E la luna bussò

di KaterinaVipera
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un nuovo inizio ***
Capitolo 2: *** Presentazioni alternative ***
Capitolo 3: *** Sono solo leggende ***
Capitolo 4: *** Into the wood ***
Capitolo 5: *** Salvataggio ***
Capitolo 6: *** Aggiungi un posto a tavola ***
Capitolo 7: *** La verità ***
Capitolo 8: *** Biscotti e gelosia ***
Capitolo 9: *** Bailando ***
Capitolo 10: *** Incontri ravvicinati ***
Capitolo 11: *** Nel bosco, di nuovo! ***
Capitolo 12: *** Dalla padella alla brace ***
Capitolo 13: *** Aghi d'odio ***
Capitolo 14: *** Quiete prima della tempesta ***
Capitolo 15: *** L'oscurità che copre il giorno ***
Capitolo 16: *** L'attacco ***



Capitolo 1
*** Un nuovo inizio ***


Il viaggio per arrivare in paese è stato a dir poco massacrante. Ci sono volute tre ore di strada sconnessa e curve a non finire sperdute nella natura inglese, quando il viaggio dall’aeroporto di Pisa a quello di Londra è durato solo due ore.
Scendo dal mezzo, ancora poco stabile sulle gambe dopo tante ore trascorse seduta, e mi stiracchio come fossi un gatto assonnato.
nche l’autista scende insieme a me, per aiutarmi a scaricare i miei bagagli: un trolley di tela che ha visto giorni migliori e un borsone grigio in condizioni anche peggiori.
Ringrazio l’uomo e lo saluto, convinta che non lo rivedrò tanto presto; almeno questo è ciò che mi auguro.
Solo quando il bus è lontano mi prendo un attimo di tempo per guardarmi intorno, respirare a pieni polmoni quest’aria fresca, quasi frizzantina, che odora di pioggia e realizzare: sto veramente cambiando vita.

Dieci giorni fa ero solo un involucro vuoto, attaccata ad una misera esistenza.

Adesso sento che sto veramente vivendo o, perlomeno, ci sto seriamente provando come non ero riuscita a fare finora.

L’aria è pungente, si sentono bene i profumi che emana il bosco, il terreno umido, l’odore della resina, qualche cespuglio dalle bacche profumate e di un rosso acceso, accentuate dalla pioggia caduta fino a poco fa. Il leggero venticello sposta le fronde bagnate degli alberi, facendo arrivare fino a me qualche goccia, provocandomi qualche brivido.
Avvolgo meglio la sciarpa intorno al collo – anche se siamo solo a metà ottobre – e dopo essermi caricata il borsone sulla spalla ed aver preso il trolley, mi avvio lungo la stradina principale che porta al paese.
Durante il tragitto non incontro nessuno e mi sento libera di canticchiare la canzone che sto ascoltando.
Dopo una decina di minuti, sto già percorrendo le vie in mezzo alle prime case e dopo tre canzoni ho attraversato la piazza giungendo davanti all’abitazione che sto cercando.
Controllo il nome sul campanello, per accertarmi che sia la casa giusta, e suono.
Passano soli pochi secondi e una donna dai capelli biondi mi travolge, abbracciandomi come meglio le riesce, dato la sua pancia prominente.

“Oh mio Dio! Sei arrivata finalmente!” mi stringe, baciandomi più volte le guance, per poi scostarsi e guardarmi meglio.

“Ma sei cresciuta! Come ti sei fatta bella!” cinguetta esuberante.

Arrossisco, benché la conosca da sempre e tra me e lei ci sia molta confidenza.

“Entra e posa tutta quella roba che sembra pesantissima.”

Prende il trolley portandolo in casa e lasciandolo nell’ingresso, dicendomi di fare altrettanto con il borsone e con il giacchetto.
Mi porge un paio di ciabatte per camminare in casa e non sporcare la moquette e ci dirigiamo in cucina.

“Alan!” urla, non perdendo il sorriso. “E’ arrivata!”

Dalle scale scende un uomo molto più alto di noi e decisamente muscoloso.

“Tu devi essere Amira, finalmente ti conosco!” mi stringe la mano, sorridendomi gentile.

“Si, lei è la mia cugina preferita.” dice la donna, abbracciandomi ancora e dandomi un bacio sulla tempia.

“Anche perché non ne hai altre.” puntualizzo divertita.

“Giusto! Ma anche se ne avessi, tu resteresti comunque la mia preferita!” ribatte mentre riempie il bollitore e lo collega alla corrente.

Mi invita a sedermi e la guardo muoversi per la cucina intanto che Alan prende tre tazze e adagia sul tavolo un cofanetto di legno pieno di bustine di tè.
Le guardo stupita, perché nemmeno io ne ho così tante e pensare che avevo iniziato pure a fare la collezione.

“Hai l’imbarazzo della scelta.” dice Alan, dopo aver messo anche un piccolo bricco di latte. “Com’è andato il viaggio?” si informa, parlandomi in italiano.

“Caspita! Anna, gli hai insegnato l’italiano?” le domando colpita.

“E’ stato lui a volerlo imparare. Diceva che era giusto così, perché ero – e sono – la sua compagna.” mi spiega.

“Cristo, trovarli uomini così!” mi lamento, facendoli ridere.

“Tranquilla, cuginetta. Lo troverai anche tu. Magari qui.” mi fa l’occhiolino

“Anche no, grazie!” dico categorica.

“Che ne sai? Magari nascosto in questi boschi infiniti troverai l’uomo della tua vita.” dice accondiscendente.

“Il viaggio fino a Londra è andato bene!” cambio repentinamente discorso, fulminando mia cugina che ridacchia. “Dalla capitale a qui è stato sfiancante e infinito. Credevo che non sarei mai arrivata.” abbozzo un sorriso stanco.

“Posso immaginare. Mi ricordo che quando son venuta qui ho pensato lo stesso.” mia cugina mi porge la tazza con l’acqua calda e dopo avergliela presa, prendo una bustina di tè nero.

Giusto per avere qualche minuto di autonomia in più.
Non ha aggiunto altro, ma so che il discorso che ha iniziato prima non è finito fino a che non sarà lei a deciderlo.
Lei invece prende una tisana al finocchio e menta, dal momento che la sua gravidanza non le permette di prendere niente di troppo forte, mentre Alan si fa una tazza di caffè amaro.
Siamo tutti e tre seduti al tavolino e si informano su questa mia partenza dell’ultimo minuto.

“Gli zii come l’hanno presa la tua partenza?” beve un sorso di tisana, strizzando gli occhi perché si è bruciata la lingua.

Non imparerà mai.

“Insomma. Lo sai, sono un pelo apprensivi.” mimo con il pollice e l’indice la quantità della loro preoccupazione e i due coniugi si mettono a ridere.

“Però devo dire che mamma non è scoppiata in lacrime al check-in.”

“Sicuramente l’avrà fatto in macchina.” aggiunge mia cugina, conoscendo troppo bene la zia, sorella di sua madre.

Tutti e tre ridacchiamo.

“C’è il babbo a rassicurarla.” tiro in su gli occhi, ricordandomi fin troppo bene le storie che ha fatto quando ha scoperto che io e mio padre eravamo andati a prendere il biglietto solo andata.

Per poco non ci tirava qualcosa dietro e a lui è andata anche peggio, dato che ha dormito per tre notti sul divano.

“E tu come stai, tesoro?”

Guardo il liquido scuro dentro la tazza che sta ancora emanando un chiaro fumo biancastro.

“Se vuoi Alan può andare.” aggiunge.

Nego con la testa. So che comunque glielo andrebbe a ridire.
Non ho mai capito questa cosa tra questo genere di coppie che si devono dire tutto, fino all’ultima parola.

“Sto uno schifo. Non ho più rapporti con quelli che sono stati miei amici, ma non gli darò anche questa soddisfazione.”

Anna mi accarezza la testa e non aggiunge altro al riguardo.

“Sarai stanca morta, vieni. Ti faccio vedere la tua nuova camera.

Si alza con lentezza, posandosi una mano sulla pancia prominente e con altrettanta calma, saliamo una decina di gradini che portano al piano superiore, percorriamo il corridoio attraversando una piccola stanza aperta con un paio di librerie e una finestra al centro, fermandoci poi davanti ad una porta bianca.

“Alan ha già portato le tue cose.” dice aprendo la porta, mostrandomi quella che da ora in poi sarà la mia camera.

La stanza è piccola ma molto accogliente; accanto al letto spazioso c’è un comodino di legno con un paio di cassetti, l’armadio grande quasi quanto tutta la parete più piccola, un cassettone in mogano nascosto dalla porta aperta, un paio di mensole e la finestra che illumina tutta la stanza con due tende bordeaux per coprire la luce diurna dato che qui non ci sono le persiane, una piccola panca posta proprio sotto con un cuscino in tinta con la tappezzeria.
Nella parte di parete libera, in alto a sinistra del letto, c’è un quadro rurale con la cornice dipinta in oro.

“Se hai bisogno di qualcosa, sono di sotto.” mi dice con dolcezza.

Mi lascia sola, a studiare la mia nuova camera e nonostante ormai sia qui, ancora fatico a rendermi conto che è tutto diverso.

Guardo le valigie, scartando a priori l’idea di sistemarle; sono stanca ma non ho nemmeno abbastanza sonno per riuscire a dormire. E poi, con tutte queste novità, chi riuscirebbe a prender sonno?
Mandare al diavolo il passato, le persone ad esso collegato, cambiare paese e vita. Proprio io, che credevo di essere una persona noiosa a cui non capitava mai niente di interessante.
Mi affaccio alla finestra che da sul giardino, circondato da una staccionata di legno alta quanto una persona.
Guardo meglio e vedo una porta quasi nascosta dall’angolo della casa, che porta al boschetto qui di fronte.
Una passeggiata è proprio quello che ci vuole. Mi aiuterà a stendere i nervi.

Scendo, trovando mia cugina in salotto, davanti al caminetto acceso, sulla sedia a dondolo, intenta a ricamare un vestito per suo figlio.
E’ occupata a canticchiare una ninnananna e ai ferri, che non mi ha neppure sentito arrivare.

“Vorrei uscire.”

Alza la testa dal suo lavoro, posandoselo sulle ginocchia.

“Certo. Vuoi andare in città o resti nei dintorni?”

“Mi sarebbe piaciuto fare una passeggiata nel bosco qui davanti casa.”

“Vai pure, ma ricorda: si cena alle 19 e 30.”

“Sissignora!” le faccio il saluto militare e tutte e due scoppiamo a ridere.

Infilo gli anfibi ed esco, avviandomi in giardino, per poi addentrarmi nel bosco.
Cammino stando attenta al sentiero, perché vorrei evitare di perdermi il mio primo giorno come una dilettante che proviene da un paesello di campagna.
Mi muovo con prudenza in mezzo alla vegetazione, che mi inghiottisce e pare voglia mangiarmi.
Tra gli alberi fa freddo e forse io non sarei dovuta uscire con solo una maglietta e la camicia benché abbia le maniche lunghe.
Fa niente.
Non morirò di certo per un po' di freddo.
La mia passeggiata finisce quando poco distante dal sentiero intrapreso, vedo un tronco caduto sopra il quale mi siedo.
Intorno a me è tutto silenzioso, non sento nemmeno gli uccellini. E se non fosse che sono venuta qui proprio alla ricerca del silenzio, tutto questo mi metterebbe i brividi.
È tutto troppo pacifico.
Mi rilasso intrecciandomi i capelli e legandoli alla base in modo che mi ricadano di lato. Ho lasciato sciolta solo la ciocca tinta di blu che mi ricade sul viso.
Mi distendo, benché la corteccia non sia il massimo della comodità, in maniera tale da poter osservare le fronde degli alberi che proiettano strani giochi di quella poca luce solare che le nuvole non coprono, e che si muovo al ritmo lento del vento.
Svuoto la mente, prendendo dei respiri profondi, concentrandomi solo sul battito regolare del mio cuore.
Anche senza la musica, riesco a rilassarmi, ipnotizzata dal suono lieve del frusciare degli alberi e da questa atmosfera pacifica e inquietante al tempo stesso.
Lo scorrere delle ore è lento, come se fossi entrata in un’altra dimensione, dove non c’è Anna che mi aspetta per la cena, non ci sono i genitori in Italia che aspettano mie notizie, non esiste più nessuno. Non esiste più passato o presente e nemmeno futuro.
Ci sono solo io e la calma più assoluta.
Quasi mi addormento.
Vengo svegliata dalla rottura di un rametto e da uno stormo di uccelli nascosti in un albero vicino, che scappa in volo.
Volto la testa di lato, guardando la fitta vegetazione e con calma a causa della schiena dolorante per via della posizione scomoda assunta e della durezza del mio giaciglio, osservo la natura non capendo da dove sia provenuto quel rumore.
Alzarsi è addirittura più difficile che girare la testa, ma una volta in piedi, noto che tutto è rimasto immutato, solo il bosco sembra più inquietante e minaccioso di prima. E non parlo solo del fatto che si è fatto tardi e comincia a fare buio, mi riferisco ai brividi che mi nascono all’idea di non essere più da sola.
È una sensazione molto sgradevole, che mi fa venir voglia di correre verso casa e allontanarmi il più possibile da qui.
Ovviamente non mi metterò a correre come una sciocca per il bosco, con il rischio di perdermi o di fari male quando non c’è nessun pericolo reale, a parte la mia mente contorta che si crea cose strane e inesistenti.
Nonostante ciò, mi avvio di gran carriera perché non vorrei fare tardi la prima cena a casa di mia cugina.






*Angolino mio personale*
Ciao! 
Non sono morta, ero solo in letargo xD

Questa è una piccola storiella, senza molte pretese, carica però di significato per me e per la persona a cui è dedicata: il mio migliore amico, il mio beta e (non meno importante) il mio ragazzo... 
Spero vi piaccia, fatemi sapere la vostra, con un commento, un messaggio privato, un corvo messaggero o un segnale di fumo.
A presto :) 

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Capitolo 2
*** Presentazioni alternative ***


Non ho dormito molto e dimenticarsi le tende scostate non mi ha aiutato affatto, facendomi svegliare appena il cielo si è schiarito, ma tanto meglio, così facendo ho modo di aiutare Anna con le faccende e le spese di casa.
Mi rinfresco e dopo aver indossato degli abiti puliti – alla fine ho disfatto quasi tutte le valigie ieri sera dopo cena – scendo trovandola ai fornelli a preparare la colazione.

“Come siamo mattiniere.” dice dandomi un bacio sulla tempia e ritornando a girare i pancake.

E al buon odore dolciastro, il mio stomaco inizia a brontolare.

“Mattiniera e affamata.” scherza.

Per dispetto le faccio la linguaccia ma subito dopo l’aiuto ad apparecchiare con tazze e piatti.

“Alan non c’è?”

“No, lui è stato richiamato stamattina presto dal suo alf… dal suo titolare.” si volta di scatto sui fornelli, lasciandomi un poco perplessa sul suo cambio repentino di voce con quella frase lasciata a mezzo.

Smetto di pensarci quando mi mette la colazione nel piatto, composta da pancake allo sciroppo di more e alcuni al cioccolato e panna.

“Tu mi vuoi vedere ingrassare!” mi lamento, intanto però ho iniziato ad assaggiare una pasto che di prima mattina, in Italia, non è tanto comune, dove caffè e cornetto al bar sono la tradizione.

Si siede accanto a me e inizia a mangiare con avidità, mescolando i suoi dolci, con le uova strapazzate e alcune fettina di pancetta.
La guardo un po' schifata.

“Non mi guardare così! Io devo nutrire due persone!” si giustifica, continuando a mangiare con avidità.

“Comunque il cibo non scappa.” scherzo e lei in risposta mi fa la linguaccia.

“Che madre matura sarai!” addento un pezzetto di dolce, sorridendo.

Non aggiunge altro, però mi rifà il verso.
Continuiamo a mangiare e parlottare del più del meno, fino alla fine della colazione, poi la aiuto a sistemare tutto, dato che ha sporcato più del dovuto solo per fare due o tre cosine.

“Oggi devo andare in paese per alcune commissioni. Ti andrebbe di accompagnarmi?” chiede asciugandosi le mani ad uno strofinaccio, a fine pulizie.

“Molto volentieri.”

“Bene, avrai modo di conoscere la favolosa Burneside!” finge di esultare.

“Credevo che ti piacesse il posto.”

“No, mi piace questo posto, non la città. È una piccola cittadina e come tale, piena di gente idiota.” tira in su gli occhi.

“Sì, capisco bene. Io sono venuta via da casa proprio per questo motivo.” raccolgo la borsa, infilo la giacca e la seguo fuori.

“E allora che ci sei venuta a fare qui?” domanda lei, aprendo l’auto parcheggiata nel vialetto.

“Sono venuta a trovare la mia cugina preferita.”

“Ah ah, simpatica!”

Dieci minuti dopo siamo a bordo del suo bolide: una macchina piccolina che appena viene accesa, espelle un fumo nero e tossico, ma se non altro, è adatta per questo tipo di strade sconnesse.

“Perché non ti decidi di cambiarla? Questa macchina ormai è illegale.”

“Perché ci sono affezionata. E’ stata la mia prima auto che mi sono comprata dopo un anno di lavoro a Londra, poi una volta trasferita a Burneside mi è dispiaciuto darla via. Quindi, eccola ancora qui.”

Scuoto la testa, pensando che mia cugina non cambierà proprio mai e non importa che tra qualche mese diventerà mamma, resterà sempre la solita ragazza esuberante e un po' strana.
Lungo la strada che dal villaggio porta al paese, veniamo circondate da campi immensi, lasciati incoltivati a causa dell’inverno in arrivo, e da boschi verdi e fitti, molto più di quelli che ho visto ieri per venire da lei, ma subito mi salta all’occhio un dettaglio.

“In questo paese non ci sono allevamenti?” chiedo, ripensando a tutti quelli che ho visto ieri, durante il viaggio, benché le strade fossero diverse.

“Cosa dici Amira?” sorride e mi pare che sia forzata. “Non ce ne sono in paese, troppo piccolo, ma in città quante ne vuoi. Mucche, pecore e cavalli. Benvenuta in campagna!” finge di esultare, alzando le mani.

Il discorso finisce così, mentre lei alza la radio che sta passando un cantante che piace ad entrambe, ritrovandoci in questo modo a canticchiare sopra la voce della cantante, stonate.
Il viaggio prosegue senza intoppi, Anna mi spiega che nel villaggio dove vive lei – 147 anime, tra qualche mese 148 – le persone vivono grazie al bosco: piccoli lavori di edilizia, falegnameria e protezione della fauna selvatica locale.
Insomma, tutta roba molto tranquilla ma agli abitanti va bene e non cercano altro di quello che hanno.
Arriviamo a Burneside, mezz’ora dopo e subito si vede la differenza tra i due posti: la città è più viva, con le persone che passeggiano, aprono le saracinesche dei negozi, molte più auto che percorrono le strade principali.
Ci fermiamo appena troviamo posto, vicino al marciapiede, riservato alle donne in dolce attesa, e ci incamminiamo seguendo la lista di mia cugina.

“Buongiorno Anna, come stai oggi?”

E’ una signora anziana a parlare, un po' piccola, con un mazzolino di fiori freschi in mano.

“Buongiorno a lei signora Evans. Sto benissimo grazie. Le voglio presentare mia cugina Amira.”

Sorrido alla donna, stringendole la mano. E nel giro di qualche minuto, mi ha tempestato di domande e se non le poneva a me o ci mettevo troppo a rispondere, lo chiedeva ad Anna.
E questa è solo la prima di una lunga serie di presentazioni.
C’è stato George, il macellaio, che ha il negozio di famiglia ormai dai tempi di suo nonno; c’è stata Livia, la fioraia, che lavora con la madre da quando le è morto il padre ed è una delle migliori amiche di Anna.
Al market, ho conosciuto Natalie, una ragazza di qualche anno più grande di me, che lavora lì solo finché non avrà finito gli studi serali, poi andrà a fare la parrucchiera a Londra e poi Anna mi ha presentato Carlos, il magazziniere messicano trasferitosi qui quando era bambino con la sua famiglia.
Ci fermiamo a metà giornata a mangiare qualcosa da Betty’s, una graziosa tavola calda, con le mattonelle quadrate bianche e nere e tavolini davanti alle finestre. Anna ordina un sandwich con uovo e salmone e le patatine fritte con il cheddar fuso sopra, mentre io mi limito a ordinare un tost semplice, del kids menu.

“Dovresti mangiare di più.” mi rimprovera mia cugina.

“Non ho molta fame in questo periodo.” smangiucchio qualche boccone, bevendoci l’acqua ghiacciata.

“Non ti preoccupare, qualche mese da me, e sarà come tu fossi da nonna!” mi fa l’occhiolino, mangiando il suo panino.

Le sorrido grata, perché riesce sempre a mettermi di buon umore, nonostante il più delle volte sia nero come la pece.
A fine compere mi sento più stanca di quando sono arrivata.
È stata lunga e Anna non perdeva occasione per presentarmi altre persone o farmi vedere vetrine e portarmi a giro per la città.
La aiuto a caricare le buste in auto, cercando di caricare tutto dato la mole esagerata di acquisti fatti.

“Te la senti di guidare?” mi chiede, evidentemente troppo stanca per farlo lei.

Acconsento anche se mi spaventa un poco la guida dall’altra parte.
Infatti, il ritorno dura molto di più e tra qualche inchiodata, freccia sbagliata e un senso quasi preso nel verso opposto riusciamo a ritornare a casa sane e salve.
Scarichiamo le buste della spesa, facendo più volte avanti e dietro, e quando esco per prendere l’ultima busta rimasta, vedo che è rientrato anche Alan e che sta parlando con un uomo.

“Ciao Alan!” alzo la voce per farmi sentire, data la loro distanza.

Entrambi gli uomini si girano nella mia direzione, ma l’unico a salutarmi è Alan, l’altro si limita a squadrarmi e riservarmi un’occhiata torva.
Distolgo lo sguardo dai due, stranita e intimorita dall’incenerata che mi ha tirato, lesta chiudo il bagagliaio, e torno in casa.
Con Anna ci mettiamo a preparare una zuppa di carne, mentre le verdure cuociono in una pentola a parte e noi ascoltiamo un disco dei Beatles.
Alan entra in cucina quando ormai fuori è già buio, bacia sua moglie e saluta poi me, lasciandosi dietro un forte odore di bosco.

“Sei stato a giro per il bosco?” chiedo affettando una cipolla, tentando inutilmente che non mi lacrimino gli occhi.

“Sì, perché?”

“Profumi di bosco.” dico senza pensare, ma l’attimo dopo mi mordo la lingua.

Ecco, adesso penseranno che ci sto provando con un uomo sposato, con mia cugina per di più! Perché non riesco mai a cucirmi la bocca?!
Mi sento così idiota e non so come uscirne.

“Ehi, amore, non mi avevi detto di avere un cane da tartufo al posto di una cugina.”

Entrambi si mettono a ridere, ma l’occhiata che si sono scambiati non mi è sfuggita. Dovrò assolutamente rimediare e spiegare ad Anna che non era mia intenzione dire quello che ho detto.
Nell’arco di un’oretta la cena è pronta e servita sulla tavola che sta tra il salotto e la cucina, un tavolo rettangolare, per circa sei o otto persone.
Tutti e tre parliamo del più e del meno, loro mi raccontano dei lavori di ristrutturazione che hanno fatto l’anno scorso in giardino per il gazebo e quelli per la stanza del bambino che sanno già essere un maschietto.
Si vede proprio che Alan è al settimo cielo per questo, gli si illuminano gli occhi tutte le volte che l’argomento viene fuori.
Dal canto mio, gli racconto del mio gruppo di ballo moderno, degli spettacoli che abbiamo messo in scena, trovando il loro maggior interesse quando gli racconto di essere stata anche fuori dall’Italia per una gara, alla quale purtroppo siamo arrivati solo terzi, e delle vacanze fatte a Praga con la mia migliore amica.

Siamo al dolce quando qualcuno bussa alla porta.

Per essere gentile, anche se non è casa mia, mi alzo e vado ad aprire al nostro inaspettato visitatore, ritrovandomi di fronte un uomo alto e vestito di nero.
Mi viene un colpo al cuore, maledicendomi per non aver guardato prima lo spioncino, ma quando alzo la testa – perché il mio metro e sessanta scarso non mi permette di fare altro – riconosco nei tratti duri, la barba di qualche giorno, il cipiglio severo lo sconosciuto con il quale stava parlando Alan.

“Buona sera.” dico intimorita dal suo sguardo, dal suo aspetto e dal suo mutismo.

Mi devo calmare, non è un serial killer.
Anche se potrebbe sembrare.
Lo strano verso che emette, gutturale, raschiato, molto simile ad un ringhio di un cane, mi fa muovere un passo all’indietro.

“Voglio parlare con Alan.” la sua voce è bassa, categorica, e non mi sembra il tipo di persona che ride spesso.

Felice di potermi allontanare dall’uomo, mi affaccio in salotto, dicendo al diretto interessato che ha una visita, sedendomi poi per non doverlo rivedere e per finire il dolce che non mi va più a causa dello stomaco chiuso.
Gioco con il biscotto al cioccolato, spostandolo con la forchetta ma non mangiandolo.

“Stai bene?”

“Non ho più fame.”

Non so fino a che punto è vero, però ritrovarmi di fronte quell’uomo mi ha messo soggezione e mi ha fatto passare l’appetito.
Finito di ripulire tutto, mi rinchiudo in camera, sistemando le ultime cose che avevo lasciato in disordine, indossando un pigiama improvvisato, che consiste in una maglietta vecchia e un paio di pantaloni che mi arrivano ai polpacci, sedendomi sulla panca a guardare un po' il bosco e un po' il cielo stellato che solo in un paese così sperduto si può avvistare.
Mi perdo a guardare le stelle, sforzandomi di riconoscere qualche costellazione ma con scarsi risultati. Arresa, torno a guardare il giardino illuminato dalle luci della cucina e del salotto, vedendo così l’amico burbero di Alan, fermo in mezzo ad esso, intento a osservarmi.
Scatto in piedi, rimanendo ferma davanti alla finestra, indecisa su cosa fare.
Sono sicura che stia guardando me, è come se sentissi i suoi occhi scrutarmi per volermi trapassare e scoprire ogni mio segreto.
Ci fissiamo per interi secondi, poi rendendomi conto di essere stupida e sentendomi intimorita davanti a questo sconosciuto che mi sta letteralmente spiando, mi allontano, chiudo le tende e spengo la luce su questa pessima figuraccia.

 

I giorni trascorrono molto più lenti che nel mio paese, ma questo mi permette di riprendere i giusti ritmi e riflettere su cosa farne del mio futuro.
Occupo il mio tempo in lunghe passeggiate, come questa, per andare in città dato che Anna è al corso per mamme e poi andrà con alcune di loro a pranzo fuori; quindi ne approfitto per visitare il posto, e magari trovare un lavoretto.
Con le cuffie per ascoltare la musica, mi fermo da Betty’s per riposarmi e guardare le offerte sui giornali.
Ordino un latte macchiato large e comincio a sfogliare le pagine.
La tazza che mi porge la cameriera qualche minuto più tardi è davvero large, la ringrazio e la pago subito, per potermi concentrare sugli annunci.
Qualche minuto dopo, con la coda dell’occhio, intravedo delle persone entrare in gruppo e passare accanto al mio tavolino, seguiti da un altro uomo che seguo con lo sguardo senza farmi vedere.

Però, bel fondoschiena.

Si siedono al tavolino davanti al mio.
Non capisco cosa dicono per via della musica che ascolto a volume non tanto basso, ma quando uno di loro mi fa il segno del telefono, capisco che il rumore in sottofondo che sentivo è quello di una chiamata in arrivo.
Sfilo le cuffie e cerco il cellulare in borsa, credendo che sia Anna o i miei genitori, ma quando sullo schermo vedo un numero non salvato italiano, premo il tasto rosso.
Lo lascio sul tavolo, accanto alla tazza, leggendo le altre notizie di cronaca. La pace purtroppo dura poco perché il telefono squilla ancora, il numero questa volta è diverso ma sono sicura che la motivazione sia la stessa della prima chiamata, quindi evito di rispondere e riattacco sentendo una primitiva rabbia nascere.
Smetto di fare qualsiasi cosa, cercando di non pensare a niente ma ancora una volta mi viene impedito dallo squillìo a cui non bado, lasciandolo suonare, sperando che chi è dall’altra parte, capisca che non ho voglia di parlare con loro.

“Smetti di importunarci con questa stramba suoneria e rispondi!”

E’ stato un uomo a parlare, con voce autoritaria e spazientita.
Evito di rispondergli perché sarei sgarbata anche con lui, limitandomi a finire il latte e lasciare qualche penny di mancia.
Ma, a quanto pare, qualcuno ce l’ha con me perché il telefono suona ancora, facendo andare in escandescenza me per un motivo e l’uomo per un altro.

“Cazzo di palle!” sbotto in italiano, tirando in su gli occhi.

“Sei sorda ragazzina? Rispondi e smettila di disturbare.” ringhia spazientito.

Mi volto verso di lui, pronta a mandarlo a quel paese, fermando la mia lingua lunga quando riconosco l’amico di Alan.

“Io faccio quello che mi pare.” gli dico, smettendo di guardarlo per osservare fuori, concentrandomi sui pedoni o sulle auto che sfrecciano per strada.

“No, non lo fai se mi disturbi.” aggiunge, al limite della pazienza.

“E io non mi faccio dare ordini da nessuno.” lo guardo negli occhi, sfidandolo a dire altro, pure io al limite della pazienza.

“Non mi piace ripetere le cose: rispondi o spegnilo.” si alza, poggiando le mani al tavolo, per mettere in mostra la sua imponenza e mostrandomi la nostra più che evidente differenza di altezza.

“Perché, altrimenti cosa mi fai?” mi alzo in piedi, poggio le mani sui fianchi, sapendo che andrò a cacciarmi in qualche guaio.

“Piano con le parole, non sai chi hai di fronte.” si intromette uno dei suoi, fulminandomi con lo sguardo.

“E lui sa chi sono io? Ecco, siamo pari.”

Ce li lascio di sasso, facendo sorridere la cameriera che fino a questo momento ci stava guardando tra il divertito e il preoccupato.
Raccolgo tutta la mia roba e una volta aperta la porta del locale, mi volto verso di loro che mi stanno ancora fissando e gli alzo il dito medio.

Una volta fuori, mi preoccupo di mettere più distanza tra me e quell’energumeno. E pensare che gli ho pure guardato il culo, mi prenderei a sberle da sola.
Durante il tragitto di ritorno penso se sia il caso di dire ad Anna ed Alan del mio scontro; so di essere stata maleducata, ma anche lui con il suo gruppetto di amici non è stato da meno, quindi, decidendo che non è una cosa importante, convengo con me stessa che è meglio non importunarli con cose da niente.
Rincuorata da queste convinzioni, torno a casa molto più rilassata, benché sia ancora nervosa per tutte quelle chiamate indesiderate da parte di persone altrettanto indesiderate.
Quando arrivo davanti alla graziosa abitazione rustica è già buio e attraverso la portafinestra della cucina intravedo i due sposi parlare tra loro di un argomento che pare gli stia molto a cuore, mentre preparano la cena insieme.
Li spio un attimo, invidiando mia cugina per essere riuscita a trovare l’uomo giusto.
L’ha trovato, conosciuto e nel giro di qualche mese se l’è pure sposato. Ripensandoci, forse non ha fatto una mossa molto saggia, ma a giudicare da come ne parla e da come si comportano, sembrano proprio felici.

È Alan il primo ad accorgersi di me, apre la porta permettendomi di unirmi a loro.

“Ma dove sei stata? Credevo di dover chiamare la polizia.” dice Anna, tra il divertito e il serio.

“Sono stata a fare una passeggiata in paese.” faccio spallucce.

“Accidenti, mi potevi chiamare. Ti sarei venuta a prendere.”

“Mi ha fatto bene camminare.”

Bene… più o meno.

La serata procede tranquilla, come tutte le sere trascorse qui a casa loro, fino a che Alan non smette di parlare e di ascoltare, come se fosse concentrato qualcosa nella sua mente.

“Con permesso.” si alza sparendo senza dirci altro.

Guardo mia cugina, ma lei è troppo impegnata a fissare il punto dietro il quale è sparito suo marito che ritorna qualche minuto dopo, con degli abiti completamente diversi, molto più sportivi.

“Devo andare, mi hanno chiamato.” dice a voce non tanto alta, parlando un inglese parecchio dialettale.

Solo che io riesco a capirlo lo stesso, se mi impegno.

“E’ successo qualcosa?” chiede Anna, col tono di voce preoccupato.

“Niente di cui allarmarsi, però l’alf… il capo ha richiamato tutto il… la squadra.”

Bacia lesto sua moglie e senza aggiungere altro se ne va.
Perplessa da questo sviluppo repentino degli eventi, chiedo a mia cugina che razza di lavoro faccia Alan per essere dovuto scappare via in questo modo e a quest’ora.
Lei tergiversa un attimo, come se non sapesse cosa dire.

Ma che hanno tutti stasera?!

“Lui… lui lavora per l’ente di protezione della fauna. Sai, il suo capo è quell’uomo che è venuto a trovarci l’altra sera. Gli hai aperto tu, ricordi?”

Dio, potrebbe andare peggio di così?




*Angolettino mio*

Eccoci col secondo capitolo...
Spero vi piaccia, fatemi sapere la vostra tramite segnale di fumo, corvo messaggero o piccione. Si accetta di tutto :) 
Un abbracio,
me <3

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Capitolo 3
*** Sono solo leggende ***


 

In questo paese sembra che il tempo scorra in maniera completamente diversa rispetto alla città.
Nei giorni trascorsi qui, ho avuto modo di conoscere i vicini di casa e altri abitanti del villaggio, incontrati durante qualche commissione che facevo per mia cugina quando era troppo stanca per uscire e che questo agglomerato di case mi consente di fare.
C’è un piccolo alimentari, una farmacia-erboristeria, con un dottore che fortunatamente vive lì e infine, mi ha spiegato Alan, c’è un punto di ritrovo – uno stanzone con tavolate lunghe e tante sedie – dove le persone del villaggio possono ritrovarsi per discutere dei problemi o organizzare le feste del posto.
Avrei voluto chiedere che tipo di problemi ci potranno mai essere in un posto che sembra uscito da un libro di fate, poi mi sono ritornati in mente i pranzi di Natale che con venti persone e mezzo bicchiere di vino di troppo, iniziano a rinfacciarsi delle sciocchezze di anni prima.

Alan mi ha assicurato che, nonostante le apparenze, anche questo paesello ha la sua parte marcia.

Sono sulla via per andare in farmacia, intenta ad ascoltare la musica, a osservare le case in pietra grigia, camminando in mezzo di strada perché non passa quasi mai nessuno da queste parti e gli abitanti si spostano a piedi, quando vengo avvicinata da un ragazzo che richiama la mia attenzione, fermandomi.

“Ciao, tu sei la cugina di Anna, giusto?” domanda, con un mezzo sorriso abbozzato.

Solo ora che mi si è avvicinato, lo riconosco come il ragazzo che ogni tanto fa qualche consegna nei dintorni.
E mi domando come mai, Anna mi abbia raccontato morte e miracoli delle persone che conosce a Burneside, ma niente di questi abitanti; perché nonostante li abbia conosciuti, ci abbia scambiato qualche parola, lei non mi ha detto niente di più e, per me, rimangano avvolti nel mistero.

“Sono Amira, piacere.” dico senza sapere cos’altro aggiungere, togliendomi una cuffia per sentirlo meglio.

“Mi chiamo Giulian, il piacere è tutto mio. Dove stavi andando?”

Meno male che i ragazzi inglesi erano tutti riservati.

“In farmacia, Anna ha bisogno di alcune cose.” e sventolo il biglietto che mi ha dato prima che uscissi.

“Posso accompagnarti? Sai, questi boschi sono pieni di lupi feroci.” poi scoppia a ridere della sua stessa battuta.

Valuto la sua proposta. In fondo, un po' di compagnia non mi fa male, quindi acconsento e ci incamminiamo insieme verso la farmacia.

“Giulian, prima dicevi sul serio? Ci sono veramente i lupi da queste parti?” chiedo ad un tratto, cambiando completamente discorso, dato che lui mi stava parlando di una certa festa che si tiene tutti gli anni.

Ma ovviamente, la mia mente disinteressata dall’argomento, era rimasta al suo discorso sui lupi.
Giulian mi guarda non aspettando una domanda del genere da parte mia.

“Per essercene, ce ne sono, ma non qui nelle vicinanze.”

“Ah.” chino la testa, dispiaciuta. “Mi sarebbe piaciuto tanto vederne uno.”

“Ehi, siamo arrivati.” mi fa notare, riportandomi alla realtà, fermandoci a pochi metri dal grazioso edificio.

È una casetta in pietra, a due piani, con l’insegna che recita “Denver & Son” posta sopra la porta. Al piano terra c’è il negozio, grazie alle enormi finestre dagli infissi bianchi, riesco a vedere parte dell’interno, gli scaffali con i vari prodotti in vendita, il bancone e dietro ad esso un uomo col camice bianco. Al piano superiore – mi ha spiegato Anna – c’è l’abitazione della famiglia.

“Io devo andare, il lavoro chiama.” sorride, facendo un’espressione scocciata.

“Grazie per la compagnia.” gli dico grata per non avermi fatto fare il tragitto da sola. In fondo, mi ha fatto bene scambiare due parole.

Sto per allontanarmi, ma Giulian mi ferma, chiamandomi prima che attraversi la strada.

“Domani io e i miei amici andiamo al bowling a Burneside, ti va di venire?” si è messo le mani in tasca, dondolando appena sui piedi.

“Domani non posso, devo aiutare Anna col barbecue di domenica. Da quello che ho capito, è una cosa grossa.”

“Certo che lo è! Viene organizzata tutti gli anni e partecipa tutto il villaggio.” mi spiega esuberante. “Allora ci vediamo domenica.” mi sorride compiaciuto per poi andarsene dalla parte opposta.

Praticamente ha allungato il suo tragitto per accompagnarmi, e se da una parte mi ha fatto piacere, dall’altra spero che non abbia secondi fini.
Mi chiedo dove potranno mai entrare quasi centocinquanta persone nel giardino di mia cugina e pensare che non è mai stata amante delle feste e delle cose in grande. Non le ha fatte per il suo diciottesimo né tanto meno per il matrimonio, invitando solo i parenti più stretti e qualche amico.
Scuoto la testa, preoccupata per la mole di lavoro che ci attende e quella disgraziata è pure incinta, ma nonostante ciò non esita a fare una festa di tale portata.
L’amore le ha proprio dato alla testa.

Entro in erboristeria annunciata dal suono delicato di alcuni campanelli posti sopra la porta.

“Salve, cosa posso fare per te?” chiede molto gentilmente l’uomo sulla cinquantina, capelli brizzolati e occhiali.

“Sono venuta a prendere i medicinali omeopatici per Anna.” mi avvicino al bancone, posando sul ripiano in marmo il biglietto.

“Tu devi essere sua cugina. Anna non fa altro che parlare di te. Era così felice quando ha saputo che saresti andata a vivere da lei.”

“Sì, lo immagino.” abbozzo un sorriso, senza sapere bene cosa dire.

Giuro che se non se la cuce lei la bocca, gliela cucirò io. Non imparerà mai a tenere la lingua a freno.

Il farmacista legge i nomi dei medicinali e si allontana fischiettando. Quando ritorna, una decina di minuti dopo, ha in mano una boccettina con del liquido trasparente, un barattolo arancione con delle pillole e una bustina con delle erbe molto aromatizzate, tant’è che ne sento l’odore anche se è chiuso.

“Non ho mai conosciuto una mamma più tranquilla di lei durante la sua prima gravidanza. Sembra quasi una di noi.”

Lo guardo stranita, inarcando un sopracciglio.

“Credevo che già la consideraste una di voi. Vive qui ormai da cinque anni.”

L’uomo mi guarda attraverso la montatura fine degli occhiali, ripensando a ciò che mi ha detto, correggendosi immediatamente.

“Sì, sì, certo. Anna è una bravissima donna, ha subito fatto parte della nostra comunità.” dice, facendomi pagare e dandomi successivamente il resto.

Gli sorrido, ma è il sorriso più falso che mi si sia mai stampato sulle labbra.
In questo villaggio sono tutti strani. In che posto sono finita?
Metto i medicinali in borsa e mi allontano, intenzionata a ritornarmene alla svelta a casa di Anna.
C’è qualcosa che non va in questo paese, sono tutti così gentili tra di loro, vivono quasi isolati dal resto del mondo, hanno tutto lo stretto necessario qui e la città più vicina è a trenta minuti di auto.
Spero proprio di non essere finita in una comunità di fanatici religiosi.
Cammino, pensando agli indizi che mi possano aiutare a capire meglio dove sono finita.
E tutto quello che mi viene in mente, è il film The wicker man.
Mi passo una mano tra i capelli, osservandomi intorno, sentendomi improvvisamente in soggezione, seguita e non più da sola.
La strada costeggia una zona alberata, abbastanza illuminata per fortuna, grazie a questo tiepido sole, ma in altre occasioni, qui tutto è sinistro e inquietante.
Spero solo di sbagliarmi, altrimenti sono finita in un brutto guaio e mia cugina sta messa peggio di me.
Cerco di non pensarci mentre continuo ad ascoltare la musica, sfilo il telefono dalla tasca posteriore dei jeans per controllare l’ora e subito mi cade l’occhio sul simbolo del segnale che mi avvisa che, di segnale, non ce ne è neanche un po'.

Ma, dico io, vogliamo scherzare?!

Io non posso pensare a certe cose inquietanti e poi vedere che in questo punto non c’è segnale. Sbuffo, provando a concentrarmi su altro, tipo la voce del cantante, dolce e ipnotica, per cercare di calmarmi e smettere di ragionare da sciocca, poi però, il mio sguardo si incrocia con il titolare di Alan che, non appena mi riconosce rallenta l’andatura del suo fuoristrada fino a fermarsi, per guardarmi attraverso lo specchietto retrovisore.
Rimaniamo un attimo a fissarci, io sul bordo della strada e lui praticamente in mezzo alla corsia; quando apre lo sportello per scendere, non ho bisogno di altri suggerimenti e continuo a camminare a passo più spedito, voltandomi di tanto in tanto per spiare i suoi movimenti.
L’uomo è in piedi accanto allo sportello aperto, fermo e intento a fissarmi. Anche io smetto di camminare, come attratta e incuriosita dai suoi movimenti, ma quando muove un passo evidentemente intenzionato a venire verso di me, giro sui tacchi e imperterrita, continuo a camminare – quasi a correre – verso casa.
Non so spiegare il motivo del mio comportamento, alquanto immotivato, ma tutto di quell’uomo mi mette soggezione.
Il suo sguardo, i suoi lineamenti. Anche la voce e il modo che ha di porsi con le persone, sopratutto con me.

Mi tranquillizzo solo dopo essere entrata in casa ed aver chiuso la porta, consapevole che almeno qui, posso stare in pace e lontana da lui che mi manda il cervello in tilt.
Lascio la bustina dei medicinali sul tavolo in cucina e mi avvio in camera, dove mi rilasso del tutto e mi getto sul letto.

E rifletto.

Non capisco perché quell’uomo mi faccia un tale effetto, nemmeno lo conosco e sembrano apprezzarlo tutti qui, ma c’è qualcosa in lui che non mi convince. O meglio, non mi convince il comportamento che mi fa avere nei suoi confronti. Senza rendermene conto, mi ritrovo ad analizzarlo e realizzo che almeno fisicamente è un bell’uomo di sicuro.
I lineamenti leggermente spigolosi, coperti da una leggera barba, i capelli non tanto lunghi e quello sguardo perennemente serio.
Sembra quasi un bad boy che si trovano in quelle fan fiction per ragazzine.
Rido di me stessa e del paragone appena fatto, seppur giusto.
E da quando in qua, sono attratta da tipi come lui?
Forse sono troppo abituata ad un genere maschile completamente diverso e mediocre, ed è per questo che penso più del dovuto a lui e delle figuracce fatte, che non mi sono per niente di aiuto. 
Spero proprio di non vederlo domenica. Il che potrebbe essere pure possibile, ripensandoci: lui potrebbe avere degli impegni, forse nemmeno vive qui ed era solo di passaggio oggi e poi, con tutte le persone che ci saranno sarà impossibile vedersi.
Poi però mi ritornano in mente i discorsi strani di Anna e del farmacista. Di come tutti qui si affidino a lui.
E l’idea di essere finita in un qualche giro di religiosi moderni, o clan dei complottisti, o gruppo in attesa dell’arrivo degli alieni prende sempre più forma nella mia testa, facendomi venire un principio di emicrania.
Mi sto per appisolare con questi pensieri poco rassicuranti quando sento il rumore del pick-up e le voci ilari ed alte di Alan ed Anna. Quindi, mezza assonnata, scendo ad aiutare i due sposini con la spesa.

“Ma quanta roba avete preso?” sono sconcertata.

Hanno riempito il bagagliaio.

“Non guardare me!” si discolpa Alan, mettendo le mani avanti. “E’ stata lei!” e la indica con fare giocoso, ricevendo in cambio uno sguardo assassino.

“Mi sembra il minimo, ragazzi.”

Dopo aver fatto un paio di viaggi a prendere tutte le buste, rientriamo in cucina, iniziando subito a sistemare la marea di roba che hanno comprato.

“Non possiamo presentarci a mani vuote e poi ti ricordi l’anno scorso? La mia cucina è stata quella più apprezzata. Non avanzò niente!” fa notare con molta ovvietà e con molta modestia, oserei dire.

Alan alza gli occhi al cielo, come se quella non fosse la prima volta che gli viene raccontata la stessa storia.

“Aspetta, ma il barbecue non lo fate da voi?” domando con un brutto presentimento, smettendo di muovermi.

“E dove le metto 148 persone?” ride divertita.

“Il barbecue viene organizzato da Garreth.” mi spiega Alan.

Ed io, senza sapere il perché, temo di sapere a chi appartiene questo nome.

“E’ il titolare di Alan.” precisa Anna.

Il verso che emetto, un misto tra il disgusto e la disperazione, li fa voltare entrambi verso di me, con aria perplessa.

“Tutto bene?”

“Sì, come no.” mento, dando loro le spalle, proseguendo a sistemare le buste con dentro la spesa.

Perché capitano tutte a me?

Mi detesto.

 


Io e Anna siamo in salotto; io fingendomi impegnata a leggere e lei a finire il suo lavoro a maglia.
Ho cercato di scacciar via quella brutta sensazione nata dalla strana conversazione avuta col farmacista, ma invece di scomparire, la mia mente continua a giocarmi brutti scherzi, con le idee più strampalate e inverosimili.
Provo a concentrarmi sulle pagine, ma mi accorgo che da dieci minuti sono sempre allo stesso rigo, letto non so più quante volte.

“Anna, sei finita in una setta religiosa?” sbotto all’improvviso, scollegando il cervello.

Mia cugina mi guarda a bocca aperta, lasciando il suo lavoro che per poco non le cade a terra.

“Che diavolo stai dicendo?” domanda a sua volta, con la voce acuta, fissandomi stralunata.

“Sono tutti così strani in questo paese!” le dico esasperata. “Alan che prende e se ne va dopo cena, il suo titolare che mi guarda male, il farmacista che mi viene a dire che tu ‘sembri quasi una di loro’, vivete praticamente isolati dal mondo, dove la città più vicina è lontana mezz’ora, avete tutto lo stretto necessario che vi serve. Ora questa festa annuale. Dove cazzo sei finita Anna? Sei nei guai?”

L’attimo di silenzio che ne segue, viene subito interrotto da una grassa, sonora, di cuore risata da parte di Anna.
Scoppia a ridere, senza riuscire a fermarsi, portandosi una mano alla pancia e una all’angolo dell’occhio per asciugarsi una lacrima.
La guardo sconvolta ed un pochino adirata.
Io sono preoccupata per lei e questa mi ride in faccia.
Allora avevo ragione io: sono tutti strani. Mia cugina compresa!

“Ma cosa vai a pensare, Amira?” domanda con accondiscendenza.

“Non lo so cosa pensare, Anna. Dimmelo tu.” uso il suo stesso tono di voce e la guardo negli occhi.

“Non sono finita in nessuna setta religiosa. È solo un piccolo paesello di campagna, con gente semplice. Non è niente di quello che pensi tu.”

Continuo a fissarla, in cerca di qualche indizio che la possa tradire, ma non ne vedo.
Mi accascio contro lo schienale della poltrona, strofinandomi la faccia.

“Scusa Anna, io ero solo preoccupata per te.” mugolo imbarazzata, rendendomi conto solo adesso di essere stata un po' troppo apprensiva e facilmente suggestionabile.

Mia cugina si alza e mi si mette di fronte, poggiandomi una mano sulla spalla, incapace a piegarsi a causa della pancia.

“Non c’è niente di cui ti debba scusare, lo avrei pensato anche io al tuo posto.”

Quando alzo la testa, vedo che si sta sforzando per trattenere le risate.

“Uffa, Anna! Non sei divertente!” sbotto, togliendole la mano ma senza rabbia.

“Forse io no, ma tu si!” ridacchia come una bambina.

La guardo male, almeno ci provo, ma non ottengo l’effetto sperato.

“Senti, stavo pensando ad una cosa...” lascia in sospeso la frase, rimettendosi a sedere sulla poltrona.

La guardo in tralice, ben sapendo che tutte le volte che dice questa frase non va mai a finire bene. Come quella volta che mi convinse a prendere le chiavi della macchina di mio padre e dargliele perché voleva andare a fare un giro e i suoi non ce la volevano portare.
Lei aveva quindici anni e io solo otto.
Ora che lei ne ha ventinove, non credo che sia cambiato qualcosa.
Mugolo per farle capire che la sto ascoltando ma che non sono d’accordo, con qualsiasi cosa lei mi dica.

“Perché non usciamo a prenderti un vestito per domani?”

“Ne ho già abbastanza, grazie.”

“Intendevo qualcosa di nuovo ed un poco elegante per l’occasione.”

“E’ un barbecue in giardino. Cosa c’è di importante?”

“E’ una festa a cui partecipa tutto il villaggio e poi...” mi sorride sorniona.

“Poi cosa?”

“Ci saranno un sacco di ragazzi carini, tipo Giulian.” mi fa l’occhiolino. “L’ho incontrato al market e si è informato su di te: gli ho detto che sei liberissima.”

“Cosa?! Perché l’hai fatto?” alzo la voce sconcertata.

Non le lancio niente solo perché aspetta il mio quasi nipote e io sono la sua madrina.

“Guarda che non sono tutti degli idioti come quello che hai frequentato.” puntualizza.

“No, infatti. Alcuni sono anche peggio!”

“Oh, dai! Non fare così.” si alza con calma e una volta piegato il suo lavoro sulla poltrona mi fa cenno di alzarmi. “Forza, muovi quelle chiappe che andiamo a fare spese.”

Non essendoci stato modo di farle cambiare idea, vengo trascinata a giro per le vetrine di Burneside a provare vestiti per questa ‘grande’ occasione.
Dopo un tempo infinito che si traduce in sole due ore, sono già stanca e senza speranza di trovare qualcosa di adatto.

“Proviamo ad entrare qui, ti prego. Sento che è il posto giusto.”

Beata lei.

Il negozio è modesto ma sembra avere più scelta e qualcosa che non mi faccia assomigliare a nostra nonna.
Lei ha già trovato un abito carino, celeste, che le si intona agli occhi dello stesso colore. Sta facendo avanti e dietro per aiutarmi a trovare un abito, ed io continuo a non capire dove riesca a trovare tutte queste energie.
Mi limito a gironzolare, annoiata, fingendo di cercare qualcosa, fino a quando un abito mi sembra il meno peggio di tutti.
Lo sfilo dalla gruccia e faccio le dovute considerazioni davanti allo specchio.
È un vestito nero, senza spalline, di semplice cotone, con la gonna che arriva alle ginocchia davanti e si allunga fino alle caviglie nella parte posteriore.

“Ma è favoloso!” cinguetta Anna, sbucando dal niente. “Lo compri vero?!”

E la sua suona più come una minaccia che come un consiglio.

“Vai di là, provalo e compralo.” mi spinge verso i camerini.

“E se non mi stesse bene?”

“Ti starà bene per forza. In caso gli do due punti con ago e filo.”

Eseguo quanto mi è stato ordinato dal generale Anna e dopo averlo provato, evitando accuratamente di farmi vedere, nonostante abbia insistito più del solito perché uscissi dal camerino, mia cugina ha voluto pure pagarmelo.
Usciamo dal negozio che ormai è buio, dirette verso l’auto per tornare a casa, quando sul marciapiede, in direzione opposta, vediamo giungere Garreth.
Fingo di avere delle cose importanti da scrivere al cellulare, credendo che i due si saluteranno, andandosene poi ognuno per la propria strada. Ma, tanto per cambiare, i miei piani non si realizzano e mia cugina ha la brillante idea di fermarsi a parlare con lui.

“Salve Garreth.”

“Buona sera a te, Anna.”

Perché con lei è cordiale e con me ha fatto lo stronzo?!

“Ti voglio presentare mia cugina Amira.” dice tirandomi una gomitata per farmi alzare il viso dallo schermo.

“Amira, lui è…” rimane un attimo in silenzio, come se non sapesse cosa dire. “Vabbè, lui è Garreth.”

Lo guardo di sfuggita, salutandolo con “Ciao.” a bassa voce e poco entusiasta.

“Io e Amira ci siamo già conosciuti.” dice Garreth, divertito.

Lo guardo, pregando lui e tutti gli Dei esistenti che non le dica COME ci siamo conosciuti.

“Non me lo aveva detto.” si rivolge verso di me, trucidandomi con lo sguardo.

La guardo a mia volta, facendo spallucce.

“Se ne sarà dimenticata. Non ci conoscevamo ancora. Lei, non sapeva chi sono io. E poi, è stato un incontro veloce.”

Ci guardiamo negli occhi, ben coscienti che la vicenda è andata un po' diversamente.

“Adesso vi devo lasciare, a domani.” ci dice gentile.

“Sì, certo. A domani.” lo saluta mia cugina.

Anna aspetta che se ne sia andato, poi inizia a parlare a bassa voce.

“Che strano, oggi era di buon umore.”

“Non oso immaginare quando non lo è.” le rispondo di rimando, un po' inacidita.

“Non essere così dura con lui, ha davvero tante cose a cui pensare.”

“Poveretta la fidanzata.” a stento trattengo una risatina.

“Lui è solo, non ha ancora trovato la sua compagna.”

Guardo stranita mia cugina, che nel frattempo si è incamminata.
Forse non sarò finita in un gruppo di fanatici religiosi, ma sono davvero tutti strani da queste parti.
Durante il tragitto, stiamo andando piano perché siamo in mezzo al bosco ed è buio, ripenso alla frase di Anna.
Non ha trovato la sua compagna.
Che è, un cane?!
Forse sarà solo un modo di dire inglese e io non l’ho capito. Sì, deve essere questa la spiegazione giusta e non solo per questa sua affermazione, ma anche per tutte le altre e le frasi lasciate a mezzo.

Siamo quasi arrivate quando un grosso e peloso animale attraversa la strada all’improvviso, costringendola a frenare bruscamente.
Anna riesce a sterzare, schivando per un soffio l’animale che, spaventato, si ferma meno di un secondo in mezzo alla strada, per poi scappare a gambe levate nel folto della vegetazione.
L’auto si spegne e la mia prima ed unica preoccupazione va ad Anna.

“Stai bene?” le chiedo, con il fiato mozzo per lo spavento.

“S-sì… sto bene credo. E tu?” mi domanda, poggiando la fronte al volante e guardandomi di lato.

“Sì sì, sto bene. Ma che diavolo era? Sembrava un lupo enorme.” sbotto, col cuore in gola, guardando fuori dall’auto per riuscire a intravederlo.

Ma quell’animale deve essere ben lontano, ormai.

“Non essere sciocca, non esistono lupi così grandi.” dice Anna, con voce tremula per la paura, provando a rimettere in moto la sua macchina, ma senza successo.

“Cazzo! È andata!” poggia la testa allo schienale, prendendo un respiro profondo. “Dobbiamo chiamare Alan.” e dal tono che ha usato, capisco che ne avrebbe fatto volentieri a meno.

Suo marito è un fulmine a venire a prenderci, come se avesse sentito il pericolo che abbiamo corso, ha risposto subito al telefono, nemmeno stesse aspettando una chiamata da parte della moglie.
Si assicura che Anna e il bambino stiano bene, la abbraccia, con una preoccupazione reale e viva negli occhi, come non l’avevo vista in nessuno sguardo.
Forse è quello l’amore vero, sincero e profondo, che ogni tanto mi accennava Anna.
Si assicura che stia bene anche io, che non abbia sbattuto la testa o mi sia fatta male da altre parti.

Eleggo Alan come marito dell’anno, da qui all’eternità.

Durante il tragitto di ritorno ho provato a fare altre domande su che tipo di animale poteva trattarsi, ma sia Anna che Alan mi hanno liquidato con un “Non ci pensare, l’importante è che stiamo bene” o con un “Era un orso. Basta pensarci.”
Mi son dovuta arrendere contrariata, per non scatenare una lite tra me e mia cugina.

Solo ora che sono in camera mia, ho iniziato una piccola ricerca personale sulla fauna tipica di queste zone, ed ho scoperto che qui NON ci sono orsi. Mai stati.
Incuriosita e molto insospettita, sto continuando a navigare, qualche sito è una presa in giro, però dopo un’ora abbondante che giro per il web, trovo quella che è la gazzetta di Burneside, con tutte le notizie più importanti, recenti e più datate.
Una di queste, racconta di alcuni contadini, che testimoniarono di aver visto, l’inverno scorso, enormi lupi aggirarsi vicino alle loro fattorie, verso il crepuscolo e di essere scomparse nella nebbia serale.
Ovviamente la cosa divenne virale, per poi perdersi nel niente come tutte le notizie false.
Continuando a navigare, trovo un sito che parla di creature leggendarie che da uomini riuscirebbero a trasformarsi in enormi lupi. Si passa dal folklore inglese, alla mitologia nordica; un altro sito ancora parla di Warg e spuntano all’improvviso immagini e didascalie tratte dal “Il Signore degli Anelli”, dove i mannari non sarebbero altro che lupi trasformati in bestie cattive dalla magia nera.
Leggo solo qualche altra riga, informandomi tramite dei saggi e delle teorie di alcune persone che si definiscono esperti del settore, per poi spegnere il computer, senza niente di concreto in mano.

 

Dai, chi ci crederebbe mai ai lupi mannari?







*angolino mio*
Eccomi di nuovo qui... spero che la storia vi piaccia, così come i personaggi e le buffe (dis)avventure della protagonista...
Grazie a chi recensisce, aggiunge la mia storia e anche a te, lettore silenzioso :)
Volemose bene :*
KV

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Capitolo 4
*** Into the wood ***


L’ora della festa arriva fin troppo alla svelta e io mi ritrovo in camera a fissare il vestito sul letto, sempre meno intenzionata ad andare.
Tutte le volte che mi avvicino al letto per prendere l’abito, sbuffo e ritorno indietro; mi affaccio alla finestra, guardo il bosco e poi ritorno verso il centro della stanza. Vado in bagno, mi sciacquo il viso e sbuffando come una teiera, ritorno in camera decisa ad andare per poi cambiare idea all’ultimo secondo.
Mi domando chi me lo faccia fare di andare in un posto dove non conosco nessuno.
Se ci fosse stato il mio amico Edoardo mi avrebbe detto “Ci devi andare proprio per conoscere gente nuova!”

Prendo in mano il telefono e gli mando un messaggio: “Qui continuano ad essere tutti strani.” perché gli avevo promesso che mi sarei fatta sentire tutti i giorni dopo la partenza.
E credo che sia l’unica persona che mi manca veramente di tutto il gruppo di ballo e di tutte le amicizie che ho lasciato in Italia.

“Amira, posso entrare?”

Sono ancora assorta nei miei pensieri quando Anna bussa alla porta ma non aspetta la mia risposta per entrare.

“Amira, cosa ci fai in quello stato e sopratutto perché non sei ancora vestita?”

Anna mi si avvicina, studiandomi come fossi un topolino di laboratorio.

“Stai bene? Sembri preoccupata.” dice, poggiandomi una mano sulla spalla.

“Non credo che sia una buona idea che venga anch’io. È una cosa vostra, io non ne faccio parte.”

“Stronzate!” sbuffa, scacciando la mia frase con un gesto della mano. “Sei mia cugina e come tale ora fai parte del villaggio. Quindi, vestiti che tra poco dobbiamo andare, o faremo tardi.”

Mi spinge verso il letto e mi mette tra le mani l’abito, spingendomi poi in bagno.

“In realtà io non voglio...”

“No, sono io che non voglio sentire storie da parte tua. Su, forza! A cambiarsi!”

“Sissignora.” borbotto per niente felice.

“Brava, così mi piaci.”

Non riesco ad essere veloce e con la speranza che Anna desista dal suo proposito di portarmi con sé, cerco di essere il più lenta possibile.
Mentre cerco di non inciampare sulla gonna, sento che mi arriva un messaggio.

“Ti ha risposto Edoardo!” urla mia cugina. “Dice se deve venire a salvarti!” ridacchia come una bambina.

Esco dal bagno, con il mucchietto dei vestiti che getto malamente sulla sedia e veloce le prendo il telefono dalle mani.

“Ti sei messa pure a spiare?” chiedo contrariata e già con le guance calde.

“Secondo me non vede l’ora che tu gli dica che può venire. Perché non lo inviti?” chiede, senza badare alla mia domanda precedente.

“Ha da fare.” taglio corto, gettando il cellulare in borsa.

“Secondo me tu gli piaci.” azzarda, con un mezzo sorriso furbo.

“No, non è vero.” rispondo laconica e rossa in volto.

“Sei arrossita. Quindi è vero!”

“No. Non è vero. Vogliamo andare o no?” sbotto, senza sapere cosa fare con lei per farla smettere.

“Sì, vorrei andare, ma non così.”

Alzandosi dal letto esce di camera per poi ritornare un paio di minuti dopo con un astuccio bello grande, pieno di cosmetici.
Molto diplomaticamente mi fa sedere sulla panca del davanzale e inizia a truccarmi, solo che lei non è come me, ci va molto più leggera, limitandosi al mascara e ad un bel rossetto sanguigno su mia richiesta.
Fortunatamente l’operazione è breve e una volta finito, mi invita molto garbatamente ad alzare le chiappe e andare.

“Oh mio Dio, ma quanti ne hai?” esclama, sorpresa, facendomi fermare.

La guardo non capendo. E poi, non stavamo facendo tardi?
Anna mi gira intorno, come fosse un avvoltoio, e solo grazie al suo strambo comportamento, riesco a capire che si riferisce ai tatuaggi.

“Per ora ne ho undici.”

“E scommetto che la mamma ne è felicissima.”

“Lasciamo perdere. Ha minacciato di buttarmi fuori di casa al quinto.” dico, cercando di trattenere le risate, al ricordo della sua faccia e della sua sfuriata, terminata solo una settimana dopo.

“Stai proprio diventando una bad girl!” scherza, dandomi una gomitata, facendo ridere entrambe.

Dopo altri minuti di discussioni perché lei voleva che indossassi i tacchi, mentre io volevo gli anfibi, riesco a vincere questa battaglia e finalmente – si fa per dire – riusciamo a partire.
La strada per arrivare dal titolare di Alan non è molta, potevamo benissimo andarci a piedi se non fosse stato per le tre borse piene di roba da mangiare che si è voluta cucinare Anna, e quando arriviamo ci sono giù diverse auto parcheggiate alla belle e meglio.
L’abitazione non si discosta molto dal resto delle altre case, solo che questa è più grande, circondata completamente dal bosco.
La porta principale è aperta, permettendo agli ospiti di entrare e uscire a loro piacimento, consentendo a noi di attraversare l’ingresso e di venire inghiottiti dalle altre persone – chi con enormi vassoi, bottiglie di birra o a mani vuote – ci salutano.
I due sposi si intrattengono un attimo a parlare con i vicini, presentandomi le persone che ancora non conosco, per poi dirigerci in cucina dove c’è un gran via vai di gente, tutti occupati a preparare da mangiare e a portarlo fuori.
Anna incontra una donna, con due bambini piccoli, a cui sembra molto legata, a giudicare da come si sono messe a parlare fitto tra di loro e a ridere.

“Mary, ti voglio presentare mia cugina. Amira, lei è Mary la mia migliore e prima amica da quando mi sono trasferita qui.”

“Ciao.” la saluto con un cenno della mano.

“Ciao Amira!” ricambia la donna, abbracciandomi come se ci si conoscesse da tempo. “Anna mi ha parlato così spesso di te.” mi sorride.

“Sì, posso immaginare. Tutti qui mi conoscevano ancora prima che ci mettessi piede.” borbotto, un pochino a disagio, grattandomi il braccio.

Le due donne scoppiano a ridere.

“Queste sono le mie due piccole pesti: Elias e Lilith. Salutate bambini.”

Il maschio, che avrà circa cinque anni, è più timido e si limita a dirmi un “Ciao.” a bassissima voce, rimanendo attaccato a sua madre, mentre la femmina, forse ha otto anni, più intraprendente, si scosta dalla donna, mi si avvicina incuriosita e con i suoi occhioni castani mi scruta con attenzione.
Mi prende la mano, guardando i tatuaggi e passandoci sopra un ditino.

“Anche io ne voglio uno mamma!” dice guardando la donna alle sue spalle.

“Quando sarai più grande forse.” risponde accondiscendente lei, accarezzandole una guancia.

“Ma tu sei umana?” sento chiedermi dal bambino, che fattosi un pochino più coraggioso, mi si è avvicinato.

Lo guardo stralunata, credendo di non capire cosa voglia dire.

“Sì, certo che sono umana.” gli sorrido, senza sapere cos’altro aggiungere.

“Elias!” lo rimprovera sua madre, diventando paonazza per la figura che le ha fatto fare il figlio. “Ti sembrano domande da fare, queste? Scusami Amira, è piccolo.”

“Sì, capisco. Non fa niente, non me la sono presa.” la tranquillizzo, ben sapendo come sono fatti i bambini piccoli e quanto possano metterti in imbarazzo con le loro strane domande.

“Scusa mamma… è che ha un odore così buono.” si giustifica il bambino.

Adesso sono io a diventare tutta rossa in viso, perché Elias strascica le parole, ma io le ho capite bene questa volta.
Dopo un primo momento di silenzio, in cui ci siamo guardate negli occhi, scoppiamo in una risata forzata e carica di imbarazzo.

“Scusate, noi andiamo. Ci vediamo a giro. Amira, è stato un piacere.” dice Mary, prendendo per mano i figli e allontanandosi svelta.

“Non far caso a quello che ti ha detto Elias, fa così con tutti.” mi spiega Anna, prendendomi da parte. “Purtroppo Mary è rimasta vedova da qualche anno ed è difficile crescere due bambini così piccoli da soli, benché venga comunque aiutata dalla comunità.”

Mi rattristo per la sua storia, capendo che non deve essere per niente facile essere madre e non avere un aiuto costante.

“Io non so cosa farei se non ci fosse il mio Alan.” dice, abbracciandosi a suo marito, che ricambia e le da un bacio sul naso.

“Come è morto suo marito?”

“Si trovava nel bosco lontano da casa quando è stato attaccato da...” inizia Alan.

“Attacco di cuore.” si intromette Anna, poggiando una mano sul petto del marito e spalancando gli occhi. “Ha avuto un attacco di cuore e non c’è stato niente che potessimo fare.”

Se non fosse che l’argomento è triste e non ho voglia loro rovinare l’atmosfera allegra della festa, farei più domande, perché sinceramente il loro strano comportamento non mi convince affatto, così come non mi convince la spiegazione che mi hanno dato.

“Amira, perché non vai a fare due passi in giardino?” mi consiglia Anna, accompagnandomi fuori dalla cucina.

Seguo il suo consiglio e togliendomi il giacchetto per lasciarlo a giro da qualche parte, cerco di trovare il giardino, che raggiungo abbastanza facilmente, grazie a due uomini che si stavano dirigendo proprio lì.
È una serata mite e molte persone sono fuori a parlare tra di loro, notandomi a malapena.
Mi guardo intorno, senza sapere cosa fare in mezzo a tanta gente che non conosco e sono immensamente grata a Giulian che, non appena mi vede, mi saluta venendomi poi incontro con il suo gruppo di amici.

“Ehi, eccoti finalmente!” mi abbraccia senza darmi il tempo di rendermene conto.

“Loro sono Mark, Judy, Paul, Emmett e Jonathan. Ragazzi, lei è Amira.” mi presenta uno ad uno e ogni volta che chiama il loro nome, alzano la mano.

A parte Judy, l’unica ragazza del gruppo, sono tutti più o meno uguali: alti, robusti, alcuni hanno quasi l’aria minacciosa. Mi sa che passano gran parte del tempo in palestra a giudicare dai muscoli scolpiti che si ritrovano.

“Sei italiana, vero?” domanda il ragazzo moro, che credo si chiami Emmett.

Dio, sono una frana coi nomi.

“Però Amira non sembra un nome tanto italiano.” aggiunge Mark, capelli biondo cenere e occhi castani, alzando un sopracciglio con fare indagatore.

“Guardate che fico: è piena di tatuaggi! Qui non c’è nessuno che ne abbia così tanti.” dice quello più basso, Paul forse.

E per più basso intendo che mi supera di almeno dieci centimetri abbondanti.

“Dicci un po', sei venuta qui per trovare il tuo compagno?” aggiunge Jonathan, avvicinandomisi con le braccia incrociate.

“Di certo non sei tu!” lo prendono in giro gli altri, dandosi il cinque e beccandosi uno sguardo truce dal ragazzo.

“Non fate ridere. Voglio proprio stare a vedere!” borbotta contrariato.

“E’ vero che hai risposto per le rime al grande capo e lui non ha ribattuto niente?” domanda Mark, parlando per la prima volta.

Me ne rimango in silenzio, persa in tutte quelle domande, alcune anche parecchio strane, che mi hanno posto, incapace di risponderne ad una.

“Beh, io...” non so cosa dire. Mi hanno investito di domande e ora mi sento un po' confusa.

“Oh per la Dea Luna! Lasciatela respirare ragazzi, non siate soffocanti come al vostro solito.”

E’ l’unica ragazza a parlare, si chiama Judy, ed è lei che mi ha salvato da un vero e proprio interrogatorio tipico poliziesco.

“Noi ce ne andiamo.” dice prendendomi a braccetto ed allontanandosi dai suoi amici.

“Li devi perdonare, ma non appena vedono una femmina nuova, si sentono tutti degli alfa.” prende due bottiglie di birra, porgendomene una.

Rido. Se non altro, questa battuta l’ho capita.
Beviamo insieme un sorso, allontanandoci dalla folla di gente.

“Non ti preoccupare, tra qualche giorno smetteranno di parlare di te. Fino ad allora, lascia correre.”

Ci sediamo su una panchina, continuando a bere e chiacchierare.

“L’anno scorso Iris e Margaret si sono picchiate per lo stesso maschio. Non sono arrivate a fare cose estreme, ma qualche capello se lo sono strappate.” ridacchia al ricordo.

“E com’è finita?” domando incuriosita da morire.

“Jack, il ragazzo in questione, era innamorato di un’altra femmina ed era ricambiato. Fine.” dice bevendo un po' della sua birra. “Poi c’è stato Carlos che è stato sorpreso a fumarsi uno spinello durante la pausa e della lite se ne sono dimenticati tutti.” fa spallucce. “Questo per dirti che non sarai sempre quella nuova.”

La ringrazio con lo sguardo, grata per aver alleggerito la tensione che sentivo accumularsi nel corpo, e continuiamo a parlare come se fossimo amiche da una vita, tanto da arrivare a scambiarci il numero di telefono per rivederci anche una volta che è finita la festa.

“Questa però te la devo chiedere.” finisce la sua seconda birra, lasciando la bottiglia vuota ai piedi, abbassando poi la voce. “E’ vero che hai tenuto testa a Garreth e ai suoi?”

Mi guardo intorno, sperando che nominarlo non lo faccia anche apparire, benché sia casa sua e il rischio è alto.

