L'ultimo baluardo

di FantasyAlex
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Preparativi ***
Capitolo 3: *** Momenti di panico ***
Capitolo 4: *** Incontri ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Capitolo 1


Tutti conoscevano la storia, tutti ne avevano sentito parlare almeno una volta.
Il “Monastero nella foresta”, così lo chiamavano qui. Sicuramente aveva un altro nome, qualcosa di meno generico e più significativo, ma gli abitanti di Greenale, piccola cittadina costruita ai margini della foresta, al cui centro si ergeva la massiccia e misteriosa costruzione, non brillavano certo per fantasia e il vero nome si era perso nella memoria, così come il ricordo dei suoi occupanti.
Si diceva che fosse stato abitato, circa mille anni prima, da un qualche tipo di ordine monastico, ma nessuno sapeva dire con esattezza quale. Le ipotesi erano le più disparate: chi propendeva per una religione, chi per un’altra, qualcuno avanzava teorie di culti blasfemi o pagani e che fosse proprio questo il motivo per cui si erano rintanati in un luogo così difficile da raggiungere. Ma, a pensarci bene, quale culto segreto avrebbe mai costruito un edificio tanto imponente e visibile anche a grande distanza?
L’unica cosa su cui erano tutti concordi è che i monaci che abitavano l’edificio, secoli addietro, si recavano spesso a Greenale, portando con sè i prodotti della terra che, con tanta maestria, coltivavano per venderli o barattarli con tutto ciò che poteva servire loro nell’esistenza isolata che avevano scelto di vivere. Poi, all’improvviso e senza alcuna apparente ragione, tutto questo era cessato. Nessun monaco era più emerso dalla foresta per raggiungere il villaggio, nessun acquisto era più stato fatto per conto dell’ordine religioso. Erano semplicemente spariti, inghiottiti dalla fitta vegetazione nella quale avevano edificato la loro dimora.

La foresta Tuckstone si estendeva per un centinaio di chilometri quadrati circa, era fitta, intricata e ricca di alberi secolari, specialmente nella sua parte più interna. Al margine orientale si trovava Greenaleche, una volta, era antico borgo contadino e, col tempo, si era sviluppata e arrivava ora a contare circa cinquemila abitanti con alcune piccole industrie, a conduzione familiare o poco più, che riuscivano a tenere a galla l’economia della cittadina.

In quello che potrebbe essere approssimativamente definito il centro della foresta c’era una radura. Gli alberi erano stati tagliati per creare uno spazio libero su cui era stato edificato il monastero. Si trattava di una costruzione a pianta rettangolare o, almeno, questo è quello che si poteva capire osservandolo a distanza. Le mura esterne erano fatte di una pietra molto scura, quasi nera che però nelle giornate di sole risplendeva con delle venature bianco latte. Al centro si poteva scorgere la curva di una cupola, un campanile sul lato destro che sormontava l’intera struttura di una decina di metri e alcune guglie sulla facciata anteriore e posteriore. L’intera struttura appariva estremamente massiccia e solida, quasi una fortezza per certi versi; anche dopo secoli di abbandono e, nonostante la vegetazione fosse tornata a reclamare lo spazio che le era stato sottratto, avvolgendo buona parte dell’edificio, esso appariva ancora integro e in buono stato.

Questi dettagli, tuttavia, erano sempre stati percepiti da lontano, dall’interno della foresta, per quello che si riusciva a scorgere attraverso la vegetazione. Perché la cosa particolare del monastero, che poi aveva dato vita alla sua leggenda, è che sebbene tutti lo considerassero oramai disabitato, in realtà nessuno si era mai preso la briga di controllare. Un po’ perché un monastero abbandonato, in fin dei conti, non interessava a nessuno ma soprattutto perché segretamente, ancora oggi, gli abitanti di Greenale ne avevano paura. Qualcuno che aveva provato a raggiungerlo, per propria curiosità o per sfida, c’era inevitabilmente stato nel corso degli anni. Ma nessuno aveva mai affermato di essere stato in grado di arrivarci, sebbene lo vedessero svettare chiaramente al di sopra degli alberi. Raccontavano, invece, di aver vagato per ore e ore, convinti di andare nella direzione giusta, ma senza riuscire ad avvicinarsi di un solo metro. Nemmeno le bussole sembravano essere d’aiuto poiché la lancetta, da un certo punto in avanti, cominciava a muoversi senza alcuna logica, vorticando senza sosta nel quadrante e rendendo lo strumento completamente inutile. Qualcuno aveva persino affermato di aver visto gli alberi sollevarsi dal terreno e radicarsi in altri luoghi per nascondere tracce, modificare i sentieri e la conformazione stessa della foresta.
Il monastero non voleva essere violato. Questa era la conclusione a cui erano arrivati i superstiziosi abitanti di un piccolo villaggio di contadini, che iniziarono ad immaginarsi un qualche terribile evento a causa di tutto: probabilmente un massacro. Qualcuno, anche se nessuno sapeva con certezza chi, doveva aver fatto irruzione nel monastero e strage dei religiosi i cui corpi ora giacevano sulla fredda pietra di quella che fu la loro dimora, diventata adesso una tomba. Gli spiriti inquieti a cui la vita fu strappata con violenta efferatezza, invece, si aggiravano ancora per la foresta ad impedire a chiunque altro di poter accedere al monastero.
E la leggenda si era tramandata fino ai giorni nostri.

*******


Quando Simon si inoltrò nella foresta di Tuckstone era oramai notte e pioveva, pioveva come non ricordava fosse mai piovuto. Erano due giorni che cavalcava quasi ininterrottamente per raggiungere il monastero, per arrivare all’unico luogo in cui sarebbe stato in salvo dall’ombra che lo stava certamente inseguendo. Non l’aveva mai vista, ma ne sentiva chiaramente il fiato gelido sul suo collo, ne percepiva la presenza incombente come se fosse pronta ad avventarsi su di lui da un momento all’altro. Era allo stremo delle forze e il suo cavallo anche di più, ma aveva già superato il villaggio ai margini della vegetazione il monastero doveva essere lì, da qualche parte, proprio davanti a lui.
Cavalcare nella foresta non era certo semplice, specialmente al buio, i rami più bassi degli alberi gli graffiavano il volto e sperava di riuscire a vedere quelli più grossi prima di esserne colpito e disarcionato, l’acqua scrosciante gli inzuppava gli abiti, facendolo rabbrividire dal freddo, gli colava sugli occhi e rendeva la già scarsa visuale ancora più difficile. Ma non poteva fermarsi, non quando era così vicino alla meta e la possibilità di consegnare in mani sicure il suo prezioso carico. Il sentiero, comunque, era abbastanza pulito e da quello che gli avevano detto, il monastero sarebbe apparso da un momento all’altro, nero e imponente, una vera e propria roccaforte che, ora più che mai, rappresentava la sua unica possibilità di salvezza.
Continuava a galoppare, al massimo della velocità che riusciva a tenere tra la vegetazione, ma dell'edificio ancora nessuna traccia. Si era oramai addentrato da un’ora, forse due, difficile dire quanto tempo era passato con gli alberi che ostruivano la vista e le nubi che coprivano Luna e stelle. Simon pensò anche di essersi perso, di aver sbagliato strada e una fitta angoscia si impossessò del suo cuore. Se davvero aveva sbagliato strada, se avesse dovuto tornare indietro sarebbe sicuramente stato raggiunto dal chi lo stava inseguendo e la sua missione, la sua stessa vita, sarebbe finita in quel momento. Ma no, il sentiero era sempre quello, non c’erano deviazioni, non c’era possibilità di errore, doveva solo andare avanti senza mai guardarsi indietro. E così fece.
Passò forse un’altra ora, le forze oramai lo stavano abbandonando e faticava anche a tenere il controllo del cavallo che si lamentava, si imbizzarriva, cercava in tutti i modi di convincere il suo cavaliere a farlo fermare. Fu sul punto di essere disarcionato un paio di volte, ma alla fine lo vide. Un’ampia macchia scura, il muro perimetrale del monastero era davanti a lui. Il sentiero già si stava allargando ed in qualche centinaio di metri si sarebbe aperto in una radura. Si sentì immediatamente confortato da quella visione e spronò il cavallo a percorrere gli ultimi metri a tutta velocità, per l’ultimo sforzo.
Non appena raggiunse la radura, fermò il cavallo, proprio dinanzi all’ampia scalinata che conduceva all’ingresso: una decina di gradini fatti della medesima pietra nera del resto della costruzione che arrivavano ad un pianerottolo coperto da una tettoia anch’essa in pietra, sorretta da piccole colonne. Un paio di metri oltre c’era il muro perimetrale e la spessa porta in legno a doppio battente, ovviamente chiusa.
Smontò da cavallo con foga, quasi ruzzolò per terra ma riuscì a non cadere e si mise a correre verso l’ingresso, convinto oramai di avercela fatta, ma non appena poggiò il piede destro sul primo gradino, una voce stridula e gracchiante alle sue spalle fendette l’aria con la stessa violenza di un pugnale, bloccandolo dal terrore in quella posizione.

