Racconti improvvisati

di titania76
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Viale della Ginestra ***
Capitolo 2: *** Il giorno dopo ***
Capitolo 3: *** L'appuntamento ***
Capitolo 4: *** Sogni ***
Capitolo 5: *** La prova ***
Capitolo 6: *** Messa in scena ***
Capitolo 7: *** Solitudine ***
Capitolo 8: *** L'ultimo è quello buono ***
Capitolo 9: *** Working woman or not? ***
Capitolo 10: *** Il paradiso è la mia casa ***
Capitolo 11: *** Occasione mancata ***



Capitolo 1
*** Il Viale della Ginestra ***





Il Viale della Ginestra



(parole 738)

Tutti in paese sapevano perché quella strada era chiamata il Viale della Ginestra.
Da secoli, mai nessun albero, o arbusto, o cespuglio, era cresciuto ai suoi margini; solo una ginestra, a neanche un metro da un'antica pietra miliare che segnava il km XXIII per non si sapeva dove, nata spontanea – o forse portata da qualcuno – ed era riuscita a sopravvivere. Una misera, rachitica, ginestra della specie spinosa, che faceva una manciata di fiori gialli sui rami più bassi, di quelli che quasi toccavano terra.
Tutti in paese sapevano il perché di quello strano fenomeno, ma nessuno sembrava volerne parlare. Non apertamente, quantomeno.
Terry era arrivata in paese due giorni prima, seguendo le voci su una strada maledetta. Aveva preso una camera in un motel appena fuori del centro abitato e, armata del tipico entusiasmo dei giornalisti alle prime armi, aveva subito iniziato a fare domande in giro.
Il più delle volte, quando cercava di insistere, dagli intervistati ricavava delle alzate di spalle; altre volte invece, veniva investita da così tante chiacchiere che si contraddicevano fra loro che alla fine non sapeva più cosa credere.
Entrò nell'unico bar ancora aperto, si sedette al bancone e ordinò un cappuccino doppio senza schiuma, sbuffando e borbottando che le facevano male i piedi.
«Non dovrebbe perdere tempo in questo modo.»
Terry si girò verso il vecchio che aveva parlato: non era sicura che si stesse rivolgendo a lei. Poi, tornò a guardare il barman che smanettava con la macchina per il cappuccino, tamburellando le dita sulla superficie nera lucidata a specchio del bancone.
«La stanno solo prendendo in giro.»
Terry si girò di nuovo: «Sta dicendo a me?»
Il vecchio la fissò con i suoi occhi scuri sotto le folte sopracciglia bianche, alzò il bicchiere di vino rosso in una sorta di brindisi, lo vuotò tutto d'un fiato e uscì.
La giovane rimase a bocca aperta e si riscosse solo quando il barman le mise sotto il naso il cappuccino.
«Non dia retta al vecchio Donnie, per un cicchetto è disposto a raccontarle che un tempo, là, dove termina il viale della Ginestra e ora c'è la villa del sindaco, sorgeva un castello nel quale si consumò un cruento omicidio.»
La giovane fece un sorriso e iniziò a sorseggiare il suo cappuccino. Fra le leggende e storie che le avevano raccontato, quella le mancava!
Quando uscì dal bar, il cielo stava cambiando di colore, dall'azzurro intenso di quel pomeriggio stava passando a un grigio spento, preludio dei nuvoloni neri che presto avrebbero portato un gran acquazzone.
Prese la strada per tornare al motel, per quel giorno di certo non avrebbe ottenuto altro. Ne avrebbe approfittato per riordinare gli appunti che aveva preso e riascoltare le registrazioni delle interviste. Chissà che qualcosa di utile non ne avrebbe comunque ricavato, se non per l'articolo che doveva scrivere, almeno una o due idee per un racconto.
Attraversò la strada con quei pensieri nella testa mentre le prime gocce di pioggia iniziavano a cadere. Alzò lo sguardo e una grossa goccia le finì sulla guancia, come una lacrima solitaria.
«Ehi!»
Terry si fermò e si guardò attorno. Nonostante il rumore del traffico e il chiacchiericcio di un gruppetto di ragazzini delle medie che stava correndo, zaino in spalla, verso la sala giochi, riconobbe la voce del vecchio.
«Ehi, signorina! Da questa parte! La vuole sapere la vera storia?»
Terry ci pensò un po' su: non era così audace da seguire uno sconosciuto che la invitava a entrare in un vicolo deserto. Se almeno ci fosse stato suo marito con lei... Benjamin era un giornalista dal gran fiuto e avrebbe capito subito se dietro c'era una vera storia o meno.
Mise la mano nella borsa a tracolla. Vi frugò, indecisa se prendere il portafogli per pagare da bere al vecchio e toglierselo dai piedi, o lo smartphone per registrare qualunque cosa avesse voglia di raccontarle.
Forse, in fin dei conti, quell'incarico senza speranza che nessuno alla redazione voleva, perché era ritenuto una bufala, poteva rivelarsi qualcosa di più per lei. Forse...
Decise che ne valeva la pena e seguì quell'uomo.

Qualche mese dopo, in una giornata uggiosa di fine autunno, Oscar Davis prese una camera al motel appena fuori dal centro abitato.
La sua redazione gli aveva affidato l'incarico di investigare sulla misteriosa scomparsa di una giovane dal paese, che aveva lasciato come unico ricordo del suo passaggio una lauta mancia per un cappuccino doppio.




Le parole assegnate:
SPECCHIO – LACRIMA – AUDACE – PIETRA – RICORDO – CASTELLO – MARITO – VIALE – GINESTRA – SPERANZA.


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Capitolo 2
*** Il giorno dopo ***




Questa breve flashfic è stato il primo esperimento in cui mi sono cimentata nella gare delle #fantastiche10, ovvero scrivere in un mezzo pomeriggio un raccontino con 10 parole prestabilite. All'epoca non sapevo bene come funzionasse la cosa, ma il risultato non è stato malaccio. Scritta poco più di un anno fa, non l'ho più toccata da allora.
Buona lettura!





