella domanda inaspettata.
«Forse è
più corretto chiedersi quando me ne sono accorto.»
cominciò, con una frase che sarebbe piaciuta moltissimo a
Annie. «Quella
domenica, quando sono venuto a Numazu con Arimi … all'inizio
avevo pensato di
accompagnarla al palasport e rimanere lì giusto il tempo di
assicurarmi che
rimanesse a seguire la gara. Ma poi … ho visto te che
incitavi le ragazze, le
consigliavi, assistevi agli esercizi con una partecipazione tale che
sembrava
ti immedesimassi nelle tue allieve. Sei riuscita a coinvolgere anche me
che non
mi sono mai interessato di ginnastica artistica e quasi non ti ho
staccato gli
occhi di dosso per tutta la gara.» ammise, provocandole un
piacevole brivido.
«Quando me ne sono andato, mi sono ripetuto che era stato
perché mi ero preso a
cuore la questione. Ma poi più ti incontravo e
più mi rendevo conto che non era
così. E a Miho ho avuto la conferma definitiva. Dalla tua
espressione ho capito
che provavi le mie stesse sensazioni.»
«Quella
sera a Sydney ti ho detto che non ti avevo risposto perché
era stato un periodo
denso di impegni … in realtà, non l'ho fatto
perché temevo ciò che avrei potuto
provare nel sentire anche solo la tua voce.» ammise,
sentendosi avvampare per
quella rivelazione e nel ricordare quei giorni in cui aveva osservato,
con un
nodo alla gola, il ritmico illuminarsi del display del suo cellulare e
la
suoneria che la avvisava invano della chiamata in corso.
Genzo
sorrise. «Avevo pensato subito che quella scusa non reggeva,
visto che quando
Arimi è rientrata nel gruppo della Shiroyama mi avevi
chiamato addirittura al
J-Village per ringraziarmi. Così ho cominciato a cambiare
atteggiamento, ti ho
invitata a ballare per vedere come reagivi a un contatto più
prolungato di
quello avuto a Miho. Il corpo non mente mai e ho capito che anche tu ti
sentivi
attratta da me. E questo, in seguito, è stato sempre
più evidente.»
«Il
fatto
che io mi sentissi ancora in colpa per Gianluca non ti ha
scoraggiato?»
Scosse
la
testa. «Sapevo che non avresti respinto me, ma l'idea di
avere una storia con
un altro uomo, specie se non danneggiato dalla sua
disabilità.»
Elena
sgranò gli occhi. Genzo aveva perfettamente reso in parole
quello che l'aveva
sempre spinta a mettersi sulla difensiva.
«Ma
a
darmi la spinta decisiva, è stato il pensiero che i giorni
stavano passando e
tu saresti tornata in Italia … mi sono reso conto che
rischiavi di sparire
dalla mia vita e non volevo che succedesse. Non mi era mai
capitato.»
Erano
le
stesse sensazioni che aveva provato Hiroji quando si era innamorato di
Annie.
Anche
lui
frequentava già un'altra ragazza e anche se non era un
legame ufficiale, nelle
loro famiglie e nell'alta società si dava per scontato il
fidanzamento tra i
due e ricordava perfettamente i timori del fratello riguardo
un'accoglienza non
favorevole per la bella studentessa inglese.
E
ora
stavano insieme da dieci anni, avevano due bambini e si amavano come e
anche
più di quando li aveva visti insieme per la prima volta.
Se non si era mai realmente innamorato
di una ragazza, era
perché lui aveva in mente quell'ideale incarnato alla
perfezione da Hiroji e
Annie. Nessuna gli aveva mai dato la sensazione di poter essere "la sua
Annie". Finché non aveva cominciato a conoscere meglio Elena.
Avrebbe
voluto dirle anche questo, ma la loro storia era appena agli inizi ed
era forse
precipitoso e prematuro.
Avevano
ancora tante cose da scoprire l'uno dell'altra … un percorso
che si annunciava
intrigante e che non vedeva l'ora di intraprendere.
«Siamo
arrivati.» disse, accostando l'auto davanti al cancello.
Elena
guardò la facciata della casa di suo zio, illuminata solo
dai lampioni.
All'interno,
tutte le luci erano spente.
Esitò
qualche secondo, poi si voltò verso il ragazzo.
I
suoi
occhi erano lucidi, le labbra distese in un sorriso.
«In
bocca
al lupo per le Olimpiadi, Genzo. Cerca di non lasciar passare nemmeno
un gol.»
«Il
Giappone arriverà in finale. Tu dovrai essere a Madrid, a
vederci.»
Elena
si
sporse verso di lui e gli accarezzò piano una guancia, poi
gli posò un lieve
bacio sulle labbra.
«A
presto,
Genzo Wakabayashi.» disse prima di voltarsi, aprire la
portiera e scendere.
Udì
il
motore dell'auto ripartire nello stesso momento in cui apriva la porta
d'entrata.
Se
la
richiuse alle spalle, lasciando entrare anche Wilhelm.
Lo
prese
in braccio e lo coccolò, poi si sedette
sul divano e appoggiò un gomito
sul bracciolo, posando la testa su una mano.
Sentì
gli
occhi inumidirsi e pungere.
Prese
lo
smartphone dalla sua borsa e aprì la rubrica, cercando il
nominativo di Kumi.
Anche
lei
era reduce da una domenica trascorsa interamente con Taro.
«Non
ti
rattristare più di tanto, Elena.» la
confortò l'amica «Noi wags giapponesi ce
ne intendiamo di lunghi
periodi di lontananza. E comunque, a Orohime e Hikoboshi è
andata molto
peggio.» ironizzò, riuscendo a strapparle una
risata.
***Note***
La
festa
di Tanabata
("settima notte") è una dei cinque gosekku,
le più importanti festività del calendario
giapponese.
Celebra
il
ricongiungimento delle divinità Orohime e Hikoboshi,
rappresentanti le stelle
Vega e Altair.
Secondo
la
leggenda, i due amanti vennero separati dalla Via Lattea potendosi
incontrare
solo una volta all'anno, il settimo giorno del settimo mese del
calendario
lunisolare.
La
scelta
della data di questa festa, oltre ad avere una valenza simbolica e
sacra per
via del ripetersi del numero 7, dipende dal fatto che,
secondo gli
studiosi, è questo il periodo di massima
luminosità delle stelle; soprattutto
all'inizio di luglio si può notare anche una maggiore
vicinanza tra Vega e
Altair rispetto al resto dell'anno.
Fonte: kitsunebi.it
Le
informazioni sul Castello
Sunpu
e sul Momijiyama
Japanese Garden sono tratte da
questo sito: marcotogni.it
Kuzufu:
tipo di tessuto
realizzato intrecciando fibre di kuzu,
una pianta selvatica rampicante.
In
Italia
è nota con il nome di pueraria
montana e
la polvere ottenuta dalle sue radici è usata a scopo
terapeutico e curativo.
La
frase
con cui Genzo comincia a raccontare a Elena quando e come sono nati i
suoi
sentimenti per lei sarebbe piaciuta a Annie perché
è ispirata al dialogo tra
Elizabeth Bennet e Fitzwilliam Darcy tratto da "Orgoglio e
pregiudizio", il celeberrimo romanzo di Jane Austen, pubblicato nel
1813.
Questa
è
la trascrizione:
«Come è
cominciato?» chiese. «Posso capire che una
volta nata, la cosa abbia preso piede, ma che cosa ti ha fatto
innamorare
all'inizio?»
«Non posso fissare
né l'ora né il posto, o lo sguardo
o le parole che furono il principio del mio amore. È passato
troppo tempo. Ero
già innamorato prima di accorgermene.»
Mi tocca ringraziare il da poco
trascorso maggio
anomalo dal punto di vista atmosferico, che mi ha ispirato le scene di
questo
capitolo. :-)
Grazie come sempre a tutti i
lettori!
Sandie
|
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Capitolo 21 *** Capitolo XXI - Dura realtà ***
Capitolo XXI
Dura realtà
«Mi
avevi
promesso che avresti atteso per la mia decisione fino a dopo le
Olimpiadi.»
«Sì,
ma
non ho mai detto che non saremmo più tornati
sull'argomento.»
Yasuhiro
gli lanciò un sorriso sornione e intrecciò le
dita sul ripiano della sua
scrivania, dopo aver posato la tazza di tè da poco portata
dalla giovane
segretaria, insieme a quella che Genzo aveva davanti a sé e
non aveva ancora
toccato.
Il
giovane
si trovava da mezz'ora nella sede della Wakabayashi Corporation, la
holding di
famiglia, seduto su una delle poltrone dello studio di suo padre. Era
vestito
con la divisa ufficiale della Nazionale di calcio poiché
dopo quell'ultimo
colloquio si sarebbe diretto all'Aeroporto Internazionale di Narita, e
da lì
sarebbe partito per il Messico insieme alla squadra.
«Sono
soddisfatto di come hai lavorato all'Istituto Shutetsu. Il consiglio
direttivo
ha approvato molte tue proposte e il recente spettacolo ha avuto un
grande
successo. So che hai fatto inserire a sorpresa un numero collettivo di
ginnastica artistica ed è stata davvero un'idea
azzeccata.»
«Sì
… due
allieve dello Shutetsu fanno parte dello Shiroyama Gymnastics Club.
Insieme
alle loro compagne hanno voluto fare un omaggio alla loro
insegnante.» spiegò
asciutto, stando attento a non far trapelare nulla.
Yasuhiro
assentì, indugiando per qualche secondo su di lui con lo
sguardo.
«Tutto questo, insieme al modo in cui gestisci
le azioni che ti ho
affidato mi convince sempre più che le nostre
società hanno bisogno anche di
te, Genzo. Vorrei che ti iscrivessi all'università e che
entrassi in una delle
filiali della Wakabayashi Corporation.»
Genzo
si
accorse di aver trattenuto il fiato prima che suo padre riprendesse a
parlare.
Non
era
felice del fatto che fosse tornato a incalzarlo, ma sapeva bene come
rispondere
a quell'esortazione.
«Credevo
avessimo trovato un accordo su questo, papà.»
«La
carriera calcistica non dura tutta la vita, Genzo. Inoltre, hai
già subìto
molti infortuni e hai solo vent'anni.»
«Esatto,
ho solo vent'anni e sto per giocarmi le Olimpiadi. Ti chiedo solo un
po' di
tempo per dare una direzione alla mia carriera. Ti ricordo che
quest'estate,
dopo tanti anni, lascerò l'Amburgo e ancora non so dove
giocherò.»
«Proprio
per questo devi pensare seriamente al da farsi. Stai parlando di
qualcosa che
avverrà non tra un anno, bensì tra poco
più di un mese.»
Genzo
emise un breve sospiro e si alzò dalla sedia. «Tu
da una parte e Hoffmann
dall'altra mi state braccando, ma queste sono decisioni che vanno prese
dopo
essere state ponderate e senza avere altre questioni, peraltro
più urgenti, cui
pensare.» gli disse, avviandosi poi verso la porta.
Yasuhiro
sospirò impercettibilmente. «Quanto sei testardo.
Ma al tuo ritorno, parleremo
di questo.» lo avvertì.
«Ci vediamo tra un mese e mezzo,
papà.» disse, spingendo in basso la
maniglia.
«Ehi Genzo!» si sentì
richiamare, quando aveva già varcato l'uscio.
Il
giovane
si riaffacciò, con uno sguardo serio.
«Torna in Giappone da vincitore.»
Genzo
riprodusse la stessa occhiata e sorriso d'intesa impressi sul viso del
padre.
Ora
poteva
iniziare la sua avventura olimpica con serenità.
Suo
padre
non gli aveva accennato nulla …
Con
ogni
evidenza, Asami non aveva detto nulla ai suoi genitori.
Troppo
umiliante per lei raccontare di essere stata lasciata …
oppure, aveva
semplicemente voluto evitare contrasti tra le loro famiglie, lasciando
a lui la
responsabilità di annunciare la fine del loro fidanzamento.
Inoltre,
era segno
che sperava in una loro
riconciliazione. Del resto, l'aveva invitato a pensarci bene, lo aveva
messo in
guardia sul fatto che Elena poteva essere soltanto affascinata
dall'idea di
essere fidanzata con un calciatore ricco e famoso. Inoltre,
l'interruzione
della loro storia rischiava di compromettere i rapporti personali e
anche
lavorativi tra le due famiglie.
Gli
Ujimori l'avrebbero ritenuta un affronto, un incredibile e vergognoso
colpo di
testa.
Aveva
deciso di non rivelare niente e in quel modo avrebbe protetto la sua
storia con
Elena ancora per un po' di tempo, anche se c'era il rischio di
giustificare le
false speranze di Asami.
Avrebbe
sistemato ogni cosa, a suo tempo.
Ogni
questione con la sua famiglia, per quanto riguardava l'azienda e i
rapporti con
gli Ujimori, sarebbe stata affrontata dopo le Olimpiadi, come si era
ripromesso.
Carlo
guidava senza fretta verso l'Aeroporto Internazionale di Narita.
Elena
osservava le poche nubi candide che attraversavano il cielo limpido e
dominato
da un sole luminoso, mentre nell'abitacolo si succedevano canzoni rock
anni
Settanta, il genere preferito da suo zio.
La
sua
avventura giapponese era giunta al termine.
Gli
ultimi
giorni a Nankatsu erano trascorsi simili a quelli in cui i ragazzi
della
Nazionale erano in ritiro al J-Village. Si era tenuta costantemente
impegnata
per non lasciare spazio alla malinconia.
Nel
saggio
di fine anno le bambine avevano dimostrato di padroneggiare alla
perfezione
tutto ciò che aveva insegnato in quei mesi e Mayuko l'aveva
salutata commossa,
confessandole che se non fosse stata così decisa a tornare
in Europa, le
avrebbe proposto la riconferma nel ruolo di vice allenatrice.
Lei
l'aveva
ringraziata e le aveva assicurato che non avrebbe mai dimenticato
né lei né le
sue allieve. E neppure era escluso che si sarebbero riviste.
Arimi
ne
era convinta e le aveva fatto l'occhiolino, con una chiara allusione a
Genzo.
Il
giorno
prima aveva incontrato Annie e i piccoli Kenichi e Aiko al campo di
calcio dove
il bambino si allenava con i suoi coetanei, tra cui Daichi Oozora che
mostrava
già, con i suoi movimenti e giocate, una precoce
inclinazione. Anche Kenichi
univa al suo tiro potente e preciso un ottimo senso della posizione.
Senza
lasciarsi suggestionare dalla parentela e dalla somiglianza, le era
venuto
spontaneo considerare i tiri del piccolo Wakabayashi molto
simili a
quelli che Genzo sempre più spesso eseguiva dopo le sue
parate, per aiutare i
suoi compagni a impostare una nuova azione.
Annie
l'aveva salutata dicendosi certa che si sarebbero rincontrate spesso in
futuro,
accompagnando quelle parole con un ammicco, senza aggiungere altro.
Aveva
poi
trascorso la serata con Kumi e il suo gruppo di amiche. Nessun
abbraccio
commosso né piagnistei: avrebbe sicuramente rincontrato le
due ragazze legate a
Taro e Nitta, e comunque si sarebbero mantenute in contatto.
E
infine
era arrivato il giorno della partenza.
Aveva
coccolato a lungo Wilhelm, che sembrava aver capito che la ragazza non
sarebbe
tornata per un po' di tempo.
Quel
soggiorno aveva cambiato la sua vita per sempre e le aveva restituito
entusiasmo e fiducia nel futuro, facendole capire quali fossero i suoi
sogni.
Aveva ricominciato a credere in sé stessa e aveva anche
scoperto di poter amare
di nuovo, grazie all'incontro con Genzo.
Il
portiere era partito per il Messico due giorni prima e ora stava con
ogni
probabilità smaltendo il fuso orario. Sorrise, avvertendo
una consueta,
piacevole sensazione in mezzo al petto.
L'avrebbe
chiamato una volta arrivata a casa.
«Zio,
io
non so come ringraziarti. È stato un periodo meraviglioso,
ricorderò sempre
ogni giorno di questi mesi.»
Carlo
scosse
brevemente la testa, con un sorriso. «Era il minimo che
potessi fare per
aiutarti. Dopo sei mesi posso dire che sei tornata l'Elena che
conoscevo … anzi
no: è nata una nuova Elena, pronta ad affrontare la sua vita
da donna adulta.»
Lo abbracciò forte,
mentre gli altoparlanti
diffondevano l'annuncio della partenza del volo della Japan
Airlines
per Roma Fiumicino.
Mentre
si
avviava verso l'uscita per iniziare la procedura d'imbarco,
notò un'orda di
giornalisti e cameraman armati di telecamere, taccuini, smartphone,
registratori e microfoni, avviarsi in direzione dei passeggeri da poco
scesi da
un volo Iberia
proveniente da
Barcellona.
Fu
così
che, poco prima di partire, assistette all'arrivo in Giappone di
Tsubasa
Oozora, accompagnato dalla moglie Sanae i cui movimenti erano resi
lenti e un
po' impacciati da una pancia ormai prominente.
Il
giovane
fuoriclasse del Barcellona aveva deciso di concedersi alcuni giorni di
vacanza
nel suo Paese natale, dopo la lunga e trionfale stagione in blaugrana e prima
di raggiungere i suoi
compagni nel ritiro messicano.
Venne
avvicinato e letteralmente circondato dai cronisti e lui rispose
sorridente e
cortese alle numerose domande, senza però smettere di
avanzare verso l'uscita
dell'aeroporto, con un braccio tenuto premurosamente attorno alla vita
della
moglie. Dietro di loro, un uomo alto e robusto e una donna minuta che
sembrava
una versione matura di Sanae, lo aiutavano a trasportare i bagagli.
Una
cordiale voce femminile annunciò l'imminente atterraggio
dell'aereo della Japan
Airlines all'aeroporto di Fiumicino.
Elena
allacciò la cintura e osservò il cielo italiano
che riempiva nuovamente il suo
campo visivo.
Dopo
alcuni minuti in cui compì le procedure di sbarco, Elena
recuperò i suoi
bagagli dal nastro trasportatore e si diresse a passo rapido verso il
varco
d'uscita.
Percorsi
pochi metri, vide i suoi genitori che agitavano la mano.
Clara
cominciò subito a correrle incontro, mentre la figlia aveva
istintivamente
accelerato il passo.
Una
volta
raggiuntala, sua madre le prese il viso tra le mani.
«Elena
…
fatti guardare.» le disse. Era una bella donna alta e
slanciata, poco più che
quarantacinquenne, dai corti capelli castani tagliati a caschetto e gli
occhi
azzurri come quelli della figlia. Occhi, questi ultimi, stanchi per via
delle
molte ore di viaggio, ma così diversi da quelli che
rispecchiavano il tormento
interiore di una ragazza che aveva perso la voglia di vivere e che
pensava di
non avere più futuro proprio quando era il momento per
costruirlo.
Un
po'
indietro rimase Valerio, un uomo di media altezza dal fisico un po'
appesantito
e i capelli corti e brizzolati, ma con un volto che non dimostrava i
suoi
sessant'anni. Assistette con un sorriso commosso all'abbraccio tra
madre e
figlia … le sue due donne.
Dopo
che
si furono staccate, si avvicinò anch'egli con un sorriso
fiero e commosso, e
allargò le braccia, per poi stringerla a sé.
Fu
il
turno di Clara di assistere all'abbraccio tra il marito e la figlia.
Una
piacevole sensazione di calore le invase il petto nel guardare
nuovamente il
suo viso … Elena era adesso determinata e combattiva.
Davanti
a
quello sguardo, le si fermò quasi il cuore al pensiero di
ciò che sarebbero
stati costretti a rivelarle, una volta a casa.
Durante
il
viaggio in auto, raccontò ai genitori alcuni tra gli
aneddoti più interessanti
del suo soggiorno nel Paese del Sol Levante, e arrivata
nell'appartamento in
cui abitavano nel quartiere del Prenestino, aprì la
valigetta in cui aveva
trasportato i manufatti acquistati a Shizuoka e li appoggiò
sul tavolo, sotto
lo sguardo stupito e ammirato soprattutto di sua madre.
«Anche noi ti abbiamo preparato
una sorpresa.» annunciò Valerio,
indicandole una delle pareti del
salotto.
A
Elena
quasi si spezzò il fiato.
Avevano
appeso un quadro con alcune delle fotografie che aveva inviato, nei
mesi
precedenti, dal Giappone.
«Così se dovesse
venirti un po'
di nostalgia, ti basterà alzare gli occhi e guardare queste
foto.» le strizzò
l'occhio e lei gli sorrise con gratitudine.
Poi
si
fece seria.
Una
domanda le ronzava in mente da quando erano arrivati a casa e
riguardava una
questione che era rimasta in sospeso al tempo della sua partenza e su
cui non
aveva più ricevuto alcuna notizia.
«Allora, siete riusciti a
ripianare quella pendenza con la banca?»
chiese infine, con un po' d'apprensione.
Valerio
aggrottò le sopracciglia e scosse la testa. «No.
Abbiamo anche chiesto un
prestito, un mese fa, ma ce l'hanno negato. Non siamo in grado di
fornire
garanzie di rimborso. Troppi debiti e troppi pagamenti
arretrati.» disse,
prendendo una lettera inviata da una società di
finanziamenti da un cassetto di
un mobile e porgendogliela.
Elena
la
prese e guardò la busta su cui erano scritti gli indirizzi
del mittente e il
loro, stringendo le labbra.
«Se
non
avessi fatto quelle sciocchezze, ora non saremmo in questa
situazione.» si
lamentò Clara, rivolta al marito.
«Mamma,
papà, per favore! Non litigate.» intervenne Elena, posando la
breve lettera sul tavolo dopo averla letta. «Ho guadagnato bene alla palestra
Shiroyama e ho ancora dei soldi da parte. Possiamo usarli per pagare il
mutuo.»
«Tu
volevi
iscriverti all'università, Elena. Non vogliamo rubarti il
futuro.» replicò suo
padre.
La
ragazza
alzò le spalle. «Non importa. Mi
troverò un lavoro e così avremo un'entrata in
più. E quando avremo sistemato tutto, penserò
anche all'università.»
«Ci
dispiace, Elena. Sappiamo quanto ci tenevi.»
Scosse
la
testa con un leggero sorriso. «Non vi preoccupate.»
«No, Elena. Troveremo
un modo. Non puoi rinunciare al test alla LMU. E
poi abbiamo già avviato l'Anerkennung, non ha senso
fermare tutto.» insistette Clara.
«Per ora è
fondamentale che mi
trovi un lavoro. Poi vedremo.»
A
pranzo,
Elena non toccò quasi cibo. Fu facile far credere di essere
solamente stanca
per il fuso orario. In realtà, dall'espressione dei suoi
genitori aveva capito
che avevano semplicemente mangiato la foglia.
Andò
nella
sua stanza. Dal trolley tirò fuori il maneki
neko e uno dei pupazzi di Diddl che aveva portato con
sé anche in
Giappone e si stese sul letto.
La
sua
stanza era spaziosa e colorata: era disseminata di altri pupazzi del
suo amato
topolino e dei suoi amici, alle pareti erano appesi poster delle sue
due
ginnaste preferite Nadia Comaneci e Nastia Liukin, due quadri con
numerose
fotografie che la ritraevano bambina e adolescente con le sue compagne
della
scuola di ginnastica artistica oppure con i ragazzi del Sant'Angelo. In
alcune
immagini c'era anche Taro.
Accostata
alla parete opposta al letto, era collocata una libreria con dizionari,
testi
scolastici e numerosi libri tra cui racconti per l'infanzia e romanzi
classici
della letteratura italiana e tedesca, inglese e francese.
Sulla
scrivania era collocato un computer, un portapenne pieno di penne a
sfera nere
e rosse, matite a mine ed evidenziatori, alcuni quaderni con anelli a
spirale,
un'agenda e un blocchetto di post-it. Su una mensola accanto, uno
stereo
portatile e due porta-cd.
Il
Giappone … adesso era davvero lontano e non solo
geograficamente.
La
situazione era rimasta difficile come quando era partita, anzi era
peggiorata.
Non
ne
aveva mai parlato ai suoi amici giapponesi, non avrebbero potuto fare
nulla per
lei e non voleva dare l'idea di essere in cerca di aiuto o di
compassione.
Quando
era
in Giappone non aveva mai speso molto per sé, badando a
mettere da parte un po'
di denaro per aiutare i suoi genitori.
Le
cifre
da restituire erano troppo alte per poter ancora chiedere soldi in
prestito ai
nonni materni e a sua zia Inge. Carlo li aiutava quando poteva con
versamenti
sul loro conto, ma aveva delle spese anch'egli con la palestra. E
comunque
prima o dopo avrebbero dovuto ridare il denaro anche a loro. Dalla
parentela di
suo padre non c'era niente da aspettarsi: la nonna era vedova e viveva
con una
pensione sociale che bastava appena per provvedere a sé
stessa e i rapporti con
la zia erano ridotti a freddi e impersonali auguri in occasione delle
feste di
Natale e di Pasqua.
«E
poi non
sono mai andato a genio ai tuoi genitori. Lo so che non volevano che tu
mi
sposassi, perché ho quindici anni più di te, ho
la terza media, faccio
l'operaio e non il bancario …» udì la
voce di suo padre attraverso la parete
della stanza.
«Lascia
stare, Valerio. Non è questo che intendo. Non ci troveremmo
in questa
situazione se tu avessi gestito meglio il denaro. Avresti almeno potuto
lasciar
fare a me, se proprio non ne eri capace!»
Elena
sospirò. Pensò a Genzo, che sapeva soltanto che
suo padre era un operaio e sua
madre una commessa in un supermercato.
Delle
loro
difficoltà economiche non gli aveva accennato neppure una
sillaba.
Né
voleva
dire niente di lui ai suoi genitori, per il momento. Suo padre era un
grande
appassionato di calcio e sapeva bene chi era, e soprattutto sarebbe
stato
felice di saperla legata a un ragazzo affermato nel suo lavoro e ricco,
magari
sperando in un intervento da parte sua.
Ma
lei non
aveva intenzione di chiedere alcun contributo a Genzo.
Ricordava
bene le parole di Asami, che l'aveva accusata di aver messo gli occhi
su di lui
solo perché era un calciatore ricco e famoso.
Avrebbe
finito per darle ragione e per instillare quel dubbio anche nel ragazzo.
No,
ce
l'avrebbe fatta con le sue risorse.
Era
ormai
sera inoltrata e si stava preparando ad andare a dormire quando
sentì lo
smartphone squillare.
Non
poteva
e non voleva negarsi.
«Sei arrivata a casa?» la voce pacata e
premurosa del suo portiere le
infuse un po' di conforto.
«Sì.
Il
viaggio è stato tranquillo.»
«Ero
indeciso se chiamarti o no. In Italia devono essere le dieci di sera
… avresti
anche potuto essere già a dormire.»
«No,
stavo
per telefonarti io.» sorrise «Come va lì
a Toluca? Ti sei abituato?»
«Tra
poco
cominciamo una seduta di allenamento. Qui l'altitudine è
elevata, il clima
caldo e l'aria rarefatta. I primi giorni sono stati tremendi e mi
sentivo quasi
scoppiare. Ora però va sempre meglio. Servirà ad
aumentare la nostra capacità
di resistenza.»
«Anche Misugi? So che il suo
cuore non gli permette di fare sforzi troppo intensi e prolungati.»
«Sì, lui ha
una preparazione differenziata rispetto alla nostra, ma
reagisce molto bene. Ora giocheremo due
amichevoli: una domani con la Nuova Zelanda e l'altra fra tre giorni
con il
Messico. Kira ha convocato trentatré giocatori e dal ritiro
usciranno i
ventitré della Nazionale Olimpica.»
Elena
alzò
le spalle. «Per te non dovrebbero esserci problemi.»
«Non
bisogna mai dare niente per scontato, specie se l'allenatore
è Kozo Kira. E
ricordo bene cos'è accaduto l'ultima volta che ho dato
qualcosa per già
acquisito.» ribatté serio.
«Hai fatto vincere la tua futura
squadra?» lo punzecchiò con
tono divertito.
«Questa è una
provocazione che
non raccolgo.» rispose, ma una scintilla di
divertimento era
percepibile nella sua voce. Non poteva ancora ammetterlo, ma ci stava
pensando
e anche con attenzione.
«Va bene, tanto tra un mese al
massimo sapremo la verità.»
Anche
se
non era dentro il mondo del calcio, aveva seguito e letto abbastanza da
comprendere per quale motivo Genzo non potesse fornirle alcuna
indiscrezione.
Il
suo
agente puntava a farlo ingaggiare al massimo prezzo possibile e se
avesse
disputato una buona Olimpiade, il suo valore di mercato sarebbe
schizzato
ancora più in alto.
«Anche
tu
hai la tua prima prova importante, tra non molto.»
«Sì,
l'esame per la certificazione di lingua giapponese è tra due
settimane. Sono un
po' in pensiero per lo scritto. Mi chiedo se non ho osato troppo
scegliendo il
livello più difficile.» gli confidò,
lanciando un'occhiata ai quaderni poggiati
sulla scrivania.
«Ce
la
farai. Hai sempre comunicato con tutti noi, senza
difficoltà. Non sei mai
ricorsa al tedesco con me, o al francese o all'italiano con Misaki.
Inoltre, ho
parlato con Tokugawa quando eravamo ancora in Giappone e mi ha detto
che eri
tra i migliori allievi del suo corso. Detto da lui, è una
specie di
benedizione.»
«Davvero?»
Elena sgranò gli occhi, piacevolmente sorpresa pensando a
quell'uomo talmente
imperscrutabile da sembrare altero, e che invece l'aveva tacitamente
apprezzata.
«Vai
e non
pensare neppure per un momento di non poterci riuscire.» la
esortò.
«Grazie, Genzo. Fammi sapere
quando hai delle novità, ma sono sicura che in Spagna sarai
tu il portiere
titolare.»
La
mattina
dopo, Elena si mise a scartabellare alcuni giornali e riviste impilati
in uno
scatolone in attesa di essere smaltiti, e sull'edizione locale di un
quotidiano
che Valerio comprava abitualmente lesse un annuncio.
Una
nota
discoteca cercava bariste e cameriere per la stagione estiva.
Anche
se
la data stampata sul giornale era di una settimana prima, dovevano
esserci
ancora dei posti disponibili.
Era
già
stata tempo prima in quel locale ed era un posto rispettabile, ben
frequentato
e presente ormai da molti anni. E
si
trovava a una decina di minuti di autobus.
Il
pomeriggio stesso si presentò e chiese al proprietario e
gestore del locale se
era possibile lavorare part-time, visto che stava preparando un paio di
esami
d'ammissione.
Dopo un breve colloquio Lorenzo, un
uomo sui quarant'anni
dalla barba biondo-rossiccia ben curata, piuttosto magro ma con una
pancia sporgente
dovuta a robuste bevute di birra, decise di assumerla. Era un uomo dai
modi
spicci e non gli interessava comportarsi da amico o da figura paterna
con le
ragazze. Per lui erano soltanto delle lavoratrici alle sue dipendenze,
ma a lei
non importava, le bastava essere rispettata e ricevere regolarmente la
sua
retribuzione, come le aveva garantito.
Avrebbe
cominciato dalla sera successiva.
Incamminandosi
verso
l'uscita del locale, incrociò una donna dai lunghi riccioli
color mogano
ravvivati da mèche rosse e occhi castani da cerbiatta.
Era truccata in modo vistoso e
indossava un paio di
pantaloncini e una canottiera che sottolineavano un corpo ben modellato
su cui
spiccava un petto generoso.
La
squadrò
dalla testa ai piedi, per poi farle un sorriso complice.
«Sei
bella, lo sai?»
Elena
spalancò gli occhi e alzò un sopracciglio.
«Anche tu, ma francamente ho altri
gusti.» rispose poi, affrettandosi a passare oltre.
La
donna
scoppiò a ridere. «Ma cos'hai capito? Intendo dire
che con il tuo aspetto
potresti anche non limitarti a fare la barista o la cameriera,
part-time
oltretutto e fare invece la ragazza immagine. Guadagneresti molto di
più e se
sai anche ballare un po' …» spiegò,
seguendola e affiancandosi a lei.
«Non ho intenzione di
dimenarmi mezza nuda attorno a un
palo e farmi infilare banconote nel reggiseno o nell'elastico di un
perizoma.»
tagliò corto.
«Guarda
che qui non funziona così. Non del tutto almeno. Va bene
…» replicò alzando gli
occhi al cielo, visto che Elena non accennava a cambiare espressione
né a
fermarsi, e aveva ormai quasi raggiunto la porta. «Ho
già capito che soltanto
con le parole non ho possibilità di convincerti. Ma almeno
questa sera vieni
qui e guarda quello che faccio. Io mi chiamo Sara.»
«Elena.» concesse
infine, voltandosi verso la ragazza
mentre posava una mano sulla maniglia. «Verrò, ma
non ci sperare troppo.»
Sara
aveva
ventidue anni, anche se il trucco pesante la faceva sembrare un po'
più
vecchia.
Ma
in quel
locale era praticamente impossibile trovare ballerine sopra i
trent'anni e lei
era già considerata una "veterana".
Elena
guardò lei e le sue colleghe con attenzione e ignorando i
suoi pregiudizi, ma
non cambiò idea. Era convinta di non aver bisogno di
arrivare a esibire il
proprio corpo e regalarlo alla vista e ai commenti di uomini famelici e
volgari
e donne maligne e gelose.
Non
che
nessuno avesse tentato di allungare le mani mentre serviva ai tavoli,
ma era
ben diverso dal muovere il proprio corpo in modo provocante al suono di
musiche
allusive.
Ribadì
perciò che avrebbe fatto esclusivamente quello per cui era
stata assunta.
Continuò
così, per tre sere.
Tornò
a
casa, fece una doccia e poi contò, seduta alla sua
scrivania, i soldi
guadagnati. Fece il calcolo di quanti ne mancavano per saldare l'intero
debito.
Sospirò
scoraggiata.
Erano
ancora tanti. Troppi. C'erano un paio di bollette e un altro di tasse
arretrate
e le quote d'iscrizione per la certificazione di lingua giapponese e
per
l'università.
Chinò
la
testa e mise una mano sulla fronte, le banconote sparse sul ripiano e
le parole
di Sara che le mulinavano nella mente come un richiamo che faceva
sempre più
fatica a ignorare.
«Quanto
hai guadagnato, Elena?»
La
serata
era ormai terminata, i clienti se n'erano andati ed era quasi ora di
chiudere.
Le
comunicò la cifra che Lorenzo le aveva corrisposto in quei
primi quattro
giorni.
Sara
sorrise, come se si aspettasse esattamente quella risposta.
«Guarda
quante ne ho prese io soltanto stasera, invece.» sparse le
banconote sul
bancone e a Elena si mozzò il fiato. Erano il doppio delle
sue e di taglio
maggiore.
«Con
queste mi pago le rette dell'università, l'affitto, il vitto
e le tasse … e
così evito di pesare sulle spalle dei miei.» le
confidò.
«Lo
so che
agli occhi della gente passo per una puttana e forse anche tu l'hai
pensato.»
proseguì guardandola dritto negli occhi, ma senza rimprovero
né provocazione.
«In
realtà, molte di noi scelgono questo lavoro semplicemente
perché è più
redditizio e permette un'indipendenza economica che altri mestieri
più
"puliti" non consentono di avere.»
Per
la
prima volta vide la vera Sara, sotto la corazza di giovane donna
spavalda e un
po' impudente.
«Io vorrei aiutare i miei
genitori a ripagare i debiti e
potermi iscrivere a una prestigiosa università.»
le confessò.
Sara
annuì,
comprensiva. «Come vedi, se fai solo la cameriera non
riuscirai a guadagnare
abbastanza rapidamente. Se ti può aiutare, pensa che di
notte diventi un
personaggio che esiste solo qui e non è la persona che sei
nella vita di tutti
i giorni. In fondo si tratta di un paio di mesi. E passano in fretta,
te lo
assicuro.»
Era
in
piedi dietro a una specchiera nello stanzino in cui Sara si vestiva e
si
truccava prima di entrare sul palco.
Il
sole
filtrava attraverso le imposte lasciate aperte per mitigare il caldo di
quelle
giornate.
«Sai
ballare un po'?» le chiese, dapprima guardandola attraverso
lo specchio, per
poi alzarsi dalla sedia e mettersi di fianco a lei.
«Ho
fatto
ginnastica artistica per dieci anni.»
«Allora
non dovresti avere problemi a muoverti in modo sciolto e aggraziato. Io
prima
di cominciare ero un pezzo di legno, e guarda adesso come mi
muovo.» disse
divertita, mettendosi a ondeggiare con le gambe e il fondoschiena.
Poggiò le
mani sulle ginocchia con la malizia espressa dagli occhi e dalla piega
delle
sue labbra.
Elena
si
sentì avvampare all'idea di ripetere quei movimenti e
riprodurre quello
sguardo. Scosse la testa.
«Non
potrò
mai fare una cosa del genere.»
«Elena! Non
guadagnerai abbastanza per estinguere i debiti e per pagarti
l'università e l'affitto dell'appartamento a Monaco e
relative tasse,
limitandoti a fare la cameriera.» le
rammentò. «Anch'io ero imbarazzata
all'inizio e mi credevo incapace di farlo, cosa credi? Ma alla fine
è un lavoro
che mi permette di essere indipendente. Spesso chi mi giudica una poco
di buono
è peggiore di me.» affermò, perentoria
e orgogliosa. «Pensa ai tuoi genitori
che saranno più sereni, e a te stessa quando sarai in
Germania a costruirti il
tuo futuro. C'è un prezzo per tutto e ti assicuro che non
è nemmeno così
salato.»
«Hai
presente "Il grande sogno di Maya"? Ecco, pensa che stai per
indossare una maschera e interpretare un personaggio. E magari
chissà, potresti
incontrare anche tu un bel giovanotto ricco sfondato che si
innamorerà
perdutamente di te.» scherzò infine, strizzandole
un occhio, cercando di
alleviarle un po' il senso di disagio.
Elena
si
sforzò di sorridere. Lei lo aveva già conosciuto,
il ragazzo descritto da Sara
… e di certo non sarebbe stato felice di sapere quello che
stava per fare.
Ma
se
fosse riuscita a trasferirsi a Monaco, avrebbe potuto vivere nella
stessa città
in cui, lo sentiva, avrebbe aperto la nuova fase della sua carriera.
Sì
… lo
stava facendo anche per lui.
Mentre
si
guardava allo specchio, con addosso un costume con lustrini neri e
fucsia,
succinto e provocante, le sembrò di avere di fronte a lei
un'estranea con cui
aveva in comune soltanto il colore dei capelli e degli occhi.
Il
top era
di due taglie inferiori alla sua, per far sembrare i seni
più grandi.
La
gonna
era cortissima e lasciava scoperte le gambe per intero, lasciando
intravedere i
glutei. Sorrise leggermente: in fondo, in questo non era molto diverso
dai body
indossati nelle gare di ginnastica artistica.
Il
ventre
era interamente scoperto, ombelico compreso.
Ai
piedi,
un paio di stivaletti dello stesso colore dell'abito con orli neri e
tacchi
alti.
Ma
ciò che
la sconvolgeva di più era il trucco.
Pesante.
Vistoso.
Un
rossetto di un rosso deciso, l'ombretto dorato a sottolineare l'azzurro
dei
suoi occhi. Il mascara e il fard la facevano apparire più
vecchia di almeno
quattro anni.
Così
era
ancora più difficile riconoscere sé stessa e
più facile pensare di stare
semplicemente andando in scena a recitare una parte.
Non
era
veramente Elena Rulli, ma una ragazza che si esibiva in quel locale e
casualmente si chiamava come lei.
Esisteva
solo lì, nessuno l'avrebbe conosciuta se non il gestore, le
sue colleghe e gli
avventori del locale.
Un'estate
così, anzi poco più di due mesi … e
poi sarebbe stato solo un ricordo.
Né
i suoi
genitori, né Genzo avrebbero saputo nulla.
Avvertì
il
tocco leggero di una mano dalle unghie laccate di rosso posarsi sulla
sua
spalla.
«Sei
pronta?» la voce di Sara era poco più di un
sussurro, ma i suoi occhi erano
risoluti, come se quella domanda accettasse una sola risposta.
Elena
piegò la testa in segno d'assenso. «Ho scelto. Non
tornerò indietro.»
Uscì
dal
camerino ed entrò nella sala vera e propria, illuminata da
luci abbaglianti e
insistenti, con la musica che riempiva tutto il locale. Il palco era
lì
accanto.
Vi
salì,
insieme a Sara e ad altre tre ballerine.
***Note***
Il
JLPT (Japanese
Language Proficiency Test), è l'esame per la
certificazione di lingua
giapponese, gestito dalla Japan Foundation and Japan Educational
Exchanges and
Services.
La
certificazione prevede cinque livelli di difficoltà: da N1,
la più difficile,
che attesta la capacità di utilizzare il giapponese in tutte
le circostanze, a
N5, che attesta un livello di conoscenza basilare.
Altre informazioni qui.
In
Italia è
prevista un'unica sessione,
quella di dicembre. Per questa fanfiction mi sono concessa una piccola
licenza
inserendone una anche nel mese di luglio, peraltro prevista in altri Paesi
europei.
Un saluto a tutti.
Cambiano i luoghi e cambia
l'atmosfera.
Il Giappone è ormai
lontano ed Elena deve fare i
conti con una situazione economica difficile.
Per aiutare i suoi genitori e
per non rinunciare ai
suoi sogni fa una scelta controversa.
Da qui inizia la parte finale
della storia.
Grazie come sempre a tutti i
lettori, mi scuso per
l'assenza prolungata.
Sandie
|
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Capitolo 22 *** Capitolo XXII - L'Olimpiade ***
Capitolo XXII
L'Olimpiade
Kumi
camminava
portando una grande e colorata borsa di plastica. Era da poco uscita
dal
supermercato in cui si era recata a comprare l'occorrente per preparare
la
cena.
Passò
accanto al campo
di calcio recintato in cui si allenavano spesso insieme i bambini della
Nankatsu e della Shutetsu, agli ordini dell'ormai storico allenatore
Tadashi
Shiroyama.
Sentì
un rumore di
calci dati a un pallone, ma non udì alcuna voce.
Incuriosita,
si voltò
per vedere chi fosse impegnato in quell'allenamento solitario.
Si
avvicinò e posò la
borsa a terra.
Un
ragazzo in
maglietta e pantaloncini chiari stava correndo con un pallone tra i
piedi.
Raggiunta
la linea di
metà campo, si mise in posizione e caricò il
tiro, calciando poi con potenza.
Il
pallone sembrava
destinato a sorvolare la porta, ma improvvisamente la traiettoria
curvò verso
il basso e la sfera andò a insaccarsi in rete.
Drive shoot,
inconfondibile. Così come la
capigliatura e il modo di muoversi e di correre impresso nella sua
mente fin da
quando, ragazzina, lo seguiva negli infiniti allenamenti e partite
della
Nankatsu.
C'era
stato un periodo
in cui i suoi occhi e la sua mente erano pieni di lui.
Ora
non poteva
pensarci senza tenerezza nei confronti di quella ragazzina di tredici
anni alle
prese con la sua prima vera cotta.
Tsubasa
Oozora si
diresse verso la porta, per recuperare il pallone in fondo alla rete.
«Tsubasa
senpai!»
Il
giovane alzò la
testa e si voltò in direzione del punto da cui aveva sentito
provenire la
vivace voce femminile.
Al
di là della rete di
recinzione, una graziosa ragazza di bassa statura e dal corpo esile
agitava la
mano.
Si
avvicinò.
«Bentornato
a
Nankatsu.»
La
guardò con
un'espressione dapprima dubbiosa, ma quegli occhi vivaci e quel sorriso
erano
inconfondibili.
«Kumi?»
Lei
annuì, divertita.
Lui
sorrise di rimando
e si portò una mano dietro la nuca, il suo tipico gesto di
imbarazzo
sopravvissuto alla consacrazione a livello internazionale che lo aveva
reso
celebre in tutto il globo.
Si
diresse verso il
cancelletto e uscì dal campo.
«Avevo
riconosciuto la
tua voce, ma mi sembra strano vederti con i capelli così
lunghi.» disse,
raggiungendola.
«Già
… mi piacevano e
così li ho lasciati ricrescere.» sorrise,
inclinando il capo.
Stettero
per qualche
secondo, senza sapere che dire. Così Kumi decise che nulla
avrebbe potuto
fargli piacere come parlare del suo ennesimo successo sportivo.
«Complimenti
per la
vittoria della Liga.»
«Grazie.
Purtroppo non
è andata altrettanto bene in Champions League, ma ci
riproveremo la prossima
stagione. Sarà ancora più entusiasmante
perché ci saranno sicuramente alcuni
dei miei compagni di Nazionale.»
«Già.
Wakabayashi
interessa a molte grosse squadre e Hyuga tornerà alla
Juventus.»
«Sì,
e inoltre Aoi
tornerà all'Inter e sono sicuro che anche Misaki
giocherà in Europa.» aggiunse,
gli occhi accesi dall'entusiasmo.
«Sì,
credo anch'io. Ha
giocato uno splendido torneo di qualificazione.» rispose,
cercando di non
tradirsi.
«Mi
ha detto che spera
tu possa raggiungerlo in Spagna il prima possibile. Vuole portarti in
giro per
Barcellona.»
Kumi
lo guardò
stupita. «Ti ha raccontato di noi?»
Tsubasa
replicò con un
sorriso. «Beh, le confidenze non ve le scambiate solo voi
donne!»
Kumi
rise.
«Già,
e ci sono pur
sempre Ishizaki e gli altri. Mi sa che gli unici che si fanno gli
affari loro
sono Wakabayashi e Morisaki … sarà
perché giocano in porta.» ironizzò.
Tsubasa
ridacchiò.
«Può darsi.»
«Credevo
fossi già in
Messico. I ragazzi sono partiti due giorni fa.»
«Infatti
domani parto
anch'io. Sono tornato per accompagnare Sanae e stare un po' con
lei.»
«A
proposito, come
sta?»
«Bene.
Oggi aveva
l'appuntamento con la ginecologa ed era tranquilla. Ora dovrebbe essere
a casa.
Puoi venire a farle visita se vuoi.»
«Sì,
mi piacerebbe
molto. Non la vedo da più di un anno.»
L'insolita
passeggiata
si svolse in silenzio finché non giunsero a casa Nakazawa.
Accolti
dalla madre di
Sanae, trovarono la ragazza seduta sul divano del salotto, accanto a
Yukari.
L'ex prima manager fu dapprima sorpresa di vedere entrare Kumi, ma poi
la
salutò con un sorriso.
Kumi
ricambiò il
saluto dell'amica con affetto e un po' di commozione, nel vedere il suo
pancione di quasi otto mesi.
«CI
siamo quasi, eh?»
disse, indicandolo.
«Già.
I bambini
nasceranno durante i Giochi, pare proprio nei giorni della
finale.»
«Oh,
allora non verrai
in Spagna?»
Sanae
scosse la testa,
con un lieve sorriso.
«Anch'io
resterò in
Giappone, per starle vicina.» spiegò Yukari.
Kumi
annuì,
comprensiva.
«Tu
invece ci andrai,
a tifare per Misaki.» sorrise Sanae.
La
ragazza sgranò gli
occhi.
«Come
fai a saperlo?»
chiese, per poi rivolgere un'occhiata in tralice all'ex seconda manager.
«Io
non c'entro. Sanae
lo sapeva già.»
«Ma
se non è stata
Yukari, allora … Tsubasa?» si voltò
verso il calciatore con un'espressione
stupita. «Non ti facevo così pettegolo!»
Lui
ridacchiò,
mettendosi una mano dietro la testa. «Beh, Sanae è
mia moglie … è normale
chiacchierare insieme dei nostri più cari amici.»
Kumi
chiuse gli occhi
e fece un sorriso.
In
fin dei conti,
Tsubasa e Sanae erano tra le persone cui Taro teneva di più
… e le stavano
mostrando di approvare la loro seppure ancora acerba relazione.
«Da
una parte sono
triste perché non ci sarete. Anche Madoka non
potrà essere presente
dall'inizio, e nemmeno Elena.»
«Ci
saranno Yayoi e
Yoshiko. Anche la mamma di Ryo si è arruolata nel gruppo dei
supporter.» la
rassicurò Yukari.
«Sul
serio? Sarò
comunque in buona compagnia allora.»
«Un
momento, chi è
Elena?» intervenne Sanae, incuriosita.
«Mi
riferivo a lei
quando, nell'ultima e-mail, ti scrivevo di "novità
interessanti". È
la ragazza che ha folgorato Wakabayashi.» rispose prontamente
Yukari.
«Wakabayashi?
Ma non
si era messo con quella sua amica, Asami?» chiese guardando
Tsubasa che annuì,
non meno stupito della moglie.
Kumi
alzò le spalle.
«È una lunga storia.»
raccontò a grandi linee l'incontro con Elena e com'era
nata la storia con il portiere, omettendo ciò che l'aveva
portata a trasferirsi
in Giappone.
«Pensa
… proprio
Wakabayashi.» sorrise Sanae, sorpresa ma anche divertita da
quanto aveva appena
appreso. «Sono curiosa di conoscere questa ragazza.»
