ARK: Ferro e Sangue

di Roberto Turati
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La scoperta di un altro mondo ***
Capitolo 2: *** L'incontro fra due realtà ***
Capitolo 3: *** Il Celermorso nella palude ***
Capitolo 4: *** Partita tra amici ***
Capitolo 5: *** Kïma ***
Capitolo 6: *** Caccia al tirannosauro ***
Capitolo 7: *** Il Gelartiglio ***
Capitolo 8: *** Operazione vulcano ***
Capitolo 9: *** Fine di un inventore sfortunato ***
Capitolo 10: *** Missione compiuta (o quasi) ***
Capitolo 11: *** Tutto sistemato ***



Capitolo 1
*** La scoperta di un altro mondo ***


ARK: FERRO E SANGUE

Lassù, in cima alla sporgenza in quella parete di roccia calcarea, c’era la sua destinazione: l’ingresso triangolare di un Calderone, una forgia sotterranea e meccanizzata dove venivano assemblate le Macchine, che venivano poi rilasciate e lasciate libere di vagare per il mondo.

“Il Calderone Zeta, finalmente!” pensò Aloy.

L’obiettivo che si era posta dopo aver letteralmente salvato il mondo dalla distruzione totale e definitiva era cercare e perlustrare tutti i Calderoni presenti nel territorio e accedere ai terminali al loro interno per potenziare il dispositivo legato alla sua lancia, con cui poteva eseguire un override sulle Macchine e prenderne il controllo. Aveva già scaricato i dati da ogni Calderone, mancava solo lo Zeta. Sapeva già che non sarebbe stato facile, ma non aveva più paura di affrontare delle Macchine in spazi chiusi come quelli. Notò da lontano che, di fronte alla parete, si aggiravano quattro Inseguitori, Macchine da combattimento dalla fisiologia di una pantera, capaci di mimetizzarsi così bene da essere quasi trasparenti. Tuttavia, ogni tanto, tornavano visibili per mezzo secondo, il che la aiutò a scorgerli.

“Al diavolo, non voglio sprecare tempo e frecce con loro!” si disse Aloy, nervosa.

Dunque, mantenendo un basso profilo e facendo meno rumore possibile, evidenziò i loro percorsi fissi col suo focus (un oggetto triangolare da applicare ad un orecchio e che forniva indicazioni utili sull’ambiente circostante sotto forma di scritte olografiche) e si avvicinò alla parete stando certa di non entrare nel loro campo visivo. Quando ci fu arrivata, la scalò con agilità fino a raggiungere il bordo. Ora, di fronte a lei, c’era l’ingresso, decisamente piccolo in confronto a quello dei Calderoni che aveva visitato fino ad allora. Prese la lancia e inserì il dispositivo per override nella presa elettrica sulla porta metallica sigillata. Le luci rosse sulla serratura diventarono blu e l’ingresso si aprì, scorrendo verso l’alto.

“Bene, adesso arriva il difficile…” pensò Aloy, attraversata da un rapido brivido.

Roteò un po’ spalle e caviglie per accertarsi di avere i muscoli sciolti, poi entrò nel lungo e stretto corridoio d’accesso. Faceva parecchio freddo, lì dentro. Sulle pareti di metallo si era formato uno spesso strato di ghiaccio per i secoli di chiusura stagna. Quando Aloy raggiunse la fine del corridoio, si ritrovò su una balconata che dava sulla camera centrale, la forgia. Come al solito, dal soffitto del Calderone scendevano due file di bracci meccanici appaiati che montavano e fornivano elettricità alla Macchina in costruzione, che stava immobile su una piattaforma bassa e cilindrica, protetta da un campo di forza elettromagnetico.

E la macchina in questione era un Divoratuono, una bestia imponente con la fisiologia di un antico rettile bipede vissuto sulla Terra centinaia di milioni di anni prima. Era longilineo, aveva due robuste zampe posteriori, nessun arto anteriore, una lunga coda e una mandibola composta da due parti semi-snodate ed estendibili poste sulla parte inferiore della testa. Il muso era un incavo in cui brillavano i due piccoli fanali blu che fungevano da occhi. Il grande Divoratuono stava fermo, aspettando pazientemente di essere finito di costruire. Aloy entrò giusto in tempo per vedere i bracci meccanici montare due mitragliatrici al plasma sul dorso della creatura d’acciaio.

«Bene bene bene, guarda chi c’è! – salutò sarcasticamente Aloy, sapendo che non poteva ancora essere attaccata – Una volta ho distrutto un tuo simile, sai? Mi ha quasi calpestata, ma ci sono riuscita. Non posso ancora farti l’override, ma vedrò di rimediare…»

Dunque balzò giù e aggirò la piattaforma, sapendo già dove andare. Salì una scala in fondo alla stanza e raggiunse la presa elettrica che avrebbe rilasciato il Divoratuono. Dopo aver sospirato un’ultima volta, hackerò la presa… ora cominciava il vero inferno. La prima cosa che la Macchina fece una volta libera fu voltarsi verso di lei e ruggire; i suoi visori diventarono rossi e la “mandibola” si spalancò. Aloy vide una luce azzurra apparire sulle canne delle mitragliatrici schienali della bestia e capì che voleva spararle. Saltò giù da lì appena in tempo e attutì la caduta rotolando. Prese subito una bomba congelante dalla sua bisaccia e la lanciò in testa al mostro appena quello si voltò. Colpito in pieno e confuso dalla nuvola di vapore gelido che si espanse, il Divoratuono incespicò e scosse la testa. Aloy ne approfittò per prendere una freccia dirompente dalla faretra e la lanciò ad una delle torrette. L’impulso elettromagnetico della freccia staccò la mitragliatrice dalla schiena della Macchina, come sperava. Sapendo che non avrebbe avuto un’opportunità migliore, Aloy prese il lancia-trappole e iniziò a scagliare una serie di cavi con rampino al Divoratuono, per poi fissarli al terreno. Alla fine, la Macchina si ritrovò completamente immobilizzata. Mentre strattonava per liberarsi, Aloy si sbrigò a colpire uno degli “occhi” e a rompere la giuntura in silicone che fissava una componente della mandibola, che cadde. Ma ci fu un imprevisto: molto prima di quanto si aspettasse, il Divoratuono si liberò e, ruggendo, la caricò. Aloy si scansò di lato, ma un lembo della sua veste rimase impigliata nel lato della coda del mostro quando le passò accanto. Così fu trascinata mentre il Divoratuono investiva la parete con tanta forza… da sfondarla. Aloy riuscì a strappare il pezzo di tessuto e rotolò sul pavimento, mentre la Macchina cadeva in una fossa cilindrica nella stanza segreta che aveva portato alla luce per caso e sbatteva contro il suo fondo. La ragazza andò sul bordo a vedere: il Divoratuono aveva una zampa gravemente danneggiata e la coda mozza; si contorceva sul fondo della buca in un vano tentativo di rialzarsi.

«Ti sta bene, bastardo! Io, intanto, vado a scaricare un paio di dati!» lo insultò Aloy, con un sorriso beffardo.

Tornò alla piattaforma d’assemblaggio, su cui ora era spuntato il server contenente tutti i dati necessari per rendere il suo override capace di controllare anche le macchine più grosse, come il Colosso, l’Avistempesta e il Divoratuono stesso. Scaricò i dati e il Calderone si spense. Contenta, la ragazza fece per andarsene, ma… all’improvviso, si accese un’altra luce, rosso fuoco, nella stanza dove il Divoratuono era caduto.

«ATTENZIONE: TELETRASPORTO INTER-DIMENSIONALE AVVIATO VIA CONTATTO» annunciò un altoparlante.

“Cosa?! Che significa?” Aloy si sarebbe aspettato di tutto, meno che quello.

E se fosse stata un’altra branca del progetto Zero Dawn, su cui sapeva ancora troppo poco? Non poteva perdere una tale occasione! Corse a vedere e tornò là dentro giusto in tempo per vedere una nuvola circolare viola, vorticante e apparentemente fatta d’aria aprirsi sotto quel povero Divoratuono, ancora sdraiato, e risucchiarlo.

«Cosa diamine...» Aloy non poteva crederci.

Improvvisamente, una vibrazione fece tremare la struttura, facendole perdere l’equilibrio. Non poté resistere: cadde nella nuvola viola.

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Caddero per venti metri dal cielo, prima di schiantarsi in acqua. Il Divoratuono cadde dritto al centro dell’enorme fiume, che poco più in là formava una cascata da cui la Macchina cadde rovinosamente. Aloy, invece, riuscì a trascinarsi a riva e a salvarsi. Riprese fiato; poi, sconvolta, si mise seduta e si guardò intorno: era circondata da strani alberi che non aveva mai visto. Erano indubbiamente sequoie, con le chiome coniche e i tronchi rossi, ma non ne aveva mai viste di così grosse: misuravano quindici metri di diametro e centoventi d’altezza, dai dati che il suo focus trovò dopo una scansione.

“Nemmeno nelle terre dei Banuk c’erano alberi così grandi… dove sono?” si chiese, confusa e spaventata.

Vedendo che nei tronchi c’erano scanalature profonde e ruvide, appigli perfetti, fu tentata di scalarne uno fino in cima per guardarsi attorno. E così fece, in un impulso di coraggio e di curiosità. Si arrampicò cautamente, ma in fretta, per tutta l’altezza della sequoia. Ci vollero venti minuti, ma ne valse la pena: come poté vedere il paesaggio, Aloy restò senza fiato. Non era più nel mondo dove era nata e cresciuta e che aveva salvato. Non somigliava a nessun posto di cui avesse mai anche solo sentito parlare. La foresta di pini giganti era solo una porzione: attorno riuscì a scorgere di tutto. Montagne rocciose, picchi ghiacciati, un deserto di rocce e dune, fiumi e laghi giganteschi, paludi nebbiose, praterie... ma quello che la colpì di più fu la distesa blu e ondeggiante che circondava tutto, a perdita d’occhio. Aloy sospettava cosa fosse, e l’idea la faceva morire dall’entusiasmo:

“Quello è… l’oceano? Bellissimo…” pensò, sorridendo dalla commozione.

Aloy non lo sapeva ancora, ma era in un altro universo e su un’isola. Un’isola sconosciuta che ospitava creature di ogni sorta, vissute nel passato e degne dei peggiori incubi: era su ARK.

Il suo momento di gioia fu interrotto da un rumore lugubre. Sembrava un sommesso ringhio gorgogliante… si sentiva osservata… si voltò appena in tempo per vedere una figura rossa e pelosa scagliarsi su di lei alla velocità della luce, facendo precipitare entrambi nel vuoto. Era un tilacoleo, un leone marsupiale…

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Un uomo tossiva convulsamente, senza riuscire a fermarsi, maledicendo la vita che conduceva. Alocin Ollednom, inginocchiato sulla riva del fiume, ansimava e sputava sangue, per poi stare ad osservare le gocce rosse che venivano portate via dalla corrente. Si pulì la bocca, poi si versò in gola metà del contenuto della sua fiasca di sidro.

«Zio, è così difficile capire che rischi di morire una volta al giorno perché hai più alcol che sangue?» gli chiese ironicamente sua nipote Asile, seduta poco più in là e accarezzando il collo piumoso del loro terizionosauro, uno dei loro vari animali.

«Il sidro è carburante, mica veleno, nipote! – le replicò lui, rialzandosi e facendo passare il fiato corto – Ci vorrà molto di più per ammazzare questo bastardo, come pensare a te per qualche altro anno»

«Ha-ha-ha, muoio dal ridere»

«Che ci vuoi fare, sono un comico nato. Allora, pronta per l’ultimo esercizio?»

«Sì»

«Chi lo dice?»

«Io»

«Preoccupante…»

«Lo dico io, punto. Anche perché ormai ho fatto fissare la data»

«Hai idea di quanto ci voglia ad addomesticare un allosauro?»

«Eccome»

«Hai visto cos’è successo all’idiota che ti ho fatto osservare l’altro giorno. Quel pivello era un diciottenne sognante come te che stava facendo la sua bella Prova della Maturità come vuoi fare tu e l’ha fatto allo scoperto perché era sveglio…»

«Zio, vuoi farmi cominciare o no?»

«Ehi, non è mai troppo presto per morire, io non vedrei l’ora se non ci fossi tu a bloccarmi qui! Comunque, la prima traccia che ho trovato è proprio laggiù. Scegli una bestia e trova l’allosauro, io ti terrò d’occhio» e indicò l’impronta di una zampa a tre dita poco più in là.

Asile balzò in sella ad un gallimimo, scelto probabilmente per poter fare una fuga veloce, e si inoltrò nella foresta di sequoie: da lì in poi, avrebbe osservato tutti i vari indizi che facevano capire dove fosse andato l’animale.

“Ora… come festeggio la solitudine? Ah, facile!” pensò Alocin, finendo il sidro.

Poi, tanto per cambiare, prese una foglia di tabacco essiccata e cominciò a masticarla. Il loro parasauro lo raggiunse e gli strofinò il fianco col muso per chiedergli delle bacche.

«Chiedimelo ancora e ti ficco il tabacco in quella gola da cantante di strada, schifoso viziato! Vai a qualche cespuglio e mangia per conto tuo!» lo aggredì Alocin.

Il parasauro muggì indignato e si allontanò. L’uomo aspettò una decina di minuti, poi decise di muoversi a su volta.

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La pista attraversava la foresta mantenendosi sempre parallela al fiume. Asile aveva trovato una pozza di urina, poi notò che su un albero c’erano pezzi di pelle morta: l’allosauro doveva aver strofinato il fianco contro il tronco per staccarla più in fretta. Sentiva che l’avrebbe incrociato molto presto, anche considerando che il gallimimo cominciava ad agitarsi più di quanto non facesse già. Poi le impronte si unirono a quelle di altri tre esemplari: forse, quello era andato a bere da solo, mentre gli altri l’avevano aspettato. Solo l’alfa poteva permettersi di separarsi dal suo gruppo per qualsiasi motivo, quindi era il maschio dominante che lei stava seguendo. Emozionata, spronò il gallimimo per farlo accelerare. Si mise a fiancheggiare una parete umida, coperta di muschio, da cui scendevano dei rigagnoli. Mentre il gallimimo arrivava a più o meno la metà di quel costone, le sembrò di sentire dei passi leggeri e affrettati venire da sopra il bordo… poi sentì una voce femminile gridare e qualcosa di abbastanza pesante precipitò dalla sporgenza, colpendola in pieno e disarcionandola. Spaventato, il gallimimo stridette e corse via, sparendo nel sottobosco. Asile si alzò subito, anche se la testa le faceva male e sentiva di essersi sbucciata diverse giunture. Si guardò intorno e scoprì cosa le era caduto addosso: una ragazza. Capì subito, dal fatto che aveva la pelle bianca e i capelli rossi, che era una straniera. Indossava vestiti di tessuto bianco e dipinto in alcune parti per decorazione. La sua chioma era folta e aggrovigliata: in mezzo ad una grande massa informe di ciocche sciolte, aveva delle piccole trecce. Quello che attirò di più la sua attenzione fu il suo equipaggiamento: aveva una lancia e un arco in uno strano metallo grigio chiaro diverso da qualunque altro avesse mai visto, somigliava vagamente al TEK degli Uomini dal Cielo. Aveva anche polsiere e cavigliere in quel materiale. La ragazza, coperta di graffi e lividi, si trascinò fino ad uno strano oggetto triangolare rotolato più in là e se lo mise all’orecchio destro. Irritata, Asile la raggiunse e, ignorando il fatto che era letteralmente sotto shock, le afferrò le spalle e cominciò ad inveirle contro:

«Stammi a sentire, scema d’una straniera! Non so da dove o da che anno sei venuta, ma di certo ho capito che se pensi di passare il resto dei tuoi giorni rotolando addosso a…»

«Là dietro…» boccheggiò la ragazza coi capelli rossi, ma Asile era troppo infuriata e non smise di predicare:

«… ora tu ti alzi, mi chiedi scusa per avermi rovinato la caccia… anzi, diciamo la giornata, e sparisci prima che ti dia da mangiare a…»

«Girati!» esclamò lei, disperata.

«Non so il tuo nome e non mi interessa saperlo, fatto sta che io sono Asile Olledmon e che mi devi delle scuse, adesso!»

RRRRRRRRRRRRRRRR…

Si accorse solo allora del brontolìo che echeggiava già da una decina di secondi dal bordo del costone roccioso e lo riconobbe subito: un tilacoleo. Ecco cosa stava facendo la straniera: scappava da un leone marsupiale. Ora si sentiva in colpa per averla aggredita senza nemmeno fare domande… nessuna delle due osò fare un movimento quando l’enorme pantera balzò giù. Contrasse le narici un paio di volte e, senza smettere di fare le sue lugubri fusa, si avvicinò con aria curiosa. Alla fine, fu così vicino che le due ragazze potevano sentire il suo respiro umido sulla loro pelle. Il tilacoleo strinse gli occhi, scoprì i denti e ruggì: stava per attaccare. Asile chiuse gli occhi, sperando di non essere stata scelta per prima… ma il tilacoleo fu interrotto dal verso di un triceratopo. Si girò poco prima di essere spietatamente infilzato dai due corni lunghi del dinosauro.

«AH!!! Cos’è quello?!» esclamò la ragazza coi capelli rossi, facendo la celebre domanda per cui gli stranieri erano famosissimi su ARK.

«Zio!» gridò invece Asile, sollevata, vedendo l’uomo in sella al triceratopo.

«Asile, non è educato fare la predica ad uno straniero che sta per morire!» la rimproverò lo zio, ma col suo irritante tono canzonatorio.

«Ehi, è quello che tu fai con tutti! – poi si rivolse alla sconosciuta – Ehi, scusa per prima: mi succede, quando ho degli imprevisti»

«Già, sei la degna nipote di tuo zio!» scherzò Alocin.

«Finiscila, zio! Tu chi sei, comunque?» le chiese, aiutandola ad alzarvi.

«Io sono Aloy – fu la risposta – E voi chi siete? Dove mi trovo?» era molto disorientata.

«Io, come già detto, sono Asile Ollednom e lui è mio zio Alocin. Mi raccomando, non prender mai sul serio quello che dice o i suoi insulti: è una grandissima testa di cavolo, lo siamo tutti in famiglia»

«Ah, lo eravamo» precisò malinconicamente Anocil.

«Benvenuta su ARK, comunque!»

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Aloy ascoltò poco o niente dei convenevoli di quei due: era troppo impegnata a scansionare le bestie che avevano con loro col focus: non pensava che potessero esistere animali simili.

“Alcuni sembrano familiari… forse è su questo che GAIA e i suoi sotto-programmi si sono basati per Zero Dawn! Magari, se li osservo meglio, potrei anticipare le prossime creazioni di EFESTO e affrontarle già pronta…” rimuginava.

Provò a scansionare la bestia che aveva ucciso il felino simile ad un Secodonte: il focus le mostrò il suo scheletro e un elenco puntato con delle statistiche essenziali:

NOME COMUNE: triceratopo
NOME SCIENTIFICO: Triceratops styrax
PERIODO: Cretaceo superiore
DIETA: erbivora
TEMPERAMENTO: difensivo


In quel momento, sentì la ragazza darle il benvenuto su ARK. Quindi, da quanto sapeva fino ad ora, era finita su un’isola con creature che si erano estinte milioni di anni prima ancora della Piaga di Faro e civilizzata, chiamata come un’arca e civilizzata da persone che, da quel che vedeva, erano capaci di sottomettere le bestie. Tutte queste informazioni le davano emozioni miste fra meraviglia e paura, tanto da farle chiedere se doveva avere paura di questa ARK e tornare alla nuvola viola o se era meglio indagare e scoprire questo nuovo mondo.

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Capitolo 2
*** L'incontro fra due realtà ***


Il Divoratuono, dopo la caduta dalla cascata, si era faticosamente trascinato a riva e adesso stava zoppicando lungo la sponda, mentre alcuni animali erbivori che si trovavano lì, come lo vedevano, scappavano spaventati dall’apparizione di un essere che non avevano mai visto. La Macchina a forma di teropode era disorientata: quel territorio non era in nessuna sezione dei suoi file GPS, perché nessun Collolungo aveva mai eplorato né registrato quel posto. Le immagini erano molto sgranate, visto che aveva perso un visore. Aveva perso un cannone e la mandibola, adesso, pendeva cigolando: si sarebbe staccata da un momento all’altro. Si addentrò nella foresta, sradicando goffamente gli alberi al suo passaggio. Andò avanti così per mezz’ora, poi notò qualcosa che, secondo i suoi algoritmi comportamentali, gli somigliava: un tirannosauro morto. Il rettile tiranno era già molto marcio, con l’addome aperto e pieno di insetti e le ossa scoperte. Allora, nel suo cervello artificiale, si avviò quello che i software del suo creatore EFESTO chiamavano “bio-riparazione”. Il suo visore diventò giallo e, più velocemente che poté, raggiunse la carcassa del dinosauro e la aggirò fino a trovarsi rivolto verso la punta della testa. Dalla caverna fetida che era la pancia emersero tre ienodonti che la stavano spolpando. Ringhiarono un attimo contro la Macchina, ma come il Divoratuono emise un gorgolio di risposta, guairono e scapparono nella foresta. A questo punto, il Divoratuono aprì una valvola segreta che ogni Macchina aveva nel palato, da cui uscirono tanti cavi estendibili e pieghevoli simili ai viticci di un rampicante, ma fatti di silicio. I cavi raggiunsero vari punti del corpo del tirannosauro e cominciarono a prelevarne il DNA. Ci sarebbero volute delle ore, ma alla fine di quell’incredibile processo d’emergenza, così raro che nessuno nel suo mondo di provenienza l’aveva visto, le componenti mancanti del Divoratuono sarebbero state sostituite completamente da tessuti e organi vivi e funzionanti ricostruiti a partire dai geni del tirannosauro. Poi avrebbe pensato ad ambientarsi ed iniziare ad assimilare biomassa, come tutti i suoi simili…

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Aloy, dopo essersi fatta offrire una pagnotta, aveva raccontato com’era finita su ARK. Asile aveva trovato tutto molto emozionante, le aveva fatto così tante domande che alla fine si era ritrovata a descrivere a grandi linee il mondo che conosceva, la Terra rigenerata dal progetto Zero Dawn. La ragazza aveva cominciato a sognare ad occhi aperti, mentre Alocin, oltre a seguire assolutamente disinteressato e svuotando un’altra bottiglia di sidro, mostrava di essere alquanto scettico. Effettivamente, l’uomo si stava chiedendo se stesse avendo le allucinazioni uditive per l’ubriachezza o se la straniera stesse semplicemente mentendo. Infatti, le sbatté in faccia un secchissimo “non ci credo” fra una fitta d’emicrania e l’altra. Aloy si irritò, mentre Asile cercò di difenderla sostenendo che dal tono con cui parlava non poteva non dire il vero.

«Non mi credi, eh? Vuoi vedere, allora?»

«Oh, sì, certo! Non vedo l’ora di crepare ridendoti in faccia quando farai la peggior figura della tua esistenza» e cominciò a ridacchiare a caso, fissando il vuoto.

«E… è andato del tutto» sospirò Asile.

«Uao… tuo zio fa sempre così?» chiese Aloy, con un sorriso divertito.

«A volte sì, a volte no: dipende tutto da quanta voglia di bere gli viene. Ma fa parte del suo fascino, secondo lui»

«Ma… da queste parti sono tutti così?»

«Ovviamente no! È lui che è un pazzo lunatico. Vabbè, mi fai vedere questa “nuvola”? Mi sa che la userò come ultimo spettacolo per gli occhi prima della mia Prova della Maturità»

«La tua Prova della Maturità?» chiese Aloy, mentre Asile induceva lo zio ubriaco a salire in sella al suo triceratopo e saliva su un pachicefalosauro, invitandola a sedersi dietro di lei con un cenno.

Aloy le indicò la direzione in cui far muovere il contingente di creature, giunte tutte insieme in quel momento per il suo stupore. La nipote di Alocin le spiegò in due parole di cosa si trattava.

«In qualche modo, mi ricorda una tradizione della mia tribù» fu il commento finale.

«Tu l’hai già fatto, qualunque cosa sia?»

«Sì, il palio è l’esaudimento di un desiderio»

«Che fortuna, a me spetterà farmi ficcare un innesto di pietre assortite nel polso!»

«Ahi, sembra doloroso… comunque, il mio desiderio era scoprire chi fosse mia madre, ma è venuta fuori una serie di casini che mi hanno fatto scoprire che sono solo la replica di una persona vissua secoli prima di me per volere di un’intelligenza artificiale… e per questo e altri motivi ho scoperto di essere l’unica che poteva impedire che il mondo fosse distrutto per sempre, cosa che alla fine è successa. Sono l’eroina di tutti, ora; anche se preferisco essere trattata normalmente. Sempre meglio che vivere emarginata…»

Asile la fissava con la bocca e gli occhi spalancati, la sua mente ronzava per quanto la storia che aveva appena sentito era contorta.

«Va bene… e io che pensavo che non si potesse avere una vita più incasinata di quella di mio zio! Ma… in che senso “replica”? Se ti strappo la faccia, salta fuori che sei un manichino vivente?» ovviamente, la stava buttando sul ridere, anche se non sapeva fino a che punto.

«Be’, almeno sembra allegro!»

«Ev ded ev ev em ab pèmef mef etag... ev ded ev ev edev vag tjzaz ebev...» canticchiava Alocin nel frattempo, preso dai fumi dell’alcol.

«Nella Prova della Maturità dobbiamo addomesticare tutti da soli il nostro primo animale, se moriamo sono affari nostri. Da te che si deve fare?»

«È una sorta di percorso ad ostacoli, ma abbastanza difficile da uscirne con delle ossa rotte o morti»

«Anche domare una bestia è complicato: ci vuole tanto prima che si fidino di te, a forza di offrirgli da mangiare»

«Semba divertente, però… a me basta una lancia con un override»

«Un… eh?»

«Oh, scusa! Mi serve per prendere il controllo delle Macchine, gli animali metallici di cui ho parlato. Mi sto facendo una reputazione, anche se non sono affatto l’unica che lo sa fare»

«Che mondi fighi abbiamo, eh?» commentò Asile, ridacchiando.

«Sì, immagino» rispose Aloy, con un mezzo sorriso.

In quel momento, dopo aver seguito il fiume per un pezzo, raggiunsero il punto indicato da Aloy e lo si sarebbe capito anche se non l’avesse detto: il portale era impossibile da non notare. Aloy si sorprese, vedendo che si era fisicamente spostato dai venti metri di altezza a cui si trovava prima al terreno.

“Meglio così – pensò – Cominciavo a preoccuparmi su come avrei potuto arrivarci…”

«E così è quello che ti ha portata su ARK?» chiese Asile.

«Già. Non credere che sia normale, per me: anch’io ci ho avuto a che fare per la prima volta oggi!»

«Ehi zio, vedi che la straniera aveva ragione? Quel portale è vero!»

«Ah! Eh? Cosa?... oh, sì, bello! Bello…» farfugliò Alocin, ancora sbronzo. Veramente, non aveva neanche capito cos’aveva detto Asile.

Aloy balzò giù dal pachicefalosauro e sistemò meglio arco e lancia alla sua tracolla.

«Bene, allora… immagino che ci dobbiamo salutare. Grazie per il passaggio, Asile! E scusa se ti sono caduta addosso»

«No, tu scusa me per averti minacciato di pestarti: devo gestire meglio la rabbia»

«Oh, e comunque credo che presto o tardi vorrò tornare sulla vostra isola: sembra un bel posto! E poi non ho mai visto un oceano, potrei approfittarne…»

«Vuoi un consiglio? Evita: ci sono cose molto brutte laggiù»

«Non m’importa, darò un’occhiata: rischiare ne fa valere la pena, mi dicono»

A questo punto, le due si salutarono con un cenno e, mentre Asile osservava con le mani sui fianchi, Aloy scomparve dietro il portale.

«Va bene, zio, direi che decisamente il mio allenamento è da lasciar perdere… andiamo a casa, così tu fai una dormita, ti passa la sbronza e io aspetto di fare la mia Prova!»

«Tu non mi dici cosa… ehi, mi sembra un’ottima idea! Vuoi del sidro? Oh, non ce n’è più…»

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Aloy si ritrovò in fondo a quel buco cilindrico. Nel Calderone, il portale si era spostato dal pavimento alla parete. Guardandosi bene intorno, capì subito cos’aveva attivato la nuvola viola: nel pavimento, c’era una sorta di pulsante con dentro la tipica serratura per override. Evidentemente, il Divoratuono l’aveva premuto cadendoci sopra. Per intuito, Aloy inserì la lancia nella serratura e tirò verso l’alto dopo averla girata: come previsto, il pulsante salì e, in pochi secondi, la nuvola si dissolse come vapore.

“Però, è stato più facile di quanto pensassi!” pensò.

E, uscita dal buco col rampino, uscì dal Calderone Zeta (ricordandosi degli Inseguitori da aggirare) e distrusse una Vedetta dall’occhio rosso che era apparsa in zona nel frattempo. Poteva così ricominciare la sua vita di prima da non-emarginata Nora… o, meglio, pensava di poterla già ricominciare.

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Era passata una settimana. Aloy aveva deciso di fare pratica per entrare nella Loggia dei Cacciatori, un’associazione carja con sede a Meridiana in cui si cercavano e distruggevano Macchine per agonismo salendo gradualmente di grado, come in un corpo militare. Per il suddetto allenamento, aveva raggiunto una piccola zona di caccia nella sua regione natia, il territorio dei Nora. Alcuni la vedevano come la salvatrice del loro mondo, i più scettici e conservatori la guardavano ancora come se fosse l’emarginata che era stata fino a qualche mese prima. Dopo essersi presentata al responsabile delle sfide, si era fatta spiegare le regole: ogni volta che se ne completava una, si ricevevano dei “marchi” e, accumulandoli, si saliva di grado e si acquisiva il diritto di farsi affidare ad un istruttore della Loggia. La sfida di prova che le fu suggerita consisteva nell’usare le frecce dirompenti per staccare dieci serbatoi dalle schiene di una mandria di Cervaviti che si aggirava sempre in quella zona; le sembrò facile per i suoi standard, quindi andò tranquilla. Raggiunto un punto sopraelevato, vide subito il branco di Cervaviti. Tenevano tutti la testa bassa per pascolare: sarebbe stato facile sferrare il primo colpo senza farsi vedere. Prese una freccia dirompente, mirò al Cervavito più vicino e scoccò: l’impulso staccò subito tutti i suoi quattro serbatoi. Le Macchine sobbalzarono tutte insieme e cominciarono a guardarsi intorno, coi visori gialli. Aloy fece in tempo a lanciarne un’altra, che devastò la schiena di un altro Cervavito. A quel punto, tutte le Macchine della mandria fecero i visori rossi e presero a galoppare via, in fuga. Aloy si lanciò subito all’inseguimento, seguendo le tracce e stando attenta a trovare un altro punto adatto per colpirne un terzo. Corse per dieci minuti, prima di rivederli in lontananza: avevano cominciato a camminare e ora si trovavano sulla riva di un laghetto. Incoccò una freccia, prese la mira e… tutto quanto fu interrotto da un lontano, ma comunque assordante ruggito. Aloy sobbalzò dallo spavento e così fecero i Cervaviti, prima di scappare ancora. Aloy intravide un’ombra che le sembrò familiare in lontananza; non poteva vederla bene, perché si sagliava contro la luce dell’alba.

“Un Divoratuono? Ma… perché quel verso?” si chiese.

L’ombra avanzò verso il lago e fu allora che se ne accorse: non era una Macchina. Era un animale, una creatura vivente di ossa, organi e tessuti. La fisiologia era proprio quella di un Divoratuono, però era un rettile con un’andatura simile, con due piccole braccia. Teneva in bocca un cinghiale morto, forse aveva ruggito quando lo stava inseguendo. Aloy non era confusa, di più. Da dove diamine veniva quella cosa? Le venne un sospetto sconvolgente pochi secondi dopo. Nascondendosi dietro una roccia per non farsi vedere, scansionò la creatura col focus mentre guadava il laghetto:

NOME COMUNE: tirannosauro
NOME SCIENTIFICO: Tyrannosaurus rex
PERIODO: Cretaceo superiore
DIETA: carnivora

TEMPERAMENTO: aggressivo

“Assurdo… mi ricorda… possibile che sia venuto da… da quell’isola?” pensò.

Ma non aveva senso: aveva chiuso il portale nel Calderone Zeta la settimana prima, non c’erano più collegamenti con ARK… a meno che…

“E se ci fosse stata una trasmissione ad altri Calderoni?” pensò.

Effettivamente, poteva avere senso: aveva già trovato rovine degli Antichi in cui i dispositivi ne attivavano altri simili in siti uguali. C’era solo un modo per accertarsene…

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Alla fine, Asile aveva scelto un gigantopiteco. Quegli scimmioni la affascinavano da sempre, perché erano praticamente la via di mezzo perfetta fra le persone e gli animali: stavano in posa eretta ed erano basilarmente empatici, ma combattevano selvaggiamente e vagavano per un territorio marcato con l’urina. Aveva avvistato una giovane femmina e, dopo essersi conquistata la sua fiducia, l’aveva chiamata Arlak. Era stata via solo per cinque giorni, siccome i gigantopitechi erano relativamente facili da addomesticare. Quando si era presentata al suo villaggio natale, nella brughiera vicino alla costa occidentale (era un Teschio Ridente), aveva ricevuto congratulazioni e applausi, come chiunque prima di lei. Suo zio aveva finto di rimanere indifferente, per puro orgoglio, ma lei non se la prese, perché lo conosceva. E poi, aveva visto che si stava sforzando per non sorridere. Da ragazza forte qual era, non emise un singolo lamento quella notte, quando il capovillaggio le inchiodò l’Impianto della Maturità nel polso sinistro. Quando era entrata in casa, suo zio si era lasciato andare ad uno dei suoi pochissimi momenti sentimentali della sua vita e l’aveva abbracciata, dicendole che i suoi sarebbero stati orgogliosi… per poi fare una battuta su quanto quella frase fosse stereotipata per i giovani orfani, giusto per farle ricordare che era pur sempre Alocin Ollednom.

Le aveva chiesto cosa desiderava fare per festeggiare il superamento della sua Prova e lei aveva optato per qualcosa di “romantico”: andare su una rupe all’alba per guardare il Sole che sorgeva e Alocin acconsentì, portandola lì con un tapejara, mentre Arlak passava la sua prima notte nella stalla comune del villaggio. Le aveva chiesto cosa desiderava fare per festeggiare il superamento della sua Prova e lei aveva optato per qualcosa di “romantico”: andare su una rupe all’alba per guardare il Sole che sorgeva e Alocin acconsentì, portandola lì con un tapejara, mentre Arlak passava la sua prima notte nella stalla comune del villaggio. Le aveva chiesto cosa desiderava fare per festeggiare il superamento della sua Prova e lei aveva optato per qualcosa di “romantico”: andare su una rupe all’alba per guardare il Sole che sorgeva e Alocin acconsentì, portandola lì con un tapejara, mentre Arlak passava la sua prima notte nella stalla comune del villaggio. Avevano allestito un fuoco da campo su una delle sporgenze dell’Oilep, il monte al centro dell’isola, circondato da fiumi. Su richiesta di Asile, che durante la ricerca del primo animale aveva mangiato solo pasti sbrigativi e sazianti solo per quanto le serviva, abbatterono un listrosauro piuttosto grasso e, farcitolo con degli ortaggi, lo misero a cuocere sopra il fuoco per le sei ore che mancavano all’alba. Nel frattempo, si erano scambiati racconti su cos’era successo a lei e come aveva fatto lui ai suoi tempi. Lui, per provocarla, parlava con un tono narcisista, come se lui fosse il migliore di tutti e lei scarsissima, il che faceva crepare dal ridere entrambi.

Quando ebbero finito di mangiare, il Sole cominciò a sorgere e ad illuminare di rosa rocce e fronde d’albero. A quel punto, Asile andò a sedersi sul bordo della rupe, facendo pendere le gambe nel vuoto, e appoggiando le mani per terra dietro la schiena. Alocin, invece, non resisté più e stappò una bottiglia di sidro, cominciando a bere lentamente e a schioccare la lingua per sentire meglio il sapore. Lei, facendo finta di non aver sentito il rumore del tappo, si concentrò su quanto era contenta per aver passato almeno sei ore in compagnia dello zio come se lui fosse un parente come gli dèi comandavano, e non il buzurro cinico e alcolizzato che dava un senso alla sua vita facendo da genitore adottivo per lei e svolgendo incarichi che spesso prevedevano violenza e morti animali e umane accidentali che conosceva. La sua serena meditazione fu interrotta quando Alocin, vedendo che ormai il Sole era apparso del tutto, le chiese quando si sarebbe decisa ad alzarsi, visto che lui aveva un impegno per uno Squalo Dipinto suo amico e lei aveva altra pratica da fare per conto suo.

«Agli ordini, rovina-momenti!» rispose lei, scimmiottandolo.

Alocin la riaccompagnò al villaggio e, dopo averla fatta scendere dal tapejara, le chiese che aveva intenzione di fare. Stringendosi nelle spalle, Asile disse che pensava di andare nella foresta con Arlak e abituarla ad andare dove le era comandato mentre portava la padrona sulle spalle. Dopo averla scherzosamente avvertita della testardaggine dei gigantopitechi, Alocin andò un secondo in casa a prendere delle armi dal ripostiglio: prese un machete, una balestra con una faretra di frecce in ossidiana e cinque bombe appiccicose; queste ultime erano un’arma che gli Arkiani avevano inventato ispirandosi alle molotov di cui i naufraghi stranieri dalle epoche più recenti raccontavano: si trattava di piccole giare in vimini che si riempivano con una miscela infiammabile di polvere pirica, argilla e petrolio e da chiudere con un tappo di sughero. Prima di lanciarle, si dava fuoco al vimini e le si scagliava contro il bersaglio e la bomba esplodeva al contatto, bruciando tutto intorno a sé: Alocin le adorava, chissà perché…

Quando fu pronto, tornò dal tapejara e decollò.

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La sua destinazione era la spiaggia sulla punta sud-orientale dell’isola, dalla quale si poteva vedere l’isolotto di ulivi, oleandri ed euforbie su cui gli Squali Dipinti avevano il loro villaggio principale. Vide dall’alto il suo contatto che lo salutava con la mano, quindi scese accanto a lui. Era Osnofla Itaba, una delle persone che gli chiedevano favori più spesso. Anche se lui gli chiedeva quasi sempre banalità o idiozie, cosa che gli faceva sempre voglia si tagliargli la testa e gettarla in bocca ad un giganotosauro.

«Eccomi qua, fanfarone. Che vuoi?» gli chiese.

«…“fanfarone”? E questa da dove ti è mai venuta, Alocin? Ho sempre creduto che parlassi peggio di un vecchio sdentato!»

«Anche un dodo saprebbe insultare uno scemo come te. Dimmi che devo fare, così non mi tocca più vederti né sentirti»

«Hai già sentito parlare del tirannosauro zombi con metà corpo di ferro, vero?»

«Come no? Ne parlano almeno dieci persone in tutti i villaggi, anche sui sentieri»

«E ci credi, vero?»

«No. Non ci crederei nemmeno da sbronzo» rispose seccamente Alocin, tracannando del sidro.

«Come?! È vero com'è vero che siamo su una spiaggia! Chi mai avrebbe così tanta fantasia da inventarselo?»

«Certo, come se per inventarsi che il Megapiteco era morto di dissenteria non ci voglia una gran bella dose di immaginazione»

«E se ti dicessi che ho appena avuto la conferma che invece quella cosa esiste, Alocin?»

«Che vorresti dire?»

«Che ieri sera sono stato quasi ammazzato da un sarcosuco di ferro!»

«…mi prendi per il culo?»