“Io… gli ho solo detto che non prendevo ordini da nessuno e poi...” rigiro tra le mani la bottiglia vuota.

“E poi?” incalza Judy, sempre più curiosa e interessata alla storia.

“Gli ho alzato il dito medio prima di andarmene.” abbasso la voce anche io, rendendomi conto che quello non era il giusto comportamento.

Ma che ci posso fare? Sul momento è stato più forte di me.
Judy ride di gusto, facendo girare le persone che ci sono vicine.

“Ti adoro!” mi dice ammirata. “Non mi fraintendere, ho la piena stima e fiducia in Garreth, come tutti noi e come è giusto che sia. Certe volte però è troppo burbero e ci vuole una femmina che gli tenga testa, invece che cadergli ai piedi.”

Continuo a non capire tutta questa ammirazione e perché tutti si riferiscano a lui come ad un capo speciale. Forse ha fatto delle buone cose per le persone e per il villaggio e non è il classico titolare bastardo.
Rimane il fatto che tutta questa riverenza nei suoi confronti non mi convince ed è normale che poi uno si esalta come lui.
Smetto di pensare a lui, quando l’aria si riempie di odore di carne cotta alla brace, notando che nel giardino sono state posizionati almeno tre bracieri, dove vengono continuamente messe pezzi di carne a grigliare, facendo formare una bella fila di persone, costringendo gli addetti al barbecue a lavorare senza sosta, per sfamare tutti; solo dopo un po' che la calca di persone è diminuita, ci alziamo anche noi due, andando a prendere dei piattini e la nostra porzione di salsiccia e carne all’osso.
Sposto lo sguardo a giro, notando come alcune persone mi stiano guardando torvo, senza apparente motivo, mia cugina parla allegramente con alcune donne e Judy nel frattempo sta parlando con una ragazza che forse avrà la sua stessa età.
Inizio a sentirmi di troppo, quindi cerco un modo per svignarmela e starmene un po' per conto mio.

“Sai dove posso trovare il bagno?” chiedo alla mia nuova amica, interrompendola dalla conversazione.

“Ce ne sono due: a destra del salotto e uno al primo piano, in fondo al corridoio a sinistra.”

La ringrazio e lasciandola alla sua amica, mi allontano dalla festa, intenzionata ad andare nel bagno più isolato della casa.
Salgo i gradini, alzando la gonna per non pestarla e con molta calma cerco il bagno.
Sono quasi giunta alla porta presumibilmente giusta, quando sento delle voci concitate discutere tra loro.
Non ci presterei attenzione ma, tra quelle voci, riconosco Alan e l’argomento di cui parlano riguarda l’animale che l’altra sera ha fatto sbandare me e Anna.

“Non ti devi preoccupare Garreth, Amira era troppo spaventata e ha creduto alla storia dell’orso.” spiega Alan.

Senza accorgermene, mi sono accostata alla porta, con l’orecchio teso, in ascolto.

“Importa poco. La cosa che veramente conta è perché hai fatto una cazzata del genere Bryan!” ringhia furioso Garreth, sbattendo le mani sul tavolo.

“Mi dispiace, alfa. Non mi ero accorto di essere già arrivato alla strada...” piagnucola il ragazzo.

Dalla voce sembra anche più piccolo di me.

“Non ti eri… accorto?!”

Garreth è proprio fuori di sé dalla rabbia.

“Dico io, cos’hai in quella testaccia? Lo sai che potevi farci scoprire?! Per non parlare poi che hai messo a rischio la vita della sua compagna e di suo figlio!”

Alza ancora di più il tono di voce, facendo spaventare il ragazzo.
Se non fosse che sto origliando e sarei nel torno marcio, andrei a difendere quel poveretto dalla cattiveria ingiustificata di Garreth.

“E’ stato un incidente, alfa. Credevo di essere seguito, glielo posso giurare!”

C’è un attimo di silenzio, come se stessero soppesando le parole del ragazzo.

“Dici sul serio, Bryan? Non ti stai inventando tutto per non finire nei guai?”

“Posso giurarlo, alfa. Non ero solo nel bosco; non riuscivo a vederli, ma li fiutavo. Erano tanti, nascosti.” si è fatto più risoluto.

“Alan, informa gli altri e organizzate delle squadre di ricognizione, spargete la voce ai branchi alleati. Forse lui non è stato l’unico. Dobbiamo capire se erano lupi o se sono tornati i cacciatori.” sospira, ed è come se fosse appesantito da tale fatto.

“Bryan, non fare più un errore del genere. Puoi andare.”

Prima che esca dalla stanza, torno alle scale, fingendo di aver salito l’ultimo gradino e di star cercando il bagno, in modo tale che quando ci incrociamo, io in cerca della porta e lui a capo basso, riesco a fermarlo.

“Scusami, sai per caso dov’è il bagno?” chiedo con voce innocente.

Il ragazzo alza la testa e quando si accorge di me, ma sopratutto mi riconosce come la cugina di Anna, una di quelle tre vite che ha messo in pericolo – così sosteneva quel burbero di Garreth – si pietrifica.
Lo guardo aspettando una sua risposta, fingendo di non capire perché ci metta così tanto a rispondermi.

“Se non lo sai, non importa.” dico, rompendo questa staticità tra noi due, che in tutta onestà, mi sta mettendo un pochino a disagio.

“E’ quella porta lì.” la indica con il dito.

Detto ciò, continua per la sua strada, scendendo di gran carriera le scale.
Nuovamente da sola, ritorno dov’ero per continuare a seguire la stranissima conversazione tra Alan e Garreth.

“Per quanto riguarda l’umana...”

“Garreth, per favore, non mandarla via. Sta passando un brutto periodo e ha bisogno di stare lontana da casa.”

C’è un attimo di silenzio assoluto. Pure io ho smesso di respirare.

“E sia, però starà a te tenerla sotto controllo e assicurati che non scopra niente.”

“Grazie Garreth.”

E, ancora una volta, fingo.

Sono davanti alla porta del bagno, mentre la chiudo alle mie spalle, quando anche Alan esce dall’altra stanza, notandomi immensamente.

“Amira, che ci fai qui?” chiede tranquillo, avvicinandosi.

“Avevo bisogno del bagno.” faccio spallucce, seguendolo al piano di sotto, dove ci dividiamo senza nemmeno accorgercene.

Sono confusa riguardo a tutta la loro conversazione; non posso aver capito quello che credo io, è fuori da ogni logica umana.

“Attenta a dove cammini!” mi ringhia una donna contro cui sono andata a sbattere.

“Mi scusi.”

Vorrei avviarmi verso l’esterno, confusa da quei discorsi assurdi, ma Anna mi raggiunge, dandomi il telefono.

“Dovresti richiamare. Non fa altro che squillare.”

Guardo lo schermo, vedendo con mio grande disappunto che il numero non è salvato. Sospiro parecchio infastidita, decisa però a chiamare per farla finita una volta per tutte.
Vado in giardino, dove hanno acceso le lanterne a causa del crepuscolo e le persone continuano a mangiare, bere e intrattenersi, costringendomi ad andare ancora più lontano, per avere un po' di riservatezza e di silenzio.
Mi fermo davanti ad un piccolo stagno artificiale, guardando il mio riflesso distorto nell’acqua.
Osservo il numero – che ho volutamente cancellato mesi addietro – massaggiandomi le tempie e prendendo dei respiri profondi per non dare subito di matto.

Appunto per domani: cambiare numero.

Premo il tasto verde e attendo.

“Finalmente hai risposto!” dice la voce alterata di un ragazzo.

Non si parte bene per niente.

“Sono stata impegnata.”

“Anche noi, sai? A consolare il tuo ragazzo, perché tu sei partita!”

“Non è più il mio ragazzo. E poi ne avevo bisogno...” mi mordo la lingua quasi a sangue per non aggiungere altro.

“Potevi farlo qui, invece di fare la bambina viziata.” mi dice acido. “Lui sta male.” aggiunge, diretto come una pugnalata.

“Anche io!” mi indico con un dito, come se lui potesse vedermi, davvero vicina a perdere il controllo. “Scommetto che non vi ha detto nulla, vero?”

“Detto cosa?” chiede lui, tra il curioso e il sospettoso.

“Mi ha messo le mani addosso!” un grido bisbigliato il mio, troppo arrabbiata con loro e preoccupata che mia cugina non senta questa conversazione.

“Si ce l’ha detto, ma ha anche detto che non l’ha fatto a posta!” lo difende a spada tratta.

“Ma sei scemo?!” urlo, fuori di me dalla rabbia.

Se non altro, arrabbiarmi mi ha fatto passare il freddo che sentivo per non essermi messa il giacchetto.

“Non alzare la voce che non mi piace!”

“Sai il cazzo che me ne frega?!” sbotto allucinata e col cuore a pezzi. “Poverino, gli è scappata la mano e guarda caso c’era la mia faccia nella sua traiettoria!” lo derido, conscia di quanto sia stupido e una perdita di tempo parlare con un elemento del genere. “La colpa è mia che mi trovavo nella sua direzione.”

“Non ho detto questo, però potresti anche perdonarlo…”

“Posso… cosa?” ho il cuore che pompa come un dannato, il viso rosso – lo sento – e lo sguardo allucinato.

Non riesco a credere che una persona che ho considerato un amico per quasi una vita, mi si rivolti in questo modo e per una cosa così grave che mi è stata fatta, come se il torto lo avessi io. Sento le lacrime pungermi gli occhi ma cerco con tutta me stessa di non far trapelare le mie emozioni al telefono perché so, ormai ho capito, che è proprio su questo che lui e gli altri si divertono a giocare.
Sembro una pazza, lo posso facilmente intuire, e la persona con cui parlo deve solo ringraziare che non posso entrare nel telefono e prenderlo a calci e pugni.

“Sai cosa ti dico?” parlo con voce calma, che non la riconosco nemmeno io.

“Sentiamo, cosa.” dice lui, scocciato.

“Se vi è rimasto mezzo neurone avariato che condividete, andate a farvi fottere e non mi cercate mai più!” urlo isterica.

Guardo lo schermo e presa da un’insana ira piena di rancore, scollego la testa e lancio il telefono che va a finire nel laghetto artificiale, vicino a dove mi trovo.
Osservo, sconvolta dal mio gesto, il cellulare che vola in aria e con un sonoro tuffo, finisce in fondo all’acqua, spaventando un paio di ranocchie che gracchiano e saltano via.

Che cazzo ho appena fatto?!

“Complimenti, bel lancio!”

Mi giro lentamente, scoprendo che a parlare è stato un Garreth divertito dalla scena a cui ha appena assistito.
Lo guardo senza sapere cosa dire, come giustificare il mio gesto, dato che gli ho inquinato il laghetto.

“Non ho capito niente di quello che hai detto, ma non pareva una conversazione pacifica.” ridacchia, muovendosi verso di me, appoggiandosi alla staccionata di legno.

“No, non lo era” dico a testa china, sopraffatta – ancora una volta – dalla tristezza e da troppo veleno che butto giù da tempo, a causa di una colpa che non è mia.

“E comunque non sono cose che ti riguardano.” puntualizzo, innervosita dal fatto che mi abbia beccata proprio in un momento vulnerabile come questo.

E inoltre, non so cosa fare: il telefono è andato, dovrò comprarmene uno nuovo, se non altro è un buon motivo per cambiare numero; non ho voglia di tornare alla festa, troppa gente, tanta confusione e cosa più importante di tutte, non mi piace stare da sola con lui.

“Ero venuto perché l’altra volta non ci siamo presentati molto bene.” si muove verso di me, fermandosi solo quando lo guardo male.

Poi, il mio sguardo si concentra su lui.
Indossa un paio di jeans neri, con una maglia a mezze maniche dello stesso colore e gli anfibi di pelle.
Se non altro questo colore gli dona e lo rende molto sexy.
Scuoto la testa per cancellare questo stupido pensiero, convincendomi a non pensarci più e focalizzare la mia attenzione su cose più importanti.
Peccato che non ci riesca, e gli occhi – traditori – ritornino sempre a guardarlo, complice anche il profumo buono e forte che emana.

Santi Dei, mi prenderei a sberle da sola, me lo merito.

“Sarei curioso di sapere cosa passa per quella testolina.” sorride.

“A niente.”

“Tu dici? Sei arrossita.” incalza sornione, stampandosi in viso un sorriso tronfio.

“Non è vero.”

“Sì, lo è.”

“No, non lo è.”

“Credimi ragazzina, sei arrossita.”

In risposta gli rifaccio il verso.

“Wao, sei anche molto matura, devo dire.” trattiene una risata.

“Pensa per te.” borbotto inacidita.

“Scommetto che alla maturità hai preso pieni voti.” mi prende in giro.

“In realtà ho preso 80.” puntualizzo, soddisfatta.

“Secchiona e senza ironia.” fa finta di rabbrividire.

“Ho molta ironia, invece!” ribatto, guardandolo negli occhi.

“E pure coda di paglia.”

Apro bocca per rispondere, però mi fermo giusto in tempo per rendermi conto che mi ha sempre presa in giro dall’inizio di questa conversazione.
Gli volto le spalle, intenzionata ad andarmene e ne sarei anche in grado se lui non mi fermasse solo dopo pochi passi.

“Amira, aspetta.”

Santi Dei, il mio nome sulla sua bocca.

Mi raggiunge, prendendomi per il polso per non farmi allontanare di più.
Mi giro verso di lui, sentendo uno strano formicolio alle gambe e nel punto dove la sua mano sfiora la mia pelle.

“Garreth.” mi sento sciocca, ma la voce mi trema e il cuore batte veloce nel petto, come un cavallo selvaggio.

Garreth mi lascia il polso e mi guarda con un’aria più confusa della mia; sta per aprire bocca, però poi la richiude, come se fosse a disagio.

“Presentazioni fatte.” abbozzo un sorriso. “Ora devo andare. Buona serata Garreth.”

Mi allontano alla svelta, scostando le persone in giardino, cercando di non farmi notare o raggiungere da quelle pochissime persone che conosco.

“Eccoti! Ti ho trovata!”

Giulian – con mio sommo dispiacere – mi raggiunge e piazzandosi davanti al mio cammino, mi impedisce di fare un altro passo.

“Sì, mi hai trovata.” dico cercando di non sembrare scocciata. “Però adesso devo andare.” mi sposto di lato, ma mi ritrovo di nuovo il suo corpo come ostacolo.

“Aspetta bambolina, la festa è appena iniziata. Ti va di ballare?” mi prende le mani e mai un contatto mi è stato così fastidioso.

Dei, è pure sudato!

“Non so ballare, mi spiace.” mento spudoratamente.

“Fa niente. Basta che segui me.” dice borioso, con un sorriso felice.

Mi trascina in mezzo al giardino, iniziando a muoversi in maniera goffa e per niente a ritmo di musica.
Vorrei fargli vedere cosa vuol dire ballare sul serio, seguire il flusso della musica e lasciarsi trascinare da essa, ma sono stanca, confusa e non ho voglia di perdere tempo con lui.
Vedo Garreth con la coda dell’occhio parlare con un uomo, mentre bevono una birra ciascuno.
I nostri occhi si incontrano, il formicolio prende campo su tutto il corpo, senza scampo. Non me ne rendo conto subito, però mi sono fermata a fissarlo e lui sta ricambiando. Ci guardiamo per un attimo che mi pare infinito: io imbambolata a guardarlo, catturare ogni dettaglio del suo viso, il suo sguardo serio; lui occupato a guardare male me o Giulian, non capisco.

“Scusa Giulian, ma devo proprio andare.” dico a corto di fiato e non certo per la danza parecchio lenta e monotona.

E senza dargli il tempo di aggiungere altro, quasi mi metto a correre per allontanarmi da tutti loro.
Il mio intento è quello di trovare Anna, e in mezzo a tanta confusione non è facile, ma quando finalmente la raggiungo, mi congedo da lei con la classica scusa dell’emicrania, aggiungendo che tornerò a casa a piedi.

“Sei sicura che non vuoi un passaggio da Alan?” aggiunge, con un velo di preoccupazione.

“Davvero. Mi fa bene fare due passi.” sorrido sbrigativa.

Solo quando ormai sono sulla via di ritorno, a metà strada, mi rendo conto di aver lasciato il giacchetto a casa di Garreth e che sto morendo di freddo, ma era tanta la mia voglia di andare via da quel posto che non me ne curo, ci penserà Anna a prenderlo, altrimenti mi dovrò comprare un altro giacchetto, da aggiungere alla lista insieme al cellulare.
Una volta a casa, indosso il pigiama e mi schianto a letto, al caldo sotto le coperte, convinta di riuscire a prendere sonno subito.
Ovviamente, non va come previsto e i pensieri prendono il sopravvento.
Ho riflettuto a lungo sulla conversazione che ho origliato, incapace di darle un senso compiuto. O meglio, un senso ce l’aveva, ma non per me.
E non solo perché parlavano a bassa voce di cose strane.

Forse ho capito male fin dall’inizio e non ho sentito dire che Bryan era il lupo enorme che ci ha attraversato la strada. Non l’ho sentito perché non l’hanno detto proprio direttamente, ma era come se lo avessero sottinteso.
Avranno sicuramente usato espressioni tipiche inglesi o, più plausibile, tipiche di queste campagne che io non conosco, e tutto ciò mi ha fatto travisare il loro dialogo.
Deve essere andata in questo modo per forza.
A questo punto della serata, quasi nottata, non sono più nemmeno tanto sicura di quello che ho sentito, complice la stanchezza e un susseguirsi di pensieri sempre meno logici.
Mi è ritornato il nervoso per quella fastidiosa chiamata e per tutta la vicenda che speravo di essermi lasciata alle spalle, partendo per l’Inghilterra.
Non comprendo perché più cerco di dimenticare, più le persone che avrebbero dovuto essermi amiche, mi costringano a ricordare e mi accusino di colpe che, alla fin fine, io non ho.

Di certo, non mi sono presa a schiaffi da sola!

Provo a cambiare posizione, con la speranza che il sonno sopraggiunga, coprendomi ancora di più con il piumino, come una piccola larva.

Sta già albeggiando e io, forse, ho solo dormito qualche ora.

Cambio posizione per l’ennesima volta, quando un ululato lontano, seguito da uno sparo e da un tremendo guaito, mi spaventano a morte, rompono il silenzio, facendomi sollevare la schiena come fossi un giocattolo a molla.
Rimango in ascolto, per capire se me lo sono solo immaginata o l’ho sentito veramente.
Arrivo alla conclusione di star delirando a causa della notte insonne o di uno sogno che mi sembrava parecchio reale, ma ecco che sento di nuovo il guaito, e questa volta è molto più vicino.
Schizzo fuori dal letto, indosso la vestaglia che mi ha prestato Anna e corro giù per le scale, cercando di fare il minor rumore possibile, e dopo essermi infilata gli stivali da giardino, mi precipito fuori, diretta nel bosco.

Corro, non sapendo dove andare ma seguendo i lamenti, che ora sembrano aumentati di numero, sperando che non sia niente di grave.
Non so perché lo sto facendo, perché invece di chiamare Alan, mi sono precipitata a rotta di collo fuori, in mezzo alla foresta, alla nebbia mattutina e al freddo, ma era come se dovessi farlo e non ci fosse tempo per pensare ad altro.
Ho già il fiato corto e l’aria che respiro si condensa in piccole nuvole bianche.
Mi fermo solo un attimo per riprendere fiato, in attesa di un indizio su dove andare, poggiando le mani sulle gambe e muovendo le dita per far riprendere un minimo di calore.
Nel silenzio che è sceso sul bosco, sento non molto vicino da dove mi trovo, dei rumori di rami spezzati. Tendo l’orecchio e lo seguo, facendomi guidare fino alla fonte di quei tristi lamenti.

Per poco non caccio un urlo quando mi trovo davanti un lupo gigantesco – molto più di un lupo normale – con una brutta ferita alla spalla e due palline di pelo che guaiscono spaventati, vicino al lupo adulto.

Ma che cazzo...






*Angolettino mio*

Salve a tutti! Buona sera... Lo so, aggiornamento leggermente in ritardo, ma me ne stavo quasi per dimenticare - sono un caso un mano xD - 
Spero che la storia continui a piacervi! Fatemi sapere la vostra opinione... Intanto, grazie a coloro che leggono, aggiungono la storia e mi lasciano dei commenti :*

Un abbraccio :) 

KV

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Capitolo 5
*** Salvataggio ***


Guardo l’animale ferito, una lupa con i cuccioli che le si parano di fronte per proteggerla. Anche la madre inizia a ringhiarmi contro, scambiandomi per uno di quelli che l’ha ferita.

Porca miseria!

Non può esistere un lupo così gigante. Siamo in Inghilterra, non a Winterfell.
Non ho più tempo per sciocchi ragionamenti, perché sia io che la lupa, sentiamo in lontananza le voci concitate di alcuni uomini.
Sono nel panico, perché non so cosa fare e se la dovessero trovare, o anche solo vedere da lontano, sono sicura che non esiterebbero a farla fuori, insieme ai piccoli.

Mi sale una rabbia incredibile. Dovranno passare sul mio cadavere!

Mi guardo intorno, alla ricerca di un nascondiglio, che ovviamente non riesco a trovare ma so che devo darmi una mossa se voglio salvare lei e i suoi cuccioli.

“Ti voglio aiutare.” le dico, come se fosse in grado di capirmi, mentre mi avvicino.

L’animale però mostra i denti, che sono belli grossi, e già macchiati di sangue fresco che le cola insieme alla saliva, segno evidente che ha già morso di recente.

Ecco, ora questa mi sbrana e addio ad Amira e alle sue belle idee suicide.

“No. No. No. No. Non fare così bella...” metto le mani avanti a protezione. “Fidati, ti prego. Voglio aiutarti, tu però non mangiarmi.” muovo un passo verso di lei, facendomi annusare le mani e poi tutto il corpo, pregando tutte le divinità che non mi sbrani.

La lupa sembra capire che non ho brutte intenzioni, perché una volta che mi ha annusata per bene, rilassa il muso e passa la lingua calda e umida sulla guancia.

“Ecco, brava.” le sfioro appena il pelo, come tacito accordo di fedeltà.

“Venite con me.”

Faccio loro segno di seguirmi, ma la madre pare troppo debole per camminare velocemente e i piccoli non la vogliono abbandonare.
Sapendo che ormai mi rimane poco tempo – sento le voci riecheggiare nel bosco sempre più vicine – afferro i due cuccioli e li metto sul dorso della lupa, aiutando lei a camminare come meglio posso.
Cerchiamo di mantenere il passo molto simile ad una corsa, ma lei sembra davvero sfinita; inoltre è pesante e io non riesco a sostenerla come dovrei.
Chissà da quanto tempo la stavano inseguendo e da quanto è ferita.
Mi concentro solo sulla fuga, senza sapere bene dove andare, facendo da appoggio alla zampa ferita che perde continuamente sangue.
Nonostante non abbia la più pallida idea di dove andare, e tema che i cacciatori ci possano raggiungere, non mi do per vinta ed ecco che, all’improvviso, sento il rumore di un torrente.
Mi avvicino, vedendo con mio immenso sollievo, delle rocce abbastanza sporgenti, sotto le quali ci potremmo nascondere, peccato che la discesa sia ripida anche se breve e devo pensare un attimo a come discenderla senza ammazzarci tutti.
Prendo un attimo fiato, pensando e guardandomi intorno. Quando sento delle urla troppo vicine di un uomo, smetto di perdere tempo e agisco.
Faccio scendere i piccoli dalla schiena della madre, aiutandola a compiere un breve salto per raggiungere la rientranza della roccia e una volta che lei è riuscita scendere senza danni apparenti, le passo i figli, per poi raggiungerla, nascondendoci tutti e quattro.
È una situazione incredibile, mi martella la testa e se non fosse per quei bastardi col fucile, uscirei dal nascondiglio e li prenderei a legnate nella schiena.
L’acqua del torrente ci bagna i piedi e sono costretta ad afferrare i cuccioli per la collottola e a infilarli nelle tasche, per non fargli scivolare nell’acqua.
Per fortuna che Anna impazzisce per queste strane vestaglie con le tasche giganti, che io ho sempre ritenuto inutili.
Ci appiattiamo più che possiamo alla parete, mentre cerco di sorreggere il mastodontico animale per evitare che scivoli e ci faccia scoprire. Per mia fortuna, malgrado la ferita, la lupa è in grado di fare forza con le altre zampe, evitandomi uno sforzo che non so se sarei riuscita a sostenere.
I cuccioli emettono dei piccoli lamenti che nemmeno le mie carezze sono state in grado di ammansire.

“Fate silenzio, piccoli.” gli ammonisco con un filo di voce appena udibile, ma non per loro, perché eseguono quanto gli ho detto.

“Bravi.”

Mi irrigidisco quando vedo l’ombra di un uomo proprio sopra le nostre teste. Sembrano attimi infiniti e terrificanti; sento il cuore battere furioso allo stesso ritmo della lupa, spaventata – immagino – più per i suoi figli che per lei. E se non fosse che mi sono cacciata in questa assurda situazione e pure io sto rischiando tanto, mi sentirei immensamente, infinitamente onorata ed emozionata ad avere a che fare con un animale di rare dimensioni.
Per buona sorte, l’uomo si allontana, gridando ai compagni “Quella bestiaccia non è qui.”, sparendo poi insieme agli altri.
Ritorno a respirare normalmente – si fa per dire – sciogliendo l’animale dalla mia presa e aiutandola a sdraiarsi sul bordo del fiume, con la ferita in mostra.
Tolgo i cuccioli dalle tasche per avere più libertà di movimento, perché cominciano ad essere un bel peso da sostenere e perché stanno scalciando per ritornare dalla loro mamma, che purtroppo non sta affatto bene.
Da principio penso che anche io vorrei avere mia madre, poi ci ripenso e rido: le verrebbe un accidente se mi vedesse in questa situazione.
La lupa respira a malapena, ha lo sguardo triste e il naso secco.
Mi metto le mani nei capelli, con gli occhi lucidi e il naso rosso, perché mi sta morendo tra le braccia e io non so cosa fare.

Poi, vengo attraversata da un’idea.

Non ho l’assoluta consapevolezza di quello che starò per fare, ma non la lascerò morire.

Almeno ci proverò.

Mi posiziono davanti a lei, occhi negli occhi.

“Voglio aiutarti, tu però non emettere un fiato e ti scongiuro:” unisco le mani a mo di preghiera “non mi sbranare.” la supplico, con un tono di voce lamentoso.

L’animale mi scruta con i suoi occhi scuri, profondi, carichi di dolore, e alla fine si rilassa, adagiando il muso al suolo.

“E voi bimbi, fate i bravi e state accanto alla mamma.” li ammonisco con il dito indice.

Mi tolgo la vestaglia e con un coraggio che non so dove trovo, inizio ad allargare la ferita, per cercare di estrarre il proiettile.
La lupa tira immediatamente le orecchie indietro, mostrando i denti.

“Eh no, tesoro! Ricordati del patto.”

Sto impazzendo. Questa rischia di mangiarmi in un boccone solo e io comunque la rimprovero.

Sto sognando. O peggio: sto delirando.

Si acquieta, chiudendo gli occhi, come rassegnata a lasciarsi aiutare da un’umana.

Povera bestiola, spero solo di poter fare qualcosa di concreto per lei.

Tento di nuovo l’operazione, adocchiando nella sua direzione per captare movimenti o intenzioni poco amichevoli, ma si limita solo a una smorfia piena di dolore.
Le accarezzo il pelo morbido, dello stesso colore della terra, bruno e a tratti grigio argento, per poi ritornare alla ferita e riprendere il mio lavoro.
Dopo aver allargato la ferita, infilo il medio e l’indice spingendoli fino a che, con le unghie, sfioro il proiettile.
La lupa inizia a guaire, al limite della sofferenza, e per lo spavento e per il caos che ho in testa, sfilo via le dita.

Cazzo!

C’ero quasi riuscita.

Mi allontano di qualche passo dall’animale, avvicinandomi al ruscello e pulendomi le mani dal sangue e dal sudore, cercando di ritrovare un po' di sanità mentale e di fermezza negli arti. Mi passo una mano tra i capelli, prendendo respiri profondi, per poi ritornare dalla lupa, proseguendo con questa insolita operazione.

“Andrà tutto bene.” le sussurro, accarezzandole un’ultima volta il pelo del muso.

E non so se serve a convincere lei o me.
Forse è la situazione che mi fa vedere e capire cose non esistono, ma pare che mi abbia proprio capita.
Prendo l’ennesimo respiro profondo, più motivata di prima a salvare questa creatura, con l’ultima mossa disperata. Le farà un male tremendo, ma non conosco altri modi per toglierle la pallottola.
Uso il pollice e l’indice, affondandoli nella carne sanguinolenta, fino a che non trovo la pallina di piombo.
Sono attimi decisivi, sto sudando come non ho mai fatto in vita mia, sforzandomi di rimanere concentrata e con le mani ferme sul piccolo oggetto, cercando di non farmi distrarre da niente.
Anche il gracchiare di un corvo o il semplice fruscio degli alberi non mi stanno aiutando, facendomi fare uno sforzo maggiore di quello che avevo immaginato.
I piccoli mi piagnucolano vicino ma, se non altro, stanno fermi dove li ho lasciati, in attesa che la loro mamma guarisca.
Quando ho la certezza assoluta che il proiettile è ben fermo tra le due dita, lo sfilo pian piano, fino ad asportarlo del tutto.
Mi tolgo la maglietta a mezze maniche, rimanendo solo con una canottiera fine, e dopo averla bagnata nel torrente, le tampono la ferita.
Sposto dietro l’orecchio una ciocca di capelli sporchi e sudati, continuando a fermare il rivolo di sangue, aggiungendo anche la vestaglia, che poi lego con la cintura come meglio posso, intorno al collo e alla zampa.

E, ancora una volta, ho solo da ringraziare mia cugina e la passione per le vestaglie larghe.

È la fasciatura più improvvisata, e forse anche sbagliata, che sia mai stata fatta, ma meglio di niente, pare stia fermando la fuoriuscita di sangue.
Mi sdraio accanto all’animale, stremata quanto lei, girandomi di lato solo per poterla guardare negli occhi.
Allungo una mano verso il muso, sfiorandole appena sotto la gola, ridestandola dal suo stato incosciente.

“Ehi bellissima...” le sussurro, stremata e con un accenno di fiato che ho trattenuto per quasi tutto il tempo senza nemmeno accorgermene. “Come stai?”

Sposta i suoi occhioni su di me, allungando il collo per riuscire a elargirmi una serie di leccate su tutto il viso.
Sono convinta che non riuscirò mai a realizzare davvero quello che è successo questa mattina.

Mi pare di essere ancora dentro ad uno dei miei strani sogni.

Dopo un momento di stallo, anche i piccoli si uniscono a noi, iniziando a scodinzolare vicino alla loro mamma che subito gli elargisce una marea di coccole e attenzioni, per poi venire anche da me felici che tutto sia andato bene.
Vorrei poter fare di più per lei, ma significherebbe portare qui qualcuno e dopo quello che hanno cercato di farle, sono sicura che non sarebbe una buona idea.
Forse l’unico di cui mi posso fidare è Alan, ma adesso lui è lontano – non so nemmeno da che parte del bosco mi trovo io – e poi sembra che si stia pian piano riprendendo.
Dopo una manciata di minuti, trascorsi sdraiate, lei con cautela, prova a sollevare la schiena dal terreno e quando è sicura di star meglio, prova addirittura ad alzarsi sulle zampe.

Al primo tentativo cade, ma già al secondo va meglio e lasciando sospesa la zampa ferita, riesce a stare dritta.

A questo punto, anche io, come lei, provo ad alzarmi, aiutandomi con le mani affossate nel terreno e sostenendomi ad una radice di un albero che esce dalla sporgenza del pendio.
Sono costretta a sollevare di poco il viso per poterla guardare negli occhi.

Cristo, è davvero enorme.

In lontananza sentiamo degli ululati e lei risponde con voce possente, seguita poi dai piccoli.

Sentirla così da vicino mi fa venire i brividi e gli occhi lucidi per l’emozione.

“E’ la tua famiglia, vero?”

Si limita a guardarmi, ma sono convinta che mi abbia capito e che il suo sia un assenso.

“Torna da loro e stai attenta.” non riesco a impedire ad una lacrima di scivolarmi lungo il viso.

La lupa si premura di leccarla via, con fare materno.
Le sorrido e la abbraccio attenta a non farle male, approfittando di accarezzarla un’ultima volta.

“Fate i bravi e prendetevi cura della mamma.” dico ai cuccioli, accarezzando anche loro.

Non mi capiterà mai più di essere così vicina a queste creature e le voglio accarezzare finché mi sarà possibile.
Si allontanano, salendo per il pendio, per poi sparire oltre lasciandomi sola e con un vuoto nel cuore.
Rimango ferma, imbambolata e soddisfatta di averle salvato la vita.
Dopo un attimo, mi accascio in terra, stremata e ancora sotto shock. Fisso il vuoto, con la mente incapace di elaborare quello che ho appena fatto, quello che mi è accaduto. Sul momento, con l’adrenalina in corpo, non ho ragionato, ho agito e basta, come se quello fosse il mio unico compito; ma adesso, che sono sola in mezzo al bosco, in ginocchio con le gambe nel fango, circondata solo dall’incessante ronzio del cervello, non mi rendo conto di quello che ho appena compiuto.
Mi sento come se mi fossi appena svegliata da un sogno profondo, in un luogo che non è la mia camera da letto. Non ho mai sofferto di sonnambulismo, ma credo che mi sentirei proprio così.
Mi guardo le mani, sporche di fango e sangue, a ulteriore conferma di ciò che è avvenuto, strofinando le dita tra di loro, a prova tangibile della mia avventura.
Solo quando allo stordimento prende largo piede il freddo e l’indolenzimento, mi riscuoto dalla mia trance e cerco di ritornare in me, per potermi avviare verso casa.
Non so quanto tempo sia passato, ma a giudicare dal sole un po' più prepotente che passa tra le fronde, credo che siano passate almeno un paio di ore. Forse anche tre.
Guardo in alto, sopra il terreno sporgente e incapace di risalire da sola il pendio, decido di seguire il corso del fiume, ricordandomi che il villaggio viene attraversato da un torrente che passa prima dal bosco.
Sperando che il fiume sia lo stesso, percorro il bordo, scivolando di tanto in tanto sulle rocce, inzuppandomi i pantaloni e i piedi.
Il cammino sembra più lungo di quello che ricordavo ma, dopo tanto vagare, e dopo tante congetture su come mi sono persa, riesco a intravedere le prime case, le stesse che ho visto il giorno del mio arrivo.
Continuo a mettere un piede avanti l’altro, come in trance, riscuotendomi quando vedo la staccionata di legno della casa di Anna e Alan.
Fortunatamente per strada non ho incontrato nessuno, è ancora presto ed evidentemente ieri ha fatto tardi tutto il villaggio, quindi, rincuorata che anche in casa stiano dormendo, lascio gli stivali in fondo alle scale esterne e attenta a non fare il minimo rumore, entro in casa.

Passo davanti al salotto, gustandomi il meritato riposo, senza accorgermi di non essere sola.

“Dove cazzo sei stata, Amira?” Anna sbotta in italiano, facendomi sbiancare dalla paura.

Mi giro verso di lei, notando che in sua compagnia ci sono anche Alan e un poliziotto.

“Cristo Santo! Che ti è successo?” grida, notando il mio stato pietoso, con già gli occhi lucidi, correndomi incontro e abbracciandomi.

Rimango stordita da tante domane, dalla presenza del poliziotto, e non rispondo.

“Di chi è questo sangue?”

Mi sorregge e mi fa mettere a sedere, strofinandomi le mani gelate, continuando a fare tante domande e a non darmi il tempo di elaborarne una per risponderle.

“Non ti agitare, amore. Non fa bene al bambino.” le dice Alan, una volta ripresosi dalla mia comparsa. “Amira sta bene, non ti preoccupare.” le strofina le spalle e fa sedere anche lei, per non aggravare la sua condizione. “Vado a preparare il tè e a prendere delle coperte.” dice allontanandosi, iniziando a trafficare in cucina.

“Ci vuoi raccontare cosa ti è successo?”

E’ il poliziotto a prendere la parola, seduto sul bracciolo della poltrona, di fronte a me.

“Io sto bene, davvero.” dico con la gola secca, guardando i due per convincerli. “Questo sangue non è mio.” assicuro loro, stanca ma felice.

“E allora di chi è?” incalza l’uomo, con un blocchetto e una penna in mano.

“Di un cervo.” mento, senza darmi una spiegazione plausibile sul perché abbia mentito ad una forza dell’ordine e ci sia riuscita in una frazione di secondo, senza aver premeditato niente.

“Di un cervo?” domanda scettico a sua volta, alzando un sopracciglio.

“Sì, perché, non mi crede?” domando a mia volta, acida.

“Amira, non fare così! È una fortuna che Jackson si sia trovato da queste parti.” mi sgrida Anna, continuando però ad accarezzarmi le mani fredde.

È il dipinto del sollievo e della rabbia, mi sa tanto che dopo mi aspetta una bella ramanzina… o forse no.
Per mia fortuna, giunge Alan e dopo avermi messo una coperta sulle spalle, mi porge una tazza fumante di tè caldo, riuscendo con la sola presenza a calmare anche la moglie.

“Mi scusi.” dico al poliziotto, riscaldandomi le mani alla tazza e bevendo un piccolo sorso. “Ma una come me, non è abituata a certe cose.”

Annuisce, per poi farmi un segno con la mano invitandomi a raccontargli quello che è successo.

Sì, ti piacerebbe che lo facessi!

Inizio il racconto, dicendo di aver sentito un rumore strano, di essermi recata nel bosco e di aver trovato questo cervo ferito con cui sono rimasta fino a che non è morto, per poi scappare non appena ho intravisto in lontananza il branco di lupi che probabilmente lo aveva attaccato.
Una recitazione da Oscar, con tanto di lacrima per il finto cervo che mi è morto tra le braccia.
A fine racconto, Jackson mi guarda titubante ma, non vedendo nessun segno di incertezza da parte mia o motivo per cui io debba mentirgli, ma solo tanta stanchezza, finisce per credermi e riporre il suo taccuino nella tasca interna del suo giacchetto.
Alan lo ringrazia e lo accompagna alla porta, ritornando poi da noi in salotto dove io, sto ancora bevendo il mio tè.

“Vieni tesoro, ti accompagno a fare una doccia.”

Non appena sento lo sportello dell’auto chiudersi e il poliziotto allontanarsi, guardo Alan e Anna negli occhi.

“Vi ho mentito.” sgancio la bomba, catturando immediatamente la loro attenzione.

“Questo sangue è di un lupo. Mi correggo: di una lupa, ferita da un gruppo di cacciatori.”

“Perché non l’hai detto subito? Alan avrebbe potuto avvisare per tempo Garreth, trovarla e curarla con le dovute assistenze mediche.”

“Non ho più il telefono e poi… non era un lupo normale, Anna. Era alta quanto un cavallo, era… enorme!” mi alzo, cercando di far vedere loro più o meno le dimensioni. “Io… non me lo aspettavo.”

“Amira, non esistono lupi di quella taglia.” cerca di convincermi Anna, guardando poi suo marito che le va dietro.

“Anna ha ragione. Quelli di cui parli tu, sono creature mitologiche. Forse sembrava grande a te perché non avevi mai visto un lupo da vicino ed eri spaventata.”

“NO!” sbotto, stanca di non essere creduta. “Mi avete preso per una bambina?!” mi viene quasi da sbattere un piede al pavimento per la frustrazione. “Dovevo alzare la testa per guardarla negli occhi!” alzo la voce, esasperata.

Loro due non aggiungono altro ed io non so più cosa fare per farmi credere; quindi mi arrendo, per il momento, troppo stanca per litigare o intraprendere una battaglia.
Prima di andarmene, più o meno sconfitta, tiro fuori il proiettile che avevo incastrato tra l’elastico dei pantaloni.

“Hanno usato questo per ferirla. Un po' troppo grosso e pesante come proiettile per cacciare un normale lupo, non trovate?” chiedo retorica, mettendo la pallina di piombo tra le mani di Anna, che allarmata guarda suo marito, ancora più preoccupato e serio di lei.

“E’ d’argento?!” la voce di Alan trapela puro stupore, sdegno e rabbia, limitandosi a sollevare il polso della moglie per guardare meglio l’oggetto incriminato.

“Continuate ancora a non credermi?” sto per andarmene, poi mi viene in mente di aggiungere un’altra cosa. “Comunque, lei e i suoi due cuccioli, si sono riuniti al branco.”

Anna ed Alan si guardano angosciati – come se sapessero molto più di quello che vorrebbero farmi credere – ed io non aspetto una loro risposta, salgo le scale con una stanchezza infinita e pure infreddolita.

Dal piano di sotto mi giungono solo alcune frasi spezzate, ma non ci bado.

“Oh mio... Alan! La devo chiamare!”

“Stai tranquilla… sta bene ora.”

E, per la prima volta da questa mattina, mi rendo conto veramente in che condizioni mi trovo: sporca di fango e sangue sui vestiti, per non parlare delle mani e del viso, con qualche macchia e pezzettini di terreno tra i capelli.
Mi passo una mano sul viso, strofinandomi gli occhi con l’unico punto non molto sporco del palmo e aziono il miscelatore. Aspetto un paio di minuti e quando inizia a scaldare l’acqua, creando un lieve vapore che pian piano riempe il bagno, mi spoglio, gettando i panni sporchi nel lavandino.
Probabilmente, faccio prima a buttarli che a tentare di lavarli.

Quasi quasi, butto via anche me.

Sentire l’acqua calda, quasi bollente, sulla pelle mi fa stare decisamente meglio, il freddo scompare dopo poco, i muscoli che erano tesi per la paura e lo sforzo, si rilassano e con un po' più di pazienza, anche lo sporco incrostato inizia ad andare via.
Devo comunque strofinare bene la spugna sul corpo, arrossandomi la pelle perché il sangue mischiato al fango non vogliono proprio andarsene.
Solo dopo un tempo inquantificabile, l’acqua che mi bagna e che poi ricade nel piatto doccia, invece di essere marrone, ritorna trasparente e io mi posso finalmente godere il calore emanato, senza dovermi più preoccupare di lavarmi.
Mai avrei creduto di ritrovarmi in una situazione simile, specialmente di vedermi di fronte un animale tanto bello e maestoso, come quella creatura.

Io ancora non ci credo.

E pensare che ne ho lette così tante di belle storie su quella favolosa creatura leggendaria, sospirando ogni volta, scoraggiata, perché ero convinta – non immaginavo neanche niente di diverso – che non esistessero e cose di quel tipo non le avrei mai vissute – tanto meno io, che ho sempre condotto una vita triste e monotona – perché frutto della fantasia dell’uomo.
Ci sono attimi in cui penso di averlo solo sognato, che sia stato tutto frutto della mia mente, ma poi mi ritornano in mente i visi sconvolti di Anna ed Alan, il poliziotto che era stato avvisato… no, che si trovava lì per puro caso – no, non ci crederò mai – e tutto prende forma, diventa reale e concreto.
Sento il corpo stanco, nonostante si sia rilassato, ma la mente galoppa e sono sicura che non riuscirei a dormire neanche sotto sedativi.
Mi sdraio sul letto, cercando di trovare un pochino di sollievo, al caldo grazie al morbido maglione di mia madre, che mi ha voluto dare a forza, prima della partenza.
Ripensare a mia madre, mi fa tornare in mente la lupa con i suoi piccoli, che spero stiano bene e non vengano scacciati dal branco. Riflettendoci, forse, sono stata un po' troppo avventata, ma non potevo di certo lasciarli nelle mani di quegli uomini.
Avessi più forze ritornerei nel bosco a cercarla, per assicurarmi che stia veramente bene, ma non ne ho. Ho solo male alla testa ed inizio pure ad avere una certa fame.
Non so nemmeno che ore sono e di alzarmi per accendere il computer non se ne parla.

Anna fa capolino dalla porta.

“Posso entrare?”

“Certo.”

Mi siedo a gambe incrociate quando entra con un vassoio con una tazza di tè fumante, un piattino con dei biscotti e un altro con due fette di pane tagliate a triangolo con il burro caldo.
Si siede accanto a me, mettendo il vassoio nel mezzo.

“Ho pensato che avessi fame.”

“Sì, infatti.” le dico grata, addentando subito un biscotto e poi una fettina di pane, mangiando con avidità.

“Come stai?”

“Sono preoccupata per quella lupa e per i suoi cuccioli. E se i cacciatori riuscissero a fare ciò che non sono stati in grado di fare questa mattina?”

Anna mi accarezza la testa, con fare materno.

“Non ti devi preoccupare di questo, se ne sta occupando Alan e il resto del gruppo. È il loro lavoro.”

“E anche quello di Garreth.”

“Esatto.” dice col tono di voce già insospettito.

“Ho origliato una conversazione tra loro due e un certo Bryan, al party.”

“Cosa?!” chiede stupita dal mio gesto.

“Stavano parlando dell’animale che ci ha fatto quasi uscire di strada.” la guardo di sottecchi, per studiare le sue reazioni.

“Te l’ho detto, è il loro lavoro assicurarsi che questi animali non danneggino noi e loro stessi.”

Sembra a disagio, per questo sta cercando in tutti i modi di chiudere il prima possibile l’argomento.

“Peccato che Garreth stesse accusando Bryan di averci messo in pericolo.”

“Avrai capito male, a parte che non esistono persone che si possono trasformare in orsi, forse Bryan non ha chiuso bene i confini.”

“Sai Anna, mi sembra davvero tanto strano che qui TUTTI lavorino come forestali per Garreth, poi. Inoltre, loro, parlavano di un lupo, non di un orso. Quindi mi stai dicendo che esistono persone che si possono trasformare in lupi?” incalzo.

“Ovvio che no! Sono solo storie.”

“Non è vero.” mi impunto. “Negli ultimi cinquantanni ci sono stati diversi avvistamenti di questi enormi animali, da parte di persone che vivono a Burneside e nelle vicinanze.”

Vedo mia cugina abbastanza scioccata da quante informazioni sia riuscita a raccogliere a loro insaputa.

“Lascia che ti spieghi una cosa: Burneside è un paese piccolo, anche le menti lo sono. Quelle persone avranno bevuto una birra di troppo alla fiera del paese e hanno scambiato un cane per una montagna.” dice esasperata.

“Ma...”

“Basta Amira. Hai salvato quell’animale e hai avuto tanto coraggio, nessuno lo nega. Adesso però smettila di dire assurdità.” alza il tono di voce e dandomi un’ultima occhiata tra l’esasperato e lo spazientito, esce di camera.

Rimango ammutolita e incredula davanti al cambiamento repentino del suo comportamento, mai avuto nemmeno quando da piccole uscivamo insieme.
Vorrei andare da lei e chiarire, magari chiederle scusa per averla fatta arrabbiare a così poco tempo dal parto, ma evito.
Qualsiasi sia stato il motivo di questo cambio di umore, non è certo parlarne adesso che risolverà la cosa.

Mi alzo dal letto, ormai con lo stomaco chiuso e accorgendomi che ci sono ancora i vestiti tesi ai fili e che sta, sicuramente, per sopraggiungere un temporale, scendo e dopo essere passata nella piccola lavanderia in fondo al corridoio per prendere il catino di plastica, esco in giardino e inizio a sistemarvi dentro i panni.
Si è alzato il vento, annunciatore di una bella bufera, accompagnato da nuvole grigie e gonfie ma che, per fortuna, essendo ancora lontane, non rilasceranno a breve la loro furia.
Quindi, con calma, piego i vestiti e li getto nel recipiente, canticchiando una canzone che fece da base ad una coreografia messa in scena qualche mese fa, tratta da un musical.
Ballare è l’unica cosa che mi manca della mia vecchia vita ma, per dare un taglio a tutto, ho dovuto rinunciare anche a questo. Magari, chissà, tra un po' potrò tornare a fare quello che tanto amavo, fino ad allora, però, devo solo ritrovare l’equilibrio.

“Ciao.”

Per poco urlo, spaventata dall’arrivo di un ospite molto inatteso.

Mi volto verso di lui, con una mano sul cuore, guardandolo tra il sorpreso e l’arrabbiata per avermi colta così alla sprovvista.

“Ciao Garreth.”

“Non era mia intenzione spaventarti.” dice con un mezzo sorriso sulle labbra, segno che, comunque, lo ha trovato divertente.

“Però lo hai fatto.” incrocio le braccia al petto, guardandolo torvo.

“Chiedo venia.” si piega in un inchino non perdendo il sorriso, avvicinandosi a me di un passo.

“Comunque,” inizio a parlare senza guardarlo negli occhi, piegando l’ultimo indumento rimasto. “Anna si sta riposando e Alan non c’è, credo che tornerà stasera.” lo informo, sperando che se ne vada, per niente tranquilla quando sono con lui, sopratutto quando non c’è nessun altro.

“Lo so, ma io sono venuto fin qui per parlare con te.” risponde ovvio lui, alzando le spalle.

Rimango a bocca aperta come una scema, senza sapere cosa dire per togliermi da questo impiccio.

Che vorrà mai uno come lui, da una come me?!

Lo guardo sospettosa.

“Avanti, parla. Ti ascolto.” e lo invito con un gesto della mano a dirmi ciò che deve.

“Alan mi ha raccontato quello che ti è successo.”

Si vede che non ho dormito, di tutte le cose che ho pensato volesse dirmi, questa proprio non l’avevo pensata.
Mi rilasso immediatamente.

“Non è da tutti fare quello che hai fatto.”

Sto per aprire bocca, ma quello che aggiunge mi lascia completamente ammutolita.

“Ma ti sarei grato se non facessi più cazzate del genere.”

Spalanco la bocca, sconvolta; per fortuna che è attaccata al resto della faccia o mi sarebbe caduta.

“C-cosa...” ho il cervello spento.

“Hai rischiato non solo la vita dell’animale ma anche la tua. Quelle persone non si sarebbero fatte scrupoli ad uccidere anche te, per arrivare a fine del loro obbiettivo.” mi parla severo, i lineamenti seri, cupi e lo sguardo indurito.

“I-io... volevo solo... salvarla.” sono confusa e non trovo le parole per giustificare il mio gesto, fatto solo con l’intento di salvare una vita.

“Lo hai fatto, ma la prossima volta, se ti dovessi ritrovare in una situazione del genere, e mi auguro di no, non fare l’eroina e chiama chi ne sa più di te.” ribatte austero, e mi sembra di vederlo impensierito.

Sto per chinare la testa, affranta dalle sue parole, quando mi ricordo della promessa che ho fatto a me stessa: mai più chinare il viso.

“Certo che sei proprio un arrogante testa di cazzo.”

Adesso è lui a guardarmi sconvolto, a bocca aperta.

“Non voglio mica fiori o tappeti rossi! Mi sarebbe bastato un grazie Amira, per aver salvato una vita quando io e la mia ‘squadra’” mimo la parola con delle virgolette immaginarie, denigrandolo apertamente. “non siamo riusciti a fare il nostro lavoro!” muovo un passo verso di lui, rimanendo uno di fronte all’altra, lui lo sguardo basso per guardarmi negli occhi ed io a testa alta, per fare lo stesso con lui.

“Il tempo che impiegavo a tornare a casa, raccontare quello che avevo visto e portare Alan da lei, la avrebbero uccisa e portata via.” prendo fiato, cercando adesso di calmare i toni. “Inoltre, erano cacciatori, non serial killer.” aggiungo da ultimo, ricordandomi della sua preoccupazione sul fatto che potessero farmi del male.

“Dovevi comunque avvisare qualcuno!” ribatte ostinato.

“Spiegami, genio, come cazzo facevo a chiamare qualcuno se ho lanciato il telefono nel tuo stramaledetto stagno?”

A questa domanda si zittisce, sapendo che non ha più nulla con cui ribattere, fulminandomi però con uno sguardo truce.

Vorrei quasi dire che ci sono abituata.

“E tu vedi di non rischiare più così tanto!”

“E tu cerca di essere più riconoscente!”

Ci guardiamo negli occhi, furenti entrambi per motivi diversi, fino a che, così come ci siamo arrabbiati, pian piano la rabbia svanisce, lasciando posto alla diplomazia e a toni più concilianti.

“Devi stare più attenta, il bosco è pericoloso.” dice a bassa voce, un poco roca, e calda.

“Lo farò.” gli assicuro, con la voce altrettanto bassa e impacciata.

Guardo in terra, senza sapere cosa fare o cosa dire, giocando con l’orlo delle maniche del maglione.

“Devo portare questi in casa.” dico per rompere il silenzio creatosi, dispiaciuta però, al tempo stesso, di dovermi allontanare o mettere fine a questo tacito accordo di pace tra noi due.

“Ti posso aiutare?” chiede, indicando il catino colmo di vestiti.

“Ce la faccio, grazie.” abbozzo un sorriso, facendo spallucce come a sminuire il peso effettivo del carico, mentre lui continua a fissarmi con insistenza, assorto nei suoi pensieri.

Benché avesse il viso molto più serio quando è spuntato dal nulla, poco fa, non è cambiato molto, sembra solo un pochino più rilassato e vestito di nero com’è, con la sua solita espressione seriosa, non posso fare a meno di paragonarlo a Mr Darcy, di Orgoglio e Pregiudizio.

E anche la situazione appena vissuta, mi sembra tanto analoga al libro, solo in chiave moderna.

“Io devo andare. Ciao Garreth.” taglio corto, e senza dargli il tempo di aggiungere altro, gli volto le spalle e me ne ritorno in casa.

Quando sono al sicuro dentro le mura, oso dare una sbirciatina fuori, stando attenta a non farmi scorgere, per vedere che cosa fa.

Garreth si limita a rimanersene un attimo fermo in mezzo al prato umido, e con sguardo di nuovo serio e cupo, dare le spalle all’abitazione e sparire.

Sì sì, è proprio come il signor Darcy.

Peccato che io adori quel personaggio!

 

“Sono a casa!”

La voce di Alan risuona nel salotto dove, sotto le direttive di Anna, sto provando a ravvivare il fuoco stando attenta a non bruciarmi le mani, senza l’uso dell’alcool.

“Siamo qui!” dice di rimando lei, continuando a dondolarsi nella sua sedia, guardando le fiamme crescere e accarezzandosi la pancia.

Suo marito ci raggiunge, guardando i miei progressi con il caminetto e complimentandosi con me per non aver dato fuoco alla casa.

“Vedo che, in quanto a simpatia, mia cugina ti ha contagiato.” rispondo a tono, ridendo perché, alla fine, lo so, ha ragione lui.

“Sei tornato presto, oggi.” fa notare Anna, guardandolo serena e devota.

“Sì, c’era poco lavoro.” fa spallucce, rilassando la schiena contro il divano, socchiudendo un attimo gli occhi.

Dopo qualche attimo, l’uomo si alza e avvicinandosi alla moglie, inizia a passarle le mani sulle spalle e a farle un massaggio, che Anna apprezza, abbandonandosi completamente alle cure e alle attenzioni del marito.
Con discrezione, mi alzo, iniziandomi a sentire di troppo, ma quando ormai ho varcato la soglia della stanza, diretta verso la cucina, intenzionata a farmi una tazza di tè, vengo fermata da Alan.

“Amira, ho una cosa per te, vieni.”

Incuriosita da morire, faccio dietro front, ritornandomene in salotto dove lo vedo infilare una mano nella tasca interna del suo giubbotto ed estrarre una piccola scatolina, impacchettata grossolanamente con della carta colorata.
Mi porge il pacchetto, con un sorriso di chi la sa lunga o crede che IO ne sappia qualcosa.
Anna si sporge dalla sedia a dondolo, curiosa come solo lei sa essere, chiedendomi da chi arriva.

“Non lo so.” dico facendo spallucce, rigirandomelo tra le mani, senza sapere a cosa pensare.

Chi mai mi potrebbe fare un regalo?

“Aprilo, avanti.” mi incita Anna, non stando più nella pelle nel vedere cosa contiene.

“Ah, c’era anche questo insieme.” Alan mi porge un foglietto ripiegato più volte.

Lo prendo e lo apro, leggendo solo tre parole.

‘Per Amira. G.’

Ancora più incuriosita e piena di domande, apro il pacchetto rimanendo a bocca aperta quando vedo il suo contenuto.

“Alla faccia! Ma chi te l’ha regalato?” domanda Anna, alzandosi e guardando l’oggetto più da vicino.

Guardo stupita e confusa il telefono ancora confezionato, senza sapere cosa dire.
Nascondo il biglietto dentro la tasca dei pantaloni della tuta, in modo che quella matta di mia cugina non possa sbirciare o, peggio, sfilarmelo dalle mani e leggere.

“Non lo so.” dico, quasi del tutto onesta.

“Ma tu non lo avevi già?” domanda ancora lei, spostando il suo sguardo acceso e interessato da me alla scatolina, e viceversa.

“Sì… no… te l’ho detto, ricordi? L’ho perso.”

Con mano tremante apro la scatolina che, con mio stupore, noto che è già aperta e il cellulare già acceso.

“Mio dioooooo!” urla tutta eccitata Anna, battendo le mani e ridendo come una bimba. “Ti sei fatta l’ammiratore!”

“Sei sicura, tesoro?” chiede Alan, un misto tra il divertito e il partecipe.

“Ma sì! Secondo me è stato Giulian. Le gira sempre intorno e qualche giorno fa, mi ha fermato per informarsi su di lei.” dice tutta esuberante.

“Addirittura?” Alan non mi sembra più tanto contento della cosa, ma lo nasconde bene alla moglie che, tutta presa da questa novità, non gli bada e si rivolge nuovamente a me.

“C’è scritto qualcosa sul tuo ammiratore?” chiede guardando con attenzione la carta strappata e la scatola.

“Io non ho nessun ammiratore.” borbotto, rossa in viso per l’imbarazzo, felice però di aver nascosto in tempo i biglietto.

“E comunque, non c’è scritto niente.” dico a bassa voce, chinando la testa, per non far vedere loro quanto sono diventata rossa, sperando che Alan non abbia letto o che, per lo meno, non dica niente ad Anna.

“Peccato.” dice con l’espressione triste, dispiaciuta dal fatto che la cosa sia già morta così.

Se ne ritorna a sedere davanti al caminetto; ora il fuoco è vivo, scoppiettante ed emana un buon odore di legna e muschio.
Li lascio soli, tornandomene in camera, decisa a scoprirne di più su questo regalo inaspettato da questo misterioso – che poi, ho il sospetto, tanto misterioso non è – individuo.
Una volta seduta sul letto, inizio a scorrere il menu del telefono, prendendoci la mano e andando subito nella cartella dei messaggi, dove anche prima, con tutto quel trambusto creato da mia cugina, avevo intravisto essercene già uno.

‘Vedi di farne buon uso.’

Il numero ovviamente non è salvato, ma io so già a chi appartiene, visto che solo una persona, in tutto il villaggio, ha visto che fine ho fatto fare a quello vecchio.
Guardo lo schermo, indecisa se scrivergli oppure fare finta di niente.
No, fare finta di niente non mi piace, anche perché devo sapere il motivo per cui me l’ha voluto comprare.

‘Non lo voglio. Grazie.’

Digito le parole, ci penso, poi le cancello. No, troppo scortese.

‘Grazie.’

No, nemmeno così va bene.

Guardo la tastiera e la pagina del messaggio ancora vuota. Vuota come la mia testa in questo momento.
Non so cosa dirgli, perché cosa si dice ad un perfetto sconosciuto che si comporta come uno stronzo e poi ti spunta fuori con un oggetto del genere?!

‘Non dovevi.’

Ecco, così va meglio.

Invio il messaggio, lasciando il telefono sul materasso, accanto a me.
Non devo aspettare molto per una risposta; in realtà nemmeno sapevo se aspettarla o meno, una sua replica.

‘Sì, dovevo. Visto la fine tremenda che hai fatto fare all’altro e inoltre potrai evitare di fare Wanderwoman e chiamare chi di dovere in caso di necessità.’

‘Ti darò i soldi.’

‘USALO. E non ti cacciare nei guai.’

“Antipatico.” borbotto a mezza voce, tra me e me, salvando il suo numero sotto la voce ‘G’.




 

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Capitolo 6
*** Aggiungi un posto a tavola ***


“I won't suffer, be broken, get tired, or wasted. Surrender to nothing, I'll give up what I started and stop this, from end to beginning. A new day is calling, and I am finally free!” 1

 

Questa è la canzone che sto ascoltando, mentre esco dalla porta principale e mi immergo in una delle mie solite passeggiate solitarie ed è come se anche il riproduttore musicale sapesse come mi sento.
Senza una meta precisa, seguo la strada asfaltata e bagnata, schivando le pozze ai bordi e dando qualche calcio ai rami che si trovano sul mio cammino.
Infilo le mani in tasca, concentrandomi sulla musica, con il suo ritmo incalzante, e sul forte profumo di una pioggia appena passata e di vegetazione umida.
Ho evitato di tirare fuori il discorso ‘lupi’ con Anna ed Alan, sono venuta qui per stare tranquilla e ritrovare la serenità, non per litigare anche con loro due. Sopratutto ora che mia cugina è tutta concentrata sul mio potenziale spasimante e sta coinvolgendo anche suo marito che non riesce a farla smettere di parlare, di fare congetture e sperare che sia Giulian.
Scommetto che le verrebbe un accidente se le dicessi che sta sbagliando tutto e che, oltre a non avere nessun spasimante – figuriamoci! – il regalo proviene dall’ultima persona che si sognerebbe.
Che poi, regalo si fa per dire, ho tutta l’intenzione di ridargli i soldi benché in questi giorni abbia cercato in tutti i modi di evitarlo e di non avvicinarmi per nessunissima ragione a meno di un chilometro da casa sua.
Continuo a muovere un passo avanti all’altro, ascoltando le canzoni che la riproduzione casuale sceglie al posto mio, badando bene a non guardare troppo la vegetazione alla mia destra, per tentare di non pensare troppo – meglio sarebbe non pensarci affatto – a quello che mi è accaduto l’altra mattina.
Uno si rifugia nel paesino più sperduto del mondo per staccare la spina da pensieri che lo tengono sveglio la notte e col capo tra le nuvole di giorno, e poi si ritrova in una situazione assurda (pazzesca – incredible cit.) come questa.
L’unica soluzione è quella di fingere – come se fosse facile – che non sia mai accaduto niente, andando avanti per la mia vita, un passo alla volta, iniziando dalle piccole cose.
Proseguo nella mia camminata, saltando le canzoni troppo tristi ma fatti nemmeno dieci metri, vengo affiancata da una macchina che inizia a suonare il clacson per richiamare la mia attenzione.

“Ehi straniera!”

Mi volto, vedendo che al posto del guidatore c’è Judy, con il finestrino abbassato che mi saluta.

“Cosa ci fai qui da sola?” mi chiede, fermando l’auto e facendo fermare anche me.

“Cammino.”

“Devo fare delle commissioni per Garreth, ti va di accompagnarmi?” mi sorride.

“Io non so…” mi guardo intorno, poco felice alla sola idea di doverlo incontrare.

“Lui non ci sarà.” mi fa l’occhiolino, sorridendo furba, di chi la sa lunga.

La guardo, soppesando la sua offerta.
Certo, avevo detto che non volevo avere niente a che fare con lui in persona o con qualsiasi cosa lo riguardasse, ma dal momento che lui non ci sarà, non vedo perché mi dovrei privare della compagnia della mia amica.
Quindi, felice del nostro fortuito incontro, acconsento e salgo in auto.

“Come ti ci trovi nel nostro villaggio?” mi domanda, dopo aver fatto ripartire la macchina.

“Bene, credo. È più movimentata di quello che mi aveva raccontato Anna.” le rivelo.

“E’ sempre così: ci sono momenti noiosi, e momenti dove non si ha mai tempo per noi. Benvenuta in questo piccolo villaggio.”

“Tu non hai mai la voglia di andartene?”

“Scherzi? E lasciare tutto questo?” chiede sorpresa, indicando la strada deserta e il bosco che ci circonda. “Tu non sei venuta qui per rimanere?”

“No. Sono venuta qui a trovare Anna e a ritrovare la sanità mentale.” ridacchio della mia stessa battuta, pur sapendo che è quasi la verità. “Non sono fatta per stare in un luogo come questo, così piccolo e isolato.”

“Però ti ci potresti trovare bene e rimanere, no?”

“Sarà difficile.”

“E se trovassi l’amore della tua vita?” domanda con un sorrisino furbo e divertito.

“Ho smesso di credere a queste cose. Sono solo fantasie.” dico seria.

“Non credi che ci possa essere un uomo che ti ami per tutta la vita?” chiede sconcertata.

“Judy, è tanto trovare un uomo abbastanza maturo da essere definito tale.” le spiego, con il morale a terra.

“Forse perché non l’hai ancora incontrato.”

“Forse perché non esiste.” uso il suo stesso tono accondiscendente.

“Vedremo.” aggiunge con un filo di voce come se fosse una scommessa.

Non capisco a cosa si riferisce, ma evito di farle altre domande, facendo in modo che il discorso termini qui.
Judy ha decisamente la guida più veloce di Anna e per arrivare in città ci vuole molto meno tempo.
La ragazza mi ha detto che Garreth l’ha incaricata di fare gli ordini per il rifornimento del magazzino, dato che l’inverno è alle porte e sarà più difficile spostarsi.

“Poi se ne occuperanno Giulian e gli altri del trasporto.”

Ed è come un déjà-vu: un susseguirsi di fermate in un sacco di negozi, botteghe, ad elencare ai commercianti le cose che le servono.
Se da una parte Judy è molto più veloce rispetto a mia cugina, è anche vero che la sua lista è molto più lunga e la responsabilità è maggiore, dato che è un servizio compiuto per tutta la comunità.

“Perché Garreth non se lo fa da solo?” chiedo con una punta di acidità, mentre l’aiuto nella scelta di alcuni cibi in scatola.

“Di solito è lui che se ne occupa, ma in questo periodo ha davvero tante cose a cui pensare e sta delegando noi.”

Poverino. Penso caustica.

Finiamo il giro abbastanza alla svelta, per mia fortuna Judy non è Anna, lei sa già cosa le serve e cosa dovrà ordinare; quindi, una volta portato a termine il suo lavoro, ci fermiamo a bere una tazza di cioccolato caldo da Betty’s.
Il tempo fuori sta peggiorando, le nuvole grigie si stanno avvicinando e tra non molto pioverà.
Ormai mi posso scordare le belle giornate calde e piene di sole che piacciono tanto a me; le tenebre che cadono molto più tardi, la vita notturna, i cieli pieni di stelle. Le giornate al mare o in piscina.
Guardo fuori dalla vetrata, la strada è quasi deserta, eccetto per qualche viandante e qualche automobile sporadica.
L’orologio appeso alla parete segna le 4 p.m., ma inizia a fare già buio, i lampioni si sono già accesi, riflettendo la loro luce sull’asfalto e sui vetri dei negozi ancora aperti.
Sta per iniziare un periodo magico come l’estate, ma per un motivo opposto: le giornate di pioggia, le calde coperte di pile dopo una giornata lunga e fredda; i tè a tutte le ore coi biscotti e le serate in compagnia di Edoardo a guardare film stravaccati sul divano e a mangiare schifezze.

Mi rigiro la tazza, ancora a metà, con la testa molto più lontana di Burneside.

“Amira, tu che ne pensi?”

Alzo gli occhi verso Judy, guardandola spaesata, senza sapere cosa rispondere alla sua domanda che non ho proprio sentito.

“Non mi stavi ascoltando, vero?” mi guarda, sorridendo.

“Scusa, io… ero un po' persa.” le confesso.

“Perché non vieni da me? Ci facciamo un paio di partite alla Play, che ne dici?” mi domanda esuberante, non perdendo il sorriso.

In effetti, è da una vita che non ci gioco e mi farebbe proprio tanto piacere passare del tempo con lei.

“Sì, certo.”

Ci alziamo, paghiamo e prima di uscire dalla tavola calda, mi prende a braccetto, incamminandoci verso la sua auto, mentre mi parla di quanto è contenta di avermi come amica e che è bello non essere giudicate.

Come ti capisco, cara Judy.

Non glielo dico, non voglio farle perdere il sorriso, ma so come ci si sente ad essere giudicate, a fare di tutto per andare bene a quelli che credi esserti amici e poi vederti abbandonata per strada come un pezzo di carta inutile.
Lei è riuscita, senza saperlo, senza impegnarsi, a strapparmi dai miei pensieri, cupi e profondi, certe volte anche troppo, con la sua sola amicizia e la sua parlantina allegra e spensierata.
Quando passiamo davanti ad una profumeria, la fermo, dicendole che ne voglio approfittare per fare un acquisto e lei mi segue divertita dal fatto che mi voglia tingere ancora i capelli, nonostante la vecchia tinta non sia ancora andata via del tutto. Mi spiega anche che nel villaggio, sono tutti molto ambientalisti e naturalisti, attaccati alle proprie caratteristiche di nascita ed è estremamente raro che qualcuno voglia cambiare l’aspetto fisico con cui è nato; per questa ragione ho suscitato così tanta curiosità nella maggior parte delle persone.
Pago il tubetto e dopo aver ringraziato la commessa, ci dirigiamo alla macchina, parcheggiata non molto lontano.
Di fianco alla vettura, c’è un lampione e sul palo c’è un foglietto che annuncia che il pub The Cave sta cercando una cameriera e sotto al volantino, ci sono i biglietti con il numero della proprietaria.

Ne stacco uno, soppesando l’idea di chiamare per sentire se sono sempre in tempo ad avere un colloquio.

Un lavoretto sarebbe proprio quello che mi serve.

“Quello è il locale di Jess. È una tipa a posto, anche se un po' pazza. Dovresti chiamare, secondo me andreste d’accordo.”

Accetto il suo consiglio e infilo il foglietto strappato nel borsello, in attesa del momento giusto per chiamarla.
Il viaggio di ritorno è breve quanto lo è stato quello dell’andata e la ragazza parcheggia l’auto nel vialetto della sua abitazione dallo stile leggermente discostante dal resto delle case di questo paese.

“Ciao Vecchio!”

E’ il suo strano saluto all’uomo che sta piegato ad osservare le componenti di un motore, borbottando a mezza voce quelle che immagino, siano imprecazioni.

“Ho portato un’amica.”

L’uomo si alza, si stiracchia, facendo scrocchiare le ossa della schiena e del collo, rivolgendosi poi a noi, mentre si pulisce le mani in un cencio sporco.

“Jack, lei è Amira.”

“Gli amici di Judy, sono anche i nostri amici.” mi sorride, evitando però di stringermi la mano, sempre sporca di olio. “E’ un piacere.”

“Anche per me, signore.”

“Oh Dea Luna! C’è Judy che mi fa sentire vecchio, non ti ci mettere anche te. Ho solo trentanove anni, io!” ridacchia, indicandosi e facendo alzare gli occhi al cielo alla figlia.

“I bambini sono ad un compleanno, in città. Elizabeth è in camera, sta riposando.” dice in tono più grave, perdendo la tonalità divertita che aveva fino ad un attimo fa.

“Che bello, abbiamo casa libera dalle piccole pesti.” esulta e poi mi fa segno di seguirla.

Entriamo in casa, un solo piano ma decisamente spazioso e luminoso, grazie alle belle finestre larghe.

“Jack ed Elizabeth non sono i miei veri genitori, mi hanno adottata quando avevo quattordici anni.” racconta mentre camminiamo in un lungo corridoio, fermandosi poi davanti ad una porta aperta, invitandomi ad entrare, in quella che capisco subito essere la sua stanza.

La camera è davvero ariosa ed ospita due letti, divisi da altrettanti comodini con le lampade; solo la parte dove dorme Judy è decorata e dall’aria vissuta, mentre tutto dell’altra parte – letto, armadio e scrivania – sono intatti e in perfetto ordine, senza poster, foto o cartoline a decorarne la parete.

“Sono stati gli ultimi che ho visitato, mi ci sono trovata bene e sono rimasta.” dice sedendosi sul bordo del letto, invitandomi a fare lo stesso.

“Mi dispiace.” le dico seriamente dispiaciuta.

Lei fa spallucce.

“E’ passato diverso tempo. Adesso gli aiuto con gli altri bambini che adottano.”

