Goddafin - Dio è con noi

di Trainzfan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dentro ***
Capitolo 2: *** Dentro (seconda parte) ***
Capitolo 3: *** Fuori ***
Capitolo 4: *** Fuori (seconda parte) ***
Capitolo 5: *** Attorno ***
Capitolo 6: *** Attorno (seconda parte) ***
Capitolo 7: *** Sotto ***
Capitolo 8: *** Sotto (Seconda parte) ***
Capitolo 9: *** In Giro ***
Capitolo 10: *** Cerca... ***
Capitolo 11: *** Trova... ***
Capitolo 12: *** Capisci... ***



Capitolo 1
*** Dentro ***


Capitolo 1 – Dentro
 
La figura era avvolta in un manto scuro, con il cappuccio calato sul capo, e avanzava con passo svelto lungo il pavimento metallico spostandosi da una all’altra delle pozze luminose formate dalle sporadiche lampade che costituivano la sola fonte di illuminazione del luogo.
Il rumore dei suoi passi, attutiti dalla vastità dell’ambiente, echeggiava fra le altissime volte oscure sovrastando, per qualche istante, il sommesso, profondo ronzio che ininterrottamente pervadeva l’intera Celeste Sede.

“Voce di Dio” era chiamata questa incessante vibrazione la quale permeava la struttura stessa dell’immensa cupola di cemento, vetro e acciaio. Anche se la mente cosciente provvedeva in brevissimo tempo ad ignorarla era qualcosa di così onnipresente e continuo che, nelle volte in cui capitava a qualcuno dei residenti di dover uscire in missione nel mondo esterno, la sua assenza dava come una sensazione di vuoto, di abbandono.

A menti non addestrate alla Dottrina avrebbe potuto provocare uno stato di depressione tale da portare alla pazzia o, addirittura, al suicidio. Per questo motivo a nessuno appartenente all’ordine che non avesse, per lo meno, il grado di opertec era permesso di lasciare la Celeste Sede.

So-Dan era immerso nei suoi pensieri mentre si dirigeva rapido verso la grande sala delle cerimonie. A causa della tarda ora l’illuminazione era ridotta al minimo a simulare, in questo ambiente totalmente chiuso e artificiale, la notte esterna.
Questa alternanza di luce e buio lungo il percorso permetteva solo a tratti di scorgere, sotto il cappuccio, i sottili e regolari lineamenti del viso del prelato.

Le caratteristiche somatiche Cinlen, tipiche dell’aristocrazia locale, lo facevano sembrare più giovane della sua reale età però i suoi occhi, di taglio orientale ma di un chiarissimo ed intenso azzurro dovuto all’influenza del DNA nordico del ceppo Siberlen della nonna materna, rivelavano una già buona maturità nonché la sua grande e vivace intelligenza che innumerevoli volte, al Seminario, gli avevano fatto ottenere le lodi degli arcigni insegnanti e l’invidia dei compagni di studio, spesso meno brillanti di lui.

L’appartenenza, poi, al clan familiare del Sommo Tecnocrate, il severo Saru-Dan III, non gli aveva certo agevolato le amicizie con i coetanei le quali, specie durante l’adolescenza, richiedono una certa dose di complicità che la sua innata sincerità, unita ad un pizzico di ingenuità, rendeva ulteriormente problematica.

Lo stemma del Goddafin, di colore bianco, spiccava distintamente sul manto nero, ancora nuovo, simbolo del suo appena acquisito grado gerarchico. Il serico tessuto di cui era composto frusciava attorno al suo esile corpo mentre si affrettava verso la celebrazione solenne del Primo Camtur, per la prima volta nella sua nuova superiore funzione di Opertec.

Ancora doveva abituarsi a questa nuova sensazione. Ricordava ancora quando, appena seienne, figlio di una delle famiglie aristocratiche più in vista della Celeste Sede, era entrato per la prima volta sotto la cupola per accedere al Seminario del Goddafin.

Secondo la millenaria tradizione il primogenito maschio di ogni famiglia aristocratica aveva il diritto di entrare al Seminario e questo era l’unica via di accesso per poter far parte della casta ecclesiastica, la sola che detenesse il potere tramite la totale gestione della Divina Energia del Goddafin.

Per i secondogeniti e le figlie femmine la via era, invece, rappresentata dall’Accademia presso la quale venivano formati i quadri direzionali laici che si occupavano di tutte le ricerche e le scienze non direttamente connesse alla gestione del Goddafin ma, comunque, utili al suo culto e conoscenza.

Dopo anni di studio durante i quali aveva imparato tutto quello che sapeva sulla teoria della Dottrina, sei anni prima, era diventato finalmente parte attiva della Celeste Sede entrando nella gerarchia con il grado minimo di Genop.
Aveva indossato per la prima volta quel manto bruno che era divenuto il suo unico abbigliamento esterno visibile per i successivi anni in cui aveva operato laboriosamente ai comandi del suo opertec e maestro Bogo-Lin.

Per anni si era rivolto a lui con gli appellativi usuali di Padre o Maestro ed aveva avuto nei suoi confronti una così grande ammirazione da sfiorare la venerazione per cui ora, nonostante avesse ottenuto lo stesso livello gerarchico, faticava non poco a trattare con Bogo-Lin quale pari grado come la Regola della Dottrina invece richiedeva.

Fino a che si trovavano in pubblico ed alla presenza dei rispettivi genop, la responsabilità creata dalla Regola e dalle usanze vinceva la sua ritrosia ma quando, come il giorno precedente, era capitato che i due si fossero incontrati in una circostanza più privata So-Dan, senza neppure rendersene conto, aveva ricominciato a rivolgersi al più anziano collega con il consueto appellativo di Maestro tanto da mettere in forte imbarazzo il suo interlocutore.

La maggioranza dei membri del clero non andava oltre il grado di opertec per tutta la loro carriera arrivando, al limite, ad accumulare decorazioni di merito rappresentate dal colore differente dello stemma del Goddafin applicato sul lembo frontale sinistro del manto nero, all’altezza del cuore.
Mentre quello del giovane So-Dan era, ovviamente, ancora bianco immacolato, quello del più anziano Bogo-Lin era di un tenue color azzurro che testimoniava, al cospetto di tutti, i grandi contributi che il proprietario del mantello aveva apportato alla Celeste Sede nonché alla maggior diffusione della Dottrina.

Nonostante, comunque, la sua giovane età e la ancora poca esperienza, So-Dan era già visto in modo speciale dagli altri in quanto, oltre ad aver già dimostrato ottime qualità e capacità, essendo nipote diretto del Sommo Tecnocrate era sicuramente destinato a raggiungere i vertici della gerarchia entro non troppi anni.
Nessuno, ovviamente, glielo avrebbe mai detto apertamente ma la cosa era abbastanza risaputa e a So-Dan dava parecchio fastidio: certo, desiderava anche lui come chiunque altro di poter, un giorno, fare carriera ma questo avrebbe dovuto essere per i suoi reali meriti e non solo perché suo zio era il Sommo Tecnocrate!

“Sarà fatta la volontà di Dio!” esclamava esasperato nella sua mente per porre fine alla ridda di pensieri quando questi superavano lo stadio di semplice disturbo arrivando ad essere come un vero e proprio uragano mentale.

Dio! Quando pensava a Dio la sua mente materializzava in modo automatico l’immagine che tutto il mondo aveva della potenza visibile di Dio sulla terra: il Goddafin!
Questi raggi di energia, illimitata e di immensa potenza che scendevano incessantemente dal cielo mandati direttamente da quel Dio che tanto tempo prima aveva deciso di manifestarsi e che, da allora, non aveva mai più abbandonato le sue creature.
I suoi studi, durante gli anni passati nel Seminario, lo avevano portato a conoscere i grandi segreti della storia di Dio.

Aveva studiato che, in epoche remote, gli uomini avevano avuto strani culti relativamente a Dio. Alcuni si basavano su una non meglio specificata armonia generale del creato, raggiungibile, pareva, solo attraverso una cosa chiamata meditazione che, sembra, fosse una sorta di stare in un luogo, soli o in compagnia, immobili aspettando quello che veniva definito come “illuminazione”, qualunque cosa questa fosse.
Altri, molto meno innocui, avevano dei credi terrificanti. Uno in particolare gli era rimasto impresso nella memoria dove veniva adorato un povero esserino emaciato orribilmente inchiodato su due tavole di legno incrociate fra loro.
 
“Terrificante!” pensò tra sé rabbrividendo.
 
La storia, tramandata dalla Dottrina, diceva che, a vedere tutto questo, Dio decise allora di manifestarsi apertamente e di aiutare tutte le sue creature. Per questo mandò il Goddafin e pose i suoi più fedeli credenti come controllori e gestori di questo immenso dono.
Nonostante questa munificenza divina molti uomini perseverarono lo stesso nel peccato fino a che Dio, disgustato, decise di scatenare la sua divina ira e, con diverse terribili piaghe, colpì l’arroganza dei bestemmiatori i quali furono gettati nel più profondo degli inferi.
Solo un esiguo numero di peccatori fu risparmiato perché potessero testimoniare, a imperitura memoria, della Giustizia di Dio.
Al contrario tutti i veri fedeli che erano stati posti a gestione del Goddafin furono preservati dall’Ira di Dio e, da lui stesso, promossi al rango di unici possessori della Verità e, quindi, unici in grado di portare a salvazione anche i pochi peccatori sopravvissuti purché questi si fossero sottomessi senza se e senza ma al volere di Dio espresso, ovviamente, per tramite dei suoi eletti.

Tutto questo succedeva quasi cinque millenni prima ed il popolo, sotto la guida illuminata del clero, era ormai totalmente fedele a Dio il quale, come chiunque era in grado di vedere, da parte sua continuava a fornire al suo popolo tutta l’energia di cui potesse avere bisogno.
So-Dan si aggiustò il cappuccio del manto la cui bordatura color oro certificava la sua appartenenza alle squadre d’élite degli addetti alla gestione del Goddafin e allungò ulteriormente il passo in quanto, oramai, mancava pochissimo all’inizio della cerimonia.

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Capitolo 2
*** Dentro (seconda parte) ***


Entrò, infine, nell’enorme sala perfettamente illuminata, già affollato dalla maggior parte dei membri del turno montante.
Vide il suo vecchio compagno di Seminario Ban-Xu che lo stava salutando con un cenno amichevole del capo coperto dal cappuccio bordato di azzurro degli opertec delle squadre addette alla manutenzione idraulica.
Rispose, sorridendo, con un cenno e proseguì per raggiungere la posizione della sua squadra.
Lungo il tragitto gli si fece incontro suo cugino Gora-Chin che era a capo di una delle squadre degli addetti alla gestione degli impianti termici ed energetici, come visibile dalla bordatura scarlatta del cappuccio del suo manto ora rovesciato all’indietro sulle spalle lasciando il suo capo totalmente scoperto. La cosa, pur non essendo specificatamente proibita dalla Regola, era comunque considerata sconveniente e poco rispettosa.
Il suo aspetto fisico, i folti capelli neri e lisci, come pure gli occhi scuri di taglio allungato denotavano le sue pure origini Cinlen.
L’arroganza dei modi e degli atteggiamenti, come sempre, infastidì il giovane prelato.
 
“Il solito esibizionista!” pensò So-Dan nel vederlo “Sa che come parente, anche se di secondo grado, del Sommo Tecnocrate nessuno avrà mai l’ardire di rimproverarlo ma così facendo non si attira certo le simpatie degli altri ed i soli ‘amici’ che ha sono quelli che lo seguono sperando nei loro interessi personali”.
 
«Ehi, fiorellino» si sentì apostrofare da Gora-Chin «è questa l’ora di arrivare?»
 
So-Dan si sentì immediatamente avvampare guardando il cugino diritto negli occhi. Dio, come odiava quel nomignolo che lo strafottente cugino gli aveva affibbiato anni prima quando, ancora decenne, era stato affrontato da Gora-Chin, di due anni più grande, che, assieme ad altri suoi degni compari, gli aveva chiesto a bruciapelo «Ma tu lo sai come nascono i bambini?» e lui, candidamente, aveva risposto quello che aveva sempre sentito dire: «Sì! Lo sanno tutti! Li porta il Divino Spirito!».
A quel punto i ragazzi più grandi, dopo essersi guardati in viso l’un l’altro, erano scoppiati in fragorose risate e suo cugino se n’era uscito con quella frase che ancora oggi gli bruciava nelle orecchie: «Ah! Ah! Avete sentito che candido fiorellino?!?».
Dopo di che si erano allontanati sghignazzando e lasciandolo lì, rosso di vergogna e con gli occhi umidi di pianto represso, davanti a tutti gli altri bambini che lo additavano.
 
«Gora!» gli disse gelido «Ti ho già detto migliaia di volte di non usare mai più quel termine men che meno alla presenza di altri! Non siamo più bambini! Guarda, piuttosto, al tuo aspetto ed al disonore che arrechi al tuo abito atteggiandoti in questo modo!».
Detto questo So-Dan passò oltre, senza altro aggiungere, lasciandosi alle spalle un Gora-Chin a metà fra il sorpreso ed il risentito al quale, ormai, non restava altro da fare che incassare il rimbrotto pubblico e rientrare nei ranghi della sua squadra borbottando stizzito: «Borioso incapace!».
Lasciatosi alle spalle quell’elemento perturbatore So-Dan riuscì in breve tempo a ritrovare il suo precedente stato d’animo. Raggiunse la posizione dove le squadre degli addetti al Goddafin si radunavano per il Camtur.
Vide immediatamente il suo vecchio mentore Bogo-Lin il quale gli si avvicinò con quel sorriso bonario che, come So-Dan ben conosceva, illuminava frequentemente il suo viso tondo da Buddha.
 
«Non te la prendere, So-Dan» esordì pacatamente con la sua sonora voce che così tante volte aveva apprezzato nel passato «è come una scimmia che pensa che il suo albero sia tutta la giungla».
 
La saggezza di Bogo-Lin era conosciuta da tutti nella Celeste Sede e So-Dan si augurava ogni giorno di poterne ottenere almeno un decimo nel corso della sua vita.
 
«Lo so, Bogo-Lin» replicò con un mesto sorriso «ma ogni volta la sua sola presenza è capace di mandare a monte ogni mio proposito, nonostante tutti i miei sforzi a riguardo».
 
«Non ti preoccupare, giovane So-Dan!» gli rispose «il tempo aiuta la saggezza contro l’impulsività ed io sono certo che tu sia già ben avviato sulla buona strada».
 
«Grazie, Bogo-Lin» disse So-Dan «I tuoi consigli mi sono stati e sempre mi saranno molto preziosi! Ora è meglio che io vada dai miei genop a vedere se tutto è a posto».
 
«Sei sempre il benvenuto» concluse l’anziano opertec.
 
So-Dan si diresse verso i suoi nuovi assistenti e, passandogli accanto, salutò cordialmente Bodi-Gan, l’altro opertec con il cappuccio bordato di giallo oro, il quale, alzando appena lo sguardo verso di lui, gli rispose con un vago mormorio.
Il giovane prelato si strinse nelle spalle continuando verso la sua squadra. Non riusciva a capire l’atteggiamento di Bodi-Gan. Questa sua scontrosità unita ai modi bruschi con cui trattava la propria squadra non lo avevano certo agevolato nella carriera tant’è che, nonostante fosse opertec da più di dieci anni, il logo del Goddafin che spiccava sul suo mantello nero era ancora di un colore candido come la neve dei monti.
Raggiunta la sua squadra li salutò e, contandoli, si accorse che ne mancava ancora uno.
 
«Dov’è Obi-Lan?» chiese agli altri ragazzi i quali, guardandosi attorno, realizzarono solo allora di non esserci tutti. Proprio in quell’istante si sentirono dei passi di corsa che si avvicinavano e, improvvisamente, comparve fra loro il viso trafelato del giovane Obi-Lan, sudato e con il cappuccio bruno bordato di giallo oro del mantello parzialmente disceso a lasciargli scoperta mezza testa adornata di capelli colore del rame attorno ad un viso chiaro con una spruzzata di efelidi sul piccolo naso.
 
«Scusate, padre So-Dan» balbettò il nuovo arrivato «non avevo sentito la sveglia».
 
Un sommesso suono di risatine soffocate provenne dal piccolo gruppo dei giovanissimi genop.
 
«Va bene, Obi-Lan, lasciamo stare.» sentenziò So-Dan con aria semi rassegnata «vedi di rimetterti in ordine e voi… piantatela di fare gli sciocchi. Siamo qui per qualcosa di estremamente serio ed importante quindi … dignità!».
 
A questo rimbrotto i ragazzi ripresero la attenta serietà che regnava prima di questo goffo contrattempo.
 
«Attenti, allievi» avvertì So-Dan rivolto alla sua squadra «fra breve arriverà il Sommo Tecnocrate e la cerimonia avrà quindi inizio. Come sapete noi siamo la terza squadra della Processione per cui saremo abbastanza vicini al Proman Saru-Dan III da essere sotto il suo sguardo diretto. Vi ricordate tutto?»
 
«Sì, Maestro So-Dan!» risposero entusiasticamente i nove genop di fronte a lui.
 
Avrebbe anche lui voluto essere così sicuro sul fatto che tutto sarebbe andato liscio. In fin dei conti, benché avesse partecipato a numerosissime celebrazioni del Camtur anche nella loro solenne versione del Primo Camtur che avveniva una volta all’anno alla presenza dello staman e dello stesso Sommo Tecnocrate, suo zio, il proman Saru-Dan III in persona, il celebrare il suo primo Primo Camtur come opertec lo preoccupava non poco.
Mentalmente ripassò l’intera procedura della cerimonia a partire dallo spalancarsi delle colossali porte scorrevoli della Sala del Goddafin, allo sfilare delle squadre uscenti fino all’ingresso della sua stessa squadra nel sancta sanctorum della Celeste Sede e, quindi, alla conseguente richiusura degli enormi portali che avrebbe segnato la fine del sacro rito ed il ritorno, finalmente, alla routine lavorativa quotidiana. Non vedeva l’ora che tutto fosse finito.

Lo schieramento, osservò, era esattamente come descritto nel cerimoniale. Dalla parte destra c’era il turno montante costituito dalle tre squadre oro degli addetti al Goddafin seguite da due squadre rosse della manutenzione energetica e termica. Dopo di questi erano posizionate le due squadre azzurre degli addetti alla manutenzione idrica con a seguito la squadra con i cappucci bordati di bianco dei dieci del servizio medico e di pronto intervento. La squadra nera degli amministrativi e missionari chiudeva, infine, lo schieramento.
Dalla parte opposta, ad esclusione delle tre squadre oro, c’era lo schieramento smontante posizionato in modo esattamente speculare.
Lo staman era al di là delle porte ancora chiuse della Sala del Goddafin e mancava, ora, solo l’arrivo del Proman Saru-Dan III. So-Dan guardò fugacemente il suo segnatempo e vide che mancava oramai pochissimo allo scattare dell’ora prima.
Sul fondo della sala si aprì una grande porta scorrendo all’interno del muro e da questa entrò la vettura del Sommo Tecnocrate che avanzò accompagnata dal lieve ronzio di un motore alimentato dalla stessa energia del Goddafin. Il bianco veicolo, scoperto e simile ad una sorta di kart, aveva un sedile anteriore su cui sedeva un opertec che portava il caratteristico manto col cappuccio bordato in nero. Alle spalle di questo vi era una sorta di piattaforma su cui troneggiava lo scranno dorato del Sommo Tecnocrate. In questo momento, mentre attraversava lentamente la sala passando di fronte alle squadre allineate, egli era in piedi avvolto nel suo candido manto adornato da preziosissimi ricami in filo d’oro, creati da grandi artisti di un remoto passato, richiamanti la simbologia del Goddafin.

Mentre la sua mano destra era sollevata in una sorta di gesto benedicente la sinistra impugnava una lunga asta metallica sormontata dallo stemma del Goddafin chiamata il Bastone del Comando. Questo non era un mero simbolo della funzione ma conteneva l’energia stessa di Dio e, per questo, aveva il potere di impartire persino la morte a chi si fosse opposto al suo volere.
Superato il luogo dove So-Dan e gli altri attendevano, il veicolo svoltò a destra e si fermò a margine di una preziosa passatoia color giallo oro la cui tessitura, si narrava, pareva risalisse addirittura al tempo del grande Saru-Dan I, circa due millenni prima.
Questa passatoia, lunga circa una decina di metri, portava ad un piccolo podio, posto appena a lato dei colossali portali ancora chiusi, dove il Sommo Tecnocrate avrebbe tenuto la breve omelia che dava il via alla solenne cerimonia.

Saru-Dan III, aiutato dal prelato autista, scese dal kart e si avviò lungo la passatoia. Salì i due gradini del podio e si voltò verso le squadre schierate.
Per qualche istante fece scorrere il suo sguardo penetrante su tutto lo schieramento che lo fronteggiava. I suoi lineamenti erano caratterizzati dal prominente naso adunco che sovrastava una bocca piccola con due labbra sottili ed esangui eternamente atteggiate in una sorta di altezzoso disgusto che il mento aguzzo rendeva ancora più marcato. I suoi occhi, intensi e chiari, erano un po’ troppo ravvicinati ed il candido cappuccio nascondeva alla vista il liscio cranio totalmente privo di capelli e le grandi orecchie lievemente appuntite.
Improvvisamente la sua voce, sottile ed un po’ nasale, uscì dagli altoparlanti disseminati sulle pareti della grande sala.
 
«Popolo di Dio!» esordì «Celebriamo oggi la solennità del Primo Camtur. Prima di iniziare il rito riflettiamo sui doni divini che giornalmente riceviamo e rendiamo grazie all’Altissimo per il Goddafin che incessantemente ci viene elargito».
 
«Rendiamo grazie a te, o Dio!» risposero all’unisono gli astanti.
 
Alzando le mani al cielo il Sommo Tecnocrate recitò:
 
«Guada a noi, o Dio, e benedici sempre la nostra Fede. Alza la tua mano sui peccatori perché temano la tua divina potenza. Rinnova anche oggi il prodigio del Goddafin e con esso glorifica i tuoi umili servi. Sia consumato dal tuo fuoco divino l’empio ed il miscredente. Sia santificato sempre il tuo popolo fedele».
 
«Ora e sempre nel Goddafin!» conclusero tutti i prelati ad una sola voce.
 
Ci fu un momento di attesa poi, d’improvviso, il silenzio fu squarciato dal penetrante suono della Santa Sirena, posizionata sul culmine della immensa cupola, la quale segnalava lo scoccare della ora prima.
 
«Che i sacri portali del Goddafin siano aperti, nel nome di Dio!» Tuonò la voce acuta di Saru-Dan III.
 
Un forte cicalino gracchiante cominciò a suonare in modo intermittente mentre una luce lampeggiante gialla ruotava alle spalle del podio. Improvvisamente gli enormi portali che separavano la sala delle cerimonie da quella del Goddafin cominciarono ad aprirsi scorrendo di lato. Una intensa luce color dell’oro, abbagliante, fuoriuscì dalla fessura che si andava allargando sempre più fra i due colossali battenti.
Man mano che il portale si apriva aumentava il volume del cupo ronzio generato dal Goddafin. Chiunque nella sala poteva percepire fisicamente la potenza di Dio stesso. Pur avendo prestato servizio nella sala del Goddafin innumerevoli volte So-Dan provava sempre un senso di timore e smarrimento come se Dio medesimo stesse penetrandolo fin nel più profondo delle sue ossa.

Si girò per un attimo attorno guardando i visi dei suoi giovanissimi genop illuminati fortemente dalla abbagliante luce. Tutti erano al loro primo Primo Camtur e le espressioni dei loro volti erano un misto di stupore e di terrore. Obi-Lan era immobile, con gli occhi sbarrati e la bocca semi aperta, totalmente assorbito dal terrificante spettacolo che si stava svolgendo davanti a lui.
Saru-Dan III discese dal podio e si portò fino ad un punto poco più avanti rispetto alla posizione attualmente occupata da Bogo-Lin il quale era a capo della prima squadra oro degli addetti al Goddafin.
I grandi portali della sala erano, oramai, completamente aperti e la luce, accompagnata dal profondo rombo, pervadeva anche tutta la sala delle cerimonie.
Dal varco aperto si videro avanzare le tre squadre smontanti precedute dalla figura dello Staman avvolta nella sua tunica scarlatta da cerimonia.
Vuoi per la solennità dei movimenti, vuoi per la sensazione di potenza emanata dal Goddafin, a So-Dan pareva veramente che Dio in persona fosse presente lì e in quel momento.
Nel frattempo le squadre guidate dallo Staman erano, a loro volta, giunte nella sala delle cerimonie e l’altro prelato dal manto scarlatto si posizionò esattamente di fronte a Saru-Dan III.
Vennero eseguiti gli adempimenti richiesti dal rito culminanti nella consegna da parte dello Staman del Sacro Testo, scritto con i misteriosi ed arcaici caratteri degli antichi, risalente ancora all’epoca in cui Dio scese sulla Terra e di cui tutti ignoravano il significato, chiamato Ordser contenuto in una preziosissima cartellina semitrasparente di una particolare materia plastica liscia, lucida e resistentissima il cui segreto di fabbricazione si era tramandato fin dalla notte dei tempi.

Il Sommo Tecnocrate replicò con le frasi di rito che da secoli lui ed ogni suo predecessore avevano innumerevoli volte recitato e, spostandosi di qualche passo a lato, lasciò libero il passaggio al prelato a capo delle squadre smontanti le quali oltrepassarono il punto dell’incontro portandosi, quindi, verso il fondo della sala.
Tutto si svolgeva immutato da tempo immemorabile secondo uno schema così collaudato da sembrare quasi una sorta di danza perfettamente coreografata.
Una volta che le squadre del Goddafin guidate dal porporato giunsero al previsto punto di arresto le squadre della manutenzione, quelle di pronto intervento e quelle amministrative smontanti avanzarono all’unisono verso il centro della sala posizionandosi subito dietro alle tre squadre appena giunte dalla sala adiacente.
Contemporaneamente le squadre montanti non destinate alla gestione del Goddafin si spostarono con ordine verso la parete alle loro spalle.
Ad un nuovo suono potente della Santa Sirena le tre squadre di cui faceva parte anche So-Dan, capeggiate dallo stesso Sommo Tecnocrate, si avvicinarono con passo solenne verso la Sala del Goddafin mentre, allo stesso momento, tutte le squadre smontanti si misero in marcia verso la porta di uscita da cui, poco prima, era entrato il kart di Saru-Dan III.

La squadra di So-Dan arrivò, infine, ai colossali portali e li oltrepassò.
Mentre questi, accompagnati dal suono del cicalino intermittente e dalla luce gialla lampeggiante, tornavano lentamente a chiudersi alle loro spalle lo sguardo di tutti i giovani componenti del gruppo di So-Dan si alzarono verso l’altissimo soffitto dell’enorme sala, a più di trenta metri sopra le loro teste, fino al larghissimo foro posto esattamente nel suo centro.
Da questo, incredibile, inconcepibile, immensa e terrificante scendeva l’abbacinante colonna bianco-oro del Goddafin o, come veniva chiamato dal Credo, il Dito di Dio.

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Capitolo 3
*** Fuori ***


Capitolo 2 - Fuori

L'altura, coperta da folta vegetazione, pareva una collina naturale. Nessuno avrebbe mai sospettato quello che il dipartimento di archeologia dell’Accademia della Celeste Sede aveva scoperto: in realtà il tutto era un manufatto risalente all’epoca degli antichi.
Dagli scritti rinvenuti, redatti in antico cinlen, pareva che l’intera struttura non fosse altro che una colossale tomba di qualche oramai dimenticato regnante dell’antichità il quale, in una sorta di megalomania, si era fatto inumare in compagnia di un incredibile esercito costituito da centinaia di personaggi di terracotta a grandezza naturale finissimamente realizzati ed ognuno diverso dall’altro.
Il piccolo gruppo di studiosi era accampato vicino all’ingresso del complesso funerario.
Di questa stagione, all’ora sesta, il sole era da pochissimo sorto e, a causa dei folti alberi presenti attorno alla base della collina artificiale, la zona era ancora avvolta nella penombra. Riccioli di sottile nebbiolina, dovuta alla reazione dell’alto tasso d’umidità della foresta a contatto con il calore dei primi raggi di sole, si agitavano tutto attorno alle quattro tende brune che costituivano la base degli studiosi.
Una di queste conteneva la piccola cucina da campo alimentata dal rack di accumulatori portatili ad alta efficienza che fornivano, anche, l’energia necessaria al funzionamento dei varii strumenti d’analisi e all’illuminazione delle tende.
Le due tende laterali erano riservate al riposo dei membri della squadra, una per gli uomini e l’altra per le donne, mentre l’ultima, un po’ più vicina all’entrata del complesso sotterraneo, era quella che tutti definivano come il “laboratorio” dove erano sistemati gli strumenti di analisi ed i reperti portati momentaneamente alla luce per poter essere studiati, misurati e fotografati prima di tornare nuovamente e definitivamente nei loro rispettivi posti all’interno del complesso ipogeo.
Il telo d’ingresso di una delle tende adibite a dormitorio venne scostato dall’interno e spuntò la testa ricoperta dai folti e lisci capelli neri di Chi-Dan. Indossava una specie di sahariana che, a causa dell’onnipresente umidità, stava già cominciando ad appiccicarglisi addosso.
Mosse, di scatto, una mano dandosi un piccolo schiaffo sul collo.
 
