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di Nescio17
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Arsura ***
Capitolo 2: *** Steyr-Mannlicher M1895 ***
Capitolo 3: *** Partenza ***
Capitolo 4: *** Bollettino di guerra ***



Capitolo 1
*** Arsura ***


 16 luglio 1929

L’arsura estiva bruciava i campi con il grano alto fino alla vita: le spighe di piegavano sotto il vento rovente che soffiava silenzioso, aprendo strade infinite verso il fiume che scorreva placido, lento come se fosse prossimo a fermarsi e a cambiare direzione. L’umidità raggiungeva livelli mai sentiti e gli abiti sembravano appiccicarsi alla pelle come sudari, al tatto bagnato come se fossero stati immersi nell’acqua calda. Moira riposava silenziosa sotto la grande roverella che quest’anno aveva dato degli di sé: i lungi rami si inerpicavano alti, quasi a voler toccare il cielo lattiginoso e le grandi fogli davano riparo dalla luce accecante, regalando un po’ di ombra. Una spiga dondolava silenziosa fra i suoi denti, come se stringesse le sigarette che suo padre tanto amava e aspirava sentendo un leggero sapore di terra e di linfa. Gli occhi erano socchiusi, riparati dalla grande falda del cappello e i piedi incrociati che si muovevano in maniera impercettibile al suono di quella sinfonia estiva che le rimbombava nelle orecchie. I suoi capelli, più scuri di quel grano dorato, erano intrecciati ordinatamente dietro la nuca e il vestito morbido le cadeva leggero poco sotto le ginocchia sempre sbucciate e rovinate, tipiche di una bambina mai pronta a fermarsi. 

 

Quell’anno, nel mese di settembre, avrebbe iniziato le scuole medie, anche se il suo intento era ben diverso: si era sempre definita una ragazza curiosa, che amava la lettura, ma forse la scuola non sarebbe mai stata la sua strada. Lei voleva viaggiare per tutto il mondo, scoprire tutto quello che poteva scoprire e incontrare tante persone diverse per non essere più la bambina timida che tutti prendevano un po’ in giro. Chiudersi fra quelle quattro mura non la spaventava, ma il mondo era più interessante: suo padre glielo descriveva sempre insieme alla madre durante la cena, insieme ai suoi due fratelli. Tutte e due avevano viaggiato per il mondo e poi avevano deciso di tornare a casa e mettere su famiglia, rimanendo sempre in contatto con tutti coloro che avevano conosciuto durante le loro avventure. Moira sognava questo: una vita da avventuriera e poi, se ci fosse stata l’occasione, sposarsi con la persona che riteneva giusta per lei. 

 

Respirò profondamente cercando di prendere aria in quella calura opprimente, ma per un istante che sembrò infinito sentì dei passi leggeri come le foglie che cadono d’autunno. Sapeva perfettamente chi si sarebbe potuto trovare lì nei dintorni se non Andrea, il quinto figlio della famiglia Nolano. Quel birbante sapeva sempre dove trovarla, cosa stesse facendo o con chi fosse ed era bravissimo a rovinare i suoi momenti di calma. Eppure lei gli voleva bene, non come se ne vuole ad un fratello, ma nemmeno come se ne vuole ad un innamorato perché per lei quella parola era ancora qualcosa di sconosciuto e di poco chiaro. Lei non sapeva definire cosa significasse “amore”, che cosa si percepisse quando quel sentimento si instaurava nell’animo: l’aveva chiesto spesso alla madre e lei, con la sua immensa semplicità e bontà, le aveva risposto che l’amore era come un fiore che sbocciando, donava la sua bellezza al mondo e morendo riceveva in cambio una nuova vita. E lei ammirava quei fiori che tanto amore sapevano provare, lì osservava per carpirne i segreti, nascosti e imprigionati in quei lunghi steli verdi e in quei petali morbidi come seta. Il suo sentimento per il piccolo Nolano era strano: ogni tanto avrebbe voluto abbracciarlo e stringerlo forte; altre volte avrebbe preferito tirargli le pietre del suo cortile e vederlo saltellare da una parte all’altra per evitarle. Dopo pochi secondi le si palesò di fronte a testa in giù, appeso a un ramo basso di quell’imponente pianta: gli occhi azzurri come la pioggia la osservavano sereni, il sorriso furbo stampato sulla faccia e i capelli biondi come il grano arricciati per la forte umidità. Rideva sempre, come se il mondo fosse una grande barzelletta: la sua serenità era contagiosa; poche volte Moira l’aveva visto triste. Più volte l’aveva visto arrabbiato, pronto a difendere le sue idee e a difendere chi era in difficoltà. 

 

“Dormi?” Disse ancora capovolto a testa in giù. “Lo so che fai solo finta di non sentirmi e vedermi, ma ormai sono qui, quindi ti conviene ascoltarmi!” Disse gioioso: dentro di sé custodiva una notizia meravigliosa, o almeno lo era per lui. Moira non sapeva se demordere a quell’intrusione che sapeva di bucato appena fatto o ignorare palesemente la sua voce e far finta di essere morta: ma alla fine la sua decisione era sempre quella sbagliata. 

“Mi sembri troppo felice per continuare a ignorarti. Dimmi.” Disse senza nemmeno aprire gli occhi: solitamente le notizie meravigliose di Andrea si rivelavano fallimentari esperimenti di entrata illegale nella vecchia casa della signora Marzotti, ormai vedova da anni o la scoperta di qualche notizia riguardante la figlia dei Leali: la bella e acculturata figlia unica, dai capelli color del rame e gli occhi puri come quelli di Andrea. Moira non la odiava, l’odio era un altro dei sentimenti che ancora non comprendeva, ma provava nei suoi confronti una sottile invidia: amata da tutti, solare, bella e benestante. E tutte le volte che Andrea aveva una sua notizia, a lei le si storceva leggermente la punta del naso, come la prima volta che sentì l’intenso sapore dei limoni di Sicilia. 

 

“Ho trovato una tana di volpi dentro il boschetto di pioppi, quello dove Gino ci aveva perso gli occhiali. Vuoi venire a vederla?” Forse era per quello che lei, in fondo, lo amava a modo suo, in un modo tutto speciale. E forse nemmeno le notizie sulla bella figlia dei Leali potevano farle cambiare idea su come fosse in realtà quel ragazzo dai capelli color dell’oro. Il mondo per lei era un tesoro e Andrea sapeva cosa le potesse piacere, anche quando gli altri pensavano fosse una cosa strana o brutta: una ragnatela intricata, una tana di scoiattoli nell’albero, uno scarafaggio che camminava tranquillo per la sua strada o un pesce rimasto impigliato accidentalmente nell’amo di Pietro ‘l Tone, sempre bravo a dimenticarsi in giro le sue cose. 