«Vai da qualche parte, ragazzo?»

Simon sapeva benissimo a chi apparteneva quella voce, pur essendo la prima volta che la sentiva. Non aveva il coraggio di voltarsi, ma ugualmente temeva che se avesse fatto un solo passo verso il portone sarebbe stato ucciso sul posto. Trasse un gran respiro e alla fine si voltò. Al limitare della radura c’era quella creatura, l’ombra o lo spettro, così la chiamavano. Non si riusciva a scorgere praticamente nulla della sua figura, avvolta interamente da un manto nero con cappuccio che ne nascondeva i lineamenti del volto. L’abito era stracciato in più punti, zuppo di pioggia come i suoi vestiti e il vento faceva svolazzare i lembi dandone un contorno ancora più sinistro. Pareva davvero un fantasma, ma non lo era e lo si capiva dalle braccia, lasciate scoperte dalle maniche troppo corte. Braccia terribilmente smagrite, di un innaturale colore violaceo, così come le mani che terminavano in dita ossute dalle unghie lunghe e affilate come artigli. Ma indubbiamente avevano una consistenza fisica.

«Sono al monastero, è finita. Non puoi varcare questa soglia e comunque non puoi avere quello che cerchi. Non può essere strappato via con la forza ma solamente donato.»

Simon cercò dentro di sé la forza per rispondere a quella creatura, nonostante avesse la sensazione che le sue dita smunte si stessero stringendo attorno alla sua gola, anche da quella distanza.

«Vero, non posso varcare la soglia del monastero, ma tu non sei ancora dentro. Sei solo sulla scalinata e sarai morto prima di arrivare alla porta. Ma puoi ancora salvarti, non ha senso sprecare una giovane vita così. Dammi ciò che stai trasportando e io me ne andrò. Per sempre, non mi vedrai mai più.»

L’ombra sollevò il braccio e tese la mano verso di lui, aperta, con il palmo rivolto verso l’alto. Il cuore di Simon batteva furiosamente e doveva trovare un modo per raggiungere il portone del monastero ed entrarvi. Doveva prendere tempo. Il piede destro era ancora sul primo gradino, così si issò su di esso e fece un passo indietro, andando a poggiare il sinistro sul secondo.

«Se mi uccidi, non avrai mai quello che cerchi. Solo lasciandomi in vita, solamente se te lo cedo di mia spontanea volontà potrai averlo.»

«Mio giovane e stolto amico, tu credi troppo alle leggende del tuo popolo. E se fossero sbagliate? E se fosse tutto il frutto dei vaneggiamenti di un qualche ubriacone in locanda? Vuoi davvero rischiare la vita così?»

L’ombra fece un passo in avanti a sua volta, ed il cavallo si impennò sulle zampe posteriore, un nitrito di puro terrore si librò nell’aria e l’animale fuggì nonostante la stanchezza. Simon guardò la creatura e fece ancora due passi indietro, salendo altrettanti scalini.

«Se io te lo consegno, avrò salva la vita? Te ne andrai da qui per non tornare mai più? »

Non aveva nessuna intenzione di assecondare le sue richieste, sapeva bene quello che sarebbe accaduto altrimenti, ma doveva trovare il modo di arrivare a quella dannata porta. Infilò una mano sotto il mantello e ne estrasse una scatoletta di legno.

«Ma certo, mio caro, ma certo, ora dammela e io sparirò per sempre. »

La voce era così gracchiante che si sentiva graffiare fin dentro l’anima. E sapeva che lo stava prendendo in giro, sapeva che lo avrebbe ucciso comunque, ma forse aveva trovato il modo di guadagnare quegli ultimi secondi necessari a mettersi in salvo. Strinse la scatoletta nel pugno, distese il braccio e gliela lanciò. Non appena la mano si staccò dal piccolo oggetto di legno si voltò e corse verso l’ingresso superando gli ultimi gradini. Quando l’ombra si sarebbe accorta che nella scatoletta c’erano solo alcune erbe officinali sarebbe stato oramai in salvo, all’interno del monastero.
Attraversò il pianerottolo con il pugno già stretto per andare a bussare sul portone di legno e farsi aprire, ma prima di poter picchiare il primo colpo sentì una fitta feroce al petto, iniziò a barcollare e lo sguardo si annebbiò quasi subito. Il peso del suo corpo si fece improvvisamente troppo grande per poter essere sorretto dalle gambe e cadette di schianto sulle sue ginocchia. Le mani si aggrapparono alla stoffa del suo vestito, proprio all’altezza del cuore, sentiva il respiro venirgli meno e quella sensazione di dita gelide attorno al suo collo si fece più forte. Sentiva che lo stavano stringendo, sentiva che gli stavano portando via la vita. L’ingresso del monastero era davvero vicino, probabilmente allungando il braccio, Simon, avrebbe persino potuto sfiorare il muro, invece si accasciò lì, proprio sulla soglia, boccheggiò ancora un paio di volte e poi la vita abbandonò definitivamente il suo corpo.

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Capitolo 2
*** Preparativi ***


Capitolo 2


Tutta l'attrezzatura si trovava gettata alla rinfusa in giro per la stanza, come se lo zaino da montagna color verde mimetico, che si trovava ai piedi del letto, fosse esploso e avesse riversato in terra il suo intero contenuto. C'era una corda da rocciatore, scarponcini ovviamente, alcuni maglioni pesanti, una bussola, un binocolo, una borraccia, alcune bende e cerotti utili per il primo soccorso, una di quelle piccole tende a montaggio rapido da uno o due posti ed un sacco a pelo blu, correttamente arrotolato per occupare il minor spazio possibile.

«E quindi hai deciso veramente di andare?»

Domandò Luke, mentre andava ad incrociare le braccia all'altezza del petto, con un'aria per nulla convinta.

«Avevi forse qualche dubbio?»

Rispose Albert, quasi con noncuranza, mentre stava controllando che la borraccia fosse stata ben lavata dopo l'ultima scampagnata.

«Senti, non puoi farti condizionare la vita da Mark. Quello è un idiota e lo sanno tutti. Anche se ti ha sfidato a raggiungere il monastero, non significa che devi farlo per forza. Nessuno gli darà peso e, fra un paio d'anni, quando avremo finito la scuola, chi vuoi che si ricorderà mai di questa storia?»

Albert poggiò la borraccia sul letto e si voltò verso l'amico. Era sempre stato più alto di lui, ma non di molto. In effetti erano entrambi piuttosto piccoletti, un metro e settantadue uno, un metro e settantacinque l'altro. Entrambi capelli castani, ma Albert aveva gli occhi azzurri, Luke marroni. Il fisico era normale, non troppo robusto, ma nemmeno troppo magro, anche se Luke era un po' più gracile e pallido dell'amico.
Albert si avvicinò e poggiò le mani sulle spalle dell'altro con un fare quasi fraterno.

«Lo so che è un idiota, ma ha voluto fare il gradasso con la persona sbagliata. Se riesco davvero a raggiungere il monastero, se torno con una delle pietre nere delle sue mura, lo zittirò per il resto dell'anno. Ogni volta che gli verrà la voglia di chiamarci "fidanzatini" mi basterà sventolargli davanti alla faccia la pietra per ricordare a tutti che lui ha fallito in qualcosa che io sono riuscito a fare.»

Era determinato, dannatamente determinato. E questo Luke lo sapeva bene, conosceva il carattere di Albert e sapeva che quando si metteva in testa una cosa nessuno era in grado di smuoverlo, eppure era preoccupato per quella spedizione, per le leggende, certo, ma anche perchè temeva che avrebbe corso qualsiasi azzardo pur di trovare quella pietra.

«Già ma se fallissi ti prenderebbe in giro come non ha mai fatto prima.»

«Esattamente come farebbe se non ci andassi. Quindi perchè non provarci?»