«Oh,
sono convinta che
andrete d'accordo. È una di noi.» rispose,
ripromettendosi mentalmente di
contattarla.
Elena
si affacciò al
terrazzo del suo appartamento.
L'aria
era calda e il
cielo era limpido, illuminato dal sole di un mattino ormai inoltrato.
Tornata
dentro, accese
la radio e il ventilatore, poi si recò in cucina e
aprì il frigorifero.
Sua
madre aveva fatto
una crostata con crema pasticcera, ciliegie, more e mirtilli.
Ne
tagliò una bella
fetta, poi prese un bicchiere e vi versò del succo di
melagrana.
Mise
tutto su un
vassoio insieme a un tovagliolo di carta e si spostò nel
salotto con la sua
colazione.
Sospirò.
Da
quasi due settimane
ormai, conduceva una sorta di doppia vita.
Da
quando era tornata
a Roma, passava la maggior parte delle sue giornate a casa o faceva al
massimo
qualche passeggiata nei dintorni, al mattino quasi sempre da sola
perché i suoi
genitori erano fuori per lavoro.
La
sua solitudine non
durava molto, comunque, perché tornava dalla discoteca a
tarda notte e al
mattino si svegliava più tardi rispetto a quando si trovava
in Giappone.
Fortunatamente
la
prima partita del girone, contro l'Olanda, sarebbe iniziata alle cinque
e mezza
del pomeriggio. Avrebbe potuto seguirla interamente in tv.
Il
torneo
di calcio olimpico era considerato una sorta di Mondiale giovanile ed
effettivamente vi partecipavano le Nazionali vincitrici e le migliori
classificate delle competizioni continentali.
Il
faticosissimo ritiro a Toluca, senza precedenti per
difficoltà e dispendio di
energie, era ormai un ricordo e ora la Nazionale giapponese si trovava
a
Barcellona, città diventata ormai il "regno" di Tsubasa.
In
America, avevano giocato due amichevoli con la Nuova Zelanda e il
Messico,
entrambe vittoriose, e ora si stavano preparando ad affrontare
l'Olanda, il
primo avversario nel cosiddetto "girone della morte" in cui le due
Nazionali erano state inserite con l'Argentina e la Nigeria.
In
quel
momento, si stavano sicuramente allenando.
Andò
di nuovo in
camera, dove la attendevano i suoi libri.
Stava
studiando in
modo quasi maniacale per l'esame di lingua giapponese e per quello
d'ammissione
alla LMU. Aveva ripreso in mano persino i libri di grammatica tedesca,
nonostante lo parlasse praticamente da madrelingua e avesse ottenuto,
quando
frequentava l'istituto tecnico, una certificazione con il massimo
livello di
valutazione.
Non
voleva dare nulla
per scontato.
Passò
così le due ore
successive, prima del ritorno a casa di Clara seguito da quello,
mezz'ora dopo,
di Valerio.
«Questo
pomeriggio c'è
Giappone-Olanda.» disse suo padre, mentre consultava sul
televideo la
programmazione della giornata, come faceva sempre, a pranzo terminato.
«È
una grande partita.
Il Giappone ha giocatori molto forti.» commentò
Elena.
«Sì,
so che c'è
Oozora, quello del Barcellona e il portiere è
Wakabayashi.»
«Sì.»
la sua voce
risentì lievemente del tremolio provocatole dal nome dal
portiere. «E poi ci
sono due calciatori che militano in Italia, Aoi e Hyuga: hanno entrambi
disputato un'ottima stagione in Serie C e torneranno all'Inter e alla
Juventus.
E ce ne sono altri che sicuramente verranno richiesti da grandi squadre
europee, come Taro Misaki.»
Valerio
corrugò le
sopracciglia, assumendo per un attimo un'espressione assorta.
«Misaki
… non si
chiamava così il ragazzo che hai conosciuto anni
fa?»
«Esatto,
è proprio
lui.»
«Ah,
gioca con l'Under
23 giapponese? Avevi ragione allora, quando mi raccontavi che era
bravissimo.
Ma l'hai rivisto, in Giappone?»
Elena
roteò gli occhi
e sorrise timidamente. «L'ho incrociato qualche volta, quando
tornava a
Nankatsu per fare visita a suo padre.» mentì.
Valerio
assentì senza
replicare e non le chiese altro riguardo a Taro.
Nei
mesi precedenti,
non aveva mai menzionato l'incontro con lui e con gli altri giocatori
della
Nazionale, né aveva mai parlato di nessun ragazzo in
particolare, nemmeno degli
allievi di Carlo e del maestro Shiroyama.
Non
voleva
insinuazioni né inviti velati a guardarsi intorno.
Probabilmente era stata una
precauzione eccessiva: quello che era accaduto era troppo grave
perché a
qualcuno venisse voglia di essere spiritoso o anche solo in vena di
romanticismi. A nessuno interessava che trovasse un altro ragazzo, ma
soltanto
nuovi stimoli, nuove ragioni per continuare a vivere e a progettare il
suo
futuro.
Genzo
era stato il
fattore imprevisto, una felice coincidenza del destino.
Elena
tornò in salotto
quando il collegamento con il "Camp Nou" era appena iniziato e i
giocatori e la terna arbitrale, accompagnati da bambini emozionati e
orgogliosi, si erano appena disposti in fila orizzontale.
«Certo
che l'Olanda ha
i tre fuoriquota che sono fortissimi, e poi quel Brian Cruyfford che
è un
fuoriclasse. Grazie a lui l'Ajax è arrivato in semifinale di
Champions League,
quest'anno. Il Giappone ha coraggio a schierare solo giocatori in
età. Sarà una
bella partita.» commentò Valerio, mentre la figlia
si sedeva accanto a lui, sul
divano.
Sullo
schermo
passarono uno dopo l'altro i volti dei giocatori, mentre cantavano
l'inno.
Molti
di loro erano
visibilmente emozionati, compreso Taro. Erano sul campo di uno degli
stadi più
famosi, sotto gli occhi di migliaia di spettatori, senza considerare
che
l'evento era seguito da televisioni e media di tutto il mondo.
Le
riprese indugiarono
su quelli più affermati e celebri.
Tra
questi c'era
ovviamente Genzo. Si distingueva da tutti gli altri per la sua divisa
bianca,
con un berretto dello stesso colore. Era l'unico a portarlo e questo
costituiva
la sua particolarità, oltre alla fama di portiere quasi
imbattibile di cui già godeva.
I
due capitani,
Cruyfford e Oozora, si scambiarono i gagliardetti e si spartirono le
metà campo
dopo il lancio della monetina.
Dopo
le fotografie di
rito, i calciatori si sparsero per il campo, andando a prendere le
rispettive
posizioni.
Le
telecamere
spaziavano da un giocatore all'altro.
A
un certo punto,
sullo schermo comparì Genzo mentre, in piedi fra i pali
della porta, si stava
sistemando il cappellino in testa.
La
regia lo riprese a
figura intera, per poi restringere su un bel primo piano.
Il
suo sguardo era
sempre fiero e fisso davanti a sé.
Improvvisamente,
i
suoi occhi guardarono in camera.
Il
ragazzo fece un
lieve cenno del capo toccandosi la tesa del berretto con uno dei suoi
sorrisi
obliqui, per poi riprendere la sua proverbiale espressione seria e
concentrata.
Elena
sentì il cuore
perdere un battito e il volto accaldarsi.
«Elena,
stai bene? Hai
le guance rosse e la pelle d'oca.» esclamò Valerio.
«Eh?
Sì sì tutto a
posto, non ti preoccupare … è solo un piccolo
sbalzo.» mormorò, sfregando le
braccia per riportare la pelle al suo aspetto naturale.
Quel
gesto era tutto
per lei, ne era certa … aveva voluto salutarla attraverso lo
schermo, a pochi
secondi dall'inizio della prima partita.
Avvertì
una
confortante sensazione di calore in mezzo al petto.
«Fatti valere,
Genzo.»
L'avventura
del
Giappone ai Giochi Olimpici iniziò con un'esaltante vittoria
per 4-1, ottenuta
dopo un inizio in salita, in cui Genzo aveva subìto la prima
rete di Cruyfford.
Il
centrocampista
olandese era riuscito a ingannarlo con una splendida finta.
Poi
i ragazzi avevano
saputo ribaltare il risultato, surclassando gli avversari.
Genzo
si era
riscattato ampiamente, compiendo delle parate fantastiche sullo stesso
Cruyfford e respingendo i disperati tentativi degli attaccanti olandesi.
Non
solo: aveva
diretto la difesa in modo impeccabile, confermandosi una guida solida e
sicura
per tutto il reparto.
Elena
sorrise: anche
se era Oozora a portare la fascia, il Giappone aveva di fatto due
capitani.
In
un'inquadratura,
aveva scorto Günther Hoffmann sorridere compiaciuto, in
tribuna.
Era
evidente che stava
già cominciando a pregustare l'ingente cifra che il Bayern
Monaco avrebbe
dovuto sborsare per vedere Genzo compiere quelle prodezze anche con la
casacca
bavarese.
Aveva
sofferto per
l'impossibilità di tifare ed esultare per le sue parate e
per i gol della
Nazionale, limitandosi a sorridere e a stringere i pugni.
Aveva
invidiato Kumi,
la madre di Ishizaki e le fidanzate di Misugi e Matsuyama, che si
trovavano al
"Camp Nou" e potevano dare libero sfogo alla loro gioia.
Ricordò
con nostalgia
le serate passate al "National Stadium" di Tokyo.
Ma
doveva tenere duro.
Se avesse continuato a lavorare alla discoteca, sarebbe riuscita ad
andare a
Madrid per vedere la semifinale e la finale.
Erano
passate ormai quasi due settimane da quando aveva iniziato a ballare
sul palco
di quella discoteca.
Gli
anni
di ginnastica artistica le avevano donato movenze eleganti e la
capacità di
isolarsi mentalmente, di concentrarsi solo sulla sua esibizione.
Elena
riusciva a danzare in modo sensuale, senza risultare volgare.
Udiva
gli
apprezzamenti grossolani e le grida sguaiate dei clienti che
assistevano allo
spettacolo, ma non si lasciava influenzare né deconcentrare.
Stava
interpretando un personaggio utilizzando ciò che aveva
imparato nei suoi anni
di ginnasta.
Sara
la
osservò, invidiandole suo malgrado quelle
qualità: si stava comportando
esattamente come le aveva dichiarato di voler fare.
Non
guardava i clienti, ammiccava raramente e sempre in modo accennato,
quasi
impercettibile. Puntava tutto sulle sue doti di ballerina, come a voler
mettere
in chiaro che sì, si lasciava guardare, ma nessuno poteva
toccarla.
Perché
quel diritto era già riservato a qualcun altro.
Al
termine
della serata, si diressero come sempre allo stanzino, dove si erano
già
fiondate le loro colleghe.
Sentirono
delle urla e dei rumori sordi provenire dal fondo del corridoio e si
misero a
correre per vedere cosa stesse succedendo.
Una delle ragazze che si esibivano
insieme a loro, Ilaria,
era bloccata contro il muro da una giovane cliente, che le stava
tirando i
biondi capelli tagliati a caschetto, tra grida, insulti, imprecazioni e
minacce
di spaccarle il viso.
Ilaria
si teneva la
mano sulla fronte, da cui scendeva un grosso rivolo di sangue e tentava
disperatamente di difendersi con l'altra, implorandola di smettere e
chiamando
aiuto.
«Ehi,
lasciala stare!»
gridò Elena, frapponendosi tra le due ragazze.
«Tu
levati di mezzo,
sennò distruggo il bel visino anche a te!»
gridò la sconosciuta, cercando di
avventarsi su di lei con un pugno.
Parò
prontamente il
colpo, poi le afferrò un braccio e lo strinse fino a
obbligare la giovane a
desistere.
Nel
frattempo, Sara
prese Ilaria tra le braccia per proteggerla dalla furia di quella
specie di
erinni.
«Quella
puttanella si
è messa a ballare davanti al mio ragazzo!»
sbraitò, cercando di liberarsi dalla
presa ferrea di Elena.
«Tesoro,
lei è una
ballerina e si esibisce davanti a tutti i clienti. Il tuo ragazzo
è quello che
si è messo ai piedi del palco apposta per guardarla.
Prenditela con lui!» gridò
Sara.
«Ehi,
che succede
qui?» intervenne Lorenzo, giunto nel frattempo con due
buttafuori al seguito.
Elena
spinse la
ragazza contro di loro.
I
due uomini
l'afferrarono per un braccio ciascuno e fu necessaria tutta la loro
forza
fisica per condurla fuori dal corridoio mentre continuava a dimenarsi e
a dare
in escandescenze.
«Va
tutto bene?»
chiese Lorenzo, rivolto a tutte e tre le ragazze, ma soprattutto a
Ilaria.
Al
loro cenno
affermativo, l'uomo annuì.
«Non
so se sia più
cretina la fidanzata gelosa o il ragazzo che se la porta
dietro.» disse
caustico, prima di lasciarle per tornare nella sala.
«Devo
medicarti.»
disse Elena, rivolta a Ilaria ancora allacciata a Sara. Aprì
la porta e le fece
entrare nello stanzino.
«Nel
bagno deve
esserci un kit di pronto soccorso. Vado a prenderlo.» disse
Sara, dopo aver
fatto sedere Ilaria su una sedia.
Giunse
quasi subito
con l'occorrente, ed Elena disinfettò la ferita.
«Che
destrezza!»
commentò la ballerina più esperta, mentre la
osservava passare l'unguento sulla
fronte e fermare la garza con un cerotto.
«Quando
si fa
ginnastica, si cade e ci si fa male spesso. Inoltre per un periodo ho
seguito
una squadra di calcio formata da amici, quindi ho medicato un bel po'
di
ferite.» replicò, mentre Ilaria le sorrideva e la
ringraziava.
«E
quella mossa?»
«Ho
uno zio che
pratica arti marziali e mi ha insegnato un po' di
autodifesa.»
Le
tornarono in mente
i mesi passati in Giappone, ancora vicini dal punto di vista temporale
ma che
le sembravano distanti anni luce, nel paragonare le due situazioni.
Si
affrettò a
scacciare quel pensiero. Non era tempo di lasciarsi prendere dalla
nostalgia.
«Bene,
allora finché
lavorerai qui, sarai il nostro angelo custode.» sorrise
Ilaria.
«Tu
hai un
ragazzo, non è così?» chiese Sara dopo
alcuni minuti di silenzio, mentre
finivano di struccarsi. Le altre ragazze se n'erano già
andate, compresa Ilaria
che aveva da poco chiuso la porta dietro di sé.
Elena
corrugò le sopracciglia, un po' sorpresa da quella domanda.
«Non te l'ho mai
detto.»
«L'ho
intuito. Balli con una certa sensualità, ma anche con
pudore, come se temessi
di offenderlo, in un certo senso. Devi amarlo molto.»
Elena
sorrise. «È iniziata da poco …
però tengo molto a lui. E sì, faccio fatica a
dimenticarmene quando sono sul palco. Penso che se mi vedesse, non
sarebbe
contento …» mormorò, volgendo gli occhi
verso il basso.
Sara
diede
un'alzata di spalle. «Niente di nuovo.»
«Abita
qui
a Roma?» chiese poi.
«No.
Adesso è in Spagna … per motivi di lavoro. Se va
bene, ci rimarrà per due
settimane.»
«Che
lavoro fa?» chiese, sempre più incuriosita anche
dal tono con cui Elena le
stava parlando … titubante, come se le stesse facendo una
confidenza che
avrebbe voluto tenere segreta, ma da cui traspariva anche aspettativa,
come se
si trattasse di un'esperienza importante.
«Si
occupa
di calcio, e questo lo porta a girare molto.» rispose,
cominciando ad avvertire
un senso di nervosismo.
«Fa
il
giornalista?»
Elena
abbozzò un sorriso, e Sara capì che la stava
mettendo a disagio. Annuì,
comprensiva.
«Ah
già, è
iniziata da poco. Capisco, vuoi andarci con i piedi di piombo.
D'accordo, non
ti chiederò altro. Anzi scusami, sono stata invadente con le
mie domande.»
Elena
fece
un cenno del capo. Apprezzò il fatto che avesse riconosciuto
e disapprovato la
sua stessa eccessiva curiosità.
Completamente
rivestite e struccate, salutarono Lorenzo e uscirono dalla discoteca.
La
strada
era quasi deserta, come sempre. La luna dominava il cielo notturno e
l'aria era
piacevolmente fresca.
«È
domani
che hai l'esame di giapponese, se non ricordo male. Devi riposare,
sarà meglio
muoversi.» disse Sara, sospingendo Elena gentilmente verso la
sua auto.
Si
fermò a
pochi metri dal suo palazzo, dove Elena scese e la salutò.
Si
avviò stancamente.
Sara aveva dovuto svegliarla perché, stremata, si era
addormentata sul sedile.
«Stavo
per
telefonarti. Sei tornata più tardi rispetto alle altre
sere.» la accolse Clara,
quando entrò nel loro appartamento. Era rimasta sveglia ad
aspettarla, come
sempre, fin dai tempi delle sue prime uscite con gli amici.
«Sì,
mi dispiace. C'è
stato un contrattempo. Nel locale c'era più gente e
più confusione del solito e
ho dovuto fermarmi a pulire la sala.»
Sospirò.
Un improvviso
senso di scoramento si impadronì di lei.
«Sono
stata egoista,
mamma. Se fossi rimasta qui, avrei continuato a lavorare in
quell'azienda di
import-export, avrei guadagnato di più e non ci troveremmo
tutte queste spese.»
«Non
dire sciocchezze,
Elena. Ti ricordi come passavi le giornate, lavoro a parte? Eri sempre
a casa,
non uscivi praticamente mai.»
La
giovane ripensò ai
mesi trascorsi tra l'incidente di Gianluca e la sua partenza per il
Giappone.
Sua
madre aveva
ragione.
Le
loro giornate, a un
certo punto, erano scandite da dialoghi composti dai consueti saluti
del
mattino appena alzati e della sera prima di andare a dormire, e domande
come
"Cosa vuoi per cena?", "Com'è andata al lavoro?",
"Vuoi ancora della pasta?" e relative monotone risposte, oppure
racconti sentiti in giro riguardo qualche loro conoscente, che venivano
ascoltati con indifferenza e dimenticati in fretta.
Clara
la abbracciò.
«Se stai bene tu, siamo più contenti anche noi. E
i nostri problemi economici
li risolveremo, vedrai. Stai già dando un grosso
contributo.»
Mamma
… non avrebbe
mai permesso che venisse a sapere la sua reale mansione in quel locale.
La
ringraziò e le
diede un bacio sulla guancia, poi si diresse nella sua camera da letto.
Diede
un ultimo
sguardo allo schermo del suo smartphone, su cui spiccavano le notifiche
di due
chiamate perse: una di Kumi e l'altra di Genzo.
E
un sms inviatole
venti minuti prima.
Non riesco a rintracciarti.
Spero tu abbia visto il
mio saluto prima della partita.
Fatti sentire domani, per dirmi
che hai superato il
test.
Sorrise.
Fu tentata di
digitare qualcosa in risposta, ma poi spense il cellulare.
L'avrebbe
richiamato
l'indomani, come da lui auspicato.
Aveva
anche lei il suo
piccolo torneo da vincere.
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Capitolo 23 *** Capitolo XXIII - A Madrid ***
Capitolo XXIII
A Madrid
«Ecco,
lo
vedo!» gridò Ryo, mentre la larga sagoma
rettangolare del Meliá
Maria Pita, l'albergo scelto per il
ritiro si stagliava sempre più nitida davanti a lui, a Taro
e a Tsubasa.
Avevano
passato tutta la mattinata a provare il nuovo tiro che la Golden Combi
intendeva utilizzare per battere il portiere tedesco Deuter
Müller, riuscendo a
realizzarlo dopo innumerevoli tentativi.
Avrebbero
dedicato la mattinata successiva, l'ultima prima della partita, a
perfezionarlo.
La
giornata era molto calda, il sole era alto nel cielo in cui
riecheggiavano i
gridi dei gabbiani e un vento gentile soffiava solleticando i loro
corpi
bagnati.
Da quando erano arrivati a La
Coruña, non c'era giorno che,
regolari allenamenti a parte, non avessero trascorso sulla Praia de Riazor, a
provare nuove tecniche e
rinforzare le gambe con lunghe corse sul bagnasciuga.
«Ehi
guardate! Una
sirena avanza verso di noi.» disse Ryo, indicando una
leggiadra figura
femminile che stava camminando lentamente tra i flutti.
Taro
e Tsubasa si
voltarono, ridendo.
«Se
ti sentisse Yukari
…»
«Ma
come, Misaki?
Proprio tu, dovresti sapere meglio di me che non si arrabbierebbe
affatto.» lo
punzecchiò il difensore.
Taro
lo fissò con aria
interrogativa, poi si voltò ancora, per guardare meglio la
ragazza.
Stava
ora uscendo
dall'acqua.
Non
molto alta, con un
corpo esile e armonioso coperto da un bikini blu.
Quella
figura … aveva
imparato a conoscerla molto bene negli ultimi mesi.
Kumi
si fermò davanti
a loro. I lunghi capelli bagnati appena scostati dal collo e dalle
spalle, le
gocce che scorrevano impudenti sul suo corpo, suscitando l'invidia di
Taro.
«Ehi,
ragazzi!» li chiamò, alzando
un braccio. «Ho incrociato Nitta dieci minuti
fa. Avete fatto
tutti allenamento in spiaggia?»
«Sì,
noi stavamo
provando la nostra arma segreta contro la Germania.» rispose
Ryo, con
un'espressione fiera.
«Stavate?
Capisco Taro
e Tsubasa, ma tu che c'entri, Ishizaki?»
«Grazie
per il tuo
tentativo di non farmi sentire la mancanza di Yukari.»
rispose sarcasticamente
il difensore, facendo ridere i suoi amici. «Comunque c'entro
alla grande,
perché senza di me Tsubasa e Misaki non avrebbero mai potuto
mettere a punto
questa meravigliosa tecnica.»
Gli
occhi della
ragazza si illuminarono per l'interesse. «Potete mostrarmela,
in anteprima?»
«Veramente
sono
sfiancato e ho una fame pazzesca. Non puoi pazientare fino a
domani?»
Kumi
alzò gli occhi al
cielo. «Non ti smentisci mai, Ishizaki! Ma in
fondo» diede una rapida occhiata
al suo orologio «non hai tutti i torti, sembrate sfiniti. E
poi ho scoperto che
la Nazionale tedesca alloggia nel vostro stesso albergo,
Müller potrebbe essere
nei paraggi.»
Aveva
salutato i tre
ragazzi da pochi minuti e si stava dirigendo verso l'ostello in cui
aveva preso
una stanza, lasciando che i raggi del sole le accarezzassero la pelle
ancora
umida.
Si
sentì afferrare e
cingere da dietro, in una presa salda.
Trasalì
ma si
tranquillizzò non appena vide il volto sorridente di Taro.
Gli
aveva rivolto uno
sguardo significativo prima di andarsene, un tacito invito a seguirla.
«Mi
hai spaventata.»
finse di rimproverarlo.
«Credevi
che ti avrei
davvero lasciata scappare in albergo?»
«Veramente
quello che
doveva essere in albergo per l'ora di pranzo sei tu.»
Taro
mantenne la
stretta e si abbassò un poco, per avvicinare le sue labbra
all'orecchio di
Kumi. «Prima dovevo dirti di farti trovare pronta stasera per
le otto, perché
ti porto a cena al Puerto
Deportivo.»
«Sul
serio?» gli occhi
di Kumi si illuminarono alla prospettiva di passare la serata in un
ristorante
con la vista sul mare, con le luci che si riflettevano sull'Oceano
Atlantico,
tra cui quella del faro Hércules.
Aveva
sentito parlare
così poco di La Coruña e quando l'aveva visitata,
aveva scoperto una città
molto più bella e interessante di quanto pensasse.
«Certo.
La
sera Kira ci lascia liberi di uscire, purché non rientriamo
a notte fonda.»
«Già,
pensa che bello spettacolo: Kira che sbraita contro dei ragazzi che
dormono in
piedi!» rise Kumi.
Il
ragazzo
si unì a lei nella risata e la sollevò
leggermente dalla sabbia, strappandole
un grido divertito.
Per
Taro,
gli intervalli tra un allenamento e una partita significavano
un'inattesa
vacanza insieme a Kumi. Le ore di libertà concesse da Kira
erano state
interamente sfruttate dal centrocampista per visitare le
città insieme alla sua
ragazza.
Lei
gli elencava i
posti che intendeva vedere e si aggirava per le strade, i monumenti e
le
bellezze artistiche come una bambina curiosa ed entusiasta.
Avevano
scattato una
quantità imprecisata di fotografie, che Kumi aveva
provveduto a inviare ai loro
amici rimasti in Giappone e a Elena.
In
particolare,
avrebbe voluto che la sua amica italiana fosse stata lì in
Spagna, anche per
consolidare il suo rapporto con Wakabayashi così come lei
stava facendo con
Taro.
Era
però consapevole
che l'ex ginnasta aveva valide giustificazioni per non essere
lì con loro:
stava studiando duramente per superare gli esami di ammissione alle
università
che intendeva frequentare e stava anche lavorando per guadagnare i
soldi necessari
a pagare almeno la prima retta.
A
Barcellona, i due
ragazzi avevano trascorso i momenti liberi visitando la
città, opportunamente
consigliati da Tsubasa sui posti e sui monumenti da vedere e sui
ristoranti in
cui fermarsi a mangiare.
Avevano
visitato la Sagrada
Familia e altre splendide opere di
Antoni Gaudì, come Park
Güell e Casa
Battló.
Avevano
fatto
un'immancabile passeggiata sulla Rambla,
per poi ammirare alcune tra le altre splendide cattedrali.
Prima
di lasciare la
bellissima città catalana, Kumi aveva bevuto un sorso
d'acqua alla Fontana di
Canaletes e quasi obbligato Taro a fare lo
stesso, perché aveva letto in una guida che chi lo avesse
fatto sarebbe tornato
a Barcellona.
«Per
te, potrebbe
significare giocare nella Liga o in Champions League!»
Genzo
sentì la
tensione sciogliersi mentre, dal pullman della Nazionale, vedeva
stagliarsi la
sagoma dello stadio "Riazor".
In
tutte le tappe
della loro avventura olimpica, aveva guardato Misaki, Misugi, Matsuyama
e gli
altri giocatori in dolce compagnia con invidia.
Non
avrebbe mai
pensato potesse capitare proprio a lui.
Con
Tsubasa e Ishizaki
formava un insolito terzetto di "scapoli loro malgrado".
In
compenso, aveva
notato spesso Hyuga smanettare con il suo smartphone. Era evidente che
cercasse
di dissimulare, ma i sorrisi che di tanto in tanto gli sfuggivano
tradivano il
fatto che si stesse tenendo assiduamente in contatto con una ragazza
… l'ormai
famosa Maki Akamine, emergente giocatrice di softball anche lei a
caccia di una
medaglia alle Olimpiadi, un nome che Sawada sussurrava per evitare la
furia del
suo schivo ex capitano.
Quando
scese, accolto
come gli altri ragazzi da una folla urlante ed euforica, una giovane e
spigliata giornalista tedesca gli si avvicinò impugnando un
microfono e
sfoderando un sorriso malizioso.
La
conosceva: seguiva
la Bundesliga per Sky
Sport Deutschland
e l'aveva intervistato numerose volte.
«Genzo,
abbiamo notato
che prima del fischio d'inizio guardi in camera, sorridi e ti tocchi la
tesa
del berretto. Viene da pensare che si tratti di un saluto …
è per caso rivolto
a una persona speciale?»
«L'hai
detto tu.»
«Io
penso si tratti di
una lei.» lo incalzò la donna.
«Tifa
per il Giappone
nelle prossime partite, così forse lo scoprirai.»
replicò con un sorriso
enigmatico che per un attimo fece vacillare persino la disinvolta
reporter e
permise a lui di allontanarsi.
Karl Heinz Schneider
infilò la sua maglia numero 11 e la fascia da capitano e si
sedette sulla panca
dello spogliatoio della Nazionale tedesca, in attesa che tutti i suoi
compagni
fossero pronti.
Ripensò alla
conversazione avuta con il suo procuratore, lo stesso di
Wakabayashi, che era passato a fargli visita al Meliá Maria Pita.
Era
certo
che avesse parlato anche con il portiere e lui non aveva saputo
resistere alla
tentazione di estrapolargli qualche indiscrezione.
«Ascoltami,
Günther … com'è la situazione, con
Wakabayashi? So che sei perfino andato a
casa sua in Giappone, lo scorso maggio. Avrete parlato anche del suo
futuro.»
«Naturalmente.»
«E
non
sei riuscito a carpirgli niente?»
«Genzo
mi ha sempre detto di essere concentrato soprattutto sulle Olimpiadi,
ed è
vero. In questo momento, il suo obiettivo di conquistare la medaglia
d'oro
occupa la sua mente. Non significa che non stia pensando al dopo, ma la
sua
priorità è la Nazionale.»
«Bene,
allora farò in modo di costringerlo a scegliere presto la
sua prossima squadra
di club. Lo batterò, e la Germania eliminerà il
Giappone. E lui verrà al
Bayern.»
«Stai
attento, Genzo è migliorato moltissimo in questi mesi e lo
si è visto anche nel
girone eliminatorio. Sarebbe un peccato se il suo torneo si
interrompesse
proprio adesso: incontrare squadre di spessore ha fatto raddoppiare il
suo
valore di mercato e chissà quanto ancora potrebbe lievitare
se dovesse
confermarsi anche contro la Germania, la Spagna e la squadra che
arriverà in
finale.»
«Allora
ci sei tu dietro tutto questo … sei tu che hai suggerito a
Wakabayashi di
tenere un atteggiamento ambiguo.»
«Wakabayashi
non è tipo da prendere ordini sulla condotta da tenere con
la stampa o con
chicchessia.» replicò il procuratore. «E
se il Bayern vuole Genzo, dovrà
sborsare molti soldi. Sai meglio di me che non è un portiere
qualsiasi,
altrimenti non insisteresti così tanto con lui e con la
società.»
«Ed
è
tuo interesse far aumentare quanto più possibile il suo
valore.»
«Ovvio!
È da qui che si vede la bravura di un procuratore.»
«E
sei
disposto anche a tifare contro la Nazionale del tuo Paese pur di cavare
quanti
più soldi possibile da questa operazione?»
Günther diede un'alzata di
spalle. «Diciamo che avrò
un ottimo premio di consolazione.»
Karl
sogghignò e scosse brevemente la testa. «Comunque
ho più di un buon motivo per
battere il Giappone. La tua gallina dalle uova d'oro mi ha detto che se
vinco
io, verrà al Bayern, ma se vince lui, dovrò
ballare nudo quel tormentone
giapponese … la "PPAP".»
Günther
sgranò gli occhi, poi scoppiò a ridere di gusto.
«Addirittura
… ormai conosco il suo sprezzante senso dell'umorismo, ma
questa le supera
tutte!»
«Credo
però di poterti tranquillizzare, Karl: ho come l'impressione
che la scommessa
potreste perderla - o vincerla - tutti e due.»
Il
ragazzo lo guardò con aria scettica.
«Com'è possibile? Il turno lo passa una
sola squadra.»
Günther
liquidò quell'obiezione con un gesto della mano.
«Dai tempo al tempo. Alla fine
Genzo-Bayern Monaco si farà. Ma la spinta decisiva non
verrà da me, né
tantomeno da te.» gli rivelò, sornione.
L'attaccante
lo guardò con aria interrogativa. «E da chi,
allora?»
«Te
lo
rivelerò a tempo debito. È qualcosa che non ti
aspetteresti da uno come
Wakabayashi.» disse, strizzandogli un occhio.
Karl
fece
una smorfia. A quanto pareva, il periodo passato nel suo Giappone aveva
reso il
SGGK una fucina di sorprese. E a dar retta a Hoffmann, c'era una
ragione
misteriosa che prometteva di spingere il portiere ad accettare il
trasferimento
al Bayern Monaco, a completamento di quella folle scommessa che avrebbe
rischiato di assestare un duro colpo al suo amor proprio!
«Ehi Schneider! Ti vedo teso.» lo
punzecchiò Kaltz, in piedi accanto a lui.
«Per me le sfide contro
Wakabayashi hanno sempre un sapore speciale, lo sai.»
«Soprattutto
da quando ti sei messo in testa di farlo ingaggiare dal
Bayern.»
«Perché
voglio diventare il calciatore più forte del mondo, e per
farlo devo giocare
nella squadra più forte del mondo. Con Wakabayashi in porta,
il Bayern non avrà
più punti deboli. E poiché lui è
ostinato quanto me, l'unico modo per
convincerlo definitivamente è batterlo.»
affermò, alzandosi e avvicinandosi
alla porta.
I
giocatori del Giappone e della Germania Under 23 si schierarono sul
terreno
dello stadio "Riazor".
L'arbitro
fischiò l'inizio della gara.
La
vincente avrebbe incontrato in semifinale i padroni di casa della
Spagna, che
si erano imposti per 6-2 contro il Messico, dopo aver recuperato e
ribaltato
uno svantaggio di due reti.
La
Germania aveva superato il primo turno come seconda del suo girone,
dopo lo
spettacolare pareggio contro il Brasile; il Giappone si era invece
qualificato
concludendo il girone al primo posto a punteggio pieno.
Contro
l'Argentina, l'altra squadra qualificata, aveva disputato un'altra
partita
sofferta e bellissima. Juan Diaz aveva disputato una gara degna della
sua nomea
di genio del calcio, e aveva segnato due reti contro Genzo.
La
prima
era stata meravigliosa, l'altra invece irregolare, segnata con una
mano, ma
convalidata poiché sia l'arbitro sia il guardalinee avevano
avuto la visuale
coperta e perciò, nel dubbio e come da regolamento, avevano
assegnato la rete.
Ma
Tsubasa, Nitta e infine Misaki avevano provveduto a rovesciare il
risultato.
Contro
la
Nigeria invece, era stato più facile del previsto: 3-0
grazie a una tripletta
di Kojiro Hyuga, e un dominio durato per tutti i novanta minuti.
Sembrava
proprio che chi volesse segnare contro il SGGK dovesse inventare, nel
bene e
nel male, delle soluzioni inaudite. Un portiere della sua bravura
metteva alla
prova le capacità dei giocatori che lo affrontavano.
Karl
Heinz
Schneider era l'unico che aveva sfidato e battuto Genzo più
volte, l'unico che
potesse definirsi sua "bestia nera".
Il
più
temuto, ma anche quello che conosceva meglio.
Si
erano
incontrati quasi dieci anni prima, e da allora erano stati compagni di
squadra
e rivali in allenamento, poi avversari in Nazionale e in Bundesliga.
Si
affrontavano per la prima volta dopo la partita Bayern-Amburgo.
Entrambi
erano migliorati ulteriormente in quei mesi.
Genzo
prometteva di dimostrarsi forte come allora, ma più
affidabile. Non avrebbe
messo a repentaglio la partita cedendo a un colpo di testa.
Schneider
tentò subito di segnargli con una spettacolare rovesciata.
Genzo
uscì
e bloccò la sfera con una solidità tale che Karl
cadde rovinosamente a terra.
Con
i
tentativi successivi non andò meglio. I suoi collaudatissimi
Fire shot
si infransero regolarmente contro il
muro eretto dal SGGK.
Il
Kaiser si
rialzò e si passò un braccio sul
volto madido di sudore, furioso.
La
difesa
giapponese era predisposta in modo impeccabile: Genzo stava impartendo
delle
direttive perfette ai suoi compagni, che gli obbedivano con
incrollabile
fiducia.
La
stessa
che lui riponeva in loro.
Stava
raccogliendo i frutti degli allenamenti sostenuti in Giappone e in
Messico.
Non
ricordava di aver mai faticato tanto e si era preparato con una
precisione
anche superiore a quella, già maniacale, con cui si era
sempre allenato in
Germania.
Aveva
dovuto abituarsi all'aria rarefatta, a respirare in modo diverso. Aveva
dato
ulteriore resistenza al suo corpo e migliorato la sua
capacità di
concentrazione. L'allenamento di kickboxing gli era stato di enorme
aiuto,
perché aveva affinato ulteriormente la sua attenzione, i
suoi riflessi e la sua
reattività.
Non
lo
stava solo battendo nella loro sfida personale, lo stava decisamente
umiliando.
Nonostante
ciò, il primo tempo si svolse all'insegna dell'equilibrio.
Genzo
Wakabayashi e Deuter Müller, pur infortunato alla mano e alla
spalla sinistra,
avevano neutralizzato tutti i tiri dei rispettivi avversari.
Il
portiere giapponese stava praticamente tenendo in scacco il
più forte
centravanti europeo, ma anche il tedesco si era opposto con efficacia
ai
tentativi dei nipponici, da Tsubasa a Misaki, a Hyuga.
Nel
secondo tempo la partita cambiò.
Tsubasa
e
Misaki sbloccarono il risultato dopo dieci minuti grazie alla loro
nuova
eccezionale tecnica, che spiazzò Müller.
Il
portiere subì poi un altro gol: un potentissimo tiro di
Hyuga, su rigore.
Il
dolore
alla spalla e alla mano si stava facendo sentire e stava
progressivamente
limitando la sua capacità di respingere e trattenere il
pallone.
Genzo
dal
canto suo, era in forma perfetta e aveva reso la sua porta una fortezza
impenetrabile.
Il
Giappone era in vantaggio di due gol, ora bisognava pensare a gestire e
proteggere il risultato, anche perché la Germania stava
attaccando a tutto
spiano.
Schneider,
Goethe, Teigerbran, Schester, Margus, con Kaltz a imbeccarli e a guastare le iniziative dei giapponesi. Un assedio che Genzo respinse a
ogni
tentativo, ogni volta più potente e insidioso, aumentando la
rabbia e la
frustrazione degli avversari.
Poi,
a
dieci minuti dalla fine, un lampo di speranza accese gli animi dei
tifosi della
Mannschaft.
Schester
deviò un poderoso tiro di Teigerbran, facendo scattare in
avanti Schneider.
L'attaccante
colpì di destro, con tutta la forza che aveva in corpo.
Era
un'occasione irripetibile … Wakabayashi era fuori posizione
perché ingannato
proprio dall'inserimento di Schester.
Genzo
si
oppose ancora una volta con successo, riuscendo però
soltanto a respingere il
tiro.
Si
lanciò
sul pallone prima che lo raggiungesse il capitano tedesco, che stava
arrivando, velocissimo.
Ma
Genzo
riuscì ad anticiparlo di quel tanto che bastava e
bloccò la sfera con entrambe
le mani.
Karl
non
riuscì a saltare in tempo per evitare l'impatto e il suo piede
finì sulla spalla di Genzo, lacerandogli il tessuto della
maglia e anche quello
muscolare. Il portiere emise un grido e digrignò i denti,
stringendo le dita
attorno al pallone per evitare che gli sfuggisse dalle mani.
L'arbitro
fischiò per interrompere il gioco.
Lo
staff
medico entrò in campo, per valutare le condizioni del
portiere nipponico.
Wakashimazu
era stato sostituito nel corso della partita, quindi l'unico portiere
disponibile era rimasto Morisaki.
«Wakabayashi,
forse è meglio procedere alla sostituzione.» disse
il dottor Takeda.
Genzo
si
mise lentamente a sedere, e scosse la testa. «No, mancano
pochi minuti.
Concluderò la partita.» replicò, mentre
uno degli infermieri cominciava a
pulirgli la ferita sulla spalla.
«Sei
più
ostinato che prudente, Wakabayashi.» lo rimproverò
il medico.
Genzo
chiuse gli occhi e fece una smorfia. «Conosco i calciatori
tedeschi quanto lo
stesso Müller. Ho grande stima di Morisaki, ma nessuno
è più adatto di me per
fermarli.»
«E
va
bene. Ma non forzare troppo. Ci sono le due partite più
importanti da giocare.»
Genzo
assentì con il capo e attese che il medico terminasse di
fargli la fasciatura.
Müller
stava giocando con una spalla e una mano infortunate, lui non doveva e
non
voleva essere da meno. Anche se le sue fibre muscolari erano in fiamme.
Per
fortuna mancavano pochi minuti. E con essi si riducevano le
possibilità di
segnare e riequilibrare il risultato. La sconfitta prendeva una forma
sempre
più consistente davanti agli occhi di Karl Heinz Schneider.
Genzo
infilò con fatica il braccio destro nella corrispondente
manica della camicia,
trattenendo una smorfia.
Si
trovava
in infermeria, dove era stato da poco medicato.
La
porta
si socchiuse e Karl fece capolino con la testa.
«Ti
disturbo, Wakabayashi?»
Il
portiere gli rivolse un sorriso ironico, mentre cominciava ad
abbottonarsi la
camicia. «Andiamo, entra. Questa ostentazione di buone
maniere non è da te.»
Karl
sorrise di rimando ed entrò nella stanza. «Ehi,
non sono un santo ma nemmeno un
troglodita. Come va la tua spalla?» gli chiese fermandosi a
pochi passi da lui,
con le mani nelle tasche dei pantaloni della divisa ufficiale.
«Il
medico
mi ha appena fatto una fasciatura. Guarirò in tempo per la
semifinale.»
Karl
distese i due lati delle labbra. «Già
…»
«Sembra
che abbia vinto io la scommessa.»
«Io
continuo a credere che tu debba essere il prossimo portiere del Bayern,
Wakabayashi. E a quanto pare, non sono l'unico a pensarla
così.» affermò, con
aria saputa.
«Tu
come
lo sai?»
«Me
l'ha
detto un uccellino di nome Günther.»
«Chiamalo
uccellino … quello è un falco.»
E
lo era
davvero. In quella sessione di calciomercato aveva concluso un paio di
trattative difficili, riguardanti due tra i più apprezzati
giocatori della
Bundesliga e della Premier League. Si stava confermando come uno dei
più bravi
e abili procuratori a livello europeo, scaltro ma anche estremamente
competente
poiché era un fine conoscitore del mondo del calcio. Non per
nulla era figlio
di un ex importante dirigente della Deutscher
Fußball-Bund e dell'UEFA.
Incontrava
quotidianamente colleghi, dirigenti, giornalisti e aveva promesso che
al
termine delle Olimpiadi avrebbero saputo quale sarebbe stata la nuova
destinazione del portiere, considerato il terzo grande affare
dell'estate.
«Pensiamo
a cose più concrete: dobbiamo organizzare tempo e luogo del
tuo numero di
danza.» disse il portiere, sviando il discorso.
«Lo
farò
se verrai al Bayern.»
Genzo
spalancò gli occhi. «Ehi, non credere di
ricattarmi.»
«Cerca
di
capire Wakabayashi, sono troppo giovane per perdere la mia
dignità in questo
modo.»
«Questi
sono gli accordi.» ribatté, senza scomporsi.
«Allora
usiamo un velo e una luce che proietti la mia ombra. Sarò
nudo comunque.»
insistette Karl, allargando le braccia.
Genzo
rise. «Vederti così in imbarazzo è
qualcosa di impagabile, Schneider.»
«Baka.»
sbottò l'attaccante, rispolverando quel
poco di giapponese che il suo stesso ex compagno di squadra gli aveva
insegnato, ai tempi dell'Amburgo.
Genzo
alzò
un sopracciglio, guardandolo interdetto.
Ma
fu solo
per pochi istanti, prima che entrambi scoppiassero a ridere.
Elena
rilesse per l'ennesima volta la missiva con cui la Japan Foundation le
comunicava di aver superato il JLPT con un punteggio molto alto,
più di quanto
si fosse aspettata, anche se sapeva di aver svolto un buon test.
Quella
giornata le aveva portato diversi motivi per sorridere.
Sull'applicazione
e-mail del suo smartphone era arrivato un messaggio di Kumi, che le
comunicava
che Taro e Genzo avevano prenotato i posti per loro, per la semifinale
e finale
olimpica e avrebbero ritirato i biglietti allo stadio. In tribuna. I
posti migliori
nel mitico "Santiago Bernabéu". Si rammaricava che non
avesse fatto
parte della comitiva fin dall'inizio e la informava degli sguardi di
invidia di
Wakabayashi, anche se l'orgoglioso portiere non lo avrebbe mai ammesso.
Lei
le
aveva risposto assicurando la sua presenza.
Aveva
messo da parte soldi a sufficienza per il viaggio e la permanenza nella
capitale spagnola. L'amica aveva già provveduto a prenotarle
una stanza
nell'hotel dove alloggiava insieme a parte del gruppo dei supporter.
Sorrise.
Tra pochi giorni avrebbe nuovamente respirato il clima dei mesi
trascorsi in
Giappone.
Non
fu difficile
spiegare l'invito ai suoi genitori: aveva parlato loro di Kumi e delle
altre
amicizie fatte durante il suo soggiorno.
E
per loro qualunque
cosa dimostrasse l'inizio di una nuova vita per la loro amata figlia,
era da
guardare con favore.
Aveva
tanto invidiato Kumi, Yayoi e Yoshiko, non tanto perché
stavano praticamente
trascorrendo una vacanza in alcune tra le città
più belle della Spagna, ma
soprattutto perché erano al fianco dei loro fidanzati e
seguivano le loro gesta
dagli spalti.
Lei
dal
canto suo, aveva continuato il suo lavoro in discoteca.
Di
serata
in serata, aveva guadagnato una somma cospicua. Fortunatamente non
erano più
accaduti episodi come quello successo a Ilaria. Quest'ultima e Sara
erano
diventate sue buone amiche ed era il lato positivo di quell'esperienza
che per
il resto, non vedeva l'ora di concludere, pronta ad affrontare le sfide
che le
stava mettendo davanti il suo futuro.
Ma
ora più
di ogni altra cosa, voleva riabbracciare Genzo.
Seguire
le sue
Olimpiadi era stato al contempo esaltante ma le aveva anche provocato
un senso
di frustrazione, per non poter essere con
lui.
Lo
aveva
visto ergersi imponente davanti a Juan Diaz, come un muro.
Aveva
subìto due gol, il primo imprendibile per qualunque portiere
e il secondo messo
a segno con una scorrettezza.
Taro
e
Tsubasa avevano dimostrato di avere abilità tecniche non
inferiori a quelli del
genio argentino e del suo partner d'attacco Alan Pascual. Le loro
giocate,
oltre ad aver propiziato le loro reti, avevano permesso anche a Nitta
di
segnare contro la fortissima Albiceleste.
L'ultima
partita del girone, contro la Nigeria, era stata poco più di
una formalità. La
Nazionale africana era stata battuta con un sonante 3-0, grazie alla
tripletta
di Kojiro Hyuga.
E
infine,
la bellissima vittoria contro la Germania, una partita perfetta che
aveva
rischiato di essere compromessa dall'infortunio alla spalla nei minuti
finali.
Era
quasi
saltata sul divano quando aveva visto i tacchetti di Schneider
calpestare la
spalla del portiere.
Aveva
seguito con angoscia i minuti in cui gli erano state prestate le cure e
quelli
successivi, in cui gli assalti alla sua porta si erano moltiplicati.
Con
grande
tenacia e l'aiuto dei suoi compagni, Genzo era riuscito a mantenere la
sua
porta inviolata.
Era
uscito
dal campo tenendosi la spalla, con le labbra strette per il dolore e ai
tifosi
aveva rivolto solo un breve saluto con il braccio alzato a
metà prima di
sparire negli spogliatoi, accompagnato dal medico.
Aveva
atteso un'ora dal termine della gara, per poi telefonargli e chiedergli
notizie
sul suo infortunio e lui le aveva assicurato che avrebbe giocato le due
partite
rimanenti anche in caso di recupero incompleto.
E
non
c'erano dubbi che l'avrebbe fatto: in fondo, era già
accaduto e sempre aveva
mostrato la sua affidabilità.
L'albergo
in cui alloggiava la Nazionale giapponese si trovava a poca distanza
dal campo
in cui si allenavano e dal quartiere in cui era ubicato lo stadio
"Santiago Bernabéu".
Giunta
all'Eurostars Gran
Madrid, non trovò né Kumi,
né
la signora Ishizaki, né le altre ragazze.
Come
aveva
sperato: prima di tutto, voleva rivedere Genzo e a quello scopo non
aveva
comunicato a nessuno l'orario del suo volo.
Il
facchino si congedò dopo aver portato il suo trolley nella
camera.
Si
diede
una breve rassettata e uscì.
Chiamò
un
taxi e diede all'autista l'indirizzo dell'albergo in cui alloggiava la
Nazionale giapponese, fattole avere da Kumi.
Varcate
le
porte automatiche dell'Eurostars
Madrid Tower,
aveva subito scorto una figura conosciuta attraversare l'ampia e
lussuosa hall.
Andò
rapidamente incontro all'uomo dai capelli grigi e dagli occhiali scuri
che si
era accorto della sua presenza e le stava già rivolgendo un
sorriso, facendole
capire di averla riconosciuta.
«Buongiorno,
Mikami-san.»
«Buongiorno,
Elena. Sei arrivata oggi?»
«Sì
… ho
appena sistemato i miei bagagli in albergo. Volevo salutare Genzo, Taro
e gli
altri ragazzi.»
«Sono
tutti all'allenamento.» disse, osservando l'espressione di
Elena che oscillava
tra il deluso e il perplesso. «Genzo deve invece osservare
una giornata di
riposo ed è rimasto in camera.»
