Alabama's Monster

di MackenziePhoenix94
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: 911 ***
Capitolo 2: *** Prima Parte: Adolescence ***
Capitolo 3: *** Blood Pact ***
Capitolo 4: *** Blackmail ***
Capitolo 5: *** Hypnotherapy ***
Capitolo 6: *** Acne, They Called It ***
Capitolo 7: *** The Wonderful World Of Teenage Girls ***
Capitolo 8: *** Ava ***
Capitolo 9: *** 'F' ***
Capitolo 10: *** Teddy? ***
Capitolo 11: *** Chains ***
Capitolo 12: *** Seconda Parte: St. Clair E. Donaldson ***
Capitolo 13: *** Adaptability ***
Capitolo 14: *** The Price To Pay (Parte Uno) ***
Capitolo 15: *** The Price To Pay (Parte Due) ***
Capitolo 16: *** Natural Habitat ***
Capitolo 17: *** Terza Parte: Alabama's Monster ***
Capitolo 18: *** Just A Coincidence ***
Capitolo 19: *** False Move (Parte Uno) ***
Capitolo 20: *** False Move (Parte Due) ***
Capitolo 21: *** Dangerous Enemy ***
Capitolo 22: *** The Wolf's Lair ***
Capitolo 23: *** Get Together ***
Capitolo 24: *** The Big Move ***
Capitolo 25: *** Quarta Parte: Susan ***
Capitolo 26: *** Heartache ***
Capitolo 27: *** Perfect Man ***
Capitolo 28: *** Perfect Week ***
Capitolo 29: *** Perfect Family ***
Capitolo 30: *** End Of A Dream ***
Capitolo 31: *** Quinta Parte: Fox River's Serpent ***
Capitolo 32: *** Fox River's Lion ***
Capitolo 33: *** Screwed ***
Capitolo 34: *** Hierarchy ***
Capitolo 35: *** Fresh Meat ***
Capitolo 36: *** Pretty ***
Capitolo 37: *** Settling Of Accounts ***
Capitolo 38: *** Hyena And Antelope ***
Capitolo 39: *** Epilogo: Goodnight, Doctor ***



Capitolo 1
*** Prologo: 911 ***


Nessun essere umano nasce con il dono della preveggenza.

A nessuno di noi è dato sapere in anticipo quando la propria vita cambierà per sempre.

Spesso, poi, accade nel corso di una normale giornata, che non ha nulla di diverso da tante altre.


 
“Ragazzino, mangia subito tutto quello che hai nel piatto”.

Smetto di giocherellare con la forchetta che ho in mano e guardo l’uomo che ha appena parlato, seduto a capotavola.

“Lo farei” rispondo, poi, per nulla intimidito “ma questa poltiglia informe ha lo stesso odore di una carcassa in putrefazione”.

Non vedo l’uomo alzarsi e non lo vedo neppure raggiungermi in pochi secondi, ma sento la sua mano destra schiantarsi con violenza contro il mio viso, spaccandomi il labbro inferiore: cado a terra, picchiando con forza la schiena sulle assi di legno, mentre cerco d’interrompere il flusso di sangue che si sta già riversando sulla maglietta che indosso.

Percepisco il suo gusto ferroso anche contro il palato e, anziché sputarlo, lo deglutisco insieme alla mia stessa saliva.

“Sei un ragazzino insolente che non sa stare al suo posto. Un ragazzino insolente, stupido proprio come la madre. Come diceva quel vecchio detto? Tale madre tale figlio?” urla lui, sovrastandomi, con il volto paonazzo dalla rabbia e l’alito che puzza già di birra ed altri superalcolici; mi afferra per un braccio, costringendomi ad alzarmi prima di ricominciare con la sfuriata “non sei neppure in grado di preparare un pranzo decente. Non combinerai mai nulla di buono nella tua vita, lo sai? Non combinerai mai nulla. Adesso vai in cucina a lavare i piatti e non azzardarti a rompere qualcosa, altrimenti dovrai vedertela di nuovo con me”.

Non rispondo alle minacce, non gli lascio neppure la soddisfazione di vedermi tremante e con gli occhi lucidi di lacrime, mi limito a rivolgergli uno sguardo carico di odio prima di prendere i piatti, i bicchieri ed il resto delle posate, e sparire in cucina.

Pulisco ogni oggetto con cura e lo ripongo al proprio posto prima di prendere un vassoio e posizionarci sopra un piatto colmo di una zuppa fumante, dall’odore e dall’aspetto molto più invitanti della poltiglia informe.

Prendo il vassoio e salgo le scale che conducono al primo piano; abbasso la maniglia di una porta aiutandomi con il gomito destro ed entro in una camera da letto completamente vuota, ad eccezione di una donna: se ne sta seduta sul materasso e guarda un albero che sorge al di là dell’unica finestra presente nella stanza.

Ha le braccia avvolte attorno alle ginocchia, premute contro il petto, ed i lunghi capelli castani le scendono in tante ciocche arruffate e disordinate, fino a metà schiena.

Prendo posto a mia volta sul materasso e mi schiarisco la gola, per attirare la sua attenzione; si gira verso di me, ma non so se mi vede veramente, perché i suoi occhi sono distratti e lontani, persi in chissà quale dimensione fantastica.

In realtà, credo che non sappia neppure chi sono.

“Mamma, è ora di pranzo. Ti ho portato la zuppa di carote, la tua preferita” mormoro.

Lei sorride ed io, nonostante tutto, mi ritrovo a ricambiare.

La imbocco pazientemente, perché a causa di una grave malattia non è in grado di mangiare in modo autonomo; mi occupo anche di pettinarle i capelli con cura, prima di scendere le scale e tornare in salotto.

L’uomo che ha contribuito alla mia nascita sta guardando qualcosa in TV, probabilmente una partita di rugby,  ed ai suoi piedi c’è già un piccolo esercito di lattine completamente vuote; mi ordina di andare in cucina a prendergliene un’altra di birra ghiacciata, ma quando gli volto le spalle, dalla sua bocca esce un verso strozzato, seguito da una richiesta d’aiuto sottoforma del mio nome.

Lo vedo alzarsi dalla poltrona, portarsi la mano destra al petto e poi crollare a terra, completamente immobile.

Sbatto le palpebre più volte prima di scavalcare il corpo e avvicinarmi al telefono, posizionato sopra un piccolo tavolino: sollevo la cornetta nera e premo tre semplici tasti.

Nove.

Uno.

Uno.

Quasi subito risponde la voce femminile di una centralinista.

“Noveunouno, qual è la sua emergenza?” domanda, in tono piatto.

“Una persona ha appena avuto un collasso” rispondo, altrettanto tranquillamente “ma non c’è alcuna fretta per l’ambulanza. Credo sia troppo tardi ormai”.



 
Quando i soccorsi arrivano, appena una decina di minuti più tardi, non si limitano a caricare e coprire il corpo sopra ad una barella, ma portano via anche mia madre e me.

Non so con esattezza per quale motivo lo fanno, forse a causa delle scarse condizioni igieniche che regnano nella casa dei miei genitori.

O, forse, perché non ci vuole un genio a capire che qui dentro c’è qualcosa che non va; qualcosa di profondamente sbagliato.

Resto in osservazione in ospedale per un’intera notte e solo la mattina seguente ricevo la visita di una persona a me familiare: zia Margaret.

“Come stai?” domanda, scompigliandomi i capelli con la mano destra “mi dispiace essere venuta così tardi, ma i dottori non mi hanno permesso di entrare prima. Sei pronto ad andare? Ti porto a casa”

“Sto bene. Dove si trova mia madre? Che cosa le hanno fatto?”

“Ti spiegherò tutto in macchina”.

Meg mantiene la parola data e, non appena occupa il posto del guidatore, mi spiega con chiarezza e con parole semplici quale è la situazione: l’uomo che mi ha messo al mondo ha avuto un infarto; mia madre, invece, è stata trasferita in una clinica privata.

“In una clinica privata? Stai parlando di quelle strutture in cui imbottiscono i pazienti di medicinali per tutto il giorno affinché sia più semplice occuparsi di loro? Mia madre non può stare in un posto simile, ha bisogno di me. Ho quattordici anni, non sono un bambino, sono in grado di occuparmi di lei” protesto, senza sprecare una sola parola per il bastardo.

Perché ha avuto esattamente ciò che meritava.

“Proprio perché hai quattordici anni e sei ancora un ragazzino non puoi farlo, Teddy. Ti prometto che tua madre riceverà le migliori cure possibili. Mi occuperò io di pagare la retta mensile della clinica, è il minimo che possa fare”

“Quando potrò andare da lei?”

“Molto presto” risponde Meg, senza mai staccare gli occhi dalla strada davanti a sé “ma non oggi”.

Mi lascio ricadere contro lo schienale in pelle del sedile e sospiro.

Ho l’impressione che non vedrò mia madre per molto tempo.



 
Appena scendo dalla macchina, vengo raggiunto da un ragazzo che mi abbraccia con trasporto, facendomi quasi cadere all’indietro.

È mio cugino James.

Io e lui siamo molto simili; oltre all’età condividiamo anche gli stessi occhi scuri e gli stessi capelli castani.

“Sono contento di vederti, Teddy, hai fame? Vuoi mangiare qualcosa?”

“D’accordo” mi limito a rispondere, acconsentendo, anche se ho lo stomaco completamente chiuso: so che cosa sta facendo James; cerca di distrarmi in qualunque modo possibile e sono sicuro che è stata zia Margaret a chiederglielo.

Ho la conferma a questa supposizione durante la notte, quando io e James siamo coricati sotto le coperte: mentre fingo di dormire, sento Meg entrare nella stanza e sussurrare poche parole al figlio, per non essere sentita da me.

“Cerca di stare vicino a tuo cugino in qualunque modo possibile” gli dice “si trova in una situazione molto particolare e delicata. Ha bisogno di tranquillità e di avere a suo fianco persone che gli vogliono davvero bene”.
 
 

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Capitolo 2
*** Prima Parte: Adolescence ***


Zia Margaret non è solo una donna bellissima, è anche molto intelligente e forte.

Ha solo un punto debole: gli uomini.

Sfortunatamente è sempre caduta tra le braccia di soggetti poco raccomandabili, quasi perennemente attaccati ad una lattina di birra e con la tendenza ad alzare facilmente le mani.

A sedici anni si è innamorata per la prima volta, a diciotto è scappata di casa per sposarsi ed a ventuno è rimasta incinta di James, il suo primo ed unico figlio; il matrimonio, però, è durato pochi mesi ed è terminato lo stesso giorno in cui suo marito l’ha colpita, con un pugno in pieno viso, a causa di una bistecca troppo al sangue.

Il secondo marito, addirittura, si è spinto perfino a picchiare James, spaccandogli in testa un portacenere di vetro, sempre a causa di un motivo futile.

Nessuno, in città, ha più rivisto i due uomini e c’è chi, a bassa voce, ancora adesso insinua che in realtà non hanno mai abbandonato la casa di Meg e che i loro corpi sono ben nascosti in una fossa in giardino, o all’interno del congelatore che c’è nel capanno degli attrezzi.

Ovviamente sono tutte enormi cazzate: la gente parla perché ha la bocca per farlo, sopratutto in una piccola città del Sud come Conecuh County, dove non accade mai nulla d’interessante.

Tuttavia io e mio cugino evitiamo accuratamente di avvicinarci al congelatore.

“Stiamo andando da mia madre?” le domando, mentre saliamo in macchina, la sua risposta non tarda ad arrivare e frantuma in un solo secondo tutte le mie speranze.

“No, non stiamo andando da lei”

“E dove siamo diretti?”

“Non te lo posso dire”

“Tutta questa segretezza è assolutamente ridicola” commento, incrociando le braccia all’altezza del petto; continuo a fissare lo specchietto retrovisore, ma zia Margaret evita accuratamente il mio sguardo accusatore fino a quando non arriviamo a destinazione.

Attraverso insieme a lei un enorme parcheggio, ma quando siamo a pochi passi di distanza da un edificio completamente bianco mi blocco all’improvviso; Meg se ne accorge e torna subito da me, con la gonna che svolazza leggermente all’altezza delle ginocchia.

“Che succede? Perché ti sei fermato?” domanda, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio destro.

Non rispondo.

 Corro in direzione della macchina, entro nel piccolo abitacolo e blocco le portiere appena in tempo per impedire a Meg di spalancarne una; prova a tirare più volte tutte le maniglie, ma alla fine si arrende e inizia a battere le mani contro uno dei finestrini, urlandomi di scendere subito.

“No!” grido a mia volta “ho capito dove mi stai portando. Ho capito che cos’è quell’edificio. Io non ho bisogno di vedere uno strizzacervelli”.

A questo punto lei si blocca, non prova neppure ad inventare una bugia, ed il suo silenzio è proprio la conferma che stavo aspettando.

“Theodore Bagwell, se non apri subito le portiere della mia macchina giuro che ti metterò in punizione per tutto il resto della tua vita. Sono stata abbastanza chiara?”

“Meglio! Preferisco essere in punizione per tutto il resto della mia vita piuttosto che andare da uno strizzacervelli. Sono stati i dottori a dirti che devo vedere uno specialista? Non ne ho bisogno. Sto benissimo ed il mio cervello funziona perfettamente. Preferisci credere a me o ad un uomo che hai visto una sola volta per qualche minuto?”

“Se apri questa macchina possiamo parlarne con più calma, Teddy, altrimenti mi rifiuto di dare delle spiegazioni ad un bambino che continua a fare i capricci”.

Cedo al suo ricatto ed esco finalmente dalla macchina, sbattendo con forza la portiera.

Appoggio entrambe le mani sui fianchi e mi preparo allo scontro verbale.

“Avanti. Ti ascolto”

“La situazione è questa: se vuoi vivere con me e James, devi essere seguito da uno psicologo per alcuni mesi”

“Per quale motivo?”

“Teddy…” sospira Margaret, visibilmente imbarazzata, molto probabilmente perché non sa come continuare il discorso o perché non sa trovare le parole più adatte “quando i soccorsi sono arrivati a casa tua hanno… Hanno trovato una situazione molto particolare, e proprio per questo motivo hanno portato in ospedale anche tua madre e te. I dottori hanno provato a salvare tuo padre, ma non ci sono riusciti, così si sono concentrati su Audrey ed hanno subito capito che per lei non c’era altra soluzione, se non il trasferimento in una clinica specializzata in casi come il suo. Per il momento sei stato affidato a me, ma devi andare uno psicologo che valuterà che cosa sarà meglio per te”

“Stai dicendo che uno sconosciuto dovrà decidere se per me è meglio vivere con mia zia e mio cugino o essere affidato ad un’altra famiglia? Questo… Questo non ha assolutamente alcun senso. E se vengo affidato a degli estranei come potrò vedere mia madre? Io non… Io non capisco. Non capisco questo ragionamento. Io sto bene con voi. Siete i miei unici parenti. Io non…”

“Teddy… Teddy… Teddy, calmati” mormora mia zia; lascia cadere a terra la borsetta che ha con sé ed appoggia entrambe le mani sulle mie guance per rassicurarmi “anche se c’è questa eventualità, faremo di tutto perché non diventi concreta. Tu devi semplicemente rispondere alle domande dello psicologo, io penserò a tutto il resto. D’accordo?”.

Annuisco, solo per non farla preoccupare ulteriormente, prima di seguirla dentro la struttura.

L’interno, se possibile, è ancora più disgustoso dell’esterno: ogni cosa è quasi completamente bianca e nell’aria aleggia l’odore di prodotti sterilizzanti, gli stessi utilizzati nei reparti ospedalieri.

Resto in sala d’attesa, in silenzio, fino al momento in cui una giovane donna, probabilmente un’infermiera, legge il mio nome da una cartellina rigida per poi condurmi in un piccolo Studio.

Meg mi rivolge un sorriso d’incoraggiamento pochi istanti prima che la porta venga chiusa con un tonfo sordo, ma serve a ben poco.

“Accomodati”.

A parlare è un uomo seduto dietro ad un’elegante scrivania: indossa un lungo camice bianco e nella mano destra impugna già una penna per prendere chissà quali appunti, sicuramente in base alle mie risposte; il suo viso magro, i capelli grigi e gli occhiali dalle montature nere mi provocano subito una profonda irritazione ed antipatia nei suoi confronti.

Indica un lungo divanetto nero su cui io mi sdraio, ma prima che possa dire altro lo interrompo, alzando la mano destra.

“So per quale motivo mi trovo qui” dico, senza lasciar trasparire alcuna emozione dal mio viso “mia zia mi ha spiegato ogni cosa mentre eravamo nel parcheggio. Io sto bene con lei e mio cugino, non sono intenzionato ad andare a vivere in una famiglia di completi sconosciuti, sono stato chiaro?”

“Si, Theodore, sei stato molto chiaro. Ma devi lasciare a noi esperti il compito di valutare che cosa è meglio per te” risponde prontamente lo psicologo, con un sorriso che ai miei occhi appare viscido; ero sicuro che avrebbe pronunciato parole simili, e così sorrido a mia volta ed incrocio le braccia all’altezza del petto.

“Benissimo. Allora non sentirà una sola parola uscire dalle mie labbra durante il corso di ogni singola seduta”.

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Capitolo 3
*** Blood Pact ***


A tutti capita di avere degli incubi durante la notte.

Nella maggior parte dei casi, al momento del risveglio non se ne conserva neppure il minimo ricordo; ma ci sono incubi che restano impressi chiaramente nella mente di una persona, marchiati a fuoco, e sono gli stessi che ti fanno spalancare gli occhi nel buio più totale, con il fiato ansante e in un bagno di sudore.

Da quando mi sono trasferito da mia zia succede quasi ogni notte, ed ogni volta riesco a premere entrambe le mani contro la bocca prima che un urlo possa uscire contro la mia volontà: non voglio dare spiegazioni a Margaret e James, perché sarei costretto a raccontare ciò che vedo nei miei incubi.

Ed io per primo voglio solo dimenticarli.

Continuo a ripetermi che passerà, che è solo un periodo, ma quando arriva la mattina quelle scene sono ancora ben nitide nella mia mente e faccio fatica a tenere gli occhi aperti.

“Che cosa ti succede, Teddy? Hai un’aria distrutta. Hai dormito poco?” domanda Meg, una mattina, mentre facciamo colazione: appoggia l’indice destro sotto il mio mento e lo solleva leggermente “hai delle ombre scure sotto gli occhi, ti stai ammalando?”

“Sto benissimo” rispondo, in modo scontroso, sottraendomi alla sua presa “non riesco a dormire a causa del caldo. Lasciami in pace”

“D’accordo, non insisto, ma ti devo chiedere una cosa prima di uscire”.

Ritorno a guardare Margaret: solo adesso mi rendo conto che indossa un abito, ed un cappellino completamente neri.

“Si?”

“Io e tuo padre non siamo mai andati d’accordo, ma dal momento che sono l’unica parente ancora in vita, ho dovuto assumermi l’incarico di organizzare il funerale. Tu e James volete venire?”

“Se fossi in lutto per la perdita dell’uomo che ha contribuito alla mia nascita, non credi che avrei versato delle lacrime? Mi hai mai visto piangere in questi giorni, zia?”

“D’accordo. Tornerò il prima possibile, se volete andare al  lago o nel bosco fate attenzione e non separatevi mai. Se sentite qualche rumore strano, tornate subito a casa, va bene? Non fatemi preoccupare, al mio ritorno voglio trovarvi esattamente come ora: in cucina, senza lividi, graffi o tagli”

“Si, generale, ai suoi ordini” rispondo, facendo l’imitazione di un saluto militare; Meg finalmente si lascia scappare un sorriso, saluta me e James e poi esce di casa “andiamo al lago?”

“Vuoi pescare? Vado a prendere le canne nel capanno degli attrezzi?”

“No, lascia stare. Oggi niente pesca. Ho voglia di fare una semplice passeggiata”.



 
Il laghetto non è molto distante dalla casa di mia zia: per raggiungerlo bisogna percorrere un piccolo sentiero di sassi e ghiaia che passa affianco a due campi di grano; le spighe sono così alte che superano sia me che James di almeno una decina di centimetri.

Quando arriviamo a destinazione, ci sediamo sulle assi di legno del pontile che conduce al centro della pozza d’acqua, ed entrambi lasciamo dondolare le gambe al di là del bordo, con le suole delle scarpe che sfiorano appena la superficie trasparente.

“Hai visto? Guarda!” esclama Jimmy, dopo qualche minuto di silenzio, indicandomi un gruppo di pesciolini che passa velocemente affianco a noi: le squame rosse brillano sotto la luce del sole, in un gioco di luci ed ombre “te lo avevo detto che dovevamo prendere le canne da pesca!”

“Questi pesciolini possono andar bene per un acquario. Sono altri quelli perfetti per essere cucinati. Fai attenzione, Jimmy”.

Frugo all’interno di una tasca dei pantaloni e prendo un coltello a serramanico che porto sempre con me: premo la lama affilata contro la pelle del mio palmo destro e subito si forma un lungo taglio rosso; stringo la mano a pugno e poi lascio ricadere alcune gocce di liquido scarlatto in acqua.

Io e mio cugino attendiamo in silenzio che accada qualcosa e poco dopo appare un grosso pesce nero, attirato dall’odore del sangue; James si lascia scappare un fischio impressionato e allontana le scarpe dall’acqua, spaventato da un possibile attacco.

“Avevi ragione, Teddy”

“Vuoi provare anche tu?”.

Trascorriamo il resto della mattinata al laghetto, cercando di attirare quanti più pesci possibili con il nostro sangue; quando torniamo a casa, abbiamo appena il tempo di disinfettare e bendare le ferite prima del rientro di zia Margaret.

I suoi occhi scuri si posano subito sulle garze e sul flacone di disinfettante, e le domande non tardano ad arrivare.

“Che cosa è successo? Che cosa avete fatto?”

“Abbiamo fatto una passeggiata al laghetto. Al ritorno ho proposto di fare una gara di corsa e siamo caduti entrambi sui sassi. È stato solo un piccolo incidente, stiamo entrambi bene. Non è così, James? Dillo anche tu”

“Si, mamma, ha ragione Teddy. È un piccolo taglio”

“Avrebbero potuto essere ferite molto più serie. E se uno di voi si rompeva una gamba che cosa avreste fatto? Come avreste potuto contattarmi?”

“Avrei corso fino al primo negozio ed avrei chiesto di fare una telefonata. In ogni caso non è successo nulla di grave, quindi questa discussione è inutile, zia, non credi?” rispondo prontamente, scrollando le spalle.



 
“Teddy, perché hai detto quella bugia?” domanda mio cugino, quando entrambi siamo coricati a letto.

“Hai visto quanto era preoccupata tua madre. Pensa come avrebbe potuto reagire se avessi raccontato la verità. A volte, James, siamo costretti a dire qualche piccola e innocua bugia” mormoro; mi alzo dal letto, prendo il coltellino a serramanico e torno a sedermi a gambe incrociate sul materasso: sciolgo le bende e premo nuovamente la lama contro il taglio, che ha iniziato a rimarginarsi, e subito esce un rivolo scarlatto.

Sento James trattenere rumorosamente il fiato quando avvicino il viso alla ferita e lecco il sangue fresco.

“Perché lo hai fatto?” mi chiede poi, sbattendo le palpebre.

“Non lo so, ero semplicemente curioso. Vuoi fare un patto di sangue?”

“Un patto di sangue? Che cos’è?”

“Una promessa che dura per tutta la vita, a cui non ci si può sottrarre. Se due individui fanno un patto di sangue, sono indissolubilmente legati l’uno all’altro. Tutto quello che bisogna fare è bere o mischiare il sangue di queste due persone. Se non te la senti di assaggiarlo, possiamo limitarci a mischiarlo, il legame non sarà meno forte”

“D’accordo”

“Dammi il palmo destro”.

Jimmy non esita neppure un istante a porgermi la mano con il palmo rivoltò all’insù: taglio le bende, passo la lama sulla ferita e congiungo le nostre mani, stringendo la sua con forza.

“Adesso che cosa si fa?”

“Adesso bisogna scambiare la promessa” sussurro, deglutendo “James, giurami che qualunque cosa accada, tu rimarrai sempre a mio fianco, ed io farò lo stesso con te. Qualunque cosa accada”

“Te lo giuro”

“Lo giuro anche io” sospiro, sciolgo la presa e osservo il mio palmo, quasi completamente rosso “è meglio se andiamo in bagno a ripulire tutto, prima che tua madre ci scopra”.
 

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Capitolo 4
*** Blackmail ***


“Che cosa ti preoccupa, Theodore?”.

La domanda, formulata dal mio psicologo, mi riporta spiacevolmente alla realtà: giro leggermente il volto verso sinistra e guardo l’uomo, che si limita a fare lo stesso da dietro la sua scrivania.

“Come?”

“Hai i muscoli del viso completamente tesi, che cosa ti preoccupa? Lo sai che sei qui per parlarmi di qualunque cosa” risponde lui, e fa una cosa che mi sorprende: appoggia la penna che ha in mano sulla scrivania e chiude il taccuino; evidentemente deve aver intuito il nervosismo che quei due oggetti provocano in me “quante sedute abbiamo fatto finora? Quattro? Cinque? Tutte nel più totale silenzio. Non ti ho mai costretto a parlare, ma non credi che sia arrivato il momento di farlo? Se c’è qualche peso che ti tormenta… Anche la più piccola sciocchezza… Io sono qui per questo. Sono qui per ascoltare tutto quello che non hai il coraggio di confessare a tua zia o a tuo cugino”

“Io non sono un codardo e non ho alcuna intenzione di pronunciare una sola parola davanti ad uno sconosciuto che crede di essere il padrone del mio destino”

“Sei davvero convinto che il silenzio ti aiuterà ad ottenere quello che vuoi?”

“Che cosa vuoi dire?” chiedo, corrucciando le sopracciglia.

“Potrei interpretare il tuo silenzio come il segno che stai nascondendo qualcosa di grave che non vuoi rivelare a nessuno, neppure al tuo psicologo, e questo potrebbe spingermi a considerare in modo più concreto la possibilità di darti ad una famiglia affidataria” spiega, in tono tranquillo; spalanco gli occhi, perché anche se sono solo un ragazzino, so riconoscere benissimo una minaccia “ma forse possiamo trovare un punto d’accordo per evitare tutto questo, giusto? Forse posso offrirti un compromesso in cambio di sentire qualche parola uscire dalla tua bocca”.

Mi mordo la punta della lingua ed impreco mentalmente.

La mia stessa arma mi si è appena rivolta contro: non posso uscire da questa situazione perché mi trovo con le spalle contro il muro, tutto ciò che posso fare è cercare di volgerla a mio vantaggio.

“Se vuole sentire la mia voce c’è solo un modo” dico, allora, senza mai smettere di guardarlo negli occhi “voglio vedere mia madre. Tutti i giorni, per almeno un’ora. E inizierò a parlare dopo il primo incontro, quindi farà meglio ad organizzarlo il prima possibile”.

L’uomo scoppia a ridere dopo aver ascoltato le mie parole, si toglie gli occhiali e si passa entrambe le mani sul viso.

“Pensi di essere tu a dettare le regole, Theodore? Hai appena quattordici anni ed è chiaro che non hai la minima idea di come funziona il mondo. Posso farti vedere tua madre, ma solo un giorno a settimana, e se il tuo mutismo continuerà, le visite s’interromperanno bruscamente. Per sempre”

“Non sta parlando seriamente. Non può impedirmi di vedere mia madre!”

“Io posso fare tutto ciò che ritengo essere giusto per il tuo futuro, Theodore, e se questo comprende anche impedirti di vedere tua madre, allora lo farò”.

Mi mordo nuovamente la punta della lingua e stringo le mani a pugno: vorrei picchiare lo psicologo, ma sarebbe una mossa troppo stupida, che porterebbe con sé conseguenze irrimediabili.

Chiudo gli occhi, provo a rilassarmi e mi ritrovo costretto ad accettare le sue condizioni.

“D’accordo, accetto. Vedrò mia madre una sola volta a settimana, ma inizierò a parlare dopo il primo incontro. Su questo sono categorico” sussurro, sforzandomi di sorridere.

Vedrò mia madre, alla fine è questo ciò che conta veramente.



 
Quando arriva il giorno della visita, mentre sono in macchina, decido di confessare a zia Margaret cosa si nasconde dietro il permesso che sono riuscito ad ottenere, soffermandomi in particolar modo sul ricatto che ho ricevuto dallo psicologo.

Sorprendentemente non ricevo alcun appoggio da parte sua, anzi, si schiera in modo fermo da quella dell’uomo.

“Ha fatto bene” commenta, scuotendo la testa “ti ha ripagato con la tua stessa moneta, Teddy. Tu sei un ragazzino che si diverte a giocare ad essere un adulto, ma non è così”

“Non puoi essere dalla sua parte! Mi ha minacciato! Hai ascoltato le parole che ti ho detto? Mi consente di vedere mia madre una sola volta a settimana e se non inizio a parlare…”

“Ed io ti ripeto, Teddy, che hai avuto esattamente quello che meritavi. Sai che cosa significa ‘tirare troppo la corda’? Tu lo hai fatto: la corda si e spezzata e non può essere riparata” m’interrompe Meg, alzando la voce; si pente subito della reazione brusca che ha avuto, sospira e torna a parlarmi con voce più calma e tranquilla “si tratta solo di pochi mesi. Cerca di resistere. E quando tutto sarà finito, potrai vederla tutte le volte che vorrai, d’accordo? Io non sono intenzionata a tenerti lontano da tua madre, tesoro, ma finché sarai seguito da quel dottore non posso fare nulla”

“Mamma ha ragione” interviene James, che fino a questo momento ha ascoltato l’intero litigio in silenzio, con le braccia avvolte attorno ai fianchi “devi solo portare pazienza per pochi mesi. Se dirai al dottore esattamente quello che vuole sentirsi dire, ogni cosa finirà il prima possibile: tu potrai stare con noi e vedrai tua madre quando vorrai”

“Ma non capite che non è così semplice?” grido, esasperato, passandomi entrambe le mani nei capelli “non capite che quel dottore non mi farà mai stare con voi? Sono sicuro che mi darà in affidamento a qualche famiglia lontana da qui! Magari perfino lontana dall’Alabama!”

“Ci penseremo tra qualche mese” risponde mia zia, parcheggiando la macchina “siamo arrivati”.



 
È dura stare lontani da una persona che si ama e, quando arriva il momento del ricongiungimento, tutto ciò che si desidera è abbracciare quella persona e non abbandonarla mai più.

Purtroppo io non posso farlo.

E non si tratta solo del fatto che ho appena un’ora a settimana a mia disposizione per stare con lei.

Mia madre è affetta da un grave deficit mentale: non solo non è in grado di badare in modo autonomo a sé stessa, ma non sa neppure di avere un figlio.

“Ehi…” mormoro, prendendo posto in una sedia posizionata affianco al suo letto “scusami se non sono venuto prima a farmi visita, ma non me lo hanno permesso”.

Lei solleva lo sguardo, ma come sempre i suoi occhi non mi vedono veramente; appoggia una mano sulla mia guancia destra e basta questo gesto per spingermi ad un solo passo di distanza da una crisi di pianto.

Allontano con gentilezza la sua mano, ma la tengo stretta tra le mie per tutto il tempo che abbiamo a nostra disposizione: continuo a parlare per un’ora intera, senza mai fermarmi un solo istante, raccontandole dello psicologo e delle giornate che trascorro in compagnia di Margaret e James; ben presto i suoi occhi tornano a fissare un punto lontano e indefinito.

È mia zia ad entrare nella stanza per avvisarmi che è ora di tornare a casa, ed io non posso fare altro che obbedire per non aggravare la mia posizione: appoggio le labbra sulla fronte di mia madre e me ne vado senza dire una sola parola.

Resto in silenzio anche per tutto il viaggio di ritorno, e trovo il coraggio di sfogarmi solo quando io e Jimmy siamo da soli, in camera da letto.

Scoppio in lacrime e lo abbraccio, sfogando tutta la tensione che ho accumulato nell’ultimo periodo.

“Coraggio, Teddy, andrà tutto bene” mormora, provando inutilmente a calmarmi.

Vorrei tanto credergli, ma una voce nella mia testa inizia a ripetere che non sarà così, che nulla andrà mai bene e nulla si sistemerà.

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Capitolo 5
*** Hypnotherapy ***


Gli incubi continuano a tormentarmi.

Ormai non c’è una sola notte in cui non mi sveglio con il pigiama impregnato di sudore, riuscendo a malapena a trattenere un grido.

Lo psicologo ha capito che c’è qualcosa che non va, e prova in qualunque modo a farmi confessare la verità.

“Per una volta, anziché continuare a raccontarmi cose futili, potresti dirmi che cosa non ti lascia dormire durante la notte, Theodore. Sarebbe un enorme passo in avanti per entrambi: io avrei finalmente qualcosa di serio su cui lavorare e tu non avresti più un peso ingombrante sulle spalle”

“Come fa ad essere così sicuro che si tratta di qualcosa che non mi lascia dormire?”

“Hai il volto pallido e le occhiaie, non ci vuole un medico per capirlo” risponde prontamente lui, con il suo solito sorriso viscido che riesce sempre ad irritarmi.

In verità, tutto quello che fa quest’uomo riesce sempre ad irritarmi.

“È normale non riuscire a dormire quando è estate ed il caldo è insopportabile, non crede? Non succede anche a lei? Non mi sembra nulla di così preoccupante. Sono sicuro che quando la temperatura si abbasserà, riuscirò a riposare più tranquillamente”

“Sei sicuro che tutto questo ha a che fare con un semplice problema legato alla temperatura e non a qualcosa di molto più profondo? Per esempio… A degli incubi?”

“Tutti noi facciamo incubi” commento, scrollando le spalle “non succede anche a lei?”

“Non cercare di spostare l’attenzione su di me, Theodore, ho capito quello che stai provando a fare. Ricordi il nostro accordo? Hai il permesso di vedere tua madre una volta a settimana solo se ti dimostri collaborativo e questo non è ancora accaduto. Lo sai che posso interrompere le visite in qualunque momento, se mi dai un valido motivo per farlo”

“Questo si chiama ricatto” sibilo, a denti stretti, ma lo psicologo non fa un solo passo indietro e ripete la sua minaccia.

“Se non ti dimostri collaborativo, interromperò subito le visite, Theodore, a te la scelta. Non vorrei usare questa tecnica con te, ma sembra che le minacce siano l’unica soluzione”.

Chiudo per qualche istante gli occhi e passo entrambe le mani nei capelli, scompigliandoli: nel giro di pochi giorni mi ritrovo nuovamente con le spalle contro il muro, ma questa volta non esiste alcun modo per volgere la situazione a mio favore.

“Si, è vero” confesso alla fine, deglutendo a fatica “durante la notte non riesco a dormire a causa degli incubi”

“Racconta” cerca di spronarmi lo psicologo, senza riuscire a nascondere un sorrisetto compiaciuto, prendendo in mano penna e taccuino; mi agito sul divanetto ed incrocio le braccia, mentre mi sforzo di ricordare le immagini confuse che popolano i miei sogni.

“Non ci riesco. Non lo dico apposta, non la sto prendendo in giro! Non riesco a ricordare…”

“Non riesci a ricordare o hai un blocco che t’impedisce di farlo? Hai mai sentito parlare dell’ipnosi?”

“No… Di che cosa si tratta?”

“È uno stato simile al sonno. Tutto quello che devi fare è chiudere gli occhi, rilassarti e concentrarti sul suono di questo strumento”.

L’uomo si avvicina ad una mensola, prende un metronomo e lo posa sopra la scrivania; osservo l’oggetto in silenzio e poi gli rivolgo uno sguardo scettico.

Non ho mai sentito parlare di questa tecnica chiamata ‘ipnosi’ e dubito fortemente che possa aiutarmi con i miei incubi.

“Devo fare solo questo? Chiudere gli occhi ed ascoltare il suono di quello strumento? Davvero? A me sembra una sciocchezza”

“È una tecnica ancora molto controversa, ma possiamo fare una prova” risponde lui, ripetendomi per l’ennesima volta ciò che devo fare, e così decido di ubbidire: abbasso le palpebre e cerco di svuotare completamente la mente, concentrando tutti i miei sensi sul ticchettio provocato dal metronomo.

All’interno della stanza cala il silenzio, inizio a sentire una sensazione di torpore che mi attraversa tutto il corpo, ma non accade altro.

“Senta, la sua tecnica…”.

Mi blocco a metà frase, aprendo gli occhi, perché attorno a me lo Studio è sparito, sostituito dalla casa in cui sono nato e cresciuto, almeno fino ai quattordici anni.

Trattengo il respiro quando vedo un ragazzino, poco più piccolo di me, seduto sul mio letto, a gambe incrociate, impegnato a sfogliare un grosso libro dalla copertina ormai consumata e rovinata in più punti.

Quel ragazzino sono io, e quello che ho in mano è un grosso dizionario dei sinonimi e contrari.

La porta della camera si apre all’improvviso, e quando vedo entrare l’uomo che ha contribuito alla mia nascita, muovo un passo all’indietro, andando a sbattere contro una parete; lui, però, non mi vede e rivolge subito la sua attenzione alla versione di me stesso più piccola, che ancora sta leggendo e non ha neppure sollevato gli occhi dalle pagine.

Il bastardo ha a sua volta un tomo stretto nella mano destra; capisco immediatamente che si tratta di una copia della Bibbia e, allora, provo a chiudere gli occhi ed a tapparmi le orecchie.

So perfettamente ciò che sta per accadere e non voglio né sentirlo né vederlo, ma non riesco a muovere un solo muscolo.

Contro la mia stessa volontà sono costretto ad assistere all’intera scena.

Non posso neppure gridare perché dalla mia bocca non esce un solo suono.

“Avanti, ragazzino, è ora di leggere alcuni versetti della Bibbia”.

Sento queste parole uscire dalle labbra dell’uomo, lo vedo sedersi vicino a me e lo vedo posare una mano sul mio ginocchio destro, prima di risalire verso la coscia.

Provo ancora una volta a chiudere gli occhi, a ribellarmi in qualunque modo, ma i miei piedi sembrano incollati alle assi del pavimento, per quanto mi sforzo di scappare da questo posto.

Finalmente tutto scompare attorno a me, sostituito dallo Studio dello psicologo e da quest’ultimo che prova a calmarmi, ripetendo che non devo preoccuparmi, perché le immagini che ho visto non erano reali.

“Si che lo erano!” urlo, liberandomi dalla sua presa e alzandomi dal divanetto; le mie gambe tremano ancora e sono costretto ad appoggiarmi ad una parete per non crollare a terra “era tutto vero, maledizione! E l’ho visto per colpa sua! È stato lei ad insistere perché mi sottoponessi all’ipnosi. È tutta colpa sua!”

“Calmati, Theodore, arriva sempre il momento di affrontare i propri demoni per riuscire a sconfiggerli. Nella maggior parte dei casi non è piacevole, ma bisogna farlo per riuscire ad andare avanti”

“Parla in questo modo perché non ha la più pallida idea di quello che ho passato” dico a denti stretti, prima di voltargli le spalle ed avvicinarmi alla porta; sento nuovamente la sua voce quando stringo la mano destra attorno alla maniglia.

“In verità, Theodore, so perfettamente tutto quello che hai passato”

“Che cosa ha detto?” domando, con un’espressione confusa, voltandomi di scatto.

“Quando sei stato portato in ospedale, ti hanno fatto alcuni esami. I referti parlano in modo chiarissimo”.

Non rispondo, mi limito a sbattere con forza la porta ed ordino a Margaret di portarmi immediatamente a casa, perché voglio lasciarmi questa clinica alle spalle il più velocemente possibile, e non tornarci mai più.

Mia zia, ovviamente, è di parare contrario.

“Abbiamo già affrontato diverse volte questo argomento, Teddy, non voglio litigare con te per l’ennesima volta. Devi portare pazienza per qualche mese e poi sarà tutto finito, te lo prometto. Non possiamo discutere ogni singolo giorno!”

“Io non voglio entrare mai più in quello Studio e non voglio vedere mai più quell’uomo”

“Teddy…”

“No, non ci voglio entrare mai più” ripeto una seconda volta, scuotendo la testa.

Non pronuncio più una sola parola per il resto della giornata, almeno fino a quando zia Margaret non riceve una telefonata, dalla clinica, in cui il mio psicologo le comunica che desidera parlarle il prima possibile.

“Ho già preso appuntamento per domani pomeriggio”

“Ma non puoi farlo!” protesto subito, lasciando cadere la forchetta nel piatto “quell’uomo non farà altro che riempirti la testa di bugie assurde. E se ti dicesse che vuole mandarmi in affidamento ad un’altra famiglia? Che cosa gli risponderai?”

“Senti di avere la coscienza sporca per qualcosa che hai detto o fatto?”

“Le tue insinuazioni non meritano una risposta” dico, a denti stretti, ponendo così fine alla conversazione; mi alzo, James fa lo stesso, ed entrambi ci chiudiamo nella nostra camera da letto.

Noto subito che mio cugino è turbato e così provo a tranquillizzarlo, dicendogli che non verrò mai costretto a trasferirmi in un’altra casa.

“E se ciò dovesse accadere?” mi chiede, allora.

Mi limito a scrollare le spalle, senza dare una vera risposta, perché non voglio neppure prendere seriamente in considerazione questa eventualità.



 
Non riesco a convincere Meg a non andare all’appuntamento: provo in qualunque modo a farla desistere dal suo intento, perfino interponendomi tra lei e la porta d’ingresso, ma tutto è inutile, ed alla fine sono costretto a salire in macchina.

“Non credere ad una sola parola che ti dirà. Quell’uomo mi odia fin dal primo momento in cui mi ha visto, anche se non so per quale motivo. Digli che non sei più intenzionata a mandarmi alle sedute e non farti suggestionare”

“Ascolterò le sue parole e poi vedrò che cosa è meglio fare per te”.

La sua risposta lapidaria non mi fa sentire affatto tranquillo e la mia agitazione cresce nel momento stesso in cui scopro che non posso essere presente nello Studio e che, di conseguenza, sono costretto ad aspettare in sala d’attesa.

“Non credere alle sue parole” sussurro ancora una volta, prima che la porta si chiuda con un tonfo sordo.

Non sono intenzionato a rimanere per tutto il tempo seduto su uno sgabello, a tormentarmi le mani e le labbra, così mi assicuro che il corridoio sia completamente vuoto e poi appoggio l’orecchio destro al legno della porta, in modo da origliare l’intera conversazione.

In un primo momento faccio fatica a distinguere le voci e le parole, ma dopo qualche minuto riesco ad abituarmi, e ciò che sento uscire dalla bocca dello psicologo mi fa piegare le labbra in una smorfia.

“Suo nipote soffre di un disturbo cognitivo. Questo significa che non riesce a percepire ciò che accade nello stesso modo di tutte le altre persone. I discorsi che fa… Le azioni che compie… Questo attaccamento morboso che ha nei confronti della madre… Sono sintomi piuttosto inquietanti che, se non curati in tempo, possono svilupparsi e diventare qualcosa di più pericoloso”

“Che cosa intende?”

“Theodore potrebbe diventare un pericolo non solo per sé stesso, ma soprattutto per gli altri. Per le persone che lo circondano, per le persone che incontra… Il suo disturbo deve essere curato il prima possibile, in una clinica specializzata”

“Lei sta… Sta parlando di un manicomio? Sta dicendo che Teddy ha problemi alla testa?”

“Non stiamo parlando di pazzia, ma c’è il serio rischio che quel seme possa depositarsi e germogliare, signora, se non interveniamo in tempo. La società rischierebbe di doversi occupare, un giorno, di un soggetto pericoloso. Anche lei sa che è sempre meglio prevenire che curare… Non sarà un percorso semplice o indolore, ma è necessario. Assolutamente necessario”

“Ma come è potuto succedere?”

“Non è colpa del ragazzo. Penso che tutto parta dagli abusi che ha subìto all’interno di quella casa…”.

Allontano bruscamente il viso dalla porta, perché non voglio più ascoltare le parole dello psicologo; mi lascio cadere su uno sgabello e mi stringo nelle spalle, lottando con tutto me stesso per non ripensare a quello che ho visto e rivissuto durante l’ipnosi.

Mia zia esce qualche minuto più tardi, con il volto completamente pallido: non dice una sola parola, mi prende per mano e usciamo dall’edificio.

Lungo il tragitto di ritorno, in macchina, continua a tacere ed io faccio lo stesso, perché non so che cosa aspettarmi da lei.

Parla solo quando, ormai, siamo arrivati.

“Tu non andrai mai più in quel posto e rimarrai a vivere con me e James” dice, guardandomi dallo specchietto retrovisore “Teddy, non lasciare mai che qualcuno ti dica che c’è qualcosa di sbagliato in te. E se dovesse accadere, non crederci perché è solo una bugia. Io so come sei fatto, e lo sa anche James. Questo è ciò che conta veramente. Cerchiamo di lasciarci il passato alle spalle e di ricominciare una nuova vita. Tu più di tutti lo meriti”.
 

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Capitolo 6
*** Acne, They Called It ***


Mi guardo a lungo allo specchio e ciò che vedo non mi piace.

Ispeziono ogni centimetro della pelle del mio viso finché il riflesso di zia Margaret non compare alle mie spalle, la vedo sorridere e appoggiarsi allo stipite della porta.

“Avanti, Teddy, vuoi arrivare in ritardo al tuo primo giorno di scuola?” mi domanda, continuando a sorridere.

Non sono mai andato a scuola.

Mia madre e l’uomo che ha contribuito alla mia nascita non avevano abbastanza soldi per pagare la retta mensile di un istituto scolastico, di conseguenza tutto ciò che conosco me lo hanno insegnato Margaret, James o l’ho letto in alcuni libri.

Per due anni Meg mi ha risparmiato la tortura di entrare in una classe, ma tutto è cambiato nel giorno del mio sedicesimo compleanno: dopo avermi dato un pacchetto colorato, mi ha comunicato che a settembre sarei andato finalmente a scuola perché, secondo lei, sono un ragazzo troppo chiuso e timido, e quindi necessito di fare amicizia con i miei coetanei.

“Guardami. Ti sembro pronto?” domando, mi volto di scatto ed indico il mio viso “guarda queste macchie rosse che ho sul viso”

“È acne, Teddy. Una cosa normalissima per i ragazzi della tua età. Tu e James state crescendo, non siete più ragazzini, e quando arriva la pubertà succedono queste cose. Tra un paio di mesi spariranno”

“Un paio di mesi è un lasso di tempo troppo lungo” protesto, tornando a fissarmi allo specchio “non posso andare a scuola in queste condizioni. Se lo faccio mi prenderanno in giro per sempre”

“E tu ignorali, no? O restituisci le offese che ricevi, dato che sei piuttosto bravo con le parole”

“Non posso andare a scuola in queste condizioni”

“Puoi usare la mia cipria per nasconderle”

“Peggio. Mi chiamerebbero tutti ‘finocchio’” rispondo, facendo una smorfia.

Margaret socchiude le labbra, incredula, e mi rimprovera per l’espressione colorita che ho appena usato: non le piacciono questi termini volgari e non le piace neppure sentirli uscire dalla mia bocca o da quella di mio cugino.

Soprattutto adesso che ha iniziato a partecipare alla messa della domenica mattina e costringe noi due a fare lo stesso.

“Complimenti!” esclama Jimmy, diversi minuti più tardi, mentre raggiungiamo la scuola a piedi “lo sai che se la fai incazzare poi non ci lascia uscire al weekend. Capisco che è più forte di te essere una grandissima testa di cazzo, Teddy, ma cerca di usare quel poco cervello che hai ogni tanto”.

Non rispondo subito alla sua provocazione, preferisco dargli una gomitata e spingerlo contro un muretto.

“Pensi di essere migliore di me, Jimmy?”

“Io, almeno, non mi preoccupo per qualche macchia rossa”.

È facile parlare per lui: il suo viso non solo non è martoriato dall’acne, ma piace molto alle ragazze.

Quando usciamo, durante il weekend, tutti gli sguardi femminili sono rivolti esclusivamente a James perché ha un bel viso ed un bel fisico; io, invece, sembro affetto dalla peste bubbonica e sono troppo magro.

“Si, ma perché tu sei un cigno mentre io sono solo un brutto anatroccolo” dico; ci guardiamo entrambi negli occhi e poi scoppiamo a ridere nello stesso momento, a causa della frase che ho appena pronunciato.

Siamo costretti a fermarci perché abbiamo le lacrime agli occhi.

“Non sai quanto vorrei avere il tuo stesso senso dell’umorismo, Teddy”

“Speriamo che mi sia d’aiuto anche a scuola” mormoro, mordendomi il labbro inferiore, osservando un edificio di mattoni rossi; James prova a rassicurarmi e mi dà una pacca sulla schiena.

“La scuola non è un posto così orrendo se riesci ad adattarti, e tu non hai nulla di cui preoccuparti. Saremo nella stessa classe ed avremo i banchi vicini, non ti lascio in pasto ai lupi. Ricordi il nostro patto di sangue?” mio cugino mi mostra il palmo destro, completamente liscio, lo stesso che ho reciso due anni prima.

Le sue parole riescono a tranquillizzarmi almeno fino a quando, in classe, non arriva un’insegnante che decide di pormi subito al centro dell’attenzione: è una di quelle donne di mezza età che indossano gonne lunghe, maglioncini e camicette abbottonate in qualunque stagione dell’anno, ed hanno sempre i capelli perfettamente raccolti ed un rosario d’oro attorno al collo; sento fin da subito una profonda antipatia nei suoi confronti, proprio come è successo con il mio ex psicologo.

“Ragazzo, vieni qui a presentarti. Non essere timido” dice con voce nasale, agitando una mano.

Con un sospiro mi alzo dalla sedia e raggiungo la lavagna, ritrovandomi così di fronte all’intera classe; vedo James trattenere a stento un sorrisetto compiaciuto: sapeva ciò che mi aspettava e lo ha taciuto apposta.

Senza pronunciare una sola parola, gli faccio capire che me la pagherà per questo.

L’insegnante mi esorta una seconda volta a presentarmi, e così mi schiarisco la gola ed infilo le mani nelle tasche dei pantaloni.

“Mi chiamo Theodore Bagwell” inizio, abbassando lo sguardo “questo è il mio primo giorno di scuola e…”.

Non riesco a terminare la frase perché qualcuno, dall’ultima fila di banchi, si esibisce in un sonoro sbadiglio; sollevo gli occhi ed incrocio subito lo sguardo di un ragazzo che sorride divertito.

È evidente che lo ha fatto apposta, come è evidente che è il classico bullo che si trova in ogni classe di ogni edificio scolastico.

“Silenzio!” esclama l’insegnante, limitandosi a battere le mani ed a rivolgere un’occhiata severa in direzione del bullo “Theodore, puoi continuare”

“Veramente… Non ho altro da dire” rispondo, prima di tornare al mio posto; avvicino il viso a quello di James e sussurro qualche parola al suo orecchio sinistro “sei un bastardo, dopo me la pagherai per questo! Perché non mi hai detto che avrei dovuto fare questa pagliacciata davanti a tutti?”

“Se te lo avessi detto in anticipo, mi sarei rovinato tutto il divertimento” mormora a sua volta lui, sorridendomi.



 
Il mio primo giorno di scuola trascorre velocemente e, nel complesso, si rivela essere più piacevole di come avevo immaginato.

“Sono costretto a darti ragione, James, la scuola non è così orrenda. Devo solo abituarmi”

“Te lo avevo detto, Teddy. Sai, forse dovresti iniziare a guardare il lato positivo delle cose...”.

Jimmy sta per aggiungere altro, ma viene interrotto da qualcuno che pronuncia ad alta voce il mio nome: ci voltiamo entrambi nello stesso momento e corruccio le sopracciglia quando vedo il ragazzo che ha interrotto la mia presentazione, insieme ad alcuni coetanei.

Si ferma a pochi passi di distanza da noi ed appoggia entrambe le mani sui fianchi.

“Che cosa vuoi?” domando, guardando prima lui e poi il resto del gruppo.

“Quando hai detto il tuo nome, in classe, ho capito subito di averlo già sentito da qualche parte, ma non riuscivo a capire dove. Poi mi sono ricordato che una sera ho sentito i miei genitori parlare di una vecchia casa, da queste parti, in cui abitava un uomo con problemi mentali” risponde il ragazzo, picchiettando l’indice destro contro la propria fronte “e quest’uomo aveva anche una sorella gravemente malata di testa…”.

Lascio cadere a terra i libri e lo aggredisco, senza lasciargli il tempo di continuare e terminare il discorso: riesco a colpirlo con un calcio al basso inguine prima di essere afferrato e trascinato lontano dalla mischia da mio cugino, che non perde tempo per rimproverarmi.

“Ma sei pazzo?” grida, quasi, guardandomi con gli occhi spalancati “ti sei appena messo contro la persona sbagliata”

“Hai sentito anche tu quello che stava dicendo. Nessuno si deve permettere di dire certe… Certe assurdità…” urlo a mia volta; mi stringo nelle spalle e Jimmy attende qualche minuto prima di riprendere a parlare.

“Jason è un cretino” dice, rivelando per la prima volta il nome del bullo “e come la maggior parte dei cretini è violento e vendicativo. Tutto quello che sa fare è provocare le persone, così ha un valido motivo per picchiarle quando scattano”

“Stai dicendo che sono finito?”

“Lascia stare. Ci penserò io. Non ti toccherà con un solo dito, ma devi promettermi che d’ora in poi ignorerai ogni singola parola che uscirà dalla sua bocca”

“D’accordo, ci proverò” rispondo, con un sospiro, anche se non sono sicuro che riuscirò a mantenere la promessa.

Decidiamo di non far cenno della ‘piccola discussione’ a Margaret: lei per prima non sembra accorgersi del graffio che ho sul braccio sinistro perché è troppo impegnata a sommergermi di domande.

Le mie risposte sono così evasive che, alla fine, si irrita e litighiamo per l’ennesima volta, mentre James prova ad evitare che ciò accada.

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Capitolo 7
*** The Wonderful World Of Teenage Girls ***


Avere sedici anni non è semplice.

È un’età in cui il tuo corpo ed il tuo carattere sono in continuo mutamento, e tutto succede così rapidamente che non sai neppure dove sbattere la testa.

Ma, soprattutto, è un’età in cui i ragazzi e le ragazze iniziano a guardarsi in modo diverso; in cui si avvertono le prime pulsazioni sessuali.

Proprio per evitare spiacevoli ed imbarazzanti incidenti, la palestra della scuola è dotata di due spogliatoi separati con cura: quello per i ragazzi si trova vicino all’entrata dell’edificio, mentre quello per le ragazze è situato poco lontano da un ripostiglio per gli attrezzi da ginnastica e per i palloni.

Addirittura, come ulteriore precauzione, sono stati stabiliti due momenti diversi per la lezione di educazione fisica: noi dobbiamo farla alla terza ora del mercoledì, loro alla prima del giovedì.

Così, proprio un giovedì mattina, anziché andare in classe, raggiungo la palestra insieme a James.

“Che cosa vuoi fare?” mi chiede, mentre chiudo la porta senza farla cigolare.

“Voglio divertirmi un po’ e sono sicuro che neppure a te dispiacerà. Muoviamoci, ormai saranno qua a momenti e non possiamo rischiare di essere visti” rispondo, in un sussurro, prima di fare un cenno con la mano destra; raggiungiamo lo spogliatoio delle ragazze e, per la seconda volta, apro e chiudo la porta senza fare rumore.

Resto un po’ deluso da ciò che vedo: mi aspettavo qualcosa di diverso, ed invece il loro spogliatoio è identico al nostro.

Ed esattamente come nel nostro, ci sono due file di armadietti grigi in cui si possono riporre i vestiti e gli asciugamani.

“Lo sai che se ci beccano qua dentro veniamo sospesi, vero? Che cosa vuoi fare? Nasconderti in un armadietto?”

“Si, esatto”

“E se una ragazza apre proprio l’armadietto in cui siamo nascosti?”

“Forse dovresti iniziare a guardare il lato positivo delle cose”  dico, con un sorriso, ripetendo la frase che lui stesso ha pronunciato qualche giorno prima; apro l’anta di un armadietto e, a fatica, riusciamo ad entrare entrambi ed a richiuderla.

L’oscurità ci avvolge, ad eccezione di alcuni spiragli di luce che entrano da tre fessure situate sull’anta dell’armadietto.

“E adesso? Che cosa facciamo?”

“Aspettiamo. Ormai le ragazze saranno qui tra pochi minuti”.

Nel momento stesso in cui termino la frase, la porta dello spogliatoio si spalanca e sento alcune risate femminili, seguite da parole e commenti pronunciati a bassa voce.
Socchiudo le labbra ed avvicino gli occhi alle fessure, James fa lo stesso, ed entrambi osserviamo in silenzio le ragazze della nostra classe che si preparano per la lezione di ginnastica: le gonne ed i maglioncini che indossano finiscono presto sul pavimento, o sopra alle banche, e tutte loro restano con addosso solo gli slip ed il reggiseno.

Sento la gola incredibilmente secca, e sono costretto a deglutire ed a coprirmi la bocca con una mano per non lasciarmi scappare un gemito; improvvisamente il caldo all’interno del piccolo abitacolo diventa insopportabile, ma non posso spalancare la porta ed uscire per prendere una boccata di aria fresca, altrimenti andrei incontro alla mia stessa sospensione.

Vengo riportato alla realtà da una gomitata di mio cugino e spalanco gli occhi quando mi accorgo che una ragazza sta per aprire proprio l’armadietto in cui siamo nascosti: fortunatamente c’è una maniglia anche all’interno e così sia io che lui l’afferriamo prontamente.

La nostra compagna di classe prova più volte a tirare la maniglia che c’è dall’altra parte, ma dopo qualche tentativo si arrende e sbuffa, piuttosto seccata.

“Deve essere incastrato. Aiutami, per favore” dice, rivolgendosi ad un’amica dai capelli neri.

Riprendono a tirare e noi siamo costretti a fare lo stesso; riesco a resistere fino a quando Jimmy non allenta la presa a causa delle mani sudate.

L’anta dell’armadietto si spalanca all’improvviso e la nostra presenza, ormai, non è più un segreto per le ragazze.

Alzo le mani e parlo prima che una di loro possa farlo.

“Vi giuro che non è come sembra”.



 
Le spiegazioni che provo a dare non servono a nulla perché, mezz’ora più tardi, io e James si ritroviamo fuori dall’ufficio del preside, in attesa dell’arrivo di Margaret.
Quando sento il rumore familiare dei suoi passi, sollevo il viso ed incrocio il suo sguardo: mi basta una semplice occhiata per capire che siamo entrambi nei guai per quello che abbiamo fatto.

Lei non dice una sola parola: entra nell’ufficio del preside e chiude la porta, in modo da impedirci di ascoltare la loro conversazione.

“Lo sapevo che non avrei dovuto assecondare la tua follia” sussurra mio cugino “adesso siamo entrambi fottuti. Verremo sospesi”

“Stai calmo, non abbiamo fatto nulla. Ci siamo solo nascosti dentro un armadietto, non abbiamo aggredito nessuno. Sono sicuro che la punizione sarà molto più leggera di quello che credi”

“Hai visto l’espressione di mia madre?”

“Si, ma non devi preoccuparti. Darà la colpa a me” rispondo, sorridendo.

Ed è proprio ciò che succede.

Non appena torniamo a casa, mia zia esplode ed io vengo indicato come l’unico e solo colpevole.

“Io sono senza parole! Non so davvero che cosa devo fare con te, Teddy!”

“Ti prego, dimmi che non stai parlando seriamente! Hai davvero intenzione di mettere in punizione me e James per quello che abbiamo fatto? Hai idea di quante persone, prima di noi, hanno fatto una cosa simile?”

“Vi siete nascosti nello spogliatoio delle ragazze!”.

Margaret non accenna ad abbassare il tono della voce od a calmarsi, così sbuffo e mi lascio cadere sul divano, senza preoccuparmi di togliere le scarpe.

“Te lo ripeto, zia, non siamo i primi a fare una cosa simile e non saremo neppure gli ultimi. Non abbiamo fatto nulla di male e non abbiamo toccato nessuna ragazza. Vero, James? Abbiamo toccato una di loro?”

“Abbiamo fatto una cazzata, ma le nostre intenzioni non erano cattive, mamma”

“In ogni caso siete entrambi sospesi per due settimane. La scuola non accetta questi comportamenti”

“Ohh, che peccato” commento, con una breve risata; Margaret gira il viso di scatto, nella mia direzione, ed i suoi occhi si spalancano di nuovo.

Si avvicina a me e compie un gesto che prima non aveva mai fatto: mi da uno schiaffo su entrambe le guance.

Tutto succede così velocemente che non ho il tempo di reagire e mi limito a socchiudere le labbra, incredulo; quando provo a chiedere spiegazioni, vengo colpito una seconda volta.

“Te li meriti. Devi imparare a portare più rispetto. Io sono un’adulta, Teddy, mentre tu sei solo un ragazzino che non ha ancora imparato che cosa sia il rispetto. Alzati. Muoviti”.

Meg mi afferra per un braccio, fa lo stesso con James e siamo costretti ad entrare in una piccola stanza che funge da ripostiglio; chiude la porta a chiave, ed attraverso il legno della porta ci comunica che resteremo qui dentro, al buio, fino all’ora di cena.

Sento i suoi passi farsi sempre più lontani e, quando cala il silenzio, capisco che non si tratta di uno scherzo.

“Sei un idiota” dice Jimmy, mentre mi siedo sul pavimento.

“Ho solo detto la verità. Dovrei essere io quello furioso, dal momento che ho ricevuto quattro schiaffi”

“Non prendertela, Teddy, ma te li sei meritati davvero”

“Vuoi rincarare la dose? Da quale parte stai? Dalla mia o dalla sua? Ti sei dimenticato che abbiamo fatto un patto di sangue?”.

Mio cugino non risponde, ma prende posto vicino a me, a gambe incrociate.

“Non voglio rincarare la dose e non voglio giocare a fare l’adulto, ma non voglio neppure vederti fare cazzate che potrebbero compromettere il tuo futuro. O peggio, il futuro di entrambi”

“Non provare a scaricare tutta la colpa su di me come ha fatto tua madre. Non ti ho costretto e non ti ho trascinato con la forza in quello spogliatoio: sei stato mio complice consenziente e non ti è dispiaciuto affatto”.

Scoppiamo entrambi a ridere e James mi dà una pacca sulla schiena.

“No, non mi è dispiaciuto affatto e sono pronto ad affrontare la punizione. Però, Teddy, cerca di essere più gentile con mia madre… Per lei sei come un secondo figlio e se a volte si arrabbia o ti da qualche schiaffo, lo fa solo per il tuo bene. Quando verrà ad aprire la porta, dille che sei dispiaciuto e vedrai che tutto si sistemerà in un attimo”

“Non lo so” commento, scrollando le spalle, a darmi fastidio non è il bruciore che sento ancora sulle guance, ma quello che sento nel mio orgoglio.

Infatti, quando Margaret decide che la punizione è finita per entrambi, mi rifiuto di uscire dallo sgabuzzino e scuoto più volte la testa, passando le braccia attorno alle ginocchia.

“Non puoi rimanere qui dentro per tutta la notte”

“Potevi pensarci prima di picchiarmi”

“Io non ti ho picchiato, Theodore, non ti permetto di dire questo!” esclama lei, alzando nuovamente il tono; Jimmy mi lancia alcune occhiate d’avvertimento, ma io le ignoro completamente “ti ho solo dato degli schiaffi”

“Io non esco di qui”

“Va bene, come vuoi tu. È una tua scelta rimanere a digiuno al buio. Forse una notte intera qua dentro ti aiuterà a riflettere meglio su alcuni tuoi comportamenti”.

