La giungla dentro

di Old Fashioned
(/viewuser.php?uid=934147)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Giungla 1





LA GIUNGLA DENTRO





Capitolo 1

Il soldato MacFarland aprì gli occhi e per qualche secondo rimase immobile in ascolto: si udiva un rantolare lieve, irregolare, che a tratti si interrompeva e poi riprendeva con un denso crepitio di bolle.
In preda a un'improvvisa inquietudine si mise a sedere e fece girare lo sguardo sull'infermeria, debolmente illuminata dalle luci che provenivano dal piazzale. Trasalì nello scorgere una figura seduta proprio davanti al suo letto, sulla panca che correva lungo il muro. Strinse gli occhi perplesso. “Sam?” chiese infine.
Proprio io,” fu la risposta.
MacFarland aggrottò le sopracciglia. “Ma tu non eri morto a Quota 1338?”
La figura annuì, il rantolo si accentuò. Osservando meglio, il soldato si accorse che aveva un buco nel petto e metà faccia in meno. “Sam, tu sei morto,” ripeté, questa volta con tono che non ammetteva repliche.
Già.”
E allora...” MacFarland deglutì. “Allora non dovresti essere qui.” Assalito da un'improvvisa sensazione di gelo, si fece indietro fino a toccare la parete con la schiena.
Con un sinistro scrocchiare di ossa, l'altro si alzò in piedi. Emise una risata gorgogliante e replicò: “Perché? Non sei contento di rivedermi?” Mosse un barcollante passo nella sua direzione.
Il soldato fece per balzare dal letto, ma si trovò le gambe avviluppate dalla coperta, perse l'equilibrio e cadde sul pavimento.
Quello che rimaneva di Sam frattanto continuava ad avvicinarsi, lasciando a ogni passo impronte sanguinolente sul lucido pavimento di linoleum.
Sta' indietro!” ansimò MacFarland angosciato, col cuore che gli batteva all'impazzata e il fiato mozzo per l'orrore, “Non ti avvicinare!”
Perché, amico? Non vuoi rievocare i bei tempi di Dak To?”
Il soldato arretrò ancora. Ormai Sam era a un passo da lui, ma per quanto provasse, non riusciva a liberarsi della coperta che gli immobilizzava le gambe. “Vattene!” gridò angosciato, “Va' via!”
Di nuovo la risata gorgogliante, punteggiata di rantoli liquidi.
Va' via, no! No!”

A un tratto, Sam non c'era più, il pavimento era immacolato e a parte il suo ansimare convulso, nella sala di degenza c'era silenzio.
Il soldato si terse il sudore che gli imperlava la fronte e con fatica si alzò in piedi, poi gettò un secondo sguardo tutt'intorno. “Un incubo,” mormorò alla fine. Con gesti malfermi aprì il cassetto del comodino e ne trasse un pacchetto di Lucky Strike, se ne infilò una tra le labbra e l'accese con uno Zippo. Aspirò una lunga boccata di fumo, socchiudendo gli occhi la trattenne nei polmoni per qualche secondo, quindi la esalò adagio. “Un fottuto incubo del cazzo,” ripeté.
Di nuovo si guardò intorno, ma a parte lui nella stanza non c'era nessuno. Diede un altro tiro alla sigaretta, si avvicinò alla finestra e lasciò vagare lo sguardo all’esterno.
Il cielo era ancora buio. L’aria era calda, umida, carica di odori. Intorno a ogni luce si agitava un brulichio di insetti. Un geco salì lungo la parete con un lieve fruscio, fece saettare la lingua per catturare una zanzara e poi scomparve in una fessura.
MacFarland diede un altro lungo tiro alla sigaretta ed esalò lentamente il fumo.
Di notte la giungla non si vedeva, ma ovunque se ne percepiva la presenza incombente, forse addirittura con più intensità rispetto a quello che accadeva di giorno: era come il lento, lungo respiro di una creatura antichissima, di forza immane.
La sigaretta finì. Il soldato la spense sfregandola contro la zanzariera metallica che chiudeva la finestra, quindi la lasciò cadere sul pavimento.
Una sentinella attraversò lentamente il piazzale. Per un po’ MacFarland la seguì con lo sguardo, poi tese l’indice e il medio della destra a rappresentare la canna di un’arma e anche con quelli seguì il suo lento percorso. “Bang,” disse sottovoce. “Bang, bang, bang.”
Il soldato continuò a camminare e scomparve ignaro, lui abbassò la mano e per un po’ rimase immobile in preda a sentimenti contrastanti: da una parte disprezzava quello stupido marmittone, così svagato e noncurante, ma dall’altra lo invidiava. Doveva essere bello poter attraversare uno spazio vuoto semplicemente percorrendone la diagonale, senza strisciare di ombra in ombra lungo i bordi, senza fermarsi ogni dieci passi per tendere l’orecchio.
Cercò di ricordarsi di quando anche lui si comportava così, ma non ci riuscì. Abbandonò la finestra, andò alla ricerca di un’altra sigaretta.
Si sedette sul letto e riprese a fumare. Meccanicamente portava la sigaretta alla bocca, aspirava il fumo, lo tratteneva per qualche secondo nei polmoni e poi lo lasciava uscire.
Appeso alla parete c’era un manifesto di propaganda che mostrava uno scenario di distruzione e miseria: l’America dominata dal comunismo. Rimase a guardarlo per un po’, ma in breve l’immagine trasfigurò in quella della Collina 875: il linoleum diventò un terreno brullo e devastato dalle esplosioni, i pochi mobili divennero sacchi di sabbia, trinceramenti, ridotti. Si fece bruscamente da una parte quando vide un colpo di mortaio esplodere a poca distanza da lui. Si buttò per terra, in un attimo si infilò sotto il letto. Colpi di mortaio e raffiche di mitragliatrice continuavano a rintronarlo, sentiva in bocca il sapore della terra riarsa, misto a quello della polvere da sparo e del sangue.
Una luce accecante lo fece sussultare.
MacFarland, la vuoi finire?” disse una voce.
Il soldato sussultò di nuovo, di colpo non c’erano più i sacchi di sabbia e le esplosioni. Era tornato il linoleum lucido sul quale si riflettevano i neon accesi.
Due piedi calzati di Jungle Boots neri entrarono nel suo campo visivo. “Mi senti, MacFarland?” insisté la voce.
Il soldato fece un respiro profondo e si passò una mano sulla fronte, di nuovo madida di sudore. Uscì da sotto il letto e prima ancora di capire chi fosse il suo interlocutore allungò la mano verso il cassetto del comodino, dal quale estrasse lo Zippo e le Lucky Strike.
Si accese una sigaretta, quindi buttò tutto sul letto. A quel punto si girò verso il nuovo arrivato. “Rosales,” disse.
Non fare tutto questo casino,” gli raccomandò l’infermiere.
Scusa.”
Senza rispondere, l’altro andò a raccogliere una sedia che era finita contro la parete e la rimise al suo posto.
Sigaretta?” propose MacFarland. Stava ancora cercando di liberarsi delle visioni, se chiudeva gli occhi le scene di battaglia ricomparivano vivide come film in technicolor, e magari farsi una fumata con qualcuno l’avrebbe aiutato.
Ok, grazie,” rispose Rosales. Raccolse il pacchetto e si infilò una Lucky Strike in bocca, quindi prese l’accendino e lesse ad alta voce la scritta che vi era incisa sopra: “L’unica cosa che sento quando ammazzo è il rinculo del fucile.” Fece scattare la fiamma oleosa, che oltre al fumo nero spandeva intorno odore di benzina, la avvicinò alla punta della sigaretta, aspirò fino a che essa non fu incandescente ed esalando il fumo gli chiese: “È davvero così?”
Magari,” rispose cupo MacFarland.
L’infermiere si sedette sul letto. “Hai fatto di nuovo quei sogni?”
L’altro annuì. Rivolse uno sguardo torvo alla finestra.
Che c’è?” chiese Rosales.
Spegni la luce.”
Non c’è niente là fuori. Questo è solo un deposito di materiale, la zona è tranquilla.”
MacFarland aggrottò le sopracciglia e ringhiò: “Spegni, ho detto!”
Smettila, Jace. Lo vuoi capire che non c’è niente?”
L’altro emise un sospiro e a sua volta si lasciò cadere seduto sul materasso. Si puntò i gomiti sulle ginocchia e si prese la testa fra le mani.
Sentì l’altro battergli una mano sulla spalla e istintivamente si irrigidì. “Te li trovi addosso quando meno te lo aspetti,” esordì poi. “Prima non c’è un cazzo, e poi tutt’a un tratto la giungla ne è piena, ti sparano, ti assalgono con le armi bianche, ce li hai tutti addosso e non capisci più un cazzo, in mezzo al casino vedi solo delle sagome e non capisci nemmeno se sono i tuoi o se sono quelle fottute scimmie gialle...” Diede un altro tiro reggendo la sigaretta con mano tremante, quindi ne estrasse un’altra dal pacchetto e l’accese con la brace della precedente. Di nuovo aspirò una lunga boccata di fumo. “E poi un attimo dopo non ci sono più,” concluse cupo. “Niente, neanche un fottuto cadavere, come se non ci fosse mai stato nessuno. E tu sei lì come un idiota, in mezzo a tutti i tuoi compagni morti, e devi ancora capire che cazzo è successo.”
Diede un altro lungo tiro.
Con quella merda ti asfalterai i polmoni,” lo ammonì Rosales.
Meglio i polmoni del cervello.”
Quello mi sa che te lo sei già asfaltato.”
Vaffanculo, cosa ne vuoi sapere? Tu non hai mai visto altro che gli ospedali delle retrovie. Dove c’è la merda vera tu non ci sei mai stato.”
L’infermiere si strinse nelle spalle e piccato replicò: “La mia parte di merda l’ho vista anch’io.”
Quando vai al cesso, al massimo.”
Detto questo, MacFarland si alzò e si avvicinò alla finestra. Di nuovo lasciò vagare lo sguardo: un piazzale pulito come quello di Camp Pendleton, hangar di lamiera ondulata color olive drab. Lampioni a intervalli regolari, cartelli freschi di pittura che indicavano la mensa, lo spaccio e il comando.
Aspirò ancora una volta dalla sigaretta, e nell'emettere il fumo esalò anche un lungo sospiro. Dopo la tensione precedente, i muscoli stavano ricominciando a rilassarsi. Infastidito dal sudore che gli appiccicava al corpo la maglietta, brontolò: “Ora ci vorrebbe un goccio.”
Alle sue spalle, Rosales replicò: “Ci manca solo che ti attacchi alla bottiglia e poi siamo a posto.”