Il giorno dopo



(parole: 306)

Vedersi allo specchio quella mattina era come buttare del sale su una ferita aperta e, benché l'episodio fosse fumoso nella sua memoria, l'immagine che aveva davanti ai suoi occhi le ricordava la cazzata compiuta la sera prima; quando, già un po' brilla, aveva accettato la proposta.
Non era bastata la bella strigliata di spugna e sapone che si era data, né passare in abbondanza lo struccante, consumando dischetti su dischetti. Quei segni di pennarello sul suo viso erano ancora lì, indelebili, anche se un poco attenuati, ma con l'aggiunta di aloni rossastri a ingigantirne l'effetto.
Sbuffò, piegandosi di nuovo sul lavandino e strofinandosi con vigore con acqua e sapone. Il viso le faceva male, iniziava a bruciare.
Nelle orecchie aveva ancora il sommesso rumore dello sciabordare del Soave nel suo bicchiere ogni volta che Gianni glielo riempiva, incoraggiandola poi a buttarlo giù, tutto d'un fiato, neanche fosse stato uno shortino di vodka.
E come andava giù! Dopo il terzo, non ci aveva fatto più caso.
«Mai fidarsi di certi “amici”», borbottò, posando la punta delle dita sulle guance a nascondere quegli orribili baffi. «Altro che “bellissima pantera”», sbuffò ancora. Ora si sentiva un gattaccio di strada.
Quella sera, l'apprezzamento – anche se accompagnato da qualche mano un po' troppo lunga – l'aveva gradito; si era persino sentita lusingata e a suo agio. Strano per lei, che da tempo immemore non passava una bella serata in compagnia e, soprattutto, non si divertiva tanto.
Quando era stata l'ultima volta che aveva partecipato a una festa in maschera? Non ne aveva idea, ma l'album delle fotografie giù in cantina aveva almeno due dita di polvere.
Con la matita per gli occhi rinfrescò quei tratti neri, si passò sulle labbra il rossetto di bel colore passione e, preso il telefono cellulare, scattò un selfie.
Una cosa del genere andava immortalata!



Le parole assegnate:
SALE - PENNARELLO - TELEFONO - SCIABORDARE - SOAVE - PANTERA - POLVERE - FUMOSO - AMICI - IMMEMORE


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Capitolo 3
*** L'appuntamento ***





L'appuntamento



(parole: 229)

Seduta sulla panchina di legno, continuava a guardare l'orologio a intervalli regolari, iniziando a immaginare ogni sorta di scenario castrofico per giustificare il suo ritardo.
«Non è da lui. Non è proprio da lui», rimuginava, scrollando la testa ogni volta.
D'improvviso fu risvegliata dal ruggito feroce del treno che passava sui binari delle montagne russe, con i suoi su e giù repentini, le curve incredibili e i giri della morte, fra vibrazioni micidiali e le urla spaventate dei passeggeri.
Sembrava una freccia color smeraldo, dal corpo asciutto e sinuoso, che fendeva la foschia; una strisciante mano biancastra che veniva dal mare e ingoiava piano il pontile, portando con sé il pungente odore di salsedine e pesce marcio.
Era una macabra giostra, tra i festanti chioschi dalle tinte sgargianti dedicati ai bambini, carretti che vendevano zucchero filato alla vaniglia e improbabili clown che regalavano palloncini dalle forme buffe, annodati a fili sottilissimi che si aggrovigliavano nei guanti enormi.
Attese ancora qualche minuto, con il cuore in gola; poi, si alzò, rimettendosi la giacchetta sulle spalle e stringendo la borsetta al petto.
Non si erano mai dati un appuntamento ufficiale, eppure lei aveva preso l'abitudine di passare la sua pausa pranzo seduta su quella stessa panchina, nell'unica speranza di vederlo mentre distribuiva i volantini in quel piccolo angolo di luna park; e la rendeva felice più che avere un fidanzato premuroso.



Le parole assegnate:
RITARDO - GIOSTRA - ASCIUTTO – VANIGLIA - SMERALDO - FILI - LEGNO - FEROCE - FOSCHIA - PUNGENTE

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Capitolo 4
*** Sogni ***





Sogni



(parole: 485)
Sogni di essere un astro nascente e tutti che ti vogliono.
Immagini i grandi cambiamenti che questo comporterà nella tua vita: la timidezza che un tempo dominava la tua vita ora è accantonata in un angolo, assieme alle cose vecchie che vorresti buttare, perché sai che non ci sarà più posto per loro; perché tornare indietro non è una buona cosa.
Progetti di farti una bella casa, magari a più piani. Che sia tirata su dalle fondamenta, o ristrutturata poco importa. Sarà spettacolare. Ci sarà un piano tutto per te, magari una mansarda, con i lucernari e una bella finestra rivolta a nord, dove cullare i tuoi nuovi progetti, stare un po' con te stesso e guardare il mondo là fuori che si dimena frenetico, come uno show in prime time.
Stabilisci ogni dettaglio dell'arredamento, perché quello è il tuo regno.
Il primo passo è la scelta del colore alle pareti: qualcosa alla moda, ma che non stanchi. Un bel tortora medio-chiaro, che fa risaltare gli altri colori e non contrasta troppo con gli infissi in legno naturale. Poi, tante librerie basse, color avorio, a riempire quella parete là, dove il tetto ha un'inclinazione più marcata, e che altrimenti non sarebbe utilizzabile. Un po' più al centro della grande stanza, metti una scrivania imponente, non in kit, ma di vero legno massello. Qualcosa che ti faccia sentire importante, fa niente se poi ci metti su il computer e lo usi solo per giocare.
Altre librerie arriveranno fino alla finestra, con le tendine svolazzanti per la brezza che entra e il sole che riempie la stanza di calore e positività. Lì accanto già trova posto una comoda poltrona con il sistema relax per le gambe. Indispensabile, perché sai che dovrai condividerla con il gatto. Non fai fatica a vederlo che sonnecchia beato, acciambellato proprio nel mezzo. Qualche pianta qua e là, perché una punta di verde ci vuole; mette allegria.
Ti vedi lì dentro, con la serenità nel cuore, il futuro roseo, la giovinezza intaccabile. Respiri a pieni polmoni la delicata fragranza che esce dal diffusore, come nelle pubblicità della Glade. Di solito non ti piacciono quelle troppo fruttate o dolciastre, ma per una volta hai scelto l'essenza al frangipane, perché te l'ha consigliata un'amica.
Tutto è bello, tutto è luminoso, persino la tua carnagione ha una vitalità che mai avresti pensato avrebbe avuto.
Poi, il fragore di un tuono che cade tanto vicino da far tremare persino i vetri dei quadri, ti risveglia e piombi nel tuo buco di appartamento con la finestra che dà su un cortile in cemento e la pioggia battente che neanche ti permette di aprirla per far cambiare l'aria.
Del futuro radioso è rimasto solo uno schizzo su un foglio a quadretti, la tua solita faccia dalla pelle smunta e l'espressione delusa di chi si sente una meteora che cade dietro l'orizzonte, senza neppure fare abbastanza clamore da incuriosire qualcuno.