Dopo aver detto queste parole in tono acido, sbatte nuovamente la porta; sento i suoi passi e quelli di mio cugino allontanarsi sempre di più e li sento anche discutere in modo piuttosto animato, sicuramente perché lui sta prendendo le mie difese.

Stringo le gambe contro il petto ed appoggio la fronte sulle ginocchia.

Abbasso le palpebre e sospiro.

So che Margaret mi ha dato delle semplici sberle e so che lo ha fatto solo per impartirmi una lezione di vita, ma sento che qualcosa tra noi due si è irrimediabilmente rotto.

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Capitolo 8
*** Ava ***


Nella mia classe, oltre ad esserci il bullo della scuola, c’è anche la ragazza più carina e popolare dell’intero edificio.

Forse è perfino la ragazza più carina di tutta Conecuh County.

Si chiama Ava Martin ed ha quasi diciassette anni, esattamente come me e James.

È così perfetta che sembra un’attrice uscita direttamente dalla locandina di un film, ed incarna il desiderio di tutti noi maschi: capelli biondi, occhi azzurri, labbra sempre sorridenti e risata cristallina come l’acqua di un fiume.

Non ho mai avuto il coraggio di fare il primo passo perché quelle come Ava non escono con i ragazzi solitari e perseguitati dall’acne come nel mio caso: loro preferiscono i tipi affascinanti ed atletici come James o Jason, meglio ancora se fanno parte della squadra di football della scuola.

Proprio per questo motivo, un pomeriggio, perdo quasi l’uso della parola quando lei prende posto a mio fianco sopra al muretto che c’è appena fuori dal campus: incrocia le gambe, appoggia i palmi delle mani sui mattoni rossi e mi rivolge un sorriso, seguito da un saluto allegro e gentile.

“Ehi!”

“Ehi…” ripeto, chiudendo subito il libro che ho in mano.

“Tu sei il ragazzo nuovo, giusto?”

“Si, anche se sono trascorsi diversi mesi dal mio primo giorno di scuola. Il mio nome è Theodore, non so se te lo ricordi, ma puoi chiamarmi Teddy”.

Le parole escono dalla mia bocca prima che abbia il tempo di collegarla al cervello, e subito mi pento di ciò che ho detto: ‘Teddy’ è il soprannome che zia Margaret e James mi hanno dato, solo loro lo conoscono e solo loro hanno il permesso di chiamarmi così.

Soprattutto perché è il diminutivo di ‘Teddy-Bear’, ovvero ‘orsacchiotto’.

“Teddy? Davvero?” risponde Ava con un sorriso, senza alcuna risata od espressione di scherno “mi piace molto. È come Teddy-Bear, giusto? Ho sempre adorato gli orsacchiotti di peluche”

“Si… In… In effetti sono molto belli” balbetto, schiarendomi la gola.

Non so come interpretare le sue ultime parole.

Ci sta provando con me? No, non ha alcun senso.

Le ragazze come lei non sono attratte dai perdenti come me.

“Hai impegni per domani pomeriggio, orsacchiotto?” mi chiede, allora, e questa volta non riesco ad impedire alle mie guance di arrossire.

“No. Credo di essere completamente libero… Cioè… Sono completamente libero”

“Ti piacerebbe studiare insieme in biblioteca? Sono così stupida che non riesco a capire nulla degli ultimi argomenti di letteratura, mentre tu sei così bravo… Se non supero l’anno scolastico, i miei genitori potrebbero arrabbiarsi molto con me e rimarrei in punizione per tutta l’estate”

“Non devi darmi delle spiegazioni, per me sarà un piacere aiutarti a studiare. Non devi darti della stupida, non lo sei affatto, sono gli argomenti ad essere molto complicati. Anche io, a volte, faccio fatica a capirli”

“Perfetto” mormora Ava, rivolgendomi un sorriso che potrebbe sciogliere perfino una lastra di ghiaccio “allora ci vediamo domani pomeriggio in biblioteca. Alle quattro. Ti aspetterò vicino all’entrata. Ci vediamo, Theodore”

“Ci vediamo, Ava” la saluto a mia volta, mentre si allontana.

Non racconto nulla dell’appuntamento a James ed a Margaret: per la prima volta, da quando mi sono trasferito, non sento la necessità di condividere qualcosa con loro.

Questa cosa appartiene solo a me, è il mio piccolo segreto da custodire gelosamente.



 
Io ed Ava non ci incontriamo solo una volta in biblioteca.

I nostri pomeriggi scanditi dai compiti e dallo studio continuano giorno dopo giorno, anche durante il weekend, e scopro con piacere che non è solo una ragazza bellissima, ma è anche molto intelligente, spiritosa e perspicace.

Stare vicino a lei, però, diventa sempre più difficile: il profumo dei suoi capelli, la sue mani che sfiorano le mie per cambiare pagina, la sua risata, i suoi sguardi provocano in me una moltitudine di emozioni così forti e così contrastanti che mi sento vicino ad un crollo nervoso; a casa, poi, hanno intuito qualcosa perché non tocco quasi più cibo.

Ava mi piace terribilmente, ormai è inutile nasconderlo, ma sono spaventato al solo pensiero di fare il primo passo perché un rifiuto sarebbe devastante.

“Ci vediamo domani” le dico al termine dell’ennesimo pomeriggio in biblioteca, raccogliendo velocemente i miei libri ed i miei quaderni; la sua mano sinistra, posata sul mio braccio destro, mi blocca prima che possa alzarmi dalla sedia ed uscire velocemente dall’edificio.

“Teddy, domani è sabato. Non ho voglia di trascorrerlo a studiare ancora letteratura…”

“Ohh, non ti preoccupare. Se vuoi, possiamo trovarci lunedì pomeriggio”

“Aspetta, non mi hai dato il tempo di finire la frase. Mi piacerebbe trascorrere qualche ora in tua compagnia, ma in un posto che non sia una biblioteca. Anche perché qui possiamo fare pochissime cose, a malapena riusciamo a scambiarci qualche parola a bassa voce”.

La mia mascella inferiore scatta automaticamente verso il basso ed impiego un paio di secondi prima di riuscire a muoverla nuovamente, ed a formulare una frase di senso compiuto.

“Hai già pensato ad un posto?” domando, e trattengo il respiro quando sento la bocca di Ava sfiorarmi l’orecchio sinistro.

“Conosco un vecchio fienile inutilizzato da tempo. Penso che sia un posto perfetto per un po’ di intimità, non credi?”

“Si, lo credo anche io”

“Allora è perfetto, Teddy-Bear, sono sicura che sarà una serata indimenticabile”.

Sorride ancora una volta, ed io non posso che ricambiare.



 
Ormai non posso continuare a mantenere il segreto con James, e così decido di parlargliene la mattina seguente: lo convinco ad andare al lago ed entrambi ci sediamo sulla riva, a pochi passi dall’acqua.

Prendo in mano un sasso liscio e levigato, lo lancio contro la superficie  e l’osservo rimbalzare prima di confidarmi con mio cugino, il mio unico e migliore amico.

“Ultimamente non sono stato del tutto sincero con te, Jimmy, c’è una cosa di cui ti voglio parlare e ti prego di non dirlo a tua madre. È molto personale”

“Lo immaginavo” risponde prontamente lui, con un sorriso, lanciando a sua volta un sasso “scommetto che ha a che fare con una ragazza, vero?”

“Come hai fatto a capirlo?”

“Teddy, ti conosco da quando siamo nati, per me sei un libro aperto. E poi si sa che quando una persona è innamorata, perde l’appetito ed è sempre distratta. Esattamente come te in questo ultimo periodo”

“Io non ho mai detto di essere innamorato. D’accordo, c’è una ragazza che mi piace e tutti i pomeriggi dell’ultima settimana li ho trascorsi in biblioteca insieme a lei, perché mi ha detto che aveva bisogno di un aiuto nello studio… E questa sera dobbiamo incontrarci in un vecchio fienile abbandonato” spiego, senza riuscire a trattenere un sorriso che contagia subito anche James.

“Direi che ci sono tutti i presupposti per una serata molto piacevole e movimentata. Non mi hai ancora detto chi è la fortunata”

“Che tu ci creda o no è Ava”.

L’espressione di Jimmy cambia completamente: il sorriso sparisce dalle sue labbra e corruccia le sopracciglia, in un’espressione incredula.

“Ava? La stessa Ava che c’è in classe nostra?” domanda, e quando faccio un cenno affermativo con la testa, si affretta ad aggiungere delle parole che mi lasciano a bocca aperta “è meglio se non vai all’appuntamento”

“Perché? Per quale motivo non dovrei andarci? Non dirmi che stai dicendo questo perché ti piace e sei geloso di me!”

“No, hai frainteso completamente le mie parole”

“Allora spiegami per quale motivo hai cambiato improvvisamente idea”.

James lancia un altro sasso prima di rispondere alla mia domanda.

“Conosco Ava da molto tempo e tutti sanno che ha una cotta per Jason”

“Forse ha cambiato idea, Jimmy. Forse Ava si è finalmente resa conto che Jason è un completo idiota e che vale meno di un quarto di dollaro”

“Non lo so, Teddy. Mi dispiace dirtelo, ma questa faccenda non mi convince affatto. Io vorrei essere contento per te, ma sento che c’è qualcosa di strano, capisci?”

“Ohh, certo, è perché io sono uno sfigato e le ragazze carine come lei non stanno mai con gli sfigati. Puoi dirlo, non mi offendo”

“Non sto dicendo questo! Io voglio che tu abbia una ragazza a tuo fianco, ma non credo che Ava sia quella giusta. Non hai pensato che, forse, ti sta sfruttando o si sta prendendo gioco di te?”

“Che senso avrebbe?” dico, iniziando ad irritarmi “è stata lei a fare il primo passo: lei si è seduta vicino a me sul muretto e lei mi ha chiesto di trascorrere del tempo insieme nel vecchio fienile. Forse non la conosco come la conosci tu, ma ti posso assicurare che le sue intenzioni non nascondo un secondo fine. E se davvero ci tieni a me, smettila di provare a rovinare il mio primo appuntamento ed aiutami a renderlo perfetto”.

Mio cugino sospira, scuote la testa, ma non prosegue con le sue congetture.

“Va bene. In che modo posso esserti utile?”

“Io e Ava dobbiamo incontrarci davanti alla biblioteca pubblica. Verrai anche tu con me, ma resterai per tutto il tempo nascosto dietro ad alcuni alberi e…”

“Aspetta. Stai dicendo che io devo rimanere lì ad attendere il tuo ritorno? E cosa dovrei fare per ore ed ore?”

“Non lo so, ma ti prometto che sono pronto a ricambiare il favore se mai dovesse presentarsi l’occasione. E c’è un’altra cosa che devi fare per me: non voglio che zia Margaret sappia del mio appuntamento. Sai come è fatta e sai che non farebbe altro che agitarmi”

“E cosa dobbiamo dirle?”

“Nulla, semplicemente che andiamo a fare una passeggiata in centro città”.

James, alla fine, acconsente alle mie richieste senza protestare e trascorro quasi l’intero pomeriggio a scegliere i vestiti da indossare ed a pettinarmi i capelli; quando ciò che vedo allo specchio mi soddisfa, chiedo un’ulteriore conferma a Jimmy.

“Stai bene” si limita a commentare, lanciandomi un’occhiata veloce prima di riprendere la lettura di un fumetto.

“Ti ringrazio per le tue parole esaustive”

“Scusami, Teddy, ma sai come la penso riguardo all’appuntamento”

“Allora, se qualcosa andrà storto, saprò con chi prendermela” rispondo, scrollando le spalle.



 
Ho appuntamento con Ava alle otto e mezza davanti all’ingresso della biblioteca pubblica di Conecuh County: quando io e James arriviamo, scopro con piacere che lei mi sta già aspettando.

La osservo per qualche minuto da dietro il tronco di un albero: indossa una semplice gonna rosa ed una camicetta bianca, a maniche corte, ma ai miei occhi appare comunque perfetta, quasi fosse una visione angelica.

“Allora… A questo punto le nostre strade si dividono. Buona fortuna per l’appuntamento. Cerca di non dimenticarti di me” sussurra Jimmy, per non farsi sentire da Ava; nonostante il litigio che abbiamo quasi avuto a causa sua, riesco lo stesso a rivolgergli un sorriso.

“Non ti preoccupare, tornerò il prima possibile e ti farò diventare verde dall’invidia” dico, prima di uscire dal mio nascondiglio e di raggiungere la ragazza più bella della scuola; le porgo un piccolo mazzo di fiori che ho raccolto con le mie stesse mani e mormoro qualche complimento “sei davvero bellissima questa sera. In realtà lo sei sempre… Ma questa sera è diverso… Questi sono per te, mi dispiace non aver preso qualcosa di più carino, ma non ho avuto il tempo di andare in un negozio per comprare dei cioccolatini o un peluche”

“Teddy, non devi preoccuparti di questo” risponde subito lei; avvicina il mazzo al viso ed inspira profondamente “i fiori sono stupendi ed hanno un profumo meraviglioso. È già tutto perfetto così, te lo giuro. Vieni, andiamo al fienile”.

Mi prende per mano ed io la seguo lungo il marciapiede, con il rumore dei battiti del mio stesso cuore che mi rimbomba nelle orecchie.

Dopo qualche minuto ci fermiamo davanti ad una vecchia struttura, completamente avvolta dall’oscurità, e Ava mi spiega che si tratta, appunto, di un fienile abbandonato che nessuno ha più comprato o sistemato da molti anni.

Entro io per primo, Ava mi segue subito dopo, e cerco l’interruttore della luce con la mano destra: finalmente lo trovo ed alcuni neon rendono l’atmosfera meno inquietante, anche se molti punti restano immersi nel buio più assoluto.

“Non ti fa paura questo posto?” domando, mentre mi siedo sulle assi del pavimento; Ava prende posto a mio fianco, si scioglie la lunga coda di cavallo e scoppia nella sua risata cristallina.

“Perché dovrebbe farmi paura?”

“Perché… Sei una ragazza… E le ragazze hanno paura dei fienili abbandonati”

“Ed io ti sembro una ragazza come le altre?” mi chiede, con un sorriso.

Non ho il tempo di rispondere alla sua domanda perché avvicina il suo viso; sento le sue labbra morbide posarsi sulle mie e chiudo gli occhi.

Non so perché lo faccio, è un gesto che mi sorge spontaneo.

Il mio cuore sta per scoppiare quando sollevo nuovamente le palpebre, ed anche se non posso vederle, sono sicuro che le mie guance, in questo momento, hanno lo stesso colore di una mela matura.

Ava socchiude la bocca, ma non riesco a capire il senso delle parole che pronuncia.

“Come?” chiedo, allora, con voce gracchiante.

“Era il tuo primo bacio?”

“Si. Sono stato un disastro, vero?”

“No, affatto, è stato un bacio molto dolce. Vuoi vedere qualcosa che non hai mai visto prima?”

“Di che cosa si tratta?” domando, incuriosito.

Lei non risponde subito: si alza, mi dice di fare lo stesso e poi si allontana di qualche passo, in modo da essere completamente illuminata da uno dei neon; inizia a sbottonare la camicetta che indossa e mi ritrovo a trattenere rumorosamente il fiato.

Tutto avrei potuto immaginare tranne che al mio primo bacio sarebbe seguito il mio primo rapporto intimo completo.

Nello stesso momento in cui intravvedo il reggiseno di Ava, accade qualcosa di strano: sento una sostanza calda e viscosa cadere sulla mia testa e sulle mie spalle, ed in pochi secondi mi ritrovo sommerso da essa.

Sbatto più volte le palpebre, confuso, senza riuscire a capire che cosa è appena accaduto e quando abbasso lo sguardo, mi rendo conto di avere i vestiti e le braccia impregnati di un liquido rosso, simile alla vernice, dall’odore ferroso e pungente.

Sangue.

Sono ricoperto del sangue di qualche animale.

Qualcuno spalanca la porta del fienile e delle risate giungono alle mie orecchie, seguite da una voce maschile che conosco fin troppo bene.

“Bravissima, Ava, la tua performance da attrice è stata a dir poco perfetta!” esclama Jason, battendo le mani, imitato dal suo gruppo di amici.

“Ava…” ripeto il suo nome in un sussurro, cerco disperatamente il suo sguardo perché non voglio credere al suo coinvolgimento in questo orribile scherzo, ma lei evita accuratamente d’incrociare il mio sguardo e si abbottona la camicetta.

“Ohh, Ava, Ava…” Jason imita la mia voce e piega le labbra in una smorfia di disgusto “ma non capisci quello che è successo? Sei così stupido da non capire che sei stato preso in giro per tutto il tempo? Sono stato io ad ordinarle di venire da te e di chiedere il tuo aiuto per studiare, e sono stato sempre io a dirle di organizzare questo appuntamento. Davvero credevi che ad una ragazza come lei potesse interessare uno sfigato come te, Theodore? Adesso capisco perché ti piace giocare al pervertito che si nasconde nello spogliatoio delle ragazze: è l’unico modo che hai per vederle da vicino. Vattene”.

Sono così sconvolto che faccio fatica ad alzarmi; quando passo vicino al gruppo vengo spinto a terra, e così mi ritrovo non solo imbrattato di sangue, ma anche di paglia secca.

Il rumore delle risate diventa più forte, quasi insopportabile, provo ad alzarmi una seconda volta e finalmente riesco ad uscire dal fienile.

Quando raggiungo la biblioteca pubblica, trovo James seduto su un basso muretto, impegnato a sorseggiare una bibita, i suoi occhi scuri si spalancano non appena si posano sul mio viso, e la bottiglietta di vetro che ha in mano si frantuma contro il marciapiede.

Capisco perfettamente la sua reazione, dal momento che devo apparire come una creatura uscita da un film dell’orrore.

“Teddy?” mi domanda, in un sussurro “che cazzo ti è successo?”

“Portami a casa, per favore. E aiutami a ripulirmi senza che zia Margaret ci scopra”.

Non dice una sola parola: mi passa il braccio destro attorno alle spalle e mi sostiene fino a casa.

Rientriamo senza fare il minimo rumore, per non svegliare Meg, e chiudiamo a chiave la porta del bagno; mentre James si occupa di riempire la vasca con acqua calda, non riesco a resistere all’impulso di guardarmi allo specchio e ciò che vedo mi spinge sull’orlo di una crisi di pianto: il sangue ormai secco e la paglia mi conferiscono un aspetto orrendo.

“Ecco. È pronta” mi avvisa Jimmy, chiudendo il rubinetto.

Mi spoglio completamente e m’immergo nell’acqua calda, che rilascia tante piccole nuvole di vapore nell’aria, quasi subito si tinge di un rosa chiaro che si trasforma in poco tempo in un rosso acceso quando finisco di strofinarmi i capelli, le braccia e la pelle del viso.

Sono costretto a svuotare la vasca ed a riempirla per tre volte prima che la mia pelle torni ad avere il suo colore normale; alcuni rametti di paglia sono rimasti attaccati ai miei capelli e così Jimmy si offre di togliermeli, prima che diventino tutt’uno con le ciocche.

“Avevi ragione su tutto” mormoro, stringendo le ginocchia contro il petto “sono stato un idiota a non capire prima che era tutta una trappola e che ad una ragazza come Ava non potrebbe mai interessare uno sfigato come me. Adesso ne sto pagando le conseguenze”

“Non è colpa tua, Teddy”

“Invece si, non devi compatirmi, James. Tu mi avevi avvisato ed io non ho voluto ascoltarti… Non voglio più uscire con una ragazza per tutto il resto della mia vita. Anzi. Non voglio più uscire e basta, neppure per andare a scuola”

“No, no, no… Ascoltami. Non puoi fare così! Se reagisci in questo modo, farai esattamente ciò che loro si aspettano da te. D’accordo, è stato un brutto episodio, ma ti prometto che insieme lo supereremo e che arriverà il giorno in cui rideremo ripensandoci”

“Ti ringrazio per quello che stai facendo, Jimmy, ma dubito fortemente che quel giorno possa davvero arrivare”

“Allora, se non vuoi avere più nulla a che fare con le ragazze, puoi provare ad esplorare il mondo dei ragazzi”.

La battuta di mio cugino non mi strappa alcun sorriso, contribuisce solo ad irritarmi ulteriormente.

“Non sei spiritoso”

“Stavo scherzando, era solo una battuta” si affretta a dire lui, alzando le mani, indicando poi i miei vestiti abbandonati sul pavimento “che cosa facciamo con quelli? Non possiamo lasciarli in casa, altrimenti mia madre li vedrà e chiederà spiegazioni”

“Non lo so, penserò a qualcosa domani” rispondo, in tono stanco.

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Capitolo 9
*** 'F' ***


L’acne continua a martoriare il mio viso, benché sia trascorso un anno intero da quando mi sono svegliato con la pelle ricoperta da macchie rosse.

Zia Margaret dice che non devo essere impaziente perché sto ancora attraversando una fase di crescita, e che quando terminerà, sarò una persona completamente diversa; una persona completamente diversa che, finalmente, apprezzerà il proprio riflesso allo specchio.

Dubito fortemente che quel giorno arriverà; in questo momento, però, il mio aspetto fisico è un problema del tutto irrilevante in confronto alla concreta possibilità di trascorrere l’intera estate a studiare.

Nonostante tutto sono riuscito a trascorrere il primo anno scolastico senza gravi intoppi, ma lo stesso non vale per il secondo: in pochi mesi sono riuscito a recuperare le materie in cui avevo una ‘F’ ed eccezione di una.

Matematica.

Il demone infernale di ogni singolo studente.

“La scuola finisce tra due giorni… Come pensi di riuscire a trasformare quella ‘F’ in una ‘C’?” mi domanda James, al termine dell’ennesimo giorno di lezioni.

“Non ti preoccupare” rispondo prontamente, indicandogli l’insegnante con un cenno della testa “adesso che tutti sono usciti, le chiederò di parlare in privato e vedrai che riuscirò a trovare una soluzione”

“Me lo auguro, ti aspetto fuori”.

Jimmy non è convinto del mio successo, ma voglio fare lo stesso un tentativo.

Mi avvicino alla signorina Cavendish e mi schiarisco la gola, in modo che si accorga della mia presenza; lei smette di cercare qualcosa dentro la sua borsa, si sistema gli occhiali e mi rivolge un sorriso gentile.

“Posso fare qualcosa per te, Theodore?”

“Si, signorina Cavendish, in effetti c’è qualcosa che può fare per me… Vorrei discutere del mio rendimento scolastico nella sua materia”

“Direi che i voti parlano in modo molto chiaro: una ‘F’ costante non può trasformarsi magicamente in una ‘A’ a fine anno”

“Si, lo so, ma vorrei che valutasse alcuni fattori prima di arrivare ad una conclusione personale. Non ho avuto un rendimento costante quest’anno, ma nell’ultimo periodo mi sono impegnato e sono riuscito a recuperare tutto quello che dovevo recuperare. La sua materia è l’unica che mi resta e… E capisce anche lei che sarebbe un vero peccato costringermi a trascorrere tutta l’estate a studiare. Infondo sa benissimo che sono altri i studenti che meritano questo trattamento. Io non disturbo mai le sue lezioni o quelle degli altri insegnanti e sono sempre molto educato”

“Si, Theodore, questo è vero. Sei un ragazzo educato e gentile, ma faccio questo lavoro da quasi trent’anni e non sono mai scesa a compromessi. A fine anno ognuno raccoglie ciò che semina”

“Si, ha ragione, signorina Cavendish… Però… Sappiamo tutti che c’è sempre l’eccezione che conferma la regola. La prego, le prometto che il prossimo anno avrò tutte ‘A’ in matematica! Può darmi compiti extra per la pausa estiva, se vuole, le prometto che li farò tutti!”.

Accompagno queste ultime parole con uno sguardo supplichevole, che non riesce a sostenere, ed alla fine la sento emettere un profondo sospiro.

“Non lo so, Theodore, devo pensarci”

“La ringrazio, signorina Cavendish, la sua fiducia verrà ricompensata! Glielo prometto!”.

Non aspetto un’ulteriore risposta da parte sua ed esco dall’edificio con un sorriso soddisfatto, raggiungo mio cugino e gli racconto ciò che sono riuscito ad ottenere grazie ad un’ottima prova da attore.

“Ha detto che deve pensarci, non che ti darà la sufficienza” si limita a commentare, dopo aver ascoltato il mio breve racconto; sollevo le spalle e decido di non dargli importanza, perché non sono intenzionato a farmi guastare il buon’umore.



 
Per la seconda volta commetto l’errore di non ascoltare le parole di James, e ne pago le conseguenze il giorno in cui andiamo a vedere i risultati scolastici, appesi sul vetro della porta principale.

Jimmy è stato ammesso all’anno successivo.

Io, invece, sono stato rimandato.

In matematica.

“Non è possibile!” esclamo, ricontrollando più volte il giudizio finale, sicuro di avere letto la riga sbagliata “ci deve essere un errore! La signorina Cavendish mi aveva garantito che non mi avrebbe rimandato nella sua materia! Non può avere cambiato idea! Non è giusto! Qui c’è un errore che deve essere risolto subito!”.

Le mie proteste non servono a nulla, perché non possono cambiare ciò che i professori hanno deciso per noi; quando torno a casa, sono costretto a subire una pesante predica da mia zia, che ascolto in modo distratto, con la testa nascosta sotto il cuscino del mio letto.

“Sei un ragazzo estremamente intelligente e capace, hai tutte le qualità per essere un ottimo studente… Si può sapere per quale motivo non ti sei impegnato durante l’anno? Non ti ho mai chiesto di avere voti eccellenti o di essere il più bravo della classe, e non ho mai fatto pressioni né a te né a James. Lui ce l’ha fatta ad essere promosso, si è impegnato, perché anche tu non hai fatto lo stesso? Perché non sei riuscito a fare quel piccolo sforzo per avere almeno la sufficienza? Hai idea dell’estate che ti aspetta? Theodore! Puoi guardarmi negli occhi mentre ti parlo? Non voglio avere una discussione con un cuscino!”.

Sbuffo, lancio il cuscino sul pavimento e guardo mia zia, che se ne sta in piedi con le mani appoggiate ai fianchi.

“La signorina Cavendish mi aveva garantito che non mi avrebbe rimandato, te l’ho già detto una volta. Non è colpa mia se non ha mantenuto la parola data!”

“Teddy, se durante tutto l’anno hai sempre preso delle insufficienze, non puoi essere promosso, capisci?”

“Ma sono riuscito a recuperare tutte le altre materie in tempo! Mi mancava solo la sua! Avrebbe potuto essere più comprensiva” insisto per l’ennesima volta, ma Margaret sembra non capire il mio punto di vista e non è intenzionata a prendere le mie difese “dovresti andare dai professori e chiarire la faccenda, invece preferisci vedere il tuo unico nipote che trascorre l’intera estate a studiare”

“Anche se sei riuscito a recuperare le altre materie, non significa che avresti avuto un trattamento speciale per la sua, e non ti permetto di dire certe cose. Non sono intenzionata ad andare a contestare il volere dei tuoi insegnanti perché hai avuto esattamente ciò che meritavi, Teddy. Hai diciassette anni e sei abbastanza grande per prenderti la responsabilità delle tue azioni. Mi auguro che questa esperienza ti serva per maturare”.

Non rispondo; quando sento il cigolio della porta che si chiude, mi siedo a gambeincrociate sul materasso e cerco qualcosa, per sfogarmi, dentro il cassetto del comodino.

Trovo un piccolo pacchetto di fiammiferi, ne accendo uno e guardo la fiamma consumarsi rapidamente.

“Quella stupida vacca” commento, riferendomi alla mia insegnante di matematica “me la pagherà. Merita una lezione”

“E cosa vuoi fare? Non pensi di essere già abbastanza nei guai, Teddy?” chiede James, corrucciando le sopracciglia.

“Penso di avere già un’idea” mormoro, accendendo un altro fiammifero “ma tu devi aiutarmi”.



 
Conecuh County è una piccola cittadina dell’Alabama, di conseguenza tutti si conoscono.

E tutti sanno dove ciascuno abita.

La casa della signorina Cavendish è a pochi isolati di distanza da quella di mia zia; io e James aspettiamo che cali la notte prima di uscire ed avviarci silenziosamente verso la graziosa abitazione a due piani.

“Come facciamo ad entrare?” domanda mio cugino “la porta d’ingresso è chiusa a chiave”

“Si, ma c’è una seconda porta sul giardino posteriore. Andiamo” rispondo, facendogli un cenno con la mano destra.

Il tasso di criminalità a Conecuh County è molto basso, proprio per questo motivo i suoi abitanti non fanno attenzione a chiudere con cura tutte le porte o le finestre delle loro case.

E quella della signorina Cavendish non fa eccezione.

La maniglia si piega sotto la mia mano, muovo qualche passo e mi ritrovo in una piccola cucina molto curata; una porta scorrevole la separa da un altrettanto grazioso salotto, forse fin troppo stucchevole, in cui spiccano le pareti piene di quadri e le mensole ricoperte da centrini ricamati all’uncinetto.

La poca luce che entra dalle finestre rende l’atmosfera sinistra, quasi inquietante, anche a causa dei profondi rintocchi che provengono da un orologio a pendolo, posizionato vicino alle scale che portano al primo piano.

Jimmy si guarda attorno nervosamente e poi posa a terra la tanica che ha portato con sé.

“Non mi piace quello che stiamo per fare, se qualcosa andasse storto, potremo passare guai seri… Siamo ancora in tempo per uscire e tornare a casa, Teddy”

“Vorresti abbandonarmi? Devo ricordarti, per l’ennesima volta, il patto che abbiamo fatto tre anni fa?”

“Non sto dicendo che non voglio aiutarti, ma stiamo rischiando di commettere una grandissima cazzata… Se qualcosa va storto…”

“Niente andrà storto se farai quello che ti dico io” mormoro; osservo con attenzione i numerosi oggetti e mobili che affollano la stanza, mi mordo la punta della lingua e poi indico l’orologio a pendolo “quello. Daremo fuoco a quell’orologio. È posizionato vicino alle scale, quindi il fumo si estenderà subito al piano superiore e sveglierà la vacca. Un piccolo spavento, nulla di più. Avanti, versa la candeggina sul legno”.

Jimmy è ancora titubante, ma alla fine svita il tappo della tanica e versa l’intero contenuto contro l’oggetto in legno, facendo attenzione a non sporcarsi, altrimenti le fiamme potrebbero aggredire anche lui; appena conclude il suo compito, prendo una confezione di fiammiferi da una tasca dei pantaloni, ne accendo uno e l’osservo per qualche secondo prima di lanciarlo contro il manufatto antico.

Forse abbiamo portato con noi troppa candeggina, perché la fiamma che si sprigiona al solo contatto con il fiammifero è molto più alta di quello che avevo calcolato; sia io che mio cugino arretriamo di qualche passo e ci ritroviamo a sbattere la schiena contro la moquette.

Il calore è così insopportabile che mi sembra di sentire la pelle del mio viso sciogliersi, quasi fosse di cera.

“Teddy…”.

Il verso strozzato di James mi fa prima abbassare e poi spalancare gli occhi: il fuoco si sta estendendo anche sulla morbida moquette che ricopre il pavimento.

“Usciamo, usciamo, presto!” esclamo, alzandomi, mentre sento dei rumori provenire dal piano superiore.

Riusciamo a raggiungere il giardino anteriore, ma mio cugino mi blocca, afferrandomi per un braccio.

“Non possiamo andarcene se non siamo sicuri che la signorina Cavendish sia salva!”

“Non fare lo stupido, non possiamo restare qua! Vedrai che riuscirà ad uscire tra pochi secondi! Ascolta, James, se restiamo qui, a breve arriverà diversa gente attirata dal fumo e dalle fiamme… Se ci vedono è la fine” urlo, liberandomi dalla sua presa; lui non ha il tempo di ribattere perché la porta d’ingresso dell’abitazione si apre ed appare la nostra insegnante, stretta in una lunga vestaglia da notte, con la mano destra premuta contro la bocca per combattere un attacco di tosse “James! Scappa! Muoviti!”.

Mi volto a fissare mio cugino mentre si allontana correndo, poi torno a guardare la signorina Cavendish ed incrocio il suo sguardo.

Cazzo.
 
 

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Capitolo 10
*** Teddy? ***


La mia piccola vendetta nei confronti della signorina Cavendish mi porta a pagare un prezzo molto più alto di quello che pensavo.

Tre anni di riformatorio.

O carcere minorile, ognuno è libero di chiamarlo nel modo in cui preferisce.

Ciò non cambia il fatto che si tratta di una struttura da cui è impossibile uscire prima di aver scontato tutta la pena.

Questa volta zia Margaret è dalla mia parte, perché mi ritiene innocente, e fa qualunque cosa in suo possesso per evitarmi una punizione così severa; ma ogni suo tentativo è inutile e, proprio come ha detto lei, ormai sono quasi maggiorenne e sono abbastanza grande per affrontare le conseguenze delle mie azioni.

Contro ogni mia previsione, i tre anni in riformatorio si rivelano molto più piacevoli, ed anche se sono circondato da ragazzi problematici, per la prima volta riesco a stringere dei rapporti che si avvicinano all’amicizia; e quando arriva il momento, per me, di tornare alla realtà mi sento quasi triste.

Appena varco l’enorme cancello dell’istituto sento il rumore di un clacson e noto un ragazzo scendere da una macchina parcheggiata poco lontano; non vedo James da tre anni perché nel riformatorio le visite dei parenti e degli amici erano vietate, ma lo riconosco subito.

Lo raggiungo quasi correndo, lascio cadere a terra lo zaino che ho in mano e lo stringo in un abbraccio per ricompensare tutto il tempo che abbiamo trascorso lontani l’uno dall’altro.

Lui è una delle poche persone che mi sono mancate terribilmente in questi tre anni.

“Per poco non ti riconoscevo!” esclama poi, allontanandosi di un passo “che cosa hai fatto ai capelli?”

“Avevo voglia di un cambiamento” rispondo, passandomi una mano tra le ciocche lunghe, che mi sfiorano le spalle “e quel bolide? Hai preso la patente?”

“Si, ed ho comprato questo gioiellino mettendo da parte mesi e mesi di stipendio”

“Lavori?”

“Si, ti racconterò tutto con calma in un altro momento. Andiamo a casa, mia madre è ansiosa di vedere il suo nipote preferito”

“Aspetta, Jimmy” dico, raccogliendo lo zaino “prima di tornare a casa c’è una persona che vorrei rivedere”.

Lui mi guarda per qualche istante, annuisce senza dire una sola parola e mi fa cenno di salire in macchina.



 
Entro solo io nella stanza, James preferisce rimanere nel corridoio perché dice che si sentirebbe solo un intruso in un momento simile, e gli sono grato per questa delicatezza.

Chiudo la porta alle mie spalle ed osservo l’unico lettino occupato, prima di avvicinarmi ad esso e prendere posto in una delle sedie a disposizione di coloro che vengono a trovare i propri familiari; contemplo in silenzio il volto di mia madre, quasi senza respirare: non è cambiata dall’ultima volta in cui l’ho vista, ha solo qualche ruga in più sul viso e delle ciocche grigie nella chioma castana.

Le stringo la mano destra con delicatezza, perché non voglio svegliarla, e le accarezzo la pelle per diversi minuti prima di alzarmi e tornare da James.

“Come è andata?”

“Sta dormendo, credo sia imbottita di farmaci” rispondo, scuotendo la testa; lui mi passa un braccio attorno alle spalle e mi conduce fuori dalla clinica, spostando la conversazione ad un altro argomento.

“Sono sicuro che mia madre non ti riconoscerà, sai…”

“Teddy?”.

Jimmy non ha il tempo di aggiungere altro, perché qualcuno pronuncia il mio soprannome con voce sorpresa; giro la testa verso sinistra e vedo una ragazza che mi osserva con gli occhi azzurri spalancati.

La raggiungo e lei è costretta a sollevare il viso, dato che durante il periodo in riformatorio sono cresciuto di almeno una decina di centimetri.

“Ava” mi limito a pronunciare il suo nome, piegando le labbra in un sorriso, mentre la sua sorpresa cresce sempre di più.

“Oh mio… Ma sei davvero tu? Sei così… Così…”

“Diverso? Si, finalmente quelle maledette macchie rosse se ne sono andate per sempre”

“Non si tratta solo di quello. È tutto il tuo aspetto ad essere così diverso”

“Sono davvero cambiato così tanto? Peccato, ormai mi ero abituato ad essere lo sfigato dell’intera città… Questo significa che dovrò inventarmi qualcosa di nuovo per avere un’etichetta altrettanto soddisfacente”

“Riguardo a quello che è successo tre anni fa…” mormora Ava, abbassando lo sguardo “forse questo non è né il luogo né il momento giusto… E forse ho aspettato troppo per dirti queste parole, ma mi dispiace per quello che è successo. Jason non mi aveva detto nulla del sangue, ed io sono stata una ragazzina stupida a seguire ogni suo ordine. Avevo… Avevo una cotta per lui e avrei fatto qualunque cosa per…”

“Non devi giustificarti con me, Ava, ormai tutto questo appartiene al passato” mi mordo la punta della lingua prima di proseguire “eravamo solo dei ragazzi, e tutti sanno che i ragazzi possono essere molto crudeli. Poi si cresce, si matura, si capisce quali sono stati i propri sbagli ed arriva un giorno in cui… Si ride di episodi simili, capisci? Non sono arrabbiato con te, non devi avere i sensi di colpa. E comunque, anche se te lo ripeteranno ogni giorno, sei ancora più bella di tre anni fa”

“Si, ma gli altri ragazzi non sono te”.

Sorrido di nuovo e sistemo una cinghia dello zaino sulla spalla destra.

“Hai impegni per domani sera? Se sei libera, potremo incontrarci davanti alla biblioteca pubblica e porre rimedio a quell’appuntamento disastroso”

“Mi piacerebbe molto”

“Perfetto, allora ci vediamo là per le nove, Ava. Conterò le ore”

“Lo farò anche io”.

Le lancio un’ultima occhiata prima di tornare da James, che ha assistito a tutta la scena senza dire una sola parola, appoggiato al cofano della macchina.

“Sono confuso, potresti spiegarmi che cosa è appena successo?”

“Hai sentito benissimo le mie parole: ho chiesto ad Ava di uscire”

“La stessa ragazza che tre anni fa ti ha portato dentro quel fienile e…”

“Il passato è passato” ripeto una seconda volta, aprendo la portiera anteriore destra della macchina; lancio lo zaino sui sedili posteriori e poi mi lascio cadere su quello del passeggero “che cosa non ti convince?”

“Ava è una ragazza molto carina, chiunque vorrebbe averla come fidanzata, ma io non riuscirei mai ad uscire una seconda volta con la stessa persona che mi ha condotto ad una trappola con l’inganno” commenta lui, occupando il posto del guidatore e mettendo in moto la macchina.

“Ha detto di essere molto dispiaciuta, che lo ha fatto solo perché aveva una cotta per Jason e voleva ottenere un appuntamento con lui. Ha capito di avere fatto una cazzata e io l’ho perdonata… Chissà, magari da tutto questo potrebbe nascere una bella storia d’amore, Jimmy, non credi?”

“Se così dovesse accadere, sarei contento per te, ma a mio parere meriti di avere a tuo fianco una persona diversa da Ava”.

Rivolgo il viso al finestrino e scuoto la testa, concentrandomi sul paesaggio che scorre velocemente: Conecuh County non è minimamente cambiata durante questi tre anni, ogni cosa è rimasta esattamente al suo posto, proprio come ricordavo.

Quando arriviamo a casa, mia zia ci sta aspettando vicino alla porta d’ingresso, ed ho appena il tempo di scendere dalla macchina che mi ritrovo stretto in un abbraccio quasi soffocante, seguito da parole simili a quelle pronunciate da Ava.

“Teddy, come sei cambiato!” esclama Margaret, indietreggia di un passo per osservarmi meglio “te lo avevo detto che l’acne se ne sarebbe andata, dovevi solo avere pazienza. Tra poco diventerai uno dei ragazzi più belli dell’intera città”

“Dici questo perché sei mia zia”

“Anche la tua voce è cambiata, è diventata molto più profonda. Venite, sarete entrambi stanchi”.

Trascorro il resto della giornata a raccontare gli episodi più interessanti dei tre anni che ho trascorso in riformatorio; mia zia e mio cugino fanno lo stesso, e così scopro che la signorina Cavendish si è trasferita in un’altra città, mentre Jason è finito in prigione per aver compiuto una rapina.

“Ha avuto esattamente ciò che meritava. Quelli come lui sono destinati a trascorrere il resto della loro vita dietro le sbarre” commento quella stessa notte, prima di addormentarmi.
 
 

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Capitolo 11
*** Chains ***


È James a svegliarmi quando, ormai, è mattina: mi scuote per le spalle finché non sollevo le palpebre a fatica.

“Non sono più nel riformatorio, non ho orari rigidi da seguire” mormoro, con voce assonnata “ si può sapere per quale motivo mi hai svegliato così presto?”

“Vestiti, abbiamo un appuntamento e non possiamo arrivare in ritardo”

“Hai organizzato un’uscita a quattro? Lo sai che questa sera devo uscire con Ava, non voglio vedere un’altra ragazza. Lasciami dormire”

“No, idiota, non si tratta di un appuntamento romantico. Dobbiamo andare in un posto e faresti meglio a prepararti subito”

“Quando parli così sembri proprio tua madre” dico, alzandomi dal letto e vestendomi in pochi minuti “potresti darmi qualche spiegazione più soddisfacente?”.

Solo quando usciamo di casa ricevo, finalmente, le dovute spiegazioni da parte di mio cugino.

“Quando la signorina Cavendish si è trasferita, hanno demolito la sua casa, costruito un nuovo edificio e aperto una nuova attività”

“Di che cosa si tratta?”

“Lo vedrai ben presto” risponde lui, con uno strano sorriso sulle labbra.

Non capisco per quale motivo Jimmy non vuole rivelarmi la nostra destinazione, ma quando la vedo con i miei stessi occhi resto senza parole: la graziosa casetta a due piani della nostra ex insegnante di matematica non esiste più; al suo posto, ora, sorge uno Studio di tatuaggi, dalla vetrina variopinta.

“Tatuaggi?” domando, mentre entriamo.

“Si”

“Ma… Perché?”

“Per due semplici motivi: è il mio modo per darti il bentornato a casa e mi sembra un modo originale per rafforzare la nostra promessa. Tieni” si accomoda su uno dei divanetti neri, messi a disposizione dei clienti in attesa, e mi lancia un album che riesco ad afferrare al volo “scegli tu quello che vuoi. Per me è lo stesso”.

Mi siedo a mia volta ed inizio a sfogliare le numerose pagine plasticate, fino a quando il mio sguardo non cade sul disegno di una catena.

“Questo”

“Come mai la catena?”

“Quando ero in riformatorio, c’era un ragazzo che aveva numerosi tatuaggi e tra quelli c’era anche una catena che gli saliva a spirale lungo il braccio sinistro” spiego, passandomi una mano tra i capelli “un giorno gli ho chiesto quale fosse il suo significato e lui mi ha detto che esistono diverse interpretazioni. Dipende se è aperta, spezzata o chiusa. A volte perfino il numero degli anelli ha un messaggio particolare. Aperta può simboleggiare la libertà. Spezzata la rinascita. Ma chiusa può simboleggiare o una promessa o un legame di sangue tra due persone… Direi che è perfetta per noi due, James”.



 
Il tatuaggio non è particolarmente grande o visibile: in realtà è una piccolissima catenina nera che circonda la base del dito medio della mia mano sinistra.

Non è neppure doloroso.

Per tutto il tempo della seduta sento solo un lieve fastidio alla mano, simile a quello che si prova quando si deve fare un prelievo del sangue.

Anche quello di James passa facilmente inosservato: la catena è identica alla mia, ma nel suo caso gira attorno al pollice destro.

Entrambi abbiamo voluto farlo piccolo in modo che zia Margaret non possa scoprirlo, o che impieghi più tempo possibile prima di accorgersi della loro esistenza.

“Ti stai preparando per il grande momento?” mi chiede Jimmy, mentre entrambi siamo in camera da letto “perché stai prendendo quello zaino?”

“Perché dentro ci sono alcune cose che mi serviranno per rendere più piacevole la serata” rispondo, con un sorriso; controllo un’ultima volta all’interno dello zaino, per essere sicuro di non aver dimenticato qualcosa d’importante, e poi sistemo una cinghia sulla spalla destra “come sto?”

“Benissimo, ma sei ancora in tempo per non andare”

“Non capisco che cosa ti preoccupa così tanto”

“Te l’ho già detto”

“Le tue sono preoccupazioni senza alcun fondamento, Jimmy. Che cosa mi hai detto tre anni fa? Che sarebbe arrivato il momento in cui avremo ripensato al fienile e ne avremo riso. Ecco, quel momento è arrivato. Ora, se non ti dispiace, c’è una ragazza che mi attende e non sono intenzionato a farla aspettare”.

Congedo mio cugino con queste parole ed esco senza farmi sentire da mia zia, perché ho preferito non accennarle dell’appuntamento.

Quando arrivo davanti alla biblioteca, trovo Ava che mi sta già aspettando, e per un solo istante mi sento riportare indietro di tre anni, al nostro primo appuntamento.

La sgradevole sensazione, però, se ne va nello stesso momento in lui lei si volta e mi rivolge uno dei suoi luminosi sorrisi, ed io non posso che fare lo stesso.

“Perché hai portato quello zaino?” mi domanda, incuriosita, dopo aver notato l’oggetto appoggiato contro la mia spalla destra; sorrido ancora e mi porto l’indice sinistro sulle labbra.

“Un piccolo segreto. Tra poco vedrai. Puoi considerarla una sorpresa speciale che ho preparato per questo appuntamento”

“Teddy, mi lasci completamente senza parole…”

“Andiamo al vecchio fienile?”.

I ricordi rischiano di travolgermi per la seconda volta quando entriamo nel vecchio edificio, e la scarsa illuminazione, la stessa di quella notte, non mi aiuta.

Eppure riesco di nuovo a scacciare quelle sgradevoli immagini dalla mia testa, perché non voglio rovinare la serata.

Ava mi volta le spalle, così ne approfitto per posare lo zaino sulle assi del pavimento e per prendere in mano la prima sorpresa; aspetto che sia lei ad accorgersene, per non rovinare l’effetto.

Proprio come mi aspettavo, i suoi occhi azzurri si spalancano nello stesso momento in cui si accorge del piccolo oggetto.

“Teddy… Perché hai un cacciavite in mano?”

“Perché, Ava, noi due dobbiamo fare una chiacchierata molto lunga, ed io voglio essere sicuro di avere la tua totale attenzione. Non provare a scappare o a fare qualcosa di stupido, o sarò costretto ad usarlo”.

Ovviamente non segue il mio consiglio.

Prova a raggiungere la porta, ma l’afferro prontamente per un braccio; quando prova a colpirmi con un calcio, affondo il cacciavite nel suo polpaccio destro, facendola gridare dal dolore.

Estraggo la punta con un gesto brusco e la spingo contro il pavimento.

“Il mio polpaccio… Il mio…” balbetta lei, mentre la pelle della gamba continua a colorarsi di rosso.

“Te lo avevo detto di non fare nulla di stupido. Adesso che hai capito che non si tratta di uno scherzo, voglio avere la tua totale attenzione, Ava, o giuro che continuerò a salire con questo cacciavite fino a quando non arriverò ad impiantarlo nella tua gola, e non credo che sia un’esperienza molto piacevole. Ti consiglio anche di non gridare, per due motivi: nessuno può sentirti dal momento che siamo in un luogo isolato, ma per precauzione sarei costretto a tagliarti la lingua ed a fartela ingoiare con le mie stesse mani”

“Perché stai dicendo queste cose?”

“Perché? Mi stai davvero chiedendo di darti delle spiegazioni? Non è abbastanza evidente?” muovo qualche passo, mi mordo la punta della lingua e poi riprendo a parlare “io credevo davvero di piacerti, Ava. James aveva provato a farmi capire che il tuo interessamento nei miei confronti era strano, perché avevi sempre avuto un debole per Jason, ma io non ho voluto ascoltarlo perché mi fidavo di te. Quel giorno ho trascorso l’intero pomeriggio a prepararmi per l’appuntamento e quando ti ho vista, davanti l’ingresso della biblioteca, non potevo credere alla fortuna di aver incontrato una persona come te. Invece era solo una trappola. Mio cugino aveva ragione, ed io sono stato uno stupido a credere che ad una ragazza come te potesse piacere davvero un ragazzo come me”

“Teddy, ti prego…” mi supplica, ma non le lascio il tempo di continuare.

“Hai idea di come mi sono sentito? Dell’umiliazione che mi hai fatto provare? Non volevo più andare a scuola, volevo solo rimanere chiuso nella mia camera per tutto il resto della mia vita. E come se ciò non bastasse, a causa tua non riesco nemmeno ad avvicinarmi ad una ragazza per chiederle di uscire, perché ogni volta penso che potrebbe prendermi in giro e calpestarmi il cuore alla prima occasione. Io non avevo alcuna intenzione di rivolgerti ancora la parola, ma quando ci siamo incontrati ho capito che non poteva essere un caso. Ho capito che mi stava venendo offerta la possibilità di restituirti tutto il dolore, la sofferenza e l’umiliazione che mi hai fatto provare… Ed ovviamente di avere anche ciò che quella sera mi avevi promesso e che non mi hai dato”

“Per favore, ti prego, possiamo risolvere questa faccenda usando solo le parole. Non uccidermi”.

Le parole di Ava mi provocano una risata divertita, e prima di risponderle sono costretto ad asciugarmi le lacrime che mi rigano le guance.

“Io non ho alcuna intenzione di ucciderti, non sono un mostro. Voglio altro da te. Spogliati”

“Cosa?”

“Hai capito perfettamente quello che ti ho chiesto: spogliati. Adesso. O questo cacciavite finirà nell’altro polpaccio” sussurro, in tono calmo, aspettando pazientemente che esegua il mio ordine; esita ancora prima di alzarsi a fatica, a causa della ferita profonda, ed inizia a spogliarsi lentamente, senza mai smettere di singhiozzare, fino a rimanere con addosso solo il reggiseno e gli slip “anche quelli”

“Per favore…”

“Smettila di ripetere sempre le stesse cose, Ava, mi stai stancando” dico, strascicando le parole “se ti limiti a obbedire a quello che io ti dico, tutto finirà in poco tempo”.

Singhiozza ancora una volta prima di obbedire e lasciare cadere sul pavimento, con mani tremanti, anche il reggiseno e gli slip; trattengo il respiro per qualche istante perché è la prima volta che mi trovo di fronte ad una ragazza completamente nuda, e lei ha un corpo pressoché perfetto.

Quando torno in me, le ordino di congiungere i polsi dietro la schiena e glieli immobilizzo con del nastro adesivo che prendo dallo zaino.

“Hai organizzato tutto nei minimi particolari” mormora, cercando di placare la crisi di pianto.

“Come ti ho già detto, mi è stata offerta un’occasione che non potevo sprecare”

“Sono vergine!” esclama all’improvviso, forse con la speranza che la sua confessione possa farmi desistere da ciò che voglio fare; strappo dell’altro nastro adesivo con i denti e poi torno davanti a lei, per guardarla negli occhi.

“Anche io sono vergine” rispondo, con un sorriso, prima di tapparle la bocca.



 
Quando ho finito con Ava, mi rivesto lentamente, senza alcuna fretta.

Ignoro i suoi singhiozzi continui e le piccole macchie di sangue sulle assi del pavimento, le tolgo il nastro adesivo dai polsi e dalla bocca, ed aspetto con pazienza che si rivesta a sua volta.

Impiega diverso tempo per farlo, sicuramente a causa delle mani che continuano a tremarle.

“Ti prego, non mi uccidere”

“Forse non mi ascolti quando parlo, Ava. Non ho alcuna intenzione di ucciderti, ma faresti meglio a tenere chiusa la bocca, hai capito?” le sfioro la pelle del viso con la punta del cacciavite “sono stato abbastanza chiaro?”

“Si” risponde lei, in un soffio.

“Adesso vattene”.

Ad un mio cenno esce dal fienile correndo; resto immobile per qualche secondo, a fissare le macchie di sangue, prima di andarmene a mia volta.

Quando rientro nella mia camera da letto, trovo James sveglio, impegnato a leggere un fumetto.

“Allora? Come è andato l’appuntamento?” mi domanda subito, spostando la sua attenzione dalle pagine colorate a me.

“Esattamente come avevo progettato io” rispondo, con un sorriso, lasciando cadere lo zaino sulla moquette.
 
 

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Capitolo 12
*** Seconda Parte: St. Clair E. Donaldson ***


Ava non ha una buona reputazione in città: le ragazze belle come lei attirano sempre gelosie femminili, ed è normale che vengano sparsi in giro racconti di relazioni fittizie con molti suoi coetanei, in modo da screditare la loro immagine pubblica.

I suoi genitori conoscono molto bene questi retroscena, di conseguenza credono solo alle parole che escono dalla sua bocca; e se qualcuno le fa un torto, la punizione non si fa attendere.

Soprattutto perché Ava è la figlia del vicesindaco di Conecuh County.

Ed è proprio per questo motivo che, tre giorni dopo l’appuntamento, vengo prelevato con la forza da un poliziotto dalla casa di mia zia.

Ovviamente provo a spiegare ciò che è successo, provo a difendermi dicendo che è stato tutto consenziente, ma nessuno mi crede e, questa volta, le conseguenze che devo affrontare non hanno nulla a che fare con il riformatorio, perché non sono più un minorenne.

Questa volta le conseguenze hanno un nome ben differente: sei anni di reclusione al penitenziario di St. Clair E. Donaldson, a Sprigfield, per stupro aggravato dall’uso di un’arma.

Margaret e James sono dalla mia parte, ma sia loro che l’avvocato che abbiamo assunto possono fare ben poco contro una carica pubblica come il vicesindaco, e così sono costretto ad accettare la sentenza del giudice a denti stretti, ed a trascorrere una notte dentro una cella della stazione di polizia, in attesa del mio trasferimento in un’altra cella.

“Il carcere è diverso dal riformatorio” dico, stringendo le mani attorno alle sbarre di metallo “lì dentro sono permesse le visite con i parenti e gli amici, e poi sei anni non sono così lunghi. Sono sicuro che passeranno in fretta”

“Il carcere è un inferno,Teddy! Non puoi chiedermi di accettare l’idea che mio nipote trascorri così tanto tempo dietro le sbarre di una cella da innocente” risponde mia zia, soffiandosi il naso in un fazzoletto di stoffa “prima il riformatorio… Adesso questo… Non è giusto!”

“Me la caverò” mormoro, scrollando le spalle; saluto Margaret e James senza sapere quando potrò rivederli, mi allontano dalle sbarre e mi lascio cadere sulla brandina cigolante.

In realtà sono terrorizzato dalla prospettiva di trascorrere sei anni della mia vita in carcere, ma non posso mostrare le mie debolezze a Meg e Jimmy.

Passo tutta la notte a rigirarmi sul materasso, senza mai riuscire ad addormentarmi, e quando finalmente riesco ad abbassare la palpebre, qualcuno colpisce le sbarre della mia cella con un manganello, più volte, avvisandomi che è arrivato il momento del mio trasferimento a Donaldson.

Sono costretto a salire in un autobus insieme ad una decina di detenuti ed uno di loro, un ragazzo della mia stessa età che non ho mai visto prima, prende posto affianco a me.

Allunga la mano destra e si presenta, dicendo di chiamarsi David.

“Non sono interessato a fare amicizia, David, in questo momento sono altre le mie preoccupazioni” rispondo, rivolgendo il viso in direzione del finestrino.

Per tutto il resto del tragitto non sento più la sua voce, ad eccezione del momento in cui appare finalmente la struttura immensa del carcere.

“Oh, cazzo!” esclama, forse perché solo ora si è reso conto che trascorrerà diverso tempo dietro le sbarre di una cella, in compagnia di detenuti violenti.

Un enorme cancello si apre, il mezzo di trasporto si ferma dall’altra parte ed i poliziotti che abbiamo come scorta bloccano i polsi di ciascuno di noi con un paio di manette, prima d’intimarci di scendere dall’autobus.

Non appena scendo la piccola rampa di scalini, mi guardo attorno, ma non c’è nulla d’interessante: evidentemente il cortile per i detenuti è situato nella parte centrale dell’intera struttura; una mossa tattica per non spaventare fin da subito i nuovi arrivati.

Il mio gruppo viene condotto all’interno di quello che sembra essere l’edificio principale dell’intero carcere: ad uno ad uno dobbiamo entrare in una stanza, spogliarci davanti ad alcune guardie, sottoporci ad una visita medica e farci una doccia fredda prima di ricevere la divisa da detenuto, che consiste in un paio di pantaloni scuri, una semplice maglietta bianca, ed il numero di matricola.

Solo una volta terminata la schedatura veniamo assegnati al rispettivo Braccio ed alla rispettiva nuova abitazione.

Vengo assegnato al Braccio E, insieme a David: io devo occupare la cella trentacinque, mentre a lui spetta la trentasette.

“Hai detto qualcosa?” domando, mentre una guardia ci scorta al Braccio E.

“Siamo quasi vicini di cella. Buffa come coincidenza, non credi?”

“Se fossi in te mi preoccuperei del compagno di cella, non dei vicini” commento, rivolgendo lo sguardo altrove; David sta per rispondere, ma le sue parole si trasformano in un gemito quando ci rendiamo conto che il nostro arrivo corrisponde all’ora d’aria che i detenuti hanno a loro disposizione, perché le porte scorrevoli delle celle sono spalancate e regna un silenzio quasi sinistro.

“Aspetta! Non te ne andare!” esclama lui, quando la pesante porta blindata che divide il Braccio dal resto della prigione viene chiusa con un tonfo sordo; mi raggiunge e stringe il cuscino che ha in mano contro il petto “è evidente che non abbiamo iniziato nel modo migliore, ma forse sarebbe meglio restare uniti dal momento che siamo entrambi delle matricole”

“Te l’ho detto: non m’interessa fare amicizie. Tutto ciò che voglio è scontare la mia pena, ed uscire da questo posto il prima possibile. Addio, David, vedrai che riuscirai a trovare un amichetto” rispondo, infastidito, prima di andare alla ricerca della cella trentacinque.

Quando finalmente la trovo, sento qualcuno appoggiarmi una mano sulla spalla destra, in un muto invito a voltarmi: di fronte a me ci sono tre giovani uomini, dall’età compresa tra i venticinque ed i trent’anni.

“Sei nuovo?” mi domanda uno di loro, lo stesso che ha attirato la mia attenzione; le sue labbra sono piegate in un sorriso affabile, ma preferisco non rilassarmi per timore di cadere in un’altra trappola.

“Si”

“Come ti chiami?”

“Non sono in cerca di guai” rispondo, indietreggiando di un passo.

“Stai calmo! Non siamo intenzionati a giocarti qualche brutto scherzo… Allora, qual è il tuo nome?”

“Theodore”

“D’accordo, Theodore, sei stato assegnato alla cella trentacinque, giusto?”

“Si”.

Corruccio le sopracciglia, confuso, perché non riesco a capire il senso della sua domanda.

“Ohh, non posso crederci! Lo hanno fatto ancora”

“Fatto cosa?”

“Tutti sanno che la cella trentacinque ha problemi al lavandino ed al cesso. Ogni volta che arrivano le matricole, i secondini scelgono sempre un povero malcapitato per ridere delle sue sventure. Adesso tocca a te, Theodore, ma non sei costretto a rimanere qui dentro. Oggi è il tuo giorno fortunato: si è liberato un posto nella cella di un nostro amico. Se vuoi, puoi occupare quella brandina, la scelta è tua, non sei costretto ad accettare la mia offerta”

“E chi mi assicura che non si tratta di una trappola?” domando, rivolgendo ai tre uno sguardo sospettoso “tempo fa dei bulli si sono presi gioco di me in un modo simile”

“Hai ragione, non hai nessuna prova concreta dalla tua parte, ad eccezione della mia parola. In ogni caso, la tua risposta è stata ben chiara… Forse è meglio se rivolgo l’offerta a quel ragazzo che è entrato nel Braccio insieme a te. Andiamo ragazzi, Theodore non vuole essere infastidito ulteriormente”

“Aspettate!” esclamo, bloccandoli a metà corridoio “d’accordo, accetto la proposta. Potete mostrarmi la cella quaranta?”.



 
Il trio di giovani uomini mi conduce fino ad una cella che non ha nulla di diverso da tutte le altre.

“Entra pure, Theodore, è tuo diritto visitare la tua nuova casetta”.

Muovo qualche passo, mi guardo attorno e poi mi volto a fissare il detenuto che ha parlato, lo stesso che ha attirato la mia attenzione pochi minuti prima.

“E adesso?” domando, mentre il rumore di una sirena riempie l’aria.

“Adesso è terminata l’ora all’aria aperta e conoscerai il tuo compagno di cella” risponde lui, sorridendomi di nuovo; si volta in direzione del corridoio e chiama qualcuno, agitando una mano “vieni, Capo, c’è qualcosa che devi assolutamente vedere”.

Appare un altro giovane uomo, che scoppia in una risata divertita prima di distribuire pacche sulle spalle dei tre.

“Che magnifica sorpresa” commenta poi, facendo schioccare la lingua contro il palato “grazie, ragazzi. Adesso lasciateci da soli e tornate nelle vostre celle prima che le porte si chiudano”.

Provo a deglutire, ma sento la gola incredibilmente secca; retrocedo di qualche passo e colpisco il lavandino con la parte inferiore della schiena.

Nonostante il dolore acuto, preferisco non spostare lo sguardo dal viso del mio compagno di cella, e ne approfitto per osservarlo con maggior attenzione: è più alto di me, anche se non particolarmente robusto, ed ha diversi tatuaggi, su entrambe le braccia, che proseguono sotto le maniche corte della maglietta che indossa.

Anche lui mi osserva in silenzio, e ciò che vedo nelle sue pupille non mi piace affatto.

“L’ho detto anche ai tuoi amici: non sono in cerca di guai” mormoro, deglutendo a vuoto una seconda volta “voglio solo…”

“Scontare la tua pena e poi tornare ad essere un cittadino libero?” continua lui, senza smettere di sorridere “cerchiamo di affrontare ogni argomento con calma. Come ti chiami?”

“Theodore Bagwell”

“Theodore… Bagwell… Mi piace come suona. Per quale motivo ti hanno spedito a Donaldson, Theodore Bagwell?”

“Rapina a mano armata” rispondo, in un soffio, e provoco una sonora risata al mio compagno di cella “perché stai ridendo? Ci trovi qualcosa di divertente?”

“Si, trovo molto divertente il fatto che hai provato a mentirmi spudoratamente”

“Non sto mentendo! Sono qui dentro per rapina, lo giuro!”

“Voi matricole siete sempre così divertenti. Scommetto che questa è la prima volta che finisci dietro le sbarre, vero? Ed è anche la tua prima volta a Donaldson. In tal caso sappi che qui funziona in questo modo: i vari detenuti vengono smistati nei Bracci a seconda del crimine che hanno commesso, ed il Braccio E è riservato a coloro che sono coinvolti in violenze sessuali. A questo punto le ipotesi sono due: o la storia della rapina è una grandissima balla, oppure ti hanno assegnato al Braccio sbagliato. In questo caso ti consiglio di parlare il prima possibile con i secondini, o potresti fare degli incontri molto spiacevoli”

“D’accordo. Era una bugia. Mi hanno condannato per stupro”

“Racconta”

“Perché dovrei raccontarti quello che ho fatto? Non so neppure il tuo nome…”

“Theodore, c’è una cosa molto importante che non hai ancora compreso e che non devi mai dimenticare quando varchi il cancello di un penitenziario: tu sei una matricola. Un novellino. Un nuovo arrivato. Sei un minuscolo animaletto che si muove all’interno di una giungla immensa. Se vuoi sopravvivere ed avere una vita semplice, devi portare rispetto agli animali più grossi. Qui non sei tu a fare domande, devi limitarti a rispondere alle mie… D’accordo? Siediti”.