C’è un attimo di silenzio, poi prosegue nel suo racconto.

“Alcuni di loro erano orfani di entrambi i genitori, come è successo a me e a Rafael, il ragazzo che abitava qui, prima di me. Mentre per Oliver, Judith e Marie-Claire, la storia è diversa: i loro genitori non hanno sopportato di avere dei figli… speciali e li hanno abbandonati.”

“Ma è una cosa crudele!”

“Jack e Beth sono dei genitori favolosi ed è un peccato che non possano avere dei figli loro. Certe volte, la vita è davvero strana.”

Il momento serio finisce quasi subito e la ragazza ritorna col sorriso, pronta per una sfida alla Play.
Scegliamo un gioco di macchine da corsa e dopo aver scelto tra le impostazioni, iniziamo a gareggiare. Parecchie partite dopo, alcune vinte e tante perse, Judy si propone di farmi la tinta.
Acconsento, a patto che segua esattamente le mie indicazioni, dato che è la prima volta che fa una cosa del genere.
Ci rechiamo in bagno, quello suo e degli altri figli, abbassando la voce quando passiamo davanti alla camera da letto dove sta riposando Elizabeth.

“Avrei voluto presentartela.”

“Mi spiace che stia poco bene, spero non sia niente di grave.”

Entro nel bagno, aspettando sue direttive, osservando vagamente le mattonelle bianche del pavimento e quelle celesti della parete.
Judy guarda velocemente il telefono, poggiandolo poi sul mobiletto accanto alla vasca, successivamente mi lancia un asciugamano grande, apre la scatola, tirandone fuori il tubetto e i guanti che indossa, iniziando poi a spargere il colore sui capelli con cura e attenzione.

“E’ stata molto fortunata.” mi confessa, seria, indicandomi il bordo della vasca per farmici sedere. “Avrebbe potuto non farcela. Se l’è vista davvero brutta.”

Mi porto una mano alla bocca, sconvolta.

“Una malattia?”

“No, peggio: l’uomo.” dice lei, con una venatura di odio nella voce.

“Ah.”

“Quei maledetti sciacalli le hanno sparato!” ringhia piena di rabbia, non badando più a me.

Ma che razza di posto è questo?!
Non sarà un villaggio di fanatici religiosi ma è molto peggio.
Me ne rimango in silenzio, in attesa che prosegua la sua storia, avendo la strana sensazione che non sia una storia che mi è del tutto estranea, ma Judy non finisce di raccontare, anzi, se ne sta zitta pure lei, come immersa un attimo nei suoi pensieri e quando finalmente torna concentrata su di me, ha stampato in viso un bel sorriso.
Le sorrido di rimando, non più tanto tranquilla.
Ero appena riuscita a credere che questo fosse un posto tranquillo, cercando di cancellare il ricordo della lupa – a cui avevano sparato – e adesso lei se ne scappa fuori con una storia simile.
Possibile che ci sia un collegamento?
Sono vere allora quelle storie di cui ho letto su internet? Ed è per questo che mia cugina ha fatto di tutto per non farmene parlare più, per mantenere il segreto.
Che cosa accadrebbe se diventasse palese che io ne sono a conoscenza?

“Amira, stai bene?” mi domanda Judy, mettendomi una mano sulla spalla, guardandomi con preoccupazione.

“C-cosa?”

“Sei diventata pallida. Stai male?” mi chiede preoccupata.

“No, no...” scuoto la testa, schizzando sicuramente un po' di colore a giro. “Ho solo avuto un… calo di zuccheri.” abbozzo un sorriso, sperando di essere credibile.

In realtà, non sto convincendo nemmeno me stessa. Mi sto facendo suggestionare un’altra volta, solo che adesso i tasselli inizierebbero a tornare e avrebbero il loro nesso logico, per quanto surreale possa sembrare.
Mi sa che forse era meglio il gruppo religioso.
Tento di non pensarci mentre mi sta aiutando a lavare i capelli e successivamente me li asciuga, ma è più forte di me e la testa continua ancora a correre tra idee folli e pensieri sinistri.
Circa un’ora dopo, l’operazione è conclusa, così Judy si toglie i guanti, li getta nel cestino sotto il lavandino e inizia a lavarsi bene le mani, tenendo la testa bassa, impegnata nella rimozione della tinta.
Il suo telefono si illumina e compaiono un paio di notifiche.
Non rifletto e impiego meno di mezzo secondo ad allungare la vista e leggere quello che le hanno scritto.
Il primo è un messaggio, l’altra invece è solo una mail. Leggo quello che dice l’anteprima prima che si spenga lo schermo.

‘Il branco si riunisce alle 22’

Distolgo immediatamente gli occhi, col cuore che inizia a battere più forte e la mente che mi martella. E so già, che non è dovuto ad un attacco di emicrania. Anche se vorrei tanto che fosse solo questo, il mio vero problema, in questo momento.
Quando Judy finisce, ritorna da me guardandomi con aria soddisfatta.

“Ti stanno proprio bene.” mi passa le dita tra i capelli, ammirando il suo lavoro.

Sarei soddisfatta anche io, se non fosse per il fatto che forse sono capitata in una storia fantasy senza accorgermene e c’è in ballo la mia vita.
Con una scusa banale, le dico che devo tornare a casa perché Anna avrà bisogno di me per la cena o per qualsiasi altra cosa, dal momento che Alan – lo spero proprio – è occupato.
Siamo nel vialetto quando vediamo che insieme a Jack, ci sono anche i bambini appena tornati dalla festa di compleanno in città.
Appena vedono Judy, le corrono incontro facendole per poco perdere l’equilibrio, tra le risate generali.
Tranne le mie.
Io non riesco proprio a ridere e nemmeno a fingere.

“Lei è la mia amica Amira. Loro sono: Marie-Claire, Judith e Oliver.”

La prima bambina mi guarda con sospetto, gli occhi scuri, quasi neri, che mi scrutano e non si fidano, mentre gli altri due bambini, devono essere fratelli di sangue, perché hanno lo stesso nasino all’insù e i capelli molto voluminosi, castani, coi riflessi rossi e gli stessi occhi profondi, di un intenso e caldo marrone.
Ed io, non so perché – o forse lo so ma non lo voglio ammettere – ho la certezza di averli già rivisti, solo che non ricordo dove.

“Ehi, aspetta un po'...” dice il maschietto, di circa sei o sette anni, facendo voltare sua sorella. “Tu sei la femmina dell’altro gio-”

Il bambino non finisce la frase che sua sorella gli da una gomitata nel fianco, offendendolo e facendo sì che Oliver se la prenda a male e inizi a rincorrerla. Anche l’altra bambina si unisce ai giochi, dimenticandosi di noi.
Saluto Judy e mi allontano a passo svelto da quella casa, con un’idea che ha dell’assurdo.
Più ci penso e più sono convinta – sono una folle, lo so – che sono loro i cuccioli di qualche mattina fa.

No, ma dai! È roba da matti.

Però tutto tornerebbe.

Di quei cuccioli, hanno gli stessi occhi e lo stesso colore dei capelli. E tornerebbero anche tutti quei discorsi strani che sento da quando sono venuta a vivere qui.
Quel bambino che disse che ho un buon odore, il fatto che hanno sparato ad Elizabeth, proprio come è successo alla lupa!
Oliver che per poco non si lascia scappare qualcosa che, a parere della sorella, non doveva dire!
O santo Dio, mi sa che ho ragione!
Cerco di prendere respiri profondi e regolari, senza dare in escandescenza e attirare l’attenzione.

Forse è proprio per questo che Anna non ha MAI voluto intraprendere il discorso di questi lupi giganti, che è palese che abbiamo visto. Che IO ho visto.
Non vuole parlarne perché è un fottuto villaggio di licantropi – mi sento così scema anche solo a pensarlo – e lei se l’è sposato uno e ci aspetta un figlio.
E se Alan l’avesse rapita, costretta ad avere il bambino e per avere salva la vita, dovesse tacere?!
Cammino a testa bassa, come se servisse a non attirare l’attenzione e a fare finta di niente, ma ogni persona che incontro è come se potesse leggermi la mente e questo non mi piace.

Ho letto alcune storie in cui… no! Basta.

Devo darmi una calmata e smettere di pensare a queste cose. Forse se ascolto la musica a volume abbastanza alto, anche se dovessero leggermi la mente, non mi sentirebbero. Perché funziona così, giusto?

Oooooh, ma che ne so!!!

“Italiana, non saluti?”

“Aaaaah!!!” mi volto di soprassalto verso il ragazzo che ha parlato, col cuore in gola e qualche anno di vita in meno.

Lui si mette a ridere, smettendo quando si accorge che io non sono per niente divertita.

“Non ti ricordi di me?” domanda, non perdendo il tono strafottente, aspettando una mia risposta che non giunge. “Sono Mark, ci siamo conosciuti alla festa.”

Solo adesso che me lo fa presente, riesco ad inquadrare il suo volto e il momento in cui siamo stati presentati.

“Sì, mi ricordo. Adesso scusami ma vado di fretta perché sono in ritardo.” gli dico, abbozzando un sorriso tirato, e incamminandomi poi verso casa.

Perché li devo incontrare sempre tutti io!
Se davvero sono quello che penso io e riuscissero seriamente a leggere la mente, io sono morta.

“Aspetta, dove stai andando?”

Mi mordo la lingua per non dirgli a voce quello che penso, optando per dire la verità, dal momento che qui sanno sempre tutto di tutti.

“A casa. Mia cugina mi aspetta.” non lo guardo nemmeno negli occhi e aumento il passo, ma lui riesce benissimo a starmi dietro e non molla la presa.

“Perfetto, ti accompagno.” mi mette una mano sulle spalle, avvicinandomi a lui e costringendomi a sentire il suo forte odore decisamente pungente e fastidioso, facendomi tenere il suo passo da maratoneta.

Infastidita e preoccupata dal suo comportamento, cerco di sfilarmi dal suo braccio facendo forza che lui pare non notare.

“Ti ringrazio,” dico a denti stretti, cercando con tutta me stessa di non essere scortese. “ma torno da sola.”

“Italiana, aspetta!”

Se mi richiama un’altra volta così, giuro che glielo tiro un pugno in faccia.

“Non fare la schizzinosa, Italiana.” mi prende per mano ma non ha il tempo di stringere che mi sottraggo decisamente spaventata.

E se avesse veramente sentito quello che ho pensato?!

“C’è qualche problema?”

Ci voltiamo verso un Garreth alquanto alterato.

“No, nessun problema Mr. Garreth. Ho proposto ad Amira di accompagnarla a casa.” dice evitando lo sguardo e perdendo la sicurezza che aveva fino ad un attimo fa.

“Mi pare di capire che lei non lo voglia, inoltre ti ho incaricato di un compito: l’hai già svolto?” domanda glaciale e autoritario.

“Non del tutto, Signore.” dice Mark a testa china, le parole strascicate.

“Allora vedi di muoverti e smettila di importunare le persone.” gli ringhia – letteralmente – contro.

“Sì, Signore.”

Mark si allontana a testa bassa, le mani nelle tasche dei pantaloni, senza voltarsi.
Anche io mi incammino, per niente intenzionata a rimanere sola con lui, ma Garreth inizia a parlare ed io, per non destare sospetti ed essere ancora più maleducata, sono costretta a fermarmi e sentire cosa mi deve dire.

“Non dovresti dare confidenza a tutti.” mi rimprovera.

In realtà, non dovrei dare confidenza a nessuno, se dovessi avere ragione.

“Se è per questo, nemmeno a te. Non ti conosco.” ribatto, caparbia.

“Infatti non dovresti.”

Ecco, mi sa tanto di indizio importante.

“Ma tu sei ubriaco perso!” esclamo esterrefatta dalla sua frase.

Non mi importa se sono tutti dei lupi, lui compreso. Se uno è pazzo, pazzo rimane!
Non aspetto una sua risposta, potrebbe non piacermi e svelta me ne ritorno a casa, sempre più convinta che qui ci sia veramente qualcosa che non va, o quella pazza sto diventando io.
Una volta arrivata a casa, mi chiudo la porta alle spalle, girando la chiave e controllando che intorno all’appartamento non ci sia nessuno.
Riempio un bicchiere con dell’acqua, bevendone tutto il contenuto in un unico sorso, cercando di distendere i nervi e schiarire le idee.
Sul tavolo c’è un biglietto di Anna che mi avvisa che torneranno per l’ora di cena, quindi mancano ancora un paio di ore, quindi ho tutto il tempo per decidere il da farsi.
Con una scusa potrei decidere di tornare in Italia; magari mi mancano mamma e babbo – ma non ci crederebbe nessuno –, potrei tirare in ballo Edoardo e usare lui come scusa, ma Anna lo convincerebbe a venir qui e lui non se lo farebbe ripetere due volte. Inoltre, un mio ritorno così improvviso le risulterebbe troppo sospetto.
Rimanere qui mi fa paura, ma è anche l’unico modo per scoprire la verità e, in caso, salvare mia cugina da un rapimento e segregazione.
Dio, chissà le cose che le avranno fatto o i lavaggi del cervello.
E se lo facessero anche a me?!
Per ora mi è andata bene, forse se smetto di fare domande e mi comporto come se niente fosse, potrei riuscire a cavarmela.
E poi stasera c’è questa riunione, lì sicuramente riuscirò a scoprire la verità e solo allora saprò con chiarezza la mia prossima mossa e, sopratutto, con chi o cosa avrò a che fare.
Visto che fino ad allora, ho le mani legate, decido di fingere che sia tutto normale e di preparare quella sorpresa culinaria che avevo promesso ad Anna, in modo da farle sembrare che sia tutto a posto.

Inizio a sistemare gli ingredienti sul tavolo, sistemando poi una padella sul fornello, aspettando che l’olio sia caldo.
Ci impiego mezz’ora per preparare il tutto, lasciandolo poi a cuocere lentamente sulla fiamma, mentre leggo un libro e, di tanto in tanto, butto un occhio al sugo perché non mi si bruci.
Dato che ho ancora tempo a disposizione, poso il libro da una parte perché non si sporchi, e mi decido a fare anche la besciamella, come mi ha insegnato la nonna.
Sono tutta indaffarata e non presto molta attenzione ai rumori che giungono prima dal vialetto e, successivamente, dall’interno della casa, riconoscendo poi la voce di Anna che sta blaterando tante cose tutte insieme.
Passa il tempo e quando finalmente la base per la cena è pronta, prendo una teglia e mi metto a preparare le lasagne.
Sono alle prese con gli ultimi strati, quando le voci si avvicinano a portata di orecchio, nonostante il rumore del forno e della musica della radio.

Sento Alan ed Anna parlare di qualcosa, quando all’improvviso si aggiunge anche la voce – e quindi, ahimè – anche la presenza di Garreth.

Perché deve essere sempre tra i piedi?

Mi concentro sul mio lavoro, non badando alla tachicardia che ha appena iniziato ad importunarmi e ai pensieri scomodi e spaventosi con cui la mia mente mi sta tassellando, facendomi dimenticare, per un momento, quello che stavo facendo.
Ma è quando sento dire ad Anna: “Perché non rimani a cena”, che mi cade la scodella dove avevo preparato la besciamella, facendo più rumore che danno.
Cerco di raccogliere tutto alla svelta, come se servisse a non attirare l’attenzione degli altri, ma Anna si precipita in cucina, osservando quello che ho combinato, seguita da suo marito e, purtroppo, da Garreth.

“Tutto bene?”

“Sì, sì… mi è solo caduta una cosa...” dico rossa in volto per aver fatto l’ennesima figuraccia.

E poi, perché me ne dovrei preoccupare? È altamente probabile se non sicuro che sono delle strane creature mitologiche, che hanno rapito Anna e forse lo faranno anche con me, se scoprono che io sono a conoscenza oppure che ho dei sospetti, perché mi dovrei preoccupare di quello che pensano loro. E, cosa più importante, perché mi dovrebbe interessare quello che pensa Garreth?

“Garreth rimane per cena.” mi fa sapere lei.

No, no, ti prego. Tutto ma non questo.

“Veramente io non posso rimanere.”

Oddio, grazie! Grazie! Grazie!

“Ma figurati Garreth, per noi è un piacere!” dice tutta esuberante Anna, con un gesto della mano a sminuire l’eventuale disturbo che arrecherebbe.

“Anna, non insistere.” le dico a denti stretti, sorridendo poi ai due uomini e continuando a preparare la cena e infornarla.

Solo lei non si accorge dello sguardo incredulo dell’uomo e di quello divertito di suo marito.

“Finisco io qui, vai a darti una sistemata.”

Mi spedisce al piano di sopra, ma prima che mi distanzi troppo da loro, sento Alan dire qualcosa a Garreth stando attento a non farsi sentire da sua moglie.

“Vedi? Non possiamo niente contro una donna incinta.”

Neanche Garreth, con tutta la sua autorità e la sua importanza, può tenere testa contro quella matta di mia cugina.
Una volta in camera mia, prendo i panni di ricambio e mi dirigo in bagno, sempre più confusa.
È sicuro che Anna sa tutto, perché altrimenti non avrebbe cercato di nasconderlo e se fosse stata minacciata, non sarebbe riuscita a nasconderlo così bene, rimanendo la stessa persona esuberante e piena di vita come l’ho sempre conosciuta.
Quindi, è probabile che lei sappia e che le vada bene.
Ma io, che fine farei?

Non ho nemmeno le prove concrete di quello che sto pensando, ho solo mezze frasi lasciate in sospeso, tanta segretezza e tanti decisamente troppi, eventi inspiegabili.
I pensieri si rincorrono, le idee si sormontano ed io, non riesco a ragionare a mente lucida.

Neanche la doccia è riuscita ad aiutarmi, non ho fatto chiarezza e non ha lavato via nemmeno uno di tutti quei pensieri.
Mi vesto alla svelta, prima che mia cugina salga e inizi a brontolare su quanto ci impiego a vestirmi e su quanto è importante non fare aspettare gli ospiti.
Ho optato per un paio di leggins di cotone nero e una canottiera larga dello stesso colore e quando scendo al piano di sotto, la vedo guardarmi dalla testa ai piedi e farmi un sorrisino furbo.
Fingo di non averla vista e mi dirigo in sala da pranzo dove i due uomini sono impegnati a bere una birra e parlare tra loro a bassa voce.
Smettono di parlare quando mi vedono, rimanendosene in un silenzio imbarazzante solo per qualche istante, poi giunge Anna con il vassoio delle lasagne, invitandoci a prendere posto a tavola.
I due sposi sono seduti di fronte a me, mentre io sono stata costretta a sedere accanto a Garreth, su richiesta di Anna stessa.

“Come ti trovi da noi, Amira?” chiede in tono gentile Garreth, voltandosi verso di me.

Peccato che, con il mio solito tempismo, mi sia appena infilata in bocca una forchettata di pasta che mi impossibilita a parlare. Cerco di masticare veloce e rispondere, perché mi sto sentendo osservata e non mi piace esserlo, sopratutto se mangio come se non ci fosse un domani.

“Amira si trova benissimo. Si è già fatta un sacco di amici e…” Anna lascia in sospeso la frase, per dare maggiore enfasi.

Spalanco gli occhi, implorandola di non continuare la frase, ma lei ovviamente non mi guarda – o finge di non farlo – e prosegue.

“Si è già fatta anche l’ammiratore segreto. Anche se io ho capito di chi si tratta.” dice con fare cospiratorio.

“Ah, davvero?!” chiede incuriosito Garreth con un mezzo sorrisino divertito, spostando lo sguardo da lei a me.

Okay, io la strozzo.

“Sì.”

“NO!”

C’è un attimo di silenzio, in cui tutti e quattro ci guardiamo negli occhi, un po' confusi.

“Certo che è vero. Ti è stato regalato un telefono e sicuramente sarà stato Giulian.” dice lei, convinta delle sue parole.

“No, Anna. Non puoi saperlo perché non c’era scritto niente.”

“Lui chiede sempre di te e ti gira spesso intorno. Credimi: lui è cotto.” annuisce soddisfatta della sua stessa affermazione.

“Mia cugina fa solo delle congetture.” dico rivolta a Garreth che non mi pare stia spruzzando felicità. “Con Giulian ho solo parlato un paio di volte e mi ha presentato Judy, che è l’unica ragazza con cui ho legato. Non ho così tanti amici come dice lei.” la indico con un dito, bevendo poi un sorso d’acqua per attenuare il calore che sento alle guance.

“E allora che mi dici del tuo amico Edoardo?”

“Appunto, è solo un amico.”

Ma come si spegne?!

“Con cui balli.” precisa ammiccando.

“È un compagno di ballo, cos’altro ci dovrei fare?” le domando sarcastica, pentendomi l’attimo dopo.

La sua mente potrebbe partorire di tutto.

“Lo dicevi anche quando avevi una cotta per lui e ti sei dichiarata.”

La guardo sconcertata. Non riesco più a farla stare zitta e la cosa sta diventando imbarazzate.

“È stato tempo fa. Ora siamo solo amici.” dico alzandomi e sparecchiando la tavola.

La cena è finita, Alan ha servito i biscotti, che avevamo fatto ieri sera io ed Anna, e portato una bottiglia di Jack Daniels che solo i due uomini stanno bevendo.

“Sì, solo un amico che ti sta incollato come una cozza e che ti manda sempre tanti messaggini.” ridacchia.

Mi cade il biscotto di bocca.

Alan si accorge che sua moglie sta esagerando – in tempo, eh – e trova un modo per distrarla.

“Amore, questi biscotti sono una favola. Come li hai fatti?”

Lei non se lo fa ripetere due volte e inizia ad elencare gli ingredienti, ricordandosi di quella volta che una signora le voleva copiare la ricetta e di quella in cui…

Se deve essere così, non vorrò mai rimanere incinta.

Si sono fatte le nove e mezza, tra poco avrà inizio la riunione di quelli che si fanno chiamare il ‘branco’ e non posso star a perdere tempo con le chiacchiere di Anna o con i due uomini che continuano a bere whiskey, quindi mi alzo e con la classica scusa di un attacco di emicrania mi congedo e li saluto.
Quando sono in camera, chiudo la porta cercando di captare ogni rumore proveniente dal piano di sotto.
Infatti, dopo una decina di minuti, sento le sedie muoversi e le voci spostarsi dal salotto all’ingresso, dove Anna saluta i due uomini dicendo a suo marito che cercherà di aspettarlo sveglia.
Bene, è il momento.
Dall’armadio tiro fuori un paio di scarpe di tela, non saranno il massimo, ma non posso scendere per prendere quelle più pesanti e poi per arrampicarmi ho bisogno di qualcosa di molto più comodo.
Metto un piede sul davanzale e pregando di non rotolare e schiantarmi al suolo, mi muovo con attenzione sulla tettoia, rendendomi conto adesso che forse era meglio la porta d’ingresso, dal momento che non mi trovo in un film.
Guardo di sotto, vedendo l’altezza molto più invalicabile di quello che mi sembrava stando in giardino. Mi siedo, lasciando le gambe dondolare nel vuoto, avvicinandomi sempre di più al bordo fino a che non decido che è il punto giusto per saltare, quindi afferro il telefono coi denti e mi butto.
Atterro sulla caviglia con tutto il corpo, come una pivellina, ma se non altro sono ancora tutta intera.
Zoppicando, mi incammino tenendomi lontana dalla strada ma non troppo da addentrarmi nel bosco e perdermi, usando la torcia del cellulare per illuminare i miei passi e non cadere.
Sono sicura che domani mi verrà la febbre per essermi scordata, ancora una volta, il giacchetto, però per adesso la mia unica preoccupazione è scoprire la verità.
Cammino sicura che non ci sia nessuno quando, ormai vicina all’edificio, a guardia dell’unica porta ci sono due uomini, gli stessi che vidi in compagnia di Garreth la prima volta che ci siamo scontrati alla tavola calda.

Uno di loro è addirittura quello che mi disse se sapevo con chi avevo a che fare.
Li deve aver messi lì per accertarsi che nessuno entri senza permesso.

Mi nascondo dietro un cespuglio, strofinando le mani per tentare di scaldarle, attenta a non fare rumore.
Costeggio l’edificio tenendomi a debita distanza, solo quando sono lontana dalle due guardie, mi avvicino alla struttura, dalle vetrate coperte da spesse tende scure.
Cerco uno spiraglio dove poter sbirciare e origliare – cosa che ho fatto spesso da quando sono qui – e avere finalmente le mie risposte.
Sono tutti seduti sulle sedie di legno pieghevoli, mentre Garreth e altri due, tra cui Alan, sono sul palco, di fronte al resto del villaggio, intenti a parlare e mostrare una cartina appesa alla parete.
Non capisco cosa si stanno dicendo, quindi cambio posizione, cercando uno spiraglio vicino alla parete vetrata dove Garreth sta parlando.
Intravedo Judy e il suo gruppo, tra i primi posti, poi una serie di persone che ho conosciuto ma di cui non ricordo il nome. Vedo anche il farmacista, in piedi e in disparte, che ogni tanto annuisce o scuote la testa a seconda di ciò che viene detto.

“L’attacco sarà imminente! Non sappiamo bene quando attaccheranno ma si stanno mobilitando e quindi dobbiamo essere preparati! Hanno ucciso troppi di noi, non possiamo più permetterlo!” urla infervorato Garreth.

“Quei bastardi sono distanziati qui, qui e qui...” si sposta davanti alla cartina indicando alcuni punti già segnati con un pennarello rosso. “Sono a sette giorni di marcia dal nostro villaggio ma altri branchi mi hanno avvisato che sono stati seguiti nel bosco, altri sono andati in ricognizione e mai più tornati.”

Le voci tra il pubblico si alzano, sovrastandosi.

“Dobbiamo ucciderli TUTTI, prima che arrivino a noi!” Garreth batte una mano sulla parete ma sembra non sentire niente.

Tutti gli altri gli vanno dietro, incoraggiandolo e incitandolo.

Li guardo sconvolta, sempre più incuriosita ma anche molto più spaventata di prima.
Con le mani tremanti per la paura e intorpidite per il freddo, cerco di azionare la telecamera e fare un video per avere le prove, anche se non saprei a chi farle vedere.
La risoluzione è uno schifo, ma è sufficiente per identificare i loro visi e sentire i discorsi che pronunciano.
Stanno parlando di uccidere delle persone.
Sapevo che non erano normali, ma addirittura organizzare uno sterminio… questo va oltre ad ogni mio pensiero contorto e strampalato fatto finora.
Credo di aver sentito fin troppo, quando Garreth, in preda alla rabbia, da il meglio di sé, dicendo quello che tanto non avrei voluto sentir dire.

“Se i cacciatori vogliono la guerra, allora noi licantropi gliela daremo!!!”

Dallo shock mi cade il telefono in terra e appoggiandomi con una mano al vetro per sorreggermi, rovisto tra il fogliame per riprenderlo e interrompere la registrazione. Ma quando alzo la testa, vedo tutti esultare, tranne uno.

Garreth.

E sta guardando me.




*Angolino mio personale *

Al mio fidanzato questo capitolo è piaciuto, ci rideva mentre lo leggeva e correggeva, quindi spero che sia piaciuto anche a voi... Scusate per il ritarso con il quale ho aggiornato, ma sono stata poco bene nei giorni scorsi e ho preferito riposarmi e stare lontana dal pc.

1. I'll attack - 30 seconds to Mars

Fatemi sapere la vostra!
A presto :-* 

KV 

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Capitolo 7
*** La verità ***


Ci guardiamo negli occhi.

O meglio, io lo sto guardando, non riesco a capire se anche lui riesce a vedere me, ma so per certo che ha i suoi occhi puntati da questa parte e quello sguardo non mi piace per niente.
Ho appena scoperto che sono licantropi e se tutte quelle cose lette nelle storie sono vere, è altamente probabile che lui riesca non solo a vedermi ma anche a fiutarmi.
Mi allontano svelta da questo posto, cercando di non cadere ma anche di salvare il filmato, pronta a mandarlo a qualcuno.

Ho le prove!

Loro sono dei licantropi e Garreth… lui è l’alfa!

Ora TUTTI i discorsi acquistano senso. Quelli di mia cugina, quelle mezze frasi di Alan e capisco anche tutta la venerazione che l’intero villaggio prova nei confronti di Garreth!
È il capo di un branco di lupi e pensare che io… che io iniziavo a provare un certo interesse per lui, nonostante il carattere strano e lunatico.

Ah, ho usato il termine lunatico per definire il comportamento di un lupo.

Mi ci verrebbe quasi da ridere se non fosse che sto scappando prima che lui mi trovi e… non so cosa voglia farmi, ma sono convinta che non mi piacerebbe per niente.

Mi sento così sciocca!

Continuo a camminare, accecata dalla luce del display e solo una volta che sono sicura di aver salvato le prove, rivolgo il telefono in terra e con la torcia, mi illumino il sentiero.
Ho il fiato corto, mi fa freddo – sfido io, è novembre, notte fonda e sono in canottiera – ma sto anche sudando per la paura e per questa specie di fuga.
Mi fermo un istante, guardandomi intorno e accorgendomi troppo tardi di aver superato la strada del paese e di essere non so dove.
Potrei tornare indietro, su questa stessa strada, in fondo non è così accidentata e se non ricordo male, quando l’ho fatta di giorno, ho visto che determinati tronchi erano segnati con della vernice rossa per segnare il tragitto ma, proprio quando decido di voltarmi, il telefono comincia a squillare.

 

‘Howl
7 days to the wolves
Where will we be when they come
7 days to the poison
And a place in heaven
Time drawing near as they come to take us’

 

Una suoneria davvero a tema, la stessa di Edoardo e solo perché ci piace lo stesso gruppo musicale.
Guardo il display, vedendo con raccapriccio e disperazione che il numero appartiene a Garreth e che, in lontananza, riecheggia il mio nome.
Non posso tornare assolutamente indietro, quindi comincio a correre più veloce che posso, aiutata dalla misera luce della torcia e, di tanto in tanto, da quella della luna che fa capolino dalle nuvole.
So che se, o quando, mi troverà – il quando mi spaventa di più – per me ci saranno solo due opzioni: o mi ucciderà o mi costringerà a rimanere qui per sempre, in modo che non divulghi il loro segreto.

“Amiraaaaa!”

La sua voce risuona nel silenzio del bosco, facendomi andare nel panico e smettere di ragionare.
Non che finora lo abbia fatto egregiamente, dal momento che mi sto addentrando nel bosco, in una zona che non conosco, inseguita da un maledetto lupo mostruoso che non vede l’ora di sbranarmi.
Mi nascondo dietro un grosso tronco, distanziandomi dal sentiero, per riprendere fiato e far riposare un po' le gambe, approfittandone per chiamare l’unico che potrà aiutarmi anche se lontano.
Le mani mi tremano per la paura e per il freddo, ho fretta e questo non contribuisce a farmi cercare il suo numero più velocemente.

Ti prego, Edo, rispondi!

“Il numero da lei chiamato non è al momento...”

Porca puttana!

Cosa ho fatto di male?!

Calma, devo stare calma.

Prendo un respiro profondo, cercando di far tornare il battito cardiaco ad una velocità accettabile e provando a tenere ferme le mani, scorro fino a trovare la nostra chat.
Mi avvicino il telefono alla bocca, pronta per sussurrare, quando sento dei rumori non molto lontani da dove mi trovo.
Mi affaccio oltre il tronco, guardando a giro ma con questa oscurità è praticamente impossibile vedere tanto oltre.

“AMIRAAAAAA!!!”

Garreth si è fatto molto più vicino e sono costretta ad uscire dal mio nascondiglio e continuare a correre per non farmi trovare.

“Edo, io lo sapevo!” bisbiglio al microfono, mentre guardo in terra attenta a dove sto mettendo i piedi. “Adesso ho le prove!”

Prendo fiato e continuo a muovermi, sapendo che se mi fermo, lui mi troverà e per me sarà la fine.
Non posso chiamare la polizia: non crederebbero MAI alla mia storia, mi rispedirebbero a casa di Anna. Anche se, con lei, dovrei essere al sicuro. Ma chissà cosa potrebbe accadere durante il tragitto dalla stazione di polizia a casa sua.
Non riesco a vedere più niente, nemmeno quel qualcosa contro il quale vado a sbattere.

La colluttazione mi fa perdere l’equilibrio e cadere con il sedere per terra, tra le imprecazioni mie e quelle di un uomo.
Sento che qualcuno sta parlando e alla sua voce se ne aggiungono altre due, ma non sono capace di mettere a fuoco né le voci né quello che si stanno dicendo.
Apro gli occhi, chiusi durante la caduta, per focalizzare alla belle e meglio, i tre individui che, di notte, sono a giro nel bosco.
Li guardo spaventata e sconvolta, scoprendo che i muscoli non riescono più ad obbedirmi e temendo che siano gli amici di Garreth.

“E questa da dove è sbucata?”

“Ehi, stai bene? Ce la fai ad alzarti?”

Li guardo ancora un po' notando che sulle spalle hanno tutti e tre dei fucili. Quindi, no, non sono qui per me.

“Ragazza, capisci la mia lingua?” domanda uno di loro, con più calma, porgendomi una mano.

Quando capisce che non gliela afferrerò, fa un cenno con la testa agli altri due e insieme mi aiutano a rimettermi in piedi, sorreggendomi per le spalle per accertarsi che sia stabile sulle gambe.

“Parli la mia lingua?” scandisce piano e con calma, mentre stappa una fiaschetta e me la porge.

“Sì… sì, io… capisco...” balbetto, col fiato corto e il cuore che sta impazzendo, bevendo di buon grado qualsiasi cosa ci sia dentro alla boccetta.

So che sto perdendo tempo, ma il liquido amaro e alcolico mi ha dato un minimo di calore e so che mi servirà se voglio restare viva.
Sono anche ben consapevole che sto tergiversando troppo col nemico ma, a questo punto, non so più chi sia l’amico e chi il nemico.

“Che ci fai nel bosco a quest’ora? Da chi stai scappando?” mi domanda, togliendosi il cappotto e mettendomelo sulle spalle.

“Io… io non sto scappando...” la voce mi esce roca, fatico a riconoscerla come mia, stringendomi nel cappotto e trovando sollievo.

“Eri in canottiera, in mezzo al bosco a mezzanotte passate, quasi in ipotermia. Una tipica passeggiata.” mi prende in giro uno.

“Se hai paura di qualcuno, ti proteggeremo noi. Adesso ti portiamo al furgone e poi alla polizia.” mi mette una mano sulla schiena, spingendomi verso una direzione ignota.

Solo che io non ci voglio andare con loro, anche se forse – e dico forse – sarei più al sicuro e mi guardo indietro per cercare di scorgere una certa persona; loro se ne accorgono e fraintendono.

“Chiunque ti abbia fatto del male, ora non te ne farà. Stai tranquilla.”

“E la caccia, Ed? Ormai eravamo vicini.”

“Non ti preoccupare, John. La portiamo alla polizia e noi ritorniamo qui a finire il lavoro.”

“Ma Jackson vorrà le nostre deposizioni.” si lamenta uno.

“E’ un mio caro amico, basterà portargli la testa di una di quelle bestiacce.”

I tre ridono ed io devo trovare un modo per liberarmi anche di loro e avvisare Judy del pericolo che corrono. Magari lei, se scopre che io so del loro segreto, sarà l’unica che non vorrà farmi fuori.
Mi divincolo dalla sua presa, facendo un passo indietro, immaginando i loro sguardi increduli.

“Io devo tornare a casa.” mi tolgo il cappotto e lo restituisco al proprietario, che però non lo prende.

“Non essere sciocca, hai bisogno di cure e di denunciare il tuo aggressore.”

“Non sono stata aggredita da nessuno.” e più o meno, per ora, è la verità. “Sto bene.” ecco, questa è una piccola bugia. “Ho solo dimenticato il giacchetto.”

Ritorno sui miei passi, alla ricerca del cellulare, tasto coi piedi il terreno per trovarlo.

“Almeno permettici di riportarti a casa.” insiste l’uomo.

“Caricala sul furgone e facciamola finita. Io voglio cacciare.”

Alla fine, riesco a trovarlo ma è grazie all’ultimo modo che avrei sperato.
Garreth mi sta chiamando e la suoneria al massimo del volume, risuona forte, riecheggiando intorno a noi.
Riaggancio la chiamata credendo di averlo fatto in tempo, ma nel giro di un istante, sento provenire dal fitto oscuro del bosco, un potente ululato, che rompe il silenzio.

“State pronti. Quella bestia è vicina.” dice uno di loro, poi mi prende per un polso, trascinandomi alle sue spalle, per proteggermi.

Nel giro di qualche secondo, vediamo sbucare dall’oscurità un lupo, dal manto nero come la notte che a fatica si distingue e nessuno di noi esseri umani è stupito dalle sue dimensioni mastodontiche.
E, devo ammettere, che questo è anche più grande di quella che ho trovato io.
L’animale mostra i denti ed inizia a ringhiare, rimanendo però fermo sul posto, le zampe divaricate leggermente e la schiena incurvata, pronto all’assalto.

“John, Cooper… cercate di non colpirlo troppo. Voglio la testa intatta e la pelliccia da portare a mia moglie.”

Guardo l’uomo che ha parlato, lo stesso che è stato gentile con me, e capisco che se non farò qualcosa, uccideranno il lupo e ho il forte sospetto, se non certezza, di sapere di chi si tratta.

“NO!”

Senza rendermene conto, urlo e invasata, gli sfilo il fucile prendendolo dalla canna e facendolo cadere a terra a causa del peso.

“Che cazzo fai, stupida?” allunga la mano per riprenderselo ma mi allontano in tempo, continuando a trascinarlo.

Onestamente, non so cosa sto facendo, ho la testa vuota e non riesco a trovare una spiegazione al mio comportamento.
Ho paura di queste creature, di Garreth in particolare, temo che mi ucciderà per non essere riuscita a farmi gli affari miei ma, al tempo stesso, nel profondo voglio che non gli venga fatto alcun male.
Guardo i tre uomini, lanciando poi una fugace occhiata al lupo alle mie spalle, sapendo benissimo di essere in mezzo ai due fuochi.
Per quanto ne so, questo lupo potrebbe non essere Garreth e quindi non sapere chi sono io o, se lo fosse, potrebbe comunque non riconoscermi e sbranarmi insieme ai questi tre.
Perché cazzo non sono rimasta a casa, al caldo e sopratutto, a farmi gli affaracci miei?!
Ormai, dato che gli ho fregato il fucile, tanto vale che, in caso di bisogno, lo usi per difendermi; quindi, con uno sforzo non da poco, cerco di sollevare l’arma e di imbracciarla.

“Ehi, ragazzina… non fare cazz-”

Mentre cerco di sollevarlo, premo per sbaglio il grilletto – non sapevo nemmeno che si trovasse proprio lì – facendo partire il colpo.
Lo sparo riecheggia in tutto il bosco, anche più lontano, spaventando uno stormo di uccelli che scappa impaurito.
Il calcio del fucile mi colpisce violentemente la spalla, facendomi gridare per il dolore – o più per lo spavento del rinculo e del rumore - e volare l’arma a terra come succede con me, stordita ma le urla che sento non sono le mie.
Con le lacrime agli occhi e un dolore tremendo alla spalla che si dirama anche lungo la schiena, sollevo di poco la testa per vedere l’uomo sdraiato mentre si tiene la gamba che perde tanto sangue.

Succede tutto in un attimo: il lupo con un balzo mi sorpassa e si precipita sui tre uomini che distratti dal loro amico, vengono colti impreparati dall’attacco dell’animale.
Le imprecazioni vengono sopraffatti dai latrati del lupo e dalle urla di dolore dei tre uomini.
Non ho il coraggio di guardare e non sono nemmeno tanto stupida di rimanere qui un secondo di più.
Sofferente e frastornata, mi metto in piedi come meglio riesco e senza voltarmi mai indietro, corro più veloce che posso.
Con la mano sinistra mi tengo il braccio dolorante e prego di non essermelo rotto o slogato, mentre continuo la mia folle corsa, senza sapere bene dove sto mettendo i piedi, inciampando ma riprendendomi in tempo per non cadere.
Non voglio pensare che fine abbiano fatto i tre cacciatori, perché altrimenti dovrei pensare a che fine farei io e adesso, l’unica cosa che conta, è nascondersi in casa.
Sono sicura che mia cugina non permetterebbe MAI che mi venga fatto del male. Anche se Garreth è l’alfa.
Il dolore alla spalla e alla caviglia mi stanno debilitando, costringendomi a fermarmi un secondo, riprendendo fiato, poggiandomi con la spalla sana ad un tronco.
La mia pausa finisce nel momento esatto in cui sento, provenire non molto distante da dove sono scappata, un possente ululato.
Mi guardo velocemente intorno e grazie ad uno spicchio di luna, che gioca a nascondino tra le nuvole, riesco a intravedere la strada che divide in due il bosco.
Cerco di non badare al dolore, stringo i denti, proiettandomi con la mente a casa di Anna, dove potrò stare al caldo e al sicuro, e continuo la fuga.
Tiro un sospiro di sollievo quando scorgo le luci dei lampioni del paese, ritrovandomi a pochi metri dalla piazza.
Mi ricordo la prima volta che mi sono trovata in questo preciso punto, con tante idee in testa e tanta speranza nel cuore, mentre adesso ho solo un pensiero e una speranza: sono licantropi e spero di sopravvivere a tutto questo.
Vorrei riprendere a correre, ma anche respirare, vorrei già essere a casa, nella mia camera.

Troppe cose tutte insieme.

Sputo in terra la troppa saliva dovuta alla corsa e dopo aver ripreso delle belle boccate, corro gli ultimi metri che mi separano da casa.
Purtroppo non riuscirò ad entrare in camera passando dall’albero, quindi dovrò farlo dalla porta di cucina, cercando di fare il minimo rumore possibile.
Sto per aprire la porta, quando mi blocco con la mano a mezz’aria.

E se Alan mi stesse aspettando?

Anche lui è sicuramente uno di loro, Garreth potrebbe averlo lasciato qui di guardia, in attesa del mio ritorno.

Non ho altri posti dove andare e poi ho bisogno urgente di antidolorifici e di una bella dormita, anche se dubito fortemente di riuscire a prendere sonno in maniera naturale.

Devo tentare.

Dio, ho così paura.

Abbasso la maniglia stando attenta a non far cigolare i cardini e poi, una volta dentro, a non far scattare la serratura.
Mi muovo in punta di piedi e con passo felpato, cadenzato e con il respiro ridotto al minimo, salgo le scale.
Solo quando sono finalmente al sicuro nella mia camera a porta chiusa, butto fuori l’aria e mi rilasso un attimo.
Dopo aver riacquistato un minimo di energie, accendo la piccola lampada del comodino vado a rovistare nell’astuccio dei medicinali, prendendo i blister delle pasticche e mi guardo a giro per la bottiglia d’acqua.

Grandioso!

L’ho finita e non ne ho più.

Sospiro e socchiudo gli occhi, poi, armata di pazienza, compio un ultimo sforzo dirigendomi nel piccolo bagno per riempire il bicchiere.
Metto sulla punta della lingua una pasticca di antidolorifico, una di antinfiammatorio e per sicurezza, anche una contro il mal di pancia, tracannando l’acqua.
Una volta deglutite, bevo un secondo bicchiere per dissetarmi e un terzo per mandare giù otto… dieci… facciamo dodici goccioline per dormire, di quel intruglio alle erbe di Anna.
Ritorno in camera come se avessi combattuto una guerra e mi distendo sul letto, osservando il soffitto fino a che, intorno a me, diventa tutto nero.

 

Mi sveglio di colpo, spalancando gli occhi, per colpa di qualcuno che sta bussando con insistenza alla porta.

“Amira, tutto bene? Posso entrare?”

Mia cugina inizia ad avere la voce preoccupata, segno che devono essere diversi minuti che prova a chiamarmi, senza successo.
Sto per aprire bocca, invitandola ad entrare, troppo stanca e indolenzita per muovermi, quando mi ricordo di quello che è accaduto e immaginando in quali pessime condizioni mi trovo, mi alzo velocemente – si fa per dire – dal letto e corro alla porta, per bloccare la maniglia e non farle vedere in che stato mi trovo.

“N-no!” dico con un filo di voce roco, appena udibile. “Non puoi entrare.”

Non c’è bisogno nemmeno di fingere, sto male e parlare mi risulta difficoltoso.

“Che cosa hai fatto? Ti senti poco bene?” prova ad abbassare la maniglia, ma glielo impedisco anche se questo sforzo mi provoca una fitta dolorosa alla spalla.

“Ho solo un po' di raffreddore, meglio se non entri.” rantolo, tirando su col naso e tossendo. “Hai bisogno di qualcosa?”

“Ero venuta ad avvisarti che stiamo per partire.”

Cosa?!

“E do-dove andate…?” chiedo preoccupata, perdendo quella poca voce che mi era rimasta.

“Andiamo a trovare i genitori di Alan, te ne avevo parlato.”

E quando me l’avrebbe detto?

“Ah… sì, sì mi ricordo.”

“Se vuoi rimandiamo, almeno non starai da sola.” mi dice apprensiva.

“No! No, vai pure. Mi basta un giorno a letto.”

“Ma sei sicura Amira? Mi dispiace saperti sola quando stai male.”

“E’ solo un lieve raffreddore, sto benissimo. Ci vediamo quando tornate.” mento, cercando di trattenere un colpo di tosse.

“Cerca di non affaticarti e chiama per qualsiasi cosa. Mi raccomando, stai attenta.”

“Lo farò.”

La sento tergiversare ancora qualche istante dietro la porta e parlare con Alan, non riuscendo però a capire cosa si stiano dicendo. Altri passi verso la mia camera, mi fanno intuire che qualcuno si sta avvicinando e riconosco subito il passo lento e cadenzato, forse un po' pigro in questo caso, di Alan.

“Amira, sei molto brava a raccontare balle, sappi che ho ripulito io le tue impronte di fango prima che Anna le vedesse… Ah, un’ultima cosa, bel colpo col fucile… Ci vediamo presto e non combinare altri guai, Garreth ti tiene sott’occhio!”

Rimango pietrificata con la schiena alla porta mentre Alan va via. Sento la porta principale chiudersi e mi affretto alla finestra stando attenta a non farmi vedere e dopo essermi assicurata che siano veramente andati via, con le solite tre pastiglie di eri sera, vado in bagno e le mando giù con dell’acqua, assumendo poi altre cinque goccioline di tranquillanti per essere certa di dormire.
Ritorno nella mia stanza, mi infilo un maglione di lana, caldo e morbido, e sdraiandomi nuovamente sopra il letto, mi addormento.

 

Apro gli occhi, ritrovandomi nella sala prove, una stanza rettangolare, illuminata da tre finestre e da una fila di neon. Sposto lo sguardo a giro, trovandola esattamente come la ricordavo: la sbarra di legno, lo specchio che ne ricopre quella affianco e delle panche con sotto gli appendiabiti.
Mi muovo, non propriamente a mio agio, non capendone il motivo, dato che io qui ci ho passato interi pomeriggi, pestando il vecchio parquet che tante volte mi ha visto di faccia.
All’angolo c’è un vecchio tavolino di plastica, polveroso e pieno di scritte, con sopra lo stereo e una marea di CD, sparsi un po' ovunque.
Mi avvicino, prendendone un paio per leggerne i titoli, rimettendoli poi sopra la pila.
L’aria è strana, sembra pesante, come se fosse diverso tempo che nessuno ci mette più piede; alzando gli occhi riesco a intravedere i granellini di polvere che vengono colpiti dalla luce del sole.
Volto il busto di lato, continuando ad osservare la sala quando, oltre il vetro comunicante con il corridoio, comincio ad intravedere la sagoma di una persona.
Sorrido felice al pensiero di rivedere Edo ma una volta davanti al vetro, compare la figura di un uomo, il volto insanguinato solo a metà e con l’altra metà deformata e allungata, in una sorta bestiale maschera raccapricciante che, privo di occhi, mi guarda e ghigna malevolo, battendo il pugno al vetro, crettandolo.
Mi copro il viso con entrambe le mani, urlando.

 

“AAAAAAAAAAAAAHHH!!!”

Mi giro non trovando più il letto ma solo il pavimento, contro il quale mi schianto con la spalla destra, quella già infortunata.
Urlo per il dolore, sentendo nello stesso istante un rumore forte, del legno che si frantuma a causa di un colpo possente.

“AMIRA!”

Sposto lo sguardo sulla porta, ancora chiusa, mentre sento dei passi per niente delicati salire le scale e indirizzarsi verso la mia camera.
Ho solo il tempo di mettermi seduta per terra, con la schiena appoggiata al letto, che la porta viene spalancata, mostrandomi un Garreth preoccupato e inferocito.
Sta fermo sulla soglia della stanza, le mani strette a pugno tanto da farsi sbiancare le nocche, trucidandomi con lo sguardo.
Terrorizzata e quasi del tutto incapace di tenere gli occhi aperti, allungo la mano sinistra, afferro il primo oggetto che trovo, provando a lanciarglielo contro, per non farlo avvicinare.

“Lancio piuttosto scarso, rispetto all’ultima volta.”

Sollevo gli occhi, offuscati dal sonno e non so cosa, spaventandomi quando lo vedo venire verso di me a grandi falcate.

“Va… via...” fatico a parlare, provando ad allontanarlo con una leggera pedata sulla gamba, che non lo scalfisce minimamente.

Quando si ferma davanti a me, si piega sulle ginocchia, prendendomi il mento tra le dita e spostandomi il viso per osservarmi.

“Lashhiiii-ami...” fatico a respirare, gli poggio una mano sul viso cercando di spostarlo ma senza risultati.

“Guardami! Che cazzo hai combinato, ragazzina?” mi chiede con tono autoritario e minaccioso.

La sua voce mi giunge alta, provocandomi forti fitte alla testa e smorfie di dolore.
Provo a girare la testa per non doverlo guardare negli occhi, cercando altro da lanciargli per farlo andare via. Tento di ricordare dove ho lasciato il telefono per poter chiamare aiuto, ma la mia testa è pesante e vuota, non ho memoria delle ultime cose che ho fatto.
Garreth mi impedisce di girovagare con lo sguardo, riportandomi con gli occhi sui suoi, così seri, arrabbiati e profondi.

“Mi ucci… derai!” cerco di urlare, ma non sono nemmeno tanto sicura di essere riuscita a parlare.

“Ma cosa stai dicendo?!”

“Lo scio… lo farai…”

Provo a divincolarmi, a tentare di scivolargli di lato, ma tutto quello che ottengo è – decisamente senza volerlo – di aiutarlo a caricarmi tra le sue braccia e portarmi in bagno.
Mi fa scendere, continuando comunque a sorreggermi con un braccio, mentre allunga l’altro per prendere il pomello della doccia, azionarlo e bagnarmi la faccia con dell’acqua fredda.
Spalanco la bocca e gli occhi, più lucida ma anche più infreddolita.
Lo guardo confusa e allibita dalle sue azioni ma quando realizzo cosa sia venuto a fare qui, più in forze di prima, lo spingo via uscendo poi dalla doccia.

“Allontanati da me!” gli ringhio contro, a corto di fiato, ottenendo finalmente quello che voglio.

Garreth preso alla sprovvista dal mio improvviso risveglio, perde l’equilibrio che lo costringe ad andare all’indietro se non vuole cadere.
Mette distanza tra noi due, permettendomi di uscire dalla doccia e realizzare quello che è successo finora, solo che appena mi lascia libera, le gambe mi cedono nuovamente, costringendomi ad aggrapparmi a lui per non rovinare a terra.
Mi accompagna fuori dal bagno e quando percorriamo il corridoio, lancio uno sguardo alla porta d’ingresso, trovandola spalancata con pezzi di legno ovunque e parte dello stipite saltato.

“Che cos’hai fatto alla porta?” domando allarmata, spostandomi una ciocca di capelli fradici dal viso, per guardarlo meglio.

“Tu non aprivi. Poi ti sei messa ad urlare. Dovevo entrare a tutti i costi.” dice seccato lui, portandomi in camera e facendomi sedere sul bordo del letto.

“E far esplodere la porta ti sembra un buon metodo per entrare?” gli chiedo sarcastica, ritrovando un po' di energie.

“Sono dentro. Quindi sì, è un buon modo.”

Si guarda intorno, alla ricerca di non so cosa.

“Non ti aprivo perché stavo dormendo e stavo anche sognando. C’eri tu nel sogno.” non ho la più pallida idea perché me lo sia lasciato sfuggire; credo di avere ancora i sensi intorpiditi.

“Quale onore. Adesso faccio parte anche dei tuoi sogni.”

“Era un incubo. Tu eri senza occhi e… pieno di sangue e avevi...” mi blocco con i brividi lungo la schiena al solo ricordo, sapendo che, continuando, verrà fuori il tanto temuto discorso e, lo so, anche la mia sentenza.

“Cosa avevo?” domanda lui, un misto tra l’interessato e lo stupito.

“Avevi mezzo volto di lupo.” bisbiglio senza avere il coraggio di guardarlo, ma quando azzardo a farlo noto che nemmeno lui sta guardando me, ma ha ancora lo sguardo perso a giro.

Sbruffa, come a corto di pazienza, a passi lunghi si reca in bagno e quando ritorna da me, ha in mano il bicchiere colmo d’acqua.

“Tieni, bevi. Ti devi ripulire da tutto lo schifo che ti sarai sicuramente ingoiata.” mi dice con tono scontroso, fulminandomi con gli occhi.

“Tu che ne sai?” gli domando scontrosa a mia volta e anche parecchio seccata.

“Quando ti ho trovata eri mezza addormentata e in bagno c’è un flacone quasi vuoto di tranquillanti.” mi risponde secco lui, la voce venata di rabbia.

“E’ roba di Anna quella. E poi cosa te ne importa, eh? Sei qui o per uccidermi o per costringermi al silenzio, rapendomi, forzandomi a rimanere qui per sempre. Se mi ammazzo da sola, tanto di guadagnato per te che non devi faticare.” sbotto.

“E’ questo quello che pensi?” domanda lui e dal tono di voce sembra quasi ferito.

Alzo le spalle, bevendo un sorso d’acqua e continuando a guardare in terra.

“Perché pensi che ti voglia uccidere?”

“Oh andiamo Garreth! Lo sai benissimo perché!” lo guardo male a mia volta, stanca di farmi prendere in giro. “So cosa siete tutti voi! Mi hai vista ieri sera e mi hai seguita nel bosco. Non mi sono certo illusa che volessi fare due passi insieme a me!” cerco di non farmi prendere troppo né dal panico né da qualsiasi altra emozione.

“Adesso tu sei qui e non credo che sia per una visita di cortesia. Quindi, Garreth, cosa ne farai di me?” gli domando alzando gli occhi lucidi verso di lui.

Sarei voluta stare calma durante la sua sentenza, ma proprio non ci riesco.
Mi pento di non essermi fatta gli affari miei e di essere andata a cacciarmi nei guai che mi costeranno così cari.
La testa è offuscata, lo sterno si muove con fatica e credo che abbia ragione lui: ho ingurgitato troppe medicine.
D’improvviso tutto in lui cambia, lo sguardo si rilassa, addolcendosi, i nervi gli si distendono e le mani non sono più chiuse a pugno. Anche il respiro gli si regolarizza, tornando a respirare con molta più calma e non come un toro inferocito.
Si muove verso di me con calma, come se fossi io l’animale da non spaventare e quando mi è vicino, mi si siede accanto, spostandomi il volto nella sua direzione invitandomi a guardarlo.

“Devi stare tranquilla, non sono qui né per farti del male né tanto meno per ucciderti.” gli scappa un piccolo sorriso sospirato, spostandomi una ciocca di capelli piuttosto annodata dietro l’orecchio e fermando la mano sulla spalla che mostra un bel livido violaceo, sfiorandolo delicatamente che quasi non ne percepisco il tocco.

“Verrai a stare da me.” esordisce e così come si è seduto, si rialza iniziando a frugare tra la mia roba.

“Puoi ripetere, prego?!”

Solo che lui non mi ascolta o finge e continua a cercare una valigia finché non la trova, prendendo a infilarci la mia roba.
Anche se a fatica, mi alzo e mi posiziono davanti a lui, impedendogli di fare altro.

“E chi ti dice che io voglia venire con te?” incrocio le braccia al petto.

“Non mi interessa quello che vuoi o non vuoi. Farai esattamente quello che dirò io!” anche lui incrocia le braccia al petto, intimorendomi con lo sguardo.

“Scordatelo!” prendo il borsone, tolgo quello che ci aveva infilato, riponendolo poi sotto il letto.

“Okay ragazzina, l’hai voluto tu.”

In una frazione di secondo mi ritrovo il mondo sottosopra, caricata sulle spalle di Garreth e portata al piano di sotto.
Quando capisco che sta per imboccare l’uscita, inizio a scalciare, a graffiarlo e prenderlo a pugni ma ogni movimento mi costa troppa fatica e la spalla inizia a dolere più forte di prima, dandomi fitte che mi impediscono subito di fare altri movimenti.

“Stupida femmina.” sbuffa, mettendomi a terra ma senza lasciarmi andare. “Smettila di agitarti e ascoltami: non voglio farti del male, ma devi venire con me. Sarai più al sicuro.” questa volta parla con calma, con tono meno perentorio e decisamente più accondiscendente.

“E’ stata mia cugina a dirti di portarmi da te?”

“No.”

“Allora non capisco perché ti ostini a volermi portare da te.” gli dico stanca, massaggiandomi le tempie e prendendo dei bei respiri. “Senti Garreth, io…” mi perdo tra i pensieri, dimenticandomi per un attimo quello che volevo dire e lui ne approfitta.

“Vedi?! Non hai niente da obiettare, quindi verrai con me.” mi carica nuovamente sulle spalle dirigendosi incurante delle mie lamentele alla sua auto.

Mi costringe a sedermi dal lato del passeggero e dopo avermi agganciato la cintura, chiude lo sportello prendendo poi posto alla guida.

“Guarda che questo è considerato sequestro di persona.” gli faccio notare, incrociando le braccia al petto, in cerca di calore.

“Strano, io ti ho visto chiaramente salire di tua spontanea volontà.” dice con un sorrisino furbo.

Non obietto più niente, consapevole che anche qualora mi avessero visto essere costretta a salire, nessuno potrebbe fargli o dirgli niente. È lui che comanda e, quindi, lui che decide per gli altri.
Per gli altri, non per me.
Basterà aspettare che si distragga, che esca di casa o che abbia da fare qualsiasi cosa ha da fare un alfa di un branco di mezzi uomini e mezzi lupi e io potrò sgattaiolare via e tornare a casa di Anna.
Sarebbe meglio potessi tornarmene a casa mia, ma dubito che riuscirei ad arrivare così tanto lontano in così poco tempo.
Sospiro, iniziando a sentirmi nuovamente stanca, con uno strano fastidio alla pancia e troppi brividi di freddo, che mi fanno tremare appena.

“Hai freddo?” mi chiede, lanciandomi un’occhiata.

“Sì, un po'.” evito di dirgli il perché, dato che sappiamo benissimo che è grazie a lui se ho così tanto freddo, dal momento che mi ha fatto uscire con solo un maglione indosso e i capelli bagnati.

Passano alcuni minuti nel silenzio più totale.

“Garreth?”

“Mmh?”

“Dimmi la verità: perché devo venire a stare da te?” gli chiedo, la voce bassa e senza la voglia di litigare, ma solo quella di capire.

“In questi giorni non è saggio che tu rimanga da sola, anche se sei umana.” è serio e concentrato mentre parla, continuando a guardare la strada, perso in chissà quali pensieri.

“Cosa credi che accadrà?” sono curiosa, vorrei tanto che mi dicesse qualcosa in più di questo villaggio.

Ormai sono a conoscenza della verità, perché non rendermi partecipe anche della loro vita o dei suoi pensieri?
Garreth non mi risponde, ostinandosi nel suo mutismo e continuando a guidare fino a che non arriviamo a casa sua.

“Siamo arrivati. Forza scendi.”

Scende lui per primo, aspettandomi davanti alla porta di casa, lasciandomi credere che mi stia dando del tempo per decidere o per abituarmi, ma sono perfettamente consapevole che non è affatto così.
Lo seguo all’interno dell’abitazione, a disagio a stare da sola con lui e questa volta non è per la paura che mi faccia del male.
Nonostante i sentimenti di timore e sospetto che avevo e ho nei suoi confronti, sono spinta a provare anche altro per lui: una sorta di attrazione, di incanto che mi spinge da una parte a voler sapere di più di lui, a volerci parlare e conoscerlo meglio ma dall’altra, mi porta anche ad averne un certo turbamento, perché alla fin dei conti, io non lo conosco e non posso essere interessata o anche solo incuriosita da uno sconosciuto, mezzo lupo poi.
Solo perché qui tutti si fidano di lui, non vuol dire che lo debba fare anche io, sopratutto se è così dispotico e autoritario.

“Non sei mia prigioniera, ti puoi aggirare per la casa e per il giardino liberamente.” mi dice, portandomi al piano di sopra, indicandomi man mano che ci passiamo davanti, le varie stanze, non sapendo – e non lo deve sapere per il momento – che io ci sono già stata.

Tranne che nell’ala Ovest.

Accidenti, adesso non riuscirò a concentrarmi su altro finché non mi sarò ricordata dove l’ho già sentita una cosa simile.

“Qui c’è la camera degli ospiti, dove dormirai tu.” apre la porta, permettendomi di sbirciare dentro. “Il bagno è proprio di fronte. Quella là,” indica una porta un po' più isolata “è la mia camera.”

“E scommetto che camera tua mi è preclusa. Dico bene?” lo punzecchio, con un sorrisino ebete sulla faccia.

“Esatto.” risponde secco, lanciandomi una delle sue ennesime occhiate poco simpatiche.

“Aaaaahh, ho capito! Tu sei la bestia e camera tua è l’ala Ovest.” sdrammatizzo, ricordandomi finalmente da quale film d’animazione l’ho estrapolata.

Ma, a quanto pare, Garreth o non ha mai visto ‘La bella e la bestia’ o non è molto pratico di battute divertenti, perché più indisposto di prima, sbruffa dal naso come un toro inferocito e dopo aver emesso un verso molto simile ad un ringhio, se ne ritorna al piano di sotto.

“Garreth, aspetta.” alzo gli occhi al cielo, seguendolo fino in cucina, fermandomi però alla porta. “Stavo solo scherzando.” dico con un filo di voce, stanco e arrochito.

Mi porto una mano alla tempia, massaggiandola appena, facendo scorrere le dita tra i capelli ancora umidi, cercando di far passare il capogiro. “Scusami.” chino lo sguardo, seriamente dispiaciuto per averlo offeso contro la mia volontà.

La mia era solo una battuta innocente.

“Tè o caffè?” chiede più rilassato, dandomi le spalle per riempire il bollitore.

“Tè, per favore.” cerco di essere più gentile ed affabile, grata che non mi porti rancore per quella frase.

Poso le mani sul ripiano liscio, di legno chiaro, giocando con le maniche del maglione, osservandolo muoversi con calma, prendere due tazze e metterle sul tavolo, davanti a me.

“Latte o zucchero?”

“Niente, grazie.” dico con la voce più bassa di un tono, a causa del mal di gola e del mio mutismo.

Osservo i suoi movimenti, i muscoli che si contraggono anche per i piccoli gesti, le sue spalle, la schiena dritta e più in basso…

Oh porca miseria!

Lo stavo facendo di nuovo!

Chiudo gli occhi, cercando di cancellare gli ultimi pensieri che mi stavano per affiorare alla mente.
Sono solo grata che lui non riesca a sentire i miei pensieri, o potrei benissimo seppellirmi qui.

“Stai bene?” chiede voltandosi all’improvviso con il bollitore in mano, versando poi il contenuto nelle tazze.

Gli rivolgo uno sguardo vago.

“Hai chiuso gli occhi e sei diventata rossa.” ridacchia.

“No… cioè, io… Sì, tutto bene.” balbetto come una sciocca, sapendo di non stare bene per niente.

Primo, perché sono sola con lui e ho il cuore che batte come un forsennato e la mente mi gioca brutti scherzi; secondo, inizio ad avere un fastidioso quanto pungente mal di pancia.
Beve un sorso del suo caffè, scrutandomi oltre il bordo della tazzina.
Fingo di non averlo visto e soffio sulla mia bevanda per farla raffreddare, afferrando il manico per sollevare tazza per poi non bere niente e rilasciarla sul tavolo.

“Siete tutti dei… lupi?” domando, guardando il liquido scuro emanare un leggero vapore biancastro.

“Sì, tranne Anna e te, ovviamente.”

Lo guardo colpita dalla sua risposta, che credevo non mi avrebbe dato. Più fiduciosa, provo a fargliene altre.

“E quindi tu sei il capo, giusto?”

“Sì.”

“E comandi tutti loro?”

“Sì.”

“Attento che non ti si secchi la lingua.”

“Senti Amira, sarebbe meglio che tu non sappia così tante cose di questo villaggio né di me. Quando torneranno Alan ed Anna, saluterai tua cugina e te ne ritornerai a casa tua. In Italia.” dice burbero.

Lo guardo sconvolta.

Perché adesso che ho la certezza che non mi sarà fatto del male e potrò anche tornare in Italia, sono così dispiaciuta di essere cacciata?!
Ora che dovrei essere tranquilla sulla mia incolumità, preferirei che mi costringesse a rimanere.

“Cosa?! E perché dovrei tornare? Sono qui per stare con mia cugina, non per farmi dare ordini da te!”

“Sei qui, nel mio villaggio, nel mio territorio. TUTTI, tu compresa, fate quello che ordino io!” alza la voce, battendo entrambe le mani sul tavolo, facendo saltare i cucchiai, producendo un rumore metallico.

Mi alzo dallo sgabello, sconcertata.

“Ma guarda te se devo prendere ordini da un peluche gigante!!!”

Gli do le spalle, pronta ad andarmene non solo dalla stanza, ma da casa sua, per ritornarmene da Anna, quando la fitta allo stomaco diventa più intensa, tanto da costringermi a fermarmi e poggiare la mano alla parete.
Prendo dei respiri profondi, credendo che questo basti a farli passare, ma non succede niente e, anzi, il dolore aumenta, accompagnato da un altro capogiro.

“Che ti succede? Ti senti male?” domanda improvvisamente preoccupato Garreth, avvicinandosi e mettendomi una mano sulla schiena.

“Sì, sto male. Lasciami andare!” gli ringhio contro, cercando di spostarlo per andare via.

Ovviamente non mi ascolta e dopo avermi presa in braccio, mi carica nuovamente sulla sua auto, per una direzione ignota.






*ANGOLETTINO MIO*

Allooooooooooooooooora, eccoci di nuovo qui.....
La canzone della suoneria è: Seven days to the wolves, dei Nightwish...
Spero che abbiate gradito questo capitolo, io mi sono divertita a scriverlo e il mio beta a leggerlo/correggerlo xD
Non so quando potrò aggiornare (se sarò puntuale o meno) perchè in settimana saprò se dobbiamo tornare in Italia in questi giorni o la settimana prossima, quindi avrò tanto da fare in casa, per i preparativi della partenza....

Sappiate che aggiornerò appena mi è possibile e che l'8° capitolo è già work in progress :*

Un abbraccio,
la vostra Nina <3
 

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Capitolo 8
*** Biscotti e gelosia ***


Poggio la testa al finestrino, trovando sollievo grazie al vetro gelato, coperto dall’interno da una patina di condensa, avendo però come controindicazione quella di farmi venire ancora più freddo.
Garreth aumenta il riscaldamento, mettendomi una mano sulla fronte per sentire la mia temperatura, spostandola sul mento per farmi girare verso di lui e tenere gli occhi aperti, cercando di farmi stare vigile.

“Ehi, ragazzina! Non dormire.”

Scala la marcia e accelera l’andatura del veicolo, prendendo le curve un po' strette.

Dio, quanta furia!

Ho solo sonno, per il resto sto bene, non ci sarebbe bisogno di fare tante storie come sta facendo lui.

“Shi… shi, shono sveglia.” cerco di parlare mentre sbadiglio, con una gran voglia di dormire.

Garreth frena bruscamente e io evito di impattare contro il cruscotto solo grazie alla cintura che non mi ero accorta di avere.
Gli rivolgo uno sguardo assassino per avermi quasi fatto sbattere la testa, ma non devo risultare minacciosa perché lui a fatica mi guarda e dopo essere sceso, mi aiuta a fare altrettanto, ma invece di farmi camminare – perché ne sono in grado… forse – mi tiene tra le braccia.
Vorrei protestare, dirgli che ce la faccio anche da sola, che sono una donna autonoma e un sacco di altre cose da femministe, ma quest’uomo ha un profumo così buono, intenso, anche più forte e travolgente di quello di Alan; quindi, io, colgo l’occasione per bearmene di nascosto, immaginando di essere in mezzo alla foresta dopo un temporale e strofino il naso contro il collo, nascondendoci il viso, attratta dal suo profumo e dall’innaturale calore che emana il suo corpo, nonostante abbia solo un maglione e faccia un freddo micidiale.

E, in un attimo di puro delirio, so per certo che non mi dispiacerebbe affatto rimanere per sempre vicina a lui.

Ci fermiamo davanti ad una porta bianca. Passano solo alcuni secondi da quando Garreth bussa a quando ci viene aperta, mostrandoci il farmacista che, dopo essersi infilato gli occhiali, ci guarda stupito.

“Lei sta male.” è tutto ciò che dice, ma è più che sufficiente per farci entrare in quella che, solo adesso, riconosco essere la farmacia del paese.

Noi oltrepassiamo il bancone e andiamo nel retro, percorrendo un piccolo corridoio.

“Cosa le è successo?”

“Credo che abbia preso i tranquillanti di Anna.”

“La dose?” chiede, rivolto ad entrambi.

“Non lo so, Eric.” dice abbattuto.

O forse sembra a me.

Mi guardo le dita delle mani fare capolino dalla manica troppo lunga del maglione, cercando di fare la somma delle goccioline assunte.
Erano dieci la sera… no, erano dodici e poi stamani…
Muovo le dita per contare, ma perdo il conto almeno un paio di volte.

Vengo sdraiata sul lettino, mentre i due uomini continuano a parlare di me.

“Ha preso altre medicine?”

“Sicuramente, ma non so quali.”

“Va bene. Tu falle bere dell’acqua, mentre io preparo la flebo.”

Li vedo affaccendarsi nella piccola stanza bianca e asettica; poi Garreth torna con un bicchiere pieno d’acqua che mi costringe a bere, dopo avermi aiutata a sollevarmi.

“Toglile il maglione.” Eric si avvicina con la sacca della fisiologica e un ago.

“Ma ho freddo!” mi lamento, sottraendomi alla sua presa, tenendo il braccio lontano da lui.

“Così impari, pazza incosciente!” mi rimprovera Garreth, sfilandomi l’indumento e afferrandomi l’arto, tenendolo disteso per aiutare Eric.

“E quello come se l’è fatto?” domanda allibito il farmacista, fermandosi con le mani a mezz’aria.

“Cappuccetto rosso ha sparato al cacciatore!” gli rispondo, facendo una smorfia quando l’ago mi buca il braccio.

“Cosa?!” non capendo, Eric guarda Garreth in cerca di risposte.

“Ha sparato ad un cacciatore ieri sera, mentre cercavo di raggiungerla.” dice esasperato.

“Lo stesso che ci aveva quasi trovati?”

“A uno di loro tre, sì.”

“Certo che ha del fegato, la ragazza.”

“Attira solo guai. Su noi e su sé stessa.”

I due si guardano un attimo negli occhi, poi Eric mi poggia una mano sulla fronte e una sul collo.

“Il battito è regolare, però hai la febbre e non ci vuole molto per capirlo. Come ti senti?”

“Un po' meglio.”

“Ti ricordi quali medicine hai preso?”

Chiudo un attimo gli occhi, concentrandomi sulla sua domanda, ma il mio cervello per un attimo rimane attento sul liquido freddo che mi entra nelle vene e sulle gocce che dal sacchetto trasparente si fermano nella valvola.

“Amira, mi stai ascoltando?” chiede scettico Eric.

“Sì, scusa…” ritorno concentra su di lui, elencandogli le dosi assunte ieri sera e questa mattina.

“Mi sapresti dire i nomi e gli eccipienti?”

Annuisco, scrivendo sul foglio che mi porge quello che vuole sapere, quando glielo restituisco, annuisce a sua volta e sparisce oltre la porta.

