Slamming doors

di elerim
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno ***


Slamming doors.
Capitolo uno ovvero Il ragazzo della porta accanto



Quando si chiude una porta, si può aprire di nuovo,
perché di solito è così che funzionano le porte.
Albert Einstein






Rin fermò la bici davanti al citofono, suonò e scaricò le borse della spesa a lato del portoncino di ingresso, poi si diresse svelta nel piccolo cortile adiacente al palazzo e legò il suo adorato quanto prezioso (si legga: unico) mezzo di trasporto al porta-bicilette.
Quando tornò all'ingresso lui stava già caricandosi tutte le borse in mano e le rivolse un cenno di saluto con la testa.
“Ciao Sesshomaru, grazie.” gli disse tenendogli aperta la porta. “Ce la fai?” gli chiese come tutte le volte, e come tutte le volte non ottenne risposta alcuna. Neanche ci badò, ormai era abituata al fatto che lui parlasse solo se avesse qualcosa di utile da dire.
“Scusa, questa volta sono pesantissime,” disse affrontando dietro di lui la prima delle cinque rampe di scale che li separavano dal loro pianerottolo “c'era un'offerta sulle birre in lattina, non ho resistito! Ne vuoi qualcuna anche tu?”
Le giunse un suo mugolio affermativo.
Erano a metà della seconda rampa e Rin si ricordò di tacere. Aveva già sperimentato che non riusciva a tenere il ritmo di salita del ragazzo e contemporaneamente a parlare senza palesare un indegno fiatone o, peggio ancora, rimanere indietro. Peggio perché Sesshomaru detestava aspettare, e un Sesshomaru irritato era un pericolo anche per il suo proverbiale buon umore.
E poi non le andava proprio di contrariarlo. Rin amava creare relazioni positive e mal sopportava gli screzi dovuti a incomprensioni, intolleranze e maldisposizioni. Non che fosse un'ingenua, sapeva benissimo che molte persone sono malevole di proposito, insidiose e invidiose, ma sapeva anche di avere un carattere gioviale e allegro e ne faceva un suo punto di forza. Cercava di tirare fuori il lato positivo – o perlomeno cortese – delle persone, a costo di spiazzarle fingendo di non cogliere la palese cattiveria di un'allusione o di un gesto.
Questa sua caratteristica le era stata particolarmente utile per instaurare una relazione con il suo inquietante vicino, nonché padrone, di casa.
Rin era giunta in quell'alloggio meno di un anno fa, all'inizio del secondo trimestre universitario. Aveva ottenuto la laurea di primo livello nella sua città di origine ma poi si era trasferita per seguire i corsi di un indirizzo specialistico presente solo nell'Università alla quale era iscritta ora. Anche Sesshomaru frequentava la stessa Università ma una facoltà completamente diversa, aveva tre anni più di lei ed era in procinto di laurearsi.
Mentre la famiglia di Rin faticava a mantenerle gli studi – tant'è che Rin si era cercata un lavoretto part-time per rendersi indipendente almeno nelle spese ordinarie – quella di Sesshomaru doveva essere decisamente benestante. Era infatti proprietaria di tutto lo stabile nel quale alloggiava ora Rin, che era andata ad occupare proprio l'appartamento accanto a quello di Sesshomaru.
Era stato lui a consegnarle le chiavi di casa quando vi si era insediata l'inverno precedente e ricordava benissimo che quando le aveva detto che 'L'alloggio era stato vuoto per tre anni' l'insoddisfazione del ragazzo era stata palpabile. Rin palesemente non era stata la benvenuta su quel pianerottolo.

Tuttavia le cose erano piano piano cambiate e, guardandosi indietro, Rin doveva ammettere di aver investito una quantità di pazienza considerevole per conseguire quell'obiettivo. Quanti saluti ignorati, sospiri infastiditi, porte sbattute davanti al naso, occhiate arroganti aveva dovuto sopportare in risposta ai suoi tentativi – sempre allegri e garbati – di approccio? A palate.
Ma a quale scopo poi? Perché cercare un contatto con uno che aveva mantenuto sempre con ostinazione le distanze? Eh, qui si arriva al punto. Perché se lo fosse posto, l'obiettivo di andare d'accordo con Sesshomaru, era tanto semplice quanto sconcertante: Sesshomaru non era ignorabile.
Sesshomaru era il ragazzo più bello e affascinante che Rin avesse mai visto.
Una gioia per i sensi. Tutto in lui era bello: il fisico alto e slanciato, i lunghi capelli argentati, gli occhi allungati con delle meravigliose iridi d'ambra, il viso dai lineamenti regolari e severi. La voce, bassa e posata. E il profumo, una fragranza naturale ed avvolgente.
E che dire delle movenze? Anche ora Rin lo ammirava salire le scale davanti a lei con ritmo sostenuto e costante nonostante il carico di borse e ogni movimento – come ogni suo gesto – era fluido ed elegante. Mai scomposto, mai alterato.
E mai felice.
Già, Rin non l'aveva mai visto sorridere e nemmeno mostrare soddisfazione. Sembrava perennemente infastidito da ciò che gli accadeva intorno, perennemente insoddisfatto dall'altrui comportamento e dall'altrui presenza.
Tuttavia, Rin si rifiutava di accettare che una persona divinamente bella come lui potesse essere davvero cattiva. Era un solitario, un metodico, un abitudinario e poteva (facilmente) diventare sgradevole, arrogante, scostante, ma Rin si era convinta che fosse più per misantropia che per cattiveria. Per questo si era messa d'impegno per far sì che il loro rapporto fosse rispettoso e magari anche amichevole, l'aveva presa quasi come una sfida personale. E poi, a dire il vero, non riusciva a comportarsi diversamente, era fatta così.
Le sue amiche la prendevano in giro, dicendole che si innamorava sempre di persone impossibili, ma la verità era che lei non aveva mire particolari nei confronti di Sesshomaru. Certamente subiva il suo fascino, e chi non l'avrebbe fatto, ma non pensava minimamente a lui come possibile partner. Lei era una ragazza normale, simpatica magari, ma sempre normale. Lui era su un altro livello, apparteneva ad un altro pianeta. E poi era... solitario, metodico, abitudinario, sgradevole, arrogante e scostante: non c'erano le premesse per alcun tipo di relazione! Le sarebbe bastato che fossero amici e per ora le bastava aver conquistato la sua considerazione e la sua cortesia.

Arrivati al pianerottolo compirono i soliti gesti, sempre nel medesimo ordine.
Metodico ed abitudinario: ogni lunedì sera le appendeva alla porta le sue personali borse per la spesa con la lista delle cose che gli servivano e ogni martedì Rin faceva la spesa per entrambi. In cambio era sicura che lui sarebbe stato presente al suo arrivo dal supermercato e l'avrebbe aiutata a portare su i pacchi. Anzi, avrebbe portato su tutto lui senza lasciarle toccare niente. Arrivati sul pianerottolo avrebbe messo le borse di Rin accanto alla sua porta e le sue accanto alla propria, per poi girarsi nuovamente verso di lei, tirare fuori il portafoglio dalla tasca dei pantaloni e chiederle con voce atona:
“Quanto ti d...”
“3500 yen” lo anticipò lei questa volta, godendosi la sue espressione stupita e spiazzandolo ulteriormente con un ampio sorriso.
“Hai fretta?” le chiese lui consegnandole la cifra esatta.
“No, gioco.” rispose lei.
“Giochi?” la guardò lui con evidente disappunto.
“Mi diverte trovare il modo per suscitare una tua reazione, una qualsiasi. Sei sempre così controllato!”
“Vuoi delle ripetizioni?” rispose lui con irritazione.
Lei rise di gusto, “Hai ragione, mi sarebbero utili, mi eviterei montagne di figure di m...” si fermò in tempo. Lui detestava il turpiloquio, difatti la squadrò con severità. Ma poi, voltandosi, le disse: “Grazie Rin. Buona serata.”
“Grazie a te! Ci vediamo!” rispose lei allegra.
Ecco, ecco come andava fra loro. Lei lo spiazzava, lui si irritava e la provocava con sarcasmo. Allora lei ci rideva sopra, scansava, si prestava allo scherno. E lui si ammorbidiva di nuovo.
Mentre ancora ripensava al dialogo appena avvenuto cercò di aprire la porta ma le caddero le chiavi di mano due volte prima che riuscisse ad infilarle nella toppa.
“Serve aiuto?” insinuò la voce di lui alle sue spalle.
“No, è che ho le mani gelate. Devo ricordarmi di comprare dei guanti, sta arrivando l'inverno!”
“Sarebbe anche ora. Ti ricordo che li hai persi a marzo.”
Si ricordava? “Lo so, sono un disastro!” gli disse voltandosi con la mano alzata per salutarlo, ma lui aveva già chiuso la porta.



***


Sesshomaru sistemò con cura nei pensili i diversi articoli che componevano la spesa, appoggiando invece sul tavolo quelli che avrebbe utilizzato per la cena. La preparava sempre prima, così alle undici, tornato dalla palestra, avrebbe dovuto solo più scaldarla.
Rin. Che personaggio. Si comportava come una ragazzina. Faceva la spesa tutte le settimane, possibile che non si ricordasse mai di comprarsi un paio di guanti? Come si fa ad essere così istintivi, così poco previdenti.
Eppure nella spesa era precisa e puntuale, aveva perfino memorizzato quali fossero le sue marche favorite. I primi tempi glielo indicava nella lista della spesa ma ben presto lei gli aveva detto che poteva evitarlo, poiché lo sapeva già. “Sei così prevedibile!” l'aveva provocato.
Fastidiosa, una compagnia fastidiosa ma non sgradevole, ecco cosa era Rin.

Beh, all'inizio era stato parecchio sgradevole. Si era arrabbiato non poco con sua madre quando gli aveva comunicato di aver affittato anche l'appartamento accanto al suo, ma quando suo padre aveva liquidato le sue lamentele come 'capricci' la sua furia si era come al solito trasformata in un gelido mutismo. Lo sapevano benissimo che non erano capricci. Semplicemente non gradiva avere gente intorno, gente che avrebbe potuto ficcanasare nella sua vita, gente con la quale sarebbe stato costretto ad avere relazioni magari quotidiane, gente che si sarebbe aspettata un saluto di cortesia alla mattina.
E poi si era trovato davanti quella ragazzetta. Vero, aveva solo qualche anno meno di lui ma obiettivamente sembrava una ragazzetta. Piccola, slanciata se non magra, una voce melodica e squillante, sempre sorridente. Sembrava appena uscita da uno di quei gruppetti di tredicenni che si guardava di evitare come la peste, poiché lo bersagliavano di un tripudio di occhiatine, sorrisetti, ammiccamenti e risatine soffocate. (Talvolta accadeva perfino che la più sfacciata del gruppo venisse mandata a chiedergli il nome o numero di telefono, e lì Sesshomaru si imponeva un autocontrollo che considerava degno come minimo della candidatura al Nobel per la Pace.)

Però con Rin era andata diversamente.
Certo, all'inzio gli era sembrata terribilmente invadente. L'aveva tempestato di domande, osservazioni inutili e squallidi tentativi di comunicazione, ma si era accorta abbastanza velocemente di quanto gli risultasse molesta. Tuttavia non si era né offesa né scoraggiata – cosa che accadeva invece di norma con le altre persone, anzi, a ben vedere era proprio il suo obiettivo – e aveva continuato ad essere cortese e sorridente, seppur con maggior discrezione.
E soprattutto persisteva nell'essere... amichevole. Quel volerlo salutare allegra a tutti i costi. Quel voler per forza instaurare una conversazione quando, incontrandosi per caso sotto casa, erano costretti a fare le scale insieme. Quei suoi gesti gentili ma non richiesti e non necessari: perché preoccuparsi di portare su e lasciargli davanti alla porta un pacco indirizzato a lui, che il corriere aveva abbandonato per incuria nell'androne, vicino alle cassette della posta? “Qualcuno avrebbe potuto rubarlo o danneggiarlo”, gli aveva detto. E allora? Avrebbe chiamato e se lo sarebbe fatto rimandare, giacché non aveva firmato la consegna.
E quella volta che si era preso un raffreddore – evento del decennio perché lui non si ammalava mai – perché lasciargli davanti alla porta dei medicinali? Se li sarebbe potuti comprare da solo, se l'avesse ritenuto necessario. Per di più erano intrugli di erbe: era pure una di quelle fissate con le cose naturali. Ovviamente li aveva lasciati lì sullo zerbino, ma la sfortuna aveva voluto che al suo rientro l'avesse incrociata proprio mentre usciva dal proprio appartamento.
“Prendili, sono molto efficaci.” gli aveva detto lei indicando con un sorriso genuino il pacchettino abbandonato. “Sono tre notti che ti sento tossire.”
Ah, era quello allora. “Ti disturbo?” le aveva chiesto allora, con una vena di irritazione.
Ma lei l'aveva guardato stupita. “Affatto. Io dormo come un sasso! Ma immagino disturbi te. Io quando tossisco così tanto di notte il giorno dopo sono a pezzi, mi sento tutta rotta.”
Non gli aveva lasciato il tempo di rispondere, aveva sorriso ancora arrossendo appena e gli aveva detto: “Scusa, devo proprio andare, faccio tardi al lavoro!”, scappando in fretta giù dalle scale.
L'aveva preso quel dannato pacchetto. Aveva stazionato due giorni in cucina, perché non aveva alcuna intenzione di usare quegli intrugli – e poi il raffreddore gli stava passando – ma non se l'era sentita di buttarlo. Infine, l'aveva sbattuto nel mobiletto dei medicinali in bagno.

E poi c'era stato quell'incontro al supermercato.
Lui frequentava il supermercato più vicino a casa tutti i sabati, regolarmente e sempre all'apertura per trovare meno gente possibile, ma il sabato mattina precedente il suo relatore di tesi aveva avuto la bella idea di convocarlo d'urgenza per presentargli un collega, un pezzo grosso dell'industria farmaceutica con il quale avrebbe potuto collaborare in seguito. Andare in un supermercato il sabato pomeriggio o la domenica sera neanche a parlarne, il lunedì mattina era chiuso e Sesshomaru s'era ritrovato a fare la spesa il lunedì sera. E lì l'aveva vista.
Vista, oddio, ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma gli era praticamente piombata addosso. Aveva svoltato l'angolo di una corsia spedita e fischiettante e lui aveva fatto appena in tempo a bloccare il carrello con la mano, inchiodandolo a cinque centimetri dal proprio stinco, prima che gli rovinasse addosso. Per il rinculo a momenti c'era finita lei dentro il carrello e invece di prostrarsi in scuse, aveva cominciato a ridere come una pazza.
“Ma ti sembra il modo di condurre un carrello? Non sei all'autodromo.” l'aveva rimproverata.
Il suo tono rigido aveva smorzato l'ilarità di lei che, rossa in viso, si era ricomposta ma aveva conservato sul volto un sorriso con il quale gli aveva detto:
“Scusami, sono proprio distratta. È che questa canzone mi piace moltissimo!”
Lui l'aveva guardata allibito prima di accorgersi della presenza della radio nel supermercato. Ah.
“E ti sembra un motivo valido per investire la gente?” ribattè secco.
“Non ti ho investito. Non ci sono riuscita.” Gli aveva risposto lei con un occhiolino. “Ehi, ma non hai un carrello? Puoi mettere nel mio.” gli aveva detto indicando le cose che lui aveva in mano.
“Non mi è necessario. Ho poche esigenze.” aveva risposto lui. In generale era vero. Ora però gli sarebbe servito perché si era scordato che avrebbe dovuto prendere anche una confezione di acqua.
“Puoi utilizzarlo lo stesso” aveva detto lei spostando la sua roba per fargli posto “e così potresti farmi anche un grandissimo favore, se posso approfittare...”, non aveva nemmeno atteso un assenso per continuare, “potresti prendermi quella confezione di acqua là in fondo?”
La confezione indicata era infilata in una posizione scomodissima, impossibile da estrarre per un fuscello come lei. Ed era anche l'acqua che prendeva solitamente lui. Ed era l'ultima confezione. Sesshomaru aveva posato con stizza la sua esigua spesa nel carrello di lei e aveva recuperato la dannata acqua.
La ragazza stava di nuovo cercando di fare posto nel carrello ma lui le aveva detto: “Lascia stare, te la lascio alla cassa, io ho finito.”
“Oh, ottimo, anche io! Andiamo!” aveva esclamato lei, precedendolo verso la cassa. Era rimasto un istante fermo in mezzo alla corsia, interdetto a qualsiasi movimento, ma poi l'aveva seguita, pensando ad un modo per liberarsi di quella seccante ragazzina, ladra di acqua.

Ma quando il Karma è negativo non c'è nulla da fare.
Come era andata a finire?
Come poteva mai essere andata a finire?
Gliel'aveva portata fin sul pianerottolo quell'acqua maledetta. E avevano fatto tutta la strada insieme, con le borse della spesa che sbatacchiavano allegramente appese ai manici della bici e il suo chiacchiericcio che gli trapanava il cervello.
Quando l'aveva sentita ansimare al termine delle scale non aveva resistito a chiederle: “Ma perché ti carichi così tanto se non ce la fai? Come avresti fatto con l'acqua, l'avresti lasciata al supermercato per poi fare un altro giro?”
Lei era arrossita leggermente e aveva guardato in basso. “No... ne avrei presa una sola.”
“Quindi hai approfittato di me?” aveva esclamato lui, a metà tra lo stupefatto e l'arrabbiato.
“Scusa”, aveva pigolato lei, “è che mi piace davvero tanto l'acqua minerale ma riesco sempre solo a prenderne una, così ho pensato...”
“La prossima volta chiedi invece di pensare.” l'aveva interrotta lui, secco, prendendo la borsa con la sua spesa ed avviandosi verso la propria porta. Poi aveva aggiunto: “Piace anche a me, quest'acqua. Ma non mi invento sciocchi stratagemmi per procurarmela.”
Ma se le azioni di lei in precedenza l'avevano stupito, quella che aveva fatto in seguito l'aveva proprio pietrificato. Preceduta da un rumore di plastica rotta se l'era trovata alle spalle, con tre bottiglie di acqua in braccio.
“Facciamo a metà.” aveva detto, e di fronte alla sua immobilità aveva continuato: “hai detto che piace anche a te, ma io ho preso l'ultima confezione. Facciamo a metà.” Sorrideva dicendolo, come se fosse stata la cosa più normale del mondo.
“Non è necessario” aveva biascicato lui fra i denti.
“Insisto” aveva risposto la ragazza, lasciandogli le tre bottiglie ai piedi e tornando indietro. Portafogli in mano si era riscosso, inseguendola. Questo balletto sul pianerottolo cominciava ad essere irritante.
“Tieni” le aveva detto porgendole la metà esatta del costo della confezione.
“No, no, non è necessario” aveva risposto lei imbarazzata.
“Insisto” aveva detto lui con voce bassa condita con un pizzico di ironia. Lo sapeva bene, che riusciva ad ottenere qualsiasi cosa da una donna quando utilizzava quel tono.
Lei infatti si era bloccata a guardarlo con la bocca semiaperta e aveva sussurrato un “Ma come...?” appena udibile, per poi risvegliarsi un attimo dopo battendo le ciglia e rivestendosi del solito sorriso.
Lui l'aveva salutata con un cenno della mano e stava per varcare la soglia di casa, soddisfatto per aver centrato il bersaglio ancora una volta, quando un 'Senti..' della ragazza lo aveva costretto nuovamente a fermarsi.
Diamine, ora aveva davvero esagerato. Mugugnò un “Mh” senza nemmeno voltarsi, per palesare la sua insofferenza.
“Per farmi perdonare” ma di cosa? “se vuoi la prossima volta faccio io la spesa. Prendi così poche cose, non è un problema portartele.”
'Questa poi', aveva sogghignato Sesshomaru fra sè.
Sinceramente si era immaginato che lei avesse più spina dorsale, ma se ci teneva tanto ad assumere un atteggiamento servile come tutte le altre femmine con cui aveva a che fare, tanto meglio per lui. “Va bene” aveva detto senze neanche voltarsi. “Domenica ti faccio avere la lista della spesa.”
E si era chiuso il mondo e quella sciocca ragazzina alle spalle.

Erano passati molti mesi da allora, ripensò Sesshomaru riponendo l'ultimo pacchetto. Primavera, estate ed autunno, ed il rito si ripeteva ogni lunedì, sempre uguale e sempre diverso. Sovente non si scambiavano se non qualche battuta, come oggi, ma talvolta non si incrociavano per l'intera settimana e allora Rin coglieva l'occasione per chiacchierare un po' di più e immancabilmente chiedergli 'Come stai?' e altrettanto immancabilmente sentirsi rispondere “Mh.”
Aveva avuto più volte la tentazione di chiederle come mai si ostinasse a fargli quella stupida domanda ma poi aveva desistito, certo che la risposta l'avrebbe spiazzato, come al solito.
Già, perché con il passare del tempo la sua considerazione di lei era cambiata. Eccome se ce l'aveva la spina dorsale. Con quel suo atteggiamento spontaneo sembrava sciocca ed ingenua ma sapeva il fatto suo, era svelta ed attenta nei compiti pratici ed aveva entusiasmo ed energia da vendere.
Ma quello che l'aveva colpito di più, osservandola interagire con le altre persone, era che quel suo atteggiamento solare e disponibile fosse il suo modo normale di comportarsi. Rin non era per nulla servile, era davvero schifosamente allegra e gentile, con tutti.
E lui, che era abituato ad una riverenza se non ad uno spudorato corteggiamento da parte dell'universo femminile, era rimasto perfino un po' risentito nel constatare che le premure e le attenzioni di Rin non fossero riservate solo a lui.



***


Maledizione! Li aveva di nuovo persi? Ma questa era una congiura del fato. Li aveva finalmente comprati neanche un mese prima, era certa di averli indossati quella mattina... ed ora erano spariti. Volatilizzati. Si calò il cappello di lana fin quasi sugli occhi, inforcò la bicicletta carica di borse e si arrese all'evidenza: sarebbe approdata a casa con le mani rigide come la pietra.
In effetti faticò perfino a staccarle dalle maniglie. Suonare il citofono fu una tortura, per non parlare dello scaricare i sacchetti. Corse a mettere a posto la bici e rinunciò a legarla: hai voglia di alitarci sopra, aveva completamente perso la capacità di articolazione delle dita! Tornò indietro con la coda fra le gambe. E adesso chi lo sentiva quello, le avrebbe fatto il sedere a strisce. Affondò le mani nelle tasche del cappotto e sperò che lui non se ne accorgesse.
Ma quando fu costretta a tener aperto il portoncino con la spalla per non utilizzare le mani, lo sguardo di lui la fulminò all'istante.
“I guanti?”
“Ehm” disse lei abbassando la voce e la testa, “non so. Li avevo stamattina. Li avrò lasciati da qualche parte... Mi dispiace!”
“Patetica.” sentenziò lui voltandosi di scatto e cominciando a salire le scale.
Rin rimase interdetta. Patetica? Addirittura? Ma era così grave aver perso dei guanti?
“Ehi!” gli gridò risentita. “Non è vero! Non sono patetica! E poi sono solo degli stupidi guanti.”
“Appunto.” Gli rispose lui già a metà della rampa seguente. “Perché fare tutta quella scena?”
Lei strabuzzò gli occhi e si affrettò sulle scale per tenergli dietro.
“Guarda che sei tu che mi hai rimproverata!”
“Appunto. Chi sono io? Non sono nessuno. Sei patetica.”
“Cos..?” per una volta Rin si trovò senza parole. Ma aveva detto davvero quello che le pareva di aver sentito? Ma cosa gli era preso? Forse era già di cattivo umore per qualcos'altro, perché le pareva impossibile averlo fatto arrabbiato in quella maniera con una sola frase. E poi cosa voleva dire quel 'Non sono nessuno'? Rin non capiva proprio ma una strana tristezza le oppresse il petto. Lui non l'aveva mai offesa così.
Si accorse di essersi bloccata sulle scale e prese a salirle lentamente. Lui era di certo già arrivato ma non le importava. Tanto non avrebbe saputo cosa dirgli né sarebbe riuscita a sostenere la freddezza dei suoi occhi.
Come prevedibile, arrivata al pianerottolo di lui non c'era traccia. Le borse con la sua parte di spesa erano state posate di fianco alla porta, ben ordinate, e sullo zerbino giaceva una banconota, il contributo di Sesshomaru alla spesa. La prese e la cacciò nervosamente in borsa. Si sarebbe preoccupata di dargli il resto la prossima volta, non aveva nessuna voglia di rivederlo.
Con dita rigide e tremanti recuperò le chiavi dalla borsa, che immancabilmente le caddero per terra: sentiva freddo dappertutto, dentro e fuori, e rabbrividì vistosamente.
Un fruscio alle sue spalle la fece trasalire, si voltò di scatto e se lo trovò davanti, con le sue borse in mano ed un'espressione da angelo di pietra.
“Ce c'è ora?” lo apostrofò con un sospiro, anche se la risposta era evidente.
“Apri” ordinò lui accennando col mento alla porta.
“Posso fare da sola, sai?” rispose lei piazzandosi davanti alla porta con le braccia incrociate sul petto e assumendo la sua miglior espressione corrucciata.
Ma l'efficacia della mimica facciale di Sesshomaru era imbattibile seppur minimale: un leggero incurvarsi del sopracciglio, un angolo della bocca leggermente sollevato ed ecco un perfetta espressione di superbo sarcasmo.
“Apri, Rin”. Espresse l'ordine con evidente insofferenza ma nel pronunciare il suo nome abbassò il tono della voce, conferendo all'imperativo una sorta di dolcezza e Rin si trovò impossibilitata a non eseguire. Spalancò la porta e gliela tenne aperta.
Sesshomaru usava raramente quel tono di voce, pensò Rin facendogli strada verso la cucina, e per fortuna! Doveva proprio detestare le persone perché se solo avesse voluto avrebbe avuto tutti, uomini a donne, ai suoi piedi. Sesshomaru aveva fascino e carisma da vendere.
Lo guardò di sottecchi mentre entrava in casa e appoggiava le borse sul tavolo, scoprendolo intento a guardardarsi intorno. Sesshomaru non era mai più entrato in casa sua dal giorno in cui le aveva aperto la porta dell'appartamento e chissà come doveva sembrargli ora, pensò con imbarazzo. Non perché fosse una persona disordinata, tutt'altro; cercava sempre di chiudersi alle spalle una casa decente, perché detestava tornare stanca e trovare ad attenderla il caos cosmico. Ma non aveva dubbi che a lui sarebbe apparsa decisamente... originale. Per via dei fiori.
Lei amava i fiori, di qualsiasi tipo, forma e colore. Dato che sua mamma non ne aveva mai voluto sapere di assecondare questa sua mania, nei primi mesi di indipendenza si era comprata tutte le settimane un mazzo di fiori. Di quelli semplici, poco costosi, l'importante era che il mazzo fosse molto colorato. La fioraia l'aveva presa in simpatia e ad un certo punto le regalava i fiori avanzati a fine giornata.
Ma ben presto s'era resa conto che se c'era una cosa che le dava immensa tristezza era gettare i fiori appassiti nella spazzatura, lo trovava umiliante per i fiori stessi. Allora aveva smesso di comprarne e aveva deciso che i fiori stavano bene dove stavano, cioè attaccati alle piante, e se mai le fosse venuta voglia di raccoglierne nei prati li avrebbe lasciati lì prima di andare via, in modo che potessero ritornare alla terra.
Ma per sopperire a questa rinuncia – ed ecco giungere al motivo della stavaganza del suo appartamento – aveva imparato a modellare fiori di carta.
“Li hai fatti tu?” chiese la sua voce, atona.
“Sì, sono...”
“Tanti.” completò lui.
“Scommetto che volevi dire 'troppi'” disse Rin sorridendogli cauta ed estraendo dalle borse gli alimenti che dovevano essere messi i frigo.
“Mh” confermò lui, continuando a far vagare lo sguardo per la stanza. Fiori ornavano i pensili, fiori a centro tavola, fiori sul davanzale.
“Ormai non mi accorgo neanche più di farli. Se ho un pezzo di carta in mano lo piego, ecco.”
Piccoli fiori per terra, vicino al divano, davanti alla televisione.
“Beh c'è di peggio dai. Per fortuna non ho la mania dei quadri, se no andando via ti lascerei le pareti tutte bucherellate.”
“Vai via?” Le chiese lui un po' troppo repentinamente.
Che strana sfumatura la sua voce. C'era un sentimento sotto quella domanda, ma Rin non avrebbe saputo dire quale. Molto probabilmente sollievo.
“No, dicevo così per dire. Mi spiace per te ma rimarrò ancora un po'” ci ironizzò sopra per esorcizzare l'idea di essere ancora un'ospite indesiderata e si voltò bruscamente, urtando una delle borse. Parte del contenuto rovinò a terra e una confezione di ramen istantanei si fermò ai piedi di Sesshomaru. Lui la raccolse lentamente e quando Rin gli si avvicinò per prenderla lo scoprì stranamente intento a fissare la busta.
“Cosa c'è?” gli chiese.
“Niente” rispose lui restituendogliela.
“Li conosci?” chiese lei curiosa. Non ricevette risposta, anzi, il ragazzo girò lo sguardo, come disinteressato. Lei allora gli girò intorno per tornare nel suo campo visivo ed insistette: “Ti piacciono?”
“Sì, molto” ammise lui con fastidio.
“Strano però. Non li ho mai comprati per te.” osservò lei.
“Sono una confezione doppia” rispose lui con un tono che testimoniava quanto fosse esasperato e quanto fosse stupida la sua domanda. Già, Rin sapeva quanto lui detestasse lo spreco. E sapeva anche quanto lo irritava che lei lo incalzasse con continue domande, ma era l'unico modo per ricavare qualche informazione da Sesshomaru: prenderlo per sfinimento.
“Sì, hai ragione, e sono due porzioni abbondanti. Io li tengo per quando vengono le mie amiche.” Lui non disse nulla e Rin capì. Sesshomaru non aveva mai ospiti, quindi non aveva nessuno con cui mangiarli.
Ecco, quella che le era balenata in mente era proprio un'idea stupida, ma è noto che le idee stupide abbiano straordinarie capacità di trovare autonomamente la via della bocca.
“Ti va se li mangiamo insieme una sera?” si trovò a chiedergli.
La faccia stupita che Sesshomaru le rivolse valeva da sola il tentativo.
Lui non rispose, continuò a guardarla come ne volesse indagare le motivazioni, scoprire l'inganno nascosto. Ma non c'era nessuna motivazione, nessun inganno. Era solo un invito fra vicini di casa. Non c'era neanche motivo che le battesse il cuore così forte, mentre attendeva – invano – una risposta.
“Guarda che puoi fidarti. Modestamente mi vengono proprio bene!” scherzò, per allentare la tensione.
La sua espressione a quel punto mutò in scherno. “Sono precotti, Rin.”
Lo so.” rispose lei, trattenendosi a stento dal fargli una linguaccia. “Ma io in genere aggiungo qualcosa.” Ora l'aveva veramente scandalizzato. “Oh, insomma, quante storie! Vieni o no? Non è difficile: devi rispondere sì, no o fors... eh?”. Lui aveva detto qualcosa.
“Ho detto sì.”
“Ah, oh.” Rin ci mise qualche istante per riprendersi dalla sorpresa. Aveva davvero accettato?! Santi numi, questo sì che era un progresso inaspettato del rapporto!
Poi esclamò: “Fantastico. Aspetta, fammi guardare il calendario.” Bisognava cogliere la palla al balzo e fissare una data, prima che lui ci ripensasse.
Gli si avvicinò perché il calendario era appeso alla parete proprio dietro la schiena del ragazzo. Rin segnava i turni di lavoro sia sul cellulare che su carta perché lei e il telefono non avevano un buon rapporto. Come con i guanti insomma!
Lui si spostò dalla parete dello spazio appena necessario a liberare la visione del calendario, così per leggere lei gli si dovette accostare. Molto. Non era mai stata così vicina a lui perché Sesshomaru di solito si teneva a distanza anche fisicamente ed ora si sentiva di nuovo stranamente inquieta. Oltre che vergognosamente nana, perché lui era davvero imponente!
Si concentrò sul calendario. “Mmhhh, c'è poca scelta. Domani sera? Perché lavoro tutti gli altri giorni.” Alzò lo sguardo verso di lui per tentare di ottenere una risposta. “Ehi. Sei davvero altissimo.” Non era l'unico aggettivo che le era venuto in mente, ma gli altri si vergognava anche solo di averli pensati.
“Tu sei piccola” ribattè lui prevedibilmente. “Va bene.”
“Cosa?”. Che fosse piccola?
“Domani.”
“Ah, certo.” ma che stupida era, “Ottimo.” Si affrettò a spostarsi verso il lavandino per lavarsi inutilmente le mani, al solo scopo di mettere maggiore distanza fra loro, sperando che questo fosse sufficiente a riattivare le sue connessioni cerebrali.
Seguì un silenzio abbastanza imbarazzante. Rin si affrettò a cercare qualcosa da dire e si voltò per dirgli una frase di circostanza, tipo “Vuoi un the?” ma vide che lui era già presso la porta.
“A domani allora! Buona serata!” disse alla sua schiena.
“Mh.” Il suo mugugno di risposta le giunse appena prima che la porta fosse chiusa.
Rin sospirò. Che personaggio disarmante.
Avrebbe dovuto studiare una colonna sonora adeguata per la serata dell'indomani perché nonostante la sua proverbiale parlantina aveva idea che i momenti di silenzio sarebbero stati parecchi.



