Heroes

di Mir7
(/viewuser.php?uid=433867)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'Istituto per Casi Strani ***
Capitolo 2: *** I Discendenti ***
Capitolo 3: *** Deitas ***
Capitolo 4: *** Nathan il ritardatario ***
Capitolo 5: *** The Half-Owl's Fight ***
Capitolo 6: *** La Rottura della Quiete ***
Capitolo 7: *** Prigionia ***
Capitolo 8: *** Ricongiungimento ***
Capitolo 9: *** The Last Prophecy ***
Capitolo 10: *** Il Richiamo del Potere ***
Capitolo 11: *** Destiny ***



Capitolo 1
*** L'Istituto per Casi Strani ***


[Havery Lilith]

 

La “dittatura” andava avanti da sedici anni ed eravamo sempre più isolati dal resto del mondo. Mostri di ogni genere si facevano largo negli Stati Uniti d'America portando il terrore dall'anno duemiladiciannove. Ma io, Havery Underworld una ragazza americana, non avevo mai visto un mostro in vita mia, per quel che ricordavo. Ero cresciuta in una casa famiglia a Palmdale, vicino Los Angeles, in California. Non avevo i genitori, ecco perché ero costretta a stare in un alloggio per famiglie fino ai diciotto anni, se non fosse che una persona venisse a prendermi e si incaricasse di me. Scoccarono le sette di mattina così mi alzai dal letto, accesi la luce e mi avvicinai al muro opposto. C'era una finestra all'angolo sinistro che arrivava quasi al pavimento, un foglio attaccato al muro con qualche numero e dei segni. Sulla scrivania di legno chiaro, unita ad una piccola libreria con qualche libro al suo interno, avevo lasciato la mia cara pianola la sera precedente. L'accarezzai prima di prendere una penna e appoggiarmi al muro per scrivere sul foglio attaccato ad esso. -Ancora due anni... solo altri due- dissi mentre cancellavo il numero diciotto dal mese di marzo. Era il mio compleanno e compievo sedici anni.

Il conto alla rovescia era per la libertà, per andarmene finalmente dalla casa famiglia "Owens Family, dove tutti saranno accettati e rispettati". Non sopportavo di trovarmi lì, tutta la dolcezza della Signora Bonnie Owens mi aveva iniziato a dare la nausea. Non che fossi antipatica o indisposta, ma dopo tutti quegli anni di incomprensioni cominciai a sentirmi fuori posto. Aprii l'armadio poco distante dalla porta, presi qualche indumento e partii alla volta del bagno. Mi pettinai i lunghi capelli neri lisci e mi guardai allo specchio: avevo gli occhi marroni tendenti a scurirsi ma oggi sembrava tutto normale, la pelle chiara anti-abbronzatura faceva risaltare i folti capelli che mi incorniciavano perfettamente il viso tondo. Sceglievo apposta le sette di mattina per svegliarmi, in modo da avere mezz'ora per prepararmi e uscire. Non facevo mai colazione lì, preferivo starci il meno possibile. Quando capitava di rimanere più del dovuto gli sguardi della signora Owens mi riempivano di tristezza e cercavo di mancarli. Evitavo anche l'autobus per la scuola, sceglievo di andarci a piedi per restare sola con i miei pensieri. Non che pensassi a cose molto importanti, dopotutto passavo troppo tempo all'interno della mia testa e mi chiedevo le stesse cose da sedici anni: perché sono qui? Perché a differenza di tutti io non ho mai visto un mostro? Avrò qualche problema mentale o simile? Ma soprattutto, perché non ho i genitori?

Il panorama era sempre il solito. Le nuvole coprivano il sole, le strade erano deserte, le case grigie erano chiuse e il massimo che potevi incontrare erano dei bulletti che rubavano i soldi per il pranzo. Mentre camminavo pensierosa verso la scuola una moto mi si fermò di lato, schizzandomi di fango.

-Sta più attenta, stracciona- disse il passeggero che ripartì ridendo.

Era quasi sempre così. Io non avevo amici, o i pochi con cui riuscivo a socializzare dopo un po' di tempo si allontanavano intimoriti, e venivo definita stracciona per i vestiti cupi di seconda mano che avevo. Succedeva almeno una volta al giorno che qualcuno mi sporcasse i vestiti o se la prendesse con me. Quella volta me l'ero cavata con poco, qualche goccia infondo ai jeans grigi e qualcuna sul giacchetto nero. Quando giunsi davanti alla scuola un'altra moto si fermò davanti a me, questa volta sporcandomi interamente la maglietta grigio perla.

-E' il nuovo gioco del giorno?!- esclamai coi nervi tesi.

Il guidatore scese, si tolse il casco e mi consegnò una lettera. -Oh, scusa, non volevo- disse sincero sorridendomi gentilmente.

Alzai gli occhi verso di lui e notai che era poco più alto di me, sicuramente avremo avuto la stessa età. Aveva i capelli castani ricci e i suoi occhi marrone chiaro brillavano di una strana luce. Presi la lettera e la lessi dentro di me: parlava di una scuola dove vivere, studiare, allenarsi... si chiamava Istituto Combattenti, ma le persone lo conoscevano come Istituto Speciale per "Casi Strani". Era per lo più una leggenda in quanto nessuno era mai riuscito a trovarlo. Buffo che qualcuno volesse portarmi fuori dalla casa famiglia proprio quando avrei più voluto. Restituii la lettera al ragazzo e gli voltai le spalle.

-Molto divertente. Bello scherzo- dissi indifferente mentre mi avviavo verso l'entrata del liceo.

-Ma... che?- il ragazzo mi corse dietro piuttosto confuso dalla mia reazione. -Non è uno scherzo, è vero e...- provò a dire ma io non lo lasciai finire.

Non gli avrei creduto senza una prova tangibile, era fin troppo bello per essere vero. -Non potrei comunque andarmene, bisogna avere un autorizzazione da portare alla casa famiglia- esclamai secca fissandolo negli occhi. Entrai e cercai di dimenticarmi del ragazzo e di questo fantomatico Istitituto. Andavo alla Istanet High School, situata nella parte occidentale di Palmdale. L'edificio era grigio e tetro come le case per le vie. Mi avviai alla lezione di inglese, dove passai tutto il tempo a guardare fuori dalla finestra pensando dove sarei potuta andare prima di tornare a "casa". La biblioteca cittadina sarebbe stato il luogo perfetto dove svagarmi quindi decisi di trascorrere lì il resto della mia giornata. Forse la lettera di quel ragazzo era veramente la mia opportunità, ma non aveva nessuna autorizzazione quindi è logico pensare che fosse tutto uno scherzo di cattivo gusto. Giusto? Passarono altre due ore interminabili di noia in cui continuai a riflettere sull'eventualità che il riccioluto stesse dicendo la verità.

-Ah! Devo smetterla di fissarmici!- pensai alzandomi dal banchino quando suonò la campanella dell'ora di pranzo.

Mentre mi dirigevo in mensa mi sentii inseguita, così mi girai e per poco il ragazzo della lettera non mi sbatteva contro sorpreso che lo avessi notato.

-Ancora tu? Mi sembra di averti detto che...- iniziai spazientita ma lui mi parlò sopra. -Sono andato a portare l'autorizzazione del Direttore alla tua casa famiglia. Ecco cosa mi ero dimenticato, grazie per avermelo ricordato- sorrise soddisfatto -Havery Lilith Underworld, no? Stai dagli Owens, se non ha sbagliato indirizzo- pensò ad alta voce grattandosi la mascella.

Non capii contro chi inveisse il ragazzo però aveva azzeccato in pieno il mio nome e non credo che in molti si chiamino così. Potevo fidarmi e andare via con uno sconosciuto? Beh, aveva tutti i requisiti forse dovevo approfittarne.

-Okay ma ho degli oggetti da prendere alla casa famiglia...- tentai di far perdere tempo al ragazzo ma lui mi aveva anticipata. -Tranquilla, ho già preso tutto io così partiamo subito. Prima si arriva meglio è!- lo sconosciuto mi portò verso la sua moto rossa fiamme.

Aveva un'espressione preoccupata come se non dovesse trovarsi lì. Montai dietro di lui e mi aggrappai alla sua felpa arancione. Il ragazzo non partì subito: si era bloccato per poi partire come se niente fosse ed io non ne capivo il motivo.

-Comunque io sono Elijah ma gli amici mi chiamano Burn. Piacere- il fino ad allora sconosciuto ragazzo si presentò a metà viaggio.

-Direi che è inutile che mi presenti, visto che sai già il mio nome e cognome, però puoi chiamarmi Ave- gli risposi gentilmente. Il suo soprannome mi rimase impresso per il suo essere alquanto particolare. -E perché ti chiamerebbero Burn?- domandai incuriosita. -Beh... lo vedrai presto- esclamò accelerando divertito dalla mia curiosità.

Mi strinsi di più per paura di volare via e lo sentii ridere spensierato. Forse anche per lui quello era un momento di libertà assoluta. Eravamo in mezzo alle campagne e il vento soffiava leggero in contrasto con la moto di Elijah che vi sfrecciava attraverso. Ad un tratto la strada sterrata venne circondata da un fitto bosco costituito da alti alberi verdi e l'atmosfera che si respirava era magnifica. Il vento tra i capelli mi dava la sensazione di essere finalmente autonoma di fare ciò che volevo, anche se non sapevo bene se potessi fidarmi del ragazzo. Riflettei e capii che una possibilità andava data a tutti.

In pochi avevano la possibilità di entrare, e di conseguenza uscire, nell'Istituto per Combattenti alias "per Casi Strani". Mi vennero i brividi al pensiero: forse non era una buona idea andare in quel posto, chissà cosa ci facevano. Ogni volta che lasciavo le briglie sciolte alla mia mente era la fine per me. Finivo sempre per fare ragionamenti su ragionamenti, ad intrecciare idee su idee, ritrovando difficilmente la linea di pensiero iniziale. Mi concentrai su ciò che mi circondava per distrarmi dalle mie assurde riflessioni. La strada era dritta e occupata solo da qualche ramo caduto, ma non si riusciva ad intravedere il segreto del bosco finché non mi trovai di fronte. Un'enorme struttura di mattoni rossi terracotta si ergeva davanti ai nostri occhi: aveva una forma rettangolare ed era provvista di ampie finestre. Sembrava come se qualcosa di invisibile e quasi impercettibile dividesse il luogo dal resto della vegetazione che lo circondava. Ai lati del sentiero di sassolini che conduceva all'ingresso di regale di marmo bianco si estendeva un discreto giardino ben curato ricco di aiuole, fiori e cespugli, alcuni dei quali potati in strane forme. Su un cespuglio a forma di pegaso decorato con rose viola e rosse degli uccellini bianchi cinguettavano allegri. -Benvenuta a casa Ave!- esclamò Elijah allargando le braccia quando raggiungemmo la porta. -Sei sempre appartenuta a questo posto, o forse avresti potuto avere di meglio- Elijah mi accolse nell'edificio.

Le pareti di pannelli di legno scuro con le lampade d'oro davano un'impressione di eleganza e calore familiare. Due ragazze aspettavano davanti all'orologio a pendolo di fronte all'ingresso, ai due lati le scale principali portavano ai piani superiori. Si girarono verso di noi notando il nostro arrivo e corsero subito incontro al riccioluto. La loro espressione era un misto fra l'assassino e il disperato, si notava benissimo che fossero gemelle. Il colore degli occhi e dei capelli erano diversi fra loro ma le movenze e lo sguardo erano gli stessi. La ragazza a sinistra portava i capelli neri corti e gli occhi che osservavano Elijah erano grigi con un tocco azzurro cielo, invece sua sorella teneva raccolti in una coda i capelli bruni e guardava sconvolta il riccio attraverso i suoi occhietti blu. Senza avere il tempo di replicare Elijah venne preso in ostaggio dalle gemelle.

-Burn avevi promesso che avresti giocato a tennis con noi e Joshua oggi! Ormai non accettiamo un no come risposta, quindi muoviti!- lo trascinarono sulla scalinata destra. -Ehm... fatti un giretto, questa ormai è casa tua, arrivo fra poco- venni informata poco prima che lui scomparisse oltre il corridoio.

Sbuffai. -Almeno era un compleanno diverso dagli altri- pensai stringendo il mio zainetto. Salii le scale opposte a quelle dove erano andate le due gemelle in crisi di nervi e cominciai ad esplorare. Lungo il muro, ad intervallo con le lampade, erano appesi vari dipinti: illustravano alcuni paesaggi sereni con capanne circondate da alberi, in altri c'erano dei ragazzi che duellavano, ma quelli che mi piacquero di più furono dei ritratti. Tirai fuori dal giacchetto il mio unico accessorio: una catenina a cui era legata una pietra nera. A volte giuravo di vedere delle ombre muovervisi, ma era solo la mia fantasia. La strinsi a me quando scrutai il ritratto di un signore dai capelli lunghi fino alle spalle, mossi e color nero pece. Gli occhi scuri mi fissavano intensamente come se fosse lì. Distolsi la vista e continuai quando poco più in là un altro quadro m'attirò. Era una donna dal viso piacevole dai capelli ondulati castano lucido, coperti da un copricapo da guerra oro e rosso, la quale sembrava mi stesse linciando con lo sguardo serio e sicuro. Guardando quelle tele sentii una stretta nel petto come se stessi dimenticando qualcosa, o avessi sempre dovuto saperla ma non ne avessi avuto l'occasione.

Dalle immense finestre si vedeva il giardino nel retro della residenza ed era tutt'altra cosa rispetto a quello d'ingresso. Questo non era elegante e raffinato ma un'aula d'allenamento all'aperto! C'erano campi da pallacanestro, tennis e addirittura hockey da prato per divertirsi. Oltre le aree da gioco c'era quello che assomigliava ad un teatro all'aperto di media grandezza, un muro per arrampicarsi e persino una serra nelle immediate vicinanze. Andai avanti nel corridoio ed esaminai ogni stanza con la porta aperta. C'erano studi con scaffali pieni di libri in cui mi sarei potuta perdere, ma decisi che l'avrei fatto con calma più tardi per godermi il momento. Inoltre in un'altra stanza si trovavano dei sacchi da boxe e delle protezioni bianche e nere, accompagnate da sottili bastoni di metallo, utilizzati per una disciplina a me sconosciuta. Ipotizzai di essere finita in un ambiente piuttosto strano. Poco più avanti trovai una sala al cui centro era posto un pianoforte nero circondato da ampie finestre da cui entrava un'intensa luce solare. Lo sfiorai con la punta delle dita, mi tolsi lo zaino dalle spalle, e mi misi a sedere. Toccai i tasti delicatamente, era una sensazione magnifica per me. Dagli Owens potevo disporre della mia pianola così divenni autodidatta a suonare e a cantare, due attività che amavo molto fare e mi facevano sentire viva. Fermai le mani ed iniziai a far risuonare delle note che invasero la stanza ed il corridoio. Era una canzone che non avevo sentito da nessuna parte, ma l'avevo sognata una notte e il mattino seguente continuava a ripetersi nella mia mente all'infinito. Era come se fosse sempre stata dentro di me e avesse aspettato il momento giusto per sbocciare. Era una melodia sconosciuta ma al tempo stesso familiare.

-Long ago... inside a distant memory, there is a voice that says: “Do you believe a world of happy endings?” Even when the road seems long, every breath you take will lead you closer to a special place within your Neverever...- poi mi bloccai con la sensazione di essere osservata. Restai con le mani sul pianoforte, ma mi voltai verso la porta cautamente. Era Elijah in compagnia di qualcuno che non avevo mai visto. Un uomo vicino alla quarantina ben vestito mi scrutava dalla testa ai piedi con un espressione incredula.

-Forse non avrei dovuto fare come se fossi a casa mia e mettermi a suonare- pensai cercando di capire se l'espressione dell'uomo fosse negativa o meno.

Mi alzai di scatto iniziando a giocare con la mia collana per tranquillizzarmi, così ricambiai l'atteggiamento dello sconosciuto e lo esaminai. Aveva i capelli biondi sistemati accuratamente con il gel e i suoi occhi verdi prato luccicavano quasi lucidi. La giacca e i pantaloni blu esaltavano la sua figura slanciata.

-Scusi l'intrusione. Non volevo disturbare, mi sono lasciata prendere la mano- mi decisi a dire appoggiando una mano sulla cassa del pianoforte.

Notai che lui era come immobilizzato dai suoi pensieri, sembrava quasi non aver sentito le mie parole. Gli lanciai uno sguardo indagatore.

-Mi chiamo Havery Lilith Underworld, ma può chiamarmi Ave se vuole, signore- dissi avvicinandomi cercando di mostrare un lieve sorriso.

-Capisci ora perché sono uscito? Stiamo bene, non abbiamo corso alcun pericolo- esclamò Elijah sicuro di essere dalla parte della ragione.

Concordai con lui anche se non capivo cosa intendesse. Sapevo solo che lì forse sarei stata a casa e avrei conosciuto il mio passato, anche se non ci speravo troppo, avevo imparato che era meglio non illudersi.

-Non chiamarmi signore, ti prego- si sbloccò l'uomo dopo aver lanciato uno sguardo severo verso il ragazzo.

-Io sono il Direttore di questo posto, controllo e cerco di aiutare tutti. Mi chiamo Allen Moore, puoi venire da me per qualsiasi problema- continuò lui sorridendomi gentile.

Dalla reazione avuta quando mi ero voltata verso di lui capii che mi stava nascondendo qualcosa. Nel suo sguardo si celava un segreto importante ma decisi di accontentarmi per il momento.

-Io e te dobbiamo parlare Elijah. Accompagna la nuova arrivata in una camera, trovami Nathan e venite nel mio ufficio- concluse lanciando un ultimo sguardo serio al riccioluto ed uno amichevole verso di me per poi lasciarci.

-Allora... ti piace qui?- cominciò Elijah visto che dopo mezzo tragitto non ero ancora intenzionata a spiccicare parola. La stanza dove lui mi portò era sui toni del rosa, dal chiaro allo scuro e mi dava decisamente il voltastomaco.

-Che ne pensi?- insistette il ragazzo, ma ancora non ottenne risposta.

Sinceramente non sapevo ancora cosa pensare di quel posto e l'unica parola che mi veniva in mente era “strano”. Misi il mio zainetto grigio sulla sedia posta davanti alla scrivania e cominciai a tirar fuori i vari oggetti: qualche libro, i miei pochi indumenti, un diario e una penna. Al suo interno Elijah era riuscito persino a mettere la mia amata pianola. Straordinario! La scrivania era di mogano scuro e liscio, mi piacque molto quel particolare tanto che l'accarezzai per sentirne la superficie.

-Inoltre sei nuova, quindi ti serve una guida. A te va bene se la faccio io?- Elijah mi si avvicinò sorridente e speranzoso di ricoprire tale incarico.

Alzai le spalle: come se cambiasse qualcosa. Il moro mi osservò sistemare i libri sullo scaffale, sempre di legno scuro, tutto in assoluto silenzio. Non avevo gran voglia di parlare e inoltre non sapevo cosa dire, visto che dovevo ancora immagazzinare tutto quello che avevo visto e sentito. Le parole di Elijah mi riecheggiarono nella mente. “Sei sempre appartenuta a questo posto, o forse avresti potuto avere addirittura di meglio.” Cosa voleva dire? Perché questa realtà mi era stata negata? Sembrava conoscere molti più fatti di me di quanti ne conoscessi io. Lo guardai di sfuggita e notai che mi stava ancora osservando. -Grazie per quello che fai per me- mi decisi a parlare lasciando da parte la timidezza. Elijah sobbalzò. Probabilmente non si aspettava di sentire la mia voce.

-È un piacere, dopotutto...- si fermò come se stesse per dire qualcosa di proibito.

Lo guardai con aria interrogativa ma ero qui da troppo poco tempo perché potessero raccontarmi veramente come stessero le cose.

-Devo andare a cercare Nathan, ci si vede dopo! Sentiti libera di fare quello che vuoi- disse Elijah riprendendosi ed uscendo dalla stanza subito dopo.

Sola, finalmente sola. Quando avevo iniziato il giro di perlustrazione mi ero sempre sentita osservata, forse quella sensazione me la davano i ritratti, mentre nella mia nuova camera il muro era spoglio. Al lato sinistro della stanza c'era un letto matrimoniale a baldacchino di legno di quercia un po' rovinato, i tessuti era color rosa antico. Accanto alla porta c'era un cassettone verniciato di verde, nero e giallo, molto creativo l'ultimo proprietario, dopo la scrivania si trovava la porta del bagno privato.

L'ultima volta che Elijah mi aveva detto di fare quello che volevo mi ero sentita quasi una criminale dopo aver toccato il pianoforte. Decisi comunque di tornare alla biblioteca, dall'altra parte dell'edificio, almeno lì non mi sarei sentita fuori luogo. Prima non me ne ero accorta ma una custode girovagava per la stanza tenendo d'occhio tutti. Evitai il suo sguardo ed iniziai a far scorrere il mio lungo le file di libri. Ne trovai uno piuttosto interessante di nome “Oblivion” il cui interno, non appena lo aprii, rivelò il suo segreto: un quadernino nero alquanto anonimo era stato scritto quasi del tutto con una calligrafia in corsivo delicata ma scomposta. Sembrava essere un diario e la prima data indicata era il ventinove giugno duemilaquindici. Il primo pensiero che mi apparve nella mente fu che in quel periodo i mostri non comandavano sugli uomini, quindi avrei potuto leggere di come fosse la vita prima del duemiladiciannove. L'avrei tenuto come un tesoro all'interno del libro in cui l'avevo trovato in modo che nessuno sapesse della mia scoperta, o almeno così mi piaceva pensarla. Feci in tempo a leggere “il risveglio è stato stremante” quando un braccio mi circondò le spalle ed io chiusi il libro d'istinto.

-Eccoti qui! Ti piace leggere vedo- esclamò a voce alta una voce maschile alle mie spalle. Quando mi voltai notai che era un po' più alto di Elijah e per alcuni tratti mi ricordava il Direttore dell'Istituto: il colore degli occhi e l'espressione erano gli stessi. I capelli neri sistemati alla perfezione erano talmente lisci che sembravano morbidi come la seta. Aveva un buon profumo di... sole, se la luce avesse un odore lui ne possedeva gli aromi. Dietro di lui sbucò una vecchietta dai capelli grigi legati in una crocchia che puntava un righello verso il ragazzo.

-Non si parla ad alta voce, quante volte te l'avrò detto Nathan?!- esordì la signora che di tutto punto iniziò ad inseguire il ragazzo brandendo la sua arma scolastica.

Lui mi prese per mano e corremmo fuori dalla biblioteca, strinsi il libro a me e mi lasciai trasportare. Ci fermammo davanti ad una porta a vetro che portava al vasto giardino.

-Amo troppo quella donna!- esclamò lui ridendo non appena ci fermammo.

Ogni situazione che vivevo in questo posto mi rendeva confusa e il mio viso doveva averlo lasciava intuire.

-Oh giusto! Io sono Nathan Moore, il figlio del Direttore, e quella di poco fa è la nostra fantastica bibliotecaria Teresa. Hai potuto assistere alla dimostrazione del nostro amore- si presentò lui mettendosi una mano sul petto.

Mi fece l'occhiolino e mi invitò ad uscire fuori con un gesto della mano. Ora che lo osservavo meglio, vidi che i suoi occhi erano verdi come l'erba fresca al mattino, molto più belli visti sotto questa luce. Si mise le mani nelle tasche della felpa blu e camminammo fra i campi di gioco e allenamento. Tutti i ragazzi si voltarono verso di noi, puntando gli occhi su Nathan. Lui gli sorrise radioso salutandoli con la mano e sembrava molto a suo agio, come se ci fosse abituato. Svoltammo a destra fra un campo da pallacanestro e uno di tiro a segno. Nathan si avvicinò al mio orecchio.

-Ti svelo un segreto: non capisco perché mi fissino sempre tutti- mi sussurrò divertito per poi continuare a sorridere quando si allontanò.

Questa sua affermazione mi fece capire che forse lui non era così sicuro di sé quanto appariva.

-Allora! Sai perché ti trovi qui?- Nathan tornò a parlare ad alta voce adesso che la bibliotecaria era lontana.

La risposta giusta sicuramente non era perché uno sconosciuto mi ci ha portata, così scossi la testa. Ho sempre saputo e pensato di essere diversa dagli altri e sono stata giudicata “bizzarra” a volte, ma non capivo perché io potessi essere adatta all'Istituto per “Casi Strani”.

-Vuoi dirmi che non ti è mai successo niente di... ehm... speciale? O di singolare?- mi guardò incuriosito senza guardare dove stessimo andando.

Riflettei seria e mi venne in mente una scena precisa: attraverso lo specchio vidi i miei occhi cambiare da marroni a neri, uscii dalla stanza grigia e le persone intorno a me indietreggiavano come impauriti, emanavo un'aura oscura. Non avevo mai pensato effettivamente a quel giorno, perché presumevo fosse normale che la gente si allontanasse da me, dopotutto ero solo un irritante orfana. Presi come un'illusione o uno scherzo ottico il cambio di colore dell'iride. Raccontai un po' scettica l'episodio a Nathan. Non mi rispose ma tornò a guardare l'orizzonte alla ricerca di qualcosa o di qualcuno, poi sorrise.

-Sei proprio tu...- sospirò abbassando la testa.

Non capii a cosa si riferisse, una delle tante frasi che ancora non comprendevo, e forse non avrei dovuto neanche sentirlo. Ci avvicinammo al campo da tennis dove quattro persone stavano giocando. Al lato sinistro c'erano un ragazzo dai capelli rossi e la gemella dai capelli corti mentre al lato destro sostavano Elijah e l'altra gemella.

-Ragazzi, guardate chi vi ho portato!- esclamò Nathan allargando le braccia nella mia direzione per segnalare la mia presenza.

Come se un pallino nero e grigio non si notasse in mezzo a tutti quei colori. I tennisti si fermarono e vennero verso di noi.

-Sei la nuova arrivata!- dissero all'unisono le due ragazze.

Da vicino realizzai che erano più piccole di me. Erano molto belle ma i loro occhi non lasciavano trasparire ingenuità. Davano l'impressione che fosse difficile averla vinta con loro, bastava pensare alla sgridata che Elijah si era subito poco prima dalle due. Mi scrutarono con i loro sguardi indagatori.

-Cosa ha di speciale lei?- chiese la gemella dai capelli corti incrociando le braccia piuttosto dubbiosa.

-Sembri una ragazza piuttosto ordinaria- confermò l'altra gemella mettendosi le mani sui fianchi. Nathan fece tacere subito i loro dubbi e le tranquillizzò. -

Non fatele il terzo grado, è già abbastanza confusa. Lo scopriremo presto di cosa è capace- si mise tra di loro e le abbracciò sorridente.

Annuii poco convinta; la giornata stava diventando sempre più strana. Cosa dovrei saper fare secondo loro? Giocare a tennis? Ballare? Tirare a segno? Pettinare le bambole? Non ne avevo la più pallida idea. La ragazza con la coda fu la prima a convincersi delle parole di Nathan.

-Non vedo l'ora! Oh, che maleducate, non ci siamo ancora presentate. Io sono Margot Wilson e lei è mia gemella Alice- allungò la mano verso di me per stringermela entusiasta. La sorella invece non era molto sicura, e si limitò ad osservarmi. Forse non era molto loquace con le persone che non conosceva. La capivo perfettamente: essere catapultata in una realtà a me sconosciuta mi disorientava, mi stordiva, senza contare la mia timidezza con gli estranei. Elijah sapeva come far sciogliere quel blocco di ghiaccio che era diventata la sua amica, trovando anche una scusa per poter smettere di giocare a tennis.

-Hey, guardate chi sta arrivando! Wolfie, perché non vieni qui a giocare a tennis?- gridò il riccio. Ci voltammo verso un ragazzo molto alto che puntava verso di noi.

Aveva i capelli talmente biondi da poter apparire bianchi e i suoi occhi brillavano di un viola molto particolare. Indossava indumenti sportivi bianchi adatti per il tennis. Alice lo notò subito e guardò allarmata la sorella. Lei la rassicurò con lo sguardo, sembravano capirsi senza dover parlare. Il ragazzo passò in rassegna tutti noi con i suoi occhi attenti e si fermò su di me.

-Lei è nuova- dichiarò tranquillo.

-Sì, è arrivata proprio oggi!- annunciò Elijah felice.

-Mi fa piacere- il biondo storse il naso guardandomi dall'alto verso il basso, sembrava che non gli ispirassi molta simpatia. -Allora ti insegnerò subito una cosa. Ricordati che qui il nome è tutto un programma- esclamò con un sorriso scaltro.

Non ebbi il tempo di rifletterci su che Wolfie si concentrò sulle gemelle per giocare a tennis. Nathan si mise a fare l'arbitro lasciando Elijah e me da soli.

-Ti va di fare il giro dei laboratori?- mi chiese lui con un'espressione calma nel volto. Sembrò essere in pace con il mondo intero. Annuii ma subito dopo mille dubbi iniziarono a balenarmi nella testa. Sia la conversazione con le gemelle che quella con Wolfie mi avevano confuso ulteriormente le idee, era miracoloso che non mi fosse ancora venuto il mal di testa. Sperai che Elijah volesse aiutarmi a capire la situazione.

-Cosa voleva dire con “il nome è tutto un programma”?- tentai interrompendo la linea dei miei pensieri incasinati.

Stavamo ancora camminando nel giardino, se così si poteva chiamare, quando svoltammo improvvisamente a sinistra e passammo sotto ad un loggiato ricco di colonne decorate finemente.

-Sopra di noi c'è l'ufficio del Direttore, se avrai mai bisogno lui si troverà lì. Ha una magnifica vetrata per osservare che tutto vada bene e che non ci succeda nulla di grave- il riccioluto continuò e sembrò non avermi sentito. – In ogni caso, Wolfie voleva soltanto dire che qui alcuni di noi hanno dei soprannomi legati strettamente a ciò che sono, quindi il nomignolo non è un caso- mi spiegò gentilmente.

-Come il tuo, Burn?- domandai curiosa continuando ad avanzare.

Elijah annuì semplicemente facendo sobbalzare i suoi capelli. Nonostante questo suo chiarimento non riuscivo a capire su cosa si basassero certi soprannomi. Forse Elijah era stato soprannominato Burn perché non era capace di cucinare e bruciava tutto? Non ne avevo idea.

-Tranquilla, ti farò vedere presto di cosa sto parlando- mi sorrise lui notando la mia espressione confusa che faceva percepire il mio continuo disordine mentale. -Siamo arrivati- annunciò spostandosi leggermente verso destra per farmi vedere meglio.

Dietro il loggiato vi erano tre porte aperte che esponevano le stanze alla luce del sole. -Nella prima alla tua sinistra c'è il club di pittura, di fianco c'è il club di sartoria, mentre in fondo c'è quello di cucina- cominciò ad indicarmi le varie stanze con il dito indice. -Il capannone alla nostra destra, invece, include gli amanti della falegnameria e della meccanica. Io ne faccio parte- esclamò fiero mettendosi le mani sui fianchi.

Era una struttura alta, interamente in legno, con qualche finestra e decorata con addobbi ed ornamenti in legno, probabilmente creati dai partecipanti. Elijah riprese a camminare, tornammo nel giardino interno dirigendoci nella parte meridionale. Riconobbi l'anfiteatro e lo spazio per tiro con a segno che avevo visto dal secondo piano dell'edificio.

-Le lezioni di scherma si tengono al piano terra dell'edificio, mentre le lezioni di musica sono al secondo piano. Direi che sia evidente dove ci si allena a tiro con l'arco- rise lui passando di fianco ad alcuni ragazzi impegnati.

Tiro con l'arco? Un'altra cosa da aggiungere alla lista delle mie incomprensioni del giorno. Decisi di lasciare perdere sicura che prima o poi mi avrebbe spiegato cos'era questo tiro con l'arco di cui parlava.

-Nell'anfiteatro si svolgono le attività del gruppo di recitazione, nonostante a volte vengano interrotti da guerrieri in vena di combattere. Nella serra si tengono le lezioni di giardinaggio e botanica...- si grattò la testa come se si stesse dimenticando qualcosa. Io avrei già perso il filo del discorso se fossi stata in lui. Tutte quelle informazioni... era pressoché normale dimenticarsi qualcosa, non si poteva fargliene un torto. -Ah giusto! La lezione di storia si tiene dove preferisce l'insegnante. Li conoscerai presto, saranno contenti di conoscerti! Per quanto riguarda i pasti, le prime volte ti accompagnerò io, okay? Così è sicuro che non ti perdi, spero- si prese in giro ridendo.

Trovavo Elijah un ragazzo interessante, in un certo senso. Per quanto potessi conoscerlo dopo un solo giorno, sentivo di avere uno strano legame, come se fossimo collegati da qualcosa. Era troppo presto per comprendere tutto quello che avevo provato in quel giorno. Dovevo solo aspettare che qualcuno mi dicesse la verità, che qualcuno mi spiegasse perché mi trovavo lì. Io... avevo il presentimento che loro sapessero molto di più su di me, rispetto a quanto ne sapessi io stessa.

 

[Elijah]

 

-Ti giuro, amico, non capisco cosa mi stia succedendo- sbuffai buttandomi sul letto.

Poco distante Nathan stava giocando con il mini canestro attaccato al muro sinistro di camera nostra. Lui alzò un sopracciglio interrogativo continuando i suoi tiri. Misi le mani fra i capelli confuso. -Tu sai che io adoro dormire, no?- gli chiesi nonostante conoscessi la risposta.

-Sei alquanto strano, l'ho sempre pensato. Passi da voler dormire per ore ad essere la persona più attiva dell'Istituto- Nathan confermò ciò che stavo pensando.

-Ecco, il problema è che mi è venuto in mente di alzarmi all'alba per Ave- ammisi sconvolto.

Nathan smise di giocare e la pallina, ormai lanciata contro il muro, gli colpì la faccia incredula al ritorno. -Oh miei dei, questa cosa è sconvolgente- esclamò il mio amico scosso quasi quanto me.

-Non so cosa mi stia capitando, è strano- mi misi a sedere appoggiandomi alla testiera del letto incrociando le braccia al petto.

L'avevo portata all'Istituto perché sentivo che lei mi avrebbe capito, avendo quella grande mancanza in comune. Quindi perché mi sentivo così... diverso? Avevo riempito il vuoto dentro di me? Impossibile, quello spettava ai miei genitori. Mi avevano lasciato ai Moore, che al tempo aspettavano la nascita di Nathan, ad un mese dalla mia nascita. Gli volevo bene come se fossero la mia famiglia, ma non avrebbero mai potuto sostituire i miei veri genitori. Allen provava a farmeli conoscere tramite foto e parlandomene. Nathan era come un fratello per me, nonostante a volte fossi geloso della sua fortuna: crescere con la propria famiglia. Sapevo dell'esistenza di Ave grazie alle chiacchierate fra i coniugi Moore. Pensai fosse una buona idea, anche se rischiosa. Avevo rovistato negli archivi di Allen per prendere i documenti di rilascio della casa famiglia e cercare il fascicolo al nome di Havery Lilith... così avrei saputo dove trovarla. Reagii impulsivamente ed il giorno dopo mi precipitai di nascosto a Palmdale, circa quaranta minuti di distanza dall'Istituto. Era chiaro come il sole che Allen mi avrebbe scoperto e non gli sarebbe andata a genio la mia idea.

Il piano iniziale era tenerla nascosta fra gli umani per altri due anni, quando ormai il suo odore non si sarebbe più potuto mimetizzare fra la gente comune. Non mi importava più. Da quando avevo iniziato a sentire parlare di lei, percepivo come un legame tra di noi, di certo non mi sarei immaginato quel tipo di legame. Raccontai ciò che mi frullava nella testa a Nathan, era normale confidarci tra di noi e darci consigli, soprattutto se riguardavano le ragazze. Lui spesso mi rivelava di come non comprendesse perché tante ragazze gli si dichiarassero, perché si sentiva un ragazzo semplice, quasi banale, e gli importava di far impressione solo su una in particolare.

-Tu segui i tuoi sentimenti e andrà tutto bene- mi consigliò semplicemente Nathan mettendosi a sedere sul suo letto.

-Passi troppo tempo con Margot e sua madre- commentai tirandogli una botta con il mio cuscino foderato di rosso.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** I Discendenti ***


[Havery Lilith]

 

Uscii dalla casa famiglia pensando di fare una passeggiata nei dintorni. Erano quasi le dieci di sera, era sconsigliato uscire a quell'ora ma io non ci facevo mai molta attenzione a quella “regola”. I mostri avrebbero iniziato la pattuglia del vicinato per le dieci e mezza, ormai avevo imparato i loro spostamenti, dovevo solo stare attenta a rientrare prima che loro apparissero. Tutto intorno a me era cupo, la luce fioca dei lampioni illuminava a malapena la strada. Giravo vicino alla casa-famiglia solo per schiarirmi le idee o per rilassarmi. Il buio era una delle poche cose che mi faceva sentire a casa, non mi faceva mai sentire di troppo o un'estranea come a scuola. Cos'altro riusciva a farmi sentire bene? Accarezzare un libro, sentirne le pagine o canticchiare tra me e me. La signora Owen provò a comprarmi una pianola quando avevo dieci anni, perché capì che tornavo serena come un tempo con la musica.

Eh già, da piccola ero sempre sorridente e lei non perdeva occasione per ricordarmelo. Non riusciva ad interpretare il mio cambiamento drastico durante i primi anni delle scuole elementari. Ero una bambina solare che amava stare in compagnia e secondo me nel profondo lo ero tutt'ora, bisognava solo riuscire a sciogliermi. Era vero, ero diversa. Il comportamento dei miei compagni di scuola nei miei confronti mi portò all'isolamento, la scoperta dell'assenza della figura centrale dei genitori e il vuoto che ne derivò mi creò molti problemi. Avevo solo sei anni... ma dopotutto i bambini sanno essere cattivi. Ti additano come persona da evitare e così rimane. Non che io abbia fatto molto per modificare la mia condizione, ero troppo presa a pensare ai genitori che non avevo mai conosciuto, a pormi domande troppo grandi per la mia tenera età, per ribellarmi alle gerarchie scolastiche. Così rimasi l'orfana sfigata sempre vestita di colori tristi e abiti di seconda mano.

La signora Owen non mi abbandonò in quel periodo, provò a risollevarmi dalla mia caduta, però al tempo stesso cercava di rendermi diversa, ciò che io non ero. Secondo lei le bambine dovevano essere eleganti, gentili, dolci, ma io non riuscivo ad esternare nulla di tutto ciò. Voleva convincermi che il sogno di ogni femmina fosse essere una principessa mostrandomi i cartoni animati dove le ragazze in pericolo venivano salvate dai principi. Non ho mai capito quelle storie. Perché dovevano per forza essere salvate? Non potevano farlo da sole? Forse non mi ero mai trovata in una situazione simile e non potevo capirlo, in ogni caso la vita da principessa non mi ispirò mai.