“Si può sapere che ti è saltato in mente?” mi domanda furioso Garreth, mantenendo però il tono di voce basso.

“Stavo male e avevo bisogno di dormire.” rispondo guardandomi le dita delle mani.

“E drogarsi ti sembra un buon modo per farlo?”

“Sono riuscita a dormire, quindi credo proprio di sì.” rispondo a tono, guardandolo negli occhi.

Garreth se ne sta zitto, sorpreso per avergli rigirato contro la sua stessa frase, troppo adirato per potermi rispondere.
Per mia fortuna ritorna Eric che senza saperlo, evita un omicidio.

“Sei stata molto fortunata, Amira. Con quel quantitativo ingerito, poteva andarti peggio. Ora fammi dare un’occhiata alla spalla.”

Dopo avermi visitata, palpato la spalla, la schiena, e quasi fatto piangere per il dolore, mi da almeno una buona notizia.

“Non hai niente di rotto.” mi sorride, coprendomi con una coperta, presa da un mobile di questa stanza.

“Se Garreth non ha niente in contrario, ti vorrei tenere qui per qualche ora, solo per accertarmi che la flebo ti abbia ripulito il sangue. Ovviamente, per la febbre non posso darti niente.”

“Niente in contrario. Per me la puoi tenere qui quanto ti pare, basta che chiudi la porta a chiave.” risponde acido e serio.

Eric se la ride, lasciandoci da soli.

“Dove vai?” gli chiedo, prima che anche lui mi lasci da sola qui.

“Devo sbrigare alcune faccende.” risponde secco, quasi fosse infastidito dal dovermi parlare.

“Cose di alfa?” azzardo.

“Sì.”

“Che ovviamente non mi puoi dire.”

“Esatto.”

Smetto di guardarlo, troppo dispiaciuta per come mi sta trattando; inoltre avere un ago conficcato costantemente nel braccio, non mi aiuta ad essere più felice.
Quest’uomo e il suo comportamento, continueranno ad essere un mistero per me: sfonda una porta solo perché non gli rispondevo, mi rapisce obbligandomi ad andare con lui senza un motivo valido, però mi vuole mandare via e ora mi lascia qui da sola.

“Io...” si zittisce un attimo, in cerca di parole. “Ritornerò tra un paio d’ore. Poi ce ne ritorneremo a casa.” non aggiunge altro ed esce dalla stanza.

E a me, non rimane altro che coprirmi fino al collo e riposare, decisamente più di buon umore.

 

Mi risveglio, senza ricordarmi quando mi sono addormentata, ancora mezza rincoglionita e con i muscoli intorpiditi, vedendo per prima cosa, Eric che sta cambiando la flebo, mi riserva un sorriso gentile, anche se appena accennato.
Il cielo è grigio, come quando sono arrivata, con l’unica differenza che è iniziato a piovere.

“Come ti senti?” mi chiede a voce bassa, mettendomi una mano sulla fronte.

“Un po' meglio, grazie.”

Annuisce e fa per andarsene.

“Eric?”

Si volta verso di me, fermo davanti alla porta.

“Garreth è tornato?”

“No, al momento l’alfa ha tanto da fare. Cerca di riposare, io tornerò tra un po'.” e esce dall’infermeria.

Volto la testa di lato, guardando la pioggia che cade, rendendo tutto lucido e freddo. Provo a concentrarmi sul rumore lento e ipnotico delle gocce che cadono sul vetro, ma ormai non riesco più ad addormentarmi e la mente inizia a viaggiare.
Immagino che Garreth abbia davvero tante cose da fare, sia Judy che Anna me lo hanno ripetuto così tante volte ed io non riuscivo a capire.
A mia cugina verrà un colpo quando scoprirà tutto e il rimprovero è assicurato.
Sospiro sconsolata, perché in questo momento non mi importa niente di quello che potrà dirmi, la mia testa è concentrata solo su una persona e non c’è niente che mi faccia pensare ad altro.
È sbagliato, me ne rendo conto, pensare a lui, finché si trattava di una rispostaccia o di una brutta figura ci poteva anche stare, ma pensarlo in maniera così insistente non è normale, non nel mio caso almeno.
Sopratutto adesso che so chi è veramente, la differenza tra di noi è invalicabile.
Guardo il liquido della flebo scendere lento, al ritmo di un secondo, solo che invece di farmi venire sonno, mi procurano solo tanta noia e impazienza di andarmene da qui.
In questa stanza non c’è niente di interessante, solo qualche diploma di medicina, dei poster sul corpo umano, fogli e cartelle cliniche.
Sono incantata a guardare il vuoto quando, dalla finestra, una piccola e quadrata apertura, intravedo il pick-up nero di Garreth e lui che scende dal veicolo, scaricando un borsone nero dall’usura familiare.
Spalanco la bocca incredula dalla sua sfrontatezza, sopratutto quando lo porge ad Eric e mi rivolge a malapena uno sguardo fugace, per poi risalire in auto, scomparendo oltre la curva.
Aveva detto che sarebbe passato a prendermi, invece l’unica cosa che ha saputo fare è stata frugare tra la mia roba e lasciarmi qui.
Forse preferisce scaricarmi e non essere costretto a tenermi a casa sua, dal momento che non mi ha mai voluto, nemmeno nel suo villaggio.
Alla fine non è tanto diverso dalla maggior parte delle persone che ho conosciuto.

“E’ passato Garreth e mi ha lasciato questa per te.” posa la valigia a terra, avvicinandosi per ascoltarmi i battiti del cuore e per togliermi poi l’ago dal braccio. Tampona con un batuffolo di cotone il piccolo foro, tenendolo fermo con un pezzo di nastro adesivo bianco.

“Il tuo sangue si è ripulito, ma questo non vuol dire che puoi assumere altri farmaci né per la febbre, che...” misura la temperatura “è ancora presente: 38.” posa lo strumento e mi mostra una boccetta di plastica bianca con un’etichetta con scritto il mio nome sopra. “Né per questo bel tatuaggio.” ridacchia, indicandomi l’ematoma. “Potrai iniziare a medicarti credo a partire da…” ci pensa un attimo “Da domani.”

“Cosa?! Ma a me fa male.” mi lamento, guardandolo sconcertata.

Nel frattempo, mi infilo il maglione che era stato lasciato in fondo al lettino, rimanendomene seduta.

“Lo so, piccola, però credimi se ti dico che quella dose poteva far star male anche uno di noi.” mi poggia una mano sulla spalla, sorridendomi.

Annuisco sconsolata, per l’ennesima volta.

“Posso andare?”

“No, assolutamente. Non sei del tutto guarita e non puoi stare fuori con la pioggia e il freddo. Inoltre mi è stato ordinato di tenerti qui e ci starai fino all’arrivo dell’alfa.”

“E lui quando arriverà?” chiedo nervosa.

“Non lo so, in questo momento è molto occupato.” detto ciò, esce dalla stanza, chiudendo la porta.

Lo so che, in fondo, Eric sta solo eseguendo gli ordini, ma non posso fare a meno di avercela con lui, con Garreth e anche un po' con tutto il mondo.

L’alfa è molto occupato. L’alfa è molto occupato. L’alfa è molto occupato.

Borbotto infastidita, a mezza voce.

Non c’è bisogno che mi ripetano quanto lui sia importante, indaffarato, e quanto io e lui siamo così diversi; non sono scema, l’ho capito anche da sola ma non è una buona ragione per ripeterlo ogni santa volta.
Però, se tutti lo amano e lo lodano per come si comporta, per la sua attenzione verso tutti, perché non fa quello che mi aveva detto e mi viene a prendere?
In quanto umana, forse, non sono abbastanza importante per lui. Allora poteva benissimo evitare di disturbarsi tanto per me e lasciarmi dove mi trovavo.
Io sarei stata meglio e lui non avrebbe avuto di che preoccuparsi.
Scendo dal letto, sentendo le gambe stanche e indolenzite, mi affaccio alla porta per controllare che Eric non sia nei paraggi, non sentendo rumori, richiudo con molta cautela la porta, mi avvicino alla finestra, la apro e dopo aver scavalcato il davanzale, mi affretto ad allontanarmi prima che Eric si accorga della mia assenza e mi venga a riprendere.
Non ho la più pallida idea di dove andarlo a cercare, ma per fortuna il villaggio è piccolo e mi basterà girarlo tutto, per trovarlo.
Cammino sotto la pioggia, che si è intensificata, accompagnata anche da una bassa nebbia che sta, pian piano, coprendo ogni cosa, troppo dispiaciuta – e non so il perché – per sentire freddo o il dolore alla spalla, dato che ce n’è uno, di dolore, che inizia a fare molto più male e si dirama dal cuore lungo tutto il petto.
Incrocio le braccia al petto, mettendo un piede avanti l’altro, non guardando altro che la strada da percorrere, ignorando chiunque io incontri.
Sono stata all’edificio delle riunioni e al magazzino, ma non c’era; mi reco in piazza dove sono riuniti alcuni licantropi, che mi guardano con circospezione, benché sappiano perfettamente chi sono, ma di Garreth nemmeno l’ombra.
Sto iniziando a detestarlo seriamente e sto detestando anche me, perché è in grado di farmi comportare come una stupida, di farmi fare e pensare cose che non avrei mai creduto e sono uscita nonostante abbia ancora la febbre ma, si sa, quando uno è innamorato fa cose stupide.
Mugolo a voce alta, passandomi le mani sul viso per spostare i capelli e asciugarmi inutilmente dalla pioggia.
Vorrei evitare di tornare in farmacia, ormai se ne sarà accorto che sono fuggita e non ho voglia di sentire cose che già so, quindi, continuo a vagare senza meta, per le stradine del paese.
Sto per cambiare direzione, prendendone una totalmente a caso, quando dei movimenti e due persone a destra, catturano la mia attenzione.
Alzo la testa, concentrandomi sui due, riconoscendo all’istante la voce di Garreth ma non quella della donna.
Credo di averla incrociata qualche volta, ma non ci siamo mai presentate. È la stessa contro la quale mi sono scontrata la sera della festa a casa del licantropo.

“Per qualunque cosa, lo sai, mi puoi chiamare a tutte le ore.” le dice Garreth, in modo neutro.

Lei, in risposta, si tira dietro l’orecchio una ciocca di capelli neri e lisci, gli sorride grata, mostrando una schiera di denti perfettamente bianchi, con gli occhi lucidi, accarezzandogli una guancia.

“Grazie Garreth, sei sempre così tanto gentile con me.” e per finire, gli da un bacio dove prima aveva posato la mano.

Li guardo sconvolta, incapace di andarmene e infatti la donna si accorge di me, guardandomi con uno sguardo schifato e truce.

“E quella , che diavolo vuole?” domanda, facendo una smorfia con il viso, col tono di voce seccato.

Quando i suoi occhi incrociano i miei, si allontana dalla donna, e subito cambia espressione, indurendola.

“Amira, che ci fai qui?” mi chiede, tra lo stupito e l’adirato.

E certo, con me è sempre furioso ma con quella fa lo sdolcinato del cazzo.

“Dovresti essere in infermeria.” mi rimprovera, uscendo dalla tettoia e venendo verso di me.

Me ne vado prima che mi raggiunga.

Alle gocce di pioggia, si sono unite anche le lacrime e io non ho la forza per fermale.
La fitta al cuore si fa più forte, facendomi sentire una stupida per essermi fidata e per aver sperato in lui; lui che non mi ritiene importante, si dimentica di me e va con un’altra.

E poi, che cosa pretendo?!
Lui non ha mai detto o fatto qualcosa che potessi interpretare come un interesse nei miei confronti, quindi sono stata un’illusa se pensavo che potesse essere attratto da una come me.
Io, che sono SOLO un’umana.
Perché mi sono fidata? Come se l’ultima delusione non mi fosse stata già di lezione. Ci son dovuta ricadere di nuovo.
Se non altro, questa volta, non ho perso anni di vita ma solo tre settimane.

“Amira, aspetta!”

“Vai al Diavolo, Garreth!” non mi volto e continuo imperterrita per la mia strada.

Ad un certo punto, vengo girata bruscamente e tenuta ferma dalle sue mani e ciò intensifica il dolore alla spalla.

“Sì può sapere che cosa ti è preso?” chiede confuso, rincorrendo il mio sguardo.

Nel frattempo, come la mia rabbia, anche la pioggia sta aumentando d’intensità.

“Ah, adesso ti interesso, eh?!” ringhio, guardandolo malissimo.

“Che cazzo stai dicendo?”

“Sto dicendo che tu sei come tutti quelli che ho conosciuto! Non te ne frega un cazzo di me. Ti basta solo sapere che sarò ai tuoi ordini, che li eseguirò come un cagnolino ammaestrato perché tu sei il ‘Grande Capo’” mimo con le mani le virgolette. “e poi ti dimentichi che ti stavo aspettando in un cazzo di letto di infermeria!” urlo fuori di me per la rabbia e la delusione cocente.

Mi libero dalla sua presa e continuo a camminare più veloce, non sapendo dove andare per nascondermi da lui.
Mi prende per un polso, facendomi nuovamente voltare verso di lui.

“Amira, avevo delle cose da fare.” dice serio, non lasciandomi.

E mi odio, perché nonostante tutto, adoro sentirmi chiamare dalla sua voce.

“Sì, certo! Cose da fare con la mora!” sbraito.

“Ci sono cose che non puoi capire...” dice abbattuto, senza guardarmi nemmeno più negli occhi.

“Oh no, io ho capito benissimo invece!” cerco di non gridare, ma la rabbia è così tanta. “Sai che ti dico, Garreth?” mi libero dalla sua presa e lo guardo peggio che posso. “Vaffanculo!”

Mi allontano da lui, scappo più che altro ma senza correre purtroppo perché la caviglia non è ancora al massimo delle sue forze e mi rifugio nell’unico posto dove so di poter trovare qualcuno che mi è amico.

 

“Amira, ciao!” dice sorridente Jack, cambiando subito espressione quando vede che sono bagnata da capo a piedi.

“Ciao Jack, io...” lo guardo senza trovare le parole.

“Entra in casa, forza!” mi fa entrare, facendomi immediatamente togliere le scarpe e dandomi le sue ciabatte che mi stanno tre volte tanto. Mi accompagna in salotto, indicandomi il caminetto acceso e la piccola poltrona accanto dove potermi riscaldare e asciugare.

“Che ti è successo?” chiede premuroso, prendendo la coperta che si trova sul divano e mettendomela sulle spalle.

“No, non mi è successo niente… mi sono solo trovata fuori mentre è iniziato a piovere.” in fondo, è quasi la verità.

“Amira, odori di infermeria.” dice serio Jack, non ammettendo repliche da parte mia e ammutolendomi con lo sguardo. “Perché non vai a farti un bagno caldo e poi mi racconti cosa ti è successo?”

Mi sa che ai lupi non si può mentire.
Mi fa segno si seguirlo nel bagno dove sono già stata e dopo avermi fatta entrare mi dice di aspettarlo per poi vederlo comparire nuovamente con dei vestiti asciutti di Judy.

“Fai con calma. Io ti aspetto in salotto.” mi sorride prima di chiudere la porta e andarsene.

Mi guardo intorno, spaesata nel ritrovarmi in un bagno di una casa che non è la mia. Per un attimo mi pento di non essermene ritornata a casa di Anna, anche senza la porta d’ingresso, poi ripensandoci, so che Garreth sarebbe venuto sicuramente a cercarmi lì per riportarmi in infermeria ed abbandonarmici, quindi, convinta di aver fatto la scelta giusta, inizio a togliermi gli abiti bagnati e a farmi la doccia, anche perché Jack ha ragione: puzzo di ospedale e il piccolo foro sul braccio mi ricorda da dove sono appena scappata.
Sono più veloce di quello che avevo pronosticato e circa mezz’ora dopo ne riesco lavata anche se con i capelli ancora umidi.
Indosso un paio di pantofole che mi ha dato Jack e in punta di piedi per non fare rumore, ancora a disagio a muovermi in questa casa, mi incammino al salotto dove mi fermo sulla soglia.

“Entra pure, non ti mangio.” scherza Jack, dandomi le spalle, mentre avvia il fuoco.

“Sai Amira, l’alfa ci ha raccontato quello che hai fatto...” inizia, indicandomi una poltrona per farmi accomodare e sedendosi a sua volta; prende un ceppo dalla cesta di vimini e lo butta tra le fiamme che subito iniziano a consumarlo e a farlo scoppiettare.

“Ah...”

“E devo ammettere che hai avuto davvero tanto coraggio. Anche se è stato incosciente da parte tua scappare in quel modo nel bosco.” mi rimprovera bonariamente, come un qualsiasi padre potrebbe fare con la propria figlia.

E non come un pazzo isterico, sempre arrabbiato con me, come Garreth.

“Ero solo spaventata...” gli confido, trovandomi stranamente a mio agio con lui.

“Sì, posso capire.” annuisce. “Perché non rimani a cena? Poi dopo Judy ti può dare uno strappo a casa.” mi sorride.

Guardo per terra, cercando le parole.

“Ecco, io… in realtà ero venuta per parlare a Judy di una cosa simile.” dico a mezza voce, adocchiando nella direzione dell’uomo.

Jack sta in silenzio, in attesa che continui a parlare.

“Io… avrei bisogno di un posto dove dormire… stamattina Garreth mi ha sfondato la porta di casa e...”

“Che cosa ha fatto? E perché?” chiede stupito e confuso il licantropo, guardandomi con occhi spalancati.

Sentiamo dei passi e delle voci provenire dall’ingresso e poi li vediamo spuntare tutti in salotto. I bambini, dopo un primo momento di incertezza nel vedermi, mi salutano e iniziano a giocare, già abituati alla mia presenza. Judy, non appena mi vede, mi sorride raggiante, chiedendomi come mai sono qui, se voglio rimanere per cena – evidentemente l’ospitalità è proprio di famiglia – e, stupita, chiede perché stia indossando i suoi abiti.
La donna, al contrario, non appena mi vede, si ferma in mezzo alla stanza, con una strana espressione nel viso.

“E’ una storia lunga.” borbotto, a disagio.

Speravo di poterne parlare sola con lei, ma a quanto pare, lo dovrò spiegare a tutta la famiglia.

Perfetto!

“Amira, ti voglio presentare Elizabeth.” dice la mia amica, con un tenero sorriso sulle labbra.

“Salve signora Morrison.” dico con un filo di voce imbarazzato.

La donna si avvicina, con un gran bel sorriso sulle labbra e non appena mi è di fronte, mi abbraccia così forte che credo mi romperà un osso.

“Sono così felice di conoscerti! Anche se noi, ci siamo già viste!” le trema la voce mentre parla. “Non sai quanto ti sono grata per quello che hai fatto.” continua a stringermi ed io mi ritrovo praticamente senza fiato, ma ricambio l’abbraccio.

“Sono felice di conoscerla anche io, signora.”

“Oh, per l’amore della Dea Luna! Chiamami Elizabeth o Beth.” si stacca, cercando di nascondere gli occhi lucidi.

“Amira mi stava raccontando che il nostro alfa le ha distrutto la porta d’ingresso.” ridacchia Jack.

Judy ed Elizabeth mi guardano sconvolte e dopo una serie di domande, mi decido a raccontare più o meno nel dettaglio tutta la storia.
Alla fine, tralasciando il mio stupido e molto immotivato comportamento di fronte a Garreth e alla mora antipatica, tutta la famiglia, bambini esclusi che non hanno prestato la minima attenzione a quello che dicevo, troppo occupati a giocare tra loro, mi guarda a dir poco sconvolta, tranne Judy che è impassibile.

“Io...” inizio, dopo una breve pausa di imbarazzante silenzio. “Mi dispiace davvero tanto chiederlo, ma… solo per stasera, però… avrei bisogno di un posto dove dormire...” dico sempre più a bassa voce, giocando con l’elastico della manica della maglietta.

Non faccio in tempo a finire la frase che le voci di Judy, Beth e Jack si sovrastano, invitandomi a restare non solo per questa notte ma finché non sarà tornata Anna; la signora Morrison, si offre di chiamarla, ma riesco a farle rinunciare a un tale e suicida proposito, assicurandole che ci penserò io ad informarla di tutto.

Certo, come no!

Per poi vederla piombare qui, come una pazza squinternata.

Non voglio morire giovane.

Mi basta Garreth che mi vuole uccidere.

“Non ti preoccupare, cara, puoi stare da noi tutto il tempo che vorrai.” dice Beth, alzandosi e sorridendomi raggiante. “Forza, ragazze, aiutatemi a preparare la cena.”

Così dicendo, si incammina in cucina, io e Judy la seguiamo, aiutandola nel preparare da mangiare per tutta la famiglia.
E all’improvviso, mi ritrovo estremamente a mio agio con loro, a raccontare delle mie abitudini in Italia, a sentire le loro inglesi, circondata da due bambine circospette e da un bambino estremamente più curioso.
I primi due giorni trascorrono così alla svelta che quasi non me ne accorgo, i più piccoli si sono abituati abbastanza bene alla mia presenza che ormai mi vedano come una di famiglia, per Jack e Beth sono di grande aiuto quando loro o Judy sono indaffarati con gli incarichi dell’alfa e si arriva in un baleno alla sera che senza accorgersene è già ora di andare a dormire; io mi sento stanca, ma gli eventi di questi ultimi giorni non riescono a farmi rilassare o prender sonno.
Mi rigiro nel letto, sommersa tra le coperte calde, voltando il viso verso la finestra, guardando il giardino illuminato solo da una pallida e lontana luna, per lo più coperta da spesse nubi.
Sollevo la testa, sorreggendola con una mano, cercando un diversivo che mi faccia prender sonno, quando, tra le ombre oblunghe e distorte delle chiome degli alberi mossi dal vento, intravedo una figura in piedi.
Scatto in piedi, davanti alla finestra, col cuore in gola e le gambe tremanti, ma quando provo a mettere a fuoco non vedo più niente o… nessuno.

“Amira, che c’è? Ti senti male?” è la voce assonnata di Judy.

“Scusami, non volevo svegliarti.”

La sento muoversi tra la sua coltre di coperte e quando mi giro verso di lei, la vedo sollevarsi di poco, quel che basta per potermi guardare.

“Che ci fai in piedi?” chiede confusa.

“Io… niente, non riesco a dormire.”

C’è un attimo di silenzio, durante il quale credo che si sia addormentata.
Torno a guardare fuori, ma ormai di quell’ombra non c’è più traccia.

“Ehi, ti andrebbe un bicchiere di latte caldo e dei biscotti?” mi sento chiedere all’improvviso da una Judy in piedi e con la vestaglia indosso.

Non ci metto molto a risponderle e dopo essermi messa a mia volta una vestaglia, ci dirigiamo in punta di piedi in cucina, dove riscaldiamo due tazze di latte e iniziamo a mangiare i biscotti, in fondo che male potranno mai farmi, se non tirarmi su di morale?
Ce ne stiamo in silenzio, sorseggiando la nostra bevanda calda e smangiucchiando, quando, mi decido a porre alla mia amica la fatidica domanda.

“Tu la conosci la mora dagli occhi azzurri?”

“Chi, quella antipatica?!” chiede a sua volta Judy, sollevando la testa dalla sua tazza.

Fingo di non capire, ma sono estremamente contenta che stia antipatica anche a lei, vuol dire che non sono io quella che si è posta male nei suoi confronti.

“Se dici quella che fa il filo a Garreth, sì, la conosco.” risponde secca e inacidita lei.

Figurati io.

No! Non me ne deve importare niente.

Niente!

“Perché ti interessi di lei?”

“Così.” faccio spallucce, prendendo un biscotto dal barattolo. “Ho avuto quasi ‘l’onore’ di parlarci.”

“Non va a genio a molti, nel branco, ma suo padre era il beta del padre di Garreth e… il beta è la figura subito sotto l’alfa, in pratica.” mi spiega vedendo la mia espressione confusa. “Stavo dicendo… I loro padri erano alfa e beta, quindi per i buoni rapporti che c’erano tra loro, Garreth è costretto a mantenere queste apparenze.

Annuisco, poco felice della cosa, capendo adesso il motivo dei comportamenti di Garreth, mentre allungo una mano per prendere un altro biscotto.

“Comunque, non va molto a genio neanche a Garreth, infatti il suo beta è il marito di tua cugina. Ma, nonostante ciò, Julia, così si chiama, Miss-mi-do-tanta-importanza, si crede chissà chi e spera in un futuro con l’alfa.” immerge il biscotto nel latte, per poi addentarne un pezzo.

“Ah.” rimango con il cookies, l’ennesimo ormai, sospeso a mezz’aria.

“Non mi preoccuperei, fossi in te.” dice, con un mezzo sorriso sulle labbra.

“Infatti io non mi preoccupo affatto.” taglio corto, mettendo la tazza e il piattino nella lavastoviglie, seguita poi dalla mia amica.

Ce ne ritorniamo in camera, lei non fa nessuna fatica a prender sonno, io, al contrario, con la pancia piena e la testa pesante, non riesco a fare a meno di pensare a quello che mi ha detto.

 

La mattina mi risveglio con un gran mal di pancia e il mal di testa. Guardo il display del telefono per vedere che ore sono e noto che ho un messaggio.

‘Non potrai nasconderti da loro per sempre.’

Guardo pietrificata lo schermo, rendendomi conto che la figura che ho visto ieri notte, probabilmente era Garreth e che sa che io mi trovo qui. Spero solo che non li punisca per avermi dato asilo.

Perfetto.

Un bellissimo modo per iniziare la giornata.

Ci sarebbero anche altri messaggi, tra cui anche un paio nella segreteria telefonica, ma non ho nessuna intenzione di sentire le minacce o gli insulti di Garreth, ragion per cui, esco dal letto con tutta l’intenzione di vestirmi alla svelta per non perdere altro tempo ed essere di aiuto alla famiglia, trovando però solo le donne.

“Buongiorno Amira, dormito bene?” mi chiede Beth, bevendo dalla sua tazza.

“Sì, grazie.” sorrido a mia volta, mentendo.

“Vuoi fare colazione?”

Mi porto una mano sulla pancia, memore della notte agitata per colpa anche dei troppi biscotti mangiati.

“Mi basta del caffè, grazie.”

 

‘Howl
7 days to the wolves
Where will we be when they come
7 days to the poison
And a place in heaven
Time drawing near as they come to take us’1

 

Mi si gela il sangue nelle vene.
Le due donne si guardano spaesate intorno, poi capiscono che la fonte di tale strana musica è qualcosa di associato a me e si mettono a ridacchiare.

“Scusate, è il mio telefono.” borbotto imbarazzata.

“Complimenti per la scelta della suoneria.” mi dice Judy.

“E non rispondi?” mi domanda Beth.

“No, non è importante.” dico, gesticolando con la mano.

Le due donne mi guardano confuse ma appena la suoneria finisce, facendo piombare la casa nel suo silenzio naturale, tutto torna come prima, e io posso finalmente tornare a respirare con tranquillità.

“Io devo andare a lavoro, tu e Judy divertitevi.” ci dice Beth, raggiante, mentre afferra la sua borsa ed esce di fretta da casa.

“Ah, dimenticavo!” corre nuovamente verso di noi, affacciandosi in cucina solo con la testa. “Jack passava da casa di Anna a riparare la porta. Quindi lei non saprà niente.” mi manda un bacio al volo e scappa via.

“Ho delle cose da fare, oggi.” la mia amica mi porge la tazza con il caffè, ma mentre mi parla non mi guarda negli occhi. “Non ci metterò molto, tu fai come fossi a casa tua.” con un sorriso un po' forzato si allontana e dopo aver preso il cappotto dall'attaccapanni, se ne va.

Non mi ha dato modo di domandarle niente, ma il suo comportamento è molto sospetto. Vero che non la conosco da molto tempo, ma con me è mai stata così sbrigativa.
Cerco di non preoccuparmi anche di questo e dopo aver finito il caffè, decido di uscire per fare una passeggiata, benché ci sia la possibilità di incontrare Garreth, non voglio rinunciare alla mia, seppur minima, libertà.
Prendo il telefono solo per poter ascoltare la musica, dopo di che, esco di casa come al mio solito senza una meta precisa.

 

“Love's the funeral of hearts. And an ode for cruelty. When angels cry blood. On flowers of evil in bloom.”2

 

Bene, adesso ci si mette anche la mia playlist. Sembra una cospirazione contro di me.
Mi copro bene con la sciarpa, tirando fino in cima la zip del giacchetto, girovagando per le vie del paese, le mani in tasca e la testa bassa.
Mi sento molto meglio fisicamente rispetto a ieri, ma comunque sto uno schifo per come quel cretino di un lupo alfa si è comportato con me e per come io, me la sono presa.
Più cerco di non pensarci e più la mente mi riporta a quegli attimi.

Per qualunque cosa, lo sai, mi puoi chiamare a tutte le ore.” borbotto a mezza voce, imitando la voce del licantropo, sentendo la rabbia montare come la marea.

Puoi chiamare a tutte le ore… BLEAAAAH!!!”

Ma per favore! Si è almeno sentito?!

Ridicolo!

Dovrei pensare ad altro.

Devo pensare ad altro, ma non ci riesco e così facendo mi viene solo voglia di uccidere tutti gli uomini della terra e non credo che siano bei pensieri da fare.
Sospiro, sconcertata dei miei stessi ragionamenti.
Continuo a camminare, sentendo di tanto in tanto il volume della musica abbassarsi da solo, segno che qualcuno mi sta chiamando o mi sta mandando messaggi e che io, volontariamente, sto ignorando, quando, oltre alla melodia della canzone, sento, fin troppo vicino, una voce maschile che mi sta chiamando.

“Ehi, ehi… è così che saluti il tuo vecchio amico!?”

Il ragazzo lascia cadere a terra il suo borsone, spalancando le braccia e sorridendomi raggiante, come solo lui riesce a fare.

Spalanco la bocca, stupita di trovarmelo a pochi passi da me.

Oh Cristo Santo!

Edoardo!






*Angolino mio*
Le canzoni presenti sono:
1) Seven days to the wolves, Nightwish;
2) Funeral of hearts, HIM.

Non mi uccidete per un ritardo così lungo nella pubblicazione, sono stata imjpegnata nel ritorno a casa e nel trasloco... xD
Spero che il capitolo si adi vostro gradimento :-)
Vi auguro buone feste e di trascorrerle nei migliori dei modi <3 
Alla prossima ;-) 
un bacione, 
Nina 

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Capitolo 9
*** Bailando ***


Rimango a bocca aperta, ferma, incapace di muovere un muscolo o di fare un ragionamento logico.

Adesso ho anche le allucinazioni.

“Lo so, lo so…” dice sorridendo smagliante, avvicinandosi verso di me. “Ho questo effetto sulle donne.”

No, non è un’invenzione della mia mente, perché una risposta del genere solo il vero lui me la potrebbe dare.

“EDOOOOOO!!!” grido piena di felicità, saltandogli al collo e facendogli quasi perdere l’equilibrio per l’impeto. “Non ci credo! Sei tu, sei davvero qui!” nascondo il viso sul suo collo, la carnagione scura, olivastra e perennemente calda, nonostante il clima.

“Sì, tesorino. Sono davvero io e sono qui.” mi stringe a sé, per farmi capire che anche io sono mancata a lui quanto lui è mancato a me.

Dopo un attimo, a malincuore, ci sciogliamo dall’abbraccio rimanendo però sempre abbastanza vicini, tanto che le sue mani si spostano sul mio viso, gli occhi scrutano i miei, sospettosi, indagatori; mi allontana di qualche centimetro, le bracia distese per intero per avere una visuale migliore.

“Sei tutta intera? Stai bene?” chiede con voce venata di preoccupazione a stento trattenuta; di quella che non ti fa né dormire né mangiare.
E a giudicare dalle sue occhiaie e da come mi sembra dimagrito, ci sta che sia andata proprio così.
Mi chiedo cosa gli sia successo in queste settimane in cui non ci sono stata.

“Sì, sto bene.” lo guardo confusa, non capendo il motivo di così tanta apprensione.

In fondo, ci siamo sempre sentiti in questi giorni. L’ultimo messaggio risale a… a quando io ho scoperto… ooops!

“E allora si può sapere cosa cazzo ti è passato per quella testolina dura, eh?” mi rimprovera, sforzandosi di mantenere bassa la voce e di controllarsi.

“Io… io...” balbetto, senza sapere come cavarne le gambe.

“Tu cosa, Amira?”

Mi ha chiamata per nome. Brutto, bruttissimo segno.

“Mi mandi un file audio sconclusionato da un numero sconosciuto e poi non ti fai più sentire! Sei impazzita?!” alza il tono di voce, incapace di controllarsi.

Cerco di farlo calmare e di fargli abbassare la tonalità, prima che attiri troppo l’attenzione e Garreth venga a sapere – se non è troppo tardi – della sua presenza qui.

“Edo… Edo abbassa la voce, per favore!” gli metto una mano sulla bocca, sentendo il suo respiro caldo in netto contrasto con la mia mano gelata, guardandomi intorno per accertarmi che non ci sia nessuno.

Adesso cosa gli racconto?
Non credo che mi sia permesso raccontargli la verità senza delle conseguenze. Non so nemmeno se ne avrò io, figuriamoci lui che non è parente di nessuno qui. Solo amico mio, quindi sacrificabile a prescindere.

“Quel file… beh ecco… quel file mi è partito per sbaglio.”

“Che cosa?” mi guarda stranito.

“Sì, io… stavo parlando… vedi, quella sera io…”

Perché invece di trovare una soluzione pratica mi vado a cacciare sempre più nei guai?!
Mi detesto!

Mi prende il viso tra le mani, costringendomi a guardarlo negli occhi per fare in modo che non gli menta.
Non ci riuscirei a prescindere, ma in questo modo mi è completamente impossibile.

“Stai bene?”

“Sì.”

“Me lo giuri?”

“Sì, te lo giuro.”

“Allora, non devo sapere altro.” mi abbraccia di nuovo, stavolta non facendomi quasi respirare.

“Mi hai fatto morire di paura.” bisbiglia, scompigliandomi i capelli e solleticandomi l’orecchio.

Eh, a chi lo dice.

“Però mi devi spiegare perché non mi hai risposto ai messaggi né alle chiamate. Cristo, Amira, son dovuto correre fin qua, per accertarmi che tu stessi bene. Ho chiamato i tuoi, e anche a loro sembravi strana.”

“Tu, cosa?!”

Voglio emigrare in Australia. Lontana da genitori, cugine e sopratutto da lupi porta guai.

“Perché non ne parliamo a casa di Anna? Lì staremo al caldo.” suggerisco, facendomi vicina al suo borsone e al suo zaino.

E al sicuro. Sopratutto al sicuro.
Anche con una porta inesistente.

Edoardo prende si carica prima lo zaino e poi il borsone, mi si riavvicina e dopo avermi presa per mano si lascia guidare a casa di mia cugina, a passo lento e in silenzio.
È sempre stato un rapporto strano e incompreso da molti, il nostro.
Lui ancora troppo arrabbiato con me per essere sparita, io preoccupata dell’effetto che potrebbe avere la sua presenza qui.
Spero solo che sia una visita breve.
Sicuramente avrà fatto il biglietto andata e ritorno per qualche giorno, per assicurarsi che stessi bene, non avrebbe motivo di intrattenersi di più.
Nonostante ciò, sono davvero tanto felice di averlo qui; credo che sia l’unico, vero amico su cui possa sempre contare – il fatto di averlo al mio fianco in questo momento ne è una dimostrazione – con cui mi possa confidare, anche se debbo mantenere un segreto non da poco.

“Sono contenta che tu sia qui.” bisbiglio, sorridendo, appoggiando la testa al suo braccio.

“Bene, perché non ho fatto il biglietto per il ritorno e non ho una data per la partenza.”

“Cosa?!” lo costringo a fermarsi e a guardarmi.

“Non sei felice? Dicevi che questo posto è noioso e che ti mancavo. Poi Anna sarà felicissima di vedermi e di ospitarmi, ha sempre avuto un debole per me.” sorride vittorioso e pieno di sé.

Sono nella merda.

“Non puoi rimanere, Edo! Anna è incinta e tra poco partorirà. Alan, che è suo marito gelosissimo, non vorrà tanta gente in giro per casa.” cerco di aggrapparmi a qualsiasi scusa, ma Edoardo NON può rimanere qui.

Ne vale della vita sua e della mia!

“Non ti preoccupare, che Anna già lo sa. L’ho avvisata che sarei venuto a trovarti e mi ha detto che era felice di ospitarmi. In quanto a suo marito, sai benissimo che con me non ci sono problemi.” fa l’occhiolino, prendendosi gioco di me.

“E poi come fai con il gruppo?” gli chiedo, credendo di averlo messo con le spalle al muro.

Il suo viso si rabbuia.

“Ho lasciato il gruppo.” dice laconico, guardando avanti, ma non osservando niente. Piuttosto rincorrendo pensieri e ricordi che non mi dirà, non adesso almeno.

“Coooosa?! E perché mai?” quasi mi viene da urlare, sconvolta dalla notizia.

“Perché la gente è falsa e ipocrita.” dice severo, continuando a guardare davanti a sé.

“Non è una buona ragione per lasciare tutto.” gli faccio presente.

Lui era… è il ballerino migliore del gruppo, uno dei più dotati e con un grande futuro.
Glielo faccio presente, convinta che anche i suoi genitori, amici e i compagni del gruppo glielo abbiano già detto. Così, come sono sicura che il gruppo lo abbia supplicato di non andarsene, sopratutto dopo che me ne sono andata anche io.
Edoardo continua a non guardarmi e in risposta, alza le spalle.

“Che cazzo di risposta è?” sbotto allibita.

“In realtà non era più aria di rimanere lì.” dice serio, guardando davanti a sé. “E poi… tu sei qui, non potevo mica lasciarti sola.” mi bacia la tempia, arruffandomi i capelli. “E mi devi spiegare il motivo di quel messaggio incomprensibile.” questa volta punta i suoi occhi su di me, guardandomi torvo.

Non capisco perché tutti mi debbano sempre guardare male.
Sembra una cospirazione contro di me.
Non ho il tempo di rispondere, per fortuna perché avrei dovuto inventare una bugia ed io non riesco a mentire a lui, che senza essercene accorti, inizia a venir giù una fitta e incessante pioggerellina.
Casa di Anna è ancora lontana e non credo che da Judy sia arrivato qualcuno, quindi provo ad andare nel primo posto che mi viene in mente e che è anche vicino.
Corriamo, anche se ormai siamo bagnati, ridendo senza motivo, sperando che questa pioggia fredda non ci faccia venire il raffreddore.
La sala delle riunioni è deserta, nessuno al suo interno, nessuno a farle da guardia e per nostra immensa fortuna, le porte non sono state chiuse a chiave, quindi mi basta spingere la maniglia per accedervi e stare finalmente al riparo.
Mi guardo intorno con circospezione, nella speranza che non ci siano strani manifesti, mappe, o teste di cacciatori appese alla parete da dover spiegare.
A quel punto sarebbe difficile mentire o tenere segreta la loro identità.

Potrei dire che sono pazzi.

Garreth è pazzo, in effetti, ma la loro vera natura è meglio che rimanga nascosta, anche se il mio amico saprebbe tenere la bocca chiusa.
Fortunatamente per me, e anche per l’incolumità di Edoardo, non c’è niente di preoccupante da nessuna parte, solo i tavoli e le panche accatastate in un angolo della sala.
Il resto che ho visto l’altra volta, la mappa con il nostro villaggio cerchiato in rosso, i vari puntini che non so cosa stessero a significare, e molto altro, non ci sono più, segno evidente che a fine riunione debbono aver tolto tutto.
Anche se la bacheca di sughero presenta ancora dei foglietti, ma sono solo degli appunti poco significativi, almeno per quanto riguarda una persona ignara come potrebbe esserlo lui.

Sono una lista di cose da fare in vista dell’inverno.

Bene, meglio così.

Mi sembra di aver profanato un posto sacro ad essere entrata qui, con un altro essere umano, per niente al mondo avrei voluto che ci fossero state delle loro cose. Non so cosa sarebbe potuto accadere, altrimenti.
Forse Garreth mi avrebbe uccisa seriamente. Beh, mi avrebbe tolta dai piedi una volta per tutte.

Chissà se fanno sacrifici umani davanti a delle grosse pire e ululano alla luna piena.

“Ehi, tutto bene?”

Inutile dire che salto in aria come una molla.

“Cristo santo, che ti è preso?” Edo se la ride di gusto, per la mia reazione eccessiva.

“Niente, ero solo sovrappensiero.” borbotto impermalita.

Ci togliamo i cappotti bagnati e li lasciamo sgocciolare allo schienale delle sedie, mentre noi ci accomodiamo su una panca, in attesa che smetta di piovere.
Rimaniamo un attimo in silenzio, ognuno assorto nei proprio pensieri.

“E adesso cosa farai?” domando, con una nota preoccupata nella voce, sapendo quanto fosse importante per lui ballare.

“Troverò qualcos’altro. Magari mi trasferirò qui.”

Mi viene un colpo e mi strozzo con la saliva.

“Non intendi proprio qui… qui. Vero, Edo?”

Lui scoppia a ridere, mostrando una fila di denti bianchi, con un leggero spazio tra alcuni di essi.

“Anche tu mi sei mancata.”

“Non mi fraintendere, mi sei mancato anche te.” quasi urlo, ma lui qui proprio non può starci. È fuori questione.

Anche a costo di rispedirlo in Italia a calci nel didietro.
Se lo scopre Garreth sono nei guai, se Edo scopre del loro segreto e Garreth viene a sapere che lui lo sa, io sono morta. E forse Edo farà la mia stessa fine.

Questo sì che è un gran casino!

“Dico solo che questo è un paese noioso. Molto più di quello nostro.” dico cercando di ritrovare la calma.

Mi allontano dal mio amico, guardando fuori dal vetro, lo stesso punto dove l’alfa mi beccò a spiarli.

“Potremmo sempre renderlo movimentato noi.” sorride, avvicinandomisi.

Alzo la testa per poterlo guardare meglio: si è fatto crescere i capelli, adesso gli ricadono appena sul viso, nascondendogli gli occhi, a seconda di come sposta la testa. Il viso quasi completamente privo di barba, lo rende ancora più aggraziato; caratteristica che gli ha fatto morire un sacco di ragazze dietro.
Me compresa, molti, moltissimi anni fa.
Ma gli occhi sono il suo punto forte: di un marrone chiaro, caldo, come oro e miele fusi insieme. Occhi dolci a cui non si può dir di no.

Tutto l’opposto di Garreth.
Eppure anche i suoi occhi, su di me, hanno un effetto strano, ipnotico e ammaliante, di profondo e tremendamente intenso.
Di sicuro mi fanno venir voglia di mandarlo a quel paese.

“Cosa avresti in mente, sentiamo?”

Poggio le mani sui fianchi, pregando che non gli sia venuta un’idea pazza, purtroppo per me, però, lo conosco, e lui ha solo idee pazze.

“Tiriamo su una scuola di ballo nostra!”

Ecco, come dicevo!

“Tu non ci stai con la testa!”

“Noi eravamo i più bravi, Amira.”

“E tu sei il più modesto, te l’ha mai detto nessuno, questo?” gli domando, per nulla felice della sua proposta.

“Sono solo onesto con me stesso. E anche tu dovresti esserlo.” dice serio. “Apriamo una classe di ballo e insegniamo a questi paletti come ci si muove.” mi prende le mani, me le fa appoggiare sui fianchi e iniziamo a muoverci a tempo di una musica che non c’è.

“Se non sbaglio, tu hai preso anche lezioni di danza del ventre.” sorride ammiccante.

“Sì, mi sono fermata al primo livello però. E mi vergogno.” mi libero dalla sua presa, sperando che gli passi alla svelta questa sua idea folle.

Edoardo tira fuori il telefono, senza smettere di ridacchiare divertito, e dopo aver premuto le dita sullo schermo, fa partire la musica.
Inizialmente non capisco che tipo di canzone abbia messo, poi, quando la voce del cantante riecheggia nella sala, comprendo le sue intenzioni e scuoto la testa con veemenza per dissuaderlo.
Non è assolutamente il caso di metterci a ballare qui.
Non sa in quali casini potremmo andare a cacciarci.
Conosco il brano che ha selezionato, lo abbiamo usato l’anno scorso in estate, per uno spettacolo in piazza, dalla coreografia movimentata e coinvolgente.
Mi viene da sorridere a quel ricordo, e senza rendermene conto, mi avvicino a lui che ne approfitta e mi prende le mani.

“Dai Edo, adesso no...” cerco di sottrarmi, anche se il ritmo, le parole e la voglia di ballare si stanno impadronendo di me e del mio corpo.

La sua presa si fa più forte sulle mie mani, avvicinando il suo bacino al mio e iniziando a muoversi e a farmi fare lo stesso.

“Giochi sporco.” esalo, con un mezzo sorriso, che non ha niente di divertito.

In una stanza come questa, con le finestre così grandi chiunque potrebbe vederci e temo per l’incolumità di entrambi. Inoltre non è solo questo, ciò che temo e che mi demoralizza.
Non posso credere di esserci cascata ancora.
Non dopo quello che mi ero ripromessa: venire qui per iniziare una nuova vita.

E invece, niente.

Il mio amico si ferma, vedendo che io non sono intenzionata a spostarmi di un solo millimetro.

“Amira, che ti succede? Prima avresti ballato anche senza musica.” il tono di voce è preoccupato e triste, inseguendo il mio sguardo sfuggevole.

Sospiro rassegnata, allontanandomi da lui, guardando attraverso il vetro della finestra ormai ricoperto da tante, minuscole gocce; poggio una mano sulle superficie fredda ed umida, liscia, lasciandoci l’impronta deformata per poi fare dei disegni senza senso, solo per rilassare e svuotare la mente, in cerca di stabilità.

“Ero venuta qui per stare tranquilla.” dico voltandomi verso il mio amico, poggiando la schiena al vetro, sentendo il freddo attraverso la stoffa della maglietta. “I miei piani non sono andati come avevo previsto.” mi strofino la manica sul viso, portandomi all’indietro una ciocca di capelli che ormai stanno perdendo la tinta blu e tornando del loro colore naturale, come se servisse a cancellare il senso di malessere e disagio, ma purtroppo non è così.

“Si tratta di un ragazzo?” chiede Edoardo, con tatto, muovendosi verso di me e facendosi vicino vicino.

Di un uomo.
Di un lupo.
Dell’alfa.

“Sì.”

“Allora non abbiamo proprio imparato niente noi due.” ridacchia sconsolato, abbracciandomi e dandomi un bacio sulla fronte.

Sospiro ancora una volta, piegando la bocca in un sorriso amaro.
Apro bocca per chiedergli spiegazioni, ma lui poggia un dito sulle labbra per farmi tacere, ci affianchiamo al tavolo per poi scorrere tra la playlist del suo cellulare.

“Facciamo una cosa: per quattro minuti, dimentichiamoci di tutti. Balliamo.” non mi guarda mentre parla, troppo occupato a cercare la canzone, quando la trova, lascia il telefono sul tavolo e ci mettiamo al centro della stanza.

Quando capisco cosa ha selezionato, scoppio a ridere.

 

Sí, sabes que ya llevo un rato mirándote. Tengo que bailar contigo hoy. Vi que tu mirada ya estaba llamándome. Muéstrame el camino que yo voy.1

 

“Oh mio Dio, Edo! Ancora con questa canzone!?”

L’abbiamo ballata fino alla nausea con la scuola di ballo, ma io e lui, per gioco ci siamo creati una coreografia tutta nostra, molto meglio di quella impostaci dall’insegnante.

“Sì” dice prendendomi le mani e iniziando a muoversi.

La musica riempie piano la stanza con le sue note e con il suo ritmo incalzante, allegro e vivace.
I cantanti fanno risuonare le loro voci melodiche e sensuali, accattivanti, ed io inizio a sentirmi trasportata dalle loro parole, ipnotizzata totalmente.
Una mano di Edoardo mi cinge il fianco mentre l’altra tiene la mia, ci guardiamo negli occhi, complici.
Appena finisce la prima strofa, iniziamo a muoverci: da principio, il movimento è lento, come la canzone, i miei fianchi si scontrando dolcemente con i suoi, la mia gamba destra si sposta in mezzo alle sue, ruotiamo su noi stessi, spostandoci al centro, ma non appena la melodia varia il ritmo, anche noi cambiamo i nostri passi e i nostri movimenti.
Tutto diventa più veloce e ravvicinato, intimo.
Le sue mani mi allontanano, mi fanno fare una giravolta per poi adagiarsi sui fianchi e così per tutta la canzone è un continuo volteggiare, strofinarsi, sentire i fiati che si mescolano, le gambe che si uniscono. Le guance di entrambi diventano rosse, il respiro accelerato e corto, il cuore pompa e richiede sempre più ossigeno, l’adrenalina circola nelle nostre vene, dandoci la carica giusta per muoverci e ballare in sincronia.
Seguo i suoi passi, ricordandomi a memoria il ballo; Edoardo è un ballerino perfetto, è riuscito a mixare dei passi del tango argentino con la musica latino americana, creando un qualcosa di spettacolare da vedere.
Mi fa voltare, in modo che la mia schiena si impatti contro il suo torace, riprendiamo fiato per il pezzo calmo della canzone, ma quando la strofa finisce e parte il ritornello finale, ecco che mi fa voltare nuovamente, mette una mano sulla schiena, mi fa reclinare la testa all’indietro e quando la rialzo i nostri visi sono così vicini che i respiri si mescolano e si confondono, i miei capelli si attaccano al suo viso.
Ci sorridiamo complici, finendo di ballare come due forsennati tra un’ultima giravolta, per concludere gli cingo i fianchi con le gambe sporgendomi all’indietro con la schiena.
Prendiamo fiato qualche istante, ritorno con la schiena eretta e dopo avergli sorriso contenta come una bambina, scendo.
Anche lui sorride, dandomi poi un bacio sulla fronte leggermente sudata.

“Porca miseria! Avevo proprio perso il ritmo!” esclamo, prendendo dei lunghi respiri.

“Tranquilla, altri due balli con me e...”

Ma io non gli presto più attenzione, perché dall’altra parte della vetrata c’è un Garreth a dir poco allucinato.
Ci guardiamo per una frazione di secondo ma è sufficiente a farmi capire che siamo in un mare di guai.
Non so neppure se questo posto ha un’altra uscita, magari una di emergenza, ma ormai è troppo tardi, lui è appena entrato come una furia, avvicinandosi ad Edoardo che appena lo vede, smette di parlare e lo guarda stranito.

“E tu chi cazzo saresti?” ringhia, fuori di sé, spintonando prepotentemente il mio amico.

E lui, poverino, colto alla sprovvista, da semplice umano, anche se non è poi così gracile e mingherlino, non può nulla contro la forza del mannaro, si ritrova a barcollare, fare qualche passo incerto all’indietro, costretto a sorreggersi alla vetrata.

“Ma sei scemo?” gli grida di rimando Edoardo, rimettendosi in piedi per fronteggiarlo, anche se tra i due c’è un grosso divario.

“Che cosa ti prende, Garreth?” mi frappongo tra i due, trucidando con lo sguardo il licantropo che vorrebbe colpire il mio amico.

“Chi è lui Amira? Che cosa ci fa qui?”

“E’ mio amico ed è venuto a trovarmi.” quasi grido, per sovrastare la sua voce imponente, come se mi aiutasse ad essere più minacciosa di lui.

“Non può rimanere nelle mie terre. Vedi di farlo sparire. Subito.” mi fulmina con lo sguardo truce, cattivo, quasi assassino, e poi se ne va.

“Quello è tutto matto. Ma chi era?”

Edoardo mi si affianca, ancora sconvolto, ma la mia mente non bada più a lui, troppo concentrata sulla furia a due gambe che è appena andata via.
Corro fuori, pronta a inseguirlo, determinata a farmi dire il perché – quello vero, stavolta – del suo comportamento maleducato, strafottente e cattivo.

“Garreth, aspetta.” cerco di stargli al passo, ma va troppo veloce, così sono costretta quasi a corrergli dietro, seguendolo fin dentro il bosco.

Alzo la voce per richiamare la sua attenzione ma lui finge di non sentirmi, e si addentra sempre di più nel fitto della vegetazione.

“Ti ho detto di aspettarmi, brutto bestione!” urlo, stringendo le mani a pugno.

Con stupore, mi accorgo che ottengo finalmente ciò che volevo: Garreth si ferma; continua però a darmi le spalle, quindi devo mettermi di fronte a lui.

Un gigante e una bambina.

“Si può sapere cosa ti è preso?”

Cala il suo sguardo infuocato su di me; i suoi occhi sono braci ardenti di ira, rabbia e un altro sentimento che non riesco a riconoscere.

“Se ne deve andare. Non deve rimanere un giorno di più.” la sua voce non ammette repliche da parte mia, è categorica, profonda e minacciosa.

Forse andrà bene per quelli del suo branco, ma io non ne faccio parte e non devo – non voglio – farmi intimidire.

“No. Edoardo è mio amico ed è venuto a trovarmi.” ribadisco il concetto, dal momento in cui non sembra essergli entrato bene in testa. “Non puoi mandarlo via.”

“Io posso fare quello che voglio. Sono l’alfa.” ringhia, come avvertimento, per rimarcare la sua autorità.

“Non sei il mio capo, però! Non puoi dirmi cosa fare.” mi devo trattenere per non urlare ancora.

“Ah, no?! Non posso?” soffia come un gatto inferocito, vicino al mio viso.

“Sì può sapere perché stai dando tanto di matto?” chiedo sempre più incredula dalla sua reazione dannatamente eccessiva. “Non sapevo sarebbe venuto a trovarmi, non mi aveva detto niente, è stata una sorpresa anche per me.” gli faccio sapere, anche se odio dovermi giustificare, tanto più con lui. “E se è per il vostro segreto, stai pur certo che non verrà a saperlo, non da me!” sbraito, a corto di pazienza.

L’unico motivo per cui sono qui è per convincerlo a farlo rimanere e a non farlo sbranare da uno dei suoi. Dopo il modo in cui mi ha abbandonata in infermeria, non ho intenzione di infastidirlo ancora con la mia presenza.

“Puoi starne certa!” sibila, sempre più vicino al mio viso, costretto quindi, a piegarsi perché troppo alto. “Anche perché farebbe una brutta fine.”

A questa minaccia, ringhiata, sputata con così tanta cattiveria, indietreggio spaventata.
Lo guardo negli occhi, le pupille gli si sono dilatate, lo sguardo è profondo e terribilmente minaccioso, come le parole appena dette.

“E potrebbe farlo per molto meno se si azzarda ad avvicinarsi alla mia gente, al villaggio o a te...” detto ciò, mi supera, senza aggiungere altro, lasciandomi sola nel bosco.

Rimango impietrita, ferma in mezzo alla vegetazione, col freddo che mi sta penetrando fin dentro le ossa e non solo per la mancanza del giacchetto, ma anche per la paura delle sue parole, che sto rielaborando, traducendo con calma quello che mi ha detto, benché non ce ne sia bisogno perché ho capito benissimo: se rivede Edoardo lo farà fuori.

Ma io cosa c’entro?
È mio amico, è normale che stia insieme a me.
Perché ci devo essere sempre di mezzo?

Me ne ritorno al villaggio, abituata a percorrere questi boschi e quando sono davanti alla sala delle riunioni, trovo la causa dei miei problemi… no, è Garreth il mio unico vero problema, lui è solo Edoardo, il mio amico, che mi aspetta con il giacchetto tra le mani e le valige in terra.

“Chi diavolo era quello?” mi chiede risentito. “E perché diamine l’hai rincorso in mezzo al bosco?”

Mi pare quasi di scorgere una punta di gelosia nella sua voce. Invece di aiutare lui che era stato appena aggredito, sono andata dietro al suo aggressore. Sono una pessima amica.
Ci incamminiamo verso casa di Anna, ma dentro di me sono combattuta.
Garreth ha minacciato di fargli del male se lo dovesse vedere al villaggio, in mezzo alla sua gente – escludo che di me gli interesse realmente qualcosa, l’avrà detto solo nell’impeto dell’ira – ma non ha un altro posto dove andare al momento e Burnside è troppo lontana senza una macchina, e poi come glielo spiegherei?

‘Te ne devi andare perché il capo supremo dell’universo non ti vuole?’

“Lui è Garreth, diciamo che è una sorta di capo villaggio.” in fondo, non è una bugia e pare convincerlo abbastanza.

“E questo è il benvenuto che da a tutti? Anche tu hai ricevuto lo stesso trattamento?” chiede sarcastico, guardandomi con un mezzo sorriso.

“Diciamo che anche il mio non è stato dei migliori.” sospiro affranta, ricordandomi quel giorno.

“Ora capisco perché credevi che fossi finita in un paese di matti…” guarda avanti, con aria seria, per poi tornare a guardare me. “Perché ci sei finita veramente!” si mette le mani nei capelli, lo sguardo allucinato.

La mia reazione è quella di scoppiare a ridere, dandogli nel frattempo ragione.
L’attimo dopo ritorno in me, ricordandomi della minaccia molto esplicita dell’alfa, guardandomi intorno per vedere se in giro c’è qualcuno che ci possa vedere; se non altro, mi è di conforto sapere che nessuno potrebbe capirci.
Siamo quasi arrivati a casa di Anna ed io devo avvisare Edo che per un po' saremo senza porta, causa disguidi vari, ma quando arriviamo davanti, mi fermo imbambolata a guardare un portone nuovo di zecca, con tanto di spioncino.

“Perché ti sei fermata?” mi viene chiesto dal mio amico, ormai già sotto il porticato.

Allora Jack è riuscito ad aggiustare la porta ed io non l’ho nemmeno ringraziato. Sono proprio una gran maleducata.

“Aspetta Edo, devo fare una chiamata.” detto ciò, mi allontano e inizio a cercare il suo numero nella rubrica.

“Cosa?! Ma non puoi chiamare dentro?!” si lamenta giustamente lui, ma ormai non lo ascolto più.

“Amira, tutto bene? È successo qualcosa? Si tratta di Judy?”

“Ciao Jack, no, non è di Judy che ti volevo parlare, ma della porta di casa di Anna, ti volevo dire gra...”

“Oh Dea Luna, mi dispiace Amira, ma proprio non ho avuto il tempo di aggiustarla!” si scusa lui, e lo posso vedere con l’espressione del viso abbattuta.

Io mi raggelo sul posto, a qualche passo dalle scalette di casa.

“E’ che l’alfa mi ha dato così tanti incarichi che proprio non mi ci sono avvicinato a casa di tua cugina. Sono così desolato. E poi scusa, non torni a dormire qui?” chiede, preoccupato.

“No, io… ho un’ospite… E… Ecco, poi ti spiego, ma adesso è tutto risolto, non ti devi preoccupare, Jack.” gli dico, senza trovare le parole giuste, non capendo più niente.

Da dove è sbucata la porta? Dal cilindro del mago?!

“Sei sicura? Può rimanere anche il tuo ospite da noi, se volete.” dice lui, ospitale come sempre.

“No! No, grazie non importa. Scusa, ma adesso devo andare.” cerco di tagliare corto, per evitare altri guai, sopratutto non voglio essere un problema per loro.

Chiudo la conversazione, ancora confusa su chi possa essere stato ad aggiustare la porta d’ingresso.
Forse Eric… ma non ricordo se gliel’ho detto o meno.
Poi sento squillare il telefono. Mi è arrivato un messaggio.

Guardo il display e il cuore non potrebbe schizzarmi in gola più di così.

‘Ragazzina, vedi di non darmi un altro motivo per farmi sfondare anche questa porta.’

Non ci credo.

“Amira, ti senti bene? Sei sbiancata.” dice Edo, preoccupato, facendomi spostare il viso verso il suo, per potermi osservare meglio.

Ci credo che sono sbiancata, vorrei vedere lui, al posto mio.
Mi giro di scatto, guardando il prato deserto e scrutando tutt’intorno, ma non vedo nessuno; nessuna traccia di Garreth nemmeno in lontananza tra gli alberi, ma sono sicura che lui sia nelle vicinanze, che lui riesca a vedermi o che sappia che sono a casa di Anna, altrimenti non mi spiego questo messaggio, proprio adesso.

“Sì, sto bene. Forza, entriamo.”

Spingo Edo dentro casa, intenzionata a non uscirne mai più.







*Angolino mio personale della ritardataria cronica*
Buon salve a tutte/i xD

Non sono morta nè sparita, anche se lo potevo sembrare.... Scusate il ritardo allucinante... sembrava impossibile, ma alla fine ce l'ho fatta... 
Spero che vi piaccia e che vi abbia fatto sorridere almeno quanto ha fatto sorridere il mio beta :D

Un beso grada para todos <3

Note:
1: Despacito, Luis fonsi

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Capitolo 10
*** Incontri ravvicinati ***


Sono passata dai Morrison per ringraziarli e riprendermi le poche cose personali che avevo lasciato, avvisandoli che avrei avuto un ospite e che avrei dovuto badare a lui durante il suo soggiorno.

“E’ il tuo ragazzo?” mi aveva chiesto Judy, a bassa voce, cospiratoria, e con un’espressione ammiccante.

“Cos… NO!” le ho quasi urlato in faccia, tanto da far voltare verso di noi il resto della famiglia.

“E’ solo un amico, credimi. Tra di noi, non potrà MAI esserci niente.” le ho assicurato, sperando di convincerla per non farla andare a giro e farle dire che Edo è il mio ragazzo.

Ci mancherebbe solo questa.

Lei, però, mi ha sorriso, come chi non ci crede e mi ha salutata dicendomi che ci saremmo riviste a giro e che glielo avrei dovuto far conoscere.
Certo, così poi Garreth avrebbe sbranato anche lei.
Perché l’alfa non può essere come lei, amichevole, sociale e cordiale con tutti? Anche con gli umani?
Non siamo mica tutti dei cacciatori, uccisori di licantropi.
Non dovrebbe essere così… così… chiuso e razzista. Ecco!
Sto ripensando a questo e anche alla sfuriata del ‘Grande Lupo’ in questione non appena mi ha visto ballare con Edoardo.
Capisco che tema per il suo branco e lo voglia proteggere ad ogni costo, ma minacciare lui e me, mi pare esagerato, dal momento in cui ha capito – dovrebbe averlo capito almeno – che da me, quindi anche da Edoardo, non ha niente da temere.
Se solo avesse un po' più fiducia negli altri… se solo ce l’avesse in me.
Se si fidasse di me, saprebbe che io per prima non andrei a sbandierare ai quattro venti il loro segreto, nemmeno al mio migliore amico.
Ma no!, lui deve fare lo schizzato isterico da capobranco mestruato e aggredire tutti perché lui è il ‘Grande e Potente alfa Garreth’!
Ma fammi il piacere!
Grande e grosso e poi fa tanto il cagnolino ammaestrato con quella smorfiosa moretta.

Ho il vomito!

Continuo per la mia strada, passando per la piazza, con la speranza che la camminata mi aiuti a calmarmi e a farmi riflettere con lucidità.
Oggi c’è un gran movimento per il paese, incontro e saluto alcune persone, principalmente amici di Anna ed Alan, che mi chiedono loro notizie.

“Stanno bene. Si rilassano. Torneranno tra qualche giorno.”

Almeno loro due si stanno godendo il meritato riposo e il relax che sono andati a cercare, nella casa paterna di lui.
Infilo le cuffie e starei per far partire la musica, ma alcune voci concitate catturano la mia attenzione e mi spingono ad avvicinarmi al gruppetto di persone, per sentire meglio cosa dicono.
Fingo comunque di stare per conto mio, di non badare a loro, di ascoltare la musica, senza nemmeno alzare lo sguardo da terra o dal display del telefono, ma con le orecchie sto ben attenta.

“E’ essenziale trovarlo!”

“Sappiamo che si nasconde da queste parti… non lo possiamo permettere.”

A parlare sono due uomini, ma a parte questo non riesco a capire altro su di loro.

“E noi non lo permetteremo!”

Questa voce la potrei riconoscere ovunque.

Garreth.

Il resto del gruppo si ammutolisce, in attesa che lui continui a parlare; ed anche io, spinta da una forza invisibile, forse magica, alzo la testa aspettando che l’alfa finisca il suo discorso.

“Sappiamo che è un maschio, giovane, sui 25-30 anni. Corporatura esile, alto circa un metro e settanta. E sopratutto: è umano.”

Non ci posso credere.

Edoardo.

Gli sta dando la caccia.

Alzo la testa, consapevole che Garreth stia facendo sul serio, ed ecco che i nostri sguardi si incrociano per un breve, interminabile, spaventoso momento.
Sconvolta dal suo odio nei nostri confronti e anche terrorizzata dalle sue decisioni drastiche, non lo lascio avvicinare quando lo vedo prendere congedo dal gruppo dei suoi, muoversi verso di me e voltandogli le spalle inizio ad allontanarmi, correndo quasi, ritornandomene a casa di Anna per spedire il mio amico così tanto indesiderato a casa, anche a costo di doverlo prendere a calci nel sedere.
E a questo giro non voglio sentire obiezioni da parte sua, salirà sul primo volo, dovessi portarcelo io stessa. Dovessi andare con lui per non rimettere più piede in questo posto di matti.
Entro in casa, trovandolo seduto sul divano, in attesa del mio ritorno.

“Mira, va tutto bene?” chiede alzandosi e venendomi incontro, usando il solito nomignolo di sempre.

Non gli rispondo, ma cerco con lo sguardo le sue valigie ancora da disfare, poste educatamente in un angolo per non essere d’intralcio – a chi poi, siamo soli - .

“Te ne devi andare. Devi andartene subito.” trascino verso di lui i suoi borsoni – non sembravano così pesanti quando li portava – e glieli piazzo davanti ai piedi.

“Ma che stai dicendo?” mi domanda, senza realmente capire.

“Sto dicendo che devi andare via, immediatamente.”

Non riesco nemmeno a guardarlo negli occhi, sono una codarda. “Non puoi rimanere.” gli volto le spalle, incapace persino di sapere che lui mi sta guardando.

“Non puoi lasciarti condizionare da quel pallone gonfiato. Non è giusto.” si lamenta, allibito dal mio cambiamento repentino di idee.

Lo so benissimo pure io che è una cosa del tutto ingiusta, ma come faccio a farglielo capire che lo sto facendo per il suo bene, per la sua vita, senza rivelargli niente del segreto?
Che situazione del cavolo!
Mi porto le mani tra i capelli, cercando di non avere una crisi di nervi, ma credo che sia troppo tardi.

“Tesoruccio, che ti succede?” mi si mette di fronte, poggiando le mani sulle spalle e massaggiandole delicatamente. “E’ successo altro mentre eri fuori?” mi bacia una tempia.

Solo che il suo gesto, anziché rilassarmi, mi manda ancora di più su di giri.

“Che palle! Che palle! Che palle!” sbotto urlando, allontanandomi da lui, con gesto repentino e stizzito.

Non è giusto che Edoardo se ne debba andare e che io mi comporti da vigliacca, lasciando che Garreth gli dia la caccia senza una ragione, solo perché… non lo so!
Il mio amico mi guarda sempre più confuso, vorrebbe farmi una marea di domande, ma sa bene che in questo momento non otterrebbe nessuna risposta, solo la mia completa furia; perché ovviamente non sa niente delle persone del villaggio, figurarsi se può sapere cosa mi passa per la testa.
Io ho il dovere di tentare almeno di spiegare – posso provare – a Garreth che Edoardo non è una minaccia e che non c’è bisogno di essere così crudeli.
Sì, farò così.
Andrò a parlarci e gli farò cambiare idea.
Se lo ha infastidito la nostra presenza nella stanza delle riunioni, chiederò scusa e non ci vedrà mai più lì e se invece è così cattivo e perfido che non vuole né scuse né dare seconde opportunità – dovrebbe ancora dare la prima, ma sorvoliamo – vorrà dire che me ne andrò via con Edo e ce ne ritorneremo entrambi in Italia, in questo modo non avrà mai più a che fare con due essere umani.

“Tu rimani qui, io torno subito. Fai come fossi a casa tua.”

“Ehi, ma adesso dove vai?” lo sento gridare, sconcertato, ma ormai ho già imboccato la porta d’ingresso e non gli risponderò.

Sono convinta che prima o poi, uno di loro due, mi ucciderà e conoscendo i caratteri di entrambi, so già chi sarà.
Sta calando il sole e con esso anche una fitta nebbia.
Mi stringo nel cappotto e a passo deciso, mi dirigo a casa di Garreth, rallentando l’andatura solo quando mi trovo in prossimità della villetta e vedo che tutte le luci sono spente.
Solo adesso realizzo che potrei avere fatto una mossa azzardata a venir qua, senza la certezza di trovarlo, perché potrebbe essere a giro o dalla sua amichetta Julia.
Decido comunque di fare un tentativo e con un passo meno convinto, mi avvicino alla porta d’ingresso. Sbircio attraverso una finestra per vedere se c’è del movimento, ma l’interno è buio e non si vede poi molto.
Prendo un respiro profondo e busso alla porta.
Trascorre qualche istante prima di sentire dei rumori, dei passi pesanti e subito dopo, vedere Garreth oltre la porta con un’espressione stupita dipinta in volto.
È meravigliato di vedermi qui.
Forse pensava che sarei scappata via spaventata. Oppure non aspettava me.
Su una cosa, però, ha maledettamente ragione: ho paura.
Di essere qui, perché non so come andrà a finire; paura che le mie parole non siano abbastanza convincenti e paura di lui, del suo sguardo assassino e ipnotico, del suo carattere imprevedibile ed irascibile e cosa che temo più di tutto è il mio, di comportamento, totalmente fuori dal mio controllo quando sono con lui.
Perché riesce a mandarmi fuori di testa in tutti i modi che esistono e mi fa fare, pensare e sperare cose che non dovrei nella maniera più assoluta desiderare, non con un tipo come lo è Garreth.
Però adesso sono qui e lui mi sta guardando, in attesa che gli dica il motivo della mia visita.
Raddrizzo la schiena, gonfio il petto, prendo fiato e sono pronta a far valere le mie ragioni.

“Dobbiamo parlare.” sono risoluta, senza tremolio nella voce, trionfando già per questa microscopica vittoria.

Ma Garreth, come al suo solito, mi spiazza.

“Va bene.” dice calmo e accondiscendente. “Immagino che tu preferisca stare al caldo, forza entra.” apre di più la porta, si fa da parte in modo tale da lasciarmi spazio per entrare.

Il suo tono e i suoi gesti mi fanno perdere momentaneamente la voglia di litigare e con mille pensieri che mi affollano la mente, mi lascio guidare nella cucina dove sono già stata.
Mi sembra una vita fa, quando sono stata trascinata qui contro la mia volontà.
Chissà come sarebbe finita se fossi rimasta… non sarebbe finita in nessun modo perché lui mi avrebbe comunque abbandonata da Eric, troppo occupato a fare le cose da alfa con la morettina.
Mi ribolle il sangue alla sola idea.
Ed è questo pensiero che mi da nuovamente la carica.
Nel frattempo lui ha riempito il bollitore e messo a scaldare sulla piastra, preso due tazze adagiandole sulla penisola.

“Senza zucchero, vero?” mi domanda, ma se lo ricorda benissimo a quanto pare.

“Garreth, dobbiamo parlare.” cerco di essere più tranquilla mentre parlo, ma sento già la voce che sta per tremare, insieme alle mani.

“Sì, lo avevo capito già la prima volta che lo hai detto.” ridacchia divertito dalla situazione.

Mi mordo la lingua per non mandarlo subito al diavolo, ricordandomi il motivo per cui sono qui, rendendomi conto che entrare nella tana del lupo – letteralmente – non è stata una delle mie mosse più geniali.

“Tu non puoi farlo.”

“Fare cosa?” mi domanda di rimando, come se non capisse a cosa sto alludendo.

Intanto, ha versato l’acqua bollente nelle due tazze, immergendo successivamente anche i filtri degli infusi. Lo guardo, rapita dai suoi gesti, dimenticandomi per un breve istante quello che ho da dire.

“Non fare finta di non saperlo, non gli puoi dare la caccia.” mi avvicino alla penisola, stando ben attenta a non essere troppo vicina a lui.

Il suo sguardo si rabbuia, perde quel poco di amichevole che aveva e persino i suoi lineamenti sembrano farsi più duri.

“E perché non dovrei, di grazia?” mi canzona.