Gli
occhi
della ragazza si illuminarono. «Posso vederlo?»
Mikami
annuì, divertito. «Certo. La sua stanza
è la 215.»
Elena
arrossì leggermente, rendendosi conto di non essere riuscita
a dissimulare.
Ma
Mikami
non sembrava sorpreso. Eppure doveva essere stato al corrente della
precedente
relazione con Asami.
Poi
ci
pensò. In fin dei conti, Genzo considerava il suo ex
allenatore personale come
una sorta di padre putativo, quindi poteva benissimo avergli parlato di
lei.
E
Mikami,
a quanto pare, non aveva nulla in contrario a che si frequentassero.
Lo
ringraziò e si avviò rapidamente sulle scale.
Arrivata
davanti alla porta della stanza, la trovò socchiusa. Lui o
il suo compagno di
stanza dovevano essersi scordati di chiuderla.
Esitò.
Era
indecisa se bussare o se fargli invece una sorpresa …
Aprì
piano
la porta.
Lo
scorse
mentre era seduto alla scrivania. Stava scrivendo qualcosa …
Era
concentrato e non aveva sentito nulla.
La
scrivania era accostata al muro accanto alla finestra, quindi le stava
dando le
spalle.
Avanzò
lentamente nella stanza, con passi leggeri e fluidi.
Ciò
le
rese più facile giungere dietro di lui senza che si
accorgesse di nulla.
O
quasi,
perché Genzo posò la penna e richiuse l'agenda su
cui era stato chino fino a un
secondo prima e scostò la sedia all'indietro.
Elena
si
arrestò, e lui si alzò e si voltò
subito dopo.
Sgranò
gli
occhi.
«Elena.»
Le
sue
iridi diventarono più grandi e luminose e alla ragazza si
spezzò il respiro.
Abbassò
le
spalle e gli rivolse quel sorriso da monella che gli era tanto mancato.
Le
andò
incontro e lei fece altrettanto, annullando in pochi passi la distanza
che li
divideva.
Lui
fu un
secondo più rapido ad afferrarle i fianchi e attirarla a
sé, e lei gli circondò
subito il collo con le braccia.
Le
loro
bocche si incontrarono e si fusero in un contatto che era mancato per
troppo
tempo.
Le
cinse
la schiena con le braccia e avvertì le sue forme esili
plasmarsi contro il suo
torace.
Quella
sensazione di sicurezza, di benessere, la pervase di nuovo.
A
Genzo
parve di aver appena colmato un vuoto.
Le
sfiorò
la tempia con le labbra, mentre riprendevano fiato.
Dalla
sera
in cui si erano salutati prima della partenza di lui per il pre-ritiro
al
J-Village e per tutto il tempo in cui era stata a Roma, aveva
desiderato
quell'abbraccio. Ogni sera si era avvolta tra le sottili lenzuola di
lino del
suo letto per avere la sensazione delle braccia di Genzo attorno a
sé.
Adesso
era, finalmente, reale.
«Sono
praticamente appena arrivata.» gli spiegò
«Ho lasciato i miei bagagli in
albergo e sono venuta qui. Volevo rivederti e volevo sapere come
stavi.» disse,
sfiorandogli la spalla infortunata.
«A
quanto
pare, il maneki neko
non fa appieno il
suo dovere.» aggiunse, lanciando uno sguardo alla statuetta
rossa posta sulla
scrivania. «Ti fa molto male?»
Genzo
scosse la testa, con un lieve sorriso. «Come ti ho detto,
è solo una
lussazione. Sarò in campo per la semifinale. Voglio
neutralizzare Michael.»
Il
giovanissimo spagnolo, vera rivelazione del torneo: sconosciuto fino a
pochi
mesi prima, era diventato il giocatore chiave della Nazionale di casa.
Proprio
perché sapeva così poco su di lui, Genzo lo
considerava l'avversario più
difficile da affrontare.
Elena
sorrise, con uno sguardo sicuro. «Avrà del filo da
torcere. Ho visto tutte le
partite … si vedono chiaramente i progressi dovuti ai tuoi
allenamenti di
kickboxing. Non solo perché giochi ancora meglio con i
piedi: sei anche più
reattivo, i tuoi riflessi sono ancora più pronti. E ho
l'impressione che i tuoi
avversari debbano sempre inventarsi qualcosa di incredibile per
segnarti una
rete … arrivando anche a giocare sporco, oppure a sfruttare
un tuo infortunio,
come ha fatto Schneider.»
«Non
riuscendoci nemmeno così.» sogghignò.
«Già.»
rise lei, di rimando.
«Lui
ormai
non ha più segreti, per me.»
«Allora
a
questo punto, tanto vale averlo come compagno di squadra,
no?» replicò lei,
prontamente.
Genzo
chiuse gli occhi e tirò le labbra da un lato. «Se
non ti conoscessi, penserei
che sei una spia assoldata dal Bayern per convincermi a
trasferirmi.»
«Purtroppo
no, ho soltanto visto qualche partita allo stadio. Ma se davvero ci
riuscissi
potrei chiedere un piccolo compenso.» ironizzò,
strappandogli una breve risata.
«Sei
stanca?» chiese dopo alcuni istanti, accarezzandole piano lo
zigomo e la
guancia.
«Un
po'.»
mormorò con un leggero sorriso, avvicinando il volto.
La
baciò
di nuovo.
«Ti
porto
a bere qualcosa. In questo hotel c'è un bar con una
terrazza. La vista sulla
città è splendida.»
L'aria
era
quella mite del tardo pomeriggio, il sole illuminava incontrastato il
cielo.
Elena
guardò il panorama. Era proprio come le aveva detto Genzo:
Madrid sembrava
stendersi sotto i suoi occhi e non vedeva l'ora di poterla visitare.
Parlarono
liberamente del mese trascorso dal loro ultimo incontro in Giappone,
come non
avevano potuto fare nelle telefonate e nei messaggi scambiati via
e-mail.
Gli
raccontò del suo lavoro nella discoteca. Non gli disse tutta
la verità
ovviamente, solo che stava guadagnando qualche soldo facendo la
cameriera, che
era poi l'impiego per cui si era originariamente presentata.
Non
aveva
alcuna intenzione di rovinare quei momenti raccontandogli cose di cui
sarebbe
venuto a conoscenza soltanto se gli fossero state riferite da lei stessa.
«E
così
Schneider è tornato alla carica?» gli chiese poi,
non desiderando più
soffermarsi su quell'argomento.
«Già
… a
La Coruña le nostre Nazionali hanno alloggiato nello stesso
albergo, quindi ci
incontravamo spesso.»
«E
tu cosa
gli hai risposto?»
«Sono
sempre rimasto sul vago. Mi ha detto che se passo al Bayern, posso
affrontare
Tsubasa in Champions League, e io gli ho detto che potrò
farlo anche andando in
Spagna. Volendo, anche tutti i giorni in allenamento.»
«Pensi
di
andare al Barcellona?» gli chiese, con un senso di
apprensione che aveva ormai
smesso di definire con aggettivi come "inspiegabile",
"strano" o "incomprensibile".
«No.
Prima
o poi, io e Tsubasa ci affronteremo in una finale di Champions League.
Non so
quando, ma avverrà sicuramente.»
«E
allora
dove andrai?»
«Immagino
in una delle grandi d'Europa. In ogni caso, andrò dove
sarò sicuro di trovare
tutto quello che voglio.» disse, lanciandole uno sguardo
significativo.
«Io
voglio
frequentare la LMU. È l'università giusta. E
Monaco è la città in cui voglio
costruire la mia vita.» affermò lei, assumendo
un'espressione speculare a
quella del ragazzo.
Lui
ripensò alle partite fin lì disputate, ai mesi
trascorsi in Giappone, alle
chiacchierate con Schneider e con Hoffmann.
E
infine
Elena, sguardo determinato e ora anche dolce davanti a lui.
E
gli
sembrò di vedere il suo futuro cominciare a stagliarsi in
modo sempre più
nitido nella sua mente.
Varcò
l'entrata dell'Eurostars
Madrid Tower e
si tolse gli occhiali da sole, guardandosi intorno ammirato: la
Federcalcio
giapponese aveva scelto con cura e con ottimo gusto l'albergo in cui
fare
alloggiare i suoi giovani calciatori.
Dopo
aver
finalmente tagliato il primo importante traguardo della sua vita, aveva
deciso
di regalarsi una vacanza in Europa, facendo in modo di trovarsi in
Spagna
proprio nel periodo delle Olimpiadi.
Perché
era
un appassionato di sport, ma non solo.
Stava
per
recarsi alla reception, quando notò proprio la persona che
stava cercando.
Stava
scendendo le scale insieme a una ragazza bionda.
Brillanti
occhi azzurri, alta, graziosa. Tipica bellezza tedesca.
Stavano
parlando e sembravano decisamente in confidenza.
Vide
Genzo
guardarsi brevemente intorno, per poi sorridere a qualcosa che lei gli
aveva
detto e darle un rapido bacio sulle labbra.
Osservò
l'avvenente sconosciuta mentre si avviava verso le porte automatiche,
per poi
uscire dall'hotel.
I
suoi
occhi passarono poi a Genzo, che l'aveva guardata finché non
era sparita dalla
sua visuale.
Sorrise
e
si diresse verso di lui.
Gli
mise
una mano sulla spalla e il portiere si voltò, assumendo poi
un'espressione
stupita.
«Volevo farti una sorpresa, ma a
quanto pare sei stato tu a farla a me, fratellino.»
***Note***
La
Deutscher
Fußball-Bund (DFB) è
la Federcalcio tedesca.
Die Mannschaft è
il soprannome della Nazionale.
"PPAP"
("Pen-Pineapple-Apple-Pen"): canzone-ballo tormentone
lanciato
nel 2016 dal giapponese Pikotaro.
Qui il video: immaginatevi Karl! C'è da
capire il suo imbarazzo. :-D
Un saluto a tutti!
Per quanto riguarda la partita
Giappone-Germania, la
trama della mia fanfiction si discosta da quella originale di "Rising
Sun", perché non me la sono sentita di infliggere a Genzo lo
stesso
ennesimo supplizio (chi ha visto le scanlations sa di cosa parlo) cui
lo sta
condannando un Taka la cui passione sembra sia inserire scene splatter
dentro
CT. :-/
E anche Elena ha già
patito abbastanza per gli uomini
della sua vita (e va be', qui è colpa mia).
E va da sé che la
stessa magnanimità l'ho concessa a
Jun e Yayoi.
Buon Ferragosto!
Sandie
|
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Capitolo 24 *** Capitolo XXIV - La corsa verso il sogno ***
Capitolo XXIV
La corsa verso il sogno
Elena
si
trovava nella hall dell'Eurostars Gran
Madrid,
seduta in una poltroncina non lontana dalla reception.
Scorse
la
cartella "In arrivo" dell'applicazione e-mail del suo smartphone, e
il suo dito si fermò su un messaggio ancora segnalato in
grassetto e ricevuto
in aprile. Di proposito non lo aveva mai aperto.
Perché
era
di Shiori. Non c'era un oggetto ad anticipare, seppur stringatamente,
il
contenuto della sua e-mail, probabilmente per indurla a leggerlo.
Ma
lei
stava preparando le Nazionali juniores oltre a studiare e temeva che
leggerla
potesse sconvolgere quell'equilibrio che era riuscita a costruire con
tanta
fatica.
Ora
si
riteneva pronta a scoprirne il contenuto. Con un lieve sospiro,
toccò la
scritta evidenziata e davanti ai suoi occhi comparve un testo non
lunghissimo,
ma denso di informazioni importanti.
Cara Elena,
Innanzitutto, voglio chiederti
scusa.
Scusami per aver dubitato di te,
del fatto che
saresti rimasta accanto a Gianluca anche in quelle condizioni, anche
dopo
l'incidente.
Quella sera in quel pub mi sono
comportata in un modo
a dir poco vergognoso … rivolgere simili accuse a una
ragazza che considero
sorella più che amica e di cui dovevo conoscere la
lealtà e la generosità.
Purtroppo ho creduto alle maldicenze di persone di cui mi fidavo quanto
mi
fidavo di te. Anzi, evidentemente di più, per poi rendermi
conto della loro
ipocrisia e perfidia.
A volte vado a fare la spesa nel
supermercato dove
lavora tua mamma e lei mi racconta quello che stai facendo in Giappone,
come ti
trovi … so che lavori bene in quella palestra e che hai
stretto delle nuove
amicizie.
L'ho detto a Gianluca.
Sono andata a trovarlo
all'ospedale e mi ha
confessato che gli manchi, tantissimo.
Credo ti pensi ancora molto e
non potrebbe essere
altrimenti, sei l'unica ragazza che lui abbia amato davvero e in ogni
caso,
avete condiviso emozioni che con nessun'altra potrà
più provare.
Ha lasciato Roma una settimana
fa con i suoi genitori
e ora è ricoverato a Montecatone, nel reparto di
Unità Spinale. Non sappiamo
quanto ci rimarrà. Cercherà di recuperare almeno
parte della sua mobilità,
anche se sarà molto difficile. Ma ha solo vent'anni, deve
tentare.
Fino a poche settimane fa
pensava che la sua vita
fosse finita, ma con l'aiuto di uno psicologo ha cominciato un percorso
che
pian piano lo porterà ad accettare la sua condizione.
Ogni tanto andremo a trovarlo,
compatibilmente con i
nostri impegni di lavoro e di studio.
Riesce a leggere e scrivere con
un computer apposito,
qualche volta riesce anche a sorridere con i nostri racconti e battute.
Il
dottore ci ha avvertito che non sarà un percorso breve,
né semplice e lineare.
Spero di rivederti quando
tornerai a Roma.
Nel frattempo, una cosa voglio
dirtela: non sentirti
in colpa. Lui mi ha raccontato di come tu non l'avessi abbandonato un
solo
giorno, dopo l'incidente e di come non avessi nessuna intenzione di
farlo.
Sono certa che ti ha allontanata
perché temeva di
diventare un peso per te.
Spero di avere presto tue
notizie, ma se non dovessi
rispondere capirò, ti ho trattata in un modo davvero orrendo.
Ti voglio bene.
Shiori
Emozioni che con nessun'altra
potrà più provare …
Arrossì
leggermente
nel rileggere quelle righe.
Allora
Gianluca non
abitava più a Roma … aveva deciso di darsi una
seconda possibilità e di farsi
ricoverare in una clinica specializzata. Aveva scelto di reagire, alla
fine.
Sorrise.
La vita era
ricominciata anche per lui o almeno ci stava provando.
Si
sentì più
sollevata.
Stava
cominciando a
guardare oltre lei.
E
Shiori aveva capito
e dalle sue righe traspariva il suo desiderio di riallacciare i
rapporti.
Si
ripromise di
cercarla, una volta ritornata a Roma.
Il
suo smartphone
suonò e comparve un'icona simboleggiante un testo scritto:
un sms.
Vediamoci al mio albergo tra un
quarto d'ora.
Si
incontrarono nella
hall dell'hotel in cui alloggiava la Nazionale giapponese.
Elena
arrivò in
leggero anticipo rispetto a Genzo, che scese dopo pochi minuti.
Indossava
la tuta e
profumava ancora di bagnoschiuma e di shampoo.
«Libera
uscita?»
«Sì,
fino all'ora di
pranzo. Giusto una boccata d'aria.»
Elena
sorrise. «Sei
pronto?»
«Ho
giocato in
condizioni peggiori di questa e ormai la spalla mi dà solo
un po' di fastidio,
una sensazione che sparirà non appena metterò
piede nello stadio.»
«La
Spagna è
fortissima, gioca in casa ed è composta da diversi giocatori
che militano nel
Real o nell'Atlético, ma voi siete il peggiore avversario
che le potesse
capitare.» affermò convinta.
Genzo
fece un cenno
d'assenso. «Non sarò degno del soprannome SGGK per
molto tempo, se dovessi
prendere sei gol.» dichiarò, dopo un momento di
silenzio.
«Non
li farà anche a
te.»
«Non
esserne troppo
sicura, Elena. Espadas è uno dei migliori portieri del
mondo, per me è stato
uno shock vederlo subire così tante reti! Non ho mai visto
un giocatore come
Michael … è apparso improvvisamente nelle
giornate finali della Liga. Ha
trascinato il Numancia alla salvezza mettendo sotto scacco squadre come
Valencia e Real Madrid. Il Barcellona ha vinto il campionato anche
grazie alle
sue straordinarie prestazioni. E dà l'impressione di non
aver ancora rivelato
tutto il suo potenziale.»
Numerosi
servizi
televisivi e articoli di giornali e siti Internet erano stati dedicati
alla
stupefacente partita giocata dallo spagnolo dall'aspetto da cherubino,
autentica rivelazione del torneo. Un personaggio sorprendente di per
sé: non si
sentiva parlare spesso di un calciatore con un passato da seminarista.
Genzo
e i suoi
compagni avevano rivisto più volte il quarto tra Spagna e
Messico, cercando di
carpire quanto più possibile di quel prodigio.
Elena
fece una piccola
smorfia. «Sai, io non me ne intendo granché, ma la
partita contro il Messico
l'ho vista dal primo all'ultimo minuto. E secondo me … il
modo migliore per
prepararsi ad affrontarlo è costringere i ragazzi a tirare
in tutti i modi possibili,
utilizzando tutte le loro tecniche. Specialmente i più
tecnici e creativi come
Tsubasa, Misaki, Misugi, Sano, Aoi e Sawada. E anche Soda che sa far
cambiare
direzione ai suoi tiri e Matsuyama che ha un tiro non fortissimo, ma
insidioso.»
Genzo
rimase a
guardarla, con un'espressione indecifrabile.
Elena
si strinse nelle
spalle.
«Lo
so, è un consiglio
stupido. Del resto sono un'appassionata, ma non un'esperta.»
«In
te non vedo
proprio nulla di stupido.» sorrise, accarezzandole il volto.
«Anzi, credo
proprio che farò come mi hai detto. Sottoporrò i
ragazzi a un ultimo
allenamento intensivo.»
«Non
massacrarli però, altrimenti arriveranno
sfiancati.»
«In
tal
caso li ricaricherò a dovere, ma sono sicuro che non ce ne
sarà bisogno.»
Tra
una
schermaglia e l'altra, non si accorsero di Kira che, giunto nel
frattempo
dietro a loro, fu costretto a schiarirsi la voce per richiamare la loro
attenzione.
«Ragazzi,
mi dispiace dover interrompere così il vostro incontro
romantico» sogghignò,
davanti alla loro espressione interrogativa «ma questa sera
c'è una partita
cruciale e non dobbiamo sgarrare nemmeno di un minuto.»
Elena
sorrise, con
un'alzata di spalle.
«Lo
so, mister Kira.
Mi consolerò andando a pranzo con Kumi, Yayoi e
Yoshiko.»
«A
sparlare dei vostri
ragazzi, mi auguro.»
«Ovviamente!»
replicò
stando al gioco, strizzando un occhio a Genzo.
«Vado,
non voglio
farvi perdere un secondo di più.» si
congedò poi, rivolgendo un sorriso a Kira
e dando una lieve carezza a un braccio del portiere.
«Pensi
anche a lei
quando porti in campo i tuoi sentimenti,
Wakabayashi?» gli chiese il c.t, dopo che Elena ebbe lasciato
l'hotel.
Genzo
fece un cenno
d'assenso.
«Allora
mi aspetto una
grande partita da te. Scegliere tra legno e bronzo o tra argento e oro
dipenderà anche dalla tua capacità di sventare
gli attacchi degli avversari.»
L'attesa
semifinale
era cominciata da pochi minuti.
Il
"Santiago
Bernabéu" era pieno di un tifo fervido ed entusiasta, come
se si stesse
disputando el
Clásico.
I
giocatori di casa
vennero accolti con incitamenti, cori e applausi, mentre a quelli della
Nazionale giapponese erano riservati fischi e urla di disapprovazione.
Una
situazione che
Genzo, Tsubasa e in parte anche Kojiro e Shingo Aoi avevano
già
affrontato.
«Siamo
qui perché
abbiamo disputato una grande Olimpiade. Siamo tra le prime quattro
Nazionali
del mondo. Ora dobbiamo diventare una delle prime due, e poi la
prima.»
Li
aveva motivati
Kira, negli spogliatoi.
La
Spagna aveva però
preso il comando del gioco, grazie alla sua nuova stella.
Michael
dribblò con
agilità tutti gli avversari che gli si paravano davanti.
Ingaggiò
un duello sul
possesso palla con Matsuyama, ingannandolo con una finta rapidissima.
Poi
fu la volta di
Tsubasa e Misaki.
Grazie
a uno scambio
con Raíl riuscì a raggirare entrambi e a farli
scontrare mentre si dirigeva
verso la porta difesa da Wakabayashi.
Genzo,
fermo e
concentrato tra i pali, osservò Michael avanzare palla al
piede.
Doveva
stare attento:
anche un ottimo portiere come Ricardo Espadas aveva subìto
sei gol.
Si
era preparato a
quel confronto ascoltando i consigli di Mikami, con cui aveva parlato
molto, e
anche quelli di Elena.
Il
biondo
centrocampista effettuò una triangolazione rapidissima con
Raíl e Fersio
Torres. Quest'ultimo lasciò scorrere l'ultimo passaggio, su
cui piombò proprio
Michael.
Genzo
bloccò il tiro
con sicurezza.
Il
numero undici
iberico fece una smorfia, ma poi sorrise.
Wakabayashi
era
davvero un osso duro.
Genzo
piegò le labbra
da un lato ed effettuò un lungo, potente lancio di destro
verso Nitta, che
stava correndo, velocissimo, verso la porta.
L'attaccante
calciò al
volo di sinistro, infilando il pallone all'incrocio dei pali,
spiazzando
completamente Callusias.
Shun
protese una mano
verso la telecamera.
Madoka,
seduta davanti
allo schermo del suo laptop nella stanza affittata a Tokyo, sorrise
emozionata.
La
Spagna cercò di
reagire, ma la difesa del Giappone, sapientemente disposta da Genzo,
aveva
chiuso tutti gli spazi.
Finché
Michael,
approfittando di una distrazione dei difensori nipponici ingannati dal
movimento degli attaccanti avversari, si liberò della
marcatura di Soda e corse
verso l'area di rigore.
Genzo,
con la visuale
coperta dai due attaccanti spagnoli, non riuscì a vedere con
quale piede
Michael calciò il pallone.
La
sfera si insaccò
alle sue spalle.
Le
due squadre
tornarono negli spogliatoi con il risultato in parità.
Il
secondo tempo fu
molto più arduo del primo, per entrambe le squadre.
La
difesa spagnola era
impeccabile e Callusias stava giocando allo stesso livello di
Wakabayashi. Dopo
l'uscita di scena di Espadas e Müller, si candidava, con lo
stesso giapponese e
con il brasiliano Salinas, a essere il miglior portiere del torneo.
La
spalla di Genzo era
ancora dolorante, non era guarita completamente ma non avvertiva
dolore, grazie
all'infiltrazione fattagli dal medico prima della gara.
La
semifinale si decise
nei minuti di recupero.
Hyuga
sancì il
passaggio del turno con uno dei suoi micidiali Tiger
shot, al termine di una splendida azione partita da Misugi
e portata
avanti con una triangolazione tra Tsubasa e Misaki, Aoi e Sawada.
Il
Giappone era in
finale, certi della conquista di una medaglia e a un passo dalla
realizzazione
del sogno.
Elena
e Genzo si
trovavano nel locale in cui avevano deciso di trascorrere la serata
insieme,
quando lo smartphone del ragazzo cominciò a squillare.
Lo
estrasse dalla
tasca e sospirò leggermente. Era Günther
… e stava sicuramente per comunicargli
quella notizia che stava aspettando da alcuni giorni.
«Il
tuo tempismo è
sempre stupefacente.» non si trattenne dal dirgli. Elena al
suo fianco,
ridacchiò sommessamente.
«Siete
già lì?
D'accordo, vi raggiungo tra poco.»
All'udire
quelle
parole, la ragazza assunse un'espressione seria.
Genzo
chiuse la
chiamata e si rivolse a lei.
Sospirò
e non solo
perché stava per rinunciare a passare una buona parte del
loro appuntamento.
«Vado
in un locale a
poca distanza da qui, dove incontrerò alcune
persone.»
«Dirigenti
del
Bayern?»
Genzo
annuì.
Elena
sorrise.
«Cercherò
di
raggiungerti al più presto.»
«Pensa
ad ascoltare e
discutere la loro proposta. È una decisione importante per
il tuo futuro.» gli
disse, mettendogli una mano sul petto.
Si
voltò e appoggiò i
gomiti sul bancone.
Avrebbe
dato qualsiasi
cosa per poter assistere alla discussione tra Genzo, il suo procuratore
e i
dirigenti del Bayern Monaco.
Tutti
i cosiddetti
"esperti di mercato" indicavano la squadra campione di Germania come
favorita per l'acquisto di Genzo.
Schneider
spingeva per
l'ingaggio dell'estremo difensore nipponico: che ne fosse il principale
sponsor
era un aspetto ormai conclamato e sottolineato in tutte le narrazioni
giornalistiche.
«Vuole
ordinare
qualcos'altro, signorina?» le chiese il barista, con un
sorriso cordiale.
Elena
esitò prima di
rispondere, al punto che un cliente appena arrivato pensò di
precederla.
«Buonasera!
Per me una
sangria, per favore.» disse una profonda voce maschile, dallo
spagnolo
comprensibile anche se un po' incerto, con un accento americano un po'
particolare.
Elena
si voltò per
vedere a chi appartenesse.
Un
ragazzo dai tratti
orientali - anzi, giapponesi - si era seduto sullo sgabello accanto al
suo.
La
sua figura la
colpì. Era alto, con un corpo atletico e imponente che si
intuiva sotto la
maglietta bianca e i jeans blu. Il viso dai tratti decisi, su cui
spiccavano
occhi di un nero intenso. Se quel giovane si fosse tolto gli occhiali
dalla
grande montatura blu squadrata e non avesse avuto i corti capelli
tagliati a
spazzola tinti di biondo grano, l'avrebbe trovato decisamente simile a
Genzo.
Il
nuovo arrivato si
appoggiò con i gomiti incrociati sul ripiano e si
guardò intorno.
«Bel
posto, questo.
Sono qui da appena due giorni e questa città mi piace
già parecchio.» commentò,
guardandosi intorno. Poi il suo sguardo si posò su Elena.
Il
ragazzo fece un
ammicco e lei arrossì, rendendosi conto di non avergli
staccato gli occhi di
dosso nemmeno per un secondo da quando si era materializzato accanto a
lei.
«Anche
lei è qui come
turista, signorina?»
«Più
o meno.» rispose,
cercando di dissimulare l'imbarazzo.
«Accidenti
che
maleducato sono, non mi sono nemmeno presentato: mi chiamo
Keisuke.» disse,
tendendole la mano.
Lei
la strinse dopo un
attimo di esitazione. «Elena.»
«Tedesca?»
«Per
metà. Ma sono
nata e cresciuta in Italia.»
«Io
invece, sono
giapponese.» replicò «Si vede che hai
origini nordeuropee. Con quei capelli
biondi … non sono mica finti come i miei!»
scherzò, sfregando le punte con le
dita.
Elena
accennò una
risata.
Quel
ragazzo …
sembrava simpatico, ma stava indubbiamente cercando di attaccare
bottone.
«Sei
parecchio
disinvolto per essere giapponese.» constatò,
più che altro nell'intento di far
prendere alla conversazione una piega diversa.
Lui
ammiccò. «Vivo da
cinque anni negli Stati Uniti e ho imparato a essere diretto. Ora mi
sento più
spontaneo e meno ingessato. Non fraintendermi: amo il Giappone,
è il mio Paese
e lì certi valori sono tenuti ancora in grossa
considerazione mentre non si può
dire che lo stesso valga ancora qui in Occidente, purtroppo. Per altri
aspetti
però, la mentalità è reprimente:
impone un eccessivo controllo delle proprie
emozioni e non permette di esternare convinzioni personali.»
«Sono
d'accordo.»
Lo
sguardo di Keisuke
si fece ancora più interessato. «Sei stata in
Giappone?»
«Sì,
per sei mesi,
proprio quest'anno. Ho uno zio che vive e lavora nella prefettura di
Shizuoka e
che mi ha ospitata per quel periodo. È come dici,
però ho conosciuto anche
persone molto aperte e spontanee, con cui ho stretto
amicizia.»
«In
effetti, nelle
zone rurali o comunque non troppo urbanizzate come quella da cui
provengo
anch'io è ancora possibile.»
Continuarono
a parlare
del Giappone, dell'Europa e degli Stati Uniti.
Quel
ragazzo aveva
viaggiato molto e conosceva bene soprattutto il mondo e la
mentalità
anglosassone.
Elena
trovava
piacevole la sua compagnia: continuava a trovare familiari certi
tratti, anche
se le sembrava un po' sui
generis
persino rispetto ai più baldanzosi tra i ragazzi che aveva
incontrato durante
il suo soggiorno. Ma l'idea di flirtare con lui non la sfiorava e non
vacillò
neppure per un secondo davanti alle allusioni garbate, ma sempre
più frequenti.
«Sai
Elena, trovo che
tu sia una ragazza molto interessante. Mi piacerebbe conoscerti meglio.
Sono
troppo avventato se ti invito a cena per domani?»
«Sì.»
Keisuke
ed Elena
sgranarono gli occhi e si voltarono verso la persona che aveva appena
pronunciato quel tetro monosillabo.
«Genzo,
sei qui
finalmente. Com'è andata?» reagì lei,
dopo un attimo di silenzio.
«Mi
sono preso qualche
giorno per decidere. Ci sono alcuni dettagli del contratto che vanno
discussi.»
«Non
vi è bastata
un'ora per venirne a capo?»
«A
quanto pare no.
Vedo comunque che hai trovato un modo per ingannare il
tempo.» ribatté lui
grave, lanciando uno sguardo al ragazzo accanto a lei.
Elena
aggrottò le
sopracciglia e schiuse le labbra per rispondergli, ma Keisuke fu svelto
a
intervenire.
«Pace,
mettiamo fine
alla pantomima. Io sono Keisuke Wakabayashi, il fratello di
Genzo.» le rivelò,
mettendo una mano sulla spalla del portiere, che per la prima volta dal
suo
arrivo accennò un sorriso.
Elena
passò lo sguardo
dall'uno all'altro. «Suo … fratello?»
Ecco
perché glielo
ricordava così tanto. Sapeva che viveva e studiava negli
Stati Uniti, ma non si
aspettava che si trovasse anche lui a Madrid.
«Sì.
E a scanso di
equivoci, era tutto concordato.»
Elena
era
ancora più basita. «Tutto concordato? Ecco
perché non ti sei più fatto
sentire.» disse, rivolta al suo ragazzo, che sorrise e
scambiò un'occhiata con
il fratello.
«Già.»
replicò quest'ultimo. «Volevo conoscerti, senza
filtri. Volevo parlare con una
ragazza vera e non con una che cerca di fare buona impressione davanti
al suo
potenziale cognato.»
«E allora come sono
andata?» chiese, incrociando le braccia
e alzando il mento.
«Beh,
dirlo dopo
un'ora scarsa di conversazione è un po' prematuro, ma
conosco mio fratello e,
senza vanterie, la capacità di osservazione è una
caratteristica distintiva di
noi Wakabayashi, quindi solitamente capisco presto se una persona
merita
fiducia oppure no. E il fatto che tu abbia cominciato a essere un po'
più
rigida quando ho cercato di entrare più in confidenza mi ha
convinto che ci
tieni veramente, a mio fratello.»
Elena
sorrise e
scambiò un'occhiata con Genzo.
«Che
tu fossi un tipo
stravagante ormai è risaputo, ma un look del genere su di te
non me lo sarei
mai aspettato.» disse poi quest'ultimo.
«Ah,
questi sono
frutto di una scommessa fatta con i miei compagni di
università. Avevo promesso
che se mi fossi laureato con il massimo dei voti mi sarei tinto i
capelli e
avrei pagato una cena per tutti nel più raffinato ristorante
di Boston, e così
è stato.» spiegò, tastandosi le punte
dei capelli.
«Immagino
lo shock di
mamma e papà.»
Keisuke
scosse la
testa.
«Ovviamente
la tinta l'ho fatta dopo la partenza dei nostri genitori e di Hiroji.
Sai però
che mi hai dato una bella idea? Ora ci facciamo una foto insieme e la
mando
direttamente a papà. Mi dispiacerà solo non
vedere la sua faccia.» rise,
suscitando anche l'ilarità di Genzo ed Elena.
Prese
il suo
smartphone e si mise in posa con il fratello, scattando una foto.
La
ragazza li guardò
divertita.
Erano
due fratelli che
si punzecchiavano e si prendevano in giro, ma indubbiamente molto
legati.
Erano
seduti in un
tavolo a parte, poco lontano da quelli in cui stavano cenando gli altri
ragazzi.
Keisuke
aveva salutato
tutti con calore, a partire da Izawa, Kisugi e Taki fino agli altri ex
giocatori della Nankatsu e aveva anche chiacchierato e scherzato con
quelli
delle altre squadre, rendendosi subito simpatico con la sua innata
socievolezza.
«Ho
avuto
l'impressione che ti fossi immedesimato troppo nella parte.»
disse Genzo,
portando il discorso su Elena dopo aver parlato del lungo periodo
passato
negli Stati Uniti dal fratello maggiore.
Keisuke
accennò una
risata e scosse la testa.
«Ti
dico solo una
cosa, fratellino. Se non fosse già impegnata con te, ci
avrei volentieri
passato la serata insieme. È una ragazza interessante da
ascoltare, oltre che
piacevole da guardare. Non sarò certo io a fare obiezioni,
ma non posso mettere
la mano sul fuoco per Hiroji e soprattutto per papà e mamma.
Anche perché ci
sono di mezzo gli affari tra le nostre aziende.»
«Non
manderanno tutto
all'aria per questo.»
«Certo
che no, ma i
rapporti con gli Ujimori si incrineranno.»
Genzo
strinse la
mascella. Era certo che Asami sperasse ancora in una riconciliazione.
Non
aveva detto a
nessuno che l'aveva lasciata, i suoi genitori non sapevano ancora nulla.
«Mikami
e Katagiri mi
hanno detto che la Federcalcio ha intenzione di organizzare una festa,
in caso
di vittoria. Sarà i primi giorni di settembre, quando i
campionati si
fermeranno e le Nazionali saranno impegnate con le gare di
qualificazione e le
amichevoli. In quell'occasione, parlerò con papà,
mamma e Hiroji.»
Keisuke
gli mise una
mano su una spalla. «Se hai bisogno di manforte, puoi contare
su di me.»
Anche
la serata della
finale arrivò.
Si
affrontavano
Giappone e Brasile, come nel World Youth di due anni prima.
Una
mite brezza estiva
spirava sul "Santiago Bernabéu", il cielo stava ormai
diventando
scuro e una dorata falce lunare sembrava vegliare sullo scenario
insieme alle
stelle.
I
calciatori delle due
squadre andarono a prendere le rispettive posizioni in campo.
«Sono
uno dei
pochissimi giocatori che ti hanno segnato un gol da fuori area
Wakabayashi, e
stasera conto di darti un altro dispiacere. Anzi, più di
uno.» gli disse
Natureza.
«Attento
a non sognare
troppo Natureza, che poi i risvegli fanno male.»
ribatté.
«In
tal caso, sarò io
a spedire il pallone dietro le tue spalle.» intervenne
Santana.
«Per
riuscirci dovrai
giocare la migliore partita della tua carriera.»
replicò Genzo con il medesimo
tono, abbassandosi la tesa del berretto e avviandosi verso la sua porta.
Sugli
spalti erano
presenti molti tifosi spagnoli, tra i quali i fan di Natureza, ma non
mancavano
anche i tifosi del Barcellona divisi tra Rivaul e Tsubasa.
Proprio
il fuoriclasse
blaugrana
era rimasto impressionato
dalla bravura del portiere giapponese. Era giovanissimo ma aveva una
mentalità
e un carisma da veterano.
L'aveva
seguito nelle
precedenti stagioni e nel torneo asiatico. L'aveva impressionato, ma
era anche
vero che le Nazionali affrontate in quei mesi erano troppo modeste per
costituire delle prove attendibili.
Era
stato felice
quindi di vedere inserito il Giappone nel gruppo più
competitivo, anche perché
Tsubasa e i suoi compagni sarebbero stati costretti a dimostrare fin da
subito
il loro valore.
E
le partite disputate
nei Giochi lo avevano convinto definitivamente della sua eccezionale
bravura.
Fu
una partita
bellissima: le squadre si affrontarono a viso aperto ed era un continuo
botta e
risposta fra azioni, tiri spettacolari e ribaltamenti di fronte. I due
portieri
si dimostrarono entrambi all'altezza della situazione e i tempi
regolamentari terminarono
con il risultato di 0-0.
Nei
tempi
supplementari, entrambe le squadre accusarono la stanchezza accumulata
nel
corso dei primi novanta minuti, giocati a un ritmo frenetico.
I
tiri finivano perciò
per essere imprecisi e fuori misura.
E
soprattutto, Salinas
e Wakabayashi sembravano aver alzato una saracinesca.
Pur
essendo stati
entrambi impegnati per tutta la gara, non persero neppure per un attimo
la loro
concentrazione e lucidità.
L'arbitro
soffiò nel
fischietto per tre volte.
Sarebbe
stata la
lotteria dei rigori a decidere quale delle due squadre avrebbe
conquistato una
delle medaglie d'oro più contese di quell'edizione.
I
calciatori delle due
squadre si radunarono accanto alle rispettive panchine, dove si
concessero
alcuni minuti per prendere fiato e dissetarsi, mentre gli allenatori
parlavano
soprattutto con i ragazzi incaricati di battere i rigori.
«Vi
ricordate quando,
nella finale del World Youth, vi dissi che se fossimo andati ai rigori,
per me
sarebbe stata l'occasione di diventare l'eroe della partita? Bene, quel
giorno
sembra essere arrivato.» sorrise Genzo.
I
ragazzi fecero
altrettanto, di rimando.
«Non
vedevo l’ora che
arrivasse un momento così.» ribadì
rinfilandosi i guantoni.
«Se
paro i rigori, le
mie quotazioni saliranno vertiginosamente e dovranno spendere fior di
quattrini
per ingaggiarmi.» sogghignò, strizzando un occhio.
Una
dichiarazione
simile a quella di due anni prima, al World Youth, che come allora fece
ridere
i suoi compagni e stemperò la tensione.
Sì,
con un Wakabayashi
in quello stato di forma, era imperativo essere ottimisti.
Santana
fu il primo
giocatore a presentarsi davanti al dischetto.
L'attaccante
del
Valencia cercò di sorprendere Genzo con il cucchiaio, ma lui
non si fece
ingannare e parò il tiro.
La
sua opposizione non
fu altrettanto efficace contro l'esperienza di Robecaro e Rivaul.
Nel
primo caso era
riuscito a intuire la direzione del tiro ma non si era buttato in tempo
per
fermarlo, nel secondo invece fu completamente spiazzato dalla finta del
fuoriclasse brasiliano.
Soda,
scelto a
sorpresa, disorientò Callusias, che si aspettava un tiro a
effetto, con un
normale rigore calciato di potenza.
Matsuyama
sbagliò
inaspettatamente il suo tiro, calciando il pallone tra le braccia del
portiere.
Serrò
la mascella e
raggiunse i suoi compagni, che tentarono di consolarlo con alcune
pacche sulle
spalle e parole di incoraggiamento.
Yoshiko
sospirò e
strinse le labbra. Yayoi e Kumi di fianco a lei tentarono di
confortarla come
meglio potevano.
Non
era tutto perduto.
Hikaru
si
mise le mani sui fianchi e guardò Radunga dirigersi verso il
dischetto.
Tiro
potente e preciso, gol.
Stesso
esito per i rigori di Tsubasa e di Hyuga.
Taro
fu
l'ultimo calciatore del Giappone a incaricarsi del tiro.
Stava
per
lasciare la metà campo quando sentì una grande
mano posarsi su una sua spalla.
«Segnalo,
Misaki. Poi parerò il tiro di Natureza.»
Detto
da
qualsiasi altro portiere, sarebbe sembrato un eccesso di sicurezza per
non dire
una spacconata. Ma Wakabayashi non affermava mai nulla con tanta
decisione
senza sapere perfettamente ciò che diceva.
A
Taro non
restò che fare un cenno d'assenso e dirigersi verso il
dischetto.
Baciò
la
sfera e la posizionò sul piccolo tondo bianco.
Indietreggiò
di alcuni passi.
La
rincorsa fu breve.
Tiro
angolato. Esito classico. Pallone da una parte, portiere dall'altra.
Ora
toccava nuovamente ai verdeoro tenersi aggrappati a quel filo sottile.
Kumi
alzò
le braccia con i pugni stretti, ricevendo abbracci e pacche sulle
spalle dalle
amiche.
Per
Elena,
il momento di massima tensione si ripeteva a ogni rigore.
Natureza
…
Toccava
a
lui tenere vive le speranze della Seleçao.
Genzo
lo
osservava con uno sguardo carico di sfida. Era sicuro di sé,
determinato,
perfino intimidatorio.
Il
giovane
campione dell'Amazzonia avvertì un senso di agitazione.
Scosse
la
testa. No, perché preoccuparsi? Per quanto eccezionalmente
bravo, era pur
sempre un essere umano. E in fondo, lui due anni prima gli aveva
segnato un gol
da fuori area, il pallone non lo aveva nemmeno visto! E non
gliel'avrebbe fatto
vedere nemmeno quella sera.
Collocò
la
sfera sul dischetto e lanciò un sorriso verso Genzo, che non
cambiò
espressione.
Natureza
fece alcuni passi a ritroso, respirando profondamente.
Genzo
piegò le ginocchia leggermente in avanti.
Partì
poco
prima che il piede di Natureza colpisse il pallone.
Era
un
tiro di una potenza e una rapidità micidiali.
Si
era
buttato un secondo prima, ma era in ritardo ...
Genzo
strinse i denti, tendendo il braccio destro e le dita più
che poté.
I
calciatori giapponesi, quelli brasiliani e tutti i tifosi trattennero
il fiato.
Nello
stadio "Santiago Bernabéu" esplose un boato assordante.
Genzo
venne letteralmente sommerso dai suoi compagni, precipitatisi in massa
su di
lui, rischiando di soffocarlo sotto i loro abbracci.
A pochi metri da
quella montagna umana dalle maglie bianche e blu,
il pallone fermo sull'esterno della rete. E Natureza steso supino
accanto alla
linea di delimitazione dell'area di rigore, con le mani sulla faccia,
sul
terreno del suo stadio, mentre alcuni suoi compagni si mossero dalla
metà campo
per raggiungerlo e cercare, per quanto possibile,
di confortarlo.
Le
immagini sul
maxischermo mostrarono più volte la deviazione con la punta
delle dita con cui
il portiere nipponico aveva neutralizzato il tiro dell'attaccante del
Real
Madrid.
I
supporter giapponesi
erano troppo intenti a esultare per vederle, mentre quelli brasiliani
assistevano con sguardi increduli e avviliti.
I
ragazzi del gruppo
dei supporter erano fuori di sé dalla gioia.
La
signora Ishizaki
strinse una dopo l'altra le sue giovani compagne di tifo in un
incontenibile
abbraccio, in attesa di riservare quello più traboccante di
affetto a quel
figlio spesso rimproverato, ma che amava come il dono più
prezioso che la vita
le avesse fatto.
Elena
provò un sospiro
di sollievo nel vedere Genzo riemergere finalmente da quell'ammasso di
ragazzi
in pieno tripudio.
Il
suo portiere era
stato abbracciato e travolto dalla gioia e dall'euforia dei suoi
compagni come
se fosse stato un attaccante che avesse segnato il gol decisivo.
Perché
la parata di
Genzo significava quel gol negato che era valso al Giappone la medaglia
d'oro.
«Vieni,
Elena!»
Vide
Kumi correre
verso Taro e abbracciarlo, Yayoi appoggiare le mani sulle guance di Jun
per
sussurrargli qualcosa e poi stringersi a lui, Hikaru e Yoshiko darsi un
lieve
bacio.
Persino
Maki andò
incontro a Kojiro per stringergli le mani.
E
lei? Era ferma quasi
a bordo campo, a pochi metri dalla panchina, intimidita da quella selva
di
telecamere che stavano riprendendo i ragazzi.
Avvertì
una mano
posarsi sulla sua spalla.
«Non
vai da Genzo?»
Mikami
le sorrideva
con affetto.
«Non
so se posso
farlo.» mormorò.
«Lui
vuole condividere
questo momento con te. Perché rovinare tutto?»
Elena
gli sorrise e
fece un cenno d'assenso.
Si
incamminò in
direzione del portiere, che stava parlando con Tsubasa.
Gli
toccò un braccio e
lui si voltò.
«Ce
l'hai fatta,
Numero Uno.» sorrise.
Lui
la attirò a sé,
con un gesto rapido.
«Ehi!»
gridò, ridendo.
Appoggiò
la testa sul
petto coperto dalla maglia sudata e sporca e afferrò
delicatamente la medaglia.
«Chi
l'avrebbe mai
detto che ne avrei vista una da così vicino.»
mormorò.
Ignorarono
i flash dei
fotografi, che si susseguivano l'uno dopo l'altro sui loro volti.
«Potrò
mettere la
medaglia d'oro al collo di papà.»
mormorò Taro accanto a loro, gli occhi lucidi
e il sorriso emozionato come quello di un bambino.
«Forza
mister,
l'astinenza è finita!» gridò
Wakashimazu, versando del sake
nella coppa ben salda tra le mani del suo ex mentore.
«Ehi
Ken, piano! È
quasi un anno che non bevo nemmeno un goccio, non vorrei mettermi a
dare i
numeri!» lo ammonì Kira, tra le risate dei ragazzi
ma anche dei membri dello
staff e persino di Mikami, Katagiri e Gamo.
Alla
festa era
presente anche Maki Akamine. Una conferma del legame che la univa a
Kojiro
Hyuga.
I
due ragazzi si
ponevano ogni tanto in disparte dal resto del gruppo, comportandosi con
discrezione, ma la giovane giocatrice di softball, rivelazione della
Nazionale
vincitrice della medaglia di bronzo, familiarizzò anche con
le altre ragazze e
i compagni di Kojiro, dimostrandosi affabile e simpatica.
Era
una serata
perfetta.
Questo
stava pensando
Genzo, mentre abbracciava con lo sguardo il salone illuminato in mezzo
al quale
spiccava il grande tavolo su cui era rimasto ormai ben poco cibo,
mentre le
bevande continuavano a scorrere.
Aveva
da poco
terminato una lunga chiacchierata con alcuni compagni e ora stava
cercando
Elena con lo sguardo, ma non riusciva a scorgerla da nessuna parte.
Incrociò
lo sguardo di
Kumi che piegò leggermente la testa in direzione della
portafinestra.
Genzo
la ringraziò con
un cenno del capo e vi si diresse.
«Ah,
eccoti. Eri
scappata sul terrazzo.»
Elena
si voltò e gli
sorrise, le mani ancora appoggiate sul parapetto.
«Non
sono scappata. È
solo che pur amando divertirmi con gli amici, dopo un po' di tempo
passato in
mezzo alla confusione sento il bisogno di uscire a prendere una boccata
d'aria
e starmene un po' per conto mio. Sono fatta così.»
spiegò, con un'alzata di
spalle.
Genzo
fece un cenno
del capo. «Sono l'ultima persona cui devi spiegare queste
cose.» la rassicurò.
L'aria
era mite, in
cielo splendeva una mirabile luna piena.
Elena,
con i capelli
sciolti sulle spalle e lo sguardo reso più luminoso da quel
riflesso lunare,
era bellissima.
Indossava
lo stesso
abito blu della serata all'auditorium dell'Istituto Shutetsu.
Un
intrecciarsi di
contingenze che lo convinse che non era vero che la perfezione non
potesse
esistere, fosse anche per poco.
«In
realtà, c'è anche
un altro motivo per cui sono venuta qui.» disse, facendogli
assumere uno
sguardo attento.
«Lì
dentro, tra i
dirigenti, i giornalisti e gli amici, finiamo sempre per restare
lontani. Alla
festa di Ishizaki, quando ero da poco in Giappone, avevo notato che
anche tu
hai questa abitudine … così sono uscita, sperando
che mi raggiungessi.»
sorrise.
Gli
parve di scorgere
una punta di malizia nella sua espressione.
Ricordava
bene quella
serata … era stata la loro prima vera conversazione, per
quanto breve.
Breve
ma
significativa, perché aveva dissipato gli ultimi dubbi sul
suo ritorno in
Giappone.
Nessuno
dei due
immaginava quello che avrebbe significato quel periodo.
Un
periodo che, per
entrambi, sarebbe dovuto essere lontano da lì.
La
guardò e sorrise,
pensando a come il destino si fosse divertito a giocare con le loro
vite.
L'attirò a sé e chinò il viso sul suo,
esaudendo finalmente il desiderio di
entrambi.
Le
ante della
portafinestra si spalancarono di colpo, facendoli sobbalzare mentre un
euforico
- e probabilmente anche alticcio - Takeshi Sawada irrompeva nel
terrazzo.