«Maledette zanzare!» imprecò fra sé «Ma non vanno mai a riposarsi?».
 
Si guardò attorno per un attimo, stiracchiandosi e sbadigliando, poi si avviò in direzione della tenda cucina.
Aprì gli alamari che tenevano accostati i due teli d’ingresso, li arrotolò e bloccò sui lati quindi entrò. Prese il bricco metallico dal ripiano, lo riempì con l’acqua del serbatoio potabilizzatore, lo mise sulla piastra elettrica e la attivò.
Avvertì un lieve rumore alle sue spalle. Si voltò e si trovò davanti il bel viso dai lineamenti delicati, incorniciato da riccioli biondi, di Mae-Yong, la sua giovane prima assistente.
 
«C’è un po’ di caffè anche per me?» domandò con voce ancora un poco impastata dal sonno.
 
«Se questo intruglio semi tossico lo chiami caffè, sì» rispose lui con un sorriso.
 
Appena il caffè fu pronto Chi-Dan ne versò due tazze e raggiunse la ragazza al tavolo da campo posto davanti alla tenda che fungeva da cucina.
Bevvero qualche sorso senza proferire parola circondati dai soli suoni della foresta che si andava risvegliando.
 
«Che programma per oggi, capo?» interruppe il silenzio Mae.
 
«Dobbiamo finire di catalogare i reperti che abbiamo portato fuori ieri» rispose Chi «e poi riportarli al loro posto nella camera sepolcrale. Stasera devo pure stendere un rapporto da inviare all’Accademia».
 
«Allora sarà meglio che ci diamo da fare» concluse Mae appoggiando la tazza ormai vuota sul tavolo «Sciacquo le tazze e svegliamo gli altri»
 
*/*
 
Chi-Dan, a parte per gli occhi che erano scuri, assomigliava molto al fratello maggiore So anche se solo per l’aspetto fisico. Caratterialmente, infatti, erano sempre stati alquanto diversi: dove So era molto riflessivo, Chi era, al contrario, più impulsivo e questo, specie durante gli anni dell’adolescenza, aveva più volte adombrato, pur senza comprometterli, i suoi successi di studio.
D’altra parte, mentre l’irruente fratello minore era sempre stato estremamente duttile e prontamente aperto anche a novità che, potenzialmente, avrebbero potuto portare drastici cambiamenti delle sue abitudini, il fratello maggiore era refrattario a qualunque variazione della sua normale routine quotidiana.
Era stato, quindi, un dono del destino il fatto che il tranquillo So-Dan fosse stato destinato agli studi clericali mentre l’attivo Chi-Dan aveva potuto incanalare le sue energie negli studi accademici.
La sua innata curiosità lo aveva, fin da piccolo, portato a chiedersi il perché di ogni cosa. Questo, unito alla visita che, ancora bambino, aveva fatto con la sua classe al museo della storia della Terra, aveva contribuito a fargli germogliare la voglia di studiare il passato.
Gioco forza era stato intraprendere gli studi alla facoltà di archeologia presso l’Accademia della Celeste Sede la quale, fra l’altro, era considerata la migliore attualmente esistente a livello mondiale.
Ovviamente il suo grande impegno profuso negli studi lo aveva portato, in breve tempo, ad essere lo studente con i più elevati risultati del suo corso e questo, in più di un’occasione, l’aveva salvato dai guai provocati dal suo carattere ancora troppo spesso recalcitrante nei confronti delle rigide regole accademiche.
Terminati gli studi con il massimo dei voti era stato un fatto quasi automatico essere scelto dal professor Wono-Gan per entrare a far parte della sua selezionatissima squadra di apprendisti.
Poter lavorare con il professor Wono-Gan era il sogno di tutti gli studenti della facoltà giacché egli era il luminare che, con le scoperte e gli studi della sua vita, più di chiunque altro aveva contribuito a dare lustro all’Accademia della Celeste Sede.
In brevissimo tempo, anche sul campo, Chi-Dan aveva dato dimostrazione di ottime qualità nonché di buone capacità organizzative per cui, dopo due anni di apprendistato ed altri quattro come primo assistente del professore, ora, appena trentenne, era lui stesso, per la prima volta, a capo di una squadra di ricerca incaricata ufficialmente dalla facoltà dell’Accademia di esaminare e catalogare tutti i reperti di questo incredibile sito da poco riportato alla luce.
 
=*=
 
In una mezz’ora la squadra di archeologi era pronta ad iniziare la nuova giornata di lavoro.
Erano già un paio di mesi che Chi-Dan, Mae-Yong ed i quattro aiutanti stavano lavorando sul sito con una media di una decina di ore al giorno eppure avevano l’impressione di aver a malapena iniziato: il numero di reperti presenti era talmente elevato che, per quanto si dessero da fare, non si potevano scorgere ancora risultati apprezzabili. Era come tentare di svuotare il mare con un cucchiaino da caffè.
Probabilmente, prima o poi, avrebbe dovuto segnalare la necessità di avere sul campo un’ulteriore squadra di ricerca per velocizzare il ciclopico lavoro però, per ora, Chi-Dan preferiva aspettare: non sarebbe stato certo un punto di merito per la sua carriera professionale se avesse dovuto ammettere che non era in grado di assolvere all’incarico affidatogli dall’Accademia.
D’altra parte non voleva neppure rischiare di essere accusato di presunzione per aver voluto compiere da solo un lavoro troppo grande per una sola squadra. In fin dei conti questo sito era stato scoperto da pochissimo e la sua squadra era stata incaricata anche di valutare le proporzioni reali del ritrovamento e questo si era rivelato innegabilmente di dimensioni colossali.
 
«Bah!» pensò fra sé «Staremo a vedere. Per ora facciamo finta di nulla e andiamo avanti».
 
Mentre Chi-Dan ragionava su questo, il piccolo gruppo era giunto al “laboratorio” e, aperti e fissati i lembi di chiusura, entrarono nella tenda.
All’interno vi era un tavolo pieghevole, che occupava la parte centrale dello spazio disponibile, su cui erano posti alcuni dei reperti, portati alla luce il giorno precedente, che ancora necessitavano di catalogazione e misurazioni. Lungo la parete sinistra c’era una scaffalatura metallica sui cui ripiani stavano alloggiati i varii strumenti di analisi e gli attrezzi da lavoro ben ordinati.
Dalla parte opposta rispetto all’ingresso erano, infine, allineati tutti i reperti già catalogati e pronti per essere riportati nella loro precisa locazione, all’interno del sito, dove erano stati prelevati.
 
«Ok, ragazzi!» disse Chi-Dan «Diamoci da fare!».
 
«Mae, tu provvedi a finire con le foto e le misurazioni di questi oggetti» aggiunse indicando i reperti sul tavolo «Fatti aiutare da Roen-Jon. Io e Dori-Gal andiamo dentro la tomba per selezionare i nuovi reperti da studiare».
 
«Ok, Chi» confermò Mae-Yong attivandosi immediatamente.
 
«Voi altri, intanto» finì il giovane archeologo rivolgendosi ai rimanenti membri della squadra «cominciate a riportare gli oggetti al loro posto sotto la collina».
 
«Ok!» replicarono i due giovani.
 
Chi-Dan si avvicinò alla scaffalatura degli strumenti da lavoro, prelevò un paio di pennelli che venivano normalmente utilizzati per ripulire i reperti dal leggero strato di sporcizia che il tempo aveva accumulato su di loro, un coltellino per levare le eventuali incrostazioni e la macchina fotografica per immortalare la locazione esatta dei diversi oggetti al fine di riporli, poi, nella medesima posizione di ritrovamento.
 
«Prendi anche tu un paio di pennelli e andiamo» disse a Dori-Gal, la giovane apprendista che da poco più di un mese si era aggregata alla sua squadra, completandola.
Era stato lo stesso professor Wono-Gan a fargli avere sia Mae come prima assistente che tutti gli altri membri della squadra selezionandoli non solo in base alle specifiche competenze e capacità ma anche considerando il loro carattere ed entusiasmo.
Chi-Dan era veramente soddisfatto dal risultato di quest’alchimia ed aveva in animo di incontrare il suo mentore alla prima occasione per poterlo ringraziare direttamente.
Usciti dal “laboratorio” si diressero verso il vicino ingresso del complesso sotterraneo quando udirono l’inconfondibile rumore del motore di un hovercraft provenire da un punto imprecisato appena al di là dell’accampamento.
Qualche istante dopo furono investiti dal violento vento generato dai potenti rotori che permettevano al veicolo di librarsi ad una decina di metri d’altezza appena sopra le cime degli alberi del bosco.
 
«Ma chi diavolo è?» esclamò Chi-Dan chinandosi e riparandosi il viso e gli occhi dal turbine di terra e foglie che sferzò il “laboratorio” e tutta l’area circostante.
Il veicolo si allontanò in direzione della piccola radura nel bosco, posta ad una cinquantina di metri più in là, dove erano parcheggiati i due hovercraft da trasporto della spedizione.
 
«Ora vado là e gli dico il fatto suo a quel demente!» affermò il giovane archeologo accigliato e si avviò di corsa verso il luogo dove aveva visto dirigersi il veicolo disturbatore.
In lontananza, attutito dalla barriera formata dagli alberi, si sentiva il rumore dei rotori che, dopo l’atterraggio del mezzo volante, andavano spegnendosi.
Chi-Dan giunse nella radura giusto in tempo per vedere una figura avvolta in un manto nero uscire dalla cabina dell’hovercraft e dirigersi verso di lui.
«Ehi, tu!» lo apostrofò l’archeologo «Hai la più vaga idea del disastro che hai appena combinato? Che cosa diamine hai nella testa?!?».
 
Il prelato appena giunto si bloccò travolto dall’impetuoso torrente di rimbrotti ricevuto poi, dopo qualche istante, si avvicinò all’alterato Chi-Dan, tirò indietro il cappuccio del mantello lasciandolo ricadere sulle spalle scoprendosi la testa e, allungando amichevolmente la mano destra, disse sorridendo: «Buongiorno a te, Chi! Piacere di rivederti».
 
Per un lungo momento l’archeologo rimase immobile, con la bocca ancora aperta nel rimprovero, fissando il giovane viso roseo sormontato dalla folta chioma bionda del nuovo giunto.
 
«Roda-Yong! Tu?» riuscì, infine, a spiccicare.
 
«Già. E come sta la mia bella sorellina?» replicò il prelato.
 
«Bene, sta bene» disse Chi-Dan ora un po’ esitante «Ma che diamine ci fai tu qui?».
 
«Missione dalla Celeste Sede» rispose con tono enigmatico il nuovo arrivato «Ho viaggiato per buona parte della notte per arrivare».
 
«Immagino» replicò l’archeologo che aggiunse «vieni al campo così mi spieghi cosa ti ha spinto fino a questa remota regione mentre ci prendiamo un caffè».
 
In quell’istante il trasmettitore a corto raggio che portava appeso alla cintura gracchiò e la voce di Mae esordì: «Chi, cosa è successo? Rispondi».
 
Portato l’apparecchio al viso Chi-Dan rispose: «Nulla, Mae. Vieni, per favore, al campo». E chiuse la comunicazione.
Giunti nell’area delle tende Chi fece accomodare al tavolo il biondo prelato e si accinse a preparare un bricco di caffè fresco.
Quasi subito giunse nello spiazzo anche Mae che esordì: «Ma che diav…».
 
Riconoscendo improvvisamente il giovane ospite, l’assistente archeologa rimase, per un istante, bloccata a metà frase per la sorpresa poi, correndo gli ultimi passi che la separavano da lui, gridò: «Roda! Fratellone!».
 
Il biondo prelato ebbe appena il tempo di alzarsi che fu assalito dalla felicissima sorella minore. Erano passati diversi mesi da quando l’aveva incontrata l’ultima volta in occasione del compleanno della loro madre, Lady Yong.
 
«Mae, Mae…» la rimproverò scherzosamente «chi ti ha insegnato a parlare in quel modo, signorinella?!?».
 
La giovane si staccò di poco dal fratello, fece un ostentato inchino reso ancora più comico dall’ambiente circostante, e dichiarò: «Chiedo umilmente perdono a Sua Santità».
 
La finta solennità dell’atto fu definitivamente rovinata dalla irriverente linguaccia che Mae aggiunse al termine delle sue scuse.
 
«Ci rinuncio» desistette Roda allargando le braccia in un gesto di scherzosa rassegnazione «Sei decisamente incorreggibile» e la riabbracciò affettuosamente.
Chi, nel frattempo, aveva portato tre tazze di caffè al tavolo e ci si era seduto. Il prelato si sedette, a sua volta, di fronte a lui e la sorella gli si accomodò accanto.
Roda-Yong assaporò qualche sorso di caffè caldo gustando il sollievo che gli dava dopo la nottata trascorsa guidando attraverso le selvagge regioni che li separavano dalla cupola della Celeste Sede.
 
«Allora, Roda» esordì, infine, il giovane archeologo ansioso di sapere cosa fosse accaduto di così importante da mandare un inviato fin in quella remota regione «Che cosa ti ha portato fin qui?».
 
Il biondo opertec smise di sorseggiare il suo caffè e disse: «Come ti accennavo, missione dalla cupola. Mi manda direttamente Saru-Dan III in persona».
 
Chi-Dan fu molto sorpreso da questo.
 
«Che desidera da me il mio augusto zio?» chiese meravigliato.
L’ultima volta che aveva visto suo zio risaliva a qualche mese prima quando aveva assistito ad una cerimonia pubblica. L’ultima occasione in cui gli aveva potuto rivolgere la parola, invece, … non se la ricordava nemmeno più.
 
«Non ne ho la minima idea, Chi» replicò Roda scuotendo lievemente il capo «però mi ha ordinato di venire a prenderti e portarti da lui».
 
«Cosa?!?» esordì incredulo l’archeologo subito interrotto dal biondo prelato il quale continuò: «Ti aggiungo che, oltre a sottolinearmi l’estrema urgenza, mi ha imposto il totale riserbo su questa missione».
 
A quest’affermazione la sorpresa di Chi-Dan aumentò ancora di più. Che cosa poteva esserci di così urgente che il Sommo Tecnocrate in persona mandasse un emissario a centinaia di chilometri di distanza, in una landa selvaggia, per convocarlo, per di più in segreto.
La cosa, naturalmente, era da non prendere alla leggera ma, d’altra parte, anche il lavoro che stava svolgendo lì era di enorme importanza.
 
«Mi dispiace» cominciò a dire Chi con un poco di ritrovata calma «ma non mi è assolutamente possibile, almeno per ora, allontanarmi dal sito. Siamo nel pieno dello studio di questo enorme ed incredibile luogo. Non se ne parla nemmeno!» attestò concludendo.
 
«Ho paura, Chi, che questa non sia una questione trattabile» replicò, serio, Roda guardando l’archeologo negli occhi. «Il Sommo Tecnocrate è stato molto esplicito su questo» continuò l’opertec «Non mi è consentito tornare senza di te a bordo».
 
Mentre questa conversazione si svolgeva il viso di Chi-Dan mostrò, in sequenza, i sentimenti che lo attraversavano.
L’iniziale sorpresa era divenuta incredulità fino ad arrivare, ora, quasi a livello di ira a stento repressa.
 
«Questa spedizione» replicò rosso in viso «è qui sotto mandato ufficiale dell’Accademia e, quindi, solo il consiglio direttivo delle facoltà può consentire il mio allontanamento dal sito».
 
«Capisco la tua posizione, Chi, ed i tuoi sentimenti» disse Roda conciliante «ma ti posso assicurare che il consiglio direttivo dell’Accademia non avrebbe facoltà di opporsi ad un ordine diretto di Saru-Dan III. In ogni caso non ci sarebbe attualmente né la possibilità né il tempo di seguire i normali canali ufficiali».
 
«Dai, Chi» intervenne Mae che aveva fino a quel momento assistito in silenzio alla discussione «non ti preoccupare. Qui ci possiamo pensare noi in tua assenza. Tanto in un paio di giorni sarai indietro e potremo riprendere senza problemi».
 
«Forse hai ragione» assentì infine il giovane archeologo «D’altra parte se questi reperti hanno aspettato qui per qualche migliaio di anni penso che potranno aspettare ancora qualche giorno».
 
«Perfetto» concluse allora Roda «Prendi su quello che ti può servire per il viaggio e andiamo. Prima si parte, prima arriviamo».
 
«Ma sei appena arrivato!» protestò sua sorella imbronciandosi.
 
«Già, ma non c’è tempo da perdere» affermò il prelato «Avrò tempo di riposarmi quando sarò tornato alla cupola… spero!».
 
«Ok, dai» disse Chi-Dan, ormai convinto, alzandosi ed avviandosi verso la tenda che fungeva da dormitorio maschile «Prendo il mio zaino e andiamo».
 
Dieci minuti dopo erano tutti riuniti nella radura a fianco dell’hovercraft di Roda-Yong.
 
«Va bene, ragazzi» disse Chi mentre saliva a bordo del veicolo «ci vediamo in un paio di giorni. Mi raccomando, Mae, ricordati…».
 
«Sì, Chi» lo interruppe lei con un lieve sospiro di esasperazione «lo so… lo so. È tutto a posto. Vai, ora!».
 
Roda si sedette nell’abitacolo a fianco di Chi-Dan e cominciò ad azionare gli interruttori che avviavano i rotori.
Premette il bottone che attivava la chiusura a cupola trasparente della cabina del veicolo mentre i membri della squadra di archeologi si tiravano indietro per non essere investiti dal turbine di polvere ed erba secca provocato dall’hovercraft che iniziava a prendere quota.
Arrivato all’altezza di una decina di metri, al di sopra delle cime degli alberi, ruotò su se stesso fino a puntare in direzione est, lungo la rotta che li avrebbe portati alla loro lontanissima destinazione.
Aumentarono i giri della grande elica posteriore che comandava il moto orizzontale del veicolo e questo partì scomparendo subito alla vista.
In qualche secondo anche il rumore del motore andò affievolendosi fino a svanire del tutto ed i rumori usuali della foresta tornarono a regnare tutt’attorno.
 
«Forza, ragazzi» invitò Mae-Yong «Torniamo al nostro lavoro ‘che di cose da fare ne abbiamo abbastanza!».
 
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Capitolo 4
*** Fuori (seconda parte) ***


Chi-Dan vide la terra allontanarsi sotto di loro mentre il veicolo si sollevava sotto la spinta dei potenti rotori posti sotto l’hovercraft, uno al centro della metà anteriore e l’altro al centro di quella posteriore. Entrambi aspiravano aria dai corrispondenti fori superiori mentre il foro posto in centro alla parte anteriore del mezzo e le prese d’aria laterali servivano al raffreddamento dei motori.
Sopra la parte posteriore del veicolo troneggiava una grandissima elica, ingabbiata in una struttura metallica, che era utilizzata per il moto orizzontale coadiuvata da una coppia di alette metalliche verticali di grandi dimensioni che, ruotando lateralmente in entrambe le direzioni, fungevano da timone.
L’abitacolo, sufficientemente spazioso, era predisposto per il trasporto di cinque passeggeri oltre al pilota ed i comandi erano piuttosto semplici limitandosi ai controlli del moto verticale e ad una specie di joystick per la guida orizzontale.
Il giovane archeologo si accomodò nel confortevole sedile accanto al pilota accingendosi al lungo viaggio che li attendeva e lasciò vagare il suo sguardo sulla foresta che scorreva veloce sotto di loro nella luce ormai piena del mattino.
 
*****
 
Ben presto ogni traccia della posizione del campo svanì dietro le loro spalle mentre la distesa verde che ricopriva quasi completamente la pianura, fiancheggiata a nord da basse montagne lussureggianti, si stendeva immutabile sotto di loro. Viaggiarono sopra questo paesaggio per un’ora circa finché un grande fiume color ocra non incrociò la loro strada. Qui Roda-Yong intervenne sui comandi di direzione portando l’hovercraft direttamente sul centro del corso d’acqua e, direzionandosi contro corrente, puntò il veicolo verso nord.
 
Dopo un breve tragitto, d’improvviso, le alture, che fino ad allora si erano intravviste in distanza, furono accanto a loro e, sempre seguendo il fiume, il giovane prelato alla guida si infilò in una stretta e sinuosa vallata circondata da pareti verticali completamente ricoperte dalla vegetazione tipica di quelle zone particolarmente calde e umide.
 
Il grande fiume, nel corso dei millenni, aveva scavato profondamente il terreno attraverso cui scorreva per cui, ora, la vallata che i due cinlen stavano percorrendo era costituita da un profondo canyon le cui pareti erano impenetrabilmente rivestite da vegetazione costituita da alberi ad alto fusto i quali sovrastavano un sottobosco intricatissimo e popolato da una enorme varietà di animali i quali, grazie all’isolamento naturale creatosi, prosperavano senza alcun disturbo, ormai, da parte di quella che in passato era stata la creatura più pericolosa esistente sul pianeta: l’uomo.
 
Dopo un iniziale blanda curiosità Chi-Dan distolse lo sguardo dal panorama sempre uguale, sempre verde, che lo circondava e si mise a frugare all’interno del suo zaino da viaggio più per impegnare un poco il tempo di viaggio in una qualche attività che per una reale necessità. Si ritrovò a riflettere sul fatto che, secondo le ultime ricerche sul campo effettuate, tutta la zona che stavano sorvolando era stata, in un lontanissimo passato, abbastanza densamente popolata; i resti rinvenuti parlavano chiaro. Ora, invece, più nessun essere umano popolava queste zone divenute, ormai, totalmente selvagge.
 
Poco più in là, semi nascosta da alcune larghe foglie di un grande albero, una scimmia cappuccina, incuriosita dall’insolito rumore, volse per un istante la testa al passaggio dell’hovercraft a non più di qualche decina di metri di distanza per poi tornare immediatamente alle sue misteriose attività quotidiane.
 
Erano ormai trascorse più di tre ore dal momento in cui Chi-Dan ed il giovane prelato che gli faceva da pilota erano partiti dal campo ed il grande fiume era divenuto una striscia color giallo che si muoveva pigramente lungo un percorso sinuoso e avviluppato quanto un serpente in preda al mal di pancia. Vista la vicinanza fra di loro delle diverse anse del corso d’acqua, Roda-Yong era, al momento, alquanto impegnato con la guida. Alla sinuosità del fiume, poi, si aggiungeva il fatto che il giovane pilota non aveva minimamente accennato a rallentare la propria marcia per cui la sua perizia di guida era costantemente messa alla prova.
Fortunatamente questa parte del percorso non durò a lungo; dopo meno di un quarto d’ora di slalom selvaggio il paesaggio si allargò un poco in una vallata che proseguiva diritta per una decina di chilometri puntando sempre verso nord. Al suo termine il corso d’acqua, che era ormai da molto la loro guida, si gettò nuovamente fra due pareti verticali a picco che li accompagnarono per il successivo paio di ore.
 
Poi, improvvisamente come erano comparse diverse ore prima, le montagne si aprirono e una immensa pianura si stese davanti a loro mentre sulla destra, seguendo gli ultimi contrafforti rocciosi, ecco comparire i resti antichissimi di una costruzione merlata, lunga e stretta, la quale, partendo da quasi sulle sponde del fiume, proseguiva verso nord-est lungo il crinale perdendosi in distanza nel nulla.
 
Poco dopo il fiume compiva una decisa svolta verso ovest-nord-ovest e Roda-Yong lo seguì mantenendosi sempre al centro del corso d’acqua. Trascorse un’ulteriore ora senza storia quando, leggermente spostato verso nord, comparve ai loro occhi la vista di un laghetto dalle acque completamente nere. A quanto pare il colore di questo era dovuto al fatto che le basse alture che lo circondavano erano ricche di carbone e che in un passato remotissimo innumerevoli cave a cielo aperto erano state scavate per ricavarne il materiale i cui scarti venivano gettati in quelle acque creando quindi quell’effetto lugubre e, allo stesso tempo, affascinante che quella pozza d’acqua aveva.
 
L’hovercraft puntò decisamente verso nord ed ora, non più ostacolato da altro che basse e morbide colline, il veicolo poteva viaggiare alla sua massima velocità di quasi trecento chilometri orari. A ricordo del passato minerario della zona innumerevoli profondissime buche brulle a forma di imbuto punteggiavano l’intero panorama.
 
Dopo circa un’oretta la monotonia della tundra che sfuggiva sotto il veicolo da un centinaio di chilometri fu interrotta da alcuni piccoli punti bianchi: capanne di pastori nomadi monglen che immutabilmente, da millenni, conducevano la loro vita al di fuori di ogni uso o regola che il resto dell’umanità aveva nel frattempo creato.
Al passaggio dell’hovercraft la porta di legno dipinta di bianco di una delle costruzioni si aprì di un poco ed il visino sporco di una bambina di quattro o cinque anni di età fece capolino da essa; lo sguardo incuriosito seguì il veicolo che sfrecciava qualche metro al di sopra del suolo a breve distanza da lei. Improvvisamente una mano la afferrò dall’interno per il colletto del vestito tirandola di colpo dentro la capanna e la porta si richiuse immediatamente dietro di lei.
 
Non mancava più di un’ora di viaggio quando il torpore in cui era caduto Chi-Dan fu scosso dalla vista di una mandria enorme di cavalli selvaggi, preda molto ambita dai nomadi della zona, che fuggiva spaventata dal rumore dei rotori a piena potenza. Il giovane archeologo restò incantato ad osservarli correre attraverso la polvere sollevata dai loro possenti zoccoli svanendo presto dietro una delle basse colline che punteggiavano l’altrimenti monotona distesa della tundra sopra cui già da molto volavano.
 
*****
 
Era oramai da diverso tempo che la luminosissima colonna del Goddafin era visibile, possente ma in un qual modo aggraziata, diritta giù dal limpido cielo, quando un baluginio lontano rivelò ai due sull’hovercraft la posizione esatta della cupola della Celeste Sede.
 
«Finalmente siamo quasi arrivati» osservò Roda
«Già» confermò Chi «ne avevo decisamente abbastanza di tutto questo deserto!».
 
In poco tempo si trovarono a transitare sulla verticale del villaggio di Nabir il quale si trovava ad una ventina di chilometri dalla colossale cupola verso cui erano diretti.
Sotto di loro scorreva la normale attività degli abitanti della piccola comunità.
Tutta la gente che s’intravvedeva, al lavoro nei campi o in movimento sulla strada, era vestita con i tipici indumenti semplici del popolo dai classici colori brunastri del tessuto grezzo.
Appena fuori dal piccolo agglomerato di casupole basse del colore della terra con cui i mattoni venivano fabbricati un gruppo di bambini nudi stava giocando presso una pozza di acqua fangosa che, con ogni probabilità, non avrebbe superato nemmeno la soglia minima di qualsiasi test batteriologico.
Attraversarono in volo la strada in terra battuta che si dipartiva dal villaggio, sulla quale stavano transitando due giovani popolani spingendo una sorta di carretto, e si diressero verso il muro esterno fortificato della Celeste Sede.
Dagli altoparlanti della radio di bordo uscì il suono di una scarica di energia statica. Subito dopo si udì una voce metallica:
 
«Qui controllo Celeste Sede a hovercraft da rotta Sud. Fatevi riconoscere. Cambio».
 
«Qui opertec Roda-Yong di ritorno da missione esterna di priorità uno con veicolo HCP123. Attendo istruzioni d’ingresso. Cambio».
 
«Bentornato, opertec Roda-Yong. Permesso di accesso accordato su portale 15, hangar 6, settore rosso, posto 12. Cambio».
 
«Ricevuto, grazie. Chiudo».
 
Conclusa la conversazione roda si rivolse verso Chi e, con aria un poco stupita, esclamò: «Caspita! Hangar 6, settore rosso! Quella è una zona riservata alle sole autorità! Tuo zio deve proprio avere urgenza di incontrarti!».
 