“Mi pare ovvio...” dico allibita dalla sua faccia tosta. “Perché è una cosa crudele e ingiusta.”

Sbatte con violenza la tazza sul tavolo tanto da farmi credere che l’abbia rotta o anche solo scheggiata, continuando a guardarmi con due occhi accesi d’ira.

“Ingiusto e crudele è quello che lui ha fatto. Noi rispondiamo solo con la sua stessa moneta.” si trattiene a stento dal ringhiare anche contro di me, e la sua furia tenuta difficilmente sotto controllo, mi spingono a fare un passo indietro.

“Come puoi dire una cosa come questa? Lui è...” la voce adesso mi trema e mi pento seriamente di essere venuta.

Era meglio levare le tende e tornare in Italia.

“No, TU come puoi venirmi a chiedere una cosa simile, dopo che ad uno di loro gli hai sparato e che hai rischiato la tua stessa vita per me e la mia gente, per ben due volte!” gli viene quasi da gridare.

“Perché devi sempre mettere di mezzo i cacciatori e quella sera?” sbotto, al limite anche io, della pazienza. “Edoardo è un mio amico, non è un cacciatore!” questa volta urlo, fuori di ogni grazia. “Stavamo solo ballando, non facevamo del male a nessuno. Perché lo vuoi uccidere come se fosse un tuo nemico?” mi sono spuntate le lacrime agli occhi e ormai le mani hanno perso ogni fermezza.

“Si può sapere di che cosa stai blaterando?” alza un sopracciglio, e tornando con la schiena dritta, pare calmarsi un poco.

Sorvolando sul termine che ha usato, perché io non ‘blatero’, cerco di darmi una controllata a mia volta, cercando di spiegargli il motivo della mia visita.

“Io… io mi riferivo a quello che hai visto… a quello che hai detto a me e al mio amico.” non riesco a trovare le parole giuste per sembrare meno sciocca di quello che mi sento.

Temo che ci sia stato un terribile malinteso ed adesso non so come uscirne.

“Sto dando la caccia a uno di quei farabutti che ha quasi ucciso uno del clan alleato. Non ho tempo da perdere con i bambini come voi.” ribatte risentito, ma molto meno adirato.

“Ah no? Scusami, forse sei troppo occupato ad aiutare la morettina che ti fa gli occhi dolci; così impegnato che ti dimentichi che io sono in un letto d’infermeria ad aspettarti.” gli ringhio contro, alzando la testa per fronteggiarlo ed avvicinandomi.

Ormai lui ha oltrepassato la penisola e siamo faccia a faccia.

“Ho visto che hai già trovato chi ti consola.” sputa inacidito all’inverosimile, riferendosi ad Edoardo.

“Ma io stavo aspettando te. Volevo te!” urlo, picchiettando un dito al suo petto.

Tardi, troppo tardi, mi rendo conto di quello che mi sono lasciata sfuggire, e sapendo che non ho modo per tornare indietro e cancellare ciò che ho detto, gli volto le spalle pronta a darmela a gambe levate.
Beh, guardiamo il lato positivo: non vuole far fuori Edo.
Ho la mano sospesa a mezz’aria, pronta ad afferrare la maniglia quando mi sento prendere per il polso e girare verso Garreth, che senza darmi il tempo di capire, mi tira a se baciandomi con una foga disarmante.
Le sue labbra catturano le mie, mentre con una mano mi tiene ferma per la nuca infilando le dita tra i capelli, e l’altra la posa poco delicatamente sulla schiena.
Non mi lascia tregua, né un attimo per rendermi conto di quello che sta accadendo e come ci siamo finiti.
La mia mente è totalmente annebbiata dalle sue labbra che non mi lasciano scampo e alzandomi sulle punte dei piedi, in maniera decisamente più goffa, cerco di ricambiare senza sapere – forse nemmeno lo voglio – perché lo sto facendo.
È come se ogni cosa fosse andata al suo posto, peccato che l’unica che non lo sia, sono io.
Perché un uomo come lui, una creatura magnifica come Garreth, si dovrebbe abbassare a baciare una come me?
Approfitto del momento in cui i suoi denti non mi stringono le labbra per allontanarmi, troppo imbarazzata per avere la forza di guardarlo.
Sento la bocca pulsare e le guance andare a fuoco, nonostante la mia domanda sia sempre lì, vorrei poter replicare quello che abbiamo appena fatto.
Il martellio del cuore mi impedisce di parlare e di prendere profondi respiri. È come se avessi corso una maratona, stando sempre ferma al solito punto.
Il silenzio che aleggia sopra di noi, non mi sta aiutando e interpretare il suo mutismo dietro il quale si è trincerato, un chiaro segno di pentimento dal quale non sa come uscirne, non giocano in mio favore.

Perché l’avrà mai fatto, mi domando.

Vorrei poter aprire bocca e dare voce a questa domanda, ma temo che avere la risposta lampante mi sconvolgerebbe più del suo stesso gesto.

E se fossi io a baciarlo?

Magari aspetta una mia mossa e anche lui starà pensando le stesse cose su cui sto riflettendo io.
No, queste sono solo vane illusioni di una povera sciocca.
Non credo che gli potrebbe far piacere una tale mossa, da parte mia.
Adocchio nella sua direzione, vedendo così che mi sta scrutando con i suoi occhi magnetici e profondi e lo sta facendo con una intensità caparbia che pare mi voglia leggere la mente e oltrepassare la carne.
Distolgo lo sguardo, colpevole di essermi fatta beccare a guardarlo.

“A cosa stai pensando, ragazzina?” la sua voce si è fatta più roca, bassa, lenta e ipnotica, ma sempre indagatrice ed autoritaria.

Che ti salterei addosso, in questo preciso istante.

“Forse è meglio se me ne vado.” dico con un filo di voce, sentendo le guance andare ancora una volta a fuoco.

Quest’uomo è in grado di farmi pensare a cose mai pensate prima.

“Meglio per chi, per te?” domanda subdolo, provocatorio, e leggermente infastidito.

“Per entrambi, credo.” sono onesta ed oso alzare il viso verso di lui, trovandolo ancora a guardarmi ma stavolta in modo totalmente diverso: come se si stesse trattenendo dal saltarmi addosso.

Non capisco però se è per sbranarmi una volta per tutte o per replicare quello che abbiamo fatto un minuto fa.

Dio santo, mai visto uno sguardo così intenso in una persona.

Si avvicina pericolosamente a me, tanto che riesco a sentire il suo calore nonostante gli abiti, china il viso e i suoi capelli mi solleticano la fronte e il naso, il suo profumo mi manda completamente fuori di testa.
Cerco di respirare normalmente, non badando al suo odore, di tenere sotto controllo il battito impazzito del cuore per non farglielo sentire, ma con lui così vicino è del tutto impossibile.

“So che lo vorresti rifare, sento il tuo odore.” dice provocatorio, bisbigliandomi nell’orecchio e soffiando aria calda, producendo in me brividi lungo il collo e la schiena.

Con la mano dietro di me, cerco la maniglia e quando finalmente la trovo mi blocco, colpita da un pensiero.
Me ne voglio davvero andare? È veramente ciò che desidero?
La testa dice sì.
Il cuore supplica di no.
Il mio buon senso mi dice di girare la maniglia e andarmene, ma non credo di aver avuto così poco buon senso come in questo momento e mettendo a tacere le parti del mio corpo che mi vorrebbero lontana da lui, assecondo, invece, quelle che mi spingono tra le sue braccia.
Mi stacco dal pomello e affondando le dita tra i suoi capelli, lo bacio con un’irruenza che inizialmente lo lascia sorpreso.
Garreth ritorna presto padrone della situazione, e spingendomi contro la parete, mi fa sentire ancora la sua lingua e il suo sapore.
Mugolo colta alla sprovvista quando mi solleva con agilità, facendomi incrociare le gambe intorno al suo bacino, avendo in questo modo la possibilità di assaporarmi; le sue mani vagano sulla nuca, all’attaccatura dei capelli, per inclinarmi la testa ed avere un accesso migliore.
Mi stacco dalle sue labbra, costretta a boccheggiare per riprendere fiato, non sapendo come fuggire da questa posizione intima.
Certo, l’ho baciato e tutto ciò che ne è conseguito, ma non credo di essere ancora pronta per fare un altro passo avanti, anche perché è tutto confuso, è accaduto così alla svelta e non sappiamo quello che verrà dopo.

“Io… è meglio se… se vado.” dico al limite dell’imbarazzo, cercando di non guardarlo negli occhi, nemmeno fosse la Medusa e ci fosse il pericolo che mi tramuti in pietra.

“Va bene.” dice calmo e accondiscendente, ha gli occhi che gli brillano e un mezzo ghigno stampato sulla bocca. “Forse è meglio se prima scendi, che ne dici?”

Guardo lui, poi il pavimento, ritrovandomi ancora sollevata di circa mezzo metro.
Una volta poggiati i piedi a terra, sento immediata e prepotente la sua mancanza, ma a questo giro, mi impongo sui miei sentimenti e cerco la forza per parlare.

“Adesso dovrei andare.” bisbiglio, le parole intrappolate nella trachea, giocando con la punta delle dita per scaricare la tensione che mi sta corrodendo.

Vorrei, però, che non mi lasciasse andare.
Caccio via questo stupido pensiero, ben sapendo che non è normale, che io non lo sono e che tutta questa situazione non lo sia, ma la curiosità di sapere a cosa stia pensando, se si è pentito o se lo voglia rifare, se per lui è stato solo un enorme sbaglio oppure…

Oppure niente!

Non mi devo fare illusioni e vane speranze con un uomo… una creatura come lui, tanto meno con lui.

Questa volta la maniglia la afferro con decisione e in maniera molto più convinta la spingo verso il basso, aprendo la porta.

“Ciao Garreth.” esalo accorata, con gli occhi imploranti, nonostante le mie stesse raccomandazioni.

Gli volto le spalle, pronta – si fa per dire – ad uscire e gettarmi verso l’ignoto.

È probabile che da tutto questo ne nasca qualcosa, dato che non posso affermare di conoscerlo con certezza, ma quel poco che ho visto del suo carattere è più plausibile che tutto finisca qui. Posso sempre dire di aver avuto un’avventura estiva, fatta in pieno inverno.

Che consolazione del cazz…

Mi volto verso Garreth che in un attimo mi ha richiuso la porta in faccia, tenendola ferma con una mano. Aspetto che dica qualcosa, il cuore palpitante, e non solo per la paura del suo gesto, ma dalle sue labbra non esce niente. Nemmeno un rantolio sommesso.
Prende profondi respiri, le pupille dilatate e lo sterno che si alza e abbassa al ritmo del battito del suo cuore.
E in un impeto di smisurata intraprendenza, parlo io.

“Garreth, io so… credo di sapere quello che voglio. Tu lo sai?”

Il suo braccio crolla così come la sua determinazione e ciò mi da la conferma, seria e inoppugnabile, che non vogliamo la stessa cosa.

“Ciao, ci si vede a giro.” perfino dire il suo nome, adesso, mi fa venire male al cuore.

Mi incammino velocemente lontano da casa sua, diretta nell’unico posto in cui voglio stare adesso: tra le braccia di Edoardo.
Quando sono finalmente tra le mura di casa e lo trovo seduto sul divano, intento a leggere un mensile per le neo mamme, corro da lui che prontamente mi stringe a sé, senza remore.

“E’ tutto un grande schifo.” dico rassegnata, parlando sopra la sua maglietta, ma iniziando a stare già un pochino meglio.

Mi accarezza i capelli e quando è sicuro che sia passato un poco il malumore, mi scosta da sé per guardarmi ed asciugarmi le due piccole lacrime nate agli angoli degli occhi, senza che me ne rendessi conto.
Non fa domande, non indaga sul perché o sul come, in questo momento sa che ho bisogno della sua vicinanza e null’altro.

“Perché non ci spariamo una maratona di cartoni animati, mangiando un sacco di schifezze?” propone dopo un breve attimo di silenzio, trovandola l’idea del secolo.

Rido divertita dalla sua proposta, perché non è la prima volta che me la dice, sopratutto in situazioni come queste, ed è per questo motivo che accetto senza problemi, felice di averlo al mio fianco.
E in un batter d’occhio, abbiamo preparato i pop-corn, i sandwich al burro d’arachidi e il barattolo di Nutella, trovato nella dispensa, che Anna aveva nascosto dietro a tutti gli atri barattoli, decisamente più alti, per custodirlo gelosamente.
Ce ne ritorniamo in salotto, con la nostra scorta, dando il via alla nostra maratona.

 

Tre giorni sono passati e non ho ancora ricevuto notizie di Garreth, né ho avuto modo di vederlo. È come se fosse sparito dal villaggio e dalla faccia della Terra.
Per fortuna, non sono mai rimasta sola, c’è sempre stato Edoardo con me, perché anche Judy e il suo gruppo avevano misteriosamente da fare con alcuni preparativi per non so che cosa, perché non mi è stato detto, e non ci siamo mai viste.
Credo che questo riserbo sia stato un ordine del grande alfa per tenermi e tenerci all’oscuro dei loro affari.
Una sorta di vendetta, ma spero proprio di no, perché se dovessi venire a sapere che ha dato ordine di evitarmi anche agli altri membri del branco, potrebbe ritrovarsi con una spiacevolissima sorpresa alle gomme del suo fuori strada.
Con questi pensieri vendicativi, vado intanto a fare rifornimento nell’alimentare del villaggio per poter cucinare qualcosa per il pranzo e, in teoria, tra un paio di giorni dovrebbero tornare anche Anna ed Alan, quindi ho tutta l’intenzione di far trovare loro la dispensa piena e la casa impeccabile.
Cammino assorta e soverchiata da mille domande che da qualche giorno non mi lasciano più in pace, facendomi dormire poco e mangiare ancora meno. Non si è più fatto sentire, quando fino a poco fa faceva tanto il grosso con frasi “Il mio villaggio”, “Le mie terre” e gnè gnè… e poi sparisce!
Bell’alfa!
Almeno si assumesse le sue responsabilità!
È lui che mi ha baciata e io, certo, non mi sono tirata indietro, però non gli sono saltata al collo – non la prima volta – se non voleva ci doveva pensare prima. Se è per il fatto che sono umana, beh, l’ha sempre saputo e anche per questa ragione, se non voleva impelagarsi con una come me, sarebbe bastato che ci pensasse prima, perché io non mi sarei MAI azzardata a fare la prima mossa.
Ascolto la playlist che mi ha selezionato Edo, un mix di metal classico e folk, cercando di concentrarmi sulle parole incomprensibili della cantante e di non pensar più a quel energumeno borioso.
Alzo la testa quando sento – nonostante la musica alta, ma ho sempre il timore che queste creature possano sentire i miei pensieri – delle voci farsi sempre più vicine, vedendo così un gruppo di persone venire verso di me, sorridenti, salutandomi con la mano alzata.
Non li conosco, mi pare però brutto e da maleducati non ricambiare, forse sono altri amici di mia cugina, quindi sorrido di rimando e alzo la mano per salutarli a mia volta, solo che quando siamo ad un paio di passi di distanza, loro continuano a tirare avanti a passo spedito, superandomi.
Mi fermo sul ciglio della strada come una povera deficiente e cercando di non dare ancora più nell’occhio – dubito che anche questa volta si accorgano di me – mi volto, spinta dalla curiosità, per vedere chi stavano salutando.
Il gruppo si è raccolto intorno ad una coppia che non avevo mai visto da queste parte e tutti sembrano molto entusiasti di vederli, benché non riesca a sentire tutte le parole.
Mi incanto ad osservare sopratutto la donna, sui sessant’anni circa, ma portati estremamente bene, si capisce – ora che lo so – che è una di loro, i capelli castani scuri, fatta eccezione per una piccolissima ciocca argentea, gli occhi dallo sguardo gentile. È accompagnata da un signore, a giudicare dagli anelli che entrambi portano all’anulare sinistro, dovrebbe essere suo marito, decisamente più alto di lei e di corporatura muscolosa, i capelli neri, corti, senza un cenno di grigiore, e gli occhi scuri, quasi quanto i capelli.

Poi accade quello che avrei voluto assolutamente evitare: lei si volta e mi vede osservarla.

Non so perché, ma scappo via.

Metto più distanza possibile tra me e quella signora, non capendo perché io abbia reagito in modo tanto stupido, quando bastava voltarsi con calma e continuare il proprio cammino.
Adesso sono passata da impicciona e da maleducata.

Perfetto!

Arrivata all’alimentare, mi sento più al sicuro, quindi prendo il cestello e inizio a muovermi tra le corsie.
Guardo i prodotti esposti, senza prestare molta attenzione, senza avere un’idea precisa di quello che mi servirà, ritrovandomi così a fare molti giri a vuoto.
Mi fermo davanti al reparto dei cereali, indecisa su quali prendere perché in realtà non sono convinta che ci servano.
Vengo affiancata da una persona alla quale non presterei attenzione se non fosse per il fatto che credo che mi abbia appena rivolto parola.
Veloce, mi sfilo entrambe le cuffie, facendo riecheggiare la musica intorno a noi, guardando la persona, la donna, che mi ha parlato, scoprendo con infinito sconcerto, che è la stessa signora di prima.

Ma di tutti i posti, proprio qui?!

“Scelta difficile, non trovi?” mi domanda, sorridendomi.

“Sì, un po'.” è la mia stupida risposta, tornandomene poi a guardare le confezioni colorate, piene di scritte e disegni.

Poi però, torna la curiosità e sposto la testa per osservarla meglio, tanto ormai il danno è fatto, perché ha qualcosa di estremamente familiare. Sono altresì sicura di non averla mai vista a giro per il villaggio, quindi dove?

“Tu devi essere Amira, ho sentito tanto parlare di te.”

“Mia cugina è un po' troppo chiacchierona.” dico a disagio, preparandomi a farle una ramanzina e a cucirle la bocca, appena tornerà.

“Cugina?” domanda la signora, non capendo a chi io mi riferisca. “No, io ho sentito parlare di te da mio figlio.”

Spalanco gli occhi, il sangue congelato.
Suo figlio.
Ti prego, fa che non sia…
Dio, se mi stai punendo perché a cinque anni scappai dalla mamma in chiesa e andai a tirare la tovaglia sull’altare, facendo rovesciare tutto, sappi che sono profondamente pentita, ma ero solo una bambina. Mi hai già punita abbastanza.
Fa che sia la madre di Eric o di qualsiasi altra persona presente in questo maledetto villaggio!

“In verità, non è stato di molte parole da quando siamo arrivati. Sono stati più i silenzi, mugolii e versi strani, ma…” sospira rassegnata al carattere riservato del figlio “lui è come suo padre. Ad una madre ci sono cose, però, che non sfuggono. E poi per fortuna Eric ci ha fatto un resoconto molto dettagliato.” sorride raggiante, afferrando poi una scatola di cereali e li mette nel carrello.

Non è la madre del farmacista.
Perché non me ne va MAI bene una. Perché?!

“Ti va di accompagnarmi?” chiede come fosse la cosa più naturale del mondo, che si fa tra due amiche.

Continuo a non spiccicare parola, troppo impegnata a capire da dove sia sbucata e di chi sia la madre.
Forse è la mamma dell’amico di Judy, Giulian, ma dubito perché non si assomigliano affatto e poi, sono convinta che me lo avrebbe detto.

“Perdonami, penserai che sono una povera pazza. Mi chiamo Ellie Duval, piacere di fare la tua conoscenza.”

“Piacere mio, signora.” dico titubante, non sapendo che fare.

Nel mio paese non mi sarei mai sognata di seguire una perfetta sconosciuta, però qui la conoscono tutti, ed è amica di Eric, quindi credo che non ci sarà niente di male nel seguirla.
La signora Ellie mi dice che ha quasi finito di comprare tutto, ma quando guardo dentro il carrello lo vedo praticamente vuoto, fatta eccezione per un cartone del latte, una confezione di verdure surgelate, un sotto tegame a forma di coniglio e ovviamente quella di cereali, comunque la aiuto a insacchettare la spesa, ma prima che le possa mettere nuovamente dentro il carrello, veniamo affiancate dall’uomo che prima era con lei.

“Amira, ti voglio presentare mio marito, lui è Richard.”

La sua stretta di mano è salda e non si fa remore a stringere la mia come fossi una di loro, ciò mi mette ancora di più in ansia perché immagino che anche a lui non piacciano molto gli essere umani.
Seguo i coniugi fuori del market, cercando di essere meno d’intralcio possibile, rispondendo solo se Ellie mi pone delle domande, respirando il più piano e meno possibile. Quell’uomo mi mette così tanta agitazione che desidero solo andarmene alla svelta.

“Sei stata davvero gentile a farmi compagnia.”

“Di niente, si figuri.” sorrido, in imbarazzo, ritornando seria quando suo marito mi guarda.

“Ma alla fine te non hai comprato niente.” mi fa notare lei, dispiaciuta.

“A me non serviva niente, infatti.” rido come una scema, sprofondando ancora di più nella vergogna. “Perdonatemi, ma adesso devo andare.”

“Aspetta, nostro figlio sarà qui a momenti.”

Ed ecco che a pochi passi da noi, si ferma un fuori strada che – ahimè – riconosco fin troppo bene.

“Ah, eccolo, è arrivato.” dice Ellie, contenta, voltandosi verso di me, che so essere bianca come un fantasma.

Dio, se esisti, non farmi questo.
Loro due sono i genitori di…

“Garreth!” la donna è trillante, gli va incontro e non appena il ragazzo scende, lei gli da un bacio sulla guancia, mentre il padre rimane composto, mettendo l’unica busta nella macchina ed io…

Io vorrei solo sparire.

“Tesoro, guarda chi ho conosciuto.” cinguetta la signora, sorridendo contenta, non ricevendo però lo stesso trattamento dal figlio.

Garreth ed io ci guardiamo per un attimo, salutandoci con un affrettato “Ciao.”, poi distolgo immediatamente lo sguardo, per concentrarlo sui fili d’erba che crescono in mezzo alle mattonelle del parcheggio, diventati all’improvviso molto attraenti.

“E’ stato un piacere fare la tua conoscenza.” aggiunge la donna, rivolta a me, non perdendo lo sguardo dolce e affabile.

“Anche per me.” almeno su questo, sono estremamente onesta.

Con la coda dell’occhio vedo Garreth aprire lo sportello, pronto per salire e andarsene, aspettando però che la madre abbia finito.

“Arrivederci.” dico rivolta ai coniugi, anche se il marito è già vicino alla macchina. Infatti si volta e mi saluta con un cenno della testa, salendo poi dal lato del passeggero.

Ora ho capito da chi ha preso.
La donna si avvicina al veicolo, apre lo sportello, poi si ferma di colpo, come attraversata da un pensiero.

“Perché stasera non vieni a cena da noi?” domanda speranzosa.

Ah.

Garreth mi sta guardando attraverso lo specchietto e non so se lo fa perché è curioso o perché mi vuole minacciare di non andare. Rimane il fatto che non potrei andare a prescindere alla loro cena, e non è certo perché me lo sta proibendo lui.

“La ringrazio, ma ho un ospite e non posso lasciarlo solo.”

Il ringhio non tanto basso di fastidio, gorgogliato dalla gola di Garreth, non ci è passato inosservato, tant’è che ha fatto voltare pure sua madre per capire cosa fosse successo e se fosse stato veramente suo figlio a produrlo.
Lui non bada alla donna, continua a guardare me, fulminandomi con uno sguardo carico d’ira.

Poi sua mamma, si rivolge ancora a me, illuminata di nuova luce.

“Allora è perfetto, verrà anche il tuo ospite. A stasera cara.”

Salita in macchina, partono.

Non so cosa si diranno, ma so per certo che Garreth mi ucciderà prima di cena.








*Angolino mio, personale*

Salve a tutte/i.... scusate per il lungo silenzio, come sempre, ma ho cercato di mandare avanti la storia e la mia vita :-)
Spero che vi piacce e che possa ripagare il tempo di attesa.

Un bacione

Vostra Nina :-*

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Capitolo 11
*** Nel bosco, di nuovo! ***


“Non capisco perché stai tenendo il muso lungo.” mi rimprovera Edoardo, mentre ci stiamo avviando a casa di Garreth.

Ancora non gliel’ho detto da chi siamo diretti, ho solo fatto presente che avevamo ricevuto un invito, ma che non eravamo ASSOLUTAMENTE obbligati ad andarci.

“Anzi,” ho detto, prendendo in mano il telefono e scorrendo la lista dei messaggi per cercare il suo nome e informarlo della decisione presa. “adesso avviso che non possiamo andare.”

Edo mi ha fermata all’istante, prendendomi l’apparecchio e tenendolo sollevato con una mano, in maniera che io non arrivassi a prenderlo, e mi ha costretta a non rimangiare la parola data.
E così, eccoci per la strada verso casa di Garreth, lui super felice di uscire ed io super ansiosa, con due vassoi di dolci, preparati solo per la gentilezza di Ellie e del suo invito.

Spero che l’alfa sia intollerante al latte e allergico ai frutti di bosco. Tiè!

Il mio amico era così entusiasta di uscire, di vedere il paese, anche solo per fare poca strada, di conoscere persone nuove, che si è messo la sua camicia preferita, celeste, che risalta la carnagione olivastra, con un maglioncino blu scuro e dei semplici jeans stropicciati, costringendo me, per di più, a mettere un vestito scollato sulla schiena, nero, che aveva trovato nell’armadio di Anna, quando ancora poteva permettersi certi abiti, perché non era incinta, facendomi quindi patire un freddo micidiale.

“Finalmente conoscerò almeno uno dei tuoi nuovi amici.” trilla esuberante, non perdendo il sorriso.

Sì, wow, che bello.

Mio amico… non direi proprio, siamo più come cane e gatto.

“Se fosse stato per te, mi avresti tenuto segregato in casa per tutto il tempo.” si lamenta, melodrammatico.

“Oooooh, povera principessina.”

Io per colpa sua, prenderò un raffreddore, perché questo abito non ha nemmeno le maniche e lui me lo ha quasi fatto indossare a forza.

“Come siamo acide. Credo che un pezzo di dolce lo avresti dovuto mangiare subito.” mi prende in giro, non perdendo né il sorriso, né lo sguardo canzonatorio.

“Fottiti Edo.” taglio corto, con la pazienza esaurita e infreddolita.

Né la sciarpa né il cappotto che carino, certo, ma non copre come mi aveva assicurato lui, servono a molto quando sotto ti mancano pezzi di vestiti.

Mai fidarsi di un uomo. Anche se si tratta di Edoardo.

“Magari due pezzi.” ridacchia. “Però non mi hai ancora detto da chi stiamo andando.”

Ah! Ora voglio proprio vedere chi riderà per ultimo.

“Da Garreth.” mi limito a dire, guardandolo e godendomi, la sua espressione cambiare drasticamente.

“Momento, momento, momento… per caso ti riferisci a quel Garreth?” mi chiede allarmato, rallentando pure il passo, ed alzando di un tono la voce.

“Non ci sono altri Garreth, nel villaggio.”

Anche perché uno è più che sufficiente per tutto il pianeta.

“Ay la puta madre!1 Cosa aspettavi a dirmelo?!” mi guarda come se lo avessi appena tradito.

“Tu non me lo hai chiesto prima.”

Piccola rivincita.

“E comunque, ci ha invitati sua madre.”

“Non sarà uno di quelli che fa il grosso e poi è attaccato alla gonna della mammina?” “I fatti sono più complicati di così.” bisbiglio, e se anche Edoardo mi ha sentita, evita di fare ulteriori domande.

Saremo quasi arrivati, mancano solo duecento metri circa, quando incrociamo la famosa morettina, Julia.

“E’ una tua amica?” mi viene chiesto, trovando sicuramente strano il suo sguardo omicida ed il mio seriamente preoccupato, dal momento che sta evidentemente venendo verso di noi.

“No, non direi.” bisbiglio, ma so che lei è riuscita a sentire quello che ci siamo detti.

Se solo potessi dire anche a lui quello che so, sarebbe tutto più facile e saprebbe tenere la bocca chiusa, spero solo che lei non capisca l’italiano.

“Fai finta di niente e tira dritto.” dico con un filo di voce, che persino io fatico a sentire.

Fingo di non averla vista, inizio un discorso sul tempo con il mio amico per distrarlo, ma la furia mora ci viene contro con prepotenza, costringendoci a fermare.

“So che stai andando da lui, ma faresti meglio a non andare. Non renderti più ridicola di quello che già sei.” soffia come un gatto inferocito a cui è stata pestata la coda.

I suoi occhi sono bracieri ardenti, carichi di odio smisurato, i lineamenti sono duri, incattiviti, le vene del collo e dei polsi in rilievo, le ciglia aggrottate. È praticamente pronta a combattere. Mi auguro per me non fisicamente, perché perderei ancor prima di iniziare.
Il cuore mi martella furioso nel petto, per l’imminente scontro, sento la gola secca e sto iniziando a sudare nonostante mi stia facendo freddo.

“Se hai qualcosa in contrario, parlane con lui, noi abbiamo un invito da parte dei suoi genitori.” la sfido, ma so che è molto pericoloso, potrebbe essere l’ultima cosa che faccio da viva e, a giudicare da come mi sta guardando – potesse mi ucciderebbe seriamente qui, in questo momento – lei non deve essere mai stata invitata dalla sua famiglia.

“Andiamo Edo” lo dico in inglese, affinché capisca e si roda il fegato un altro po'. “Ellie e Richard ci stanno aspettando.” fingendo disinvoltura, chiamandoli per nome come se avessi confidenza e un rapporto con loro decennale, cosa che, immagino, a lei non sia permesso o non abbia.

Sto per passarle accanto, intenzionata ad andarmene, solo che mi afferra con prepotenza per un braccio, avvicinandomi a sé, e mettendo più forza che può nella stretta.

“Ehi, giù le mani!” le intima Edoardo, ma nessuna delle due gli presta ascolto.

“Il tuo odore mi fa venire il vomito.”

“Forse stai sentendo il tuo!” sibilo a mia volta, le faccio lasciare la presa e ci allontaniamo.

Se non altro sono riuscita a rigirare la situazione dalla mia parte, ma non so se la prossima volta sarò così fortunata.

“Mira, stai bene?” è preoccupato, immagino sopratutto per l’ultimo scambio di frasi.

“Sì, tutto a posto.” mi limito a dire, anche se non è la verità.

Sento le gambe tremarmi un poco, perché un conto era discutere con loro prima di sapere cosa fossero, adesso, per me, la situazione cambia.

“Che voleva dire con ‘il tuo odore’?”

“Niente Edo, lascia perdere che è meglio. Adesso muoviti o faremo tardi.”

Suoniamo il campanello con cinque minuti di anticipo, se non altro, non abbiamo fatto una brutta figura già in partenza.
Ad aprire la porta è Garreth in persona ed è inutile dire che il mio disagio è palese.

“Ciao...” esalo con un filo di voce, troppo nervosa per poter dire una sillaba di più, cercando di sforzarmi per abbozzare un sorriso.

Anche Edoardo si sente fuori luogo e se ne rimane in silenzio, in attesa che sia il padrone di casa a fare la prima mossa, infatti ci lascia entrare non perdendo un nostro movimento.
Non appena varchiamo la soglia veniamo circondati da un intenso e buonissimo profumo di carne stufata, verdure, qualcosa cotto al forno e tante altre cose buone che dalla cucina, si è sparsa per tutta casa. Ed ecco che il mio stomaco inizia a farsi sentire con una certa prepotenza, tanto da far voltare i due ragazzi verso di me, che mi guardano perplessi dal forte rumore emesso.
Mi stringo nelle spalle a discolpa.

“Garreth, tesoro, fai accomodare i nostri ospiti.” dice una Ellie esuberante, raggiungendoci all’ingresso. “Ciao ragazzi, benvenuti! Avanti, toglietevi pure i cappotti.”

La madre ci saluta allegra e pimpante, sgridando bonariamente il figlio perché non ci ha ancora fatto accomodare, guadagnandosi una delle sue tante brutte occhiate di disappunto.

“Questi sono per voi.” mi faccio avanti, con coraggio, mostrando alla signora i due vassoi, per alleggerire l’aria che si sta già caricando di tensione.

“Che cari ragazzi, grazie!” ne prende uno e sbircia il contenuto. “Un dolce! Tu ne vai matto.” si rivolge al figlio, mettendoli una mano sul braccio e sorridendo, che in cambio fulmina la madre, senza essere minimamente considerato; quest’ultima non vi bada e continua per la sua strada. “Li avete fatti voi?”

Sto per annuire, ma Edoardo mi interrompe.

“No, li ha fatti entrambi Amira, io sono una frana ai fornelli.”

Lo guardo, non capendo perché abbia mentito e provo a cercare il suo sguardo in cerca di una qualche spiegazione, ma non ne ho il tempo perché la signora Duvall ci avvisa che la cena è pronta e che possiamo prendere posto a tavola.
Garreth ci prende i cappotti e quando arriva il mio turno, non riesco a mandare via il senso di disagio che provo nel mostrarmi tanto scoperta in sua presenza. Mi guarda per un momento, osservando l’abito e sono sicura che, di profilo, riesca a intravedere anche lo scollo, analizzando di sfuggita i tatuaggi – e non so perché, ma ho come la sensazione che non li piacciano – poi però l’occhio gli cade sul braccio sinistro, che prende in maniera non tanto delicata – deve essere un vizio dei licantropi – analizzandolo con cura.

“Come te lo sei fatto questo?” chiede sospettoso, sfiorando la pelle lesa con il pollice.

Anche io sposto lo sguardo sull’ematoma e per poco non mi viene un colpo, constatando quanto mi stava stringendo forte Julia, così forte che mi è già comparso il segno.

“Probabilmente ieri notte, ho avuto un incubo e mi sono agitata.” mento, non sapendo come ho fatto a trovare una scusa così convincente in meno di un secondo.

Il licantropo non sembra molto convinto di ciò che ho detto, ma non indaga oltre e, con un gesto molto galante, ma freddo, della mano, mi invita a passare per prima nell’altra stanza.
Ci accomodiamo nella sala grande, adiacente alla cucina, dove ero stata solo di passaggio durante il barbecue, ma ora si vede che c’è la mano di una donna evidentemente abituata ad avere ospiti.
Il padre ci raggiunge, salutandoci in maniera decisamente più distaccata della moglie, ma non per questo risulta maleducato.

Credo che sia molto riservato.

Prendiamo posto, il padre a capotavola, io alla sua destra e su suggerimento di Ellie, che onestamente non comprendo, lei si siede accanto al marito ma fa sedere Edoardo accanto a sé mentre Garreth accanto a me.
Ellie ha preparato tante cose buone da mangiare, svariati stuzzichini che vengono finiti in poco tempo, con i complimenti del marito e nostri, prima del piatto forte.

“Ho fatto la shepherd’s pie2, spero vi piaccia. C’è anche dello stufato, come alternativa.” dice ritornando in salta con una pirofila dall’aria davvero pesante che mette al centro della tavola, dopo che io e Garreth le abbiamo spostato le brocche dell’acqua e del vino, portandosi con sé un intenso profumo.

La cena prosegue decisamente bene, la signora Duvall riesce a non far morire mai le conversazioni e fortunatamente anche il marito le da man forte, io ed Edoardo, d’altro canto, riusciamo a farci scivolare di dosso le occhiatacce e il silenzio quasi ostinato di Garreth.
Il signor Richard, inizia a concentrare la sua attenzione su di me, ponendomi delle domande conoscitive, cambiando argomento, stravolgendolo, ed io me ne domando il perché, dal momento che la cosa mi sa sentire in imbarazzo.
Sto cercando di rispondere ad una sua domanda, senza farmi sentire dal mio amico, perché non voglio che inizi a raccontare ancora la storia di come ci siamo conosciuti, benché lui sia troppo occupato a parlare con Ellie, che non capisco inizialmente come nasca il loro discorso, ma lo sento chiaramente dire, una delle ultime cose che avrebbe dovuto.

“Mi trovo bene, anche lei si trova benissimo, peccato che prima di venire qui sia stata aggredita da una pazza che diceva cose strane. Non vi offendete, mi duole dirlo,” dice seriamente dispiaciuto, mettendosi una mano sopra il cuore. “perché so che tu,” riferisce a Garreth, senza nessuna nota di cattiveria o rancore nella voce. “sei una sorta di capo in questo villaggio, ma avete della gente strana!” aggiunge quasi esasperato, bevendo poi un sorso di vino.

Ed io, quel bicchiere dall’aria costosa, vorrei solo romperglielo in testa.
Lo guardo attonita, perché grazie a lui, le conversazioni sono morte, adesso regna il silenzio e stano tutti guardando lui.
Tranne Edoardo, lui è troppo impegnato a mangiare, a fare complimenti alla cuoca e a guardarsi intorno come un bambino nel paese delle meraviglie.

“Chi è stato?” domanda Garreth, il tono di voce autoritario e già sul piede di guerra.

“Ness-”

“Non lo so, una tipa strana, mora, occhi di ghiaccio. Miss ‘Sono bella sono io’” dice col tono di voce più acuto del solito, mimando le virgolette, dopo avermi spudoratamente interrotta e messa nei casini.

“Che cosa vi avrebbe detto?” è la domanda del padre, ancora più adirato.

Oh no. No. No. No.

“Niente! Edoardo ha bevuto e come al solito, ha esagerato. Io e lei abbiamo solo parlato.” lo fulmino con lo sguardo, peccato ci stiano guardando tutti e la mia occhiataccia non sia passata inosservata.

“Parlato un accidente, Mira! Sei stata afferrata per un braccio e ti ha detto cose strane sull’odore e che dovevi stare lontana da qualcuno.” dice abbassando la voce, in tono cospiratorio, gesticolando leggermente, parlando al padre, poi ritorna in posizione eretta e si rivolge a me. “Certo che potevi anche dirmelo che ti eri fatta la rivale in amore.” dice fingendo di essersela presa.

Io vorrei solo sotterrarmi.
Per tutto il tempo in cui il mio ex amico ha parlato, l’ho supplicato di tacere con lo sguardo, ma lui come un treno ha continuato, facendomi sprofondare sempre più nei casini.

“Hai intenzione di prendere provvedimenti?” domanda il padre a Garreth.

“Assolutamente.” dice serio lui, indurendo lo sguardo e indirizzandolo proprio verso di me.

Mi faccio piccina, supplicandolo di non fare niente, ma so già che sarà fatica sprecata.
Allungo la mano per prendere la brocca dell’acqua, intenzionata a mandare giù anche questa brutta figura, quando alla luce del lampadario, si vede chiaramente il livido. Cerco di ritirare la mano, ma Garreth è stato più veloce.

“Solo un incubo mentre dormivi, eh?” domanda sarcastico, con un filo di voce tagliente come una lama.

“Non c’entra niente questo con quello che hai sentito.” dico, cercando di mantenermi salda e convinta nella mia bugia, ben sapendo che lui possa fiutare qualsiasi cambiamento del mio corpo.

Magari crederà davvero che Edoardo abbia solo esagerato il racconto per colpa del vino.
Tento ancora di prendere la brocca con l’altra mano, ma sbadata come sono, tiro una botta al bicchiere, facendolo cadere.
Fortunatamente, non solo non si rompe, ma i coniugi fingono che non sia successo niente e continuano a parlare con Edoardo, intrattenendolo, e se da una parte sono grata i due per il loro sforzo, io non mi sono mai vergognata di lui come stasera.
È Garreth a prendere questa benedetta brocca e a riempirmi il bicchiere, per farmi finalmente bere. Un “Grazie.” bisbigliato, senza guardarlo, è tutto ciò che mi esce dalle labbra.
Mando giù l’acqua in un solo sorso, continuando a sentire la gola secca.

“Stai cercando di mandare giù la bugia appena detta?” mi sussurra il licantropo all’orecchio.

Non tento nemmeno di ribattere, lui ha ragione ed io non ho più le energie per mettermi in altri guai.
Sono stata tanto concentrata sugli ultimi avvenimenti della serata, immaginandomi a vivere da solitaria su Marte, lontana da tutti, che non mi sono accorta che la signora Duvall aveva sparecchiato gran parte delle cose, lasciando solo da bere, per poi mettere in tavola i nostri dolci, già divisi in porzioni.
Che maleducata! Non mi sono neanche offerta di darle una mano, ma a giudicare da come stanno confabulando, credo che ci abbia appena pensato il mio ex amico.
Fortunatamente, riesco a lasciarmi tutto alle spalle per un po', così da potermi intrattenere ancora con loro e non pensare a cose sgradevoli, cosicché a fine serata, riesco nell’intento di essere un’ospite più gentile ed educata, aiutando Ellie a ripulire, nonostante le sue obiezioni e costringendo Edoardo a rifiutare il bicchiere di brandy fatto in casa che il signor Richard ci vuole offrire.

“Io invece lo prendo volentieri, grazie.” dico sorridendo all’uomo con fare gentile e cortese.

“Amira, questo è bello forte, sicura?” mi domanda, socchiudendo un occhio ed osservandomi bene.

“Ha bevuto roba schifosa da una fiaschetta di un cacciatore, può bere anche il tuo brandy papà.” dice risentito Garreth.

“PUAH! Chissà che robaccia ci avranno messo.” dice schifato, fingendo un brivido di ribrezzo, versando nell’apposito bicchiere il liquido ambrato scuro. “Tieni, bevi questo, è molto meglio.” mi fa l’occhiolino.

Ormai Richard non ha più niente dell’uomo austero e burbero che mi si era presentato questa mattina. Conversare con lui è stato più piacevole del previsto, quasi divertente.
Butto giù un piccolo sorso, sentendo come già sulla lingua il liquido sia aromatizzato alle erbe e caldo, ma è solo quando deglutisco che sento il calore ardermi la gola, raschiarla fino a bruciarmi lo stomaco.
Tossisco un paio di volte, sotto lo sguardo divertito di tutti, tranne di Garreth, ovviamente, mentre il padre mi fa i complimenti perché una cosina piccola come me ha del fegato a berlo.
Sorrido in imbarazzo, pentendomi di averlo voluto assaggiare.

“Lo voglio assaggiare anche io.” dice Edoardo, con voce impastata e bizzosa, ma basta un’occhiataccia micidiale da parte mia, che si rimette buono sulla sedia, senza più fiatare.

Bravo, dopo io e te facciamo i conti.

A fine serata, ormai si è fatto tardi e so che loro si dovranno alzare presto per fare le cose da licantropi, prendiamo congedo e li salutiamo, pronti a tornare a casa.
Rimango sola, Edoardo è andato a salutare, ringraziare ed a fare ancora i complimenti alla sua nuova amica – bravo, fattene un’altra perché con me hai chiuso, traditore – ed io vengo affiancata da Garreth.

“Non voglio che torni a casa con quel coso ubriaco e molesto.” mi si piazza di fronte, con le braccia incrociate al petto, imponendomi la sua autorità e la sua grandezza.

“Quel coso è una persona e si da il caso che sia mio amico, poi credimi, e questa volta fallo per davvero quando ti dico che lui NON mi farebbe mai nulla di male.” gli sorrido intenerita dalla sua eccessiva apprensione, e scollegando la testa – sicuramente colpa del brandy – alzo la mano, accarezzandogli la guancia leggermente ispida di barba, per rincuorarlo che sono al sicuro e che non mi accadrà niente.

Quando ritorno cosciente di me e di quello che sto facendo, vorrei ritirarla ma Garreth è più veloce, la incastra tra la sua e ne bacia il palmo.
Rimango pietrificata dal suo gesto, fatto senza motivo, sentendo il calore delle sue labbra sprigionarsi e diffondersi lungo il polso; le guance stanno andando a fuoco ed io inizio a sentire caldo ovunque, anche in posti poco consoni.
Garreth non smette di guardarmi, interrompendo il contatto visivo solo quando sentiamo le voci degli altri farsi vicine fino a che non ci raggiungono. Dal canto mio, non gli stacco gli occhi di dosso, in cerca di una spiegazione che, so già, non mi darà mai.
Salutiamo un’ultima volta, prima di incamminarci, e solo quando siamo fuori e lontani diversi metri dalla casa, mi prendo il lusso di rilassarmi.

“E’ stata una cena fantastica. Ellie e Richard sono molto simpatici, cosa che non posso dire del figlio. E nemmeno di te, sei stata molto silenziosa e maleducata.” dice severo, guardando avanti a se.

In risposta gli tiro un cazzotto all’altezza della spalla, facendolo lamentare ma senza fargli male seriamente.

“Tre giorni fa ci siamo baciati.” sgancio la bomba, senza guardarlo.

Lui inizia a tempestarmi di domande, sul come è accaduto e sul perché, specialmente perché ci abbia messo così tanto a raccontarglielo.

“Non avrebbe avuto senso?!” sbotta incredulo e scandalizzato, alzando il tono di voce, alla mia affermazione. “Mira, tesoro, ti ascolti quando parli?”

Non gli rispondo, le mani in tasca, la testa bassa, tirando in su col naso di tanto in tanto, cercando di non morire congelata. E il mio tacere, gli permette di fare altre congetture.

“Vi siete baciati, quindi vi piacete. Che a te piaceva, era evidente come la luce del sole, ma adesso siamo sicuri che la cosa è reciproca.” cinguetta felice.

“Non siamo sicuri di niente.” ribatto inacidita e piccata. “E comunque, lui mi ha dato buca per andare dall’altra.” gli faccio presente per la seconda volta, dato che non gli è entrato bene in quella zucca vuota.

“Non essere gelosa, Mira. È andato da lei per dirgli di non rompere, di non farsi più vedere...”

“Ma chi sei tu, il suo psicologo?!” rispondo inviperita. “E poi io non sono gelosa.”

Edoardo scoppia a ridere di gusto, con l’intento di canzonarmi come chi non crede a ciò che gli è stato appena raccontato.
Solo dopo diversi attimi, lui passati a ridacchiare ed io a pensare come ucciderlo nel sonno, ritorna il silenzio sopra le nostre teste, reso più inquietante dalla luce aranciata dei lampioni e dalla desolazione della strada.
Mi guardo intorno con circospezione, timorosa di dover affrontare ancora Julia.

“Tranquilla, non c’è nessuno a parte noi.” dice scacciando l’aria con la mano.

Evito di rispondergli perché io comunque non mi sento al sicuro, ho un brutto presentimento.
Infatti, non abbiamo fatto che un centinaio di metri, quando veniamo travolti da un ragazzo sbucato dalla vegetazione che cade e impreca insieme a noi.
Mi sono ritrovata per terra, schiacciata da questo qui, che è anche bello pesante, senza rendermene conto, che ansima e fatica a prendere fiato per parlare.

“Ci stavano dando la caccia… il mio amico è ferito… devo… devo parlare con l’alfa.”

Si rialza dopo un attimo, aiutando me a fare lo stesso, e vorrebbe fare lo stesso con il mio amico, ma lui è già in piedi e si frappone immediatamente tra me e lo sconosciuto.

“Scusa amico, è la tua compagna?” chiede quest altro, non volendo altri guai, non più di quelli che ha già. “Ma voi siete umani!” ci ringhia contro, mettendosi in posizione di difesa, ma pronto ad attaccarci.

“Fermo!” gli intimo, mettendomi tra i due maschi, adesso le situazione tra me ed Edoardo si sono ribaltate.

Che situazione.

Lui verrà a sapere tutto e pensare che mi ero così dannata l’anima per non fargli scoprire niente.

E Garreth… non ci voglio pensare!

“Chi sei? Di quale branco fai parte?” gli domando, volendo delucidazioni da poter riferire poi all’alfa.

Mi comporto come se facessi parte anche io del branco.

“Mi chiamo Patrick, faccio parte del branco di Josh Doyley. Siamo alleati.” precisa, come se avesse notato che pure io, fino a questo momento mi fossi fidata poco di lui.

E faceva bene. Anche se non ho la certezza che stia dicendo la verità, non del tutto, ma non mi rimane altra scelta che fidarmi.

“Io conosco l’al… il capo… sono sua amica.” lo informo ed è grazie a ciò che sembra rilassarsi un poco, rimanendo però sempre sulla difensiva.

“So cosa siete, con me siete al sicuro.” gli dico, abbozzando un sorriso, sapendo di trovarmi in una situazione poco piacevole.

“Anche io lo so cosa sono. Dei pazzi! Sono tutti pazzi qui, Amira!” mi sussurra all’orecchio Edo.

“Lui andrà a chiamare il capo ed io verrò con te dal tuo amico.” cerco di essere calma e gentile, per far sì che si fidi di me.

“Come faccio a fidarmi di te?” ringhia.

Ecco, bene.

“Non hai altra scelta se lo vuoi salvare.” ribatto un pochino inacidita.

Rassegnato dalla mia considerazione più che ovvia, si limita ad annuire, rimanendo poco convinto.

“Amira, che stai...”

“Ascoltami bene Edo.” gli afferro il viso con le mani, faccio in modo che mi guardi dritto negli occhi, per fortuna siamo sotto un lampione e posso vedere se mi sta prestando veramente attenzione, e gli parlo nella maniera più autoritaria, risoluta. “Devi correre il più veloce possibile e avvisare Garreth che c’è un uomo… no! Un membro del clan alleato, di Josh Doyley, ferito. Io e Patrick...” lo guardo in attesa del cognome.

“Donovan.”

“Io e Patrick Donovan andiamo a soccorrerlo. Hai capito tutto?”

“Che vuol dire? Sei uscita di testa? Dobbiamo chiamare la polizia e l’ambulanza, non devi andare in mezzo al bosco. Chi sei, cappuccetto rosso?” domanda sconcertato, incredulo da questa pazza situazione.

Che tenerezza, reagisce nell’esatto modo in cui avrei fatto io.

“No, devi fare esattamente come dico io. E non ti devi voltare. Devi solo correre.”

“Mira, è pericoloso...” bisbiglia, vicino al mio viso, tanto da sentire il suo fiato caldo e alcolico, lo sguardo preoccupato, intenzionato a non lasciarmi andare.

“Non ti devi preoccupare, fai come ho detto e vedrai che noi ci vedremo tra poco.” gli sorrido accarezzandoli una guancia per farlo stare tranquillo.

Non serve a molto, perché lui non è ancora convinto, ma gli basta un’occhiata decisa da parte mia che si fa andar bene ciò che ho detto.

“Stai attenta.” mi bacia la fronte e inizia a correre così veloce che in pochissimo tempo non lo vediamo più.

“Adesso,” dico all’altro “portami dal tuo amico.”

Iniziamo a correre verso il bosco e le sue insidie, con la speranza che coloro che gli stavano dando la caccia se ne siano andati e che non ci stiano aspettando per completare il lavoro.
Mi chiedo, ma quanti ce ne sono?!

“Perché ci sono due umani nel branco?” domanda incuriosito, non trovando nessuna difficoltà nel parlare e correre.

“Storia lunga. Io so, lui no e così deve rimanere.” dico già a corto di fiato, cercando di non inciampare sulle radici, sui sassi e rimanendo spaventosamente indietro.

Il licantropo si accorge della mia difficoltà, io dopotutto non ho i loro sensi sviluppati e non riesco a vedere di notte, e dopo avermi presa per mano, infondendomi anche un po' di calore oltre al coraggio, mi aiuta ad andare avanti e più veloce senza il pericolo di cadere.

“Sembra una storia avvincente. Me la racconterai appena saremo al sicuro?” si volta verso di me, e lo chiede con una tale sconsideratezza che mi stupisce, dato che ci siamo conosciuti meno di dieci minuti fa.

“Sarebbe meglio di no.” sussurro, ma il vento che ha iniziato a ululare ha portato via le mie parole e dopo una breve corsa – breve, si fa per dire – giungiamo nel punto dove giace nascosto il suo amico.

“Ehi, Cooper...” bisbiglia la mia nuova conoscenza. “Coop, sono io.”

Io non riesco a vedere niente, solo tanta vegetazione fitta immersa nel buio e devo dire che mi ritrovo ad invidiarli per le loro capacità, così continuo a tenermi saldamente ancorata alla mano di Patrick, che mi porta nel punto esatto dove ha lasciato l’altro licantropo, nascosto volontariamente da rami e cespugli.

“Ho portato i rinforzi.” mi fa andare avanti, per mostrarmi a lui. “E’ un’amica.” dice in tono gentile.

Non appena l’altro mi vede, mi fiuta, capendo quindi la mia natura umana, nonostante le sue condizioni, trova la forza per ringhiarmi contro e mostrarmi i denti.
Muovo un passo indietro, spaventata.
Bella riconoscenza tra tutti quanti; io cerco di aiutarli e questi mi vogliono solo sbranare. Se non fosse per il fatto che non sono una stronza – e rischierei pure di perdermi – girerei sui tacchi e tornerei a casa mia, dato che sto congelando.

“Un’umana?” domanda retorico e schifato, tossendo per il troppo sforzo.

Ben ti sta. Tiè!

“Mi dispiace ma all’associazione SOS Aiuto Licantropo avevano solo me. Se non ti va bene, puoi fare reclamo e aspettare che si liberi un altro lupacchiotto.” ironizzo per nulla divertita dalla sua ostilità, rimanendo ferma dove sono.

“Lei sa?” la sua voce esce spezzata dal dolore e dalla stanchezza, mentre Patrick si avvicina per nulla spaventato dalle sue scenate, senza aggravare la ferita.

“Sì, so tutto e ho già aiutato altri di voi. Quindi, adesso fatti aiutare e non rompere.” ribatto, sempre un poco risentita; poi guardo Patrick che con un cenno della testa, che a malapena riesco a intravedere, mi fa segno di avvicinarmi ed aiutarlo.

“Te l’ho detto, lei è un’amica.” non ne sono sicura, ma credo che abbia appena sorriso.

Ci incamminiamo a rilento, io sorreggo Cooper a sinistra, dalla parte sana, mentre Patrick a destra, dove ha una ferita di striscio sul fianco e una più seria alla gamba che non gli permette di camminare e che gli fa perdere tanto sangue, nonostante il bendaggio improvvisato che gli abbiamo fatto con la maglietta di Patrick e la mia sciarpa.
E a me, questa, pare una scena già vissuta.
Cooper è pesante, e lo è ancora di più dal momento che si affida quasi totalmente a noi per sorreggersi e spostarsi.
L’altro licantropo mi fa sapere che i cacciatori si sono attrezzati e stanno usando pallottole d’argento, metallo al quale sono allergici mortalmente se non estratto in tempo, e ciò li indebolisce inevitabilmente ad ogni minuto che passa.
Siamo a metà strada, anche io fatico a tenerlo in piedi ed a tenermi in piedi, sempre più affaticata dal suo peso, ma evito di lamentarmi, stringo i denti e cerco di essere un aiuto e non un ingombro, quando sentiamo altre voci e dei passi poco distanti da noi.

“Li senti anche tu?” si domandano tra di loro, mettendosi ad annusare l’aria e ad ascoltare attentamente.

Anche io ascolto le voci che si fanno sempre più vicine, tirando un enorme sospiro di sollievo, riconoscendo i proprietari e facendo sapere ai due forestieri che stanno arrivando i rinforzi.

Ci fermiamo e adagiamo Cooper seduto ad un tronco, per farlo riposare e riprendere fiato anche noi, mentre scorgiamo venire dalla nostra parte Garreth, Eric e Jack tra i primi, e al loro seguito il gruppo dei ragazzi, di cui fanno parte Judy e Giulian.
Eric chiede se oltre a lui, ci sono altri feriti, ricevendo una risposta negativa, si ferma dal licantropo per esaminare al volo le sue condizioni e facendosi aiutare da Jack, si incamminano verso il villaggio, seguiti da Patrick.
Garreth da ordini ben precisi agli altri: in gruppi di due ispezioneranno il perimetro del villaggio, arrivando fino al punto dove si sono fermati quei due e torneranno indietro. Niente attacchi e niente mosse azzardate.

Obbediscono e in un attimo spariscono nel buio della foresta.

Sto per andarmene, sperando di non perdermi, ma non voglio rimanere da sola con lui.

“Sei ferita?” e non riesce a nascondere bene la preoccupazione.

“No, io sto bene.” rabbrividisco a causa di una folata di vento.

“Torniamo a casa, stai congelando.” mi fa segno di procedere per prima ed io non me lo faccio ripetere due volte.

“Sicura di star...”

“Perché ci odiate tanto?” lo guardo in tralice, per vedere la sua reazione, benché al buio possa solo intuire qualcosa.

“Non mi sembra che Eric, Judy, i suoi genitori o Giulian ti odino.” dice, leggermente risentito e inacidito quando pronuncia l’ultimo nome. “I miei genitori ti adorano.”

“Tu però odi me e i miei simili.” affermo, guardando in terra.

“In parte hai ragione.”

Sento il cuore sprofondare nell’abisso.

“Non odio te, ma gran parte dei tuoi simili.” dice sincero, il tono di voce neutro. “E poi non capisco come ti saltino in testa idee tanto sciocche.” è davvero stupito.

In lontananza intravediamo le luci del villaggio, quindi anche il momento della nostra separazione. Posso permettermi di essere onesta fino in fondo.

“Io lo volevo solo aiutare e per poco non mi sbrana.” non c’è bisogno che specifichi di chi sto parlando, ha già capito che mi riferisco ai nuovi arrivati. “E tu, poi. Mi hai guardato male fin dal primo giorno che sono arrivata e ancora non ci conoscevamo.” dico mesta, continuando a guardare in terra e non è solo per la paura di cadere.

Le luci, nel frattempo, si fanno più intense, il sottobosco sparisce pian piano e lascia spazio ad un terreno pianeggiante e meno accidentato.

“Se uno di noi ti avesse ferita quasi alla morte, anche tu ci odieresti.”

“No, non lo farei, perché so che non siete tutti uguali; così come non lo siamo noi umani. Anche tu sei stato ferito da un cacciatore?” chiedo stupita.

Nell’alto della mia stupidità, da quando sono a conoscenza della loro natura, non ho mai pensato che Garreth potesse essere stato ferito in passato o che lo potrebbe essere in futuro.
L’ultima volta che abbiamo avuto un incontro faccia a faccia con i cacciatori, mi ci sono messa di mezzo io, ma sono convinta che se la sarebbe cavata egregiamente, senza troppi problemi.

“In un certo modo.” dice glaciale, troncando palesemente il discorso.

Mi pento di aver provato a fargli delle domande sul suo passato e sulla sua vita privata; fortunatamente siamo sulla strada principale e qui, le nostre strade, si divideranno.
Mi fermo sotto il lampione, lo stesso che mi ha vista coinvolta in questo ennesimo salvataggio, stupendo l’alfa del mio comportamento, non comprendendone il motivo.

“Perché ti sei fermata?” alza un sopracciglio, guardandomi stranito.

“Da qui torno a casa. Buonanotte.” lo saluto con un gesto stanco della mano. Stanca fisicamente, e ancora più stremata di provare a conoscerlo, di non farmi odiare e fargli capire che non sono il pericolo che lui crede.

“Non ci pensare. Tu dormirai da me stanotte.” autoritario come sempre, mi ferma prima che riesca a muovere un singolo passo.

“E’ fuori questione.” ribatto, sorpassandolo di lato, volendo procedere per la mia strada. “Lo sai che non posso, è meglio di no.”

“Devi andare a far compagnia al tuo amico?” è la domanda sarcastica e acida che mi sputa addosso. “Ha paura a dormire da solo?” è arrabbiato mentre parla e quasi mi ringhia.

Peggio di una donna col ciclo.

“Lo sai benissimo che non è per lui.” vediamo se così ci arriva, il grande uomo lupo.

“Ecco, allora non vedo perché tu non possa rimanere.” detto ciò, mi prende per mano e mi costringe a seguirlo.

“Ehi, ma che ti prende?” non riesco neppure a smuovere la mano, tanto ha la presa salda.

“Mi prende che potrebbe essere pericoloso e hai bisogno di farti una doccia. Sei sporca di sangue.”

“Notizia flash, genio, ho la doccia anche io. E poi pericoloso!? Ma se sono circondata da licantropi, non potrei essere più al sicuro di così!” gesticolo ed alzo il tono di voce, dando credito al tanto famoso stereotipo italiano, ma lui sembra tutto assorto nei suoi pensieri.

Intanto, tra il menefreghismo suo e qualche atto di ribellione mio, siamo giunti davanti a casa sua, fermandoci prima della porta d’ingresso.
Garreth si è bloccato di colpo, così all’improvviso che per poco non gli vado a sbattere contro.
Si gira verso di me, chinando il viso alla mia altezza e prendendomi il mento tra le dita, per guardarmi intensamente negli occhi.

“Hai l’odore di altri maschi e la cosa non mi piace.” sussurra serio.

L’attimo dopo, mi lascia andare e dopo aver aperto la porta, mi lascia entrare per prima, seguendomi e richiudendo immediatamente a chiave, come per timore che scappi.
Non mi sforzo neppure di fare congetture su quanto mi è stato detto, né provo a fargli domande, rischierei di farlo arrabbiare o, nei migliore dei casi, ricevere mugolii e versi strani incomprensibili e adesso voglio solo andare a dormire.
Entro in casa, ed è solo quando la luce del lampadario mi illumina e mi specchio nel riflesso della vetrata della porta, che mi rendo conto di essere veramente sporca di sangue e terriccio.
Senza accorgermene, mi devo essere toccata il viso e adesso sembro pronta per andare in guerra, con le macchie rosse sulle guance.
Per tale motivo rimango ferma in mezzo all’ingresso, senza sapere cosa fare per non lasciare le mie impronte sulla moquette e non essere d’intralcio.

“Oh Dea Luna!” Ellie si è appena affacciata dalla porta, spalancando gli occhi non appena mi ha vista. “Amira, cara, stai bene?” mi viene incontro, trafelata, visitandomi con occhio attento e preoccupato.

“Sì sì, sto bene, grazie.” le sorrido debolmente, lasciandomi però cullare dalle sue attenzioni.

“E’ abituata.” è la battuta pungente di Garreth mentre ritorna da noi.

Ed io, non so perché, ci rimango male del tono usato.

“Non è un buon motivo per lasciarla qui, da sola, sporca e infreddolita.” lo rimprovera la madre, mentre mi fa togliere le scarpe ed il cappotto, lasciando tutto da una parte. “Perché non rimani a dormire qui? Solo per stanotte e poi domani torni a casa.”

“Veramente, io dovrei...” indico la porta, ma nessuno bada a me.

“E’ quello che farà. Almeno fino alla parte di dormire da noi.” dice glaciale Garreth, poi con un cenno della testa mi fa segno di seguirlo.

Saluto Ellie, ringraziandola ancora per la sua gentilezza ed ospitalità, augurando a lei e al marito una buonanotte, e mi affretto a seguire il figlio che si è già avviato per le scale.
Salgo i gratini morbidi, ricoperti di moquette di un beige chiaro, in punta di piedi, vecchia abitudine che avevo fin da bambina, ricordandomi solo vagamente dove si trovano le stanze.
Preme un interruttore sulla parete e apre una porta, mostrandomi il bagno e facendomi passare per prima.
Continuo a rimanere ferma, osservarlo muoversi con scioltezza nell’ambiente, mentre prende alcuni asciugamani e li pone sopra un cesto.

“Userai la vasca, ti sentirai meglio. E non ti preoccupare di quanto ci metterai.” si affretta ad aggiungere dopo avermi vista aprire bocca per obiettare. “Lascia i vestiti fuori della porta, così potrò metterli a lavare.”

“Sissignore.” dico con un fil di ironia, seppur stanca, sapendo che lui non riesce a fare a meno di dare ordini e dettare legge.

Garreth sta per uscire ma proprio quando è quasi fuori dal bagno, ci ripensa e ritornando dentro, mi si avvicina con un’espressione totalmente diversa, molto più ammorbidita e gentile.

“Vorrei che lo prendessi non come un ordine che mi devi, ma come un favore nei miei confronti.” la sua voce è calma, sembra che ci sia una leggera sfumatura di supplica.

Esce, lasciandomi sola con un grande punto interrogativo in testa.








*Angolino mio piccolo personale*

Buon salve a tutti, cari lettori e lettrici!
Eccomi di nuovo qui... Non sono andata in ferie, macchè... MAGARI!!!
Solo piccola pausa estiva causa lavoro... wao, che bello... Ma, bando alle ciance. Spero che il capitolo vi paiccia, è corto, lo so, ma è solo di transizione, ci saranno di altre avventure che colpiranno (nel bene o nel male, chissà) i nostri cari amati protagonisti.
Intanto ce l'ho fatta a pubblicare questo, yeah!
Fatemi sapere se è stato di vostro gradimento.
Grazie a tutti per la pazienza, le recensioni, commenti e per aver aggiunto la storia tra le preferite/seguite.

NOTE:
1 . tipica espressione latino-americana di sorpresa, stupore. Lo usano praticamente sempre e ovunque. Non viene offesa nessuna madre;
2. tradizionale piatto inglese, a base di carne di pecora (se non ricordo male) cotto nel forno, con una quantità industriale di patate e spezie. Esiste anche la versione di mare, con merluzzo e salmone... da leccarsi i baffi!

 

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Capitolo 12
*** Dalla padella alla brace ***


Ho provato a seguire il consiglio di Garreth e a rilassarmi, prendendomi il mio tempo, ma è più forte di me il senso di disagio e di disturbo nel dovermi lavare in casa di altri, che siano amici, lupi o dell’alfa.
Sopratutto se questo pare essere diventato un vizio… un po' come quello di cacciarsi nei guai e salvare lupi.
Come mi aveva chiesto, gli ho fatto trovare i miei abiti fuori e nel giro di qualche minuto l’ho sentito tornare.

“Non ti spaventare, non sto entrando.” sono state le sue prima parole, non appena ha aperto uno spiraglio della porta. “Ti ho solo portato un cambio per la notte.” lascia le cose in un angolo e sparisce.

È durato così poco che non ho avuto modo nemmeno di spaventarmi o di dirgli grazie.

E così, mi ritrovo con un paio di boxer suoi, avvampando come una dannata alla sola idea di doverli indossare, dei pantaloni grigi della tuta ai quali ho dovuto ripiegare l’orlo perché troppo lunghi e una maglia a mezze maniche, che mi arrivano al gomito.
Mi asciugo i capelli con l’altro asciugamano e timidamente, a piedi scalzi, esco e mi dirigo in cucina.
Mentre scendo le scale, non so se sperare di trovare Ellie o il figlio, ma credo che la madre sia già andata a dormire, dal momento che deve essere molto tardi, quindi credo di sapere con chi avrò l’onore di avere a che fare.
Lo trovo, infatti, seduto su uno sgabello, immerso nei suoi pensieri e passano alcuni secondi prima che si accorga di me.
Appena mi vede, o più probabilmente, mi fiuta, mi si avvicina silenzioso come sempre, toccandomi una ciocca di capelli ancora umida.

“Dovresti usare il phon.” un ordine travestito da consiglio, non smettendo di attorcigliarsi i capelli tra le dita.

“Non so dove sia, avevo paura di svegliare i tuoi e poi, non mi piace frugare in una casa che non è mia.” bisbiglio, come se qualcuno stesse dormendo proprio nella stanza con noi.

Mi guarda con occhi profondi, impenetrabili, che per un momento bello lungo mi dimentico che lo sto fissando e di quello che stavamo dicendo.
Sospira pesantemente e dopo avermi detto di seguirlo, torniamo in bagno per farmi vedere dove si trova l’utensile che mi serve; anche se con il caldo che c’è in casa, potrei benissimo lasciarli bagnati, ma sono convinta che questa non sia un’opzione di Garreth.
Usciamo dalla stanza e lo seguo in un’altra ancora, una camera da letto, dove può attaccare il phon alla presa della corrente, invitandomi ad iniziare ad asciugarmi i capelli.
Ormai mi sono tornati del mio colore naturale, non c’è più nessuna traccia di tutte le vecchie tinte che mi sono fatta, nemmeno quella blu fatta a casa di Judy.
Quando ho finito, cercando di essere silenziosa ma anche veloce, mi giro verso di lui, trovandolo seduto sul bordo del letto, intento a fissarmi. Almeno è quello che sembra, data la poca luce presente nella stanza.
Mi siedo anche io sul bordo, non troppo vicina a lui, spinta da un’irrimediabile stanchezza, dando uno sguardo a giro e immaginando che questa sia la sua camera da letto.
Spaziosa, dal mobilio classico, scuro e minimale, con pochissimi libro e nessuna foto.

“Sei stata avventata, ancora.” dice più arreso al fatto che non lo ascolti, che arrabbiato.

Credo che abbia perso le speranze con me.

“Non potevo stare ferma.” dico con un filo di voce, adocchiando nella sua direzione.

“Potevi venire da me, tornare a casa e fine della storia.” fa notare, in maniera ovvia, leggermente seccato.

Mi scoccia ammetterlo, ma non ha tutti i torti.

“Dovevo agire, mi volevo rendere utile.” gli confesso, non capendo perché mi debba sempre giustificare quando si tratta di parlare con lui.

“Ma non capisci che mi sei più utile quando so dove sei?” un ringhio bisbigliato il suo, carico di apprensione mal nascosta.

O forse vuole solo comandare.

“Ti ripeto, Garreth,” dico cercando di mantenere tutta la calma del mondo, perché non ho la forza – né la voglia – di discutere. “non sei il mio alfa, perché non faccio parte del tuo branco. Sono solo un’ospite che se ne andrà via. Rispetto te e le tue regole, mantengo la parola data e tutto il resto.” riprendo fiato e smetto di guardarlo perché quello che sto per dire mi fa male. “Ma non puoi darmi ordini, né aspettarti che io le esegua, perché non sono niente per te.”

Mi distendo, sentendo la stanchezza farsi sempre più prepotente, rannicchiando le gambe e piegando un braccio sotto la testa per usarlo come cuscino.
Sono vicina ad addormentarmi, ma lo spostamento del materasso, mi fa tornare vigile, mantenendo comunque gli occhi chiusi.

“Mi hai fatto prendere un bello spavento questa sera… e non solo stasera.” è un sussurro, forse sperava di non essere udito.

“Non è successo niente e poi sei arrivato tu.” biascico, mezza addormentata.

“Sarebbe potuto accaderti qualcosa e io potevo non arrivare in tempo. La prossima volta potrei non farcela...”

“E cosa importa? Lo sai come stanno le cose.”

“Io sono responsabile dell’incolumità di tutti. Anche della tua… sopratutto della tua.” puntualizza.

“Che vuoi dire?” apro gli occhi, trovandolo disteso accanto a me, pericolosamente vicino, così tanto che che riesco a percepire il suo fiato sul viso ed il suo calore.

Mi mette una ciocca di capelli dietro l’orecchio, affogando il suo sguardo nel mio, senza distoglierlo un attimo. Ed io ho come l’impressione che, nella sua mente, mi stia rispondendo, senza avere il coraggio di dare voce alle parole.

“Devi dormire. Buonanotte.” mi bacia la fronte.

Un gesto tenero, dolce e del tutto innocente, che è stato in grado di farmi sciogliere le membra, bearmi del tocco delle sue labbra morbide e calde, desiderosa di averne un altro e un altro ancora.
Magari sulle labbra.

“Buonanotte a te, Garreth.” è un sussurro flebile il mio, mi sporgo verso di lui baciandogli la guancia ruvida di barba, per poi chiudere gli occhi per non vedere la sua reazione e cercare di dormire un poco.

L’ultima cosa che sento – o mi sembra di sentire – è una frase, per me, senza molto significato.

“Dea Luna, aiutami. Lei è mia.”

 

Mi risveglio che ormai è mattina inoltrata, ritrovandomi sotto le coperte, ma da sola.
Sono sollevata di esserlo, in questo modo posso riflettere a quanto ci siamo detti ieri sera e di quello che è accaduto, ma dopo una quantità di tempo indefinito a pensare al come ed al perché lui mi abbia detto quelle cose, non vengo a capo di niente, solo che non riuscirò a capirlo mai.
Quindi, dopo essermi stiracchiata ed aver mugolato come un gatto, prendo la saggia decisione di alzarmi e togliere il disturbo.
Trovo il mio telefono sopra il cassettone, ricordandomi solo adesso di non aver avvertito Edoardo che non sarei tornata a dormire a casa. Lo prendo per accertarmi che ci siano messaggi da parte sue e per rassicurarlo che sto bene e che presto tornerò, ma con mia grande sorpresa, ne trovo solo uno.