«Ehi
ragazzi, vi ho
trovati finalmente! Sono tutti pronti per la foto collettiva, mancate
solo
voi!»
Poi
si bloccò e sgranò
gli occhi, fissandoli.
«Non
volevo
disturbarvi …» mormorò, imbarazzato.
Genzo
dopo un momento
di stupore misto a disappunto, scosse la testa e sorrise.
«Non preoccuparti,
Sawada. Arriviamo.»
Takeshi
annuì e
rientrò nel salone.
Genzo
ed Elena si
scambiarono un'occhiata, rassegnati ma anche divertiti dall'imbarazzo
del
giovanissimo centrocampista.
Quando
entrarono,
furono bersagliati da una raffica di occhiate maliziose e battute
allusive che
Genzo liquidò con la consueta ironia, consentendo a Elena di
limitarsi a fare
spallucce sorridendo.
Dopo
aver scattato più
volte la fotografia, tra persone assenti al momento della posa e da
recuperare
anche con ineleganti strattoni, scherzi e risate, Taro
afferrò delicatamente un
braccio di Kumi e la trasse un po' in disparte dal resto del gruppo.
«Sai,
ieri ho ricevuto
una notizia importante.» le confidò, davanti
all'occhiata interrogativa di lei.
«Davvero?
E di che si
tratta?» chiese la ragazza, incuriosita ma già con
un'intuizione in testa.
«Ho
ricevuto
un'offerta ufficiale da parte del Paris Saint Germain. Vogliono far
valere
l'opzione fatta l'anno scorso.»
I
suoi occhi si
illuminarono subito per l'entusiasmo. «È
meraviglioso, Taro! Con Pierre Leblanc
e J.J. Ochado formeresti uno dei centrocampi più competitivi
a livello
mondiale. E con un finalizzatore come Louis Napoléon,
l'attacco diventa una
macchina da gol. Sarete la squadra da battere in Ligue 1 e una tra le
più
competitive in Champions League.»
Taro
fece un lieve
sorriso. «Questo significherà stare
lontani.»
Kumi
scosse la testa.
«Sei
troppo bravo per
non attirare l'interesse del calcio europeo. Non ho pensato neppure per
un
secondo che dopo le Olimpiadi saresti rimasto allo Jubilo Iwata.
Rimarremo in
contatto e ogni tanto verrò a trovarti … o verrai
tu a trovare me. Ce l'hanno fatta
Tsubasa e Sanae, ce la stanno facendo Hyuga e Akamine, tu stesso ci eri
riuscito con Hayakawa e paradossalmente vi siete lasciati proprio
quando
abitavate entrambi in Giappone. Metteremo alla prova il nostro legame:
se è
solido, resisterà.»
Taro
la guardò con
tenerezza e le passò un braccio attorno alla schiena.
«Misaki,
la signorina
Yamaoka Yoshiko ha chiesto di lei.» annunciò uno
dei camerieri.
Il
centrocampista si
sciolse a malincuore dall'abbraccio e si diresse alla porta d'uscita.
Una
volta sul
corridoio, vide la sorella sorridergli entusiasta.
«Taro!»
Kumi
si
affacciò alla porta poco dopo.
Una
ragazzina di circa dodici anni, dai capelli castani a caschetto e
vivaci occhi
nocciola stava abbracciando il centrocampista, complimentandosi
ripetutamente
con lui. Era vestita con un abito estivo bianco e rosa e molto graziosa.
Yoshiko
notò la presenza della ragazza che li stava osservando e si
scostò dal
fratello.
«Ah,
sei
in dolce compagnia! Spero di non avervi disturbato.» sorrise,
guardando Kumi.
La
ragazza
mise le mani dietro la schiena e alzò le spalle, con un gran
sorriso.
«Non
ti
preoccupare.» la rassicurò. «Io sono
Kumi.» aggiunse, inchinandosi.
«E
io sono
Yoshiko, la sorella di Taro.» si presentò a sua
volta, ricambiando il saluto
giapponese.
Furono
raggiunti da una bella donna dai corti capelli castano ramati, a
incorniciare
un viso dai tratti delicati e dagli occhi nocciola. La dolcezza di quei
lineamenti, di quel sorriso e l'espressione mite di quegli occhi erano
identici
a quelli di Taro e della stessa Yoshiko.
Accanto
alla donna, un uomo di corporatura robusta, dai corti e lisci capelli
neri
dello stesso colore degli occhi, delimitati da un paio di occhiali
dalla
montatura grigia.
«Loro
sono
Yumiko e Taisho Yamaoka, mia madre e suo marito.»
«Mamma,
Taisho-san,
lei è Kumi Sugimoto. La mia
ragazza.»
Yumiko
la
guardò e poi sorrise, facendole un inchino. Gesto imitato
dal marito.
«Ciao
Kumi. Sono contenta di conoscerti.»
«Anche
per
me è un grande piacere, signori.» disse la
ragazza, ricambiando il loro gesto
di saluto.
«Perché
non andiamo a mangiare una torta o un gelato tutti insieme?»
propose Yoshiko.
Yumiko
esitò, perplessa. «Non so … forse
volevate festeggiare con i vostri amici.»
obiettò, rivolta a Taro e Kumi.
Il
ragazzo
scosse la testa con un sorriso. «Posso benissimo passare un
po' di tempo con
voi. Sono certo che al ritorno, li troveremo tutti ancora
qui.»
Yoshiko
batté le mani, entusiasta. «Splendido! Vieni con
noi, Kumi?»
«Certo
che
verrà.» rispose Taro spegnendo sul nascere ogni
esitazione, prendendole una
mano.
La
mangaka
fece per obiettare, ma i sorrisi di approvazione dei genitori e della
sorellina
del fidanzato la convinsero che la sua compagnia era gradita,
più di qualsiasi
parola.
Non
appena
seppe dell'abilità di Kumi nel disegno, opportunamente
rivelatale da Taro,
Yoshiko chiese subito alla ragazza un ritratto di Sailor
Moon, uno dei suoi personaggi preferiti.
Kumi
la
accontentò, tirando fuori dalla sua borsa il suo
inseparabile blocchetto da
disegno e una matita, eseguendo poi un disegno di notevole somiglianza.
«Wow!
Sembra che l'abbia disegnato Naoko Takeuchi in persona! Sei
bravissima!»
cinguettò, mostrando la piccola opera anche ai suoi
genitori, che annuirono.
«Hai
già
cominciato a collaborare con qualche casa editrice?» le
chiese Yumiko.
«Sì,
disegno manga e illustrazioni per una piccola casa editrice di Fuji. I
miei
genitori, specie mio padre, non sono molto entusiasti di questa mia
scelta, ma
si convinceranno prima o poi. Altrimenti pazienza. Il lavoro
più bello è quello
che faresti anche gratis.»
Yumiko
assentì. «È solo questione di tempo:
quando ti vedranno felice e realizzata,
saranno orgogliosi di te più di quanto lo sarai tu di te
stessa.»
Dopo
una
breve passeggiata, si fermarono in una gelateria.
Kumi
e
Yoshiko erano sedute su una panchina illuminata da un lampione
collocato lì
vicino e le stava facendo un altro disegno, sotto gli occhi curiosi e
partecipi
di Taisho.
Yumiko
e
Taro erano, invece, seduti a un tavolo poco fuori il piccolo edificio e
avevano
appena terminato di mangiare i loro coni alla crema e cioccolato:
avevano
scoperto con divertito stupore di avere gli stessi gusti.
Yumiko
si
pulì la bocca con una salvietta e poi la porse a Taro, che
aveva teso la mano.
«Taro
…
tuo padre lo sa?» gli chiese, dopo che il figlio l'ebbe
gettata in un cestino.
«Intendi
me e Kumi?»
Yumiko
fece un cenno d'assenso, voltandosi a dare un'occhiata alla ragazza che
aveva,
con ogni evidenza, già conquistato la simpatia della sua
secondogenita.
«Glielo
dirò al nostro ritorno in Giappone. La conosce
già dai tempi del liceo
comunque,
non
credo
avrà riserve su di lei.»
«Per
quanto mi riguarda, mi piace. Ti sostiene e sta portando avanti i suoi
sogni.
Con una ragazza così hai la possibilità di
costruire un rapporto importante.»
«Papà
mi
ha detto che una donna deve avere dei sogni propri, non deve dipendere
da me.»
le confidò.
«Sì
… ha
ragione.» gli disse, con un sorriso dolce, dopo un breve
silenzio.
«Mamma
…
dieci anni fa non avevo capito. E non sapevo … ma ora sono
contento che tu ti
sia rifatta una vita. Taisho è un bravissima persona e hai
avuto con lui una
figlia splendida. Sono felice di aver recuperato il rapporto con te e
aver
conosciuto loro.»
«Mi
sono
sentita meschina per aver perso diciotto anni della tua vita. Ma sapevo
che
Ichiro sarebbe stato un ottimo padre. Tu hai avuto la bontà
di perdonarmi, e
ora ti prometto che per te ci sarò sempre, Taro.»
disse, mentre un paio di
piccole lacrime le solcavano piano le guance.
«Non
devi
piangere, mamma. Ora possiamo finalmente guardare avanti, mettendo da
parte i
rimpianti. E ho già detto a papà che il mio
prossimo compleanno dobbiamo
festeggiarlo tutti insieme.»
«Per
me va
bene. Spero ci sarà anche Kumi.» gli
confidò, passandosi un piccolo fazzoletto
sul viso.
Taro
sorrise.
Yumiko
ammiccò e gli passò un braccio attorno alla
schiena, mentre il figlio le
circondò le spalle con il suo.
La
famiglia Yamaoka tornò nel suo albergo, Taro e Kumi si
incamminarono verso l'Eurostars
Madrid Tower.
«Un
po' mi
dispiace aver passato poco tempo con i ragazzi. Però capisco
che tu abbia
voluto stare con tua madre. A quanto pare, non vi vedete
spesso.»
«Purtroppo
meno di quanto vorremmo, ma il rapporto è ottimo. E sono
contento che tu abbia
avuto la possibilità di conoscere lei e una parte della sua
e della mia
famiglia.»
La
ragazza
roteò gli occhi, un po' dubbiosa. «Credevo fosse
un po' troppo presto.»
«Mi
fido
delle mie sensazioni. Desideravo che vi conosceste. E in ogni caso, non
potevo
certo piantarti lì.»
«Effettivamente,
ci sarei rimasta molto male.» ammise lei, tra il serio e lo
scherzoso.
«Quasi
quasi ti presento i miei, quando torniamo in Giappone.»
Taro
ammiccò, mettendole un braccio attorno alle spalle.
«Sono sicuro che tuo padre
vedendomi con la medaglia d'oro al collo, non avrà nulla da
criticare.»
«Ah,
il
signor Misaki è molto sicuro di sé
…» esclamò Kumi, mettendogli una mano
sul
petto.
«Conoscere
un ragazzo che ha vinto le Olimpiadi ha il suo fascino, devi
riconoscerlo.»
Quando
arrivarono nel salone in cui i ragazzi, come previsto da Taro, stavano
ancora
festeggiando.
«Ehi,
dov'è Elena?» chiese Kumi, non vedendo l'amica nel
salone.
«È
tornata
al vostro hotel poco fa, perché era stanca. Wakabayashi
è andato via con lei.»
rispose Urabe, con aria maliziosa.
«Io
torno
nel mio albergo.» annunciò Elena.
Genzo
assentì e per alcuni istanti la guardò senza dire
nulla.
«Vengo
con
te. Mi sembri molto stanca.»
«Effettivamente
… stanotte ho faticato ad addormentarmi e le gambe
potrebbero cedere da un
momento all'altro. Volevo aspettare le altre ragazze, ma rischio di
crollare.»
ammise.
«Ragazzi,
accompagno Elena al suo hotel.» avvertì Genzo,
rivolto ai suoi compagni ancora
intenti a scherzare e alcuni anche a mangiare e bere.
«Va
bene,
Wakabayashi! Se non torni, capiremo il perché.»
ammiccò Taki, facendo arrossire
lievemente Elena.
Genzo
scosse la testa. «Che insolente. Ai tempi della Shutetsu non
avrebbe mai osato
parlarmi in quel modo.» commentò, mentre
lasciavano il salone e aspettavano
l'ascensore.
«Beh
… in
fondo, a quell'epoca eravate ancora dei bambini.»
obiettò Elena, cercando di
buttarla sullo scherzo.
Genzo
sogghignò. «In effetti, hai ragione.»
Uscirono
dall'hotel.
Un
taxi
accostò al marciapiede pochi minuti dopo e vi salirono.
Elena
pronunciò il nome e l'indirizzo dell'Eurostars
Gran Madrid.
Rimasero
seduti a leggera distanza l'uno dall'altra. Gli occhi di Elena ogni
tanto si
socchiudevano, in un misto tra stanchezza e una leggera ebrezza.
Genzo
guardava di sottecchi il suo volto illuminato a intermittenza dalle
luci dei
lampioni.
Giunsero
davanti all'entrata dell'albergo, il ragazzo pagò la cifra
del tragitto e uscì
dall'auto, poi andò dall'altra parte dove Elena aveva aperto
l'altra portiera e
le tese la mano.
La
ragazza
scivolò fuori dall'abitacolo e la afferrò.
Era
leggermente malferma sulle gambe. Genzo le passò una mano
dietro la schiena e
la sorresse mentre si incamminavano verso le porte automatiche.
Alla
reception, chiese a Elena il numero della stanza e, alla sua risposta,
si fece
dare la tessera magnetica.
Entrarono
nell'ascensore.
Una
volta
chiuse le porte, Elena si separò da Genzo e rimosse, uno
dopo l'altro, i
sandali dai suoi piedi.
«Ecco
fatto. Non ne potevo più.» sospirò
sollevata, appoggiandosi a una delle pareti
laterali.
Genzo
sorrise. «Sei meno abituata ai tacchi e all'alcool di quanto
tu voglia far
credere.»
In
quel
momento, l'ascensore raggiunse il piano in cui si trovava la stanza di
Elena e
le porte si riaprirono.
«Non
ho
mai detto di amare le scarpe con i tacchi alti né di essere
un'ubriacona.»
ribatté impermalita, tendendo la mano per farsi dare la
tessera e precedendo il
ragazzo.
«Un
po'
scontrosa sì, però.» la
punzecchiò mentre lei, appena aperta la porta, gettava
i sandali sul pavimento senza troppa attenzione.
Lei
si
voltò e lo fissò per alcuni secondi.
La
guardava con quel sorriso accennato, come ad attendere la sua replica.
Avvertì
il
cuore accelerare i battiti e il flusso del sangue farsi più
rapido.
Istintivamente
arretrò, lasciandogli spazio a sufficienza per varcare la
linea tra il
pavimento del corridoio e quello della stanza.
La
attirò
a sé e chinò il viso sul suo, trovando subito le
sue labbra.
Lei
fece
un altro passo indietro e lui richiuse la porta dietro le sue spalle.
Le
circondò la schiena con le braccia, mentre lei gli passava
le sue attorno al
collo.
Elena
percepiva solo le grandi mani di Genzo che avevano preso ad
accarezzarle la
schiena e il calore della sua bocca, fusa con la sua.
Il
ragazzo
fece scorrere le mani dalla schiena alle sue braccia.
La
sua
pelle era leggermente increspata per l'emozione.
La
accarezzò delicatamente, dall'alto verso il basso.
Le
mani di
Elena disegnarono il largo contorno delle spalle del ragazzo, poi
scesero ad
accarezzargli le clavicole e il petto.
Si
infilarono sotto i lembi della giacca e li sollevarono piano, iniziando
a
farglieli scivolare dalle spalle, fino a farla cadere sul pavimento.
Genzo
trasalì e si scostò.
Si
guardarono, ansanti.
Elena
avvertì il contatto del legno contro le sue gambe. Aveva
raggiunto la sponda
del letto.
Gli
occhi
di Genzo erano accesi e brillanti, sembravano due braci ardenti.
«Avevi
detto che eri stanca …» la provocò.
Lei
sorrise. Senza staccargli gli occhi di dosso, gli mise una mano sui
capelli,
giocherellando con i fili di seta nera che si arricciavano alla base
della
nuca.
Lui
cinse
il fianco di Elena con una mano, chinando il viso a cercare la sua
bocca.
La
fece
gradualmente sdraiare sul letto, mentre il loro bacio si faceva
più profondo e
passionale.
Le
mani di
Elena accarezzarono il viso di Genzo, per poi scendere sulle sue spalle.
Erano
ampie, forti …
Le
labbra
di lui intanto presero a percorrere la mandibola e il collo.
Il
suono
sommesso dei suoi ansiti lo spinse a continuare … quella
pelle nivea e liscia
lo stava trascinando verso sensazioni di un'intensità mai
provata.
Era
la
prima volta da quando stavano insieme, che si spingevano oltre qualche
bacio.
Elena
inarcò leggermente la schiena e infilò le dita
tra i suoi capelli quando passò
a baciarle le clavicole e la parte di seno lasciata scoperta dalla
scollatura
del vestito.
Socchiuse
gli occhi, le labbra semiaperte.
Avvertì
la
sua mano scendere sul fianco e insinuarsi sotto l'orlo del vestito,
percorrere
la sua coscia fino a sfiorarle l'inguine.
Sussultò
ed emise un gemito.
Erano
sensazioni che la stavano sconvolgendo. Genzo la toccava e la baciava
con
delicatezza e ardore allo stesso tempo e lei sentì la sua
femminilità
risvegliarsi con prepotenza.
Stava
perdendo il controllo.
«Genzo
…»
mormorò, posando una mano su quella del ragazzo.
Lui
sollevò la testa e tornò a guardarla. Le
accarezzò piano il volto e i capelli.
La
pelle
nivea leggermente arrossata, gli occhi azzurri che lo guardavano
afflitti.
Le
gambe
che si erano istintivamente serrate.
«Mi
dispiace …» mormorò lei.
Lui
scosse
la testa, con un sorriso gentile. «Non ti preoccupare. Posso
capire. Ti
desidero, ma non ti forzerò a farlo se non ti senti
pronta.»
Si
sollevò
e si mise a sedere e lei fece altrettanto.
La
guardò.
Le spalline abbassate, il seno semiscoperto e i capelli biondi
spettinati, che
lei riavviò.
Strinse
la mascella.
Si alzò, dandole rapidamente le spalle. Recuperò
la sua giacca e raggiunse la
porta, che aprì forse con troppo impeto.
«Ci
vediamo domani.» disse voltandosi appena e chiudendo con
più calma la porta
dietro di sé.
Elena
abbassò gli occhi e si morse piano il labbro inferiore.
Sospirò.
Si
sdraiò
sul letto e chiuse gli occhi, ripensando alle sensazioni vissute poco
prima.
Avevano
già scambiato effusioni, ma non aveva mai provato nulla di
così intenso, di
così eccitante.
Genzo
ci
sapeva fare … era evidente. E se non l'avesse fermato
… avrebbe fatto ancora di
più. Una parte di sé rimpianse di non averlo
lasciato continuare, ma era
iniziata da poco e voleva aspettare, prima di vivere anche
quell'aspetto della
loro storia.
Forse
se
non avesse letto quell'e-mail, se non le fosse tornata in mente quella
frase
sulle emozioni che Gianluca non sarebbe stato più in grado
di rivivere, nemmeno
se avesse trovato un'altra donna, il pensiero che lei invece stava
quasi per
farlo, con un ragazzo nel pieno del vigore come Genzo ….
Fu
il suo
ultimo pensiero, prima di cedere alla stanchezza e addormentarsi.
***Note***
El
Clásico è l'espressione
con cui è universalmente noto il confronto tra Real Madrid e
Barcellona, le due
squadre più blasonate di Spagna.
Un saluto a tutti.
Dopo una piccola
riorganizzazione, i capitoli saranno
infine 27.
Grazie come sempre a chi dedica
un po' del suo tempo
a leggere queste pagine.
Sandie
|
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Capitolo 25 *** Capitolo XXV - Scontri e disillusioni ***
Capitolo XXV
Scontri e disillusioni
Una
delle
prime cose che Elena fece al suo ritorno a Roma, dopo la breve ma
meravigliosa
parentesi a Madrid, fu chiamare Shiori, come si era ripromessa.
La
sua
amica d'infanzia le aveva risposto con un tono di voce dapprima
titubante, poi
sempre più aperto e allegro. Si erano parlate per il tempo
necessario a darsi
appuntamento davanti alla loro palestra per l'indomani, nel pomeriggio.
La
vide
seduta sulla cima della scalinata antistante l'entrata del complesso
sportivo,
mentre scorreva, un po' annoiata, un dito sul suo smartphone.
Aveva
appena messo piede sul primo gradino quando Shiori aveva alzato la
testa.
Elena
sorrise e con pochi, rapidi passi la raggiunse.
Si
guardarono e si sorrisero. Si abbracciarono.
«Da
quanto
non fai ginnastica?» le chiese, semplicemente, come se si
fossero viste per
l'ultima volta pochi giorni prima.
«Da
due
mesi almeno.»
Dal
suo
rientro in Italia. Quanto le mancava …
«Andiamo
a
divertirci allora, come ai vecchi tempi!»
«Non
vedo
l'ora.»
«Elena,
sei più brava adesso che prima dell'infortunio!»
fu il sincero complimento che
la giovane italo-giapponese le rivolse, dopo aver passato buona parte
del
pomeriggio a improvvisare esercizi.
Erano
sedute sulla pedana, con ancora addosso le canottiere e i pantaloncini
chiazzati, così come alcune parti del corpo, di polvere di
magnesio.
«Grazie
Shiori. Anche tu sei sempre bravissima.»
L'amica
inclinò la testa.
«Dai,
ora
raccontami un po' della tua esperienza in Giappone. Ci sei stata
più tu che io
in tutta la mia vita.»
Elena
la
accontentò, mentre si alzavano dalla pedana e si avviavano
verso lo
spogliatoio.
«Hai
fatto
bene ad ascoltare tuo zio. Si vede che c'è una luce diversa
nei tuoi occhi.»
Dopo
aver
fatto la doccia ed essersi cambiate, erano uscite dallo spogliatoio ed
erano
tornate nel perimetro in cui per tanti anni si erano allenate insieme.
Elena
fece
un cenno d'assenso. Il sorriso indugiò sulle sue labbra, al
punto che a Shiori
venne spontaneo chiederle se c'era qualcosa che tentennava a dire.
«Ho
conosciuto un ragazzo. È giapponese, ma vive in Germania. E
ora … stiamo
insieme.» le confidò.
«State
insieme?»
Un
lampo
di stupore passò negli occhi della ragazza e a Elena non
sfuggì.
«Sì.
Da
poco prima del mio ritorno.» si strinse nelle spalle.
Dentro
di
sé avvertiva una sensazione sgradevole … quello
sguardo, le sapeva di
rimprovero.
«Così
se
riesci a entrare alla LMU, potrete frequentarvi con
assiduità.» commentò, con
un sorriso che agli occhi di Elena sembrava troppo tirato per essere
sincero.
«Già
…
sarebbe importante, per consolidare il nostro rapporto e vedere se
può
funzionare.»
Shiori
parlò di nuovo dopo alcuni istanti di esitazione.
«Beh, prima o poi sarebbe
accaduto. Certo, è passato relativamente poco
tempo.»
«Shiori,
Gianluca non è morto. Ha avuto un gravissimo incidente ma mi
ha voluta
allontanare da sé. E io, dopo mesi di depressione, ho deciso
di riprendermi la
mia vita. Non pensavo a un nuovo legame, figurati. Ma quando si cambia
vita, si
conoscono anche tante persone. E può capitare anche di
incontrarne una che poi
diventa speciale. E a me è successo.»
spiegò.
Nel
frattempo, erano uscite dal complesso sportivo e ora si trovavano nella
strada
antistante.
Le
giornate stavano cominciando ad accorciarsi, e la luce del sole stava
assumendo
sfumature rossastre.
Shiori
annuì lentamente, poi guardò il suo orologio da
polso.
«Si
è
fatto tardi, a casa mi staranno aspettando per la cena. Ci sentiamo,
prima che
tu parta per Monaco.»
Elena
assentì. Si salutarono e si avviarono ognuna verso la
rispettiva abitazione,
con la sensazione che qualcosa si fosse incrinato tra loro.
Nella
tarda mattinata del giorno seguente, Angelina arrivò alla
stazione di Roma
Termini insieme a Mattias, il suo fidanzato. Erano già stati
a Torino e poi a
Milano, dove lui aveva concluso degli affari per l'azienda di Monaco
per la
quale lavorava.
Ora
gli
rimaneva l'ultimo, proprio a Roma, dove aveva programmato di fermarsi
per tre
giorni.
Poi
lui e
Angelina sarebbero rimasti in Italia, per trascorrere due settimane di
vacanza
sulla Costiera Amalfitana.
Elena
li
salutò entrambi con calore.
Ormai
stavano insieme da tre anni ed erano una coppia affiatata.
Le
due
cugine decisero di passare il pomeriggio sulla spiaggia di Ostia, dove
Elena
provò a impartire alcuni rudimenti di ginnastica ad Angelina.
«Dai,
vediamo se ti ricordi come si fa!» disse la più
giovane delle due, con le mani
strette attorno ai polpacci dell'altra.
«Ah,
no!
Sono passati anni, non riesco nemmeno più a tirarmi
su!»
«Devi
sollevare il peso del tuo corpo, Angelina!»
La
ragazza, seppure a fatica, riuscì a compiere una verticale
un po' traballante.
«E
ora
prova a stare in equilibrio!» la esortò Elena,
staccando le mani dalle caviglie
della cugina, che rimasta priva di sostegno, cadde in avanti con un
tonfo,
ritrovandosi distesa sulla sabbia a pancia in su.
«Ehi,
ma
sei impazzita?» protestò, irritata.
«Sei
sempre una frana, Angelina!» rise.
«Ah,
se ti
prendo …!» disse, scrollandosi la sabbia dalle
gambe e mettendosi a
rincorrerla, tra gli scoppi di risa di entrambe.
«Ieri
ho
rincontrato Shiori.» le confidò, sedute sulla
sabbia fine e scura del litorale,
a contemplare l'andirivieni delle onde del mare, sospinte da un vento
calmo.
Si
erano
avvicinate al bagnasciuga, abbastanza da sentire l'acqua fredda lambire
i loro
piedi.
«La
tua
amica della scuola di ginnastica? Avete fatto pace?»
Elena
diede un'alzata di spalle. «Così mi era sembrato.
Ma quando le ho detto che ho
cominciato una storia con un altro ragazzo, ha avuto un atteggiamento
più
freddo. Mi ha detto che ci sentiamo, ma sono sicura che in
realtà non intende
rivedermi.»
Sospirò,
con una piccola smorfia. Angelina la guardò senza
intervenire.
«Ho
avvertito un po' di impaccio tra noi, specie dopo che le ho detto che
ho
intenzione di trasferirmi in Germania, dove abita anche lui.
È diventata più
rigida … come se pensasse che stessi facendo un torto a
Gianluca.»
«Era
inevitabile che prima o poi ti saresti innamorata di qualcuno, a meno
che tu
non decidessi di farti monaca.»
Elena
fece
un mezzo sorriso.
«Purtroppo
capita che le amicizie, anche quando sono lunghe e di vecchia data,
finiscano …
e che le strade si dividano. L'importante è andare avanti e
ricordarsi che per
una persona perduta se ne possono conoscere tante altre. Ed
è quello che è
capitato a te.» le ricordò Angelina.
«Piuttosto,
raccontami qualcosa di questo ragazzo. È
giapponese?»
Sua
cugina
era una delle poche persone di cui si fidava completamente, era sempre
stata
una specie di sorella maggiore per lei. A lei poteva raccontare tutto.
«Lo
conosci, almeno di fama.»
Angelina
alzò un sopracciglio. «Come, di fama? Mica
sarà quel ginnasta, come si chiama …
Uchimura?»
Elena
sgranò gli occhi, poi scoppiò a ridere.
«No,
purtroppo non l'ho incontrato … però hai pescato
nel settore giusto, perché è
uno sportivo.» rispose, sibillina.
«Mah
… hai
detto che vive in Germania … mi viene in mente solo il
portiere dell'Amburgo,
Wakabayashi.» spalancò gli occhi. «No,
non posso crederci … Wakabayashi?»
Elena
annuì più volte, senza trattenere un gran sorriso.
«Accidenti
… no dai, non è possibile.»
Elena,
senza smettere di sorridere, le mostrò le fotografie
scattate a Madrid e
memorizzate nel suo smartphone.
«È proprio
lui!» esclamò Angelina,
sempre più stupita. «Ma da quanto
vi conoscete? Non mi hai mai raccontato nulla!»
«A
Nankatsu vivono anche alcuni giocatori della Nazionale
Olimpica, che in
quel periodo stavano disputando le qualificazioni. C'era anche Taro, il
ragazzo
che ho conosciuto sei anni fa. Genzo faceva allenamenti di kickboxing
con lo
zio, così ci incontravamo spesso.»
«E
da cosa
nasce cosa.» concluse Angelina, con un sorriso.
«Siamo
ancora all'inizio, servirà tempo per capire se
può funzionare. Ma voglio
provarci.»
«Lui
com'è? Ha sempre un'espressione seria in foto, ma da alcune
interviste mi è
sembrato dotato di una certa ironia.»
«Lo
è. Poi
certo, è un ragazzo riflessivo e accorto, spesso sembra
più vecchio dei suoi
vent'anni, ma sa anche essere spiritoso.»
«Ed
è
anche bello.» aggiunse Angelina, strizzandole un occhio.
Elena
fece
un cenno d'assenso, senza trattenere l'ennesimo sorriso.
«Però
vedi
… a volte mi sento ancora colpevole.» le
confessò, tornando seria.
«E
perché?»
«Genzo
è
un ragazzo forte, robusto, vigoroso. È quanto di
più sano potrebbe desiderare
di essere un uomo ….»
«Fammi
capire … se ti fossi innamorata di un altro disabile ti
sentiresti meno in
colpa?»
Elena
sgranò gli occhi e la guardò interdetta. Angelina
sorrise.
«Ti
rendi
conto delle stupidaggini che dici?» la rimproverò
bonariamente.
«Elena,
a
diciannove anni la vita è ancora tutta da vivere. Deve
averlo pensato anche
Gianluca … dal suo punto di vista, costringerti a occuparti
di lui era come
condannarti a una prigionia.»
Elena
ristette per alcuni istanti, perplessa.
«E
chi ti
dice che non l'abbia fatto perché non si fidava di
me?»
«Non
ne
sono sicura, infatti. Forse è l'affetto che provo nei tuoi
confronti, ma il
fatto che so che tu gli saresti senz'altro rimasta accanto me lo fa
credere. E
a me piace pensare che sia così.»
affermò, incoraggiante.
Il
sole
non aveva ancora cominciato a tramontare quando Elena disse ad Angelina
che per
lei era giunta l'ora di tornare a casa.
«Questa
sera lavoro alla discoteca.» si giustificò.
Un
paio di
fermate prima della loro, Elena si sentì toccare sulla
spalla.
Alzò
la
testa e vide Sara che, in piedi, si stava preparando a scendere.
«Ehi,
collega! Sei stata al mare?»
«Sì.
Questa è mia cugina, Angelina.» rispose,
indicandole la ragazza dai lunghi
capelli castani e occhi azzurri seduta accanto a lei.
«Angelina, lei è Sara.
Lavora alla discoteca con me.»
Le
due si
strinsero le mani e si sorrisero.
«Facciamo
impazzire tutti i clienti, con il nostro "stile di danza".»
disse,
strizzandole un occhio.
Angelina
alzò un sopracciglio, poi guardò Elena con aria
interrogativa.
L'ex
ginnasta strinse le labbra e rivolse uno sguardo di rimprovero alla sua
collega, che però finse di non coglierlo.
L'autobus
accostò poco dopo e Sara le dovette salutare subito, non
prima di aver gridato
un "A più tardi!" a Elena.
«Elena,
che storia è questa? Gli zii lo sanno?»
«No,
non
lo sa nessuno. Ci servono soldi e sono stufa di andarli a chiedere a
destra e a
manca.»
«Mi
manca
poco per raggiungere la cifra necessaria a pagare la prima retta. Non
sto
facendo nulla di osceno, comunque. Ballo per qualche ora, e
basta.» soggiunse,
irritata dal volto accigliato della cugina.
«Questo
lo
chiami ballare?» ribatté Angelina, sarcastica.
Elena
chiuse gli occhi e sorrise di rimando. «Non è
l'Opéra di Parigi, ma in giro c'è
di peggio, basta accendere la tv.»
Angelina
socchiuse le labbra per ribattere qualcosa, ma sentì che
qualunque cosa potesse
dire, non sarebbe risultata convincente.
«Sei
sicura di stare facendo la cosa giusta, Elena?»
«È
una
parentesi. Da settembre potrò tornare la ragazza di
sempre.»
Angelina
sospirò perplessa, anche se nel fondo del cuore sperava che
l'ottimismo della
cugina avesse davvero fondamento. Sperò che l'autunno
avrebbe portato serenità
e importanti novità nella loro vita.
Genzo
scostò lo smartphone dal suo orecchio e lo rimise in tasca,
contrariato.
«Non
risponde?» chiese Taro, in piedi accanto a lui davanti
all'ingresso
dell'albergo in cui avevano preso una stanza ciascuno, a Roma.
«No…
è già
il terzo tentativo.» piegò le labbra in una
smorfia.
«Forse
è
occupata.» buttò lì.
«Vorrei
rivederla … e pensare che mi ha detto di lavorare come
barista in una
discoteca, e io non le ho mai chiesto come si chiama e in che zona si
trova.
Che stupido.»
«Abita
nel
Prenestino. Potremmo provare ad andare in una discoteca dei dintorni e
vedere
se è lì. Me ne ricordo una molto nota in quella
zona.»
I due amici avevano deciso
di trascorrere in compagnia i pochi giorni di vacanza a disposizione
prima di
partire, rispettivamente per Parigi e per Monaco di Baviera. Trovandosi
entrambi in Europa, la loro scelta era caduta su Roma e non solo per la
sua importanza
storica e le sue attrattive turistiche.
Entrambi
erano attesi dall'inizio di un nuovo capitolo della loro carriera.
Per
Taro
era l'agognato approdo al calcio europeo e internazionale e per Genzo,
il salto
di qualità in una delle grandi del calcio mondiale.
Anche
per
questo, il portiere sperava di incontrare Elena … per
poterglielo dire di
persona.
Si
trovavano nel salone da circa mezz'ora, seduti davanti a una birra.
La
musica
avvolgeva tutto l'ambiente e la pedana era piena di persone, giovani e
meno,
che ballavano.
«Mi
è
venuta fame. Vado a ordinare un dolce, ti va?» chiese Genzo,
incontrando il
cenno d'assenso di Taro.
Si
alzò e
si diresse verso il bancone.
L'aveva
quasi raggiunto facendosi educatamente strada tra la gente, quando
urtò contro
una ragazza che in quel momento era scesa dal palco.
Stava
per
chiederle scusa ma le parole gli morirono in gola, non appena vide il
suo
volto.
Era
molto
truccata e indossava un succinto abito nero e fucsia, ma quel
portamento e
quello sguardo … ormai li avrebbe riconosciuti tra mille.
«Elena?»
«Genzo
…
cosa fai qui?»
«Dovrei
essere io a farti questa domanda!» replicò
sconvolto, alzando la voce.
«Non
posso
risponderti ora. Sto lavorando.» affermò, rigida.
Genzo
rise
incredulo, in modo sguaiato. «E tu questo lo chiami
lavoro?»
La
ragazza
gli rivolse un'occhiata di fuoco, poi si voltò e si
incamminò verso gli
spogliatoi.
«Elena!»
gridò, muovendo un passo per seguirla.
«Wakabayashi.»
cercò di riportarlo alla calma Taro, avvicinatosi nel
frattempo, mettendogli
una mano su una spalla.
Ma
il
ragazzo si divincolò con un rapido movimento e si mise a
correre nella
direzione in cui era sparita l'ex ginnasta.
«Ehi!
Non
puoi andare là!» cercò di fermarlo
Sara, ma Genzo sembrò non essersi nemmeno
accorto della sua presenza.
«Accidenti!
Dopo quella pazza, ci mancava questo!»
«Che
sta
succedendo?» Angelina comparve sul corridoio.
«Oh
meno
male! Cerca di parlare con quel marcantonio, tu che sei
tedesca!»
«No
Angelina, stanne fuori. È una questione tra me e
Genzo.» la fermò Elena, con un
tono che non ammetteva obiezioni.
Alla
ragazza non restò che annuire. Allargò le braccia
e rimase nel corridoio.
Si
era
sorpreso molte volte a fantasticare sul suo corpo nudo o scarsamente
vestito,
ma mai avrebbe voluto vederlo così, in quel contesto.
Pensò
a
quella notte a Madrid, quando lei lo aveva fermato.
E
ora
ballava in quel modo, con ammiccamenti allusivi e si lasciava sfiorare
da
chiunque come se niente fosse.
«Elena!
Che razza di storia è questa?» chiese in
giapponese.
La
ragazza
trasse un profondo respiro. Era arrivato il momento che sperava non
avrebbe mai
dovuto affrontare.
«Questo
è
uno spogliatoio femminile, non puoi stare qui!»
replicò, dirigendosi verso la
porta per invitarlo a uscire, ma lui la afferrò per un
braccio.
«Guardati!
Sei mezza nuda, e con quel trucco sembri una …» si
fermò appena in tempo, ma
Elena sorrise sarcasticamente, divincolandosi dalla sua presa.
«Cosa
sembro? Dai Genzo, dilla quella parola. Puttana.
Mi basta l'espressione dei tuoi occhi per leggerci il tuo
disprezzo.»
Il
giovane
scosse la testa.
«Dovevi
arrivare a questo? Con tanti lavori che avresti potuto fare?»
chiese, seguendo
Elena fuori dalla porta, da cui era uscita.
Sara
picchiò con un dito sulla spalla di Taro e gli chiese cosa
aveva appena gridato
il suo amico.
Il
centrocampista glielo rivelò e lei non si trattenne
dall'urlargli ciò che
pensava.
«Ahimè
bel
samurai, chi non ha mai avuto problemi economici non può
capire che con certi
mestieri si fa la fame o comunque si guadagna troppo poco e le agenzie
per la
riscossione delle tasse non sentono ragioni, specie con i comuni
mortali.»
Genzo
volse per un attimo lo sguardo verso la ragazza, poi tornò a
guardare Elena.
Gli
aveva
urlato qualcosa, certamente in tono polemico, ma aveva afferrato solo
pochi
termini, insufficienti per comprendere tutto.
«Potevi
parlarmene. Ti avrei dato una mano.»
«Certo!
Così davo ragione alla tua deliziosa ex, convinta che punti
solo ai tuoi
soldi!»
«Asami
fa
parte del passato, non mi importa cosa pensa di te. Ma almeno avresti
evitato
di degradarti.»
Di
nuovo
quell'occhio scrutatore, che sembrava biasimarla.
Elena
deglutì. Il suo sguardo si fece duro e carico di delusione.
«Vattene
Genzo.»
Il
ragazzo
non accennò a muoversi. «Io non ti sto giudicando,
Elena. Soltanto …»
«Ah,
no? E
allora perché mi hai seguita fin qui come una
furia?» gridò, stringendo le mani
a pugno. «Farò questo lavoro almeno fino a quando
non conoscerò l'esito
dell'esame di ammissione. Se non sei capace di sopportare questa
prospettiva,
lasciami in pace.»
Genzo
strinse i denti, cercando di calmarsi. «Io non sono
arrabbiato con te, Elena. È
solo che … mi chiedo se era proprio necessario che arrivassi
a questo.»
«Se
ne
avessi parlato con i miei genitori o con qualsiasi altra persona,
avrebbero
sicuramente fatto di tutto per dissuadermi, non certo per una questione
economica ma perché effettivamente a chi fa piacere sapere
che la propria
figlia o ragazza o amica fa la ballerina in un locale? È
consueto pensare che
chi fa questo mestiere sia una poco di buono, una ragazza di facili
costumi …
la realtà è molto più complessa di
come appaia e me ne sono resa conto
conoscendo Sara e le altre.» gli spiegò risoluta,
traendo poi un profondo
respiro.
«Questo
è
un periodo di transizione e per me è soltanto una parentesi.
Poi cercherò un
lavoro come insegnante di ginnastica artistica o mi metterò
a dare
ripetizioni.» aggiunse, con voce più pacata.
«Insisto,
potevi evitarlo. Non tutte le ragazze per guadagnare soldi, si mettono
a
ballare mezze nude.»
Elena
alzò
la testa e lo guardò, dura. «Andiamo, non essere
ipocrita! Quante te ne sei
fatte di "quelle", nei posti in cui sei stato grazie al tuo lavoro e
al tuo status?»
gli chiese provocatoria,
calcando volutamente sull'ultima parola.
«Anche
se
fosse, non è la stessa cosa! Tu sei la mia ragazza. Ti avrei
aiutata, se me lo
avessi chiesto.»
«Ti
ho già
detto che non voglio la tua carità!»
gridò, esasperata.
Genzo
la
guardò, sospeso tra rabbia e ammirazione.
«In
ogni
caso, ormai il più è fatto. E se non avessi avuto
la brillante idea di venire a
Roma a cercarmi, ora non sapresti niente.»
«Perché
ovviamente non avevi alcuna intenzione di raccontarmelo.»
«Già.
Vista la tua reazione, non avevo tutti i torti.» concluse
lapidaria.
«E
ora
fammi la cortesia di andartene. Se ai tuoi occhi sono definitivamente
"degradata", con un po' di fortuna potrai sempre incontrare una
ragazza pura come un giglio, meglio se benestante. Una tipo la Ujimori,
insomma.»
«Elena
…»
«Voglio
concentrarmi solo sullo studio e sul mio test d'ammissione. Cose su cui
decido
io e di cui non devo rendere conto a nessuno. Te lo ripeto Genzo:
lasciami in
pace.» scandì le ultime tre parole, prima di
rientrare nello stanzino.
Il
portiere rimase fermo alcuni istanti davanti alla porta che lei aveva
chiuso
dietro di sé, poi strinse la mascella e si voltò,
incamminandosi verso il
salone.
Alla
fine
del corridoio vide Angelina che, a braccia conserte, lo guardava con un
mezzo
sorriso.
«Per
lei è
un'esperienza temporanea. Una volta saldati i debiti e iscritta
all'università,
tornerà a essere la brava ragazza che conoscevi.»
concluse senza celare una
nota d'ironia, battendogli una mano sulla spalla e superandolo nella
direzione
opposta alla sua, per bussare alla porta dello stanzino, in cui
entrò subito
dopo.
Nel
camerino, passò le salviette struccanti sul suo viso con
energia e rabbia.
Voleva
tornare a essere Elena e fingere che non fosse accaduto nulla.
Gran
parte
del mascara e del fard erano colati per via delle lacrime che avevano
preso a
scendere silenziosamente già durante il suo diverbio con
Genzo.
«Su,
non
piangere. Era stupito: forse se gliene avessi parlato quando vi siete
visti a
Madrid, non avrebbe avuto quella reazione.» tentò
di consolarla Angelina.
«Sono
certa che ora mi crede una poco di buono, disposta a tutto.»
«Se
è
così, non avrai perso granché.»
intervenne Sara, che stava finendo di vestirsi.
«Comunque
per ora non me la sento di perdonarlo. Si è comportato come
il ragazzo ricco
che schifa le condizioni più umili. Per fortuna la mia
scelta di studiare a
Monaco è indipendente dal rapporto tra me e lui.»
affermò, cominciando a
rivestirsi.
Genzo
e
Taro rimasero fuori a pochi metri dal locale.
Si
erano
seduti su una panchina, Genzo con la testa abbassata e lo sguardo tra
l'irritato e il costernato, le dita intrecciate sotto il mento. Taro
lanciava
ogni tanto delle occhiate verso la porta, da cui stavano uscendo gli
ultimi
avventori.
«Cos'è
che
mi ha gridato quella ballerina?» si decise a chiedere il
portiere, dopo diversi
minuti di silenzio.
Taro
glielo riferì e lui accennò un sorriso.
«Forse ha ragione. Per quante persone
di umili origini possa conoscere, non ho mai vissuto questa situazione
sulla
mia pelle.»
«Diciamo
che hai avuto una reazione impulsiva e poi le hai rinfacciato tutto
come se
avesse compiuto chissà quale crimine.»
«Se
tu
avessi beccato Sugimoto in quella situazione, come ti saresti
comportato?» gli
chiese, senza malizia.
Taro
sospirò, tirò il busto indietro e
allargò le braccia.
«Non
lo
so. Di certo, non ne sarei stato felice. Ma di una cosa sono sicuro:
Elena ha
dimostrato, se mai ce ne fosse stato bisogno, di tenere molto alla
vostra
relazione e di non stare con te perché le interessano i tuoi
soldi.»
Genzo
annuì. «Ho combinato un bel pasticcio.»
mormorò, con un sorriso amaro.
Passarono
almeno altri venti minuti, prima che Elena uscisse insieme a Sara e
Angelina.
Notò
subito i due ragazzi seduti sulla panchina a pochi metri da dove si
trovavano.
Genzo
si
alzò e si avvicinò, lo sguardo sempre fisso nel
suo, ma questa volta contrito.
Taro
fece
altrettanto, ma rimase indietro, a breve distanza.
«Perdonami
per prima. Non ho mai pensato che tu fossi una poco di buono, nemmeno
per un
momento. Soltanto … avrei voluto che non me lo tenessi
nascosto. Avresti potuto
parlarmene a Madrid.»
«I
giorni
passati a Madrid sono stati gli unici in cui sono stata bene, da quando
ho
lasciato il Giappone. Volevo godermi quei momenti, sicura che con un
altro mese
di lavoro mi sarei assicurata il pagamento della quota
d'iscrizione.»
Genzo
la
guardò.
La
attirò
a sé e le diede un bacio sulla fronte. Elena gli si
accostò spontaneamente,
avvertendo quel senso di calore e di protezione che lui sapeva darle.
«Elena,
allora vieni? Sto crollando dal sonno!» gridò
Sara, dal posto di guida della
sua auto. Angelina era seduta sul sedile posteriore.
«Sì,
arrivo!» rispose, voltandosi un attimo verso l'amica, poi di
nuovo verso Genzo.
«Ti
ho
cercata perché volevo dirtelo di persona … domani
parto per Monaco, dove mi
aspettano le visite mediche. Se tutto va bene firmerò un
contratto quadriennale
e il club ufficializzerà lunedì il mio
trasferimento.» le annunciò.
Lei
lo
guardò seria, senza proferire parola.
Aveva
aspettato quella notizia per tanto tempo. Solo una settimana prima, gli
sarebbe
saltata al collo per la gioia. In quel momento però,
riusciva a provare solo
amarezza.
«Allora
forse ci rivedremo in Germania, se passerò l'esame e se
tollererai questa
macchia nella mia vita.» gli disse con una vena di sarcasmo,
scostandosi da
lui.
Poi
andò
ad abbracciare Taro e gli rivolse un "in bocca al lupo" per la sua
nuova avventura parigina.
I
due
ragazzi la guardarono salire sull'auto della sua collega, che li
salutò con un
sorriso furbo prima di mettere in marcia.
Il
salone
dell'hotel Peninsula,
scelto come sede
della festa organizzata dalla Federcalcio per celebrare la conquista
della
medaglia d'oro ai Giochi Olimpici, era pieno di personalità
del mondo del
calcio, dell'alta società, della politica e
dell'imprenditoria.
I
calciatori arrivarono in compagnia delle loro mogli o fidanzate, tranne
Genzo e
Tsubasa e pochi altri.
Sanae
aveva partorito due splendidi gemelli, cui erano stati dati i nomi di
Hayate e
Daibu. Era a casa, a riposarsi e a prendersi cura di loro, con l'aiuto
dei suoi
genitori e di quelli di Tsubasa, oltre a quello di Yukari, quando era
libera da
altri impegni.
Lo
stesso
capitano annunciò che avrebbe presenziato per un paio d'ore,
poi sarebbe
tornato a Nankatsu per stare vicino alla moglie e ai figli.
Shun
invece, si presentò raggiante tenendo per mano Madoka, che
per i suoi studi non
aveva potuto seguirlo in Spagna.
Per
il
resto, nessuna era voluta mancare: Kumi, Yayoi, Yoshiko, Maki e Yukari
erano un
po' impacciate per via dell'atmosfera formale, ma l'occasione di
festeggiare un
importante traguardo della carriera dei rispettivi fidanzati le faceva
apparire
radiose.
Maki
in
particolare sembrava esitante nel suo lungo abito di seta bianca, ma i
suoi
occhi si illuminarono dopo che Kojiro le ebbe sussurrato qualcosa
all'orecchio,
per poi sorriderle.
Genzo
era
arrivato a Tokyo dopo aver concluso il suo trasferimento a titolo
definitivo al
Bayern Monaco.
La
Bundesliga era iniziata due settimane prima. Lui avrebbe preso
posizione tra i
pali del Bayern dopo la sosta per la Nazionale, anche per guarire
definitivamente dall'infortunio alla spalla. Taro aveva invece
già esordito in
Ligue 1, in una partita terminata con un 2-0 del Paris Saint Germain
sul
Nantes. Non aveva segnato, ma aveva mandato in gol sia Le Blanc sia
Napoléon,
con due passaggi precisi al millimetro.