Albert liquidò con quella frase ed una semplice alzata di spalle l'obiezione di Luke e tornò ad esaminare la sua attrezzatura. Era già capitato che andassero a fare passeggiate nei boschi, quindi aveva tutto l'occorrente per entrare e uscire dalla foresta, ma quella strana sensazione di disagio ancora non voleva saperne di andarsene.

«E partirai domattina?»

«Domani è sabato e non abbiamo scuola. Inoltre in questo modo, se non riesco a raggiungere il monastero in giornata, posso fermarmi a dormire e tornare il giorno dopo, senza perdere alcun giorno.»

«Ma tuo padre...»

«Lui sa che domani dormo da te.»

Albert si voltò verso Luke, mostrandogli un sorriso ampio e beffardo, un modo per ricordargli qual era la scusa che aveva ideato per sparire dalla circolazione un paio di giorni senza destare sospetti e senza sorbirsi tutte le lagne apprensive della madre. Ma nel suo sguardo c'era anche un che di minaccioso. Come a volergli intimare di non azzardarsi a cambiare idea. Si era dichiarato disposto a reggergli il gioco e adesso non poteva più rimangiarsi la parola, altrimenti sarebbe saltato tutto.

«Sì, per tutti, domani sera tu dormi da me. Tanto mia madre esce a cena fuori con il suo nuovo fidanzato, quindi tuo padre non potrebbe in alcun modo chiamare per controllare. Però, per favore, tieni acceso il telefono e informami di dove sei e dei tuoi spostamenti.»

Albert sorrise, questa volta senza doppi fini, un semplice sorriso di sincero ringraziamento, ma, come suo solito, cercava di mascherare i sentimenti con il sarcasmo.

«Non ti metterai mica a piangere ora, vero Luke?»

Questa volta fu Luke a sollevare le spalle, senza minimamente voler raccogliere quella provocazione.

«Idiota. Dovresti essere un po' più gentile con l'unico amico che hai.»

«Ma tu non sei l'unico amico che ho.»

Albert oramai si era di nuovo voltato e aveva cominciato a mettere nello zaino tutto l'equipaggiamento che aveva preparato.

«Forse, ma se l'unico di cui ti fidi, altrimenti non diresti che passi le serate a casa mia quando invece ti inoltri da solo nella foresta. Comunque ora vado, ci sentiamo.»

Ed entrambi sapevano quella frecciatina chiudeva il discorso. Albert non aveva intenzione di replicare a quello che, in fondo, era la verità, e Luke aveva avuto quella piccola vittoria personale sul suo amico, che forse era l'ultima volta che avrebbe visto. Quel pensiero lo investì in pieno, come un camion scagliato a tutta velocità sull'autostrada, non appena varcò la soglia della camera di Albert. E se fosse davvero accaduto qualcosa? Se quelle strane sensazioni che gli si stavano contorcendo nello stomaco fossero state più che mero timore ma una qualche forma di premonizione?
Luke era impietrito, incapace di fare alcun passo e improvvisamente i racconti e le leggende che aveva sentito narrare sul monastero, fin da quando aveva memoria, affiorarono tutte insieme. Ad un tratto fu come se non fosse più in casa dell'amico ma in mezzo alla foresta. Davanti a sè vedeva le mura nere del monastero che si stagliavano in alto, sempre più alto, molto più di quella che era la loro altezza naturale. E fu in quel momento che si accorse di non essere affatto ai piedi della costruzione, ma sospeso nel vuoto. Stava precipitando da un'altezza incalcolabile, senza che la superficie liscia e nera fornisse alcun appiglio, fino ad arrivare a schiantarsi al suolo.
Quando si riprese era ancora in casa di Albert, fermo immobile subito fuori dalla sua camera. Si voltò e posò lo sguardo sull'amico che lo osservava perplesso, non capendo per quale motivo si fosse fermato e fosse rimasto pietrificato in quella posizione per qualche istante.

«Albert!» Disse con un tono di voce perentorio, molto dissimile a quello suo attuale. «Voglio venire anche io!»



*******



I primi raggi del sole stavano timidamente facendo capolino dalle alture che si intravvedevano all'orizzonte e la piana, teatro della battaglia del giorno precedente, veniva poco alla volta illuminata. In alcuni punti si potevano scorgere dei bagliori, probabilmente dovuti al riflesso delle luci dell'alba su qualche punta di lancia, su qualche lama spezzata di una spada o su qualche pezzo di corazza che era rimasto abbandonato sul terreno quando avevano recuperato i cadaveri, all'imbrunire del giorno precedente.
Ma quello che attirava realmente l'attenzione del Capitano Bouchard, un uomo di circa trent'anni alto un metro e ottanta, era il colore rossastro del suolo, imbevuto del sangue di centinaia di soldati. No, centinaia di bravi ragazzi che erano partiti abbandonando i genitori, le mogli e i figli e avevano tristemente trovato la fine su quella piana.

«Una volta era un prato bellissimo.» Bouchard stese la mano, davanti a sè, a mostrare l'intera area da cui avevano un'ottima visuale sopra la collinetta dove era stato installato il loro accampamento. «Un'erba così verde e folta che sembrava di camminare su un tappeto. E qualche volta l'ho anche fatto. Camminare a piedi nudi intendo, era così soffice. Casa mia non è molto distante. Venivo qui con mia sorella da ragazzo e ci divertivamo a rincorrerci e a giocare fino alle pendici della montagna, là in fondo. E guardala ora. Una terra brulla e desolata. L'erba strappata dagli stivali ferrosi dei soldati e dagli zoccoli dei cavalli, e i pochi ciuffi che hanno resistito alla devastazione della guerra, sono oramai rossi, zuppi del sangue di coloro che non torneranno più a casa.»

Il giovane soldato, che era appena uscito dalla sfarzosa tenda a cui era stato assegnato come picchetto, lo guardava con aria perplessa. Non capiva perchè un alto ufficiale gli raccontasse quella storia e, meno ancora, capiva cosa avrebbe dovuto rispondergli. Quindi gli disse l'unica cosa che un soldato ligio al dovere potesse dire ad un suo superiore: «Il Generale Burroughs l'attende, signore!»
Bouchard abbassò il braccio, conscio che le sue riflessioni erano troppo sofisticate, o forse troppo malinconiche, per la loro situazione. Si voltò verso il soldato, gli fece un cenno di assenso con il capo e poi, dopo avergli dato una pacca sulla spalla, scostò il drappo di velluto viola che copriva l'ingresso della tenda e vi entrò.

Per quanto fossero su un campo di battaglia, la tenda del generale assomigliava più ad un piccolo salottino. Le pareti erano tutte di stoffa, naturalmente, ma la dimensione ricordava più quella di una stanza di un palazzo nobiliare che una tenda da campo. Una dimensione che avrebbe potuto ospitare posti letto per almeno una trentina di soldati, se ben stipati.

Ai lati della pianta quadrata c'erano diverse rastrelliere di armi e manichini per le armature e qualche piccolo mobiletto di legno, trasportato da qualche facchino sul campo di battaglia. Persino il letto non era un misero giaciglio ammassato alle bell'è meglio sulla nuda terra, ma aveva una struttura in legno a tenerlo sopraelevato e un altro baule di legno era posizionato ai suoi piedi. Dalla sommità della tenda, sistemate in posizioni strategiche, pendevano le catene che sostenevano quattro bracieri, con i fuochi accesi nei loro piatti per illuminare la stanza. E sulla destra, al suolo, un braciere più grande, anch'esso acceso, quasi come se volesse simulare il caminetto di una stanza padronale.
Al centro della stanza c'era il pesante tavolo di legno, su cui il generale aveva posizionato le gialle cartine della zona, con sopra bandierine e modellini di legno che indicavano le truppe e dove dovevano collocarsi. A vederlo così sembrava buffo, quasi un gioco, ma ogni pupazzetto o cavallino di legno rappresentava, in realtà, centinaia di uomini che, se collocati male, erano destinati ad una fine orribile.

