Anywhere: Il Posto del Cuore

di TheHellion
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


1

Non so da quanti anni vivo qui a Townsend, ma ho le Smoky Mountains come panorama di tutta la vita. Le guardo tutte le mattine, quando esco di casa, sempre contornate da nubi pallide, come se avessero sciarpe e cappelli. Le pareti rocciose e spoglie contrastano con la folta vegetazione della valle  che circonda le case isolate. Vecchie case coloniali, ville a cui non è più stata fatta manutenzione.  I loro abitanti sono tutti o vecchi o famiglie povere a cui non può fregargliene di meno delle pareti smaltate e degli infissi ben ristrutturati. La crisi ci ha messo in ginocchio qui, nel Tennessee, non che le cose fossero migliori prima, ma adesso è ancora peggio.
Mia madre dice che per noi è meglio. Più straccioni ci sono, più clienti abbiamo, ma io non sono mai stata così materialista. Preferirei che tutti avessero soldi per comprarsi abiti nuovi e vorrei avere solo clienti amanti del vintage tra queste mura.
Invece siamo pieni di persone che vengono a comprare abiti smessi per i figli, per loro stessi. Gente buona, affabile, che ha avuto la sfortuna di nascere in queste splendide valli e non ha mai potuto lasciarle.
Spesso mi raccontano la loro storia, lamentandosi di quanto piaccia alle autorità non fare assolutamente niente per sistemare le cose. La politica è in mano ai ladri, è la frase che sento dire più spesso. Promettono tanto e nessuno mantiene la parola data. Non è una novità. È così da tutte le parti.
D’altronde chi, arrivato a un buon punto della gerarchia, si curerebbe di chi è più sfortunato di lui? La risposta è: nessuno.
Bastano i soldi a cambiare la gente.
Ho visto figli dimenticarsi dei loro genitori e fratelli abbandonare il sangue del loro sangue alla miseria, una volta arricchiti. Ho dei cugini che sono andati a nord, a New York, Boston, Augusta. Hanno studiato, hanno trovato un buon lavoro e si sono riempiti le tasche. Ora che hanno una vita agiata, vengono quaggiù una volta ogni tre o quattro anni, giusto per mostrare a noi poveri sfortunati quanti passi abbiano fatto in avanti. Macchine di lusso, vestiti griffati, sorrisi da star, ma con il marcio dentro, quello delle radici che hanno tagliato, senza ammetterlo.
Il suono della campanella sopra la porta mi fa sollevare il capo di scatto e mi distrae dai pensieri rabbiosi che hanno guidato la mia mano a scarabocchiare linee confuse sul bloc notes davanti a me. Lo nascondo, lanciandolo sullo sgabello di legno che si trova alle mie spalle e sorrido al cliente che è appena entrato dalla porta. È un signore mezzo pelato che viene spesso nel nostro second hand, compra sempre le solite camice a scacchi e mi regala qualche sorriso.
«Ciao, Cassie» mi saluta. «Sei sempre più bella.»
Gli faccio l’occhiolino e mi sporgo sul banco liscio e consunto.  «Sono sempre uguale, Mitch, ma il complimento me lo tengo» sorrido, accennando poi con una mano alle camicie. «Me le hanno portate ieri. Ti faccio metà prezzo se ne prendi due» gli dico.
«Se lo viene a sapere tua madre…» mi dice, avvicinandosi agli appendiabiti da cui pendono le camicie. Una delle sue mani ruvide scorre la manica pesante e lo vedo annuire soddisfatto. «Sono quasi nuove.»
«Come tutto qui. La roba la scelgo io» gli faccio sapere per l’ennesima volta, come se fosse una cosa nuova.
«Non per criticare tua madre, ma è meglio così.»
Rido appena a quello che mi ha appena detto e mi chino a prendere una busta sotto il banco.
«Ti dispiace se ti do una di quelle natalizie?»
Mitch si stringe nelle spalle, dopo essersi avvicinato al banco con gli attaccapanni appesi alle dita di una mano.  «Fa lo stesso, Cassie. Non ti preoccupare.»
Devo proprio smaltire tutto questo rosso.
Anche gli ultimi arrivi sono tutti rossi; sono i regali riciclati a Natale. Noi compriamo tutto, tranne l’intimo, anche se, capitemi, un maglione rosso con le renne non lo vuole nessuno, nonostante il freddo.  Mia madre insiste che va bene così e io non mi oppongo. Con lei non ha molto senso discutere su queste cose.
Mitch mi paga il dovuto; metà prezzo con un paio di dollari in più.
«Sono per te» mi dice con voce sommessa e accennò a me col mento.
Io annuisco e sorrido soddisfatta, prendendomi le monete che mi spettano e infilandole in tasca.
«Alla prossima, Cassie» mi saluta lui, prendendo la busta che contiene le due camicie dalle mie mani. «E salutami quella tirchia di tua madre» aggiunge.
«Non mancherò!» affermo a voce alta, mentre lui si avvicina alla porta del negozio, la apre e ne esce. Piove a dirotto, dannazione, e io non ho nemmeno preso un ombrello.
Imbroncio le labbra e poggio i gomiti sul banco, senza staccare gli occhi dall’esterno. Dovrei pulire la vetrina, ma con le piogge degli ultimi tempi non ha molto senso.
Visto il diluvio universale che Dio ha mandato a punire tutte le attività commerciali del centro, mi ritrovo a passare le successive due ore con me stessa. Non è una grande compagnia. Parlare con sé stessi è noioso perché se fai una domanda, sai già la risposta.
Sobbalzo al rumore della porta che si apre.
«Porca puttana!» esordisce la voce arrabbiata di mia madre, sovrastando il tintinnio della campanella. «Sta venendo giù il cielo.»
«Ma no, è solo pioggia» minimizzo io, sforzandomi di non ridere nel vederla zuppa dalla testa ai piedi. I capelli biondi sono scuriti dall’acqua e appiccicati sul suo viso. L’ombrello che tiene in mano è girato al contrario, con lo scheletro d’alluminio contorto, vittima del vento.
«Dovresti pagare gli ombrelli più di cinque dollari, mamma. Sai che quelli pieghevoli fanno schifo.»
Lei mi scocca un’occhiata tagliente che mi fa sorridere. «Era carino» si giustifica.
«Ma non valeva niente.»
«Trovami un oggetto a poco che vale qualcosa e ti do un premio» dice mentre si sfila il giubbetto fradicio e lo appende all’attaccapanni fissato al muro del retrobottega. I suoi passi sono veloci e pesanti, un po’ come il suo respiro.
«Come è andata?» mi chiede.
«Oggi uno schifo, ma’. C’è stato Mitch, quello delle camicie, un paio di persone stamattina, ma nessun altro. Con questa pioggia non si muoverebbe nessuno.»
Mi siedo sullo sgabello e chino le spalle in avanti. Sono stanca anche se non ho fatto molto. Forse è colpa di tutte le ore passate al pc, la sera. Dovrei regolarmi con quelle serie TV; Netflix sarà la mia rovina.
Mi accarezzo la base del collo e sospiro. «Andiamo a casa prima?»
«Sono arrivata adesso e già torniamo a casa?»
«Perché no?» protesto, imbronciando le labbra.
«Perché no» e con il mento accenna alla porta del negozio. C’è qualcuno oltre essa, un tipo incappucciato con un bambino in braccio. Ha un grosso borsone che pende dalla spalla.
Lascio il retro del bancone per aprire la porta e mi faccio da parte, lasciandoli passare.
«Prego!» lo invito, accogliendolo con un bel sorriso. Niente di personale, è il mio lavoro.
Lui si affretta ad abbassare il cappuccio, scoprendo i capelli castani, corti, disordinati e bagnati. Alcune ciocche scendono sulla fronte. Ora che lo vedo bene, il suo sorriso fa impallidire il mio e rende il suo volto ancora più bello.
Cavolo, è dannatamente bello.
Quel velo di barba, quegli occhi azzurri circondati da delle rughe d’espressione che non invecchiano il suo viso, ma lo valorizzano.
Bene, grazie Dio. Oltre al diluvio universale hai fatto piovere un bell’angelo tutto per Cassie.
Cassie, pensa, mi dico subito dopo all’interno della mia mente. Quest’uomo ha tutta l’aria di avere più di quarant’anni e soprattutto ha un bambino in braccio, non lo conosci e per quello che sai, potrebbe essere più stronzo di Bryan.
Non che già avessi fantasticato su una notte di sesso sfrenato, ma il faccino rotondo e gli occhioni spaventati del piccolo in braccio allo sconosciuto, smorzano ogni strana fantasia sul nascere. Sorrido al bambino e lo saluto con il cenno di una mano.
«Ciao!» gli dico, ma lui nasconde il viso, premendolo sul petto dell’uomo.
«È un po’ timido» dice lo sconosciuto. Ha una bella voce e un accento del nord che mi fa impazzire. È uno yankee? No, sembra più uno di Boston.  Conoscevo un ragazzo di lì e parlava allo stesso modo.
