Poohlover

di Merione
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #1 - Notte a sorpresa ***
Capitolo 2: *** #2 - La leggenda di Mautoa ***
Capitolo 3: *** #3 - La Luna ha vent'anni ***
Capitolo 4: *** #4 - Storia di una lacrima ***
Capitolo 5: *** #5 - Stella ***
Capitolo 6: *** #6 - In diretta nel vento ***
Capitolo 7: *** #7 - L'aquila e il falco ***
Capitolo 8: *** #8 - Pensiero ***



Capitolo 1
*** #1 - Notte a sorpresa ***


#1: "Notte a sorpresa" - Pooh, Viva (1979)

Guardo l'angolo del monitor in cerca dell'orologio. Sono le 18:45. Ho fatto anche troppo per oggi. Ho sempre trovato il mio lavoro stancante e ripetitivo, ma oggi, per qualche strano motivo, ho apprezzato il senso di relativa sicurezza che queste noiose azioni di routine mi hanno fatto provare. Mi alzo dalla scrivania, attraverso lentamente la stanza e raggiungo l'attaccapanni dov'è appeso il mio cappotto. Cinque passi buoni: non avevo mai prestato attenzione a quanto fosse largo il mio ufficio. Indosso il cappotto ed esco sul corridoio. Incrocio Anna, la mia collega e amica di sempre, ma non ho voglia di parlare. Le sorrido, sinceramente compiaciuto nel vederla, ma passo oltre. La discesa in ascensore avviene come al rallentatore, e la cosa non mi dispiace. Il mio corpo, costretto per qualche strana legge della fisica a seguire la cabina mentre scende nel vuoto pur non essendo fissato ad essa, sembra alleggerirsi e così liberarsi di tutte le angosce e le preoccupazioni. Raggiunto il parcheggio, vedo la mia auto, ferma dove l'avevo lasciata. Apro la portiera e mi siedo alla guida. Alla mia destra, il posto del passeggero. Quante volte ti ci sei seduta tu. Troppe per essere contate. Avevi quella fastidiosa abitudine di poggiare i piedi proprio sul fondo del vano, sporcandomi tutta la tappezzeria. Ma non ti ho mai detto nulla, e anzi quasi mi divertiva vedere quella tua piccola trasgressione, tu che sei sempre così attenta e precisa.

Accendo il motore ed esco in strada. C'è un po' di traffico e qualche pedone mi attraversa d'improvviso la strada, ma io non sto andando veloce e riesco a frenare senza problemi. Prendo la strada del centro, non ho fretta di tornare a casa. Stasera non rientro da te, ormai. Mi fermo davanti ad una bancarella ambulante, di quelle che vendono torroncini, caramelle e zucchero filato. Siamo sotto Natale e l'atmosfera si sta già colorando di allegria. Con una lingua di menta tra i denti, comincio una passeggiata per le viuzze del centro storico, i pensieri distanti da te, ormai. Mentre cammino, i passanti mi nugolano attorno, ognuno affaccendato nella propria vita. Come mi piacerebbe poter leggere le loro menti, curiosare nei loro pensieri, nei loro vissuti; è dissetante gustarsi la gente, tranquillamente così. I polmoni mi si riempiono d'aria fresca, mentre la notte cala sulla città, coprendone le storture e rivelando, attraverso luci e fanali, soltanto piccoli scorci, spesso i migliori, ma a volte malinconici, quasi poetici.

Il mio fantasticare mi porta a sbucare nella piazza principale. La notte continua ad inscurirsi, mentre l'ora si attarda, e la piazza, spazzata dal vento fresco invernale, si svuota, lentamente. Mi siedo su una panchina e mi guardo attorno. Una fontana si ostina a far zampillare acqua, anche quando non c'è nessuno a guardarla. La statua di qualche antico nobiluomo, austera, ma benevola, veglia sulla quiete che qui regna sovrana. Un gruppetto di ragazzini, nonostante l'ora tarda, si rincorre davanti alla chiesa, tutta l'attenzione puntata sul pallone che uno di loro tiene incollato al piede, dimostrando una certa abilità nel gioco, probabilmente acquisita dopo giorni e giorni di esperienza e di ginocchia sbucciate. La vista mi diverte, e mi rilassa, ma poi tu mi torni in mente. La tua scenata di ieri sera è stata pietosa. Dopo aver scoperto che mi tradivi, e da mesi, ho tentato di comprenderti, mi sono rivoltato come un calzino pur di capire dove avessi sbagliato, ma per quanto ci abbia provato, non sono stato capace di darmi una spiegazione. Ma sai cosa? Tutto sommato quest'introspezione mi è servita. Ho scoperto, o forse ri-scoperto, aspetti di me a lungo rimasti nascosti, a me innanzitutto. Ho finalmente capito che nonostante io mi sia sforzato di amarti in questi anni, l'amore vero non è quello che viene dalla mente, ma piuttosto dal cuore. Io non ti amavo. Non ti ho mai amata. Ho amato le nostre lunghe conversazioni, la tua intelligenza, la tua arguzia, il tuo senso dell'umorismo, sempre sottile e mai banale. Ma non amavo teIo sono contento di me, perché vivo, mi basto, mi spendo nel mondo. Anche senza di te, ormai. Cerco un altro tipo di amore, un amore che non assecondi le mie velleità intellettuali, ma che mi rigetti di peso nell'oceano delle passioni, di cui ormai non ricordo neanche più l'odore.

Si è fatto tardi. Mi alzo e ricomincio a camminare. La luna sorride tra nuvole rade, traccia le strade per meRespirerò tutta l'aria che c'è, fresca e rigenerante. Ne ho bisogno, ora che la mia vita sta per imboccare una nuova direzione. Mi è stata regalata questa notte a sorpresa, lontano da casa e non voglio sprecarla. Sarà la prima pagina di un nuovo capitolo. Ma intanto, come mi prende e mi dà questa grande città. Come una donna mi tenta, con le sue stradine e i suoi piccoli misteri, e diventa, qua e là, malinconia, poesia e fantasia. In una parola: emozione.

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Capitolo 2
*** #2 - La leggenda di Mautoa ***


#2: "La leggenda di Mautoa" - Pooh, Boomerang (1978)

Le trentasei rosse vette del Kata Tjuta si ergevano spavalde nel mezzo del nulla. La loro presenza millenaria infonde sicurezza a chiunque le osservi. Fanno capire che la solidità della roccia rappresenta una certezza nella tempesta delle avversità.