Le parole assegnate:
CAMBIAMENTI - DELUSO/A - ORIZZONTE - FRANGIPANE - CARNAGIONE - SHOW - TEMPO - PRIMO - CULLARE - ASTRO


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Capitolo 5
*** La prova ***





La prova



(parole: 495)
Quando fece quel primo passo, per oltrepassare la soglia del labirinto, la sua innocenza era ancora intatta. Del gruppo di amici, solo il danzatore era stato l'unico che si era proposto. Forte della determinazione dei giovani spavaldi, e il cuore pieno di un coraggio che sapeva più di un atto di romanticismo verso la bella cantante, che di vera audacia per l'avventura, vi si addentrò, ignaro e inconsapevole di cosa avrebbe trovato; lasciando lei e i due musici a pregare per la sua sorte.
Chi in passato aveva affrontato quella prova, non era tornato indietro per raccontare cosa aveva visto.
Nei testi antichi veniva chiamata la prova dell'abisso, ma nessuno sapeva esattamente perché. Alcune fra le interpretazioni più accreditate motivavano quel nome con la natura stessa del territorio sopra il quale era stato costruito il labirinto, nel centro del quale si apriva una immensa voragine, che altro non era che una miniera di diamanti ormai esaurita da tempo. Altre puntavano di più sull'importanza del viaggio stesso, nel quale era inevitabile guardarsi dentro e ciò che si vedeva non sempre era ciò che ci si aspettava di vedere.
In altri documenti invece, era scritto che l'abisso era l'entrata al mondo sotterraneo dove dimorava il dio della Distruzione. Per questo motivo, migliaia di anni prima, era stato costruito tutt'attorno quell'insidioso e terrificante labirinto; e se mai qualche sciocco fosse riuscito a raggiungerne il cuore, avrebbe decretato la fine degli uomini.
Infine, fra le carte proibite, quello stesso luogo era descritto come un luogo mistico, regno di esseri divini che custodivano la fonte eterna, le cui acque, dalla freschezza immacolata, si diceva essere in grado di guarire ogni malattia. Essi avevano le sembianze di giovani ragazze dai lunghi capelli neri come la notte che toccavano terra, gli occhi dorati che sapevano scrutare l'animo e la carnagione lattea, perfetta, che faceva sfigurare persino la luna.
Con le loro voci cristalline recitavano dolci liriche che sapevano incantare e con la stessa leggerezza della brezza di primavera creavano danze che facevano perdere la nozione del tempo.
Era quest'ultimo che il giovane danzatore voleva dimostrare: l'esistenza di quelle creature e della fonte, per guarire la voce della bella cantante, che amava in segreto.
I suoi passi risuonavano fra i lunghi corridoi bui e umidi del labirinto; ma tanto più si avvicinava al suo centro, tanto più questi diventavano chiari, luccicando come oro alla fioca luce della fiamma della torcia che tendeva in avanti. Per lui, quel luogo che aveva spaventato generazioni di giovani del suo popolo, era come la strada per tornare a casa. Inconsciamente riconosceva ogni svolta, ogni bivio, ogni muro, che accarezzava con la punta delle dita. Continuava sicuro nel suo intento, fin quando non sentì quelle voci mistiche che lo guidarono per l'ultimo tratto, che si apriva in un grande giardino lussureggiante, con statue di marmo bianco, cascate e ruscelli e l'aria profumava di fiori,  non gli fecero dimenticare il motivo per il quale era arrivato fino a lì.




Le parole assegnate:
DISTRUZIONE - MALATTIA - FRESCHEZZA - INNOCENZA - DETERMINAZIONE - ROMANTICISMO - ABISSO - LIRICA - LEGGEREZZA - LABIRINTO.


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Capitolo 6
*** Messa in scena ***





Messa in scena



(parole: 448)