«Poverino, è comprensibile. Mia figlia ha una voce che squilla peggio delle sirene della polizia» si intromette mia madre. La battuta fa ridere lo sconosciuto in un modo così naturale e cristallino, che Dio, lo fisserei fino alla fine dei tempi.
Quanto è bello il mio lavoro quando entra un bel faccino. Bel faccino, insomma, bello tutto.
Cassie non farti beccare con lo sguardo avido su di lui, mi dico più volte, mentre mi preparo a chiedergli sempre la solita cosa.
«Posso esserle utile?»
«Sì, ma non le rubo troppo tempo, signorina. Vorrei solo sapere dove posso trovare dei vestitini per lui. Ha due anni e tre mesi» chiede lui, con un’educazione che me lo fa apprezzare ancora di più. La sua voce scorre sulle parole pacata, anche se il tono è piuttosto acuto. «Pensavo fosse più caldo e non ho portato abiti adatti.»
«Venga con me» gli dico, mentre percorro la breve distanza che mi allontana dall’espositore sgangherato da cui pendono maglioncini, camicie e pantaloni per i bambini dai due ai cinque anni. «Se li vuole far provare a suo figlio, c’è un camerino laggiù.»
Tendo il braccio verso la tenda nera spostata sullo spazio angusto che rappresenta il nostro angolo di prova. Lui annuisce e mi rivolge un sorriso così luminoso che mi sento quasi sciogliere. Oh, ma quanto sei carino, vorrei dirgli, poi mi ricordo che devo mantenere un minimo di professionalità.
«Grazie. Lei è molto gentile» mi dice.
«Si figuri, è un piacere» sorrido in maniera più convinta che professionale, annuisco e mi allontano da lui, compiendo un passo all’indietro, prima di voltarmi. Torno dietro il banco, a fianco di mia madre.
La musica country che esce dallo stereo vecchio come il cucco posato vicino alla cassa, copre il bisbiglio di lei al mio orecchio. «Lo guardavi come se volessi mangiartelo» mi dice.
Aggrotto le sopracciglia e mi volto verso di lei. Il sorriso, il sopracciglio alzato e lo sguardo sottolinea il fatto che mi stia prendendo in giro.
Non credo sia il caso di discutere con lei, perciò sposto la mia attenzione sul nostro cliente che ha preso due maglioncini dall’espositore e un paio di pantaloni di jeans. Li ha avvicinati alle manine del figlio.
«Ti piace questo rosso?» gli ha chiesto e il bambino ha annuito.
Lo guardo baciargli la fronte e mi viene spontaneo sorridere addolcita.
Non usufruiscono del camerino e lo sconosciuto appoggia i tre pezzi sul banco. Mamma fa il conto e io mi prendo la libertà di fare l’occhiolino al bambino che mi fissa. Ah, ma allora sa sorridere anche lui, ed è carino quando lo fa, prima di tornare a nascondere il faccino contro il petto del padre. Sì, è il padre, visto che prima non ha obiettato quando gli ho detto che il piccolo era suo figlio.
L’uomo infila una mano all’interno della tasca dei jeans, mentre mia madre fa il conto.  «Sono diciassette dollari, ma facciamo quindici.»
Mia madre che arrotonda in difetto è un evento, visto quanto è tirchia. Probabilmente lo sconosciuto ha fatto colpo anche con lei.
«Sicura, signora?» domanda  lui. «Non…»
«Ho avuto una figlia prima di lei e so quanto questi cosini adorabili costino. Cagano di continuo, crescono e sempre di continuo cambiano gli abiti.»
Lo sento ridere e rido con lui, anche se mia madre mi ha appena detto che all’inizio della mia vita sono stata un distributore automatico di cacca in crescita.
«Se è lei sua figlia, ne è valsa la pena.»
Che stronzo che sei. Non puoi tirarmi questi colpi bassi e pretendere che io rimanga tutta intera.
«Perché lei non la sopporta con lo stereo tutto alto, mentre canta più stonata di una campana rotta» racconta mia madre, mentre piega il maglioncino rosso.
«Io non sono stonata» protesto. «Sono diversamente intonata.»
E lo faccio ridere di nuovo.  Ah, che bello che è.  Peccato che torna subito serio.
«Posso chiedervi una cosa?» domanda.
«Certo» rispondo io. Qualsiasi, aggiungerei, ma mi pare troppo.
«Ho bisogno di trovare una sistemazione a poco per una decina di giorni. Sapete indicarmi qualche posto?»
Assottiglio lo sguardo e lo sposto verso un punto indefinito passando in rassegna mentale tutti gli hotel, i bed & breakfast e i motel della zona col pensiero.
«Sì, ce n’è uno a trecento metri da qui. Si chiama Lily Stand.  Non è di tante pretese ma almeno è pulito» gli dico, anticipando mia madre. So che anche lei stava per proporre il Lily, visto che appartiene a una nostra grande amica e sta letteralmente a due passi da casa nostra.
«Grazie. Lei è molto gentile, signorina.»
«Lei lo è più di me, signor…?»
«Oh, Mitiya, mi chiamo Mitiya Kurznik» si presenta, tendendomi la mano che stringo immediatamente. Le dita sono rese ruvide dai calli, sono lunghe e stringono le mie saldamente.
«È un piacere, signor Kurzink. Io sono Cassie Dawson e lei è mia madre, Barbara.» Dio, spero di aver pronunciato bene quel cognome così difficile. Non sono abituata agli stranieri, specialmente agli europei.
«Mi chiami Mitiya.»
Annuisco sorridendo, tutta contenta, mentre mia madre tende una mano verso di lui. «Anche se sono più vecchia di entrambi, non voglio farmi rubare la scena» dice, facendolo sorridere.
È bello, gentile e ha uno splendido nome. Mi sono sempre piaciuti i nomi russi, anche se, forse, dal cognome potrebbe essere ucraino. Lo ammetto, ho la fissa per le origini dei nomi, non posso fare a meno di analizzarli.
Mitiya stringe la mano di mamma  e lei gli pone un’altra domanda. «E suo figlio? Come si chiama?»
«Dorian» risponde lui.
«Da dove venite?»
«Mamma, non fargli il terzo grado, su.»
Lui accenna un sorriso e si rivolge a me. «Non si preoccupi, signorina Dawson. Mi fa piacere che qualcuno me lo chieda. Amo parlare e ho tempo, visto quanto sta piovendo là fuori. Qui è riscaldato, almeno.»
Sistema meglio il bambino nella stretta del braccio e si schiarisce la voce. «Sono nato a Boston, ma i miei genitori sono originari di Odessa.»
«In Ucraina, vero?» domando io.
«Sì. In Ucraina, ma quando loro se ne sono andati, era ancora parte dell’URSS» spiega Mitiya.
«Dal Massachusetts al Tennessee? Come le è venuto in mente?» chiede, quasi sconvolta, mia madre. «Quaggiù si muore di fame.»
«Sono di passaggio. »
«Dove è diretto?»
«Cristo, mamma, vuoi allentare il tiro? Stai dando i nervi a me, figuriamoci a lui» sbotto. Non l’ho mai sopportata quando si impiccia così tanto della vita delle persone.
«Non lo so ancora, a dire il vero. Sono appena uscito da una situazione spiacevole e ogni luogo va bene.»
A questo punto scocco un’occhiataccia a mia madre, perché la conosco e so che cosa vorrebbe tanto fare. Vorrebbe chiedergli altre cose.
«Potrebbe sistemarsi qui. È un posto tranquillo, piccolo, sotto le Smoky Mountains. Abbiamo una bella cornice» gli propone, mamma. Non può proprio stare senza parlare, dargli tregua. Questo suo interrogatorio è una sorta di rodaggio per tutti i nuovi clienti. Chi resiste e non la manda al diavolo, di solito si lega a noi per tutto il tempo che passa in zona.
«Mai dire mai. Sono arrivato oggi, devo ancora rendermi conto di com’è Townsend.  Ma dalle prime persone con cui ho parlato, mi sono costruito delle aspettative.»
Lo sguardo dei suoi grandi occhi azzurri si ferma prima su di me, poi sulla mamma.
«Non vada dal bar di Buddy, quello qui vicino, altrimenti cambierà subito idea su Townsend» lo mette in guardia lei.
«Perché?»
«È un bastardo che ha votato Trump nel 2016» dice lei, abbassando il tono di voce. «Ma è anche un grandissimo stronzo. Stia alla larga.»
Mamma ha ragione. Buddy è un vecchio rompipalle che detesta tutti quelli che non sono di qui. Quando c’era papà, lo tormentava perché era di Baltimora e aveva l’accento del Maryland.  E non erano scherzi, giochi di parole innocenti i suoi. Erano cattiverie belle e buone da sudista stronzo.  La guerra di secessione non è mai finita da queste parti piene zeppe di ignoranti che reputano ancora la gente del nord un gruppo di checche ipersensibili.
«Peccato. L’avevo adocchiato poco fa, ma se mi dite così, evito. Dove posso andare a mettere qualcosa sotto i denti? È quasi ora di cena.»
«Qui, proprio a fianco a noi. Robert Chimney ha un localetto di cibo sano, non il solito fast food spappola – fegato» gli dice mia madre.