Solitamente non permetto ad una persona di parlarmi in questo modo, ma sarebbe stupido farlo in questo momento.

Mi mordo la punta della lingua e prendo posto sul materasso della brandina inferiore; lui fa lo stesso, a pochi centimetri da me.

“C’era una ragazza che mi piaceva. Lei si è presa gioco di me, ed io mi sono vendicato. Non c’è altro da dire”

“E quanti anni ti hanno dato?”

“Sei anni, perché l’ho minacciata con un cacciavite” rispondo, incrociando le braccia all’altezza del petto, ed il mio compagno di cella scoppia nuovamente a ridere; si alza dalla brandina e compie un’azione che mi lascia perplesso: prende un lenzuolo, appallottolato in un angolo del pavimento, e lo appende davanti alle sbarre utilizzando del nastro adesivo “perché hai appeso quel lenzuolo?”

“In questo modo possiamo parlare in tranquillità, Theodore” mormora lui, tornando a sedersi vicino a me “sei anni possono essere un periodo di tempo relativamente breve o lungo, dipende da come una persona affronta il carcere. Quanti anni hai?”

“Venti”

“Venti? Davvero? Credevo diciotto”.

Il suo tono di voce, quasi deluso, mi provoca un brivido lungo la spina dorsale.

Non mi piace il modo in cui mi parla, esattamente come non mi piace il modo in cui mi fissa.

“Hai detto che il tempo trascorre in modo diverso, a seconda di come una persona affronta il carcere… Che cosa intendevi dire? Ci sono delle regole che devo conoscere?”

“Ohh, ci sono molte regole che un novellino come te deve sapere, se vuole davvero sopravvivere dietro le sbarre, soprattutto se si tratta di un posto come Donaldson… Ma questa è la tua giornata fortunata, Theodore, perché io sono uno dei pochi detenuti che gode di un’alta influenza qui dentro: se starai sempre al mio fianco, nessuno ti darà fastidio e vedrai che sei anni trascorreranno in un battito di ciglia. Hai la mia parola”.

Corruccio le sopracciglia e mi mordo il labbro inferiore: la proposta che ho appena ricevuto è troppo vantaggiosa per non nascondere qualche trabocchetto, ed io non voglio commettere un errore per l’ennesima volta.

“Quindi… Tu mi stai offrendo la tua protezione?”

“Si”

“E che cosa dovrei fare in cambio?”

“Qualcosa di molto semplice”.

Per la seconda volta, da quando la nostra conversazione è iniziata, compie un gesto che non riesco a spiegarmi: rovescia la tasca sinistra dei pantaloni e mi mostra la stoffa bianca, reggendola con l’indice.

“Che… Che cosa significa?”

“Se vuoi avere la mia protezione, tutto quello che devi fare è afferrare questa stoffa e lasciarla solo quando io te lo ordino. In questo modo ti avrò sempre vicino a me e nessuno potrà importunarti. Ovviamente, Theodore, dovrai obbedire a qualunque mio ordine... Potrebbero esserci dei giorni in cui avrò bisogno di alcuni favori da parte tua, capisci?”.

Spalanco gli occhi quando sento la sua mano sinistra posarsi sul mio ginocchio destro e risalire poi, lentamente, verso la coscia; vorrei allontanarlo da me, ma ho perso completamente il controllo del mio corpo.

Lo sento risalire lungo il fianco, il braccio, ed il collo, finché non mi ritrovo le sue dita ad accarezzarmi i capelli e sistemarmi una ciocca dietro l’orecchio destro; mormora qualcosa a pochi centimetri di distanza dal mio orecchio, che suona come un complimento, e finalmente ritrovo l’uso della parola.

“Mi stai chiedendo dei rapporti sessuali?”

“Bravo, sei un ragazzo molto perspicace. All’interno di un carcere non circolano molti soldi, di conseguenza la moneta da pagare, in cambio di favori, si basa su questo: rapporti sessuali, che variano a seconda dei gusti personali. Sei mai andato a letto con un uomo?”

“No”

“Sicuro?”

“Si” mormoro, sforzandomi di non ripensare alla mia infanzia.

“Non ti preoccupare, ti piacerà. Sarà una nuova esperienza… E se, invece, non ti piacerà affatto, considerala come una piccola parentesi da dimenticare quando sarai fuori di qui. In ogni caso puoi stare tranquillo con me: un altro detenuto ti avrebbe già aggredito alle spalle, mentre io preferisco gustarmi boccone per boccone. Allora, Theodore, adesso che sai come funziona all’interno di un penitenziario, qual è la tua risposta?”

“Posso avere un po’ di tempo per pensarci?”.

Il mio compagno di cella spalanca gli occhi e poi sorride, scuotendo la testa.

“Tempo? Su che cosa devi riflettere? La scelta è molto semplice: o accetti o rifiuti”

“Ti sto chiedendo solo un po’ di tempo”

“D’accordo, ma domani voglio avere una risposta. Ringrazia il tuo bel faccino perché di solito non concedo queste possibilità” dice, alzandosi dalla brandina cigolante; sta per arrampicarsi sull’altra, ma poi ci ripensa, e torna a fissarmi “sappi che se la tua risposta sarà negativa verrai trasferito in un’altra cella, e potresti non essere ancora così fortunato, ragazzino”.

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Capitolo 13
*** Adaptability ***


All’interno di una prigione, le docce non sono il posto migliore in cui fraternizzare.

Tutte le matricole conosco questa regola non scritta, ma dopo una notte insonne ho bisogno di parlare con qualcuno, e non posso aspettare l’ora all’aria aperta per farlo.

Dopo aver chiuso il getto d’acqua, mi avvolgo un asciugamano attorno ai fianchi e mi avvicino a David, il ragazzo che si era seduto a mio fianco sull’autobus e che aveva provato a fare amicizia con me; attiro la sua attenzione schiarendomi la gola, e ricevo uno sguardo a metà tra lo sorpreso ed il confuso.

“Lo sai che le docce…” inizia, ma non gli lascio il tempo di finire.

“Non sono il posto migliore per fraternizzare? Si, lo so, ma devo parlare con qualcuno e tu sei l’unica persona che conosco qui dentro, David, anche se ci siamo scambiati solo qualche parola. Ho bisogno di un… Un parere… Diciamo che è una specie di gioco”

“Cioè?”

“Se un detenuto ti offrisse la sua protezione in cambio di alcuni favori, tu che cosa risponderesti?”

“Di che genere di favori stiamo parlando?”

“Siamo rinchiusi nel Braccio riservato ai crimini sessuale, secondo te di che natura possono essere questi favori?”

“Hai un maniaco come compagno di cella?” mi domanda; ad un mio cenno affermativo fa un sorriso divertito, e sono costretto a reprimere l’istinto di cancellarglielo con un pugno “chiedi alle guardie di essere trasferito”

“Non penso che sia così semplice, soprattutto quando sei arrivato da un solo giorno in prigione”

“Allora cerca di trovare un punto d’incontro con questo tipo, ma non scendere a questo genere di compromessi, altrimenti sarai trattato come uno schiavetto sessuale per tutto il tempo della tua pena”

“Penserò al tuo consiglio” mormoro, iniziando a vestirmi.

Per lui è semplice parlare in questo modo: non si trova nella mia stessa situazione, non deve dare una risposta che, senza alcun dubbio, condizionerà la sua vita a Donaldson.

Sia in mensa che in cortile cerco un posto isolato per non attirare l’attenzione di altri detenuti e per riflettere ulteriormente prima di dare una risposta definitiva, ma più mi sforzo di arrivare alla soluzione di questo rompicapo, più mi rendo conto che non esiste una scappatoia: proprio come ha detto il mio compagno di cella, ho solo due opzioni a mia disposizione.

O accetto la sua proposta o la rifiuto.

Se l’accetto, diventerò uno schiavetto sessuale, proprio come David ha detto.

Se rifiuto, la mia vita a Donaldson diventerà un inferno in Terra.

Quando arriva la sera, è proprio lui ad affrontare l’argomento per primo; ormai la sua pazienza è arrivata quasi al punto di rottura e vuole sapere che cosa sono intenzionato a fare.

Si appoggia con la schiena alle sbarre, incrocia le braccia all’altezza del petto e solleva il sopracciglio destro.

“Allora, Theodore?” chiede poi, con voce strascicata “hai avuto quasi una giornata intera per pensare, sei riuscito a capire che cosa vuoi o hai bisogno di altro tempo?”

“Credo di aver riflettuto abbastanza” rispondo, strofinandomi i palmi delle mani sulla stoffa dei pantaloni “ho chiesto consiglio ad un ragazzo che ho conosciuto ieri. Secondo lui sarebbe stupido accettare un’offerta simile, anche se si tratta di avere la massima protezione, perché mi trasformerei in una bambola di pezza costretta ad obbedire. Dice che dovrei chiedere ad una guardia di cambiare cella, con la speranza di avere un nuovo compagno con gusti diversi. Io, però, la penso in modo diverso… Come ti ho già detto, credo di aver riflettuto abbastanza e sono giunto alla conclusione che per sopravvivere in un posto come un carcere bisogna avere… Spirito di adattamento”.

Il mio compagno di cella mi guarda per qualche istante negli occhi, prima di scoppiare a ridere; si avvicina e mi scompiglia i capelli con la mano destra.

“Sei un ragazzo intelligente, Theodore, ecco perché riuscirai a cavartela” commenta, poi, prima di prendere in mano il lenzuolo bianco e lanciarmelo “appendilo davanti alle sbarre. Adesso che ho avuto la tua parola, ho bisogno di una dimostrazione fisica della tua fedeltà”.
 
 
 

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Capitolo 14
*** The Price To Pay (Parte Uno) ***


Ricevo la mia prima visita dopo quattro settimane.

Una guardia mi scorta nella stanza in cui avvengono gl’incontri con i parenti e gli amici, e incontro subito gli sguardi di zia Meg e James, che mi stanno aspettando davanti ad un piccolo tavolo rotondo; tavoli simili sono occupati da altri detenuti che stanno già parlando con i rispettivi familiari, mentre una piccola parte, sicuramente coloro che sono ritenuti un pericolo costante, sono costretti a farlo da dietro il vetro di una gabbia.

Li raggiungo quasi correndo e mi lascio abbracciare, senza poter ricambiare a causa delle manette che mi bloccano i polsi.

“Teddy, hai un aspetto orribile” commenta Margaret, mentre ci sediamo davanti al tavolo “sei sicuro di mangiare abbastanza? Come sono gli altri detenuti? Qualcuno di loro ti picchia? E le guardie? Se c’è qualcosa che non va devi dirmelo, ed io farò di tutto per farti trasferire in un altro carcere”

“Zia, per favore, va tutto bene. Questo posto non è un albergo, ma mi sono ambientato benissimo. Ed il mio compagno di cella è un ragazzo molto simpatico… Si chiama David, ed abbiamo stretto un bel rapporto di amicizia. Non ti preoccupare per me” rispondo, con un sorriso; le racconto qualche altra menzogna ben studiata e poi le chiedo di rimanere da solo con mio cugino, perché sono molte le cose che devo dirgli, ed il tempo a mia disposizione è limitato.

Lei, ovviamente, non si oppone alla mia richiesta ed esce dalla stanza dopo avermi salutato con un bacio sulla fronte, e con la promessa di tornare il prima possibile.

Quando restiamo da soli, l’espressione di James si trasforma rapidamente da sorridente a seria.

“Adesso che hai tranquillizzato mia madre con quelle cazzate, vuoi dirmi la verità?” mi domanda, abbassando la voce.

Ecco perché adoro mio cugino e perché ci sono cose che racconto solo a lui.

Perché è l’unica persona che mi capisce veramente.

Mi passo la mano destra tra i capelli e sospiro.

“È un inferno, Jimmy, un vero inferno. I secondini ci trattano come se fossimo degli animali: non perdono occasione per picchiarci con i manganelli e sbatterci nelle celle d’isolamento. E questa non è neppure la parte peggiore”

“Che vuoi dire?”

“Il giorno in cui sono arrivato, alcuni tizi mi hanno bloccato prima che entrassi nella cella che mi era stata assegnata. Mi hanno detto che c’erano problemi con il lavandino e con lo scarico del cesso, che i secondini lo sapevano molto bene e che l’assegnavano sempre ad una delle matricole per ridere alle loro spalle. Mi hanno proposto di trasferirmi nella cella di un loro amico, perché si era liberata una brandina, ed io ho accettato. Non sapevo se farlo in un primo momento, capisci? Ero sospettoso, ma poi ho pensato che, forse, volevano davvero aiutarmi e così li ho seguiti”

“E cosa è successo? Ti hanno picchiato?”

“No, no, non mi hanno picchiato. La cella esisteva davvero, come esisteva davvero la brandina vuota ed il loro amico… Ma…”

“Ma? Cosa? Teddy, non capisco”

“Potevo rimanere in quella cella in cambio di alcuni favori” rispondo, alzando la voce; James mi fissa ancora per qualche istante confuso, fino a quando non vedo la consapevolezza apparire nelle sue iridi scure.

Socchiude le labbra e sbatte più volte le palpebre, come se avesse ricevuto un pugno in pieno stomaco.

“Stai dicendo che ti prostituisci?”

“No! No, assolutamente no! Io non faccio sesso con tutti i detenuti del Braccio E… Lo faccio solo con il mio compagno di cella”

“È la stessa cosa, Teddy”

“Sono costretto a farlo, Jimmy. Questo tizio gode di un’alta influenza a Donaldson, se rifiutavo, la mia vita sarebbe stata un inferno. E sei anni d’inferno possono essere interminabili! Non ho avuto altra scelta, ho dovuto adeguarmi alle sue condizioni”

“E quindi sei diventato il suo schiavetto sessuale” commenta lui, con amarezza; so che in questo momento è deluso da me, così provo ad avvicinarmi, ma James si tira indietro “non provare a toccarmi. Chissà che cosa hai fatto con quelle mani”.

Questa volta sono io a socchiudere le labbra ed a sbattere più volte le palpebre; le sue parole fredde e cariche di rancore mi colpiscono con la stessa intensità di una pugnalata.

“Jimmy, non puoi avercela con me per questo. Tu non sai come funziona una prigione! Qui dentro sei costretto ad adattarti ed a scendere a compromessi se vuoi sopravvivere, ti giuro che quando uscirò da questo posto, mi lascerò tutta questa storia alle spalle e ricomincerò una nuova vita. Non sono l’unica persona che fa questo”

“Scusami… Ma questo è troppo per me”

“James!”.

Provo a richiamarlo indietro, ma lui è sordo a tutte le mie suppliche ed esce dalla stanza senza girarsi verso di me un’ultima volta.

Una guardia mi comunica che il tempo a mia disposizione è terminato e mi accompagna nel cortile del Braccio E, togliendomi finalmente le manette.

Ho appena il tempo di massaggiarmi i polsi, dove si sono formati dei segni rossi, che sento qualcuno fischiare; mi guardo attorno e vedo il mio compagno di cella, seduto su una tribuna insieme al suo gruppo, che mi fa cenno di raggiungerlo.

Non conosco ancora il suo vero nome, non ha voluto confidarmelo.

Tutti a Donaldson, compreso il suo gruppo di fedeli seguaci, lo chiamano Wolf.

“Allora, Theodore, come è andata la tua prima visita con i parenti?” mi chiede mentre mi siedo affianco a lui; mi limito a scrollare le spalle perché non ho voglia di parlare di James e di quello che è successo, fortunatamente non se ne fa un cruccio perché la sua attenzione viene attirata da alcuni nuovi detenuti che entrano nel cortile “guardate. È disgustoso”

“Che cosa è disgustoso?” domando, incuriosito; Wolf indica i nuovi arrivati e mi ordina di osservarli con attenzione, ubbidisco ma non riesco a scorgere nulla di così ripugnante “non capisco, forse mi sfugge qualcosa”

“Non vedi quelle scimmie che camminano sulle zampe posteriori?”.

Finalmente capisco a che cosa si sta riferendo.

Sta parlando delle matricole di colore.

“Hai qualche problema con loro?”

“Se ho qualche problema con loro? Che domande sono, Theodore? Non mi dire che sei uno di quei strani animali con le idee confuse. Bianchi fuori, ma neri dentro”

“Io non sono confuso, e di certo non sono un animale”

“Allora evita di fare ancora domande stupide, d’accordo?” mi mette in guardia il mio compagno di cella, lanciandomi una breve occhiata, torna a concentrarsi sulle matricole e mormora qualche commento razzista “è disgustoso. Assolutamente disgustoso. Non dovrebbero permettere a quelle scimmie di unirsi a noi. Dovrebbero costruire un Braccio apposta per loro, gettare via la chiave e abbandonarli lì, senza acqua né cibo, a sbranarsi a vicenda. Guarda, Theodore”.

Per la prima volta Wolf mi mostra i numerosi tatuaggi che gli adornano le braccia e la parte superiore del petto: la maggior parte di essi rispecchia con accuratezza le sue idee politiche, a partire da una grossa svastica nera che gli occupa tutta la spalla destra.

Nota che anche io ho un tatuaggio e così mi chiede spiegazioni a riguardo; mi stringo nelle spalle ed esito qualche istante prima di rispondere.

“Io e mio cugino ci siamo scambiati una promessa, quando eravamo ragazzini” dico, senza aggiungere ulteriori dettagli; proprio come immaginavo, le mie parole provocano una risata generale in tutto il gruppo, e Wolf mi passa un braccio attorno alle spalle per poi scompigliarmi i capelli.

“Avete sentito quanto è dolce il nostro Teddy-Bear?”.

Mi libero subito dalla sua presa e scendo dalla tribuna, perché questo è troppo anche per me.

“Non mi chiamare in quel modo! Io non sono la vostra mascotte!”

“Sbagliato, Teddy-Bear, tu sei la nostra mascotte” mi corregge subito Luke, la stessa persona che mi ha incastrato al mio arrivo a Donaldson “ormai ti trovi qui da un mese, dovresti aver imparato come funziona”

“Luke, basta” lo interrompe il mio compagno di cella, alzando la mano destra “lascialo parlare. Voglio sapere che cosa ha da dire il nostro Theodore”

“Io non sono il vostro animaletto da compagnia, anche se siete convinti del contrario! Lo so che mi trovo a Donaldson da solo un mese, ma sono pronto a dimostrarvi che merito di essere considerato un membro effettivo del gruppo! Dovete solo darmi la possibilità di dimostrarvi il mio potenziale!”

“Tu sei solo un ragazzino arrogante che deve ancora imparare a stare al suo posto”

“Luke, smettila! Sono io il Capo qui, ricordi? Nessuno parla senza il mio permesso, te lo sei dimenticato?” Wolf ammonisce il suo amico per la seconda volta, prima di riportare la sua attenzione su di me; anche se sta sorridendo, la sua espressione non mi piace affatto, ma non sono intenzionato a ritornare sui miei passi “e così, Teddy-Bear, vorresti una possibilità per dimostrarci il tuo enorme potenziale? D’accordo, avrai il tuo battesimo di fuoco tra tre giorni esatti”

“Che cosa devo fare?”

“Una cosa molto semplice. Devi liberare Donaldson da una scimmia” risponde lui, sempre senza smettere di sorridere, indicandomi con un cenno della testa un gruppetto di detenuti afroamericani; li osservo a mia volta e poi spalanco gli occhi, incredulo.

“Mi stai chiedendo di uccidere uno di loro? Non posso farlo! Non ho un’arma con me e finirei in isolamento per chissà quanto tempo… O potrebbero aumentarmi la pena!” protesto, provocando altre risate divertite nel branco.

“E che cosa ti aspettavi, Theodore? Di raccogliere dei fiorellini per fare una collana o un braccialetto? Vuoi essere all’altezza del mio gruppo? Vuoi meritare un po’ più di considerazione? Uccidi uno di quei bastardi e portami una prova. Una mano, un dito, un occhio… La scelta è tua. Vediamo fin dove arriva il tuo coraggio”.

Mi mordo la punta della lingua per trattenere le imprecazioni che premono per uscire dalla mia bocca.

La mia stupidità mi ha portato non solo a cadere nell’ennesima trappola, ma anche a dover affrontare una sfida impossibile.



 
 
Ormai non posso tirarmi indietro, o apparirei come un codardo, ma posso tentare di volgere la situazione a mio favore, e così provo a parlarne con Wolf nell’unico momento della giornata in cui è abbastanza accondiscendente: quando termina di sfogare i suoi appetiti sessuali su di me.

“Wolf” mormoro, rivestendomi “io sono pronto ad affrontare la prova, ma devi crearmi un diversivo e procurarmi un’arma. Non posso avvicinarmi ad uno di loro, in cortile, e pugnalarlo davanti a tutti. Deve essere un momento di confusione generale… Potresti far scattare l’allarme antincendio…”

“Banale. Troppo banale” commenta lui, accendendosi una sigaretta che si è procurato chissà dove “però l’idea di un diversivo mi piace. Che ne dici di un regolamento di conti? Una sfida tra bianchi e scimmie in cui ne esci o vincitore o cadavere. Posso organizzare tutto per la data prestabilita, devo solo scambiare qualche parola con i secondini”

“Un regolamento di conti?” ripeto, con voce strozzata.

Cazzo.

“Si, Teddy-Bear, non sai che cosa significa?” mi domanda il mio compagno di cella, con un sorriso strafottente, mentre spegne il mozzicone di sigaretta dentro il lavandino.

“Ho bisogno di un’arma”

“E credi davvero che sarò io a procurartela?” il sorriso sulle sue labbra si spegne rapidamente “Theodore, sei stato tu a chiedere un’occasione per dimostrare le tue potenzialità. Non sarai agevolato solo perché dividiamo la stessa cella e scopiamo. Dovrai procurarti da solo un’arma per il regolamento di conti, e se non ci riuscirai, ti consiglio fin da ora di dire una preghiera per la tua anima”.
 

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Capitolo 15
*** The Price To Pay (Parte Due) ***


In prigione qualunque oggetto può diventare un’arma, ma ci sono occasioni in cui un cuscino o un laccio da scarpa non sono sufficienti.

Se si vuole sopravvivere ad un regolamento di conti, bisogna avere con sé qualcosa di appuntito ed affilato, ma non è semplice procurarselo quando sei ancora una matricola e non hai amicizie vantaggiose dalla tua parte.

“Se io faccio un favore a te, tu fai un favore a me?” domando a David, sedendomi a suo fianco in mensa.

“Non sono interessato ad avere dei rapporti sessuali” risponde lui, guardandomi con un’espressione scettica; alzo gli occhi al soffitto della stanza e poi sbuffo.

“Non ti sto chiedendo questo, il favore di cui ho bisogno non ha assolutamente nulla a che fare con il sesso. Ascolta con attenzione le mie parole: tra due giorni ci sarà un regolamento di conti tra bianchi e neri, che coinvolgerà tutto il Braccio E. Le danze si apriranno dopo l’appello pomeridiano, al termine dell’ora all’aria aperta”

“Un regolamento di conti? Perché?”

“È stato Wolf ad organizzarlo, perché non è contento delle nuove matricole, e vuole approfittare dell’occasione per regalarmi il mio battesimo di fuoco: se voglio smetterla di essere una mascotte, devo uccidere uno di loro e portare un souvenir al mio compagno di cella” sussurro, indicando con la testa i tavoli in cui sono radunati i detenuti afroamericani, situati nella parte opposta della mensa; David guarda prima loro e poi me, e la sua espressione continua ad essere scettica.

“Per quale motivo me lo stai dicendo?”

“Per farti un favore. Io ti sto avvisando in anticipo di quello che accadrà tra due giorni, in cambio ho bisogno che mi procuri un’arma in qualunque modo. Tu fai parte del gruppo che lavora nelle cucine, giusto? Sono sicuro che lì dentro ci sono coltelli e forbici in abbondanza!”

“Si, ma a fine turno i secondini contano tutta l’attrezzatura, e se manca qualcosa prendono i manganelli”

“Dovrà pur esserci un modo per rubare qualcosa”

“Non lo so, non ci tengo ad essere picchiato con un manganello”

“Io ho fatto un favore a te, avvisandoti in anticipo del regolamento di conti. Adesso è il tuo turno di restituirmi il favore, procurandomi un’arma. Hai due giorni di tempo per trovarla e portarmela” lo avverto, prima di alzarmi con il vassoio vuoto tra le mani.



 
Trascorro il tempo che mi separa dal mio battesimo di fuoco in uno stato di perenne agitazione, faticando perfino a dormire; e quando finalmente arriva il pomeriggio del terzo giorno, il nervosismo e la paura aumentano quasi a dismisura, perché David non mi ha ancora portato un’arma bianca.

Mentre lo aspetto, vicino ad un capannone, sento qualcuno passarmi un braccio attorno alle spalle e sussulto, del tutto preso alla sprovvista.

Sfortunatamente non si tratta di David.

Non si tratta neppure di Wolf.

È Luke.

“Allora, Teddy-Bear? Sei pronto per il grande evento? Sei riuscito a procurarti un’arma?” sussurra al mio orecchio sinistro, e la lama luccicante di un coltello appare a pochi centimetri di distanza dai miei occhi “ti piace? L’ho lucidato appositamente per te”

“Si, sono riuscito a procurarmi un’arma” rispondo, liberandomi dalla sua presa “e non preoccuparti per me, riuscirò a portare a termine il compito che mi è stato assegnato senza alcuna difficoltà”

“Se fossi in te, mi preoccuperei per altro. Sai… In situazioni come questa è questione di un battito di ciglia che la lama di un pugnale si conficchi nello stomaco della persona sbagliata. Spesso può capitare di confondere amici e nemici”

“Mi stai minacciando?”

“No, ti sto solo mettendo in guardia. Ahh, quasi me ne dimenticavo, ricordi quelle scimmie che abbiamo visto qualche giorno fa in cortile? Ho detto ad una di loro quello che devi fare… Così è tutto più eccitante, non credi?”.

Luke mi rivolge un largo sorriso prima di nascondere il coltello in una tasca dei pantaloni ed allontanarsi; sono costretto ad appoggiarmi al muro alle mie spalle per non crollare a terra.

Non solo ho appena ricevuto una chiara minaccia da un detenuto più grande e più esperto di me, ma la vittima predestinata sa che io devo ucciderla per guadagnarmi un posto nel gruppo di Wolf.

Mi passo entrambe le mani tra i capelli, tirando alcune ciocche, e sussulto nuovamente quando una mano si appoggia sulla mia spalla destra.

“David! Per l’amor del cielo! Non farlo mai più, mi hai spaventato!” esclamo, tirando un sospiro di sollievo, perché per un attimo ho temuto che fosse ancora Luke o la matricola afroamericana.

“Scusa, non era mia intenzione, ti ho portato quello che mi hai chiesto”

“Finalmente! Ormai mancano solo dieci minuti all’appello”

“Te l’ho già detto che non è semplice procurarsi qualcosa in cucina” risponde lui, stizzito, mostrandomi un piccolo oggetto appuntito; lo prendo in mano e l’osservo a lungo, piegando le labbra in una smorfia.

“Un… punteruolo? In tre giorni sei riuscito a procurarmi solo un punteruolo? Speravo in una forbice… Che cazzo ci dovrei fare con questo? Come posso uccidere una persona con questo misero oggetto?”

“Anche io ho un punteruolo come arma” ribatte David, mostrandomene un altro di simile “non sei l’unico ad essere nella merda. Se non sei contento di quello che sono riuscito a rubare, puoi restituirmelo”

“Mi accontenterò di questo” mormoro, nascondendo l’oggetto appuntito sotto la maglietta che indosso.

Spero solo di non dover affrontare un avversario armato meglio di me.



 
Quando arriva il momento dell’appello pomeridiano, tutti i detenuti si sistemano lungo due linee rosse, opposte, che attraversano l’intero Braccio E; io mi posiziono tra Wolf ed un altro ragazzo, e con la mano destra, nascosta nella tasca dei pantaloni, stringo l’impugnatura del piccolo punteruolo.

“Sei pronto?” mi sussurra Wolf, mentre un secondino si sta occupando di leggere i nomi di tutti noi, ad alta voce, da un foglio che ha in mano.

“Si”

“Sei riuscito a procurarti un’arma decente?”

“Diciamo di si”

“Bene” commenta, con un sorriso divertito; ad un suo cenno, un detenuto si stacca dalla nostra fila e si scaglia contro un altro della fila opposta.

È il segnale che dà inizio al regolamento di conti.

Qualcuno mi aggredisce alle spalle, mi ritrovo a terra e per poco non rischio di perdere la presa sulla mia arma; in un primo momento penso che si tratti di Luke, ed invece è la matricola che devo uccidere.

La mia prova, la mia sola opportunità di essere considerato un degno membro del gruppo.

Rotolo di lato, per evitare un suo calcio, e gli afferro la gamba sinistra, facendolo finire a sua volta sul pavimento; prima che abbia il tempo di riprendersi, mi siedo a cavalcioni sul suo petto, bloccandogli le braccia con le ginocchia, e stringo una mano attorno alla sua gola.

“Mi dispiace, ma devo farlo” dico, a denti stretti, alzando il braccio destro; lui balbetta qualcosa, probabilmente delle suppliche, ma non lo ascolto.

Con un urlo, affondo il punteruolo nel suo petto, all’altezza del cuore, pugnalandolo ripetutamente, senza riuscire a fermarmi: sento del liquido caldo schizzarmi sul viso e sulla maglietta; quando apro gli occhi, mi rendo conto che si tratta di sangue, lo stesso che bagna le mie mani e che si sta rapidamente spargendo sul pavimento.

Per la matricola non c’è più nulla da fare, come testimoniano le sue iridi fisse in un punto lontano, ma io non ho ancora finito con lui: strappo dalla sua mano destra, ancora stretta a pugno, il coccio di vetro che si era procurato come arma e provo a tagliargli un dito; riesco ad affondare il coccio nella carne, ma l’osso è troppo spesso e troppo duro, e m’impedisce di concludere la procedura.

Lascio cadere a terra l’arma della matricola, ormai inutile, e prendo nuovamente in mano il mio punteruolo, preferendo concentrarmi su un souvenir più facile da estrarre.

Forse è merito dell’adrenalina che scorre ancora nel mio corpo, ma quando affondo l’estremità nella cavità oculare sinistra del cadavere, non sento né disgusto né nausea, neppure quando l’occhio rotola sul pavimento dopo essere schizzato fuori con un suono simile a quello di una bottiglia che viene stappata; lo raccolgo, prima che qualcuno possa pestarlo, e lo nascondo dentro una tasca dei pantaloni.

Ho appena il tempo di alzarmi, con il fiato ansante, che mi sento afferrare per i capelli e trascinare lungo una scala metallica che conduce alle celle del primo piano; nel tentativo di liberarmi perdo la presa sulla mia arma bianca, che cade in una fessura tra due scalini, e quando finisco nuovamente a terra, mi rendo conto di essere disarmato.

“Complimenti, Teddy-Bear, hai fatto un ottimo lavoro con quella scimmia. Vediamo se sarai altrettanto bravo con me”

“Intendi con un coglione come te, Luke?”.

Grazie alla mia provocazione ricevo un calcio nella parte bassa della schiena, che mi strappa un urlo di dolore, e sono costretto a strisciare per allontanarmi da lui.

“Stupido ragazzino, meriti una lezione che non dimenticherai per il resto della tua vita. Vieni qui, pensi davvero di riuscire a scappare?” grida, in tono strafottente, mi afferra per le gambe e mi trascina verso di sé; questa volta il calcio lo ricevo all’altezza dello stomaco e mi toglie completamente il fiato, facendomi sputare un grumo di saliva mista a sangue.

“Luke, ti prego… Non lo fare… Non…” lo supplico, sentendomi ad un solo passo dalla fine; lui, ovviamente, ignora le mie parole, con una risata sprezzante, e gioca con il pugnale, divertendosi a passarlo da una mano all’altra, illustrandomi a parole ciò che ha intenzione di fare.

“Secondo te, Teddy-Bear, da dove dovrei iniziare? Potrei tagliarti la gola, ma non sarebbe divertente… Ohh, aspetta, ci sono! Potrei conficcare questa lama in diversi punti del tuo corpo, evitando gli organi principali, in modo da prolungare la tua sofferenza il più a lungo possibile, prima di farti un taglio da orecchio a orecchio. Allora, hai qualche preferenza? Il fegato? La milza? L’intestino?”.

Il suo blaterale viene improvvisamente interrotto da qualcuno che s’intromette tra noi due; non so con esattezza che cosa succede, perché sono ancora stordito dal dolore alla schiena ed allo stomaco, ma quando vengo aiutato ad alzarmi, vedo il corpo di Luke circondato da una pozza di sangue, ed il suo viso è contratto in un’espressione che è un misto di dolore e sorpresa.

“Stai bene?” mi domanda David, sorreggendomi.

“Si… Credo di non avere nulla di rotto…” mormoro “perché mi hai salvato la vita?”

“Mi hai avvisato del regolamento di conti”

“Si, ma avevamo già pareggiato con il punteruolo”.

David non ha il tempo di rispondere, perché i secondini lanciano all’interno del Braccio E dei fumogeni per sedare il conflitto ancora in corso; mi stacco da lui e gli consiglio di raggiungere la sua cella, prima di fare lo stesso.

Purtroppo non riesco ad evitare il fumo.

 Quando mi lascio cadere sulla brandina, resto vittima di un attacco di tosse così violento che delle lacrime mi rigano il viso.

Wolf rientra dopo pochi minuti: anche lui, come me, sembra esserne uscito illeso, ad eccezione della maglietta sporca di sangue.

Le sue labbra si aprono in un sorriso compiaciuto quando incrocia il mio sguardo, ed alle sue spalle la porta scorrevole della cella si chiude in automatico, proprio come tutte le altre; nel lungo corridoio restano solo i feriti più gravi, che gemono e si lamentano, i cadaveri e numerose pozze di liquido scarlatto.

“Sapevo che saresti riuscito a sopravvivere al tuo battesimo di fuoco. Mi hai portato un souvenir?”

“Si” rispondo, prontamente, sorridendo a mia volta; infilo la mano destra in una tasca dei pantaloni e gli mostro l’occhio “è sufficiente?”.

Lui lo prende in mano, l’osserva divertito e poi lo lascia cadere nella tazza del cesso, tirando lo sciacquone.

“Macabro, ma originale come idea. Mi hai sorpreso, Teddy-Bear, e come promesso adesso sei un membro ufficiale del gruppo. Non sei più la mascotte, adesso sei una personalità di spicco a Donaldson. Se c’è qualcosa che vuoi chiedermi, qualche richiesta in particolare, puoi farlo, perché oggi è la tua giornata” dice, prendendo posto a mio fianco sul materasso.

“Si, in effetti ho delle richieste da farti. Primo: non voglio essere più costretto a seguirti come un cagnolino, e ad afferrare la stoffa della tasca dei tuoi pantaloni. Secondo: non voglio più essere chiamato ‘Teddy-Bear’. Terzo: voglio che accetti nel tuo gruppo un ragazzo di nome David. Mi ha salvato la vita e sono in debito nei suoi confronti, ma non dovrai trattarlo come la nuova mascotte. Sono stato chiaro?”

“Sei stato molto chiaro, Theodore, e come ti ho già detto una volta, questa è la tua giornata. Puoi chiedere quello che vuoi, ma ricordati che tutto ha sempre un prezzo all’interno di un carcere. Le tue richieste non sono impossibili, ma è probabile che le mie diventino più frequenti… Capisci che cosa intendo?” la sua voce si riduce ad un sussurro e mi appoggia una mano sul ginocchio destro, proprio come ha fatto durante il mio primo giorno a Donalds; questa volta, però, non mi scompongo minimamente perché sono pronto a continuare a pagare questo prezzo per una vita migliore dietro le sbarre.

“Capisco perfettamente”

“Allora possiamo considerare il nostro affare concluso con successo. Non resta che suggellarlo” mormora Wolf, prima di afferrarmi il viso e baciarmi sulle labbra.
 
 
 

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Capitolo 16
*** Natural Habitat ***


I sei anni a Donaldson, se possibile, trascorrono molto più velocemente dei tre anni in riformatorio, ma non nello stesso modo tranquillo.

All’interno del gruppo ci sono frequenti dissapori tra Wolf e David, e spesso sono arrivati ad un solo passo dall’iniziare una rissa; credo che il mio compagno di cella sia geloso del rapporto di amicizia che, nonostante tutto, sono riuscito a creare con David, e credo anche che sia fermamente convinto che tra noi due ci sia qualcosa di molto più intimo.

Questo, però, è un problema secondario se paragonato ad un altro, che mi riguarda da molto più vicino e che voglio risolvere il prima possibile, una volta fuori di prigione: non ricevo una visita da parte di James da quasi sei anni, e quelle di zia Margaret sono diminuite drasticamente.

Quando le ho chiesto spiegazioni, in uno dei nostri ultimi incontri, ha minimizzato l’intera faccenda dicendo che si tratta solo di un brutto periodo, ma io sono convinto che dietro c’è qualcosa che prova a nascondermi, per chissà quale motivo a me sconosciuto.

“T-Bag!” esclama il mio unico amico, raggiungendomi alle spalle.

“Cosa?”

“Il tuo soprannome. Che ne dici di ‘T-Bag’? Ascolta, lo so che forse non è il migliore dei soprannomi, ma ha un suono terribilmente accattivante… E poi c’è la ‘T’ di ‘Theodore’ e il ‘Bag’ di ‘Bagwell’. Sembra fatto apposta per te”

“E come ti è venuta in mente questa brillante idea? Hai visto che in mensa distribuivano le bustine per le tisane?” commento, in tono sarcastico, scoppiando a ridere.

“Sto parlando seriamente”

“Ohh, d’accordo, allora ti ringrazio per avermi trovato un soprannome proprio nel giorno in cui sto per essere rilasciato”

“Quando te ne andrai?”

“Appena termina l’ora all’aria aperta. Il tempo di raccogliere le mie cose e tornerò ad essere un libero cittadino… David, che cosa stai facendo?” domando, perché lui mi abbraccia senza alcun preavviso “non sto partendo per il fronte. Ti scriverò delle lettere, resteremo in contatto. E poi dovrà arrivare il giorno in cui anche tu tornerai in libertà”

“Lo spero” risponde lui, scrollando le spalle.

In sei anni non gli ho mai chiesto per quale motivo si trova a Donaldson, e preferisco continuare ad ignorarlo, anche perché non m’interessa.

Gli do una pacca sulla schiena, per ricambiare il saluto, ed il suono della sirena riecheggia in tutto il cortile, segnando la fine dell’ora all’aria aperta e l’inizio della mia libertà; quando ritorno in cella, per prendere i miei pochi effetti personali, trovo Wolf che mi sta aspettando.

“E così… Finalmente è arrivato il tuo grande giorno, giusto? Tra poco un secondino verrà a prelevarti e varcherai il cancello di Donaldson”

“E tornerò ad essere un libero cittadino”

“Sai che non durerà a lungo” continua lui, con un sorrisetto, rigirandosi un oggetto tra le mani “tornerai prima o poi, Theodore. E non mi sto riferendo a quello che le persone dicono di chi è stato in prigione. Non credo che tu ci tornerai perché ci sei già stato una volta. Io penso che esistano persone che sono destinate, fin dalla nascita, a trascorrere la maggior parte della loro esistenza dietro le sbarre di una cella. E tu sei una di quelle persone. Potremo dire che il carcere è il tuo… Habitat naturale?”

“Come fai ad esserne così sicuro?”

“Sei pentito di quello che hai fatto?” mi domanda, prendendomi alla sprovvista; sbatto più volte le palpebre, apro la bocca e poi la richiudo senza dire una sola parola “ecco. Vedi? Tu non sei minimamente pentito di ciò che hai fatto a quella ragazza. Fidati delle mie parole: tornerai. E ti prometto che, per quel giorno, troverai un posto libero in questa cella. Tieni, questo è per te”

“Che cos’è?” chiedo, afferrando al volo l’oggetto che mi lancia; mi avvicino alle sbarre della cella per osservarlo meglio sotto la luce dei neon: è una catenina, con un piccolo ciondolo che ricorda la zanna di un lupo.

“Qualcosa che ti farà ricordare di me… Ovviamente aspetto con trepidazione le tue lettere, Theodore”.

Non rispondo alle sue ultime parole perché, fortunatamente, la porta della cella si apre, ed una guardia mi comunica che è arrivato il momento, per me, di andarmene.
Vengo scortato in una stanza al di fuori del Braccio E; un altro secondino mi consegna i vestiti che indossavo il giorno in cui sono entrato a Donaldson e lo zaino che avevo con me: mi spoglio velocemente, indosso i miei vecchi indumenti e stringo la mano destra attorno ad una delle due cinghie.

Appena l’enorme cancello del carcere si chiude alle mie spalle, abbasso le palpebre ed emetto un lungo sospiro di sollievo, godendomi la mia prima boccata di aria fresca; tiro fuori da una tasca dei pantaloni il ciondolo che Wolf mi ha regalato, lo lascio cadere a terra e lo calpesto più volte, finché i piccoli anelli non si rompono, spargendosi nella stradina di sassi.

Non ho pensato di indossarlo neppure per un secondo, e di sicuro non riceverà una sola lettera da parte mia.

Al termine della lunga e stretta stradina di sassi c’è una vecchia cabina telefonica, ma preferisco non usarla e dirigermi alla fermata degli autobus: non voglio avvisare zia Margaret e James del mio rilascio, voglio far loro una sorpresa.

Trascorro tutto il tempo del viaggio con il palmo della mano destra appoggiato al mento e con lo sguardo rivolto al finestrino; continuo a pensare a quello che può essere accaduto a Conecuh County durante la mia assenza, ed al motivo per cui mio cugino James ha smesso di farmi visita in carcere.

Non so se ha a che fare con Wolf, ma spero vivamente che non sia così.

Quando l’autista grida il nome della mia fermata, mi alzo velocemente dal sedile e scendo i scalini del mezzo di trasporto con un piccolo salto: le porte automatiche si chiudono alle mie spalle e l’autobus riparte, sollevando un’enorme nuvola di polvere.

Impiego solo una decina di minuti per raggiungere la casa di mia zia, ed è proprio lei ad aprirmi la porta d’ingresso.

“Oh, mio dio, Teddy!” esclama, sorpresa, abbracciandomi “è da questa mattina che attendo tue notizie! Stavo per chiamare il carcere, per chiedere quando ti avrebbero rilasciato! Sei tornato a casa da solo? Perché non mi hai avvisata?”

“Volevo farti una sorpresa. E poi, nello zaino avevo ancora qualche banconota da un dollaro per pagarmi il biglietto dell’autobus. Dovresti ringraziarmi, dal momento che ti ho fatto risparmiare un bel po’ di benzina. Dov’è James?” chiedo, poi, cercandolo con lo sguardo; l’espressione di Meg cambia completamente, nei suoi occhi scuri compare un velo di lacrime e non riesce a reprimere un tremito che le attraversa il labbro inferiore.

“James non abita più qui da tempo” confessa poi, con voce rotta “in realtà non ho la più pallida idea di dove si trovi in questo momento. Ho perso qualunque contatto con lui”

“Che cosa significa che hai perso qualunque contatto con lui? Che cosa è successo?”.

E così, apprendo da mia zia che questi sei anni sono stati molto più duri per Jimmy che per me: non solo è stato licenziato nel fast-food in cui lavorava, ma è entrato in un giro poco raccomandabile, e quando Margaret lo ha scoperto, per puro caso, ha messo qualche indumento dentro uno zaino e se ne è andato, troncando ogni rapporto sia con lei che con me.

“Non ho voluto dirtelo perché non volevo provocarti un ulteriore stress… Dove stai andando?”

“Vado a cercarlo”

“Teddy, ci ho provato anche io, ma non sono mai riuscita a trovarlo! Potrebbe essersene andato da Conecuh County”.

Ignoro le sue parole, esco di casa e trascorro l’intera giornata tra le strade della città, alla ricerca di mio cugino; ritorno sui miei passi a notte inoltrata, senza essere riuscito a trovarlo.

Impiego quasi un’intera settimana di ricerche personali prima di riconoscerlo, a fatica, in un giovane uomo con addosso dei vestiti strappati, fuori da un pub.

Mi avvicino a lui, e quando sono a pochi passi di distanza lo chiamo per nome, per attirare la sua attenzione; James si volta di scatto, e nel suo volto sciupato appare la stessa espressione di sorpresa che c’è sul mio.

“Teddy? Si può sapere che cosa ci fai qui?”

“Tu, piuttosto, che cazzo ci fai qui?” lo afferro per un braccio e lo trascino lontano da quel posto; la bottiglia di birra che ha in mano cade a terra, disintegrandosi, ma non me ne preoccupo “ti sto cercando da sette giorni! Si può sapere che cosa è questa storia? Perché hai smesso di farmi visita in carcere?”

“Lasciami andare!” esclama lui, riuscendo a liberarsi dalla mia presa “non vedi che sono con i miei amici?”.

Lancio un’occhiata ad un piccolo gruppo di uomini e poi torno a fissare mio cugino, con le labbra piegate in una smorfia.

“Hai visto le loro facce e le condizioni dei loro vestiti? Hai visto quali sono le tue condizioni? Tu, adesso, torni a casa con me e non verrai mai più in questo posto. Puoi urlare e odiarmi quanto vuoi, ma lo sto facendo solo per il tuo bene”

“Teddy! Tutto questo è ridicolo!” protesta James per l’ennesima volta; lo afferro nuovamente per un braccio e lo lascio andare, dandogli uno spintone, solo quando siamo arrivati a casa.

“Vuoi spiegarmi questa storia? Chi erano quelle persone? Perché te ne sei andato? Perché non sei più venuto a farmi visita in carcere?”

“Te l’ho già detto, sono i miei amici”

“Ohh, allora dovresti seriamente rivedere i criteri con cui scegli le tue amicizie, James!”

“Ed io dovrei ascoltare le tue parole? Chissà in quali modi hai usato quella bocca in questi sei anni”.

James ha appena il tempo di terminare la frase, che lo aggredisco e lo sbatto con forza contro una parete del soggiorno; stringo le dita della mano destra attorno ai suoi capelli, in modo da immobilizzarlo ulteriormente.

“Tu non sei mai stato in prigione. Non hai la più pallida idea di che cosa significhi trascorrere anni dietro le sbarre di una cella. Se vuoi sopravvivere, devi adattarti alle regole non scritte che esistono. Ed anche se vuoi farti un nome ed una posizione importante, sei costretto a partire dal basso ed a sporcarti le mani. Anche la bocca se necessario” sussurro, prima di lasciarlo andare; costringo Jimmy a voltarsi e, a fatica, riesco a sollevargli le maniche della felpa che indossa.

I miei occhi si posano in automatico sulle punture, alcune ancora fresche, che ha su entrambi gli avambracci.

A questo punto riesce a ribellarsi ancora: si copre le braccia e le incrocia all’altezza del petto, come se volesse nascondere quei segni che, ormai, non sono più un mistero per me.

“Posso spiegarti ogni cosa” mormora, ed il suo atteggiamento cambia drasticamente.

“Cosa? Che cosa vuoi spiegarmi? Non c’è nulla da spiegare, sei un drogato! Si può sapere come è accaduto? Cosa… Cosa ti ha fatto prendere questa strada? Tu hai sempre disprezzato le persone che fanno uso di sostanze stupefacenti”.

Improvvisamente le parole escono dalle labbra di James come un fiume in piena, in una confessione che forse aspettava di fare da sei anni.

Mi racconta di come si è sentito profondamente solo ed abbandonato dopo che sono stato rinchiuso nel carcere di Donaldson, di come è rimasto deluso da me quando ha scoperto ciò che sono stato costretto a fare, di come si è velocemente allontanato da zia Margaret e di come, nell’arco di poche settimane, si è unito ad un gruppo di tossici che lo hanno spinto a provare la droga per la prima volta, per dimenticare ciò che stava passando.

“Sono stato un enorme coglione” dice poi, con un sospiro, concludendo il suo racconto “sono stato un enorme coglione e ne pagherò le conseguenze per tutto il resto della mia vita. Non riuscirò mai a liberarmi della dipendenza, e quando mia madre tornerà da lavoro, mi sbatterà subito fuori casa”

“Non accadrà nulla di tutto questo, devi fidarti delle mie parole. Appena Meg finirà il turno, ci siederemo davanti al tavolo in cucina e penseremo a come agire. Vedrai, riusciremo a trovare una soluzione. Non sarà semplice, ma sono sicuro che ce la faremo a superare questo… Non sarà semplice ma ce la faremo… Ne sono sicuro” rispondo, prontamente; gli passo il braccio sinistro attorno alle spalle, per calmarlo, e sento la rabbia di poco prima svanire del tutto “a tante persone capita di perdersi o di commettere delle scelte sbagliate nella propria vita, ma c’è sempre la possibilità di rimediare. A tutti è concessa una seconda possibilità”.
 

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Capitolo 17
*** Terza Parte: Alabama's Monster ***


Occuparsi di un famigliare tossicodipendente è un processo lungo ed estenuante, sia dal punto di vista fisico che mentale: si ha a che fare con una persona che può avere violenti scatti d’ira durante una crisi d’astinenza e che può ricadere nelle vecchie abitudini in qualunque momento, anche dopo anni ed anni di disintossicazione; una persona che deve essere accudita e seguita con costanza, che non deve mai essere abbandonata, soprattutto nei momenti più bui e difficili, in cui non si vede una via d’uscita.

Ci sono momenti in cui vorrei abbandonare tutto e andarmene per sempre da Conecuh County, soprattutto quando James diventa tanto violento da essere un pericoloso sia per me che per sé stesso, ma non arrivo mai al punto di preparare le valigie ed andarmene come lui ha fatto, e tutto questo per un semplice motivo: mi sento responsabile della sua tossicodipendenza.

Anche se mia zia continua a ripetermi il contrario, che non devo darmi la responsabilità di colpe che non ho, so che la verità è un’altra: la colpa è mia, perché nulla di simile sarebbe successo se non mi avessero arrestato e spedito a Donaldson.

Trascorro quattro interi anni della mia vita dedicandoli esclusivamente a mio cugino, senza pensare un solo istante a vivere la mia vita o a svagarmi: gli unici ‘lussi’ che mi permetto, sono di scrivere una lettera al mese a David, ancora rinchiuso a Donaldson, e di prendere la patente.

La corrispondenza dura quasi due anni prima d’interrompersi bruscamente, senza alcun motivo apparente, e le opzioni possono essere solo due: o il mio unico amico è stato rilasciato, oppure si è beccato una coltellata durante un altro regolamento di conti.

“Teddy, dovresti riposarti, non credi?” mi domanda zia Margaret, dopo l’ennesimo giorno trascorso interamente in casa ed in compagnia di James “potresti uscire a bere una birra in un pub. Da quanto tempo non fai qualcosa di simile?”

“Sto benissimo, non ho bisogno di andare a bere qualcosa”

“Hai paura di lasciare da solo tuo cugino? Teddy, resterò io in casa con lui, non gli accadrà nulla. Ormai Jimmy ha risolto tutti i problemi che aveva con la droga, e questo grazie al tuo aiuto. Meriti di trascorrere una serata tranquilla”

“Non ne ho bisogno, davvero”.

Provo a declinare più volte la proposta di Meg, ma continua ad insistere; e quando si aggiunge anche James, sono quasi costretto a indossare una giacca, salire in macchina e raggiungere il primo pub della città.

Mi siedo davanti al bancone, ordino una birra e poi mi passo entrambe le mani sul viso, lasciandole lì, finché non sento una voce provenire a poca distanza.

“Ehi!”.

Lo sgabello accanto al mio non è più vuoto, ma bensì occupato da una ragazza giovane e carina, di diciotto o forse diciannove anni: indossa una gonna frusciante, una canottiera bianca ed i lunghi capelli biondi le scendono sulla schiena, fermandosi a pochi centimetri dai fianchi.

Non l’ho mai vista prima, ma qualcosa in lei, forse il biondo della chioma o l’azzurro degli occhi, mi fa subito pensare ad Ava.

“Ehi…” mormoro, rispondendo al saluto “posso fare qualcosa per te?”

“Si, potresti iniziare con l’offrirmi da bere. Che cosa hai ordinato? Una birra? Vorrei lo stesso”.

La sua sfacciataggine riesce a strapparmi un sorriso, e così decido di assecondarla e di chiedere al barista un’altra birra chiara, che arriva dopo una manciata di secondi, mentre cerco di scoprire qualcosa di più sulla sconosciuta.

“Perché una ragazza giovane e carina come te si trova in un posto simile?”

“Ho avuto un piccolo litigio con le mie amiche e mi sono ritrovata da sola, in mezzo alla strada. Ho provato a fare l’autostop ma nessuno si è fermato, così ho cercato un locale e sono finita qui. Credevo di trovare un telefono pubblico, ma sono stata sfortunata. A quanto pare sono capitata nell’unico pub in cui non c’è”

“Dove abiti?” le chiedo, allora, e quando mi dà il suo indirizzo, sollevo il sopracciglio destro “lo conosco, non è molto lontano da qui. Se vuoi, posso darti un passaggio”

“I miei genitori mi hanno sempre detto che non bisogna mai accettare passaggi dagli sconosciuti”

“Aspetta… Non vuoi accettare un passaggio da me, ma prima hai provato a fare l’autostop in strada? Questa è un’enorme contraddizione che non ha alcun senso, lo sai?”

“Lo so” risponde lei, scoppiando a ridere, ricordandomi sempre di più la ragazza che si è presa gioco di me “infatti stavo scherzando. Accetto molto volentieri il tuo passaggio…”

“Theodore”

“Annabelle” dice, presentandosi a sua volta.

Annuisco in silenzio, mandando giù gli ultimi sorsi di birra rimasti nel boccale, ma il suo nome non mi dice nulla: anche se abita a poca distanza dalla casa di mia zia, questa è la prima volta che mi trovo faccia a faccia con lei.

Pago il conto, saliamo in macchina e quando siamo ormai a metà strada, le rivolgo nuovamente la parola, facendo una battuta.

“Dato che ti sto offrendo un passaggio, hai già pensato ad un modo per pagarmi?” domando, scoppiando poi a ridere “sto scherzando, sto scherzando. Non sono un maniaco”

“Purtroppo non ho soldi con me, un bacio può bastare?”.

Le sue parole mi colgono così impreparato che sono costretto a parcheggiare la macchina vicino al ciglio della strada; mi volto a fissarla, cercando di cogliere la minima traccia di ilarità nel suo volto, ma sembra essere estremamente seria.

Dopo la brutta esperienza con Ava, non nutro alcuna fiducia nei confronti del sesso opposto.

“Mi stai prendendo per il culo?”

“No, sono seria. Secondo te perché ho occupato lo sgabello vicino al tuo? Eri il ragazzo più carino dentro quel locale”

“Non sono così giovane come pensi, Annabelle, ho trent’anni e tu devi averne meno di venti… Questa conversazione non dovrebbe neppure avere luogo”.

Le mie proteste vengono ignorate ancora una volta: prima che possa fare qualunque cosa, mi ritrovo Annabelle seduta a cavalcioni su di me, con le sue labbra premute con forza sulle mie; un brivido caldo mi percorre tutta la schiena e per qualche istante mi lascio andare a quel contatto intimo, prima di scostarla in modo brusco, perché nella mia mente rivivo ogni istante trascorso in compagnia di Ava, soprattutto la sera dello scherzo.

“Ma che cazzo stai facendo?” urla lei, massaggiandosi la nuca con la mano sinistra, mentre prendo coscienza di ciò che ho appena fatto; provo a scusarmi, ma Annabelle non è intenzionata ad ascoltarmi: scende dalla macchina ed io faccio lo stesso, raggiungendola dopo qualche passo.

“Scusami per la reazione che ho avuto, non era mia intenzione, posso spiegarti tutto” balbetto, afferrandola per un polso.

“Lasciami andare, non m’interessa ascoltare le tue parole! Mi hai sbattuta contro la portiera della macchina! Fanculo!” mi ringhia contro, guardandomi con un’espressione disgustata, riesce a liberarsi dalla mia presa e riprende a camminare, allontanandosi con passo veloce.

Non so con esattezza che cosa mi succede, ma le sue parole e la sua espressione fanno scattare una molla, uno strano ingranaggio, dentro la mia testa.

Esattamente come è accaduto quando ho rivisto Ava.

Esattamente come è accaduto durante il regolamento di conti a Donaldson.

La raggiungo e la costringo a voltarsi nuovamente, a guardarmi in faccia, vedo le sue labbra socchiudersi per pronunciare chissà quali ingiurie nei miei confronti, ma non le lascio il tempo materiale per farlo; da una tasca dei pantaloni prendo il cacciavite che porto sempre con me e lo conficco nel suo petto, proprio dove c’è la scollatura della canottiera.

Non so per quante volte ripeto quest’operazione, ma quando riesco finalmente a fermarmi e lascio la presa sul suo braccio, il suo corpo cade a terra e giace immobile sull’asfalto; la stoffa della gonna e della canottiera, ormai, sono quasi completamente zuppe di sangue.

“Cazzo…” mormoro, riprendendo fiato, rendendomi conto della gravità della mia azione; mi guardo attorno, e dal momento che la strada sembra essere completamente deserta, sollevo il corpo e lo nascondo nel bagagliaio della mia vettura, prima di occupare il posto del guidatore e tornare a casa.



 
Non posso occuparmi di un cadavere da solo e così, senza fare rumore, raggiungo la camera mia e di James, e lo sveglio, chiamandolo più volte per nome; quando riesco a fargli sollevare le palpebre gli dico, senza tanti giri di parole, che ho fatto una cazzata e che ho bisogno del suo aiuto per rimediare il prima possibile, prima che sia troppo tardi.

“Il mio aiuto? Perché? Che cosa significa che hai fatto una cazzata?”

“Lo vedrai con i tuoi occhi. Vestiti, non abbiamo molto tempo”

“D’accordo… D’accordo” borbotta lui, liquidandomi, agitando una mano.

Quando è pronto lo trascino nel garage, e prima di sollevare lo sportello del bagagliaio lo guardo, chiedendogli se è davvero pronto a quello che sta per vedere; James mi risponde con una scrollata di spalle, ma quando vede il contenuto del bagagliaio sono costretto a tappargli la bocca.

“Zitto! Non gridare, altrimenti zia Margaret ti sentirà! Questo deve essere un segreto tra noi due! Se mi prometti che non griderai, ti lascerò andare, va bene? Hai capito le mie parole?” mormoro, e quando lui annuisce con la testa, tolgo la mano sinistra dalla sua bocca.

“Cazzo, cazzo, cazzo…” inizia ad imprecare, riuscendo a malapena a guardare il corpo della ragazza bionda “tu l’hai… L’hai…”

“Uccisa? Si, l’ho uccisa”

“E come cazzo è successo?”

“Te lo spiegherò più tardi, dopo che mi avrai aiutato a nascondere il suo cadavere in un posto dove nessuno potrà trovarlo”

“E come pensi di fare? Dove vuoi nasconderlo? Cazzo, non stiamo parlando un sacco pieno di spazzatura, Teddy! Stiamo parlando del corpo senza vita di una ragazzina! Verranno a cercarla! I suoi genitori chiameranno la polizia!” mormora James, lasciandosi scappare un gemito; è disperato, ma cerco di non farmi contagiare dal suo stato d’animo, altrimenti sarebbe la fine per entrambi.

“Ecco perché dobbiamo nasconderla in un posto dove nessuno potrà trovarla” rispondo, passandomi le mani tra i capelli; mi tormento la punta della lingua con i denti e, finalmente, riesco a trovare una possibile soluzione al nostro problema “dobbiamo seppellirla sotto le assi del vecchio fienile. Nessuno lo utilizza da anni e nessuno verrà mai a svolgere ricerche in quel luogo, Jimmy”.

Mio cugino annuisce, senza protestare o tirarsi indietro, così prendiamo alcune pale, che sistemiamo sui sedili posteriori, saliamo in macchina e raggiungiamo il vecchio fienile con i fari spenti, in modo da passare inosservati.

Scendo per primo, controllo che la strada sia completamente deserta, e solo a quel punto dico a mio cugino di fare lo stesso e di aprire la porta della struttura; si rifiuta categoricamente di toccare il cadavere di Annabelle, e così è mio compito trasportarlo dentro, mentre lui si occupa di fare lo stesso con le pale e la torcia che ho preso dal capanno degli attrezzi di zia Margaret.

“E adesso? Che cosa facciamo? Impiegheremo ore a scavare una buca abbastanza profonda per nasconderla. Finiremo quando sarà ormai mattina”

“Finché resti lì a blaterare parole senza senso, è molto probabile che accada. Stai zitto e aiutami a sollevare queste assi” rispondo, stringendo i denti, e rivolgendo uno sguardo furioso a James; gli voglio bene, lo adoro, ma deve imparare che ci sono momenti in cui le parole sono solo fiato sprecato.

Con difficoltà, riusciamo a togliere alcune assi dal pavimento, quel tanto che basta per scavare una buca abbastanza larga e profonda in grado di contenere un corpo, senza rovinarle; prendiamo in mano le pale ed iniziamo a smuovere la terra nel più totale silenzio.

L’unico rumore che riempie l’aria è quello del fiato che esce dalle nostre bocche.

Qualche minuto più tardi, Jimmy fa una piccola pausa, passandosi la mano destra sulla fronte, ed il suo sguardo cade in automatico sul corpo, abbandonato a poca distanza da noi.

“Vuoi seppellirla così?” mi chiede poi, incrociando le braccia.

“Ho preso un sacco della spazzatura. In questo modo, l’odore di decomposizione dovrebbe essere più attutito, ed al resto ci penseranno la terra e i vermi”

“Ma come fai a parlare tranquillamente di queste cose? Ti rendi conto che non si tratta di uno scherzo? Ti rendi conto che quello è davvero il cadavere di una ragazza? Tu hai ucciso una ragazza, Teddy, e adesso la stiamo seppellendo come se fosse spazzatura! Se questa volta vieni arrestato, trascorrerai il resto della tua vita dietro le sbarre di una cella! Come è successo?”

“Non lo so!” esclamo, riprendendo a scavare “non lo so come è potuto succedere, d’accordo? Ho perso il controllo! Ho incontrato Annabelle in un locale, mi ha chiesto se potevo offrirle una birra e mi ha raccontato che aveva bisogno di un passaggio per tornare a casa, perché aveva litigato con le amiche e l’avevano abbandonata in mezzo alla strada. In macchina ci ha provato con me, l’ho rifiutata e quando lei ha insistito, l’ho spinta contro la portiera. Ho provato a chiederle scusa, sono sceso per raggiungerla, ma Annabelle non ha voluto ascoltarmi. Ho… Ho perso la testa… Nella mia mente ho rivisto tutto quello che Ava mi aveva fatto e…”

“Credevo che in prigione ti avessero aiutato a risolvere questo problema… Non c’era uno psicologo con cui parlare?”

“Puoi stare zitto e aiutarmi con la buca?” rispondo in modo brusco, riducendolo nuovamente al silenzio.

Impieghiamo diverso tempo per scavare una buca sufficientemente profonda, ma infilare un corpo intero dentro il sacco per la spazzatura si rivela essere un compito così complicato che, alla fine, mi limito a coprirlo prima di fare lo stesso con la terra.