§

MacFarland si guardò intorno a disagio, soppesandosi fra le mani il vassoio con il pasto. Strinse gli occhi quando da uno dei tavoli provenne uno scoppio di risa particolarmente intenso e tentennò resistendo alla voglia di girarsi e uscire.
Si sistemò in un punto un po' appartato e cominciò a mangiare. Anche senza guardare nessuno, sentiva su di sé innumerevoli occhi: da una parte lo invidiavano perché dormiva in infermeria invece che in camerata, dall'altra lo temevano. Sapeva che erano state messe in giro voci su di lui: che aveva ammazzato dei Viet a mani nude, che era stato torturato ed era rimasto mezzo matto, che aveva ucciso un suo commilitone scambiandolo per un Charlie.
Tutto era allo stesso tempo vero e non vero: quello che non era successo direttamente a lui era successo a gente della sua compagnia, ad amici, e in ultima analisi faceva poca differenza.
Serrò gli occhi per scacciare l'immagine di quando avevano ritrovato Bobby Carver dopo che per tutta la notte l'avevano sentito urlare da ben due miglia di distanza.
Ripensò a quello che Charlie aveva lasciato loro perché capissero cosa gli aveva fatto.
In quel momento percepì un colpo sulla spalla.

Fu il vociare concitato che lo fece tornare in sé: aveva tutti intorno, mani robuste lo stavano tenendo per le braccia. Istintivamente si divincolò e la presa sui suoi arti si fece più salda. “Sta' calmo!” gridò qualcuno, decisamente meno calmo di lui.
Sbatté gli occhi, fece girare lo sguardo: c'era un tavolo rovesciato, cibo sul pavimento, sedie sparse qua e là. Era cavalcioni su Rosales, che sdraiato sulla schiena lo stava fissando con l'espressione atterrita.
È tutto ok,” bofonchiò, “potete lasciarmi, sono a posto.”
La stretta rimase invariata.
Sono a posto,” ripeté MacFarland.
Ci vollero un altro po' di rassicurazioni, poi gli altri si rassegnarono ad abbandonare la presa. Tutti si portarono comunque a rispettosa distanza, fissandolo come avrebbero fatto con una bomba inesplosa.
Sono a posto,” disse ancora una volta il soldato. Trasse di tasca il pacchetto di sigarette e se ne accese una. Si spostò all'aperto. Con la luce del giorno, la giungla in un certo senso usciva dalla mente ed entrava nella realtà: di notte la si immaginava, con la luce la si vedeva in tutta la sua imponenza, in tutto il suo spaventoso, passivo potere: la giungla non aveva bisogno di fare cose per uccidere, le bastava esistere, le bastava esserci.
Persino la base logistica in cui l'avevano spedito – innumerevoli magazzini, il traffico di uno scalo merci – con la luce del giorno diventava una misera zattera persa in un oceano verde che da un momento all'altro avrebbe potuto richiudersi su di essa e inghiottirla.
Aveva sentito dire che c'erano intere città in rovina all'interno della giungla, templi giganteschi, statue.
Finì la sigaretta, la buttò a terra e la schiacciò sotto il tacco dello scarpone. Soprattutto c'era Charlie, nella giungla.
Si accese un’altra Lucky Strike, quindi si incamminò a passi lenti.

Assiepati sulla soglia della mensa, i soldati della compagnia Bravo lo guardarono allontanarsi.
Che figlio di puttana,” commentò Minelli, un piccoletto di New York con la faccia da topo.
Accanto a lui Jackson, un nero dell'Alabama grande e grosso, rispose: “Ah, lascia stare. A quello gli si è fottuto il cervello a Dak To.”
È stato a Dak To?” intervenne un ragazzotto con gli occhiali che sembrava uno scolaro.
Il nero annuì. “Me l'ha detto O'Malley, quello che sta in fureria. Se l'è fatta dal primo giorno all'ultimo, poi l'hanno spedito a Khe Sanh, dove è rimasto ferito. L'hanno evacuato a Saigon e lì si è beccato in pieno tutta la fottuta offensiva del Têt. Ha dovuto praticamente scappare dal tavolo operatorio e combattere con le ferite aperte, se ha voluto salvarsi la pelle. Ci credo che è diventato mezzo matto.”
Si unì al gruppo anche Rosales, ancora pallido dopo la recente esperienza.
Jackson si voltò a guardarlo. “Tutto a posto, amico?”
L'infermiere si limitò ad annuire. Si passò una mano sul collo, dove si vedevano ancora i segni rossi lasciati dalle mani di MacFarland.
Quello è fuori di testa,” commentò Minelli. Poi, dopo una pausa: “Cosa gli fanno in infermeria, lo tengono legato con la camicia di forza?”
Secondo me gli danno della roba per stenderlo,” disse un altro.
Rosales scosse la testa. “Di solito è tranquillo. Ogni tanto lo trovo sotto il letto invece che sopra, ma non fa casino.”
Si udì qualche risatina e subito Jackson protestò: “Zitti, voialtri. Quello non si è mica passato la guerra a caricare elicotteri come facciamo noi.”

Seduto su una cassa di munizioni, la terza sigaretta penzoloni all'angolo della bocca, MacFarland lasciava vagare lo sguardo sul muro verde che circondava la base. C'erano alberi talmente alti che avrebbero potuto tranquillamente fare ombra alla chiesa del suo paese, con tanto di campanile.
Cercò di visualizzare la chiesa, ma si accorse di non riuscirci.
Come non riusciva a visualizzare la faccia di sua madre, della sua fidanzata, di suo fratello. Vedeva figure neutre, che esistevano formalmente, ma avevano perso ogni connotato.
Oppure vedeva i morti.
L'ultima volta che era stato in licenza, vedeva tutti morti, come li aveva visti a Quota 1338 o a Khe Sanh, quando avevano dovuto pisciare sui mortai perché a forza di sparare alle orde di Viet che si susseguivano una dopo l'altra, le canne erano talmente surriscaldate che i colpi esplodevano prima di venire sparati fuori.
A casa vedeva esattamente le stesse cose. Due ragazze che prendevano il sole erano diventate due corpi chiusi nei sacchi neri.
Gli elicotteri non riuscivano ad atterrare per caricarli e i sacchi si accumulavano. Quando erano finiti i sacchi avevano cominciato ad avvolgere i morti nei teli mimetici e alla fine si accontentavano di coprire loro la faccia con qualsiasi cosa capitasse sottomano.
Col vento quella roba volava sempre via...
La sigaretta finì. Fece per prenderne un'altra, ma il pacchetto era vuoto. Lo accartocciò e lo lasciò cadere.
A quel punto gli parve di cogliere un movimento al limite del campo visivo.
Il cuore accelerò i battiti, i muscoli divennero tesi come corde. Si trovò a stringere i denti con tale forza che dopo qualche secondo si sentì le mascelle intorpidite.
Immobile, fece girare solo le pupille.
Al margine della vegetazione c'era una figura. Non era un americano: era esile e basso di statura, portava una giacca e un paio di pantaloni scuri, sandali di fibra di bambù e un cappello a cono. Aveva l'aspetto di un contadino.
Spostò lo sguardo sulla torretta di guardia: il soldato che la occupava era girato proprio in quella direzione, ma sembrava non stesse vedendo nulla di particolare.
Tornò a fissare il vietnamita, lo vide scomparire dietro un albero. Rimase in attesa per un po', ma esso non ricomparve.
Rilassò impercettibilmente la postura ed emise il fiato che involontariamente aveva trattenuto. “Un'altra cazzo di allucinazione?” si chiese a mezza voce.
Sollevò lo sguardo sulla giungla, immobile e ammantata di una vaga foschia nella calura del primo pomeriggio. Un improvviso stormire di fronde lo fece sussultare. Meccanicamente allungò una mano come per afferrare un invisibile M-16, ma quello che si levò dalla vegetazione era solo un uccello.
Fanculo,” ringhiò MacFarland, col cuore che di nuovo gli galoppava nel petto. “Fanculo, stronzo di un uccello del cazzo.”