«Il cibo sano costa e io sono a corto di soldi, signora» replica lui, dipingendo il viso di un’espressione costernata, mentre raccoglie la busta con i vestitini dentro.
«Cassie, accompagnalo tu da Robby e digli che se lo spenna, io spenno lui.»
Mamma mi spaventa da morire quando non è sé stessa fino a questo punto. Di solito c’è sempre un motivo sotto e stavolta non riesco proprio a rintracciarlo. Mitiya è sicuramente più giovane di lei, quindi non lei interessa. Forse è il bambino? Sì, sicuro, perché lei ama i bambini. È un po’ taccagna, leggermente impicciona, ma quando si parla di bambini si scioglie come neve al sole.
«Agli ordini, capo» le dico, prima di entrare nel retrobottega e prendere il giaccone e un ombrello, il mio, quello che custodisco gelosamente, visto che mamma rompe tutti quelli che tocca.
Prendo la borsetta e, sicura di me, come solo una negoziante dalla nascita sa fare, aggiro il banco e affianco il mio cliente in difficoltà.
Do un rapido sguardo all’esterno, oltre la vetrina. Non sembra che piova più tanto. Anzi, pare abbia smesso.
«Approfittiamo?» dico a Mitiya che non mi risponde a voce, ma annuisce.
«Grazie, signora Dawson.»
«Barbara» lo corregge mamma.
«Barbara» ripete lui, accennando con il gesto del capo.
Sono la prima a uscire dal nostro second hand, facendo suonare la campanellina al mio passaggio. Vedo, con la coda dell’occhio, che il piccolo Dorian ha alzato il capo verso l’alto. Il padre gli dice qualcosa in russo che io ovviamente non comprendo. Guardo alle pozzanghere sul marciapiedi dissestato e crepato. Non c’è nessuna goccia a incresparle. Ha ufficialmente smesso di piovere e io posso evitare di aprire l’ombrello. C’è un vento freddo, però, che mi fa rabbrividire. Una ciocca di capelli biondo scuro sfugge dalla coda di cavallo che porto sempre, mentre attraverso la stradina che ci separa dal locale di Robert. La Chimney Rodhouse offre maggiormente piatti a base di carne fresca, proveniente dalle fattorie del circondario. Non è un luogo esattamente economico, per la spazzatura c’è Buddy o il Burger King a un paio di isolati da qui.
Ci sono un paio di persone in giro, gente che conosco di vista e che mi saluta.  Il bello di essere una negoziante è che non c’è bisogno di conoscere bene una persona per meritarsi un sorriso o un saluto. Io sono quella del second hand, quella dei vestiti. Sono una sorta di autorità.
«Lei è famosa» me lo fa notare anche Mitiya.
«Io? Ho un negozio.»
«E avere un negozio porta a così tanto rispetto?»
Scuoto il capo e alzo le spalle.
«No, non è rispetto. È solo... abitudine. Siamo quelle dei vestiti. La maggior parte di loro non sa nemmeno come mi chiamo.»
Lui rimane in silenzio anche quando entriamo all'interno del locale di Robert.
L’odore di cibo mi riempie le narici e scatena un po’ di quella fame che ignoro ormai da un po’. Mi sa che si è fatto tardi.
Mi fermo davanti al banco e suono la campanellina poggiata lì sopra, in modo da richiamare Rob che sicuramente sta lavorando in cucina. Non ha aiutanti e a quest’ora ha sempre un sacco da fare.
Sento protestare il piccolo Dorian, molto probabilmente perché qui dentro fa un caldo insopportabile e c'è un sacco di gente che parlotta, creando un brusio fastidioso.
«Si è spazientito» spiega Mitiya, mentre cerca di calmare il bambino, dandogli un bacio sulla fronte.
Invece di premere il tasto della campanella, ci do un pugno che ne fa uscire un rumore sordo.
«Arrivo!» grida la voce di Robert, prima che i suoi passi trascinati diventino percettibili.
L'uomo raggiunge con calma il retro del banco. È un bell'uomo, peccato che la barba brizzolata si sia conquistata troppo spazio sulla sua faccia. Ha gli occhi azzurri, i capelli folti, ricci e lunghi fino al mento.
Dice di no, ma mia madre ha un debole per lui da non so quanto tempo. Da ragazzina non me ne accorgevo, ma adesso che sono grande so riconoscere uno sguardo complice.
«Cassie!» mi saluta, tutto contento. I baffi folti cercano di coprire il suo sorriso ma non ci riescono. «Vieni per la cena? Ho appena arrostito un'ottima lombata.»
«Più tardi, Rob. Sono sicura che mia madre gradirebbe, ma ancora è presto.»
Mamma preferisce prendere la roba appena tolta dal fuoco, così è calda e non dobbiamo rovinarci ad accendere la cucina o il forno. Né io né lei siamo grandi cuoche, in effetti.
«Ho accompagnato qui un signore che mi ha chiesto dove si mangiava bene. E io ho pensato subito a te» dico, sorridente, ma mi accorgo che Robert sta squadrando Mitiya dall’alto al basso, mentre le sue labbra perdono il sorriso.
«Certo. Che cosa le servo?» chiede, sforzando di essere cordiale.
«Potrei vedere il menù?» domanda educato Mitiya.
Robert appoggia il palmo della mano sulla fronte. «Mi scusi, ha ragione. Si accomodi pure a uno dei tavoli.»
Dall’espressione di Mitiya capisco che c’è qualcosa che non va. Sono sicura che si sia accorto del modo in cui lo guarda Robert e il novanta percento della gente del locale. Sono tutte persone di qui, made in Tennessee, e quando sentono qualcuno con un altro accento, drizzano subito l’orecchio. In questa città dimenticata da Dio passano pochi turisti e di solito non si fermano a mangiare in un locale come quello di Rob, perché preferiscono i fast food.
Seguo Mitiya con lo sguardo mentre si siede al tavolo più vicino al banco e sistema il piccolo Dorian sulle gambe. Il suo sorriso cerca di essere splendente come sempre, ma è adombrato da un po’ di amarezza.
«Sicura che ha i soldi per pagarmi?» chiede Rob sottovoce.
«Pago io se non bastano i suoi. Fagli un prezzo di favore, poi al resto ci pensiamo noi.»
Lui mi guarda perplesso. «Da quando Barbara spende i suoi soldi per uno sconosciuto?»
«Da quando c’è un bambino piccolo che sicuramente ha fame. Sai com’è fatta, no?»
Robert annuisce e sospira sconfitto. «Va bene. Sistemiamo quando passate per cena.»
Non sia mai che tu fallisca per qualche dollaro, vorrei dirgli, ma lascio perdere e raggiungo il tavolo dove si è sistemato Mitiya.
«Grazie» mi dice, mentre slaccia l’impermeabile che copre il bambino.
«Si figuri. Se posso dare una mano, mi fa piacere.»
Do un rapido sguardo al menù che conosco a memoria. «Le costine. Non se le perda, perché sono la cosa più grassa e condita del menù.»
Lui mi guarda perplesso, anzi, mi squadra proprio. «Una ragazza che mi consiglia le costine?»
Rido al suo tono interrogativo. «Oh, e questo è la cosa più magra che ingurgito.»
Ridiamo insieme prima che io annuisca e mi dia un’occhiata attorno.
«È meglio che vada adesso. Non posso lasciare mia madre da sola, perché rischia di fare troppi danni.»
Lui accenna un sorriso, anche se debole. Sembra che i suoi occhi vogliano rifuggire dai miei. Forse devo smetterla di stargli col fiato sul collo e lasciarlo in pace.
«Ci vediamo in giro» lo saluto, facendo un passo indietro, prima di voltarmi e prendere la direzione che mi porta all’uscita.
«A presto, Cassie» mi risponde lui, quando sono quasi arrivata all’ingresso. Mi volto a rivolgergli un cenno con la mano e mi accorgo che è tornato a sorridere come prima. Mi dispiace lasciarmelo alle spalle, quando la porta si chiude dietro di me. L’ombrello che ho agganciato al polso dondola a ogni passo, mentre percorro la strada che separa il locale di Rob dal nostro second hand con le mani infilate nelle tasche.
Una volta rientrata trovo mia madre che chiacchiera con un paio di signore del posto; amiche sue. Le saluto cordialmente e torno dietro il banco.  Ascolto i discorsi sulle tragedie amorose di questo e di quello, dopodiché mi distraggo, prendendo in mano il cellulare. Cedo alla tentazione di aprire l’applicazione di Facebook e scorrere la home, così, tanto per noia. Quello che vedo non mi piace per niente; ho ancora l’amicizia del mio ex che spamma foto di lui e la sua nuova fiamma a profusione. Loro due insieme in un locale, loro sul letto, mezzi nudi, con una frase filosofica come didascalia del tipo : “se è vero che un uomo vive due volte, la seconda è migliore al tuo fianco”. Loro due in macchina, loro due con il cane – povero animale, capisco perché ha quel musetto intristito. Insomma, loro due, sempre e comunque.