Lì viveva Mautoa. Era solo. Solo da tanto, troppo tempo. Era ancora adolescente quando la sua famiglia e il suo popolo erano stati uccisi dai colonizzatori bianchi. Il suo ricordo più recente risaliva a poco prima dell'invasione. Suo padre gli si era avvicinato e, porgendogli un boomerang costruito da lui stesso, gli aveva detto:

"Mautoa, questo boomerang sei tu. Questo boomerang è la tua vita, la tua esperienza, che torna a te per supportarti, ogni volta che ti metti in gioco. Questo boomerang ti ricorderà che seppure oggi non ottieni i frutti dei tuoi sforzi, il mondo non si è dimenticato di te. Tutto ciò che hai dato, ti tornerà indietro. Il panico non è altro che un istante che precede la certezza della felicità che ritorna."

Da allora, Mautoa aveva conservato con cura quel boomerang, quasi fosse una reliquia di un dio benevolo da lungo tempo andato via da questa terra, e ne aveva fabbricato uno identico, per usarlo nella caccia che gli consentiva di sopravvivere. Con gli anni era diventato bravissimo: concentrava la forza nei muscoli, sferzava l'aria e tendeva il braccio verso il sole. E il boomerang partiva, roteando nell'aria, accumulando forza e momento. La sua superficie levigata scintillava al sole e chiunque l'avesse visto volare l'avrebbe per certo scambiato per una lama. E come una lama colpiva il bersaglio, infallibile e letale. L'animale colpito cadeva, silenzioso e quieto, già morto prima ancora di toccare terra.

Quella sera, Mautoa salì sulla vetta più alta del Kata Tjuta. L'aria era fresca, la notte limpida, ma il cuore di Mautoa era adombrato e la sua storia alla luna raccontò. Le raccontò della sua famiglia, dei suoi amici, dei colonizzatori bianchi. Di lei. Soprattutto di lei, quella dolce metà che un bianco bastardo gli aveva portato via. L'eco ancora non dormiva e la voce gli rubò. La portò lontano nel vento, per chilometri e chilometri, la bagnò nel fiume che la rese chiara, e gliela restituì. Rinnovata, dolce e soave, dal cielo al monte limpida risuonò.

Mautoa sussultò e tese l'orecchio, incredulo. Sentendo quella voce, dall'eco trasformata, gli si accese la speranza che lei fosse ritornata. Il suo cuore sobbalzò. Per un attimo restò in silenzio, ma poi gridò forte: "Vieni!". Il suo grido di gioia si elevò alto nel cielo, come il suo boomerang. E come il suo boomerang, tornò indietro. "Vieni!", sentì dire. Per ore continuò a parlarle, a raccontarle la sua solitudine e le sue giornate, e lei sembrava ascoltare, e capire. Per la prima volta, solo non era più.

Più e più volte tornò su quella cima, la più alta del Kata Tjuta, con la luna o con la pioggia, d'estate o d'inverno. E parlava. Ogni notte, mille notti dal monte la chiamò. Le chiedeva di tornare, di restituirgli quel dolce suo abbraccio che ormai poteva soltanto ricordare. E lei rispondeva, ma non tornava. E Mautoa s'innervosiva. Perché non tornava da lui? Era forse diventata un angelo che lo graziava della sua voce, ma null'altro? Era uno scherzo della natura? Mautoa non poteva crederci, e ben presto arrivò al punto in cui di lei solo la voce non gli bastava più. Voleva baciarla ancora. Voleva abbracciarla ancora. Voleva amarla ancora.

Per la prima volta nella sua vita, Matuoa lasciò il Kata Tjuta. Lasciò la sua vita. Lasciò il boomerang di suo padre. La cercò lontano, nel deserto infinito. Camminò per chissà quanti chilometri. Di giorno attraversava le dune e di notte la chiamava. Ma non era più sulla vetta del Kata Tjuta. L'eco non poteva sentirlo laggiù. Scese fino al mare e si costruì una zattera. Era disposto ad attraversare il grande mare blu pur di rincontrarla, sfidando il suo ineluttabile destino, remando nelle braccia della morte. E di notte la chiamava. Ancora. Ma l'eco senza cuore non gli rispose mai più.

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Capitolo 3
*** #3 - La Luna ha vent'anni ***


 
#3: "La Luna ha vent'anni" - Pooh, Uomini soli (1990)

20 luglio 1969

Quella notte di vent'anni fa per le strade regnava il silenzio assoluto. Non ci fu nemmeno una rapina. Era calda e vuota la città. L'attenzione di tutti era diretta altrove, qualcosa di inconcepibile stava accadendo: in TV si andava sulla Luna! Sì, la Luna, quella Luna! Poteva sembrare un brutto scherzo, o una favola di quelle che si raccontano ai bambini per farli addormentare, ma stavolta era tutto vero. L'aveva annunciato, meno di dieci anni prima, l'uomo più potente al mondo. "Prima della fine del decennio", aveva detto, ed eccolo qui, davanti agli occhi di tutti.

Ma quello non fu l'unico evento che rese speciale quella notte. Infatti, mentre qualcuno lì su compiva nello stesso istante il celebre piccolo passo per l'uomo e il grande balzo per l'umanità, qualcun altro, qui sulla terra, chiuso in un'auto solitaria, sfrecciava nell'oscurità per le strade vuote. È la notte che sei nata tu, e in quell'auto c'era tuo padre. Aveva appena ricevuto la notizia che le acque si erano finalmente rotte. Dopo nove lunghi mesi il momento era finalmente arrivato. Ecco perché correva, correva verso l'ospedale, fece Nuvolari per vederti subito com'eri. Giunse lì in un batter d'occhio, più eccitato di quelli lassù nel cielo. Spalancò la porta e ti vide, in braccio a tua madre. Com'eri piccola, amore mio. Sorridevi, e avevi già quello sguardo che, molto tempo dopo, mi avrebbe fatto crollare ai tuoi piedi.

Da quella notte sono passati tanti anni. Posso soltanto immaginare quante lune fino qui tu abbia trascorso, in gioia o tristezza, in quante lenzuola da mordere tu ti sia abbandonata al sonno dopo un lungo pianto, a quanti giorni a scuola e notti di Natale non ho potuto assistere, e a quante fantasie, da nascondere certo, ma non per questo meno eccitanti, tu ti sia lasciata andare nelle notti di solitudine, mentre riscoprivi te stessa, in una nuova veste.