Burroughs era un uomo alto quasi due metri, di circa cinquant'anni, esperto di decine di battaglia. Per quanto l'età e gli scontri ne avessero indebolito la struttura e affaticato il portamento, indossava ancora la sua armatura splendente con fierezza, sebbene leggermente incurvato in avanti. La corazza era perfetta, pulita e d'un lucido scintillante, con le borchie sugli spallacci e sul petto finemente decorate di motivi floreali color oro e, sul torace, spiccava in rilievo un grifone, simbolo nobiliare della sua casata. Era un'armatura completa che davvero lasciava pochi spazi scoperti e se Bouchard avesse dovuto affrontarlo in battaglia, davvero avrebbe fatto fatica ad individuare un punto debole da colpire. Il lato negativo era il peso e la difficoltà dei movimenti che una simile protezione causava al suo portatore. Si trattava forse di qualcosa di più adatto ad una parata che una battaglia, ma dava senza dubbio un'idea di forza e uno strano senso di invulnerabilità, ed era proprio questo che doveva ispirare nei soldati o far temere dai nemici. Il generale aveva una folta barba grigia, con alcune zone più bianche e anche i capelli, lunghi e arruffati, erano di un bel bianco latte. Dei lineamenti del volto si vedeva ben poco, tutto coperto da peluria, eppure Bouchard era sempre stato colpito dal colore dei suoi occhi. Di un blu intenso che ricordava il laghetto nei pressi della sua casa natia.
Non appena il generale lo vide entrare, gli fece cenno di avvicinarsi e, quasi all'unisono, gli altri quattro comandanti che si trovavano assieme a lui attorno al tavolo si voltarono nella sua direzione.

«Allora mi dica, Capitano Bouchard, ci sono notizie del messo?»

Diretto e senza preamboli, come da sua abitudine. Con un tono di voce profondo e leggermente roco. Ma il capitano non potè far altro che scuotere lentamente il capo in segno di diniego.

«Ancora nessuno, Generale. Ma non è partito nemmeno da ventiquattro ore, quindi per ora attendiamo»

Lo sguardo di Burroughs si fece più duro, accigliato, e ora gli occhi azzurri più che alla superficie di un laghetto sembravano essere una lastra di ghiaccio da quanto erano gelidi.

«Si rende conto di cosa stiamo rischiando se non dovesse riuscire ad arrivare in tempo a destinazione?»

«Me ne rendo conto, ma ancora non è il tempo di perdere la speranza.»

«Le guerre non si vincono con la speranza.» Duro e inflessibile. «Si vincono con le armi e con le strategie giuste. La sua è giusta, Capitano?»

Bouchard rimase a fissarlo per un istante, senza distogliere lo sguardo per un secondo dal suo comandante. Se pensava di fargli tremare le gambe, come ad un soldatino alle prime armi, aveva capito male. Se pensava di intimidirlo, aveva capito ancora peggio. Era sopravvissuto a decine di battaglie, e tutte sul campo, gomito a gomito con i suoi uomini, non da un'altura al piacevole tepore della sua tenda. Era troppo esperto per farsela addosso solo perchè un superiore faceva la voce grossa.

«Lo è!» Con tono fermo e deciso.

Burroughs sostenne lo sguardo del sottoposto e fece un cenno deciso di assenso con il capo.

«Molto bene. Prepari le sue truppe, Capitano. I nemici si stanno riorganizzando e la battaglia è imminente.»

Bouchard si batte il pugno destro all'altezza del cuore, producendo un suono metallico del guanto d'arme che urtava la corazza, quindi, senza aggiungere altro, si voltò ed uscì dalla tenda.

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Capitolo 3
*** Momenti di panico ***


Capitolo 3


Camminavano oramai da ore e il sole brillava alto nel cielo. Nonostante il fogliame degli alberi, che diventava sempre più fitto man mano che si addentravano nel cuore della foresta, i raggi riuscivano comunque a filtrare e dare una buona visibilità.
Albert camminava davanti, portandosi sulle spalle il pesante zaino mimetico che aveva preparato il giorno prima, tutto perfettamente stipato per occupare il minor spazio possibile. Luke, qualche passo indietro, aveva uno zainetto più piccolo, di un bel rosso acceso, che aveva dovuto preparare in fretta e furia dopo aver deciso improvvisamente di partecipare all'escursione.
Come avevano previsto la giornata era calda, quindi vestivano entrambi piuttosto leggeri, ma avevano portato degli abiti più pesanti per ogni evenienza e delle mantelline impermeabili, nel caso di acquazzoni improvvisi.
Albert aveva un paio di pantaloncini grigi, una maglia in pile blu e nera a scacchi ed un paio di scarponcini marroni. I calzoni di Luke erano beige, con un paio di ampie tasche sui lati, indossava una maglietta nera a maniche corte con sopra un gilet verde scuro anche quello pieno di tasche e degli scarponi da montagna neri.

«Ma da qui non eravamo già passati?»

Domandò all'improvviso Albert che si era fermato a studiare una particolare conformazione di rocce. Luke osservò nella medesima direzione e alla fine sollevo appena le spalle.

«Non saprei, forse, ma potrebbe essere anche una roccia simile a quelle giù superate. Abbiamo sempre proseguito in linea retta, almeno credo e poi...» il ragazzo si guardò un poco intorno, si avvicinò ad un albero per poggiare la mano sul tronco scuro e nodoso che ne tradiva l'età avanzata. «No, non siamo mai stati qui. Ho segnato la corteccia degli alberi con un gessetto bianco man mano che avanzavamo e qui non c'è niente.»

Albert sorrise all'intuizione dell'amico, lui non ci aveva pensato, ma era un'ottima idea. Purtroppo non potevano contare su un sentiero chiaro e visibile, perchè l'antico passaggio che portava al monastero era oramai stato inghiottito dalla vegetazione e, dopo appena una mezz'ora da quando si erano addentrati nella foresta, era stato impossibile seguirlo. Verso mezzogiorno si erano fermati a pranzare in una piccola radura che avevano incontrato, e il calore del sole, unito al sapore dei panini, era stato così piacevole che, per qualche istante, Luke aveva dimenticato le inquietudini di quella spedizione. Per quel breve istante gli era sembrato di star facendo una semplice scampagnata con il suo migliore amico, in un normale sabato pomeriggio.

«La bussola continua a non funzionare?» domandò Albert che, frattanto, aveva ripreso la marcia attraverso la vegetazione che ora cresceva rigogliosa e selvaggia. Non avevano particolari difficoltà a camminare, ma in alcuni punti il terreno si faceva più irregolare e scosceso, oppure c'erano cespugli di rovi e altri arbusti che li costringevano ad effettuare piccole deviazioni.

«Ancora nulla.» Replicò prontamente Luke, andando a dare una rapida occhiata allo strumento che portava legato al polso con un laccetto di corda. Intorno alle dieci, forse dieci e mezza, la bussola, che fino a quel momento aveva svolto egregiamente il proprio lavoro, aveva iniziato a comportarsi in modo strano. La lancetta ondeggiava da destra verso sinistra, poi tornava indietro verso destra. Talvolta faceva un paio di giri completi del quadrante, come se essa stessa provasse ad orientarsi e individuare il nord, ma senza successo.

«Le rocce in questa zona, devono essere magnetiche. Questa è l'unica spiegazione per il malfunzionamento della bussola.»

Al solito Albert era estremamente razionale, ma Luke era preparato anche a questa evenienza e gli rivolse un sorrisetto beffardo.

«Lo sai che è possibile trovare il nord anche solo con un orologio e il sole? Perchè pensi che abbia portato un orologio invece di guardare l'ora sul telefono? É molto semplice, basta orientare la lancetta delle ore verso il sole e il nord si troverà nella direzione dell'ora attuale diviso per due. Ad esempio, se fossero le dieci, il nord sarebbe nella direzione delle cinque. Se fosse mezzogiorno nella direzione delle sei, e così via.»

Albert si era fermato di nuovo a guardare l'amico, con il fiato sospeso in attesa del responso. Ancora una volta era rimasto sorpreso di come si fosse preparato per quella spedizione, nonostante il poco preavviso. Molto meglio di lui, gli toccava ammettere.

«Sei il solito secchione!» Lo canzonò bonariamente. Ma in verità era piuttosto ammirato. Sapeva che Luke conosceva molto bene i racconti e le dicerie che circolavano intorno alla foresta, aveva studiato tutte le leggende e, probabilmente, conosceva a memoria la conformazione della foresta, senza il bisogno di guardare la cartina.

«Oh, ma che sfiga!» esclamò il ragazzo, mollando un calcio ad un sasso che rotolò via di qualche metro. «L'orologio si è fermato, così è del tutto inutile. Tu non ce l'hai, vero?»