Non sono gelosa, sinceramente. Bryan era un coglione di prima categoria, uno di quelli che ti promette il mondo e quando le cose si fanno serie taglia la corda più velocemente di Flash.
Però vederlo mi dà fastidio, anche perché ho sprecato anni a stargli dietro. Era il mio fidanzatino alle superiori e me lo sono portato dietro per tredici anni. Tredici anni su trentuno, sono quasi mezza vita sprecata a fianco di un essere del genere.
Anche se ho mille e novecento amici, non c’è nessuno con cui mi va di chattare al momento, così mi occupo un po’ di tempo a guardare cagnolini e gattini ripresi in atteggiamenti buffi o  dolci. Sono quelli il bello di Facebook, anche più degli uomini con gli addominali di fuori. Ho la nausea ogni volta che li vedo, non perché non siano belli o che non li gradirei dal vivo, ma perché me li propinano in tutte le salse. C’è una mia ex compagna di scuola che ne mette uno al minuto.
Dopo aver scorso la home distrattamente per qualche minuto accantono il telefono e punto lo sguardo annoiato fuori.  Cavolo è tardi e ancora queste due non se ne vanno. Mi volto a guardare mia madre, chiedendole pietà con lo sguardo.
Lei annuisce, anche se non si volta verso di me, fingendo di ascoltare il discorso di una delle due.
«Va bene, ragazze. Sono le otto passate, devo chiudere tutto a cena» cerca di liquidarle.
«Che cosa cucini?» le chiede una, quella più in su con gli anni. Le vedo tutti i giorni e le ignoro talmente tanto da non ricordarmi nemmeno il loro nome. Kelly e Rory? Mh, forse no. Cip e Ciop, come le chiamo di solito, va più che bene.
«Ci fermiamo da Rob prima di tornare a casa.»
Cip e Ciop si scambiano un’occhiata che non mi piace per niente. Scommetterei un rene che una volta uscite di qui, inizieranno a sparlare di mamma e Robert, raccontando una versione fantasiosa di quella semplice frase.
Alzo lo sguardo verso il soffitto e schiudo le labbra quando sento la campanella della porta, seguita dal rumore della chiusura dell’infisso. «Grazie a Dio» esclamo. È finita un’altra giornata.

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Capitolo 2
*** 2 ***


2

 
Gli occhi quasi si chiudono davanti allo schermo del pc, mentre l’ennesimo episodio di una delle tante serie che seguo scorre davanti a essi. Io sono davvero fatta male, quando manca il mio personaggio preferito, tendo a ignorare i dialoghi, a perdermi, specialmente a quest’ora della notte. Mamma dorme da un bel pezzo. La sento russare dalla stanza di fronte alla mia.
Decido di salutare Netflix per un po’ e dedicarmi a un altro dei miei hobby. Adoro scrivere, anche se sono una schiappa a razionalizzare tutte le idee che ho in testa. Sono su AO3 da quando ero una bambina e ho appestato il sito di centinaia di fan fiction e storie originali. Ho ottenuto anche un buon numero di recensioni alle prime, che a mio avviso, sono le più brutte e ingenue di tutte quelle che ho scritto.
Sono un po’ scoraggiata, però, ultimamente.
Da quando ho rotto con Bryan ho perso un po’ di entusiasmo. Inizio a credere di meno nei miracoli dell’amore e, di conseguenza, mi va meno di esaltarli all’interno di alcune storie.
D’altra parte non voglio nemmeno creare vicende che finiscono male, perché mi sentirei in colpa per la sorte dei personaggi. Non è giusto che vivano una vita di merda solo perché sono delusa.
Sì, sono delusa,  ma non mi do il tempo di sentirmi così. Non mi sembra giusto perdere tempo dietro una sciocchezza; amare qualcuno non è essenziale. Si campa bene anche senza. Il vuoto che sento non è che un capriccio che mi permetto quando non ho niente a cui pensare.
Osservo per qualche minuto il foglio bianco di Word e provo a scrivere qualche frase. Non ne reputo buona nemmeno una e chiudo senza salvare.
Forse è meglio che vada a dormire.
Controllo l’ora dalla sveglia digitale poggiata sul comodino. So di avere l’orologio anche sul pc, in fondo a destra della schermata home, ma, sapete, le vecchie abitudini sono dure a morire.
Chiudo tutto, segnandomi su un foglio elettronico l’episodio e il minuto a cui sono arrivata. Appoggio il laptop grigio scuro sulla scrivania. C’è qualche libro abbandonato lì sopra che si è impolverato. Dovrei pulire, risistemare, ma quando arrivo a casa ho poca voglia di farlo. Presto si accorgerà mamma e sistemerà tutto, penso, mentre mi metto a letto, sotto le coperte e spengo la luce dell’abat-jour sopra il comodino.
***
Sono uno zombie finché non bevo una tazza di caffè. Non mi va nient’altro alla mattina; ho troppo sonno anche per masticare. Sono le otto e ventidue, me ne accorgo sollevando lo sguardo sopra l’orlo della tazza bianca, verso l’orologio agganciato alla parete.
«Oggi vai tu a fare la spesa, Cassie?» mi chiede mamma, sedendosi vicino a me. Passa un cucchiaio di marmellata sul pane tostato che ha appoggiato su un piatto.
«Ahà» rispondo io, mandando giù un altro sorso di caffè.
«Che entusiasmo.»
«Ho dormito due ore, cosa vuoi che faccia? I salti di gioia?»
«Hai dormito con il culo scoperto?» mi chiede, urtata dalle mie parole.
Io non rispondo, mi stringo nelle spalle e finisco di bere tutto il caffè, prima di puntare le mani sul tavolo e alzarmi in piedi. Mi allungo sul tavolo a prendere il foglietto strappato su cui ha segnato le cose da prendere. Lo trascino sulla superficie liscia, prima di ficcarmelo in tasca.
Mi sono pettinata alla meno peggio, ma non mi importa. Non devo andare in negozio adesso, devo andare da Betty, al minimarket a prendere due cose in croce per la colazione. Tornerò a casa per correggere le occhiaie da Netflix e andrò al lavoro perfetta come sempre. Fuori almeno.
Stamattina sono di pessimo umore, forse per come mi sono addormentata ieri.
Dopo aver preso la borsa di mia madre, perché è lì che ci sono i soldi, mi volto verso di lei e le rivolgo un sorriso. Lei se lo merita.
«Ci vediamo più tardi, ma’» le dico. «Porto a casa la roba e ti raggiungo, ok?»
Lei annuisce.
«A dopo, Cassie!»
Esco di casa e tiro un profondo sospiro quando vengo investita dai raggi deboli del sole. È autunno, non fa freddo, ma piove in continuazione e giornate come queste sono rare.  Assicurò la tracolla della borsetta alla spalla e infilo le mani nelle tasche mentre percorro il marciapiedi a passo sostenuto. C’è sempre la solita gente in giro che mi saluta e mi sorride.  Non stiamo tanto lontano dal negozio, perché viviamo nella casetta bassa vicino al Lily Stand. È stata proprio Lily a vendere a mia madre una delle sue proprietà. Mezza Townsend è della sua famiglia, da generazioni. Betty, la signora del minimarket è sua cugina, Buddy è il fratello di suo padre, Robert suo fratello. Sono tutti imparentati da queste parti. Mi fermo qualche istante davanti al Lily Stand perché non riesco a far tacere un pensiero. Anzi, questo mi spinge a entrare con la scusa di augurare il buon giorno a Lily, seduta su uno sgabello dietro il banco della minuscola reception.
È una signora snella che porta benissimo i suoi cinquantatré anni. I capelli neri sono ricci e corti fino al mento. Gli occhi scuri profondi e penetranti. Mi accoglie con un sorriso dolcissimo, come ogni volta che passo così presto, un sorriso che mi contagia.
«Ehi, Cassie!  Dormi in piedi, oggi?»
«Cristo, Lily, stanotte ho fatto tardi e ho dormito due ore in croce. Si vede così tanto?»
Lei annuisce e ridacchia ancora un po’. «Sei uscita?»
«Sì, con un angelo sexy in tv.»
La mia battuta fa ridere. «Dovresti trovare qualcuno, invece. Vuoi invecchiarti da zitella come me?»
Sbuffo e alzo gli occhi al cielo. «Magari fossi come te alla tua età.»
Lei solleva le sopracciglia e storce un po’ le labbra, contraddicendomi senza dire nulla.
«Ti volevo chiedere una cosa» introduco il discorso che voglio fare con lei da quando sono entrata.
«Dimmi.»
«Per caso, ieri pomeriggio è venuto un uomo con un bambino piccolo?» domando a voce bassa.
Lily assottiglia lo sguardo sul mio, prima di spalancare gli occhi. «Sì, ha preso la stanza due.»
La privacy del cliente non esiste qui a Townsend.
«Lo avete spedito voi qui, me lo ha detto ieri» mi spiega.
Faccio per parlare, ma lei mi rivolge il palmo della mano. «Ci siamo subito presi bene.»
«Oh, bene. Sono contenta che ti sia piaciuto.»