Chissà quanti uomini avrai avuto in questi anni, quante sofferenze avrai patito. La Luna ha vent'anni, vent'anni come i tuoi. E tu assomigli a lei, per molti versi. Ma, se c'è una differenza tra te e la Luna, è che tu non vuoi soltanto uomini che sbarcano, rubando un po' di te, come fanno quegli astronauti che, appena terminata la loro prova di forza e d'orgoglio nazionale, si rimettono in volo verso la Terra, portando con sé rocce e minerali da analizzare. Tu non sei un ammasso di pietra, tu sei viva, e sebbene poi il tuo cuore d'oro ti porti sempre ad essere buona con tutti, anche col tuo peggior nemico, non hai mai permesso a nessuno di farti del male. Ci hanno provato. Oh, sì, se ci hanno provato! Io lo so! Ma tu sei stata più forte, nessuno ci è riuscito mai a farti fare qualcosa quando tu non vuoi. E questa è una delle tante ragioni per cui io adesso ti amo.


20 luglio 1989

Questa notte di vent'anni dopo, siamo insieme, in quest'auto solitaria tra il verde e le stelle. C'è una Luna da spaccare il tetto che ci illumina la via. È curioso come il mondo sembri girare al contrario per noi. Il modo in cui ci siamo incontrati, il modo in cui ci siamo innamorati, nulla è stato ordinario e ho la sensazione che continuerà a non esserlo. Non ci resta altro da fare se non accettare che, nella nostra versione della favola, Cappuccetto s'è mangiata il lupo e Cenerentola s'è lasciata col principe, riprendendosi pure la scarpetta di cristallo perché è sua di diritto.

Sei seduta qui accanto a me e guardi la Luna, quella stessa Luna che ti ha dato la vita, e il mio cuore è un orologio matto. Mille pensieri mi attraversano la mente: cosa fare per meravigliarti? come entrare sotto la tua pelle, in maniera discreta e silenziosa, per non ritrovarmi tra le mani solo un po' di polvere di stelle?

Dopo esserci arrampicati su per un'impervia strada di montagna siamo finalmente in cima, e io posso finalmente fermare la macchina nel nostro angolo di Paradiso, in modo da avere l'intera città ai nostri piedi mentre l'aurora fa capolino sopra di noi. Non è la prima volta che veniamo qui, ma oggi tutto ha un sapore speciale. È il tuo ventesimo compleanno, hai deciso di passarlo con me e per la prima volta darmi ­tutto di te. Questa notte tu sei qui, inesplorata e bellissima, e io mi sento così fortunato di averti accanto. Non sembri tesa, anzi, mi guardi negli occhi e mi sorridi, con quelle tue dolci labbra che scoprono i tuoi bianchi denti. Amo tutto di te. Sì, tutto, anche quel piccolo dentino fuori posto. Posso immaginare il nostro futuro insieme, le notti nella nostra alcova e le coccole alla nostra bambina. Perché ovviamente vogliamo una femmina, no? Posso immaginare questo ed altro. Nel tuo Mare di Tranquillità non c'è l'Apollo 11, no. Lì io vedo i segni di tutti i sogni.

La Luna ha vent'anni, più o meno la tua età. E tu assomigli a lei. Anche tu, come la Luna, hai un lato indecifrabile, una faccia nascosta che mai si rivolge verso la Terra. Lo so che c'è, ma non si vede mai, e questo ti rende ancora più bella: mi fa venire voglia di scoprirti, di esplorarti, di viverti. Anche tu, come la Luna, hai la testa fra le nuvole, ti diverti a giocare facendo la sciocca, anche quando tutto attorno a te va a rotoli. È la tua strategia di difesa, il tuo modo per sorpassare la quotidianità del cuore.

Mentre siamo qui insieme, abbracciati, con le mie labbra sulle tue, le mie mani sulla tua pelle, io non riesco a smettere di sognare. Hai le chiavi del mondo tu, le chiavi del mio mondo di certo. E non è facile, lo so. Non è mai stato facile, lo sapevamo fin dall'inizio. Ma ti prego, cerca di non perderle mai, amore mio.

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Capitolo 4
*** #4 - Storia di una lacrima ***


Storia di una lacrima
#4: Storia di una lacrima - Pooh, Poohlover (1976)

Da una bimba e un pianto nacque lei. La bimba giocava nel parco, felice. Correva e saltava. Si divertiva. Ma una radice si interpose tra la sua corsa e la sua meta. Cadde. I fili d'erba si tinsero di rosso, come il suo ginocchio. Pianse. Fu allora che, piena di paura e ingenuità, trasparente, agli occhi si affacciò. Era una lacrima. Fredda, ma pura. Era sola, non aveva compagne. La bimba era forte, era già caduta altre volte, ma non aveva ancora imparato a trattenere tutte le sue lacrime. Una le sfuggiva ancora. Dalle chiare ciglia venne giù, guardandosi attorno: era la prima volta che vedeva il mondo, e le piaceva. Brillando, scese lungo quel bel viso. Cercò di fermarsi, di ammirare ancora quello spettacolo incantevole, ma non ci riuscì. Contro la sua volontà, le rugò la guancia, le accarezzò il mento, e cadde giù, verso l'erba.

Ma la natura non volle che morisse. Non ancora. Fu salvata dall'aria, un attimo prima dello schianto. Volò col vento su nel cielo, per chilometri e chilometri. Alta sopra al mondo navigò, vide nuove terre, mari, deserti, montagne. Vide le stagioni da lassù, e le parvero bellissime. Inizialmente si sentì impaurita, aveva perso il controllo di sé stessa. Ma poi prese coraggio. "A quante altre lacrime è mai stato concesso di ammirare questo spettacolo?" pensò, e si sentì fortunata.

Ma la vita in fretta la cambiò. La rara possibilità di vedere il mondo da quella prospettiva la fece inorgoglire. Ora trasparente non è più. Dimenticò da dove era nata, la vita sua nata dalla sofferenza, la bellezza del mondo. Niente più ricordi, niente amore dentro. Ormai il mondo non lo guardava neanche più, le era venuto a noia. Volava e basta. Si godeva la leggerezza dell'aria e la carezza delle nuvole. Fuori dal suo tempo e fuori dalla sua età, continuava a volare, come se le fosse dovuto, come se non sapesse fare altro. Nel cielo lassù, quante volte il vento le cantava accanto, ma lei no, lei non l'ascoltava. E perché avrebbe dovuto? Cosa aveva di interessante il vento da dirle, a lei, padrona del mondo? Lei volava, sola tra la terra e le nuvole. Sola nel sole e più in alto, come se non ci fosse che lei. Sprezzante del mondo e degli uomini, lei, sempre lei, lei soltanto, ad un passo dai sogni suoi. Quali erano i suoi sogni? "Volare! Voglio continuare a volare per sempre, finché ci sarà vento, finché non avrò girato il mondo tre, quattro volte!" Sfida la luna e le stelle: niente al mondo la fermerà.