***


Beh, alla fine si stava rivelando una serata piacevole.
Certo, la partenza era stata disastrosa. Quando aveva aperto la porta e se l'era trovato davanti aveva avuto la tentazione di richiuderla immediatamente.
Sesshomaru si era presentato vestito completamente di nero. Camicia nera aderente, pantaloni neri a sigaretta, stivali bassi in pelle. I suoi capelli argentati risaltavano sull'abbigliamento scuro e cadevano sulle spalle come flessuosi serpenti incorniciando un volto che avrebbe incantato chiunque. Gli occhi brillavano di una luce così intensa che parevano truccati.
Sarebbe stata una visione da mozzare il fiato ma postura ed espressione del viso smorzavano ogni entusiasmo: le braccio erano incrociate rigidamente sul petto e il volto esprimeva la stessa soddisfazione di un ragazzino costretto ad andare a cena dai parenti.
“Non ti sarai dimenticata” aveva detto lui con voce bassa e tagliente.
Rin aveva scosso il capo con forza ed aveva sentito le guance imporporarsi indegnamente. Era arretrata lasciandogli lo spazio per entrare e si era maledetta per la prima – ma non ultima – volta in quella serata per aver avuto la balzana idea di invitarlo.

Poi piano piano la tensione – la sua tensione – si era allentata e anche lui sembrava essersi rilassato, complici anche le due birre che avevano già consumato e la terza in via di esaurimento. I ramen le erano venuti bene: il suo personale contributo non era in effetti niente di speciale, aggiungeva solo qualche verdura cruda tagliata fine e del prosciutto cotto in strisce, ma il piatto acquistava più sapore. E le sembrava anche che fossero stati apprezzati, Sesshomaru ne aveva presi due volte.
Aveva anche preparato dei dolcetti morbidi di riso ripieni di gelatina di frutta, per accompagnare la bottiglia di vino bianco frizzante che lui le aveva lasciato nel pomeriggio davanti alla porta. Quel tipo di dolci in genere le veniva bene ma Sesshomaru le metteva così soggezione che ora non era più sicura di volerglieli presentare.
La conversazione, come prevedibile, venne condotta essenzialmente da lei ma Sesshomaru non sembrava affatto infastidito. Anzi, quando Rin accennò al proprio lavoro sembrò interessato: come l'aveva scelto? La pagavano bene?
“Cercavo un lavoro qualsiasi che mi permettesse di sollevare un po' la mia famiglia ma mi lasciasse il tempo per seguire le lezioni e studiare. Consegnare pizze è perfetto: mi pagano settimanalmente, si lavora di sera ma non prima delle diciannove e a mezzanotte al massimo sono a casa.”
“Non consegnate dopo mezzanotte?” chiese lui.
“Sì, ma non ci mandano me.” sorrise lei “A volte essere una femmina ed essere piccola ha i suoi vantaggi!” continuò riferendosi palesemente al suo commento della sera prima.
Lui accennò un sorriso. “Non hai dei turni fissi, però.”
“Macchè, anzi. Me li comunicano da una settimana all'altra.” Sesshomaru sgranò lievemente gli occhi. Abitudinario com'era, questa cosa doveva sconvolgerlo parecchio! “Questa settimana ad esempio lavoro da domani fino a venerdì, la prossima solo il week-end.”
“Avevi detto che lavoravi tutti i giorni.” disse lui alzando un sopracciglio.
“Eh?” chiese confusa, poi capì che si stava riferendo alla sua affermazione del giorno precedente, 'lavoro tutti i giorni'. “Beh, ma sabato e domenica li ho esclusi, immagino tu abbia altro da fare che venire a mangiare ramen precotti qui!”
Lui la guardò interrogativo.
“Dovrai andare dai tuoi genitori, vedere la tua ragazza...” spiegò lei come se fosse ovvio.
“Ragazza?”
“Come, non hai una ragazza?” fece Rin spalancando gli occhi.
“Perchè dovrei?” chiese lui quasi seccato.
“Co-come perché? Ma insomma” disse lei arrossendo un poco “sei un ragazzo così carino...”
carino?? Questa sera riusciva a malapena a staccargli gli occhi di dosso. Forse era ora che se lo trovasse lei, un ragazzo. “...che mi sembra strano tu non sia interessato a...”
“A?”, adesso lui era incuriosito.
Lei non rispose e fece un gesto con le mani come per dirgli di lasciar perdere. Non era a suo agio a parlare di certe cose.
“Il fatto che non mi interessi avere una ragazza non vuol dire che non faccia sesso.” continuò allora lui, usando quel tono impossibile, quello basso e suadente. “E tu?”
Oh diamine, Rin sentì le guance imporporarsi. La stava mettendo volutamente in imbarazzo, la stava provocando!
“Io... No, no, neanche io.” disse concentrando gli occhi sul fiore di carta che modellava fra le mani con il tovagliolo di carta.
“Non hai un ragazzo o non fai sesso?” infierì lui con voce ancora più bassa, mandandole letteralmente a fuoco il viso. E non solo quello, dovette ammettere.
Alzò la testa di scatto e incontrò lo sguardo più deliziosamente canzonatorio del pianeta. Dei del cielo, che schianto. Quella serata prometteva solo guai per il suo equilibrio emotivo, accidenti a lei che l'aveva invitato!
Rin corse ai ripari.
“Ehi, smettila di usare quel tono con me!” gli disse imbronciata, lanciandogli addosso il fiore di carta.
Lui sollevò il sopracciglio, come a chiedere una – inutile – spiegazione.
“Quel tono da... fatalone, ecco.” cacciò fuori lei, d'istinto. Sesshomaru fece tanto d'occhi.
Fatalone? Ma che razza di parole le era venuta fuori?? Rin si sarebbe sotterrata per la vergogna, e ben a fondo. Un rumore sommesso provenne dal petto del ragazzo, e Rin avrebbe giurato fosse una risata soffocata. Cielo, che disastro era!!
Proprio in quel momento suonò un cellulare e Rin ringraziò gli dei che per pietà o decenza avevano interrotto quel penoso discorso.
Sesshomaru guardò lo schermo e l'espressione del suo viso tornò ad essere quella solita: fredda, indifferente, un po' più infastidita della norma.
“Pronto” disse con voce atona. Rin, pur non distinguendo le parole, sentì rispondergli dall'altra parte una voce di donna.
“Mh. Grazie.” continuò lui.
“Sì, l'ho aperto”, disse ancora, la voce sempre più fredda. Rin lo guardò incredula. Aveva detto meno di dieci parole e già mostrava insofferenza.
“No, non è necessario che lo cambi. Ho detto che mi va bene.” Anzi, irritazione.
“Mh.” Sesshomaru chiuse la telefonata senza nemmeno salutare e posò il telefono sul tavolo. E che telefono, pensò lei. Valeva almeno tre mesi di suo lavoro.
“Chi er..?” chiese lei senza pensarci, per poi pentirsi immediatamente fulminata dallo sguardo severo di lui. “Scusami, non sono fatti miei, lo so.” Servì della birra ad entrambi per aver qualcosa da fare e non sprofondare di nuovo nell'imbarazzo.
Il silenzio che piombò nella stanza non aiutò di certo ad alleggerire l'atmosfera, ma le permise di sentire il lievissimo sospiro di lui.
“Mia madre.” disse poi.
“Ah.” rispose lei, mentre il significato della telefonata le si componeva pian piano in testa. 'Mamma' più 'grazie' più 'l'ho aperto' più 'mi va bene' più 'non è necessario che lo cambi' uguale... “Sesshomaru, ma è il tuo compleanno?” esclamò con entusiasmo.
Sesshomaru la guardò con sincera meraviglia e Rin fu sicura di averci preso in pieno. La cosa la riempì di allegria e scattò in piedi senza neanche aspettare la risposta.
“Accidenti ma perché non me l'hai detto?” esclamò raccogliendo svelta le tazze e riponendole nel lavandino. Saltellò svelta fino alla credenza dove aveva appoggiato il piatto con i dolcetti e li portò in tavola.
“Non sono granché ma ti dovrai accontentare” continuò aprendo svelta il frigo dal quale recuperò la bottiglia di vino. Prese anche due bicchieri puliti per il vino ma mentre tornava verso il tavolo si bloccò con un'espressione allarmata: “Ma dovevi dirmelo! Tua madre magari ti aspettava per cen...” Lui, che aveva seguito con sguardo attonito quel suo balletto, la guardò con sufficienza, come se avesse detto la cosa più stupida del mondo.
“Figuriamoci” sputò fuori.
“Oh.” sussurrò lei, pensando ancora una volta a quanto fosse solo quel ragazzo, se non lasciava che sua madre si preoccupasse di lui neanche il giorno del suo compleanno. Beh, l'avrebbe fatto lei.
Si avvicinò al tavolo, aprì la bottiglia e versò il vino nei due bicchieri. Ne porse uno a Sesshomaru con un sorriso e lo guardò negli occhi, pronta ad esclamare un 'auguri!'... che le morì in gola quando lo sguardo severo di lui congelò il suo entusiasmo. Tanto che pensò di essersi competamente sbagliata.
“Non è il tuo compleanno?” sussurrò.
“Sì, lo è.” confermò lui.
Rin riprese pian piano a respirare e chiese cautamente: “E quanti anni sono?”
“Secondo te?” disse lui ammorbidendo appena lo sguardo e sollevando il bicchiere verso di lei, in un cenno di brindisi.
Lei rispose al gesto e bevve un sorso di vino, fresco e frizzante.
“Mhh, vediamo,” si riprese, poiché qualsiasi tipo di gioco la rendeva fremente come una bambina. Si sedette e appoggiò il mento sui palmi delle mani. “Dubito proprio che tu abbia perso anni scolastici”, lui alzò un sopracciglio, esaustivo, “ma magari sei in anticipo di uno, è possibile.” Lo guardò assottigliando lo sguardo e sporgendosi verso di lui per cercare di carpire qualche informazione ma era come interrogare un busto di marmo, che oltretutto si irrigidì contro lo schienale come a voler indietreggiare.
“Va bene, ci provo.” disse lei tirandosi di nuovo indietro, “Ventiquattro?”
“Mmh.” rispose lui.
“'Mmh' vuol dire sì, per te? Non sei proprio un asso della comunicazione!” sorrise lei.
“C'è chi compensa.” ribattè lui.
“Stai dicendo che parlo troppo?” disse lei fingandosi risentita. “Purtroppo non sei il primo che me lo dice. Non me ne rendo proprio conto, scusami!”
“Smettila di scusarti inutilmente.” la rimproverò lui.
“Oh, già” disse lei, spostando lo sguardo altrove e abbassando la voce, “Sono patetica.”
Lui tacque a lungo, forse un po' troppo a lungo. Poi disse “No. Ma non devi sminuirti.”
“Guarda che non è facile con te.” rispose lei, mesta. “Metti un po' in soggezione le persone, sai?”
Lui tacque e la fissò a lungo, lei lo vide con la coda dell'occhio ma non rispose allo sguardo.
Poi Sesshomaru si voltò verso il tavolo e chiese: “Si possono assaggiare?”, rivolto ai dolcetti.
“Ma certo!” esclamò lei “Non so come siano, non li faccio da tanto tempo. Mia mamma è più brava naturlamente, ma anche a me di solito vengono bene.” Rin era agitata. Quel ragazzo le causava dei cambiamenti di umore così repentini da scombussolarla. Si rese conto di aver parlato di nuovo troppo, ma non riuscì a frenarsi e continuò: “Se avessi saputo ti avrei preparato qualcosa di più adeguato, scu...”
Un'occhiata severa di lui la bloccò prima che potesse completare la parola e lei sorrise arrossendo, colta in flagrante! Affondò i denti nel dolce e spiò lui che faceva altrettanto. I dolci avevano la consistenza giusta, morbidi e setosi ed erano decorati con piccoli semi di sesamo in superficie, che ovviamente le si appicicarono intorno alla bocca. Si affrettò a toglierli passando velocemente la lingua sulle labbra e sorprese Sesshomaru a guardarla. Lui distolse immediatamente lo sguardo ma Rin si affrettò a pulirsi con il tovagliolo, nel timore che qualche semino fosse rimasto attaccato alle guance.
Lui naturalmente era riuscito a mangiare il suo dolce senza alcun danno o smottamento di sostanze e si accingeva a prenderne un secondo. Allora... “Allora ti sono piaciuti!” osservò lei, senza poter nascondere la sua soddisfazione.
Lui annuì e questa esagerata accondiscendenza evidentemente incrinò la sua abituale compostezza, tanto che un minuscolo semino gli cadde sul colletto della camicia.
Rin non sapeva se dirglielo o no. Da una parte quel piccolo puntino bianco le creava un disturbo estetico non da poco, come se deturpasse l'insieme perfetto della figura di lui, dall'altra la divertiva perché, proprio in virtù di quella minuscola imperfezione, lui acquistava umanità: 'Sesshomaru, uno di noi', sorrise fra sé.
“Mi domando come mai sorridi sempre.” sputò fuori lui. Beccata!
Il suo sorriso si allargò ancora di più ma questa volta fu lei a non rispondere. E in fondo, che avrebbe dovuto dire? Che era vergognosamente imbarazzata almeno tanto quanto era vergognosamente felice?
Prese il bicchiere e lo svuotò completamente buttando la testa all'indietro e quando riportò lo sguardo in avanti vide che lui si stava alzando.
“Vai?” (già?) gli chiese. Si alzò anche lei e lo accompagnò alla porta.
Sesshomaru aveva già una mano sulla maniglia della porta quando si girò e pronunciò un semplice quanto inaspettato “Grazie, Rin” che deflagrò nel suo cuore mandandole a fuoco il viso.
Sorrise tentando di esprimere tutta la felicità che stava provando ma non riuscì a sostenere l'impegno del suo sguardo e la sua attenzione irrimediabilmente cadde sul quella piccola imperfezione sul colletto di lui. Il minuscolo semino era ancora lì e lei non resistette: sporse la mano verso di lui per toglierglielo, ma lo vide irrigidirsi ed allontanarsi e si bloccò.
“Scusa” e ancora 'ste scuse! “È che hai un seme di sesamo sulla camicia.”
Lui inclinò la testa per guardare ma il semino era troppo vicino al collo perché lo potesse vedere. “Posso?”, gli chiese, con la mano a mezz'aria. Non rilevando alcun diniego si avvicinò lentamente e prelevò il piccolo oggetto dal sacro luogo che aveva osato violare.
Fu allora che successe l'incredibile.
Sesshomaru le afferrò il polso e la tirò verso di lui. Senza dire nulla, senza lasciarle il tempo di reagire, posò le labbra sulle sue con impeto.
E lei si disordinò competamente.
Tutto intorno divenne confuso, tutti i rumori ovattati, dominati dal battito feroce del suo cuore che la scuoteva come il rimbombo di una grancassa. Tutte le sensazione provenienti del resto del suo corpo furono azzerate: lei era tutta imprigionata lì, sulla punta di quelle labbra. Esposta e fragile. Si rese vagamente conto di aver appoggiato le mani sul petto di lui per non cadere e lui in risposta le toccò le labbra con la lingua. Le accarezzò e poi provò a spingere. Ma cosa...Voleva entrare? No! Kami! No, non poteva!
Rin si ritrasse sconvolta, lui le lasciò la mano e lei se la portò al petto, ansimando piano. Non ebbe il coraggio di alzare la testa, tenne lo sguardo fisso sulle scarpe di lui. Che lentamente si voltarono e scomparirono dietro la porta, lasciandosi dietro un “Buonanotte, Rin” detto con quel tono basso, modulato, avvolgente.

Solo quando sentì la serratura scattare osò alzare lo sguardo. Le girava la testa, portò le mani gelate alle guance per cercare refrigerio e si accorse che tremavano.
Ma perché, perché? Perché l'aveva fatto? Perché a lei? Non era giusto, non era necessario, non andava bene. Lei era Rin, solo Rin.
Aveva ancora il piccolo seme di sesamo pizzicato fra il pollice e l'indice, e quelli delle due dita erano evidentemente gli unici muscoli che riusciva ancora a contrarre, perché il resto del corpo si abbandonò alla gravità e si accasciò a terra, sulle ginocchia.
Perché le era piaciuto così tanto? Merda, merda, merda.



***


Sesshomaru entrò nel suo appartamento, leggero come non si sentiva da tempo.
L'aveva baciata. Aveva baciato quella sciocca ragazzina.
Perché? Per gratitudine, forse. O per vederla arrossire. Per soggiogarla al proprio fascino. Per catturare la luminosità del suo sorriso.
Perchè in quel momento, protesa verso di lui, così felice per il suo apprezzamento, era bella, bellissima. Era tutta per lui e lui l'aveva reclamata.
Aveva baciato quella ragazza. Ma gli era piaciuto quel bacio, eccome. Rin era come si aspettava, sapeva di buono, di genuino. Quando le aveva lasciate, le labbra di lei tremavano: come era inesperta, ed ingenua!
Un desiderio un po' malsano, di fare sua quella purezza, di fare in modo che quell'ingenuità si dedicasse a lui, a lui solo, lo pervase. Ma cacciò via velocemente l'idea, non aveva tempo da perdere in futilità da ragazzini.
Fatalone eh? Certo che poteva essere fatale. E quella piccola deliziosa sciocca non immaginava quanto.

Andò in bagno e si svestì per fare una doccia. Si guardò allo specchio e almeno con sé stesso dovette essere sincero: era stato il più bel compleanno degli ultimi cinquecento anni.






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Ta daaaaa. Cucù bella gente.
Storiella leggera, saranno pochi capitoli, due o tre. E incredibile a dirsi, NON diventerà un rating rosso, almeno in questa prima fase. Mi sto esercitando :)
I dolcetti che Rin prepara sono quelli che vengono chiamati 'mochi', e a me personalmente piacciono tantissimo. (Ringrazio Kuroi Tenshi che mi ha suggerito un ripieno diverso al posto del cioccolato della prima stesura... non l'ideale per un cane!)
Ditemi cose pensate dei personaggi, sono un esperimento. Non dico niente, lascio dire a voi, sempre se vi va.
La storia mi è venuta in mente guardando questa: http://www.zerochan.net/2039754
A chiunque passi di qua auguro di cuore un sereno anno 2017!
Besos
elerim


 

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Capitolo 2
*** Capitolo due ***


Capitolo due ovvero Chi vuol esser lieto sia.




Nella settimana seguente alla famosa cena, camminava ad una spanna da terra; quasi letteralmente, perché in effetti per la maggior parte del tempo saltellava invece di camminare, come non aveva mancato di farle notare Ayame.
Ayame era la sua migliore amica fin dal primo giorno della prima superiore. Era un folletto tutto pepe dai capelli rossi, gli occhi verdissimi, l'animo volubile e i canini deliziosamente accentuati, che conferivano al suo sorriso un che di pericoloso e malizioso che lei per prima giudicava irresistibile. Al contrario di lei aveva stuoli di ammiratori ma il tappeto di cuori infranti alle sue spalle aveva raggiunto dimensioni considerevoli negli ultimi due anni, da quando Ayame aveva perso la testa per un compagno di corso, Koga. Lui sembrava gradire la sua compagnia ma le aveva lasciato intendere chiaramente che non fosse interessato ad andare oltre ad un rapporto di amicizia. Ayame sospettava che lui fosse invaghito di qualcun'altra ma questo non l'aveva fatta desistere, anzi si era intestardita a volerlo conquistare a qualunque costo e aveva respinto i corteggiamenti di ogni altro ragazzo.
Non che fosse rimasta a bocca asciutta per due anni, chiariamoci: si dilettava in qualche storiella fugace. 'Giusto per passare il tempo', diceva lei, 'giusto per tentare di far ingelosire Koga' pensava lei, ma il prescelto del momento non si poteva aspettare di più di qualche bacio vorace e qualche palpata discreta, e quando Ayame ne aveva avuto abbastanza lo mollava lì senza ripensamento alcuno.
Qualcosa del genere doveva essere in atto proprio in quel momento, sospettò. Erano andate in biblioteca con il fermo proposito di studiare a schiena piegata ma Ayame era assente da più di mezz'ora e si decise ad andarla a cercare.
Come previsto la trovò avvinghiata ad un biondino nel corridoio della 'Narrativa in lingua', collocazione decisamente appropriata a giudicare dall'esplorazione approfondita che il biondo stava conducendo della bocca di Ayame.
“Bleah” sussurrò con un misto di ironia e disgusto a voce evidentemente troppo alta, poiché i due si interruppero immediatamente. Il biondino guardò ovunque tranne che nella sua direzione mentre Ayame si diresse verso di lei allegra, salutando a malapena il malcapitato con un cenno della mano.
“E lo molli così?!?” bisbigliò, rossa in volto.
“Certo, che si arrangi da solo!” ridacchiò l'altra ammiccando. Lei arrossì ancora di più e sbuffò irritata, dando le spalle all'amica e dirigendosi nuovamente verso il tavolo dove era accatastato tutto il loro materiale di studio.
“Ehi, che c'è?” la fermò l'amica, prendendola per il polso e invitandola a girarsi.
“Oh accidenti Ayame! Ma come puoi... come puoi fare una cosa così...intima con uno che non ti interessa neanche?”
La sua irritazione scomparve nel vedere lo sguardo canzonatorio e per nulla scomposto dell'amica. Sbuffò ma non potè evitare di accennare ad un sorriso. “Sei perfida, Ayame!”
“Rin, rilassati!” le rispose il folletto rosso dandole un buffetto su una guancia. “Guarda che non c'era proprio niente di intimo, non mi è neanche piaciuto granché...” e prime che lei potesse replicare aggiunse, a bruciapelo: “Non tutti i baci sono come quello che hai ricevuto tu, mica senti ogni volta le campane a festa!”
Lei aprì la bocca e annaspò, colpita da una nuova vampata di calore “Non ho mica sentito le campane a festa!”, rispose piccata, “E poi cosa c'entra, non è stato per niente così, lui non si è avvinghiato a me come un polpo, è stato molto...” deglutì sotto lo sguardo già scettico dell'amica, e concluse con voce strozzata “gentile.”
Ayame ghignò, “Non gliene hai dato il tempo! Ti ricordo, tesoro, che sei tu che ti sei allontanata al primo accenno di...”
“Uffaaaaaaa! Te l'ho detto, non me lo aspettavo! E” tentennò “io non sono come te... non ero pronta.”
“Rin” la rossa le mise un braccio su una spalla e sospirò. “Non so più come dirtelo. Io sarò anche una che si limona il primo che capita, ma solo tu sai quanto sono stupidamente fedele. Fedele ad uno che non è neanche il mio ragazzo, figurati! Tu invece non ti lasci andare, non ti concedi niente. Sogni l'arrivo di chissà quale principe e non cogli le occasioni. Insomma, mia cara ragazza,” prese un tono da finta paternale e le mise la mano dulla spalla, “non ne posso più di spiegarti quanto è figo baciare con la lingua, devi provarlo!”
“Ma io l'ho provato” bofonchiò lei mettendo su quel piccolo broncio spontaneo che sapeva essere l'ultima futile resistenza alla resa.
“Maddài, scherzi? Con quello sfigato di Shinichi?” affondò infatti Ayame.
“Smettila, Shinichi è una bravissima persona.”
“Sì, con il sex appeal di una salamandra!”
Risero entrambe, attirando gli sguardi ostili degli occupanti il tavolo vicino.
“Ricordati che vi ho visti!” Ayame incalzò “ti ha avvolto la bocca come una ventosa, bleah, che schifo! Cioè Rin, vuoi mettere la differenza con quel pezzo d'uomo del tuo vicino di casa? Vedrai, altro che campane a festa, quando la sua ling...
“Zitta, scema! Ma che dici?” Rin nascose la testa nel libro che aveva davanti, mentre mormorii di disapprovazione si alzavano due tavoli più in là.
“Come 'che dico', ti ha già baciata, no?” rispose la rossa a voce bassissima, fingendo anche lei di tornare a studiare.
“Sì ma non succederà più, non voglio che succeda!”
“Sono due cose diverse, cara... Se l'ha già fatto lo rifarà, vedrai. Tanto più che ti sei sottratta... no? L'hai lasciato a bocca asciutta – beh, quasi – vedrai che non tarderà a riprovarci!”
“No Ayame, non deve assolutamente succedere.”, Rin assunse un tono serio e convinto.
“Ma perché Rin? Mi hai detto che ti piace, no? E ti è piaciuto anche il bacio, guarda che me l'hai detto, non puoi smentire!”
“Ayame, sii seria! Cosa me ne farei? Ti sembra che un tipo del genere possa mai interessarsi davvero a me?” L'amica spalancò gli occhi verdi, chiaramente incredula. “Io voglio un ragazzo, non un vicino che mi porti a letto.”
“Divinità celesti, perdonatela!” Ayame abbassò teatralmente gli occhi e giunse le mani snocciolando come una litania “Date a me uno scopa-vicino come quello! Date a me un...”
Rin sbuffò sonoramente e le appioppò una sventola sulla testa con il block-notes, così si guadagnarono i sonori “Sssshhhh!!!!” dei vicini e il discorso per quella volta si concluse così.

Mentre tornava a casa le parole di Ayame continuavano a ronzarle in testa, anche perché oggi era giorno di spesa, l'avrebbe rivisto a breve. Come avrebbe dovuto comportarsi?
Era una stupida romantica, lo sapeva da sola. E Sesshomaru era fantastico, un vero sogno.
Avrebbero fatto tutte la fila per essere baciate da lui. Ecco, appunto: tutte. Chi era lei per poter ambire a qualcosa di diverso? Cosa credeva, di poter puntare al suo cuore? Se mai ne avesse uno, peraltro.
Dirigendosi verso il supermercato la sua camminata divenne più mesta e rassegnata, ma non meno decisa. Erano amici. Insomma, quasi amici. Buoni vicini, quasi amici. Per lei era già una grande conquista e a questo si sarebbe attenuta, senza fantasticherie e senza pensieri strani.
Il bacio era un bel ricordo che avrebbe conservato, frutto probabilmente di una forma di riconoscenza che Sesshomaru aveva avuto verso di lei, un modo per dirle che era stato contento della serata. E quel suo tentativo di approfondire il bacio, quel suo tono basso e suadente, provocante... non c'erano mai stati, ecco. Fine così.
Non ne avrebbe più parlato e si sarebbe comportata normalmente.


***


Sesshomaru attendeva il suono del campanello con una insolita agitazione. Beh, nulla di eclatante naturalmente, nulla che un occhio esterno medio avrebbe potuto notare. Ma l'osservatore attento ed allenato – sua madre, in pratica, e lei sola – avrebbe colto i piccoli segnali di inquietudine: aveva controllato due volte che nel frigo ci fosse sufficiente spazio – e sarebbe stato improbabile il contrario, dato che il frigo della cucina scelta dalla suddetta madre aveva il volume di carico di una portaerei – aveva spostato i soldi dal tavolo alla specchiera presso la porta e ne aveva approfittato per lanciare un'occhiata fugace alla sua immagine riflessa. Nero o grigio molto, molto scuro, in questo periodo non indossava maglie o camicie di altri colori.
Il doppio suono tipico di Rin lo sorprese mentre stava tornando in cucina; fece dietro-front, afferrò soldi e chiavi e uscì, imboccando le scale.
Come al solito trovò i sacchetti sullo scalino davanti al portone e come al solito la attese con le borse in mano, tenendole aperta la porta. Rin guardava il cielo mentre si avvicinava ed aveva le guance arrossate per il tratto percorso in bicicletta. Era davvero graziosa, un piccolo folletto; un piccolo folletto senza guanti, naturalmente.
Gli salì alla bocca più d'una osservazione velenosa a riguardo ma le tenne per sé e attese che fosse lei a iniziare la conversazione. Come al solito.
“C'è aria di neve” disse infatti con un piccolo sorriso, quando era ormai ad un metro da lui. Serena, tranquilla, solare; Sesshomaru si era aspettato dell'imbarazzo da parte di lei e una conseguente fatica nella gestione dell'approccio da parte sua, invece Rin stava tranquillamente parlando... del tempo!?! Proprio come due anziani dirimpettai.
Bofonchiò un verso in risposta e per una volta non si sentì sprezzante o distaccato bensì semplicemente una persona di senno. Davvero avrebbe dovuto rispondere 'Eh, già, l'han detto anche al telegiornale'? Ma per favore.
“Magari quest'anno saremo fortunati ed avremo la neve a Natale” continuò la voce di Rin alle sue spalle. Dei del cielo, ma erano davvero a questo punto? Non rispose neanche.
“Ah, non te l'ho detto, a Natale starò via per una decina di giorni. Tornerò come sempre dai miei, ma mi fermo una settimana in più perché arrivano dei parenti dall'Europa e mi fa piacere rivederli.” Ecco che partiva l'usuale chiacchericcio. “Insomma, non sono proprio parenti ma è come se lo fossero: erano i nostri vicini di casa quando ero piccola e ho trascorso l'infanzia a giocare con i due figli. Poi si sono trasferiti in Europa a causa del lavoro del padre e non ci siamo praticamente più visti...”
Beh, era sollevato. Queste almeno erano chiacchiere interessanti.
“Dove?” chiese.
“Dove cosa?”
“Dove in Europa.” sillabò lui.
“Ah. Boh, in verità non lo so. Uno di quegli Stati con tanto mare e turismo.”
“Sono parecchi gli Stati europei con 'tanto mare e turismo'” commentò lui con sufficienza.
“Quante storie, Sesshomaru!” sbuffò lei, gaia. “Non me lo ricordo proprio. Me lo dissero quando partirono ma ero troppo piccola per interessarmene, capii solo che andavano lontano, così lontano che non li avrei visti per tantissimo tempo, forse anche mai più.” la voce di Rin gli giunse velata di tristezza.
“Mhm.”
“Invece tornarono sei anni fa. I nostri genitori avevano continuato a tenersi in contatto e... beh, rimasero una settimana.”
Il tono con il quale aveva pronunciato quell'ultima frase lo incuriosì. Era tentennante, quasi imbarazzata. Si voltò verso di lei, ormai erano al pianerottolo e alzò un sopracciglio invitandola a continuare.
“Ecco...” cominciò lei fingendo di rovistare nella borsa pur di non guardarlo negli occhi “Mi presi una sbandata per il figlio minore. Aveva, anzi ha, tre anni più di me, io ero appena adolescente ed una settimana intera con un diciottenne che girava a torso nudo per casa è stata... terribile.” La frase terminò in poco più di un sussurro e lo sguardo di Rin saettò ovunque tranne che nella sua direzione. Una persona normale avrebbe avuto la decenza di abbandonare l'argomento imbarazzante ma Sesshomaru ci sguazzava nel fomentare il disagio delle persone in sua presenza.
“Terribile? Io al tuo posto l'avrei definita 'molto interessante'.”, le si avvicinò invadendo di poco la sua zona personale.
“Perché sei un uomo e in quanto tale...” buttò fuori lei tutto d'un fiato per poi stopparsi bruscamente.
“...In quanto tale?” la incalzò, appoggiando pigramente il braccio allo stipite della porta che lei cercava di aprire.
“Aah, lasciamo stare.” Con suo disappunto Rin lasciò che i capelli le schermassero il viso e fece un gesto con la mano come ad allontanare il discorso. E forse anche lui stesso. “E tu farai qualcosa a Natale? Andrai in vacanza?”
Sesshomaru si irrigidì, doppiamente indispettito dalla distanza che lei aveva posto fra loro e dal fatto che l'attenzione fosse stata spostata su di lui.“No”, rispose secco.
“Non... non vai... non so... dai tuoi?” provò a recuperare lei, spostando i capelli nuovamente dietro l'orecchio.
“Forse.”
“Capisco.” No che non capiva, cosa pensava di capire? O forse lo stava compatendo? L'irritazione di Sesshomaru raggiunse il livello di guardia. Per fortuna lei non proseguì oltre e gli porse il sacchetto con la parte di acquisti che gli spettava. Le mise i soldi in mano e si diresse verso il proprio appartamento, ansioso di porre fine a quell'incontro.
Sentì il suo 'Ciao, ci vediamo!' quando già stava chiudendo al porta e le rispose con un 'Sì, ciao' malamente masticato.
Appoggiò la borsa della spesa sul tavolo con forza eccessiva, prese un bicchiere dal pensile sopra il lavandino, lo riempì e bevve lentamente.
Poi iniziò a riordinare gli acquisti ed ebbe un moto di stizza quando trovò, al fondo del sacchetto, una scatoletta lunga con il logo di una nota marca di prodotti erboristici. Quello di certo non era il dentifricio che le aveva chiesto di comprare, probabilmente quella sciocca li aveva scambiati per errore.
Se lo rigirò fra le mani due o tre volte, indeciso sul da farsi. Non aveva alcuna voglia di rivederla in quel momento. D'altra parte, fra mezz'ora sarebbe uscito e gli seccava lasciare il problema non risolto, sicché decise di andare immediatamente a reclamare lo scambio.
Rimase di sale quando, sullo zerbino, trovò la confezione di dentifricio corretta, sulla quale era appoggiato un fiore di carta arancio dal lungo stelo sottile. E qualcuno aveva scarabocchiato a penna un 'sorry :)' sulla scatoletta.
Antichi dei, quella ragazza era disarmante. Nel vero senso della parola.


***


Rin chiuse la porta dietro di sé ed indugiò nel corridoio, giusto il tempo di un sospiro. Si era comportata normalmente.
Anche lui si era comportato normalmente.
Già.
Il solito stronzo.
Tirò giù la ceniera dei suoi stivaletti e li scalciò via malamente, poi cominciò a riordinare la spesa e... oh accidenti. Ci mancava anche questa. Adesso si sarebbe dovuta sorbire un'inutile quanto fastidiosa battuta del genere “Come al solito, ma dove hai la testa, Rin? E blablabla.”
E capirai che dramma, è un dentifricio!
Cercò quello che aveva comprato per lei ma non lo trovò. Quando realizzò che doveva averlo lasciato tra la spesa di Sesshomaru e si immaginò la sua faccia disgustata, si lasciò andare in una risata liberatoria che le scrollò di dosso la tensione. Che personaggio!!
Doveva restituirgli al più presto il suo prodotto super-chimico ma non aveva nessuna voglia di sorbirsi i suoi rimbrotti, così cercò una penna e gli scrisse sulla scatola la prima cosa gentile che le venne in mente. Mentre usciva per lasciargli la scatoletta sullo zerbino, le cadde lo sguardo su un fiore di carta abbandonato – come chissà quanti altri, in quella casa! – su una sedia e senza pensarci troppo allegò anche quello alla consegna. Eccesso di carineria? Con Sesshomaru era l'unica possibilità di salvezza, se il proprio codice morale non ammette l'omicidio.