Da quando avevo dieci anni, anche la signora Owen iniziò ad allontanarsi da me. Sembrava avere paura di me, ma io non ne capivo il motivo. Evitava il mio sguardo e mi parlava il minimo indispensabile. Pensai di averle fatto qualcosa di male, ma non ebbi mai la risposta. Ero sempre più incompresa e l'unica persona con cui potevo sfogarmi dei problemi a scuola si nascondeva come se fossi un mostro, eppure non ero io quella che ogni sera pattugliava la zona armata minacciando chiunque di rinchiudersi in casa. Probabilmente non saprò mai perché la signora Owen abbia iniziato ad odiarmi. Mi strinsi nella mia felpa grigia e mi decisi a tornare indietro, iniziava a fare uno strano freddo nonostante fosse quasi primavera. Quando arrivai vicino all'ingresso della casa famiglia, vidi due persone davanti alla porta, così mi nascosi dietro un muro per osservarli. Erano un uomo e una donna ricoperti da mantelli scuri. Lui era all'erta e scrutava la strada.

-Dobbiamo fare in fretta- disse alla donna. -Qui avrà la protezione di cui ha bisogno- concluse. Mi sporsi verso la strada per vedere meglio, non riuscivo a capire di cosa stesse parlando. Poi notai che la donna teneva qualcosa sotto il mantello...o meglio qualcuno.

-E' difficile!- esclamò lei stringendo ciò che teneva tra le braccia. Tolse le fasce dalla cima del fagotto e spuntarono fuori tanti ciuffi neri. Quello era un neonato! La donna baciò sulla fronte l'infante e si voltò verso l'uomo. -Dobbiamo proprio?- supplicò lei con le lacrime agli occhi.

-Ti prego, non renderlo più difficile di quel che è, tesoro- l'uomo abbassò la guardia e diede un bacio al neonato. Una grossa ombra spuntò dietro l'uomo pronta per attaccarlo, ma lui fu più svelto e da sotto il suo mantello sguainò una spada nera splendente uccidendola in poco tempo. -E' per il suo bene, lo sai, così avrà una possibilità- questa volta l'uomo non si fece distrarre e continuò a scrutare l'orizzonte.

Lo vidi asciugarsi il volto mentre la donna si voltava verso la porta della casa famiglia, si tolse una collana e la mise al neonato. Provò a cantare una melodia dolce dal suono familiare, ma le parole le si strozzarono in gola. -Piccola mia, tu vivrai una bella vita. Non dovrai sopportare le persecuzioni che sopportiamo noi ogni giorno. Crescerai grande e forte e forse ci rincontreremo- disse lei piangendo al neonato.

Diede un ultimo bacio a sua figlia e mise il fagotto sul portico della casa famiglia. Bussò più volte alla porta per richiamare all'attenzione di chi era all'interno e si allontanò con l'uomo, ma non andarono via del tutto non finché il bebè non venne portato al sicuro. In seguito mi svegliai. -Era solo un sogno?- pensai. Sembrava così reale... era come se fossi sempre rimasta laggiù. Qualcuno picchiettò alla porta e mi distrasse dai miei pensieri. -Ave, sono Elijah- rispose la persona oltre la soglia.

-Aspetta qualche secondo ed esco- lo avvertii.

Misi i soliti pantaloni grigi e una felpa nera con la scritta “Some people just need a high-five. In the face. With a chair.” di color bianco. Mi piacevano le maglie divertenti come questa, infatti non comprendevo perché non avessi amici a scuola. Quando aprii la porta vidi un Elijah solare alle prime luci dell'alba. Eh sì, il sole stava iniziando a sorgere, non me ne ero resa conto. Perché mi era venuto a chiamare così presto? Ma non mi cambiava niente visto che i miei sogni non mi lasciavano dormire.

-Di cosa hai bisogno?- gli chiesi appoggiata alla porta.

-Bella felpa, è simpatica- si complimentò lui.

-Grazie- sapevo di avere il senso dell'umorismo, ma nessuno mi aveva mai dato la possibilità di farlo notare.

-In ogni caso, hai detto di voler sapere perché mi chiamano Burn- disse.

-Quindi?- domandai curiosa.

-Te lo voglio mostrare, a quest'ora rende di più- mi sorrise e mi condusse in giardino. Andammo nel campo usato per il tiro con l'arco. Elijah vi sistemò dei bersagli a forma di uomo, invece dei soliti cerchi per il tiro a bersaglio. L'aria fresca del mattino mi pizzicava la pelle, era una sensazione piacevole. Elijah si posizionò di fronte al bersaglio, rilassò i muscoli e si voltò verso di me, ma in lui c'era qualcosa di diverso. I suoi occhi marroni si erano trasformati, adesso erano rossi come il fuoco e brillavano di una luce singolare. Mi facevano uno strano effetto, mi toglievano il respiro.

-Stai a vedere- era sempre Elijah che, con il suo dolce sorriso, pose la mia attenzione sulle sue mani. Le strinse a pugno e, quando le riaprì, vi era il fuoco. Sospirai tra l'entusiasta e il meravigliata. Lanciò la fiamma verso il suo obbiettivo che s'incendiò immediatamente. Un pensiero allarmante mi balenò nella mente: e adesso come lo spegniamo? Elijah sembrò leggermi il pensiero. Mi si avvicinò, i suoi occhi erano tornati marroni come sempre.

-Non ti preoccupare- mi disse calmo. -Posso spegnerlo io- dove poco prima c'era il fuoco adesso delle bolle d'acqua galleggiavano in aria.

Rimasi ancora più sorpresa. Spense il manichino in poco tempo poi mi incitò a sedermi su una panchina poco distante dal campo d'addestramento. -Tu riesci a fare tutto questo?- domanda banale dato che avevo appena assistito ai suoi poteri.

Lui non sembrò pensare che la mia domanda fosse superficiale, anzi l'accolse volentieri. -Certo, è grazie ai miei genitori- mi sorrise.

-Tu li hai potuti conoscere?- chiesi curiosa. Nonostante lui mi fosse venuto a prendere da una casa famiglia, non avevamo parlato dell'argomento “genitori”.

-No, avevo circa un mese quando mi hanno lasciato qui...- mi guardò negli occhi -...posso capire benissimo quello che provi. Se hai bisogno di parlare di qualsiasi cosa, io ci sono- dichiarò lui senza staccare il sguardo dal mio. Ripensai al sogno lucido avuto poco prima, forse Elijah poteva aiutarmi a capire cosa significasse. Decisi di raccontarglielo cercando di non tralasciare nessun dettaglio.

-Mh...- iniziò lui dubbioso. -Potresti aver vissuto il momento del tuo abbandono dal punto di vista esterno. Come ti sei sentita ad osservare la scena?- mi domandò.

-Ero triste e preoccupata per la coppia, ma allo stesso tempo ero incuriosita da loro- riflettei sincera. -Direi che è positiva come reazione. Significa che non sei arrabbiata con loro per le loro azioni e sei curiosa di conoscerli, secondo me, ma non lo so, potrei sbagliarmi- mi sorrise dolcemente portandosi una mano alla testa. I riccioli castani di Elijah splendevano ramati alla luce del sole che si mostrava timido nel cielo. Erano ben rifiniti, ogni boccolo era perfetto, nell'insieme davano sia un senso di disordine completo sia di delicata armonia. Doveva essere difficile sistemarseli, forse a lui non interessava affatto come appariva o come gli stessero i capelli. Io li trovai belli e particolari, mi venne voglia di toccarli per sentirne la morbidezza ma placai quello stupido desiderio.

-Penso tu abbia ragione- dissi infine. -Grazie- gli sorrisi timidamente.

Lo vidi arrestarsi per qualche secondo senza capirne il motivo. Avevo detto o fatto qualcosa di sbagliato? Questo mio pensiero sparì subito quando Elijah tornò a sorridermi luminoso. -Quando vuoi-.

 

[Elijah]

 

Accompagnai Ave alla mensa dell'Istituto. Si trovava al piano terra alla destra dell'ingresso. Era una sala grande in grado di contenere fino a cinquanta persone, o almeno così diceva Thomas, il padre delle gemelle. Lui aveva progettato l'intera struttura seguendo il gusto suo e di Allen, anche se ogni tanto si poteva notare lo zampino della moglie, alla quale raramente sapeva dire di no. Le pietanze venivano cucinate dal club di cucina e dai ragazzi volontari. Ogni anno mi imponevo di imparare almeno le basi e ogni volta mi tiravo indietro, eppure non avevo un avversione verso il cibo. Forse ero più predisposto a mangiarlo piuttosto che a cucinarlo. La mensa era il luogo più luminoso del complesso, non solo per le grandi finestre che davano sul giardino. Era color crema e bianco, decorata da colonne corinzie a cui erano stati appesi dei drappeggi che alternavano i colori di pilastro in pilastro formando un arcobaleno. L'ambiente dava la sensazione di essere in una sala da ballo pronta per la festa, in realtà era stata idea di Isabelle di rallegrare così la zona.

Ave ne rimase ammaliata, passò gran parte del tempo a guardarsi intorno, esaminando ogni dettaglio per non farsi scappare niente. In fondo alla sala i volontari servivano i ragazzi che si presentavano davanti al tavolo del buffet. Prendemmo la colazione e andammo a sederci ad un tavolo libero. Iniziai a mangiare la mia pizza coi frutti di mare e Nathan arrivò posando il suo vassoio di fronte a me mentre borbottava qualcosa. Ave ed io lo guardammo con aria interrogativa.

-Cosa ti turba?- gli chiese Ave curiosa.

-Mi sembra di essere preso in giro- rispose il mio amico buttandosi sulle sue uova strapazzate. -Perché?- borbottai con la bocca piena.

-La gente continua a sorridermi e a guardarmi in maniera strana, anche se non faccio niente o non li conosco, sembra che mi stiano prendendo in giro- si lamentò Nathan.

-Ah, quindi il problema è che le persone ti sorridono- dissi fingendo comprensione.

Havery si trattenne dal ridere. -Già... queste sì che sono le seccature- commentò lei voltandosi verso di me. -Le persone che ti sorridono amichevolmente sono le peggiori- continuai. Ave ed io ci guardammo e ci sbellicammo dalle risate.

Nathan appoggiò il suo mento al palmo della mano sconsolato. -Bravi, ridete pure di me- esclamò lui guardandoci male. Qualcuno mise una mano sulla spalla destra di Nathan consolandolo. -Tranquillo, fratellino, è normale- era Crystal, la sorella maggiore del mio migliore amico.

Avevano solo un anno di differenza ma lei lo trattava come se ce ne fossero molti di più. Forse perché l'esuberanza di Nathan era l'opposto della pacatezza di Crystal. Lei preferiva la compostezza e il rigore al caos in cui viveva suo fratello, infatti trovava pace nel cucito e nel creare abiti dal nulla come quello che indossava quella mattina. Aveva una camicetta lilla decorata con bottoni dorati inserita all'interno di una gonna bianca. I capelli biondi come il grano le scendevano lungo il corpo senza imperfezioni. Era risaputo che lei e il fratello erano i due ragazzi più belli dell'Istituto, non servivano classifiche.

Mi ricordai di quando, a dieci anni, ebbi una cotta per lei. Nathan aveva reagito alla notizia piuttosto disgustato, dopotutto non vedeva nella sorella ciò che vedevano gli altri, così come non trovava in sé stesso l'affascinante ragazzo per cui le ragazze sbavavano. Fu la tipica cotta da bambini: mi piaceva perché era bella e c'ero cresciuto insieme. Fu semplice per me capire che quello che stavo provando era insignificante quanto un granello di sabbia, durò solo qualche settimana. Niente in confronto a cosa stavo iniziando a provare adesso. L'adolescenza faceva proprio brutti scherzi.

-Da quando sarebbe normale, Crystal?- gli domandò Nathan. Lei alzò gli occhi ambrati al cielo. -È naturale fare un certo effetto quando tuo padre ha ricevuto la benedizione di Afrodite, sai?- commentò lei -Non dico che tutti devono cadere ai nostri piedi, ma non mi sorprendo dei sorrisi carini-. Si accorse di Ave al mio fianco, che la stava guardando confusa, e diresse la sua attenzione su di lei. -Tu saresti?- le chiese secca.

-Havery...- le rispose dubbiosa e intimidita.

-Cosa c'è che non va? Sei indecisa sul tuo nome? Elijah hai portato una rintronata qui?- disse Crystal tutto d'un fiato. Come faceva a sapere che avevo portato io Ave all'Istituto?

-Ah...l'hai saputo- risi imbarazzato tornando a mangiare.

-Sì, papà me l'ha raccontato- esclamò scontata.

-Credo sia confusa perché hai detto “benedizione di Afrodite”- gli fece notare Nathan continuando ad ingurgitare le uova.

-Ah, giusto. La censura nel mondo di fuori- si ricordò Crystal.

-Chi sarebbe questa “Afrodite”?- provò a chiedere Havery. Sembrava in dubbio se risolvere questa sua incognita o meno. Si doveva sentire un pesce fuor d'acqua in quella conversazione. -Afrodite è la dea greca della bellezza, dell'amore, della fertilità e...- stava spiegando Crystal, ma Nathan dietro di lei le faceva il verso facendoci scoppiare a ridere. Lei si unì al nostro divertimento, anche se durò poco. -Guardate che è una cosa seria- la bionda incrociò le braccia al petto. -All'esterno non insegnano storia da anni, le vicende dei miti sono state dimenticate. Si ricordano di noi solo se devono consegnarci al governo. Lei è cresciuta là fuori senza saper niente di sé, vi sembra bello?- sgridò suo fratello e me per aver preso alla leggera il problema di Havery.

-È vero, se io non avessi saputo di derivare dagli dei e mi fossi sentito strano, forse sarei stato emarginato- rifletté Nathan.

-È così che è andata?- domandai ad Ave. Lei annuì lievemente con la testa chinata verso il suo toast con la nutella. Alzò le spalle indifferente. -Diciamo che facevo il conto alla rovescia per i miei diciotto anni, per la mia libertà da quel posto. Sì, mi ero accorta di essere diversa ma pensavo fosse tutto dentro la mia testa. Spesso, negli ultimi anni, sembrava che le altre persone avessero paura di me, ero sempre più sola...- sospirò - ...ma ora sono qui- addentò la sua colazione.

-Nella nostra gabbia di matti!- esclamò entusiasta Nathan. Crystal gli tirò una botta in testa. -Sii serio per una buona volta- sbottò lei linciandolo con lo sguardo. Ci mettemmo a ridere; tra di loro era costantemente così, forse fra fratelli era normale. -Ti aiuteremo noi a capire chi sei, tranquilla- sorrisi gentile a Ave.

 

[Havery Lilith]

 

Nathan vide il manichino a forma d'uomo che Elijah aveva bruciato all'alba e sembrava sul punto di chiedere qualcosa, tuttavia il riccio lo precedette. -Ho mostrato ad Ave i miei poteri- spiegò velocemente come per paura che il figlio del Direttore potesse dire qualcosa di inappropriato.

-Avete avuto un incontro focoso eh Burn?- annuì Nathan con uno sguardo malizioso.

Elijah lo spinse via poco divertito dal suo scherzo. -Dai, scherzi a parte, perché non insegni ad Ave a tirare con l'arco visto che ti piace tanto? Il tiro con l'arco ovviamente- disse il ragazzo dai capelli neri come il carbone, facendo l'occhiolino all'amico.

Ebbi un tuffo al cuore, chissà a cosa stava pensando. Elijah non gli rispose ed andò a prendere il necessario per la lezione. L'insegnante raggiunse il campo di tiro, era il signor Moore. Non indossava il suo solito completo elegante: portava una canottiera bianca che gli risaltava i muscoli delle braccia, dei pantaloni verdi mimetici e delle scarpe da trekking marroni. Se ne stava in disparte ad osservare i suoi allievi, concentrato su i loro movimenti.

Nathan mi raccontò che quella era la disciplina preferita da suo padre, nonché quella in cui eccelleva, per questo teneva particolarmente ad allenare lui stesso i ragazzi. Nathan ammise di cavarsela abbastanza bene, ma non si riteneva un così bravo tiratore. Fece per imbracciare l'arco, ma si bloccò voltandosi verso il capanno delle armi.

-All'inizio potrebbe essere un po' teso ma tu non farci caso, lasciati guidare da lui e piano piano si scioglierà- mi disse senza voltarsi.

Nelle sue parole riuscii a percepire l'affetto fraterno che nutriva per Elijah. Non era preoccupato, in lui vedevo speranza ed irrequietezza per qualcosa a me ignoto. Sperai di non deludere le sue aspettative. Mi tolsi dalla mente quei pensieri e mi concentrai sul bersaglio. Nero, azzurro, rosso e giallo, quei colori mi misero una certa ansia. Non ho mai avuto una buona mira, quindi ipotizzai che c'avrei messo un po' di tempo a centrarlo. Mi augurai che Elijah fosse abbastanza paziente da sopportarlo. Qualcuno mi mise una mano sulla spalla. -Eccomi- mi voltai, era Elijah.

Teneva sulla spalla sinistra una faretra ricca di ramoscelli rifiniti e appuntiti ad un'estremità, chiamati frecce, e mi porse un arco di legno. Era color caramello ed al centro della curva erano legate delle funi azzurre decorative. Provai a tenerlo fra le mani e mi risultò alquanto estraneo. Elijah posò la faretra per terra e qualche freccia uscì fuori. -Vieni, ti mostro come si tiene- mi consolò il riccioluto.

Mi lasciò l'arco fra le mani e mi fece girare verso il cerchio multicolore. Mise le sue mani sopra le mie, avvolgendo il mio corpo col suo. La mia schiena era appoggiata al suo petto, riuscivo a percepire il suo respiro. Tese la corda con la mia mano destra.

-Il modo in cui tenevi l'arco era molto buffo, come se non ne avessi mai visto uno in vita tua- disse divertito, ma non sembrava una presa in giro, il suo tono di voce era sempre molto dolce. Ingoiai la saliva inesistente e cercai di rispondere.

-Infatti è così- fu il meglio che riuscii ad inventarmi.

-Questo è il modo in cui devi tenerlo- continuò lui sicuro -ora ti faccio vedere la posizione giusta. Rimani così- si staccò da me e osservò la disposizione del mio corpo.

Qualcosa sembrava non andargli a genio. Si toccò i ricci ben delineati dubbioso. Mi diede qualche colpo sulle gambe per farmele spostare nella posizione desiderata, poi tornò dietro la mia schiena. Mise una mano sul mio addome e l'altra sulla spalla sinistra. Mi drizzò il busto per renderlo teso, come se già non lo fossi, e mi fece riprendere la postura da tiro, mettendomi fra le dita una freccia leggera. Mi lasciò andare e cercai di non muovermi.

-Prova a tirare- mi incitò poggiando le mani sui suoi fianchi.

Non ero molto convinta, sopratutto perché non ero mentalmente concentrata sull'obiettivo. Feci un respiro profondo e fissai il mio sguardo sui cerchi. -Dai, almeno il cerchio nero posso riuscire a prenderlo- mi incoraggiai.

Mollai la presa dura sulla freccia ed essa fendette l'aria dividendola in due. Il ramoscello si stava facendo strada verso il bersaglio designato. Rilassai le braccia e guardai il mio proposito andare in fumo. La freccia non sfiorò neanche il bersaglio, invece cadde a terra conficcandosi fra l'erba davanti ai cerchi di vimini. Sospirai un po' rattristata.

-Sei adorabile- Elijah mi sorrise dolcemente accarezzandomi i capelli.

Sgranai gli occhi e sentii il mio viso avvampare. Distolsi lo sguardo verso il casotto delle armi. Vidi il signor Moore appoggiato ad esso che ci osservava divertito. Forse il mio modo di tirare con l'arco lo rallegrava oppure gli erano tornati alla mente ricordi di quando lui era alle prime armi, se mai ci fosse stato.

-Proviamo a farlo insieme- disse Elijah prendendo un'altra freccia dalla faretra.

Annuii ancora con lo sguardo perso in altri luoghi che non fossero Elijah. Le sue braccia mi accolsero in un abbraccio delicato al fine di poter tirare con il suo aiuto. Abbassò il suo volto al mio, adesso eravamo guancia contro guancia. La sua pelle era soffice e sapeva di salmastro, salato e dolce allo stesso tempo, un aroma delicato che su di lui stava alla perfezione. Tutto ciò rendeva ancora più difficile il mio obiettivo finale.

-Cerca di immedesimarti nella freccia, devi farla andare dove vuoi tu- mi bisbigliò piano. -Sii la freccia, in un certo senso- affermò tornando in posizione.

Tendemmo l'arco e per Elijah fu facile mirare al bersaglio. Dopo qualche secondo la freccia era già stata incoccata e si librava velocemente. Non bisognava andare a controllare per esserne certi: avevamo appena centrato il bersaglio! Sprizzai di felicità, mollai l'arco a terra e lo abbracciai legando le mie braccia intorno al suo collo. Lui contraccambiò e mi strinse forte fra le sue braccia muscolose. L'odore del mare mi invase e mi rilassò dopo tutta la tensione a cui ero stata sottoposta. Ci misi un po' a rendermi conto di ciò che avevo fatto impulsivamente. Mi sentii arrossire tutto d'un colpo, sciolsi l'abbraccio e mi voltai dall'altra parte per non far notare il mio colorito. Vidi di sfuggita Nathan, di fianco a noi, che aveva appena centrato il cerchio più piccolo e lontano e alzò un pollice sorridendo ad Elijah.

Il signor Moore arrivò salvandomi da una situazione imbarazzante. -Okay, potrebbe non essere ciò per cui sei portata ma non mi offendo, tranquilla. Sai, mi ricordi molto...- sembrava sul punto di dire qualcosa d'importante ma si zittì. -Perché non provi qualche colpo di spada? Ho un buon presentimento- disse invece.

Mise una mano sulla spalla di suo figlio e si rivolse a lui. -Accompagnatela dalla mamma all'anfiteatro, sarà contenta di avere una nuova allieva. Vi raggiungerò appena avrò finito la lezione-.

L'anfiteatro era una favola: era in pietra color crema un po' logora per l'uso, fra i vari scalini cresceva qualche ciuffo d'erba verde, mentre al centro il terreno, battuto dalla moltitudine di passi già percorsi su di esso, si mischiava alle erbacce. Nathan, Elijah ed io avevamo riportato l'attrezzatura del tiro con l'arco, prendendo al suo posto tre spade uguali. A differenza dell'arco, la spada pesava infinitamente di più, iniziai a chiedermi come sarei riuscita a brandirla senza che mi cadesse o senza farmi male. Nathan sventolò una mano verso qualcuno al fulcro dell'arena. Lo chiamò con l'appellativo di “mamma”, quindi quella era la...

Una donna ci raggiunse in un batter d'occhio. Teneva i capelli neri come il petrolio in uno chignon decorato con un fiocco viola e oro, nonostante qualche ciuffo ribelle fosse sfuggito al suo controllo. Indossava dei leggings neri fino all'altezza del ginocchio ed una canottiera viola aderente. Il suo sguardo ambrato mi ispezionò da cima a fondo. Avevo qualcosa di strano? Non le piaceva il mio abbigliamento? Eppure indossavo i miei soliti abiti neri e grigi che mettevo da tutta una vita e nessuno ne aveva mai fatto un dramma.

-Ciao, io sono Gloria. Moglie del direttore e madre di questo ragazzo privo di controllo- si presentò lei. Nathan di tutta risposta fece un inchino alla madre divertito. -Spero tu abbia conosciuto anche la mia bambina, Crystal- continuò la donna sorridendomi.

Chiamare Crystal bambina mi sembrava un po' fuori luogo: anche se l'avevo incontrata solo una volta mi dava l'impressione di essere una ragazza cosciente, con la testa a posto e molto combattiva, non era più una bambina.

-Oh scusami, non ti ho lasciato presentare, come ti chiami?- mi domandò lei.

-Havery Lilith, signora, ma può chiamarmi Ave- dissi quasi intimidita notando che portava una spada al suo fianco. Dava la sensazione di essere una guerriera forte, disciplinata e che non si arrendeva di fronte a nulla. Doveva mettere molta passione nel suo insegnamento, glielo si leggeva negli occhi: combattere l'emozionava. Riuscii a trasmettermi il suo stesso entusiasmo e anch'io non vidi l'ora di iniziare, nonostante il peso della spada mi stesse uccidendo.

-Okay Ave, prima regola: non chiamarmi signora, mi fai sentire vecchia, chiamami semplicemente Gloria- mi sorrise gentilmente e si voltò verso il centro dell'area di allenamento.

Ci invitò a seguirla con un gesto della mano. Vi erano circa una decina di persone, alcune sedute sui gradini dell'anfiteatro mentre altre impegnate in uno scontro a coppie. Riconobbi le due gemelle del giorno prima, Alice e Margot, sedute sulle gradinate a chiacchierare amabilmente tra di loro. La prima ci notò e fece segno alla seconda di guardare dalla nostra parte. Margot si animò subito: si mise in piedi sistemandosi la tuta rossa e stringendo la coda di cavallo bruna. Ci corsero incontro, Alice un po' meno gioiosa della sorella.

-Oggi avrete una nuova compagna- annunciò Gloria. -Ti insegnerò le basi ma in seguito dovrai seguire il tuo cuore, chiaro?-. Annuii poco convinta.

-Potrei provare io con lei- si offrì Alice. Portava con sé una lunga katana decorata da strisce viola e il modo in cui la brandiva mi mise una certa inquietudine. Sembrava conoscere bene la sua arma prediletta e non vedeva l'ora di mettere in pratica le sue conoscenze.

-Alice, Ave è una principiante. Non mi sembra il caso che tu la faccia a pezzetti- commentò Elijah.

La ragazza ritrasse la spada afflitta. -Oggi doveva esserci la lezione di recitazione qui, ma nostra mamma ha avuto un contrattempo e non è potuta venire, per questo siamo qui- spiegò Alice. Margot sembrava essere in un altro mondo. Stava osservando di soppiatto Nathan da quando eravamo entrati nel suo campo visivo, ma il ragazzo sembrava non accorgersene.

-E tu, Sunshine, perché sei qui?- finalmente Margot parlò.

Nathan si sistemò i capelli ribelli. -Sono un osservatore, starò a guardare e basta-.

Sunshine? Un altro soprannome? Ero incuriosita ma la bruna non mi diede il tempo di chiedere perché sparì con Nathan sulle gradinate. Alice sembrava intenzionata a rimanere con noi ma, appena vide entrare Wolfie nell'arena, la vidi sul punto di correre verso la sorella a nascondersi.

Elijah la bloccò. -Sai, potresti provare a parlarci con Henrick- consigliò lui.

La ragazza deglutì incerta e si avviò con una camminata fin troppo meccanica verso il ragazzo biondo platino.

Elijah sembrò leggermi nel pensiero. -Le cose qui stanno così da un bel po', ma qui nessuno sembra svegliarsi- mi spiegò. -Dopotutto che c'è di male ad amare? Che male c'è se in un mondo governato dall'odio, l'amore sopravvive? E poi, se prima o poi dovessimo rischiare la vita, non sarebbe meglio buttarsi e provare ad amare prima che sia troppo tardi piuttosto che rimpiangerlo per sempre?- guardava il cielo mentre esprimeva questi pensieri, più a sé stesso che a me. -Scusami, non farci caso, a volte parlo a vanvera- Elijah si grattò la testa sorridendomi dolcemente. -Nathan ti darà la risposta che cerchi, non preoccuparti-.

Gloria mi insegnò le basi dell'arte della spada, da come tenere l'arma a come menare fendenti. Secondo lei avevo un talento naturale, una predisposizione per la spada. Era molto contenta di avere un'allieva molto svelta ad imparare, cosa che non si poteva dire per le mie abilità nel tiro con l'arco. Elijah rimase ad osservarmi per tutto il tempo e notai, con un filo d'orgoglio, che era meravigliato dalle mie capacità. Utilizzando la spada mi sentivo libera, come se stessi danzando. Potevo aver messo le ali, aver iniziato a svolazzare e non me ne sarei accorta minimamente.

-Adesso che ti sei riscaldata con quei manichini ed hai fatto pratica da principiante con me, perché non provi seriamente contro qualcuno? Non vincerai, ma almeno sarà uno scontro corpo a corpo realistico. Elijah, ti va di fare da cavia?- Gloria si voltò verso di lui in attesa di una risposta.

Elijah sembrava fosse in un mondo tutto suo e fosse stato appena riportato alla realtà dalla voce di Gloria. Scosse la testa rintontito e ci raggiunse brandendo la sua spada.

-Ti avviso, non sarò gentile con te solo perché è la tua prima lezione- la sua affermazione contrastava con il sorriso dolce che portava sul viso, ma queste due cose unite mi fecero arrossire. C'era qualcosa nel suo sorriso... però non era il momento giusto per pensarci. Gli sorrisi di rimando spavalda.

-Ed io non ti risparmierò, userò tutta la forza che ho- gli risposi sicura.

-Bene, vorrà dire che ci divertiremo- il sorriso di Elijah si amplificò soddisfatto.

Si vedeva lontano un miglio che, nonostante la spada non fosse l'arma prediletta del ragazzo, lui adorava mettersi in gioco. Sprizzava energia da tutti i pori anche stando immobile. Era talmente concentrato sul suo obiettivo da apparire come un'altra persona. Avvertii una sicurezza ed una fierezza che non avevo notato nella lezione precedente: aveva un che di... divino.

Gloria prese il posto di Elijah sulle gradinate, poco distante da suo figlio. -Quando volete- ci fece segno l'insegnante.

I primi colpi furono deboli da entrambe le parti, per capire gli atteggiamenti dell'avversario. L'adrenalina mi saliva ad ogni fendente: cominciavamo a fare sul serio. Elijah volteggiò all'indietro per evitare un colpo e da sotto la sua maglietta arancione apparve un ciondolo. Non mi ero resa conto fino a quel momento che portasse una catenina d'oro al collo. Mi distrassi per un attimo incuriosita dal ciondolo ed Elijah ne approfittò per andare all'attacco. Fortunatamente parai il colpo con la lama della spada. Sfruttai il contraccolpo della difesa per buttarlo a terra. Non gli diedi il tempo di alzarsi che gli ero sopra bloccandolo. Sfiorai il suo collo con la lama della spada.

-Chi doveva essere gentile con chi?- gli domandai ironica.

Un leggero rossore si posò sulle guance di Elijah. -Tu con me, a quanto pare- rise divertito.

Si sentì ridere qualcuno dalle gradinate. -Hey, voi due laggiù! Siete in pubblico, non fate certe cose- ci urlò sarcastico Nathan.

Ora che l'adrenalina dell'incontro era svanita, mi resi conto di essere sopra Elijah placcandolo con il mio corpo, ed fu troppo tardi perché non avvampassi. Scattai in piedi alla velocità della luce ed aiutai Elijah a fare altrettanto.

-Complimenti, grande risultato!- esclamò Gloria venendoci incontro con il signor Moore.

Un attimo... lui quand'era arrivato? Ero talmente concentrata nel combattimento da non essermi resa conto del suo arrivo.

-Sai, tesoro, io quasi quasi me lo aspettavo- sorrise compiaciuto il signor Moore.

Elijah lo guardò offeso ma si disinteressò subito del commento. -Accetto la sconfitta, so comunque tirare con l'arco- si confortò.

-Sì ma, come dico sempre a mio marito, il tiro con l'arco è per femminucce- Gloria fece la linguaccia al signor Moore. Si levò un coro di “Hey!” offesi da parte di Elijah, il signor Moore e Nathan di sottofondo, che sfociò in una grossa risata.

 

Decisi di intraprendere una passeggiata serale senza una meta accompagnata dai mille pensieri che mi frullavano nella testa. Quella mattina Nathan aveva indirettamente accennato al fatto che derivasse dagli dei, chiunque lì era per una parte dio? Riflettei sui poteri di Elijah e l'aura valorosa che emanava quando mostrava il suo lato “speciale”. Pensai avesse un che di divino... poteva essere così. Aveva detto di dovere i suoi poteri ai suoi genitori, voleva dire che coloro che l'avevano lasciato all'Istituto erano degli dei? Però i signori Moore non erano delle divinità, forse Crystal e Nathan erano dei lontani discendenti di questi “dei” di cui parlavano.

Ed io? Io cos'ero? Qual'era la mia storia? Discendevo da qualcuno d'importante che mi aveva donato dei poteri? Non potevo essere finita lì per caso... i dubbi mi stavano facendo esplodere la testa. Sprofondata nei miei pensieri arrivai al centro dell'anfiteatro. Lì trovai qualcuno seduto per terra ad osservare il cielo stellato. Elijah creava piccoli mulinelli d'acqua con la punta delle dita pensieroso.

-Hey- lo salutai mettendomi accanto a lui -Anche tu tormentato dai tuoi pensieri?- gli chiesi interrompendo la linea delle sue riflessioni. L'acqua del mulinello cadde a terra di colpo.

Elijah sembrava appena uscito da uno stato d'ipnosi. -Ciao, Ave. Scusami ero sovrappensiero- mi sorrise.

La catenina che avevo notato quello stesso pomeriggio era appoggiata delicatamente sul suo petto, ma non riuscivo a vedere bene cosa fosse il ciondolo che vi era attaccato.

-Che cos'è?- gli domandai indicandogli il pendente.

Elijah abbassò lo sguardo verso la sua collana. -Oh, era di mia madre- disse tenendolo sul palmo della mano. Lo osservò con un sorriso affettuoso. Mi avvicinai a lui per vedere di cosa si trattasse. Accese una piccola fiammella con la mano libera per consentirmi di esaminarlo bene. Era un delfino interamente azzurro con dei dettagli blu e d'oro.

-Me lo mise al collo prima di lasciarmi, era molto importante per lei- mi spiegò lui tenendo lo sguardo sul ciondolo.

Ripensai alla collana che tenevo al collo, l'unico oggetto che mi collegava ai miei genitori. La stringevo fra le mani nel momento del bisogno, quando avevo bisogno di forza e sostegno. La mostrai ad Elijah. -Questa è la sola cosa che era con me, oltre ad una copertina, quando i miei genitori mi hanno abbandonata alla casa-famiglia. L'ho sempre portata con me per percepirli vicini, nella speranza di ricavarci qualcosa un giorno- gli confidai timidamente.

-Potrebbe significare qualcosa- esclamò emozionato il riccioluto.

-È solo una pietra- gli dissi demoralizzata.

-No, tutto ha un suo perché- Elijah mi sorrise dolcemente rincuorandomi.

Il suo sorriso doveva avere poteri curativi, riusciva a smuovermi, poteva riscaldarmi l'anima, nel vero senso della parola visto che mi fece arrossire. Mi distrassi dal suo viso e cambiai discorso.

-I tuoi genitori sono delle divinità?- gli chiesi curiosa, cercando di far ordine nelle mie idee. Elijah scosse la testa. -No, no. Loro sono semidei, come Allen e Gloria. Vuol dire che loro sono frutto dell'amore, o di un incontro mentale, fra gli Dei e gli umani- mi spiegò pacato.

-Oh, capisco. Credo...- dissi dubbiosa. -Quindi derivate tutti dagli dei?- domandai insicura di aver capito bene.

-Deriviamo tutti dall'Olimpo, sì. Io discendo da Poseidone, il Dio del mare, dei terremoti e dei maremoti. Sai com'è uno dei tre Pezzi Grossi- rise scherzoso. Chi erano Pezzi Grossi? Ero sempre più confusa da questa nuova realtà. -E da Efesto, il dio del fuoco, delle fucine eccetera eccetera...- continuò finché non notò la mia perplessità. -Oh, giusto. I tre Pezzi Grossi sono gli Dei più importanti e più forti, vale a dire Zeus, Poseidone ed Ade. Zeus è considerato come il Re dell'Olimpo, il Dio dei cieli, Mr. Fulmini e Saette insomma. Ade, invece, è il Signore degli Inferi, dei morti e delle ombre. Ah, penso ti interessi sapere che l'Ade, o Inferi, è il Regno dei Morti, dove tutte le anime finiscono quando muoiono- mi chiarì Elijah gentilmente.

Annuii annotando mentalmente queste nuove nozioni. Elijah mi raccontò che il signor Moore era figlio di Apollo, il Dio del Sole e di tante altre cose, mentre Gloria era figlia di Ermes, il messaggero degli Dei. I genitori delle gemelle, che avrei conosciuto presto secondo Elijah, erano figli di Atena, la Dea della saggezza, e di Afrodite. Erano troppe informazioni da immagazzinare in una volta sola, soprattutto quando il mio cervello iniziava a spengersi. Sbadigliai mettendomi una mano davanti alla bocca e chiusi leggermente gli occhi. La stanchezza derivata dalla dura giornata iniziava a farsi sentire.

-Dev'essere stato un giorno tosto per te che non sei abituata a certe attività. Forza, andiamo a dormire- esclamò Elijah incitandomi ad alzarmi. Arrivata in stanza mi cambiai, quando fui sul punto di infilarmi nel letto vidi il diario, che avevo trovato in biblioteca, sul comodino. Lo fissai per qualche secondo e mi convinsi a prenderlo. Lessi una pagina giusto per placare la mia curiosità ed affrettare il sonno.

29/06/2015

Caro diario,

il risveglio è stato stremante. Non riuscivo a sentire nessuna parte del corpo. Ero sdraiata su un lettino dell'infermeria del campo e Nico dormiva con la testa appoggiata al materasso. Pensavo di essere lì da qualche ora, ma l'entusiasmo del mio ragazzo e dei miei amici mi fece capire che non era così. A quanto pare ero in coma da una settimana. Chissà quante cose mi ero persa in quel lasso di tempo! Sicuramente avrò molto da recuperare...Non ho molto da dire adesso in quanto devo ancora riprendermi dalla missione fallita. Nessun figlio di Apollo vuole farmi uscire di qui! Almeno spero di poter andare ai fuochi del 4 luglio.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Deitas ***


[Havery Lilith]

 

Fu difficile abituarsi ad una routine di sport, attività creative, storia e combattimenti. Nessuno voleva ancora dirmi chi fossi, dovevo scoprirlo da sola e per questo ero libera di partecipare alle lezioni che preferivo; tranne storia che era obbligatoria per chiunque. Secondo gli adulti dovevamo aggrapparci alla storia come fonte di salvezza ed era per chi aveva smesso di credere in qualcosa di puro e sereno che il mondo si era riversato nel caos.