Un giorno, però, la vita e il vento le voltarono le spalle. Una nuvola buia la rapì. Ebbe paura. L'aria non era più fresca e leggera. L'atmosfera era pesante. Aveva freddo. Non aveva più tutto lo spazio del cielo a sua disposizione, no. C'erano mille gocce strette accanto a lei che la spintonavano e la premevano qua e là, ognuna cercando il suo posticino nella grande nuvola. Si sentì soffocare, ma resistette. Si abituò. "Sarebbe potuta andare peggio", si disse, mentre si chiudeva a riccio per lasciar passare un'altra goccia d'acqua. Imparò ad adattarsi, a convivere. Il fatto che lei fosse nata lacrima non la rendeva poi così diversa dalle altre. In fondo, si trattava sempre di acqua. A poco a poco ritrovò la sua felicità, quella felicità che soltanto la miseria può produrre.

La vita, però, aveva ancora un ultimo scherzo da giocarle. Un giorno, mentre la grossa nuvola nera sorvolava stancamente un bel giardino primaverile, un lampo illuminò la notte scura. L'allarme si diffuse tra le gocce impaurite. "Cosa succede?" si dissero tra loro. Un rombo squarciò il silenzio e improvvisamente non era più stretta tra le sue compagne. Stava volando di nuovo, come un tempo! Ma stavolta è diverso, ora il suo coraggio non c'è più. Si sentì pesante, non c'era più vento a decidere la sua meta. Vide la terra avvicinarsi sempre di più, sempre di più. Come pioggia sta scendendo giù.

Improvvisamente, la discesa si arrestò. Non ebbe neanche il tempo di accorgersene. Temette di esser morta, ma non era così. Era ancora viva. Si trovava su una superfice soffice, di una morbidezza che mai aveva provato prima. O forse no? Improvvisamente, si ricordò della bimba che le aveva dato la vita, la morbidezza della sua pelle soffice, la sua guancia rigata dal pianto. Cadde sopra un fiore, aspettò il sereno. Quando la pioggia si fu placata e apparvero le stelle, guardò in alto, e si sentì triste. Ora verso il cielo più volare non può. "Finisce così?" pensò tra sé e sé. La vita le passò davanti agli occhi, si rammaricò di non aver più guardato il mondo quand'era ancora in cielo, di non aver dato ascolto al canto del vento, di aver perso tempo. Il tempo che ora stava inesorabilmente per scadere.

Passano le ore, la luna scende sotto l'orizzonte e il sole prende il suo posto, spandendo i suoi caldi raggi in lungo e in largo. La lacrima è ancora lì, distesa sul fiore. Lentamente muore, più non sfugge al sole. Cominicia ad evaporare via. Dov'era il vento ora, il vento che l'aveva salvata da morte certa quando aveva appena fatto il suo ingresso nel mondo? No, stavolta non l'aiuta il vento. Resta sola. Sola come era stata nel suo volo. Sola nemica del sole. Lei però non è più la stessa! Ora è cambiata! Ha imparato a convivere con le altre gocce! E ora la solitudine le porta malinconia. La sua storia finisce qui. No! Non riesce ad accettarlo! Grida lontane parole, chiede aiuto, invoca il vento, ma non c'è chi la salverà. Continua ad evaporare, finché non le mancano le forze. Si addormenta. Sola, più sola di sempre. Forse è un sogno? Perché la vita le ha fatto questo? Lei voleva girare il mondo, e ora è qui, su un fiore, a morire. No, non è un sogno, non si sveglierà.

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Capitolo 5
*** #5 - Stella ***


Stella
#5: Stella - Pooh, Ascolta (2004)

Le loro labbra si sfioravano dolcemente. Nel fuoco della passione, le mani di lui le accarezzavano i fianchi. Schiena al muro, lei lo baciava con tutta sé stessa e lui rispondeva, completamente immerso in lei, e lei in lui. La brezza della notte le spettinava i capelli mentre la scintilla dell'amore diventava un incendio. Voleva condividere tutto con lui. Improvvisamente, un fascio di luce, seguito da un rombo. Un motorino era appena passato sfrecciando nel vicolo buio. Li avevano visti? Li avevano scoperti? Lei torna alla realtà e lo interrompe.

- Non qui.
- Cosa?
- Non qui!

Gli prende la mano e lo tira a sé. Corrono, a piedi, nella notte buia. I loro passi rimbombano nel silenzio. Lo conduce in un capannone abbandonato. Scavalcano la rete e si trovano al di là. Mano nella mano, lei lo porta dentro.

- Dove siamo?
- Qui ci lavorava un vecchio studio cinematografico. Ora è fallito. Questo era il loro magazzino.

Il capannone era pieno di cianfrusaglie: costumi, oggetti di scena, scenografie. Lei lo spinge in un angolo riparato e si stende sul pavimento color sabbia, circondato da palme e mare. La spiaggia d'inverno è una muta magia, lo scenario smontato di un film.

- Ti piace? Ho sempre sognato di fare l'amore su una spiaggia!
- Un giorno lo faremo davvero.

Lui sorride. Lei si spoglia e gli dice:

- O sei pazzo o sei Dio a mischiare il tuo mondo col mio.

Sono diversi, infatti. Troppo diversi. Ma si amano. Lui è artista di strada, un poeta, un cow boy. Ingenuo forse, ma innamorato. Contro cosa si è messo non sa. Lei non è una ragazza qualunque, no. Lei è su un altro livello. Bella, intelligente, dolce, sognatrice. Sembra un angelo. Ma è anche pericolosa. Lei è Stella e non viene da un giardino nel cielo, ma da dove nessuno va via. La strada è il suo mondo, non è certo una ragazza facile. Una vita spericolata, in cui potrebbe avere chiunque. Ma vuole lui. E sa bene di metterlo in pericolo. Stella è la femmina del capobranco. Chi la tocca non ha futuro nei cunicoli della città. E lui la sta toccando, più di chiunque altro abbia mai fatto finora.

- A che pensi?
- A noi. Ero seria quando dicevo di volerlo fare su una spiaggia, una spiaggia vera.
- Andiamocela a prendere la spiaggia.
- Scappare?
- Domani a quest'ora.
- Baciami.

Sorge il sole, il capannone è vuoto. Sono andati via da un pezzo ormai. Anche il cortile è vuoto. Di quella notte restano soltanto la finta spiaggia e il segno delle ruote del motorino sul terriccio all'esterno. Era rimasto parcheggiato lì tutta la notte ed era andato via dopo di loro, per non disturbarli durante il loro sogno.