Quando terminiamo anche questo, lungo, compito sistemiamo le assi di legno, incastrandole nei buchi vuoti; indietreggio di un passo ed inclino la testa verso sinistra, per osservare con maggior attenzione l’opera finale: è quasi impossibile distinguere le assi spostate da quelle che sono ancora saldamente ancorate tra loro, così do una pacca sulla schiena a James ed usciamo dal fienile, risalendo velocemente in macchina.

Lui si rilassa contro lo schienale del sedile e chiude gli occhi, convinto che la lunga notte sia giunta finalmente al termine, ma non è così, perché dobbiamo ancora occuparci del bagagliaio: non appena parcheggio la vettura dentro al garage, infatti, sollevo lo sportello e con il fascio di luce della pila illumino alcune macchie che devono sparire il prima possibile, o potrebbero incastrarmi.

“Non credi che sia meglio, per te, prendere appuntamento da uno psicologo?” mi chiede Jimmy, strofinando un panno di stoffa contro una delle tante macchie di sangue raffermo “possiamo consultare un elenco telefonico e provare a fare qualche chiamata… Così, per provare”

“Perché mi stai dicendo questo?”

“Perché mi hai aiutato ad uscire dalla tossicodipendenza, anche se ne porto ancora i segni. Adesso sei tu ad avere bisogno di qualcuno a tuo fianco”

“Non voglio parlare con uno psicologo. L’unico con cui ho avuto a che fare mi ha ritratto come un pazzo destinato a trascorrere il resto della propria vita in prigione” mormoro, cancellando una macchia e passando alla successiva.

Un velo di sudore si forma sulla mia fronte mentre ripenso a ciò che quell’uomo ha detto a mia zia, e che io ho origliato alla porta, quasi sedici anni fa.

 
Suo nipote soffre di un disturbo cognitivo. Questo significa che non riesce a percepire ciò che accade nello stesso modo di tutte le altre persone. I discorsi che fa… Le azioni che compie… Questo attaccamento morboso che ha nei confronti della madre… Sono sintomi piuttosto inquietanti che, se non curati in tempo, possono svilupparsi e diventare qualcosa di più pericoloso.
Theodore potrebbe diventare un pericolo non solo per sé stesso, ma soprattutto per gli altri. Per le persone che lo circondano, per le persone che incontra… Il suo disturbo deve essere curato il prima possibile, in una clinica specializzata.
Non stiamo parlando di pazzia, ma c’è il serio rischio che quel seme possa depositarsi e germogliare, signora, se non interveniamo in tempo. La società rischierebbe di doversi occupare, un giorno, di un soggetto pericoloso. Anche lei sa che è sempre meglio prevenire che curare… Non sarà un percorso semplice o indolore, ma è necessario. Assolutamente necessario.

 
Sono costretto a fermarmi per un istante e ad appoggiarmi alla macchina per non cadere a terra; la testa mi gira e sbatto più volte le palpebre per scacciare alcune macchie grigie che sono comparse nel mio campo visivo.

Mai come ora le parole di quell’uomo mi suonano sinistre, come una profezia.

“Teddy? Stai bene?”.

La voce preoccupata di James mi riporta alla realtà, ed annuisco per tranquillizzarlo.

“Si, si… Sto bene. Sono semplicemente stanco perché è stata una lunga notte. Ti prometto che già da domani cercherò uno specialista” mormoro, nascondendo il mio turbamento dietro un sorriso che riesce a contagiare il viso di mio cugino.

Continuiamo ad occuparci del bagagliaio fino a mattina, e siamo così concentrati che non ci accorgiamo dell’arrivo di Margaret, ancora in camicia da notte e vestaglia.
“Ragazzi, che diavolo state facendo in garage a quest’ora?” domanda, legandosi i capelli in un nodo dietro la nuca, appoggiando poi le mani sui fianchi “che cosa state facendo alla macchina?”

“Pulizie generali” rispondo con prontezza, chiudendo lo sportello “ormai sembrava una discarica. James si è offerto di aiutarmi e adesso è come nuova, giusto?”

“Si, giusto” mi da corda mio cugino, infilando le mani nelle tasche della felpa che indossa “non riuscivamo a dormire a causa del caldo, e così abbiamo deciso di occuparci della macchina di Teddy. Ieri, mentre andava a bere qualcosa, non ha visto una pozza di fango. La fiancata sinistra e il bagagliaio erano un disastro, posso confermarlo”

“Ragazzi, a volte riuscite davvero a sorprendermi” commenta Meg, con un sorriso, credendo alle nostre bugie “venite, la colazione è quasi pronta”

“Arriviamo subito” dico, sorridendo a mia volta, ma quando Margaret esce, torno subito serio e mi giro, di scatto, verso Jimmy “forza, terminiamo di ripulire quelle maledette macchie”.



 
La notizia della scomparsa di Annabelle si sparge velocemente in tutta Conecuh County, ma nonostante il cospicuo intervento di forze dell’ordine, quest’ultime brancolano nel buio.

Qualcuno ipotizza un rapimento, altri qualcosa di più grave, ma non c’è una prova concreta che forma una pista da seguire perché, a quanto pare, non esiste un solo testimone oculare.

Semplicemente sembra che la ragazza sia sparita nel nulla.

“Molto probabilmente avrà deciso di scappare di casa con il ragazzo, e l’uscita con le amiche era solo una scusa per non creare sospetti” commenta mia zia una sera, non particolarmente colpita dall’accaduto “sono in molte a fare così, anche io alla sua età ero una ragazza ribelle. Promettetemi, però, di fare attenzione quando uscite, ragazzi. Di questi tempi non si sa mai quali persone s’incontrano per strada”.
 

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Capitolo 18
*** Just A Coincidence ***


Mentre il caso di Annabelle si trasforma in un mistero irrisolto, a Conecuh County continuano le sparizioni.

Nei sei mesi successivi spariscono almeno una dozzina tra ragazze e ragazzi, e ben presto la polizia capisce che dietro a ciò c’è l’opera della stessa persona, perché tutte le vittime hanno tratti fisici in comune come l’età, i capelli biondi e gli occhi azzurri; eppure, nonostante ciò, le indagini continuano a brancolare nel buio perché nessuno si fa avanti come testimone oculare.

Zia Margaret ha cambiato completamente opinione sull’intero caso: non pensa più ad un aumento di fughe volontarie, e non perde occasione per tormentare me e James, soprattutto perché mio cugino ha iniziato a frequentare una ragazza che ha tutte le qualità per essere un probabile obiettivo.

Jimmy l’ha conosciuta durante il suo periodo di disintossicazione nella clinica in cui lei lavora come volontaria, ma solo recentemente, dopo un fortuito incontro in un supermarket, hanno iniziato ad uscire insieme, perché una delle principali regole della clinica era che non dovevano esserci assolutamente relazioni tra dipendenti e pazienti, inclusi i volontari.

Molto spesso sono presente nei loro appuntamenti, perché sono gli stessi James e Danielle ad insistere.

“Mia zia si preoccupa inutilmente!” esclamo, mentre beviamo una birra in un piccolo pub, nel centro “è davvero convinta che questo misterioso maniaco possa rapire Danielle, ma secondo me è impossibile. Tutte le ragazzine scomparse non hanno neppure vent’anni, mentre la nostra protetta ne ha ventiquattro. È troppo vecchia per il mostro di Conecuh County”

“Teddy!” esclama lei, colpendomi il braccio sinistro “non dovresti scherzare su queste cose! Soprattutto dal momento che c’è davvero un mostro in agguato”

“Ohh, si, Danielle! È in agguato in un angolo ad osservarti, ed aspetta solo che t’infili sotto le coperte per rapirti e portarti nella sua tana. Magari, adesso, si trova proprio qui per osservarti meglio”

“Smettila! Non è divertente!” esclama, di nuovo, scoppiando ugualmente a ridere; il suo buonumore, però, non contagia anche James.

“Ha ragione, dovresti smetterla perché non è affatto divertente, Theodore. Non hai pensato all’eventualità che davanti ad uno di questi tavoli potrebbe esserci il padre o la madre di una delle vittime? Non voglio beccarmi un pugno in faccia per colpa tua”

“Ti prego, non rovinare questa bellissima serata, la mia era solo una battuta. A volte bisogna sdrammatizzare” commento, mandando giù l’ultimo sorso della mia birra; lancio un’occhiata all’orologio che porto al polso sinistro e poi mi alzo, appoggiando una banconota da venti dollari sulla superficie liscia del tavolino “adesso vi lascio soli perché è arrivato il momento di andare a nanna per me”

“Di già? Non puoi fare un’eccezione per una sera?”

“Mi dispiace, tesoro, ma domani mattina è il mio turno di aprire il fast-food. E poi, ormai, rischio di essere sempre il terzo incomodo e voi due non avete mai occasione di fare tutte quelle cose che una giovane coppietta fa. Jimmy, ci vediamo più tardi. Danielle…” mi prodigo in un elegante baciamano che le strappa nuovamente una risata, ed esco dal pub; quando sono ormai sul marciapiede, però, vengo raggiunto da mio cugino “non è buona educazione abbandonare la propria dama all’interno di un locale, specialmente con quello che sta accadendo”

“Devo parlarti… Solo per qualche minuto…”

“E lo devi fare proprio in questo momento? Torna da Danielle, con me puoi parlare in qualunque momento a casa”

“Tu non hai nulla a che fare con tutta questa storia, vero?”.

Guardo James negli occhi, senza parlare, perché non mi aspettavo una domanda simile da parte sua.

“Ma che domanda è? Tu credi davvero che io potrei avere qualcosa… Ascolta, Jimmy, quello che è successo mesi fa è stato solo un piccolo incidente di percorso. Credimi. Si tratta solo di un’enorme coincidenza. Lo sai che quando non sono con te e Danielle sono al fast-food o a casa a leggere un libro. Puoi stare tranquillo… Davvero… Ho seguito anche il tuo consiglio di andare da uno psicologo. Sto bene, davvero, dovresti fidarti di me” rispondo, mostrandogli la mano sinistra, su cui spicca il tatuaggio che ci siamo fatti da ragazzi “ricordi la promessa che ci siamo scambiati? O per te non vale più nulla?”

“Scusami, non volevo dubitare di te, ma tutte queste scomparse… Sono preoccupato per Danielle”

“Vedrai che non le accadrà nulla e che il colpevole verrà preso il prima possibile. Commetterà un passo falso e la polizia lo incastrerà”.

Dopo averlo rassicurato, lo saluto con un sorriso e con un cenno della mano destra, ma non torno subito a casa come ho detto a lui ed alla sua ragazza; faccio una piccola variazione al vecchio fienile perché c’è una questione di cui mi devo occupare.

Quando chiudo la porta alle mie spalle, sento un verso, un gemito, sommesso provenire a poca distanza da me;non appena premo l’interruttore della luce, appare davanti ai miei occhi l’immagine di una ragazzina, bionda, incatenata ad uno dei pilastri che reggono l’intera struttura, ed imbavagliata.

Nonostante la stoffa premuta contro la sua bocca prova comunque a gridare, ma io non mi preoccupo di farla smettere e mi prendo gioco di lei togliendole il bavaglio, dicendole che può gridare con tutto il fiato che ha nei polmoni, tanto nessuno la sentirà e nessuno verrà mai in suo soccorso.

“Perché mi stai facendo questo?” mi domanda, mentre mi occupo di sollevare alcune assi del pavimento e di cercare un punto ancora libero; prendo una pala ed inizio a scavare prima di risponderle.

“Sei mesi fa sono uscito con una ragazza molto simile a te” spiego, continuando a scavare “era semplicemente perfetta: capelli biondi, occhi azzurri ed un viso che sembrava quello di una bambola. Le sue amiche l’avevano abbandonata dopo un litigio e lei mi aveva chiesto un passaggio perché ormai era tardi e doveva tornare a casa prima che i suoi genitori si preoccupassero e le facessero passare dei guai seri. Mentre eravamo in macchina le ho detto, per scherzo, che doveva trovare il modo per pagare il pedaggio e lei non si è tirata indietro, anzi, me la sono ritrovata sopra di me, con le sue labbra premute contro le mie. Quando l’ho rifiutata, non l’ha presa bene. Non l’ha presa affatto bene. Ho provato a scusarmi, ma non ha voluto ascoltare le mie parole e ha iniziato ad offendermi. Ecco, tesoro, in quello stesso momento non ho più visto il suo volto, ma quello di una ragazza che si è presa gioco di me tredici anni fa, quando avevo la tua stessa età. E così ho preso un cacciavite e l’ho uccisa. Credo che tu abbia già sentito parlare di lei… Si tratta del caso di Annabelle, quello che non sono ancora riusciti a risolvere. Mio cugino, in quell’occasione, mi aveva consigliato di rivolgermi ad uno psicologo per risolvere i miei problemi, ma io non l’ho fatto a causa di una brutta esperienza che ho avuto a quattordici anni… Ma questa è un’altra storia, sto divagando e rischio solo di annoiarti. Per rispondere alla tua domanda, credo che se fossi andato da uno psicologo, molto probabilmente mi avrebbe detto che non sono ancora riuscito a superare questo brutto momento della mia vita e che sto cercando una valvola di sfogo nelle persone che me la ricordano. Ohh, cavolo, ho scavato nel punto sbagliato. Qui è già tutto occupato”.

Tiro fuori alcuni sacchi di plastica nera e li lascio cadere sulle assi del pavimento: da uno di loro esce un oggetto dalla consistenza molliccia e dall’odore disgustoso; la ragazzina spalanca gli occhi e riprende a gridare quando capisce che si tratta di un braccio in avanzato stato di decomposizione.

Quando il fetore della carne diventa insopportabile, la sento tossire e fare alcuni conati; nel mio caso, invece, non suscita alcuna reazione perché, ormai, ci ho fatto l’abitudine.

Riprendo a scavare vicino alla prima buca e finalmente trovo il punto giusto per nascondere un altro corpo, celato dalla plastica di un altro sacco per la spazzatura; gli occhi della ragazza si spalancano ancora una volta, perché inizia a capire che cosa sta per accadere.

“Ti prego, non farlo, se mi lasci andare, ti prometto che non racconterò nulla di quello che è successo e non andrò neppure dalla polizia! Dirò che ho incontrato un gruppo di uomini che non ho mai visto prima e che non ricordo le loro facce perché avevano dei passamontagna. Ti prego, te lo giuro, ti puoi fidare di me!”

“Vorrei davvero poterlo fare, mi sembri una brava ragazza, ma sfortunatamente non posso” mormoro, sorridendo, stringo la mano destra attorno alla pala e la colpisco con quella, più volte, alla testa finché dalle sue labbra non esce più un solo suono e dei rivoli di sangue cadono sul pavimento, come una lieve pioggerella primaverile; controllo con accuratezza che non ci sia più battito nel petto prima di slegare il corpo ed infilarlo dentro la buca, con le ginocchia piegate contro il petto, in posizione fetale, coprendo il tutto con il sacco e la terra.

Incastro con cura le assi di legno sul pavimento e pulisco le macchie di sangue prima di spegnere le luci, uscire dal fienile e tornare a casa prima che lo faccia James; fortunatamente mio cugino torna qualche minuto più tardi, mentre sono impegnato a sfogliare un libro che a breve devo riportare in biblioteca.

“Non avevi detto che tornavi a casa perché avevi bisogno di riposare?”

“Si, ma credo di soffrire d’insonnia. Come è andato l’appuntamento? Avete visto qualcosa di strano?”

“Ti prego, non ricominciare con questa storia, Teddy! Te l’ho detto anche prima: ho sempre i nervi a fior di pelle perché ho paura che accada qualcosa a Danielle” si lamenta, chiudendo la porta della camera alle sue spalle “lei è la prima cosa bella che mi capita da tanto tempo, non voglio che qualcuno me la strappi via in modo così violento”

“Infatti è stata lei ad aiutarti quando avevi le crisi d’astinenza”

“Avanti, Teddy, io sto parlando di un’altra cosa. Tu non sei mai stato veramente innamorato, non puoi capire. Il giorno in cui incontrerai la donna che avrà il potere di far scomparire tutto quello che c’è attorno a te, allora capirai quello che ti sto dicendo adesso”

“Dubito seriamente che quel giorno arriverà” commento, chiudendo il libro e riponendolo sopra al comodino.

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Capitolo 19
*** False Move (Parte Uno) ***


Proprio come ho detto a James, arriva sempre il momento in cui una persona commette un passo falso, peccando di presunzione, e nel mio caso accade con l’ultima ragazza che riesco a condurre, con l’inganno, dentro al vecchio fienile.

Quando entro nell’edificio, ed accendo le luci, per concludere il lavoro, la trovo completamente immobile, legata al palo e con la testa reclinata in avanti; non mi preoccupo di controllarle il battito del cuore, e ne pago le conseguenze quando la slego e ricevo un calcio nel basso inguine, che mi fa crollare a terra con un gemito di dolore.

Riesco a rialzarmi a fatica ed a inseguire la ragazzina fuori dal capannone, ma è molto più veloce di me, ed il buio e il dolore pulsante mi fanno perdere definitivamente le sue tracce.

“Cazzo, cazzo…” ripeto, guardandomi attorno, senza riuscire a trovarla; mi passo entrambe le mani tra i capelli e torno dentro.

Raccolgo la pala, il sacchetto di plastica nera, la catena e li nascondo in un angolo, coprendoli con della paglia secca; torno a casa correndo e, quando entro in camera, prendo i primi vestiti che mi capitano tra le mani e li infilo dentro uno zaino, lo stesso che ho portato con me a Donaldson.

La confusione, il rumore e le imprecazioni che continuo a mormorare svegliano James, che mi rivolge uno sguardo assonnato e confuso.

“Teddy, è notte fonda. Si può sapere che diavolo stai facendo?”

“C’è stata un’emergenza a lavoro. Qualcuno ha fatto scattare l’allarme”

“Davvero? Vuoi che ti accompagno?”

“No, no… Il mio Capo ha avvertito già un altro ragazzo, non ti preoccupare, sono sicuro che si tratta di una sciocchezza. Magari è un semplice cortocircuito” mento, nascondendo lo zaino dietro la schiena, Jimmy crede ciecamente alle mie parole e si sdraia nuovamente sul materasso, voltandomi le spalle.

“D’accordo, come vuoi tu. Fa attenzione, potrebbe essere pericoloso”

“Non ti preoccupare, andrà tutto bene” rispondo, prima di uscire dalla stanza.

Scendo nel garage, salgo in macchina, ma imbocco una strada completamente diversa da quella che porta al fast-food in cui lavoro, e dopo una decina di minuti supero il cartellone che dà il benvenuto a Conecuh County ai turisti.

La ragazzina che è riuscita a scappare non conosce il mio nome, ma ha visto perfettamente il mio viso, ed a quest’ora potrebbe già essere alla centrale di polizia a fornire un identikit dettagliato: proprio per questo motivo non posso restare nella città in cui sono nato e cresciuto, voglio risparmiare a mia zia ed a mio cugino il dolore di aprire la porta di casa e vedere degli agenti a cui è stato affidato il compito di arrestarmi.

La vista mi si annebbia a causa delle lacrime, ma riesco a ricacciarle indietro appena in tempo, perché adesso devo rimanere concentrato per cercare un posto sicuro dove trascorrere la notte.

E per decidere del mio futuro.



 
Trascorro la notte ed i quattro giorni seguenti nella camera di un motel: non esco mai, se non per comprare qualcosa da mettere sotto i denti, e non accendo la TV, perché ho il terrore di quello che potrei sentire.

Di quello che sicuramente sentirei a qualche notiziario o a qualche edizione straordinaria di un telegiornale.

Passo l’ennesima giornata rannicchiato sul materasso cigolante, con le ginocchia strette al petto, senza avere la minima idea di cosa fare: so che dovrei cercare un posto lontano dove ricominciare una nuova vita con una nuova identità, ma ciò significherebbe abbandonare per sempre Meg e Jimmy, ed io non mi sento pronto a compiere un simile passo.

Anche se è la cosa più giusta da fare.

Mi sento intrappolato in una prigione priva di finestre e di sbarre, dalla quale non posso uscire.

Questa terribile sensazione dura fino al momento in cui qualcuno bussa alla porta della mia stanza: due colpi, e poi cala nuovamente il silenzio assoluto, ma io so che dall’altra parte c’è una persona, o forse più, che sta aspettando solo che mi affacci.

Esito qualche secondo prima di avvicinarmi e domandare allo sconosciuto di identificarsi; con mia sorpresa risponde una voce femminile, giovane, che appartiene ad una donna delle pulizie.

“Devo cambiare le lenzuola, signore. Farò presto, non le recherò alcun disturbo”.

Sorrido, tra me e me, per l’inutile preoccupazione e poi apro la porta, togliendo la sicura, dandomi mentalmente dello stupido per i nervi che ho sempre a fior di pelle.

Non so esattamente come succede, ma nello stesso momento in cui indietreggio di un passo per far entrare la donna delle pulizie, mi ritrovo a terra, con il basso inguine che pulsa dolorosamente, e con la canna di una pistola puntata a pochi centimetri dal mio viso; sbatto più volte le palpebre, a causa della vista offuscata, e quando riesco a mettere a fuoco la stanza attorno a me, vedo una donna, bionda, che indossa un completo nero.

Senza spostare l’arma, fruga all’intero di una tasca dei pantaloni e tira fuori un distintivo.

“Agente Jones” dice, in tono freddo, presentandosi “Theodore Bagwell, sei in arresto per rapimento, stupro e tentato omicidio. Tutto quello che dirai potrà essere usato contro di te”.
 

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Capitolo 20
*** False Move (Parte Due) ***


In seguito al mio arresto, vengo trascinato alla centrale di Conecuh County: gli agenti vogliono sottopormi ad un lungo interrogatorio perché mi ritengono responsabile anche delle numerose scomparse avvenute negli ultimi sei mesi in città.

Confesso ogni cosa subito, dopo essersi seduto davanti ad un tavolo metallico, con i polsi bloccati da un paio di manette: racconto di essere io il mostro di Conecuh County, racconto i motivi che mi hanno spinto a compiere questo massacro e, soprattutto, racconto loro dove possono trovare i resti delle povere vittime; al termine della lunga ‘chiacchierata’ sono proprio io a condurli nel posto, senza la minima esitazione, che viene immediatamente ribattezzato ‘il fienile degli orrori’, quando le assi di legno e la terra vengono rimossi dal pavimento.

Alcuni agenti sono costretti ad uscire dalla struttura a causa del forte odore di carne in decomposizione, mentre io resto impassibile, quasi senza sbattere le palpebre.

In realtà, resto impassibile per tutto il tempo del processo; anche in tribunale non mi scompongo minimamente davanti al dolore dei parenti delle giovanissime vittime, che mi urlano contro qualunque tipo di appellativo come ‘mostro’, ‘deviato’, ‘assassino’ e ‘pedofilo’.

Anzi.

A volte mi ritrovo a sorridere alle loro parole, e per poco non rischio di essere aggredito fisicamente dal padre di una ragazza; fortunatamente alcune guardie riescono ad intervenire in tempo per evitare il peggio.

La mia indifferenza traballa quando viene letto il verdetto: condanna a due ergastoli, senza condizionale.

Due ergastoli.

Devo trascorrere il resto della mia vita dietro le sbarre di una cella, ed ho appena trent’anni.

Ma la parte peggiore arriva la sera antecedente al mio trasferimento in prigione: non so come sia riuscita ad ottenere il permesso, ma ricevo una visita da parte di zia Margaret, e quando restiamo da soli in una delle stanze riservate agli interrogatori, si scaglia contro di me, picchiandomi per la prima volta.

Non tento neppure di sottrarmi ai suoi schiaffi, perché so di meritarmeli tutti per quello ho fatto.

“Come hai potuto?” mi urla contro, con le guance rigate dalle lacrime “come hai potuto fare quelle cose? Mi sono sempre presa cura di te, come se fossi un altro figlio, ti ho cresciuto insegnandoti dei valori, ti ho sempre lasciato fare ciò che volevi perché nutrivo la più totale fiducia nei tuoi confronti. Mi sono rifiutata di farti rinchiudere in una clinica psichiatrica, quando avevi solo quattordici anni. Ti ho riservato molte più attenzioni di James, perché mi sono sempre sentita in colpa per quello che avevi passato! E tu ripaghi me e tuo cugino in questo modo? Con quelle… Quelle… Ti rendi conto che dopo quello che hai fatto non posso più vivere in questo posto? Ti rendi conto che non hai rovinato solo la tua vita, ma anche quella mia e di James? Hai coscienza di questo, Teddy, o sei troppo egoista per capirlo?”

“Mi dispiace, non volevo far ricadere le conseguenze delle mie azioni su voi due. Io vi voglio bene come ne voglio a mia madre” mormoro, abbassando la testa, ma Meg non è intenzionata a cedere: è troppo sconvolta e delusa per abbracciarmi e consolarmi.

“Mi dispiace, Teddy, ma questo è troppo. Qui non si tratta di chiudere un occhio davanti ad una cazzata. Hai commesso degli atti orribili e disgustosi. Sei un mostro, non riesco neppure a guardarti negli occhi, e non credo ad una sola delle parole che hai detto” Margaret si allontana da me, ma prima di uscire dalla stanza si volta un’ultima volta e pronuncia una frase che mi spezza del tutto “dimenticati di me e di James. Da questo momento in poi io non sono più tua zia e lui non è più tuo cugino. Noi non esistiamo per te e tu non esisti per noi”.



 
La visita di mia zia è stata una mazzata sui denti, ma il giorno seguente ricevo il colpo di grazia: non mi permettono di vedere mia madre un’ultima volta; anche se spiego loro quanto sia delicata la sua situazione, per evitare una possibile fuga e vengo costretto a salire in un camioncino, rinforzato, che serve per il trasporto di detenuti pericolosi, come nel mio caso.

Trascorro diverse ore all’interno del mezzo di trasporto, sprovvisto di finestrini, circondato da agenti armati, senza sapere a quale penitenziario sono stato destinato; eppure, quando finalmente mi ordinano di scendere, non sono affatto sorpreso di rivedere i cortili e le mura fin troppo familiari del carcere di Donaldson, a Springfield.

Vengo nuovamente destinato al Braccio E, quello in cui sono rinchiusi i detenuti che hanno commesso crimini sessuali, e dopo aver indossato la divisa carceraria vengo spinto nel cortile, perché sono arrivato proprio nel bel mezzo dell’ora all’aria aperta.

“T-Bag! T-Bag!”.

Sento un paio di braccia attorno alle mie spalle e qualcuno mi stringe in un abbraccio che mi toglie letteralmente il fiato; muovo qualche passo all’indietro, per non cadere a terra, e riesco a sottrarmi alla presa dello sconosciuto.

Lo guardo negli occhi, piegando il viso verso sinistra, e quando lo riconosco sono io stesso ad abbracciarlo.

“Oh, mio dio, David! Credevo che non ti avrei mai più rivisto!” esclamo, sciogliendo l’abbraccio per primo “è passato così tanto tempo… Perché non hai più risposto alle mie lettere? Pensavo fossi stato rilasciato, o che ti fosse accaduto qualcosa…”

“Non qui. Ne parleremo con calma più tardi, in cella” risponde lui, abbassando il tono di voce, continuando però a sorridere “sai… Dopo dieci anni a Donaldson sono riuscito a farmi un nome e questo comporta ad avere alcuni piccoli privilegi, senza tirare troppo la corda. Quando ho saputo del tuo arrivo, ho chiesto ad uno dei secondini se potevi essere il mio nuovo compagno di cella, dato che l’ultimo è stato rilasciato qualche settimana fa, ed ha acconsentito. Sei contento?”

“Si, sono davvero contento. Questa è la prima buona notizia che ricevo da giorni” mormoro, infilando entrambe le mani nelle tasche dei pantaloni.



 
Quando entro nella mia nuova cella, David si affretta a mostrarmi tutti i ritagli di giornale che parlano del mio caso, che custodisce con cura dentro ad una piccola scatola, insieme a tutte le lettere che ci siamo scambiati, prima che la corrispondenza si interrompesse in modo brusco e senza un motivo apparente.

“Sei stato ribattezzato ‘il mostro dell’Alabama’, guarda” dice, indicandomi il titolo di un articolo “i giornali hanno scritto che non c’era mai stato un caso simile, prima d’ora, in tutto lo Stato”

“Ohh, affascinante”

“Sai, qui a Donaldson sei diventato una specie di celebrità, T-Bag. In pochissimi hanno raggiunto quasi il tuo livello, ma nessuno di loro ha mai ricevuto così tanta attenzione mediatica. Avrei voluto seguire il processo in diretta, ma sfortunatamente non è stato possibile”.

Mi lascio cadere sulla brandina inferiore, con il ritaglio di giornale ancora in mano, e poi sollevo lo sguardo, osservando David con un’espressione accigliata: mi sta fissando ammirato, come se fossi il suo idolo, e dopo qualche istante capisco che il punto è proprio questo.

Per lui non sono più solo un amico ed il suo nuovo compagno di cella: sono un esempio da seguire ed imitare.

Per dirla in parole semplici: pende letteralmente dalle mie labbra.

“Ti ringrazio per tutto questo” mormoro, con un mezzo sorriso, riponendo il tutto dentro la scatolina “ma per il momento preferisco non parlare del processo e del mio caso. Sono ancora frastornato da quello che è successo negli ultimi giorni. Ti prometto che appena mi sarò nuovamente ambientato ti racconterò tutto quello che vuoi sapere, così avrai altri pezzi per la tua… Collezione personale”

“Hai tenuto dei pezzi delle tue vittime e li hai qui con te?” mi domanda il mio compagno di cella, fraintendendo le mie parole; lo guardo, interdetto, e poi preferisco ignorare la sua richiesta e concentrarmi su una questione più urgente.

“Perché hai smesso di rispondere alle mie lettere?”

“Da quando te ne sei andato, sono successe molte cose a Donaldson, Theodore, e la maggior parte riguarda Wolf”

“Wolf? È ancora qui? Non l’ho visto in cortile”

“Questo perché lui e il resto del suo gruppo si trovano in isolamento, in seguito all’ennesimo regolamento di conti. Ormai sono diventati ingestibili e non passa settimana in cui non venga trovato un cadavere nelle docce o in uno dei capanni dove i detenuti lavorano. Io stesso mi sono allontanato dal gruppo perché non sono mai stato nelle grazie di Wolf, ed ancora non so come ho fatto a resistere per tutto questo tempo. Mi ha sempre odiato a causa del nostro rapporto di amicizia e sapevo che era intenzionato a farmela pagare in un modo o nell’altro. Per questo motivo ho smesso di rispondere alle tue lettere, avevo il terrore che scoprisse la nostra corrispondenza e che decidesse di darmi una lezione indimenticabile”

“Immagino che nessuno sia intenzionato a sistemare questa faccenda”

“I secondini vedono solo ciò che vogliono. Nessuno ha il coraggio di mettersi contro di lui, è troppo potente. La verità è che ha più potere lui del direttore” commenta David, con una smorfia “comunque faresti meglio a prepararti: domani dovrebbero tornare tutti nelle loro celle e sono sicuro che Wolf avrà molto di cui parlarti”.



 
Le parole del mio unico amico e compagno di cella si rivelano profetiche, perché il giorno seguente lo vedo entrare in mensa, mentre sono in fila con un vassoio in mano; giro il viso da tutt’altra parte, con la speranza di non essere visto, e quando supera sia me che David tiro un sospiro di sollievo.

La mia tranquillità, però, dura ben poco perché mentre sto mangiando il mio pranzo si avvicina un ragazzo che mi passa il braccio sinistro attorno alle spalle e mi sussurra qualche parola a poca distanza dall’orecchio destro.

“Tu sei Theodore Bagwell, giusto?”

“Si, sono io”

“Questo pomeriggio, appena inizia l’ora all’aria aperta, aspettami vicino alla recinzione”.

Non dice altro: mi rivolge un sorriso e poi si allontana, facendo ritorno al tavolo occupato da Wolf e dai suoi fedeli cagnolini; torno a concentrarmi sul mio piatto prima d’incrociare il suo sguardo, ma sento lo stomaco improvvisamente chiuso, e così mi limito a punzecchiare il riso con il cucchiaio di plastica che ho in mano.

“Che cosa ti ha detto?” mi domanda subito David, incuriosito.

“Credo di aver appena ricevuto l’invito di cui mi parlavi, David, e credo anche che Wolf voglia parlarmi all’interno di uno dei capannoni per non avere testimoni oculari”

“Se hai bisogno di qualcosa, qualunque genere di arma, devi solo chiedermelo”

“Purché non sia un punteruolo” commento, riuscendo a strappare un sorriso ad entrambi nonostante la situazione.



 
Fortunatamente il mio ammiratore numero uno riesce a procurarmi un oggetto appuntito poco prima dell’inizio dell’ora all’aria aperta.

“Purtroppo non sono riuscito a trovare un coltello o un’altra arma da taglio, ma sono sicuro che ti troverai benissimo con questo. Sai, in un articolo c’era scritto che alcune delle tue vittime le hai uccise con un cacciavite… Ho pensato che avresti apprezzato”

“David, a volte mi fai davvero paura. Ricordami di non chiederti mai per quale motivo ti trovi a Donaldson” rispondo, dandogli una pacca sulla schiena; nascondo l’arma in una tasca dei pantaloni e mi appoggio agli anelli metallici della recinzione.

Chiudo gli occhi per godermi appieno il sole estivo, finché una voce non mi spinge a sollevare le palpebre: appartiene allo stesso ragazzo che si è avvicinato a me in mensa, e con un cenno del capo mi fa capire che lo devo seguire all’interno di uno dei capanni, proprio come avevo ipotizzato.

Non sono sorpreso di trovare Wolf, ma non avevo preso in considerazione l’eventualità di trovare anche il resto della sua squadra: infilo la mano destra nella corrispettiva tasca dei pantaloni, chiudendola attorno al manico del cacciavite; non ho alcuna speranza di farcela contro un gruppo di sei persone, ma non sono intenzionato a soccombere prima di aver pugnalato qualcuno o di avergli reciso la carotide con le mie stesse mani.

“Lasciateci soli” ordina il mio ex compagno di cella, rivolgendosi poi al ragazzino che sta al suo fianco, che ha preso sicuramente il mio posto “anche tu. Vattene”.

Osservo il ragazzino uscire velocemente dal capanno, e quando la porta si richiude con un tonfo sordo mi concentro nuovamente su Wolf, che se ne sta appoggiato ad un tavolo, con le braccia incrociate all’altezza del petto: la prima volta che mi sono ritrovato faccia a faccia con lui, aveva la mia stessa età, mentre adesso è un uomo di quarant’anni.

Proprio come nel caso di David, inizio a temere che anche il mio ex compagno di cella sia condannato ad uno o più ergastoli.

“Theodore Bagwell” pronuncia il mio nome, scandendolo con lentezza “ma guardati… Come sei cambiato. Ho quasi faticato a riconoscerti, lo sai? Ormai non sei più un ragazzino, sei quasi un uomo adulto”

“Anche tu sei diverso” commento, soffermandomi a guardare i capelli che non sono più folti come dieci anni prima e lo stomaco sporgente; lui se ne accorge e ride, indossando un cappello a visiera.

“Ammetto di essermi un po’ lasciato andare negli ultimi anni. Tu, invece, sei in perfetta forma fisica, Teddy-Bear” indietreggia di un passo e continua a fissarmi, senza lasciarsi sfuggire un solo centimetro della mia pelle “guardati… Ormai non sei più né un ragazzino né un novellino. Ti hanno già detto che sei una celebrità a Donaldson? Soprattutto qui, nel Braccio E… Sei il detenuto che ha ricevuto la pena più alta da scontare, non lo trovi buffo? Hai iniziato con una condanna a sei anni e adesso devi scontare due ergastoli”

“Sono stanco di sentire le cazzate che escono dalla tua bocca. Per quale motivo mi hai portato qui?”.

Il sorriso scompare dal volto di Wolf, che diventa improvvisamente serio, e si avvina a me, bloccandomi contro una parete.

“Sono passati quattro anni dall’ultima volta che ci siamo visti. Ti avevo detto di mandarmi qualche lettera, perché non ho ricevuto nessuna notizia da parte tua?”

“Mi sono occupato di una faccenda molto delicata”

“E non hai mai avuto il tempo di scrivere neppure una piccola lettera da spedire a Donaldson?”

“No, te l’ho appena detto: mi sono occupato di una faccenda molto delicata che mi ha tenuto occupato per quattro anni interi, non devo darti altre spiegazioni” rispondo, con un sorriso tirato, provo a liberarmi dalla morsa invisibile del mio ex compagno di cella, ma la sua mano sinistra si posa sul mio braccio destro, stringendolo appena, imponendomi di tornare di nuovo con la schiena contro la parete.

“Perché sei così ansioso di andartene? Non sei contento di vedermi? Ohh, capisco, sei arrabbiato con me perché ho un nuovo compagno di cella, vero? Non ti devi preoccupare di questo, Teddy-Bear, ho un’altra tasca dei pantaloni a cui ti puoi aggrappare” sussurra, a pochi centimetri dal mio viso; quando prova a baciarmi mi libero dalla sua presa, tiro fuori il cacciavite e lo ferisco alla guancia sinistra, procurandogli un taglio lungo, ma sfortunatamente superficiale.

“Non hai ancora capito che adesso la faccenda è completamente diversa?” ringhio, allontanandomi di qualche passo in direzione dell’entrata del capanno “non sono più un ragazzino di vent’anni, lo hai detto anche tu, adesso sono un uomo e non ho bisogno di elemosinare la protezione di qualcuno, specialmente la tua. Stai lontano da me o la prossima volta ti aprirò in due come uno scoiattolo”

“Ohh, ma guarda, il piccolo e indifeso cucciolo di orso ha sfoderato gli artigli. E come pensi di uccidermi? Con quel misero cacciavite? Sei completamente solo, Teddy-Bear, non hai dei compagni a coprirti le spalle e qui dentro tutto ruota attorno a me. Sono io a comandare. Sei davvero sicuro di volermi come nemico? Se adesso fai un passo indietro e ricevo delle dovute scuse, posso archiviare il tutto come un piccolo incidente di percorso… Allora? La tua risposta?”.

Si avvicina a me nuovamente, tentando un secondo approccio, accarezzandomi il viso; non ha ancora capito che non sono intenzionato a cedere alle sue avance, e così decido di sottolineare il concetto sputandogli addosso un grumo di saliva.

Ricevo uno schiaffo così violento che mi ritrovo a terra, con il volto in fiamme ed un gusto ferroso in bocca; sollevo il viso e incontro lo sguardo freddo e duro di Wolf, che esce senza più rivolgermi una sola parola.

Qualche secondo più tardi vengo raggiunto da David, che mi aiuta ad alzarmi.

“Allora? Come è andata? Che cosa ti ha detto?”

“Credo di essermi appena fatto un nemico molto pericoloso” commento, sputando a terra un rivolo di sangue.

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Capitolo 21
*** Dangerous Enemy ***


Capisco di essermi fatto davvero un nemico molto pericoloso solo una settimana più tardi quando, poco prima di uscire dalla stanza delle docce, vengo bloccato dal gruppo di Wolf, mentre lui chiude la porta e si appoggia ad essa, con un’espressione soddisfatta.

“Sai qual è il bello di avere così tanto potere all’interno di una prigione?” mi dice, con un sorrisetto “puoi chiedere qualunque favore ai secondini e loro acconsentiranno sempre. E se dici che per qualche minuto devono far finta di non sentire i gemiti e i lamenti di un detenuto, faranno anche questo”.

Prima che possa capire il vero senso delle sue parole, vengo immobilizzato, e colpito in qualunque parte del corpo con calci e pugni; non so con esattezza per quanto tempo dura il pestaggio, ma quando Wolf ordina di lasciarmi andare scivolo a terra, come uno straccio di stoffa, con il respiro ridotto ad un rantolo sommesso a causa di un dolore all’altezza delle costole.

Il mio ex compagno di cella s’inginocchia sulle piastrelle della stanza, macchiate del mio stesso sangue, e mi afferra il braccio sinistro, bloccandomelo dietro la schiena; avvicina il viso al mio e decide di darmi un’ultimissima possibilità, dicendomi che sono ancora in tempo per chiedere perdono e per sistemare ogni cosa prima che sia troppo tardi.

“Vaffanculo” rispondo, a denti stretti, con il volto schiacciato contro il pavimento.

“Come vuoi tu. Io ti ho dato la possibilità di rimediare”.

Non riesco a trattenere un urlo quando sento un rumore sinistro provenire dal mio polso, e delle lacrime mi rigano il viso, seguite da alcuni singhiozzi spezzati; Wolf mi afferra per i capelli, tirando una ciocca con forza, un dolore insopportabile mi esplode in testa e poi tutto diventa nero.



 
Mi risveglio solo diverse ore più tardi.

Non nelle docce, ma bensì in un lettino dell’infermeria.

Un’infermiera mi spiega che ho il polso sinistro fratturato, delle costole rotte e sette punti in testa a causa di una profonda ferita; quando le chiedo se sa chi mi ha soccorso, si limita a dire che alcune guardie mi hanno trovato in pessime condizioni dentro le docce e che mi hanno portato subito qui.

“Vedrai che i responsabili verranno trovati” aggiunge poi, per tranquillizzarmi.

“Si, ne sono sicuro” rispondo io, con una smorfia, anche se il mio pensiero è un altro: non solo i responsabili non verranno mai presi, ma sono sicuro che, quando tornerò al Braccio E, Wolf e i suoi fedeli cagnolini finiranno il lavoro che hanno lasciato a metà alla prima buona occasione, perché è evidente che quello che è successo nella stanza delle docce è stato solo un avvertimento.



 
Resto bloccato sul lettino dell’infermeria per due intere settimane, e quando una guardia mi scorta fino al cortile del Braccio E, ho ancora il polso sinistro fasciato, diversi lividi sul viso e faccio fatica a camminare.

“T-Bag, sei vivo!” esclama David, allargando le braccia; non riesco a fermarlo in tempo e quando mi stringe in un abbraccio, il dolore è così forte che sento le lacrime pizzicarmi gli occhi “scusami… Non volevo…”

“Tranquillo, sto bene. Sono solo un po’ ammaccato”

“Hai pagato le conseguenze della tua decisione?” mi domanda, con un mezzo sorriso, cercando di allentare la tensione quasi palpabile che si respira.

“Solo il primo acconto” rispondo in tono sarcastico; osservo il mio ex compagno di cella, seduto sui graditi di una tribuna insieme al suo gruppo, e quando si accorge del mio sguardo mi rivolge un cenno di saluto con la mano sinistra: per pochi secondi, sul palmo, vedo brillare la lama di un taglierino, prima che la nasconda in una tasca dei pantaloni “si… Ho pagato solo il primo acconto. Sono fottuto”

“No, non sei fottuto! Tu sei Theodore Bagwell! Sei il mostro dell’Alabama!”

“Ti prego, David, questo non è il momento” mormoro con un sospiro, sollevando gli occhi al cielo “uccidere delle ragazzine e dei ragazzini indifesi è diverso dall’affrontare un branco di sette persone armate con taglierini, cocci di vetro e cacciaviti. E poi, Wolf è molto più esperto di me e ha i secondini dalla sua parte… Io, invece, sono completamente solo… Ad eccezione di te, il mio ammiratore numero uno”.

Mi siedo sull’erba, con la schiena e la nuca appoggiate alla recinzione metallica, chiudo gli occhi e provo ancora a godermi i raggi caldi del sole, dal momento che non so quanto tempo mi resta ancora da vivere; il mio nuovo compagno di cella, però, non è intenzionato ad arrendersi: si siede a mio fianco e tenta di convincermi a trovare una soluzione al mio ‘piccolo problema’.

“Avanti, T-Bag, non ti puoi arrendere in questo modo! Vedrai che insieme riusciremo a trovare una soluzione e daremo a Wolf ed al suo gruppo una lezione così esemplare che non avrai più problemi per il resto della tua pena!”

“Qui non si tratta di dare una lezione esemplare” mormoro, sempre ad occhi chiusi “Wolf vuole uccidermi. Vuole aprirmi la pancia e impiccarmi con le mie stesse budella. Se voglio salvarmi, devo agire prima che lo faccia lui, ma non ci riuscirò mai finché è circondato ventiquattro ore su ventiquattro dai suoi fedelissimi. Senza dimenticare che ha i secondini dalla sua parte”

“Dici così solo perché sei di pessimo umore”

“Non sono di pessimo umore, sono solo realista. Guarda in quali condizioni mi hanno ridotto! Avrebbero potuto già uccidermi nelle docce, ma non lo hanno fatto perché volevano giocare con me. Forse lo faranno ancora per un po’, ma arriverà il momento in cui si stancheranno”

“Sono sicuro che riuscirai a trovare una soluzione, hai solo bisogno di un po’ di tempo per riprenderti” risponde David, dandomi una gomitata proprio nel punto in cui le costole mi fanno ancora male.



 
Il mio compagno di cella nutre troppa fiducia e ammirazione nei miei confronti, ma su una cosa ha perfettamente ragione: devo trovare una soluzione il prima possibile, o finirò davvero impiccato con il mio intestino.

“Sai, David, forse una soluzione al nostro problema esiste” dico mentre siamo a mensa, addentando una coscia di pollo “ma in due abbiamo pochissime possibilità di farcela contro Wolf. Abbiamo bisogno di una terza persona”

“Di chi stai parlando?”.

Indico con un cenno della testa il ragazzino che il mio ex compagno di classe si porta sempre appresso e David spalanca gli occhi, perché il mio piano non lo convince del tutto.

“Vuoi coinvolgere il suo cagnolino più fedele? È meglio se inizi a progettare un altro piano perché questo non potrà mai funzionare”

“Perché?”

“Perché il tuo adorato ex compagno di cella non lo lascia da solo neppure per un secondo. E se anche riuscissi a trovare il momento perfetto per parlargli, andrebbe subito a raccontare ogni singola cosa al suo Capo”

“E su questo ti sbagli, David, perché sono sicuro che farebbe qualunque cosa pur di liberarsi dalle grinfie del suo aguzzino. Fidati, l’ho sperimentato sulla mia pelle”

“D’accordo, magari su questo hai ragione, ma resta comunque il problema di come farai a parlargli”

“Infatti per questa parte del piano ho bisogno del tuo aiuto. Devi scoprire se quel ragazzino trascorre davvero tutte le sue giornate attaccato ai pantaloni di Wolf, o se c’è anche un solo momento in cui lo posso avvicinare senza il rischio di essere visto da qualcun altro del gruppo. Nel frattempo penserò ad organizzare il resto”rispondo, ottenendo per la seconda volta un’occhiata poco convinta.

Nonostante le riserve che nutre, David esegue l’ordine che gli ho dato in modo impeccabile, e dopo appena due giorni, mentre siamo nella nostra cella, riesce a fornirmi un’informazione preziosa.

“Forse abbiamo davvero una speranza. Quel ragazzino fa parte della squadra di lavoro che si occupa di pitturare uno dei capannoni, e non c’è nessun altro dei fedeli cagnolini con lui”

“Puoi farmi ottenere un posto nella squadra?”

“Forse. Non te lo posso garantire con la massima certezza, ma ci posso provare”

“È comunque un inizio” commento, sdraiandomi sulla brandina inferiore.

“Hai pensato al resto del piano?”

“Si, ma se vogliamo essere sicuri che funzioni dobbiamo far combaciare anche questo tassello. Cerca di sfruttare tutte le conoscenze che hai all’interno di Donaldson, altrimenti sono davvero fottuto”

“Non preoccuparti, T-Bag, non deluderò le tue aspettative”.

David mantiene la parola data e riesce a trovarmi un posto nella squadra di lavoro benché, tecnicamente, fosse già al completo.

 Mentre mi occupo di pitturare una delle quattro pareti, lancio spesso delle occhiate in direzione del nuovo protetto di Wolf: è un ragazzino taciturno, che se ne sta sempre a testa china, con un’espressione perennemente terrorizzata sul viso.

Decido di avvicinarmi a lui inventandomi una scusa, per attirarlo in un posto più isolato, in modo da parlargli lontano da orecchie indiscrete.

“Aiutami a lavare questi pennelli. Non possiamo lasciarli in queste condizioni o i secondini se la prenderanno con noi” dico, mostrandogli i numerosi pennelli incrostati di vernice che ho in mano; gliene passo cinque e lo guido fuori dalla struttura, fino ad un lavandino abilitato alla pulizia degli attrezzi, lo guardo ancora per qualche istante prima di tentare d’iniziare una conversazione “fai parte della squadra da molto tempo? Questo è il mio primo giorno e devo confessarti che è stato molto più semplice di quello che pensavo, anche se il polso sinistro mi dà ancora qualche piccolo problema”

“So chi sei e so quello che stai cercando di fare” m’interrompe lui, senza mai staccare lo sguardo dai pennelli e dal getto d’acqua “io non posso aiutarti con Wolf, non ho questo potere. E se sapesse che ti sto parlando…”.

Dopo aver balbettato quelle poche parole si allontana velocemente da me, e così sono costretto a cambiare tecnica per non perdere la mia unica speranza.

“Scommetto che quando sei arrivato a Donaldson eri stato assegnato ad un’altra cella” dico, attirando nuovamente la sua attenzione “ma dei ragazzi si sono avvicinati a te inventando la scusa assurda che eri stato assegnato ad una cella che aveva sia il lavandino che il cesso guasti. E scommetto che questi stessi ragazzi ti hanno detto che nella cella di un loro amico si era appena liberato un posto molto più comodo, e sei finito dritto nella tana del lupo”

“Come fai a sapere queste cose?”

“Perché è successo anche a me” rispondo, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni “avevo appena qualche anno più di te quando sono stato rinchiuso a Donaldson per la prima volta. Quando i secondini mi hanno scortato nel Braccio E, sono stato raggiunto da tre ragazzi che mi hanno proposto di trasferirmi in un’altra cella, molto più comoda di quella che mi era stata assegnata. In un primo momento non ho creduto alle loro parole, tutta l’intera faccenda mi sembrava strana, ma poi ho deciso di fidarmi e di seguirli… Dopotutto perché avrebbero dovuto giocarmi un brutto scherzo, giusto? E invece mi sono ritrovato intrappolato nelle grinfie di Wolf… Ma che potevo fare? Non potevo ribellarmi o mi sarei fatto dei nemici molto pericolosi… Avevo bisogno di protezione e così sono stato costretto ad assecondare ogni suo desiderio sessuale ed a trascorrere la maggior parte delle mie giornate attaccato a quella maledetta tasca”

“Odio quando mi costringe a farlo” mormora il ragazzino, stringendosi nelle spalle, ed io capisco di essere finalmente sulla strada giusta “è terribilmente umiliante”

“Proprio per questo motivo ti sto dando la possibilità di cambiare le cose. Perché io per primo so che cosa significa trascorrere anni ed anni alla mercé di quel mostro. Sai per quale motivo mi vuole uccidere? Perché mi sono rifiutato di essere ancora il suo schiavetto. E lo stesso potrebbe accadere a te, capisci? Potrebbe anche decidere di ucciderti prima perché non lo diverti più”

“Che cosa dovrei fare?” mi domanda, riferendosi al piano che ho in mente.
 

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Capitolo 22
*** The Wolf's Lair ***


Il piano che ho progettato per sbarazzarmi di Wolf è suddiviso in tre fasi, e David è fortemente contrario alla seconda.

“No, T-Bag, ti prego! Ascoltami! Non lo puoi fare!” esclama, nel tentativo di farmi cambiare idea, mentre siamo in mensa per la colazione “non puoi andare nella cella di Wolf per parlargli faccia a faccia. Se lo fai, ti ammazzerà con le sue stesse mani, te ne rendi conto? Non faresti altro che servirti su un vassoio d’argento”

“E che cosa dovrei fare? Mandargli un bigliettino? Questo sarebbe il peggior passo falso, dai retta alle mie parole”

“E per quale motivo? Vuoi liberarti di lui o vuoi ritrovarti con la gola tagliata ad annaspare nel tuo stesso sangue?”

“Sospetterebbe qualcosa!” esclamo, esasperato, abbassando subito la voce per non essere sentito da qualcuno del gruppo “ho diviso la stessa cella con lui per sei anni, so come è fatto. Wolf è una persona profondamente diffidente e proprio per questo motivo è difficile fregarlo. Se voglio convincerlo a incontrarmi dentro quel capannone, devo guardarlo negli occhi, altrimenti possiamo considerarci fottuti”

“D’accordo… D’accordo…” ripete il mio compagno di cella, alzando entrambe le mani “come vuoi tu. Devo stare a distanza di sicurezza? In modo da intervenire in caso di necessità?”

“No, te l’ho già detto: fiuterebbe qualcosa”

“Almeno porta con te un cacciavite…”

“No” rispondo categoricamente, scuotendo la testa: non posso lasciare che David mi segua a distanza di sicurezza e non posso neppure portare una qualunque arma da taglio con me, perché Wolf lo capirebbe.

Devo mostrarmi trasparente come l’acqua di un fiume, apparentemente senza alcun secondo fine.

Decido di parlargli nel pomeriggio, quando tutti i detenuti escono dalle proprie celle per andare nel cortile.

Raggiungo quella del mio ‘ex coinquilino’ mentre si accinge a fare lo stesso, e per poco rischio di scontrarmi contro la sua mole robusta e contro quella molto più sottile del suo fedele cagnolino.

“Teddy-Bear, a cosa devo l’onore di questa visita?” mi domanda subito, con un’espressione corrucciata, perché non si aspettava una mia visita così audace, soprattutto dopo l’episodio nelle docce “hai bisogno di parlare con me?”

“Si, effettivamente sono qui perché ti devo parlare… Da solo” rivolgo una breve occhiata al ragazzino prima di tornare a fissare Wolf; lui recepisce il messaggio ed ordina al suo fedele cagnolino di uscire in cortile perché abbiamo bisogno di un po’ d’intimità.

Il mio ex compagno di cella mi lancia un lenzuolo appallottolato, facendomi cenno di appendere le due estremità sul muro con dei pezzi di nastro adesivo; quando lascio ricadere la stoffa bianca, mi appoggio ad una parete e osservo Wolf prendere un oggetto nascosto sotto il cuscino della sua brandina.

Davanti ai miei occhi appare lo stesso coltello con cui mi ha minacciato qualche giorno fa; anche se in quell’occasione ho visto la lama da lontano, nutro la cieca convinzione che si tratta della stessa arma bianca.

“Vedi questo piccolo pugnale? Lo tengo da parte per un’occasione speciale, prova ad indovinare quale”

“Per il giorno in cui mi aprirai come un cocomero?”

“Sei sempre stato un ragazzo molto intelligente, ma non altrettanto furbo” commenta, divertito, nascondendo nuovamente l’oggetto sotto al cuscino “non hai mai capito che arriva sempre il momento in cui bisogna stare zitti e chinare la testa. La tua lingua biforcuta ti porterà a fare una brutta fine un giorno, ricordati queste parole”

“E c’è qualcosa che posso fare per rimandare questo momento in un prossimo futuro?”

“Che cosa stai cercando di dire?”

“Ho riflettuto molto in questi ultimi giorni, soprattutto riguardo a quello che è successo nelle docce… E sono giunto alla conclusione che il mio comportamento è stato sbagliato fin dal primo momento in cui sono tornato a Donaldson… E sono qui a chiederti se è troppo tardi per rimediare”.

Wolf scoppia a ridere nello stesso momento in cui concludo il mio piccolo monologo; mi rivolge uno sguardo divertito e poi scuote la testa, proprio come si fa davanti ad un bambino che ha appena detto una sciocchezza.

“Theodore, le tue parole mi offendono e mi feriscono gravemente! Mi reputi così stupido da credere a tutte le cazzate che escono dalla tua bocca? Sei molto abile a raccontare bugie su bugie, lo ammetto, ma con me non funziona”

“Non sto cercando di prendermi gioco di te, Wolf, le mie intenzioni sono sincere”

“Nel mio branco c’è una regola molto importante, Teddy-Bear: mai concedere una seconda possibilità perché potrebbe essere il tuo peggiore errore. Se uno dei tuoi cuccioli ti morde e si ribella una volta, chi ti assicura che non lo farà anche una seconda, una terza, o perfino una quarta volta? Da quando sono a Donaldson l’ho sempre applicata e non ho mai avuto problemi, quindi perché dovrei fare un’eccezione con te? Solo perché hai un bel faccino?”

“Non te ne pentirai, Wolf, se hai bisogno di un’altra prova di fedeltà sono pronto a servirtela su un vassoio d’argento, esattamente come ho fatto dieci anni fa. Ho già organizzato tutto, ecco perché sono venuto qui: volevo consegnarti l’invito personalmente”

“E chi sarebbe questa vittima sacrificale?”

“David”.

Il sorriso divertito che attraversa le labbra del mio ex compagno di cella si spegne rapidamente, sostituito da un’espressione sospettosa.

“David? Ma non è il tuo amichetto del cuore?”

“Questo lo pensa lui. In realtà è una terribile palla al piede che sono costretto a portarmi sempre appresso. Crede di avere conoscenze qui dentro, ma non è neppure in grado di procurarmi un semplice coltello dalle cucine… Sono stufo di avere come arma uno stupido punteruolo o un cacciavite. Tutti sappiamo che l’unico che comanda veramente a Donaldson sei tu, Wolf, e che è meglio averti come alleato che come nemico. Te l’ho detto: ho sbagliato e mi dispiace, ma sono pronto a rimediare domani pomeriggio, appena le porte delle celle scatteranno per lasciarci uscire in cortile. David è convinto che si tratta di una spedizione punitiva nei tuoi confronti, non ha il minimo sospetto di essere il vero obiettivo” dico, senza mai prendere fiato; Wolf mi osserva a lungo, con gli occhi chiari socchiusi, poi la sua mano destra sparisce per qualche secondo sotto al cuscino per recuperare il pugnale, dalla lama affilata, destinato a me.

Me lo porge dalla parte del manico, ma quando sto per afferrarlo lo tira indietro bruscamente, serrando le dita della mano sinistra attorno al mio polso destro, stringendo con forza.

“Se si tratta di uno dei tuoi giochetti perversi, Teddy-Bear, sappi che me la pagherai molto amaramente. Conosco molti modi per torturare una persona e per ridurla in fin di vita evitando, però, il colpo di grazia. Prova a tradirmi e giuro che ti faccio diventare carne da macello da servire in mensa, d’accordo?”

“D’accordo” rispondo in un soffio, appropriandomi del coltello; lo nascondo in una tasca dei pantaloni e mi allontano velocemente dalla cella, uscendo nel cortile recintato e controllato a vista dalle guardie che occupano le quattro torrette sistemate lungo le mura del carcere.

Mi lascio cadere sullo scalino di una tribuna completamente vuota e mi copro gli occhi con la mano destra: anche se ho scambiato poche parole con Wolf, ho la maglietta completamente appiccicata al petto e alla schiena a causa del sudore, ed i palmi delle mani non fanno eccezione.

Li strofino con forza sulla stoffa dei pantaloni proprio nel momento in cui vengo raggiunto dal mio unico amico, incredulo di vedermi illeso.

“Sei riuscito a parlare con lui senza che ti mettesse le mani al collo?” mi domanda, prendendo posto alla mia sinistra.

“Si, sono riuscito a convincerlo. Metteremo in atto il piano domani pomeriggio”

“Come ci sei riuscito? Che cosa gli hai detto?”

“Secondo te, David? Gli ho promesso del sesso. Il sesso è sempre lo strumento migliore per attirare una persona in una trappola”

“Che hai? Sei strano…”

“Sono solo stanco” spiego, con un sospiro “domani sarà una giornata lunga. Molte cose cambieranno ed io non credo di essere pronto… E poi, mi fanno ancora male le costole”.



 
A volte una persona è costretta a voltare le spalle a chiunque se c’è in gioco la propria sopravvivenza, anche all’amico più stretto e fidato.

Trascorro il resto della giornata e la mattina seguente in un mutismo quasi assoluto, scambiando pochissime parole con David e continuando a tormentarmi così tanto la punta della lingua con i denti, che ad un certo punto sento il tipico gusto ferroso del sangue in bocca.

Quando arriva il fatidico momento di mettere in atto il mio piano, ordino al mio compagno di cella di seguirmi dentro al capanno in cui sono stato picchiato poche settimane prima; la sua espressione sicura vacilla nello stesso momento in cui vede Wolf insieme al suo fedele cagnolino, perché il piano originale prevedeva che lui si nascondesse prima dell’arrivo della nostra vittima predestinata.

“So come ti senti in questo momento, lo leggo nel tuo sguardo, si tratta della consapevolezza che, piano piano, si fa strada nella testa di una persona quando capisce di essere stata raggirata proprio dall’ amico in cui riponeva la massima fiducia” commenta Wolf, con un sorriso divertito, appoggiandosi ad un tavolo alle sue spalle “è una sensazione orribile, vero? Sembra di avere tutto il corpo trafitto da lastre di ghiaccio che t’impediscono di muovere un solo passo per scappare”

“T-Bag, cosa…” tenta di domandarmi David, ma non gli lascio il tempo di concludere la frase: da una tasca dei pantaloni estraggo il pugnale e conficco la lama all’altezza del suo stomaco, estraendola con un gesto rapido e brusco.

Gli occhi azzurri del mio unico amico si spalancano, confusi e sorpresi allo stesso tempo, le sue gambe cedono e crolla a terra, con un gemito, mentre il suo stesso sangue inizia a colorare di rosso le assi di legno del pavimento; mi passo la mano destra sulla fronte impregnata di sudore e poi guardo il mio ex compagno di cella, che continua a sorridere soddisfatto, battendo i palmi delle mani.

“Sai, Teddy-Bear, mi hai veramente sorpreso… Non credevo che lo avresti fatto”

“Ohh, ma le sorprese non sono ancora finite. Anzi. In realtà sono appena iniziate”

“Sorprese? Quali sorprese?”.

Non so se si aspettava una possibile aggressione da parte mia, ma di sicuro non immaginava un’azione simile da parte del suo fedele cagnolino, ed infatti il suo volto si trasforma in una maschera d’incredulità quando sulla stoffa della maglietta bianca che indossa sbocciano delle macchie scarlatte, in corrispondenza dei punti in cui è affondato il cacciavite che il ragazzino impugnava; ad un mio ordine secco si ferma, retrocedendo di qualche passo con il fiato ansante e le mani sporche di sangue, lasciando cadere a terra l’oggetto appuntito.

Il mio ex compagno di cella si appoggia al tavolo con un rantolo, prova a coprirsi le ferite, ma ottiene solo di sporcarsi a sua volta; lentamente scivola a terra ed io m’inginocchio davanti a lui, per potergli parlare faccia a faccia.