A missione compiuta, potè finalmente dedicarsi a concedere sollievo il proprio corpo ancora infreddolito. Tanto impellente era il desiderio di infilarsi sotto una doccia bollente, che si svestì già nell'ingresso e indirizzò malamente i vestiti verso la cucina, dove era stata costretta a mettere la lavatrice. Il bagno minuscolo era il maggior difetto di quell'appartamento, per il resto confortevole e, doveva ammettere, mantenuto in ottimo stato dai proprietari. Si chiese se anche il bagno dell'appartamento di Sesshomaru fosse altrettanto sacrificato, ma no, no di certo, il suo imponente vicino non sarebbe neanche riuscito ad entrare in una doccia come la sua.
Fu proprio mentre cercava di scacciare a viva forza l'immagine di Sesshomaru nella sua doccia – nudo, ovviamente, come è d'uso affrontare una doccia – che il campanello suonò imperioso.
Tre lunghissimi secondi di panico e poi schizzò verso il bagno, infilandosi velocemente il suo accappatoio azzurro-puffo.
Troppo tardi si rese conto di aver anteposto la velocità alla dignità. Dèi, se avesse avuto anche solo un brandello di possibilità con Sesshomaru, se la sarebbe giocata non appena aperta la porta. Già, perché c'era senz'altro lui dietro quel battente, come confermò un secondo, impaziente e prolungato suono del campanello.
“Arrivo!” trillò e spalancò la porta, con un'espressione sul volto che era l'emblema della mortificazione.
Se non fosse stata così preoccupata ad autocompatirsi, avrebbe iscritto la reazione di Sesshomaru negli annali: il suo vicino infatti cambiò ben quattro espressioni facciali nel giro di pochi secondi, passando dall'impassibilità generica allo stupore, poi alla disapprovazione ed infine ad un'ilarità trattenuta a stento.
Si morse il labbro inferiore e si guardò intensamente le dita dei piedi, ormai in uno stadio di pre-congelamento.
La scatoletta di dentifricio centopercentonaturale comparve nel suo campo visivo, tenuta da Sesshomaru con due sole dita, manco fosse tossica. “Questa è roba tua.” sentenziò il disgraziato.
“Uh, sì, grazie.” Pregò in tutte le lingue che lui uscisse di scena veloce com'era entrato, invece Sesshomaru rimase immobile, probabilmente a godersi la scena. “Ti... ti inviterei ad entrare ma stavo per...”
“Posso immaginare.” la interruppe lui con voce bassa e sottilmente lasciva, assolutamente illegale. Alzò gli occhi e lo sorprese a guardare oltre le sue spalle, in direzione... del mucchio di vestiti sporchi, che se la memoria non la ingannava mostrava in superficie l'ultimo indumento tolto, ossia le mutandine rosa con il pizzo nero. Boccheggiò come una carpa. Una carpa nuda, azzurra e congelata.
“Bel colore.” Il commento la riscosse dallo stato di trance. A cosa si riferiva? All'accappatoio o alle mutandine? Stabilì fosse il caso di deciderlo da sola.
“Questo azzurro è terribile, lo so,” ammise lanciandogli un'occhiata di sfuggita, “ma era l'unico rimasto nei saldi.”
“Non mi dire...” la palese ironia smorzò la tensione e lei riuscì persino a farsi scappare una risatina imbarazzata. “Devo andare. Ci vediamo, Rin.” Sesshomaru le concesse un accenno di sorriso e, senza aggiungere o attendere altro, infilò le scale.
Rin chiuse la porta, spense il cervello e si fiondò ad annegare la propria infinita vergogna sotto il getto d'acqua calda, il metodo classico per mascherare lacrime, sudori e bollori.


***


Natale era alle porte! Dindondan! Dindondan! Come tutte le anime tenere che hanno conservato memoria della loro fanciullezza, avrebbe dovuto vivere questa attesa con il medesimo frizzante entusiasmo degli anni precedenti.
Invece quest'anno Rin si era trovata suo malgrado ad annaspare nei preparativi e a rincorrere scadenze. Il contratto per il suo lavoro era in scadenza proprio a fine dicembre e per il rinnovo – benedetto sia il rinnovo – le erano stati richieste documentazioni varie, compreso un nuovo certificato medico di buona salute. Tra l'esame che aveva dovuto preparare per il venerdì precedente e il lavoro serrato senza giorni di stacco per due settimane di fila (se li era dovuti sudare quei dieci giorni di ferie!), era ancora in alto mare per la partenza.
Sarebbe dovuta partire l'indomani pomeriggio, se voleva essere a casa dei suoi per la notte ed essere pronta il giorno seguente ad aiutare sua madre nei preparativi della vigilia e non solo non aveva neanche iniziato a fare i bagagli, ma le mancavano ancora da comprare due regali, naturalmente quelli che la mettevano più a disagio!
“Prendi tu i regali per i ragazzi, vero Rin? Siete coetanei, tu sai cosa potrebbe piacere!”, le aveva chiesto sua madre per telefono due settimane fa. Insomma, coetanei non proprio... inoltre, cosa poteva saperne lei dei gusti di due persone che non vedeva ormai da sei anni? Con Sango, la maggiore, erano amiche sui social network, per cui qualche idea poteva riuscire ad azzeccarla, ma con Kohaku non sapeva proprio dove sbattere la testa. Comunque sia, ci avrebbe pensato l'indomani mattina, ora era quasi arrivata al supermercato. Aveva poca spesa ordinaria per sé questa volta, il maggior numero di cose erano per il suo vicino.
Il suo lunatico, imperscrutabile, affascinante vicino, al solo pensiero del quale le guance le presero fuoco. Per lui non aveva avuto dubbi: aveva visto il regalo perfetto in una vetrina e l'aveva acquistato senza indugio: una sciarpa in cachemire in diverse tonalità di grigio, un salasso, ma morbidissimo. Il problema in questo caso era spostato sul quando e come farglielo avere. Ci aveva pensato molteplici volte e aveva stabilito che gliel'avrebbe lasciato sullo zerbino, prima di partire. Niente imbarazzo, niente discorsi. Non era da lei – a lei piaceva guardare le persone in faccia, scambiarsi un augurio ed un sorriso – ma di sicuro era una modalità più accettabile per Sesshomaru. Inoltre era certa che lui non avesse nulla per lei, quindi voleva evitargli ogni imbarazzo. Non voleva perturbare il fragile legame che stava crescendo fra loro.
Nelle settimane passate infatti avevano raggiunto un'intesa e una complicità che Rin mai si sarebbe aspettata. Sesshomaru aveva abbandonato il consueto sarcasmo era stato cautamente gentile e bendisposto nei suoi confronti. Per ben due volte l'aveva incontrato per strada di ritorno dal lavoro – avvenimento al limite dell'improbabile, tanto che la sua amica Ayame aveva insinuato una premeditazione da parte del ragazzo... assurdo! Fatto sta ed è che il cuore le era balzato in gola quando aveva scorto l'alta ed inconfondibile figura del vicino camminare sul marciapiede a quattro isolati da casa e, mentre ancora si stava domandando se fosse opportuno fermarsi, con le mani irrigidite sui freni, era stato lui a voltarsi. Inutile dire che aveva inchiodato senza indugio, il cuore già scaraventato sul marciapiede.
Quella prima volta, come la seconda del resto, era finita che avevano fatto la strada a piedi, insieme, chiacchierando (lei) degli avvenimenti della giornata o delle assurde pretese dei clienti, mentre la bicicletta le sbatteva sul fianco ogni tre per due, con la dispettosa rassegnazione tipica degli oggetti che ci sono fedeli con i 'se' e con i 'ma'. La seconda volta – ricordò con crescente sentimento – dopo mezzo minuto di cammino lui le aveva detto: “La porto io” e l'aveva spinta da parte, delicato e risoluto insieme, sfiorando le sue mani mentre afferrava il manubrio e si apprestava a condurre il riottoso mezzo a pedali.

Ritornò bruscamente in sé quando un'anziana signora la scostò per accedere al freezer del pesce davanti al quale si era persa in fantasticherie.
“Mi scusi” bofonchiò, con il cuore ancora in tumulto per il ricordo di della premura del suo splen..., no, adorab... no, fighis... uffa! Del suo inclassificabile vicino. Sospirò e continuò il suo percorso fra le corsie. Fece la spesa in fretta, caricò le borse sulla bici e si soffiò ben bene sulle mani prima di partire per ritardare il congelamento.
Volò a casa e suonò il campanello, scaricò le borse e, mentre tornava verso il portone, pensò che potendo se lo sarebbe strappato quel cuore che continuava a battere come un forsennato, nonostante la corsa fosse finita da un pezzo. Purtroppo, gli avvenimenti delle ultime settimane alimentavano in lei una speranza che con tutte le forze – e nessun risultato – aveva tentato di reprimere.
Lui la attendeva nella penombra dell'androne con il piede a fermare la porta, aveva un'espressione tesa ed i capelli legati che scendevano su una sola spalla, ed era bello come un dio. “Ciao, Rin.” L'aveva anche salutata per primo! Male Rin, molto molto male!
“Ciao Sesshomaru!” ricambiò con enfasi, e presero a salire affiancati. “Tutto bene? Stavi studiando?” L'aveva dedotto dai capelli legati, li portava così solo quando era impegnato in qualche attività.
“Mh.”
“Hai un esame?” arrischiò.
“No. Il mio relatore deve preparare un intervento per un Convegno a gennaio e mi ha affidato la presentazione.”
'Affidato', che interpretazione originale! “A casa mia si direbbe sbolognato, Sesshomaru.” ironizzò cautamente.
“A casa tua non sanno neanche cosa sia una presentazione.” “Verissimo!” ridacchiò “Beh, senza dubbio tu sai usare il computer molto meglio di lui e farai una presentazione perfetta.” lo blandì e lo vide scuotere nervosamente le spalle.
“Mpf. Come se avessi scelta.”
“Vero anche questo,” ansimò. Gli era già in coda, non riusciva proprio a tenere il suo passo. “Quando pensi di laurearti?”
“In primavera.” rispose sicuro, fermandosi sul pianerottolo del terzo piano.
La stava aspettando? Dèi benevoli... “Di già! I tuoi genitori saranno felicissimi!” esclamò, e subito si morse la lingua: probabilmente l'emozione le aveva interdetto le sinapsi, poiché sapeva benissimo quanto l'argomento 'genitori' lo irritasse.
“Non vedo come la cosa li riguardi, né vedo motivi per cui una laurea dovrebbe rendere felici.”
“Beh, è un traguardo raggiunto, la fine degli esami. Magari la possibilità di fare il lavoro che ti piace...”
“Come sei ingenua, Rin.” Glielo disse senza cattiveria anzi, con una punta di affetto, ma un po' le fece male lo stesso.
“Beh, ecco...” bofonchiò arrossendo e non sapendo come ribattere. Non pensava di essere così ingenua. Sì, un po' sì, ma forse era lui che affrontava la vita con una dose di amarezza eccessiva per la sua età. Avrebbe voluto dirglielo, ma preferì lasciar correre per mantenere quel clima di tregua così confortevole.
Proseguirono la salita in silenzio e quando giunsero davanti alla porta lei era già pronta con le chiavi in mano, per non farlo aspettare. Mentre faceva scattare la serratura vide che le appoggiava i sacchetti sulla soglia e, nel sollevarsi, indugiò alle sue spalle. Prima che potesse voltarsi lo sentì vicino – troppo vicino – e si immobilizzò.
“Buona serata Rin.” il suo fiato le accarezzò i capelli “E buon Natale.”
Rin si premette le mani al petto ed osò voltarsi solo quando lo sentì più lontano.
“Buon Natale anche a te, Sesshomaru! A presto!”
Era già di spalle e le fece un cenno con la mano.


Rin entrò incespicando nonostante avesse solo due piccole borse. Male, male, sempre peggio. Palpitava come una tredicenne al solo cenno di una sua gentilezza.
Posò le borse sul tavolo, si sfilò le scarpe e sbottonò il cappotto, poi cominciò distrattamente a tirare fuori gli oggetti da mettere a posto. La sua attenzione fu risvegliata dal contatto delle mani con uno strano pacchetto. Era cedevole al tatto e la velina verde pallido che lo avvolgeva sfrigolava deliziosamente sotto le dita. Svolse l'involucro con curiosità crescente e rimase pietrificata. In quello che la carta faceva sembrare un letto di foglie erano adagiati dei guanti così belli che Rin non avrebbe neanche saputo immaginarli. Erano di lana pregiata, lo riconobbe, di un delicato colore naturale, con piccoli decori floreali rosa scuro e beige sul dorso; all'interno invece la lana era lavorata in quel che sembrava un pelo raso e caldissimo. Li accarezzò a lungo sul dorso e sulle dita, ne saggiò i bordi interni con i polpastrelli prima di avere il coraggio di indossarli e portarseli sulle guance in fiamme.
Che morbidezza. Chiuse gli occhi e portò le mani sulle orecchie, per mettersi in ascolto del proprio cuore.
Non aveva dubbi sulla provenienza di quel regalo e non aveva dubbi che fosse il regalo più bello mai ricevuto. Il più sorprendente, il più inaspettato, il più azzeccato (le caratteristiche del regalo perfetto), e inoltre proveniente dalla persona della quale – ormai non poteva più negarlo – era irrimediabilmente innamorata.
Questa consapevolezza la trasportò fuori dalla porta così com'era, colma di gratitudine e speranze, senza scarpe ma con il cappotto e i suoi bellissimi guanti nuovi.
Quando lui aprì la porta giunse le mani al petto ed esplose in un “Sesshomaru, sono meravigliosi! Grazie!”
“Rin... ” disse lui, e per un attimo sembrò senza parole. Poi abbozzò un sorriso. “Sono contento che ti piacciano.”
“Sono bellissimi Sesshomaru,” ricominciò lei, “sono il più bel regalo che abbia mai ricevuto e...”
“Vieni dentro, che ti congeli i piedi, sciocca.”
“Eh?”
Prima di realizzare cosa stava accadendo si trovò oltre la soglia dell'appartamento del suo vicino. Sesshomaru l'aveva afferrata delicatamente per l'avambraccio e l'aveva trascinata dentro, ed in effetti la sensazione di caldo trasmessa del parquet le fu di immediato sollievo.
Ma forse non era quello a riscaldarla, più probabilmente era il corpo di Sesshomaru ancora aderente al proprio. Forse era la sensazione che lui stesse guardando proprio verso di lei mentre lei teneva lo sguardo inchiodato sulla sua spalla a studiare l'interessantissima trama del maglione grigio che indossava.
Forse era la mano di lui che dal braccio si spostò sul suo fianco e la sua voce che chiamò il suo nome, bassa e quasi imperiosa. “Rin.”
Un brivido la colse quando alzò finalmente lo sguardo e scorse nei suoi occhi un barlume di sofferenza, ma tutto – esattamente ogni cosa – venne annullato dalla sensazione delle labbra di lui che ancora una volta andavano alla conquista delle sue.
Questa volta non vi fu esitazione alcuna. Si abbandonò al bacio e lasciò che le proprie labbra fossero morbidamente avvolte e accarezzate.
Lasciò che la mano di lui conquistasse il suo fianco anche al di sotto del cappotto e che l'altra si insinuasse fra i suoi capelli.
Mosse le labbra per accompagnare i movimenti di lui ma gli lasciò il comando e l'iniziativa e quando la sua lingua si presentò di nuovo ad invocare un accesso glielo consentì.
Se avesse avuti una manciata di neuroni liberi probabilmente avrebbe ricordato le parole di Ayame quando le decantava le infinite virtù del bacio alla francese, ma purtroppo nessuna risorsa era più disponibile. Ondate di sensazioni nuove, appaganti e totalizzanti frantumarono il suo raziocinio e le resero il corpo e la mente cedevoli. Il suo profumo tutt'attorno, l'aderenza dei corpi, l'intrusione umida e morbida che con cautela esplorava la sua bocca... tutto era nuovo e meraviglioso. Quel che stava accadendo era il sogno dei sogni, e lei era la regina delle fate.
Furono la felicità ed il desiderio di esprimerla che mossero le sue mani e gliele fecero portare alla base del collo di lui e le diedero il coraggio dapprima di accarezzarlo e poi di tirarlo a sé, per sentirlo più vicino, più suo.
Quel che accadde in risposta la spaventò, perché in un attimo si trovò con le spalle al muro, premuta dal suo corpo, assalita da una bocca diventata famelica: boccheggiò senza fiato ed emise un gemito, e Sesshomaru si ritrasse immediatamente, ripristinando una distanza che le parve eccessiva, tanto quanto la reazione di poco prima.
Le braccia che fino ad un momento prima la stringevano, erano di nuovo rigide e composte lungo il fianco del suo vicino e nulla nella sua espressione tesa sembrava testimoniare quanto era appena successo fra loro. Non una piega fuori posto, non un'ombra di emozione; lei invece era accaldata, scarmigliata ed ansante.
Parlò per prima, naturalmente. “Scusami, non volevo...”, deglutì e guardò altrove, “non volevo mandarti via. Sono felice che tu...”, incespicò, “che noi... insomma, sono felice.” Fece un timido sorriso e guardò in basso. “Solo non sono abituata.”
Spiò due volte dal basso il suo viso prima di notare un cambiamento di espressione. La linea della bocca si ammorbidì e una mano le raggiunse il capo, sistemandole una ciocca di capelli che le andava a coprire – schermare, proteggere – il volto.
“Sei una ragazzina” disse poi, e lei si sentì morire dalla vergogna.
“Solo perché non so baciare, non significa che io sia una ragazzina”, brontolò.
“E chi ha detto che non sai baciare?”
Alzò la testa di scatto e se lo ritrovò di nuovo vicino, con un'aria decisamente canzonatoria. Aprì la bocca per ribattere ma lui la anticipò. “Sei una ragazzina perché arrossisci per niente.”
Avvampò, a servirgli la dimostrazione su un piatto d'argento, ma fu dispensata dal dover cercare una risposta perché lui le sollevò il mento e cercò nuovamente le sue labbra, posandoci sopra un bacio di saluto.
“Buon viaggio, Rin. Ci vediamo.”
L'altra mano di Sesshomaru, si accorse, era già alla porta e la stava aprendo.
“Sì. Grazie.” Uscì, e si sentì quasi sospinta via. “Buon Natale anche a te, Sesshomaru!” disse alla sua figura già parzialmente nascosta dall'uscio semi-chiuso.
“Mh.”
Già, reazione standard, risposta standard. Tutto normale.
Ma cosa era successo là dentro? Si fermò qualche istante in mezzo al pianerottolo. Frastornata, interdetta. Poi i piedi nudi la ricondussero al presente e al tepore del proprio appartamento.


Sesshomaru rimase con la mano sulla maniglia. Lo stupore per il suo stesso comportamento stava cedendo il passo all'irrequietezza, preludio di una rabbia che, lo sapeva, avrebbe trattenuto a stento.
Questo perché la domanda che lo agitava ormai da secoli, negli ultimi mesi aveva assunto una sfumatua diversa.
Il 'Cosa sto diventando?' non si stava più limitando ad analizzare gli aspetti di sé stesso che nel tempo aveva dovuto comprimere – talvolta sopprimere – per garantirsi la sopravvivenza, o a imporsi di dimenticare quel che era stato, per ritagliarsi un posto in questo mondo con unghie e denti non più degni di questo nome, perché lui no, non sarebbe morto di inedia come tanti suoi simili, rimpiangendo il glorioso passato.
Non si trattava nemmeno più di trovare nuovi scopi ed obiettivi, ora aveva chiaro che la sua naturale predisposizione al dominio avrebbe trovato soddisfazione nel piegare le debolezze umane a proprio favore. Le Regole precludevano loro una carriera politica o la gestione di attività economiche di rilievo internazionale e anzi imponevano loro ruoli di servizio alla comunità umana – l'ennesima umiliazione. Ma per Sesshomaru era stato ben presto chiaro che la sua sola presenza fisica era un manifesto di superiorità presso gli umani e che di fronte ad un fascino ben dosato potevano aprirsi tutte le porte – e una quantità fin eccessiva di gambe. Inoltre, il suo essere tagliente, schivo e sprezzante conferiva al suo personaggio indubbia forza per emergere in qualsiasi professione.
In questo secolo aveva scelto la carriera medica e non certo perché fosse suo interesse salvare vite umane, quanto perché voleva costruirsi la più ampia conoscenza della loro fisiologia.
Non era più così giovane ma aveva ancora una lunga aspettativa di vita, ed il suo era un progetto a lungo termine; niente di meglio, insomma.
Finora era dunque riuscito a controllare e dominare i cambiamenti imposti a sé stesso, era diventato qualcosa di diverso ma comunque frutto di una scelta consapevole, ma questa femmina... questa femmina lo stava cambiando velocemente, i comportamenti che assumeva con lei gli erano alieni e, dannazione, non riusciva ad agire ed esprimersi come faceva con gli altri. Non riusciva a tenerla lontana, non riusciva a farle pesare il suo disprezzo e la sua superiorità. Pensare di ferirla gli causava disagio, immaginare che qualcun altro le facesse del male gli svegliava istinti di vendetta bestiali.
Il problema era che gli stessi istinti si risvegliavano quando, come era accaduto prima, la sentiva completamente in suo potere. Dei, cosa non le avrebbe fatto quando l'aveva sentita aggrapparsi a lui. No, non le sarebbe importato nulla di ferirla, l'avrebbe ferita ma soddisfatta, un compenso più che sufficiente.
Si era fermato percependo la sua paura, ma non per riguardo a lei, tutt'altro: la paura di lei gli aveva fatto prendere improvvisa consapevolezza del proprio grado di coinvolgimento, dello stato di confusione e prostrazione nel quale un solo bacio con quella insipida ragazzina l'aveva precipitato. Insipida, macché insipida, aveva un sapore... e un profumo... Si passò la lingua sulle labbra e sui denti, sentendoli più pronunciati e taglienti del dovuto.
L'avrebbe protetta da tutto il resto, ma non certo da sé stesso. Lui l'avrebbe avuta, completamente, e l'avrebbe asservita a sé, come avrebbe potuto fare con qualunque altra.
Una pausa, una distrazione. Ecco cosa poteva esser Rin. Poteva concedersela.




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Chi non muore si rivede!
Finirò questa storia, siatene certi. Mi è difficile portarla avanti perché, oltre al fatto che il tempo non si compra ma si paga, devo scavare in personaggi che, pur attraendosi, sono completamente diversi negli ideali e negli intenti.
Sesshomaru è tosto, vi avviso; è incattivito da una società che, spero si capisca dai pochi accenni, ha messo i demoni sopravvissuti all'angolo. Rin invece è un piccolo tesoro, un'anima bella. Ma forse per stare con un demone è necessario scendere qualche gradino verso gli Inferi.
Se avete ancora la pazienza di seguirmi, vi ringrazio.
Il prossimo aggiornamento è previsto a gennaio.
Un abbraccio grande a tutt* voi. Buone Feste!
elerim

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Capitolo 3
*** Capitolo tre ***


Capitolo tre ovvero La profezia che si autoadempie (*).





Rin spalancò la porta del suo appartamento, cacciò dentro le valigie e si chiuse velocemente il battente alle spalle, nel timore di sentire qualche movimento provenire dalla sua, di porta. No, non era pronta a rivederlo, non nello stato di febbrile agitazione in cui versava. Era stata distratta e nervosa per tutto il viaggio di ritorno e quando era giunta al portoncino di ingresso il cuore aveva preso a martellarle nel petto; aveva fatto le scale alla massima velocità concessa dal borsone e dai pacchetti di cui sua madre l'aveva caricata e si era rifugiata in casa come una ladra.
Non era da lei, accidenti. Nulla di tutto ciò che era successo nell'ultima settimana era da lei, a ben vedere.
Non aveva mai desiderato che le festività natalizie passassero in fretta, invece già il giorno dopo Natale fremeva dalla voglia di tornare a casa.
Era stato piacevole rivedere i vecchi amici: con Sango si era da subito ripristinata l'antica confidenza e Kohaku era sempre più affascinante – le era anche sembrato che mostrasse qualche interesse nei suoi confronti – ma lei aveva la testa altrove.
Non aveva mai mentito ai propri genitori – e ad essere precisi non l'aveva fatto nemmeno questa volta – ma quando il proprietario della pizzeria, a corto di personale, l'aveva contattata per chiederle se per caso sarebbe stata disponibile a tornare a lavorare già il primo dell'anno... beh, aveva calcato un po' la mano con i suoi, non smentendo una inesistente minaccia di licenziamento, e aveva fatto i bagagli due giorni prima del previsto.
Quando era da i suoi, il suo cellulare di norma restava abbandonato sul comodino per intere mezze giornate: con Ayame aveva appuntamento fisso dopo cena, non doveva tener sotto controllo variazioni dell'ultim'ora sui turni di lavoro né scambiare informazioni con i compagni di corso su lezioni o esami, quindi il suo utilizzo era ridotto al minimo. Invece, ultimo ma fondamentale indizio del suo stato alterato, in in quei giorni l'aveva tenuto in tasca, sempre. Perchè il giorno di Natale gli aveva scritto un messaggio e lui aveva risposto. E poi le aveva scritto e risposto ancora, tutti i giorni. Poche parole: una battuta sarcastica, un 'buonanotte', un breve commento sulle rispettive giornate, niente di che. Salvo il fatto che avevano rappresentato una quotidiana opera di demolizione delle catene di razionalità con le quali la povera Ayame aveva tentato di mantenere il suo sentimento ancorato alla realtà. “Stai facendo svolazzare il tuo cuore troppo in alto” le aveva detto. “Se ti sfracelli al suolo poi tocca a me raccogliere i pezzi.”
Su quest'ultima cosa aveva dannatamente ragione, ma come poteva mettere un argine ai propri sentimenti quando lui, da ormai diversi mesi, le dedicava tempo ed attenzioni in modo gentile, discreto, per nulla invadente? E i suoi guanti erano la fine del mondo: la avvolgevano perfettamente, caldi e morbidi. Una notte si era addormentata con i guanti indossati, a circondarle il viso. Scema, scemissima! Si scoprì con il volto in fiamme al solo ricordo, mentre si preparava ad entrare in doccia.
Quella mattina, alla partenza, Sango e Kohaku erano parsi dispiaciuti, il ragazzo in particolare l'aveva abbracciata calorosamente e aveva espresso il desiderio di rivederla presto, poiché con probabilità sarebbe tornato a studiare in Giappone, forse proprio nella sua stessa città. Lei aveva sorriso ed annuito gentile ma poi era volata via, con il cuore leggero.
Forse stava fraintendendo, quasi sicuramente se ne sarebbe pentita, ma proprio non ci voleva pensare.
Ed ora sì, che era pronta a vederlo.


Mentre infilava in una borsa la divisa pulita per la pizzeria e si preparava ad uscire, tentò di affrontare con ragionevolezza la propria delusione. Sapeva che sarebbe tornata e sapeva che sarebbe andata al lavoro la sera stessa; non l'avrebbe mai ammesso ma sperava che l'avrebbe trovato a casa, quel pomeriggio. Quindi, dopo aver disfatto i bagagli e fatto una doccia veloce, era andata a bussare alla sua porta. Aveva anche suonato il campanello, ma non aveva ricevuto risposta.
Gli sbalzi d'umore degli innamorati fino ad oggi erano stati solo letteratura, ma adesso, mentre inforcava mestamente la sua bicicletta, non potè non chiedersi cosa ne fosse stato dell'euforia che le aveva infiammato il petto fino ad un'ora prima e perché fosse stata sostituita da una tristezza che colorava di grigio ogni cosa intorno.




L'aveva sentita arrivare nel pomeriggio. Aveva accolto con inspiegato sollievo i rumori provenienti dal suo appartamento: lo scalpiccìo leggero, le ante degli armadi che si aprivano e chiudevano, lo scroscio della doccia. L'aveva sentita bussare e suonare e il suo sospiro di delusione l'aveva quasi – quasi – mosso a compassione, ma non aveva aperto. Conosceva i suoi orari e sapeva che se ne sarebbe dovuta andare dopo mezz'ora, non aveva nessuna intenzione di fare le cose di fretta. Difatti la sentì uscire poco dopo, dalla finestra la osservò pedalare decisa nella consueta direzione – con le mani avvolte nei guanti che le aveva regalato, notò compiaciuto.
Finì di scrivere la mail che aveva iniziato e chiuse il laptop di scatto.
Si fece una doccia veloce, si vestì solo con una maglia leggera di cotone e i pantaloni di una tuta e compose il numero della pizzeria da asporto di Rin.
“Pizza Speed, buonaseraaa!” rispose una fastidiosa voce di donna dall'altra parte.
“Volevo ordinare due pizze.”
“Nomeee?”. Più che fastidiosa.
“No Taisho.”
“Indirizzooo?”
Quella mania di strascicare l'ultima vocale era detestabile. Glielo fornì a denti stretti.
“Gustiiii?”
“I preferiti della signorina Izumi. E vorrei che le consegnasse la signorina stessa, come ultima consegna.”
“Cosa?” si indignò la voce. “Come si permette? Non siamo mica un locale di appunt...”
“Sono il suo vicino di casa, mi conosce.” la interruppe bruscamente per frenare lo sproloquio. “Chieda conferma alla signorina Izumi.”
“E se lei non fosse d'accordo?” la voce della donna si era fatta dura e sospettosa.
“Faccia come creda” rispose secco e chiuse la chiamata.


Erano le undici e mezza passate quando sentì battere in modo scomposto alla porta.
Aprì e se la trovò davanti con le braccia ingombre.
“Ciao scusa, avevo le mani occupate e ho dovuto bussare col piede. Ho preso anche qualcosa da bere” disse accennando al sacchetto che le pendeva dal braccio.
Sesshomaru rimase zitto ed immobile così da costringerla a sollevare lo sguardo, che fino ad allora aveva rivolto ovunque tranne che verso di lui. Quando ottenne quel che voleva le liberò le mani dai cartoni della pizza e si diresse verso la cucina.
“Potevi suonare, sarei venuto sotto.”
“Ma no, figurati!” Dalla voce dedusse che era rimasta sulla porta.
“Che fai, stai lì?”
“Oh, no, non so... scusa” balbettò ed entrò.
“Stai bene?” le chiese voltandosi a guardarla. Si stava togliendo le scarpe e le stava riponendo accanto alla porta, fingendo di essere indaffarata per non rispondere.


Era in tensione, si era aspettato che lei sarebbe stata felice di cenare con lui. Non era una vera cena, non era un vero appuntamento ma era comunque il genere di cose che supponeva piacessero alle femmine, invece lei pareva titubante. Forse il tono di voce che aveva usato non era incoraggiante, le situazioni ambigue d'istinto lo rendevano guardingo e sospettoso.
“Stai bene, Rin?” modulò con maggior dolcezza.
La sentì sospirare piano e quando sollevò di nuovo lo sguardo, con la testa inclinata leggermente di lato, il volto era illuminato da un sorriso. Centro perfetto: l'ennesima conferma del fatto che stava diventando bravo ad esercitare carisma anche con l'intonazione della voce.
Sul fatto che l'ottenimento di quel sorriso gli provocasse tanto orgoglio quanto sollievo, preferì non indugiare.
“Sì, sto bene, Sesshomaru, grazie.” continuando a sorridere gli si avvicinò, con le mani affondate nelle tasche del cappotto, “Sono solo molto stanca e a dirla tutta non sapevo cosa aspettarmi, temevo di aver capito male!”
Aggrottò la fronte per spingerla a spiegarsi.
“Sì, avevo paura che Yumi avesse frainteso e che in realtà le pizze fossero per te e un amico”, o un'amica, non lo disse ma era evidente, “e che avrei fatto la figura dell'idiota!”
Ecco, è quando la vedeva così spontanea, aperta, esposta, che gli si formava un grumo fastidioso a livello dello stomaco, qualcosa di simile ad un rigurgito di coscienza, la sensazione che giocare con lei a quel modo non fosse un gesto onorevole.
“E il peggio è che sono affamatissima e sarei andata a letto senza cena, perché non avrei avuto la forza di prepararmi niente!”
Lo stomaco di lei confermò l'esigenza con un gorgoglìo e Sesshomaru sentì le labbra tirare in un mezzo sorriso.
“Levati quel cappotto e siediti allora.”
Non se lo fece dire due volte e in un attimo erano al tavolo con i cartoni aperti davanti. Aveva già una fetta praticamente in bocca quando si fermò con la mano a mezz'aria e gli sorrise ancora, un incanto di sorriso. “Grazie infinite dell'invito, Sesshomaru.”