 

Decise finalmente di alzarsi e di seguirlo: lui scese dall’albero e stretta la sua mano bruciata dal sole, la scortò fino al luogo non molto lontano dalla sua postazione primaria. Gli alti pioppi ripararono le loro testoline riscaldate dal forte sole, gettando giochi di ombre sul terreno morbido grazie al temporale della sera prima: Andrea la stringeva forte, senza lasciarla e senza voltarsi mai per assicurarsi di starla stringendo ancora. La loro amicizia era sempre stata strana, iniziata in un modo ancora più bizzarro: era il primo giorno di elementari, Moira indossava un abitino rosa che le arrivava poco sopra le ginocchia, un fiocco delicato che le avvolgeva i capelli già ribelli, ricci come le spire di foglie mosse da un turbinio di aria, mentre Andrea era entrato nel vestito di seconda mano del quarto fratello un po’ a fatica, essendo più alto di quest’ultimo. Lui le aveva subito rivolto lo sguardo e pure una linguaccia a cui aveva subito ricevuto una risposta identica da lei, che lo osservava incuriosita, con lo sguardo di chi vede per la prima volta un cucciolo appena nato. Non appena i due erano stati liberi di fare la ricreazione, Andrea era andato alla ricerca di qualsiasi cosa che si muovesse in quel giardino e aveva trovato, per sua somma gioia, una lucertola senza coda, scomparsa in chissà quale bocca di quei gatti che bazzicavano per il paese. Con il suo istinto da bravo bambino era corso per il cortile con la bestiola in mano, avvicinandosi pericolosamente alle bambine che fuggivano via tra schiamazzi e gridolini. Moira l’aveva guardato e poi gli si era avvicinata chiedendogli di mostrarle l’animale: gli occhi di Andrea non erano mai stato tanto sorpresi e con felicità gliela passò in mano. 

 

“Dobbiamo fare piano che son picinì.” Le disse con cautela, abbassando il tono della voce. I due si avvicinarono furtivamente, come ladri pronti a rubare delle mele nel campo di Franchino: non appena si fecero più vicino si iniziarono ad udire impercettibili guaiti, simili a degli urletti. Entrambi si accucciarono e poterono osservare tre piccole volpi, gli occhi ancora leggermente chiusi e il pelo non ancora folto. Erano così piccole da sembrare pulcini e Moira non seppe nemmeno quanta fu la gioia che le riempì il cuore, un regalo stupendo, una sorpresa inaspettata. Si fermò un attimo, come paralizzata da quella vista stupenda, ma il momento idilliaco fu rotto da un verso simile a quello dei cuccioli, ma più alto: la madre delle piccole volpi era tornata e non sembrava per nulla contenta della loro presenza. Il ringhiò le salì su per la gola sempre più rombante e la bava iniziava ad accumularsi di bava: la migliore idea era quella di fuggire a gambe levate dato che Leonardo Orzati, solo il mese scorso era stato morso ed era morto poco dopo a causa della rabbia. E così fecero, alzarono le loro gambine e corsero fino a perdere il fiato, fino a quando le ginocchia non iniziarono a dolergli per lo scatto fulmineo. Andrea fu il primo a fermarsi, arrestando la sua corsa pazza vicino alle anse del placido Adda, che scorreva con lentezza immane. Moira lo seguì poco dopo togliendosi le scarpe e lasciando i piedi a mollo nell’acqua quasi ferma, ancora leggermente fresca, rispetto a tutto quel calore. 

 

“Cosa hai da guardare stüped?” Gli disse sollevando il mento come a indicarlo. Andrea la fissava con occhi strani; la osservava, analizzandola come se fosse la prima volta che la vedeva in quelle vesti disinibite. Eppure di bagni nel fiume ne avevano fatti insieme e quante volte avevano corso per quei campi rubando la frutta ai contadini loro amici senza farsi beccare. In un certo senso era come se tutti e due conoscessero l’altro meglio di quanto non conoscessero loro stessi. 

“Niente, solo che sei corsa via così velocemente. Ti sei proprio presa paura, ne?” Moira lo fulminò lo sguardo: quella era una sfida alle sue capacità. Lei non era perfetta, lo sapeva, come sapeva che non sapesse fare tutto, ma dirglielo palesemente era un modo per spingerla a superare il limite impostosi prima. 

“Ha parlato lui, sei arrivato prima tu ché söl fiöm!” Gli disse senza mezzi termini: così come Andrea si trovava ad almeno due metri da lei, così se lo ritrovò addosso. Fare la lotta era un’altra di quelle cose che entrambi condividevano come passatempo: più di una volta Moira era stata richiamata a scuola e messa in punizione per aver fatto a botte. I genitori non sapevano come farle sfogare quella rabbia, ma un giorno avevano scoperto che la fotografia riusciva a calmarla, riusciva a farle sfogare quell’energia, come se nelle foto vi si rifugiasse. Fu così che le regalarono una Leica A, un modello recentissimo e per cui si indebitarono di qualche migliaio di lira: Moira non sarebbe potuta essere più riconoscente. 

 

Cercò di toglierselo di dosso, spingendolo via con le gambe: Andrea fece un piccolo volo, atterrando con il fondoschiena direttamente nell’acqua, bagnandosi completamente i pantaloncini di lino che gli arrivavano poco sopra le ginocchia ossute. Gli occhi azzurri rifulsero come illuminati dalla luce più abbagliante: prima si osservò e poi osservo Moira che ancora giaceva a terra, i gomiti appoggiati sul duro terreno per sostenersi e i capelli ormai sfuggiti alle trecce. Anche i suoi occhi color del mogano risplendevano forse per la fatica o forse perché quando il sangue l circolava più velocemente in corpo ottenevano una sfumatura arancione.

Andrea le saltò nuovamente addosso, ma questa volta fece una cosa inattesa, la lasciò come di stucco, esterrefatta da un semplice così banale e semplice: le diede un bacio. 