Il
centrocampista e Kumi furono tra i primi ad andargli incontro, al suo
arrivo
alla festa.
«Elena
non
c'è?» chiese la giovane mangaka.
«No,
è
rimasta a Roma. Tra pochi giorni dovrà partire per Monaco e
fare l'esame
d'ammissione all'università.»
Lei
fece
un cenno d'assenso. «Sì, ne aveva parlato quando
eravamo a Madrid. Ho sperato
fino all'ultimo che riuscisse a venire. Le invierò
l'immagine di un omamori
via e-mail, sperando sia comunque di
buon auspicio.»
«Credo
di
sì, e poi ha anche il suo maneki neko.»
rispose Genzo, con un sorriso.
In
fondo,
in un certo senso era stato lui a regalarglielo.
Aveva
guardato attentamente Kumi negli occhi, durante la loro breve
conversazione.
No,
non ne
sapeva nulla.
Elena
non
aveva raccontato niente a nessuno, e probabilmente anche Angelina lo
sapeva
solo perché era stata a Roma. Taro, da vero amico, si era
comportato in modo
discreto e non aveva rivelato nulla di quell'episodio senza il consenso
dei due
diretti interessati.
A
poco più
di metà serata, il brusio delle chiacchiere tra i numerosi
ospiti si
interruppe.
Nel
salone
era appena entrata una persona: una splendida ragazza dai lunghi
capelli
corvini, la cui figura leggiadra era fasciata da un lungo abito color
lilla.
Sul volto dai lineamenti gentili e dalla pelle candida spiccavano due
intensi
occhi neri.
Attirò
l'attenzione di tutti i presenti, che la guardavano con ammirazione, ma
lei
sembrò quasi non accorgersene, concentrata com'era su Genzo.
Un
particolare impossibile da non cogliere.
Dopo
i
saluti, i due giovani si spostarono in una saletta più
piccola e appartata, tra
gli sguardi incuriositi e i bisbigli degli astanti.
«Asami
…
che ci fai qui?»
«Sono
venuta a celebrare la vittoria delle Olimpiadi. In fin dei conti ho
condiviso
gran parte del tuo percorso.»
Lui
non
replicò.
«E
la tua
bella insegnante dov'è?» chiese, con un sorriso
sereno.
«Non
è
qui.» rispose, laconico.
La
ragazza
inclinò la testa, con un sopracciglio alzato e un lieve
sorriso.
«È
impegnata con il test d'ammissione a un'importante
università di Monaco.» si
affrettò ad aggiungere.
Per
Asami
fu un pesante colpo.
Aveva
aspettato, convinta che sarebbe stato soltanto un fuoco di paglia,
un'infatuazione destinata a finire una volta vissuto il "momento
magico" e passato il periodo di esaltazione tipico delle relazioni
appena
cominciate.
A
quanto
pareva invece, quei due avevano deciso di abitare nella stessa
città.
«Ma
non
hai ancora avuto il coraggio di dire ai nostri genitori che mi hai
lasciata.»
«Mi
aspettavo di vederti proclamare il tuo amore per la tua bella
insegnante
europea, ma hai preferito tacere.» insistette, davanti al
silenzio dell'ex
fidanzato.
«La
nostra
storia è ancora all'inizio e io voglio
proteggerla.» replicò, infine.
Asami
accennò una risata sarcastica. «Proteggerla. Lo
ammetti anche tu che una
ragazza come quella non è considerata degna di entrare in
una famiglia
appartenente al kazoku
e stai pensando a
come potresti far digerire la notizia ai tuoi.»
«I
titoli
nobiliari in Giappone sono stati aboliti nel secondo dopoguerra, Asami.
Un'appassionata di storia come te dovrebbe saperlo.»
La
ragazza
non si lasciò smontare dal suo tono beffardo.
«Certo, ma hanno continuato ad
avere un peso nella società. E continueranno ad averlo.
Inoltre se viene minata
l'armonia tra le nostre famiglie, c'è il rischio che anche
gli affari ne
risentano.»
«È
solo
questione di tempo, Asami. Al mio ritorno in Germania
comincerò una nuova vita,
nella mia nuova squadra. A tutti voi non resterà che
prenderne atto.»
«…
e
annuncerai al mondo il tuo fidanzamento con la studentessa originaria
della
periferia romana, che si mantiene agli studi insegnando ginnastica
artistica
alle bambine. Accidenti, Cenerentola esiste davvero.»
Genzo
sospirò, cercando di gestire la crescente sensazione di
fastidio.
«Asami,
anche se non stiamo più insieme, hai ancora tutto il mio
rispetto. Ora ti
chiedo di rispettare Elena e di non ritenerla inferiore solo
perché non è nata
in una famiglia ricca. Spesso le gemme più preziose si
trovano nascoste nella
terra.»
La
giovane
piegò le labbra in una smorfia ironica. «Che frase
romantica, Genzo. Non vorrei
che un bel giorno tu scoprissi di esserti lasciato abbindolare da una
ragazza
che ha trovato un modo a dire il vero poco originale, ma sempre
efficace per
risolvere definitivamente i suoi problemi economici.»
«Te
lo
ripeto: evita di parlare così di una ragazza che neppure
conosci. Stai basando
le tue affermazioni su un pregiudizio.»
«Cerco
soltanto di metterti in guardia, come fa un'amica.»
esitò un istante, poi
scosse leggermente la testa. «No, non un'amica. I sentimenti
non cessano da un
giorno all'altro. Anche se è finita, io ti amo ancora Genzo.
E non voglio che
tu debba soffrire per una che cerca soltanto di scalare posizioni nella
società.»
Genzo
mantenne un'espressione impassibile, anche se sentiva il petto in
subbuglio.
Quelle
insinuazioni su Elena lo stavano facendo infuriare per la
malignità contenuta
in esse e per l'immagine che Asami gli stava dando di sé.
Non
poteva
rivelarle quello che la sua ragazza aveva fatto per non chiedergli
soldi e per
potersi trasferire a Monaco, e neppure sentiva di doversi giustificare.
«È
tutto,
Asami? Perché tra poco la festa finirà.»
Lei
gli
sorrise, si avvicinò e cercò di toccarlo, ma lui
la fermò.
I
suoi
occhi si spalancarono di fronte al suo sguardo ostinato.
«Asami,
non c'è spazio per le illusioni. Anche se tra me ed Elena
dovesse finire un
giorno … io per te provo solo amicizia. Avrò un
bel ricordo della nostra
storia, ma è finita. Ora, il massimo che posso fare per te
è chiederti di
guardare avanti. Se poi saprai farlo smettendo di giudicare dall'alto
chi non
ha avuto la fortuna di nascere in una famiglia agiata, non avrai che da
guadagnarci.»
L'ereditiera
strinse le labbra e lo guardò contrita. «Genzo
… ti prego solo di fare
attenzione.»
Lui
la
scrutò con uno sguardo severo, che la mortificò.
Poi la oltrepassò e
uscì dalla saletta, lasciando in Asami il sapore
amaro della sconfitta e della
disillusione.
Kumi
e
Taro entrarono in una delle stanze dell'hotel.
Era
tardi
per tornare a casa e così avevano deciso di fermarsi
lì a dormire. Era però
rimasta libera solo una matrimoniale, che accettarono con una lieve
esitazione
da parte di lei, che lui seppe dissipare con una battuta.
Taro
si sedette sul
letto.
Il
volto
era stanco, ma gli occhi ancora brillavano per l'euforia.
Kumi
sorrise e gli andò incontro, mettendosi di fronte a lui. Si
avvicinò il più
possibile, alzando una mano e passandogli le dita sui capelli.
Taro
chiuse gli occhi, beandosi di quelle carezze. Poi le posò
una mano su un
fianco, inducendola ad avvicinarsi ancora.
Kumi
trasalì nell'avvertire il contatto leggermente umido delle
labbra del ragazzo
sul suo ventre, attraverso la stoffa del vestito. Era un gesto tenero e
sensuale allo stesso tempo.
Istintivamente
strinse le dita attorno alle ciocche di capelli.
Taro
alzò
la testa e afferrò la mano libera della ragazza. La
osservò, fremente.
Kumi
smise
di accarezzargli i capelli e sfilò lentamente le dita.
Dandosi
una lieve spinta all'indietro, Taro si sdraiò sul letto e
attirò Kumi sopra di
sé.
Poteva
sentire il cuore di lei battere forte, a contatto con il suo petto.
I
loro
visi erano vicini. Lui le accarezzò i capelli e
portò alcune ciocche dietro le
orecchie.
«Sei
bellissima.» mormorò, guardandola con occhi quasi
liquidi.
Lei
trattenne il fiato, poi gli sorrise.
Stava
scoprendo un nuovo lato di sé, quello seducente e malizioso.
E man mano che lo
sperimentava, si divertiva sempre più a giocarci.
Si
avvicinò ancora, e le loro labbra si toccarono. Presto il
contatto si fece più
intimo.
Kumi
aveva
le mani sulle spalle di Taro, mentre il ragazzo le accarezzava
lentamente la
schiena, sfiorandole la pelle nuda.
Il
loro
bacio si faceva sempre più profondo, passionale. Per Kumi
era una sensazione
del tutto nuova. Per Taro … era bello ed eccitante,
più di quanto lo fosse
stato con Kinuyo.
Lei
appoggiò una mano sul suo petto e cominciò ad
accarezzarlo piano, spaziando
sulle spalle e scendendo verso il suo addome, disegnando i contorni.
Avvertiva
i suoi muscoli contrarsi sotto il suo tocco delicato.
La
avvolse
nel suo abbraccio, poi si sollevò e la fece sdraiare sotto
di sé.
Kumi
aprì
le labbra poi le richiuse.
Poteva
leggere una muta, appassionata richiesta nello sguardo del suo ragazzo.
«È
la
prima volta.» riuscì soltanto a mormorare, con una
punta di imbarazzo. Le
guance calde e arrossate.
Non
aveva
alcuna esperienza, ma la voglia era tanta …
«Lasciati
andare, Kumi. Vedrai, non c'è nulla da temere.» le
sussurrò. La voce calda,
intensa, rassicurante.
Chiuse
gli
occhi e posò le labbra su quelle di Taro, invitandolo a
continuare.
Incoraggiato
da quell'iniziativa, mise le mani sulle spalline del vestito e le fece
scivolare verso il basso, sfilandolo dopo che lei aveva inarcato la
schiena.
Poco
dopo
la camicia di Taro cadde sul pavimento.
Poi
fu il
turno degli altri indumenti.
Taro
accarezzò lentamente quella pelle chiara e liscia e si
chinò su di lei.
Kumi
lo
arrestò a pochi centimetri, accarezzandogli le spalle, le
braccia e il petto,
tracciando con le mani i contorni dei suoi muscoli.
Taro
stette al suo gioco, poi le afferrò piano i polsi e
posò nuovamente le labbra
sulle sue.
Kumi
portò
le braccia sulla fronte. La testa reclinata all'indietro, gli occhi
chiusi, le
labbra semiaperte.
La
bocca
di Taro si stava posando ovunque sul suo corpo e indugiava sulle zone
più
sensibili, donandole un piacere che stava attenuando i suoi timori e
che le
fece perdere coscienza del mondo circostante.
Si
distese
su di lei, le baciò il viso e i capelli e le
accarezzò i fianchi e le gambe
mentre entrava in lei, per alleviare la fitta di dolore che le fece
emettere un
piccolo grido soffocato. Continuò a muoversi delicatamente,
affondando il viso
nell'incavo tra spalla e collo.
Le
labbra
di Taro sulla sua fronte e l'abbraccio in cui la strinse, fu
ciò che Kumi
avvertì prima di chiudere gli occhi, accostandosi a lui.
***Note***
Kohei Uchimura
è un ginnasta giapponese,
attualmente il più forte al mondo. Nel suo ricchissimo
palmarès ci sono sette
medaglie olimpiche (tre d'oro, quattro d'argento) e diciannove mondiali
(dieci
d'oro, sei d'argento e cinque di bronzo). Nella sua carriera ha vinto
due
titoli olimpici consecutivi (Londra 2012 e Rio de Janeiro 2016) e sei
titoli
mondiali consecutivi dal 2009 al 2015.
Il
Kazoku
(letteralmente
"lignaggio illustre/floreale") è stato il sistema ereditario
di
nobiltà dell'Impero del Giappone in vigore tra il 1869 e il
1947.
Con
il Peerage Act
del 7 luglio 1884, il governo
Meiji espanse la nobiltà ereditaria premiando con l'ingresso
nel kazoku
persone che avevano compiuto atti
eccezionali al servizio della nazione. Il governo inoltre divise il kazoku in cinque
ranghi basati sulla parìa
inglese, ma con titoli derivati dall'antica nobiltà cinese:
Principe o duca
(公爵 kōshaku)
Marchese (侯爵 kōshaku
-
con un carattere cinese
diverso)
Conte (伯爵
hakushaku)
Visconte (子爵 shishaku)
Barone (男爵
danshaku)
Nel
1946
la nuova Costituzione del Giappone abolì il kazoku
e tutti i titoli di nobiltà o di rango eccetto quelli della
famiglia imperiale.
Nonostante
ciò molti discendenti delle famiglie kazoku
continuano a occupare ruoli preminenti nella politica, industria e
società
giapponese.
Fonte:
Wikipedia
|
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Capitolo 26 *** Capitolo XXVI - Vite che cambiano ***
Capitolo XXVI
Vite che cambiano
«Nonno,
metti su Eurosport
che sta per iniziare il telegiornale
sportivo!»
L'anziano
uomo lanciò
un'occhiata maldisposta al più giovane dei suoi tre nipoti,
un dodicenne alto e
magro, un bel volto incorniciato da corti riccioli castani su cui
spiccavano i
brillanti occhi azzurri, e portò alla bocca un'altra
forchettata di pasta,
senza rispondergli.
Al
suo fianco la
moglie, una donna bionda della sua stessa età,
fissò il nipote con aria di
rimprovero, le mani congiunte e le dita intrecciate sotto il mento.
«Sebastian!
Dì almeno
"per favore"!» lo rimproverò sua madre Inge, una
donna poco più che
quarantenne, dai corti capelli biondo cenere.
Il
ragazzino li guardò
dispiaciuto, poi sospirò. «Per favore.»
Il
nonno sorrise e
abbandonò per un momento la forchetta sul piatto,
afferrò il telecomando e
premette i tasti che componevano il numero corrispondente al canale
richiesto.
Elena
e i suoi
genitori sorrisero, divertiti da quel piccolo battibecco e
dall'atteggiamento
sornione del padrone di casa.
Mancavano
ormai solo
due giorni all'esame di ammissione e Clara aveva proposto di andare a
Bad Tölz
a trascorrere un breve periodo di vacanza nella sua vecchia casa, dove
vivevano
ancora Peter e Heinrike, da tutti chiamata Heike: i nonni materni di
Elena.
La
ragazza non si era
opposta per non destare interrogativi, ma soprattutto per la
convinzione che
alcuni giorni di relax accanto a persone cui era molto legata, nella
bellissima
cittadina lontana cinquanta chilometri da Monaco e che amava quanto
Roma, l'avrebbero
aiutata ad affrontare il test con la migliore disposizione d'animo.
Le
donne di casa, a
eccezione di Angelina che si trovava ancora in vacanza in Italia con
Mattias,
avevano dato vita a un vero e proprio gioco di squadra nel cucinare il
pranzo
per quasi tutta la famiglia, preparandosi a servire a tavola una
combinazione di
cibi italiani e bavaresi.
Durante
il viaggio,
varcato il confine tra Austria e Germania, il suo cuore aveva perso un
battito
quando aveva sentito una notizia alla radio, in un intermezzo tra una
canzone e
l'altra.
«È
ufficiale il passaggio di Genzo Wakabayashi
dall'Amburgo al Bayern Monaco. Il ventenne portiere giapponese, grande
protagonista alle ultime Olimpiadi vinte dai Blue Samurai, ha firmato
un
contratto che lo legherà per quattro anni ai campioni di
Germania.»
La
giornalista aveva
riferito poi altri dettagli riguardanti la cifra versata dai bavaresi
per
l'acquisto e quella che il giocatore avrebbe percepito per ogni anno di
contratto, compresi altri emolumenti elargiti dagli sponsor. L'accordo
definitivo era stato sottoscritto il giorno prima, come aveva
confermato il
procuratore Günther Hoffmann, evidentemente soddisfatto per
l'ottima
transazione messa a segno.
La
conferenza stampa
per la presentazione ufficiale era prevista per il giovedì
seguente.
Avevano
da poco
iniziato a mangiare quando il giornalista lanciò il primo
servizio del
notiziario, che provocò a Elena un nuovo tuffo al cuore, al
punto che la
forchetta con cui stava per infilzare una manciata di penne
all'amatriciana si
arrestò a pochi centimetri dal piatto.
«Cominciamo
con
l'evento calcistico del giorno, ovvero la presentazione alla stampa del
nuovo
portiere del Bayern Monaco, il giapponese Genzo Wakabayashi. L'ex
Amburgo,
fresco vincitore della medaglia d'oro con la sua Nazionale ai recenti
Giochi
Olimpici di Madrid, come ricorderete si è recato
lunedì alla sede del Bayern
Monaco per porre la sua firma sul contratto che lo lega ai campioni di
Germania
per i prossimi quattro anni.»
«È
un trasferimento
che potrebbe entrare nella storia recente del glorioso club
bavarese.» annunciò
il giornalista con enfasi, con l'inviata a fargli eco.
«Sì,
se consideriamo
la splendida Olimpiade da lui giocata. Le sue incredibili parate sono
state
decisive per la conquista della medaglia d'oro.»
«Ed
è anche un
giocatore carismatico, intelligente sul piano tattico, capace di
prevedere le
giocate avversarie e di dare istruzioni appropriate ai suoi
compagni.»
«Sì
va be', tra un po'
dirà che cammina sulle acque.» obiettò
Heike.
«Guarda
che ha detto
la verità.» non riuscì a trattenersi
Elena, reagendo con un tono che risultò un
po' troppo severo persino alle sue stesse orecchie.
La
donna la guardò un
po' stranita. Non capiva tanta impetuosità e la ragazza si
sarebbe trovata in
forte imbarazzo se non fosse intervenuto Sebastian.
«Elena
ha ragione,
nonna! È un portiere fenomenale. Con lui in porta, il Bayern
rivincerà il
campionato e conquisterà la Champions League!»
«Sono
d'accordo con
Elena e Sebastian.» aggiunse Valerio. «L'ho visto
alle ultime Olimpiadi, è uno
dei portieri più forti che io ricordi da almeno trent'anni a
questa parte. È
dotato di una freddezza e di un'affidabilità eccezionali per
un ragazzo di soli
vent'anni.»
Elena
faticava a
trattenere un sorriso dettato dal piacere e dall'orgoglio di sentire
quelle
lodi rivolte al portiere da coloro che ignoravano il legame che li
univa.
Nonostante
avessero
seguito la finale tra Giappone e Brasile in tv, non avevano visto
l'abbraccio
tra lei e Genzo. Una circostanza fortuita, ma fortunata che l'aveva
risparmiata
dal dover dare spiegazioni su una relazione di cui, per il momento, non
intendeva
parlare.
Heike
diede un'alzata
di spalle, con un sorriso birichino simile a quello della nipote.
«Devo
dire però che è
un gran bel ragazzo. Un così bel giapponese l'ho visto solo
in un film in
bianco e nero di tanti anni fa.»
Sul
televisore,
intanto, scorrevano le immagini della conferenza stampa: Genzo, in
piedi,
reggeva tra le mani la nuova casacca del Bayern Monaco con il suo
cognome e il
grande numero 1 stampato sulla schiena, dietro al lungo bancone con i
microfoni
e le bottiglie di acqua e integratori e il pannello con gli sponsor
alle
spalle.
Ai
suoi fianchi,
l'amministratore delegato Karl Heinz Rummenigge e l'allenatore Frank
Schneider.
Elena
sorrise.
Il
grande Rummenigge
sembrava persino più emozionato di Genzo. O forse, era
semplicemente orgoglioso
di essere finalmente riuscito a portare al suo Bayern quel portiere di
primo
livello che da tempo mancava.
Frank
Schneider pareva
pregustare le vittorie che sarebbero arrivate, con il figlio Karl a
guidare
l'attacco e Wakabayashi a dare solidità, sicurezza e
direttive ineccepibili
alla difesa.
Lo
sguardo di Genzo,
illuminato dai flash, era sempre fiero anche se i suoi occhi tradivano
un po'
di turbamento: non era abituato a quella situazione. E quel lieve
sorriso
aleggiante sulle sue labbra poteva essere al contempo un indice di
fiducia in
sé stesso e un modo per mascherare la tensione.
Pochi
minuti dopo era
seduto, pronto a rispondere alle numerose domande dei tanti giornalisti
arrivati all'Allianz Arena per intervistarlo. Moltissimi ovviamente i
giapponesi, ma il nome di Wakabayashi aveva richiamato cronisti da
tutta
Europa, Sudamerica e altre parti del mondo.
«Essere
stato scelto
per difendere la porta del Bayern Monaco mi rende orgoglioso ma mi
dà anche un
forte senso di responsabilità. Posso assicurare che mi
impegnerò al massimo per
concludere ogni partita senza subire reti. Finché la mia
porta rimane inviolata,
il Bayern non potrà perdere.» fu il suo breve, ma
significativo enunciato di
presentazione.
Rispose
poi brevemente
a qualche domanda sull'Amburgo.
«Rimarrò
sempre legato
sia alla squadra sia alla città. Ma ora sono un giocatore
del Bayern Monaco.»
«Continuerà
a portare
il suo ormai peculiare cappellino?» gli chiese una
giornalista.
«Naturalmente.»
sorrise.
«Cosa
l'ha convinta ad
accettare il trasferimento alla squadra campione di Germania?»
«La
certezza che a
Monaco avrei trovato tutto quello che avrei voluto.»
I
suoi occhi
guardarono in camera per pochi secondi. Un gesto apparentemente
involontario,
ma chi lo conosceva sapeva bene che Genzo Wakabayashi non faceva mai
nulla per
caso.
Elena
avvertì un'ormai
familiare e piacevole sensazione diffondersi nel suo petto.
Elena,
in
piedi sulla terrazza della sua stanza, respirò un'ultima
volta a pieni polmoni
la fresca aria della sera e rientrò.
Si
avvicinò alla scrivania e guardò il disegno che
Kumi aveva fatto per lei e le
aveva regalato la sera prima della sua partenza dal Giappone.
L'amica
aveva riprodotto alla perfezione l'entusiasmo e la sensazione di
libertà che
provava ogni volta che faceva ginnastica. Sarebbe certamente riuscita a
farsi
conoscere: non era banalmente brava a disegnare; aveva una
sensibilità e una
passione genuine, la capacità di cogliere emozioni e
sfumature e rappresentarle
poi sulla carta.
Lo
infilò
nella sua agenda nuova di zecca, come una sorta di portafortuna, e mise
il
tutto nel suo zainetto.
Poi
andò a
sedersi sul letto e accarezzò il maneki neko
posato sul suo comodino, un rito ormai irrinunciabile prima di
sdraiarsi.
Prima
però
prese il suo smartphone, rimasto spento tutto il giorno e lo accese.
Dopo
alcuni secondi, sullo schermo comparve il simbolo di un foglietto a
righe: un
sms di Genzo.
Conto su di te.
Lo
Shinkansen
proveniente da Tokyo raggiunse la
zona costiera della prefettura di Shizuoka. Era lontano ormai solo
pochi
chilometri dalla stazione di Nankatsu.
Le
gocce di pioggia
cadevano sempre meno frequenti.
Il
sole di fine estate
si fece spazio tra i nembi che si stavano progressivamente diradando.
Kumi
dormiva, con la
testa inclinata sullo schienale e le labbra socchiuse, in
un'espressione quasi
infantile.
Taro
sorrise
intenerito e le sfiorò una guancia con la mano.
La
ragazza trasalì
leggermente e sbatté alcune volte le palpebre.
«Tutto
a posto?» le
chiese a bassa voce, quando si fu voltata verso di lui.
Lei
gli sorrise e fece
un cenno d'assenso.
«Sono
solo un po'
stanca. Ma sono sicura che non appena respirerò di nuovo
l'aria di Nankatsu, mi
torneranno le energie.»
La
sua mente si riempì
di nuovo delle emozioni vissute poche ore prima.
La
sua prima volta …
Aveva
detto tante
volte a sé stessa di voler aspettare il momento in cui si
sarebbe sentita
pronta, invece era accaduto tutto come in una concatenazione spontanea
di
eventi.
Quando
l'addetto alla
reception aveva detto che era disponibile soltanto una camera doppia,
era stato
inevitabile pensare alle possibili implicazioni.
In
quel momento aveva
capito che, nonostante l'esitazione dovuta più a imbarazzo
che a timore, non si
sarebbe opposta se le cose avessero preso quella piega.
E
Taro aveva avuto per
lei il massimo riguardo, mostrando di non considerarla un oggetto di
piacere,
preoccupandosi soprattutto del suo benessere.
«Voglio
presentarti a
papà.» le aveva detto, quando si trovavano ancora
alla stazione di Tokyo.
Erano
gli ultimi
giorni che Taro poteva passare con suo padre prima di tornare a Parigi.
Lei
e Ichiro Misaki si
conoscevano più che altro di vista. Non mancava mai alle
partite del figlio.
Non aveva avuto l'occasione di parlargli, ma ogni volta che l'aveva
visto
interagire con Taro, aveva percepito la profondità del
rapporto che li legava.
E
si era sorpresa già
allora a pensare che era fortunato ad avere un padre che lo sosteneva e
seguiva
il suo percorso, quando i suoi impegni glielo permettevano.
Cosa
che Shinji,
invece, sembrava non aver ancora intenzione di fare.
Sospirò
sommessamente.
Appoggiò
la testa
sulla spalla del suo ragazzo e chiuse gli occhi.
Il
sole aveva ormai
riacquistato il dominio del cielo quando giunsero davanti
all'abitazione dei
Misaki.
Taro
aprì la porta e
fece strada a Kumi, dopo che ebbero lasciato i trolley nel vestibolo e
cambiato
le calzature.
Dalla
cucina proveniva
un profumo invitante: Ichiro stava scaldando del tenpura.
Si
affacciò nello
stesso momento in cui i due giovani stavano per entrare.
«Oh,
ciao ragazzi. Tu
se non sbaglio, sei Kumi Sugimoto, una delle ex manager della squadra
di
calcio.»
«Proprio
così, Misaki-san.
Ricorda benissimo.» confermò lei,
contenta dell'accoglienza che l'uomo le stava riservando fin da subito.
«Così
è lei la tua
ragazza.» sorrise poi, rivolto al figlio.
Taro
sorrise di
rimando.
Non
era stupito. Suo
padre aveva capito già da prima della partenza per Toluca
che aveva cominciato
una relazione. Il suo uscire ogni sera e anche il pomeriggio quando
andava a
prendere Kumi al tanki-daigaku,
la cura
che dedicava al suo aspetto, erano stati segnali inequivocabili.
E
Ichiro lo salutava
sempre con un sorriso complice, senza fargli domande, conscio che
sarebbe stato
lo stesso Taro a parlargli e a fargli conoscere la fortunata, quando lo
avesse
ritenuto opportuno.
«Bene.
Si capisce
allora che sei invitata a pranzo anche tu. Ho fatto proprio bene a
friggere un
po' di gamberi e di verdure in più.»
«Prima
di tornare a
Parigi, devo assolutamente mantenere una promessa.»
affermò Taro, mentre si
avvicinava al padre con una mano nella tasca della giacca.
Giuntogli
a fianco,
estrasse la medaglia d'oro e gliela mise attorno al collo, osservando
divertito
la sua espressione commossa.
Ichiro
afferrò il
disco dorato e lo guardò, emozionato.
Ricordava
come se
fosse stato il giorno prima, il tema letto in classe da Taro, in cui
dichiarava
di volere, da grande, vincere le Olimpiadi.
«Ce
l'hai fatta,
figlio mio.» mormorò, mettendogli un braccio
attorno alle spalle.
Kumi
sorrise
intenerita nel vedere quell'immagine emblematica dell'orgoglio di un
padre per
il traguardo conquistato dal suo amato figlio.
Kumi
e Ichiro avevano
una passione in comune che si dimostrò un punto di partenza
naturale per la
loro conversazione.
Gli
mostrò alcuni suoi
disegni e la copia del primo numero della rivista su cui erano state
pubblicate
delle illustrazioni e un manga autoconclusivo.
«Hai
del talento.»
constatò, osservando l'operato della ragazza.
Il
pittore ascoltò con
interesse la storia di com'era nata la sua passione e condivise il
rammarico
della ragazza per il fatto che il padre cercasse di dissuaderla. Non
perse però
tempo per darle un consiglio fondamentale.
«Ovviamente
non puoi
pensare, specie all'inizio della carriera, di riuscire a mantenerti
solo con i
disegni. Anch'io per molti anni ho fatto altri lavori, seppure
saltuari, oltre
a dipingere. Spesso erano mestieri che non avevano niente a che vedere
con l'arte.
Ma chi non lavora non mangia, e se non si mangia diventa difficile
anche
sognare.»
Kumi
assentì. «È vero.
Infatti studio al tanki-daigaku
e ho
tutta l'intenzione di prendere il diploma.»
Ichiro
le rivolse un
cenno d'approvazione.
«Serve
tempo, e quindi
costanza e pazienza. Ma hai intrapreso la strada giusta, non hai fretta
di
affermarti e questo è un punto a tuo favore.»
«Sai
Kumi … stavo
pensando a quello che ti ha detto papà. Ha ragione: stai
vivendo la tua
passione con serenità, non hai l'ansia di
arrivare.» constatò Taro, mentre
accompagnava la ragazza verso casa.
Lei
mise le mani
dietro la schiena e ammiccò, fermandosi e mettendosi di
fronte a lui. «Forse
perché in fin dei conti, sono una persona felice. La mamma e
la nonna mi hanno
sempre sostenuta, mi impegno in tutto quello faccio, sono sì
una sognatrice ma
so anche rimanere con i piedi per terra. E poi ho tanti amici e un
ragazzo
splendido che diventerà un campione osannato in tutto il
mondo e strapagato:
non ho motivo di concentrarmi solo sulla carriera tralasciando gli
affetti.»
concluse, con un largo sorriso e un lampo di divertimento negli occhi.
Taro
alzò un
sopracciglio e increspò le labbra. «Strapagato
… devo dedurre che mi sono messo
con una furbacchiona?»
Kumi
scoppiò a ridere
e lo prese sottobraccio.
«Che
ne dici di andare
a trovare Sanae e Tsubasa? Così vedrai i piccoli Hayate e
Daibu. Sono così
teneri e adorabili!»
«È
un'ottima idea.»
rispose, avviandosi con lei verso l'abitazione dei Nakazawa.
Genzo,
giunto ormai a
pochi metri dal complesso sportivo Shiroyama, rallentò il
suo ritmo di corsa.
Era
da poco stato a
casa Nakazawa, dove aveva visto per la prima volta i due gemelli
Oozora. Erano
due bambini bellissimi, con gli stessi occhi vivaci del padre.
Vedere
i suoi due
amici d'infanzia così felici e innamorati, aveva fatto
apparire nella sua mente
un'immagine che gli aveva fatto perdere un battito e provocato una
sensazione
di calore in mezzo al petto.
Lui
ed Elena …
Doveva
rivederla. Per
lui non era cambiato nulla, anzi la stimava e la amava ancora di
più. Ma lei
aveva avuto un atteggiamento freddo e non gli aveva più
telefonato né mandato
messaggi. Le poche volte che aveva risposto alle sue telefonate erano
state tutte
precedenti all'esame d'ammissione: si era limitata a poche frasi,
giustificandosi con i numerosi impegni e con la tensione legata
all'esame ormai
imminente.
Erano
stati Misaki e
Kumi, incontrati a casa degli Oozora, a informarlo che aveva superato
l'esame
ed era ora ufficialmente iscritta alla LMU.
Era
tempo di
riallacciare definitivamente i rapporti, che per lui non si erano mai
spezzati.
Prima
di ritornare in
Germania, avrebbe chiarito ai suoi genitori e a Hiroji quale fosse
l'attuale
situazione.
Aveva
accettato il
fatto che Elena avesse lavorato come ballerina in una discoteca.
Aveva
voluto farcela
da sola, dimostrando di essere in grado di cavarsela e di raggiungere i
suoi
obiettivi.
Era
una ragazza
coraggiosa e determinata … e lui si era ritrovato
più innamorato di prima.
Salutò
la segretaria,
che lo ricambiò cordialmente e rispose affermativamente
quando le chiese se
Carlo era presente.
Lo
vide quasi subito,
mentre stava facendo lezione ai suoi allievi. Andò a sedersi
sulle panchine
accanto ai suoi ex compagni di allenamenti, che lo salutarono con
calore.
Al
termine di uno
sparring, l'ormai ex kickboxer annunciò una pausa e quando
si voltò verso la
panchina, ebbe un lieve sussulto per la sorpresa.
«Ehi,
chi si rivede!»
esclamò, con la sua voce stentorea.
«Ciao
Carlo.» rispose,
alzandosi.
«Tutto
bene, Genzo?»
Il
ragazzo accennò un
sorriso.
«Non
sembra un sì.
Come procede con Elena?»
«Da
qualche giorno non
riesco a mettermi in contatto con lei.» rispose, stringendo
le labbra.
Carlo
assunse
un'espressione preoccupata. «È successo
qualcosa?»
«Abbiamo
avuto una
piccola discussione …» fece una lieve pausa, non
volendo raccontare i
particolari. Era evidente che non sapeva nulla del lavoro della nipote
alla
discoteca. «Io sono stato un po' troppo duro, ma le ho
chiesto scusa. Lei mi ha
salutato con freddezza, ma tra di noi non è
finita.»
«Ho
provato a
chiamarla, ma non mi ha più risposto. Ho saputo dal mio
compagno di squadra
Taro Misaki che ha superato l'esame di ammissione alla LMU, quindi ora
dovrebbe
vivere a Monaco.»
«Certo
che abita a
Monaco! E lei non si è più fatta sentire, nemmeno
per dirtelo?»
Genzo
scosse la testa,
con un sorriso amaro.
«Che
razza di
testona.» bofonchiò, contrariato. Poi
sospirò leggermente. «Credo sia dovuto al
fatto che ha appena cambiato vita, si sta ambientando nel suo nuovo
contesto.
Vedi … Elena è una ragazza che ha bisogno sempre
di un po' di tempo per
adattarsi ai cambiamenti.»
«Non
credo ci riuscirà
pienamente, finché continuerà a fingere che non
esisto.» replicò il portiere,
con una vena di sarcasmo.
Carlo
fece un cenno
d'assenso.
«Abita
nell'appartamento dell'altra mia nipote, Angelina, forse non la
conosci.»
Angelina
… ovviamente
ricordava il fugace incontro avuto a Roma, ma Genzo evitò di
dirglielo e
preferì mentire.
Il
maestro gli batté
una pacca sulla spalla.
«Ti
scrivo
l'indirizzo, così potrai rintracciarla.»
Rientrato
a villa
Wakabayashi, estrasse il foglietto dalla tasca dei pantaloni e lo
infilò nella
sua agenda, sulla scrivania.
Dopo
aver fatto una
rapida doccia, raggiunse suo padre nel giardino, seduto sul dondolo del
salotto
all'aperto, sotto il pergolato, intento a leggere un quotidiano.
«Ti
stavo aspettando.»
gli disse, alzando la testa verso di lui.
Genzo
sorrise e si
sedette accanto a lui.
Yasuhiro
chiuse il
giornale lo mise da parte. «Volevo parlare con te di un paio
di cose, prima
della tua partenza per la Germania.»
«Innanzitutto,
vorrei
dei chiarimenti riguardo ciò che è accaduto a
Madrid.»
Genzo
alzò un
sopracciglio. «Il Giappone ha vinto le Olimpiadi. Su questo
non ci sono dubbi.»
Yasuhiro
chiuse gli
occhi e fece un sorriso obliquo. «Sì, certo. Non
mi riferivo a questo,
ovviamente. Parlo della ragazza bionda con cui sei stato visto, allo
stadio e
fuori da un hotel. In giorni diversi. Questo non è un
comportamento rispettoso
verso la tua fidanzata.»
«La
mia fidanzata è
lei.» affermò Genzo.
Yasuhiro
spalancò gli
occhi e lo guardò come se fosse una sorta di mitomane.
«Asami
ed io non
stiamo più insieme dallo scorso giugno, da prima della mia
partenza per il
Messico.» rivelò, infine.
Yasuhiro
lo guardò
ancora più stranito.
Sbatté
le palpebre un
paio di volte e scosse la testa.
«Raccontami
dall'inizio. È vero che negli ultimi mesi Asami non parlava
molto della vostra
relazione, anche perché quest'estate è stata
molto impegnata tra esami e
viaggi. Mi sono stupito del fatto che non abbia assistito alla finale
di
Madrid, ma non ha mai accennato al fatto che vi foste
lasciati.»
«Perché
si era
convinta che la mia fosse solo una sbandata e che sarei tornato con
lei. Ma
quello tra me ed Elena non è un flirt.»
Yasuhiro
sospirò
seccato. «Continui a nominarmi questa Elena, ma io non
ricordo di averla mai
vista né conosciuta, se non nelle descrizioni e nelle
fotografie.»
«Elena
è la nipote del
mio ex maestro di kickboxing, qui a Nankatsu. Ci siamo conosciuti e
gradualmente è nato un sentimento che è andato
oltre l'amicizia.»
«Vi
frequentavate già
durante la tua storia con Asami?» chiese, con un'espressione
grave.
Genzo
scosse la testa.
«Non ho tradito Asami. L'ho lasciata prima di iniziare la mia
attuale
relazione. Ieri sera l'ho incontrata alla festa della JFA. Sperava che
tornassi
sui miei passi, ma le ho detto di smettere di illudersi.»
«Tu
hai lasciato Asami
da tre mesi e ti sei legato a un'altra ragazza e non mi hai detto
nulla?»
Genzo
assentì. «Se
l'avessi fatto, non mi avresti dato pace. Avresti fatto di tutto per
convincermi che stavo commettendo un errore, che non dovevo cedere a
quello che
avresti certamente giudicato un "colpo di testa", che mi ero lasciato
sedurre da un'arrampicatrice sociale e chissà che
altro.»
Yasuhiro
lo guardò
interdetto, poi abbassò leggermente il capo,
«Ho
passato dei giorni
splendidi con lei, a Madrid.» proseguì Genzo,
ormai un fiume in piena. «Ora si
trasferirà a Monaco, dove frequenterà la
LMU.»
Suo
padre rimase in
silenzio, per alcuni istanti. Poi rialzò il capo e lo
guardò, attento.
«Lavorava
nella
palestra con suo zio?»
«Sì,
insegnava
ginnastica artistica. Ma è anche una brillante studentessa e
da quest'anno
frequenterà la LMU a Monaco.»
Yasuhiro
assunse
un'espressione pensosa. «È un'ottima
università. Dubito che il lavoro di
insegnante sia sufficiente a pagare le rette e l'affitto. A meno che
non chieda
aiuto a chi può arrivare dove lei non riesce.»
Genzo
contrasse la
mascella, e lanciò uno sguardo duro verso il padre.
«Possibile
che tu
riesca a ragionare soltanto per pregiudizi? Non la conosci nemmeno e la
stai
giudicando solo perché non è ricca. Ecco
perché vai d'accordo con Asami. Avete
la stessa mentalità: la classe agiata non si deve mischiare
con quella
popolare.»
Yasuhiro
fece per
rispondere, ma il figlio lo anticipò.
«Comunque
so che
qualunque cosa io ti dica, non basterà a convincerti. Che
dire, papà: ci
aggiorniamo tra qualche mese. Una cosa è certa: per me
è iniziata una nuova
fase della mia vita, sta cambiando tutto. E nulla sarà
più come prima.»
Hiroji
era sul retro
del giardino.
Kenichi
era appena
corso in casa, lui accarezzò John sulla testa e poi lo
lasciò andare.
«Avete
chiacchierato
per un bel pezzo, tu e papà. È tornato alla
carica con l'azienda?»
Genzo
abbozzò un
sorriso. «Anche, ma la questione principale è
stata un'altra.»
«Ah,
sì? E di cosa
avete parlato, allora?»
«Della
mia relazione
con Asami, finita prima della mia partenza per il Messico.»
replicò il giovane,
serenamente.
Hiroji
lo guardò
sconcertato. Per alcuni istanti, non riuscì a proferire
parola.
«Hai
voglia di
scherzare.» reagì, alzando un sopracciglio.
Genzo
mantenne la sua
espressione, scuotendo la testa.
Il
dirigente fece
altrettanto, di rimando.
«Ma
cosa ti è passato
per la testa? Ci sono uomini che farebbero carte false per una ragazza
come
Asami Ujimori, e tu la lasci?»
«Questo
è un bene per
Asami, significa che non faticherà a trovare un uomo
più adatto a lei.»
Hiroji
lo fulminò con
lo sguardo. «Risparmiami la tua ironia, almeno su quella
ragazza.»
«Non
è ironia. L'ho
lasciata proprio per questo, per permetterle di concentrarsi sulla sua
vita.»
ribatté il fratello, imperturbabile.
«Le
cose tra noi non
andavano più bene da un po' di tempo e ho deciso che era
meglio troncare.»
aggiunse.
«Cosa
c'era che non
andasse? Sembravate così uniti e affezionati l'uno
all'altra.» obiettò Hiroji,
mettendosi le mani sui fianchi.
Il
suo sguardo era
attento e penetrante, come a voler sondare i pensieri del fratello.
«Non
c'era più quella
sintonia che ci ha legati all'inizio e per quanto mi riguarda
è venuto a
mancare il coinvolgimento.»
Il
fratello maggiore
sospirò. «Ascoltami Genzo … io so che a
Madrid sei stato visto e fotografato
con una ragazza ...»
«Si
chiama Elena.»
rispose, senza lasciarlo finire, dato che, come in precedenza il loro
padre,
l'aveva portato esattamente dove lui voleva arrivare. «L'ho
conosciuta qui in
Giappone. Ha vissuto a Nankatsu nei mesi scorsi, è la nipote
del mio ex maestro
di kickboxing.»
«Lo
so. Me l'ha detto
Annie, che la incontrava di tanto in tanto, soprattutto al parco
Hikarigaoka.
Inoltre l'ho vista una volta, nell'ospedale in cui sei stato operato
dopo
l'infortunio all'occhio.»
«Bene.
Allora tu non
dovresti aver bisogno di molte spiegazioni.»
Hiroji
fece un sorriso
amaro. «Così mentre frequentavi Asami, tu
…»
«No.
L'ho lasciata
prima di iniziare la mia storia con Elena. Puoi disapprovare la mia
scelta, ma
mi sono comportato correttamente.»
«E
perché non ce l'hai
detto subito?»
«Mancavano
pochi
giorni alla mia partenza per il J-Village e al ritorno in Italia di
Elena.
Volevo passarli con lei, per rinforzare il nostro legame prima di una
separazione di almeno un mese.»
«Avresti
fatto meglio
a parlarcene.»
«Volevo
evitare di
coinvolgere Elena ed esporla alle vostre riprovazioni. Sapevo che
l'avreste
accusata di avermi sedotto e di avermi diviso da Asami. In
realtà, le cose tra
di noi avevano cominciato a non andare bene già da prima,
abbiamo punti di
vista divergenti su cose che per me sono fondamentali.»
Hiroji
sembrò
assentire, con lievi cenni del capo, ma i suoi occhi tradivano un certo
nervosismo.
«La
vostra rottura
potrebbe avere effetti negativi sull'andamento degli affari.»
lo ammonì,
infine.
«Cosa?»
detta da
Hiroji, gli sembrava un'affermazione priva di logica, involontariamente
comica.
Era ciò che gli aveva detto Asami, ma non l'aveva presa sul
serio poiché
dettata da un vano e obiettivamente risibile tentativo di intimidirlo.
«Abbiamo
una
trattativa in corso e questo potrebbe ostacolarla, così come
i rapporti con gli
Ujimori!»
Genzo
lasciò cadere le
braccia lungo il corpo, sconcertato.
«Di
quale trattativa
parli?» gli sembrava tutto assurdo.
«Abbiamo
cominciato a
parlare di una possibile acquisizione della Ujimori Heavy Industries da
parte
della Wakabayashi Electrics.» ammise Hiroji.
«È un progetto che nelle nostre
intenzioni, si concretizzerà tra qualche anno. Tsutomu
rimarrebbe uno degli azionisti
e vorrebbe affidare a te un importante incarico dirigenziale. E
naturalmente
spera, o forse da quel che mi racconti è più
corretto dire sperava, in un
matrimonio tra te e sua figlia.»
Genzo
strinse la
mascella.
«Non
credevo che vi
divertiste a disegnare il mio futuro e a fantasticare su un progetto
concepito
senza di me.»
Nella
mente del
giovane si fece strada l'idea che, la sera della cena di beneficenza,
il vero
obiettivo di suo padre fosse farlo incontrare con Asami, in modo da
riallacciare i rapporti con lei e far sì che sfociassero in
quella relazione
sempre caldeggiata.
Asami
parlava di
questo … un progetto che non era più un auspicio
come aveva a lungo creduto, ma
una trattativa bene avviata. E a quanto pareva il loro matrimonio
doveva
rappresentare la ciliegina sulla torta, se non era proprio parte
dell'accordo.
«Hiroji,
io ho
cominciato a undici anni a costruire il mio futuro da uomo
indipendente. E ora
sono un calciatore professionista, gioco in uno dei campionati
più competitivi
del mondo, guadagno abbastanza da mantenermi da solo. Sono libero di
fare le
mie scelte e non sono ricattabile da nessuno, né da voi
né dagli Ujimori.»
affermò, risoluto.
«E
comunque la
Wakabayashi Electrics è un'azienda di grande importanza e
prestigio, non farà
fatica a trovare altri partner commerciali, se il suo amministratore
delegato
saprà far valere la propria intraprendenza e competenza.»
continuò, negando al fratello
qualsiasi margine di replica. «Quanto a Tsutomu, non so
quanto gli convenga
rinunciare a un simile progetto. Scommetto che finirà per
convincersi anche lui
che il matrimonio di sua figlia con me non è una condizione
imprescindibile.»
Rientrati
in casa,
Genzo diede una carezza ad Aiko che, non appena aveva visto entrare il
padre e
lo zio, aveva camminato rapidamente verso di loro con il suo passo
ancora un
po' traballante. Hiroji la prese in braccio, le diede un piccolo bacio
sulla fronte
e la fece accoccolare sul suo largo petto.
Annie
era appena
entrata in salotto con Kenichi che stava sgranocchiando un biscotto.
Mariko
e Yasuhiro
erano seduti sul divano. Sul televisore di fronte a loro, stavano
scorrendo le
immagini di un vecchio film.
L'attenzione
di tutti
si concentrò su Genzo.
«Non
rimarrò qui a
cena. Parto per Narita. Stasera ho il volo per Monaco. Mi
dedicherò alla mia
nuova avventura al Bayern e alla mia nuova vita. Mi chiamo Wakabayashi
ma non
sono obbligato a diventare quello che voi avete deciso per
me.» annunciò,
incamminandosi verso le scale.
Hiroji
strinse le
labbra ma non cercò di trattenerlo né di
dissuaderlo.
I
signori Wakabayashi
non cambiarono espressione.
Kenichi
alzò la testa
verso Annie, perplesso.
La
donna sorrise e
lanciò un'occhiata al marito, cui sembrò di aver
rivisto il sé stesso di poco
più di dieci anni prima, riflesso negli occhi del fratello.
Genzo
si riposizionò
tra i pali della porta e piegò le ginocchia, sporgendosi
leggermente in avanti,
preparandosi a parare l'ennesimo tiro del penultimo allenamento prima
della
partita di Coppa di Germania.
Era
stato a Monaco
diverse volte, ma era diverso arrivarci per rimanerci. Doveva ancora
abituarsi
completamente all'idea che la capitale bavarese sarebbe stata la sua
nuova
città.
Come
dieci anni prima
ad Amburgo, l'unico modo che conosceva per ambientarsi il
più rapidamente
possibile era dimostrarsi all'altezza della situazione, provando che i
dirigenti del Bayern avevano visto giusto a sceglierlo come portiere di
una
squadra costruita per vincere e rimanere ai vertici del calcio tedesco
e
internazionale.
Il
tiro di Levin era
potente ma non angolato, e Genzo lo bloccò con sicurezza.
Il
centrocampista
svedese sbuffò, rassegnato. In quell'allenamento non lo
aveva superato nemmeno
una volta.
Solo
Schneider ci era
riuscito, ma la sua percentuale di realizzazione era molto lontana da
quella
dei tempi di Amburgo. Se a quell'epoca era del cinquanta per cento, ora
era sì
e no del venti.
L'attaccante
non
sapeva se essere deluso da sé stesso o rallegrarsi per i
grandi progressi fatti
dal portiere e rivale storico in quell'anno.
«Va
bene, Wakabayashi,
oggi sei imbattibile! Facciamo una pausa, è quasi ora di
pranzo!» lo supplicò
Shiken, il campione croato.
«Sì,
ma prima voglio
un altro giro!» gridò però il portiere.