«Nient’affatto! Ero nella palude per raccogliere funghi aurei, poi… poi quella… quella cosa è balzata fuori dall’acqua, me ne sono accorto appena in tempo! Era proprio un sarcosuco, ma tutto di ferro! Era tutto un ammasso di placche di metallo bianco attaccate l’una all’altra! Aveva degli occhi di vetro e rosso sangue, non mi staccava lo sguardo di dosso… e poi aveva i poteri magici! Sputava fuoco, sputava palle di ghiaccio… santa Artsa, non so come sono sopravvissuto!»

Spiazzato dall’incredulità della cosa, Alocin annusò l’interno della sua bottiglia per vedere se quel sidro era avariato, ma non lo era.

«Quell’angolo di palude è troppo prezioso per me e per altri: in nessun posto ci sono così tanti funghi aurei! Gli altri non mi aiuterebbero mai a levarlo di mezzo, non mi crederebbero, sono scettici…»

«Sì, perché sei un imbecille»

«Per piacere, Alocin, uccidi quel mostro! Ti prometto che ti offrirò due… no, quattro barili di bile di ammonite! È un’ottima offerta, credimi!»

Alocin rifletté a lungo, ma poi cedette e disse che avrebbe osservato la palude dall’alto col tapejara e che poi sarebbe tornato un’altra volta con più animali e più armi, una volta visto com’era questo sarcosuco di ferro. Osnofla ringraziò e osservò Alocin volare verso la palude sulla costa orientale di ARK.

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Capitolo 3
*** Il Celermorso nella palude ***


Dimenticando quello che stava facendo prima, Aloy aveva seguito a ritroso le tracce della creatura, il tirannosauro, per vedere se la sua paura era fondata. Si era accorta comunque, voltandosi un secondo, che anche il rappresentante Nora della loggia aveva visto l’animale dall’alto della sua postazione ed era rimasto di sasso per qualche secondo, per poi correre via, terrorizzato. La ragazza seguì la pista evidenziata dal suo focus per sei lunghe ore e, alla fine, arrivò ad una cascata nella giungla a Sud di Meridiana: era l’uscita naturale della caverna in cui si trovava il Calderone Xi, il penultimo che aveva perlustrato. Entrò e finì subito nella camera di assemblaggio. Sgomenta, vide che la grande forgia era ripartita. E c’era anche un’apertura segreta che la volta prima non aveva scoperto, in cui c’era… un grande portale viola simile ad una nuvola. Non solo: su un’altra parete c’era l’ologramma della mappa del mondo a lei conosciuto, su cui erano segnati quattro calderoni con la scritta:

TELETRASPORTATORI ATTIVI

Dunque aveva ragione: il Calderone Zeta aveva fatto aprire altri portali in altri quattro punti: i Calderoni Xi, Rho, Sigma ed Epsilon. Sotto quell’ologramma, ce n’era un altro, di un posto che non riconosceva, ma che riconobbe perché accanto ne era riportato il nome e il luogo in cui si trovava, all’interno di una frase:

TRASPORTO INTER-DIMENSIONALE DA: COLORADO, DIMENSIONE 8214, A: ISOLA DI ARK, DIMENSIONE 11611

Infine, dulcis in fundo, rilevò le tracce del tirannosauro che uscivano dal portale… e quelle di un Celermorso che entravano.

“Dannazione… devo rimediare a tutto questo!” pensò.

Le sarebbe bastato girare gli interruttori dei quattro portali e farla finita, ma si sarebbe sentita in colpa a lasciare gli abitanti di ARK soli contro esseri che non conoscevano… e poi aveva ancora voglia di esplorare quel posto… questa scusa e la sua determinazione le fecero fare una scelta.

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Prima di partire alla nuova avventura, decise di scansionare e duplicare quei due ologrammi-mappa col focus per poter sempre sapere dove si trovava lei e dove fossero gli altri portali su ARK. A quel punto, raccolto tutto il suo coraggio, inserì la lancia nel pulsante girevole nel pavimento e lo ruotò, per poi buttarsi di testa nel portale, poco prima che si chiudesse. E fu così che si ritrovò improvvisamente immersa nell’acqua sporca e salmastra fino alla vita. Si guardò intorno, spaesata: era in una foresta di mangrovie, in quella che era chiaramente una palude. Dall’acqua, resa verdognola dalle micro-alghe, uscivano dei miasmi dello stesso colore e che puzzavano di uovo marcio, per cui Aloy ebbe la nausea per quasi un minuto, essendo passata dalla brezza pungente di un calderone a quel tanfo pesante e soffocante.

“Allora, inizia il mio suicidio in terra straniera…” pensò, una volta evidenziata nuovamente la pista del Celermorso.

Dalla ricostruzione datale dal dispositivo, la Macchina aveva girato in cerchi concentrici tutto attorno alla secca su cui si era formato al portale per via dell’iniziale disorientamento. Poi, ad un certo punto, sembrava essersi deciso a prendere una direzione a caso: aveva tagliato improvvisamente verso Sud. Così, afferrata la lancia, iniziò ad avanzare a falcate nell’acqua verdastra. Più di una volta, il Celermorso si era fermato per divorare dei pesci (e lo si capiva anche dai celacanti o dai salmoni-vampiro tranciati a metà che galleggiavano in giro) o per combattere contro qualche creatura: trovò, incastrata fra le radici contorte di una mangrovia, la carcassa di un esile coccodrillo dagli arti lunghi e sottili e lungo tre metri. Incuriosita, Aloy volle scansionarla:

NOME COMUNE: kaprosuco
NOME SCIENTIFICO: Kaprosuchus paludentium
PERIODO: Cretaceo superiore
DIETA: carnivora

TEMPERAMENTO: aggressivo

Non ancora soddisfatta, Aloy si inginocchiò accanto al kaprosuco morto ed osservò i molti segni lasciati dal Celermorso: tre profondi buchi conici lungo i fianchi indicavano un morso inferto con uno spigolo della mandibola metallica, già letale di suo; inoltre, la testa della malcapitata creatura era coperta da uno strato di ghiaccio: il Celermorso doveva averlo colpito con un proiettile di Gelo. Molto probabilmente, il congelamento del cervello l’aveva ucciso prima del dissanguamento.

«Be’, condoglianze – disse Aloy, ironicamente – Non ricordo che dèi avete qui o se ne avete, quindi… ti auguro buona visita alla Madre in ogni caso. Addio!»

Ma, nel momento in cui si alzò, si sentì inquietantemente osservata. Si girò di scatto e vide una lunga increspatura a forma di V nell’acqua, che si muoveva allungandosi alla velocità di un fulmine… verso di lei. Aloy spinse la punta della lancia in avanti appena in tempo per infilzare la bocca rosa spalancata di un enorme serpente che stava schizzando su di lei per farne un boccone. Col cervello trafitto, il serpente fu preso da una serie di convulsioni, prima di accasciarsi nel fango. Sconvolta, Aloy si mise seduta per un attimo per riprendersi dallo spavento. Il focus rivelò che il serpente gigante era un titanoboa. Dopo un lungo sospiro e sforzandosi di non pentirsi di essere andata su ARK, Aloy si rialzò e tornò all’inseguimento del Celermorso…

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Alocin non avrebbe pensato di trovare la creatura di ferro descritta da Osnofla, mentre col suo tapejara sorvolava la palude. Invece lo trovò eccome: prima vide una sagoma grigia e lucente a forma di coccodrillo sotto l’acqua, poi due bagliori rossi simili ad occhi ed infine gli fu scagliata contro una velocissima palla di ghiaccio. Il tapejara la evitò per un soffio, ma il movimento fu così scattoso che Alocin non riuscì a mantenere l’equilibrio e cadde. Dopo essere emerso quasi traumatizzato, vide la creatura metallica avanzare verso di lui a bocca spalancata e rotolò via un attimo prima di essere tagliato in due.

“Per gli spiriti, che ho fatto di male per meritare questo?!” pensò.

Prese la balestra e preparò una freccia in ossidiana. Evitò una sferzata della coda rotolando e osservò la Macchina in cerca di punti in cui colpire avrebbe potuto servire. Guardando bene, fra un attacco schivato per miracolo e un altro, gli venne in mente che forse gli spazi snodabili fra le placche d’acciaio che rivestivano quella cosa fossero un po’ più delicate. Anche i suoi abbaglianti occhi di vetro e l’interno della bocca davano quell’impressione.

“Che cazzo, tentare non nuoce!” si disse, per farsi coraggio.

Per fare una prova, attese che il sarcosuco di ferro aprisse ancora la mandibola e caricasse, per poi scagliare la prima freccia dritto nella sua gola. Effettivamente, l’essere fu scosso da un sussulto e una pioggia di scintille iniziò a sgorgare dalla sua bocca. Speranzoso, Alocin continuò a girare in tondo per la secca su cui si trovavano, cercando di non diventare un bersaglio troppo facile, e a colpire dove vedeva delle aperture. A quella cosa non piacevano affatto le frecciate nelle giunture degli arti. Ad un certo punto, la Macchina si spazientì e si preparò a lanciare una palla di ghiaccio. Alocin si buttò in acqua, ma l’onda d’urto di quel proiettile ghiacciato lo sbalzò via, lasciandolo spaesato quando atterrò. Trascinandosi a riva, vide la creatura correre verso di lui e capì che non sarebbe riuscito a salvarsi… però, d’un tratto, una velocissima freccia che emanava un vapore bianco e freddo fu tirato da dietro la Macchina e si conficcò in uno dei serbatoi che aveva sulla schiena. Una potente esplosione rimbombò, fumo bianco e gelido si sparse in giro e l’animale di ferro si immobilizzò, intrappolato in una crosta di ghiaccio. Un velo di brina si era formato sulle mangrovie circostanti.

“Ma che…” pensò Alocin, confuso.

Infine, una ragazza coi capelli rossi apparve brandendo una lancia di ferro e, rapida quanto le sue frecce, trafisse il cranio di quella cosa, che si appiattì al suolo senza “vita”, emettendo flebili scariche elettriche miste a fumo nero.

«Oh, c’è mancato poco, eh?» commentò la ragazza, sorridente, aiutandolo ad alzarsi.

Poi, guardandolo, sembrò riconoscerlo, anche se lui non aveva idea di chi diamine fosse.

«Un momento… tu sei… ah, sì! Sei lo zio di quella ragazza che ho incontrato quando ho scoperto quest’isola! Come si chiamava? Al… Asi… Asile! Tu sei lo zio di Asile, giusto? Tu ti chiami… Alocin, giusto?»

«…e tu come lo sai? Chi sei? Cos’è quella cosa? Sapevi come ucciderla, quindi la conosci! Parla, straniera!»

«Cosa? Non capisco… che ti succede? Ho parlato con te come con lei, è stato la settimana scorsa! Sono Aloy! Sai, quella venuta da un altro mondo pieno di bestie meccaniche dette “Macchine” con una nuvola viola»

«Uhm… per caso mia nipote stava facendo pratica per la sua Prova?»

«La Prova per la Maturità? Sì! Ricordi?»

«Forse, ma devo pensarci bene: dovevo essere ubriaco, in quel momento…»

«Oh, lo eri eccome!»

Alocin fece appello a tutta la sua forza di volontà per pensare alla settimana precedente… e, finalmente, gli venne un'illuminazione:

«Ehi, ma certo! Tu sei quella venuta da un altro mondo pieno di bestie meccaniche dette “Macchine” con una nuvola viola! Ehm… Aloe, giusto?»

«Ehm… mi chiamo Aloy, ma sì» rispose la straniera, divertita.

«Ma… hai portato tu questo coso su ARK?»

«No, ma è colpa mia, sono venuta a rimediare. Ehi, visto che sai già qualcosa e mi serve qualcuno che conosca l’isola… mi aiuteresti? Se ti va, ovviamente»

«Non mi hai neanche pagato la cena! Hahahahahahahaha!»

«…eh?»

«Era una battuta, rilassati. Preferirei riposarmi a casa, adesso. Perché non vieni con me, così mi dici tutto e io do un senso alla cosa?»

«Oh… sì, volentieri! Hai ragione, in fondo. Anche a me servirebbe una pausa»

«Andata, Aloe! Mi sa che ad Asile piacerà rivederti…» disse Alocin, fischiando per chiamare il tapejara.

«Aloy!» lo corresse lei, mentre il volatile arrivava.

«Quello che è. Andiamo!»

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Aloy non aveva mai provato a volare, anche se sperava di farlo in seguito cavalcando uno Smeriglio o un Avistempesta. L’ultima cosa che si sarebbe mai aspettata nella vita era farlo per la prima volta sulla schiena di un grande rettile con braccia da pipistrello, un becco da tucano e una cresta sulla schiena. Il volo durò appena dieci minuti, ma bastò a farle provare più emozioni di quando si era fermata a riflettere sul fatto che aveva salvato un intero pianeta distruggendo un’IA. Atterrarono nel villaggio dei Teschi ridenti, accanto alla casa di Alocin. Aloy si guardò rapidamente in giro, osservando la gente mista a bizzarri animali andare qua e là, conversare e lavorare sui portici delle loro case in mattoni e legno a graticcio. Non c’era il tono di sfarzo ed esagerazione che si sentiva a Meridiana, ma l’idea di benessere era la stessa. Suppose che sarebbe stato lo stesso se fosse stata anche solo un’altra tribù del suo mondo, magari tutti capaci di controllare le Macchine.

«Ehi, non dovevi riposarti?» la chiamò Alocin, facendo per entrare.

«Sì, scusa, stavo guardando il villaggio. Non è male, dico sul serio! Il massimo che potresti trovare nel mio territorio di nascita è un mucchio di legno e sassi. Per fortuna, sono abituata al nomadismo»

«Buon per te. Se hai fame, ho qualcosa in dispensa, basta che non ne approfitti»

«Grazie! Rilassati, io mi sforzo sempre di non dare fastidio»

Dopo averle indicato la dispensa, Alocin buttò della legna nel focolare e la accese, per poi appoggiare la schiena al muro e iniziare un’altra bottiglia di sidro. Aloy tornò con una mela. Chiese se poteva sedersi su uno sgabello e ci si accomodò, con le gambe accavallate.

«Ti basta quella?»

«Che c’è? Ho provato a mangiare ancora meno nel giro di tre giorni!»

«Vabbè. Allora, spiegami tutto»

Aloy finì la mela e, rigirandosi il torsolo fra le mani, raccontò tutto, dal Calderone Zeta al suo ritorno su ARK.

«E così… ti aspetti che ti aiuti a distruggere tutte queste “Macchine” e chiudere i portali?»

«Sì. Dopodiché avrò anche da cercare le creature di quest’isola che sono entrate nel mio mondo e uccidere anche loro, così sarà davvero tutto finito. Ma lì posso cavarmela da sola, conosco quei luoghi: non servirà più prenderti il disturbo»

Alocin avrebbe voluto sbattersene, come suo solito, eppure era incuriosito. Per una ragione che non sapeva spiegarsi, l’idea di fare qualcosa di diverso dalle solite commissioni più noiose che rigirarsi i pollici e gli indici da parte dei suoi pochi “amici” lo intrigava, e parecchio.

«Io cosa ci guadagnerei?» volle comunque metterla alla prova.

«Oh… io non… non credo che portarti oggetti dal mio mondo ti serva a qualcosa, quindi non saprei davvero… ma, come ho detto, non sei obbligato. Posso fare anche da me, solo che mi farebbe più comodo avere con me qualcuno che sappia come si fa qui…»

Ma Alocin, dopo aver svuotato la bottiglia in un sorso, si alzò e affermò, convinto:

«Sai una cosa? Non ti preoccupare, penso che accetterò l’offerta! E non solo perché mi sono ubriacato per sparare idiozie a caso»

«Davvero?»

«Sì, per gli spiriti! Nella mia vita tutto fa schifo, a parte mia nipote e il sidro, quindi perché mai non dovrei movimentarla un po’? Io ti faccio fare un giro turistico e tu mi fai vedere com’è cacciare animali di ferro coi poteri magici!»

«Oh, grazie infinite! In realtà la loro non è magia, ma non importa. Ci sto!»

«Stretta di mano?»

«…non so che significhi, ma va bene»

Si strinsero la mano come due colleghi di lavoro, ma poi Alocin gridò e, tenendosi una mano sul petto, si schiantò sul pavimento.

«AAAAAAHHH!!! Tutte le volte! Per gli dèi! ARGH!!!»

«Ehi! Che… cos’hai? Posso aiutarti? Vuoi alzarti?»

«In questo momento, l’infarto che sto avendo mi preoccupa più di… AAAAAHHHHH!!! Della posa!»

Sconvolta, Aloy accese il focus e vide con sgomento che era vero: il cuore di Alocin si stava fermando.

«Senti… c’è un sacchetto tinto di verde nella… ARGH!!! Nella cassetta accanto alla porta! Prendilo!»

Aloy si girò, vide la cassa e fece subito come le era stato ordinato. Gli portò il sacchetto. Lui lo afferrò, lo aprì, prese una manciata di una strana polvere gialla e se la buttò in bocca, impolverandosi dita e labbra. Cominciò a fare lunghi sospiri profondi e, infine, tornò normale.

«Che spavento! Cos’hai che non va?»

«Ah, diciamo che è colpa mia. Devo mangiare più verdura e passare al succo di mela… se non fossi stato in casa, sarei stato fuori senza medicina! Stavolta hai rischiato, bello!»

«Cos’è quella polvere?»

«Un miscuglio miracoloso che mi ha consigliato la farmacista degli Alberi Eterni, quelli nella foresta di sequoie. La si fa con fiori, funghi ed erbe, non sto a dirti tutto»

In quel momento, la porta si aprì ed apparve Asile. Appena vide suo zio appena ripresosi da un infarto e la straniera coi capelli rossi che aveva visto per un’ora la settimana prima, le sfuggì un “ma che…”

Aloy, arrossendo dall’imbarazzo, salutò e spiegò tutto, ripetendo la sua storia. Intanto, Alocin si pulì le labbra e uscì a prendere una boccata d’aria fresca. Appena sentì Aloy parlare della parte in cui ci sarebbe stato da cacciare i dinosauri nel suo mondo, Asile si emozionò e, in vena di novità e sfide a sua volta (era decisamente un vizio di famiglia), le chiese se poteva pensarci lei. Aloy, spiazzata, le chiese se era davvero sicura e le chiese se non sarebbe stato meglio lasciare il lavoro a lei, non volendo morti sulla coscienza. Asile ribatté dicendo che rischiare di morire era normale per un Arkiano, roba per cui si faceva esperienza tutti i giorni, in posti sempre più difficili. Non sapendo come opporsi, Aloy disse che andava bene, ma intonando la frase come se fosse una domanda per esprimere tutta la sua incertezza. Alocin, che aveva sentito, disse che a lui non faceva né caldo né freddo perché era la vita di sua nipote, fingendo di non avere paura che lei morisse per sembrare più forte e determinato.

«Cosa?! La lasci fare così?» chiese Aloy.

«Non farci caso, è Alocin Ollednom: per quanto mi voglia bene, a lui conta sempre solo il suo piacere personale» rispose Asile, stringendosi nelle spalle.

«Be’… chi sono io, per fermarti?» disse allora Aloy, imbarazzata.

«Fantastico! Grazie!» esclamò Asile, ricomponendosi.

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Capitolo 4
*** Partita tra amici ***


Il focus le indicò che uno dei portali si era aperto nella grande vallata che separava i due monti gemelli, l’Allics e l’Iddirac. O meglio, lo capì perché fece vedere l’ologramma ai due Arkiani e loro spiegarono qual era il posto. Alocin decise di raggiugere la valle facendosi dare un passaggio con un diplodoco pubblico, visto che gli risultava che ce ne fosse uno in partenza proprio per il villaggio delle Aquile Rosse, in cima all’Allics; si sarebbero lasciati seguire da alcune bestie che Asile avrebbe potuto portare nel mondo di Aloy per la caccia, ovvero Arlak più un carnotauro, un barionice, un metalupo e un kentrosauro. Alocin, invece, prese uno yutiranno come cavalcatura da viaggio da usare con Aloy. La ragazza dai capelli rossi non conosceva niente di simile ai trasporti pubblici, per cui fu parecchio divertita dal pensiero che gli Arkiani usassero un animale domato per portare le persone da un punto all’altro dell’isola. Fischiò d’ammirazione quando vide il diplodoco, col suo lungo collo e la coda simile ad una frusta. La diplo-stazione era un edificio abbastanza semplice, composto da una “biglietteria” dove si pagava il viaggio e da una pensilina coperta costruita all’altezza della sella a undici posti del sauropode.

«Però, siete organizzati!» si complimentò.

«Merito degli stranieri e di quello che hanno insegnato ai nostri antenati – rispose Asile – Abbiamo avuto sessantamila anni per arrivare fino a qui!»

«Sai, un po’ di persone aperte come voi farebbero davvero comodo nel mio mondo, per i Nora sicuramente» commentò lei.

Quando si presentarono in biglietteria, Alocin pagò per tutti e tre. Aloy, come tutti i visitatori che lo vedevano per la prima volta, rimase stranita a scoprire che gli Arkiani usavano i ciottoli come moneta: si sarebbe aspettata di tutto, meno che quello. Se doveva essere sincera, le sembrò un’idea geniale, ancora più comoda del baratto.

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Durante il tragitto, Alocin tenne d’occhio le loro bestie per accertarsi che non si allontanssero dal diplodoco, mentre Asile si divertiva ad illustrare ad Aloy i posti più conosciuti dell’isola, che si vedevano da lontano man mano che il sauropode proseguiva, lento ma costante. Dal canto suo, Aloy le descriveva alcuni dei posti noti a tutti del suo mondo, come lo Squarcio dei Banuk e Meridiana. Ebbe anche un’occasione per descrivere più nel dettaglio le varie categorie di Macchine, dal Corsiero al Collolungo. Asile ascoltò con ammirazione, poi indicò una bambina seduta in fondo alla fila che leggeva l’enciclopedia di Charles Darwin per darle un’idea di quanto la fauna di ARK fosse varia, rivelazione che lasciò Aloy a bocca spalancata e occhi sbarrati.

«Io ti suggerisco di prendere una copia, se ti capita di passare dalla libreria di un villaggio. Copiare libri stranieri e scriverne di originali è un’attività meno antica delle altre qui, credo che abbiano cominciato quasi tre secoli fa. Io ho imparato a leggere con quel libro, sai?»

Aloy ammiccò e rivelò che le bastava scannerizzare il volume della bambina col focus per ottenere una versione digitale e sempre disponibile delle pagine. Raccontò di aver scoperto di poterlo fare quando aveva digitalizzato un progetto Oseram per un cannone. Quindi, in pochi secondi, scannerizzò il libro e cominciò a “sfogliarlo” facendosi spiegare dei dettagli extra da Asile. Questo, però, attirò l’attenzione di tutti, che cominciarono ad osservare lo strano oggetto triangolare all’orecchio di quella straniera in silenzio e meravigliati. Aloy se ne accorse dopo un po’ e, diventando rossa come i suoi capelli, chiese se stesse dando loro fastidio. Tutti la tranquillizzarono imbarazzandosi a loro volta e smisero di fissarla. Alocin non diede segno di essersi accorto di nulla. Aloy si divertì a trovare similitudini fra alcune bestie e le Macchine: paragonò l’equus al Corsiero, il diatrima al Longipede e lo Spazzino allo ienodonte, per esempio. Asile le parlò delle innumerevoli specie arkiane per tutte le tre ore che ci vollero ad arrivare nella vallata; a quel punto, Alocin chiese al cocchiere di far fermare il diplodoco e i tre scesero, osservando il sauropode ripartire. Zio e nipote contarono i loro animali e, verificato che ci fossero tutti, chiesero ad Aloy di portarli al portale.

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«Per gli spiriti, dovevo essere ubriaco come non mai, se non ricordo di aver visto una cosa come quella!» esclamò Alocin, quando vide il portale da lontano.

«Quindi… tu sei sicura di volerlo fare? Non sto dicendo che penso che non sia capace di sopravvivere, hai pure gli animali! Però, sai… non si sa mai con le Macchine!» Aloy fece un ultimo, timido tentativo di mettere in guardia Asile.

«Grazie, ma voglio rischiarmela: ho ottenuto il mio innesto e ho imparato ad ammazzare animali selvatici dieci anni fa dal peggiore, mi sento pronta a tutto. E poi te l’ho detto: ogni Arkiano merita di andare all’estero, per una volta che si può!» rispose la ragazza.

«Io non mi oppongo, nipote, non sono il tuo dannato padre o altri. Ma voglio comunque che torni a casa viva e intera, altrimenti rischio di sentirmi in colpa!» si raccomandò Alocin, con un finto tono beffardo.

«Ci puoi contare, zio! Vuoi un abbraccio d’addio?»

«Cos’hai, cinque anni? Basta una pacca!»

«Va bene, vada per quella»

Quindi zio e nipote si diedero una pacca sulla spalla, poi Aloy accompagnò Asile e le sue bestie oltre la nuvola, nella stanza del Calderone. Senza disattivare il portale, Aloy spense la piattaforma d’assemblaggio per impedire che nel frattempo nascessero altre Macchine. Poi accompagnò Asile fuori ed entrambe scoprirono di essere nel deserto che separava il territorio Nora da quello Carja.

«Non mi sembra tanto diverso dal nostro… rocce di qua, dune di là, cactus da cui prendere il succo… sì, è fattibile!» commentò l’Arkiana, stirandosi.

«Oh, meno male! Ci sai fare anche con le tempeste di sabbia?» 

«Ovvio! E anche con quelle elettriche. Mio zio mi ha fatto specializzare nel deserto per più di due anni»

«Benissimo! Allora, io chiuderò tutti gli altri portali e lascerò questo aperto per te, sperando che niente e nessuno lo trovi nel frattempo. Pensi di saper tornare qui, vero?»

«Ho un ottimo senso dell’orientamento. Qualche consiglio?»

«Be’… molte Macchine sono come gli animali, dovresti riuscire a capirle e prevederle come facciamo tutti qui. Però sta’ attenta se vedi dei cumuli di rocce viola: sono i detriti e gli scarti degli Spezzarocce, delle grosse Macchine con potenti artigli che viaggiano sottoterra e che ti attaccano dal basso. Resta immobile se senti la terra tremare e prova a staccare le loro zampe, così non potranno più scavare»

«Non me ne dimenticherò»

«Se ti ritroverai a combattere contro altre Macchine… sappi giusto che prima staccherai le loro armi dai loro corpi, più in fretta le sconfiggerai»

«Va bene, mi sento pronta. Grazie per i consigli, Aloy!»

«Di niente. Non morire!»

Ed Asile guardò la ragazza coi capelli rossi tornare dentro e sparire dalla sua vista. Salì in grossa al carnotauro e si mise ad andare avanti e indietro per l’area in cerca di tracce di un animale. Le trovò: impronte di due parasauri unite a quelle di un pachirinosauro. Spronò le bestie e iniziò a seguire la pista…

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«Come ha reagito?» chiese Alocin ad Aloy, quando la vide tornare.

«Credo che non vedesse l’ora di partire»

«E quale neo-innestato non vede l’ora di rischiare la pellaccia? Avresti dovuto vedere me e i suoi genitori…»

«Allora, cosa pensiamo di fare per prima cosa, adesso?» gli chiese Aloy, quasi mostrando lo stesso tipo di curiosità di Asile.

«Mia nipote ha portato le bestie con sé e io voglio più di questo ragazzone piumoso – indicò lo yutiranno – Ma non ho voglia di prenderne altre a casa»

«Quindi?»

«Quindi… ti farò conoscere i miei migliori fornitori: le uniche persone su cui possa contare senza dubbio»

«Vuoi dire “amici”?»

«Sì, ma io intendo le persone a cui sto simpatico e che mi fanno da compagni di bevute, che sono più di clienti. Ogni cinque giorni si radunano in una stalla privata dove puoi farti prestare animali, gestita da uno di noi. Oggi dovrebbe essere uno dei quinti giorni…»

«Quindi andiamo da loro a prendere animali?»

«Sì. Magari mi faranno giocare un po’ a carta-natura, ne approftterò per bere e perdermi in chiacchiere»

Salì sullo yutiranno e aiutò Aloy a sistemarsi dietro di lui e si misero schiena contro schiena.

«Dalle tue parti è normale prendersela comoda così?»

«Se ti piace godertela come me, sì»

«Dovrei imparare da te! Cos’è quel gioco che hai nominato, comunque?»

«Un giochetto stupido, ma sempre divertente, specialmente dopo un litro di sidro. Vedrai poi da loro…»

«Ma non hai paura degli infarti? Hai detto tu stesso che devi smettere!»

«E come si fa? Il sidro è fantastico!»

«Fa come vuoi. Io guardo il paesaggio, ti dico se ci sono Macchine!»

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Asile e le sue bestie seguivano la pista da tre ore, il Sole cominciava a tramontare. Grazie alla sabbia, le impronte erano ben visibili per buona parte del tracciato. Mentre viaggiava, vide da lontano diversi tipi degli animali di metallo descritti da Aloy, ma nessuno sembrava aggressivo, al momento: da sole o in gruppo, le Macchine non facevano altro che marciare, pascolare o smuovere il terreno con le smerigliatrici che avevano al posto delle mandibole. Alla fine trovò quello che stava cercando da lontano: i due parasauri, uno accanto all’altro (probabilmente erano compagni), stavano strappando foglie da un arbusto spinoso, mentre un po’ più in là il pachirinosauro sbuffava e annusava la sabbia, in cerca di ciuffi d’erba. Qua e là c’erano dei Corsieri e dei Cornaguzze. Asile, normalmente, avrebbe mandato gli animali ad uccidere tre erbivori come quelli, ma la presenza delle Macchine la faceva esitare. Aloy aveva detto che, se non attaccavano a vista, scappavano o si difendevano. Non sapeva con certezza quanto bene delle cavalcature come le sue potessero cavarsela contro quelle cose: di certo erano coriacee. Mentre rifletteva su questo, si accorse che sulla sporgenza rocciosa formata dalla mezza collina alla destra delle creature c’erano delle persone armate di archi e lance che, senza dare segno di essersi accorti di lei, osservavano i suoi tre bersagli e discutevano sul da farsi. Asile sentì subito la necessità di provare a stabilire un contatto (sperando che fossero dei tipi amichevoli, ovviamente) con le persone di quel mondo, per potersi muovere con più comodità al suo interno. Avrebbe provato ad iniziare chiedendo se sapessero già di altre creature diverse da quelle che conoscevano, poi magari avrenne chiesto se poteva seguirli per avere un riferimento umano. Smettendo di importarsi delle Macchine, fischiò alle bestie (tranne al carnotauro che stava ancora cavalcando) di attaccare le tre bestie. Fatto ciò, si avvicinò discretamente a quelle persone, cercando di non farsi vedere… raggiuntili, sentì di cosa stavano parlando: erano indecisi se cacciare quegli animali per prenderne la carne, se venderli come merce rara per guadagnare un sacco o se temerli e lasciare perdere. Da come interagivano tra di loro, il capo pareva essere un uomo vicino alla mezza età, con dei folti baffi più lunghi della sua brizzolata barba e stempiato. Mentre gli altri si scatenavano con quello che avevano da dire, lui stava zitto e meditabondo. Asile si fece coraggio e, facendo finta di star chiedendo la cosa più innocente del mondo, domandò:

«Scusate, per caso avete già visto animali come quelli? Sapete, cose che non sono né gli animali che forse avete voi, né le cosiddette “Macchine”»

Sorpresi, loro si voltarono e, quando videro il carnotauro, sobbalzarono e prepararono le loro armi, tranne il capo.

«Ehi! Mi attaccate? Sembravate amichevoli!» Asile cercò di nascondere l’ansia e di tenere la spiritosità di suo zio.

«Tu… chi sei? Da dove vieni? Cosa sono quei mostri?» le chiese una donna con vestiti in lino grezzo, un casco che era un pezzo di qualche Macchina e una pittura gialla sugli zigomi (un’Utaru, per le etnie del mondo di Aloy).

Dopo che lei glielo chiese, tutti annuirono e la incalzarono a rispondere, cominciando anche a rilassarsi, vedendo che Asile non attaccava. Il loro capo stava sempre zitto e fermo.

«Sentite, so che vi può sembrare assurdo, ma… vengo da un altro mondo e sono qui solo di passaggio – spiegò Asile – Sembra che in dei buchi pieni di rottami qua in giro siano come saltate fuori delle nuvole magiche che hanno permesso a quegli animali di ferro di venire a casa della mia gente e viceversa, quindi… mi sono offerta per fare pulizia. Domande?»

Subito, tra loro si sollevò un intenso brusio in cui si diceva spesso il nome “Antichi” e “rovine”.

«Quindi niente, siccome non so proprio nulla di questo posto pensavo di elemosinare a qualcuno dell’ospitalità finché mi sarò messa a posto. Non chiedo tanto, solo che mi si lasci stare vicina a voi quando mi serve, poi me ne andrò e non sentirete più parlare di me» finita la richiesta, contrasse le labbra in un sorriso imbarazzatissimo.

Ora gli altri, più che spaventati da lei, sembravano desiderosi di sapere altro e fissarono il loro capo, in attesa del suo parere. Intanto, Asile si accorse con soddisfazione che i suoi animali avevano ucciso i bersagli e li stavano mangiando, senza che le Macchine dessero fastidio. Anche loro lo videro e ricominciarono a fissare le sue creature, stavolta facendo dei commenti sul fatto che ciascuna avesse una sella apposta per la sua schiena. Con un cenno, il loro capo le indicò di farsi più in là, affinché potessero parlare in privato. Lei accettò e lui, quando l’ebbe raggiunta l’uomo iniziò a parlare con voce calma, profonda e confortevole:

«Come hai detto che ti chiami?»

«Asile Ollednom»

«Ciao, Asile. Io sono Nellim e loro sono una parte della mia banda»

«“Banda”? Cosa sei, un brigante?»

«Nient’affatto e ne sono orgoglioso! Coi banditi condivido solo qualche tipo d’azione, come il nomadismo e la raccolta gratuita, ma per il resto ho un’etica, io! Non come altri. Io accolgo chi ha una vita deludente e sceglie di farsene una come questa»

«Buon per te, che ti devo dire? Quindi?»

«Ti permetterò di stare presso di noi quanto ti serve… se mi farai un piacere»

«Cioè?»

«Da qualche parte a Sud di qui si aggira una ragazza più o meno della tua stessa età, di nome Kïma. Fino a qualche mese fa, ci era molto utile nella raccolta di risorse e provviste ed era di grande aiuto perché è capace di controllare le Macchine, come quei mostri obbediscono a te»

«Poi cos’è successo? Sai, sembra una di quelle storie in cui va tutto bene, ma per poco»

«Infatti, due mesi fa ha smesso di aiutarci per il semplice fatto che ci trovava “banali e noiosi” e non sono più riuscito a parlarle»

«Condoglianze. Cosa c’entro io?»

«Ho recentemente trovato un oggetto che a lei interessa e ne sono certo… – Prese dalla sua cintura una sfera di metallo e la mostrò ad Asile – Questa è un tipo speciale di batteria usato dagli Antichi, quelli che hanno costruito quelle rovine di cui parlavi anche tu. A Kïma servono perché sbloccano la via per una speciale armatura nascosta da qualche parte nel sottosuolo e non c’è altro modo per aprirla. Quindi… va' da Kïma e dille che Nellim ha una delle sue batterie»

«E poi?»

«Conoscendola, non resisterà, accetterà, tornerà da noi e io ti lascerò rimanere»

«Uhm… vedrò cosa posso fare! Ma perché non gliela porti tu?»

«Perché altrimenti non avrei un piacere da chiederti per rendere l’accordo equo»

«…va bene, mi sembra giusto!»

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«Siamo arrivati» annunciò Alocin.

«Il posto sembra carino!» commentò Aloy, voltandosi a guardare.

Erano arrivati ad una baita circondata da molti recinti, in mezzo alle pianure dei Ipmac Isile, al centro dell’isola.

«Lo è, uno dei pochi posti che lo sono per davvero» le fu risposto.

Proprio in quel momento, due uomini si stavano allontanando dopo aver fatto uscire due fiomie dai recinti e aver montato su di loro (tutti gli animali erano già sellati, pronti per i clienti che volevano noleggiarli).

«Il mio contatto non presta solo creature, vende anche armi che si fa consegnare da un altro di noi, che è fabbro. Se vuoi frecce gratis, gliene posso chiedere» spiegò Alocin.

«Oh, grazie! Su quest’isola c’è il legno crinale? Le frecce migliori si fanno con quello, dalle mie parti: è una specialità Nora»

«E io che ne so? Forse noi usiamo un altro nome… meglio così, “legno crinale” fa schifo!»

Aloy non commentò, mentre lo zio di Asile apriva la porta ed entrava. Si ritrovarono in un locale che occupava tutto il piano terra, con delle scale in fondo che portavano di sopra. A destra c’era un camino con uno spiedo di ferro all’interno, a sinistra lunghe file di mensole a muro. Al centro c’era un tavolo in legno non levigato, con due ciotole di noccioline sopra. Sparse ovunque, quelle che sembravano carte da gioco preistoriche. Al tavolo sedevano quattro persone: tre uomini e una donna, lei era incinta. Non erano tutti arkiani: quello a capotavola, che indossava un cappello di paglia su cui aveva dipinto a mano un tricolore blu, bianco e rosso, aveva pelle bianca e capelli castani. Un altro, invece, era Osnofla, quello che aveva chiesto ad Alocin di distruggere il Celermorso. Appena videro chi era entrato, esultarono e si alzarono per andare a salutarlo:

«Alocin! Ti sei salvato! Che vi dicevo, gente? Quel sarcosuco di ferro non poteva fare fuori questo pazzoide!» esclamò lo Squalo Dipinto.

«Sì… non certo grazie a te. Peccato che sia andato, altrimenti avrei fatto delle tue ossa il suo stuzzicadenti» commentò Alocin, con finta rabbia.

«Oh, andiamo! Sei comunque vivo!»

«Alocin! È bello rivederti!» dissero la donna incinta e l’altro uomo, insieme.

«È bello anche per me, coppia più bella dell’isola! Come va col mocciosetto?»

«Scalcia sempre di più, credo che presto sarà ora!» gli rispose lei.

«Je n’y crois pas, c’est vraiment la plus grande tête de noeud  que je connais! Où as-tu été les derniers six mois, Alocin?» chiese invece lo straniero, divertito.

«…eh? Lefeuvre! Mi saluti davvero così? Che fine ha fatto il tuo arkiano?»

«Hahahahaha! Ti prendo in giro, lo parlo ancora! Sul serio, però, che fine hai fatto?»

«Mia nipote. Si stava avvicinando il momento della sua Maturità, quindi la rompi-scatole mi ha chiesto di allenarla il doppio»

«Ti capiamo, Alocin: noi pensiamo già al nostro! – gli disse il compagno della donna – Ma lei chi è?»

Si erano accorti solo allora di Aloy, rimasta in silenzio ad osservarli.

«Uh… hello, nice to meet you all! My name’s Aloy» si presentò in inglese (l’unica lingua che APOLLO avesse insegnato al genere umano dopo averlo ricreato), mettendosi accanto alla sua guida, che si rese conto di aver appena smesso di adattare le parole all’idioma che le sentiva parlare.

«Aloy, loro sono i miei amici: Osnofla l’idiota…»

«Ehi!»

«Zitto, idiota! Poi ci sono Ocnarf ed Aras, sposati e in dolce attesa…»

«Ciao!» salutò Ocnarf, traducendo in inglese, mentre Aras le sorrise caldamente.

«Ed infine, il mitico Philippe Lefeuvre, caduto dal cielo dieci anni fa e rinato come un Arkiano! La baracca è sua» concluse Alocin.

«Alocin, da quando ti porti dietro le ragazzine? Pensavamo che volessi restare scapolo per tutta la vita e portartele solo a letto, come un cinghiale a dicembre! – commentò Lefeuvre, beffardo, prima di cambiare lingua – À propos… qui est elle? Pourquoi elle parle anglais? Son nom ne semble pas du tout anglais ou américain»

«Non lo so neanch’io, Philippe. Fatto sta che c’è lei dietro gli animali di ferro e mi ha chiesto di aiutarla a rimediare»

«Uh, interessante! Che ti serve?»