“Sai, Wolf, a volte non bisogna solo fare attenzione a coloro che chiedono una seconda possibilità. Spesso il maschio alfa di un branco commette l’errore di sottovalutare gli anelli più deboli, senza considerare neppure lontanamente che potrebbero essere proprio loro a rovesciarlo”

“Sei un figlio di puttana… Lo sapevo che era una trappola… Lo sapevo, eppure ci sono cascato ugualmente… Che cosa pensi di fare adesso, Teddy-Bear? Uccidimi, se vuoi, ma se credi che questo ti trasformerà in automatico nel nuovo padrone di Donaldson ti sbagli completamente. Ci sono altri detenuti pronti a prendere il mio posto, molto più pericolosi di me, e di certo non si lasceranno intimidire da un ragazzino che crede di essere un dio solo perché la stampa lo ha soprannominato ‘il Mostro dell’Alabama’”

“Ohh, ma io non pretendo di comandare Donaldson in una manciata di giorni, Wolf, sono conscio del fatto che ci vorranno anni prima di arrivare al tuo livello… Fortunatamente ho due ergastoli da scontare, questo significa che ho moltissimo tempo a mia disposizione per raggiungere l’obiettivo che mi sono prefissato. Tu sei solo il primo passo verso quello che sarà il mio trampolino di lancio”

“L’allievo che supera il maestro” commenta lui, con una risata sarcastica, mentre un rivolo di sangue gli scende lungo il mento “mi sono completamente sbagliato su di te, Theodore: non sei un cucciolo di orso che ha affilato gli artigli. Sei una serpe pronta a pugnalare chiunque alle spalle, pur di ottenere ciò che vuole. Arriverà il giorno in cui il tuo stesso gioco ti si ritorcerà contro”

“Le tue parole mi annoiano” commento, ignorando le sue minacce; appoggio la lama del pugnale contro la pelle della sua gola e l’affondo in profondità, vendicandomi dei sei anni infernali che mi ha fatto trascorrere in questo maledetto carcere; un getto caldo, di sangue, mi colpisce in pieno volto ma non mi sposto, anzi, lo assaporo fino infondo, passandomi la lingua sulle labbra prima di alzarmi dal pavimento.

Ormai per Wolf non c’è più nulla da fare, dato che il suo corpo è scosso dagli ultimi spasmi di vita, e così mi avvicino a David, sdraiato a poca distanza: ha le mani ancora premute sulla ferita allo stomaco ed il volto pallido e lucido di sudore.

“Che cosa devo fare?” mi domanda il ragazzino, ritrovando la voce che aveva perduto.

“Avvisa i secondini e ricordati di dire che siamo stati aggrediti dal tuo ex compagno di cella” gli ordino; m’inginocchio di nuovo sulle assi di legno e piego le labbra in una smorfia “devo scusarmi con te, David, forse ho conficcato la lama troppo in profondità nel tuo stomaco. Lasciami controllare”

“Sto benissimo, T-Bag, faceva parte del piano. Non preoccuparti per me, la cosa più importante è che quel figlio di puttana abbia avuto ciò che meritava” risponde lui, sforzandosi di sorridere nonostante il dolore.

Mi volto a guardare il corpo completamente immobile di Wolf e poi torno a concentrarmi sulla ferita, tastando con delicatezza la stoffa impregnata di sangue che la circonda.

“Credo davvero di aver esagerato. Sopravviverai, ma ti rimarrà una brutta cicatrice”

“Non ha importanza, vorrà dire che avrò un altro pezzo per la mia personalissima collezione” commenta David, con un sorriso tirato, riuscendo a farmi sorridere a mia volta; torno subito serio perché l’ultima fase del piano non è ancora completa e devo porvi rimedio prima che il ragazzino torni in compagnia dei soccorsi.

Stringo la presa attorno al manico del pugnale ed affondo la lama nella mia spalla sinistra, mordendomi il labbro inferiore per non lasciarmi scappare un urlo di dolore: quando la estraggo, nella maglietta si forma subito una macchia rossa, ed un rivolo di sangue inizia a scorrere lungo il mio braccio; David mi osserva con uno sguardo perplesso, perché non l’ho mai messo al corrente di questa ultima fase.

“È per non creare sospetti” spiego, sedendomi sul pavimento “dal momento che il ragazzino racconterà che siamo stati aggrediti da Wolf, non posso uscirne completamente illeso… Maledizione, devo imparare a non affondare la lama fino al manico. Fa terribilmente male, è vero”.



 
Il nostro soggiorno in infermeria dura quasi venti giorni, e quando siamo liberi di tornare al Braccio E l’aria che si respira è completamente diversa e carica di tensione.

“Lo sai che Wolf aveva ragione quando ha pronunciato le sue ultime parole” sussurra David, mentre mi massaggio la spalla sinistra, ancora reduce dalla pugnalata che mi sono auto inflitto “a Donaldson ci sono detenuti molto più pericolosi di lui, ed ora si faranno avanti per prendere il suo posto”

“Lascia che si facciano avanti”

“Come hai intenzione di agire?”

“Faremo nostro il gruppo di Wolf, e se qualche componente non sarà d’accordo ce ne sbarazzeremo perché non possiamo permetterci cuccioli ribelli, come diceva sempre il mio ex compagno di cella, e poi faremo lo stesso con i diversi pretendenti… Finché non ci sarà più concorrenza…” mi blocco e do una gomitata al mio unico amico quando vedo il ragazzino, di cui non conosco ancora il nome, avvicinarsi timidamente a me; si ferma a sua volta, indeciso su cosa fare, ma ci raggiunge dopo un mio cenno “non devi avere paura di me e David. Non abbiamo le zanne, non mordiamo. Volevi dirci qualcosa?”

“Volevo ringraziarvi per la possibilità che mi avete dato”.

Le sue parole sono così buffe e goffe che scoppio a ridere divertito, passandomi una mano tra i capelli; lancio una breve occhiata al mio unico amico e poi torno a concentrarmi sull’ex cagnolino fedele, senza mai smettere di sorridere.

“Come ti chiami? Non mi hai mai detto il tuo nome”

“Sam”

“Ascolta, Sam, adesso che Wolf non è più un problema che cosa vuoi fare? Vuoi creare un tuo piccolo gruppo?” alla sua risposta affermativa scoppio di nuovo a ridere, imitato da David; Sam mi chiede spiegazioni con un’espressione confusa ed io mi affretto a dargliele, appoggiando la mano sinistra sugli anelli di metallo della recinzione “non puoi creare il tuo piccolo gruppo di amichetti per due semplici motivi. Primo: non hai il carisma da Leader. Secondo: sei stato nostro complice e questo significa che sei legato a noi due, che ti piaccia o meno. Non si tratta di una ragazzata, ci hai aiutato a organizzare un’esecuzione”

“T-Bag ha ragione” interviene David, supportandomi “e se la memoria non m’inganna, anche se ero sdraiato sul pavimento, mi sembra che sei stato proprio tu a pugnalare ripetutamente Wolf con un cacciavite. Ho ragione o mi sto sbagliando?”

“Hai perfettamente ragione, David, perché è stato il nostro valoroso Sam a sferrare il primo attaccato. È anche vero che sono stato io a dare il colpo di grazia al suo ex compagno di cella, ma io non facevo parte del suo gruppo da molto tempo. Tra noi tre non sono io ad essere il traditore. Sei forse tu, David?”

“No, T-Bag, non sono io il traditore. Sono pronto a giurarlo sulla mia stessa vita”

“Ohh, in questo caso il cerchio si restringe notevolmente”

“Mi state minacciando?” mormora, allora, il ragazzino, guardandoci entrambi.

“No, non mettiamola in questo piano. Non è assolutamente nostra intenzione apparire minacciosi ai tuoi occhi o minacciarti dal momento che ci hai dato un aiuto prezioso. Davvero, Sam, senza di te non credo che saremo riusciti a porre fine alla tirannia di Wolf. Ma devi anche capire che, a questo punto, il tuo destino è inevitabilmente legato al nostro. E non puoi rifiutarti o ribellarti. Prova a pensare a quanto sarebbe sgradevole se il gruppo di Wolf venisse a sapere che sei stato proprio tu a tradirlo… Ti farebbero la festa nelle docce” commento, scompigliandogli i capelli castani “si… Ti farebbero decisamente la festa. Hai bisogno della protezione di qualcuno di potente a Donaldson. Ti sto offrendo la mia, se non lo avessi ancora capito, e se sei intelligente ti consiglio di accettare. Certo… Se vuoi avere la mia protezione, c’è un prezzo da pagare, ma dopotutto è così che funziona all’interno di un carcere, giusto?”.

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Capitolo 23
*** Get Together ***


Temo di essere caduto in una trappola quando due secondini mi prelevano dalla mia cella e mi trascinano in una stanza completamente priva di finestre, liberandomi i polsi dalle manette che mi hanno costretto ad indossare qualche secondo prima; l’espressione nel mio viso si trasforma da diffidente a stupefatta quando, al posto delle guardie, non compare un detenuto, ma bensì James.

“Oh, mio dio, Jimmy” sussurro, cancellando subito la distanza che c’è tra noi due; lo abbraccio, stringendolo con forza, e quando lo sento ricambiare, scoppio in un pianto che non riesco più a reprimere “oh mio dio… Mio dio, Jimmy… Credevo che non ti avrei più rivisto…”

“Scusami se ci ho messo così tanto tempo a venire” mormora a sua volta, con la voce rotta dall’emozione “ma non è stato semplice ottenere un permesso di visita. Ho avuto diversi problemi”

“Scommetto che uno di questi è stato zia Margaret” commento, con un sorriso sarcastico; lascio andare mio cugino e mi avvicino alla brandina che costituisce lo spoglio arredamento della stanza “lasciami indovinare: negli ultimi mesi non ha cambiato idea su di me. Non vuole più vedermi e ti ha ordinato di fare lo stesso”

“Me ne sono andato di casa. Adesso abito insieme a Danielle in un piccolo appartamento dall’altra parte della città. Secondo lei, dovrei fare pace con mia madre, ma in questo momento le mie priorità sono altre e riguardano te” risponde lui, con un mezzo sorriso, mostrandomi la catena tatuata attorno al pollice destro.

“E Danielle? Qual è il suo pensiero?”

“Lei non… Non condivide molto il mio punto di vista” risponde James, con una smorfia “e non era d’accordo con questa visita. Ha provato a farmi cambiare idea in qualunque modo, fortunatamente non è arrivata a bucarmi le ruote della macchina”

“Lo immaginavo” commento, con un mezzo sorriso “mi dispiace, James, per tutto. Non volevo farti troncare i rapporti con zia Meg e non voglio neppure essere la causa dei litigi che hai con la tua ragazza”

“Il rapporto con mia madre era logorato da tempo, ormai” risponde lui, senza la minima esitazione, riferendosi al suo passato da tossicodipendente “e per quanto riguarda Danielle… Non sono costretto ad informarla delle mie prossime visite a Donaldson. Perché hai quei lividi sulle braccia e sul viso?”

“Ohh, questi? Non sono nulla di preoccupante. Un paio di mesi fa mi hanno rotto un polso e spaccato alcune costole. E in un’occasione sono stato costretto a pugnalarmi la spalla sinistra”

“Perché?”

“Perché questa è la vita in un carcere”

“Ohh, andiamo, non fare il coglione. È quasi un anno che non ti vedo, Teddy, voglio sapere se stai bene o se devo adoperarmi per il tuo trasferimento in una struttura più consona”

“Non lo permetteranno mai, e poi non sono intenzionato a lasciare Donaldson” rispondo, in tono seccato, prima di spiegare a mio cugino l’intera faccenda riguardante Wolf e di come, lentamente, mi sto facendo un nome tra queste vecchie mura “adesso capisci perché non voglio essere trasferito in un altro carcere. Qui non comanda il direttore, comanda il detenuto più forte ed io sono intenzionato a diventare quel detenuto. Ma per farlo, ovviamente, sono costretto a eliminare tutta la concorrenza… Ecco perché ho tutti questi lividi. Non sempre si tratta di un’operazione semplice”

“Ma non puoi continuare in questo modo! Qualcuno potrebbe ucciderti!”

“E che cosa dovrei fare, Jimmy? Chinare la testa e abbassare ancora i pantaloni? No, grazie, ormai quei giorni sono solo un ricordo lontano. Non ti devi preoccupare per me, ho gente fidata che mi guarda le spalle”

“Quindi… Non vuoi neppure tentare di abbandonare questo posto?” mi chiede, allora, riferendosi alla possibilità di organizzare un’evasione “hai detto che hai gente fidata che ti guarda la spalle, giusto? Potresti pensare a qualcosa… Studiare un piano… Il cervello non ti manca, Teddy, a tutto il resto penseremo quando sarai fuori… Io sarei dalla tua parte”

“Un’evasione? Sarebbe un’azione troppo stupida e non saprei neppure da dove iniziare. In questo momento, poi, ho troppo da perdere” mormoro, con una smorfia, scartando subito questa opzione.

James non insiste, ma al termine della visita, prima di andarsene, mi ricorda ancora una volta che sono in tempo per cambiare idea e che, in quel caso, avrei il suo completo appoggio al di fuori delle mura di Donaldson.

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Capitolo 24
*** The Big Move ***


Non c’è niente di meglio che sorseggiare un bicchiere di limonata in una torrida giornata estiva, soprattutto se puoi permettertelo anche all’interno di un carcere.

“Leggimi le ultime notizie, sono curioso di sapere se c’è qualcosa d’interessante” mormoro, riferendomi al mio nuovo protetto, che obbedisce subito e scorre velocemente le pagine di un giornale, prima di rispondere con voce tremante.

“In realtà non c’è nulla d’interessante, Capo… Qualche furto… Qualche rapina… C’è un processo in atto contro un mafioso. Un certo John Abruzzi. Nell’articolo c’è scritto che è stato uno dei suoi uomini a parlare”

“Non m’interessano queste sciocchezze. Ho bisogno di sentire qualcosa di davvero interessante”

“Vuoi sentire qualcosa di davvero interessante?”.

Tolgo il panno che mi copre gli occhi e piego il viso verso sinistra, osservando David con un’espressione corrucciata.

“Sei venuto a conoscenza di qualche pettegolezzo?”

“Qui non si tratta di un semplice pettegolezzo. Mi sono state riferite delle notizie che arrivano direttamente dai piani alti, ed ho bisogno di parlarne con te… In privato” esita a pronunciare le ultime due parole e indica con un cenno della testa il mio nuovo protetto “adesso”

“Vattene” ordino al ragazzino, ma quando passa affianco a me lo blocco per il polso destro “non allontanarti troppo, però, resta nei paraggi”.

Lo guardo con un sorriso divertito, e quando esce dalla cella appendo un lenzuolo bianco per non essere disturbato; mi sdraio nuovamente sulla mia brandina e torno a gustarmi la limonata fresca, mentre do il permesso a David di mettermi al corrente di ciò che accade a mia insaputa a Donaldson.

“Stanno organizzando il nostro trasferimento”.

Il contenuto del bicchiere finisce sulla maglietta e sui pantaloni che indosso, ma non ci faccio caso.

“Che cazzo significa che stanno organizzando il nostro trasferimento? Chi lo sta organizzando? Sei sicuro che non si tratta di una stupida voce di corridoio? Te l’ho detto tantissime volte, David, non devi mai credere a tutto quello che arriva alle tue orecchie”

“Fidati, T-Bag, non si tratta di una semplice voce di corridoio. L’Alleanza Pura è diventata troppo violenta, perfino per lo stesso direttore, e vogliono porvi rimedio trasferendoci in una struttura organizzata per soggetti difficili come noi. Un carcere di massima sicurezza”.

L’Alleanza Pura era il gruppo di Wolf, dopo la sua caduta mi sono semplicemente limitato a prendere il suo posto ed a portare avanti i suoi ideali, che ruotavano attorno alla supremazia ed alla preservazione della razza bianca: ciò ha comportato ad un drastico crollo demografico dei detenuti afroamericani, ma i secondini non si sono mai preoccupati di ciò.

Almeno fino a questo momento.

“E dove si trova questo carcere?”

“Non lo so. Conosco solo il nome. Fox River”

“D’accordo, vorrà dire che ci organizzeremo per il trasferimento nel nostro nuovo villaggio turistico. Ohh, sono davvero un incapace! Mi sono rovesciato addosso la limonata! Adesso dovrò chiamare il ragazzino e ordinargli di prendere un altro bicchiere nelle cucine… O vuoi farlo tu?”

“Hai capito le mie parole?” mi chiede il mio compagno di cella, sconvolto dal mio atteggiamento distaccato “T-Bag, hai capito quello che sta per succedere? Stiamo per essere trasferiti in un altro carcere! Sai questo che cosa significa? Saremo costretti a ricominciare tutto dall’inizio! Abbiamo impiegato nove anni per arrivare così in alto nella gerarchia di Donaldson, sei pronto ad affrontarne altri nove di simili a Fox River? Non siamo più dei ragazzini, abbiamo quasi quarant’anni”

“Ma noi abbiamo molta più esperienza dei ragazzini di venti o di trent’anni. E poi non ho la minima intenzione di finire a Fox River, questo trasferimento sarà il nostro biglietto per il mondo esterno” rispondo, con un sorriso “sarà un gioco da ragazzi, David. Durante il trasferimento basterà fingere un malore per distrarre i secondini e fermare il mezzo… Semplice, forse scontato, ma efficace”

“Certo, su questo hai ragione. Peccato per un piccolo particolare. L’intero trasferimento non sarà organizzato da Donaldson, ma da Fox River, proprio per evitare che accadano incidenti come questo” mi spiega il mio unico amico, ponendomi di fronte un problema che non avevo neppure considerato.



 
L’intera faccenda è così delicata, che decido di svolgere le mie indagini personali prima d’informare David riguardo a ciò che sono intenzionato a fare.

“Verremo trasferiti a Fox River tra una settimana esatta a partire da oggi e sono intenzionato a seguire il mio piano originale, apportando qualche piccola modifica”

“Quindi… Il tuo piano consiste nel fare ciò che loro si aspettano? Lo sai che in questo caso la percentuale di successo è quasi pari a zero?” commenta David, terminando il suo pranzo “è troppo pericoloso, dobbiamo andarcene prima”

“Ahh, ovvio, come ho fatto a non pensarci prima? Organizzare un’evasione è molto più semplice che scappare durante un trasferimento in un altro carcere”

“Sto parlando sul serio, T-Bag, mettere in atto il tuo piano significa andare incontro a dei rischi inutili”

“Ed io ti ripeto che ho pensato ad alcune piccole modifiche. E grazie a queste piccole modifiche torneremo ad essere degli uomini liberi. So quello che pensi… Fingere un malore non servirebbe a nulla e rischieremo solo di essere scoperti… Proprio per questo motivo il malore sarà reale”

“E come pensi di fare? Non puoi schioccare le dita e avere un malore a comando”

“Devi procurarmi un farmaco in infermeria. Non ho bisogno di qualcosa di forte, dal momento che dovrò essere in grado di correre… Mi basta qualcosa che mi provochi un attacco di vomito, o delle convulsioni… O la schiuma alla bocca… Qualcosa che convinca le guardie che non si tratta di una recita, ma di una vera emergenza”
“Lo sai che potrebbe essere pericoloso?” mi domanda David, preoccupato “insomma… Stiamo parlando di farmaci… E se le pastiglie dovessero provocarti una reazione allergica? O ucciderti?”

“Ecco perché voglio che me le procuri tu, David, sei l’unica persona di cui mi fido ciecamente a Donaldson. Procurati quello che ti ho chiesto in infermeria e chiedi una dimostrazione pratica per evitare fregature di questo tipo. Ricorda che hai una settimana di tempo a partire da oggi. Non possiamo permetterci di sprecare questa occasione, non ce ne capiterà più una di simile” mormoro, alzandomi dalla panca, e quando gli passo affianco, appoggio una mano sulla sua spalla destra, stringendola appena, facendogli capire che non deve preoccuparsi inutilmente e che davvero nutro la massima fiducia nei suoi confronti.



 
Ancora una volta, il mio compagno di cella non mi delude, ed il giorno del nostro trasferimento, appena poche ore prima, fa cadere sul palmo della mia mano destra una piccola pastiglia nera, del tutto simile ad una caramella alla liquirizia.

“Per allontanare ogni possibile sospetto” mi spiega, riferendosi all’aspetto estetico del farmaco “è qualcosa di leggero, proprio come hai espressamente chiesto, e provoca solo un attacco di vomito. L’ho visto con i miei stessi occhi, è perfetto per il nostro caso”

“Bene” commento, avvolgendo la pastiglia in un fazzoletto di stoffa, nascondendolo poi in una tasca dei pantaloni “in quanto tempo fa effetto?”

“Pochissimi minuti, è una cosa quasi istantanea”

“Perfetto. La prenderò non appena il furgone verrà messo in moto, ed approfitteremo della confusione dei secondini per scappare. Troveremo rifugio in un bosco e, quando le acque si saranno calmate, cercheremo una cabina telefonica ed aspetteremo l’arrivo di mio cugino. A quel punto, verrai con me a Conecuh County e penseremo ad un’ottima destinazione per ricominciare una nuova vita… Tu hai già qualche idea?”

“Il Messico. Lì saremo al sicuro, non ci potranno dare la caccia”

“Allora vada per il Messico. Tra una settimana, a quest’ora, brinderemo con un bicchiere di tequila in riva al mare e Donaldson sarà già un ricordo del passato”

“Se non ci ammazzano prima” commenta il mio compagno di cella, sollevando un problema non indifferente, perché i secondini mandati da Fox River saranno di sicuro armati e pronti ad ogni eventualità, soprattutto ad un nostro tentativo di fuga.

“Non accadrà, dobbiamo solo giocare bene le nostre carte” rispondo, con un sorriso “sono sicuro che manderanno dei bestioni tanto grossi quanto stupidi. Sarà semplice come rubare delle caramelle a un bambino”.
 
Le mie previsioni si rivelano essere vere solo a metà, perché quando arriva il nostro ‘lussuoso mezzo di trasporto’ il primo ad uscire ed a raggiungerci è un uomo robusto e rozzo come uno scimmione, ma la sua espressione è tutt’altro che quella di uno stupido.

Si ferma a pochi centimetri da me, mi guarda negli occhi e sulle sue labbra si dipinge un sorriso di scherno.

“E così tu saresti Theodore Bagwell? Il famoso Mostro dell’Alabama? Sai, confesso di essere un po’ deluso dal tuo aspetto… Mi aspettavo qualcuno di minaccioso ed imponente… Non un omuncolo dal viso scarno e dal corpo rachitico”

“Molto spesso le apparenze ingannano, Capo, e poi lo dice anche un vecchio detto che nella botte piccola c’è il vino buono”

“Purché il legno della botte non sia marcio” commenta lui, ridendo della sua stessa battuta, si allontana da me e da David, e ordina ai suoi uomini di scortarci dentro al furgone e di non abbassare mai l’attenzione, neppure per un solo secondo.

Non so se ha intuito qualcosa riguardo alle mie intenzioni, ma non ne sono intimorito: non ho alcuna intenzione di sprecare questa occasione, anche a costo di beccarmi una pallottola in pieno petto.

All’interno del veicolo non ci sono finestrini, per cui è impossibile capire quale strada stiamo percorrendo e se attorno a noi c’è qualche macchia di alberi in cui nascondersi; lascio trascorrere circa una decina di minuti senza pronunciare una sola parola, ma quando rivolgo una breve occhiata a David capisco che è arrivato il momento di agire e così, fingendo uno starnuto, prendo il fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e mastico la pastiglia, cercando di non fare una smorfia per il sapore amaro.

Per i primi minuti non  accade assolutamente nulla, ma proprio quando temo di essere stato vittima di una fregatura sento un moto di nausea salirmi dallo stomaco, passare per la gola e arrivare fino alla bocca; riesco a resistere alle prime ondate, ma quando s’intensificano, mi piego letteralmente in avanti e riverso a terra l’intero contenuto del mio stomaco.

Mi ritrovo in ginocchio, a tremare e a lottare contro i conati di vomito, mentre qualcuno dei secondini ordina di fermare subito il furgone, proprio come io avevo previsto.

“No, qui non si ferma nessuno! Qualcuno pulisca questo casino!”.

A parlare è l’uomo che assomiglia ad un grosso scimmione, ed in me si fa sempre più strada la convinzione che ha davvero capito qualcosa riguardo al mio piano; rivolgo uno sguardo disperato al mio unico amico, facendogli capire che deve fare qualcosa in questo stesso momento o l’intero piano rischia di andare a farsi fottere: lui capisce subito ciò che cerco di dirgli con gli occhi, mi fa un breve cenno con la testa e poi aggredisce la guardia alla sua destra, assestandogli una gomitata in pieno volto.

La nausea non sembra essere intenzionata a darmi un solo momento di tregua, ma cerco d’ignorarla e colpisco il grosso scimmione al basso inguine, strappandogli un gemito di dolore.

Io e David approfittiamo del’attimo di confusione generale per spalancare la portiera del furgone e correre in direzione della prima macchia d’alberi che vediamo in lontananza, cercando di non farci investire dalle macchine e di evitare i possibili proiettili sparati nella nostra direzione; provo a resistere, ma ancora una volta la gambe mi cedono, a pochi passi di distanza dal bosco, perché l’effetto di quella maledetta pastiglia non è ancora sparito.

“Non ce la faccio, non riesco a muovere un altro passo” mormoro, vomitando ancora, ma il mio ex compagno di cella mi sprona per continuare.

“Si che ce la puoi fare, non devi arrenderti in questo modo! Ce l’abbiamo quasi fatta! Lo hai detto anche tu, una possibilità come questa non capita una seconda volta”.

Scuoto la testa con forza, dicendogli di proseguire senza di me, ma David non è intenzionato ad abbandonarmi e mi costringe ad alzarmi dall’erba e dall’asfalto; il mio malore non ci fa solo perdere minuti preziosi per scappare, ma ci trasforma automaticamente in due bersagli viventi.

Me ne rendo conto quando sento il suono inconfondibile di uno sparo, seguito da qualcosa che passa vicino al mio fianco sinistro; nonostante le manette che mi bloccano i polsi, riesco ad afferrare il mio unico amico per il braccio sinistro ed a trascinarlo nel bosco, laddove la vegetazione è così fitta da creare un ottimo nascondiglio per noi due.

“Forse siamo riusciti a seminarli, ma è meglio se restiamo qui finché non cala la notte, poi cercheremo una cabina telefonica” quando non ottengo alcuna risposta mi volto in direzione di David “va tutto bene?”.

No, non va tutto bene.

Lo capisco nello stesso momento in cui scosta le mani dallo stomaco e vedo i palmi sporchi di sangue e il buco che ha nella maglietta: il proiettile di poco prima, quello destinato a me, ha perforato alcuni dei suoi organi vitali prima di uscire dalla schiena.

“Mi hanno colpito” mormora lui, mentre l’effetto dell’adrenalina abbandona rapidamente il suo corpo “mi hanno colpito, T-Bag, sto sanguinando…”.

Lo vedo accasciarsi a terra quasi a rallentatore, come accade nei film, e dopo un momento di smarrimento m’inginocchio a suo fianco per fare qualcosa, per aiutare il mio unico amico.

“Fammi vedere” dico, cercando di destreggiarmi nonostante i polsi bloccati; sollevo delicatamente la maglietta bianca ed osservo, con gli occhi spalancati, il buco da cui continua ad uscire un flusso costante di sangue “non è così grave. Adesso cerchiamo qualcosa per fare pressione sulla ferita e poi troviamo qualcuno che possa curarti in modo discreto, senza denunciarci alla polizia. Devi solo resistere per qualche minuto, David, lo hai già fatto anni fa dentro al capanno, ricordi? Questa volta non è differente”

“Si che è differente” risponde lui, vomitando un grumo rosso sull’erba “qui non c’è un’infermeria a nostra disposizione e non possiamo cercare aiuto. Sai meglio di me come andrebbe a finire: farebbero una soffiata e ci ritroveremo prima a Donaldson e poi a Fox River… E comunque per me non c’è molto che si possa fare. Devi andartene, T-Bag, lasciami qui e non guardare indietro”

“No, no, no… Non se ne parla nemmeno, David. Io non ti lascio da solo in questo bosco. Tu verrai con me”

“Riuscirei a fare solo pochi metri e finirei per rallentarti. Lasciami qui, ti prego, questa è l’unica possibilità che ci è stata concessa per scappare, ed io non voglio essere un ostacolo per te e per la nuova vita che vuoi crearti. Ohh, non mi guardare in quel modo, per favore, cerchiamo di vedere il lato positivo: questo è l’ultimo pezzo della mia personale collezione sul Mostro dell’Alabama. Ho sacrificato la mia vita per salvare la sua”

“Sei un idiota” mormoro, con un mezzo sorriso.

“Lo so” risponde lui, stringendomi con forza la mano sinistra, nella speranza di trovare il coraggio per lasciarsi andare.

Non lascio la presa per un solo istante e continuo a parlargli di qualunque cosa, anche di argomenti futili, finché David non esala il suo ultimo respiro, qualche ora più tardi.

Vedo il suo petto alzarsi, abbassarsi e poi rimanere perfettamente immobile, come le sue pupille; deglutisco a vuoto, mi alzo ed osservo il suo corpo per l’ultima volta, prima di riprendere la mia fuga in direzione della città, ora che è finalmente calata la notte.

Quando riesco a trovare una cabina telefonica, mi nascondo all’interno del piccolo abitacolo, pregando mentalmente di non essere riconosciuto da un passante, frugo all’interno delle tasche dei pantaloni, prendo in mano un gettone per le chiamate e lo inserisco nell’apposita fessura.

James mi ha confidato il suo nuovo numero di casa, durante una delle sue numerose visite, e così lo digito senza la minima esitazione, mormorando le cifre a bassa voce, e prego ancora una volta perché sia lui a rispondere e non Danielle: sono riuscito a portare con me un solo gettone da Donaldson, di conseguenza non posso permettermi il lusso di fare un secondo tentativo.

Quando all’orecchio destro mi arriva la voce familiare di Jimmy, per poco non scoppio in lacrime, ma riesco a trattenermi perché devo rimanere ancora lucido, almeno finché non sarò al sicuro a casa di mio cugino; chiudo gli occhi, prendo un profondo respiro e poi parlo.

“Jimmy, devi fare una cosa per me”

“Teddy? Da quando ti lasciano fare telefonate in piena notte?”

“Non sono a Donaldson. Il direttore voleva trasferirmi in un’altra prigione e… Ascolta, Jimmy, è una lunga storia. Sono in una cabina telefonica a Springfield, non so esattamente dove mi trovo, ma cercherò di darti il maggior numero possibile di particolari per aiutarti. Ti prego, devi venire a prendermi adesso. Devi partire subito. Non so se mi stanno ancora cercando in questa zona o se pensano che mi trovi da tutt’altra parte… Non so per quanto tempo riuscirò ancora a resistere senza un aiuto”.

James non protesta né si rifiuta di correre in mio soccorso, mi chiede solo di descrivermi il quartiere in cui mi trovo e di cercare un nascondiglio fino al suo arrivo; mi dice anche che non devo temere nulla e che, insieme, risolveremo questa faccenda in un modo o nell’altro.

Sorrido tra me e me quando appoggio la cornetta del telefono al supporto e poi esco, correndo di nuovo in direzione del bosco; mi nascondo dietro ad alcuni cespugli che mi permettono di osservare la strada senza essere visto da coloro che camminano o che sfrecciano con le loro macchine.

Non so con esattezza quante ore trascorrono prima che un pick-up scuro parcheggi a poca distanza dalla cabina telefonica e che dal posto del conducente esca mio cugino, ma quando mi avvicino a lui capisco di avere un aspetto orribile, perché spalanca sia gli occhi che la bocca.

“Cavolo, Teddy, hai un aspetto…”

“Lo so, andiamocene” mi limito a dire, prima di occupare il sedile del passeggero; mi appoggio allo schienale e chiudo gli occhi, godendomi il primo attimo di tranquillità dell’intera giornata.

Sento lo sguardo di mio cugino addosso ed infatti, pochi minuti dopo, esige delle spiegazioni più approfondite.

“Si può sapere che cosa ti è successo? Perché non mi hai avvisato prima? Avrei potuto fare qualcosa per te! Sei ferito? Hai i vestiti completamente sporchi di sangue”
“Non potevo avvisarti perché non sapevo se a Donaldson mi stavano controllando” rispondo, strascicando le parole, perché improvvisamente mi sento stanco e svuotato “il direttore ha organizzato il mio trasferimento in una prigione… Mi sembra che il nome sia Fox River, non ricordo bene… E così ne ho approfittato per scappare. Ho finto un malore e sono saltato giù dal furgone. E no, non sono ferito, Jimmy, questo è il sangue il mio ex compagno di cella. Si è beccato una pallottola al posto mio”

“E dove è ora?”

“Il suo corpo è nel bosco” mormoro, prima di scivolare in uno stato di dormiveglia.



 
Ritorno cosciente solo quando sento una mano posarsi sulla mia spalla destra e scuoterla leggermente, per avvisarmi che siamo arrivati a destinazione.

Per la terza volta, dopo una lunga assenza, i miei piedi si posano sull’asfalto delle strade di Conecuh County, ma adesso tutto è diverso: non posso passeggiare liberamente per la città, ed infatti Jimmy mi trascina subito all’interno di un capanno degli attrezzi, per cercare un tronchese con cui rompere le manette che ancora mi bloccano i polsi.

“Non ti muovere” mi raccomanda, dopo aver trovato l’oggetto che cercava.

“Fai attenzione a non tagliarmi una mano”

“Credimi, non ho alcuna intenzione di farlo” risponde James, con un sorriso, mentre prova a rompere gli anelli metallici “Teddy, lo sai che io farei qualunque cosa per te, ma non posso nasconderti per sempre a casa mia. Danielle… Danielle non… Non capisce che per lei non c’è alcun pericolo ed io temo che possa fare qualcosa di avventato, come andare alla stazione di polizia e rivelare ogni cosa… E poi, qui saresti riconosciuto subito… Conecuh County non è un posto sicuro per te”

“Non ti devi preoccupare di questo, non ho alcuna intenzione d’interferire con la vita che ti sei creato. Ho intenzione di ricominciare in un posto molto lontano da qui, devo solo decidere dove… Dammi qualche giorno per riprendermi, e poi me ne andrò. Te lo prometto” mormoro, massaggiandomi i polsi finalmente liberi; piego le labbra in una smorfia perché nella pelle si sono formati dei profondi segni rossi, provocanti dallo sfregamento del metallo contro la carne “ho bisogno di un bagno caldo”.

Mio cugino mi mostra il bagno e mi porta anche dei vestiti puliti da indossare; quando resto da solo mi guardo allo specchio e ciò che vedo mi sconvolge: nella superficie liscia e riflettente c’è il volto pallido, sporco di fango e sangue raffermo, di un uomo di quasi quarant’anni, dalle guance scavate e dai capelli che scendono sulle spalle.

Distolgo lo sguardo dalla mia immagine ed entro nella vasca; chiudo gli occhi per godermi meglio il calore dell’acqua e, senza rendermene conto, vengo travolto da tutto quello che è accaduto nelle ultime ventiquattro ore, soprattutto dalla perdita di David.

Afferro il bordo della vasca con entrambe le mani, stringendolo con forza, mi piego in avanti e scoppio silenziosamente in lacrime, cercando di reprimere anche il più piccolo singhiozzo, perché non voglio essere sentito da James.



 
Esattamente come ho promesso a mio cugino, non voglio essere un peso né per lui né per la sua dolce metà che non vuole avere più nulla a che fare con me; e così, già dal giorno seguente, io e Jimmy cerchiamo un posto ideale dove posso ricominciare una nuova vita.

“Se vuoi un consiglio, Teddy, devi andartene dall’Alabama. È troppo pericoloso per te. Il Messico è la destinazione perfetta. Lì non possono farti nulla, e non devi preoccuparti per tua madre. A lei ci penserò io e ti terrò sempre aggiornato sulle sue condizioni. Te lo prometto”

“No, non voglio andare là” rispondo, distendendo sopra ad un tavolino una cartina geografica degli Stati Uniti “avevo scelto quella destinazione insieme a David, non mi sembra giusto andarci senza lui. Preferisco lasciare la scelta al caso, vediamo che cosa ha in progetto per me”.

Chiudo gli occhi e indico un punto indefinito della cartina con l’indice destro; sollevo le palpebre e osservo la destinazione che il Fato ha scelto per me.

La città di Tribune.

Nel Kansas.

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Capitolo 25
*** Quarta Parte: Susan ***


Si dice che se una persona compie una buona azione, essa le verrà restituita prima o poi.

Io non ho mai creduto a questo vecchio detto, almeno fino ad una mattina di agosto, poche settimane dopo il mio trasferimento a Tribune.

Mentre sono seduto su una panchina, a sorseggiare una bibita fresca ed a leggere un giornale, il mio sguardo viene catturato da una bambina completamente sola, che se ne sta ad un passo dal ciglio della strada: indossa un grazioso vestitino giallo, a pallini bianchi, ed ha i capelli castani raccolti, con un fiocco, in cima alla testa.

Continua a guardarsi attorno, ed è chiaro che si è persa: in questi giorni c’è una Fiera che attira molta gente, soprattutto turisti, ed è facile che un bambino o una bambina si allontani per vedere una giostra o dei palloncini, si ritrovi circondato da sconosciuti, e non riesca più a scorgere i propri genitori.

Quando la vedo muovere qualche passo sull’asfalto, mi alzo dalla panchina e la raggiungo: la prendo per mano e la riporto sul marciapiede, evitandole di rimanere vittima di uno spiacevole e fatale incidente.

“Devi fare più attenzione, principessa, una macchina avrebbe potuto passare sopra una pozzanghera e rovinare questo bellissimo vestitino giallo. Dove sono i tuoi genitori?” le domando, asciugandole due lacrime che le rigano le guance, colorate di rosso a causa dell’agitazione.

“Gracey!”.

Un urlo femminile attira la mia attenzione: mi giro appena in tempo per vedere una giovane donna che corre verso la mia direzione, tenendo per mano un ragazzino di sette, o forse otto anni; si lascia cadere in ginocchio sul marciapiede e abbraccia la bambina stringendola a sé, ripetendole che non deve più fare una cosa simile, che non deve mai più allontanarsi da lei per nessuna ragione al mondo.

Ascolto in modo distratto le sue parole, sentendole lontane e ovattate, perché sono completamente rapito dal suo viso, dai suoi occhi scuri e dai lunghi capelli neri, che tiene in parte raccolti con un fermaglio sulla nuca; tutto, attorno a me, perde improvvisamente importanza e per qualche istante non vedo più nulla, ad eccezione della sconosciuta, come se noi due fossimo le uniche persone sulla faccia della Terra.

È il tocco della sua mano sul mio braccio sinistro a risvegliarmi dallo strano torpore, ma ancora non riesco a sentire la sua voce: vedo solo le sue labbra, sottili e rosee, aprirsi e chiudersi velocemente e la mia mente viene attraversata fugacemente dal desiderio di scoprire la loro consistenza.

“Come? Io non… Non ho capito… C’è troppa confusione…”

“Grazie… Grazie… Mi dispiace per quello che è successo” balbetta, prima di allontanarsi velocemente con la bambina in braccio e con l’altro figlio per mano.

La guardo sparire tra la folla, con i lunghi capelli che le ondeggiano sulla schiena, senza riuscire a muovere un solo muscolo per diverso tempo, neppure quando vengo involontariamente spinto da qualcuno.



 
Anche se io e James non ci possiamo vedere, ci sentiamo per telefono quasi ogni sera e non perdo un solo istante per raccontargli quello che mi è accaduto.

“Ricordi quello che mi hai detto anni fa? Che non potevo capire il sentimento che tu provi per Danielle perché non avevo mai sperimentato in prima persona che cosa significava essere innamorati? Credo di averlo provato questa mattina. Anzi, ne sono sicuro. Avevi ragione! Quando succede, tutto attorno a te scompare e perde completamente importanza… Ad eccezione di quella persona”

“Teddy… Teddy… Non capisco se parli così velocemente! Hai incontrato qualcuno?”

“Ho incontrato la donna più bella che esista sulla faccia della Terra. Avresti dovuto vederla, Jimmy, era… Era bellissima… Aveva i capelli neri… Occhi scuri… Ohh, avresti dovuto vedere il suo viso e le sue labbra, Jimmy, dico davvero… Non era una donna. Era un angelo. Te lo posso giurare su mia madre”

“Cavolo, Teddy, non ti ho mai sentito giurare qualcosa su tua madre. Sei proprio rimasto vittima di un colpo di fulmine” risponde lui, con una risata “e come si chiama questa visione paradisiaca che hai incontrato questa mattina?”

“Io non… Io non lo so” mormoro, rendendomi conto solo ora di non conoscere nulla della misteriosa donna.

Ad eccezione del fatto che è bellissima e che ha due figli: la bambina di nome Gracey ed il ragazzino di cui ignoro il nome.

“Che cosa significa che non lo sai? Non le hai chiesto il nome e il numero di telefono?”

“È successo tutto troppo velocemente” spiego, passandomi la lingua sulle labbra “ho visto una bambina che si era persa, e quando è scesa dal marciapiede l’ho afferrata prima che venisse investita da una macchina. La donna misteriosa era sua madre, non sono riuscito a scambiare qualche parola con lei perché era troppo sconvolta da quello che era successo”

“Ma, Teddy, se quella donna ha una figlia non pensi che abbia anche un marito? Ti prego, non immischiarti in situazioni poco chiare”

“E una donna sposata porterebbe la figlia ed il figlio ad una Fiera completamente da sola? No, Jimmy, qualunque coppia di genitori sposati va insieme ad un’occasione simile. A meno che non abbiano divorziato, e credo proprio che questo sia il mio caso” commento, con un sorriso.

James tenta ancora una volta di farmi cambiare idea perché, appunto, è preoccupato che possa rimanere coinvolto in qualche situazione poco chiara, ma io lo tranquillizzo dicendogli che non deve preoccuparsi di nulla, soprattutto perché sono vicino alla soglia dei quarant’anni e non sono più un ragazzo; e poi, sono sicuro che un incontro così sfolgorante non può essere destinato a non avere dei risvolti.

“Cerca di non fare nulla di stupido… E tienimi aggiornato riguardo a questa faccenda”

“Non ti preoccupare. Non sarò avventato, ma ti giuro che riuscirò a trovare quella donna in un modo o nell’altro” dico, prima di posare la cornetta del telefono.

Peccato che non abbia la minima idea di come rintracciare la bellissima sconosciuta.



 
Per alcune persone trasferirsi in un’altra città è un vero e proprio trauma.

Per altre, invece, è quasi una purificazione.

Io faccio parte della seconda categoria e l’ho scoperto nello stesso momento in cui ho messo piede a Tribune.

L’aria di Conecuh County, ormai, era diventata tossica per me, di conseguenza non è stato per nulla difficile ambientarmi in una città completamente diversa, lontana ben quindici ore di macchina dal luogo in cui sono nato e sono cresciuto in compagnia di mio cugino; ciò, però, non cambia il fatto che sono ancora un ricercato a piede libero ed i risvolti negativi non mancano.

Quando una persona è ricercata, vive in uno stato costante di ansia e paura di essere riconosciuta da qualcuno, il nocciolo della questione è di non cadere mai nella paranoia, altrimenti si rischia di commettere un passo falso e di finire nuovamente dietro le sbarre di una cella: bisogna restare vigili, ma senza andare fuori di testa.

Per evitare spiacevoli incidenti ho optato per un look completamente diverso, in modo da non essere associato ad una mia possibile foto segnaletica: quando sono entrato a Donaldson avevo i capelli lunghi, mentre ora li porto molto più corti, a volte lisciati all’indietro a volte scompigliati, e ho optato per un corto pizzetto che mi copre il mento.

In poco tempo, ho scoperto che questo nuovo aspetto non mi dispiace affatto.

Anzi.

Se devo essere sincero, i capelli corti ed il pizzetto mi donano particolarmente.

E grazie alla mia innata abilità di destreggiarmi con le parole, sono riuscito a trovare un lavoro che mi permette di mantenermi senza dover chiedere dei prestiti a James; anzi, sono riuscito a mandargli una parte del mio stipendio per ripagarlo dei giorni di ospitalità che hanno preceduto il mio trasferimento a Tribune, insieme a quelli che gli spedisco ogni mese per pagare il ricovero in clinica di mia madre.

Ed è proprio il lavoro che sono riuscito a trovare a fornirmi, sorprendentemente, un secondo incontro con la donna che mi ha conquistato con un semplice sguardo: una mattina, mentre sto sistemando alcuni documenti, la porta della biblioteca si spalanca e vedo due bambini ridere e correre in direzione della sezione riservata ai più piccoli.

“Gracey! Zack! Vi prego! Siamo in una biblioteca pubblica!”.

Mi blocco nello stesso momento in cui sento una voce femminile, familiare, e quando mi volto nuovamente in direzione della porta d’ingresso, vedo entrate la donna misteriosa che ho incontrato qualche giorno prima: indossa una semplice gonna bianca, una maglietta a maniche corte e ha i capelli sciolti sulla schiena, senza alcun fermaglio a bloccarli in parte; senza alcun dubbio è reduce da una lunga e faticosa mattinata di acquisti perché regge a fatica alcune buste marroni, insieme al peluche di un coniglio rosa e ad un cellulare.

Fingo di occuparmi dei documenti, ma in realtà ascolto con attenzione ogni singola parola della chiamata, per capire se è al telefono con un possibile marito; quando ripone il piccolo apparecchio tecnologico, si avvicina finalmente al bancone, appoggia le numerose buste a terra, chiude gli occhi ed emette un profondo sospiro.

“Buongiorno, in che modo posso esserle utile?” chiedo, in tono gentile, con un sorriso.

Lei solleva le palpebre, socchiude le labbra per dire qualcosa ma poi si blocca, ed i suoi occhi osservano a lungo il mio viso.

“Oh, mio dio!” esclama, e per un solo, terribile, momento ho il sospetto che mi abbia identificato come il Mostro dell’Alabama “io ti conosco… Tu sei… Oh, mio dio, sei stato tu a salvare Gracey”

“Non ho fatto nulla di straordinario, chiunque al posto mio avrebbe fatto lo stesso”

“Gracey” la donna è costretta a fare qualche tentativo prima di riuscire a convincere la bambina a raggiungerla; la prende in braccio e mi indica “lo vedi questo signore? È lo stesso che qualche giorno fa ti ha aiutata a ritrovare me e Zack alla Fiera. Che cosa si dice in situazioni come questa?”

“Grazie, signore” dice la piccola, prima di tornare a fissare la madre “adesso posso tornare da Zack, mamma? Ci sono i libri da colorare”

“Si, ma non correte e fate attenzione a non far cadere qualcosa! Siamo in una biblioteca, bambini, ve l’ho spiegato poco prima di entrare, non bisogna fare rumore!” la sconosciuta si lascia scappare un altro sospiro quando la figlia scompare dietro uno scaffale “mi dispiace terribilmente per quello che è successo. Io non li perdo mai di vista… Ho lasciato la mano a Gracey per qualche secondo, perché Zack aveva una scarpa slacciata, e quando ho sollevato gli occhi era sparita… Sono una madre terribile”

“Ohh, io non credo, se posso permettermi. I bambini di quell’età sono delle piccole pesti, è normale che accadano episodi come questo… A mio parere, la cosa più importante è che tutto si sia risolto nel migliore dei modi… In che modo posso esserle utile… Signora?”

“Signorina, non sono sposata” risponde prontamente lei, ed infatti noto con piacere che non porta la fede nuziale; fruga per qualche istante all’interno di una borsetta e poi mi mostra un foglietto stropicciato, su cui sono scritti i titoli di due libri “i miei figli devono leggerli durante la pausa estiva dalla scuola, li avete?”

“Si, dovrebbero esserci. Mi lasci controllare”.

Mentre cerco i due volumi per ragazzi penso ad un modo per ottenere qualche informazione in più da lei, per non lasciarmela scappare una seconda volta; sorrido tra me e me quando penso di aver trovato un escamotage infallibile e torno al bancone, domandando alla donna se ha già la tessera della biblioteca.

“No, non ho mai avuto occasione di farla”

“È una piccola prassi per poter prendere in prestito i libri. Non si preoccupi, le ruberò solo qualche secondo, deve solo dirmi il suo nome, cognome, darmi l’indirizzo di casa e un recapito telefonico. Va benissimo anche il numero di cellulare”

“Susan Hollander” dice, dettandomi anche il suo indirizzo e il numero di cellulare, che segno accuratamente su un foglietto di carta, prima di consegnarle una piccola tessera plastificata.

“Se mi permette” mormoro, poi, prima di congedarla “Susan è un nome bellissimo”.



 
Non posso non comunicare a James i risultati che sono riuscito ad ottenere, e quando lo chiamo, quella sera stessa, si lascia scappare un lungo fischio ammirato.

“Non ci posso credere!” esclama, poi “sei riuscito ad ottenere il suo nome, il suo indirizzo ed il suo numero senza risultare un maniaco. Che cosa hai intenzione di fare adesso?”

“Ancora non lo so” mormoro, giocherellando con il foglietto di carta stropicciato “voglio giocarmi bene le mie carte senza accelerare troppo i tempi”.

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Capitolo 26
*** Heartache ***


Esattamente come ho detto a James, sono intenzionato a giocare bene le mie carte e così sviluppo un piccolo piano per rivedere Susan, e per far risultare l’incontro del tutto casuale: la proprietaria della biblioteca ha un cocker spaniel che porta spesso con sé, dal momento che non può lasciare l’animale da solo per diverse ore consecutive.

Così, quattro giorni dopo, mi offro volontario per portare a passeggio l’animale durante la mia pausa pranzo.

Ho solo un’ora a mia disposizione, e dal momento che non sono intenzionato a tornare in biblioteca senza aver ottenuto dei risultati concreti, cammino a passo veloce alla ricerca del quartiere in cui abita Susan, seguito dal cocker che trotterella vicino alle mie gambe, e che di tanto in tanto si ferma per annusare un albero o un idrante rosso.

Quando riesco a trovare il quartiere giusto, lancio delle rapide occhiate ai diversi numeri civici, ripetendoli a bassa voce, finché non individuo quello che appartiene all’abitazione di Susan, lo stesso che ho scritto sul foglietto stropicciato che stringo nella mano destra, e mi soffermo a guardarla: si tratta di una graziosa villetta a due piani, con un piccolo giardino ben curato; forse è fin troppo spaziosa per una madre single ed i suoi due figli piccoli, e questo mi fa sorgere il concreto dubbio che, forse, non sia così sola come immagino.

Anche se ha detto di non essere sposata, forse ha ugualmente un compagno con cui convive.

Lo stesso da cui ha avuto Zack e Gracey.

Mi trattengo ancora per qualche minuto, con la speranza di riuscire a scorgerla, ma alla fine mi arrendo e ritorno sui miei passi, o rischio di tornare a lavoro in ritardo.

La fortuna, però, sembra volermi assistere un’altra volta, perché incontro la donna che mi ha letteralmente stregato, in compagnia del figlio, proprio mentre mi allontano dal quartiere; fingo di non vederla, per non creare sospetti, e reagisco con sorpresa quando si avvicina a me.

“A quanto pare il mondo è davvero piccolo” commento, rivolgendole un sorriso “questa è già la… Seconda volta che ci vediamo?”

“Terza, se consideriamo l’incontro alla Fiera”.

Commetto volontariamente il piccolo errore di memoria, perché sono curioso di sentire la sua risposta, ed il fatto che non esita neppure un istante a correggermi, con il numero esatto d’incontri che abbiamo avuto, è un punto a mio vantaggio: se ha già un ricordo così nitido di me, nonostante i numerosi impegni che ha come madre, è perché sono riuscito a colpirla.

“Si, giusto, tre volte”

“Posso accarezzarlo?” mi domanda Zack, senza smettere di guardare il cocker, e quando gli do il permesso di farlo, s’inginocchia subito sul marciapiede e passa la mano destra sul pelo morbido e lungo dell’animale; a sua insaputa, il ragazzino mi ha appena dato uno spunto per iniziare una conversazione con sua madre.

“Voi non avete animali?”

“Ohh, no… No… Niente animali… Rischierei di andare completamente fuori di testa se dovessi occuparmi di un cucciolo. Tra Gracey, Zack ed il lavoro non ho neppure il tempo di riposarmi per qualche minuto”

“Perdonami se sono invadente, Susan, ma il tuo compagno non ti aiuta con le faccende domestiche e con i bambini?” chiedo, perché finalmente si presenza l’occasione perfetta per scoprire se è davvero una madre single o se c’è già un altro uomo nella sua vita.

“Io non ho un compagno, e non vedo da molto tempo il padre dei miei figli. È complicato da spiegare” mormora, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio sinistro; capisco di essermi introdotto in un argomento delicato e troppo prematuro d’affrontare, e così faccio un passo indietro, dicendole che la mia pausa è ormai finita e che devo rientrare in biblioteca in orario, altrimenti potrei passare guai seri.

“Il mio Capo è molto permissivo, ma su alcune cose è molto intransigente, tra cui gli orari di lavoro. Mi ha fatto piacere rivederti, Susan, e lo stesso vale per te, Zack. Spero d’incontrarti ancora” dico, prima di allontanarmi con il cocker.

 Ed è proprio quello che accade nelle successive due settimane.

Quasi ogni giorno, durante la mia ora di pausa, mi reco fino al quartiere in cui Susan abita e la incontro sempre in compagnia o di Zack, o di Gracey, o di entrambi i bambini e sono costretto a scambiare con lei solo poche e sbrigative parole; questo finché non ho la fortuna di vederla uscire di casa completamente da sola, con un cesto pieno di biancheria sporca.

Quando passa affianco a me, attiro la sua attenzione con una battuta, facendole notare che davvero non si ferma un solo minuto durante l’arco di un’intera giornata.

“Te l’ho detto, tra il lavoro e quelle due piccole pesti non ho un solo istante per pensare a me. Devo portare in lavanderia questi panni e poi devo andare a prendere Gracey da un’amichetta e Zack dagli allenamenti di football… E poi… E poi ho altre mille cose da fare e pochissimo tempo a mia disposizione”

“Lascia che ti aiuti, allora, non posso vedere una donna in difficoltà” le dico, prendendo poi il cesto di plastica; lei prova a rifiutare la mia offerta, ma non ascolto le sue parole “ho detto che voglio aiutarti, e poi si tratta di portare una semplice cesta di plastica, non devo sollevare un edificio… Ma se me lo chiedessi, sarei pronto a fare anche quello”

“Non è necessario…” risponde, mentre cammina affianco a me, lascia la frase in sospeso e capisco subito il perché “io… Scusami, ma mi sono appena resa conto di non conoscere ancora il tuo nome”.

So che sarebbe più saggio dire una bugia, dal momento che sono un ricercato, ma non riesco a mentirle e quando mi presento, dalle mie labbra esce il mio vero nome.
“Theodore Bagwell… Ma puoi chiamarmi Teddy”

“Teddy? Come Teddy-Bear?”

“Si, proprio così. Non sei la prima a dirmelo… In realtà, ogni volta che dico il mio soprannome tutti fanno questa stessa battuta”

“Scusami, non era mia intenzione offenderti. Non lo dirò mai più”

“No, no… Non devi farlo, non mi sono offeso. Mi piace il suono che ha sulle tue labbra”

“Anche io ho sempre odiato il mio nome” risponde Susan, probabilmente per cambiare argomento, come testimoniano le sue guance che hanno cambiato visibilmente colore “l’ho sempre trovato… Stupido”

“Stupido? Per quale motivo? Il tuo nome non è affatto stupido, anzi, è molto bello e particolare. Lo sapevi che deriva dall’ebraico ‘Shoshannah’ e che significa ‘giglio’?”

“No, non lo sapevo” mormora lei, prima di fermarsi davanti alla porta di un negozio “siamo arrivati a destinazione. Ti ringrazio per l’aiuto, Theodore, non voglio trattenerti oltre se devi tornare a lavoro. Ricordo che una volta mi hai detto che il tuo Capo è intransigente riguardo la puntualità”

“Ohh, oggi ho il pomeriggio libero, e per me è un piacere aiutarti. Te l’ho detto: non posso vedere una donna in difficoltà, soprattutto se quella donna sei tu, Susan” rispondo, con un altro sorriso; è strano, ma ogni volta che i miei occhi si posano sul suo viso non posso fare altro che sorridere, perché la sua sola presenza mi mette di buonumore.

Susan sorride a sua volta, ed è lei a riprendere la conversazione qualche minuto più tardi, quando i panni sono all’interno del cestello di due lavatrici.

“Non ho potuto non notare il tuo accento, Theodore, da dove vieni?”

“Alabama. Conecuh County”

“E cosa ti ha portato nel Kansas?”

“Sai, non è così semplice da spiegare” dico, mordendomi la punta della lingua “non ti è mai capitato di sentire quella strana sensazione che ti spinge a cambiare posto? A cambiare completamente aria? Ecco, ho semplicemente sentito dentro di me che era arrivato il momento di abbandonare per sempre la città in cui sono nato e cresciuto, per ricominciare una nuova vita in un altro Stato. E così, ho preso una cartina geografica, ho chiuso gli occhi ed il destino ha deciso che quel posto doveva essere proprio Tribune… E poi, ho perso da poco un amico a cui ero molto legato… Il mio unico amico, in realtà”

“Mi dispiace, come è successo?”

“Gli hanno sparato” spiego, rivivendo nella mia mente quei momenti “è stato un incidente mentre eravamo a caccia. Purtroppo, a volte basta vedere un’ombra o un cespuglio che si muove e si pensa subito ad un animale selvatico. Hanno scambiato il mio migliore amico per un cervo, o un cinghiale, e lo hanno colpito allo stomaco. Ho provato a bloccare l’emorragia, ma la ferita era troppo grave”

“Mi dispiace, Theodore, non avrei dovuto chiedertelo… Se lo avessi saputo…”

“Non è successo nulla, tranquilla” cerco di rassicurarla, sfiorandole appena la mano destra, perché non voglio essere troppo invadente o precipitoso; il colore sulle sue guance s’intensifica e questo mi spinge a farle una domanda a cui sto pensando dal primo momento in cui l’ho vista: aspetto di essere sotto il portico della sua abitazione e poi raccolgo abbastanza coraggio per formularla “mi stavo domandando, se riusciresti a ritagliare un po’ di tempo per sorseggiare un bicchiere di vino rosso”.

Vedo le sue pupille dilatarsi leggermente nelle iridi scure, e la sua presa sul cesto di plastica si fa più salda, probabilmente per non farlo cadere a terra.

“Mi stai chiedendo di uscire con te?”

“Ormai sono due settimane che c’incontriamo e che scambiamo appena qualche parola, Susan, e non ti nascondo il fatto che mi piacerebbe approfondire la tua conoscenza. Lo so che le tue giornate ruotano attorno ai tuoi figli, non ti sto chiedendo di metterli da parte. Non lo farei mai. Ma, se vuoi, per una sera posso cercare una baby-sitter che si occupi di loro… Solo per poche ore. Il tempo di una cena a lume di candela e poi potrai tornare da loro… Per favore”

“Theodore, sei molto gentile, ma non posso accettare il tuo invito… Sono uscita da poco tempo da una storia complicata e non mi sento pronta ad intraprendere un’altra relazione. Scusami, non era mia intenzione illuderti o farti credere che… Io non sono quel genere di donna”

“Ti prego, una cena non si rifiuta a nessuno”

“Mi dispiace, ma non sono pronta per uscire con un altro uomo. Scusami, scusami…” balbetta, sinceramente dispiaciuta, prima di entrare in casa e chiudere la porta dietro di sé, lasciandomi da solo.

Non provo ad insistere bussando o suonando il campanello, perché so già che sarebbe tutto inutile e che non farei altro che peggiorare la situazione; e così, per l’ennesima volta, mi sfogo attraverso la cornetta del telefono con James.

E non mi vergogno a versare delle lacrime.

“Ho sbagliato tutto” ripeto per l’ennesima volta, singhiozzando “sono stato troppo precipitoso, ed ho rovinato tutto. Ho perso l’occasione di uscire con la donna della mia vita”

“Non hai perso nessuna occasiona, evidentemente non era quella giusta. Lasciatelo dire, Teddy, forse è stato meglio che sia andata così. Non è mai semplice iniziare una relazione con una madre single, avresti finito solo per metterti in mezzo ad una situazione difficile. Lo hai detto anche tu che non vede il padre dei suoi figli da molto tempo e che è uscita da poco da una storia complicata”

“Tutto questo non ha la minima importanza”

“Si che ce l’ha, invece” ribatte Jimmy “ti sei trasferito a Tribune per ricominciare una nuova vita, non per ritrovarti immischiato in altri guai. Segui il mio consiglio, Teddy, per una sola volta, per favore: togliti dalla testa quella donna. Esci con altre, buttati a capofitto sul lavoro. Fai qualunque cosa, ma togliti quella donna dalla testa. Se è andata in questo modo, significa che non era destino che accadesse qualcosa tra voi due”

“D’accordo, ci proverò” mormoro, prima di riattaccare.

Prendo il telefono, stacco la spina che collega il supporto ad una parete e lo lancio contro una mensola interamente occupata da libri: i volumi cadono a terra, e poco dopo anche la stessa mensola si stacca dal muro e si schianta sulle assi del pavimento.

Mi passo la mano destra sul viso e sui capelli, scompigliandoli, in un vano tentativo di calmarmi e di riprendere il controllo delle mie azioni.

Jimmy non può capire perché ha Danielle a suo fianco.

Non sa che cosa vuol dire sfiorare la felicità con le dita e poi vederla sparire in modo brusco, per sempre.
 
 

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Capitolo 27
*** Perfect Man ***


Trascorre esattamente un mese prima che incontri di nuovo Susan Hollander: la vedo entrare in biblioteca, insieme alla piccola Gracey, per restituire i libri che ha preso in prestito, e non riesco ad impedire al mio cuore di battere più velocemente.

Quando i nostri sguardi s’incrociano, nel suo viso appare un’espressione imbarazzata, che prova a nascondere con un sorriso; si avvicina al bancone e mi consegna i due libri per ragazzi.

“Ti sono piaciuti, principessa?” domando a Gracey, che si limita ad annuire “allora faresti meglio a dare un’occhiata alla sezione per te e tuo fratello, perché questa mattina sono arrivati dei nuovi libri con le illustrazioni in rilievo, ed ho subito pensato a te appena li ho visti”

“Mamma, posso?” chiede, allora, la bambina rivolgendo uno sguardo speranzoso a Susan, che si ritrova costretta a cedere subito.

“Si, ma solo per qualche minuto. Dobbiamo andare a prendere tuo fratello tra poco” risponde lei, con un sospiro; quando restiamo da soli si tormenta le mani, nervosamente, alla ricerca di qualcosa di cui parlare “come stai, Theodore? È da molto che non ci vediamo”

“Si, c’è molto lavoro da fare. E tu, Susan, come stai?”

“A parte i ragazzi che mi fanno sempre impazzire, ed il fatto che non ho mai un solo minuto per me? Bene” mormora, con una breve risata, prima di tornare subito seria e rigirarsi una ciocca di capelli con l’indice destro; lancia una breve occhiata in direzione della figlia e poi torna a parlarmi, abbassando ulteriormente il tono di voce “sei libero di insultarmi se vuoi, lo capirei, ma mi stavo chiedendo se l’invito di un mese fa è ancora valido. Non ti devi preoccupare della baby-sitter, ci penserò io, però non sei costretto a…”

“Questa sera. Vengo a prenderti alle sette” dico, senza lasciarle il tempo di finire la frase.

Susan sorride e arrossisce, prima di rispondere con una punta d’imbarazzo nella voce.

“D’accordo, allora ci vediamo questa sera alle sette”.



 
Impiego l’intero pomeriggio per decidere quali vestiti indossare per l’appuntamento, ed alla fine preferisco optare per un semplice paio di jeans ed una camicia bianca, perché un completo elegante sarebbe troppo eccessivo e fuori luogo.

Arrivo davanti al portico della villetta in perfetto orario e quando la porta si apre, dopo che ho suonato il campanello, resto letteralmente senza fiato davanti allo spettacolo che si presenta ai miei occhi: anche Susan indossa un paio di jeans ed una camicetta bianca, sprovvista di maniche, e nonostante non abbia la minima traccia di trucco sul viso, se possibile, è ancora più bella del solito.

Per la prima volta capisco qual è una delle tante cose che mi piacciono di lei: la sua bellezza naturale, così acqua e sapone, ormai difficile da trovare nelle altre donne.