«Ancora?!»
protestarono tutti di rimando, quasi all'unisono, con una faccia
sconvolta,
oltre che stravolta dal caldo e dalla fatica.
Quell'allenamento
sembrava interminabile. Inoltre, il sole era caldo come in una giornata
di
piena estate, nonostante si fosse ormai oltre la metà di
settembre.
Un
particolare di cui
Genzo sembrava non essersi accorto nonostante le gocce di sudore che
gli
imperlavano il viso.
«Wakabayashi,
abbi
pietà di quei poveri ragazzi! Lasciagli tirare un
po’ il fiato!» lo rimproverò
bonariamente Schneider, l'unico a non lamentarsi e che anzi, rideva
sotto i
baffi.
«Tutti
dicono che sono
i migliori attaccanti del mondo. Lo dimostrino allora!»
ribatté, senza fare una
piega.
«Eravate
così ansiosi
di avermi come portiere, e questo è tutto quello che
riuscite a fare?» li
provocò ancora.
«Schneider,
era così
anche ad Amburgo?» gli chiese Sho, passandosi un braccio
sulla fronte.
«Oh,
no. Adesso è
molto peggio.» gli rispose sornione, battendogli una mano su
una spalla.
Il
giovane cinese
sospirò pesantemente, andando a rimettersi in fila per una
nuova tornata di
tiri, sotto lo sguardo compiaciuto di Frank Schneider.
Genzo
chiuse la
cerniera del suo borsone e se lo caricò su una spalla.
Karl
lo imitò e i due
uscirono insieme dagli spogliatoi.
Gli
ultimi giocatori
erano usciti da poco, alla spicciolata.
«Ora
puoi dirmelo,
Wakabayashi. Cosa ti ha fatto superare le tue riserve su un
trasferimento al
Bayern?»
Genzo
diede un'alzata
di spalle. «I motivi che già mi spiegasti tu.
Giocare ogni giorno un calcio più
competitivo.»
Karl
fece una piccola
smorfia, non troppo convinto. «Va bene, ma ho la sensazione
che ci sia
qualcos'altro. Günther, prima dei quarti, mi ha detto che se
avessi accettato
l'offerta non sarebbe stato merito né suo né mio,
ma di una terza persona, e
che da te non me lo sarei mai aspettato. Puoi dirmi a cosa o a chi si
riferiva?»
Genzo
si guardò un
attimo intorno, poi chiuse gli occhi e sorrise. «Te lo
dirò dopo la partita con
l'Amburgo, se avrai un po' di pazienza.»
«Ehi,
ma la partita
con l'Amburgo è fra tre mesi!» obiettò.
«Se
hai proprio tanta
fretta, potresti pagare quella penitenza che io ti ho generosamente
sospeso.»
replicò sornione, strizzandogli un occhio.
Karl
alzò gli occhi al
cielo. «Nah, in questo caso preferisco tenermi la
curiosità. In fondo, con
tutto il tempo che ci hai messo a deciderti a venire qui, posso anche
aspettare.» disse, battendogli una mano sulla schiena.
Time I'm sure will bring
Disappointments in so many things
It seems to be the way
When your gambling cards on love
you play
I'd rather be in hell with you
baby
Than in cool heaven
It seems to be the way
Alzò
gli occhi al
cielo, infilando le mani nelle tasche della sua giacca. Era la seconda
volta
che suonava al citofono del palazzo nel quartiere di Maxvorstadt
indicato
nell'indirizzo scrittogli da Carlo, ma non rispondeva nessuno.
Avrebbe
atteso altri
cinque minuti poi, se anche il terzo tentativo fosse andato a vuoto, se
ne
sarebbe andato.
Abbassò
la visiera del
suo berretto e finse di controllare qualcosa sul suo smartphone.
Stava
pensando di
premere di nuovo il pulsante quando vide una ragazza dai lunghi capelli
castani
ondulati, piuttosto alta e dal fisico esile, camminare rapidamente,
trasportando una borsa di plastica carica e una confezione di bottiglie
d'acqua.
Quando
si arrestò
davanti all'ingresso, Genzo alzò la visiera del cappello e
le sorrise.
Lei
sgranò gli occhi.
«Genzo
Wakabayashi?»
mormorò, con voce leggermente ansante per lo sforzo.
Il
portiere annuì.
«E
tu sei Angelina, se
non sbaglio.»
«Già.
Elena però
adesso è all'università e credo non
rientrerà prima di sera.» replicò,
stringendo le labbra.
«Però
abita in questo
palazzo, con te.»
«Sì,
al terzo piano.»
«Ti
posso parlare?» le
chiese con tono pacato e un sorriso gentile.
Ad
Angelina non restò
che annuire.
Aveva
sempre pensato
che definire i suoi occhi "magnetici" da parte di Elena, fosse la
classica esagerazione da ragazza innamorata, ma ora che se lo ritrovava
davanti
e non aveva un'espressione sconvolta né arrabbiata, si
dovette ricredere. Quello
sguardo era davvero di un'intensità non comune.
Lui
le sfilò la borsa
e le bottiglie dalle mani quasi senza che se ne accorgesse.
«Non
ti disturbare,
tanto salgo con l'ascensore …» mormorò
imbarazzata.
«Ma
le porterai pure
dentro con te, sia nell'ascensore sia in casa.»
ribatté lui prontamente, con un
sorriso sghembo.
«Effettivamente.»
riuscì a rispondere. «Beh, grazie.»
disse acquistando finalmente un po' di
disinvoltura, mentre entravano nell'ascensore.
Aveva
appena
vent'anni, ma possedeva già un portamento e un fascino
capaci di far vacillare
qualsiasi donna. Era sicura che se Mattias li avesse visti in quel
momento,
avrebbe fatto una scenata di gelosia, sebbene non potesse accadere
assolutamente nulla di compromettente.
Genzo
era venuto
soltanto per parlare di Elena, e quanto a lei … la
fascinazione non l'avrebbe
mai indotta a fare un torto alla cugina, cui voleva bene come a una
sorella, e
all'uomo che amava.
«E
così vorresti che
ti aiutassi a rimetterti in contatto con Elena.» disse,
posando sul tavolo due
bicchieri appena riempiti con succo d'arancia.
Genzo
fece un cenno
d'assenso.
«Lei
passa la domenica
a Bad Tölz, dove abitano i nostri nonni. Dopo il pranzo, le
piace andare a
passeggiare sul ponte sul fiume, dove nuotano sempre dei bellissimi
cigni
bianchi e germani reali. Potresti farle una sorpresa.»
«Non
ci sarebbero
problemi … io gioco sabato e la prossima settimana non ci
sono partite di
Coppa. Devo però essere sicuro di incontrarla
sola.»
Angelina
fece
spallucce. «I nonni non escono mai di casa prima delle
quattro del pomeriggio.
Quanto a me, dedico la domenica al mio ragazzo, visto che durante la
settimana
ci vediamo poco, mentre il mio fratellino trascorre il weekend da
papà.» spiegò.
«Avrai campo libero.»
«Come
pensi reagirà?»
Angelina
diede
un'altra alzata di spalle e sorrise incoraggiante. «Non ha
perso una partita, e
fa fatica a nascondere la sua gioia davanti alle tue parate, persino
quelle più
facili.»
Gli
occhi di Genzo si
illuminarono. Non riuscì a trattenere un sorriso.
«È
innamorata di te.
Da quando è qui a Monaco, si è buttata nello
studio e nel lavoro, ma c'è un
posto fisso per te, nei suoi pensieri. Magari sta aspettando proprio
che tu ti
faccia vivo.»
Si
diresse verso la
console su cui era collocato un telefono e aprì il piccolo
bloc-notes accanto.
Prese
una penna,
scrisse qualcosa rapidamente e strappò il foglio.
Poi
tornò da lui e
glielo porse.
«Questo
è l'indirizzo
della casa dei nonni. Tanto poi con il navigatore ci arrivi.»
disse,
strizzandogli un occhio.
Elena,
stretta nel suo
giubbetto, si muoveva lentamente sul ponte che sormontava il fiume Isar.
Fare
una passeggiata
in quella zona poco distante dalla casa dei suoi nonni era una
consuetudine fin
da quando era bambina, e non se ne sarebbe mai stancata.
Osservava
gruppi di
cigni, anatre e oche nuotare insieme nel fiume, la splendida cornice
formata
dagli alberi dalle chiome variopinte, la sagoma delle Dolomiti che si
stagliava
all'orizzonte.
Si
era calata
completamente nella sua nuova vita in Germania.
Lei
e Angelina si
ritrovavano perlopiù al mattino a colazione e la sera a
cena, trascorrendo di
tanto in tanto il pomeriggio a fare shopping o qualche serata al
cinema, quando
Mattias era fuori città per lavoro.
Grazie
a Gabriele,
l'ex fidanzata di Carlo, era stata assunta in una palestra di Monaco,
come
insegnante di ginnastica delle bambine. Le sue giornate erano divise
così tra
le lezioni ricevute nelle aule universitarie e quelle impartite alle
ginnaste
in erba.
Elena
aveva saputo
farsi apprezzare fin da subito, grazie anche al bagaglio di esperienza
accumulato in Giappone.
Nel
frattempo,
preparava i suoi primi esami. In mezzo a tutto questo, trovava sempre
un paio
d'ore da dedicare, il sabato o la domenica oppure il martedì
o il mercoledì, a
seguire le partite del Bayern Monaco, che a un mese e mezzo dall'inizio
della
Bundesliga guidava la classifica con cinque punti di vantaggio sulle
due
inseguitrici appaiate Stoccarda e Werder Brema.
La
squadra allenata da
Frank Schneider aveva cominciato benissimo anche in Champions League, e
in
quella competizione Genzo aveva difeso i pali fin dall'inizio. Due
partite e
due vittorie convincenti, contro squadre ostiche.
Seguire
ogni match era
un modo per trattenere Genzo Wakabayashi nella sua vita …
anche se sentiva la
sua mancanza. Ripensava al modo in cui lo aveva salutato,
così freddo e
distaccato.
«Per
quanto tempo
andrai avanti ancora così, senza vederlo?» le
chiedeva Angelina, ogni volta che
la vedeva trepidante davanti allo schermo.
Aveva
ragione … per
quanto riempisse le sue giornate, Genzo le mancava terribilmente. Le
mancava la
sua voce calda e carezzevole, il suo sguardo intenso. Le mancava
sentire i
muscoli delle sue braccia contrarsi quando la abbracciava. I suoi baci.
La sensazione
che ogni cosa attorno a loro sparisse.
Non
avevano condiviso
l'emozione della prima partita in Champions League, eppure non aveva
mancato di
rivolgerle quel saluto divenuto ormai un rito, sicuro che lo stesse
guardando.
«Eccoti
qui,
finalmente.»
Elena
trasalì. Avvertì
la pelle tremare e il cuore cominciare a battere all'impazzata.
Quella
voce … no, non
poteva essere … a forza di pensare a lui, doveva essersela
immaginata.
Ma
possibile che anche
i passi che sentiva sempre più vicini, il profumo che gli
apparteneva, il
respiro che le sfiorava i capelli e le grandi mani posate sulle sue
spalle,
fossero frutto della sua fantasia?
Deglutì.
Si voltò
lentamente.
Genzo
era di fronte a
lei, con quel sorriso che le faceva sempre rischiare un arresto
cardiaco.
Le
mise le mani sui
fianchi e la attirò a sé.
«È
stata Angelina a
dirti che ero qui.» disse, mentre passeggiavano per
Marktstraße. Non era una
domanda, ma una constatazione.
Genzo
annuì. «Prima
però, è stato Carlo a darmi l'indirizzo del
vostro appartamento. Elena.»
Lei
lo guardò, in
attesa. «D'ora in avanti, basta pause tra di noi. Di
qualsiasi tipo esse
siano.»
«Va
bene.» rispose,
con un sorriso. «Che ne diresti allora, di tornare a Monaco
insieme?»
Il
ragazzo annuì con
un cenno del capo e ricambiò l'espressione allegra di lei.
La
attese nel
parcheggio in cui aveva lasciato la sua auto, per il tempo in cui Elena
era
tornata a casa a prendere il trolley, già quasi pronto.
Caricò
il suo bagaglio
nel baule e andò a mettersi al posto di guida, accanto al
quale Elena si era
accomodata.
Mise
in moto e partì
insieme a lei, verso Monaco.
***Note***
Il
"bel giapponese" ricordato dalla nonna di Elena è l'attore
Ryo Ikebe
(1918-2010).
Molto celebre in patria, a livello
internazionale il suo
film più famoso è "Inizio di primavera"
("Sōshun") del
1956, diretto da Yasujiro Ozu. Questo è un suo
primo piano tratto proprio da una scena di questo film.
Un
dettaglio che non
ho precisato nello scorso capitolo è quello relativo al nome
della cugina di
Elena, che si pronuncia "Anghelina".
La
scelta non mi è
stata ispirata dalla celebre attrice statunitense Angelina Jolie ma
dalla
bravissima pallavolista tedesca Angelina
Grün, che nella sua pregevole carriera ha giocato
anche in Italia, a Modena
e a Bergamo, vincendo molti titoli a livello nazionale e internazionale.
Karl Heinz Rummenigge,
spesso chiamato con
l'affettuoso nomignolo Kalle,
è
amministratore delegato del Bayern Monaco dal 2002, dopo esserne stato
vicepresidente.
È
stato un fortissimo
attaccante tra gli anni '70 e '80, noto per la potenza dei suoi tiri.
Le
sue
squadre più importanti sono state il Bayern Monaco, l'Inter
e naturalmente la
Nazionale tedesca. Ha vinto due Palloni d'Oro consecutivi, nel 1980 e
nel 1981.
Takahashi si è
evidentemente ispirato a lui per creare il
personaggio di Karl Heinz Schneider (vi è anche una notevole
somiglianza fisica
tra Karl e il giovane Kalle, come dimostra questa immagine).
Tenpura: piatto
tipico giapponese che consiste in una frittura leggera di verdure,
gamberi o
anche carne in pastella croccante.
JFA: acronimo di Japan
Football Association, la Federcalcio nipponica.
Come
anticipato nel capitolo XIX, ho inserito in questo capitolo un'altra
strofa
della bellissima "Sign Your Name".
Qui
la
traduzione:
Sono sicuro che il tempo
Porterà con
sé delusioni per molte cose
Sembra essere questa la strada
quando
Giochi le tue carte
sull’amore
Preferirei essere con te
all’inferno
Piuttosto che da solo in un
freddo paradiso.
Sembra essere questa la strada.
Martedì
8 ottobre 2019
è una data storica per la ginnastica artistica italiana: la
Nazionale femminile
ha infatti vinto la medaglia di bronzo nel concorso a squadre ai
Mondiali
svoltisi a Stoccarda. Prima delle azzurre soltanto due superpotenze
come Stati
Uniti e Russia.
Bravissime
ragazze!
Eccoci quasi alle battute finali
… sì, perché il
prossimo capitolo sarà l'ultimo e porterà con
sé anche un epilogo.
Grazie come sempre a tutti voi
che seguite questa
storia.
Buona settimana e a presto!
Sandie
|
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Capitolo 27 *** Capitolo XXVII - Kintsugi ***
Capitolo XXVII
Kintsugi
«Siamo
quasi arrivati all'Allianz Arena, signorina.»
La
voce
squillante e dal tono affabile del giovane tassista riscosse Elena dai
suoi
pensieri.
Prese
la
sua borsa e si preparò a pagare il tragitto.
Stava
per
assistere alla partita tra Bayern Monaco e Amburgo, la più
importante per
Genzo.
Lei
e il
portiere stavano vivendo la loro relazione in pianta stabile da quando
si erano
rincontrati a Bad Tölz. Si vedevano ogni volta che avevano del
tempo libero da
dedicare l'uno all'altra, e la loro intesa continuava a crescere.
Ricordò
divertita una sera di due settimane prima, quando lei e Angelina, per
festeggiare il compleanno di Genzo avevano deciso, di comune accordo,
di
invitare a cena nel loro appartamento i rispettivi fidanzati, l'uno
all'insaputa dell'altro.
Per
pura
casualità Genzo e Mattias erano giunti quasi in
contemporanea davanti al
portone del palazzo. Il giovane impiegato aveva così
scoperto con sbalordimento
che il portiere del Bayern Monaco era il ragazzo di Elena.
Passato
il
momento di iniziale stupore, i due uomini avevano familiarizzato,
regalando
così alle loro fidanzate una serata splendida, tra
chiacchiere e risate.
Il
taxi si
fermò a poca distanza dai cancelli dello stadio.
Con
il
sorriso ancora sulle labbra, Elena tornò al presente, diede
all'autista quanto
dovuto e scese.
Era
l'ultima giornata prima della pausa invernale. Poi ci sarebbero state
tre
settimane di vacanza, prima del rientro a Monaco per l'inizio del
girone di
ritorno.
Il
Bayern
aveva già guadagnato il titolo di "campione d'inverno" e
sperava di
poter allungare il suo vantaggio in classifica, visto che nella stessa
giornata
le altre due contendenti al titolo, lo Stoccarda di Müller e
il Werder Brema di
Schester e Margus, si sarebbero scontrate tra loro. Genzo giocava per
la prima
volta contro la squadra in cui si era formato come calciatore e in cui
aveva
militato fino alla stagione precedente. Era passato poco più
di un anno dalla
gara che aveva cambiato completamente il corso della sua vita.
«Voglio
che tu venga a vedere questa partita, Elena.» le aveva detto
lui alcune sere
prima, durante una passeggiata serale per il centro di Monaco.
«Sei
teso?» le aveva chiesto lei.
«Certo,
l'Amburgo è la squadra in cui sono cresciuto e diventato un
professionista. E
per la prima volta giocherò contro i tifosi che mi hanno
sostenuto fin da
ragazzino. Ma voglio che tu ci sia soprattutto perché, in
fondo, è cominciato
tutto da lì. La messa fuori squadra da parte di Zeeman, la
mia decisione di
tornare in Giappone, il nostro incontro. Tu hai facilitato la mia
scelta di
venire a giocare qui.»
Fuori
dai
cancelli, tra la cospicua folla di tifosi con sciarpe, cappellini,
bandiere e
striscioni, vide un uomo dai tratti giapponesi, elegante nel suo
completo
grigio. I capelli brizzolati e gli occhiali dalle lenti fumé
non lasciavano
dubbi su chi fosse.
Nel
frattempo anche lui notò la sua presenza e le rivolse un
sorridente cenno di
saluto.
«Signor
Mikami!» rispose lei, avvicinandosi.
«Ciao
Elena.»
«Anche
lei
qui a vedere Genzo contro l'Amburgo?»
«Già.
Ti
stavo aspettando.»
«Me?»
chiese, un po' stupita.
«Sì.
Genzo
mi ha detto di prenotarti il posto accanto al mio.»
«Ha
invitato qualcun altro, oltre a noi?»
Tatsuo
scosse la testa e le sorrise.
«Andiamo.»
Elena
si
accomodò sulla poltroncina riservata per lei all'Allianz
Arena.
Era
in
tribuna e non in curva, ma non aveva rinunciato alla sua sciarpa con
colori e
scritte del Bayern Monaco.
Osservò
gli spalti, gremiti dagli euforici e appassionati tifosi bavaresi, ma
anche il
gruppo dei sostenitori amburghesi si stava facendo sentire.
La
sua
contemplazione venne interrotta dalle parole di Mikami.
«È
arrivato il grande giorno: Genzo affronta per la prima volta la squadra
in cui
ha costruito la sua carriera di calciatore. Per lui era importante che
ci fossi
anche tu.»
«Genzo
parla di me con lei?» non si trattenne dal chiedergli.
Tatsuo
annuì. «Fin da ragazzino, ha passato
più tempo con me che con i suoi genitori.
Io ho assecondato e poi condiviso la sua passione per il calcio,
cercando di
aiutarlo, per quanto mi fosse possibile, a far emergere il suo talento.
È un
ragazzo riservato, ma non esita a parlare di ciò che gli sta
più a cuore con le
persone di cui si fida.»
Con
un
occhio sempre rivolto al campo, in cui le due squadre stavano compiendo
gli
esercizi di riscaldamento, le raccontò di quando erano
arrivati in Germania,
gli innumerevoli episodi in cui erano stati scambiati per padre e
figlio, la
decisione dell'allenatore di tornare in Giappone e lasciare che Genzo
intraprendesse un percorso di integrazione più autonomo.
Le
descrisse l'emozione di quando, dopo due anni, l'aveva ritrovato
cresciuto e
maturato, sia dal punto di vista fisico sia da quello caratteriale.
«Ma
non
l'ho mai visto tanto forte e determinato come ora. Credo sia anche
merito tuo.»
Elena
piegò le labbra in un sorriso, senza rispondere. Faticava a
trovare parole che
non suonassero banali o sdolcinate.
Ma
Mikami
era pienamente convinto di ciò che aveva appena affermato e
anzi, lo ribadì.
«Lui
in
campo sembra un blocco di granito, in realtà è un
ragazzo sensibile. Sapere che
ci sei tu a vederlo da qui, gli darà la fiducia necessaria a
giocare con
concentrazione, come se di fronte a lui ci fosse una squadra qualsiasi.
Vedrai
che giocherà un'ottima partita.»
Le
due
squadre entrarono in campo, insieme all'arbitro e ai guardalinee.
I
cori dei
tifosi si fecero più accesi. Quelli del Bayern
sottolinearono con un boato di
entusiasmo il nome di Genzo, il primo pronunciato dallo speaker che
stava
elencando le formazioni e via via i nomi di tutti gli altri giocatori.
Il
portiere era ormai acclamato quasi quanto Schneider.
Non
mancarono i tifosi amburghesi che lo apostrofarono come "traditore",
rivolgendogli dei fischi alla sua entrata in campo. Ma la maggior parte
di loro
era consapevole che il portiere se n'era andato per motivi indipendenti
dalla
sua volontà.
In
ogni
caso, la sua popolarità, già alta in Germania, in
quei mesi era cresciuta
esponenzialmente in tutta Europa. Tra Bundesliga e Champions League, le
sue
parate lo stavano consacrando come uno dei migliori portieri del mondo.
Molti
cronisti e commentatori si erano occupati di lui sia nelle trasmissioni
televisive sia nelle testate giornalistiche, ed era ormai solo
questione di
tempo prima che venisse scoperta la sua relazione con Elena, sebbene
fossero
fin lì riusciti a viverla con discrezione.
L'Amburgo,
che aveva in panchina un nuovo allenatore e aveva inserito alcuni
giovani nella
squadra, schierava in porta Schweitzer, confermato dalla stagione
precedente e
reduce da un buon inizio in Bundesliga.
A
guidare
il centrocampo era Hermann Kaltz, promosso capitano dopo che
l'attaccante
Boisler aveva deciso di concludere la sua carriera lì
dov'era cominciata,
all'Eintracht Francoforte.
Il
Bayern
Monaco schierava la sua formazione consueta.
L'Amburgo,
le cui peculiarità erano la fisicità e
l'aggressività, riuscì a contenere gli
attacchi del Bayern Monaco nella prima mezz'ora e tentò di
rendersi pericoloso
in un paio di occasioni, ma Genzo si fece trovare pronto.
Proprio
quando gli amburghesi pregustavano un ritorno negli spogliatoi sullo
0-0
Schneider, con un potentissimo tiro di destro, ruppe gli equilibri e
canalizzò
la gara verso l'ennesima vittoria dei campioni di Germania.
Nel
secondo tempo, l'Amburgo riuscì ad avvicinarsi alla porta
avversaria solo con
una combinazione tra Kaltz e il promettente attaccante brasiliano
Amoroso.
Il
bel
tiro di interno sinistro fu però bloccato con sicurezza da
Wakabayashi. Su
potente rinvio di quest'ultimo, Karl segnò un'altra rete. A
un quarto d'ora
dalla fine, Levin portò il risultato sul 3-0.
Genzo
distese appena le labbra in un sorriso e salutò i suoi ex
compagni di squadra.
Schneider
fece altrettanto e poi afferrò la mano del portiere, in una
vigorosa stretta di
mano.
Era
diventato una specie di rito, che compivano dopo ogni partita.
Fin
lì
aveva portato bene: il Bayern era imbattuto.
Hermann
si
avvicinò e si parò di fronte a loro, a braccia
incrociate e una smorfia
imbronciata.
«Vi
dovrebbero diffidare per concorrenza monopolistica,
altroché! Avete una squadra
a dir poco strepitosa, e vi siete presi anche Gen. Praticamente siete
blindati.»
«Ammetto
che mi piacerebbe battere il record di minuti passati senza subire un
gol.»
affermò Genzo, senza scomporsi.
«Sempre
il
solito Gen, sicuro di sé al limite della superbia. Certo che
tra voi due è una
bella lotta a chi gonfia di più il petto.»
I
tre
ragazzi scoppiano a ridere.
«Ehi,
questa sera me lo devi dire.» ricordò Karl,
rivolto al portiere.
«Devi
dirgli cosa?» chiese Hermann, incuriosito.
«Chi
lo ha
convinto a venire al Bayern. È da quest'estate che me lo
domando.»
«Non
è
stato il vostro infallibile procuratore?» replicò
il centrocampista, alzando un
sopracciglio.
Karl
scosse la testa. «È stato proprio lui a dirmi che
è merito di un'altra
persona.» insistette, tornando a guardare Genzo.
L'interessato
chiuse gli occhi e fece un sorriso. «Ancora un po' di
pazienza, ragazzi.»
«Ehi,
a
questo punto voglio saperlo anch'io, Gen! In fondo, abbiamo giocato
insieme
fino all'anno scorso.» esclamò Hermann,
incamminandosi con i suoi due amici
d'infanzia verso il tunnel degli spogliatoi.
Genzo
fu
il primo ad arrivare nel piazzale esterno allo stadio, senza aspettare
i suoi
compagni. Ad attenderlo, c'erano Mikami ed Elena.
L'allenatore
lo salutò con una pacca su una spalla, Elena lo
abbracciò.
«Congratulazioni,
Numero Uno.» gli sussurrò, dandogli poi un bacio
sulle labbra.
«Schneider,
mi sa che ci siamo persi qualcosa!»
La
voce di
Kaltz li fece sobbalzare e scostare bruscamente l'uno dall'altra.
Il
centrocampista annuì più volte con aria saputa e
un sorriso malizioso, senza
tuttavia nascondere l'ammirazione per Elena.
Anche
Karl
sorrideva divertito, seppure in modo meno plateale.
I
due
ragazzi salutarono Tatsuo e tornarono a rivolgere la loro attenzione
alla
giovane coppia, che decise di prendere in mano la situazione.
«Vi
presento Elena. La mia ragazza.»
«Ciao
ragazzi. Ero curiosa di conoscervi.» disse, tendendo la mano,
ricambiando la
stretta e la presentazione.
«Anche
noi.» rispose Hermann.
«Così
è
lei.» constatò Karl, senza smettere di sorridere.
«Non
ci
posso credere: Genzo Wakabayashi si è trasferito a Monaco
per amore.» rincarò
la dose il centrocampista.
«Diciamo
che è stato un felice incrocio di circostanze.»
replicò il portiere, cercando
di nascondere il lieve imbarazzo, sotto lo sguardo divertito di Elena e
di
Tatsuo.
Trascorsero
una piacevole serata.
Karl
e
Hermann ascoltarono con interesse e commentarono con bonaria ironia il
racconto
di come Genzo ed Elena si fossero conosciuti proprio in Giappone e di
come lui
avesse preso proprio a Madrid una delle decisioni più
difficili della sua vita.
Era
quasi
mezzanotte quando salutarono Karl. L'aria era pungente, la luna piena
dominava
il cielo scuro.
Elena
si
strinse a Genzo, mentre camminavano per Marienplatz.
Il
freddo
era una scusa sempre valida per accostarglisi, e lui non le negava mai
il suo
braccio passato attorno alle spalle.
«Che
ne
dici di andare insieme in Giappone per una settimana, dopo le feste
natalizie?»
«Volentieri!
Così andiamo anche a salutare lo zio. Domani però
devi accompagnarmi al
mercatino di Natale.»
Genzo
alzò
gli occhi al cielo e sorrise. «Sissignora.»
scherzò, prendendosi in risposta
una lieve gomitata.
I
due
ragazzi avevano deciso di comune accordo di trascorrere separatamente
la prima
parte del periodo festivo. Genzo avrebbe accettato l'invito della
famiglia
Draxler a trascorrere con loro il Natale, mentre Elena sarebbe tornata
a Roma.
Lì la ragazza avrebbe trascorso il suo Natale con i genitori
e con la nonna
paterna, poi sarebbe tornata a Bad Tölz a festeggiare il
Capodanno con la
famiglia della madre.
Genzo
sarebbe forse volato a Londra a raggiungere il fratello, la cognata e i
nipoti.
Per
nulla
al mondo Annie avrebbe rinunciato a trascorrere i giorni di festa con i
suoi
genitori e sua sorella, che non vedeva da quasi un anno, e nemmeno ad
assistere
ai fuochi d'artificio sulle rive del Tamigi, tra i rintocchi del Big
Ben e le
luci, i colori e suoni del Big Eye, e il rito annuale accompagnato
dall'ormai
storica canzone "Auld Lang Syne".
Taro,
all'aeroporto "Charles de Gaulle", si stava preparando a salire sul
volo per Narita.
Aveva
quasi benedetto quella sosta, e non certo perché la prima
parte della stagione
fosse andata male. Anzi: la realtà aveva superato di gran
lunga le sue
aspettative più rosee.
Il
Paris
Saint Germain aveva chiuso il girone d'andata al primo posto e aveva
superato
senza grosse difficoltà il girone eliminatorio della
Champions League.
Taro
era
diventato uno degli idoli della tifoseria e la sua intesa con Pierre
Leblanc
aveva dissipato ogni dubbio sulla capacità di coesistere in
campo dei due
calciatori più talentuosi.
Il
giovane
giapponese era sempre stato tranquillo su questo e lo aveva dichiarato
anche
nella conferenza stampa di presentazione: la sua collaborazione con
Tsubasa
aveva sempre esaltato le abilità di entrambi. Sarebbe stato
così anche con
Leblanc.
I
fatti
avevano dato ragione a lui e all'allenatore della squadra campione di
Francia.
Anche
il
cannoniere Louis Napoléon aveva tratto beneficio dalla loro
visione di gioco,
classe e inventiva: facendosi sempre trovare pronto a ricevere i loro
passaggi,
aveva segnato in quasi ogni partita. Era in vetta alla classifica dei
marcatori
di Ligue 1 e della Champions League e contendeva a Karl Heinz Schneider
e a
Kojiro Hyuga il titolo di giocatore più prolifico in Europa.
I
giornali, le emittenti televisive e i siti Internet specializzati si
erano
riempiti di servizi, articoli e fotografie dedicati alla "corazzata
PSG" e soprattutto a quelli che i giornalisti avevano soprannominato,
senza troppa originalità, i "quattro moschettieri",
comprendendo il
centrocampista nigeriano Ochado.
Ma
era
soprattutto lui, il nuovo fuoriclasse venuto dall'Estremo Oriente, a
suscitare
la curiosità e l'entusiasmo dei tifosi e degli appassionati.
I giornalisti lo
cercavano continuamente per intervistarlo, per conoscere sempre
più aneddoti
sulla sua storia, sulla sua amicizia con gli altri quattro "giapponesi
d'Europa" Tsubasa, Wakabayashi, Hyuga e Aoi, e sulla sua vita privata.
Taro
non
si lamentava. In fondo, aveva lavorato senza risparmiarsi proprio per
arrivare
lì dove si trovava ora, e se possibile ancora più
in alto.
Ma
temeva
che tutta quella popolarità, giunta in così breve
tempo e senza essere molto
preparato a gestirla, gli avrebbe dato alla testa, facendogli perdere
il
contatto con la realtà.
In
quei
mesi, non aveva lasciato passare un solo giorno senza parlare con suo
padre,
sua madre o Kumi. Era soprattutto quest'ultima a mancargli: la sua
allegria e
dolcezza lo avevano aiutato a non lasciarsi travolgere dalla prima
ondata di
notorietà giunta con le Olimpiadi.
E
ogni
sera, a casa o in un locale con alcuni amici, si ritrovava a pensare
che più o
meno in quello stesso momento, Tsubasa trovava Sanae e i loro bambini
ad
aspettarlo, e Genzo usciva con Elena.
Mentre
lui
e Kumi erano divisi da migliaia di chilometri e due continenti
praticamente
interi … forte fu il loro abbraccio, appena sceso dallo Shinkansen che da
Narita lo aveva portato alla stazione di
Nankatsu.
I
due
pranzarono a casa dei Misaki, dove Taro ebbe il piacere di vedere
un'accresciuta familiarità tra suo padre e Kumi, dovuta
certamente al fatto che
si erano incontrati altre volte, in quei mesi. Aveva anche notato un
netto
miglioramento negli ultimi lavori della ragazza, frutto dei consigli
datile da
Ichiro.
«Sai
cos'è
successo? Quando ho detto ai miei genitori che avevo un ragazzo, loro
mi hanno
risposto che sapevano già tutto.» gli
confidò lei, mentre la accompagnava a
casa.
«Sapevano
tutto?»
Kumi
sorrise e diede un'alzata di spalle. «Già. Sai
com'è: Nankatsu è piccola. Ci
hanno visti uscire insieme e così la voce si è
diffusa fino ad arrivare a
loro.»
«Spero
almeno che non abbiano pregiudizi nei miei confronti. So che tuo padre
non vede
di buon occhio i mestieri considerati "precari".»
Lei
scosse
la testa. «Mi ha soltanto detto che vuole conoscerti, appena
possibile. Ma se
temi che abbia qualcosa da obiettare, puoi sempre dirgli quanto
guadagni al
Paris Saint Germain.» scherzò, con un'aria
apparentemente candida.
Taro
alzò
un sopracciglio. Passò un braccio attorno alle spalle di
Kumi e la attirò
contro di sé. «Stai diventando
impertinente.» finse di rimproverarla, mentre
lei rise, fingendo di volersi liberare dalla sua presa.
I
genitori
di Kumi erano entrambi seduti a tavola, intenti a guardare un telefilm
alla tv,
quando i due ragazzi entrarono in casa.
Taro
venne
accolto con cordialità sia da Reiko sia da Shinji.
La
madre
di Kumi si premurò subito di preparare un tè,
mentre il padre gli fece alcune
domande, inerenti soprattutto il suo lavoro di calciatore.
La
conversazione si svolse in un clima disteso e a tratti fu persino
divertente,
come la ragazza si ritrovò a constatare, piacevolmente
sorpresa.
Shinji
e
Reiko avevano ascoltato Taro con interesse e avevano risposto alle sue
poche e
discrete domande.
Kumi
gioì
dentro di sé e la sua soddisfazione traspariva anche
all'esterno, poiché i suoi
occhi brillarono e le sue labbra faticarono a trattenere un sorriso.
Sul
tavolo
era appoggiata la rivista edita dalla Uchiyama
Shoten, la terza ormai in cui i suoi disegni erano stati
pubblicati.
«Hai
dato
un'occhiata?» chiese a suo padre, facendo cenno con lo
sguardo al periodico.
Shinji
annuì. «Non disegni male.» fu la sua
laconica risposta.
Reiko
alzò
gli occhi al cielo, mentre Kumi fece una smorfia tra il rassegnato e il
divertito.
Taro
sospirò sommessamente e fece un lieve sorriso.
«La
Uchiyama Shoten
punta molto su di lei.»
affermò.
Shinji
sollevò lo sguardo sul ragazzo e fece un cenno d'assenso.
In
realtà,
gli aveva fatto uno strano effetto vedere il nome della figlia
pubblicato in
calce a delle tavole che, doveva ammetterlo, denotavano uno stile
pulito, bello
da vedere.
«Ci
hai
pensato tu ad aprirti la strada.» disse poi, rivolto a Kumi.
«Anche se volessi,
non potrei fare nulla per fermarti.»
«Vuol
dire
che non cercherai più di dissuadermi, e non dirai
più che vado dietro a delle
stupidaggini?»
Shinji
la
guardò, poi chiuse gli occhi e annuì.
«Sei mia figlia ed è giusto che mi limiti
a vigilare su di te, senza mettermi di traverso.»
«Non
mi
sembri ancora convinto.» replicò.
«No,
non
lo sono. Ma è soltanto perché sei ancora
giovanissima, con un futuro in
costruzione. So che stai studiando con impegno al tanki-daigaku,
non stai puntando tutto solo sui manga. Il tempo dirà se
sarà quella la tua
strada.»
Sul
volto
di Shinji non c'era più contrarietà né
risentimento. Era finalmente,
l'espressione di un padre semplicemente preoccupato per il futuro di
sua
figlia, perché desiderava vederla felice, e non costretta a
soffrire per dei
problemi evitabili con la consapevolezza che la vita non era una
passeggiata di
salute per nessuno e con il senso di responsabilità che
ciò doveva comportare.
«Grazie
papà. Sono felice che tu capisca, anche se ancora non
approvi.»
«Sai
Kumi,
questo tuo ragazzo … mi piace.» affermò
guardando Taro, che sorrise di rimando.
«È tranquillo, giudizioso, con la testa sulle
spalle. Perdonami se ti sono
sembrato ostile, ma questo è forse il periodo più
difficile per un papà e una
mamma che vedono i propri figli diventare grandi. Ogni genitore si
chiede cosa
sarà dei propri figli, e questo è il periodo in
cui decidete cosa fare della
vostra vita. Ma le tue scelte mi suggeriscono che posso avere fiducia
in te.»
Il
nuovo
anno era arrivato e il terzo giorno del mese aveva portato con
sé il ventesimo
compleanno di Elena.
Due
giorni
dopo la festa con famigliari e amici a Bad Tölz, era
all'aeroporto di Monaco di
Baviera, dove salì sull'aereo che l'avrebbe portata a Narita.
Giunta
a
destinazione, vi trovò Carlo ad aspettarla.
Il
maestro
vide l'immagine di una ragazza così bella e radiosa,
nonostante la stanchezza
dovuta alle molte ore di volo, da rimanerne commosso.
Ricordava l'aria spenta e il sorriso
un po' forzato con cui
lo aveva salutato poco meno di un anno prima. Si era ripromesso di
aiutarla a
riprendere in mano le redini della sua vita, ed Elena aveva saputo fare
anche
di più: una volta smesso di contemplare le macerie del suo
passato, aveva
costruito una vita tutta nuova.
Appena
scioltasi dall'abbraccio di suo zio, Elena notò una figura
conosciuta passare
accanto a loro, diretta verso l'uscita.
Elena
le
andò dietro, raggiungendola dopo pochi, rapidi passi.
«Kumi!»
La
ragazza
si arrestò di colpo e si voltò, con il sorriso
luminoso che le apparteneva.
«Elena!»
le prese le mani e si lasciò abbracciare.
«Ho
accompagnato qui Taro.» le confidò.
«È ripartito da poco per Parigi.»
Elena
si
strinse nelle spalle, dispiaciuta.
«Accidenti.
Se fossi arrivata mezz'ora prima, avrei potuto salutarlo.»
«Beh,
magari ci ritroviamo tutti insieme la prossima estate, a stagione
finita.»
«Sarebbe
splendido.»
«È
un'ottima idea, e poi ormai il Giappone è la terza casa di
Elena.» commentò
Carlo, che le aveva appena raggiunte, trascinando con sé il
trolley della
nipote.
Le
due
ragazze sorrisero.
«Siete
venuti qua in treno?» chiese l'uomo.
Kumi
annuì.
«Allora
possiamo andare tutti alla stazione, così facciamo il
viaggio insieme.» propose
Elena, con l'approvazione di entrambi.
Genzo
passò a prendere Elena a casa nel pomeriggio del giorno
seguente al suo arrivo.
Avrebbero
cenato insieme a Hiroji e Annie.
Il
cielo
era bianco e l'aria molto fredda. I meteorologi avevano previsto
possibili
nevicate, ma i due ragazzi avevano troppa voglia di passare la serata
insieme,
e Genzo in particolare voleva introdurre Elena nella sua famiglia.
Annie
era
sempre stata dalla loro parte.
Hiroji,
dopo l'iniziale scetticismo per non dire opposizione, si era mostrato
disponibile a conoscerla.
Giunti
a
villa Wakabayashi, Elena venne accolta con un sorriso da Hitomi e con
gentilezza da Hiroji, e con affetto da Annie.
Kenichi
la
salutò con educazione e con un bel sorriso, mentre Aiko
dapprima la guardò con
un'espressione seria, per poi sciogliersi in una smorfia allegra non
appena
Elena si inginocchiò davanti a lei e la salutò.
Genzo
osservò la scena con compiacimento e soddisfazione: Elena
era stata accolta con
l'affabilità e simpatia che si era aspettato.
Keisuke,
tornato a Boston per trascorrere alcuni giorni di vacanza con alcuni
suoi
amici, aveva già mostrato e dichiarato a Madrid, la sua
approvazione.
Rimanevano
solo i suoi genitori, a quanto pareva ancora arroccati sulla loro
posizione.
«Non
preoccuparti, Genzo. È solo questione di tempo.»
lo aveva rassicurato Annie, e
il ragazzo in cuor suo sperava di non dover attendere ancora per molto.
Dopo
nemmeno mezz'ora dall'arrivo, Genzo e Hiroji uscirono in giardino a
giocare a
calcio con Kenichi che, piazzatosi davanti alla porta con il giubbotto
già
indossato e il pallone tra le mani, li aveva reclamati a gran voce.
Elena rimase nel salotto con Annie e
la piccola Aiko,
seduta sul tappeto a baloccarsi con i suoi giochi.
Dall'esterno
giungevano le urla e le risate dei tre Wakabayashi, misti all'abbaiare
di John.
Le
due
donne si guardarono e si misero a ridere.
«Manca
ancora un po' di tempo alla cena. Ti offro una tazza di tè e
un knickerbocker glory.»
le propose la giovane
inglese.
«Scusa
l'ignoranza, ma … cos'è il knickerbocker glory?»
«Potrei
anche descrivertelo, ma con le sole parole non renderei l'idea e
soprattutto
non gli renderei giustizia.» rispose, facendole un occhiolino
prima di sparire
in cucina.
Dopo
dieci
minuti, Hitomi entrò reggendo un vassoio su cui spiccavano
due alti bicchieri
di vetro contenenti gelato alla crema e frutta disposti a strati
alterni,
intrisi di sciroppo alla ciliegia e coronati da un'amarena sciroppata e
una
cialda a spicchio.
Pochi
istanti dopo Annie ritornò. Hitomi aveva appena collocato i
due bicchieri sul
tavolo, ringraziata da Elena.
«È
una
coppa gelato.» commentò ingolosita.
Annie assentì.
«È una delle cose più squisite che
esistano.
Purtroppo qui in Giappone non riesco a trovare dappertutto locali dove
si fanno
e così ho imparato a prepararmeli da sola. A proposito, mesi
fa ho assaggiato
il tuo strüdel: è meraviglioso! Per caso sai fare
altri dolci?» le chiese,
sedendosi di fronte a lei e brandendo il suo bicchiere.
«Qualche
torta e i biscotti.»
«Bene.
Se
ci stanchiamo di fare le insegnanti, potremo metterci in
società e aprire una
pasticceria.» scherzò.
«Chissà.»
stette al gioco, con un'alzata di spalle e tuffando il lungo cucchiaio
nel suo
gelato.
Poco
tempo
dopo, mentre chiacchieravano sedute sul divano, Aiko si alzò
e si mise a
camminare, barcollando leggermente. Ormai aveva imparato a compiere
sempre più
passi senza cadere, raggiugendo un buon equilibrio.
La
bambina
piantò le manine sul divano e fece pressione per cercare di
salire.
Elena,
vedendola sbuffare per lo sforzo, tese le braccia.
«Che
c'è,
piccolina? Vuoi venire qui?»
La
tirò
su, delicatamente.
Rise
e se
la ritrovò in braccio, dove ristette tranquilla.
Annie
le
guardò, divertita.
«A
volte
fa così anche con Genzo. Quando lo vede seduto qui, si
avvicina e pianta le
mani e lo guarda finché lui non se ne accorge e la prende in
braccio. E poi se
la tiene sul petto finché non si addormenta.»
Elena
socchiuse per un breve istante gli occhi e sorrise intenerita
nell'immaginare
il suo ragazzo mentre teneva la nipotina tra le braccia.
«Sì
… le
braccia di Genzo danno un senso di protezione.» disse,
addolcendo il tono della
voce. Poi arrossì leggermente, rendendosi conto di aver
rivelato qualcosa di
intimo.
Ma
Annie
sorrise compiaciuta.
«Lui
mi ha
raccontato quello che sente quando ti vede, quando siete insieme. Ti
assicuro
che non c'è paragone con quello che mostrava quando era
legato ad Asami. Erano
belli da vedere, ma niente di più. Ora che ci penso, lui non
ne parlava mai.»
Elena
sorrise, guardando Aiko che cercava di afferrarle una ciocca dei suoi
lunghi
capelli. «La nostra storia è iniziata da pochi
mesi, e ho una grande voglia di
viverla.»
Annie
fece
un cenno d'approvazione. «A me piace vedere le persone
felici, Elena. E tu puoi
rendere felice Genzo e lui fare altrettanto con te.»
Era
quasi
l'imbrunire quando Genzo, Hiroji e Kenichi rientrarono dal loro
pomeriggio di
giochi all'aperto.
Erano
tutti e tre ansanti e divertiti, con i giubbotti sporchi di terra e le
facce
sudate.
«Chi
ha
vinto?» chiese Annie.
«Che
domande. Io, ovviamente.» rispose Hiroji.
«No,
io!»
obiettò Kenichi.
«Ma
cosa
state dicendo? Se ve le ho parate tutte.» ribatté
Genzo, tranquillamente,
suscitando i mormorii e gli scuotimenti di dita del fratello e del
nipotino.
Poi
si
accorse che Elena stava tenendo tra le braccia Aiko.
Quell'immagine
gli scaldò il cuore.
Le
sorrise
intenerito, e la ragazza ricambiò.
«Su,
andate a darvi una ripulita, che tra non molto è ora di
cena.» li esortò Annie.
La
donna,
nel vedere Genzo avvicinarsi a Elena, fece segno a quest'ultima di
darle in
braccio la bambina.
Il
giovane
ringraziò la cognata con lo sguardo e si chinò
sullo schienale del divano,
arrivando quasi a sfiorare l'orecchio della fidanzata.
«Tra
un
quarto d'ora sali in camera mia. È importante.»
Elena
bussò alla porta della stanza di Genzo all'orario convenuto.
«Cosa
devi
dirmi?» gli chiese, dopo che l'aveva fatta entrare.
«Ho
un
regalo per te.» disse, mostrandole una scatola rettangolare,
in velluto
violetto.
Elena
la
prese dalle sue mani e la aprì.
I
suoi
occhi si spalancarono per la meraviglia.
Un
braccialetto in oro …
«È
bellissimo.» disse.
Lo
tolse
dalla protezione in ovatta e lo agganciò intorno al polso
destro.
Poi
passò
le braccia attorno al collo di Genzo. «Grazie.»
mormorò, per poi dargli un
bacio sulle labbra.
Rimasero
a
guardarsi per alcuni istanti, come a voler esprimere qualcosa che
ancora non
riuscivano a dirsi con le parole.
«Manca
poco, è meglio scendere.» disse lui, a bassa voce
ed Elena fece un cenno
d'assenso, scostandosi controvoglia e seguendolo al piano inferiore.
Quella
serata fu motivo di grande soddisfazione per Genzo, e non solo
perché Hitomi
aveva preparato un'eccellente cena giapponese.
La
governante e Annie avevano unito le loro forze e abilità e
avevano realizzato
una grande, meravigliosa torta alla crema pasticcera, cioccolato e
frutti di
bosco, con la quale stupirono e quasi commossero Elena, che non si
aspettava di
festeggiare il suo compleanno anche a villa Wakabayashi.
Sia
Hiroji
sia Annie l'avevano trattata come una di famiglia. Se per la cognata
aveva
pochi dubbi, non era altrettanto certo della buona accoglienza del
fratello.
Era stato gentile, si era informato con discrezione su di lei, aveva
ascoltato
con interesse i suoi interventi durante la conversazione. Ed era stata
pienamente accettata anche dai bambini, soprattutto Aiko che ogni tanto
mostrava di volersi fare prendere in braccio da lei.
Dopo
la
cena, si riunirono tutti nuovamente nel salotto.
Elena
guardò l'orologio. Il momento del ritorno a casa si
avvicinava.
«Papà,
guarda come nevica!» gridò Kenichi, eccitato,
indicando la finestra.
Hiroji
si
alzò raggiunse il bambino, seguito da Annie e poi da Genzo
ed Elena.
Il
giardino era completamente imbiancato e i fiocchi cadevano rapidi.
«Non
credo
sia prudente incamminarsi, Elena.» disse Annie.
La
ragazza
guardò fuori dalla finestra. Effettivamente, se fosse stata
a casa di suo zio,
difficilmente sarebbe uscita: c'era già molta neve per terra
e altra ne stava
continuando a cadere, nulla lasciava presagire potesse smettere a breve.
«In
questa
villa ci sono diverse stanze per gli ospiti. Puoi rimanere qui a
dormire. Così
domattina potrai assaggiare i miei famosi biscotti al burro e scaglie
di
cioccolato.» disse, strizzandole un occhio.