Anche Chi-Dan si meravigliò ma decise che era inutile lambiccarsi il cervello sulle motivazioni. In ogni caso, presto, il mistero si sarebbe risolto.
Oltrepassato il muro esterno attraverso il pesante portale corazzato, su cui era dipinto un enorme numero 15, si diressero, a velocità ridotta e ad appena una ventina di centimetri dal suolo, verso lo scivolo d’ingresso dell’hangar assegnato.
Giunsero, infine, al settore rosso dell’hangar 6, situato ad una trentina di metri sotto il livello del suolo, e parcheggiarono al posto numero 12, appena a lato del corridoio che portava agli ascensori ultra veloci della cupola, contrassegnato dalla scritta, in rosso, “riservato”.
Spento il propulsore Roda-Yong sbloccò la cupola trasparente che chiudeva l’abitacolo del veicolo che si aprì ruotando verso l’alto sui suoi cardini nascosti.
Scesero dall’hovercraft e, con passo rapido, Roda guidò Chi lungo il corridoio metallico ben illuminato fino alle porte dei turbo ascensori.
Dopo pochi istanti si udì un sommesso tintinnio e la porta di uno degli ascensori scivolò di lato nella parete.
Entrarono ed il giovane prelato inserì un codice sulla tastierina numerica posta a lato della porta della cabina. Questa, silenziosamente, si chiuse e Chi-Dan avvertì una lieve sensazione di movimento verso l’alto.
Nonostante che l’effetto di salita fosse quasi impercettibile il giovane archeologo sapeva che gli ascensori della cupola raggiungevano velocità fantastiche permettendo di muoversi attraverso decine di livelli in pochissimi istanti.
Per quanto l’ufficio del Sommo Tecnocrate fosse situato in uno dei punti più elevati della colossale cupola, nelle vicinanze della sala del Goddafin ad oltre cento metri sopra la vasta pianura circostante, dopo pochi istanti la cabina si fermò e la porta si aprì.
Scesero in un ampio atrio luminoso dal soffitto alto in cui il colore predominante era il giallo oro mentre sulla parete di fronte alle porte degli ascensori troneggiava, colossale, il simbolo del Goddafin, in versione mosaico, del diametro di cinque metri. Sotto di questo attendeva una figura avvolta nel manto nero con il cappuccio bordato in giallo oro degli opertec addetti alla gestione del Goddafin.
 
«Benvenuto, Chi» salutò il prelato avvicinandosi ai due appena arrivati.
Chi-Dan riconobbe subito la voce di suo fratello maggiore So-Dan e, quando fu vicino, lo abbracciò con calore.
Era parecchio che, a causa dei rispettivi impegni di vita, non avevano l’occasione di incontrarsi.
 
«Ciao, fratellone!» disse Chi rilasciando l’abbraccio. «Che sta succedendo?» chiese, poi, con una punta di apprensione.
 
«Qualcosa di molto interessante» rispose So-Dan «Ma non è il caso di parlarne qui. Vieni. Lo zio ci sta aspettando».
 
«Scusa, So» intervenne il giovane archeologo che solo allora si era ricordato di avere indosso ancora il vestiario da lavoro che si era messo quella mattina. «Non mi sembra il caso che mi presenti dal Sommo Tecnocrate conciato a questo modo, ti pare?».
 
So-Dan lo fissò per un istante poi replicò: «Non ti preoccupare. Si tratta di un’udienza assolutamente privata e lo zio sa che sei appena arrivato dal sito degli scavi. Andiamo ora. Più tardi avrai modo di sistemarti».
 
Detto questo s’incamminò verso un corridoio in fondo alla grande sala.
Chi-Dan si voltò un momento a salutare Roda-Yong che attendeva già presso la porta dell’ascensore poi si pose al seguito del fratello maggiore il quale, a passo svelto, lo condusse verso l’ufficio privato di Saru-Dan III.
 
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Capitolo 5
*** Attorno ***


Capitolo 3 - Attorno

Tar’as e Har’ak avevano appena finito il giro quotidiano di raccolta dei rottami ferrosi col cui commercio vivevano e stavano spingendo il loro carretto lungo la strada sterrata che, passando attraverso il villaggio di Nabir, li avrebbe condotti da Bar’ok, il fabbro.
 
«È sempre più difficile trovare buoni rottami» commentò Tar’as all’amico e socio «Bisognerà tornare a fare un giretto alla discarica della cupola».
 
«Preferirei evitare» replicò Har’ak «Sai benissimo quanto sia pericoloso avvicinarsi alla cupola. L’ultima volta c’è mancato un nulla che ci trasformassero in bersagli mobili per le loro frecce!». Aggiunse, rabbrividendo al solo ricordo.
 
«Già» convenne l’amico «ma ti ricordi, anche, quanto ci abbiamo ricavato col vecchio Bar’ok?» concluse ammiccando.
 
Har’ak si strinse nelle spalle anche se, riluttante, dovette convenire con quanto Tar’as aveva affermato: quella era roba di primissima qualità!
Dalla loro destra udirono l’insolito rumore di un motore in rapido avvicinamento. D’improvviso comparve sopra di loro un hovercraft il quale, rapidissimo, attraversò la strada sterrata transitando proprio sulla loro verticale, scomparendo subito, alla loro sinistra, sopra i tetti bassi delle case in direzione della cupola.
Il transito del veicolo sollevò una grandissima e turbinante nuvola di terra che sferzò con violenza su di loro, il loro carico e tutto quanto stava attorno.
Entrambi alzarono istintivamente le braccia per ripararsi il volto da quella, se pur piccola, vera e propria tempesta che, dopo qualche istante, prese a depositarsi nuovamente sulla strada.
 
«Maledetti preti!» imprecò Tar’as tossendo e sputacchiando a causa del pulviscolo che ancora aleggiava nell’aria.
 
«Ehi, smettila!» gli si sovrappose Har’ak con aria spaventata guardandosi attorno con apprensione.
 
Quando vide che nessuno era a portata di orecchio aggiunse: «Non dire queste cose! E se ti sentiva qualcuno?».
 
«Chi se ne frega!» insistette Tar’as «Lo sanno tutti che noi del popolo, per loro, siamo solo un fastidio o, al limite, giusto qualcosa da usare».
 
«Tu sei pazzo, Tar’as» attestò Har’ak scuotendo il capo «Un giorno di questi Dio si ricorderà di te e allora …»
 
«… e allora, forse, sarà la volta buona che li fulminerà tutti quanti con la sua potenza!» lo interruppe il giovane popolano finendo di scrollarsi di dosso tutta la terra e la polvere che gli si era infilata dovunque, sopra e dentro agli indumenti.
 
«Non cambierai mai» concluse rassegnato Har’ak «Comunque stai attento, fratello; non voglio perdere il mio socio preferito. Non ancora, per lo meno!» aggiunse ridendo e facendo l’occhiolino all’amico.
Con questo i due amici ripresero la strada verso la bottega di Bar’ok.
 
Da lontano la fucina poteva essere scambiata per una qualunque delle altre casupole che la circondavano se non fosse stato per l’incessante colonna di fumo che fuoriusciva dal foro posto sulla sommità del tetto conico che la sovrastava. Avvicinandosi ci si accorgeva che tutto il lato anteriore della costruzione era aperto mancando completamente la relativa parete.
Questo era necessario in quanto aiutava a smaltire l’intenso calore generato dall’attività. All’interno si notava subito la grande fornace, dove il metallo veniva fuso per essere poi lavorato.
A fianco di questa, nella penombra, vi erano due grandi mantici i quali servivano ad alimentarne il fuoco. A manovrarli vi erano due ragazzini di circa una dozzina di anni.
A vederli, uno vicino all’altro, sembrava quasi di guardare dentro ad uno specchio tanto si assomigliavano: erano, infatti, i due figli gemelli di Bar’ok, Tor’ok e Mor’ok.
Entrambi indossavano due semplici perizomi della solita stoffa grezza che tutto il popolo usava e, a causa del calore intenso, i loro corpi luccicavano di sudore nella semioscurità riflettendo i bagliori danzanti del fuoco.
Il duro lavoro cui attendevano ormai da un paio di anni aveva iniziato a dare i suoi frutti sui due giovanissimi corpi che, infatti, mostravano già notevoli e guizzanti fasce muscolari le quali, di lì a pochi anni, avrebbero permesso loro di diventare come loro padre che troneggiava di fronte al crogiuolo con i suoi 130 chilogrammi di peso distribuiti su di una altezza di un paio di metri.
Già dotato di una più che notevole statura, Bar’ok sembrava ancora più grande a cause del basso soffitto della costruzione. Ad ogni modo persino il pesante maglio, che non molti avrebbero potuto agevolmente anche solo sollevare, nelle sue possenti mani sembrava, quasi, il giocattolo di un bambino.
 
«Ehi, Bar’ok!» lo chiamò Tar’as, urlando, nel tentativo di sovrastare il frastuono provocato sia dal maglio che batteva, modellandolo, su di un pezzo di metallo ancora rovente, sia dal ruggito del fuoco che divampava nella fornace.
Il gigante guardò in direzione della voce per un istante poi, assestato un ulteriore colpo al pezzo cui stava lavorando, lo immerse nel grande bidone pieno d’acqua che aveva a lato dell’incudine dal quale immediatamente si sollevò una grossa nuvola di vapore accompagnata dallo sfrigolio del metallo che si raffreddava di colpo.
Deposto il pezzo raffreddato si voltò e, sempre brandendo l’enorme maglio, si diresse verso i due ragazzi i quali, di fronte a lui, parevano due ragazzetti nonostante avessero anche loro una buona statura e corporatura.
Bar’ok, da parte sua, indossava un paio di brache tipiche dell’abbigliamento del popolo ed un grande grembiule di cuoio che lo proteggeva dagli eventuali schizzi di metallo incandescente che, facilmente, si potevano generare nel suo lavoro.
La pettorina del grembiule conteneva a mala pena il torace il quale non nascondeva minimamente l’enorme forza che i suoi possenti pettorali potevano generare.
Sopra di questo un collo degno di un toro sorreggeva, a sua volta, una testa altrettanto massiccia caratterizzata da un viso dai tratti decisamente Monglen: i piccoli occhi porcini sovrastavano due guance, paffute e rubizze a causa della continua esposizione al calore del fuoco della fornace, ed un grosso naso schiacciato a patata.
I lunghi ed incolti capelli erano attualmente raccolti in una specie di coda sulla nuca trattenuta da un laccio di stoffa. Il suo aspetto, nella maggior luce dell’esterno, era, se possibile, ancora più terrificante, quasi una sorta di dio Vulcano uscito direttamente dagli inferi, ed anche i due amici, che pur lo conoscevano da tempo, restarono momentaneamente bloccati.
Il gigante ammiccò un paio di volte in attesa che i suoi occhi si abituassero alla luce esterna, guardò i due ragazzi e, finalmente, li riconobbe.
A quel punto, istantaneamente, il suo viso s’illuminò in un grande sorriso, quasi fanciullesco.
 
«Ecco qui i miei due ragazzi preferiti!» tuonò con una voce così profonda da far avvertire attraverso l’aria le vibrazioni della stessa ai suoi interlocutori.
Detto questo lasciò cadere a terra il maglio che aveva ancora in mano e abbracciò calorosamente entrambi i ragazzi i quali, per un momento, sentirono scricchiolare le proprie costole sotto la forte pressione.
 
«Bar’ok, vecchio orso, un giorno di questi ci ammazzerai con i tuoi abbracci!» protestarono scherzosamente i due giovani popolani una volta riusciti a liberarsi dalla ferrea stretta.
 
«Oh! Oh!» ridacchiò l’uomo. Poi, con curiosità: «E allora?... Cosa mi avete portato questa volta? Vediamo… vediamo…» e, con questo, si avvicinò al carretto dei ragazzi strofinandosi le mani sul grembiule.
I due amici gli mostrarono tutto l’assortimento di rottami metallici che avevano raccolto e restarono a guardarlo ansiosi.
 
«Non sarà molta roba ma è tutta di alta qualità» decantò Tar’as alla fine.
 
«Mmm…» commentò il fabbro girandosi tra le mani alcuni pezzi metallici e osservandoli con occhio critico «Non sono mica una donnetta del mercato ‘che mi raccontate la merce! Diciamo che è robetta giusto discreta».
 
«Ma che dici?!» ribatté il ragazzo, con aria offesa, prendendo in mano due zappette ancora parzialmente lucide, pur se contorte «Guarda che favola, ‘ste due! È Roba della cupola, questa! Mica di quella che fai tu!».
 
«Prego?» interruppe, con tono minaccioso, Bar’ok.
 
«Ehm… cioè… dai…» farfugliò Tar’as incerto non sapendo bene quanto c’era di scherzoso e quanto no nel tono del gigante. «Insomma,» concluse «quanto ci dai?».
Questo, finalmente, dava il via alle trattative vere e proprie che, come d’abitudine, andarono avanti per parecchio tempo alternando momenti di concitata contrattazione ad altri in cui un osservatore esterno, non a conoscenza degli usi, avrebbe potuto pensare che i tre si sarebbero ammazzati l’un l’altro senza pietà.
Infine, come previsto dalle consuetudini, un accordo soddisfacente per tutti fu raggiunto e, scaricati i rottami ferrosi nonché caricati i manufatti del fabbro, frutto del baratto, i tre si salutarono calorosamente tornando ognuno alla propria attività.
 
«Dobbiamo ricordarci di andare a prendere la farina al mulino e la stoffa che tua sorella voleva» ricordò Har’ak all’amico.
 
«Si. Si. Lo so» rispose questi continuando a spingere il carro di buon passo «Vediamo di muoverci a fare tutto così poi, magari, facciamo in tempo a fare un giretto esplorativo alla discarica della cupola».
 
Har’ak emise un sospiro rassegnato, alzando gli occhi al cielo e pensando fra sé: «No! Decisamente non cambierà mai!».
 
****

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Capitolo 6
*** Attorno (seconda parte) ***


Dol’in si era recata, di buon mattino, alla Casa del Missionario in quanto, in famiglia, avevano assolutamente bisogno di nuovi utensili per lavorare la terra.
A questo fine si era portata appresso, su di un carretto spinto a mano, un grosso sacco di farina da utilizzare come offerta in cambio.
Suo fratello insisteva a voler utilizzare quelli che poteva barattare con Tar’as e diceva che, piuttosto che andare a chiedere qualcosa alla missione, avrebbe lavorato la terra con le sue stesse mani nude.
Ma lei sapeva benissimo che gli attrezzi fatti da fabbro Bar’ok erano costruiti utilizzando metalli riciclati e pieni di impurità per cui, in poco tempo, divenivano inutilizzabili e bisognava di nuovo sostituirli.
Quelli della cupola, invece, erano di metallo puro; ci voleva parecchio prima che perdessero l’affilatura e, soprattutto, erano molto più robusti e duraturi.
Lui lamentava che, per averli, bisognava farcirsi delle cose che quei “trincia-parole”, così li definiva, dei preti volevano mettere in testa al popolo e, comunque, l’offerta richiesta era troppo alta.
Quante volte aveva tentato di dirgli che, se continuava così, un giorno Dio lo avrebbe colpito con uno dei castighi tremendi dei quali i missionari raccontavano ma lui, per tutta risposta, si limitava sempre ad alzare le spalle, voltandosi ed andandosene via commentando: «Beh, quando vorrà farlo sa dove trovarmi».
Meno male che in famiglia c’era almeno lei a rimediare alle cose! Così pensava mentre varcava la soglia della missione.
Già dall’esterno la Casa del Missionario si distingueva da tutti gli altri edifici che la circondavano in quanto, oltre ad avere dimensioni più che doppie, sul retro, nella parte riservata esclusivamente ai missionari, era su due livelli, cosa che non aveva uguali in nessuna delle abitazioni dei popolani.
L’interno, dalla parte accessibile al pubblico, nonostante la presenza di altre persone del popolo venute per la funzione, era fresco e silenzioso.
Dalla soglia d’ingresso si accedeva direttamente al locale dove si sarebbe svolta la funzione. Questo era molto vasta per lo standard delle costruzioni del villaggio in quanto misurava una decina di metri di larghezza per altrettanti di profondità ed il soffitto stava circa a quattro metri dal suolo.
Il pavimento, costituito da un’unica grande lastra di pietra, era perfettamente liscio e lucido a causa del passaggio su di esso di migliaia e migliaia di piedi nel corso dei secoli attraverso i quali la Casa del Missionario aveva svolto la sua sacra funzione.
L’unica interruzione in esso era costituita dalla base rialzata su cui stava l’altare. Questo era costituito da una lastra di metallo con superficie satinata, dello spessore di circa cinque centimetri, e sagomata come una specie di “U” rovesciata larga un paio di metri e profonda uno.
Le pareti, bianche d’intonaco e lisce, erano disadorne ad eccezione del simbolo del Goddafin, scolpito nel legno, appeso a circa tre metri dal suolo sulla parete alle spalle dell’altare, quella rivolta a meridione.
Una porta di legno al di sotto di esso, attualmente chiusa, portava alle stanze private dei missionari a cui nessun altro poteva accedere.
La luce che illuminava l’ambiente pioveva dall’unica apertura circolare, posta in alto, al centro della parete sopra al simbolo del Goddafin, e disegnava una grande lama di sole che scendeva obliqua verso il pavimento come una sorta di riproduzione, in piccolo, del santo raggio dell’energia di Dio.
Quando si trovava in questo ambiente Dol’in avvertiva la sensazione di essere realmente al cospetto di Dio e questo la faceva sentire a disagio in quanto il pensiero correva subito alle accese e vibranti prediche dei missionari tutte miranti a far capire al popolo quanto peccatori fossero stati i loro antenati e quanto lo fossero, tuttora, loro stessi. Aggiungevano, poi, che chiunque non si fosse pentito di tutti i propri peccati poteva solo aspettarsi di finire fra le fiamme eterne dell’inferno, lontano dalla luce e dalla grazia di Dio.
E lei era decisamente spaventata da quella prospettiva e già infinite volte, ormai, si era sinceramente pentita di tutti i peccati che poteva aver commesso, sia lei che tutta la sua famiglia, in tutta la vita e, pure, di tutti quelli mai commessi e di cui nemmeno conosceva l’esistenza.
 
«Oh, gran Dio del Goddafin!» pregava in silenzio in un angolo dello spazioso locale «Perdona i nostri peccati e abbi pietà di tutti noi; soprattutto di quel testone di mio fratello Nar’in» aggiunse concludendo.
Ad un certo momento si accorse del silenzio totale che era calato tutto attorno. I popolani presenti si erano sistemati per seguire la funzione che stava per iniziare mentre la porta alle spalle dell’altare si apriva e ne usciva un uomo avvolto nel mantello nero, con la bordatura del cappuccio del medesimo colore, che lo identificava come un opertec missionario.
Col viso nascosto sotto l’ampio cappuccio il prelato si portò a passo lento fino all’altare, restò un momento a guardare i popolani che gli stavano dinnanzi poi la sua voce interruppe il silenzio annunciando:
 
«Che il grande Dio del Goddafin sia con noi misericordioso! Aprite il vostro cuore al pentimento per poter essere meno indegni di ricevere la Sua parola».
 
«Pietà di noi, Signore!» risposero all’unisono i presenti, secondo la formula stabilita.
 
La funzione proseguì, secondo l’usuale cerimoniale, per una mezzora farcita di continui avvertimenti ed incitamenti al pentimento da parte dell’opertec missionario accolte con assorta attenzione dai popolani presenti.
Al termine Dol’in si mise in fila dietro agli altri fedeli che attendevano il loro turno per indicare al missionario le proprie offerte e richiedere quanto ognuno di loro necessitava.
 
Giunto il suo turno la ragazza offrì: «Buon padre, vi ho portato questo sacco di farina di grano della migliore qualità» e, con questo, indicò la sua offerta che aveva deposto accanto al muro al suo ingresso.
 
«Bene, figliola» rispose serio il prelato «Hai qualche richiesta da fare?».
 
«Abbiamo bisogno di nuove zappe per il campo perché quelle vecchie, ormai, sono senza filo e mezze contorte, padre».
 
«Quanti siete in famiglia?» chiese l’opertec.
 
«Siamo io, mio fratello maggiore ed i nostri genitori» rispose.
 
«E come mai tuo fratello non è qui con te, figliola?» indagò il missionario guardandola attentamente diritto negli occhi.
 
Il cuore di Dol’in mancò un battito a quella domanda. Sentiva quegli occhi indagatori penetrarla fin nel più profondo ed il suo sguardo si abbassò in direzione del pavimento di fronte a lei.
Non voleva mentire ad un rappresentante di Dio ma non poteva neppure dirgli la verità in quanto le sarebbe probabilmente costata l’offerta senza ottenere nulla in cambio o, forse, anche peggio. Quel sacco di farina rappresentava un grosso sacrificio per la sua famiglia giustificato appena dagli attrezzi nuovi chiesti in cambio.
 
«È dovuto rimanere a casa per aiutare i nostri genitori nel campo, padre. Lui è più forte di me» riuscì, infine, a sussurrare la ragazza, sempre con gli occhi fissati a terra, mentre le guance le si imporporavano per l’emozione.
Il prelato restò a fissarla, in silenzio, per qualche istante, pensoso, poi distolse lo sguardo, si voltò ed aprì un armadio dentro cui erano custoditi diversi attrezzi nuovi di alta qualità chiaramente usciti dalle officine della cupola.
A fianco di questi, su di un ripiano, vi erano anche altri piccoli oggetti che lei aveva visto solo saltuariamente addosso ad alcune donne appartenenti alle famiglie più importanti del villaggio: fermagli e spille luccicanti e lavorate finemente… bellissime!
 
«Posso darti queste due zappe, figliola» offrì il missionario porgendo alla ragazza i due attrezzi nuovi fiammanti.
 
Lei li prese fra le mani ma restò li ferma ancora un poco, titubante, con gli occhi fissi, come ipnotizzata, su quei piccoli, bellissimi accessori personali.
Il prelato la guardò un istante con aria interrogativa poi, seguendo lo sguardo di lei, capì che cosa la stava ancora trattenendo. Stava per ordinarle di andarsene poi, vedendola così giovane e, nonostante la scarsa cura ed igiene, carina emise un piccolo sospiro di esasperazione, si girò, afferrò una delle spille più semplici e gliela appuntò sul corpetto della tunica dicendole brusco:
 
«E adesso fila». Sottolineando la frase con un secco ma leggero buffetto sulla spalla.
A quel tocco, come si fosse attivato un qualche tipo di contatto, Dol’in si riscosse e corse fuori dall’edificio quasi che avesse avuto il demonio stesso alle calcagna.
Non riusciva a capacitarsi di aver avuto veramente il coraggio (o la sfrontatezza?!?) di fare quello che aveva fatto; una spilla splendente tutta per lei!!
Solo a quel punto, ormai ad una certa distanza dalla Cassa del Missionario, si rese conto dell’altra enormità che aveva commesso: era scappata via senza neppure ringraziare!
 
«Oh, Dio, perdonami!» invocava tra sé mentre camminava lungo la strada, fuori da Nabir, che tornava verso casa sua spingendo il carretto su cui aveva depositato i preziosi attrezzi datile dall’opertec.
 
«Oggi stesso farò ammenda per questa mancanza, giuro!» promise a se stessa.
Abbassò lo sguardo sul corpetto del suo misero vestito.
La spilla le rimandò il luccichio brillantissimo dei riflessi dei raggi del sole.
Un sorriso le sfiorò le labbra mentre affrettava il passo lungo la strada verso casa.
 
=*=

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Capitolo 7
*** Sotto ***


Capitolo 4 - Sotto

So-Dan camminava con andatura calma ma decisa guidando il fratello Chi lungo l’ampio e deserto corridoio che portava verso lo studio personale di loro zio, il Sommo Tecnocrate Saru-Dan III.
Lungo la strada l’opertec rassicurò nuovamente il fratello circa l’informalità dell’incontro a cui si stavano recando.
 
«Non ti preoccupare per gli indumenti che hai indosso» gli disse «Avrai tempo più tardi per sistemarti. Ora è molto più importante recarci subito dallo zio che ci sta già aspettando».
 
«Ma non puoi, almeno, accennarmi il motivo di questa urgenza e segretezza?» protestò un’ultima volta l’ormai rassegnato archeologo.
 
«No, Chi» replicò laconico il giovane prelato «Abbi pazienza ancora un momento. Siamo praticamente arrivati. Ora saprai tutto direttamente da lui. Così Egli stesso ha comandato!».
 
Saru-Dan era seduto alla sua scrivania, nella penombra creata dai vetri polarizzati alle sue spalle, e osservava la parete di fronte a lui la quale, come se fosse stata trasparente, mostrava il corridoio esterno ed i due fratelli che lo stavano percorrendo.
Quando i due giunsero davanti alla porta del suo ufficio, Saru-Dan III fece passare la sua mano destra, con un gesto rapido, su di un sensore nascosto incastonato nel piano della sua scrivania. A questo segnale la polarizzazione dei vetri alle sue spalle si abbassò permettendo così alla luce del sole di tornare ad inondare la stanza.
Contemporaneamente la parete di fronte a lui si opacizzò tornando ad avere il suo abituale aspetto di solido muro al centro del quale troneggiava un grande ologramma rappresentante l’onnipresente sacro simbolo del Goddafin.
Sempre restando seduto dietro la propria scrivania il Sommo Tecnocrate comandò l’apertura della porta la quale scivolò di lato, nella parete, permettendo l’ingresso dei due che attendavano.
 
«Benvenuti, nipoti» li accolse Saru-Dan con quello che avrebbe voluto essere un sorriso ma che, in realtà, sembrava più una sottile crepa che increspi un, altrimenti impenetrabile, muro di pietra.
Imitando il fratello che lo precedeva, Chi-Dan chinò lievemente il capo come risposta al saluto e si pose a fianco dell’opertec, in piedi, davanti alla scrivania.
Era la prima volta che il giovane archeologo si trovava nell’ufficio privato del Sommo Tecnocrate e, quindi, approfittò del momento per guardarsi un poco attorno.
Sulla parete alla loro destra vi era un mobile lungo e basso, di colore grigio chiaro con finiture più scure, dotato di cassetti, stipetti, ripiani a giorno e delle vetrinette, alcune illuminate, contenenti un eterogeneo assortimento di oggetti, non tutti immediatamente identificabili, ma sicuramente di grande valore.
Alla loro sinistra una parete spoglia interrotta da un unico oggetto: un quadro, di due metri per uno, raffigurante, in dimensioni reali, lo stesso Saru-Dan III, a figura intera, vestito con lo sfarzoso abito cerimoniale simbolo della sua funzione.

Chi-Dan sapeva, in quanto gli era stato riferito in confidenza dal fratello, che quel ritratto celava la porta che conduceva agli appartamenti privati del Sommo Tecnocrate.
Alle spalle di questi, un poco spostata sulla sinistra, c’era una grande porta finestra che costituiva l’unica fonte di luce naturale della stanza e attraverso la quale si accedeva alla spaziosa terrazza sita, praticamente, alla sommità della cupola stessa della Celeste Sede.
La stanza era dotata anche di altre fonti di luce. Infatti, oltre ad una lampada da tavolo posta all’estremità destra della scrivania, l’intero soffitto della stanza emetteva una diffusa luminescenza lattiginosa la quale, pur rischiarando perfettamente l’ambiente, non creava alcun effetto d’ombra né particolari riflessi sulle lisce superfici delle diverse suppellettili.

Di fronte ai due giovani stava, infine, la grande scrivania del loro augusto zio. Anche questa era in sintonia con il carattere del suo austero proprietario.
Lunga un paio di metri e larga uno, appoggiava a terra su due massicci parallelepipedi d’acciaio posti ognuno ad un opposto lato della scrivania e connessi tra di loro da un piano, dello stesso materiale, su cui era fissata una lastra, perfettamente levigata, di ossidiana purissima da tre centimetri di spessore.
La caratteristica più stupefacente di questo particolare materiale era che, nonostante la sua naturale lucentezza, nel lontano passato in cui era stata fabbricata aveva subito un trattamento per cui, oltre a non emanare alcun riflesso, il suo colore nero era talmente assoluto da dare l’impressione di assorbire la luce stessa quasi fosse una sorta di piccolo buco nero.
 
«Accomodatevi» invitò Saru-Dan indicando brevemente loro le due comode sedie imbottite poste di fronte alla scrivania.
 
I due fratelli si sedettero e, subito, fu chiaro un altro piccolo espediente utilizzato dal Sommo Tecnocrate per sottolineare la propria posizione di predominio: la scrivania e la poltrona di Saru-Dan III erano montate su di una pedana, perfettamente mimetizzata, per cui il Sommo Tecnocrate, nonostante la sua normalissima statura che non superava il metro e settanta, si trovava sempre con il proprio capo un poco più in alto rispetto a chiunque altro fosse seduto di fronte a lui.
Non appena accomodati Chi-Dan fece per chiedere all’alto prelato circa le motivazioni della loro convocazione ma questi, intuendo la domanda e prevenendo il nipote, lo fermò con un breve gesto della mano sinistra alzata.
 