 

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Capitolo 2
*** Steyr-Mannlicher M1895 ***


12 settembre 1939

Passai di nuovo l'ago in quel tessuto, ma il filo non sembrava aver voglia di fare ciò che io avevo prontamente programmato: la mamma mi aveva detto di rammendare i calzini o non sarei potuta andare a lezione il giorno dopo, sosteneva che dovessi comunque adempiere ai miei doveri di donna. 

Avevo iniziato l'università da poco e non era stata una decisione facile dato che ero donna: la facoltà che volevo frequentare non mi avrebbe mai ammessa. Ci avevo messo un anno per decidermi a dirlo ai miei e, nel caso avessero accettato, trovare una soluzione per risolvere il problema del sesso sbagliato. La prima persona a cui l'avevo detto era stato mio fratello Gregorio, mentre pulivamo il porticato dalla mietitura appena fatta: i suoi occhi verdi mi avevano guardato con curiosità, come se gli avessi dato uno schiaffo in faccia. Eppure non aveva mosso ciglio, aveva alzato le spalle e mi aveva detto :"Fai come ti pare, se è quello che vuoi." Così da Gregorio la notizia era passata a Luigi che trafelato era entrato in camera mia e mi aveva abbracciato forte: io e Luigi avevamo solo un anno di distanza, era lui quello piccolo e quello più affettuoso. Ma i miei fratelli non si erano presi l'impegno di dirlo ai miei: una sera di agosto li avevo riuniti al termine di una cena. Io a un lato del tavolo e loro quattro di fronte a me, i miei con sguardo stranito, i miei fratelli pronti a calmare le acque. 

"Voglio andare all'università."

L'avevo detto con freddezza, con sincerità, trattenendo il respiro tra quelle quattro parole che rischiavano di rimanermi impigliate nella gola. Mia madre aveva sorriso, forse consapevole che non ero come tutte le altre e forse già a conoscenza del mio segreto a causa di qualche voce persa dai miei fratelli, oppure grazie al suo intuito di madre. I suoi occhi teneri mi diedero un assenso silenzioso, mentre mio padre mi osservò per un tempo infinito e poi con voce tranquilla rispose che andava bene, ma che avrei dovuto iniziare a guadagnare, sennò sarebbe stato impossibile farmi studiare e mangiare allo stesso tempo. 

Era iniziata così la mia avventura: ogni mattina mi alzavo per prendere la corriera alle quattro e un quarto, avendo giusto il tempo di buttare le sementi alle galline. Seguivo le lezioni sotto mentite spoglie grazie ad un'ingegnoso travestimento ideato da mia madre e un nuovo nome: Vittorio Marcellini; per il nome avevo preso ispirazione dalla mia amica Vittoria Arnolfi. 

Vittoria si era trasferita nel nostro paese quando avevo sedici anni compiuti e con mia somma sorpresa, stringemmo amicizia, trovandoci subito in sintonia. Lei però non strinse mai amicizia con Andrea che nel frattempo si era fatto bello e aitante: al paese tutte lo guardavano con occhi trasognanti, come se fosse il bello e ricco da sposarsi. Quando passava lui tutte sembravano fermarsi a osservarlo, con la bocca che tentava di rimanere chiusa a fatica: Andrea era molto solare, ma dentro di sé nascondeva un mondo a tutti quanti, incapace di dimostrare chi era veramente. 

Vittoria mal lo gradiva trovandolo superfluo e ingenuo, ma io lo conoscevo meglio di tutti e dopo numerosi tentativi, avevo desistito dal farli diventare anche solo conoscenti, Vittoria sapeva essere anche più testarda di me: strano, ma vero. 

Solitamente l'orario di ritorno era per le sei a casa e a quell'ora lì iniziavo i miei lavoretti per racimolare abbastanza denaro: rammendavo i vestiti delle signore, ogni tanto aiutavo nella piccola biblioteca comunale perdendomi tra quei grossi tomi o cercando di investire quello che guadagnavo in nuovi volumi da aggiungere a quegli stretti scaffali. 

Ma il mio primo investimento fu la Leica 3b, una machina fotografica di nuova generazione, uscita un anno prima: ci avevo investito cinque stipendi e mio padre non era stato molto felice della notizia, ma non poté nemmeno biasimarmi in quando la mia Leica A ormai era diventata quasi un cimelio rispetto ai nuovi modelli. Avevo così iniziato a cimentarmi nella fotografia fotografando le partite domenicali del calcio nel piccolo campo dell'oratorio, le gare di pesca al fiume, qualche ciclista di passaggio, gli alberi in fiore e i bambini che scorrazzavano per le strade del paese: Sandro Pritti, il direttore dell'editoria del paese vicino, mi aveva così assunta come fotografa del giornale locale. 

 

Finii di rammendare anche quell'ultimo calzino e poi mi alzai indolenzita da quella sedia di legno che ormai sembrava aver preso la forma del mio corpo da quanto tempo mi ci sedevo. Il sole era già tramontato e un leggero freddo aveva sostituito un tenero tepore di quelle giornate di settembre, dove l'estate inizia a cedere il posto all'autunno: nel camino scoppiettavano qualche pezzo di legno che Luigi aveva iniziato tagliato in quel mese, quando la legna ancora non è bagnata. Guardai fuori dalla finestra il cortile illuminato da piccole lampade a olio che ancora risalivano ai miei bisnonni: ogni cosa veniva riutilizzata e sistemata sopratutto dopo la grande crisi del ventinove. 

Ma quei giorni non erano nemmeno migliori, in Europa la situazione stava iniziando a scaldarsi notevolmente e l'ombra di un'altra guerra incombeva lugubre sulle nostre teste: era giunta notizia che Hitler, il dittatore della Germania, stesse conquistando pian piano territorio, anche grazie all'appoggio dei paesi che non volevano ricadere nell'inganno della guerra. 

Vidi una persona entrare dentro il cancello della corte e avviarsi verso la porta di casa: sapevo che non potevano essere i miei genitori in quanto erano andati via per qualche giorno a trovare la zia Rosetta all'ospedale di Milano e nemmeno Gregorio e Luigi che quella sera avrebbero fatto il turno di notte alla fabbrica di Nanni. Mi abbassai senza perdere di vista l'uomo che avanzava tranquillo e afferrai il fucile posto con astuzia sotto il lavello, agganciato per non destare sospetti o essere notato in caso di apertura degli sportelli. Caricai un colpo e andai alla porta aprendola: non c'era tempo per la filosofia e così puntai il fucile dritto verso l'uomo che ancora non riuscivo a identificare nel buio serale: le lampade illuminavano, ma non abbastanza finché io lo riconoscessi.