§

Il sergente Langley fissò il soldato sull’attenti di fronte a lui: altezza media, né magro né particolarmente muscoloso, uniforme né troppo trasandata né perfetta stile primo della classe. Uno che non si sarebbe guardato una seconda volta.
Un grugno qualsiasi.
Eppure a quanto pareva tutti ne avevano una paura fottuta. Si era bevuto il cervello sulle alture di Dak To e ogni tanto si comportava in modo strano.
Cosa c’è, soldato?” gli chiese.
Vietcong, sergente.” Impersonale, neutro. A Langley parve che stesse dicendo: ‘Piccioni, sergente,’ o qualcosa del genere.
Vietcong?” ripeté il sottufficiale.
Sono due o tre giorni che li vedo, girano qui intorno.”
Langley lo fissò poco convinto. “Come fai a sapere che sono Vietcong, soldato?”
Lo so.”
E… dove li avresti visti, questi Vietcong?”
MacFarland sembrò non accorgersi neppure del tono vagamente ironico che il sottufficiale aveva adottato. “Girano tutt’intorno alla base,” rispose, “alle volte li ho visti anche dentro. Appaiono e scompaiono in un attimo.”
Il sergente aggrottò le sopracciglia: quello era lo stesso soldato che ogni notte si rintanava sotto il letto per sfuggire a immaginari colpi di mortaio. Adesso vedeva Vietcong intermittenti, che apparivano e scomparivano. “Anche qui nella base, hai detto?”
Di nuovo, MacFarland non parve per nulla turbato dal tono scettico della domanda. “Sì, sergente. Qui nella base.”
Puoi descrivermeli?”
Piccoli, magri, vestiti da contadini, con il nón lá in testa. Li ho visti in giro.”
Il sottufficiale corrugò la fronte. “Nessun altro a parte te li ha visti?”
Non lo so, sergente.”
Ne hai parlato con qualcun altro?”
Affermativo, ma non mi hanno dato ascolto.”
Langley annuì grave. La faccenda era chiara: probabilmente quel tizio ormai vedeva i Vietcong anche al cesso. Cercando di suonare convincente, gli rispose: “Questa è una zona tranquilla, ma farò fare comunque dei controlli. Ora puoi andare, soldato.”
MacFarland non si mosse. “Io ho detto la verità, sergente.”
Il sottufficiale indurì lo sguardo. “Ti ho detto che puoi andare, soldato.”
Attaccheranno,” rispose l’altro con voce incolore, fissando un punto imprecisato alle sue spalle.
Saremo pronti a riceverli.”
Ne dubito.”

MacFarland si allontanò con una curiosa sensazione di indifferenza. Probabilmente Langley non aveva creduto a una sola parola, ma del resto non poteva nemmeno dargli tutti i torti: lui stesso non era ancora del tutto certo di aver visto quei Charlie veramente.
Forse se li era solo immaginati.
L’ultimo l’aveva colto praticamente solo con la visione periferica: un’ombra velocissima, che non aveva prodotto alcun rumore. Solo dopo, riflettendoci su, era riuscito a ricostruire che si era trattato di una forma umana.
Una cosa lo aveva colpito, facendolo dubitare che fossero allucinazioni: nessuno dei tizi che vedeva era ferito, a nessuno mancavano arti. Nessuno si lasciava dietro scie di sangue.
Pensò che in fin dei conti non gliene fregava niente. Che ci credessero o no, cazzi loro. Lui aveva già abbandonato da tempo l’idea di tornarsene a casa.
Casa era diventato un termine astratto, qualcosa come Paradiso o Inferno. Un posto dove la gente vestiva colorato e aveva preoccupazioni stupide.

§

La prima esplosione colse MacFarland nel bel mezzo di un incubo, ma il soldato non ebbe alcun dubbio che il rumore non provenisse dal suo mondo onirico. Saltò dal letto mentre un secondo scoppio faceva tremare vetri e pavimento e si infilò in tutta fretta l’uniforme e gli anfibi.
Subito dopo le luci si accesero e Rosales entrò di corsa chiedendo: “Che succede?”
In uno stato di surreale calma, MacFarland gli rispose: “Ci attaccano.”
Cosa? Chi ci sta attaccando? Dove?”
Per tutta risposta, il soldato lo afferrò per un braccio e lo costrinse a buttarsi a terra, giusto un attimo prima che una raffica di AK-47 mandasse in frantumi tutti i vetri spargendo schegge ovunque.
Fuori echeggiarono altre due violente detonazioni. “Granate a frammentazione,” disse MacFarland.
Uscirono.
Le luci del piazzale erano quasi tutte spente, ma l’ambiente era illuminato dai lampi gialli e rossi delle esplosioni. Raffiche di traccianti di un bianco vivido tagliavano il buio come colpi di artiglio.
Sagome nere formicolavano ovunque, l’aria era piena di urla e richiami, vibrava del detonare sordo delle esplosioni.
MacFarland udiva ovunque l’abbaiare secco dell’AK-47 e le raffiche nervose dell’M-16, poi subentrò la voce dell’M-60, più bassa e cupa, con la cadenza regolare dei nastri da duecento colpi.
Udì un lamento, qualcuno gli cadde addosso, un’esplosione lo costrinse a strisciare al coperto. Vide uno degli elicotteri parcheggiati sul piazzale dissolversi in una vampata color arancio carico, che sfumò nel viola e poi nel grigio cupo dissolvendosi. Un magazzino di lamiera si aprì in due come sotto l’effetto di un gigantesco maglio, mentre dal tetto fuoriuscivano fiamme che avevano il biancore sinistro del fosforo.
Nell’aria passarono altre raffiche di traccianti, ovunque stava calando un fumo sempre più denso.
MacFarland strappò un M-16 da un paio di mani irrigidite, mirò a una sagoma nera che gli stava correndo incontro, sparò tre colpi, la sagoma sussultò e cadde a terra. Il soldato passò oltre, sparò ancora una breve raffica, un altro si accasciò al suolo.
Qualcuno accanto a lui emise un urlo gorgogliante, gli parve di sentire qualcosa come “Gesù,” poi non capì se quella che seguiva era un’imprecazione o una preghiera.
Si mise in copertura contro una parete, si guardò intorno cercando di identificare qualcosa come un comando a cui fare riferimento, ma la battaglia era il caos più completo. Chi aveva avuto la fortuna o la presenza di spirito di mettere le mani su un’arma vuotava caricatori perlopiù senza nemmeno capire a cosa stava sparando mentre i Vietcong – perché quelli erano Vietcong – ammazzavano i soldati l’uno dopo l’altro come pecore al macello.
Corse all’armeria: i Charlie erano arrivati prima di lui e stavano portando via casse di materiale. Qualcuno si accorse della sua presenza, spedì una raffica nella sua direzione. MacFarland si buttò in una zona d’ombra, strisciò di nuovo fino al piazzale e individuò una postazione allestita in tutta fretta con sacchi di sabbia recuperati un po’ ovunque.
Da dove cazzo sono usciti?” sentì urlare. “Sono dappertutto!”
Un’altra esplosione fece tremare il terreno. Vampe di fuoco aranciato mostrarono per un attimo esili sagome nere e curve che correvano ovunque.
Cazzo, sono dappertutto!” ripeté la voce di prima.
MacFarland raccolse un lanciagranate M-79, corse di nuovo all’armeria. File di Charlie stavano portando fuori le casse degli M-72 anticarro.
Infilò la granata nella camera di lancio, portò la canna in posizione e spedì il colpo precisamente all’entrata del deposito.
Si buttò a terra prono, appoggiato solo tramite gomiti, ginocchia e punta dei piedi, con la bocca spalancata e le dita a proteggere gli occhi e le orecchie.
L’esplosione che seguì fece uscire dal tetto della santabarbara una colonna di fuoco bianco e giallo che salì nel buio del cielo tropicale per almeno trenta piedi. Tutta la zona fu illuminata a giorno. I Charlie che erano lì intorno furono vaporizzati all’istante, gli alberi secolari che circondavano la costruzione furono spazzati via come fuscelli.
Rintronato, accecato, con le orecchie che fischiavano e il sapore ferroso del sangue in bocca, indolenzito ovunque, MacFarland si alzò adagio e colse d’istinto, più che vedere chiaramente, un muso giallo che gli stava correndo incontro con il Kalashnikov poggiato sull’anca.
Il Charlie lasciò partire due brevi raffiche, sempre d’istinto il soldato si buttò al coperto, brandì l’M-79 ormai scarico come una specie di clava e glielo abbatté tra testa e collo. Non riusciva ancora a sentire i rumori, ma percepì comunque la vibrazione di qualcosa che si fratturava. Il suo avversario crollò al suolo come un sacco vuoto.
Il soldato abbandonò anche quell’arma e tornò al piazzale. La postazione che aveva visto allestire coi sacchi di sabbia era stata spazzata via; alla luce degli incendi che ormai divampavano ovunque, si vedevano solo corpi contorti e crateri di esplosioni. L’infermeria non esisteva più, al suo posto c’era qualcosa che sembrava un mucchio di legname mezzo bruciato.
Granate, raffiche di mitra e urla creavano una cacofonia assordante, nella quale MacFarland non riusciva a sentire nemmeno il suono dei colpi che lui stesso stava sparando. Le luci elettriche erano da tempo spente, forse era stato addirittura distrutto il generatore principale, e l’unica illuminazione proveniva dai lampi ignei delle esplosioni, che davano vita a uno scenario infernale.
Qualcosa scoppiò a breve distanza, lo spostamento d’aria lo sbatté per terra. Egli si rialzò barcollante, solo per vedere un altro magazzino scomparire in uno spaventoso oceano di fiamme. Bidoni di carburante saltarono in aria uno dopo l’altro, lasciandosi dietro lunghe scie di fuoco. Uno di essi atterrò in mezzo a un gruppo di Charlie spargendo intorno benzina incendiata: gli uomini vennero inghiottiti dalle fiamme e si consumarono rapidi come sagome di carta.
MacFarland corse via senza sapere bene che fare: non c’era un fronte, nessuno stava organizzando una linea di difesa da qualche parte.
Qualcosa lo colpì alla schiena, facendolo crollare in avanti. Cercò di rialzarsi, ma si accorse di non esserne in grado: di attimo in attimo si sentiva più stanco e una curiosa sensazione di indifferenza lo stava pervadendo. Pensò che in fondo non gli importava gran che di morire. Anzi, quasi gli parve una liberazione.
Chiuse gli occhi.


Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Secondo capitolo del mappazzone, grazie a tutti quelli che mi hanno seguito fin qui, grazie a chi mi ha messo in qualche lista e un grande grazie a chi mi ha lasciato un commento!^^




Capitolo 2

MacFarland aprì lentamente gli occhi. C’era una luce grigiastra e priva di ombre. L’aria era pesante, caliginosa, carica di umidità e di un tanfo greve di fumo e corpi smembrati.
In bocca aveva un sapore metallico che non era solo sangue: c’erano bile, ferro, polvere da sparo e il sentore di marcio della giungla, che trasudava direttamente dalla terra rossa su cui stava appoggiando la faccia.
Tese l’orecchio: c’erano i soliti versi di animali, ma c’erano anche delle voci. Frasi brevi, ordini secchi ai quali faceva seguito qualche lieve tramestio.
La lingua non era l’inglese.
A una certa distanza echeggiò una detonazione.
Il soldato si forzò a rimanere immobile. Attraverso le palpebre socchiuse, vide un Vietcong aggirarsi con una pistola in mano tra i corpi stesi a terra. Un ferito si mosse appena, il vietnamita puntò l’arma e sparò due colpi. L'americano sussultò sotto l’impatto delle pallottole e poi rimase immobile.
Altri Vietcong si stavano allontanando con casse di materiale, oppure raccoglievano le armi e le munizioni che erano rimaste sparse in giro.
MacFarland conosceva quel comportamento: una fase lenta e tre veloci. I Charlie pianificavano attentamente, ma attaccavano, combattevano e successivamente abbandonavano la zona dello scontro nel minor tempo possibile.
Continuò a osservare.
I vietnamiti si spostavano tutti verso due o tre zone e da lì non ricomparivano. Anche i materiali rubati facevano lo stesso tragitto, a loro volta scomparendo senza lasciare traccia.
Non si stavano dirigendo verso la giungla, quanto piuttosto verso l'interno della base.
Un Charlie si mosse nella sua direzione. Guardò in giro, raccolse qualcosa vicinissimo a lui, poi tirò fuori la pistola e tolse la sicura.
MacFarland cercò di fare il vuoto in mente, come se i suoi pensieri avessero in qualche modo avuto il potere di rivelare al muso giallo che non era morto.
Il Vietcong puntò la pistola, sparò due colpi facendo sussultare un corpo a pochi passi da lui, poi rinfoderò l’arma e si allontanò con aria soddisfatta.
Il soldato lo seguì con lo sguardo fintantoché esso rimase nel suo campo visivo, poi si limitò ad ascoltare: ci furono qualche altro ordine, tramestii, rumori di legno spaccato e successivo cozzare di metallo. Altre figure passarono cariche di roba e scomparvero sempre negli stessi punti.
MacFarland ripensò a Dak To. Dove le avevano prese i Charlie tutte le bombe che avevano scaricato addosso alle postazioni americane? Dai cinesi e dai russi, certo, ma anche da razzie come quella che avevano appena portato a termine.
Si udì un lamento, una voce implorò qualcosa, seguirono due spari. Arrivò una ragazzetta che sembrava non più che quindicenne, con l’espressione cattiva e un M-16 in mano. Lo scrutò con l’aria di chi sta cercando di indovinare sotto quale delle tre tazzine si trova la moneta, poi alzò l’arma e la puntò nella sua direzione.
Alle sue spalle, qualcuno disse qualcosa. Lei si girò e rispose, la replica fu un ordine secco.
La ragazzina sbuffò e per dispetto fece partire una raffica, che dilaniò ulteriormente un corpo già straziato che giaceva vicinissimo a MacFarland. Al gesto fecero seguito delle risate e qualcosa che aveva il suono di un motto scherzoso.

Passò un tempo imprecisato. Il sole nel frattempo si stava alzando e su tutta la zona cominciava a gravare la consueta calura insopportabile. L’aria era immobile e conservava il tanfo di fumo e sangue, qua e là crepitava ancora qualche focolaio di incendio. Corpi e rottami erano disseminati ovunque.
MacFarland deglutì con fatica. L’arsura lo tormentava, il sole gli bruciava la pelle. Ricordava il colpo ricevuto, ma intorpidito dalla lunga immobilità non riusciva a capire quanto fossero gravi le sue ferite.
Ormai il silenzio regnava ovunque, i suoni della giungla stavano pian piano riprendendo tutto il loro primordiale vigore. Un uccellaccio dalle zampe lunghe atterrò sul piazzale e cominciò a girare becchettando qua e là. Quando rialzava la testa, aveva invariabilmente qualcosa di rosso nel becco.
Il soldato tese adagio i muscoli e con qualche smorfia di dolore cercò di muoversi. Sentiva male dappertutto, ma da nessun punto del suo corpo si irradiava il tipico dolore bruciante che faceva seguito a una pallottola.
Il che voleva dire tutto e niente, naturalmente. Aveva visto gente talmente anestetizzata dall’adrenalina e dallo stress da non accorgersi nemmeno che aveva perso qualche arto.
Si alzò in piedi, l’uccellaccio emise uno strido e volò via.
Vide una distesa di morti. Tutti i feriti erano stati finiti, tutto ciò che poteva avere qualche valore era stato portato via. In meno di tre ore, i Charlie avevano fatto piazza pulita di qualsiasi cosa.
Fece qualche passo incerto, si toccò cercando di capire se e quanto era ferito. Tossì e sentì in bocca una nuova ondata di sapore ferroso. Forse mi hanno colpito a un polmone, pensò con una strana indifferenza.
Emise un sospiro. Ricordava i discorsi dei suoi commilitoni sul ritorno a casa, sulla vita che avrebbero condotto dopo il Vietnam. Conosceva i loro progetti, le loro aspirazioni. Alcuni gli avevano anche mostrato fotografie di quello che li aspettava una volta che sarebbero finalmente stati lontano dalla guerra: fidanzate, macchine, case, amici…
Prese a camminare per la base. Nella calma di morte che regnava ovunque, i suoi passi echeggiavano sinistri.
Si imbatté nelle spoglie di Rosales. Qualcuno aveva infierito sul suo corpo in una maniera tale che persino lui, che aveva visto i massacri di Khe Sanh, dovette distogliere lo sguardo.
Si augurò che fosse già morto quando gli avevano fatto quello che stava vedendo.
Raggiunse la mensa e involontariamente deglutì al pensiero che lì dentro ci fosse qualcosa in grado di calmare l’arsura che lo stava divorando. Le razioni militari erano state perlopiù portate via, ma un po’ d’acqua era rimasta. La tracannò con tale foga che a un certo punto dovette interrompersi ansante. Inspirò due o tre volte, tossì e poi riprese a bere.
Quando si fu dissetato, tornò all’esterno. La calura si era fatta ancora più intensa, i corpi cominciavano a gonfiarsi. Nugoli di mosche ronzavano ovunque, un altro uccellaccio si alzò in volo gracchiando.
MacFarland si sedette su una cassa vuota, appoggiò i gomiti sulle cosce e il volto fra le mani. Il torace cominciava a fargli male, anche se la ferita doveva aver smesso di sanguinare. Considerò che Dio, se esisteva, doveva essere davvero un fine umorista: tutti quei ragazzi, che smaniavano per tornare a casa, erano morti. Lui invece, che era rientrato in anticipo dall’ultima licenza perché a casa si sentiva una specie di marziano, era ancora vivo.
Di nuovo fece scorrere lo sguardo sui corpi e a quel punto si accorse che alla base di una catasta di casse c'era un buco nel terreno. Fino a quel momento non l’aveva notato perché la catasta era sempre stata coperta da un telo mimetico, ma durante la battaglia esso era finito bruciato o strappato e il buco si vedeva molto bene.
Si avvicinò e si chinò per osservarlo: era largo circa due piedi e di profondità imprecisata. Realizzò che tutt’intorno c’erano contenitori vuoti, come se qualcuno avesse estratto le armi dalle casse di legno che le contenevano per portarle via più agevolmente.
Si rialzò pensoso. Li conosceva, quelli erano i tunnel dei Charlie. Sotto Saigon, a Chu Chi, ne avevano trovati di così profondi che nemmeno le bombe ordinarie dei B-52 erano riuscite a distruggerli.
Guardò di nuovo nel buco. Lì dentro erano finite armi che avrebbero ucciso altri ragazzi come quelli della base. Bravi ragazzi, che non chiedevano altro che di tornarsene a casa alla fine del loro turno in Vietnam.
Si voltò verso l’ingresso della base. Da una delle torrette pendeva un corpo, una strisciata di sangue ormai nero macchiava tutto il fianco della struttura. Entro breve sarebbe arrivato qualcuno, magari avrebbero anche chiamato i Tunnel Rat, che sarebbero scesi là sotto alla ricerca di Charlie, ma Charlie sarebbe stato già chissà dove, a ridersela degli americani, terribilmente soddisfatto al pensiero che li avrebbe uccisi con le loro stesse armi.
Di nuovo fece scorrere lo sguardo in giro, poi lo fissò sull'ingresso della galleria che si apriva ai suoi piedi. Poteva immaginare cosa ci fosse là sotto: trappole esplosive, buche piene di bambù appuntiti, scorpioni, strettoie... sapeva che i Tunnel Rat, quando scendevano nelle gallerie, si davano il cambio in testa alla formazione a ogni incrocio, perché nel pur breve tragitto quello che stava davanti aveva già rischiato abbastanza.
Ripensò a casa. Anche i Tunnel Rat speravano di tornaci, prima o poi.
A lui, invece, non importava.