Ricordava che si fossero seduti sul divano, dopo una cena in cui si era mantenuta un'atmosfera di serena complicità – aveva riso tanto e Sesshomaru aveva sorriso ben tre volte – ma come fossero finiti l'uno addosso all'altra e come si fosse lasciata travolgere in una situazione che ora li vedeva avvinghiati, ansimanti, a consumarsi le labbra di baci, di questo non aveva memoria.
La schiena adagiata sulla morbida pelle grigia dell'ampia chaise longue, Sesshomaru sdraiato accanto a lei, anzi, sempre più su di lei, le bocche che, pur a corto di ossigeno, non resistevano separate per più di qualche istante. Maledetta, maledetta Ayame, altro che campane a festa. La lingua di Sesshomaru era una carezza intensa e soave, dalla quale si era lasciata condurre, guidare e alla quale infine si era abbandonata, lasciando che labbra e lingua gli rispondessero, che le mani cercassero il suo volto. Lui l'aveva conquistata con pazienza e lentezza, memore forse delle sue passate insicurezze, ed ora si trovava ad inseguire le sue labbra, ebbra, appassionata, desiderosa di non interrompere quel fluire di sensazioni che le incendiava le guance, il petto, le pieghe segrete fra le gambe.
Sentì la sua mano risalirle con cautela il fianco ed infilarsi appena sotto il maglione, mentre la sua bocca le avvolse le labbra in un bacio morbido, rassicurante. Rispose carezzandogli il viso e aprendo le labbra a lui – da dove le provenisse, poi, una tale audacia – e percepì l'incendio divamparle sul fianco, dove le sue dita le massaggiavano piano la pelle coperta da una canottiera sottile e si addentravano a sfiorarle il seno. I movimenti, sempre lenti, divennero più ampi e giunsero ad insidiarle l'orlo dei pantaloni, fino a percorrerlo con studiata noncuranza e a raggiungere il punto, sulla schiena, dove la canottiera si era sollevata, lasciando esposta una sottilissima striscia di pelle. Quando un suo polpastrello la percorse in lunghezza, sentì un gemito fuggire dalle labbra, fino all'attimo prima impegnate in un bacio travolgente e proprio in quel momento invece libere di tradirla.
Un moto di sgomento e vergogna la pervase, presto esiliato da una scarica di brividi, provocati dalle labbra di lui che si avventarono sul suo collo e dalla sua mano che le afferrò il fianco e la trascinò contro di sé. Erano aderenti, intimi, lui intrecciò una gamba alle sue e i suoi baci sul collo da dolci divennero umidi, arditi, intensi.
Un piccolo morso sulla clavicola, un altro piccolo urlo strozzato. Cielo, ma era lei a gemere così?
L'imbarazzo e il timore di non saper gestire una situazione più intima presero il sopravvento e si trovò a nascondere il proprio viso tra il collo e il petto di lui, sfuggendo ai suoi baci. Ansimante, vergognosa, preoccupata.
Di nuovo, l'aveva fermato di nuovo.
Tutto l'ardore si spense e fu sopraffatta da sensazioni più banali e concrete: il caldo, il sudore, l'essere vicini, troppo vicini. E, al di sopra di tutto, un martellante “Cosa devo fare?”.
La mano di Sesshomaru abbandonò la sua schiena e riportò il maglione al suo posto; lo sentì scostarsi da lei e adagiarsi su un fianco e attese, con il volto nascosto dai capelli, che si alzasse e la lasciasse lì, sola, come meritava di stare.
“Rin”. La sua voce aveva una sfumatura di rimprovero ma non pareva arrabbiata, né delusa. Una mano si fece strada fra i suoi capelli e le scoprì il volto.
“Io...” non riuscì ad andare avanti. 'Mi dispiace', voleva dirgli, 'mi dispiace tantissimo, sono un'imbranata, una patetica imbranata'. Gli lanciò un'occhiata di sfuggita e la sua espressione la fece sentire ancora più a disagio: era rilassato, il volto appoggiato sulla mano raccolta, le labbra atteggiate in un sorriso appena accennato. Strafottente, enigmatico, sicuro di sé, come un angelo caduto.
Tacquero entrambi e per una interminabile manciata di secondi sentì il peso del silenzio premerle addosso, e poi sollevarsi quando lui cominciò a giocherellare con una ciocca dei suoi capelli, sfiorandole il viso con le dita. Dita affusolate, con le unghie più lunghe e curate di quanto ci si sarebbe aspettati da un uomo, che contrastavano con il palmo grande in cui vene e muscoli erano ben distinguibili sotto una pelle liscia e tesa, a suggerire una potenza trattenuta. Le mani di Sesshomaru erano un'alchimia di potenza ed eleganza ed osservarle le aveva concesso una fuga mentale provvisoria quanto vana.
“Cosa stai facendo?” gli chiese, solo per spezzare il silenzio.
“Attendo che tu recuperi l'uso della parola”, rispose pronto, “O, perché no, della lingua...”
A quell'allusione insinuante si indignò – non quanto avrebbe dovuto, in verità – e sollevò la testa, guardandolo con un cipiglio... mezzo cipiglio.
Lui, beffardo, con un dito premette sulla sua fronte, facendole perdere l'equilibrio e spingendola a coricarsi di schiena, sul divano.
“Che personaggio sei, Sesshomaru!” disse, sospirando.
Puntò gli occhi sul soffitto e con un coraggio che stupì lei stessa si accinse ad affrontare il grumo della questione. Per quanto imbarazzante, andava risolta, o perlomeno spiegata. Non voleva che lui pensasse che lei si ritraesse perché non interessata, o che avesse problemi con il sesso – beh, sì, era imbranata e impacciata, ma perché non sapeva farlo, non perché non volesse farlo!
Il fatto era che... “Il fatto è che tu mi piaci davvero, tantissimo.” buttò fuori tutto d'un fiato, con gli occhi fissi al soffitto.
“Non... non mi accadeva da tanto tempo di sentirmi così coinvolta”, dirgli 'mai' sarebbe stato decisamente troppo, “e non riesco a credere che tu, che uno come te, così...”
Sentì le guance ardere ma doveva dirlo, era la pura verità, “ … così bello, affascinante, benestante, lanciato verso una luminosa carriera, possa essere interessato ad una come me, alla vicina di casa impacciata che consegna pizze per sbarcare il lunario e pagarti l'affitto.”
“Ne abbiamo già parlato, mi sembra.” La voce di Sesshomaru suonò dura e distante, stridente con la sua dichiarazione balbettata.
“Di quanto tu sia bello, ricco ed intelligente? Non mi pare.” disse con una risatina forzata, per nascondere l'imbarazzo.
“Di quanto ti sminuisci e ti preoccupi dell'inutile giudizio altrui.”
“Oh” incassò, “Sì, no... ma in questo caso è diverso!”
Lo spettro di quel 'patetica' con cui era stata appellata tempo prima era giunto a risucchiarle tutto l'ardimento, tuttavia era vero, non era il giudizio altrui che la preoccupava, né il sentirsi inadeguata. Forse – ed era difficile esprimerlo senza risultare offensiva – il vero problema era che queste differenze così marcate fra loro e il suo carattere scostante e distaccato non la rendevano sicura delle sue intenzioni.
“Spiegati allora.” la incalzò lui quasi imperioso.
“Te l'ho detto. Non mi spiego come tu possa essere interessato a me. Tempo fa, hai detto che non sei interessato ad avere una ragazza e poi, con tutte quelle con cui potresti stare, dovresti voler stare proprio con me?”
Silenzio. Troppo silenzio.
“Forse stai correndo troppo, Rin.”
Eh?
“Eh?!”
Aveva sparato un colpo secco ed era scivolato – fuggito – via dal divano, lasciandola con il cuore martellante e, nella testa, un rincorrersi di pensieri ovattati e rimbombanti, come i suoni in quelle palestre troppo vuote.
Lo osservò sparecchiare con calma, svuotare le briciole nella spazzatura, piegare i cartoni come fossero carta velina e introdurli in uno dei cinque contenitori grigi perfettamente affiancati sotto il lavandino, ciascuno provvisto di una candida etichetta indicante il materiale di conferimento. Le bottiglie nel vetro, i tappi nel metallo. Metodico, preciso, efficiente.
Si alzò meccanicamente sistemandosi i vestiti, mentre lui con una spugna umida liberava il tavolo dagli ultimi residui di cibo.
Recuperò il cappotto e la borsa e si piegò per infilarsi le scarpe. Quando si rialzò se lo trovò accanto, non l'aveva sentito avvicinarsi e trasalì. Cercò qualcosa da dire ma nella sua testa qualsiasi pensiero era sfocato e triste.
“Buonanotte, Sesshomaru”, le uscì solamente, “grazie per la serata.”
Nonostante la situazione, nonostante lui mantenesse una compostezza impietosa, senza curarsi di sollevarla dal suo stato, lei non riuscì ad essere scortese o indisponente. Si dimostrava sempre accomodante, con chiunque, in qualsiasi situazione. Si detestò per questo e la rabbia le spinse lacrime brucianti ai margini degli occhi.
Si voltò per guadagnare l'uscita e con sorpresa lo vide aprirle la porta con cortesia e sfiorarle la schiena con la mano mentre lo superava.
Era già a metà pianerottolo quando udì un tenue: “Buonanotte, Rin. A domani.”
Stupita, si voltò a guardarlo. Un tono sommesso, un volto tormentato da... beh, cosa non avrebbe saputo dirlo, ma perlomeno era qualcosa.
Carica di quell'ennesimo frammento di confusione ed incertezza, si affrettò a barricarsi nella serena, confortante mediocrità del proprio appartamento.




Si era addormentata sul divano, stremata e ancora vestita. Se ne accorse rotolandovi giù per raggiungere il telefono che squillava con insistenza.
“Mmh?” rispose, allontanando per istinto l'altoparlante dalle orecchie, quando lesse il nome del chiamante.
“RiiiiiiiNN, bellaaaaaaaa!!! Sei tornata e non mi dici niente?!?” Ecco, appunto.
“Ayame, abbassa la voce, mi sono appena svegliata.”
“Uh-oh. Strano, non è da te. Fatto nottata?”
“Sì, più o meno,” si trascinò in camera da letto e lasciò il telefono su una sedia vicino all'armadio, attivando il vivavoce. “Sono tornata prima perché il capo aveva bisogno, così ieri sera ho lavorato.”
“Oddio, e ti ha dato un turno doppio, quel disgraziato? Non dovevi accettare, Rin, sei una ragazza, non può mandarti in giro fino alle due di notte, ci parlo io e vedi...” la filippica di Ayame partì mentre era impegnata a levarsi la maglia.
“No, ehi, frena!” la stoppò, appena libera di parlare. “Ho fatto il turno solito. Solo che dopooo...” lasciò la frase in sospeso appositamente, pregustandosi la reazione dell'amica.
“Beh?!? Dopo cosa? VUOTA IL SACCO!”
Rise e si affrettò ad eseguire. “Sesshomaru mi ha invitata a mangiare una pizza da lui. Cioè, si è fatto recapitare due pizze ed erano per noi, insomma.”
“Uhu, gagliardo l'amico. E poi?”
“E poi niente, abbiamo mangiato e chiacchierato, siamo stati proprio bene...”
“Avanti, Rin.”
“Uffa! E va bene, siamo finiti sul divano, uno di quei divani lunghi senza schienale, hai pres...” “Chaise longue, si chiama. E poi?”
“E poi mi ha baciata facendomi dimenticare perfino il mio nome, e accarezzata, e poi...”
“L'avete fatto?”
“No!” esclamò esasperata, poi sospirò rumorosamente e abbassò il tono, “No, Ayame. Credo che... ecco, l'avremmo fatto, se io non l'avessi fermato.”
“Di nuovo?!?”
“Di nuovo”, pigolò. “Non me la sono sentita.”
Ayame tacque per qualche secondo e Rin la adorò per questo. Ayame sapeva capire quando smettere di scherzare. Si era svestita di maglietta e pantaloni intanto, aveva recuperato il telefono e si era lasciata cadere sul letto dietro di sé.
“Tesoro,” la voce squillante era diventata affettuosa e comprensiva, “guarda che non è un problema. Non devi per forza andare fino in fondo con un ragazzo; io non lo faccio perché sono malata, lo sai, voglio solo Koga. Ma tu sei liberissima di fermarti, anche se lui ti piace tanto. È legittimo non sentirsi pronte.”
“Sì, Ayame. Ma il problema è che che lui mi piace davvero tanto, da impazzire. Lo... lo desidero.”
E dirlo semi-nuda, sdraiata su un letto, la turbò non poco. Ayame sospirò lievemente ed aspettò che continuasse, spronandola con un semplice “Ma..?”
“Non so, Ayame, è sempre lo stesso problema. È come se non ci credessi davvero, che lui vuole me, che vuole stare con me. Stiamo benissimo insieme, ma mi sembra irreale!”
“In che senso, dici?”
“Ecco... lui è stranissimo. È l'opposto di me. Non parla mai di sé stesso e quando esprime un'opinione si percepisce il disprezzo verso tutto e tutti, poi è un maniaco della precisione e dell'ordine: a casa sua tutte le superfici sono libere e pulite, non ci sono oggetti in giro, neanche le chiavi o il telecomando! E il divano ad angolo in pelle grigia chiara, morbidissima, con quella chaise-cosa su cui dormirebbero comode tre me stesse... ed io mi chiedo cosa ci faccio lì, cosa ci fa una ragazza chiacchierona, imbranata ed insicura nella sua vita.”
“Rin, diamine, forse gli piaci proprio per questo, perché sei diversa, perché sei riuscita a penetrare la sua corazza e a portare un po' di colore nella sua vita asettica e monotona!”
“Io... non so se gli piaccio. Non me l'ha mai detto, anzi, mi critica sempre.” disse imbronciata, mentre si alzava per recuperare dal cassetto la biancheria pulita e una t-shirt.
“Però ti cerca, gli piace la tua compagnia. E, beh, si sdraia con te sulla chaise-cosa!” risero entrambe. “Di sicuro, almeno da quel punto di vista, non gli sei indifferente!”
“Sì, è vero,” ammise. “Non so, Ayame. Io ne sono innamorata, ormai lo ammetto. Ma proprio per questo non mi accontento. Non mi basta essere una che vuole portarsi a letto. Vorrei... vorrei che fosse il mio ragazzo, ecco, non un tromba-vicino, come dici tu!”
L'altra sogghignò e aggiunse speranzosa: “Magari lo vuole anche lui, essere il tuo ragazzo, dico.” “Mmmhhh... no, non credo. Tempo fa mi ha detto che non gli interessa avere una ragazza.”
“Beh, può aver cambiato idea, conoscendoti.”
“No, Ayame,” Rin si accinse ad affrontare il ricordo più bruciante della serata precedente; l'aveva cacciato indietro fino a quel momento, perché il modo in cui infine l'aveva salutata aveva rafforzato il fasullo convincimento 'magari ho interpretato male'. Tuttavia c'era poco da fare: forse si era pentito di averlo detto, ma il messaggio di Sesshomaru era stato chiarissimo. “Ieri sera mi ha detto che 'corro troppo'”, sputò fuori. “A me sembra che sia lui a correre troppo, allora! Non sono una frivola bambolina!” aggiunse a sua discolpa.
“Eeeeeh? Spiegami bene 'sta cosa del 'correre troppo'...”
“Sì, aspetta un attimo che mi sposto e poso la roba che ho in mano,” disse raccattando il telefono dalla sedia e avviandosi verso il bagno.




Sesshomaru non poteva credere a quel che aveva sentito.
Sedeva sul bordo del letto con le braccia tese e i pugni contratti sulle ginocchia, nel tentativo di arginare la collera che le sue parole gli avevano suscitato.
La propria camera da letto e quella di Rin avevano una porta di comunicazione, cosa che lei non poteva sapere poiché nell'altro appartamento era stato posto, davanti all'apertura, un pesante guardaroba. Più volte aveva pensato di dirglielo, ma non v'era mai stata occasione e soprattutto la cosa non aveva mai portato conseguenze. Almeno fino a dieci minuti prima quando, entrando in camera per cambiarsi, aveva sentito la voce di Rin e della sua amica, chiare e squillanti come se fossero nella stessa stanza.
Si era fermato, incuriosito dall'argomento della conversazione, ma anche ora che le voci erano scemate perché la ragazza si era spostata in un'altra stanza, era rimasto inchiodato nella stessa posizione. Avrebbe potuto intensificare il proprio udito per carpire il resto della conversazione ma era una pratica che gli recava ampio disturbo – i rumori della città gli sarebbero piombati addosso con fragore assordante – e in fin dei conti pensò che non ci fosse altro da sentire.
Lei non si accontenta. A lei non basta.
Non le basta cosa? Non le basta il tempo che le ha dedicato e le attenzioni che le ha rivolto? Non si è comportato così con nessuna, mai. L'interesse nei suoi confronti è stato sincero. Dedicarle attenzioni ed affascinarla è stato gratificante, perché il tempo trascorso in sua compagnia è sempre stato piacevole. Anche mantenere il rapporto vivo in quei dieci giorni solo tramite messaggi era stata un'esperienza nuova e lui stesso si era scoperto inspiegabilmente eccitato dall'attesa di una risposta.
Con nessuna, mai, con nessuno invero, è stato così vicino ad un rapporto di... amicizia? Affetto? Non sa come definirlo, ma era qualcosa di... nuovo, e gradevole.
E certo che vorrebbe portarsela a letto, è un maschio, mica una dama di compagnia! Fremette al ricordo dei suoi gemiti trattenuti e di quella deliziosa vergogna nell'abbandonarsi. Si diede dell'idiota, a ripensarci, perché quella che lui aveva interpretato come ritrosia e come tale aveva rispettato, con una pazienza per lui del tutto inusuale, in realtà era un volgare rifiuto.
Lei non lo vuole.
È lui che non è abbastanza per lei, non il contrario, dannata ipocrita. È lei che vuole una storia normale, con un ragazzo normale, mica uno così strano, diverso.
Probabilmente si aspettava una proposta in ginocchio o un anello di diamanti o una dichiarazione in carta pergamena. Le cercasse altrove.
Mai avrebbe creduto che Rin fosse così.
Mai avrebbe creduto che il suo essere diverso gli venisse rinfacciato da lei, proprio da lei. Strinse i pugni e si alzò, conscio e orgoglioso della propria imponenza. In fondo era solo l'ennesima riprova dell'inaffidabilità e volubilità dell'animo umano. Nulla per loro aveva valore duraturo, tutto era mutevole e sfuggente, come le loro inutili vite.
Era stato distratto dal volo di una farfalla troppo colorata e insistente, ma nulla di più. C'erano in giro farfalle ben più facili da agguantare e, soprattutto, lui aveva un obiettivo da portare avanti.
Si alzò, si vestì in fretta ma con cura e uscì con furia trattenuta, colmo delle peggiori intenzioni.




Sorrise ancora mentre si asciugava i capelli, ripensando alla frase di chiusura della telefonata con Ayame. “Siamo romantiche a livelli schifosi, Rin! Finiremo zitelle a implorare le attenzioni del primo che passa!!”
Già, che sciocca. Parlare con Ayame l'aveva tranquillizzata e le aveva permesso di ritrovare un equilibrio seppur precario. Era innamorata e lui con lei si era aperto moltissimo, era premuroso e attento. Poteva fidarsi, poteva dargli – darsi – una possibilità? Poteva.
Preparò un pacchetto con alcuni dolci di riso della sua mamma e andò a bussare alla sua porta.
Stranamente non rispose, la sera prima le aveva detto che sarebbe stato a casa a studiare ma forse era sopraggiunto un impegno improvviso. Era un po' delusa perché avrebbe voluto risolvere la situazione e perché su quel 'a domani' che lui le aveva rivolto ci aveva fatto affidamento, ma avrebbe aspettato. Gli lasciò il pacchetto sullo zerbino: il trovarlo l'avrebbe bendisposto, aveva scoperto che era goloso di dolci tradizionali.


Si svegliò di soprassalto e si tirò su, intontita. Era già buio, doveva essersi addormentata sul divano. Ma cos'erano quegli schiamazzi? C'era una voce di donna che rideva sguaiata nel corridoio.
Si alzò barcollando e si diresse verso la porta, ma contemporaneamente alla sua apertura la porta dirimpetto sbattè, ingoiando all'interno la voce sguaiata.
Rin chiuse l'uscio scatto, ancora semicosciente, confusa. Incredula. Un'angoscia le risalì dal petto verso la gola, soffocandola. 'Non...non è possibile...' mormorò fre sé e sé.
Incespicò verso il bagno e fu attirata verso la propria camera da voci. No, la stessa voce, quella di una baccante ubriaca, che mugugnava, diceva cose orribili, emetteva urletti.
“Stai zitta.” Una voce maschile, la sua voce, imperiosa, ottenne immediatamente il cessare di quegli schiamazzi.
Ma non potè impedire a quella di ansimare e sospirare con indecenza. Un gemito più forte la fece rabbrividire e una scossa finalmente le percorse la spina dorsale risvegliandola dall'ibernazione che l'aveva inchiodata allo stipite della porta. Se ne andò, si chiuse in bagno, aprì tutti i rubinetti e si rannicchiò con le mani serrate sulle orecchie.
Nulla, non voleva sentire nulla, più nulla di quello schifo, di quella cosa disgustosa che si stava consumando di là. Voleva sentire solo i suoi, di gemiti, e il battito forsennato del cuore – ma c'era ancora? Non si è frantumato, non era esploso? Artigliò la felpa sul petto per fermarlo, per non sentirlo più, perché faceva solo male e non serviva niente e lei voleva solo sparire e non sentire più nulla, mai più nulla.
E invece sentì ancora. Urla, urla nel corridoio. La voce di quella che urlava e insultava.
“Sei un porco! Sei un bastardo!” Tonfi di oggetti sbattuti per terra.
“Neanche il tempo di rivestirmi! Non sono una puttana!”
“Ti ho chiamato un taxi. Sparisci.”
Una porta che sbatte. Urla ed insulti che si allontanano, rimbombando nella tromba delle scale. Uscì dal bagno. Una forma di masochismo la trascinò alla finestra, dove osservò la donna – lunghi capelli scuri, malferma sui tacchi alti, il cappotto buttato sulle spalle – aprire la portiera del taxi e rifugiarsi dentro, dopo aver urlato un ultimo, sdegnato “Bastardo!” all'indirizzo del palazzo.
E come darle torto. Fino a pochi minuti prima lui era – oh, che schifo!con lei e un attimo dopo l'aveva buttata fuori. Usata e gettata via, come uno strofinaccio.
Si appoggiò con la fronte al vetro, poi voltò la faccia e vi appoggiò la guancia in fiamme. Il freddo le diede sollievo, chiuse gli occhi e sentì il suo cuore vibrare di delusione, poi rallentare la sua corsa e infine spegnersi, ammutolirsi.


Fu un destino crudele e beffardo che fece loro aprire le porte nello stesso momento, la mattina dopo. Se lo trovò davanti, vestito di tutto punto e quasi le venne da vomitare per il disgusto.
Si guardarono per qualche istante in silenzio e poi gli occhi di entrambi si posarono sul pacchetto che giaceva calpestato a lato dello zerbino. Si intravedeva un dolce di riso, nudo e disfatto.
Pensò che non c'era metafora migliore per descrivere sé stessa: si era gettata ai suoi piedi e ne era uscita calpestata e accantonata.
Per rispetto verso l'affetto e la dedizione di una madre, andò a recuperare quei miseri resti, piegandosi sulle ginocchia ma mantenendo dritta la schiena.
Lui non aveva mosso un muscolo e ora stazionavano a poco più di un metro di distanza, lei a ingombrargli il passaggio verso le scale, come capì intercettando una sua occhiata di traverso. Aveva anche osato pensare ad una fuga, che vigliacco. Come mai prima d'allora si sentiva una bomba pronta ad esplodere ma, cosa assai strana, riuscì a contenere la sua ira ribollente e a mantenere contegno e silenzio. Che fosse lui per primo a parlare, oggi di certo non l'avrebbe tolto dall'impasse.
“Spostati Rin. Devo andare.”
“Oh, certo. Hai delle occupazioni così nobili, in questi giorni.”
“Cosa intendi, Rin?” aveva un che di intimidatorio l'utilizzo del suo nome.
“Non fare il finto tonto, Sesshomaru. Mi riferisco alla vostra esibizione, ieri notte. Si dà il caso che dalla mia camera da letto si senta tutto, ma proprio tutto.”
“Non credo di dover rendere conto a te di quello che faccio nel mio appartamento,” la sua voce era dura e appena percettibile, “E si dà il caso che anche dalla mia camera da letto si senta tutto.”
“Ma come ti permetti? E cosa si sarebbe sentito, di grazia? Io non ho mai portato... gente a casa!”
“La cosa non mi stupisce affatto! Sei tu quella che non si accontenta.”
“Cosa?” sussurrò, boccheggiando.
“Ti è così facile esprimere sentimenti e dichiarare amore con leggerezza, ma poi è evidente che per te non sono abbastanza. Non vedo perché dovrei sprecare ancora tempo dietro una che non mi ritiene alla sua altezza.” Pronunciò l'ultima frase muovendo due passi verso di lei e fermandosi a sovrastarla.
“Sesshomaru”, tenne a freno le lacrime e parlò con voce tremante di veemenza, “non ho mai provato odio per nessuno, ma sappi che ti disprezzo dal più profondo del cuore. Sono io che ho sprecato tempo con te, perché tu di me non hai capito niente.”
“Ma cosa credi, Rin, chi ti credi di essere?”, anche la sua voce era vibrante di collera, ma restava bassa e controllata. “Tu credi di aver capito qualcosa di me? Tu di me non sai niente. Hai visto quel che volevi vedere e lì ti sei fermata.”
“Ah sì? E fammi capire, se fossimo andati più... uhm... in profondità, cosa ne avrei ricavato?”
Il suo volto si indurì e lei continuò, imperterrita, animata dall'ira del giusto. “Forse un trattamento come quello riservato a quella poveretta”, schifosa, ma poveretta, ma in definitiva schifosa, “ieri sera? Beh con me avresti perfino risparmiato sul taxi!” Lo guardò fisso negli occhi mentre gli vomitava addosso il suo disgusto, poi infilò le scale senza voltarsi indietro.
Non le interessava la sua risposta, non le interessava la sua reazione. Tanto, con tutta probabilità, avrebbe atteso invano entrambe.
Non le interessava più lui, non le interessava più niente.
Uscì nell'aria gelida delle mattine di gennaio e gettò l'intero pacchetto – i dolci, il cuore, le lacrime, le illusioni – nel primo cestino che trovò.



***


Ayame era stata irremovibile. Non appena le aveva confessato il senso di oppressione che provava nel rientrare nel suo appartamento, aveva cominciato a martellarla affinché si trasferisse.
Mentre sigillava gli ultimi scatoloni si ripetè che era stata una scelta giusta. Aveva ragione Ayame, non aveva senso vivere accanto a quel porco (Ayame era stata più dettagliata negli insulti) e pagargli perfino l'affitto. Dagli avvenimenti di due settimane prima non dormiva più nella sua camera da letto, per il terrore di essere svegliata da rumori che non tollerava neppure ricordare, figuriamoci risentire; per paura di incrociarlo attendeva che vi fosse silenzio assoluto per uscire, percorreva le scale in fretta e furia in salita ed in discesa, faceva la spesa ad ore impossibili ed in un altro supermercato. Non andava bene.
Ogni angolo del quartiere le ricordava qualcosa di quel che c'era stato – cosa c'era stato? Niente, un'illusione, un sogno, il volo pindarico di una sciocca, eppure ogni ricordo le provocava fitte dolorose a quel muscolo che, nonostante tutto, non aveva cessato di battere.
Restare lì non l'avrebbe aiutata a superare, a dimenticare, tutt'altro.
Non avendo potuto dare un sufficiente preavviso – e non avendo alcuna voglia di fornire spiegazioni – le sarebbe toccato lasciare due mensilità di penale, come da contratto. Le avrebbe versate direttamente sul conto fornitole per telefono dalla madre del suo vicino, la quale era parsa dispiaciuta ed interdetta per la sua richiesta, ma per fortuna non le aveva fatto domande.
Ayame si era offerta di ospitarla finché non avesse trovato un'altra soluzione, da divano a divano la differenza non era poi molta. Avrebbe cercato qualcosa di più economico, magari una stanza in un alloggio in condivisione. Qualcosa di ammobiliato, non aveva voglia di arredare una casa né soldi per farlo.
Fece un ennesimo “ultimo giro” nell'appartamento, alla ricerca di oggetti dimenticati. Aprì e richiuse di nuovo gli sportelli della cucina, era tutto vuoto. Per aiutarla a trasportare scatoloni e valigie, Ayame aveva mobilitato Koga e un suo amico, uno con un buffo codino e un atteggiamento esageratamente premuroso ed affabile, un po' insistente nell'offrirle comprensione e conforto, ma simpatico. Lo guardò caricarsi dell'ultima valigia ammiccando al suo indirizzo e gli concesse un sorriso stentato.
Lasciò la scatola bianca ben al centro del tavolo, toccandola con la sola punta delle dita, come se scottasse. Infine, si mise la borsetta a tracolla, raccolse da terra l'ultimo sacchetto di spazzatura e si chiuse la porta dell'appartamento alle spalle.


Il furgone di Koga aveva tre posti davanti e lei si era seduta dal lato finestrino. Per lasciare Ayame più vicina al suo amato e per potersi isolare meglio, volgendo lo sguardo all'esterno e godendo del freddo del vetro sulla tempia. Il gelo la aiutava a non piangere.
La mano calda di Ayame raggiunse la sua sulla coscia e la strinse piano, ma lei non ricambiò.
“Cosa ti ha detto?” le sussurrò.
“Lascia stare, Ay.”
Si morse le labbra con forza. Cosa le aveva detto.
Uscendo, era andata a gettare la spazzatura e poi era tornata sui suoi passi perché il furgone era parcheggiato dall'altra parte. E lì l'aveva visto, fermo davanti al portone d'ingresso. Il cuore le era balzato in gola, perché aveva la guardia abbassata, perché era sicura di averla scampata, di essere riuscita ad evitarlo. Invece eccolo lì, ritto, serio, imperscrutabile. E magnifico, come sempre, nel suo cappotto nero lungo fin sotto il ginocchio, i pantaloni grigi e gli stivaletti neri.
Aveva fatto per superarlo, pavida lei, stavolta.
“Non sapevo andassi via.”
“L'ho detto a tua madre, è tutto a posto.” gli aveva risposto in fretta, guardando altrove. Aveva ancora sperato di poter fuggire e invece...

Strinse i denti e la mano di Ayame, e le lacrime ruppero gli argini. Si rifugiò sulla spalla dell'amica singhiozzando “È l'ultima volta, Ayame, è l'ultima volta che piango per lui, te lo giuro!” e Ayame la cullò, comprensiva.
Cosa le aveva detto. “È stato così facile fartelo credere. Devi crescere, Rin.”
Questo le aveva detto.




Sesshomaru era rimasto a lungo immobile sul marciapiede, dopo averla seguita con lo sguardo mentre correva via e si infilava in un furgone color bianco sporco.
“Non sai niente di me!” le aveva detto poco prima, a voce alterata, irritato dal suo apparire distaccata e già altrove, dal fatto che nessuno l'avesse avvisato del suo trasferimento, dal fatto che nelle ultime settimane tutto era sembrato sfuggire al suo controllo.
“Ma io ci ho provato, io avrei voluto sapere! ” aveva urlato lei di rimando, guardandolo dal basso con quegli occhi grandi, spalancati, occhi di chi non si capacita, di chi è deluso nel profondo. “Io non ti ho chiesto niente,” aveva mormorato lei a voce più bassa, “avremmo potuto rimanere dei buoni vicini, essere amici, io non ti ho chiesto niente.”
Ed era vero, dannazione se era vero. Lui l'aveva sedotta, lui l'aveva illusa. Per diletto, perché ci aveva provato gusto, perché era stato terribilmente piacevole.
“Non ti è mai importato niente di me in verità. Io lo sapevo, ma è stato così facile crederti.”
Avrebbe potuto smentirla, avrebbe dovuto. Perché se mai gli era importato di qualcuno, questo qualcuno era lei. Ma a che pro? Se ne stava andando, lo disprezzava. Ne aveva il diritto e lui non aveva nulla da offrirle in rimedio.
Quand'era così, aveva sempre creduto che la pietà fosse nel recidere.
“È stato così facile fartelo credere, perché sei una ragazzina. Devi crescere, Rin.”
L'aveva vista impallidire, appassire nel volto e nelle spalle e nelle braccia che erano crollate lungo il corpo. E si era reso conto che il fendente gli si era ritorto contro, perché a lui, lo sguardo di Rin ferita senza ritorno, aveva trapassato il torace.
Lei si era riscossa con un tremito e gli aveva dato le spalle.
“Sesshomaru ti chiedo solo una cosa. Sparisci per sempre dalla mia vita.”


Il furgone era scomparso alla vista.
Si avviò lentamente a piedi dalla parte opposta e l'occhio venne catturato da un cestino dell'immondizia. C'era un sacchetto dal quale sporgevano fiori di carta multicolore, accartocciati e spiegazzati da una mano furiosa. Erano i fiori di Rin.
Con due dita lacerò ulteriormente il sacchetto, ne vide uno rosa pallido che sembrava essersi salvato dallo scempio. Lo afferrò con sottile speranza ma dal lato opposto alla sua vista si rivelò sporco, macchiato di scuro. Lo gettò via con ribrezzo e si trattenne a stento dallo sferrare un pugno contro il cesino stesso.
I fiori di Rin, la sua stessa essenza spensierata, colorata, allegra e fiduciosa, ora era sporca, rifiutata, gettata via.
Era stato lui a volere tutto questo e come mai, mai era accaduto nella sua lunghissima vita, si giudicò colpevole.






(*) “In sociologia, la profezia che si autoadempie, o che si autoavvera, o che si autorealizza, è una previsione che si realizza per il solo fatto di essere stata espressa. Predizione ed evento sono in un rapporto circolare, secondo il quale la predizione genera l'evento e l'evento verifica la predizione.[...]

In psicologia, una profezia che si autoadempie si ha quando un individuo, convinto o timoroso del verificarsi di eventi futuri, altera il suo comportamento in un modo tale da finire per causare tali eventi.”