«Cavalcature»

«Nient’altro?»

«Se per te non è troppo, anche delle frecce»

«Oh, vacci piano! Sparisci per sei mesi e pensi di fare toccata e fuga? Per chi ci hai presi? Facciamoci almeno una partitina! Così ci presenti anche questa belle fille! Anzi, voglio fare una scommessa: se vinci, avrai le bestie e anche le frecce. Se perdi… te ne vai»

«Uhm… mi stai sfidando, Lefeuvre?»

«Hai paura? Dovresti: ero il terrore di Monte Carlo!»

«Sempre a parlare di questo Monte Carlo… ah, che altro mi resta? Andata! Ehi, Aloy, non ti dà fastidio se giochiamo qui un po’, vero?»

Aloy, per niente infastidita, rispose:

«Assolutamente no! Mi avevi anche avvisata. Però non so se riesco…»

«Oh, rilassati, ti spiego io! Allora giochiamo, ragazzi!»

E, sempre ridendo e scherzando, si misero al tavolo.

«Quindi come funziona questo “carta-natura”?» chiese Aloy ad Alocin, ricordando che gliene aveva parlato.

«È un misto di tanti giochi stranieri, uniti ad uno vecchissimo da fare con le dita che su ARK si gioca da secoli – le fu spiegato – Ci sono quattro tipi di carte: acqua, aria, terra e fuoco. Ogni carta “vince” sulle altre in modo diverso: l’acqua vince sul fuoco, ma perde con l’aria; l’aria vince su tutto, infatti è la carta più rara; il fuoco vince sulla terra, ma perde con acqua e aria; la terra vince sull’acqua, ma perde con aria e fuoco. Si comincia con una carta a caso messa sul tavolo, poi ognuno ci mette sopra una che possa batterla. Chi non ha niente, ne deve pescare cinque dal mazzo. Vince il primo che le usa tutte»

«Penso di aver capito»

«Ehi, da quando sei così paziente da spiegare questo gioco?» chiese Osnofla, per prenderlo in giro.

«Dovresti sapere che divento uno stinco di spirito quando ho una femmina diversa da mia nipote intorno» rispose Alocin, con un sorriso beffardo.

Aloy lo guardò con aria sconvolta, ma Aras la tranquillizzò dicendole che lui faceva sempre battute simili, sia sul serio, sia per scherzo. La prima mezz’ora di gioco fu disastrosa per Alocin: continuava a dover pescare carte su carte, senza che gli capitassero mai quelle adatte alla situazione. Ogni tanto gli arrivava un piccolo colpo di fortuna, ma poi la situazione precitipava di nuovo. Addirittura Aloy sembrava messa meglio di lui. Lefeuvre ormai aveva solo quattro carte, era ad un passo dalla vittoria. Gli altri non erano al suo livello, ma Ocnarf stava per raggiungerlo. Più si rendeva conto di non poter vincere, più si arrabbiava, più metteva mano alla bottiglia di sidro. Alla fine, era così ubriaco da non distinguere le carte dell’aria da quelle dell’acqua. A proposito della carta dell’aria, quel dannatissimo simbolo di spirali d’aria stava diventando il suo incubo: Lefeuvre non faceva altro che trovarla ogni quattro o cinque turni, avvicinandosi sempre di più allo stracciare gli altri.

“Se solo potessi vedere cos’hanno gli altri…” pensò, completamente preso dall’alcol.

E fu proprio così che gli venne un’illuminazione così brillante che si sorprese da solo: quello strano oggetto all’orecchio di Aloy le permetteva di vedere attraverso le cose, da quanto aveva capito osservandola. E allora perché non approfittarne? Ritrovando la motivazione perduta, fece cenno ad Aloy di andare fuori e lei capì. Quindi entrambi, con una scusa, si alzarono ed uscirono.

«Cosa c’è?» gli chiese la ragazza, sospettosa.

«Le carte. Potresti vederle col tuo aggeggio da orecchio?»

«Sì, ma… oh… vuoi che ti aiuti ad anticipare le mosse degli altri»

«Sì! Sì, dannazione! Allora sì che avremmo bestie e frecce garantite, e fanculo Lefeuvre! Ci stai?»

«Uhm… mi sento già in colpa, ma questo non è il mio mondo, quindi… farò finta di niente!»

«Grazie, ti direi che ti devo un favore, se solo non ti stessi già aiutando a dare la caccia a dei rottami con le zampe!»

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Nel turno successivo, Aloy stette fuori dai giochi e rimase in un angolo, spiando di nascosto le carte col focus e indicando ad Alocin chi aveva quali carte col labiale. Solo lui la vedeva, essendo al capotavola opposto a quello di Lefeuvre. Ovviamente, grazie a ciò, le sorti della partita si rovesciarono in fretta: sotto gli sguardi esterrefatti di Lefeuvre, Osnofla, Ocnarf ed Aras, Alocin impedì a tutti loro di progredire oltre; al contrario, lui sapeva sempre come non farsi costringere a pescare nuove carte e costringeva loro a farlo. Finché, alla fine, non gli rimase in mano niente: aveva vinto. Barando, ma aveva vinto. Lui e Aloy si strizzarono un occhio, mentre gli altri si facevano scivolare addosso la sconfitta stringendosi nelle spalle o facendo battute. Lefeuvre si alzò, ghignando:

«Secondo me hai barato, conoscendoti… mais un accord est un accord, quindi sei libero di prendere le frecce e gli animali che vuoi!»

«Troppo gentile, Philippe, troppo gentile!» scherzò lui, mentre Aloy gli si affiancava ancora.

I suoi amici gli fecero promettere di non sparire ancora per sei mesi o più, prima che se ne andassero.

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«E finalmente siamo a posto… ora dobbiamo solo trovare le Macchine, prima che portino troppi guai alla tua gente!» disse Aloy, mentre Alocin selezionava le bestie nel recinto di Lefeuvre.

«Perché ci tieni così tanto? Non conosci nessuno!»

«Non conosco quasi nessuno anche nel mio mondo, eppure mi importava delle loro vite»

«Non commento»

Ma, in quel momento, Aloy sentì una voce familiare, che aveva dimenticato per tutto il tempo in cui non si era fatta sentire, nel suo focus:

«E così sei tornata, eh? Sapevo che non avresti resistito. In ogni caso, penso di poterti dare una mano io con le Macchine: assisterti mentre cerco di imparare sempre di più su questo posto unico non mi costerà niente»

«…Sylens?! Tu sai di… sei su ARK?»

«Ebbene sì, grazie a te. Te lo dico sempre: io osservo tutto quello che fai. Come potevo non approfittare del disastro che hai fatto al Calderone Zeta per esplorare un mondo di cui solo gli Antichi avrebbero mai potuto sapere? Sono qui da una settimana, ho già imparato molto su questa civiltà e sulle bestie che vivono qui, mi affascinano molto più delle Macchine. E non ho intenzione di smettere ora!»

«Non ti smentisci mai, eh?»

«No. E ora di’ al tuo amico di portarti al fiume a qualche miglio ad Ovest da lì: ci vedremo là e ti spegherò il resto che ti serve sapere» e tacque.

«Va bene»

«Con chi diamine stavi parlando?»

«Eh? Oh, scusa! È un tizio che mi ha dato una mano a salvare il mondo, un impiccione. A quanto pare si è affezionato a quest’isola. Vuole che lo raggiungiamo ad un fiume ad Ovest da dove siamo ora, ci dirà tutto il dovuto poi»

«Ho capito dov’è»

Intanto, aveva scelto un mammut, un triceratopo ed un dimetrodonte (praticamente futile a caccia o in battaglia, ne prese uno giusto per capriccio) per l’avventura: gli sembravano più che adatti al loro scopo.

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Capitolo 5
*** Kïma ***


«Trovare una ragazza a caso in cambio di poter riposare e fare provviste da loro… facile! Cioè, credo che sia facile… tu che dici? Ah, sto seriamente parlando con una scimmia…»

Quando era ripartita, Asile aveva passato tutto il tempo seduta sulle spalle di Arlak a fare monologhi interiori ad alta voce e fare domande al gigantopiteco, facendo finta che potesse rispondere e chiarire i suoi dubbi. Per fortuna, non stava viaggiando alla cieca: Nellim aveva con sé un bracciale di grani colorati che, a quanto pareva, apparteneva a questa Kïma, che l’aveva perso e lasciato presso il campo-base della sua banda l’ultima volta che ci era stata. In questo modo, la ragazza poté dare ai suoi animali un odore da seguire per arrivare fino a lei. Nellim l’aveva rassicurata, spiegando che la zona in cui stava per andare non era il territorio di Macchine troppo pericolose per essere affrontate con le bestie che aveva. Fino a quel momento, aveva visto solo dei Corsieri.

Ormai era notte, Asile dovette fermarsi ad accendere una torcia. Aveva raggiunto una vasta oasi in mezzo alle sabbie: c’erano palme e cespugli ovunque e, in lontananza, si sentivano le onde di un lago che si infrangevano su una riva. Tuttavia, quel posto rigoglioso non era del tutto ospitale come sembrava: più avanzava, più Asile si sentiva tesa ed osservata. In più, il metalupo e il barionice cominciarono a leccarsi le gengive e guardarsi in giro, il che significava due cose: erano vicini alla persona che cercavano e c’erano delle minacce in zona. All’improvviso, il carnotauro fissò un cespuglio e ruggì. Tutto il contingente rivolse lo sguardo su di esso: le foglie si agitarono e Arlak emise un grido intimidatorio, pestando la zampa posteriore destra sul terreno. Il metalupo partì all’attacco e dall’arbusto sbucò fuori un uomo dall’aspetto rozzo e trasandato, armato di arco, che incespicò e cadde all’indietro dallo spavento. Il canide gli fu addosso in un secondo e gli staccò la testa con un morso. Asile non riusciva neanche a pensare, tanto era sorpresa. Intanto, un altro uomo appostato su un albero si rivelò e provò a colpire la ragazza con una freccia, ma la mancò. Asile, come risposta, ordinò al carnotauro di caricare l’albero: il teropode investì il tronco con tutta la sua forza e la pianta ebbe uno scossone; l’aggressore precipitò e provò a trascinarsi via, urlando terrorizzato, ma il carnotauro lo raggiunse senza nemmeno correre e lo afferrò, tranciando il suo corpo a metà e divorando il busto, mentre le gambe caddero a terra e riversarono intestino e sangue per terra.

“Questo mondo ha vaghissimi problemi di criminalità, l’ho già capito” pensò Asile.

La criminalità su ARK era una realtà presente, ma molto poco radicata: grazie all’equità del sistema economico delle tribù e i rapporti pacifici tra le stesse, pochi decidevano di darsi al vandalismo o al brigantaggio. Il peggio che si poteva trovare erano i pazzi assassini, come il Ladro di Impianti, o rari casi isolati di assassinii dovuti a faide personali o familiari. Ma lei dubitava che nella dimensione di Aloy fosse meglio… doveva decisamente stare attenta. Ma per fortuna c’erano gli animali a proteggerla, almeno dagli umani. Ripresero a marciare; cinque minuti dopo, Asile vide le luci di un falò nell’oscurità notturna. Ordinò alle creature di fare silenzio e stare compatte. Lei scese da Arlak, prese la balestra e avanzò stando bassa. Ripensandoci, decise di lasciare il kentrosauro dov’era: il suo corpo non era adatto a muoversi furtivamente, avrebbe solo dato fastidio a se stesso e al gruppo. Si ritrovarono sul bordo di un cratere tondo che dava sulla sorgente dell’oasi: era su quella sponda che il falò ardeva. Sulla riva, vide subito una quindicina di uomini e donne rozze e trasandate tanto quanto i due che l’avevano appena attaccata, il che le fece capire che si trattava di una vera banda organizzata di briganti. Ed erano intenti a… umiliare e picchiare una ragazza legata ad un palo. Tutt’attorno, c’erano tre Macchine semi-distrutte e fumanti.

“Qualcosa mi suggerisce che quella è Kïma” pensò Asile, d’istinto e secondo la logica.

Doveva aiutarla…

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Kïma non sapeva bene se facesse più male il pestaggio che stava subendo o l’umiliazione di essersi lasciata sconfiggere e legare dagli stupidi e ignoranti uomini di Brachio, il brigante più noto e temuto di quel periodo, che da poco comandava la sua banda in seguito alla morte del padre, storico rivale di Nellim e di tutte le tribù. In fondo, era stata lei a decidere di far aspettare le sue Macchine più grosse fuori dall’oasi e di andare alla fonte solo con un Cornalunghe, un Longipede e un Secodonte. Erano molto valide, certo, ma incredibilmente non erano bastate contro il gruppo che si era ritrovata di fronte raggiunto il lago. Erano così tanti che, a forza di insistere e nonostante le loro perdite, avevano distrutto tutte e tre. Poi, quando anche lei aveva esaurito le forze, l’avevano disarmata, le avevano tolto il focus e l’avevano legata al palo. L’uomo che la stava torturando di fronte a tutti, mentre gli altri guardavano, applaudivano e la insultavano, le tirò una testata che le fece sanguinare il naso.

«Vedi che nemmeno una dominatrice delle Macchine è intoccabile? E tu che hai sempre giocato a ridicolizzare i nostri compagni che tu e quella nullità che è Nellim avete ucciso!» la provocò.

«Sai, al posto tuo mi farei un paio di domande a riguardo. Chissà, magari io lo faccio perché non valete un secchio di piscio…» gli rispose, sorridendo.

Il suo aguzzino le tirò un ceffone tale che le si rivoltò la faccia.

«Attenta a quello che dici, sgualdrina: sei nelle nostre mani, adesso! Faremo di te quello che ci pare, magari facendo a turno…»

«Non state suggerendo un’orgia, vero? Dovreste sapere che io sono mooooooolto selettiva: preferisco le ragazze» replicò lei.

Per questo, le arrivò un pugno nello stomaco.

«Una volta il capo ha avuto quell’idea… però, ormai, hai passato ogni limite! DICO BENE, GENTE???» chiese, rivolto ai compagni.

«SÌ!!!» gridarono alcuni.

«A MORTE!!!» lo esortarono altri.

«Sarà fatto, ragazzi, non vi preoccupate… come volete che metta fine alla sua vita?»

«Mozzale la testa, è così che ha ucciso mio marito!» esclamò una donna.

«Oh, sì, mi ricordo di quel tizio… sapete quante sono le teste che lui ha mozzato? Occhio per occhio, direi! Anzi, testa per testa» Kïma non si scomponeva mai.

«Aprile la pancia e usa le sue budella per strozzarla!» suggerì un uomo.

«Ehi, questa è nuova, complimenti per la fantasia!» commentò la ragazza.

«Sai, Gryndu? Questa mi piace! Non vedo proprio l’ora…»

«Vi conviene fare in fretta, ragazzi: conoscendo le mie Macchine, prima o poi cominceranno a cercarmi; non credo saranno tanto buone con voi, quando vi vedranno…»

Il torturatore estrasse un pugnale e si preparò a trafiggere il suo addome, ma all’improvviso qualcuno scoccò una freccia nera da lontano e gli colpì la spalla, facendogli cadere l’arma dal dolore.

Gli altri sobbalzarono e si guardarono in giro, spaesati. Improvvisamente, da uno dei bordi del cratere, saltò giù una massiccia scimmia alta due metri che si avventò sul brigante più vicino e gli afferrò la testa, che strinse fino a spappolarla. Subito dopo, dal pendio ghiaioso che scendeva fino alla sorgente corsero giù altri quattro animali diversi da qualunque specie mai vista dai presenti; a quel punto, capirono tutti di essere attaccati dai misteriosi mostri che si aggiravano per i territori delle tribù da più di una settimana.

«Oh… oppure potrebbero arrivare dei mostri bavosi e affamati a mangiarvi» ridacchiò Kïma, rivolta sempre al torturatore, che adesso osservava la scena ad occhi sbarrati e pietrificato dalla paura, dimenticando addirittura di togliere la freccia dalla sua spalla.

Il carnotauro, caricando e agitando la testa, travolse otto banditi, uccidendoli quasi tutti sul colpo. Alcuni si avventarono sul kentrosauro con le lance, ma si ritrovarono infilzati dalle punte ossee che spuntavano dai suoi fianchi. Il barionice, dopo essersi tuffato nel laghetto, cominciò a balzare fuori per prendere quelli vicini alla sponda uno alla volta e finirli in acqua. Il metalupo, infine, ne sgozzò tre. Il torturatore si riscosse e, guardando Kïma, ebbe uno scatto d’ira:

«Se devo morire, sarà dopo di te!»

Tolse la freccia e, ignorando il dolore e la ferita che sanguinava, recuperò il coltello. Sollevò la testa di Kïma tirandole i capelli e si preparò a sgozzarla…

«Ti conviene abbassarti…» sibilò la ragazza, con un sorriso provocatorio.

«Cosa?»

Prima che potesse capirci qualcosa, il barionice apparve alla sua destra e lo buttò a terra, facendolo a pezzi con denti e artigli. Nel frattempo, le altre bestie avevano trucidato i pochi banditi rimanenti: erano tutti morti. E questo le fece venire un sospetto terribile: e se adesso volessero uccidere anche lei? Erano pur sempre animali, quasi tutti carnivori. E gli animali affamati erano come le Macchine: ogni occasione era buona per uccidere, per loro. La paura le si dissipò per un istante quando notò che alcuni avevano una sella, cioè segni di interventi umani su di loro: magari erano cavalcature quanto le Macchine controllate da un override o come quelle delle fattorie… ma le venne di nuovo paura quando il barionice le si avvicinò e cominciò ad annusare tutto il suo corpo, leccando via il sangue che le colava dal naso. 

«Via! Levati!» gli gridò Kïma, ora più nervosa che spaventata.

Non potendo muovere le mani né i piedi, provava a contorcersi nel tentativo di farsi più indietro possibile, ma quel rettile bipede non la lasciava stare. Ad un certo punto, iniziò a concentrarsi sull’unica cosa che i briganti non le avevano preso: un sacchetto, appeso alla cintura, in cui teneva della carne di pesce sotto sale, direttamente da Meridiana. Lei non lo poteva sapere, ma i barionici erano completamente piscivori, quindi era proprio quello che cercava. Essendo troppo piccolo per afferrarlo coi denti, provò a staccarglielo tirando con gli artigli, ma nel farlo le fece un bel taglio che andava dalla pancia al fianco sinistro; non era grave, ma bruciava lo stesso.

«AHIA!!! Mi hai fatto male, bastardo! Lasciami stare! Taglia queste corde, piuttosto!» urlò, furiosa.

Il barionice, incurante, prese il sacchetto da terra e lo ingoiò intero, pesce e tessuto insieme.

«Quello doveva essere la mia cena, sai?»

«Oh, per gli spiriti! Scusa, non l’ho fermato in tempo! Stavo venendo qui…»

Con sua sorpresa, le rispose una voce femminile.

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Dopo essersi accertata che non ci fossero altri banditi in zona, Asile era scesa nel cratere a sua volta e notò solo allora che il barionice stava importunando il loro ostaggio. Doveva averla ferita, visto che gemeva.

«Lascia stare quelli che non devi toccare, idiota!» lo rimproverò colpendolo sul lato della testa con l’impugnatura della balestra.

Il barionice mugghiò contrariato, poi si tirò indietro.

«Tu chi diamine sei?» chiese la ragazza legata.

«Io mi aspettavo un “grazie” come prima cosa da dirmi, ma dettagli» replicò Asile, mentre la liberava.

Le diede una rapida occhiata: era una giovine apparentemente della sua età, con la pelle ocra, gli occhi blu e leggermente a mandorla, i capelli neri, lunghi e leggermente ondulati. La sua tempia sinistra era rasata e, su di essa, c’era un tatuaggio fatto di vari poligoni dai diversi colori. Sul polso sinistro ne aveva un altro, azzurro, che ricordava in parte la corolla di un fiore e che sotto aveva delle scritte. Sicuramente, entrambi avevano dei significati, ma ad Asile non suggerivano niente.

«Incredibile: una persona capace di scherzare! Avevo paura di essere l’ultima rimasta»

«Ti chiami Kïma?»

«Sì… e credo di sapere come lo sai. Chi sei, comunque?»

«Mi chiamo Asile Ollednom, piacere di conoscerti»

«Domanda stupida: questi mostri sono tuoi? Li comandi tu?»

«Sì»

Allora Kïma, senza preavviso, le tirò un pugno in mezzo agli occhi.

«AH!!! EHI!! Ma che… quale diamine è il tuo problema?! Non mi avevano detto che eri una violenta compulsiva!»

«Questo è per la ferita» le rispose lei, sprezzante, indicandosi il taglio.

«L’ho già punito, non è giusto!»

«Invece sì. Visto che ci hai a che fare, sai perché sono comparsi questi mostri in giro? Siete una tribù da una regione lontana dove ci sono quelle cose?»

«Avrei voluto dirtelo quando ci saremmo messe comode, ma ormai l’hai tirato fuori. No, io e gli animali non veniamo da nessuna parte: è tutto da un’altra realtà, da quel che ho capito»

«…eh?»

«Non chiedere spiegazioni, non te le so dare. Sai cosa sono i Calderoni?»

«Sfido chiunque a non saperlo»

«Ecco, la settimana scorsa una tizia da questo mondo ha fatto aprire delle porte magiche in questi Calderoni e le bestie di metallo che razzolano qui hanno fatto un salto sull’isola dove abita la mia gente, ARK, mentre alcuni dei nostri animali hanno fatto un salto qui. Io sono stata la prima ad avere chiarimenti e ho deciso di mia spontanea volontà di venire qui a fare pulizia… anche perché volevo vedere nuovi posti»

«Bella storia! Se non ci fossero i tuoi mostri a provarlo, non ci crederei mai»

«Comunque… sono venuta da te perché mi manda un tizio, Nellim…»

«Oh, ti avevo detto che lo sapevo! Torna da lui e digli che non ho cambiato idea: sono stanca di fargli piaceri»

«Ha detto che sapeva che avresti reagito così, quindi mi ha detto di avvisarti che ha una delle batterie che ti servono per una certa armatura che vuoi ottenere, non ci ho capito più di tanto…»

Kïma si irrigidì subito, come se un’ape l’avesse punta.

«Ha una delle batterie?! Pazzesco! Me ne mancano solo due, quella era nella… ah, vecchia e dannata volpe! Sapeva che non ne avrei potuto fare a meno…»

«Mi ha promesso il permesso di dormire e fare scorte dai suoi, in cambio di portarti da lui. Mi ha detto che gli servi per raccogliere risorse in una certa guerra fra bande…»

«Lo so, contro l’ammasso di spazzatura di cui questi scemi facevano parte. Mi ero rotta le scatole di quello, ma ormai… ehi, posso chiederti un piacere?»

«Ehm… sì?»

«Solo l’idea di passare altre settimane con loro mi fa venire la nausea, quindi dimmi… per caso hai in programma di viaggiare tanto da sola?»

«Sì. Come ho detto, penso di stare da loro solo per dormire e mangiare, per il resto cerco gli animali da cacciare»

«Allora voglio venire con te, ho già capito che sarà mille volte più interessante. Tu uccidi i tuoi mostri, io faccio l’override su nuove Macchine da affidare al vecchio e uso le altre che ho per aiutarti! Va bene?»

«Oh… finché non mi rovini qualcosa, mi va bene tutto!»

«Mi prendi per un’incapace? Suvvia!»

«Non ho detto niente! Ti ho solo detto che se va tutto bene, puoi»

«Perfetto. Forza, allora, portami da lui. Prima, vado a prendere il mio Razziatore, fuori da quest’oasi…»

Kïma s’incamminò e Asile la seguì, con le bestie.

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Al tramonto, Lefeuvre era rimasto da solo: l’ultimo cliente aveva preso un parasauro un’ora prima. Ora, dopo aver riempito le mangiatoie per la notte, si chiuse dentro e andò nella sua semplice camera da letto, al cui muro aveva inchiodato l’elica del suo vecchio biplano della posta: lui, infatti, era un postino dei primi del ‘900 che faceva consegne inter-continentali, come Antoine de Saint-Exupéry; una notte di dieci anni prima, mentre sorvolava il Pacifico, aveva trovato una tempesta ed era precipitato su ARK. Rassegnatosi all’idea di non poter più andare via, aveva deciso di farne la sua nuova casa, anche considerandosi sempre un Francese. L’idea dell’allevamento gli era venuta dall’attività dei suoi nonni materni. Prese il sacchetto in cui teneva i guadagni del giorno e cominciò a contarli, seduto sulla sua amaca… ma sentì qualcuno bussare prima che cominciasse. Sorpreso, balzò in piedi e andò all’ingresso. Sbloccò la serratura e aprì, ritrovandosi di fronte un uomo alto, atletico ma non esageratamente muscoloso, con un bavero rosso legato al collo e vestiti in pelle di rettile mal conciata.

«Bonsoir, je peux t’aider?» gli chiese ingenuamente Lefeuvre, tra l’altro scordando di usare l’arkiano.

«Alocin Ollednom. So che lo conosci. Dov’è?» chiese bruscamente il visitatore, con un tono intimidatorio che faceva trasparire un chiaro “di’ quello che voglio sapere e sbrigati”.

«Eh? Oh, sì, conosco quel caprone, ma non ho idea di dove sia. Come potrei mai saperlo?»

«NON OSARE MENTIRMI!!!»

Lo sconosciuto, più irritabile del previsto, afferrò due lembi del suo vestito e lo tirò a sé, in modo da forzarlo a guardarlo negli occhi.

«EHI!!! Datti subito una calmata! Ti ho detto che non lo so!»

«Allora dimmi dove va di solito e dove potrei incontrarlo! E attento a quello che dici, perché se scopro che mi hai ingannato, tornerò qui e ti romperò tutte le ossa!»

«Oh… io… è venuto qua cet après-midi, abbiamo giocato a carte-nature con altri amis…»

«E poi dov’è andato?»

«Calmati! Con lui c’era questa ragazza con vestiti strani e capelli rossi, ha detto che la sta aiutando a cercare i mostri di metallo che sono apparsi ultimamente…»

«Non hai risposto alla domanda. Non farmi arrabbiare, cialtrone!»

«Lo sto facendo! Sta aiutando cette fille a cercare i mostri di ferro, quindi… che ne so, puoi cercarli anche tu e sperare di incontrarlo! Non so cos’altro dire!»

«Davvero patetico… ma mi farò andare bene questo»

E spinse via Lefeuvre con tanta forza da farlo schiantare seduto sul pavimento.

«Ehi, prima che vada… vuoi noleggiare una cavalcatura?» chiese il Francese, con un sorriso largo da mercante interessato solo a guadagnare ad ogni occasione buona.

«Non mi serve»

«Excuse-moi… cosa vuoi da Alocin?»

Questa volta fu lo sconosciuto a sorridere:

«Lo voglio nello stomaco di qualcosa»

«…ah»

E Lefeuvre rimase da solo. Appena fu certo che se ne fosse andato, corse alla porta e si richiuse dentro in fretta e furia, per poi tirare un sospiro di sollievo.

“Non so chi tu abbia fatto inalberare stavolta, Alocin, ma direi che ti sei messo in guai seri!” si disse.

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Mentre si avvicinavano al posto indicato da Sylens, Aloy spiegò brevemente ad Alocin chi era il suo contatto, cos’aveva fatto nel suo mondo di provenienza e quello che era successo dopo che aveva cominciato ad “aiutarla” contro ADE. Il commento dello zio di Asile era stato laconico e sarcastico:

«Ho l’impressione che il tuo amico mi starà simpatico e sulle palle allo stesso tempo, hehehe!»

«Uhm… non saprei, secondo me ti starà dove hai detto tu e basta» rispose lei, ridendo.

«Oh, suvvia! Ogni tanto anch’io sono capace di non essere stronzo!»

«Perché sei sempre volgare?»

«È un problema? Dovresti lasciarti andare anche tu, qualche volta: è liberatorio!»

«No, niente, è solo che quando cresci con una tribù superstiziosa e religiosa come la mia, non ti abitui alle parole offensive»

«Dimentica tutto quello con cui sei cresciuta: come ho appena detto, alleggerisce»

«No, grazie»

Poco dopo, arrivarono al fiume, ma inizialmente non trovarono nessuno.

«Nessuno, come temevo. Non è che hai qualcosa di suo, così lo faccio fiutare alle bestie e ci risparmiamo la rottura della ricerca?» chiese Alocin, scherzando ma con una vaga nota di irritazione.

«No, mi spiace. Però posso guardarmi attorno col focus…» rispose Aloy, speranzosa.

Accese il focus e iniziò ad esaminare l’ambiente, sforzandosi di non distrarsi ad ammirare gli scheletri degli animali di Alocin. Sembrava non esserci nessun’altra persona, nei paraggi. Ma poi, su un albero, vide dipinta con olio di Macchina la frase che aveva sentito decine di volte nella sua vita:

CIAO, ISAAC! IL PAPÀ VUOLE BENE AL SUO OMETTO!

E, sotto la frase, era disegnata una freccia che puntava a destra.

«Non ci posso credere!» esclamò.

«Cosa? Per caso devo dirti tutte le volte che io non ho il sesto senso come te?» le chiese Alocin, perplesso.

«Mi ha lasciato un segnale su un tronco. Seguiamolo…»

«No… non dirmi che è uno di quei pagliacci fissati con la teatralità! Nella mia vita, ci sono già troppi tipi così che sono costretto a sopportare»

«No, questo non sembra qualcosa che fa di solito, ma c’è anche da dire che lo conosco da poco» rimuginò Aloy.

Fiancheggiarono il corso d’acqua nella direzione della freccia per una buona mezz’ora, poi finalmente Aloy vide una persona che riconobbe subito, che le dava le spalle, seduta sulla riva. Pelle nera, vestiti in tessuto leggero, pezzi di metallo incastonati nella pelle… era lui, decisamente. Aloy volle comunque una conferma:

«Ehm… Sylens? Sei tu?» chiese.

«“Perché provare a salvare un mondo irrecuperabile, quando possiamo fuggire in un posto migliore? Immagino che gli Antichi abbiano pensato questo, quando crearono quelle porte straordinarie. Ma poi scelsero comunque Zero Dawn... che ironia. Ciao, Aloy! Non ti saresti mai aspettata di rivedermi e proprio qui, vero?»

«No, giustamente. Non che abbia pensato tanto a te, dopo che è tornata la calma» replicò Aloy, incrociando le braccia.

«Questo posto è meraviglioso, non è vero? Un’isola dai mille volti, dove persone e mostri sono in pace, cosa che la nostra gente non ha mai saputo fare con le Macchine… nell’ultima settimana, mi sono divertito come un bambino ad osservare e imparare»

«Ehi, mi hai fatto venire qui per aiutarmi o per farmi sentire la tua storia? Se vuoi, mi metto comoda» scherzò lei.

«Vi ricordo che io sono un tipo impaziente» intervenne Alocin, bevendo un goccio d’acqua e non di sidro, per una volta.

«Hai ragione, verrò subito al punto – ammise Sylens – Mi accorsi subito dei portali che tu apristi perché emettono un segnale molto particolare. Un segnale che il mio focus aveva già registrato in precedenza. Ma prima, i rari segnali che rilevavo erano molto deboli, quasi degli sputi in confronto a questi. Ma un giorno riuscii comunque ad indagarci. Sai cosa scoprii?»

«Cosa?»

«Che qualcuno, prima di noi due, sapeva già di quest’invenzione degli Antichi. Lo vidi una volta da lontano. Non so bene chi sia o che faccia abbia, ero in cima ad una collina e lui era in una distesa paludosa, ma aveva un vestito indubbiamente Carja. L’ho visto entrare nel portale e farlo sparire dietro di sé, per poi tornare un’ora dopo. E sono abbastanza sicuro che la sua destinazione fosse proprio quest’isola»

«E io che pensavo che non potesse essere più interessante di così» commentò Alocin, con una risata a denti stretti.

«Puoi anche fare a meno di ricordargli che con me ci sei tu: quest'uomo che ha messo a repentaglio il mondo solo perché voleva farsi rivelare tutto quello che c'è da imparare ti ignorerà» gli disse Aloy, sospirando sconsolata.

«Lo considero un complimento» ribatté Sylens, per non raccogliere la provocazione.

«Allora? Cosa c’entra con me? Voglio dire, la questione mi ha incuriosita, devo ammetterlo, ma…»

«Semplice: voglio che tu lasci perdere le Macchine e torni nel nostro mondo a chiudere le porte e ad indagare su quella persona, mentre io resterò qui a proseguire i miei nuovi studi»

«…sul serio?»

«Sì. E lo farai»

«E invece no! Chi ti credi di essere?! Tu non hai nessun’autorità su di me! Io ho deciso di chiudere le porte e di distruggere le Macchine venute qui perché non voglio delle morti sulla coscienza: ne ho già troppe. Se tu vuoi vivere qui, a me sta bene. Ma sei tu che vuoi sapere di più su questo Carja, pensaci tu!»

Alocin osservò Aloy, ammirato per la sua prontezza nel ribattere duramente, ma d’istinto: per lui, quella capacità era il massimo che una persona potesse sperare di avere.

«Sapevo che l’avresti detto. Ma non posso perdere tempo: ho ancora troppi segreti da farmi rivelare, qui! Per cui, non mi lasci altra scelta…»

Accese il suo focus e premette un tasto. Aloy, insospettita, provò ad accendere il suo e non ci riuscì.

«Figlio di… mi hai bloccato il focus

«Sì. Ora possiamo solo comunicare a distanza. E non dire che sarò in debito con te, perché ti ho già fatto un piacere» e indicò un punto alle sue spalle.

Aloy notò solo allora che, più lontano, c’era il rottame di un Manticerio del fuoco…con una pianta rampicante avvolta sulla cisterna.

«Cos’ha quel Manticerio?»

«Non ne sono sicuro, ma credo sia la stessa cosa che ha fatto il Divoratuono che devi esserti trascinata appresso quando hai scoperto l’isola»

«Parli del tirannosauro zombi, fatto di ferro e sangue?» chiese Alocin.

«Immagino che ci riferiamo alla stessa cosa, Arkiano»

«Sylens, io ti ammazzerei! Mi arrendo, dimmi cosa devo fare»

«Così va meglio, Aloy. Anche dopo tutti questi fatti, il segnale debole si è fatto sentire nel mio focus. Due volte, per la precisione. Sempre nello stesso punto. Quindi vai nel luogo che ti descriverò, scopri di più quando il portale piccolo si riaprirà ed io, in cambio, ti guiderò dal resto dei portali e delle Macchine»

Aloy sbuffò e strinse occhi e pugni, ma alla fine accettò.

«Non finisce qui, ma… d’accordo»

«Io non ci ho capito quasi niente» borbottò Alocin tra sé e sé, bevendo ancora.

«Perfetto. Allora ascoltami bene…» 

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Capitolo 6
*** Caccia al tirannosauro ***


Dopo aver recuperato armi e focus, Kïma guidò Asile fino al limite esterno dell’oasi, dove il suo Razziatore la stava aspettando. Si manteneva a debita distanza con aria irritata dal barionice, ricordando ancora quello che le aveva fatto. Per scusarsi, Asile le diede delle garze e del muco di acatina che erano nella sua borsa. Kïma accettò in silenzio e, fermandosi un attimo, disinfettò il taglio e lo fasciò. Quando raggiunsero il punto da lei indicato, Asile vide una Macchina delle dimensioni di un metaorso rannicchiata vicino a dei cespugli. Kïma, però, fece una faccia perplessa:
 
«Ehi... che ti è successo, bello?» chiese direttamente al Razziatore.
 
«Qualcosa non va?» chiese Asile, accarezzando la testa del metalupo.
 
«Be’, guarda tu stessa!»
 
«Cosa? Non è che sia tanto pratica di bestie meccaniche»
 
«È pieno di ammaccature e una strana bava! Si dev’essere scontrato con qualcosa... uno dei tuoi mostri?»
 
Asile osservò attentamente ed entrambe si accorsero che non solo il Razziatore, ma tutto quel posto era stata la scena di un violento duello: impronte, solchi e rigature, alberi spezzati, pozze di sangue ed olio... riconobbe la forma delle tracce:
 
«Qui è passato un tirannosauro» affermò.
 
«Un... cosa?» domandò Kïma, mentre cercava di togliere la bava dalle placche del Razziatore alla bell’e meglio.
 
«Un predatore alfa della mia isola; grosso, violento e territoriale, giusto per dire cos’è in sostanza»
 
«Uhm... tipo qualsiasi Macchina?»
 
«Ehm... non so, se lo dici tu...»
 
«Le impronte mi ricordano quelle di un Divoratuono, però»
 
«Infatti la ragazza che ha causato questo mi ha detto che il divora-coso è basato sul tirannosauro. Vabbè, vorrà dire che lo cercherò e lo finirò! Sono abbastanza brava coi teropodi...»
 
«Vengo anch’io, come d’accordo»
 
Asile sospirò:
 
«Come vuoi. Attenta, però: gli animali feriti sono dei bastardi, non dare niente per scontato e fa’ esattamente come ti dico io! Ci vuole un atteggiamento apposta, con quelli grossi. Prometti che non incasinerai tutto?»
 
«Tranquilla, imparo in fretta. Basta che non mi veda più come un’incapace: aspetta di vedermi buttare giù un’Avistempesta e mi invidierai a vita!»
 
«Allora seguimi»
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La pista fu facile da seguire e le portò nuovamente nell’oasi. Le impronte erano recenti e la scia di sangue umida: non poteva essere lontano. Gli animali da fiuto di Asile stavano davanti, annusando il suolo e stando attenti ai rumori, specialmente il metalupo.
 
«Posso chiederti una cosa?» Kïma ruppe il silenzio.
 
«Certo!»
 
«Come hai preso questi mostri? Avete una sorta di override vivente o cose così? Mi sembra incredibile, visto su delle non-Macchine!»
 
«Solo Arlak è mia personale, gli altri sono di mio zio»
 
«Chi è Arlak?»
 
Asile indicò il gigantopiteco e accarezzò le grosse dita rugose del primate, che ricambiò strofinandola la testa e scompigliandole i capelli.
 
«Aspetta... gli date dei nomi?»
 
«Sì. Perché, non ti sembra normale?»
 
«No. Anche se forse è perché non è che con una Macchina puoi fare amicizia o altro… le dirotto e basta»
 
«Domare una bestia è lungo e difficile: devi dimostrarle che può fidarsi di te e farle capire che vuoi la sua protezione in cambio. Poi, col tempo, ti ci affezioni e le vedi quasi come persone»
 
«Sembra carino» commentò Kïma, imbarazzata per il fatto di non poter capire fino in fondo.
 
«Lo è, ma devi metterci passione: non tutti si interessano alla doma, dopo aver preso la prima bestia a diciotto anni. In più, ognuno può concentrarsi su specie diverse a seconda di cosa preferisce. “Dimmi che animale hai e ti dirò chi sei”, dice un proverbio... aspetta!» si interruppe, avendo visto qualcosa.
 
«Che c’è?» chiese Kïma.
 
«Guarda lì»
 
Asile indicò un tronco bagnato, da cui veniva un fortissimo odore che sembrava sale misto a carne marcia.
 
«...che roba è?» chiese Kïma, nauseata dal puzzo.
 
«Ha pisciato sul tronco. Sai che significa?»
 
«Come posso saperlo? Sei tu l’esperta»
 
«Sta marcando il territorio. Questo posto deve piacergli tanto!»
 
«Ah... quindi vuole trasferirsi qui?»
 
«In due parole. Entro una settimana, conoscerà ogni angolo di questo posto e ucciderà qualunque cosa gli sembri un intruso...»
 
«A meno che non lo ammazziamo, vero?»
 
«Sì»
 
Le due si scambiarono uno sguardo d’intesa e si rimisero a cercare il tirannosauro. E, alla fine, lo trovarono: stava riposando rannicchiato in mezzo ad una macchia di palme ed arbusti, guardandosi attorno. Le cavalcature si misero in guardia, metre i visori del Razziatore di Kïma diventarono gialli ed esso si rannicchiò a sua volta. Le ragazze corsero dietro un cespuglio.
 