§

La galleria, di terra battuta e alta poco più di tre piedi, si perdeva nel buio. Per lunghi secondi MacFarland si limitò a osservarla in silenzio, facendo scorrere sulle pareti scabre il fascio di luce della torcia. Qualsiasi cosa che si discostasse dalla normalità poteva celare una trappola: un'asperità sul pavimento, un muro troppo liscio o troppo irregolare, oggetti apparentemente dimenticati.
Tese l'orecchio e gli parve di udire, fioco e lontanissimo, un vago tramestio. Con la quantità di roba che si erano portati via, per forza di cose i Charlie dovevano procedere lentamente. Se avesse avuto la fortuna di non saltare su qualche booby trap, avrebbe anche potuto raggiungere la retroguardia del gruppo che aveva assaltato la base.
Dio li aiuti se succede,” disse a mezza voce, “perché farò esattamente come loro: non ne lascerò uno vivo.”
Poi l'avrebbero ammazzato, certo, ma fanculo.
La torcia nella sinistra e un Ka-Bar nella destra, la Colt 1911 in fondina, prese ad avanzare cauto.
Gli bastò poco per imbattersi nella prima trappola. Un piccolo corrugamento che attraversava il fondo di terra battuta lo fermò meglio di come avrebbe potuto fare un muro di mattoni. Vi avvicinò cauto la punta del pugnale e si accorse che si trattava del bordo di un pezzo di cartone, posizionato su una buca e appena coperto da uno strato di sabbia. Lo sollevò: sotto c'era una fossa larga quasi come la galleria e piena di bambù appuntiti, sporchi di feci e materiale putrescente. Se ci fosse finito dentro e non fosse morto per le ferite, sarebbe stata la cancrena assicurata.
Aggirò la fossa, spense la torcia e si accucciò. L'aria conservava una vaga traccia di sudore e olio per armi, le pareti erano percorse dall' impercettibile fremito di decine di piedi in movimento.
Lontano, davanti a lui, baluginò per un istante un debole sprazzo di luce giallastra.
MacFarland si mantenne immobile, limitandosi a stringere la presa sul pugnale. Come lui sentiva il loro odore, anche loro sentivano il suo: odore di sangue, del cibo americano che trasudava dai suoi pori e della sporcizia che aveva addosso.
Strinse gli occhi, colse di nuovo quello che doveva essere un tremolio di candela. Qualcuno, là in fondo, stava scrutando il buio esattamente come faceva lui. Probabilmente percepiva la sua presenza, ma non riusciva a localizzarlo.
Rimase immobile.
La luce di candela si spostò nel tunnel, rivelando la figura esile di un Charlie all'apparenza disarmato. Dava l'idea di essere appena un ragazzo, anche se non era mai facile attribuire un'età ai musi gialli.
Scattò in avanti, coprì in pochi balzi la distanza che lo separava da lui, lo rovesciò all'indietro approfittando della propria maggiore mole e mentre gli teneva una mano sulla bocca gli immerse il pugnale nel petto fino all'elsa. Rimase addosso a lui finché non lo sentì esalare l'ultimo respiro, quindi raccolse la candela, che nel frattempo era rotolata da una parte ma era rimasta accesa, recuperò il pugnale e proseguì fino a un bivio.
L'odore nelle gallerie era più intenso, nel buio si coglievano innumerevoli lievissimi rumori, un fruscio di abiti, l'eco di un respiro, un tramestio che era più che altro un vibrare appena accennato del pavimento.
Non lontano c'era gente.
Abbandonò a terra la candela, si spostò in una zona d'ombra. Poco dopo sentì una voce sussurrare qualcosa in tono interrogativo.
Rimase immobile.
La domanda si ripeté più pressante, alla mancata risposta fece seguito un confabulare rapido.
Passarono lunghi secondi di immobilità, quindi, silenziosi come ombre, sbucarono nel tunnel due Charlie.
MacFarland balzò in avanti, afferrò il più vicino per la sciarpa che portava al collo e mentre lo tirava verso di sé per impedirgli di scappare, aprì la gola dell'altro con un fendente.
Il primo estrasse a sua volta un pugnale, gli si aggrappò addosso con l'intenzione di colpirlo, egli si fece indietro schiacciandolo contro la parete, la lama gli baluginò vicino all'occhio, poi la candela si spense e si trovarono nelle tenebre più complete. Caddero a terra, il soldato vibrò un colpo su qualcosa di morbido, sentì una mano aggrapparglisi addosso, colpì una seconda volta e finalmente l'avversario ricadde inerte.
Si arrischiò a fare un po' di luce e vide brillare rasoterra, a pochi passi di distanza, il filo di una mina a strappo.
Lo oltrepassò con cautela, quindi spense nuovamente la torcia e rimase in ascolto, ma i corridoi erano perfettamente silenziosi.

Avanzò per un tempo imprecisato, un passo dopo l'altro, rannicchiandosi a ogni impressione di rumore, controllando ogni asperità sospetta di muri e pavimento.
Si accorse che la volta delle gallerie si stava alzando, tanto che ormai riusciva a camminare quasi eretto. Mentre prima faceva fatica a far passare le spalle, ora doveva allargare le braccia per toccare le pareti. In fondo al tunnel che stava percorrendo brillava una debole luce giallastra.
Di nuovo si appiattì e rimase in ascolto: voci, rumori. Toni tranquilli, addirittura rilassati. Gente che con ogni probabilità si aspettava tutto fuorché il suo arrivo.
Fece qualche altro passo, la luce divenne più intensa.
Sostò un attimo per abituare gli occhi, poi raggiunse la fine della galleria. A quel punto aderì alla parete mantenendosi in copertura, poi azzardò uno sguardo al di là: c'erano due Charlie di guardia in una camera circolare su cui si aprivano vari cunicoli. Una parte del materiale proveniente dalla base era ancora lì. Mentre osservava, sbucarono da una galleria dei tizi che raccolsero ciascuno un po' di roba e poi scomparvero in un'altra.
La cosa si ripeté varie volte. Nessuno parlava, tutti sembravano sapere esattamente cosa fare. Solo una delle due sentinelle disse qualcosa a un certo punto, provocando un breve scoppio di risa.
Immediatamente uscì da un altro cunicolo un Charlie che dava l'idea di essere un comandante o qualcosa del genere. Alla vista del nuovo arrivato, tutti si irrigidirono e immediatamente calò il silenzio. L'uomo, sopracciglia aggrottate, espressione dura, disse qualcosa in tono di rimprovero, indicò verso l'alto, probabilmente alludendo agli invasori imperialisti, e tutti annuirono e chinarono la testa.
Il lavoro riprese.
MacFarland rimase immobile. Il rischio di essere scoperto lo rendeva teso, ma solo perché poi non avrebbe più potuto ammazzare nessun altro. Per quanto riguardava lui, aveva abbandonato l'idea di uscire da quei tunnel nel momento stesso in cui ci era entrato.
Spostò lo sguardo verso la galleria da cui era arrivato il graduato: di sicuro far fuori un tizio del genere avrebbe creato più danni che abbattere fantaccini qualsiasi.
Aspettò che la camera circolare si svuotasse, poi abbandonò il suo nascondiglio e scrutò nella galleria da cui l'uomo si era affacciato. Era buio, ma nel silenzio che regnava ovunque si percepiva l'eco di più voci.
Vi si addentrò. Le voci si fecero più definite, gli parve che fossero quelle di quattro o cinque persone. Ne colse anche una femminile.
Si palpò velocemente le tasche dell'uniforme e ne trasse un fazzoletto da naso. Ne strappò due sottili strisce con i denti, le appallottolò alla meglio e se le premette nelle orecchie per evitare che gli spari gli facessero saltare i timpani, quindi tirò fuori dalla fondina la Colt 1911 e tolse la sicura.
Si avvicinò ancora. Sulla parete della galleria si proiettava un mobile alone di luce e il tono della conversazione, per quanto gli giungesse ovattato, non aveva elementi di allarme.
Erano belli tranquilli.
Impugnò la pistola a due mani e si lanciò in avanti.
Vide un tavolo coperto di mappe con della gente intorno. C'erano mappe anche alle pareti e una lampada a petrolio che pendeva dal soffitto basso. Delle armi erano appese in giro.
Sparò, nonostante i pezzi di stoffa nelle orecchie la detonazione lo fece rintronare. Uno dei tizi crollò all'indietro. Sparò di nuovo, due colpi in rapida successione, la donna si stava alzando, ma le pallottole la intercettarono a metà del gesto, sbattendola contro la parete. Una mappa del Vietnam del sud rimase penzoloni fradicia di sangue. Vide un tizio staccare l'AK-47 dalla spalliera della sedia, puntò la pistola nella sua direzione, sparò ancora. Beccò il quarto alla schiena mentre cercava di scappare.
Si fermò poi ansante nella stanza ormai piena di fumo. Probabilmente sarebbe stato meglio tagliare la corda, di sicuro gli spari avevano messo tutti in allarme, eppure non resisté alla tentazione di dare un'occhiata a quello che c'era sul tavolo.
Fece scivolare a terra il corpo di uno dei quattro, che vi era rimasto sopra riverso, poi si chinò a guardare: trovò una dettagliata mappa della sua base, comprensiva del contenuto dei vari magazzini, uno schema dei turni di guardia e uno dei percorsi di ronda.
Figli di puttana,” bofonchiò.
Continuò a osservare: una mappa della zona, con alcune basi cerchiate di rosso. Oltre a essere cerchiata di rosso, la sua era anche sbarrata da una croce, la qual cosa gli suggerì che l'assalto portato a termine fosse il primo di una serie.
Sollevata anche quella carta, MacFarland trovò qualcosa che gli fece emettere un fischio di meraviglia: c'era una mappa dettagliata al millimetro di tutti i tunnel della zona. Ogni galleria, ogni cavità, ogni trappola. “È una fottuta città,” non poté fare a meno di mormorare.
Tornò alla cartina con le basi, la piegò alla meglio e se la ficcò in una tasca dei pantaloni, poi prese quella dei tunnel e la ficcò nell'altra. Fatto questo agguantò una bussola di produzione americana che era lì in giro e intascò anche quella, poi diede un colpo alla lampada a petrolio, che si spaccò e sparse dappertutto il combustibile incendiato. Le carte rimaste cominciarono a bruciare.
Il soldato fissò per qualche secondo le fiamme che si levavano sempre più alte, quindi ghignò: “Adesso scoprite quali ho portato via, Charlie di merda.”
Percorse in senso opposto il breve corridoio e quasi si scontrò con un Viet che correva a sedare l'incendio. Gli piantò il Ka-Bar nella pancia, lo estrasse, lo piantò una seconda volta. Il muso giallo cadde a terra.
Lo scavalcò e sbucò nella camera rotonda. L'ambiente si stava riempiendo di fumo, qualcuno stava accorrendo con dei secchi d'acqua. Altri, armi alla mano, si guardavano intorno alla ricerca degli odiati Tunnel Rat.
Approfittando della scarsa visibilità, MacFarland sgusciò verso il tunnel che aveva percorso all'andata.
Accese la torcia per cercare il filo della booby trap. Non lo trovò, ma incalzato da un rabbioso vociare, non si soffermò sulla faccenda.
Non c'erano neppure i cadaveri dei Charlie che aveva fatto fuori: nella concitazione si disse che sicuramente li avevano già portati via.
Quando non trovò più nemmeno la bocca di lupo con i bambù appuntiti realizzò che aveva preso il tunnel sbagliato, e che solo per un incredibile colpo di fortuna non aveva ancora messo il piede su qualche trappola mortale. A quel punto si fermò e si guardò alle spalle, ma colse un baluginare fioco in lontananza: impossibile tornare indietro.
Strinse i denti. Sentiva contro le cosce lo spessore delle due mappe, ripiegate in fretta e alla meno peggio pur di poterle portare via. Ripensò alla battaglia, allo scenario che si era trovato davanti al sorgere del sole.
Rivide il corpo mutilato di Rosales.
Si voltò di nuovo verso il fondo del tunnel: qualcuno era già sulle sue tracce, la luce si stava facendo di attimo in attimo più intensa.
Riprese ad avanzare, sondando il terreno con la punta del coltello alla ricerca di possibili trappole.
Dopo un po' che procedeva, si accorse di un baluginare in lontananza di fronte a lui. Si immobilizzò: non era il chiarore giallastro di una fiamma. Era bianco, quasi azzurrato. Era naturale.
Si impose la calma: quello non era il momento di mettersi a correre per raggiungere un'ipotetica uscita.
Si rimise in movimento e infatti dopo pochi passi incontrò una copertura fatta di assi sottili appena spolverata di terra rossiccia. Ne sollevò una e la sua torcia illuminò una bocca di lupo piena di spuntoni acuminati.
Emise il fiato che aveva involontariamente trattenuto durante l'operazione, quindi aggirò l'ostacolo e rimise al suo posto l'asse.
Andò avanti. Man mano che procedeva, la luce andava facendosi più intensa. Era poco più che un debole chiarore, ma a lui, ormai da ore abituato al buio completo o all'esile pennello di luce della torcia schermata, sembrava quella di una lampada operatoria.
Il tunnel finì in una specie di slargo rotondeggiante, sulla cui volta si trovava uno sportello di legno. Dalle commessure tra le assi filtrava la luce del giorno.