«Fate chiamare mastro Terrin. Che trascriva la cronaca delle mie gesta, affinché i posteri siano testimoni della consacrazione che merito!» dichiarò solenne Sir Verlock, impettito nella sua armatura nera, appoggiando un piede sulla parte bassa della merlatura delle mura che cingevano la cittadella. In mano reggeva l'elmo sormontato da lunghe piume d'argento che si agitavano al vento. Era un vento freddo, aggressivo, che schiaffeggiava il suo viso e quello degli uomini rimasti ancora in piedi al suo fianco; che manteneva tesa la bandiera del casato e portava ai loro nasi il puzzo della morte.
Si sporse un poco, a contemplare il campo di battaglia dove i suoi nemici giacevano senza vita, immersi nel loro stesso sangue. Sputò su di loro con disprezzo e crudeltà. Poi, voltandosi verso i suoi uomini, alzò l'elmo e lanciò al cielo un grido di vittoria.
I suoi occhi erano animati di un macabro bagliore, mentre aizzava gli animi.
«Stoooop! Bene così!» gridò Frankie, alzandosi dalla sedia da regista. «Spegnete i ventilatori e fate scendere gli attori da lì!»
«Sam, passi che tu voglia usare il metodo Stanislavskij anche per una recita scolastica, ma non credi che sputare sia stato eccessivo?» disse, guardando disgustato quel... quel... Trattenne un conato. «Buddy, porta lo scopettone e vedi di togliere in fretta questo sangue di maiale, fa una puzza insopportabile», ordinò, sbuffando e tornando al suo posto. Poi, contravvenendo alle disposizioni del teatro di posa, si accese una sigaretta. Era una trasgressione alla sua etica, benché ci tenesse a rispettare le regole, aveva una necessità estrema, addirittura vitale, di fumarsi quella dannata sigaretta per togliersi dal naso e dalla gola quel fetore.
Si appuntò mentalmente di dirne quattro all'attrezzista di scena: glielo aveva detto che bastava dell'acqua colorata!
Tirando la sua sospirata boccata, si soffermò a guardare il suo attore protagonista, intento a farsi aiutare a togliere l'armatura.
«Linda, portami un asciugamano! Questa ferraglia è un vero forno!» disse il giovane, rivolgendosi alla giovane, che aveva il ruolo di truccatrice e costumista e che altri non era che la sua ragazza.
Quando lei gli si avvicinò, la prese per un braccio, la strattonò e la strinse a sé con un ghigno. Si guardarono negli occhi, Samuel aveva ancora la stessa strana luce di poco prima mentre interpretava il ruolo del terribile Verlock e lei sembrava una damigella alla sua mercé. Cedendo all'impulso del momento la baciò di forza davanti ai menbri del club del cinema.
«Smettila di atteggiarti a stereotipo del gran cattivone!» lo rimproverò lei, non contenta della situazione. Con un gesto non proprio imprevedibile gli diede un sonoro schiaffone, suscitando negli spettatori dei risolini che soppiantarono i fischi e le ovazioni ottenuti con il bacio.



Le parole assegnate:
CRUDELTA' – CRONACA – CONSACRAZIONE – SANGUE – MACABRO – BAGLIORE – TRASGRESSIONE – IMPULSO – STEREOTIPO – IMPREVEDIBILE.


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Capitolo 7
*** Solitudine ***





Solitudine



(parole 519)

Sarebbe stato poco originale, se non addirittura banale, parlare di silenzio assordante fra loro. Lui era cambiato. Jamie neanche aveva capito come e perché suo marito fosse cambiato, ma era successo. Una mattina l'aveva salutata sulla porta di casa, prima di andare in ufficio, e la sera stessa quasi non le aveva rivolto la parola.
Erano andati avanti così per due mesi, a parlare lo stretto necessario, a distogliere lo sguardo, a evitare qualsiasi contato e a scambiarsi sorrisi tirati.
Poi, una sera, lui le aveva detto che aveva bisogno di un periodo di pausa. Di riflessione. L'occasione era arrivata direttamente dal suo ufficio con la proposta di un viaggio all'estero. Gliene aveva parlato mentre stavano guardando Ghost in TV, seduti sul divano: lui da un lato e lei da quello opposto. Fra loro c'era così tanta distanza che se entrambi avessero steso il braccio l'uno verso l'altra, non sarebbero neanche arrivati a sfiorarsi la punta delle dita.
Dallo schermo ultra piatto passavano le immagini della scena del vaso, forse la scena più romantica del mondo del cinema e Bobby le aveva sganciato quella bomba.
Non aveva potuto scegliere il momento meno opportuno.
Glielo aveva detto con quel tono che spesso usava quando le faceva una delle sue rivelazioni, che diceva sempre avrebbero cambiato la loro vita. E in effetti, per una volta così era stato.
Lei non aveva saputo dire se le lacrime che le erano scese sulle guance fossero state dovute al film o al significato di quelle parole. Perché nonostante lui si fosse premurato di aggiungere, forse per rassicurarla, che al suo ritorno le cose si sarebbero aggiustate, che era certo che sarebbero stati di nuovo felici, lei aveva capito fin da subito che quella era l'anticamera della rottura definitiva.
Jane e Jessica glielo avevano detto che quel rapporto era nato troppo presto. Che quell'attrazione che li aveva travolti, portandoli all'altare dopo appena cinque mesi di frequentazione, non era amore, ma solo qualcosa di fisico. Che lui era ancora acerbo per un passo importante come quello.
Parole dure, menzogne, quelle delle sue due migliori amiche, che avevano portato a un'incomprensione dopo l'altra, fino a quando Jamie le aveva escluse dalla sua vita. Aveva sciolto il club delle “magnifiche J”, che durava dai tempi delle medie e aveva preferito credere nel suo sogno.
Ora che Bobby si era trovato un'altra ed era andato via dal loro appartamento, la mancanza della sua presenza – e le parole sagge di quelle sorelle allontanate – era una punizione insopportabile per lei. Così, quando si ritrovava la sera, da sola su quel letto, in una casa silenziosa, si sentiva come sprofondata negli inferi, dove paure e angosce le si avvinghiavano addosso, dove le mancava l'aria per respirare; e l'unica medicina che aveva a disposizione era assaporare la vaga impronta dell'essenza al tamarindo dello shampoo che ancora permeava il cuscino di suo marito. Un'ossessione che ne scacciava un'altra. Un'ombra effimera che rimpiazzava l'assenza di qualcuno a cui lei aveva donato se stessa. Un palliativo al suo cuore infranto e una speranza, seppure impossibile, che davvero un giorno sarebbero stati di nuovo felici.



Le parole assegnate:
ATTRAZIONE – OSSESSIONE – PRESENZA – INCOMPRENSIONE – ESSENZA – INFERI – RIVELAZIONI – ACERBO – ORIGINALE – ASSORDANTE.


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Capitolo 8
*** L'ultimo è quello buono ***





L'ultimo è quello buono



“Sara non riusciva a prendere la decisione giusta. Quell'ascensore l'avrebbe portata fino al 4° piano e fino alla camera 647, e sapeva benissimo cosa, ma soprattutto chi ci avrebbe trovato!!!!”