«Ecco, abbiamo trovato il tuo mostro… e adesso?» bisbigliò Kïma, a denti stretti.
 
«Adesso fammi osservare questo posto: magari mi vengono idee per affrontarlo al meglio»
 
Asile si guardò intorno, poi vide che sul fianco destro del tirannosauro c’erano delle ferite a forma di cerchio, simili a scottature e sanguinanti. Le indicò a Kïma, che intuì che doveva essere stato il cannone al plasma del Razziatore. Rimuginò per un attimo, poi le suggerì una strategia di battaglia che le era appena venuta in mente. Kïma ascoltò attentamente, poi annuì e disse che si poteva fare.
 
Quindi, mentre Kïma si allontanava col Razziatore, Asile mandò le sue cavalcature in giro, accertandosi che il tirannosauro non si accorgesse di niente. Per loro fortuna, erano tutti controvento, quindi non potevano essere fiutati. Quando Asile ritenne che era tutto pronto, incoccò una freccia nella balestra e… la lanciò nell’occhio destro del teropode. Il rettile si alzò di scatto, ruggendo furiosamente, e uscì dalla macchia di piante correndo. Iniziò a guardare dappertutto con l’unico occhio che gli restava, sbuffando e perdendo una cascata di saliva dalle fauci aperte. Il carnotauro uscì allo scoperto e caricò dal lato cieco del T-rex, trafiggendo la zampa posteriore con le corna. Il tirannosauro incespicò dolorante, e si tenne pronto ad attaccare, ma subito il metalupo balzò prima su una roccia e poi sulla sua schiena, per poi cominciare a mordegli il collo, uno dei punti meno duri per le zanne di un mammifero. Contemporaneamente, Arlak cominciò a sollevare grosse pietre e a lanciargliele di continuo, mentre il barionice correva fulmineamente da un punto all’altro per mordere ora le caviglie, ora la coda, ora la pancia. Il tirannosauro, sopraffatto, cercava di contrattaccare e dibattersi, ma c’erano troppi bersagli e subiva troppi colpi. Asile, dopo aver aspettato il momento giusto dal cespuglio, ordinò al kentrosauro di intervenire. L’erbivoro raggiunse le zampe del T-rex e, con due codate, recise i tendini. Come Asile sperava che succedesse, il tirannosauro cadde a terra e iniziò a contorcersi, gemendo.
 
«Tocca a te!» gridò a Kïma.
 
La ragazza con la tempia tatuata, allora, mandò avanti il Razziatore, che nel frattempo aveva finito di caricare il cannone, e lo fece cominciare a sparare. Il teropode, perforato dappertutto e incapace di rialzarsi, morì. Tornò il silenzio e il polverone sollevato dal carnivoro si depose.
 
«Sei stata davvero brava!» si complimentò Asile.
 
«Io? Grazie, ma in teoria ho fatto solo quello che mi hai detto tu: il piano era tuo»
 
«Anni di pratica. E poi ho anche improvvisato: quando mai capita di avere un fucile magico per le mani?»
 
«Non vedo l’ora che mi faccia cacciare altro: se le cacce sulla tua isola sono tutte così, so già che mi divertirò come una bambina!»
 
«Puoi contarci! Quindi ora possiamo andare da Nellim?»
 
Kïma sospirò, frustrata:
 
«Uff… sì, leviamoci questo peso… cosa non farei per quelle batterie!»
 
Quindi tornarono sui loro passi…
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«Ah, quando mai non gli ho spaccato il naso sul posto!» ringhiò Aloy, stando schiena contro schiena con Alocin sulla sella dello yutiranno.
 
«Sappi che ti sento» replicò Sylens dal focus, beffardo.
 
«Lo so, faccio apposta. Quando hai imparato ad inibire focus, comunque?»
 
«Ho trovato uno strumento che ne ha reso capace il mio in un sito degli Antichi, anni fa»
 
«Se vuoi, gli farò io un lavoretto alla faccia, quando lo rivediamo» disse Alocin, ammiccando.
 
Aloy non rispose, ma rise e fece un gesto di assenso. Erano diretti ad Ovest per imbarcarsi per il Dente Ghiacciato, l'isola delle nevi perenni; era quello il posto che Sylens aveva indicato quando aveva raccontato del segnale. Aveva aggiunto anche che ci avrebbero trovato anche uno dei portali, il penultimo rimasto (terzultimo, se si includeva quello lasciato aperto per Asile), il che era stato abbastanza consolatorio per Aloy.
 
«Hai qualche consiglio per questo "Dente Ghiacciato"?» chiese ad Alocin.
 
«Dipende. Sai già qualcosa di neve e freddo bestiale?»
 
«Oh sì, decisamente!» rispose la ragazza, pensando alla sua regione di nascita e al viaggio nello Squarcio.
 
«Allora non penso ci sia niente che non possa aspettarti già: servono vestiti pesantissimi, fuoco sempre acceso e pause per strofinare i piedi»
 
«Aspetta... questa mi è nuova, a che serve?»
 
«Se non tieni i piedi caldi, rischi di perderli. Per davvero, non è una metafora!»
 
«Non me ne hanno mai parlato... forse perché facevo sempre tratti brevi»
 
«Non so, può darsi, ma i Lupi Bianchi lo consigliano sempre»
 
Arrivarono in vista della destinazione tre quarti d'ora dopo, considerando che a cavallo di un teropode e che stando su una strada battuta si faceva tutto molto "rapidamente". Ad Aloy il Dente Ghiacciato apparve come una brillante montagna bianca in mezzo al mare, circondata da iceberg più o meno grossi che si muovevano lentamente, ma comunque in modo visibile. Stava diventando nuvoloso, quindi l'oceano non era del suo proverbiale azzurro, ma grigio chiaro e molto agitato.
 
«Allora, che te ne pare?» le chiese Alocin.
 
«Molto suggestiva. Come ci arriveremo? Sembra rischioso...»
 
Alocin sospirò, amareggiato:
 
«Eh, so io cosa si può fare. Purtroppo dissanguerà il mio borsello...»
 
Aloy, confusa, si sforzò di non ridere:
 
«D'accordo... che significa?»
 
«La risposta è proprio laggiù» rispose Alocin, indicando un traghetto in legno attraccato alla spiaggia accanto a sue piccole cabine (una per negoziare col traghettatore, l'altra per prendere abiti in pelliccia se non se ne aveva).
 
Incuriosita, Aloy osservò quel posto avvicinarsi oraggiunsero. Il traghettatore, accortosi di loro, uscì dalla prima cabina ed Alocin balzò giù dallo yutiranno.
 
«Quanto fa un trasporto di tutto?» chiese, irritato, senza nemmeno salutare.
 
Il traghettatore, un uomo basso con pochissimi capelli e la schiena leggermente imclinata a sinistra, osservò bene grattandosi il mento e ridacchiò:
 
«Innanzitutto, sono quattordici ciottoli per te e la ragazza» iniziò.
 
Alocin, con la faccia di un condannato a morte diretto al patibolo, sganciò.
 
«Poi sono... ventidue per lo yutiranno, diciotto per il mammut, diciannove per il triceratopo e dieci per la lucertola spinosa»
 
«E io che pensavo di aver già preso abbastanza legnate...» Alocin pagò ancora.
 
«Infine, il peso dello yutiranno mi spaventa un po': per gli spiriti, non ne ho mai visto uno così grasso! Forse ci vuole una piccola spinta...»
 
Disperato, ma anche per scherzare, Alocin gli allungò la damigiana di sidro.
 
«Fammi annusare... oh, sidro d'annata! Uhm... sì, credo che come spinta basti. Bene, benissimo...»
 
«Stronzo»
 
Loro due si fecero trasportare col quarto e ultimo viaggio del traghetto, dopo aver preso anche i vestiti invernali. Miracolosamente per Alocin, quelli erano prestiti, quindi gratis, a meno che non li perdessero. Aloy se li sentiva molto comodi e già in quel punto motò che la proteggevano benissimo dal vento freddo che soffiava lì. Era pronta ad affrontare la versione arkiana dello Squarcio, qualunque minaccia nascondesse...

 
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Asile strappò sei denti al tirannosauro, prima di partire.
 
«Che fai?» chiese Kïma.
 
«Un piccolo trofeo, non c’è limite all’autostima. Ne vuoi uno?»
 
«Per me è lo stesso»
 
Allora Asile glielo passò, avvertendo scherzosamente che era viscido di bava. La ragazza tatuata accompagnò Asile fino alla base di Nellim, sempre nel deserto. Ci arrivarono verso mezzogiorno, quando l’aria sopra la sabbia tremava per l’afa. Era tutta allestita all’interno di una depressione rettangolare nel terreno, con tanti buchi nelle pareti. Era molto più popolosa di quanto Asile immaginasse: era praticamente una tendopoli. Era pieno di semplici tende bianche, disposte a scacchiera, dove vivevano singole persone o gruppi familiari. A quanto si vedeva, altra gente viveva nei buchi.
 
«Questa era una cava di arenaria Carja - spiegò Kïma, mentre scendevano nella depressione per una gradinata - poi l’arenaria è finita ed è diventata terra di nessuno, fino a quando Nellim ci ha fondato la sua base»
 
«Interessante! Dove lascio le bestie?»
 
«Ti suggerisco la fine della gradinata. Tu guarda solo dove lascio il Razziatore...»
 
«Va bene»
 
Quindi, vedendo che la sua accompagnatrice lasciava la sua Macchina sull’ultimo gradone, ordinò alle cavalcature di rimanerci a loro volta, senza muoversi. Per tenerle buone, diede da mangiare ad ognuna di loro. Iniziarono quindi ad attraversare la tendopoli e quasi tutti quelli che incrociavano riconoscevano Kïma e la salutavano, la maggior parte di loro facendo sorrisi a metà fra il divertito e l’imbarazzato. Lei risondeva ad alcuni e ignorava completamente altri.
 
«Scusa, che significa tutta questa scena?» chiese Asile, trattenendo a stento le risate che le scappavano vedendo tutto ciò.
 
«Fanno così perché sanno che sono tornata per il motivo che sai tu e che mi dà fastidio» fu la secca risposta.
 
Lì in giro c’erano persone di tutti i tipi: bianche, nere, giallastre, ma vestivano tutte in modo molto arrangiato, diversamente dai vestiti tradizionali di cui aveva parlato Aloy. Chiaramente era perché vivendo così non serviva e non interessava a nessuno di loro. Asile capì qual era la sede di Nellim perché sopra uno dei buchi nelle pareti c’era un enorme cartello col suo nome sopra, dipinto con uno strano liquido viola luminoso. All’interno c’era una fila di persone che aspettavano di incontrare il loro capo per fargli richieste o avvisarlo di problemi vari. Nellim, in piedi di fronte ad un tavolo su cui c’era una mappa del territorio conosciuto con segnati centri abitati, territori di macchine e punti di raccolta, ascoltava pazientemente e rispondeva che e come avrebbe provveduto. Dieci minuti dopo, fu disponibile per loro due:
 
«Bene bene bene, guarda chi si rivede!» disse sorridendo, quando vide Kïma.
 
«Ciao, vecchio» rispose lei, seccata.
 
«Quindi... io sono a posto?» chiede Asile.
 
«Sì, grazie per il disturbo, visitatrice. Dimmi, per caso hai incontrato dei vagabondi come noi, ma ostili? Se sì, sono quelli di cui ti avevo parlato, i nostri rivali»
 
«Stavano torturando lei quando l’ho trovata»
 
«Uno dei suoi mostri mi ha bucato un fianco, a questo punto sarebbe stato meglio se avessero continuato a torturarmi» protestò Kïma con finta indignazione, mordicchiandosi le unghie.
 
«Ti ho salvata, non rompere!» si lamentò Asile.
 
Nellim pareva non starle ascoltando: ora camminava avanti e indietro per la stanza le cui pareti, tra l’altro, erano decorate con un grande pittogramma che raffigurava la sua comunità come una grande famiglia, riflettendo.
 
“Come immaginavo, Brachio sta continuando quello che faceva il suo vecchio: attacca I raccoglitori, attira Macchine aggressive, ruba provviste... ora ha cercato di liberarsi della nostra dominatrice di Macchine... siamo decisamente troppo lenti con l’organizzazione” pensava.
 
Quando si concentrò ancora sulla realtà, vide che le due ragazze si stavano ancora punzecchiando a vicenda.
 
«Ecco perché i Carja delle ombre tagliano la lingua alle schiave…» mormorò.
 
Tossicchiò nervosamente per farle smettere.
 
«Dunque - si rivolse ad Asile - io sono un uomo di parola: il nostro centro scorte è a tua disposizione»
 
«Grazie» rispose lei.
 
«Inoltre, se vorrai dormire qui, ho già avvertito la famiglia che si occupa del deposito di aggiungere di accoglierti: sono tra i più accoglienti fra noi»
 
«Grazie ancora, ma io pensavo di partire subito»
 
«E io vengo con lei» aggiunse Kïma, sempre mordendosi le unghie.
 
«Bene, allora ho ancora più motivo di darti questa!»
 
Nellim frugò in una tasca interna della sua veste e prese un foglio tutto spiegazzato su cui c’era una lista in carboncino.
 
«Cos’è?» chiese Kïma, allungando la mano per prenderla.
 
«Per non farti prediche più del dovuto, ti ho fatto direttamente una lista delle Macchine che sarebbe meglio portarci, ho anche aggiunto delle spiegazioni per farti capire che non prendo decisioni a caso»
 
«Uuuuuuuh, ma che gentile» scherzò lei, prendendo il foglio e cominciando a leggerlo.
 
«Se non ne trovi, sei libera di scegliere altro, come al solito: questo è solo l’ideale» aggiunse il capo della comunità.
 
«Rilassati, farò del mio meglio»
 
«Quindi dov’è questo centro scorte?» chiese Asile.
 
«Lo riconoscerai: c’è una carrucola che trasporta materiali dentro e fuori da una botola. Bella cosa, avere un ingegnere Oseram!»
 
«OK... non ho capito l’ultima frase, ma va bene»
 
Dopo essere uscite, individuarono facilmente la carrucola di cui aveva parlato Nellim. Era una grande catena in continuo movimento che attraversava senza fermarsi due botole. Ad essa erano agganciati dei carrelli in cui un uomo bianco e apparentemente più vecchio di Nellim metteva oggetti assortiti che le persone consegnavano di continuo, rientrando dalle spedizioni.
 
«Ehi, pare che il vecchio abbia avuto un occhio di riguardo con te - commentò Kïma - Quello è Bargh, il tizio che ospitava me i primi tempi, prima che mi facessi una tenda personale. Chissà se me l’hanno lasciata...»
 
«Ah. E che tipo è?»
 
«Be’, era un emarginato Nora, quindi parti col presupposto che cercherà di non metterti a disagio perché non vuole che ti senta come lui. Più della metà di questi scrocconi mancati è fatta di emarginati Nora, indovina perché...»
 
Asile ignorò gran parte di quello che stava sentendo, visto che francamente non gliene poteva importare di meno, e andò a presentarsi a Bargh.
 
«Sei la straniera dei mostri, giusto? Ti aspettavo!»
 
«Lo so, piacere di conoscerti. Puoi chiamarmi Asile, comunque»
 
L’uomo chiamò sua moglie Corliss per presentarle la loro ospite, avvicinandosi ad una terza botola più lontano e senza carrucola e Asile notò che zoppicava. La sua donna uscì, mostrando di essere vecchia quanto il compagno e leggermente ingobbita. Asile salutò anche lei, poi andò dritta al punto e chiese se per caso era stata vista qualche creatura strana lì in giro, ultimamente. Essendo quel posto fatto di gente che andava e veniva, le notizie dovevano per forza girare velocemente. Bargh rifletté per un secondo, poi affermò che il giorno prima dei faccendieri avevano sentito da due contadini Carja che uno dei loro maiali era stato avvelenato e fatto a pezzi da un grosso insetto nero, con pinze e una coda ricurva. Asile capì subito di che si trattava.
 
«Grazie. Sapete dov’è il posto?»
 
«Non esattamente, ma dovresti trovarlo facilmente se costeggi il limite delle foreste umide a Sud di Meridiana»
 
«Forse so quale fattoria è - si intromise Kïma - una volta mi ci feci dare una cassa di ortaggi in cambio di uno Smeriglio da guardia; ti ci porto io»
 
«Ciao, Kïma! Sei tornata?» salutò giulivamente Corliss.
 
«Non per scelta, ma sì»
 
«Bene, signori, allora se non muoio cercherò di tornare stanotte!»
 
«Buona fortuna! Speriamo di conoscerti meglio, ci piacciono i nuovi volti!»

 
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«Quindi... cosa stiamo inseguendo?» chiese Kïma, mentre guidava Asile.
 
«Un pulmonoscorpio»
 
«Cioè?»
 
Asile notò casualmente uno scorpione immobile su una roccia, luccicante sotto il Sole.
 
«Vedi quello?» chiese, indicandolo a Kïma.
 
«Sì»
 
«Immaginalo più grande di una persona e otterrai un pulmonoscorpio»
 
«Oh, magnifico... intanto, io metto questo qui»
 
Frugò nella sua sacca, prese una strana sorta di scatola metallica e premette un pulsante, facendo lampeggiare una spia rossa che emetteva un tintinnio ritmato. 
 
«Cos’è?» chiese Asile, incuriosita.
 
«Un’esca per Macchine. Fa un rumore che alle Macchine piace ascoltare, nessuno sa perché. Quel che è certo è che fra qualche ora arriverà sicuramente qualcosa, così quando ripassiamo potrò fare l’override»
 
Nascose la scatola con la luce intermittente in un cespuglio e ripartirono.

 
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«Ehi, è fresco qui, eh?» ironizzò Aloy, cercando di nascondere che stava battendo i denti.
 
«Sì, e siamo ancora a riva! Aspetta di scalare la montagna...» replicò Alocin, scalciando per togliere la neve dalle punte degli scarponi.
 
Il villaggio dei Lupi Bianchi era costruito a cavallo fra l’inizio di un bosco di pini e la sponda del mare, dove c’era un semplice molo con piccole zattere attraccate. Il mercato della piazza aveva una forma circolare, con le bancarelle che circondavano un laghetto completamente ghiacciato in cui i pescatori facevano buchi per gettare le lenze; era attraversato da ponticelli in legno per evitare incidenti durante guadi vari.
 
«Cosa facciamo qui? Abbiamo già preso quello che serviva, giusto?» chiese Aloy.
 
«Sei nata ieri? Hai idea di cosa sono i mercati?»
 
«Sono posti in cui si compra e si vende, magari?»
 
«Sì, ma sono anche i posti dove girano le notizie!...E soprattutto si prenota una serata a letto con qualche bambola, hehehehe! Sai, è così che mio fratello conobbe la madre di Asile. Sai com’è, vuoi avere una famiglia ma non trovi nessuno o devi solo sfogarti? Facile: vai al mercato e cerchi una ragazza dai costumi volutamente facili!»
 
Dire che Aloy era imbarazzata sarebbe stato riduttivo.
 
«Va bene... allora vado a chiedere del portale»
 
Andò al venditore più vicino e chiese se ultimamente sull’isola ghiacciata si erano viste cose strane, come animali metallici o una nuvola viola. Il mercatante non seppe rispondere sul portale, ma raccontò che il giorno prima un mostro di ferro e con occhi rossi e brillanti aveva attaccato dei boscaioli sulla montagna: lo descrisse come “un metaorso metallico che raccoglie la neve nello stomaco e la rilanciava come sassi”. Non c’era dubbio: si trattava certamente di un Gelartiglio.
 
«Nessun problema per il Portale: ho appena reso più chiara la sua posizione»
 
«Grazie, Sylens»
 
«Parli con me?» chiese il mercatante.
 
«No, non fare più caso a me»
 
«Ma... ti darò un’indicazione solo quando avrai dato un’occhiata al punto in cui c’è sempre il mio segnale, ovvero in una piccola caverna che potrai raggiungere semplicemente andando dritta verso la cima da dove sei ora»
 
«E... grazie anche per avermi ricordato che sei irritante»
 
Tornò da Alocin e gli chiese se conosceva un posto sul Dente Ghiacciato simile a quello che aveva appena descritto Sylens. La sua guida capì in pochi secondi e, iniziando a masticare una foglia di tabacco affumicata, le rispose che potevano andare quando voleva.

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Capitolo 7
*** Il Gelartiglio ***


Aloy dovette constatare che Alocin non scherzava per niente quando aveva detto che, come fossero saliti di quota, il freddo sarebbe diventato ancora più pungente: l’aria era così gelida che si sentiva le narici bruciare ogni volta che inalava, il vapore che usciva dalla sua bocca era denso come fumo vero; nonostante le protezioni, tremava tutta, sembrava che perfino le sue ossa fremessero. Inizialmente, senza nemmeno sapere perché aveva deciso così, si era rifiutata di stare ancora sulla sella dello yutiranno, schiena a schiena con Alocin. Intuì che avrebbe cambiato idea molto presto. Al momento, seguiva lo zio di Asile mettendo i piedi nei grossi buchi lasciati dal mammut nella neve, che altrimenti l’avrebbe ostacolata tantissimo, arrivandole alle anche. Su suggerimento di Alocin, si accostò al dimetrodonte per scaldarsi, visto che grazie alla sua cresta dorsale poteva conservare e rilasciare calore o aria fredda a seconda delle necessità: in quel caso, Aloy poté servirsene come calorifero vivente. Ad un certo punto, vicino ad una cascata congelata bellissima a vedersi, passarono accanto ad un branco di metalupi selvatici che spolpavano avidamente la carcassa di un megaterio, mentre due femmine portavano pezzetti di carne ad un gruppo di cuccioli appena svezzati. Quando li videro passare, alcuni abbassarono le orecchie e iniziarono a ringhiare, facendo anche qualche minaccioso passo in avanti. Il dimetrodonte, spaventato, corse sotto il mammut per rifugiarsi e Aloy, d’istinto, prese l’arco. Ma Alocin, affatto preoccupato, diede un colpetto al collo dello yutiranno, che prese fiato ed emise un assordante ruggito che sembrava un misto fra un fischio e un rombo. Subito i metalupi si rabbonirono e tornarono alla carcassa. A quel punto, Aloy cedette e tornò sullo yutiranno. Ora andava decisamente meglio. Alla fine, sotto un cielo limpido e coi denti che battevano, arrivarono alla piccola grotta.
 
«Il posto è questo, non c’è dubbio e non c’è sbaglio» affermò Alocin.
 
«Benissimo! Diamo un’occhiata, rivoglio il controllo del mio focus il prima possibile…»
 
Aloy doveva ammettere che, se non le fosse stata indicata, avrebbe potuto non vederla: come caverna era veramente piccola, con l’ingresso alto giusto quanto basta a far entrare una persona senza doversi abbassare. Sembrava semplicemente un punto blu scuro nel bianco accecante. Quando entrarono, dovettero stare attenti a non scivolare sul terreno congelato. Ma furono molto sorpresi dal vedere che qualcuno ci aveva allestito un vero e proprio studio: c’erano casse, sgabelli e tavoli, su cui c’erano fogli pieni di note e disegni di varie creature dell’isola. Aloy aprì una delle casse e trovò rami e foglie di diversi tipi di piante. In un angolo c’era il cranio di uno smilodonte.
 
«A quanto pare a questo tizio piace studiare al freddo» ridacchiò Alocin, bevendo del sidro.
 
«Ci sono tante cose da ricerca...Ma non mi sembra di vedere portali o altre cose degli Antichi. Ehi, Sylens, siamo arrivati. È una sorta di...Sembra che questo Carja stia osservando l’isola»
 
«Interessante...Al momento non rilevo segnali, quindi suppongo che non ci sia nessuno»
 
«È così. Allora, sono a posto? Posso usare il focus
 
«Uhm...In teoria non hai risolto il mistero, mi hai solo aiutato a farmi un’idea di cosa vuole fare quell’uomo, quindi no. Però puoi tornare a dare la caccia alle Macchine finché il segnale sarà tornato»
 
«Un giorno me la pagherai. Bene, vuol dire che possiamo cercare il Gelartiglio!»
 
«Vuoi tornare a valle? Se quelle cose di metallo fanno davvero come gli animali, è difficile che sia così in alto»
 
«Sì, può essere una buona idea»

Cominciarono quindi a fare il percorso appena seguito all’indietro. Era facile: bastava guardare dove c’erano le loro impronte. Dando le spalle ad Alocin sulla sella, Aloy si ritrovò a guardare il piumaggio color crema dello yutiranno e, avvertendo un pizzicore al naso per il freddo, le venne la curiosità di sapere come fosse immergervi il naso. Allora, senza farlo notare ad Alocin per imbarazzo, si piegò in avanti, sporgendosi oltre la sella, e strofinò la faccia tra le piume del teropode artico. Le piacque tanto: era caldo, un po’ pungente come fieno e profumava di muschio, aroma che le ricordò la casetta in cui era cresciuta con Rost. Rimase così per parecchi minuti, finché uno scossone dello yutiranno la riportò alla realtà. Gli animali di Alocin si stavano arrabbiando...O spaventando?
 
«Che sta succedendo?» chiese Aloy.
 
«Per caso ti sembro un veggente? Non guardano in una direzione sola, vuol dire che non fiutano niente. Però...» rispose Alocin.
 
Poco dopo, tornarono al punto in cui i metalupi stavano mangiando il megaterio. Solo che adesso i metalupi erano morti. L’area circostante era tempestata di laghi di sangue e impronte. In mezzo a quelle dei metalupi, c’erano quelle che Alocin riconobbe come quelle di un metaorso. Peccato che un metaorso da solo non avrebbe mai potuto abbattere un intero branco di quei cani di: ne avrebbe potuto uccidere uno, magari anche due se ci metteva impegno, ma poi sarebbe stato sopraffatto da tutti gli altri. Doveva essere per forza la Macchina di cui Aloy aveva parlato. Era davvero così forte? Forse l’aveva un po’ sottovalutato, come aveva fatto col Celermorso.
 
«ATTENTO!!!» gridò Aloy, alle sue spalle.
 
«Eh?»
 
Subito dopo, alla loro destra, una sagoma quadrupede con arti tozzi e corpo massiccio caricò demolendo un pino e investendo lo yutiranno con una spallata così potente che Alocin si morse la lingua per il contraccolpo. Il teropode si rovesciò sul fianco e Aloy e lo zio di Asile rotolarono nella neve fino al fiume ghiacciato. Alocin si alzò scosso e guardò la cosa che li aveva attaccati mentre emetteva un verso meccanico: in pratica era un metaorso con una cisterna con dentro un liquido azzurro per pancia e due valvole estensibili per bocca.
 
«Qualche consiglio?» chiese.
 
«Cerca di dargli fuoco, è la soluzione migliore!» esclamò Aloy, prendendo l’arco e correndo a cercare una postazione adatta.
 
Il triceratopo sbuffò e caricò il Gelartiglio, facendolo capovolgere. Provò a tirare una seconda cornata, ma la Macchina si rialzò e afferrò il suo collare cranico con le zampe. Iniziò così un braccio di ferro fra il dinosauro, che cercava di piantare le zampe nella neve e di impalare la bestia di ferro, e la Macchina-orso, che cercava di tenere quelle tre corna a distanza. Il mammut barrì e colpì il fianco sinistro del Gelartiglio scuotendo le zanne, aiutando il sauro a sbilanciarlo. Aloy, incoccata una freccia dirompente, mirò e colpì le zampe anteriori del Gelartiglio sulle giunture che fungevano da spalle, scoprendo i cavi che legavano gli arti al corpo. La prossima mossa ideale sarebbe stata dare fuoco al serbatoio per impedire alla Macchina di sferrare il suo attacco peggiore. Fortunatamente, a sua insaputa, Alocin ci stava già pensando: dopo aver recuperato la sua sacca, che era finita sul fiume gelato, aveva preso le bombe appiccicose e adesso cercava di accendere una torcia, sperando che il suo acciarino rimanesse intatto. Infuriato, il Gelartiglio balzò verso il mammut sollevando una zampa. L’elefante lanoso parò il colpo con una zanna, che fu tranciata a più di metà. Rimasto con la zanna destra due volte più corta e senza più punta, il mammut colpì con la sinistra, che si incastrò nella cisterna del Gelartiglio. La Macchina si voltò verso destra, il mammut verso sinistra…E la punta della zanna rimase dove si era infilata. Gocce di liquido surgelato iniziarono a zampillare dalle crepature che si erano formate. Aloy colpì uno dei suoi visori, distruggendolo; intanto, Alocin era finalmente riuscito a dare fuoco allo stoppino della prima bomba appiccicosa e fece un sorriso malevolo. La Macchina rivolse l’unico visore rimastole ad Aloy, piantò gli artigli nella neve e gettò un cumulo di terra gelida alla ragazza, che rotolò via giusto in tempo. Lo yutiranno emise un grido così forte che forse lo si sentì per tutta la montagna, quindi si avventò sul Gelartiglio con tutta la sua furia e serrò la mandibola sul suo collo di silicio, stringendo quanto poteva. Lo sollevò con molta fatica e iniziò a sbatterlo qua e là sul terreno come un tappeto, per quanto faticoso fosse. Alla fine, lo lanciò contro un albero, che cadde.
 
“Così è molto meglio che combattere da sola con l’arco, non c’è che dire” commentò Aloy dentro di sé.
 
Dopo l’ultimo schianto, la punta della zanna sinistra del mammut si sfilò, scoprendo il buco nella cisterna. Com’era ovvio, per questo il getto di liquido che ne usciva diventò molto più intenso. Per intuito, Alocin capì che era il suo momento: mettendo tutta la forza possibile nel suo braccio, tirò la bomba e colpì la cisterna del Gelartiglio, ormai tutta zuppa di quel fluido azzurro. Fu questione di un secondo: una vampata di fuoco avvolse tutto il corpo della Macchina-orso, poi ci fu uno scoppio che sbalzò tutti all’indietro, oltre ad emettere un calore tale che la neve sotto il Gelartiglio si fuse e diventò acqua. La Macchina cadde su un fianco e non si mosse più: era stata distrutta. Sconvolti, i due si misero seduti e Alocin scoppiò a ridere:
 
«Sai una cosa? È stato troppo divertente! Spero che non mi venga un infarto»
 
Aloy, invece, si accasciò ancora per riprendersi. Quando si rialzò, si guardò in giro e disse:
 
«In effetti...»
 
E cominciarono a ridere, ignorando che nel cielo sopra di loro l’uomo col bavaglio rosso, chd finalmente aveva rintracciato Alocin, li osservava col cannocchiale su un argentavis di colore grigio chiaro. Prese un modello ottocentesco di ricetrasmittente e, dopo aver regolato la frequenza, disse:
 
«L’ho trovato»
 
«Ripeti, per piacere: ti sento male» rispose con sdegno una voce maschile spocchiosa e dal tono vanitoso.
 
«Ho detto che l’ho trovato. Forse c'è interferenza è perché sono in alto…Adesso lo uccido» avvisò.
 
Sarebbe stato facile: l’avrebbe fatto afferrare e spolpare in volo dall’argentavis.
 
«Cosa dici, idiota? Portamelo qui! Altrimenti perché avrei faticato per un mese solo per questo?»
 
«L’idiota sarai tu: hai detto che dovevo darlo in pasto a qualcosa!»
 
«Certo che l’ho detto, ma ero ancora indeciso sulla sua sorte. Ora non più: portamelo qui, altrimenti niente compenso»
 
«Vedrò come fare» e chiuse la comunicazione.

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«La fattoria è quella. Però sembra che ci sia qualcosa di strano…» disse Kïma, quando lei e Asile giunsero in vista della destinazione.
 
«Qualcosa di strano? Direi: è tutto distrutto!» rispose Asile, vedendo la devastazione che imperversava.
 
La fattoria era composta dalla casa del proprietario, un campicello irrigato da un canale collegato ad un torrente che usciva dalla giungla lì dietro, un pollaio e un porcile. Tutto quanto era sfasciato, la casa quasi crollava su se stessa e gli animali andavano in giro fuori dai recinti, nervosi.  Quando si avvicinarono, videro il fattore che si aggirava per il luogo con aria sconsolata. Quando lo raggiunsero, riconobbe Kïma e la salutò.
 
«Mi ricordo di te – disse – Il tuo Smeriglio è stato molto utile, ma questa volta non è bastato. Ma…» quando vide le bestie di Asile, trasalì dalla paura e gridò.
 
«Ehi! Datti una calmata! Al tuo posto lo farei anch’io, ma niente paura: sono innocue, lei è con me» lo calmò Kïma.
 
«Buono a sapersi – rispose il contadino, prima di tornare desolato – Magnifico, ora i mostri spuntano come funghi…Prima l’insetto mostruoso, poi i banditi…»
 
«Insetto mostruoso, eh? Senti, io sono qui per ucciderlo. Posso guardare qui in giro?»
 
«Fa’ pure. Tanto, ormai…»
 
«Banditi, eh? – disse invece Kïma – Quali banditi?»
 
«Mah…Parevano criminali qualsiasi, ma erano in tanti. Avevano anche un capo. Mi ha dato da scegliere se lasciargli prendere tutto stando vivo e andandomene entro domani, che vogliono fare una base qui, o se farmi ammazzare. Non avevo tante scelte…Mi ha detto di chiamarsi Brachio e di tenere bene in mente quel nome»
 
Sentendo nominare il rivale di Nellim, Kïma annuì, capendo perfettamente come si sentiva il fattore. A rigor di logica, Brachio doveva aver scelto di farsi una base molto vicina a quella di Nellim per avere meno difficoltà ad attaccare se avesse voluto farlo…Per misericordia, invitò il fattore a raggiungere la base di Nellim, definendola “un posto dove avrebbe potuto riprendersi”. Il contadino disse che ci avrebbe pensato.
 
Asile, in mezzo alla confusione che era quel posto, riuscì a trovare una traccia interessante: due scie parallele di tracce a forma di V volte verso l’esterno, in mezzo alle quali c’era una linea…Come se una coda rigida fosse stata trascinata fra sei zampe e due chele. Aveva localizzato il pulmonoscorpio: andava verso la foresta.

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Brachio, lo spietato avversario di Nellim, sedeva nella sua tenda insieme al vecchio Ryomo, in apparenza un qualunque cittadino di Meridiana, ma che in realtà aveva parecchi segreti. Segreti tali che correva troppi rischi con le regole della sua tribù, così aveva cominciato a mettersi in combutta coi banditi del padre di Brachio e a chiedere loro favori in cambio di supporti vari, come oggetti degli Antichi aggiustati e resi nuovamente funzionanti.
 
«Siamo stati a quella fattoria, adesso appartiene a noi. Ora tu avrai il nuovo rifugio che volevi e noi la nuova base» disse Brachio.
 
«Oh, perfetto! Ero stanco di quel lurido scantinato sotto casa mia…» commentò Ryomo.
 
«E tu ci darai quello che ho chiesto, vero?»
 
«Certamente, ragazzo! Mi manca poco, molto poco…»
 
«Scusa, ma esattamente cosa vuoi fare con quella batteria?»
 
«Sono affari miei. Ti dico solo che riguarda un modo…Per viaggiare lontano, lontanissimo. E quando saprò come farlo meglio di come lo faccio adesso e avrò imparato tutto sul posto che visito, tutto il mondo lo saprà! Voglio proprio sapere se il re griderà ancora all’eresia…»
 
«Perfetto. Mi raccomando, non metterci troppo: quel vecchio idealista che è Nellim è facile da distruggere, ora, ma niente gli impedisce di organizzarsi…»

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Poco tempo dopo, anche Nellim venne a sapere da un ricognitore che aveva trovato il contadino nel deserto delle strategie di Brachio. Ma, per fortuna, lui era sempre stato un uomo molto previdente: si aspettava che presto o tardi sarebbe successo qualcosa di simile. A rigor di logica, avrebbe fatto molto bene ad impossessarsi per primo delle proprietà private circostanti per diventare più forte, ma ogni volta che qualcuno gliel’aveva suggerito aveva scosso energicamente la testa e gli aveva ricordato del suo codice etico.
 
«Fammi indovinare, capo: assedio in arrivo? O saremo noi ad andare da lui?» chiese il ricognitore, sicuro di ricevere una risposta immediata.
 
«Io dico di fare un po’ e un po’, come stavamo per fare con suo padre ai suoi tempi»
 
«Però non l’abbiamo fatto, alla fine. È arrivata l’Eclissi e c'era stata quell'invasione di Macchine corrotte all'improvviso...»
 
«Lo so, ma ora è l’occasione giusta per riprovare! Dobbiamo solo aspettare che la nostra dominatrice di Macchine ci porti quello che le ho chiesto di sottomettere per completare le nostre fila e potremo mobilitarci...»

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La traccia del pulmonoscorpio procedeva nella giungla dov’era più fitta: l’aria era più soffocante che nel deserto, sopra le teste delle due ragazze si sentivano migliaia di versi di uccelli e rane tropicali invisibili e i rami nascondevano il Sole. Ad un certo punto, per quanto l’idea spaventasse entrambe, dovettero lasciare la loro scorta di animali e Macchine in una piccola radura cresta da un vecchio albero caduto. Asile proseguì fino a quando la traccia iniziò a tornare più volte negli stessi punti o a girare in cerchio. In più, ogni tanto avevano trovato pozze di sangue.
 
«Si è stabilito qui» affermò Asile.
 
«Bene, ora come facciamo?»
 
«Cercarlo nel fitto della boscaglia non va bene, potrebbe spuntare all’improvviso e pungere una di noi…»
 
«Ehm...Che succede se mi punge?»
 
«Dipende...Potresti svenire, potresti cadere a terra paralizzata da crampi e dolori atroci, potresti morire avvelenata...In ogni caso, pungono per mangiare senza rischi»
 
Kïma si mise una mano in faccia per dire “perché ho scelto di fare tutto questo?”
 
«E allora? Come lo abbattiamo? Non abbiamo nessun aiuto, solo armi...»
 
Fu allora che Asile ebbe un’idea diabolica. Si ricordò di quando Alocin le aveva fatto sperimentare il metodo meno ortodosso per cacciare usando lei come cavia, e pensò che fosse un’occasione perfetta per attirare il bersaglio e prendersi una rivincita.
 
«Hai della corda?» chiese a Kïma.
 
«Sì, perché?»
 
«Bene, abbiamo quello che ci serve. Ho un piano che non ti piacerà, quindi...EHI, ECCOLO!!!» fece finta di indicare un punto dietro Kïma.
 
La ragazza con la tempia rasata si voltò di scatto e Asile ne approfittò per tramortirla con l’impugnatura della sua balestra.
 
«Scusa in anticipo...»

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UNA DECINA DI MINUTI DOPO…
 
«MA CHE CAZZO?!? CHE STAI FACENDO??? LIBERAMI SUBITO!!!»
 
Mentre Kïma era priva di sensi, Asile l’aveva legata ad un albero ed era andata a cercare insetti da schiacciare per raccogliere i loro fluidi e spalmarglieli addosso, in modo che la grande quantità di feromoni che contenevano attirasse il pulmomoscorpio.
 
«Che diamine devo fare? Stare qui e lasciare che mi mangi?»
 
«Ehm...Le esche servono a quello, no? Ma le si ricicla anche per non doverne cercare di nuove dopo!»
 
«Quindi sarei da riciclo? Bella merda! Giuro che appena scendo da qui ti strappo i capelli e anche le unghie!»
 
«Che cattiveria...Ma mi raccomando, non smettere un secondo di gridare: ti farà sembrare un cucciolo abbandonato, sarai ancora più appetitosa»
 
«IO TI AMMAZZO!!!»
 
«Bene, mentre tu ti logori i polmoni, io salgo su quest’albero con la balestra e attendo...Chissà, magari ne approfitto per farmi una dormita»
 
Mentre Kïma scagliava invettive su invettive, Asile cercò un ramo lungo e stabile e vi si appostò, mettendosi seduta appoggiando la schiena al tronco, facendo finta di sonnecchiare per provocare la sua compagna di viaggio. Poco dopo, come previsto, il pulmonoscorpio apparve dalla Biscaglia, abitando freneticamente i cheliceri ed emettendo un verso schioccante.
 