Di notte amanti, di giorno imprigionati, ognuno nella propria vita. Ma stavolta hanno una via di fuga. Lui fa roteare in aria i suoi birilli e li riprende al volo, sperando che qualcuno si fermi per condividere la propria generosità. Lei è seduta sul sedile anteriore di una macchina, accanto al suo uomo che sfreccia in testa al gruppo, rispettato e temuto da tutti, anche da lei, ma per motivi diversi. Il suo corpo ne porta ancora i segni.

Ma la notte arriva. Si incontrano nel solito vicolo, si baciano. Lei prende la sua mano e comincia a correre.

- Andiamo!

Arrivano al confine. Oltre c'è la terra di nessuno. Oltre non c'è più protezione, ma non c'è neanche più la gabbia dorata. Stella ha bucato la frontiera. Stella si strappa dalla sua catena. Finalmente è lei che sceglierà. Dove stanno andando? Di cosa vivranno? Non si sa, poi si vedrà. Ma l'obiettivo è chiaro: non è un letto di piume che inseguono, ma un progetto di libertà.

- Ci siamo quasi! Conosco un posto qui vicino dove possiamo riposare.
- Andiamo lì!

Corrono, innamorati, pieni di sogni. Un rombo, dei fari alle spalle.

- Chi c'è dietro?
- Chissà? Non c'era fino a un attimo fa!
- Corri!
- Un ponte!
- Dobbiamo attraversarlo!
- Ce la faremo?
- Abbi fiducia, i ponti hanno sempre un'altra sponda di là. Fa paura se ti fermi a metà.

Ma l'altra sponda non si vede. Il buio è fitto. L'unica luce sono i fari alle spalle, sempre più vicini. Il ponte è l'unica strada. Ma lei non ha paura. Stella dice che chi non sa dove andare è impossibile che si perda. Chi cancella può ricominciare. Vuole questa libertà più di ogni altra cosa, vuole far l'amore sulla spiaggia, alla luce del sole, senza doversi nascondere, vuole vivere la sua vita. Stella, affamata, innamorata. Stella vuole smettere di tramontare.

I fari alle spalle sono sempre più vicini. Non hanno scampo: è già in caccia chi li troverà. Il ponte è la salvezza, il ponte è la speranza. Il ponte è un'illusione. E nell'alba che schianta l'oscurità, il buio rivela la sua trappola, ed è troppo tardi per tornare indietro.

- Ferma!
- Cosa succede?
- Il ponte! È crollato!
- Cosa? Che facciamo ora?
- Abbracciami!

Uno sparo. Il futuro è silenzio già. Il lavoro è stato fatto, i fari vanno via. Il sole illumina il ponte e i loro corpi, distesi sull'asfalto, con un foro nel petto. Stella, fino all'ultima scintilla. Stella, anche a tempo scaduto è bella, abbracciata alla sua libertà. È bastato un solo colpo. Lo stesso destino li ha uniti, e nessuno potrà più separarli ormai.

Stella, per amore ha fatto un grande salto. Ha sfidato la sorte. Forse è stata ingenua, ma ci ha creduto davvero. L'immagine della spiaggia dei sogni era troppo forte in lei. E chi alzasse gli occhi dall'asfalto vede un cielo con due stelle in più. Ma forse è questa la libertà. Forse è questa la cosa più importante. Perché al mondo anche un muro alto fino al cielo non arriva alle stelle. Mai.

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Capitolo 6
*** #6 - In diretta nel vento ***


In diretta nel vento
#6: In diretta nel vento - Pooh, Rotolando Respirando (1977)

È una sera come tante, giù in città, e io sto per attaccare a lavoro. Pago la birra nel solito bar, mi infilo lo scontrino in tasca e mi incammino verso la radio. È dura la vita di un conduttore radiofonico, soprattutto se il tuo programma va in onda di notte, quando all'ascolto ci sono soltanto i camionisti e gli insonni. Tanti anni che lavoro qui e ancora non ho ben capito perché il direttore ha insistito tanto per chiamare questo programma Vivo. Ma è un programma notturno! Di notte si dorme, non si vive!, gli avevano detto. Ma lui nulla, alla fine l'ha spuntata, e il fatto che dopo tutto questo tempo io sia ancora qui conferma che ha avuto ragione. E poi, anche se non lo comprendo appieno, a me quel nome piace. Mi piace la notte, e ci vivo: rispondo alle telefonate, metto un po' di musica e nelle pause mi alzo dalla mia postazione per andare alla finestra. È il mio posto preferito dello studio, così tranquillo e silenzioso. Resto lì anche per minuti interi, con le mie sigarette e il piatto che gira facendo risuonare nelle case di chissà quanta gente quella vecchia canzone d'amore di tanti anni fa. E dietro i vetri, la città. Bella e luminosa, come sempre.

Sono io, però, a non essere quello di sempre. Sono passati soltanto due giorni da quella sera e, per quanto mi sforzi, è difficile non pensarci. Sembrava una lite come tante, cominciata per un motivo così futile che ancora adesso mi sembra assurdo che sia finita così. Eppure... Bip! Bip! ... Oh, la playlist sta finendo, devo tornare a lavoro! Faccio in tempo a prendere un caffè al volo alla macchinetta e lo poggio sulla scrivania. 3... 2... 1...

- Bentornati a Vivo, care ascoltatrici ed ascoltatori! Piaciuta la playlist di stasera?

Visto da fuori, il mio lavoro può sembrare strano. Star fermi lì, per ore, da soli, a parlare con nessuno. A volte il microfono è come un bambino: gli parlo e non so se dorme o mi ascolta. E proprio come con un bambino, pian piano si impara ad amarlo, a comprenderlo, a soddisfare le sue esigenze. La radio è come un universo parallelo, ha le sue regole. Bisogna tenere un certo tono, parlare in maniera chiara, altrimenti chi sta dall'altra parte non ti segue.

La luna è sorta da poco e un raggio si intrufola nella stanza. La luce è sciolta nel caffé, dolce, come lo zucchero che anche stasera ho dimenticato di mettere. Imparerò mai? E ogni notte è così, questa radio è il mio mondo, il mio angolo di Paradiso, coi dischi, i giornali e gli scontrini del bar che si accumulano nel cestino.

Driiin! Driiin! Senti senti! Il telefono ancora! Chi può essere stavolta? Sono rare le chiamate a quest'ora. Butto un occhio distratto sul numero. È la solita signora, oh no! Ora attacca di certo col discorso del marito che l'ha abbandonata! Mi faccio coraggio e rispondo.

- Ciao! Da dove chiami?
- Ciao...

Ma tu guarda, pensavo che fosse la solita signora, ed invece sei tu...