Albert scosse il capo. «Mi dispiace, il mio è digitale, non penso possa servire.» Sollevò il braccio sinistro, ruotando il polso per mettere il quadrante nel proprio campo visivo e rimase a fissarlo per un paio di minuti, con gli occhi sgranati e senza proferire parola.

«Albert, tutto bene?»

Il ragazzo sollevò lo sguardo dal proprio polso e fissò Luke. «Si è fermato. Anche il mio.»

«Cosa vuol dire "fermato"?» domandò Luke un po' interdetto. «Un orologio digitale non si può fermare, forse intendi dire che si è spento.»

«Si è fermato, ti dico, è fisso su un'ora e non si schioda da lì. Guarda!»

Ruotò nuovamente il polso per mostrare l'ora all'amico e, non appena Luke vide che segnava le ventitre e diciannove, divenne paonazzo.

«Che ti succede?»

Ancora con la bocca aperta per lo stupore, fu il turno di Luke mostrare il suo di orologio ad Albert. Fermo anch'esso su un'ora ben precisa: le ventitre e diciannove.



*******



Il Capitano Bouchard, con sguardo duro e severo, era in sella al suo cavallo bardato per la guerra. Non era un uomo troppo serio, al contrario, amava scherzare e non disdegnava una buona bevuta anche con i suoi sottoposti, ma durante una battaglia non ammetteva distrazioni da parte di nessuno. C'erano in gioco vite umane, dopotutto.

Lo sguardo era fisso alla piana davanti a sè che, da lì a poco, avrebbe brulicato di soldati nemici pronti a stroncare le loro vite senza alcuna remora. La geografia della zona, però, era a loro favore. Sul lato sud c'era la foresta di Tuckstone che si estendeva fin quasi alle pendici della catena montuosa di Dorwine, da cui provenivano i nemici. Era fitta e difficile da attraversare, specialmente con armi e armature, al seguito. Sul lato opposto, a nord, c'erano le paludi Black Hive, anch'esse inaccessibili a meno che non si volesse correre il rischio di affondare con tutta la corazza sotto metri di fango e acqua. Ad est, invece, era ammassato il loro schieramento, nel punto in cui la pianura, si allargava, dopo l'ultimo declivio proveniente dalle montagne.

Bouchard era alla testa di circa trecento uomini, cento dei quali a cavallo, ed era schierato sul lato destro, a nord, con le paludi alle proprie spalle. Il suo ruolo era molto semplice: l'esercito nemico sarebbe arrivato attraverso i passi montuosi ma sarebbe stato bloccato tra foresta e paludi, quindi avrebbe proseguito verso est lungo la piana dove si trovava la loro armata, nel punto in cui si faceva più ampia. Avrebbe allora tentato di allargarsi ai lati e lui aveva il compito di fermarli e ricacciarli indietro, in modo che non potessero aggirare il grosso dell'esercito.
Un compito piuttosto secondario, gli scontri dal quel lato sarebbero stati minimi e anche le perdite, almeno era quello che sperava, sarebbero state contenute.

Voltò lo sguardo verso Hadray, il suo ufficiale in seconda. Era un biondino giovane e di buona famiglia, che aveva passato più tempo in accademia che sui campi di battaglia, ma era un tipo a posto. Un po' spavaldo come tutti i giovani, sicuramente, ma aveva ancora il senso dell'onore e lo spirito cavalleresco che si perde con l’avanzare dell’età.

«Tenga gli uomini nei ranghi, Hadray. E si prepari per la battaglia. Si sente già la terra tremare.»

Ed era proprio così. Se ci si prestava attenzione, se si restava in silenzio si potevano percepire le vibrazioni del suolo, causate dal passo di centinaia di uomini in armatura che avanzavano. Lentamente, ma inesorabilmente, il tremore si faceva sempre più intenso, segno che il momento dello scontro si stava avvicinando.

«Agli ordini, Capitano!» Rispose Hadray, fiero e marziale sul suo bianco cavallo, acquistato sicuramente dai facoltosi genitori. Colpì, con i talloni, un paio di volte l’animale ai fianchi e passò dinanzi a tutte le truppe, controllando che i soldati fossero in linea con una cura fin troppo maniacale. "Un giorno imparerà ad occuparsi meno della forma e più della sostanza". Pensò Bouchard mentre lo osservava.

I minuti passavano inesorabili e il sole alto nel cielo non dava tregua, rendendo le corazze e le cotte di maglia dei soldati veri e propri forni; fortunatamente ogni tanto spirava una lieve brezza da nord, che alleviava un po' la calura della giornata. Poi, all'improvviso, quello che era solo un lieve tremore sul terreno, divenne un vero e proprio boato e una massa feroce e urlante apparve dinanzi a loro. Un'unica lunga linea nera gli stava letteralmente calando addosso, a passo sostenuto, come se non vedesse l'ora di buttarsi a capofitto nella lotta. Erano più di quanto si aspettava, ma comunque non tanti quanto loro.

«Eccoli, stanno arrivando.» Urlò Hadray, con un ardore tale che, per un attimo, Bouchard temette volesse lanciarsi alla carica.

«Tutti fermi e in attesa di ordini!» Tuonò il Capitano con la sua profonda voce, che sovrastò non solo Hadray, ma anche il brusio che si era levato dai soldati alla vista del nemico così arrembante. «Il nostro compito è fare da scudo, quindi non marceremo, non caricheremo, non attaccheremo per nessun motivo. Se qualcuno arriverà nella nostra direzione, lo rispediremo indietro da dove è venuto.»

Il Generale Burroughs, dall'alto della collinetta dove era stata posizionata la sua tenda, osservava la scena e ordinò l'avanzata. Dapprima lentamente e poi sempre più in fretta, i due eserciti si diressero l'uno verso l'altro fino ad arrivare in contatto e aprire così le ostilità.
Il rumore di metallo contro metallo, le grida di dolore si levarono alte in cielo e si mescolarono in un solo grande frastuono, mentre i soldati combattevano. La battaglia era incredibilmente cruenta, perfino per l'esperienza di Bouchard: i nemici sembravano preda di qualche furore sacro e avanzavano a testa bassa, incuranti del dolore e della fatica, ma erano in inferiorità numerica e alla fine cadevano in gran numero, senza riuscire a sfondare. L'odore del sangue imperniava l'aria e il terreno, ancora una volta, si colorava di rosso. Ma c'era qualcosa di sbagliato.
Bouchard scrutava la battaglia imperversare dalla sua postazione, senza muoversi come gli era stato ordinato, ma nessun nemico ancora si era diretto verso il loro fronte. Era ovviamente ben consapevole che pochi gruppi disuniti mai avrebbero potuto sfondare dal quel lato eppure, non riuscendo a passare oltre, qualcuno, anche solo per disperazione, si sarebbe dovuto inevitabilmente avvicinare. Era sempre stato così, in ogni battaglia a cui aveva partecipato. Tranne quella volta.

Bouchard non era affatto tranquillo poi, come colto da un'ispirazione improvvisa, girò il suo cavallo, in direzione della palude e fu allora che li vide. Tante piccole figure nere si stavano facendo strada attraverso la zona fangosa e stavano per piombare alle loro spalle. Era esterrefatto, non riusciva a spiegarsi come avessero potuto passare da lì o quanto tempo prima dovevano essere partiti per giungere proprio in contemporanea all'attacco. Una coordinazione notevole. Ma non c'era tempo da perdere in quei pensieri, bisognava agire o sarebbero stati ben presto schiacciati in una morsa letale. D'altro canto non poteva nemmeno ordinare ai suoi uomini di dirigersi verso le paludi o avrebbe lasciato sguarnito quel fronte e gli avversari avrebbero potuto accerchiare il resto dell'esercito.

C'era solo una soluzione logica e Bouchard lo sapeva. Diresse lo sguardo verso Hadray, il quale forse aveva già intuito.

«Le lascio il comando della formazione. Mantenga la posizione come ordinato, costi quello che costi.»

Il giovane ufficiali annuì al suo comandante con espressione funerea sul volto.

«É stato un onore servire sotto di lei, signore.»

Un’affermazione che sapeva di condanna, ma Bouchard non aveva tempo da perdere in futili preoccupazioni. Spronò il cavallo e aggirò i soldati, ordinando all'ultima fila, una cinquantina di uomini, di seguirlo. Quindi lanciò il cavallo al galoppo sulla pianura, diretto verso la palude.
Non appena sentì il terreno farsi più morbido sotto gli zoccoli della cavalcatura, smontò di sella e, con una pacca sul posteriore dell'animale, lo rimandò indietro. Era inutile sacrificare la vita del cavallo, facendolo impantanare nella palude.