«So, Chi, che ti stai domandando circa il motivo per cui siete stati convocati così d’urgenza ed in segreto» esordì Saru-Dan «ed ora che siete qui posso chiarirti le motivazioni. Sono certo che anche tu capirai subito dopo che non era possibile fare altrimenti».
 
Detto questo il Sommo Tecnocrate, per la prima volta, si alzò da dietro la scrivania per avvicinarsi al mobile basso alla sua sinistra.
Chi-Dan poté, quindi, osservare che il vecchio prelato indossava una specie di sarong, di ottima fattura e qualità, costituito da un paio di comodi pantaloni color grigio ferro in cui era infilata una camicia bianca, con scollo a “V” e senza colletto. A dividere i due capi d’abbigliamento una ricca fusciacca di seta nera. Sopra alla camicia indossava, invece, una giacca aperta, del medesimo colore dei pantaloni, lunga fino a metà coscia e riccamente decorata con ricami color giallo oro. In ultimo le scarpe, comodi mocassini in morbidissima pelle, dello stesso colore dei ricami della giacca.

Con movimenti fluidi e decisi Saru-Dan si mosse lungo il mobile fino a giungere davanti ad una delle vetrinette illuminate. Questa conteneva uno strano oggetto a forma di disco del diametro di circa una decina di centimetri e con uno spessore di un paio.
Il prelato aprì la vetrinetta, prese delicatamente l’oggetto tra le mani e richiuse lo sportello di cristallo tornando alla sua poltrona dietro la scrivania.
 
«Questo oggetto» disse il Sommo Tecnocrate rivolgendosi al nipote Chi-Dan «è stato rinvenuto qualche tempo fa durante una spedizione di ricerca della nostra Accademia».
 
Detto questo porse attraverso il piano del tavolo l’oggetto al giovane archeologo che, con grande delicatezza, lo accolse fra le mani.
L’oggetto dava, al tatto, una sensazione serica ed aveva un aspetto lucido e cromato. Inoltre, mentre su di un lato era perfettamente liscio, sull’altro recava, in bassorilievo, il simbolo sacro del Goddafin. Era qualcosa di stupefacente nella sua semplicità e bellezza.
Appena preso in mano l’oggetto fu colpito dal fatto che, nonostante il solido aspetto metallico, il lucentissimo disco era molto più leggero di quello che ci si sarebbe normalmente aspettato.
 
«È strano che sia così leggero!» commentò immediatamente.
 
«Già!» constatò lo zio che lo stava osservando in silenzio, attentamente «e non è tutto. Seguimi».
 
Detto questo si alzò nuovamente dalla sua poltrona e si recò verso il punto, alle sue spalle sulla destra di Chi-Dan, dove era alloggiato il suo bastone di comando cerimoniale che emanava una lieve luminosità azzurrina la quale indicava che il simbolo di comando del Sommo Tecnocrate stava ricaricandosi dell’energia del Goddafin che lo alimentava.
Il giovane archeologo si avvicinò allo zio e, con stupore tale che quasi gli fece cadere il prezioso oggetto dalle mani, si rese conto che pure esso era circonfuso da una delicata luminescenza azzurrina.
Istintivamente indietreggiò di un paio di passi e la luminescenza dell’oggetto svanì. Tornò a riavvicinarsi e questa, immediatamente, si accese di nuovo.
 
«Proprio così!» affermò Saru-Dan III «Questo è quello che, più di tutto, mi ha colpito».
 
«Considerando la stranezza della sua leggerezza» commentò Chi-Dan quasi stesse parlando a se stesso «e questa iterazione con una fonte energetica si può ipotizzare che, in realtà, si tratti di un congegno, cavo all’interno, e dotato anch’esso di un campo energetico di qualche tipo…»
 
Solo a quel punto il giovane archeologo si rese conto che, ignorando totalmente l’alto prelato, si era girato dirigendosi di nuovo verso la sua sedia scrutando l’oggetto che aveva tra le mani, come se non vi fosse null’altro attorno, voltando quindi irrispettosamente le spalle all’augusta figura del Sommo Tecnocrate.
Ammutolì e si voltò verso lo zio, rosso in volto per l’imbarazzo.
 
«Esatto!» confermò il Sommo Tecnocrate facendo un gesto di accondiscendenza al nipote. «Questo è quello che anch’io ho sospettato fin da subito e la tua immediata comprensione della cosa mi conferma che l’averti convocato è stata la giusta scelta».
 
Chi-Dan, nel frattempo, era tornato a sedersi e continuava a rigirarsi il discoide fra le mani.
 
«Ma come posso esservi utile, eminenza?» chiese, ancora un poco imbarazzato per il suo precedente sgarbo, il giovane.
 
«Quello che abbiamo bisogno di scoprire» disse Saru-Dan «è se questo oggetto contenga effettivamente una fonte di energia e, soprattutto, qual è il suo scopo; a che cosa serve!»

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Capitolo 8
*** Sotto (Seconda parte) ***


 
Il Sommo Tecnocrate appoggiò i gomiti sui braccioli della sua poltrona, unì la punta delle dita delle mani appoggiandoci sopra lievemente il mento aguzzo e rimase in silenzio qualche istante fissando il nipote archeologo il quale continuava a spostare il proprio sguardo fra il viso del suo augusto parente e l’oggetto che ancora teneva fra le mani.
 
«Sua Eminenza» riuscì, infine, a dire «è possibile sapere dove e quando questo manufatto è stato rinvenuto?».
 
«Certo» replicò l’alto prelato «Questo disco è stato rinvenuto circa due anni fa in Unlen. Più esattamente a pochi metri dall’ingresso della piramide cosiddetta di Cheope situata in quella che, in antichità, era conosciuta come Piana di Giza».
 
Chi-Dan rimase ammutolito per la sorpresa. All’epoca presunta di quella spedizione lui era già assistente del professor Wono-Gan quindi, teoricamente, avrebbe dovuto essere a conoscenza di qualsiasi ricerca importante organizzata dall’Accademia della Celeste Sede.
Sicuramente avrebbe avuto notizia di qualunque ritrovamento di una certa importanza e questo discoide era senz’altro una scoperta epocale. Come era stato possibile che nell’ambiente non si fosse saputo nulla? Non aveva nemmeno avuto notizia dell’esistenza di una simile spedizione di ricerca la quale, visto il lontanissimo territorio nel quale si sarebbe svolta, doveva aver necessitato di ingenti mezzi e lunghe preparazioni.
 
«Non stupirti, Chi» intervenne Saru-Dan interrompendo così la ridda dei suoi pensieri «Non tutto quello che succede passa sempre per i… diciamo… canali ufficiali».
 
«N… non capisco…» balbettò confuso il giovane archeologo.
 
«Anche dell’esistenza di questo nostro incontro» si apprestò a spiegare il Sommo Tecnocrate «non vi è alcuna traccia e nessuno ne è a conoscenza a parte noi tre e, parzialmente, il giovane prelato che ti è venuto a prelevare stamane. Nemmeno ai più alti vertici sia dell’Accademia che dello stesso clero».
 
Chi-Dan, sbalordito dalla rivelazione, si voltò verso il fratello So il quale, fino ad allora, si era limitato ad essere una muta presenza al suo fianco. Questi, con un sorriso, gli rimandò un cenno di conferma con il capo.
 
«Per questo motivo tutto quello che in questa occasione verrà discusso e deciso dovrà essere considerato strettamente confidenziale» continuò Saru-Dan «quello che io ho bisogno che tu faccia, nipote, è di andare in Unlen portando con te quell’oggetto e trovare la risposta alle domande che ci siamo posti: che cosa è e a che cosa serve».
 
«È evidente che la soluzione di questo mistero può costituire un grande passo in avanti nella nostra conoscenza di Dio e del potere stesso della nostra famiglia» concluse il prelato scrutando attentamente le reazioni del nipote attraverso i suoi occhi che, in quel momento, erano ridotti a due fessure indagatrici.
Chi-Dan era ancora frastornato dalle rivelazioni ricevute e ci volle qualche istante perché la sua mente analitica cominciasse a macinare dati e a porsi domande.
 
«Eminenza,» esordì «potete anche voi capire che una missione del genere non può essere eseguita da un solo uomo ma necessita di una squadra la quale, naturalmente, deve essere costituita da ricercatori preparati. Poi ci vogliono tempo, mezzi, risorse di una certa consistenza. Bisogna considerare anche la lunghezza stessa del viaggio…».
 
Saru-Dan III lasciò scorrere il torrente di parole del nipote per qualche istante ancora poi lo interruppe: «Lo so, nipote».
 
Il giovane archeologo tacque in attesa che il suo illustre zio continuasse.
 
«Sei autorizzato a portare con te tutti gli elementi che reputerai necessari della tua squadra di ricerca» riprese il prelato «Ricorda che della loro riservatezza ne risponderai personalmente e direttamente a me!».
 
«Beh, sì, ovviamente» commentò Chi-Dan «ma occorrerà comunque tempo e mezzi per recuperare le attrezzature, le scorte di viveri e approntare i veicoli necessari ad affrontare un viaggio di mesi attraverso terre semi selvagge. In più la mia squadra si trova ancora presso il sito di scavi dove stavo lavorando a centinaia di chilometri da qui…»
 
«So anche questo» interruppe nuovamente il Sommo Tecnocrate «Dammi i nomi delle persone della tua squadra che necessiti. Ho già provveduto ad informare l’Accademia che c’è bisogno di un’ulteriore squadra di ricerca sul sito dove stavate lavorando e questa è già pronta a partire quindi, entro una decina di ore, la tua squadra sarà qui all’interno della cupola».
 
Chi-Dan aveva la sensazione di essere stato travolto da un fiume in piena, sballottato qui e là dagli avvenimenti che si stavano accavallando gli uni sugli altri a velocità frenetica. Solo qualche ora prima si era svegliato nella tenda vicino agli scavi, pronto per un’abituale giornata di lavoro dedicata alla catalogazione dei reperti ed ora, invece, si trovava qui, a centinaia di chilometri di distanza, a colloquio privato con il Sommo Tecnocrate e con l’incarico di partire per una nuova inaspettata ricerca, improntata alla massima segretezza, dagli esiti incerti e di una portata al di là di ogni suo più sfrenato sogno.
Quasi automaticamente il giovane archeologo stilò la breve lista di nomi dei membri della sua squadra tralasciando solamente Dori-Gal ed uno dei due nuovi acquisti. Gli dispiaceva di non convocare Dori-Gal ma, d’altronde, qualcuno con la competenza necessaria doveva pur restare agli scavi per indirizzare i lavori della nuova squadra che sarebbe giunta su posto.
 
«Si!» si disse «Per questa volta dovrò fare a meno di lei».
 
«Molto bene!» annunciò Saru-Dan III ritirando l’elenco di nomi che il nipote gli stava porgendo «Ora penso io a tutto quanto. Chi, non appena tu e la tua squadra sarete pronti a partire So mi avviserà».
 
Chi-Dan, imitando il fratello maggiore, si alzò e, con un lieve inchino del capo, salutò lo zio il quale rispose con un informale cenno della mano.
I due fratelli si voltarono, oltrepassarono la porta dell’ufficio che si era aperta al loro avvicinarsi e si avviarono lungo il medesimo corridoio dal quale poco prima erano giunti.
Arrivati all’atrio, dove si trovavano gli ascensori ultra rapidi, So-Dan salutò il fratello Chi dandogli appuntamento, da lì ad un paio di ore, presso l’appartamento dell’archeologo.
Mentre il più giovane entrava nella cabina dell’elevatore che lo avrebbe portato ai livelli residenziali, dove era il suo alloggio, il fratello opertec attraversò l’uscio di una porta mimetizzata nella parete a lato che dava accesso alla zona della cupola riservata agli addetti della gestione del sacro raggio del Goddafin.
Nella penombra creata dalla porta finestra polarizzata Saru-Dan osservò sulla parete-schermo di fronte alla sua postazione i due nipoti che si separavano andando ognuno per la propria strada.
Poi, disattivata la vista olografica del corridoio, attivò il sistema di comunicazione inserito nella sua scrivania componendo un codice di tre cifre sul tastierino numerico virtuale che si era formato a pochi centimetri di altezza sopra il piano del tavolo.
Attese qualche secondo dopo di che, al posto della parete che si era riformata, comparve un ufficio dalle dimensioni di poco inferiori al suo ma arredato con un gusto decisamente diverso.
Dietro la scrivania in mogano massiccio vie era seduto un altro prelato con indosso il manto scarlatto proprio della sua funzione. Nell’angolo in alto a destra della visione olografica 3D la scritta risplendeva, rossa, identificando l’occupante della stanza come lo Staman della cupola di Geneve, In Eurolen.
 
«Che il santo Dio del Goddafin ti sia sempre favorevole, onorevole Saru-Dan» salutò formalmente l’alto prelato «Come posso aiutarvi?».
 
«Che il Goddafin sia anche con te, staman De Lacroix» rispose il Sommo Tecnocrate «Ho bisogno della vostra collaborazione per un’importante missione. È inutile aggiungere che lo scopo di questa è assolutamente confidenziale. Ufficialmente si tratterà di una ricerca storica e geologica nella regione più settentrionale di Unlen».
 
«Capisco perfettamente, Vostra eccellenza» replicò senza esitare la figura con il manto scarlatto «Volete dirmi di che mezzi, attrezzature ed eventuale personale necessitate?».

«Nella giornata di domani arriveranno da voi quattro persone tra cui mio nipote Chi-Dan» replicò Saru-Dan «Serviranno due hovercraft da trasporto dotati anche di sistemi di trasmissione per lunghe distanze con almeno tre gruppi ripetitori. A questo aggiungete tre o quattro popolani sterratori e, ovviamente, un veicolo anfibio per il trasporto di tutto quanto dalla costa fino ad Unlen».
 
«Sarà fatto come Vostra Grazia desidera» concluse De Lacroix con un lieve inchino del capo «Ci sono altre richieste?».
 
«No, Staman» disse il Sommo Tecnocrate «Per ora basta questo».
 
«Sta bene, eccellenza» replicò il prelato occidentale «che il sacro Goddafin sia sempre con voi».
 
«E con la tua cupola» chiuse Saru-Dan interrompendo la comunicazione.
 
«Bene» pensò fra se mentre la parete di fronte a lui tornava nuovamente ad assumere la sua abituale solidità «Ora non resta che attendere che la squadra di Chi sia pronta. Poi potremo finalmente dare il via a questa ricerca da cui, sono certo, usciranno risultati strabilianti».
 
* - *
A causa di un periodo di lavoro che si preannuncia parecchio impegnativo avviso tutte le persone che stanno seguendo questo racconto che i prossimi capitoli potranno venire postati con un poco di intervallo fra uno e l'altro. Vi prego di non avermene fin da ora.
Grazie comunque a tutti.
Trainzfan (aka Roberto)

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Capitolo 9
*** In Giro ***


Capitolo 5 - In Giro
 
Un suono annunciò a Chi-Dan che qualcuno era in attesa alla porta di ingresso del suo appartamento da single all’interno della zona residenziale della Celeste Sede. Egli si portò nel vestibolo e, dal visore incorporato allo pannello interno dell'uscio, poté vedere il familiare volto del fratello So in attesa. Immediatamente sbloccò il meccanismo d'accesso e la porta scivolò silenziosamente nella parete.
 
"Benvenuto, So" lo accolse Chi, abbracciandolo "Accomodati".
 
Accettando l'invito, il prelato entrò nell'appartamento del fratello e la porta si richiuse immediatamente alla sue spalle.
 
"Vieni, dai" lo sollecitò il giovane archeologo "accomodati in salotto. Ho proprio bisogno di fare due chiacchiere con te a proposito di tutta questa faccenda".
 
So-Dan si sedette sul funzionale divano a tre posti che si trovava di fronte alla video-finestra del salotto di Chi; in quel momento mostrava una vista virtuale dell'esterno della cupola al tramonto. Chi-Dan, presi un paio di bicchieri e una bottiglia di birra di riso dal frigorifero in cucina, si sistemò sulla comoda poltrona che stava dalla parte opposta del basso tavolino di cristallo posto di fronte al divano dove si trovava il fratello.
 
"Vorrei tanto sapere cosa c'è dietro alla richiesta di zio Saru" esordì Chi-Dan versando il fresco contenuto della bottiglia in entrambi i bicchieri "Non riesco a capire il perché di tutta questa segretezza. Quello che è stato scoperto due anni fa in Unlen è di enorme importanza eppure non se ne è fatto cenno o parola nemmeno all'interno della facoltà di archeologia. Veramente non capisco".
 
So-Dan sorseggiò dal suo bicchiere gustando il refrigerio della bevanda mentre lasciava che suo fratello Chi terminasse il discorso poi, con calma, replicò:
 
"Ti posso solo dire, caro Chi, che fino all'altro giorno non ne sapevo nulla neppure io. Sono stato convocato dal Sommo Tecnocrate due giorni fa e solo in quell'occasione mi ha accennato al disco metallico che hai visto, senza peraltro mostrarmelo. In seguito mi ha chiesto chi, secondo me, potesse essere la persona più affidabile ed esperta in materia per proporgli il complesso incarico di scoprire che cosa essa sia".
 
L'archeologo notò che il fratello, nella sua risposta, aveva enfatizzato il titolo spettante alla figura ufficiale dello zio e, imbarazzato per i suoi precedenti modi forse un po' troppo confidenziali, arrossì lievemente.
 
"Quindi" riuscì, infine, a proferire "mi stai dicendo che nemmeno tu ne sai nulla? Ora sì che mi sto veramente preoccupando!"
 
"Rilassati, Chi" replicò l'opertec con maggiore informalità "Se zio Saru ha detto che tutto è già organizzato significa realmente che tutto è a posto. Certo, anche io mi sto domandando come è possibile, per te e la tua squadra, essere pronti a partire per una meta così lontana nel giro di poche ore; ad ogni modo vedrai che tutto si risolverà nella migliore delle maniere".
 
Pur non totalmente convinto Chi-Dan capì che, comunque, il fratello non sarebbe stato in grado di dirgli nulla più di questo. Consumata la birra di riso che ancora era nei loro bicchieri, quando So si alzò per andarsene, Chi lo accompagnò alla porta. Qui si salutarono e si abbracciarono caldamente: sapevano entrambi che sarebbe passato un bel po' di tempo prima che fossero in grado di incontrarsi nuovamente.
 
"Ah!" esclamò il prelato mentre varcava la porta "Dimenticavo di dirti una cosa importante: non appena ti sarai incontrato con la tua squadra, recatevi ai turbo elevatori e andate su nell'ufficio privato del Sommo Tecnocrate. Lui vi darà le istruzioni di cui avrete bisogno per il viaggio. Tieni" soggiunse poi estraendo un riquadro in materiale plastico dalla tonaca "questa è una card che ti permetterà di salire fino al piano dell'ufficio di zio Saru".
 
Poi alzato il cappuccio bordato d'oro della sua tunica sul capo si allontanò lungo il corridoio deserto.
 
Chiuso l'uscio, Chi-Dan appoggiò sul mobile dell'ingresso la card, raccolse i due bicchieri dal tavolino del salotto e li portò in cucina dove li lavò e li ripose nello stipetto poi si diresse verso la camera da letto attigua a vestirsi per recarsi all'incontro con la sua squadra la quale, sicuramente, a quell’ora doveva essere già arrivata.
 
* * *
 Un quarto d’ora più tardi Chi-Dan giunse all'Agorà. Pur essendoci stato numerose volte lo spettacolo che si aprì davanti ai suoi occhi lo lasciò comunque, per un attimo, senza fiato. L'Agorà era il più vasto spazio chiuso che si fosse mai visto. Grande come due campi da calcio si protendeva verso l'alto per dieci livelli. Metà del livello più basso era affollato da decine di locali e spazi comuni dove l'aristocrazia della Celeste Sede poteva rilassarsi e ritemprarsi nei momenti di libertà da studi o lavoro. Dalla parte opposta, invece, un terzo dello spazio era occupato da un boschetto attraversato da vialetti ben curati che conducevano fino ad un laghetto artificiale posto all'estremità della vasta area. Già di per sé vedere una così grande quantità di acqua in una zona totalmente circondata da centinaia di chilometri quadrati di deserto e steppa era uno spettacolo incredibile. Se questo non bastasse, il laghetto veniva costantemente alimentato da un'imponente cascata che si precipitava dal decimo livello costituita dall'acqua del laghetto stesso la quale, a mezzo di apposite potenti pompe nascoste, veniva prelevata dal basso e portata su fino alla sommità della cascata da cui ritornava alla propria origine sollevando una nube di minuscole goccioline che, sapientemente illuminate, creavano un eterno arcobaleno.
 
Al centro di questo enorme spazio Chi vide i membri della sua squadra. Essi spiccavano nettamente in mezzo agli altri frequentatori dell'Agorà in quanto, essendo appena arrivati dal lungo viaggio compiuto, erano ancora vestiti con il tipico abbigliamento da lavoro utilizzato al campo.
Non appena lo scorsero gli si fecero incontro tempestandolo di domande che si andavano accavallando le une alle altre.
 
"Chi, che significa tutto questo?" Chiese Mae-Yong precedendo tutti gli altri "Stamattina sono arrivati tre hovercraft con un'intera squadra di ricerca e a tutti noi è stato chiesto di prepararci velocemente per rientrare immediatamente alla cupola. Solo Dori è stata lasciata rimanere. Che sta succedendo?".
 
Prima che Chi potesse rispondere intervenne Roen, il giovane archeologo alla sua prima importante missione.
 
"Abbiamo commesso qualche grossolano errore e ci hanno estromesso dalla ricerca?" Domandò dando voce al principale sospetto che da ore aveva contagiato tutti. "Diccelo senza troppi giri di parole; vogliamo la verità".
 
"Calma, ragazzi." intervenne Chi-Dan "Nulla di tutto questo."
"E allora cosa?" sollecitò Mae.
"Per ora vi posso solo dire che siamo stati tutti richiamati qui per un'importantissima missione e che questa riveste un carattere di totale, assoluta segretezza".
Dopo questa affermazione se qualcuno avesse fatto cadere uno spillo in mezzo al gruppo si sarebbe potuto certamente sentirne il rumore dell'impatto a terra.
 
"Non posso, per il momento, entrare nei particolari della missione" continuò il giovane archeologo "vi posso solamente dire che sarà un incarico particolarmente impegnativo e lungo. Vi consiglio di approfittare del breve tempo che avete a vostra disposizione da qui al momento della partenza per riposare un poco e salutare i vostri cari."
 
Non appena terminò questa frase le domande ripresero a raffica; tutti volevano avere più particolari di quello che li stava aspettando ma Chi-Dan tagliò in modo deciso i discorsi.
 
"L'unica cosa che posso e devo anticiparvi è che questa missione si svolgerà in un luogo molto caldo e asciutto per cui sarà necessario portare abbigliamenti adeguati."
 
"A proposito," soggiunse poi con un ripensamento "Visto che il viaggio sarà particolarmente lungo e non so bene che cosa incontreremo durante il percorso, consiglio tutti voi di premunirsi anche con qualche capo di abbigliamento adatto a qualunque tipo di clima possiamo trovare".
 
"L'appuntamento sarà qui" concluse "fra tre ore. Mi raccomando: puntuali e con tutto l'occorrente personale. È tutto".
 
Detto questo si congedò dalla squadra per recarsi anch'egli a preparare le ultime cose necessarie al viaggio.
 
* * *

All'ora stabilita Chi-Dan raggiunse l'Agorà e, subito, scorse il gruppetto costituito dai membri della sua squadra riunito appena a lato del ponticello che attraversava il corso d'acqua artificiale emissario del laghetto formato dalla cascata.
Fortunatamente non era un orario di punta per cui fu facile per lui vederli e raggiungerli. Notò con piacere che erano già tutti presenti e opportunamente attrezzati. Per un attimo si rese anche conto che, così agghindati, attiravano non poco l'attenzione dei pochi frequentatori presenti per cui si affrettò a dire:
 
"Ok, ragazzi. E' ora di andare. Seguitemi"
 
Con passo rapido si diresse verso l'uscita dell'Agorà. Dopo aver percorso un centinaio di metri del grande corridoio centrale Chi-Dan svoltò a destra in un andito secondario finché, dopo un altro paio di svolte, si ritrovarono in un atrio su cui si affacciavano le porte di tre turbo elevatori. Il giovane archeologo inserì nell'apposita fessura la card che il fratello gli aveva fornito e immediatamente le porte metalliche dell’elevatore centrale scivolarono a lato permettendo loro di accedere alla cabina. Non appena saliti tutti a bordo Chi inserì nuovamente la card nel lettore interno. Immediatamente l'accesso esterno si chiuse ed il turbo elevatore schizzo a velocità fantastica verso l'alto. Come già in precedenza Chi si domandò come era possibile che quell'ascensore potesse viaggiare a velocità tanto elevata senza che i passeggeri al suo interno venissero schiacciati sul fondo della cabina; la scienza degli antichi era veramente qualcosa di affascinante e incomprensibile, almeno per lui.
 
Si sentì un lieve tintinnio che segnalava l'arrivo della cabina al piano richiesto. Subito dopo le porte scivolarono a lato ed il gruppo si ritrovò nell'atrio luminoso, dominato dal gigantesco mosaico del Goddafin, in cui Chi-Dan con il fratello erano stati solo qualche ora prima.
 
L'archeologo fece strada al suo gruppo lungo il silenzioso corridoio che conduceva verso l'ufficio privato di suo zio Saru-Dan. Giunti davanti alla sua porta questa scivolò a lato nella parete e furono invitati ad entrare dallo stesso Sommo Tecnocrate. I componenti della squadra di Chi non avevano mai visto il Sommo Tecnocrate se non negli olovisori pubblici da cui venivano trasmessi periodicamente i discorsi ufficiali tenuti da Saru-Dan III, per cui erano piombati in un nervoso silenzio.
 
A dispetto del suo status sociale, Saru-Dan si alzò da dietro la propria scrivania nera e diede loro il benvenuto, avvicinandosi. Questo riuscì in breve a far sentire un poco più a loro agio i componenti dello sparuto gruppetto.
 
"Ben arrivati" li accolse con un accenno di sorriso che, probabilmente, gli era costato un enorme sforzo dei muscoli del viso "So che siete stati sballottati tutto il giorno di qui e di là senza ben saperne nemmeno il motivo."
 
"Presto tutto vi sarà chiarito" aggiunse prevenendo qualsiasi possibile domanda "Per ora, seguitemi"
 
Detto questo azionò un comando nascosto sulla scrivania ed il pannello laterale che portava il suo ritratto in scala naturale scivolò nella parete rivelando un ampio vestibolo.
 
Su questo si affacciavano due porte. Una di queste era chiaramente quella di un turbo elevatore mentre l'altra, presumeva Chi, doveva portare all'appartamento privato del Sommo Tecnocrate.
Tutti si guardarono attorno timorosi: nessuno di loro era mai stato in un luogo tanto inaccessibile e, per quanto ne potevano sapere, nessun altro vi era mai stato se non i più diretti collaboratori di Saru-Dan.
Questi azionò un comando dell'elevatore e, immediatamente, le porte automatiche si aprirono. Salirono tutti a bordo ed il Sommo Tecnocrate stesso azionò il sensore che fece partire la cabina.
Questa volta il percorso era in direzione opposta a prima. Infatti l'elevatore si precipitò verso il basso alla consueta fantastica velocità ma, a differenza di prima, il tempo di discesa sembrò allungarsi sensibilmente. Chi-Dan si convinse che la destinazione della cabina su cui si trovavano fosse di molto più in profondità di quanto mai avesse sospettato potesse essere la base stessa della cupola.
 
Infine le porte automatiche si aprirono su di uno spazio molto ampio. Al primo momento tutti i membri della squadra di Chi-Dan restarono sconcertati in quanto quello che li circondava, dal pavimento, al soffitto alle poche suppellettili, tutto era di un colore bianco immacolato che rendeva difficile pure rendersi conto di quanto realmente fosse ampio quello spazio. Al lato opposto dell'atrio una larga scalinata metallica portava, qualche metro più in basso, ad una piattaforma a lato della quale era accostato un’oggetto di forma cilindrica, anch'esso candido, di notevoli dimensioni.
 