“A quanto pare abbiamo avuto la stessa idea riguardo a cosa indossare per il nostro primo appuntamento” dico, per allentare la tensione, facendole notare come i nostri jeans e le nostre camicie si assomiglino, prima di porgerle il mazzo di fiori che ho comprato pochi minuti prima “questi sono per te. Un piccolo pensiero da parte mia”

“Non avresti dovuto, Theodore, sono meravigliosi! Sono dei…”

“Gigli, perché…”

“Perché il nome ‘Susan’ deriva dall’ebraico ‘Shoshannah’ e significa ‘giglio’” mormora lei, con un sorriso così dolce e luminoso che, per la seconda volta, mi ritrovo a dimenticare come si fa a respirare; rientra in casa per qualche istante, per salutare i figli e per riporre i fiori in un vaso, ed io sorriso, passandomi la lingua sul labbro superiore.

Adesso non ho più alcun dubbio di essere riuscito a fare colpo su questa donna.

Quando Susan torna da me, mi rivolge un altro sorriso e mi domanda dove siamo diretti.

“Ho prenotato un tavolo per due persone in un ristorantino tranquillo, poco lontano da qui, e pensavo ad una rilassante passeggiata come dopocena. Ti piace il mio programma?”

“È perfetto, ma c’è solo un piccolo problema: io e i miei figli ci siamo trasferiti qui da pochi mesi, e non conosco molto bene i vari quartieri, rischieremo di perderci”

“Anche io sono qui da poco, ed anche io non conosco molto bene i vari quartieri, vorrà dire che ci perderemo insieme e per me sarà un vero piacere” le sussurro ad un orecchio, riuscendo a strapparle una risata.

L’intera serata procede in modo tranquillo, e lo stesso vale per la piccola passeggiata che ci concediamo una volta usciti dal ristorante; lei si aggrappa al mio braccio destro e, mentre camminiamo, affrontiamo argomenti leggeri, senza mai andare troppo sul personale, perché non esiste peggior errore che si possa fare durante un primo appuntamento.

Non ci allontaniamo mai troppo dal suo quartiere, così quando l’orologio che porto al polso sinistro segna le nove, entrambi siamo di nuovo sotto il portico di casa di Susan.

“È stata una serata stupenda” commenta lei, appoggiando la mano destra sulla maniglia della porta “davvero, Theodore, è stata una serata stupenda. Era da tempo che non mi divertivo così tanto in compagnia di un uomo. Troppo tempo, in effetti…”

“Lasciamo da parte i fantasmi del passato, d’accordo? Ciò che conta veramente, in questo momento, è il presente ed il futuro… Altrimenti come si può andare avanti con lo sguardo rivolto sempre dietro di sé?” rispondo, sollevando appena l’angolo sinistro della bocca, ed è a questo punto che Susan fa una cosa che non mi aspettavo e che mi lascia paralizzato, incapace di muovere anche il più piccolo muscolo del mio corpo: lascia la presa sulla maniglia, si avvicina a me e mi bacia.

Non è un vero e proprio bacio, dal momento che appoggia le sue labbra sulle mie per qualche secondo, ma ciò basta per far esplodere una vera e propria tempesta nel mio cervello.

“Lo so che è prematuro da dire, ma forse sei davvero l’uomo perfetto” mi sussurra, all’orecchio destro, prima di augurarmi la buonanotte e rientrare nell’abitazione.

“Buonanotte” dico a mia volta, muovendo appena le labbra.

Quando torno nel mio appartamento, mi lascio cadere sul letto senza smettere di sorridere, perché l’esito della serata è andato al di là di ogni mia più rosea aspettativa, ma questa volta preferisco non chiamare mio cugino per raccontargli quello che è successo.

Per una volta, nella mia vita, voglio gustarmi questo momento completamente da solo.

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Capitolo 28
*** Perfect Week ***


Intraprendere una relazione con una madre single non è mai semplice, su questo James ha perfettamente ragione, ed i problemi maggiori s’incontrano nella sfera dell’intimità e della sessualità; ma tutti i miei sforzi vengono ripagati una mattina, quando ricevo una telefonata da Susan.

Ormai sono quasi quattro mesi che ci frequentiamo e non siamo mai andati oltre a qualche fugace bacio; così, quando m’informa del motivo della sua chiamata, un brivido mi percorre la schiena.

“Gracey e Zack staranno dai loro cugini per qualche giorno, così mi stavo domandando se ti andrebbe di farmi compagnia fino al loro ritorno. Lo so che abito in un quartiere tranquillo, ma non sono più abituata a stare in una casa vuota”

“Non ti devi giustificare con me, Susan” rispondo subito, destreggiandomi per non far cadere a terra il cellulare e cercando, allo stesso tempo, uno zaino da riempire con vestiti ed altri effetti personali “è comprensibile che una donna giovane e carina come te abbia paura a rimanere a casa da sola, soprattutto durante la notte. Non si sa mai che cosa potrebbe accadere, con tutti gli orribili casi di cronaca che si sentono al telegiornale ogni giorno. Poco tempo fa, per puro caso, ho sentito che hanno arrestato e condannato all’ergastolo un mafioso. Esiste ancora gente così, capisci? E ci sono mostri ben peggiori a piede libero…”

“Teddy, per favore!”

“Sto scherzando, Susan, dammi qualche minuto e arrivo” rispondo, riattaccando, e quando busso alla sua porta d’ingresso ne approfitto per prendermi ancora gioco di lei e della sua paura “davvero le mie parole ti hanno spaventata? Era solo uno scherzo”

“Preferisco non scherzare su questi argomenti, soprattutto adesso che Gracey e Zack sono lontani da casa” risponde lei, stringendosi nelle spalle magre ed esili “sai, Teddy, questa è la prima volta che fanno una vacanza senza di me. Staranno da mia sorella per una settimana, ed io non sono sicura di essere pronta a questo distacco”

“Non hai nulla di cui agitarti, Susie Q., non conosco tua sorella, ma sono sicura che i tuoi figli saranno al sicuro nelle sue mani. A loro non accadrà niente, come non accadrà niente neppure a te, visto che ci sarò io a farti compagnia. Io non sono padre, ma posso capire quanto deve essere difficile dividersi per la prima volta dai propri bambini. Quel giorno arriva per tutti, prima o poi, e non sarebbe giusto rimandarlo il più a lungo possibile. Gracey e Zack hanno bisogno di fare nuove esperienze”

“È davvero un peccato che tu non abbia figli, Theodore, saresti un padre perfetto”

“Purtroppo non basta desiderare dei figli per averli. Bisogna trovare la persona giusta e non è così semplice. Io non sono mai stato fortunato con le relazioni” commento, mordendomi la punta della lingua, cambio bruscamente argomento quando mi accorgo che la mia compagna sta raccogliendo dei giochi dal pavimento, per sistemarli dentro una cesta di plastica “che cosa stai facendo?”

“Sto cercando di dare un aspetto decente al salotto. I ragazzi stavano giocando quando mia sorella è venuta a prenderli e, ovviamente, sono usciti senza sistemare”

“No, no, no. Posa subito a terra quella macchinina. Tu non devi muovere un solo dito per i prossimi sette giorni, farò io tutte le faccende domestiche. Hai bisogno di riposarti”

“Ma non posso…”

“Insisto” dico, avvicinandomi a lei “ti prego, questo è il minimo che possa fare per ringraziarti di tutto quello che stai facendo per me. Adesso siediti sul divano e pensa a goderti questa bellissima giornata di sole mentre io mi occupo delle faccende domestiche e della cena per due che organizzerò per questa sera. Che ne dici di sfruttare quel bellissimo tavolino che hai sotto il portico? E che importa se i tuoi vicini ci osserveranno di nascosto, se lo fanno è perché sono invidiosi di noi due e della stupenda coppia che siamo”

“Dico che è tutto perfetto” risponde Susan, posandomi un bacio sulle labbra.

Ed è davvero tutto perfetto finché, nel tardo pomeriggio, non scoppia un violento temporale che genera un blackout in tutto il quartiere, e così la romantica serata sotto il portico si trasforma in una cena sul divano a lume di candela, a base di pasta e vino rosso.

“Ti prometto che prima del ritorno di Zack e Gracey riusciremo ad avere la nostra serata romantica sotto il portico, con il sole che tramonta e non con i tuoni in sottofondo”

“In ogni serata romantica ci sono i calici di vino e le candele accese, ed abbiamo entrambe le cose”

“Si, ma solitamente non si mangiano dei spaghetti surgelati” commento, guardando il piatto che ho appoggiato sulle ginocchia con uno sguardo critico, perché ha un aspetto tutt’altro che invitante “abbiamo entrambi imparato che non è mai una buona idea provare a cucinare qualcosa quando c’è un blackout”

“Dimentichi che stai parlando con una madre che per anni ha cresciuto due figli completamente da sola. Sono abituata a ricorrere ai pasti surgelati” Susan gioca per qualche secondo con la forchetta che ha in mano, picchiettandola contro la ceramica del piatto, poi posa entrambi sopra un piccolo tavolino e prende in mano due calici che in precedenza ho riempito con del vino rosso, porgendomene uno; esita ancora, prima di parlare, percorrendo il bordo del suo bicchiere con l’indice destro “questa mattina mi hai accennato alle vecchie relazioni che hai avuto… Vuoi parlarmene meglio?”

“Ohh, non sono ricordi molto piacevoli”

“Mi dispiace, ma voglio conoscerti meglio, Teddy. Ormai ci frequentiamo da quattro mesi e non so quasi nulla su di te, ad eccezione del tuo nome e del tuo cognome”

“In realtà, ti ho anche detto che sono nato in Alabama” rispondo, con un sorriso, prima di tornare serio “non sono mai stato fortunato con le relazioni, soprattutto quando ero un ragazzo. A diciassette anni ho avuto un’esperienza terribile, e ti confesso che è ancora molto difficile parlarne”

“Perché? Che cosa ti hanno fatto?”

“All’epoca tutti i ragazzi, a scuola, avevano un debole per una ragazza di nome Ava. Anche a me piaceva, ma non avevo il coraggio d’invitarla ad un appuntamento perché lei era bellissima mentre io ero un imbranato con il volto sfigurato dall’acne… Dico sul serio, Susan, quelle maledette macchie rosse non mi hanno dato pace per tre lunghi anni… Non ho mai avuto il coraggio neppure di rivolgerle una sola parola, finché, un giorno, è stata lei ad avvicinarsi a me ed a chiedermi se potevo aiutarla a studiare letteratura. Ci siamo incontrati in biblioteca per un’intera settimana e poi è stata proprio Ava a chiedermi di incontrarci quella sera stessa, in un vecchio fienile abbandonato da tanti anni” a questo punto del racconto faccio una piccola pausa, mandando giù un sorso di vino rosso “e quello che è iniziato come un appuntamento uguale a tanti altri è finito con uno scherzo crudele da parte di alcuni ragazzi della mia stessa classe: il fienile era solo una trappola. Avevano posizionato sopra ad una delle travi del soffitto un secchio pieno di sangue di maiale destinato a me… E così è stato. Quando sono tornato a casa sembravo la vittima di un film dell’orrore”

“È stato uno scherzo davvero orribile” commenta Susan, incredula “i ragazzi sanno essere molto crudeli e non si rendono conto del male che fanno agli altri, soprattutto quando hanno alle proprie spalle delle famiglie che non si occupano della loro educazione. Mi auguro che siano stati puniti”

“No, non c’è stata alcuna punizione. Non è successo durante l’orario scolastico, a chi ne potevo parlare? Alla polizia? Sono stato io lo stupido e ne ho pagato le conseguenze. Mio cugino James aveva provato ad avvertirmi che non dovevo fidarmi dell’invito di Ava, ma io non ho voluto ascoltarlo perché credevo fosse geloso di me”

“Ed i tuoi genitori? Non lo hai raccontato neppure a loro?”

“Questo è un argomento molto delicato e particolare” commento con una bassa risata; la mia compagna non capisce il senso della mia affermazione e così decido di spiegarle, in parte, la storia della mia famiglia “l’uomo che ha contribuito a mettermi al mondo era molto violento, e mia madre non poteva occuparsi di me perché è molto malata. Lei… Lei ha un decifit mentale e ha bisogno di specifiche cure in un’apposita clinica. È come una bambina nel corpo di un’adulta, deve essere aiutata per qualunque cosa perché non è autosufficiente. Non è neppure in grado di esprimersi a parole. Ho vissuto con loro fino all’età di quattordici anni, poi lui ha avuto un infarto fulminante, che non gli ha lasciato scampo, e mi sono trasferito da mia zia e da mio cugino”

“Mi dispiace, Theodore, non volevo farti rivivere questi ricordi dolorosi… Anche il padre di Gracey e Zack era un uomo violento. È stato il peggior errore della mia vita, l’unica cosa per cui sono grata di averlo conosciuto, sono stati i due meravigliosi figli che mi ha dato” mormora Susan, con un sospiro, perché anche per lei non è facile parlare del proprio passato “beveva troppo e negli ultimi mesi del nostro matrimonio aveva iniziato ad alzare le mani contro di me. Ho sopportato in silenzio finché non è arrivato a spaccare un bicchiere in testa a Zack. Gli hanno dato sette punti in ospedale. Quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso: quando hanno dimesso mio figlio, ho preparato tre valige e sono scappata con loro, mentre mio marito dormiva… E quella è stata l’ultima volta che l’ho visto”.

Le sue mani tremano così tanto che alcune gocce di vino traboccano dal calice che stringe e finiscono inevitabilmente sul pavimento, macchiando la moquette morbida e candida; appoggio il mio bicchiere sulla superficie del basso tavolino e faccio lo stesso con quello di Susan prima di prenderla per mano, intrecciando le nostre dita.

“Non avere paura, Susan, non devi temere alcuna ritorsione personale da parte di quell’uomo. Penserò io a proteggere te ed i ragazzi, ma sono sicuro che quel giorno non arriverà mai. Lui non può sapere che ti sei trasferita a Tribune, non riuscirà mai a trovarti”

“E chi me lo assicura? Come posso essere certa che non arriverà mai il giorno in cui busserà alla porta d’ingresso per vendicarsi?” mormora lei, con uno sguardo preoccupato; lascia la presa sulle mie mani per alzarsi dal divano e raggiungere il cassetto di un piccolo mobile, la osservo incuriosito, perché non riesco a vedere che cosa sta cercando, ed i miei occhi si spalancano quando riesco finalmente a vedere l’oggetto, nero e lucido, che maneggia come se fosse un cobra velenoso “sono sempre stata contraria all’uso delle armi, ma il mio ex marito mi ha fatto cambiare idea su questo argomento. Zack e Gracey non sanno che ho una pistola e che la tengo nascosta in questo cassetto. Lo chiudo sempre a chiave per timore che uno di loro possa scoprirla e giocarci, scambiandola per un giocattolo. So che è da irresponsabili avere una pistola sempre carica in una casa dove ci sono due bambini, ma mi fa sentire più al sicuro, Theodore”

“Ed io non ho nulla in contrario, appoggio pienamente la tua scelta, Susie, ma se posso darti un consiglio non è sufficiente avere un’arma in casa per essere completamente al sicuro. Bisogna anche saper maneggiarla nel modo adeguato, ed io scommetto che non hai mai sparato un solo colpo e che non hai mai avuto il tempo di iscriverti ad un poligono di tiro, ho indovinato?”

“Hai indovinato”

“In qualità di tuo nuovo compagno, se posso considerarmi tale, voglio essere certo che la mia donna sia al sicuro anche quando io non sono al suo fianco… Anche io non ho mai messo piede all’interno di un poligono di tiro, ma andavo spesso con mio cugino e con il mio unico amico a caccia. Posso comprare dei proiettili a salve per fare un po’ di esercizio. Fidati, non sarà pericoloso: cercheremo un posto isolato e le nostre uniche vittime saranno delle bottiglie vuote. Tranquilla, è un gioco che fanno in tantissimi ragazzini”

“D’accordo, d’accordo, possiamo fare una prova”.

Susan annuisce con il capo ed io sorrido, perché sono riuscita a convincerla.



 
Anche se, per la prima volta, io e la mia compagna dividiamo la stessa camera da letto non andiamo oltre al semplice bacio della buonanotte, e tutto ciò a causa delle ferite del passato che ancora sanguinano; non è semplice resistere e trattenersi, soprattutto adesso che sono ad un solo passo di distanza dal dare una svolta decisiva al nostro rapporto, ma rispetto la sua decisione e mi accontento di dormire affianco a lei, abbracciandola e sentendo il suo corpo stretto al mio.

La mattina seguente esco di casa per comprare delle cartucce a salve ed alcune bottigliette di vetro che contengono della limonata; quando ritorno da Susan, la prendo per mano ed insieme a lei cerco un posto isolato da trasformare nel nostro personale poligono da tiro, trovandolo in una piccola radura immersa nel silenzio più assoluto, ad eccezione del verso di qualche grillo.

“Qui andrà benissimo!” esclamo, con un sorriso.

Tiro fuori da un sacchetto di carta marrone le bottigliette di limonata e, grazie ad alcuni fili di stoffa, le lego ai rami di un albero, lasciandole ondeggiare a mezz’aria, ritornando poi da Susan, che mi osserva con un’espressione accigliata.

“Sei sicuro che sia una buona idea?” mi domanda, infatti, incrociando le braccia sotto il seno.

“Assolutamente si. Questo è un posto abbandonato, dubito che vedremo famiglie o delle coppiette passeggiare qui vicino… E poi, questi non sono veri proiettili, anche se uno di noi due venisse colpito, rimedierebbe solo un brutto livido. Guarda, ti faccio vedere come si fa” mi posiziono alle sue spalle e le faccio vedere il modo esatto in cui deve impugnare la pistola “tieni le braccia dritte, proprio così, senza tremare. Non devi né tremare né esitare, pensala in questo modo: se mai dovesse arrivare il giorno in cui quel bastardo del tuo ex marito si presenterà a casa tua, avrai una sola occasione per fargli pagare tutto il male che ha fatto a te, a Zack ed a Gracey. Immagina che quella bottiglia sia lui, o le sue parti basse se preferisci, e poi premi il grilletto”.

Lei ascolta in silenzio la mia spiegazione, annuisce e poi prende la mira prima di premere il grilletto: il proiettile si conficca perfettamente nel vetro e la bottiglia si frantuma, spargendo limonata ovunque; mi lascio scappare un fischio ammirato mentre la mia compagna abbassa l’arma, con la canna ancora fumante.

“Sono stata brava?”

“Come prima volta? Sei stata perfetta, evidentemente hai un talento naturale. Grazie al cielo non sono il tuo ex marito e non devo temere di ricevere un proiettile nel mio basso inguine” commento, con una risata, dandole un buffetto sulla guancia destra.

La esorto a sparare altri colpi e, anche se non vanno tutti a segno come il primo, continuo a complimentarmi con lei e a darle altri consigli utili su come utilizzare al meglio la pistola; sparo a mia volta alcuni colpi che non mancano mai il bersaglio e quando mi volto a fissare Susie, con un sorriso soddisfatto, la vedo applaudire, divertita a sua volta.

“Complimenti, sceriffo, sono sicura che quei banditi non torneranno mai più in città”

“Ti ho mai detto che adoro il tuo senso dell’umorismo? È una delle qualità che preferisco in una donna” commento, mentre raccogliamo i cocci delle bottiglie; Susan non risponde, ma quando rientriamo nella sua abitazione, mi pone una domanda che non mi ha mai fatto prima.

“Teddy, perché ti piaccio? Che cos’ho di speciale rispetto a tutte le altre?”

“Tutto”

“Per favore, non prenderti gioco di me! La mia è una domanda seria”

“E lo è anche la mia risposta, Susan, tu sei completamente diversa da tutte le altre donne che ho conosciuto nella mia vita, ed è proprio questo che mi piace. È difficile descriverlo a parole e non so nemmeno se ne sarei capace. Il tuo viso, il tuo sorriso, il tuo carattere, perfino il modo in cui si sistemi una ciocca di capelli dietro l’orecchio sinistro quando sei imbarazzata… Non si tratta di un singolo particolare, ma di un insieme di singoli particolari che ti rendono semplicemente perfetta ai miei occhi, ed agli occhi di molti altri uomini”

“Ohh, non esserne così sicuro!” si affretta a dirmi, smontando ogni singola parola del mio discorso “la maggior parte degli uomini scappa di fronte ad una madre single con due bambini da crescere. Chi mai vorrebbe assumersi la responsabilità di occuparsi dei figli di qualcun altro?”.

Quattro mesi di frequentazione sono un lasso di tempo molto breve per prendere simili decisioni, ma dal momento che è stata proprio la mia compagna ad affrontare per prima l’argomento, decido di fare un tentativo per tastare il terreno.

“Io lo farei, se mi venisse concessa la possibilità”.

Proprio come avevo immaginato, lei spalanca gli occhi scuri, incredula delle parole che ha appena sentito, e mi osserva in silenzio, forse per capire se sto dicendo la verità o se la sto prendendo in giro; alla fine la risposta arriva, ma non sottoforma di frase, bensì come un gesto compiuto con trasporto: mi cinge le spalle con le braccia e si avventa sulle mie labbra per un bacio così passionale, che mi ritrovo con la schiena contro i cuscini del divano, mentre la stringo a me, passandole le braccia attorno ai fianchi.

In un attimo, quasi senza rendermene conto, i baci si trasformano in carezze urgenti, trattenute troppo a lungo, ed i nostri vestiti finiscono sul pavimento del salotto.

Ho sempre pensato alla nostra prima volta come al classico rapporto che molte coppie consumano tra le pareti di una camera da letto, nella semi oscurità, gustandosi boccone dopo boccone, e non a qualcosa di più fisico, quasi erotico, sul divano di casa sua, in pieno giorno; in realtà, quasi nulla avviene nel modo in cui noi lo immaginiamo, ma non per questo un evento perde la sua importanza o il suo aspetto quasi magico, indescrivibile.

E la nostra prima volta si conclude con un rilassante bagno caldo, con me abbandonato contro il bordo della vasca e con Susan appoggiata al mio petto.

“Si”.

Quando la sento pronunciare quel semplice monosillabo, apparentemente privo di significato, sollevo le palpebre e lo ripeto, per avere una spiegazione più approfondita.

“Si?”

“Quello che hai detto prima, Teddy, la possibilità che mi hai chiesto. Te la voglio concedere, ma dobbiamo fare con calma, un piccolo passo alla volta. Gracey e Zack ti adorano, lo sai, ma sono ancora scossi da tutto quello che è successo e l’ultima cosa che voglio è obbligarli a vederti come io ti vedo”

“Faremo un piccolo passo alla volta, Susie, in situazioni come questa è un pessimo errore costringere dei bambini ad affezionarsi al nuovo compagno della madre, ed io non te lo chiederei mai. Cercheremo di fare del nostro meglio e poi il tempo farà il resto” le sussurro ad un orecchio, per tranquillizzarla, prima di posarle un bacio sulla pelle del collo.
 

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Capitolo 29
*** Perfect Family ***


E così, io e Susan procediamo a piccoli passi, in modo da dare ai ragazzi il tempo di abituarsi alla mia presenza nella loro vita, sacrificando i nostri momenti d’intimità, ed il tutto avviene con una frequentazione più costante della biblioteca o con brevi passeggiate al parco almeno una volta a settimana; in questo modo trascorrono altri due mesi prima che la nostra relazione raggiunga un nuovo livello, e questo accade attraverso un altro invito inaspettato, sempre da parte della mia compagna.

“Pensavo di portare i ragazzi al lago questo weekend, per trascorrere una giornata all’aria aperta, e sai che cosa mi hanno chiesto?” mi dice una mattina, mentre siamo impegnati a fare colazione in una caffetteria: uno dei rari momenti che abbiamo a nostra completa disposizione “vogliono che venga anche lo zio Teddy. Si, ti hanno chiamato proprio in questo modo”

“Ma questo è meraviglioso, Susan” dico a mia volta, sorridendo e prendendola per mano “credi che sia il momento giusto? O è ancora troppo presto per un passo simile?”

“No, questa è l’occasione perfetta, Theodore! Ricordi che cosa abbiamo detto quando abbiamo affrontato questo discorso per la prima volta?”

“Che avremo fatto del nostro meglio ed al resto ci avrebbe pensato il tempo” rispondo, con un altro sorriso, ripetendo le stesse parole che ho pronunciato due mesi prima; Suzie annuisce con la testa, ed anche sulle sue labbra appare un sorriso, stringe con più forza la mia mano e riprende a parlare del weekend che ci aspetta in riva al lago.

“Sarà un’esperienza fantastica. Porterò la macchinetta fotografica, così inaugureremo un nuovo album, che ne pensi?”

“Non amo particolarmente le foto, ma per te ed i ragazzi sono pronto a fare un’eccezione. Potremo fare una passeggiata nel bosco e dare da mangiare agli scoiattoli per accontentare Gracey. E per Zack, potrei insegnargli a pescare, così accontenteremo entrambi… E se la pesca non dovesse andare bene, ci fermeremo a comprare del pesce prima di tornare a casa… Così termineremo la giornata con un barbecue, l’idea ti piace?”

“Mi piace moltissimo, e sono sicura che sarà tutto perfetto” mormora la mia compagna, posandomi un bacio dolce sulle labbra.

Un bacio letteralmente dolce, perché la sua bocca profuma ancora di cappuccino e cacao.



 
Ormai non posso più tacere a mio cugino la relazione che ho intrapreso con Susan, e decido di affrontare l’argomento la sera prima della gita al lago, durante la nostra telefonata quotidiana.

Sto per dirgli ogni cosa, ma James m’interrompe perché a sua volta deve comunicarmi una notizia importante, come lo dimostra la sua voce carica di trepidazione.

“Danielle è incinta” mi confida, non riuscendo più a trattenersi “diventerai zio, Teddy”.

La notizia è così bella e inattesa che mi copro la bocca con la mano destra, e passano diversi minuti prima che riesca a parlare di nuovo, ed a formulare una frase di senso compiuto.

“Oh, mio dio!” esclamo, ridendo “oh, mio dio, James! Questa è una notizia stupenda! Tu diventerai padre ed io… Io sarò zio… Il mio primo nipote! Sapete già se sarà un maschio od una femmina?”

“No, Danielle vuole che sia una sorpresa per tutti, e mi ha chiesto di approfittare di questa occasione per riavvicinarmi a mia madre… Dice che non è giusto tenerla lontana da suo nipote”

“Su questo ha ragione, non puoi impedire a Meg di fare da nonna al suo primo nipote”

“Ma non posso neppure impedire a te di fargli da zio” ribatte subito mio cugino “non voglio tenerti lontano da lui come se fossi un appestato o un…”

“Mostro?” rispondo io, trovando la definizione perfetta “a quanto pare, però, i giornali dell’Alabama la pensano in questo modo. E sono sicuro che la tua dolce metà vuole tenermi lontano da vostro figlio perché è terrorizzata dal pensiero che possa commettere qualcosa di raccapricciante e poi nascondere il suo corpo sotto le assi di un fienile, ho indovinato? Jimmy, sai benissimo che io non farei mai nulla di simile a mio nipote. Al sangue del mio sangue. Io adoro già quel bambino”

“Lo so, Teddy, non devi giustificarti con me” risponde lui, con un sospiro “ascolta, vedrai che riusciremo a trovare un modo per sistemare questa faccenda quando arriverà il momento, d’accordo? Che cosa volevi dirmi? Ti ho interrotto mentre stavi dicendo che c’era qualcosa che dovevo sapere”

“Ahh, si…” mormoro, passandomi la mano destra tra i capelli, cercando le parole più giuste per affrontare l’argomento “ricordi Susan? La donna di cui ti ho parlato qualche mese fa?”

“Quella che ti ho detto di lasciar perdere dopo che ha rifiutato il tuo invito ad uscire? La madre single?”

“Si, esatto, proprio lei. Ci stiamo frequentando da sei mesi, e domani faremo la nostra prima gita in compagnia dei suoi figli”.

Il silenzio che segue non mi fa presagire nulla di buono, invece, quando Jimmy riprende finalmente a parlare, il suo tono di voce è più calmo di quello che mi aspettavo: so che si fida ciecamente di me, ma so anche che c’è una piccola parte in lui che ha paura che possa commettere ancora azioni simili a quelle che mi hanno portato ad essere condannato al carcere a vita.

Anche se non lo ammetterà mai, so che è così.

“Adesso è stato il tuo turno di sorprendermi. Credevo che questa storia appartenesse al passato… Che fosse un capitolo completamente chiuso”

“Lo credevo anche io, ma poi Susan ci ha ripensato e ha deciso di accettare il mio invito a cena… E la serata è andata così bene che abbiamo continuato a frequentarci. Tra pochi giorni saranno trascorsi esattamente sei mesi dal giorno del nostro primo appuntamento, ed abbiamo deciso che è arrivato il momento di rendere partecipi anche i suoi figli. Non devo neppure preoccuparmi di un ex marito geloso che possa svolgere delle ricerche su di me: Susan mi ha raccontato che era un bastardo che non aveva alcun scrupolo ad alzare le mani su di lei e sui loro figli, e così lo ha abbandonato per ricominciare una nuova vita in un altro Stato… Direi che è tutto perfetto, concordi con me? Domani devo insegnare a pescare a Zack, ricordi quando lo facevamo noi due?”

“E sei sicuro che questo ex marito non decida di bussare alla sua porta di casa un giorno?”

“Se mai quel giorno dovesse arrivare, ci penserò io a lui” rispondo, tornando serio “conosco molti modi per far sparire un corpo per sempre. Non rimarrebbero altro che piccoli pezzi di carne da dare in pasto agli animali del bosco… O ai pesci di un laghetto”.

Scoppio in una risata divertita a causa della mia stessa battuta, e sento mio cugino trattenersi per non fare lo stesso.

“Sto cercando di fare un discorso serio, Teddy, non voglio saperti ancora in mezzo a qualche guaio. Lo sai che ti stanno ancora cercando? Ben presto capiranno che hai lasciato l’Alabama per sempre, ed estenderanno le ricerche anche negli Stati vicini e…”

“E vorrà dire che quando arriverà quel giorno, io mi sarò già trasferito lontano con Susan ed i ragazzi. James, andiamo, non sei mia madre. Non devi farmi questi discorsi. Sono un uomo adulto che se la sa cavare benissimo da solo e sto riuscendo, finalmente, a crearmi una nuova vita insieme ad una donna che amo e a dei bambini a cui voglio bene come se fossero miei, capisci? Finalmente ci sto riuscendo. Ci sto riuscendo veramente e lo dimostra il fatto che sono mesi e mesi che non ritorno alle… Alle vecchie abitudini, Jimmy. Quella persona ormai non c’è più. È sparita per sempre ed è stato merito di Susan”

“Ti credo” mormora semplicemente lui, prima di salutarmi “cerca di divertirti domani, e continua a stare lontano dai guai”

“Si, mamma” rispondo io, in tono ironico, prima di posare la cornetta del telefono.

La preoccupazione che James prova per me è quasi commovente; ma proprio come gli ho detto io, non sono più un ragazzino, e finalmente sto riuscendo a costruirmi una nuova vita, un passo dopo l’altro.



 
Organizzare una gita non è mai semplice, specialmente quando si ha a che fare con due bambini di cinque e sette anni, e ne ho la prova concreta quando la mia compagna mi accoglie in casa con addosso ancora il pigiama e i capelli raccolti in una coda scompigliata.

“Scusami” si affretta subito a dire, chiudendo la porta dietro di me “sono terribilmente in ritardo, come sempre. I bambini erano così eccitati all’idea della gita al lago che ho faticato a metterli a letto ieri sera… E adesso non riesco a svegliarli… E ci sono ancora molte cose di cui devo occuparmi … Devo preparare il pranzo, i giochi, i costumi da bagno… Devo sistemare ogni cosa in macchina”

“Susan, Susan, Susan… Guardami” appoggio entrambe le mani sulle sue guance per calmarla “prendi un profondo respiro e tranquillizzati. Va tutto bene, la giornata non è rovinata. Penserò io ai bambini, tu occupati di tutto il resto, d’accordo?”

“D’accordo” risponde lei, con una mezza risata, dandosi poi della stupida per il modo in cui si è fatta prendere dal panico; mi spiega qual è la camera di Gracey e Zack, e poi scompare in cucina, con ancora il pigiama addosso, lasciandomi da solo a salire la rampa di scale che conduce al primo piano della villetta.

Appoggio la mano destra sulla maniglia di una porta, la giro, e la socchiudo prima di cercare l’interruttore della luce; quando finalmente lo trovo, davanti ai miei occhi appare una graziosa camera da letto, con le pareti pitturate in azzurro ed in bianco, in modo da riprodurre fedelmente il cielo limpido di una giornata estiva.

Osservo i mobili, i due letti, ed il pavimento cosparso di giochi e bambole: ogni cosa strida con i ricordi che conservo della mia infanzia e di quella che è stata la mia cameretta nei primi quattordici anni della mia vita.

È proprio vero quando dicono che è impossibile lasciare il passato alle proprie spalle, perché è sempre dietro l’angolo, pronto a ripresentarsi in qualunque momento, soprattutto quando meno te lo aspetti.

Muovo qualche passo, facendo attenzione a non calpestare i giocattoli, mi avvicino ai due letti e mi siedo sul bordo di quello di Gracey: è ancora profondamente addormentata e stringe contro il petto un piccolo orsacchiotto di peluche.

Sorrido, perché la scena è troppo buffa e tenera, e poi le sistemo una ciocca di capelli dietro l’orecchio destro, sussurrandole qualche parola per riuscire a svegliarla.
“Forza, principessa, c’è la gita al lago che ci aspetta”.

Solo a questo punto lei si agita e si strofina le palpebre prima di sollevarle e posare gli occhi scuri sul mio viso; quando capisce che sono io e non Susan, lascia cadere a terra l’orsacchiotto di peluche e allarga le braccia, emettendo uno strillo acuto.

“Zio Teddy! Sei tu!”

“Si, principessa, sono proprio io. Alzati, devi ancora fare colazione e prepararti per la lunga giornata che ci aspetta. Rimbocca le coperte al tuo amico orso e poi andiamo da mamma in cucina… Ma prima…” m’interrompo con un sorriso e la prendo in braccio “vuoi essere la mia assistente personale, Gracey?”

“Si”

“Allora aiutami a svegliare tuo fratello, non possiamo partire senza Zack, giusto?”.

Svegliare Zack si rivela essere molto più difficile del previsto: non solo faccio fatica a fargli aprire gli occhi, ma quando ci riesco, nasconde la testa sotto il cuscino, ed inizia a ripetere che non vuole venire al lago e che niente e nessuno riuscirà a convincerlo, neppure le parole di sua madre.

“Non ci voglio venire!” esclama, per l’ennesima volta, con la voce ovattata a causa del cuscino “voglio restare a letto!”

“Molto bene” commento, posando a terra Gracey, dicendole di scendere in cucina senza di me; sollevo le coperte, appallottolandole infondo al letto, e dopo una breve lotta riesco a strappare il cuscino dalle mani del ragazzino, ed a trascinarlo di peso fuori dalla stanza, evitando per poco un calcio “lo so che dopo questo mi odierai, ma tua madre tiene molto a questa gita al lago, sono giorni che la organizza, ed io non voglio deluderla”

“Lasciami! Non puoi fare questo! Tu non sei mio padre, lo dirò alla mamma!” inizia a strillare, riuscendo a sferrarmi il fatidico calcio al basso inguine che ho cercato di evitare fino a quel momento; il dolore che esplode nella mia testa è così forte che sono costretto a lasciare la presa su Zack e ad appoggiarmi alla ringhiera che c’è in corridoio per non crollare a terra.

La nostra discussione non è passata inosservata alle orecchie di Susan, che mi raggiunge quasi correndo dalla cucina.

“Che cosa è successo? Zack, che cosa gli hai fatto?”

“Nulla… Non è successo nulla, Susie, io e Zack abbiamo avuto una piccola discussione, ma adesso è tutto risolto” rispondo, sforzandomi di sorridere nonostante il dolore, ma il ragazzino incrocia le braccia all’altezza del petto e, dopo avermi rivolto un’occhiata carica di rancore, racconta alla madre la sua versione dei fatti.
“Non è vero, mamma, è un bugiardo! Mi ha afferrato e mi ha trascinato in corridoio! Non  lo può fare, non è mio padre!”

“Zack, ti prego, sono stata io a dire a Theodore di svegliare te e Gracey. Abbiamo già parlato di questa faccenda e non sono intenzionata a discutere ancora con un bambino di sette anni. Ti prego, tesoro, scendi a fare colazione e poi vai in camera a cambiarti, siamo già terribilmente in ritardo” lo esorta la mia compagnia, in tono supplichevole, riuscendo finalmente a convincere il figlio a scendere ed a mangiare una tazza di cereali, insieme alla sorella.

Mentre Susan è impegnata a preparare i panini per il pranzo, mi occupo di caricare i giochi ed alcune sedie pieghevoli nel bagagliaio della sua macchina, mettendomi poi alla guida del mezzo quando siamo pronti per partire per la nostra prima gita.

Indosso un paio di occhiali da sole, sistemo lo specchietto retrovisore, e poi rivolgo un sorriso ai tre passeggeri.

“Allora… Siete pronti per la splendida giornata che ci aspetta al lago?”

“Si!” esclama subito la più piccola, a differenza del fratello, che borbotta qualcosa d’incomprensibile alle mie orecchie.



 
Il resto della mattinata trascorre in modo tranquillo.

Quando arriviamo al lago è ancora troppo presto per pranzare, e così optiamo per una passeggiata nel bosco, che si rivela essere una scelta perfetta e sorprendente: sulla strada del ritorno, infatti, non solo vediamo alcuni scoiattoli che corrono sui rami di un albero, ma riesco perfino ad indicare a Gracey un cucciolo di cervo, in compagnia della madre, seminascosto dalla folta vegetazione.

“Credevo che entrambi fossero d’accordo su questa gita e sulla mia presenza” mormoro a Susan, aiutandola a sistemare un asciugamano sull’erba, controllando di tanto in tanto i bambini che giocano a tirare sassi contro la superficie del lago “o mi sono perso qualche passaggio del tuo discorso?”

“Non sapevo come dirtelo” prova a giustificarsi lei, con un sorriso tirato, prendendo il cestino con le cibarie e quello con le bibite dal bagagliaio della macchina “Gracey era contentissima… Zack ha un carattere diverso da quello della sorella. Non prendertela, Teddy, non è una cosa personale. Si comporterebbe in questo modo anche se ci fosse un altro uomo a mio fianco”

“È ancora scosso dal vostro trasferimento?”

“Gracey è troppo piccola per ricordare i litigi tra me ed il mio ex marito, ma Zack ricorda tutto fin troppo bene. Soprattutto l’episodio del bicchiere. Mi dispiace, io ci provo, ma non è semplice”

“Non ti preoccupare, è una cosa comprensibile, da quando vi siete trasferiti sente di essere lui l’uomo di casa. Di conseguenza sente anche di avere la responsabilità di proteggere te e Gracey, ed io sono un intruso ai suoi occhi. Vedrai che riuscirò a trovare un modo per guadagnarmi la sua fiducia”

“E come pensi di riuscirci?”

“Credo di avere già in mente un piano” dico, con un sorriso, facendole l’occhiolino; e proprio nel pomeriggio mi avvicino al ragazzino per attuare il mio piano, o almeno per provare a fare un tentativo “non so se tua madre te lo ha detto, ma ho portato le canne da pesca. Gracey è troppo piccola per farmi da assistente in questo caso, ma tu saresti perfetto, Zack. Hai mai provato a pescare? Sai, se qualche pesce abbocca possiamo cucinarlo quando arriviamo a casa… Ammetto di non essere un grande esperto in fatto di barbecue, ma sono sicuro che con il tuo aiuto…”

“Non m’interessa, non ho voglia di pescare”

“Ohh, d’accordo… D’accordo…” mormoro, dopo essere stato interrotto in modo brusco; prendo posto sulla riva ricoperta di sassi e guardo una piattaforma galleggiante, posta proprio in mezzo al lago, a disposizione dei bagnanti “cavolo, quella piattaforma è davvero lontana, che ne pensi?”.

Finalmente Zack solleva gli occhi dai sassi, ed osserva la piattaforma con una strana smorfia.

“Non è così lontana, è solo una tua impressione”

“Stai dicendo che riusciresti a raggiungerla a nuoto? Ahh, ma tu sei troppo piccolo e magro, non hai abbastanza resistenza. Guarda, devi essere un uomo adulto come me per riuscire a raggiungere quella piattaforma”

“Faccio nuoto da quando ho quattro anni. Sono in grado di raggiungere quella piattaforma galleggiante e lo farò prima di te”

“D’accordo, Zack, allora possiamo fare una scommessa, che ne dici? Se arrivi tu per primo, mi farò ufficialmente da parte e tornerai ad essere l’unico e solo uomo di casa… Ma se vinco io, passeremo il resto del pomeriggio a pescare, d’accordo? E chiederai scusa a tua madre per i capricci che hai fatto questa mattina. Allora… Abbiamo un accordo?” allungo la mano destra, e dopo qualche istante il ragazzino la stringe, come segno che ha accettato la sfida; quando la comunico anche a Susie, nel suo viso si dipinge subito un’espressione preoccupata.

“Teddy, quella piattaforma è lontanissima dalla riva e Zack è solo un bambino…”

“Non ci sarà alcun incidente, fidati di me, il mio piano sta andando esattamente come avevo previsto” sussurro, accarezzandole velocemente una guancia.

Mi tolgo la maglietta e mi avvicino nuovamente alla riva con addosso solo un costume da bagno, ed attendo che anche il mio mini avversario faccia lo stesso.

“Sono pronto!” esclama lui, raggiungendomi, e si tuffa in acqua senza aspettare il mio conto alla rovescia.

Scuoto la testa, divertito, e poi lo seguo, senza mai superarlo, perché voglio che sia lui a vincere la sfida, ed è proprio ciò che accade: Zack è il primo a salire sulla piattaforma galleggiante, ed io faccio lo stesso qualche secondo più tardi, scostandomi un ciuffo di capelli che mi ricade sulla fronte.

“Lo sai che questo si chiama imbrogliare?” gli domando, sdraiandomi al sole “non è stato carino partire prima che facessi il conto alla rovescia e che gridassi ‘pronti, partenza, via!’. Questo colpo basso non me lo aspettavo da te”.

Chiudo gli occhi, e dopo qualche istante lo sento sdraiarsi a mio fianco, per asciugarsi a sua volta al sole; restiamo entrambi in silenzio per diversi minuti, godendoci il rumore dell’acqua ed il verso delle cicale, ed incredibilmente è proprio il mio mini avversario a parlare per primo, rivolgendomi la parola di sua spontanea volontà.

“Scusami per il calcio, Theodore”

“Non devi scusarti con me, Zack, in quel momento hai fatto ciò che ritenevi più giusto. Poco fa ne ho parlato con tua madre e sai che cosa le ho detto? Le ho detto che, secondo me, da quando vi siete trasferiti a Tribune tu hai assunto il ruolo di uomo di casa, di conseguenza mi vedi come un rivale ed un pericolo, ho indovinato?” giro il viso verso destra e gli sorrido “non avere paura a dirlo, devi essere sincero con me, non sono arrabbiato. Anzi. Noi due abbiamo molte cose in comune e proprio per questo ti capisco e capisco il tuo comportamento”

“Davvero?”

“Ohh, si, te lo giuro. Non ti sto raccontando una bugia. Sai, Zack, io non amo particolarmente raccontare o anche solo ripensare alla mia infanzia. Non è stato un bel periodo. Mio padre era un uomo molto violento e non perdeva occasione per picchiare me e mia madre, si accaniva su di noi in modo particolare quando beveva, e lui lo faceva sempre. Dovevo occuparmi io delle faccende domestiche e lo stesso valeva per i pranzi e le cene. Avevamo pochissimi soldi a nostra disposizione, quindi la qualità del cibo che compravamo non era delle migliori e non lo erano neppure i pasti che preparavo. Naturalmente a quel bastardo questo non importava… A lui interessava solo avere un valido motivo per prendere una cintura o un bastone e spaccarmi la schiena”

“Anche mio padre beveva. Ed anche lui alzava le mani su di me e su mia madre. Un giorno mi ha colpito con un bicchiere e sono stato costretto a trascorrere qualche notte all’ospedale”

“A me è andata molto peggio” mormoro, ripensando per un momento a tutte le volte in cui l’uomo che mi ha messo al mondo entrava nella mia camera da letto e chiudeva la porta a chiave, affinché non potessi scappare “vuoi sapere che cosa penso? Penso che le persone cattive hanno sempre quello che si meritano. Sai che cosa è accaduto a mio padre? Ha avuto un infarto quando avevo quattordici anni e da quel momento non è più stato un problema. Tu, invece, hai una nuova vita in una nuova città”

“Ma mio padre non ha avuto un infarto. Lui è ancora vivo e so che mamma ha paura che possa tornare in qualunque momento”

“Secondo me non accadrà, ma se proprio dovesse arrivare quel giorno mi aiuterai a proteggere tua mamma, dato che sei l’uomo di casa, giusto? Ohh, aspetta, quasi mi dimenticavo della scommessa che ho appena perso. Avevo detto che se fossi stato tu il vincitore mi sarei fatto da parte, e dal momento che ogni promessa è debito…” dico, posizionando entrambe le mani dietro la nuca, trascorre qualche minuto di silenzio in cui, ne sono sicuro, Zack rimugina una possibile risposta, e quando questa arriva, non posso che sorridere.

“Potresti insegnarmi a pescare, Theodore?”.



 
“Devi dirmi come ci sei riuscito” mormora Susan, diverse ore più tardi, quando entrambi ci occupiamo di lavare i piatti e sparecchiare la tavola.

“Semplice” dico a mia volta a bassa voce, per non svegliare i bambini che si sono addormentati sul divano, esausti per la lunga giornata trascorsa al lago “gli ho parlato da uomo ad uomo e credo di essere riuscito a fare il primo passo per ottenere la sua fiducia. Questa è la seconda buona notizia che ricevo nelle ultime ventiquattro ore: ieri sera ho ricevuto una chiamata da mio cugino. Ha detto che diventerò zio”

“Teddy, ma è meraviglioso!” esclama la mia compagna, mentre ci spostiamo nel salotto; lei prende in braccio Gracey ed io faccio lo stesso con Zack, prima di portarli nella loro camera da letto e rimboccare le coperte “immagino che sarai emozionato. Potremo organizzare una cena insieme, che ne pensi? Mi hai sempre raccontato che sei molto legato a tuo cugino, vorrei conoscerlo”

“Ti prometto che prima o poi lo faremo. Sono sicuro che James verrebbe molto volentieri a Tribune, ma non posso assicurarti lo stesso per la sua compagna, Danielle, tra noi due non scorre buon sangue. In passato ci sono state alcune incomprensioni che non siamo ancora riusciti a risolvere. Jimmy spera che con la nascita del suo primo figlio la situazione possa cambiare, ma io lo dubito… Ti confesso che sono un po’ preoccupato perché potrebbe impedirmi di vedere mio nipote”

“Ma è orribile! Perché mai dovrebbe farlo? Per delle semplici incomprensioni? Per un’antipatia personale? Sei suo zio ed hai il diritto di vedere tuo nipote quando nascerà. Se ti crea qualche problema, puoi passare alle vie legali”

“Ohh, no, no, no. Preferisco non adottare dei provvedimenti così drastici. Sono sicuro che troveremo un modo più tranquillo per risolvere l’intera faccenda. Non voglio costringere mio cugino a dover scegliere tra me e la sua compagna. Ha già avuto diversi problemi in passato, merita anche lui un po’ di tranquillità… Proprio come sono riuscito a trovarla io” mormoro; accarezzo una ciocca dei capelli di Susan e poi appoggio la fronte contro la sua “andiamo a letto. I bambini stanno dormendo, non sentiranno nulla. Ti prometto che domani mattina uscirò di casa prima che loro si sveglino, per evitare incidenti. Voglio terminare questa giornata meravigliosa in un modo altrettanto meraviglioso”

“Così mi tenti ad accettare”

“Considerala una piccola prova generale della nostra futura convivenza sotto questo tetto, Susie, ti prometto che faremo attenzione. Non hai nostalgia della settimana che abbiamo trascorso insieme?”

“Si, terribilmente” mi confida lei, in un sussurro che mi provoca un brivido lungo tutta la spina dorsale, mi prende per mano e mi conduce dentro la sua camera da letto, chiudendo la porta senza fare il minimo rumore “non devono sentirci, preferisco evitare qualche incidente imbarazzante da dover giustificare”

“Non accadrà” sussurro, togliendomi la maglietta che indosso “trascorreremo una notte meravigliosa e carica di passione”.

Ed è quello che penso veramente, almeno fino al momento in cui non sento il rumore inconfondibile di una porta che si socchiude, seguito dalla voce assonnata di Gracey.

“Mamma, non riesco a dormire, credo che ci sia qualcosa dentro l’armadio”

“Tesoro, dentro l’armadio ci sono solo i tuoi vestiti e i tuoi giocattoli, non c’è alcun mostro. Pensavo che avessimo superato questo periodo”.

Le parole della mia compagna non servono a nulla perché Gracey, anziché tornare in camera, si avvicina al letto e si arrampica sul materasso, chiedendo ad entrambi di poter dormire insieme a noi.

“Per favore” ripete, rivolgendomi uno sguardo supplicante “per favore, per favore, solo per questa notte”

“Andiamo Susan, hai sentito che cosa ha detto questa piccola principessa? Si tratta solo di questa notte… Possiamo fare un’eccezione?”

“D’accordo, ma solo per questa notte” risponde lei, arrendendosi.

La bambina si sistema sotto le coperte, in mezzo a me ed a Susan, e trascorrono appena pochi minuti prima che si addormenti profondamente; le accarezzo i capelli castani e poi rivolgo un sorriso alla mia compagna.

“A quanto pare, stiamo davvero facendo le prove generali per una futura convivenza” mormoro, con una bassa risata.

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Capitolo 30
*** End Of A Dream ***


Nonostante la conversazione che abbiamo avuto da ‘uomo ad uomo’, Zack continua ad essere diffidente nei miei confronti.

Lo stesso, però, non vale per Gracey: ai suoi occhi, assumo sempre di più il ruolo di una figura paterna e lo dimostra il fatto che, ormai, mi chiama sempre con l’appellativo di ‘zio Teddy’; non solo vuole trascorrere più tempo possibile in mia compagnia, ma vuole anche se sia io ad aiutarla con i compiti, soprattutto con le materie in cui incontra più difficoltà.

Come matematica.

“Sai… Io non sono mai stato bravo in matematica, ma sono riuscito a risolvere il problema grazie ad alcuni trucchi. Vuoi impararli anche tu?”

“Per esempio?” mi domanda lei, incuriosita, giocherellando con la matita che ha in mano.

“Per esempio la tabellina del nove” rispondo, mostrandole tutte e dieci le dita delle mani, abbassando lentamente il mignolo sinistro “guarda… Nove per uno fa…”

“Nove?”

“Nove per due fa…” continuo, abbassando l’anulare.

“Diciotto”

“Nove per tre…”.

Questa volta è Gracey a precedermi, e con delicatezza abbassa un altro dito della mia mano sinistra.

“Ventisette!” esclama poi, ed io sorrido, accarezzandole il viso.

“Bravissima, hai capito esattamente come funziona! Adesso continua tu!”

“Mamma, mamma, hai visto che cosa mi ha insegnato?”

“Ho visto, Gracey, è fantastico, mostralo anche a tuo fratello”.

La bambina corre in salotto, per mostrare al fratello il piccolo trucco che le ho appena insegnato, lasciandoci completamente da soli; Susan mormora qualche parola di ringraziamento, prima di posarmi un bacio sulle labbra.

Chiudo gli occhi e mi godo appieno il piccolo momento di fugace intimità, poi mi volto ad osservare Gracey che sta ancora elencando a Zack la tabellina del nove, mentre la mia compagna torna in cucina per occuparsi delle stoviglie; in sottofondo sento la TV accesa, ma non presto la minima attenzione a ciò che stanno trasmettendo, e inizio a sistemare i quaderni ed i colori sparsi sopra alla superficie del tavolo.

Trascorre non più di una ventina di secondi prima che Susie ritorni in salotto, quasi correndo, per ordinare ai figli di andare immediatamente in camera da letto.

“Ma, mamma, è ancora presto. Dobbiamo finire i compiti” protesta Zack, ma la mia compagna insiste una seconda volta, ed io corruccio le sopracciglia in un’espressione confusa, perché nella sua voce sento qualcosa di strano.

Agitazione, paura, e perfino una punta di isterismo.

E non riesco a capirne il motivo.

La mia confusione aumenta quando la vedo tornare da me con in mano la pistola che ha comprato per difendersi da una possibile aggressione da parte del suo ex marito.

“Susie, che cosa stai facendo? È un gioco? Non dovresti puntarmi contro quella pistola, potrebbe essere molto pericoloso…”

“Non ti avvicinare” m’interrompe lei, con le mani che tremano visibilmente, senza mai abbassare l’arma “non muovere un solo passo verso di me, non sto scherzando. Se lo fai, premo il grilletto”

“Susan, che cosa stai dicendo? Che razza di gioco contorto è questo? Non capisco”

“Accendi la TV”

“Io non…”

“Accendi quella maledetta TV!”.

Obbedisco al suo ordine e finalmente capisco il perché del suo cambio repertino di umore: sullo schermo appare l’edizione speciale di un telegiornale che si sta occupando del mio caso; osservo in silenzio la mia foto segnaletica, ascoltando la voce del conduttore che elenca i miei numerosi crimini, prima di tornare a fissare la mia compagna, la donna che amo, pensando velocemente a cosa dire a mia discolpa.

“Susan, ti prego, ti posso spiegare ogni singola cosa se me ne lasci la possibilità”

“Spiegare ogni singola cosa?” ripete lei, sforzandosi di non urlare per non essere sentita dai bambini al piano superiore “tu non puoi spiegare ogni singola cosa. Quello è il tuo viso, Theodore, quello sei tu! Mio dio, quello nello schermo sei tu e la polizia ti sta cercando”

“Susie, capisco che sei confusa e sconvolta, ma ti posso assicurare che quelle cose appartengono al passato. Sono errori che non sono più intenzionato a commettere”

“Un errore può essere una rapina o un furto… Un errore non può essere rapire, stuprare ed uccidere ragazzine e ragazzini”

“Ti prego, lasciami spiegare, possiamo trovare una soluzione a tutto questo. Ti avrei raccontato tutto al momento giusto, Susan, non l’ho fatto prima perché avevo paura proprio di questo! Ti prego, parliamone, possiamo trovare un modo per sistemare ogni singola cosa”

“Non ti avvicinare”.

La mia compagna non è intenzionata ad ascoltare le mie parole, si sposta di qualche passo in direzione di un mobile e prende in mano il suo cellulare; so quello che sta per fare e così provo a supplicarla ulteriormente, ma ancora una volta mi ignora e digita il noveunouno, mettendosi subito in contatto con un centralino.

“Dovete mandare subito una pattuglia” dice, con voce tremante, fornendo poi il suo indirizzo “un uomo è entrato in casa mia… Stai lontano da me, non ti avvicinare o giuro che premo il grilletto, Theodore!”.

Ignoro la sua minaccia e la raggiungo; riesco a farle lasciare la presa sia sul cellulare che sulla pistola e le appoggio entrambe le mani sulle guance, costringendola a guardarmi negli occhi, e ciò che vedo nei suoi è solo una profonda, ed incontrollabile, paura.

“Susie… Susan, ti prego, guardami negli occhi. Ti giuro che quelle cose che ho fatto appartengono al passato e ad una persona che adesso non esiste più, e questo è stato possibile proprio grazie a te, a Gracey ed a Zack. Lo so che cosa pensi in questo momento. Pensi di essere stata presa in giro per la seconda volta, di aver sprecato quasi un anno in compagnia di un altro bastardo, ma ti posso assicurare che non è così. Ti prego, devi credermi, mi sono innamorato di te dal primo momento in cui ti ho vista, ed erano veri tutti i momenti che abbiamo trascorso insieme. Il nostro primo appuntamento, la settimana che abbiamo trascorso da soli, la gita al lago… Era tutto vero, devi credermi” mormoro, mentre la vista mi si annebbia a causa delle lacrime che minacciano di scendere lungo le guance; provo a baciare la donna della mia vita, e per qualche secondo credo davvero di essere riuscito a farle cambiare idea su di me, ma lei si oppone, allontanandomi con un’espressione di disgusto.

“Vattene! Vattene subito da casa mia! Non voglio più vederti! Sei solo un bastardo! Ti sei avvicinato a me, ed hai fatto tutto questo solo per sfogare la tua perversione sui miei figli. Io sono stata solo un mezzo per tutto questo tempo”

“No, no, no, non è così! Non li ho mai sfiorati! Io voglio bene a quei bambini, proprio come ne voglio a te!”

“Vattene, Theodore, esci subito da casa mia”.

Susan continua a fissare il pavimento del salotto; cerco il suo sguardo ancora per qualche secondo prima di prendere la mia giacca ed uscire dalla villetta, proprio nello stesso momento in cui arriva una volante della polizia con le sirene accese.

Non provo neppure a scappare.

Mi limito ad alzare entrambe le mani, in segno di resa, ed aspetto in silenzio che gli agenti escano dalla vettura per ammanettarmi e recitare quali sono i miei diritti.
 

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Capitolo 31
*** Quinta Parte: Fox River's Serpent ***


“Bene, bene, bene!” esclama una voce fin troppo familiare alle mie orecchie, mentre un secondino si occupa di togliermi le manette che mi bloccano i polsi dietro la schiena, ed io ne approfitto per massaggiarmi la pelle laddove si sono formati dei lividi rossi “guardate chi è venuto a farci visita. A quanto pare, il nostro Teddy-Bear ha deciso finalmente di tornare a casa dopo una piccola vacanza”.

L’uomo che parla è il secondino che doveva occuparsi del trasferimento mio e di David, lo stesso che ho colpito con un calcio al passo inguine, prima di saltare giù dal furgone; decido di non rispondere alla sua provocazione perché non sono dell’umore giusto, ma lui muove un altro passo verso di me e mi rivolge altre battutine simili, probabilmente per testare il mio limite di sopportazione.

“Non sono dell’umore adatto, Capo, il viaggio è stato lungo e faticoso” commento alla fine, con un sorriso tirato, anche se il lungo viaggio dal Kansas all’Illinois non ha nulla a che fare con il mio pessimo umore; ovviamente il secondino non bada alle mie parole e risponde con una risata di scherno, prima di avvicinarsi ancora, tanto che i nostri visi quasi si sfiorano, ed io sono costretto a sollevare il mio per guardarlo negli occhi perché mi supera in altezza di almeno una decina di centimetri.

Ecco un particolare che ho sempre odiato del mio fisico.

L’altezza.

Anche se l’acne è ormai un brutto ricordo lontano, e l’età adulta ha migliorato i tratti del mio viso, lo stesso non vale anche per la mia statura: sono un paio di centimetri al di sotto del metro e ottanta, quando la maggior parte degli uomini (soprattutto qui al nord) si aggira attorno al metro e ottantacinque.

Un’altra scomoda eredità che mi ha lasciato l’uomo che ha contribuito a mettermi al mondo.

“Avete sentito, ragazzi? Il nostro povero Teddy-Bear ha avuto un viaggio molto lungo e faticoso, ed ora non è dell’umore giusto per parlare. Possiamo fare qualcosa per te, Teddy? Vuoi un materasso ad acqua per rilassarti? O forse la nostra principessina preferisce del the caldo con biscotti?” a questo punto, prima che possa avere il tempo di rispondere, vengo afferrato con forza per i capelli e sbattuto contro una parete della stanza; resto letteralmente senza fiato quando il ginocchio sinistro del grasso maiale si abbatte contro il mio basso inguine, e vedo chiaramente delle stelle esplodere davanti ai miei occhi “ammetto di averti sottovalutato durante il nostro primo incontro, ma se sei intenzionato a ripetere ciò che hai fatto in quell’occasione faresti meglio a togliertelo dalla testa. Qui non siamo a Donaldson e di conseguenza non sono i detenuti a comandare, d’accordo? Qui siamo noi a dettare legge e faresti meglio ad abituarti subito alle nostre regole, se non vuoi che ti trovino in uno dei capannoni che ci sono nel cortile con la gola tagliata. Anche se, nel tuo caso, dovresti preoccuparti non solo delle guardie, ma anche degli altri detenuti. A Fox River i detenuti non sono smistati in diversi Bracci a seconda dei crimini che commettono, e questo significa che potresti incontrare qualcuno che non è d’accordo con quello che hai fatto e decida di darti una lezione personale. Cerca di crearti in fretta il tuo gruppo di protetti, Teddy-Bear, e procurati un’arma, sempre se ci riesci, perché la tua permanenza potrebbe rivelarsi tutt’altro che tranquilla. Ahh, quasi dimenticavo… Sono stato io a sparare quel proiettile. Era destinato a te, e sarei riuscito a beccarti se il tuo amichetto non si fosse messo in mezzo. Se la cosa ti può far sentire meglio, siamo riusciti a trovare il suo corpo qualche giorno più tardi. Ti confesso che non è stato semplice fare il riconoscimento, perché i vermi stavano banchettando con quello che gli animali avevano avanzato”.

Non è semplice reprimere la rabbia quando l’uomo mi rivela la cruda fine del corpo di David; non stringo le mie mani attorno alla sua gola solo perché altri due secondini hanno la prontezza di trascinarmi fuori dalla stanza e di condurmi nelle docce, per il solito procedimento che deve fare ogni singola matricola quando arriva in un carcere: prima deve consegnare tutti i suoi effetti personali, poi deve farsi una doccia ed infine le viene data la divisa del carcere, il numero di matricola e quello della sua nuova piccola abitazione.

Mi lavo velocemente con dell’acqua fredda e poi indosso la mia nuova divisa, che consiste in un paio di pantaloni scuri ed una maglietta bianca, a maniche lunghe; uno dei secondini mi porge anche un cappello a visiera, blu, ma anziché indossarlo lo rigiro tra le mani.

“Non mi portate nella zona delle celle?”  chiedo, quando vengo scortato all’esterno del Braccio A, in direzione del cortile recintato.

“Ora di svago”.

Queste tre parole sono l’unica risposta che ricevo, senza altre spiegazioni più approfondite, sorrido tra me e me, prima di ribattere con sarcasmo.

“Evidentemente è destino che il mio arrivo in un carcere coincida quasi sempre con l’ora all’aria aperta che i detenuti hanno a loro disposizione. Sono ansioso di conoscere i miei nuovi vicini di cella, scommetto che sono tutte persone simpatiche, sorridenti e disponibili”.

Nessuno risponde alla mia battuta e vengo spinto all’interno del cortile destinato a coloro che sono reclusi nel Braccio A.

Mi guardo attorno per qualche istante, raggiungo l’unica tribuna vuota e mi lascio cadere su una delle panche, per osservare in assoluta solitudine l’intero perimetro dalla forma rettangolare e capire come devo muovermi; la mia tranquillità, però, dura pochissimo perché vengo raggiunto da un gruppo di sei musi neri che reclamano la tribuna.

“Faresti meglio ad andartene” mi consiglia uno di loro, che identifico essere il Capo del gruppo “amico, devi esserti confuso. È quella laggiù la parte di voi visi pallidi. Hai sconfinato il territorio”

“Io non ho alcuna intenzione di andarmene, e di certo non sono amico di una scimmia scappata dallo zoo di New York City”

“Che cazzo hai appena detto?”.