«Avanti uomini, non facciamoli avanzare!»

Esortò i suoi ad attaccare e lui stesso si scagliò verso gli avversari. Ma quando giunse al limitare della palude e finalmente li vide bene, fu sopraffatto dal disgusto. Non erano umani o, almeno, non completamente. I corpi delle creature che aveva dinanzi erano deformi, con braccia e gambe innaturalmente lunghe. I volti sfigurati e sfregiati. Emergevano dal fango con armature fatte appena di placche di cuoio disordinate che lasciavano intravvedere un fisico estremamente muscoloso. Brandivano spadoni, asce o martelli estremamente tozzi e grossolani, ma dall'aria decisamente pericolosa.
Esitò per un istante, ma alla fine il senso del dovere superò lo sgomento per quelle forme grottesche e si avventò su quello più vicino. L'essere, alto intorno ai due metri, sollevò un possente martello, ma era lento, nonostante la quasi assenza di armatura. Bouchard si scontò di lato, schivando il violento colpo e non appena la testa del maglio affondò nel terreno molle e fangoso, lui gli affondò la spada nel ventre. Una sostanza densa e nera, molto dissimile dal sangue, fuoriuscì dalla ferita e un odore nauseabondo si diffuse nell'aria. Il Capitano trattenne il respiro, estrasse la lama e la affondò una seconda volta, nel petto, all'altezza del cuore.
Ma quell'essere non voleva saperne di morire. Sollevò di nuovo il martello per calarlo su Bouchard, ma ancora una volta fu più lesto di lui, fece un balzo indietro, tirandogli via la spada dal corpo e poi si abbassò, mirando al ginocchio, che gli tranciò di netto con un preciso fendente. L'essere cadde sul fianco, sbilanciato anche dal peso dell’arma che brandiva, e lui lo finì affondando la lama nella carne tenera del collo.
Solo allora si rese conto che i suoi soldati erano incerti, disorientati dall'aspetto innaturale di quelle creature.

«Non fatevi intimidire, non esitate, non sono altro che grotteschi e ripugnanti esperimenti di qualche stregone folle.»

Ancora una volta cercò di ispirare i suoi uomini per non farli cedere alla paura e, come a voler dare il buon esempio, attaccò l’avversario successivo, questa volta armato di spadone a due mani. Finse un attacco alla destra, poi cambiò direzione all'ultimo momento e mollò un colpo di taglio a sinistra, ma l'avversario lo deviò con l'imponente lama. Questo appariva più agile e la forza sovrumana che dimostrava gli consentiva di muovere la pesante arma con molta più destrezza di quella che avrebbe avuto un normale soldato.
Tentò un nuovo affondo al petto, ancora una volta parato.

«Pensi di impaurirmi? Ora basta giocare.»

L'essere rispose con una sorta di grugnito. Bouchard si abbassò per colpire il nemico alle gambe, ma questi fece scendere lo spadone dall'alto verso il basso. Il Capitano se l'aspettava, anzi, ci contava. Brandendo la spada con entrambe le mani bloccò il fendente quindi, da quella posizione, mollò l'elsa con la destra, reggendola la spada solo più con la sinistra ed estrasse il coltello che aveva alla cintura. La guardia era scoperta e, rapido come un felino, gli conficcò il pugnale nell'addome.
Bouchard rivolse un ghigno beffardo al suo avversario, ma fu un solo istante perchè una smorfia di dolore si sostituì sul volto subito dopo. Il fianco sinistro gli bruciava terribilmente. Abbassò lo sguardo e vide che quella creatura gli aveva affondato le unghie lunghe e affilate come artigli nelle carni. Era stato in grado di forare persino la corazza con la sola mano.

Bouchard fece un salto indietro, sulla difensiva, stordito e dolorante. L'avversario, invece, non pareva aver subito conseguenza dalla ferita riportata. Il Capitano strinse i denti, barcollando un poco, mentre già sentiva le forze venirgli meno e il sapore del sangue inondargli la gola.

«Forse è arrivata la mia ora, ma non sarai tu a portarmi nella tomba.»

Con un grido più animalesco che umano si lanciò di nuovo contro l'avversario, ma non era una carica furiosa e incontrollata. Quando vide la lama dello spadone arrivare verso di lui, usò tutte le energie che gli erano rimaste per spostarsi di lato ed evitarla, poi mirò ai polsi e, con un potente fendente, calò dall'altro tranciando le mani di netto, facendo cadere anche lo spadone a terra con esse. Era disarmato. Bouchard sollevò la spada un'ultima volta per dargli il colpo di grazie e fu allora che un forte dolore lo raggiunse alla testa. Dopo tutto fu buio.

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Capitolo 4
*** Incontri ***


Capitolo 4


I due ragazzi erano rimasti fermi qualche minuto a guardarsi, senza dire nulla. Nessuno dei due voleva essere il primo a parlare perchè entrambi già sapevano cosa avrebbe risposto l'altro e non ne sarebbero stati d'accordo.

«Avanti, riprendiamo il cammino!» Il primo a rompere il silenzio fu Albert che, ancora, non aveva rinunciato all'idea di raggiungere il monastero.

«Vuoi andare avanti dopo tutto questo? La bussola che non funziona, gli orologi fermi ed esattamente alla stessa ora...»

«Sono coincidenze Luke. Le coincidenze accadono qualche volta, è per questo che si chiamano così. Io non credo che ci sia qualche forza occulta che si diverta a manometter gli orologi.»

Albert cacciò una risata alla sua stessa battuta. Fingeva di trovare quella situazione divertente, di mantenere il raziocinio e la freddezza che lo avevano sempre contraddistinto, ma era solo un modo di sdrammatizzare e convincere l’altro che tutto era normale. Del resto lui non credeva a questo genere di cose, tutto era scientificamente spiegabile in natura e se un evento appariva strano o bizzarro non poteva che essere una casualità.

«Ma Guardati intorno! Non ci siamo avvicinati di un metro. Camminiamo da ore, in tutto questo tempo dovremmo aver attraversato la foresta in tutta la sua lunghezza e invece siamo ancora qui. Sperduti chissà dove, senza traccia del monastero.»

Luke protestò con una veemenza che stupì anche sé stesso. Non era da lui alzare la voce in quel modo ma le oscure sensazioni che gli avevano afferrato il cuore fin dal giorno prima, nella camera di Albert, non avevano minimamente allentato la presa e, anzi, si sentiva raggelare sempre di più, ad ogni passo che facevano. In quel luogo nulla era normale e non era semplicemente vigliaccheria. Percepiva qualcosa che ad Albert sfuggiva. Qualcosa che non aveva ancora identificato.

«Non mi sembra sia così. Guarda laggiù.»

Albert, che era rimasto impassibile alle lamentele dell'amico, indicò un punto fra il fogliame degli alberi. Luke guardò in quella direzione, senza capire inizialmente cosa dovesse vedere. Gli sembrava ci fossero solo foglie e poi, all'improvviso, in uno spazio vuoto tra le fronde la vide: la superficie nera della pietra di cui era fatto il monastero che brillava al sole, mostrando delle venature bianco latte.

«Siamo... Siamo nella direzione giusta?»

Albert era visibilmente compiaciuto e guardava Luke non senza un certo atteggiamento di superiorità.

«Certo, te l'ho detto che il paranormale non esiste. É un normalissimo monastero in un normalissimo bosco. Ascolta, facciamo così: andremo in quella direzione, dritti verso il muro. Se al tramonto non saremo ancora arrivati ci accamperemo e domani mattina, non importa se lo avremo raggiunto o meno, torneremo indietro. Sei d'accordo?»

Luke annuì, ancora non molto convinto, ma il fatto che Albert prendesse in considerazione l'idea di tornare indietro, a prescindere che avessero raggiunto o meno la meta, lo tranquillizzò di molto.
Ripresero a camminare. Il bosco in quella zona era particolarmente fitto e difficile da attraversare. Gli alberi avevano un tronco piuttosto ampio, segno dell'età avanzata, e grossi rami pieni di foglie che ostacolavano la visuale. Le radici emergevano dal terreno, causando rigonfiamenti e rendendo poco agevole la marcia. Più volte ampi e intricati grovigli di rovi o cespugli li costrinsero a deviare dal percorso ed in un paio di occasioni persero anche di vista il muro del monastero, ma riuscirono sempre ad individuarlo nuovamente.
Eppure, più camminavano e più si faceva strada nelle loro menti una consapevolezza tanto reale quanto terribile: non si stavano avvicinando. Quello spigolo di muro era sempre lì, più o meno alla stessa distanza quasi volesse sbeffeggiarli, mostrando loro una destinazione che non erano in grado di raggiungere. A volte l'angolazione cambiava un po', altre volte sembrava che la foresta dovesse aprirsi nella radura da un momento all'altro, ma poi superavano un ostacolo o un grosso albero, ed ecco che di nuovo si ritrovavano completamente circondati dalla vegetazione.