Quando furono più vicino poterono osservare che questo cilindro aveva una lunghezza di circa una decina di metri ed un diametro di quasi tre. Saru-Dan, con gesti sicuri, toccò alcuni comandi posti su di una vicina console che provocarono l'azionamento di qualche meccanismo nascosto il quale cominciò ad emettere un lieve, persistente ronzio di bassa frequenza. L'alto prelato si portò quindi vicino al fianco del grande cilindro e passò la mano sopra ad un sensore nascosto.
Immediatamente, con un leggero sbuffo pneumatico, una sezione del fianco del cilindro si spostò prima verso l'esterno e poi lungo la fiancata. L'interno del cilindro si illuminò e poterono vedere che conteneva alcune file di sedili dall'aria molto comoda, anch'essi di colore bianco. Di fronte al primo di questi vi era un piccolo quadro comandi sopra cui, al momento, lampeggiava un tastierino numerico olografico sospeso nel vuoto.
 
* * *
 
"Accomodatevi" li invitò Saru-Dan III "Entrate e sedetevi"
 
Quando tutti si furono sistemati ed i bagagli posati a terra dietro ai sedili, il Sommo Tecnocrate prese di nuovo la parola.
 
"Immagino che vi stiate domandando dove vi troviate." esordì "Ebbene questo è uno dei posti più segreti che esistano: vi trovate all'interno della stazione corrispondente alla Celeste Sede di una immensa rete di comunicazione, chiamata Nemicrel, che collega tutte le cupole del mondo e di cui solamente io, come Sommo Tecnocrate, e gli Staman delle diverse cupole siamo a conoscenza. Tramite questa capsula sarete in grado di raggiungere la cupola di Geneve nel giro di circa una quindicina di ore"
 
"Cosa?!" esclamò Chi-Dan "Ma come è possibile? Anche con il più veloce hovercraft vi sono settimane di viaggio da qui a Geneve!".
 
"Lo so" interruppe Saru-Dan "ma questa capsula viaggia lungo infinite gallerie ad una velocità che tu non puoi nemmeno immaginare, sfruttando una tecnica degli antichi di cui si è perduta la conoscenza e che nessuno, oggi, è in grado di comprendere".
 
Ben sapendo che questa spiegazione non avrebbe mai potuto soddisfare il nipote ma non potendo, o meglio non volendo, perdere ulteriore tempo l'alto prelato continuò:
 
"Ascoltami attentamente, Chi" disse porgendo una piccola card plastica immacolata al nipote "Questa è la chiave per azionare i comandi della capsula. Inseriscila nella fessura del dispositivo e, quando vedi che queste linee cambiano forma, tocca in sequenza i tasti 1-2-1 di questo ologramma seguiti dal tasto a forma di freccia. Il resto è automatico. Buon viaggio".
 
Senza aggiungere altro Saru-Dan III tornò sulla piattaforma esterna, salì le scale e tornò verso il turbo elevatore che li aveva portati lì sotto solo qualche minuto prima.
 
Chi si voltò a guardare i volti dei suoi compagni di viaggio ancora frastornati dalla rapidità degli avvenimenti. Tornò a rivolgersi al quadro comandi che aveva davanti. Inserì la card che gli aveva consegnato il Sommo Tecnocrate poco prima e, immediatamente, le linee azzurrognole dell'incomprensibile scrittura degli antichi che comparivano sullo schermo si modificarono. Digitò il codice che lo zio gli aveva detto e, non appena sfiorò con la punta del suo indice della mano destra l'ologramma a forma di freccia, la parte laterale del cilindro che aveva loro permesso di accedere all'interno si mosse rapidamente. Con un soffocato tonfo pneumatico, si sigillò nel proprio alloggiamento facendo tornare esternamente compatto il cilindro bianco.
 
Subito l'enorme paratia di acciaio posta davanti alla navetta iniziò a rientrare nella parete rivelando un tunnel tubolare che si allungava a perdita d'occhio mentre, in sequenza, delle luci a distanza regolare si accendevano lungo lo stesso, illuminandolo. Con un fremito, simile ad un antico animale destato da un lunghissimo letargo, la capsula prese a muoversi addentrandosi lentamente nella galleria. Una volta al suo interno, di nuovo, si fermò. Alle sue spalle la possente paratia metallica scivolò nuovamente al suo posto sigillando perfettamente il foro di ingresso da cui erano appena passati.
 
Con un rumore simile al respiro stesso della Terra, enormi pompe nascoste iniziarono a suggere l'aria dalla porzione di tunnel posta davanti alla capsula su cui si trovava la squadra di Chi-Dan. Questa, grazie a potentissimi elettromagneti nascosti nelle pareti stesse del tunnel, si innalzò galleggiando sospesa a pochi millimetri. Man mano che la pressione dell'aria di fronte al veicolo si abbassava mentre si innalzava, grazie ad un sofisticato sistema di scambio, quella alle sue spalle la capsula iniziò a muoversi in avanti aumentando progressivamente la propria velocità, sempre di più.
 
Le luci intervallate del tunnel, distanziate di centinaia di metri una dall'altra, iniziarono a correre incontro alla capsula sempre più velocemente fino a quasi divenire una luce pulsante continua mentre gli incomprensibili simboli antichi dallo schermo della console davanti agli occhi di Chi-Dan cambiavano con altrettanta rapidità fino a che, quando ormai pareva che questo incremento non potesse più cessare, la velocità di viaggio della capsula si stabilizzò e così pure fecero i simboli sullo schermo i quali, ora, indicavano con una sequenza di simboli di cui si era perso il significato millenni prima la scritta "km/h 1100".
 
 * * *
 
Un centinaio di chilometri più avanti, nel buio di una stanza sotterranea, una spia luminosa si accese. Scattarono diversi relè e l'energia giunse ai possenti motori da tempo immoti. Questi si attivarono e una sezione lunga un centinaio di metri di galleria venne isolata dal resto della rete Nemicrel mediante due pesanti paratie in acciaio le quali, silenziosamente, scorsero fuori dal loro alloggiamento sigillandosi perfettamente alle due estremità del tratto di tunnel.
Si udirono altri ticchettii metallici e l'intera sezione di tubo iniziò a scorrere su robuste rotaie uscendo dalla simmetria con l'asse del tunnel stesso. Lentamente una sezione curva, dotata di un raggio da cinque chilometri, arrivò a posizionarsi nel medesimo punto in cui la sezione diritta spostata stava qualche secondo prima. L'arrivo della nuova sezione in posizione venne segnalato da un secco scatto metallico. Immediatamente i blocchi pneumatici comandati da enormi compressori nascosti immobilizzarono in posizione la sezione angolata che, ora, allineava il tunnel di ingresso con un nuovo tratto curvilineo ad ampissimo raggio, orientato verso sinistra rispetto alla direzione di marcia della capsula.
Le paratie di acciaio che delimitavano il nuovo segmento di galleria vennero azionate provocandone l'apertura: un nuovo instradamento era venuto a crearsi.
Immediatamente le potentissime pompe del tunnel iniziarono ad aspirare l'aria dal nuovo tratto appena ricostruito creando nuovamente il vuoto più totale davanti alla navetta che stava oramai per sopraggiungere.
Nella stanza accanto la spia luminosa tornò a spegnersi facendo ricadere il luogo nell'oscurità e nel silenzio più totale. Qualche istante dopo il convoglio Nemicrel con a bordo Chi-Dan e la sua squadra sfrecciò a fantastica velocità lungo il tratto di tunnel appena aperto mentre dietro di essa le pompe re immettevano forzatamente l'aria aspirata, per riequilibrare la pressione d'ambiente. Quando la capsula si fu allontanata abbastanza una paratia isolò il tratto appena percorso mentre i motori delle pompe per il movimento dell'aria si spensero riprendendo la loro abituale inattività fino al prossimo passaggio di un'altra navetta.
 
* * *

Chi-Dan aprì gli occhi e solo in quel momento si rese conto di essersi addormentato. Diede un'occhiata attorno e vide che tutti gli altri membri della squadra erano profondamente addormentati avvolti dalle comode poltrone di cui era fornita la capsula. Guardò attraverso il vetro anteriore del veicolo ma quello che vide non lo aiutò molto a capire dove si trovassero in quel preciso momento senza contare, poi, che il velocissimo alternarsi di luce e buio provocato dal passaggio della capsula davanti alle luci intervallate aveva un certo effetto ipnotico. L'unica informazione utile gli venne dal quadro comando dove vi era indicato il tempo trascorso dalla partenza della navetta; questo riportava la scritta 16:25 in color azzurro su fondo scuro.
 
"Per la miseria" pensò il giovane "sono più di sedici ore che corriamo dentro questo dannato veicolo ad una velocità pazzesca e ancora non siamo arrivati!"
 
Come se avesse pronunciato una qualche sorta di incantesimo, Chi avvertì chiaramente un cambiamento nella velocità della capsula.
 
"Che succede?" domandò assonnata Mae ridestata dalla lievissima variazione di moto.
 
"Non so" replicò Chi-Dan "Sembra che la cabina stia iniziando una fase di frenatura. Forse stiamo per arrivare".
 
Quasi in risposta a questo il veicolo rallentò ulteriormente e continuò a perdere velocità sempre più rapidamente finché, cinque minuti più tardi, non andarono a fermarsi completamente di fronte ad una paratia di acciaio che chiudeva ermeticamente il tunnel davanti a loro.
 
Al contrario di quanto era accaduto alla partenza i potenti elettromagneti che circondavano la capsula si disattivarono e questa si depositò sul fondo del tunnel, posto qualche millimetro sotto di essa.
La parete metallica di fronte a loro si attivò, scivolando nel suo alloggiamento all'interno della parete, mentre dei piccoli motori elettrici spingevano delicatamente la capsula all'interno della stazione della cupola di Geneve.
Intanto che, alle spalle, la parete metallica tornava a chiudersi, la cabina giunse al suo punto di arrivo accanto alla piattaforma e la paratia laterale, con il consueto soffio pneumatico, si aprì scivolando lungo la fiancata.
Non appena l'apertura fu completata una figura avvolta da un manto porpora si delineò nella cruda luce bianca che illuminava la banchina.
 
"Benvenuti nella cupola di Geneve" li accolse il personaggio “Sono lo staman Emilien De LaCroix”.
 
"Felice di conoscervi, eminenza" replicò Chi-Dan "Vorrei fin d'ora scusarmi per il disturbo che la nostra visita potrà arrecarvi".
 
"Nessun disturbo, signori" fu la risposta dello staman "Chiunque venga nel nome del Sommo Tecnocrate Saru-Dan III non reca mai disturbo".
 
Qualcosa nel tono sussiegoso dell'alto prelato colpì il giovane archeologo; non avrebbe saputo dare una definizione precisa di quello che sentiva ma non era di sicuro qualcosa di piacevole. Era come essere in un bosco e sentire da qualche parte, appena a lato del sentiero su cui si sta camminando, un lieve suono strisciante. Dava una sensazione di umidiccio e appiccicoso. Chi si riscosse da quel suo pensiero e, raccolto il bagaglio, si affrettò assieme agli altri quattro occupanti della capsula a portarsi sulla piattaforma della stazione.
 
"Sarete stanchi, presumo." suggerì De LaCroix "Vorrete senz'altro riposarvi un poco. Vi abbiamo preparato delle comode stanze in cui potete sistemarvi".
 
"Veramente, eccellenza" intervenne Chi "Vorremmo evitare di importunarvi ulteriormente. Se le attrezzature di cui ci ha parlato Sar... ehm il Sommo Tecnocrate fossero pronte, noi toglieremmo subito il disturbo anche perché il viaggio è ancora lungo..."
 
"Non se ne parla nemmeno" lo interruppe il prelato "Non sia mai che una rappresentanza della Celeste Sede in visita alla nostra umile cupola non sia accolta con tutti gli onori che merita pur considerando la discrezione raccomandata dal grande Saru-Dan III in persona".
 
Chi guardò per un attimo i suoi compagni di viaggio. Anch'essi erano un poco titubanti a questa accoglienza che non si aspettavano. D'altra parte non vide modo per poter declinare l'invito senza correre il rischio magari di offendere il loro anfitrione.
 
"La ringraziamo ancora molto per questo benvenuto" disse infine "e accettiamo volentieri l'offerta di un attimo di sosta prima di partire ma, se fosse possibile, preferiremmo evitare incontri sia pubblici che privati".
 
"Capisco, capisco" replicò il prelato "Certo una missione così importante deve richiedere una bella calma e concentrazione..."
 
"Ehmm, beh, sì, certo" tentennò Chi poi, mentre De Lacroix faceva loro strada verso la cabina del turbo elevatore, si volse verso gli altri con espressione interrogativa a cui essi risposero con visi altrettanto dubbiosi.
 
Arrivarono in brevissimo tempo nell'ufficio privato dello staman dove trovarono ad aspettarli un altro prelato, con il capo coperto da un cappuccio bordato di nero che gli nascondeva completamente il viso, in piedi a fianco della scrivania di legno scuro che dominava la stanza.
 
"Accompagna i nostri ospiti nei loro alloggi" ordinò De Lacroix all'opertec poi, rivolto al gruppo di Chi-Dan, soggiunse "Mi auguro che possiate riposare bene. Le attrezzature richieste saranno pronte a partire domattina presto."
 
"Grazie ancora, eminenza" ricambiò Chi "e arrivederci".
 
Il prelato in nero chinò brevemente il capo nascosto dal cappuccio e, senza proferire parola, si voltò; uscì dall'ufficio incamminandosi verso l'atrio degli elevatori, gemello di quello esterno all’ufficio di Saru-Dan, seguito, con aria smarrita, dal gruppo di giovani archeologi della Celeste sede.
La porta dell’ampio disimpegno privato dove stava l’elevatore che avevano appena usato per salire dalla stazione si aprì e ne uscì un nuovo opertec,
 
“Tu sarai il pilota dell’hovercraft che li ospiterà per il viaggio su terra” esordì lo staman rivolto al nuovo giunto “tieni le orecchie ben aperte e, non appena possibile, riferisci direttamente a me tutto quello che accade”.
 
“Ricordati bene di non fare parola di questo con nessuno e per nessun motivo” concluse l’alto prelato.
 
La figura nera incappucciata chinò il capo per conferma e se ne andò attraverso il medesimo uscio da cui erano appena usciti i viaggiatori della Celeste Sede.
 
Emilien De LaCroix si sedette alla sua scrivania e restò per un momento a guardare pensoso la parete bianca che stava di fronte a lui.
 
Poi, con un rapido gesto della mano destra, azionò il sistema di comunicazione delle cupole.
 
Dopo pochi istanti la parete di fronte a lui svanì, sostituita da un enorme ologramma raffigurante, in scala 1:1, lo studio privato di Saru-Dan III.
 
“Vostro nipote è giunto, eccellenza” esordì “Domattina, dopo un buon sonno ristoratore, potrà finalmente partire per la sua ricerca”.
 
“Molto bene, staman De LaCroix” replicò secco Saru-Dan III “Mi raccomando a voi per la felice riuscita del viaggio di mio nipote e della sua squadra”.
 
“Certo, Vostra Eminenza” rispose il prelato di Geneve con tono mellifluo “Ogni Vostro desiderio per noi è un ordine. Buona serata!”.
 
“Buona serata anche a Voi” concluse il Sommo Tecnocrate interrompendo la comunicazione.
 
De LaCroix si appoggiò al confortevole schienale della sua poltrona in pelle unendo le punte delle dita delle proprie mani, i gomiti sorretti dai braccioli imbottiti e, ad occhi socchiusi, annuì lievemente.
 
“Caro Saru-Dan” formulò il pensiero nella propria mente “La riuscita del viaggio è certa. Staremo solo a vedere per chi diverrà felice”.
 
***
Per ringraziarvi della pazienza che avete portato aspettando la pubblicazione del seguito della storia, questo quinto capitolo non avrà una prima e una seconda parte ma è stato pubblicato per intero. Grazie ancora a tutti quanti quelli che mi stanno leggendo.
Roberto (aka Trainzfan)

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Capitolo 10
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Prima di tutto vorrei scusarmi con tutti quelli che hanno letto o stanno leggendo questo mio racconto. È stato un periodo abbastanza difficile e, per quanto ci provassi, non riuscivo a mettere giù uno straccio di una riga. Ora, pur non essendo ancora del tutto a posto, va meglio per cui, ecco, finalmente, il sesto capitolo. Non sono in grado di garantirvi una perfetta regolarità nei tempi di pubblicazione ma cercherò di non fare mai più passare tutto 'sto tempo. Promesso ;)

Roberto (aka Trainzfan)


Capitolo 6 - Cerca...

Un lieve ma persistente ronzio si concretizzò nel buio della stanza. Chi, ad occhi ancora chiusi, allungò il braccio verso il comodino posto a lato del confortevole letto in cui si trovava e, passando la mano sopra ad un sensore incorporato nel mobile stesso, azionò l'apposito meccanismo che azzittì l'allarme. Si stiracchiò poi, con decisione, si levò a sedere allontanando da sé le coltri che lo ricoprivano. Pose i piedi a terra, girandosi, e si alzò. Aveva impostato la sveglia in modo da avere un margine di tempo sufficiente a fare ogni cosa con calma. Decise, innanzi tutto, di farsi una doccia calda in quanto non aveva idea di quando avrebbe potuto nuovamente godere di un simile privilegio laggiù, nel deserto di Unlen. Espletate, poi, tutte le proprie incombenze private mattutine ed in considerazione del clima mite del momento, decise di indossare anche per il viaggio la sua comoda tenuta da campo costituita da un ampio paio di pantaloni di cotone leggeri, una camicia a maniche corte ed una giacca, anch'essa in cotone e piena di comode tasche, coordinata con i pantaloni. A tutto questo aggiunse un paio di confortevoli scarponcini idrorepellenti e calzettoni traspiranti. Afferrò il grosso zaino in cui stavano tutti i suoi effetti personali e uscì dalla stanza che lo aveva ospitato per la notte recandosi, non senza qualche esitazione, verso l'area comune della cupola di Geneve dove si erano dati appuntamento la sera prima con l'opertec che li aveva scortati ai loro rispettivi alloggi.

Quando raggiunse il posto Mae, Roen e Piccolo Fiore erano già lì. Appena il tempo di salutarsi e videro arrivare anche Foye-Xan. Si recarono assieme presso uno dei locali che a quell'ora erano aperti per fare colazione. Approfittarono del tempo a loro disposizione per scambiarsi le impressioni relative al loro arrivo alla cupola il giorno precedente.

"A me quel De Lacroix non mi convince molto" esordì Mae-Yong rivolta al gruppo "Non so perché ma è una sensazione che mi sento dentro"
"Già" aggiunse Roen "anche a me ha dato una strana sensazione"
"Pure quello che ci ha accompagnati non è che fosse il principe della simpatia, eh?" intervenne Foye.
Il resto della squadra annuì di rimando e Chi-Dan non poté fare a meno di concordare con gli altri.

"Vista la delicatezza della missione e finché non avremo capito bene come stanno le cose" intervenne nella discussione il giovane archeologo "consiglio a tutti di evitare di parlare o anche solo accennare alla nostra missione in presenza di estranei"
Mae dichiarò immediatamente la sua adesione all'idea e gli altri ragazzi seguirono subito dopo confermandola.
"Probabilmente sono io che sono un poco paranoico" pensò Chi fra sé "ma come si dice: meglio prevenire che curare".

Non appena finito di fare colazione, come da accordi, si recarono con tutta la loro attrezzatura all'atrio di accesso dei turbo elevatori dove trovarono ad aspettarli il medesimo opertec che li aveva accompagnati la sera prima.
A differenza del giorno precedente, questi li accolse salutandoli cordialmente nella lingua internazionale comunemente usata nei rapporti intracupole. Con una card personale attivò uno dei turbo elevatori e, immediatamente, si aprirono le porte della cabina. Si accomodarono tutti nel suo spazioso interno e l'opertec digitò un codice sulla tastierina numerica posta sulla parete. Subito i pannelli di ingresso si chiusero e l'elevatore scese velocissimo per qualche secondo prima di tornare fermarsi. Si aprirono le porte e si ritrovarono all'interno di un grandissimo hangar dove li aspettavano a breve distanza tre hovercraft da carico pronti a partire nonché i relativi opertec piloti. Poco discosto, si notava la piccola squadra formata dai quattro popolani adibiti ai lavori di bassa manovalanza che li avrebbero accompagnati nel viaggio.

Il loro accompagnatore si preoccupò di presentare loro i tre piloti opertec specificando quale di loro avrebbe condotto l'hovercraft su cui avrebbero viaggiato per i tratti su terra. Questi si rivelò essere l'opertec René Rochat e, almeno di primo acchito, diede a Chi-Dan e compagni l'impressione di essere una persona affabile e cordiale. Ad ogni modo nessuno della squadra fece una parola in più di quelle rese necessarie dalla situazione. Il gruppetto dei popolani non venne presentato ma Chi li sentì scambiare alcune parole fra loro in una strana lingua, per lui assolutamente incomprensibile, ma dotata di alcune componenti musicali per nulla spiacevoli all'udito.
Controllati gli hovercraft e imbarcati i passeggeri con i relativi bagagli, vennero accesi i motori dei tre veicoli i quali, lentamente, si avviarono verso le rampe di uscita scivolando a pochi centimetri da terra.
Sbucarono quasi subito in superficie presso uno dei massicci varchi di uscita aperto nel colossale muro che circondava la cupola di Geneve e lo oltrepassarono.


La differenza di paesaggio rispetto a quello abituale fuori dalla Celeste Sede colpì l'attenzione dei giovani archeologhi. La cupola di Geneve si trovava su di una collina verdeggiante affiancata, a nord e a ovest, da altre basse alture. A est, invece, si vedeva, a non molta distanza, la vasta superficie liquida di un grande lago. Questo, colpito in pieno dai raggi del sole, rifletteva la luce chiara del mattino come uno specchio bronzeo quasi accecando per l'intensità. Verso sud-est, infine, si intravvedevano, in distanza, altissime montagne sulla cui sommità luccicava il candore delle nevi eterne che le ricoprivano.

La colonna di hovercraft prese a scendere la collina dal versante nord che, delicatamente, declinava verso una lussureggiante vallata e, ben presto, sia il lago che le montagne lontane scomparvero dalla vista. Chi-Dan e la sua squadra erano sopraffatti dallo stupore; mai avevano visto un paesaggio così rigoglioso. Nemmeno nella zona ricoperta di foreste che circondava il Grande Fiume presso cui stavano effettuando gli scavi quando questa avventura era iniziata. Quanto tempo era passato da allora, si domandò Chi-Dan meravigliato. Non erano passati che due o tre giorni eppure quel tempo sembrava essere remoto quanto la luna e le stelle del cielo.

Qualche minuto dopo la vallata che stavano percorrendo si intrecciò con un'altra, più ampia, sul cui fondo scorreva un grande fiume azzurro/verde. Le sue acque davano una sensazione di limpidezza e di freschezza che i fiumi a cui i ragazzi erano abituati non possedevano; da loro i corsi d'acqua avevano quel caratteristico colore giallognolo dovuto al fondale limaccioso tipico di Cinlen. Come degli scolaretti in gita, i cinque giovani stavano con i visi incollati alla cupola trasparente del loro hovercraft contemplando e riempiendosi gli occhi con i colori ed il paesaggio che scorreva attorno e sotto di loro. La colonna di hovercraft, entrando nella vallata del fiume, prese a seguirla puntando decisamente verso sud.

Dopo neppure una quindicina di chilometri un'altra sorpresa li aspettava: in un'apertura delle basse colline che fiancheggiavano la vallata, a sinistra, comparve un altro grandissimo lago, largo un paio di chilometri e tanto lungo che essi non erano in grado di vederne la fine. Questa volta erano molto più vicini e poterono notare il grande numero di piccoli villaggi che lo fiancheggiavano. Le sue acque, inoltre, erano punteggiate da innumerevoli minuscole imbarcazioni da cui uomini del popolo gettavano grandi reti allo scopo di pescare i pesci che vi abitavano. Anche in Cinlen, sul Grande Fiume, alle volte capitava di vedere qualche popolano che pescava ma era abbastanza una rarità e, soprattutto, il pesce che abitava il Grande Fiume non era uno dei cibi più squisiti che si conoscessero: una volta Chi ne aveva assaggiato un pezzo e questo aveva decisamente il sapore della terra che costituiva il suo fondale.
Lo stupore più grande, comunque, restava quello di realizzare che vi era un posto su questo mondo, dove l'acqua abbondava così tanto da poterla considerare, in pratica, una risorsa inesauribile. Ora riusciva anche a comprendere come mai, quando erano loro stati indicati i quattro popolani che li avrebbero accompagnati, pur essendo a brevissima distanza da loro non solo si era accorto che non emanavano cattivi odori ma, addirittura, quasi profumavano. Qui l'acqua non era certo un bene prezioso e raro come da loro.

Oltrepassarono a grande velocità un'ampia ansa circondata da pareti boscose e proseguirono lungo il fiume per altri 10 minuti poi, con una svolta repentina, il questo piegò verso Ovest-Nord-Ovest mentre gli hovercraft continuarono in linea retta verso Sud lungo un'ampissima vallata costellata di campi coltivati.

Sorvolarono per un'ora questo patchwork naturale finché, da Nord-Est, incrociarono un nuovo fiume che seguirono deviando leggermente verso Sud-Est

Dopo circa un'ora il corso d'acqua che stavano seguendo sfociò in un altro molto più ampio che divenne la loro nuova guida. Poco tempo dopo l'opertec René Rochat annunciò loro che stavano per arrivare alla base-porto. Consigliò loro di guardare verso Sud dove avrebbero potuto vederla, sullo sfondo del mare. Quando lo fecero nulla avrebbe potuto prepararli a quello che videro: una vastità di acqua tale che la loro mente faticava ad accettare si estendeva fino a dove i loro occhi potevano arrivare verso Est, Sud e Ovest. Proprio davanti a questa vastità liquida un grande edificio circondato da alte mura di cemento diveniva, ogni istante, sensibilmente più grande. Evidentemente era quella costruzione quello che il loro pilota aveva chiamato "base-porto".

Ci fu uno scambio di frasi convenzionali via radio fra l'opertec che pilotava il loro hovercraft e qualcuno all'interno della struttura verso cui erano diretti poi un massiccio portale, sul quale capeggiavano i caratteri "05" dipinti in color rosso, si aprì permettendo alla colonna di passare. A differenza della struttura delle cupole qui non vi erano diversi accessi sotterranei per i garage sovrastati dalla struttura vera e propria. Davanti a loro si parò un enorme portale metallico incorniciato da una fascia a strisce di color nero e giallo oblique. Senza esitazione la colonna di hovercraft puntò verso di esso e lo oltrepassò.

Qui li aspettava la sorpresa finale: il più grande veicolo che nessuno di loro avesse mai visto in tutta la propria vita. La sua impressionante lunghezza era di una sessantina di metri ed era largo un ventina. Si vedevano chiaramente due livelli: il primo, collegato a terra tramite una grande rampa metallica, era costituito da un vasto hangar ed era proprio verso di questo che si stavano decisamente dirigendo.
Il secondo, al di sopra del garage, era dotato di due ponti affacciati su quelle che si intuivano come le fiancate esterne del veicolo mentre un terzo ponte, dalla posizione centrale, connetteva il piano, posteriormente, con una sorta di balconata affacciata sull'ingresso esterno dell'hangar e sfociava anteriormente nella sala comune sovrastata, a sua volta, dal ponte di comando.
A coprire i due precedenti livelli vi era un enorme ponte scoperto grande quanto l'intero hovercraft sovrastato, a sua volta, da due enormi maniche di aspirazione che convogliavano l'aria raccolta alle potentissime turbine, poste sotto l'hangar, le quali provvedevano al sollevamento del veicolo. Il moto orizzontale veniva garantito da tre enormi ventole del diametro di sette metri situate posteriormente e tutte dotate di altrettanto grandi alette metalliche quali timoni direzionali.

All'interno dell'hangar l'opertec cercò, e trovò, la piazzola di sosta che gli era stata assegnata, spense i motori e sbloccò la cupola di materiale plastico e trasparente.
Non appena questa si aprì, Chi-Dan e gli altri ragazzi della squadra vennero colpiti da un intenso profumo di salsedine mischiato con aromi di cui ignoravano la provenienza che li stordì letteralmente.
Barcollando lievemente, ancora soggetti a quella inebriante particolare sensazione, Chi-Dan e gli altri sbarcarono dal veicolo e seguirono René Rochat lungo un corridoio, su per una ripida scaletta metallica, fino alla zona passeggeri.


Una volta giunti al piano superiore Chi-Dan e la sua squadra incontrarono un giovane genop dal manto bruno bordato di nero che li accolse con deferenza e li pregò di seguirlo in modo che potesse accompagnarli alle rispettive cabine.