Anche se lo sconosciuto si avvicina a me con un atteggiamento minaccioso, non mi scompongo minimamente, anzi: accavallo le gambe e piego leggermente il viso di lato, prima di rispondere con voce calma.

“Ho appena detto che non ho la minima intenzione di alzarmi da questa panca, dal momento che la trovo particolarmente comoda. E subito dopo ho aggiunto che non sono amico di una scimmia scappata dallo zoo di New York City… O da quello di San Diego, non conosco con esattezza i retroscena della tua fuga. Sei sicuro di non essere tu quello confuso? Dopotutto, le scimmie sono animali stupidi, che trascorrono la maggior parte del loro tempo a spulciarsi a vicenda e…” non riesco a continuare il mio discorso perché vengo afferrato per la maglietta e costretto ad alzarmi dalla panca “leva subito quelle luride zampe dalla mia maglietta, o potresti ritrovarti ad imparare a sbucciare le banane con i piedi”

“Hai due secondi di tempo per ritirare tutto quello che hai detto, o ti strappo la lingua con le mie stesse mani, così vediamo se riuscirai ancora a parlare”.

Ovviamente non ritiro una sola delle parole che ho appena pronunciato e, in tutta risposta, sputo un grumo di saliva in faccia al muso nero che stringe ancora la stoffa della mia maglietta.

Il mio gesto carico di disprezzo dà ufficialmente inizio ad una rissa che attira una folla consistente di detenuti.

In un battito di ciglia ci ritroviamo a rotolare tra l’erba tagliata con cura, sotto l’incitamento degli spettatori improvvisati che ci esortano a non risparmiarci in fatto di calci e pugni, e così facciamo entrambi, finché qualcuno non mi afferra da dietro e tenta di allontanarmi dal mio avversario, perché ormai la rissa è degenerata in uno scontro all’ultimo sangue, uno di quelli da cui esce un unico vincitore.

Tento di ribellarmi in qualunque modo, ma la persona alle mie spalle mi tiene saldamente bloccato, e riesce perfino ad allontanarmi di qualche metro, mentre il muso nero viene soccorso dal resto del suo gruppo, ed aiutato a rimettersi in piedi.

“Calmati, ragazzo, finché non ti sarai calmato non ti lascerò andare”.

Compio uno sforzo enorme per riuscire a ritornare in me ed a rilassare i muscoli delle spalle, ed è solo a questo punto che vengo lasciato andare e posso finalmente voltarmi per guardare in faccia la persona che mi ha allontanato dalla rissa: con mia grande sorpresa, si tratta di un uomo di mezza età, alto e dal fisico ancora scattante; con il dorso della mano sinistra mi pulisco un rivolo di sangue che mi esce dal naso e poi gli rivolgo un’occhiata per nulla amichevole.

Sto per dirgli che ha sbagliato a mettersi in mezzo alla rissa, ma non ho il tempo materiale per farlo perché vengo attaccato a sorpresa: mi ritrovo per la seconda volta a terra, con la testa premuta contro l’erba, e riesco a liberarmi solo grazie ad una gomitata all’altezza dello stomaco che assesto al muso nero; il mio colpo è così forte che lui perde la presa su un oggetto che deve avergli passato uno del suo gruppo.

Lo raccolgo prima che abbia il tempo di farlo per primo e sorrido, rendendomi conto che si tratta di un coccio di vetro affilato.

Sto per scagliarmi contro il mio avversario, per tagliargli la gola, ma lascio improvvisamente la presa sull’arma che ho in mano, perché un dolore indescrivibile, paragonabile solo alla scossa di un fulmine, mi attraversa tutto il corpo e mi ritrovo a crollare sulle ginocchia prima di perdere i sensi.



 
Quando sollevo le palpebre, mi ritrovo in una stanza completamente avvolta dal buio più assoluto.

Mi alzo a fatica dalla brandina e cerco di capire dove sono: non appena incontro quattro pareti a poca distanza l’una dall’altra, due delle quali riesco a toccarle semplicemente allungando le braccia, non ho più alcun dubbio riguardo al posto in cui sono stato sbattuto.

Per la prima volta, da quando è iniziata la mia esperienza da galeotto, mi ritrovo in una cella d’isolamento.

E non ho la più pallida idea di quanto tempo dovrò trascorrere qua dentro.

Torno a sdraiarmi sulla brandina e, inevitabilmente, i miei pensieri vanno a Susan ed all’ultima serata che abbiamo trascorso insieme, prima del mio arresto.

Qualche minuto più tardi, mentre sto ancora pensando alla mia ormai ex compagna, la porta della cella si apre con un cigolio quasi assordante, ed entra un secondino, a cui rivolgo subito un verso seccato.

“Ohh, finalmente siete venuti a tirarmi fuori da questo buco. Dovete fare qualcosa per migliorare le celle d’isolamento, perché qui dentro l’aria è irrespirabile. Sembra che vi abbiano seppellito un cadavere. Parlatene con il vostro direttore” commento, alzandomi dal materasso, ma sono costretto a sedermi nuovamente dietro minaccia.

“Siediti, o questa volta useremo anche i manganelli insieme al teaser” mi ammonisce una guardia dalla zazzera color carota, prende un paio di manette dalla cintura e mi blocca i polsi dietro la schiena, in modo da impedirmi di fare qualche movimento brusco o di aggredirla; dopo un’ulteriore minaccia, si allontana di qualche passo da me e parla con qualcuno che si trova in corridoio, del tutto celato alla mia vista “dottoressa, può entrare nella cella”.

Una figura alta e snella appare sulla soglia della porta blindata, ed appartiene ad una giovanissima donna dai lunghi capelli ramati, che indossa un camice bianco ed ha con sé una borsa a tracolla.

Senza dire una sola parola, entra nella cella e prende posto accanto a me, ed è a questo punto che la guardia interviene nuovamente, dicendole di allontanarsi, dato che sono considerato un soggetto estremamente pericoloso, e la sua risposta non tarda ad arrivare.

“Ha i polsi bloccati dietro la schiena, dubito seriamente che una persona possa essere considerata pericolosa in queste condizioni, e poi non posso visitarlo a distanza per capire se ha qualcosa di rotto”.

La voce della giovane dottoressa è ferma e decisa, forse a tratti perfino arrogante, ed il secondino è costretto ad obbedire, ma si allontana solo di pochi passi, in modo da poter intervenire in modo tempestivo; sposto la mia attenzione sulla visitatrice inaspettata, che sta frugando all’interno della borsa a tracolla, ed osservo a lungo i suoi capelli rossi, come la fiamma di un falò, e la linea delicata del suo collo.

“Ho sempre trovato particolarmente affascinanti i capelli ramati. È semplice incontrare donne che hanno dei bellissimi capelli biondi, castani e neri… Ma lo stesso non vale per quelli rossi”

“In realtà, i capelli rossi non sono così rari. È rara l’accoppiata capelli rossi e occhi scuri, perché solitamente le persone che vengono chiamate ‘pel di carota’ hanno gli occhi chiari ed il viso tempestato di lentiggini”

“Si, in effetti è vero. Comunque, non ho potuto non notare il modo in cui si è fatta valere davanti a quella guardia…”

“Mh” mormora lei, con le labbra serrate, ascoltando in modo distratto le mie parole; prende una piccola torcia dalla borsa a tracolla e con quella controlla i riflessi delle mie pupille “nelle ultime ore ha notato qualche sintomo strano? Nausea? Giramenti di testa? Vomito?”

“In verità, non ne ho la più pallida idea, dottoressa. Ho riaperto gli occhi da pochi minuti, e lei è stata quasi la prima persona che ho visto. Scommetto che la maggior parte degli ospiti di questo magnifico hotel a cinque stelle vorrebbe avere un risveglio piacevole come il mio” ancora una volta non ottengo alcuna risposta soddisfacente da parte della giovane ed affascinante dottoressa, che inizia a disinfettarmi un taglio che ho sulla guancia sinistra, e così decido di fare un ulteriore tentativo dopo aver lanciato un’occhiata alla targhetta che ha appesa sopra al camice “dottoressa Sara Tancredi… Tancredi… Sbaglio o è un cognome di origine italiana?”

“Si”

“È mai stata in Italia? Sa che là hanno l’abitudine di gustare un bicchiere di buon vino durante i pasti? Invece noi che cosa facciamo? Ingurgitiamo pranzo e cena con bibite gassate e sciroppi alla frutta. Nessuno che si ferma per qualche istante ad assaporare del vino, ma scommetto che nel suo caso è diverso, dal momento che ha origini italiane. Mi dica, quale preferisce? Il rosso o il bianco?”.

Finalmente gli occhi castani di Sara si staccano dalla ferita, concentrandosi sui miei, e sulle sue labbra compare l’ombra di un sorriso divertito.

“Quando sono stata assunta, il direttore Pope ha voluto parlarmi personalmente per spiegarmi alcune cose che, a suo parere, erano essenziali che sapessi riguardo la vita all’interno di un carcere” dice poi, senza smettere di sorridere in modo divertito, ed io la osservo in silenzio, perché sono curioso di vedere dove vuole andare a parare “e mi ha ripetuto più volte che il vero problema dei detenuti non sono le risse o i regolamenti di conti, che a volte si verificano dietro tacito assenso da parte delle guardie. Il loro principale problema è la noia: non sanno come trascorrere le loro giornate, e questo accade in modo particolare nel caso di un detenuto che deve scontare una lunga pena o una condanna a vita. E la noia li porta a… Tentare d’instaurare un rapporto con il primo soggetto femminile con cui entrano in contatto, come ad esempio un’infermiera o una dottoressa. Quello che sto cercando di dirle, signor Bagwell, è che lei può provarci tutte le volte che vuole con me, anche nel modo più spudorato possibile, ma da parte mia non otterrà mai nulla che non sia una risposta gentile e professionale. Solo perché ho ventiquattro anni e sono alla prima esperienza all’interno di un carcere, non significa che sono una sprovveduta… E poi, dubito seriamente che in mensa le permetterebbero di organizzare un appuntamento romantico a base di vino rosso o bianco”

“Io… Sono senza parole” mormoro, quando ha finito con il suo discorso, sorridendo a mia volta “lei non ha solo un viso grazioso ed un bellissimo corpo, ha anche una mente molto acuta. Però ha torto riguardo ad un punto”

“Quale?” mi domanda Sara, ricominciando ad occuparsi dei tagli che ho sul viso; nel frattempo, il secondino ricompare vicino alla porta della cella: deve aver origliato ogni singola parola della nostra conversazione e, probabilmente, vuole ricordarmi della sua ingombrante presenza.

“Io non sono un esperto su questo argomento, ma immagino che i turni di voi medici siano lunghi e massacranti, e di conseguenza vi ritrovate a trascorrere molto tempo in compagnia dei vostri pazienti. Lei è una ragazza giovane e bella che si ritrova, suo malgrado, a dover passare… Nove? Dodici ore? In compagnia di uomini che sono rinchiusi in questa struttura. Crede davvero che non arriverà il giorno in cui poserà i suoi occhi scuri sul viso di un nuovo arrivato e si innamorerà perdutamente di lui?”

“Non accadrà per un semplice motivo che ho appena spiegato: io non sono una sprovveduta. Qualunque detenuto che intraprende una relazione con un membro dello staff medico lo fa con un preciso scopo secondario, non si tratta mai di un sentimento autentico, tranne in rare occasioni”

“Dottoressa, non voglio interromperla, ma le ricordo che qui c’è un altro detenuto che necessita delle sue cure urgenti”

“Si, arrivo subito” risponde lei, riponendo le varie medicazioni all’interno della borsa, ma prima di andarsene mi sussurra poche parole “prima le ho chiesto se aveva avuto dei giramenti di testa o nausea perché Bellick l’ha colpita con un teaser per sedare la rissa in cortile. Io non sono d’accordo con questi metodi così rozzi, ma la mia parola vale ben poco contro il Capo delle guardie. Se posso darle un consiglio, signor Bagwell, cerchi di non farsi già dei nemici pericolosi a Fox River. Se la memoria non m’inganna, ha due ergastoli da scontare qui dentro”.

La osservo in silenzio uscire dalla cella ed allontanarsi nel corridoio, prima di essere raggiunto dal secondino, che si occupa di liberarmi i polsi dalle manette e di rimettermi subito al mio posto con poche, semplici, parole.

“Togliti dalla testa qualunque strana idea. Ti conviene stare lontano dalla dottoressa Tancredi. È la figlia del governatore, e sono sicuro che se dovesse accaderle qualcosa, sarebbe in grado di trasformare una condanna a due ergastoli in una condanna alla sedia elettrica, se capisci cosa intendo”

“Capisco perfettamente” commento, massaggiandomi i polsi “per quale motivo la figlia del governatore dell’Illinois ha deciso di lavorare all’interno di un carcere?”.

La mia domanda non ottiene alcuna risposta, ad eccezione del rumore della porta blindata che viene chiusa con forza; mi ritrovo, così, nuovamente avvolto dall’oscurità più assoluta, ma passa poco tempo, forse mezz’ora, prima che qualcuno attiri la mia attenzione dall’esterno della cella.

Mi avvicino allo spioncino che serve per far passare il vassoio con il pranzo o la cena, ed incontro subito lo sguardo del muso nero con cui ho avuto un’accesa discussione, anche lui costretto a comunicare attraverso una piccola apertura.

“Quando ci faranno uscire da questo posto, faresti meglio a stare lontano da me e dal resto del mio gruppo se ci tieni almeno un po’ alla tua pelle. Non ci potranno sempre essere le guardie pronte ad intervenire per salvarti il culo”

“Credimi, non ho bisogno delle guardie per guardarmi alle spalle. Ti consiglio di fare lo stesso, perché la nostra discussione è solo rinviata ad un altro momento. Dimmi giorno e ora, ed io sono pronto ad affrontare te ed il tuo branco di scimmioni urlanti” lo provoco ancora una volta, e piego le labbra in un ghigno quando lo sento dare un pugno al metallo della porta.

“L’hai voluta tu, amico, io ti ho dato la possibilità di rimangiare quello che hai detto. Goditi gli ultimi giorni che ti restano, perché hai appena firmato la tua condanna”.
 

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Capitolo 32
*** Fox River's Lion ***


“Ho sentito che hai apertamente sfidato C-Note ed il suo gruppo”.

Giro il viso in direzione della persona che mi ha appena rivolto la parola e vedo un detenuto prendere posto affianco a me, sulla tribuna in cui sono seduto da quando è iniziata l’ora all’aria aperta: si tratta di un ragazzo appena al di sotto dei trent’anni, con i capelli castani e gli occhi chiari.

Lo degno appena di un’occhiata, prima di tornare a concentrarmi sulla parte del cortile che appartiene al partito afroamericano di Fox River.

“A quanto pare, le notizie volano di bocca in bocca qui dentro” commento poi, piegando le labbra in un mezzo sorriso “ma lo capisco. Le giornate all’interno di un carcere possono essere molto noiose, quindi quando accadono eventi simili è normale che la voce si sparga in un attimo. Soprattutto quando il novellino di turno decide di sfidare un branco di musi neri”

“Non sembri molto preoccupato”

“Non lo sono affatto. Quando mi hanno rinchiuso a Donaldson, mi sono ritrovato quasi subito in mezzo ad un regolamento di conti che ha coinvolto l’intero Braccio E, ovvero la zona in cui si trovava la mia cella. Ero da poco entrato a far parte di un gruppo di detenuti, ed il Capo mi aveva comunicato che dovevo affrontare una… Chiamiamola prova di coraggio… Per diventare a mia volta un membro effettivo del branco. E la prova consisteva nell’uccidere un muso nero e prendere un piccolo souvenir che dimostrasse che ce l’avevo fatta e che non mi ero tirato indietro. Nel gruppo c’era un detenuto, Luke, che non sopportava la mia preferenza, dato che ero il favorito del Capo, e sai che cosa ha fatto?” domando, ritornando a fissare il ragazzo dagli occhi chiari, che per tutto il tempo ha ascoltato il mio discorso in silenzio, senza perdere una sola parola.

“No, che cosa ha fatto?”

“È andato da uno dei musi neri e gli ha spifferato ogni singola cosa, per mettermi in difficoltà. Così il mio avversario ha avuto il tempo necessario per procurarsi un’arma efficace per eliminarmi, mentre io sono riuscito a rimediare un semplice punteruolo”

“E come è andata a finire?”

“Secondo te?” commento, in tono sarcastico, appoggiandomi alla panca alle mie spalle “credo che la risposta sia davanti ai tuoi occhi in modo molto chiaro ed evidente. Ho ucciso quella scimmia con le mie stesse mani e le ho cavato un occhio, con un coccio di vetro, come piccolo souvenir. Poi, ho riservato un trattamento simile anche a Luke. Due piccioni con una fava. E questo è accaduto quando avevo vent’anni, ecco perché non sono preoccupato di affrontare C-Note ed il suo gruppo”

“Ma in quel caso era un tutti contro tutti, in questo sei tu contro un gruppo di sei persone”

“Ed è proprio in momenti come questo che una persona deve dimostrare di avere sempre un asso nella manica, mio giovane amico” rispondo, prima di alzarmi dalla panca.

Mi avvicino ad un gruppo di uomini radunati attorno ad uno dei tanti tavolini che ci sono nel cortile, ed alcuni di loro mi raggiungono subito, per evitarmi di fare un solo passo in più verso il loro Capo, impegnato a giocare a carte; alzo entrambe le mani, dimostrando così che le mie intenzioni non sono ostili e che non ho nessun’arma con me.

“Gira al largo da questo tavolo” mi ammonisce uno di loro, dandomi una spinta per rimarcare il concetto appena espresso.

“Vengo in pace, fratello, chiedo solo umilmente di scambiare qualche parola con il tuo Capo. Non voglio nessun tipo di problema”

“Io non sono tuo fratello. Vattene”

“Aspetta, Fiorello, voglio sentire quello che il nuovo arrivato ha da dire” lo interrompe proprio l’uomo con cui voglio parlare, spostando l’attenzione dalle carte che ha in mano a me “perquisiscilo. Non prendertela, ragazzo, semplicemente non ci tengo ad avere brutte sorprese”

“Nessun problema, lo capisco, ma come ho già detto, le mie intenzioni non sono affatto ostili” mormoro, senza oppormi alla perquisizione, e quando l’esito è positivo vengo invitato a prendere posto affianco all’uomo; quest’ultimo mi mostra le carte che ha in mano, chiedendomi se mi piace il poker.

“Non lo dico per vantarmi, ma sono piuttosto bravo in questo gioco”.

A questo punto lui appoggia le carte sopra al tavolino ed infila la mano sinistra in una tasca dei pantaloni, tirando fuori una piccola fotografia che lo ritrae in compagnia di una giovane donna e di due bambini, un maschio ed una femmina, che hanno ereditato i suoi stessi occhi di un azzurro quasi glaciale.

“Questa è mia moglie, Sylvia, mentre questi sono i miei figli, Luca e Nicole” mi spiega, indicandomeli con l’indice destro, ed io mi limito ad annuire “non sono meravigliosi?”

“Ohh, si… Si… Io non  ho figli, ma tra poco nascerà il mio primo nipote e quindi…”.

Non riesco a terminare la frase perché mi ritrovo con la testa premuta con forza contro la superficie del tavolino, e con la lama di un pugnale a poca distanza dai miei occhi, conficcata nel legno.

“Si, lo so, sono meravigliosi e sono anche la cosa più preziosa che ho al mondo” sussurra John Abruzzi, avvicinandosi al mio orecchio destro “e come ogni padre, tutto ciò che voglio è il loro bene e sono pronto a fare qualunque cosa per proteggerli, anche a sacrificare la mia stessa vita. Quando sei un criminale ti abitui a molti spettacoli raccapriccianti, che la gente normale non può nemmeno immaginare, ma, allo stesso tempo, ci sono cose che nessuno può sopportare. Ed io non ho mai sopportato quegli animali schifosi che si approfittano dei ragazzini per soddisfare le loro fantasie perverse. Perché solo un animale può rapire ragazzine e ragazzini, torturarli, ucciderli, violentarli, farli a pezzi e nasconderli sotto le assi del pavimento di un vecchio fienile. Avevo trentasette anni quando, per la prima volta, ho sentito parlare di quello che i giornali avevano ribattezzato come ‘Il Mostro Dell’Alabama’ ma ricordo ancora molto bene gli articoli che ho letto e le foto che ho visto. E ricordo anche molto bene la foto che ritraeva il colpevole. Ed ero rimasto sorpreso di vedere come fosse un ragazzo giovane, una persona completamente diversa da quella che chiunque aveva immaginato nella propria mente. E… Se non sbaglio… In uno dei numerosi articoli c’era scritto che tutte le vittime avevano dei tratti fisici in comune come gli occhi azzurri ed i capelli biondi. Anni dopo, quando sono nati i miei figli, mi sono reso conto che anche loro avevano tutte le caratteristiche per essere delle possibili vittime, ed ho pensato proprio questo. I miei bambini, il bene più prezioso che avevo al mondo, potevano incontrare per caso quell’individuo, che era riuscito a scappare durante il suo trasferimento a Fox River, essere rapiti, uccisi, violati e fatti a pezzi da lui, in chissà quale altro fienile abbandonato. Quindi, Theodore Bagwell, dammi un valido motivo per non conficcare la lama di questo pugnale nella tua scatola cranica entro tre secondi”

“Perché sono venuto ad offrirti una proposta vantaggiosa per entrambi”

“Se pensi davvero che io sia intenzionato a mettermi in affari con un lurido finocchio e pedofilo come te, allora non hai ben afferrato il concetto di quello che ti ho appena spiegato”

“Quindi non t’interessa fare un po’ di pulizia tra il partito afroamericano, consolidando il tuo potere nella gerarchia di Fox River?” tento, allora, in un ultimo disperato tentativo per non ritrovarmi con un pugnale ricoperto della mia stessa materia cerebrale.

Ed, a quanto pare, la mia mossa si rivela essere quella giusta, perché la lama resta sospesa a mezz’aria, ancora stretta saldamente nella mano destra di Abruzzi.

Sta seriamente prendendo in considerazione le mie parole, ma ciò non vale anche per i suoi uomini, che lo esortano a terminare il lavoro.

“John, che cosa stai aspettando? Spaccagli il cranio” insiste Fiorello, lo stesso detenuto che mi aveva bloccato qualche istante prima.

“No, allontanatevi, prima di decidere che cosa fare, voglio ascoltare le sue parole” risponde John, ordinando al resto del suo gruppo di lasciarci da soli; la presa attorno ad una ciocca dei miei capelli viene allentata prima di sparire del tutto, e vengo trascinato all’interno di uno dei capannoni che ci sono nel cortile, come ulteriore garanzia per non avere attorno orecchie indiscrete.

Abruzzi mi spinge dentro in modo poco amichevole, chiude la porta e poi si appoggia con la schiena ad essa, incrociando le braccia, rendendomi inaccessibile l’unica via di fuga a mia disposizione.

“Hai preso la decisione più saggia, John” dico, lisciando una piega che si è creata nella stoffa della mia maglietta “non te ne pentirai, hai la mia parola”

“In verità, ti ho portato dentro questo capannone per non sporcare il tavolino di sangue e materia cerebrale” ribatte lui, accarezzando la lama del pugnale con il pollice sinistro; non ho neppure il tempo di controbattere, per illustrargli il progetto che voglio condividere con lui, che mi ritrovo nuovamente bloccato contro la superficie liscia di un tavolo da lavoro, con una mano premuta contro la mia gola, che mi permette appena di respirare “di conseguenza, questo significa che hai ancora pochi secondi a tua disposizione per raccontarmi la tua offerta vantaggiosa, altrimenti questo pugnale finirà davvero nella tua scatola cranica prima di farti a pezzi”

“D’accordo, d’accordo, lo ammetto!” esclamo, con un filo di voce, alzando entrambe le mani in segno di resa “ammetto di avere un passato piuttosto burrascoso che potrebbe irritare la maggior parte dei detenuti che sono rinchiusi in questo Braccio, ma, perdona l’appellativo che ti sto per rivolgere, saresti uno stupido a non accettare ciò che ti sto per offrire… Sai, John, anche se sono qui da pochi giorni non ho potuto non notare quanto i musi neri siano in netto vantaggio rispetto a noi. E scommetto che anche loro hanno preso coscienza di questo piccolo particolare e pensano di essere i veri padroni di Fox River, ma…”.

Le parole che stanno per uscire dalla mia bocca si trasformano rapidamente in un rantolo quando una ginocchiata mi colpisce all’altezza dello stomaco, togliendomi il respiro; la stretta attorno alla mia gola si fa più serrata e devo pensare in fretta per trovare un modo per uscire dalla spiacevole situazione in cui mi sono infilato da solo.

“Ultimo avvertimento: o mi esponi la tua offerta vantaggiosa o ti scuoio con le mie stesse mani. Non ti ho trascinato qui dentro per ascoltare le tue cazzate prive di senso, Bagwell”

“Quando sono arrivato a Fox River ho avuto un’accesa discussione con un gruppo di musi neri, che è rapidamente degenerata in uno scontro fisico. Io e il Capo del gruppo ci siamo guadagnati una settimana in villeggiatura nel Resort ‘cella d’isolamento’ e là abbiamo continuato a scambiarci i  nostri personali punti di vista sull’integrazione della razza nera. E dal momento che non siamo riusciti a trovare un punto in comune, abbiamo deciso di fissare un’allegra riunione con tanto di the e pasticcini in uno di questi…”.

Un altro calcio si abbatte contro il mio ventre, ed io devo lottare per non vomitare il contenuto del mio stomaco contro John Abruzzi.

“Voi gente del sud siete terribilmente irritanti. Te lo avevo detto che avevi una sola possibilità, e tu l’hai appena sprecata a blaterare parole prive di senso”

“Ti sto solo chiedendo di aiutarmi a tagliare la gola a quel branco di scimmie selvagge” grido, impedendo così alla lama del pugnale di abbattersi ripetutamente contro il mio petto “anche se sono qui dentro da pochissimo tempo ho già capito che tutto ruota attorno a te, John, ma come spesso succede il potere di un Capo è sempre messo a dura prova e deve essere periodicamente riconfermato tramite una dimostrazione tanto efficace quanto cruda e violenta. Loro sono in sei. Tu, io ed i tuoi uomini li battiamo di gran lunga in fatto di superiorità numerica. Sarà un gioco da ragazzi: tutti continueranno a vederti come il… Come il leone di Fox River, ed il partito afroamericano si ritroverà con qualche testa in meno”

“E perché dovrei farlo? Che cosa ci guadagnerei?”

“Ciò che ti ho appena detto: farai un po’ di pulizie di primavera”

“No, no, no… Non intendevo questo. Che cosa ci guadagnerei da te? Che cosa mi offri in cambio del mio aiuto? Dopotutto mi stai chiedendo questo perché non sei riuscito a tenere a bada quella lingua biforcuta che ti ritrovi, e sei finito nella merda fino al collo”

“Io posso essere utile in molti modi”

“Elencamene uno” insiste, allora, Abruzzi, continuando a percorrere il contorno del mio viso con la punta dell’arma bianca.

“Posso essere i tuoi occhi e le tue orecchie”

“Interessante, ma ho già i miei uomini che svolgono questo compito per me”

“Si, ma con me avresti un vantaggio in più. Prova a pensarci, John: scommetto che tutti a Fox River sanno chi sono i tuoi uomini, e di conseguenza fanno attenzione a tenere la bocca chiusa quando loro sono nei paraggi per non lasciarsi scappare qualche parola di troppo. Ma se avessi io questo compito, la faccenda sarebbe completamente diversa, dal momento che mi disprezzi. Chi mai penserebbe ad un accordo tra due persone così diverse, che hanno ben poco in comune?”.

Aspetto in silenzio una risposta, con la speranza che sia affermativa, e quando sento la lama fredda del pugnale allontanarsi dal mio viso, non riesco a trattenere un sospiro di sollievo ed un sorriso soddisfatto.



 
Sto ancora sorridendo quando, finalmente, entro in quella che è la mia nuova cella; sollevo entrambe le sopracciglia, sorpreso, non appena mi rendo conto che il mio ‘coinquilino’ è lo stesso ragazzo che mi ha rivolto la parola in cortile.

“Guarda, guarda…” commento, appoggiandomi con la schiena ad un parete “e così sei tu il mio compagno di cella”

“Si” risponde lui, senza staccare gli occhi dal foglio su cui sta scrivendo qualcosa “e se devo essere sincero, credevo che non ti avrei più rivisto camminare sulle tue stesse gambe. Come hai fatto ad uscire vivo da quel capannone?”

“Te lo avevo detto che ho sempre un asso nella manica. Ho semplicemente usato questa” dico, picchiettando l’indice destro contro la mia fronte; mi lascio cadere sul materasso della brandina inferiore, chiudo gli occhi e poi riprendo a spiegare “ho semplicemente esposto ad Abruzzi un’offerta vantaggiosa per entrambi. Gli ho proposto di aiutarmi a fare un po’ di pulizia nel partito afroamericano di Fox River, ed in cambio io sarò i suoi occhi e le sue orecchie”

“Tu non stai raccontando la verità. O lo stai facendo solo in parte”

“E cosa te lo fa credere?”.

Sento le molle dell’altra brandina cigolare, e quando apro gli occhi il mio compagno di cella è seduto sul bordo del mio materasso.

“La tua espressione, e, se posso darti un consiglio, faresti meglio a non metterti contro una persona come Abruzzi”

“Non ti preoccupare, mio giovane amico, ben presto né lui né C-Note saranno più un problema”

“Che cosa hai intenzione di fare?”

“Ohh, non così in fretta” rispondo, con un sorriso “mi hai preso per uno sprovveduto? Ti dirò quali sono le mie vere intenzioni solo quando avrò la prova che non sei una spia che lavora per lo stesso Abruzzi. O per uno di quei musi neri. Dopotutto, esistono ancora quegli strani animali dalle idee un po’ confuse riguardo alla propria carnagione. Se vuoi sapere il resto del mio piano, devi procurarmi tre semplici cose: un’arma molto tagliente, una matita ed un foglio di carta”.

La mia richiesta deve risultargli bizzarra, perché mi osserva con un’espressione confusa.

“Perché hai bisogno di una matita e di un foglio di carta?”

“Perché devo scrivere una lettera ad una persona” mormoro, rivolgendo lo sguardo altrove.

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Capitolo 33
*** Screwed ***


Contro ogni mia previsione, il mio giovane compagno di cella mi procura in pochissimo tempo ciò che gli ho chiesto: un’arma, una matita ed un foglio di carta.

Prendo in mano il cacciavite dall’estremità piuttosto affilata e l’osservo in silenzio; l’espressione che ho in viso deve apparire strana al mio inaspettato alleato, perché mi chiede subito se c’è qualcosa che non va.

“Ho sbagliato?”

“No, semplicemente mi è tornato in mente un ricordo che credevo di avere rimosso” mormoro, passando l’oggetto da una mano all’altra “quando ero rinchiuso a Donaldson, avevo chiesto al mio compagno di cella di procurarmi un’arma piuttosto affilata per uccidere il mio ex Capo, perché ormai era diventato troppo scomodo ed ingombrante, e lui mi aveva procurato un cacciavite, proprio come questo… Perché aveva letto nei giornali che era un’arma che prediligevo”

“Dov’è ora?”

“Ohh, lui non c’è più. Quando siamo scappati, durante il nostro trasferimento a Fox River, si è beccato una pallottola al posto mio e non c’è stato nulla da fare”

“Era tuo amico?”

“Era il mio unico amico, ad eccezione di mio cugino James” commento, mordendomi la punta della lingua “non ti ho ancora ringraziato… Cavolo, mi sono appena reso conto che non conosco il tuo nome”

“Jason”

“Jason. D’accordo. Ti ringrazio, Jason. Adesso, se non ti dispiace, ho molto a cui pensare”.

Nascondo il cacciavite sotto il cuscino della mia brandina, appoggio il foglio sulle mie gambe ed inizio a giocherellare con la matita, mentre penso alle parole giuste con cui iniziare la lettera.

Susan occupa costantemente i miei pensieri, in ogni momento di ogni singolo giorno; ed anche se non mi vuole più vedere, anche se mi ha puntato contro una pistola e mi ha cacciato da casa sua dopo aver chiamato le autorità, io sono ancora innamorato di lei, e come ogni uomo innamorato che ha commesso un’enorme cazzata, voglio riconquistare la sua fiducia.

Anche se ho detto al mio compagno di cella di lasciarmi in pace, lui sembra essere di parere completamente opposto al mio, perché continua a lanciarmi diverse occhiate prima di rivolgermi ancora la parola sottoforma di una domanda curiosa.

“Quindi… L’arma che ti ho procurato ha soddisfatto le tue aspettative?”

“Sì” rispondo in modo distratto, scrivendo qualche riga.

“Allora, questo significa che mi devi raccontare la seconda parte del tuo piano”

“In questo momento sono molto impegnato”

“Sì, ma…”

“Jason, sembri un ragazzo molto simpatico, dico davvero. Ma oggi non sono dell’umore adatto per parlare”

“Come vuoi tu”.

Jason si limita a fare un cenno con la mano destra ed io riprendo a scrivere, ritrovandomi ben presto a cancellare righe su righe di parole che appaiono ai miei occhi come inutili e patetiche; dopo l’ennesimo tentativo decido di arrendermi, almeno per il momento, ed appoggio la testa alla parete alle mie spalle, chiudendo gli occhi per qualche minuto, godendomi il silenzio quasi assoluto, perché la maggior parte dei detenuti è ancora profondamente addormentata.

Quando sollevo le palpebre osservo a mia volta il mio compagno di cella, proprio come lui ha fatto con me fino a poco fa, e solo ora mi accorgo che ha un viso e dei lineamenti carini.

“A Donaldson ho impiegato anni per farmi un nome” spiego, dopo essermi schiarito la gola, decidendo così di accontentare la sua richiesta “per sei anni sono stato succube di un detenuto che si faceva chiamare Wolf, il mio ex Capo, e per tutto quel tempo ho osservato e studiato il modo in cui si comportava, per riuscire a capire che cosa dovevo fare per raggiungere la sua stessa posizione o, addirittura, una più elevata. Così, quando mi hanno arrestato per la terza volta, sapevo esattamente che cosa dovevo fare: l’ho attirato in una trappola, l’ho ucciso ed ho iniziato a consolidare il mio potere facendo un po’ di pulizia nel suo gruppo; quelli che hanno voluto unirsi al mio sono stati accolti a braccia aperte, quelli che si sono rifiutati, hanno condiviso la stessa fine del loro adorato Leader. Wolf era in cima alla gerarchia di Donaldson, aveva più potere dei secondini, di conseguenza quando l’ho eliminato sono spuntati altri candidati molto interessati a ricoprire il suo ruolo, così ho impiegato molto tempo per ucciderli tutti insieme ai loro fedelissimi. E non sono intenzionato a fare una seconda volta questo percorso”

“E come vuoi accelerare i tempi?”

“Organizzando subito la trappola, proprio come ho fatto con Wolf. Sfrutterò il regolamento di conti con C-Note ed i suoi uomini come una banale copertura. Il mio vero obiettivo è un altro” mormoro; mi alzo dal materasso, mi avvicino alle sbarre e indico con un cenno della testa la cella di Abruzzi, situata dall’altra parte del corridoio.

Jason capisce finalmente le mie vere intenzioni e spalanca gli occhi azzurri.

“Vuoi uccidere Abruzzi?”

“È esattamente quello che voglio fare”

“Ma non puoi farlo, non ci riuscirai mai! È un suicidio!”.

Il mio compagno di cella è visibilmente preoccupato a differenza di me, perché ripongo la più totale fiducia nel piano che ho progettato e nella sua riuscita.

“Perché dovrebbe essere un suicidio? Ci sono tutti i presupposti perché io riesca nel mio intento con successo. Stiamo parlando di un regolamento di conti, mio giovane amico, nessuno osserverà quello che accadrà attorno a lui, compresi i suoi uomini. Tutti saranno impegnati a cercare di uccidere il numero maggiore di avversari. Sarà un gioco da ragazzi attaccare Abruzzi alle spalle e tagliargli la gola con quel cacciavite… Quando gli altri se ne accorgeranno, ormai sarà troppo tardi e sarà impossibile stabilire chi è il vero colpevole… A quel punto inizierà la mia… Ascesa a Fox River”

“Non capisco se sei un pazzo, un megalomane o entrambe le cose. Abruzzi non è uno stupido, anzi, è una persona estremamente pericolosa”

“Proprio per questo motivo voglio sfruttare l’effetto sorpresa. Non essere così scettico, oggi pomeriggio avrai la prova concreta che le mie non sono le parole di un pazzo… Se fossi in te, inizierei già a pensare da quale parte schierarti” rispondo, con un sorriso, senza mai staccare gli occhi dalla cella di John.



 
Quando arriva il momento prestabilito, che coincide con l’inizio della nostra ora all’aria aperta, il mio compagno di cella fa un ultimo tentativo per convincermi a cambiare idea: prende posto a mio fianco su una delle tante tribune e mi sussurra poche parole all’orecchio destro.

“Sei ancora in tempo per cambiare idea. Se adesso vai dentro quel capanno, dubito che ne uscirai vivo”

“Dovresti riporre più fiducia nei miei confronti. Vuoi fare una scommessa?” gli domando con un sorriso “a meno che tu non abbia paura di perdere contro di me. Facciamo così: se io sarò il primo ad uscire da quel capanno, sulle mie gambe, potrò chiederti tutto quello che voglio. Se saranno Abruzzi, C-Note ed i loro uomini ad uscire per primi, potrai fare lo stesso con me. D’accordo?”.

Allungo la mano destra e Jason la stringe, dopo un attimo di esitazione, accettando così la mia scommessa.

“A questo punto, mi auguro che sia tu il vincitore della scommessa, perché se usciranno loro per primi dal capannone non so che cosa potrei chiedere al tuo cadavere”

“Sei davvero divertente, Jason” dico, scoppiando a ridere ed alzandomi dalla panca “davvero, davvero molto divertente. Mi piace il tuo senso dell’umorismo”.

Raggiungo uno dei capannoni, ma non appena entro, chiudendo la porta alle mie spalle, noto subito che qualcosa non va: non ci sono solo Abruzzi ed i suoi uomini ad aspettarmi, come prevedeva il piano originale, ma ci sono anche C-Note ed il suo branco di scimmioni; fiuto subito il pericolo e provo a retrocedere di qualche passo, in direzione della porta, ma le parole di John mi bloccano.

“Theodore, sei appena arrivato e vuoi già andartene dal piccolo party che abbiamo organizzato per te? È scortese fare una cosa simile da parte del festeggiato, soprattutto dal momento che abbiamo molto di cui parlare”

“Non provate a fare un solo passo” minaccio tutti i presenti, tirando fuori il cacciavite da una tasca dei pantaloni, e così facendo provoco una risata divertita in John.
“Che cosa credi di fare con quel cacciavite? Non credo che tu l’abbia notato, ma sei in netto svantaggio numerico rispetto a noi”

“Ohh, ma io non sono intenzionato a colpire uno di voi” rispondo, sorridendo a mia volta, e punto l’estremità dell’arma bianca contro la mia stessa gola “se solo uno di voi prova ad avvicinarsi a me, non solo mi pugnalerò con questo cacciavite, ma inizierò ad urlare così forte che mi sentirà ogni singola persona che si trova a Fox River in questo momento, e tutti voi sarete fottuti. Quindi, prima di fare una grandissima cazzata che vi porterà solo ad avere un aumento smodato della vostra pena, mi lascerete raggiungere la porta ed uscire da questo capannone senza muovere un solo muscolo, d’accordo?”

“E come pensi di uscire?”.

Un movimento alle mie spalle mi fa voltare di scatto e mi rendo conto che, mentre parlavo, uno dei musi neri si è avvicinato alla porta e si è appoggiato ad essa, bloccandomi l’unica via di fuga.

Pago a caro prezzo l’attimo di distrazione, perché due uomini di Abruzzi riescono a disarmarmi ed a trascinarmi dal loro Capo, ma non prima di avermi assestato un pugno allo stomaco così violento che mi ritrovo senza fiato.

“Credevo avessimo un accordo” mormoro, quando riesco a riprendere l’uso della parola.

“Si, è vero, ma poi ho riflettuto su un particolare che fino a quel momento mi era sfuggito” mi spiega John, avvicinandosi di qualche passo “non mi sembrava giusto scendere ad accordi con una frazione senza aver ascoltato prima la versione dell’altra. Così io e Benjamin abbiamo avuto una lunga discussione, ed abbiamo scoperto di condividere diversi punti in comune, molti più di quelli che condivido con te. Sai, anche lui ha una moglie ed una figlia, e proprio come me non riesce a sopportare certe azioni che compiono le persone come te, Theodore. Ricordi che cosa ti ho detto qualche giorno fa? Quando sei padre, la felicità dei tuoi figli è la tua priorità principale, e nessun padre riesce a stare tranquillo sapendo che c’è un mostro che può fare delle cose orribili ed indescrivibili alle loro creature, capisci? Sì, è vero, la tua proposta di essere i miei occhi e le mie orecchie era molto vantaggiosa, ed ammetto di essere stato tentato di accettarla, ma, vedi, per me la famiglia viene prima di qualunque altra cosa, quindi…”.

Termina la frase colpendomi con un pugno, sempre all’altezza dello stomaco, e questa volta non ho il tempo di riprendermi perché C-Note rincara la dose; provo a divincolarmi dalla presa per scappare, ma ottengo solo di essere afferrato con forza per i capelli, tanto che non riesco a reprimere un urlo di dolore.

I calci ed i pugni sono solo l’inizio, e la parte meno dolorosa del trattamento che John e Benjamin hanno deciso di riservarmi: quando si stancano di usarmi come sacco da box, il padrone della mafia di Chicago si fa passare da uno dei suoi fedelissimi un pugnale affilato; si avvicina nuovamente a me e fa ondeggiare lentamente la lama davanti ai miei occhi.

So quello che sta per fare, così provo a fargli cambiare idea.

“Abruzzi, ti prego, il mio aiuto può esserti prezioso… Se mi lasciate andare ora, giuro che non farò il nome di nessuno dei presenti e dimenticherò questa storia. Possiamo ancora archiviarla come un piccolo incidente, che ne dite?”

“Quante sono state le tue vittime?” mi domanda John, ignorando la mia supplica “quelle accertate. Quelle che la polizia ha trovato sotto le assi di quel fienile. Quante erano? Ricordamelo, Theodore, ho un improvviso vuoto di memoria”

“Posso ancora essere i tuoi occhi e le tue orecchie”

“Quante erano?” ripete lui, urlando.

“Sei” rispondo, allora, a denti stretti “erano sei quelle accertate. Il resto non ricordo dove l’ho seppellito”.

Pago a caro prezzo anche la mia risposta sprezzante, perché nello stesso momento in cui termino la frase, ricevo sei pugnalate al ventre, così rapide e veloci che il dolore esplode solo dopo l’ultima, in contemporanea al colore cremisi che assume la maglietta bianca che indosso; la presa sparisce completamente dalle mie braccia e cado a terra.

Cerco di premere i palmi delle mani sulle ferite, in modo da bloccare l’emorragia, ma come unico risultato ottengo di ritrovarmi anche quelli completamente impregnati del mio stesso sangue; la testa inizia a girarmi a causa dell’odore ferroso e nauseante, ed il dolore che provo è così forte ed indescrivibile che non riesco a muovere un solo muscolo, non riesco neppure a versare una sola lacrima od a gridare, per chiedere aiuto a qualcuno.

L’ultima cosa che vedo, prima di perdere conoscenza, è il volto di John Abruzzi, seguito da una frase che pronuncia a bassa voce, in cui concentra tutto il disgusto che prova per me.

“Allora, Theodore? Come ci si sente ad essere al posto delle proprie vittime?”.



 
Il risveglio, se possibile, è ancora più doloroso dell’aggressione e dell’accoltellamento stesso perché sono costretto ad affrontare tutte le conseguenze fisiche, ma è reso in parte sopportabile da ciò che vedo: appena giro il viso verso destra, i miei occhi si posano sulla dottoressa Tancredi, in piedi a poca distanza dal mio lettino.

La luce, che entra da una delle finestre, illumina e risalta il colore ramato dei suoi capelli, che le scendono fino a metà schiena, ed il profilo del collo sottile ed elegante.
“Glielo avevo detto che avremo avuto il nostro appuntamento romantico”  dico, riferendomi agli altri lettini vuoti “ma non ha ancora risposto alla mia domanda: preferisce il vino bianco o rosso?”.

Lei si volta di scatto, probabilmente perché non si aspettava di vedermi riaprire gli occhi così presto, abbandona la cartella clinica, che ha in mano, sopra ad un tavolino e mi raggiunge, per chiedermi delucidazioni sulle mie condizioni fisiche; prende posto sul bordo del materasso, senza preoccuparsi della troppa vicinanza per due motivi: ho il polso sinistro ammanettato al lettino e sto così male che non sono intenzionato a fare il più piccolo movimento, figuriamoci aggredire una dottoressa ed ottenere un ulteriore pestaggio da parte delle guardie che vigilano appena fuori dall’infermeria, per evitare incidenti simili.

“Come sta?”

“Vorrei dire che sono stato peggio, ma in realtà non ricordo di avere avuto un risveglio più orribile di questo. Ad eccezione di lei, ovviamente. È l’unica cosa di piacevole che ho visto da quando ho sollevato le palpebre, e mi aiuta notevolmente a sopportare il dolore che sento” rispondo, con un filo di voce, ed anche il semplice atto di deglutire mi provoca delle fitte insopportabili alla gola “dottoressa Tancredi, le posso fare una semplice domanda? Non ho potuto non notare la gentilezza che ha avuto nei miei confronti mentre ero rinchiuso nella cella d’isolamento, ed anche in questo momento sta facendo lo stesso. Addirittura si rivolge a me dandomi del ‘lei’. Perché lo fa?”

“Io sono un medico, ed il mio compito è curare i miei pazienti nel miglior modo possibile. Se dovessi concentrarmi sulle loro storie personali che li hanno condotti a Fox River, signor Bagwell, dovrei iniettarle della stricnina per via endovenosa e osservarla contorcersi, urlare e vomitare schiuma bianca negli ultimi spasmi di vita, non crede?”

“Ecco, questa è un’altra qualità che apprezzo nelle donne. La sincerità. Lei, dottoressa Tancredi, è una persona sincera e l’ho capito guardandola negli occhi, mentre mi dava la sua risposta. A quanto pare, racchiude molte caratteristiche della donna ideale”.

A questo punto non riesce più a trattenersi e rivolge per qualche istante gli occhi al soffitto, esasperata, prima di ignorare il mio complimento e pormi una domanda seria, esattamente come la sua espressione.

“Che cosa è successo dentro quel capanno?”

“Non è successo nulla”

“Signor Bagwell, è stato picchiato selvaggiamente ed ha ricevuto sei pugnalate allo stomaco. Dubito davvero che non sia successo nulla dentro quel capanno. Deve dirmi chi è stato a ridurla in queste condizioni, solo così potrò andare a parlare con il direttore Pope per prendere i giusti provvedimenti nei confronti dei responsabili”

“Sara” dico, allora, tornando a fissarla negli occhi “se c’è una cosa che ho imparato durante gli anni che ho trascorso a Donaldson, è che le spie fanno sempre una brutta fine in carcere. Non posso fare nomi, cerchi di capirmi”.



 
Impiego un intero mese per riprendermi dalle conseguenze del pestaggio e delle sei pugnalate che ho ricevuto da Abruzzi, e quando ritorno nel Braccio A faccio ancora fatica a camminare ed a compiere altri semplici movimenti.

Il mio compagno di cella è sorpreso di vedermi, e lo dimostrano i suoi occhi azzurri che si spalancano nello stesso momento in cui si posano sul mio viso, mentre la porta scorrevole si chiude in automatico alle mie spalle; scende dalla brandina superiore e si avvicina per osservarmi meglio.

“Non so se dovrei dirtelo, ma la maggior parte dei detenuti aveva scommesso che non saresti uscito vivo dall’infermeria” commenta poi, con un’espressione indecifrabile: un misto tra il serio ed il divertito.

“Non faccio fatica a crederlo. Ma come ti ho già ripetuto diverse volte, so essere un uomo pieno di sorprese, soprattutto quando le previsioni mi danno per sfavorito” mormoro in risposta, avvicinandomi alle sbarre, vago per un po’ con lo sguardo, finché non incontro quello di Abruzzi “in questo modo, certe persone capiscono che non è semplice liberarsi di me”

“Hai conosciuto la dottoressa Tancredi?”

“Ohh, si, l’ho conosciuta. Un bocconcino prelibato, anche se un po’ troppo freddo. Scommetto che è una di quelle ragazze che girano per strada con la camicia sempre abbottonata, ma tra le mura di una camera da letto diventano degli animali del sesso e sanno fare magie con le mani e la bocca che non hai mai provato in vita tua fino a quel momento… E poi, ha degli occhi meravigliosi”

“Sapevi che ha un passato da tossicodipendente?”

“Davvero?” domando, voltandomi a fissare Jason, e lui annuisce.

“Si, è stato Bellick a proporle questo lavoro. Si sono conosciuti mentre erano ricoverati nello stesso Centro di disintossicazione”

“Anche Bellick faceva uso di sostanze stupefacenti? Davvero? Avrei detto che fosse un alcolista” commento, sempre più sorpreso dalle rivelazioni di Jason sul conto della bellissima dottoressa e sul Capo delle guardie di Fox River; il mio compagno di cella annuisce ancora una volta e prosegue, rendendomi partecipe di un altro segreto.

“A quanto pare, in quell’occasione, lui le ha anche chiesto di uscire insieme per una cena a lume di candela, ma è stato rifiutato”

“Qualunque donna con un briciolo di cervello non uscirebbe mai con un maiale come Bellick. Come fai a sapere tutte queste cose?”

“Le notizie circolano in carcere. E più una persona fa di tutto per tenerle nascoste, più passano velocemente di bocca in bocca… Mentre eri in infermeria, Sara ti ha chiesto di fare i nomi delle persone che ti hanno aggredito?”

“Si, ma io non le ho dato una risposta. Non sono uno stupido”

“E cosa vuoi fare per risolvere il ‘piccolo problema’ che hai con Abruzzi e C-Note?”.

Stringo le mani attorno alle sbarre e torno a fissare la cella di John, prima di dare una risposta alla domanda di Jason.

“Non lo so, ci devo ancora pensare”.
 

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Capitolo 34
*** Hierarchy ***


Trascorre quasi un anno, ma alla fine anche io, come la maggior parte dei detenuti, ricevo una visita dall’esterno di Fox River.

“Scusami se non sono venuto prima” si giustifica mio cugino James, con un sorriso imbarazzato, mentre mi siedo dall’altro capo del piccolo tavolo rotondo.

“Non ti preoccupare. Hai una famiglia a cui badare e so benissimo che l’Alabama non si trova proprio dietro l’angolo”

“Allora? Come ti trovi a Fox River?”

“Abbastanza bene” rispondo, con un sorriso, ma le mie parole non convincono Jimmy.

“Abbastanza bene? Che cosa significa abbastanza bene? Qualcuno ti crea problemi?”

“Diciamo che Fox River è molto diversa rispetto a Donaldson. I detenuti hanno un potere molto più limitato e c’è una vera e propria piramide sociale con cui i nuovi arrivati devono fare i conti: puoi arrivare fino ad un certo punto, poi rischi di fare una brutta fine perché ci sono gerarchie che non possono essere rovesciate… In Alabama è stato tutto molto più semplice”

“Teddy, potresti essere più chiaro?”

“Mettiamola su questo piano: al mio arrivo a Fox River ho peccato di presunzione e tutto quello che ho ottenuto è stato un pestaggio a sangue seguito da sei pugnalate allo stomaco”.

Jimmy spalanca gli occhi prima di esplodere, riversandomi addosso una serie infinita di parole cariche di preoccupazione: mi chiede che cosa è successo esattamente, per quale motivo non l’ho avvisato prima e perché non riesco a stare lontano dai guai per un arco di tempo che supera i cinque minuti.

In verità, in parte credo che siano proprio i guai a non riuscire a stare lontani da me.

“Vuoi darmi qualche spiegazione che non sia un messaggio criptato?”

“Ricordi quando, a Donaldson, hai smesso di parlarmi perché ero diventato lo schiavetto sessuale di un detenuto più grande?”

“Si, ricordo”

“Quando mi hanno portato lì per la seconda volta, l’ho ucciso con le mie stesse mani per prendere il suo posto, perché era lui a comandare nel Braccio E. Volevo replicare la stessa cosa, ma in un arco di tempo molto più ristretto. Ho escogitato una trappola che mi si è rivoltata contro e ne sono uscito vivo per un soffio”

“Chi hai provato ad uccidere?”

“John Abruzzi”

“Il Capo della mafia di Chicago?”

“Si, proprio lui”

“Ohh, andiamo Teddy! Davvero pensavi di poter eliminare un individuo potente come lui senza andare incontro a ripercussioni personali?”

“Te l’ho detto: ho commesso l’errore di peccare di presunzione e ho pagato le conseguenze sulla mia pelle. Adesso sto benissimo, Jimmy, te lo posso assicurare. Le cicatrici sono sparite completamente, ormai sono solo un ricordo lontano e spiacevole” provo a rassicurarlo in questo modo, ma James rincara la dose e prova ancora a farmi capire quanto sono andato vicino all’esalare l’ultimo respiro; ormai è chiaro che i ruoli tra noi due si sono invertiti: una volta ero io a ricoprire quello del fratello maggiore, mentre adesso è mio cugino a comportarsi in questo modo con me.

“Teddy, sei a Fox River appena da un anno e ti sei fatto come nemico una delle persone più pericolose che sono rinchiuse qui dentro, se non la più pericolosa, se continui in questo modo non resisterai ancora per molto”

“Ohh, sono contento di sentire quanta fiducia riponi nei miei confronti, Jimmy, è quasi commovente, dico davvero, ma ti consiglio di iniziare a vedere il lato positivo nelle cose e non solo quello negativo. Il piccolo incidente che ho avuto poco dopo il mio arrivo mi ha fatto capire come funziona qui dentro, e come devo comportarmi di conseguenza. Non posso fare nulla per rovesciare John Abruzzi? D’accordo, allora creerò un potere parallelo. Ed è proprio ciò che ho fatto. Benché la maggior parte dei detenuti mi disprezzi per il mio passato burrascoso, sono riuscito a trovare qualcuno con cui condivido le stesse idee, soprattutto in fatto di ‘pulizie di primavera’”.

James si arrende, ed anziché insistere per l’ennesima volta mi passa una piccola busta, senza essere visto dai secondini.

“Aprila”

“Che cos’è?”

“Una piccola sorpresa”.

Mi guardo attorno, per essere sicuro che tutte le guardie presenti nella stanza siano impegnate ad osservare gli altri detenuti, e poi la apro, lasciando scivolare fuori il contenuto, che si posa sulle mie ginocchia: si tratta della foto di un bambino di pochi mesi, profondamente addormentato, con addosso un grazioso completino azzurro; impiego qualche secondo prima di capire il senso della fotografia e quando ciò avviene, non posso che sorridere.

“Lui è…”

“Si, è tuo nipote, sei diventato zio” conferma mio cugino, sorridendo a sua volta, ed io non riesco a staccare gli occhi dall’immagine del piccolo fagottino.

“È un maschietto… Sono diventato zio di un bellissimo maschietto. Non so se te lo hanno già detto, ma somiglia molto sia a te che a Danielle. Come sta la tua compagna?”

“È completamente assorbita dal piccolo James, soprattutto adesso che si sta occupando di organizzare il suo battesimo, e questo è uno dei motivi per cui sono venuto a farti visita… So già quello che dirai, ma vorrei che…”.

Interrompo Jimmy prima che possa terminare la frase, prevedendo in anticipo ciò che sta per dire.

“No, non devi nemmeno chiedermelo”

“Ma non fanno un’eccezione in occasioni come questa?”

“A volte avvengono delle uscite speciali, ma solitamente il permesso viene assegnato in occasioni come il funerale di un parente. Non credo che lo stesso valga per i battesimi, i matrimoni o i compleanni dei propri famigliari… E in ogni caso permettono queste uscite speciali ai detenuti che non sono considerati un pericolo, dubito seriamente di rientrare in questa categoria”

“Puoi chiedere di essere ricevuto dal direttore?”

“Posso chiederlo, ma non ti garantisco nulla” mormoro; mi tolgo il cappello a visiera che indosso e lo appoggio sopra al tavolo “porta questo al piccolo James. Almeno avrà qualcosa di suo zio… Prima che te ne vada, c’è un favore che devo chiederti, Jimmy”

“Di che cosa si tratta?”

“Ecco… Io… Ho mandato diverse lettere a Susan nel corso dell’ultimo anno, ma non ho mai ricevuto risposta. Forse c’è stato qualche disguido postale e non le sono mai arrivate, o forse le ha bruciate nello stesso momento in cui ha capito che le avevo spedite io. Immagino che non voglia avere più nulla a che fare con me ma, forse, se sei tu a parlarle, potrebbe essere più disposta ascoltarti. Posso darti il suo indirizzo e per quanto riguarda le spese del viaggio, cercherò di procurarti tutto il denaro di cui hai bisogno”

“Teddy…” sospira James, dopo che gli ho allungato un foglietto stropicciato su cui ho scritto l’indirizzo della mia ex compagna “se posso darti un consiglio, forse faresti meglio a dimenticarla”

“Non posso farlo, non senza aver fatto almeno un tentativo. Mi prometti che andrai da lei e proverai a spiegarle ogni cosa?”

“Te lo prometto, ma anche nel mio caso non ti garantisco nulla di concreto, Theodore” risponde lui, scuotendo la testa, nello stesso momento in cui una sirena segna la fine del tempo che i detenuti hanno a loro disposizione con i rispettivi parenti e amici; mio cugino si alza, mi abbraccia e mi sussurra qualche parola prima di allontanarsi “abbi cura di te, e cerca di stare lontano dai guai”

“Ci proverò” mormoro a mia volta, con un sorriso, ma non appena esco dalla stanza per far ritorno al Braccio A, i guai si ripresentano di fronte a me sottoforma di Bellick, che mi blocca per rivolgermi qualche pessima battutina.

“Chi era l’uomo con cui stavi parlando, Teddy-Bear?”

“Mio cugino”

“Ahh, questo spiega molte cose” commenta, allora, con una risata sprezzante “sai, io e le altre guardie ci stavamo chiedendo chi potesse essere la mente deviata che aveva deciso di far visita ad un mostro come te. Toglimi una piccola curiosità: è una prerogativa della famiglia Bagwell?”

“Che cosa?”

“Essere affetti da turpe mentali?”.

Sono costretto a chiudere gli occhi per qualche istante, ed a fare appello a tutto il mio autocontrollo, per non aggredire Bellick, sfilargli il coltellino che ha appeso alla cintura e pugnalarlo ripetutamente; quando sollevo le palpebre, riesco perfino a rivolgergli un sorriso prima di rispondergli nel modo adeguato, restituendo, come un boomerang, le provocazioni che ho appena ricevuto.

“Sai, Brad, devo ammettere che la tua ultima domanda mi ha sorpreso molto. Voglio dire… Solitamente gli ex tossici si ritrovano ad avere il cervello completamente bruciato dalla droga, ma questo non è il tuo caso. Non solo conosci il significato della parola ‘turpe’, ma sei in grado d’inserirla correttamente all’interno di una frase. Sei in grado di farne anche lo spelling?”.

Le mie parole ottengono proprio l’effetto che desideravo: il grasso maiale resta senza parole prima di affrontarmi a muso duro, con il volto livido dalla rabbia perché l’ho appena messo in ridicolo davanti agli altri secondini, rivelando un suo scomodo segreto.

“Che cosa hai detto lurido verme?” sussurra, in tono minaccioso, appoggiando la mano destra sul manico del manganello “ti do due secondi di tempo per rimangiare quello che hai detto, o ti spezzo tutti i denti”

“Avanti, Capo, non ne vale la pena”.

L’intervento di uno dei sottoposti di Bellick impedisce alla conversazione di degenerare ulteriormente, e vengo spinto, quasi con violenza, all’interno del Braccio A, dove raggiungo la mia cella.

Jason sta dormendo sulla mia brandina, di conseguenza non si è reso conto che sono tornato nella nostra ‘piccola abitazione’, l’osservo in silenzio e poi allungo un braccio per scuoterlo e svegliarlo.

“Com’era il detto? ‘Quando il gatto non c’è, i topi ballano’? Da quanto tempo tramavi alle mie spalle per prendere possesso della mia brandina?”

“Lo sai che non farei mai nulla di simile” si affretta subito a dire il mio compagno di cella, con voce ancora assonnata: pensa che gli abbia appena rivolto un’accusa, invece la mia era una semplice battuta.

“A quanto pare, ho un sarcasmo così sottile che sono l’unico in grado di coglierlo. Guarda cosa mi ha dato mio cugino” tiro fuori la fotografia da una tasca dei pantaloni per mostrargliela “è mio nipote. Si chiama James, proprio come lui”

“È un bel bambino”

“Sì, è proprio un bel bambino… Che cosa bisogna fare per parlare con il direttore in persona?”

“Questa è un’altra delle tue battute?” mi domanda Jason, con le labbra piegate in un mezzo sorriso, sollevo gli occhi al soffitto della cella e poi mi lascio cadere sul materasso, affianco a lui, per spiegargli che adesso non sto scherzando.

“No, sono serissimo, ho bisogno di parlare con il direttore, l’ho promesso a Jimmy”

“E per quale motivo hai bisogno di parlare con Pope?”

“Tra poco ci sarà il battesimo di mio nipote… James mi ha chiesto se c’è la possibilità di farmi avere un’uscita speciale per essere presente, ed io gli ho detto che avrei provato a fare un tentativo. Allora? Che cosa devo fare? Bisogna compilare un modulo? Fare una richiesta? Come funziona a Fox River?”

“Dovresti chiedere ad un secondino di essere scortato nell’ufficio di Bellick e poi dovresti esporre a lui le tue motivazioni”

“Ahh!” esclamo; mi alzo dalla brandina e mi avvicino alle sbarre di metallo, piegando le labbra in una smorfia “è proprio essenziale parlarne con Bellick? Poco fa ho avuto una piccola discussione con lui, non credo che desideri rivedere la mia faccia così presto… Sai, mi ha minacciato di spezzarmi tutti i denti con il manganello”

“Che cosa gli hai detto per ricevere una minaccia simile?”.

Mi mordo la punta della lingua per prendere tempo, mentre Jason mi rivolge un’occhiata sospettosa, forse perché ha già intuito, in parte, che cosa è successo.

“Quando sono uscito dalla stanza delle visite, Bellick ha fatto una battuta poco piacevole sia su mio cugino sia sul resto della mia famiglia, ed io gli ho restituito il favore dicendogli che ero rimasto sorpreso di scoprire che un ex tossico come lui, anziché avere le cellulare grigie completamente bruciate, conosceva perfettamente il significato della parola ‘turpe’ e sapeva inserirla in modo corretto all’interno di una frase”

“Gli hai detto davvero queste parole?” mi domanda Jason, spalancando gli occhi chiari.

“Sì, parola per parola”

“Tu sei davvero pazzo! Io ti ho raccontato quella storia su Bellick e la dottoressa Tancredi in via confidenziale! Anche se tutti gli abitanti del Braccio A conoscono questa storia, evitano accuratamente di parlarle quando c’è qualche secondino nei paraggi. Adesso sarà solo questione di pochissimo tempo prima che capiscano che sono stato io a raccontartelo”

“La dottoressa!” esclamo, colto da un’idea improvvisa “lei potrebbe fare qualcosa per il mio caso?”

