Ulmer spatz - Il passero di Ulm

di Ryo13
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Voci dal passato ***
Capitolo 2: *** Voci di passioni ***
Capitolo 3: *** Voci di un popolo ***
Capitolo 4: *** Voci di madri e di padri ***
Capitolo 5: *** Voci di ricordi ***
Capitolo 6: *** Voci di cacciatori ***
Capitolo 7: *** Voci del cielo ***
Capitolo 8: *** Il canto dei morti ***



Capitolo 1
*** Voci dal passato ***


 

 

Ulmer Spatz

 

1. Voci dal passato

Aprile, 1990

Faith Haller quella mattina rispose al telefono perché aveva dimenticato la giacca a vento. Nella fretta di uscire aveva lasciato dietro di sé persino la carpetta con gli appunti che le sarebbero dovuti servire per la lezione.
Sua madre le aveva sempre ripetuto che era troppo sbadata, ma qualsiasi tentativo di darsi un’organizzazione era puntualmente fallito. Le diceva sempre che aveva ereditato la svampitaggine da qualche parente lontano perché il resto della famiglia era un prodigio di accuratezza e pianificazione. Ma lei era così: sempre pronta a buttarsi in ogni nuova avventura, con una fede spontanea nelle persone e l’esuberanza fresca di una giovane ragazza che si apprestava a sfidare il mondo, col desiderio di volerlo cambiare.

Nonostante i rimproveri occasionali della madre, la nonna la consolava, sorridendo dei guai che combinava.

«Non badare a ciò che dice», le diceva, «tu somigli ai parenti di tuo nonno Hans.» Le raccontava le storie della sua infanzia e di quel suo primo amore, morto in Germania a causa della persecuzione nazista, dal quale era nato Stefan, il padre di Faith: emigrato insieme alla madre quando aveva solo tre anni, era poi stato cresciuto dal secondo marito di lei, Thomas, l’unico nonno che la ragazza avesse mai conosciuto.

Nonna Brigit aveva sempre raccontato con affetto dei suoi anni giovanili, ma non era mai riuscita a dire molto sugli eventi concernenti la guerra: ogni volta che parlava della fine che avevano fatto le persone a lei care, gli occhi le si riempivano di lacrime e la voce si spegneva. Tutti loro avevano rispettato quel dolore e non le avevano mai fatto troppe domande al riguardo: preferivano concentrarsi sui momenti più sereni del passato.

Trovò la carpetta all’angolo della scrivania e l’afferrò al volo. Proprio mentre si dirigeva di nuovo alla porta il telefono squillò.

“Oh, uffa… che faccio? Lo prendo o no?” Rimase un momento paralizzata dall’indecisione, poi lasciò la giacca sul divano e sollevò la cornetta. “Potrebbe essere la nonna…”

«Pronto?»

«Parlo con la famiglia Haller?»

«Sì, sono Faith Haller. Chi cerca?»

«Salve. Ecco… sono il dottor Andreas Keller, chiamo dalla Germania. Vorrei accertarmi che la sua famiglia sia quella che cerco...»

Faith lanciò un’occhiata all’orologio, mordendosi un’unghia. Avrebbe voluto chiedergli se fosse una cosa urgente, ma chiamava dall’Europa: doveva essere notte da quelle parti. Immaginò che, di qualunque cosa si trattasse, doveva essere importante.

«Quali sono gli Haller che cerca?», lo interruppe al mezzo di una sua frase.

L’uomo, dall’altra parte, rimase interdetto. Poi gli sfuggì una risata. «Mi perdoni, chiamo forse in un momento inopportuno per lei? Se non ha il tempo di parlare magari...»

«No, no… mi scusi, va bene. Volevo… volevo solo sapere come facciamo a sapere se siamo le persone che cerca.»

«Ecco… io ho qualche riferimento. Mi dica se è a conoscenza di alcuni di questi eventi.»

«Bene, mi dica.»

«Un ramo della sua famiglia ha origini tedesche? Le risulta che qualche parente sia emigrato durante gli anni della Seconda Guerra mondiale?»

«Ah, sì, certo. Mia… mia nonna Brigit e mio padre sono nati in Germania. Sono fuggiti per via della persecuzione.»

«Erano ebrei?»

«Sì, lo siamo.»

«Ecco. Forse ci siamo. Per caso… so di chiederle molto — mi perdoni ancora — ma ricorda se qualcuno dei parenti di sua nonna o di suo nonno si chiamava Hannah o Cecilie?»

Quando Faith sentì quei nomi un brivido le corse lungo la schiena.

«S-sì. La madre di  nonno Hans e sua sorella.»

L’uomo si lasciò andare a un’esclamazione di gioia. Poi si ricompose, scusandosi ancora una volta.

«Ma perché chiama? Ha per caso loro notizie? O è in contatto con dei discendenti? È per caso un investigatore?»

Aveva sentito raccontare di famiglie separate dall’Oceano che si erano ritrovate grazie alle indagini svolte da privati. Forse qualche vecchio conoscente della nonna era ancora in vita e avrebbe voluto incontrarli.

«Oh, no… sono un dottore, come ho detto...»

«Ah, giusto! Non ricordavo», esclamò Faith, rendendosi poi conto di averlo interrotto un’altra volta. Ma lo sentì ridacchiare, quindi forse non si era offeso.  

«Se la sua famiglia possiede dei documenti...», continuò Andreas, «magari potremmo fare un controllo incrociato ed esserne certi.»

Accantonata del tutto la lezione, la conversazione proseguì per chiarificare i motivi della chiamata.

«Seguo da anni un paziente che è un conoscente della signora Hannah Haller. La questione è complessa ma mi sono proposto di cercare un collegamento con la sua famiglia. Spererei… beh, che qualcuno di voi fosse disposto a viaggiare per venirlo a conoscere. Sarebbe un confronto piuttosto stimolante. Il signor Kruger, però, è malato da anni, quindi non è in grado di spostarsi.»

«Capisco.»

Faith non aveva ancora chiare molte cose, ma quella storia si prospettava quantomeno interessante. Stava già immaginando di fare un viaggetto per esplorarne le possibilità. «Se mi dà qualche altra informazione, vorrei riferirla a mia nonna: lei potrà confermare con certezza se gli Haller che cerca siamo proprio noi. Nel qual caso, sarei felice di venire a trovare il suo paziente.»

«Ma certo. Prima di tutto, però, vorrei spiegarle qualcosa sul singolare caso del signor Kruger. Solo dopo deciderà se se la sente di venire.» 

Quando Faith finì di raccontare tutto alla nonna, questa si ritrovò in lacrime.

La nipote le mise una mano sulla spalla, rattristata per il suo turbamento. «Perdonami, nonna… forse queste sono cose troppo dolorose e non ne vuoi parlare...»

La donna le afferrò la mano e la tenne strettamente, portandosela al cuore. «No, mia cara bambina. No. Sono… sono solo felice. Ho sempre portato con me il peso di non sapere che fine avessero fatto Cecilie e Hannah. Adesso mi stai dando una speranza.» 

«Nonna, il dottor Keller ha parlato solo di un certo signor Kruger che… beh, a quanto pare è stato molto vicino alla prozia e...»

«Sì, l’ho capito. Tuttavia questo signore potrebbe confermare che Hannah non era morta come pensavo. Mi sono sempre detta che se fossero state ancora vive, lei e sua madre, avrebbero trovato un modo per mettersi in contatto con me.»

Si asciugò gli occhi umidi col fazzoletto e mandò fuori un grosso sospiro.

«Se questo Kruger ha conosciuto Hannah, avrà di certo delle informazioni su di lei. Purtroppo io non me la sento di affrontare il viaggio: andare in Germania sarebbe...», la voce le si spense in un mormorio angoscioso.

«Vorrei… vorrei che andassi tu, Faith, bambina. Lo faresti questo, per me?»

La ragazza l’abbracciò strettamente. «Sai che non devi nemmeno chiederlo.»

Mettendo per un po’ da parte il discorso, si ricomposero, proseguendo su argomenti neutri. Infine la lasciò, dedicando il pomeriggio alla ricerca delle vecchie carte di cui le aveva accennato su in soffitta.

Quella stessa sera Faith contattò Andreas Keller, informandolo che aveva prenotato un volo per Stoccarda e che sarebbe arrivata la settimana successiva.

 


NOTE FINALI:
L’Ulmer Spatz:Il passero di Ulm”, rappresentato con un bastoncino al becco, è il simbolo della città di Ulm.
 

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Capitolo 2
*** Voci di passioni ***


2. Voci di passioni

Dicembre, 1944

Ezra scese le scale con un vassoio pieno di cibo. La cantina era piuttosto umida e, in quel periodo dell’anno, poco illuminata. Facendo attenzione a ogni passo, sentì scricchiolare il legno sotto ai piedi mentre, come di consueto, il battito cardiaco accelerava.

Posò il suo carico su un vecchio tavolo scheggiato, lasciato in quella stanza da prima della Grande Guerra, e si apprestò a spostare la libreria vuota. Non era un pezzo di molto valore, e normalmente se ne sarebbe già liberato, ma serviva a coprire la botola nascosta che dava accesso a un bunker segreto.

Spinse di lato il tappeto polveroso e batté un colpo sull’asse.

Nell’oscurità risuonò lo scricchiolio arrugginito dei cardini della botola; il legno picchiò sul pavimento sollevando una nuvola di polvere. Avrebbe voluto un ambiente pulito, ma era troppo rischioso: se si fosse verificato un altro raid avrebbero potuto anche non superare l’ispezione.

Ezra ricordava vividamente l’ultimo incontro con German Sievers: l’ex collega non aveva certo messo da parte l’odio profondo che covava nei suoi confronti, a dispetto degli anni trascorsi dopo l’addestramento militare e la carriera. Si era fatto strada prima nella SS-Polizei-Panzergrenadier-division e successivamente nella Waffen-SS. 

Di lui aveva saputo, solo dopo il suo ritorno a Ulm, che era rimasto ferito nella battaglia sul Lago Lagoda e che, per questo, gli era stato affidato un lavoro lontano dal fronte: adesso dirigeva la sorveglianza al Campo di concentramento di Dachau, risiedendo stabilmente al Forte Oberer Kuhberg

Sfortunatamente, la sete di potere e il vizio della violenza esasperati negli anni dei conflitti all’estero non si erano placati nonostante l’attuale attività: negli ultimi mesi aveva organizzato dei raid a sorpresa per la città allo scopo di scovare “ospiti indesiderati”, convinto com’era che alcuni membri della popolazione non fossero del tutto fedeli al regime.

Ezra era convinto lo facesse per esercitare il terrore che tanto amava, tuttavia, osservando la figura che sbucava dal pavimento, non potè fare a meno di pensare che non fosse poi tanto lontano dalla realtà. 

Arrampicandosi per le strette scale, si delineò il profilo di una testa, ricoperta di sottili capelli color ruggine.

Ezra si tirò istintivamente indietro per fare spazio, cambiando poi idea e abbassandosi ad aiutarla: l’afferrò saldamente ai gomiti mentre si metteva dritta.

La donna, piccola di statura, non gli arrivava che al petto.

Nonostante la puzza di umido dei locali, avvertì sensibilmente l’odore della sua pelle, così pallida, eppure morbida; si irrigidì sul posto, stretto in una morsa di desiderio.

Era innamorato di Hannah Haller da quando ne aveva memoria, ma non le si era mai avvicinato troppo se non quando l’aveva sorpresa in fuga dalla città, inseguita dalle SS.

Dato che esercitava la professione medica, non era stato difficile per lui nasconderla in un sacco destinato ai cadaveri dei Campi, e portarla nella propria casa: l’aveva ritenuta il posto più sicuro in cui nasconderla. La ragazza aveva perso la madre, l’unica parente rimastale in vita dopo la persecuzione nazista, ed era sola al mondo.

Hannah sedette al tavolo e consumò lentamente il pasto. Ezra era appoggiato alla parete e non faceva che fissarla: le dita della mano chiuse sulla posata che lentamente saliva e scendeva man mano che si imboccava; i capelli sulle spalle seguivano i movimenti spostandosi leggermente e ogni tanto qualche ciocca scivolava provocando un fruscio sui vestiti sciupati.

Quando terminò, portò il tovagliolo alla bocca.

Ezra a quel punto le si avvicinò. Spostò il vassoio vuoto con un movimento noncurante e le afferrò una ciocca, apprezzandone la sericità sulla punta delle dita. Quando le poggiò una mano sulla spalla, stringendo, Hannah sollevò il viso verso di lui.

Lo guardava inespressiva, ma lui sapeva che lo amava.

Il fatto che non parlasse non pregiudicava minimamente la comunicazione tra loro.