 

‘Voglio sapere tutti i dettagli :)’

 

Divento rossa come un pomodoro maturo se penso a quello che sicuramente avrà pensato Edoardo ieri sera quando mi ha scritto, andando totalmente fuori rotta. Evito persino di rispondere, se negassi non mi crederebbe, ed io ho ancora troppo sonno per dilungarmi in spiegazioni, mentre non posso evitare di rispondere al messaggi di Anna, ricevuti qualche giorno fa, dicendole in maniera concisa che va tutto bene.
Va tutto bene. È un parolone.
Speriamo.
Mi dirigo in cucina, dove trovo il padrone di casa alle prese con la colazione, benché farei meglio a dire pranzo, data l’ora che segna l’orologio.

“Ciao.” lo saluto con la voce ancora arrochita dal sonno, avvicinandomi con cautela.

“Ciao a te.” ricambia con un mezzo sorriso sulle labbra, guardandomi per un attimo, ritornando poi subito dopo concentrato ai fornelli e alla pancetta che frigge nella padella.

Mi sporgo di lato e sbircio oltre il corpo per vedere che oltre alla carne, ormai la cucina è invasa dall’odore, ha cucinato anche le uova, tostato il pane e solo in un secondo momento noto che sulla penisola sono state apparecchiate altre cose buone da mangiare.
Più che un pranzo per tre persone, pare abbia cucinato per la cena di Natale.
E messa di fronte a questo ben di Dio, non riesco ad impedire al mio stomaco di lamentarsi e farsi sentire anche dal licantropo, che ghigna soddisfatto.

“Siamo affamate.” anche se mi è di spalle, lo sento sorridere, non perdendo la concentrazione.

“Sì, beh… un po' .” cerco di giustificare questo rumore molesto.

“Si direbbe che tu abbia una fame da lupi...”

Ridacchiamo insieme per la sua battuta, ma poi torniamo seri, come se anche lui percepisse quest’aria carica di tensione.
Non vorrei davvero doverlo salutare. È una cosa che sto iniziando a detestare, ma so che non si può fare altrimenti e che i nostri posti non sono l’uno al fianco dell’altro.

“Meglio se vado adesso, ma avrei bisogno delle scarpe.” dico guardandomi i piedi e iniziando a dondolare per scaricare un po' di nervosismo.

“Avrai ciò che ti serve, ma solo dopo che avrai mangiato.”

Sto per replicare, ma rimango a bocca aperta, senza dire niente, quando vedo tutta la roba che mi sta mettendo sul piatto.
Se la mangiassi tutta esploderei, non credo che abbia ben presente la differenza tra il mio stomaco e il suo. Il mio ha fame, ma anche una fine, al contrario del suo a quanto pare.

“I tuoi non ci sono?” mi guardo intorno, notando solo adesso che siamo soli e che la casa è stranamente silenziosa.

“Sono qui in visita e si sono uniti al branco.” conciso, ma se non altro mi ha risposto e non è stato brusco.

Un punto per me.

“Tu hai già mangiato?”

“Non ho fame.” taglia corto, indurendo lo sguardo.

Cosa? Che ho detto stavolta?

“Siediti.” allunga il braccio per spostarmi una sedia e farmi mettere seduta.

Non lo ascolto e dopo aver rovistato tra gli scaffali e gli sportelli della sua cucina, non senza il suo dissenso e i suoi mugugni di disapprovazione, trovo un altro piatto, mettendolo accanto al mio e dividendo il cibo.
Garreth mi guarda perplesso, non capendo il motivo di tale mio gesto.

“Mangerò solo se lo farai anche tu.” posiziono i piatti accanto e gli faccio segno di accomodarsi.

Mi guarda male, ma stranamente fa quello che gli ho chiesto e si siede accanto a me.

“Come sta il nuovo paziente?” domando in un misto di interesse e voglia di spezzare il silenzio creato.

“Si riprenderà. Eric gli ha tolto i due proiettili, nell’arco di un paio di giorni sarà come nuovo.”

“Siete tutti veloci a recuperare le forze?”

“Sì, se sono fortunati di trovare in tempo una persona come te.”

Arrossisco, senza sapere bene il motivo.

“Tu sei mai stato ferito?” a tale domanda, mi nasce un brivido di terrore del tutto incontrollato.

“Non molte, ma troppe comunque per parlarne.” taglia corto, irrigidendosi e prendendo nuovamente le distanze.

Okay, argomento non gradito.
Immagino che non si riferisca solo alle ferite di arma da fuoco od a quelle di altri lupi. A giudicare dallo sguardo, ci deve essere stato qualcosa che lo ha ferito ancora più in profondità; perché io la riconosco quella luce che si sta spegnendo negli occhi, dando posto alla tristezza e alla sfiducia.

“Ti capisco.” esordisco, continuando a mangiare, per far sembrare la cosa banale, anche se non lo è. Per nessuno dei due. “E’ successo anche a me.”

Mi guarda in attesa che vada avanti, senza fare altre domande per non forzarmi a parlare.

“Mi sono fidata delle persone sbagliate e mi hanno tradita quando avevo bisogno di loro.” faccio spallucce, a sminuire l’accaduto.

“Anche io… solo che lei mi ha proprio sparato.” è un sorriso triste il suo.

“Mi dispiace.” gli dico, seriamente coinvolta nel suo dolore, perché posso immaginare cosa sia successo e non deve essere stato facile.

Forse è per questa ragione che è così chiuso in se stesso, che non si fida e non si lascia avvicinare dagli altri. Sopratutto se femmine, specialmente se umane.

“E’ stato tanto tempo fa.”

“A me piace avere ancora fiducia nelle persone, e sperare...”

“Sei una sognatrice che deve crescere e capire come va il mondo.” ribatte cinico.

Alla sua frase mi indigno oltremodo, ma cerco di non darglielo a vedere e ribatto alla sua frase con più calma che posso.

“Non c’è neanche una persona, Garreth, che ti abbia fatto cambiare idea? Che ti abbia fatto tornare anche solo per un minuto, la speranza?” gli chiedo accorata, speranzosa.

Si volta verso di me, guardandomi intensamente, tanto da farmi credere che non mi abbia sentito o che non voglia rispondermi.

“Sì, una c’è.” mi dice in tono solenne, puntando i suoi occhi profondi nei miei.

Per un breve, fugace, intenso attimo, tutto in lui mi ha fatto credere – sperare – che si riferisse a me.
Vorrei potergli chiedere qualcosa in più, avere finalmente le risposte alle mille domande che mi assillano la mente e non mi lasciano tregua; vorrei avere il coraggio di dare voce ai pensieri, ai dubbi, alle conclusioni che sono stata costretta a tirare perché lui non mi dice niente, lascia tutto in sospeso, ma non ne ho la forza. Le parole rimangono schiacciate nella trachea dalla paura e dall’arrendevolezza.
Per togliermi da questa situazione, mi schiarisco la gola, mi alzo, iniziando a sistemare tutto nel lavello.

“Che stai facendo?”

“Ti sto aiutando. Forza, io lavo e tu asciughi.”

C’è poco da pulire e nell’arco di un quarto d’ora, abbiamo quasi finito. Gli passo l’ultimo bicchiere e senza farlo a posta, le nostre dita si sfiorano per un solo attimo, sufficiente a farci fermare, consapevoli di una nuova e strana tensione tra di noi.
Garreth posa il bicchiere per prendere la mia mano, iniziando a sfiorarne la pelle, mentre l’altra la porta all’attaccatura dei capelli, sulla nuca, iniziando a massaggiare delicatamente.
Il cuore perde colpi, inizia a battere in maniera irregolare, gli occhi si fanno lucidi e sento le guance andare a fuoco. Sono convinta che anche lui possa sentire, percepire, questo mutamento nel mio corpo perché rinsalda la presa, avvicinandomi di più, mettendomi così di fronte a lui.
Lo guardo dritto negli occhi, i suoi sono ardenti braci vive, le pupille dilatate e profondi abissi in cui mi vorrei perdere. E non mi faccio più alcuna remora a nascondere ciò che il mio corpo sta urlando; che veda l’emozione nei miei occhi, che senta pure il cuore che batte furioso nel petto, non importa, voglio che sappia che per me, lui, ormai non è più un semplice licantropo.
Mi inumidisco le labbra e questo gesto sembra risvegliare qualcosa di più bestiale, poiché il respiro gli diventa pesante, le narici si allargano e la presa diventa adamantina.
Si china verso di me, ed io mi sporgo verso di lui, reclinando la testa ed alzandomi sulla punta dei piedi per guadagnare qualche centimetro. Poso le mani sul suo petto per avere maggiore equilibrio, percependo il suo calore, nonostante la maglietta.

“Garreth.” è un bisbiglio appena accennato, esalato con la gola asciutta e gli occhi liquidi.

Passa il pollice sul contorno delle labbra, guardandone e studiandone il profilo, procurandomi un leggero solletico che cerco di tenere a bada; i nostri nasi si sfiorano e i respiri accelerati si confondono.
Chiudo gli occhi, incapace di respirare regolarmente, credendo di morire soffocata, quando percepisco le sue labbra vicinissime alle mie.
Non ci siamo ancora sfiorati quando la porta sbatte con violenza ed entra un Eric trafelato e a dir poco allarmato.

“Abbiamo un grosso problema!” grida, con lo sguardo stralunato, fermandosi però sulla soglia della cucina, ancora più confuso e allucinato di prima.

“Oh...”

Immediatamente ci stacchiamo, evito di guardarlo negli occhi, di rivolgergli la parola o quello che stavamo per fare sarebbe ancora più palese di quanto non lo sia, e finisco per asciugare un bicchiere già asciutto, fingendo che non sia accaduto niente.

“Oh, scusate… io…” il poveretto non sa che dire.

Non ho il coraggio di voltarmi, ma immagino che sia in imbarazzo anche più di noi.

“Che c’è Eric? Avanti, parla!” lo esorta poco gentilmente Garreth.

Solo adesso oso lanciare una sbirciatina ai due, interessata a cosa si devono dire.

“I cacciatori hanno appiccato il fuoco al villaggio di Josh. Il branco sta fuggendo e credo che stiano venendo qua.” dice grave.

Segue un attimo di silenzio che pare lungo come una vita, durante il quale non vola una mosca. Anche io, mi sono fermata, smettendo di respirare, attonita davanti a tale notizia e in attesa di sentire cosa dirà l’alfa.

“Tu e altri due assicuratevi che il branco non venga seguito e scortateli fino a qui.” dice autoritario, poi si rivolge verso di me e la cosa non mi piace per nulla.

“Tu rimani qui e vedi di non uscire per nessuna ragione.” mi punta un dito contro, perdendo tutto ciò che di dolce aveva fino a qualche attimo fa.

“Ma io voglio aiutare.” mi lamento, passando oltre la penisola quasi a corsa ed affiancandolo.

“Lo farai stando in casa, chiusa dentro, ferma e buona.”

“No, non è vero. E lo sai anche tu!” mi impunto.

“Eric, vai sbrigati!” gli ordina.

Il licantropo annuisce con la testa e sparisce, lasciandomi nuovamente sola con l’alfa ma sono sicura che questa volta non mi piacerà per niente.

“E’ una cosa pericolosa questa Amira, non posso neanche pensare di metterti in pericolo.” sembra molto più preoccupato di Eric.

“E non lo sarò.” lo rassicuro, con un mezzo sorriso. “Ma non ho intenzione di starmene rinchiusa qui, come una tua prigioniera.”

Sospira pesantemente e sta per ribattere, ma lo fermo.

“Se lo farai, io scapperò, come ho fatto con Eric. Abbi fiducia in me, Garreth, ti prego.” gli accarezzo una guancia, per infondergli quella consapevolezza che gli manca.

“Bene, ma stammi vicino. Mettiti queste.” mi porge le scarpe che mi ero tolta ieri sera e che erano state abbandonate vicino all’ingresso. “Adesso vieni, mi stanno chiamando.”

Mi prende per mano e mi trascina fuori, dove ad attenderlo c’è quasi tutto il villaggio radunato, in attesa che gli venga spiegata la situazione.

“Che succede, alfa?”

“E’ vero quello che si dice in paese?”

“Anche a Burnside gira voce di un incendio! Sono stati i cacciatori?”

“Verranno anche da noi!”

Vedo la preoccupazione stampata nei loro volti, grondare dai loro occhi mista ad un odio e ad una rabbia smisurata, incommensurabile per quegli esseri immondi che stanno distruggendo le loro vite.
Una madre tiene stretto il proprio figlio, come se glielo stessero per portare via da un momento ad un altro. Mi si stringe il cuore a questa scena e solo ora mi rendo davvero conto che Garreth aveva ragione: io non posso esser d’aiuto, non questa volta.

“No, non lo faranno. Troveremo una soluzione.” gli rassicura, avvicinandosi al gruppo e cercando di infonderli la calma.

“E lei che ci fa qui?” domanda uno di loro, indicandomi.

Il mio sguardo preoccupato si sposta subito sull’alfa e lui, come percependo la mia iniziale paura e il disagio, si frappone tra me e le persone che stanno cambiando atteggiamento.

“Chi ci dice che non sia sua la colpa?” domanda un altro licantropo, dando man forte al primo.

Rimango a bocca aperta, sconcertata dalla sua accusa.
Tra la folla vedo anche Beth, senza i figli però.

“Taci, razza di idiota! Lei è dalla nostra parte. Ti ricordo che ha salvato me ed i miei piccoli.” interviene la donna, alzando il tono di voce più che può per farsi sentire, per sovrastare il mormori crescente degli altri, guardando il tipo che ha parlato e preparandosi a fronteggiarlo di nuovo.

“Lo può avere fatto per farvi cadere nella sua trappola.” da man forte un altro, sorpassando alcune persone per avvicinarsi al compare e alla donna.

Qui per me si sta mettendo davvero male.
Rimango in silenzio, spaventata da come si stanno scagliando contro di me, sapendo che non esisterebbe parola o discorso ben fatto per convincerli del contrario.

“Ha portato con se un altro umano.” l’intervento di Julia è decisivo per far scattare la furia degli altri, che si avvicinano con intenzioni davvero poco amichevoli. “Per quanto ne sappiamo, possono essere due infiltrati dei cacciatori!” getta altra benzina sul fuoco, i licantropi sembrano esplodere e la pazzia inizia a dilagare tra di loro.

Si fanno vicini, ma non tanto perché Garreth è sempre frapposto tra me e gli altri, le urla, le minacce si sovrastano, c’è chi suggerisce addirittura di uccidermi.
Sento il sangue evaporare dal corpo.
Vorrei andarmene via da qui, lontano.
Forse adesso inizio a capire cosa voleva dire Garreth con i discorsi di ieri sera, sulla paura, l’odiare tutti indistintamente.
Io sto cercando di non temerli, perché so che non tutti mi vogliono morta, ma in questo momento vorrei davvero tanto non essere qui, in mezzo ad un branco di bestie senza lucidità, ma a casa mia. Quella in Italia, molto lontano da questo posto e da loro.

“Lei è la cugina di Anna ed Anna è la compagna del beta del nostro alfa. Il tuo, tuo e anche il tuo!” grida furiosa Elizabeth, indicando con l’indice i miei accusatori, senza ottenere un grande risultato. “Mettere in discussione la lealtà e la fiducia di Amira, vuol dire farlo con il nostro leader stesso. State, forse, cercando di mettere in discussione le scelte del vostro alfa?!”

C’è un momento di silenzio, in cui le sue parole sembrano aver attecchito, ma i due uomini partono nuovamente alla carica, iniziando ad offendere anche lei, dicendole che dovrebbe fare la mia stessa fine.
Sono così sconvolta che non mi accorgo del lamento che mi esce dalle labbra, ed solo in un secondo tempo, per un fugace momento mi accorgo che Garreth stava adocchiando nella mia direzione, notando gli occhi spalancati dal terrore.

“Silenzio!”

E’ bastata una semplice parola e le mani strette a pugno per far ammutolire tutti e fargli fare un passo indietro.
Non parla più nessuno adesso, guardano il loro capo e si vede dagli sguardi che ne avrebbero ancora tante di cose da dire, ma non osano contraddire un ordine del loro alfa. Nell’aria vibra una carica densa ed elettrostatica, da Garreth proviene un forte e prepotente odore di bosco che si sta spandendo tutto intorno, così forte che persino io lo sento e mi verrebbe da chinare la testa come stanno facendo alcuni più vigliacchi.
Garreth si gira verso di me e in quello sguardo scuro, severo, profondo, vi leggo l’odio e la rabbia, arretro di un passo spaventata che abbia creduto alle bugie che hanno sputato gratuitamente.

“Garreth, non è vero… io non ho mai...” le parole bisbigliate mi muoiono in gola, intrappolate nella trachea e devo sforzarmi per non mettermi a piangere come una bambina che si è persa e grida per cercare la mamma.

In lontananza adocchio Julia che sorride cattiva, sperando di aver fatto centro con le sue accuse.

“Lo so.” addolcisce lo sguardo, cercando di rassicurarmi senza usare le parole per non farsi sentire. “Ora però torna a casa e chiuditi a chiave. Non uscire per nessuna ragione, intesi?”

Non dico niente, continuo solo a fissarlo piena di panico.

“Fallo per me, ti prego.”

“Va bene.”

Si assicura che entri in casa e guardando da uno spiraglio della finestra, lo vedo dirigersi con tutto il resto del branco lontano da casa sua.
Immagino che adesso andranno nella stanza delle riunioni; ed è stato un bene che, quella volta con Edoardo, ci abbia visti Garreth e non un’altra persona o per noi sarebbe stata la fine.
A tal proposito, salgo di corsa le scale per tornare nella sua camera e inviare un messaggio ad Edo, breve e conciso, per dirgli – imporgli – di non uscire per nessuna ragione di casa.
Dal canto mio, me ne sto buona sul divano, in attesa di notizie, sperando che davvero non mi condannino a morte.
Mi alzo per prendere un bicchiere d’acqua e me ritorno seduta. Cambio posizione svariate volte, arrivando alla conclusione che starò bene solo quando lo vedrò sbucare da questa porta.
È passata un’ora circa, minuto più o minuto meno, quando il mio telefono squilla, facendomi fare un balzo sui cuscini.
Guardo lo schermo, sperando di leggere quella lettera, ma non è lui.

Edoardo.

Forse vorrà solo fare due chiacchiere, dal momento che siamo entrambi barricati in casa, divisi.
Poverino, ha scelto proprio il momento migliore per venirmi a trovare e lo stesso vale per me, con mia cugina.

“Anche tu ti stai annoiando?” gli domando, guardando il suo volto attraverso lo schermo, che, però, di annoiato non ha proprio niente.

“Mira, che succedere?” domanda, guardandomi intensamente, gli occhi dilatati leggermente… sembra paura.

Ma di cosa?
Lui non è a conoscenza di niente, dovrebbe essere tranquillo. Magari arrabbiato, ma tranquillo.

“C’è un incendio nel villaggio vicino e gli sfollati verranno alloggiati qui. Vogliono che stiamo in casa così che non ci accada niente. È per la nostra incolumità.” mento fino ad un certo punto.

Lo vedo guardarsi intorno, circospetto, spostarsi da una stanza ad un’altra e sbirciare fuori dalla finestra, come per accertarsi che non ci sia nessuno.

“Anche tu hai dei brutti ceffi che ti fanno la posta e girano intorno per casa? È così che si assicurano la nostra sicurezza?” bisbiglia così a voce bassa, che ogni tanto mi perdo qualche parola e devo andare ad intuito.

Colpa del segnale.

La sua affermazione mi fa gelare il sangue nelle vene e non ci metto molto prima di capire che qualcosa non sta andando per il verso giusto.
Pure io mi sporgo dalla finestra, ma da queste parte pare non ci sia nessuno che fa la guardia.

“Fammeli vedere.” parlo a bassa voce a mia volta, come se quelli fuori casa fossero in grado di sentirmi, ma è sempre bene essere previdenti con esseri come loro.

Edoardo si avvicina con cautela alla prima finestra e sporge il telefono per farmi vedere, o per meglio dire, intravedere, gli uomini che girano intorno alla porta d’ingresso.

“Ci sono solo loro?” domando stupita, senza riconoscere però i soggetti.

“No, ce ne sono due in giardino e uno che si fa tutto il giro della casa.” Edo sposta il display per guardarmi, ed è spaventato.

Ha già capito che c’è qualcosa sotto, di molto più grave di un semplice incendio o di una protezione. “Chi sono e che cosa vogliono?” si guarda in giro, come se temesse che qualcuno sfondi la porta da un momento ad un altro.
Appoggio la schiena alla parete, lasciandomi scivolare sul pavimento, scoraggiata da una situazione davvero più grande di me.

“Diciamo che non ci siamo fatti amici proprio in tutto il villaggio.” dico con un filo di voce, affranta, pentendomi di non averlo spedito a casa quando ancora ne avevo la possibilità.

L’unica soluzione è quella di farlo uscire di casa, ma come?!

“Edoardo, vai al piano superiore, entra in tutte le stanze, stacci per qualche secondo e che ne so… fai un giro, lascia il tuo odore ovunque, tende, coperte, mobili… dopo apri la finestra e chiudi le porte. Quando avrai fatto ciò, entra nell’ultima stanza a destra e chiuditi a chiave.”

Il mio cervello è un piccolo motore in azione, alla ricerca della soluzione giusta.

“Perché devo fare tutto questo?”

“Loro hanno… dei segugi, ecco… e noi dobbiamo… depistarli...”

“Amira, mi vuoi dire che cazzo sta succedendo?” il mio amico è fuori di sé dalla paura e dall’incomprensione.

“Siamo in un grosso guaio.” gli confido, sapendo che non posso più tergiversare o fare finta di niente. “Cerco di salvarti da quei pazzi, ma tu devi avere fiducia in me, chiaro?” lo supplico, perché sono consapevole che da quando è arrivato qui, non è andata una per il verso giusto.

“Che cosa vogliono, me lo dici?!” sbotta infine, iniziando a salire le scale.

“Farti la pelle.”

“Perché?” il suo è un grido bisbigliato, mentre lo vedo entrare in camera mia, accucciato per non farsi vedere dalla finestra, e fare quello che gli ho detto.

“Non te lo posso dire, si tratta di un segreto. Devi solo avere fiducia in me.” mi massaggio le tempie, sentendo montarmi un terribile mal di testa.

E ho anche lasciato da Anna le mie medicine.

“Forse so chi ci può aiutare, ma devo riattaccare. Tu fai esattamente quello che ti ho detto e mi raccomando, non fare un fiato.” mi assicuro.

“Come fanno a sentirmi se sono a metri di distanza?!” mi fa notare con fare ovvio.

“Allora perché stai bisbigliando?” gli domando a mia volta.

Nonostante la situazione, non abbiamo perso l’abitudine di bisticciare.

“Ti richiamo tra poco. Tu cerca di resistere.”

“Va bene.”

Sto per chiudere la conversazione, poi ci ripenso.

“Ah, Edo… ti voglio bene.”

“Anche io, piccola.”

Chiudo.

Non so perché, ma ho come avuto l’impressione che fosse un addio.
L’emicrania mi sta giocando un brutto scherzo. Decisamente.
Scorro nella rubrica alla ricerca di un altro nome, essenziale, che sicuramente ci salverà da questa situazione.
Quando lo trovo, premo il tasto verde ma subito il dispositivo mi rimanda la voce metallica ed atona del suo operatore telefonico, che mi avvisa che non è raggiungibile.

Merda!

Ci riprovo ma il risultato non cambia, Garreth non risponde.
Gli lascio un messaggio, sperando che almeno questo gli arrivi e che lo possa leggere in tempo, ma so che dovrò sbrigarmela da sola se voglio salvare il mio amico.
Chiamo Edoardo che, nel frattempo, si è nascosto nel ripostiglio, proprio come gli avevo ordinato di fare.

“Ehi, come va?” gli domando, non potendo vedere il suo volto, mi chiedo che espressione abbia, se dopo tutta questa storia mi vorrà ancora bene e come sua amica, o mi manderà al diavolo, tornandosene in Italia e dimenticandosi di me.

A questa idea, mi viene da piangere.

“Sono stato meglio, Amira. E poi qui è stretto.” si lamenta, cercando però di mantenere la calma.

Soffre di claustrofobia e non è stato bello quello che l’ho costretto a fare.

“Lo so, tesoro, ma vedrai che ci dovrai stare poco. Cerca di resistere, trova un modo per barricarti all’interno. Io sto arrivando.”

Attacco la chiamata e dopo essermi assicurata che non ci sia nessuno che fa la posta anche a me, esco veloce come un fulmine, fiondandomi nel bosco e costeggiando il villaggio fino ad arrivare fino a casa di Anna.
È vero che avevo detto, avevo dato la mia parola a Garreth che non sarei uscita, che non mi sarei cacciata in altri guai, ma questo non lo avevo previsto ed ora il mio migliore amico ha bisogno di me, ora più che mai, per una colpa non sua.
Mi avvicino alla staccionata, stando attenta a non farmi fiutare, girando intorno alla casa, fino a ritrovarmi dalla parte opposta dei licantropi, proprio sotto la finestrella dalla quale dovrà scendere Edo.

 

‘Apri la finestra.’

 

Nel giro di qualche istante, lo vedo affacciarsi e aprire bocca ma con un gesto secco e perentorio lo faccio tacere e gli indico il telefono per comunicare.

 

‘Adesso che facciamo?’

 

‘Tu salti. Io li distraggo.’

 

Edo mi fa il gesto per dirmi che sono pazza; probabilmente ha ragione, ma non vedo altre soluzioni.

 

‘Zitto e salta.’

 

Ripongo il telefono in tasca e dopo esseri avvicinata ai quattro uomini, che adesso sono tutti davanti alla porta d’ingresso, inizio a tirare sassolini e rametti verso il giardino e grazie a qualche tiro fortunato, riesco a buttarli oltre la staccionata ed a fargli credere che stiamo fuggendo da lì.
Ritorno nel punto dove il mio amico mi sta aspettando, trafelato e leggermente shockato dalla discesa che gli ho fatto fare: dalla finestra alle tettoia, un salto sul ramo dell’albero e poi un altro sul terreno.

“Forza, dobbiamo correre.” lo prendo per mano e scappiamo via.

Non mi volto indietro, sicura che il peggio sia passato, di averla fatta franca ingannando superbamente i quattro tizi, ma ecco che davanti al nostro cammino, la stessa strada che ho percorso io per venire fin qui, ne vediamo spuntare un quinto, fermo a braccia conserte, come se ci stesse aspettando.
Mi serve una frazione di secondo per capire che anche lui fa parte di questo gioco malato, che era tutto architettato nei minimi particolari per farci fuggire e inseguire, come piace a loro.
Non aspetto oltre e cambio traiettoria, continuando a correre più veloce di prima, più disperata e più determinata che mai ad arrivare alla strada principale del paese.
Adesso non c’è davvero bisogno di voltarsi per sapere che ci stanno inseguendo, sentiamo i loro passi subito dietro i nostri, i loro respiri molto meno affannosi dei nostri e i loro insulti.
Casa di Garreth, in questo momento, sembra così lontana.
Tento un ultimo, disperato tentativo, e provo a richiamare il licantropo, sperando che adesso sia in un punto in cui il segnale prende, che mi possa rispondere e venire a salvare.
La sua paura si sta avverando: ho bisogno di lui più che mai e non è qui per potermi salvare. Non questa volta.
Mi si forma un groppo amaro in gola, che cerco però di scacciare e di infondermi coraggio e speranza.
Afferro il telefono dalla tasca e nella fretta di cercare il numero, non vedo la radice rialzata di un arbusto, inciampando e perdendo la presa con la mano di Edo.
Batto le ginocchia e le mani, salvando il extremis il viso, perdendo così il cellulare.

“Mira! Mira, stai bene?” vengo aiutata ad alzarmi, si accerta che stia bene e che siano solo graffi superficiali.

“Non abbiamo molto tempo. Dov’è?!” mi sposto una ciocca di capelli dal viso, guardando il suolo coperto di foglie alla ricerca del…

“Stavi forse cercando questo?” mi domanda sarcastico, il quinto di loro, quello che ha l’aria di essere il capo della banda, avvicinandosi per accerchiarci insieme agli altri.

Sventola in aria il mio cellulare per poi riporlo in tasca con aria di vittoria.

“Marcus ci ha detto di fare una cosa veloce. Quindi, da chi siete stati assoldati?” ci domanda, facendosi scricchiolare le dita.

“Lui si sbaglia! Noi non siamo coinvolti in questa storia.” urlo inviperita, stanca di dovermi sempre giustificare per una colpa non nostra.

“Ragazzina, siete due contro cinque, non farei la furba, fossi in te.”

Gli altri quattro se la ridono, muovendo qualche passo sempre più vicino a noi, ghignando maligni ed eccitati di avere le loro prede in trappola.

“Sto dicendo la verità. Il vostro alfa si fida, dovreste farlo anche voi!”

“Lui non ci vuole credere… lui non ci vuole ascoltare. Dice che siete solo due innocui umani e che non vi si deve per nessuna ragione torcere un solo capello. Sopratutto a te, ragazzina. Mah, chissà perché poi…” alza le spalle, non capendo. “Ma lo aiuteremo noi a farlo ragionare, a fargli aprire gli occhi… uccidendovi. Ragazzi!”

“A-Amira...” è il richiamo a dir poco disperato, angosciato, detto a fil di voce di Edoardo, al mio fianco, che mi stringe la mano come se volesse stritolarmi ogni singolo osso.

Quando mi volto nella stessa direzione in cui sta guardando lui, capisco, con mio grande orrore, cos’è che lo rende così spaventato da avergli fatto perdere colorito.
Il rumore di ossa spezzate, di lamenti e rantolii, seguito dall’inconfondibile latrato dei lupi.
Ha appena visto quattro uomini trasformarsi in enormi e feroci belve.
Chiudo gli occhi per non perdere il senno e scoppiare a piangere, vedendo tutti i miei tentativi di salvarlo, di proteggerlo dalla verità, trasformarsi in fumo.

Perfetto.

Siamo capitati dalla padella alla brace.










* Angolinettino mio personale *

Salve a tutti :-) 
Mi scuso per il ritardo ma i mesi sono volati e io nemmeno me ne sono accorta.
Spero che il capitolo vi piaccia, fatemi sapere i vostri pareri.
Un abbraccio 
Buone feste a tutte ragazze!!! :*

Besos

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Capitolo 13
*** Aghi d'odio ***


“Che significa?” mi domanda angosciato il mio povero, malcapitato amico.

“Significa che mi dispiace tanto averti messo in questo guaio, solo per mio egoismo.”

Non saprei come uscirne, perché due umani anche solo contro un licantropo non ce la farebbero, figurarsi contro un piccolo gruppetto come questo.

“Lui non c’entra niente. Lasciatelo andare!” urlo all’unico che è rimasto umano. “Prendete me!”

“No, non credo che lo farò. Vi uccideremo e diremo all’alfa che eravate dalla parte dei cacciatori.” ghigna sadico, strofinandosi le mani, le labbra piegate in un sorriso macabro a deturpargli il viso.

“Perché ce l’avete tanto con noi? Non vi abbiamo mai fatto niente. Io ho salvato alcuni del tuo branco!” gli rinfaccio, ma non serve a molto, le mie parole si disperdono nell’aria.

Quindi è questo l’odio immotivato, nato a prescindere nei confronti di qualcuno solo perché diverso.

Non sono migliori di noi.

“Dal canto mio, niente di personale.” si stringe nelle spalle, ad ulteriore conferma della sua frase. “Ma non vai molto a genio a Julia e mi sembrava un’ottima ragione per togliervi di mezzo. Era scortese nei confronti di mia cugina, non farle questa gentilezza.”

Potrei dire che ne rimango sconvolta, allibita. La verità è che ormai a tutte queste sorprese ci sono abituata e nella situazione in cui ci troviamo, ho ben altro a cui pensare, che allo stupore di una simile scoperta.
Che mi odiava era palese come la luce del sole, non credevo fino a questo punto.

“Andate a farvi fottere…. Tu, e quella cagna di tua cugina!” grido sboccata, fuori di me e da ogni grazia, assottigliando gli occhi e chiudendo i pugni.

Anche Edoardo mi guarda allibito per il linguaggio volgare che raramente mi sente usare. Ma questa è un’occasione a parte.

“La gattina ha tirato fuori le unghie, peccato che non ti servirà a niente. Adesso, basta parlare.” si sta per trasformare anche lui, ma viene interrotto da dall’arrivo di un’altra persona.

Garreth…

No, non è lui…

“Perché non ve la prendete con qualcuno della vostra taglia?” parla una voce di uomo che non mi è sconosciuta, leggermente divertita e canzonatoria.

Tutti noi ci voltiamo verso il nuovo arrivato e solo io tiro un sospiro di sollievo, riconoscendo in lui, il ragazzo che ci è piombato addosso ieri sera.

“E tu, chi diavolo saresti?” ringhia furioso il nostro assalitore, per essere stato interrotto.

“Ma come?!” si finge offeso, avvicinandosi a noi e mettendoci le braccia sulle spalle, in un abbraccio. “Io sono Patrick e sono qui per salvare questa fanciulla e il suo amico.” mi bacia la mano, facendomi poi un lieve inchino, ritornandosene successivamente concentrato sui suoi avversari.

Per essere strano, è strano forte, ma basta che ci tiri fuori da questo casino.

“Faremo fuori anche te.” con un cenno della testa, da il via ai suoi che in un attimo ci saltano addosso.

Il nostro alleato ghigna malevolo, con una strana luce di superiorità e di trionfo nello sguardo, spostandosi una ciocca di riccioli biondi da sopra gli occhi.
E se ieri sera, alla luce tenue del lampione, mi era sembrato un cherubino, con i suoi tratti efebici, gli occhi dolci, spaventati, e la matassa bionda dei suoi capelli, adesso sembra il demonio sceso in terra per portare l’Apocalisse.
Fortunatamente Patrick è estremamente veloce nella trasformazione e riesce a bloccare in tempo un loro iniziale attacco, cercando di deviare lo scontro lontano da noi.
Io ed Edo cerchiamo di fare del nostro meglio per aiutare, nel nostro piccolo, il licantropo, iniziando a tirare sassi, ottenendo però scarsi risultati.

Garreth, dove sei?
Se mi senti, ti prego, vieni a salvarci.
Vieni a salvarmi.

Non sono mai stata così desiderosa che potesse sentire i miei pensieri.

Patrick se la cava benissimo e riesce a mettere fuori gioco il primo lupo, mentre noi non siamo stati nemmeno in grado di procurare un graffio agli altri.
Vediamo il corpo esanime, sanguinante e riverso a terra dell’animale che ha combattuto contro il nostro amico, mentre un secondo licantropo parte all’attacco per cercare di metterlo k.o.
All’improvviso veniamo divisi da un grosso lupo dal pelo marrone e grigio, che con un balzo si frappone tra noi due, costringendoci a rotolare a terra per non essere travolti dalla sua mole, dandogli modo così, di potersi concentrare su Edoardo che, paralizzato dalla paura non riesce più ad alzarsi né a muoversi per scappare.
Rimane sdraiato a terra, sull’erba umida, con gli occhi spalancati colmi di terrore, con un braccio alzato all’altezza del viso come se bastasse a ripararsi da qualsiasi attacco, come se fosse sufficiente a salvarsi.

Cristo, Edo, muoviti!

“Corri!”

Ma lui non si muove.
Mi rialzo con uno scatto che per poco non mi fa perdere l’equilibrio, mi fiondo sul lupo, tirandogli la coda e dandogli un calcio alla zampa, facendolo imbestialire e concentrando la sua attenzione su di me.
L’animale mi ringhia contro, snudando le zampe ingiallite e acuminate, e con una musata è in grado di farmi cadere e ruzzolare per terra, a qualche metro di distanza.
Il mondo si capovolge svariate volte, il cielo si mescola per un attimo con il suolo e non riesco più a capire dove finisca uno ed inizi l’altro. Perdo l’orientamento e quando finalmente mi fermo, la testa continua a vorticare come una trottola, il cuore pompa sangue e batte forte, tanto da farmi male. Così come mi dolgono le braccia e le gambe per qualche graffio ed ematoma che mi sarò certamente procurata nella caduta.

L’urlo che sento giungere alle mie spalle mi fa smettere di battere il cuore.

Ancora sdraiata e tremante sul terreno, mi volto in direzione dello scontro, dove Patrick è ancora intento a combattere, ed Edoardo è stato appena scaraventato da una zampata a molti metri di stanza da uno dei nostri nemici, ferito alla gamba.

“NOOOO!” è il mio grido, urlato con voce disumana, resa roca dal freddo, dall’umidità, che ha fatto voltare persino Patrick, che distraendosi inizia a subire vari colpi dal suo avversario.

Con gli occhi lucidi e la mente annebbiata, gattono come meglio posso verso il mio amico, prima che un altro lupo mi si pari di fronte e con una zampata mi getti nuovamente a terra.
L’animale mi sovrasta, assicurandosi di tenermi ferma con una zampa, mostrandomi i denti affilati e bagnandomi il viso con la sua viscida e fetida bava, pronto a darmi il colpo di grazia.
Volto il viso verso Edoardo, tumefatto e sanguinolento, sempre più pallido e gli occhi assenti, ma si sforza di sorridermi nonostante la tragedia che ci starà per travolgere.
Non so cosa stia facendo Patrick, ma spero che almeno lui stia bene e che riuscirà a cavarsela; i suoni del licantropo coprono ogni altra cosa.
Apre le fauci, emanando un odore a dir poco nauseabondo, continuando a bagnarmi il viso ed i vestiti; fatico a respirare con il peso dell’animale che mi schiaccia ma tento in ogni modo di tastare il suolo intorno a me, alla ricerca di una pietra con cui colpire la bestia. La sua pressione, però, è troppo forte e, arresa, sento gli occhi chiudersi.
I miei ultimi pensieri potrebbero essere rivolti ai miei genitori, a qualche amica rimasta in Italia; potrei avere qualche rimembranza dell’infanzia – dicono che succeda a chi sta per morire –, potrei ricordare di quanto eravamo felici io ed Edoardo nello stanzone degli allenamenti o sopra un palco, a ballare come se fossimo trasportati dal vento, leggeri come foglie. Invece, il mio ultimo, rammaricato, triste, dolce ed innamorato pensiero va inesorabilmente a Garreth. E una lacrima scende dall’occhio sinistro.

Solo che il morso non giunge.

Giungono invece dei guaiti, latrati e degli ululati, che mi spingono ad aprire gli occhi. E solo ora mi rendo conto che non ho più il peso a schiacciarmi e che posso respirare normalmente.
Prendo coraggio, quel poco che mi è rimasto, ed apro prima un occhio e successivamente anche l’altro, vedendo così che adesso ci sono molti più lupi che stanno attaccando i nostri assalitori.
Gattono traballante fino da Edo, cercando di non farmi notare, strusciando le ginocchia sull’erba, sentendo l’umidità penetrarmi fin oltre la stoffa dei pantaloni, con le lacrime che mi solcano le guance e cadono a terra.
Il sangue esce copioso, la ferita sembra profonda, ma tra i lembi del pantalone e i rimasugli di sporco non riesco a capirlo con chiarezza. Cerco di bloccare l’emorragia con la mia felpa, rimanendomene in maglietta, iniziando a tramare per il freddo e la paura.

“Andrà tutto bene… fidati.” dico tra i singhiozzi, premendo sulla ferita, alzando gli occhi per vedere se qualcuno può venire a darci una mano.

“Magari… diventerò uno di loro...” ha la voce debole, ma riesce a scherzare anche in un momento come questo.

Gli occhi gli si fanno vacui, come se non stesse più guardando me, ma chissà cosa di molto, molto, lontano.

“Ti prego, Edo...” lo supplico, cercando di smuoverlo appena un pochino, quel tanto che basta per farlo ritornare presente e qui, da me.

“Mi dispiace… mi dispiace...” bisbiglio, più a me che a lui, che forse non riesce più a sentirmi, mentre mi inchino sul suo corpo, la testa appoggiata al suo sterno, per sentire se respira ancora, mentre mi domando, come siamo arrivati a questo, perché LORO sono arrivati a farci ciò, senza una vera ragione, per il gusto di fare del male, per semplice ignoranza che genera paura e da questa, la diffidenza e l’odio.

Veniamo raggiunti da Patrick e da un Richard che dopo essersi trasformati nuovamente in umani, sono totalmente nudi.
Sono perfettamente consapevole che ci sono cose molto più urgenti in questo momento, ma proprio non riesco a fare a meno di sprofondare in un mare di imbarazzo, senza avere la più pallida idea di dove dover guardare, per non incontrare i loro sguardi o, tanto meno, i loro corpi.

Questo era un aspetto a cui non avevo – e non avevo minimamente voglia – pensato.

Fortunatamente gli altri due che sono giunti in nostro soccorso, rimangano nella loro forma di lupo, per fare in modo che i corpi privi di sensi o privi di vita dei traditori, vengano trasportati lontano dal luogo della battaglia.
Patrick mi si affianca, mentre Richard si posiziona dall’altra parte ed esamina la ferita del mio amico.
A questo punto, sposto il mio sguardo su di lui, che pare abbia perso conoscenza, ma respira ancora.

“Come stai, cara?” mi domanda Ellie, rimasta sempre in forma umana, inginocchiandosi accanto a me e poggiandomi una mano sulla schiena, massaggiandola leggermente.

“Sto bene, ma lui...” indico il mio amico, sul punto di scoppiare a piangere.

“Non è una ferita molto profonda, ma va portato subito da Eric.” esordisce serio Richard, infilandosi un paio di pantaloni che aveva con sé la moglie, dandone un paio anche a Patrick.

“Eric non c’è... È andato a scortare il branco fino a qui.” gli faccio sapere, sentendo la disperazione crescere, le lacrime che scendono lente ed amare.

Senza di lui, come potrà il mio amico guarire?

“Tranquilla, sono un medico anche io.” mi rassicura l’uomo, con un accenno di sorriso.

Lui e Patrick lo alzano e viene caricato dal primo licantropo con una facilità impressionante, come se fosse una piuma e non un peso morto.

Starei per seguirli, ma la mano delicata e decisa di Ellie, mi ferma.

“Torniamo a casa.” mi sorride incoraggiante, come solo una madre può essere.

In questo momento, mi manca la mia, di madre, e non so cosa darei per essere con lei, seduta sul divano di casa, mentre beviamo una tazza di tè e vediamo per l’ennesima volta Il Signore degli Anelli, come facciamo sempre, tutti gli inverni, sotto lo sguardo esasperato di mio padre.
Annuisco, in risposta alla proposta della signora, e lei, con una gentilezza infinita, mi copre con il suo cappotto, non curandosi del fatto che, per la milionesima volta, sia sporca di sangue, terra ed erba. Potrei sembrare un dipinto astratto.

Ho un debito infinito di lavanderia con questa famiglia.

“Garreth dov’è? Lui deve sapere...” dico, illuminata all’improvviso da un’amara consapevolezza. “Noi non siamo coinvolti… noi… io non l’ho tradito.” sono presa da una malata frenesia, fermandomi e costringendo la donna a fare altrettanto, che mi guarda spaesata, non capendo da dove mi siano saltate fuori certe idee.

Ma le affermazioni di quel maledetto continuano a rimbombarmi nella mente, ottenebrandola da ogni altra cosa.

“Julia l’ha fatto!” mi lascio sfuggire, tappandomi la bocca con entrambe le mani, ma ormai è troppo tardi ed Ellie mi ha udita perfettamente, girandosi verso di me, guardandomi con una strana espressione seria che mi mette i brividi.

“Cosa?!” mi guarda in volto, scura, dura, con uno sguardo che non le avevo mai visto in volto e che non credevo fosse capace di avere, da quel poco che la conosco.

“Noi non c’entriamo...” puntualizzo, confusa da quello che devo dire, davanti al suo viso indurito ed incattivito. “Quell’uomo diceva che… che era per farle un favore...” sussurro, guardandola negli occhi quel tanto che basta affinché mi creda, distogliendo poi lo sguardo, troppo in soggezione.

“Non ti agitare, lo sa che non sei coinvolta. Ora torniamo a casa.” addolcisce lo sguardo e il tono di voce, capendo che sono ancora sconvolta dall’aggressione, mi sorregge per le spalle, vedendo che sono ancora debole sulle gambe.

Una volta dentro le mura di casa, vengo circondata dall’odore familiare che emana questo luogo e che, involontariamente, mi ricorda Garreth.
Mi sento decisamente più tranquilla, qui dentro, al sicuro, benché sia sempre presente l’incessante desiderio di vedere il proprietario di questo luogo che mi sta accogliendo, per spiegargli che sono innocente, non lo avrei mai tradito.

Non io.

Seguo Ellie al piano superiore, in una stanza dove non ero mai stata, non prestando molta attenzione a dove mi sta conducendo, se non quando mi dice qualcosa che è costretta a ripetere perché non la sto ascoltando.
Scuoto la testa, ritornando presente e concentrata sulle sue parole.

“Certo che mio figlio poteva darti dei vestiti miei, anziché suoi.” dice lei, una punta di divertimento nella voce, mentre prende da un grosso armadio di legno chiaro, alcuni indumenti.

Adesso mi rendo conto di essere nella sua camera da letto. Sua e di Richard, e l’imbarazzo non può che crescere in me.
Sto violando la privacy e gli spazi personali di tanta, troppa gente.
Sono un peso.

Inizio a strofinarmi il braccio nervosamente, trovandomi a disagio, evitando di guardarmi troppo intorno per non essere indiscreta.

“Non ti devi preoccupare, Ellie. I suoi abiti mi vanno bene.” dico, non volendo essere un ulteriore incombenza. Poi immediatamente penso che si possa offendere se non accetto i suoi. “Ma i tuoi sono molto meglio, sicuramente.” cerco di sorridere, senza sapere come comportarmi.

Lei ride, genuina e cristallina, posando sul bordo del grande letto matrimoniale, un paio di jeans e una semplice maglietta a maniche lunghe bianca.

“Sono sicura che i suoi vestiti non ti dispiacessero affatto.” mi guarda con ancora l’ilarità nella voce e nello sguardo. “E non dispiaceva neanche a lui che tu li indossassi...” lascia in sospeso la frase, guardandomi di sottecchi, mentre tira fuori dal cassettone un maglioncino di lana, dello stesso colore della maglietta.

“Che vuoi dire?”

“Che adesso i suoi indumenti, hanno il tuo odore.”

Non ho modo di chiederle altro, perché mi lascia sola per potermi cambiare e quando ho finito, la trovo in cucina, in mia attesa, avvisandomi che Eric è tornato con il branco al seguito.
Sono contenta che lui sia di nuovo qui, ma non riesco a nascondere la delusione.
Non è lui che speravo tornasse.
Quello che mi si presenta agli occhi una volta uscita di casa, è uno scenario angosciante ed infinitamente triste.

Un fiume di persone che cammina in modo lento, stanco, lo sguardo basso, abbattuto, che tenta di tenere un passo di marcia comune. Persone che si stringono, madri che cercano di calmare i propri figli che piangono o che sono troppo stanchi per continuare sono stati presi tra le loro braccia.
Ed io mi sento così impotente davanti a questo macabro spettacolo, tanto da sentirmi responsabile per quanto gli sta accadendo.
Hanno perso tutto, una casa, un luogo di appartenenza; forse anche alcuni affetti. Non sanno dove andare per continuare a vivere una vita che si possa definire tale, che gli è stata improvvisamente, brutalmente stravolta e che non sarà mai più come prima a causa di un odio immotivato ed irrazionale.

“Ellie, è bello rivederti.” sono le prime parole che dice Eric, avvicinandosi a noi due, abbracciando la donna che ricambia.

“Ci avete messo molto tempo, dovevate essere già qui.” è un rimprovero allarmato il suo, degno di una madre amorevole ed apprensiva.

Eric ritorna immediatamente serio, guardandosi intorno per accertarsi che nessuno lo stia ascoltando, per raccontarci ciò che gli è accaduto durante il tragitto.

“Siamo stati attaccati. Per fortuna erano pochi loro e molto arrabbiati noi.” ma non c’è nessun segno di divertimento nella sua voce, alla sua battuta.

È impossibile quantificarli, ma sembra un branco meno numeroso di quello di Garreth, benché stiano ancora uscendo persone dai confini del bosco.
Poi due di loro, dopo aver parlato con alcune donne e fatto una carezza ad un bimbo che ha ancora le lacrime agli occhi, si avvicina a noi, con passo sicuro e determinato.
E non mi serve una laurea in scienze licantropiche per capire quale ruolo ricoprono: sono un alfa ed il suo beta.
Solo quando sono davanti a noi, salutano rispettosamente Ellie, squadrando malissimo me.

Sai che novità.

Solo che questa volta non posso biasimarli.

Istintivamente, mi avvicino alla donna, facendo persino un passo indietro.

“Tranquilli, lei è con noi.” gli viene assicurato da Ellie, mettendomi una mano sulla spalla per farmi ritornare al suo fianco.

“Davvero Josh, è un’amica di Garreth.” aggiunge Eric, vedendo ancora lo sguardo ostile dell’altro alfa.

Gli occhi duri e freddi dell’alfa Josh sembrano rilassarsi di poco, continuando però ad osservarmi con intensità.
Ma questo sguardo non ha niente a che vedere con quello di Garreth e in un attimo mi ritrovo a pensare che non so cosa darei per averlo qui.

“Se le cose stanno così...” dice l’uomo, con voce roca, gutturale, cavernosa, come se avesse un difetto nelle corde vocali, rendendo il suo aspetto alto e minaccioso, ancora più spaventoso. “Io sono Josh e lui è il mio beta Benjamin.” si presenta, senza staccare gli occhi dai miei.

“Ciao...” dico in soggezione davanti ai sue uomini che ancora mi scrutano perplessi e, adesso, anche incuriositi sul perché un’umana sia qui e sia ancora viva.

Credo che nonostante le raccomandazioni di due dei membri più importanti del branco, non si fidino ancora di me.

“La situazione è critica. Dovremmo parlare con Garreth.” Josh incrocia le braccia al petto, evidenziando così i suoi muscoli tesi, sodi ed enormi, molto più grandi rispetto a quelli di Garreth, anche nonostante gli indumenti.

“Al momento è fuori in ricognizione.” gli fa sapere la madre, cercando di celare la preoccupazione.

“Siamo solo 70, ma non sappiamo dove andare. Dove poter trascorrere la notte.” dice abbattuto.

E nonostante sia tre volte me, grande e grosso, così imponente, è doloroso vederlo abbattuto per la situazione del suo branco.
Non lo conosco, ma si vede che non è un licantropo crudele. Non con i suoi, almeno. Ho qualche dubbio riguardo al suo comportamento con gli esseri umani, visto che occhiatacce mi ha lanciato.

“Potrebbero rimanere qui!” quasi grido, appena illuminata da questa idea, intromettendomi in un discorso che non mi compete, facendoli voltare tutti e quattro verso di me.

Mi pento all’istante di ciò che ho detto e in special modo, di essermelo lasciato sfuggire dal momento che i due uomini sembravano essersi dimenticati della mia presenza.

“Scusate.” dico in un sussurro pieno di imbarazzo, chinando lo sguardo per puntarlo sulle punte delle scarpe decisamente più interessanti.

“No, Amira, vai avanti.” mi incoraggia Ellie, poggiandomi una mano sulla spalla, facendomi fare un passo avanti.

Adesso mi ritrovo quasi faccia a faccia con Josh ed il suo sottoposto, ma sono costretta ad alzare il viso per poterlo vedere chiaramente negli occhi.
Prendo un profondo respiro, non badando al suo cipiglio severo ed austero, e vado avanti.

“Beh… ci sarebbe la stanza delle riunioni, con un po' di fortuna riusciamo a sistemarla e a farci entrare una ventina o trenta di voi. Poi c’è l’infermeria che ancora qualche letto dovrebbe averlo.”

“Dovrebbe?!” esclama Eric, guardandomi sorpreso. “Cos’è accaduto mentre ero via?” è sempre più allibito.

“Io ed Edoardo siamo stati attaccati da alcuni del branco. Lui è ferito.” taglio corto, non volendo approfondire il discorso, non con i due estranei davanti.

L’uomo mi guarda sgomento e la sua espressione lascia intuire che è esasperato dal fatto di non avere mai un attimo di tregua.

“E poi...” deglutisco a vuoto, sentendo la gola secca, sebbene non abbia parlato poi molto. “Sono sicura che gli abitanti di questo villaggio vi potranno dare ospitalità, senza problemi.”

Mi viene istintivo nascondermi nuovamente dietro ad Ellie, perché l’alfa Josh continua a guardarmi indagatore, senza emettere un suono, ed io non so se ho parlato troppo presto per conto delle persone del posto.

“Sì, certo. Amira ha avuto un’ottima idea.” aggiunge Eric, rompendo il silenzio.

“E l’alfa Garreth cosa ne penserà di questa idea?” chiede Benjamin, per niente convinto dalle mie parole, interpretando il silenzio ostinato del suo alfa, come un qualcosa di ostile.

“Amira è molto vicina all’alfa. A lui andrà bene la sua scelta.” fa sapere il farmacista, con un punta di acidità nella voce, rivolta verso i due licantropi che ancora si ostinano a guardarmi diffidenti.

Ed improvvisamente i loro lineamenti si distendono, si fanno più rilassati.
Annuiscono Eric ed Ellie, mentre io tiro un sospiro di sollievo perché la mia proposta è stata un azzardo.
Josh cambia radicalmente atteggiamento, i suoi occhi si addolciscono e gli spunta un sorriso speranzoso sulle labbra.

“Grazie. Grazie infinite!” esclama l’alfa, ritrovando un po' di ottimismo. Poi si rivolge a me, prendendomi le mani e stringerle nelle sue, cogliendomi alla sprovvista e spaventandomi un poco. “Grazie Luna, grazie molte.”

I due se ne vanno per parlare ed avvisare la loro gente, senza darmi l’occasione di spiegargli che io, mi chiamo Amira.

“Allora scricciola, che hai combinato questa volta? Non ti sì può proprio lasciar da sola.” Eric mi arruffa i capelli, ridendo per la mia espressione corrucciata.

“Sono stati attaccati da alcuni del branco. Il ragazzo è ferito ad una gamba e Richard se ne sta occupando.” fa sapere Ellie, spostando il suo sguardo dall’uomo a me.

“E Garreth?” domanda lui, sempre più incredulo.

Non gli rispondo, mi limito a guardare per terra.

“Sappiamo che è andato nel bosco, ma non ha più avuto comunicazioni con noi.” dice la madre, una vena di apprensione nella voce.

Eric annuisce, pensieroso e serio, mentre metabolizza le notizie. Sposta le iridi in maniera frenetica, segno che sta pensando al da farsi.

“Amira, Ellie, io devo andare in infermeria e fare il mio lavoro, non posso lasciare questo fardello a Richard solo. Voi, occupatevi di queste persone. Vi manderò gli uomini più forti ad aiutarvi.” detto ciò, si incammina verso la sua farmacia, ma fatti neanche tre passi, si ferma e mi guarda. “Mi raccomando, non metterti nei guai. O Garreth mi uccide, sta volta.” abbozza un sorriso ed io, nonostante la situazione sia abbastanza grave, non posso fare a meno di ricambiare.

Guardo poi, tutte quelle persone che si sono fermate ovunque abbiano trovato un posto; c’è chi si è seduto, chi si guarda intorno con l’aria spaesata, chi si lascia abbracciare da un amico o dal compagno.
Prendo un profondo respiro.

È ora di iniziare.

Siamo partiti dal modificare la sala delle udienze, la zona coperta più capiente del villaggio, con l’aiuto di uomini forti e volenterosi, abbiamo trasportato fuori i tavoli e le panche per fare spazio poi a delle brande improvvisate e dei letti di fortuna.
Nel frattempo altre persone si sono occupate di allestire una tenda, ahimè anche questa abbastanza improvvisata, che funzioni da mensa, dove sono state messe le tavolate e le panche.
Abbiamo lavorato senza sosta, cercando di far entrare più posti letto possibili, per non doverli dividere, aiutate da molte donne anche del branco che dopo un primo momento di smarrimento, si sono tirate letteralmente in su le maniche e ci hanno aiutate.
Alla fine, è stata una coalizione di branchi, dove tutti facevano qualcosa e così, nell’arco di alcune ore, con il sole che stava già tramontando e il vento salendo, siamo riusciti quasi a finire il rifugio.
È intervenuto anche Eric, insieme a Richard che hanno portato medicinali e curato chi ne aveva più bisogno ma, fortunatamente, a parte qualche piccola ferita, stavano tutti bene.
Non ho avuto il coraggio di chiedere informazioni di Edoardo, per paura di ricevere brutte notizie e fermarmi sconfortata, proprio adesso che siamo quasi alla fine.
Quando siamo convinti di aver fatto un buon lavoro, io Ellie e Beth, iniziamo a invitare i licantropi a prendere posto sotto il tendone per iniziare a mangiare, tutto il giorno digiuni, col freddo, lo spavento, hanno proprio bisogno di qualcosa di caldo; mentre chi lo desidera, Judy li accompagna nello stanzone.

“Stai facendo un ottimo lavoro.” sono le dolci parole di Ellie, dopo che mi si è affiancata ed unita a me a dare un piatto di stufato a chi si è messo in fila.

Mi volto verso di lei e le sorrido, benché sia stanca e abbia un attacco di emicrania in corso che mi sta facendo esplodere la testa.

“Lo spero.” dico col tono di voce basso, un po' mesto, mentre sorrido ad un licantropo a cui ho appena dato la sua porzione di cena.

Solo che lui mi guarda male, forse con odio, sicuramente con ribrezzo, afferra in malomodo il piatto e se ne va via, borbottando qualcosa che non riesco a capire.

Sospiro, rassegnata al fatto che anche loro, come noi, hanno pregiudizi, e adesso sono ancora più forti e radicati e che non posso piacere tutti.

“Non ci badare, lascialo perdere.” dice la donna al mio fianco, mettendomi una mano sulla schiena e massaggiandola delicatamente. “Guarda piuttosto i visi rilassati degli altri o i piccoli sorrisi.”

Faccio quanto mi è stato detto e vedo molti più licantropi rilassati, intenti a mangiare e parlare, anche se a bassa voce, senza quella ilarità che ci potrebbe essere nel consumare un pasto tutti insieme, rispetto a quelli che, come il licantropo di prima, sono ancora sprofondati nel risentimento.
Guardare il bicchiere mezzo pieno. Devo fare questo, e lo farò.

“Perché non ti vai a riposare? Continuiamo io, Beth e gli altri, qui.” mi indica tutti gli altri licantropi, sia uomini che donne, che stanno distribuendo cibo o coperte; che si intrattengono un poco a parlare gli uni con gli altri, cercando di infondere un po' di speranza.

Guardo le due donne che annuiscono e se da una parte vorrei continuare a dar loro una mano, ad essere d’aiuto, il freddo, la stanchezza e l’emicrania sempre più forte non mi permettono di essere di molta utilità e quindi, mi vedo costretta ad accettare il loro consiglio.
Prima però, prendo una scodella e la riempo di stufato con le patate e la porto ad una ragazza che se ne sta in disparte, ad allattare il bimbo che si è calmato solo quando anche lui, o lei, ha avuto la sua razione di cibo.
Mi avvicino con cautela, non sapendo come potrebbe reagire nel vedermi, sapendo poi che sono molto riservati in questioni intime come queste, e mi faccio notare, dicendo solo un flebile “Ciao.”
La ragazza, avrà circa una trentina d’anni, capelli ricci e infuocati, e gli occhi di un bellissimo marrone scuro, alza lo sguardo su di me, le pupille dilatate come se fosse spaventata. Per fortuna, il neonato non percepisce niente e continua a succhiare il latte.

“Scusami, non volevo spaventarti...” dico abbozzando un sorriso e avvicinandomi di qualche passo, per studiare la sua reazione. “Ho visto che non eri in fila e così ti ho portato questo.” poso il piatto ed il cucchiaio sul tavolo, proprio accanto a lei e mi distanzio di un passo.

La donna sposta lo sguardo da me alla scodella e viceversa e quello che segue mi lascia completamente senza parole.
Mi regala uno dei sorrisi più caldi e luminosi che abbia mai visto a queste creature, con gli occhi che le brillano per non so quale emozione.

“Grazie, grazie infinite. Siete molto gentile Luna.” mi accarezza una mano, il suo calore naturale contro il mio freddo innaturale sono uno strano contrasto, ma la vera cosa strana è il nome con il quale anche lui mi ha chiamata.

Prima l’alfa del nuovo branco, adesso anche lei.

Forse è solo un soprannome che danno a qualcuno che è gentile, o credano che sia quello il mio nome, non capisco.

“Se hai bisogno, chiamami pure.” detto ciò, cammino tra i tavoli, per andarmene a casa, prendere le mie medicine e riposare un poco, quando vedo un bambino tutto solo che si guarda intorno spaesato e spaventato.

“Va tutto bene, piccolo?” mi inginocchio per essere alla sua altezza.

“N-no… non trovo più la mia mamma.” dice con gli occhietti lucidi, tirando in su col nasino rosso.

“Ti aiuto a ritrovarla, vuoi?” gli porgo una mano e lui non ci pensa due volte prima di afferrarla e iniziare a camminare insieme a me, in mezzo a tutti gli altri licantropi, alla ricerca della sua mamma.

“Come si chiama?” gli domando, guardandomi intorno alla ricerca di una donna che possa avere l’aria di chi non trova più suo figlio.

“Si chiama Guendoline. È alta così, mi da sempre tanti baci anche se io non voglio perché sono grande e i bambini grandi non si fanno dare i baci dalle mamme e poi la domenica mi fa sempre i biscotti al cioccolato.” finisce il suo racconto tutto soddisfatto della descrizione che mi ha fatto.

Lo ringrazio e gli dico che mi è stato tanto utile, strappandogli un piccolo sorriso.
Passano alcuni minuti prima di riuscire a trovare qualcuno che sappia che fine ha fatto la sua mamma.

“Scusi, ha visto la madre di questo bambino? Si chiama Guendoline.”

Il licantropo a cui mi sono rivolta guarda dapprima me, poi si rivolge al piccolo riconoscendolo immediatamente.

“Ehi, birbantello, sei scappato un’altra volta, non è vero?” gli domanda retorico l’uomo, che finge di essere arrabbiato e fa la voce da duro.

“Sì, perché volevo vedere la Luna del branco e l’ho trovata ma poi non ho più trovato la mia mamma e poi lei mi ha preso per mano e mi ha detto che mi aiutava a trovarla. Vero Luna?” e il piccolo si rivolge a me, con un sorriso luminoso e speranzoso, non badando al tono di finto rimprovero del licantropo.

“Sì, certo che la troviamo, ma io mi chiamo Amira.” mi sembra sciocco puntualizzarlo ad un bambino che avrà circa sei anni, ma tutti hanno iniziato a chiamarmi con un nome sbagliato e vorrei evitare che si diffonda.

L’uomo mi guarda un po' perplesso, come se non capisse dove sia il mio disappunto e indica una donna che ci da le spalle, a qualche metro da noi.

“La tua mamma è lì, bricconcello.”

“MAMMA!!!” strilla il bambino, facendo girare non solo la donna ma anche molte altre persone che ci stanno intorno.

Corre dalla donna che, non appena lo vede, tira un sospiro di sollievo, e va incontro al piccolo, abbracciandolo e stringendolo forte.

“Noah! Dov’eri finito? Mi hai fatto spaventare.” lo rimprovera la madre, prendendolo tra le braccia e sollevandolo alla sua altezza, accarezzandoli i capelli castani e sbaciucchiandolo tutto, contro il volere del bambino. “Quante volte ti ho detto che non mi devi scappare via in quel modo?! È pericoloso! Non ti devi allontanare dalla tua mamma!” lo rimprovera, adesso con voce più ferma e autoritaria.

“Scusa mammina, è che volevo vedere la Luna del branco e poi mi sono perso. Poi lei mi ha aiutato a tornare da te. Non è bella, mamma?” domanda guardando prima la donna e poi me.

Abbozzo un sorriso imbarazzato, vorrei salutare e andarmene, per non creare ancora di più scompiglio, dato che alcuni licantropi si sono avvicinati a sentire la storia che stava raccontando il bambino, ma la donna, i lineamenti del viso improvvisamente distesi, mi impedisce di andarmene – scappare via – e mi abbraccia stretta a sé, come se lo avesse sempre fatto e ci si conoscesse da tanto tempo.
Rimango un attimo ferma, non capendo il perché di questo gesto di affetto da parte di una sconosciuta, di un licantropo verso un’umana, sapendo benissimo come siano molto restii a tali dimostrazioni.

“Perdonatemi la mia irruenza, non volevo.” si stacca da me, chinando appena la testa. “Mi avete riportato il mio bambino e non so come ringraziarvi, Luna.” e mentre parla sembra riuscire a stento a trattenere le lacrime.

“F-figurati… è stato un piacere...” dico a corto di parole, confusa da troppe cose.

Dal suo impetuoso gesto d’affetto, inaspettato benché gradito; dal suo cambiamento di umore, prima mi abbraccia come se fosse mia amica e poi si stacca come se avesse commesso un crimine.
E poi c’è ancora questo soprannome che io non capisco.
Gli altri licantropi, tutti del branco giunto questo pomeriggio ci guardano, anzi MI guardano quasi con ammirazione ed io non so più cosa fare, vorrei solo andarmene.
Ed è quello che starei per fare, se solo non venissi raggiunta ed aggredita da una voce sgradita e, ahimè, ormai familiare.

“Quell’umana… non è la nostra Luna. E mai lo sarà.”

Julia si fa largo tra la folla, piazzandosi a qualche metro da me, con aria strafottente di sfida.
Scende un silenzio glaciale intorno a noi, nessuno osa fiatare, neppure io che onestamente non so di cosa stanno parlando ma, come al solito, ci sono finita di mezzo.
Finirà mai questa storia?!
Sento il freddo pungermi la pelle del viso, penetrare oltre i vestiti e abbracciarmi il corpo.
Guardo la ragazza dai capelli mori che non perde il sorriso sadico, e vorrei davvero tanto toglierlo dalla faccia, ma so che non ho speranze con lei e il non sapere cosa fare, non mi aiuta. Non ho nessuna battutina sulla lingua, nessuna uscita di scena teatrale.
Sento che starà per accadere qualcosa di brutto e ciò mi spaventa.

“Tu...” si avvicina di qualche passo. “Tu sei solo un’umana insignificante, non servi a niente. Non sei utile a questo branco e non sarai MAI di alcuna importanza per lui. Faresti meglio ad andartene e non farti più rivedere.” mi sibila vicinissima al viso, tanto da farmi sentire il suo fiato caldo. “Sei stata soltanto un peso per l’alfa e per tutto il branco e niente cambierà. Sarai sempre una ragazzina senza significato, dovresti tornare a casa, dalla tua mammina e fare l’unica cosa che ti riesce: piangere! Perché sei debole come tutti gli ess-”

La mano è partita senza che me ne rendessi conto, scagliandosi contro la sua guancia, così forte che si è sentito lo schiocco rimbombare nel silenzio glaciale intorno a noi, tanto da farle voltare il viso di lato.
Sento gli occhi degli altri puntati addosso, allibiti tanto quanto me, dal mio gesto.
La parte razionale, quella consapevole del danno in cui mi sono cacciata, mi sta gridando di scappare a gambe levate, ma quella irrazionale, quella stanca di farsi sempre sottomettere e trattare male, dice che no!, io devo rimanere qui e farle vedere che benché io sia umana, ho molta più forza di lei.
Forza di volontà, s’intende.
Quando Julia ritorna a guardarmi, i suoi occhi sono braci d’odio e rancore, profonde e vorticose, le pupille rimpicciolite all’inverosimile.

“Tu non sarai mai la mia Luna!” grida, prendendomi per il giacchetto ed avvicinandomi a lei.

Succede tutto in un attimo.
Gli altri intorno a noi, ci si avvicinano pronti a dividerci perché forse hanno intuito che io non posso davvero combattere alla pari con lei, o forse perché hanno capito che io non sono chi credevano chi fossi; io per liberarmi dalla sua presa, provo a tirarle un calcio sul ginocchio che, miracolosamente, va a segno e lei lascia la presa, ringhiandomi contro.
Credo più per la frustrazione di averla colpita due volte, che per il dolore che non le ho assolutamente procurato.

“Questa me la paghi, brutta stronza!” ringhia incazzata, stringendo la mano a pugno, pronta a colpirmi.

“Fermati Julia.”

Tutti ci voltiamo verso quella voce autoritaria che ha parlato in modo così duro e cupo, profondo, senza una nota di benevolenza, tanto conosciuta e sperata che tiro un sospiro di sollievo nel vedere il proprietario di nuovo qui, con noi.

Da me.

La lupa si ferma a stento, cercando di reprimere la voglia che ha di spaccarmi la faccia, togliendomi le mani di dosso e facendo un passo indietro.

“Alfa, lei è una traditrice. Avrebbe avuto solo quello che le spettava.” ringhia a denti stetti, le mani a pugno, avvicinandosi di un passo per intimorirmi.

Solo che io, adesso, non mi faccio più spaventare dai suoi giochi, e rimango ferma dove sono, perché so che lei ora è spaventata e so come può reagire un animale che ha paura, che si sente in trappola: attaccando.
Ma so anche che non lo farà, non si metterà contro la volontà del suo alfa, danneggiando ancora di più la sua posizione.

“No, l’unica traditrice sei tu, Julia.” sentenzia Garreth, avvicinandosi a noi, la schiena dritta e il passo fermo, i muscoli tesi, la mandibola serrata che gli indurisce ancora di più i lineamenti.

“NO! Non è vero!” grida, in preda alla rabbia ed al panico la ragazza. “Tutto quello che ho fatto è stato per il bene del branco!”

“Tu hai solo portato discordia tra di noi.” si avvicina alla ragazza guardando solo lei, dritta negli occhi, due fessure sottili di pura rabbia, contro quelli della lupa, colmi di terrore. “Sei tu che non servi al branco, tu quella inutile.” ripete le stesse parole che sono state dette a me.

Segno che era presente durante il suo bel discorsino. Chissà perché non è intervenuto prima.
Julia lo guarda angosciata, gli occhi spalancati e consapevoli di un qualcosa che mi sfugge ma che deve devastarla. Le tremano le mani, il colorito sembra più pallido del solito e gli alberga una strana luce di consapevolezza nello sguardo.

“Io ti bandisco immediatamente Julia Smith, dal mio branco e dalle mie terre.” sentenzia glaciale Garreth, guardandola dritta negli occhi, senza un barlume di dispiacere o rimorso. “Potrai andare a fare compagnia a tuo cugino, adesso.”

Quindi, anche lui è stato bandito. Beh, se non altro non avremo più a che farci e non ci ritroveremo sgradite sorprese fuori casa.
L’urlo gutturale di disperazione di Julia mi fa venire i brividi ed arretrare di un passo, tanto è inaspettato ed alto.
Si lascia cadere in ginocchio, abbracciandosi e iniziando a piangere come una bambina… come non credevo fosse capace di fare.

“T-ti prego, alfa! Lasciami ri-rimanere.” lo supplica, le lacrime che le rigano pesanti ed amare le guance, i capelli che già le si attaccano alla pelle del viso, come le si è già attaccata la condanna sul corpo e sull’anima.

Garreth la osserva dall’alto in basso, l’espressione del viso immutata. Anzi, forse ancora più indurita di prima, tanto da far paura anche a me.
Non lo avevo mai visto così; veramente furioso, pronto a tutto per difendere il branco, anche a costo di scacciare un membro dello stesso.

“Non credere perché tuo padre ed il mio erano amici, avrai un trattamento di favore. Vattene. Non voglio più vederti.” detto ciò, le da le spalle e si incammina.

“Nooooo…!!! T-ti prego...” singhiozza disperata, rimanendo inginocchiata a terra, le mani a coprire il viso per attutire il pianto.

“Aspetta Garreth!” lo rincorro, fermandolo per un braccio.

Lui si volta verso di me, lo sguardo ancora torvo, incendiato dalla rabbia e da una cocente delusione per essere stato tradito.
Quando mette a fuoco la mia figura, sembra riscuotersi dal torpore dell’ira e gli occhi gli si schiariscono leggermente, tornando quasi i suoi.

“Tu stai bene? Ti ha fatto del male?” domanda, una punta di acredine e premura nella voce, portando una mano sul collo ed accarezzandomelo dolcemente.