"Chi sei?" Dissi senza troppi giri di parole, il colpo pronto nella canna e la mano ferma sul grilletto con precisione millimetrica. Mio padre mi aveva insegnato a sparare per qualsiasi urgenza, anche se non avevo mai usato questa abilità nella caccia: mi esercitavo in solitaria ogni tanto nel bosco vicino a casa assieme ai miei fratelli. In quei tempi difficili le rapine nelle case erano diventate sempre più frequenti, così come voci di stupri perpetrati da giovani invasati. 

"Una persona a cui non dovresti sparare." Avrei riconosciuto la sua voce ovunque, anche in mezzo al temporale: avevo imparato a conoscerla, a identificare la leggera inflessione dovuta al dialetto, al rumore di ogni lettera pronunciata con quella voce profonda e leggermente roca. I suoi passi ora mi suonavano familiari, riconobbi quell'incedere tranquillo, ma leggermente spostato a sinistra. 

"Muoviti scemo, sennò entra freddo in casa." Allungò il passo e finalmente vidi il suo volto illuminato dal tenue bagliore. Gli occhi mi salutarono ancor prima della sua bocca che si piegò in un sorriso felice, come un bambino con la sua caramella preferita in bocca. Come quando eravamo bambini, non riuscivo mai ad arrabbiarmi per ciò che combinava e neppure quell'intrusione poteva farmi cambiare idea: qualche madre avrebbe detto che la presenza di un così baldo giovane in una casa di una ragazza sarebbe stato di protezione, ma sapevo con certezza che in caso di pericolo la mia mano sarebbe stata più lesta di quella di Andrea. Si sedette come se fosse a casa sua sul divano marrone, sollevando una leggera nuvoletta di polvere, quasi impercettibile alle lampade artificiali. Posò lo Steyr-Mannlicher M1895 vicino alla sua gamba, scarico e con la punta rivolta verso l'alto: sembrava stanco a causa della posizione, ma sapevo che era solamente il solito maleducato pronto a sbracarsi da qualche parte. 

"Un uccellino mi ha detto che una fanciulla era tutta sola in casa e quindi sono venuto a proteggerla." Disse guardandomi negli occhi con il suo sorrisetto furbo e per niente casto. 

"Dì al tuo uccellino di cercare informatori migliori perché la fanciulla sta benissimo." Dissi incrociando le braccia e chiudendo gli occhi con fare saccente: ogni scusa era buona per entrare in casa e stare qua fino all'indomani, come se lui un letto non ce l'avesse già. 

Andrea sbuffò sonoramente, il petto gli si sollevò tranquillo così come il ciuffo biondo che ricevette il suo sospiro dal basso: mi stava nascondendo qualcosa di più importante di una semplice visita e il fucile lo testimoniava. Gli uomini come lui non avevano bisogno di fucili per andare in giro, bastava indossare il simbolo che permetteva alle squadre d'assalto di riconoscerlo come facente parte del gruppo universitario fascista: in realtà avevo anch'io un simbolo distintivo per le giovani fasciste in quanto quello universitario non mi era permesso per ragioni già elencate. 

"Per cosa sei venuto qua Andrea?" Gli dissi con voce calma, andandomi a sedere a debita distanza da lui sul divano: le molle cigolarono piano, accompagnando il mio morbido movimento che venne seguito in tutte le sue fasi dagli occhi guardinghi di Andrea. 

Le cose fra di noi non erano cambiate, ma alcuni atteggiamenti e comportamenti facevano intendere altro: non eravamo più bambini di dieci anni che correvano lungo il fiume; a vent'anni i sentimenti possono cambiare e trasformarsi in qualcosa di pericoloso. Non volevo che qualcosa si rovinasse tra di noi, anche se sentivo un'attrazione sempre più forte nei suoi confronti che era difficile da non far trapassare: il problema principale, oltre al fatto che sarebbe potuta non essere corrisposta, era che non capivo se fosse davvero un sentimento sincero o se fossi attratta da lui solo per la sua bella prestanza. 

Posò lo sguardo nel mio, analizzando quella che sarebbe potuta essere una mia reazione e con voce pacata iniziò ciò che sembrava non voler uscire dalla sua bocca. 

"Hai sentito le nuove notizie sull'Europa?" Nelle ultime settimane non ero stata molto attenta agli ultimi avvenimenti, non per mancata voglia, ma perché studio e lavoro mi portavano via parecchie energie. Leggevo solo qualche testata la mattina appena scesa dalla corriera, quando passavo di fronte a un piccolo giornalaio, ma tra la calca non sempre era facile vedere. 

"Ho sentito qualche notizia disconnessa, anche perché la radio non funziona ancora. Cosa è successo?"

"Hitler ha invaso la Polonia e l'Inghilterra e la Francia hanno dichiarato guerra." Per poco il mio cuore non perse un battito: in soli dieci giorni mi ero persa l'inizio di una guerra. Rimasi in silenzio fissando un punto lontano, pensando a tutto quello che sarebbe potuto accadere: i ragazzi sarebbero stati richiamati alle armi se l'Italia avesse deciso di intervenire, tutti i miei fratelli sarebbero stati arruolati così come Andrea. Sarebbero andati al fronte senza poter opporsi a causa di quello che veniva chiamato tradimento di patria e che comportava l'uccisione immediata. La mia mano ebbe un leggero fremito: ci eravamo caduti ancora e stavolta con tutte le scarpe, non c'era via di scampo né di soluzione. 

Andrea mi prese la mano stringendola nella sua calda e ampia: cercò il mio sguardo irraggiungibile fino a quel momento, lontano in quelle terre dove i rombi delle bombe già iniziavano a risuonare come melodie lugubri. 

"L'Italia per adesso si è dichiarata neutrale, quindi per adesso nessuno dovrà partire Moira, c'è ancora una speranza. Non iniziare a preoccuparti come fai di solito." Cercò di consolarmi, ma feci tutto il contrario. La mia reazione fu parecchio violenta. 

"Ma come puoi pensare che l'Italia rimanga solo a guardare? Hanno stretto patti con quel pazzo che va in giro a parlare di razza pura, inneggiando a una stirpe nuova. Come puoi anche solo pensarlo?!" Gli strinsi la mano più forte sentendo una sua reazione: l'ansia è un'emozione che nessuno dovrebbe provare, ma in quel momento mi pervase come un'onda nera, fredda, viscida e invadente. Andrea si avvicinò a me stringendomi fra le sue braccia: i contatti umani non mi erano mai piaciuti, ma in quel momento anche il mio corpo aveva bisogno di calore umano, come una carezza che potesse anche solo allontanare quel dolore che mi stava invadendo il cuore, in balia delle emozioni. 