- Ma senti che sorpresa! Cosa ci fai sveglia a quest'ora?
- Storia lunga... Forse non avrei neanche dovuto chiamare...

Non riesco a trattenere un sorriso. Due giorni e due notti per dimenticarti, e invece rieccoti qui, ricomparire all'improvviso.

- Ho capito. Metto un disco per te. Poi vattene a dormire, è tardi.

Scorro velocemente gli occhi sullo schermo alla ricerca di quella che sapevo essere la sua canzone preferita, ma un fremito mi percorre la schiena.

- No, scusa, aspetta. Sei ancora in linea?
- Sì...
- Dimmi dove sei...
- Qui, a casa.
- E dimmi, stasera sei in casa da sola, o parli nascosta fra coperte e cuscino?

Rise. Sapevo che lo faceva quando era triste e cercava conforto in qualcuno: prendeva il telefono, componeva il numero e si infilava nel letto, sotto le coperte, come una bambina. Una dolce bambina spaventata.

- La radio è lì vicino a te?
- Sì
- E addosso cos'hai?

Non so da dove mi sia uscita fuori quella domanda, e probabilmente domattina il direttore me le canterà di brutto, ma stasera non voglio fermarmi. Voglio saperti tutta, ti voglio sentire come stando lì. Questi due giorni sono stati così vuoti senza i tuoi abbracci.

- Senti... Senti, hai detto che volevi pensarci... E allora? Ci hai pensato o no?
- Sì, ci ho pensato
- Quindi?

Mentre ascolto la risposta, metto un disco per te. La chiamata si interrompe. Fra pensieri e suono, mi torna la voglia di due giorni fa. Come abbiamo potuto ridurci così, amore mio? Come?

Mi alzo e torno alla mia finestra. Ho voglia di risentirti, parla ancora con me... Ma so che non richiamerai. E io farò il possibile per non cercarti, come mi hai chiesto. Chissà, forse è solo una questione di tempo, magari c'è ancora speranza.

Guardo al di là del vetro e alzo lo sguardo. L'antenna è un'ombra bruna, che si allunga sul fianco della collina, coprendola di oscurità. Dal lato opposto, l'alba dietro le case si scalda, chiara e luminosa. Dopo il buio risorge sempre il sole. Su questo non c'è bisogno di sperare. Accade e basta.

Torno alla mia postazione e mi metto le cuffie sulle orecchie. Scorro ancora lo schermo e aggiungo un'ultima canzone alla playlist. Le prime note mi fanno subito pensare a te. E questo momento, in diretta nel vento, lo voglio dedicare a te...

The answer, my friend, is blowin' in the wind
The answer is blowin' in the wind

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Ciao a tutti! Mi scuso per l'immane ritardo con cui pubblico questa nuova storia. È vero che nell'introduzione avevo scritto che avrei pubblicato a cadenza irregolare, ma ciò non giustifica un ritardo del genere. Per fortuna, però, la sessione d'esami all'università è finita e ora posso rilassarmi un po' ascoltando le belle canzoni dei Pooh e lasciandomi ispirare dalle loro melodie e dai loro testi.

Questa è anche la prima volta in cui vi scrivo direttamente, quindi colgo l'occasione per chiedervi un'opinione generale sull'andamento della serie. Vi piace l'idea? Vi piacciono le storie scritte finora? Dovrei proseguire o dedicarmi ad altro? Avete consigli? Suggerimenti? Non vedo l'ora di conoscervi meglio.

Merione

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Capitolo 7
*** #7 - L'aquila e il falco ***


#7: “L’aquila e il falco” - Pooh, Dove comincia il sole (2010)

 

Il sole si inabissò veloce dietro il profilo delle montagne. Forse anche lui aveva avuto paura di ciò che era appena successo e ora stava cercando di nasconderlo alla vista spegnendo la luce. Il piccolo villaggio di pastori in fondo alla valle era ancora in fiamme e le strazianti urla di dolore e terrore si stavano spegnendo lentamente, una ad una. Quella povera gente non aveva mai vissuto nulla di simile. Sembrava che Dio stesso si fosse rivoltato contro di loro e avesse deciso di anticipare il Giorno del Giudizio. Cosa avrebbero potuto fare le legioni di Roma contro un nemico del genere?

 

Quella notte, Attila passeggiava soddisfatto tra le case semidistrutte. Alcune erano state rase al suolo, altre si reggevano ancora in piedi, piuttosto malandate, o perché il fuoco non era ancora arrivato a lambirle, oppure perché, a suo insindacabile giudizio, aveva deciso di risparmiarle. La sua attenzione fu attirata da una piccola capanna bruciata, con la porta scardinata, segno che i suoi uomini avevano già fatto irruzione e razziato tutto. Sull’architrave della porta era inchiodata una piccola targhetta, su cui si leggeva un’iscrizione su due righe in latino, scritta con mano tremolante da qualcuno che evidentemente non era abituato a quell’operazione:

 

Tibi praecipio ne unquam deinceps omnes

habitantes in hoc habitaculo perturbes.

 

Attila rise.

- “Ti ordino di non disturbare mai più nessuno degli abitanti di questa casa”. È così quindi che questi romani sperano di fermarmi? Con le preghiere? Io continuerò ad avanzare senza pietà, arriverò alle porte di Roma e le farò crollare davanti ai miei occhi!

- Ne sei proprio sicuro, Attila?

Una voce di donna aveva parlato alle sue spalle. Attila si voltò per guardarla negli occhi e giudicare se valesse la pena tenerla in vita come concubina, ma si fermò, pietrificato dallo stupore. Con la sua nera falce stretta tra le dita, la Regina del Pianto, la Morte in persona, era ferma davanti a lui. Indossava un lungo mantello che le copriva interamente il corpo. Scoperto era solo il volto, senza carne né muscoli, senza occhi da fissare.

Il Re degli Unni, il Flagello di Dio, si riprese e riacquistò la sua compostezza.

- Non è il mio momento.

- Si fa a modo mio.

- E se io non volessi?

- Voleranno un’aquila e un falco. Lotteranno all’alba per noi. Si vedrà chi vola più in alto.

- E se vinco io?

- Se il mio falco vince ti avrò.

 

La luna era ancora alta nel cielo. Mancava ancora qualche ora all’alba. Il villaggio nella valle era ancora in fiamme, la notizia era già arrivata a Roma, all’orizzonte fuochi di guerra, ma Attila non era più lì. Con la sua possente aquila ammaestrata appollaiata sul braccio, Attila camminava nella neve, verso la cima della montagna. La Morte, col suo falco nero come la pece, camminava dietro di lui.