“Sì, sto bene, ma...” all’improvviso le parole mi muoiono in gola, senza sapere come fare per parlare, intimorita che possa infervorarsi anche come, per l’idea che ho avuto.

“Ma cosa?” incalza, sospettando che ci sia sotto qualcosa che ha a che fare con Julia e il trattamento da lei ricevuto.

“Non c’è un’altra... soluzione?” domando a bassa voce, intimorita di farlo arrabbiare a mia volta e farlo andare in escandescenza, con la paura che magari possa esiliare pure me, per davvero questa volta, indicando con un cenno fugace della testa la lupa che, ancora in ginocchio, sta piangendo senza dar segno di fermarsi.

“No. Tu vorresti un’altra soluzione?!” sibila adirato.

Involontariamente, muovo un passo indietro.

“Ha tradito il branco, ha tradito ME… e soprattutto, ha fatto del male a te!” mi indica con il dito indice, lanciando lampi dagli occhi.

“Non ti sto contraddicendo.” metto le mani avanti, intimorita. “Dico solo che le potresti dare del… del tempo...” lascio in sospeso la frase, sperando che ci arrivi da solo e che non mi costringa a dir altro. Non ho assolutamente voglia di parlare con un Garreth così adirato.

Perché si sa, l’odio genera altro odio e si nutre di sè stesso, finché non diventa troppo grande ed ingovernabile; impossibile da gestire. Ma dobbiamo mettere un freno a questo malsano e malato sentimento, prima che attecchisca dentro al cuore di ognuno di noi, o questa storia non finirà mai.
Aspetto qualche secondo, sperando che Garreth comprenda le mie intenzioni, ma, ahimè, è pur sempre un uomo, e dal sopracciglio alzato deduco che non ha capito a cosa io mi stessi riferendo.

Magnifico.

“Per fare i bagagli… salutare gli amici...” dico in un bisbiglio, alzando le spalle senza sapere come continuare.

Mi guarda per un attimo che pare eterno, indeciso se lasciarsi convincere dalla mia proposta o proseguire con il suo ordine.

Poi sospira, rassegnato, socchiudendo gli occhi e quando li riapre per puntarli nuovamente su di me, il suo sguardo è di nuovo addolcito.

“E va bene.”

Fa marcia indietro, ma si ferma quando si accorge che non lo sto seguendo.

“Forza, seguimi.” non è un consiglio ma un ordine.

Ed io non me la sento di sfidare ancora la sorte, quindi anche se a malincuore, lo seguo in silenzio, ritornando dalla donna, alla quale non si è avvicinato nessuno ma, anzi, si sono allontanati tutti, come se fosse malata e dovessero tenersi alla larga, come a prova tangibile, istantanea, del suo allontanamento dal branco.
Garreth si ferma a pochi passi da lei ed io subito dietro di lui, provando una gran pena per la ragazza che, spogliata di tutto il suo potere e la sua importanza, non fa più paura come mezz’ora fa.

“Hai un’ora.” laconico e glaciale.

Julia alza la testa, gli occhi rossi e gonfi per il pianto che l’ha scombussolata, i segni delle lacrime ancora sulle guance, con qualche singhiozzo che le sconquassa la gabbia toracica.
Lo guarda, un attimo spaesata, appena capisce a cosa si riferisce, altre lacrime le riaffiorano e premono per uscire, lo sguardo si addolcisce ed i lineamenti si rilassano.

“Grazie alfa. G-grazie...” singhiozza, commossa dall’inaspettato ordine magnanimo.

“Non devi ringraziare me.” mi lancia uno sguardo veloce per far sì, che anche Julia mi guardi e capisca da chi deriva questo piccolo cambio di programma a suo favore.

Non diciamo più niente, l’attimo dopo Garreth se ne va, incitando me a fare lo stesso e seguirlo.
La mia andatura rallenta all’aumentare dell’attacco di emicrania, il lamento soffocato che emetto non passa inosservato al licantropo che subito si ferma, facendomi alzare il viso verso il suo, accertandosi che non sia ferita.
Mi guarda con aria interrogativa, non capendo dove il mio problema.

“Attacco di emicrania. Ho bisogno della mia medicina.”

“Ce l’hai con te?”

“No, l’ho lasciata a casa di Anna. Tu dov’eri finito?” gli chiedo preoccupata per la sua lunga assenza.

Mi poggia una mano sulla spalla, spostandola poi sul collo ed infine sulla guancia, scrutandomi con i suoi occhi indagatori ed imperscrutabili.
Il calore della sua pelle paradossalmente mi fa rabbrividire, e al tempo stesso è estremamente confortevole.

“Forza, andiamo a casa.”

Una volta dentro le mura dell’appartamento di Anna, Garreth mi fa sedere sul divano, invitandomi – ordinandomi – di non muovermi. Ed è quello che faccio, non tanto per una vera e propria intenzione di obbedirgli, ma per l’emicrania che mi fa avere capogiri e nausea.
Cerco di non pensare a quello che è successo tra me e Julia e tra lei con Garreth, ma nella mente mi si proiettano come dolorosi flash le immagini, le minacce ed il suo pianto ed a niente valgono i miei tentativi di concentrarmi sul battito del cuore o sul silenzio che regna in casa.
Mi porto le ginocchia al petto e vi nascondo il viso, tentando in tutti i modi di trovare un pochino di sollievo, ma la testa pulsa ed il malessere si sta espandendo al viso.

“Dove la tieni?” domanda dopo un attimo di smarrimento, rendendosi conto di non saperlo.

Potrei fargli la lista di tutti i luoghi dove tengo quel medicinale, in caso venga colpita da attacchi come questi, peggio di un tossico in piena crisi di astinenza, ma evito di fare del sarcasmo e gli indico il posto più vicino.

“L’astuccio verde fluo, in camera mia.” gli dico anche come si chiama e lo vedo recarsi al piano superiore, il suono dei suoi passi attutito alla moquette, per poi riscendere e dirigersi in cucina per prendere un bicchiere d’acqua.

Quando me lo porge, la polvere si sta ancora sciogliendo. La mando giù in un solo sorso, troppo nauseata dall’odore e dal sapore, ringraziandolo con un flebile “Grazie.”

“Stai meglio?” mi chiede dopo neanche dieci secondi, impaziente come sempre.

“Starò meglio tra un po'.” alzo le spalle, poggiando la testa allo schienale del divano.

Fortunatamente fuori è ormai già buio, così da non dovermi alzare ad accostare le tende per non far filtrare la luce.

“Ho visto quello che hai fatto e Josh me ne ha dato conferma.” mi fa sapere, sedendosi accanto a me. “Lo apprezzo davvero tanto. E anche loro.”

Gli rivolgo un sorriso stanco ed un po' triste.

“E’ vero che Edoardo è stato morso?” chiede neutro, guardandomi di sottecchi.

È la prima volta che lo chiama per nome, spero sia un buon segno perché non sono assolutamente nelle condizioni di litigare.
Annuisco, incapace di proferir parola, ma c’è una domanda che mi alberga la mente e gliela devo fare.

“Diventerà uno di voi, adesso?” chiedo in un bisbiglio. Non tanto per il male alla testa, quanto per il timore della risposta.

“No, non lo farà. Ma potrebbe non farcela.”

Sento il cuore sprofondare nel baratro.

“Avevi ragione tu, sai? Dovevamo andarcene quando ce lo hai ordinato. Quando eravamo ancora in tempo.” esalo rattristata, incapace di versare altre lacrime.

Garreth sospira, allunga il braccio e mi fa scivolare accanto a lui, tenendomi stretta al suo corpo caldo.
Non faccio resistenza, non mi oppongo. Mi rilasso sentendo il suo calore, ascoltando il respiro calmo e regolare, trovandolo un ottimo diversivo dal dolore; gli poggio una mano sul torace, accomodandomi meglio al suo fianco, chiudendo gli occhi, pronta a lasciarmi cullare dalle sue mani che hanno iniziato a vagare lungo il mio braccio in blande carezze.

“Io ho davvero un odore così cattivo?” gli domando dal niente, ricordandomi la frase detta con tanta crudeltà da Julia, senza sapere se crederci o meno.

Garreth smette di accarezzarmi, guardandomi intensamente negli occhi ed avvicinandosi pericolosamente al mio volto, con uno strano sguardo tra il serio ed il malizioso.

“Vuoi davvero che ti faccia vedere quale effetto ha su di me il tuo odore?” lo dice ad un soffio dalle mie labbra, così vicine che ne percepisco il calore, il fiato che mi solletica la pelle.

I brividi che si espandono dal collo, fino alla schiena.

“Mh mh...”

Sento il suo naso giocare con il mio, le sue labbra sfiorare le mie e quando mi prende con entrambe le mani il collo, per avvicinarmi definitivamente a lui, chiudo gli occhi arrendevole.
Il silenzio viene squarciato brutalmente dalla suoneria del telefono di casa, che si mette a strillare come se avesse il Diavolo in persona ad inseguirlo.
Salto sul posto, il cuore in gola e le guance in fiamme.
Ci stacchiamo immediatamente e prima che uno dei due possa dire qualcosa, Garreth mi fa la gentilezza di andare a rispondere al telefono.
L’attimo successivo torna da me, con una strana espressione dipinta in volto.
Se non lo conoscessi bene, direi che mi pare quasi spaventato.

“E’ tua cugina.”

In questo momento, vorrei solo emigrare.







- Angolino mio - 
Mi farò perdonare per questa assenza prolungata....
Volemose bene <3
Un bacione

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Capitolo 14
*** Quiete prima della tempesta ***


Mia cugina.
Mi ero completamente scordata di lei.
Ovviamente, lei non si è dimenticata di me.
Voglio una pala per sotterrarmi qui e la voglio adesso.
Guardo Garreth con aria smarrita, sapendo di essere in un bel casino anche con lei ed a giudicare da come mi sta guardando il licantropo, deduco che stia sbraitando contro di me e forse persino contro di lui.

Fantastico.

“Dov’è? Sta bene? Perché se sta bene la uccido con le mie mani!”

Sono le sue amorevoli frasi che sento attraverso il microfono, anche se non mi è ancora stato passato il telefono.
Non credo di voler parlare con lei.
Guardo l’uomo con aria supplichevole, iniziando a negare con la testa, ma immagino che contro di lei e la sua ira funesta, nemmeno lui sia in grado di fare qualcosa.
Prendo il cellulare e me lo avvicino con estrema cautela all’orecchio, procrastinando il mio fatale momento.

“Ciao, Anna...” la saluto titubante, portandomi pollice e indice tra il naso e gli occhi, socchiudendo le palpebre per un attimo ed aspettandomi il peggio.

“Amira, tesoro, stai bene? Sei ferita?” mi domanda con voce tremula e carica di apprensione.

Mortalmente calma.

“Sì, sto bene.” la rassicuro, rincuorata che non mi stia urlando addosso.

“Allora si può sapere perché diavolo non hai risposto al quel maledetto telefono?! Sono ore che provo a chiamarti, Cristo santo!”

Ho parlato troppo presto.

“Anna, senti...”

“Anna senti un corno!!!” grida, fuori di sé.

Sento che Alan le sta dicendo qualcosa, forse di stare tranquilla, o di non agitarsi, ma non riesco a capire con sicurezza cosa, perché la voce della donna sovrasta quella dell’uomo.

“No, no che non mi calmo.” dice in inglese, poi si rivolge a me, nuovamente nella nostra lingua. “Non rispondevi al cellulare, non eri a casa!!!” strilla, fuori di sé.

Ed io sono costretta ad allontanare il ricevitore per non diventare sorda in età così giovane.

“Ho chiamato Elizabeth, ed indovina un po' che cosa mi ha detto?!”

“Anna, aspetta dai, posso spiegare...” le dico, cercando di trovare un modo per giustificarmi.

“Mi hai fatto venire un cazzo di infarto!” adesso ha abbassato – per mia fortuna – il tono di voce, ma è sempre furiosa. “Aspetta solo che ritorni costì e ti faccio vedere io!”

“Anna, non credo che sia il caso...”

“Non venirmi a dire cosa è o non è il caso di fare per me, perché sennò vi prendo tutti e due e vi lincio!”

Non mi ci vuole molto per capire chi è l’altro povero disgraziato che, in questo momento, mia cugina, vorrebbe far fuori.
Chissà quante liti e discussioni hanno affrontato perché lei voleva tornare, mentre Alan sapeva che era meglio rimanere dove si trovano.

Santo Dio, gli ormoni e la preoccupazione le hanno dato un po' alla testa, ma è proprio questo che ho sempre ammirato ed apprezzato in Anna: la sua determinazione e la sua forza. Non si lascia abbattere da niente e da nessuno. Nemmeno nelle sue condizioni si tira indietro e, anzi, sembra più forte e caparbia di prima.
Solo che, a questo giro, non può fare la testarda, e deve dare retta ad Alan e, sopratutto, all’alfa.

Strano che sia proprio io a dire che bisogna dare retta a Garreth, quando io per prima non l’ho mai fatto. Mi verrebbe quasi da ridere, se solo l’occasione lo permettesse.

Copro con una mano il microfono, per non farmi sentire e con aria implorante, mi rivolgo a Garreth, con la speranza che la sua autorità riesca a far ragionare quella pazza di Anna.

“Ti prego, falla ragionare.”

Mi guarda, ma ovviamente non capisce perché il nostro dialogo è stato in una lingua a lui sconosciuta e si è perso tutto il discorso.

“Lei vuole tornare qui, ma è pericoloso.” immagino che l’apprensione sia ben visibile sul mio volto, perché anche Garreth annuisci immediatamente, porgendomi la mano per farsi dare il telefono.

Riesco solo a sentire che si fa passare Alan, non senza qualche difficoltà, poi si allontana e mi è impossibile cogliere anche solo mezza parola, dato la sua voce bassa e l’accento non propriamente britannico puro, con il quale parla con lui per diversi minuti.
Non so cosa si stanno dicendo, le voci sono lontane, poco più dei bisbigli ed io sento le palpebre farsi cosi pesanti che si chiudono da sole, senza rendermi conto di quanto fossi realmente stanca.
Aspetto il ritorno di Garreth, accomodandomi meglio sul divano, sperando che riesca a convincere Anna a non venire qua, non sopporterei che accadesse qualcosa anche a lei, è già abbastanza straziante avere l’unico amico in fin di vita.
Mi raggomitolo come un gattino infreddolito, dando le spalle alle finestre, in attesa che torni il licantropo con una buona notizia.
L’emicrania sta lentamente passando ed io sento, con mio grande sollievo, i muscoli iniziare a rilassarsi.
Non me ne accorgo subito della sua presenza, sento il divano abbassarsi sotto il peso del mannaro e le braccia cingermi le spalle per
avvicinarmi al suo corpo. Nessuno dei due parla, ci sarà tempo domani per le spiegazioni, adesso ho solo voglia di sentirlo vicino finché me lo permetterà.

Nemmeno me ne accorgo ed in una manciata di secondi, sprofondo in un sonno profondo, oscuro e senza sogni.

 

Toc toc…

Mi giro dall’altra parte, coprendomi fino alla testa con il piumone, venendo immediatamente circondata dall’aria calda della coperta e del mio corpo, trovando una iniziale difficoltà a respirare.

Toc toc toc…

Faccio capolino con la testa, i capelli tutti arruffati, rimanendomene rannicchiata come una larva dentro il bozzolo, sul letto, ancora intontita dal sonno.

Aspetta.

Io quando ci sarei finita a letto?!
Ieri sera mi sono addormentata sul divano.

Driiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiin…!!!!

Il suono del campanello non mi lascia altra scelta che scendere e abbandonare questo caldo rifugio, ma prima afferro il maglione che ancora si trova sulla sedia e me lo infilo, cercando di non morire di freddo, poiché in casa non è ancora stato azionato il riscaldamento.
Scendo senza fretta i gradini, benché chiunque ci sia dall’altra parte, di fretta pare ne abbia molta, e ancora intorpidita dal sonno, allungo la mano per aprire la porta.
La luce del giorno mi acceca violenta e insolente, costringendomi a socchiudere le palpebre per un attimo, in attesa che mi abitui al cambiamento.
Impiego qualche attimo prima di mettere a fuoco la figura alta, il suo sorriso e qualcosa che tiene tra le mani.

“Patrick, cosa ci fai qui?” domando con una punta di curiosità e scetticismo che non passa inosservato, stropicciandomi un occhio, rischiando di cavarmelo dall’impeto.

“Oh si, buongiorno anche a te. Sto bene, grazie.” risponde lui sarcastico, non perdendo il sorriso.

“Quello che voglio dire è come mi hai trovata?”

Adesso che sono riuscita a formulare la vera domanda ed a mettere delle parole di senso compiuto in ordine, sono più lucida e non capisco come mai sia qui un perfetto sconosciuto e, cosa ancora più inquietante, come abbia fatto a sapere dove potermi trovare.

“Ho chiesto a giro.”

“Hai chiesto… a giro? E il branco ti ha detto tranquillamente dove abito?” alzo un sopracciglio, poco convinta della sua spiegazione.

“Beh, a dire la verità, ho sentito che parlavano di te praticamente ovunque. Quindi mi è bastato solo drizzare le orecchie e seguire il fiuto. In senso letterale.” mi fa l’occhiolino, non perdendo il sorriso.

“Che cosa vuoi?”

“Ti ho portato la colazione, bella addormentata.” mi mostra un sacchettino di carta marrone, agitandomelo brutalmente davanti al viso, finché non lo scaccio con la mano, facendolo ridere e formare le fossette ai lati della bocca.

Per qualche secondo penso se sia il caso farlo entrare; in fondo non lo conosco benché entrambi abbiamo rischiato la vita per salvare l’altro.
Alla fine, è proprio quest’ultimo pensiero che mi fa capire che Patrick non può essere cattivo e che di lui mi posso fidare.

“Vieni, entra.” sto per fargli spazio, ma lui si blocca sulla soglia guardandosi intorno e poi scrutando dentro casa.

“L’alfa è con te?” mi chiede un attimo dopo, tornandosene un pochino più serio.

Garreth.

Ieri sera ero con lui, mi sono addormentata tra le sue braccia, ne sono sicura. Riesco ancora a percepire il calore che sprigionava il suo corpo, il battito lento del suo cuore, seguito dal respiro che mi solleticava i capelli, cantandomi un’immaginaria ninna nanna, senza infastidirmi.
Ero sul divano, accanto a lui, circondati da una bolla di intimità che non credo riuscirò a riacciuffare con lui.
Stamattina mi sono svegliata nel letto della mia camera. Da sola.

Mi guardo intorno, notando che poco è cambiato dalla sera precedente.
Le tende sono state chiuse, il bicchiere non c’è più sul tavolino.
E non c’è più nemmeno Garreth, portandosi con sé tutto il suo calore e lasciandomi nel cuore solo il gelo.
Non è rimasto.
Peccato si sia impresso nella mia anima come inchiostro indelebile, molto più dei miei tatuaggi, e non se ne voglia più andare.

“No, non c’è.” dico mesta, rassegnata al fatto che lui non vorrà mai stare con me, più del necessario.

“Oh bene!” Patrick sorride raggiante, sospirando di sollievo.

Lo guardo scettica, alzando un sopracciglio.

“Abbiamo più mangiare per noi!” trilla esuberante, scuotendo nuovamente la busta, muovendo un passo verso casa pronto ad entrare.

La mia espressione non cambia di molto, ma mi scosto di lato per lasciarlo passare e richiudere poi la porta, non prima di essermi accertata che non ci sia nessuno nei paraggi che mi sta spiando.

“Ooooh, ma guarda! C’è posta per te, mia cara fanciulla!” urla il licantropo, che non so come, ha trovato la cucina e perfettamente a suo agio, si sta muovendo alla ricerca degli utensili per la colazione.

Lo raggiungo, infastidita da tante chiacchiere di prima mattina e da appena sveglia, ma il foglietto che trovo sul tavolo, con scritto a mano il mio nome, mi fa passare ogni cattivo umore.

 

Amira,

tornerò da te stasera.

Ti prego di non metterti nei guai.

G.

 

Ripiego il foglietto e lo nascondo nel pugno della mano, come il più prezioso dei tesori, con un sorrisino ad incresparmi le labbra e a niente servono i miei sforzi di nasconderlo dietro la pesante stoffa marrone del maglione, Patrick l’impiccione, si è già accorto del mio cambiamento.

“Che carina… sei diventata tutta rossa.” mi scimmiotta, ridendo a sua volta, con fare estremamente amichevole e confidenziale.

Metto il pezzo di carta a contrasto dell’elastico dei pantaloni e dopo avergli rivolto un’occhiata omicida che lo fa solo ridere di più, prendo due tazze dalla credenza e due piatti, appoggiandoli al tavolo.

“Caffè o tea?” gli domando, preparando però entrambi i contenitori.

“Caffè nero, come la mia anima.” si finge tenebroso, ma è solo un gran buffone.

Scuoto la testa, per niente colpita dalla sua frase e metto a bollire entrambe le bevande, mentre lui tira fuori dal sacchetto brioches e due ciambelle piene di zucchero.

“E quelle dove le hai trovate?!” spalanco gli occhi, sorpresa da quelle golosità dolci che non credevo di poter trovare da queste parti.

“Sono stato a Burneside e ho trovato una pasticceria. Le recensioni dicevano che faceva i migliori dolci della città.” e ne assaggia un pezzetto, dopo averlo strappato con le mani, assaporandolo con grande concentrazione, chiudendo gli occhi.

“Deliziosa!” dichiara infine, dividendo le porzioni.

“Non ti facevo il tipo da questo tipo di colazione.” gli confido, alla fine, versandoli il caffè nella tazza e facendo altrettanto nella mia con l’acqua calda, dove poi immergo il filtro.

“Oh ma infatti io prediligo la carne cruda, appena cacciata, calda. Mi piace sentire il sangue che cola lungo le fauci e che ancora circola nelle vene della vittima.”

Lo guardo in viso, l’espressione sconvolta, gli occhi spalancati e manca poco che vomiti quello che ho in bocca.
Patrick ride di gusto, coprendosi la bocca con una mano, divertito dalla mia faccia, forse cianotica, e del suo scherzo riuscito – a quanto pare – alla perfezione.

“Oddio, dovresti vedere la tua faccia.” se la ride, guardandomi divertito, mentre continua a mangiare.

Mi unisco alla sua risata, continuando a consumare il pasto, trovando inaspettatamente piacevole la sua compagnia.
La mattina trascorre in maniera stranamente tranquilla e rilassata in sua compagnia, mangiando per un reggimento, e parlando un po' di noi.
Sono costretta a rimettere a bollire sia l’acqua che il caffè, mentre il licantropo continua a parlarmi della vita che svolgeva nel suo vecchio villaggio, con il suo branco.

“Che cosa farai adesso?” gli chiedo, piena di tatto, immaginando che non deve essere facile per lui e per tutti gli altri.

Scuote le spalle, mentre soffia via il fumo caldo della sua bevanda, pensieroso.

“Non lo so. Ci affideremo all’alfa, come abbiamo sempre fatto.” mi sorride, una nota di tristezza, però, ad oscurarglielo.

“Sembra un buon alfa.”

“Il migliore. Mi ha accolto quando tutti gli altri non lo hanno fatto.” si confida, la voce leggermente velata di tristezza ed un pochino più bassa, non guardandomi mentre mi parla.

“Perché mai gli altri avrebbero dovuto scacciarti? Non mi sembri poi così tanto fastidioso, alla fine.” ironizzo, facendolo sorridere vagamente.

Ma sono i suoi occhi che non sono sorridenti, persi nei pensieri e nei ricordi del passato, che gli adombrano i lineamenti e lo fanno sprofondare in chissà quali tormenti.

“Sai, non siamo così superiori come vogliamo dimostrarci. Siamo schifati dagli esseri umani, ma ci siamo dimenticati che per una piccola parte lo siamo anche noi.” guarda il liquido nero della sua bevanda, ormai fredda, si rigira la tazza tra le mani, come soppesando se sia il caso di andare avanti o meno.

Me ne rimango in silenzio, dandogli i suoi tempi e rispettando la sua scelta.

“Sono stato cacciato o me ne sono andato da molti branchi, prima di trovare Josh. Se non fosse stato per lui, avrei continuato a fare la vita da solitario, ma non si vive bene da soli.” è cupa la sua voce, ha perso tutta quella vivacità e quella spensieratezza che era solito usare. Anche durante lo scontro di ieri, non ha mai perso quel sorriso furbo, strafottente. Mi chiedo se fosse veramente lui, o se il vero Patrick è il licantropo che ho di fronte.

“Sei triste?” glielo domando senza riflettere, non ho collegato la bocca al cervello e le labbra si sono mosse per conto loro.

Mi pento di averglielo chiesto, ma lui non pare poi molto sorpreso e non si infastidisce.

“No, ora non più.” mi guarda negli occhi e io gli credo. “Sono solo in attesa del mio… insomma, della mia dolce metà.” dice, bevendo ciò che rimane del caffè, facendo una smorfia disgustata quando si rende conto che non è più calda.

Ci sorridiamo a vicenda, con rinnovata speranza.

“Anche tu, ne hai una per la testa...”

“Di cosa, scusa?” alzo un sopracciglio, non capendo – beh, sperando di non aver capito – mentre prendo le tazze ed i piatti e metto tutto nel lavello.

“Di dolce metà per la testa.” sorride sornione, guardandomi intensamente negli occhi.

E non c’è modo di sfuggirgli, perché lui lo sa. Non so come, dubito che qualcuno glielo abbia detto, ma lo sa che provo qualcosa per Garreth e che è qualcosa di molto più profondo di semplice amicizia od ammirazione.

“Non so di cosa tu stia parlando.” borbotto, sfuggendo dal suo sguardo indagatore, fingendo che sia molto più interessante pulire il tavolo.

“Oh, invece lo sai di cosa sto parlando, sei arrossita tutta...”

“Sì può sapere perché sei venuto qui, Patrick?” sbotto spazientita, mettendomi le mani sui fianchi e aspettando una risposta, ma lui, ovviamente, scoppia a ridermi in faccia divertito.

“Cos’hai da ridere?! Non c’è niente di divertente.” mi lamento.

“Oh sì, invece. Sei così buffa e carina...” mi prende giocosamente in giro.

“Se sei venuto qui per prenderti gioco di me, puoi anche andartene.”

Non capisco come mai mi stia facendo tanto innervosire.
Poi comprendo.
Non è tanto lui, ma sono io che faccio rabbia a me stessa, per essermi esposta così tanto che anche uno sconosciuto riesce a leggermi dentro, a capire meglio e prima di me, i miei pensieri ed i miei desideri.
Non ho proprio imparato niente.

“Comunque, sono venuto qui per ringraziarti per quello che hai fatto per il mio branco, per portarti la colazione e...” si alza, mostrandomi quanto effettivamente sia più alto di me. “Per portarti dal tuo amico. Eric e Richard hanno detto che puoi andarlo a trovare, si è svegliato.”

Sento un tuffo al cuore.
La bocca si piega in un sorriso enorme, solare, e vorrei fare i salti di gioia per tutta casa, urlare, cantare e correre da Edoardo, ma mi trattengo, confusa dalla tranquillità che mi trasmette il licantropo con la sua sola presenza.

“Posso andarlo a trovare!” è il gridolino di esuberanza che, però, mi esce dalle labbra, troppo entusiasta per contenermi del tutto. Vorrei anche battere le mani che questo gesto non mi facesse regredire a una bimba di cinque anni.

Mi limito quindi a salire in camera mia, veloce come un fulmine, darmi una sistemata ed a lavarmi velocemente i denti, seguita dall’uomo che divertito dalla mia frenesia non si perde un mio movimento.

“Lo sai che è maleducazione spiare? Sopratutto se sono ragazze in camera loro?” gli faccio presente, una nota divertita nella voce, mentre mi infilo la sciarpa e le scarpe.

“Sono sempre stato affascinato dai discorsi delle femmine, soprattutto se umane, ma con me puoi stare tranquilla. Io sono innocuo.” mi fa l’occhiolino e prima che abbia modo di fargli altre domande, scende gridandomi mi sbrigarmi perché ci sto mettendo troppo.

Durante il tragitto da casa alla farmacia, beh, direi che è diventata un’infermeria, più che altro, Patrick si è preoccupato di raccontarmi qualche piccolo aneddoto del suo branco, cercando di fare in modo che io non possa rivolgergli domande su quanto mi aveva detto prima, nella mia stanza.
Ma non c’è problema, adesso, il mio unico pensiero è di andare a vedere come sta Edoardo e capire quali sono le sue emozioni, perché dopo quello che ha visto e vissuto che credo che fatichi a darsi una spiegazione e temo la sua reazione, benché qualunque essa sia, non la potrò biasimare.
Sembra una strada senza fine, ma eccola che vediamo spuntare la farmacia ed io, inconsapevolmente, affretto il passo, lasciandomi dietro Patrick.
La farmacia è rimasta come me lo ricordavo, ma si vedono tracce di un gran numero di persone che sono state portate qui; le loro impronte sono rimaste nel terreno e poi si sono tatuate nel lastricato di pietra rossa che circonda l’edificio.
E questo mi ricorda che, dopo, dovrò passare anche da Ellie e vedere come stanno andando le cose, magari ci troverò Garreth.
Apro piano la porta, facendo suonare la campanellina che sta sopra, producendo un suono metallico che riecheggia forte e vibrante nel silenzio assoluto.
Eric spunta dal corridoio, assorto, gli occhi segnati dalla stanchezza ed il viso più pallido del solito; ma trova la forza di sorridermi non appena mi vede, invitandomi ad entrare e seguirlo, già consapevole del motivo per cui sono qui.
Percorriamo tutto il lungo corridoio, la maggior parte delle porte sono chiuse o quasi, segno che all’interno ci sono ancora alcuni pazienti e come tale, hanno bisogno della loro privacy; vengo scortata dal farmacista nell’ultima porta, lasciata un pochino più aperta rispetto alle altre e non appena faccio capolino, vedo il mio migliore amico, disteso, con la gamba fasciata dalla caviglia fino a metà coscia, rialzata con dei cuscini, coperto perché non prenda freddo, assorto nei suoi pensieri che non si è ancora accorto di noi.
Ed a vederlo in questo stato, qualcosa mi muore dentro. Sapere che potevo perdere anche lui, per colpa mia, della mia avventatezza ed egoismo, mi fanno credere di non meritarmi neanche di restare qui.
Il licantropo mi si affianca, silenzioso, prima che varchi la soglia della stanza.

“Amira, mi spiace dirtelo, ma devo. Lui ancora non sa niente, ma dovrà esserne informato appena starà meglio e sarà in forze per poter affrontare la verità.” sussurra, un filo di voce, appena udibile.

Alle sue parole, il sangue si gela nelle vene.

“La ferita non è grave come sembrava all’inizio, e questo è un bene, ma le lesioni ci sono e non sappiamo se riuscirà a camminare. Sussiste il rischio che non potrà più farlo come prima.”

Mi appoggio al muro, per avere un sostegno e non cadere, sconvolta, sfinita, da questa terribile informazione.
Cosa ho fatto? L’ho rovinato.
Mi porto una mano alla bocca per nascondere il tremolio del labbro, per tentare in tutti i modi di arginare il dolore che mi sta dilaniando il cuore e l’anima.
Eric deve accorgersene perché mi mette una mano sulla spalla, confortandomi e dandomi quel sostegno di cui ho bisogno.

“Non disperare, non è niente di certo, ma devi essere preparata anche al peggio.”

“Perderà l’uso della gamba?” chiedo con la voce che trema, tanto che persino io fatico ad udirmi.

“No, non la perderà, devi stare tranquilla. Però gli saranno reclusi certi movimenti e certe attività...” lascia in sospeso la frase e per me è più che sufficiente per capire cosa vuol dire.

Muovo qualche passo indietro, decisa ad andarmene, vergognandomi troppo per quello che gli ho causato, ma Eric mi ferma mettendomi dolcemente una mano sulla schiena, sospingendomi in avanti, e mi sorride, facendomi un cenno con la testa per invitarmi ad entrare.
Prendo un profondo respiro, non sapendo cosa mi aspetta.
Dopo quello che ha visto e vissuto, dopo quello che lo aspetterà, non so nemmeno se mi parlerà ancora, dal momento che gli ho taciuto una verità e quella almeno se la meritava.
Cammino quasi in punta di piedi, un po' per non disturbarlo e un po' per procrastinare il momento in cui gli dovrò dare delle spiegazioni e lui mi dirà che non ne vorrà più sapere niente di me.
Non credo di essere pronta per dirgli addio.
Edoardo ancora non mi ha vista, assorto nei suoi pensieri, ha gli occhi concentrati sulla parete alla sua sinistra, immerso in non so quali ricordi o riflessioni che spero mi vorrà mettere al corrente.

“C-ciao...” la voce è roca e rimbomba nel silenzio della stanza. Per un attimo temo che non mi abbia udita, poiché persino io ho faticato a percepirla.

Lui, molto lentamente, sposta il viso verso di me, con un’espressione neutra e distaccata anche quando si accorge che a parlare sono stata io.

“Ah, sei tu.” mi osserva per un un attimo brevissimo e ritorna a guardare la parete dove c’è una piccola mensola e dei libri ammonticchiati.

Sento una filettata al cuore che si dipana veloce e dolorosa dentro di me, rendendomi incapace di parlare o di formulare una frase che spezzi questo silenzio assordante e colmi la distanza che ci divide.

“Sì, sono io.” mi sento così sciocca ed a disagio.

Ed è un sentimento che non avevo mai provato in sua presenza, che mi destabilizza.

“Sono venuta per-”

“Lo so perché sei qui.” mi interrompe glaciale, puntando i suoi occhi nei miei, non scorgendo più il calore che li caratterizzano. “Sono vivo. Adesso che te ne accertata, puoi anche andartene. Ciao Amira.”

Sento il cuore battere furioso e in maniera dolorosa, al suono macabro delle sue parole; le gambe cedevoli e le mani tremanti.
Ho la gola secca, così come gli occhi, segno che sono rimasta con le palpebre spalancate da troppo tempo, ancora incredula e attonita per le sue parole e per il suo trattamento.
Muovo incerta un passo verso di lui, indecisa se proseguire, annichilita dal suo mutismo e dal rancore che trapela dalla voce.

“Perché cazzo non me l’hai detto, eh Amira?!” sbotta all’improvviso, facendomi fare un saltello sul posto. “Perché cazzo ti sei tenuta dentro questo fottuto segreto? Non ti fidavi di me, pensavi che andassi a sbandierarlo ai quattro venti?” alza la voce, trucidandomi con lo sguardo.

“No, io...” mi trema la voce, la mente spenta.

“Ci hai messo in pericolo. TU eri in pericolo e non mi hai detto un beneamato cazzo!” picchietta il dito indice sul letto, scaricando la frustrazione, fuori di sé.

“Non po-potevo dirtelo… avevo promesso...” non sono in grado di completare una frase, annientata dalla sua rabbia nei miei confronti, purtroppo giustificata.

“Abbiamo sempre condiviso tutto, tu ed io, sai che non ti avrei mai tradito. Nemmeno questa volta. E adesso guarda com’è andata a finire col tuo segreto!” è deluso, ferito dal mio atteggiamento.

E non posso dargli torto.
Ogni parola è una lama; ogni accusa una stoccata che mi trapassa l’anima, annientandomi.

“Edo, ascolta...” la mia voce esce bassa, incrinata, distrutta, come il mio cuore.

“Edo ascolta una sega, Amira! Ora è un po' tardi per le spiegazioni, non ti pare?”

“Cazzo vuoi che ti dica, eh?!” sbotto a mia volta, alzando la voce, disperata. “Mi dispiace averti messo in questo casino e di averti coinvolto. Non doveva andare così, tu dovevi rimanere all’oscuro il più possibile e volevo questo per non farti correre nessun rischio.”

“Ho notato.” è la sua stoccata acida.

“Vaffunculo Edoardo! L’ho fatto per te, credendo di fare la cosa giusta!” caccio indietro le lacrime, troppo arrabbiata per pensare a piangere e continuo la mia furia. “Non sono una veggente e non potevo prevedere che sarebbe andata a finire così!”

Lui fa per aprire bocca, ma non glielo permetto.

“Stai zitto!” batto un piede in terra, se per dare enfasi al mio discorso o per semplice capriccio, non lo so; so solo che sono stanca e non voglio perdere anche lui.

E sono anche stanca che qualsiasi cosa io progetti, cerchi di programmare svanisca come fumo nell’aria.
Da quando sono qui, in questo villaggio niente è andato come doveva andare; se per colpa della mia cattiva sorte, del karma o perché i licantropi portano sfortuna non lo so, ma sono stanca che qualsiasi mia azione comporti un disastro colossale.

“Perché cazzo credi che volessi farti tornare a casa? Eh, me lo spieghi?!” strillo tanto da sembrare pazza.

E non mi interessa neanche sapere che ci sono altre persone, oltre a noi, che stanno sentendo – ma non capendo, per fortuna – la mia voce alta e che potrebbero esserne contrariati.
Fa per aprire bocca, di nuovo, ma lo interrompo.

“Non fiatare, brutto idiota! Quello che ho fatto era per cercare di tenerti al sicuro. Non volevo che ti capitasse niente di male.” tiro in su col naso, in maniera poco femminile e al suo sguardo pietoso, misto alla vecchia dolcezza, indurisco il mio.

“Sei un cretino!” cerco di trattenere le lacrime, arrabbiata con lui, con me, e pure con i licantropi, benché sappia che loro non hanno alcuna colpa in tutto questo.

Beh, forse un pochino si.

“Lo so.” dice, abbassando lo sguardo, pere poi indirizzarlo su di me, un cucciolo bastonato che chiede scusa dopo la sfuriata.

“Vaffanculo se lo sai, allora!” mi scappa un singhiozzo che proprio non riesco a trattenere.

“Vieni qui.” la sua voce adesso è dolce e pacata.

Scuoto la testa, evitando di guardarlo, puntando i miei occhi sulle scarpe, sul pavimento dalle grandi mattonelle verdastre lucide, lanciando fugaci sguardi alle lenzuola bianche sulle quali è disteso e coperto Edoardo.
Intravedo la sua mano picchiettare sul bordo del materasso, accanto al suo corpo, in un chiaro invito ad avvicinarmi e sedermi, solo che rimango impalata, la testa china, sopraffatta da troppe emozioni.
Io e lui non avevamo mai litigato così duramente, né avevamo alzato la voce l’un l’altra, tanto meno si era comportato in maniera tanto distaccata.

“Mira, ti prego.” è poco più di un sussurro, dolce e carezzevole. “Ti prego, piccola.”

A questa supplica, i miei piedi si muovo da soli, non appartenendomi più, attratti dal suo richiamo.
Mi fermo al lato del letto, impalata come una statua, adocchiandolo di tanto in tanto.
Allunga la mano, quella sana, non bendata, dove non è attaccato l’ago della flebo, per prendere la mia, strofinando il pollice il dorso, avvicinandomi ancora di più a lui.

“Mi dispiace… io non volevo tutto questo...” stringo la sua mano, per trovare il conforto di cui necessito, bisognosa di sentirlo vicino, ancora spaventata che ci ripensi e non mi voglia parlare mai più.

“No, è a me che dispiace.” dice sommesso, tirandomi leggermente il braccio, per farmi avvicinare ancora di più. “Forza, sdraiati accanto a me.” mi sorride insicuro, non sapendo se dopo la sfuriata che ci siamo fatti, io me la senta.

Ma vedere che mi lascia lo spazio per permettermi di stare al suo fianco, in un tacito – non poi così tanto – invito a perdonarlo, mi si riempe il cuore di gioia e non ci rifletto su un attimo in più, prima di accoccolarmi alla sua destra, stando molto attenta a non urtargli la gamba ferita.
Mi circonda le spalle con il braccio e con la mano disegna linee immaginarie sopra la stoffa dei miei indumenti, mentre io adagio le mani sul suo addome.
Alzo la testa per poterlo guardare negli occhi; sguardo che lui ricambia con tutto l’affetto che nutre per me.
So di non meritarmi il suo affetto, io che mi sento così spregevole prima per avergli taciuto una verità che l’ha quasi ucciso, adesso un’altra, di verità, che potrebbe distruggerlo definitivamente. Il mio animo è diviso, combattuto se parlargliene adesso e mettere per sempre la parola fine al nostro rapporto, oppure seguire il consiglio del licantropo, ed aspettare che ci siano dei riscontri e magari, sperare in un miracolo.

Chissà, magari la loro Dea, potrebbe intercedere anche per gli esseri umani.

Alla fine, la parte egoista, quella che vuole a tutti i costi avere Edoardo al suo fianco, ha la meglio, e gli taccio la verità, per il momento, decidendo infine, di raccontargli la storia.

“Non doveva andare così. No, fammi finire, per favore.”

Lui sorride e aspetta paziente che io continui, non smettendo di coccolarmi.

“Io l’ho scoperto per caso… cioè, non proprio. Ho pedinato Garreth, credendo di essere finita dentro una setta o qualcosa del genere; non so, un villaggio di fanatici.”

“Wicker Man...” borbotta lui, divertito, sorridendomi tra i capelli. “Quel film ti ha fatto male.” constata, conoscendomi fin troppo bene.

“Già.” appuro io, ricordandomi di quando, a mia volta, lo pensai.

“L’hai seguito. E che cosa hai scoperto, Sherlock?”

“Che Garreth è il capo, insomma, lui è l’alfa e che stavano organizzando un attacco contro i cacciatori e che, beh… sono licantropi.”

“E che cosa hai fatto dopo?” gli è impossibile nascondere l’apprensione, nonostante ormai sia tutto passato ed io sia qui, con lui.

“Garreth si era accorto di me, io mi sono spaventata e sono fuggita nel bosco.”

“Ottima mossa. Te l’ha mai detto nessuno che sei imbattibile in strategia?” mi prende in giro, un largo sorriso a decorargli le labbra.

In risposta gli faccio la linguaccia.

“Molto matura.”

E questo teatrino, mi ricorda molto quello con Garreth, e un groppo amaro mi si forma in gola. Chissà dov’è adesso e se starà bene.

“Mi sono persa.” continuo, non badando alla sua battuta. “Per cercare di non farmi trovare mi sono nascosta dietro un albero, ma lui era sempre più vicino e così scappavo di nuovo. Ha provato a chiamarmi ed io ho provato a chiamare te.”

“Waooo…! Che triangolo amoroso intrigante.” non riesce ad essere serio nemmeno in un momento come questo.

“Cretino!” gli picchietto la mano sul torace, divertita dalla sua comicità. “Poi mi sono imbattuta nei cacciatori. Erano lì per scovare i lupi. Credevano che mi avessero aggredita e mi volevano portare dalla polizia.”

“Mira, tu i guai te li crei proprio. Aspetta aspetta...”

Chiudo la bocca, aspettando – credendo – che dica qualcosa di intelligente o quantomeno, utile.

“Amira sta ai guai come le api stanno al miele. Eh?” chiede conferma, con un largo sorriso sulla faccia.

Alzo un sopracciglio, incredula.

“Oppure senti questa…”

“Mi fai finire?!” lo interrompo, spazientita e divertita al contempo.

Non so come farei senza di lui e queste uscite idiote.
Cambio posizione, continuando la mia storia, non venendo più interrotta, mettendolo al corrente che ho sparato – per sbaglio – ad un cacciatore, che sono scappata a casa sperando che Alan non fosse sveglio. A malincuore, gli ho detto persino l’episodio dell’infermeria, guadagnandomi un’occhiataccia truce, per la mia stupidità.

“Sei una pazza incosciente.” mi rimprovera, perdendo ogni ilarità.

“Che ci potevo fare?! Stavo male e volevo dormire.” mi giustifico, ma a giudicare da come indurisce il viso, la mascella contratta, gli occhi ridotti a due fessure, concordo con me stessa dicendo che era meglio se non glielo dicevo.

“E drogarti ti sembrava un buon modo?”

Vorrei ribattere come ho fatto con Garreth, ma questa volta mi cucio la bocca ed ogni risposta che mi è venuta alla mente, me la tengo per me.

“Per fortuna c’era lui...” esala, una leggera nota di preoccupazione, sfumata via nell’aria.

“Ti ricordo che ha sfondato la porta.” gli faccio notare, con tono ovvio e seccato.

“Poteva anche demolire casa, se necessario.”

Rimango un attimo in silenzio, vinta dalla bellissima emozione che mi si è diramata nel petto, per l’affetto che Edoardo nutre nei miei confronti.
Continuo la storia, cercando di farlo tacere da ogni supposizione, quando arrivo a narrargli di Garreth e Julia, e basta un mio sguardo assassino, per farlo tacere e farmi proseguire.
Il mio racconto finisce e ce ne restiamo in silenzio, ognuno assorto nei propri pensieri, ragionamenti e riflessioni; immaginando che per lui sia difficile da digerire tutta questa storia, come lo è stato per me.

“E chi l’avrebbe mai detto?” è lui il primo a parlare, dopo un tempo indefinito. “Invischiati in un branco di lupi. Di licantropi!” sembra quasi eccitato all’idea. “Ed io che credevo che la cosa che più mi avrebbe sconvolto nella vita, fosse stato scoprire di essere stato adottato.” aggiunge dopo qualche minuto.

Sì, mi ricordo quanto ne fu turbato quando gli venne detto dai suoi genitori che, impensieriti e nervosi, quel giorno, decisero di far venire anche me, come sostegno morale per il figlio.

“Che succederà adesso?” mi chiede, vedendo che ancora non mi sono mossa, né ho fiatato, continuando ad elargirmi coccole ed attenzioni.

“Garreth ha punito gli aggressori e adesso stanno dando la caccia ai cacciatori...” ridacchio per questo gioco di parole non voluto.

Io ed Edoardo ci guardiamo, una luce ci attraversa gli occhi e la bocca si piega in un sorriso complice, sapendo entrambi cosa stiamo pensando.

“Balbettante bambocciona banda di babbuini!!!” gridiamo in coro, ridendo come matti l’attimo dopo, per nulla seri, ripromettendoci che appena lui sarà guarito, ci guarderemo tutti i film di Harry Potter.

“Cosa dirai ai tuoi, quando tornerai a casa?” indico la gamba e la mano fasciata.

“La verità, credo...” si stringe nelle spalle, sminuendo ciò che ha appena detto. “Che Amira mi ha picchiato.”

Scandalizzata, gli tiro un leggero cazzotto sul braccio, avvalorando così la sua spiegazione.

Le nostre risate vengono interrotte dall’arrivo di Patrick che, appena ci vede sdraiati accanto, il sorriso gli muore e si fa serio.

“Eric mi ha mandato a vedere se vi stesse uccidendo.” dice, rimanendosene fermo, rigido, in mezzo alla stanza, l’espressione leggermente indurita.

Edoardo lo rassicura dicendo che adesso è tutto risolto e chiede scusa per le urla che, sicuramente, hanno sentito, non notando come l’atteggiamento del licantropo sia cambiato radicalmente.

Ma io sì, l’ho visto chiaramente.

Il suo viso si è trasformato in una smorfia infastidita, che non è riuscito a controllare.
Che mi stesse aspettando e si sia indispettito vedendomi stravaccata qui?
Passo in rassegna le altre opzioni, ma sono una più improbabile dell’altra.

“Tolgo il disturbo. Vi lascio soli.” si avvia verso la porta, ma viene fermato da Edoardo che lo invita a rimanere con noi.

Volgo lo sguardo dal licantropo al mio amico e viceversa, non perdendo l’occhiata penetrante che si sono scambiati.
Patrick, poi, rilassa i muscoli, abbozza un sorriso e prendendo una sedia, si avvicina a noi, iniziando a conversare ed informarsi sullo stato di salute del paziente.
Li lascio parlare, felice di vedere che i due si trovano in sintonia e che Edoardo non ha paura di loro, ma al contrario ne è affascinato, tanto da fare una domanda dietro l’altra.

A metà mattinata, sono costretta a salutarlo, con la promessa che ritornerò nel pomeriggio, perché voglio andare ad aiutare Ellie e gli altri con il nuovo branco.

“E’ in buone mani.” mi assicura Patrick, facendomi l’occhiolino.

“Ci conto.” è tutto ciò che dico, prima di sentirli ritornare parlare fitto fitto tra di loro.

Mah, sembrano amici di vecchia data.

Potrei quasi sentirmi gelosa.

Quando arrivo al tendone della mensa, alcune donne sono già occupate a preparare un pasto, quindi mi affianco alla lunga tavolata, saluto e dopo aver ricevuto direttive, mi unisco ai preparativi.
E come la sera precedente, anche oggi, serviamo qualcosa che sia caldo per combattere le temperature ormai sempre più in diminuzione e che risollevi un po' il morale a queste povere persone.

“Forse non te ne accorgi,” Ellie mi si affianca silenziosa, dando il cambio ad un’altra donna per poter parlare con me. “Ma hai fatto molto più di quello che credi, per loro.” gli indica con un cenno della testa, ed è così che vedo che sono un pochino più rilassati.

I visi sono distesi, qualcuno in più di ieri ha la forza di sorridere agli altri e vedendo loro, vengo invasa da una nuova speranza anch’io, leggermente più ottimista.

“Dovremmo aiutarli a ricostruire il loro villaggio… le loro case.” dico a voce non tanto alta, più a me che alla mia interlocutrice.

“Certo che lo faremo. C’è un patto di aiuto reciproco tra i branchi confinanti. Quando Garreth tornerà e la minaccia dei cacciatori sarà finita, li aiuteremo.”

Al nome del figlio, il cuore perde un battito e le guance mi si infiammano e so per certo che non è colpa del freddo.

“Ma lui dov’è? È andato via questa mattina ma non mi ha detto dove sarebbe andato.” cerco di non essere apprensiva o petulante, sopratutto di non essere pretenziosa, perché lui non è tenuto a dirmi niente, così nemmeno la madre e nessun altro del branco, ma sono preoccupata e non riesco a togliermi di dosso questa brutta sensazione che stia per accadere qualcosa.

“Non l’ha detto nemmeno a me, ma non c’è da preoccuparsi, tornerà presto.”

Mi affido alle parole della madre, perché chi meglio di lei potrebbe avere questa certezza?
Non io, di certo, che lo conosco da poco più di un mese.
In realtà potrei non conoscerlo affatto e non capisco, ancora, come Garreth sia riuscito a fare breccia nel mio cuore così facilmente, senza sforzo alcuno o alcun intento; come io sia stata in grado di affezionarmi – e ahimè, non solo – ad una persona, un uomo, – un licantropo, un creatura straordinaria e leggendaria – dopo quello che mi ero ripromessa e avevo spergiurato.
Forse tutta questa storia mi ha rimbecillita o sono rincoglionita senza accorgermene ancora prima che venissi qui.

Mi sono rincitrullita.

E, inevitabilmente, mi ricordo del cartone animato Bambi, quando lui e i suoi amici, uno ad uno, si rincitrulliscono per una femmina, proprio come aveva predetto il gufo.
Solo che non siamo in primavera ed a me, nessuno mi ha avvisata; nessun vecchio saggio gufo, mi ha messo in guardia.
Ridacchio tra me, per la buffa immagine che mi si è creata in testa.

“Tutto bene?” domanda Ellie, non capendo cosa mia sia preso.

La rassicuro, dicendole che non sono impazzita – anche se suo figlio ci potrebbe riuscire – e continuo il lavoro.
Quando ormai i pasti sono finiti, mi offro di portare via alcune stoviglie e lavarle, mentre le altre finiranno di sistemare.
La cesta è pesante, più di quello che immaginavo, e mi pento di non essermi fatta aiutare, ma detesto al contempo farmi vedere debole o in difetto di fronte a loro.
Arrivata a casa, non senza aver rischiato di far cadere tutto almeno un paio di volte, sistemo le cose nella lavastoviglie e attendo che finisca, per poi riportarla alla mensa.
Guardo l’orologio appeso alla parete della cucina, che segna le tre e mezza.
Ho ancora un’ora prima che l’elettrodomestico abbia svolto il suo compito, quindi nell’attesa mi riscaldo dell’acqua per una tisana e una volta pronta, tra un sorso e un altro, aggiorno mia cugina sugli ultimi accadimenti, scrivo ai miei per far sapere loro che sono ancora viva, prima di vederli comparire qui, come ha fatto quello sciagurato di Edo.
Con la tazza tra le mani, per scaldarle, salgo al piano superiore, entro nella mia stanza, affacciandomi alla finestra, senza motivo, in attesa.

Beh, forse il motivo lo so.

Spero di vederlo sbucare dal bosco, da un momento ad un altro, dirigersi qui, abbracciarmi, baciarmi e… basta!
Devo assolutamente smettere di pensare a lui.
Solo che persino questa camera mi ricorda Garreth.
Quella sera che è passato dal giardino qui sotto, io che scavalcai la finestra per seguirlo; la mattina successiva che mi ha trovata – salvata – da una quasi overdose di antidolorifici.
Stizzita da me stessa, per cancellare il suo ricordo dalla mente e dal corpo, decido di farmi una doccia e cambiarmi gli abiti, mettendone di più comodi e caldi.
In cucina la lavastoviglie è ancora in funzione, spazientita, prendo il cappotto infilo il cellulare in tasca ed esco, in direzione dell’infermeria.
Entro indisturbata, di Eric non c’è traccia e, memore della strada, mi dirigo sicura nella stanza dov’è ricoverato Edoardo.
Apro la porta piano, per non svegliarlo qualora stesse dormendo, ma lo trovo sveglio e, per fortuna, da solo.

“Come stai?” gli chiedo, sedendomi al suo fianco e scostandoli una ciocca di capelli che le è caduta davanti al viso.

“Meglio, anche se la gamba mi fa sempre male.” si lamenta, scoraggiato dal fatto di non potersi neanche muovere.

Il tuffo al cuore è inevitabile, difficile è mascherarglielo, proprio a lui che mi ha sempre letta come un libro aperto. Devo sforzarmi di non pensare, di essere positiva e di credere che andrà tutto bene.

“E fatti dare un antidolorifico da Eric, no?” domando con ovvietà, mascherando il dolore che provo per la sua condizione, di cui lui non è al corrente.

“Già fatto, un’ora fa. E poi lui è andato via.”

“E dove?” mi informo, trovando strano che lasci soli i suoi pazienti per tanto tempo.

A meno che, non sia successo qualcosa di più grave.
E se si trattasse di Garreth?
No, impossibile, mi avrebbero avvisata.

“Non lo so… stavamo parlando quando si è interrotto lì… proprio lì, in mezzo alla stanza.” indica il punto con un dito. “E’ rimasto inchiodato e ammutolito per qualche secondo e poi ‘Devo andare’ e se n’è andato.”

Questo comportamento era solito di Alan quando comunicano telepaticamente.
Mi domando cosa sarà successo di così urgente per far scappare Eric.
Il senso di irrequietezza si fa strada, ma provo a non badarci, rassicurandomi che che ci possono essere altre mille ragioni che spiegano il suo comportamento, e non necessariamente devono essere tragiche.
Vengo riportata coi piedi per terra dalla richiesta disperata di Edo, che mi supplica di mettere un po' di musica.

“C’è troppo silenzio, qui… rischio di impazzire.”

“Sei in infermeria, non in discoteca.” lo rimprovero, senza riuscire però ad essere seria.

“Ti supplico! La terremo bassa, ma ti prego, ti scongiuro, ti imploro!, dimmi che hai la musica!”

“Sei più drammatico di una tragedia greca.” mi alzo e mi sporgo fuori dalla porta, per accertarmi che non ci sia nessuno nei paraggi, poi la richiudo e tiro fuori dalla tasca del cappotto il telefono, selezionando qualche canzone.

“Ah Mira, tu sei la migliore!” mi sorride felice, guardandomi ritornare verso di lui.

“Sì, beh, non ci sperare troppo, non ho molte canzone qui dentro, non è mio il telefono e appena potrò permettermene uno, questo ritornerà al suo proprietario.”

Lui mi guarda storto, non capendo a cosa o a chi io mi riferisca.

“E che fine ha fatto il tuo?”

Mi siedo accanto a lui, distendo le gambe accomodandomi meglio nel suo abbraccio, mentre faccio partire la prima canzone.

“E’ finito dentro uno stagno.”

La melodia parte, il volume è davvero basso, ma non voglio disturbare gli altri pazienti, ma ha ragione Edoardo, qui dentro c’è troppo silenzio ed i pensieri mi stanno assordando.

“E come ci è finito?” mi guarda meravigliato, un accenno di sorriso a decorargli le labbra.

“L’ho lanciato.”

“COSAAAA!?!?!”

“Abbassa la voce, Edo!” lo sgrido, guardandolo male.

“E perché lo avresti fatto?”

“Ero arrabbiata e non ho ragionato.”

“Oh sì, immagino. Ricordami di non farti mai arrabbiare, allora...” ridacchia ed io con lui.

Passano alcuni minuti, la canzone è finita ed è iniziata un’altra; chiacchierando di cose futili, del passato, giusto per far passare il tempo.
Lo aiuto a sistemarsi con la schiena sui cuscini, chiedendogli se ha bisogno di altro.

“Oh si cara, vorrei un bel piatto di lasagne, quelle che cucina tua madre.”

“Anche io le vorrei...”

“Allora perché non me le cucini, quando verrò via da qui?”

“Oh ma certo, poi vuoi anche un massaggio e che ti rimbocchi le coperte e ti dia un bacino prima di dormire?”

“Sarebbe perfetto.”

“Ah, sognatelo.”

“Come sei acida, Mira. Non credevo di dirlo, ma ti preferisco quando c’è Garreth nei paraggi...”

Lo guardo sospettosa, aspettando che vada avanti e che mi spieghi cosa volesse dire.

“Voglio dire proprio quello che ho detto. Quando sei con lui, cambi e sei più calma, tranquilla… Aaaaaah, l’amore...” dice con aria sognante.

“Ma smettila scemo!” cerco di non pensare a ciò che mi ha detto, ma la sua frase mi ha fatto riflettere.

“Dico solo quello che vedo...” si stringe nelle spalle. “Oh oh oh! Questa mi piace, lasciala!” mi prende il telefono dalle mani, per assicurarsi che non la cambi.

Lo lascio fare, forse sono le medicine che gli ha dato Eric ad averlo reso ancora più scemo.

Inizia a canticchiarla, contagiando anche me. Una volta finita, ne mette un’altra e se non gli piace o non gli fa voglia di ascoltarla, passa alla successiva finché non trova quella che gli piace, intonandone qualche nota.

“Aspetta, ho la canzone perfetta per te!” digita qualcosa sullo schermo, impedendomi di vedere cosa sta scrivendo, perché probabilmente già sa che gli toglierei il telefono di mano se sapessi cosa ha in mente.

La musica parte, il volume fortunatamente è basso, e la melodia del pianoforte risuona dolcemente riecheggiando nella stanza.
Guardo il mio amico, non riconoscendo la canzone che ha scelto, ma bastano le prime parole cantante dal ragazzo, per avere la certezza di quale canzone abbia messo.

“Edo! Sei scandaloso!” mi fingo indignata per la scelta da lui fatta, mentre se la ride di gusto, senza sforzarsi di trattenersi.

La distanza che ci divide fa male anche a me.
Se non vai via, l'amore è qui.1

“Io trovo che sia perfetta, invece, per la tua situazione.” fa spallucce, allontanando il telefono per sicurezza. “E non puoi picchiarmi, sono convalescente ti ricordo.” fa notare ovvio, come suo solito, quando vede il mio sguardo assassino e la mano pronta a farli almeno un pizzicotto.

Nel frattempo, la canzone prosegue e, per avvalorare la sua frase di prima, inizia a canticchiarla, invitando me a fare altrettanto.

 

Sei un viaggio che non ha ne' meta ne' destinazione.
Sei la terra di mezzo dove ho lasciato il mio cuore, così.
Sono solo anch'io, come vivi tu, cerco come te… L'amore.1

 

Benché mi ricordi ancora le parole di questa canzone, lascio che sia lui a cantarla, decisamente più intonato di me, ripensando a quello che mi ha detto.
Questa canzone rispecchia la mia situazione.
Edoardo è folle, certe volte è pure strano, e questa sua affermazione lo dimostra, ma di tante cose bizzarre che ha detto, forse – e sottolineo forse – questa è la meno strampalata che potesse dire.
Che lui abbia visto in me un cambiamento che neppure io sono riuscita a notare? Che veramente io sia tanto diversa quando sono in presenza di Garreth e che sia stato proprio il licantropo a cambiarmi?
Certo è, che da quando sono qui, le cose sono diverse e pure io lo sono.
Che ne sia innamorata? Addirittura?
Attratta sicuramente.
Ma parlare di amore, forse è presto.
Non ci conosciamo, non so chi è. In parte si, ma solo ciò che fa vedere lui all’esterno, ma ciò che nasconde dentro di sé mi è totalmente ignoto.
Edoardo parla bene, lui rimane un eterno, inguaribile romantico, anche se ci è rimasto scottato con le relazioni passate; e lo sarei pure io se l’ultima non mi avesse messa al tappeto.
Per il momento non ci voglio pensare più, rischio di affollare la mente di troppi problemi, di dubbi e di farmi venire l’ennesima emicrania, quando devo essere lucida, stare bene per poter essere d’aiuto per Edoardo e per poter sostenere i membri del branco.
Fortunatamente la canzone finisce, così come le mie paranoie e io lo convinco a rimettere la palylist che ho sul telefono dove non ci sono canzoni smielate che lo possono indurre a fare congetture astruse.
Mettiamo canzoni di vario genere, che rispecchiano i gusti di entrambi, canticchiandole più o meno a tempo, o come meglio riusciamo per non stonare troppo, ma il nostro duetto viene interrotto bruscamente da un’affannata e seriamente preoccupata Judy, mentre la playlist riproduce Everything goes black e non so perché, ma è come se fosse un avvertimento.

 

But if you're never here, and I'm left all alone
Tell me what am I supposed to do?2

Vorrei salutarla, abbracciarla, perché in questi ultimi giorni non ci siamo mai viste e mi è mancata, vorrei presentarle il mio migliore amico ma qualcosa, più pesante della gravità terrestre, mi costringe a rimanere seduta, con il cuore in gola ed un peso sullo stomaco.

 

Whenever you're gone away.
The darkness hides the day.
Whenever you're gone.
The bleeding won't stop.
It hurts 'til you come back.2

 

“Finalmente ti ho trovata!” accorata, si avvicina con cautela.

Rimango in silenzio, afferro la mano di Edo che era già nella mia senza che me ne accorgessi.

“Sì tratta di Garreth. È stato gravemente ferito.”

Ed io sento il mondo crollarmi sotto i piedi.

 

Everything goes black.2







-Angolino mio- 

Ciao ragazzuoli.... Spero che il capitolo vi sia piaciuto... 
A questo giro non ho tardato molto l'aggiornamento. Fatemi sapere cosa ne pensate...

Le canzoni sono: 1. L'amore, Sonohra; 2. Everything goes black, Skillet

Al prossimo capitolo...

Un abbraccio, buona estate!
La vostra Nina <3 

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Capitolo 15
*** L'oscurità che copre il giorno ***


No, non è vero. È assolutamente impossibile.
Lei ed Edoardo si sono messi d’accordo e tra poco mi diranno che è tutto finto, che stavano scherzando, io gli manderò a quel paese e tutto tornerà alla normalità.
Solo che il tempo sta passando e Judy non accenna a sorridere, né Edo interrompe questo spettacolino di cattivo gusto.
Sono bravi a fare i finti seri.

“Amira, hai sentito cosa ho detto?” mi si avvicina.

Anche Edoardo cambia posizione, cercando di alzarsi come meglio può con la schiena, facendomi sentire la sua vicinanza e il suo fiato caldo sulla pelle, cingendomi la schiena con un braccio, in segno di amorevole protezione.
Ma io non ho bisogno di essere protetta, non ce n’è davvero bisogno.
Questo è uno scherzo.
Le mie sensazioni sono sempre sbagliate, non ne indovino mai una. Perché ora dovrebbe essere diverso?
I due non accennano un sorriso, i volti seri e sbiancati.
No, questo non è uno scherzo.
A questa consapevolezza, gli occhi mi si inumidiscono e guardo Judy disperata.

“Q-quando?” mi esce un suono flebile, spezzato, come il mio cuore. “Dov’è ora?”

La mia mente non riesce a ragionare, completamente svuotata da ogni pensiero logico o sentimento che non sia paura e incertezza.
Mi appoggio al corpo di Edo, che prontamente mi abbraccia. Un rifugio caldo e accogliente, in mezzo alla disperazione.

“L’hanno portato a casa. Eric gli sta asportando il proiettile.”

Rabbrividisco, sentendo poi i muscoli irrigidirsi al suono macabro delle sue parole, mentre un dolore sordo si dipana dal cuore.
Vorrei andare da lui, accettarmi che stia bene e che quella di Judy sia sono un’esagerazione, ma le parole non escono ed io non sono capace di muovermi.
Cala ancora il silenzio, denso e freddo, come lo è diventata l’aria di questa stanza; ed a me pare di aver perso ogni facoltà raziocinante.

“Io… io vorrei… devo...” ma ogni suono, ogni parola, muore drasticamente in gola, troppo asciutta per pronunciare anche il più debole suono.

“Vuoi andare da lui?” suggerisce la ragazza, con tatto, muovendo un passo verso di noi, percependo il momento delicato.

Mi limito ad annuire, fissando i miei occhi nei suoi ma non guardandola realmente.

“Va bene, sì. Dai, andiamo.” la sua voce è gentile, come un guanto caldo su una mano fredda.

Mi volto verso il mio amico e basta uno sguardo per capirci, senza dover pronunciare una sillaba.

“Andrà tutto bene, non preoccuparti, piccola.” mi bacia delicato la guancia, prima di lasciarmi andare.

Gli sorrido grata, prima di farmi forza ed alzarmi, pronta a seguire Judy.
Io e Garreth non siamo niente, forse non saremo mai niente, allora perché sento un peso così soffocante schiacciarmi il petto? Perché il cuore fa così tanto male?
Camminiamo veloci per le vie pressoché deserte del villaggio; molti si sono rinchiusi nelle proprie case, altri sono con il nuovo branco, nella sala del consiglio ad aiutare. Incontriamo pochi licantropi per strada, che vengono salutati solo dalla ragazza con un cenno breve e superficiale della testa.

“Nessuno deve sapere che l’alfa è stato ferito o sarà il caos.” mi fa sapere in un bisbiglio, attenta che non ci senta nessuno.

La mia unica preoccupazione è sapere se le condizioni di Garreth sono migliorate, se Eric è riuscito ad estrarre il proiettile oppure no; di tutto il resto non me ne importa niente.
Sento che, in questo momento, tutto il mondo potrebbe persino bruciare, ma se lui sta bene, nient’altro è importante.
Nel giro di pochi minuti arriviamo davanti alla casa di Garreth, dove sono parcheggiati nel vialetto due fuoristrada, uno suo e l’altro, suppongo, del padre.
Mi guardo intorno, il vialetto deserto, l’erba calpestata dove ancora ci sono impresse le orme pesanti; il leggero strato di acqua causato dalla nebbiolina che ci ricopre come una coperta fredda ed umida e che rende tutto velato. Persino le piccole macchie di sangue cadute sull’erba e all’entrata.
Camminiamo assorte sul lastricato fino al portone d’ingresso, dove vengo fatta passare dalla mia amica, per poi chiudere la porta da occhi indiscreti che, fortunatamente, pare non esserci.
Me ne rimango ferma sulla soglia, impacciata e spaventata ad andare oltre.
Judy mi fa solo un segno con la mano, invitandomi a seguirla al piano superiore; ed è proprio da là che giungono i pochi ed ovattati rumori che sento in casa: dei passi ed alcuni bisbigli.
Seguo la ragazza, ma conosco la strada. So già dove mi sta conducendo e per me è uno strazio sapere che oltre quella porta si trova Garreth in fin di vita.
Sento il coraggio venir meno, gli occhi farsi lucidi e il cuore iniziare a battere più forte.

“Te la senti?” mi domanda, piena di tatto, mettendomi una mano sulla spalla, vedendo il mio stato.

Ingoio a vuoto, schiaccio tutte le emozioni in fondo allo stomaco, più in basso che posso per non farmi sopraffare e annuisco incapace di parlare, con la testa completamente annebbiata.
Apre le porta cercando di fare meno rumore possibile, per non disturbare le persone che si trovano all’interno e che non si sono ancora accorte della nostra presenza, troppo impegnate a sussurrarsi parole tra loro, passarsi piccole pinze, chine sul corpo inerme, pallido, coprendolo in gran parte alla nostra vista. Ed io non ho il coraggio di soffermarmi un attimo di più, quando scorgo gli asciugamano intrisi di sangue e una bacinella dall’acqua ormai sporca.
La prima che si accorge di noi è Ellie, nascosta in un angolo della camera da letto, nella penombra, nonostante le tende siano completamente aperte per far passare tutta la luce possibile.
Ci fa segno con la mano, invitandoci silenziosamente ad avvicinarci a lei.
Muovo i piedi, uno avanti all’altro sulla moquette che attutisce ogni rumore, distogliendo lo sguardo dai tre licantropi e concentrandolo sulla figura della donna, cercando di non pensare a ciò che sta avvenendo a poca distanza da me.
Diventa ancora più complicato trattenersi, quando Ellie mi rivolge uno sguardo dolce e significativo, poggiandomi una mano sulla spalla, come gesto di conforto.
Poi prende un profondo respiro, come se quello che sta per dirci le costasse un enorme sforzo.

“Sono già due ore che stanno cercando di togliergli tutte le schegge del proiettile.” sussurra, un filo di voce appena udibile, non togliendo mai lo sguardo dalle tre figure. “Quando è stato colpito, la pallottola si è rotta, come se fosse esplosa, andando a conficcarsi in più parti.”

Sento un brivido gelido dipanarsi lungo la schiena alla sola idea di quanto è accaduto; inconsapevolmente, mi appoggio al muro per non crollare. Il mio unico appiglio in mezzo alla tormenta.
Judy si porta una mano alla bocca, angosciata, spostando lo sguardo dalla donna ai due licantropi, e viceversa.

“Ma cosa è successo?” chiede, carica di apprensione e dolore.

“Non lo sappiamo. Eric ne sa di più, ma al momento è impegnato e non lo possiamo disturbare.”

Ho la mente così colma di pensieri ed emozioni, che per un attimo dolorosamente infinito, mi sembra tutto vuoto, di non star pensando a niente. 
In lontananza, mi giungono le voci delle due donne che continuano a parlare, così a bassa voce, che per me sarebbe complicato star loro dietro e comprenderle, perfino se le stessi ascoltando. E questo, per me, diventa un altro motivo di estraniamento, potendo in questo modo osservare le mosse ed i gesti degli uomini, alle prese, mi sembra, con le ultime operazioni.
Hanno preso delle garze, iniziando a fasciarlo e solo a lavoro completato si lanciano uno sguardo eloquente che non passa inosservato.
Non a me.
Ed è quello che mi fa temere di più.
Si avvicinano a noi, con aria stanca, i visi segnati intorno agli occhi e la carnagione più chiara del solito.
Ognuno di loro porta dentro di sé un dolore diverso e profondo: Eric, stava per perdere un amico e il suo alfa; Richard, stava per perdere suo figlio.
Gli occhi del licantropo più grande cercano subito quelli della moglie e lei lo ricambia con uno sguardo dolce, tenero, da donna innamorata, che cerca di dare tutto il proprio sostegno alla persona amata.
E credo che per lui, in questo momento, non ci sia medicina migliore.
Mi sposto, per permettere ai due di stare accanto e confortarsi a vicenda, mentre Eric, prostrato, ci da la diagnosi.

“Per ora è stabile, ma ha la febbre.” la sua voce esce come un bisbiglio lontano, arrochito dalla stanchezza e dalle molte ore di silenzio. “Siamo riusciti a togliere tutti i frammenti del proiettile, ma adesso tocca a lui guarire e svegliarsi. Gli abbiamo dato alcune gocce di morfina, almeno potrà dormire tranquillo per le prime ore, senza alcun problema.”

Ellie gli poggia una mano sul braccio e sorridendogli grata, lo ringrazia dello sforzo fatto; l’uomo si limita ad annuire e insieme a Judy, sono i primi ad andarsene portandosi con loro tutto ciò che è stato usato per curarlo.
La ragazza non perde tempo e senza lasciarli un po' di tregua, chiede subito cosa sia accaduto.
Sono già alla porta, ma riesco a sentire un paio di parole che bastano a capire cosa sia successo e ricostruire bene o male la storia, senza che nessuno mi dica niente, per il momento.