Afferrò l’orlo della maglia e gliela tolse. Godette della vista dei piccoli seni: schiacciò con un dito la punta di un capezzolo, eretto nell’aria umida.

La mise in piedi mentre tirò fuori dalla tasca l’unguento che aveva preparato.

Hannah non si bagnava mai: lui credeva fosse per gli abusi subiti nel lager; a ogni modo per lui non era stato un problema, aveva trovato un modo alternativo per rimediare.

Prese una discreta quantità della pasta oleosa sulle dita, prima di portarle sotto la gonna.

Mentre l’accarezzava, entrandole dentro e tastandola, cominciò ad ansimare, l’erezione tesa sui calzoni che non poteva più sopportare.

Si tirò indietro per appena il tempo di sfibbiare i bottoni, prima di piegarla sul ruvido ripiano e premerle addosso. L’unguento fece il suo lavoro e non trovò resistenza: si mosse con sempre maggiore frenesia, eccitandosi del suono della carne che schioccava deliziosamente ogni volta che la penetrava a fondo.

«Hannahh...» ansimò quando, piegato sul suo orecchio, finì con una convulsione. Rimase ad ansimare su di lei quasi un minuto intero.

Lei sapeva di non doversi muovere.

Ezra finalmente si sollevò, scivolando fuori, percorrendole la schiena col palmo. Nonostante dovesse essere sazio, gli piaceva guardarla alla fine: vide luccicare il suo sesso e rabbrividì di soddisfazione pensando al suo seme dentro di lei.

Le parlò qualche altro minuto del suo lavoro, poi, guardando l’orologio, disse che era tardi.

Hannah scivolò nuovamente giù dalla botola la quale si richiuse con un tonfo sopra di lei.

«Tenente, ho qui l'ultima parte dei registri che avete richiesto.»

«Bene, posa tutto quanto su quella scrivania», disse German con un secco gesto. 

Il soldato semplice Frank Schulz appoggiò il pesante scatolone lì dove gli era stato indicato dal suo superiore. Non capiva il motivo della richiesta del Tenente Sievers di procurarsi le relazioni sulla gestione del Campo di Dachau degli ultimi anni, ma non aveva esitato a eseguire il suo incarico: sapeva che con un uomo come lui fosse meglio non scherzare, lo dimostrava il fatto che, da quando aveva preso servizio nel loro distretto, erano stati apportati diversi cambiamenti nella gerarchia militare.

Sievers aveva ufficiosamente eletto dei soldati a prestare particolari servizi: se ne era circondato come degli uomini più fidati e aveva cominciato a condurre raid a tappeto sia nella zona di Dachau, dove lavorava, sia a Ulm, dove risiedeva parte della settimana, svolgendo mansioni di ufficio nel vecchio centro di raccolta degli ebrei e dei nemici dello Stato.

Lui era entrato sotto il suo servizio da alcuni mesi e teneva a svolgere al meglio il proprio lavoro per non suscitare alcuna lamentela e, possibilmente, avanzare un giorno di grado.

Poco importava che Sievers fosse un individuo non esattamente limpido: Frank aveva inizialmente sentito di voci riguardo una condotta immorale tra i civili, accusati dal Tenente di condurre azioni losche; le suddette voci avevano trovato conferma appena il mese prima, quando avevano fatto irruzione nell’abitazione di povera gente e Frank si era trovato ad assistere a qualcosa che non avrebbe dimenticato per tutta la vita. Era rimasto sconcertato ma non aveva osato interferire, Dio solo sapeva che fine avrebbe fatto altrimenti.

Frank ricordò anche l’incontro piuttosto strano col dottor Kruger, arrivato in visita dalla famiglia. Doveva essersi reso conto della situazione in cui era incappato, ma non aveva fatto una piega.

Il Tenente aveva cominciato una discussione piuttosto accesa e aveva mosso delle accuse contro il dottore, sebbene fosse chiaro che la sua presenza in quella casa era stata del tutto accidentale.

Solo in seguito, il suo compagno di camerata, Hans, gli aveva spiegato che tra i due esistevano dissapori di lunga data e che, stando a quanto si diceva, erano cresciuti entrambi a Ulm, prestando servizio militare obbligatorio.

Ovviamente, nessuno conosceva il vero motivo alla base dei loro contrasti. Ma poco importava: il risultato era che il Tenente Sievers lo aveva minacciato e, da allora, aveva fatto irruzione in casa del medico due volte. Anche se non aveva trovato nulla che potesse usare contro di lui, non sembrava intenzionato a demordere.

German mise da parte il rapporto che aveva redatto e concentrò la sua attenzione sulle scatole contenenti la documentazione sulle attività del Campo di concentramento.

C’era un bel po’ di incartamento e trascorse un’ora a smistare il tutto secondo rapporti diaristici, relazioni su progetti di sperimentazione della sezione medica e circolari di servizio.

Aveva dato ordine di non essere disturbato, quindi procedette a esaminare ogni documento con più cura.

Ezra partecipava ai progetti sperimentali da alcuni anni, tanto che la sua presenza all’Istituto era stata registrata con regolarità: ogni entrata e ogni uscita dal lager era indicata nei registri; tutto appariva regolare.

Lanciò il quaderno che stava esaminando sul tavolo con uno sbruffo di esasperazione: cominciava a pensare che non avrebbe trovato niente di utile tra quelle vecchie carte.

Si versò da bere del cognac sequestrato ai francesi. Non era insolito che ufficiali in visita portassero bottiglie di grappa o altri liquori: lui le aveva fatte mettere tutte su un tavolino vicino la finestra e ne usava come scorta personale.

Mentre ingollava un sorso e lo sentiva scivolare in gola, pensava a come mettere all’angolo Ezra.

Sin da quando avevano frequentato la Realschule insieme, all’istituto maschile della città, erano stati una sorta di nemici naturali.

Entrambi provenienti da famiglie agiate, facevano parte di quella élite che, nonostante la crisi del post Guerra, si poteva permettere di dare un’istruzione ai figli in quegli anni difficili nei quali, però, si delineava anche una discreta ripresa.

Aveva sempre pensato di lui che fosse un tipo strano: chiuso al punto da non dare confidenza a nessuno, eppure capace di fissare le persone con uno sguardo impassibile e arrogante. Gli faceva sempre ribollire il sangue. Quando lo guardava negli occhi si sentiva giudicato, come se fosse in grado di vederlo per quello che era e lo disprezzasse.

Era diventata un’abitudine tormentarlo a ogni occasione, rendendogli la vita impossibile ma, né a scuola né più tardi, alla leva militare, era mai riuscito veramente ad avere la meglio, e questo lo esasperava.

Gli tornò in mente l’episodio alle docce: avevano circa diciotto anni quando era riuscito a isolarlo dagli altri compagni nei bagni. L’aveva sorpreso nudo ed era stato naturale schernirlo per il suo corpo ancora gracilino, nonostante i duri allenamenti. In realtà, pur essendo molto magro, aveva un fisico definito, le fasce muscolari sottili saldamente attaccati alle ossa, sotto la pelle elastica.

Ezra lo aveva fissato senza battere ciglio, le gocce d’acqua che scendevano tra i capelli, piovendo sulle spalle e sul petto.

German aveva provato la consueta irritazione davanti alla sua impassibilità ma quella volta accadde anche qualcosa di nuovo e inaspettato: come acceso da una brace sottocutanea, si era eccitato al pensiero improvviso di piegare Ezra sulle mattonelle per infliggergli la punizione che meritava.

Notando quello strano sguardo, il ragazzo si era messo in guardia. Tuttavia non aveva fatto in tempo a schivare l’attacco frontale di German ed era finito a picchiare la testa contro il muro alle sue spalle.

Scivolati per terra, l'uno sovrastava l'altro ancora intontito.

«Finalmente sei nella posizione che ti meriti», aveva ringhiato German, tenendogli il capo premuto sul pavimento bagnato.

Ezra percepiva il freddo sul petto e il getto caldo dell’acqua sulla schiena, parzialmente riparato dalla sagoma dell’avversario. Aveva tentato di muoversi ma era trattenuto da German il quale aveva approfittato del momento per premergli contro l’erezione.

«Credo proprio di doverti impartire una lezione, Kruger. Dopo che avrò finito con te non avrai più il coraggio di fare lo sfrontato!»

Agitandosi, Ezra aveva sgroppato selvaggiamente nel tentativo di allontanarlo, paralizzandosi poi per il panico quando l’aveva sentito addosso senza la protezione degli indumenti.

German aveva riso della sua paura, godendo nell’infliggerla. Aveva cercato di penetrarlo con alcune manovre ma non era agevolato dall’angolazione e aveva commesso l’errore di spostare il braccio che lo tratteneva alle spalle per darsi aiuto: Ezra si era quindi voltato, scaraventandolo via con uno spintone e tracciando un arco con la mano.

German aveva percepito una fitta di bruciore sul petto, poi si era accorto del sangue. Confuso, aveva notato troppo tardi che Ezra era riuscito a raggiungere la lama del suo rasoio. Barcollando indietro, aveva evitato in tempo l’attacco successivo, che riuscì a scalfirlo solo di striscio. Avendo perso l’equilibrio, adesso si trovava in una posizione di svantaggio.

Ansimando e tremando di rabbia, Ezra l’aveva fulminato con uno sguardo omicida.

Si era quindi avvicinato a German, afferrandolo con una mano per il collo e puntando quella armata alla base dei testicoli.

«Se te li vuoi tenere stretti, Sievers, fai in modo da girare alla larga da me. Intesi?», aveva grugnito con voce roca.

Per sottolineare la minaccia, aveva deciso di lasciargli un’incisione sul pene ritraendo l’arma. L’aveva abbandonato per terra, mentre il getto dell’acqua schiariva in un rosa tenue il sangue sgorgato dalle ferite.

Dopo quella volta, German era stato attento a non provocarlo eccessivamente senza avere chi gli coprisse le spalle, ma l’odio che covava era cresciuto profondo e ineluttabile.

Tornò alla sua postazione e si abbandonò sulla poltrona con un gemito. Si mise la mano a coppa sull'uccello pensando alla cicatrice che aveva: avrebbe voluto farsi una sega anziché tornare al suo inconcludente lavoro.

Una parola in grassetto su un rapporto interno attirò la sua attenzione: sfilò il foglio dalla pila di quelli sparsi sulla scrivania e cominciò a leggere.

Si rese conto che si trattava di una lista dei tentativi di evasione: accanto a ogni nome del carcerato c’era un breve rapporto della sua esecuzione o punizione; alcuni nomi riportavano la semplice dicitura ‘scomparso’: alcuni, dopotutto, erano riusciti a scappare.

Stava per abbandonare quel foglio spostandolo tra la documentazione di poca rilevanza, quando notò un nome che conosceva piuttosto bene.

Hannah Haller.

Evasa.

Scorse febbrilmente il rapporto ma diceva solamente che c’era stato un breve inseguimento nei pressi dell’Istituto e che poi era scomparsa senza lasciare traccia. Ricerche successive non avevano portato ad alcun risultato, e si era avanzata l’ipotesi che fosse morta da qualche parte in seguito alle ferite riportate.

Tuttavia il corpo non era mai stato trovato.

Un brivido di eccitazione percorse German fino in fondo alla schiena.

Sapeva che quella piccola ebrea aveva significato molto per quello squilibrato di Ezra. Non aveva impiegato molto prima di scoprire che spesso la spiava.

German non aveva mai capito la sua ossessione. Valutava l’impresa del padre di lei povera e squallida; la ragazza, poi, ai suoi occhi non aveva alcuna particolare attrattiva: il colore dei suoi capelli faceva pensare al rame e al bronzo fusi insieme, ma tutto finiva lì; il modo dimesso di vestire, i tratti semplici e quelle fastidiose lentiggini… la facevano apparire piuttosto rozza.

Tuttavia era evidente che per Ezra non fosse così.

Aveva pensato di usarla contro di lui, per un periodo si era messo persino a corteggiarla, ma lei era stata schiva e riservata: non gli aveva concesso molto spazio di manovra. Aveva velocemente perso l’interesse nel suo piano, reputandola tediosa al punto che — aveva pensato — quando Ezra se la fosse presa sarebbe crepato subito di noia, risparmiandogli la fatica.

Non era accaduto mai niente, a ogni modo, quindi presto si era dimenticato della sua esistenza. Ma rileggere quel nome gli aveva acceso un campanello di allarme: recuperò la lista dei detenuti e venne a sapere che era stata catturata assieme alla madre nel luogo dove erano rimaste nascoste per anni, sopravvivendo grazie all’aiuto di parenti tedeschi. 