MacFarland si issò rapido all'aperto, richiuse la botola da cui era uscito e cercò di mascherare ogni traccia del suo passaggio.
Quando ebbe finito, si guardò intorno tergendosi il sudore che gli imperlava il viso. Le fronde degli alberi erano così fitte che il cielo non si vedeva. Filtrata dallo spesso fogliame, la luce del sole era verde come sul fondo di uno stagno. Dappertutto vi era un lussureggiare di vegetazione, un sovrapporsi di palme, rampicanti, cespugli, erbe e tronchi, di ogni sfumatura di verde. Le cortecce erano coperte di muschio, il terreno era un tappeto di vegetali marcescenti e fango. Dalle cavità degli alberi sporgevano ciuffi di felci, da ogni ramo pendevano tralci di edera e liane.
L'aria era umida, pesante, immobile. Mille odori si mescolavano per comporre un sentore greve e putrido, che si appiccicava addosso come un abito bagnato.
Ovunque c'erano suoni di animali, e nugoli di insetti talmente densi che l’aria appariva opaca. Un serpentello color smeraldo saggiò l’aria con la lingua biforcuta, si lasciò cadere da un ramo e scomparve silenziosamente in una macchia di arbusti.
Il soldato si guardò intorno. Quanto poteva essere lontano dal punto in cui era entrato nei tunnel? La verità era che non ne aveva idea: camminare carponi nelle tenebre più complete non era esattamente il modo migliore per calcolare distanze e orientamenti.
In preda a uno strano presentimento, di colpo sollevò la testa e strinse gli occhi cercando di concentrarsi. Qualcosa in alto balzò con uno strido di ramo in ramo, un uccello si levò in volo emettendo un verso allarmato. MacFarland adocchiò un banano le cui foglie larghe arrivavano fino a terra: vi si infilò sotto, quindi raccolse qualche manciata di fango e se la spalmò addosso. Si accucciò in un mucchio di rami fradici e sfoderò il Ka-Bar.
Attese, normalizzando il ritmo del respiro e ignorando tutti i segnali di disagio che il suo corpo dolorante, esausto e assetato gli inviava. Cercò di farsi tutt’uno con l’albero sotto il quale si era nascosto, di fondersi con la sua corteccia, di annullare la propria umanità in favore di una nuova identità animale e selvatica.
Passarono lunghi secondi, poi cominciò a sentire dei passi leggeri in avvicinamento. Scrutò attraverso le foglie: due Vietcong armati di M-16 si stavano aggirando cauti.
Uno fece cenno all’altro di fermarsi, poi silenziosamente gli indicò la botola. L’altro annuì con fare consapevole.
Immobile, il respiro ridotto al minimo, il fango che gli si seccava sulla pelle, MacFarland osservava, cercando di farsi un’idea degli avversari. Sembravano due ragazzi, ma al solito era difficile dare un’età ai Charlie. Uno dei due continuava a guardarsi intorno con le sopracciglia aggrottate e le labbra strette. Si muoveva nervoso e teneva il dito sullo scatto dell’arma, pronto a far partire una raffica.
L’altro dava l’idea di essere più tranquillo, o forse solo più ansioso di tornare indietro. Scostò un ramo con la canna dell’M-16 e poi lo lasciò ricadere, producendo un fruscio che fece voltare di scatto il compagno.
MacFarland, immobile come il tronco contro cui era appoggiato, attese.
I due girarono lì intorno un altro po’, ma alla fine, delusi, si risolsero ad abbandonare la zona.
Il soldato non si mosse. Sempre con il vuoto in mente, seguì con lo sguardo una lucertola che camminava lungo un ramoscello, osservò un ragno scendere lentamente da un filo di seta e poi scomparire nella corolla di un fiore.
Scrutò di nuovo l'ambiente attraverso le fessure tra le foglie, ma tutto sembrava tranquillo. Si arrischiò a uscire.
La giungla era immobile, afosa e madida. Dava l'idea di un immenso corpo abbandonato nel sonno, nelle cui pieghe si sarebbe mosso sperabilmente non visto.
Sfilò dalla tasca dei pantaloni la mappa dei tunnel e prese a studiarla con attenzione. Conoscendo il punto in cui era sceso, tenendo conto del numero di intersezioni che aveva oltrepassato, forse sarebbe riuscito a capire in che punto della giungla era uscito.




Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Gente, ecco fatto: abbiamo finito anche questo mappazzone!^^
Un grazie a tutti quelli che mi hanno seguito, ricordato o preferito. Un ringraziamento particolare a tutto coloro che mi hanno lasciato un parere!