Negli anni, l'umanità aveva perso la fede verso la giustizia e verso qualsiasi essere riconoscessero come il proprio Dio. L'uomo, sin dall'antichità, aveva bisogno di credere in un'entità che fosse al di sopra di tutto, che gli portasse gioia e speranza,ma quando questa fede iniziò ad affievolirsi l'uomo si abbandonò al vuoto e perse di vista l'importante diventando egoista e pensando solo a sé stesso. Per questo motivo al mondo esistevano molti mercennaius, cioè esseri umani che lavoravano per i mostri che gli garantivano la vita come compenso per i loro impieghi. I mercennaius potevano essere dei cacciatori di Deitas o semplici governatori guidati dai mostri. Quest'ultimi, per quanto potesse sembrare strano, erano solo persone impaurite che potesse essere fatto loro del male e quindi vendevano la loro integrità ai mostri. I cacciatori di Deitas erano per lo più i peggiori criminali della società, liberi di sbizzarrirsi nel cercare e torturare i cosiddetti "figli del potere”. Non erano mai soli perché un mostro, anche se debole, li accompagnava sempre. I bracconieri non riuscirebbero a riconoscere un Deitas senza di essi neanche con tutto l'impegno del mondo.

Il sangue dei figli del potere aveva un odore e un sapore diverso, dal modesto umano, che solo i mostri erano in grado di percepire. Questo perché nel loro sangue scorreva l'essenza delle divinità, ciò che il caos generatosi cercava di distruggere. La maggior parte delle vittime non sapevano di essere dei bersagli dei cacciatori. Era ciò che ripetevano sempre alla lezione di storia, per ricordarci che fuori dall'Istituto senza scudi saremmo stati in pericolo perché nelle nostre vene scorreva l'essenza delle divinità.

Ognuno di noi aveva in corpo il sangue di un Dio o di ben due divinità. Il professore di storia era Thomas Wilson, il padre delle gemelle, e in occasione della mia prima lezione mi si presentò anche sua moglie Isabelle. Entrambi erano quasi commossi dalla mia presenza all'Istituto e mi dispiacque non riuscire a concepire i loro sentimenti e ricambiare. Il professor Thomas era un uomo di media altezza dai capelli bruni e gli occhi grigi, all'apparenza sembrava che gli abiti eleganti da insegnante di teoria fossero di troppo come se fosse più portato per l'azione; questo particolare mi ricordò sua figlia Alice.

In compenso Isabelle era totalmente a suo agio nel suo tubino rosso corallo e aveva un portamento sicuro. I capelli neri le scendevano lungo la schiena liberi e senza imperfezioni e i suoi occhi blu, curiosi come quelli di Margot, mi esaminarono attentamente. Chissà a cosa stava pensando. Preferii non concentrarmi su questo particolare sapendo che la mia mente non si sarebbe salvata facilmente in tal caso. Inoltre mi insegnarono a capire e controllare i miei poteri, nonostante non sapessi bene quali fossero.

-Siete sicuri che io abbia qualche strambo potere?- chiesi dubbiosa e spaventata da quel che sarebbe successo. Il gruppo di persone intorno a me mi osservò come se avessi fatto una domanda scontata.

-Tu stessa mi hai raccontato della strana aurea che ti circonda a volte, qualcosa ci deve essere- esclamò Nathan incrociando le braccia.

-Ti aiuteremo noi a conoscere e controllare i tuoi poteri- mi tranquillizzò il signor Moore in piedi di fianco a suo figlio. Erano veramente due gocce d'acqua; più li guardavo e più mi domandavo se fosse possibile generare una fotocopia quasi esatta di se stessi, anche se caratterialmente avevano delle differenze.

-Forza Ave!- urlò Margot con tutta la voce che possedeva. Era seduta sul gradino più basso dell'anfiteatro fra sua sorella Alice e Gloria, che erano infinitamente più pacate rispetto a lei. -Ovviamente ci vuole concentrazione per utilizzarli al meglio- iniziò il signor Moore mostrandomi il palmo della mano destra. Una tenue luce solare si sprigionò da esso e risaltò sul completo blu che portava.

-Per potersene servire quando si vuole- continuò indicando Wolfie alla sua sinistra. Qualche secondo dopo al posto del ragazzo dai capelli biondo platino c'era un lupo gigante dal manto bianco come la neve. I suoi occhi viola scuro mi scrutarono con un accenno altezzoso prima di andarsi ad accucciare vicino ad Alice, che gli accarezzò delicatamente la pelliccia. Quando si trattava di coccolare un animale sembrava meno timida e più sicura di sé.

-E con il grado di energia che desideri- questa volta accennò a suo figlio. Nathan esibì un palmo luminoso come quello del signor Moore, mentre con l'altra mano emanò un forte raggio di luce dritto verso Elijah, poco distante da me. Ecco perché lo chiamavano Sunshine! Ora che il mistero era risolto mi sentivo più in pace con me stessa. Elijah fu accecato dal fascio solare lanciatogli e automaticamente contrattaccò sprigionando un potente vortice d'acqua che bagnò completamente il suo migliore amico.

-No, i miei capelli!- esclamò Nathan toccandoseli disperato.

-Direi che te l'hanno mostrato perfettamente come controllare la potenza- rise il signor Moore incrociando le braccia. Sunshine si spostò dal gruppo e tornò in un attimo.

-Così impari- dichiarò imbracciando una pompa verde acqua in direzione del riccioluto. Qualche goccia lo sfiorò prima che lui ricambiasse con altrettanta acqua. La mia lezione si stava trasformando in una battaglia: non ne saremmo usciti vivi.

-Nathan finiscila di fare la primadonna. Tu e tuo padre avete questa assurda mania dei capelli che non ha senso- lo sgridò Gloria dalle gradinate.

Il signor Moore si voltò verso sua moglie alzando un sopracciglio. -Però i miei capelli ti affascinano- replicò lui passandosi una mano tra la chioma bionda precisamente sistemata. Gloria alzò gli occhi al cielo e non gli rispose. Si comportavano proprio come una “vecchia” coppia sposata, almeno per quel che ne sapevo dai libri che avevo letto. Nathan iniziò ad asciugarsi grazie al calore proveniente dalla luce della sua mano, alternando gli sguardi truci riservati a sua madre e ad Elijah.

-Adesso concentrati sulle emozioni che hai provato quando hai notato quella strana aurea. Nel momento in cui riconoscerai quelle sensazioni, raccoglile, comprimi la forza e indirizzala in un punto- mi insegnò il signor Moore posato. Annuii chiudendo gli occhi per concentrarmi.

Pensai alla mia vita nella casa famiglia, a come mi sentivo incompresa lì e a scuola, ai genitori che non avevo mai conosciuto, al governo che ci costringeva a vivere rintanati. Mi venne improvvisamente voglia di distruggerli, di fargliela pagare per la vita che mi avevano fatto passare. Riaprii gli occhi e notai un alone nero che mi circondava.

-Wo- esclamarono all'unisono Nathan ed Elijah sorpresi.

Provai a dirigere queste mie emozioni dritte di fronte a me. Qualunque cosa sarebbe successa il signor Moore si sarebbe spostato, no? Piano piano si formarono delle crepe nel terreno, finché non si aprirono completamente in una voragine che terminò ai piedi del signor Moore.

-Non pensavo potesse succedermi un'altra volta- sospirò lui sollevato.

Abbassai lo sguardo verso la pietra che portavo al collo e notai che risplendeva oscura come la pece.

-Ave, ti si sono scuriti gli occhi, sono diventati neri- mi informò Elijah avvicinandosi.

Mi erano rimaste impresse le parole del Direttore. Gli era già successo? Voleva dire che conosceva qualcuno con questi poteri. Sapeva che ci sarei riuscita, per questo mi aveva spronata a farlo. Lui sapeva qualcosa su i miei genitori, me lo sentivo. Strinsi i pugni. Perché non mi raccontava niente? Perché mi nascondeva una verità così importante? La mia rabbia aumentò e come conseguenza la terra sotto di noi tremò appena. Elijah mi prese delicatamente il braccio destro. -Calmati, Ave- disse sicuro di sé.

 

[Allen]

 

Iniziai a sfogliare l'album fotografico che tenevo nell'ultimo cassetto della mia scrivania e mi feci trasportare dai ricordi. Non mi capacitavo ancora che fossero passati così tanti anni dall'ultima volta che li avevo visti. I bambini erano cresciuti velocemente e senza odio, proprio come mi auguravo. Si volevano bene come fratelli ed io non potevo esserne più felice. Sperai che il mio lavoro stesse servendo a qualcosa ma, nonostante tutto, vedevo la vita scorrermi davanti agli occhi, come se non stessi facendo abbastanza, come se mancasse qualcosa. Ogni mattino dal mio ufficio osservavo i ragazzi giocare ed allenarsi e mi chiedevo cos'altro avrei potuto fare per loro, per migliorare la loro condizione e la loro vita. Non c'erano molte alternative visto che il mondo esterno era estremamente pericoloso per loro. Gli avevo preparati per la sopravvivenza e il combattimento, ma non volevo fargli rischiare.

Qualcuno bussò alla porta e mi distrasse dai miei pensieri. Chiusi immediatamente l'album e lo rimisi al suo posto.

-Avanti- incitai la persona all'esterno ad entrare.

Intravidi una chioma di capelli neri dietro la porta semi aperta. Una ragazza l'aprì timidamente e quando fu dentro la chiuse piano alle sue spalle. Feci un respiro profondo.

-Havery, di cosa hai bisogno?- le rivolsi un sorriso gentile.

-Informazioni. So che lei sa qualcosa su di me, però me lo nasconde- disse schietta la ragazza. Non era affatto stupida, dovevo aspettarmelo. Prima o poi avrei dovuto dirle la verità, ma forse era meglio farla rimanere all'oscuro il più possibile per proteggerla.

-Ti racconterò una storia, Havery. Starà a te interpretarla e capirla come meglio credi- decisi che le avrei raccontato qualcosa, senza lasciare troppi indizi.

Meno saprà, meno rischierà. A lei sembrò andare bene questo barlume di verità nascosta. Le feci segno di sedersi su una delle poltroncine verde scuro davanti alla scrivania. Mi misi davanti a lei appoggiandomi alla scrivania ed iniziai a raccontare.

-Molto tempo fa un trio di ragazzi, due ragazze e un ragazzo che avevano circa la tua età, avevano una missione da compiere e una profezia da far avverare. Ci fu una battaglia e i tre ragazzi subirono innumerevoli colpi. Il ragazzo era molto ferito ma i soccorsi arrivarono in fretta e la sua amata lo portò in salvo. Una delle due ragazze era stremata quanto l'altro ma guarì più velocemente grazie alla possibilità di curarsi con l'acqua. L'altra ragazza, invece, subì una botta e una perdita di sangue talmente ingente da rimanere in coma per due settimane, nonostante fosse stata salvata dal suo prode cavaliere. Grazie a quest'impresa ottennero una pace di circa quattro o cinque anni, ma fu una tregua fittizia perché era solo servita ai nemici per mettere in azione il loro ambizioso piano-.

Havery ascoltò, interessata e attenta, ogni parola che uscì dalla mia bocca. Era incuriosita dal racconto e aveva molte domande da fare, glielo si leggeva dalla sua espressione: per me era come leggere un libro aperto.

-Cos'è successo a quei ragazzi?- domandò.

-Hanno vissuto in tranquillità per quegli anni di tregua, si sono sposati e hanno avuto dei figli, poi la loro vita è cambiata radicalmente. Forse un giorno ti racconterò il continuo della loro storia- conclusi.

Lei non doveva sapere troppo, doveva restare sana e salva. Dovevo proteggere i ragazzi dell'Istituto ad ogni costo. Havery sembrava delusa dalla scarsa quantità di informazioni ricevute, ma notai un guizzo nel suo sguardo: aveva appena avuto un'idea.

-Ho capito, dovrò scoprirlo da sola. Grazie lo stesso per le sue preziose informazioni- si alzò velocemente dalla sedia e uscì dalla stanza senza degnarmi di un altro sguardo.

 

[Alice]

 

Passeggiavo in compagnia di mia sorella sotto il sole e dal suo calore si percepiva che la primavera era vicina, non servivano i discendenti di Demetra a ricordarcelo cospargendoci allegri di fiori di vari colori e specie. Mi scansai lievemente infastidita la coroncina fiorita rossa e gialla continuando a camminare immersa nei miei mille pensieri mentre Margot mi fissava incuriosita da ciò che mi stava frullando in testa. Probabilmente lo aveva già capito.

Da quando Havery era arrivata all'Istituto mi sentivo di troppo e non riuscivo proprio a farmela piacere. L'attenzione di chi per me contava di più era concentrata su di lei. La vedevo come una rivale, mi sentivo più distante dai miei amici con cui ero cresciuta ed era lei che me li stava portando via. Forse stavo esagerando. Mi ero confidata con mia sorella per questa mia gelosia innata nei confronti della nuova arrivata e lei mi rivelò che era del tutto normale perché io tenevo molto ai miei amici. Anche il desiderio di volerla fare a pezzi con la mia katana era incluso in questa “normalissima gelosia adolescenziale”? Non credo proprio.

-Lo sai che non devi pensarci, Alice. Per tutti sei come una sorella e non ti metterebbero mai da parte, devi credermi- esclamò Margot mostrandomi il suo sorriso raggiante.

Lei era veramente la migliore e la stimavo per essere sempre così allegra, cordiale e gentile con tutti. Io non ne ero proprio capace, nonostante qualche volta Nathan ed Elijah provarono ad impartire qualche lezione campata per aria sul sorridere a tutti. Non ebbero molto successo, però fu molto divertente.

Sorrisi a mia sorella e lei tornò a guardare di fronte a noi.

-Oh, ecco una persona per cui non sei come una sorella- annunciò Margot entusiasta del nostro incontro.

Alzai lo sguardo e mi ritrovai davanti a Henrick. Deglutii quasi spaventata come se al suo posto ci fosse un mostro vero. Accidenti all'ansia e alla timidezza.

-Vi lascio soli- mi sussurrò mia sorella prima di saltellare via felice.

Era più emozionata di me ed ero io quella innamorata. L'amore faceva parte della sua indole quindi le veniva naturale gioire per qualsiasi forma di amore.

 

[Havery Lilith]

 

Decisi di andare in biblioteca a riflettere su ciò che il signor Moore mi aveva appena raccontato, anche se un'idea su ciò che potevo fare ce l'avevo. Stare in mezzo a centinaia di libri mi trasmetteva tranquillità e riuscivo a fare mente locale sui mille pensieri che mi frullavano in testa. Cercai vari libri sulle religioni del mondo, dalla creazione fino ai giorni nostri.

Ormai parlare di “religione” era tabù perché la dittatura ne aveva abolito ogni forma. Il signor Wilson aveva spiegato che il credere in qualcosa o qualcuno dava speranza agli uomini ed era ciò che i mostri volevano evitare, la speranza. Tutto quello che poteva riguardare la religione, la vincita del bene contro il male, i miti e le leggende, ogni cosa che potesse far minimamente pensare ad un qualche tipo di rivolta venne soppressa, in modo che gli umani dimenticassero com'era sperare e iniziassero a pensare che dopotutto si stava bene anche così. Presi qualche libro e mi posizionai ad un tavolo di fronte alla finestra.

Mi feci distrarre dal cielo azzurro e dagli uccellini che cinguettavano. Che fosse questa la pace? No, stare in una bolla di cristallo evitando di lottare veramente, anche se bisogna rischiare, non è vivere. Il signor Moore voleva proteggermi dalla verità, ma questo non era vivere. Dovevo scoprire la verità e sapevo da chi farmi aiutare.

-Guarda un po' chi troviamo con la faccia immersa nei libri e i pensieri non so dove- riconobbi la voce di Nathan alle mie spalle.

Mi voltai e vidi che era in compagnia di Elijah. Mi bloccai un attimo ma ripresi subito il controllo di me stessa.

-Stavo giusto pensando a voi due- ammisi.

-Visto, Elijah? Siamo richiestissimi- disse Nathan ad alta voce. Lo zittimmo prima che la bibliotecaria ci mandasse fuori a calci.

-Sentite, ho un piano. Voi aspettatemi fuori mentre io rimetto al posto i libri, okay?- gli riferii. Annuirono e si avviarono verso l'uscita bisbigliando fra di loro.

Ci misi un po' a ritrovare il posto dell'ultimo libro. L'avevo preso in fondo all'ultimo scaffale, nascosto timido all'ombra della stanza. Sembrava un nascondiglio perfetto per i libri rari e misteriosi. Presi uno scaleo di legno per arrivare all'altezza giusta. Nella discesa posizionai male il piede destro e caddi all'indietro portando con me la scala. Mi preparai a cadere per terra puntando le braccia in alto per pararmi. Non toccai né il pavimento, né il muro poco distante, ma mi poggiai sul corpo di qualcuno che mi protesse con le sue braccia mettendo una mano sulla mia spalla e l'altra sulla scala.

-Appena in tempo- disse a bassa voce. Mi girai notando che il mio paracadute era Elijah. Riposizionò la scaletta con una piccola spinta delle dita. In quell'angolo solitario e buio della biblioteca riuscii ad intravedere la sua sagoma. Perché era venuto qui se gli avevo chiesto di aspettarmi fuori?

-Era da un po' che eri dentro così ho detto a Nathan che sarei venuto a cercarti. Direi di aver fatto bene, hai rischiato di prendere una bella capocciata- mi aveva appena letto nel pensiero. -Tutto bene?- mi chiese accarezzandomi dolcemente i capelli.

Sperai che Elijah non avesse notato il cambiamento di colore del mio viso da rosato a rosso peperone, forse la semi-oscurità del corridoio mi avrebbe aiutata. In quel momento mi resi conto che eravamo completamente soli, persino la bibliotecaria visitava raramente quei corridoi nascosti e sconosciuti ai più. Elijah mi si avvicinò ed io arretrai istintivamente toccando con la schiena lo scaffale ricco di volumi. I miei occhi si erano abituati perfettamente alla quasi oscurità e riuscii a vedere ogni dettaglio di Elijah. Essendo poco più alto di me, i nostri visi erano molto vicini.

-Scusami, al buio non mi so orientare. Ti vedo a malapena- sentii le sue mani toccare ripetutamente la cima della mia testa per capire dove fossi.

Non so perché ripensai a ciò che mi disse qualche giorno prima all'anfiteatro: dopotutto che c'è di male ad amare? Se prima o poi dovessi rischiare la vita, non sarebbe meglio buttarsi e provare ad amare prima che sia troppo tardi piuttosto che rimpiangerlo per sempre? Perché doveva venirmi in mente in quel momento?

Misi una mano sul petto di Elijah per aiutarlo nel buio. -Sono qui- gli dissi. Sotto la mia mano riuscivo a sentire il suo cuore battere forte come se fosse potuto esplodere da un momento all'altro.

-Hai sistemato tutti i libri?- domandò. Annuii, poi mi ricordai che non mi vedeva bene, quindi gli risposi a voce. Mi strinse la mano, che tenevo ancora appoggiata a lui, come se fosse un tesoro prezioso.

-Vieni, ti guido io- dissi prendendo il controllo della situazione, prima che diventasse troppo imbarazzante.

Condussi Elijah fino al corridoio ricco di luce e solo a quel punto mi resi conto che anche lui, come me, era arrossito. Raggiungemmo Nathan fuori dalla biblioteca. Se ne stava accostato al muro con aria annoiata ma, appena ci vide, cambiò espressione molto in fretta.

-Quanto c'avete messo per tre libri?- chiese sbuffando. I suoi occhi osservarono le nostre mani ancora intrecciate tra di loro. -Voi due non me la raccontate giusta- commentò con il suo solito sorrisetto divertito.

Elijah ed io ci guardammo le mani e le dividemmo alla velocità della luce. Non provammo neanche a giustificarsi con Nathan, tanto era inutile, lui aveva i suoi filmini da portare avanti. Ci incamminammo verso il giardino per fare una passeggiata.

-Di che piano stavi parlando?- fu Nathan ad interrompere il silenzio imbarazzante che si era creato fra Elijah e me.

-Voglio entrare negli archivi del signor Moore- dissi schietta scrutando il cielo.

-E perché?- Nathan mi guardò confuso.

-Il signor Moore deve avere degli archivi dove tiene le informazioni di tutti i ragazzi dell'Istituto. Voglio leggere il mio, visto che si rifiuta di darmi spiegazioni. Pensavo di andarci di notte mentre dorme, con il vostro aiuto ovviamente- spiegai.

Ci fermammo nello spiazzo di fronte all'ufficio del signor Moore sedendoci sul prato. Notai che lui era proprio lì a controllare la situazione dall'alto, rilassato. Quando i nostri sguardi s'incrociarono, io spostai il mio.

Tornai a concentrarmi su Nathan ed Elijah quando il primo fece tornare il secondo tra di noi, che fino a quel momento aveva fissato il prato perso nei suoi pensieri.

-Allora stanotte ci si trova davanti all'ufficio?- chiesi definitivamente. I due ragazzi annuirono. -Adesso dovete dirmi cosa diamine avete fatto in biblioteca!- Nathan tornò sull'argomento, giusto per importunarci.

Feci finta di non averlo sentito, mentre Elijah contrattaccò. -Io non ti vengo a chiedere cosa fai con Margot-

Vidi per la prima volta, anche se solo leggermente, Nathan arrossire. Iniziò a tirarsi indietro i capelli neri, nonostante fossero già perfetti.

-Fa così quand'è nervoso- mi bisbigliò Elijah. Era riuscito a colpire nel segno. Ci scappò una breve risatina nel vederlo in quello stato, che non gli s'addiceva affatto.

-Come direbbe Margot, non sono domande da fare ad una signorina- si difese lui incrociando le braccia al petto.

-Quindi tu saresti una signorina?- gli domandò ridendo il riccioluto.

-Certo, non si vede?- Nathan si mise in posa e fece finta di sistemarsi il reggiseno. Ridemmo quasi alle lacrime.

-Mi avete chiamata?- da dietro Nathan spuntò Margot, stavolta senza Alice al seguito. La mora legò le braccia intorno al collo del ragazzo e lo abbracciò donandogli un bacio sulla guancia. Il viso di Nathan sembrava diviso fra due sentimenti: la gioia e l'affetto che provava nel vedere Margot, e il terrore che lei abbia potuto sentire più del dovuto.

-Abbiamo appena scoperto che Nathan è una donna- le spiegai come se fosse tutto naturale.

Margot si sistemò fra me e Nathan. -Non lo sapevate? Mi ruba anche i vestiti, una volta ha provato ad indossare un reggiseno ma non gli entrava- iniziò a prenderlo in giro lei.

-Non posso farci niente se ho un seno prosperoso- continuò lui preso dallo scherzo.

Tornammo a ridere a crepapelle come qualche minuto prima. I muscoli della pancia mi facevano male a causa delle risate. -Come mai Alice non è con te?- chiese Elijah alla mora quando riuscimmo a placarci.

-Finalmente si è buttata. È con Henrick- ci informò con un sorriso che andava da un orecchio all'altro. Henrick? La guardai confusa. Probabilmente era qualcuno che ancora non conoscevo perché mi risultava alquanto estraneo.

-È il vero nome di Wolfie- mi spiegò Elijah notando la mia perplessità.

A volte dimenticavo che lì i soprannomi ti restavano attaccati addosso come una seconda identità strettamente legata ai tuoi poteri. Nathan si distese soddisfatto e sereno sull'erba. -Finalmente abbiamo tutti gli occhi aperti, su per giù- disse facendo la linguaccia verso Elijah e me.

 

[Alice]

 

-Ti stavo cercando- esclamò Henrick sorridendomi leggermente. -Ti va di andare all'anfiteatro?- mi domandò sicuro guardandomi dritto negli occhi.

Annuii lentamente e lo seguii mentre sentivo le guance iniziare a riscaldarsi. Quando ci fummo seduti sulle gradinate più in alto Henrick si avvicinò pericolosamente a me. Mi stava continuando a guardare negli occhi senza battere ciglio, come se non riuscisse a percepire la tensione di un simile gesto. Quel suo sguardo violaceo così misterioso e profondo mi uccideva, anche se cercavo di resistere e contrattaccare col mio. Mi hanno sempre detto che bastava una mia occhiata per far venire i brividi o zittire qualcuno, definivano il mio sguardo "tagliente" ma non era niente in confronto a quello che avevo davanti.

Mia sorella adorava gli occhi verdi di Nathan, diceva che risplendessero di luce propria, io non riuscivo a capirla. Ho sempre avuto un debole per il colore viola ma non credevo esistesse qualcuno con degli occhi così, prima di conoscere Wolfie. Al contrario di quelli di Nathan, i suoi non brillavano, erano un pozzo profondo dove si rischiava di cadere e annegare. I suoi capelli, invece, apparivano come la cosa più pura di questo mondo, così biondi da sembrare bianchi. Non ero brava in quelle occasioni, insomma, la fredda Alice che aveva una cotta? Non esiste, direbbero in molti. Solo i miei amici lo sapevano e tifavano per me a modo loro. Henrick mi strinse le mani fra le sue.

-Ho una cosa molto importante da chiederti, ma devi promettenti che non lo dirai a nessuno, neanche a Margot- iniziò lui.

Non avrei potuto parlarne con Margot? Sarebbe stata la prima cosa che le avrei tenuto nascosta visto che io e mia sorella ci dicevamo tutto, anche le cose più sconvenienti. La sua proposta mi spaventava e al tempo stesso eccitava ancor prima di averla sentita. Annuii lievemente, pronta a sentire ciò che aveva da dirmi.

-Se te lo chiedessi, scapperesti con me?- mi domandò sicuro di sé.

Rimasi sconvolta dalla sua richiesta. Sgranai gli occhi e restai senza parole. Non era qualcosa a cui si poteva rispondere così facilmente, ma questo voleva dire che lui provava quello che io provavo per lui?

-Perché io?- gli chiesi infine.

Henrick sembrava non aspettarsi una domanda del genere. Mi sorrise affabile.

-Perché mi piaci Alice e so che, anche se non lo dai molto a vedere, tu provi lo stesso. Non è così?- il suo sorriso fiducioso era come una freccia nel mio cuore.

Noi discendenti di Afrodite non potevamo essere immuni alle frecce di Cupido? Le sensazioni che stavo provando erano un piacevole dolore. Quando lo guardavo, era come se non mi servisse altro per vivere ma al tempo stesso volevo smettere immediatamente. Che cosa complicata e incomprensibile l'amore. Se solo assomigliassi un minimo a mia mamma...

Arrossii in pochi secondi e distolsi lo sguardo. Era una richiesta troppo importante e improvvisa a cui rispondere su due piedi.

-Ci devo pensare- risposi secca fissando le mie scarpe da ginnastica nere e bianche.

 

[Havery Lilith]

 

Due figure aspettavano di fronte all'ufficio del signor Moore. Vidi una luce leggera fra di loro: sopra il dito di Elijah una lingua di fuoco arancione danzava emettendo una luce fioca capace di illuminare il volto suo e quello di Nathan. Ci scambiammo uno sguardo d'intesa ed entrammo con facilità, poiché la porta non era stata chiusa a chiave. La stanza aveva un che di inquietante al buio completo delle prime ore della notte. Nathan imitò il suo migliore amico e accese una luce giallognola nella sua mano destra per aiutarsi nella ricerca. Restai vicina ai due per non scontrarmi contro i mobili, nonostante il mio sguardo si abituò presto all'oscurità della stanza. Mi avvicinai ad Elijah mentre iniziavamo a cercare fra i vari documenti.

-Perché non ti sei acceso il dito anche in biblioteca?- gli domandai dubbiosa.

Alla luce della fiammella vidi il viso imbarazzato del riccioluto. -In teoria potevo farlo, ma in pratica è un altro discorso- si grattò la testa mostrandomi il suo dolce sorriso.

Mi accontentai della sua risposta, anche se non capii perché non era stato capace di fare lo stesso quel pomeriggio.

-Qui non ci sono- ci avvisò Nathan dall'altra parte della scrivania di suo padre prima di raggiungerci.

-Dovrebbero essere qui- esclamò Elijah come se sapesse esattamente dove il signor Moore teneva i suoi documenti.

Intravidi le foto delle gemelle, di Crystal e i fogli di Wolfie pieni di punti di domanda. Passammo in rassegna ad una vastità di carte ma dei miei non c'era l'ombra.

-Eppure dovevano trovarsi qui...- sospirò Elijah sconfitto.

-A meno che...- iniziò Nathan appoggiandosi alla scrivania illuminato dalla tenua luce della sua mano. -Lui non c'abbia preceduti- conclusero all'unisono i due ragazzi mentre Burn chiudeva il cassetto.

In quel momento ripensai alla tranquillità con cui il professore mi aveva lasciata andare dopo il suo racconto in quel primo pomeriggio. Come aveva fatto a capire che mi sarei infiltrata nel suo ufficio? Ecco perché la porta era aperta; lui sapeva la mia prossima mossa, come se l'avesse letto nel mio sguardo. Avere informazioni sul mio conto sarebbe stato più difficile di quel che pensavo.


Angolo dell'autrice:
Stasera pubblicherò il primo di una serie di racconti ambientati per il momento tra "La mia nuova vita parte due" e "Heroes", si intitolerà "Racconti della serie Deitas" e spero vi piacerà.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Nathan il ritardatario ***


[Elijah]

 

-Siete in ritardo- esclamò Crystal stizzita quando ci aprì la porta di camera sua. Non era la prima né l'ultima volta che succedeva.

-Nathan è stato dieci minuti a sistemarsi i capelli- addossai la colpa al mio amico.

Lui si passò una mano sulla chioma nera in perfette condizioni. -I miei capelli sono sicuramente più importanti dei tuoi teatrini, sorella- ribatté Nathan.

La bionda evitò di rispondergli e ci fece sedere su due sedie al lato di un grande specchio. Dall'altra parte Alice e sua madre Isabelle erano in attesa che lo spettacolo iniziasse. Quella era una ricorrenza mensile. Non potendo diventare una stilista nel mondo esterno, Crystal organizzava delle mini sfilate in cui esibiva gli abiti creati da lei e gli outfit che aveva ideato. Isabelle, la sua insegnante, l'aiutava nella riuscita delle sue creazioni, mentre Margot le faceva da modella; un motivo per Nathan per assistere dato che, nonostante il grande affetto che lo legava alla sorella, avrebbe evitato le sue sfilate con molto piacere. La figlia di Afrodite aveva provato spesso a convincere Alice a partecipare, ma lei aveva sempre rifiutato categoricamente. Lei era un tipo più da armi e combattimenti come il padre, non sarebbe stata la modella di Crystal neanche sotto tortura, anche se le voleva bene. La parte della stanza che ospitava i letti delle gemelle e di Crystal veniva chiusa da un telo rosso per l'occasione. Nathan prese dei cartellini numerati da sotto la sua sedia.

-Come siamo arrivati a questo?- gli chiesi divertito.

Da qualche anno il mio migliore amico aveva iniziato a votare coi numeri da zero a dieci le creazioni di Crystal senza lasciarsi influenzare dalla bellezza di Margot, o almeno così dichiarava lui. Ogni tanto si fingeva un finto intenditore e perdeva ore a tingersi dei baffetti neri per entrare nel ruolo, ritardando ulteriormente alla sfilata. Sapevo che Nathan non ci stava bene di testa, ma ci avevo fatto l'abitudine.

-Per le mie grandissime doti di giudice- rise lui ironico sistemando accuratamente i cartellini.

-Su, su. Esci. Fuori c'è uno specchio dove potrai guardarti- Crystal stava dando indicazioni alla modella dall'altra parte del velo.

Perché? Margot sapeva benissimo cosa doveva fare e quella era anche camera sua, sapeva dove erano sistemati i vari oggetti. Dal camerino uscì Ave, non Margot. Rimanemmo entrambi folgorati. Indossava un vestito azzurro il cui corpetto stretto e un po' scollato era sorretto da due spalline leggere. L'abito era aderente sui fianchi e si allargava delicatamente fino a metà coscia. Era ricco di merletti sotto il petto e ai margini della gonna. Qualche ciuffo dei suoi capelli color tormalina adornava la sua chioma formando una corona di trecce. Era veramente bella. Nathan tirò fuori il cartellino numero otto per la votazione del vestito, mentre io rimasi imbambolato. A quanto pare ero l'unico ad essere scosso da questo cambio di programma. Percepii un leggero tepore sulle guance. Havery ci guardò imbarazzata e sorpresa.

-Cosa ci fate qui?- chiese stringendo l'orlo della gonna.

-Assistiamo alla sfilata come sempre- rispose tranquillo Nathan.

Crystal uscì dal camerino osservando l'abito dubbiosa, poi si ricordò di noi. -Oh, giusto. Oggi Margot sarà la mia assistente. Abbiamo pensato di far fare da modella ad Ave per migliorarle il senso del gusto, magari indosserà vestiti più felici d'ora in poi- ci spiegò lei calma.

Il suo sguardo si spostò sulla mia espressione e le scappò una risatina, di conseguenza si voltò anche suo fratello.

-Questa è una nuova modalità di voto, si chiama "il viso bordeaux di Elijah"- esclamò lui unendosi alle risate di Crystal.

Havery rientrò nel camerino a passo svelto e la bionda la seguì per continuare quello che si era trasformato in un esperimento. Appoggiai i gomiti sulle ginocchia e nascosi il viso fra le mani. -Non è affatto divertente- commentai.

-È stato un colpo basso, ma Crystal non lo sapeva- disse Nathan dandomi due pacche sulle spalle.

-È uguale a sua mamma, una volta anch'io feci una prova su di lei. Il risultato fu divertente quanto questo- Isabelle sorrise in balia dei ricordi.

La testa di Margot spuntò fuori dalla tenda. -Questa volta abbiamo optato per qualcosa di elegante ma più nelle sue vene, diciamo- ci annunciò. I suoi occhietti blu si posarono sul mio amico. -Oh, ciao Nath- gli sorrise.

Nathan si tirò indietro il ciuffo di capelli da poco sistemati e ricambiò il saluto rilassato. Margot tornò nel camerino più felice di prima. Come faceva a stare tranquillo quando vedeva la persona che gli piaceva?

-Insegnami i tuoi segreti!- esclamai.

Nathan mi guardò confuso. -Quali segreti?-. Era veramente all'oscuro delle sue capacità. -Niente, lascia perdere-.

Provai a sistemarmi calmo sulla sedia, ma com'era possibile con il cuore che si dibatteva nel petto? Quando Ave uscì, la mia mente si fuse completamente. Le avevano sfatto le trecce, lasciandole i capelli sciolti e mossi adornati da una coroncina d'alloro dorata. L'abito nero era corto davanti e lungo dietro. La pietra che portava sempre al collo riluceva oscura sul suo petto. I sandali e il bracciale dorati completavano il quadro alla perfezione. Il mio sguardo era incollato su di lei, il mio cuore era stato fulminato.

-Wow...- mi sfuggì -Sembri una dea greca-. Dovevo starmene zitto, perché il mio cervello se ne era andato? Quella sfilata stava diventando una tortura per il mio povero cuore.

-Ora capisco perché ti vesti di nero, ti sta decisamente bene, ma il tocco dorato ci vuole sempre- disse Crystal esaminando il suo operato.

Havery osservava il pavimento imbarazzata. -Ti concedo solo un'altra prova- disse rientrando in camerino.

-Okay, questa volta ti sistemerò in modo che tu possa passarci una normalissima giornata. Dopo continuerò con Margot- acconsentì Crystal.

-Il voto del giorno è la tua espressione, amico- esclamò Nathan.

-Ripeto, non è divertente- misi le mani sulle guance per sentirne la temperatura, ero sicuramente rosso.

-Un po' sì. Quest'ultima dev'essere stata una batosta per te- ammise Nathan.

-Quindi mi capisci? È normale, non sto impazzendo?- gli chiesi riacquistando la speranza di non star delirando.

-Normalissimo, ma io preferisco gli abiti corti e scollati- mi sorrise malizioso.

-Sei il solito pervertito- lo spinsi via ridendo.

-Io non ho avuto la fortuna di mio papà di studiare dove le ragazze indossano le uniformi. Hai visto quanto cavolo erano corte le gonne nelle foto!- provò a giustificarsi.

-Non pensarci neanche- dissero Isabelle ed Alice all'unisono.

Risi per l'ammonimento di Nathan per certi pensieri, ma fui zittito subito dallo stesso. -Riderai meno se mai conoscerai i suoi genitori- ribatté lui divertito.

Scacco matto, aveva vinto lui. Il telo rosso si spostò, questa volta Havery era vestita in modo molto più semplice: aveva una camicetta grigia con il colletto bianco inserita dentro una gonna nera, le calze nere le coprivano le gambe mentre ai piedi portava degli stivaletti dello stesso colore. La rendeva più femminile, ma non toglieva nulla alla solita Ave. Nathan tirò fuori il cartellino numero sette.

-Troppo coperta, Elijah non approva- disse prendendomi in giro.

Gli tirai un pugno sul fianco destro, recepì il messaggio ma continuò a ridere per la situazione che ormai si era generata.

-Qui ho finito, me ne vado- annunciò Ave incamminandosi verso la porta. Automaticamente mi alzai e la raggiunsi in corridoio. La mia mente si era risvegliata e aveva deciso di cooperare con il mio cuore. Finalmente.

-Non fare caso a Nathan, è uno stupido- l'avvertii mettendomi al suo fianco.

-Non è quello...non pensavo di trovarti lì- esclamò Ave. -Odio le gonne, mi hanno fatto mettere solo quelle- cambiò discorso lei provando a tirarsi in giù la gonna.

Era proprio carina e il suo atteggiamento quasi impacciato lo amplificò; in quel momento era totalmente diversa rispetto a quando combatteva, tenace e sicura di sé e delle sue mosse. Mi diedi uno schiaffo mentale, dovevo trovare un modo per distrarmi.

-Ti va di venire al club di meccanica?- le domandai di punto in bianco.

Se avessi pensato a quello mi sarei deconcentrato da Ave. Lei annuì lievemente e raggiungemmo il capannone nel silenzio più imbarazzante di tutti i tempi.

 

[Nathan]

 

Elijah era veramente impossibile. Nonostante lo spettacolo di Margot che mia sorella mi offriva, per il resto del teatrino riflettei su come poter aiutare il mio migliore amico. La scelta più facile sarebbe stata chiedere ad Isabelle vicina a me, ma non volevo intromettere un adulto nelle questioni di cuore di un adolescente. Gli sarebbe bastato lasciarsi andare e non pensare a niente, o almeno così facevo io da qualche anno; dopotutto io ero semplicemente me stesso e speravo di far breccia nel cuore di Margot com'ero, senza dover fingermi qualcun altro.

Che senso aveva stare con una persona che non ti ama per quello che sei? Io la pensavo così, ma forse aveva ragione Elijah quando diceva che passavo troppo tempo con le discendenti di Afrodite. Non avevo una vera e propria tattica da consigliargli, né dirgli come riuscivo ad apparire così tranquillo anche in compagnia di Margot. Probabilmente lui pensava che io fossi immune ai naturali batticuore, quando in realtà era l'opposto.

Ogni volta che la vedevo un macigno mi piombava in testa e mi rincretiniva, solo che, crescendo insieme, il mio cuore ci aveva fatto l'abitudine e il mio cervello riusciva a riprendersi subito. Elijah non aveva questa fortuna. Quindi come potrebbe...