*****



(parole: 1166)
Durante il tragitto per tornare a casa, seduta sul sedile posteriore del taxi che l'aveva prelevata dall'aeroporto, continuò a domandarsi se quei pochi giorni che si era presa per riflettere sulla sua vita fossero stati sufficienti, oppure se, una volta varcata quella soglia, tutto sarebbe stato come prima.
Sara non era famosa per essere una persona decisa, spesso si sentiva smarrita senza il supporto della sua famiglia, o delle sue amiche. E sì che sul lavoro era tutta un'altra cosa! La chiamavano la draghessa, perché quando qualcosa non andava come voleva lei, o qualcuno non era all'altezza delle sue aspettative, era capace di sbranare il malcapitato di turno. Ma nella vita privata, ahimé...
Quando aprì la porta del suo appartamento e fece il primo passo sul vecchio parquet cigolante, intravide qualcosa sotto la suola del sandalo. Si portò gli occhiali da sole sulla testa e strizzò gli occhi per vedere meglio, poiché l'appartamento era immerso nella penombra e fuori invece c'era un sole estivo.
Era una busta da lettera color acquamarina con piccoli ed eleganti ghirigori argentati in rilievo.
Emise un breve gridolino, lasciando cadere a terra la borsa da viaggio, il mazzo di chiavi con il pupazzetto del suo cartone animato preferito di quando era adolescente e tutta la posta arretrata che aveva faticato ad estrarre dalla casella della posta. Poi, quasi nel panico, guardò a destra e a sinistra del pianerottolo e si affrettò a chiudersi la porta alle spalle.
Il cuore iniziò a battere più veloce.
Questa volta lui c'era andato fin troppo vicino. Non aveva bisogno di aprire e leggere cosa gli scriveva. Raccolse la busta da terra e, stringendola al petto, arrivò fino al frigorifero, dal quale prese  una lattina di soda all'arancia. Le serviva qualcosa di forte. Oh, sì! Questo era uno di quei casi in cui era sacrosanto arrendersi e bere quella dannata bibita. Ce l'aveva lì a disposizione da più di tre mesi dall'ultima litigata. Quella volta alla fine aveva resistito, ma ora...
Buttò i sandali sotto il tavolino basso e si accasciò con uno sbuffo sul divano morbidoso. Sentiva le guance diventare gradualmente bollenti. Picchiettò le unghie sulla lattina, rimuginando sul da farsi: doveva chiamare sua madre e dirglielo, oppure doveva indire una chat d'emergenza con Tina e le altre?
Di certo loro avrebbe voluto essere aggiornate su com'era andata la vacanza che tanto avevano insistito si prendesse e non avrebbero perso tempo a subissarla di consigli, più o meno truculenti, su come risolvere il suo problema.
Sbuffò. Ancora.
Ingollò l'ultimo lunghissimo sorso di veleno zuccheroso e si stravaccò per bene sul divano. Chiuse gli occhi, cercando di non pensare a niente, ma inevitabilmente la sua mente tornava a quella busta che era andata a raggiungere le altre, che dall'inizio dell'anno lui le aveva fatto pervenire e che lei teneva nella mensola portabottiglie del frigorifero. Ogni volta trovava i modi più fantasiosi e originali; ma questa volta, benché fosse andato sul tradizionale, la sorpresa l'aveva travolta come una fresca onda del mare.
Non si accorse del passare delle ore fin quando il suo stomaco non le diede la sveglia con un sonoro gorgoglio; fuori dalla finestra il sole stava ormai tramontando, il bagaglio era rimasto abbandonato nell'ingresso come una vittima di guerra, doveva fare la spesa – altrimenti per cena sarebbe stata costretta a mangiare la pizza surgelata vegana che le aveva portato Tina l'ultima volta che aveva invaso casa sua – e passare dalla vicina per recuperare Perlina, la sua micetta. Ma di tutte quelle cose proprio non aveva voglia di fare niente, almeno in quel momento.
«Ma perché non mi vuole lasciare in pace?» borbottò, entrando in camera da letto e lasciando cadere a terra i vestiti nel tragitto. Questa volta doveva proprio decidersi e chiudere la faccenda in modo definitivo e una bella doccia fredda le avrebbe sicuramente tolto la stanchezza del viaggio e dato la scossa necessaria per affrontarlo.
Ci mise quasi due ore per prepararsi, intanto che ripassava il discorsetto che gli avrebbe fatto; e, una volta messa una pietra sopra si sarebbe concessa una cenetta al ristorante del Grand Hotel, tanto l'avrebbe messa sul suo conto: aragosta e carpaccio di pesce spada avrebbero di certo soddisfatto il suo stomaco.
Quando uscì di casa il suo spirito battagliero era ai massimi livelli, ma più si avvicinava alla sua meta, più i dubbi si riaffacciavano in lei.
«No, no, no. Sarò dura e risoluta!» si ripeteva come un mantra, per farsi coraggio. Persino di fronte alle porte dell'ascensore continuava a recitarlo, persino a dispetto delle occhiate di quelli che le passavano accanto, entrando e uscendo dagli altri ascensori.
Attese che non ci fosse nessuno per salire. Eppure, nonostante le diverse occasioni che le si erano presentate nei minuti successivi, i suoi piedi non volevano collaborare. Quell'ascensore l'avrebbe portata fino al quarto piano e poi, avrebbe dovuto percorrere il corridoio fino in fondo, fino alla camera 647, una suite privata che lei conosceva come casa sua. Sapeva benissimo cosa l'avrebbe aspettata e soprattutto chi ci avrebbe trovato. Ma era davvero pronta ad affrontare tutto quello? Se lo avesse preso, in un modo o nell'altro la sua vita sarebbe cambiata. Stava a lei decidere in che modo.
Era così difficile...
Si ritrovò a camminare in circolo davanti agli ascensori che di tanto in tanto si aprivano e si chiudevano, borbottando fra sé e tormentandosi le unghie. Le sue belle unghie decorate con le nail-art che si era fatta fare sul lungomare di Rimini la mattina prima di partire.
«Ma perché sto ancora qua?» si chiese a voce alta, sempre sovrappensiero.
«Già, me lo chiedo anch'io», le rispose in tono suadente una voce maschile che lei conosceva alla perfezione.
Sara alzò di scatto la testa e in quel momento si sentì avvampare.
«Lorenzo»
«Sara»
L'uomo sfoggiava un sorriso magnifico – proprio come il suo soprannome –, nonostante l'angolo della bocca fosse sporco di briciole di torta.
«Sapevo che questa volta avresti ceduto. I colori Tiffany sono sempre stati i tuoi preferiti. Vieni, sopra stiamo divorando gli assaggi delle torte nuziali. Abbiamo già stabilito tutto, manca solo la farcitura. Se non mi sbaglio la tua preferita era la mousse alla pesca, vero?»
Le prese la mano e la trascinò nell'ascensore, premendo subito il pulsante per il quarto piano per non darle il tempo di fuggire.
Aveva preparato tutto da mesi, gli inviti ufficiali erano stati stampati con ognuna delle carte che le aveva mandato per l'approvazione, gli anelli erano in mano al testimone, la chiesa prenotata, l'abito attendeva la sua padrona nell'armadio, le composizioni floreali decise. Giugno era il momento giusto e non le avrebbe permesso di dirgli di no.
Non era abituato ai rifiuti, ma aveva sempre trovato divertente le titubanze della sua fidanzata. Almeno fino a quel momento, perché se quella farsa si fosse protratta più a lungo, avrebbe perso la faccia con chiunque lo conosceva. Ora era arrivato il tempo per entrambi di mettere la testa a posto e di fare il passo decisivo.