Capitolo 3

MacFarland appoggiò una mano a un tronco e si passò il dorso dell’altra sulla fronte. Il sudore gli scendeva a gocce dalle sopracciglia, dalla punta del naso e dai capelli, gli scorreva giù per il collo, gli inzuppava la maglietta. Staccò la mano dall’albero e torse un lembo dell’indumento, facendone colare gocce lattiginose. Abbassò gli occhi sui propri pantaloni, incrostati fino a sopra le ginocchia di un fango tenace, che li appesantiva e li rendeva viscidi sulla pelle.
A quel punto si passò anche la mano sulla schiena, dove pulsava un dolore sordo e intenso, tastando cautamente alla ricerca di lesioni. Forse i Charlie non gli avevano bucato un polmone, forse era stato soltanto un colpo di striscio.
Si pulì la mano sui pantaloni e realizzò che il palmo si era lasciato dietro nel movimento una strisciata rossa.
Alzò le spalle. Non che gli importasse, per la verità.
L’unica cosa di cui gli importava era far fuori il maggior numero possibile di quei bastardi.
Portò la mano alla tasca in cui conservava la mappa della zona, ma una sensazione di allarme lo pervase, facendo sì che il movimento rimanesse a metà. Si guardò intorno, cercò di cogliere qualche variazione nei suoni e nei movimenti che lo circondavano. Si rifugiò in una macchia di felci e di nuovo raccolse foglie fradice e fango da passarsi addosso.
Si appiattì e attese.
Silenziosi come ombre, sopraggiunsero due uomini: erano snelli, piccoli, dalla muscolatura nervosa. Si guardavano intorno come animali selvatici, sembrava stessero addirittura fiutando l’aria. I lineamenti orientali conferivano ai loro volti affilati un’espressione tesa e dura.
Per quanto fosse stato attento a non lasciare segni di sé, MacFarland era consapevole che non avrebbe potuto far perdere le sue tracce a Vietcong nati e cresciuti nella foresta. Estrasse lentamente il pugnale.
I due continuavano a guardarsi intorno. Non parlavano fra loro, ma si scambiavano rapidi segni, indicandosi l’un l’altro ciò che ritenevano significativo.
Immobile e coperto di fango, il soldato non li perdeva d’occhio. Se i Charlie erano arrivati fin lì, esattamente dietro il suo culo, era chiaro che sapevano o perlomeno intuivano dove si trovava. Probabilmente non l’avevano ancora visto solo perché era riuscito ad accorgersi in tempo del loro arrivo, ma la base era ancora lontana, e anche se fossero andati via, di sicuro non avrebbe avuto per la terza volta la fortuna di sentirli arrivare in tempo.
Li osservò attentamente: gente esperta, che sapeva come muoversi. Borracce completamente piene, armi cariche. Niente che sbattesse o producesse rumore nelle sacche che avevano a tracolla.
Diede una seconda occhiata alle borracce e si leccò le labbra.
Uno dei due Charlie si avvicinò, si piegò con le sopracciglia aggrottate. Fece un gesto per chiamare il compagno, che subito fu al suo fianco.
I due si scambiarono brevi cenni, poi uno fece l’atto di aggirare il cespuglio nel quale MacFarland era nascosto.
Il soldato balzò in avanti, rovesciando all’indietro il più vicino dei due Vietcong. Questi si divincolò come un felino ed egli se lo vide sgusciare fra le dita. Lo riafferrò per un lembo della casacca, se lo tirò contro. Colse il baluginare di una lama ed evitò per un soffio un fendente al collo. “Figlio di puttana,” ringhiò. Colpì a sua volta con il più pesante Ka-Bar, poi venne sbilanciato in avanti dall’attacco del secondo Charlie. Si girò rapido, senza abbandonare la presa sugli abiti del primo, colpì prima con un fendente e poi dal basso verso l’alto, strappandogli un gemito soffocato e mandandolo a rotolare a terra con le mani premute sul ventre.
Il primo vibrò un’altra pugnalata, la lama gli strisciò sul costato producendogli un taglio. Si fece indietro, il Charlie lo incalzò con un altro colpo, egli sottrasse bersaglio saltando di lato, quindi impugnò l’arma con una presa rovescia e gliela calò sulla schiena dall’alto verso il basso, facendola penetrare fino all’impugnatura.
Il Charlie cadde a terra faccia in avanti, lui gli puntò il piede sul dorso e fece forza per estrarre il Ka-Bar, quindi tornò dall’altro, che nel frattempo aveva smesso di muoversi. Ad ogni buon conto, lo afferrò per i capelli, gli tirò indietro la testa e gli tagliò la gola.
Si rialzò ansimante e con una smorfia di dolore si toccò il costato, dove il coltello l’aveva ferito. Ne ritrasse la mano sporca di sangue.
Frugò i due corpi alla ricerca di qualcosa di utile, ammucchiando da una parte le due borracce, qualche pacchetto di medicazione, un involto con dentro un po’ di riso, due M-16 e relativi caricatori.
Tracannò il contenuto di una delle borracce fino all’ultima goccia, si applicò un pacchetto di medicazione sulla ferita e se ne ficcò un altro paio in tasca, mangiò il riso e scelse il migliore dei due M-16. Estrasse il caricatore all’altro e se lo mise in tasca assieme al resto della roba, quindi tolse l’otturatore e lo lanciò più lontano che poteva.
A quel punto, tirò da una parte i due corpi e l’equipaggiamento rimasto e ricoprì tutto di terra e foglie, poi si mise la borraccia ancora piena a tracolla e il fucile a spall’arm. Controllò ancora una volta la sua posizione con la bussola e riprese la marcia.

Era ormai l’imbrunire quando si accorse che tra le radici contorte di un immenso ficus si trovavano le vestigia di un edificio. Si avvicinò cauto: mangiata dai licheni e dalle intemperie, coperta di muschio, vi era una costruzione di pietra grigia in cui si vedevano ancora i resti di sculture e decorazioni. Si distingueva una figura femminile in piedi a lato della porta, sembrava vestita con un abito lungo e teneva qualcosa fra le mani. Dall’altro lato dell’ingresso doveva essercene una uguale, ma le radici secolari l’avevano probabilmente già da tempo sbriciolata.
Erano ancora visibili gli architravi scolpiti dell’edificio, pareti coperte di bassorilievi e un pavimento di pietre ormai affogato sotto uno strato di foglie e detriti. Più oltre si vedevano altre costruzioni, così coperte di muschio e rampicanti da sembrare, nella luce che ormai andava scemando, non più che scuri cumuli di terra. Su altre erano cresciuti enormi alberi e le radici, grigie e contorte, si confondevano con gli elementi architettonici.
L’M-16 imbracciato, MacFarland prese a camminare adagio tra gli antichi edifici. Il cielo stava sbiadendo verso il tramonto, l’aria si faceva meno calda. Rasoterra si stava raccogliendo una lieve nebbia. Il frusciare di ali membranose rompeva il silenzio estatico che stava calando ovunque.
Il soldato raggiunse una specie di cortile rettangolare, al centro del quale si trovava una fossa che un tempo doveva essere stata una piscina, punteggiata di innumerevoli fiori di loto bianchi e rosa. Sull’acqua scura si rifletteva un edificio solenne, con un’alta torre centrale e due laterali più piccole. La vegetazione ne ricopriva la maggior parte, ma qua e là si coglievano ancora i sorrisi remoti dei Buddha che guardavano ai quattro punti cardinali.
Passo dopo passo, meravigliato dall’insolito spettacolo, il soldato si avvicinò all’imponente costruzione. La porta principale gli rivolgeva un muto invito.
Egli la oltrepassò ed entrò in un piccolo cortile. Il rigoglio della giungla sembrava aver risparmiato il luogo, liane e rampicanti pendevano dagli edifici che circondavano lo spiazzo, ma lasciavano libero il selciato.
Entrò in una delle stanze che si aprivano sul cortile. Il vano era vuoto, ovviamente, ma era comunque appartato rispetto all’immensità della giungla. Egli si sedette in un angolo dal quale avrebbe potuto tenere d’occhio la porta, quindi appoggiò la schiena contro la parete, poggiò accanto a sé l’M-16, emise un lungo sospiro e chiuse gli occhi.

Si svegliò tempo dopo con la sensazione di non essere più solo. Si guardò intorno, cercando di scorgere qualcosa nella penombra che ormai cancellava ogni particolare, e identificò alcune sagome umane. La sua mano scattò a recuperare l’M-16.
Non c’è bisogno di quello,” disse una voce conosciuta.
MacFarland si addossò maggiormente alla parete. “Carver?” mormorò. “Ma tu non puoi essere vivo. Io ho visto quello che ti hanno fatto i Charlie. Non puoi essere vivo.”
Infatti non lo sono.” Il padrone della voce si fece avanti e MacFarland dovette faticare per non distogliere lo sguardo.
E allora… allora cosa ci fai qui?” Il soldato deglutì faticosamente. “Non dovresti essere qui.”
Volevo vederti.”
MacFarland deglutì. In quella penombra vagamente nebbiosa, lo spettacolo offertogli dal suo commilitone era ancora più orribile. Con voce roca, gli disse: “Mi dispiace per quello che è successo, ok?”
Carver fece un gesto di noncuranza. “Ah, lascia perdere, non è stata colpa tua.”
Ma io non ero al mio posto quando sono arrivati i Charlie, non sono riuscito ad avvertirti.”
Eri a trasportare le munizioni del mortaio, dico bene?”
Come fai a saperlo?”
Carver alzò le spalle in un gesto che poteva significare molte cose. MacFarland mantenne lo sguardo rivolto a terra, perché ogni volta che lo alzava su di lui era invaso dall’orrore. Infine chiese: “Cosa fai qui, Bobby?”
L’altro fece una risata, che dato il modo in cui era ridotto uscì stranamente liquida e gorgogliante. “Volevamo vederti,” disse. “Ci siamo tutti. Io, Sam, Dave, Harry… Harry fa un po’ fatica. È finito su una mina, se ti ricordi.” Fece un’altra risata.
Alle sue spalle nel frattempo andava addensandosi una folla macilenta e sanguinante. A qualcuno mancavano pezzi, altri erano sfigurati.
State lontano,” balbettò MacFarland. Cercò di indietreggiare, ma era già con la schiena contro il muro. Si alzò lentamente in piedi come per scappare, ma era circondato.
Volevamo solo dirti di non metterti a ronfare così in mezzo alla giungla,” lo informò Sam. “Charlie ti fotte di brutto, se ti becca a ronfare.”
Si fece avanti un altro soldato coperto di sangue, con spuntoni di bambù piantati ovunque. “Esatto,” confermò. “Come me, vedi?”
Johnny!” esclamò MacFarland fissandolo inorridito.
Proprio io,” rispose l’altro con aria soddisfatta.
Va’ via. Andate via, per favore!” Si coprì il volto con le mani.
Perché? Non ci vuoi più bene? Non siamo più i tuoi compagni di plotone?”
Andate via, vi prego!”
Si ristabilì il silenzio. MacFarland riabbassò le mani e vide solo una stanza vuota e polverosa, fiocamente illuminata dai raggi della luna che filtravano attraverso i rami.
Fuori c’era un uccello che emetteva un richiamo lungo e triste, gli insetti ronzavano e frinivano. Si udì poco lontano lo schiocco di un geco in cerca di preda.
Il soldato emise un sospiro e si rannicchiò nuovamente alla base della parete, in una zona d’ombra. Estrasse la pistola dalla fondina e se la pose sulle ginocchia.