-Sunshine!- sentii la voce di Margot chiamarmi e scossi la testa come se fossi stato sotto ipnosi fino a quel momento.

-Non stare a fissare il muro come un ebete- esclamò chinandosi ad un palmo dal mio viso.

Le pupille le dilatarono e i suoi zaffiri risplendevano preziosi davanti a me, chiedendosi se ci fossi oppure no.

-Dobbiamo andare a lezione, ti sei dimenticato?- continuò lei sperando in una mia risposta.

Un ricordo mi fulminò la mente e la schiena mi si irrigidì per la paura. Avevo promesso a mamma che sarei andato alla prossima lezione per aumentare i miei riflessi. Se avessi ritardato o non fossi andato si sarebbe sicuramente arrabbiata con me. Per quel che mi riguarda, lei è peggio di qualsiasi mostro sulla faccia della Terra quando va su tutte le furie.

Scattai in piedi facendo cadere Margot dalla sorpresa. Salutai mia sorella, che non aveva bisogno di migliorare i propri riflessi, e Isabelle per poi correre verso il muro di arrampicata con le gemelle al seguito. Perchè non avevo ereditato la velocità del divino Ermes come mia sorella? Avrei potuto saltare la lezione con tanto piacere. Margot mi accompagnava felice, anche se non era effettivamente interessata come sua sorella. Alice fu la prima a voler partecipare su consiglio di mia mamma, in quanto sua allieva predilette, perché pretendeva sempre il meglio dalle sue capacità. Anche Elijah ne avrebbe avuto bisogno, visto che falliva spesso in fatto di equilibrio, ma lui era riusciuto a scamparla.

Arrivammo a lezione già iniziata, ovviamente. I ragazzi erano legati alle leggere protezioni, adatte per i movimenti liberi, e uno spiccava più di altri. Henrick. Oltre ai suoi capelli chiarissimi, i suoi spostamenti leggiadri e calcolati attiravano l'attenzione di chi avrebbe voluto imitarlo. In basso Thomas e mia mamma davano suggerimenti ai loro studenti e cercavano di intrarciarli tramite un telecomandino che attivava i meccanismi del muro.

Mamma si voltò verso di noi lanciandomi uno sguardo truce, era inutile incolpare le sfilate di Crystal così mi misi l'imbracatura senza rivolgerle la parola.

-Sei fortunato, oggi abbiamo iniziato in anticipo ma la prossima volta vedi di non dimenticarti della lezione- esclamò lei porgendo lo sguardo verso gli altri ragazzi. Come faceva a sapere che me ne stavo scordando? La sua voce attirò l'attenzione di Wolfie che si girò verso di noi ed iniziò a fissarci senza ritegno. Il suo senso di superiorità non mi era mai piaciuto e da quell'altezza ancora meno. Mi sbrigai ad aiutare Margot con l'attrezzatura, volevo salire il prima possibile, per poi avvicinarmi ad Alice e fare lo stesso con lei. L'aria fischiò e qualche secondo dopo Henrick era di fianco a noi.

-Ci penso io a lei- esclamò pacato spostandomi piano.

Vidi Alice arrossire di colpo e percepii su di noi lo sguardo del padre delle gemelle. Già... nessuno toccava le sue bimbe. Mi allontanai con Margot e iniziai a fare qualche esercizio con lei al mio fianco. Tutto si svolgeva secondo una sequenza di capriole in aria, momenti in cui avevi sostegni fisici e momenti in cui dovevi crearteli.

Sicuramente sarebbe servito in un combattimento in un bosco in cui ti potevi aggrappare agli alberi per attaccare i mostri in vari punti, o per imparare ad utilizzare le varie parti delle bestie per scopo difensivo. Se non avevi un minimo di riflessi, o se ti distraevi, era facile cadere e fallire. Per molti si trattava solo di una botta assurda alla schiena e qualche flessione, ma per me voleva dire niente biscotti per una settimana. Mamma sapeva creare le peggiori punizioni esistenti, soprattutto tenendo conto che Margot frequentava le lezioni di cucina e mi faceva fare da assaggiatore speciale. Scostai il mio sguardo a sinistra e notai felice che Alice si librava come una farfalla evitando tutte le trappole lanciate da mia mamma.

Mi scappò un sorriso quando mi voltai verso Thomas concentrato, il cui sguardo andava velocemente dal telecomando a Wolfie; sembrava volesse farlo cadere in tutti i modi possibili. Fortunatamente oggi non ero io nel suo “papino-mirino”. L'insegnante anti-biscotti provò ad urtarmi con una serie di frecce omologate osservando la mia distrazione. Le evitai con tale rapidità che mamma si stufò presto di colpirmi e passò ad un altro bersaglio.

Alla mia destra Margot non si era accorta degli schizzi d'acqua potenti che la travolsero, mollò la presa della corda e si ritrovò a precipitare verso terra. Fu istantaneo, non mi resi conto di averci pensato però non le permisi di cadere. Avvinghiato alla mia corda avevo intercettato la sua caduta con una velocità di riflessi di cui mi sorpresi anch'io. Adesso la tenevo tra le braccia, stretti a mezz'aria con la fune che ci reggeva entrambi.

-Hey- esclamò Margot sorridendomi.

-Hey- replicai sorridendole di rimando.

Credetti di vedere le sue guance arrossire ma non potei averne conferma perchè mi sentii mancare il terreno sotto ai piedi, che già non c'era. La nostra caduta verso terra stava continuando inevitabilmente e con uno sguardo constatai che ero rientrato nel papino-mirino.

 

[Elijah]

 

All'inizio il capannone di meccanica era stato concepito per essere interamente in legno. Cambiarono i piani dopo che gli diedi fuoco per sbaglio due volte durante la sua costruzione quando ero piccolo. Adesso i rivestimenti erano in finto legno per evitare altri incidenti, visto che non ero l'unico che rischiava di buttare giù l'edificio con le sue invenzioni. Una volta un ragazzo aveva costruito una sega circolare difettosa che corse per tutto il capannone e si fermò solo quando raggiunse il soffitto per la forza di gravità. Quando la pistola per saldare smetteva di funzionare, i miei compagni di club utilizzavano le mie mani al suo posto. Illustrai ad Ave la zona costituita per lo più da un grosso bancone di metallo intorno a cui i ragazzi creavano e si ingegnavano. Le spiegai che la maggior parte delle armi venivano forgiate lì dentro, nonché riparate. Sembrava interessata ad ogni cosa che le dicevo e il suo sguardo curiosava in ogni angolo del capannone.

-Potrei crearti un'arma che faccia al tuo caso, che ne pensi?- le chiesi di punto in bianco.

Lo sguardo che puntò immediatamente verso di me era un misto di confusione ed entusiasmo. Forse non capiva cosa intendessi per “un'arma che faccia al suo caso”, al momento non lo sapevo neanche io, però sembrava emozionata all'idea di averne una esclusivamente sua. L'avrei progettata solo per lei e forgiata al meglio delle mie abilità; mi sarebbe piaciuto dare il mio contributo per farla diventare la migliore combattente dell'Istituto. Anche se il trono era detenuto da Alice da parecchio tempo ero sicuro che Ave ci sarebbe riuscita con il giusto allenamento, ma avevo il presentimento che la regina della spada non se lo sarebbe fatto portare via tanto facilmente.

-Adesso non ho idee- ammisi onesto -te la consegnerò non appena l'avrò ultimata, okay?- la informai prendendo qualche foglio per i progetti sotto il bancone da lavoro.

Lei annuì soltanto, incuriosita da quel che avrei fatto di lì in poi. Sentire i suoi occhi fissi su di me mentre lavoravo mi metteva in agitazione; un tipo di turbamento diverso da quando i miei amici mi osservavano all'opera, quell'ansia derivava da Nathan e Margot che mettevano a soqquadro l'intero capannone mentre Alice ed io cercavamo di fermarli prima che distruggessero tutto. Volevo trascorrere del tempo con Havery e avevo deciso di farle vedere il club in cui svolgevo i miei hobby, perché pensavo che sarei riuscito a concentrarmi su qualcosa che non fosse lei. Naturalmente mi sbagliavo. Strinsi le mani intorno alla squadra, che tenevo come se fosse la mia ancora contro l'ansia, e sospirai tornando a guardare verso Ave.

-Perché non provi il club musicale?- le domandai sorridendo.

Se avesse tentato una lezione, sarei riuscito a meditare sul progetto anche se significava non essere in sua compagnia. Forse in questo modo le avrei fatto un piacere visto che sembrava piacerle la musica. Oltre alla pianola, che si era portata dalla casa famiglia, e all'esibizione nascosta, a cui avevo potuto assistere il primo giorno, la sentivo spesso canticchiare quando passeggiava nelle vicinanze.

-Penso possa essere il club giusto per te, considerato che ti piace suonare e cantare- le spiegai posando lo strumento, che avevo fra le mani, sul tavolo.

Mi guardò con gli occhi persi in chissà quali pensieri per qualche secondo prima che le sue labbra si piegarono automaticamente in un leggero sorriso sereno.

-Mi piacerebbe molto- annuì energicamente lei.

-Tra poco si riuniranno al primo piano vicino alla stanza con il pianoforte nero. Vorrei accompagnarti ma sono sicuro che, se lo facessi, una certa persona di nostra conoscenza mi impedirebbe di tornare al lavoro- esclamai indicando con la testa fuori dal capannone.

 

[Havery Lilith]

 

Primo piano vicino al pianoforte nero, mi ripetevo mentalmente per non dimenticarmelo. Elijah era stato molto gentile, sia per l'idea di creare un'arma tutta mia sia per avermi informato del club musicale, però si era comportato in maniera strana; come se non volesse la mia compagnia. Forse la mia presenza lo infastidiva e il suo era stato solo un modo carino per dirmi di togliermi dai piedi. Sapevo di diventare seccante quando un'attività o un oggetto mi affascinava e così era stato per il capannone degli hobby di Burn. Tutti quei fogli di progetti finiti e non appesi al muro mi intrigavano e avrei voluto chiedere notizie su ognuno di loro, ma mi limitai ad osservare in silenzio Elijah. Forse ero riuscita ad essere inopportuna anche senza le mie mille domande inutili e noiose. Sbirciai oltre la terza porta dopo la stanza del pianoforte e trovai il direttore con alcuni ragazzi intento a sistemare gli spartiti per la lezione. In fondo a destra era situata una lavagna e, lungo il suo perimetro, il pavimento era leggermente rialzato. Lì e davanti a me, infondo alla sala, due pianoforti brillavano di luce propria. Uno bianco e l'altro nero, non erano stati appena lucidati ma ai miei occhi risaltavano come se fossero gli strumenti più belli della stanza. Gli altri ragazzi avevano chitarre, violini, trombe, flauti e addirittura banjo. Le mie dita fremevano e il mio corpo era attratto come una calamita dal pianoforte più vicino. Avrei tanto voluto suonare, ma non sapevo se effettivamente avrei potuto.

-Oh, Havery. Ti vuoi unire a noi per questa lezione?- la voce del signor Moore mi fece staccare gli occhi dallo strumento nero.

Annuii sicura; la musica era sempre stata una delle mie pochissime certezze nella vita.

-Mi piacerebbe...ma sono autodidatta, non vorrei essere d'intralcio a nessuno- ammisi entrando nella stanza che fino ad allora avevo solo ammirato.

-Non preoccuparti. Qui i ragazzi puntano a perfezionarsi, è vero, ma nessuno viene allontanato. Basta non farsi distrarre dal suono degli altri strumenti- esclamò evidentemente felice della mia scelta di partecipare alle sue lezione.

A tiro con l'arco avevo fatto cilecca, forse le mie doti musicali lo avrebbero rallegrato; sempre se ce le avevo, delle doti. Avrei avuto finalmente un istruttore, qualcuno che mi insegnasse seriamente a suonare e mi aiutasse a capire i miei errori. Cantare sarebbe diventato qualcosa di più di un passatempo sotto la doccia o durante le passeggiate; mi sarei potuta esprimere grazie alla musica come avrei sempre voluto.

-Scegli lo strumento che desideri, così come lo spartito da suonare. Puoi iniziare quando vuoi, io sono qui se qualcuno ha dei dubbi riguardo a qualche pezzo- mi spiegò tirandosi in su la cravatta.

Al suono delle prime parole puntai subito lo sguardo verso il pianoforte nelle vicinanze. Mi avvicinai e passai la mano prima sopra la cassa e poi sopra i tasti. Erano entrambi molto freddi, in perfetta sintonia con le mie mani sempre gelate. Feci per sedermi sul panchetto lucido quando la porta, che avevo accostato, venne spalancata con forza.

-Non sono in ritardo!- esclamò Nathan vittorioso.

-Strano ma vero- ammise suo padre finendo di sistemare gli spartiti su gli ultimi leggii.

-Cosa ti ha fatto credere di essere in ritardo, Nath?- continuò lui guardando suo figlio.

-L'abitudine- rise tra se e se. -In realtà sono scappato dalla lezione di riflessi prima che Thomas potesse uccidermi- gli spiegò mentre cercava di recuperare fiato.

-Perché dovrebbe fare una cosa del genere?- gli domandò il signor Moore incuriosito.

In realtà lui sapeva già la risposta, era facile capire che era piuttosto divertito dalla situazione di Thomas, anche se si riscontrava su suo figlio.

-Oh sai com'è lui. Mi avvicino troppo a Margot e mi lancia i suoi sguardi segnalatori della mia prossima morte- esclamò sistemandosi sulla sedia più vicina. -E poi questa volta non è stata neanche colpa mia- si mise a chiarirci l'accaduto, senza evitare di sottolineare l'assurdità dell'atteggiamento del padre delle gemelle.

-Io gliel'ho detto a Thomas di lasciarvi stare. È giusto così, siete due adolescenti innamorati e non vedo dove stia il problema- lo avvertì il direttore mettendo una mano sulla spalla a Nathan.

-Ma lui continua a dire che è facile per me dire così perché sto dalla parte del maschio- concluse il signor Moore senza risollevare il morale al figlio.

Sembrava che per Thomas fosse impossibile cambiare mentalità e persino il professore si era arreso a farlo ragionare. Nathan sospirò e, dopo aver preso una chitarra classica, si sistemò al mio fianco. Accordò lo strumento mentre si lamentava della dittatura sotto cui stava.

-Come se non mi conoscesse- esordì infine.

Parlava con sé stesso più che con me e fortunatamente non richiese il mio parere; almeno Nathan sembrava apprezzare la mia semplice compagnia. Mi diedi uno schiaffo mentale: non dovevo pensare ad Elijah.

-Allora...- cominciò Sunshine continuando a preparare la chitarra -è stato Burn a portarti qui?- mi domandò sorridendomi malizioso.

Si era ripreso velocemente dalla sua rabbia nei confronti di Thomas. Sentendolo nominare Elijah le mie guance arrossirono d'istinto.

-Sì...anche se non mi ha accompagnata. Lui è rimasto al capannone di meccanica- gli spiegai fissandomi i piedi imbarazzata.

-Ah, non è stato per niente un gentiluomo! Probabilmente aveva paura che lo costringessi a rimanere- rise divertito Nathan.

-O forse semplicemente non mi vuole intorno a sé...- proseguii sorridendo imbarazzata tornando a guardare verso il mio amico.

Sunshine alzò gli occhi al soffitto e si lasciò andare sulla sedia. -Eccone un'altra- esclamò guardandomi serio. -Non pensarla così, perché non è vero- disse senza staccare lo sguardo da me. Quando lui diventava severo e pacato, era sicuro che stesse dicendo la verità. Mi tranquillizzò leggermente e mi rallegrò. -Forza, suoniamo!- esclamò Sunshine tornando sorridente ed entusiasta come sempre.

Iniziai a suonare qualcosa e Nathan mi seguì qualche momento dopo. Rilassai i muscoli tesi e mi librai fra le note intorno a me. Tutto si dissolse, rimanendo solo la dolce melodia che producevano il pianoforte e la chitarra guidati da me e il mio compagno.

Qualcosa si aggiunse a quel regno sulle nuvole, che stavamo costruendo con le note, quando Sunshine cominciò a canticchiare sopra la musica. Non mi lasciai intimidire e lo imitai, fu come se il castello si solidificasse davanti ai miei occhi.

Era una strana sensazione che non avevo mai provato prima. Mi era sempre piaciuto ascoltarmi e perdermi mentre suonavo la pianola, ma questo era totalmente differente; era completo. Mi rese felice anche se, al tempo stesso, percepii una strana malinconia che non comprendevo. Appena lo spartito terminò le sue note, guardai di fronte a me. Quella percezione incomprensibile si amplificò quando incrociai lo sguardo con il signor Moore e ci ritrovai gli stessi sentimenti misti.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** The Half-Owl's Fight ***


[Henrick]

 

L'aria intorno all'anfiteatro emanava tensione e pareva fosse fatta di elettricità pura. Chiunque fosse intenzionato ad entrare cambiava subito idea appena vedeva le due ragazze al centro fissarsi intensamente. Entrambe stringevano nella mano destra un'arma, per la precisione una spada, e sembravano attendere l'una la partenza dell'altra. Gli unici a non percepire la pesantezza della situazione eravamo noi osservatori della lotta: Elijah, Nathan, Margot, Thomas, Gloria, Crystal ed io. Gli altri sembravano proprio non capire l'importanza di quel momento.

Per Alice tutte le sfide erano rilevanti e la facevano sentire potente, in effetti lei era l'allieva prediletta da suo padre e Gloria in fatto di spada ma la presenza di Havery all'Istituto l'aveva turbata abbastanza e non voleva che le fosse rubato il trono; era facile capirlo dal suo atteggiamento. Al contrario Havery aveva interesse solo nella disciplina in sé ma la grinta e l'adrenalina, che l'accompagnavano ad ogni lotta, la facevano sembrare come se fosse volenterosa di vincere quanto l'avversaria.

Lo sguardo grigio fiducioso di Alice era fisso su quello cioccolato di Ave che la studiava per capire le sue mosse, nonostante nessuno si fosse ancora spostato di un centimetro.

-Secondo voi...faranno mai qualcosa?- bisbigliò Nathan dubbioso tra Margot ed Elijah.

-Sta solo esaminando la sua preda- esclamai sorridendo sprezzante riferendomi ad Alice.

Me ne stavo seduto poco distante dai tre, tranquillo del risultato.

Il riccio fu quasi irritato dal mio commento. -Ave può contrastarla tranquillamente- ribatté indispettito Elijah.

Risi divertito. -Lo vedremo- continuai sicuro delle abilità di Alice.

Ero sempre stato attratto dalla sicurezza di una persona, ma con Alice ero arrivato ad amare anche la sua timidezza. Quando si trattava di battaglie nulla la faceva tirare indietro e fino all'ultimo non mollava, era una vera forza della natura. L'ammiravo per la tenacia, che dimostrava sin dal mio primo giorno all'Istituto, nonostante a volte contrassasse fortemente con i suoi timori. Eppure ero certo che c'era ancora dell'altro, un lato di Alice che pochi o nessuno conosceva perché lei lo teneva segregato dentro di sé ed io avrei tanto voluto scovarlo.

Non mi interessava se Alice e Havery avevano lo stesso sangue divino dalla propria parte, la regina della spada avrebbe vinto senza riserve.

Inoltre era troppo cauta per partire all'attacco prima dell'avversario, per questo rimaneva ad osservarla in silenzio carpendo ogni singolo movimento dei suoi muscoli. Era come se avesse potuto percepire ogni contrazione e rimanesse in ascolto del corpo nemico per trarne vantaggio. Havery strinse in pugno la spada ma Alice non mosse lo sguardo da lei.

Qualche momento dopo il terreno si aprì nel punto in cui sostava la spadaccina prediletta dagli insegnanti, ma lei non c'era già più. Si era spostata con velocità e si era posizionata alle spalle della rivale; aveva evidentemente approfittato dell'immaturità dei poteri di Havery, in modo da non farle accorgere del suo spostamento.

-Che cavolo- esclamò sconcertato Nathan sporgendosi in avanti preso dall'azione.

-Se frequentassi le nostre lezioni ci riusciresti anche te- lo rimproverò Thomas al fianco di sua figlia.

Nel frattempo Havery si era voltata e aveva parato con il piatto della spada l'attacco che Alice le stava per sferrare. La katana della più piccola e la spada della più grande formarono una x quando s'incontrarono, le due ragazze di guardarono intensamente negli occhi per un attimo prima che Alice spingesse indietro la sua rivale. Le crepe per terra si erano chiuse e Havery indietreggiò, per poi ripartire subito all'attacco.

Alice evitava un assalto dopo l'altro volteggiando all'indietro, come se non sentisse affatto la pesantezza dell'arma che portava con sé. Sfortunatamente Ave non demordeva e, dopo che la favorita aveva bloccato il suo ultimo attacco con la sua katana, cominciarono a scambiarsi una serie di fendenti. Chi avrebbe mai pensato che due uccellini dall'aspetto innocuo potessero essere feroci come leoni. Nonostante non avessero zanne appuntite con cui attaccare, utilizzavano le spade come se fossero parti del loro corpo a tutti gli effetti.

Però era evidente che Alice aveva più esperienza della sua rivale, mostrava più sicurezza nelle sue azioni e non la perdeva mai di vista, neanche un secondo. I suoi movimenti erano più precisi e leggiadri, perfezionati dopo anni e anni di addestramento, e la tecnica era raffinata come i gioielli che spesso sua madre voleva farle indossare. A lei non servivano, lei stessa era un capolavoro. La sua vittoria era inevitabile.

Havery sembrava essersi stufata di attaccare in continuazione, così iniziò a schivare gli attacchi. Serrai la stoffa dei jeans non appena vidi Alice cambiare espressione: si stava irritando e non andava bene. Nessuno sembrava intensionato a proferire parola, né a fare il tifo per qualcuno o per entrambe, quindi decisi di non incitarla; in fondo sarebbe stato come dubitare delle sue capacità, che non era affatto vero e non volevo che lo pensasse.

Dopo l'ennesimo fendente di Havery, Alice cadde all'indietro e mi ritrovai a stringere la presa sui miei pantaloni. Non l'avrebbe sovrastata, io ci credevo. Ave fece per sormontarla con il corpo quando Alice fece forza sulle gambe spingendole sullo stomaco di lei ribaltandola.

La regina della spada si rialzò rapidamente, mentre la sua rivale rotolava poco lontano prima di rizzarsi di nuovo in piedi. Ripresero a combattere come poco prima e, nonostante la stanchezza iniziava a farsi vedere sui volti di entrambe, nessuna delle due mollava la presa. Potevo percepire Alice stringere i denti dagli scalini dove ero seduto, era la ragazza con la più grande forza di volontà che conoscevo.

Improvvisamente la tensione nell'aria si spezzò, come se avessero infranto le spade delle due combattenti.

-Basta così- sentii gridare a gran voce da Gloria. -È più che ovvio che questo è un pareggio- dichiarò lei alzandosi e scendendo verso il centro dell'anfiteatro.

Havery annuì soddisfatta dalla lotta e si passò una mano sulla fronte poco prima di sorridere in direzione nostra. Alice invece...era come se avesse subito una sconfitta eclatante, glielo si poteva leggere in faccia che non le sarebbe andata giù facilmente.

-Posso batterla! Bastava ancora poco- esclamò Alice determinata.

-No, se continuaste vi fareste solo del male- controbatté Gloria seria.

-Sono sicura di poterla sconfiggere- continuò la più piccola senza demordere.

-Sarà per un'altra volta. Ricordati che la guerra è con i mostri là fuori, non tra di noi- l'ammonì l'insegnante severa.

-Ma...- riprovò Alice, ma suo padre si unì alle prediche.

-Niente ma Alice, è finita- chiuse il discorso Thomas con sguardo intransigente su sua figlia.

Strizzai talmente forte i pugni che potevo sentire le nocche della mani mostrarsi vivide. Come si permettevano di parlargli così? Come potevano tarparle le ali? In momenti come questi notavo come non tutti la capissero, neanche i suoi stessi genitori, e forse quel suo lato nascosto voleva esplodere ma gli altri non glielo permettevano.

Vidi che anche lei strinse i pugni con gran foga prima di dirigersi rigida verso di me. Mi sorpresi quando constatai che non si sarebbe seduta tra Elijah e me, ma si sistemò al mio lato destro libero. Cominciò a fissare il suo stesso riflesso sulla lama della katana che teneva tra le gambe. Non appena mi avvicinai a lei, e il mio viso si ritrasse di fianco il suo, la vidi arrossire leggermente. Era molto graziosa quando succedeva, opponendosi totalmente alla sua aria da combattente nata.

-Io ti credo. L'avresti senz'altro battuta- le dissi in tutta sincerità.

-Grazie...ma io non voglio la tua pietà- esclamò seria guardandomi attraverso la katana.

-La mia non è pietà, con te non ne dimostrerò mai- affermai onesto provando a sfiorarle la mano.

[Elijah]

Ci eravamo dati appuntamento fuori dal club di cucina dopo le dieci di sera. Dato che non avevamo la possibilità di uscire nel mondo esterno per comprare regali, per i vari compleanni ci inventavamo sempre qualcosa; di solito con i fratelli Moore si puntava ad un dolce ed è quello che avremmo fatto anche questa volta. Il giorno dopo, il tre maggio, sarebbe stato il compleanno di Crystal e, per i suoi diciassette anni, Margot aveva pensato di preparare una torta. Così ci ritrovammo fuori dall'aula sotto le stelle ad aspettare che arrivassero Nathan e le gemelle con le chiavi della stanza.

Henrick se ne stava appoggiato al muro con le mani nelle tasche dei pantaloni e alternava lo sguardo tra il loggiato, da cui sarebbero dovuti apparire i nostri amici, il cielo e Havery. Non capivo perché dovesse guardarla così tanto, dopotutto era evidente che lui ricambiasse i sentimenti di Alice no?

Lasciai perdere quasi subito quell'attacco di gelosia e ripensai al fatto che Wolfie avesse già compiuto diciassette anni, eppure non riuscivo a ricordarlo con chiarezza. Il rumore dei passi rimbombò sotto la copertura delle logge fino a mostrare Alice, Margot e Nathan arrivare di corsa.

-Eccoci!- esclamò la mora mettendosi le mani sui fianchi per riprendersi dal fiatone della corsa.

Henrick volse lo sguardo verso i ragazzi e sorrise appena. Ci avvicinammo a loro e il mio migliore amico mi lanciò una chiave.

-È della serra. Andate a raccogliere più fragole che potete- disse indicando Havery e me.

-Mi dispiace, avrei potuto farlo prima ma non volevo far sospettare Crystal- si scusò Margot andando verso la porta della cucina.

-Già, il giorno prima del suo compleanno ci gira sempre intorno per scoprire cosa facciamo- ci spiegò Alice indossando una fascia violacea per sistemarsi i capelli.

Margot era l'appassionata di cucina, ma sua sorella si divertiva ad affiancarla nelle preparazioni; soprattutto perché prima i dolci erano pronti e prima Alice poteva assaggiarli. Sicuramente a Margot non mancavano gli assaggiatori volontari. Una delle motivazioni per cui ero stato incaricato di raccogliere le fragole era che più stavo lontano dai fornelli meglio era. Non sono mai stato bravo a cucinare quindi, in queste occasioni, mi limitavo a pulire e tagliare per infliggere meno danni possibili al risultato finale. Quando gli altri entrarono in cucina, feci cenno a Havery di seguirmi verso la serra. Aprii la porta di vetro e, appena dentro, presi due cestini di vimini per la raccolta. Ne consegnai uno ad Ave e le nostre mani si sfiorarono, lei tolse subito la sua e avanzò alla ricerca delle fragole adatte per la torta pensata da Margot.

A volte non capivo cosa frullasse nella sua testa, ma sarebbe stato meraviglioso poterle leggere nel pensiero, ancora meglio sarebbe stato poter capire i suoi sentimenti. Nathan mi ripeteva sempre di non preoccuparmi perché era chiaro che piacessi ad Havery...ma per me non era affatto evidente. Da cosa lo capiva? Io vedevo solo una ragazza che al minimo contatto fisico si allontanava da me.

Sospirai leggermente sconsolato e mi inoltrai nella serra. Le fragole erano piantate al centro dello stabile e da lì si poteva godere della meravigliosa vista delle stelle. Era una delle cose che preferivo fare, osservare le stelle, e poterlo fare in sua compagnia lo rendeva speciale. Mi avvicinai a lei e iniziai a sistemare qualche fragola nel cesto.

Per fortuna di Margot, non ero un grande amante del frutto perché in pochi riuscivano a resistere al rosso succoso delle fragole di quella serra. Vidi Ave voltarsi dal lato opposto al mio, dove non c'erano cespugli per la raccolta, e mi accostai a lei incuriosito da cosa stesse facendo. Spuntai oltre il suo volto e notai che stava mangiando deliziata una fragola appena presa. Risi distrattamente e la vidi irrigidirsi prima di girarsi verso di me.

-Scusa...ma sembravano molto buone- si giustificò imbarazzata dopo aver ingoiato l'ultimo boccone. Si guardò i piedi, che muoveva ansiosi per terra, mentre stringeva stretto il cestino di vimini riempito fino a metà. Le accarezzai il braccio destro teneramente per non farla impensierire. Una fragola in meno non sarebbe stata la fine del mondo.

-Tranquilla...- le sorrisi dolcemente.

Il suo sguardo tornò a guardare dentro il mio e sembrò illuminarsi alla luce delle stelle, sarei potuto rimanere lì ad osservarci per ore e non me ne sarei accorto. Quando eravamo insieme agli altri, per me lei risaltava nei loro confronti nonostante a volte cercasse di farsi piccola piccola. Mentre quando eravamo da soli, come adesso, nessuno poteva distrarmi dalla sua presenza. Avrei voluto spostarle delicatamente i capelli e accarezzarle il viso, ma mi trattenni. Mi ricordai che gli altri stavano aspettando noi.

-Andiamo, ne abbiamo raccolte abbastanza- la incitai a seguirmi dandole le spalle.

-Forse ne rimarranno per mangiarle così- scherzai sorridente voltandomi verso di lei quando fummo alla porta della serra.

Margot era intenta a finire la crema alla vaniglia, il gusto preferito di Crystal, e ogni tanto controllava il forno in cui aveva messo il pan di spagna a cuocere. Inzuppò un dito nella crema e lo portò verso Nathan che lo leccò per assaggiarne il sapore.

Alice, invece, era ai fornelli a sciogliere il cioccolato fondente per le decorazioni della torta e Henrick, al suo fianco, si assicurava che non si bruciasse. Se Thomas fosse stato presente, avrebbe infornato i due ragazzi al posto del pan di spagna. Stranamente Nathan non aveva ancora messo a soqquadro la stanza, forse perché era preso dalla cuoca principale.

Margot portava i capelli bruni raccolti in una coda alta, come era solita fare, e sotto il grembiule bianco candido portava un vestitino rosso ricco di balze. Potevo solo immaginarmi quanto il mio migliore amico si stesse trattenendo dal non fissarla troppo. Quando chiudemmo la porta alle nostre spalle Wolfie e Sunshine si voltarono verso di noi, mentre le due gemelle fecero un lieve accenno con la testa per non distrarsi dalle preparazioni. Margot mise da parte la crema a raffreddare e iniziò una nuova parte del dolce.

-Lavate e tagliate le fragole, per favore- ci ordinò gentilmente la chef mentre divideva le uova. -Questo lo puoi fare Burn- esclamò Margot facendomi la linguaccia divertita.

[Havery Lilith]

Fu una serata diversa dal solito, ma non per questo non era stata magnifica. Procedette tutto secondo come le gemelle avevano organizzato, a parte una sezione di pulizie doppia a causa della battaglia che Nathan aveva generato a conclusione della torta. Fortunatamente almeno quella si era salvata. Sunshine aveva deciso di utilizzare la panna rimanente per tirarla addosso agli altri e le risposte non si fecero attendere; così presto ci riducemmo in panna e ossa e il nostro tentativo generale, di tenere la cucina pulita dopo ogni preparazione, sparì in poco tempo.

Ridemmo talmente tanto a crepapelle che spesso finivamo per mangiare la panna che ci lanciavamo. Quando completammo le seconde pulizie, uscimmo dalla stanza e ognuno puntò alla propria camera da letto mentre Elijah se ne stava con le mani in tasca della sua abituale felpa arancione a guardare il cielo.

-Tu non vai a dormire?- gli chiesi mentre gli altri si erano già incamminati.

Lui scosse la testa continuando a guardare verso la luna alta sopra di noi.

-Pensavo di ammirare per un po' le stelle...- mi spiegò rilassato.

Non capivo il motivo per cui il mio corpo non avesse iniziato a camminare verso la mia camera, dopotutto avevo ricevuto la risposta che volevo. Perché me ne rimanevo lì ad osservarlo?

-Ti va di farmi compagnia?- mi domandò voltandosi verso di me.

Sembrava quasi avesse avuto paura ad invitarmi, dalla sua postura si poteva notare la tensione che lo opprimeva. Il cuore iniziò a battermi forte; ecco perché le gambe non si erano mosse, il mio inconscio voleva proprio questo. Istintivamente sorrisi felice della sua richiesta, così gli sorrisi e annuii energicamente.

Elijah parve sciogliersi e l'agitazione, che lo stava assoggettando, se ne andò. Mi fece segno di avvicinarsi e tirò fuori dalla tasca un tubetto grande il doppio di una normale penna. All'improvviso mi strinse a sé per un fianco, puntò l'oggetto verso il tetto dell'Istituto e prima che ne me accorgessi mi ritrovai ad aggrapparmi a lui per non cadere a terra. Un filo di metallo spesso uscì dal tubetto e degli artigli di metallo si andarono a conficcare fra le tegole dell'edificio provocando un rumore sonoro.

Quando il riccio premette un bottoncino sull'oggetto, un meccanismo si attivò e ci alzò in aria verso il tetto su cui era stato impigliato. Appena mi accorsi di quello che era accaduto, sentii arrossire. L'aria fresca della sera mi fece percepire ancora di più il calore sulle mie guance, ma non gli diedi peso provando a pensare a qualcos'altro.

-Dove l'hai preso?- gli domandai indicando l'artiglio ancora aggrappato tra le tegole.

Ci sistemammo come meglio potemmo sul tetto ed io legai le braccia intorno alle gambe e vi appoggiai il viso diretto verso Elijah.

-L'ho fatto io. Mi piace la sensazione di vuoto che dà quando si sale, e mi è molto utile visto che mi piace salire in punti alti- mi chiarì lui osservando le stelle luminose.

Nonostante il cielo fosse di un blu scuro e profondo la luna lo rischiarava abbastanza da illuminarci. Era molto bella da vedere ed ero felice di essere in compagnia di Elijah a farlo, però finivo per tornare più spesso su di lui che sull'astro bianco. Nel momento in cui mi accorsi di questa mia tendenza, infilai la testa tra le gambe imbarazzata sperando che non se ne fosse reso conto. Quanto avrei voluto che il mio cuore avesse rallentato, mica stavamo facendo una maratona! Ma se questo significava stare vicini ad Elijah...ci sarei passata sopra.

Molto spesso mi dimenticavo di star respirando, solo quando lui si allontanava mi ricordavo che ero un essere umano e avevo polmoni e cuore funzionanti come tutti. Forse nel periodo adolescenziale agivano in modo diverso...oppure avevo una qualche forma di malattia che non conoscevo. Lo sapevo che prima o poi mi sarebbe partita la testa, anche se speravo più poi che prima.

A un certo punto sentii la sua mano accarezzarmi la testa, era delicato e pareva quasi mi stesse cullando. Decisi di godermi il momento e percepii il suo sguardo su di me; nonostante fosse stato Elijah a proporre di osservare il cielo, forse anche lui aveva poco interesse nella luna e le stelle.

-Mi dispiace che abbiano decretato il combattimento di oggi come pareggio. Sono sicuro che avresti potuto vincere- dichiarò sincero mentre continuava a passare la sua mano fra i miei capelli.

Mi voltai verso di lui e gli sorrisi leggermente.

-Sul serio?- persino io, che ero una delle due contendenti, non ne ero molto sicura.

-Mi dispiace anche non poter essere stato d'aiuto, se avessi terminato l'arma in tempo forse sarebbe andata diversamente. Ti prometto che manca poco, l'ho quasi completata- esclamò Elijah annuendo con decisione.

-Vedo che qualcuno crede molto nelle proprie capacità- risi divertita.

Lui mi sorrise semi-imbarazzato. -In realtà, ho fiducia nelle tue- mi disse dolcemente.

Nei suoi occhi potei leggere la sincerità che accompagnava le sue parole. Gli diedi un finto cazzotto scherzoso sulla gamba per poi tornare con la testa fra le gambe.

-Ma dai- commentai scherzando.

-Però posso svelarti un segreto- cominciò lui stendendosi sulle tegole.

Attirò subito la mia attenzione. Tirai fuori il viso dal mio nascondiglio e attesi impaziente ciò che aveva da dirmi. A volte la mia curiosità mi portava in situazioni che non avrei neanche pensato.

-Fingersi morti!- esclamò Elijah espandendo le braccia lungo il tetto.

Se ne stava lì con la lingua di fuori e la bocca mezza aperta, era immobile e tratteneva il respiro; non era proprio capace di fingere. Mi avvicinai a lui e iniziai a colpirlo sul petto.

-Non prendermi in giro! Ero sul punto di crederti- esclamai ridendo insieme a lui che si parava dai colpi.

Lo raggiunsi appoggiando la schiena alle tegole del tetto, mentre lui decise di girarsi su un fianco e alzarsi appena il petto. Adesso mi sorrideva divertito dall'alto della sua postazione e mi persi nel suo sguardo dolce. Quel momento silenzioso sembrò durare in eterno ed era bello così, nella sua semplicità; proprio come lui. Ah, ma cosa stavo andando a pensare? Interruppi quell'attimo strattonando i limiti della sua felpa per richiamare la sua attenzione.

-Torna giù con me- lo supplicai a bassa voce.

Elijah si buttò al mio fianco e tornò a guardare le stelle. Chissà se anche lui, mentre le osservava, si chiedeva dove e come stessero i suoi genitori. Avrei tanto voluto saperne di più, ma sembrava che le informazioni fossero introvabili.

-Davvero fingersi morto può servire, soprattutto quando le gemelle vanno su tutte le furie- Elijah tornò sull'argomento continuando a sorridere.

-Posso capire Alice...spesso mi lancia certi sguardi- commentai ridacchiando.

-No, credimi quando ti dico che Margot è più terrificante di sua sorella. Proprio perché è sempre allegra e amorevole, quando si arrabbia è meglio starle alla larga o fingersi morti- proseguì lui con la sua teoria strampalata.

-Ma non è una cosa che funziona solo con gli orsi?- replicai giocosa.

-Sì, probabilmente sì- concordò lui ridendo.