note:
Qui ci vuole un piccolo chiarimento su questa one-shot e sulle prossime due. I brani sono stati scritti per una differente gara indetta dal gruppo fb Letture Sale & Pepe, che consisteva nel dare una frase guida e tirar fuori un racconto. La frase in questione poteva essere ripresa pari pari, modificarla e adattarla all'occorrenza, o anche solo prenderne ispirazione.
In queste tre one-shot, le parole in corsivo quindi non si riferiranno a parole assegnate, ma sono parole se sottolineano o sottintendono qualcosa di particolare, che altrimenti andrebbe messo fra le classiche virgolette; parole che esaltano situazioni, enfatizzano l'ironia dei date situazioni.



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Capitolo 9
*** Working woman or not? ***






Working woman or not?




“Laura è una donna di grande successo, esce dal grattacielo che ospita gli uffici della Elcom a testa alta per i risultati raggiunti, ma dentro di lei qualcosa si spezza.”



*****


(parole: 691)

Quando Laura uscì dall'ingresso principale del grattacielo, con il portinaio in livrea che le spalancava la grande porta di vetro temperato al suo passaggio neanche fosse stata una regina, l'aria piena di smog della città le sfiorò il viso come la più premurosa delle carezze. Sentiva ancora la mano indolenzita e le dita – all'altezza degli anelli – le facevano male per quanto gli anziani del consiglio di amministrazione gliel'avessero stretta e si erano profusi in congratulazioni con lei.
Si era sudata ogni stramaledetta promozione che aveva avuto nella sua carriera lavorativa. Per più di dieci anni aveva fatto da vice a un incompetente che si era preso il merito di ogni suo progetto, ma questa volta...
Questa volta se l'era presa lei il centro della scena. Quando si era alzata nella sala riunioni e aveva sbugiardato il suo capo, uomo, si era sentita come Melanie Griffith in “Una donna in carriera”. Del resto, quel film era stato una sorta di guida per lei, un esempio di come si poteva emergere in un mondo di uomini, infiltrandosi nei momenti più importanti della sua vita.
La Elcom era una società importante, una delle poche in Italia che poteva essere associata alle multinazionali d'oltreoceano, con una concreta possibilità di carriera anche per le donne. Quando era stata assunta, aveva iniziato a fantasticare su come sarebbe stata la sua vita, ma la realtà l'aveva riportata presto con i piedi per terra: le lotte, gli intrighi, il cinismo, i colpi bassi che si vedevano nei film, erano all'ordine del giorno anche in quegli stanzoni illuminati a giorno. Persino l'aver trovato marito lì dentro, come la classica segretaria cenerentola, magari un po' goffa e bruttina, che fa innamorare di sé il suo capo... E per un po' era stato così. Diamine se si era sentita dentro un film! E la sua vita aveva viaggiato a gonfie vele.
Poi però, ecco il rovescio della medaglia: il marito si era trovato una nuova segretaria e, come nel peggiore dei cliché, aveva iniziato una relazione. Aveva voluto il divorzio e, non contento, aveva fatto in modo che lei venisse trasferita in un altro reparto e assegnata a un altro capo. E da lì era iniziata la lenta discesa nel suo purgatorio personale, con quell'imbecille che parlava sempre di “strada a due corsie”, di quanto non volesse un rapporto fra capo e subordinato, ma piuttosto un rapporto alla pari. Insomma, la versione mascolina di Sigourney Weaver. Si era chiesta se non fosse stato un segno del destino.
In quei dieci anni passati a parare il culo al suo capo, a correggere i suoi errori, a farsi fregare i progetti, lei aveva lavorato più di sessanta ore settimanali, rinunciando a una famiglia sua, perché nel lavoro aveva cercato riscatto e soddisfazione. E, quando aveva saputo che il suo ex si era risposato e aveva avuto due figli, si era buttata a capofitto ancora di più nel lavoro.
Camminava impettita per la strada principale, con i tacchi a spillo coordinati al tailleur dal taglio maschile e la ventiquattrore stretta nella mano destra, nella quale teneva il promemoria dei suoi nuovi incarichi e i benefit le spettavano.
Camminava con lo sguardo dritto davanti a sé, per raggiungere il parcheggio sotterraneo e la sua nuova auto di lusso.
Camminava con passo sicuro, accompagnata dalla sua figura riflessa sulle vetrine dei negozi; la figura di una donna ancora nel fiore degli anni ma che si sentiva già una vecchia.
Camminava... eppure, più si allontanava dal grattacielo della Elcom e meno si sentiva la manager rampante che aveva sempre sognato di essere. A ogni passo, che andava rallentando gradualmente, riaffiorava la donna sola che era in realtà. La maschera che indossava in ufficio ogni giorno si sgretolava come un trucco disfatto dopo una notte di bagordi.
Cos'era lei al di fuori di quegli uffici? Cosa aveva costruito oltre il lavoro?
Si arrestò all'altezza della fermata dell'autobus, con l'impellente bisogno di sedersi sulla panchina. Sentiva che di lì a poco le sue gambe avrebbero ceduto. Non ci aveva mai pensato. Nella sua vita non aveva considerato altro che il lavoro e ora... ora non aveva che quello.