Alla fine del 1943, le due donne risultavano alloggiate nel Campo di concentramento: in pochi mesi la madre era morta di stenti, mentre lei aveva resistito fino a riuscire a evadere nel Febbraio del 1944.

Se era stata reclusa all’Istituto, Ezra doveva averlo saputo in un modo o nell’altro: faceva parte dei medici della struttura e — sebbene le sue consulenze riguardassero la sezione sperimentale — doveva aver avuto accesso alla lista dei detenuti.

Non aveva dubbi che leggendo il suo nome si fosse interessato.

Passando al vaglio altri rapporti, riuscì a ricostruire con abbastanza precisione la giornata della fuga: non aveva potuto far a meno di notare che il nome di Ezra Kruger risultava annotato nel registro visite.

Il cuore accelerò nel petto: l’istinto gli diceva che aveva trovato una pista e, pian piano, si abbandonò a una risata sempre più sonora.


Il soldato semplice Frank Schulz, fuori dalla porta dell’ufficio, udì il Tenente Siegers prorompere in una risata raschiante, piena di inconfondibile soddisfazione.

La vibrazione ruppe d’improvviso il silenzio funebre che circondava l’edificio. Anche se si potevano udire gli stridori dei lavori nel cortile, i carcerati non avevano più la forza vitale per emettere alcun suono; Frank osservò per un momento le ombre degli uomini muoversi con una stanchezza di morte sullo sfondo grigio.

«Deve aver trovato quello che cercava», disse tra sé, mentre un presentimento di orrore gli riempiva l’animo. 

Nella mente gli balenò, infido, il ricordo della figura di un ragazzino nudo, raggomitolato sul pavimento, e della consistenza vischiosa che scivolava lentamente dalla natica alla gamba.

Non doveva pensarci. Non aveva importanza quello che faceva Sievers: era l’ufficiale in comando; lui doveva solo eseguire gli ordini. 

Giugno, 1929

Ezra la seguiva da almeno un’ora in giro per le botteghe della città. Il padre, quel giorno, come di consueto, l’aveva mandata a fare compere per la famiglia.

Hannah passeggiava con grazia, la lunga gonna sottile che si agitava tra le gambe, mentre di tanto in tanto una folata di vento ne sollevava con leggerezza l’orlo.

Ezra fissava quelle caviglie sottili e fantasticava di toccarle. Avrebbe voluto afferrarle un piede portandoselo al ginocchio per carezzarle con calma il polpaccio.

Voleva guardarla tra le gambe.

Fissandole i capelli raccolti in una treccia, si chiese se anche il suo pelo là sotto fosse rosso. Sperava proprio di sì, era così che lo immaginava. 

E lo immaginava spesso.

La prima volta che aveva visto la ragazza, aveva avuto quindici anni, lei era più grande. Era entrato per caso nella bottega della sua famiglia per acquistare della stoffa: voleva creare una palla con cui giocare coi suoi compagni.

Non si trattava di un negozio alla moda, dove si potevano trovare tessuti pregiati: quel genere di botteghe erano quasi del tutto scomparse a causa della Guerra e delle pesanti condizioni di pace. 

Non era un luogo che la sua famiglia avrebbe apprezzato frequentasse: troppo socialmente inferiore. I Kruger erano ancora una famiglia di discendenza nobiliare: i suoi membri non potevano abbassarsi a frequentare il volgo, figuriamoci covare pensieri di sposarne un membro.

Ma la prima volta non aveva certo avuto in mente il matrimonio; era stato trasportato da pensieri più primitivi.

Trovato il locale deserto, si era guardato un po’ in giro, senza chiedere il permesso. Aveva intravisto un’ombra al di là della tenda che separava il banco vendita dal magazzino e si era affacciato: si era aspettato di vedere il padrone, invece aveva scorto una ragazza. Ne aveva notato per primi i capelli sciolti sulla schiena. Non gli era mai capitato di vedere una femmina in desabillè e lei era per metà nuda: si stava togliendo un abito. Dallo specchio le aveva fissato i seni rotondi e i capezzoli chiari. Gli era piaciuto vederla piegarsi in avanti: le natiche avevano teso la stoffa sottile delle mutande in maniera molto erotica.

L’aveva subito desiderata. 

Alla fine era andato via senza comprare niente, non si era nemmeno fatto vedere.

Guardandola, Ezra sapeva esattamente cosa avrebbe detto suo padre se avesse scoperto la passione del figlio per quella creatura. Ma non gli importava. Avrebbe atteso pazientemente che il vecchio crepasse per poi fare ciò che voleva. Nel frattempo, l’avrebbe tenuta d’occhio: gli apparteneva e non avrebbe permesso a nessuno di avvicinarsi a lei. 

Pedinarla gliela faceva sentire vicina: la osservava quando non sapeva di essere vista, in questo modo, credeva di cogliere la sua vera essenza. Questo lo faceva sentire potente: nessun altro l’avrebbe mai amata dell’amore che lui provava.

Solo Ezra la vedeva.

Non aveva importanza che lei non lo sapesse ancora: avrebbe agito al momento opportuno. Prima suo padre doveva togliersi di mezzo altrimenti sarebbe stato un ostacolo. Ma era malato da anni, e si indeboliva sempre più velocemente: non avrebbe dovuto attendere ancora a lungo.

 

 



NOTE FINALI:
- Il Campo di concentramento di Dachau fu il primo lager nazista, aperto il 22 marzo 1933 su iniziativa di Heinrich Himmler;
- Forte Oberer Kuhberg: lager aperto nel 1933; i suoi detenuti nel 1935 furono trasferiti a Dachau;
- Realschule, scuola simile agli istituti tecnici che forniscono una generica preparazione di base; si attende dai undici/dodici anni fino ai sedici/diciassette.


 

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Capitolo 3
*** Voci di un popolo ***


3. Voci di un popolo

Febbraio, 1944

Doveva avere la febbre alta, era per questo che non capiva cosa fosse successo.

L’ultima cosa che ricordava era di avere sfruttato il buco nella recinzione, quello all’angolo sud del cortile, per scivolarci attraverso, tentando la fuga.

Non aveva fatto che pochi passi che era stato dato l’allarme. I tuoni degli spari li sentiva ancora rimbombare dentro il petto, vibrando come se fosse stata davvero colpita, anche se non era successo. Non aveva provato neanche vera paura, tanto era stata terrorizzata in quei mesi che una leggera variazione di energia non poteva essere percepita troppo acutamente dalla sua mente ormai sconvolta.

Correndo a perdifiato si era stancata rapidamente, affamata e brutalizzata com’era: aveva pensato di accasciarsi e lasciarsi morire. La morte sarebbe stata la benvenuta a quel punto. Riusciva ancora ad apprezzare la grazia di una fine placida, concessa al di fuori di quelle terribili mura, lontana dai lamenti che più che a voce, risuonavano ormai nella sua testa, come il pianto dei bambini, strappati alle loro madri; come il pianto delle vedove senza più sposo; come il pianto dei padri senza più famiglia.

Era meglio morire fuori, adagiata sulla fredda neve che l’avrebbe resa insensibile, sperava, pure al dolore dell’anima, là dove aleggiavano i terribili vuoti dei suoi familiari scomparsi. L’ultimo, il più recente, quello dell’amata madre.

L’aveva vista spegnersi pallida e magra, sporca e rattrappita nella veste grigia del carcere dove le avevano trascinate con la forza: le aveva tenuto stretto un polso nell’ultima notte, e aveva contato con paranoia ogni pulsazione dell’arteria man mano che si indeboliva; quel polso che aveva stretto quando, ancora forte, la teneva sulle ginocchia cantandole all’orecchio una ninna nanna; che aveva ammirato nella sua sottile eleganza mentre mesceva il vino a tavola, o cuciva una veste per lei al negozio.

Lacrime amare erano scivolate sulla pelle secca e tirata, piena di lividi, come ora cadevano calde sulle sue mani, annebbiandole la vista. 

Era priva di forze.

Ancora sanguinava dall’ultima violenza subita: sperava che l’emorragia se la portasse via al più presto, verso quel mondo dove poteva incontrare nuovamente i suoi cari.

«Adonai...», sussurrò Hannah, le labbra spaccate dal gelo. «Adonai...»

Era il grido viscerale della creatura al suo Signore, il grido di angoscia del figlio al padre, perché lo salvasse.

Hannah continuava a ripetere il nome del suo Dio, non importava che negli ultimi anni avesse messo in dubbio la sua esistenza.

Adesso che la sua vita era agli sgoccioli e che tutto stava per finire, nel suo cuore si accese un barlume di pace… le pareva quasi di sentire la voce di padre Abram e quella dei suo figli e delle figlie di Israele chiamarla come una sorella. Man mano che perdeva la sensibilità degli arti la serenità tornava a invaderla, allontanando tutto l’orrore.

Per un istante non ci furono più lamenti, grida di sofferenza, odore di morte; rimase il ricordo lontano dei primi anni di vita dove nelle giornate piene di luce aleggiava il suono dell’armonia e Hannah era in pace col Cosmo, in pace con se stessa. Tornarono vive nel cuore le voci dei fratelli, gli odori della casa, specie quello dolce del pane; le risate in famiglia, i mormorii nella notte, prima di addormentarsi; il richiamo del cuculo notturno; ed era cullata dalla voce pulita e vibrante del padre che recitava: «Shemà Israel...».

“Ascolta...”

Adesso Hannah ascoltava quei suoni del passato che divenivano presente, mentre il tempo si annullava e lei entrava nell’infinito.



 

Eppure durò troppo poco.

Ricordò una faccia, pensò che le era familiare: uno dei medici del lager.

“No, no…” pensò, piangendo. Lui certamente l’avrebbe portata a morire nella sua cella.

Ma non l’aveva fatto.

Si era svegliata nel buio, debole e tremante tentando di parlare, ma non era riuscita a farlo: la sua voce era morta prima del suo corpo; era andata via seguendo quelle del suo popolo e l’aveva lasciata. 

Spezzata ma viva, non poteva fare altro che ascoltare. 

Nel buio della sua nuova cella, non più lamenti e lacrime, solo la voce del dottore che l’aveva curata e nascosta; che l’aveva sepolta e la nutriva e che si nutriva come un affamato del suo corpo…  un corpo che lei non sentiva più.

“Che se lo prenda”, pensava, “come l’hanno preso altri prima di lui”. 

Hannah non viveva ormai che per il tempo in cui anche il suo guscio vuoto avrebbe finalmente potuto seguire le voci. 

 


 

 

 

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Capitolo 4
*** Voci di madri e di padri ***


 

4. Voci di madri e di padri

Agosto, 1919

Ada guardava fuori dalla finestra con aria preoccupata. Si rivolse all’unica cameriera che era rimasta al servizio della sua famiglia per dirle di sbrigarsi: tutto doveva essere perfetto prima del ritorno di Rupert.

«Dina, togli quelle macchie di sugo dal ripiano della cucina, presto.»

L’orologio suonò il rintocco delle diciotto.

«Dov’è Ezra? Dina, l’hai visto?»

«È fuori, in giardino, signora.»

«Cosa fa ancora lì a quest’ora, santo cielo? Non lo sa che suo padre sta per rientrare?»

Dina non diede risposta, sapeva che la sua padrona non ne voleva una. La vide correre verso la porta sul retro quindi tornò a ripulire il bancone. Raddrizzò i tovaglioli sulla tavola.

«Ezra! Ezra...» grigò Ada uscendo. L’anta della porta le scivolò di mano e, picchiando sul muro, la fece sussultare. «Oh, cielo, mi devo calmare...»

Quel pomeriggio la visita di Clara si era protratta più a lungo del solito e aveva sconvolto ogni suo programma. Ada non aveva trovato un modo per dirottarla via in tempo: alla signora Sievers nessuno diceva di no, poteva occupare a piacimento le abitazioni delle proprie amiche finché volesse. Quel pomeriggio, quando aveva finalmente deciso di andare via, si era fatto tardi: non c’era stato modo di eliminare le tracce dello scompiglio che comporta ricevere una persona in casa. Si stava affrettando a mettere tutto in ordine per l’arrivo del marito ma si sentiva piuttosto agitata.

Da un angolo lontano del giardino venne fuori un bimbo, i capelli ricci e biondi sporchi e appiccicati sulla fronte.

«Oh, Ez… sei completamente infangato! Perché non sei tornato prima? Tu padre arriva a momenti!»

Il bambino non rispose, scrollò appena le spalle. Sentendo nominare il padre si era incupito visibilmente.

«Vieni, presto. Dobbiamo darti una ripulita, prima che...»

Suonarono il campanello, un inconfondibile colpo secco: chi era alla porta non chiedeva di entrare, lo pretendeva.