 

- Attila, amico, dimmi di te. Ti ho osservato molto da lassù. Tutto quest’odio, tutta questa violenza. Tu sei un’anima grande, un guerriero degno delle canzoni dei poeti. Cosa ti manca ormai sulla terra? Perché non vuoi venire con me? Io possiedo un palazzo stracolmo di ricchezze e di gloria. Posso portarti via nel tempo, verso altri mondi che non sai. Farti vedere tutto il tuo impero e molto di più con un unico colpo d’occhio. Io ti voglio soltanto per me, Attila. Strappa il mantello che mi cancella. Guardami. Io sono bella, la compagna per te.

 

- Donna, non cercare di ingannarmi. Ho visto molti guerrieri valorosi morire. Ragazzi che, se non fosse stata tolta loro l’opportunità di vivere, avrebbero potuto raggiungere fama e ricchezza mai viste. Sarebbero stati celebrati come eroi, ma sono morti lì, da qualche parte nelle steppe. E perché? Per essere esposti nel tuo palazzo, come dei tesori di caccia? No, nelle tue ombre, nel tuo castello oro non c'è. Io ti conosco quasi da sempre e non c’è sangue dentro di te. Non voglio fare la loro stessa fine, non voglio entrare alla tua corte, nel tuo giardino degli eroi. Mi hai proposto una sfida, e andrà come hai stabilito: decideranno l’aquila e il falco. E se perdo, verrò con te. Ricordati le mie parole, però: tu puoi falciarmi, ma non ti amerò mai.

 

Qualche ora dopo, il sole, fattosi coraggio, si decise a fare capolino, irradiando i suoi raggi caldi sulla cima della montagna. All’ora convenuta, i due uccelli spiccarono il volo.

 

- Ricordati, Attila. Chi vola più in alto vince la tua anima.

 

Stanno volando, l’aquila e il falco, va nel vento, sempre più su. L’aquila si era fiondata su, verso il cielo, ad una velocità fulminea, ma il falco le teneva dietro, quasi ad aspettare il momento giusto.

 

- Vola in alto, vola più in alto, aquila mia!

- Fianco a fianco, sempre di più!

 

Il falco continuava a tenerle dietro, attendendo, mentre l’aquila girò la sua piccola testolina dietro le ali, quasi a sfidare il rapace che la inseguiva. L’aquila volteggiò bruscamente su un lato, cercando di seminare il falco, ma questi, imperterrito, teneva dietro.

 

Passarono le ore. Il sole incantato da questo spettacolo, si innalzò sempre di più nel cielo. Anche la luna, dall’altro lato del pianeta, venne a sapere di quest’epica lotta nei cieli e volle vederla di persona. Il sole, a malincuore, cominciò dunque a ridiscendere verso l’orizzonte, per lasciarle spazio.

 

Intanto, i due uccelli erano ancora in aria, stanchi, provati. L’aquila planò e si fermò a mezz’aria, il falco davanti a lei. Si guardarono negli occhi, e capirono.

 

Stanno tornando, l’aquila e il falco, e nessun vento li separò. Attila e la Morte attendevano il verdetto impazienti, ma i due uccelli avevano già emesso la sentenza. Come fratelli volano accanto e la prima stella brilla da un po’.

 

La Donna disse sorridendo:

- Sei stato fortunato, Attila. Nessuno ha vinto tra di noi. Ma le promesse io le mantengo. Prendi altro tempo, tanto sai che ti avrò.

- Donna, Luna e Serpente, tu mi hai osservato per tutta la mia vita. Tu sai cosa dicono: non cresce erba dietro di me. Io porto guerra e distruzione, ma sono il padre della mia gente. Ho il cuore rosso e il sesso di un re. Hai ragione, un giorno verrò con te, ma non oggi. Non voglio perdermi in battaglia, né per veleno o carestia. No, io voglio morire tra le braccia e vino di donna, l’ultima donna. E morire per lei.

- Se questo è ciò che vuoi, d’accordo. Te lo concedo. Vola in alto, vola più in alto, dalla steppa ai ghiacci del nord. Presto o tardi ti rivedrò. Ogni donna al mondo tu avrai, ma per me cambia poco. Io so aspettare. Tanto in fondo all’ultimo assalto è con me che tu te ne andrai.

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Capitolo 8
*** #8 - Pensiero ***


#8: "Pensiero" - Pooh, Opera Prima (1971)

La forte spinta della guardia che mi lanciava quasi di peso nella cella mi fece perdere l'equilibrio e caddi a terra, con la faccia sul sudicio pavimento della più sudicia prigione della città. Il rumore metallico delle sbarre che si chiudevano dietro di me mi fece tremare di paura. Non valse a nulla scattare in piedi e aggrapparsi al freddo metallo per chiamare l'agente di turno, non valse a nulla gridare di essere innocente o implorare se non un avvocato almeno un po' di pietà. Il corridoio buio era già vuoto. Nessuno era lì ad ascoltare le mie urla di dolore, e qualcosa mi diceva che anche se qualcuno ci fosse stato, non avrebbe di certo mosso un dito per aiutarmi.

Com'ero finito lì? Ricordo solo che quella notte ero tornato a casa, avevo cenato presto ed ero andato a dormire, come al solito. Il mio lavoro non mi permetteva di godermi le ore serali come avrei voluto. Erano anni ormai che non mi sedevo su quella poltrona polverosa nel mio salotto con un buon libro in mano. E dire che da ragazzo ne avevo divorati a decine di libri.

Durante la notte, però, fui svegliato di soprassalto da un boato mai sentito prima, quasi un'esplosione, vicinissima. Avevo cominciato a temere per la mia vita, la mia immaginazione aveva subito dipinto la scena di un'intrusione di qualche ladro o criminale venuto ad uccidermi. E adesso, col senno di poi, l'avrei quasi preferito. No, era qualcosa di molto peggio di questo. Effettivamente qualcuno aveva fatto irruzione nella mia casa, sfondando la porta, ma non si trattava di ladri, non si trattava di assassini. Gli intrusi non indossavano un passamontagna o un casco per nascondersi dalle telecamere di videosorveglianza, ma piuttosto una divisa. Erano agenti venuti ad arrestarmi.

A nulla erano servite le mie proteste, le mie richieste di spiegazioni. Gli agenti continuavano a parlare di una certa ragazza e di un certo stupro. Mi definivano un mostro, minacciavano di farmi marcire in galera. Io li ascoltavo imbambolato, non avendo ancora realizzato quello che stava accadendo. L'unica cosa che ricordo distintamente di quegli attimi concitati è il freddo delle manette attorno ai miei polsi.