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Capitolo 10
*** Il paradiso è la mia casa ***





Il paradiso è la mia casa



“Era in arrivo una tempesta, la sentiva in lontananza. Non aveva paura, la casa al mare che le aveva lasciato la nonna era sicura, ma quando il primo fulmine squarciò il cielo, in lontananza vide una strana figura...”


*****


(parole: 1108)
La notizia era arrivata con la posta di venerdì, in una mattinata che minacciava di essere insopportabilmente afosa. Rosaline l'aveva ricevuta dalle mani di Matt, il loro postino di fiducia –  che non mancava di farle il filo ogni volta che la vedeva – appena fuori dal cancelletto che dava sul giardino, con ancora le mani piene delle borse della spesa.
Quella busta bianca, che spiccava fra le altre per dimensioni, portava l'intestazione di uno studio notarile che non aveva mai sentito nominare, nemmeno nei discorsi in famiglia nel giorno del Ringraziamento o a Natale. Era indirizzata proprio a lei. Corrugò la fronte: nessuno sapeva che era tornata a casa dai suoi genitori, come poteva ricevere della posta?
Appoggiò la spesa sul tavolo da pranzo e l'aprì, colta da una curiosità che quasi la emozionava.
Al suo interno, oltre ad alcuni fogli scritti al computer, vi era un pacchettino sottile, ben avvolto dal nastro adesivo marroncino e da carta da pacchi, che nascondeva una scatolina di legno intarsiata nella quale era stata riposta una vecchia chiave.
Nella lettera di accompagnamento si parlava di un cottage appartenuto a sua nonna, Florence Stillman, che da almeno cinquant'anni aveva fatto perdere le tracce di sé, e che ora passava di proprietà – come attestava il documento in ultima pagina – a Rosaline Florence Dauwson.
Rimase a fissare quei fogli senza trovare una ragione per tanta fortuna rivolta a lei. Per volontà di suo padre, a cui non aveva mai chiesto spiegazioni, non l'aveva mai conosciuta. Allora perché le aveva lasciato una tale eredità?
Sospirò, riflettendo, mentre il gelato al pistacchio si scioglieva nel barattolo e l'odore del pesce fresco attirava le pericolose attenzioni di Piumina per le borse della spesa.
Rosaline si riscosse nel momento in cui sentì un gran tonfo e il crack delle uova che si sfracellavano sulle piastrelle di cotto finto toscano. Sistemò quel poco che si poteva salvare della spesa e si mise al computer per cercare notizie sullo studio del notaio Friedman.
Se la cosa fosse stata vera, sarebbe stata una manna dal cielo per lei. Era arrivata a un punto della sua vita nella quale aveva bisogno di tirare le somme e capire in che direzione voleva andare, visti anche i flop degli ultimi racconti che aveva mandato alla sua agente; e, un posto tutto suo, magari lontano dalla civiltà, così come presupponeva quella lettera, glielo avrebbe permesso.
«Tutto vero», sospirò, appoggiandosi stancamente alla sedia.
Non solo aveva trovato il sito del notaio Friedman, con le sue credenziali e i contatti, ma aveva trovato anche le notizie sul luogo dove si trovava il cottage, anche se non erano molto rassicuranti.
Attraversare mezzo mondo per prendere possesso di quella casa, seppure in un luogo che dalle immagini sembrava paradisiaco non era mica facile. Il suo conto in banca languiva e non se la sentiva di chiedere un prestito a suo padre.
Come poteva fare?
Rilesse una seconda volta la lettera e scoprì che oltre alla casa c'era di mezzo un fondo fiduciario notevole.
«Sembra troppo bello per essere vero.»
Però... Decise di chiamare lo studio notarile e chiedere un incontro, approfittando del fatto che i suoi genitori stavano trascorrendo qualche giorno di vacanza in montagna.
Il notaio Marcus Friedman era un uomo alto, spalle larghe, petto ampio, decisamente atletico, capelli sale e pepe e un fascino alla George Clooney che per un attimo la fece titubare, quando la segretaria la introdusse nel suo ufficio.
Rosaline si stupì della cordialità e della disponibilità. Sembrava che non aspettasse altro che occuparsi del suo caso. L'uomo infatti aveva già organizzato tutto: documenti, biglietto aereo, biglietto del traghetto per il passaggio all'isola e aveva avvertito la governante che in quegli anni aveva tenuto in ordine la casa.
«C'è già anche il frigorifero pieno», la rassicurò, con una risatina sensuale.
Lei doveva solo mettere una firma e sarebbe entrata in possesso di quanto la sua nonna paterna aveva lasciato.