«Oh, è qui!»

Ada afferrò la mano del figlio e lo trascinò dentro casa. Cercò di spingerlo per le scale e nasconderlo, ma Dina aveva aperto la porta e Rupert giunse mentre erano a metà percorso.

Non si prese la briga di chiedere cosa fosse tutta quella confusione: analizzò con occhi freddi la moglie, per poi studiare il figlio appeso alla sua mano; ne notò nettamente ogni particolare: dai capelli attaccati alla fronte, alle macchie di terra sulle mani e quelle di erba sui calzoncini corti.

Il viso gli si contrasse, mentre posava il cilindro sul ripiano del mobile. Fece un cenno al bambino che si mosse, tramando.

Ada, istintivamente, cercò di trattenerlo al suo fianco, ma un’occhiata imperiosa del marito la dissuase dal tentativo: temendo che potesse diventare più brutale, abbandonò la presa con un singhiozzo.

Rupert prese la cintura dall’armadio e lo raggiunse nel portico, dove notò la presenza di altre macchie di sporcizia.

Quando Ezra assunse la posizione, con le mani serrate sullo steccato di legno, il padre cominciò a colpirlo. Aveva sette anni Ezra, e sapeva benissimo cosa accadeva quando lo faceva arrabbiare, ciononostante qualcosa lo spingeva a provocarlo tutte le volte.

Ansimando per le percosse, sopportava l’arrivo della successiva grazie al pensiero che un giorno sarebbe stato abbastanza grande; allora avrebbe preso in mano la frusta per restituire ogni colpo.

Era per questo che contava: aveva cominciato a farlo con i lividi della mamma, poi coi propri. Suo padre era stato in guerra ed era bravo a non lasciare segni, anche se ogni tanto capitava anche a lui di sbagliare. A Ezra era rimasta qualche cicatrice come ricordo.

 

Ada era accasciata sulle scale, le mani tra i capelli. Dina cercava di consolarla cingendole le spalle con un braccio ma il tremore del suo corpo si trasmetteva alla ragazza, senza che riuscisse a fermarlo.

Sentì Ezra gridare un’altra volta. Portò le mani alla bocca, nel tentativo di soffocare un gemito.

«Non ho fatto abbastanza, non ho fatto abbastanza...», sussurrava con voce spezzata.

Ogni colpo inferto al figlio era una ferita insopportabile al cuore: ma era impotente, non lo poteva salvare.

Settembre, 1924

Clara Sievers fissava le banconote sul tavolo del salottino, le mani incrociate sul petto, l’espressione torva e pensierosa sul viso. Se ne stava così da alcuni minuti.

Seduti a fare colazione c’erano i figli German e Constance. La bambina aprì la bocca e disse: «A cosa pensi, mammina?».

German le diede una gomitata di traverso, per indicargli che stesse zitta. Ma la bambina mandò fuori un urletto irritato e lo spinse via. «Ehi, sta’ fermo!»

Clara spostò lo sguardo truce sui bambini e ingiunse loro che stessero composti. «I miei nervi non ce la faranno a sopportarvi tutto il giorno se siete così rumorosi già al mattino!»

Sfarfallò le dita per liquidarli e tornò a fissare il denaro, sbuffando. Poi prese a borbottare tra sé: «È assurdo… tutto questo spreco di carta, e poi per cosa? Stresemann non aveva niente di meglio da fare. Prima il Papiermark, poi la  Rentenmark  e adesso la Reichsmark… Auf!».

«Che dici, mammina?» Constance, nonostante avesse solo quattro anni, aveva una mente vispa e il carattere della madre: non si lasciava mai sviare e, se voleva sapere qualcosa, la chiedeva fino allo sfinimento. 

German non la sopportava: non era solo l’atteggiamento insistente a infastidirlo ma anche il fatto che spingeva sistematicamente la madre a parlare; e German odiava starla ad ascoltare. Infatti, il più delle volte, quando apriva bocca, finiva sempre col rimproverarlo di pecche immaginarie: non importava da quale discorso cominciasse, finiva sempre per riportare la sua attenzione sul figlio perché doveva crescere “a modo” e non come un selvaggio, simile ai suoi coetanei in città.

German doveva essere perfetto, colto e intelligente: perché non poteva somigliare di più a Ezra, il figlio della sua amica Ada? Lui sì che era un ragazzino squisito! Così attento e silenzioso, non dava mai fastidio… non come German che saltellava dappertutto, senza alcun criterio. Ultimamente, poi, scoprendo i suoi ottimi voti a scuola, aveva passato l’intera settimana a rimproverare il figlio di non fare abbastanza per migliorare i suoi. E Dio non volesse che la facesse vergognare!

Clara amava definirsi una donna di polso. “L’Impero tedesco non è più quello di una volta”, era solita dire, ma non si riferiva al fatto che dal 1918 gli si fosse sostituita la Repubblica di Weimar: criticava la deplorevole situazione economica e sociale attribuendo equamente le colpe a chi di dovere. 

Le cose andavano tanto male perché le donne non potevano essere al potere, altrimenti avrebbe ben saputo raddrizzare la nazione! Dunque, nel frattempo, si dedicava a esercitare la sua influenza in casa, specie sui figli, i quali dovevano crescere per diventare persone importanti e “cambiare il mondo”.

In realtà, benché lei fosse convinta diversamente, non ne capiva poi molto di politica, men che meno di economia: quella mattina stava sfogandosi sulla novità delle ultime banconote varate, non comprendendo che servissero ad arrestare l'iperinflazione che stava paralizzando la società e l'economia tedesca.

Il marito, Karl, sempre poco presente, la lasciava parlare perché, dopo anni di convivenza, si era stancato di sforzarsi a metterle un po’ di sale in zucca; dopotutto, non avrebbe potuto creare danni se non nei salottini privati delle amiche che andava così spesso a trovare.

«German, oggi ti porto dal barbiere, hai i capelli troppo lunghi e sono tutti disordinati, non sta per nulla bene. Il figlio di Ada li ha tagliati corti: lui sì che si presenta sempre pulito e ordinato! Perché non sei un po’ più simile a lui? Sai che non fa mai indispettire sua madre? Anche tu dovresti imparare le buone maniere. Come pensi di poter lasciare un segno in questo mondo se ti presenti tutto arruffato?»

German strinse nel pugno il cucchiaio e si sforzò di non far trapelare la rabbia.

«L’immagine che diamo di noi stessi è tutto. È in base a come ci presentiamo che veniamo giudicati, German, ricordalo!»

Luglio, 1914

Il signor Albert Haller era a passeggio con la figlia Hannah. 

La giornata era calda ma non c’era molta gente per strada. Si avvertiva la tensione per l’attuale situazione politica che preoccupava: solo il mese prima era stato assassinato l'arciduca d'Asburgo-Este a Sarajevo e la notizia aveva percorso tutta l’Europa paralizzandola ed eccitandola insieme.

Il signor Haller sentiva che le cose stavano per cambiare, che sarebbero venuti momenti difficili. Ultimamente non dormiva più serenamente nel proprio letto: continuava a fare sogni strani. Si svegliava agitato, ricoperto da un sottile velo di sudore, e riusciva a calmarsi solamente guardando la figlia dormire placida nel suo lettino. Le accarezzava i capelli soffici che aveva ereditato da Cecilie, sua moglie.

«Il passero, papà!», esclamò Hannah con un sorriso indicando l’uccelletto della città.

Il padre sorrise, posandole il palmo sulla testa e lei gli chiese di raccontarle ancora una volta la sua storia.

«La leggenda narra che gli abitanti della città dovevano provvedere una grande trave per la costruzione della Cattedrale. Gli uomini non sapevano come fare perché la trave era talmente grande da non passare attraverso il cancello della città poiché, essendo legata di traverso, l'entrata non era abbastanza larga. Quando decisero di rompere le mura e il cancello per farla passare, ecco che gli abitanti videro uno spatz con un bastoncino nel becco: il passero oltrepassò una stretta apertura ruotandolo longitudinalmente e riuscì a costruire il suo nido. Così fecero anche gli abitanti e, seguendone l’esempio, ultimarono la costruzione della chiesa.»

«Che buffi che non ci avevano pensato da soli», rise la bambina.

«Vedi, tesoro... a volte gli uomini fanno le cose più strane perché incapaci di trovare soluzioni semplici che evitino maggiori danni», commentò amaramente.

Percependone l’umore, Hannah strinse con la sua piccola mano quella paterna.

«Per fortuna, allora, che la natura ci aiuta a capire i modi semplici per superare gli ostacoli, papà.»

Albert si voltò a fissare il visino serio della figlia. «Hai detto una cosa molto profonda, Hannah.»

Lei gli fece un piccolo sorriso che lo commosse.

Le si inginocchiò accanto, stringendosela brevemente al petto, mentre tornava a guardare lo spatz, stagliato sul cielo limpido. «Qui a Ulm, il passero è simbolo di libertà da secoli. Però a noi richiama anche la colomba della Genesi nel racconto di Noè. Ricordi cosa è scritto?»

La bambina rispose: «Noè mandò fuori la colomba che tornò all’arca fin quando l’acqua copriva la terra. Quando l’acqua si ritirò, andò fuori ma non tornò più».

«Giusto. Era finalmente libera.» Poi, fissandola negli occhi, le parlò sottovoce: «Ricordatelo quando verranno dei momenti difficili. Il mondo è turbolento oggi, e non si può prevedere quello che accadrà. Potrebbe cadere tutto nel caos, come un mondo sommerso dall’acqua, nella tempesta, ma Dio resta, tesoro, e restituisce all’uomo la propria libertà a tempo debito».

«Vuoi dire la guerra? Ho sentito che ne parlavi con la mamma dopo che avete letto il giornale.»

«Sì, Hannah. Il mondo sta entrando in guerra. Vedremo presto molte cose cambiare, ma tu non ti devi spaventare perché io sarò sempre con te.»

Hannah si turbò profondamente: non sapeva esattamente cosa fosse, né perché esistesse, ma aveva sentito che tante persone morivano e si uccidevano tra loro. Le sembrava una cosa orribile.

«Ma perché c’è? Perché gli uomini combattono?», proruppe, le manine strette nel palmo.

Albert venne colto di sorpresa: come poteva spiegare una faccenda così complessa alla sua bambina?

«È una domanda difficile», cominciò a dire lentamente. «Gli uomini sembrano avere difficoltà a vivere in pace tra loro. Nel profondo, abbiamo questo senso di predominio che vogliamo far valere. Ma il pericolo non è solo nella nostra natura… è soprattutto nella nostra testa. Ricordati sempre che l’odio viene dal cuore, il disprezzo dalla testa. E nessuno dei due sentimenti è spesso sotto il nostro controllo. Ma Dio, con la sua Legge ci ha dato un comando, ha detto: “ama il prossimo tuo come te stesso”. Quindi quando sarai tentata a odiare e a disprezzare l’altro, pensa sempre che lui è come te.»

«Cercherò di ricordarlo, papà», disse Hannah. Lo abbracciò poggiando il capo sulla sua spalla e fissò, con la coda dell’occhio, lo spatz che mimava il volo.


 

 
NOTE FINALI:
Gustav Stresemann era il leader del Partito Popolare Tedesco che introdusse il Rentenmark.
PapiermarkRentenmark Reichsmark furono valute tedesche. La prima venne completamente svalutata dopo la fine della Prima Guerra Mondiale; venne introdotta la seconda nel 1923 per frenare l’inflazione ma fu temporanea, e non ebbe valore legale; la terza entrò in vigore dal ‘’24 al ‘’48.

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Capitolo 5
*** Voci di ricordi ***


5. Voci di ricordi

Dicembre, 1944

La botola si aprì un’altra volta.

Ezra reggeva una lanterna che gettava luce attorno, creando profonde ombre sulle pareti: il seminterrato, con le lampade fulminate, era pieno di oggetti e mobili vecchi, molto polverosi e le loro proiezioni si intrecciavano formando figure improbabili, capaci di incutere timore.

Hannah le stava osservando quando Ezra le prese una mano e le disse di seguirlo. La condusse su per la scala e si meravigliò: non era mai successo prima.

«Per questa notte ho licenziato i domestici.»

Pur non avendoli mai visti, sapeva che nella casa ce n’erano due, anche se sbrigavano le loro mansioni in silenzio, senza dipendere dal padrone di casa, come questi voleva: lo aveva dedotto dai casuali monologhi del dottore.

Fu condotta ancora per un’altra scala, la quale portava ai piani superiori della casa, ma dopo pochi gradini si accasciò, a corto di fiato. 