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera, alla voce “Profezia che si autoadempie”




***


La fangirl che è in me avrebbe voluto intitolare il capitolo “Sulla chiase longue con Sesshomaru”, perché le scene che mi sono figurata, cari miei, ve le risparmio (o forse no, ma ogni cosa a suo tempo).
Ecco, non ho molto da dire su questo capitolo, se non che non è l'ultimo. Forse questo mi risparmierà il linciaggio... o forse no.
Non erano pronti, erano troppo diversi, non hanno avuto il coraggio di fidarsi l'uno dell'altra, di parlare invece di arroccarsi in difesa. Non so, spero che il mio punto di vista vi convinca. Insomma, si può essere innamorati ma non essere convinti che lui sia la persona giusta e fare, di conseguenza scelte sbagliate? A me è successo. Spero che non consideriate la posizione di Rin una forzatura, ma se così è sentitevi liberissimi/e di farmelo sapere.
Per quanto riguarda Sesshomaru... non è una bella persona in questa ff, ve l'ho già detto. È una società frustrante per i demoni, nel prossimo capitolo dovrebbe essere un po' più chiaro perché. E lui ha bisogno di affermare il proprio potere e di sentirlo consolidato, in questa AU più che mai. Ma si cresce e si cambia, questa vuole raccontare questa storiella. Il resto è spoiler.

Un'ultima cosa, che con la storia non c'entra nulla. Ho attivato una pagina feisbuc a nome Elerim. Oltre a pubblicarci gli avvisi dei miei sporadici aggiornamenti, inserirò settimanalmente le recensioni di storie complete che ho trovato su Efp e che mi sono piaciute tanto. Frega zero, lo so, ma non si sa mai, per arginare le cinquanta sfumature della noia.

Alla prossima, ringrazio tanto chi legge, segue, preferisce, ricorda, recensisce. Vi abbraccio!
elerim


 

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro ***


Capitolo quattro ovvero Panta rhei (*)

 

 

 

Non si può discendere due volte nel medesimo fiume
e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato,
ma a causa dell'impetuosità e della velocità del mutamento,
essa si disperde e si raccoglie, viene e va.”
Eraclito

 

 

Stava traslocando per la terza volta in poco più di quattro mesi. Non che avesse grandi cose da impacchettare, il grosso era rimasto negli scatoloni dal primo trasloco; da Ayame aveva aperto giusto la valigia dei vestiti perché l'appartamento era piccolo e non voleva dare l'impressione di voler mettere radici, consapevole del saldo spirito di indipendenza della sua amica.

Ayame, la sua amica. Non le era mai capitato di pensare a lei con un senso di disagio, invece è questo che sentiva, ricordando come lei si fosse fatta carico della sua sofferenza, e come lo facesse ancora. Aveva sopportato i suoi pianti notturni – più di una volta l'aveva vista controllare i cuscini del divano al mattino e poi stringerli con una rabbia soffocata, scoprendoli sempre intrisi di lacrime; l'aveva sostenuta e spronata a continuare con la sua routine, ad andare a lezione e al lavoro con gli stessi ritmi di prima; l'aveva perfino cacciata fuori di casa un mattino, lasciandola inerme sul pianerottolo, per costringerla ad andare ad assistere ad un esame orale per il quale non si sentiva per nulla preparata.
«Avanti, Rin! Bisogna andare avanti a testa bassa, senza guardare troppo lontano. Le cose non stanno ferme e ti investono come autotreni.»
Con 'le cose' Ayame intendeva tutto: gli eventi, le persone, i sentimenti, la vita in generale; non si sentiva in grado ad affrontare un bel niente, ma naturalmente Ayame aveva avuto ragione e lei era andata avanti, lo sguardo ben fisso sui propri piedi.
«Quando ti sentirai pronta, alzerai lo sguardo.» le aveva anche detto, più di una volta.
Ma lei lo sguardo non l'aveva alzato, continuava a vivere a testa bassa ed era questo il maggior motivo del suo disagio nei confronti di Ayame. Quando, più di una volta, l'aveva sorpresa a scrutarle il volto per individuare la scintilla del cambiamento, si erano scambiate un sorriso mesto e avevano dissimulato entrambe e lei si era sentita invadere da uno strisciante senso di colpa misto a fastidio.
Non era più la Rin di qualche mese prima, non poteva più esserlo e non avrebbe nemmeno voluto. Non sapeva come definire la Rin di ora ma non le dispiaceva questa versione di sé stessa, più disillusa ma anche più concreta, meno sorridente e disponibile ma più decisa. Sapeva che Ayame rimpiangeva la Rin precedente e aspettava che lei 'tornasse', ma come poteva farlo? E tornare da dove poi? Non c'era nessuna Rin nascosta da tirare fuori, c'era solo una Rin cambiata, diversa. Cresciuta.
Già, era davvero cresciuta. Avrebbe dovuto ringraziarlo, quel bastardo? Si morse forte le labbra per ricacciare indietro i ricordi.

Il cellulare squillò, Kohaku era arrivato sotto casa. Si caricò di borsa e valigia e, senza rimpianti, si chiuse alle spalle la porta di dell'appartamento che l'aveva ospitata nell'ultimo mese e mezzo: una stanzetta angusta e anonima, scelta in fretta e a caso per evitare di vedere in Ayame il primo accenno di insofferenza. Lei stessa viveva con esasperazione i momenti in cui cedeva al peso dei ricordi – momenti in diminuzione per numero ma non per intensità – e mai avrebbe voluto vedere lo stesso sentimento sul volto di quella che era stata la colonna portante della sua vita da quando...
«Ciao bellezza, alla fine ti sei decisa!» Il sorriso aperto di Kohaku la trascinò indietro quando ormai aveva un piede già sull'orlo del burrone dei pessimi ricordi. Le stampò un bacio sulla guancia barcollando sotto il peso di uno scatolone e questo la fece sogghignare.
«Ridi, scema! Intanto il peso della tua cultura sfonda la mia colonna vertebrale.»
«Hai ragione» disse, riconoscendo lo scatolone in cui aveva stipato tutti i libri. Lo aiutò a sistemarlo, insieme alla valigia, sul sedile posteriore della piccola utilitaria strapiena e lo guardò negli occhi per esprimergli la più sincera gratitudine. «Grazie della disponibilità, Kohaku.»
Si guadagnò un altro sorriso e un buffetto sulla guancia.
«Quella roba però te la tieni in braccio» la minacciò scherzosamente valutando la mole della sua borsa, ricettacolo degli oggetti che non avevano più trovato posto in valigia.«Ho preso solo l'indispensabile, caro!» si atteggiò a vezzosa signorina. Lui rise, si sedettero e partirono.
Il viaggio fu rocambolesco quanto taumaturgico. Kohaku guidava con una mano sola, reggendo nell'altra una sigaretta e gesticolando ampiamente – per sua stessa ammissione, tre pessime abitudini, eredità del suo soggiorno nel sud dell'Europa. Così facendo sbagliava le curve e infilava una buca dietro l'altra e a lei non restò che prenderla sul ridere per scongiurare un principio di infarto. Ad ogni sobbalzo Rin picchiava il cranio sulla capotte o sui montanti e l'auto minacciava di aprirsi in due, ma Kohaku procedeva sereno, continuando a raccontarle aneddoti divertenti dei suoi viaggi. Fu come se le risa, l'aria che le sbatteva in faccia i capelli e l'andatura a singhiozzo si portassero via dolori e risentimenti e quando giunsero a destinazione lei era pronta a gettarsi tutto alle spalle e ricominciare.
Alzò la testa verso la bassa palazzina e Kohaku le disse, indicandola: «Vedi, è quella». L'ampia finestra della sua stanza che le aveva decantato per settimane, finché non si era decisa ad andarla a vedere.
«La scorsa volta era sera, ma oggi ti farà un'impressione ancora migliore. È piena di luce e si affaccia sul parco. Era un peccato lasciarla vuota ma, come ti ho detto, non trovavamo nessuno che ci andasse a genio.»
«Se ti piace tanto, perché non l'hai presa tu? O Kanna?»
«Naaah. La mia stanza è la più grande, non la cedo di certo. E Kanna è un'abitudinaria, ha le sue fisse. Ha scelto la sua tana e ci ha messo radici, chi la muove da lì? E poi, a spostare tutta le chincaglierie che ha dentro, ci vorrebbe una settimana.»
Rin sorrise ancora di gratitudine. Notò che Kohaku si stava mostrando più loquace e disinvolto di quanto fosse nella sua indole, probabilmente lo faceva per riguardo nei suoi confronti – un giorno avrebbero smesso di trattarla da malata terminale? – perché in generale era un personaggio pacato e silenzioso, una di quelle persone che preferisce ascoltare invece di parlare.
Tuttavia la pacatezza di Kohaku era nulla se confrontata con quella della sua futura coinquilina Kanna, un essere etereo e misterioso che pareva viaggiare a dieci centimetri da terra, tanto il suo atteggiamento di distacco dalla realtà traspariva da ogni movimento e ogni – rara – espressione.
“La Fata”, come la chiamava Kohaku, accolse il suo arrivo sollevando gli occhi dalla tazza da cui stava bevendo e abbozzando un cenno con la mano. Sentì le sue iridi glaciali piantate addosso per tutta la dozzina di volte che ripassarono, avanti ed indietro, davanti alla soglia della cucina, trasportando scatole e borse nella sua nuova stanza.
Notò con piacere che era stata pulita ed era davvero ampia e luminosa. Quando ebbero finito, Kohaku la salutò e la lasciò sola, mostrando una discrezione per cui gli fu nuovamente riconoscente.
I suoi nuovo coinquilini le erano parse due persone rispettose degli spazi e dei tempi altrui, con abitudini di vita a lei compatibili e una tendenza alla riservatezza che non guastava affatto. Si sarebbe trovata bene.

 

 

***

 

 

Mai come negli ultimi tempi i pranzi domenicali dai suoi gli erano parsi un supplizio. La cadenza, rigorosamente mensile, che avevano mantenuto negli ultimi decenni, gli era sembrata adeguata mentre ora gli era appena tollerabile.
E lei, sua madre, che fosse dannata, lo sapeva perfettamente, mentre con studiata grazia gli reggeva la giacca, recitando la parte di chi fosse lì per premura, per salutare a dovere il proprio figlio che non avrebbe più visto – né sentito – per i seguenti trenta giorni.
Invece, lo sapeva benissimo, stava aspettando il momento perfetto per colpire.
Che fosse un'artista nello stanare le debolezze altrui e colpire il nucleo del dolore e del risentimento con lingua più tagliente di tutte le loro spade, l'aveva sempre saputo e, in fin dei conti, apprezzato. L'aveva fin ammirata quando i bersagli delle sue frasi affilate erano stati degli esterni – ipocriti e opportunisti dell'ultima ora che credevano di poter blandire, ricevere protezione o perfino ricattare la sua famiglia – e l'aveva rispettata, e temuta, quando l'aveva sentita tener testa a suo padre e ristabilire nella coppia un equilibrio di acciaio dopo la morte della sua amante umana. L'equilibrio che aveva permesso loro di sopravvivere in un mondo apertamente ostile.
Ma ora che rivolgeva questa sua arte contro di lui, ora che la sua incurante frase di commiato gli si artigliava al petto tutte le dannate volte, capiva perfettamente l'ira a fatica trattenuta che aveva visto emergere sul volto di suo padre, le sue spalle curve e contratte, la vena del collo pulsante.Quella frase gli stritolava le carni, gli estirpava ricordi, fomentava rancore, vergogna e il senso disperato di mancanza, di solitudine. Faceva appena in tempo a seppellire tutto, che ecco affacciarsi un'altra domenica e con essa la prospettiva che la ferita sarebbe stata riaperta con una nuova, chirurgica, stilettata.

Questa volta la frase non era ancora giunta e, mentre si allacciava le scarpe, confidava che forse l'avrebbe scampata. In fondo si era già presa la sua soddisfazione all'accoglienza.
«Oh, Sesshomaru...» aveva detto, osservando con accondiscendenza e una punta di sorpresa i suoi capelli accorciati, «è una forma di espiazione?»
Si era rivolta poi a suo padre appena sopraggiunto, che osservava con silente costernazione la chioma sfiorargli appena le spalle. «Suvvia caro» l'aveva superato con un piccolo buffetto sulla spalla, dirigendosi verso la sala da pranzo, «in fondo l'hai fatto anche tu, no?»
Correva voce che suo padre avesse adagiato una lunga ciocca dei suoi capelli sul corpo della sua amante umana, prima che richiudessero la bara.
Aveva incrociato lo sguardo di suo padre e si erano fissati per un lungo momento, entrambi con gli spiriti ribollenti, ma prima che avesse potuto cogliere ed elaborare tutte le sottili implicazioni delle parole di sua madre, la strega li aveva invitati a prendere posto con voce fresca e squillante ed avevano obbedito, come due tigri al suo guinzaglio di seta.
Si alzò da terra e con vigliacca speranza si apprestò ad infilare la giacca. Le aveva già dato le spalle quando sentì partire l'affondo.
«Non fa ormai troppo caldo per quella sciarpa?»
Il suo passo ebbe un'impercettibile esitazione ma poi riprese la sua avanzata verso la salvezza. Illuso.
«Chissà se anche lei porta con altrettanta dedizione i guanti che le hai regalato...» Gli mancò il respiro e, per un solo istante, anche il coraggio di replicare.
«Come lo sai?» espirò voltandosi, lo sguardo affilato.
«Sesshomaru!» si esibì in una risata argentina, con la mano davanti alla piccola bocca, vezzosa «Mi chiedesti un negozio di fiducia per 'guanti, borse e cappelli' e, santo cielo! confido di averti educato a sufficienza affinché tu non abbia scelto, come primo regalo ad una ragazza, un oggetto personale come una borsa o cappello!»
Lui si girò di scatto e infilò la porta senza un fiato, inseguito dal suo inutile «A presto, caro!»

Arrivato alla macchina appoggiò i palmi al metallo nero rovente e poco mancò che perdesse il controllo e ci affondasse dentro.
I suoi guanti, i guanti che le aveva regalato.
Ricordava con lucidi particolari il momento in cui aveva aperto la porta e si era trovato davanti la sottile signora cui sua madre aveva affidato la pulizia dell'appartamento lasciato vuoto. La donna gli aveva porto una scatola bianca, affermando di averla trovata sul tavolo della cucina e che «forse la signorina li aveva dimenticati. Può farglieli avere lei?»
Aveva soffiato un ringraziamento e richiuso la porta, reggendo la scatola su un palmo. Grave della sensazione di sapere cosa contenesse, gli sembrò pesante come un macigno. Aveva sollevato il coperchio e gli era bastato intravedere la carta velina verde e un angolo di tessuto per riconoscerli.
In poche falcate aveva raggiunto la sua camera e aveva seppellito la scatola nell'angolo più nascosto dell'armadio. Poi era tornato indietro, con l'intenzione di gettarla dalla finestra. Ma era rimasto fermo, con l'anta del guardaroba semi-aperta. Non si era voluto rassegnare, che anche quello diventasse spazzatura.
Con stizza si sfilò la dannata sciarpa e la gettò sul sedile accanto. Partì rombando, oppresso dai ricordi.


 

***

 

 

Non riusciva a scacciare l'inquietudine, mentre legava la bicicletta al palo che l'aveva ospitata così tante volte. Razionalmente si ripeteva che fosse una scelta sensata: era lì vicino ed era di fretta, conosceva bene le corsie di quel supermercato ed avrebbe risparmiato tempo prezioso nel cercare i prodotti.
Ci passava vicino quasi tutti i giorni, perché il suo vecchio quartiere era vicino alla nuova abitazione e le toccava attraversarlo per raggiungere l'università; preferiva di gran lunga allungare un po', nella zona del supermercato appunto, piuttosto che affrontare le vie dalle quali si sarebbe potuta anche solo intravedere la suacasa.
Si guardò intorno ansiosa mentre infilava nella tasca dello zaino gli auricolari. Non doveva da preoccuparsi, non c'era nulla di cui preoccuparsi. Erano le quattro del pomeriggio di venerdì, figuriamoci se sarebbe mai andato al supermercato a quell'ora. E poi, in un quarto d'ora sarebbe stata fuori. Nessun problema.


 

La percepì chiaramente, era nell'altra corsia, proprio al di là dello scaffale. Il suo odore annebbiò tutte le altre percezioni. Si scoprì incatenato in un vortice di emozioni, che maiaveva provato così forti e tutte insieme.
Aveva sperato che un giorno accadesse – di incontrarla per caso e poterle parlare, anche solo una volta – e ora lei era lì, a neanche un metro di distanza. Avrebbe potuto aggirare la corsia e raggiungerla in pochi passi.
La tristezza che lo ammantava da molti mesi divenne dolorosa consapevolezza, quando realizzò che lei non ne sarebbe stata felice: l'avrebbe guardato con paura e disprezzo e sarebbe andata via prima che lui fosse stato pronto a pronunciare la prima parola.
Fu allora che il suo inconscio attuò una soluzione egoistica quanto – se ne rese conto troppo tardi – incauta. Chiuse gli occhi ed inspirò profondamente.
Si inebriò dell'odore di lei, ne colse la familiare struttura portante e si soffermò su variazioni e sfumature, si dispiacque di sentire più accentuate le note amare e si adagiò in quel sottobosco di serenità e fiducia che, sebbene nascosto, continuava a costituire la base del profumo di Rin.
Fu strappato dal suo idillio sensoriale da un suono acuto e dall'intensità del dolore si accorse di aver lasciato espandere i suoi sensi demoniaci oltre la soglia di sicurezza... e che quello che suonava, dannazione, era un allarme.
«Gentili clienti»comunicò l’altoparlante «il nostro sistema di sorveglianza ha individuato un'aura demoniaca. Vi preghiamo di mantenere la calma e dirigervi nella Sala d'Attesa indicata dalle frecce luminose, affinché il personale si accerti che non sia stata commessa alcuna infrazione. La verifica richiederà non più di dieci minuti. I clienti che non vogliono attendere potranno uscire dagli ingressi principali esibendo volontariamente la loro Carta di Identità Razziale.»
Imprecò mentalmente e si diede dell'imbecille: far scattare un allarme, lui!Da secoli allenato a celare la sua natura così come celava le sueemozioni! Per giunta per un motivo così futile. Maledì quegli idioti Demoni Corvo. Tre mesi prima si erano resi responsabili di un attentato sanguinoso in un locale del centro e da allora i sistemi di individuazione dei demoni negli esercizi commerciali, negli uffici e perfino nelle scuole si erano moltiplicati e scattavano alla minima traccia di attività demoniaca. Per i cuccioli con forte presenza di sangue demoniaco – sempre più rari, invero – e per le loro famiglie, la vita in questa nazione si stava facendo impossibile.
Ma non era affar suo, in questo momento ancora meno. Si concentrò per contenere al massimo la propria aura, perché gli scanner presenti nelle cosiddette Sale d'Attesa avevano fama di essere particolarmente sensibili.
Si avviò seguendo le indicazioni e fu allora che la vide, a pochi metri di distanza, intenta a cercare qualcosa nello zaino, probabilmente i documenti. Era incolonnata per uscire dalla porta principale, quella per chi, come aveva detto la voce all'altoparlante, «aveva fretta». In realtà, era l'uscita privilegiata per chi vantava sangue al cento per cento umano e in quanto tale non aveva nulla da temere nel mostrare la propria Carta di Identità Razziale.
Mentre la osservava, un donnone affannato e scomposto che si trascinava dietro un bimbo mingherlino la urtò pesantemente e la minuta figura di Rin rovinò a terra.
Le fu a fianco in due falcate, di nuovo l'istinto aveva preso il sopravvento. La grossa signora non si era accorta di nulla, continuava a respirare ansante stringendo a sé il bimbo e sembrava sull'orlo di una crisi di panico. Se avesse saputo che aveva accanto uno dei demoni più letali del pianeta, probabilmente sarebbe morta sul colpo.
Rin, frastornata, afferrò la mano che gli aveva porto senza alzare lo sguardo.
«Grazie mille, la gente dev'essere ammatt...» ecco, ora l'aveva guardato.
Spalancò gli occhi e ritrasse immediatamente la mano. Aprì la bocca per parlare ma la richiuse subito dopo, poi finalmente farfugliò uno stentato ed interrogativo «Sesshomaru...?»
Già, era diverso. Per i capelli corti, forse anche per il colore degli occhi, che il contenimento estremo dell'aura avrebbe potuto rendere più scuri. Il dubbio era lecito, ma lo irritò comunque. «Stai bene?» le chiese. Una domanda senza senso, per mascherare il tumulto.
«Tutto bene, signorina?» la voce di un sorvegliante, piazzato davanti alle casse a controllare i documenti, spezzò l'atmosfera di disagio.
Lei si voltò. «Sì, tutto bene, grazie!»
Il guardiano lo fissò un po' più a lungo del dovuto ma Sesshomaru non lo considerò un problema. Che gli venissero pure tutti i dubbi concepibili, non aveva ancora nessuno strumento per obbligarlo a mostrare la sua Carta e per nessun motivo lui l'avrebbe mostrata volontariamente.
Piuttosto si concentrò nuovamente su Rin, che aveva raccattato la sua esigua spesa e si guardava intorno con la palese intenzione di dileguarsi il prima possibile.
Fastidio e imbarazzo, ecco quello che la sua presenza generava in lei. Si voltò senza una parola e si diresse verso il posto destinato a quelli come lui. Non potè fare a meno di notare, che lei non fece nulla per fermarlo.

Cercò di utilizzare i minuti che doveva trascorrere nella Sala d'Attesa per indagarne la struttura, nel caso gli ricapitasse di finirci intrappolato. Era una specie di bunker affiancato all'edificio principale, allestito in tutta fretta per far fronte all' “emergenza terrorismo”. Non vi erano sorveglianti all'interno, quindi era certo disponesse di armi automatiche pronte a far fuoco se gli scanner avessero evidenziato un'attività demoniaca sospetta. Se fosse stato padrone di sé avrebbe potuto trarre informazioni indagando le reazioni degli individui trattenuti con lui, ma il tentativo di condurre i propri pensieri su solchi sicuri e razionali era corrotto dalle immagini del volto di lei, quando aveva sollevato lo sguardo e l'aveva riconosciuto.
Era uno sguardo pieno di stupore, meraviglia e una buona dose di timore, sentimenti intensi e senza filtri, come si ricordava. Ed era bella, molto bella, molto più di come si ricordava. Forse un po' più magra. Al contrario di lui, aveva lasciato crescere i capelli, che le scendevano ben oltre metà schiena, raccolti sopra l'orecchio destro da un anonimo fermaglio. Indossava uno scamiciato rosso con piccoli fiori gialli sul contorno del collo e sull'orlatura e pantaloni neri aderenti fin sotto il ginocchio, scarpe da tennis nere e l'immancabile zaino. Tenuta da bicicletta.
Si forzò a cacciare via l'immagine, a ignorare quanti particolari avrebbe ancora potuto elencare e soprattutto a dimenticare la velocità con la quale lei aveva ritirato la mano dalla sua, come se scottasse. I suoi tentativi furono vanificati da una memoria che sembrava prendersi gioco di lui e che gli restituì, limpido, il ricordo della sua voce.
Aveva dimenticato come potesse suonare dolce il suo nome, se modulato dall'emotività umana.

Quando, con una profusione di scuse e ringraziamenti, l'altoparlante annunciò che la situazione era “sicura e regolare” e potè guadagnare finalmente l'uscita, l'odore di lei era ancora intenso, tanto che poteva percepirlo anche con i sensi menomati. Comprese il perché quando voltò l'angolo e la trovò lì, con la fedele bici, ad aspettarlo.

 

 

Rin, letteralmente sconvolta dall'incontro, si era attardata alla cassa: portafoglio, monete, la spesa stessa, tutto le era sfuggito di mano in rapida sequenza, tanto che arrivare a varcare la porta del supermercato le era parsaun'impresa eroica.
Quando era giunta alla bicicletta, le era sembrato che i muscoli avessero rallentato i movimenti appositamente, come a volerla trattenere lì il più possibile. Non era stato necessario un grosso sforzo di fantasia, piuttosto di onestà, per ammettere a sé stessa che stava attendendo che lui uscisse.
Non era uscito mostrando la propria Carta, l'aveva notato. Forse per evitarle l'imbarazzo di attendere in coda insieme? Oppure avevadegli antenati demoni, era possibile; aveva sentito dire che abbinamenti insoliti del colore degli occhi e dei capelli fossero indice di tali ascendenze, tuttavia non aveva mai notato in lui atteggiamenti sospetti.
Dopo tutto, non è necessario essere demoni per essere delle infime carogne.
Quindi, perchéancora lo aspettava? Solo perché si era mostrato gentile? O pereducazione, poiché non l’aveva salutato? O per dirgli tutto quel che aveva masticato in questi mesi sul suo conto? No, il rancore era vivo ma seppellito sotto strati di grigia insicurezza, non sarebbe emerso così facilmente.
Forse lo aspettava perché prima o poi avrebbe dovuto accadere e allora, che accadesse. Che si liberasse dell'ennesimo fardello, che il timore di incontrarlo non le fosse più d'ostacolo.

Quando apparve, le riuscì solo di incespicare su sé stessa, ogni risolutezza sovrastata dal suono di un cuore rimbombante come una grancassa.
BUM BUM BUM BUM.
«Ciao»
«Ciao»
BUM BUM BUM BUM.
Incrociarono gli sguardi e vi trovò l’imperscrutabilità di sempre, la freddezza di chi ha il tempo e la sfacciataggine di attendere che sia l’altro a risolvere l’impasse.
Lo vide posare lo sguardo sulle sue scarpe e poi sulla bici, la sua solita, vecchia bici, anonima ed inadeguata come lei.
Fu improvvisamente molto triste e molto stanca, nulla era cambiato e lei doveva solo fuggire il più lontano possibile da quel carico di sofferenza.
Si costrinse ad un piatto e formale: «Volevo solo ringraziarti per la cortesia, buona serata» di commiato e si volse per andarsene.
«Rin» si sentì chiamare piano. Fece finta di non aver udito e montò in sella.
«Rin» la chiamò ancora, con un’inflessione quasi accorata.
Non si voltò ma il piede le rimase fermo sul pedale.
«Vorrei poterti parlare, un giorno.»
Lo guardò, per essere certa che non fosse una presa in giro. Lui distolse lo sguardo per qualche istante e le parve un gesto così strano, così inusuale per lui.
«Posso invitarti a prendere un caffè?»
Continuò a fissarlo con sospetto.
«Il mio numero è sempre lo stesso» acconsentì infine e spinse decisa sui pedali. Via di qua, si disse, e velocemente.

 

***

 

 

Maledirsi giornalmente non le fu di alcun conforto. Poiché, come è ovvio, il messaggio si era fatto attendere tanto quanto, se non più, lei l'aveva atteso. Quando infine era giunto, a dieci giorni esatti dal loro incontro, era già risoluta a non rispondergli affatto, e l'aveva cancellato quasi senza esitazione.
Non potè di conseguenza evitare di considerare uno sgradevole scherzo del destino il fatto che uno dei relatori del seminario che avrebbe dovuto seguire per l'intera giornata fosse proprio Sesshomaru. Doveva aver sostituito qualcuno all'ultimo momento, perché era assolutamente certa di non aver letto il suo nome nella mail di presentazione.
Era arrivata per tempo, nell'aula conferenze c'erano pochi gruppetti sparsi. Lui, naturalmente, era solo e non notarlo sarebbe stato impossibile: adagiato con noncurante eleganza sulle poltrone del palco, immobile tranne per le dita della mano che tracciavano piccoli segni sulla superficie lucida del tavolo, era di una bellezza severa ed eterea. I loro sguardi si erano incrociati prima che avesse potuto trovare il modo di nascondersi e il movimento della sua mano si era bloccato a mezz'aria.
Per fortuna la sala si era riempita con velocemente ed era riuscita a sedersi dietro un suo compagno, un ragazzo russo largo come un armadio.
«Rien, dietro me nuo vede nienti!»si voltò lui, con il suo largo sorriso. Yuri era attento e premuroso senza essere invadente, tutte caratteristiche che glielo avevano reso simpatico dal primo giorno di corso.
«Tranquillo, a me va benissimo così»lo rassicurò. Lui le rivolse un occhiolino d'intesa e riprese posizione; probabilmente avrebbe pensato che fosse lì solo per dovere di rappresentanza e che le servisse una copertura per studiare o scrivere: poco male, era più importante rendersi invisibile.
Ascoltò gli interventi iniziali con uno strisciante senso di angoscia, amplificato dal fatto che le poche volte in cui osò sbirciare oltre la muraglia offerta dalla schiena di Yuri, trovò sempre il suo sguardo ad attenderla.
Quando toccò a lui parlare, non ascoltò neanche una frase. Il suo pensiero si era cristallizzato su come uscire da lì durante la pausa senza essere intercettata. Avrebbe potuto appendersi alle spalle del russo e farsi trasportare fuori: ricordava vagamente un racconto in un libro di miti occidentali che aveva da bambina, in cui l'eroe fuggiva dalla caverna del mostro aggrappato alla pancia di una pecora. Sorrise. Yuri almeno aveva il vantaggio di non puzzare.

La soluzione che le si presentò fu assai più piacevole e dignitosa: non appena il moderatore annunciò il coffee break, la testa rossa di Ayame fece capolino dalla porta e lei si affrettò a raggiungerla.
«Ehi, sei venuta a scroccare?»rise e l'amica le rispose con un occhiolino di conferma.
Con lei c'era anche Koga e questo la rassicurò ulteriormente: l'istinto le diceva che Sesshomaru non le si sarebbe mai avvicinato vedendola in compagnia. Ultimamente Ayame e Koga erano molto spesso insieme. Non era affatto convinta che Koga ricambiasse i sentimenti dell'amica, ma era molto protettivo nei suoi confronti e Ayame, quando era con lui, sprizzava gioia da tutti i pori.
«Forza, vai a prenderci qualcosa»l'invitò Ayame, spudorata.
«Puoi anche venire con me»rispose, timorosa. Non sapeva come dirle di Sesshomaru.
«Ma no, che figura ci faccio, vedono subito che non ho ilcartellino. Dai, muoviti, che finisce tutto!»
«Le persone nei rinfreschi sono peggio di un esercito di cavallette»confermò Koga, con tono distaccato. Continuava a guardarsi intorno e questo la rese ancor più nervosa.
«E tu sei il primo!»sentì Ayame schernirlo, mentre si allontanava rapidamente.
Individuò la sagoma di Sesshomaru, intento a parlare con due luminari; le dava la schiena. Si diresse dritta al bancone e ordinò tre caffè e mentre attendeva chela hostess li versasse accumulò dolcetti a caso su un piatto; se avesse fatto in fretta probabilm…
«Rin. Posso parlarti?»
Si irrigidì e non osò voltarsi, non che ve ne fosse bisogno per determinare l'identità dell'interlocutore.
«I suoi caffè, signorina»la richiamò la hostess.
Realizzò di non aver modo di prendere i tre bicchieri con una sola mano e, mentre cercava con lo sguardo un posto dove posare il piattino con i dolci, lui le venne in soccorso prelevando i caffè dalle mani della cameriera.
«Mi domando cosa pensi di farne di tutta questa roba» osservò.
«Mica è tutta per me» rispose piccata prendendo un piatto vuoto dalla pila sul tavolo e porgendoglielo con gesto imperativo.
«Mi sembra evidente» rispose lui, appoggiando con attenzione i bicchieri sul piatto «Mi riferivo all’ingombro, non alle quantità.»
Drizzò la schiena reggendo i piatti, a dimostrazione di essere perfettamente in grado di cavarsela da sola.
«Hai altro da dirmi o vuoi continuare con banali tentativi di conversazione?»
Sesshomaru indugiò per qualche istante.
«Vorrei parlarti.»
«L’hai già detto. Si raffreddano i caffè» ribatté astiosa.
«Dopo.»
«Dopo cosa?»
«Dopo la conferenza. Ti aspetto all’uscita sul cortile interno. Se vuoi.» Aveva parlato in fretta, come se avesse voluto buttar fuori le parole prima che fosse troppo tardi.
Sospirò e si guardò le scarpe, consumate sulla punta per il continuo impatto sui pedali. Le sue rilucevano di vera pelle. «Non so se ho voglia di dedicarti ancora del tempo, Sesshomaru. Credo che me ne pentirei.» Vide in lontananza Ayame che li fulminava con lo sguardo e Koga che la tratteneva dall’avambraccio. «Devo andare» lo liquidò e si incamminò, prima che la sua amica perdesse definitivamente il controllo.
«Ripensaci.»
La sua invocazione la inseguì e le si piantò dentro, da qualche parte. In qualche modo, lui riusciva sempre a raggiungerla.