«Porca...Cos’è quello? È disgustoso! Ehi, sta venendo verso di me! Asile? ASILE!!!»
 
«Oh, e che diamine, fammi mirare! Che fretta...» la canzonò lei con finta noncuranza.
 
Il pulmonoscorpio iniziò a camminare rapidamente verso Kïma, tenendo le chele divaricate e scuotendo il pungiglione. La ragazza si dibatteva e strillava insulti, istigandolo ancora più dei feromoni. All’ultimo istante...Asile scoccò la freccia, che trapassò la testa dell’aracnide e lo inchiodò a terra; dopo aver avuto alcuni spasmi, lo scorpione gigante si lasciò andare.
 
Kïma non diceva una parola, ansimava e aveva gli occhi strabuzzati. Un filo di saliva le pendeva dalle labbra spalancate.
 
«Oh, visto che non sei morta?» rise Asile, balzando giù dall’albero.
 
Andò a slegare Kïma, che la fissava con uno sguardo che definire furente sarebbe stato un eufemismo.
 
«Ora possiamo finalmente tornare a quella cava a rilassarci! Ehi, per caso si mangia bene da quei senzatetto? Perché io sto cominciando a morire di fame! E sai, potendo scegliere tra una striscia di carne secca e una cena completa pubblica...»
 
PUM!!!
 
Appena fu libera, Kïma tirò un fortissimo pugno sul naso di Asile, che barcollò all’indietro. Presa la sua lancia, Kïma la puntò contro l’Arkiana tenendosi a distanza.
 
«Oh, fammi il piacere, testa dipinta! Vuoi farmi credere di essere più permalosa di uno spinosauro? E io che speravo di poterti considerare una persona fica!»
 
«Fottiti! Mi hai colpita in testa, legata ad un albero come se tutte le volte in cui le mezze seghe che Brachio chiama “combattenti” mi hanno appesa al solito palo non bastassero, mi hai cosparsa di questo schifo appiccicoso e pure usata come esca per un mostro a sei zampe! PERCHÉ MAI NON TI DOVREI FAR CALPESTARE DA UN CHERATAURO???»
 
«Perché così dimostreresti di essere più infantile di mio zio appena uscito da una lunga sbronza passata facendo sesso con tre donne nello stesso momento – replicò Asile, affatto intristita o dispiaciuta – E perché non ne hai motivo: avevo giurato che non ti avrei lasciata morire e così ho fatto, per cui…»
 
Kïma rifletté, poi alzò la lancia e disse, già un po’ ammorbidita:
 
«Va bene, ma se vuoi che dimentichi questo…Voglio che mi faccia vedere la tua isola dopo che avrai finito qui. E voglio starci per almeno un mese»
 
Asile alzò le mani:
 
«Per me va bene»
 
«Bene, torniamo nel deserto: devo fare degli override per Nellim»
 
«Già, mi ricordo»

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Dopo che si furono ripresi con una bollente zuppa di radici ed estratto di pino di montagna alla locanda dei Lupi Bianchi, Aloy ed Alocin erano tornati sul pendio affinché lei potesse chiudere il portale. Non ci volle esattamente poco a convincere Sylens a rivelare dove si trovava esattamente, ma alla fine si era arreso.
 
«E anche questa è fatta, immagino» commentò Alocin, che aveva sostituito il sidro con uno speciale liquore anti-freddo, osservando la ragazza uscire dal portale che si chiudeva.
 
«Già, è fatta. Che dire, è stato...Movimentato, vero?»
 
«Se è così che la vedi...»
 
Camminavano rilassati verso la costa, così da tornare sull’isola principale dell’arcipelago. Aloy si accostò al dimetrodonte per crogiolarsi nel tepore della sua cresta, accarezzandola ogni tanto e facendo il solletico al lucertolone del Permiano, che reagiva con un buffo verso simile ad una risata. Siccome non avevano niente di particolare da dirsi, Aloy iniziò a farsi diverse domande sul suo accompagnatore e sua nipote. Infine cedette alla curiosità e chiese:
 
«Asile è orfana. Come ha perso i genitori? Se posso chiedertelo, ovviamente»
 
Alocin rimase un po' scosso, ma poco dopo, anche grazie alla sbronza, accettò di confidarsi:
 
«Probabilmente ti aspetti un drammone familiare o qualche storia strappa-lacrime, ma quello che è successo a mio fratello e mia cognata è molto semplice; forse è questo a renderla tragica sul serio...»
 
«Cioè?»
 
«Erano entrambi cacciatori...Sì, quando lei non "lavorava" nel bordello cacciava...E hanno avuto un incidente. Erano andati ad affrontare un brontosauro con un tirannosauro, la loro preda era in gruppo e li ha sconfitti...E...E...Calpestati. Asile aveva tre anni, quei disgraziati mi hanno lasciato la palla al piede quando ero ancora giovane e figo, maledetti! Eh, fortuna che qualche bambola si trova ancora, hehehehehe, hahaha! Ipjv bede tjdezjp eblap tòvèv tluc izòtlufèp, emomef ebev i pif vjmef ev ab edabac, vag av ARK!» iniziò a cantare, portato via definitivamente dal liquore.
 
«Oh...Mi dispiace tanto...» Aloy non seppe dire altro.
 
In fondo, anche parecchi bambini di Corona della Madre perdevano il padre mentre cacciava, a causa delle Macchine. Quando raggiunsero il villaggio, passarono accanto ad un tabellone di legno, la bacheca delle taglie. Ogni insediamento arkiano ne aveva una, riportavano le quantità di ciottoli che i vari capivillaggio erano disposti a dare a chi avrebbe ucciso o domato le creature particolarmente fastidiose o pericolose di cui si parlava negli annunci. Aloy fu attratta da un foglio più grande degli altri, con un disegno a carboncino sotto il testo. L’immagine raffigurava chiaramente un branco di Macchine costituito da Secodonti, Longipedi, Smerigli e Vedette. Subito prese il foglio e chiese ad Alocin di tradurre per lei, ma l’uomo ci vedeva doppio per la sbronza.
 
«Uff...Ho capito, aspettiamo che sia sobrio» si rassegnò.
 
Alocin si riprese un’ora più tardi, dopo che ebbero attraversato di nuovo il mare e restituito i vestiti invernali.
 
«Allora, che c’è scritto?» chiese la Nora.
 
«In due parole, i Teschi Ridenti (oh, la mia tribù!) offrono...Oh, per la misericordia dei quattro dèi! Settecento! Daranno settecento ciottoli a chi contribuirà a sbaragliare l’orda di mostri di ferro apparsa ieri sull’isola dei due vulcani! Hanno già cinque dei loro cacciatori pronti, ma si accettano volontari da altre tribù»
 
«È chiaro che un gruppo di Macchine ha trovato un Calderone e ha attraversato il portale, oppure il Calderone ne ha create tante in rapida serie...Bene, allora sbrighiamoci! Quanto abbiamo prima che inizino la caccia? È scritto?»
 
«Abbiamo fino a domattina»
 
«Perfetto!»
 
Quindi, la loro prossima destinazione era l’isola dei due vulcani, nel Sud-Ovest dell’arcipelago. Aloy aveva abbastanza brutti ricordi della lava dal Calderone in cui aveva liberato CYAN per detestarla, preferiva di gran lungo il freddo. Dovette accettare che l’aspettava una situazione...Scottante.

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Capitolo 8
*** Operazione vulcano ***


«Sei ancora arrabbiata?» chiese umilmente Asile.

Le ragazze avevano cercato ancora un po' nella zona tropicale, chiedendo anche ai cacciatori della Loggia della zona, per scoprire se c'erano altri animali arkiani lì vicino. Accertatesi che così non era, erano tornate nel deserto, il Sole cominciava a tramontare.

«Non dovrei?» rispose Kïma, sprezzante.

«Che ne dici se ti faccio passare due mesi in più su ARK, dopo tutto questo?»

«Uhm... va bene, mi hai convinta. Ma voglio anche la guida turistica annessa!»

«Ci puoi contare!»

Ora che era sera, l'aria iniziava a diventare piacevolmente fresca. A volte dalla sabbia uscivano ancora delle ondate di calore, ma non davano tanto fastidio. Il metalupo smise dì ansimare e trotterellava scodinzolando, contento di non dover più soffrire il caldo torrido. Quando furono ad un centinaio di passi dall'emettitore di segnali lasciato da Kïma, salirono su una collinetta piena di formazioni rocciose, cespugli e cactus per guardare meglio cos'avevano attirato. Kïma disse che avevano un bel bottino per Nellim: due Manticeri di fuoco, uno Spezzarocce, un Avistempesta e un gruppo di Cheratauri.

«È il mio momento - disse Kïma - Osserva e impara... ehm... come si chiamava la tua gente?»

«Arkiani» rispose Asile, con un sorriso.

«Osserva e impara, Arkiana!»

«Va bene, mi siedo e guardo»

Kïma scese dalla collina scivolando e raggiunse una macchia di erba alta e rossa stando abbassata. Intanto, Asile si accomodò su un masso e ordinò alle creature di stare ferme e tranquille. La sua compagna di viaggio cercò di rimanere nascosta finché fu vicina all’emettitore, anche se per poco non fu vista dall’Avistempesta. I visori del gigantesco uccello metallico diventarono gialli e si avvicinò al terreno, guardandosi attentamente intorno. Sapendo che doveva separarle le une dalle altre per non scatenare l’Inferno, Kïma prese una pietra e la lanciò lontano con la fionda. L’Avistempesta, non considerando da dove venisse, la seguì subito e la posò dove la vide atterrare. Pianificando tutto il resto da quel punto, Kïma lo raggiunse da dietro e accese il focus per fare l’override. I muscoli sintetici del collo dell’Avitempesta furono avvolti da cavi blu brillante e i due visori diventarono subito azzurri. Le altre Macchine, rilevandolo subito non più come un loro simile, ma come una “minaccia”, si voltarono a guardarla coi visori rossi. Emisero strani versi ronzanti e partirono all’attacco. Kïma, con un sorrisetto, si arrampicò agilmente sul dorso dell’Avitempesta e lo fece alzare in volo, ordinandogli di difendersi. L’aquila robotica accese gli enormi elettrodi che aveva sul torace e una potentissima scarica elettrica si abbatté al suolo, coprendo decine di metri quadrati e fulminando le Macchine, che si accasciarono a terra in preda agli spasmi. Kïma scese a terra con tutta la calma del mondo e se ne impossessò una alla volta, finché furono tutte sue. Asile, che aveva assistito divertita alla scena, stava per alzarsi e applaudire, ma si accorse che le sue bestie stavano guardando dietro di loro. Si voltò e scoprì che un allosauro li stava attaccando. Prima che potesse fare qualunque cosa, l’allosauro sbalzò via Arlak con una testata e colpì lei con un colpo di coda, facendole sbattere la testa contro una pietra. Sentì le bestie che lo affrontavano, prima di perdere i sensi…

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In una breve fase di dormiveglia, Asile intravide il pavimento e le pareti di una stanza di terracotta in penombra, non poteva muovere le mani e i piedi, da cui capì di essere legata. In fondo alla stanza, vide due uomini sporchi e dall’aria barbarica come quelli che aveva sgominato all’oasi: dovevano essere gli uomini di quel Brachio di cui si parlava tanto. Li sentì conversare, decise di fingersi svenuta per origliarli per capire il più possibile su cosa stava succedendo:

«E così questa è la stronzetta che ha ammazzato i rapinatori dell’oasi?» chiese uno.

«Sì» rispose l’altro, masticando un pezzo di carne.

«Be’, pare che sia stato facile! E dire che fino a ieri ne parlavano tutti come se fosse un demonio…»

«Tutto merito dei mostri che ci sta dando il vecchio: avere le stesse bestie che comanda lei è stato d’aiuto»

«Hehehe, alle nullità che stanno in quel cesso di cava faremo la festa del secolo con quelli! Ma l’altra pedina di Nellim, quella Kïma, è ancora in giro, giusto?»

«La dominatrice di Macchine? Sì, prima ho chiesto. Pare che viaggiassero insieme»

«E hanno preso solo questa?»

«Sai com’è, se Kïma è l’incubo del capo, è anche il nostro. Avranno voluto evitarla»

«Mi chiedo perché non l’abbiamo ancora ammazzata: guardala, è proprio lì sul pavimento, pronta solo a farsi spellare!»

«Forse il capo vorrà divertirsi con lei come suo solito, prima di buttarla a marcire con gli altri»

«Ah, già… a volte sembra un bambino cresciuto»

«Non dirlo a me: non è come suo padre. Ci rovinerà tutti, vedrai»

Asile si stranì quando parlarono di questo vecchio, ma improvvisamente le sue palpebre si fecero pensanti come piombo e ricadde nel buio…

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Il vecchio Ryomo attraversò il portale e spense la batteria degli Antichi per chiuderlo. Rilassata sulle sue spalle, una lontra cenozoica si guardava intorno, incuriosita. Sylens aveva ragione: quell’uomo aveva davvero saputo dei portali prima che Aloy provocasse tutto quanto al Calderone Zeta. Cercando fra le rovine e ascoltando degli ologrammi non dedicati a Zero Dawn, aveva ideato un modo per aprirli dove e quando voleva modificando una delle batterie che Kïma cercava per quell’armatura. Entrò nell’edificio principale della fattoria, salì le scale e chiese di Brachio. Fu accompagnato ad una camera da letto e trovò il giovane capo della banda che, seduto su uno sgabello, guardava fuori dalla finestra i suoi uomini che… familiarizzavano con tutte le creature arkiane che Ryomo aveva consegnato loro dall’isola, durante i suoi viaggi per studiare la dimensione scoperta dagli Antichi. Aloy non era mai stata la responsabile del loro arrivo clandestino: era sempre stato lui, volutamente.

«Ah, vecchio! Sei venuto a goderti la mia ascesa al potere con me?» gli chiese Brachio, ghignando.

«Grazie, ma no. Vengo a farti un regalo per ringraziarti di aver accettato la mia offerta! La mia vendetta sarebbe ancora un’idea vaga e lontana senza la tua ospitalità» rispose Ryomo, mostrandogli la lontra.

«Un regalo? Pensavo che i mostri che mi porti per farci un esercito lo fossero già»

«Questa bestiola, sull'isola da dove viene, si usa come una bandana vivente per ripararsi dal freddo o dal Sole. Ma tu puoi farne quello che vuoi!»

Fece scendere la lontra, che subito corse sul letto per acciambellarsi e dormire.

«Grazie! Credo che ci farò una sciarpa per il prossimo saccheggio ai Banuk. C’è altro?»

«No, volevo solo fare questo. Ci si vede!» e se ne andò.

Brachio chiuse la porta e tornò allo sgabello, fissando con soddisfazione la scena: i suoi uomini avevano ancora un po’ di timore a stare accanto ai mostri da ARK per più di cinque minuti, ma Ryomo aveva osservato lo stile di vita degli Arkiani a lungo ed era stato capace di dare preziosi consigli che ora iniziavano ad essere messi in pratica. Tutte le creature erano state già domate da un indigeno che il vecchio aveva avvicinato e “assunto” per lo scopo, quindi erano davvero mansuete coi loro nuovi padroni. Quattro uomini stavano tutt’attorno ad un carnotauro, affascinati, prendendo in giro le sue braccine atrofiche. Una donna, vicino al pozzo, provò a far bere tre velociraptor dal secchio. Altri osservavano degli pteranodonti pulirsi le membrane col becco. Contento, Brachio iniziò a pensare a cos’avrebbe fatto con tutto quel potenziale con un monologo interiore, sognando ad occhi aperti:

“Ah, finalmente qualcosa di decente in questa vita circondata da idioti rivoltosi! Mi chiedo perché non ho ancora sentito un neonato piangere, visto che si accoppiano continuamente. Questi mostri hanno l’aria di essere un portento: e Nellim che si crede al sicuro con un paio di Macchine dalla sua parte! Lo farò a pezzi, garantito. Poi sì che sarò libero di andare dove mi pare a fare come mi pare! Dunque… prima di tutto, ci starebbe una visitina ai Nora, giusto come riscaldamento: so già che sarà come pestare delle formiche. E le forge Oseram? No, è meglio tenerle da parte per dopo: loro hanno quegli strani cannoni fatti con le Macchine smontate. Ah, c’è pur sempre Meridiana! Vedo già le guardie reali morire dallo spavento solo vedendo le mie legioni che avanzano. Credo che mi divertirò da matti sul trono di re Avad! Brachio il Tiranno… suona bene! Anzi, no: è ancora meglio Brachio il Sanguinario. Ma anche Brachio lo Spietato non mi dispiacerebbe… vabbè, decisioni per dopo. Cosa manca? Oh, ma certo: Kïma. Mi sento generoso, quindi le darò tre scelte: la mia compagna e madre dei miei discendenti, la mia ancella personale o diventare un corpo marcio su cui pisciare in pubblico. So già cosa sceglierà: sarà uno spasso...”

Brachio e Kïma erano rivali e zimbelli l’uno dell’altra da anni, praticamente da quando entrambi avevano otto anni. Lei aveva passato buona parte dell’infanzia alla base di Nellim e, con le sue Macchine domate, aveva iniziato presto ad ostacolare suo padre e diverse volte loro due si erano incontrati e scontrati. Tutte le volte, Kïma era riuscita a sfuggirgli dopo averlo sabotato in quache modo, aggiungendoci anche umiliazioni di sorta. Ecco perché lui aspettava continuamente un’occasione per farle altrettanto. In quel momento, bussarono alla porta.

«Avanti»

Un suo uomo entrò e avvisò che la padrona delle creature che avevano fatto la strage all’oasi era legata nella cantina.

«Ah, era ora. Portatele dell’acqua, il meno possibile: che se la faccia bastare fino a domani sera»

«Non va a “parlarle”?» chiese il bandito, perplesso.

«No, così non c’è gusto… ammorbidiamola un po’! Mio padre mi diceva sempre che la fame è la più efficace delle torture e io gli credo sulla parola. E poi, da quello che mi dite, sta con Kïma… la userò per allenarmi per quando toccherà a quella sgualdrina tatuata»

«D’accordo»

E andò così: Asile ebbe solo una ciotola mezza piena d’acqua, sempre legata come un maiale da arrostire, per le ventiquattro ore che seguirono, al buio. La luce e la speranza ricomparvero quando ormai sperava solo di poter mangiare le proprie mani. Apparve un suo coetaneo con capelli e barba neri e corti, occhi verdi e naso a patata, con la pelle bianca. Indossava abiti che erano un misto di capi in tessuto e pelle di cervo conciata ed era l’unico di tutta la banda che non era sporco come un barbone. Attorno al collo aveva una sciarpa fatta in pelliccia di lontra e Asile si stranì nel vedere qualcosa di familiare su di lui. Brachio la mise seduta con la schiena poggiata alla parete per poterla guardare negli occhi.

«Piacere di conoscerti, ospite del giorno!»

«È questa l’ospitalità per te? Avete gusti strani…» rispose lei.

Il suo stomaco fece un fortissimo borbottìo che entrambi sentirono bene, facendo arrossire lei dalla vergogna e ridacchiare lui.

«Io sono Brachio, datore di lavoro di questi bifolchi e futuro padrone di qualche territorio qua e là, piacere. Tu sei…»

«Asile, vengo da… molto lontano»

«Cioè? Un’isola in un altro mondo pieno di mostri da incubo che si cavalcano e coccolano?»

«Oh, lo sai!»

«Ho un contatto che ci va spesso… mi ha regalato parecchie creature, alcune le ha lasciate a vagare libere e spensierate per il mondo per motivi che saprà lui»

“Allora ho sentito bene quei due… che infame! Dovrei toglierlo di mezzo, se no mi aggiunge lavoro a morte…”

«Sono indeciso fra due cose da farti per aver fatto a pezzi i miei ragazzi in quell’oasi, quindi le farò entrambe»

«Eh?»

Brachio si sgranchì la gamba sinistra e le tirò un calcio nello stomaco, togliendole in respiro e facendola piegare in due.

«OOOOOOOH!!! Perché, cazzo?!»

Poi Brachio le diede una leggera pacca sulla spalla e la ringraziò. Asile non ci stava capendo niente:

«Ma che razza di problemi hai?»

«Il fatto è che ti sventrerei a mani nude per avermi ucciso dei combattenti, ma d’altro canto mi hai liberato da un grande fardello: quelli erano degli incapaci, i più scarsi che abbia mai reclutato, quelli che vanno via come il pane. Ecco perché li tenevo in quell’oasi a fare niente, a parte rapinare i passanti e tenere alcune scorte; era da tanto che volevo farli sparire, ma non trovavo una scusa per giustificarmi con gli altri. Ma ora, grazie a te e le tue bestie, non ci sono più e potrò rimpiazzarli con qualcuno di più decente!»

«Ma non avresti fatto prima a non assumerli, direttamente?»

«Ehm… in mia difesa, ero appena diventato il capo, non me ne intendevo chissà quanto. Il mio vecchio non mi ha mai detto come riconoscere quelli con un minimo di talento e le nullità!»

«Molto interessante, ma… perché sono qui?»

«Sembri una ragazza intelligente, sono certo che ci arriverai da sola»

«… mi ammazzerai?»

«Be’, hai pur sempre sfilettato un quarto della mia banda! Cosa vuoi, che faccia finta di niente? Anzi, farò di te la mia cavia per quando metterò fine alle sofferenze della carissima Kïma!»

«Oh, fantastico…»

«Tra poco mi porteranno un arsenale completo con cui potrò farti a fette. Intanto, giusto per non annoiarti, ecco un indovinello facile facile: quante donnicciole ci vogliono per…»

Fu interrotto da un frastuono infernale che cominciò fuori dall’edificio, seguito da grida dei suoi uomini e versi delle bestie. Si sentirono anche ronzii tipici delle Macchine. Un bandito irruppe nella stanza, ferito e trafelato:

«CAPO, CI ATTACCANO!!!» gridò.

«COME?!? Cos’è, Nellim ha cambiato filosofia e non ci vuole più come vicini di casa?» chiese lui, facendo una battura amara per nascondere la paura che gli era venuta.

«Ci sono alcuni dei suoi… E KÏMA!!!» detto questo, il bandito corse di nuovo fuori.

Sentendo quel nome, la paura di Brachio diventò una vampata di rabbia che lo fece diventare così determinato e spavaldo che avrebbe potuto unirsi alla battaglia disarmato e senza protezioni.

«Maledetta, io la ammazzo! Giuro che stavolta lo faccio sul serio!»

Si voltò verso Asile.

«Tu morirai dopo, ora ho un appuntamento galante…»

Si avvicinò all’uscita, ma tutto l’edifcio sopra di loro fu demolito e il soffitto fu scoperchiato, un’onda d’urto lo fece volare all’indietro e Brachio finì frastornato sul pavimento. Asile tossì per il polverone che si era sollevato, ma quando si dissipò vide un Avistempesta sul bordo della cantina, dove prima c’era il soffitto. Finalmente, un giorno dopo la sua cattura, vide il cielo. Sull’uccello di metallo c’era Kïma, che scese a terra con una bomba incendiaria in una mano e una fionda nell’altra.

«Chi si rivede! Questo zotico ti sta dando fastidio?» chiese, scherzosa.

«Oh, voleva farmi a fette!» rispose Asile.

«Eh! Sei sempre il solito stronzo, vero, Brachio?»

«Come dici, cagnetta? Faccio fatica a sentirti, perché non scendi e ripeti col linguaggio dei pugni?» replicò lui, furioso.

«Che ne dici del linguaggio degli scoppi?» suggerì Kïma.

Caricò la bomba nella fionda e la lanciò a qualche passo da lui, costringendolo a buttarsi a terra per salvarsi dall’esplosione di fiamme. Kïma saltò nella cantina, lo raggiunse e lo girò sul dorso, fissandolo negli occhi. Alzò il pugno, facendo segno di volerlo colpire in faccia. Lui, d’instinto, si riparò con le mani. Lei, invece, gli pestò le parti intime col piede.

«AAAAAAAAAAAAAHHHHH!!! TI ODIO!!! SEI MORTA!!! SEI MORTA!!!» gridò lui, dal dolore.

«Non cascarci tutte le volte, Brachio! Questa quale sarà, la terza volta quest’anno? Sfigato…»

Quindi raggiunse Asile e la slegò, poi le due raggiunsero insieme l’Avistempesta e salirono sulla sua schiena. Asile vide la battaglia intorno alla fattoria: uomini e donne che si scontravano con archi e lance, Macchine sotto override che uccidevano o venivano distrutte da bestie da combattimento arkiane e banditi disarmati che, alla ricerca di un riparo, correvano a caso in tutte le direzioni. Kïma attirò l’attenzione degli uomini di Nellim con un fischio, che le servì anche a richiamare le Macchine, e avvisò che Asile era salva. Prima di andare da lei, un Inseguitore finì un triceratopo che aveva appena atterrato, mentre tutti gli umani si mettevano a correre via. Le due ragazze partirono in volo con l’Avistempesta, verso la base di Nellim. La prigionia relativamente breve di Asile era finalmente terminata. La nipote di Alocin osservava il deserto scorrere sotto di lei, aggrappata al telaio della Macchina.

«Fiuuuuu… grazie, Kïma»

«Figurati»

«Perché ci hai messo tanto?»

«Volevo restituirti il favore per avermi legata ad un albero e data in pasto ad un insetto gigante, così mi sono rilassata e ho preso qualche altra Macchina e ho fatto dei baratti a Meridiana prima di venire a prenderti: sapevo dove avrei potuto cercare»

«Cosa?! Quindi sei stata a fare i comodi tuoi mentre a me veniva un buco nello stomaco grande come una casa in uno scantinato pieno di muffa?! SUL SERIO?!?»

«Sì. Poi sono andata da Nellim, gli ho raccontato tutto e lui ha accettato di farmi portare alcuni dei suoi per dare fastidio a Brachio mentre ti liberavo»

«Ma sei una bastarda!»

«Lo sei stata anche tu! Occhio per occhio, non credi?»

«Io… lascia perdere, ho troppa fame per queste scemenze»

«Anch’io ho un certo appetito. Meno male che da Nellim si mangia bene! Dài, qualche minuto e saremo libere di stare in cerchio con gli altri a mangiare stufato di cinghiale, così tu ci parli di più sulla tua isola! Di certo alla base sono tutti incuriositi da te»

«Oh, volentieri!» rispose Asile, sorridendo e non riuscendo a rimanere arrabbiata con Kïma.

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Ryomo tornò da ARK un’ora dopo e, con grande sorpresa, trovò la base a soqquadro. Tutti si fasciavano o si pulivano delle ferite, trasportavano animali o persone morti e distribuivano armi e armature.

«Cos’è successo qui?» chiese al primo che gli passò accanto.

Dopo un breve riassunto dell’accaduto, volle incontrare Brachio: lo trovò impegnato a cercare la sua armatura, il suo arco e la sua lancia fra le macerie di quello che era stato il suo alloggio. Fumava di rabbia al punto che parlava da solo.

«Che disastro… cos’hai intenzione di fare?» chiese.

Brachio fece un sorrisetto nervoso:

«Parecchie cose. Nellim ha fatto l’eroe più del solito e Kïma mi ha pestato le palle di nuovo, quindi tu vedi di portarmi molte, molte altre bestie: voglio fare le cose in grande, stavolta! Prima andrò da loro con la bandiera bianca a fissare una data per quello che sarà il loro funerale, poi andrò sul posto e li aspetterò finché arrivano già pallidi dal terrore… oh, stavolta farò sul serio, davvero sul serio! Hehehehe, dopo vedremo se rideranno ancora di me! Altro che “non sarà mai come suo padre” o “ci rovinerà”! Prima Nellim, poi quella straniera e poi Kïma. Ci andrò pesante come non mai con lei!»

«Capisco. Sì, ho giusto ricevuto nuove bestie sia da lavoro, che da combattimento dal mio fornitore arkiano. Gli farò fare un’altra spedizione…»

«Bravo. A proposito, credi che quel tizio, Selyns o come si chiama, ti voglia ancora trovare?»

«Sylens? Oh, quel ficcanaso non mi lascerà mai stare. Ma è così superbo da credere che non sappia di lui! E pensare che sta studiando l’isola come faccio io! No, sarò io a mostrare quel posto a tutti, sarà me che ogni persona da Meridiana allo Squarcio ringrazierà per aver raddoppiato le risorse che si potranno cercare! E poi, come promesso, a te lascerò una batteria per aprire un portale tutte le volte che vorrai e rifornire la tua banda»

«Bene, per me conta quello. Buona fortuna per la tua vendetta, vecchio!»

«Anche a te per la tua guerra»

Si avvicinava un conflitto vero e proprio tra le due bande.

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L’isola vulcanica, le Due Vette Grigie, la Doppia Fumata (insomma, aveva tanti nomi) era solo a due o tre kilometri a Sud del Dente Ghiacciato, niente di che per qualsiasi imbarcazione. Avrebbero potuto chiedere al barcaiolo che li aveva portati dai Lupi Bianchi un altro servizio, ma ad Alocin stava così antipatico che insisté per prendere un traghetto pubblico questa volta, addirittura minacciando Aloy di abbandonarla a se stessa se si fosse lamentata o opposta troppo. Aloy si limitò ad alzare gli occhi al cielo con perplessità. Alocin fu irremovibile anche quando rivelò che il punto d’attracco per l’isola era a tre ore di cavalcata e Aloy protestò perché voleva andarci diretta.

«Vuoi andarci diretta? Bene, vacci a nuoto! Il mare è proprio qui, davanti a te» la prese in giro lui.

«Molto divertente, muoio dal ridere. Sai cosa? Potrei provarci!»

«HAHAHAHAHA!!!»

«È la risata più finta che abbia mai sentito» si irritò Aloy.

«No! È la risata più sincera che abbia mai fatto! Davvero pensi di nuotare tre ore fin là, senza stancarti prima o farti mangiare? Auguri»

Aloy rimase interdetta, poi si rese conto di aver detto una scemenza e lasciò perdere. Così andò a sedersi sulla sella del triceratopo e rimase a braccia conserte, testa china e occhi chiusi in attesa che raggiungessero il punto d’attracco. Passarono accanto ad una bambina con due dilofosauri domestici al seguito che setacciava la spiaggia in cerca di ciottoli giusto in tempo per vedere un pegomastax uscire da un cespuglio nel prato dietro la spiaggia e rubarle il sacchetto in cui li metteva. La bimba e i dilofosauri provarono ad inseguirlo, ma erano troppo lenti. Aloy, desiderosa di aiutare, prese l’arco e colpì la bestiola ladra in pieno. La bambina, stupita, li guardò allontanarsi e ringraziò a distanza. Aloy le rispose con un cenno. A un certo punto, diversi minuti dopo, sentì la voce di Sylens:

«Dunque sei diretta all’isola del fuoco?»

«Sì, perché?»

«Mi troverai lì ad aspettarti»

«Oh, perché sei lì?»

«Ah, niente di particolare. Volevo vedere com’è fatto il posto e come le persone ci vivono. Comunque, mi aspetto che dopo questo “incarico” mi aiuti a rintracciare quel Carja!»

«Certo che sai essere pedante, quando ti va! Dove si dovrebbe trovare, scusa? Io non ho uno straccio di indizio, a parte quello studio sul ghiacciaio. Ti aspetti che vada lì e ci resti a congelare finché arriva? No, grazie»

«Tranquilla, a quanto pare sarà molto più facile del previsto: è tornato in attività, sempre più spesso, sotto la montagna al centro dell’isola. Mi pare che i locali lo chiamino Oleip»

«Alocin, come si chiama la montagna al centro di ARK?»

«Oleip. Perché? Cos’ha quel tizio da rompere?»

«Ti spiego dopo. Comunque sì, è quello»

«Bene. Ti lascerò fare questa caccia alle Macchine, ma poi voglio che mi raggiunga lì! Intesi?»

«Se giuri che dopo potrò usare il focus del tutto: queste funzioni che mi hai lasciato sono ancora poco»

«Prometto»

«No, non fare il furbo: giuralo!»

«Ah, voi Nora siete davvero inquadrati...Giuro. Contenta?»

«Sì, grazie. Ci si vede»

«A tra poco»

«Allora?» chiese Alocin.

«Niente, abbiamo ripassato l’accordo è mi ha detto che anche lui è su quei vulcani per continuare a studiare l’isola»

«Ah, va bene, posso sbattermene»

Ad Aloy, per qualche motivo, venne da ridere a sentire quella risposta.

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Questa volta, trovarono un’imbarcazione pubblica che traghettava più di una quindicina di persone a viaggio e che era accompagnata anche da una piattaforma, trainata da un mosasauro ormai troppo vecchio per pescare o combattere, per le cavalcature: fecero proprio in fretta. Il villaggio era edificato su una lingua di terra, l’unico pezzo dell’isola dove la vegetazione era rigogliosa, che sporgeva lunga e stretta verso Est formando una bassa laguna col resto, tutto nero e carbonizzato. Dalle due vette dei vulcani, separati da una gola di rocce ad esagoni, uscivano sottili volute di fumo marrone scuro: Alocin spiegò che significava che la prossima eruzione era molto lontana ed era relativamente sicuro salire fin lì. La cosa che colpì di più Aloy mentre si avvicinavano al centro abitato, costeggiando la baia, furono gli orti: c’era una varietà spropositata di coltivazioni, dagli ortaggi agli alberi da frutto. Le viti regnavano sovrane, infatti i Teschi Ridenti, a cui apparteneva l’avamposto, erano i più stimati produttori di vino ed esportatori di frutta e verdura di ARK. Tutto merito dell’estrema fertilità del terreno, tipica delle zone vulcaniche: uno dei pochissimi vantaggi di vivere letteralmente accanto ad un pozzo infernale. Quando si avvicinarono al portone, Alocin indicò una delle guardie (entrambe donne) e bisbigliò ad Aloy:

«Vedi lei?»

«M-mh?»

«Togliti il triangolo magico dall’orecchio e nascondilo»

«Perché dovrei?»

«La conosco, l’ho sopportata per tutta l’infanzia. È cleptomane, se vedesse un gingillo così luccicante sarebbe capace di spiarti per vedere dove dormi per rubartelo»

Aloy lo fissò, interdetta, e nascose il focus nella borsa continuando a fissarlo a bocca aperta. Dopo che tornò alla realtà, riflettendo su quello che le aveva detto poco prima, chiese:

«La conosci? Allora non hai sempre vissuto al villaggio dove c’è casa tua?»

«No, io e mio fratello siamo nati qui. Ho costruito casa mia al villaggio principale perché là ci sono più clienti. Ho venduto la vecchia baracca dopo che mi sono accollato Asile»

Raggiunsero il cancello e le guardie salutarono cordialmente, chiedendo per scambio di convenevoli cosa volevano fare lì. Aloy mostrò loro l’annuncio della taglia sulle Macchine, spiegando che avevano già cominciato a distruggere le altre tempo prima. Dopo un augurio di buona fortuna, poterono entrare. Come l’altro villaggio che aveva visitato, Aloy trovò il luogo molto attivo e vivace. Nel mercato, la maggior parte dei negozianti erano fruttivendoli, ma c’era anche una buona presenza di pescivendoli.

«Che puzza di uovo marcio!» esclamò Aloy, mentre camminavano per le strade.

Quando lo yutiranno passava, i mercanti si facevano subito attenti per controllare che non calpestasse le cassette per terra, per poi sospirare di sollievo dopo.

«Lo so, è il vulcano. Ma se vivi qui non te ne accorgi nemmeno» rispose Alocin.

«Ma… sul serio quella donna sarebbe disposta a rubarmi il focus nel sonno?» chiese la ragazza, rimettendolo.

Alocin la fissò stranito, poi scoppiò a ridere:

«Hahahahahahahaha! Per gli spiriti! Haha! Davvero?! Ci eri cascata?!»

«…cosa?»

«Credevo stessi fingendo di crederci! Nel tuo mondo sono tutti così fessi?»

«No, ma nessuno ha il tuo pessimo umorismo»

«Uuuuuuh, che serietà! Ora capisco perché da mocciosa eri emarginata»

Aloy si sentì avvampare dentro, ma decise di parlarne con calma:

«Cosa c’entra? Gli emarginati sono vittime delle regole, non gli scontrosi! E poi non sono affatto seria: nel mio mondo c’è anche di peggio, credici»

«Che dire, allora sono ancora più contento di essere arkiano»

«Dove stiamo andando?» chiese Aloy, preferendo cambiare argomento.

«Ogni volta che ci si raggruppa per una taglia, i cacciatori si radunano fuori dal villaggio più vicino al bersaglio e nella direzione in cui credono si possa trovare. Visto che l’unica uscita che porta alle vette di fuoco è quella a Nord, li troveremo lì in attesa dell’ultimo candidato»

«Capito»

Proseguirono ancora un po’. Fuori dal mercato, passarono accanto ad un recinto pieno di letame che era un allevamento di scarabei skua; i coleotteri erano indaffarati a fabbricare le palle di sterco in vista della stagione dell’accoppiamento: sarebbero diventate il regalo per le femmine e il nido delle larve. Aloy vide che, appoggiato al recinto, c’era Sylens che li osservava. Chiese ad Alocin se poteva assentarsi un attimo e lui fece spallucce. La ragazza scese a terra e raggiunse il suo contatto:

«Non pensavo ti piacesse guardare il letame» lo salutò.

«Non essere sciocca, stavo osservando quelle strane creature – rispose Sylens – Sai che sono preziosissimi per questa gente?»

«La nipote di Alocin non me ne ha parlato»

«Quando arrotolano il letame fanno olio e questo olio diventa sia una medicina, che un fertilizzante. È davvero strano… noi abbiamo la tecnologia degli Antichi che ci aiuterebbe molto se non avessero tutti paura di usarla, mentre questi omuncoli poco più evoluti del Nora medio riescono a semplificarsi la vita mille volte più di noi con degli animali!»

«Non ti do tutti i torti»

«Cosa vuoi da me, comunque?»

«Niente, per qualche motivo mi è venuto spontaneo salutare un conoscente, anche se è una testa di cavolo»

«Oh, ma che gentile! Be’, allora vai col tuo “amico” ubriacone a distruggere le Macchine. Ma ricorda che poi verrai con me, non importa se ce ne saranno ancora altre e quante!»

«Va bene, va bene»

Tornò da Alocin dopo aver salutato e raggiunsero il portone Nord. Come pronosticato, trovarono una piccola combriccola di uomini e donne armati e con molte bestie da combattimento al loro fianco. Si avvicinarono per presentarsi e unirsi a loro…

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I sette cacciatori erano quattro uomini e tre donne e il contingente formato dalle loro cavalcature vantava una grande varietà di carnivori, da velociraptor ad uno spinosauro, più alcuni volatili. Dopo i convenevoli (e Aloy li trovò anche molto simpatici), iniziarono ad accordarsi su una strategia:

«Ho dato un’occhiata sullo pteranodonte, poco fa – spiegò una cacciatrice – Le bestie di ferro sono tutte nel Gran Forno, attorno alla strana nuvola da cui sembrano uscire. Non sono mai scese da lì, a quanto pare»

«Qual è il Gran Forno?» chiese Aloy.

«Quello qui davanti, il più largo. L’altro è il Piccolo Forno, più stretto e profondo e con tanta più lava» le rispose Alocin.

«Le ho viste anch’io, un’altra volta. Non sono tanto grosse, nessuna è più grande della metà dello spinosauro. Però sembrano piuttosto agili… cosa suggerite di fare?» domandò un cacciatore.

Furono discusse diverse idee: Alocin e alcuni avrebbero preferito attaccare in massa e alla massima potenza, altri un atteggiamento furtivo, altri ancora la toccata e fuga a ripetizione. Era difficile prendere una decisione: ognuno metteva in evidenza molto bene i vantaggi e gli svantaggi di tutte le strategie, che non erano da ignorare in nessun caso. Qualunque cosa avrebbero fatto, ci sarebbe stata una buona possibilità di vincere, come di restarci secchi. Alla fine, Alocin decise di lasciar parlare Aloy, che non si era ancora voluta pronunciare:

«Sapete, credo di sapere come tagliare la testa al triceratopo! Questa signorina, qui, viene dallo stesso posto da cui sono spuntati quei rottami viventi»

«Davvero? Sembrava solo una straniera che ci sa fare!» risposero gli altri, iniziando subito a guardare la rossa con trepidazione, in attesa di scoprire di più.