«Solo a una cieca non piacerebbe, tesoro mio. Ma, a parte il suo bel culo, e quel sorriso bagnamutande, ha anche le mani d’oro.»
Non mi abituerò mai al linguaggio colorito che Lily usa quando è in confidenza con qualcuno. Pensavo che lo riservasse solo alle chiacchiere con mia madre, invece traumatizza anche me.
«Le mani d’oro?» chiedo, perplessa.
«Non nel senso che pensi tu. Potrebbe essere mio figlio.»
Distende il braccio sinistro e indica qualcosa alle mie spalle. Seguo la direzione del suo cenno e mi trovo a guardare la vecchia scatola del sistema di riscaldamento. Nella piccola hall non c’è il radiatore, ma il condizionatore d’aria che funge anche da pompa di calore.
Sgrano gli occhi. «Non fa più quel rumore infernale.»
«No, infatti. Lo ha sistemato lui, ieri sera, prima di andare a dormire. Quel cretino di Jim aveva detto che era da buttare, invece è bastato ripulire la ventola per farlo andare come nuovo.»
«Jim voleva vendertene uno di quelli che ha in negozio. È normale che non…»
«Jim è un imbecille che non sa fare il suo lavoro» sentenzia lei. «E mi guarda il culo ogni volta che mi giro.»
«Mi sono accorta che ti sbavava dietro quando avevo sei anni. Non penso sia cambiato niente» rido, divertita, prima che il silenzio si distenda tra me e lei.
«Lo straniero rimarrà qui per una decina di giorni. Mi ha promesso che farà un po’ di manutenzione in cambio di una stanza» riprende Lily. «So che è questo che vuoi sapere.»
Sollevo le sopracciglia e curvo le labbra in una smorfia annoiata. «Perché pensi una cosa simile?»
«Perché sono una donna anche io» risponde lei, sorridente.
Non rispondo a quella frase, perché proprio non mi va di scontrarmi contro il muro delle sue convinzioni. È presto, ho sonno e non vedo l’ora di fare quello che devo per tornare a casa.
«Ok, ti lascio ai tuoi pensieri, Lily. Adesso devo proprio andare» la liquido, mostrandole un sorriso più professionale che vero. Nemmeno io capisco perché mi dia così fastidio che lei insinui, ma sento il desiderio di lasciarmi il Lily Stand alle spalle.
***
Ho preso quello che dovevo, l’ho portato a casa e adesso ho tutta la voglia di prendermi qualche altra ora libera per riposarmi. Infatti apro il pacchetto di M &M’S che mi sono comprata, un piccolo vizio di cui mia madre non dovrà sapere niente, e inizio a sgranocchiare le caramelline di cioccolata, dopo essermi seduta sul divano. La TV è spenta e il silenzio, intervallato solo dal ticchettio regolare dell’orologio, mi fa scivolare in un sonno pieno di sogni confusi.
È Love’s only a Feeling dei The Darkness a svegliarmi; qualcuno mi sta chiamando al cellulare.
Rispondo con la voce impastata e distanzio il dispositivo non appena sento urlare mia madre.
«Che diavolo stai facendo ancora lì? Ho un sacco da fare.»
Alzò gli occhi al soffitto e sbuffo annoiata.
«Andiamo, ma’, non arrabbiarti. Ho dormito un po’ e…»
«Alzati e vieni subito qui o vengo a prenderti per un orecchio.»
Non mi lascia spazio per replicare e chiude barbaramente la chiamata. Fisso il telefono per un po’ e, infine, tiro giù il menù a tendina delle notifiche.  Spalanco gli occhi quando trovo un messaggio di Bryan su Messenger. “Passo tra un po’ in centro. Ci vediamo? Mi piacerebbe parlare con te.”
«Certo, come no?» dico ironica tra me e me, senza rispondere al messaggio.  Lo visualizzo e basta. Me ne arriva un altro subito dopo sempre dal suo profilo. “Mi manchi.”
Vorrei tanto scrivergli di andarsene a fanculo, ma sono troppo signora per abbassarmi a tanto, così metto via il telefono, nonostante vibri con una nuova notifica, mi sistemo ed esco. Avrei dovuto truccarmi, rendermi presentabile, ma non ne ho tanta voglia. Scopro di essere di pessimo umore ora che lo stronzo si è rifatto sentire.
Cammino a testa bassa in direzione del second hand e quasi mi scontro con Buddy che è appena uscito dal suo bar a sistemare la bacheca con le offerte del giorno, come se avesse una varietà di pietanze da offrire.
«Guarda dove cammini» mi dice, accennando a me con il mento.
Annuisco e basta , non mi va proprio di discutere, nemmeno quando mi sento dire quello “stronza” sottovoce.
Buddy è il minore dei miei problemi in questo momento. Continuo a pensare e ripensare al messaggio di Bryan e alla possibilità di rivederlo in giornata. Gli ho detto chiaramente che non saremmo rimasti amici, che non voglio più essere cercata, ma lui è così egoista da fregarsene di ciò che desidero io, perciò non si fa scrupoli a perseguitarmi quando si annoia.
Sì, evidentemente mi sta cercando perché si annoia.
Saluto mamma distrattamente e mi infilo nel retrobottega per togliermi il giubbetto di dosso. Mi do una sistemata davanti allo specchio. Non sono proprio male, anche senza trucco. Sto bene così, mi dico.
Torno al banco e affianco la mamma che sta facendo il conto a una coppia di ragazzi. Lei ha in braccio una bambina molto graziosa che,  col ciuccio in bocca, osserva ogni movimento di mia madre alla cassa.
Non li conosco molto bene, perché vivono fuori dal paese e non vengono molto spesso a trovarci, ma ogni volta, lui chiacchiera a ruota libera con la mamma del lavoro alla distilleria, impiego che non gli piace per niente.
Qui, quasi tutti lavorano in qualche distilleria. Ce ne sono tantissime, perché il whiskey è come il pane da queste parti. Anche il padre di quello stronzo di Bryan lavora in una di quelle aziende, ora che ci penso, ma lui non è un operaio, è un dirigente, proprio come papà. Erano amici una volta, quando io e lui eravamo bambini che giocavano insieme in riva al fiume poco distante. Siamo cresciuti praticamente insieme, finché papà non è morto. Non so bene che cosa è successo quella volta, ma è stato qualcosa che ha cancellato tutti gli anni di vicinanza con un colpo di spugna.
Mia madre è rimasta legata solo a Bryan perché era praticamente cresciuto con me e con lei, quando i suoi lavoravano,  ma dopo la bastardata che mi ha fatto il loro rapporto è andato a farsi benedire. Glielo aveva detto; comportati bene con Cassie o ti spezzo le ossa.
Non ha tenuto fede a tutto il suo proposito, visto che Bryan è un bestione di quasi due metri, ma lo ha proprio escluso dalla sua esistenza. Niente più chiamate, niente più raccomandazioni, niente più sorrisi.
Ho la tentazione di raccontare a mia madre dei messaggi, ma è come se già la sentissi; non rispondere, chiudilo fuori dalla tua vita una volta per tutte.
Ma la mia è una questione d’orgoglio, perché io non scappo mai così, non fingo che le persone non esistano. Preferisco affrontare le cose, farci i conti e sforzarmi a chiudere tutto.
***
Mamma sembra non voler andare a casa, oggi. Non so che le è successo, ma ha un’espressione strana sul viso. Siamo passate da Rob come tutte le sere, abbiamo ritirato la cena ordinata e ancora siamo in giro per Townsend.
Siamo state al parco giochi, quello piccolino vicino casa nostra. A quest’ora è completamente vuoto e nessuno ha da ridire se ci sediamo sui piccoli sedili dell’altalena.
Lo facciamo spesso da quando siamo rimaste sole e di solito sfruttiamo quel momento per parlare.
«Lily ha detto che oggi sei passata da lei per sapere come sta il ragazzo che abbiamo aiutato ieri, quello col bambino» mi dice.
Quella dannata bocca larga di Lily. Dovevo aspettarmelo che le facesse la cronaca della nostra conversazione.
«Mitiya» la correggo io. «Sì, volevo sapere come se l’era cavata con Lily.»
Mamma ride e si spinge appena puntando un piede a terra.
«Starà qui per un po’» dice. «Quindi credo si siano presi bene.»
Nessuno potrebbe prendere male uno con un sorriso così bello, vorrei rispondere, invece rimango in silenzio e alzo lo sguardo verso la distanza.
«Lo farò venire anche in negozio. Abbiamo il lavandino del bagno che perde. Ti lascerò sola con lui» mi avverte, facendo scorrere una mano lungo la catena dell’altalena.
«Mamma...»
«Che c’è? Mi sono accorta di come lo guardavi ieri. Non dico che gli devi saltare addosso, ma quell’uomo ha un bel sorriso, magari ti contagia» mi spiega, come se il suo discorso avesse un senso compiuto.
Inclino il capo da un lato e sollevo le sopracciglia. «Mamma, io sorrido sempre, sembro avere una paresi.»
«Sono sorrisi finti, quelli che tiri fuori per forza anche se non ti va.»