Ezra si fermò con un suono interrogativo, prima di ricordare che lei non era più abituata a fare troppo movimento: il semplice salire le scale le costava fatica, e quella era già la terza rampa.

Rimasero su un gradino l’uno di fianco all’altra. Ezra approfittò della pausa per avvicinarsi a inspirare l’odore dei suoi capelli: quella mattina glieli aveva lavati, mentre i domestici si trovavano al mercato. Adesso seppellì il viso nel suo collo e le diede un piccolo morso.

Il battito di Hannah impazzì di paura. Sebbene non l’avesse mai malmenata da che l’aveva presa con lui, certi assalti avevano ancora il potere di sconvolgerla, a causa di ricordi tenebrosi che la lasciavano con le membra tremanti.

Ezra si accorse che tremava, ma lo interpretò come eccitazione e ridacchiò, risalendo in una scia fino all’orecchio.

Lei si ripeteva che non le avrebbe fatto nulla e sopportava.

Quando giudicò che fosse passato un tempo sufficiente, Ezra riprese a trascinarla su, nuovamente eccitato.

La portò nella sua camera, dove aveva sempre voluto averla. Spogliandola, l’adagiò sulle coperte fredde e la coprì col proprio corpo.

L’unguento era stato lasciato accanto al letto. Quando le scivolò dentro mandò fuori un sospiro soddisfatto. «Lo sognavo da sempre.»

Si mosse su e giù, baciandole il volto. «Hannah, mi ami?»

Lei lo fissava con gli occhi di un animale raro, quasi non comprendesse il linguaggio umano.

Non si aspettava una risposta, perché nella sua mente già l’aveva: era la ragazza che aveva seguito da lontano per anni, che aveva visto nuda dietro una tenda, rivelandosi come una ninfa creata apposta per lui; era uno spirito sconosciuto che solo lui conosceva, che gli apparteneva da quando lei non lo sapeva.

Non esistevano altre donne, il mondo cominciava e finiva con Hannah.

Come un’onda, la penetrava respirandole sulla bocca, fino a che l’orgasmo lo sconvolse e serrò le mani tra i capelli, gemendo. 

Quando si spostò di lato, continuò a tenerla stretta e le raccontò in un mormorio tutta la storia segreta.

Hannah vide con gli occhi di un’altra persona le scene quotidiane della sua vita: lei che passeggiava al mercato con l’abito azzurro; che intrecciava i capelli scuri di Edda, la vicina di casa; che dava un bacio al vecchio Joseph quando portava al negozio le stoffe; che comprava del pesce della vecchia, con la quale rimaneva a contrattare; che riposava sul muretto esterno, quando era investito dal sole; che si nascondeva dai fratelli dietro la scala; che si spogliava al di là della tenda per provare di nascosto un vestito nuovo.

Il dottore portava tutte quelle memorie a galla.

Hannah prese a tremare, divisa tra stupore e terrore. Non sapeva decidere se quella rivelazione le facesse male: di sicuro era troppo forte, giungeva troppo violenta. Ricordi così cari da essere dolorosi nella loro vividezza, così profondi da essere privati. Lui li evocava così liberamente, come se ne fosse il padrone, non era sicura di apprezzare quell’invasione della propria intimità. 

Si sentiva esposta.

«Non ti devi preoccupare, Hannah», le disse, «noi ci apparteniamo. Non permetterò a nessuno di portarti via da me, come non l'ho permesso a mio padre.»

Infine, sussurrandole all'orecchio, le rivelò come l’avesse ucciso, somministrandogli per anni piccole dosi di veleno.

«Avrebbe provato a dividerci. Poteva farti del male, ma non l’ho permesso. Adesso dormi, stanotte voglio tenerti qui, nel mio letto.»

Hannah strinse gli occhi aprendo la bocca in un grido muto.

 



 

 

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Capitolo 6
*** Voci di cacciatori ***


6. Voci di cacciatori

Novembre, 1938

Il rumore del cristallo che si infrangeva svegliò gli Haller a notte fonda.

Albert saltò fuori dal letto, impugnando un bastone che, sin dalla notte del 9 Novembre aveva preparato e tenuto vicino a sé, quasi in ogni momento.

La notizia delle violenze contro i suoi fratelli di fede lo aveva profondamente scosso. Non lo avrebbe mai immaginato possibile in un regno che era sempre stato esempio di tolleranza e rispetto. Eppure lo Stato aveva profondamente cambiato il proprio modo di pensare, anzi, aveva istigato i propri cittadini alla discriminazione e alla violenza.

A Ulm la brutalità non aveva ancora toccato i livelli massimi, era per questo che, nonostante tutto, aveva scelto di non abbandonare la propria casa e la bottega per cercare rifugio altrove: spostare la sua famiglia avrebbe avuto un costo che non poteva permettersi.

Mentre una morsa di panico lo afferrava allo stomaco, pensò che forse sarebbe stato meglio agire anziché attendere l’inevitabile: aveva sentito di centinaia di persone che erano partite nei giorni precedenti. 

Toccò la spalla di Cecilie, indicandole che non si muovesse dalla loro camera.

La donna indossò una vestaglia e scivolò fuori per andare da Hannah. La trovò sveglia ma confusa e la trascinò con sé in un luogo che fosse al riparo.

Albert, nel frattempo, vedendole relativamente al sicuro, si decise finalmente a scendere le scale che portavano al negozio, da cui aveva sentito provenire il rumore.

Udì presto delle voci concitate chiamare il suo nome con epiteti impronunciabili. Gli uomini  — ragazzi, si accorse — erano in cinque e tenevano in mano delle torce.

Ne vide ciondolare un paio e capì che dovevano avere bevuto un po’ troppo.

Cercò di non mostrarsi intimorito, ma un cattivo presagio gli faceva desiderare di prendere la propria famiglia e scappare.

Uno dei ragazzi lo vide e si affrettò a indicarlo ai compagni.

Fu inutile tentare di parlare per ricondurre quegli sbandati alla ragione: lo accerchiarono presto e, come una branco di iene, cominciarono a schernirlo e a spintonarlo.

«Anche noi faremo la nostra parte per liberare il Paese da voi sporchi ebrei», ringhiò uno degli assalitori, il quale non poteva avere più di vent’anni. «Vi ammazzeremo tutti!»

Le voci di violenza divennero un vortice attorno all’uomo che, preso dalla confusione, non seppe difendersi. Quando però un colpo lo raggiunse al petto, mozzandogli il fiato, un istinto di sopravvivenza vecchio quanto il mondo lo spinse a reagire senza più considerare quelle persone dei ‘ragazzi’ ma come ‘nemici’.

Riuscì a ferirne qualcuno a legnate, i più pavidi barcollarono al di là del buco che avevano aperto, il vetro infranto scricchiolò sotto i piedi nella corsa. Quelli rimasti urlarono addosso ai compagni che li avevano abbandonati.

Dopo un tempo inquantificabile, Albert udì un gemito dal piano di sopra: le donne dovevano essersi rese conto di quanto grave fosse il pericolo. 

Hannah volò giù dalle scale per dare man forte al padre. Questi le urlò di andare via: vederla in pericolo lo sconvolgeva, la voleva lontana da quei pazzi furiosi.

Ma la ragazza non gli diede ascolto: raccolse un lungo pezzo di vetro e si scagliò contro uno degli uomini che stavano lottando contro di lui. Riuscì a ferirlo, ne udì il gemito, ma il vetro ferì lei pure e il sangue le fece perdere la presa sull’arma improvvisata. Ritrovandosi così disarmata, scansò quasi per caso l'attacco del ferito, il quale era in preda alla furia.

Nel frattempo, la baruffa aveva attirato l’attenzione dei vicini: qualcuno più coraggioso si affacciò con una lanterna e lanciò un grido.

Quando furono in minoranza, il gruppo dei ragazzi si diede alla fuga, spintonando via quelli che si frapponevano nella  strada.

Cecilie raggiunse il marito e scoppiò in pianto. Gli passò le mani sul viso sudato e insanguinato a causa di un taglio sulla fronte: si spaventò immediatamente ma quando riuscì a esaminarlo con più attenzione, accendendo la luce, si costrinse a restare calma e si mise all’opera per essere di aiuto.

Anche Hannah venne medicata. Tremava. Sentendosi improvvisamente mancare, scivolò per terra, sconvolta dalla lotta; nella mani permaneva la sensazione di avere stretto un’arma con l’intento di nuocere.

«Cecilie, tesoro… non… non possiamo più restare.»

La moglie lo guardò affranta, trattenendo a stento una nuova ondata di lacrime ma acconsentì prontamente: non avrebbero mai più vissuto un’altra notte come quella. Dopo quanto accaduto, avrebbero convinto Hans e Joshua a seguirli con le rispettive famiglie. 

 

Non sapevano ancora che non avrebbero fatto in tempo.

La violenza sarebbe tornata come la risacca del mare, ogni volta più potente, e avrebbe trascinato via tutti: prima Albert, poi i suoi figli; infine Cecilie. 

Solo Hannah sarebbe rimasta testimone dell’orrore che stava per sommergere il mondo come il Diluvio.

 

Dicembre, 1944

Ezra capì che qualcosa non andava quando il rumore di pesanti colpi alla porta lo fece svegliare. 

Hannah non era più accanto a lui. Si voltò con frenesia, cercandola attorno mentre, di sotto, la voce di un soldato comandava che si aprisse la porta alla squadra del Tenente Sievers che aveva ordinato un’ispezione.

L’uomo si passò una mano tra i capelli arruffati, ricordando che non aveva chiuso la botola.

Si infilò un paio di pantaloni senza preoccuparsi di abbottonarli più del necessario e si precipitò di sotto dove Tom e Paul, i domestici, si guardavano spauriti, incerti sul da farsi.

Quando lo videro comparire, tirarono un sospiro si sollievo: ricevettero il comando di prendere i fucili dagli armadi e di sistemarsi presso di lui, davanti alla porta.

Quando l’aprì, Ezra sperò con tutto il cuore che Hannah si fosse messa al sicuro, quantomeno che fosse ben nascosta da qualche parte. Se le cose fossero volte al peggio, avrebbero anche potuto scoprirla, condannandolo a un’aspra punizione; forse persino alla morte.

Si trovò faccia a faccia con German, il quale lo fissava con un sorrisetto storto che non faceva presagire nulla di buono.

«Finalmente. Potrei quasi accusarti di ostacolo alla giustizia per il ritardo che hai portato nell’aprire la porta a un presidio della polizia.»

«Non sono certo io quello che si presenta a casa delle persone a un’ora così improbabile», ribatté con calma.

Incredibilmente, German non rispose, limitandosi a esprimere il proprio divertimento sbuffando dal naso.

«Fatti da parte. Siamo qui per controllare che sia tutto regolare.»

Ma Ezra non si mosse. «Mi pare che lo abbiate già fatto, per ben due volte. Questa che perori si definisce persecuzione.»

«Si sente perseguitato colui che ha qualcosa da nascondere, Kruger. Hai forse qualcosa da confessare?»

Egli lo fissò impassibilmente. «È perseguitato qualsiasi cittadino nel pieno dei propri diritti che vede ripetutamente invasa la propria abitazione da un Tenente, il cui compito sarebbe solamente di garantire l’ordine» disse. «Con quale scusa, dunque, ti presenti nuovamente in casa mia?»

German per un momento perse la propria compostezza, davanti l’insolenza del dottore.

«Nessuna scusa, Kruger. Faccio solo il mio lavoro. E adesso spostati.»

Fece forza sulla porta, cercando di scavalcare Ezra, ma si trovò puntati contro due fucili a canne mozze.

«Cosa significa tutto questo?», esclamò rosso di rabbia.

Ezra tirò fuori un pezzo di carta e lo aprì per aria, mostrandolo al Tenente.

«Ho qui il documento firmato dal magistrato: limita temporaneamente la tua ingerenza nella mia vita. Dopo la tua seconda visita ho inoltrato le mie lamentele all’onorevole Ziegler: ha convenuto con me che due perquisizioni in meno di un mese fossero un po’ troppe. È un caro e vecchio amico di famiglia, come saprai, non avrebbe potuto ignorare una simile irregolarità.»

Trovandosi con le mani legate, German sfogò la sua frustrazione con un’espressione truce e un ringhio a pochi centimetri dal viso dell’avversario.

«Quel foglio non ti salverà dalla mia giustizia, Kruger. Presto avrai modo di rendertene conto!»

Ordinando seccamente ai suoi uomini la ritirata, gli voltò le spalle, sparendo dalla vista.

Ezra non ebbe il tempo di rilassarsi poiché doveva trovare Hannah.

Cercando di dissimulare la propria premura coi domestici, li indirizzò ognuno a compiti diversi e comandò loro che preparassero dei bagagli: non aveva più intenzione di restare in quella città, pronto per essere colpito da Siervers.