Tutta quell’attenzione mise in imbarazzo Aloy, che si sforzò di rimanere seria ed essere d’aiuto:

«Sì, ha ragione. Sono venuta sull’isola apposta per liberarla dalle Macchine, visto che le caccio da tutta la vita»

«Da quello che ho visto, è davvero in gamba. Cosa suggerisci, Aloy?» chiese Alocin, cercando di supportarla.

Aloy cercò di essere fiera della nuova fiducia che le stavano dando e raccolse le idee:

«Allora, un passo alla volta: vorrei vedere per bene quali e quante Macchine ci sono, ognuna va affrontata in modo diverso e tutte le loro categorie possono essere mortali, se prese col piede sbagliato. Vi dipiacerebbe farmi salire su uno di questi animali con le ali e farmele vedere?»

«Certo! Vieni…» disse la donna con lo pteranodonte, salendo sulla sella del suo volatile.

Aloy si sistemò dietro di lei, aggrappandosi ai suoi fianchi, e lo pteranodonte decollò verso la cima del vulcano.

Mentre si allontanava, un coetaneo di Alocin disse allo zio di Asile:

«Però, sembra una tipa pratica. Quanti anni avrà? Gliene darei diciotto al massimo… devono crescere presto dalle sue parti!»

«Sì, ha l’età di mia nipote – rispose lui – Eh, mi sarebbe piaciuto che quella mocciosa fosse diventata grande in fretta: mi sarei risparmiato la gran rottura di palle che è stata!»

Poco dopo, lo pteranodonte tornò e Aloy aveva le informazioni che le servivano:

«Allora, abbiamo cinque Vedette, tre Ferrarieti, due Arcapodi e un Manticerio di ghiaccio a terra e uno Smeriglio in aria che vola basso. Ho un’idea: saliremo separati sul cratere, lo circonderemo e ognuno attirerà un paio di Macchine verso di sé per separarle, poi le affronterà da solo con gli animali che ha. Io affronterò le mie dentro il cratere, voi sui bordi. In questo modo, sarà difficile che si aiutino a vicenda! Attirarle è molto facile: basta che tiriate un sasso e le Macchine più vicine verranno a controllare. Ci state?»

«Alziamo la mano. Io la alzo subito!» disse Alocin.

L’approvazione fu unanime e Aloy ne fu veramente orgogliosa, tanto che non nascose il sorriso che le venne.

«Bene, allora andiamo! Io prendo quella sorta di argentavis meccanico, ovviamente» affermò la donna con lo pteranodonte, che aveva con sé anche un argentavis.

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Aloy scalò il vulcano col gruppo per circa un’ora. Poi, quando il bordo del cratere si fece più vicino, ciascuno prese la sua strada. Augurò buona fortuna agli altri e loro ricambiarono, tranne Alocin che fece una specie di grugnito altezzoso per provocarla. Imboccò un sentiero piccolo e stretto, che a tratti diventava una galleria, e iniziò a costeggiare il letto di un rigagnolo di lava in secca che si riempiva durante le eruzioni seguendolo al contrario per raggiungere la cima. Mentre camminava, scavalcava ostacoli e si arrampicava sui tratti scoscesi, rifletteva tra sé su un po’ di tutto: cos’avrebbe fatto dopo quest’avventura, se seguire l’esempio di Sylens ed esplorare con più calma l’isola prima di tornare a casa, di quando sarebbe tornata a fare le sfide di caccia della Loggia… poi le venne in mente che, quando avrebbe affrontato una delle Macchine su quel vulcano, avrebbe potuto farle l’override, invece di distruggerla: tutti gli altri avevano i loro mostri domati, perché lei avrebbe dovuto accontentarsi di se stessa? C’era la scelta di chiedere ad Alocin di prestarle alcuni dei suoi, ma vendendo in generale com’era fatto, dubitava che avrebbe accettato. Ebbe anche la sensazione che vedere l’attaccamento con cui gli Arkiani vivevano accanto alle loro bestie stava cambiando la sua mentalità di sopravvivenza: magari poteva provare anche lei a tenersi strette le Macchine che hackerava, invece di lasciare che venissero distrutte a forza di combattere dopo qualche ora.

Alla fine, comunque, superò una piccola gola che era uno dei parecchi ingressi secondari del cratere: si trattava di una conca dalle pareti incurvate all’infuori. Il suo fondo era del tutto piatto e cosparso di profondi pozzi in cui la lava bolliva e vorticava lentamente, in attesa di uscire e strabordare all’eruzione successiva. Il fumo che usciva da quei buchi roventi era rosso mattone da certe parti e nero carbone da altre. Appena entrò, Aloy vide le Macchine e corse subito a nascondersi dietro una roccia. Il Manticerio, curiosamente, andava alle fosse di magma e cercava di congelarle, rinunciando dopo diversi tentativi falliti. I Ferrarieti, come tutte le Macchine del loro tipo, “annusavano” il terreno e lo smuovevano in certi punti con le loro smerigliatrici, girando gradualmente in cerchio. Poi Aloy tenne d’occhio lo Smeriglio per capire se rischiava di essere individuata: per fortuna, non faceva altro che volare avanti e indietro a caso. Non essendoci Macchine rotte, non c’era nulla per lui… per il momento, pensò ridacchiando. Evidenziò le loro piste col focus per vedere qual era più vicina a lei: anche se non se l’aspettava, vedendolo lontano, era uno degli Arcapodi. Così si sedette e aspettò che il granchio di ferro passasse lì accanto. Ci volle un paio di minuti, forse tre. La ragazza si mise in posizione, con la lancia in mano. Lanciò un sasso davanti a sé per attirare l’Arcapodo, che ci cascò in pieno. Quando le fu davanti e lei fu pronta a scattare… uno stridìo d’aquila attirò l’attenzione di tutti.

L’argentavis della donna, che fino a poco prima era nascosto dietro una delle pareti del cratere, si spazientì e andò ad investire lo Smeriglio a mezz’aria con le zampe protese in avanti. Non era un vero attacco: serviva come provocazione per farsi inseguire. Infatti, dopo un secondo in cui perse il controllo del volo, lo Smeriglio si lanciò all’inseguimento. L’argentavis, allora, iniziò a girargli intorno e a schivare i proiettili di gelo che gli venivano lanciati con brevi picchiate o salendo di quota con potenti battiti d’ali. La sua padrona, astuta, prese un vaso pieno di inchiostro di tusoteutide e, mirando con cura dopo che il suo rapace ebbe stordito ancora lo Smeriglio, glielo lanciò sui visori, oscurandogli la vista. La Macchina alata, accecata, precipitò e rotolò rovinosamente per terra, cadendo nella lava; vi affondò lentamente e si spense prima ancora di svanire del tutto. Tutte le altre Macchine si girarono a guardarlo, per cui Aloy ne approfittò e fece l’override sull’Arcapode che, confuso dalla riprogrammazione, lasciò cadere il suo contenitore, che intanto aveva riempito di sassi e zolfo. A quanto pare, anche tutti gli altri erano già pronti a combattere: era solo che non sapevano quando e se farsi avanti. Tutto quel frastuono era stato il via libera per loro. Tutte le Macchine fecero diventare i loro visori rossi e attaccarono.

«Fatti valere, bello!» disse Aloy all’Arcapode, anche se non aveva senso incoraggiare un essere meccanico.

Lo spinosauro puntò il Manticerio e si avventò su di esso stando su due zampe, in modo da afferrarlo con le braccia e tenerlo fermo per morderlo meglio. Lo azzannò fra la testa e il collo coperto da tubi di plastica, ma la Macchina gli soffiò il suo vapore gelido addosso, costringendolo a mollare. Alocin decise di intervenire e mandò lo yutiranno, che afferrò la coda del Manticerio e la strattonò verso l’alto, sbilanciandolo e facendolo ribaltare. Lo spinosauro, ustionato dove la brina aveva attecchito di più, contrattaccò calpestandogli la testa più e più volte, distruggendolo. Una delle vedette ingaggiò Aloy e cercò di accecarla con un lampo, ma lei chiuse gli occhi prima. Il suo Arcapode si fece avanti e sbalzò via accendendo lo scudo e sbattendoglielo addosso. Mentre la vedetta era a terra, Aloy scoccò una freccia nel visore, finendola. Il mammut senza zanne di Alocin afferrò il collo di un Ferrariete con la proboscide prima che questo potesse caricare e lo lanciò nella lava. Gli altri due Ferrarieti furono tenuti occupati rispettivamente da un gruppo di velociraptor e da un carnotauro. I primi, a forza di schivarlo, saltargli addosso mordicchiandolo, staccando un pezzo di metalo alla volta e “dandosi il cambio”, riuscirono a spogliarlo delle placche più esterne.

A quel punto, schivando una carica, il loro capobranco gli si scagliò contro mentre inchiodava e gli piantò gli artigli nei visori, penetrando fino a distruggere i circuiti che per le Macchine erano come il cervello. Il carnotauro fu investito nel fianco dall’altro, rompendosi una costola, ma il triceratopo di Alocin lo salvò trapassando il fianco del Ferrariete; il carno, ignorando il dolore, lo aiutò a finire di distruggerlo. E così, erano finite: avevano vinto, grazie alla strategia del cogliere di sorpresa da separati di Aloy. Alocin, vedendola contenta e affiancata dalla sua nuova Macchina, stappò un nuovo sidro che teneva appeso alla sella dello yutiranno e invitò tutti a ringraziarla. Lei arrossì e disse che non era ancora il momento: indicando il portale, che era in fondo al cratere e semi-nascosto, spiegò che aveva ancora da fare. Così aspettarono che lo chiudesse, quindi cominciarono a festeggiarla. Alocin le offrì un goccio: lei assaggiò, ma le venne la nausea e lo sputò nel pozzo più vicino, che sfrigolò come una padella di olio da frittura.

«Grazie mille, straniera: ci sembrava complicato, ma tu ci hai fatto capire come renderlo facilissimo!» disse la padrona dei volatili.

«Di niente, cerco sempre di tornare utile»

«Bene, siamo tutti contenti. Ora, però, vieni dritta da me senza discutere!» le ordinò Sylens, dal focus.

«Certo, certo, non ti preoccupare. Hai intenzione di darmi tutte le funzioni del focus, ora?»

«L’ho già fatto, rilassati»

Aloy lo ringraziò e tornò a godersi i complimenti dei cacciatori, prima di farsi accompagnare da Alocin per la sua ultima volta prima della pausa con Sylens. Poi, a quanto dicevano gli altri, mancava solo il misto fra un tirannosauro e il Divoratuono del Calderone Zeta.

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Kong osservò con compassione la carcassa del brontosauro: era piena di scottature a forma di cerchio perfetto e profonde, ancora fumanti. Tutt’attorno, punti che bruciavano alla stessa maniera avevano fatto cadere alberi e sbriciolato rocce. Impronte simili a quelle di un tirannosauro, ma diverse, attraversavano la zona. Era stato lui: il mostro fatto di ferro e sangue, che da giorni stava seminando disordine e panico insieme ad altri strani esseri freddi, grigi e coriacei al tatto. Ma le altre non davano fastidio quanto lui: quell’essere dava l’impressione di voler solo distruggere e uccidere. Quindi andava eliminato da ARK, il suo sacrosanto territorio. Il suo scopo, da migliaia di anni, era quello, in fondo. Lo scimmione scoprì i denti, salì su una roccia e ruggì battendosi i pugni sul petto, sperando che il Divoratuono lo sentisse e recepisse il messaggio: aveva i giorni contati contro il protettore di ARK.

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Capitolo 9
*** Fine di un inventore sfortunato ***


Quella sera, alla base di Nellim, Asile mangiava a volontà godendosi lo stufato di coniglio che le cuoche della banda avevano preparato per tutti con la cacciagione della settimana. Si era seduta in prima fila davanti al falò al centro della conca, insieme a Kïma e a Bargh e Corliss. Quest’ultima la tempestava di domande su di lei, il marito la esortava a darle un po’ di respiro e Kïma ridacchiava, senza dire niente. Asile, dal canto suo, replicava poco e per cenni: prima di conversare, voleva riempire l’enorme buco nello stomaco che le era venuto durante la reclusione da Brachio. Il coniglio stufato le piaceva tantissimo: in bocca era tenero come la carne di tutti i mammiferi, ma anche fibrosa come il pollame, il suo preferito. Intanto, si guardava intorno per guardare gli altri: un po’ si rideva e scherzava, un po’ si raccontava cosa si era fatto in giornata. In quel contesto, Nellim non sembrava affatto un’autorità: si univa al gruppo, come uno di loro: suscitava simpatia. Alla fine finì il coniglio e non ebbe più scuse per non rispondere alle domande di Corliss.

«Sono tutta tua. Cosa vuoi sapere?»

«Chiedile da quanto tempo la sua gente sta su quell’isola!» suggerì Kïma.

«Buona idea! Mi hai letto nel pensiero, Kïma»

Asile rimase stranita:

«Che razza di domanda è?»

«Così, per curiosità»

«Be’, il nostro calendario parte dallo sbarco dei nostri antenati. Quindi, se è giusto, da più di seimila anni»

«Impressionante!»

«Senti un po’, ma… che musica avete? A me piace tanto la musica, ma sentirne di decente in giro è così raro!» domandò Kïma.

«Be’, non me ne intendo tanto… se a me dici “musica”, vuoi dire parecchie cose. Ci sono gli spettacolini teatrali nei villaggi, quelli che suonano per gli affari loro…»

«Lo so, lo so, intendevo quali stili?»

«Sono certa che c’è una suddivisione, ma non so i nomi dei generi: non mi sono mai interessata tanto»

Corliss si schiarì la gola e chiese:

«Qualcuno ti ha già detto cosa sono i Giorni Rossi in questo mondo?»

«No»

Dopo una rapida spiegazione, le fu chiesto se su ARK c’erano arene o anfiteatri simili al Cerchio del Sole, in cui la gente moriva. Aggiunse che in passato aveva perso dei conoscenti a causa di quello. Ebbe una fitta di invidia quando le fu risposto di no.

«Ora faccio io una domanda – intervenne Bargh, bevendo dell’acqua – Sulla tua isola c’è l’emarginazione o altre ingiustizie inutili?»

«No, siamo tutti… Arkiani e basta. Anche fra villaggi. I nostri capi non sono neanche esattamente dei tizi che comandano, semplicemente regolano certe cose e fanno annunci, o chiedono opinioni»

«Dannazione, vorrei essere della tua isola! Altro che “il volere della Madre”… le matriarche sono solo stupide racchie»

«Bargh! Porta rispetto! Sono pur sempre loro!»

«Lasciati andare, moglie: non siamo più Nora, a parte certi modi di fare. Vale lo stesso per tutti, qui»

«Ora che ci penso… perché l’isola si chiama come un’arca?» chiese Kïma.

«Oh, è un racconto che dicono a tutti da bambini. Decenni fa pare che sia arrivato un certo Darwin, dall’estero, che ha paragonato l’isola all’arca di questo tizio, Noè, che secondo una sua credenza una volta ha portato degli animali ad accoppiarsi in mare sulla sua barca. E niente, da qui il nome. Prima era solo “patria”»

«Mi sembra ridicolo»

«Non dirlo a me»

In quel momento, una ragazzina dallo sguardo timido con il viso tinto di giallo, quindi una giovine Utaru, raggiunse Asile e la salutò:

«Ciao, tu sei quella ragazza da un altro mondo, giusto?»

«Sì. Che vuoi?»

«Oggi ho visto un uccello che non ho mai visto prima, sono sicura che venga da casa tua. Lo vuoi vedere?»

«Perché no?»

La bambina frugò nella sua veste e tirò fuori un disegno a carboncino.

«Eh? Credevo che volessi farmelo vedere dal vivo!»

«Purtroppo una Vedetta l’aveva appena calpestato, però sono sempre stata brava a disegnare»

Le diede il disegno.

«Oh, un dodo! Dove l’hai visto?»

«Raccoglievo piccole piante con mia madre nel deserto, quando l’ho visto morire da lontano»

«Oh, capisco… ma non è stata una scena un po’ cruda per la tua età?»

Bargh rise e scosse la testa:

«Asile, di fronte a te c’è la piccola Taia, la disegnatrice senza paura e senza vergogna… purtroppo. Regala sempre a tutti dei bei paesaggi, però a volte tira fuori cose un po’ sconce senza nemmeno saperlo…»

Asile sbarrà gli occhi, incredula.

«Cosa?! Tipo?»

«Tipo… un nudo di me a mia insaputa su richiesta di Nellim» disse Kïma, irritata.

«Un nudo di te? Fatto da una ragazzina? Per cosa gli serviva?»

«Avad, il re dei Carja, ha sempre accettato volentieri di dare un piccolo supporto alla nostra comunità nei rari casi in cui Nellim glielo chiede, ma la sua corte ci è sempre stata ostile. Così il capo ha pensato ad un modo per “appagarli” e farseli amici, anche sapendo che Avad e Kïma si conoscono e lui ha un vago debole per lei» raccontò Corliss, divertita.

«Tra me e Avad non c’è niente! Magari lui fa il cascamorto per me, ma io no. Mi piacciono di più le ragazze» protestò subito Kïma, arrossendo.

«Ehi, dovresti essere contenta: sei proprio bella, a parte quella tempia!» scherzò Asile.

Mentre Kïma sollevava gli occhi al cielo, Asile fece per restituire il disegno del dodo alla bimba, ma lei non c’era più. Allora fece spallucce e decise di tenerlo. Improvvisamente, però, il suono di un corno dai posti di guardia attirò l’attenzione di tutti, preoccupando Nellim…

«Oh-oh…» fece Kïma.

«Che succede?» chiese Asile.

«Abbiamo visite non di cortesia. Credo abbiano capito tutti di chi si tratti…»

Poco dopo, una guardia raggiunse Nellim di corsa per avvertirlo.
 
«Capo, è arrivato...»
 
«Ho già capito chi è. Vuole attaccare?»
 
«No, non sembra...E poi non ha con sé tanti uomini, però potrebbe essere una trappola!»
 
«No, non lo è: lui è tale e quale a suo padre, prima vuole fare qualche minaccia a vuoto per far sembrare tutto più serio. Be’, se è me che vuole, sono tutto orecchie. Se crede di spaventarmi, si sbaglia: anzi, avremo finalmente l’occasione di attuare un certo piano...»
 
Si alzò, si stirò e andò fino alla scala che portava fuori dalla cava accompagnato da alcuni combattenti armati. Su loro richiesta, prese anche un paio di Macchine per ogni evenienza. Quando furono fuori, trovarono Brachio, in armatura leggera e con una sorta di “spada-falcetto” ricavato da rottami, seduto a gambe incrociate e con cinque dei suoi, ad aspettarli. Visero che, dal canto loro, avevano portato tre bestie da ARK: un carnotauro e due velociraptor. Brachio si aspettava che Nellim rimanesse di sasso, ma non accadde: i suoi accompagnatori erano pallidi e cercavano di nascondere che le loro gambe tremavano, ma lui era tranquillo. Questo perché, ovviamente, Asile gli aveva raccontato tutto.
 
«Vedo che ti stai facendo del supporto animale, giovane» commentò.
 
«Oh, l’hai notato? Diciamo che ho i miei contatti. Vedi, al contrario di voi barboni senza identità, io penso in grande! Ho tanti di quei progetti in mente... conquistare qualche villaggio, prendere il posto di chiunque comandi, legalizzare omicidio e stupro...»
 
«Non cambiare argomento. Cosa vuoi da me?»
 
«Da te? Niente... per ora. Vengo solo a chiederti di consegnarmi una certa stronza tatuata di nostra conoscenza, più una straniera dall’isola dei miei nuovi cuccioli, che è uscita da casa mia senza permesso»
 
«Altrimenti?»
 
«Devo davvero dirtelo? Guerra»
 
«Pensi di essere minaccioso?»
 
«No, ma sono un tipo sincero: stai certo che lo farò. Non fraintendere, avremmo fatto la guerra comunque: sterminarvi era sulla mia lista delle cose da fare da tanto»
 
«Allora non prendiamoci in giro e finiamola!»
 
Brachio sembrò sorpreso:
 
«Cosa? Credevo che fossi contro gli ammazzamenti, vecchio!»
 
«Lo sono. Ma ci ho riflettuto e ho capito che finché ci sarai tu, rischieranno di esserci. Quindi farei prima a cercare di toglierti di mezzo»
 
Brachio ghignò:
 
«Oh, è la prima cosa intelligente che ti ho mai sentito dire in un nostro incontro! Sventrarvi tutti sarà uno spasso. Che ne dici se mi presento domattina con tutto quello che ho da scagliarti contro?»
 
«Certo che no»
 
«Eh?»
 
«Hai dimenticato che ho sempre un piano per tutto? Sapevo che prima o poi questa trattativa sarebbe giunta»
 
«Per cui?»
 
«Hai presente la prateria piena di palazzi e veicoli in rovina degli Antichi, vicino alle Terre Sacre dei Nora?»
 
«Chi non la conosce? Ci vanno tutti a cacciare Macchine»
 
«Il nostro campo di battaglia sarà quello»
 
«Oh, considerami già lì! E quando ci incontreremo... manda Kïma in prima fila: voglio buttarmi su di lei quanto prima! Stavolta non avrò pietà»
 
Una delle guardie di Nellim scoppiò a ridere di gusto:
 
«Che hai da ridere, idiota?!» si infuriò subito Brachio.

«In realtà è lei che ha sempre avuto pietà di te!»
 
Brachio ebbe l’impulso di gettarsi su di lui, ma un Secodonte della scorta di Nellim riconobbe l’atteggiamento aggressivo e si mise in posa d’attacco, fermandolo. Nellim si schiarì la voce e rivelò che non ci sarebbe stato subito un combattimento: prima i due capi si sarebbero sfidati ad un duello senza armi. Se Nellim avesse vinto, Brachio avrebbe dovuto andarsene per sempre da quei territori. Altrimenti, le due bande si sarebbero scontrate a sangue. Nellim sapeva che a Brachio, come a tutti i giovani, piacevano le sfide. Infatti accettò.
 
«Ci vediamo domani, per il vostro funerale! Vi conviene cominciare a scrivervi gli epitaffi!» salutò Brachio, prima di andarsene.

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Quando Nellim tornò, Kïma lo raggiunse e chiese cosa si erano detti. Quando seppe tutto, ridacchiò:
 
«Oh, non vedo l’ora di prenderlo a pedate nel culo per l’ultima volta!»
 
«Ti seccherebbe cercare ancora un po’ di Macchine prima dell’alba? Meglio abbondare quanto possibile» chiese Nellim.
 
«Ah, sicuro! L’avrei fatto lo stesso, per fare riscaldamento»
 
«Bene. Dobbiamo accettarci di potergli tenere testa!»

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“Ah, è stato interessante... be’, si torna al vecchio lavoro” pensò Alocin, guardando Aloy e Sylens, con la loro nuova Macchina a forma di granchio, salire sul traghetto.
 
Lui volle prendere il successivo, per non dare a vedere che gli dispiaceva che quel viaggetto da scorta di Aloy era finito, anche se gli era parso di capire che ci fosse ancora un’ultima Macchina in giro per cui Aloy sarebbe tornata da lui. Ma anche in quel caso, non poteva certo attendere con le mani in mano. Così pranzò alla locanda, fece scorta di sidro al mercato e andò alla bacheca per vedere se c’era qualche richiesta interessante. Ma quel giorno erano per la maggior parte delle inezie:
 
"Alla nostra famiglia servono tante uova per un banchetto che allestiremo fra cinque giorni in occasione di un matrimonio. Offriamo settanta ciottoli al primo che consegnerà almeno una trentina di uova di teropode grande (vanno bene anche quelle di carnotauro). Per saperne di più, casa nostra è al villaggio dei Piedi Sabbiosi, davanti a quella del capo."
 
Oppure:
 
"Il mio moscope Ddat è sparito nella giungla tre giorni fa e non l’ho ancora trovato, se qualcuno è disposto ad aiutarmi, abito dalle Rocce Nere. Se invece, per caso, trovaste un moscope grigio scuro col segno di un morso di microraptor sulla schiena, è lui: per piacere, riportatemelo. Offro venti ciottoli."
 
O ancora...
 
"È da più di una stagione che due ittiorniti hanno deciso di vivere sul tetto di casa mia: ho il tetto bianco per il guano e, come se non bastasse, filtra anche dentro. Li provo a scacciare distruggendo il nido, ma tornano sempre; non riesco neanche ad ucciderli, l’ultima volta che ci ho provato mi hanno quasi cavato gli occhi. Mi troverete a casa mia: dal punto in cui si vede l’isola degli Squali Dipinti, proseguite qualche migliaia di passi a Nord. Decidete voi il compenso."
 
Alocin si grattò la testa, infastidito:
 
“Che si aspetta, che vengano con le lance e le frecce per pulirgli il tetto? Sul serio, chi è che scrive questi annunci?!” pensò.
 
Alla fine si rassegnò e decide di aspettare ad accettare qualche richiesta. Anzi, perché fare un lavoro, quando poteva andare da Lefeuvre a farsi una bevuta con lui? L’idea gli mise allegria, così radunò le cavalcature e aspettò che arrivasse il traghetto, quindi tornò sull’isola principale. Si diresse verso le praterie e, per un paio d’ore, procedette fischiettando in tranquillità. Ma poi sentì il grido di un argentavis e le sue creature guardarono in alto, allarmate. Controllò e vide la sagoma di un argentavis (cavalcato da un uomo) che scendeva in picchiata...Verso di lui. Prima che potesse dire o fare qualcosa, due zampe fulminee lo strapparono dalla sella dello yutiranno e lo portarono via, tenendolo per le braccia.
 
«MA CHE CAAAAAAAAAAAAAA...» gridava Alocin, spaventato e confuso.
 
L’uomo dalla bandana rossa, soddisfatto, prese la radio:
 
«L’ho preso, Ryamo»
 
«Mi chiamo Ryomo, stupido barbaro! E portalo qui, che ho aspettato anche troppo» rispose il suo mandante.

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«Bene, siamo arrivati» dichiarò Sylens, finita la camminata lungo il fiume Etnorehca.

Si trovavano di fronte la caverna dell’Oleip, la più profonda, estesa e intricata di ARK. All’interno, lungo le pareti, erano appese due file di torce che illuminavano l’immenso corridoio che portava nel cuore dell’isola.

«Il nostro Carja ha davvero una passione per gli spazi chiusi - scherzò Aloy - Perché ci sono le torce? Credevo volesse stare in incognito»

«In questa caverna c’è una miniera. L’unica di questo posto, a dire il vero» spiegò Sylens.

«Quindi credi che si stia nascondendo fra i minatori per fare le sue ricerche senza destare sospetti?»

«Uhm… ne dubito. I nativi sono buoni osservatori, noterebbero subito delle stranezze. E farebbero un sacco di domande, ovviamente, l’ultima cosa che lui vuole. Dev’essere ben nascosto, nelle profondità…»

«Che strano… non riesco a localizzarlo col focus! Mi sta evidenziando decine di persone e creature laggiù, ma da dove proviene il tuo segnale non c’è niente»

«Temo che sia lui: esistono dei modi per non farsi rintracciare. Forse…»

«Sa di essere seguito, vero?»

«Forse. Proseguiamo con prudenza…»

«Nessun problema: la prudenza è la mia specialità!»

Dunque entrarono. Per sicurezza, Aloy fece stare l’Arcapode sempre al loro fianco e con lo scudo acceso: il focus stava rilevando parecchi animali, da pipistrelli grossi come gatti a insetti enormi, che non la rassicuravano per niente. Se avessero attaccato, avrebbero trovato entrambi pronti: lei con le frecce e la Macchina col suo scudo di plasma. Seguirono il sentiero di torce, molto utile quando c’erano dei bivi. Le creature, al momento, non davano segni di aggressività e non si facevano vedere, ma Aloy era sempre vigile. Proseguirono per vari minuti, prima che i cunicoli iniziassero ad andare in discesa. Poco dopo, passarono davanti ad un cartello che segnalava che la zona di lavoro dei minatori era vicina. Arrivarono ad un precipizio, con un complesso sistema di carrucole e una funivia in legno che portava fino al fondo, attivabile con una leva nella parete. Aloy diede un’attenta occhiata alla struttura, poi all’Arcapode, quindi chiese l’opinione di Sylens: sembrava abbastanza solido per trasportarlo? Lui si strinse nelle spalle. Così decisero di far provare all’Arcapodo, da solo, prima di loro. La funivia lo trasportò dal bordo del precipizio al livello inferiore della caverna senza problemi, poi tornò da loro in automatico con una lenta risalita. Allora i due, sollevati, la presero e raggiunsero il fondo a loro volta. Si ritrovarono in una stanza di calcare piena di alte stalagmiti sottili e ruvide. Un altro cartello diceva di girare a destra e ora si sentiva un gran frastuono di voci umane, passi e rumore di picconi e scalpelli. Aloy e Sylens seguirono il rumore e si ritrovarono nel punto di ritrovo della miniera: un’area fortemente illuminata per metà dalle torce e per metà dai brillanti minerali che spuntavano da ogni angolo roccioso. I minatori chiacchieravano tranquillamente mentre lavoravano o si gridavano indicazioni a vicenda, da lati opposti della grotta. Il rumore dei picconi che sbattevano sui cristalli era assordante. Alcuni trasportavano i materiali raccolti con carretti pieni di ceste, trainati da bestie da soma con grosse lanterne appese al collo.

«Qui sembra decisamente meno triste che nelle cave Oseram» commentò Aloy.

Sylens, indifferente a quello che aveva davanti, disse:

«Come vedi, questo posto ha parecchie entrate e uscite. L’uomo che stiamo cercando è per forza in una delle zone a cui quei cunicoli portano. Quindi, se ci avviciniamo agli ingressi, i nostri focus dovrebbero rilevare più o meno intensamente il segnale a seconda di quanto distiamo. Allora dividiamoceli per esaminarli: io quelli laggiù e tu quelli là, a destra»

«Agli ordini» lo scimmiottò lei.

Ma, mentre passavano davanti agli sbocchi della camera, sotto gli sguardi curiosi ma distaccati dei minatori, l’Arcapode andò automaticamente a posare la sua scatola al centro, intasando il traffico delle bestie da traino, e a raccogliere i minerali estratti dai lavoratori per metterceli. Quindi, poco a poco, cominciarono a volare insulti e imprecazioni, ma Aloy capì solo dopo qualche minuto che erano indirizzati alla sua Macchina. Così, rossa di vergogna, andò a fermarla e ordinarle di disattivare le sue funzioni di raccolta.

«Scusate, non volevo! È con me, non pensavo che l’avrebbe fatto» si scusò frettolosamente con tutti.

Alcuni le dissero di non preoccuparsi, altri la mandarono al diavolo, poi tornarono al lavoro. Aloy sospirò per calmarsi, poi tirò uno schiaffetto sui visori:

«Eddai, che figure mi fai fare?»

Poi, fermandosi a riflettere, si accorse di averlo trattato come un essere vivente: vedere gli Arkiani e le loro cavalcature la influenzava parecchio, a quanto pareva. Sylens arrivò poco dopo e constatò che l’audace Nora aveva dato spettacolo, sorridendo beffardamente. Poi avvisò di aver trovato il cunicolo giusto e glielo indicò.

«Bene, allora andiamo!»

«Però un minatore mi ha detto che è uno dei più pericolosi»

«Non importa: sono abituata ai posti pericolosi»

«Ne prendo atto»

Dunque, si avviarono…

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«Lasciami, figlio di puttana!» gridò Alocin.

L’argentavis lo traportò fino all’Oleip, poi lo buttò nel piccolo lago, famoso per la sua isoletta, ai piedi della montagna. Alocin andò in superficie annaspando, poi nuotò in fretta e furia a fino a riva. Rimase per terra, scosso e senza respiro dallo spavento e dalla caduta in acqua. Sentendo che gli sarebbe venuto un infarto, ingoiò la sua polverina gialla: per fortuna, il sacchetto era di cuoio e non si era bagnata. Si calmò e mise seduto, ma qualcuno venne a colpirlo alla nuca: l’uomo con la bandana, col volto coperto, aspettò che Alocin si rialzasse e gli fece segno di avvicinarsi per sfidarlo.

«Io ti spacco la faccia!» gridò lui.

Ma appena finì di dirlo, gli arrivò un calcio nello stomaco e, subito dopo, un sinistro in mezzo agli occhi. Finì steso ancora prima di poter difendersi.

«Quando sei diventato così scarso?» chiese lo sconosciuto, girandolo sulla pancia e legandogli polsi e caviglie.

«Chi sei?»

«Forse non mi riconoscerai, abbiamo lavorato insieme abbastanza poco, ma...»

Si tolse il fazzolettone e Alocin poté guardarlo bene: all’inizio, non capì lo stesso chi fosse. Poi, però, un fioco ricordo gli tornò gradualmente in testa. Non era che...

«Aspetta... non eri quel tizio con cui dovevo prendere un dente di Zanna Rossa l’anno scorso?»

«Eh sì, Alocin Ollednom!»

«Com’è che ti chiamavi? Ehm... Omocaig, giusto?»

«Esatto»

«Ma com’è mai possibile che sia vivo? Ti aveva mangiato!»

«Mangiato? Nah... mi ha solo mangiucchiato i vestiti: sono riuscito a ingannarlo»

«Quindi... oh, ma certo... vuoi vendicarti perché non ti ho aiutato?»

«Magnifico, mi hai risparmiato il discorso  pieno di rancore!»

«Vuoi ammazzarmi? Non credi che sia un po’ esagerato? Non ti ho fatto niente di male, in fondo...»

«No... non sono così estremo, anche se ammetto che nell’ultimo mese ho detto in giro che ti volevo dare in pasto a qualcosa perché mi divertiva l’idea»

«Allora perché sei venuto a rompere?»

«Sono stato assunto da un tizio che paga bene: vuole chiederti un paio di cose. Sembra che venga da dove sono spuntate quelle creature di metallo...»

«Ma che coincidenza, anch’io conosco una ragazza da lì. Ho mia nipote che si sta facendo un giro da quelle parti...»

«Lo so, ho visto. Bene, bando alle ciance...»

Omocaig afferrò il bavero di Alocin e gli tirò una testata, facendolo svenire. Se lo caricò a peso morto sulle spalle, andò verso la montagna ed entrò in un ingresso secondario e mezzo nascosto della grande caverna, pronto a lasciarlo a Ryomo.

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POCO PIÙ TARDI…

Alocin si ritrovò in un punto profondissimo della caverna, legato ad una sedia. Omocaig gli bisbigliò un beffardo “ci si vede” all’orecchio e andò via. Il prigioniero si guardò intorno: era tutto arredato con scaffali su cui c’erano scatole e contenitori vari e tavoli con disegni di piante, animali e appunti. A una parete, invece, era inchiodato quello che sembrava un progetto: c’era l’immagine e la sezione di uno strano apparecchio davanti a cui c’era la rappresentazione di una delle nuvole viola da cui erano uscite le creature di ferro. Già da quello, capì subito che il mandante di Omocaig era chiunque l’”amico” di Aloy voleva trovare. Ma tutto ciò era una sottigliezza, in confronto al resto che si capiva ci fosse: da quella camera partiva una miriade di cunicoli, collegati ad altre stanze simili. Da ognuna di quelle provenivano versi, stridii, ruggiti e lamenti di chissà quante bestie. Alocin riuscì a vedere una delle stanze accanto a lui a fatica, torcendo il collo: era strapiena di gabbie fatte di pezzi dei mostri metallici, in cui numerosi animali di ARK si agitavano e gridavano: lì era dove Ryomo preparava gli animali da liberare nel mondo di Aloy.

“Questa non me l’aspettavo” pensò Alocin.

Pochi minuti dopo, si aprì un piccolo portale da cui uscì Ryomo. All’inizio non si accorse di Alocin, restò a trafficare con degli appunti per qualche secondo, poi si girò e lo vide.

«Oh, sei arrivato! Finalmente, il lavoro è stato fermo troppo a lungo...» disse, pensoso.

«Certo... non che sia arrivato di mia volontà, eh?»

«Questo era necessario: dubito avresti accettato un invito. E poi senza maniere forti non mi avresti preso sul serio: è così che voi barbari ragionate... a quanto ho visto, almeno»

Il vecchio era arrivato da cinque secondi, ma ad Alocin era già venuta voglia di ammazzarlo. Come si permetteva di fare giudizi senza senso come quello? E poi aveva avuto la faccia tosta di farlo rapire da un ex-compare, non gliel’avrebbe fatta passare liscia nemmeno per tutti i ciottoli dell’isola. Si dimenò e provò ad allentare le corde, ma riuscì solo a muovere la sedia. Gli venne voglia di prendere in giro quello che diceva:

«Barbari? Oh, sì! Io barbaro, io parlare male perché io ignorante! Ho-ho-ho!» fece anche la voce grave e scimmiesca da troglodita per enfatizzare.

«Non sono in vena di scherzi. Tu hai qualcosa che mi appartiene: una batteria»

«Batteria? Cosa essere batteria? Io no capire tua lingua, io barbaro: tu detto!»

Ryomo andò dove poco prima c’era il portale, ora richiuso, e raccolse qualcosa da terra. Si avvicinò e gli fece vedere di che si trattava: una sorta di grosso telecomando quadrato, bianco e attraversato da circuiti viola che luccicavano. Al centro c’era un pulsante nero, piatto e quadrato a sua volta. Il telecomando era legato con dei fili ad una batteria.

«Vedi questa?»

Alocin, come Ryomo si aspettava, la riconobbe.

«Ehi, somiglia molto a quel coso che mi è capitato tra le mani il mese scorso!»

«Perché è uguale. Ma, soprattutto, prima che la trovassi tu era mia. Ecco, spiegarti come e perché uso queste batterie sarebbe come regalare perle ai porci, quindi andrò subito al punto: dove l’hai messa? Mi serve»

Alocin non era affatto disposto a collaborare col suo rapitore. Se voleva sapere dove aveva messo la batteria, gli doveva almeno un paio di spiegazioni. E perché mai avrebbe dovuto restituirgliela? Quando qualcuno trova un oggetto per terra e lo raccoglie, gli appartiene di diritto! Era curioso di sapere cosa c’entravano quelle gabbie e gli animali intrappolati. Inoltre, allo stesso tempo, doveva pensare ad un piano di fuga. Guardandosi intorno senza darlo a vedere, osservò la grotta e vide una piccola sega appesa ad un chiodo nella roccia, all’altezza dei suoi polsi, legati ai braccioli della sedia: ebbe un’idea. Appena Ryomo se ne sarebbe andato, lui avrebbe provato a liberare le gambe, per poi badare al resto. Quindi si concentrò sulla parte diplomatica:

«Frena, frena! Sai che qui è maleducazione chiedere i piaceri come prima cosa? Prima si scambiano quattro chiacchiere, così si rompe il ghiaccio!»

«Davvero? Molto interessante, non l’avevo ancora scoperto. Un altro tratto comune fra noi e voi indigeni… ma comunque non ho tempo da perdere, quindi ti concedo una divagazione, una soltanto»

«Quello era una delle nuvole magiche che Aloy vuole togliere di mezzo… non è che sarà contrariata se sapesse di te?»

«Pffff! L’Audace Nora dai capelli rossi non mi spaventa. E poi non ha motivo di essere contro tutto questo: hai idea dei vantaggi che porterebbe all’economia, se padroneggiata e data a tutti? Devo solo trovare il modo di replicarlo..e avere più di una batteria mi aiuterebbe. Dove l’hai nascosta? Parla!»

«Un momento! A che ti servono queste creature?»