«Per
me
non ci sono problemi.» disse Hiroji.
«Neanche
per me.» affermò Genzo.
Elena
li
guardò, a braccia conserte. Poi annuì.
«Va
bene.
Avviso mio zio.»
Prese
il
suo smartphone e chiamò Carlo, che approvò subito
la decisione della nipote.
Dopo
poco,
Hitomi le fece strada verso la stanza che Genzo le aveva fatto
assegnare.
Era
grande
e molto bella, con un letto matrimoniale.
C'era un'ampia finestra con dei
pesanti tendaggi color
crema, e una scrivania appoggiata alla parete opposta. Un ampio armadio
e una
specchiera erano collocati a poca distanza dal letto, e c'era perfino
una porta
comunicante con un bagno.
Alle
pareti, erano appese alcune antiche stampe giapponesi.
In
attesa
di avere da Annie un ricambio per la notte, fece una lunga doccia.
Aveva
da
poco finito di spalmare una crema per il corpo, quando sentì
bussare alla
porta.
Indossò
una vestaglia bianca e andò ad aprire.
Trasalì
leggermente quando vide Genzo con un pigiama rosa e grigio tra le
braccia.
«Aiko
fatica ad addormentarsi e Annie è dovuta rimanere in camera,
così sono venuto
io.» spiegò.
Elena
annuì, con un sorriso. Si sentiva stranamente agitata. Prese
il pigiama dalle
mani di Genzo, ma le scivolò dalle mani e finì
per terra.
«Scusami.»
disse, inginocchiandosi prima che lo facesse lei e recuperando
l'indumento.
«No, figurati. Sono io
che ho le mani di pastafrolla.» ridacchiò
imbarazzata, prendendolo dalle sue mani e posandolo sul ripiano della
specchiera.
Genzo
non
accennava a muoversi.
Elena
lo
guardò, ma non disse nulla.
Quella
tensione si faceva sempre più forte …
Sulle
sue
labbra, la smorfia divertita aveva lasciato il posto a un sorriso
ammirato, e
gli occhi la contemplavano con riverenza e desiderio.
Elena
gli
sorrise di rimando. Ormai aveva smesso di distogliere lo sguardo, da
quando
aveva capito che non doveva né voleva più
difendersi da ciò che provava per
lui.
Genzo
chiuse la porta alle sue spalle.
Pochi
passi e fu di fronte a lei.
Le
afferrò
delicatamente le braccia e la attirò a sé.
Si
avvicinò con il viso, le loro labbra si unirono.
Genzo
prese ad accarezzarle il viso, a sfiorarle il collo e le spalle. Poi
percorse
quella stessa pelle con le labbra, mentre le mani andarono a sfiorarle
i seni e
ad accarezzarle i fianchi, facendola fremere.
La
sua
pelle così chiara … era liscia e morbida, emanava
un profumo delicato che gli
andò alla testa.
«Elena
…
mai come in questo momento io …»
mormorò rauco, prima di posarle un altro
bacio, tra la base del collo e la spalla.
Lei
socchiuse gli occhi e sospirò.
Se
avesse
potuto scrutare all'interno del suo corpo, avrebbe visto il suo cuore
pulsare
impazzito e il suo sangue scorrere come la rapida di un fiume.
All alone with you
Makes the butterflies in me arise
Slowly we make love
And the earth rotates
To our dictates
Slowly we make love
Non
cercò
di fermarlo quando afferrò uno dei lembi della cintura e lo
tirò lentamente,
fino a sciogliere il nodo, per poi sfilarla.
La
vestaglia si aprì, rivelandogli parte del suo corpo.
Le
mise le
mani sulle spalle e il sottile indumento di seta cadde, lasciandola
nuda.
Percorse
il suo corpo con lo sguardo, poi iniziò ad accarezzarlo,
come se lo stesse
modellando con cura.
Le
sue
mani erano grandi, e calde.
Elena
si
accorse di tremare, per il piacere e per l'emozione.
Gli
serrò
i polsi con le sue dita, costringendolo a fermarsi.
Lui
la
guardò interrogativo, e vide quel sorriso da monella che
ormai gli faceva
perdere la testa, distenderle nuovamente le labbra.
«Ti
stai
prendendo troppi punti di vantaggio.» sussurrò,
mentre cominciava a
sbottonargli la camicia.
Lui
la
osservò mentre lo spogliava con lentezza, con occhi
traslucidi e assorti.
Fece
scorrere i lembi della camicia e la fece scivolare dalle spalle, come
aveva
fatto con la giacca, qualche mese prima a Madrid.
Gli
si
accostò e gli accarezzò le spalle e il petto, per
poi premere le labbra
all'altezza dello sterno. Avvertì i suoi muscoli contrarsi a
contatto con la
sua bocca.
Sorrise
e
gli sfiorò la pelle con altri baci.
Genzo
fremette. Quel gioco gli provocava eccitazione e impazienza allo stesso
momento.
Elena
si
staccò e sollevò la testa.
Gli
sorrise, dolce e seducente a un tempo.
Non
voleva
più controllare, frenare e respingere le sue sensazioni e i
suoi desideri.
Voleva
viverli nella loro interezza, relegare ricordi ed esitazioni e lasciare
agire
soltanto il cuore, che ormai la supplicava di amare e lasciarsi amare
di nuovo.
«Voglio
fare l'amore con te.» gli soffiò sulle labbra,
facendogli udire le stesse
parole che lui si era trattenuto dal pronunciare.
A
Genzo
sembrò che il cuore si fosse fermato nel momento in cui
Elena aveva pronunciato
quelle parole. Sul suo volto si dipinse un sorriso di pura emozione.
La
sollevò
e la distese sul letto.
Si
liberò
degli indumenti che ancora indossava e si stese sopra di lei, che gli
accarezzò
nuovamente le spalle e il petto, prima di ricevere il suo bacio.
Elena
avvertì la bocca di Genzo scendere, iniziando a percorrere
il suo corpo, con
delicatezza ma anche con l'intenzione di non risparmiarne un solo
centimetro.
Raggiunse
i seni e vi si soffermò, soprattutto sulle sue
sommità.
La
sentì
ansimare, mentre gli infilava le dita tra i capelli.
Con
le
dita accarezzò piano le sue cosce, risalendo fino a sfiorare
la sua intimità.
Affondò
nella sua morbidezza e calore.
Elena
inarcò la schiena e soffocò un gemito contro la
sua spalla.
La
sua
bocca scese ancora, sul suo ventre.
Poi
avvertì un tocco diverso, per lei completamente nuovo.
Umido
e
morbido.
Ardente.
Ogni
altro
tipo di percezione venne annullato. Quasi non sentì nemmeno
le sue stesse dita
stringersi con forza attorno al lenzuolo.
Poi
lui
risalì, fino a incontrare di nuovo il suo viso.
La
accarezzò dolcemente e la baciò di nuovo, facendo
scorrere le mani lungo i
fianchi.
Elena
gli
passò le mani attorno alla schiena e fece scivolare le gambe
attorno al suo
bacino mentre entrava in lei.
Genzo
posò
la testa nell'incavo tra la spalla e il collo, beandosi del calore e
del
profumo del suo corpo, sperando di perdersi dentro di lei il
più a lungo
possibile.
Rimase
sdraiato sopra Elena, con il volto affondato tra i suoi capelli.
Era
inebriato. Sconvolto. Non avrebbe saputo dare un nome alla sensazione
che gli
aveva invaso il sangue e il cuore.
Per
la
prima volta, si sentì privato di ogni energia.
Elena
prese ad accarezzargli la nuca.
«Non
andare in camera tua. Rimani qui.» gli sussurrò,
sfiorandogli la tempia con un
bacio.
Lui
alzò
la testa abbastanza perché vedesse il suo sorriso, dolce
come non l'aveva mai
visto nessuno oltre a lei.
Deboli
raggi di luce entrarono nella stanza.
Elena
e
Genzo dormivano abbracciati, coperti dalle pesanti lenzuola.
Alcuni
di
essi si posarono sul viso della ragazza, svegliandola.
Aprì
piano
gli occhi, focalizzando il volto di Genzo, ancora addormentato.
La
sua
espressione era così serena e persino dolce, che non si
sentì di svegliarlo.
Lo
contemplò, pensando alle sensazioni vissute poche ore prima:
così intense da
poterle descrivere solo con una serie di aggettivi … si era
sentita amata,
desiderata e voluta nel corpo oltre che nello spirito.
Gli
accarezzò piano una tempia, poi mise a sedere sul letto e
raccolse le gambe
contro il petto. Guardò fuori dalla finestra.
Aveva
lasciato le tende discoste, constatò con una piccola smorfia
divertita,
appoggiando il mento su una mano.
Il
cielo
era di un azzurro molto chiaro e aveva smesso di nevicare.
Si
alzò e
si avvicinò alla finestra.
Il
sole
brillava sopra un giardino coperto da un grande manto bianco, in cui
John quasi
si confondeva.
«Genzo!
Guarda che meraviglia!» esclamò spontaneamente,
facendolo svegliare.
Il
ragazzo
si tirò su, facendo scivolare il lenzuolo dal suo petto. Si
passò le dita tra i
capelli e sugli occhi e si voltò verso la giovane insegnante.
«Quale?
Quella affacciata alla finestra o quella fuori?» chiese, con
un sorriso
malizioso.
Elena
arrossì, rendendosi conto solo in quel momento di essere
completamente nuda.
«Tutti
uguali voi uomini. Quando vedete una donna nuda vi mettete a fare i
buffoni.»
gli rinfacciò, cercando di nascondere l'imbarazzo.
Genzo
sogghignò e si alzò dal letto, offrendole a sua
volta la sua immagine senza
veli. «Mentre voi donne commenti non ne fate mai,
vero?» la punzecchiò.
Elena
per
tutta risposta, gli fece una linguaccia.
Genzo
era
sempre più divertito dal suo atteggiamento. Adorava quando
faceva la risentita,
ed era certo che lei lo avesse capito.
Fosse
stato per lui, l'avrebbe afferrata e stesa di nuovo sul letto.
Ma
l'orario segnato sulla sveglia digitale posata sul comodino lo
sconsigliava.
«Meglio
prepararci e scendere. Se siamo fortunati troviamo Annie e Hitomi che
preparano
la colazione.»
«Prima
mi
serve una doccia.» ribatté però lei,
allontanandosi dalla finestra e
accostandosi al letto. Poi lo fissò.
«A
te no?»
aggiunse, con una smorfia da monella.
Genzo
sorrise e lasciò cadere sul letto gli indumenti che aveva
appena recuperato.
La
colazione poteva attendere qualche minuto in più …
Fortunatamente
quando arrivarono, nessuno era seduto a tavola.
C'erano
stati dei contrattempi, dovuti al fatto che Hiroji e Kenichi erano
andati a
giocare con la neve, con John che si divertiva a fare da disturbatore.
Hitomi
e
Annie erano ancora indaffarate nei preparativi ed Elena si
offrì di dar loro
una mano, unendosi all'andirivieni tra salotto e cucina.
«Buongiorno.»
esordì Genzo.
«Ah,
sei a
casa Genzo? Avevo visto la tua stanza vuota e pensavo fossi uscito a
correre.»
lo accolse la cognata. Poi guardò alternatamente lui ed
Elena e sorrise a
entrambi.
Genzo
chiuse gli occhi e sorrise di rimando, Elena fece altrettanto ma
arrossendo
leggermente.
Nel
frattempo, Hiroji e Kenichi erano rientrati.
Il
dirigente si tolse il giubbotto e la sciarpa e strizzò un
occhio a Genzo.
Elena
e
Annie si rivolsero vicendevolmente una smorfia di rassegnazione.
Uomini
…
Yasuhiro
rientrò nella stanza in cui alloggiava con la moglie, in un ryokan di Kurokawa.
Il
loro
soggiorno alla stazione termale nell'isola di Kyushu era ormai agli
sgoccioli.
I
rapporti
con gli Ujimori si erano fatti più freddi e tesi in quegli
ultimi mesi, dopo la
rottura tra Genzo e Asami.
La
giovane
ereditiera sosteneva di essersi sentita comunque tradita, anche se
durante la
loro storia non c'erano stati rapporti fisici tra il suo ex fidanzato
ed Elena.
Era
un'umiliazione il fatto di essere stata lasciata per una ragazza di
ceto
sociale inferiore, straniera, che aveva usato chissà quali
arti sottili per
sedurlo.
Yasuhiro,
pur disapprovando la scelta del figlio, non se l'era sentita di
schierarsi
contro di lui, cosa che aveva irritato i suoi amici e soci.
Le
prese
di posizione di Annie e Keisuke, seguiti da Hiroji e il rifiuto di
Mariko di
inimicarsi il figlio minore lo fecero esitare.
Lui
e
Genzo avevano sospeso i contatti da quattro mesi ormai, da quel
pomeriggio di
settembre. Ne soffriva, doveva ammetterlo.
Non
aveva
mai smesso di avere sue notizie tramite Mikami, Hiroji e Keisuke.
E
a quanto
sembrava, la storia con quella ragazza continuava. Quello che era
portato a
credere fosse stato un colpo di testa aveva l'aria di essere invece un
legame
serio.
Lo
stesso
Mikami gli aveva confidato che Genzo era innamorato di quella ragazza,
al punto
da voler costruire qualcosa di importante, con lei ed era stato lui il
primo a
informarlo della sua presenza a villa Wakabayashi.
«Io
torno
a Nankatsu. Voglio rivedere Genzo e conoscere quella
ragazza.» affermò Mariko,
risoluta.
Yasuhiro
la guardò, senza rispondere.
«A
quanto
mi hanno raccontato Mikami, Hiroji e Annie, si sono conosciuti quasi un
anno
fa, quindi non è una storia nata così,
all'improvviso. E poi Genzo non affronta
niente a cuor leggero. Se l'ha portata nella nostra casa significa che
ha
intenzioni serie.»
«O
che
quella ragazza è particolarmente abile.»
replicò lui, meno convintamente che in
passato.
Mariko
sospirò, spazientita.
«Devi
essere realista, Yasuhiro. Genzo condivide ormai da mesi la sua vita
con lei.
Nostro figlio non è mai stato uno sciocco e nemmeno un
ingenuo. Si vede che c'è
un legame solido a unirli, e se lei è una brava ragazza che
studia e lavora per
mantenersi, perché dovremmo vedere la loro relazione come
una cosa negativa?»
Yasuhiro
strinse la mascella e congiunse le mani.
«Almeno
incontrala, prima di giudicarla e di farti delle idee così
avverse su di lei.»
L'imprenditore
alzò gli occhi sul volto dall'espressione risoluta di sua
moglie.
Perfino
lei, sempre discreta e spesso in sintonia con lui, aveva preso
posizione in
favore della relazione tra quei due ragazzi.
Una
relazione nata dall'amore e non dall'interesse o per un vecchio
capriccio, o
ancora per consolarsi da una delusione, come aveva affermato Annie la
sera di
un mese prima, in cui l'aveva affrontato.
«Hiroji
aveva pochi anni in più di Genzo. Faceste obiezioni quando
lui vi disse che
intendeva sposare me?»
«No.»
ammise.
«Esatto.
Perché venivo da una famiglia più che benestante,
ero figlia di un consulente
finanziario e sapeva che non ci avrebbe perso nulla. Anzi, i suoi
affari in
Europa ci hanno guadagnato, grazie ai consigli di mio padre. Elena
Rulli no,
invece, è figlia di un operaio e di una commessa di
supermercato, che
degradazione per la famiglia Wakabayashi!»
Yasuhiro
alzò un sopracciglio.
«Non
mi
aspettavo questa presa di posizione da te, Annie. Stai difendendo una
ragazza
che ha rubato il fidanzato a un'altra.»
Annie
alzò gli occhi al cielo. «Ve l'ha detto anche
Genzo, che non è andata così. E
se la mettete in questi termini, allora anch'io ho rubato il fidanzato
alla
figlia di quell'avvocato. Ma a parte qualche piccola remora
all'inizio,
non mi ricordo vi siate stracciati le vesti, per il motivo che abbiamo
detto,
purtroppo.»
«E
quanto agli Ujimori … beh, se riescono a buttare a mare
quarant'anni di
amicizia per questo, allora dal mio punto di vista è meglio
perderli che
trovarli. Genzo non ha mai promesso nulla né ad Asami
né a loro.»
«A
te quella ragazza è simpatica perché ti rivedi in
lei.» replicò l'imprenditore,
dal cui atteggiamento traspariva una certa esitazione, come se Annie
fosse
riuscita a scalfire le sue convinzioni.
«Di
certo ho maggiori affinità con Elena che con Asami. Siamo
due europee
conquistate dalla cultura giapponese, per esempio. Abbiamo diverse cose
in
comune. In ogni caso, ciò che davvero è decisivo
è l'amore di Genzo per lei.
Proprio come lo è stato quello di Hiroji per me.»
«Inoltre»
continuò la nuora «lei non si è mai
opposto a che Genzo frequentasse persone di
una classe sociale inferiore alla sua, altrimenti non gli avrebbe mai
permesso
di praticare uno sport come il calcio, cui lo ha avviato uno dei suoi
migliori
amici, Tatsuo Mikami. Che lei ha conosciuto quando era impiegato nella
sua
azienda. Un giovane e umile sarariman.»
Era
impossibile negare che Annie gli avesse detto cose veritiere.
E
ora
anche Mariko gli imponeva di dare una possibilità a quella
ragazza … a Elena
Rulli.
Si
mise di
fronte all'armadio. Aprì le ante e cominciò a
tirare fuori gli abiti da
indossare l'indomani.
A
villa
Wakabayashi erano tutti riuniti in salotto a guardare e commentare un
film,
quando sentirono il suono del grande cancello automatico che cominciava
ad
aprirsi.
Kenichi
e
Aiko erano ancora a letto, per il sonnellino pomeridiano.
Pochi
minuti dopo, Hitomi tornò dal portico, seguita da Yasuhiro e
Mariko
Wakabayashi.
Tutti
alzarono la testa. Annie e Hiroji si scambiarono un'occhiata.
Gli
occhi
dei due signori si posarono su Genzo ed Elena.
Il
portiere fece cenno alla sua ragazza di alzarsi. Le passò un
braccio attorno
alla schiena e la condusse verso di loro.
La
presentò ai genitori, come sua fidanzata.
«Piacere
di conoscervi, Wakabayashi-sama.»
esordì
lei, facendo un inchino.
La
madre
di Genzo era una bella donna minuta e di bassa statura, con i capelli
castani
raccolti in uno chignon. La guardava con occhi neri incuriositi e un
sorriso
gentile.
Anche
il
signor Wakabayashi era un bell'uomo, per la sua età. Di
statura imponente e
corporatura robusta, i lineamenti del viso marcati e severi. Il suo
sguardo
penetrante e altero la stava esaminando con attenzione, deciso a capire
il
motivo per cui il suo erede più giovane aveva preferito lei
a una ragazza
bellissima, sofisticata e altolocata come Asami.
Da
parte
sua, Yasuhiro dovette ammettere di avere di fronte a sé una
ragazza avvenente,
molto diversa dalla giovane Ujimori e quindi non paragonabile dal punto
di
vista estetico.
Un
po' più
alta della media, vestita semplicemente con un paio di jeans blu e un
maglioncino a girocollo viola. Era educata, aveva un portamento
aggraziato ed
era una buona conoscitrice delle convenzioni e delle norme di cortesia
della
società giapponese. E soprattutto, per nulla intimorita.
In
un'altra situazione, poteva essere abbastanza per far vacillare le sue
idee.
Yasuhiro
Wakabayashi era un uomo orgoglioso e tradizionalista, ma non era cieco
al punto
di negare che quella ragazza non sfigurava accanto a suo figlio.
I
quattro
si accomodarono sui divani, sedendosi di fronte, sotto lo sguardo
attento ma
discreto di Hiroji e di Annie.
Yasuhiro
cominciò a porre alcune domande a Elena, alle quali lei
rispose con serenità.
Mariko
interveniva, di tanto in tanto.
Poi la conversazione
cominciò a vertere sul rapporto della
ragazza con il mondo del lavoro e con i soldi, l'argomento che
più interessava
trattare al signor Wakabayashi.
«Non
ho
particolari complessi verso chi è più abbiente di
me. In famiglia mi hanno
sempre insegnato a non vergognarmi di me stessa e delle mie origini. E
che se
avessi studiato e lavorato duramente, avrei potuto costruirmi un futuro
migliore.»
Yasuhiro
fece un cenno d'assenso.
«L'idea
di
dipendere economicamente da qualcuno mi terrorizza.»
soggiunse ancora Elena,
proprio mentre lui stava per porle un'altra domanda.
L'uomo,
colpito da quella affermazione, alzò un sopracciglio.
«Addirittura?»
La
giovane
annuì, convinta. «Se ho un buon titolo di studio,
un buon lavoro e un reddito
posso considerarmi una persona indipendente. E anche Genzo lo
è. Se c'è bisogno
ci si aiuta, ma ognuno conserva la propria autonomia. Suo figlio mi
rispetta,
mi appoggia e mi sostiene. E anche quando non è d'accordo,
non cerca mai di
impormi il suo punto di vista.»
Genzo
raggiunse suo padre, in piedi sul portico a osservare il giardino
finalmente
illuminato da un bel sole invernale. Una mano in una tasca della
pesante
giacca, l'altra che reggeva una pipa.
Era
orgoglioso di come Elena aveva affrontato quella situazione, capitata
in modo
improvviso e inaspettato.
«Sei
ancora fermo sulle tue posizioni?» gli chiese, senza troppi
preamboli, come lui
gli aveva insegnato a fare.
«Se
ti
dicessi che non mi ha fatto una buona impressione, mentirei Genzo, e mi
dimostrerei più ottuso di quanto tu avrai certamente
creduto.» rispose, con un
lieve sorriso, che il giovane ricambiò, suo malgrado.
«E
quanto
a tua madre … beh, credo si possa intuire, come la
pensa.» affermò, guardando
verso il salotto in cui Mariko era rimasta a dialogare con Elena.
Era
ormai
quasi mezzanotte. Hiroji e Annie erano da poco saliti nella loro stanza.
I
signori
Wakabayashi erano ripartiti per Tokyo poco prima del calare della sera,
preferendo lasciare i figli e le loro donne da soli.
Genzo
ed
Elena erano in piedi al centro del salotto, indisturbati
poiché anche Hitomi si
era ritirata nella sua camera.
«Sei
stata
splendida, con i miei genitori. Soprattutto con papà, che
non è un tipo facile
da convincere.»
«Ero
pronta anche a dirgli che ho fatto la ballerina in una discoteca, se
fosse
servito a convincerli che non punto ai tuoi soldi.»
«Temo che avresti rovinato tutto.» commentò,
perplesso.
Elena diede un'alzata di spalle.
«Come
ho detto anche a tuo padre, io non mi vergogno delle mie origini,
né delle mie
scelte.»
«Dici
che
sono orgoglioso, ma anche tu non scherzi.» sorrise. Le mise
le mani sui fianchi
e la attirò a sé.
«Ti
dispiace?» replicò lei, passandogli le braccia
attorno al collo. La sua voce si
era fatta poco più di un sussurro. Le sue labbra sfiorarono
quelle di Genzo.
Lui
chiuse
gli occhi e colmò quella lievissima distanza.
La
cinse
con le sue braccia e approfondì il contatto, perdendosi
nella dolcezza e nel
calore della sua bocca.
Quando
si
staccarono, gli occhi di Genzo si posarono sul grande mobile appoggiato
alla
parete di fronte.
Sulle
mensole erano allineati dei bellissimi vasi in ceramica attraversati da
strisce
irregolari in oro e argento, alcuni dei quali erano stati ridotti a dei
cocci
in un periodo collocato tra dieci e vent'anni prima, come non mancava
di
sottolineare sua madre ogni volta che ne parlava. Era evidente il
riferimento
all'infanzia dei suoi tre figli.
Se
avesse
dovuto definire la storia tra lui ed Elena con una parola, avrebbe
scelto kintsugi.
Le
loro
vite precedenti erano state sconvolte da rotture inaspettate. Avevano
subìto
due separazioni che avevano spezzato il cuore e mandato in frantumi
tutte le
loro certezze. Erano entrambi arrivati in Giappone per ricostruire la
loro
vita. E si erano ritrovati a raccogliere i frammenti della loro vita
precedente
e a realizzare una nuova opera, insieme.
***Note***
In
Italia
si usa l'espressione "campione d'inverno" per indicare la squadra che
conclude al primo posto il girone d'andata del campionato nazionale.
In
Germania, l'espressione corrispondente è
Herbstmeister, che letteralmente significa "campione
d'autunno".
I Draxler sono la
famiglia di Amburgo che accoglie Genzo dopo che Mikami ha deciso di
ripartire
per il Giappone. Grazie a loro, il futuro SGGK si è
integrato nella società e
nella cultura tedesche e ha imparato a comunicare nella nuova lingua.
Sono
tra i
personaggi introdotti da Takahashi in "Rising Sun".
Auld Lang Syne:
è una canzone
tradizionale scozzese diffusissima nei paesi di lingua inglese, dove
viene
cantata soprattutto nella notte di Capodanno per dare l'addio al
vecchio anno e
in occasione di congedi, separazioni e addii (per esempio dai compagni
di
classe alla fine di un corso di studi, o dai commilitoni al termine del
servizio militare, o dai colleghi di lavoro in occasione del
pensionamento, o
ancora per salutare gli amici conosciuti in vacanza al momento del
rientro).
Il
titolo
della canzone è un'espressione scozzese ormai accolta nei
dizionari della
lingua inglese, dove è tradotta letteralmente come "old long since",
o, in modo meno letterale ma più
corretto, "the good old
days"
nel senso de "i bei tempi andati".
Il
testo è
un invito a ricordare con gratitudine i vecchi amici e il tempo lieto
passato
insieme a loro.
In
Italia
è nota come "Valzer delle candele".
Fonte:
Wikipedia
Il knickerbocker
glory
è un gelato a strati (in inglese sundae)
molto elaborato e servito in alti bicchieri di vetro a forma conica, e
un lungo
cucchiaio con cui mangiarlo.
Gli
strati
possono includere frutta secca (noci, nocciole), meringhe, frutta,
biscotti o
cioccolato, guarniti con panna montata a sua volta decorata con una
ciliegia
sciroppata o simili.
Fonte: foodsonengland.co.uk
Ultima
strofa di "Sign Your Name" ad accompagnare il primo incontro d'amore
tra Genzo ed Elena.
Questa
è
la traduzione:
Stare solo con te
Mi fa mancare il fiato
facciamo l’amore piano
E la terra gira
al nostro ordine
facciamo l’amore piano
Kintsugi è
una parola
giapponese che significa "riparare con l'oro".
Si riferisce alla
pratica di riparare oggetti (vasellame, statue e
così via) specialmente in ceramica, usando oro o argento
liquido oppure lacca
con polvere d'oro per
saldare assieme i
frammenti. La tecnica (come si legge su Wikipedia) permette di ottenere
degli
oggetti preziosi sia dal punto di vista economico (per via della
presenza di
metalli preziosi) sia da quello artistico: ogni ceramica riparata
presenta un
diverso intreccio di linee dorate unico ed irripetibile per via della
casualità
con cui la ceramica può frantumarsi. La pratica nasce
dall'idea che
dall'imperfezione e da una ferita possa nascere una forma ancora
maggiore di
perfezione estetica e interiore.
Il
risultato è dare una nuova vita all'oggetto andato in pezzi,
impreziosendolo
appunto con questi inserti, anziché gettarlo.
Questo,
e
la considerazione finale di Genzo, spiegano anche il concetto che ha
dato il
titolo all'intera fanfiction.
Aggiungo due
link, per chi volesse approfondire la
conoscenza di quella che
non è solo un'interessantissima tecnica, ma soprattutto una
vera e propria
filosofia di vita da cui, secondo me, c'è molto da imparare.
E non finisce qui …
Domani, al massimo dopodomani
pubblicherò quello che
doveva essere l'epilogo … ovvero il capitolo 28 con un
epilogo più breve.
A presto, quindi!
Sandie
|
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Capitolo 28 *** Capitolo XXVIII - Insieme ***
Capitolo XXVIII
Insieme
Genzo
accarezzò il volto di Elena, illuminato dalla luce lunare
che filtrava
attraverso le imposte semiaperte della stanza d'albergo in cui si
trovavano, a
Roma.
I
capelli
biondi sparsi sul cuscino. Il volto sudato, ancora trasfigurato dal
piacere.
La
loro
intesa era cresciuta sempre più in quei mesi, dopo che
avevano cominciato a
viversi anche sotto quell'aspetto.
Gli
imbarazzi e le esitazioni si erano via via attenuati e diradati, fino a
sparire.
Non
c'era
zona del corpo in cui non l'avesse lambita, con le mani o con la bocca.
E
lei,
dopo un periodo di leggero impaccio, in cui si era lasciata soprattutto
guidare, aveva cominciato a giocare con maggiore disinvoltura con quel
lato di
sé che lui le aveva fatto scoprire, ogni volta di
più.
Le
posò un
bacio su una spalla e poi adagiò la testa sul suo petto e
chiuse gli occhi.
Lei
gli
passò le braccia attorno alla schiena e gli
accarezzò piano i capelli,
intenerita e sorpresa allo stesso tempo.
Che
fosse
Genzo Wakabayashi a posarle la testa sul petto chiedendole tacitamente
di
cullarlo, forse persino confortarlo … aveva sempre pensato
fosse lui il più
forte nella coppia e lei ad avere più bisogno di sostegno e
protezione.
Era
lui
che la consigliava, la spronava e la riportava alla ragione nei momenti
in cui
vedeva tutto nero e stava per scoppiare.
Il
suo
percorso universitario e lavorativo era stato fin lì degno
di quello di Genzo
in Bundesliga, Champions League e Coppa di Germania: stava sostenendo i
suoi
esami nei tempi previsti e con ottime valutazioni. Insieme a Gabriele
stava
preparando le sue allieve del corso di ginnastica artistica per le gare
del
Land della Baviera, e sperava in un buon piazzamento. Non aveva trovato
un'Arimi tedesca, ma era un gruppo di ragazze appassionate e con una
grande
voglia di imparare.
Genzo
si
era ormai adattato alla sua nuova vita a Monaco, dopo i primi mesi in
cui aveva
cercato anzitutto di non lasciarsi schiacciare dalle aspettative con
cui era
stato caricato un po' da tutti, chi apertamente, chi in modo implicito.
Con
lui in
porta, i dirigenti e i tifosi si aspettavano la Champions League, oltre
all'ennesima riconferma in Bundesliga. Era stato acquistato proprio per
completare la squadra, per renderla imbattibile anche a livello
continentale e
mondiale.
Quelle
spalle così larghe e quel fisico solido e possente
sembravano fatti per
sopportare qualsiasi peso. Così pensava chi lo conosceva in
modo superficiale.
Ma
lei
poteva dire di aver conosciuto l'uomo e non solo il calciatore. E di
conseguenza, anche quelle fragilità invisibili a chi
considerava solo
l'immagine pubblica di Genzo Wakabayashi, il Super Great Goal Keeper.
Pensò
ai
suoi racconti di quando era arrivato in Germania, le
difficoltà incontrate nel
doversi adattare a una società diversa, a un'altra cultura e
lingua. La lotta
quotidiana per essere accettato dai nuovi compagni di squadra, che lo
avevano
osteggiato dapprima per le sue origini giapponesi, poi per paura che
potesse
diventare titolare, visto che Schneider aveva intuito il suo potenziale
e lo
stava aiutando a farlo emergere.
In
quei
giorni difficili non aveva mai potuto rifugiarsi nell'abbraccio di sua
madre,
specie dopo che era stato selvaggiamente e vigliaccamente picchiato dal
portiere delle giovanili e da altri tre compagni di squadra. E poi, gli
altri
momenti critici che si era trovato a vivere nella sua carriera,
contando solo
su sé stesso per superarli.
In
fondo,
anche dopo la fine brusca e dolorosa della sua lunga avventura
amburghese aveva
cercato conforto, in qualche modo. La sua famiglia, i suoi amici
d'infanzia, la
storia con Asami.
Doveva
essersi sentito perduto, in quel periodo …
Avrebbe
voluto sussurrargli qualcosa, ma non disse nulla. Non ce n'era bisogno,
né lui
le aveva chiesto di farlo.
Genzo
poteva mostrarle il suo lato più fragile e umano, senza
vergognarsi o temere di
non essere capito.
Se
l'amore
era affetto e fiducia reciproca, allora il legame che li univa si stava
consolidando, giorno dopo giorno.
Erano
arrivati a Roma poche ore prima, dove Genzo avrebbe finalmente
conosciuto i
genitori di Elena.
Avevano
avuto giusto il tempo di sistemarsi nella stanza d'albergo prenotata da
un paio
di settimane, e poi erano bastati un'occhiata e uno sfiorarsi di mani
per
finire l'uno tra le braccia dell'altra.
La
ragazza
pensava di aver scelto il periodo giusto per farli incontrare: passare
qualche
giorno di vacanza insieme avrebbe dato a Genzo quella
serenità indispensabile
per affrontare quell'impegnativo scorcio di stagione.
Mancavano
pochi punti alla vittoria aritmetica del Meisterschale,
anche se proprio per questo nessuno, nel Bayern, si sognava di
abbassare la
guardia. E soprattutto, le semifinali di Champions League, che per
ironia della
sorte e forza delle rispettive squadre, avrebbe messo l'uno contro
l'altro le
quattro stelle della Nazionale giapponese: Tsubasa avrebbe sfidato
Genzo con il
suo Barcellona, Taro avrebbe affrontato Hyuga che con i suoi gol aveva
trascinato la Juventus a un passo dall'ultimo atto.
Era
ormai
aprile e Roma era baciata da splendide giornate di sole.
Giunsero
davanti all'appartamento della famiglia Rulli in tarda mattinata.
Ad
aprire
la porta fu la madre di Elena, che la accolse con un abbraccio. Poi
alzò gli
occhi, azzurri come quelli della figlia, e gli strinse la mano.
«Piacere
di conoscerti, Genzo.» gli disse, in tedesco.
Il
portiere ricambiò il suo saluto e la guardò con
ammirazione. Era molto bella e
fine nei modi. Con ogni probabilità Elena avrebbe avuto quel
volto, alla sua
età.
«Vieni,
ti
presento mio marito. Valerio, è arrivata Elena con il suo
fidanzato!»
Nel
salotto comparve un uomo non molto alto, piuttosto corpulento, con uno
sguardo
sveglio e vispo.
«Finalmente
vi vedo insieme dal vivo.» commentò con ironia,
nel suo bizzarro e un po'
claudicante tedesco dall'accento romano, riferendosi alle fotografie
apparse
sulle riviste di gossip tedesche e italiane, per via della
nazionalità della
"ragazza che aveva fatto perdere la testa al SGGK".
Lo
salutò
con una stretta di mano e gli mise le mani sulle spalle.
«Ci
credo
che prendi pochissimi gol. Uno come te incute soggezione solo a vederlo
tra i
pali della porta.» commentò, facendogli un
occhiolino.
Genzo
sorrise, divertito.
I
signori
Rulli erano come la figlia: non avevano atteggiamenti affettati e
cerimoniosi,
né mostravano inutili complessi di inferiorità o
ansia di piacergli. Nessun
compiacimento né presunzione per il fatto di avere una
figlia fidanzata con un
calciatore famoso, e parlavano del suo lavoro quasi come se fosse
un'occupazione qualsiasi. Valerio in particolare, dimostrò
di essere un ottimo
intenditore di calcio, ed Elena doveva certamente a lui la sua passione
per
quello sport.
Erano
persone semplici e lo stavano trattando come uno di loro, proprio come
aveva
fatto Carlo, quando l'aveva conosciuto nella palestra Shiroyama.
E
come
avevano fatto anche i nonni e gli altri zii di Elena, nelle ormai
diverse volte
in cui aveva pranzato con loro a Bad Tölz. Solo il piccolo
Sebastian lo
considerava una specie di semidio, ma dal punto di vista di un
dodicenne tifoso
sfegatato del Bayern era comprensibile. Ricordava la sua espressione
sbalordita
e incantata quando, insieme a Elena, si era presentato al centro di
allenamento
di Säßener
Straße, per conoscere i
giocatori della sua squadra del cuore, in particolare Schneider, il suo
idolo
di sempre.
Lo
disse a
Elena, quando lasciarono la sua casa per portarlo a fargli visitare un
po' la
città. I suoi genitori e parenti lo facevano sentire parte
della loro famiglia.
Di
quel
viaggio avrebbe ricordato un momento in particolare.
Seduti
sulla Fontana di Trevi, Elena gli fece una domanda apparentemente
strana.
«Sai
perché si usa gettarvi una moneta?»
«Certo.
È
la promessa di ritornare a Roma.»
Elena
assentì. «Non tutti sanno però che si
deve esprimere un desiderio, mentre si
lancia la moneta. Se lo si fa, questo ha grandi probabilità
di avverarsi.»
Lui
chiuse
gli occhi e scosse leggermente la testa, con un sorriso. «Non
credo molto a
queste cose.»
Elena
sorrise di rimando. «Tentare non nuoce. Dai,
provaci.» lo esortò, dandogli una
moneta.
«E
va
bene.» concesse, aprendo il palmo della mano. Si
girò e chiuse gli occhi, e
compì il lancio.
Elena
ridacchiò e gli passò un braccio attorno al suo.
«Quando
l'hai buttata, ho espresso anch'io un desiderio. Sono convinta che
è uguale al
tuo.» mormorò, con un ammicco.
La
prima
semifinale vide opposte il Barcellona e il Bayern Monaco.
Dopo
tanti
anni, finalmente Tsubasa e Genzo rinnovavano la loro sfida personale.
L'andata,
disputatasi in Germania, era finita a reti inviolate, rimandando ogni
risoluzione alla gara di ritorno.
L'incontro
iniziò in salita per la squadra tedesca.
Dopo
venti
minuti in cui le due compagini si erano esaminate a vicenda, un
intervento in
difesa di Payol diede avvio a una rapidissima azione dei blaugrana. Grandios
ricevette il pallone poco
prima della linea di metà campo e passò a
sinistra, verso Rivaul. Quest'ultimo
lanciò il pallone a Tsubasa, che anticipò
l'intervento di Magath e calciò verso
Luikal, che era scattato in avanti.
Genzo
tentò un'uscita, ma l'attaccante olandese passò
nuovamente il pallone al
giovane giapponese, che nel frattempo si era avvicinato ed era giunto
praticamente a tu per tu con il suo vecchio amico e rivale. Tsubasa
finse di
calciare con il piede sinistro, ma poi colpì il pallone con
il destro,
spiazzando Genzo.
Il
Barcellona passò così in vantaggio, grazie a
un'astuta finta di Tsubasa.
Il
portiere del Bayern Monaco digrignò i denti e
assestò un pugno sul terreno di
gioco, irritato con sé stesso per essersi lasciato ingannare.
Fece
un
profondo respiro, cercando di calmarsi.
Non
doveva
e non voleva più ricadere in quell'errore di
mentalità che lo aveva messo nei
guai un anno e mezzo prima: l'intima convinzione di non avere
più nulla da
imparare.
Il
kickboxing, uno sport in cui la scaltrezza e l'autocontrollo contavano
moltissimo, gli aveva insegnato anche questo.
Si
rialzò
e si riposizionò tra i pali della porta, con rinnovata
fiducia e
concentrazione.
Nelle
successive azioni del Barcellona, attese ogni volta l'ultimo passaggio,
prima
di intervenire. Diede istruzioni ai difensori e ai centrocampisti
affinché
formassero una rete che impedisse ai campioni di Spagna di avvicinarsi
all'area
di porta.
Tsubasa,
Rivaul e gli altri giocatori furono così costretti a
tentativi da fuori area.
Anche
Schneider retrocedeva verso il centrocampo in copertura, se necessario.
A
tre
minuti dal termine del primo tempo, il tedesco mostrò la sua
forza e capacità
di calcolo sottraendo il pallone a Tsubasa.
Karl
avanzò dalla trequarti fino all'area di rigore del
Barcellona, inesorabile come
un carro armato. Con un tiro preciso infilò il pallone nella
parte sinistra
della porta lasciata incustodita da Valtes, che aveva tentato una
precipitosa
uscita.
Il
pareggio turbò i giocatori della squadra spagnola, convinti
di avere costretto
il Bayern a giocare una partita tutta in difesa, subendo le loro
iniziative.
Inoltre, era un risultato che qualificava proprio gli avversari.
Nel
secondo tempo, il ritmo della partita scese, soprattutto da parte dei
giocatori
della squadra di casa, che avevano speso molte energie nei primi
quarantacinque
minuti di gioco.
Il
Bayern
ne approfittò dapprima con Levin che, con una serie di
finte, sfuggì alla
marcatura dei difensori e segnò con un tiro di straordinaria
potenza.
A
distanza
di pochi minuti, arrivò la doppietta di Schneider, con un
siluro da metà campo
che gli avversari quasi non scorsero.
Karl
strinse i pugni e alzò un indice al cielo, memore delle
giornate dedicate a
mettere a punto quel tiro con cui era riuscito, dopo tanto tempo, a
battere
Wakabayashi in allenamento.
Quel
gol
fiaccò ulteriormente il morale del Barcellona. I gol da
segnare per
riagguantare la qualificazione erano diventati tre … e
mancavano solo sette
minuti.
E
in porta
c'era Genzo Wakabayashi, che in quella stagione non aveva mai
subìto più di due
gol in una partita e aveva trovato il modo di imbrigliare le azioni
degli
avversari.
Sarebbe
servita più di un'invenzione, ma nemmeno Tsubasa sapeva
più cosa escogitare
contro l'unico giocatore che non gli era mai riuscito di sconfiggere.
Quegli
ultimi minuti furono poco più di un conto alla rovescia.
«Elena,
siamo in finale!» esultò Angelina, abbracciando la
cugina, che aveva i pugni
stretti dalla gioia.
Vide
Genzo
sorridere soddisfatto e scambiare strette di mano e pacche sulle spalle
con i
suoi compagni, per poi fermarsi a parlare con il suo amico e rivale di
sempre,
Tsubasa.
Ora
toccava al Paris Saint Germain superare l'ultimo ostacolo sul fin
lì strepitoso
percorso verso la finale: la Juventus, che quel trofeo lo agognava da
anni.
Sarebbe
stato fantastico vedere Genzo e Taro affrontarsi nello stadio di
Wembley, sotto
gli occhi suoi e di Kumi.
Tsubasa
batté una pacca sulla spalla di Genzo, che aveva appena
scambiato la consueta,
energica stretta di mano con Schneider.
«Non
c'è
niente da dire. Siete i più forti.»
«Il
più
forte è quello che vince. E noi non abbiamo ancora vinto
nulla.» replicò Karl.
Il
fuoriclasse giapponese lo guardò e fece un cenno
d'approvazione.
«Devo
rivelarti una cosa, Wakabayashi.» disse poi, mentre Schneider
si dirigeva verso
la panchina.
«Un
segreto?» rispose Genzo, con un mezzo sorriso.
Tsubasa
ridacchiò. Wakabayashi stava vivendo un periodo felice, sia
sotto il punto di
vista professionale sia sotto quello affettivo.
La
storia
con Elena aveva accentuato quel lato scherzoso che già
possedeva. E lo aveva
reso ancora più determinato e tenace in campo.
«Ho
evitato di dirtelo prima perché la scorsa estate ti ho visto
molto combattuto,
e non volevo influenzare la tua decisione. Ti ricordi quel sogno che
Sanae
aveva fatto durante il nostro viaggio dal Brasile verso l'Europa? Beh
… la
casacca che indossavi tu era proprio quella del Bayern
Monaco.» gli svelò.
Genzo
spalancò gli occhi, sorpreso ma anche divertito.
«Pensa un po' … Sanae
preveggente.»
«Già.»
«Allora
il
nostro scontro in una finale di Champions è soltanto
rimandato.» affermò,
strizzandogli un occhio.
Tsubasa
annuì. «Poco ma sicuro. Stasera ho capito che sei
tu la mia vera bestia nera. E
potrò ritenermi il calciatore più forte al mondo
solo dopo averti battuto.»
«Allora
credo che quel momento arriverà tra molti anni.
Forse.» lo punzecchiò, per poi
passargli un braccio attorno alle spalle, con una risata, a mostrare la
grande
amicizia che li legava, oltre ogni rivalità.
La
sera
successiva, nell'altra semifinale, il Paris Saint Germain
batté la Juventus.
I
campioni
d'Italia, che avevano vinto per 1-0 nell'andata disputata a Torino, si
portarono in vantaggio dopo pochi minuti con una cannonata di Hyuga, ma
nel
secondo tempo i francesi reagirono, dapprima ristabilendo la
parità con un
potentissimo tiro di Napoléon, analogo a quello
dell'attaccante giapponese, e
passando poi in vantaggio con una triangolazione tra Misaki, Leblanc e
Ochado
che mandò in confusione i centrocampisti e i difensori
bianconeri e si concluse
con la rete, a due passi dalla porta, del capitano della Nigeria.
A
pochi
minuti dalla fine, Gentile fece un intervento in scivolata su Taro,
appena
entrato in area di rigore dopo aver superato quattro giocatori
avversari con
una serie di dribbling.
L'intervento
fu giudicato falloso dall'arbitro, che assegnò un rigore.
Fu
Taro
stesso a presentarsi sul dischetto, dopo aver chiesto e ottenuto da
Leblanc,
rigorista designato, il permesso di batterlo.
Dopo
una
breve rincorsa, Taro calciò il pallone e lo mandò
in rete. A nulla valsero i
tentativi del portiere di deconcentrarlo, anzi finì per
buttarsi dalla parte
opposta alla traiettoria del tiro.
Sugli
spalti del "Parco dei Principi" proruppe la gioia dei tifosi di casa.
Kumi
scattò in piedi dal divano del salotto ed emise un
gridolino, al colmo della
felicità, coinvolgendo anche Reiko, che stava seguendo la
partita insieme a
lei.
Poco
dietro di loro, Shinji sorrise. Aveva appena finito di annodarsi la
cravatta e
aveva la ventiquattrore pronta sul tavolo.
«È
valsa
la pena fare una levataccia, allora.» commentò,
avvicinandosi allo schermo, in
cui si vedeva Misaki stringere i pugni e scambiare strette di mano e
pacche
sulle spalle con i suoi compagni di squadra.
«Puoi
dirlo forte!» gridò Kumi, voltandosi verso di lui
con un'espressione raggiante.
Il
suo
Taro aveva regalato al Paris Saint Germain la finale di Champions
League, e
l'altro
contendente alla "coppa dalle grandi orecchie" sarebbe stato il
Bayern Monaco!
Lei
ed
Elena si sarebbero ritrovate nello stesso stadio, anche se il tifo le
avrebbe
stavolta divise.
Taro
e
Kojiro si strinsero le mani.
«Stavolta
hai vinto tu, Misaki.»
«Beh,
un
po' per uno, Kojiro. Ai campionati scolastici del liceo mi hai sempre
battuto,
ora mi prendo la rivincita.» replicò, strizzando
un occhio.
Hyuga
sorrise e incrociò le braccia. «Ora affronterai
Wakabayashi e Schneider. Il
Bayern ha una difesa e un attacco formidabili, ma la tua squadra non
è da meno.
Potete giocarvela.»
«Non
ci
tireremo indietro. Più forte è l'avversario,
più grande è la motivazione.»
replicò Taro.
Kojiro
fece un cenno d'approvazione.
Il
suo
primo anno in Europa aveva fatto crescere ulteriormente Misaki: non era
più lo
spensierato ragazzino che si divertiva a fare splendide evoluzioni con
il
pallone, ma un calciatore maturo, grintoso, desideroso di mostrare
tutto il suo
valore e di ritagliarsi un ruolo da protagonista, pur continuando a
mandare in
rete i compagni in una posizione migliore.
Il
suo
stesso sguardo lo dimostrava.
I
due
ragazzi si tolsero le rispettive maglie e le scambiarono, stringendosi
la mano.
Taro
parcheggiò l'auto nel box del condominio in cui aveva preso
un appartamento nel
quartiere di Montmartre, a venticinque minuti di macchina dal centro di
allenamento di Camp de
Loges.
Gli
andava
bene così: abitava in una zona tranquilla e che conosceva
bene, e guidare gli
piaceva.
Pensò
alla
sua prima stagione in Europa, giunta ormai all'ultima fase. Con il
Paris Saint
Germain aveva vinto la Ligue 1 con quattro giornate di anticipo ed era
arrivato
all'ultimo atto della Champions League.
Sarebbe
stata una finale difficilissima.
La
favorita era, ovviamente, il Bayern. Da un lato, la pressione sarebbe
stata
tutta sulla squadra bavarese, dall'altro c'erano i risultati, che
giustificavano pienamente il ruolo attribuito.
Non
erano
tanto i gol messi a segno, comunque tantissimi, a preoccuparlo, quanto
quelli
subiti.
La
stagione di Wakabayashi era stata fin lì splendida.
Schneider
aveva avuto ragione nel definirlo il "tassello mancante" alla
costruzione di un Bayern Monaco capace di dominare in ogni competizione.
Nessun
infortunio, pochissime assenze dovute a ragioni di turnover, non aveva
mai
incassato più di due gol ed era andato molto vicino a
stabilire il record di
minuti giocati mantenendo la porta inviolata. La sua eccellente difesa
aveva
permesso al Bayern di vincere o comunque non perdere anche nelle
prestazioni
meno brillanti.