Quando non ci fu pericolo di essere visto, scese in cantina per controllare la botola.

Era chiusa.

Bussò dei colpi, poi si affrettò ad aprirla: dentro, rannicchiata nell’angolo più buio stava la ragazza.

«Quando sei tornata qui sotto?», le chiese. Ma mise da parte la domanda per questioni più urgenti. «Hannah, dobbiamo parlare. Sali.»

Quando l’ebbe fatta accomodare su una sedia imbottita le disse che non avrebbero più potuto restare a Ulm.

«È troppo pericoloso, Sievers ci sta addosso. Sono riuscito a impedirgli di entrare a perquisire ma tornerà presto. Dobbiamo lasciare la casa finché siamo in tempo.»

Lei lo guardava pallida, le mani artigliate all’orlo della veste.

Ezra si inginocchiò alla sua altezza, afferrandogli i palmi strettamente.

«Hannah», le disse, «ti ho detto che non permetterò a nessuno di portarti via da me.»

Lei aveva le pupille dilatate; nelle orecchie di nuovo il suono delle grida e dei pianti di centinaia di volti senza nome.

Non poteva sopportare nuovamente l’incubo del lager.

Ezra proseguì: «Ho un piano. Sono certo che Sievers abbia lasciato un sottoposto a controllare i miei movimenti. Cercherò di nasconderti su un carro e dirò a Tom di dirigersi al mercato a sbrigare una certa incombenza. Quando lo sentirai allontanarsi, dovrai scivolare fuori e confonderti tra le persone. Mi ascolti?»

Aveva ancora l’espressione esterrefatta e tramortita e la scosse con un po’ troppo forza.

«Devi assolutamente capire cosa fare. Lascia il carro appena possibile, confonditi tra la gente e raggiungi la stazione di Ulm. Ci troveremo là e prenderemo il treno. In questo modo, se anche mi seguissero, non ti vedrebbero e non avrebbero il tempo per fermarmi. Ci siamo capiti?»

«È tutto chiaro?», ripeté con urgenza, stringendole la mano.

Lentamente Hannah annuì.

Le spiegò che le avrebbe fatto indossare i vestiti della madre, insieme a un costoso cappotto foderato di pelliccia per proteggerla dal freddo invernale. Avrebbe preso quello meno vistoso per non dare nell’occhio, ma comunque di ottima fattura, in vista del viaggio. In breve tempo, già mentre parlava, l’aveva aiutata a cambiarsi.

Quando tutto fu pronto e non rimaneva che dare il comando agli ignari domestici, la spinse in un angolo, guardandola intensamente.

«Hai paura?», le chiese.

Hannah annuì ancora.

«Mi aspetterai paziente? Riuscirai a raggiungere la stazione?»

Il tempo si prolungò senza che Ezra ebbe risposta. Contrasse la mascella, fissandola negli occhi pieno d’ansia.

Hannah sapeva che quella sarebbe stata la sua occasione per decidere del suo futuro.

Quando si fosse trovata fuori —  finalmente libera — avrebbe preso il volo? Si sarebbe allontanata anche da colui il quale l'aveva salvata?

D’improvviso rammentò lo spatz, e gli sovvennero le parole del padre: “L’odio viene dal cuore, il disprezzo dalla testa. E nessuno dei due sentimenti è spesso sotto il nostro controllo. Ma Dio, con la sua Legge ci ha dato un comando, ha detto: «ama il prossimo tuo come te stesso». Quindi quando sarai tentata a odiare e a disprezzare l’altro, pensa sempre che lui è come te”.

Il ricordo del genitore la commosse. Gli occhi le si fecero lucidi: una lacrima solitaria si precipitò in corsa incontro al vuoto.

Sollevò una mano, toccando la guancia dell’uomo. Con un movimento incerto lo avvicinò al proprio viso e gli sfiorò le labbra.

Ezra trattenne il respiro, meravigliato da quel contatto: era la prima volta che lo toccava.

 

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Capitolo 7
*** Voci del cielo ***


7. Voci del cielo

17 Dicembre, 1944
 

Hannah strinse le braccia dentro al caldo cappotto. Fuori l’aria era gelida tanto da condensarle il fiato in nuvolette di nebbia. Attorno a lei la gente scivolava via a passo svelto, i volti nascosti da sciarpe e cappelli, ognuno preso dalla fretta di raggiungere il riparo della propria casa.

Erano trascorse delle ore dall’orario dell’appuntamento, ma lei aveva continuato ad aspettare. Si era chiesta perché lo facesse: avrebbe potuto prendere un treno e semplicemente andare. Eppure era paralizzata. Ricordava troppo vividamente i fallimenti di ogni tentativo di fuga: cosa avrebbe fatto se l'avessero ricatturata? Ma il dottore poteva proteggerla, affrontando per lei quella parte del mondo che l'aveva distrutta. Non si sentiva più esattamente viva ma si portava sempre e comunque dentro le proprie paure: in mezzo alla stazione, guardando le persone viaggiare verso mete prefissate, Hannah era un fantasma. Un essere spaccato nell’animo che sopravviveva a malapena a cavallo di due mondi distinti e contrapposti.

Sapeva che un’insostituibile parte di sé era morta per sempre a Dachau; forse qualcosa era sopravvissuto ma non era abbastanza per tornare a essere integra.

La gente camminava via sfiorandola, ma lei si sentiva separata da tutti: come se uno spesso velo di cristallo la isolasse dal mondo, al quale non apparteneva più.

Aveva baciato il dottor Kruger come dalla tomba. Di quell'uomo aveva conosciuto le tenebre, ne aveva ascoltato il suono della voce modulata, bevendolo fino a riempire il proprio vuoto; e ne aveva ascoltato i tremendi segreti. 

Forse era rimasta troppa poca cosa di lei, adesso, per sconvolgersi. Avrebbe dovuto odiarlo, averne paura o disprezzo… ma per cosa?

“Lui è come te”. Anche lui spezzato.

Non c’era vittima che non avesse mietuto la guerra, non orrore che non avesse scoperchiato, riversando sulla terra le orde immateriali dei demoni umani. E quando l’uomo aveva perso le redini, ecco precipitarsi tutto, ecco farsi il grande vuoto: che fosse questo tutto ciò che celava il cuore dell’umanità?

“Se non lo si riempie di bene, rimane solo la morte”, pensava Hannah.

Infine un suono familiare la riscosse.

Il rumore degli aerei ricoprì i cieli con un rombo che gettò l’allarme. Le persone cominciarono a correre, a gridare. Hannah rimase immobile, le mani dentro le tasche del cappotto, il viso sollevato verso le luci rosse che tracciavano rette luminose per aria.

Poi le bombe piovvero sul mondo, annullandolo.

Era riuscito a uscire di casa senza essere fermato. A Paul aveva affidato i bagagli: doveva occuparsi di caricarli sul treno che avrebbero preso. Anche Tom era andato via poco prima, col carro e il suo prezioso carico segreto.

Camminava a passo svelto, il cuore un poco agitato.

Aveva fatto un giro largo per precauzione e adesso si trovava in prossimità della Cattedrale. Superandola, non avrebbe impiegato più di dieci minuti per raggiungere la stazione: lei doveva già trovarsi là ad attenderlo.

Era leggermente in ritardo sull’orario concordato e sperava che la ragazza non si facesse sopraffare dall’ansia; dopotutto erano anni che non si muoveva da sola per la città.

Guardò l’orologio un'altra volta e accelerò il passo. Una mano lo trattenne afferrandolo per il cappotto.

«Dove credi di andare?!»

Identificò immediatamente l'aspra voce come quella di Sievers. 

«Non sono affari tuoi», rispose, strattonando via il braccio.

«Sì che lo sono! Credi di potermi fregare sotto al naso? I miei uomini mi hanno riferito dei tuoi movimenti: pensavi che non ci saremmo accorti che uno dei tuoi domestici trasportava alla stazione dei bagagli? Cerchi di scappare, dunque?»

Ezra, infastidito, socchiuse gli occhi. «Se anche fosse, sarei del tutto giustificato. Questa tua persecuzione si è già spinta troppo oltre. Non ho intenzione di rimanermene a guardare mentre ti diverti a giocare al signore del tuo piccolo regno. Intendo sottrarmi a questo stupido gioco.»

«Un gioco, lo chiami, eh?» German rise malignamente. «Certo che per te è un gioco, non hai mai dovuto faticare per ottenere niente: avevi sempre l’approvazione di tutti, sei sempre stato così perfetto! È ovvio che gli sforzi degli altri per te siano semplici giochetti!»

«Ma di che diavolo stai parlando?!», si spazientì. «Sei sempre stato tu a tormentarmi come un pazzo, quando io non ne vedevo nemmeno il motivo. Ma già, a te piace che le persone si pieghino ai tuoi comandi e non potevi sopportare di non averla vinta!»

«Averla vinta, averla vinta… è vero, forse non sono mai riuscito a piegarti, ma non c’è modo che possa arrendermi. Non tollero la tua sfrontatezza!»

German afferrò Ezra per il colletto, strattonandolo. Questi rispose con un pugno che lo centrò in pieno viso. Preso alla sprovvista, cadde, intontito.

«E adesso lasciami in pace», sbuffò Ezra, tentando di allontanarsi. Non fece in tempo ad andare via: German, temprato da anni di lotta nell’esercito, sapeva incassare bene i colpi. Si riprese in fretta e lo afferrò per le caviglie, mandandolo a terra.

Ci fu una breve colluttazione. Le persone cominciarono a mormorare, ma nessuno ebbe il coraggio di intervenire: uno dei due uomini, a giudicare dalle decorazioni della divisa, doveva essere qualcuno di importante.

Sebbene Ezra fosse un osso duro, non poteva competere con l’esperienza dell’altro: in breve si trovò a essere immobilizzato. Successivamente accorsero le altre guardie e venne preso in custodia. Lo trascinarono via su un'auto di pattuglia, diretta al Forte Oberer Kuhberg.

German guardava il viso tumefatto di Ezra, disprezzandolo. Anche se lo aveva tenuto sotto torchio per quasi due ore non era riuscito a farlo parlare. Non per sentirsi dire ciò che voleva, almeno.

Da alcuni minuti si fissavano torvi e stanchi. Ezra aveva le mani legate e il petto nudo, ricoperto di sangue e sudore.

Qualcuno dei soldati aveva cercato di protestare per quel trattamento irregolare, ma German lo aveva liquidato con un’occhiata che avrebbe fatto gelare l’inferno. Poi aveva fatto allontanare tutti.

«Se non confessi di avere nascosto la tua ebrea», gli disse a un certo punto, «ti fotterò piegato sul pavimento.»

Ezra ghignò, sputò per terra e si abbandonò a una risata rauca.

«Avanti, allora. Sappiamo tutti e due che è esattamente quello che hai sempre voluto fare. Non è forse per questo che mi sei stato sempre addosso? Che cerchi patetiche scuse? Tutto quello che vuoi è baciarmi il culo, è così, frocetto?»

German si sollevò con uno scatto, avventandosi su di lui per mollargli un pugno sullo stomaco.

La sedia si inclinò sotto il loro peso, schiantandosi per terra. Ezra ansimava con la bocca aperta, tentando di recuperare il fiato: l'aria non voleva saperne di fluire nei polmoni.

German lo afferrò per i capelli, sollevandogli il capo quel tanto che bastava per colpirlo di nuovo. Quando lo vide tossire sangue si fermò, respirando con affanno.

Pressoché privo di sensi, adesso l’arrogante bocca di Ezra non poteva più sputare sentenze. German si slacciò i pantaloni per liberare il proprio turgore.

Spingendo l’uomo sul ventre, si mosse con mani febbrili. Finalmente avrebbe dato una lezione a quell’essere odioso e si sarebbe preso la sua soddisfazione.

Lo penetrò liberando un gemito gutturale, godendo nell’udire il suo ansito di dolore.

Ezra, seppur piegato e contuso, si spinse sui gomiti, tentando nuovamente di liberarsi. Ma German lo tratteneva saldamente. 

Entrò nel vuoto consueto che aveva sempre sperimentato quando subiva le violenze di suo padre. Si obbligò all’immobilità, uscendo quasi dal corpo per rifugiarsi tutto nella propria mente dove attese, cominciando a contare.

Quando le spinte si fecero frenetiche e il piacere in German crebbe, Ezra attese il momento in cui uno spasmo gli avrebbe fatto allentare la presa. Allora si tirò su con tutta la forza, gettando indietro la testa e frantumandogli il naso. Si udì lo schianto delle ossa; sulla pelle della schiena sentì colare il sangue in una calda pioggia. 