Quando gli ultimi raggi dorati del sole al tramonto avevano iniziarono a lambire le cime degli alberi, erano oramai allo stremo delle forze. Luke era appoggiato con la schiena contro una grossa roccia ed Albert guardava con odio quel pezzo di muro venire lentamente inghiottito nell'oscurità della notte.

«Montiamo qui la tenda!»

L'espressione di Albert era furente, ma Luke annuì, felice di potersi finalmente fermare. E se l'altro avesse mantenuto la promessa, al mattino dopo, sarebbero finalmente tornati indietro.
Il ragazzo si staccò dalla pietra a cui era appoggiato, lascio cadere ai suoi piedi lo zaino ed estrasse la tenda. Era uno di quei modelli che si montavano da sola quindi, almeno da quel punto di vista, non avrebbero dovuto fare troppo sforzo. Aprì la cerniera della fodera in cui era contenuta e, senza più impedimenti, la tenda cominciò autonomamente ad aprirsi.

«Metti i picchetti per fissarla a terra, io vado a raccogliere un po' di legna, così almeno avremo un bel fuoco stasera.»

Anche se nella voce di Albert si sentiva ancora tutta la frustrazione di quella situazione, il suo tono era più gentile, più simile ad una richiesta che un ordine.

«Va bene, ma resta nei paraggi. É sempre più buio e orientarsi in una foresta di notte può essere molto difficile.»

Luke attese di vedere l'amico sparire tra gli alberi e poi sollevò lo sguardo verso il cielo. Da dove si trovavano non riusciva nemmeno a vedere le stelle. Sospirò, quindi prese i picchetti e iniziò a farli passare nell'occhiello predisposto per il fissaggio e poi piantarli a terra con una piccola mazzetta. Il terreno era umido, morbido e non opponevano troppo resistenza. Dopo aver piantato il terzo, senti distintamente il rumore di un ramo che si spezzava.

«Occhio ai piedi, Albert, è facile inciampare con questo buio.»

Disse il ragazzo, ancora accovacciato a terra, senza nemmeno sollevare la testa. Nessuna risposta. Luke, allora, si rimise in piedi e si guardò intorno.

«Albert?» Questa volta avvertì un chiaro fruscio provenire da un cespuglio alla sua destra.

«Albert, se hai voglia di scherzare, sappi che non è divertente.» Si avvicinò al cespuglio e smosse le foglie con le mani, ma senza vedere nulla di anomalo.

«Probabilmente un animale, forse un coniglietto. Ti va bene che abbiamo le provviste.»

Sghignazzò con fare provocatorio ma, all'improvviso, si sentì pervadere da una sensazione di puro terrore. Sentì una morsa gelida serrarsi attorno alla gola, così nitidamente che si portò le mani al collo, cercando quella gelida mano che lo aveva afferrato, ma non trovò altro che la sua pelle.
Iniziò ad ansimare, sentendo l'aria che gli veniva meno nei polmoni e lo sguardo cominciò a saettare in tutte le direzioni per cercare qualcuno o qualcosa che potesse aiutarlo, ma quello che vide lo paralizzò dal terrore. C'era una figura nera, poco distante da lui, immobile in mezzo a due alberi, al limitare della zona che avevano scelto per accamparsi. Non riusciva a vederla bene, scorgeva solo la sagoma nell'oscurità. Era sicuramente una persona, non un animale, e nemmeno tanto alto. Forse un metro e sessantacinque al massimo.
Luke cercò di arretrare, di mettere più spazio tra lui e quell'individuo, ma i piedi erano pesanti, sembrava che le scarpe fossero diventate di piombo e dovette fare un grande sforzo per fare un unico passo indietro.

«Finalmente sei tornato, ragazzo. Finalmente....»

Una vocetta stridula e gracchiante graffiò l'aria come il rumore di unghie su una lavagna. Luke non riusciva a staccare lo sguardo da lui e, con suo sommo terrore, l'essere si mosse, molto lentamente, nella sua direzione. Il ragazzo usò tutte le energie che gli erano rimaste per sollevare il piede sinistro e fare un altro passo indietro, ma urtò con il tallone contro un ramo sporgente e crollò a terra. Non fu, però, un male.
Una volta rotto il contatto visivo con l'individuo sentì immediatamente le forze tornargli e, senza più voltarsi indietro, si rimise in piedi e corse nella direzione opposta senza nemmeno guardare cosa avesse davanti. La sua fuga si infranse dolorosamente contro qualcosa fatto di legno pochi metri più avanti e ricadde all'indietro con il sedere per terra, accompagnato dal frastuono di rami che cadevano uno sull'altro.

«Luke, ti ha dato di volta il cervello?!»

Quando il ragazzo riaprì gli occhi, di fronte a sé c'era Albert. Anche lui seduto a terra a massaggiarsi un fianco. In mezzo a loro due, sparpagliati, diversi pezzi di legno delle dimensioni più svariate. Doveva essere finito proprio contro Albert che era tornato con la legna per il fuoco.

«Albert, c'è qualcuno là dietro! Non so chi sia, non l'ho visto bene, ma non siamo soli.»

La voce era rotta dall'affanno, il respiro ancora irregolare e si sentiva tutto indolenzito. Albert non gli chiese nemmeno spiegazioni, era chiaro che non stava scherzando. Afferrò uno dei pezzi di legno più robusti e si mise in piedi, seguito poco dopo anche da Luke, ancora tutto dolorante.
Avanzarono entrambi fianco a fianco e non appena videro un'ombra muoversi fra gli alberi si arrestarono.

«Avanti, ora avvicinati lentamente e non fare scherzi. Non ho paura di te!»

Albert tuonò minaccioso verso la figura sollevando il randello che brandiva con la destra. L'ombra si fermò. Poi, cautamente, cominciò a muoversi verso di loro e quando finalmente fu abbastanza vicina, con grande stupore di entrambi, si accorsero che era una ragazza.

«Vi prego, vi prego, non ho fatto niente. Mi sono persa nella foresta.»

A giudicare dall'aspetto aveva circa quindici o sedici anni al massimo, la voce era leggera e dolce, sebbene fosse visibilmente spaventata. Era alta poco più di un metro e sessanta e aveva i capelli rossi, leggermente ondulati, che arrivavano poco sotto le spalle. Gli occhi d'un azzurro intenso e guance e naso erano coperti di piccole lentiggini. Non pareva avere alcun tipo di trucco o accessorio femminile. Niente anelli, orecchini, collane. Ma quello che colpì particolarmente i due ragazzi fu l'abbigliamento: Indossava un lungo mantello nero, che arrivava fino ai piedi e, sotto di esso, si riusciva ad intravvedere una camicia bianca, dalle ampie maniche. Al di sopra indossava un gilet marrone che si chiudeva sul davanti con dei lacci incrociati, simile ad un corsetto anche se meno rigido. Infine una gonna grigia arrivava fino alle caviglie, mentre ai piedi aveva un paio di scarpe che parevano di cuoio. Sembrava la locandiera di un’antica taverna.

«Ti chiedo scusa, non volevo spaventarti. Pensavamo che... lui aveva detto...»

Albert lasciò cadere il pezzo di legno che teneva in mano e lanciò un'occhiataccia a Luke che rispose con un'espressione mista tra lo stupore e l'imbarazzo, per essersi fatto spaventare in quel modo da quella fanciulla.

«Prego vieni, fermati pure con noi. Non conviene andare in giro da soli nella foresta, soprattutto di notte.»

Albert le si avvicinò sorridente, con uno sguardo sornione, offrendole la mano per aiutarla a superare le asperità del terreno. Lei esitò per un istante, ma alla fine accettò di buon grado l'aiuto, ricambiando con un sorriso.