-E non penso possa servirmi in una lotta contro Alice, a meno che lei non sia un orso e noi non lo sappiamo- esclamai facendo la finta pensierosa.

Continuammo a ridere insieme finché non pensammo che fosse giusto tornarsene in camera a dormire, o il mattino dopo avremmo fatto più tardi di Nathan che si sistemava i capelli per mezz'ore intere. Elijah mi accompagnò gentilmente alla porta della mia stanza prima di tornare alla sua. Quando richiusi la porta dietro di me mi ci appoggiai sfinita portando le mani sul mio cuore.

Che fosse quello di cui parla spesso Margot con sua madre? Se non avessi fatto rallentare il battito, non mi sarei addormentata tanto facilmente. Dovevo trovare qualcosa con cui distrarmi. Dopo essermi messa il pigiama notai il diario, trovato in biblioteca, appoggiato sulla scrivania. Forse non era una cattiva idea leggere qualcosa prima di andare a dormire. Mi sistemai sotto le coperte, posai la schiena sul cuscino per stare comoda e cominciai a leggere.

 

2 Luglio 2015

Caro diario,

mi hanno dimessa dall'infermieria e “Oh my Gods!” ho assistito al falò più bello di sempre! “Cosa è successo?” ti chiederai. No, non è vero, sei solo un foglio inanimato ma facciamo finta di sì. Allen si è dichiarato a Gloria davanti a tutti cantandole una canzone e le ha chiesto di stare con lui il 4 Luglio. La faccia di lei era impagabile. Sembrava volesse scappare per la situazione estrema in cui si è ritrovata, ma Isabelle e Alessandra la trattenevano di lato mentre io la tenevo da dietro. Allen si è persino chinato di fronte a lei, e insomma si sa che lui non si china per nessuno. Senza contare la gioia di Nico nel sapere che Allen è innamorato di un'altra! Si è unito al coro di ragazzi che cantava di sottofondo. Beh, inutile dire che Gloria ha accettato. Finalmente avremmo passato tutti il 4 Luglio con la propria anima gemella! Ovviamente io devo ancora riprendermi, ma con un po' di impegno so che mi rimetterò in fretta.

 

Allen...Gloria...Isabelle...non erano gli stessi nomi dei professori quaggiù? I coniugi Moore e la madre delle gemelle...che siano gli stessi di cui parla la proprietaria del diario? Iniziai a farmi talmente tanti viaggi mentali sulla questione che mi addormentai con il diario ancora fra le mani.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** La Rottura della Quiete ***


[Havery Lilith]

 

Creare un'arma dal nulla doveva essere più complicato del previsto. Erano due settimane che Elijah si scusava e mi ripeteva che era quasi pronta. I miei ripetuti “stai tranquillo, non importa” e “non devi strafare per me” sembrava che non gli fossero arrivati. Cancellai quel pensiero e mi concentrai sulla lezione musicale del professor Moore che proseguiva normalmente. Si era seduto al mio fianco, al pianoforte, per aiutarmi con degli accordi con cui avevo dei problemi.

L'espressione rilassata e serena, che il professore aveva quando entrava in contatto con la musica, ti contagiava a tal punto da farti credere che non ci fosse nessun male al mondo ma solo gioia e felicità. Mi distrassi un attimo ad osservarlo, Nathan gli assomigliava davvero tanto. Dal suo solito completo uscì una semplice collanina a forma di stella, non ne avevo mai vista una così. Era argentea al centro mentre le punte brillavano, ognuna di un colore diverso: rosso, rosa, verde, blu, arancione.

Mi chiesi da dove potesse provenire una luce così speciale, che non aveva niente a che fare con le luci artificiali, ma da quando vivevo in questo posto avevo imparato che ogni cosa era singolare e magica. Proprio mentre avevo questi pensieri il professore richiamò la mia attenzione e la lucina blu della sua collana sparì. Pensai di essere stata io, non sapevo come.

-Che cosa stai osservando con così tanto interesse?- domandò lui abbassando lo sguardo verso la collana.

-Mi scusi, non volevo. Devo aver fatto qualcosa perché si è spenta così... - provai a dire, ma non riuscii a finire in tempo perché il professore si alzò di scatto, facendo cadere lo sgabello ed io con lui.

Provai a chiamarlo ma le parole mi si strozzarono in gola e riuscii solo a pronunciare il suo cognome. Il suo aspetto era sconvolto, anzi, non c'era una parola esatta per descriverlo, e il suono della mia voce peggiorò solamente la situazione. Lasciò la stanza sotto lo sguardo di tutti senza avvertire se la lezione fosse finita o meno. Mi alzai in piedi confusa dall'atteggiamento del signor Moore e cercai di capire se fosse colpa mia o meno. Nathan ed io ci scambiammo uno sguardo preoccupato. Lui si alzò e si avviò alla porta.

-La lezione è finita!- proclamò Nathan ansioso.

Mi fece segno di seguirlo oltre il caos della classe, dove tutti già spettegolavano riguardo al crollo emotivo del signor Direttore. Quando fummo in corridoio sentimmo la voce di Elijah chiamarci da dietro.

-Tu vieni con noi- esclamò Sunshine serio indicandolo.

In quel momento non aveva niente a che fare con il suo soprannome, non era solare e allegro come al solito. Qualcosa era andato storto e aveva modificato la tranquillità della nostra routine. Iniziammo a correre, il professore sembrava svanito nel nulla ma Nathan sapeva alla perfezione dove andare. Non feci molto caso alla strada perché mi persi nei miei pensieri. Ripensai che forse quell'uomo era il ragazzo citato nel diario che si era dichiarato in modo folle, Gloria era effettivamente la ragazza imbarazzata dalla spettacolarità della dedica e Isabelle era sempre stata al suo fianco.

Gli altri chi erano? Nico, Alessandra e la proprietaria del diario senza nome...erano tutti collegati alle persone che mi circondavano e mi istruivano da mesi? Forse avevo trovato quel diario per caso o il destino voleva che lo leggessi, oppure stavo semplicemente farneticando su cose che erano solo nella mia testa. Magari il diario poteva essere legato in qualche modo alla reazione del signor Moore, se era realmente lui il ragazzo descritto in quelle pagine.

-Cos'è successo?- domandò Elijah riportandomi alla realtà.

-Non lo so, c'era Ave con lui...gli hai detto qualcosa?- rispose Nathan scuotendo la testa e continuando a guardare dritto.

-No, io...mi sono solo scusata perché credevo di aver spento una delle lucine della sua collana- spiegai appena a disagio.

Sapevo che era una supposizione stupida, ma in quell'attimo la mia mente aveva pensato: posso aprire una voragine nel terreno, forse posso spengere una lucina magica di una collana. Sì, era veramente un pensiero stupido.

L'espressione di Nathan cambiò come se avesse capito qualche dettaglio in più riguardo alla faccenda.

-Quella collana è immensamente importante per lui, dev'essere successo qualcosa di terribile- commentò lui.

Elijah sembrò sul punto di chiedere qualcosa ma il suo migliore amico lo precedette. -No, Elijah. Neanche io so cosa sia quella collana, so solo che ci tiene molto. Mio padre mi nasconde molte cose, "per il mio bene" dice, e mamma è d'accordo con lui- esclamò con un accenno di irritazione.

Lo ascoltammo in silenzio e poco dopo arrivammo di fronte all'ufficio del Direttore. Dall'interno della stanza provenivano dei rumori indistinti accompagnati da un sottofondo di singhiozzi appena percettibili. Nathan spalancò la porta e ci spinse dentro prima di richiuderla subito alle sue spalle.

-Papà! Hey, papà calmati- Nathan gli andò incontro.

Il professor Moore si voltò, aveva l'aria sconvolta. Abbracciò suo figlio e cercò di calmarsi. Sembrò riuscirci finché non incontrò il mio sguardo, ed io non potei fare a meno di fissarlo; non l'avevo mai visto ridotto così. Lungo il volto del direttore iniziarono a scorrere delle lacrime. Si staccò dall'abbraccio del figlio e ci invitò a sederci. Mi misi cauta sulla poltroncina senza staccare lo sguardo da lui, né il suo dal mio.

-Vuoi sapere di questa collana, vero?- mi domandò appoggiandosi alla scrivania.

Tirò fuori la collana dal suo abito elegante e la lucina blu era ancora spenta. Annuii timidamente.

-La tua curiosità...- cominciò lui con l'ombra di un sorriso. Bloccò la sua frase e scosse la testa come per scacciare un ricordo. -Scusatemi, non dovreste vedermi così- esclamò il direttore affrettandosi ad asciugarsi delle lacrime pronte ad uscire dai suoi occhi.

-Papà, siamo solo preoccupati per te- dichiarò Nathan incrociando le braccia al petto serio.

Per un attimo sembrò che il signor Moore volesse veicolare il discorso in un'altra direzione, ma fortunatamente iniziò il racconto.

-Questa collana è stata fatta da cinque ragazzi molti anni fa. Erano tre ragazze e due ragazzi che volevano rimanere uniti e in contatto contro tutto- cominciò tenendo stretta la collana. -Decisero di creare cinque ciondoli uguali in modo che, anche se fossero stati divisi, avrebbero saputo se qualcuno stesse bene oppure beh...- fece un respiro profondo e continuò -Ogni punta, ogni colore rappresenta uno dei ragazzi e quando un colore si spegne...significa che la persona a cui era attribuito il colore è morta- si fermò e nascose il viso fra le mani sconfortato.

Cercai di elaborare quello che aveva appena detto, ma non capivo come potevo trarne qualcosa di utile o di vicino a me. Era come se stesse parlando di un'altra dimensione, un altro mondo.

-Molti anni fa persi tre miei grandi amici, siamo rimasti solo in due ma noi...abbiamo sempre continuato a sperare perché questo ciondolo ci informava sulla loro salute... Fino ad oggi- disse quando si riprese.

Mi bloccai afflitta; mi dispiaceva per il professore ma noi non c'entravamo niente, o almeno per quel che mi riguardava. Entrambi i ragazzi abbassarono il viso sconfitti, capivano la sofferenza del signor Moore mentre io...ancora una volta mi sentivo un pesce fuor d'acqua. Perché non potevano dirmi come stavano i fatti? Perché dovevo essere l'unica all'oscuro di tutto? Cosa c'era di così importante da nascondermi?

Ero sicura che centrasse con la motivazione per cui il professore era arrivato alle lacrime. Nathan ci aveva avvertiti che il ciondolo di suo padre era speciale, adesso era chiaro che era di vitale importanza. Ne avevo abbastanza di vivere all'oscurità della realtà effettiva. Sedici anni a credere di essere sbagliata, a non sapere la mia vera natura che ancora non comprendevo a fondo, e tuttora mi negavano la conoscenza della verità e della mia identità.

La preoccupazione e il dispiacere, che provavo nei confronti del direttore, si trasformò presto in rabbia. Strinsi i pugni e incollai gli occhi su di lui. La scrivania, alla quale il professore era appoggiato, tremò leggermente indirizzando la sua attenzione su di me. Anche gli altri si voltarono verso di me.

-Ave, calmati. Gli occhi sono tornati neri- mi disse piano Elijah avvicinandosi.

Serrai più forte i pugni; ero stufa di non sapere. La mia mente pareva essersi annebbiata.

Ogni tanto tra di loro ammiccavano ad avvenimenti e persone come se io non ne dovessi sapere niente, come se mi fosse vietato conoscere la verità, e sembravano tutti d'accordo. Forse si divertivano a vedermi confusa e ignorante dei fatti.

-Ho detto- sentii esclamare dalla voce di Elijah, come se fosse lontano anni luce da me -che devi calmarti- finì sicuro mettendomi una mano sul braccio destro.

Percepii un pizzicotto a livello dello stomaco e il mio corpo tornò a rilassarsi. -Scusatemi...- dissi affranta chiudendo e aprendo ripetutamente le mani per eliminare la tensione.

La presa di Elijah si fece più dolce come una coccola poco prima di lasciarmi andare.

-Io vorrei solo...- iniziai indebolita dalla rabbia che mi aveva posseduta.

-Capire- concluse con me il professor Moore pacato.

Tornai a guardare verso di lui, adesso il suo volto era calmo e comprensivo ma il velo di tristezza era sempre presente.

-Hai ragione. Non c'è motivo di nasconderti niente ormai...è da tanto che sei qui- ammise dirigendosi sul retro della scrivania di legno.

Prese una cornice chiara e semplice da uno dei cassetti in cui settimane prima avevamo cercato i miei documenti senza trovarli, eppure quell'oggetto non c'era al tempo. Che avesse nascosto la cornice insieme ai miei fogli? La strinse forte al petto e tornò alla sua postazione.

-Sei pronta a reggere il colpo?- commentò Nathan avvicinandomisi.

Non seppi replicare, dopotutto non avevo idea di ciò che avrei visto. Ai miei lati i miei amici sembravano tranquilli, come se sapessero cosa contenesse la cornice. Apparivano come due guardie del corpo pronti a trattenere qualsiasi mia reazione esagerata o a spiegare le mie perplessità. Il signor Moore teneva il quadretto alla stregua di un tesoro prezioso.

-Questi sono i cinque ragazzi della collana- disse il direttore mostrandoci la foto.

Burn e Sunshine non reagirono minimamente, probabilmente l'avevano vista mille volte, mentre io ero rimasi quasi impietrita. La foto ritraeva due ragazzi e tre ragazze immersi in uno spazio verde, circondati da capanne l'una diversa dall'altra.

Tutti erano felici e sorridevano divertiti. Il ragazzo più alto del gruppo era la fotocopia un po' più giovane dell'uomo che ora teneva la cornice. Alla sua sinistra teneva abbracciato un ragazzo abbronzato molto più basso di lui. Sembravano due poli opposti: capelli ricci e marroni contro capelli lisci e biondi, pelle chiara contro pelle scura, occhi verdi contro occhi nocciola.

Il riccio era un po' sporco di qualche olio meccanico con cui vedevo spesso armeggiare Elijah. A pensarci bene...me lo ricordava un po', ma il sorriso dolce di Elijah non aveva niente a che fare con quello del ragazzo abbronzato, piuttosto assomigliava alla ragazza riccioluta di fianco a lui.

-Quelli sono i miei genitori- mi spiegò gentile Burn, notando quanto mi stessi impegnando a capire se ci fosse un collegamento o me lo fossi inventato tramite i miei viaggi mentali.

-Se vuoi ne parleremo dopo, ma devi concentrarti su altro adesso- continuò lui calmo.

Lo assecondai e proseguii l'ispezione della foto. La ricciola abbracciava a sua volta affettuosamente una ragazza dai lunghi capelli neri: era senza dubbio Isabelle, la madre di Margot ed Alice. Per ultima scrutai la ragazza che il direttore stringeva a sé, come spaventato che potesse scomparire da un momento all'altro. Restai meravigliata di fronte a lei.

Aveva i capelli castani leggermente mossi che le arrivavano poco oltre le spalle, sarebbero stati come i miei se non fosse per il colore, ma gli occhi...quelli erano uguali ai miei, assicurato! Quello era il minimo perché il viso, l'espressione erano come i miei; così feci due più due.

-Lei è mia...- dissi a bassa voce, come se stessi raccontando un segreto, sfiorando la foto.

-Madre, sì, nonché la mia migliore amica- concluse il professore lasciandomi prendere la cornice.

La fissai intensamente come se potesse iniziare a parlarmi. Accarezzai ripetutamente la zona della foto dove era ritratta, sperando di poter sentire il suo tocco. Nonostante fossi impietrita, delle lacrime silenziose uscirono dai miei occhi senza che me ne accorgessi. Una goccia cadde sul volto di mia madre e scese rapidamente fino a finire sul pavimento.

-Sai qual'è il suo colore preferito?- mi chiese il signor Moore.

Scossi la testa, ancora sotto shock. Non pensai minimamente che fosse una domanda stupida, in quel momento le mie abilità di pensiero erano totalmente sotto sopra. Scossi la testa un'altra volta, senza un motivo apparente. Ripulii il viso di mia madre dalle mie lacrime senza staccare i miei occhi dalla foto. Ripensai al sogno, che feci per diverse notti, in cui vivevo esternamente il mio abbandono.

Quella donna incappucciata, che cantava al neonato, adesso aveva una forma fisica ben chiara benché nella foto fosse più giovane. Probabilmente aveva la mia età, perché era come specchiarsi e guardare il proprio riflesso. Cos'era andato storto?

-Certo, che domanda sciocca che ti ho posto- si scusò il professore. -In ogni caso, lei adorava il blu- mi informò lui con un velo di tristezza nella voce -e il nero, ovviamente- finì accarezzandomi dolcemente i capelli.

Già, i miei capelli neri così diversi dai suoi chiari. Restai a fissare la foto, cercando di imprimere nella mente la sua figura, il suo sorriso, la sua spensieratezza, il suo affetto per gli amici. Qualsiasi cosa che potesse farmi avvicinare a lei io volevo captarla nell'immagine davanti ai miei occhi. Sembrava totalmente differente rispetto alla donna osservata in sogno; la sua gioia e il suo sorriso erano stati portati via, qualcosa aveva portato la sua vita alla rovina.

-È stato proprio il blu a comunicarci, nonostante nessuno sappia dove sia finita da sedici anni, come stia- cercò di spiegarmi il signor Moore, mantenendo la calma, che avevo una madre là fuori...o almeno fino allo spegnimento della lucina.

Il prof tornò a singhiozzare fra sé e sé e una serie di lacrime scesero indipendenti dai miei occhi, ostruendomi per un attimo la vista. Mi sarei voluta unire alla sua tristezza, ma non mi sembrava adeguato perché il direttore stava provando a restare tranquillo per noi, avrei solo peggiorato la situazione. Da un lato non mi pareva giusto essere addolorata per una persona che non avevo mai conosciuto; non volevo sminuire l'affetto, che sentiva il professore nei confronti di mia madre, né rimanere impassibile di fronte ad una scoperta di tale portata.

-Devi sapere che i tuoi genitori non ti hanno abbandonata, lo hanno fatto per proteggerti così come è successo ad Elijah. Però, per quanto ti riguarda, hai avuto la sfortuna che i tuoi genitori fossero nel mirino dei mostri, o meglio di Field... più di quanto lo fossero i genitori di Elijah. Alessandra e Ryan hanno avuto il tempo di trovarci e lasciare il loro figlio a noi, che avevamo da poco creato questo posto- disse il signor Moore tutto d'un fiato dopo aver preso un respiro profondo.

-C'è molto da raccontare... tua madre si chiamava Michela, figlia della dea Atena, mentre tuo padre si chiama Nico, l'unico figlio d'Ade ancora esistente. Ti hanno tramandato i loro poteri. Erano molto forti e odiati da Field, per questo devi restare al sicuro- mi chiarì il direttore senza darmi il tempo di assorbire le informazioni precedenti.

I miei genitori non mi avevano abbandonata e potevo sperarlo dai miei sogni, il professore me lo aveva solo confermato. I genitori di Elijah erano amici dei miei...no, tutte gli adulti che avevo conosciuto all'Istituto erano strettamente legati ai miei genitori. Mio padre era figlio di Ade, il dio degli Inferi, per questo potevo aprire delle voragini nel terreno e un'aurea nera mi circondava quando usavo i miei poteri? Mentre mia madre era una figlia di Atena, ma...Elijah mi aveva riferito che anche il padre delle gemelle lo era. Questo faceva di lui mio zio? Margot ed Alice erano mie cugine? E tutti lo sapevano fin dall'inizio? E adesso questo Field chi era?

-Questo...questo Field chi...chi è?- domandai sconvolta alzando la testa dalla foto per la prima volta da quando l'avevo ricevuta.

-È uno dei mostri più forti, può trasformarsi in umano se vuole e...- iniziò a spiegarmi il signor Moore, ma non riuscì a concludere perché l'intero edificio e il terreno sottostante iniziarono a tremare.

Per poco non lasciai cadere la foto per terra dallo spavento. -Non sono stata io!- esclamai posando velocemente la cornice sulla scrivania.

Un terremoto poteva essere così forte? I ragazzi si voltarono di scatto verso la porta dell'ufficio del direttore con un'espressione mista tra la serietà e la furia.

-No, infatti- ringhiò Nathan stringendo i pugni.

Lui ed Elijah si scambiarono uno sguardo d'intesa mentre il professore annuì come se si fossero mandati un messaggio mentale comprensibile solo da loro tre.

-Agli armamenti!- esclamarono i due ragazzi carichi mentre correvano per il corridoio.

Guardai confusa l'uomo con cui ero rimasta sola e lui, per la prima volta, si voltò da un'altra parte. Osservò fuori dalla finestra, verso il giardino, così lo imitai per capire cosa stesse succedendo. Vidi una leggera barriera azzurrognola tutt'intorno all'Istituto che non avevo mai notato. Stava tremando e, ai suoi piedi fra gli infiniti pini, dei mostri armati fino ai denti erano pronti ad invaderci.

La barriera veniva colpita da bombe provenienti dal cielo, ma sembrava ben reggere. Per tutto il giardino si erano sparsi i ragazzi dell'Istituto: chi armato e chi bastava essere se stesso per fracassare qualche mostro. Al primo impatto mi spaventai e un brivido mi attraversò la schiena, dopotutto non avevo mai visto un mostro in vita mia ma solamente nei miei sogni. Guardando la situazione dall'alto, la mia mente cambiò direzione: non dovevo averne paura, mi avevano protetta abbastanza. La rabbia mi assalì nei confronti dei mostri e corsi via dall'ufficio.

-Ave torna indietro! Non puoi andare!- sentii urlare il signor Moore alle mie spalle.

Mi voltai e lo vidi dietro di me, rincorrermi disperato, ma io non mi lasciai fermare. Riuscii a nascondermi in corridoio fra la folla che andava a prepararsi al peggio. Andai all'armeria e presi una spada, la prima che mi capitò a tiro. Pensai mi bastasse, sperando che la barriera non crollasse. Dopotutto avevo la mia pietra con me e, se mi fossi concentrata abbastanza, avrei tirato fuori i miei poteri senza uccidere chi non dovevo. Non mi sarei dovuta trovare lì; capivo il desiderio del professore di volermi proteggere, ma io volevo combattere e difendere ciò che ero. Volevo far vedere ai mostri che erano loro a doverci temere e non il contrario.

Vidi Elijah a capo di un gruppo variopinto di ragazzi al campo da basket. Perché variopinto? Si erano tinti con la vernice, probabilmente quando è scattato l'allarme-scossa erano a lezione di pittura e avevano deciso di prepararsi alla battaglia con creatività. Elijah era ben assistito da arco e frecce, un pugnale nascosto nei jeans, qualcosa di esplosivo nella tracolla e sé stesso. Era una forza umana a cosa gli servivano tutte quelle guarnizioni? Sembrava aspettare un'occasione del genere da una vita! Sprizzava energia da tutti i pori, per non parlare della sua aria divina che avevo riscontrato io stessa.

Mi distrassi dall'effetto che mi faceva e decisi di non avvicinarmi; se il signor Moore non accettava la mia presenza in battaglia né Elijah né nessun altro me lo avrebbe permesso. Trovai un posticino isolato con una buona vista: mi appostai su un albero ad osservare entrambe le parti. I ragazzi si organizzarono come meglio poterono e quando furono pronti rimasero immobili ad aspettare. Non c'era bisogno di far niente se non attendere l'inizio della fine o la ritirata dell'esercito dei mostri.

Dalla mia postazione potei notare Crystal e Margot indossare la divisa bianca e azzurra del tennis, ma erano evidentemente pronte entrambe. I capelli legati in una coda alta non bloccava la vista delle due. Crystal portava un pugnale legato alla gamba destra mentre nelle mani teneva due spade corte, mi avevano raccontato di quanto fosse capace negli attacchi rapidi e ravvicinati. A differenza sua Margot sembrava meno preparata, forse perché la sua arma consisteva in un bracciale che le percorreva tutto il braccio sinistro: una frusta di metallo divino capace di bruciare la pelle dei mostri al minimo contatto.

Poco lontani da loro, i coniugi Wilson si stavano consultano mentre si osservavano intorno. Isabelle era l'immagine perfetta della bellezza che uccide, appareva bellissima e capace di far fuori qualsiasi mostro al tempo stesso, mentre Thomas stringeva una spada nella mano destra mi ricordava la pacatezza prima della battaglia.

Ipotizzai che Alice fosse corsa a recuperare la sua amata katana in camera. Oltre a lei solo una persona mancava all'appello. Wolfie. Non doveva armarsi come Alice quindi dov'era quel ragazzo in una situazione critica come questa? Non si poteva dire che fosse noto per la sua bassezza, o che fosse poco appariscente con quei suoi capelli così biondi da sembrare bianchi. Mi chiesi spesso se non fossero veramente bianchi...e di sicuro si noterebbero fra la folla.

Vidi il direttore e Gloria cercare fra gli studenti. Lui si era cambiato: ora non aveva più il suo completo perfetto, si era tolto la giacca e la cravatta e i suoi capelli erano scompigliati, tirati in su alla bel è meglio. Imbracciava un arco e nella faretra teneva frecce alquanto strane, mentre Gloria portava al suo fianco la sua katana. Lei era decisamente la definizione di donna minacciosa, potevo capire perché Sunshine avesse spesso paura di sua madre.

Quando si trattava di combattimento era nel suo elemento e sembrava pronta ad un faccia a faccia con i mostri. Si fermarono quando trovarono Nathan e Elijah, si dissero qualcosa velocemente e ripartirono. Non potevo sapere se stessero cercando me oppure fosse un comando da pre-battaglia, perché non urlarono il mio nome. Ciondolai avanti e indietro sul ramo facendo attenzione alla spada che portavo.

Alla base dell'albero la barriera iniziava a sgretolarsi. Era una brutta idea rimanere lì, così mi alzai in piedi sul ramo. Mi apprestavo a saltar giù dall'albero quando mi sentii chiamare da Nathan. Lo vidi indicarmi, anche suo padre ed Elijah provarono ad avvicinarmisi, ma non ebbero il tempo perché nella barriera si creò abbastanza spazio per far entrare i mostri. Sparii dalla vista dei miei amici e mi concentrai sui nemici. Strinsi la spada nella mia mano destra, feci un respiro profondo e chiusi gli occhi. Quando li riaprii, percepii il cambiamento.

Mi buttai nella mischia iniziando a menare fendenti. Non davo colpi ben precisi, fino a quando non mi trovai di fronte un grosso bestione. Cominciai una lotta contro di lui, sembrava divertito dai miei tentativi. Mi ritrovai dei tagli spessi sul braccio destro che iniziò a sanguinare copioso, ma non ci badai. Provai a far finta di non percepire il dolore e continuai a colpirlo con la spada. La rabbia nei suoi confronti stava offuscando la mia mente e non riuscivo a ragionare come si doveva. Gli recai pochi danni insufficenti, finché non pensai di creare una crepa sotto ai suoi piedi.

Concentrai la mia energia sul terreno e vi spedii tutta la mia rabbia e tristezza che avevo addosso fino a poco prima; potevo ancora sentire i solchi creati dalle lacrime sul viso. Avvenne, ma fui troppo lenta e il mostro se ne accorse. Il suo muso si aprì in un ghigno sorpreso e vittorioso guardando la mia collana. Era circondata da un alone nero pece.

-Havery!- mi sentii chiamare proprio in quel momento.

Mi voltai e vidi Elijah preoccupato correre verso di me. La sua espressione allegra e energica era svanita; mi indicò la bestia alle mie spalle ma non feci in tempo a voltarmi. Qualcosa mi colpì la testa e persi i sensi cadendo fra le braccia del mostro.

 

[Alice]

 

Stavo giocando a tennis con Margot contro Crystal, dato che lei aveva dalla sua parte la velocità, quando la terra sotto i nostri piedi iniziò a tremare. Mia sorella cadde sul terreno scombussolata, non aspettandosi la scossa, mentre Crystal ed io riuscimmo a mantenerci in equilibrio reggendoci alla rete. Sentimmo Nathan ed Elijah avvertire tutti di andarsi ad armare così ci dividemmo.

Margot portava sempre con sé il suo bracciale-frusta e Crystal doveva rifornirsi al capannone degli armamenti, invece io dovevo correre in camera a prendermi la katana perché sfortunatamente non mi era concesso di portarla sempre con me. Solo perché non era un elegante accessorio. Dopo aver deciso di rincontrarci al campo da tennis, mi avviai in camera più veloce che potevo.

La tenevo sempre all'ingresso per riuscire a prenderla rapidamente. Quando richiusi la porta, mi ritrovai di fronte Henrick. Non era il momento adatto per svenire. Feci un passo indietro per lo spavento, andando a colpire la porta con la schiena. Senza emettere una parola, lui mi prese il polso e cominciò a correre. Notai che nell'altra mano non portava nessun'arma, piuttosto un grosso indumento viola scuro. A cosa gli serviva? Appena fummo fuori dall'edificio mi portò verso il limitare degli alberi, invece di dirigersi verso gli altri ragazzi.

Cosa aveva intenzione di fare? La battaglia era da tutt'altra parte. Ripensai alla sua richiesta di scappare insieme e capii che voleva approfittare di quella situazione di panico generale per farlo; eppure io non gli avevo mai dato una risposta.

-Tieni sempre questo mantello- esclamò Henrick mettendomi sulle spalle l'indumento viola scuro che aveva portato in mano fino a quel momento. -Capiranno che sei con me, così non ti toccheranno- mi avvisò serio allacciandomelo.

Chi non doveva toccarmi? Di cosa stava parlando? Non feci in tempo a replicare che Henrick mi prese per mano ed iniziò a correre fra gli alberi oltre l'Istituto. Tutto davanti a me scorreva veloce e confuso. Dove mi stava portando? Provai a staccarmi da lui, ma era evidentemente impossibile per me. Cercai di adattarmi alla sua corsa sperando che prima o poi si sarebbe fermato per farmi riprendere fiato e spiegarmi cosa stava succedendo. Strinsi nella mano libera la mia katana, cercando in essa le sicurezze che mi mancavano in quel momento.

Henrick rallentò dopo vari metri di corsa nel fitto bosco che circondava l'edificio da cui stavamo scappando. Una radura verde si aprii di fronte ai miei occhi. Un mezzo grigio sostava al centro, assomigliava ad una nave per il trasporto merci ma dava l'impressione di essere così leggera da poter volare. Henrick si fermò e mi fece avanzare di fianco a lui a passo normale. La zona pullulava di mostri, eppure lui sembrava tranquillo e a suo agio in quell'ambiente. Mi vennero i brividi lungo la schiena e gli strinsi forte la mano.

Perché eravamo lì? Perché non scappavamo da loro invece di andargli incontro? Nel retro della nave era stato aperto un passaggio da cui entravano e uscivano i mostri. Ci avvicinammo all'apertura mano nella mano; la situazione era talmente assurda e confusa che non mi preoccupai delle nostre mani legate tra di loro. C'era qualcosa di infinitamente peggio a cui pensare al momento: i mostri che ci circondavano. Sembravano non essere interessati ad attaccarci, anzi davano segni di rispetto nei confronti di Henrick. Chinavano leggermente la testa al suo passaggio e lui sorrideva sicuro di sé, ma soprattutto soddisfatto. Di cosa? Avrebbe dovuto spiegarmi molte cose, questo era certo.

Tutto d'un tratto i mostri al lavoro si fermarono e fissarono l'avanzata di un loro compare verso l'apertura del mezzo. Portava tra le braccia qualcosa come se fosse un sacco di patate, cos'era di così importante da osservarlo così insistentemente? Guardai meglio e notai che, in realtà, stava trasportando una persona. Era una ragazza dai capelli neri completamente assente, probabilmente era svenuta. Quando mi passò accanto sospirai sconvolta: quella ragazza era Havery.

-Questo era meglio se non lo vedevi. Entriamo- mi disse dolcemente Henrick guidandomi all'interno della nave.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Prigionia ***


[Havery Lilith]

 

Ero accasciata per terra, sentivo il freddo pavimento di metallo sotto di me. Non tenevo più la spada fra le mani che, invece, erano legate strette davanti a me. Non riconobbi il materiale con cui ero stata legata, anche se non cambiava le cose al momento; almeno le gambe erano libere. Non aprii subito gli occhi, però capii che non c'era molta illuminazione nel luogo in cui mi trovavo. La testa mi rimbombava come se vi fosse un tamburo che non smetteva di suonare.

Il braccio destro aveva smesso di perdere sangue ma il dolore, che proveniva dai tagli profondi, aumentava alla minima contrazione dei muscoli. Sembrava mi avessero scavato dentro il braccio con degli artigli ben affilati. Sentii dei passi e il rumore dell'acciaio che scorre, una porta era stata aperta. Mi rilassai e calmai il mio respiro, provai ad aprire gli occhi per capire finalmente dove mi trovassi e chi fosse venuto a farmi visita.Dovevano avermi dato una bella botta perché anche questa semplice azione mi risultava difficile e faticosa. All'inizio la vista era sfuocata e i miei occhi percepivano solo i delineamenti base di ciò che mi circondava.

-Bene...bene...bene...- disse una voce lentamente.

Fortunatamente era umana, magari non avevo niente da temere. Fece qualche altro passo ed uscì dalla penombra della stanza.

-Guarda un po' chi abbiamo qui- continuò lui divertito.

Lo ispezionai non appena tornai a vedere normalmente ed avevo ragione: era un umano. Forse si erano sbagliati e avrei potuto risolvere l'equivoco. Era un uomo alto sulla quarantina. Portava i capelli castani legati in un ciuffetto che ricadeva sulla camicia bordeaux. Mi prese il volto fra le mani osservando ogni angolo del mio viso, per poi sorridere.

-Havery Lilith Di Angelo- disse ogni nome con minuzia, assaporando quelle parole deliziato.

Mi guardò dritto negli occhi e il suo sorriso si ampliò. Cosa voleva dire con “Di Angelo”? Quest'uomo doveva sapere molte cose più di me. Ad ogni suono la mia testa soffriva sempre di più, ogni millimetro del mio corpo sembrava gridare pietà.

-Non so di cosa tu stia parlando- ammisi sincera.

Era vero, l'espressione dell'uomo era così sicura e convinta che mi destabilizzò non sapere di cosa stesse dicendo. Finivo sempre in situazioni poco comprensibili.

-Non sai il tuo nome completo? Questa è bella!- esclamò lui divertito.

Mi mollò aggressivamente il volto, scuotendomi a tal punto da farmi quasi crollare a terra. Non riuscivo a rimanere stabile sulle ginocchia, ero troppo indebolita. L'uomo apparve soddisfatto come pochi, come se avesse appena vinto il premio migliore al mondo. Iniziò a camminare per la cella godendosi il momento. Non capivo...cosa poteva volere da me? E se quello che aveva detto era vero, Di Angelo era il mio vero cognome?

Non sapevo se fidarmi delle sue parole o continuare a credere che fosse tutto un malinteso. Intorno a me erano state sistemate altre gabbie, più o meno piccole, che contenevano alcuni prigionieri umani; parevano facili da superare. Se anche l'uomo era un essere umano, perché ne catturava altri? Era forse un mercennaius? Eppure sembrava che la sua attenzione fosse totalmente diretta verso di me.

-Hai lo stesso sguardo altezzoso di tua madre- esclamò lui sprezzante quando tornò a posare i suoi occhi su di me.

Cosa? La conosceva? Rimasi senza parole. La speranza che fosse tutto un malinteso stava svanendo piano piano. Il mal di testa non faceva che aumentare e mi dava la sensazione che sarei svenuta da un momento all'altro per la stanchezza.

-Oh, scusa la mia maleducazione. Non mi sono presentato. Io sono Field, piacere mio Havery- esordì con voce suadente sorridendomi malignamente.

A quel punto mi ricordai che il signor Moore mi aveva parlato di lui. Era il nemico dei miei genitori, colui che mi aveva tenuto lontano da loro. Instintivamente il mio battito cardiaco aumentò, avevo i nervi a fior di pelle.

-Ah... allora mi conosci. Spero ti abbiano raccontato cose belle di me- continuò Field sempre più divertito dalla mia situazione.

Provai a togliermi le corde d'acciaio dai polsi e vidi la mia aurea nera aumentare intorno a me. Avrei tanto voluto fargliela pagare, non si meritava di vincere. Aveva rovinato la vita a me e a tutti i miei amici. Ci avevano costretti a giocare al gatto e al topo ed era evidente dalla sua reazione che provava un piacere incommensurabile nel vedermi chiusa in gabbia.

-Hey, non c'è bisogno di scaldarsi Di Angelo. Lo dico per te- mi avvertì lui aprendo la porta della cella.

Tentai di aprirmi un varco verso di lui, ma dalle sbarre partirono delle scariche elettriche che non mi permisero di fare altro che accasciarmi per terra. Urlai dal dolore e dei rivoli di lacrime involontari uscirono dai miei occhi.

-Ti avevo avvertito. Le tue grida sono musica per le mie orecchie- rise Field prima di andarsene.

Se ne andò, lasciandomi lì sofferente. Più tardi avrei riprovato ad uscire dalla mia prigionia. Il meccanismo era semplice: provi ad attaccare e, qualsiasi sia il tuo metodo, ricevi una scarica dritta in mezzo alle tenaglie che ti legano in modo da indirizzarle in tutto il corpo. Dovevo ragionare un modo per scappare, senza aggravare la mia situazione. Forse l'unico modo per rimanere illesa da questa prigionia era aspettare, se fossi stata abbastanza buona da annoiarli magari mi avrebbero lasciata andare...ma chi volevo prendere in giro.

Era chiaro dal modo in cui Field si era rivolto a me che non sarei uscita viva da qui. Ecco da cosa voleva proteggermi il signor Moore; ora per la mia cocciutaggine mi ritrovavo in grave pericolo di morte.

Provai ad alzarmi un po' tremolante, cercando di ispezionare il luogo in cui ero. Oltre la moltitudine di gabbie vi era una porta e accanto ad essa una grande finestra; dei mostri lì dietro controllavano ciò che avveniva nella stanza, dovevano essere sprovvisti di telecamere. Mi osservai intorno alla ricerca di qualcosa di simile. Alla sinistra della mia prigione c'erano delle casse di legno enormi e uno spazio rettangolare delineato di giallo, ma niente telecamere. In alto, ai lati, erano stati installati dei marchingegni elettronici, forse microfoni in caso qualcuno pianificasse la sua fuga. Vidi i mostri-controllori discutere con Field, provai a leggere il loro labiale.

-Allora, è lei?- chiese il primo, ricoperto di aculei appuntiti.

-Capo, lei è l'unico che può riconoscerla- precisò il secondo, formato da una melma informe color verde vomito.

Field si voltò verso di me; mi mostrai sicura, non dovevo aver paura di lui, e soprattutto non dovevo dimostrarmi debole. Sorrise e tornò dai suoi compagni mostri.

-Direi proprio di sì. Spregevole ed orgogliosa come i suoi genitori. Inoltre avete visto i suoi occhi?- gli domandò facendo cenno verso di me.