Ezra sgusciò via rapido, approfittando dell'occasione per stringergli il collo dentro il cerchio delle braccia legate.

Mantenne la presa con forza, quando l’altro scalciò convulsamente.

Contò a ritroso tutti i numeri. Quando arrivò a zero, German aveva smesso da un pezzo di dibattersi.

Ezra spinse via il corpo esanime dell’avversario, col sesso ancora umido, pateticamente nudo e rattrappito. Lo fissò con lo stesso disprezzo con cui aveva guardato il cadavere di suo padre.

Quando Frank Schulz giunse di corsa con la notizia che gran parte della città era stata distrutta da un raid aereo, Ezra si era già liberato della corda e aveva scavalcato il giovane soldato, paralizzato alla vista del corpo del Tenente.

Erano tutti in preda alla confusione: ognuno di loro aveva famiglia e amici da salvare o piangere. Nessuno si accorse della fuga del prigioniero, né diede l’allarme.

Nonostante le ferite riportate, Ezra corse per i quattro chilometri che separavano il Forte dalla stazione. La paura e l’adrenalina ne sostenevano le energie.

Quando fu in prossimità del centro, con sempre maggiore angoscia osservò i palazzi distrutti, le case scomparse, le persone morte. La città era nel pieno del caos: agli angoli delle strade bambini a piedi scalzi piangevano pieni di angoscia, a volte vicino ai cadaveri dei loro genitori; c’erano vecchi dai visi straziati, piegati sulle macerie delle loro abitazioni; uomini e donne svestiti che stringevano convulsamente un lembo di stoffa del parente rimasto schiacciato sotto le macerie. Nelle zone di impatto ancora bruciavano incendi difficili da domare, e le strade erano investite da arti mozzi e parti anatomiche di chi era rimasto smembrato.

Le unità mobili di pronto intervento medico avevano già allestito i primi punti di soccorso, ma la gente era tanta ed era difficile coordinare le risorse. Le persone, impazzite, non si facevano nemmeno aiutare.

Ogni tanto si percepiva in alto il rombo di qualche aereo e dilagava nuovamente il panico.

Ezra continuò a camminare, senza fermarsi ad aiutare: nella mente il pensiero rivolto ad Hannah, a dove potesse essere, e se l’avrebbe trovata intatta.

Non poteva perderla. Non lei.

La sola idea di non averla con sé lo mandava fuori di testa: era in prossimità di un attacco di panico.

Giungendo alla stazione, la trovò distrutta. Gruppi di persone cercavano di sfollare, strisciando fuori dai detriti; altri avevano cominciato a scavare, alla ricerca di superstiti.

Ezra si guardò intorno. Le aveva dato appuntamento al binario tre e, anche se aveva perso un po’ l’orientamento, era convinto di trovarsi vicino a quello che doveva esserlo stato.

Trascorsero minuti e poi ore senza che smettesse mai di cercare.

 

Poi, finalmente, riuscì a trovarla.

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Capitolo 8
*** Il canto dei morti ***


8. Il canto dei morti

Maggio, 1990
 

«Lei è la signorina Faith Haller?», domandò una voce alle spalle della donna.

Faith si voltò e quasi finì addosso a un uomo che indossava una camicia azzurra arrotolata alle braccia. Questi l’afferrò, aiutandola a mantenere l’equilibrio.

«Sì, mi perdoni. Sono io. E lei sarebbe…?»

«Andreas Keller», rispose prontamente, allungandole la mano.

Gliela strinse, mentre recuperava il bagaglio a mano. «Oh, lei è il dottore con cui ho parlato al telefono.»

«Sì, esatto», confermò con un sorriso. «Sono davvero contento che sia riuscita a venire, signorina Haller...»

«Mi chiami pure Faith.»

«Faith, allora» approvò. «Dicevo che sono molto contento che tu sia venuta. So che deve essere stato tutto improvviso e che magari non hai ben chiara la situazione.»

«Oh, non ti preoccupare. In effetti, ho passato la settimana a interrogare mia nonna Brigit. È incredibile quante cose non sapessi. La tua chiamata mi ha dato modo di conoscere una parte importante della storia della mia famiglia.»

Nel frattempo Andreas la condusse nel parcheggio e l’aiutò a posizionare i bagagli nell’auto. Parlarono a lungo delle ricerche di lui e di quello che Faith aveva scoperto a casa. La situazione era così affascinante che, nell’entusiasmo, si trovarono subito a proprio agio l’una con l’altro.

«Dunque, ti dicevo che non c’è quasi alcun dubbio che siamo noi gli Haller che cercavi.» Tirò fuori dalla borsa un plico di documenti mentre l’uomo guidava tranquillamente nel moderato traffico cittadino. «Ho qui i registri di immigrazione della mia famiglia, quando è arrivata in America nel 1945 e, eccezionalmente, persino i certificati di nascita dei miei parenti da parte di padre. Nonna mi ha raccontato che avevano preso tutte le cose più importanti in vista del viaggio. Purtroppo il nonno non riuscì a superare i controlli.»

Faith raccontò dell’attacco subito dal bisnonno nella sua bottega. «Questo spinse la famiglia a considerare con urgenza l’evenienza di una fuga. Erano già stati perseguitati nemici politici e le altre minoranze: capirono in fretta che l’odio razziale stava per scatenarsi anche contro gli ebrei.»

Il bisnonno Albert aveva convinto i figli a seguirlo ma, prima che fossero riusciti ad allontanarsi abbastanza, era stato ucciso assieme a loro.

«Nonno Hans e il prozio Joshua persero la vita per proteggere le donne», continuò. «Sopravvissero solo la bisnonna Cecilie, la prozia Hannah e nonna Brigit assieme a mio padre, Stefan Haller, che al tempo aveva solo tre anni. Però solo mia nonna e mio padre riuscirono a salire su una nave diretta in America. Per tanti anni non seppe cosa ne fosse stato né della suocera né della cognata; solo dopo la fine della guerra riuscì a fare alcune ricerche e a scoprire che erano state portate in un Campo di concentramento. Nonna credeva che fossero morte entrambe lì.»

«Non esattamente», disse Andreas.

«Sì, è quello che hai detto al telefono, ma temo di non avere capito cosa tu abbia scoperto.»

«Secondo i dati che ho raccolto, Hannah riuscì non so come a evadere. Poi ho scoperto che era stata soccorsa da un medico, il quale la tenne nascosta per mesi: Ezra Kruger, te ne ho parlato, se ricordi.»

«Oh! Sì… hai detto che saremmo andati a trovarlo. Dunque lui l’ha salvata?», disse con un tono meravigliato. «La nonna sarà felicissima di saperlo! Ogni volta che parla di loro si commuove. Noi non volevamo turbarla, per questo molti dettagli non li conoscevamo.»

«Se preferisci ti porto subito da lui, anziché andare in albergo.»

La proposta venne accolta volentieri.

Andreas spiegò che il signor Kruger era un tipo particolare e che non si sarebbe dovuta impressionare se l’avesse visto fare cose strane. Ma Faith conosceva la fragilità di chi aveva vissuto una guerra sulla propria pelle, e sarebbe stata delicata.

Andreas guidò per una strada alla periferia della città: tuttavia non distava molto dal centro abitato. Posteggiò la macchina e l’aiutò a scendere, prendendole di mano i documenti.

«Mi raccomando», le disse in prossimità della porta, «lo vengo a trovare regolarmente ma non credo abbia capito di preciso quale sia il mio lavoro. Per non agitarlo mi presento come un amico. Introdurrò anche te allo stesso modo.»

Suonato il campanello, la porta venne aperta senza indugio. Si profilò la figura di una donna sulla cinquantina, piuttosto in carne. Doveva essere un’infermiera a giudicare dalla divisa.

«Dottor Keller, buonasera», lo salutò la donna. Dedicò un sorriso anche a Faith e si presentò come Marga. «Qui avrei finito, quindi lo lascio alle sue cure», disse. Ma non se ne andò prima di avere indicato dei dolci sul tavolo del salottino e di averli invitati a mangiarne.

Seduto su una poltrona, vicino la finestra, c’era un uomo sull’ottantina: aveva i capelli bianchi ordinatamente pettinati, un vestito dai colori coordinati di una stoffa un po’ pesante rispetto alla stagione, e teneva un plaid a motivo scozzese sulle gambe.

Accolse con un cenno il dottore mettendo da parte la maschera per l’ossigeno.

«Signor Keller», disse, «che piacevole sorpresa. Hannah sarà contenta di vederla.»

L’uomo si girò chiamando ad alta voce il suo nome. «È di sopra, tra poco scende», spiegò.

Andreas presentò Faith come una sua recente conoscenza.

Ezra la fissò corrugando la fronte, senza rispondere alle domande di cortesia del dottore.

Fece un cenno alla ragazza di avvicinarsi. Lei, perplessa, lanciò un’occhiata ad Andreas il quale scrollò con un sorriso le spalle. Se voleva, si poteva avvicinare.

«Più vicino, più vicino...» disse spazientito quando lei fece pochi passi avanti. Quando le fu a portata di mano le afferrò saldamente un braccio e la costrinse a inginocchiarsi ai suoi piedi.

Faith non era allarmata, ma non sapeva che cosa dire.

«Parla», le ingiunse.

«C-che dovrei dire?», chiese confusa. Quando capì che non l’avrebbe lasciata andare se non l’avesse accontentato, si presentò col suo nome e gli disse il motivo della sua visita, omettendo certi dettagli.

«Hai proprio la sua voce...», sussurrò, con una strana espressione. «hai detto che ti chiami Haller

«Sì, signor Kruger.»

«Anche il cognome della mia Hannah è Haller», specificò.

«Lo… lo so, signor Kruger. In effetti siamo parenti: vede, Hannah sarebbe la mia prozia da parte di padre.»

Questo fece impensierire Ezra. Andreas tentò di distogliere la sua attenzione da questioni troppo complicate e lo dirottò verso argomenti più tranquilli.

Finalmente Faith riuscì a rialzarsi e si allontanò leggermente confusa: Andreas l’aveva avvisata che poteva fare qualcosa di strano ma non si aspettava certo questo comportamento.

Comunque la conversazione proseguì pacificamente.

Ezra raccontò al dottore le sua attività quotidiane, soprattutto il fatto che Hannah adesso aveva cominciato a leggergli un nuovo libro. Sembrava entusiasta.

Dopo un po’, diede i primi segni di stanchezza e Andreas si congedò con la promessa che sarebbero tornati il giorno dopo.

Anche se insistette perché rimanesse comodo al suo posto, Ezra si alzò comunque per accompagnare gli ospiti alla porta. Quando però furono in prossimità delle scale, si raddrizzò, il volto illuminato.

«Hannah, Eccoti! Hai fatto tardi, i nostri ospiti se ne stanno per andare.»

Le si avvicinò allungando una mano e prendendo quella della donna nella sua e, come faceva ormai da anni, si chinò a baciarle il palmo con tenerezza. «Mia adorata...», sussurrò.

Faith, commossa, si portò una mano al viso, presa all’improvviso dalla voglia di piangere. Aveva sentito l’amore che quell’uomo provava verso la prozia ogni volta che la nominava ma vederlo così le toccava una corda nel cuore. Non aveva mai visto una forma tanto tangibile di affetto.

Ezra la presentò a Faith, spiegandole che era la sua pronipote. Colta alla sprovvista, non sapeva bene cosa fare e chiese di nuovo aiuto al dottore, il quale aveva sicuramente più esperienza di lei. Questi infatti si avvicinò di un passo e tese una mano per salutare. Disse qualche frase di circostanza che permise a Faith di avere il tempo di raccogliere i propri pensieri. 

Quando si sentì pronta, lo imitò, ostentando calma.

Non si trattennero a lungo perché Andreas aveva intuito lo sconvolgimento emotivo della ragazza. Salutarono ancora una volta prima di andare via.

Nell’abitacolo della macchina regnò il silenzio fino a metà strada. Poi, con un colpetto di tosse, Andreas si decise a chiedere: «Come ti senti? È stato troppo forte come prima volta?».

Lei lo fissò muta, cercando le parole per esprimere ciò che provava.

«N-non so… è stato strano.» Dopo qualche altro momento, continuò: «Mi avevi detto che hai in cura il signor Kruger da diversi anni, e mi avevi anche spiegato di che tipo di patologia soffrisse, eppure non avevo capito fino in fondo».

«Pensavo avrebbe parlato generalmente di lei, un po’ come ha fatto all'inizio: con lui che la chiamava dalla scala, ma non mi aspettavo che… che ‘scendesse’, ecco.»