 

 

Ayame era su tutte le furie. Rin aveva minimizzato, ‘Non è successo niente, ci siamo incrociati e mi ha salutata’ ma lei non si era tranquillizzata affatto, anzi.
Era un relatore della conferenza, Rin le aveva assicurato che non ne era al corrente quando si era iscritta: meglio per lei o le avrebbe torto il collo. Ma ora era di lui che si voleva occupare. L’aveva visto dirigersi verso il bagno e si era allontanata dagli altri con una scusa, non prima di aver intercettato un’occhiata di sospettosa preoccupazione di Koga.
Ora lo attendeva nello stretto corridoio, in preda ad una rabbia a malapena contenuta. Sentiva in bocca il sapore del sangue e sapeva di essere vicina a superare il limite, ma l’idea che lui si fosse avvicinato ancora a Rin e che questo le avesse causato anche solo la minima sofferenza, le era insopportabile. Per mesi l’aveva vista disperata come mai prima: lei, la migliore amica che avesse mai incontrato, una perla rara e preziosa, calpestata come l’ultimo degli stracci.
Lo vide varcare la porta e gli fu davanti in un attimo.
«Tu!» lo aggredì con il dito puntato: «Non ti permettere mai più di avvicinarti a lei o io…»
Non fece in tempo a finire la frase che incassò un colpo sullo sterno. Fu sbalzata indietro contro una porta, che si aprì e lei rovinò all’interno, impattando con violenza contro un armadio in metallo. Stracci e materiale di pulizia le piombarono addosso. Quando riuscì a liberarsi il volto, lui le era già sopra.
Si sentì sollevare da terra come fosse un pupazzo, venne afferrata sotto la mandibola e inchiodata al muro fra due scaffali. L'altro suo avambraccio le premeva il diaframma, così forte che la gabbia toracica le tendeva la pelle al limite della lacerazione. Respirare le era impossibile. Caricò un calcio ma lui premette una coscia conto le sue, immobilizzandola completamente.«Lupa, sei stolta ed incauta! L'università pullula di Cacciatori. Ritira i tuoi canini o ti apro il ventre.»
Boccheggiò, cercò aria invano e lo guardò in faccia, pronta a implorare pietà. Niente nel suo viso rivelava un cambiamento, i caratteri demoniaci erano perfettamente celati e la sua aura era appena distinguibile. Doveva essere un demone dal potere spaventoso.
Le fu chiaro che tutte le sue parole corrispondevano a verità e che aveva ben poche possibilità di salvare la pelle. Convogliò le esigue forze rimaste nel riacquistare il controllo sulla propria aura e la stretta sul suo collo cessò facendola precipitare al suolo.
Stordita e ansante, inspirò troppo e troppo velocemente e tossì fra le lacrime, congestionata. Non riusciva a capacitarsi della rapidità con cui era stata completamente sopraffatta. Veloce, preciso, letale. Se lui l'avesse voluto, sarebbe morta senza neppure accorgersene.
«Ma tu... chi sei?» balbettò con voce roca, l'aria le bruciava la gola come fuoco.
Lui la guardò con severità e palese disprezzo.
«Non ti impicciare, Lupa, e non metterti mai più sulla mia strada.»
Un ultimo, terribile dubbio le si affacciò alla mente.
«Cosa vuoi da lei? Non ti permetterò di farle del male!» Doveva saperlo. Si sarebbe opposta fino alla morte.
Sembrò incerto se rispondere, ma poi lo fece. «Non voglio il suo male. Tu e il tuo Lupo invece» concluse in un sibilo sdegnoso «vedete di starne fuori.» Poi si voltò e con uno scatto secco si chiuse la porta alle spalle.
Ayame prese fiato ed espirò lentamente, e ripetè l'operazione diverse volte di seguito. Era viva.
Si massaggiò il collo e trattenne un gemito nello sfiorare l'articolazione della spalla, forse fratturata. Aveva ancora troppa adrenalina in corpo per provare dolore, ma sarebbe arrivato di lì a poco: avrebbe dovuto trovare al più presto un luogo sicuro per rigenerarsi.
Tuttavia, nonostante le ferite e l'umiliazione, si scoprì animata da una risolutezza nuova. Koga non era 'il suo Lupo', purtroppo, ma di certo lei non ne sarebbe stata fuori.

Quando arrivò Koga, era ancora accasciata a terra e non potè dissimulare l’accaduto. Fu anche costretta ad ammettere di essere stata lei ad aggredire e di essere stata talmente infuriata da perdere il controllo sulla propria aura.
«L’ho sentita» ringhiò lui: «E ho sentito la sua. È un dannato Cane, di sangue dannatamente puro.»
«È molto potente Koga. Mi ha presa alla sprovvista, è vero, ma mi avrebbe uccisa comunque» ammise ad occhi bassi, attendendo l’esplodere della sua collera, che non tardò.
«Potevi essere morta, stupida!» La frase le avrebbe scaldato il cuore, se non fosse stata espressa con una foga che non lasciava intendere alcun sentimento d’affetto: «Ma come fai a non capire? Siamo rimasti in pochi, dobbiamo difenderci, sopravvivere! Il nostro clan è decimato! Che lo vogliamo o no, prima o poi io e te…» Koga scaricò un pugno sul muro facendo tremare gli scaffali e interruppe la frase, ma non le fu difficile intuire l'ovvia conclusione.
Fu oppressa da un dolore lucido che la soffocò più dell’aggressione del demone.
Era dunque per quello che lui le si era avvicinato negli ultimi tempi: proteggeva il suo clan, anzi, proteggeva il futuro del suo clan. Lui era destinato alla guida del branco, lei discendeva da una famiglia di basso lignaggio ma di sangue puro. Avrebbero fatto il loro dovereper la sopravvivenza dei Demoni Lupo.
«Rischi la vita per cosa poi? Per prendere le parti diun'umanache se sapesse cosasiamo di certo ci volterebbe le spalle!» Le urlò ancora addosso e lei voltò la faccia contro il muro, offesa e ostinata. «I tempi sono cambiati, Ayame, dobbiamo guardarci dagli umani, dobbiamo difenderci per sopravvivere!» tuonò ancora. «Dovete uscire dal vostro mondo fatato, tutte e due! Dovete crescere!»
Quella frase le risuonò in testa come un campanello d'allarme di notevole potenza e la sua frustrazione ruppe gli argini. Ne aveva letteralmente piene le palledi maschi che volevano insegnare loro “come si vive” a suon di umiliazioni e dolore. Avrebbe potuto essere così come diceva Koga, ma non ci voleva credere. Lei e Rin erano state tutto, l'una per l'altra, e questo non sarebbe cambiato: se c'era qualcosa di cui era sicura, era che Rin non l'avrebbe mai rifiutata.
Forse non era «crescere» e di certo non era l'evoluzione che Koga avrebbe auspicato, ma ebbe l'impressione che, proprio in quel momento, le si fosse squarciato dinnanzi il proverbiale velo e ciò che intravide fra i brandelli pose tutto in una prospettiva diversa.
Stava inseguendo un sogno, ed era il sogno sbagliato.
Inspiegabilmente, fu meno faticoso ammetterlo di quanto fosse stato nascondere a sé stessa la verità per tutti quegli anni. E no, non provava dolore. Anche quello, sarebbe arrivato più tardi.
Si alzò rifiutando la sua mano, si aggiustò i capelli fulvi dietro le orecchie, liberando il viso e gli occhi per mostrare la sua anima con fierezza.
«Non serve crescere per capire che ci considerate come vostre pedine, in questo gioco che vi fa sentire grandi ed importanti. Non lo siamo e non lo siete, almeno non più.» Lo aveva guardato fisso negli occhi, la costernazione per quella svolta inaspettata l'aveva bloccato sul posto. Ne approfittò e si diresse verso la porta ostentando sicurezza e stringendo i pugni per celare le fitte di dolore alla spalla.
«Gira alla larga da me», rincarò la dose sull'uscio, «e trovati un'altra cagna da inseminare.»



 

***

 

 

Ci era venuta, nel cortile interno. Ovviamente. E invero ci era ancora, giacché il proprio subbuglio interiore le impediva di prendere qualsiasi decisione operativa, che fosse alzarsi e andare finalmente a casa, per lanciarsi sul letto e restarci fino alla mummificazione, o bere dalla bottiglia, per dare sollievo alle labbra diventate cartavetro a forza di tormentarle coi denti.
Invece, sedeva su una panchina da almeno un'ora, incapace di mettere ordine nel guazzabuglio di pensieri scaturiti dall'incontro con Sesshomaru. Con il demoneSesshomaru.
Gliel'aveva detto lui.
Le aveva rivelato la propria natura e l'inesperienza a rapportarsi con gli esseri umani, come se potessero essere una giustificazione.
Non riusciva nemmeno a ricordare tutto quel che avessero detto o fatto, flash e sensazioni apparivano all'improvviso e lei era frastornata.
«Quindi i demoni sono soliti sfruttare e poi calpestare i sentimenti altrui? Avete imparato questo in secoli di vita? Bel traguardo» aveva ribattuto, arrabbiata con lui e con sé stessa, per essersi prestata all'ennesima presa in giro.
«Dobbiamo difenderci» aveva affermato lui fra i denti.
«Difenderti? Ma da cosa? Da chi?» aveva allargato le braccia, si era guardata i vestiti semplici e la borsa dei libri consumata, si era figurata la propria capigliatura, raccolta in una coda sconnessa. «Da me, dovevi difenderti da me?»
Ecco, era quello il momento di cui non riusciva a liberarsi, continuava a riviverlo da molteplici angolature ma era come essere presa in un vortice e alla fine precipitava sempre nelle stesse conclusioni.
Lui l'aveva guardata davvero, aveva abbracciato la sua figura con uno sguardo sofferente. Non di sdegno, non di indifferenza, non di superiorità. E aveva detto: «Ci ho provato.»
Aveva abbassato le braccia e pigolato un «cosa?», per poi lasciarsi cadere sulla panchina alla quale era tutt'ora inchiodata
Per quanto cercasse di vedere altri significati, quella frase e quell'espressione appartenevano ad una persona combattuta, che in quei mesi, come lei – no, non come lei – aveva sofferto e che si sentiva in colpa. Non se l'aspettava.
Poi le aveva chiesto perdono.
Aveva usato una formula che le era suonata arcaica, ma della quale aveva intuito la solennità e che, per il modo in cui l'aveva cacciata fuori dalle labbra strette, doveva anche essergli costata parecchio.
Piacendo agli dei, nelle lune a venire, possa tu concedermi il perdono”.
In piedi davanti a lei, il busto rigidamente piegato in pronunciato inchino, aveva atteso qualche secondo. Infine si era sollevato e congedato con un altrettanto formale “Con permesso” e lei era rimasta lì, ad annaspare.
Non se l'aspettava. Di vedere una persona tanto altera, superba, sicura di sé, così esposta. Di percepirne l'insicurezza, il desiderio di essere compreso e insieme l'incapacità di esprimersi.
Altro che demone, le era sembrato assai umano.
Ecco palesarsi il peggior tranello, la trama ordita dalla sua mente di bambina buona, alla costante ricerca cerca di motivazioni e giustificazioni nell'agire di tutti, che si muove a compassione nel percepire un sentimento autentico. Si era trovata invischiata nella possibilità di accettare le sue scuse. Non che l'avesse fatto, certo che no, non era pronta. Ma la possibilità si era insinuata, pericolosa come la goccia che penetra e fessura la pietra.
Gli aveva permesso di rientrare nella sua vita, di tornare ad occupare tempo e spazio nella sua mente. Il lavoro di costruzione della Grande Muraglia di Contenimento del Dolore, in cui tanto si era impegnata negli ultimi mesi, era già sospeso e nella barriera si intravedevano pericolose fenditure.
Guardò il cielo terso, il giardino curato nonostante l'arsura estiva, percepì il ronzio degli insetti e il rombo del traffico oltre il confine del campus e si scoprì sollevata. Non avrebbe saputo come spiegarlo diversamente. Gran parte del rancore era scivolato via ed era stato gratificante ricevere la richiesta di perdono, ora si sentiva riconosciuta, riportata alla dignità che sapeva di avere. Restava il dispiacere per il sentimento rifiutato, il rimpianto per quello che avrebbe potuto essere e non era stato, il rimorso per quello che avrebbe potuto capire e non aveva capito - erano davvero diversi, non sapeva nemmeno quanto – ma tutto questo le sembrava più facile da accettare. Una delle lacerazioni principali si stava chiudendo, col tempo si sarebbero cicatrizzate le ferite più piccole.

L'unico vero problema, e al solo pensiero le tremarono le gambe, sarebbe stato confessarlo ad Ayame ad affrontare la sua ira funesta!

 

 

Si erano date appuntamento a casa di Ayame ed ora sedevano sul divano a gambe incrociate una di fronte all'altra, brandendo ciascuna l'arma – un brillante cucchiaino in puro acciaio inox – con la quale avrebbero affrontato i rispettivi problemi su un ormai collaudato campo di battaglia: la vaschetta da un chilo di gelato al cioccolato.
L'urgenza-gelato si era palesata durante la brevissima conversazione telefonica della sera prima:
«Ciao...»
«Ciao!»
Pausa imbarazzante.
«Aya, devo dirti una cosa...»
«Anche io...»
Pausa imbarazzante.
«Quando?»
«Domani pomeriggio da me.»
«Prendo il gelato...?»
«Eh. Sì.»

Si erano scrutate di sottecchi e scambiate convenevoli standard mentre si salutavano e portavano il necessario in salotto, ma era evidente che le danze si sarebbero aperte solo quando fossero state pronte e in posizione.
«Fazzoletti?» chiese Ayame.
«Abbondanti» rispose lei indicando la confezione ai piedi del divano. «Cellulare?»
«Spento» confermò l'altra, e poi la prevenne con la fatidica domanda: «Chi inizia?»
«Io ho portato il gelato...» provò lei.
Ayame grugnì e assentì con una linguaccia. «Ho diritto al primo colpo, vero?» e senza attendere l'ovvia risposta affondò il cucchiaino nella cremosa delizia posta fra loro, riempiendosi la bocca e assaporandola.
Quando ebbe finito il rituale iniziale incominciò a parlare e solo allora Rin si concesse la prima, abbondante cucchiaiata.
«Ho scaricato Koga» esordì l'amica e Rin, con l'arma ancora in bocca, fece tanto d'occhi e mugugnò un “mmh” di stupore.
«E ho fatto a botte con il tuo ex-vicino» continuò e questa volta Rin quasi si strozzò.
«Coosa? Ma...» esordì incredula, ma Ayame la stoppò subito.
«Zitta e mangia. E ascolta. Non proprio botte, lui mi ha stesa in quattro e quattr'otto»
Rin non riuscì a trattenere una smorfia di orrore e disgusto al pensiero che luiavesse osato alzare le mani sulla sua indifesa amica – che proprio indifesa non era, giacché praticava assiduamente e con indiscussa abilità diverse arti marziali – ma ancora una volta Ayame interruppe la corsa dei suoi pensieri sventolando in aria il cucchiaino.
«Frena. Aveva tutte le ragioni, l'ho aggredito io, alla conferenza» abbassò lo sguardo e la voce «vi ho visti parlare e ho dato di matto. Volevo spaventarlo, volevo ti stesse alla larga.»
Entrambe ingurgitarono una dose massiccia di cioccolato.
«E invece mi ha stesa lui. È... molto forte.» concluse affranta.
«È un demone» le uscì fuori prima di aver tempo di pensare.
Ayame restò interdetta per qualche istante, poi fece due più due.
«E tu come lo sai?» le chiese assottigliando gli occhi.
«Me l'ha detto lui» pigolò, colpevole. “L'altro ieri” lo omise: in fondo non era ancora il suo turno.
«E cosa aspettavi a dirmelo?» chiese l'altra, che dovette intuire qualcosa di losco dietro il suo infilarsi prontamente mezz'etto di cioccolata in bocca perché impugnò il suo cucchiaio a due mani e lo affondò nel gelato, per poi rigirarvelo dentro più volte con impeto, manco fosse una vera spada nel petto di Sesshomaru.«Comunque» riprese Ayame a testa bassa «anche io sono un demone.»
Rin aprì la bocca e la richiuse. «E cosa aspettavi a dirmelo?» la scimmiottò, ma si pentì immediatamente, perché la sua amica teneva la testa bassa e giochicchiava col gelato.
Non si era mai interrogata veramente sul problema razziale che tanto infervorava i media, tuttavia era consapevole che non fosse una questione di poco conto e che per un demone, di questi tempi, esporsi così apertamente fosse un grosso rischio.
Picchiettò il proprio cucchiaino contro quello di lei e le rivolse un «Ehi» di incoraggiamento, attendendo che continuasse quel racconto assurdo. E lei che aveva paura di estrarre il suo scheletro dall'armadio! Dilettante! Ayame ne stava tirando fuori un intero esercito!
L'amica sospirò, poi sollevò il suo sguardo di smeraldo e attaccò a raccontare.

Aveva tirato avanti con foga per cinque minuti buoni. Sulla parte in cui Sesshomaru l'aveva messa a tappeto aveva sorvolato forse un po' troppo – ma ci sarebbero ritornate, eccome – mentre nel racconto della scoperta delle vergognose mire di Koga e di come lei l'avesse liquidato, Ayame aveva impresso così tanta fiera decisione che se Rin avesse avuto Koga fra le mani l'avrebbe strozzato lei stessa.
«Ma che concezione assurda! Che esseri orribili! Oh, scusa» esplose Rin, correggendosi subito.
«Mi sembrava di sentir parlare mio nonno» convenne Ayame, archiviando le scuse con un gesto. «Figurati se mi sposerei con lui solo per mandar avanti la specie! Se siamo sopravvissuti in così pochi ci sarà un motivo, no?»
«In che senso dici?» Rin ora era curiosa. Si stava rendendo conto con dispiacere di aver archiviato la questione “demoni&terrorismo” in un angolo della mente, insieme a tutte le problematiche scomode e delicate dalle quali ci si può ritenere sufficientemente – e vigliaccamente – estranei, ma ora che si era scoperta coinvolta le sembrava doveroso approfondire e cercare di capire. In fondo tre delle persone che più aveva frequentato negli ultimi mesi, si erano rivelate essere dei demoni: così pochi non dovevano essere. O li aveva calamitati tutti lei? Ma che fortuna.
«Quando dici “pochi” cosa intendi?» si decise a chiedere.
Ayame ci pensò su un poco, mentre ingurgitava gelato a ripetizione. Era suo diritto: in tutti quei minuti di filippica, Rin ci aveva dato dentro, l'amica doveva riportarsi in pari.
«Guarda, di famiglie di Lupi ne conosco quattro o cinque, sparse per tutto il Giappone, sostanzialmente parenti miei o di Koga. Ce ne saranno altre, ma non so. Non molte altre. Non più di una trentina di individui. E siamo fra le comunità più numerose, perché i nostri clan sono molto tradizionali»
«Ho sentito anche parlare dei Corvi» chiese lei.
«Sì, anche loro sono parecchi e si sono concentrati tutti in città. Vivono in gruppi più numerosi e» fece una smorfia disgustata «stanno cercando di conquistare questo territorio.»
«Conquistare? Anche con la violenza?» osò lei.
Ayame alzò gli occhi al cielo. «Ma certo! Siamo demoni, mica principesse Disney!» sbuffò, sentenziando così l'ennesima verità cosmica.
Rin riempì un'abbondante cucchiaiata e buttò lì con indifferenza: «E i Cani?»
«I Cani» pronunciò Ayame come se avesse la bocca piena di vermi, «sono bestie rognose come il tuo vicino, altezzosi figli delle cagne loro madri. Le nostre specie si detestano da sempre.»
«Ah, mi pareva.»
«Non fare ironia. Grazie agli dei, credo ci sia solo più la famiglia del suo vicino qui in città. Anche loro vivono in piccoli gruppi.»
«Lui però vive solo...» osservò Rin.
«Già» assentì Ayame e restarono qualche secondo in silenzio, sovrappensiero.
L'affondo dell'amica, nel gelato e nei suoi confronti, la riportò alla realtà, facendola sobbalzare «E adesso tocca a te, piccolo serpentello! Cosa mi nascondi?»
Prese tempo, fingendo di essere impegnata a leccare il proprio cucchiaino con assoluta devozione ma poi si arrese: era ora di vuotare il sacco.

Le aveva raccontato tutto. Dall'incontro al supermercato, al messaggio tanto atteso, a quello che le aveva detto al buffet della conferenza, a ciò che era accaduto nel cortile. Le aveva confessato la sua vergogna per aver in un certo senso ceduto, acconsentendolo a rivederlo, ma anche il sollievo che aveva provato nel sentire le sue scuse accorate. Non aveva taciuto nulla, perché se c'era una persona che meritava la sua sincerità, questa era Ayame.
Come lei prima, l'amica l'aveva ascoltata in silenzio, stranamente pensierosa.
Quando finì, il silenzio cominciò fra loro a pesare e Rin fu assalita dal terrore di aver deluso la sua amica e di aver suscitato il suo disprezzo. Quante volte aveva raccolto le sue lacrime? Quante volte aveva arginato la sua disperazione? Avrebbe pensato che erano bastate due moine a farle dimenticare tutta la sofferenza? Che sciocca!
«Ayame...» sussurrò, sull'orlo delle lacrime, gli occhi piantati sul proprio ombelico, «Ti chiedo scusa, io...»
«Sfcufa?» le arrivò la voce incredula dell'amica, «Ma fcufa di cofa?»
Rin alzò lo sguardo e Ayame si levò il cucchiaino dalla bocca, mantenendo un'espressione stupita da attrice professionista.
«Per non avertelo detto...»
«Rin, ma che dici!» la interruppe l'amica, «Era una decisione tua, scegliere di ascoltare cosa aveva da dirti.»
«Sì, ma ho deciso di incontrato di nuovo dopo che mi ha fatto tanto male...»
«Guarda che se permetterai che ti faccia ancora male, dovrai chiedere scusa solo a te stessa» sentenziò Ayame con semplicità.
Rin sbattè gli occhi, sbalordita. «Cotanta saggezza. Si vede che sei vecchia.»
«Cosa?» sbraitò Ayame. caricando il lancio del cucchiaino come fosse un freccetta. «Dillo ancora e ti infilzo come un'oliva. Vecchia sarà quella zoccola della madre del tuo Cane, iosono una demone giovane
Rin si riparò dietro un cuscino e rise fino alle lacrime (in qualche modo doveva pur liberarle).
«Che scema che sei, solo tu potevi pensare che me la sarei presa con te. È lui che deve guardarsi le spalle.»
«Perché, in un combattimento di fronte le prenderesti di nuovo?»
«Non scherzare» la fulminò Ayame con uno sguardo terribilmente serio, «tu non sai di chi stiamo parlando. Per oggi non voglio rovinare il tuo bel castellino in aria 'Oh il bastardo del mio ex-vicino ha un cuore', ma tra due giorni torni qua e ti becchi una bella lezioncina sui demoni.»
«Oh, ne sarei felice!» esclamò entusiasta.
«Bleah, sei così zuccherosa che mi viene il vomito!»
«Eddai, sono mesi che mi dici 'tornerai a sorridere'»
«Ri-bleah!»
«Finisco io il gelato? Ti vedo provata.»
«Sì, ho un principio di iperglicemia.»
Rin rise ancora, portandosi in grembo la vaschetta e accarezzandola come fosse un gattino. Ayame la guardò con affetto e Rin fece lo struzzo nella vaschetta per dissimulare la commozione. Basta lacrime.

 

Ayame provò un moto di vera tenerezza. Quel pomeriggio aveva ritrovato una parte di Rin che tanto le era mancata, era davvero felice per lei.
“Io adoro la Rin che è felice di non provare rancore, e la ammiro. Questa sei tu, questa è una delle parti più belle di te.” Avrebbe voluto dirglielo ma lo tenne per sé. Che si facesse bastare il fatto che non l'avesse mandata a casa a calci nel culo. Accettare le scuse di quel Cane rognoso... ma quando mai! Era evidente che certe reazioni umane – che Rin praticava in maniera eccelsa, ben più di molti della sua specie – le erano precluse: tolleranza, comprensione, perdono... Tri-bleah.
Poteva concedere a quel Cane una minuscola percentuale di beneficio del dubbio riguardo alla sua sincerità, poiché in effetti il comportamento che Rin le aveva descritto era perlomeno anormale, considerata la storia – su cui si era documentata – della famiglia di Inu-Yokai più antica del Giappone e ancor più in specifico il carattere sanguinario ed antisociale del giovane rampollo. Ma era più propensa a pensare che il bastardo nascondesse un secondo fine, o più semplicemente desiderasse prendersi ancora gioco di Rin.
Osservò l'esile figura sul divano, intenta a ripulire di nascosto la vaschetta con il dito. Un assurdo concentrato di vita ed entusiasmo.
Sbattè con rabbia il cucchiaino nel lavandino.
L'avrebbe stanato a forza. Se le avesse fatto ancora male, l'avrebbe ammazzato con le sue stesse mani, ad ogni costo.
Doveva intensificare gli allenamenti, troppi elementi annunciavano che i tempi stessero per cambiare.



 

 

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(*) Panta rhei, tutto scorre. La frase si attibuisce ad Eraclito ma probabilmente fu una sintesi del suo pensiero elaborata dalla tradizione filosofica successiva.

Buongiorno e bentrovati!
Doveva essere un capitolo di chiusura invece è un capitolo di passaggio e per certi versi di apertura. In una trama che inizialmente si concentrava su un'esperienza intima, si inseriscono elementi esterni, sociali, politici. Non si darà loro grande spazio - resteremo ancorati alla storia d'amore che sì, lo sapete, si sta ripresentando – ma non sono riuscita a mantenere fuori un contesto che spingeva per entrare.

Anche Ayame ha preteso spazio. Ho inserito due suoi pov perché mi serve una voce della coscienza, un elemento di disincanto che contrasti Sesshomaru e renda combattuto il suo riavvicinamento a Rin.

Credo sia un racconto disomogeneo, ci sto mettendo troppo a scriverlo e cambia forma sotto le mani. Spero possiate goderne ugualmente.
Il prossimo capitolo sarà davvero l'ultimo e sarà pubblicato l'ultimo weekend di marzo (di quest'anno :D ), poi seguirà un epilogo pubblicato a parte. Rosso, ovviamente ;P

Vi abbraccio e vi ringrazio, siete eroici a leggere ancora. 

elerim

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque ***


Capitolo cinque ovvero Mutatis mutandis (*)

 

 

 

 

« Happiness often sneaks in through a door you didn't know you left open. »

« La felicità spesso si insinua attraverso una porta che non sapevate di aver lasciato aperta »

(John Barrymore)

 

 

 

 

 

Confusione.
Questa era senz'altro la sensazione dominante in lei nell'ultimo mese.
Era stata catapultata in un mondo ampio e pieno di contraddizioni, quello delle relazione problematiche fra umani e demoni, e stava cercando di sviluppare un suo personale punto di vista, ma non era per nulla semplice. Ayame era stata più che disponibile a soddisfare tutte le sue curiosità – e a metterla in guardia in mille e più modi – ma la sua visione era comunque parziale, benché molto più equilibrata di quelle esposte nei media dalle fazioni antagoniste.
Da quando aveva cominciato a prestarci attenzione, si era accorta che gli argomenti dei titoli di giornale, delle trasmissioni televisive, dei discorsi intercettati per strada e nei mezzi di trasporto pubblici, convergevano con frequenza sul problema della convivenza fra gli umani e gli altri (indicati con termini più o meno dispregiativi, indizio dell'opinione dell'interlocutore: Demoni, Mezzi-demoni, Ibridi, Sotto-demoni, Sangue-misto, Sangue-sporco e via dicendo), perlopiù sottolineandone le caratteristiche di incompatibilità, di ferocia, di immoralità.
Eppure, a lei la soluzione sembrava così semplice e, cosa più stupefacente, era sotto gli occhi di tutti. Si era informata: alla quinta generazione di distanza da un progenitore demoniaco, la componente di sangue non umano era irrilevabile da esami di routine, sarebbe potuta emergere solo con un'analisi completa del DNA. Delle specifiche capacità del demone originale, nei pronipoti rimaneva traccia come abilità, spiccata tendenza, predisposizione. Per lei era ovvio che popolazione demoniaca fosse in estinzione come individui “puri” e con il tempo si sarebbe amalgamata, arricchendola, con la popolazione umana, come accade per le altre specie viventi.
Contrastare questa tendenza, dall'una e dall'altra parte, le sembrava futile e controproducente, per questo non riusciva ad avere un'opinione netta sui singoli aspetti o episodi di attualità: le pareva tutto falsato in partenza.
Di certo non la aiutava a far chiarezza il fatto che la dicitura “relazioni problematiche fra umani e demoni” fosse perfettamente calzante anche alla sua personale situazione, fonte di confusione quotidiana a crescita esponenziale.
Sesshomaru. Avrebbe potuto pronunciare quel nome dieci volte con dieci inflessioni diverse, legate ad emozioni forti e contrastanti.
La serenità iniziale causata dalla sua richiesta di perdono era stata rapidamente sostituita dal dubbio e dal sospetto, che le teorie di Ayame alimentavano come benzina sul fuoco. Ella diceva che i demoni stavano cercando una soluzione per sopravvivere, che tutti si stavano organizzando e che di sicuro anche i Cani avevano delle mire e che l'apparente vita solitaria 'del bastardo del suo ex-vicino' – lo chiamava sempre così – era un a sospetta anomalia.
Eppure.
Eppure lui a lei sembrava una persona diversa. Nei suoi confronti si era comportato in modi che mai avrebbe utilizzato prima, che riusciva a spiegarsi solo supponendo che provasse un vero rimorso. Un dignitoso rimorso, poiché non si era lasciato andare a scene patetiche, ma non riusciva a vedere nei suoi atteggiamenti un doppio fine perché... beh, cosa ne avrebbe guadagnato a ri-ottenere la sua fiducia? Lei non aveva nessun ruolo nel conflitto generale, era una ragazza umana qualsiasi.
Fece spallucce al suo riflesso nello specchio. Oggi ci teneva ad essere meno “qualsiasi". Aveva indossato un vestito color pervinca leggero ma non troppo corto, truccato gli occhi – un velo di ombretto e un'idea di rimmel, sufficienti a regalare intensità allo sguardo – indossato i sandali nuovi, inserito i libri in una borsa estiva invece che nel solito zaino e, per una volta, avrebbe abbandonato la bicicletta a favore dei mezzi pubblici.
Tutto questo perché, dopo le lezioni, sarebbe andata a prendere un gelato con Sesshomaru?
Nooo, mica.

 

 

Controllò il telefono l'ennesima volta, avviandosi verso il luogo dell'appuntamento, un'anonima pensilina dell'autobus presso l'uscita ovest del complesso universitario. Nessuna smentita dell'ultimo momento. Sarebbe venuto davvero, quindi? Lei aveva davvero accettato di vederlo ancora, da soli?
Era accaduto pochi giorni prima. Si erano incontrati per caso nei corridoi dell'Università, erano entrambi soli. Lui l'aveva salutata e avrebbe tirato dritto, ma lei non aveva ancora avuto l'occasione – né il coraggio per crearsela – di rispondere alla sue richiesta di scuse e poiché il destino gliene aveva fornita una, aveva deciso di fermarlo.

« Sesshomaru, aspetta »
Si era bloccato sul posto, rigido come una statua di sale, senza proferir parola.
« Forse non è il momento né il luogo, ma volevo dirti, ecco... » si era impegnata a trovare le parole al più presto, ma il risultato era comunque traballante, « riguardo alla tua richiesta di scuse, io volevo dirti... »
« Appunto, non è il momento né il luogo » l'aveva stroncata lui. Imbarazzo alle stelle. Neuroni impegnati in cori da stadio “Scema! Scema!” e ormoni piegati a pulire il pavimento da colate di sudori freddi. Due settimane prime aveva visto un film di animazione americano e da allora non poteva fare a meno di immaginarsi amene scenette avvenire nei propri centri di controllo. Tuttavia.... « Potremmo vederci fuori di qui, se ti va » aveva aggiunto. Posizioni invertite in cabina di comando: ormoni in indecente esultanza e neuroni a lavar per terra.
« Oh. Ah. »
« Sarebbe un sì o un no? » Lui l'aveva studiata con una punta di apprensione nello sguardo, che si era tramutata in divertimento quando lei aveva emesso l'ennesima vocale: « Eh... »
Aveva sorriso anche lei e aveva distolto lo sguardo.
« Va bene » aveva espirato.
« Non ho capito » aveva risposto lui seccamente.
« Hai capito benissimo, invece, tu e il tuo super-udito! » aveva ribattuto, prima di guardarlo in faccia e scoprirlo seriamente indispettito.
« Siamo in Università », le aveva detto e quella era la spiegazione che si sarebbe dovuta far bastare. Università, demoni, sistemi di individuazione... giusto.
« Oh. Me ne ero dimenticata. » Lui non aveva mosso un muscolo, in attesa. « Va bene, comunque. Per vedersi » aveva aggiunto e lui aveva annuito brusco.
« Guarda che non sei costretto. Me l'hai proposto tu! » con la mano sul fianco aveva dato voce alla proprio ira latente. Questo – l'ennesimo – stentato colloquio stava risvegliando qualcosa in lei e non era nulla di cui andare orgogliosi. « Un po' di entusiasmo suvvia » lo provocò. « Hai appena ottenuto un'appuntamento con una piccola ed insignificante umana, sono soddisfazioni. »
« Da dove ti arriva tutto questo sarcasmo? » aveva ribattuto lui, incrociando le braccia al petto.
« Forse, finalmente, sono CRESCIUTA! » gli aveva urlato contro e se n'era andata voltandogli le spalle. Rabbia, rabbia, dolore. Un'ondata furente di sentimenti negativi aveva premuto dietro i bulbi ma Rin l'aveva ricacciata indietro. Niente pianti.

 

Il giorno dopo aveva ricevuto un messaggio: “Posso invitarti a prendere un gelato domani, alle 17.00?”.
Aveva risposto solo: “Puoi. Ma dopodomani, domani lavoro.”
In perenne oscillazione fra il congratularsi per il coraggio avuto due giorni prima e il dispiacere per essersi fatta dominare dalla rabbia, sperava sarebbe stato il suo volto, il suo atteggiamento a suggerirle come comportarsi. Era imbarazzante, doveva ammetterlo. Aveva sempre pensato fosse sufficiente essere sé stessa, anzi, non l'aveva pensato affatto, lo era stata e basta. Invece al momento “sé stessa” era un groviglio di sentimenti in perenne contraddizione e le occorreva un movente esterno per indirizzarli. “Molto matura, signorina”, si complimentò.
Lui fu puntualissimo. Lo vide arrivare da lontano, dalla direzione opposta rispetto a quella da cui era giunta. Mentre si avvicinava lo osservò con curiosità crescente. Diverse cose stonavano nella sua figura: il capello corto cui non si era ancora abituata, le tinte chiare dei vestiti – grigio il pantalone, immacolata la camicia, la macchia colorata all'altezza del petto. Quella soprattutto. Cosa diamine era?