"Prego, accomodatevi!" Li esortò il giovane prelato che, anticipando le ovvie richieste, aggiunse "I vostri bagagli vi verranno portati a breve direttamente in cabina dal personale di bordo."

Non appena giunto nella propria Chi-Dan si guardò attorno: al centro della parete, di fronte alla porta di accesso, vi era un letto ad una piazza e mezza dall'aria decisamente confortevole; sul lato sinistro un mobiletto metallico che fungeva da comodino mentre a fianco della porta di ingresso vi erano le ante di un armadio a muro, anch'esso metallico. La parete di destra era dominata da un grande oblò attraverso il quale si poteva vedere buona parte dell'enorme rimessa in cui era sistemato il mezzo su cui si trovavano. Per ultimo, sul lato destro del letto, notò una porta; si avvicinò e la aprì. Automaticamente si accese una luce sul soffitto e poté notare che si trattava di una minuscola stanza da bagno dotata, però, di tutto quello che poteva necessitare.

Qualche istante dopo sentì bussare alla porta di ingresso, aprì ed entrarono un paio di giovani genop che recavano i suoi bagagli. Li fece appoggiare sul letto e li congedò. Sistemate le sue cose nel capiente armadio a muro decise di rilassarsi qualche istante in attesa della partenza.
Dopo qualche minuto avvertì distintamente una sorda vibrazione nelle pareti e nel pavimento metallico e, contemporaneamente, il lontano rumore dei motori dell'hovercraft che si alzava di giri. Un piccolo sobbalzo ed il grande veicolo si sollevò dalla superficie di cemento su cui si trovava. Lentamente compì un giro su se stesso di novanta gradi in senso antiorario ed iniziò a muoversi verso il vasto portale di uscita che dava sul mare.
Non appena fuoriuscito dalla base il mezzo anfibio aumentò gradualmente la propria velocità e, anche grazie ad un mare molto calmo, dopo soli pochi minuti già filava a più di cento chilometri orari sopra la superficie liquida appena increspata da lievissime onde.

Chi-Dan, che aveva osservato le fasi della partenza attraverso il grande oblò della sua cabina, non stava più nella pelle dalla curiosità di vedere meglio l'enorme distesa del mare che, per lui, restava comunque qualcosa di incredibile.
Uscito dalla sua cabina percorse il ponte centrale verso la parte anteriore del veicolo. Avanti una ventina di metri di trovò di fronte ad una porta di legno scorrevole su cui era scritto in lingua internazionale "Sala Comune". Spinse l'anta ed entrò nel locale.
Questo risultò essere un ambiente piuttosto ampio infatti occupava, in larghezza, l'intero secondo livello dell'hovercraft mentre di lunghezza calcolò potesse essere di circa una decina di metri. Al suo interno erano allineati e imbullonati a terra sei tavoli ognuno affiancato da due lunghe panche su cui potevano comodamente stare otto persone.

Attraversò il locale in direzione della porta metallica che si trovava all'estremità sinistra. Apertala si ritrovò sul ponte di babordo dell'anfibio. Come aveva notato quando erano arrivati nell'edificio del porto, i due ponti laterali del secondo livello erano aperti sulle due fiancate e Chi si avvicinò con cautela alla ringhiera di protezione che delimitava la zona calpestabile.
Immediatamente il vento lo colpì con violenza; a causa della velocità, infatti, questo era fortissimo e la superficie del pavimento metallico, rorida di acqua salmastra, non favoriva certo una presa salda dei piedi specialmente per uno come lui ben poco avvezzo alla vita di mare.

Con il viso sferzato dalle raffiche il giovane archeologo decise di provare a salire sul ponte superiore, quello che stava alle spalle della cabina di comando dell'hovercraft.
Grazie proprio al riparo offerto da questa ed al fatto che il ponte, pur scoperto, era circondato da solidi pannelli metallici verticali di protezione, Chi-Dan poté approfittare di quella momentanea calma degli elementi per godersi la magnifica giornata di sole. La cosa che più lo colpì fu il profumo dell'aria: questa fragranza ricca di salsedine lo inebriava fino nel più profondo. Mai Chi era stato vicino ad un mare e, pur avendone letto e sentito, non si sarebbe aspettato un simile assalto ai sensi.

Si stava beando del momento, inalando profondamente, a occhi socchiusi, quell'aria ricca di iodio quando avvertì distintamente una presenza alle sue spalle.
Si voltò e si trovò di fronte un personaggio, dai capelli biondo cenere, avvolto nel manto nero degli Opertec.

"Buongiorno" esordì il giovane prelato con uno strano accento dovuto alla sua provenienza eurlen "Vedo che ha già scoperto il nostro piccolo angolo di paradiso su questo veicolo."

"Già" interloquì Chi "è decisamente bello qui"

"Mi permetta di presentarmi" disse l'opertec "Mi chiamo Patrick Levoisier e sono il primo ufficiale della Madame de la Mer"

"Oh, piacere di conoscerla" replicò il giovane archeologo "Io sono Chi-Dan. Studioso della cupola della Celeste Sede"

"Interessante" disse Levoisier "È mai stato da queste parti?"

"No, mai" confessò Chi "e, per dirla tutta, non sono mai stato nemmeno su alcun altro mare"

"Non posso crederci!" si stupì il primo ufficiale "Davvero lei non ha mai visto in vita sua il mare?"

"Già" rispose laconicamente l'archeologo "Se cerca su di una mappa la Celeste Sede si accorgerà, subito, che attorno non c'è una goccia d'acqua per decine e decine di miglia; figuriamoci qualcosa come un mare"

"È vero" convenne Levoisier "eppure sembra sempre impossibile che esista un posto dove l'acqua non sia più che abbondante come qui. È stato comunque un piacere parlare con lei, dottor Dan. Ora, purtroppo, devo tornare ai miei doveri di primo ufficiale. La vedrò questa sera a cena?"

"Oh, certamente" replicò Chi

"Allors, au revoir" si congedò il prelato e si allontanò verso il ponte di comando da cui era poco prima venuto.

Un borbottio originato dal suo stomaco gli ricordò che, oramai, doveva essere ora di pranzo e dato che l'aria frizzante del mare lo aveva stimolato, ora avvertiva un discreto appetito. Scese sotto coperta tornando nella sala comune dove trovò gli altri componenti della sua squadra già seduti attorno ad uno dei tavoli.

Dopo aver pranzato il giovane archeologo decise di ritirarsi un poco nella propria cabina. Fece, come era sua abitudine, un piccolo controllo delle attrezzature personali da lavoro e, constato che tutto era perfettamente a posto, si tolse gli stivaletti che aveva ai piedi con l'intenzione di sdraiarsi un po' sul comodo letto. Decise, anche, di approfittare del momento per iniziare a pianificare mentalmente il lavoro che li attendeva una volta che fossero giunti a destino.

Verso la fine del pomeriggio, mentre si trovava nuovamente sul ponte superiore, Chi vide spuntare dal mare in lontananza una terra. Approfittando della presenza sul posto di un opertec che stava controllando alcuni strumenti si avvicinò a questi per ottenere qualche informazione.

"Perdonatemi" esordì "Quella terra che si vede laggiù è un'isola o terraferma?"
L'opertec interpellato guardò nella direzione indicata da Chi e replicò "Si tratta di un'isola di nome Sadin. Ha dimensioni molto grandi, quasi da sembrare terraferma, e al suo interno è particolarmente impervia"

Non potendo capire, a quella distanza, se fosse abitata o meno il giovane archeologo si rivolse al suo interlocutore "Ma ha degli abitanti o è deserta? Vista da qui sembra completamente disabitata"

"Per essere abitata, è abitata" disse il prelato "ma non si hanno molte notizie precise in merito"
Visto lo stupore di Chi il giovane continuò "Si sa che è abitata da tribù nomadi ma queste sono talmente refrattarie ai contatti con l'esterno che si presume vivano in uno stato semi selvaggio."
"È mai stato tentato un approccio da parte della vostra cupola?" incalzò Chi
"Oh, sì" rispose il suo interlocutore "Diverse volte, molto tempo addietro, si è tentato un approccio civilizzatore ma, di tutti gli opertec che vi si sono recati, nessuno è mai più tornato indietro per cui, dopo poco, la cupola ha deciso di lasciar perdere."
"Uhm, interessante" commentò Chi "La ringrazio molto"
"Si immagini, dottore" concluse l'opertec "Lei è il benvenuto".

Detto questo l'opertec se ne andò per tornare alle sue misurazioni mentre la terra davanti a cui erano passati si allontanava inesorabilmente alle loro spalle. Chi-Dan restò nuovamente solo ad ammirare lo spettacolo incredibile del sole che, lentamente, stava tramontando verso ovest scomparendo nell'immensa distesa liquida fra sfumature di colore che andavano dal giallo al rosa fino a sciogliersi in un regale rosso porpora.

Cenarono assieme all'ufficiale Patrick Levoisier che si rivelò molto propenso a colmare tutte le curiosità dei giovani archeologi relativamente alla sua amata Madame de la Mer. Terminato il pasto gli inviati della Celeste Sede decisero che fosse meglio andare a dormire presto visto che il giorno seguente sarebbero finalmente giunti sulle coste di Unlen e lì il riposo sarebbe stato sicuramente più scarso.

Le prime ore di navigazione notturna permisero all'hovercraft di viaggiare ancora a pieno regime su rotta Sud-Sud-Est incrociando prima una piccola isola solitaria poi, verso mezzanotte, un piccolo arcipelago costituito da tre isole di cui la prima, lunga una quindicina di chilometri, scivolò via come un'ombra scura, la seconda, in pratica, era poco più di un grosso scoglio mentre l'ultima, più grande, era lunga e lievemente collinare. Il contorno dell'isola era costellato da piccole calette sabbiose sovrastate da alte bianche scogliere illuminate dalla luna e interrotte, qui e là, da numerose grotte marine. L'enorme hovercraft puntò deciso verso uno di queste per potersi rifornire di acqua fresca. Dopo un paio di ore ripartì proseguendo ancora per un po' sulla medesima rotta di prima virando, poi, in modo netto in direzione Est.

Chi-Dan si svegliò di soprassalto: un fortissimo scossone lo aveva fatto cadere dal letto e si trovava ora sdraiato e un po' dolorante sul pavimento metallico della sua cabina. Nonostante i continui e improvvisi sobbalzi del pavimento il giovane archeologo riuscì a rimettersi in piedi e ad uscire dalla cabina. Si recò barcollando verso la sala comune per capire cosa stesse succedendo. Aperta la porta si trovò di fronte una spaventatissima Mae-Yong che gli chiese che cosa stesse accadendo. Prima ancora di poterle rispondere la porta da cui era entrato si aprì nuovamente e comparve il resto della sua squadra.
Non arrivando nessun altro, Chi pensò che, forse, avrebbe potuto salire alla cabina di comando per chiedere lumi su cosa stesse accadendo.

Uscì dalla sala comune attraverso la medesima porta da cui era passato il giorno precedente. Non appena fuori si accorse che il vento era molto più forte e gli spruzzi del mare così potenti che, immediatamente, si ritrovò completamente zuppo. Con difficoltà riuscì a salire i gradini che conducevano al ponte di comando dove, tra gli altri, lo accolse il primo ufficiale Levoisier il quale lo informò che stavano per attraversare una forte tempesta inaspettata. Rassicuratolo che il mezzo su cui si trovavano poteva affrontare un mare con onde fino a dieci metri di altezza senza alcuno problema gli chiese, cortesemente, di tornare al ponte inferiore in quanto il momento era abbastanza impegnativo per l'equipaggio.

Pur non completamente convinto ma, comunque, conscio del fatto che fosse meglio lasciare il personale addetto alla manovra libero di agire senza un estraneo inesperto in mezzo ai piedi, Chi ritornò giù, nella sala comune, dove riferì agli altri la situazione.
Fortunatamente dopo un paio di ore la tempesta decise di dirigersi verso una direzione diversa dalla loro e, finalmente, il mare tornò in breve calmo come lo era stato in precedenza.

Quando l'alba si affacciò sulla liquida distesa incontrarono una vastissima isola caratterizzata da un lungo e alto crinale montuoso che, praticamente, la divideva in due. Anche questa, in breve tempo, sfilò alla loro sinistra.

Appena superata la grande isola l'hovercraft compì un'ultima variazione di rotta puntando ora in modo deciso verso Sud. Dopo alcune altre ulteriori ore di navigazione, finalmente la terra di Unlen comparve davanti a loro.
Avvicinandosi poterono osservare che la costa era perfettamente piatta a perdita d'occhio in entrambe le direzioni ma, al contrario di quanto si aspettava Chi, il tratto verso cui stavano navigando era abbastanza verdeggiante in quanto veniva irrorato dall'immenso delta di un grande fiume.

Poco dopo l'enorme hovercraft risalì la bassa riva e si fermò ad un centinaio di metri dal mare. Venne aperto il portellone di poppa che dava accesso all'hangar dei veicoli e, da questo, uscirono i tre hovercraft da trasporto con a bordo la squadra di Chi-Dan, le loro attrezzature e tutto quanto era partito con loro dalla cupole di Geneve per proseguire via terra l'ultimo tratto di viaggio.


Dopo una mezz'ora passata a seguire il corso del grande fiume presso cui erano approdati, Chi notò che uno degli hovercraft che trasportavano i popolani e le attrezzature si stava fermando e chiese a Rochat che cosa stesse succedendo. Questi lo informò che, a causa della distanza fra la piana delle piramidi e la Madame de la Mer che fungeva da ponte radio con la cupola di Geneve, era necessario posizionare alcuni ripetitori di segnale per poter comunicare.
Mentre, quindi, uno degli hovercraft si fermava in un ampio spiazzo a lato del grande fiume, gli altri due proseguirono la loro corsa e, presto, svoltata l'ennesima ansa verdeggiante il profilo inconfondibile delle tre piramidi comparve in distanza davanti a loro.


    Per comodità delle ricerche era stato deciso di sistemare il campo a poca distanza dalla piramide più grande in modo che il tragitto da compiere con gli eventuali reperti da analizzare non fosse eccessivo. Appena raggiunto il punto prestabilito Chi-Dan saltò a terra assieme alla sua squadra, tutti pronti ad allestire il campo come era loro abitudine. Quello che non era abituale, invece, era vedere i due popolani rimasti i quali, con competenza, stavano già iniziando a piantare i paletti delle diverse tende.

La preoccupazione principale di Chi era quella di evitare qualche danno accidentale alle delicate attrezzature di ricerca che si erano portati appresso fin dalla Celeste Sede ma, nonostante diverse difficoltà nel farsi comprendere dai popolani, il campo venne allestito per bene e senza che occorressero incidenti a persone o cose.

Il giovane archeologo indisse immediatamente una piccola riunione della sua squadra per decidere come sarebbe stato meglio procedere con la ricerca. Proprio mentre stavano nel pieno della discussione Rochat entrò con aria distratta nella tenda interrompendoli. L'opertec, con aria imbarazzata, porse le proprie scuse per l'intromissione involontaria dicendo di non essersi accorto del fatto che la tenda era occupata e, dopo aver dato un lungo sguardo attorno alle carte, disegni e strumenti sparsi sul tavolo, si ritirò, uscendo.
La discussione poté, finalmente, riprendere.

Qualche ora dopo, a cena avvenuta, Chi-Dan uscì, al buio, dalla sua tenda per godersi la vista della volta stellata. Era uno spettacolo assolutamente grandioso: le stelle erano così grandi e fitte che, di fatto, era letteralmente impossibile distinguerle una dall'altra. Abbassando un momento lo sguardo Chi scorge un'ombra scura che si muoveva furtivamente fra le tende. Quasi immediatamente questa sparì nel buio della notte lasciando il giovane archeologo nel dubbio di aver realmente visto qualcosa muoversi. Con questo pensiero Chi-Dan si attardò ancora un poco restando, comunque, nel cono d'ombra formato dalla sommità della sua tenda e, dopo circa un quarto d'ora, vide nuovamente la medesima ombra furtiva ritornare. Questa volta, però, la figura misteriosa passò vicino ad un piccolo punto illuminato dal fuoco acceso al centro del campo ed il giovane scienziato poté notare che indossava un mantello nero: quello tipico degli opertec.


La mattina successiva Chi-Dan si trovò davanti al dilemma di dove iniziare le ricerche. Non c'erano indizi di nessun tipo a guidarlo; l'unica cosa che poteva aiutarlo a quel punto era l'istinto.
Alla riunione mattutina nella tenda-laboratorio il giovane archeologo propose l'idea di iniziare la ricerca proprio dal punto approssimativo in cui l'oggetto risultava essere stato ritrovato: vicino all'ingresso della grande piramide.

La squadra si organizzò per un'esplorazione minuziosa di tutta l'area che circondava l'imponente costruzione a partire, appunto, proprio dal suo ingresso. Dopo ore passate a setacciare la zona si ritrovarono al punto da cui erano partiti senza che si fosse ottenuto il benché minimo risultato.

Accertato che all'esterno della grande piramide non ci fosse nulla che potesse interessarli decisero di comune accordo che, forse, all'interno qualcosa avrebbe potuto far luce su quanto stavano cercando. Dato che durante la riunione del mattino prima di iniziare le ricerche Chi-Dan aveva reso edotti i suoi compagni di quanto aveva visto la sera precedente decisero, prima di entrare, di essere certi che Rochat non fosse da nessuna parte lì attorno. Tanto per stare sul sicuro, utilizzarono alcuni stracci trascinati dietro di loro per cancellare le loro impronte in modo da non tradire la loro presenza all'interno della piramide.

Una volta volta entrati si ritrovarono a percorrere un corridoio che puntava decisamente verso il basso con un inclinazione che Mae-Yong calcolò di 26 gradi. Il corridoio era completamente in pietra, posata in blocchi squadrati del peso di diversi quintali ed era tanto basso e stretto tanto che dovettero inoltrarsi stando accovacciati.

La loro visibilità era, ovviamente, limitata al raggio coperto dalle rudimentali torce che si portavano appresso. Percorsi una decina di metri il corridoio presentava una diramazione, più o meno della medesima inclinazione, la quale si protraeva dal soffitto di quello che stavano percorrendo proseguendo verso l'alto.

Per ottimizzare la loro ricerca concordarono che, mentre Chi-Dan avrebbe continuato la discesa lungo il corridoio originale, gli altri si sarebbero avventurati lungo quello ascendente decidendo, inoltre, che si sarebbero incontrati entro un paio di ore alla diramazione dove si trovavano in quel momento per comunicare gli eventuali ritrovamenti e stabilire come proseguire le loro ricerche lontano da orecchie indiscrete.

Una volta divisi, parte accovacciato e parte a carponi, Chi percorse il resto del corridoio discendente che si rivelò lungo poco più di una settantina di metri. Quando si rese conto della distanza percorsa restò sorpreso: a lui quel percorso era sembrato lungo interi chilometri! D'improvviso il passaggio era divenuto orizzontale e, fatti ancora una decina di metri, le pareti si allontanarono ed il soffitto divenne abbastanza alto da potersi mettere in piedi. Il giovane archeologo si guardò attorno e notò, non senza sorpresa, che, a differenza delle parti più esterne dell'imponente costruzione, qui tutto era stato lasciato ad uno stato più grezzo; quasi che i misteriosi costruttori avessero avuto fretta di concludere la loro opera.

Proseguì rasentando la parete di destra fino alla fine di quella che si era rivelata come una stanza. Dalla parte opposta al corridoio da cui era arrivato sembrava iniziare un ulteriore passaggio. D'improvviso, dall'apertura buia che si apriva di fronte a lui, udì provenire un rumore in rapido avvicinamento. Si voltò verso la direzione da cui proveniva il suono e, per un istante, vide una velocissima sagome vicino al pavimento che correva puntando decisamente verso di lui. Chi-Dan sobbalzò e, per la sorpresa, gli sfuggì di mano la torcia accesa con cui stava esaminando l'ambiente. Un'istante prima che questa raggiungesse il pavimento di pietra, nel piccolo cono della sua luce, il giovane archeologo riuscì a scorgere un animaletto della dimensione di un grosso topo il quale, veloce come un fulmine, gli passò accanto e si dileguò attraverso il passaggio da cui lui era appena giunto.
Un istante dopo il buio più fitto lo avvolse. La torcia, cadendo, si era frantumata in una miriadi di piccole scintille incandescenti che, subito, si erano spente irrimediabilmente.

Per qualche istante Chi-Dan non riuscì a distinguere più nulla ed il terrore cominciò a salire in lui; come poteva fare ad uscire da lì se nemmeno riusciva a capire in che direzione era voltato. Poco dopo, però, i suoi occhi cominciarono ad abituarsi all'oscurità e, nel buio fitto, si accorse di una lievissima luminosità azzurrina che non sembrava provenire da alcun luogo specifico. Abbassò lo sguardo un attimo e si rese conto che questa luminescenza fuoriusciva proprio dalla tasca superiore sinistra della sua giacca da campo.
La aprì e, con la mano destra, ne estrasse il contenuto: il disco metallico che Saru-Dan III gli aveva consegnato. Questo, al pari di quando lo aveva visto la prima volta nell'ufficio dello zio, era attivo e, a quanto pareva, stava rilevando una qualche fonte di energia compatibile.

Come era possibile? Si domandò. Non poteva certo esservi energia del tipo rilevabile dal disco in un manufatto di pietra risalente a millenni prima degli stessi antichi! Il mistero si stava davvero infittendo.

Tenendolo in mano, alto, davanti a sé, Chi-Dan provò ad avanzare un poco nella stanza verso il passaggio da cui era uscito poco prima il roditore che lo aveva spaventato. Con interesse si accorse che la luminescenza del disco diveniva più intensa. Si inoltrò lungo il corridoio al di là della stanza sotterranea che si rivelò proseguire per pochi metri prima di terminare con un muro dall'aria molto solida.
Vide distintamente che, dalle fessure che contornavano una delle pietre della parete terminale del corridoio, fuoriusciva la medesima luce emessa dal disco che aveva in mano. Con cautela sfiorò la roccia contornata dalle lame di luce e questa, con uno scatto metallico, improvvisamente rientrò nella parete stessa per un paio di centimetri sfilando, poi, verso l'alto e rivelando una cavità profonda una decina di centimetri fortemente illuminata sul cui fondo di forma circolare, si trovava un incavo irregolare.

Lo esaminò brevemente e si rese conto che il fondo di questo era la copia esatta, al negativo, del disegno in rilievo del disco che aveva in mano; esso raffigurava inconfondibilmente il sacro simbolo del Goddafin!
 

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Capitolo 11
*** Trova... ***


Capitolo 7 - Trova...
 
Saru-Dan III camminava nervosamente su e giù all'interno del suo ufficio posto sulla sommità della cupola della Celeste Sede. Aveva attivato il dispositivo, situato nella sua scrivania di ossidiana, che impediva a chiunque di disturbarlo. Solo una chiamata dal sistema di comunicazioni intercupole lo avrebbe potuto. Ma proprio questa chiamata, così ansiosamente attesa, seguitava a non giungere!
 
Ormai era passata una settimana da quando Chi e la sua squadra erano partiti a bordo di una capsula della nemikrel alla volta della lontana cupola di Geneve. Che fossero poi giunti via mare alla loro destinazione gli era stato confermato dallo stesso staman De Lacroix, il quale lo aveva personalmente chiamato un paio di giorni prima.
Si rese ovviamente conto che una ricerca di quel tipo non aveva possibilità di dare risultati in un tempo così breve ma, d'altra parte, l'attesa lo snervava.
 
Azionò il comunicatore interno e chiese all'opertec addetto di convocare immediatamente alla sua presenza So-Dan. L'operatore confermò l'ordine e Saru-Dan chiuse la comunicazione.
Riprese a camminare, meditabondo, di fronte all'ampia vetrata che dava sulla grande terrazza posta in cima alla cupola.
Cinque minuti dopo un ronzio sommesso proveniente dalla scrivania nera lo avvisò che qualcuno era davanti alla sua porta. Senza nemmeno preoccuparsi di accertare chi fosse azionò il meccanismo di apertura ed il pannello di ingresso, scivolando nella parete, fece entrare la figura incappucciata di So-Dan.
 
"Mi avete convocato, Proman?" chiese con un rispettoso inchino l'opertec.
"Siediti, So" replicò Saru-Dan tralasciando qualunque formalità.
 
Il giovane prelato obbedì ma, immediatamente, si sentì alquanto a disagio a causa del comportamento dello zio: questi, a dispetto di ogni usanza e tradizione, continuava a stare in piedi camminando nervosamente avanti e indietro.
Generalmente era il visitatore che restava in piedi mentre lo staman stava comodamente seduto! Reputò, comunque, di non esternare questo suo imbarazzo, lasciando che l'augusto parente esprimesse quanto aveva da comunicargli.
 
"Hai avuto notizie da Chi in questi giorni?" chiese Saru-Dan III d'improvviso.
"No, vostra eminenza" replicò immediatamente So, sempre più sorpreso.
 
Come poteva lo zio fargli quella domanda ben sapendo che nessuna comunicazione intercupole poteva essere effettuata senza che i gradi più alti del clero non ne fossero messi a conoscenza? Se così fosse avvenuto lui ne sarebbe stato immediatamente edotto.
Decise di azzardare e glielo disse.
 
"Vostra eminenza" esordì "Se così fosse stato voi sareste stato il primo a saperlo."
 
Vedendo che lo zio annuiva lievemente con il capo aggiunse "Anzi, sono anch'io curioso di sapere come sta andando la sua ricerca"
 
Saru-Dan, quasi parlando a sé stesso ma, comunque, a voce abbastanza alta perché So potesse sentirlo, commentò: "Probabilmente non ha ancora trovato riscontri tali da necessitare di essere riferiti"
Poi, voltandosi improvvisamente verso il suo interlocutore e socchiudendo gli occhi, soggiunse "o, forse, ha trovato quello che stava cercando, ma potrebbe essere qualcosa di cui non si può parlare via radio"
 
So-Dan rivolse di scatto lo sguardo verso lo zio, guardandolo ad occhi spalancati.
 
"Che cosa intendi?" domandò in modo diretto, dimenticando qualunque forma di rispetto tanto era sorpreso.
"Una comunicazione lungo le vie normali" riferì meditabondo Saru-Dan "necessita di un ponte radio da parte della cupola di Geneve per cui chiunque si trovasse là potrebbe ascoltare senza problemi tutto quanto venisse detto"
"Sempre che" aggiunse "Chi non abbia già fatto rapporto e qualcuno lo abbia intercettato..."
 
So-Dan era sconvolto da quello che stava sentendo. Rapporti intercettati e non ritrasmessi? Ma suo zio stava realmente pensando che ci fosse qualche sorta di complotto in atto? A che scopo, poi?
Il proman incontrò per un istante lo sguardo attonito del nipote e si rese finalmente conto che stava pensando a voce alta. La cosa lo innervosì ulteriormente: mai era successo che la situazione gli sfuggisse di mano e lo rendesse così trasparente.
 
"Ma, in fondo, potrebbe solo trattarsi del fatto che è trascorso ancora troppo poco tempo" si affrettò a dire con un sorriso tirato che, di fatto, smentiva ogni suo tentativo di sembrare rilassato "Per una ricerca del genere ci vuole tempo e solo un gran colpo di fortuna potrebbe portare risultati in tempi così brevi"
"Sicuramente è come voi dite, eminenza" replicò il giovane opertec, per nulla convinto dal repentino cambio di atteggiamento dell'interlocutore.
"Puoi andare, So" concluse Saru-Dan, congedandolo "Tienimi aggiornato sei hai qualche notizia"
 
So-Dan si alzò, fece un silenzioso inchino e uscì attraverso la medesima porta da cui era poco prima entrato. Una ridda di pensieri affollava la sua, normalmente tranquilla, mente.
 
* * *
 
 Chi fissò incredulo l'incavo nella parete di pietra da cui scaturiva una fortissima luce azzurrina che illuminava tutto il tratto di corridoio in cui si trovava.
Nella sua mano, il disco metallico, brillava altrettanto intensamente. L'energia presente doveva essere fortissima visto che la sua luminosità era così elevata.
 