“Tradimento… agguato...”

Chiederò maggiori informazioni quando Garreth si sarà ripreso, perché ho la sensazione che tutto sia correlato all’attacco che abbiamo subito io ed Edoardo.
Richard poggia una mano sulla schiena della moglie e ci invita ad uscire, poiché adesso non ci rimane altro da fare, se non aspettare.
Prima di varcare la soglia, chiedo il permesso di poter rimanere ancora un altro po' con lui, per vegliarlo. I genitori acconsentono senza obiettare, facendomi però promettere di non rimanere per molto.

“Devi riposare anche tu.” mi fa notare il padre, ribadendo che ormai dovevamo solo aspettare.

“E’ nelle mani della Dea Luna, è vero, ma sono convinta che le tue cure e le tue mani lo aiuteranno a tornare da noi prima.” detto ciò, si allontanano e mi lasciano sola.

Sospiro, stanca e molto giù di morale, mentre avvicino una sedia al letto, proprio accanto a lui, continuando a guardarlo e a provare una strana, sgradevole sensazione alla bocca dello stomaco.
Dentro di me continuo a ripetermi che sta dormendo, che ha solo la febbre, domani sarà tutto passato e non ci penseremo più, ma so bene che la storia potrebbe andare a finire molto diversamente. I volti preoccupati dei genitori ne erano la chiara conferma.
Lo guardo, l’immagine che ho di lui, forte indomito e sì, anche bello, si scontra con violenza con l’immagine che ho adesso di un Garreth estremamente fragile, vulnerabile.
Mi passo una mano sul viso, strofinando gli occhi che bruciano, e poi tra i capelli, una massa intrigata a causa dell’umidità e della pioggerellina che cade incessante che mi sono beccata venendo qua.
Se non altro, abbiamo messo al riparo il nuovo branco, siamo riusciti a sfamarli e potranno dormire al caldo e al riparo. E questo è di gran conforto.

“Puoi stare tranquillo, i tuoi amici stanno bene. Tu devi solo pensare a guarire, adesso.” dico con un filo di voce, sentendo la mia voce distorta nel silenzio surreale della stanza.

“Perché tu ce la devi fare, Garreth. Qui hanno bisogno di te.” gli prendo una mano con delicatezza, sfiorando la pelle. “Io ho bisogno di te.” gli confesso, stanca, stremata, di nascondere i miei sentimenti.

Lo guardo, ma il suo viso rimane impassibile.

“Posso entrare?” è la richiesta detta a bassa voce di Ellie, mentre fa capolino dalla soglia della porta.

Annuisco, ma non dovrebbe chiederlo dal momento che io sono un’ospite e questa è casa di suo figlio.
Quando entra, vedo che porta con sé un piatto con un panino e dei biscotti, e un bicchiere di latte macchiato da non so cosa.

“Ti ho portato qualcosa da mangiare.” sorride affabile, premurosa, posando tutto sul comodino accanto al letto.

“Ellie, non dovevi! Io sarei potuta scendere se avessi avuto fame.”

Mi si affianca, elargendomi una breve carezza, guardandomi con aria preoccupata.

“Sei tanto pallida e inoltre non tocchi cibo da non so quanto. Devi essere in forze e mettere qualcosa nello stomaco.”

Le sorrido grata per le sue dolci attenzioni, poi entrambe ci voltiamo verso il licantropo, ognuna immersa nei propri pensieri.

“E’ tardi, perché non mangi e poi vai a riposare? Fino a domattina non ci saranno novità.” mi passa il bicchiere con il latte, invitandomi almeno a bere.

Il liquido è tiepido e molto dolce, ci ha aggiunto il cacao perché ne è rimasta ancora traccia di polvere.
Questa donna sa come tirarti su il morale, anche in un momento come questo.

“Andrò tra poco, se per te non è un problema.”

Ne bevo un altro sorso, scoprendomi decisamente golosa di questa bevanda che non sono solita bere, finendolo quasi subito, e gustandomelo un po' prima di tornare concentrata sulla persona che riempe ormai da tempo i miei pensieri.

“Ti piace molto, non è vero?”

Mi prendo un attimo per riflettere se essere sincera, ma arrivo alla conclusione che se ne è accorta e che mentire non servirebbe a niente. Prenderei solo in giro me stessa. E poi, a ben pensarci, non ho problemi ad ammetterlo, non con lei, almeno.

“So che ci conosciamo da poco e sono ancora più consapevole che apparteniamo a due specie e a due mondi diversi, però sì, lui mi piace tanto Ellie.” gli confesso, col cuore più leggero, giocando il bicchiere vuoto.

Segue un brevissimo attimo di silenzio.

“Io mi riferivo al latte e cacao.”

Giro la testa lentamente, sentendo il cuore sprofondare e perdere quel poco calore che la bevanda mi aveva fatto acquistare, per vederla sorridere compiaciuta e sorniona.
Estremamente soddisfatta.

“Buonanotte Amira.”

Non mi lascia il tempo di aggiungere altro, se ne va, lasciandomi con la consapevolezza di essermi esposta.
Dopo essermi ripresa dallo shock della mia confessione, incrocio le braccia sul materasso, vi appoggio la testa, voltandomi verso di lui, pronta ed attenta a captare qualsiasi cambiamento o movimento.

 

Sono in una foresta dagli alberi altissimi, non è la stessa del villaggio, ha un che di fiabesco, magico; è notte fonda, ma ogni cosa è illuminata da una chiara, opalescente luce lunare, tanto vicina che se allungassi la mano, la potrei quasi toccare.
Benché non conosca il luogo, mi sento a mio agio, non ne ho paura e l’idea di stare qui per sempre non mi spaventa, se non fosse che mi sento sola.
Soffro per la mancanza di qualcuno, ma non riesco a capire chi, i miei pensieri sono sfuggevoli, poco concreti.
Mi guardo intorno, curiosa ed attratta, fino a che il mio sguardo si concentra su un fascio di luce più luminoso degli altri, che per un breve attimo, non mi fa vedere più niente.
Quando l’intensa luce svanisce e i miei occhi si abituano nuovamente alla semi oscurità, vedo una donna bellissima, dai lunghi capelli ondulati, bianchi come la neve e rilucenti di uno splendore tutto loro.
Mi viene incontro sorridendo, muovendosi piano, come fosse talmente leggera da non toccare neppure il suolo. Ha i piedi nudi, che malapena si intravedono da sotto la lunga veste candida che indossa.
È la creatura più bella che abbia mai visto e mi stupisce che la mia fantasia riesca a immaginare tanta bellezza.
Neanche i miei figli mi hanno fatto tanti complimenti. Ti ringrazio, Amira.” dice la donna, sorridendomi, sia con le labbra fini, di un pallido rosa, che con gli occhi color del ghiaccio.
Conosce il mio nome. Beh, certo, è il mio sogno, quindi ci può stare.
Non riesco a smettere di ammirarla, incapace di dire una parola.
È bellissima da togliere il fiato e farti perdere il filo logico dei pensieri. Di una bellezza obliante.
Però, povera donna, anche i suoi figli potrebbero farlo un complimento alla mamma…
La dama bianca ride, divertita, cercando di tornare subito seria.
Ed io penso cosa ci sia mai di tanto divertente da ridere.
Rido perché ho fatto bene a sceglierti come la compagna di Garreth, gli farai bene.”
Ah, è per questo…
Aspetta, cosa?!
Sì, Amira, hai capito.” la sua voce non muta, rimanendo gentile ed affabile.
Tu sei… sei la famosa Dea Luna?”
Adesso che devo fare? Inginocchiarmi? Chiamarla Mia Signora?
Non devi fare niente di tutto questo, cara ragazza.”
La guardo allibita. “Leggi i miei pensieri?” sono sconcertata. “Anche i licantropi possono?” chiedo angosciata, ricordandomi di quanti pensieri stupidi ho avuto in loro compagnia, sopratutto i primi tempi che mi ospitavano.
Questo è concesso solo a loro, non possono farlo con voi umani.”
Oh, menomale.
Quante figure di merda risparmiate…
Poi la guardo negli occhi, consapevole.
Mi dispiace, sono desolata. Io non volevo dire… cioè sì, ma non proprio quello.”
La dama bianca non perde il sorriso dolce.
Perché sono qui?” le chiedo, rendendomi conto che se lei si è mostrata, un motivo ci sarà.
Io appaio a coloro che hanno accettato il proprio compagno. Solo allora mi vedrete.”
La guardo dubbiosa, con un po' di disappunto, perché io non ho accettato nessuno e nessuno, sopratutto, ha accettato me.
La dama sorride e toccandomi la fronte con il pollice, mi fa rivivere alcuni momenti passati.
Rivedo il primo momento in cui ho incontrato Garreth, il timore ed il sospetto che nutrivamo l’uno per l’altra; rivedo il giorno in cui ci siamo incrociati alla tavola calda e quel battibecco finito in maniera non proprio educata.
E i ricordi continuano, si sovrappongono, si aggiungo gli uni agli altri. Ed io non immaginavo neppure di aver passato tanto tempo con lui.
Rivivo quel suo sguardo che non capii la sera del barbecue, mentre ballavo con Giulian, quell’incontro casuale per strada che mi fece scappare via, spaventata da non so cosa o da chi – da lui? O dal mio comportamento nei suoi confronti –. Io che gli salvo la vita dai cacciatori e lui che sfonda la porta di casa per salvare me, il momento della sfuriata di stupida gelosia, quando lo trovai a casa di Julia; quella maledetta frase che mi lasciai sfuggire: “Ma io volevo te!” e quel suo silenzio che mi fece capire molto più di quello che avrei voluto.
Infine, i ricordi rallentano all’improvviso, come fermati bruscamente, e vedo me, da ultimo in camera sua, e sento vibrare nell’aria l’ultima cosa che ho detto, prima di addormentarmi. “Io ho bisogno di te.”
I flash terminano ed io sbatto violentemente le palpebre per poter mettere nuovamente a fuoco la donna di fronte.
E’ stato un piacere sceglierti. Hai salvato molti dei miei figli ed altri ne salverai.”
Questa frase criptica sul futuro non mi piace molto, sa tanto di guai, ma dal momento che lei sembra conoscere cose che ancora dovranno avvenire, la domanda mi sorge spontanea.
Garreth guarirà? Tu puoi fare qualcosa?” chiedo accorata, portandomi le mano al petto, piena di speranza.
Mi guarda come se non aspettasse altro che questa domanda.
Stai facendo molto più te con la tua vicinanza. Continua a parlargli. Arrivederci, Amira.” si volta e sta per andarsene.
Aspetta, ti prego!” volta solo la testa, pronta per andare via, già circondata in un fascio di luce talmente abbagliante, che mi costringe a socchiudere gli occhi.
Hai detto che tu appari solo a chi ha accettato il suo compagno...” tentenno titubante, giocherellando con la punta delle dita per scaricare la tensione. “Ecco, lui… insomma, tu sei già apparsa...” mi inumidisco le labbra che sono secche anche in un sogno.
Mi guarda con occhi inteneriti e pieni d’amore, per me, per i suoi figli. Pieni di un sentimento che noi umani non potremmo mai capire, non fino in fondo.
Questo sta a te scoprirlo.”
La dama bianca svanisce e con lei, tutto ciò che ci stava circondando.

 

Riapro gli occhi nella stessa posizione in cui mi sono addormentata, con l’unica differenza che mi fa male la schiena.
Perfetto.
Mi massaggio il punto dolorante, mentre osservo Garreth continuare a dormire, notando con sollievo che il respiro gli si è regolarizzato ed è diminuito il sudore.
Mi alzo, stando attenta a non fare alcun rumore, dirigendomi in bagno per prendere un piccolo asciugamano e dopo averlo immerso nell’acqua fredda, ritorno in camera, per adagiarglielo sulla fronte, per dargli un minimo di sollievo.

“Sai, mio padre me lo faceva quando avevo la febbre. Non so se servirà a qualcosa, ma io mi sentivo meglio.” bisbiglio.

Cambio lato al panno, constatando che il suo calore, un po' naturale un po' dovuto alla febbre alta, lo sta già asciugando, e con questa scusa, gli accarezzo la guancia.
Mi siedo nuovamente, indecisa se continuare a parlargli possa davvero funzionare oppure no. In molti dicono che serva, in casi come questi; persino la Dama Bianca, l’ha detto. Quindi, se lo dice lei, mi dovrei fidare, no?
Solo che mi sento così sciocca a parlare a voce alta…

“Mi dispiace che i nostri primi incontri non siano stati proprio pacifici, né molto diplomatici… in realtà non lo sono stati per niente, ma io non avevo voglia di fare amicizia e tu non mi sei stato d’aiuto.” trattengo a stento un piccolo sorriso, ripensando a come sono andate le cose tra di noi.

“Sono venuta qua, scappando da casa mia, quasi, non solo per venire a trovare Anna, ma anche per fare pace col mondo e iniziare una nuova vita. Solo che poi ho conosciuto te e niente è andato secondo i piani.” prendo una pausa, cambiando ancora posizione, perché la sedia inizia ad essere scomoda.

Oppure è solo la verità che gli sto raccontando ad esserlo.

“Quando ho scoperto la verità su di voi, ero spaventata. Chi non lo sarebbe stato? Poi però, ne sono stata affascinata e temevo che una creatura forte e...” deglutisco, prendendo coraggio. “bella come te, non si sarebbe mai potuta affezionare ad una come me. A dire il vero, non so ancora bene se mi hai accettato davvero.” mi stringo nelle spalle, cadendo nel patetico.

Ringrazio solo che non mi possa vedere.
Il tempo sta trascorrendo con una lentezza innaturale e dannatamente spossante. Ogni tanto mi alzo per sgranchirmi le gambe, per bagnare il panno o per chiudere le tende e lasciare solo la luce di una lampada, all’interno della stanza.
Stare seduta senza poter fare niente è destabilizzante, ma sono consapevole che ha ragione Eric e che a noi non rimane altro se non sperare, aspettare, fiduciosi che superi la notte senza complicazioni.
Dovrei andare a dormire anche io, come mi aveva suggerito Ellie, ma non riesco ad uscire da questa camera; mi sembra di essere legata a lui da una corda invisibile che mi impedisce di allontanarmi. Anche solo l’idea di doverlo fare, perché costretta, mi fa venire voglia di piangere.

Che sciocchezza!

Può darsi che ragioni così per via dell’ora tarda e delle tante emozioni che mi hanno sconvolta oggi.
Mi siedo, cercando un po' di sollievo, ma non so bene neppure io da cosa. Mi sento stanca, sfinita, eppure se appoggiassi la testa sul materasso, non sarei in grado di dormire.
Il sogno che ho fatto, l’incontro con la Dama Bianca, mi ha destabilizzata e rincuorata; dandomi nuova fiducia che non tutto sia perduto.
Guardo il licantropo disteso; lo sterno fasciato da garze pulite, si muove al ritmo regolare e lento del suo respiro.
Lo hanno coperto fino alla pancia per permettere alla ferita di respirare e rimarginare per quanto la fasciatura lo consenta, e per fargli perdere l’alta temperatura causata dalla febbre.
Il silenzio sordo che regna qui dentro, mi fa fischiare le orecchie e mi ritornano alla memoria le parole della Dama: gli dovrei parlare.
Ma cosa dirgli? Cosa c’è da raccontare della mia vita? E poi lui nemmeno ne sarà interessato; come potrebbe esserlo una creatura superiore come Garreth sulla vita di una semplice umana come me?
Guardo l’orologio, constatando che è quasi mezzanotte e che ormai saranno andati tutti a dormire e che non potranno sentirmi se dovessi seguire il consiglio che mi è stato dato e ciò mi spinge ad andare avanti nel mio bizzarro monologo.

“Tu mi ricordi molto il Garrett di un cartone animato. Neanche lui voleva fare amicizia o che le persone entrassero nella sua foresta, ma alla fine cambia idea grazie ad una ragazza. E i due si innamorano.” mi mordo la lingua per essermelo lasciato sfuggire, pregando tutte le divinità esistenti che non abbia sentito. Potevo anche evitare l’ultima frase.

“Sì, ma tanto è solo un film d’animazione...” mi picchietto una mano sulla fronte per essermi messa sempre più nei casini. “Anche la canzone che canta il protagonista mi ricorda moltissimo te.” divento rossa e non so nemmeno io il perché.

Felice che non mi possa vedere, cambio argomento immediatamente, pregando che non abbia sentito niente di tutto quello che ho detto.

“Un’estate, io ed Anna, siamo andate ad un concerto di nascosto… peccato che al ritorno la mattina dopo i nostri genitori ci stessero aspettando. Dal momento che non era la prima volta che io e lei facevamo una cosa del genere, ci hanno proibito di vederci per dei mesi.” Lo racconto col sorriso, adesso, ma quando accadde, mi infuriai come un’animale perché Anna era la mia amica di avventure e mi sentivo defraudata di una persona importante.
Continuo a parlargli della mia vita, che per fortuna non è stata del tutto turbolenta, fatta eccezione di quella volta che rubammo la macchina e di quel piccolo incidente in chiesa, e cerco di parlare bene di mia cugina, per paura che lui possa cambiare idea sulla moglie del suo beta.
Non voglio essere responsabile di una catastrofe.

All’improvviso sento la stanchezza farsi strada sul corpo e sugli occhi, il che mi spinge ad incrociare le braccia sul letto ed appoggiare la fronte, per riposarmi un poco e per dare anche un po' di sollievo anche a Garreth e non fargli più sentire il mio fiume di parole.
Dopo non so quanto tempo, riapro gli occhi.
Devo essermi addormentata perché adesso l’orologio segna le due passate.
Certo, è ancora presto per fare delle previsioni sul suo stato di salute, ma sembra che l’alfa stia riacquistando salute, ma non da segni di volersi svegliare e questo mi demoralizza e mi fa sprofondare in uno sconforto senza fine.
Non voglio perdere le speranze.

“Edoardo sta meglio, Eric lo ha imbottito di antidolorifici, però non sappiamo se potrà più camminare come prima.” mi massaggio le tempie, in un gesto che ormai è diventato automatico, nei momenti di forte stress. “Adesso ti ci metti pure tu, brutto bestione arrogante!” chino la testa, sentendo le lacrime trattenute per troppo tempo, premere e pungermi gli occhi.

“Non ti devi arrendere. Fallo almeno per il tuo branco, se non lo vuoi fare per me perché sono umana e mi odi, ma io no...” mi asciugo una lacrima rimasta all’angolo dell’occhio. “Io non ti ho mai odiato, anche se sei arrogante e ti comporti da dittatore, sopratutto con me.”

Le parole mi muoio nella gola, come se fossero rimaste impigliate in una rete che non vuole farle uscire.
Mi alzo veloce, prendo il panno che ormai è asciutto per bagnarlo e rimetterglielo nuovamente sulla fronte.
Devo dirglielo adesso o non avrò più il coraggio di farlo quando riaprirà gli occhi.

“La verità però è questa ed io l’ho capita e la ammetto, così come ho accettato la differenza abissale tra di noi e la consapevolezza che tu non potrai ricambiare.” sento un dolore pungente al cuore, e la voce si incrina senza che io riesca ad impedirglielo.

“Io ed Edoardo ripartiremo appena starà meglio. Non ti saremo… non ti sarò più di nessun fastidio, ma tu devi svegliarti e guarire perché…”

Incrocio le braccia sul materasso e vi appoggio la testa, nascondendocela quasi.

“Perché sono innamorata di te.” dico con un filo di voce, per paura che mi senta, ma anche consapevole che ormai, anche se udisse le mie parole, non importerebbe più niente.

La mia voce si perde nel silenzio per attimi infiniti ed io ringrazio la mia buona stella che lui stia ancora dormendo.

“Una dichiarazione in piena regola, non c’è che dire...” dice una voce roca, gracchiante, resa ancora più bassa dal troppo silenzio a cui è stata costretta.

E mentre la sua voce riempe la stanza e il cuore, sento una mano sulla testa, sopra i capelli spostati delicatamente da dita intorpidite.
Mi volto verso il proprietario, trovandolo sveglio.
Rimango in silenzio, troppo emozionata e confusa per fare o dir qualcosa di senso compiuto, con le emozioni che si agitano e si aggrovigliano nello stomaco.
Felicità, perché si è svegliato e pare che la febbre sia calata di molto.
Paura, perché se adesso è vigile, è probabile che sia stata colpa mia e del troppo parlare; quindi ci sono buone probabilità che mi abbia sentito.

“Proprio adesso smetti di parlare, ragazzina?” domanda ironico, trovando la forza di sorridere e voltandosi per guardarmi meglio.

Non oso ricambiare lo sguardo, troppo imbarazzata. Devio così il discorso, concentrandomi sul suo stato di salute, cambiando posizione al pezzo di stoffa sulla sua fronte.

“Come ti senti?”

“Sono stato peggio.” socchiude un attimo gli occhi, mentre gli passo il panno sul viso per detergerlo dal sudore in eccesso e rinfrescarlo, facendoli trovare in questo modo un po' di sollievo.

L’attimo successivo ce ne ritorniamo in silenzio; il suo respiro pesante ma regolare che risuona nella stanza, ed il battito accelerato del mio cuore che sembra volermi scoppiare nel petto e voler uscire.

“Garreth, senti… riguardo a quello che hai sentito prima, io...” neppure io so dove ho trovato la forza per intraprendere questo discorso.

È probabile che mi stia facendo forza solo perché lui è ancora convalescente e non del tutto idoneo ad una conversazione, o forse è la mia immensa stupidità che mi fa parlare.

“Anche la Dama Bianca mi ha detto che potevo parlarti.” gioco con un filo della coperta, scucendola ancora di più.

Adocchio verso di lui, trovandolo intento a guardarmi intensamente; uno sguardo profondo, magnetico, reso ancora più scuro dalle pupille dilatate e dalla poca luce nella stanza.
È il suo mutismo, questi occhi intriganti, che mi danno l’ultimo barlume di volontà per parlare.

“Ed io ho detto quello che provo, per te.” esalo a corto di fiato, col cuore che non smette di accelerare i suoi battiti, tanto da farmi credere che li stia sentendo anche lui.

Io, senza dubbio alcuno, ho sentito il verso basso e gutturale che ha emesso, un suono roco, di gola, e lo guardo senza capire il motivo che lo abbia portato a fare ciò, dal momento che lui ringhia spesso e le ragioni mi sono il più delle volte ignote.
Chiude un attimo gli occhi, senza avere più quell’espressione tesa e seria; i lineamenti si rilassano e lui torna a guardarmi, adesso, molto più sollevato.

“Mi dovrai spiegare chi è la Dama Bianca, ma non adesso.” mi fa segno di tacere e sposta gli occhi sulla porta, alle mie spalle, sospirando frustrato. “Stanno arrivando.”

“Chi? Chi sta arrivando?” sono perplessa.

Nel giro di qualche istante, la porta si apre, lasciando entrare i genitori di Garreth, scombussolati ed ancora assonnati, Eric ed Alan adir poco sconvolto.
Scatto in piedi, come fossi stata colta a commettere un reato, allontanandomi dal letto e mi fiondo dal marito di mia cugina, per chiedere informazioni su di lei e per sapere perché si trovi qui.
Scopro così che ha guidato tutta la notte, non appena ha saputo di quanto accaduto, che rimarrà al villaggio per occuparsi del branco in attesa del miglioramento dell’alfa.

“Lei e il bambino stanno bene, ma dovrà rimanere dai miei finché questa situazione non sarà risolta.” aggiunge dopo la mia preoccupazione per mia cugina. “Anche tu, Amira, se ci dovesse essere uno scontro, dovresti andare da lei e portare il tuo amico. Non è prudente rimanere, non per due essere umani che sono dalla nostra parte.” dice accorato, dopo avermi preso in disparte, mente gli altri visitano l’alfa, gli fanno domande e cercano di sapere di più sull’aggressore e su come sono andati i fatti.
Vorrei poter origliare e sentire cosa si stanno dicendo, ma Alan me lo impedisce.

“Lo so, capisco… ma io vorrei poter rimanere qui, aiutare se ce ne fosse bisogno.”

Il suo viso è segnato dalla stanchezza di un lungo viaggio, per colpa di una brutta situazione che lo costringe lontano dalla sua compagna e mette a rischio la sua vita.

“Ho sentito cosa hai fatto e te ne siamo tutti molto grati, ma non possiamo mettere in pericolo ancora una volta la tua vita e quella di Edoardo.”

Ora capisco perché Anna ci si scontra spesso con lui: sono entrambi simili di carattere, su certi aspetti, così testardi che il risultato non può che essere questo.

“Io non me ne voglio andare. Voglio… vorrei rimanere qui, con...” mi fermo prima di dire il suo nome, ma Alan ha già capito ed è plausibile che abbia intuito persino i miei sentimenti, perché non controbatte.

“Capisco cosa provi, Amira. Per me, è lo stesso con Anna.”

“Ottimo!” esclama Eric, interrompendo la conversazione tra me ed Alan, e concentrando l’attenzione di tutti su di sé. “I segni vitali sono nella tua media, la febbre non c’è quasi più.”

Vedo il sollievo più puro dipinto negli occhi di sua madre e solo adesso mi ricordo che sono giorni che non mi faccio viva con la mia, di madre, e che spero ci abbia pensato ancora una volta Anna.

“Qualche altra ora di riposo non ti farà male. Adesso va lasciato solo.”

Eric ed Alan se ne vanno, accompagnati da Richard.
Io e sua madre ci attardiamo solo un paio di minuti.

“Sono così felice che tu stia meglio. Ci hai fatto prendere un terribile spavento.” dice la madre, sull’orlo dell’emozione.

“Non è la prima volta, mamma.” ribatte il figlio, cercando di darsi un contegno, mantenendosi distaccato.

O provandoci, almeno.

“Per fortuna c’era Amira, che ha badato a te, in queste ore.” lancia la freccia, con disinvoltura, facendomi andare letteralmente a fuoco e costringendomi a distogliere lo sguardo dal figlio.

Disgraziata di una donna!
Ellie gli da un bacio sulla fronte ed io la seguo, pronta ad andarmene, non volendo essere oggetto delle insinuazioni della donna o dover affrontare le conseguenze della sua affermazione.

“Tu no, tu resta Amira.” dice categorico.

Anche da convalescente non ha perso il tono autoritario e prepotente.
Sua madre ci guarda con aria sognante, sorridendoci felice come se non avesse aspettato altro o lo avesse sempre saputo. Anche quando chiude la porta, non smette di ridacchiare gioiosa e per ultimo, mi regala un simpatico occhiolino.
Mannaggia a lei!
Rimango a guardare la porta, dando le spalle a Garreth, volendo procrastinare il momento della verità.

“Come facevano a sapere che ti eri svegliato?” domando colpita e incuriosita dalla loro prontezza.

“Lo hanno percepito. Ho cercato di tenerli fuori qualche altro minuto, per poter parlare con te, ma a mia madre non si può nascondere niente. O non per molto, almeno.” sfiata un sorriso.

Dal rumore di lenzuola, devo dedurre che stia cercando di muoversi o cambiare posizione, ma non ho la forza per girarmi e vedere cosa stia facendo.

“Povera donna, vorrei ben vedere! Era così in pena per te.”

Quale madre non sarebbe in pensieri per un figlio al quale hanno sparato e non sa se riuscirà a superare la notte?

“Anche tu lo eri.” constata ovvio.

Mi limito a scrollare le spalle, rimanendomene girata, a fissare la porta, nella vana speranza che dopo questo breve scambio di frasi mi mandi via.

“Guardami Amira.” lo chiede con gentilezza, proprio lui che non supplica mai ed è sempre così autoritario nelle richieste.

Ed io, altrettanto gentilmente, scuoto la testa in segno di diniego. Ma sono conscia, lo siamo entrambi, che questa resistenza da parte mia, non potrà andare avanti per molto altro ancora.

“Sono stanca e vorrei andare.” mi sembra un’ottima scusa per congedarmi, ma lui pare non ascoltarmi.

“Ho sentito quello che dicevi. Sentivo la tua voce.” parla dopo attimi di silenzio, forse trascorsi a riflettere se ammetterlo, in modo pacato; la sua voce è calma, dolce, tanto che mi fa venir voglia di girarmi, in preda ad una forza sconosciuta.

“E’ stato uno strazio percepire il tuo dolore ed essere confinato lontano da te.” mi guarda intensamente negli occhi ed io, mossa da una volontà non mia, mi avvicino.

Un passo e poi un altro ancora, fino a che, le mie gambe non incontrano il bordo morbido del materasso.
Gli occhi si fanno languidi e un piacevole calore inizia a diffondersi nel cuore.

“Devo chiedertelo, o mi tormenterà. Hai parlato di una Dama Bianca. Chi era, chi hai visto, Amira?” domanda incuriosito, ma con un presentimento che gli risuona nel timbro di voce.

“Credo che voi la chiamiate Dea Luna.” bisbiglio, sapendo che lui, gli altri e persino la stessa Dama, potrebbero offendersi se continuassi a chiamarla con il soprannome che le ho dato.

“L’hai vista...” esala accorato, esausto ma felice. “L’hai vista anche tu.” sorride come se fosse la notizia più bella del mondo. “Sai questo che cosa vuol dire, mia piccola Amira?” domanda, come se dovessi conoscere la risposta, ma il mio cervello è andato in tilt, completamente.

“Che non sto impazzendo?” cerco di ironizzare per scaricare la tensione che sento salire in me.

“Che anche tu mi hai accettato.” chiude gli occhi, estasiato.

Mi siedo sul bordo del letto, sentendo le gambe stare per cedere da un momento ad un altro, scossa dalla sua rivelazione.

“Quindi, anche tu… e quando?”

“La notte in cui mi hai seguito e sei fuggita nel bosco.” confessa, guardandomi colpevole di aver taciuto per tanto tempo e averci costretto a star male, separati inutilmente.

Da quella sera sono passati dieci giorni, perché, mi domando, mi ha sempre trattata con freddezza, cercando di tenermi a distanza, volendo addirittura mandarmi via, se anche lui, l’aveva vista e molto tempo prima di me, addirittura.
Dal mio sguardo deve intuire i miei pensieri.

“Non mi è piaciuto comportarmi come ho fatto, credimi, ma ho dovuto se volevo tenerti lontana dai guai. A quanto pare tu gli attiri i guai e hai scoperto tutto prima del previsto e da sola.” mi spiega con calma, accarezzandomi la mano.

Rabbrividisco al suo tocco delicato, beandomi delle sue attenzioni e lasciandomi trasportare dalle sue dita che si muovono leggere sulla pelle.

“Quindi non mi manderai via?”

Mi guarda accigliato, per un istante brevissimo.

“Non ho mai voluto mandarti via, non potrei allontanare la mia Luna. Sarebbe folle.”

“Anche altre persone mi hanno chiamato in questo modo, ma non capivo… non capisco neanche adesso, in realtà.” gli devo sembrare buffa, perché sorride divertito.

“Ti hanno considerata la mia compagna e guida del branco quando ancora non sapevi di esserlo.”

Mi ritrovo a spalancare la bocca, da sciocca, messa di fronte alla sua affermazione.

“Ti stai sbagliando, io non posso essere una guida per un branco, a fatica riesco a guidare la mia vita, figurati quella di altre persone!” inconsapevolmente alzo di poco la voce, spaventata dal ruolo che mi vuole dare all’improvviso. “Hai preso anche una bella botta in testa, oltre ad una fucilata, te lo dico io. Te sei tutto matto.” concludo infervorata, togliendo la mano dalla sua, e incrociando le braccia al petto.

La mia reazione lo disorienta per un attimo, poi sembra tornare padrone di se stesso e quel lieve dolore che gli ho letto per una frazione di secondo negli occhi, svanisce, tornando ad essere dolce ed amorevole.
Benché mi suoni così bizzarro associare la parola amorevole a Garreth.

“Tu hai solo paura di non esserne all’altezza, ma ti dirò questo, Amira. Hai rischiato non so quante volte per noi; hai messo a repentaglio la tua vita in modi che non puoi immaginare. Credimi, sei degna.”

“Ma...”

“Ssshhh… fa silenzio, abbiamo parlato anche troppo.” mi riprende senza tanti convenevoli la mano, avvicinandosela al petto, facendomi così sentire il calore della sua pelle ed il battito del suo cuore. “Devi stare qui. Devi essere mia.” mi tira con decisione, facendomi sdraiare sul letto, al suo fianco e circondata dal suo braccio, per non farmi andare via, impossibilitata a muovermi, per timore di fargli male.

Non nego che non mi senta a disagio, qui sdraiata accanto a lui sul suo letto, così vicini e Garreth così poco vestito, per quanto non sia la prima volta che ci troviamo in una situazione analoga, le altre volte indossava più indumenti ed eravamo più lontani. E persino adesso, in fase di guarigione, non ha perso il fascino e quel suo lato attraente, tanto da farmi ritrovare ferma, rigida come un sasso, senza sapere dove mettere le mani e posare gli occhi.

“Rilassati, non ti mangio.” ridacchia sopra i miei capelli, abbracciandomi per avvicinarmi ancora di più.

La sua affermazione però non mi aiuta a stare tranquilla, tutto il contrario semmai.

“Cosa ti è successo? Nessuno sapeva dove fossi finito.”

“Non ti devi preoccupare, ora sono qui.” svia il discorso, per nulla incline a parlarmene.

Alzo la testa per poterlo guardare con lo sguardo più serio e minaccioso di cui sono capace; e se all’inizio non mi prende molto seriamente, tanto da iniziare a ridacchiare e trovarmi buffa, basta una frase per rimetterlo in riga.

“Se è vero quello che hai detto ed io sono la tua Luna, è giusto che sappia cosa ti è accaduto, non ti pare? Mica vorrai tenermi all’oscuro e avere già da adesso dei segreti?”

La sua espressione cambia radicalmente, diventa serio e taciturno, soppesando le mie parole.
Alla fine, dopo un lungo dibattito interiore, sospira rassegnato.

“Hai imparato fin troppo alla svelta.”

Inizia a passare le dita sulla schiena, su e giù, come per tranquillizzarmi e rassicurarmi della sua presenza.

“Credevamo che i traditori fossero già stati presi e cacciati. Mi ero recato in avanscoperta con un membro del branco, di cui avevo qualche sospetto, ma non ero sicuro.”

“Perché sei andato da solo e non hai avvertito nessuno?” lo interrompo accorata, spaventata da quello che deve ancora dirmi.

“Perché se i miei sospetti fossero stati fondanti, e lo sono stati, non potevo mettere a rischio la vita di nessuno del mio branco. Non ora che ne stiamo ospitando un altro.”

“E rischiare la tua vita, senza dire niente, ti sembra un buon modo per salvaguardare i due branchi?” sbotto, tentando di non adirarmi troppo.

Garreth mi stringe a sé, forte, possessivo, da farmi mancare il fiato. Ed io percepisco la frustrazione e la rabbia scemare.

“La mia piccola Luna guerriera.”

E con questo, mi arrendo del tutto.

“Ci sono cose che un alfa deve sempre mettere prima di sé stesso. Con il tempo lo capirai anche tu.”

“Cos’è accaduto dopo?”

“Roy, mi aveva portato nel bosco con la scusa di una traccia dei cacciatori, cosicché mi allontanassi dal branco.”

Non mi ricordo di lui, sicuramente sarà stato nel gruppo di Julia e di suo cugino, ragion per cui, non ho memoria del suo volto. Sarà stato ben attento a non farsi vedere molto.

“Non c’è più da preoccuparsi nemmeno di lui. Devi stare tranquilla, adesso.”

“Dov’è Roy adesso?”

“Devi dormire Amira. È tardi e tu sei stremata. Hai avuto tante emozioni oggi e noi avremo modo di parlarne domani.” mi bacia la fronte, attardandosi qualche secondo.

“E’ già domani, Garreth. Ho il diritto di sap-”

Mi bacia sulle labbra, zittendo ogni mia protesta, indugiando a mordicchiare il labbro inferiore. Le sue braccia mi stringono imperiose, non dandomi libertà di movimento, ma in questo momento non c’è altro posto in cui vorrei stare.
Ho atteso così a lungo che mi baciasse senza remore e senza pentimento, che non ho intenzione di fermarlo, né di fermarmi.
Muovo la mano per posarla sul viso e lasciarla vagare sui suoi capelli scompigliati, godendomi il verso animalesco che gli esce incontrollato dalla gola.
Ci stacchiamo tempo dopo, quando ormai i nostri respiri sono corti e le nostre labbra rosse e gonfie per i lunghi e concitati baci.
Con il dorso della mano, mi scosta i capelli, liberandomi il collo per rilasciare un bacio caldo ed umido, facendomi sentire la stretta dei denti, che mi fa rabbrividire e inarcare la schiena.
Arrossisco, provando a riprendere aria, senza sapere come dove nascondermi, sopratutto quando lo vedo sorridere compiaciuto del risultato del suo effetto.
Lo guardo interdetta, non capendo perché abbia fatto ciò, ma Garreth non da spazio a domande, si accomoda come meglio può e fa fare altrettanto a me, sempre al suo fianco, sotto le coperte per non farmi prendere freddo, circondandomi le gambe con la sua e il busto con il braccio, senza darmi la possibilità di muovermi, neppure per cambiare posizione.
Nonostante la vicinanza sia delle più intime mai avute finora, accanto a lui, cullata dal suo respiro, dalle sue mani, e riscaldata dal calore del suo corpo, mi addormento senza neppure rendermene conto; e per la prima volta da quando sono qui, da quando ho a che fare con lui, la mente è libera, spensierata, senza dubbi o domane.

Colma di rinnovata speranza.








*Angolino mio*
Salve! Spero che ci sia ancora qualcuno che legge  xD
Fatemi sapere se il capitolo è stato di vostro gradimento e se ci sono errori di cui non mi sono accorta....

Un bacione
Nina

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Capitolo 16
*** L'attacco ***


Apro un occhio e successivamente anche l’altro, cambiando posizione e rannicchiandomi sempre di più sotto le coperte, al caldo e al riparo dalla luce che filtra attraverso la fessura delle tende.
Distendo un braccio nel posto accanto a me, trovandolo vuoto, ma non preoccupandomi perché quasi subito mi giunge alle orecchie lo scrosciare ovattato dell’acqua nella stanza accanto.
Mi copro il viso con il lenzuolo, nascondendomi a riccio, per ripararmi dalla luce bianco grigiastra, non sapendo – e non volendo neppure sapere – che ore sono. Dopo tanto tempo, le cose sembrano aver iniziato a prendere una giusta piega ed io ho tutta l’intenzione di godermi questi attimi appieno.
Nel giro di qualche minuto, o forse di più, trascorso in un dormiveglia indefinito, mi giungono alle orecchie dei passi felpati che si avvicinano e, l’attimo dopo, il materasso si abbassa sotto il peso del visitatore.

“Ti sei svegliata, finalmente.” sale sul letto, sdraiandosi al mio fianco e costringendomi ad emergere dal mio nascondiglio caldo e sicuro.

“No, non è vero. Sto ancora dormendo.” mugolo con la voce ancora impastata dal sonno, celando un sorrisino che mi increspa le labbra.

Tento di ritornare con la testa sotto le coperte, per cercare di dormire, o almeno di riposare un altro po', dal momento che avevano ragione Ellie e Garreth: sono stati giorni lunghi e stancanti ed io voglio stare a letto, troppo stanca per muovere un muscolo.
Ovviamente, mi viene impedito dall’alfa che, con fare da esperto prepotente, afferra la coperta e con un unico, secco, gesto la tira via, ai piedi del letto, lasciandomi completamente esposta al freddo della stanza.

“Alzati e guarda fuori dalla finestra.” dice ridacchiando, mentre si alza e si sposta per la stanza.

Contrariata e anche molto arrabbiata, osservo i suoi movimenti per poi distogliere subito lo sguardo quando vedo che indossa solo l’accappatoio e che si sta per cambiare con me presente.

“No, tu dovresti rimanere a letto finché non sarai guarito del tutto.” lo rimprovero impensierita, coprendomi gli occhi con entrambe le mani, l’attimo dopo quando mi rendo conto che si sta cambiando di fronte a me, senza remore e senza pudore, sforzandomi di non sentire il fruscio dei vestiti sulla sua pelle e di non far vagare i pensieri.

“Amira...” è il suo richiamo, dolce e melodioso, ipnotico, come il canto delle sirene. “Fidati, va tutto bene.”

E come loro, è anche nocivo.
Per la mia salute mentale e per le mie facoltà raziocinanti, di sicuro.

Convinta a dargli retta e curiosa di scoprire cosa deve farmi vedere di tanto importante, mi faccio coraggio, scendo dal letto a malincuore e punto lo sguardo su di lui, sul suo viso. Tentando in ogni modo di tenere lo sguardo più in alto che riesco, ma avendo comunque una minima visuale del suo corpo.
Peccato che sia a petto nudo, e inevitabilmente l’occhio mi cade sul busto che non è più fasciato.
Mi allontano quel tanto che basta per poterlo vedere meglio – dato che ci sono, colgo l’occasione – e con la scusa – grande, immensa, abissale – di accertarmi che stia bene e che non vi sia più traccia della ferita, lo sfioro nel punto, dove però, è rimasta la cicatrice.
La sfioro delicata in punta di dita, seguendone il profilo, la carne ancora più scura a causa della recente operazione e, per questo, ancora molto più sensibile.
È un taglio lungo, obliquo, che gli attraversa parte del costato e sebbene non sia un medico, non mi ci vuole molto per intuire che sia stato davvero fortunato ad essere ancora vivo.
Garreth copre la mia mano con la sua, fermando la mia ispezione.

“Scusa, non volevo farti male...” bisbiglio, distogliendo lo sguardo dal suo, troppo intenso, profondo, improvvisamente scuro, per poterlo sorreggere a lungo.

Senza sapere come succede, mi ritrovo nuovamente distesa a letto, sotto di lui, gli avambracci a tenermi stretta e chiusa nella sua morsa, e le gambe impossibilitate a muoversi dalle sue che mi stringono.
La sua bocca cala sulla mia, disegnando il contorno delle labbra con la lingua e rincorrendo la mia l’attimo dopo, facendomi perdere il fiato e la ragione.
Lo accompagno in questo ritmo, sfiorandogli i fianchi con i polpastrelli e seguendo le linee del suo corpo, trovando traccia delle vecchie ferite, storie passate di cui mi auguro, un giorno, mi vorrà mettere al corrente. Per adesso, però, mi basta poter sentire la sua pelle ed il suo calore scorrermi sotto le mani, ed accertarmi che sia tutto vero e non una mia fantasia.
Tutto diventa concitato, frenetico, ed io non riesco ad arrestare la sua bramosia e nemmeno lo vorrei, per quanto mi inizi a sentire in imbarazzo sotto i suoi baci sempre più arditi e spinti, le sue carezze che iniziano ad ispezionare il mio corpo.
Si stacca per riprendere fiato, solo un attimo, breve e fugace, e si fionda a baciarmi le labbra, umide, gonfie e mai sazie delle sue attenzioni, che ricambiano come se non desiderassero fare altro, spostandosi sulla guancia, la mandibola, la gola dove si sofferma a suggere lento, insinuante e provocatorio la pelle, per finire irrimediabilmente nel punto dove il collo si unisce alla spalla e mordere, in maniera più forte e decisa rispetto a ieri sera, tanto da farmi lamentare impreparata per la punta di dolore.

Sorride, lui, staccandosi senza darmi la motivazione del suo gesto, calmando il respiro per farlo tornare lento e regolare.
Mi elargisce un bacio sulle labbra, veloce, che risuona nella stanza, prima di alzarsi ed invitare me a fare altrettanto.
Rimango inebetita e confusa per un attimo, non capendo cosa gli sia preso, avendo la sensazione che non sarà la prima volta e che ci dovrò fare l’abitudine.

“Vestiti pesante.” mentre lui si veste con noncuranza, limitandosi ad una maglia a maniche lunghe e a rimanere con un paio di pantaloni che, dall’aria, non hanno niente di pesante.

“Perché?” in casa si sta bene, non fa poi così freddo, anzi, devono aver alzato il riscaldamento, perché c’è un piacevole tepore.

Con un cenno della testa mi indica di guardare fuori di finestra e senza farmelo ripetere due volte, scendo dal letto con un scatto e mi fiondo davanti al vetro, rimanendo senza parole.
Durante la notte, deve essere iniziato a nevicare molto, continuando tuttora, ricoprendo il suolo di un leggero, soffice, strato bianco. I fiocchi sono grandi, cadono fitti, trasportati dal vento che impietoso non li permette di posarsi da nessuna parte.
Poso una mano sulla finestra, sentendo il freddo pungermi la pelle, e i brividi nascere lungo il braccio, troppo incantata per staccarmi da questo fantastico spettacolo.

“Forza, vestiti che dopo aver mangiato, usciamo.” e per rafforzare la sua affermazione, mi da una leggera pacca sul sedere, che mi fa sobbalzare.

Lo guardo sconcertata per il suo gesto, sopratutto vedendo lui che se la ride, divertito; anche quando mi porge altri abiti che non sono i miei.
Non mi serve molto per capire che sono di sua madre, l’ennesimo prestito che non saprò come sdebitare.
Solo che io non voglio aspettare di dover mangiare, non davanti agli altri membri della famiglia e non dopo aver trascorso la notte con lui. Ho troppa voglia di uscire, magari di nascosto – possibilmente –, e andare a godermi questo spettacolo invernale.

“Ti prego, Garreth! Non ho fame, possiamo mangiare dopo?” lo imploro, guardandolo con gli occhi di un cucciolo. “Se tu hai fame puoi mangiare il sandwich...” indico il piatto, trovandolo vuoto.

“Già fatto.” dice, avvicinandomisi. “Mentre tu russavi come un ghiro.”

Lo guardo scandalizzata.

“Io non russo!” mi impunto.

“Sì, invece.”

“No!”

“Ti faccio sentire, se vuoi.” ribatte lui, tranquillo.

Sdegnata, prendo gli abiti di sua madre e senza più guardarlo né rispondergli, esco dalla stanza.
Il tempo di cambiarmi i vestiti lo impiego per prendermi alcuni attimi per riflettere sulla notte appena trascorsa e su quello che avverrà una volta da soli.
Probabilmente ne vuole approfittare per continuare il discorso che abbiamo interrotto; io devo farlo assolutamente, poiché non era prevista una permanenza così prolungata e non so come comportarmi adesso. Se da una parte questa situazione mi elettrizza, mi fa ritrovare la voglia di rimettermi in gioco, dall’altra mi spaventa perché è successo tutto così in fretta che non mi è stato dato il tempo di capire bene a cosa andassi incontro. Mi sto per immergere in un mondo che non conosco, con abitudini, usanze e leggi che di cui sono all’oscuro e non so nemmeno se riuscirò ad accettarle.
Anna ci è riuscita benissimo, ha accettato tutto e si è integrata alla perfezione, tanto che ancora oggi le fanno i complimenti.
Da quello che ho capito, il mio ruolo, pare sia molto più impegnativo e difficile.
Ma io sarò in grado di essere brava come lei? Addirittura meglio?

Se ragiono così, sembra proprio che io abbia già preso una decisione.

Sembra che la storia che son venuta qui per ritrovare la pace e la tranquillità non convinca più nemmeno me, dal momento che non c’è mai stata calma. Non so se riuscirò a vivere in un luogo che è più piccolo rispetto a quello dal quale provengo.
Decisa a pensarci a tempo debito e, comunque, a continuare il discorso con Garreth quando saremo fuori e, spero, da soli, mi sciacquo il viso per cancellare i dubbi e i segni della stanchezza.
Qualche minuto dopo, esco dal bagno vestita di un morbido maglione celeste di lana dal collo alto, forse un po' lungo di maniche, e da un paio di pantaloni caldi, morbidi, di pile, soffice come una nuvola.
Scendo in punta di piedi, i calzini fucsia e stelline gialle che stonano con l’abbigliamento sobrio di Ellie, ma questi ho e mi devo accontentare, sperando di non trovare tutti al piano inferiore.
Una volta tanto, le mie preghiere sono esaudite, e nel salotto, dove nel camino c’è un fuoco vivacemente scoppiettante, trovo solo Garreth intento a parlare con la madre che, più piccola di lui, è costretta ad alzare la testa, per poterlo guardare.
Subito si accorgono di me, nonostante sia stata silenziosa, e la donna mi viene incontro, sorridendomi raggiante.

“Scusa per i vestiti.”

“Ma scherzi? Per me è un piacere. Mi ha detto Garreth che ti porta a fare una passeggiata nel bosco.” si incammina nell’atrio e noi la seguiamo per vedere che cos’ha in mente questa volta. “Ti serviranno questi...” prende un paio di stivali alti e imbottiti, lasciandoli vicino alla porta. “E questo.” indica un cappotto dall’aria pesante, posato sull’attaccapanni.

La ringrazio per la sua infinita gentilezza, senza rendermene conto, punto il mio sguardo su Garreth, e lui su di me.
Non so quanto tempo sia trascorso, sono solo consapevole che per attimi interminabili ci siamo estraniati, dimenticandoci di tutto, all’infuori che di noi stessi; persino di essere in compagnia di sua madre. Ma sono sicura che lui, come me, si sta ricordando i momenti vissuti insieme e quei brividi che si sono impressi nella mente e nel cuore e che non andranno più via.

“Va bene, io sono di troppo, vi lascio soli. Siate prudenti, mi raccomando. Ciao ragazzi.” la mamma è costretta ad alzare il tono di voce per farsi sentire e per penetrare nei nostri pensieri, facendoci, in tal modo, ritornare coi piedi per terra e presenti.

La vedo voltare lo sguardo da me al figlio e viceversa, e una dolce luce illuminarle gli occhi.
Dal canto mio, divento rossa come un pomodoro, senza più sapere dove nascondermi per obliare a questa ennesima figura, e credo che usare i capelli sciolti come tenda per farlo, non sia una scelta valida.

“Ci vediamo stasera.”

“Non hai bisogno di aiuto al villaggio?”

“No, cara, ti ringrazio. Prenditi un giorno di riposo, ne hai bisogno anche tu.” mi fa l’occhiolino. “Ci sono gli altri che mi daranno una mano per oggi.” sorride guardandoci entrambi e poi, a passi veloci, se ne va via, lasciandoci da soli veramente.

Passato l’imbarazzo iniziale per essere stata colta in flagrante proprio dalla madre, non perdo altro tempo e svelta, mi infilo gli stivali ed il cappotto ed esortando il licantropo a fare altrettanto veloce, per poter uscire.

“Sembra che tu non abbia mai visto la neve.” fa notare lui, divertito.

“In effetti è così. Non così tanta, almeno.” non perdo occasione per sbirciare fuori dalle finestre per poter ammirare lo spettacolo bianco che si manifesta ai miei occhi, per timore che possa svanire da un momento all’altro.

Percorriamo il giardino, che ha perso i suoi confini, diventando un tutt’uno con il resto del paesaggio. La neve ha coperto ogni cosa con i suo fiocchi, dal prato dietro casa, il vialetto che adesso non si vede più, anche il piccolo caminetto dove più un mese fa era stato fatto il barbecue; il ponticello è diventato bianco ed assomiglia molto a quello di Frozen e solo percorrendolo notiamo che persino il laghetto si è gelato, e ai bordi la neve lo sta ricoprendo.
Mi soffermo un attimo, non solo ad ammirare lo spettacolo che dalle mie parti è praticamente impossibile da vedere, ma per ripensare a quando ci sono stata la prima volta, al mio pazzo gesto sconsiderato ed a tutto quello che ne è conseguito.
Garreth mi prende la mano, strappandomi dai ricordi, ne bacia il dorso infreddolito, e per la prima volta, le nostre anime sono quiete, il passo è lento e l’unica bufera che ci potrà colpire è una tormenta di neve che, intanto, ci sta imbiancando i capelli.
Camminiamo in silenzio, i nostri piedi affondando nella coltre nevosa; intorno a noi è silenzioso, solo di tanto in tanto sentiamo qualche scricchiolio di un povero ramo che, carico, fa cadere la troppa neve che lo ricopre. Persino il vento si è pacato, non soffiando più, dandoci tregua per proseguire il nostro sentiero.
Vorrei iniziare il discorso, avere la forza di aprire la bocca e dirgli le mie paure, i miei dubbi, ma qui in mezzo alla vegetazione imbiancata, dove regna una pace sovrana anche la mia mente e il mio cuore lo sono ed è come se ogni dubbio, ogni remora che avevo prima, qui fosse svanita.
Timori e paure sono sparite, lasciandomi libera di respirare e con l’anima leggera.
Ci fermiamo nel bel mezzo del bosco, in un punto che non riconosco, non in queste condizioni almeno, ma la mia guida si guarda intorno, annusando l’aria, voltandosi verso di me come se stesse pensando a qualcosa, indeciso se mettermene al corrente o meno.
Sposta il suo sguardo alle nostre mani, che nel frattempo non si sono mai separate, sfiorandomi la pelle con il pollice.
Guardo i suoi gesti, grata che non abbia mai lasciato la presa, facendomi sempre sentire accettata, voluta. Permettendomi di far parte di un mondo, il suo, dal quale sono sicura, non vorrò più allontanarmi, perché significherebbe separarsi da lui e so in cuor mio, che non lo sopporterei, non reggerei il colpo.
Faccio una smorfia disgustata, stranita perlomeno, per il pensiero che ho appena avuto.
Da quando sono così sentimentale e smielata?
Verrebbe da prendermi in giro da sola.
Che Garreth mi abbia fatto male.
O bene, dipende dai punti di vista. Edoardo direbbe che mi ha fatto estremamente bene e che una persona come lui mi ci voleva nella vita.
Di sicuro, mi ha rincitrullita.

“Stai bene?” mi domanda l’uomo in questione, notando prima la smorfia e poi il risolino che non sono stata capace di nascondere.

“Si, sto bene. Perché ci siamo fermati?” cambio discorso, non solo per non farlo concentrare sui miei pensieri, ma per vero interesse.

“Per fare questo.” mi bacia la fronte e si distanzia.

In un primo momento non comprendo le sue intenzioni, muovo un piede per seguirlo, per non farmi lasciare da sola in questo posto, lontano da casa, da lui, ma basta un suo sguardo addolcito, per tranquillizzarmi e rassicurarmi che non c’è niente di cui mi debba preoccupare.
Cammina all’indietro, muovendosi di una decina di passi e quando cade in ginocchio in mezzo alla coltre bianca, per un breve istante, vorrei raggiungerlo per timore che si stia sentendo male, ma subito dopo mi giunge alle orecchie il suono raccapricciante delle ossa che si rompono e capisco cosa stia facendo.
Si sta trasformando davanti ai miei occhi.
È una cosa breve, secondi, attimi, gli occhi hanno faticato a recepire l’immagine di ciò che stava accadendo, e poco dopo, a qualche passo da me, trovo un bellissimo e possente lupo dal pelo scuro, folto, tanto da poterci far sparire la mano se provassi ad accarezzarlo.
Mi avvicino a lui, incantata perché per la prima volta ho la possibilità di poterlo ammirare senza minacce o pericoli, e cauta perché non sapendo molto sulla loro natura animale, non voglio fare movimenti bruschi.
Dopotutto è pur sempre un lupo che mi supera di parecchi centimetri.

“Oh mio Dio.” dico a corto di fiato, spostando lo sguardo in modo frenetico per osservare ogni minimo dettaglio.

Le orecchie ben dritte per captare ogni suono, che si spostano come delle antenne, il naso umido intento ad annusare, le zanne che si intravedono dalle fauci e che mi fanno venire qualche brivido al solo pensiero di quante persone – seppur crudeli – hanno morso. O sventrato.
E gli occhi. Quelli sono rimasti i suoi, seppur assumendo contorni e lineamenti ferini.

“Sei… sei bellissimo.”

Gli basta fare un passo per essermi di fronte e costringermi ad alzare la testa per guardarlo negli occhi. Mi da una leggera pacca con il muso, all’altezza del viso, sfiorandomi con la folta pelliccia calda.

“Tu riesci a capirmi?”

Annuisce leggermente con un cenno del muso, socchiudendo gli occhi e riaprendoli su di me.
Ripensandoci anche la lupa che incontrai la prima volta, a cui salvai la vita, pareva capirmi benché fosse più incline a volermi mangiare. Spero che con Garreth le cose siano diverse, perché il solo sguardo mi mette molta più soggezione di quello umano.

“Posso?” chiedo, allungando appena la mano, in attesa di una sua reazione, incerta se sia una buona idea o meno.

È lui a togliermi ogni dubbio, perché mi si affianca permettendomi di accarezzarlo, ed io non capisco più niente.
All’inizio lo tocco con una mano sola, non sapendo fino a che punto possa apprezzare queste attenzioni, ma quando vedo che non ha niente in contrario, lo accarezzo con entrambe le mani sul muso ed una strana euforia si impossessa di me, insieme ad una dirompente emozione che mi fa nascere le lacrime agli angoli degli occhi.
Sorrido inebetita e meravigliata, di fronte ad una creatura tanto maestosa ma che in questo momento sembra più un cucciolo tanto affettuoso.
Le mani sprofondano nel manto, trovando riparo dal gelo; riesco a percepire il calore del suo corpo, in netto contrasto con il gelo del mio.
Vorrei dirgli tante cose, fargli sapere ciò che sto provando qui, con lui, ma non riesco a trovare le parole. I sentimenti sono tanti e troppo prepotenti, che riesco solo a cingergli il collo con le braccia, alzandomi ovviamente in punta di piedi per sollevarmi, e sussurrargli un debole ed emozionato “Grazie.”
Sono convinta che non lo lascerebbe fare da un qualsiasi altro essere umano. Non si sarebbe neppure trasformato davanti ad uno di noi.
In risposta, mi elargisce dei piccoli ed umidi baci con la lingua ruvida, provocandomi il solletico e costringendomi a fare qualche passo indietro, prima che mi lavi tutto il viso.

“Basta, ti prego!” cerco di spingerlo via, ridacchiando, ma ormai mi ha leccato tutta la faccia.

Mi inginocchio e prendo una manciata di neve, per colpirlo e imbiancarli il muso.
Rido divertita dalla sua espressione contrariata da lupo, e mi faccio i complimenti da sola per l’ottimo lancio.
In cambio, ricevo uno sguardo truce – questo è uguale al suo in versione umana – e non mi preoccupo neppure quando snuda le zampe ed inizia a ringhiare.

“Oh, andiamo Garreth, non fare lo sbruffone!” lo prendo in giro, e per ribadire il concetto che non fa paura, prendo altra neve, e gliela tiro, prendendolo però solo di striscio.

Prendo le dovute distanze, per avere una mira migliore, ma lui si sposta facendomi mancare il tiro; quello successivo va quasi a buon fine, se non fosse per il fatto che riesce ad afferrarlo tra le fauci e mordicchiarla con i denti.
È una scena buffa che continuo a guardare, smettendo per poter scappare quando da segno di avvicinarsi.
Correre è davvero difficile; i piedi affondano nel manto fresco, rallentandomi ma lui sta al gioco e finge di non riuscire a raggiungermi.
Mi volto indietro, per vederlo praticamente alle mie spalle, molto più a suo agio e veloce di me, ridendo felice come una bambina, dopo tanto tempo che non lo facevo e non lo ero.
Guardo il cielo sopra le nostre teste, coperto da basse e bianche nubi, che continuano a far cadere, di tanto in tanto qualche chicco gelato, con un sorriso stampato sulla bocca, per niente intenzionata a nasconderlo.

Dopo minuti passati ad inseguirci, sfinita dalla corsa, cado in terra, immergendomi nella coltre fredda, bagnandomi gli abiti, ridendo incurante del lamento contrariato del lupo e del fatto che potrei prendermi un raffreddore.
L’animale mi si affianca, forse temendo che stia poco bene, perché inizia ad annusarmi e sospingermi col naso, fino a che, capito che sto bene e che sono solo un po' strana, si sdraia al mio fianco, circondandomi con il suo maestoso corpo.
Lo accarezzo, senza avere la vera capacità di rendermi conto di ciò che sto facendo.
È da quando ho messo piede in questo villaggio che non ho un briciolo di normalità nella vita, stravolta, movimentata e a tratti quasi rocambolesca. Ma la cosa mi sta dannatamente piacendo e non chiederei niente di diverso, non vorrei assolutamente tornare alla vita sciatta che avevo prima. Nonostante non sia la prima volta che ne veda uno e ci interagisca, la mia mente ancora fatica a credere alla loro esistenza; è stato come essere in salotto con un libro fantasy aperto tra le mani, di quelli che leggevo per scappare dalla realtà, alzare gli occhi e scoprire che ci sono finita dentro.

E lui temeva che io andassi a spifferarlo a giro.

Se delle volte neanche io credo a ciò che vedo, andiamo!

Piego l’angolo delle labbra in un piccolissimo sorriso, divertita dall’immagine che mi si è creata in testa, catturando l’attenzione dell’animale che, a quanto pare, non si è perso nessuno dei miei gesti e nelle mie espressioni, non capendo – ovviamente – cosa ci sia di divertente nel fissare il vuoto e ridere.

“Niente, solo pensieri stupidi.” evito di metterlo al corrente proprio di tutto, non vorrei che tante di quelle volte cambiasse idea, non si sa mai, e gli accarezzo la testa, in mezzo alle orecchie trovando immediata la sua approvazione.

Intorno a noi tutto tace, regna il silenzio assoluto, solo qualche rumore attutito dalla morbidezza del terreno.
E tra il silenzio paradisiaco del luogo e il dolce calore del corpo di Garreth, mi viene da chiudere gli occhi, trasportata in un mondo lontano dal suo respiro.

Sto seriamente per addormentarmi, evidentemente le ore di sonno della notte passata non sono state sufficienti oppure hanno ragione i miei amici a dirmi che mi addormenterei persino su un ceppo, iniziando a fare uno strano sogno, quando un brontolio vibrante, che aumenta d’intensità fino a trasformarsi in un ringhio forte e deciso, mi riporta alla realtà, spaventandomi.
Apro immediatamente gli occhi, leggermente offuscati, e la mente intontita, ma non ci metto molto a capire cosa ha causato il repentino cambio d’umore del lupo.

Davanti a noi, un gruppo di cacciatori ci ha accerchiato.
Sono forse una quindicina, le divise mimetiche bianche, così come i fucili, i cappelli e la bandana per nascondere il viso.
Riesco solo ad intravedere gli occhi.
Garreth balza in piedi, nascondendomi con il suo corpo alla vista degli uomini, ma ormai è del tutto inutile, mi hanno vista, ci hanno spiati e da chissà quanto tempo ci stavano seguendo senza essere visti o fiutati.

“Guarda, guarda… il nostro alfa si è fatto la compagna.”

Si fa avanti uno di loro, un teschio nero disegnato sulla bandana, divaricando le gambe con aria strafottente. I suoi occhi prendono la tipica piega di chi sta sorridendo.

“E che cosa abbiamo qua? Cappuccetto Rosso che se la fa con il lupo?”

I suoi amici ridono alla sua battuta e solo in un secondo momento mi accorgo che, di loro, ce ne sono molti di più, che sbucano alle nostre spalle.
Siamo letteralmente, irrimediabilmente, circondati.

“Garreth...” è un flebile lamento il mio, mentre mi stringo alla sua pelliccia.

Non riesco a trovare la forza di fare niente, paralizzata dal freddo e dalla paura cieca, benché sappia che averne potrebbe essere più pericoloso e letale che buttarsi in mezzo a questi pazzi fanatici, ma il loro numero e le loro armi mi stanno immobilizzando.
Forse perché adesso sono consapevole di cosa andrei incontro, perché non voglio mettere a rischio la sua vita, non adesso che ci siamo trovati.

“Bestiaccia, so che ci capisci, per cui tieni aperte quelle orecchie del cazzo.” l’uomo con la bandana disegnata fa un passo avanti, sprofondando appena nella neve.

Garreth ringhia, snudando le zampe e il cacciatore è costretto a non andare oltre.

“Non è lei che vogliamo. Mandala via e che avvisi pure il villaggio, tanto non cambia, noi siamo troppi per te!” lo sfida, arrogante.

“No! Io non me ne vado.” urlo, rimanendo al fianco del lupo.

“Non fare la stupida.” l’uomo si avvicina di nuovo, almeno ci prova perché basta un avvertimento di Garreth per farlo fermare.

E adesso fa davvero paura: le zanne snudate, le orecchie basse e la saliva che schiuma dalle fauci, colando ai lati.
Se non stessi con lui, se non fossi la sua compagna, ne sarei terrorizzata, ma a quanto pare, loro no perché non battono ciglio e si avvicinano tutti insieme.

“Io non ti lascio.” gli sussurro, col fiato che si condensa in nuvolette bianche, osservando attentamente gli uomini davanti a noi.

La neve non cade più e dalle nuvole filtra uno spiraglio di sole, per poi sparire e lasciarci soli coi nostri nemici.
Garreth divarica le zampe, pronto ad attaccare appena se ne presenterà l’occasione, continuando a farmi da scudo con la sua mole e – ne sono sicura – per darmi il tempo per fuggire, ma anche loro non si fanno cogliere impreparati e impugnano i fucili puntandoceli contro.

“NO! Vi prego, no!” urlo con quando fiato ho in corpo, sperando che qualcuno del branco possa sentirmi anche se siamo molto lontani, inciampando ma parandomi di fronte al lupo, con le braccia aperte per non far avere loro una buona visuale.

Qualcuno prende la mira, qualcun altro, al contrario, abbassa l’arma e guarda il capo indeciso su cosa fare.
Segue un attimo di stallo, poi mi sento afferrare da dietro, spinta dietro di lui in maniera così decisa che ruzzolo nella neve, di faccia.
Alzo il viso, la vista offuscata dai granelli gelati e quando mi volto vedo che Garreth sta lottando contro di loro che, invece del fucile, cercano di ferirlo con i pugnali e di incastrarlo sotto una grossa rete.
Perchè mi ha spinta via? Sapeva – avrebbe dovuto immaginarlo – che non me ne sarei andata senza di lui.
Mi rialzo, pronta a dar battaglia come meglio posso, con ogni mezzo a mia disposizione – che ahimè non saranno tanti – ma vengo afferrata ancor prima di poter muovere un passo, con un coltello dalla lama seghettata che mi sfiora il collo.
Grido, spaventata, cercando di far mollare la presa all’uomo, sentendo le ginocchia cedere ed abbandonarmi sotto il peso di un cieco terrore.
Il mio lamento distrae Garreth che smette di attaccare, mordere e sferzare colpi, per vedere cosa mi sia successo.
Provo a chiedergli scusa con lo sguardo, per essermi fatta catturare, per essere un costante peso per lui e non un aiuto; ma lui non sta guardando me, bensì l’uomo che mi tiene ferma.
Ringhia, gli occhi ridotti a due fessure e le orecchie basse; il pelo irto sulla schiena e le zampe pronte a scattare per sferrare il colpo, ma il mio aguzzino non è uno sprovveduto e non si lascia intimorire dall’avvertimento, tanto che rinsaldala presa premendo più forte la lama sulla gola.
Percepisco la seghettatura sulla pelle, non riesco a pensare ad altro se non al pugnale che sta per tagliarmi la gola.
Gli occhi si inumidiscono – è più forte di me – le gambe tremano e mi vedo costretta ad afferrare il suo braccio per non crollare e tentare di allontanarlo almeno di poco.

“Fermo! Fossi in te, non farei un altro passo se non vuoi andare a raccogliere la testa della tua compagna.”

Sento un improvviso male alla pancia, dove c’è la vescica e un impellente quanto fastidioso stimolo di fare la pipì mi inizia a tormentare.
Cerco di non pensarci, di ripetermi che in questo momento c’è una cosa decisamente più seria a cui pensare, ma è come se la mia attenzione si fosse concentrata lì e non riuscisse a spostarsi su altro.
È questo ciò che si prova quando si dice pisciarsi sotto dalla paura?
E sopratutto, morirò?
Le lacrime spuntano involontarie, ma sbatto le palpebre più e più volte per non farle uscire e ricacciare dentro, trovandolo un ottimo diversivo.
Non vorrei davvero andarmene, non adesso e non in questo modo. Non ora che ho trovato qualcosa… qualcuno per cui combattere.

Tiro una testata al mio aguzzino dritto sul naso e dall’impatto fa cadere il pugnale a terra, che afferro e glielo conficco nella gamba, senza rimorso. Anche Garreth si è ribellato, ora che sono libera non c’è più bisogno che stia buono, e inizia a mordere, ferire e scaraventare lontano chiunque gli capiti a tiro.
Qualcuno prova a sparargli ma lui, nonostante non sia al massimo delle forze, riesce a schivarli riducendo in pezzi due armi.
Corre verso di me, permettendomi di salirgli sulla schiena, aiutandomi con il muso e assicuratosi che sia ben salda sul suo dorso, inizia a correre ad una velocità disarmante.
Sfreccia tra gli alberi, seminando in poco tempo i cacciatori.
Chiudo gli occhi, sollevata che il peggio sia finito.

Quando li riapro mi accorgo con immenso, profondo, sconfinato orrore, che il mio, era tutto un sogno della mia mente, e che niente è cambiato da qualche istante fa.
L’uomo che mi teneva prigioniera è ancora qui, dietro di me, la sua lama preme più forte sulla gola, rendendomi impossibile persino deglutire.
Garreth sta cercando in tutti i modi di non farsi avvicinare dagli uomini, che adesso hanno in mano delle pesanti catene.
Alcuni di loro, i più coraggiosi – o i più stupidi – si fanno avanti, stringendole tra le mani, ma si fermano quando vedono le intenzioni per nulla amichevoli dell’animale.

“Siete un branco di incompetenti!” grida spazientito il capo, avvicinandosi ad uno dei suoi e strappandoli di mano il fucile. “Devo fare tutto da solo!” lo punta verso il lupo, prendendo la mira.

Adesso non c’è più tempo per i sogni ad occhi aperti, è giunto il momento di agire seriamente o per lui è la fine, e incurante di quello che mi potrebbe accadere, sposto la mano dal suo avambraccio fino alla mano, che impugna sempre ben salda il manico del pugnale, per poter afferrargli le ultime due dita inguantate e contorcergliele fino a sentire le ossa scricchiolare e i tendini irrigidirsi, sotto le sue imprecazioni.
Il tizio è costretto a lasciare la presa, colto alla sprovvista dal mio gesto, spingendomi in avanti e facendo cadere il coltello nel manto innevato, in mezzo ai nostri piedi.
Lo raccolgo e mi scanso prima che venga riacciuffata, per correre incontro a Garreth e frappormi tra lui e la traiettoria del fucile, ma ancora prima che abbia il tempo di avvicinarmi al lupo, o anche solo di muovere qualche passo, sento il rumore ovattato di uno sparo e un dolore immediato alla coscia destra, che si estende per tutta la gamba, che pian piano sta perdendo sensibilità.
Devio lo sguardo in basso per vedere una siringa conficcata nella carne, con uno strano batuffolino rosso all’estremità.
Provo a muovere la gamba, a fare un passo, guardando sconcertata e piena di spavento il lupo, ma il mio corpo si è fatto pesante, intorpidito ed i muscoli oltre a non rispondere ai comandi, non mi sorreggono più.
Allungo una mano verso Garreth, in un ultimo patetico tentativo di avvicinarmi; lui ci prova, a venirmi vicino, a difendermi, ma viene a sua volta colpito e legato da quelle pesanti catene che, immagino, siano fatte di argento per indebolirlo.
Sfinita, cado a terra con il viso rivolto verso il cielo, in una posizione innaturale, e l’ultima cosa che vedo, prima di chiudere gli occhi, sono i volti coperti di alcuni uomini che mi oscurano la visuale già offuscata.

Il mio ultimo pensiero, mentre mi stanno sollevando per portarmi non so dove, ed io sto scivolando nell’oblio, va a Garreth ed a quel discorso che forse non avremmo più modo di intraprendere.









*Angolino personale della ritardataria*

Buondì lettrici e lettori....
Spero che sia stata una lettura piacevole. Siamo ormai quasi a fine, mancano pochi capitoli e finalente potrete leggere l'epilogo della storia.

Fino ad allora, stay tuned!

Besos para todos <3
Nina

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