Mi prese a carezzare i capelli mentre la mia mente ancora viaggiava a possibili scenari di morte e devastazione: noi, generazione nata dopo la prima grande guerra, non riuscivamo a comprendere la vastità di un evento del genere e nemmeno ne comprendevamo la pericolosità, potevamo solo basare i nostri ricordi su i racconti dei sopravvissuti, di chi ancora aveva una mente stabile per poterne parlare. 

Rota ol mat era famoso in tutto il paese: figlio dei panettieri era tornato dalla guerra nel gennaio del diciannove, dopo aver combattuto la battaglia di Vittorio Veneto: nelle prime settimane non aveva dato segni di disagio anche se sembrava diffidare di tutti coloro che entravano nel negozio per comprare i viveri. Nel maggio dello stesso anno un ragazzino fece rimbalzare per sbaglio il pallone sulla vetrina: il rumore riportò la mente del povero Rota a quelle montagne dove la neve non si scioglie mai, dove i suoi compagni congelavano a causa degli equipaggiamenti non adatti. La vibrazione così forte lo fece uscire di senno, gli occhi stralunati e pieni di terrore per chiunque provasse anche solo ad avvicinarsi: ora viveva nella sua cameretta al secondo piano di via Manetti, dove i palloni non potevano arrivare e i rumori venivano attutiti da cuscini alle grandi finestre istoriate. La guerra lo aveva demolito, lo aveva reso schiavo del dolore e della paura, rendendolo prigioniero del suo stesso corpo e della sua mente incapace di liberarsi dalle catene che quelle bombe e quei fucili gli avevano costruito attorno. 

Quel momento sembrò durare un eterno, non riuscivo a percepire altro che lui che mi stringeva come si fa con i cuccioli indifesi, come se fossi una cosa fragile pronta a rompersi. Mi staccai da quella stretta e lo guardai fisso negli occhi: in quei pochi attimi avevano perso la loro leggerezza ed erano diventati più scuri, più bui, come se la loro luce si fosse affievolita. Anche lui comprendeva l'immensità di quella situazione e la possibilità dell'arruolamento era talmente tangibile che le ossa tremavano nelle carni ancora morbide di gioventù. La questione non era essere codardi o meno: tutti sapevano che la guerra non portava mai nulla di buono, portava solo morti e vedove, giovani spezzati e vuoti incolmabili negli antri di case silenziose. 

"Promettimi che qualunque cosa succeda, io e te rimarremo sempre in contatto." Il bisogno di sentirlo vicino a me era forte: non era possesso, era paura di perdere tutto ciò che di più caro avevo. Mi strinse nuovamente la mano e mi fece un cenno di assenso, muto, silenzioso, freddo. 

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Capitolo 3
*** Partenza ***


21 Settembre 1940

La stazione era piena di persone, sembrava che un fiume si fosse riversato in quel stretti antri che solitamente vedevano tante persone solo nell’ora di punta. Gente andava e veniva come schegge impazzite in quel viva vai di anime, perse e vuote che abbandonavano una parte della loro vita per forse non vederla tornare mai più. Io mi aggiravo silenziosa, persa anch’io in quell’assordante rumore di voci e di treni che partivano carichi di soldati talmente giovani da sembrare ragazzini appena cresciuti. Stringevo a me la borsa cercando di schivare più persone possibili per arrivare dove sarei dovuta arrivare, lì dove la mia corsa si fermava e non ripartiva più, lì dove anch’io avrei lasciato un pezzo della mia anima insieme a tutte le altre. Più mi avvicinavo ai binari e più le donne che piangevano si moltiplicavano, i bambini che stringevano con le loro piccole mani pantaloni, facendo così tanta pressione da sembrare di voler strappare il tessuto. E poi c’erano loro: camminavano come tante formiche, ordinatamente in mezzo a quell’orda di vocii e rumori, come se nulla potesse toccarli o scalfirli, pronti per un destino che forse avrebbero evitato volentieri o forse eccitati all’idea di combattere, di battersi per un bene che in tanti consideravano superiore. I volti erano silenziosi, qualcuno più agitato di altri, qualcuno forse ancora reduce da ciò che era stata la guerra prima, con il rumore ancora fresco nelle orecchie e il fuoco ancora acceso negli occhi spenti: sembrava una triste sfilata di carne da macello, come bestie pronte al mattatoio più efferato e ingiustificato. 

 

Cercai di non pensare troppo ai risvolti negativi di tutta quella situazione: Mussolini aveva deciso di entrare in guerra per andare in appoggio alla Germania e diventare l’ago della bilancia sul tavolo delle trattazioni. Parlavano di guerra lampo, che nemmeno avrebbe superato natale, ma si sarebbe fermata giusto in tempo per riportare i soldati a casa per le festività: l’ombra del nazismo però invadeva l’intera Europa, con i loro carri armati che segnavano la terra lasciandole cicatrici profonde, con le loro bombe che facevano saltare corpi, terre, case, creando un miscuglio di morte organica.

 

Finalmente lo vidi nella massa di persone che si salutavano e che disperate pregavano un qualche signore lassù affinché i loro figli e i loro mariti tornassero sani e salvi. I capelli biondi tagliati corti svettavano anche grazie alla sua altezza, gli occhi tranquilli, pacifici, quasi spenti, senza quel bagliore di luce che solitamente li illuminava. La bocca era una linea dritta, dura, circondata da un sottile strato di barba che i barbieri non erano riusciti a eliminare prima della sua partenza: il grosso zaino gli pesava sulle spalle, arcuandole leggermente. Con la divisa addosso sembrava un vero e proprio soldato, di quelli che lo scelgono per lavoro e non perché si sono dovuti arruolare: i pesanti scarponi neri gli fasciavano i piedi, ma quell’accozzaglia di vestiti mi dava l’idea di essere così fragile e troppo leggera per ciò che davvero lo aspettava. Gli uomini che stavano partendo si sarebbero diretti verso le ali occidentali per difendere il confine italiano dalla Francia. 