“Intendi per parlare con il direttore? Forse, ma non ti posso assicurare nulla di concreto”.

Mi avvicino nuovamente alle sbarre della cella ed urlo finché non riesco ad attirare l’attenzione di uno dei secondini, a cui chiedo di essere scortato subito in infermeria perché devo parlare alla dottoressa Tancredi con la massima urgenza; mentre esco nel corridoio rivolgo un sorriso ammiccante al mio compagno di cella, ma lui non risponde perché non nutre il mio stesso ottimismo.

Io, invece, sono quasi del tutto sicuro della riuscita del mio piano: Sara è una ragazza giovane, gentile, ma soprattutto ingenua e ciò fa di lei un soggetto estremamente malleabile.

Nel mio piano perfetto, però, appaiono delle piccole crepe nello stesso momento in cui varco la soglia dell’infermeria: l’affascinante e sorridente dottoressa non è da sola, ma in compagnia di un’infermiera che mi rivolge uno sguardo poco amichevole.

“Questo detenuto ha chiesto espressamente di lei, dottoressa Tancredi”

“No, non ho bisogno di alcuna medicazione” dico, precedendo ogni possibile domanda da parte sua “devo semplicemente parlarle. Lei funge anche da psicologa per noi detenuti, giusto? mi domandavo se avesse qualche minuto del suo tempo da potermi dedicare, le prometto che sarò veloce e sintetico”

“Ma certo” mormora lei, corrucciando le sopracciglia.

Sara si allontana momentaneamente per terminare quello che stava facendo prima del mio arrivo, e nel frattempo vengo condotto all’interno del suo Studio ed ammanettato come precauzione; anche se la guardia che mi ha scortato in infermeria si allontana, lo stesso non vale per l’infermiera, che continua ad osservarmi a qualche passo di distanza, con lo stesso sguardo accusatore e le braccia incrociate.

“Sì?” mi azzardo a domandare, voltandomi a fissarla.

“Non è troppo grande per i tuoi standard?”.

Distendo le labbra in un sorriso divertito e poi scuoto la testa.

“Io non… Io non riesco davvero a capire se questo è un problema mio, infermiera, ma ogni volta che uno di voi musi neri apre la bocca, tutto quello che sento sono solo dei versi animaleschi privi di qualsiasi significato. Secondo lei da che cosa è dovuto?”

“Come mi hai appena chiamata?”.

Evito per un soffio di essere aggredito dalla donna grazie all’arrivo tempestivo di Sara, che pone fine alla discussione tra me e la scimmia con la divisa blu dicendole di lasciarci da soli; e lei è costretta a farlo, anche se con riluttanza.

“La ringrazio, dottoressa, credo che lei mi abbia appena salvato la vita da una violenta aggressione. Ha visto il modo in cui mi fissava?”

“Signor Bagwell, ha appena dato della ‘scimmia’ all’infermiera Katie. Chiunque, al suo posto, avrebbe avuto una reazione simile. Allora… Aveva urgenza di vedermi… Di che cosa desidera parlarmi?”

“Sara, ormai non siamo più degli estranei l’uno per l’altra. Possiamo darci del ‘tu’? faccio fatica a dare del ‘lei’ ad una ragazza così giovane e carina, mi sembra quasi un’offesa”

“D’accordo. Allora, Theodore, di che cosa mi devi parlare con la massima urgenza? Hai dei problemi con qualche detenuto? O desideri toglierti un peso dalla coscienza?”

“Ohh, ti posso assicurare che non si tratta di nulla di simile. È una faccenda completamente diversa, ma molto delicata allo stesso tempo” mormoro, con un mezzo sorriso; porgo alla dottoressa Tancredi la fotografia che James mi ha regalato e lei la osserva in silenzio, con il viso leggermente reclinato verso destra e la coda di cavallo che le ondeggia sulle spalle “è mio nipote. Il mio primo nipote. In realtà è il figlio di mio cugino, ma io e lui siamo cresciuti insieme fin da quando eravamo piccolissimi e, ormai, lo considero come il fratello che non ho mai avuto. Jimmy è venuto a farmi visita poco fa, non lo vedevo da tantissimo tempo, e mi ha portato questa. Mi ha anche chiesto un favore molto importante che ha a che fare con la mia visita in infermeria, Sara, perché tu sei l’unica persona che può aiutarmi”

“Di che cosa si tratta?” mi domanda, restituendomi la foto, con uno sguardo incuriosito negli occhi scuri.

“So che di tanto in tanto vengono autorizzate delle uscite speciali ai detenuti, mi domandavo se fosse possibile anche nel mio caso per partecipare al battesimo del mio nipotino. James tiene molto a questo e lo stesso vale anche per me”.

Sara inarca il sopracciglio destro, e già capisco che la sua risposta non sarà affermativa perché inizia a scuotere la testa.

“Io non ho l’autorizzazione di concedere questo genere di permesso, solo il direttore Pope lo può fare”

“Sì, me lo hanno detto, ma mi chiedevo se potessi parlargli del mio caso, magari mettendo una buona parola…”

“Non posso fare neppure questo perché se ne occupa esclusivamente il Capitano Bellick, mi dispiace”

“Purtroppo io e Bellick non abbiamo un rapporto ‘idilliaco’, ecco perché sono qui a chiedere il tuo aiuto. Non c’è davvero nulla che puoi fare per me? Avanti, sono sicuro che nessuno t’impedisce di andare personalmente da Pope e mettere una buona parola per un detenuto! Sono stato sempre gentile nei tuoi confronti, dottoressa, credo di meritare una piccola ricompensa”

“Non si tratta di una questione di gentilezza, Theodore, il problema è un altro: permessi simili vengono concessi molto raramente e solo ai detenuti che sono rinchiusi per crimini leggeri e per cui non c’è un concreto pericolo di una possibile fuga. E tu non rientri in nessuna delle due categorie: sei condannato a due ergastoli e sei già scappato una volta, rimanendo in libertà per quasi un anno intero. E poi, da quando sei a Fox River, ti sei già fatto notare diverse volte. Dovresti avere una condotta impeccabile per riuscire ad ottenere un favore simile da parte del direttore”.

In parte capisco e comprendo le parole della giovane dottoressa, ma insisto ancora una volta perché si tratta di una questione della massima importanza per me.

“Stiamo parlando del battesimo del mio primo nipotino, non posso perdere un’occasione simile, non si ripeterà una seconda volta”

“Ti hanno rinchiuso in prigione per avere ucciso e stuprato degli adolescenti, non puoi pretendere di ottenere il permesso per partecipare al battesimo di un bambino” ribatte Sara, in tono duro, forse per mettermi di fronte alla cruda realtà dei fatti.

La sua insinuazione, però, mi fa salire il sangue direttamente al cervello e, proprio come con Bellick, sono costretto a rimanere in silenzio per diverso tempo, finché non riesco a riprendere il controllo almeno in parte; distendo le labbra in un sorriso e rido.

“Da quando è iniziata la mia esperienza da galeotto, ho imparato diverse cose riguardo al mondo della prigione. Una delle prime lezioni che impari, quando sei dietro le sbarre, è che alla base di tutto ci sono i favori: tu fai un favore a me, ed io faccio un favore a te. Ohh, naturalmente sappiamo entrambi di che genere di favori sto parlando e non farei mai avance simili a te, Sara, non sono un animale così rozzo anche se la maggior parte delle persone è di parere fortemente contrario al mio. No, no, no… Con le belle ragazze come te funziona in un altro modo. Con una scatola di cioccolatini o con un mazzo di fiori, per esempio, ma forse sono regali troppo banali o, addirittura, inutili nel tuo caso. Una ragazza come te merita altro di più originale, vero? Magari un grazioso mazzo di siringhe pronte all’uso, o una scatola di morfina… O cocaina… O eroina… Con che cosa ti sballavi durante il tuo periodo di tossicodipendenza, dottoressa Tancredi?”.



 
Sulle labbra di Jason compare un sorriso compiaciuto nello stesso momento in cui un secondino mi spinge, in modo poco gentile, nella nostra cella; mi trattengo dal cancellarglielo con un pugno solo perché si tratta di lui.

“Lasciami indovinare” dice, continuando a sorridere “Sara non ha voluto aiutarti ad avere un colloquio privato con il direttore e tu, per ripicca, le hai rivolto una battuta simile a quella che hai fatto a Bellick”

“Ha fatto un’insinuazione che non mi è piaciuta affatto, le ho semplicemente restituito il favore” mormoro, seccato, lasciandomi cadere sul materasso della mia brandina; prendo di nuovo in mano la fotografia che ritrae il piccolo James e la studio in silenzio “e comunque, mi ha spiegato che i permessi speciali vengono dati solo ai detenuti che devono scontare pene minori e nel caso in cui non c’è il rischio di una possibile fuga. A quanto pare, io non rientro in nessuna delle due categorie, esattamente come mi ha ricordato la dottoressa Tancredi. E sai una cosa, Jason? Ha perfettamente ragione, perché avrei approfittato dell’occasione per scappare una seconda volta”

“Posso darti un consiglio?”.

Non sono una persona che, solitamente, accetta di buon grado i consigli degli altri, ma dato che si tratta del mio compagno di cella decido di fare ancora una volta un’eccezione.

“Che genere di consiglio?”

“Sei arrivato a Fox River da pochissimo tempo, e trascorri la maggior parte delle tue giornate a pensare alla vita che avevi al di là di queste mura e ad un modo per evadere”

“E questo sarebbe un consiglio? Questo non è un consiglio, è una critica. E comunque, la maggior parte dei detenuti riflette su queste cose”

“Non mi hai lasciato il tempo di terminare la frase” ribatte subito Jason, risentito “sì, è normale pensare a quello che si ha perduto, ma forse nel tuo caso ci pensi troppo spesso. Il mio consiglio è questo: concentrati a migliorare il tuo status sociale all’interno di Fox River, vedrai che tutto il resto verrà da sé. A volte le occasioni vanno create, ma altre volte bisogna lasciare che si creino da sé”.
 

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Capitolo 35
*** Fresh Meat ***


“Ahh!” esclamo, mentre sono impegnato a radermi le guance con una piccola lametta: appoggio l’indice ed il dito medio della mano destra sulla pelle, e piego le labbra in una smorfia quando mi accorgo che sono sporchi di sangue.

“Capo”.

Una voce alle mie spalle mi fa sussultare, e per poco non rischio di tagliarmi una seconda volta sulla guancia destra.

“Trokey” dico, voltandomi a fissare il responsabile, minacciandolo con la lametta che ho ancora in mano “pensavo di avertelo già detto una volta: nessuno mi deve disturbare quando ho questa con me, tantomeno apparire alle mie spalle senza fare rumore. Avrei potuto tagliarti la gola, ed a quel punto mi avrebbero sbattuto in isolamento per un intero mese per colpa di un idiota”

“Mi dispiace,T.” mormora lui, sinceramente dispiaciuto “non era mia intenzione spaventarti. Lo so che non vuoi essere disturbato quando sei impegnato a sistemarti il pizzetto, ma…”

“Ma non esiste alcun ‘ma’. Sai benissimo quanto detesto ripetere un ordine per la seconda volta. Non farlo mai più”

“Volevo solo essere il primo a farti gli auguri”.

Sollevo gli occhi al soffitto della cella, prima di rispondere con un sospiro seccato.

“Pensavo di essere stato chiaro anche riguardo a questa faccenda. Non voglio ricevere gli auguri di buon compleanno da nessuno per due semplici motivi. Primo: compio quarantasei anni e ciò significa che sono sempre più vicino ai cinquanta. Secondo: mi ricorda che sono a Fox River già da cinque anni. Altri cinque anni della mia vita sprecati dietro le sbarre di una cella, e non sono nulla in confronto a tutti quelli che ancora mi aspettano”

“Forse quello che sto per dirti migliorerà il tuo umore, T.” Trokey entra nella mia piccola abitazione mentre termino di occuparmi del mio pizzetto “sono arrivate le nuove matricole e ti posso assicurare che tra loro c’è un ragazzo perfetto per te”.

Le ultime parole di Chris catturano finalmente la mia attenzione: mi risciacquo il viso, lo asciugo con un panno pulito e poi mi volto a fissarlo con un sorriso sulle labbra.

“Raccontami tutto quello che sai riguardo a questo nuovo arrivato”

“La pausa è finita, faresti meglio a tornare nella tua cella, Trokey”.

L’arrivo di Jason impedisce alla mia curiosità di essere soddisfatta e non mi faccio problemi a farglielo notare nello stesso momento in cui tutte le porte scorrevoli vengono chiuse; mi volto a fissarlo con gli occhi socchiusi e con le labbra piegate in una smorfia di disapprovazione.

“Sei stato molto scortese poco fa, lo sai? Questa giornata è iniziata in modo orribile e le parole di Chris stavano per trasformarla in qualcosa di molto più piacevole… Almeno fino al tuo arrivo”

“Lo sai che non mi fido di lui”

“Tu non ti fidi di nessuno della squadra, Maytag”

“Ti sono fedeli solo perché hanno paura di te, non perché nutrono del rispetto. Pensi davvero che non ti volterebbero le spalle alla prima occasione se ne traessero un vantaggio personale, T-Bag?” ribatte subito lui, incrociando le braccia.

In realtà, ciò che si nasconde dietro alla reazione del mio compagno di cella è ben diverso e non ha nulla a che fare con una questione di fiducia e lealtà.

Negli ultimi due anni il nostro rapporto si è rapidamente evoluto, e da una semplice amicizia e simpatia reciproca si è trasformato in qualcosa di più intimo e carnale, soprattutto quando cala la notte e appendiamo un lenzuolo davanti alle sbarre della nostra piccola abitazione.

È stato lui a fare il primo passo, ma nonostante ciò non ha mai preteso di ricoprire un ruolo dominante, e proprio per questo motivo gli ho affibbiato il soprannome ‘Maytag’.

L’unico, vero, problema in tutto ciò è che abbiamo due visuali molto differenti sulla nostra ‘relazione’: per me si tratta di un’alternativa piacevole al sonno, di sesso, di un qualcosa che non va oltre ai semplici desideri fisici della carne; per Jason è qualcosa di ben differente, che ha a che fare con la sfera dei sentimenti.

“Tu sei geloso” lo stuzzico qualche ora più tardi, mentre entrambi siamo in fila in mensa “ecco qual è la verità: tu sei terribilmente geloso, ma non di Trokey e del resto del gruppo. No, no, no. Questa mattina eri seccato perché hai sentito che io e lui stavamo parlando di uno dei nuovi arrivati, e tu sei terrorizzato dalla prospettiva che possa chiedere ad uno di loro di aggrapparsi ad una tasca dei miei pantaloni”

“Non è vero”

“Non c’è nulla di sbagliato se ammetti di provare un po’ di gelosia. Anzi. È una cosa che mi lusinga”

“Lusinga te o il tuo ego smisurato, T-Bag?” commenta, allora, lui in tono acido.

Preferisco non rispondere alla sua battuta e concentro la mia attenzione sul gruppo di detenuti che sta passando affianco al mio: si tratta di C-Note e del suo branco di scimmie, e così ne approfitto per rivolgergli una battuta e provocarlo.

“Ohh!” esclamo, annusando l’aria “che cos’è questo improvviso odore disgustoso? Sembra che siano appena passati dei grossi e rivoltanti scimmioni. Siamo in una mensa o allo zoo? Non capisco, solitamente agli animali non dovrebbe essere permesso entrare in posti come questo perché va contro alle norme di igiene”.

Scoppio in un risata divertita insieme al resto del mio gruppo, voltandomi in direzione di Jason, ed a causa di questo non vedo C-Note avvicinarsi a me con passo veloce, ma sento molto bene il suo pugno destro che si abbatte contro il mio naso; retrocedo di qualche passo, sbatto contro uno dei tavoli che ci sono in mensa, e cado a terra, portandomi in automatico entrambe le mani al viso.

Qualcosa di caldo e liquido scivola tra le mie dita e si riversa in parte sulla maglietta che indosso, mentre i miei uomini mi raggiungono, per accertarsi delle mie condizioni fisiche.

“Come stai, T.? Riesci ad alzarti?”

“Figlio di puttana” ringhio, a denti stretti, guardando il mio stesso sangue ed ignorando la domanda di Trokey “lurida scimmia, adesso lo ammazzo con le mie stesse mani”

“Fermo! Che cazzo vuoi fare? Ti sbattono in isolamento per un mese intero se inizi una rissa qui dentro, e prenderai il resto delle botte dai secondini”.

Sono costretti a bloccarmi con la forza per impedirmi di saltare letteralmente al collo di C-Note, ed il peggio viene evitato solo perché sono costretto a recarmi in infermeria a causa del mio naso che continua a sanguinare.

La dottoressa Tancredi mi ordina di tenere il viso sollevato, rivolto al soffitto, per rallentare ed arrestare il flusso, e tampona il liquido scarlatto con un piccolo batuffolo di cotone; per tutto il tempo della mia breve permanenza mi parla in tono gentile, ma allo stesso tempo freddo.

E questo perché è ancora risentita dalla battuta che le ho rivolto quattro anni prima, quella del mazzo di siringhe e della scatola di morfina.

“Sei stato fortunato perché non c’è nulla di rotto, ma dovrai tenere questa per qualche giorno. Quattro, al massimo cinque” dice, sistemandomi una fasciatura sul naso.
“Ma così la mia voce risulterà terribilmente nasale e sgradevole”

“Sono sicura che nessuno noterà la differenza” commenta Sara, rivolgendomi un mezzo sorriso, prima di occuparsi di un altro paziente.

La sua battuta, completamente fuori luogo, non fa altro che peggiorare il mio umore e trascorro l’intero pomeriggio, ad eccezione dell’ora all’aria aperta, sdraiato sulla mia brandina a giocherellare con il punteruolo che solitamente tengo nascosto in un buco nel materasso.

“Stronza” sibilo, riferendomi alla bella e giovane dottoressa “pensa di avere il diritto di parlarmi in quel modo solo perché è la figlia di governatore. Sai che cosa ti dico, Maytag? Arriverà il giorno in cui io e lei ci ritroveremo faccia a faccia da soli, fuori dalle mura di Fox River, e sarà Sara ad avere le mani bloccate da un paio di manette… Sì, arriverà quel giorno, ma prima devo chiudere il conto in sospeso che ho con Benjamin ed i suoi uomini. È solo colpa sua se sono costretto a portare questa maledetta garza che mi altera la voce. Mi ha trasformato nel buffone dell’intera prigione. Questo è, senza alcuna ombra di dubbio, uno dei peggiori compleanni di tutta la mia vita”

“Non riesci proprio ad abbandonare la tua vena drammatica almeno per una volta? Dovresti imparare a tenere molte cose per te, o a confidarle a bassa voce per evitare che arrivino alle orecchie di un secondino. E dovresti anche imparare a morderti la lingua più spesso”

“Intendi così?” domando, mordendomi la punta della lingua, prima di passarmela sul labbro superiore; scoppio a ridere e ripongo il punteruolo nel suo nascondiglio prima che possa procurarmi altri guai.

Mi avvicino alle sbarre di metallo e cerco con lo sguardo la cella della matricola di cui Trokey mi ha parlato; per mia sfortuna non riesco a scorgerlo, ma non mi lascio andare allo sconforto per un semplice motivo: non può sfuggirmi per sempre.

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Capitolo 36
*** Pretty ***


Quattro giorni più tardi, quando finalmente posso liberarmi della maledetta fasciatura al naso, riesco a scorgere il nuovo arrivato di cui tutti parlano a causa di un pettegolezzo alquanto interessante: a quanto pare, si tratta del fratello minore di Lincoln Burrows, l’unico detenuto rinchiuso nel Braccio B, condannato alla sedia elettrica per avere ucciso il fratello del vicepresidente degli Stati Uniti.

Così, almeno, dicono i giornali.

Lo studio in silenzio, quando siamo tutti in cortile, ed aspetto il momento giusto per avvicinarmi a lui, e fortunatamente questo avviene poco dopo: si avvicina alla tribuna che appartiene a me ed al mio gruppo, si guarda attorno, e poi si siede in una delle panchine, con le mani nascoste nelle tasche della giacca che indossa.

Raggiungo la matricola senza dare troppo nell’occhio, e quando sono ormai a pochi passi di distanza lo sento parlare con uno dei miei sottoposti e lasciarsi sfuggire un commento proprio su di me, forse perché gli è stato riferito che ha sconfinato il mio territorio.

“T-Bag sembra un soprannome”

“Ormai è il mio vero nome” rispondo prontamente, attirando la sua attenzione, così da poterlo osservare  da più vicino: non ha semplicemente dei lineamenti in grado da far girare la testa a chiunque e delle labbra create per essere morse fino a farle sanguinare, ma possiede anche due occhi azzurri e chiarissimi, di una tonalità che non ho mai visto prima; si alza di scatto dalla panca, ma io gli faccio un cenno con la mano destra, invitandolo a sedersi di nuovo “no, no, no. Prego. Siediti. E così tu sei quello nuovo, giusto? Scofield. Sai una cosa? Sei proprio carino come dicono… Anzi, molto di più… I musi neri ti fanno paura?”

“Come?” mi domanda lui, rivolgendo lo sguardo altrove, in un punto che non riesco bene a definire; mi tolgo il cappello a visiera che indosso, e gli faccio un cenno in direzione della metà del cortile che appartiene ai scimmioni.

È evidente che si trova a Fox River da pochissimi giorni, come è altrettanto evidente che questa è la prima volta che mette piede in un carcere, e deve ancora capire molte cose.

“Qualunque bianco timorato di Dio capisce subito che nel sistema correttivo attuale prevale il partito afroamericano. Per questo credono di essere loro i padroni, ma non sanno che noi abbiamo l’asso nella manica. Che agiremo di sorpresa. Ed anche se non hai ancora preso una posizione, pesciolino, ti posso offrire la mia protezione. Tutto quello che dovrai fare sarà attaccarti a questa tasca” scosto in modo brusco Jason, che per tutto il tempo ha ascoltato la nostra conversazione senza pronunciare una sola parola, e mostro la stoffa bianca alla matricola “in questo modo ti avrò sempre a mio fianco e nessuno t’importunerà. Io cammino e tu cammini”

“Credevo avessi già una ragazza”.

La battuta di Scofield non mi irrita affatto, al contrario di Jason, anzi, mi diverte ed intriga perché mi sono sempre piaciute le sfide; mi alzo dalla panca e gli mostro la stoffa dell’altra tasca.

“Ma come puoi vedere, qui ho un’altra tasca ed è ancora disponibile”

“Non m’interessa” mormora lui, guardandomi per qualche secondo prima di tornare a fissare l’orizzonte; questa volta sulle mie labbra compare una smorfia seccata, perché la sua ritrosia inizia ad irritarmi, ma tento ugualmente un ultimo approccio, mettendolo davanti alla cruda realtà della vita dietro le sbarre.

“Se non accetti la mia protezione, quei musi neri ti trascineranno nelle docce e ti faranno la festa appena si presenterà l’occasione perfetta”

“Ho detto che non m’interessa”

“Allora alza quel culo e vattene” dico a denti stretti, avvicinando il mio viso al suo, questa volta il fratello di Burrows non ribatte e si limita ad obbedire al mio ordine: si alza dalla panca e si allontana senza mai voltarsi una sola volta, neppure quando gli urlo contro una minaccia “la prossima volta che ti becco su questa tribuna non scambieremo solo quattro parole. Capito che intendo?”

“Te lo avevo detto che non ne valeva la pena”

“Chiudi quella bocca, Maytag” dico, voltandomi di scatto verso il mio compagno di cella “e cancella quel sorrisetto soddisfatto prima che ci pensi io con un pugno”.



 
Scofield si rivela ben presto essere una persona arrogante, che non rispetta la gerarchia all’interno di Fox River, ed io lo scopro il pomeriggio seguente al nostro primo incontro, quando esco in cortile insieme a Jason; è proprio lui a farmi notare la presenza del nuovo pesciolino sulla mia tribuna.

“A quanto pare non ha recepito appieno il tuo messaggio” commenta, seccato, ed io resto in silenzio.

Osservo Michael intento a svitare una delle viti della tribuna e, quando ci riesce, decido di intervenire.

“Ah-Ah-Ah!” esclamo, scuotendo la testa “non sono stato chiaro? Questa appartiene alla famiglia e tu hai detto molto chiaramente che non t’interessa farne parte. Forza, dammi subito quella vite”

“Non so di che cosa stai parlando”

“Mi hai forse preso per uno stupido? Ho visto quello che stavi facendo. Avanti, dammi subito quella vite o sarò costretto a prenderla con la forza, la scelta è solo tua” ripeto, ed allungo la mano destra, invitandolo silenziosamente ad obbedire e a non peggiorare la situazione in cui si trova; Scofield mi guarda con gli occhi socchiusi per qualche istante, poi sospira, si alza dalla panca e mi consegna con riluttanza l’oggetto metallico: rigiro la vite tra le mie mani, soffermandomi sulla punta affilata, e dalle mie labbra esce un fischio ammirato “gran bel pezzo d’acciaio, hai fatto davvero un ottimo lavoro, ma la vera domanda è: a chi desideri accorciare la vita a pochi giorni di distanza dal tuo arrivo?”

“Non sono affari che ti riguardano, T-Bag”

“Ohh, ed è proprio qui che ti sbagli” commento, senza mai staccare gli occhi dall’oggetto che è appena diventato una possibile arma nelle mie mani “ti ho visto parlare con i musi neri poco fa, chi mi assicura che non stai tramando qualcosa proprio alle mie spalle e che questa vite non sia destinata a tagliare la mia gola? Non mi dire che sei uno di quegli strani animali dalle idee confuse, Scofield. Bianchi fuori, ma dentro neri come il carbone. Forse dovrei aprirti con questa vite per scoprirlo con i miei stessi occhi”

“Ehi, voi, qualche problema?”.

La nostra discussione viene bruscamente interrotta dalla voce di una guardia, che si avvicina agli anelli metallici della recinzione; non posso permettere che veda l’oggetto che ho in mano e così fingo uno sbadiglio e stiracchio le braccia, in modo da passarlo a Jason senza essere visto.

“Questo gingillo lo teniamo noi, se non ti dispiace” dico poi, tornando a guardare Michael, e quando il secondino ci urla contro di allontanarci, esorto il pesciolino a fare lo stesso “ehi, bello, non hai sentito quello che ha detto la guardia? Vattene”.

Scofield non replica: infila le mani nelle tasche dei pantaloni, mi volta le spalle e s’incammina verso la direzione opposta del cortile; ancora una volta Jason non perde tempo a rendermi partecipe del suo personale punto di vista.

Ormai è chiaro che prova una forte antipatia nei confronti di quel ragazzo tanto bello quanto arrogante, ma è difficile capire se è perché lo considera una vera minaccia o se si tratta di una semplice questione di gelosia.

“Forse dovresti sbarazzarti di lui prima che diventi un problema più ingombrante” mi sussurra all’orecchio destro, ma io mi limito a scrollare le spalle ed a ignorare il suo suggerimento: non ho voglia di sporcarmi le mani per una faccenda così piccola, e poi a breve ci sarà il regolamento di conti che coinvolgerà l’intero Braccio A.

E non esiste occasione migliore per valutare i nuovi arrivati, per un semplice motivo: ci si sbarazza subito degli anelli deboli, ed i più forti mostrano il loro vero volto, lasciando cadere a terra ogni maschera.

Sarà un vero piacere scoprire a quale delle due categorie appartiene Michael.
 

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Capitolo 37
*** Settling Of Accounts ***


Naturalmente la notizia del regolamento di conti si è sparsa in modo rapido, a macchia d’olio, e la maggior parte dei detenuti vuole parteciparvi in modo attivo.

Mentre rientro dall’ora all’aria aperta, noto che ci sono diversi gruppetti di uomini che parlano a bassa voce, ed in alcuni casi si passano dei fagotti di stoffa che contengono, senza alcuna ombra di dubbio, diversi tipi di arma bianca; mi fermo per qualche istante in cima ad una scala metallica e richiamo il mio compagno di cella, impegnato a parlare con altri due detenuti.

Lui mi raggiunse subito, senza la minima esitazione, proprio come un cagnolino obbediente; afferra la stoffa della tasca sinistra dei miei pantaloni, sorrido compiaciuto, ed a quel punto scendo i scalini per raggiungere la mia piccola abitazione, ma quando arrivo davanti ad essa, spalanco gli occhi per la sorpresa: Scofield sta frugando tra i miei effetti personali, sicuramente perché è alla ricerca di quella maledetta vite.

“Che cosa ci fai nella mia cella?” domando, in tono risentito, perché prima d’ora nessuno ha mai osato fare una cosa simile; lui si volta a fissarmi con un’espressione impassibile, e quando socchiude le labbra mi lascia nuovamente senza parole nell’arco di pochissimi secondi.

“Voglio entrare”

“Come?” domando, facendomi avanti, piego leggermente il viso e socchiudo gli occhi “puoi ripetere?”

“Ho detto che voglio entrare nella famiglia. Vuoi che combatta? Combatterò. La vite della panca mi serviva proprio a questo”.

Osservo Michael in silenzio, soffermandomi sul viso e sugli occhi, per capire se sta dicendo la verità o se si tratta di una menzogna; alla fine mi convinco che non ha alcuna ragione concreta per raccontarmi una menzogna e che si è semplicemente pentito del modo in cui è iniziata la nostra conoscenza: dopotutto, a mio tempo, sono stato anche io una matricola, ed anche io ho commesso errori simili, e così decido di chiudere un occhio nel suo caso.

“Se desideri combattere non hai nulla di cui preoccuparti. Potrai sfogarti questa sera stessa”

“Questa sera?” ripete il pesciolino, e per la prima volta vedo un’espressione confusa e preoccupata che lo rende ancora più carino ed appetibile.

“Qualche problema, Scofield? Perché ormai è già tutto deciso. Quando ci verrà ordinato di uscire dalle nostre celle per l’appello serale, avranno inizio le danze, quindi ti consiglio di darci dentro se non vuoi beccarti una pugnalata per errore, capisci che cosa intendo?”

“Avrò bisogno di un’arma”

“Vuoi un’arma?” interviene, allora, Jason: gli mostra per qualche istante la tanto bramata vite e poi gl’infila in una tasca dei pantaloni un piccolo bastoncino di legno “ecco la tua arma. Adesso vattene”.

Blocco Michael prima che possa uscire dalla nostra cella: stringo una mano attorno al suo braccio destro e glielo accarezzo, prima di avvicinare il mio viso al suo, tanto che quasi si sfiorano.

“Non posso darti l’artiglieria pesante se prima non ho una prova della tua fiducia, capisci? E, comunque, voglio che tu sappia in anticipo che se mi offri la tua mano io mi prenderò tutto il braccio” mormoro, facendo schioccare la lingua contro il palato; lascio la presa sul suo braccio e qualche istante più tardi le porte scorrevoli delle celle si chiudono in automatico con un tonfo sordo.

Mi lascio cadere sulla mia brandina, con un sorriso soddisfatto, ed incontro lo sguardo di Maytag, che mi sta fissando con un’espressione completamente diversa e tutt’altro che allegra.

“Tu vuoi sostituirmi con lui”.

Sollevo gli occhi al soffitto a causa dell’accusa che mi è stata appena rivolta, e mi preparo ad affrontare l’ennesima discussione con il mio compagno di cella.

“Forse non hai ascoltato con attenzione quello che ho detto a Scofield qualche giorno fa: i miei pantaloni hanno due tasche”

“Quindi io sono al suo stesso livello? Sono solo uno sfizio per te?”

“Dovresti sentirti, Jason, sembri una ragazzina alle prese con la sua prima cotta”

“Credevo che fosse tutto diverso tra noi due… Che non fosse una semplice questione di sesso o di come trascorrere una notte diversa dalle altre… Anche perché per me non si tratta di sesso”.

Sollevo per la seconda volta gli occhi al soffitto e mi scompiglio i capelli con la mano destra; i gesti che compio contribuiscono solo ad irritare ulteriormente Jason e lo capisco dal modo in cui stringe le labbra, riducendole in una linea sottile e contrariata.

“Che cosa vuoi sentirti dire, Jason? Vuoi che ti dica che anche per me non si tratta di sesso? Che si tratta di amore? Che voglio stare con te? Che cosa vuoi sentire uscire dalle mie labbra?”

“Semplicemente la verità. Sempre se ne sei capace per una volta, T-Bag” dice, provocandomi con un sorrisino “o sei così abituato a mentire e raccontare cazzate a tutti che, ormai, non sei più in grado di distinguere la verità dalle bugie che continui ad inventare?”

“Direi che la situazione è piuttosto evidente: a quanto pare io e te viviamo questa ‘relazione’ in due modi completamente differente. Tu hai lasciato prevalere la parte dei sentimenti, per me si tratta di sesso”

“Tutto qui? Dopo cinque anni che dividiamo la stessa cella, e due che andiamo a letto insieme, sai dire solo questo? Pensi ancora a Susan? Continui a scriverle quelle maledette lettere in cui le chiedi di perdonarti e di riaccoglierti nella sua vita? Non hai ancora capito che lei non vuole più saperne di te? Che ti ha completamente cancellato dalla sua vita? Devi dimenticare quella stronza”.

Le ultime parole che pronuncia fanno scattare una molla nel mio cervello: mi alzo all’improvviso dal materasso, blocco Maytag contro una parete e gli punto la parte affilata del punteruolo contro la gola, premendola leggermente, facendo fuoriuscire un piccolo rivolo di sangue.

“Non ripeterlo una seconda volta” sibilo, a denti stretti “tu non conosci Susan, non sai come è fatta e non sai neppure tutto quello che io e lei abbiamo passato insieme. La prossima volta che sentirò il suo nome uscire dalle tue labbra, seguito da un epiteto come ‘stronza’ o ‘vacca’ o ‘puttana’, ti taglierò la gola. Non sto scherzando, Jason. Tu prova a mancarle di rispetto una seconda volta e te la farò pagare molto amaramente. Sono condannato a due ergastoli, un omicidio in più nella mia lunga lista di crimini non mi farà alcuna differenza, d’accordo?”

“D’accordo”.

Lo lascio andare immediatamente e lui si massaggia la gola con la mano destra, mi rivolge uno sguardo risentito e poi si arrampica sulla sua brandina; per tutto il resto del pomeriggio non sento una sola parola uscire dalla sua bocca, ma ne sono dispiaciuto solo in parte: Jason aveva bisogno di una lezione, necessitava di qualcuno che gli ricordasse quale è il suo posto.

Ed il suo posto, senza alcuna ombra di dubbio, non è quello di Susan.



 
Quando ci viene ordinato di uscire dalle nostre celle e di disporci in due file ordinate ed opposte, tutto va esattamente come prestabilito in precedenza: rivolgo un sorrisetto a Scofield, per vedere se riesce a rimanere ancora impassibile, e poi faccio un cenno con il capo ad uno dei miei uomini.

È lui a dare ufficialmente inizio al regolamento di conti sotto lo sguardo sconvolto dei secondini che devono occuparsi di fare l’appello: aggredisce uno dei musi neri che si trovano nella fila opposta alla mia e gl’impianta un coccio di vetro tra il collo e la spalla sinistra.

Io preferisco adottare una tecnica diversa, basata sull’effetto a sorpresa: mi nascondo all’interno di una delle celle e quando vedo passare uno degli uomini di C-Note, lo aggredisco alle spalle e gli taglio la gola con il punteruolo, lasciando poi cadere a terra il suo corpo ormai senza vita; un altro scimmione, che ha assistito all’intera scena, prova a fare lo stesso con me, ma io non sono uno sprovveduto e lo colpisco con una gomitata allo stomaco prima di recidere la carotide anche a lui.

Non riesco ad evitare uno schizzo di sangue che mi macchia sia la maglietta che il viso, e sono costretto a strofinarmi gli occhi con una mano a causa della vista appannata.

Lancio un’occhiata in direzione della porta che le guardie utilizzano per entrare nel Braccio A, e vedo una di loro lanciare qualcosa sul pavimento: mi basta abbassare lo sguardo per rendermi conto che si tratta di un fumogeno.

“Maytag! Scofield!” urlo, per richiamare i miei due sottoposti, perché è arrivato il momento di tornare nelle proprie celle; sto per aggiungere altro, ma la mia voce si trasforma in un rantolo soffocato quando incrocio lo sguardo di Michael: la maglietta della sua divisa carceraria è completamente ricoperta di sangue e regge a fatica Jason.

Non appena lo lascia andare, con un’espressione incredula e sconvolta, il mio compagno di cella scivola a terra senza muovere un solo muscolo del corpo.

“Io non ho fatto nulla”.

Sento queste parole uscire dalle labbra di Scofield, ma le ignoro completamente, come ignoro la confusione che si è creata, perché tutti i detenuti vogliono tornare al sicuro nelle loro celle, ed il gas fumogeno che mi fa tossire e lacrimare gli occhi; raggiungo Jason e mi lascio cadere in ginocchio sul pavimento.

Ormai per lui non c’è più nulla da fare: è stato pugnalato più volte all’altezza del cuore ed i suoi occhi, socchiusi, sono fissi nel vuoto.

L’ho appena perso per sempre e non posso fare nulla per riportarlo indietro, esattamente come è accaduto con David.

E la nostra ultima conservazione è stata un litigio a cui non abbiamo neppure potuto porvi rimedio; le mie ultime parole a Jason, poi, sono state una minaccia.

“Io ti ammazzo, Scofield” grido, con tutto il fiato che ho in gola, nonostante il fumo che m’impedisce quasi di respirare “mi hai sentito? Giuro che ti ammazzo con le mie stesse mani!”.
 

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Capitolo 38
*** Hyena And Antelope ***


“Theodore Bagwell, di ritorno dall’infermeria”.

Le parole pronunciate da Geary segnano il mio rientro nel Braccio A dopo alcuni giorni trascorsi in infermeria a causa di un’intossicazione di fumo, e dopo alcuni minuti trascorsi nell’obitorio in compagnia del corpo del mio ex compagno di cella; la porta davanti a me si spalanca e vengo accolto dagli applausi che provengono dal mio gruppo, e che riescono a strapparmi un sorriso.

Ricevo qualche pacca sulla schiena, e poi Trokey mi passa il braccio sinistro attorno alle spalle.

“Siamo contenti di riaverti qui con noi, T., e siamo tutti addolorati per quello che è successo a Maytag… Proprio per questo ti abbiamo preparato un piccolo regalo per la tua guarigione” mi sussurra ad un orecchio, con una risata divertita; comprendo appieno il senso delle sue parole solo quando arrivo di fronte alla mia cella.

Dentro, seduto su uno sgabello, c’è un ragazzino con il viso rivolto alle piastrelle del pavimento e con le braccia incrociate all’altezza del petto.

“Ohh!” esclamo, piegando le labbra in un sorriso compiaciuto “è della misura giusta. Grazie mille, ragazzi, adesso lasciateci soli”.

Chris ed il resto del mio gruppo obbediscono subito, con qualche risata divertita, lasciandomi da solo con il mio nuovo e giovanissimo compagno di cella: mi avvicino a lui, appoggio la mano sinistra su una parete e piego leggermente il viso, osservandolo con gli occhi socchiusi.

Gli ordino di dirmi il suo nome, e la risposta arriva sottoforma di un sussurro che faccio quasi fatica a comprendere.

“Seth”

“Sei nuovo, Seth? Hai paura? Alza gli occhi” ordino per la seconda volta, e riprendo a parlare solo quando obbedisce “quanti anni hai?”

“Diciannove”

“Avevo quasi la tua stessa età quando sono entrato per la prima volta in un carcere, Seth, e proprio come è successo a te, dei detenuti più grandi mi hanno convinto a cambiare cella dicendomi che i secondini mi avevano assegnato ad una che aveva il lavandino ed il cesso guasti. E così mi sono ritrovato a dividere la stessa cella, per sei lunghi anni, con un vero maniaco… Scommetto che ne avrai già sentite di storie su di me, vero?”

“Sì” il suo sussurro, seguito da un cenno del capo appena percepibile, mi fanno capire che non ha solo sentito alcune delle voci che circolano su di me a Fox River, ma che ne è letteralmente terrorizzato, e così distendo le labbra in un sorriso, per placare il suo disagio.

“Non sono tutte vere” sussurro a mia volta; infilo la mano sinistra nella corrispettiva tasca dei pantaloni e rovescio la stoffa bianca, mostrandola a Seth ed invitandolo ad afferrarla “forza. Andiamo a fare un giretto, dolcezza”.



 
La maggior parte dei detenuti odia la stanza delle docce a causa delle numerose dicerie che circolano.

Dicerie come, ad esempio, la classica storia della saponetta.

O che bisogna sempre fare attenzione ad avere le spalle contro il muro.

Io, invece, trovo che sia un momento molto rilassante, soprattutto quando chiudo gli occhi e sento il getto d’acqua fredda colpirmi il viso, per poi scendere in tanti rivoli lungo la schiena e depositarsi sulle piastrelle del pavimento.

Solitamente utilizzo i pochi minuti che ho a mia disposizione per riflettere o per schiarirmi le idee, ma quattro giorni dopo l’arrivo del mio nuovo compagno di cella, il mio momento di assoluta tranquillità e relax viene interrotto da una voce che proviene a poca distanza da me.

“Aiutami, per favore”.

È Seth a pronunciare quella supplica disperata.

Apro gli occhi e ciò che vedo mi irrita profondamente, oltre a lasciarmi senza parole: il ragazzino ha rivolto la preghiera di aiuto a Scofield ed ora sta aspettando una qualunque risposta da parte sua.

Chiudo il getto d’acqua e mi schiarisco la gola, in modo che i due si accorgano della mia presenza e così accade: Seth si gira di scatto e mi fissa con un’occhiata spaventata prima di dileguarsi velocemente, mentre Michael prende in mano un asciugamano bianco e se lo avvolge attorno ai fianchi, coprendo in parte ciò che la natura gli ha generosamente donato.

Lo raggiungo, mi passo entrambe le mani nei capelli, e vago con lo sguardo sui tatuaggi che occupano tutta la parte superiore del suo corpo: partono dalla base del collo e proseguono sulla schiena, sul petto, sulle braccia, sul ventre perfettamente piatto, per poi fermarsi bruscamente all’altezza dei fianchi.

“Devi scusare il mio protetto… Fraternizzare nella doccia di una prigione… Andiamo…”

“Forse dovresti lasciarlo in pace. È solo un ragazzino”.

Dopo essere stato interrotto in modo brusco, torno a fissare il ragazzo negli occhi e piego le labbra in un ghigno, riducendo la mia voce ad un sussurro, in modo che non giunga alle orecchie di qualche secondino.

“Vuoi davvero intrometterti nei miei affari, Scofield? Non credo che tu sia nella posizione migliore per ordinarmi che cosa devo o non devo fare a Fox River. Devo ricordarti che noi due abbiamo un conto in sospeso da chiudere?”

“Non sono stato io ad uccidere Maytag” prova a difendersi lui, inventando quella che alle mie orecchie suona come una bugia assurda “è stato uno degli uomini di C-Note a pugnalarlo, io l’ho semplicemente sorretto perché è caduto tra le mie braccia”

“Ed io dovrei credere a questa cazzata? Adesso ti dico io come i fatti si sono svolti veramente: tu volevi ad ogni costo quella maledetta vite che hai preso dalla mia panca, e quando hai visto che era Jason ad averla, lo hai disarmato e lo hai ucciso affinché non fosse più un problema. E oso dire che eri in procinto di fare lo stesso anche con me, se in quel momento i secondini non avessero sedato il regolamento di conti con i fumogeni. Molto probabilmente mi avresti attaccato alle spalle per tagliarmi la gola da orecchio ad orecchio” mi fermo per qualche istante, abbasso lo sguardo sulle piastrelle e sorrido: il piede sinistro del pesciolino è in parte fasciato con delle garze, ed è più che evidente che è sprovvisto del mignolo “ohh, ma guarda… Quella piccola amputazione ha tutta l’aria di essere molto recente. Come è successo? Quali altri nemici ti sei fatto, pesciolino? Aspetta… Non dirlo… Lasciami indovinare… Abruzzi, giusto? Si, ho indovinato. Forse dovrebbero iniziare a soprannominarlo ‘Il Macellaio di Fox River’ anziché ‘Il Leone di Fox River’”

“Lasciami in pace, T-Bag” sbotta Michael, provando ad allontanarsi da me, ma io non ho ancora finito con lui: lo raggiungo e mi posiziono davanti alla porta della stanza, impedendogli così di uscire.

“Quello che sto cercando di dirti, pesciolino, è che faresti meglio a dormire con entrambi gli occhi spalancati ed a guardarti attentamente alle spalle. Abruzzi è un mafioso, e come tutti i mafiosi si diverte a darti qualche piccolo avvertimento, un assaggio del suo potere, in modo da darti il tempo di tornare sui tuoi passi prima che sia troppo tardi. Io non sono così. Non do seconde possibilità a nessuno, in particolar modo alle matricole che entrano qui con presunzione…” faccio schioccare la lingua contro il palato e poi riprendo a parlare “come ti stavo dicendo, io e Abruzzi abbiamo due modi molto diversi di agire: io preferisco giocare con la mia preda. La spingo all’esasperazione, la faccio quasi impazzire di paura e poi attacco, puntando alla gola, ed a quel punto per lei non c’è via di scampo. Proprio come quei documentari in cui un branco di iene circonda un’antilope e si burla di lei prima di sbranarla. Hai presente? Indovina chi è la iena e chi è l’antilope adesso, Scofield”

“Lasciami in pace” ripete una seconda volta Michael, scansandomi con violenza, riuscendo finalmente a trovare riparo nel corridoio.

Almeno per il momento.



 
C’è un’altra faccenda di cui mi voglio occupare il prima possibile, e riguarda il mio nuovo e giovanissimo compagno di cella.

È chiaro che deve ancora ambientarsi in prigione, ed è altrettanto chiaro che non ha capito un semplice concetto: quando un detenuto ti offre la sua protezione, in cambio di un piccolo prezzo da pagare, bisogna portargli rispetto, abbassare la testa e soddisfare ogni sua esigenza; non bisogna tentare di voltargli le spalle e chiedere aiuto ad un suo nemico, proprio come Seth ha fatto.

Ed è per questo che merita una punizione esemplare e carnale, affinché capisca appieno chi comanda e quale è il suo posto, in modo che un episodio simile non si ripeta una seconda volta.

Lo cerco in cortile per tutta la durata dell’ora all’aria aperta, ma non riesco a trovarlo da nessuna parte, neppure all’interno dei capannoni.

Non me ne faccio un cruccio, però, per un semplice motivo: può sfuggirmi in cortile, ma non può fare lo stesso quando la porta scorrevole della nostra cella si chiuderà alle sue spalle e quando gli ordinerò di prendere in mano un lenzuolo bianco e di appenderlo davanti alle sbarre.

Rientro nel Braccio A pregustandomi mentalmente il pomeriggio movimentato che mi aspetta, ma la mia espressione cambia appena noto un gruppo numeroso di detenuti che si è formato vicino all’entrata dell’enorme stanza, e che m’impedisce di vedere che cosa è successo; a fatica riesco a farmi strada tra la piccola folla e quando raggiungo la prima fila, in cui c’è anche Trokey ed il resto della mia squadra, tutto mi è subito chiaro: Seth si è impiccato con un lenzuolo al corrimano del primo piano, ed il suo corpo ondeggia ancora ad una decina di centimetri di distanza dal pavimento.

Incrocio lo sguardo di Scofield, che si trova poco lontano da me insieme al suo compagno di cella, piego le labbra in un ghigno e ne approfitto per rivolgergli una provocazione.

“Ohh, non ha alcuna importanza!” esclamo, ad alta voce, perché voglio essere sicuro che le mie parole giungano anche, e soprattutto, alle sue orecchie “ormai, come tutti i giocattoli vecchi e usati, non mi divertiva più”.

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Capitolo 39
*** Epilogo: Goodnight, Doctor ***


 A Fox River i detenuti non sono sempre rinchiusi nelle loro celle.

In realtà, ci sono diverse attività socialmente utili che possono svolgere per riempire il loro tempo libero.

Ci sono i capannoni da riparare e ridipingere, in cortile.

Ci sono i rampicanti da estirpare e l’erba da tagliare con cura, sempre in cortile.

Ci sono i piatti, i vassoi, le pentole ed i pavimenti della mensa da pulire e lucidare alla perfezione.

In questo modo, coloro che hanno una piccola pena da scontare hanno più possibilità di trovare un lavoro quando torneranno ad essere uomini liberi.

A Fox River c’è perfino una piccola officina in cui non manca nulla: morse, cacciaviti, martelli, frese, occhialini protettivi, guanti, piedi di porco, tronchesi; un vero e proprio angolo di paradiso controllato costantemente da telecamere funzionanti ventiquattro ore su ventiquattro.

Ma le telecamere, si sa, proprio come i secondini vedono solo ciò che vogliono vedere loro.

Passo la mano sinistra su una grata di anelli metallici, per avvisare l’uomo che sta lavorando della mia presenza, e varco la soglia d’ingresso della piccola stanzetta; Chris spegne la fresa che ha in mano, si toglie gli occhialini protettivi e mi rivolge un largo sorriso.

“Che cosa posso fare per te, T.?” mi domanda, ed io gli faccio cenno di avvicinarsi.

“Ho voglia di… Massacrare qualcuno” mormoro, con le labbra che sfiorano il suo orecchio sinistro “ma voglio farlo lentamente e nel modo più doloroso possibile, al punto che questa persona arrivi a chiedermi di finirla ma… Non voglio che succeda”

“Sei venuto nel posto giusto. Credo di avere capito a chi ti stai riferendo e credo anche di avere ciò di cui hai bisogno” risponde prontamente Trokey: si allontana da me, s’inginocchia sul pavimento e prende una piccola scatola metallica da sotto un mobile, da cui tira fuori un coltello con diversi riccioli metallici che adornano la parte affilata della lama “osserva questa meraviglia, T., io lo chiamo ‘Lo Sbudellatore’. Vedi questi piccoli riccioli metallici? Quando impianti la lama nello stomaco del malcapitato, questi si attaccano alle budella e le trascinano fuori. In questo modo lui vedrà il suo stesso intestino perché la ferita non è letale, almeno finché non s’infetta”.

Mi passo la lingua sulle labbra, e nella mia mente vedo già Scofield a terra, con una ferita che gli squarcia il ventre, che mi supplica di risparmiargli la vita, mentre un rivolo di sangue gli scende lungo il mento, dando origine ad un curioso contrasto con la sua pelle pallida e con i suoi occhi chiarissimi.

Sento un brivido di eccitazione percorrermi tutta la spina dorsale, e mi mordo la punta della lingua; il mio sottoposto mi passa l’arma ed io la osservo, con attenzione, sotto la luce del sole.

“Meravigliosa. Assolutamente meravigliosa. L’unica cosa che mi dispiace è che avrò qualche problema a scoparmi il pesciolino quando avrà le budella fuori dalla pancia” commento, prima di nascondere il coltello nella copia della bibbia che ho portato con me; sto per uscire dall’officina, ma mi blocco vicino alla soglia della porta “la tua mente malata m’inquieta, Trokey”

“Si, lo so, T.” si limita a dire lui, indossando nuovamente gli occhialini protettivi.

Scuoto la testa ed esco finalmente in cortile, dove vengo raggiunto da un detenuto.

Non si tratta di un altro membro del mio gruppo, ma bensì del compagno di cella di Michael: un giovane uomo portoricano di nome Fernando Sucre.

“Mi dispiace per quello che è successo al tuo compagno di cella” dice affiancandomi, con le mani infilate nelle tasche della giacca, ed io rispondo scrollando le spalle.
“Come ho già detto, non ha alcuna importanza perché ormai era diventato un giocattolo vecchio ed usato che non mi divertiva più… E poi aveva iniziato a disubbidire ai miei ordini”

“Non stavo parlando del ragazzino. Mi stavo riferendo a Maytag” precisa, allora, Sucre e si affretta ad aggiungere altre parole che portano subito i miei nervi a fior di pelle “sai, T-Bag, non credo che sia stato Michael ad ucciderlo…”

“Sei venuto qui per fare quattro chiacchiere con me o per parare il culo al tuo Papi?” domando, interrompendolo bruscamente e socchiudendo gli occhi “tu e Scofield avete legato così tanto in poco tempo da essere già diventati migliori amiche per la vita? Durante la notte vi divertite a fare il bucato insieme? O, forse, sotto c’è ben altro che non vuoi raccontarmi?”

“No… Io… Io non ti sto nascondendo niente, volevo solo esprimere la mia opinione in merito a quello che è successo, visto che Michael è il mio compagno di cella”

“Sucre, permettimi di darti un consiglio data la mia lunga esperienza in fatto di detenzione: se non vuoi avere problemi in prigione, è sempre meglio pensare ai propri affari senza immischiarsi mai in quelli degli altri, anche se riguardano il proprio compagno di cella, migliore amico o scopamico” mormoro, a denti stretti, prima di allontanarmi velocemente da lui, con la copia della Bibbia stretta nella mia mano destra.



 
Le parole di Sucre non mi hanno convinto fino infondo: non è bravo a mentire e molto probabilmente la sua preoccupazione per Michael non è dovuta ad un semplice fattore di amicizia e fratellanza, ma anche da qualcos’altro di ben più grosso.

Ciò nonostante non sono intenzionato ad accantonare il mio progetto di vendetta personale, e la mattina seguente, quando tutti i detenuti del Braccio A si recano in mensa per la colazione, stringo con forza il manico del coltello ed aspetto con pazienza l’arrivo di Scofield.

Appena i nostri sguardi si incrociano, mentre lui è in fila con un vassoio in mano, mi alzo dalla panca per raggiungerlo e per fargli rimpiangere di avere messo piede dentro Fox River; ma una mano che si posa improvvisamente sulla mia spalla sinistra m’impedisce di farlo e mi costringe a sedermi di nuovo.

“Hai qualche problema con il nostro amichetto laggiù?” mi domanda Abruzzi, ed io gli rivolgo un’occhiata seccata prima di rispondergli in modo sprezzante.

“Non sei certo tu a darmi il semaforo verde”

“Ed è proprio qui che ti sbagli, Theodore. Devo ricordarti che tutto, qui dentro, ruota attorno a me?”

“Maytag è sottoterra per colpa di quel pezzo di sterco secco”

“E così vuoi la sua pelle?”

“Un pezzo al giorno. Per il resto della sua pena” mormoro, senza mai staccare gli occhi dal mio obiettivo che sta prendendo posto a qualche tavolo di distanza dal mio.
“A quanto pare tu ed io abbiamo qualcosa in comune”.

Le ultime parole di John mi fanno finalmente staccare gli occhi dal viso di Michael e concentrarli sul suo; sollevo il sopracciglio destro in un’espressione scettica e piego le labbra in una smorfia: anche se sono trascorsi cinque anni, nella mia mente è ancora impresso con estrema chiarezza il ricordo dell’unica alleanza che ho intrapreso con lui.

E delle sei pugnalate allo stomaco che ho ricevuto.

“E ti aspetti seriamente che io creda alle tue parole con i precedenti che ci sono stati tra noi due?”

“Quella era una faccenda completamente diversa e che appartiene al passato, ormai. Scofield ha fatto un torto ad entrambi, potrebbe essere l’occasione ideale per fare una piccola tregua dato che, per una volta, i nostri interessi coincidono”.

Osservo John in silenzio, ed alla fine decido di fidarmi delle sue parole perché in questo caso non esiste un secondo fine per fregarmi, ed il mignolo amputato di Michael ne è la prova concreta; annuisco con la testa ed a questo punto decide di rivelarmi il suo piano, che avrà luogo durante il pranzo: i suoi uomini preleveranno il pesciolino dalla fila in mensa, lo trascineranno in un capannone e noi saremo lì, pronti a dargli una lezione esemplare.

E così avviene: Fiorello ed un altro dei scagnozzi di Abruzzi trascinano Michael nel capannone in cui io e gli altri lo stiamo aspettando, e la sua espressione terrorizzata è semplicemente un piacere per i miei occhi.

“Sai… Avevo pensato di aprirti la pancia appena ti avevo visto, ma sei così carino quando hai paura e questa è una fortuna per te… Si, proprio carino… Forse dovremo occuparci dell’amore prima dell’odio, non credi?” mi volto a fissare Abruzzi per qualche istante, prima di tornare a concentrarmi esclusivamente sul pesciolino “si, è arrivato il momento di farci questo finocchietto una volta per tutte”.

Sto per scagliarmi contro Scofield, ma Abruzzi mi sorprende con una mossa che non avevo previsto: s’interpone tra noi due e mi colpisce con una gomitata in pieno volto, che rompe all’istante il mio setto nasale, proprio come è successo quando sono stato picchiato da C-Note.

Barcollo all’indietro, perdo l’equilibrio ed in un battito di ciglia Fiorello e l’altro fedelissimo di John mi sono addosso, rincarando la dose con una serie di calci e pugni che non mi lasciano neppure il tempo di reagire o di riprendere fiato.

Quando si fermano non riesco a muovere un solo muscolo del corpo, se non per sputare un grumo di sangue misto a bava, ed alle mie orecchie giunge la voce di Abruzzi.

“Dio, quanto parla!” esclama, probabilmente a Michael “tu ed io abbiamo molto di cui parlare”.

Sento il rumore di passi che si allontanano, seguiti da quello di una porta che viene prima aperta e poi sbattuta con forza; ricevo un ultimo calcio all’altezza dei reni prima di ritrovarmi completamente da solo nel capanno ed incapace, perfino, di urlare per richiamare l’attenzione dei miei uomini, o di un secondino.

Alla fine, non so con esattezza dopo quanto tempo, sono proprio alcuni sottoposti di Bellick a trovarmi ed a condurmi in infermeria per essere medicato; mi ritrovo, così, sdraiato su un lettino e con il polso sinistro bloccato da una manetta.

Appoggio la mano destra all’altezza dello stomaco ed inizio a gemere, a causa del forte dolore provocato dal violento pestaggio che ho appena subìto; quasi non sento le guardie uscire dalla stanza, e quando qualcuno mi rivolge la parola in tono gentile, scatto subito, irritato.

“Allora, signor Bagwell, che cosa le è successo? È in grado di raccontarmelo?”

“Ma non vedi che ho bisogno di un antidolorifico? Non c’è della morfina qui dentro? Qualcosa che non mi faccia più sentire questo dolore insopportabile?” rispondo, a denti stretti, continuando a gemere ed a lamentarmi, e la voce femminile e sconosciuta non tarda a ribattere in tono fermo.

“Lasci che sia io a decidere quello di cui ha veramente bisogno, signor Bagwell. Ora dovrebbe smetterla di lamentarsi e stringere i denti perché così mi rende tutto più difficile. Devo visitarla per controllare se ha qualcosa di rotto, e se non collabora sarò costretta a richiamare dentro le guardie, e sono sicura che i loro metodi non saranno altrettanto gentili”.

Apro gli occhi, sorpreso dalle parole che ho appena sentito, e ciò che vedo mi lascia ancora di più senza parole: davanti a me non c’è né Sara né un’infermiera, ma bensì una giovanissima dottoressa che non ho mai visto prima, con i capelli biondi, ondulati, e gli occhi azzurri; ha una cartellina in mano e mi osserva con il viso leggermente inclinato a sinistra, in attesa di una risposta da parte mia.

Anche se non ne ho la prova concreta, ho il sospetto che questo sia il suo primo giorno di lavoro a Fox River; ed il modo gentile con cui si rivolge a me, mi fa dedurre che non ha mai sentito parlare del ‘Mostro Dell’Alabama’ e che non conosce nulla riguardo al mio caso.

E questo costituisce un enorme vantaggio a mio favore.

Distendo le labbra in un sorriso conciliante e poi, finalmente, le do la risposta che sta aspettando.

“D’accordo, dottoressa, come vuole lei”.

Tengo gli occhi chiusi per tutto il tempo in cui mi visita, per controllare che non ci sia nulla di rotto o qualche seria frattura, ed in più occasioni non riesco a reprimere un brivido provocato dal tocco delle sue dita o dal profumo che emanano i suoi capelli; combatto in silenzio contro i miei demoni interiori, che continuano a sussurrarmi di non sprecare una simile occasione, di fregarmene del polso sinistro ammanettato e delle guardie pronte ad intervenire in qualunque momento, di afferrarla, strapparle il camice, i vestiti, e trasformarla nella mia nuova vittima.

Dopo quasi una decina di minuti è la stessa sconosciuta a riportarmi alla realtà, e le voci cessano all’improvviso di sussurrare oscenità e volgarità.

“Non sembra esserci nulla di rotto, ma per sicurezza le farò fare qualche esame più approfondito e per questa sera è meglio che rimanga qui. Può dirmi come è successo?” mi domanda, prendendo posto su uno sgabello posizionato affianco al mio letto.

“Posso avere un antidolorifico?” dico in tutta risposta, rivolgendo lo sguardo altrove; queste sono le uniche parole che escono dalla mia bocca, ed alla fine la ragazza acconsente alla mia richiesta e mi da un tranquillante che riesce a rilassarmi ed a farmi dimenticare, almeno momentaneamente, il dolore che ben presto si trasformerà in una moltitudine di lividi che impiegheranno settimane intere per scomparire.

Per tutto il resto della giornata alterno momenti di dormiveglia ad altri di lucidità, ed occupo questi ultimi per osservare con maggior attenzione l’ultimo acquisto dello staff medico di Fox River: si muove in modo impacciato, chiedendo spesso consiglio ad un’ infermiera dai capelli rossi e vaporosi o tormentandosi una ciocca di capelli dorati, e questo mi fa capire che non si tratta semplicemente della sua prima esperienza lavorativa.

Questa è anche la sua prima esperienza lavorativa all’interno di un carcere.

Un carcere maschile di massima sicurezza.

Un vero e proprio battesimo di fuoco.

Ma non è questo a turbarmi, bensì una questione completamente diversa.

Ogni volta che la vedo passare velocemente vicino al mio lettino, mi sembra di rivivere il primo incontro tra me e Susan: tutto ciò che ci circonda sembra sparire, ad eccezione di noi due.

E questo mi fa sentire strano, in un modo che non riesco a descrivere a parole, soprattutto perché le ferite che ho ricevuto al cuore sanguinano ancora copiosamente, anche se sono trascorsi già cinque anni dalla sera in cui il mio arresto e la fine della nostra storia hanno fatto prendere alla mia vita una nuova e brusca deviazione; ma nonostante ciò, deciso di seguire il mio istinto, e richiamo l’attenzione della nuova dottoressa proprio nel momento in cui sta uscendo dall’infermeria perché il suo turno è finito.

“Si?” mi domanda, in tono gentile, con la mano destra appoggiata alla maniglia della porta.

“Dottoressa, mi promette che il suo viso sarà la prima cosa che vedrò domani, quando aprirò gli occhi?” le chiedo, con il volto leggermente reclinato verso sinistra.

Lei solleva il sopraciglio sinistro in un’espressione incredula e sorpresa, sicuramente perché non si aspettava una simile richiesta da parte mia, ma poi le sue labbra carnose si distendono in un timido sorriso e le sue guance diventano di un rosa più acceso.

“D’accordo, glielo prometto. Buonanotte, signor Bagwell”

“Buonanotte, dottoressa” mormoro a mia volta, e quando resto da solo appoggio la testa sul cuscino, abbasso le palpebre e sospiro.

 
Nessun essere umano nasce con il dono della preveggenza.

A nessuno di noi è dato sapere in anticipo quando la propria vita cambierà per sempre.

Spesso, poi, accade nel corso di una normale giornata, che non ha nulla di diverso da tante altre.
 

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