Ryomo alzò gli occhi al cielo e sbuffò:

«Tu fai tante domande, barbaro, troppe… sappi solo che il mio re mi ha fatto un torto e intendo spaventarlo un poco per fargli chiedere scusa. Poi potrò dare la mia invenzione a tutti e ognuno userà le risorse di quest’isola come gli pare»

«Ehi, non è piacevole da sentire!»

«Hai sentito tutto. Dov’è la batteria?»

«Ho cambiato idea, non mi conviene dirtelo»

«Come osi?! Te la sei cercata!»

Andò al tavolo che Alocin aveva adocchiato poco prima, prese uno strano pezzo di metallo e fili con quattro elettrodi e glielo fece vedere, muovendo freneticamente la mano. Disse che quello era il trasmettitore di energia elettrica che le Macchine usavano per tenere accesi i loro visori. Alocin rise e disse che non faceva nessuna paura: sembrava una scatoletta grigia come parecchie altre. Il vecchio Carja ghignò e glielo appoggiò al collo. Alocin fu attraversato da una potentissima scossa che gli fece morder la lingua e sentì i muscoli contrarsi fino a sembrare duri come ferro; mille aghi roventi lo pungevano ovunque, braccia e gambe tremarono così tanto che le corde che lo trattenevano… si allentarono. Ryomo parve non accorgersene, il che gli offrì un’enorme possibilità di fuggire e ribellarsi. Ma quando la scossa finì, d’istinto, emise un grido di disperazione:

«AH!!!»

«Ha fatto male?»

«SÌ!!!»

«Farà ancora più male se non mi rispondi ora»

«Va bene, va bene… c’è un rifugio nelle praterie, vicino al mio amico Lefeuvre… ci metto qualunque cosa non serva, ma che mi sembra interessante. È lì»

«Perfetto, grazie»

«E ora?»

«In teoria ti dovrei liberare, ma il tuo conoscente mi ha detto di ridarti a lui»

«Oh, no! No no no no no! Non merito questo!»

«Che ci vuoi fare? È stato un piacere»

«NON FINISCE QUI!!! SENTITO??? TE NE FARÒ PENTIRE!!!»

«Come vuoi»

Ryomo andò alle sue spalle, uscendo dal campo visivo di Alocin. Stette via per più di due minuti, per cui Alocin decise che era il suo momento: strattonò e le corde, già semi-sciolte, si slegarono del tutto. Si alzò, si sgranchì le gambe e prese coltelli e altre cose contundenti dal tavolo, quindi si guardò in giro in cerca di un modo per creare un diversivo, visto che l’uscita era una sola. Sentì un rumore di passi, quindi corse in una delle stanze piene di gabbie e si rifugiò dietro una che ospitava tre velociraptor. I cacciatori piumati lo fissarono sbavando e scoprendo i denti; lui, in risposta, alzò loro il dito medio e fece un lieve “shhhhhhhhhh!” come a dire di stare zitti. Sentì le voci di Ryomo e Omocaig: il vecchio descrisse il posto in cui Alocin aveva detto di tenere la batteria e il suo compare lo rassicurò di conoscerlo già, di esserci già stato ai tempi in cui lui e lo zio di Asile lavoravano insieme. Questo fece ribollire Alocin di rabbia: se c’era qualcosa che odiava, era quando si convinceva a dare fiducia ad un contatto, per poi vedere la scelta ritorcerglisi contro come in quel caso. A quel punto, Omocaig disse che la ragazza coi capelli rossi e il tizio pelato coi pezzi di metallo nel mento si avvicinavano in fretta; e quella era un’ottima notizia: anche Aloy era nella caverna, per fortuna, cosa che gli avrebbe potuto dare molti vantaggi. Doveva solo prendere il tempo giusto… ed ecco che i due entrarono in quella camera e videro che era fuggito. Mentre ad entrambi scappava un’imprecazione, Alocin decise di tentare di giocarsi la libertà con la forza e corse verso di loro.

«HA!!!» si buttò di testa su Omocaig, togliendogli il fiato e buttandolo a terra.

I due cominciarono un violento pestaggio a terra, un susseguirsi confuso di cazzotti, ginocchiate, testate, ma anche morsi e graffi. Poi, ovviamente, volavano gli insulti e le parole oscene. Ryomo, nel panico, ordinava con voce stridula ad Omocaig di non perdere tempo e di andare a fermare Aloy e Sylens prima che arrivassero. Ma dal momento che non fu ascoltato, decise di aiutare il suo tirapiedi e riprese il fulminatore. Alocin, notandolo, stordì Omocaig con una gomitata sotto la cintura e si avventò sul Carja, afferrandogli il polso e stringendo fino a fargli cadere il dispositivo. Quindi gli ruppe il naso con un destro e, anche se avrebbe potuto scappare, volle tornare a pestare l’ex-compare: ormai ci aveva preso la mano.

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I minatori avevano ragione: quel cunicolo non era pericoloso, di più. Era davvero tortuoso, per molti tratti a ridosso di un alto precipizio che finiva con un fiumiciattolo ed era stretto, largo giusto quanto bastava perché l’arcapode lo potesse percorrere, anche se avvicinando faticosamente le zampe fra loro e mettendole l’una davanti all’altra con calma. Aloy aveva dovuto difendersi in più occasioni: una megalania era piombata dall’alto e aveva quasi morso Sylens. Poi un’artropleura era uscita da un buco nelle pareti e li aveva bersagliati di acido, si erano salvati solo riparandosi dietro lo scudo dell’arcapode e Aloy aveva dovuto aggirarla per ucciderla. E, come se non bastasse, Sylens non faceva che metterle sempre più fretta, man mano che si addentravano nella grotta. La ragazza poteva capire che fosse preso dalla frenesia di capire di più sulla tecnologia di teletrasporto degli Antichi, ma così non l’aiutava per niente. Anzi, le stava facendo venire voglia di dargli una botta in testa. Ma dimenticò di volerlo fare quando cominciò a sentire la voce di Alocin che imprecava e rideva di gusto, unita a rumori di pestaggio.

«Ma questo è Alocin!»

«Il tuo accompagnatore? Strano…»

Prima che Sylens potesse aggiungere altro, la Nora iniziò a correre, svoltò qualche meandro e si ritrovò nel covo di Ryomo. La prima cosa che vide fu Alocin che pestava un altro Arkiano, la seconda fu un anziano con indumenti tipici dei Carja fulminarlo col processore ottico di una Macchina. Alocin finì a terra paralizzato e l’altro uomo, pieno di sangue e acciacciato, si rialzò ridendo e iniziò a restituirgli le botte.

«Ah, figlio di una lurida! Gli faccio vedere io…» ringhiò Omocaig.

Ryomo vide Aloy, che si era fiondata lì con troppa foga per nascondersi, e andò nel panico: l’Audace Nora era arrivata sul serio! Sapeva che era in avvicinamento, ma Omocaig avrebbe avuto il dovere di fermarla. Peccato che Alocin avesse rovinato tutto. Che fare ora? L’unica soluzione che gli apparve fu la fuga. Quando Sylens arrivò, aveva già preso il telecomando e si stava buttando in un portale.

«Prendilo, Aloy! È un’occasione imperdibile!» esortò Sylens.

«Oh, voi due siete quelli che dovevo fermare! Be’, immagino che ormai non abbia senso buttarvi fuori, tanto siete arrivati…» commentò Omocaig, perplesso.

«Ma Alocin?» indugiò Aloy.

«Non… ci penso io, non ti preoccupare! Sbrigati e basta!»

Aloy si convinse e si buttò a capofitto nel portale, che si stava già chiudendo, prima che sparisse.

Quando fu tornato il silenzio, Sylens provò a ragionare con Omocaig:

«Dunque, la mia spalla non mi aiuterebbe mai più se succedesse qualcosa ad una persona che conosce. C’è qualcosa che posso fare per convincerti a lasciarlo andare?» chiese.

«Uhm… fammi pensare… volevo dare un mucchio di mazzate a questo zotico, e gliele ho date. Cosa mi trattiene dal dargliene ancora? Oh, ma certo! Non è un vero favore, è giusto una formalità. Non è che potresti andare a prendere la “batteria” di cui il vecchio continua a blaterare al posto mio? Rubare ad Alocin sarebbe la mia rivincita definitiva, quindi penso che ci stia»

Sentendo nominare le batterie, a Sylens si illuminarono gli occhi: un indizio su come Ryomo faceva a sfruttare quella tecnologia senza i Calderoni! Propose di affidare l’incarico ad Aloy una volta tornata, se fosse tornata. Omocaig pensò un attimo, poi accettò. Quindi, dopo aver tramortito il povero Alocin un’ultima volta, i due si sedettero e iniziarono ad aspettare, mentre le creature nelle gabbie continuavano a dimenarsi.

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Aloy si ritrovò di nuovo “a casa”. Rotolò per non cadere rovinosamente e si rialzò, guardandosi intorno. Ora era nella base originaria della banda di Brachio: un vecchio rottamaio Oseram abbandonato, incustodita da così tanto che in mezzo alle montagne di pezzi di metallo arrugginito cresceva l’erba. Anche le viuzze sterrate fra i cumuli erano coperte di verde. Tutt’attorno, c’erano delle baracche improvvisate costruite con telai e lastre di Macchine di grossa taglia. Ryomo, di fronte a lei, la vide e iniziò a scappare lanciando un allarme:

«AIUTO!!! UN’AMAZZONE NORA MI VUOLE MORTO!!!»

C’erano pochi banditi nella base: Brachio aveva portato tutti gli altri a combattere contro Nellim. La quindicina di uomini e donne presenti uscirono dalle baracche, incuriositi. Quando il vecchio li raggiunse, indicò Aloy e gli disse che doveva morire. Loro risposero che l’avrebbero ammazzata comunque e corsero alle armi.

“Dannazione!” pensò Aloy.

Per quell’occasione, decise di fare alla vecchia maniera: l’approccio furtivo. Quindi cercò una macchia di erba alta e ci si buttò in mezzo, con l’arco teso. Poco dopo, i banditi erano sparsi in tutta la base ad armi spianate, in cerca dell’intrusa. Ricordando tutte le volte in cui si era trovata nella stessa situazione contro l’Eclissi, Aloy fu paziente e rimase immobile, in attesa che qualcuno le passasse vicino. I banditi guardavano in mezzo alle ferraglie, dietro gli angoli e in cima ai mucchi, ma a nessuno veniva in mente di guardare nel posto più ovvio. Intanto, si raccomandavano a vicenda di stare molto attenti, di non sottovalutare una Nora eccetera eccetera. Alla fine, Aloy mandò la pazienza a quel paese e si spostò, camminando accucciata o rotolando da un punto coperto all’altro. Osservò i banditi, in attesa che qualcuno si isolasse. Così scelse una donna armata di lancia che si era appena allontanata da uno dei suoi compagni per entrare in una delle baracche, sospettando che potesse esserci entrata in loro assenza. La ragazza si intrufolò dentro, mentre la bandita faceva per voltarsi. Appena si girò, una punta di freccia le perforò la gola e uscì dall’altro lato. La vittima, spruzzando sangue dalla bocca ad ogni respiro gorgogliante, guardò Aloy esterrefatta. Prima che le afferrasse il collo, la rossa sfilò la freccia, sporcandosi il viso e la veste di sangue, mentre l’altra cadeva esanime.

«Perdonami, ma probabilmente mi avresti fatto lo stesso al mio posto» sussurrò Aloy, togliendosi il sangue dal viso.

«No!» sentì un’esclamazione alle sue spalle.

Si voltò e vide che un altro bandito era entrato nella baracca e l’aveva scoperta. Rapida come un fulmine, Aloy incoccò a freccia e lo colpì in testa. L’uomo piegò flaccidamente le ginocchia e si accasciò su se stesso, con gli occhi sbarrati. Tesa, Aloy si appiattì contro il muro accanto all’ingresso e tese l’orecchio: gli altri non davano segni di allerta. Sospirò di sollievo: aveva fatto in tempo a fermarlo. Tornata fuori, sentì del chiacchiericcio oltre la montagna di rottami di fronte a lei. La arrampicò agilmente in assoluto silenzio e, sdraiandosi sulla pancia, strisciò in cima fino a poter vedere l’altro lato: tutti gli altri si erano radunati lì e parlottavano nervosamente sul da farsi. Aloy vide una malandata testa di Spezzarocce in bilico sopra una grossa trave, che teneva stabile una buona parte dei rottami poco distante da lei ed ebbe un’idea: la afferrò e strattonò. Fece abbastanza fatica, ma infine riuscì a smuoverla e, con un assordante fracasso, quasi metà del mucchio franò sui banditi, seppellendoli sotto metalli e polvere. Aloy riuscì a correre giù dall’altro lato prima di essere trascinata col resto dei ferri, quindi si strofinò le mani per togliersi la ruggine che era sulla testa di Spezzarocce e andò a vedere: non era rimasto nessuno. Invece no: dietro di lei, un ultimo bandito gridò:

«Maledetta! Ti sgozzerò come un maiale!»

Davanti a lei apparve un tizio con un pugnale. Aloy alzò gli occhi al cielo e colpì il coltello con un tiro fulmineo, disarmandolo. Infuriato, l’uomo le corse incontro a mani nude; lei si spazientì e lo colpì al cuore. Il bandito si inginocchiò, sputando sangue, poi morì e si distese su un fianco. E anche l’ultimo era andato: ora era chiaro che non ci fosse nessun altro. Rimaneva solo da predere il vecchio… cercò in giro e lo trovò rintanato come un topo nella baracca più grande e “lussuosa”. Appena vide Aloy, considerando anche il casino che si era appena sentito, capì che non c’era più niente da fare: si inginocchiò con le mani sulla nuca, dichiarando la resa.

«Hai fatto la scelta giusta» affermò Aloy, mettendo via l’arco.

«Non ne dubito» mormorò Ryomo.

«Ormai questa tua faccenda mi ha incuriosita… chi sei? Come hai scoperto il modo in cui gli Antichi potevano collegare il nostro mondo ad ARK?»

«Non lo saprai mai»

Aloy prese la lancia e gliela puntò alla gola, facendo un po’ di pressione per spaventarlo, e funzionò: non era poi così inflessibile.

«Argh… e va bene! Mi chiamo Ryomo, sono un onesto cittadino di Meridiana»

«Onesto? A me non sembra, vista la gente che frequenti»

«Fidati, non mi piace collaborare coi banditi, lo faccio proponendo scambi convenienti solo perché è l’unico modo che ho per mandare avanti le mie ricerche»

«Fammi sapere di più…» per evitare proteste, Aloy gli fece un graffietto sul pomo d’Adamo.

«Certo, certo, solo… non uccidermi! Non posso lasciare il mio operato a metà!»

«Allora parla!»

«Mi sono sempre interessato alle rovine degli Antichi e ai loro oggetti. Credi che i focus siano tutto? Quelli non sono che una piccolissima parte»

«Sì, ho notato»

«Basta saper cercare bene nei bunker e si trova letteralmente di tutto. E poi ho sempre avuto un talento naturale nell’aggiustare i loro strumenti e farli tornare in funzione: basta conoscere le Macchine e riconosci anche tutto il resto. Poi ho cominciato ad unire varie componenti per inventare oggetti nuovi, anche semplici attrezzi della vita di tutti i giorni, e a venderli. Ovviamente, la vita di molte persone si è fatta più comoda, ma… – il suo tono diventò rabbioso e strinse i denti – Quei bigotti ipocriti della corte regale si sono spaventati, hanno cominciato ad insinuare certe idee su di me nella testa di re Avad»

«Conosco Avad. Non sembra il tipo da diffidare di qualcuno che fa il benefattore…» lo interruppe Aloy.

«Il re è amico di una rozza cacciatrice di montagna vestita in pelli ed erba secca?! Quanto è caduto in basso…»

«Ma come, ti sei perso tutto quello che è successo nell’ultimo mezzo anno? Ho aiutato il suo esercito contro le Macchine corrotte, quando la Guglia si è… ehm… svegliata»

«Se magari mi facessi continuare, sapresti che non ero più in città ai tempi… comunque, io non ascoltai le loro vuote minacce e continuai a cercare. E l’apice della mia carriera è stato quello che ho scoperto nei Calderoni: un sistema che permette di raggiungere altri mondi!»

«E immagino che da lì hai cominciato ad allestire quei rifugi segreti su ARK e a studiarla»

«Sì. E più studiavo quel posto e più perfezionavo metodi per imbrigliare questo “teletrasporto”, come pare che gli Antichi lo chiamassero, più mi rendevo conto del bene che avrebbe portato non solo a Meridiana, ma a tutte le tribù, appena avessi imparato a replicare il mio nuovo dispositivo e distribuirlo! Quell’isola è piena di vita e ricchissima di risorse, ho perso il conto di quante volte l’ho detto. Al confronto di quel posto così ristretto, tutto il nostro mondo è niente! Mettere tutti in comunicazione con quest’ARK risolverebbe i più grandi problemi di tutti, dalla ricerca di merce per noi alla mancanza di cibo per le tribù povere come la tua!»

«In effetti, me ne rendo conto. La tua idea ha un fondo di buona volontà, a pensarci bene…»

«Vedi che ci sei arrivata anche tu? E invece, per la corte di Meridiana è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso»

«Che ti hanno fatto?»

«Mi hanno rinchiuso a Rocca Pietrasole per un anno per ricerca pericolosa. Solo il Sole può dirmi perché non hanno pensato di bruciare i miei progetti e le mie invenzioni! Quando sono uscito, era tutto ancora a posto. Ma sono stato anche esiliato. Mi serviva qualcuno che mi supportasse e che fosse interessato a sua volta ad avere risorse infinite perché mi accettasse…»

«È così che ti sei alleato con questi banditi?»

«Sì. Quelli erano una parte della banda: tutti gli altri stanno facendo la guerra con una comunità di sfollati con illusioni di benessere, credo che torneranno dimezzati o peggio»

«Non mi riguarda. C’è un’ultima cosa che non ho capito… a che ti servono quegli animali rinchiusi nel tuo rifugio su ARK?»

«Quelli servono per la mia vendetta. Credi che sia rimasto indifferente a quello che il re mi ha fatto passare?»

«No»

«Infatti. Così mi sono fatto aiutare da quel gentiluomo disposto a fare il lavoro sporco, Omoceg o come diamine si chiama, per raccogliere un mucchio di bestie sconosciute per questi bifolchi e rilasciarle nel nostro mondo. Gli avvistamenti e le morti hanno raggiunto quasi subito Meridiana: posso solo immaginare la paura del re! E quando andrà in disperazione perché non sa come fermare tutto questo, i suoi sudditi gli si rivolteranno contro. Be’, a meno che io non torni e gli riveli tutto, costringendolo a perdonarmi se vuole fermare questa lunga serie di sanguinose morti di civili a caso in giro per il mondo…»

Aloy era disgustata da questa rivelazione. Le creature che Asile si era offerta di ammazzare erano sguinzagliate da Ryomo, seminando morte e panico… solo perché voleva vendicarsi di Avad? Immaginando quanti innocenti fossero già stati sventrati per questo, gli premette la lancia ancora più forte sulla gola.

«Per questo, però, meriteresti peggio della morte!»

«Argh… perché? Non dirmi che ti dispiace per gli anonimi che sono morti nel frattempo! Sono solo delle nullità che vivono nel mezzo del nulla! Hai idea di quanti come loro muoiano ogni giorno?»

Questo era troppo: Aloy aveva sempre odiato le frasi di indifferenza verso gli altri come quelle. Furiosa, girò la lancia sul lato dell’impugnatura, gli sputò in faccia e lo colpì sulla fronte, facendolo svenire all’istante. Ora aveva finalmente scoperto tutto sul Carja che Sylens cercava. Notò il telecomando apri-portali sul tavolo e, per intuito, lo riconobbe. Lo prese, lo provò e funzionò: davanti a lei si aprì la solita nuvola viola. Quindi, trainando Ryomo per le caviglie, tornò su ARK, esattamente dove era prima di venire lì, e richiuse il portale. Vide Sylens da solo nel rifugio del vecchio, intento a leggere gli appunti sulle sue invenzioni con sguardo ammirato. Sentendo il rumore del portale, alzò la testa e vide la ragazza.

«Vedo che sei ancora tutta intera. E col nostro amico, per giunta!» salutò.

«Ecco a te» Aloy gli lanciò il telecomando e lui lo prese al volo.

«Ah, ci è voluto così tanto, ma ne è valsa la pena! Adoro la scoperta»

«Anche troppo, secondo me» lo provocò Aloy.

«Dunque, cosa spingeva il nostro amico a fare tutto questo?»

Aloy si sedette e raccontò tutto quello che Ryomo le aveva confessato nei dettagli. Sylens ascoltava assorto e annuiva. Alla fine del racconto, ridacchiò:

«Un altro genio incompreso consumato dal rancore. Un classico!»

Quindi prese la sua lancia, andò da Ryomo e, prima che Aloy potesse fermarlo dopo aver capito cosa voleva fare, gli infilzò il petto. Aloy non sapeva bene se approvare quel gesto o protestare. Da un lato, era giusto per il sangue che Ryomo aveva fatto spargere inutilmente; dall’altro lo era di meno perché era pur sempre partito con buone intenzioni, spinto dalla semplice curiosità.

«Non mi serviva più vivo: so tutto su di lui, con gli archivi dei Calderoni saprò come padroneggiare tutto questo e la concorrenza è l’ultima cosa di cui ho bisogno. Ebbene, sei libera, Aloy: puoi tornare alla tua patetica caccia alle Macchine»

«Finalmente»

«Sai, te ne manca solo una»

«Ah, sì?»

«Sì. Il Divoratuono che ha cominciato la tua avventura qui. Sai, gli indigeni lo chiamano “la bestia fatta di ferro e sangue” perché fino a poco tempo fa era un misto fra un Divoratuono e una creatura simile a lui di qui»

«Interessante… come il Manticerio abbattuto da te aveva delle piante sulla sua cisterna?»

«Sì. Ma ora si è trasformato: le notizie dell’ultim’ora dicono che è tornato ad essere una Macchina pura, tranne che per un dettaglio»

«Cioè?»

«Al posto dell’olio ha del sangue»

«Ferro e sangue… be’, sempre un Divoratuono rimane!»

«No. Da quello che ho sentito, fa molti più danni ed è più aggressivo di quelli a cui siamo abituati. Sta’ attenta, Aloy: probabilmente mi servirai ancora, in futuro. Non farti ammazzare!»

«So badare a me stessa, non ti preoccupare. Dov’è Alocin? Prima era qui, svenuto e pestato…»

«Si è svegliato di colpo e ha ucciso il suo rapitore mentre gli dava le spalle. Ora ti aspetta fuori dalla caverna. Ovviamente non mi sono intromesso: chi sono io per immischiarmi in questi affari da Arkiani?»

«Come no, come no… me lo sarei dovuto aspettare da Alocin!… ciao, Sylens. Se mi ricatti un’altra volta, potrebbe scapparmi una freccia!»

«Molto spiritosa. Ora vai. Ah, e a proposito... l’Arcapode che avevi con te è distrutto»
 
«Cosa?»
 
«Un centopiedi enorme l’ha combattuto e distrutto con dell’acido»
 
«Magnifico, addio ad ogni proposito di affezionarmi alle nuove Macchine... ah, vedrò di fare da me, come sempre»

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Quando Aloy uscì dalla caverna, Alocin era intento a osservare l’argentavis di Omocaig che mangiava il corpo del suo stesso padrone. Evidentemente, da vivo non lo trattava molto bene: cattivo padrone, animale traditore, diceva un proverbio su ARK. Ovviamente, stava bevendo il liquore che aveva preso dai Lupi Bianchi ed era già mezzo sbronzo.

«Alocin!» salutò lei.

«Oh, Aloy! Ci rivediamo! Sai, è un peccato che non mi abbia visto fare un mazzo così a quel bastardo laggiù. Questa era troppo! Era offeso perché ho lasciato che un giganotosauro provasse a mangiarlo… ma sappi che l’ho fatto perché era cosa buona e giusta: era una persona di merda. Ma sul serio, eh? Era di tutto: violentatore, tagliagole, pedofilo, strozzino… certo, il tipo di gente con cui sto io, ma a tutto c’è un limite. Credo che solo il Ladro di Innesti sia più sadico... un giorno proverò a rintracciarlo. A parte che gira voce che sia uno della tua età...»

«Va bene, ti credo! Senti, Alocin, c’è un’ultima Macchina su quest’isola…»

«Perché non l’hai detto subito? Dimmi dov’è e prendo le mie bestie, così le facciamo un…»

«No, questa volta andrò da sola. Torna a casa o al tuo lavoro: non voglio metterti a rischio. Il Gelartiglio è stato già di suo una sfida difficile, immagina un Divoratuono che è più aggressivo del solito, da quello che si dice!»

«Uhm… sei sicura?»

«Sì. E poi, quando Asile tornerà, perché sono sicura che tornerà, cosa le rimarrebbe senza di te?»

«So anch’io che può farcela. Mah, non lo so… forse starebbe meglio senza di me… ma come ti pare. Vuoi un ciao o un addio?»

«Suvvia! Non fare il drammatico…»

«Bene, allora ciao!»

A questo punto, Aloy impostò il focus affinché rintracciasse il Divoratuono più vicino. Una piccola sagoma rosa apparte in lontananza, oltre il reticolo olografico dell’apparecchio.

“Trovato!”

Quindi la Nora si avventurò nella foresta, mentre nuvole nere cariche di pioggia oscuravano il cielo arkiano…

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Capitolo 10
*** Missione compiuta (o quasi) ***


Asile, giustamente, non avrebbe partecipato alla battaglia. Cosa c’entrava lei, del resto? Lei era lì solo perché voleva togliere di mezzo gli animali clandestini da ARK. Così, mentre Kïma andava al luogo scelto per lo scontro con Nellim e tutti gli altri capaci di lottare, lei era rimasta alla cava coi vecchi e i bambini. Non tutti i vecchi, in realtà: Bargh aveva deciso di rendersi utile e a nulla erano servite le suppliche di Corliss. Aveva preso un arco tradizionale Nora in legno crinale decorato con due penne rosse e si era fatto dare un’armatura tipica Oseram per avere una protezione decente. Aveva giurato alla sua donna di tornare sano e salvo, prima di partire. Ora, quindi, Asile viaggiava ancora senza la sua nuova “amica”. Stava cavalcando verso Meridiana, siccome le era giunta notizia che quattro creature di taglia media, che riconobbe come dei velociraptor dalle descrizioni, erano arrivati a Meridiana dall’esterno, entrando nelle grotte collegate alla rete fognaria e uscendo da un tombino. Ora erano in giro che terrorizzavano tutti e divoravano le guardie reali che cercavano di fermarli. Quindi Corliss, per non pensare troppo a quanto era in pensiero per Bargh, si era offerta di indicarle la strada per Meridiana facendosi portare con Asile. A passo di cavalcatura, ci vollero più o meno tre ore. Arrivate alle porte della città, Asile fu subito ammirata dal suo aspetto semplice, ma al contempo così maestoso da sembrare quasi barocco.
 
«Uao… è davvero enorme! I nostri villaggi non sono niente al confronto!» commentò Asile, stupita: quella era senz’altro la cosa più emozionante che vedeva da quando era nel mondo di Aloy.
 
«Lo so, lo pensiamo tutti, la prima volta!» rispose Corliss, seduta sulla sella dietro di lei.
 
«Ci sei mai stata?»
 
«Io? Per carità, no! La città è troppo confusionaria e troppo mondana per me, specialmente con la mia età. Mi è sempre piaciuta di più l’aria fresca e la natura, specialmente quando mi godevo ancora i paesaggi della Terra Sacra»
 
«Ti manca?»
 
«Non so bene cosa risponderti… mio marito direbbe subito di no, mentre io a volte rimpiango la bellezza di quel luogo»
 
«A ciascuno il suo. Magari ci faccio un giro di piacere…»
 
Poco dopo, arrivarono alle porte della città. Una lunga fila era accalcata davanti al cancello sbarrato e le guardie  scuotevano la testa con risolutezza quando protestavano per l’attesa interminabile. Dicevano che dopo che i cittadini erano stati evaquati o fatti ritirare nelle loro case col coprifuoco, l’accesso a Meridiana era stato vietato.
 
«Credo di sapere perché stia succedendo questo. Vuoi che ti lasci qui, Corliss?» chiese Asile.
 
«Sì, grazie. Buona fortuna!»
 
Asile andò dalle guardie, che appena videro il suo contingente fecero correre via tutta la folla e la circondarono con lance, balestre o fucili Oseram pronti, terrorizzate. Le bestie, sentendosi minacciate, scoprirono i denti e si misero in posizione difensiva. Asile fece del suo meglio per non scomporsi e parlamentò:
 
«Calmi, calmi! Sono qui per dare una mano»
 
«Dare una mano? Hai con te dei mostri e uno è simile ai quattro che hanno già mangiato vivi cinque dei nostri compagni, cosa ci dice che non sei pericolosa o, peggio, che li hai mandati tu?» la provocò una guardia.
 
«Infatti, ma chi sei, tanto per cominciare? Da dove venite tu e questi esseri?» chiese un’altra.
 
«Io sono Asile, tanto piacere. Vengo da… oltremare, diciamo. E sono stata mandata qui dalla mia gente per liberare voi continentali dall’improvvisa invasione dei nostri animali. Qualche mercante fuorilegge voleva farli arrivare qui per venderli, ma sono scappati» non le venne in mente una bugia migliore.
 
Non poteva certo dire la verità, ci avrebbero capito meno di niente. Magari non le avrebbero nemmeno creduto. Le guardie sembrarono persuadersi poco a poco, a giudicare dagli sguardi che cominciarono a scambiarsi. Le chiesero se potevano davvero fidarsi e lei rispose fermamente di sì. Ci fu silenzio per qualche secondo, poi si convinsero a mettere via le armi e ad aprirle le porte della città:
 
«Se credi davvero di poter uccidere i mostri, non osare fallire!» le dissero, seri.
 
«Contateci» rispose la ragazza, entrando.
 
La città era bellissima anche dentro, in ogni singolo vicolo, anche se non c’era nessuno per strada. Gli edifici colorati, le piazze con le fontane, le bancarelle col mercato, le strade selciate…Era tutto così incantevole che Asile giurò di esplorarla per bene a lavoro finito. Non aveva bisogno di cercare: le sue bestie conoscevano bene l’odore di velociraptor, non dovette fare altro che ordinare loro di raggiungere i quattro in zona. Dopo un paio di minuti, ecco la prima vittima: una guardia senza elmo, con tre profondi graffi nell’uniforme e con la gola squarciata da un morso. Proseguendo, scesero in una galleria situata in un sottopassaggio di mezzo metro, con aperture arcuate che permettevano di vedere un pezzo di esterno: si trovavano in un mercato su due livelli, uno nei vicoli e uno lì sotto, all’ombra: c’erano prodotti deteriorabili, quindi li tenevano all’ombra. Il metalupo si girò verso un vicolo cieco a destra e lì trovarono il secondo corpo. Era prono e sulla schiena si vedevano vari buchi conici: gliel’avevano bucata con l’artiglio mobile delle zampe posteriori. Dalla pozza di sangue attorno al corpo partiva una scia di impronte e il contingente le seguì. Raggiunsero una scalinata su cui c’erano altre due guardie, una decapitata e l’altra con le interiora sparse sui gradini. Giunte in cima, le impronte rosse giravano a sinistra ed entravano in un vicolo, per poi introdursi nel retro-bottega di un edificio che, dall’insegna, si capiva essere una macelleria. La porta era sfondata e piena di graffi: essendo di legno e pure marcio, l’avevano buttata giù con poco.
 
“E così i quattro viziati hanno preferito i tranci già pronti alle prede vive? Devono essere abbastanza vecchi per fare così” ragionò Asile.
 
Passò dalle spalle di Arlak al carnotauro e si avvicinò lentamente all’ingresso. Dopo un paio di secondi, sentì uno sbuffo seguito dall’inconfondibile richiamo ticchettante dei velociraptor, infine udì del rumore di mandibole che masticavano freneticamente. Era ora di cominciare: allungò il braccio oltre la testa del carnotauro e bussò alla porta della macelleria, quindi fece arretrare il teropode e scansare gli altri. Come previsto, i velociraptor si allertarono all’istante e cominciarono a scambiarsi richiami e soffi con tono perplesso. Esitarono per un minuto, poi dalla porta sul retro uscì il primo di loro, con le piume nere. Appena li vide, strillò rivolto ai compagni, ma il carnotauro partì subito alla carica e lo investì, sbattendolo contro la parete del vicolo. Prima che si rialzasse, gli prese il collo e lo soffocò coi denti. Gli altri, usciti nel frattempo, andarono nella strada principale e furono presto sistemati dagli altri animali: il kentrosauro ne impalò uno, arlak ne afferrò un altro e lo stritolò finché gli si spaccarono le ossa e l’ultimo fu sbranato dal metalupo e dal barionice. Lavoro rapido, pulito e senza incidenti: Alocin sarebbe stato fiero di lei… forse.

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Un paio di ore dopo, Meridiana era tornata alla normalità. Asile si era presa un poco gioco delle guardie per la loro scarsità, ma loro le furono comunque riconoscenti per aver risolto il problema. Siccome si sentiva buona, quel giorno, regalò a ciascuno di loro un dente dei velociraptor. Poi, parlando con Corliss, affermò di avere una gran voglia di visitare la città. Siccome sapeva che non avrebbero più permesso alle bestie di entrare, le chiese se poteva tenerle d’occhio.
 
«Certo! Divertiti!» le augurò lei.
 
Così Asile iniziò a passeggiare fischiettando con le mani dietro la schiena per le strade di Meridiana, che ora era resa molto più allegra dal chiacchiericcio e dalla musica dei suonatori di strada. Sapeva già dove andare: il mercato. Sapeva già che lì avrebbe trovato più di qualunque altro posto oggetti interessanti. Ricordando che strada aveva fatto due ore prima per arrivarci, lo raggiunse e cominciò ad aggirarsi fra le bancarelle. Il primo reparto che trovò fu una serie di bancarelle in cui erano esposti pezzi vari di Macchine abbattute, smantellate e portate da cacciatori di taglie o semplici esploratori in cerca di guadagno. Erano quasi tutti pezzi di metallo abbastanza anonimi per lei, visto che non se ne intendeva. Poi notò, su un bancone col cartello “Monili”, una fila di artigli di Macchine dall’aspetto felino. Le venne subito la tentazione di prenderne uno e farne un pendente nuovo. Chiese al venditore cosa si usava per pagare lì.
 
«Cosa? Da dove vieni, per non sapere qualcosa di così ovvio?» chiese quello, sorpreso.
 
«Vengo da abbastanza lontano da conoscere gli esseri che vi hanno fatti sloggiare e sapere come ucciderli. E per questo ci starebbe un “grazie”, ma non voglio divagare…»
 
«Oh, davvero? E da te non ci sono Macchine?»
 
«No, ci sono dinosauri, insetti molto più grossi dei vostri, mammiferi glaciali e quant’altro. Ora, ti dispiacerebbe rispondere, prima che ti mandi a farti fottere?»
 
«Ehi, bel caratterino! Sei molto più interessante dei soliti clienti… comunque, usiamo i pezzi di metallo. Ma anche il baratto può andare»
 
Asile, allora, prese subito uno dei suoi vasetti di bile di ammonite, una delle sostanze obbligatorie da portare per ogni viaggio su ARK.
 
«Cos’è questo schifo?» chiese il mercante.
 
«Oh, solo una delle sostante mediche più utili del mondo. Ci puoi fare di tutto: disinfettare le ferite, rinfrescare le bruciature, proteggere la pelle dal Sole, guarire dalle malattie…»
 
«E funziona davvero?»
 
«Ehm… altrimenti perché ne avrei una scorta intera? Tienilo lontano dalla luce, però, altrimenti si asciuga»
 
«Affare fatto»
 
«Grazie!»
 
Col suo nuovo souvenir da trasformare in collana a casa in tasca, Asile decise di controllare almeno un paio di settori in più: anche se le piaceva lì, non voleva far aspettare troppo Corliss. Nel sottopassaggio trovò i banconi del pesce e degli ortaggi. Le interessava solo sentire sapori nuovi e, per fortuna, su dei piccoli taglieri c’erano dei pezzetti dei prodotti venduti per degustazione. Era chiaramente una piccolezza da ricconi raffinati come il cittadino medio di Meridiana, ma sembrava disponibile per tutti. Così prese un boccone di ogni cosa, resistendo alla tentazione di mangiare tutto: gli Arkiani sono proverbialmente ghiotti, tratto generato forse dal fatto che in origine erano continuamente a corto di risorse e solo dopo aver trovato il loro posto su ARK poterono liberarsi della fame: questa gola era comune a tutti da migliaia di anni. Le parve un po’ triste che i pesci fossero tutti così piccoli, paragonati ai celacanti, ai salmoni-vampiro o ai tentacoli di tusoteutide dei mercati del pesce degli Squali Dipinti. La frutta e la verdura non erano tanto diverse da quelle che conosceva, solo alcuni avevano dei colori un po’ differenti. E infine, nel settore “Armi, Caccia e Difesa”, fu attratta da un curioso misto fra una fionda e una balestra, chiamato “lancia-trappole”. Ricordava che, forse, Aloy gliene aveva parlato, ma non ricordava più. O non aveva ascoltato bene? In ogni caso, la volle: lei o suo zio avrebbero potuto farci parecchie cose utili a caccia. Così, in cambio di un altro vaso di bile, si fece insegnare ad usarlo e ne prese uno. Soddisfatta della sua gitarella, sempre guardando con estrema attenzione i dettagli sulle case, sugli abbigliamenti delle persone, sulle canzoni cantate per strada e molto altro, tornò al portone da cui era entrata già due volte. Corliss era dove l’aveva lasciata, intenta ad accarezzare il metalupo, sdraiato e scodinzolante.
 
«Oh, eccoti! Ti è piaciuto?»
 
«Sì, ho anche preso un paio di ricordini»
 
«Oh, che dolce!»
 
«Possiamo tornare alla cava, se vuoi»
 
«Sì, grazie: a quest’ora, la battaglia dev’essere finita… oh, Madre, fa’ che a Bargh sia andata bene! Aspetta ad accoglierlo fra le tue braccia!»
 
«Non perderti in preghiere e monta in sella!»
 
«Uff, sei proprio come Kïma: non hai idea di cosa sia la pazienza!»

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Era finalmente giunto: il momento di liberare ARK una volta per tutte dall’invasione delle Macchine. Dopo che si fu separata di nuovo da Alocin, Aloy raggiunse una delle strade più trafficate di ARK aiutandosi col suo focus, sperando di poter chiedere a qualcuno se sapeva dove poteva cercare o trovare il Divoratuono fatto di ferro e sangue. La percorse chiedendo a chiunque senza successo per due ore buone, ore durante le quali scoppiò un temporale tremendo: la pioggia scrosciava violentemente sul terreno, creando pozzanghere quasi dal nulla in pochi attimi, spaccando rami d’albero e facendo quasi male sulla sua pelle quando la colpiva. Ma alla fine, per fortuna, incontrò qualcuno che ne sapeva qualcosa: un uomo di mezza età che trasportava cuoio e chitina su un carretto trainato da una carbonemis, una grossa tartaruga cenozoica. Appena Aloy nominò la Macchina e ne fece una sommaria descrizione, l’Arkiano impallidì e annuì con forza:
 
«Oh, l’ho visto! Eccome se l’ho visto!»
 
«Bene! Dove e quando? Voglio distruggerlo»
 
«Sei pazza, straniera?»
 
«Per niente. Avanti, dimmi!»
 
«Lungo il fiume qui vicino, quello che porta alla palude: l’Egits. L’ho visto combattere un tirannosauro… e non hai idea di cosa gli abbia fatto! In confronto, questa pioggia infernale è la cosa più innocua di sempre!»
 
Aloy era vagamente preoccupata, ma decise di nasconderlo:
 
«Ehm… credo di poter immaginare cosa gli abbia fatto: è un Divoratuono, ne ho distrutto più di uno finora. E come arrivo al fiume?»
 