I controllori non capirono e fecero viaggiare i loro sguardi, anche se l'aculeo vivente non aveva gli occhi, da me al loro capo.

-Diventano neri come la morte, è lei. Quella voce saprei riconoscerla ovunque, è come quella di sua madre...l'abbiamo trovata- confermò Field malevolmente soddisfatto.

Fece per andarsene, però alzò la mano verso i suoi compari un'ultima volta. -Andateci piano con lei, qualche scossa basterà. Devo scoprire prima cosa sa-.

Le bestie annuirono obbedienti e si concentrarono sul loro lavoro. Ci fu un sobbalzo e caddi a terra. Per poco non picchiavo duramente la testa, e la botta ricevuta dal mostro mi bastava e avanzava. Cavoli, non me l'aspettavo. Dove mi trovavo? Avevo pensato ad una nave cargo, ma non c'erano punti d'attracco navali vicino l'Istituto...a meno che non siano attracchi aerei. Ero su una aeronave cargo, ecco il perché di quelle interferenze! Mi abbandonai lungo la parete di metallo e accarezzai la pietra nera onice che portavo al collo.

Adesso aveva una forma elegante come se fosse un gioiello, era stato Elijah a levigarmela. Si era offerto di sistemarmela promettendomi che nulla sarebbe andato perso, niente sarebbe stato inutilizzato. Chissà cosa avesse in mente. Un sorriso nacque spontaneo dalle mie labbra. Avrei tanto voluto sapere se stesse bene, speravo che tutti fossero vivi e al sicuro. L'ultima cosa che vidi fu il viso di Elijah contratto dalla disperazione, non avrei mai voluto vederlo così. Mentre stringevo il ciondolo tra le mani, ripensai alle nostre giornate passate tra risate e allenamenti.

Una morsa mi strinse il cuore e delle lacrime uscirono calde dai miei occhi; non avrei mai immaginato che mi sarebbe mancato così tanto. Non dovevo pensarci, quindi seguii il consiglio che mi dava sempre il signor Moore. Cantai a voce bassa per rilassarmi e non avere timore di quel che mi sarebbe successo. Mi cullai tra una melodia e l'altra e mi addormentai.

 

[Alice]

 

Me ne stavo sul ponte a fissare l'orizzonte appoggiata alla balaustra di metallo. Il vento sfrecciava fra i miei capelli corti e faceva sventolare appena il mantello che Henrick mi aveva donato. Dov'era finito? I mostri sul ponte iniziarono ad annusare l'aria affamati, dovevo avere un buon odore. Tenevo con me la mia fidata katana, quindi non avrei avuto problemi se qualcuno di loro avesse osato gettarsi su di me. Mi irritava stare lì ad aspettare senza sapere cosa stesse succedendo. Henrick aveva molte cose da spiegare.

-Hey- sentii la sua voce suadente alle mie spalle.

-Devi spiegarmi tutto- esclamai schietta senza voltarmi.

-Lo so, facciamo una passeggiata così ti racconto ogni cosa- esclamò lui pacato.

Camminammo per tutta l'area della nave, anche i piani più bassi. Appena sotto il ponte si trovava la stanza del comandante e un enorme sala adibita per i pasti. Quest'ultima era molto spartana, non era affatto decorata come quella dell'Istituto grazie al buon gusto dei miei genitori. Al solo pensiero la gola mi si seccò; sperai stessero bene. Tutto il mezzo era spoglio e il grigio metallico delle pareti lo rendeva ancora più tetro, mi sembrava di essere in una prigione. Non capivo come Wolfie potesse trovarcisi a suo agio. Ogni tanto delle interferenze rendevano difficile la nostra passeggiata dritta e precisa, producendo dei leggeri sbalzi, senza contare i mostri che continuavano a fissarmi affamati.

Feci finta di non notarli e proseguii stretta nel mio mantello viola scuro, senza mollare la presa sulla spada. Al piano sottostante erano situate le camerate dei mostri simili a quelle delle scuole militari, dato che l'aeronavecargo era utilizzata solo per il trasporto di merci e prigionieri; o almeno così le descriveva Henrick. Inoltre vi erano le cucine, la sala armi e la stanza per l'allenamento dei mostri. Il mio primo pensiero fu che mi sarebbe piaciuto mantenermi attiva lì dentro, poi mi ricordai di essere nella tana del nemico. In seguito passammo per la sala merci fino ad arrivare all'ultimo settore: le prigioni.

-Direi che ormai hai capito che sto dalla parte dei mostri, ero un infiltrato nell'Istituto per un motivo ben preciso- mi spiegò come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Era stato tra di noi per tutti questi anni e non ce n'eravamo mai accorti. Com'era potuto succedere? Perché insinuarsi all'età di nove anni per poi tradire tutte le persone con cui era cresciuto?

-L'unica cosa che è andata storta sei tu. Non eri prevista, ma mi è stato concesso di portarti con me e farti sopravvivere- continuò fermandosi a guardarmi.

Mise le mani sulle mie braccia e le strinse dolcemente. Cavoli, guardarlo negli occhi era peggio di adocchiare per sbaglio Medusa.

-Non volevo che tu rischiassi la vita durante l'attacco, però non volevo costringerti a seguirmi- sospirò quasi amareggiato dalle sue azioni incoerenti.

Dopotutto mi aveva portata via senza attendere il mio consenso, senza una mia risposta. In quel momento di pausa un urlo agghiacciante mi trapassò le orecchie. Era di qualcuno che stava patendo le peggiori pene, veniva da poco lontano; sperai che non provenisse da Havery. Nonostante di lei non mi importasse seriamente, l'aver sentito il suo ipotetico urlo mi fece rabbrividire come se mi avesse riportato alla realtà.

Sembrava che i miei sensi mi stessero dicendo di svegliarmi, di fuggire invece di restare con Henrick. Una parte del mio cervello mi stava appellando affinché corressi a salvare Havery, mentre l'altra ribadiva che lei non era importante. In fin dei conti avevo sempre pensato che chi non riusciva a salvarsi da solo non necessitasse di essere salvato, e forse Havery se l'era anche cercata. Sarei corsa incontro solo alle persone a cui tenevo veramente, come la mia famiglia, se ne avessero avuto il bisogno.

-Ti prometto che qui starai bene- proseguì lui facendo finta di non aver sentito.

-Qual'era l'obbiettivo?- domandai incuriosita.

Di certo non si immetteva un bambino all'interno di un gruppo nemico senza prima aver fatto due conti o avere una strategia d'attacco. Avranno progettato quel momento da almeno nove anni.

-L'erede degli Inferi, ovviamente. Sapevamo che prima o poi sarebbe uscita dal suo nascondiglio umano e l'avrebbero portata all'Istituto, dovevamo solo aspettare. Era per una questione personale...- mi spiegò lui leggermente misterioso.

Mi stava nascondendo qualcosa. Era chiaro che non mi avrebbe detto la verità subito, quale stolto lo farebbe? Ero il nemico e non avrebbe avuto senso rivelarmi i loro piani. Però...infiltrare qualcuno, creare un piano lungo otto anni, solo per una questione personale? Non ci credetti nemmeno un po'. Mi accontentai e non chiesi altro.

Henrick sembrò sul punto di dire qualcosaltro, ma si bloccò quando vide un uomo venire verso di noi. Era molto alto e aveva i capelli castani raggruppati in un ciuffetto sistemato sulla camicia bordeaux.

-Padre ti presento Alice, la mia ragazza- mi annunciò Henrick prendendomi la mano.

Aveva appena detto "la mia ragazza". Sul serio. Persi un battito al suono di quelle parole. Adesso, che la sensazione di panico iniziale era svanita, percepii chiaramente le nostre mani unite. Guardai di scatto verso di esse prima di ridirigere il mio sguardo verso il padre di Wolfie. Era un uomo affascinante, forse Henrick aveva preso da lui.

-Piacere, io sono Field- mi sorrise gentile l'uomo.

Quel nome non mi era nuovo, però sul momento non ricordai dove lo avessi già sentito.

-È lei- esclamò Henrick riferendosi a suo padre.

Sembrava si capissero tra di loro, dato che il soggetto non era stato specificato. Field annuì soddisfatto. Era un tipo di piacere che spesso vedevo sul volto di Henrick, lui stesso mi riferii che a volte lo notava su di me, ma non ne avevo mai capito le sfumature. Ora potevo intravederle chiaramente nei lineamenti del padre, che lo mostrava senza vergogna. Quello era compiacimento maligno, come se la sua figura alta e seducente fosse ricoperta di veleno. Ripensai al modo in cui avevo visto Henrick in tutti quegli anni e un po' tuttora: un ragazzo attraente e forte, ma temibile al tempo stesso. Potevo finalmente comprenderne il motivo.

-Hai fatto un ottimo lavoro, finalmente potrai rilassarti- si congratulò Field passando di fianco a suo figlio, per poi proseguire dritto.

Lo seguii con lo sguardo immersa nei miei pensieri, perché se avessi guardato Wolfie sarei probabilmente arrossita.

-Ti mostro dove dormiremo- esclamò Henrick stringendomi la mano.

Mi portò via da quel corridoio, che ancora rimbombava di grida umane, dirigendoci verso i piani superiori in completo silenzio.

 

[Havery Lilith]

 

Mi sentii punzecchiare sul braccio da qualcosa di appuntito, feci per aprire gli occhi e una scarica elettrica mi colpì. Tentai di alzarmi lo stesso, non sarei diventata il giocattolo di nessun mostro. Strinsi i denti e guardai di fronte a me.

-Buongiorno Havery- Field e la sua voce suadente mi sorrisero.

Avrei preferito rimanere nel sogno di stanotte, nel quale cadevo da un cielo senza fine, piuttosto che vedere lui al mio risveglio. Cercai di fare buon viso a cattivo gioco.

-Buon...giorno- provai a dire, ma la voce mi uscì a malapena.

Iniziai a tossire forte finché non riuscii a far uscire ciò che mi bloccava la voce e irritava la gola. D'istinto chinai la testa verso il pavimento e sputai, chiudendo gli occhi per lo sforzo, qualcosa dal sapore metallico. Il respiro mi si fece affannoso e, quando mi riappropriai della vista, notai di aver vomitato del sangue. Le scariche elettriche e i colpi ricevuti prima del mio svenimento non mi avevano fatto un gran bene, ma dopotutto non potevo aspettarmi altro che reazioni esagerate dal mio corpo.

-Bella giornata, non trovi?- mi domandò lui appagato dalla mia salute debole.

-Sopratutto con questa vista magnifica- esclamai falsamente indicando le gabbie intorno a me.

Le mie mani erano ancora strette tra una cinghia di un materiale molto pesante, che aveva cominciato a lasciare segni sulla mia pelle chiara. Chissà da quanto tempo ero lì dentro, poteva essere passato un giorno dall'attacco all'Istituto come solamente qualche ora. Mi sarebbe piaciuto uscire di lì, ma era impensabile; probabilmente ci sarei rimasta fino alla morte.

-Quanto fate pagare i vostri ospiti a notte? Con uno spettacolo del genere queste sistemazioni devono valere molto- scherzai pulendomi il sangue rimasto intorno alla bocca con il braccio.

-Vedo che ti diverti a soffrire, ne terrò conto- intimò Field dall'altra parte delle sbarre della cella. -Sono qui solo perché ho bisogno di informazioni, per quanto mi piaccia vederti patire- mi spiegò ridendo mostruosamente.

Camminò davanti alla prigione senza staccare il suo sguardo da me.

-Mi dispiace per lei ma sono la persona meno informata di tutte- ammisi sincera.

Qualunque cosa volesse sapere ero sicura che io non la conoscessi. Ero da poco a conoscenza della verità sui miei genitori, figuriamoci su tutto ciò che vi gira intorno.

-Giusto, fino a ieri non sapevi neanche il tuo cognome. Devono averti tenuta all'oscuro per bene- continuò a ridere. -Sei importante per noi, da morta s'intende, perché sei pericolosa con i poteri dei tuoi genitori nel sangue, molto più di altri. Con te hanno fatto il grave sbaglio di nasconderti la verità e il tuo animo curioso e testardo non ha resistito, vero?- esclamò sicuro di sé e delle sue parole.

Era riuscito a capirmi, nonostante non mi conoscesse. Non potei che rimanerne sorpresa. Come poteva sapere che la cosa che più mi premeva era la verità? Come faceva a capire i miei pensieri? Eppure non mi sembrava di essere così prevedibile.

-Le piacciono i monologhi, non è vero, Field?- ribattei provando a non far notare la mia vera reazione.

-Sì, anche a tua madre piaceva interrompermi- sorrise divertito.

In quel ghigno c'era un che di malvagio, quasi velenoso, e vi scorsi appena dei denti appuntiti, come se fossero zanne. Al pensiero di una sua possibile trasformazione mi vennero i brividi lungo la schiena e la pelle d'oca si fece largo sulle mie braccia scoperte. Non sapevo come fosse fatto da mostro e questo mi terrorizzava. Forse avrei preferito mille volte le scariche elettriche ad un suo possibile attacco.

-Comunque visto che, come dici, non sai niente...ti prosciugheremo le energie per i nostri scopi e poi ti uccideremo. Come ho già dichiarato, ci sei più utile da morta. Se vogliamo che il nostro governo cresca e si protragga a lungo le persone come te non devono esistere. Non prenderla sul personale, non sei l'unica a cui diamo la caccia, solo che gli altri sono più cauti di te- sentenziò fermandosi davanti a me. -Attivate le scariche a massima potenza- esclamò alzando un braccio verso il soffitto, prima di avviarsi verso l'uscita.

Sembrò quasi avermi letto nel pensiero una seconda volta. Non riuscii a resistere alla potenza dell'elettricità e caddi a terra urlando dal dolore. Non dovevo morire, non volevo. Non sarei morta in questo modo, facendo piacere ai mostri. La sofferenza trafiggeva ogni cellula del mio corpo come mille pugnali affilati. Prima assomigliavano a piccole punture d'ago, ma diventavano subito delle lame appuntite.

Le lacrime uscirono spontanee dai miei occhi e credetti di non respirare più per un lungo tempo, come se l'ossigeno fosse sparito dalla prigione. Cercai di raggiungere il collo con le mani ma ogni movimento mi appariva impossibile. Contai ogni secondo che restavo sotto la morsa elettrica, poi persi i sensi.

 

[Alice]

 

La camera di Henrick era nella media e conteneva tutto il necessario. Un armadio scuro era stato collocato al lato destro, mentre un letto matrimoniale dalle coperte bianche era stato sistemato in fondo alla stanza attaccato alla parete sinistra. Un attaccapanni di legno scuro ci accoglieva alla nostra destra appena entrati in stanza. Henrick mi tolse il mantello e lo mise sull'attaccapanni.

-Questa non ti serve qui- esclamò prendendomi la katana.

Nel momento in cui la mise vicino al mantello notai una porta che si mimetizzava alla perfezione con il grigio dell'intero mezzo. Forse conteneva semplicemente il bagno. Non ero ancora molto sicura che la spada non mi sarebbe servita, ma non dovevo aver paura di Wolfie giusto?

Mi invitò a sedermi e rilassarmi perché non c'era nulla da temere. Lui aprì l'armadio mentre io mi accomodai sul bordo del letto. Avrei dormito lì con lui? Sentii il mio viso arrossarsi e il cuore cominciare a battere all'impazzata. Calma, dovevo stare calma. I miei pensieri si agitarono ancora di più quando Henrick si tolse la maglietta con estrema naturalezza e senza un filo d'imbarazzo. I suoi muscoli marmorei sembravano essere stati scolpiti con grande minuzia.

Il semplice rossore iniziale si tramutò immediatamente in un grande caldo invivibile e capii che il mio viso era diventato rosso. Cavoli, la mia copertura indifferente se n'era andata con la maglietta di Wolfie. Lui mi sorrise assai divertito dalla mia reazione.

-Come sei innocente- esclamò sbrigandosi ad abbottonarsi una camicetta nera sottile che non faceva altro che evidenziare il suo fisico.

Perché a me? Cosa avevo fatto di male per meritarmi una simile tortura? Come poteva dire mamma che l'amore fosse una cosa meravigliosa? In quel momento era l'esatto opposto, era l'inferno sceso in terra. Volevo sotterrarmi dall'imbarazzo, ma se ci avessi provato probabilmente sarei finita in una delle camerate dei mostri.

-Vuoi qualcosa per cambiarti? Dopotutto indossi ancora la divisa da tennis- notò lui indicandomi i vestiti.

Rimasi in silenzio imbarazzata a fissarmi l'uniforme bianca a strisce azzurre. Per una situazione del genere, in cui il ragazzo che ti piace ti fissa intensamente, la gonna era fin troppo corta. Strinsi i bordi della gonna e feci un respiro profondo, dovevo riacquistare il mio abituale autocontrollo. Dovevo deviare il discorso su un altro argomento, qualcosa di più importante dei miei vestiti, che non avrebbe potuto evitare.

-Non ti senti male ad aver mandato dei mostri contro le persone con cui passi le tue giornate da anni?- gli chiesi dubbiosa.

L'idea mi balzò in mente non appena rincontrai il suo sguardo. Appariva senza rimorso per le sue azioni, nonostante fosse cresciuto all'Istituto.

-No- rispose lui senza emozione.

-Loro non contano niente per me- chiuse l'armadio delicatamente e mi raggiunse. -Diranno che sono un traditore e forse lo sono. So solo che ho fatto ciò che dovevo fare- esclamò Wolfie guardandomi dritto negli occhi.

Avrei quasi riperso la cognizione di ogni cosa, a causa dei suoi occhi violacei e ipnotici, se non fosse per la melodia appena percettibile che uscì dagli auto-parlanti.

 

But I got smarter, I got harder in the nick of time
Honey, I rose up from the dead, I do it all the time
I've got a list of names and yours is in red, underlined
I check it once, then I check it twice

 

In quella voce canterina riconobbi immediatamente Havery e le sue parole non erano affatto carine. -Vi sta minacciando, te ne rendi conto?- feci osservare ad Henrick voltandomi verso l'auto-parlante che notai essere sopra l'attaccapanni.

-Potrà farci poco con le sue minacce vuote- mi rispose indifferente.

-Perché avete degli auto-parlanti in camera?- gli domandai curiosa tornando a guardare verso di lui.

-Ad alcuni piace sentire le urla di dolore dei prigionieri, in questo modo possono deliziarsi con il loro suono preferito- mi spiegò con la sua voce suadente sorridendomi.

Avevo sempre pensato che Henrick avesse un certo fascino e il suo sorriso non poteva che rafforzare la mia tesi. Sentii la sua mano calda posarsi sulla mia e, non appena la strinse il canto di Havery venne interrotto per essere sostituito dalle sue urla.

 

 

[Havery Lilith]

 

Dei sussulti e la forza dell'aria mi svegliarono per primi, seguiti dagli artigli di una bestia sul mio braccio sinistro e un qualcosa di molliccio intorno all'altro braccio. Quando riuscii ad aprire gli occhi, notai di essere in piedi di fronte all'aerea delimitata di giallo. Davanti a me avevo solo il cielo azzurro e le nuvole bianche che sembravano trarmi a sé.

Mi ricordò il sogno, che feci dopo essere svenuta, in cui cadevo in un cielo senza fine e la sensazione di vuoto allo stomaco non mi aveva abbandonata neanche da sveglia. Una ventata fece volare i capelli che non si erano attaccati alla testa per il sudore o il sangue essiccato. Non la vedevo bene per me, ma le alternative non erano migliori.

I mostri ai miei lati mi voltarono, facendomi dare le spalle al vuoto sconfinato dell'aria. Mi ritrovai di fronte Field, i suoi occhi erano una fessura tagliente e il suo ghigno esprimeva tutta la soddisfazione che si poteva avere nel vedere il proprio nemico sul punto di morte.

-Ultime parole?- chiese Field stringendomi il mento.

Questa volta potei vedere da vicino ciò che prima mi erano parsi come un miraggio: i suoi denti appuntiti. Apparivano capaci di strappare la carne con un solo morso, di sgozzare qualcuno senza il minimo sforzo. Sicuramente era meglio sfracellarsi a terra che finire nelle grinfie di un mostro del genere, che patire dissanguati mentre lui ti osserva gioioso.

-Non l'avrai mai vinta- esclamai guardandolo con disprezzo.

Mi girarono nuovamente verso il cielo annuvolato però, prima di lasciarmi, mi conficcarono un artiglio nel fianco sinistro. Gridai sofferente ma cercai di trattenere le lacrime. Quando l'unghia uscì dal mio corpo, il mostro molle mollò la presa sul mio braccio e percepii come se me lo avesse mordicchiato per tutto il tempo. Dopo quest'ultima tortura mi lanciarono nel nulla con le mani ancora legate e mi lasciai cadere chiudendo gli occhi.

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Ricongiungimento ***


[Havery Lilith]

 

Forse avrei avuto un atterraggio di fortuna e non sarei morta, c'era sempre una possibilità. La forza dell’aria mi costrinse ad aprire gli occhi, nonostante volessi tenerli chiusi per la paura che provavo in quel momento. Lo stomaco si era spostato in gola accompagnato dalla sensazione di vuoto, dovuta dalla caduta interminabile. Anche se avessi voluto urlare, la gola secca e la nausea non me lo permisero. Strinsi i gomiti e gli avambracci intorno ai fianchi nel tentativo di fermare l’uscita di sangue e il dolore dal fianco sinistro; come se non stessi per spiaccicarmi a terra. Ancora poco e la sofferenza se ne sarebbe andata in un colpo.

Sentii delle urla sopra di me e una vampata di calore improvviso. Alzai lo sguardo e come di riflesso mi sentii chiamare. Avrei riconosciuto quella voce fra mille, ma cosa ci faceva qui? Il mio cuore perse un battito, non era possibile che anche lui fosse...

Intravidi i suoi capelli ricci fra le nuvole seguiti dalle fiamme rosso vive, che uscivano dalla sua mano. Subito dopo mi prese dal fianco destro con un braccio e mi strinse a sé con delicatezza. Istintivamente emisi qualche verso di dolore quando la mia ferita si scontrò con il suo corpo.

-Ti ho presa! Ora cerchiamo di atterrare vivi- esclamò Elijah sorridendomi come di suo solito.

Lasciò andare il fuoco dalla sua mano e la puntò verso il basso. Vi uscì un turbine d'acqua si fece strada nel cielo e ci rallentò la discesa.

-Mi dispiace se ti ho fatto male- si scusò lui cercando di tenermi a sé il più possibile.

Avevo ancora i polsi legati tra di loro e, non avendo altro modo per aggrapparmi a lui, strinsi forte la sua maglietta.

-Cosa ci fai tu qui?- gli domandai sconvolta, mentre tentavo altri appoggi validi.

Arrossì imbarazzato e mi ricordò che non eravamo nella migliore delle situazioni.

-Ho visto che ti portavano via, così ho pensato di seguirli e imbucarmi per cercare un modo di salvarti. Non è stata un'idea geniale aspettare fino all'ultimo...- rise impacciato.

Aveva fatto tutto questo per me? Se non stessimo volando giù dal cielo, gli sarei saltata addosso dalla gioia. Come poteva dire di non essere stata una buona idea? Dopotutto eravamo vivi e se avesse provato in altri modi probabilmente sarebbe morto nel tentativo.

-Sei stato incredibile invece! Grazie Elijah- dichiarai entusiasta.

Arrossì ancora di più, se possibile, ed io con lui dato che mi avvicinò di più. Improvvisamente l'acqua sparì, non la controllava più. Elijah scosse la mano disperato, stavamo scendendo a gran velocità. Potevo vedere con chiarezza il terreno, se tutto andava bene non ci saremmo sfracellati.

-Scusa, non so come sia successo!- disse lui guardandosi la mano incredulo.

Riuscì a far uscire qualche spruzzo d’acqua giusto per attutirci il colpo, appena prima di cadere a terra. Fu un buon atterraggio nel complesso date le circostanze. Caddi di faccia senza essere capace di pararmi dalla caduta, a causa delle ferite, mentre Elijah, che mi aveva lasciata un istante prima di toccare terra, si trovava poco più in là.

Avevo chiuso gli occhi durante l’ultimo tratto della discesa, ma potevo capire facilmente che ero precipitata su qualcosa di diverso dal semplice terreno. Mi alzai di petto barcollando; sorreggermi sulle braccia, impedite dalla corda di metallo che ancora mi legava i polsi, mi procurava alcune fitte lancinanti, ma non potevo rimanere lì.

La collana, che tenevo al sicuro sotto la felpa, uscì quando mi misi in piedi. Notai di essere caduta sulla schiena di qualcuno, completamente oscuro ad eccezione della pelle chiara. L'uomo, che era stato il mio atterraggio di fortuna, si alzò di scatto e si voltò infastidito.

-Dove hai rubato quel ciondolo?!- gridò come se volesse aggredirmi.

-Io non ho rubato proprio niente- dissi secca mentre stringevo la ferita sul fianco sinistro.

La osservai meglio e mi accorsi che la zona colpita della felpa era del tutto rovinata. Non aveva fatto un banale buco con l’artiglio, probabilmente aveva strappato via il resto dell’indumento nel momento in cui aveva lasciato la presa sul mio corpo; eppure non avevo sentito freddo. Forse mi avevano inferto troppi colpi perché potessi rendermi conto di una cosa superficiale come il freddo. Cercai Elijah con lo sguardo e lo trovai disteso a pancia in giù circondato da due donne. Sperai non si fosse fatto niente e che fosse stata attutita la caduta anche a lui.

Concentrai il mio sguardo seccato sull'uomo. Ero appena caduta dal cielo e volevano accusarmi di essere una ladra? L'uomo rimase paralizzato dalla mia espressione, come se avesse visto un fantasma, e mi ispezionò immobile. Mi bloccai e feci lo stesso. Era un uomo piuttosto alto, dai capelli e occhi neri come la pece, così come i suoi indumenti. La spada che portava legata ai pantaloni emanava la stessa aura inquietante della mia collana; aveva un che di familiare. Si avvicinò a me, mi sfiorò un braccio quasi spaventato.

-Chiama le altre- disse ad un uomo dietro di lui.

Era sempre stato lì, ma non aveva parlato. Il secondo uomo, riccio e abbronzato, andò proprio dove Elijah era atterrato. Il primo, invece, non aveva la minima intenzione di mollarmi. Mi osservava e controllava incredulo, quasi con le lacrime agli occhi. Nonostante mi stringesse il braccio per non farmi scappare, il suo modo di farlo era dolce e non mi provocò alcun dolore. Non avrei mai finito di trovarmi in situazioni strane e incomprensibili.

-Credi sia normale che le persone cadano dal cielo insieme a turbini d'acqua?- chiese una donna, riccia di media altezza, alla seconda.

-No, Ale, non lo è- le rispose la più bassa.

Sperai di non essere capitata in una banda di bracconieri, potevano essere avventurieri o fuggitivi se la fortuna girava dalla nostra parte. La seconda donna si avvicinò all'uomo che mi tratteneva ancora, anche lei portava una spada di metallo lucente legata ai jeans.

-Cosa c'è tesoro? Abbiamo trovato un ragazzo poco più in là, sembra svenuto, inoltre...- cominciò a parlare mentre si voltava verso di me.

Non appena mi vide, però, si bloccò ed ebbe la stessa reazione dell’uomo dai capelli neri. Quando incrociai il suo sguardo, il cuore iniziò a battermi forte. Anche se ero pietrificata da quella visione, che credevo impossibile, ai miei occhi salirono delle lacrime. Il mio corpo reagì prima che la mia mente potesse recepire che di fronte a me avevo la mia copia. Se non fosse per l’altezza, la differenza d’età e il colore dei capelli saremmo potute passare per gemelle. Mi accarezzò i capelli incredula, anche lei con gli occhi lucidi.

-Come ti chiami piccola?- mi chiese mettendomi uno ciocca dei capelli dietro l'orecchio.

Nel momento in cui mi accarezzò la guancia, le lacrime scesero dai miei occhi e le bagnarono la mano sinistra. Ormai la risposta era ovvia, ma lo dissi lo stesso.

-Havery Lilith...- esitai un attimo, riflettendo su come dovevo chiamarla.

L’uomo e la donna mi si avvicinarono a loro abbracciandomi, avrei voluto farlo anche io se non avessi avuto le mani legate. Non sapevo come comportarmi se non lasciarmi avvolgere dalle braccia dei miei genitori e invadere dal loro profumo, in un certo senso familiare. Non mi strinsero forte, dovevano aver notato le mie ferite, ma era comunque bello e rilassante farsi cullare da loro. Piano piano, quasi impercettibili, sentii dei piccoli singhiozzi provenire dai miei genitori. Quando ci staccammo i loro volti non sembravano di qualcuno che aveva pianto a dirotto, forse la gioia aveva asciugato le loro preoccupazioni e la loro tristezza.

Probabilmente non si poteva dire lo stesso del mio viso, in cui i solchi delle lacrime saranno stati evidenti dopo le ripetute torture subite. Mi chiesi come mai non avessi ancora esaurito le riserve d’acqua per le lacrime.

-Sei bellissima- esclamò mio padre dolcemente asciugandomi il volto.

-Ci credo, è la mia copia- scherzò mia madre.

-Stupida- disse lui spintonando “la mia gemella”.

-Abbiamo tanto di cui parlare...- mi sorrise mia madre.

-Ma prima- annunciò l’uomo spostandosi.

Estrasse la spada nera e la puntò contro le manette di metallo. Dopo qualche colpo ben assestato i miei polsi erano nuovamente liberi. Li toccai appena per controllare se fosse tutto apposto, almeno una parte del corpo ero sicura che non fosse ferita.

-Chi ti ha fatto questo?- fece per chiedermi mio padre, mentre barcollavo verso gli altri radunati intorno ad Elijah.

-Dev'essere svenuto- asserì l'uomo abbronzato.

Mi sedetti accanto ad Elijah e lo osservai. La faccia era rivolta verso terra, ma capivo dal modo in cui era messo che non poteva essere effettivamente privo di sensi; altrimenti al testa sarebbe appoggiata di lato per terra.

-Oppure si finge morto- dichiarai ripensando a quella notte sotto le stelle.

Allungai una mano insicura verso la sua schiena per poi posarcela delicatamente. Mi abbassai verso il suo volto, mi avvicinai al suo orecchio e lo chiamai dolcemente assicurandolo di non correre pericoli. Lui sorrise divertito ma non aprì gli occhi. Quello stupido stava veramente fingendo di essere svenuto, e si divertiva pure!

-Elijah, alzati fannullone!- esclamai dandogli una botta leggera tra i ricci.

Quando lo chiamai per nome, la coppia che era con i miei genitori ebbe un sussulto. Elijah si alzò pulendosi i vestiti.

-Dopotutto che ti ho salvata mi tratti così, che cattiva- scherzò lui.

Lo spinsi via, poi pensai che poco prima lo avevano fatto i miei genitori. Iniziare a notare le somiglianze comportamentali era inquietante, molto. L'altra coppia si avvicinò ad Elijah. Lui li guardò un attimo e li riconobbe subito.

-Mamma! Papà!- urlò entusiasta abbracciando i suoi genitori.

Se ripensavo alla foto, che il signor Moore mi aveva mostrato, capivo che quei due erano i genitori di Elijah, Alessandra e Ryan. A proposito del signor Moore!

-Non vorrei interrompere questo bellissimo quadretto di ricongiungimento, ma dobbiamo avvertire il signor Moore. Lui è convinto che mia madre sia morta, e probabilmente anche che noi siamo stati catturati da Field...- comunicai velocemente fino ad esaurire il fiato.

La gola mi si seccò di colpo. Da quanto tempo non bevevo un goccio d’acqua? Mi passai una mano sul collo e deglutii un po’ di saliva per ammorbidirmi i muscoli della gola.

-Aspetta...cosa? Cosa c'entra Allen? Perché hai nominato Field?- chiese mia madre sconvolta.

-Quante domande! Ora capisco da chi hai preso Ave...- mi canzonò Elijah mettendomisi di fianco.

Lo guardai male per qualche secondo, non era colpa mia se non conoscevo il mondo da cui provenivo, poi ripresi. -Mamma, dov'è la tua collana?- le domandai voltandomi verso di lei.

Le ci volle un po' per recepire il messaggio. -Oh, scusa. Mi fa strano sentirmi chiamare mamma- cercò la collana sotto il giacchetto. -Oh...porco Ade! Devono avermela rotta quelle stupide chimere!- esclamò dopo aver controllato.

-Hey vacci piano tesoro con le offese, è pur sempre di mio padre che stai parlando- le ricordò mio padre.

-Sì sì, scusami. Quindi...ora la mia luce si è spenta- dichiarò mia madre.

Elijah ed io non potemmo fare altro che annuire. Decidemmo di trovare un posto sicuro per la notte, dato che non sapevamo come arrivare all’Istituto. Saremmo andati a tentativi, prima o poi l’avremmo raggiunta, no?

-Potremmo prenderla come una gita di famiglia!- esclamò Ryan abbracciando sua moglie e suo figlio.

-Certo, sei potenti semidei che passeggiano allegramente per il bosco- sbottò mio padre ironico avviandosi verso il bosco.

-Hey, papà!- decisi di raggiungerlo, nonostante avessi poche energie dalla mia parte.

Non volevo che si preoccupassero per me, soprattutto adesso che li avevo ritrovati. Dovevo essere forte e resistere. Non stavo morendo dissanguata ed era un buon inizio.

-Tutto bene?- gli chiesi appena si voltò.

-Sì, scusami Havery. Voglio solo tu stia al sicuro e non allo scoperto- ammise lui serio.

-Nessuno sarà al sicuro finché non vinceremo, quindi è inutile che mi nasconda ormai- dissi fiduciosa delle mie opinioni.

Ero sempre stata sicura del fatto che non si potesse vivere in eterno sotto la bolla protettiva del signor Moore. Adesso più di prima capivo quanto fosse importante combattere per la nostra libertà, per quanto si possa perdere. Avrei tanto voluto vedere il potere di Field crollare sotto le nostre mani, per tutto il male che ci aveva fatto e quello che ci ha tolto. Non dovevamo più nasconderci, questo era il momento di batterci. Mio padre mi sorrise dolcemente per poi controllare dietro di noi se gli altri ci stessero raggiungendo.

-Dimmi un po'...- cominciò a bassa voce adocchiando alle mie spalle -...tu e lui siete qualcosa? So che sono "effettivamente papà" da qualche minuto, ma vorrei un aggiornamento. Devo sapere se devo picchiare qualche ragazzo, da buon padre- mi spiegò continuando a sorridermi gentile.

Sul momento mi imbarazzai e mi sentii arrossire; non ero capace di esprimere e comprendere ciò che provassi nei confronti di Elijah e la sua domanda mi destabilizzò. Era chiaro dalla curiosità di mio padre, di cui ero felice, che loro avevano sacrificato il loro sogno di genitori per me. Non sarebbe stato affatto facile correre e scappare dai mostri con un neonato tra le braccia, per non parlare del combattere e difendersi facendo attenzione al bambino. Ero cresciuta e me la cavavo abbastanza bene in battaglia, tralasciando la mia prigionia, per poter dire che ciò che avevano fatto per me era servito. Elijah riusciva sempre a spronarmi, sembrava che credesse più lui in me che me stessa, forse era anche grazie a lui se mi ero migliorata.

-No, ehm... o almeno non penso- gli risposi confusa dai miei stessi pensieri.

Appoggiai le mani fredde sopra le gote per dargli una rinfrescata, nessuno doveva intravedere il mio rossore; da un lato mi augurai che si trattasse di febbre e non di imbarazzo.

-Va bene, se hai bisogno di parlare o di capire io e tua madre ci siamo, qualsiasi sia l'argomento- dichiarò mettendomi una mano sulla spalla sinistra.

Quando gli altri ci raggiunsero, Elijah si offrì di portarmi sulla schiena, dato che dovevo essere sfinita, mentre i genitori restarono dietro di noi ad ispezionare ogni millimetro.

-Come hai fatto a passare? Non hai avuto paura?- domandai ad Elijah, cercando di distrarmi dal nostro contatto fisico.

Sperai che non sentisse il modo in cui il mio battito era aumentato, forse se avessi continuato a chiacchierare avrei smesso di percepire le sue mani sulle mie gambe.

-Ammetto che non è stato semplice ed ero un po’ in ansia di non riuscire ad arrivare a te, ma...- iniziò pacato, prima di voltarsi verso di me -no, quando qualcosa di forte ti spinge ad andare avanti- dichiarò sorridendomi dolcemente e guardandomi dritto negli occhi.

La situazione stava decisamente peggiorando rispetto a pochi secondi fa. Ricambiai lo sguardo e ci mancò poco perché mi perdessi in esso; per mia fortuna Elijah tornò a guardare davanti a sé.

-Cosa intendi con…?- provai a chiedere il significato della sua frase, però lui mi fece sobbalzare sulla sua schiena provocandomi un leggero dolore ai fianchi.

-Aia- strillai a fatica mollando la presa dalla sua maglietta per toccarmi il fianco sinistro.

-Scusami, Ave. Volevo prendere questo dalla tasca- mi spiegò porgendomi un tubetto di metallo e decorazioni nere. -Dopotutto te l’avevo promesso ed è meglio non essere disarmati- esclamò girandosi verso di me.

Voleva dire che...quella era la mia arma? Prendendola gli sfiorai la mano, le guardammo per qualche secondo ma le ritirammo subito dopo.

-Grazie- bisbigliai imbarazzata.

Appoggiai la testa sopra i capelli ricci di Elijah che, grazie a questa caratteristica, erano il cuscino perfetto. Camminammo in silenzio per il resto del tempo, finché non fu buio e trovammo un luogo riparato dagli alberi.

-Dobbiamo cercare la legna per il fuoco- disse Alessandra, mentre suo figlio mi sistemava per terra delicatamente.

-Perfetto, io vado con il ragazzo- dichiarò mio padre prendendo quasi di forza Elijah, il quale sembrava spaventato da lui.

Mia madre e Ryan andarono dalla parte opposta a cercare qualche ramoscello e lasciarono Alessandra e me al grande albero, sotto cui dovevamo creare una sorta di accampamento. Lei non sembrava male, appariva dolce e gentile, quindi non mi terrorizzai come Elijah con mio padre. Passammo in silenzio la maggior parte del tempo, io non avrei saputo di che parlare mentre lei sembrava non riuscire a trovare le parole.

-Com'è?- domandò quando terminammo di sistemare le nostre poche cose.

Non capii a cosa si riferisse e lei notò subito la mia faccia dubbiosa, di chi non capiva cosa volesse chiedere. Era stata molto generica, inoltre non mi aspettavo di sentire la sua voce.

-Com'è Elijah, mio figlio?- si chiarì mentre controllava le mie ferite.

Speravo non si fossero accorti della mia condizione disastrata, ma il comportamento premuroso del mio amico doveva averli allarmati più del dovuto. Cercai di non agitarmi quando mi disinfettava le braccia colpite dalle ventose e dagli artigli dei mostri e rimasi in silenzio per riflettere sulle parole adatte. Non era facile descrivere Elijah per quanto potesse apparire una persona semplice.