 

Quando alzò lo sguardo incontrò subito i miei occhi che lo accolsero come se fosse a casa: mi sorrise debolmente, forse incapace di mostrare i suoi pensieri nel vedermi. Mi avvicinai a lui e lo strinsi forte: Andrea rimase scioccato dalla mia reazione, non abituato a i miei abbracci più rari che mai. Sentii il suo corpo adattarsi al mio, incapace di rispondere al mio gesto, immobile e rigido. Quando mi staccai cercò di dirmi qualcosa passando sopra il fragore di rotaie sferraglianti e donne piangenti. 

 

“Ti scriverò in ogni occasione possibile Moira, avrai sempre mie notizie.” Disse stringendomi il braccio mentre con l’altra mano strinse forte la spallina dello zaino. “Cercherò di rimanere in contatto anche con i tuoi fratelli, non temere.” I miei occhi iniziarono a riempirsi di lacrime che però repressi immediatamente: non potevo mostrarmi così fragile in un momento che richiedeva solo forza d’animo. 

 

“Devi stare attento Andrea.” Lo pregai con la voce e con gli occhi, stringendo ancora di più la presa sul suo braccio: non avevo la minima intenzione di lasciarlo andare dopo che avevo salutato i miei fratelli il giorno prima, diretti sul confine austriaco. Questa volta fu lui a stringermi in un abbraccio, le sue mani avvolte attorno alla mia vita e le sue braccia fuse sul mio corpo. Feci in tempo a dargli un ultimo bacio sulla fronte che mi venne strappato via dalle mani, lasciando un freddo glaciale a riempirmi le ossa. Un suo compagno lo tirava per la manica mentre lui cercava ancora di ritardare la sua partenza: ma il capotreno stava richiamando tutti, ormai non c’era più tempo. 

 

Lo vidi scomparire nella folla come un fiocco di neve d’inverno. 

 

Decisi di non trattenermi più a lungo del dovuto e mi avviai verso casa con la bicicletta: passai in mezzo alla città, deserta, vuota come non lo era mai stata e sentii tutto il peso di quello che stavo per vivere. Notti insonni, dubbi, paure, ansie sempre più frequenti. Nemmeno l’università avrebbe potuto salvarmi dato che a causa della chiamata alle armi sarebbe rimasta chiusa per alcuni semestri. Pedalai più veloce per non assistere ancora a quello spettacolo tetro e solitario, pensando solo a quando sarei riuscita ad avere notizie dei miei fratelli e di Andrea. 

 

A casa mia madre stava lavando i piatti con ferocia mai vista: grattava le superfici quasi volesse romperle. Infatti un piatto volò fuori dal suo controllo e si sfracellò a terra, aprendosi in mille pezzi: andai ad aiutarla. Si piego sulle ginocchia e lasciò che il pianto la travolgesse come una cascata, come un fiume in piena: l’abbracciai silenziosa mentre mio padre fece la sua comparsa da dietro la porta. Si accucciò anche lui per sostenere il suo dolore.

 

“Su Rosa, non disperare. So che è dura, ma dobbiamo essere forti per loro.” Indicò me per intendere noi figli. Mia madre si asciugò le lacrime con nervosismo, facendo un sorriso tirato.

“Gabriele non doveva capitare di nuovo, loro non dovevano vivere quello che noi avevamo già vissuto.” Singhiozzò tra una parola e l’altra, sospirando rumorosamente. Mio padre la strinse ancora più forte in silenzio, consapevole che qualsiasi affermazione sarebbe stata vana. 

 

Iniziai a tirare su i cocci mentre assistevo ancora a quella scena che non faceva che stringermi il cuore: niente era facile, ma una guerra era troppo per tutti, era un ostacolo di cui non si riusciva mai a vedere la fine nitidamente e questo rendeva tutto più difficile. Era come camminare nella nebbia per giorni, senza poter sentire o percepire nulla che fosse di buon auspicio: come quando di notte cerchi di orientarti nel silenzio più assoluto e riesci a sentire solo il tuo cuore battere. 

 

Decisi di ritirarmi nelle mia stanza, la giornata era stata pesante per tutti, lo sapevamo, ma ci attendevano tempi ancora più difficili e spaventosi. 

 

Bisognava preparare cuori, menti e stomaci, perché la guerra non avrebbe risparmiato niente e nessuno. 

 

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Capitolo 4
*** Bollettino di guerra ***


23 dicembre 1940

La neve cadeva delicata come petali di margherita: tutto sembrava coperto da una coperta leggera, ma impenetrabile, come un tessuto troppo spesso per essere attraversato. Guardare fuori dalla finestra era diventato il mio hobby preferito: da quando la casa era diventata così silenziosa quel rettangolo di vetro mi sembrava l'unico divertimento. 

Avevo mantenuto comunque i miei lavoretti anche se molte donne avevano preferito arrangiarsi con le faccende sartoriali e il giornale riusciva a lavorare solo grazie alle molte mogli che avevano deciso di prendere il posto dei mariti. 

Le notizie erano sempre rade, anche se le lettere cercavano di essere le più lunghe possibili. Erano passati tre mesi, ma erano sembrati un'eternità, il tempo non scorreva mai, anzi sembrava rallentare tutte le volte che si guardava l'orologio. Eppure i giorni erano trascorsi, mattine e notti che si alternavano continuamente, fredde, vuote e senza senso. Mi sembrava che i miei ricordi si frantumassero ogni secondo che passava, il ricordo di Andrea sbiadiva spesso, ma la sua foto sul fronte mi ricordava come fosse. 

Nell'ultima lettera arrivata due giorni prima era riuscito ad allegare una sua foto: una sigaretta in bocca e il fucile nella mano destra. Un sorriso stanco gli solcava il volto ancora bello che la guerra non era riuscito ad intaccare: era insieme ad un compagno di plotone, anche lui stanco e più emaciato di Andrea. Tre mesi e sembrava fosse un'altra persona: glielo si leggeva in faccia. 

Guardai ancora quella foto mentre aspettavo l'ora adatta per partire e dirigermi dalla signora Elvira: anche lei aveva dovuto dire addio al figlio.

Alessandro Paleari aveva più o meno l'età mia e di Andrea, era un bravo ragazzo, volenteroso, generoso: era promesso sposo alla piccola della famiglia Carrara, una bambina che aveva appena compiuto i quindici anni. Alessandro non andava fiero di questo accordo, si sentiva sempre a disagio all'idea: i suoi occhi erano solo per Vittoria. Le correva dietro da un po', da quando lei aveva dato prova che non solo era una ragazza raffinata, ma sapeva anche mettere a posto coloro che la disturbavano. C'era anche scappato un bacio tra i due, durante il ballo di primavera che il paese organizzava tutti gli anni: poco lontano dalle danze, i due si erano messi in disparte e si erano scambiato un singolo bacio. Ma Vittoria non poteva diventare sua moglie, gli accordi erano rigidi, senza tante possibilità di essere sciolti e lui lo sapeva, ma sognare non gli costava nulla: tranne al suo cuore innamorato. 