«Capisco. Sì, immagino tu non abbia pensato che ti saresti trovata nella situazione di dover fingere di interagire con una persona che non esiste. Quello che cercavo di dirti è proprio questo: il signor Kruger vive in un mondo tutto suo; la sua mente si è convinta da tempo di vedere Hannah perché non tollerava la sua scomparsa. Riesce a rapportarsi anche col mondo reale —  per anni ha condotto un’esistenza quasi normale — ma fino a un certo punto. È un caso che hanno studiato numerosissimi dottori, i quali hanno sempre tentato di dare una definizione al suo disturbo... ma non cade esattamente in una categoria definita.»

Detto questo, le raccontò che era stato trovato a vagare nella stazione di Ulm nel 1944, in mezzo alla macerie degli edifici crollati dopo il lancio delle bombe.

Era in chiaro stato confusionale, ricoperto da strane ferite: i testimoni dell’epoca avevano riferito che continuava a ripetere certe frasi: “Se fossi arrivato in tempo all’appuntamento...”; “Non doveva succedere”; “Posso rimediare”; “Non me la porteranno via”; e che chiamava il nome di una certa Hannah.

L’avevano ricoverato per qualche tempo, arrivando a sedarlo pur di impedirgli di tornare alla stazione a cercare tra i morti. Solo più tardi era sembrato riprendersi, salvo poi scoprire che parlava con una persona immaginaria. A ogni modo, non era in pericolo di vita e, con le dovute precauzioni, venne dimesso. I medici continuarono a seguirlo a distanza.

Il signor Kruger divenne famoso tra gli studenti di psichiatria: alcuni svolgevano parte del proprio tirocinio dedicandosi a delle sessioni in casa sua.

Col tempo, la storia su chi fosse ‘Hannah’ venne ricostruita e, negli ultimi tempi, Andreas che aveva continuato a lavorare al suo caso anche nel post-laurea aveva avviato una ricerca storiografica. Attraverso molti documenti e grazie ai racconti dello stesso paziente, era riuscito a trovare i giusti Haller in America, coi quali si era poi messo in contatto.

«Sono davvero sbalordita… non immaginavo neanche lontanamente tutto questo. Quando mi hai parlato di un uomo che aveva conosciuto da vicino la mia prozia ho immaginato che fosse una vecchia fiamma, qualcuno che poteva raccontarmi qualche storia da riportare in famiglia. Anche se mi avevi avvisato del suo problema con la realtà, dicendomi che fosse convinto che Hannah non era morta, io davvero non… non immaginavo una storia simile.»

«Ha dell’incredibile, lo ammetto. Proprio per questo la mente è così affascinante: ha il potere di creare universi. Personalmente sono sempre stato attratto dalla sua vicenda.»

Parlarono del più e del meno nel restante tratto di strada. 

Andreas accompagnò Faith in albergo dove la lasciò a riposare. Rimasero d’accordo di tornare dal signor Kruger l’indomani, in modo che lui potesse raccontare qualcosa della sua amata Hannah alla pronipote. La famiglia di lei, in America, sarebbe stata consolata nel conoscere gli ultimi momenti della sua vita.

Faith crollò sul letto con un pesante sospiro. Non riusciva a togliersi dalla mente l’esperienza che aveva appena vissuto e il pensiero di quell’uomo che da oltre quarant’anni viveva un amore disperato e solitario, dentro la sua testa. Era qualcosa di estremamente romantico da un lato, eppure profondamente inquietante e sbagliato dall’altro. Ma chi era lei per giudicare? Probabilmente era stato l’unico modo per sentirsi consolato.

L’ultimo pensiero, prima di addormentarsi, andò alla zia: chissà cosa aveva sofferto rinchiusa in quel luogo orribile. Sperò che anche lei avesse trovato alla fine un po’ di consolazione nell’amore di quell’uomo così insolito e caparbio.

«Hannah, hai visto la ragazza che è venuta a trovarci oggi? Ti somigliava tanto. Aveva la tua stessa voce, quella con cui cantavi un tempo mentre stendevi i panni sul retro di casa. Ha i tuoi capelli, una tonalità appena appena più chiara, ma pressoché lo stesso colore. Che belli… lo ricordo, sai, come brillavano al sole. Una sfumatura di rame e di bronzo fuse insieme. Quando eri sudata li scostavi con un gesto dalla fronte, come se fossi impaziente. Io non sarei stato impaziente, te li avrei tolti dagli occhi soffiando. Sarei stato così vicino da contarti le lentiggini, mi sarei preso il tempo per baciarle a una a una.»

«...»

«Hannah… mi dispiace di essere arrivato tardi quel giorno. Dovevo correre più in fretta, trovare un modo per evitare German. Non sopporto il pensiero di te sola durante le esplosioni. Se fossi arrivato prima… dimmi...»

«...»

«Se fossi arrivato in tempo... mi avresti portato con te?»

«...»

«Come mi hai baciato quella mattina… sembravi un uccelletto spaurito, così delicato. Sei sempre stata delicata, Hannah, dovevo aspettarmi che il tuo bacio sarebbe stato così fragile.»

«…»

Rise. «…so che mi avresti portato.»

Ma ella andava alla mano di quel dio,
e il passo le inceppavano le lunghe bende funebri,
incerta, mite e senza impazienza;
chiusa in sé come grembo che prepari una nascita,
senza un pensiero all’uomo innanzi a lei,
né alla via che alla vita risaliva.
Chiusa era in sé. E il suo essere morta
la riempiva come una pienezza.
Come d’oscurità e dolcezza un frutto,
era colma della sua grande morte,
così nuova che tutto le era incomprensibile.
Ella era di una verginità nuova
ed intangibile. Il suo sesso chiuso
come un giovane fiore sulla sera,
e le sue mani erano così immemori
di nozze che anche il dio che la guidava
col suo tocco infinitamente lieve,
come un contatto troppo familiare l’offendeva.
[...]Ormai era radice.

Rainer M. Rilke: Orfeo. Euridice. Ermete
(Estratto)

 

17 Dicembre, 1944
 

Le esplosioni cominciarono dalla periferia verso il centro.

Hannah capì immediatamente di cosa si trattava. Il loro rumore riempì la terra facendola tremare. Non era solo la detonazione a rimbombare nella gabbia toracica in folli vibrazioni, ma anche l’inquietante stridore delle pietre e dei mattoni che si sgretolavano sotto il loro stesso peso, piombando sulla strada. Come i frammenti delle ossa di una persona, scricchiolando venivano giù come ghiaia.

Quanto era fragile, dopotutto, il mondo.

Il fuoco e le fiamme avanzarono fino a rischiarare l’aria attorno.

Hannah non sentiva nemmeno più le grida della folla. Quando il pavimento le mancò sotto i piedi, si lasciò scivolare. Il suo corpo fu colpito tante, tante volte, ma ormai il dolore le era familiare. E quando si trovò schiacciata in un antro al buio, senza più poter muovere le gambe, capì che presto tutto avrebbe avuto fine.

Perciò attese con pazienza, chiamando a sé i volti della propria famiglia.

Sapeva che presto le voci sarebbero venute a prenderla.

Le aspettava, in trepidante attesa.


“Vola, Hannah, amore… come lo spatz”, udì la voce del padre.

 E lei spiccò il volo.

 
 

FINE


 


NOTE CONCLUSIVE

In questo racconto alcuni punti di riferimento sono reali: ho cercato di mantenere una certa correttezza storiografica. Non c’è dubbio che abbia ricamato riguardo gli aspetti logistici quali le sistemazioni del Tenente Sievers: di fatto, non so a che abbiano adibito il vecchio Campo di concentramento, dopo che avevano trasferito i detenuti a Dachau; come non so a che ora del giorno furono lanciate le bombe su Ulm: pur essendo vero che distrussero più dell’80% della città, ho piegato le tempistiche ai miei scopi.

Vorrei fare un accenno sulla struttura della storia.
Ho provato a creare un racconto ‘corale’: le Guerre senza dubbio cambiarono il volto del mondo quindi sento che ogni storia ambientata in quel periodo non può che farsi carico delle esperienze e del vissuto non tanto dei singoli ma di intere generazioni. Per questo i titoli dei capitoli sono evocativi di una storia molteplice, in cui le singole voci confluiscono, al capitolo finale, nel “canto dei morti”.
La storia del passero, simbolo di libertà, è la storia di ciascuno: vittima e carnefice, a mio avviso, hanno condiviso forme diverse di orrore. Non che voglia paragonare il dolore di coloro che sono morti nei lager alla tragedia delle persone che hanno perpetrato tanto male: dico solo che l’efferatezza è stata tanto intensa che i motivi di certe decisioni e azioni devono essere indagate molto, molto a fondo.
Ho cercato di rispettare una tragedia che non è mia scegliendo di non raccontare morbosamente la vita dei campi di concentramento: non gli avrei certo reso giustizia.

I miei personaggi sono intrecciati tra loro: si possono leggere le situazioni in parallelo o per contrapposizione. Spero di essere riuscita a mostrare almeno un pochino come ognuno di loro fosse in un certo grado ‘vittima’: non ci sono eroi - tranne forse il signor Haller che è un modello paterno positivo, sebbene non sia riuscito a proteggere la propria famiglia dalla persecuzione e dalla guerra.
I principali protagonisti sono in un certo modo ‘personificati’ (anche se in maniera tangente): Ezra è un nome di origine biblica che significa  'soccorritore, colui che aiuta', ed è chiaro il riferimento al suo ruolo, sebbene nel racconto agisca e pensi in maniera enigmatica e a tratti inquietante; Hannah significa ‘grazia’ e spero che sia riuscita a rappresentare la dignità del dolore di una creatura distrutta. È l’unico personaggio che non parla negli avvenimenti ambientati durante il conflitto: la sua voce la si ode solo quando è ancora un’innocente bambina, non segnata dagli orrori del mondo; in un certo senso, è a prezzo della sua voce che può mantenere una certa purezza interiore… purezza che ha sempre attirato Ezra, nonostante le sue tenebre. Anzi, si può dire che lui si nutrisse della sua luce.
German è un nome dal significato immediato: simbolo del peccato di tutta una nazione, la quale, in quel dato momento storico, ha dato sfogo delle principali debolezze umane costruite sulla cattiveria, l’indifferenza e la paura. Purtroppo non sono stati né saranno mai gli unici: siamo tutti potenzialmente colpevoli, a secondo degli eventi.
Faith, invece, è la fede nel futuro, di una storia che continua e non si interrompe, ma che non è detto sia destinata a commettere sempre gli errori del passato. Siamo qui per imparare.

Le linee guida del Contest mi hanno molto interessato.
Il riferimento a Sliding Doors che mostrava come sarebbe andata la vicenda in un caso o in un altro ha ispirato, in parte, la fine del mio racconto; si può infatti leggere il finale come la rappresentazione di due linee temporali opposte ma contemporaneamente presenti: Ezra, nei fatti, ha fallito nel tentativo di salvare Hannah, ma ha creato una psicosi che gli ha permesso di vivere la situazione alternativa. Dunque possiamo immaginare grossomodo tre finali:

  1. Hannah muore, Ezra vive (quello presentato);
  2. Ezra raggiunge Hannah e muoiono assieme;
  3. ​Ezra raggiunge Hannah ma entrambi si salvano.

Il fatto è che le ultime due opzioni sono allo stesso modo presenti nel racconto: Ezra dopo la morte di lei non è stato più lo stesso, quindi ha vissuto come ‘morto’ dividendo la sua vita con una donna che non c’era più; eppure, nel mondo che ha creato con la sua mente, sono entrambi ‘vivi’ e hanno condiviso la vita.
Nonostante questo intreccio, Ezra continua a qualche livello a vivere il rimorso del proprio fallimento: si interroga lui pure su quale altro finale avrebbe potuto avere la sua storia.


Ringrazio Missredlights e Shilyss per aver organizzato questo bel contest. È stato davvero stimolante. Mi auguro con tutto il cuore che la mia storia possa esservi rimasta nel cuore.

Da ultimo ringrazio tutti coloro che hanno letto questa storia e che l'hanno commentata, facendomi conoscere le loro impressioni.

PS. Non ho accennato nulla dell'estratto di poesia che ho inserito alla fine del testo perché se dovessi farlo, aprirei un capitolo di commento. Chi conosce il poema capirà con più profondità la pertinenza della poesia con la fine di questa storia, altrimenti consiglio un'attenta lettura delle parole e dei personaggi cui fa rimentimento (Orfero, Euridice, Ermete). 
Rainer Maria Rilke fu un poeta austriaco che scrisse in tedesco e che visse tra XIX e XX secolo: lo consiglio a chiunque ami il genere.

 

 
 

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