-È un bravo ragazzo, sempre disponibile per tutti. Non si arrende mai, è un genio della meccanica e per quanto ne so lo adorano tutti- tentai di dipingere suo figlio al meglio delle mie capacità, ma non sapevo cosa volesse sentirsi dire.

Alessandra annuì felice e soddisfatta della mia descrizione, mentre mi alzava la maglietta nella zona dei fianchi. Qualche pezzo di tessuto si era incollato alla pelle tramite il sangue fuoriuscito, almeno era servito da tappo e non si era generata un’emorragia. Vidi un sorriso orgoglioso e sereno sul volto di Alessandra, nonostante stesse curando una ferita profonda e grave come la mia.

Non poteva sapere che, in realtà, Elijah era molto di più.

Era dolce e sensibile, si interessava veramente ad ogni tuo problema fino ad alzarsi alle tre di notte se avessi bisogno di lui. Era intelligente e simpatico come nessun altro, cercava sempre di far sorridere tutti. Lui non esternava molto le sue vere emozioni, o almeno con pochi lo faceva.

Oltre ad essere la persona allegra che tutti conoscevano, era anche dubbioso, spaventato e triste nei suoi momenti di nostalgia che trascorreva al chiaro di luna; non si direbbe dal sorriso che portava sempre stampato sulla faccia. Sentivo di riuscire a capirlo, come se potessimo farlo a vicenda. Lui era l'unico che riusciva tranquillizzarmi, lui...era molto più di ciò che vedevano tutti.

 

[Nathan]

 

-Si ritirano! Si!- esclamai esaltato in preda all'adrenalina.

I mostri fecero retro front verso il bosco e lasciarono l'Istituto. Li avevamo spaventati? Avevamo combattuto valorosamente facendoli ritirare? Non lo sapevo. Il primo pensiero che mi passò per la mente fu Margot. Pregai gli Dei che non le fosse successo niente.

La mia altezza mi permise di vedere bene intorno a me, perfino i bambini che correvano disperati verso Crystal per essere medicati. Perfetto, mia sorella non correva pericoli, come sempre. Mi si era tolto un peso dal cuore nel vederla impegnata e concentrata nel calmare i più piccoli. Avrei notato Margot anche in mezzo alla folla più folta che sarebbe riuscita a nascondere il suo corpo minuto.

Lei non sfuggiva mai al mio sguardo, nonostante a volte volessi mascherare il mio affetto per lei. Era difficile non rimanere ad ammirarla, ma con gli anni avevo imparato a trattenermi. Adocchiai la sua chioma bruna raccolta in una lunga coda che le scendeva lungo la schiena. Non ci pensai troppo e la chiamai a gran voce. Si voltò verso di me e mi dedicò un sorriso raggiante.

Ci corremmo incontro e, quando fummo abbastanza vicini, Margot si slanciò leggermente per allacciare le braccia intorno al mio collo. L'arco e la faretra che avevo ancora con me caddero sull'erba. La presi per i fianchi e la strinsi tra le mie braccia tenendola sollevata a qualche centimetro da terra. Il coraggio e l'adrenalina presero il sopravvento sui sentimenti che avevo sempre taciuto. Mi avvicinai al suo viso e la baciai.

Le mie labbra erano finalmente in contatto con le sue e Margot sembrò entusiasta quanto me perché mi strinse di più. Il cuore sarebbe potuto scoppiare da un momento all'altro, ma ne sarei stato felice lo stesso dato che il motivo per cui batteva così forte era Margot tra le mie braccia.

Quando ci dividemmo, ci sorridemmo a vicenda. Rimanemmo per un po' a guardarci negli occhi mentre intorno a noi le persone correvano ovunque nel panico post-attacco. I suoi occhi più blu di uno zaffiro mi incantavano, in quel momento c'eravamo solo noi nel nostro piccolo angolo di paradiso in mezzo al caos.

-Puoi mettermi giù, sai- ridacchiò Margot senza mollare la presa.

Mimai un no con la testa facendo sfiorare i nostri nasi. Le lasciai toccare terra ma la tenni comunque vicina a me. Margot guardò intorno a sé e si ricordò in mezzo a quale situazione ci trovavamo. Respirò profondamente e si mise una mano davanti alla bocca.

-Hai visto Alice da qualche parte?- chiese spaventata.

-No, tu hai visto Elijah ed Ave?- domandai di conseguenza.

Lei scosse la testa. Eravamo tornati alla realtà e non era affatto bella.

-Dove si è cacciata quella testa di ricci?!- esclamai terrorizzato iniziando a cercare tra la gente.

Dov'era finito il mio migliore amico? Non potevo credere che l'avessero preso, era troppo forte perché ci riuscissero. Il fatto che non riuscivamo a trovarlo era collegato con la ritirata dei mostri? Controllammo tutti i ragazzi dell'Istituto ma non c'era traccia dei nostri amici. Sentii le lacrime salirmi agli occhi ma mi trattenni, non dovevo piangere. Strinsi forte la mano di Margot, la quale aveva già iniziato a singhiozzare.

-Dov'è mia sorella?- domandava invano al vento.

Dovevamo avvertire i nostri genitori, non volevo immaginare come l'avrebbero presa. La perdita di un figlio non era facile, così come non lo era per un fratello, ma ero sicuro che non si sarebbero mai arresi. Dopotutto erano forti e capaci di difendersi là fuori, confidavo in loro.

Isabelle e Thomas non si sarebbero farti prendere dallo sconforto, l’avrebbero cercata mentre Crystal ed io rimanevamo con Margot per assicurarci che non facesse pazzie; sarebbe corsa a cercare la sorella per l’intero stato se avesse potuto. Adesso più che mai dovevamo stringerci e rimanere uniti per non farci sopraffare dalla tristezza e credere nella forza dei nostri amici.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** The Last Prophecy ***


[Elijah]

 

“Riderai meno se mai conoscerai i suoi genitori”...Nathan me l’aveva proprio tirata. Il padre di Havery non faceva altro che lanciarmi sguardi truci non appena ne aveva l’occasione. Il fatto che avesse scelto me come compagno di raccolta mi terrorizzò leggermente: se era capace di fare ciò che Allen mi aveva descritto, dovevo stare molto attento alle mie azioni. Doveva aver capito sin da subito che nei confronti di sua figlia non provavo semplice amicizia. Se ripensavo a come il mio migliore amico veniva trattato spesso da Thomas mi venivano i brividi lungo la schiena; era naturale che Nico di Angelo sarebbe stato infinitamente peggio. Dopotutto non facevo niente di male, no? Non mi sembrava di far qualcosa di sbagliato, o almeno me lo auguravo. Per me era difficile capire i sentimenti di Havery da quel punto di vista, figuriamoci suo padre di cui avevo solo sentito parlare.

Passammo l’intera raccolta di legnetti in silenzio, io assorto nei miei pensieri e lui nei suoi. Le mie riflessioni vennero interrotte quando tornammo all’accampamento improvvisato. Mia mamma stava finendo di fasciare la ferita sul fianco sinistro di Havery, mentre la stessa si reggeva in alto la maglia malconcia. Mi resi conto di essermi fissato su di lei perché Nico mi schioccò le dita davanti agli occhi. Non ne facevo una giusta ed eravamo insieme da poco tempo. Michela si avvicinò al centro della zona con due rocce pronta ad accendere il fuoco.

Andai verso di lei per posare la legna e la fermai. -Lasciate fare a me, potremmo usare le rocce contro i mostri- trovai una scusa piuttosto stupida, però i sassi non servivano veramente.

I genitori si allontanarono confusi, mentre Havery apparve al mio fianco. Feci uscire le fiammelle arancioni da entrambe le mani per velocizzare l’accensione e creare il perfetto fuoco da campo fai-da-te. L’unico entusiasta e non scettico del mio potere fu mio padre che mi batté il cinque con grande orgoglio. Dopo che Michela imprestò una maglia non distrutta a sua figlia e la fecero cambiare dietro al grande albero, ci sistemammo intorno al fuoco in cerchio: io sedetti in mezzo ai miei genitori e Havery in mezzo ai suoi, l’uno di fronte all’altra.

-Mi chiedo...però com'è possibile? Io non ho ereditato il potere del fuoco da Efesto- esclamò Ryan confuso mentre passava un sandwich a mia madre.

-Forse non te lo meritavi e ha saltato una generazione- scherzò Nico aprendo il suo zaino.

-Molte grazie, principino- disse l'abbronzato addentando il suo panino.

Havery ed io ci osservammo intensamente mentre i nostri padri discutevano e le mamme li ascoltavano esasperate. Eravamo veramente lì con loro, non stavamo sognando. Ero lì con lei e mi era difficile non guardarla sorridere spensierata; dopotutto quello che le era capitato, era naturale rilassarsi e godersi una serata con i genitori.

-Hey, ragazzi! Che ne dite di raccontarci qualcosa della vita all'Istituto?- domandò mia mamma d’un tratto.

Disincantò Havery e me, quasi come se stessimo comunicando attraverso gli sguardi.

-Un posto guidato da Allen è per forza un male- esclamò suo padre scherzando.

Vidi il braccio di Michela passare dietro le spalle di Ave.

-Nico...- disse la signora di Angelo tirando uno scappellotto a suo marito.

-Hey, Michela, stavo solo scherzando- rise lui divertito.

Ora capivo perché Allen non aveva sempre una buona parola per Nico, tra di loro non era mai corso buon sangue. Per quanto ogni tanto uscisse qualche commento positivo, risaltavano di più le peculiarità spaventose del figlio di Ade. Dovrebbero essere caratteristiche che Havery aveva ereditato, come l’aura oscura e i poteri...eppure lei non faceva lo stesso effetto.

-Più che altro, come mai non siete all'Istituto? Avevi accennato a Field...- continuò la madre di Ave concentrando il suo sguardo su sua figlia.

-L'Istituto è stato attaccato poco dopo il crollo emotivo del signor Moore- spiegò semplicemente lei, prima di mordere il sandwich che suo padre le aveva posto.

-Ha saputo che lei è morta, o almeno dovrebbe essere morta- aggiunsi precisando l’accaduto.

Havery annuì ingoiando la cena. Sembrava sul punto di divorare il panino in un morso solo ma si trattenne per continuare il discorso.

-Mi sono fatta raccontare circa tutto, perché ero ancora all'oscuro. Subito dopo ci hanno attaccati, io volevo combattere ma il signor Moore voleva proteggermi. Non voleva che partecipassi alla battaglia, però sono corsa in mezzo alla mischia e appena mi sono distratta un attimo...- proseguì lei fissando il fuoco davanti a sé.

Nei suoi occhi potevo vedere la stanchezza e la paura misti alle fiammelle che si riflettevano nitidi, le stavano passando davanti gli ultimi avvenimenti terrificanti. Quanto avremo passato all’interno della base volante dei mostri? Sicuramente non molto, forse un giorno o due, dato che ero passato inosservato grazie alla polvere di mostro addosso a me.

-Un mostro l'ha fatta svenire. Secondo me ha notato il tuo ciondolo e ha capito qualcosa- rivelai notando con quanta riluttanza volesse continuare il suo racconto.

-Potrebbe essere andata proprio così. Dopotutto in quanti possiedono una pietra degli Inferi come ciondolo, se non una sua discendente legittima?- ammise Nico.

Una pietra degli Inferi? Ora si spiegava perché amplificava i poteri di Ave. La ragazza dai capelli corvini si sbrigò a finire la sua cena e prese un lungo respiro profondo.

-Quando mi sono risvegliata ero imprigionata in una aeronave cargo. C'era un uomo dall'altra parte delle sbarre che aspettava. Si è presentato come Field e mi ha trattata sin da subito con una subdola gentilezza. Godeva nel sentirmi soffrire, gioiva nell'apprendere che avevano catturato quella giusta. Disse che per loro ero più utile da morta così, dopo qualche supplizio, mi hanno buttata giù dal cielo ferita e con le mani ancora legate. Lì è apparso Elijah- disse tutto d’un fiato, posando i suoi occhi color cioccolato su di me quando pronunciò il mio nome.

-Vale a dire la persona più forte del mondo!- esclamò entusiasta mio padre abbracciandomi.

-Dimmi figliolo come hai fatto ad atterrare così delicatamente?- mi domandò curioso.

-Delicatamente, certo. Ti ricordo che mia figlia mi è piovuta addosso- lo corresse Nico.

Risi appena al pensiero della scena, ma mi zittì nel momento in cui il padre di Havery mi ammonì con il suo sguardo serio. -Beh, è vero. Siamo piovuti dal cielo letteralmente. Ho usato dei turbini d'acqua per attutire la caduta il più possibile- spiegai voltandomi verso mio padre.

-Quindi hai ereditato anche i miei poteri?- chiese Alessandra emozionata.

Mi voltai verso di lei e mostrai il mio solito trucchetto ai miei genitori. Feci scintillare un caldo fuoco nella mano sinistra mentre nell’altra si creò un dolce vortice di acqua fresca e cristallina. Diressi un po’ d’acqua sulla mano sinistra spegnendo subito il calore appena generato.

-Usi questo trucchetto per rimorchiare le ragazze, non è vero?- domandò mio padre orgoglioso.

-Mio figlio non rimorchia le ragazze- esclamò mia madre colpendo scherzosamente suo marito.

-A meno che non abbia avuto una brutta influenza da Allen- commentò Nico continuando lo scherzo mentre se la rideva, facendo alzare gli occhi al cielo a Michela.

Provai ad introdurre l’argomento dei club dell’Istituto per cambiare discorso. Nonostante l’aria fosse scherzosa, non sapevo come sarebbe potuta andare a finire. Mio padre fu felice di apprendere che seguivo meccanica e falegnameria e, sin da piccolo, mi divertivo a costruire con il poco che avevo intorno. Havery proclamò ai suoi genitori il suo amore per la musica e Michela non poté esserne più entusiasta, chiedendosi che tipo di professore era Allen.

-È sempre stato gentile con me, si è comportato come un padre...credo- la tranquillizzò Ave mentre beveva uno strano intruglio giallognolo che le avevano passato i suoi genitori.

Quando la ragazza dai capelli corvini strizzò gli occhi come reazione alla bevuta, capì che fosse il sostituto del nettare divino. Sfortunatamente non aveva un buon sapore come quello reale, o almeno così mi avevano riferito gli adulti.

-E poi quello è l’unico momento in cui si rilassa, anche con Nathan nei dintorni- continuò lei dopo aver riconsegnato la boccetta a suo padre.

Entrambe le coppie di genitori la guardarono confusi. Cos’aveva detto di strano? Era vero, con Nathan intorno di solito è difficile concentrarsi dato l’enorme impegno che ci mette nel fare il suo tipico gran chiasso. Nathan era sempre così, non che lo facesse apposta, era semplicemente se stesso e non sarebbe cambiato per nessuno. La sua voce era naturalmente alta e quando perdeva la voglia di praticare qualcosa...beh, iniziava a disturbare gli altri. Margot l’aveva da sempre definito tenero per questo, a differenza degli adulti che lo zittivano ripetutamente. Per non parlare di quando la mattina se ne stava delle ore in bagno per sistemarsi la chioma, sarei potuto andare a colazione in pigiama per lui. Nathan era spesso un grande impegno da sopportare, ma ci riempiva le giornate di gioia e spontaneità. Alla fine la sua esuberanza passava in secondo piano però...come potevano i nostri genitori non capire l’affermazione di Havery? A quel punto mi si accese la lampadina: non sapevano della sua esistenza. Era ovvio perché Gloria era incinta da poco quando i miei genitori mi portarono all’Istituto, mentre i di Angelo non hanno nemmeno ricevuto la notizia del secondo figlio in arrivo.

-Credo di aver capito il problema. Ave stava parlando di Nathan Moore, il secondo figlio di Gloria e Allen. È nato a luglio, cinque mesi dopo il mio arrivo all’Istituto- gli spiegai diretto.

Le due coppie rimasero interdette di primo impatto, poi i miei genitori si ricordarono dell’annuncio da parte dei signori Moore il giorno del mio abbandono.

-Un piccolo Allenuccio- commentò divertita Michela.

-Ma speriamo di no, mi ci manca solo la sua copia versione mini- ribadì suo marito scherzando per poi lanciare uno sguardo indagatore verso sua figlia.

Stava forse pensando che tra di loro ci fosse qualcosa? Questo mi fece capire che non si era ancora molto abituato alla figura di padre, o semplicemente aveva l’istinto assassino di uccidere tutti i pretendenti come Thomas. Subito dopo il suo sguardo severo si spostò su di me facendomi rizzare la schiena. Dovevo trovare qualcos'altro di cui parlare assolutamente.

-Mentre Isabelle e Thomas hanno avuto due gemelle, Alice e Margot- annunciai sorridente e sicuro che la notizia avrebbe rallegrato la compagnia.

-Sono diventata zia!- esclamò gioiosa la figlia di Atena.

-Lo sei già da un bel po’- precisò mia madre guardandola scontata.

-Sì, lo so- ammise come se le avesse rovinato la festa. -Non vedo l’ora di conoscerli tutti!- esclamò cercando di tornare allegra delle notizie, ma suo marito glielo permise per poco facendola tornare alla realtà.

-Tutto molto bello, ma dobbiamo uscire allo scoperto una volta per tutte- dichiarò sicuro stringendo la mano a sua figlia.

Havery lo guardò fiera ed orgogliosa e lui ricambiò sorridendole.

-Già, abbiamo retto abbastanza- concordò mio padre alzandosi.

-Domani cercheremo di tappare più terreno possibile, ora dormiamo- disse mia madre imitando mio padre.

-Resto io di guardia- esordimmo all'unisono io ed Ave.

-Quattro occhi sono sempre meglio di due- ritenne Nico andando a sdraiarsi in disparte con sua moglie.

Mentre i nostri genitori andarono a riposare, noi rimanemmo intorno al fuoco ad alimentarlo l’uno affianco all’altra.

-Sai...non te l’ho mai detto ma il tuo arrivo all’Istituto non era programmato. Forse è anche per questo che non siamo riusciti a trovare i tuoi documenti quella volta- ammisi mettendo un rametto all’interno delle fiamme.

-In che senso non era programmato? Allora perché sei venuto a prendermi?- iniziò a domandarmi confusa Havery.

Potevo sentire il suo sguardo, ricco di domande e dubbi, su di me. Le avevamo nascosto così tante cose, pensando di proteggerla e ottenendo il risultato opposto. Non l’avrei più tenuta all’oscuro della verità, in modo che non verrà più ferita dagli avvenimenti.

-Il piano originale era che ti saremmo venuti a prendere al compimento dei diciotto anni, quando il tuo odore divino non si sarebbe più potuto nascondere tra gli umani- cominciai a spiegarle pacato, mentre lei adagiò la sua testa sulla mia spalla.

Il cuore iniziò a battere più velocemente a causa della sua vicinanza, ma cercai di non lasciarmi influenzare. Appoggiai le mani per terra dietro di me per stare comodo e rilassarmi. Guardai in alto, verso il cielo, nella speranza di vedere le mie amate stelle splendenti fra le fronde degli alberi fitti. Riuscii ad scorgere qualche lucina nel buio dello sfondo notturno e mi ricordò le nostre serate all’Istituto; era sempre stato così, non dovevo agitarmi.

-Avevo bisogno di qualcuno come me, che fosse cresciuto senza genitori. Sapevo della tua esistenza grazie alle conversazioni tra i Moore e i Wilson- sospirai continuando il mio racconto. -Un giorno mi introdussi nell’archivio di Allen, spiai nelle cartelle e trovai le informazioni che ti riguardavano. Rubai la moto, che Thomas usava per uscire nel mondo esterno, e ti venni a prendere- conclusi posando la mia testa sulla sua.

Passai qualche secondo a godermi il momento: un occasione del genere era tutt’altro che romantica. Potevo sentire chiaramente quanto i suoi capelli fossero incollati alla sua testa e quanto il suo corpo forse appesantito dalla debolezza. Nonostante le circostanze, eravamo ancora insieme sotto un cielo di stelle ed era un sogno incantevole. Infinitamente meglio di quello che sarei mai riuscito ad immaginarmi.

-Non mi sarei mai immaginato che sarebbe finita così, neanche nei miei sogni più belli...- sussurrai dolcemente.

In realtà quelle parole non doveva uscire dalla mia bocca, così sperai che non mi avesse sentito ma era troppo augurarmelo.

-Così come?- domandò Ave alzando la testa e voltandosi verso di me.

Adesso i nostri nasi si sfioravano e avevamo lo sguardo perso negli occhi dell'altro. Non eravamo mai stati così vicini e, se prima ero agitato, ora non potevo scappare dai miei sentimenti per lei. Rimasi per un attimo incantato dai suoi occhi color cioccolato, poi il mio sguardo si spostò sulle sue labbra. Erano rovinate dai ripetuti morsi, a cui erano state sottoposte durante la sua resistenza nel periodo di prigionia, e dai lievi tagli ma il suo roseo colore naturale era ancora vivido. Quanto avrei voluto baciarla. Al solo pensiero mi sentii arrossire. Eravamo così vicini che, se un soffio vento ci avesse spinto, sarebbe stato inevitabile. Eppure...io non sapevo che cosa lei provasse per me.

-Niente- scossi la testa e mi alzai. -Secondo te ce la faremo a trovare l'Istituto?- provai a cambiare discorso per distrarmi dall’atmosfera precedente.

Vidi Havery alzarsi stordita e raggiungermi vicino al fuoco che ancora crepitava.

-Sì e sono anche convinta che stiano tutti bene- disse speranzosa.

Cominciai a fissare il fuoco riflettendo seriamente per la prima volta, dalla mia pazza scelta di seguire Ave, come fosse finita la battaglia. Havery mi mise una mano sul braccio, come se mi stesse leggendo nel pensiero.

-Stai tranquillo, si saranno difesi alla perfezione- mi rassicurò lei accarezzandomi il braccio dolcemente.

-I tuoi genitori sono simpatici e allegri- disse lei dopo minuti di silenzio tombale.

-Anche i tuoi, molto- esclamai ironico.

Sua madre non era male, da quel che avevo potuto notare nel poco tempo passato in sua compagnia. Non potevo dire lo stesso di Nico invece...

-Sei terrorizzato da mio padre, non è vero?- rise Ave divertita.

Era così evidente che la sua presenza mi intimorisse? Forse faceva parte del pacchetto “figlio di Ade”, oppure veniva naturale ai semidei quando si dimostravano sicuri di sé.

-Ma no...- provai a negare l’apparenza scherzosamente. -Ho solo sentito delle voci sul suo conto, sa fare cose tremende...- ammisi sincero.

Da un lato era vero, dall’altro avevo effettivamente timore di Nico.

-Dimentichi che ho ereditato i suoi poteri, quindi anche io...- Havery provò a giustificare il tipico “terrore” che un figlio della morte provocava.

-Con te è diverso- ribadii dolcemente voltandomi verso di lei. -Mi guarda come se stessi facendo qualcosa di sbagliato- mi sbrigai a spiegare.

-Sarà una tua impressione, la prossima volta avvertimi- esclamò lei sorridente.

A quanto pareva non notava gli sguardi truci di suo padre nei miei confronti, né li aveva visti durante la raccolta dei legnetti. Passammo qualche ora a guardare quel che si intravedeva del cielo, poi le nostre madri ci diedero il cambio. Ci sdraiammo in disparte e, com’era facile aspettarsi, Havery si addormentò non appena toccò terra. Mi avvicinai alla sua schiena e cominciai ad accarezzarle piano i capelli. Non l’avrei più persa di vista come all’Istituto, non farò più lo stesso sbaglio, la proteggerò anche al costo della mia stessa vita.

 

[Henrick]

 

-Senti, preferirei che tu la tenessi d'occhio, okay? Sai che non mi fido di quelli come lei, loro sono il nemico- cercò di spiegarmi picchiettando le dita sulla scrivania d’acciaio.

-Lo so, padre. Io non voglio avere niente con loro, ma lei è diversa. Ti assicuro che non rovinerà i nostri piani, anzi sono sicuro che ne sarà attratta se le spiegassimo le nostre motivazioni- esclamai convinto.

Si appoggiò stanco alla scrivania scura con i palmi delle mani. Si metteva in quella posizione quando provava a far coincidere due pensieri opposti.

-Va bene- dichiarò dopo una serie di minuti passati in silenzio.

-Mi fido di te, ma se non sarà d'accordo dovrai tenerla d'occhio perché ormai non potrà più tornare a casa. Mi dispiace per te, Henrick, però diventerà nostra prigioniera in quel caso- sentenziò severo.

Annuii comprensivo ma strinsi i pugni sperando che ciò non accadesse.

-Sai, sei l'unica persona che mi abbia mai fatto provare quel disgustoso sentimento umano che è l'amore, figlio mio. Vorrei che tu capissi quanto quella profezia di sedici anni fa non mi abbandona un secondo- iniziò a confidarsi mio padre.

Non mi sconvolgeva sapere che ero l'unica persona a cui volesse bene. Ero a conoscenza del fatto che avesse sfruttato mia madre per avere un erede, dopotutto lei stessa era stata felicissima di essere servita a tale scopo. Quella profezia lo stava divorando, facendogli commettere errori stupidi come il non aver ucciso a sangue freddo Havery o non essersi accorto della presenza di Elijah. A causa del suo dannato fuoco l’aeronave aveva avuto una serie di problemi nei bassi scompartimenti, mentre alcuni mostri sono stati feriti. Errori del genere si pagavano a caro prezzo e se continuava così sarebbero stati proprio quelli a portarlo alla morte.

Dopo tutti i provvedimenti presi in quei sedici anni per fuggire al destino, non poteva scivolare su cose così banali. Il mio primo ricordo fu proprio il momento in cui mio padre visitò l'Oracolo di Delphi appena rapito. Quando lo vide una nebbiolina verde uscì dalla sua bocca, gli occhi si illuminarono dello stesso colore e iniziò a parlare con una voce severa e inquietante:

I discendenti degli antichi dovrai temere

Se il potere in mano vorrai tenere

Tra sedici anni il terrore finirà

Con sé il reame cadrà

E la tua fine porterà.

Subito dopo l'Oracolo svenne e si smaterializzò. Qualche anno più tardi mio padre mi spiegò che successe perché gli antichi dei si erano finalmente spostati in un altro stato, lasciando gli Stati Uniti d'America liberi. Mio padre celò quella profezia e nessuno la seppe mai, se non io una volta grande abbastanza per ricoprire il ruolo di spia in una missione importante tra i Deitas, i nostri nemici. Fu così semplice mischiarsi tra di loro, bastò mostrarsi ferito e indifeso e loro non badarono nemmeno al curioso colore dell’iride.

Mia madre mi aveva rivelato la specialità dei miei occhi quando ero molto piccolo, e non la dimenticai mai: il viola era dovuto al veleno che mio padre aveva iniettato in mia madre durante una serie di esperimenti. Tutto ciò avvenne molto prima di avere me, addirittura prima che sfociasse il potere dei mostri.

I Deitas erano stati così stupidi da non accorgersene, così idioti da non badare ad una simile rarità. L’unica ad averli notati fu Alice, sin da subito mi chiese perché avessi gli occhi viola. Non potevo di certo dire ad una bambina di sei anni nemica la verità. Ripensavo alla casualità della domanda di Alice mentre mi dirigevo nella mia stanza, dopo il colloquio con mio padre.

Appena tornai in camera, notai che la luce era spenta. l’accesi solo per cambiarmi e la spensi nuovamente prima di mettermi nel letto. Alice si era avvolta nelle coperte, nonostante il caldo estivo cominciasse ad arrivare. Era evidente, da come stringeva il tessuto, che stava solo fingendo di dormire ma forse era solo una mia impressione. Alice mi dava le spalle e, ripensando a ciò che mi aveva detto mio padre, istintivamente la strinsi tra le mie braccia.

Non sarebbe mai diventata nostra prigioniera, non finché c’ero io con lei. Ero sicuro che Alice stessa sarebbe riuscita a dimostrare il suo valore ai mostri. Appena il mio corpo sfiorò il suo, la sentii irrigidirsi confermandomi il suo essere sveglia. Non mollai la presa su di lei ed iniziai ad accarezzarle piano le braccia.

Avrei tanto voluto farla addormentare tra le mie braccia, ma lei sembrava troppo in tensione per riuscirci; eppure non aveva sentito ciò che mio padre aveva sentenziato. Ero stato io a portarla lì e adesso lei rischiava di essere imprigionata. Cominciai a calmare i miei respiri per pensare lucidamente alla situazione. Immersi il viso nei suoi capelli e un intenso aroma di cioccolato fondente mi invase le narici, il suo profumo mi rilassava ed emozionava al tempo stesso. Non mi imbarazzava farle sentire il mio battito cardiaco, dopotutto era per lei che correva così velocemente.

La strinsi più forte al petto e la mia preoccupazione svanì piano piano. Alice non vorrebbe mai essere salvata, non è il tipo; lei è capace di farcela da sola. Forse potevo fare leva su quella parte oscurata della sua personalità: il suo desiderio di comando. Se le avessi fatto capire il mio punto di vista, c’era la possibilità di farle abbracciare il nostro governo senza che rischiasse la vita. Era la mia unica chance di portarla dalla nostra parte. Se non ci fossi riuscito, l’avrei salvata in un modo o nell’altro anche se lei non sarà d’accordo.

Chi non riusciva a salvarsi da solo non necessitava di essere salvato eh…

Spostai il mio viso nell’incavo del suo collo e percepii la pelle d’oca espandersi su tutto il suo corpo al contatto con il mio respiro. Iniziai a lasciarle piccoli baci dolci e i suoi muscoli si irrigidirono ad ogni tocco. Sarei voluto rimanere così per sempre: in pace, Alice ed io al comando del nostro regno, ma sapevo che non sarebbe stato facile. Mi addormentai con il viso premuto sulle sue spalle nude, pensando a come avrei potuto convincerla il giorno dopo.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Il Richiamo del Potere ***


[Henrick]

 

Alice era in bagno a cambiarsi da più di mezz’ora ed io non sapevo ancora come iniziare il mio discorso. Non era da me essere così insicuro su qualcosa, ma questa volta la questione era importante dato che avrebbe messo di mezzo la vita della persona che amavo. Non l’avrei portata via da quel rifugio per topi se non fosse stata al sicuro. Me ne stavo appoggiato alla porta della stanza, in direzione del bagno, e nell’attesa battevo il piede destro con un ritmo incessante che lasciava trapelare le mie paure. Perché queste emozioni negative dovevano prendere il sopravvento? Fino alla sera prima ero certo che avrei fatto capire il mio punto di vista ad Alice, mentre adesso il solo pensiero di un rifiuto mi metteva agitazione. Tutto ciò non doveva intralciare la riuscita del mio piano.

I sentimenti rovinavano sempre tutto, buoni o cattivi che fossero. Come quando quattro anni fa decisi di deviare dal programma originale di mio padre, perché mi innamorai. Come quando mio padre aveva lasciato perdere la distruzione totale dell’Istituto perché ormai i Moore e i Wilson erano solo dei deboli impauriti senza capacità di reagire; considerava divertente vederli in gabbia, senza tentare minimamente di opporre resistenza al potere dei mostri, perciò li lasciò vivere. Mio padre sapeva che una famiglia mortale era in contatto con l’Istituto e li aiutava con quel che poteva, ma non aveva mai fermato i loro incontri clandestini. Questi sentimenti ciechi portano spesso al crollo se non si agisce con pugno fermo; per questo dovevo tornare calmo e lucido, in modo da non lasciarmi distrarre per il bene mio e di Alice.

Fermai di battere il piede e subito dopo la serratura del bagno scattò. La porta si aprì leggermente e Alice mise un piede fuori incerta per poi spalancare del tutto la porta. Aveva le solite scarpe da ginnastiche, che portava mentre giocava a tennis, mentre il resto dei vestiti erano stati presi dall’inventario che mia madre teneva nell’armadio. In caso avesse dovuto viaggiare con questo mezzo, avrebbe utilizzato questa stanza e i suoi abiti erano stati sistemati qui; erano l’unica cosa che potevo dare ad Alice per cambiarsi d’abito. Le avevo dato ogni singolo indumento, in modo che potesse sceglierselo lei stessa, anche se non pensavo affatto che lei e mia madre avessero la stessa taglia.

La osservai dal basso verso l’alto e poi constatare di avere ragione. Alcune parti le stavano grandi mentre altre erano appena adeguate. I pantaloni lunghi di pelle nera le scendevano bene lungo le gambe piccole e forti, però si notava che aveva arrotolato la parte finale alla bell’e meglio. La canottiera argentata, al contrario, le stava troppo grande e rendeva ancora più evidente la scollatura dell’indumento, non che mi lamentassi.

-Non guardarmi così, sono le cose che mi stanno meglio. La maggior parte degli abiti mi cadono per quanto mi stanno larghi- sentenziò lei guardandomi seccata.

Quando il mio sguardo incrociò il suo, mi ricordai del discorso importante che dovevo farle e mi ripresi. “Non farti distrarre” doveva diventare il mio nuovo mantra.

-Prendi il mantello. Dobbiamo parlare- le dissi facendo cenno con la testa verso l’attaccapanni.

La vidi irrigidirsi, come se la mancanza di informazioni l’avesse trasformata in una lastra di ghiaccio. Non ne aveva bisogno al momento, visto che presto avrebbe saputo tutto. Aprii la porta d’ingresso nel momento in cui Alice mi fu di fianco con il mantello viola sulle spalle. Con la coda dell’occhio la vidi prendere la katana, nonostante l’avessi avvertita che non sarebbe servita. Non mi avrebbe dato ascolto neanche tra un milione di anni, se le avessi detto di lasciarla in stanza, quindi lasciai perdere.

Cominciai a percorrere il lungo corridoio grigio metallico ed Alice mi seguì senza fare domande, le quali stavano sicuramente esplodendo all’interno della sua testa. Non sapevo con certezza dove i miei piedi mi stessero conducendo, avevo bisogno di un posto dove parlarle senza interruzioni. Il ponte sarebbe stato il posto adatto a quell’ora, dato che tutti i mostri erano a mangiare o lavorare; il dormire fino a tardi di Alice si era rivelato utile.

Scesi con sicurezza le scale d’acciaio per arrivare sul ponte principale e mi accorsi subito che lei non mi aveva seguito sui gradini. Era rimasta in alto e mi guardava senza battere ciglio. Quella era l’espressione di qualcuno desideroso di comando, ne ero certo. Istintivamente accennai ad un lieve sorriso; avevo interpretato bene il suo atteggiamento in quegli anni e avrei saputo la verità dopo la sua risposta.

-Cosa devi dirmi?- domandò lei schietta senza staccare il suo sguardo dal mio.

Mentre i suoi capelli corti venivano spostati leggermente dal vento mi chiesi come potesse instaurare un contatto visivo così forte e duraturo, dopotutto non ci era riuscita in otto anni. Non dovevo accennare al rischio che avrebbe corso se non avesse accettato, perché non volevo si sentisse costretta.

-Vuoi comandare?- le chiesi semplicemente.

Alzò le sopracciglia di scatto, come se non si aspettasse una simile proposta, però piano piano le riabbassò come se stesse ragionando sulle varie eventualità della domanda. Forse si stava interrogando sul perché le avessi chiesto una cosa del genere, cosa mi aveva portato ad una richiesta così importante.

-Sai fare solo domande a cui è impossibile rispondere senza riflettere- esclamò lei pacata mentre si voltava dalla parte opposta alla mia.

Non sia mai che una discendente di Atena agisca senza pensare, ma non potevo darle torto. Non era una decisione da prendere d’impulso, le serviva una valvola di sfogo che l’aiutasse a ragionarci su in poco tempo. Notai che dal mantello violaceo fuoriusciva la lama della sua spada ancora brillante dall’ultima lucidatura e lì mi venne l’idea.

-Ti andrebbe di scioglierti un po’ i muscoli nella sala d’allenamento?- le proposi iniziando a salire i gradini per raggiungerla.

-Posso?- mi chiese quasi sconvolta girandosi verso di me.

-Certamente. Qui tu puoi tutto- dichiarai serio guardandola negli occhi.

Alice alzò un sopracciglio come se mi stessi dimenticando di un piccolo particolare, in effetti era vero. Non poteva fare proprio tutto.

-A parte uccidere mostri, s’intende- ripresi ridendo della mia dimenticanza.

Lei rise con me e mi precedette lungo la strada verso la sala allenamenti. A metà strada si fermò perché non si ricordava il percorso da seguire, nonostante i corridoi dell’aeronave fossero i più semplici e lineari esistenti. Non finirò mai di conoscerla. Al nostro ingresso nella stanza si creò il silenzio e i mostri presenti ci fissarono confusi. Passammo tra gli sguardi attoniti di chi si stava esercitando finché non giungemmo ad uno dei pochi sacchi da box liberi. Alice mi porse il mantello e la katana e fece schioccare le ossa delle dita. Pose una mano aperta sul sacco arancione spento per poi chiuderla a formare un pugno. Sembrava indecisa se picchiarlo o meno. Forse i vestiti che indossava non erano adatti per allenarsi, ma a lei non erano mai interessate certe sciocchezze; se bisognava combattere, lo faceva in qualsiasi situazione si fosse trovata. Il suo dubbio la portava persino all’esitare dal colpire il sacco?

-Non sei costretta, sai. Io vorrei solo che tu fossi libera di essere te stessa, che tu realizzi il tuo desiderio di comando. Nessuno ti dirà più di non poter ottenere il potere a cui ambisci- esclamai scandendo ogni singola parola.

Alice mi dava le spalle e potei vedere i muscoli in tensione sotto la leggera canottiera argentata. Dopo qualche minuto di silenzio notai il suo braccio alzarsi e muoversi sul suo viso. Ipotizzai si fosse asciutta qualche lacrima, forse perché il mio discorso l’aveva fatta pensare all’Istituto.

-Mai più- aggiunsi mettendole una mano sulla spalla.

Potei sentire la sua pelle tiepida e contratta, ma non feci in tempo a stringerle la spalla che mi tolse la mano dal suo corpo. Non si voltò a guardarmi, bensì fissò dritta davanti a sé e strinse più forte il pugno della mano destra. Mi allontanai leggermente da lei quando la vidi caricare il colpo.

-Nessuna pietà!- urlò Alice a pieni polmoni mentre colpiva il sacco da box.

Il suo grido mi ricordò quando, dopo il combattimento contro Havery, mi disse di non volere la mia pietà ed io le risposi di non averne mai nei suoi confronti. Era vero, per quanto forse abbia letto il mio gesto fisico come pietà, io volevo solo darle forza per decidere come meglio credeva. Dopo una serie di botte si fermò e si girò verso di me guardandosi le nocche arrossate e rovinate; il sacco da box doveva averle fatto più male rispetto a quanto era abituata all’Istituto, dato che era stato ideato per la forza dei mostri.