16:30. Guardai l'orologio e mi avviai dalla signora che abitava in centro al paese: il freddo fuori era pungente, mi fece lacrimare immediatamente gli occhi che ovviamente non ero riuscita a coprire. Tutto il resto del mio corpo era saldamente arrotolato in tutti i vestiti pesanti che ero riuscita a trovare. Camminare nella neve così fresca non era facile, ma con un po' di fatica riuscii poi a raggiungere la metà: la città era percorsa solo da qualche persona silenziosa che imbacuccata cercava di andare il più veloce possibile per evitare di incrociare gente losca. Nessuno era più sicuro, nemmeno nella propria casa, tra le pareti calde e accoglienti: era come se un'ombra avesse ricoperto tutto e tutti, inquietudine in tutto ciò che si faceva. 

Finalmente giunsi nella casa della signora che venne ad aprire personalmente: un tempo sarebbe venuto il maggiordomo, ma anche i più abbienti avevano dovuto fare economia. Il tepore della casa mi invase le ossa, donandomi un senso di sollievo immediato: mi svolsi dai miei vestimenti mentre Elvira mi osservava felice, la mia compagnia era per lei motivo di "svago". 

"Oggi fa molto freddo non trovate signorina?" Mi guardò con il suo sorriso leggero. 

"Concordo con lei Elvira, ma è anche normale, l'inverno quest'anno non si è fatto attendere." Lei annuì sempre mantenendo quell'aria serena, come se niente potesse scalfirla. 

"Avete avuto notizie dei vostri fratelli?" Disse con una sincera preoccupazione nella voce. Stetti un attimo in silenzio: parlare dei cari al fronte stava diventando sempre più difficile. 

"L'ultima lettera risale a due settimane fa, il fronte austriaco è molto duro." Dissi senza particolare intonazione, meno ci pensavo e meglio era: preferivo ancora ricordarli gioiosi e felici, non immersi fino alle caviglie nella neve ghiacciata. La signora Elvira decise di non chiedere di Andrea: in città tutti sapevano del nostro legame, così come sapevano che tra noi due non era successo niente. Era sempre stato un comportamento anomalo: la mia famiglia non mi aveva mai vietato di vederlo e la sua non lo aveva mai costretto a chiedermi la mano. Entrambi avevamo già un età avanzata per il matrimonio e infatti erano girate anche delle male lingue: ma le nostre famiglie ne sapevano molto di più. 

Ci accomodammo nel salotto lì dove il grande camino sembrava una bestia dormiente: solo un piccolo zampillare di fiamme indicava un segno di vita della brace. Le pareti ricoperte di pesanti tendaggi sembravano soffocarmi, riempire completamente il mio spazio vitale: l'avevo già frequentata quella casa, ma in quel periodo mi infastidiva. Dovetti distogliere gli occhi.

La signora mi porse la cesta con i vestiti da rammendare e poi si sedette di fronte a me con una tazza di te fra le mani. Per un po' rimanemmo in silenzio ascoltando il leggero frusciare del vento fuori dalla finestra, poi la signora Elvira decise di accendere la radio: una soffice musica si diffuse per tutta la stanza riempiendo quel silenzio carico di aspettative e di parole non dette. Era un lindy hop non troppo movimentato, ma che dava quel ritmo giusto per affrontare l'ennesima serata solitaria. L'ago scorreva veloce nel tessuto e ogni rammendo ne usciva fuori a regola d'arte. 

"Ad Alessandro piacciono molto questi balli statunitensi, li trova così innovativi." Disse riaprendo il sorriso spentosi poco prima. Sorrisi e annui di rimando.

"Sono molto gioiosi soprattutto, impossibile riuscire a stare fermi." Dissi iniziando a muovere un piedi a ritmo di quelle note che non potevano non trascinarti sulla pista: mi ricordarono quel ballo che si era svolto in piazza quell'estate stessa. Mi sembrò un momento talmente lontano che quasi feci fatica a ricordarlo: ma c'era un particolare che la mia mente ricordò perfettamente. 

Io e Andrea c'eravamo allontanati in quanto avevo deciso di tornare a casa prima per sistemare degli appunti che mi sarebbero serviti per un esame e lui si era premunito di accompagnarmi. La serata era placida, ferma nella sua aria umida: le stelle invece brillavano come diamanti in un cielo immenso. Camminavamo silenziosi, a poca distanza l'uno dall'altro. 

"Bello questo vestito Moira, perfetto per andare al mercato delle bestie." Mi disse senza tanti fronzoli, il sorriso beffardo sul volto. Gli tirai un pugno contrariata da quel suo commento.

"Certo che tu sai proprio come corteggiare una signora!" Dissi offesa: quel vestito era uno dei miei preferiti in quanto me l'ero cucita tutto da sola, uno stile quasi americano. Gonna svasata che arrivava poco sotto le ginocchia e busto più stretto e sciancrato di quello tradizionale: la fantasia a fiori completava il tutto. 

"Ah adesso ti ritieni pure una signora?" Disse in maniera ironica: per noi era naturale scherzare.

"Tu ti dovresti ritenere un uomo morto invece!" Come se ci fossimo letti nella mente, lui aveva già iniziato a correre per evitare di prendere altre botte che sarebbero sicuramente andate a segno. Corremmo a perdifiato finché Andrea non si buttò in un campo per far perdere le sue tracce: cosa che non servì a nulla dato che ero riuscita a stargli dietro. Nel momento in cui decisi di seguirlo in mezzo al grano maturo inciampai rovinandogli addosso. 

"Santi numi, non ti facevo così pesante." Disse ridacchiando e tossendo dato che praticamente gli ero caduta completamente addosso. Gli tirai un altro pugno che andò a segno: rise ancora come se gli avessi fatto il solletico. Da quella prospettiva era anche più bello, riuscivo a distinguere i suoi tratti del viso grazie alla luce della luna: il naso sottile, ma importante, gli zigomi perfetti e quelle labbra che avrebbero fatto impazzire qualsiasi ragazza.