Seguendo più l'istinto che la ragione il giovane archeologo avvicinò il disco all'incavo nella parete, tenendolo rivolto con il simbolo del Goddafin verso il basso.
Lo inserì nell'alloggiamento, che si rivelò perfettamente su misura per esso. Non appena il disco entrò in contatto con il fondo dell'incavo si udì lo scatto di uno meccanismo che veniva attivato, poi più nulla.
Dopo un attimo di ansioso silenzio, un sommesso ronzio provenne dalla parete. Improvvisamente una porzione di pietra, della misura di un metro di larghezza per due di altezza, rientrò di qualche centimetro scivolando, subito dopo, a lato e scomparendo all'interno della parete stessa.
Nel varco formatosi una porta metallica dall'aria particolarmente massiccia sbarrava il passaggio.
Dopo qualche istante si udirono altri ronzii e ticchettii provenire da un punto imprecisato oltre la parete finché, con un ultimo sommesso sibilo, anche questa paratia si smosse, ruotando all'indietro su cardini nascosti e rivelando uno spazio buio.
Una nuova serie di relè scattò e, una dopo l'altra, una fila di luci bianche si accesero in sequenza mostrando, agli occhi sorpresi di Chi, una vasta sala dalle pareti ricoperte di lastre metalliche satinate.
 
Stando ancora sulla soglia, il giovane archeologo si guardò un momento attorno; tutto sembrava perfettamente nuovo e pulito, quasi fosse stato lasciato dai suoi costruttori solo pochi istanti prima.
Osservando un po’ più attentamente, però, si accorse che su ogni superficie era visibile uno strato sottile di polvere compatta quale solo un tempo quantificabile in millenni avrebbe potuto formare.
Chi si riscosse e, lasciando il disco inserito e la porta spalancata, utilizzò la luce che ne fuoriusciva per illuminare sia la sala dove era andata distrutta la sua torcia che buona parte del corridoio al di là di essa.
Si allontanò per riportare la sconvolgente scoperta alla sua squadra. Ci sarebbe stato tempo, più tardi, per tornare a riprendere il disco-chiave.
 
Quella sera, dopo cena, Chi era ancora così agitato per la scoperta che non riusciva a prendere sonno. Guardato il segnatempo da campo si accorse che era già mezzanotte passata.
Decise di alzarsi e provare a fare due passi attorno alla tenda, per vedere se la calma ed il fresco della notte lo avrebbero aiutato a rilassarsi un po'.
Stava, giustappunto, girando attorno all'angolo esterno della sua tenda quando vide apparire come qualche notte prima, dalla parte opposta del campo, la figura incappucciata di un opertec il quale, velocemente, si dileguò nell'ombra della notte senza luna, allontanandosi dal gruppo di tende.
 
Il giovane archeologo tornò ad osservare la miriade di stelle che, come un letto di diamanti, trapuntavano lo sfondo nero del cielo notturno. Erano talmente tante e brillanti da illuminare lievemente la piana deserta che li circondava.
"Che meraviglia!" pensò fra sé, rapito come sempre dallo stupore che lo assaliva davanti allo splendore dell'universo "Forse avrei dovuto fare l'astronomo invece che l'archeologo"
Naturalmente dovette subito ammettere con sé stesso che anche il suo attuale lavoro lo appassionava come non mai per cui tutto restava, come al solito, nel campo delle ipotesi.
 
Era trascorso circa un quarto d'ora quando Chi vide il medesimo opertec tornare verso il campo. Senza sapere il perché, il giovane cinlen decise di rimanere fermo nel buio dell’ombra creata dalla sua tenda, osservando il prelato che si avvicinava. Mentre questi stava transitando fra due delle tende attorno al fuoco centrale, un improvviso refolo di vento gli fece ricadere il cappuccio sulle spalle e la luce del falò rivelò nettamente il volto di René Rochat.
L'opertec si affrettò a rimettere il cappuccio in posizione guardandosi due o tre volte attorno poi, velocemente, scomparve all'interno della tenda che gli era stata assegnata.
Chi, per quanto si fosse trattato di un comportamento per lo meno strano, sul momento non ci stette a pensare più di tanto; finalmente un po' di sonnolenza lo aveva raggiunto.
Entrò nella sua tenda e, poco dopo, si addormentò.
 
La mattina seguente, nella tenda adibita a mensa comune, Chi incontrò Rochat, che stava facendo colazione. Decise di sedersi allo stesso suo tavolo, tanto per fare due chiacchiere.
 
"Buon giorno, opertec Rochat" esordì con un sorriso
"Buon giorno a lei, dottor Chi" replicò l'altro senza troppo brio
"Una bella serata quella di ieri, non trova?" incalzò Chi, tanto per conversare.
"Non ne ho idea" rispose asciutto il prelato, continuando a guardare nel proprio piatto "Me ne sono andato a dormire molto presto ieri sera"
"Ah, certo. Capisco..." aggiunse il giovane, perplesso. Decise di non insistere e lasciò cadere l'argomento.
 
Rochat, senza più proferire parola, terminò frettolosamente la sua colazione e, con un rapido cenno, salutò andandosene dalla tenda.
Chi, poco dopo, terminò il proprio tè e si avviò verso la tenda delle riunioni per incontrarsi con la sua squadra.
 
* * *
 
 Giunto alla tenda trovò gli altri ad attenderlo. Dai visi si capiva che quella notte nessuno aveva dormito molto ma, nonostante ciò, erano tutti estremamente eccitati dall'idea di quello che avrebbero potuto trovare. Chi reputò che, innanzi tutto, dovessero essere messi al corrente degli strani accadimenti di quella notte. Raccontò loro della passeggiata notturna di Rochat e, soprattutto, del fatto che quella mattina avesse categoricamente negato di essere stato sveglio la notte precedente né, tantomeno, di essere stato in giro. Questa bugia, di per sé, dava una luce inquietante a tutto il suo agire. Che cosa poteva avere Rochat da nascondere?
 
"Da quella parte" osservò l'apprendista Roen-Jon interrompendo i pensieri di Chi "ci sono solamente gli hovercraft..."
 
Già, gli hovercraft... e dentro gli hovercraft...
 
"...e negli hovercraft ci sono le trasmittenti" aggiunse Chi concretizzando a parole la medesima conclusione a cui erano arrivati immediatamente anche gli altri. "Certo! Ecco perché se ne è andato da quella parte così furtivo e stamattina nega di averlo fatto!" proseguì lungo il medesimo filo logico "Si è recato, segretamente, a fare rapporto a qualcuno"
 
Solo in quel momento si rese conto di aver espresso le proprie congetture ad alta voce. Si guardò attorno e vide i membri della sua squadra che lo fissavano in silenzio.
 
Passato il primo istante di stupore, all'interno della tenda esplose una babele di commenti.
 
"Ma a chi?" stava chiedendo Foye-Xan, rivolto più a sé stesso che agli altri.
"Non posso crederci!" esclamò contemporaneamente Roen "Ma perché, poi?"
"Incredibile!" commentò Chu-Ju sottovoce.
"Calma, ragazzi!" intervenne Chi riprendendo il controllo della situazione "Fare congetture senza base di fatti non porta da nessuna parte"
 
La confusione che si era creata si acquietò un poco.
 
"Una cosa, comunque, è certa" proseguì l'archeologo "non possiamo fidarci di nessuno e, men che meno, possiamo fare rapporto alla cupola di quello che abbiamo scoperto: troppe orecchie indiscrete possono esserci tra noi ed i nostri mandanti"
Tutti si affrettarono ad approvare questa linea di azione.
"... anche perché, in realtà, non sappiamo neppure noi che cosa abbiamo scoperto" concluse mentalmente Chi.
 
"Tornando al nostro lavoro" riprese "dobbiamo decidere come organizzarci"
Mae, che negli ultimi minuti era rimasta silenziosamente in disparte con aria meditabonda, intervenne.
"Penso che potrebbe essere utile creare un piccolo campo base nella camera antistante la porta che hai scoperto" disse rivolta a Chi
Egli ci pensò su un attimo e concluse che fosse una buona idea. Questo avrebbe evitato lunghi spostamenti inutili aiutando, nel contempo, a proteggere la segretezza delle scoperte eventuali.
"Sì, Mae" replicò "Potrebbe essere decisamente un'idea vincente."
"Per evitare che qualche curioso arrivi dove non dovrebbe" intervenne Roen "potremmo segnalare, che so, la presenza di qualche pericolo?"
 
Chi valutò la proposta. Effettivamente, quando si facevano ricerche in siti che erano rimasti inesplorati da lungo tempo, era possibile che ci fossero pericoli, ad esempio, animali selvatici rintanati, bolle di gas formatesi a causa di antiche putrefazioni o altre cose similari.
 
"Sì!" decise infine "In effetti l'idea è valida. Potremmo segnalare la possibile presenza di sacche di gas all'interno della piramide ed il conseguente divieto assoluto di entrare"
 
La proposta venne immediatamente approvata da tutti dopo di che, presi i materiali necessari sia per il lavoro di ricerca che per allestire un piccolo campo avanzato, la squadra uscì dalla tenda riunioni e si avviò in direzione dell’ingresso della grande piramide, non senza prima essersi accertati che nessuno stesse guardando dalla loro parte.
 
 
* * *
 
 
Non appena giunti nel vuoto allargamento del corridoio inferiore antistante il varco nascosto provvidero a sistemare alcune brandine, un tavolo pieghevole e un piccolo fornello da campo. Una volta allestito quello che chiamarono "campo avanzato", la squadra si divise: mentre Foye-Xan, coadiuvato da Chu-Ju, si preoccupava di sistemare, come concordato, gli avvisi di pericolo all'ingresso della struttura, gli altri, aperta nuovamente la massiccia paratia, si apprestarono ad entrare per la prima volta nella stanza dalle pareti metalliche che stava al di là.
 
Non appena dentro, Chi notò con stupore che lo strato di polvere millenaria che ricopriva ogni millimetro quadrato della stanza era completamente svanito; dovunque guardasse non ve n'era più la benché minima traccia. Come era possibile che questo fosse avvenuto? Dopo di lui nessuno si era nemmeno avvicinato alla stanza.
Perplesso tolse la mano dalla tasca della giacca dove l'aveva tenuta fino ad allora. Un piccolo frammento di carta del taccuino che vi era custodito si strappò a causa del gesto improvviso e cadde a terra. Per riflesso condizionato Chi si abbassò per raccoglierlo e, con curiosità, notò che il frammento di carta si stava lentissimamente, ma indubbiamente, muovendo in direzione della parete più vicina. Stupito lo seguì finché, al termine del suo percorso, lo vide scomparire alla base del muro lungo la quale, notò, scorreva una fessura alta pochi millimetri che, fino a quel momento, era passata inosservata.
 
"Roen" chiamò "porta qui il rilevatore di aria"
L'assistente si avvicinò portando con sé l'apparecchiatura che utilizzavano normalmente negli scavi quando volevano accertare la presenza di passaggi nascosti sfruttando, appunto, il movimento dell'aria dovuto alle differenti condizioni climatiche di due ambienti contigui ma isolati fra loro.
 
Puntò il sensore dell'apparecchio verso la fessura e, immediatamente, sul piccolo monitor del rilevatore i valori si alterarono.
 
"Incredibile!" si stupì Chi "Queste sottili fessure alla base delle pareti sono come un gigantesco polmone ed aspirano, in modo continuativo, l'aria della stanza. In questo modo si ottiene anche un ricambio totale della stessa”
 
Pochi istanti dopo furono raggiunti anche da Foye e Chu che avevano terminato il loro compito di sicurezza. Anche loro si unirono agli altri nell'esplorazione palmo a palmo della stanza.
La cosa che lasciava Chi perplesso era proprio la mancanza di un senso relativamente alla stanza stessa: a parte un paio di sedili costruiti con un materiale plastico di composizione sconosciuta addossati alla parete di sinistra rispetto all'ingresso, per il resto sembrava totalmente vuota.
 
Improvvisamente si udì un piccolo grido soffocato. Tutti si voltarono immediatamente nella direzione da cui esso proveniva e videro Chu-Ju che, con una mano premuta sulla bocca, fissava un punto preciso della nuda parete di destra. Un attimo dopo, appena a lato del punto fissato dalla ragazza, una porta si aprì silenziosamente.
Chi si avvicinò ad essa con cautela mentre dall'altra parte della soglia si accendevano automaticamente le luci.
Quello che si trovava al di là dell'apertura nella parete era sorprendentemente familiare: l'angusta cabina di un turbo elevatore, come quelli presenti all'interno di tutte le cupole.
Ora la cosa cominciava ad avere più senso. La stanza in cui si trovavano non era che il vestibolo d’ingresso di qualcos'altro. Ma di cosa, esattamente?
 
Chi cercò di valutare velocemente le possibilità. Già il fatto di aver scoperto qualcosa della cui esistenza nessuno al mondo fosse a conoscenza era, di per sé, clamoroso. Cosa potevano aspettarsi di trovare all'altro capo del tragitto dell'elevatore?
 
"Quello che avevamo scoperto fin qui era già incredibile" esordì il giovane archeologo rivolto agli altri membri della squadra "con questa novità, ora, dobbiamo la cosa diviene ancora più corposa"
Nessuno replicò.
"Converrà procedere in questo modo:" continuò Chi "Io, Roen e Chu proveremo ad azionare l'elevatore mentre tu, Mae, assieme a Foye, continui l'esplorazione di questa stanza in cerca di eventuali altre sorprese"
"D'accordo" confermò Mae "Andiamo, Foggy, diamoci da fare"
Detto questo i due ripresero la loro meticolosa ricerca.
 
Gli altri tre membri della squadra entrarono nella cabina dell'elevatore. Non appena furono all'interno la porta si chiuse e una piccola porzione della parete a fianco di essa si illuminò rivelando un unico pulsante olografico. Evidentemente la corsa della cabina prevedeva solo un punto fisso di partenza ed uno di arrivo. Chi ruotò un momento il suo sguardo verso gli altri due che stavano con lui poi, ancora un poco tentennante, toccò il punto in cui il pulsante era comparso.
 
L'elevatore, immediatamente, iniziò a scendere, velocissimo. Dopo poco gli occupanti della cabina avvertirono la decelerazione dell'elevatore e, qualche istante più tardi, questo si fermò del tutto e la porta si aprì nuovamente.
Davanti a loro si trovava un vano le cui pareti, pavimento e soffitto erano ricoperte da una specie di materiale plastico bianco. Il tutto era illuminato da un paio di tubi luminescenti posti a circa cinque o sei metri l'uno dall'altro. Al di là di quell'isola di luce, le tenebre erano fittissime tanto che non potevano capire se quello che avevano davanti fosse una stanza simile a quella superiore o un ambiente più vasto.
 
"Usciamo dall'elevatore" suggerì Chi
 
Non appena furono tutti nel locale la porta della cabina si chiuse con un leggero soffio. Chi avanzò un poco allontanandosi di qualche passo verso l'oscurità che avevano davanti. Arrivato quasi al limite della pozza di luce, un nuovo tubo luminescente si accese poco più avanti rivelando che quella che loro credevano una stanza era, in realtà, un corridoio.
 
"È evidente" commentò Chi "che l'illuminazione funziona in base alla presenza di persone: se qualcuno entra nel raggio di azione di uno dei sensori, questo aziona il tubo di illuminazione relativo"
Riprese ad avanzare verso il buio e, di nuovo, un nuovo tubo luminescente si accese più avanti.
"Roen, Chu" disse, rivolgendosi agli altri due "Restate qui intanto che provo ad andare avanti ancora un poco."
I due ragazzi annuirono e Chi riprese ad avanzare, provocando l'accensione di altri tubi luminosi. Ora che sapeva cosa cercare, Chi si guardò attorno e poté notare, lungo le pareti, i comandi di apertura mimetizzati di altrettante porte.
Ad un certo punto si fermò e, guardando alle proprie spalle, si rese conto di aver già percorso almeno una trentina di metri senza, comunque, aver raggiunto la fine del corridoio che proseguiva, davanti a lui, immerso nell’oscurità. La conclusione di questo lo colpì immediatamente con tutta la sua forza: la struttura in cui si erano imbattuti doveva essere di dimensioni assolutamente colossali e, incredibile ma vero, nessuno era mai venuto a conoscenza della sua esistenza.
Girò su sé stesso e ritornò sui propri passi.
 
"Ragazzi" disse una volta raggiunti nuovamente i due suoi assistenti "Sarà meglio che torniamo di sopra e aggiorniamo anche gli altri di quello che abbiamo scoperto."
Roen fece un cenno affermativo con il capo mentre Chu allungava la mano per azionare il comando di chiamata dell'elevatore.
Salirono e, arrivati nella stanza superiore, Chi si avvicinò a Mae e a Foye.
 
"Quello che abbiamo scoperto" disse loro "è al di là di ogni aspettativa. Lasciate stare quello che stavate facendo e venite un momento qui con gli altri"
 
Non appena furono tutti riuniti attorno al tavolo pieghevole, che avevano allestito nella stanza di pietra esterna, Chi andò subito al punto.
 
"Dobbiamo organizzarci per una ricerca approfondita di questa struttura che, a prima vista, pare molto vasta. Tanto per cominciare direi di spostare il campo avanzato direttamente all'interno della stanza d'ingresso. In questo modo possiamo richiudere la parete di pietra esterna così che nessuno possa intuire dove siamo e a cosa stiamo lavorando"
 
Si misero subito al lavoro e, in men che non si dica, ogni traccia del loro passaggio era sparito. Passando per ultimo dal varco di ingresso, Chi estrasse dall'alloggiamento nella parete il disco-chiave e la paratia metallica interna iniziò lentamente a ruotare. Con un piccolo suono pneumatico la porta si chiuse ermeticamente. All'esterno la sezione della parete di pietra che corrispondeva al varco scivolò nuovamente nella sua posizione originale ed il corridoio inferiore della grande piramide tornò vuoto, buio e silenzioso come lo era stato per millenni.

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Capitolo 12
*** Capisci... ***


Capitolo 8 - Capisci...

Terminato il trasferimento di tutto l'equipaggiamento all'interno del locale di accesso della base sotterranea, Chi-Dan si chiuse la porta stagna alle spalle e richiamò l'attenzione di tutta la sua squadra.
 
"Bene, ragazzi" esordì "venite tutti qui ‘che vorrei ragguagliarvi sulle scoperte che abbiamo fatto"
 
Tutti i membri della squadra si radunarono attorno al tavolo dove normalmente venivano esaminati i reperti, che era stato posizionato al centro della stanza.
Quando tutti si furono accomodati, Chi cominciò.
 
"Come sapete io, Roen e Chu siamo scesi con l'elevatore. Questo ha solo due livelli raggiungibili: quello dove ci troviamo ed un altro in profondità sottostante a questo"
 
Proseguì, poi, raccontando del lunghissimo corridoio e di tutte le porte che si aprivano su di esso.
 
"A questo punto, viste le dimensioni del luogo, diviene necessario effettuare un'esplorazione più sistematica di tutta questa struttura."
 
Tutti annuirono.
 
"Sarà fondamentale" seguitò "stabilire le reali dimensioni di questa base ma, ancor più importante, scoprire per quale scopo sia stata realizzata e mantenuta così nascosta"
 
Tutti i membri della squadra eruppero in domande e commenti e le loro voci si sovrapponevano le une alle altre. Il giovane archeologo cercò di riportare la calma nel gruppo.
 
"Come potete sicuramente immaginare, non sono in grado di rispondere ad alcuna domanda." affermò Chi "Finché non se ne saprà di più consiglio solamente a tutti di agire con la massima prudenza"
 
Mentre gli altri si allontanavano dal tavolo discutendo animatamente su quanto detto, Mae si avvicinò a Chi-Dan.
 
"Che c'è, Chi?" domandò "Ti vedo preoccupato. Qualcosa non va?"
 
Il giovane archeologo si voltò verso di lei con l'espressione di chi, pur avendo gli occhi aperti, non sta vedendo cosa ha davanti.
 
"Eh, scusa?" replicò
 
"Ti ho chiesto solo se c'è qualche problema." riprese lei "Ti vedo con un'espressione un po'... persa"
 
"No, nulla" si schernì lui "stavo solo pensando a come affrontare una cosa"
 
"Sarebbe?" insistette Mae "Posso aiutarti?"
 
Sapeva che di Mae poteva fidarsi e, quindi, le rivelò le proprie preoccupazioni.
 
"Tu sai" iniziò "che questa missione è stata fortemente voluta da Saru-Dan III in persona e che, ovviamente, ora starà trepidando per sapere cosa abbiamo scoperto; e Dio solo sa quanto abbiamo scoperto!"
 
La ragazza non disse nulla ma si limitò ad annuire e attendere che lui proseguisse.
 
"Il grosso problema è che, proprio a causa di questo, dobbiamo fargli sapere che esiste un problema di mantenimento della segretezza sulla ricerca per cui è necessario che chiunque non sia della nostra squadra venga allontanato da qui. D'altra parte ti ricordi ciò che ti ho raccontato relativamente all'opertec Rochat. Devo trovare il modo di far giungere il messaggio al Sommo Tecnocrate senza che altri possano capire quello che sto comunicando e, pure, senza alzare sospetti."
 
"Decisamente un compito non facile" commentò infine Mae.
 
"Già" replicò laconico lui "Ma forse un'idea ce l'ho."
 
Guardò il proprio segnatempo personale.
 
"Visto che è quasi il tramonto" disse "significa che fra poco, alla Celeste Sede, sarà mattino. Vado su e provo a chiamare"
 
Si voltò, aprì nuovamente la porta che dava nel corridoio cieco sotto la piramide e si avviò verso l'uscita del grande edificio.
 
Giunto al campo esterno Chi si diresse verso la tenda adibita a mensa. Stava per entrare quando da questa una figura incappucciata uscì finendo per scontrarsi con l'archeologo. Dopo un attimo di sorpresa il giovane riconobbe l'opertec Reneé Rochat.
 
"Buona sera, opertec" lo salutò
 
"Oh, dottor Chi" replicò questi "E' un po' che non la vedevo. Come sta andando la vostra ricerca?"
 
"Sì, tutto bene" rispose Chi "Solo che tutto sta andando molto per le lunghe, come sempre nel nostro campo"
 
"Se avete bisogno di aiuto" offrì immediatamente il prelato "non avete che da chiedere; siamo a vostra completa disposizione"
 
E ti credo...’ pensò Chi dentro di sé ma limitandosi a declinare l'offerta con un semplice "La ringrazio, opertec Rochat. Se dovessimo trovarci in situazione di necessità sarà mio impegno farglielo sapere immediatamente"
 
Si vedeva chiaramente che all'altro questa risposta non era gradita ma, facendo buon viso a cattiva sorte, questi si stampò sul viso un sorriso tiratissimo. Salutò piegando leggermente il capo e fece per andarsene. Chi tuttavia domandò.
 
"Scusate, opertec Rochat, sapete se c'è qualcuno agli hovercraft? Avrei necessità di chiamare la Celeste Sede"
 
A Rochat, con le spalle girate verso Chi-Dan, si illuminarono istantaneamente gli occhi.
 
"No, dottore" disse in tono che avrebbe voluto essere di grande cortesia, ma che suonava falso come una moneta di cioccolato, mentre si voltava verso il suo interlocutore "Ma se ha necessità di comunicare sarò ben felice di accompagnarvi ed aiutarvi io stesso"
 
Come se non lo sapessi, serpente...’ replicò nella propria testa il giovane cinlen. Sfoderò un grande sorriso e sentenziò "La ringrazio tantissimo per la sua squisita gentilezza, opertec Rochat. Se è libero potremmo anche andarci ora"
 
"Senz'altro" disse di rimando il prelato "Venga, mi segua"
 
E si avviarono verso la zona dove i veicoli erano parcheggiati.
Giunti agli hovercraft, Rochat accedette alla cabina di quello adibito a trasmettitore radio e azionò diversi interruttori. Dagli altoparlanti incorporati nell'apparecchiatura uscì un forte rumore di scariche statiche. Dopo qualche tentativo una voce fuoriuscì dalla radio parlando in dialetto locale della cupola di Geneve. Rochat ed il suo interlocutore si scambiarono una serie di frasi poi, voltandosi verso Chi, il prelato disse che la comunicazione con la Celeste Sede era stata approntata.
 
"Parli pure liberamente, dottore" concluse, spostandosi sul sedile accanto a quello dell'operatore
 
"Grazie" rispose Chi e si sedette al posto davanti alla radio. Si voltò a guardare Rochat ma questi, facendo finta di nulla, disse al giovane archeologo che poteva parlare in quanto la comunicazione era aperta. Questo non fece altro che confermare a Chi-Dan che la cupola di Geneve, nella persona dello Staman De LaCroix, voleva a tutti costi sapere cosa stava bollendo in pentola e non avrebbe lasciato nulla di intentato per venirne a conoscenza.
 
"Qui è il dottor Chi-Dan, dell'accademia della Celeste Sede, facoltà di archeologia. Vorrei parlare con l'opertec So-Dan" esordì il giovane.
 
"Qui è la sala comunicazioni della Celeste Sede. Ciao Chi, sono So" disse la voce di suo fratello dall'altoparlante. Proseguì "Che novità ci sono? Saru-Dan III è molto ansioso di conoscere gli esiti delle tue ricerche"
 
"Ciao, So" rispose Chi "Immaginavo che il Sommo Tecnocrate fosse in attesa ma, purtroppo, non ho ancora molto da riportare. Abbiamo fatto degli interessantissimi ritrovamenti, ma necessitiamo di effettuare esami e riscontri molto più approfonditi. Purtroppo questo significa che i tempi di lavoro si allungheranno e, pure, di parecchio"
 
"Avete bisogno di qualcosa in particolare?" Domandò So-Dan.
 
"No, no" replicò Chi "Avvisa solamente Saru-Dan III che, nel più breve tempo possibile, gli manderò per altre vie un rapporto più approfondito."
 
"Va bene, Chi" confermò il prelato dalla sala radio "C'è altro che possiamo fare per voi?"
 
Chi deciso di prendere la palla al balzo e disse "Beh, forse sì. Visto che non è possibile, almeno per ora, prevedere quanto tempo ci vorrà ancora, forse potrebbe essere il caso di lasciar libera la squadra di Geneve in quanto qui non ha nessuna incombenza da assolvere se non quella di aspettare noi, mentre sicuramente potrebbero avere cose più utili ed importanti da fare presso la loro sede."
 
"Basterà che ci lascino le provviste che erano previste per tutto il gruppo. Per noi, che siamo solo in cinque, basteranno per un lungo periodo. A proposito, So" disse poi con nonchalance "Sai che zia Choo-Dan ha ancora quel suo vecchio vizio?"
 
Ci fu un istante di silenzio da parte di So. Poi replicò "Ah, sì? eh, beh, che ci vuoi fare. Non cambierà mai. Allora ti saluto, Chi. Fatti sentire presto."
 
"Ok, So. Ci sentiamo" concluse Chi-Dan, chiudendo la comunicazione
 
"Dottore" lo interpellò Rochat non appena furono di nuovo sulla via di ritorno al campo "Guardi che per noi non è un problema restare qui a sua disposizione. Qualunque necessità..."
 
"Lo so" lo interruppe Chi "Ma non è realmente necessario che perdiate di più del vostro tempo. Con i problemi, poi, di contaminazione della piramide potrebbe risultare anche estremamente pericoloso per tutti voi restare in zona"
 
Nel frattempo erano tornati nuovamente al campo e, quindi, Chi approfittò per salutare il prelato e congedarsi da lui prima che avesse il tempo di replicare.
 
Tornò immediatamente alla piramide e percorse rapidamente il corridoio discendente. Arrivato alla porta nascosta inserì il disco-chiave all'interno del suo alloggiamento ed entrò nella base sotterranea tramite la porta che immediatamente si richiuse alle sue spalle.
 
Aggiornò brevemente gli altri degli sviluppi della situazione e disse loro che, da quel momento in poi, non vi sarebbe stata più alcuna comunicazione verso la Celeste Sede attraverso il normale canale radio.
 
Venne deciso di comune accordo come proseguire il lavoro di esplorazione della base. La squadra venne divisa in tre gruppi di lavoro. Del primo avrebbe fatto parte l'esperta Mae-Jong affiancata dall'apprendista Foye-Xan. Il secondo gruppo sarebbe stato costituito dall'istintivo Roen-Jon assistito dall'attenta e riflessiva Chu-Ju mentre Chi-Dan avrebbe lavorato per conto proprio.
 
"Bene, ragazzi." disse Chi concludendo la breve riunione "Ora ci prenderemo qualche ora di riposo. Domattina, freschi e riposati, cominceremo l'esplorazione di questo posto."
 
Il mattino successivo venne richiamato l'elevatore al piano e, con questo, la squadra discese al livello sottostante della struttura.
 
 
* * *

 
Appena la porta si aprì, sbarcarono dall'elevatore e si divisero come avevano stabilito. Mae e Foye iniziarono esplorando la parte sinistra del corridoio mentre Roen e Chu provvedevano al medesimo compito dal lato destro; Chi-Dan, dal canto suo, avanzò lungo il corridoio che, come la volta precedente, si illuminava man mano che qualcuno ci transitava.
 