 

 

 

Aveva temuto e sperato che accadesse. In diverse occasioni, negli sporadici incontri dei mesi precedenti, aveva riconosciuto in lei il sospetto, il rancore strisciante, la rabbia latente. Aveva atteso che fuoriuscissero e che, finalmente, lei lo attaccasse. Lei si sarebbe liberata e – egoisticamente pensava – avrebbe liberato anche lui. Riteneva, a ragione, di saper gestire un attacco frontale ma non aveva previsto potesse accadere in una situazione in cui era costretto all'umanità.
Digrignò i denti al ricordo della sensazione di impotenza derivante dal non poter percepire le sue sensazioni dall'odore né dalle sfumature di intonazione della voce e dell'umiliazione nel dover ammettere di non aver sentito. A disagio, oltremodo infastidito, costretto alla cautela per non destare l'attenzione di eventuali Cacciatori, era risultato impreparato all'attacco ed esso l'aveva colto dritto al centro del petto, nel punto esatto in cui soleva colpire la sua adorabile genitrice. Femmine.
Quel “devi crescere” con il quale, mesi prima, aveva immaginato di tranciare di netto il loro agonizzante rapporto gli si stava rivoltando contro, rivelandosi per quello che era: una vergognosa bugia, un demone-serpente di cui temere sia il veleno che le spire asfisianti.
Aveva ponderato a lungo se farsi avanti a rilanciare l'invito rimasto in sospeso o lasciar passare del tempo e infine aveva optato per la prima opzione. Non solo, aveva stabilito che si sarebbe esposto completamente. Questo sì che sarebbe stato un avvenimento più unico che raro: gli era assai più congeniale attendere che fosse l'avversario a esasperarsi e scoprire il fianco, invece con Rin si sentiva costretto a tentare il tutto per tutto. Non voleva lasciare nulla di intentato, da una parte, dall'altra le riconosceva il diritto ad essere informata delle sue intenzioni con onestà e chiarezza. Nessuna ambiguità, nessun ammaliamento per il solo gusto della conquista. Rin non meritava nulla di tutto questo. Forse meritava anche uno che fosse meglio di lui, uno che le potesse regalare la serenità e la sicurezza che aveva detto di desiderare, ma il suo altruismo non si spingeva così in là. La voleva ancora, per sé, con sé, più di ogni altra cosa. E, se c'era una cosa in cui si riteneva davvero eccellente, era la capacità di impegnarsi con assoluta dedizione, caparbietà e cura al fine di raggiungere un obiettivo.
Altrettanto unico era l'acquisto che stava or ora ritirando e pagando. Sperava – ardentemente – che avrebbe capito e apprezzato. Aveva attraversato la città per trovare il negozio che fornisse una scelta ampia e ora gli toccava affrettarsi per non arrivare in ritardo.

Giunse in tempo e si avviò a passo sostenuto, fin impaziente.
Notò che lei ne stava seguendo l'avvicinamento con lo sguardo già da quando era apparso in lontananza e man mano che la distanza fra loro diminuiva, la sorpresa nel suo sguardo fu sempre più palese. Infine l'imbarazzo che le tinse le guance, quando realizzò che quello che teneva in mano era esattamente quel che sembrava: un grande mazzo di variegati e coloratissimi fiori di carta. Per lei.
« Per me...? » sussurrò incredula quando glieli porse. Allargò le braccia e lui ve li depose, come fossero un neonato. Lei li osservò in silenzio per diversi istanti e il suo accorato “grazie” le giunse da dietro uno svettante tulipano giallo e arancio.
« Grazie davvero » ripetè alzando lo sguardo « sono meravigliosi. »
« Mhm » rispose solamente, perché se già era destabilizzante ricevere un ringraziamento, figuriamoci il ribattere. « Sono felice che ti piacciano » e questa era una sacrosanta verità.
« Perché...? » lasciò in sospeso lei. Era ovvio che lei volesse saperlo, ma non era assolutamente pronto a dare spiegazioni. Parola d'ordine: dissimulare.
« ...Perché siamo ancora sotto questa squallida pensilina? Hai ragione, andiamo » e si diresse deciso dall'altra parte della strada.
Lei sgambettò veloce al suo seguito « Ehi, rallenta, trampoliere ».
La spiò di sbieco, il suo vestito aveva il colore delle campanelle dei prati e il suo volto scompariva fra i fiori. Era serena e lui... perduto.
« Dove andiamo? A quella all'angolo con l'insegna azzurra? Non ricordo come si chiami »
Non lo ricordava nemmeno lui ma sapeva quale intendesse e si avviarono.
« Se adesso ti dico terribili cattiverie così piano, mi senti? » sussurrò lei.
« Forte e chiaro » sogghignò.
« Accidenti » esclamò lei con finto disappunto. « Ma quindi » indagò poi, titubante: « i sistemi di individuazione sono davvero così sofisticati? »
Era decisamente un argomento che avrebbe preferito dimenticare, ma non aveva senso nasconderle la realtà dei fatti: « Non ne sono sicuro, ma preferisco non rischiare. »
« Sei iscritto regolarmente però. L'università conosce la tua identità, no? Non dovresti avere conseguenze. »
« Questo no, ma mi è già capitato una volta di far scattare un allarme per errore e non voglio ripetere l'esperienza. »
« Davvero? E come è successo? » chiese lei con enfasi, poi aggiunse, per cortesia: « Se ti va di dirmelo, naturalmente. »
Oh, naturalmente, mai desiderato altro: « Ero distratto ».
« Distratto...? » lo reputava improbabile anche lei, come darle torto.
« Da te. »
« Cosa?! » lei ci pensò su appena qualche istante: « Dici quella volta al supermercato? Eri tu, è per te che è scattato? »
« Già » confermò con fastidio.
« Oh. Capisco. » Sembrò un “capisco” molto ampio di significati, che ben si guardò dall'indagare. Per fortuna erano già presso la gelateria e l'attenzione di Rin virò sul chilometrico bancone variopinto.
« Voglio tre gusti! Anzi, quattro! » esclamò e si lanciò nella scelta, che fin da principio si annunciò lunga e travagliata. Si accomodò paziente ad un tavolino.
Quando infine Rin si decise ad ordinare e la commessa pose sul banco l'enorme coppa, mancava poco che iniziasse a saltellare.
« Vieni a sederti » le disse.
« Ci sediamo? » chiese, incredula. Come ad un vero appuntamento, pensava di certo lei. Come se potesse anche solo figurarsi di tenere in mano il mazzo e la coppa, aveva pensato lui.
Roteò il dito in un eloquente indicare tutto il suo ingombrante insieme, lei comprese l'ovvio e si accomodò docile, sistemando con cura il mazzo su una sedia libera.
Si alzò, ordinò per sé una coppa piccola di sola crema e portò tutto al tavolo.
Mangiarono in silenzio per qualche minuto. Lei ogni tanto emetteva dei mugolii di apprezzamento, che solo a sentirli gli si rizzavano tutti i peli sulla schiena. Dannata ragazzina, era rovinato.
« Vuoi assaggiare? » gli chiese, quando ormai ne aveva divorato oltre la metà. E lui che non credeva nemmeno che ci sarebbe arrivata, a metà: mai sottovalutare l'imprevedibilità di fronte al cibo delle femmine di qualsiasi specie.
« Mi vuoi morto » le rispose, osservando il contenuto della ciotola.
« Mmh, sono ancora indecisa a riguardo, ma perché lo dici? »
« Perché è zeppo di cioccolato » spiegò.
« Ah, sei allergico? »
« Come per tutti i cani» calcò appositamente: « è un veleno. »
« Vero » assentì lei, incurante del riferimento: « ricordo di averlo sentito dire da mia madre. » Poi assunse un'espressione spietata che su di lei calzava ridicola: « Buono a sapersi. »
« Nel caso decidessi di sopprimermi? » sogghignò.
« Nel caso. »
Calò di nuovo il silenzio e ovviamente fu lei a romperlo: « Senti, l'altro giorno ti ho fermato perché dopo quel giorno nel cortile, sai... » lo guardò per avere conferma che intendesse il riferimento e lui annuì: intendeva ed attendeva, eccome.
« Ecco, non ti avevo più detto niente. Io... per me è stato molto importante, che tu mi abbia chiesto scusa. » Rin fissò lo sguardo sul cucchiaino, prese un respiro e partì in quarta – pronta finalmente a svuotarsi, sperò lui.
« È come se mi avessi sollevata da un peso, come se mi avessi restituito l'immagine di me stessa che mi avevi strappato. Mi hai dipinta come una ragazza superficiale che vuole il ragazzo perfetto, una che non sa andare oltre le apparenze, ma quella non sono io, » la vide serrare le dita intorno alla posata e strizzare gli occhi. « Ti ho sempre trattato con gentilezza, ti sono venuta incontro, ho sempre voluto andare oltre la tua scostanza, ignorare la tua scontrosità, passar sopra alle tue fissazioni e rigidità. Anche alle tue critiche sul mio essere ingenua, patetica, insicura. » Ora la voce le tremava e a lui si era seduto un elefante sullo sterno.
« Ho voluto pensare che, se avevi piacere della mia compagnia, era perché comunque ti andavo bene così. Non ho pensato di indagare chi fossi e da dove venissi, questo è vero, ma pensavo sarebbe venuto pian piano, che se mai fossimo entrati in confidenza avrei potuto capire un po' più di te. » Sentiva l'odore delle sue lacrime ma non le vedeva, il volto era ostinatamente abbassato.
« Non mi fidavo, Sesshomaru, è vero. Non credevo possibile che tu fossi seriamente interessato a me. Ma avevo ragione, capisci? » Rin sollevò lo sguardo e fu decisamente peggio. « Non ero io la ragazza egoista che hai dipinto qual giorno sulle scale, ero io quella ingenua, patetica, insicura che hai ingannato! »
Sesshomaru deglutì. Aprì la bocca e così restò, con l'aria calda a seccargli le fauci. Non gli era mai stato facile trovare parole, figuriamoci quelle mai dette e quasi mai pensate. Ancor più un'impresa fu inanellarle e convogliarle alle corde vocali: prima di uscire si incagliarono in ogni anfratto e infine, quando tacere ancora sarebbe equivalso ad una condanna definitiva, riuscì a farne emergere un sunto parziale e ambiguo, che come tale sarebbe stato frainteso.
« Non è così. » Signori: il genio.
« Non è così cosa? » sbottò lei, gli occhi in fiamme, i palmi piantati sul tavolino, pronta ad alzarsi.
Di istinto – di disperazione – le afferrò una mano, per fermarla: « Aspetta! »
Lei si irrigidì, ritirò velocemente la mano dalla sua e si appoggiò allo schienale a braccia incrociate. Non disse nulla e attese, furiosa e implacabile. D'altronde, aveva imparato dal migliore.
Decise di partire da lontano, era più sicuro. « Mio padre ebbe una relazione con una donna umana. Una lunga relazione, praticamente un altro matrimonio, poiché finché lei visse abitò con lei. Ebbero anche un figlio. Io e mia madre li abbiamo ostacolati in tutti i modi ma nonostante tutto so che furono felici. » La guardò di sottecchi ma lei, pur attenta, mantenne la stessa granitica espressione.
« Quando morì fu peggio. Mia madre macchinò fino a che lo costrinse a tornare a vivere con lei, rinsaldò la famiglia per necessità ad opportunismo ma si prese ogni tipo di rivalsa. Mio padre è ormai l'ombra di quello che era, sopravvive in una civiltà che ci è ostile e vive di ricordi. »
« L'altro figlio? » la sentì chiedere, ed era l'ultima domanda che si sarebbe aspettato, l'ultima cui avrebbe voluto rispondere.
« Non so. »
« Come “non sai”? È morto? »
“Magari”, avrebbe voluto risponderle, ma il genio stavolta ebbe la buona creanza di tacere. « No, è vivo. Abita in un altra città. Non l'ho quasi mai visto, ha rari contatti e solo con mio padre. »
« Si sarà sentito tradito anche lui, come te. E abbandonato. Tuo padre deve avere un tal carico di sensi di colpa... ci credo che è infelice. » Rin lo disse con nonchalance, guardando dall'altra parte della strada, come se non avesse appena delineato, in poche frasi, il sunto perfetto delle loro ormai vuote esistenze.
« E questo cosa c'entra con me? » Tornò poi alla carica, piantandogli gli occhi addosso. Non se la ricordava così temibile. Forse perché era lui in posizione di netto svantaggio, già dalla partenza. Stava tentando un'impresa disperata, per lo scarso oratore che obiettivamente era. Avrebbe potuto utilizzare trucchetti affascinanti che aveva appreso e sperimentato in questo ultimo mezzo secolo, ma aveva la netta impressione che gli si sarebbero ritorti contro.
« Non è facile accettare di essere come lui. » confessò infine.
« Come lui chi? »
Ma era ovvio.
« Come lui chi? » ripetè lei, visibilmente irritata. « Come tuo fratello? Come tuo padre? »
« Quale fratello, non ho un fratello » digrignò i denti.
« Oh sì che ce l'hai! Lascia che te lo dica: tu hai un fratello, fratellastro se vuoi, e prima o poi dovrai fare i conti anche con lui. »
« Lascialo fuori da questo discorso per favore! » Sbottò. Era irritato che lei continuasse a nominarlo e che non capisse invece cosa cercava di dirle.
« Ma quale discorso, non capisco nemmeno dove vuoi arrivare! »
Stavano alzando la voce entrambi, in pubblico, ed era una cosa che lui detestava alla follia. Cercò di quietarsi e di focalizzarsi sull'obiettivo.
« Voglio dire » sospirò e continuò con tono grave « che non mi sei mai stata indifferente e non lo sei tutt'ora. Non è stato solo un'inganno. Ovvero, il primo che ho voluto ingannare è me stesso. »
La vide traballare assorbendo il colpo. « Spiegati. Di più. » ordinò.
Collezionando i sospiri emessi oggi avrebbe potuto scatenare uno tsunami. « Non mi sono forzato a corteggiarti. L'ho voluto. »
Rin lo guardò a lungo, come a volerne saggiare la sincerità e gli intenti: « Ma non hai voluto assumerti le conseguenze. Non volevi metterti insieme ad un'umana, non volevi compiere l'errore di tuo padre. » completò infine lei, incapace di trattenere la propria empatia, un'arma dal doppio taglio affilato e impietoso.
« Ho sbagliato, Rin. » ammise senza esitazione: « E ti chiedo un'altra possibilità. »
Rin sbarrò gli occhi. Era chiaro che avesse scelto il momento sbagliato, il posto sbagliato, il tono sbagliato. Ma era stanco e sfibrato da questa guerra di posizione e doveva tentare, a modo suo.
« Cosa intendi dire...? »
Si alzò e le andò accanto, si alzò anche lei per non sentirsi sovrastata. Era appena più vicino del consentito e lei non indietreggiò. « Voglio dire che vorrei poterti corteggiare, se me lo concedi. »
« Cosa?!? » Rin era incredula, aprì la bocca e la richiuse, poi si voltò verso il mazzo di fiori scuotendo la testa e cominciò a ridere sommessamente. A ridere. Sesshomaru rimase interdetto per pochi istanti, poi l'irritazione si fece strada in lui a spallate.
« Perché ridi? » chiese, sforzandosi di mantenere un tono neutro.
« No, stai tranquillo » rispose lei, cercando di trattenersi e ricomporsi: « Non rido di te o di quello che mi hai chiesto. Rido per l'imbarazzo, credo, e perché sei così assurdo... » gli rivolse un mezzo sorriso quasi affettuoso: « così assurdo che mi sorprendi sempre. Forse è una delle cose che più mi piace di te, l'essere così anticonvenzionale e imprevedibile. »
« Vale anche il viceversa » si sentì di dover puntualizzare.
Lei rise ancora, più apertamente: « Come è possibile che ci parliamo due volte dopo mesi e dopo che ci ha divisi un fatto... drammatico, orribile, e tu ogni volta mi faccia una richieste importante e impegnativa? Ancora non ti ho risposto alla prima e già mi chiedi di... oh insomma. Non giova alla tua credibilità, signor Sesshomaru! » sentenziò infine, raccogliendo la borsa e piantando la mano sul fianco. Ma non era arrabbiata, un po' sorrideva ancora.
Non la degnò di risposta, piccola impertinente, le lanciò un'occhiata in tralice e si avviò alla cassa. Quando lei vide che i suoi lazzi erano andati a segno, sollevò il mazzo e gli si accostò, tentando inutilmente di pagare la sua parte.
Si avviarono in silenzio verso le fermate della metro.
« Non c'è tempo » rispose infine, destandola dai suoi pensieri: « Mi affretto perché non c'è tempo, sei umana e io ne ho perso già troppo. » Avrebbe avuto secoli per rimpiangerla, come suo padre. « Il tempo che vorrai concedermi è prezioso » concluse.
Lei si fermò e lo fronteggiò con sguardo incredulo. « Sul serio mi stai dicendo che hai fretta perché ti preoccupa il mio orologio biologico? Fammi capire, hai sempre corteggiato così con le tue precedenti mogli o fidanzate? »
La fissò inorridito. Quali mogli? Quali fidanzate? « Ma di che parli? »
« Di quelle che hai avuto prima » spiegò, già meno convinta: « Non... hai...? »
« No, Rin. Nessuna Compagna. »
« Davvero? Solo... relazioni occasionali? » lo spettro di quella notte orribile in cui l'aveva costretta a sentire la sua vendetta aleggiava nero e minaccioso. Bisognava correre ai ripari.
« Sì, Rin. Non mi ha mai interessato nessuna, in oltre cinque secoli di vita. » le disse, guardandola fissa negli occhi. Funzionò, lei arrossì e distolse lo sguardo. D'altronde era la pura verità.
« Comunque devi rivedere i tuoi metodi di approccio » la sentì borbottare con il muso fra i fiori.
Forse sì, forse no.

 

 

Quando raggiunsero la fermata, era in uno stato di confusione che non poteva definire altro che globale. Il risultato era che si sentiva allo stesso tempo leggera e satura.
Era ora di lasciarsi quel pomeriggio alle spalle, far sedimentare tutto, infarcirlo di voli pindarici e paturnie condivise con Ayame e provare a mettere ordine al caos di quella... relazione? Mah. Quella strana cosa che aleggiava tra loro. Tutto poteva dirsi, ora, tranne che fosse conclusa.
Si fermò presso le scale mobili, ad indicare che si sarebbero salutati lì.
« Beh, ecco... grazie per il pomeriggio. » Erano convenevoli standard, ma non avrebbe saputo come agire altrimenti: « E per i fiori, sono davvero stupendi. »
Lui annuì. Era strano con quei capelli corti, ma era molto, molto carino ugualmente. Eddai, Rin, ben più che carino. La luce della sera filtrava tra i capelli e gli rendeva gli occhi cangianti come quelli di una fiera notturna. Bello, intrigante, misterioso, imprevedibile: il perfetto bad-boy da rotocalco, altro che devoto corteggiatore. Doveva assolutamente distaccarsene e riflettere con calma.
« Allora ci vediamo in Università » concluse, arretrando di un passo.
Lui annuì ancora e quando già stava per andarsene la richiamò « Rin »
« Dimmi »
« In Università non dovresti più parlarmi. »
« Oh... » sentì una sgradevole fitta verso lo sterno, non capiva il perché di questa richiesta ma le stonava e la infastidiva. Non voleva essere visto con un'umana? Ma non le aveva appena chiesto...
« Non è prudente. Per te. » aggiunse lui.
Capì allora che doveva esserci una motivazione legata alla questione poilitica umani-demoni, ma non ebbe la forza né la voglia di indagare.
« Come vuoi » liquidò in fretta la faccenda e si volse con un cenno della mano libera: « Ciao, alla prossima! »
Il suo: « Ci sentiamo, Rin! » la raggiunse quando era già a metà scala.

 

 

***

 

 

« Ehi, guarda un po' chi arriva? » Ayame richiamò la sua attenzione e lei sollevò lo sguardo dallo schermo del cellulare. Nel corridoio, dalla direzione opposta, sopraggiungeva Sesshomaru affiancato da un luminare altezzoso di cui non ricordava il nome.
Alzò le spalle e finse di concentrarsi nuovamente sulla chat con sua mamma.
« Che ti prende? » sussurrò Ayame quando li ebbero superati: « Hai detto che non sai ancora se accettare le sue attenzioni, se fai così la tua risposta è ben poco fraintendibile » osservò l'amica: « Per carità, sai che sarei solo felice se si levasse di torno, ma mi sembrava che ieri la pensassi diversamente... »
« Mi ha detto che è meglio se non ci parliamo, all'Università » mugugnò Rin senza alzare la testa.
« Uh? Perché? »
« Non so. Mi ha detto “Non è prudente, per te”! » lo scimmiottò: « Ma non capisco e penso sia perché non vuole farsi vedere con un'umana. »
Ayame tacque qualche istante. « Può essere. Ma forse teme anche che tu possa essere infastidita da fanatici per il fatto che frequenti demoni. Anche io l'ho pensato» confessò a voce più bassa: « E poi ci sono i Cacciatori. »
« I Cacciatori? »
« Io... ne ho solo sentito parlare, non li ho mai visti davvero in azione, ma lui dice che ce ne sono tanti. »
« Lui chi? »
« Il tuo dannato Cane. » Ayame fece un cenno verso l'angolo dietro il quale aveva svoltato.
Una vibrazione avvertì Rin di un nuovo messaggio e lei lo scorse distrattamente mentre incrociava le braccia e chiedeva: « E tu quand'è che chiacchieri con- oh, è Lui!» fissò lo schermo incredula.
« Ti ha scritto? » sbirciò l'altra.
« Sì » osservò ancora l'unica parola presente: « Mi ha salutata. »
« Oooohhh, che romantico! » la canzonò l'altra.
« Smettila » la rimproverò, consapevole del rossore che le aveva tinto le guance. Rispose al messaggio di saluto e mise il telefono in tasca. « E comunque non mi hai risposto »
Ayame grugnì: « Mica ci chiacchiero. Me l'ha detto quella volta, sai, quando abbiamo avuto quella... discussione »
« Aaahhhhh la discussione in cui ti ha fatto a fettine » calcò lei, ghignando.
« Smettila tu, adesso. Comunque sembra siano davvero temibili. »
« Questi Cacciatori? Ma cosa sono, una specie di Forza Speciale? »
« Sì, credo una cosa del genere. Un gruppo paramilitare che si atteggia a difensore dei deboli contro le angherie dei demoni, apertamente disconosciuto dalle istituzioni ma in realtà tollerato. Nella pratica sono teppisti assassini, ben addestrati e ben armati, » tuonò irata per poi aggiungere sovrappensiero: « Un po' come gli antichi Sterminatori... »
« E potrebbero attaccare voi? O me? Ma qui, in un luogo pubblico? »
« Non so cosa dirti, ma... »
Più tardi si sarebbe data dell'idiota, perché sembrava se la fossero cercata. Ayame non aveva terminato la frase che due ragazzi massicci svoltarono nel corridoio dirigendosi dritti verso di loro. Gli anfibi scricchiolavano sul pavimento e l'incedere era minaccioso e calibrato.
« Ma tu guarda che fortuna... È un po' che ti punto » esordì il più basso dei due seguito e l'altro sogghignò. Canottiere aderenti e muscoli ben in vista, braccia distese lungo il corpo. Le movenze e gli sguardi non promettevano niente di buono.
Ayame le si parò davanti « Dici a me? » rispose, spavalda.
« E a chi, Lupa? Non certo al topolino alle tue spalle! »
« Non è un topolino, è un ratto di fogna. » intervenne l'altro « Quella gira anche con il Cane di medicina, il bastardo Intoccabile. » L'attenzione di entrambi si focalizzò su di lei e Rin sentì la paura paralizzarle le membra.
« Ah, ci sono anche i demoni Intoccabili? » sentì intervenire Ayame: « Ma è un ordine superiore o siete voi che ve la fate sotto? »
« Stronzetta, se avessimo potuto toccarlo, sarebbe già un tappeto in casa di mia nonna! Sai, quelli con le fauci belle spalancate! » mimò il gesto per terrorizzarle e con lei ci riuscì benissimo.
Con orrore sentì Ayame ridere apertamente. « Che idioti! » affermò: « Voi non sapete niente, ma qualcuno sopra di voi evidentemente ha un cervello!» Poi si incupì: « Vi farebbe fuori in pochi istanti. »
« Oh, grazie dell'avvertimento, bellezza! » la presero in giro sogghignando: « Siamo davvero intimoriti! »
Durante quel teatrino c'erano stati dei movimenti, lenti ma dall'evidente significato. Il più alto si era spostato lateralmente, aggirando Ayame e portandosi più vicino a lei. Quando se ne avvide, arretrò di istinto verso il muro. Anche Ayame se ne accorse e fece un passo indietro, torcendo il busto e protendendo un braccio verso di lei, ma proprio in quel momento i due, secondo uno schema evidentemente consolidato, attaccarono contemporaneamente. Ayame si trovò a dover contrastare l'iniziativa del più tarchiato e lei fu sguarnita di difese.
Tentò di opporre resistenza ma il ragazzo la afferrò per un braccio e la trascinò lontano dalla portata di Ayame. Si dimenò, ma ottenne come unico risultato un incremento della presa sul suo polso, provò a lanciarsi di lato per sfuggirgli ma fu tirata indietro con violenza e impattò contro il muro. Scivolò al suolo sulle ginocchia e di istinto si coprì la testa con le mani. Quella bestia le afferrò i capelli e la costrinse ad alzare la testa per incrociare il suo sguardo. Era furioso ed esaltato allo stesso tempo, uno sguardo da folle. Lei ansimava, aveva paura, da morire, una paura che non aveva mai provato. Cercò Ayame di sfuggita e la vide in piedi, per fortuna: contrattaccava con vigore ma non avrebbe potuto aiutarla. Un altro strattone la costrinse a riportare l'attenzione sul disgraziato che la fronteggiava.
« Ti faccio passare io la voglia di stare coi demoni » sputò fuori lui fra i denti: « Sai che fine facciamo fare alle puttane dei demoni? »
Singhiozzò un « Lasciami » e chiuse gli occhi davanti alla sua espressione di goduto scherno, ma li riaprì allarmata, poiché il suo assalitore aveva emesso un inspiegabile gemito strozzato.
« Era ora! » sentì esclamare da Ayame, la voce affaticata.
Il sollievo che provò nel vedere la figura imponente di Sesshomaru non era esprimibile a parole. Lui non la guardava, rivolgeva tutta la sua attenzione all'essere immondo davanti a lei. Con una mano stringeva il polso di quella che le bloccava i capelli, con l'altra aveva agganciato l'aggressore su collo, dietro la nuca e lo spinse a terra, impedendogli di rialzarsi.
Vide il volto dell'altro diventare cianotico prima che mollasse la presa sui suoi capelli e lei arrancò affannata lungo la parete, per allontanarsi il più possibile da quell'orrore. Sesshomaru rifilò una ginocchiata sotto la mandibola al suo avversario, che ricadde all'indietro e crollò a terra incosciente. Rin urlò e si coprì il volto con le mani, aveva sentito con chiarezza il rumore di ossa frantumate.
Il demone venne verso di lei, le si inginocchiò davanti e le sfiorò la testa. Indietreggiò di istinto, aveva male dappertutto. « Sei ferita » gli sentì dire con una voce profonda, spaventosa: « Ti porto via. »
Le infilò un braccio sotto le ginocchia e uno dietro la schiena, pronto a sollevarla. « N..No! » balbettò, ma lui non bloccò il movimento. « C'è Ayame, devi aiutarla! »
« Se la cava da sola » rispose lui mentre si avviava di corsa lungo il corridoio.
« Bastardo! » sentì rispondere l'amica da lontano, ma proprio quando si sporse oltre la sua spalla per vedere, Ayame sferrò un calcio in pieno petto al suo avversario e lo mandò a terra rantolante. L'amica ne approfittò per raccattare le loro borse e correr loro dietro.
« Filiamo » esclamò, superandoli e posizionandosi in avanscoperta, per controllare i corridoi ad ogni angolo.
Fu solo allora che si accorse del suono insistente che si propagava in tutti i corridoi. Un allarme.
« Destra » comandò Sesshomaru e Ayame spalancò una porta di servizio; si fiondarono dentro e percorsero il lungo corridoio poco illuminato.
« Sinistra, giù ». Questa volta Ayame frenò la corsa, spinse il maniglione antipanico e sporse la testa prima di aprire del tutto, controllò rapidamente le scale e diede il via libera: solo allora Sesshomaru attraversò la soglia e si lanciò sulle scale dietro la Lupa.
Aggrappata alle spalle del demone, aveva freddo, male alla testa e si sentiva un peso. « Lasciami qui, dico che sono caduta dalle scale » propose. Era un'umana incensurata, le avrebbero fatto al massimo qualche domanda .
Lui non la degnò di uno sguardo.
« Dico davvero, così pot...»
« Zitta »
« Ma... »
« Lascia stare, Rin, quello non ti molla » intervenne Ayame, che si era fermata davanti ad una porta con la scritta “Cucine”. « Qui? » chiese al demone.
« No, ma apri la porta e lasciala socchiusa» le rispose superandola. Scesero ancora due rampe, poi Sesshomaru si arrestò davanti ad una porta metallica. Ayame spinse sull'uscio ma era bloccato.
« È solo un saliscendi. Vediamo se i tuoi artigli servono a qualcosa, Lupa. » la provocò Sesshomaru e Ayame ringhiò in risposta. La sua capigliatura divenne di un rosso ancora più vivo e le unghie divennero spaventosamente lunghe e affilate. Si appoggiò con la spalla alla porta e spinse, per aprirla quanto più possibile, poi infilò gli artigli nella fessura.
« È più in alto » la avvertì lui.
Ayame grugnì una parolaccia e poi un'altra ancora quando si sentirono dei rumori e delle voci provenire dall'alto, ma in breve riuscì a sollevare la spranghetta metallica e a liberare la porta. Si trovarono in un corridoio sotterraneo illuminato solo da luci di emergenza.
« Richiudi » ordinò ancora Sesshomaru.
Ayame sbuffò ed eseguì, ma prima di far ruotare la spranghetta rimase in ascolto a porta socchiusa.
« Cosa dicono? » chiese lui.
« Han preso per le cucine, sei stato astuto, lo ammetto » disse l'amica, di certo a malincuore. Quando ella si voltò verso di loro aveva ancora i canini sporgenti e le unghie sfoderate e Rin non potè trattenere un piccolo sussulto. Sentì la presa di Sesshomaru su di lei accentuarsi.
« Come conosci questo posto? » chiese ancora Ayame.
« Sono previdente » le rispose oltrepassandola: « Muoviamoci. »
« Adesso puoi smetterla di darmi ordini » ribattè la sua tostissima amica.
Sesshomaru si voltò ed emise un ringhio profondo e gutturale. Sentì i capelli rizzarsi in testa e la pelle d'oca diffondersi per tutto il corpo mentre Ayame, d'istinto, portò il busto indietro e indietreggiò di mezzo passo. Nel silenzio più assoluto, il demone riprese a camminare.
Si muoveva con sicurezza per i corridoi e quando giunsero ad un atrio nel quale la luce del giorno filtrava da due grate sul soffitto, Rin si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.
Lo sentì chinare il volto verso il suo e sussurrarle: « Non avere paura. »
Sospirò ancora « Come posso? Non sono come voi, non so combattere! Se non fossi arrivato tu... »
La interruppe: « Non avere paura di me» spiegò.
Rin capì e tacque. Lui aveva percepito la sua paura durante il combattimento e poi prima, quando aveva ringhiato ad Ayame. Ma realizzò che era stata una risposta istintiva del suo corpo, di fronte alla violenza e alla prova di forza: non aveva paura di lui per sé stessa, per la sua incolumità, aveva paura come un animale che, a prescindere, riconosce la temibilità di un altro.
Intanto erano giunti in un secondo atrio, più grande e poco illuminato, ma da esso si dipartiva un corridoio il cui fondo pareva luminoso di luce esterna. Lui la depose delicatamente a terra.
Si rivolse ad Ayame senza nemmeno guardarla: « Dammi la giacca. »
Ayame eseguì in silenzio e lui la piegò in metà e la pose a terra, invitando Rin ad appoggiarvi la testa, lateralmente. Si inginocchiò accanto a lei e avvicinò le mani ai suoi capelli: « Posso guardare? »
« Che cosa? » chiese Rin, senza capire.
« Probabilmente sei ferita, c'è odore di sangue » spiegò Ayame.
« Davvero? » fece per sollevarsi e tastarsi la nuca ma una mano di Sesshomaru glielo impedì con delicata fermezza.
« Tranquilla » anche Ayame le si accostò e le sorrise: « Dev'essere solo una piccola ferita ». Le prese la mano e lei la strinse: non aveva più gli artigli. Intanto Sesshomaru le scostava i capelli con cura, quando giunse alla ciocca che era stata afferrata da quel... quello lì, Rin gemette e il suo tocco si fece ancora più leggero.
Arrivò in un'altra zona dolente, probabilmente quella della ferita. Vi si soffermò brevemente, il tempo per stabilire che non fosse grave, pensò Rin, poi si ritrasse con quella che avrebbe potuto essere una stentata carezza e lei sentì con chiarezza le sue mani fremere.
« Hai male da altre parti? » le chiese.
« No, tutto bene » mentì, perché non gliela stava raccontando giusta. Ayame così sottomessa e collaborativa e Sesshomaru così freddo e composto, lasciavano intendere che il demone fosse una bomba ad orologeria.
« Come è successo? » questa volta Sesshomaru formulò la domanda guardando Ayame fissa in volto.
« Sono venuti dalla stessa direzione da cui eri giunto tu con il professore. Pensa che stavamo giusto parlando di loro. »
« Quelli erano... Cacciatori? » si intromise Rin levandosi a sedere. Ayame fece il gesto di riportarla sdraiata ma lei fermò la sua mano con fastidio: « E basta, dai. Sto bene, non sono un vaso di cristallo. Voglio capire. »
« Sì, erano Cacciatori » le rispose Sesshomaru, poi tornò a guardare Ayame ad intendere che continuasse il racconto.
« Cercavano me, hanno detto che mi puntavano da un pezzo. »
« Debole, incauta e stupida » sentenziò il demone, bloccando con un gesto della testa la la replica di Ayame. « E come mai hanno aggredito anche lei? » chiese, indicandola
Ayame tentennò e lei venne in suo aiuto: « Mi hanno vista con te. Ti hanno chiamato l'“Intoccabile di Medicina” e a me » stentò a dirlo: « la “puttana dei demoni” »
Quasi non lo vide alzarsi, tanto era stato fulmineo: « Seguite quel corridoio e siete all'esterno, già fuori dal perimetro dell'Università. Non ci sono telecamere. C'è una cancellata ma dovreste riuscire a superarla. » Aveva parlato ad Ayame, non l'aveva guardata, ma non ci voleva molto a capire che fosse fuori di sé.
« Dove vai? » gli chiese, ma lui aveva già voltato loro le spalle. Fu presa dall'angoscia, perché la sua presenza la faceva sentire protetta e sicura, le mancava la forza di tornare all'esterno e inoltre aveva paura che commettesse qualche sciocchezza.
« Dove vai? Resta! » lo richiamò. Lui si fermò, fece due passi indietro e la fissò a lungo, come fosse incerto di quale fosse il suo posto, ma poi si risolse a riprendere la sua strada e sparì nel corridoio.
Le sfuggì un singhiozzo ed Ayame fu pronta ad abbracciarla: « Siamo al sicuro qui, non c'è pericolo. Ti riaccompagno io fino a casa » la rassicurò. « Lui deve andare. »
« È... arrabbiato? »
« È furioso, Rin. Tu non hai idea di quanto possa essere furibonda la sua ira e fa una fatica immane a contenere la sua aura demoniaca. »
« È suonato un allarme, prima » rammentò: « Sei stata tu? »
« No, io sono riuscita a controllarmi » affermò Ayame con orgoglio: « E ho battuto quel miserabile solo con le mie forze umane. È stato lui, quando ti ha scoperta ferita; è durato appena un attimo ma l'hanno rilevato. Va fuori di testa, quando si tratta di te, hai visto. »
« Ma bisogna fermarlo, allora! Si metterà in pericolo! »
Ayame la guardò fissa negli occhi e le carezzò il viso: « Non è in pericolo, puoi starne certa. »
Rin sospirò, affranta. « Andiamo a casa. »