Il suo sguardo si allontana dal mio, perdendosi davanti a lei, nella luce violacea della sera. Il sole è tramontato da un bel po’ dietro le montagne e inizia a fare piuttosto freddo.
«Ne so qualcosa» dice, dopo una lunga pausa, trasmettendomi una profonda tristezza. Vorrei chiederle il perché della sua affermazione, ma la conosco; non mi risponderebbe mai se ha quegli occhi.
«Che ne dici se andiamo a casa? Sto diventando un cubetto di ghiaccio» le dico, ridacchiando. Lei annuisce ma non si muove da lì.
«Dammi altri cinque minuti e torniamo a casa, ok?»
«Ok» le accordo, lasciando calare il silenzio tra noi e mi dondolo un po’ sull’altalena. La carezza debole dell’aria mi sposta i capelli dal viso mentre guardo in lontananza, chiedendomi se lontano, oltre le Smoky, c’è qualcuno che sta dondolando sull’altalena con la testa mezza vuota e si pone la stessa domanda idiota.
Trentuno anni e non ho mai sconfinato da questa zona. Mio padre odiava viaggiare e la mamma non si è mai opposta; lui ha le sue responsabilità, diceva sempre.
Da piccola non capivo che cosa volesse dire, poi crescendo ho compreso che il suo lavoro valeva più di me e lei messe insieme. Ricordo bene le rare volte che eravamo tutti insieme; si mangiava in silenzio con la televisione in sottofondo che il più delle volte trasmetteva notiziari. Mamma commentava una notizia e papà le rispondeva con un paio di parole. Sembrava un pesce fuor d’acqua quando era con noi, come se non sapesse che dire o che fare. Non era parte di quello che eravamo io e mamma, era il terzo elemento di una squadra che non ne aveva bisogno.
Ho sofferto quando è morto?
Alla gente ho detto di sì, ma non ho pianto più di tanto quando lo hanno portato via. Non avevo grandi ricordi di lui, se non quei momenti a tavola, il tempo passato seduti vicini sul divano quando davano i cartoni e i viaggi muti in auto quando mi accompagnava a scuola.
Non sono nemmeno arrabbiata con lui, né gli rimprovero qualcosa, perché credo che ognuno abbia la possibilità di amare o non amare gli altri.
Papà non è mai stato crudele con me, né mi ha fatto mancare nulla, non ha mai alzato un dito su di me, semplicemente non ha mai voluto starmi troppo vicino.
Quando mamma si alza lasciamo il parco e ci incamminiamo verso casa. Passiamo davanti alla nostra Jeep Cherokee del ‘96. La carrozzeria rosso pastello si è opacizzata e c’è qualche punto di ruggine attorno al tappo della benzina.  È sporca da fare schifo, specialmente all’interno. Dovrei lavarla uno di questi giorni. Mamma mi dice sempre di lasciar perdere, perché la macchina ci serve sì e no due volte al mese, per andare a fare rifornimento al centro commerciale che si trova a sei chilometri da qui.
A me dispiace lasciarla così, nell’incuria più totale. So che è un oggetto, ma ci sono affezionata, perché è una parte della nostra storia e perché forse ancora sogno di salirci su, accendere il motore, ingranare la marcia e partire, non so per dove. Uno dei miei sogni proibiti è proprio guidare finché non ho finito il carburante, giusto per cambiare aria, per vedere qualcos’altro oltre a Townsend.
Mamma sta aprendo il portoncino per entrare in casa, quando entrambe ci accorgiamo del suono non troppo lontano di una chitarra. Riconosco la canzone intonata da una voce dolce di uomo; è You’re Missing di Bruce Springsteen.
 
You're missing, when I close my eyes
You're missing, when I see the sun rise
You're missing.
 
Proviene da una delle stanze del Lily Stand.
Non posso fare a meno di pensare che sia proprio Mitiya a cantarla. La voce sembra la sua.
Manchi tu.
Chissà a chi la sta dedicando?
«Ehi, Cassie, vieni?»
Annuisco e la seguo all’interno. Non ho nessuna intenzione di scusarmi per essermi attardata ad ascoltare, anzi, ancor prima di mettermi a mangiare, con una scusa salgo in camera mia e mi affaccio dalla finestra. Da qui si vede meglio il Lily Stand e si sente meglio la voce intonata.
La finestra aperta è quella al secondo piano, l’unica con una luce dentro accesa.  Mi sporgo un pochino per poter vedere la persona che è seduta sul letto. Non riesco a vederlo bene finché la musica non si interrompe. L’ombra disegnata dalla luce calda di un’abatjour si muove sulla parete, mentre Mitiya allunga una mano verso l’anta aperta. Sta per chiudere la finestra mentre io mi affretto a tirarmi indietro in quella di camera mia.
«Signorina Dawson?» mi richiama. Cavolo, mi ha visto per due nanosecondi e già mi ha riconosciuto? A questo punto ho due strade da prendere, o mi ritiro e faccio finta di niente, o vado fino in fondo alla mia figura di merda e lo saluto con una scusa.
Opto per la seconda. Mi sporgo di nuovo dalla finestra, curvando le labbra in un sorriso cordiale ma visibilmente impacciato.
«Salve» esclamo.
«Anche lei si gode l’aria della sera?» mi domanda, dopo aver poggiato i gomiti sul davanzale ed essersi sporto.
«In realtà...»
Glielo dico oppure no?
Non posso mentire davanti al sorriso splendido che mi sta rivolgendo adesso, rischiarato dalla luce del lampione.
«Stavo ascoltando la canzone. Ha una bellissima voce, sa?» sparo, sincera, tutto a un fiato.
Lui scuote il capo, mentre ride divertito. Sta ridendo di me e di quanto gli appaio sfigata, probabilmente.
«Non è niente vicino a quella del Boss.»
«Sei un suo fan, Mitiya?» domando, accorgendomi solo dopo della confidenza che mi sono presa con lui e mi mordo automaticamente il labbro inferiore.
«Sì, lo adoro da quando ero un ragazzino» mi risponde, per niente turbato dall’andamento di quella conversazione.
«E tu, Cassie?» e solleva un angolo della bocca. Evidentemente le formalità stanno antipatiche a entrambi.
«Mamma mi ha fatto fare il pieno della sua musica sin da quando ero un feto. Sono nata con lui nel sangue e me lo sono portato dietro fino a oggi che sono ormai una megera.»
La mia frase lo fa scoppiare a ridere. Sono un dannato giullare, lo ammetto, e in questo momento mi piace da morire esserlo.
«Non è vero» mi dice, placando un po’ le risa. «Sei giovane e si vede perfettamente.»
«Neanche troppo. Ho trentuno anni sulle spalle» ammetto, annuendo.
Lui curva le labbra verso il basso e solleva le sopracciglia, spalancando quegli occhioni blu a cui resisto sempre meno. Nah, non ho mai resistito.
«Che veneranda età» esclama, prendendomi in giro. «Stando al tuo modo di vedere la vecchiaia, io sarei il fratello minore di Matusalemme, visto che ho superato la quarantina.»
Non volevo offenderlo, dannazione.
«Non volevo dire che…»
«Io non me la prendo, perché io non invecchio» e annuisce pure alle sue parole. «Io miglioro, come il vino.»
Mi strappa una risata, che tuttavia si interrompe bruscamente a causa di uno schiamazzo infantile. Mitiya si volta subito verso l’interno della stanza. Si dà qualche istante per rivolgersi di nuovo a me. «Il dovere mi chiama» e mi fa l’occhiolino.
Io annuisco e lo saluto con il cenno di una mano. Faccio per ritirarmi, ma lui pronuncia di nuovo il mio nome e io sono tutta orecchi.
«Domani passo in negozio» mi informa. «Devo chiederti una cosa.»
Cosa?, ho la tentazione di chiedergli, ma mi limito a dirgli un “ok” appena udibile. Starò sveglia tutta la notte a pensarci e sono anche felice che sia così.
Lo guardo sparire dalla mia vista, dietro la finestra che serra. Le tende spesse coprono quasi completamente l’interno della stanza.
Solo quando anche io mi chiudo in camera, mi accorgo di quanto abbia le braccia gelate. Ma il freddo è l’ultimo dei miei pensieri, adesso.

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Capitolo 3
*** 3 ***


3

 
Sono le sette e mezza quando metto il piede destro a terra. Lo faccio sempre quando c’è qualcosa che deve assolutamente andare bene durante la mattinata che mi aspetta. È un gesto scaramantico, un gesto sciocco, che non ho mai abbandonato.
Disattivo la sveglia del telefono che in caso contrario l’avrebbe fatto squillare dopo una mezzora. Apro i cassetti per tirare fuori i vestiti più carini che ho. Ok, la camicetta nera è un po’ troppo leggera per la temperatura di oggi, ma non mi importa. È carina.
I pantaloni di jeans neri mi stanno ancora per miracolo ma fanno la loro figura, come gli stivaletti di cuoio a punta.
«Hai ufficialmente riaperto le selezioni?» mi chiede mamma che è già in cucina e io rido, invece di incazzarmi.
«No, oggi mi sono svegliata presto e ho avuto tempo di trovarmi un vestito diverso. Niente di così eclatante.»