§

L’alba arrivò con una luce lattiginosa e priva di colore. La foschia ammantava ogni cosa, strisciava sul terreno e rendeva vaghe e indistinte le cime degli alberi.
MacFarland fece qualche passo nell’erba intrisa di rugiada e si strofinò il viso con le mani. Il fango con cui le aveva coperte, ormai ridotto a polvere, gli fece bruciare gli occhi. Il soldato osservò la patina brunastra e screpolata che ormai lo ricopriva ovunque ed ebbe quasi l’impressione che essa lo stesse impregnando come faceva l’acqua su un terreno poroso.
La giungla ti entrava dentro e non usciva più.
Ti rimaneva dentro per tutta la vita.
Tirò fuori la mappa e la studiò, riconobbe i templi in cui aveva trascorso la notte. La cosa lo rincuorò, perché gli dava un'ulteriore conferma di aver scelto la direzione giusta. Dalle rovine alla base non c'era molta distanza, ma entro un paio di miglia la foresta avrebbe ceduto il posto alle risaie. La cosa non gli piacque per nulla: risaie significava villaggi, quindi gente. Se nel corso delle missioni SAD aveva imparato a nascondersi nella giungla come i Charlie, nello spazio aperto dei campi coltivati non sarebbe stato altrettanto facile evitare di essere visto.
Non toccò la medicazione sul costato, che probabilmente si era già appiccicata al taglio che ricopriva, né si occupò della ferita che aveva sulla schiena. Ci avrebbe pensato, se mai, una volta giunto a destinazione. Soppesò la borraccia ancora piena, riguardò sulla mappa la distanza da percorrere, svitò il tappo del recipiente e bevve fino a che si non fu dissetato, quindi abbandonò il resto.
Controllò la pistola e l'M-16, si accertò che il Ka-Bar fosse facilmente raggiungibile, quindi riprese la marcia.
Non ci volle molto perché la vegetazione cominciasse a cambiare. Gli alberi si fecero più radi, il sottobosco meno fitto. I versi di animali diminuirono.
Non più schermato dal tetto verde della foresta, il sole picchiava.
Anche l'aria aveva cambiato odore: al sentore greve di acqua stagnante e foglie morte si sostituiva un vago aroma di fiori ed erba tagliata, screziato qua e là di fumo di legna. A un certo punto gli parve di sentire anche l'eco lontana di un gridare di bambini.
I villaggi non dovevano essere distanti.
Raggiunse il limitare della boscaglia, si appiattì tra le fronde di un cespuglio e da lì rimase per lunghi minuti a osservare le risaie di un verde intenso, attraversate qua e là da sentieri rossicci di terra battuta. Di tanto in tanto il sole baluginava sull'acqua sottostante, dando l'idea che qualcosa di prezioso fosse nascosto sotto i folti steli del riso.
MacFarland ghignò. L'unica cosa che poteva essere nascosta lì sotto era una mina antiuomo, esattamente come quella che aveva fatto saltare le gambe al povero Harry Williams.
Vide passare in lontananza un paio di contadini che conducevano un bufalo d'acqua. Più oltre si levava un esile filo di fumo. Nell'aria immobile si coglieva un remoto vibrare di pale d'elicottero.
Mantenendosi sul margine della boscaglia, si mise in marcia. Si impose di non farsi prendere dalla fretta: era proprio in vicinanza dell'obiettivo che si facevano le maggiori stronzate, quelle che facevano saltare gambe e braccia, o quelle che attiravano proiettili di mortaio e frotte di Charlie incazzati.
Si chiese, a proposito di Charlie, se quelli dei tunnel avessero capito cos'aveva preso. Fece mente locale: probabilmente i Viet si erano già accorti dei due che aveva ammazzato nella giungla. Data la posizione in cui ciò era accaduto, non dovevano averci messo molto a capire quale fosse la sua destinazione.
Si chiese che idea si fossero fatti di lui: lo credevano semplicemente un povero grugno disperso che tentava di raggiungere il suo reparto o avevano intuito che era riuscito a mettere le mani su qualcosa di importante?
Meccanicamente si palpò la tasca in cui aveva infilato la mappa dei tunnel, quindi fece scorrere di nuovo lo sguardo sulle risaie: tranquilli campi, in apparenza, che però potevano contenere trappole mortali.
Le radio le avevano anche i Charlie, e se davvero avevano capito che cosa aveva trovato, da lì in poi sarebbe stato l'inferno.

I rumori di elicottero si erano fatti più intensi e frequenti, non doveva mancare molto alla base.
Di nuovo si immobilizzò: il villaggio di cui aveva scorto il fumo era emerso dalla vegetazione. Si vedeva la gente che svolgeva le faccende quotidiane, c'erano un paio di bambini che giocavano. Un battere ritmico faceva pensare che qualcuno stesse preparando pali di legno per edificare una capanna.
Sempre che non li stessero preparando per impalare qualche americano: quando avevano trovato Carver avevano scoperto che i Charlie erano capaci anche di quello.
Si ributtò nel folto della macchia.
Procedette adagio per un po’, acquattandosi a ogni rumore sospetto, imponendosi l'attenzione e la lentezza laddove l'istinto gridava di coprire l'ultimo tratto che lo separava dalla meta il più in fretta possibile.
D’improvviso echeggiò non lontana una raffica di M-16. Alla prima ne seguì un’altra e poi una cacofonia di spari e urla. Un'esplosione diffuse ovunque l'odore caratteristico del Comp B.
Si mosse in quella direzione e quasi subito vide una nuvola di fumo allargarsi tra le piante del sottobosco. Sentì qualcuno urlare.
Una sagoma verde gli passò davanti agli occhi. Si girò in quella direzione e vide un marine con i gradi di caposquadra cadere a terra prono. Il corpo sussultò e poi rimase immobile, una pozza rossa gli si allargò sotto con impressionante velocità. Altri sparavano nella boscaglia, ma sembravano presi dal panico a tal punto che rischiavano quasi di colpirsi a vicenda.
Al riparo di un tronco, MacFarland li osservò: reclute. Gente appena arrivata, probabilmente, che fino a quel momento aveva visto Charlie solo nei documentari di propaganda.
Un biondino aveva perso l’elmetto e assurdamente lo cercava, più preoccupato di ritrovare quello che del Viet che gli stava puntando contro un AK-47.
Il soldato si lanciò in avanti estraendo nel movimento la Colt 1911, afferrò il ragazzo e lo buttò a terra, quindi si rigirò fulmineo e sparò al Vietcong. Non perse tempo a controllare le condizioni del marine, saltò in piedi e urlò: “Ripiegare, ripiegare!”
Afferrò un'altra recluta per la collottola, la strappò indietro. Un altro colpo di pistola, poi cilecca. Abbandonò l’arma scarica, si fece scivolare dalla spalla l’M-16, sventagliò una raffica nella boscaglia. Si udirono delle urla.
Ripiegare!” ripeté.
Pur nel panico, i ragazzi sembrarono dargli retta. Gli si strinsero intorno, uno addirittura gli chiese: “Cosa facciamo, signore?”
Ripiegare, ho detto!” ripeté MacFarland, poi il suo udito allenato colse un rimbalzo metallico. “A terra!” urlò con quanto fiato aveva in gola, si gettò addosso al ragazzo che gli aveva parlato per ultimo e lo buttò all’indietro con il proprio peso.
L’esplosione gli risucchiò l’aria dai polmoni, l'onda d'urto lo colpì come un poderoso maglio. Un nugolo di schegge arroventate gli straziò il corpo.

Signore?” chiese una voce incerta. Una mano tremante gli infilò una sigaretta accesa fra le labbra.
MacFarland aspirò il fumo, tossì e una fitta di dolore gli attanagliò il torace. Era sdraiato da qualche parte, c’era il rumore di un motore. Sopra la sua testa scorrevano i rami degli alberi. “Devo raggiungere la base,” mormorò con voce roca. “La base, subito.”
Una mano gli strinse appena il braccio. “È là che stiamo andando, signore. Lei ha bisogno di cure.”
Il soldato sbatté gli occhi infastidito dalla luce che filtrava attraverso le foglie, di nuovo tossì, poi debolmente rispose: “Fanculo le cure, ho informazioni importanti da comunicare.”
Ma signore...”
E non chiamarmi signore, sono un grugno come te. Devo consegnare una mappa al comandante della base.”
Il cielo si fece azzurro, le fronde erano finite. “Stiamo uscendo dalla giungla, signore,” lo informò premuroso uno dei ragazzi.
MacFarland riuscì quasi ad abbozzare un pallido sorriso. “Una volta che ci sei entrato, dalla giungla non esci più. Ti rimane dentro.”
Chiuse gli occhi.

§

Immobile sull’attenti, Morley Hatfield – il biondino – abbassò lo sguardo, un po’ per proteggersi dal sole, ma un po’ anche perché aveva gli occhi lucidi e non voleva che gli altri se ne accorgessero.
Cerò di concentrarsi sulle parole del comandante della base: “...atto di coraggio e ardimento a rischio della propria vita e al di là del richiamo del dovere mentre impegnato in uno scontro con un nemico degli Stati Uniti...”
Niente sacco nero per quel soldato: avevano fatto venire una bara apposta da Saigon.
Avevano messo ovunque bandiere a stelle e strisce, ma mancava il vento e tutte quante pendevano come stracci bagnati.
...Medaglia d’Onore del Congresso...”
Hatfield si morse un labbro. Rivide il momento in cui quel soldato coperto di fango, con gli occhi azzurri che brillavano nel volto sudicio, era balzato fuori dalla boscaglia e aveva salvato la vita a lui e a tutta la squadra.
Sbatté di nuovo le palpebre e deglutì cercando di vincere il groppo che gli serrava la gola.
Il comandante finì il discorso. Fu suonato il silenzio, tutti si irrigidirono nel saluto militare mentre il feretro veniva sollevato e deposto sul pianale di uno Huey.
Le pale dell’elicottero cominciarono a girare, dapprima lentamente e poi sempre più veloci. Si alzò la polvere, le bandiere si animarono. Dal palco del comandante frusciarono via i fogli del discorso.
Lo Huey si sollevò traballando, prese quota.
Il biondino sentì una lacrima rotolargli lungo la guancia. Girò lo sguardo e si accorse che anche i suoi compagni di squadra stavano faticando a trattenere la commozione.
L'elicottero, ormai alto nel cielo azzurro, si allontanava velocemente. La polvere sollevata dalle pale aleggiava ancora intorno, le bandiere pendevano di nuovo immote.
Silenziosa, la giungla aspettava.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3830005