Adesso eravamo in silenzio entrambi e l'unica cosa che riuscivo a fare era percorrere le linee del suo viso con le dita, tastare ogni centimetro della sua pelle per imprimerla nella memoria. Capii subito che la situazione stava andando in una direzione che non mi conveniva prendere: cercai di sollevarmi, ma le sue mani mi trattennero facendomi tornare al posto di prima. 

"Moira non c'è fretta." Disse tranquillo, con un tono che sfiorava la sensualità, ma che non voleva mai sembrare volgare. Il suo petto si alzava ritmicamente, sembrava in pace con se stesso, io sopra e lui sotto, immobili, ma ricettivi di qualsiasi minima variazione dell'aria. Continuai a fissarlo, forse sembrando un po' stralunata, ma a lui non dispiaceva.

"Lo so che sono bellissimo, ma non c'è bisogno di mangiarmi con gli occhi." Disse soddisfatto di avermi colta in flagrante: arrossii e sicuramente riuscì a percepirlo dal momento che abbassai anche gli occhi. Sentii la sua mani percorrermi la guancia e la punta delle sue dita sfiorarmi i capelli: chiusi gli occhi e mi abbandonai al suo tocco morbido. Lentamente portò il mio viso a una distanza irrisoria dal suo: quando riaprii gli occhi vidi i suoi che anche al bagliore della luna sembravano risplendere come pozze di acqua viva. 

"Stasera sei splendida." Sentii il suo respiro infrangersi sulle mie labbra: in quel momento tutto il mio corpo perse il controllo e il mio cervello si spense solo per godersi il momento. Fece sfiorare le nostre labbra come foglie che si appoggiano delicate sul terreno: erano così fresche e invitanti, come un frutto succoso che d'estate riesce a dissetarti dall'arsura. Sollevò leggermente il volto per farle collidere meglio e sentii il mio cuore pronto ad esplodere da quante emozioni si stavano accavallando nella mia mente. In un attimo si tirò su a sedere costringendomi a cingergli la vita con le gambe: la mano dietro la nuca divenne più salda e il braccio sinistro mi circondò la vita come per evitare che scappassi da un momento all'altro. Il bacio divenne più approfondito, le sue labbra divennero più bramose, ma anche esitanti per paura di fare la mossa sbagliata. Ci staccammo per riprendere fiato, come se con quel contatto avessimo respirato l'uno l'aria dell'altro fuori dai polmoni. Gli cinsi il collo con le braccia lasciando che le nostre fronti rimanessero in contatto, le sue mani appoggiate delicatamente sulla vita, senza scendere troppo in basso: pensai che quel momento sarebbe durato all'infinito.

Mi resi conto solo dopo alcuni secondi che forse non era la situazione migliore in cui rimanere: se anche una sola anima fosse passata e ci avesse visto in quella posizione saremmo stati additati da tutto il paese. Le vecchie abitudini non muoiono mai. Mi rialzai controvoglia e Andrea mi seguì a ruota continuando a sorridere come uno scemo, cingendomi la vita con il braccio e dandomi un bacio sulla tempia. 

Tutto cambiava e anche noi non eravamo più solo bambini spensierati.

I miei pensieri vennero interrotti da una voce maschile, dura.

"A tutto il popolo italiano, le truppe sul fronte francese sono riuscite ad avanzare con una mossa da maestri e adesso si dirigono spediti verso Parigi." 

Ci fu un attimo di pausa: nel frattempo ci eravamo messe in ascolto con le orecchie ben aperte, pronte a cogliere il minimo segnale. Non riuscii comunque a rilassarmi dopo la notizia: le vittorie non significavano niente, volevo solo che tutti tornassero a casa il prima possibile. Elvira invece sembrava più rilassata, quasi confortata dalla notizia che il suo Alessandro stesse facendo le cose per bene. La comunicazione riprese, la voce metallica tornò a risuonare tra le pareti. 

"I tempi della permanenza dei nostri soldati hanno subito delle variazioni, pertanto nessuno di loro potrà tornare nelle dimore. Buona serata al popolo!" Per poco la signora non svenne dalla sedia: noi tutte l'avevamo sperato, ma le aspettative si erano dimostrate troppo alte. Avevamo pregato troppo intensamente perché questo desiderio si avverasse: eravamo state punite per la nostra eccessiva speranza. 

Niente ritorno, niente guerra lampo. 

Me l'ero sentito nelle vene fin da subito: una comunicazione troppo precipitosa, troppo singolare per il ventitré dicembre: prima una bella notizia subito dopo il boccone amaro, funzionavano sempre così gli annunci. La signora Elvira iniziò a blaterare di cose che sembrano disconnesse fra di loro. 

"Sicuramente si tratterà di poche settimane, giusto il tempo di saltare qualche festività..." Diceva sommessamente la donna, incantata ad osservarsi le mani. Cercai di distrarre la signora mentre la musica ricominciava a risuonare nella stanza, ma dentro di me ribolliva qualcosa, i pensieri correvano veloci nella mia mente come fulmini: stavo architettando qualcosa di cui non sapevo ancora niente.

Il ritorno a casa sembrò un po' spettrale: il silenzio era calato ancora più pressante dopo la notizia alla radio che sicuramente avevano sentito quasi tutti e quei pochi che non possedevano la radio l'avevano saputo dal vicino. La neve nel frattempo continuava a scendere, sempre più fitta, sempre più densa: adesso sembrava pesare sopra ogni cosa come un mantello di ghisa. 

Affrettai il passo.

"Oh Moira, finalmente, avrai già saputo della situazione." Disse mia madre in preda alle lacrime non appena rientrai in casa. L'abbracciai forte, evitando che anche le mie lacrime si unissero alle sue: in quei mesi avevo cercato di dimostrarmi forte, consapevole, ma fiduciosa che ce l'avrebbero fatta tutti. Mio padre era seduto sul divano che leggeva: mi sedetti accanto a lui e lo abbracciai consapevole che il dolore era ben spartito in tutta la famiglia. 

"Dobbiamo essere fiduciosi Rosa, i nostri bambini ormai sono uomini. Se noi siamo forti loro lo saranno ancora di più." Disse sciogliendosi dalle mie braccia. Rimasi lì, accanto a lui, eppure quella strana sensazione che era nata in me quel pomeriggio, dalla signora Elvira, non voleva andarsene: più che una sensazione era un presagio, qualcosa che sicuramente avrei combinato. Ma non riuscivo a decifrare cosa. 

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