Nemmeno io ci credo alle sciocchezze che dico, infatti sposto subito lo sguardo da quello di mamma e mi concentro sulla tazza di latte con i corn flakes dentro. Di solito consumo tutto nel giro di due secondi, ma adesso me la prendo con calma. Immergo il cucchiaio che giro e rigiro nella tazza mentre penso.
«Ho fatto la finta tonta, ma ti ho sentita ieri» mi fa notare di punto in bianco. Quasi mi strozzo con i corn flakes.
«Che hai sentito?»
«Stavi parlando con qualcuno che si trovava dalla finestra. Le finestre davanti a quella di camera tua sono quelle del Lily Stand e nel Lily Stand alloggia un solo ospite in questo periodo.»
Mordo il labbro inferiore perché sto per dire una bugia. «Mitiya non c’entra niente. Ho preso questi vestiti perché mi è venuto in mente stanotte, visto che ho sognato la nipote di Betty.»
E quei vestiti li ho comprati proprio per il primo compleanno di quella bambina.
«Ah, un sogno rivelatore.»
Mi sta prendendo in giro, ma io non ho voglia di darle corda. Niente deve rovinarmi la giornata; oggi sono di buonumore. Per questo mi concentro su i corn flakes che sono raddoppiati di dimensione all’interno della tazza, perché hanno assorbito tutto il latte.
***
Ogni tanto guardo l’ora, spostando gli occhi sull’orologio appeso al muro alla mia destra. Sono quasi le undici e Mitiya non si è ancora fatto vedere.
A pensarci bene, ieri non mi ha detto quando sarebbe venuto di preciso in negozio. Forse potrebbe andare a finire a oggi pomeriggio.
Dovrei pensare a qualcosa di diverso, visto che quest’attesa mi sta mettendo ansia e fa scorrere il tempo più lentamente del solito. I minuti sembrano ore.
Ovviamente la clientela non contribuisce a rendere il tempo più apprezzabile. Da un paio d’ore – non sto scherzando né esagerando – la signora Shirley delle mercerie sta facendo la telecronaca a mia madre di come una loro amica comune si sia innamorata di un giovane infermiere e sia scappata abbandonando i figli.
È una cosa ridicola.
Anche se Carl è Missy Dreven sono due bambocci, sono più grandi di me e possono benissimo cavarsela da soli. Quella donna aveva diritto di farsi una vita dopo che il marito l’ha fatta soffrire per trent’anni ed è morto di cirrosi lasciandola sola con una marea di debiti da pagare.
Sembra che la libertà qui sia un crimine, un abominio.
Shirley parla di quella che era una sua amica come se fosse il demonio sulla terra, solo perché ha voluto essere felice con un uomo più giovane. Mia madre le dà ragione anche se non sembra molto convinta, ma io mi incazzo dentro, in silenzio.
Sospiro di sollievo quando vedo Mitiya oltre la porta da poco pulita del negozio. Indossa una maglia leggera che aderisce al suo corpo mettendo in evidenza un fisico piuttosto atletico. È fatto dannatamente bene. Le braccia, i pettorali, anche le mani sono stupende.
I pantaloni di denim chiaro, scolorito, sono stretti sulle gambe in un modo che…
Basta, Cassie, smettila. Sembri una ragazzina arrapata che non ha padronanza dei suoi stessi ormoni. Ormai hai superato l’età in cui potevi sbavare sugli sconosciuti.
Ritorna in te.
Sei la seria commessa di un second hand.
Che qualifica!
Ha portato suo figlio con sé e lo ha da poco fatto scendere dal suo abbraccio. Le piccole manine si sono premute sul vetro, mentre gli occhi azzurri e curiosi sbirciano all’interno.
Sento attutita dal vetro la voce di Mitiya che lo rimprovera e lo vedo chinarsi in avanti e poggiare una mano sulla piccola spalla di Dorian.
Il piccolo strilla, infastidito. Chissà che ha trovato di così bello all’interno del nostro negozio.
«Lo vedo da un paio di giorni da Lily. Chi è?» chiede la signora Shirley sottovoce, mentre Mitiya apre la porta, facendo suonare il campanellino.
«Vieni qui!» alza la voce dietro suo figlio che corre all’interno e si ferma davanti allo scaffale basso delle sciarpe colorate.
«Ciao» li saluto entrambi, lasciando il banco per raggiungere il piccolo. Mi accovaccio accanto a lui e cerco il suo sguardo col mio. «Ti piace?» gli chiedo, tirando fuori una sciarpa arancione.
«Gli piace il colore» mi fa notare, Mitiya. «Non sopporta le sciarpe. Ogni volta che gliele metto, se le toglie e le lascia in giro.»
Rido e gli accarezzo una guancina rotonda, prima di poggiare le mani sulle cosce e tornare in piedi.
«Mi hai salvato» dico sottovoce, spostando lo sguardo su quello di Mitiya. Lui sorride e si dà un rapido sguardo in giro.
«Perché?» mi chiede, anche se dall’espressione è chiaro che abbia già la sua risposta.
Con un cenno del capo appena percettibile indico la signora Shirley che sta parlando a voce bassa con mia madre. Sicuramente sta cercando di informarsi sul nuovo arrivato.
«Ah, ho capito» mi dice. «Mentre lavoravo all’insegna di Lily, ieri, non ha fatto altro che guardarmi da dietro la tenda» continua a voce alta. «Sono quasi certo di piacerle.»
Il borbottio di Shirley si spegne di colpo, costringendomi a lottare con una risata che vuole a tutti i costi uscire dalle labbra.
«Le serve una mano in casa, signora? Faccio riparazioni di ogni tipo, ma quello sicuro lo sa già» le dice, con naturalezza e la faccia da schiaffi di chi ti ha appena colto in fallo.
Lei lo guarda indignata e non risponde, prendendo a tormentarsi il labbro inferiore con i denti.
Mitiya la lascia in pace e, dopo essersi chinato, prende in braccio Dorian che non vuole saperne di stare fermo.
«Ieri mi hai detto che volevi chiedermi un favore» inizio io e lui annuisce.
«Sì. Sono a corto di tutto e ho bisogno di fare un po’ di rifornimento anche per lui» e accenna al bambino col mento. «Spero tu non ti offenda, perché so che siete tutti amici, ma il minimarket ha dei prezzi assurdi e vorrei andare al centro commerciale. L’ho visto quando venivamo qui con l’autobus.»
Annuisco.
«Ho chiesto a Lily se poteva darmi uno strappo» continua. «Ma lei mi ha detto che non ha la macchina.»
«Vuoi un passaggio?» gli chiedo, sorridendo. Mi mordo subito il labbro inferiore, perché non so se mamma è d’accordo a darmi la macchina, visto quanto tempo è passato dall’ultima volta che ho guidato io.
«Sì. Mi salveresti la vita.»
Aggrottò le sopracciglia, prima di ridacchiare. «Per così poco?»
«Sono le piccole cose a salvare la vita di una persona.»
Quella frase mi colpisce davvero e mi toglie la parola per qualche istante. Mi limito a sorridere e alzare un palmo verso di lui, chiedendogli così di aspettarmi. Faccio un passo indietro e mi volto per raggiungere mamma fino al banco.
«Mitiya dovrebbe andare al centro commerciale e mi ha chiesto se posso dargli un passaggio. Mi dai le chiavi della Jeep?»
Cerco di apparire la più disinvolta possibile, come se quella richiesta fosse una cosa abituale, come se guidassi e mi spostassi tutti i giorni, ma sono tesa.
Mia madre mi guarda come se fossi un alieno disceso da chissà quale pianeta, dopodiché sposta gli occhi su quelli di lui.
«Ok» mi dice. «Va bene» e apre il cassetto dove infiliamo i soldi. La cassa è rotta e abbiamo adibito il cassetto con tanto di scompartimenti per monete e banconote, fatti rigorosamente di cartone dalla sottoscritta.
A fianco dei precari divisori c’è la chiave di plastica e acciaio della Jeep. La tira fuori e me la porge. Le mie dita si chiudono sull’oggetto lentamente, stringendolo nel palmo sudato della mano. Ho una fifa blu di mettermi al volante, ma farò di tutto per dissimularla.
«Stai attenta, Cassie» mi dice, sottovoce, mamma. Io non posso fare che annuire spavalda e tornare da Mitiya e Dorian.
«Andiamo?» gli dico.
Lui si è accorto che c’è qualcosa che non va, perché mi guarda un po’ perplesso. «Tutto ok?»
«Alla grande» esclamo, distendendo un braccio verso l’uscita del negozio. «Prego, signori.»
Il suo sorriso luminoso riesce ad allentare la morsa dell’ansia sulle mie membra e sul mio respiro. Esco dal negozio per prima, facendo pendere dal medio della mano destra le chiavi della macchina. Appena prese sembravano una patata bollente ma adesso sono un dettaglio utile.
Lui non mi raggiunge finché non ha salutato a dovere mia madre e la signora Shirley.
«Come ti trovi da Lily?» chiedo a Mitiya quando mi ha affiancato.