Accesero il fuoco e, finalmente, la zona fu rischiarata da un po’ di luce e rinfrancata da un caldo tepore. Albert e Luke erano seduti uno accanto all’altro tra il falò e la tenda, intenti a dividersi le razioni che avevano portato, mentre Annie, così aveva detto di chiamarsi, sedeva dal lato opposto.

«Non sei di queste parti, vero? Non mi pare di averti mai vista a scuola» Domandò Albert, mentre stava scartando il suo panino dalla stagnola.

La ragazza puntò l’indice verso una zona imprecisata verso il nord. «Sì, esatto, io abito da quella parte, al limitare della foresta. E no, non vado a scuola, mi ha insegnato tutto mia mamma.»

I due si scambiarono uno sguardo perplesso. Era una di quelle persone che studiavano da privatiste e si recavano a scuola solo per sostenere gli esami?

«E possiamo sapere cosa ci fai da sola nella foresta di notte? Può essere molto pericoloso, ci sono animali aggressivi che cacciano di notte, potresti mettere male un piede e prendere una storta.»

Alla domanda di Albert, Annie abbassò la testa con fare colpevole. «Lo so, non avrei dovuto, ma sono preoccupata per mio fratello. É partito qualche giorno fa per andare al monastero e ancora non è tornato. Ho il terrore che gli sia accaduto qualcosa.» Sollevò nuovamente la testa verso i due ragazzi e dagli occhi cominciavano ad affiorare le prime lacrime.

«Tuo fratello è andato al monastero? Ed è riuscito a raggiungerlo? E tu sai come arrivarci?» Domandò Luke sorpreso. Non aveva mai sentito qualcuno che lo avesse raggiunto, non in tempi recenti almeno. E adesso una sconosciuta, incontrata per caso proprio nella foresta, stava dicendo che lei o il fratello conoscevano la strada. Annie annuì timidamente.

«Non ti preoccupare, ti aiuteremo a trovarlo. Stavamo andando proprio lì anche noi.» La reazione di Albert, invece, era assolutamente trionfale. Quella era la dimostrazione che il monastero era raggiungibile, come aveva sempre pensato e che non c'era assolutamente nulla di misterioso e ora ne aveva la prova. E poi l'idea di aiutare quella ragazza gli dava una strana euforia.

«Grazie, grazie davvero ad entrambi.» Annie rivolse loro un sorriso davvero molto dolce, quindi da una piccola sacca che aveva allacciata alla vita estrasse quelle che sembrava un piccolo pezzo di pane raffermo.

«É solo quella la tua cena? Se vuoi posso darti il mio panino, io ne ho altri.» Luke si alzò e, dopo aver aggirato il fuoco, porse il panino farcito con un paio di fette di prosciutto alla ragazza. Lei sollevò lo sguardo verso di lui, stupita da tanta disponibilità.

«Davvero posso? Ti ringrazio tanto, Luke, sei così gentile.» Allungò la mano per prendere il panino e con le dita sfiorò quelle del ragazzo. A quel contatto Luke sentì le guance farsi calde e i due rimasero a guardarsi per qualche istante. Il tutto sotto lo sguardo torvo e indispettito di Albert.



*******



Nel buio c'è pace e silenzio. Così aveva sempre pensato Bouchard ma, evidentemente, si sbagliava. Era rimasto avvolto nell'oscurità per un tempo indefinito ma non era stato affatto piacevole. Sentiva ancora nelle orecchie il frastuono della battaglia, si sentiva ardere dentro da un fuoco che pareva consumargli gli organi.
Quando finalmente aprì gli occhi, ad accoglierlo furono i raggi del sole che filtravano da una finestrella, alla sinistra del giaciglio su cui era stato adagiato, e terminavano sul pavimento di legno. Era ancora vivo e questo lo capiva dal dolore che avvertiva praticamente da ogni parte del corpo, ma principalmente dal lato sinistro.
Non senza fatica si mise seduto e iniziò a scrutare il luogo in cui si trovava: era una casupola di legno, molto modesta. Il letto era una scatola anch'essa di legno foderata di paglia per renderlo appena più comodo. Era vestito solo con un paio di pantaloni di tela ed un camicione lungo che gli arrivava fino alla coscia, ma si rese conto di essere stato medicato. Le ferite erano state pulite e coperte da bianchi bendaggi di stoffa. La sua corazza e le armi erano deposta nell'angolo apposto a dove era situato il letto.

«Ti sei svegliato finalmente. Hai dormito per tre giorni di fila e ho pensato che saresti morto sul mio letto. Una bella seccatura.»

Immediatamente Bouchard si girò nella direzione della voce e, alla sua destra, vide una donna in piedi, accanto al focolare, intenta a rimestare con un cucchiaio di legno dentro un paiolo completamente annerito dalla fiamma. Era una donna di circa venti anni o poco più, dai capelli rossi raccolti in una lunga treccia che arrivava fino a metà schiena, gli occhi azzurri e i viso tempestato di lentiggini.

«Siete voi che mi avete soccorso e medicato? A quanto pare vi devo la vita, Milady. Perdonate la mia sfrontatezza, posso sapere dove siamo e...» fece una pausa, evidentemente stava ancora elaborando le informazioni che la donna gli aveva dato. «Tre giorni? Cosa ne è stato della battaglia?» Bouchard si rizzò in piedi, ma un improvviso giramento di testa lo costrinse ad appoggiare la manona contro la parete per non cadere.

«Calma, calma, grande eroe. Non sei ancora nella condizione di andartene in giro. E dammi del tu, sono solo una semplice contadina, non certo una delle dame di corte a cui sei abituato. Mi chiamo Kaitlyn.» Il tono della donna era irriverente, ma non offensivo. Sembrava trovare particolarmente divertente quella conversazione a giudicare da come sorrideva. Prese un mestolo, lo affondò nella pietanza che stava ribollendo con un invitante profumino sul fuoco e ne versò un po' in una scodella di coccio.

«Ecco qua, mangialo tutto e vedrai che ti sentirai meglio.» Kaitlyn porse la ciotola piena di zuppa a Bouchard, che si sedette nuovamente sul letto e la afferrò con entrambe le mani. Il calore emanato dalla ciotola e l'invitate profumo che ne scaturiva bastarono a donare sollievo e un immediato conforto. Anche il rumoroso brontolio del suo stomaco dimostrava quanto il capitano bramasse mettere qualcosa sotto i denti.

«Sì, ti ho ripescato io dalla palude. Credo fossi immerso nel fango da almeno un giorno. Pensavo foste morti tutti e poi ti ho sentito lamentare. Se non fosse stato per Becky, lì fuori non sarei riuscita a trasportati.»

«Becky?» Ripetè Bouchard tra una cucchiaiata e l'altra della zuppa che stava divorando avidamente.

«Sì, la mia asina. É molto forte e ti ha trascinato fino a casa. Poi ti ho tolto tutto quel ferro di dosso, ti ho portato dentro e ho cercato di tenerti in vita.»

Bouchard osservò dapprima la sua corazza deposta in un angolo e poi, poco distante, della paglia che era stata disposta sul pavimento. Evidentemente Kaitlyn gli aveva ceduto il suo letto e aveva dormito per terra nei giorni della sua degenza. Socchiuse gli occhi, colmo di gratitudine verso quella donna che tanto aveva fatto per uno sconosciuto. Poggiò la ciotola vuota sul letto e provò di nuovo ad alzarsi, questa volta senza giramenti di testa.

«Vi devo la vita, milady, e state pur certa che mi sdebiterò, fosse anche l'ultima cosa che faccio. Ma ora ho bisogno di saperlo: dove ci troviamo? E sapete qualcosa sull'esito della battaglia svoltasi in questa zona?»

«Questa casa si trova al margine nord della foresta di Tuckstone e la battaglia...» la donna sembrò esitare per un momento. «Non mi intendo molto di queste cose, ma le truppe scese dai monti, quelle creature disumane, hanno sbaragliato l'esercito imperiale, che si è ritirato verso sud e si è rifugiato presso il villaggio di Greenale. Li hanno inseguiti per un po', ma poi l'esercito sceso dalla montagne si è fermato. Più o meno a metà strada tra qui e il villaggio e stanno continuamente inviando esploratori nella foresta, anche se non ne conosco il motivo.»

Ma Bouchard lo conosceva bene, e se quello che aveva intuito era vero, allora non c'era un solo istante da perdere. Raggiunse le sue cose e sollevò la corazza, che mai come in quel momento gli sembrava pesante.

«Milady, prometto che tornerò a saldare il mio debito. Ma ora devo andare.»

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