*****

Erano trascorsi quasi due mesi da quando aveva messo piede per la prima volta sull'isola privata di Paraside, nella punta più meridionale dell'Australia. Aveva trovato un posto fantastico dove vivere; e forse iniziava a capire la scelta della nonna di abbandonare tutti per rifugiarsi lì. Anche lei non avrebbe più voluto andarsene.
L'isola era piccola, di appena cinque chilometri quadrati e, oltre alla casa, il faro era l'unica altra costruzione presente. Per la maggior parte era ricoperta di alberi e lei ne aveva esplorato ogni centimetro. Suo padre l'avrebbe definito uno scoglio, ma per Rosaline era perfetta. Aveva avuto un effetto terapeutico sulla sua vita e sul suo lavoro. In quel breve periodo aveva prodotto più di quanto avesse fatto negli ultimi due anni e la qualità dei suoi scritti era decisamente migliorata. Aveva studiato le leggende di quel luogo e ne aveva ricavato una raccolta ibrida di racconti e poesie: alcune struggenti, altre romantiche, altre ancora con qualche tinta di horror, perché certe notti erano più ispiranti di altre.
Era in pace con se stessa. Ogni giorno si svegliava presto per vedere sorgere il sole e ogni notte rimaneva incantata dal cielo pieno di stelle e dal faro, che faceva danzare la sua luce sulla superficie increspata del mare. Spesso si era soffermata con lo sguardo nella direzione del faro, chiedendosi se ci abitasse qualcuno o se fosse uno di quelli automatizzati. Non se ne sarebbe stupita, se considerava che il wi-fi funzionava quasi meglio che a casa dei suoi genitori.
L'estate era stata meravigliosa e anche quando era capitato qualche temporale, lo aveva vissuto con la serenità di una pioggerella leggera. Aveva imparato presto a capire l'umore del mare, quando cambiava, proprio come quel pomeriggio.
Scrutò l'orizzonte dal terrazzino del cottage, avvolta in un ampio scialle di lana dalle frange lunghe. Era in arrivo una tempesta, la sentiva strisciare sulla superficie del mare, in lontananza. Non aveva paura, la casa che era stata di sua nonna era sicura. Ne aveva superate tante di tempeste, anche peggiori di quella che si stava avvicinando, ma quando il primo fulmine squarciò il cielo, diventato nero all'improvviso, in lontananza vide una strana figura infagottata che risaliva il sentiero verso la casa.
Non era tipo da credere nell'uomo nero o nelle vecchie storielle che si raccontavano per tenere lontani i turisti. L'unica persona che poteva arrivare era il guardiano del faro. Sorrise, quando lo vide aprire il cancelletto bianco. Da dentro casa arrivava un forte profumo di caffè appena fatto, pronto ad accogliere l'ospite. Probabilmente sarebbe stata una lunga notte, ma non l'avrebbe affrontata da sola e forse, quando la tempesta avrebbe lasciato il posto di nuovo al sereno, avrebbe avuto nuove storie da raccontare.




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Capitolo 11
*** Occasione mancata ***





Occasione mancata



(parole: 518)
Janette, come ogni mattina, dopo aver appeso il soprabito, prese la posta dalla sua scrivania ed entrò nell'ufficio del suo capo con un sorriso radioso e un “Buongiorno, Mr Donaldson” sulle labbra. Tacchettò fino alla grande scrivania in cristallo senza neanche guardare e intanto riordinava la corrispondenza per importanza e urgenza, proprio come piaceva a lui. Quando si fermò di fronte alla scrivania, ci mise un po' a fare mente locale e a ricordarsi che da quel giorno in avanti sarebbe rimasto vuoto.
Appoggiò con delicatezza la pila di corrispondenza appena oltre la targhetta con il nome dell'uomo stampato in caratteri dorati e in rilievo e fece un sospiro.
Sapere di non poterlo più vedere in ufficio era per lei una realtà insopportabile.
L'azzurro dei suoi occhi, il suo viso, ancora come quello di un ragazzino che il tempo non aveva sfiorato; i suoi capelli, una massa morbida color cioccolato al latte, che non avevano un filo bianco, che gli solleticavano il collo...

Pensare a quando gli stava vicino, durante la pausa caffé, lui appollaiato sulla scala anti incendio che si fumava una meritata sigaretta e lei a trattenere i colpi di tosse perché non sopportava il fumo e quell'odore acre di tabacco, le faceva male al cuore.
Era così bello guardarlo condurre un meeting con i capi reparto, attraverso le pareti di vetro della sala riunioni, voluta così da suo padre affinché gli altri impiegati non fossero in qualche modo esclusi, le faceva scivolare una lacrima sul fard perfettamente steso.
Erano tutte cose che ora non poteva più fare.
Fece il giro della scrivania e si sedette sulla poltrona di pelle, dallo schienale ergonomico e dall'imbottitura così soffice che sembrava di essere abbracciati da un amante.
Chiuse gli occhi: poteva ancora avvertire il profumo della sua acqua di colonia preferita, che a lei invece faceva pizzicare il naso e starnutire in continuazione, mentre lui rideva come un bambino, senza malizia.
Certo, oramai si sentiva poco, eppure un lieve pizzicore le fece muovere il naso in una smorfia. Forse, era solo suggestione.
Appoggiò le mani sul bordo della scrivania per alzarsi e, con le dita, sfiorò una piccola scheggiatura nel cristallo, ricordo di quando Mr Donaldson vi sbatte sopra la mano e il massiccio orologio da polso intaccò quella superficie perfetta. Era stata l'unica volta che lei lo aveva visto arrabbiato. Erano passati anni da quell'episodio e ora, a guardare bene, poteva intravedere una sottile crepa correre verso l'interno del piano.
Quante volte si era offerta di chiamare il vetraio per sistemare il danno, ma lui ci rideva su e le diceva di lasciar stare, spostando il sottomano un poco più a sinistra per coprire il segno. E poi, quando pensava di non essere visto, con la lucina dello smartphone si divertiva a giocare con i riflessi, creando sulla parete piccoli arcobaleni.
Tutto di quell'ufficio le faceva pensare al suo capo. Tutto di quell'ufficio le faceva rimpiangere di non avergli mai detto che lo amava.
Ora era troppo tardi.
Ora, lui era in viaggio di nozze e, una volta tornato, avrebbe preso possesso dell'ufficio dell'A.D., su, all'ultimo piano.




Le parole assegnate:
PENSARE - UFFICIO - REALTA' - INSOPPORTABILE - AZZURRO - SCALA - TEMPO - VUOTO - VETRO - CREPA


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