«Quella donna è diversa dalle altre persone di qui. È molto simile a te e tua madre» ammette, chinando appena il capo da un lato. «Mi piace.»
«Grazie del complimento indiretto» gli dico, sollevando un sopracciglio.
«Prego» risponde lui, distratto da un paio di signore in piedi dall’altra parte della strada che lo fissano come se fosse un omino verde. Non sono tanto vecchie, ma l’aspetto poco curato le fa sembrare megere.
«Siamo una cittadina di contadinotti che campano grazie al whiskey. Quando gli uomini sono al lavoro o ubriachi nei bar, loro non hanno niente da fare e perdono tempo a fissarti» gli spiego, calcando la mano libera nella tasca dei jeans neri che indosso.
«Ovunque è così. Ci sono abituato» mi dice lui, ridacchiando appena, mentre stringe più forte il figlio al petto.
«Davvero? Pensavo che al nord la gente si facesse gli affari suoi.»
«No, credimi. Non è tanto diverso, non per una persona come me.»
Dopo quelle parole lo vedo inspirare e spostare lo sguardo dal mio, come se si fosse accorto di aver commesso un errore. Decido così di non esternare la domanda che trattengo a fatica; non voglio farlo parlare di qualcosa che non vuole.
Arrivata a pochi metri dalla Jeep accelero il passo per raggiungere lo sportello del guidatore e sbloccare le chiusure che scattano con un rumore secco.
Dio mio, c’è il caos primordiale dentro questa macchina. I volantini che ci infilano sempre sotto i tergicristalli sono sparsi sul sedile del passeggero. Di solito sono io a prenderli, leggerli e lasciarli lì quando scendo. Anche la cartaccia delle patatine infilata nel vano vicino al freno a mano è opera mia. Dopo essere seduta la prendo e la appallottolo con un gesto il più veloce e discreto possibile, infilandola in tasca.
«Scusa il casino» dico mentre le guance diventano rosse come pomodori. Schiarisco la gola un paio di volte e tiro su col naso, mentre aspetto che lui si accomodi con il piccolo Dorian in braccio. Fatica parecchio ad allacciarsi la cintura, ma non mi chiede aiuto. Rimango qualche istante a fissare le sue mani ampie ma delicate. Non so perché mi piacciano così tanto.
Il rumore della portiera che si chiude mi risveglia dall’ipnosi e mi sprona a infilare la chiave nel quadrante della Cherokee.
Il motore ruggisce dopo qualche secondo; l’avviamento è un po’ faticoso perché la utilizziamo davvero molto poco. Imposto la D e mi scosto dal marciapiedi, imboccando così la strada che taglia a metà il nostro quartiere.
«È una splendida auto» osserva lui, accarezzando il cruscotto impolverato con la mano sinistra. «Spaziosa, comoda e indistruttibile. Ho imparato a guidare su una Cherokee.»
«Anche io» sorrido, cercando, con tutte le mie forze, di tenere l’attenzione fissa sulla strada. «Mi ha insegnato mia madre. L’istruttore di scuola guida aveva troppa paura.»
Lo sento ridere, sommessamente. Forse, guardandomi guidare per le poche centinaia di metri che abbiamo percorso si è accorto delle motivazioni di quell’istruttore malcapitato.
«Forse era un superstizioso. Molti hanno problemi con le donne al volante» dice, alla fine.
Mi è andata bene, perché non ha notato quanto sono rigida alla guida. La poca esperienza si vede tutta quando mi trovo dietro un vecchio trattore sulla strada che porta fino alla zona industriale/commerciale di Townsend. Un autista capace lo supererebbe, invece io gli sto dietro a costo di andare a venti miglia orarie.
Mitiya non mi dice niente. Continua a chiacchierare tranquillo, raccontandomi qualche aneddoto di quando ha imparato a guidare. Questo pazzo ha imboccato un’autostrada in senso contrario e ha percorso tre chilometri prima di accorgersene.
Si definisce un distratto di natura e quando lo dice, fa calare il silenzio tra noi, intervallato solo dal rumore dell’auto e quello roco del motore del trattore davanti a noi.
«Anche io sono un casino. Mi dimentico le cose con una facilità estrema» replico annuendo.
«Un conto è dimenticarsi, un conto è non notare.»
Mi stringo nelle spalle e sospiro sollevata quando finalmente il mezzo agricolo devia verso una strada più piccola che porta ai campi coltivati.
«Noti solo quello che vogliono farti notare» replico io, rispolverando un mio vecchio pensiero. «Il mio ex me lo diceva sempre: Tu non ti accorgi mai di ciò che desidero davvero. E io rispondevo: se tu non mi dici le cose, io non ho la palla di cristallo.»
Che intelligenza enorme, Cassie. Tirare fuori il tuo ex con un uomo che ti conosce a stento; come fare una pessima impressione parte uno.
Almeno sono riuscita a farlo ridere, anche se sommessamente. Tenetelo a mente, io sono un giullare prima di tutto.
«Era davvero così difficile notarli?»
Sollevo un sopracciglio alla sua domanda. «Non proprio. Il suo vero desiderio era fare sesso con una ragazza molto più carina di me. Quindi anche se l’avessi saputo, non mi sarebbe cambiato granché.»
«Quando è successo?» mi domanda.
Non mi va moltissimo di parlare di Bryan, ma ho tirato fuori l’argomento.
«Quasi un anno fa, ma sembra passata una vita. È incredibile quanto una persona possa cambiare in pochi mesi» dico, prima di voltarmi verso di lui, quando sono costretta a fermarmi al semaforo.
«Sì, dannazione» mi dà ragione, mentre sposta qualche ciocca di capelli biondi dalla fronte di Dorian. I suoi occhi blu si spostano poi verso il parabrezza, facendo perdere la mente in chissà quale pensiero.
Guido la vecchia Cherokee per i pochi chilometri che restano in assoluto silenzio e la parcheggio nel piazzale di cemento mezzo vuoto che si trova davanti al centro commerciale.
Ho sempre detestato questa struttura squadrata, grigia, appesantita da insegne luminose e non, ma oggi mi appare quasi carina.
Chiudo la Jeep a chiave e accompagno Mitiya all’entrata. Non voglio stargli col fiato sul collo mentre fa la spesa, non penso sia giusto, visto che ci conosciamo da così poco.
«Quando hai fatto mi trovi in macchina» gli dico, ma lui mi guarda perplesso, chinando appena il capo da un lato.
«Tu non vieni?»
«Io?» chiedo, spiazzata.
«Sì. Se mi dici dove trovare la roba facciamo prima.»
Il suo sorriso diventa un ghigno e il suo sguardo si assottiglia. «Dimmi la verità; odi i centri commerciali.»
«Li detesto» ammetto cristallina, «ma sono utili, necessari. L’unica opzione per non sfruttarli sarebbe ipotecare la casa per fare spesa da Betty e non è il massimo.»
Lo faccio ridere ancora, scoprendomi molto soddisfatta del mio operato.
«Ok, verrò, ma solo perché oggi mi sono ripromessa di salvarti la vita.»
Sospiro, e mi voltò verso la porta scorrevole che si apre automaticamente, lasciando uscire una sbuffata d’aria cocente.
Mi basta un passo all’interno per sentirmi in pieno clima equatoriale. La canzone di Ava Max cerca di coprire il brusio delle tante persone che popolano la galleria commerciale. Sia a destra che a sinistra ho vetrine di negozi di vestiti griffati, roba costosa, davanti alla quale io passo indifferente. Non è per le mie tasche.
Dorian inizia a chiacchierare per i fatti suoi, agitandosi tra le braccia del padre; se lo facesse scendere, correrebbe dappertutto.
Faccio strada fino all’entrata del vero e proprio ipermercato. Non è grandissimo; dicono che nelle gradi città come Nashville o Memphis ci siano palazzi interi dedicati ai centri commerciali. Dio, hanno già costruito la mia idea di inferno.
Sono io a sganciare un vecchio carrello di plastica dal deposito su cui troneggia una scritta di benvenuto. Sollevo un sopracciglio mentre scorro gli occhi sulle lettere. Avrebbero dovuto scriverci… com’era? Lasciate ogni speranza voi che entrate, una cosa così.
La musica che esce dagli altoparlanti dell’ipermercato è intervallata con la sfilza di offerte che la compagnia propone. La voce elettronica cerca di imporsi sul brusio che si trova all’interno del luogo affollato.
«È pieno» mormora Mitiya. Gli occhi azzurri sono spalancati sulla folla di gente che riempie le corsie che vediamo dall’entrata. Si volta poi verso le casse, alla nostra sinistra e alle code interminabili di gente col carrello pieno. «Non penso ne usciremo per cena.»
Io non trattengo una risata, perché è lo stesso pensiero che ho sempre io quando vengo qui con mamma.
«Dai, è solo la prima impressione. Ce la faremo» lo rassicuro. «È tutta questione di prospettiva. Una volta entrati sembra tutto più normale.»
Lui ride con me, perché se qualcuno prestasse attenzione a quello che ho detto, penserebbe che stiamo per andare in guerra.


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