 

 

« Non è in pericolo, puoi starne certa » aveva detto a Rin. Già, al massimo sarebbe dovuto emigrare in qualche isola sperduta del Pacifico, per disperdere la scia di sangue che si sarebbe lasciato alle spalle. Perché era certo che si sarebbe vendicato di quei disgraziati, non era certo quando si sarebbe saziato.
Fermarlo, lei? Manco per idea. Aveva visto il balenare del rosso nei suoi occhi quando Rin aveva detto “puttana dei demoni” e il tremolio della sua aura le aveva fatto rizzare il pelo. Quando prima l'aveva richiamata all'ordine aveva provato un terrore che nemmeno suo padre le aveva mai suscitato, nemmeno la coppia alfa del suo Branco, quando era cucciola. Mancava solo che si rotolasse sulla schiena, Dèi che vergogna.
Scavalcarono il cancello con qualche intoppo, ma Rin era un fuscello e non ebbe difficoltà a sostenerla nei passaggi più complicati. Non aveva più parlato e lei rispettò il suo silenzio.
D'altra parte, anche lei aveva parecchie cose su cui riflettere. Era stata davvero incauta a sottovalutare il pericolo Cacciatori, lui l'aveva avvisata e anche gli atteggiamenti protettivi di Koga avrebbero dovuto insospettirla. Invece aveva affrontato la sua conquistata libertà dalle leggi del Branco con troppa spavalderia e, se non fosse arrivato lui, Rin ne avrebbe pagato ancor più le conseguenze. Forse era il caso che rivalutasse la necessità di rapporto con il Branco. Non si sarebbe sottomessa a leggi arcaiche ma era evidente che quella che si prospettava non fosse una battaglia da affrontare da sola.
Ormai erano giunte sotto casa di Rin. Si abbracciarono. « Hai bisogno di aiuto per la medicazione? » le chiese.
« No, tranquilla, faccio da sola. »
« Allora ci sentiamo più tardi, ok? »
« Va bene. Senti... » la vide incerta per un momento: « se hai notizie di lui, me le fai sapere? »
« Io? Certo » mentì. Lei al massimo avrebbe saputo quanti morti si sarebbe lasciato alle spalle nella notte, non era proprio il caso che la informasse. « Ma puoi chiederglielo anche tu, no? Più tardi, quando avrà sbollito. »
« Magari è arrabbiato con me » confessò l'amica.
« Assolutamente no. Mi fa male dirlo, ma stravede per te. »
« Oh... »
Le fece l'occhiolino e scappò via di corsa. Anche lei era ansiosa di tornare nella sicurezza della propria casa, era già stata una giornata abbastanza avventurosa. Era stata costretta anche a rivalutare Sesshomaru, e questo la infastidiva non poco. Era forte, abile, intelligente, strategico. E, non l'avrebbe mai detto se non ne avesse avuto prova schiacciante, era pazzo di Rin. Un sentimento incredibile per uno yokai di tale lignaggio, ma assolutamente autentico. Non era convinta che ne sarebbe venuto fuori qualcosa di buono, per Rin s'intende, ma non poteva più sospettare delle intenzioni di lui.
Quando arrivò in vista di casa sua si bloccò a distanza: c'era qualcuno ad aspettarla. Ci mise poco a riconoscerlo e riprese la sua marcia a passo sostenuto.
« Cosa vuoi? » lo aggredì quando fu a portata di voce.
« Ho saputo dello scontro » rispose Koga.
« Chi ti manda? » si fermò a fronteggiarlo, mantenendo due metri di distanza.
« Nessuno » replicò lui, poi distolse lo sguardo: « Volevo vedere come stavi. »
Rimase interdetta per un istante. « Sto bene. »
« E Rin? »
« Anche lei, l'ho appena accompagnata a casa. »
« Come siete uscite dall'Università? È tutto blindato. »
« È stato l'Inu-Yokai. È venuto in soccorso di Rin... » vide Koga aggrottare le sopracciglia: « e conosce i sotterranei. Siamo sbucati in un'ala non più utilizzata, a ovest. »
« E lui dov'è, ora? »
« A fare una strage, immagino » sogghignò. Gli raccontò di come lui avesse reagito alla vista di Rin ferita e della sua aura carica di rabbia quando se n'era andato.
« Le è così legato? »
« Non sai quanto » replicò e, onestamente, provò una bella dosa di invidia.
« Eppure l'ha fatta soffrire. »
Sollevarono lo sguardo l'uno verso l'altra. « Capita » rispose e si avviò verso il cancelletto d'entrata.
« Mi manchi, Ayame » lo sentì dire quando era ormai alla porta. Ecco, le mancava proprio la bordata finale, quest'oggi.

 

 

Uscirono presto dalla Casa-base, dopo aver fatto rapporto. Non vedeva l'ora di tornare a casa, era a pezzi, fisicamente prima di tutto. E a lui era ancora andata bene, il suo compare faticava ancora a camminare diritto, probabilmente aveva un trauma cranico. Domani gli avrebbero mandato un medico di fiducia.
Il Cacciatore non sentì niente, percepì appena il singulto del suo compagno e quando si girò verso di lui non distinse altro che un ammasso di carne e sangue. Intravide un balenìo di artigli e due occhi rossi come il fuoco e poi, solo un dolore straziante.

 

 

 

***

 

 

 

Ayame l'aveva tempestata di attenzioni, dopo l'aggressione. Chiamate, messaggi, inviti.
Rin aveva risposto con piacere ai primi e ai secondi, nicchiato sui terzi. Uscire le dava ancora qualche apprensione, il ricordo della paura provata era ancora vivido e le inibiva ogni iniziativa.
Sapeva inoltre di camminare su un cornicione, che presto sarebbe finito e avrebbe dovuto saltare, o di qua o di là. Doveva prendere una decisione, sul suo rapporto con i demoni, sul suo rapporto con Sesshomaru. Essere stata chiamata “la puttana dei demoni” era una cosa cui non riusciva a passare sopra: erano i suoi amici, erano le persone con cui aveva condiviso tanto, era la sua vita, le sue scelte. Possibile che qualcuno fosse così ostile ai demoni da volerla punire per una cosa che in fondo riguardava solo lei stessa? Frequentando dei demoni non aveva fatto male a nessuno – tranne appunto a lei stessa, considerando Sesshomaru.
Lui poi era un chiodo fisso. Le mandava un messaggio tutti i giorni e il giorno precedente avrebbe giurato di averlo intravisto per strada, celato dietro un cartellone pubblicitario. La seguiva? Voleva accertarsi che stesse bene? Prese un cambio dal cassetto e si avviò verso il bagno. Beh, poteva farsi avanti, non l'avrebbe mica scacciato. Tutto questo macchinare alle sue spalle la infastidiva ben di più.
L'aveva detto ad Ayame e lei le aveva dato una spiegazione plausibile, che tuttavia non la liberava del fastidio, anzi.
« Penso non voglia metterti ulteriormente in pericolo facendosi vedere con te » le aveva detto l'amica: « E forse ha anche paura che tu sia arrabbiata perché ti ha lasciato sola, là sotto. »
« Mica ero sola. E poi stavo bene » aveva ribattuto.
Ayame aveva sospirato: « Valli a capire, i maschi. »
Anche lei aveva i suoi bei grattacapi. Non aveva ben capito come, ma questa vicenda l'aveva riavvicinata a Koga, o meglio, lei gli stava “permettendo di frequentarla”, così diceva Ayame, suscitando la sua ilarità.
Era appena uscita dalla doccia quando sentì il telefono squillare.
Si avviò verso la sua camera svolazzando nel temibile accappatoio azzurro – no, non l'aveva ancora cambiato – ed ebbe un fremito nell'accettare la chiamata, era Sesshomaru.
« Ciao Sesshomaru. »
« Ciao Rin » pausa di riflessione: « Stai bene? »
« Benissimo » rispose, confermando con uno starnuto.
« Non sembra... » le parve di vederlo, il suo sorrisetto ironico.
« Sono solo appena uscita dalla doccia. »
« Ti chiamo dopo, se vuoi. »
« No, tranquilla mammina, mi metto una coperta »
« Come vuoi » concesse beffardo, ma poi assunse un tono grave: « Senti, quello che sto per dirti non ti piacerà... »
Sai la novità, pensò lei. « Continua » lo invitò.
« Sono... non è sicuro il posto in cui vivi. »
« Mmh? »
« Non sono tranquillo » riprese: « dovresti trasferirti »
Rin raccolse tutta la sua pazienza, anche i pezzetti più piccoli: « Sei preoccupato per me, Sesshomaru? »
« ... »
« Mi hai seguito in questi giorni, vero? Ti ho intravisto. »
« Ti dispiace, lo so. »
« Altroché se mi dispiace, mi infastidisce parecchio! E devi smetterla! »
« Dovevo farlo. »
« Ma perché, Sesshomaru? »
« Non voglio che ti succeda qualcosa. » sputò finalmente.
« Mi sono successi già parecchi “qualcosa” da quando ti conosco! Questo non è proteggermi, è una persecuzione! » gli urlò.
Sesshomaru tacque e Rin capì di aver colpito duro.
« Scusa, non volevo accusarti » provò a rimediare: « Sono molto confusa anche io. »
Dall'altra parte permaneva il silenzio, così continuò, provò ad assecondarlo: « Dimmi, dove pensi che sarei più al sicuro? »
« Forse con i Lupi, oppure... » lo sentì prendere fiato: « L'alloggio dove abitavi è rimasto vuoto da allora, » a Rin si bloccò la salivazione, « l'ho rimesso a posto e... »
« Basta » lo bloccò: « Basta così, Sesshomaru. »
« Pensaci invece » replicò lui, ma il tono non era sicuro come al solito.
« Devo andare, ci sentiamo » inventò e chiuse la telefonata senza dargli il tempo di replicare. Lui non richiamò.
Uscì dalla camera sbattendo la porta e tornò verso il bagno mentre Kohaku apparve sulla soglia della sua camera.
« Ehi, Rin, tutto a posto? »
« Poco, a dire il vero, ma pazienza » rispose, asciugandosi una lacrima ribelle.
« Senti, » cominciò incerto e continuò tutto d'un fiato: « è più di una settimana che fai vita da reclusa. Perché non esci con noi stasera? Andiamo all'inaugurazione di un locale nuovo, ci sarà da bere, da mangiare e buona musica. Ti distrai un po' e siamo in gruppo » abbassò la voce, imbarazzato: « Sto attento io a te. »
Eccone un altro. Perlomeno lui era stato gentile, la sua offerta sapeva di premura, non di prevaricazione. E poi sì, decisamente aveva bisogno di uscire.
« Va bene, Kohaku. Grazie » rispose e vide il volto del ragazzo illuminarsi.
« Partiamo verso le dieci, va bene? »
« Sì » gli urlò dal bagno.

 

C'era qualcosa di terribilmente sbagliato in quel che stava facendo, ma forse era per l'alcol, o forse per un assurdo senso di rivalsa, o solo perché non aveva idea di come gestire la situazione, fatto sta che lasciò che Kohaku la baciasse ancora, con più passione.
Aveva iniziato lei, in macchina. Stavano per scendere davanti a casa e lei gli aveva afferrato il volto. Voleva solo dimenticare, o al contrario ricordare cosa si provasse. O dimostrare a sé stessa e a tutti i dannati demoni che lei era padrona della sua vita e delle sue scelte, che se voleva divertirsi e flirtare con qualcuno era libera di farlo, come tutti gli altri, come Ayame, come Sesshomaru che si era fatto quell'altra di fianco a lei.
Kohaku era rimasto interdetto per un tempo brevissimo e poi aveva ricambiato, confermando i suoi sospetti: era davvero infatuato di lei. O forse era ubriaco anche lui, o entrambe le cose.
Si erano staccati ridendo e si erano diretti alla porta barcollando come idioti.
Lì lui l'aveva bloccata contro lo stipite e stavolta aveva preso l'iniziativa, cingendole con un braccio la vita e con l'altro sostenendole la testa. Era stato dolce, dapprima, poi era subentrata la passione. Per lui, per lei invece erano arrivati il turbamento, la nausea, la voglia di essere da tutt'altra parte. E il senso di colpa, il pensiero che per Kohaku significasse qualcosa di bello mentre per lei significava solo che era perduta.
Le mani di Kohaku cercarono la sua pelle al di sopra della cintola, percorsero lente e affamate il bordo dei pantaloni e si addentrarono leggere sulla schiena, ma fu solo quando si rese conto che stava immaginando altre labbra, altri capelli e altre mani che trovò il coraggio di staccarsi. Il senso di nausea si acuì, provò ribrezzo per sé stessa, per quello che cercava di negare, per quello che non riusciva a dimenticare. Negli occhi lucidi per l'alcool di Kohaku lesse stupore e preoccupazione e fu per il vigliacco bisogno di non spiegare nulla che lo scostò da sé e fuggì di corsa.
Sentì che la chiamava, che la inseguiva per un pezzo, sentì la sua stessa voce gridare « Lasciami stare! Lasciatemi stare, tutti! » e i passi che scomparivano dietro di sé. Corse a lungo e senza meta, svoltò a caso cercando il buio, poi sopravvenne l'affanno ed infine la nausea. Rallentò e si diresse verso una macchia scura: piante, lampioni, un parco. Liberò lo stomaco all'albero più vicino, con le mani aggrappate alla corteccia. Schifo, provava schifo e vergogna.
Quando riuscì a sollevare lo sguardo vide una fontana e pensò che se non avesse avuto una bocca immonda avrebbe elevato una preghiera di ringraziamento. Si sciacquò le bocca, la faccia, le mani, finché il freddo non le risvegliò i sensi.
Prese a girovagare per il parco, priva di pensieri poiché aveva cura di scacciarli tutti. Si sedette su una panchina, albeggiava. Riconobbe il parco e non si capacitò di aver corso così tanto. In ogni caso, non aveva nessuna intenzione di tornare a casa.
Tirò fuori il cellulare e la foto di screensaver la fece precipitare a terra. Lei e Ayame, belle e sorridenti, in una foto di un anno fa. La sua àncora di salvezza solida e rossa, quella a cui, in definitiva, si sarebbe aggrappata anche oggi. Con gli occhi offuscati dalle lacrime richiamò l'ultimo numero, perché tanto era con lei la sua telefonata serale di rito.
Rispose dopo pochi squilli, forse era già nel dormiveglia.
« Ayame, sono io, sono disperata. Posso venire da te? »
Le rispose un grugnito.
« Lo so che ti ho svegliata e mi stai maledicendo in tutte le lingue demoniache ma davvero non so che fare, sono a pezzi! Ho voluto provare, ho voluto uscire, divertirmi, rilassarmi come fanno tutti, ho bevuto, l'ho baciato, mi ha baciata! Kohaku capisci? » era un fiume in piena, dall'altra parte l'amica non riusciva nemmeno a parlare: « Ma io non volevo lui Aya, io pensavo a Sesshomaru! Penso a lui, sempre, penso che mi ha fatto soffrire infinitamente ma mi è entrato dentro, capisci? E non riesco ad estirparlo, vorrei ma non riesco! » balbettò.
« Rin » la interruppe una voce dall'altra parte.
Dèi, no.
Questo no.
« Non sono Ayame. »
Staccò il telefono dall'orecchio e guardò lo schermo senza respirare. “Sesshomaru” era scritto.
No, questo no.
Come era potuto-? Dannazione, l'ultima telefonata era stata con lui, quella sera.
Le lacrime strabordarono e si sciolse in singhiozzi.
« Dimmi dove sei » sentì dire, ma non riuscì a rispondere.
« Rin per favore » incalzò lui: « Dimmi dove sei ». Aveva una voce calma, pareva una carezza sulla testa, pareva di potercisi abbandonare. « Non ti chiederò niente e ti porterò da Ayame, lo prometto. »
Il fato si stava prendendo gioco di lei, ma lei non aveva più forza per giocare. Si asciugò lacrime e naso come potè, gli disse il nome del parco, chiuse la telefonata e si sdraiò sulla panchina, esausta.
Provò a chiudere gli occhi ma girava tutto vorticosamente e si costrinse a tenerli aperti.
Sesshomaru arrivò dopo pochi minuti e Rin rinunciò a chiedergli come fosse stato possibile. Come promesso lui non disse niente, le porse la mano per aiutarla ad alzarsi, le mise un capotto pesante sulle spalle e con il palmo dietro la schiena la invitò a camminare.
Fu lei a rompere il silenzio, come di consueto: « Ma sei venuto a piedi? »
« Sì, era il modo più veloce. »
« Scherzi? Ci vorrà mezz'ora da casa tua a qua. » Le venne un sospetto: « O eri già in zona? Per caso mi seguivi ancora? »
« No, Rin. Ero a casa » sospirò. « Mi posso spostare velocemente. »
Ancora una volta rinunciò a chiedergli spiegazioni. Camminarono in silenzio e lei lo spiò da dietro il bavero alzato. La luce dell'aurora lo rendeva un personaggio spettrale, irreale, ma manteneva un fascino inaudito.
« Siamo quasi arrivati. Ce la fai? »
« Certo. Come te lo devo dire. Non sono così debole, fragile, inetta come credi. »
« Non penso questo di te. »
« Non voglio sapere cosa pensi di me » esplose come uno di quei giochini a carica: « Voglio sapere cosa ho fatto per meritarmi così tanta sofferenza! »
Si fermò a fronteggiarlo: « Voglio sapere perché tu sia riuscito a portarti a letto una qualunque a un metro da me e io non riesca nemmeno a baciare un amico che mi viene dietro da anni senza sentirmi schifosamente in colpa! Voglio sapere perché non riesco a liberarmi di te, cosa abbia la mia testa che non va! »
« La tua testa non ha niente che non va, Rin! » ribattè lui, alzando la voce, gli occhi fiammeggianti. « Tu continui a pensare di non essere abbastanza, te ne convinci e vorresti che te lo dicessi ancora. Ma non te lo dirò mai più, poiché non era vero allora e tantomeno lo è adesso: tu sei la cosa più bella che ho incontrato. Sono io che non l'ho capito in tempo! »
Rin tacque. Non ebbe cuore di rispondere nulla, il tormento di Sesshomaru era palpabile, autentico, come lo era il suo. Si cercavano, si desideravano ancora, nonostante il fallimento del passato. Non sapeva dire se fosse un bene e se da tutto questo sarebbe potuto nascere qualcosa di buono, ma non c'era più motivo di negare l'evidenza.
Avevano ripreso a camminare. Gli si accostò e gli prese la mano. Lui la accolse nella sua, grande e liscia. Le parve un gesto così naturale che si stupì che non fosse mai avvenuto prima.
Giunsero sotto casa di Ayame che l'aurora era ormai alba.
« Cosa vuoi da me? » si decise a chiedergli.
« Vorrei che tu tornassi ad essere la ragazza solare e felice che ho conosciuto. »
Sbuffò. « Non credo sia possibile. Tu pensi che potrei esserlo con te? »
« O senza. Io non lo so. »
« Non lo so nemmeno io » ammise, liberando la mano dalla sua.
Giocherellò con il lembo della maglia, poi si decise ad aprire il cancelletto della palazzina dell'amica.
« Lasciami spazio. Non mi cercare. Non mi seguire, non mi telefonare, non mandarmi messaggi. Puoi farlo? » gli chiese.
« Posso. »
« Prometti? »
« Sì » lo sentì affermare a fatica.
Fece qualche passo e poi lo richiamò con voce rotta: « Mi aspetterai? »
« Sempre. »

 

 

***

 

 

Erano trascorse due settimane esatte da quella sera e lei, dopo aver riempito la testa ad Ayame fino a farla sbottare esasperata, aveva preso la sua decisione. Palpitante, con le mani sudate, suonò il campanello.
« Sì? »
« Buongiorno,» imbastì una voce professionale « ho saputo che lei è il proprietario di un alloggio vuoto, volevo chiederle se fosse possibile vederlo. »
« Non è in affitto » lo sentì rispondere.
« Questo non è per niente carino da parte sua, signor Sesshomaru » cinguettò: « Solo due settimane fa me lo offrì spontaneamente ed ora già ritratta? »
« Rin...?! » lo sentì sussurrare.
Il portone venne aperto immediatamente e Rin si trovò a salire di nuovo quelle scale, depositarie di tanti ricordi. Non fece in tempo a completare la prima rampa che se lo trovò dinnanzi, in t-shirt e pantaloni della tuta, senza scarpe.
Non riuscì a trattenere un sorriso « Diamine, le sembra il modo di presentarsi ad un possibile inquilino? »
Lui la osservò come si guarda un fantasma, lasciò che si avvicinasse e quando furono sullo stesso gradino le si accostò e le avvicinò una mano al viso. Si fermò, come temendo di compiere un gesto sbagliato e si accontentò di sfiorarle una ciocca di capelli.
« Sono vera, eh. »
Annuì e salirono insieme.
« Vado a prendere le chiavi » affermò lui una volta giunti al pianerottolo.
Rin rimase ad osservare la porta del suo vecchio appartamento, cercando di non pensare a quali sensazioni le avrebbe suscitato varcare nuovamente quella soglia.
Ma non era per nulla preparata a quello che successe sul serio, ovvero alla totale meraviglia. Quella che la accolse era una casa diversa. Lo capì dalla cucina, tinteggiata di fresco con un delicato giallo, allo stesso tempo tenue e caldo. Il mobilio più danneggiato era stato sostituito seguendo lo stile che avrebbe adottato in casa propria – se mai avesse avuto abbastanza soldi – gli accessori, le tende, i cuscini delle sedie, tutto era nuovo e perfettamente di suo gusto.
Si spostò nel corridoio, ammirata. « Ma, Sesshomaru... » iniziò senza terminare.
Il bagno era stato ampliato e rifatto completamente, dai sanitari alle piastrelle. Su tutto spiccava un box doccia che per dimensioni e ampiezza della pulsantiera, pareva una navicella spaziale.
Presa dalla frenesia si fiondò in camera da letto e lì rimase folgorata.
Era stata anch'essa ritinteggiata di una delicata sfumatura arancio ma l'elemento di sorpresa era il tripudio di fiori dai colori tenui e variopinti che pareva sorgere da ogni anfratto. Da sotto il letto, dagli stipiti della porta, dagli angoli del soffitto, da dietro l'armadio...
L'armadio. Era stato spostato ed ora era visibile un'altra porta, che ad altro non poteva condurre che al suo appartamento.
Sesshomaru intercettò la direzione del suo sguardo e le porse una chiave sul palmo: « Ne ho una sola copia, l'altra la conserva mia madre. Se vorrai stare qui, questa la tieni tu. »
La prese e la strinse nel pugno.
« Sesshomaru. Ma come hai fatto? È... è semplicemente perfetta, è la casa fatta apposta per me! »
« Sì » confermò lui.
« Sì, davvero? » lo guardò incredula: « L'hai fatta per me? »
« Certo Rin, per nessun altro. »
Distolse lo sguardo da lui perché era davvero commossa.
« Io ci vengo sul serio, se mi vuoi ancora » sussurrò infine.
Non ottenne risposta e si voltò a guardarlo.
« Lo sai, Rin » le disse.
« Sì, lo so » ammise e non resistette oltre: gli si fiondò fra le braccia, prima che se ne potesse accorgere, prima che gli venisse anche solo l'idea di opporre resistenza. Ma non sembrò proprio che volesse opporsi, anzi, le circondò le spalle e la tenne stretta.

 

 

Tre giorni dopo varcò la soglia piena di pacchi, per l'ennesima volta.
« E che sia l'ultima » aveva sbuffato Ayame ad ogni singola chiusura di scatola. Ora si aggirava nelle stanze emettendo fischi di soddisfazione.
« Diamine Rin! Dannato cane, ti ha proprio costruito la tana! »
« Che scema che sei » ribattè, ma aveva ragione.
Sesshomaru, Koga e Kohaku si affannavano con i restanti pacchi, guardandosi in cagnesco, lupesco ed umanesco.
« Sei riuscita a chiarirti con Kohaku? » le sussurrò Ayame.
« Sì. In fondo aveva già capito tutto e ben prima di me » dovette ammettere.
« Come lui ciascuno, cara » la canzonò Ayame.
Quando ebbero finito, l'amica fu l'ultima ad andarsene. Si abbracciarono forte, poi Ayame si rivolse a Sessomaru, che stazionava a debita distanza, vicino alla propria porta d'ingresso.
Si guardarono duramente e pur senza parole Rin non faticò ad immaginare quali orrende minacce stesse esprimendo l'amica e con quale altrettanta determinazione lui le stesse respingendo.
« Buoni cucciolotti, su, su » finse di ammansirli per stemperare la tensione, guadagnandosi ben due ringhi di stizza.


Lui le aveva chiesto se avesse bisogno e al suo diniego l'aveva lasciata sola. Segno di grande rispetto, che ora, come prevedibile, cominciava a dispiacerle. Sì, insomma, era un peccato essere così vicini e rimanere soli. Ma non sapeva come cambiare la situazione senza risultare invadente o troppo accondiscendente.
La stanchezza decise per lei: appena si mise orizzontale, piombò in un sonno profondo.
Fu svegliata dal secco craaak di un tuono e si accorse che era in corso un nubifragio da manuale. Rotolò di lato il tanto che bastava per infilarsi sotto la coperta e tirarsela fin sopra i capelli, ma tuoni e lampi imperversavano in un susseguirsi continuo e non riusciva a trovare pace.
D'improvviso, un boato più forte degli altri la fece saltare fuori dal letto e si ritrovò a bussare frenetica alla porta di divisione fra il suo alloggio e quello di Sesshomaru.
« Rin, cosa c'è? » sentì chiedere dall'altra parte.
« Ho... » deglutì saliva e orgoglio: « Ho una paura matta, Sesshomaru. Puoi... puoi aprire per favore? »
« Hai tu le chiavi Rin » le ricordò.
« Oh, già, accidenti... » dove diamine le aveva messe?
Sesshomaru dovette capire il problema: « Aspetta, passo da fuori. »
Si precipitò alla porta di ingresso e lo attese rannicchiata contro lo stipite.
« Gra... grazie » balbettò quando entrò.
« Stai tremando » osservò lui: « Siediti, vado a prenderti una coperta. »
Rin si accucciò sul divano e lui tornò con due trapunte invernali che le sistemò addosso.
Sobbalzò ad un nuovo tuono e lui le chiese: « Vuoi che mi sieda con te? »
« Diamine, sì! » gli rispose brusca, mica l'aveva chiamato perché piantonasse il divano!
Quando si sedette Rin non ci pensò due volte a ridurre la distanza fra loro, gli si adagiò addosso e lui fu costretto a spalancare le braccia per accoglierla.
Nonostante tutto, il temporale non dava segno di passare e la paura rimaneva, dunque si rizzò e lo guardò, sbuffando un muto rimprovero.
« Non riesci proprio a tranquillizzarti? Guarda che non ti può succedere niente » la redarguì.
« No, niente da fare. Tu piuttosto » lo guardò con aria di sfida « dovresti provare a distrarmi. »
« A distrarti? » le chiese, ma dall'espressione che si stava formando sul suo volto seppe per certo che sapeva già dove si sarebbe andati a parare.
« Ma sì. L'escamotage classico che voi uomini utilizzate in tutti i film hollywoodiani. »
« Quello che ha la duplice funzione di distrarre e zittire? » chiese sornione, stringendola e avvicinandola a sé.
« Mmh, probabile. »
Fu lei ad accostarsi ancora, ma colmarono la distanza contemporaneamente e le labbra cozzarono scomposte. Un bacio dapprima titubante che presto divenne urgente e ad ogni nuovo tuono lei si fece più vicina. Aderì al suo petto e venne circondata dalle sue braccia, che le carezzarono la schiena e si infilarono fra i suoi capelli. Sentiva, dal tremito dei suoi muscoli, che Sesshomaru si stava trattenendo e fu lei a sfiorargli per prima le labbra con la lingua. Dovette ripetere la provocazione due volte prima che lui rispondesse, ma la mano con cui le bloccò la nuca mentre affondava finalmente la lingua dentro di lei non dava adito a dubbi su quanto l'avesse desiderato. Non si fece pregare questa volta, non si discostò, anzi, lo inseguì quando le sembrò che lui volesse smettere, provò anche lei a penetrare con la lingua la barriera delle sue labbra e venne accolta con un gemito roco che la colmò di orgoglio.
Si baciarono così a lungo che quando si staccarono il temporale si era tramutato in una pioggerella sottile.
Con il respiro corto, si lasciò scivolare giù fino ad appoggiare la testa sulle sue gambe.
Sesshomaru le accarezzava i capelli e la guardava con... devozione? Si sentì confusa ma nemmeno per un momento dubitò di aver fatto la cosa giusta.
Gli mise una mano sul petto ed espirò tutto d'un fiato: « Dunque, accetto il tuo corteggiamento, Sesshomaru. »
Lui continuò ad accarezzarla e sorrise, beffardo: « Non vorrei sembrar pignolo, ma mi pare che sia una fase già superata. »
Non aveva torto.
« Sì, giusto » convenne: « Allora diciamo che sei in prova »
« Come? » il demone aggrottò le sopracciglia, questa non se l'aspettava.
« Hai capito bene, ti tengo in prova per un mese. »
« Ah. E se non supero la prova? »
« L'armadio ritorna davanti alla porta » rispose prontamente. « Ma l'appartamento lo conservo, sia chiaro, c'è un contratto regolare.»
« Bene allora, piccola approfittatrice » le disse catturandole il mento che teneva altezzosamente rialzato « vedi solo di non consumarmi troppo. »
Rin si guardò bene dall'accordarglielo. Al contrario, si aggrappò a suo collo e lo tirò verso di sé.
Il mattino li trovò avvinghiati, le labbra separate di appena un soffio.

 

 

 

Non c'era nulla che valesse quanto il suo sorriso, la sua risata che rimbombava per le scale, i piccoli fiori che tornarono a popolare tavoli, divani e pavimenti.
Forse solo la faccia di sua madre quando una domenica si presentò al pranzo consueto con Rin e perfino suo padre rischiò di strozzarsi con lo champagne.
Ma questa è un'altra storia, e non c'è tempo da sprecare a raccontarla.

Souviens-toi de vivre, Sesshomaru.

 

 

 

 

Quando si chiude una porta, si può aprire di nuovo,
perché di solito è così che funzionano le porte.

Albert Einstein

 

 

 

 

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(*) Mutatis mutandis è una locuzione latina che si traduce con 'Una volta che siano cambiate le cose che dovevano cambiare' e non 'Una volta cambiate le mutande', come disse qualcuno.
Che poi, se bastasse cambiarsi le mutande per accaparrarsi Sesshomaru, cosa non saremmo disposte ad indossare, pure le paperelle.
Il 'film di animazione americano' cui mi riferisco ad inizio capitolo è “Inside Out”. Immaginarmi amene scenette nei miei centri di controllo risale ad “Essere John Malkovic” e questo cartoon mi ha dato il colpo di grazia.
Dal tenore di queste tre frasi non faticherete a credere che tutto il mio spirito sentimental-romantico sia stato completamente risucchiato dalla storia, pertanto vi saluterò con convenevoli di base.
Vi ringrazio per la costanza e la pazienza, 5 capitoli in due anni è una vergogna. Ma è andata così. Una fatica immensa per ricacciarli uno nelle braccia dell'altra.
Se Sesshomaru vi pare un po' OOC perché troppo verboso, è perché ho considerato che in cinque secoli qualche abilità-base di conversazione avesse potuto acquisirla.
Se Ayame vi sembra strafigah è perché lo è.
Se il tutto vi pare un po' incoerente è perché nel tempo pensieri e prospettive si modificano. Spero solo di non avervi delus*.
Vi abbraccio tanto e vi rimando all'epilogo a rating rosso che concluderà la vicenda “come si deve”.
A presto. E Souviens-toi de vivre, ricordati di vivere.
elerim
Ps: se volete passare a far due chiacchiere, ho una pagina su fb, a nome 'Elerim' (guarda un po') .

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