-Io ho paura di te...- dichiarò a bassa voce continuando a guardarsi le mani rovinate.

La sua affermazione mi lasciò meravigliato, non mi sarei mai aspettato una frase del genere da lei. Cosa avevo fatto per incuterle paura?

-Perché?- le chiesi semplicemente.

Non volevo sapere altro, volevo una risposta secca delle sue. Volevo che mi dicesse chiaro e conciso il motivo della sua paura nei miei confronti. Questa sua motivazione mi fece credere che il mio piano fosse andato in fumo e che sarei dovuto ricorrere al piano b.

-Mi hai fatto pensare cose...stai facendo emergere una parte di me che nemmeno conoscevo- ammise lei sicura guardandomi dritto negli occhi.

 

[Elijah]

 

-Hey alzati- sentii vagamente.

Ero ancora nello stato di dormiveglia però percepii benissimo qualcosa di appuntito punzecchiarmi le gambe. Forse era giunto il momento di svegliarsi. Qualcuno mi toccò dolcemente le guance, così mi voltai d’istinto verso quella fonte piuttosto che verso la cosa appuntita. Non appena aprii gli occhi constatai che quella persona affettuosa era Havery e non potei fare a meno di sorriderle.

-Buongiorno- esclamai stirandomi per risvegliare anche i muscoli.

Notai che lei mi era molto vicina, come se fosse stata accoccolata a me per tutto il tempo. Non avrei potuto chiedere un risveglio migliore di uno al fianco di Ave sorridente, felice e rilassata.

-Se non ti alzi subito farai una brutta fine, ragazzino!- dichiarò severo Nico continuando a tormentarmi con la sua spada.

Non appena il mio cervello ricevette il messaggio ed incrociai lo sguardo del figlio di Ade, il mio corpo si alzò di scatto automaticamente come se mi fossi messo sull’attenti.

-Sì, signore. Scusi, signore!- mi scusai recuperando le mie cose poco distanti.

-Papà!- esclamò Havery alzandosi.

Sembrava irritata dall’atteggiamento di suo padre, forse si era accorta che avevo effettivamente ragione sul fatto che se la prendesse con me nonostante non facessi niente di male. Penso che non mi abituerò mai a Nico di Angelo.

-Che c'è? Dobbiamo muoverci o non arriveremo mai- decretò il figlio di Ade mettendo la spada al suo posto.

-Che ti avevo detto?- esclamai sorridendo ad Ave quando ci incamminammo.

Questa volta eravamo alle spalle dei nostri genitori che controllavano ogni centimetro intorno a loro. Poteva effettivamente sembrare una gita di famiglia. Forse sapevano a memoria tutte le strade degli Stati Uniti da quanto le avevano percorse in sedici anni.

-Sta zitto- mi ammonì scherzosamente Havery spingendomi.

Ridemmo divertiti, ma mi zittii quando mi tornò in mente la sera prima. Chissà cosa ne pensava lei, chissà se ci ripensava come me. Avrei tanto voluto saperlo, però da quel punto di vista lei era indecifrabile per me. La osservai appena e notai un leggero miglioramento rispetto al giorno precedente. Sicuramente dormire in pace, mangiare e bere l’avevano aiutata un minimo a rimettersi in forze, nonostante le ferite non si fossero rimarginate. Essere finalmente in compagnia dei suoi genitori la faceva star meglio di qualunque rimedio, glielo si leggeva sul volto. Gli occhi le brillavano di gioia mentre guardava i suoi genitori di fronte a lei; forse sperava non fosse un sogno.

-Sapete abbiamo incontrato Percy e Annabeth e anche loro non se la cavano benissimo- affermò mia madre.

Quei nomi non mi erano nuovi, li avevo sentiti spesso dagli adulti ma avevo mai chiesto chiarimenti al riguardo; probabilmente erano altri semidei amici dei nostri genitori.

-Sapevo che erano rimasti al Campo Mezzosangue, no?- domandò Michela confusa.

Havery mi si avvicinò curiosa di sapere di cosa stessero parlando i nostri genitori, le feci subito segno di non saperlo neanche io così ci avvicinammo a loro per sentire meglio.

-Sì, ma quando hanno capito che la presenza di un figlio di un Pezzo Grosso creava problemi alla sopravvivenza degli altri semidei...- continuò mio padre come se stesse parlando della cosa più naturale al mondo.

-Se ne sono andati- concluse Nico comprendendo dove volesse andare a parare.

I miei genitori annuirono in risposta all’affermazione del figlio di Ade.

-Hanno passato due anni lì dentro, ma era troppo difficile far sopravvivere il campo all’onda dei mostri dopo, che hanno preso il potere, senza l’aiuto dei protettori. Così hanno lasciato il comando agli altri semidei esperti e hanno iniziato il loro pellegrinaggio- proseguì mia madre mentre girava fra le sue dita una freccia.

-Percy mi ha detto che hanno provato a stare per un po’ da sua madre ma era inutile, metteva troppo a rischio lei e la sua nuova famiglia, ed è stato uguale con la famiglia di Annabeth- spiegò la riccia voltandosi verso la madre di Ave.

La guardò come se avessero un legame speciale con quelle due persone, un legame che solo loro due potevano comprendere appieno al momento.

-Nell’ultima chiamata Iride che ho fatto con Annie, mi ha raccontato di come Luke si divertisse a combattere con una finta spada di legno- sorrise amaramente Michela.

-Era con loro quando li abbiamo incontrati- dichiarò mio padre voltandosi anche lui verso la figlia di Atena.

-Non hanno paura che gli succeda qualcosa?- esclamò lei quasi sconvolta da questa notizia.

Iniziavo a capire come si fosse sentita Ave in questi mesi all’Istituto, quando parlavamo di cose o nominavamo persone che lei non riusciva a collegare a niente; era veramente frustante.

-È cresciuto ormai, quanto avrà adesso? Venti anni?- affermò mia madre tranquilla.

-Oh, giusto. Io mi ricordo ancora di quando lo prendevo in braccio da piccolo, mi fa strano pensarlo così grande- sorrise imbarazzata Michela.

-Si può sapere di chi state parlando?- sbottai ad un certo punto ad alta voce per riuscire a farmi sentire dai genitori.

Havery annuì fiera della mia domanda, probabilmente avrebbe voluto farlo anche lei ma non se l’era sentita di interrompere gli adulti. Se fossi stato al posto suo all’Istituto, sarei esploso dopo poco tempo. Potevo capire la sua rabbia nell’essere tenuta all’oscuro di tutto, quando nell’ufficio di Allen aveva tirato fuori la sua aura nera per tutto ciò che aveva tenuto dentro. Sicuramente lei era più paziente di me e più cauta in certe cose.

I nostri genitori si fermarono e si voltarono verso di noi sorpresi. Le loro espressioni cambiarono in pochi secondi quando si resero conto della nostra ignoranza riguardo all’argomento della loro discussione. Alessandra e Michela si guardarono e risero appena sotto i baffi. Chissà cosa avevano pensato di così divertente.

-Stiamo parlando dei vostri zii e di vostro cugino- dissero le due donne all’unisono.

Ave ed io ci bloccammo un attimo guardando i nostri genitori ancora più confusi di prima, per poi guardarci l’un l’altro nella speranza che uno dei due avesse capito qualcosa.

-Percy è mio fratello- ci spiegò mia madre sorridente.

-E Annabeth è mia sorella- continuò la signora di Angelo.

-Luke è loro figlio, e di conseguenza vostro cugino- concluse Nico incrociando le braccia al petto.

Non seppi come prendere questa notizia, era effettivamente strano avere un cugino in comune ma questo non mi impediva di provare sentimenti forti per Havery, giusto?

-Tranquilli, questo non vi intacca minimamente- esclamò mio padre sorridendoci.

C’era qualcosa di nascosto nel sorriso di mio padre, come se fosse riuscito a leggere il dubbio sulla mia espressione, forse era malizia? In effetti mi ricordava i sorrisini che spesso ci lanciava Nathan.

-Già, peccato- commentò il figlio di Ade tornando a darci le spalle.

Fece segno con la testa agli altri di proseguire, ma mia madre lo fermò quasi subito. Si mise ad annusare l’aria e il suo volto si illuminò di felicità.

-Acqua- disse semplicemente con un sorriso raggiante.

-Perfetto, si è attivato il radar per l’acqua. Mi mancava- esclamò Michela divertita. -Capita nel momento giusto, penso che ai ragazzi serva per riprendersi un po’- continuò lei.

-Ale, potresti curare del tutto la ferita di Havery- suggerii mio padre.

Mia madre annuì e continuò ad annusare l’aria. Si mise davanti al gruppo indicando la strada da seguire. Non era dritta o con un senso, non sarei riuscito a tornare indietro se avessi dovuto; l’unica cosa di cui ero sicuro era che camminammo per molto tempo fra gli alberi prima di trovare la fonte d’acqua che mia madre aveva sentito.

Ero impressionato da questo suo potere semi-divino e lo ritenni molto utile, soprattutto perché dopo tutti quei chilometri percorsi mi venne una gran sete. La figlia di Poseidone ci guidò giù per una ripida discesa ricca di sassi e radici degli alberi difficile da percorrere senza la dovuta attenzione. Gli adulti scesero con grande facilità, come se stessero volando, saltando da un pezzo di terra ad un altro; le armi, che portavano con loro, non gli pensavano minimamente.

Cercai di raggiungergli piano, concentrandomi su dove mettevo i piedi, però a metà strada vedevo che Havery era riluttante a seguire i movimenti degli altri. Forse aveva paura di peggiorare la situazione delle sue ferite se avesse fatto un passo falso, o crearne di nuove. Mi avvicinai a lei e le offrii la mia mano per aiutarla. Lei la guardò dubbiosa per qualche secondo, alternando con l’osservazione del terreno sotto di noi, poi scosse la testa. Strinse le braccia intorno alla ferita sul suo fianco sinistro spaventata dalla discesa scoscesa. Non poteva certo rimanere lì tutto il giorno, se voleva curarsi e riprendersi doveva scendere come tutti gli altri.

Nonostante fosse contraria all’idea di percorrere la discesa, mi decisi a prenderla in braccio, come quando stavamo volando giù dall’aeronave, e ad accompagnarla giù con la forza. Ave si aggrappò a me sorpresa dalla mia azione e per la persistente paura di cadere. Prima che iniziassi a scendere ci guardammo negli occhi e se non fossi stato attento avrei potuto per l’equilibrio. Fu lei ad interrompere il contatto visivo nascondendo il viso oltre la mia spalla.

-Grazie- mi sussurrò timidamente.

Sorrisi istintivamente e strinsi la presa sulle sue spalle e sulle gambe prima di procedere con la discesa. Con mia grande sorpresa il percorso fu più rapido di quanto avessi pensato.

-Quanto ci avete messo?- domandò Nico non appena mettemmo piede sulla riva.

Mollai la presa su Havery e lei gli spiegò che aveva avuto paura di farsi male, così io l’avevo aiutata a superare quel tratto difficile. Quando scostai lo sguardo da lei notai che la fonte d’acqua era un lago, uno di quelli che avevo solo visto nelle immagini nei libri. Non ne avevo mai visto uno dal vivo. Lasciai le mie cose per terra e senza pensarci due volte mi tolsi la maglietta per poi buttarmi in acqua. All’Istituto avevamo solo docce e non avevo mai provato a fare il bagno in una grande quantità d’acqua come quella. Era fresca e l’atmosfera, creata dagli alberi intorno al laghetto, rendeva tutto molto rilassante.

--Sì, è decisamente tuo figlio, Ale- commentò Michela posando sulla riva gli zaini.

Potei notare come nessuno degli adulti lasciava mai le armi, le tenevano sempre con sé; in sedici anni avranno imparato come non separarsi mai dall’unica fonte di difesa. Mi tuffai per vedere le profondità del lago e lo trovai di un colore verdognolo, ricco di muschio, sassi e pesci di vari colori. Non mi importava se mi fossi bagnato, mi sarei asciugato poi grazie al fuoco.

Quando tornai in superficie vidi mia madre che aveva tolto le bende, ormai rosso sangue, dal fianco sinistro di Havery e vi stava trasferendo l’acqua del lago. Piano piano la ferita si rimarginò, così come tutte le altre, e il suo corpo apparve come se non fosse mai stato martoriato. Mia madre era veramente forte e ricca di risorse come mi avevano raccontato.

Per scherzare creai due turbini d’acqua da gettare verso Ave e mia madre, però non andò come avevo previsto. La figlia di Poseidone sembrò non essersi bagnata minimamente, mentre il viso di Havery sembrava piuttosto irritato da ciò che avevo appena fatto.

-E lei è decisamente tua figlia, Michela- commentò divertita Alessandra.

Ave si sistemò i capelli evidentemente risentita e l’espressione sul suo volto si rifletté sul terreno e l’acqua che tremarono appena.

-Scusa- provai avvicinandomi –Non credevo che tenessi alla chioma come Nathan- tentai a tirarla sul ridere per far si che non ce l’avesse con me.

Fortunatamente rise divertita ma ormai il danno era stato fatto. La terra tremò più forte e delle onde enormi si crearono nel lago. Uscimmo in tempo dall’acqua solo per vedere un gigantesco mostro serpentesco uscire dalle sue profondità.

-Mi sa che avete disturbato l’ora del riposino di qualcuno- esclamò mio padre brandendo una lancia allungabile.

Il mostro allungò il muso appuntito verso di noi nel tentativo di prenderci con i mille denti appuntiti, potei distinguere chiaramente le squame verde acqua tra il fango marrone. Quando si avvicinò abbastanza mio padre infilzò l’occhio fine, ma attento, con la sua lancia, e nello stesso momento mia madre attaccò il serpente con un immenso turbine d’acqua. Il mostro si allontanò per l’accecamento subito, ma non sembra affatto turbato dagli schizzi d’acqua.

-Ave, il tubetto!- esclamai mentre mi arrampicavo sull’albero più vicino.

Lei recepì il messaggio un po’ in ritardo perché sembrava ancora sconvolta dall’accaduto. Dal ramo di un albero, su cui mi ero appostato, vidi il serpente agitarsi nell’acqua mentre i genitori correvano all’attacco. Scosse la grande coda affilata verso gli adulti che la evitarono come fosse una corda; anche da quell’altezza sembrava talmente enorme ed aguzza che avrebbe trafitto una persona con un solo colpo. Abbassai lo sguardo per accertarmi che Havery avesse aperto l’arma, quando la testa del mostro produsse una serie di vibrazioni tali da fare male alle orecchie.

Tornai a concentrarmi su di lui per notare che aveva di nuovo allungato il muso verso la riva, ma questa volta Ave era da sola. I nostri genitori erano nel lago ancora storditi dall’eccessivo rumore, così avvertii Havery appena in tempo prima di lanciare dei vortici di fuoco sul mostro. L’acqua sembrava non ferirlo, però le mie fiamme fecero il loro lavoro. Gli adulti si erano ripresi e avevano ripreso a colpire il serpente, il quale sembrava piuttosto impegnato nel suo combattimento con la ragazza dai capelli neri.

Lei aveva azionato il tubetto che le avevo donato e, nonostante apparisse piuttosto fuori luogo con quell’arma, riusciva ad utilizzarla come era stata abituata con la spada. Brandiva la falce di metallo, decorata e rafforzata con alcune parti del suo ciondolo, come se ci fosse nata. Con essa riusciva a contrastare gli attacchi del mostro con estrema naturalezza e a procurargli alcuni tagli.

-Credo di aver avuto un’idea, ma non ne sono sicura- esclamò a gran voce Havery.

Gli adulti si voltarono verso di lei, dando segno di ascolto, mentre continuavano ad evitare e ferire il serpente.

-Dovreste portarlo al centro del lago e poi dovreste correre qui- spiegò lei senza staccare i suoi occhi da quelli giallognoli e sottili del mostro.

Non capii dove volesse andare a parare, dopotutto non aveva dato una grande spiegazione del suo piano, però i genitori si accontentarono ed eseguirono senza chiedere oltre. Forse erano abituati ad istruzioni del genere ed erano sempre andate a gonfie vele. Ci riuscirono senza troppi problemi, anche se si vedeva che non si stavano impegnando al massimo delle loro capacità; probabilmente volevano vedere come ce la cavavamo noi in battaglia. Quando i genitori raggiunsero le spalle di Havery, scesi giù dall’albero su cui mi trovavo e aspettai insieme a loro il compimento del suo piano.

Ave si accostò alla riva del lago e, prima che il mostro potesse tornare verso di noi, conficcò la lama metallica della falce nel terreno sott’acqua. La sua solita aura nera venne trasferita nell’arma che ne amplificò la forza e ciò che avvenne dopo ci rese piuttosto confusi. L’energia dei suoi poteri venne scaraventata nelle profondità dell’acqua, dove il mostro-serpente sparì come se fosse stato improvvisamente inghiottito dalla terra sottostante.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Destiny ***


[Havery]

 

-È stata una cosa grandiosa!- esclamò entusiasta mia madre abbracciandomi.

-Sapevi che sarebbe stato questo il risultato?- mi domandò Alessandra fissando il lago.

-Beh...non proprio però...- cominciai ma non sapevo cosa dire.

Non volevo deluderli ma non mi ero immaginata effettivamente cosa sarebbe successo; era come se fosse scattato qualcosa dentro di me che mi avesse suggerito le mosse giuste. Conoscevo talmente poco i miei poteri che non ero ancora capace di utilizzarli al meglio.

-In realtà...- la voce di Elijah alle mie spalle sembrava volermi venire in aiuto.

-Quando ho progettato la falce mi auguravo che sarebbe riuscita a fare una cosa del genere- ammise il ragazzo posandomi una mano sulla spalla.

-Volevo che avessi un’arma che fosse solo tua, che solo tu saresti riuscita a sfruttare in tutto il suo potenziale- continuò togliendo subito la mano.

-Sicuramente i nostri ragazzi non sono niente male, non pensate?- esclamò sorridente Ryan con i ricci leggermente bagnati.

-Hanno dato prova delle loro capacità, ognuno a modo loro- dichiarò mio padre rinfoderando la spada.

-Ma si poteva tranquillamente evitare visto che ora dovremo andare a fare rifornimento, prima di ripartire verso l’Istituto- ci informò svogliata mia madre.

Ci rimettemmo in viaggio tra le fitte chiome degli alberi verde acceso, segno che l’estate si stava avvicinando. I nostri genitori non ci dissero dove fossimo precisamente diretti o cosa avessero in mente con “rifornimento”, li lasciammo guidarci mantenendo il passo dietro di loro. Non ci furono molte chiacchiere, ma ogni tanto potevo sentire mia madre parlare con Alessandra di cose di cui non avevo mai sentito parlare: chissà cosa fossero i Bts.

Le loro parole mi passavano da un orecchio all’altro senza sentirle veramente, come se fossero disconnesse tra di loro; non gli prestavo veramente attenzione perché stavo osservando il paesaggio intorno a me, chiedendomi dove ci avrebbero portato. Che fosse un altro punto di riferimento per i deitas fuggiaschi come l’Istituto, oppure un semplice drive-in in cui comprare sandwich a volontà? Provando ad immaginare dove i miei genitori avessero fatto rifornimento per tutti quegli anni, crebbe in me una strana sensazione di ansia ed esaltazione insieme.

Ero emozionata di saperlo ma anche spaventata dalla loro reale condizione, quella che non mi avevano voluto far vivere. Era grazie a loro se avevo vissuto sedici anni con un tetto sopra la testa, nonostante l’abbia capito solo ultimamente. Scossi la testa cercando di non incolparmi per aver avuto quei pensieri negativi sulla mia vita, senza sapere niente sulla mia provenienza divina. Cambiai visuale e mi concentrai sul rumore che proveniva dalla mia destra.

Elijah aveva iniziato a calciare un sassolino da qualche minuto, ma ero troppo sommersa nei miei pensieri per accorgermene prima. Sembrava curioso anche lui di sapere dove saremmo finiti e faceva rotolare il sassolino come se fosse un tic nervoso. Strinsi istintivamente il tubetto, che tenevo nella mano destra, e senza accorgermene mi ritrovai sorridere al pensiero che avesse creato l’arma solo ed esclusivamente per me, ragionando su ogni caratteristica che avrebbe dovuto avere per adattarsi alla perfezione a me.

Ritornai a guardare verso gli alberi cambiando di nuovo argomento di riflessione; dovevo trovarne uno che non mi facesse impazzire. Iniziai a credere che i nostri genitori avrebbero potuto tranquillamente nascondere cibo o altro fra i rami, perché nessuno li avrebbe notati, ma loro stavano puntando dritto di fronte a noi. I miei genitori sguainarono la spada e si fecero strada fra dei cespugli che ci dividevano dal nostro obbiettivo. Ciò che si presentò davanti ai nostri occhi fu del tutto inaspettato, tanto che Ryan, notando il dubbio sul mio volto e quello di Elijah, ci rassicurò.

-Tranquilli, i mostri non capitano qui da mesi ormai- dichiarò voltandosi verso di noi.

Una casa bianca a due piani, ricoperta d’edera ed erbacce varie, si ergeva circondata dai fitti alberi del bosco da cui provenivamo. Appariva come se volesse sovrastare sull’intero esercito di arbusti, però al tempo stesso dava l’impressione di aver paura del mondo esterno, come se fosse un luogo quiete che voleva rifugiarsi e vivere la sua vita in pace; a quanto pare non ce l’aveva fatta. Il tratto più evidente della casa era l’abbandono, era chiaro che non ci vivesse più nessuno da anni. Più avanzavamo verso l’ingresso, più mi veniva spontaneo alzare la testa continuando a fissare la faccia dell’edificio come se mi lasciassi sovrastare.

-Attenti a dove mettete i piedi, c’è un po’ di disordine- ci avvertì Alessandra.

Ero pronta a tutto, ma un posto abbandonato non doveva essere per forza un caos totale no? C’era la possibilità che gli ex-proprietari avessero lasciato tutto come era prima che l’abitassero e i nostri genitori si fossero insediati poco dopo per utilizzare la casa come magazzino.

-Solo un po’ di disordine?- esclamai non appena fui entrata nel piccolo ingresso.

Mi misi davanti alle scale di legno, che portavano al piano superiore e si presentavano di fronte alla porta principale, e in quei pochi passi calpestai pezzi di carta e vetro. Intorno a me le pareti azzurre erano segnate dal tempo e da impetuosi segni di artigli.

-Noi abbiamo una visione molto aperta di disordine- commentò mia madre guardandosi intorno tranquilla, per poi fare un cenno a mio padre prima di entrare nella stanza alla nostra destra con lui.

-Fate come se foste a casa vostra!- esordì Ryan scuotendo un po’ Elijah e me per darci energia.

-Io vado a vedere se sono rimasti dei medicinali di sopra- lo avvertì sua moglie.

Lui le fece l’occhiolino prima di separarsi e seguì i miei genitori nell’altra stanza ignota. La scossa di Ryan mi era servita poco, ero ancora sbigottita dalla situazione generale. Sembravano così a loro agio in un ambiente così in rovina, forse ci erano passati infinite volte per rifornirsi.

Questo voleva dire che erano sempre stati nei nostri dintorni? Nonostante questo mi sembrava del tutto innaturale l’atteggiamento rilassato e sereno degli adulti. “Fate come se foste a casa vostra”, come può uno sentirsi a casa in un posto così desolato e massacrato da ogni incombenza naturale? Il braccio di Elijah intorno alle mie spalle mi fece tornare alla realtà, come se fossi stata inghiottita in un buco senza fine e lui fosse l’unico in grado di ritirarmi su.

-Facciamoci un giro!- esclamò il riccio sorridendomi entusiasta.

Sembrava più rilassato senza mio padre intorno, ma al tempo stesso qualcosa non mi convinceva. Sul suo viso potevo riconoscere un velo di tristezza, forse anche lui era stato investito dalla strana aurea che la casa emanava. Nella stanza alla nostra sinistra si trovava il salotto, o almeno quello che ne rimaneva. La carta da parati era sempre dei colori chiari e sereni dell’ingresso, al suo stato originario avrebbe sicuramente infuso una certa tranquillità, ma adesso era tutto distrutto. Alle pareti erano appesi diplomi e foto, però i vetri rotti ne impedivano la corretta interpretazione. Riuscii solo a leggere qualche lettera distorta “O f r d” oppure “A ts”. Vari fogli sparsi alla rinfusa per la stanza, come se chi viveva qui avesse fretta di andarsene, mi davano malinconia e iniziavo a chiedermi cosa avesse potuto spingere i proprietari ad abbandonare la loro casa. Le cornici sistemate sopra il camino erano vuote e ricoperte di polvere, così non potei immaginarmi i volti delle persone che vivevano qui; però sentivo che avessero vissuto momenti allegri e ricchi di emozioni.

-Proviamo di sopra- disse Elijah pacato.

Doveva aver notato il mio sguardo perso per il salotto alla ricerca di risposte, così mi prese per mano e mi condusse al piano successivo dove poco prima era salita Alessandra. Vi erano cinque stanze in tutto e il corridoio risultava ampio grazie ai colori pastello, nonostante i segni di artigli evidenti rendessero tutto più inquietante. La prima porta era aperta e da lì proveniva la voce della figlia di Poseidone che canticchiava, o se non altro ci provava. Le due stanze seguenti erano contrassegnate, una di rosa e una di azzurro, entrambe graffiate, mentre le rimanenti si chiudevano a stento. Una casa così grande doveva essere stata usata da una famiglia, magari avevano dei bambini che si rincorrevano per i corridoi e giocavano in giardino. Chissà quante memorie e ricordi saranno bloccati in questo luogo che mi agita così tanto.

-In quale preferisci andare?- mi domandò Elijah mettendoci di fronte alle due porte contrassegnate dai due colori.

Mi strinse forte la mano, come se anche lui avesse bisogno di sostegno; non ero l’unica a sentire l’anima della casa cadermi addosso. Gli indicai con la mano libera la porta con una striscia di vernice rosa sopra. Elijah provò a spingere il pomello con cautela, cercando di non danneggiare più del dovuto. La stanza non era rosa, a differenza di come la porta poteva illudere, anzi era di molti colori come se i padroni di casa fossero indecisi o stessero litigando sui colori da utilizzare per la camera di...di chi sarà stata questa camera? Una bambina forse? Era quello che indicava il rosa sulla porta?

Mi avvicinai al lettino bianco per neonati dall’altra parte della stanza per cercare indizi. Le copertine erano color crema e il materiale d’imbottitura usciva da tutte le parti, era a pezzi come gran parte dei mobili della casa. Accarezzai delicatamente la culla mentre alzavo lo sguardo sul muro di fronte a me, che Elijah stava fissando da quando eravamo entrati. Due scritte in nero molto eleganti, seguite da due farfalle altrettanto fini, risaltavano sul muro bianco latte come un’insegna al neon ai miei occhi: Havery Lilith.

La mano, che tenevo sulla culla, si bloccò così come la mia mente, che sembrava non voler recepire quello che il mio sguardo aveva visto. All’improvviso delle lacrime scesero lungo le mie guance e mi ripulii velocemente lasciando la mano di Elijah. Ecco perché i genitori conoscevano così bene quel luogo e la utilizzavano come rifugio saltuario: sarebbe stata la mia casa se non fosse per i mostri. Mi fu difficile riconoscere in quelle stanze il nido natale che mi ero sempre immaginata, che avevo sempre cercato nella mente.

Tornai a guardarmi intorno con gli occhi lucidi e riuscii a vedere più di quanto fossi stata capace in precedenza. Ovunque erano sparsi pezzi di pupazzi dai colori tenui e qualche indumento alla rinfusa, che forse i miei genitori non erano riusciti a prendere nella fuga. La fuga...ora si spiegava il caos totale in cui riversava l’intera casa e i graffi dei mostri che avevano distrutto i mobili e i ricordi.

-Hai bisogno di tempo? Vuoi rimanere qui mentre io proseguo?- mi chiese con tono dolce Elijah.

Mi guardai un’ultima volta intorno, cercando di fissare ogni minimo dettaglio nella mia mente per non dimenticarli mai, e scossi la testa decisa. Se fossi rimasta un altro po’ sarei caduta in un oblio di nostalgia inutile; i miei genitori erano finalmente con me, una casa o quello che poteva essere la nostra vita senza i mostri non erano importanti.

Proseguimmo l’esplorazione nell’altra camera e notammo che assomigliava molto alla precedente come contenuti: un lettino da neonati, un fasciatoio, un cassettone con qualche libricino sopra, tutto in legno chiaro. La differenza principale era che l’intera stanza era tappezzata da delfini azzurri, da adesivi decorativi qua e là sulle pareti a pupazzi pieni di polvere. Istintivamente Elijah strinse il ciondolo a forma di delfino fra le mani nel momento in cui si mise a contare gli animaletti incollati ai muri.

Nel frattempo mi diressi verso il cassettone ad osservare i libri per bambini colorati di mille colori, ma la cosa che mi colpii di più fu un quadretto fatto a maglia appoggiato malamente sul mobile. La stoffa era bianca latte, mentre la scritta blu un po’ decentrata riportava il nome di Elijah.

-Sembra che fossimo destinati a stare insieme sin dalla nascita- commentai ad alta voce senza accorgermene.

Al suono della mia voce, il riccio si avvicinò a me per vedere cosa avevo trovato. Mi voltai ad osservarlo ed era scosso come me qualche minuto prima. Mi persi a guardare i dettagli del suo viso, più stanco di quanto fosse all’Istituto ma mi ispirava sempre pace e armonia, anche in momenti confusi come quelli; mi ricordai della frase che avevo detto a sproposito poco prima, quella che l’aveva istigato a venire nella mia direzione e il mio cervello scattò sbadatamente rendendo imbarazzante il mio commento precedente.

-Non...non intendevo quello...- esclamai impacciata.

Tornai al discorso, che in realtà era meglio evitare, segno che la mia testa era del tutto ko. Arrossii distogliendo lo sguardo dal cassonetto, potendo sentire gli occhi di Elijah su di me.

-Ho un quadretto simile in camera mia, però la scritta è arancione- rivelò lui sorvolando sul mio commento.

-Oh sì, quello lì blu era solo una prova- dichiarò Alessandra comparendo sulla porta con delle medicine in mano. -Michela mi ha insegnato il poco che sapeva sul lavorare a maglia perché volevo realizzare qualcosa di carino per mio figlio. Ovviamente la prova è blu perché è il colore che possedeva di più- ci spiegò lei sorridendoci.

Rimanemmo attoniti da quella rivelazione spontanea per noi molto importante. Per la figlia di Poseidone sembrava una cosa di poco conto e rimase confusa dal nostro silenzio.

-Forza, torniamo giù dagli altri!- disse facendoci un cenno con la testa per spronarci a seguirla.

Poco più tardi, quando riprendemmo il viaggio, i nostri genitori ci raccontarono che prima del cataclisma vivevano insieme in quella casetta perfetta per loro. Ci abitarono comodamente in quattro e credettero che l’arrivo di due bambini non sarebbe certo stato un problema. Iniziarono a progettare le camere ideali per noi, non appena seppero il nostro sesso, ma non andò come immaginato.

I mostri presero il potere dal nulla, nessun semidio se ne accorse, e gli Dei abbandonarono gli Stati Uniti considerandoli arretrati; i mostri non erano una questione che li riguardava. Così lasciarono i semidei rimasti nel caos e chi aveva provato a metter su famiglia dovette rivedere i suoi piani. Alessandra e Ryan se ne andarono poco dopo la nascita di Elijah sotto ordine di mia madre, la quale non voleva che rischiassero la vita se avessero aspettato la mia nascita; in questo modo poterono portare Elijah all’Istituto, mentre i miei genitori si ritrovarono a fuggire nel momento stesso in cui i mostri stavano arrivando a casa nostra, che fortunatamente trovarono vuota.

 

[Alice]

 

Mi infilai sotto le coperte dal lato del muro, ripensando alla proposta di Wolfie; se la mia famiglia poteva sopravvivere come lui mi aveva promesso, allora non vedevo nessuna ragione per cui non avrei dovuto accettare. Cercai di addormentarmi, cancellando quei pensieri dalla testa, prima che Henrick tornasse in camera: non sarei riuscita a sopportare altre notti in cui lui mi stuzzicava e il mio cuore si struggeva per lui.

Dormi, dormi, continuavo a ripetermi mentalmente come una formula magica, ma il cuore aveva deciso di iniziare a battermi forte per l'agitazione nonostante fossi sola in stanza. Dovevo sbrigarmi ad assopirmi. Il suono dell'apertura della porta avrebbe significato un'altra sera come le altre, con la tachicardia a mille. Perché doveva farmi questo effetto? Mi piaceva averlo al mio fianco, addormentarmi abbracciata a lui, ma al tempo stesso mi terrorizzava perché poteva succedere di tutto e sicuramente non sarei stata preparata.

Spesso mi ritrovavo a pensare che se fossi stata rifiutata da lui sarebbe stato molto meglio. Non avrei dovuto provare tutto ciò, non mi sarei dovuta fare dei problemi mentali per cose del genere. Ero molto brava a complicarmi la vita, l'avevo sempre pensato. Mi raggomitolai su me stessa e strinsi le coperte tra le mani, l'ansia non mi permetteva di dormire. Sentii il rumore della maniglia della porta e d'istinto mi irrigidii. Alice, calmati. Se mi fossi pietrificata, sarebbe stato ovvio che fossi sveglia. Finsi di essere sprofondata nel sonno e mollai la presa sulle coperte. Mantenni le palpebre leggere sopra gli occhi e regolai il respiro in modo che sembrasse dormiente anch'esso.

Captai che Henrick stesse aprendo l'armadio vicino al letto, probabilmente per togliersi la maglietta come faceva ogni sera prima di mettersi a letto. Inconsciamente il corpo si gelò, potevo avvertire il suo sguardo su di me; forse stava valutando se fossi sveglia o meno. Non poteva mandare in frantumi la mia messa in scena solo con uno sguardo. Le coperte si mossero e percepii il calore di Henrick sulla mia pelle. Da quanto aveva cominciato a fare così caldo lì dentro? Sembrava di essere una formica sotto una lente d'ingrandimento oppure...

-So che non stai dormendo- disse lui interrompendo la linea dei miei pensieri.

Non mi mossi sperando di riuscire a portare avanti la recita, ma Wolfie era più che intenzionato a non permettermelo. Iniziò ad accarezzarmi la schiena con la punta del naso, per poi passare alle braccia e al collo, come se mi stesse odorando. Mi vennero i brividi e sul perimetro del mio corpo si formò la pelle d'oca; non era una sensazione sgradevole, anzi era piacevole sentire il contrasto tra il freddo che si creava al momento del contatto e il caldo avvolgente delle coperte e di Henrick. Quando arrivò al collo mi lasciò lentamente qualche piccolo bacio; non voleva che avessi vita facile.

-Sai di cioccolata fondente...e a me piace tanto la cioccolata fondente- mi sussurrò all'orecchio con voce suadente, mentre passava delicatamente le mani sulle gambe che tenevo ancora strette al petto.

Era certo che io mi stessi fondendo in quel momento. Odiavo essere così poco vestita, ma cosa potevo farci? Gli unici abiti disponibili erano quelli di sua madre che mi andavano un po' larghi e l'estate si stava avvicinando, quindi mi erano stati rifilati solo vesti leggere. Nonostante avessi addosso solo una canottiera e dei pantaloncini, come pigiama, la sensazione di caldo insostenibile non mi abbandonava. Henrick provava in tutti i modi a farmi rinunciare alla mia messa in scena e sapeva i punti esatti in cui colpire. Mise una mano sulla mia schiena spostandola subito dopo sotto la canottiera per farsi strada in luoghi che erano proibiti. Aprii gli occhi di scatto e gli bloccai la mano.

-Finalmente ti sei decisa- mormorò prendendomi per un fianco e girandomi verso di lui.

Se avesse spento la luce della stanza almeno mi avrebbe risparmiato la vista del suo sguardo; più lo guardavo, più diventava ipnotico. Non potevo perdermi così nei suoi occhi. Restai con le braccia strette sul petto, come un segnale “divieto l'accesso”, mentre Wolfie strinse la presa sul mio fianco e mi avvicinò a sé. Il panico prese il possesso del mio corpo: non eravamo mai stati così vicini, così a stretto contatto, su un letto poi. Io non ero fatta per cose del genere, la mia mente iniziò a fare i suoi viaggi mentali che nemmeno la sua proprietaria sarebbe riuscita a fermare. Era proprio quello su cui riflettevo prima: l'ansia di non sapere cosa succederà nell'immediato futuro e non sapere come affrontarlo.

Mi sarebbe tanto piaciuto leggergli la mente, ma lui era imprevedibile. Da un lato ero troppo innocente per pensare che mi sarei ritrovata in un certo tipo di situazioni, mentre dall'altro potevo tranquillamente arrivare a capire cosa volesse da me un ragazzo di diciassette anni; la mia mente era divisa in due. La parte di Afrodite che era in me mi consigliava di lasciarmi andare, ma sembrava quasi impossibile. Perché io dovevo essere così razionale anche quando erano in ballo i sentimenti? Mi sarei presa a pugni da sola. Henrick mi sorrideva malizioso e ciò mi fece temere il peggio. Ma sarebbe stato davvero il peggio?

Riprese ad accarezzarmi la schiena, stavolta direttamente sotto la canottiera, con la mano sinistra mentre con l'altra mi strinse le mani che tenevo legate sul petto. Se non fosse stato per le mie gambe tra di noi, quello sarebbe stato un abbraccio in piena regola. Guardai le nostre mani unite e, mentre tornavo sui suoi occhi, il mio sguardo esitò sul suo petto nudo e scolpito come marmo; c'avevo fatto l'abitudine, visto che dormiva sempre senza maglietta, ma ogni volta non potevo far a meno di indugiare sui suoi addominali perfetti. Henrick sembrò leggermi il pensiero perché in un attimo la sua mano sinistra passò dalla schiena alla mia gamba destra, la alzò lievemente e la posizionò sopra il suo fianco in modo da poter avere i nostri corpi a contatto sul serio.

La prima cosa che percepii fu quella, anche se volevo distrarmi e non pensarci e Henrick trovò la maniera perfetta per farlo. Liberò le mie mani e le portò dietro la sua testa, mentre la sua mano destra tornò sul mio fianco e con l'altra mi prese il viso. Nel momento in cui le nostre labbra s'incontrarono il mio cuore uscì dal petto. Senza più il cuore su cui poter contare e il cervello che si era completamente fuso la mia morte era vicina, lo sentivo. Spontaneamente mi avvinghiai di più al suo corpo, come se fosse l'unica fonte di sostentamento.

Dopo poco cominciò a mancarmi l'ossigeno, così mi allontanai appena e sentii un'onda di calore invadermi il viso. Era successo davvero? Sembrava di essere in una dimensione a parte, a tal punto che non mi pareva vero di aver baciato Wolfie.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3752149