Giunta alla prima porta Mae provò il meccanismo di apertura e questa, immediatamente, ruotò su sé stessa senza il minimo rumore. All'interno della stanza si accesero istantaneamente le luci e poté vedere che si trattava di un vano discretamente ampio e sommariamente arredato con un letto posto accanto alla parete di destra, un tavolino appoggiato alla parete opposta affiancato da una sedia ed un piccolo armadio a tre ante in centro alla parete di fronte alla porta. A fianco di questo una seconda porta dava accesso ad un piccolo, ma efficiente locale dotato di doccia, lavabo e di tazza WC. Evidentemente era l'alloggio di qualcuno dei membri della squadra di lavoro di questa antichissima base. Tutto era perfettamente al suo posto quasi che fosse stato lasciato dal suo proprietario solo pochi istanti prima e Mae ebbe la spiacevole sensazione che questi avrebbe potuto tornare da un istante con l'altro sorprendendo loro due, intrusi, nella sua camera.
Il pensiero era, ovviamente, ridicolo visto che colui che nel passato aveva occupato quella stanza era morto da così tanto tempo che la sua stessa polvere si era dissipata secoli e secoli addietro, ma restava il fatto che si sentiva come un'intrusa a frugare fra le cose presenti in quella stanza.
 
Assieme a Foye uscì dal locale avvicinandosi alla porta successiva lungo il suo lato di corridoio. Azionò anche questo meccanismo di apertura e la stanza interna si illuminò come la precedente. Si guardò un attimo attorno e realizzò che, a parte qualche piccolissimo particolare di natura personale, la stanza era esattamente la fotocopia dell’altra. Senza perdere ulteriore tempo proseguirono per l'uscio successivo e quello dopo ancora solo per trovare stanze dopo stanze tutte della medesima natura: alloggi privati per il personale della base.
 
Dalla parte opposta del corridoio la coppia costituita da Roen e Chu non stava avendo migliore successo, poi, improvvisamente, udirono un "Hurrà!" entusiastico lanciato da Foye. Quasi immediatamente fu raggiunto da Mae seguita a poca distanza da tutti gli altri membri della squadra.
 
"Si mangia!" gridò ridendo il giovane tirocinante.
 
Mae guardò all'interno del locale e vide che si trattava di una sala molto grande con file di tavoli affiancati da panche di legno; una tipica sala mensa. I secoli potevano anche essere passati e gli antichi essere particolarmente evoluti ma, quando si trattava di creare un luogo adatto a dare pasti alle ore canoniche, nessun architetto poteva inventare qualcosa di veramente nuovo.
Infatti, come prevedibile, dalla parte opposta dell'ingresso un'altra porta a due ante opposte portava ad un locale chiaramente utilizzato come cucina. La cosa più impressionante era che, come già visto nelle stanze private, tutto sembrava nuovo e perfettamente conservato come se la base fosse stata abbandonato solo qualche istante prima.
 
Man mano che l'esplorazione avanzava si resero conto che la struttura si stava rivelando molto più grande di quanto era sembrato a prima vista. Pur non avendo la possibilità di verificarlo con strumentazioni adeguate ad occhio e croce doveva occupare per intero l'area compresa fra le tre principali piramidi e l'enorme enigmatica statua raffigurante un essere mezzo animale e mezzo donna che si trovava un po' più in là.
 
Quasi di fronte al locale mensa videro un'altra porta. Chi in persona si avvicinò ad essa e la aprì. Di fronte a lui si espandeva un ampissimo locale contenente alcune sedie poste accanto a tavoli sui quali troneggiavano apparecchiature di dubbio utilizzo. Lungo le pareti, poi, interminabili fine di scaffalature su cui facevano bella mostra innumerevoli libri, riviste, dischi di plastica metallizzati e cubi dall’aspetto cristallino. Il giovane archeologo restò ammutolito per alcuni istanti davanti a questa visione. Gli sembrava di essere in paradiso: mai era stato rinvenuto un tale enorme numero di reperti provenienti da un passato così remoto ed in un così perfetto stato di conservazione. Ogni archeologo vivente o del passato avrebbe volentieri donato metà dei propri organi per una scoperta del genere!
 
Ancora il suo sguardo vagava affascinato fra quelle meraviglie del passato quando udì un concitatissimo Foye-Xan che annunciava di aver trovato un secondo elevatore poco più avanti al termine del lunghissimo corridoio. Tutti uscirono dalla biblioteca per vedere la nuova scoperta.
 
"A questo punto" disse Chi "è necessario provvedere ad un nuovo rimpasto della squadra"
"Tu, Mae," proseguì "assieme a Chu, provvederete a controllare e fare una prima catalogazione del materiale presente nella biblioteca mentre io, Roen e Foye andremo a vedere dove porta questo nuovo elevatore”.
 
Tutti i membri della squadra annuirono e subito si separarono, ognuno in direzione del proprio nuovo incarico.
 
* * *

 
Il giovane archeologo, accompagnato dall'assistente Roen e dal tirocinante Foye, entrò nella cabina del nuovo elevatore che si rivelò identico al precedente. Anche questo, infatti, era dotato del solo pulsante di avvio il che significava che poteva percorrere solamente una precisa tratta, da un punto all'altro, senza tappe intermedie. I tre occupanti si guardarono per un istante l'un l'altro poi Chi premette il pulsante di avvio. Immediatamente la porta scorrevole si chiuse e l'elevatore si mosse. Come si erano aspettati, anche questa volta la direzione fu verso il basso.
 
'Ma quanto è estesa questa struttura?!' pensò fra sé Chi
 
Il tragitto, questa volta, fu molto più breve indicando che il nuovo livello era posto di poco al di sotto del precedente. Infatti pochi istanti dopo essere partito l'elevatore si fermò e la porta scivolò nuovamente a lato rivelando un nuovo corridoio illuminato solo per pochi metri innanzi a loro. Uscirono dalla cabina e, mentre l'elevatore tornava a chiudersi alle loro spalle, iniziarono l'esplorazione del nuovo livello. Le prime porte che incontrarono davano accesso ad alcuni locali di medie dimensioni. Alcuni erano stipati di contenitori di diverse misure, i più piccoli di questi erano posti su scaffalature metalliche sistemate lungo le pareti, mentre quelli maggiormente voluminosi stavano accatastati al centro dei locali stessi. Evidentemente si trattava di magazzini anche se ancora nessuno di loro era in grado di indicare che tipo di merci potessero contenere. Altri locali, invece, erano dotati di diverse apparecchiature, molte delle quali di natura assolutamente sconosciuta ai giovani archeologi. Dal tipo di arredamento e dalla gestione degli spazi era, comunque, presumibile che si trattasse di laboratori o di officine.
Man mano che l'esplorazione del livello proseguiva Chi-Dan cominciava a farsi un'idea dell'organizzazione della struttura. Al primo livello si trovava quella che poteva definirsi l'area logistica dotata di alloggi del personale, locale mensa, biblioteca, eccetera mentre il livello inferiore, più protetto e meno accessibile, costituiva l'area operativa della base. Già, ma quale tipo di operatività poteva avere una base ipogea nascosta al centro di una terra di nessuno? Questa era la questione che maggiormente tormentava Chi.
 
I tre erano intanto giunti al termine del corridoio. Qui vi era una porta a doppia anta dall'aspetto decisamente solido. Si avvicinarono e sfiorarono il contatto di apertura posto a lato. Le massicce porte scorsero lateralmente rientrando nella parete e immediatamente file e file di pannelli luminosi posti sul soffitto presero ad accendersi rivelando un'enorme sala piena di apparecchiature e monitor in perfetta efficienza. Vista la dimensione del locale si separarono dividendo idealmente la sala in tre settori. Erano tutti sorpresi dal perfetto funzionamento di ogni singola macchina. Era pazzesco pensare che tutti quegli strumenti, dopo millenni di totale inattività, avessero potuto tornare in funzione senza problemi come se fossero stati spenti giusto qualche ora prima. La scienza degli antichi era sempre di più fonte di stupore.
 
Chi si guardò attorno provando una sensazione di disagio, come di un déjà-vu; non riusciva a capire in che modo tutte quelle strane, antichissime apparecchiature gli risultassero, in qualche maniera, familiari. Poi, improvvisamente, un ricordo balzò all'attenzione della sua mente. Si rammentò che durante gli anni scolastici della sua infanzia, aveva visto un'immagine raffigurante l'interno della sacra sala di controllo del Goddafin presso la Celeste Sede; le apparecchiature, i monitor e tutto il resto di buona parte della sala in cui si trovava era praticamente identico a quella dell'immagine nei suoi ricordi. La consapevolezza di questa equivalenza non fece altro che renderlo ancora più confuso: che diamine c'entrava una sala di controllo del Goddafin in una base sotterranea in cui non c'era alcun raggio di energia da gestire?!
 
Ancora con la mente intenta a cercare una spiegazione, Chi proseguì nell'esplorazione della vasta sala. Oltrepassata l'area delle apparecchiature di gestione del Goddafin si ritrovò al cospetto di un grandissimo monitor di fronte a cui stava un complesso banco di comando ed una grande poltrona girevole dotata di ruote per permettere al suo occupante di spostarsi agevolmente da un lato all'altro dell'esteso quadro gestionale. Come prevedibile scritte e scale presenti nei diversi quadranti e schermi non erano certo di aiuto per capire le loro funzioni visto che erano tutte raffigurate nella sconosciuta lingua degli antichi. Ad ogni modo quello che attrasse di più la sua attenzione era il gigantesco monitor che lo sovrastava. Vi era raffigurato una sorta di reticolo costituito da piccoli punti e linee chiare su sfondo nero. Alcuni di questi puntini erano lampeggianti e avevano a fianco delle minuscole scritte azzurrine. Chi notò che quasi tutte queste luci si trovavano in corrispondenza di altrettanti indicatori, un poco più grandi e di colore giallo, sopra cui lampeggiavano, nel medesimo colore, delle sequenze di tre cifre. Contò ben sessanta di questi cerchietti disposti su due file ordinate e parallele a parte uno di questi che si trovava all'incirca al centro dello schermo, fuori linea rispetto a tutti gli altri. Continuando ad osservare lo schermo il giovane archeologo vide che attorno ad ognuno di questi punti gialli ve n'erano, poi, degli altri, lievemente più piccoli e di colore violetto, disposti a raggiera come le corolle dei petali stanno attorno al nucleo di un fiore. Anche sopra a questi ulteriori segnali vi erano codici di tre cifre nel medesimo colore.
 
Tutti questi punti erano collegati fra loro, in catena, da una ragnatela di sottili linee bianche. La vista dell'insieme era affascinante anche se ancora incomprensibile. Cosa poteva essere quello che era rappresentato su quel monitor? Chi seguitò ad osservare la complicata trina di luci che occupava l'intero schermo; tutto era immobile a parte il lampeggio dei puntini con le scritte azzurre. Improvvisamente uno di questi, quasi impercettibilmente, iniziò a muoversi allontanandosi dal corrispondente cerchietto giallo presso cui stava fino a qualche istante prima. Il puntino azzurro continuò il suo lentissimo movimento seguendo una delle linee bianche che si dipartivano dal suo luogo di origine. Chi-Dan spostò un momento lo sguardo sul cerchietto giallo da cui si stava allontanando e vide che sopra ad esso troneggiava la sequenza numerica 121. Ritornò a guardare incuriosito il puntino azzurro che proseguiva la propria corsa; ora stava avanzando molto più rapidamente e, dopo qualche istante, giunse in una zona dove due linee bianche si incrociavano fra di loro. Il suo segnale si spostò lungo la riga incrociata proseguendo il suo movimento nella nuova direzione.
 
Il giovane archeologo lasciò nuovamente il puntino in movimento riprendendo a scorrere con lo sguardo lungo la fila dei punti gialli posti più in alto. Andando verso destra, dopo una quindicina di cerchietti, la sua attenzione fu catturata da uno di questi su cui figurava il numero 100. Corrucciò la fronte assorto nel tentativo di afferrare un pensiero che gli si era affacciato nella mente ma che, come un bambino dispettoso, continuava a sfuggirgli non appena cercava di raggiungerlo. Poi ricordò le parole che suo zio Saru-Dan gli aveva detto il giorno in cui erano partiti dalla Celeste Sede. Egli aveva accennato ad un'enorme rete di collegamenti fra le cupole percorribile con quelle capsule su cui loro stessi avevano viaggiato. Ricordò anche che lo zio lo aveva fornito di una card con cui attivare la capsula rivelandogli, nel contempo, che per impostare la destinazione a cui si voleva arrivare si doveva digitare un codice di tre cifre.
 1-2-1 era la sequenza da digitare per andare alla cupola di Geneve mentre 1-0-0 era il codice necessario per tornare alla Celeste Sede... La rivelazione lo colpì d'improvviso: quello che stava osservando su di un gigantesco monitor all'interno di una sala sotterranea sepolta in mezzo alla terra di nessuno altro non era che una rappresentazione grafica in tempo reale dell'intera rete della nemikrel!
 
Ogni cosa cominciava ad avere un senso e Chi immaginò che quel puntino azzurro che si muoveva, come del resto anche tutti gli altri puntini simili, doveva essere sicuramente una capsula identica a quella che loro stessi avevano usato per il loro viaggio. Gli sovvenne, poi, ciò che Saru-Dan gli aveva riferito: solamente lui e gli staman delle diverse cupole erano a conoscenza dell'esistenza della rete nemikrel, quindi quel puntino azzurro che continuava a muoversi ormai in modo ben visibile stava con ogni probabilità a significare che lo staman De LaCroix, o qualche suo inviato, stava viaggiando in nemikrel per recarsi segretamente da qualche altra parte. Chi prese mentalmente nota di vedere più tardi quale sarebbe stata la destinazione finale della capsula mentre le potenzialità che quella scoperta aveva intrinseche stavano iniziando a prendere forma nel suo pensiero.
 
La porta di ingresso della sala si aprì interrompendo il suo ragionamento. Mae entrò nel locale puntando decisamente verso di lui; il viso di lei aveva un'espressione strana, gli occhi fissi davanti a sé.
 
"Che c'è, Mae"" la accolse al suo arrivo accanto a lui "Qualcosa non va?"
 
"Vieni con me, ora" replicò lei con un tono apatico di voce poi, senza aspettare una risposta, girò su sé stessa e ripartì nella direzione da cui era arrivata.
 
'E ora che cosa sarà successo?' si domandò attonito Chi apprestandosi a seguirla.
 
* * *

 
Mae si diresse verso l'elevatore mentre Chi la seguiva a poca distanza. Avrebbe voluto chiederle di aspettare più tardi per poter continuare a studiare la postazione di controllo della nemikrel ma, vista l'espressione attonita dipinta sul viso della giovane collega, si rendeva conto che doveva essere successo qualcosa di particolarmente grave. Entrò con lei nella cabina restando in silenzio per i pochi istanti del tragitto ascendente. La porta si aprì nuovamente e Mae si avviò in direzione della biblioteca.
 
"Ma, cosa è successo, Mae?" azzardò Chi.
"Vieni e potrai vedere tu stesso" replicò la ragazza senza aggiungere altro.
 
Entrati nella biblioteca lo condusse verso uno dei tavoli sopra cui stava una delle strane apparecchiature degli antichi.
 
"Siediti e guarda" lo invitò e lui, con espressione un po' smarrita, obbedì.
"Innanzi tutto" esordì "ho scoperto che i cubi semitrasparenti che ci sono sulle scaffalature sono dei potentissimi dispositivi di memorizzazione come non ne abbiamo mai avuti. Ognuno di essi è in grado di contenere un numero enorme di informazioni e gli strumenti che stanno qui sui tavoli sono le apparecchiature necessarie per poter visionare quello che i cubi contengono."
"Stavo appunto provandone qualcuno" proseguì dopo una breve pausa "quando mi sono imbattuta in questo"
 
Mae raccolse dal tavolo uno dei dispositivi cristallini che stavano sparpagliati attorno e lo inserì in un apposito alloggiamento dell'apparecchiatura. Si udirono dei ticchettii seguiti da un lieve sospiro simile a quello di una piccola ventola che viene azionata. Al di sopra dell'apparecchiatura si materializzò una figura olografica tondeggiante che, quasi immediatamente, si trasformò in un'immagine più nitida raffigurante un corpo sferico verde e azzurro striato di bianco. Contemporaneamente attraverso apposite griglie fuoriuscì una voce, proveniente da un remotissimo passato, che iniziò a parlare in uno strano ma musicale idioma: era la lingua degli antichi che nessuno al mondo aveva mai udito!
 
Nonostante l'emozione provocata da questo Chi era ancora più affascinato da ciò che stava vedendo. Gli bastarono pochi istanti per riconoscere nell'immagine una raffigurazione tridimensionale della Terra come se fosse vista da un punto esterno, nello spazio. L'immagine si ingrandì e subito furono visibili una serie di quelle che parevano minuscole macchie poste a distanza regolare l'una dall'altra tutto attorno alla sfera. Il punto di vista della rappresentazione si avvicinò ulteriormente a questi minuscoli puntolini che apparivano essere posizionati lungo due immaginari anelli posti ad una certa distanza dalla superficie del pianeta. Finalmente l'immagine si avvicinò ad essi abbastanza da poterne vedere i particolari. Ognuno di questi si rivelò essere un artificio, probabilmente di notevoli dimensioni, di forma cilindrica e dotato di due enormi ali dall'aspetto metallico le quali, man mano che nel corso dell'animazione la Terra ed i suoi satelliti artificiali si muovevano in sincrono, continuavano a variare il loro orientamento in modo tale da puntare sempre verso il Sole che nella raffigurazione non si vedeva ma si intuiva dal gioco di ombre e riflessi.
L'animazione proseguì, poi, mostrando i raggi stessi del sole che giungevano a colpire le enormi ali aperte dei satelliti geostazionari posti sul lato diurno. Queste venivano automaticamente orientate in modo che una parte dei raggi raccolti venisse riflessa verso il successivo satellite della virtuale catena in direzione del lato notturno ripetendo questo rimpallo da satellite a satellite finché ognuno di essi poté ricevere la sua quota di raggi solari a prescindere dalla sua posizione orbitale.
Il video, in seguito, cambiò nuovamente l'inquadratura e uno di questi satelliti giunse in primo piano. Ruotando lentamente il punto di vista dell'osservatore la sua parte inferiore, quella rivolta verso la superficie del pianeta, divenne visibile. Da qui un grande fascio luminoso di notevole spessore fuoriusciva dirigendosi verso il pianeta sottostante. La telecamera virtuale iniziò, a quel punto, una vertiginosa discesa, sempre più veloce, lungo questa portentosa colonna di energia fino a giungere, al suo opposto estremo, all'interno di una grande cupola sita sulla superficie del pianeta passando attraverso un apposito enorme foro posto sulla sommità della struttura ricevente.
Le immagini olografiche continuarono a seguire il fascio di energia all'interno della cupola e, una volta giunti nelle profondità della colossale struttura, tramite appositi macchinari il fascio di pura energia venne smistato lungo interminabili condotte forzate poste a grande profondità sotto la superficie fino a giungere ad altre strutture, totalmente sotterranee, di dimensioni più ridotte. Qui ogni raggio veniva ulteriormente suddiviso in rivoli di energia sempre più sottili terminando la sua folle corsa in quelli che sembravano degli edifici stilizzati o apparecchiature di vario tipo.
 
Così come era iniziato, su quest'ultima inquadratura il video terminò. L'ipnotico suono dell'arcana voce si azzittì mentre l'immagine dapprima perse la sua nitidezza per poi affievolirsi e scomparire. Chi restò immobile continuando a fissare il punto sopra all'apparecchiatura dove, fino a pochi istanti prima, danzavano le immagini olografiche. Il silenzio assunse quasi una consistenza fisica. Lo shock dovuto a quanto visto lo aveva lasciato totalmente incapace di proferire parola.
Lentamente la rivelazione inziò a farsi strada dentro la mente del giovane archeologo. Tutto quello che conosceva, a cui aveva sempre creduto e su cui si era sempre basata la vita sua e di tutti gli altri esseri viventi della Terra era... un'impostura!. Il dio benigno che donava energia ai suoi eletti e che dirigeva il suo popolo verso un destino designato, ogni cosa su cui tutto il mondo conosciuto si era basato per millenni era FALSO!
 
Lentamente, tremando visibilmente, Chi si volse, con gli occhi sbarrati e la bocca semi aperta, verso Mae che per tutto il tempo della proiezione era stata una silenziosa presenza alle sue spalle. Lei annuì lentamente per fargli capire che anche lei aveva subito il medesimo smarrimento che lui stava provando in quel momento.
Gli si avvicinò ulteriormente chinandosi e lo abbracciò. Ogni parola sembrava vuota, inutile. Lui, istintivamente, ricambiò l'abbraccio; in quel momento null'altro poteva esistere al di fuori del bisogno di tenersi stretti l'uno all'altra, in silenzio, nel tentativo di proteggersi in qualche modo dal vuoto siderale che si era formato dentro alle loro menti e alle loro anime.
 
Una lacrima luccicò nello sguardo di Mae, si ingrandì e travalicò il bordo dei suoi occhi. Lentissimamente prese a scorrere lungo il viso della giovane rigandole una gota e terminando la sua effimera vita sulla guancia di Chi.
 
* * *

 
Superato il momento di smarrimento i due giovani archeologi si lanciarono in una ricerca approfondita per trovare conferme di quanto rivelato nel video e, con sconcerto, realizzarono in breve che il Goddafin era realmente una creazione della scienza degli antichi che nulla aveva a che fare con divinità o popoli eletti. La cosa più snervante della situazione era costituita dal sapere che in quella stanza erano contenute tutte le risposte alle loro più profonde domande ma, per quanto li riguardava, era come se fossero sulla faccia oscura della luna. Non solo l'audio esplicativo dei filmati ma pure tutti gli innumerevoli documenti e volumi presenti in quel luogo erano redatti nella elegante, bellissima ma totalmente aliena lingua degli antichi!
 
"Maledizione!" imprecò Chi-Dan, infine, al colmo della frustrazione "Abbiamo davanti il sogno di qualsiasi scienziato mai esistito su questa terra e non siamo in grado di farci nulla perché la chiave interpretativa di tutto questo scibile è andata perduta millenni fa"
 
Ripresero la consultazione dei volumi allineati sugli scaffali della stanza. Chi si occupava del contenuto sito lungo il lato destro del locale mentre Mae faceva la medesima cosa lungo il lato sinistro. Dall'altra parte della biblioteca Chu-Ju stava inziando la catalogazione dei reperti trovati.
 
Il lavoro da svolgere era abbastanza semplice ma richiedeva precisione e delicatezza. Chu era senz'altro la persona più adatta a svolgerlo in quanto particolarmente meticolosa e pacata. Dopo un po' di tempo, però, anche lei iniziò ad avvertire la stanchezza dovuta alla monotonia del lavoro. Prendi un documento, dai un'occhiata veloce, registralo e posalo nuovamente. Il non capire nulla di quanto scritto su ognuno di essi non la aiutava certo a svolgere più allegramente il compito. Posò sulla pila degli oggetti catalogati l'ennesimo foglio ricoperto da sconosciuti vocaboli quando questo, non ben appoggiato, scivolò di lato e cadde a terra. Chu-Ju lo intravvide con la coda dell'occhio e si voltò, chinandosi, per raccoglierlo. Questo era caduto con la prima facciata verso il pavimento per cui stava mostrando la sua parte posteriore. Chu rimase bloccata a metà del gesto di raccoglierlo; la scrittura presente su questa facciata era totalmente diversa da tutto il resto visto fino a quel momento. Non capiva ugualmente quello che vi era scritto ma una voce in fondo alla sua mente le stava dicendo che c'era qualcosa di vagamente familiare. Si risolse a raccoglierlo poi, in fretta, si avvicinò a Chi-Dan.
 
"Dottor Chi" esordì la giovane tirocinante "Ho trovato questo strano documento."
 
"Sì, Chu" replicò lui in tono distratto senza voltarsi in quanto stava consultando un grosso libro in cui belle illustrazioni a colori mostravano per l'ennesima volta il funzionamento della rete Goddafin.
 
Prese il foglio che la ragazza gli stava porgendo e, dopo avergli dato un'occhiata di traverso, lo posò sullo scaffale davanti a lui, continuando l'attività che lo aveva impegnato fino al momento dell'arrivo della tirocinante. Spostò un paio di altri volumi poi, improvvisamente, si bloccò con un libro nella mano destra sospesa per aria. Posò il volume sul ripiano che aveva davanti agli occhi e tornò a prendere il foglio che Chu gli aveva dato qualche istante prima. Lo guardò e venne ricambiato dalla vista della solita sfilza di segni utilizzati dalla lingua degli antichi poi, come preso da un'ispirazione, lo voltò dalla parte opposta. Guardò la prima riga contenuta sulla pagina e sul suo viso transitò un'espressione inizialmente assorta, che, in breve, trasecolò nella sorpresa fino ad arrivare all'incredulità.
 
"Mae, presto!" incalzò Chi con gli occhi fissi sul foglio di carta che aveva in mano.
 
"Che c'è, Chi?" si affrettò la giovane collega "Cosa hai trovato?"
 
L'archeologo le mostrò il documento dal lato opposto a quello redatto nella lingua degli antichi.
 
"So che anche tu hai studiato con il professor Wono-Gan" le disse
 
"Certo che sì" confermò Mae
 
"Guarda questo foglio e dimmi se non vedi qualcosa di familiare" concluse lui
 
La ragazza scrutò con attenzione il foglio che Chi le aveva dato ed ebbe la medesima reazione avuta dal collega.
 
"Ma questi caratteri" riuscì, infine, a dire "sono una varietà dell'antica lingua Indi!"
 
"Già" replicò Chi-Dan "una lingua scomparsa ancor prima del secondo millennio dopo il Goddafin"
 
"Ho dovuto sudare sette camicie" ricordò Mae "per superare quell'esame assurdo ma ora sono felice di aver intrapreso quel corso di specializzazione"
 
"Vediamo se riusciamo a capire cosa c'è scritto" Suggerì Chi.
 
Si sedettero accanto ad uno dei tavoli liberi cercando di penetrare il significato dei caratteri tondeggianti che riempivano l'antico documento. Ogni volta che ai due pareva di riconoscere le caratteristiche di un vocabolo particolare qualcosa nei caratteri grafici usciva dallo schema appreso a suo tempo ed il significato di quanto scritto tornava a nascondersi nel mistero. Poi Mae ebbe un'intuizione e, dopo un paio di tentativi, riuscì finalmente ad individuare la chiave di lettura dei caratteri di quella lingua antica.
 
"...Uso degli occhi...?!" tradusse tentennando scorrendo il dito lungo i caratteri costituenti la prima riga del foglio "Ma cosa diamine...."
 
"No, attenta!" intervenne Chi "Guarda questo carattere in mezzo. Non occhi ma visione!"
 
"Eh?" replicò la ragazza "Oh, già, sì. Visione... ma che significa?"
 
Alzò gli occhi dalla pagina guardandosi un momento attorno poi, spalancando gli occhi, si batté una mano sulla fronte ed esclamò "Sì! Ecco! Non visione.... Visore! Già! Ecco cos'è 'Uso dei visori'!"
 
Chi la guardò per qualche istante con lo sguardo un po' stupito poi, ridendo, aggiunse "Ragazza, hai ragione! Abbiamo trovato il libretto di istruzione per l'uso di quelle apparecchiature per leggere i cubi video!"
 
Provarono a leggere secondo la nuova chiave di interpretazione le righe successive ed ebbero la conferma che il documento era perfettamente traducibile. La cosa che più li entusiasmava, però, era che lo schema di composizione dello scritto ricalcava esattamente quello della facciata opposta redatto nella lingua sconosciuta degli antichi. Questo poteva significare solo una cosa: avevano probabilmente trovato la chiave per interpretare e capire tutto quello che era contenuto in quella enorme, fantastica biblioteca. Le conoscenze e la scienza degli antichi erano, praticamente, a portata di mano!
 
"Con questa scoperta potremo finalmente capire quello che sta dietro a tutto questo e al Goddafin!" disse Mae piena di entusiasmo.
 
"Già" replicò Chi con altrettanta enfasi poi, mentre la collega si alzava per recarsi a prendere carta e penna dal tavolo accanto, un'ombra attraversò il viso del giovane archeologo. Un inquietante pensiero si era affacciato alla sua mente e lo aveva lasciato particolarmente turbato. Come avrebbe preso la cosa Saru-Dan III? Tutto il suo potere e la sua vita erano legati a triplo filo alla divinità del Goddafin. Cosa sarebbe successo nel momento che la loro incredibile scoperta fosse divenuta conosciuta da tutti?

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