Erano passati diversi giorni da quella notte. Non saprei dire con esattezza quanti: non ti concedono il lusso di un calendario qui dentro. So soltanto che il freddo della cella stava cominciando già a penetrarmi nelle ossa. Non avevo avuto il tempo di rivestirmi quando sono stato arrestato, mi avevano portato qui direttamente in pigiama e mi avevano fornito una sporca divisa che tutto faceva tranne che tenermi al caldo.

Le guardie mi avevano spiegato, con un po' di infastidita riluttanza e soltanto dopo le mie insistenze, che due notti prima del mio arresto una ragazza era stata violentata giù in città, nei pressi del porto. E a quanto pare la vittima aveva fatto il mio nome. Non avevo idea di chi fosse quella ragazza, di come facesse a conoscere il mio nome e del motivo per cui avesse deciso di incastrarmi. Possibile che basti solo un nome per incolpare una persona senza uno straccio di verifica? Possibile che basti solo la testimonianza di una ragazza evidentemente in stato di shock a rovinare per sempre la vita di un innocente? Possibile che la società sia tanto inorridita da questo barbaro crimine da non voler neanche pensare di ascoltare l'altra parte prima di condannarla ad una vita di reclusione, ingiurie ed esclusione?

Ma da quei momenti era passato tanto tempo. Avevo ormai smesso anche di chiedermi cosa ne sarebbe stato di me. Avevo perso l'appetito, bevevo appena un sorso d'acqua al giorno, per tenermi in vita, anche se la tentazione di lasciarmi morire era stata forte, in più di un'occasione. Ma non potevo farlo, non prima di averle fatto sapere che non c'entravo nulla. Lei ormai era il centro dei miei pensieri, la speranza che lei non avesse perso la fiducia in me era il motivo per cui continuavo a tenermi in vita.

Quel giorno chiesi alla guardia un pezzo di carta e una penna. Non avevo neanche io idea di cosa ne avrei fatto, ma sentivo il bisogno di sfogarmi, di gettare su di un foglio tutto ciò che avevo dentro, nella speranza di trovare un po' di pace. La guardia mi guardò con sospetto e quasi indignazione. Il suo pensiero gli si leggeva negli occhi, ma la sua voce dura mi confermò che avevo interpretato bene il suo sguardo:

- Come può un essere tanto spregevole da violentare una ragazzina avanzare una qualunque richiesta? Non sono neanche tanto sicuro che per te valgano le norme sul rispetto dei diritti umani: gente come te è al di sotto della decenza umana.

- La prego, sto impazzendo qui dentro. Non c'entro nulla! Non so neanche chi sia quella ragazza! Non vi chiederò più nulla!

Non so come accadde, ma con un po' di insistenza alla fine la guardia cedette e mi portò quello che le avevo chiesto. Probabilmente aveva solo voglia di farmi star zitto e di tornare al suo giro di ronda, ma per me questo bastava e avanzava.

Mi accucciai sul pavimento e cominciai a scrivere, febbrilmente. La mia mano correva da sola sul foglio, quasi come se avesse coscienza propria e fosse stata impaziente di scrivere quelle parole da giorni. O forse era soltanto la follia che stava cominciando a prendere il sopravvento sulla mia mente. Queste furono le parole:

"Non restare chiuso qui, pensiero, tra le mura di questa cella. Purificati dal sudiciume che mi circonda, riempiti di sole e va' nel cielo, accogli il mio messaggio per lei, l'unica donna della mia vita. Cerca la sua casa e poi, sul muro, scrivi tutto ciò che sai, che è vero.

Non posso sapere cosa tu pensi di me, cosa ti avranno detto di me, quante lacrime tu abbia versato credendomi capace di commettere un crimine così disgustoso, ma credimi, amore mio. Non c'entro nulla. Sono un uomo strano ma sincero. Questo è il messaggio che affido a questa carta, cerca di spiegarlo a lei, pensiero. Quella notte giù in città non c'ero. Non ho idea di chi fosse quella povera ragazza, male non le ho fatto mai, davvero. Davvero.

Quasi ti sento, pensiero mio. Mi rimbombi in testa da quando mi hanno rinchiuso qui. Sono giorni che non mangio, che non dormo. Solo lei nell'anima è rimasta, lo sai. Il suo volto, il suo profumo, i suoi occhi innamorati. Innamorati di me. Non posso pensare che in questo momento quegli stessi occhi stiano piangendo per me. O peggio, di me.

Questo uomo inutile troppo stanco è ormai. Stanco di lottare, stanco di piangere, stanco di vivere, se non fosse per il ricordo di lei, l'unica persona al mondo di cui gli interessa l'opinione. Solo tu, pensiero, puoi fuggire se vuoi. Vola, va' da lei, la sua pelle morbida accarezzerai e le farai sentire il mio calore, il mio conforto per le sue lacrime ingiustificate. Ormai non ha più senso preoccuparmi per me, ho già patito tutto il dolore che avevo in corpo. Ora mi interessi solo tu.

Vola, pensiero mio, trovala e portale il mio messaggio. C'è sulla montagna il suo sentiero, vola fin lassù da lei, pensiero. Spiala dalla finestra, guardala distesa sulle lenzuola, dal cuscino ascolta il suo respiro, porta il suo sorriso qui vicino, vicino. Convincila della mia innocenza, non farla soffrire."

Terminata quella lettera sconnessa, ripiegai con cura il foglio, come facevo da bambino. Un paio di pieghe sarebbero bastate e ne sarebbe venuto fuori un piccolo aeroplano, l'unica forma che la mia mente provata riuscì a concepire che fosse capace di uscire da quella cella. Quando lo ebbi terminato, mi avvicinai alla finestra e, colto un soffio di vento, lo lasciai andare.

Lo guardai volteggiare in aria e fui assalito dal dubbio che non sarebbe mai arrivato a destinazione. E infatti, dopo un po' l'aereo cominciò a perdere quota, a planare lentamente verso il terreno, prima ancora di superare le mura di cinta di questa nera prigione.

Non volli guardare. Me ne tornai sulla mia branda. Volevo continuare a sperare. Sperare che il messaggio, quasi per miracolo, riuscisse ad arrivare a destinazione, che non si fermasse nel cortile del carcere. Non seppi mai il suo destino.

E per quanto riguarda me, non c'è molto altro da raccontare. La mia vita è terminata nel momento in cui quelle fredde manette si sono posate sui miei polsi. Non scorderò mai quella sensazione.

Come vorrei avere uno dei miei libri qui, a tenermi compagnia. Magari quello che mi avevi regalato tu, amore mio, quello con la tua dedica sul frontespizio e con le pagine intrise del tuo profumo.

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