«Devi solo proseguire: c’è un punto di questa strada che ci passa proprio accanto. Da lì, se vuoi incontrare il mostro, vai a ridosso dell’Egits e prosegui andando a sinstra. Fossi in te, ne starei ben lontano! Ma tu fa’ come vuoi: è la tua vita che è in gioco, del resto, non la mia»
 
Detto questo, spronò la carbonemis e ripartì. Aloy, ancora determinata, andò avanti. Dopo qualche kilometro, come le era stato indicato, raggiunse il fiume. Da dove si trovava, vedeva solo la sponda con un albero piegato per le raffiche e un enorme macigno dalla forma strana. Ignorando l’intensificarsi del vento e della pioggia, riaccese il focus e si rese conto che non era un macigno, era il tirannosauro di cui l’Arkiano aveva parlato. La scansione le permise di vedere bene cosa gli era successo: ossa frantumate, testa carbonizzata, organi bucati, fori fumanti su tutto il corpo… il Divoratuono gli aveva fatto passare le pene dell’inferno tra gli attacchi fisici, le sue mitragliatrici al plasma e i suoi occhi laser.
 
“Accidenti… povera bestia!” pensò Aloy, colpita.
 
Il focus evidenziò le impronte inconfondibili del Divoratuono nel fango. Preparando già l’arco per prudenza, la ragazza seguì la pista. Man mano che proseguiva, le sponde del fiume si trasformavano lentamente in una gola alta e, pur essendo ampia, dall’aria claustrofobica. Forse era colpa del temporale che rendeva tutto più cupo e minaccioso. Fatto sta che lo trovò, finalmente: stava gironzolando avanti e indietro, dopo aver raggiunto il punto in cui si trovava ora, come solito delle Macchine. Aloy doveva pensare con attenzione a tutte le fasi del suo scontro, se voleva vincere. Innanzitutto, le serviva un posto sopraelevato per poterlo colpire meglio. Andò alla parete e, sforzandosi di non scivolare sulla roccia bagnata, raggiunse una piccola rientranza in cui poteva stare inginocchiata. La prima cosa da fare, sempre e comunque, contro un Divoratuono era rompere il radar che aveva sulla schiena: quello era il suo terzo occhio, col quale vedeva dovunque attorno a sé entro un certo raggio. Quindi, presa una freccia dirompente. Si sforzò di mirare nei brevi istanti in cui il Divoratuono stava un minimo fermo, cosa non facile per via della pioggia, e scoccò quando le sembrò opportuno. Funzionò: l’impulso fece letteralmente saltare via il radar, con una fontana di scintille. I visori del bestione diventarono rossi e lui la trovò quasi subito. Ma la sua reazione arrivò molto più velocemente del previsto: appena la vide, iniziò una scarica di proiettili di plasma che sbriciolavano la roccia dove la toccavano. Aloy saltò giù appena in tempo per non farsi disintegrare. Atterrò rotolando e dovette cominciare subito a correre come una pazza furiosa, perché il Divoratuono e la sua scarica cominciarono subito ad inseguirla rapidamente. Lei provò ad aggirarlo, per poi colpire le grosse taniche di Vampa sulle anche per fargli prendere fuoco, ma il Divoratuono sollevò la coda e provò a schiacciarla. Lei schivò, ma subito la Macchina provò a travolgerla con una spazzata e Aloy si salvò saltandola come si salta la corda.

Era a dir poco senza parole: non c’era assolutamente paragone con la prima volta che l’aveva affrontato o con qualunque altro Divoratuono. Dire che era velocissimo e stranamente capace di prevedere le mosse dell’avversario sarebbe stato un eufemismo. Il Divoratuono non le lasciò tregua: si girò subito dopo la spazzata, spalancando la “mandibola”, e caricò a testa bassa. Aloy scartò di lato e ne approfittò per colpire le due bombole mentre la Macchina inchiodava e scivolava sul terreno infangato. Pochi secondi più tardi, un’incandescente esplosione di fiamme avvolse il Divoratuono, sciogliendo e arrotondando i bordi delle sue placche corazzate. Il Divoratuono guardò Aloy e si preparò a fare un’altra raffica, ma ormai lei si era ripresa dallo sbandamento iniziale: sapeva adattarsi al ritmo dell’avversario. Colpì con una freccia dirompente uno dei fucili sulla testa, rompendolo. Ma il Divoratuono l’aveva ingannata: non voleva fare la raffica di plasma, voleva attivare i due lancia-dischi ai bordi della schiena. Con una bestemmia contro la Madre, Aloy fece un’acrobazia all’indietro mentre il primo disco metallico partiva, atterrando dove prima c’era lei. Se uno solo di quelli l’avesse toccata, l’avrebbe tranquillamente tagliata in due.
 
“A quanto pare avere il sangue al posto dell’olio gli ha fatto bene!” pensò.
 
Se solo avesse continuato le sfide della Loggia, prima di andare su ARK… aveva sentito che fra i primi premi per i vincitori c’era una formidabile arma ad aria compressa chiamata “squarciatore”, capace di smantellare viva qualsiasi Macchina in pochi colpi. Sarebbe stato molto più facile… ma, quando il Divoratuono finì di sparare dischi, un fulmine guizzò in cielo. Poco dopo, ci fu un rumore fortissimo che, però, non era affatto un tuono. Era un ruggito. Aloy dovette coprirsi le orecchie per quanto era intenso e anche il Divoratuono ne parve scosso. I suoi visori diventarono gialli e lui cominciò a guardare il bordo della sporgenza dietro la ragazza. Aloy guardò a sua volta e, mentre un altro lampo rendeva ogni cosa bianca, una gigantesca sagoma antropomorfa, nera e pelosa saltò giù dalla sporgenza con le braccia sollevate e, sotto lo sguardo sconvolto di Aloy, sbatté la testa del Divoratuono per terra quando atterrò.

Era arrivato Kong, il re di ARK. Sbattendo i pugni sul petto, ruggì al Divoratuono, che rispose col suo verso, che gli dava quel nome per la sua somiglianza ai tuoni. Il gorilla si lanciò immediatamente all’assalto e gli tirò un pugno in testa che fece volare via uno dei rinforzi sulle tempie e lo fece quasi cadere. Scosse la mano per il dolore, non abituato a colpire qualcosa di così coriaceo, e tornò a combattere. Afferrò uno dei tubi di gomma pendenti che, dai fianchi, andavano nel collo del Divoratuono e lo tirò, facendo rotolare la Macchina nel pantano per svariati metri. Buttò via il tubo, che gli era rimasto in mano, e si avvicinò al Divoratuono, ma quello sollevò la testa e gli sparò addosso la raffica di plasma. Kong si alzò in piedi urlando e indietreggiò, proteggendosi la faccia con le braccia e sopportando le scottature il più possibile. Dove il plasma lo colpiva, rimenevano cerchi di pelo bruciacchiato che puzzava di carne affumicata, ma la pioggia li spegneva quasi subito. Aloy intervenne prendendo una freccia ghiacciata e colpendo uno dei piccoli serbatoi di Gelo sulla pancia del Divoratuono. Lo scoppio di nebbia fredda congelò all’istante il Divoratuono, rallentandone i movimenti e forzandolo a cessare il fuoco. La Macchina si alzò lentamente e Kong gli saltò addosso, “cavalcandolo”. Avendo capito da dove venivano quelle strane palle blu e bollenti, gli afferrò le mitragliatrici e, serrando le zampe posteriori contro i suoi fianchi per aiutarsi, iniziò a tirarle. Aloy rimase a bocca aperta vedendo quanto facilmente stava riuscendo a smuoverle e piegarle. Alla fine, con un ultimo grido di fatica, le strappò, lasciando i fissaggi in cortocircuito. Il Divoratuono sparò un disco, che si infilò nella schiena di Kong. Il gorilla urlò dal dolore e dalla sorpresa e cadde. Strisciò poco più in là e, cercando il disco tastandosi la schiena, lo tolse e lo gettò via. Prima che si alzasse, il Divoratuono lo bloccò a terra mettendogli la zampa sul dorso. Gli avvicinò la mandibola alla testa e strinse le due valvole sul suo collo per soffocarlo. Ma Aloy tirò due frecce esplosive alle basi dei lancia-dischi, staccandone uno a metà e distruggendo l’altro. Il Divoratuono si riconcentrò su di lei e le si avvicinò a passo svelto. Ma Kong, rialzandosi subito, gli afferrò la coda e lo fermò.

Dopo qualche secondo passato cercando di liberarsi tirando, il Divoratuono cominciò ad agitare la coda per fargliela mollare, ma il Megapiteco non cedeva. Aloy corse accanto a lui e, riprendendo una freccia dirompente, colpì la giuntura che univa le due metà della coda. Così Kong rimase con la punta in mano e il Divoratuono, senza più niente a trattenerlo, partì a razzo in avanti e scivolò, finendo rovesciato. Grazie a ciò, il lancia-dischi ancora funzionante si staccò del tutto e rimase sul terreno. Ruggì, ma Kong lo interruppe colpendolo in testa usando la coda come mazza. Il rottame si frantumò e lo scimmione lo buttò via. Il Divoratuono, privato delle armi da fuoco, accese gli occhi laser e provò a colpire Kong. Ma il gorilla vide in tempo il ventaglio di raggi rossi e iniziò a correre in giro per non esserne toccato. Aloy sapeva esattamente cosa fare: corse al lancia-dischi, lo imbracciò e cominciò a sparare più in fretta che poteva al Divoratuono. Gli tolse quasi tutte le placche e ruppe uno dei visori. E, finalmente, il vano sul fianco si squarciò e lei poté vedere il cuore del Divoratuono, il suo punto più vulnerabile e la componente di Macchina più preziosa sul mercato dei rottami. Se l’avesse colpito bene, un paio di dischi sarebbero bastati a distruggerlo. Aloy sparò ancora, ma non successe niente: i dischi erano finiti proprio nel momento cruciale. Il Divoratuono la fissò e gli occhi laser stavano per accendersi, ma Kong lo placcò, gli mise le mani sotto la parte inferiore del corpo mentre atterravano e, quando fu in piedi, lo sollevò sopra le sue spalle come un wrestler con uno sforzo sovrumano. Poi lo lanciò contro la parete rocciosa, il Divoratuono sbatté la testa cadendo e si ruppe anche i dispositivi che lanciavano i raggi. Kong si avvicinò grugnendo. Aloy rimase a guardare con ammirazione, mentre il gorilla sollevava lentamente le braccia, cominciando poi a tempestare il corpo ammaccato del Divoratuono di pugni. Alla fine si stancò e si fermò, ma il Divoratuono era ancora funzionante. Kong si sedette e cominciò ad ansimare, stremato. Aloy volle aiutarlo ancora. Prese la lancia e si avvicinò lentamente, stando attenta a non sembrare aggressiva. Kong la fissò sospettoso e lei sollevò le braccia.
 
«Piano, piano! Sono dalla tua parte, l’hai visto!» disse.
 
Kong continuò a guardarla, ma cambiò espressione: sembrava più rilassato, ora. La ragazza, allora, andò dal Divoratuono, raggiunse l’apertura da cui si vedeva il cuore e rimase sconcertata: quello non era un cuore di Divoratuono, era un cuore vero! Doveva essere, insieme al sangue, l’ultima cosa organica che gli era rimasta di quel tirannosauro morto, non ancora assimilata. Aloy si riscosse e lo infilzò. Ma prima che estraesse la lancia, il Divoratuono ruggì e si alzò, ruggendo e sbalzandola via. Sovrastandola, la Macchina aprì la mandibola e fece per schiacciarla sotto il suo peso, ma Kong intervenne ancora: lo fece tentennare con un pugno; poi, andandogli di fianco, con una mano gli afferrò la testa e la tenne ferma, quindi... mise l’altra nel buco, afferrò il cuore e lo strappò dal corpo. Il Divoratuono si bloccò e rimase fermo come una statua per qualche secondo. Poi i visori si spensero, il corpo fu attraversato da scariche elettriche, emise un ronzio simile a quello di una radiolina rotta e si distese su un fianco, definitivamente spento. Kong guardò il cuore nella sua mano, lo strizzò fino a spappolarlo e buttò i resti per terra, mentre l’ennesimo lampo illuminava il cielo grigio scuro. Guardò Aloy ancora una volta con aria incuriosita e lei non seppe se emozionarsi o avere paura. Kong guardò i pezzi di cuore sotto di sé e vide la lancia dell’umana. Ci appoggiò un dito sopra e la spostò fino alla proprietaria, “restituendola”. Le rivolse un versetto allegro con una faccia che pareva divertita, poi andò alla parete, la scalò e sparì oltre la sporgenza. Aloy avrebbe giurato di sentirlo ruggire mentre un tuono rombava.
 
Era finita, ce l’aveva finalmente fatta. Le Macchine non sarebbero più state un problema per ARK. Si inginocchiò sulla sponda del fiume ed esultò a pieni polmoni, levando le braccia al cielo. Poi, gioiosa e ridente, accese il focus e chiamò Sylens. Non sapeva nemmeno perché lo stesse facendo, semplicemente le serviva dirlo a qualcuno seduta stante. Gli disse di aver finito con le Macchine e lui si complimentò. Col suo solito tono superbo e arrogante, ma lo fece. Ora, se avesse voluto, sarebbe stata più che libera di prendersi una pausa lunga quanto le pareva per imparare di più sull’isola e godersi una “vacanza” inter-dimensionale, prima di tornare a casa. Chissà, magari avrebbe convinto Sylens a darle il telecomando di Ryomo per andare su ARK quando le sarebbe venuta voglia: Alocin era una persona con parecchi difetti, ma ne valeva la pena averlo come amico. Asile, poi, sembrava simpatica, avrebbe voluto conoscerla meglio e farsi guidare al mondo arkiano da lei. Terminata questa riflessione, Aloy si alzò e tornò alla strada: avrebbe chiesto come andare al villaggio dei Teschi Ridenti, così avrebbe potuto andare a salutare Alocin e raccontargli dello scontro epico col Divoratuono. E fu così che, per la seconda volta nella sua vita, Aloy salvò un mondo.

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Capitolo 11
*** Tutto sistemato ***


Asile e Corliss tornarono alla base e la videro piena di gente come al solito, il che era davvero un buon segno: significava che la battaglia aveva mietuto poche vittime. Con grande gioia dell’anziana Nora, Bargh era già lì, all’entrata, che la aspettava: immaginava quanto fosse in pensiero, così aveva pensato di darle sollievo fin da subito. I due si abbracciarono forte, mentre Asile li guardava sorridente. Poi Bargh salutò Asile:
 
«Ciao, straniera!»
 
«Ciao! Corliss mi ha portata a Meridiana, è davvero bella»
 
«Sì, così dicono. Perché ci volevi andare?»
 
«C’erano degli animali arkiani, il dovere mi chiamava»
 
«Oh, capisco. Senti, Nellim vuole parlarti, lo troverai nella sua grotta»
 
«Parlarmi? E perché mai?»
 
«Vuole essere lui a raccontarti il resoconto della battaglia»
 
Asile rimase perplessa:
 
«Eh? Che senso ha? A me non interessa»
 
«Ma a lui sì. Ti conviene andare, vedrai…»
 
Asile rifletté un secondo guardando per terra, poi si strinse nelle spalle e andò da Nellim.

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«Oh, eccoti» salutò Nellim, quando vide Asile.
 
«Scusa, perché mi vuoi parlare di com’è andata? A me non interessa… anzi, mentre venivo qui ho sentito delle voci per cui i velociraptor a Meridiana erano le ultime bestie dalla mia isola che si vedevano in giro da quando tutto è cominciato, quindi avrei anche finito! Domani pensavo di salutare tutti e portare Kïma su ARK nel portale che mi hanno lasciato apposta per il mio ritorno, me l’ha fatto pro…»
 
«Silenzio! Fammi parlare!»
 
«Oh, scusa»
 
«È proprio di lei che devo parlarti. Come puoi capire dal nostro tono di allegria, abbiamo vinto»
 
«Ho notato. Ora mi è venuta voglia di saperne di più! Come avete fatto? Quanti di voi sono morti?»
 
«Nessuno»
 
«COSA?!?»
 
«Vedi, io non ho scelto il campo di battaglia a caso. Fin dai tempi del padre di Brachio, che era molto più temibile del figlio, ho pensato di far allestire una miriade di trappole e mine in quel prato, in caso avessi avuto da negoziare con la sua banda e ci fossimo accordati per uno scontro. Inoltre, negli anni, ci siamo sempre resi utili come potevamo alle altre tribù, in modo da poter chiedere loro aiuto in caso di necessità. Le persone con problemi sociali si uniscono a me per loro scelta, ma questo non significa che per il resto del mondo smettiamo di esistere. Anzi, voglio che il mondo ci stimi!»
 
«Mi sembra giusto. Quindi?»
 
«Io e Brachio ci siamo sfidati al corpo a corpo, come d’accordo. Ha vinto lui, quindi la battaglia è iniziata. Ma come i suoi si sono fatti avanti, due terzi di loro sono esplosi con le nostre mine. Sono state molto efficaci pure contro le creature dalla tua isola che aveva domato! Le abbiamo abbattute quasi tutte, quindi in realtà non hai finito… ma ti manca poco. Ora, qui arriva il problema…»
 
«Cioè?»
 
«Kïma, in qualche straordinario modo, è stata rapita e catturata»
 
«Oh…»
 
«Mentre Brachio e i suoi pochi superstiti scappavano con la coda fra le gambe, dall’alto è piombata un’immensa aquila che l’ha afferrata e portata via con loro. Non so quanto la cosa ti preoccupi, ma nel caso voi due vi steste affezionando l’una all’altra… vuoi venire con me e alcuni dei miei migliori per recuperarla? So già dove possono essere»
 
«Scherzi? Certo che vengo! Le ho promesso di mostrarle ARK e, soprattutto, lei mi ha salvata: è più che ovvio che le debba un favore grande così!»
 
«Molto bene. Partiremo immediatamente…»

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Kïma fu portata alla base di Brachio, posto che conosceva molto bene, e appena l’argentavis la mollò Brachio la raggiunse e la tramortì. Si svegliò nel bel mezzo del rottamaio, con la testa che le faceva un male cane: le sembrava che potesse scoppiare da un momento all’altro. Si mise seduta, ma si stupì per quanto fece fatica a compiere ogni singolo movimento, dal muovere le braccia a sollevare il busto: i muscoli agivano molto più lentamente di quanto lei volesse che facessero e ogni azione la affaticava moltissimo.
 
«Che mi succede?» si chiese ad alta voce, una volta che fu seduta.
 
«Indovina?» rispose una voce molto familiare dietro di lei.
 
Si voltò e vide brachio seduto su una testa di Celermorso.
 
«Ah, figlio di puttana! Avrei dovuto sgozzarti subito poco fa…»
 
«Ma non l’hai fatto perché sei scema. E ora eccoti qua, insieme a me per l’ennesima volta! Solo che oggi la tua vita avrà fine, perché mi sono stancato di te. E poi ucciderti dopo tutte le umiliazioni che mi hai costretto a sopportare da quando eravamo ragazzini…»
 
«Ehi, non è colpa mia se sei così facile da prendere per il culo…»
 
«ZITTA!!! Tu non ti rendi conto, Kïma… i miei uomini sono sull’orlo della rivolta, non mi vogliono! Sono tutti così ignoranti e insolenti da sbattermi in faccia che mio padre era migliore di me, quando dovrebbero rispettarmi e temermi senza discutere…»
 
«Che ti dicevo?»
 
«Ora, come se non bastasse, ho perso quasi tutti loro e pure tutti quelli che avevo lasciato qui a sorvegliare! Su questo dovrò indagare, ma non credo che importi, ormai… se non fosse per il vecchio con cui collaboro e i suoi rifornimenti dall’isola dell’indigena con cui vai a spasso come la cagnetta che sei, mi avrebbero già fatto un mazzo così…»
 
«Devi accettare la verità, bello: resterai sempre ignorato, inutile e senza donne, perché non vali niente»
 
«Be’… almeno io ho avuto dei genitori!»
 
«EHI!!! Smetti di rinfacciarmelo! AFRODITE è sicuramente meglio di qualunque genitore al mondo! Piuttosto, che diamine succede al mio corpo?!»
 
«Succede che ora io sfogherò tutta la mia ira funesta su di te e tu potrai farci pochissimo!» le rispose Brachio, mostrandole ridendo una spina di cactus che lei riconobbe subito.
 
«Quello è…»
 
«Eh, già: indionigro! Non potrai muoverti bene per un bel pezzo. Avrei potuto farti due punture e bloccarti del tutto, ma poi che gusto ci sarebbe stato?»
 
«Non vale!»
 
«Siamo a casa mia e a casa mia vale tutto quello che faccio. Forza, affrontami! Considerala un simpaticissimo confronto privato: tutti gli altri sono al cancello a fare la guardia, siamo come soli»
 
Detto questo, prese un coltello e glielo passò. Aspettò che Kïma lo prendesse e si alzasse a fatica, quindi si mise in posizione di combattimento, stando disarmato. Kïma, per niente disposta a non combattere, decise di sfidare la sorte in ogni caso. Si buttò in avanti alla velocità di una tartaruga e iniziò a tirare una serie di patetici fendenti privi di vigore che Brachio schivava semplicemente indietreggiando. Ogni tanto sbadigliava per farla arrabbiare ancora di più. Nel mentre, pensava distrattamente a quante fosse funebri sarebbero servite per onorare la morte dei caduti in battaglia, con lapide ed epitaffio. Ad un certo punto, giustamente, Kïma si stancò e non poté fare a meno di fermarsi per prendere fiato. Brachio non perse occasione di provocarla:
 
«Ehi, forse vado un po’ fuori argomento, ma te ne intendi di fosse?»
 
«Cosa?»
 
«Sai, a parte quella che ti stai scavando da sola»
 
«Taci e combatti!»
 
«Eh, se insisti…»
 
La raggiunse e le tirò un gancio allo stomaco che le svuotò i polmoni. Le venne d’istinto mettersi le mani sulla pancia e piegarsi in due, quindi fece cadere il coltello. Kïma perdeva gocce di bava dalla bocca aperta e, per la fatica di muoversi, ora anche riprendere fiato le sembrava un’impresa.
 
«Oh, non eri pronta? Avresti dovuto dirlo, così te lo davo più piano…»
 
«Fottiti!»
 
«Spiacente, Kïma, ma una volta che si comincia un duello non ci si può più fermare!»
 
La colpì sul naso, poi le tirò un calcio nel fianco sinistro, infine le afferrò le caviglie e la tirò all’indietro per farla cadere.
 
«Non si rubano le battute…» lei riuscì comunque a scherzare.
 
In realtà, l’idea dell’indionigro era già venuta a lei una volta precedente: il padre di Brachio l’aveva mandato a saccheggiare un villaggio di allevatori con un gruppo di banditi e lei, mandata da Nellim a salvare gli abitanti, l’aveva trovato a torturare gli abitanti dopo che gli altri se n’erano andati per divertimento personale. Disgustata, aveva deciso di punirlo a dovere. Così, notando un indionigro in un vaso davanti a una delle case, aveva preso due spine senza farsi vedere, l’aveva raggiunto e poi paralizzato. Quindi gli aveva dato il benservito. E ora le toccava subire la stessa cosa, solo che non aveva fatto niente per meritarlo davvero. Questo, più le botte e le battute di lui rendevano tutto una pena mentale insopportabile. Brachio le afferrò i capelli e la trascinò fino ad un cumulo, poi la mollò un secondo. Mentre lei provava a rialzarsi, prese una placca arrugginita e gliela fece cadere in testa, rintronandola.
 
«Oh, deve fare male...» commentò lui.
 
A Kïma si offuscò la vista e le ronzavano le orecchie. Si sentì sollevarsi da terra: Brachio l’aveva caricata sulle spalle e stava scalando con calma il cumulo. Quando arrivò in cima, le chiese se le piaceva rotolarsi giù dalle colline. Prima che capisse, si ritrovò a cadere rovinosamente giù per la montagna di rottami, graffiandosi da tutte le parti e macchiandosi d’olio. Se dopo tutto ciò non avesse preso il tetano, sarebbe stato un miracolo. Quando smise di cadere, si ritrovò per terra a guardare il cielo. Le faceva male tutto e sapeva bene di essere ferita, ma ringraziò per non essersi fatta (ancora) niente di grave. Senza perdere la forza di volontà, si girò sulla pancia e prese a strisciare verso una sbarra di ferro che vide poco più in là, sperando di poter provare ad usarla per difendersi. Brachio scese dal cumulo e la raggiunse fischiettando. Prese un chiodo da una cassetta e, quando la raggiunse, la sollevò di nuovo per i capelli e la punse in diversi punti della schiena, sperando di strapparle almeno uno squittio infastidito, ma lei non fece una piega. Allora andò a prendere la sbarra di ferro e la colpì alle giunture, strappandole dei lamenti: lei non voleva affatto gridare e dargli soddisfazione. Brachio disse di essersi finalmente sfogato e... che ora poteva anche finirla.
 
«Dannato bastardo! Dovresti morire tu!»
 
«E adesso che abbiamo finito... manderò i tuoi pezzi marcescenti alla tua finta madre creata dagli Antichi!»
 
«Tu non sai dov’è AFRODITE...»
 
«Infatti!»
 
Sollevò la sbarra per fracassarle il cranio, ma si fermò quando sentì un gran casino oltre i cumuli del rottamaio, fra grida di battaglia e ruggiti animali. Sospettando di cosa potesse trattarsi, impallidì e cominciò a sudare freddo: Nellim doveva aver mandato una truppa per schiacciarlo una volta per tutte. Subito dopo, in cima al cumulo apparve Arlak, di cui si vedeva solo l’ombra perché dietro di lei c’era il Sole. Il gigantopiteco prese un rottame grosso quasi quanto lei e, urlandogli contro, glielo lanciò. Brachio si accucciò coprendosi la testa, temendo di essere schiacciato, ma il pezzo di ferro atterrò molto più in là. Lui, comunque intimidito, si allontanò da Kïma indietreggiando. Al gigantopiteco si unì Asile, armata di balestra, che appena vide l’amica corse da lei seguita dalla scimmia.
 
«Asile? Oh, era ora che arrivaste! Speravo ci fossi anche tu» commentò Kïma, sorridendo.
 
«Ciao! Ho sentito che ti avevano catturata, così quando Nellim è partito per salvarti mi sono unita a loro. Mi devo sdebitare per la volta scorsa e pure farti vedere ARK!»
 
«Pensi che me ne sbatta qualcosa in questo momento? Guardami! Sono conciata da buttar via! E non riesco quasi a muovermi, ad alzarmi!»
 
«È vero! Sei tutta una ferita...È stato seriamente lui a farti questo? Non mi era sembrato così pericoloso...»
 
«Non ci posso credere... ancora tu! - esclamò Brachio - Stammi a sentire, straniera! Non ricordo nemmeno più perché ti ho fatta rapire, ora sei venuta a distruggere quel poco che mi restava fra uomini e creature della tua terra... ma almeno lasciami ammazzare quella strega!»
 
«Ehi, io non ti devo niente, tantomeno rispetto!» ribatté Asile.
 
«Vedi, io e Kïma stavamo... discutendo: lei voleva vivere e, be’, io no»
 
«Eh? Perché vuoi morire?»
 
«Cosa? No, ehm... io... io intendevo... voglio che lei muoia»
 
«È perché sei un perdente dalla nascita?»
 
«COSA???»
 
Asile, da degna nipote di Alocin Olledmon, iniziò a provocarlo godendo come una sadica:
 
«Sai, i ragazzi di Nellim mi hanno raccontato un po’ di cose su di te mentre venivamo qui: che non vali niente, che tuo padre era un temibile nemico, mentre tu sei solo un bambino cresciuto, che non sai fare il capo, che anche se li avessimo risparmiati i tuoi uomini di sarebbero fatti ammazzare solo per non dover più sopportare la tua idiozia...»
 
Kïma non poteva crederci: nemmeno lei avrebbe mai potuto essere così disinvolta, creativa e provocatoria ad insultare Brachio! Lui, colpito dove faceva più male, iniziò a stringere pugni e denti. Le lanciò la sbarra, ma la giovane Arkiana la schivò senza problemi.
 
«No… no, no, no, no, no! Tutto questo non è giusto! Perché deve fare tutto così schifo?! Sono stato all’ombra di mio padre per tutti quegli anni… meritavo di splendere!» frignò lui.
 
Asile e Kïma si scambiarono un’occhiata compiaciuta, poi la prima disse:
 
«Sai, se non mi avessi fatta morire di fame in una cantina mi faresti compassione, ma siccome l’hai fatto… no. E poi, da quello che so, sei uno schifoso criminale che non è altro che un danno alla società, quindi credo che ti farò ammazzare! Arlak, prendilo!»
 
Il gigantopiteco grugnì divertito e si avvicinò rapidamente a Brachio. Terrorizzato, il bandito scappò dietro uno dei cumuli, verso la sua baracca, ma Arlak lo inseguì, lo raggiunse e gli fratturò entrambe le braccia e le gambe come se stesse spezzando un legnetto, poi lo buttò via, facendolo rotolare nella polvere. Asile gli si parò davanti e commentò:
 
«Non so cosa tu abbia fatto a Kïma, ma direi che questo parifica i conti! Anzi, ora faccio anch’io la mia parte…»
 
Gli sollevò la testa e gli spaccò il naso. A questo punto, disse che era soddisfatta e che poteva “farlo pagare per la sua vita inutile e fatta di crimini”, come Nellim l’aveva autorizzata a fare.
 
«No! No, aspetta! Possiamo trovare un accordo?»
 
«Uhm… no. Vai, Arlak!»
 
Il gigantopiteco prese il bandito e lo sollevò sopra la propria testa, dunque iniziò a tirare la testa da una parte e le gambe da un’altra…Finché Brachio si spaccò in due metà grondanti sangue e viscere. Arlak si sporcò tutta la pelliccia e buttò via con noncuranza il corpo macellato, poi tornò dalla padrona e giocò a sporcare anche lei di sangue.
 
“Ah, missione compiuta! Che bello…” pensò Asile.

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L’indomani, Nellim indisse una festa per celebrare la sconfitta definitiva della banda che per tanti anni aveva messo loro i bastoni fra le ruote. Fece anche un piccolo discorso per ringraziare Asile e Kïma per il contributo. Alle due ragazze fu dedicato un graffito in dimensioni reali su una delle pareti della cava e loro lasciarono una firma accanto ai loro ritratti. Approfittarono del festeggiamento per legare ancora di più, raccontarsi parecchi più aneddoti sulle loro vite: Asile rivelò tutto quanto sulla morte dei suoi genitori e su quanto “particolare” fosse suo zio, mentre Kïma rivelò di non avere parenti. Con grande meraviglia di Asile, anche se ormai la biografia di Aloy le aveva permesso di farsi un’idea delle stramberie di cui la dimensione di Zero Dawn fosse capace, la ragazza tatuata rivelò di essere stata generata da un’incubatrice degli antichi con diecimila anni di ritardo e di essere stata cresciuta dall’intelligenza artificiale AFRODITE, che l’aveva letteralmente curata e amata come una madre vera. Era stata adottata da Nellim a dieci anni, ma non aveva mai smesso di andarla a trovare. In risposta, Asile le disse che sicuramente era un mentore meno traumatico di Alocin.
 
«Tuo zio sembra una persona divertente, me lo farai conoscere?» chiese Kïma.
 
«Volentieri! Però… se lo vedi ubriaco, copriti bene il petto e tieni le brache mooooolto in alto, altrimenti rischia di balzarti addosso come un deodonte in calore!» la avvertì lei.
 
«…d'accordo, questa era strana»
 
Ed entrambe scoppiarono a ridere. Ora erano sedute su uno dei gradoni, accanto alle loro cavalcature da ARK e/o Macchine sottomesse, a guardare la comunità che si divertiva, con dei boccali di birra artigianale Oseram. Poco dopo, Corliss e Bargh vennero a fare i saluti finali, in caso Asile pensasse di partire presto. Spiegarono che sarebbe tornata a casa appena Kïma si fosse rimessa in sesto del tutto. L’importante, in ogni caso, era che fosse finita per tutti.

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SEI MESI DOPO…
 
Dopo la fine delle vicende che, per un incidente, avevano collegato due dimensioni, si erano andate a risolvere parecchie questioni in sospeso. Asile presentò Kïma a suo zio e, per fortuna, tutte le volte che lo videro era sobrio. Aloy e Kïma si conobbero e fecero amicizia quasi subito, nonostante la differenza di carattere, così Asile decise di fare da cicerone ad entrambe, visto l’interesse comune di esplorare ARK. Le tre si divertirono un mondo e Kïma fu spesso tentata di restare lì a vita, ma ogni volta le veniva nostalgia di casa e di Nellim, figura quasi paterna per lei, anche se si vergognava di lasciarlo capire. Aloy era affascinata più dalle creature di ARK, Kïma dallo stile di vita dei nativi: de gustibus. La Nora volle anche spiegare un po’ di più sul suo mondo ad Alocin, che col tempo diventò un amico vero e proprio amico e che le fece frequentare spesso Lefeuvre e gli altri, facendola simpatizzare anche con loro. Contemporaneamente ai loro meritati svaghi, Sylens proseguì le ricerche di Ryomo basandosi sui progetti scritti dal vecchio Carja. Kïma aveva raccontato ad Aloy delle batterie e, quindi, lei aveva convinto il suo contatto a prestarle quella del telecomando affinché Kïma potesse andare al bunker dove la speciale armatura avanzatissima e dotata di scudo oleografico degli Antichi e sbloccare i sigilli che impedivano di prenderla. Quando la ragazza ebbe finito, Sylens riprese le batterie (irritandosi nel frattempo, ma quelle erano sottigliezze) e lavorò sui telecomandi finché riuscì a fabbricarne tre: uno per sé, uno per Aloy e il terzo per Kïma, su richiesta di Aloy e Asile. E fu così che i tre membri del mondo di Zero Dawn divennero in grado di andare e venire a piacimento, in modo che i loro congedi non fossero mai degli addii: ognuno di loro tornava frequentemente, incapace di resistere al richiamo dell’isola. Perché, come Charles Darwin scrisse nel suo libro, la vera magia dell’isola preistorica era la voglia di tornarci che ti trasmetteva: chi riesce a lasciarla, non lo fa mai del tutto, una parte della sua anima rimarrà per sempre abitante di ARK.

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«Hahahahaha, certo, come se qualche donna potesse darti un minimo di attenzione con quei baffi!» rise Alocin, bevendo uno speciale amaro di spezie costiere.
 
«No no no, fidati! In vita mia ho vissuto prima in Camargue, poi a Monaco e infine a Toulouse, e in tutte e tre ho perso il conto di quante sono cadute ai miei piedi!» rispose Lefeuvre, svuotando la sua damigiana.
 
Il gruppo di amici era radunato sull’isoletta degli Squali Dipinti a fissare il tramonto sull’oceano, Osnofla li aveva invitati a fare una mangiata di pesce allo spiedo da lui per il suo compleanno e nessuno aveva perso l’occasione di incontrare gli altri, anche se Aras doveva stare a casa per tenere d’occhio il bambino nato pochi mesi prima.
 
«Sarà, ma di certo nessuno di voi due è stato più romantico di me quando ho imparato a conoscere Aras!» si intromise Ocnarf.
 
«Eh no: tu sei impegnato, non conti più! Noi preferiamo la bella vita, altro che matrimonio! Ci sono stranieri che dicono che sposarsi è come prendere una freccia nel ginocchio, immagina…»
 
«Ma per piacere! E chi sarebbero questi stranieri?»
 
«Mah, non so… ne ho conosciuti un paio ed entrambi dicevano di venire da un posto molto freddo e nevoso»
 
«À propos, Alocin… dov’è l’ospite d’onore? Mi manca la vista di quel buisson rouge…»
 
«Dovrebbe arrivare presto, mi ha detto che… oh, eccola lì!»
 
Dalla macchia mediterranea alle loro spalle apparve Aloy, con un ampio sorriso stampato in faccia. Li raggiunse e si sedette con loro, come le fecero posto.
 
«Ciao, ragazzi! Sempre bello rivedervi» salutò.
 
«Eccoti accontentato, Lefeuvre! Se vuoi cacciare il naso nei suoi capelli, è la tua occasione» scherzò Alocin.
 
«Cosa?!» sobbalzò lei.
 
«Niente… una cosucccia fra noi» la rassicurò Osnofla.
 
«Forza, Aloy, parla anche ai ragazzi di quella promozione di cui hai accennato stamattina… non ho capito tanto bene neanch’io» la incalzò Alocin.
 
«Certo! Ragazzi, ricordate quando ho parlato della Loggia dei cacciatori?»
 
«Credo di sì» disse Ocnarf.
 
«Vagamente» rispose Osnofla
 
«Comme ci comme ça» ammise Lefeuvre.
 
Aloy prese la nuova arma che aveva portato per quella visita su ARK e la piantò nella sabbia, in modo che tutti potessero vederla bene: era lo squarciatore, dunque era diventata in via ufficiale la miglior cacciatrice fra le tribù del suo mondo. Alocin le chiese se poteva fare una dimostrazione e lei accettò: imbracciò l’arma, la puntò contro una roccia nera a qualche ventina di passi di distanza e premette il grilletto. Un secondo dopo, dentro il macigno c’era un buco a forma di cerchio perfetto che lo attraversava da parte a parte, permettendo di vedere bene il paseaggio attraverso esso. Senza parole, i quattro amici fecero cascare le damigiane e Aloy nascose una risatina.
 
«È stato… uao!» commentarono.
 
«Ehi, ho un certo appetito… non è che avete qualcosa per me?»
 
«Ho, ho ancora parecchi pesci sulla barca! Te ne arrostisco subito uno…» Osnofla si alzò e corse al lido.
 
Intanto, Aloy si sedette di nuovo e ricominciarono a conversare del più e del meno…

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INTANTO, NELLE PRATERIE…
 
«Posso guardare, adesso?» chiese Asile, che si stava facendo guidare ad occhi chiusi.
 
«Aspetta un secondo… ora puoi» rispose Kïma.
 
La nipote di Alocin aprì gli occhi e vide un diplodoco stecchito sull’erba. Le due avevano fatto una scommessa, quella mattina: se Kïma fosse riuscita ad abbattere un diplodoco selvatico, che ultimamente dava fastidio alle femmine usate per il trasporto persone perché era in calore, di cui le taglie parlavano e solo con la fionda e le munizioni esplosive, Asile l’avrebbe portata a guardare il panorama sull’isola volante, se no Kïma le avrebbe prestato l’armatura degli Antichi.
 
«Congratulazioni! Sei andata a ritirare i ciottoli?»
 
«Sì, ma penso che li regalerò a te: non me ne faccio niente nel mio mondo»
 
«Giusto. Bene, allora seguimi! Ti porto all’isola volante»
 
E si incamminarono, mentre il cielo diventava nero e spuntavano le stelle…

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Con un’ultima vangata, Sylens finì finalmente di sotterrare ADE, che per tutto quel tempo aveva tenuto chiuso in una lanterna ad insaputa di Aloy. Era un rischio tenerlo in giro nel loro mondo: avrebbe potuto scappare e intaccare qualche dispositivo per riacquisire potere. Ma ora che c’era ARK, dove non c’era alcuna tecnologia analoga a quella di GAIA, lui sapeva che era il nascondiglio perfetto: potendo andare e venire a piacere, ora l’aveva completamente in pugno.
 
«Tu non hai ancora finito di istruirmi, quindi sappi che non finisce qui… verrò a trovarti presto. Piuttosto presto»
 
L’aveva già interrogato sui suoi creatori e aveva provato ad usarlo per attivare il gigantesco relitto a forma di ragno che poteva vedersi da qualunque punto del territorio dei Nora, ma niente: evidentemente gli sfuggiva un passaggio di sorta che doveva ancora scovare. Si sarebbe impegnato a trovarlo di lì in avanti.
 
“Rilassati quanto puoi su quest’isola, Aloy: ho l’impressione che avranno ancora bisogno della loro salvatrice, presto o tardi” pensò.
 
Attivò il telecomando di Ryomo e scomparve dietro la nuvola viola.

FINE

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