Ogni
volta
spostava l'asticella un po' più in su: la sua elevazione, la
sua potenza, i
suoi riflessi … tutti miglioramenti frutto anche degli
allenamenti di
kickboxing.
«Pensa
che
potresti entrare nel club dei pochi che sono riusciti a fare un gol a
Wakabayashi!» gli aveva detto Kumi, quando ne aveva parlato
con lei, al
telefono.
Forse
aveva avuto ragione Kinuyo, quando gli aveva detto che aveva bisogno di
una
ragazza
capace di condividere i suoi sogni.
Kumi
sapeva trovare il lato positivo in ogni cosa.
La
sua
passione per il calcio, la voglia di giocare e vincere era aumentata,
da quando
stava con lei. La chiamava quasi ogni giorno, per sentirla vicina
almeno con la
voce.
Tra
poco
meno di un mese l'avrebbe riavuta accanto a sé.
Genzo
scrutava con leggera apprensione i tabelloni con gli orari dei voli.
Mancava
ormai pochissimo alla sua partenza per Londra, dove di lì a
quattro giorni,
avrebbe disputato la finale di Champions League.
A
Wembley,
erede dell'omonimo stadio, tempio del calcio mondiale.
Elena
non
aveva lezioni da seguire all'università e aveva voluto
accompagnarlo
all'aeroporto: poteva e voleva salutarlo prima della partita
più importante
della stagione, il motivo per cui i dirigenti del Bayern avevano scelto
lui
come portiere.
Ogni
tanto
alcuni compagni, a qualche metro di distanza, gli lanciavano delle
occhiate
maliziose. Genzo era però abituato a fare finta di niente e
a liquidare tutto
con un mezzo sorriso, come a sottolineare la loro malcelata invidia.
Lei
gli
stava raccontando un episodio divertente accaduto
all'università, che lo fece
ridere.
Era
così
bello il suo Genzo, quando rideva … perché quella
risata così spontanea la
concedeva a pochi, e lei era tra questi.
L'altoparlante
annunciò il volo per Heathrow.
Lei
gli
posò un bacio sulle labbra. «In bocca al
lupo.»
«Ci
vediamo a Wembley.» replicò lui.
«Sì.»
mormorò, con un cenno del capo.
Le
sorrise
un'ultima volta, poi si voltò e si incamminò
verso compagni e allenatore.
Aveva
mosso pochi passi quando Elena sgranò gli occhi, come se si
fosse ricordata di
qualcosa all'improvviso.
«Ah,
Genzo!» lo chiamò, raggiungendolo e toccandogli un
braccio.
Lui
si
arrestò e si girò, con aria interrogativa.
«Dimmi.»
Lo
guardò
e abbassò la testa, esitante. Poi sorrise e puntò
gli occhi nei suoi.
«Ti
amo.»
Lui
quasi
trasalì. Il suo cuore perse un battito, e un lampo di
emozione gli attraversò
le iridi nere. Per un momento gli sembrò che tutto, attorno
a lui, si fosse
fermato e fosse rimasta solo Elena, di fronte a lui.
Distese
le
labbra in un sorriso e la attirò a sé.
Le
accarezzò una tempia con le labbra.
«Anch'io,
Elena.» mormorò, sfiorandole l'orecchio e
provocandole un piacevole brivido.
«Wakabayashi,
vuoi giocarla questa finale oppure no?» gridò un
irritato Frank Schneider,
mentre la speaker annunciava per la seconda volta il volo con il quale
la
squadra doveva imbarcarsi.
«Arrivo,
mister!» rispose Genzo di rimando, staccandosi con riluttanza.
Scambiò
un
ultimo sguardo con Elena, poi afferrò la maniglia del
trolley e si voltò,
andando a raggiungere il resto della squadra.
Elena
lo
accompagnò con lo sguardo finché non
sparì verso il gate.
La
partita
più attesa della stagione infine arrivò.
Elena
e
Kumi, sedute in tribuna a poca distanza da Mikami e Katagiri,
attendevano
trepidanti l'ingresso in campo dei calciatori.
A
Wembley,
stavano per affrontarsi in campo le due squadre più forti
rispettivamente in
Germania e in Francia, entrambe fresche vincitrici di Bundesliga e
Ligue 1,
pronte a contendersi la Coppa dei Campioni oggetto del desiderio di
ogni
calciatore e allenatore, che troneggiava fuori dal tunnel degli
spogliatoi, in
attesa di essere incisa con il nome e di essere ornata con i nastri
recanti i
colori sociali del club vincitore.
Ad
assistere alla gara erano giunti anche molti famosi giocatori, tra cui
Kojiro
Hyuga accompagnato dalla fidanzata Maki, Shingo Aoi, Kaltz e alcuni
campioni
del Real Madrid.
I
calciatori della "Generazione d'Oro" avrebbero certamente assistito
in tv alla "partita dell'anno", incuranti del fuso orario,
così come
Tsubasa e Sanae a Barcellona.
Il
Bayern
appariva praticamente privo di punti deboli, con Wakabayashi in porta e
Schneider, Levin e Sho in attacco. Una squadra ricca di campioni in
tutti i
reparti che incuteva timore soltanto elencandone la formazione.
La
speranza era che la creatività di Misaki e Leblanc e la
potenza di Ochado e
Napoléon scalfissero l'impenetrabilità della
difesa bavarese.
Gli
allenatori e i giocatori delle due squadre si erano scambiati solo
parole di
elogio, tranne che per una pepata querelle
a distanza tra Napoléon e Schneider, pretendenti al titolo
di capocannoniere
della competizione, in cui si era inserito Wakabayashi che, con la
consueta
ironia, rivendicava il ruolo di ago della bilancia, a vivacizzare la
vigilia e
far accrescere l'attesa, già alta, per l'inizio del match.
I
giocatori delle due squadre entrarono in campo, ognuno tenendo per mano
un
bambino o una bambina, insieme alla terna arbitrale.
Tutti
cercavano di non far trasparire l'emozione che doveva pervaderli.
Stavano
calpestando l'erba dello stadio di Wembley, di lì a poco
avrebbero giocato la
finale del massimo torneo continentale.
Nell'impianto
risuonò l'ormai celeberrimo inno della competizione.
La
mitica
"Coppa dalle grandi orecchie" stava lì a qualche metro, come
un
magnifico miraggio.
O
come un
bersaglio da centrare, come sembravano comunicare gli occhi glaciali di
Karl
Heinz Schneider.
I
cameramen e i giornalisti poterono gustare lo sguardo di sfida lanciato
da
Louis Napoléon a Karl prima e a Wakabayashi poi,
opportunamente ricambiato da
entrambi.
Più
cordiali e amichevoli le strette di mano e gli sguardi scambiati con
Misaki e
Leblanc.
Dopo
le
fotografie di rito, il Kaiser
e il
centrocampista francese si scambiarono i gagliardetti.
Il
rito
della monetina sancì il calcio d'inizio per il Bayern Monaco.
L'arbitro
fischiò. Il tocco di Levin verso Schneider diede inizio alle
ostilità.
Non
era
più tempo di sogni ad occhi aperti.
L'inizio
fu in salita per la corazzata tedesca.
La
difesa
e il centrocampo del Paris Saint Germain avevano bloccato le vie di
passaggio
verso Schneider e Levin.
Misaki
e
Leblanc, con la collaborazione di Ochado, cercarono di tessere una
serie di
passaggi che potessero mettere Napoléon o un altro giocatore
davanti alla
porta.
Louis
aveva fatto anche innumerevoli esercizi per potenziare le sue gambe,
nella
previsione e nella speranza di affrontare proprio Wakabayashi. Era
l'unico,
nella squadra, ad avere la potenza necessaria per segnare al SGGK un
gol da
fuori area.
Ma
il
portiere aveva predisposto la stessa ragnatela in cui era rimasto
avviluppato
il Barcellona: i difensori bavaresi arrivavano sempre in anticipo e le
rare
volte in cui non riuscivano a intercettare un passaggio o venivano
superati da
un avversario, Genzo bloccava il pallone con sicurezza.
Il
primo
tempo si concluse sullo 0-0.
Il
Bayern
Monaco aveva avuto poche occasioni.
I
rinvii
con cui Genzo aveva cercato di servire Levin, Sho o Schneider erano
stati
intercettati da Misaki o da altri giocatori su istruzione del
centrocampista
nipponico, che conosceva molto bene il suo vecchio amico e compagno di
Nazionale.
Kumi
sospirò, mentre guardava le due squadre rientrare negli
spogliatoi. «Come pensi
finirà?» chiese, rivolta a Elena.
L'italiana
si strinse nelle spalle e fece una piccola smorfia. «Non lo
so. Sembra una
partita a scacchi.»
«È
vero.»
intervenne Mikami. «Fin qui hanno neutralizzato le rispettive
azioni, una dopo
l'altra. Questa finale potrebbe anche decidersi ai supplementari o
addirittura
ai rigori.»
Katagiri
non sembrava completamente d'accordo con Tatsuo. «Il Bayern
sta facendo una
partita molto simile alla semifinale contro il Barcellona. Il Paris
Saint
Germain ha giocato e ha avuto qualche occasione in più, ma
nessuna davvero
pericolosa. Con Wakabayashi in porta, servirebbe un'invenzione di
Misaki o
Leblanc, ma sarei curioso di vedere Napoléon tentare un tiro
da fuori area. E
se la situazione rimarrà questa, probabilmente lo
farà.»
Le
parole
del giovane dirigente della JFA infusero ottimismo in Kumi, mentre
Elena fece
una smorfia, contrariata. Poi sorrise, con aria saputa.
«Schneider, contro il
Barcellona, ha segnato con il tiro con cui ha battuto Genzo in
allenamento,
dopo mesi. Napoléon dovrà fare un tiro ancora
più potente.»
Nel
secondo tempo, il Bayern mostrò un atteggiamento
più propositivo e molte furono
le azioni in cui la difesa e il centrocampo parigini dovettero fermare
i
giocatori bavaresi, anche con interventi al limite del regolamento.
I
minuti
passavano e con essi cominciarono a diminuire anche energie,
concentrazione e
lucidità.
Louis
guardò Wakabayashi fermo tra i pali della porta. Aveva
sempre ritenuto il
portiere giapponese un presuntuoso, per via di quel soprannome: Super
Great
Goal Keeper.
Ma
doveva
ammettere che era più che meritato, non solo per le parate
strepitose: era
anche un vero stratega.
Il
modo in
cui aveva disposto i difensori, aveva vanificato persino le iniziative
e i
passaggi di due giocatori pieni di talento come Misaki e Pierre.
E
il suo
unico tiro in porta era stato bloccato senza difficoltà.
Ricevette
il pallone proprio dal giovane giapponese. Impeccabile, come sempre.
Avanzò
con
la palla al piede, cercando di spaccare la difesa bavarese, ma davanti
a lui si
parò il grande acquisto della sessione di gennaio,
l'argentino Galvan.
Preferì
passarla indietro, ancora verso Taro.
Fu
così
che prese la decisione.
La
partita
era ormai entrata nel recupero, i calciatori erano stanchi, la paura di
perdere
cresceva.
Tanto
valeva provarci.
Si
voltò e
corse verso la linea di centrocampo.
«Misaki,
ripassami la palla!» gridò, facendogli cenno con
le dita.
Taro
lo
accontentò.
Aveva
ragione … era quasi finita, perché non tentare il
tutto per tutto?
Louis
si
impadronì del pallone.
Fu
questione di pochi secondi, dare un fugace sguardo alla porta di
Wakabayashi e
calciare prima dell'intervento di Galvan.
Genzo
riuscì soltanto a deviare quella cannonata.
L'arbitro
assegnò il calcio d'angolo. Mancava un minuto alla fine dei
tempi regolamentari
…
Taro
si
incaricò di andarlo a battere.
Era
un'occasione d'oro. Poteva provare a segnare direttamente da
lì ...
Scosse
la
testa. Sarebbe stato bello, ma probabilmente Wakabayashi aveva messo in
conto
quella possibilità. No, serviva qualcosa di imprevedibile.
Dopo
una
breve rincorsa, colpì il pallone di sinistro, verso
Napoléon.
Louis
lasciò passare il pallone, notando Ochado posizionato meglio
di lui.
Il
capitano della Nigeria effettuò un tiro potente, che Genzo
respinse.
Il
pallone
finì sui piedi di Leblanc, che evitò i difensori
con una serie di dribbling e
passò a Misaki, che per scavalcare i difensori
eseguì un pallonetto.
Genzo
non
lo vide partire, perché alcuni giocatori gli avevano coperto
la visuale.
Non
sarebbe mai riuscito a raggiungerlo in tempo …
Un
intervento in acrobazia di Schneider, rientrato in copertura,
impedì al pallone
di varcare la linea.
La
sfera
finì sui piedi di Sho, che iniziò così
un'azione di contropiede.
Karl
scattò in avanti rapidissimo, anticipando i difensori
avversari, che si
ritrovarono così a doverlo inseguire.
I
due
fuoriclasse del Bayern correvano affiancati, a pochi metri di distanza,
in una
progressione inarrestabile.
I
giocatori del Paris Saint Germain cercarono di raggiungerli.
Invano.
Al
difensore Jean Rust non restò che tentare un intervento in
scivolata, doveva
evitare il gol, a costo di rimediare un cartellino.
Sho
fu un
secondo più veloce e prima di essere messo a terra dal
giovane francese calciò
un tiro fortissimo verso Schneider, che scaraventò in rete
un pallone carico
della potenza sua e del campione cinese.
Il
portiere non aveva neppure provato a muoversi.
I
bavaresi
esultarono, elettrizzati.
Genzo
alzò
i pugni al cielo, con un grido liberatorio.
Elena,
che
aveva trattenuto il fiato fin dal tiro di Napoléon,
scattò in piedi e mise una
mano sulla spalla di Mikami, che si girò e gliela strinse.
Kumi
strinse le labbra, condividendo lo scoramento dei giocatori francesi,
fermi con
la testa bassa e le mani sui fianchi, altri in ginocchio.
Era
finita
… l'arbitro, infatti, eseguì il triplice fischio
non appena venne battuto il
primo calcio da metà campo.
Sotto
la
luna piena che dominava il cielo di Londra, il Bayern Monaco celebrava
la
conquista della vetta d'Europa.
I
giocatori, l'allenatore, l'intero staff del Bayern salirono sul palco
allestito
in tribuna, per la premiazione. Tutti ricevettero la medaglia d'oro, e
toccarono o posarono un bacio sulla Coppa, come ad assicurarsi che
fosse reale.
A
Karl
toccò l'onore di sollevarla al cielo, in un'esplosione di
fuochi d'artificio e
tripudio di festoni e coriandoli bianchi e rossi.
L'attaccante
la cedette poi al padre e allenatore Frank, che aveva plasmato una
squadra che
aveva appena aperto un ciclo destinato a durare molti anni. Poi fu la
volta di
Levin, Sho, Wakabayashi e via via tutti gli altri.
Taro
e i
suoi compagni di squadra guardarono con un misto di rassegnazione e
invidia le
scene di festa e di giubilo dei giocatori del Bayern, presto raggiunti
da
mogli, fidanzate e figli.
Vide
Genzo
passare un braccio attorno alla schiena di Elena e stringerla a
sé, posandole
un bacio sulla fronte e facendole toccare la Coppa.
Le
medaglie d'argento al loro collo, dopo essere stati a un passo dalla
vittoria
erano una consolazione così magra che alcuni di loro, come
Louis, se l'erano
sfilata.
Il
volto
del cannoniere francese era ancora umido delle lacrime versate al
prolungato
fischio finale che aveva posto fine al sogno.
Il
suo
corpo disteso a pancia in giù sul terreno di gioco e le
braccia incrociate a
coprire il volto, era l'immagine della delusione del Paris Saint
Germain.
Taro
lanciò uno sguardo verso di lui, che di tanto in tanto
scambiava qualche parola
con Leblanc.
E
lui
stava quasi per dare la vittoria alla sua squadra ...
«Coraggio.
Oggi hanno vinto loro, ma prima o poi toccherà a
noi.» la voce di Kumi,
sedutasi accanto a lui, lo fece sobbalzare.
Era
così
assorto da non averla sentita arrivare.
Lui
sorrise.
«Ci
puoi
giurare.» disse, abbracciandola.
Kumi
seguì
Taro a Parigi, al ritorno da Londra.
Aveva
deciso di trascorrere alcuni giorni con lui, rimediando almeno in parte
al
lungo periodo di distacco.
Il
ragazzo
la ospitò a casa sua e la portò a visitare la
città: era rimasta incantata
dagli Champs-Elysées, dal panorama che si poteva vedere
dalla cima della Torre
Eiffel, dal Sacré Coeur.
Avevano
attraversato la Senna di notte sul bateau
mouche, e Kumi si era fatta fare un ritratto da uno dei
disegnatori di
Montmartre.
Il
dinamismo, l'entusiasmo e la curiosità della ragazza furono
la miglior medicina
contro la delusione.
Tornavano
a casa sempre a tarda notte.
«Non
riesci a darti pace?» gli chiese, mentre si preparavano ad
andare a dormire.
«Quando
ho
fatto quel pallonetto, credevo veramente alla vittoria. Wakabayashi era
fuori
posizione, ma Schneider era lì in copertura e noi ci siamo
fatti sorprendere
dal contropiede di Sho.»
«Ci
riproverai il prossimo anno, e se non dovesse andare bene, tra due
anni. Questo
sogno rappresenta la tua vita. È così: Taro
Misaki non potrebbe vivere senza il
calcio.»
«Soprattutto
ora che ci sei tu a condividere le mie gioie e le mie
delusioni.» disse,
cingendole la schiena.
Lei
prese
ad accarezzargli il viso e il petto.
C'era
ancora un po' di timidezza, di ingenuità nel suo modo di
toccarlo.
La
sollevò
tra le braccia e le baciò piano il collo.
Kumi
socchiuse gli occhi e sospirò.
Pochi
istanti dopo, giacevano insieme nel letto di Taro.
Kumi
aprì
gli occhi, destata dai raggi di sole che rischiaravano la stanza.
Il
posto
accanto a sé era vuoto, ancora tiepido del corpo di Taro.
Vi
passò
sopra una mano, lentamente.
Avvertì
un
profumo gradevole provenire dalla cucina.
Era
caffè
….
Si
alzò,
infilò la sua camicia da notte e, dopo una breve permanenza
nel bagno,
raggiunse Taro che, come aveva immaginato, stava preparando la
colazione.
Gli
si
avvicinò e si accostò dietro di lui, sbirciando.
«Che
si
cucina?»
Taro
alzò
la testa e si voltò.
Kumi
era
lì, con le mani dietro la schiena e l'espressione
incuriosita e molto
interessata.
Sorrise.
«Pane tostato, confettura di ciliegie e crème
au chocolat.»
La
ragazza
lo guardò con aria interrogativa. «L'ultima cosa
sarebbe?»
Taro
le
indicò il barattolo con la crema al cioccolato.
«Ah,
allora so cosa fare!» cinguettò, prendendo una
fetta di pane e mettendola sul
tavolo, coperto da una tovaglia e su cui era collocato anche un paniere
con
alcune brioche. Cominciò a spalmarla per metà con
la crema e per metà con la
confettura di ciliegie.
Taro
scosse la testa e sorrise.
Kumi
era
sempre così entusiasta e vispa …
Stavolta
fu il turno del centrocampista di mettersi dietro di lei.
Impietoso,
le scostò i lunghi capelli e la baciò sotto la
nuca.
La
sentì
fremere tra le sue braccia.
«Pare
che
abbia scoperto un altro punto sensibile …»
sussurrò.
Lei
emise
una risata soffocata. Le labbra di Taro presero a percorrerle una
spalla, e le
sue mani si posarono sul suo grembo.
La
fetta
parzialmente spalmata rischiò di scivolarle dalla mano.
«Ehi,
avrei voglia di mettere qualcosa sotto i denti …»
protestò debolmente, cercando
di reprimere, senza successo, il piacere provocatole dal suo tocco.
Taro
ridacchiò e la sciolse dal suo abbraccio, permettendole di
sedersi a tavola e
iniziare a mangiare.
«Verrai
a
vivere qui con me, dopo aver finito il tanki-daigaku?»
le chiese, dopo essersi seduto a sua volta.
Kumi
alzò
la testa, un po' spiazzata da quella domanda così diretta.
Piegò le labbra da
un lato. «Non lo so … a Nankatsu ho la
cartolibreria, a Fuji la Uchiyama
Shoten. Qui a Parigi non ho niente, a
parte te. Non so neppure il francese.»
«Non
ti
preoccupare di questo, Kumi. Conosco una scuola molto valida. Una volta
imparato a esprimerti in un francese comprensibile vedrai che
sarà tutto più
semplice. E per quanto riguarda i manga … qui in Francia ci
sono tanti
appassionati di fumetti e di cultura giapponese. Troverai terreno
fertile.»
Lei
distolse lo sguardo per alcuni istanti, dubbiosa.
Era
una
richiesta impegnativa. Lasciare il Giappone, la sua famiglia e forse
momentaneamente il suo lavoro, per trasferirsi a migliaia di chilometri
di
distanza, dalla parte opposta dell'emisfero.
Amava
Taro, per mesi aveva sognato momenti come quelli che stavano
condividendo, e la
esaltava l'idea di costruire il suo futuro insieme a lui.
Ma
si
sentiva intimorita dall'idea di passare da una cittadina di poche
migliaia di
abitanti come Nankatsu, in cui ci si conosceva tutti o quasi, a una
metropoli
come Parigi, immensa e cosmopolita, ancora tutta da scoprire. E
capitale di un
Paese con una società, una mentalità, una cultura
molto diverse da quelle
giapponesi.
Confessò
a
Taro le sue perplessità e il sentirsi impreparata ad
affrontare un cambiamento
così radicale.
«Anche
a
me Parigi è sembrata subito troppo grande e troppo diversa,
quando sono
arrivato con mio padre. E questo nonostante fossimo abituati a continui
spostamenti. Ci siamo ambientati giorno dopo giorno, affrontando ogni
situazione, aiutandoci e sostenendoci.» le prese una mano.
«Tu
sei
una ragazza in gamba, Kumi. Non sei il tipo che si arrende alle prime
difficoltà. Inoltre ci sarò io ad aiutarti,
quando ti sembrerà di non farcela.»
La
ragazza
lo guardò, poi sorrise e gli accarezzò una
guancia e un angolo delle labbra con
un dito.
«E
va
bene. Magari mi metterò a studiare un po' già
quest'anno, così non arriverò
completamente digiuna.»
«Potrei
già insegnarti io qualcosa.» replicò,
con un'espressione maliziosa.
Kumi
ammiccò, di rimando. «Io ho già
imparato una breve frase. Senti se la pronuncio
bene.» ribatté, sporgendosi leggermente e
avvicinando la sua bocca all'orecchio
del ragazzo.
«Je t'aime.»
sussurrò.
Taro
spalancò gli occhi.
«Ripetilo.
Credo di non aver capito bene ...»
Lei
sorrise e inclinò la testa, intrecciando le dita sul tavolo.
«Se
mi
porti a visitare il Louvre, la Cattedrale di Notre-Dame e il "Parco dei
Principi".»
«Certo,
quella è la parte migliore, l'ho tenuta per ultima
apposta.»
Il
sorriso
di Kumi si allargò. «Allora te lo ripeto se lasci
a me l'ultimo croissant.»
disse, usando volutamente il
termine in francese.
Taro
alzò
un sopracciglio.
«Ah,
ma
allora avevo ragione: sei una piccola strega!»
La
ragazza
rise e prese la brioche, ancora fragrante, dal paniere.
Poi
la
tese a Taro, che ne afferrò una parte e spezzò il
dolce a metà, mentre le loro
bocche si fondevano nuovamente in un bacio.
Genzo
uscì
nel grande giardino illuminato dell'imponente e lussuosa villa, poco
fuori
Monaco, di proprietà del presidente del Bayern Monaco, il
signor Richter, dove
si stava svolgendo la festa organizzata per celebrare la vittoria del
trofeo.
Era
passata una settimana dalla finale.
I
giorni
immediatamente seguenti erano stati frenetici e permeati da
un'atmosfera quasi
irreale.
Aveva
ricevuto una caterva di telefonate e messaggi, dal Giappone e
dall'Europa. I
genitori, Hiroji e Annie con il contributo di Kenichi, Keisuke, Carlo,
i suoi
amici e compagni di squadra in Nazionale.
Aveva
passato più di mezz'ora a rispondere a tutti.
Poi
c'era
stato il giro sul grande pullman, con le strade di Monaco invase dai
tifosi in
visibilio. Infine, la lettura di tutti gli articoli celebrativi della
conquista
della Coppa dei Campioni, pieni di narrazioni al limite dell'apologia e
dell'epica.
Gli
sembrava di essere immerso in un sogno. Aveva già provato
sensazioni simili
quando aveva vinto i Mondiali juniores e l'Olimpiade, ma la risonanza
avuta sui
media di tutto il mondo non era paragonabile.
La
persona
che più di tutti aveva condiviso con lui quel senso di
appagamento e di
felicità era stata, oltre ovviamente al resto della
squadra, Elena.
Quando
erano arrivati alla festa, erano stati investiti da una salva di flash,
e la
ragazza si era stretta istintivamente a lui, come a cercare protezione.
Ricevette
molti sguardi ammirati e complimenti, e le vennero rivolte molte
domande sulla
sua relazione con il SGGK.
Ciò
le
creò qualche imbarazzo: era evidente che non era abituata a
tutto quel clamore.
Altre
donne presenti sembravano invece nel loro contesto naturale e aveva la
sensazione che deridessero la sua scarsa dimestichezza con
quell'ambiente.
Fortunatamente
non tutte: alcune di loro, come la fidanzata di Galvan e la moglie del
secondo
portiere Drenner, avevano dimostrato comprensione, trattandola con
simpatia.
Ciò
non le
impedì di chiedere a Genzo di ritagliarsi alcuni minuti
soltanto per loro ed
evadere per un po' da quell'atmosfera soffocante.
«Mi
sento
un po' a disagio.» ammise, appoggiandosi alla ringhiera del
portico.
Genzo
le
sorrise, comprensivo. Si mise di fianco a lei, osservando il grande
parco
illuminato, con le mani nelle tasche della giacca.
Elena
tirò
fuori il suo smartphone e scorse alcuni messaggi.
«Arimi
e
Mayuko ti fanno tanti complimenti.»
«Ringraziale
da parte mia.»
«Già
fatto.» disse, chiudendo la custodia e rimettendolo nella sua
piccola borsa.
Il
ragazzo
stava per dirle qualcosa, quando un rumore di porta che veniva aperta
li fece
voltare.
«Ehi Wakabayashi, torna
dentro per favore. C'è il
presidente che vuole accanto a sé i giocatori per un
discorso.» gli annunciò
Karl, con un'espressione seria, quasi seccata.
«Beh,
non
basta il capitano per questo?» replicò Genzo.
Karl
socchiuse gli occhi e scosse la testa, con un sorriso sornione.
«Tu sei stato
il grande acquisto della stagione, e Herr Richter vuole che tu dica
qualcosa a
tutti i costi. Non vorrai mica sottrarti.»
Il
portiere sospirò. «E va bene. Accontentiamo il
signor Richter.» disse, alzando
gli occhi al cielo.
Il
Kaiser
distese le labbra con un lieve cenno
del capo, e rientrò.
«Cosa
dirai nel tuo discorso?» chiese Elena, dopo che furono
rimasti nuovamente soli.
Genzo
diede un'alzata di spalle, con una piccola smorfia. «Immagino
che ringrazierò
il presidente, Herr Rummenigge e mister Schneider per avermi dato la
possibilità di giocare nel Bayern Monaco e che spero sia
solo l'inizio di una
lunga serie di trionfi.» affermò, come se stesse
recitando il programma di uno
spettacolo.
«Tutto
qui? Nessuna dedica speciale?» domandò alzando il
mento, con un sorriso
birichino.
Genzo
sorrise. «Quelle per me sono una cosa privata, lo
sai.»
Indugiò
su
di lei con lo sguardo, come se stesse cercando le parole adatte a dirle
una
cosa importante.
«Sai
Elena
… da quando stiamo insieme, ho la sensazione che ci sia
stata una vita prima di
conoscerti e un'altra dopo averti conosciuta.» disse,
riavvicinandosi.
La
ragazza
avvertì una sensazione di calore diffondersi nel petto.
Fece
un
profondo respiro e sorrise dolcemente.
«Io
non so
se sono davvero la donna della tua vita.» gli
confidò, con uno sguardo serio.
«Ma un modo per scoprirlo c'è.» aggiunse.
«Quale
sarebbe?»
Elena
inclinò la testa e sorrise. «Restare con te.
Seguire tutte le tue partite,
condividere soddisfazioni e delusioni e superare insieme i momenti
difficili. E
anche accompagnarti alle feste ufficiali, quando proprio non se ne
può fare a
meno.» ironizzò, alzando gli occhi al cielo.
Lui
sogghignò. «Non si può avere tutto
dalla vita.»
Elena
accennò una risata. «Dai, meglio rientrare,
altrimenti fai arrabbiare Karl.»
disse, mettendogli una mano su un braccio.
Il
portiere fece spallucce. «Io ho sempre la mia carta da
giocare, e lui lo sa.»
La
ragazza
chiuse gli occhi e scosse la testa, ridacchiando. Quando Genzo le aveva
raccontato della scommessa fatta a Madrid, era rimasta dapprima
incredula, poi
era scoppiata in una risata quasi incontenibile.
«Sei
tremendo!» esclamò.
Lui
rise
di rimando.
Le
passò
un braccio attorno alla schiena e lei gli si accostò,
lasciandosi avvolgere
dalla sensazione di protezione che lui sempre le sapeva dare.
Rientrarono,
stretti l'uno all'altra, sperando in cuor loro di vivere ancora molti
momenti
simili a quello.
Quattro anni dopo.
Le onde salivano e si smorzavano sulla
battigia con ritmo calmo
e regolare.
Genzo
ed
Elena passeggiavano ormai da un paio d'ore sulla spiaggia di Miho no
Matsubara,
un luogo speciale per entrambi: lì, per la prima volta, quel
pomeriggio di
cinque anni prima, avevano smesso di guardarsi come dei semplici amici.
Il
giovane
alzò gli occhi verso il cielo, azzurro e limpido.
Come
gli
occhi della ragazza che amava e che era ormai una presenza
indispensabile nella
sua vita.
Erano
fidanzati da ormai quattro anni, e da due condividevano anche
l'appartamento in
cui vivevano insieme da quando Angelina si era sposata con Mattias.
I
due si
erano stabiliti in una villetta, sempre a Monaco, e a Genzo era venuto
spontaneo chiedere a Elena di trasferirsi da lui.
Erano
tornati in Giappone una settimana prima, per trascorrervi parte delle
loro
vacanze.
Il
mese
precedente, avevano visto Arimi trionfare nell'all-around dei
campionati
mondiali di ginnastica artistica, svoltisi proprio a Monaco. E ora
tutti i
titoli erano per la ventenne ginnasta giapponese che aveva sbaragliato
le
grandi potenze statunitensi e russe.
La
ragazza
era andata a salutarli e ad abbracciarli in tribuna, dopo la
premiazione.
Per
ogni
traguardo raggiunto in carriera, oltre che a Mayuko Shiroyama, sarebbe
stata
eternamente grata anche a Elena Rulli e a Genzo Wakabayashi.
La
sua ex
insegnante aveva risvegliato la passione autentica, l'amore per lo
sport al di
là delle legittime ambizioni di vittoria.
Il
calciatore aveva saputo mettersi nei suoi panni, perché
aveva ragionato come
lei, in passato. E un po' di quella sicumera a volte riaffiorava,
seppure di
rado e in dosi tutto sommato limitate e persino benefiche.
Un carattere orgoglioso e
caparbio che aveva permesso a Genzo di mandare
in archivio un'altra annata ricca di soddisfazioni: il Bayern Monaco aveva
conquistato l'ennesima
Bundesliga e riscattato la delusione di un anno prima, patita contro il
Real
Madrid, vincendo la Champions League.
Continuava
a perseguire l'obiettivo di diventare il secondo portiere a ricevere il
Pallone
d'Oro.
Ci
era
andato vicino due volte, ma era stato sempre sconfitto nonostante i
trofei
vinti: in entrambe le occasioni era stato Schneider a precederlo.
Stesso
palmarès, ruolo diverso.
«Ho
capito
che non prenderanno mai sul serio l'idea di dare questo premio a me, un
portiere, finché non vincerò il
Mondiale.» aveva commentato, senza polemica nei
confronti del suo compagno di squadra e amico di lunga data, durante
un'intervista per il canale ufficiale online del Bayern.
Il
ragazzo
aveva ormai messo radici a Monaco: aveva prolungato il suo contratto
con il
club più prestigioso di Germania ed Elena aveva conseguito
la laurea.
La
giovane
aveva inviato il suo curriculum a molte aziende e nel frattempo
continuava con
successo il suo lavoro come insegnante di ginnastica.
Era
stato
un anno significativo non solo per loro, ma anche per molti amici e
persone
vicine.
Kumi
era
una delle autrici più apprezzate della Uchiyama
Shoten, ormai non più una piccola casa
editrice, ma una delle realtà
emergenti più interessanti del panorama dell'editoria
giapponese, per quanto
riguardava i manga e le pubblicazioni per bambini e adolescenti.
Taro
aveva
anch'egli rinnovato il suo contratto con il Paris Saint Germain,
resistendo
alle lusinghe del Real Madrid e della Juventus, pronte a sborsare cifre
ingenti
per averlo.
Ma
a lui
non interessava diventare un nababbo: ormai Parigi era di fatto la sua
seconda
casa e gli piaceva l'idea che i suoi compagni di Nazionale e amici
giocassero
ognuno in una squadra di un Paese diverso.
Il
fatto
che ognuno di loro conoscesse bene i campionati europei più
competitivi aveva
permesso alla Nazionale di giocare alla pari, e in diversi casi
battere, le più
forti selezioni europee.
Inoltre,
il rapporto tra lui e Kumi aveva trovato stabilità da quando
la sua donna si
era trasferita a Parigi. Terminato il tanki-daigaku,
per il centrocampista era stato naturale rinnovarle la richiesta di
andare a
vivere insieme a lui.
E
Kumi
aveva accettato. Dopo i primi difficili mesi di adattamento, aveva
cominciato a
farsi conoscere e apprezzare anche dal pubblico francese, senza
interrompere la
collaborazione con la casa editrice che l'aveva lanciata.
Shun
Nitta
e Madoka Shimokawa si preparavano al trasferimento in Inghilterra.
L'attaccante
era stato ingaggiato dall'Arsenal: aveva finalmente deciso per il
grande salto,
dopo tre stagioni in Russia, allo Zenit San Pietroburgo, in cui aveva
giocato
per potersi mettere alla prova in un campionato europeo senza
allontanarsi
troppo dal Giappone e dalla sua ragazza. Ma ora Madoka si era
brillantemente
laureata in Legge alla Keio ed era disposta a mettersi in gioco in
Europa. Era
sempre stata una studentessa dotata e avrebbe frequentato un corso di
specializzazione al King's College di Londra.
Nella
Premier League, Shun avrebbe affrontato Hikaru Matsuyama, ormai
affermato
difensore del Manchester United.
Anche
per
Asami Ujimori la vita era andata avanti. L'ereditiera aveva
metabolizzato la
fine della storia con Genzo, legandosi a un imprenditore nel settore
dell'edilizia, con cui si era sposata un anno prima.
Il
progetto di acquisizione della Ujimori Heavy Industries dalla
Wakabayashi
Electrics non era andato in porto, anche se sussistevano alcune
collaborazioni
e c'era stata una distensione nei rapporti tra le due famiglie.
Elena
sospettava che il motivo fosse legato ad Asami, che non voleva
rischiare di
avere ancora a che fare con Genzo.
Gli
affari
dell'azienda della famiglia Wakabayashi avevano però
prosperato.
Erano
state effettuate acquisizioni e stretti accordi di partnership con
aziende
giapponesi e anche europee, in particolare tedesche e britanniche, che
avevano
allargato le aree di competenza e rafforzato il prestigio e la presenza
sui
mercati.
Hiroji
Wakabayashi era riconosciuto come uno dei più validi e
capaci imprenditori
della nuova generazione e aveva un ottimo collaboratore nel fratello
Keisuke,
che dirigeva con competenza il dipartimento Ricerca e sviluppo.
Annie
teneva corsi di formazione in inglese per i dipendenti stranieri, per
avere più
tempo da dedicare ai bambini, che stavano crescendo e avevano bisogno
della
presenza costante della madre.
Con
i
figli che avevano preso sempre più in mano le redini,
Yasuhiro si era via via
defilato, continuando a presiedere la holding e il consiglio
d'amministrazione,
ma intervenendo raramente, pur senza mai far mancare i suoi
suggerimenti,
quando richiesti.
Genzo
si
voltò e vide Elena china su alcune conchiglie, che stava
raccogliendo ed
esaminando. Sorrise. Aveva mosso pochi passi in sua direzione, quando
il suo
smartphone squillò.
Era
Hiroji.
Accettò
la
chiamata.
Come
immaginava, lo aveva contattato per comunicargli che la riunione era
stata
fissata per la settimana dopo.
Genzo
era
entrato nel consiglio d'amministrazione della Wakabayashi Electrics due
anni
prima. Si era iscritto alla facoltà di Economia della LMU, e
il suo rendimento
era ottimo, pur non frequentando le lezioni per via dei suoi impegni.
Aveva
sempre portato a termine ogni cosa con il massimo impegno,
così sarebbe stato
anche con lo studio.
Dopo
tre
anni e numerose discussioni con un padre persistente e ostinato, Genzo
era
riuscito a trovare un compromesso tra carriera calcistica e impegno
nell'azienda di famiglia, pur continuando a dare priorità
alla prima.
«Ricordati
di venire a Yomiuri Land, domani!» si raccomandò,
infine.
«Lo
dici
proprio a me, Hiroji?»
Il
dirigente rise. «Hai ragione. A domani, allora.»
Genzo
chiuse la chiamata e rimise il suo smartphone nella tasca dei pantaloni.
Kenichi
avrebbe disputato la finale dell'ormai storico torneo delle scuole
elementari.
Lui
e
Daichi Oozora avevano trascinato la selezione della città di
Nankatsu, allenata
come sempre da Tadashi Shiroyama, che avrebbe affrontato un'altra
celebre
scuola, la Musashi.
«Genzo!»
Si
voltò nuovamente, e
stavolta vide Elena che stava correndo verso di lui, con un braccio
teso, a
mostrargli la grossa conchiglia che teneva in mano.
Indossava
un leggero vestito di lino bianco, che lasciava parzialmente scoperte
le sue
gambe. I suoi capelli oscillavano come lunghe onde auree.
«Guarda
questa, che meraviglia.» disse, mostrandogli sul palmo di una
mano, il grosso
guscio ovale dai luminescenti colori verde e blu.
Genzo
annuì. «Sì, è una delle
più belle che si possano trovare, su queste coste. Si
chiama abalone, oppure orecchia di mare.»
Elena
spalancò gli occhi. «Tanto bella la conchiglia,
quanto bizzarro il nome.» rise,
infilandola nella piccola sacca che aveva portato con sé.
«Il
suo
nome scientifico è Haliotis.»
replicò,
strizzando un occhio.
«Suona
già
meglio.» convenne, con un cenno del capo.
In
quegli
anni, aveva scoperto che Genzo era anche un esperto di conchiglie.
Era
stato
suo padre a insegnargli tutti i nomi, fin da quando lui e i suoi
fratelli erano
bambini.
E anche lei aveva finito per diventare
un'appassionata
collezionista e approfittava di ogni gita al mare per cercare e
raccogliere
qualche nuovo esemplare, di cui lui le forniva puntualmente il nome e
descriveva le caratteristiche.
I
suoi
occhi si posarono sulla pineta e poi spaziarono fino alla baia di
Suruga.
Erano
passati cinque anni dal giorno in cui, su quel punto della spiaggia,
erano
finiti l'uno addosso all'altra durante l'improvvisata partita di
pallavolo con
Taro.
Era
stato
allora che si era aperta la prima breccia in un cuore che era convinta
di avere
chiuso a doppia mandata.
Ricordava
l'ostinazione con cui aveva cercato di reprimere quei sentimenti che,
alla
fine, non era più riuscita ad arginare.
Guardò
il
ragazzo accanto a sé e pensò a ciò che
aveva rischiato di perdere.
Il
loro
era ormai un rapporto saldo, la loro sintonia e intimità era
tale che spesso si
capivano soltanto con lo sguardo.
Le
feste
ufficiali avevano continuato a essere il suo tallone d'Achille per
diverso
tempo, ma le numerose vittorie del Bayern l'avevano costretta ad
abituarcisi,
anche se non era ancora riuscita a perdere quell'istinto di stringersi
a Genzo,
ogni volta che i fotografi li bersagliavano con i loro flash.
Si
era
però ormai rassegnata a trovare, quando le capitava di
sfogliare qualche
rivista, fotografie sue e del portiere mentre passeggiavano per le vie
di
Monaco, come una comune coppia di fidanzati.
La
loro
normalità e la loro discrezione li aveva aiutati a vivere la
loro storia con
serenità.
Aveva
riallacciato i rapporti con Shiori. Tra loro non era tornata l'antica
amicizia,
ma se capitava di incontrarsi, scambiavano quattro chiacchiere,
parlando delle
rispettive vite.
Aveva
saputo così che Gianluca era tornato a Roma e continuava la
sua lotta per
conquistare qualche pezzo in più di autonomia.
Il
suo
atteggiamento verso la vita era cambiato. Aveva trovato uno scopo: si
era
iscritto all'università, dove studiava Informatica. Sperava
di diventare un
bravo programmatore.
Aveva
scelto non di buttarsi via, ma di darsi una possibilità.
Sarebbe
stata una lotta difficilissima, ma lui aveva deciso di intraprenderla.
Quella
notizia l'aveva spinta a chiedere a Genzo e alla sua famiglia di
finanziare,
con la loro fondazione, dei progetti per l'aiuto e il sostegno ai
disabili.
Richiesta
che era stata immediatamente accolta con favore da tutti i Wakabayashi.
«Guarda.»
gli disse, mostrandogli il suo smartphone.
Kumi
le
aveva inviato una foto scattata con Taro e con il signor Misaki. Erano
sul
terrazzo della loro nuova casa a Parigi. Il ragazzo la abbracciava da
dietro e
le posava le mani sul grembo. Ichiro sorrideva accanto a loro.
«Aspetto
un altro messaggio, a breve.» gli confidò.
«Kumi mi ha parlato di un ritardo
sospetto …»
Genzo
distese le labbra in un sorriso. «Sarebbe
splendido.»
Si
riferiva certamente alla loro coppia di amici, da cui avrebbero
trascorso
alcuni giorni di vacanza prima di tornare in Germania, ma anche a lui
ed Elena.
Ogni volta che la vedeva giocare con la piccola Aiko, che la adorava,
pensava
che il giorno in cui l'avrebbe vista tenere in braccio un figlio loro,
avrebbe
davvero potuto dire di aver avuto dalla vita tutto ciò che
desiderava.
«A
cosa
stai pensando?»
Genzo
abbassò la testa verso di lei e sorrise. «Il
prossimo anno voglio realizzare
almeno tre obiettivi.»
«Triplete, Mondiale
…»
Genzo
fece
un cenno d'assenso e rimase a guardarla, come se si aspettasse di
sentirla
menzionare anche il terzo.
«E
il
Pallone d'Oro?»
Lui
scosse
la testa.
«Quello
semmai è il quarto, e dipende da una giuria spesso
prevenuta.»
Elena
sbatté un paio di volte le palpebre con aria pensosa, poi
fece una piccola
smorfia.
«Devi
dirmelo tu.»
Genzo
piegò le labbra nel suo classico sorriso obliquo, poi trasse
un lieve respiro.
«A
quindici anni, si pensa che basti un pallone e giocare a calcio tutto
il giorno
per sentirsi felici. Poi diventando adulti, il proprio punto di vista
cambia.
Si comincia a sentire il bisogno di condividere la propria passione, a
voler
celebrare i successi e metabolizzare le sconfitte con qualcuno che non
sia
l'allenatore e i compagni di squadra.» disse, interrompendosi
brevemente e
guardandola attentamente. Lei inclinò la testa,
incoraggiandolo a continuare.
«Perciò
il
mio terzo desiderio è il più grande ed
è anche il più importante. Ma non posso
realizzarlo da solo. Mi serve il tuo consenso.»
Elena
spalancò gli occhi. Quella tensione che aveva avvertito poco
prima si stava
trasformando in una morsa che le stringeva il cuore.
Lui
sorrise ed estrasse dalla tasca dei pantaloni una piccola scatola
rivestita di
velluto blu, con l'effigie di una nota gioielleria.
«Genzo
…»
mormorò, giungendo le mani all'altezza delle labbra.
Lui
aprì
la scatola, facendo comparire un bellissimo anello in oro, impreziosito
da una
fila di piccoli zaffiri.
Lei
lo
guardò mentre compiva quei gesti, la vista parzialmente
offuscata dalle lacrime
che sentiva scorrere sul suo viso e le confermavano che era tutto
incredibilmente, magnificamente reale.
Allungò
la
mano sinistra, leggermente tremante, per permettere a Genzo di
infilarle
l'anello al dito.
Piegò
le
dita e guardò quel prezioso circoletto brillare sul suo
anulare.
Lui
le
accarezzò piano il viso, asciugandolo dalle lacrime.
Elena
alzò
gli occhi su di lui.
«Cominciavo
a credere che non me l'avresti mai chiesto.»
Genzo alzò un
sopracciglio,
poi le afferrò i fianchi e la sollevò in una presa
salda, ma senza farle male.
«Ehi!»
gridò lei, ridendo e prendendogli il viso tra le mani.
«Ti
diverte proprio afferrarmi così, a tradimento,
eh?» finse di protestare.
«Non
ci
rinuncerei per niente al mondo.» ribatté lui,
senza battere ciglio.
Avrebbe
voluto cristallizzare l'immagine che aveva davanti agli occhi.
Elena
era
bellissima ...
Il
vento
giocava con i suoi capelli biondi, e i suoi occhi azzurri sembravano
quasi
trasparenti per il riflesso del sole.
La
fece
scivolare giù piano, fino a farle raggiungere la sua stessa
altezza.
«Cosa
ti
ha fatto pensare che non volessi sposarti?»
«Non
hai
mai accennato all'argomento.» spiegò,
semplicemente.
Genzo sgranò gli occhi e la
guardò dispiaciuto, come a
scusarsi di averle dato quell'impressione.
Certo,
era
praticamente l'unica cosa di cui non aveva mai parlato, con lei.
Com'era
facile essere fraintesi …
«Ho
solo
voluto lasciare che ti concentrassi sui tuoi obiettivi, e aspettare che
li
raggiungessi.» la rassicurò.
Elena
dischiuse le labbra.
Sentì
i
suoi occhi inumidirsi.
«Genzo
...» mormorò, mentre lui la rimetteva a terra.
Aveva
voluto darle il tempo di costruirsi il suo futuro da donna
indipendente, prima
di chiederle di legarsi a lui ...
«Sarei
una
stupida se ti dicessi di no.» mormorò di nuovo,
accarezzandogli una guancia e
avvicinando il viso.
Si
scambiarono un bacio.
Quando
si
staccarono, rivolsero i loro volti verso il mare.
Due
anziani coniugi stavano passeggiando a pochi metri da loro, mano nella
mano e
dovevano aver assistito alla scena perché li stavano
guardando con
un'espressione intenerita e perfino commossa, forse ricordando
sé stessi da
giovani.
Elena
e
Genzo ricambiarono il sorriso e poi si guardarono, divertiti ed
emozionati allo
stesso tempo.
Lui
le
passò un braccio attorno alla schiena e la attirò
a sé, e lei gli posò la testa
su una spalla.
Ripresero
la loro camminata sulla spiaggia, osservando di tanto in tanto
l'orizzonte,
dove la luce del sole si rifletteva sulle onde del mare.
FINE
***Note***
Haliotis è un genere
di molluschi gasteropodi marini, conosciuti anche come aliotidi,
orecchie di
mare o abaloni. Hanno grosse conchiglie dai colori iridescenti e con
l'interno
rivestito di madreperla, le cui dimensioni variano dai 2,5 ai 30
centimetri.
Fonte:
Wikipedia
In
Germania, si usa portare l'anello sull'anulare sinistro durante
il periodo del
fidanzamento.
Nel
giorno
del matrimonio, viene spostato sull'anulare destro.
E il momento fatidico
è arrivato, seppure con un lieve
contrattempo.
Per me si conclude una piccola
"odissea"
durata quasi 10 anni tra stesure multiple, pubblicazioni, lunghe pause,
cancellazioni.
Ma sono contenta di non aver mai
negato una
possibilità a questa fanfiction e ai suoi personaggi.
Ringrazio tutti coloro che mi
hanno accompagnata in
questa lunga avventura, leggendo e/o commentando e inserendo questa
storia in
una delle tre liste, e chi potrebbe farlo in futuro.
Un grosso abbraccio a tutti voi.
Sandie
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